Anime Gemelle

di Castiga Akirashi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***
Capitolo 11: *** Capitolo X ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI ***
Capitolo 13: *** Capitolo XII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 15: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XV ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 20: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XX ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXV ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVI ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVII ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXVIII ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXIX ***
Capitolo 31: *** Capitolo XXX ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Salve, amici!
Benritrovati per il seguito di Black Hole. Alla fine di quest'ultimo vi ho fatto piangere (spero) e disperare ma spero che vogliate leggere comunque il sequel. Non vorrete abbandonare il povero Raphael al suo destino, vero? :)
Non mi dilungo ulteriormente e vi auguro buona lettura!
Solo un ultimo appunto... la storia è particolare. C'entra poco con quel che riguarda le palestre e quelle cose lì. Diciamo che è nella sezione Pokémon perché comunque i personaggi sono quelli, però non aspettatevi un'altra caccia alle palestre, ecco.
Spero che potrà piacere comunque... altrimenti, perdonatemi se vi ho deluso! ^^"


-

Raphael, Belle e Cheren si trasferirono a Kanto con la piccola Lilith, di soli sei mesi.
Il ragazzo era ancora distrutto dal dolore, dopo ciò che era successo, nonostante fosse passato del tempo. Non riusciva nemmeno a sorridere, se non per la smorfia che si costringeva a fare per la figlia.
Presero un appartamento a Zafferanopoli, ma Raphael evitava di incrociare i suoi genitori. Aveva scoperto di essere stato diseredato appena scappato con la sua ragazza dalla loro casa tempo prima; il colpo era stato tremendo, soprattutto perché aveva macchinato di andare a prendersi i suoi soldi e sopravvivere con la sua piccola bambina per almeno qualche mese. Grazie all'aiuto degli amici, riuscì comunque a trovare un tetto e un sostentamento per la figlia. Ma i sacrifici erano molti, per tutti e tre.
«Raphael, andiamo a fare un giro?» gli chiese Belle, tempo dopo: «Lily dovrebbe prendere un po’ d’aria.»
«Andiamo verso Plumbeopoli.» rispose lui, annuendo: «Devo andare da una persona.»
«Chi?»
«Si chiama Padre Lorenzo. Lo conosco e vorrei che fosse lui a battezzare… nostra figlia.»
I due amici assentirono e presero le giacche. Faceva fresco in quel periodo. Raphael cambiò la piccola e le mise la tutina pesante, per evitare che prendesse freddo. Cheren gli portò la carrozzina, rosa e bianca, e il ragazzo mise giù la figlia, coprendola con una copertina di lana. Belle gli passò la giacca e lui la mise sopra la felpa verde e i pantaloni da ginnastica. Athena aveva sempre adorato il verde, diceva che gli stava bene, che si intonava ai suoi occhi. E lui aveva sempre cercato di vestirsi di quel colore. Uscì di casa per ultimo e chiuse la porta a due mandate. Mise le chiavi in tasca e partirono. In volo con i loro Pokémon avrebbero fatto prima, ma il ragazzo non voleva che la figlia stesse male, prendesse freddo o chissà che altro. Così andarono a piedi verso Plumbeopoli, la città di pietra alle pendici del Monteluna, a nord di Kanto.
«Lasciatemi andare da solo, per favore.» chiese il ragazzo agli amici, una volta che furono entrati in città dal sentiero che attraversava il Monteluna e che congiungeva la città a Celestopoli: «Voglio dirglielo… in privato.»
«Tranquillo, Raph.» gli rispose Cheren, annuendo.
Lui li guardò un momento, prendendo il coraggio necessario, poi si voltò ed entrò nella chiesa con la carrozzina, passando dallo scivolo vicino alle scale e varcando l'enorme portone d'ingresso.
«Cheren… non si può andare avanti così.» mormorò Belle, posandosi all'amato: «Tra la prof e Raphael… anche noi stiamo male, ma quei due sono in una depressione dilagante.»
«Lo so, Belle. Ma le abbiamo tentate tutte. Dovranno trovare la forza dentro di loro.» rispose lui, stringendola a sé: «Come abbiamo fatto noi due.»
Raphael, nel frattempo, stava attraversando il corridoio tra le navate. La chiesa era bella grande per essere di un paesino non molto abitato come Plumbeopoli. Gli affreschi rivestivano tutte le pareti e l'abside in fondo alla navata centrale spiccava per le bellissime decorazioni.
Il ragazzo si mise in un angolo, nella navata laterale di destra, per poter avere la carrozzina vicino. Lily piangeva, contagiata dalla tristezza del padre. Lui mise una mano nella carrozzina, accarezzandola e sussurrando: «Ehi, ehi… piccola, non piangere. C’è qui il tuo papà…»
Lei gli prese il dito con le mani, ridendo con le lacrime agli occhi. Lui le sorrise e le fece il solletico facendole passare quella tristezza che non era sua.
«Giovanotto… ci rivediamo.» disse una voce.
Lui alzò lo sguardo e vide il sacerdote uscire da una porta che probabilmente conduceva alla sagrestia e venirgli incontro, ma il suo cammino era bloccato dall'ingombrante carrozzina.
«Oh, salve… si ricorda di me?» chiese lui.
«Ma certo. È successo qualcosa vero? Te lo si legge in faccia…» rispose padre Lorenzo, fermandosi davanti alla carrozzina e fissandolo preoccupato.
«Beh, sì… ecco io… insomma…» farfugliò lui. Non sapeva come dirlo. Nemmeno se sarebbe riuscito a dirlo. Da quando era successo, non aveva mai pronunciato quella parola. Quella frase. Nemmeno il suo nome.
Lily fece un urletto, irritata dal fatto che il padre avesse smesso di giocare con lei, e il sacerdote dedicò la sua attenzione alla piccola, anche per togliere la pressione sul ragazzo, palesemente a disagio. Chinandosi sulla carrozzina, fece suonare il sonaglio attaccato al tettuccio ed esclamò: «Ciao piccolina! Che bella bambina che sei. Uguale alla tua mamma!»
«È di questo che vorrei parlarle…» borbottò il giovane, rattristandosi ulteriormente, trovando la forza di spiccicare verbo.
L'uomo alzò lo sguardo, si guardò intorno, cominciando a capire, e chiese: «Ragazzo… perché sei qui da solo?»
Raphael cominciò a singhiozzare, trattenendo le lacrime a stento: «L-lei non c’è più… sono… siamo soli… non vedrò mai più il suo sorriso…»
Il ragazzo scoppiò in lacrime, liberando quel dolore che da mesi lo corrodeva. Odiava che gli amici lo vedessero piangere, così tendeva a nasconderlo. Ma con quell'uomo sapeva di potersi sfogare a ruota libera. Lei gliene aveva parlato troppo bene.
Padre Lorenzo fece il giro dei banchi, sedette al suo fianco, gli mise una mano sulla spalla, stringendo piano per confortarlo, e disse: «Calmati, figliolo, e raccontami tutto.»
Raphael restò lì alcune ore, prendendo la figlia in braccio, e raccontò tutta la storia all’uomo. Ogni cosa. La fatica che aveva fatto per stare simpatico alla pazza ragazza dei suoi sogni, il suo amore, il loro impegno per cancellare, o anche solo diminuire, la sua indole omicida... tutto. L’uomo ascoltò con pazienza e interesse, mentre il ragazzo parlava, cullando la sua bambina con dolcezza mentre le lacrime gli solcavano il viso.
«E poi… è tutto finito.» concluse il ragazzo, tremando sia nella voce che nel corpo a causa dei forti singhiozzi: «Lei è andata via per sempre, ma mi ha lasciato Lily. Anzi Lilith. E sa… il suo nome di copertura era Castiga e io l’ho messo come secondo nome… Lilith Castiga Grayhowl… Lei è l’unica ancora che mi tiene aggrappato a questa vita. So che... non ci si deve volere così male da suicidarsi ma non riesco a riprendermi. Senza di lei, i giorni sono vuoti, senza senso, senza significato. Mi manca troppo… troppo.»
«Devi farti forza… non la conoscevo bene, ma penso che Athena vorrebbe che tu fossi felice. Che voltassi pagina. Per vostra figlia.» mormorò il sacerdote con un tono rassicurante.
Lui scosse la testa, disperato e ribatté: «Ma non ce la faccio… io la amavo, la amavo davvero! Era la mia vita, la mia metà, la mia anima gemella! Potevo stare bene solo con lei e con nessun altra. Non riesco a non pensarci…»
«Ragazzo, ora hai una figlia.» disse deciso padre Lorenzo, fissandolo dritto negli occhi: «Come padre, devi pensare a lei e non più solo a te stesso. Amala come se fosse lei, amala come un frutto di questo amore che ha saputo cambiare un cuore arido e crudele. E ricordala, serbala nel cuore, ma non permettere al dolore di avere la meglio su di te. Devi badare alla piccola... ti sembreranno parole dure, ma capirai... tu devi andare in secondo piano. La precedenza ce l'ha questa piccola creatura che non ha colpe, ma solo meriti.»
Raphael lo guardò, mentre ancora piangeva, e annuì colpito da quelle parole; così disse, recuperando un po’ di onore: «Farò quello che posso… Lily avrà un padre forte. Un padre degno della sua straordinaria madre. Ma… mi permetterà di venire a trovarla?»
Lui sorrise e rispose: «Certo. Non so ancora il tuo nome però.»
«Raphael… Raphael Grayhowl…» si presentò lui.
«Passa quando vuoi. Sarà un onore battezzare questa piccolina.» sorrise il sacerdote, intuendo il motivo per il quale il ragazzo era andato lì; la sfogata era stata un effetto secondario dovuto allo stress.
«Ma io sono solo… e lei non era nemmeno battezzata…»
«Si può fare un’eccezione. Trovami una madrina e un padrino. Se sai fare la firma di Athena, siamo a posto.»
«Grazie padre.»
«Ciao, Raphael.»
Il ragazzo uscì dalla chiesa, stando decisamente meglio di quando era entrato; si era liberato di un peso sfogandosi a ruota libera. Guardandosi intorno non vide gli amici. Accese il cellulare e lesse un messaggio di Cheren:
“Siamo al bar a bere qualcosa mentre ti aspettiamo. Fai pure con comodo!”
Raphael raggiunse il posto, l'unico baretto di tutto il paese, superando per vicoli e viuzze, ma si fermò di botto quando li intravide: si stavano baciando dolcemente, seduti uno di fronte all'altra su un tavolino, con le mani giunte, gli occhi chiusi, e la felicità dipinta sul volto. Si amavano molto. Era evidente.
Il suo cuore si chiuse in una morsa d’acciaio, mentre il ricordo del suo amore perduto tornava prepotente a tormentarlo; quanto avrebbe voluto essere riuscito a salvarla... oppure, morire lui al suo posto.
«Athena…» mormorò, cominciando a piangere nuovamente, ricaduto nel pozzo di dolore che pareva attirarlo come un buco nero al suo interno. Le lacrime scendevano, sole e devastanti. Si diede dello sciocco, del debole, ma i suoi rimproveri mentali non potevano nulla contro il dolore del cuore.
Belle, che era girata verso di lui, aprì un occhio e lo vide: fermo, in piedi, a testa china, il volto bagnato, che cullava distrattamente la carrozzina, avanti e indietro, in un movimento automatico.
La bionda si staccò dal suo ragazzo all’istante e sbottò: «Raphael ci ha visti!»
«Cosa?!» rispose Cheren, voltandosi di scatto: «Oh no, maledizione!»
Il ragazzo pagò velocemente, mentre Belle raggiungeva l’amico di corsa, si piazzava davanti a lui estremamente dispiaciuta e cominciava a urlare: «Raphael! Scusa, scusa, scusa, scusa!»
«Non… non c’è problema Belle. Tranquilla. Davvero.» rispose lui, con la voce leggermente incrinata e asciugandosi quelle imbarazzanti lacrime dal viso: «Non fate caso a me… ci vediamo a casa. Anzi… fammi un piacere… portate Lily a casa e datele da mangiare. Io… ho bisogno di stare solo.»
«Lascia fare a noi.» mormorò lei, prendendo la maniglia della carrozzina.
«Grazie…» disse solo lui, allontanandosi con le mani in tasca.
Cheren raggiunse Belle e, preoccupato, chiese: «Dove sta andando?»
«Vuole stare solo… cerca di capirlo, non deve avergli fatto bene averci visti.» rispose lei, con un sospiro, davvero dispiaciuta: «Andiamo a dare da mangiare alla piccola Castì Junior. Lui arriverà quando si sarà calmato.»
Lei annuì e i due tornarono a Zafferanopoli di gran lena, sperando che l'amico non si buttasse da un ponte per la disperazione.
Raphael, invece, tornò la sera. Decisamente di umore migliore. I due amici lo salutarono quando entrò in casa, ma non sollevarono l’argomento. Lui però sorrise e disse: «Scusate se vi ho accollato Lily ragazzi.»
«L’abbiamo fatto volentieri, Raph. Tu come stai?» chiese Cheren di risposta.
«Meglio, grazie. Ora pensiamo alla mia piccolina che è troppo contagiata dalla tristezza paterna.» rispose lui, sorridendo e prendendo Lily in braccio. Ma il suo sorriso era sempre spento. Un sorriso più di formalità che di vera e sincera serenità.
Così andò avanti un altro giorno.
L'anno dopo, Raphael prese una decisione, finalmente convinto di ciò che voleva fare. Ci aveva riflettuto, molto, ma aveva deciso che era meglio così: «Non è giusto che vi trattenga così. Ragazzi, d’ora in avanti mi arrangio con Lily.»
«Ma Raphael… come madrina e padrino dovremmo aiutarti! Non è un disturbo!» cercò di protestare Belle.
Lui scosse la testa, sorridendo, e troncò ogni obiezione: «Basta sentirsi qualche volta. Davvero, vivete un po’ la vostra vita. È già passato un anno ormai… posso farcela.»
Cheren gli mise una mano sulla spalla e disse: «Se mai avessi bisogno di aiuto… qualunque cosa… chiamami senza problemi.»
«Lo farò. Grazie, Cheren. Anzi… Dottore.» rispose lui, facendogli l'occhiolino.
Così, Belle e Cheren tornarono a Isshu, volendo tornare nella regione natia, ma erano preoccupati per Raphael. Lasciarlo solo, senza nessun appoggio, con quel cuore ancora spezzato… non sembrava la soluzione giusta.
Lo chiamavano spesso, alternandosi. Belle divenne l’assistente della professoressa Aralia, trasferendosi a vivere da lei, nella stanza che era stata della sua migliore amica, cosa che le provocava crisi di pianto isterico quando i ricordi erano troppo forti. Combattere non era la sua vocazione, mentre invece si impegnava molto per aiutare la studiosa. Peccato che facesse più danni che altro.
Cheren invece continuò ad allenarsi, prendendo un appartamento a Quattroventi, la città sopra quella del laboratorio, per stare vicino alla fidanzata. Lui si era sempre sentito inferiore a Castiga e questo gli era sempre molto scocciato. Così continuava ad allenarsi, per migliorare e poter finalmente dire, rivolto al cielo: «Castì, sono diventato più forte di te.»
A volte, però, non poteva fare a meno di volgere lo sguardo in basso; la sua cara amica aveva fatto del male, dopotutto. Forse, il cielo non era la direzione giusta. Ma cercava di non pensarci: immaginarla incatenata tra le fiamme dell'inferno lo rendeva più triste di quanto non lo fosse già. Gli venne poi chiesto il posto come Leader nella Palestra di Alisopoli, una città dall'altra parte di Isshu: Aloé aveva deciso di dedicarsi solo al suo amato museo e aveva lasciato il posto della Medaglia Base. Sotto l'insistenza di Belle e Nardo, il ragazzo finì per accettare, sapendo che avrebbe potuto vedere comunque l'amata grazie al suo Unfezant.
Raphael, invece, non era messo molto bene. Non poteva lavorare per via di Lily, non aveva soldi e stava andando in bancarotta. Finché…
«Raphael? Cosa ci fai con una marmocchia?» chiese una voce, lievemente stupita, mentre lui e Lily passeggiavano nel parco di Zafferanopoli.
Lui si voltò e rispose, solo per educazione: «Ciao, Daisy. Sto facendo un giro con mia figlia.»
La bionda coetanea si avvicinò a lui, scrutandolo con occhio critico: era piuttosto trasandato, vestito molto sobrio con degli abiti logori dal troppo uso e piuttosto stanco. Il suo bel viso era tirato e adornato di due occhiaie preoccupanti. Lui ricambiò lo sguardo, vedendo che la ragazza non era cambiata di una virgola; come sempre, andava in giro come se dovesse andare ad una sfilata di moda ogni giorno.
Dopo aver finito il suo esame, finse un tono sconvolto, quasi eccessivamente teatrale, ed esclamò: «Tua … cosa?! Ma stai scherzando?!»
«No, per niente. Ora scusa, ma dobbiamo tornare a casa. Deve fare la merenda.» ribatté lui, mentre la figlia si nascondeva dietro le sue gambe fissando storto quella strana donna.
«Non può pensarci sua madre?» chiese invece Daisy, ancora incredula, immaginando che ci fosse una madre. Sapeva benissimo che i figli non nascono sugli alberi e non li portano i Pelipper.
Lui trattenne pianti e crisi varie, e ribatté: «No. Vedi… sono un padre single.»
Alla ragazza si illuminarono gli occhi, mentre un pensiero le attraversava il cervello; finalmente la sua rivale mai vista si era fatta da parte per lasciare il campo libero a chi ci sapeva fare veramente.
«E dimmi… sei pronto per rimetterti in pista?» chiese, con voce suadente avvicinandosi ancora a lui e ignorando completamente la figlia.
Raphael fece per rifiutare, con in mente una bella frase poco cortese, ma poi ci pensò su. Daisy era ricca sfondata. Unica erede dei Grandview, aveva a disposizione un patrimonio immenso. Poteva davvero dargli una mano. Non sentimentalmente, perché non avrebbe mai potuto amarla. Ma finanziariamente…
«Può anche darsi…» rispose quindi lui, tentando di fare uno sguardo seducente, con poco successo, ma Daisy non lo notò neppure. Sorrise, quasi vittoriosa, gli prese il volto con le mani, si avvicinò e sussurrò: «Se vuoi compagnia… chiamami.»
«Ci penserò su.» rispose lui, con un sorrisetto che voleva nascondere il disgusto per se stesso.
La ragazza gli infilò un biglietto tra le mani e se ne andò con un'ultima occhiata maliziosa. Una volta che fu sparita, Raphael sospirò: «Mi faccio schifo. Ma tanto schifo… tremendamente schifo. Come posso cedere a quella lì? Solo per … i soldi. Solo perché mi serve un sostentamento economico... maledetto me.»
«Papà, chi è quella?» chiese invece Lily, fissandolo perplessa, non avendo capito tutti i sottintesi di quello che per lei era un discorso strano.
Lui scosse le spalle, le sorrise e rispose: «Una vecchia conoscenza, piccola mia. Non è importante... Dai, andiamo a prenderci un gelato?»
«Sì!» esclamò lei, tutta contenta del regalo inaspettato.
Lui le sorrise e la prese in braccio, mettendola poi sulle sue spalle e si incamminarono verso la gelateria più grande di Zafferanopoli. Tornati a casa, cenarono, e verso sera cominciò la battaglia quotidiana.
«Lily, vai a dormire, è tardi.» disse Raphael verso le otto e mezza.
«No, dai papà non ho sonno!» rispose lei.
«Lily per piacere, non ricominciare. Dopo la mattina fai fatica ad alzarti.»
«Vengo a dormire con te!»
Discussero per un po’, finché lui non la ebbe vinta un’altra volta; o meglio, pattarono per le dieci di sera. Troppo tardi, secondo lui, ma la figlia era di una testardaggine incredibile.
Appena la bambina si fu addormentata, lui sbottò: «Uff… che testona. È sempre troppo tardi quando la spunto. Ora chiamiamo…»
Prese il cellulare con un’espressione rassegnata sul viso, compose il numero che lei gli aveva scritto su un bigliettino rosa vaporoso e accostò il ricevitore all'orecchio, sperando che quel “tu, tu” durasse in eterno.
Purtroppo, però, dopo solo due squilli, una voce rispose: «Sì?»
«Ciao, Daisy, sono Raphael.» borbottò lui.
Con un risolino, lei ricambiò il saluto: «Ciao, bel fustacchione. Sei già triste e sconsolato?»
Lui alzò gli occhi al cielo, trattenendosi dal sospirare, e rispose: «In fin dei conti ho solo vent'anni. Che pretendi?»
«Ben detto! Allora, te la fai una cenetta?»
«Dimmi quando…»
«Tra tre giorni, alle otto… Azzurropoli.»
«D’accordo. Ci si vede.»
«Ciao, bellissimo.»
Raphael mise giù e fissò il telefono. I suoi occhi color dello smeraldo erano tristi. Troppo tristi visto che sarebbe andato ad un appuntamento. Con un sospiro, fece un altro numero. L'attesa fu più lunga che con Daisy, ma dopo cinque squilli la voce di Cheren salutò: «Ciao, Raph! Come stai?»
«Ehi, doc! Bene dai… tu?»
«Anche! Come mai questa chiamata a sera inoltrata?»
«Metti in vivavoce… vorrei sentisse anche Belle. Siete insieme vero?»
Perplesso, Cheren rispose: «Sì, hai preso una delle poche sere.», poi chiamò la sua ragazza e mise in funzione l'altoparlante del telefono, per poi aggiungere: «Dicci pure.»
Raphael fece un sospiro e chiese: «Lei… vi ha mai raccontato di Daisy?»
Belle ridacchiò e rispose: «Vuoi la citazione?»
«Me la immagino… sentiamo.»
Belle si schiarì la voce e, simulando tono seccato, disse: «”Ma vi rendete conto? Quella specie di top model sbava dietro al mio Raphael! E sottolineo, mio. Ha un nome ridicolo, Daisy, e pensa di essere migliore di me solo perché … ma che cavolo ne so! Ma deve solo mettergli le mani addosso che gliele stacco!”»
«Accidenti!» commentò lui, con la voce velata da una risata immaginandosela arrabbiata: «Ma quando ve l’ha detto?»
«Non ricordo di preciso come era uscito il discorso... ma si è ben sfogata! Gliene ha tirate dietro un carretto!»
«Ci credo! Comunque, beh… la tipa in questione è una mia coetanea, mi sbava dietro e ha un bel conto in banca. Diciamo che … mi serve una mano con Lily.»
«Non vorrai mica …?» esclamò Belle, intendendo il piano dell'amico.
Raphael cercò di difendersi, spiegando le sue ragioni, anche se lui per primo sapeva fosse una mezza pazzia, ma era deciso: «Lo so, Belle. Mi faccio schifo da solo, credimi. Ma sono al limite. Devo pagare la scuola materna per Lily e poi volevo iniziare l’università. E mi servono soldi…»
«Raphael ti diamo una mano noi! Non devi…» ribatté Cheren, ma l’amico lo interruppe: «No, Dottore. Ormai ho deciso. Sarà dura, ma Daisy è la soluzione migliore, anche perché non farà storie se non sono come si suol dire… dolce. Volevo solo chiedervi se potete tenermi Lily tra tre giorni…»
«Esci con lei?»
«Sì. Devo giocarmi tutte le carte che ho, sperare che abbocchi… e vivere in qualche modo.»
«Ti stai condannando da solo. Lasciatelo dire.» commentò Cheren.
«Credi non lo sappia?» ribatté lui, un po' seccamente: «Però… per Lily questo ed altro.»
Tre giorni dopo, Raphael si mise un completo elegante, elemosinato da Cheren: pantaloni di seta, camicia, giacca e cravatta. Arrivato ad Azzurropoli, aspettò la ragazza, che si fece attendere. Molto. Sfiorò le due ore.
«Eccoti qui. Allora andiamo?» chiese lei, quando lo vide. Si era data da fare, vestendosi il più sensuale e provocante possibile. Il risultato c'era, visti i fischi di approvazione che riceveva al passaggio nelle strade, ma Raphael non era il tipo che badava a quelle cose. Athena gli era sempre sembrata bellissima anche in pigiama.
“E andiamo. Maledetto me.” pensò lui, scocciato per l'attesa, per poi porgerle il braccio.
Daisy lo strinse e i due andarono al ristorante. Passarono la serata piuttosto bene, anche se lei tendeva ad allungare troppo le mani o a infilare inutili doppi sensi nei discorsi. Alla fine, scappò il bacio. Raphael se lo aspettava da quando si erano visti, ma non si tirò indietro. La ragazza lo baciò con passione, aspettando quel momento da tempo. Lui rispose a fatica, freddo e distaccato, chiedendo mentalmente scusa ad Athena; benché lei ormai non potesse più arrabbiarsi, quello per lui era pur sempre tradimento. Tornò a casa a notte fonda, disgustato da sé stesso. L’aveva fatto davvero. E chissà quante altre volte avrebbe dovuto farlo.
«Com’è andata?» chiese Cheren, quando lo vide sciogliere la cravatta con uno sguardo da funerale.
Raphael sospirò e rispose: «Malissimo. Mi è praticamente caduta tra le braccia…»
«C’è gente che pagherebbe per essere al tuo posto.» commentò lui, ma l'amico saltò su, inviperito dalla mancanza di empatia, e ribatté: «Io pagherei per riavere la mia pazza, ma non funziona così... Tu ti faresti baciare da una donna che odi, al posto di Belle? Non credo proprio…»
Cheren gli diede una pacca sulla spalla, non sapendo come ribattere, e uscì, salutandolo. Era già abbastanza di malumore senza rischiare di litigare. Raphael, invece, andò dalla sua bambina. La guardò dormire, beata, e sussurrò: «Piccola Lily… mi dispiace. Ma è l’unica soluzione ai nostri problemi.»
Tempo due settimane e Raphael e Daisy si fidanzarono. Il ragazzo doveva dividersi tra lei e la figlia e anzi, doveva badare più a lei che alla figlia, totalmente ignorata dalla donna. Lily soffriva molto quella situazione, restando sempre in disparte e sempre ignorata. Chiedeva al padre perché quella dovesse farle da mamma, perché non erano rimasti loro due soli... e lui non sapeva cosa risponderle. Come poteva dirle che l'aveva accettata per i soldi? Si stava letteralmente svendendo e non ne andava fiero. Nel frattempo però, anche per occupare il tempo e stare lontano dalla sgradita compagna, si iscrisse all’università, facoltà di giurisprudenza. Voleva poter essere utile, al fianco della giustizia, e fare finalmente qualcosa di buono.
Il primo giorno era agitatissimo. Entrò nell’aula magna dove avrebbero spiegato tutto e sedette in disparte. Il posto al suo fianco rimase vuoto finché non arrivò un ragazzo alto e muscoloso. Sedette velocemente, ansimando. Probabilmente aveva corso. Distrattamente, lo vide, solo e spaesato, e con un sorriso, si presentò, dicendo: «Ce l’ho fatta. Piacere! Io sono Gabriel Grendel!»
«Oh, beh piacere mio… Raphael Grayhowl…» rispose lui, timidamente.
Lui sorrise amichevolmente e chiese: «Perso qualche anno anche tu?»
Raphael arrossì e rispose: «Oh no… sono riuscito ad iscrivermi solo ora.»
«Io sono fuori corso due anni.» brontolò Gabriel: «Ma i miei mi vogliono costringere a diventare avvocato, come mio fratello.»
«Lui ha finito?»
«No. Ha ventiquattro anni ed è all’ultimo anno. Un secchione seccante.»
I due cominciarono a chiacchierare animatamente. Veniva loro naturale, spontaneo. La loro amicizia si trasformò nei mesi seguenti. Giravano insieme e studiavano insieme, dato che Raphael era piuttosto bravo mentre l'altro molto svogliato. Lily ebbe modo di conoscerlo e lo trovò talmente simpatico che lo pretendeva a cena tutte le sere. Raphael però si limitava ad invitarlo quando Daisy non c'era. Non voleva che lei sapesse chi fossero i suoi amici.
Gli anni passarono… lui si laureò e divenne un buon avvocato. Molto competente e affidabile. Si fece un nome. Importante. Ma la sua vita era vuota… vuota e senza amore. Se non quello datogli dalla figlia.
Un’altra persona, come lui, non se la passava per niente bene.
Dopo quel terribile giorno, Aurea Aralia non fu più la stessa. Si era affezionata molto ad Athena, moltissimo. La considerava quasi una figlia, aveva avuto con lei una confidenza che non era da tutti. Un rapporto speciale con una ragazza speciale.
E ora lei non c’era più.
La donna passava le giornate piangendo, fissando il posto dove loro parlavano sempre, girando per la casa senza una meta, tra i ricordi che le salivano alla mente… Non lavorava più, non usciva di casa… era completamente soffocata dal dolore e si stava lentamente isolando. Dopo un paio di mesi però bussarono alla sua porta con insistenza.
«Aurea! Aurea! Aprimi!» esclamò la voce di Nardo, mentre i pugni forti squassavano il legno del portone d’ingresso.
Lei non si mosse dalla sedia su cui era seduta. Non voleva parlare con nessuno, voleva stare sola con i ricordi che la mente stava cominciando a materializzare. Si stava alimentando di illusioni, per non rendere la perdita reale come lo era; nella sua testa, Athena poteva essere ancora viva; e ancora accanto a lei.
«Aurea!» urlò ancora la voce dell’uomo: «Non costringermi a buttarla giù! Apri questa porta!»
La donna non diede ancora segni, sperando in cuor suo che capisse e se ne andasse, che la lasciasse in pace.
Nardo, di fuori, era furibondo. Non vedeva la studiosa da mesi, sapeva che non usciva di casa e che non riusciva a reagire. Sapeva che stava lentamente impazzendo dal dolore.
«Devo fare qualcosa. Non può andare avanti così. Bouffalant, usa Ricciolata!» esclamò, lanciando una ball presa dalla corda che teneva al collo.
Quello muggì di risposta, uscito dalla sfera in un raggio bianco, e si lanciò contro la porta alla carica a testa bassa. Sfondò la porta e irruppe nell’ingresso. Nardo entrò dietro di lui, guardandosi intorno. Vagò un po’, nella penombra dovuta alle tapparelle completamente giù, poi trovò la donna, seduta sulla sedia in stato di semi trance.
«Aurea.» mormorò, avvicinandosi a lei.
La studiosa non rispose, fissando il nulla con le lacrime che scendevano copiose, ricordando quanti discorsi avevano fatto insieme, quanto ridere, alcuni abbracci…
Nardo si chinò vicino a lei e le prese una mano, mormorando: «Aurea, cerca di riprenderti. Non è da te lasciarsi andare così.»
«Non è giusto Nardo…» borbottò lei, con voce quasi apatica: «Non è giusto…»
Lui prese una sedia e sedette accanto a lei, poi disse, continuando a tenerle la mano: «Lo so. Non è giusto. Chi meglio di me può dirlo? Quella ragazza era speciale. Nessuno l’ha mai capito tranne noi, che abbiamo potuto vedere il suo lato migliore. Ma lei non vorrebbe che tu ti lasciassi andare così. Ti direbbe di reagire, che la vita va avanti! Lei ha reagito al suo dolore, ora tu devi fare altrettanto.»
Aurea prese a singhiozzare, disperata e ribatté: «Non ci riesco. Non riesco ad andare avanti. Aveva appena cominciato a vivere… era finalmente un po’ felice… e ora questo. D’accordo, ha fatto del male, degli sbagli atroci… ma… era migliorata! Poteva fare del bene. Essere migliore! Riabilitare il suo nome! E invece ora non può più...»
Nardo strinse entrambe le mani e rispose: «Deve ringraziare solo te se ha potuto vivere quattro anni felici. Se non ti avesse incontrata, chissà che fine avrebbe fatto. Invece, grazie a te, è cambiata. Aurea non devi sentirti in colpa. Anzi, devi essere fiera di te.»
La donna strinse a sua volta le sue mani, cercando di trattenere i singhiozzi che la scuotevano, ma lui l’abbracciò e le permise di sfogarsi su di lui. Nardo restò lì con lei finché non si fu calmata, poi disse: «Come dissi tu a lei, io ora te lo ripeto. Conserva il suo ricordo e onoralo, riprendendoti da questa depressione.»
Aurea lo guardò, con ancora gli occhi umidi, e mormorò: «Grazie, Nardo.»
Lui le sorrise asciugandole le lacrime.
I giorni successivi l’uomo passò spesso a trovare la studiosa, per vedere come stesse. La donna aveva messo una foto di lei e Athena sulla vetrina, incredibilmente scattata dopo rifiuti su rifiuti, e aveva cercato di scacciare il dolore, con un discreto successo. Ben presto, ritornò in pista a pieno regime.
«Ciao, Nardo!» lo salutò allegramente un giorno, vedendolo varcare la soglia: «Potresti stare anche un po’ alla Lega ogni tanto.»
«Non ce n’è bisogno. Ho incaricato Marzio di fermare tutti gli sfidanti e il ragazzo sta facendo un ottimo lavoro.» rispose lui, sorridendo di risposta, e accomodandosi in salotto dopo un suo cenno: «Ti vedo molto meglio, Aurea. Sono proprio contento.»
Lei sorrise, sedendosi accanto a lui, e rispose, allegra: «Insomma, avevi ragione. Athena era forte e io devo esserlo altrettanto.»
I due parlarono animatamente: pettegolezzi, novità, e varie cose. La sera cenarono insieme. Quel giorno era il giorno in cui Giovanni aveva trovato Athena. Per la ragazza era una sorta di compleanno, visto che aveva cominciato a contare gli anni da lì. Brindarono in sua memoria. Una, due, tre… forse un po’ troppe volte. Nardo reggeva l’alcool piuttosto bene, ma Aurea no. Dopo un paio di bicchieri era completamente ubriaca. Faticava a reggersi in piedi e l’uomo dovette sorreggerla parecchie volte, per evitare che cadesse e si facesse male da sola.
«Aurea, non ti sembra di avere bevuto un po’ troppo?» chiese, in un mezzo rimprovero.
«Ma che dici? Sto benissimo!» rispose lei, barcollando leggermente, molto euforica, alzando il bicchiere sbilenco fortunatamente vuoto: «Bisogna festeggiare! Come se lei fosse qui!»
Lui inarcò un sopracciglio e rispose: «Ti direbbe la stessa cosa che sto dicendo io, fidati.»
«Te l’ha mai detto nessuno che sei proprio carino?» commentò la donna, ignorandolo e ridacchiando.
«No. Però grazie del complimento.» rispose lui, con un sorrisetto.
Aurea barcollò paurosamente, Nardo la sostenne e lei si posò a lui, aggrappandosi per stare in piedi. Avvicinandosi al suo volto, lo baciò, senza sapere quello che stava facendo. In condizioni normali, non avrebbe mai fatto un gesto così impudente; dopotutto era una donna educata, molto timida, e a modo. Ma sotto i fumi dell’alcool non ragionò e fece quello che sentiva di voler fare.
Nardo però si tirò un attimo indietro, confuso, staccandosi. Lei lo fissò con un misto di perplessità, delusione e desiderio. Poi lo lasciò, barcollando verso il divano, con una tristezza enorme nel cuore.
Dopo quella sera, i due si rividero di rado, spesso imbarazzati; non avevano il coraggio di parlarsi, di toccarsi, nemmeno di guardarsi. Intrappolati nella loro timidezza, lasciavano scorrere i giorni, sperando che qualcosa cambiasse. Che uno dei due facesse quel passo che chiedeva molto coraggio. Un coraggio che nessuno dei due credeva di avere.
Un giorno, Aurea si decise. Aveva bisogno di parlare con qualcuno, di sfogare la sua angoscia e la sua confusione. Athena non c’era però. E lei sarebbe stata la persona ideale.
Però c’era lui.
«Ciao, Raphael.» mormorò al telefono, quando lui rispose.
«Salve, prof. Come sta?» rispose la voce del ragazzo.
Ormai aveva ventun anni, la piccola Lily tre e lui si stava riprendendo dal dolore per la perdita della sua amata. O forse così voleva solo dare a vedere.
«Tu piuttosto?» chiese la donna, sentendo quella nota di tristezza perenne nella sua voce.
Lui sospirò, come se resistesse dal piangere, e rispose: «Ce la sto facendo. Lily è un toccasana. Però… sa com’è. Senza di lei, mi sento come se mi avessero strappato il cuore con un paio di pinze. Senza anestesia. Mi manca un sacco… e la mia bambina le assomiglia tantissimo, sempre di più. Le manderò una foto.»
Lei annuì e tentò di consolarlo, dicendo: «Forza e coraggio, ragazzo mio. Puoi farcela. Athena non si sarebbe mai innamorata di un debole, ne sono convinta. »
«Grazie della fiducia. Ma perché ha chiamato? È successo qualcosa?» chiese lui per distrarsi dal pensiero che lo faceva soffrire.
Lei arrossì e ribatté: «Volevo chiederti un parere… probabilmente sono insensibile e mi odierai, ma sei la persona più vicina ad Athena che mi viene in mente… in una situazione come questa, avrei parlato con lei, ma…»
«Mi dica pure.» sorrise il ragazzo, interrompendo il suo assurdo monologo: «Lei ha fatto tanto per… lei. Ora bisogna ricambiare.»
«Ti ringrazio. Ecco… temo di… essermi presa una cotta per Nardo!» esclamò tutto d’un fiato.
Raphael scoppiò a ridere sentendo l’imbarazzo della studiosa, e rispose: «E lui che dice?»
«Non dice… l’altra sera ci siamo ubriacati come due ragazzini, e … è scappato il bacio! Non ci vediamo da allora.»
«Vi schivate?»
Lei balbettò qualcosa poi scandì: «Sì, insomma… diciamo di sì.»
«Praticamente l’alcool vi ha tirato fuori il coraggio che serve, eh?» ridacchiò lui, con una punta di scherno.
Imbarazzata, Aurea strillò: «Dai, Raphael, non prendermi in giro! È imbarazzante!»
«E lei tiri fuori il coraggio che serve.» la zittì lui, fattosi serio: «Anche se non dovesse essere ricambiata, almeno chiaritevi. Non potete passare la vita a evitarvi, non crede?»
«Tu come l’hai trovato il coraggio?»
Lui ridacchiò, ricordandosi quanto era stato combattuto nel doversi dichiarare apertamente al Demone Rosso, il terrore di Kanto: «Ci ho messo un po’, lo ammetto. Ma avevo più paura di una coltellata che di un rifiuto. Però, poi mi sono detto… “o la va, o la spacca”. Insomma… la amavo, dovevo dirglielo.»
I due parlarono un po’, poi Aurea riattaccò. Andò alla Lega, entrò nell’ufficio di Nardo rossa in volto e, abbassando lo sguardo, mormorò: «Nardo… io credo di essermi innamorata di te.»
Rimase immobile, aspettando il rifiuto, ma una mano la prese per il mento, la costrinse ad alzare il viso, e lei vide gli occhi dell’uomo fissarla dolcemente.
«Aspettavo solo che me lo dicessi.» sussurrò lui, per poi avvicinarsi alle sue labbra.
Il cuore di Aurea sembrò fermarsi quando il suo viso divenne di un rosso intenso e le sue labbra incontrarono quelle dell’uomo. Si diede della stupida ragazzina, ma poi non perse più tempo a pensare. Era inutile, infondo.
I giorni passarono, e i due si legarono sempre di più, finché non si fidanzarono ufficialmente, stando quasi sempre in compagnia di Cheren, ormai Leader di Alisopoli, Belle, assistente a pieno titolo della donna e la grintosa Mei, nuova speranza che aveva appena scalato la Lega.
Aurea era molto felice, ma c’era sempre qualcosa che non andava. Quel qualcosa era la mancanza di quella voce sarcastica, di quel ghigno arrogante ma divertito…
Di quella ragazza che era stata come una figlia.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Raphael si stiracchiò, appena alzato, sulla veranda di casa. Era l’alba, come sempre. Aveva preso quella piccola abitudine molto tempo prima, ma non se l’era più tolta. Tornò in casa, per prepararsi e andare al lavoro. Passando davanti alla vetrina, vide quella foto. Dopo molto tempo, poteva renderla visibile, poterla vedere e ammirare, crogiolandosi in quei ricordi felici a cui da molto tempo non pensava.
Quando era rimasto solo, anzi, con solo la sua piccola Lilith, aveva passato un paio di anni a struggersi nel dolore. Poi aveva deciso di reagire, tenendo il suo ricordo racchiuso nel cuore. Si era fidanzato con Daisy, una donna che da molto tempo lo desiderava, anche se lui francamente non la amava, e si era iscritto all’università, facoltà di giurisprudenza. La famiglia di Daisy era molto facoltosa, quindi lui aveva potuto studiare e mantenere la figlia, senza dover lavorare.
Lily era cresciuta molto in quegli otto anni in cui erano stati sotto il tetto di Daisy, ma le due non riuscivano ad andare d’accordo. La donna voleva che la bambina fosse come lei; cercava di insegnarle a pavoneggiarsi e a essere convinta di essere superiore a tutti coloro che le stavano intorno. Ma con scarsi se non inesistenti risultati. Lily aveva uno spirito libero, uno spirito amante della natura e dei Pokémon. Uno spirito come quello di sua madre, slegato dai vincoli sociali che tanto assillavano la sgradita matrigna.
Purtroppo, Daisy odiava i Pokémon. Li definiva esseri inutili, brutti e simili ai parassiti. Così, Raphael era stato costretto a consegnare, mediante il teletrasporto Pokémon, i suoi amici Crobat, che si era evoluto grazie ai consigli della sua amata perduta, la sua dolce Leavanny, Haxorus e Jellycent, alla professoressa Aralia, la studiosa della regione di Isshu. Ogni volta che la compagna non c’era, Raphael la chiamava, per salutarli. Ma gli mancavano molto.
L’unica eccezione era Cobalion, il leggendario Pokémon Metalcuore, natio della regione di Isshu. La prima volta che la bionda si era opposta alla sua presenza, il Pokémon cobalto le aveva puntato la sua Spadasolenne alla gola, con parole pesanti e minacciose. Il Leggendario era determinato a mantenere la metà di quella promessa fatta ad Athena e nulla l’avrebbe fatto cedere. Doveva proteggere Lily, ad ogni costo.
“Ora che ci penso però.” pensò Raphael, fissando il cielo con nostalgia e eterna tristezza, riscuotendosi dai pensieri: “Sono anni che non vedo Daisy. E forse a Lily piacerebbe avere a che fare con dei Pokémon.”
I due si erano lasciati da qualche tempo. Lui era stufo di amanti; non era il gesto in sé che lo infastidiva, dato che per lui Daisy era solo una sorta di banca ambulante, ma il fatto che lei li portasse a casa, sotto gli occhi delle figlie. Ebbene sì, figlie: Lily non era l’unica. O meglio, era l’unica di Athena. Ma Raphael e Daisy avevano un’altra figlia, Martha, di cinque anni più piccola, incidentalmente concepita in uno dei “ricambi” di Raphael per i soldi della compagna. Come Lily assomigliava in modo impressionante ad Athena, la sorellastra era la fotocopia di Daisy. 
Le due bambine, spesso e volentieri, gli avevano chiesto perché la donna andasse in camera da letto con uomini che non conoscevano e lui non sapeva più cosa inventarsi per mascherare l’evidente. Poi, un giorno, Cobalion le aveva portate via entrambe e Raphael aveva potuto riversare addosso alla donna tutta la sua rabbia e la sua frustrazione. Furibondo, gliene aveva dette di tutti i colori e lei se n’era andata invocando vendetta. Da allora, lui era solo con la sua piccola. Martha purtroppo era andata a vivere con Daisy, perché in una coppia di fatto il tribunale civile decide quasi sempre che l’affidamento dei figli in comune sia dato alla madre. E così fu.
Così era rimasto con Lily, l’unica che gli dava la forza di vivere ancora. Athena viveva in lei ed era suo dovere proteggerla, da tutto e da tutti.
Cobalion lo raggiunse sulla veranda, interrompendo il suo pensiero, divagato alla sua metà perduta.
“Buongiorno, Raphael.” salutò, con la voce mentale appannata dal sonno.
«Ciao, Athos.» rispose lui, ancora pensando alla sua amata, fissando il cielo.
“Fatti passare questa tristezza prima che si svegli.” commentò il quadrupede, scoccando un’occhiata alla porta.
L’uomo guardò il Pokémon, notando uno sguardo nei suoi occhi simile al suo, e rispose: «Dovresti farlo anche tu.»
Lui abbassò gli occhi per nascondere la sua tristezza e cambiò discorso dicendo: “Le somiglia giorno dopo giorno. Mi meraviglio sempre più.”
Raphael annuì, ripensando a quando aveva messo in mostra la prima volta le foto di lui e Athena. Daisy era andata via da due mesi e lui finalmente si era deciso. Aveva preso quella foto, ricordandosi quel giorno come se fosse stato ieri. La prima volta che si erano davvero sentiti uno parte dell’altra.
Incorniciato, aveva messo quel ricordo sulla vetrina, in bella vista.
Lily era rientrata da scuola e l’aveva notata, dato che lui ci aveva messo sotto dei fiori stile santuario.
«Ehi, papà!» aveva chiamato, indicandola: «Chi è?»
Lui le aveva sorriso, un po’ triste, prendendo la cornice in mano e poi tendendola a lei, e aveva risposto: «Era ora che tu vedessi il volto di tua madre, piccola mia.»
La ragazzina era tornata a fissare l’immagine, ora nelle sue mani: ritraeva il padre, molto giovane, che con un ghigno scompigliava i capelli a una ragazza della stessa età, che lo fissava seccata ma con un accenno a sorriso. Come per dire “Forse ti perdono, ma me la paghi”. La ragazza aveva dei capelli rosso fuoco, mossi, e due occhi dello stesso colore, gelidi e profondi.
«Non era molto dell’idea, eh?» chiese, con un ghignetto Lily, notando quanto le somigliasse.
«Odiava farsi fotografare, ma ancora di più odiava che le spettinassi i capelli.» ridacchiò Raphael, cercando di controllare la voce e le lacrime che premevano prepotenti sugli occhi: «Eppure me la fece passare liscia.»
Lily la rimise a posto e chiese: «Ne hai altre?»
«Sarebbe bello…»
Una voce riscosse i due nostalgici dai loro tristi pensieri e da quel bel ricordo: «’Giorno, papà. Ciao, Cobalion.»
I due rientrarono in casa, vedendo Lily in pigiama sbadigliare e sedersi sulla sedia con la colazione tra le mani e lo sguardo appannato.
«Buongiorno, Lily.» la salutò il padre, sorridendole: «Dormito bene?»
«Mi alzo sempre troppo presto, papà.» si lamentò lei.
Lui ridacchiò, scuotendo la testa, e rispose: «Vai a sistemarti e fila a scuola, lamentona!»
Lei gli sorrise, facendogli la linguaccia, e corse via. Poco dopo tornò, prese al volo qualcosa da mangiare e uscì, urlando: «Ci vediamo, papà! Ciao, Cobalion!»
«Ciao.»
“Ciao.”
Raphael si mise la camicia bianca, i pantaloni neri e la cravatta. Prese la ventiquattro ore, la giacca e si specchiò. Il suo riflesso gli restituì il viso e lo sguardo di un uomo di trentadue anni, tutto fuorché felice. Lui si passò una mano sul dorso dell’altra, accarezzando quella cicatrice che gli rendeva il ricordo vivo nella mente: nel suo ultimo atto di follia, la sua amata gli aveva rotto una mano con il piede di una sedia, facendo fuoriuscire l’osso e lacerando il tendine di alcune dita. Si era dovuto far operare ed era rimasto il segno, che lui guardava con nostalgia. Avrebbe preferito mille volte farsi uccidere da lei, che perderla così per sempre.
“Potesse vedermi ora.” pensò, sospirando e accarezzandosi la cicatrice bianca: “Il tuo scemo ti piacerebbe ancora di più. Mi manchi da impazzire. Sono già quattordici maledetti anni senza di te. Quattordici…”
Una lacrima gli rigò il volto, seguita da altre, uguali. Piccole sfere di dolore che gli bagnavano il viso.
Cobalion gli toccò una spalla con il muso e gli porse un fazzoletto, tenendolo tra i denti, ma con gli occhi lucidi.
“Fatti forza.” disse solo, guardandolo negli occhi.
Non servì dire altro. Loro si capivano. Tutto quel tempo passato insieme, unito al dolore comune, li aveva legati, molto più di quanto avrebbero mai immaginato.
Raphael si asciugò le lacrime e mormorò: «Ciao, Athos. A dopo.»
“Fatti forza, amico mio…” ripeté solo il Pokémon.
Lo studio legale dell’uomo era lì vicino, quindi lui poteva andare tranquillamente a piedi. Arrivò in un quarto d’ora, passeggiando lentamente per prima calmarsi e darsi un contegno. Entrò e salutò: «Buongiorno.»
«Buongiorno a lei, avvocato.» rispose la segretaria, con un sorriso.
Raphael le fece un cenno, poi andò nel suo ufficio. Si fermò davanti alla scrivania: la targa in ottone recitava “Avvocato Raphael Grayhowl”. In parte alla targa, in posizione tattica, una foto molto speciale. Se quella che aveva a casa era stata scattata consapevolmente, quella lì era stata scattata a tradimento. Sapendo che Athena odiava essere fotografata, aveva aspettato che ridesse, per fargliela senza che se ne accorgesse. Ed era venuta un capolavoro. La ragazza se la stava ridendo con gusto, e quel sorriso, velato di arroganza, era il più bello che lui avesse mai visto.
La posizione era tattica, perché si poteva nascondere velocemente dietro al portapenne.
Non voleva condividerla con nessuno. Era egoista, se ne rendeva conto. Ma quel sorriso, quell’unico vero ricordo della sua “piccola pazza”, era solo suo. Suo e di nessun altro.
Raphael sedette e cominciò a mettere a posto un po’ di carte. Aveva avuto un periodo d’inferno, un processo dietro l’altro, e doveva sistemare tutti i verbali. Cominciò il suo lavoro, ma il telefono squillò.
«Mi dica, milady.» rispose, alzando la cornetta.
«Sempre galante, avvocato.» cinguettò la segretaria Elle Greenaway: «Ho in linea l’avvocato Gabriel Grendel. Glielo passo?»
«Vai, tranquilla. Grazie.»
«Si figuri.»
Raphael ascoltò la musichetta di attesa, giocherellando con la penna, e poco dopo una voce famigliare esclamò: «Vecchia volpe! Hai finito di vivere in tribunale?»
«Certo, altrimenti mi sarebbe toccato intestarmi l’aula come seconda casa.» gli rispose lui: «E pagare pure le tasse. Va bene tutto, ma non ho tutti questi soldi da buttare nel bidone!»
Ridendo, l’altro disse, scherzoso: «Sempre il solito. Allora Raphael, visto che tira aria calma, ce l’hai un po’ di tempo per un amico?»
«Guarda, potrei trovarti un posticino nell’agenda… fammi pensare…»
«Spiritoso! Dai facciamo a pranzo!»
«Ricevuto. Passo e chiudo!»
L’altra voce ridacchiò e chiuse la telefonata, minacciandolo di morte se non si fosse presentato.
Gabriel Grendel era un uomo della sua età, che Raphael aveva conosciuto all’università. Avevano fatto subito conoscenza, per via dei gusti simili, e di un affinità particolare. Dopo la laurea erano rimasti in contatto e la loro amicizia aveva superato qualunque cosa. E, da vero amico, Gabriel aveva visto che Raphael non era mai davvero felice. Mai. In nessuna occasione.
Gabriel aveva un fratello, Michael, di due anni più vecchio con il quale però, a differenza del fratello, Raphael non andava molto d'accordo. Erano sempre in competizione, e molto spesso, in tribunale si affrontavano in sfide all’ultimo cavillo per vincere il processo.
Come promesso, a pranzo Raphael andò al bar universitario dove si erano trovati per anni e anni. Appena entrato, lo riconobbe subito: Gabriel era un uomo biondo, muscoloso, con gli occhi nocciola. La cravatta era sempre sciolta, tranne che in tribunale, e la giacca sempre ripiegata su una spalla, trattenuta per il colletto con l'indice. Un tipo che è vestito bene e tenuto solo in aula. Quelle poche volte che accetta i processi.
«E come sempre, vedo quel sorriso spento che mi fa tanto imbestialire.» esordì, vedendolo entrare e sedersi di fronte a lui.
«Ciao, Gabriel.» rispose l’amico, alzando gli occhi al cielo ma sorridendo.
«Insomma, Raphael! Ti pare il modo di presentarti? Sembra che ti è morto il gatto!»
Lui fece un sorrisetto un po’ storto e rispose: «È la mia faccia. Se vuoi puoi cambiarmi i connotati, ma non te lo consiglio!»
Gabriel scoppiò a ridere e i due cominciarono a parlare, raccontandosi un po’ quello che era accaduto in quei mesi. Era da un pezzo che non si vedevano e ad entrambi mancava molto la compagnia dell’altro.
«Ora che non sei più con Daisy, non credi che sia ora di cercare moglie?» chiese d’un tratto l’amico, quando ebbero finito i discorsi stupidi ed era ora di quelli seri: «Infondo, dovresti dare una madre a tua figlia.»
«Non mi sento pronto.» rispose lui, pensando ad Athena più intensamente e dolorosamente; lui voleva solo lei, anche dopo quattordici anni, e nessuna avrebbe potuto farle anche solo una piccola concorrenza.
«Andiamo, Raphael.» ribatté Gabriel, spazientito dal suo tono di voce: «Lo so che non hai mai amato Daisy, ma se non ti guardi intorno non troverai mai l’amore.»
Raphael non rispose pensando: “Io l’ho già persa la mia anima gemella.”
Visto che non riceveva risposta, Gabriel disse, quasi per costringerlo a guardarsi intorno o per lo meno a farsi vedere un po’ in giro: «Vieni con me al night, stasera. Ti piacerà!»
«Gabriel… Ti faccio notare che ho una figlia.» borbottò Raphael, mezzo sconvolto dalla sua proposta.
Lui quasi sbuffò, benché la piccola Grayhowl gli stesse simpatica, e ribatté: «Che discorsi… è da quando ti ho conosciuto al primo anno che non ti ho mai visto divertirti! Vivi la vita, sei giovane!»
«Ho delle responsabilità.» lo interruppe lui, categorico.
«Potevi lasciare la marmocchia a Daisy e goderti la vita! Così te la rovini, a fare il santo.»
«Non dare della marmocchia a mia figlia.»
Lui ignorò il commentò e ribatté, malizioso: «Da quanto tempo è che non prende aria il tuo amico, eh?»
Raphael arrossì leggermente, abbastanza seccato dalla sua insistenza, e rispose: «Direi che non sono affari tuoi.»
Gabriel sospirò, lo fissò e gli disse, ormai rassegnato del fatto che non lo avrebbe mai convinto: «Non sai cosa ti perdi.»
«E tu non sai cosa perdi a fare la vita che fai.» ribatté secco Raphael, ricordando come la sola presenza di Athena oscurasse tutte le altre donne: «Ti garantisco, amico, che quando sarai davvero innamorato, il night e tutto quello che ci sta intorno ti sembrerà assurdo, inutile e per nulla divertente.»
Scioccato da quella mezza ramanzina da quarantenne, l’uomo borbottò: «Sembra quasi che tu stia parlando per esperienza.»
«Può darsi.» rispose lui, ignorando la provocazione: «Ora ho un po’ di pratiche da sbrigare, quindi… ci si vede!»
Con una pacca sulla spalla, Raphael si alzò, salutò l’amico e se ne andò, con passo veloce, prima di confessargli tutto sul suo vecchio amore ormai perduto ma mai dimenticato. Non poteva dirlo a nessuno, soprattutto a lui. Avrebbe voluto sapere i dettagli… dettagli tipo la sua identità. E comunque, nelle menti di tutti, il Demone era morto a quindici anni per mano di Lance. L’uomo tornò in ufficio e lavorò tutto il pomeriggio, con quella foto che lo fissava, per distrarsi, non pensare a lei, e vivere in qualche modo.
Finito tutto ciò che doveva fare, verso le sei di sera, uscì, arrivò a casa, aprì la porta e vide tutto spento.
«Strano che Lily non sia già qui.» borbottò, posando le chiavi.
«Athos!» chiamò, dopo essersi tolto la giacca.
Il Pokémon arrivò dal piano di sopra, con passo felpato, e disse: “Ciao Raphael. Lilith sta dormendo. È arrivata molto stanca, ha studiato un po’ ma poi è crollata, così l’ho portata nella sua stanza.”
«Ti ringrazio. La saluterò dopo.» rispose l’uomo, andando a cambiarsi.
Era finito un altro giorno. Un altro triste giorno senza la felicità.
Finché … una mattina … una bella mattina: estate, sole, bel tempo, caldo… Raphael venne convocato da Lance. Andò alla Lega Pokémon di Kanto e Johto, sull'Altopiano Blu. Non era una strada nuova per lui. Il Campione spesso lo convocava per dei processi. D’altronde, era lui che li indiceva.
Bussò. Lance aprì. Raphael entrò e sedette.
«Buongiorno, Raphael.» salutò il Campione, forzatamente cordiale, restando di spalle, voltato verso la finestra.
«’giorno a te, Lance.»
Raphael non ci riusciva. Non riusciva a essere formale, rispettoso. Quell’uomo l’aveva pestato, aveva minacciato la sua ragazza, aveva ucciso i suoi Pokémon, rendendola infelice per sempre. Anzi… fino alla sua morte. Avvenuta proprio fra le sue braccia.
Il Campione non badò alla sua colloquialità e rispose: «Spero ti sia riposato a sufficienza. Ho in ballo un processo molto impegnativo.»
«E si può sapere perché chiami sempre me? Chiama quello sbruffone di Grendel ogni tanto.» sbottò lui, stufo di essere sempre convocato e non poter mai stare con la sua bambina.
Lance si degnò di fissarlo, male, e disse: «Raphael… lo sai meglio di me che sei il migliore.»
«Sei in vena di complimenti?» chiese, beffardo.
«Prendi questa frase come un complimento o un’offesa, a te la scelta. Comunque tu la pensi, io ho scelto te e non si discute.» ribatté Lance, cominciando a seccarsi della sua arroganza.
«Come vuole, signor Campione.» disse l’avvocato, con un tono piuttosto insolente, sottolineando quel “signor” come la sua amata avrebbe adorato.
Lance ingoiò la voglia di rifargli i connotati a suon di pugni e ringhiò: «Finirò la pazienza prima o poi.»
«Aspetto solo quello.»
Il Campione gli tirò un plico, centrandogli quasi la faccia, e sbottò: «Il processo è fra quattro giorni. L’accusa è tutta tua.»
Raphael sbirciò le carte e, tornando serio e professionale, chiese: «E la difesa chi la presiede?»
Lance alzò le spalle e rispose: «Non c’è ancora nessuno. E non credo nemmeno che troverà qualcuno.»
«Come mai?»
«Lo saprai a tempo debito. Ora, se hai finito di scambiarmi per l’oracolo, vattene che ho da fare.» chiuse lì il discorso lui, indicandogli la porta con un cenno.
Raphael annuì, mise il plico nella valigia, si alzò e se ne andò. Arrivato a casa, guardò meglio le carte che gli erano state date, borbottando mentre leggeva: «Omicidio plurimo… torture… massacri vari… accidenti che bella fedina. Peccato non ci sia scritto il nome dell’imputato. Chissà perché Lance vuole che non sappia l’identità di questa persona. Tanto la vedo in tribunale… e poi, la difesa. Niente difesa. È talmente assurdo.
Bah. Mettiamoci al lavoro. Il signor Campione comanda e Raphael ubbidisce.»
Scrisse qualche appunto, mentre leggeva le mille e una accuse e si preparava per l’ennesimo processo.
“In questi casi ci vorrebbe una delle sue battutine squallide. Renderebbero il lavoro meno noioso.” pensò, mentre scriveva qualche appunto in difesa dell’imputato. Lo faceva sempre quando presiedeva l’accusa. Delle volte, bisogna pensare come il nemico per prevederne le mosse. Un insegnamento che gli aveva dato Athena e che lui non aveva mai scordato.
Il giorno del processo, dopo aver chiesto scusa in mille lingue alla figlia per aver saltato l’ennesima gita al parco insieme, raggruppò le carte, ripassò bene cosa doveva dire, si vestì e uscì.
«Farò in fretta, Athos! È un processo facile.» esclamò mentre apriva la porta.
Il Pokémon Cobalto lo salutò, mentre ormai la porta era chiusa: “Ciao, Raphael. Buon lavoro.”
Raphael arrivò molto presto in tribunale. Non c’era ancora nessuno. Si mise nel suo banco, aggiustò la cravatta e tirò fuori le carte. Mentre dava una riletta veloce al suo accurato riepilogo, arrivò il giudice Frederik Vodel.
«Buongiorno, avvocato Grayhowl.» salutò quando lo vide.
Raphael si alzò in piedi e rispose: «Buongiorno a voi, Vostro Onore.»
L’uomo sedette dopo il giudice, che disse: «Mi spiace averla fatta alzare così presto, di domenica mattina, ma Lance ha chiesto espressamente di lei.»
«Sì, mi ha convocato alcuni giorni fa.» annuì l’avvocato.
«Il processo sarà breve, non si preoccupi. Tornerà dalla sua bambina prestissimo.»
Raphael annuì una seconda volta e continuò a leggere per ripassare. Poco dopo, si aprì la porta e si sentirono dei passi nel corridoio tra le due ali dei seggi per il pubblico. Non c’era nessuno a guardare perché il processo era segreto e nessun civile sapeva nulla. Gli unici che ne erano a conoscenza erano Raphael, Lance, Vodel e l’imputato stesso.
Raphael volle prima finire di leggere, poi avrebbe guardato chi era il macellaio del plico. Sentì però distintamente, alla sua sinistra, molte catene agganciate al banco al centro dell'aula. Probabilmente era ancora una persona molto pericolosa.
Finito di leggere, alzò lo sguardo e lo voltò verso la sua sinistra, decisamente incuriosito.
Ciò che vide, lo sconvolse, oltre che a fermargli il cuore.

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Spazio autore:
Ricordate le parole di Athena? :P
L'erba cattiva, non muore mai! E io non potrei mai darle la soddisfazione di morire e smettere di penare! eheheh :P


«Lo Stato di Kanto contro il Demone Rosso. Presiede l’accusa, l’avvocato Raphael Grayhowl. Alla difesa nessuno.» esclamò il giudice, battendo il martelletto di legno sulla scrivania.
Raphael la guardava, sconvolto. Non poteva credere che lei fosse davanti ai suoi occhi. Eppure era lì: una donna alta e magra, forse anche troppo, con i capelli arruffati colore del fuoco, vestita con una camicia a maniche corte e un paio di jeans; posata al banco con il gomito e la guancia sulla mano con fare annoiato, fissava una crepa nel legno, grattandola con l’unghia del pollice, dato che i due arti erano incatenati tra loro e quindi entrambe le mani erano posate sul piano del banco. Lei ci mise un momento di più, ma poi alzò lo sguardo verso il giudice, perplessa, e si girò scioccata verso la sua destra, sgranando gli occhi. Aveva due occhiaie spaventose; probabilmente segno di carenza di sonno.
I loro sguardi si incontrarono. Rosso nel verde. Dopo molto, troppo tempo.
“È lei.” pensò sconvolto e senza parole l'avvocato: “È davvero lei… ma com’è possibile?! Si era uccisa… e… dannazione! N! N l’ha salvata! E ora… è qui… ma come fa a essere qui? Come ha fatto Lance a prenderla? Non ha senso… non ha il minimo senso…”
Il martello del giudice, accompagnato dalla voce, interruppe i suoi turbinosi pensieri: «Avvocato Grayhowl! Tolga gli occhi dall’imputata e cominciamo il processo. Non deve temere, non può farle nulla. Il Campione ha preso tutte le precauzioni.»
Athena distolse lo sguardo a fatica, scoccando un’occhiataccia a Lance. Una di quelle che Raphael ricordava bene. Sembrava quasi arrabbiata con lui. Ma non perché la stavano processando, o si sarebbe difesa e sarebbe fuggita.
Ma perché… c'era Raphael.
“Forse… non mi ama più.” pensò lui, rattristandosi di colpo: “Ma io sì e la tirerò fuori ad ogni costo!”
Il processo si svolse lentamente. Sembrava che l’uomo non riuscisse a condannarla. Eppure aveva davanti a lui tutte le prove. Le aveva studiate, sapeva come metterla sulla forca.
Si costrinse a pensare e vide una scappatoia.
Aveva fatto come suo solito e aveva preparato alcuni punti a difesa che avrebbe dovuto smontare. Ora, li avrebbe usati a suo vantaggio.
“Allora, il processo segreto è fuorilegge.” cominciò a pensare, velocemente per non destare troppi sospetti: “Ma se la folla sapesse che lei è viva, sarebbe un disastro quindi lasciamo così. Però… il giudice non ha prove che uccida ancora. Se faccio ricadere tutta la colpa su Giovanni, riesco a toglierle la pena di morte per plagio e forse addirittura a proscioglierla. Sì, potrebbe funzionare ma devo lavorarci molto. D’altronde, ora sono solo io che tiro i fili, ma appena mi sarò costituito difesa, Vodel mi metterà contro un’accusa con i fiocchi. Ma non perderò mai, costi quel che costi. Ti tirerò fuori da questo casino, piccola pazza, te lo prometto.”
«Vostro Onore.» disse quindi, dopo tutti questi pensieri, raccogliendo le carte con fare professionale e cercando di non guardare troppo verso di lei: «Secondo il nostro ordinamento giuridico, l’accusa di omicidio si prescrive in quindici anni. Ne sono passati diciannove, quindi l’imputata sarebbe teoricamente assolta.»
«Ha ragione avvocato, ma se vede tra le carte che le ho consegnato, ci sono altri sette omicidi commessi negli ultimi due anni.» disse Lance, accennando ai fogli, con uno strano sorriso soddisfatto.
«Ha prove valide, per accertare che sia stata lei?»
«No, beh… visto che il modus operandi è l’accoltellamento e lei è apparsa dal nulla, abbiamo pensato fosse stata lei.» rispose, con un’alzata di spalle, il Campione.
«E le pare una prova schiacciante? Come si dichiara l’imputata in merito a questi omicidi più recenti?» chiese Raphael a Vodel, accigliato.
«Non lo … non gliel’ho chiesto…» rispose quello, lievemente imbarazzato: «Sì, dunque. Come si dichiara l’imputata?»
Athena lo guardò perplessa, poi guardò Lance che annuì e quindi la donna rispose: «Non colpevole, ovvio.»
Raphael chiuse gli occhi un momento, assaporando quella voce che da tanto tempo non sentiva. Quel tono freddo, sull’arrogante… quanto gli era mancato.
«Razza di bestia, di' la verità!» esclamò irato il giudice: «Avvocato Grayhowl! Metta questo mostro sulla forca! Subito!»
L’avvocato scosse la testa e ribatté: «Non ho prove sufficienti, Vostro Onore. L’accusa si ritira.»
«L’udienza è sospesa!» disse il giudice, quasi fracassando la scrivania a martellate.
Raphael raccolse le carte con fare professionale e uscì, senza degnarla di uno sguardo. Se l’avesse fatto, minimo le sarebbe saltato addosso.
Il giudice fece lo stesso e Lance andò da Athena, scortandola fuori, ma una guardia lo fermò.
«Campione, l’avvocato Grayhowl vuole conferire con l’imputata.» disse, scattando sull’attenti.
«Non è concesso. Solo la difesa avrebbe il permesso.» rispose lui, per poi portare via Athena.
Raphael non si scompose quando la guardia gli disse che Lance aveva rifiutato. Con quel lavoro aveva imparato presto a rimanere impassibile a tutto. Lasciò perdere per un po’. L’udienza era rimandata e i tempi erano lunghi. Poteva studiarsi bene quelle carte e cercare di tirare fuori l’amata da quel casino. Prima di tornare a casa, passò in procura. Andò in un corridoio all’ultimo piano e si fermò davanti alla porta con la targhetta in oro.
“Giudice Frederik Vodel”
Raphael era titubante. Non sapeva come dire all’uomo che si costituiva difesa, senza dire che era, forse, il fidanzato, innamorato pazzo, dell’imputata. Ma si fece coraggio e bussò.
«Avanti.» rispose il giudice.
Raphael entrò e disse: «Buongiorno, Vostro Onore.»
L’uomo lo fulminò all’istante, riconosciutolo, ed esclamò, furioso: «Cosa vuole ancora, Grayhowl?! Mi ha già fatto fare una figuraccia in aula!»
«Per evitarne altre, vorrei dirle che mi costituisco difesa.» rispose subito lui, pacato.
Spiazzato, il giudice temette di non aver compreso la frase, così chiese: «Che cosa?!»
«Ha capito bene, signor giudice.»
«Non so cosa lei abbia in mente, avvocato, ma faccia pure. Voglio un’accusa salda.» ringhiò Vodel e, senza porsi troppe domande, scrisse il verbale e firmò. Raphael controfirmò e uscì.
L’avvocato tornò a casa. Sua figlia era fuori e lui era solo. Prese il codice penale, molto consumato per tutte le volte che era stato sfogliato, le carte e cominciò a leggere. Ma molte domande gli affollavano la mente. E il suo cuore era in subbuglio.
“Come faccio a lavorare in queste condizioni?” pensò, seccato, fissando la pagina che era aperta sullo stesso punto da una buona mezz'ora.
Non riusciva a concentrarsi, pensava solo a lei.
Ripreso il controllo di sé, o almeno così pareva, lavorava senza sosta, giorno dopo giorno, cercando ogni minimo cavillo penale che potesse aiutarlo a scagionare la sua amata. Poteva farcela, doveva farcela. Ad ogni costo. E nessuno lo avrebbe fermato.
Non dormiva da giorni, quasi non mangiava e sua figlia era molto preoccupata per lui. Andava a scuola, tornava, pranzava, studiava, andava a letto… e la scena che vedeva era sempre la stessa: suo padre chino sul codice e su mille carte.
«Papà si può sapere cos’hai?! Non ti sei mai finito in questo modo per un processo!» esclamò Lily una sera, vedendolo appuntare qualcosa su un foglio, con l’onnipresente codice aperto.
«Sto bene Lily. È solo un processo molto, ma molto importante.» rispose lui, senza guardarla.
«Accusa o difesa?»
«Difesa.»
«Chi è che difendi?»
«Te lo dirò a tempo debito.» concluse secco il discorso lui.
Raphael era convinto. Doveva tirare fuori Athena dalle braccia della morte. Ma voleva anche parlarle. E sapere se lo amava ancora. A Lily non voleva dire ancora nulla. Era troppo presto per dirle qualcosa tipo: “Sai figliola, tua mamma è ancora viva ed è processata per omicidio plurimo, sequestro di persona e aggravante per torture. Rischia la pena di morte.”
Voleva invece poterle dire: “Piccola mia, tua madre ha fatto degli sbagli perché non aveva nessuno. Ma il tuo papà è riuscito a renderla migliore. E sono sicuro che sarà una buona madre.”
Non era sicuro di niente, ma per una cosa avrebbe fatto il possibile e l'impossibile.
Salvarla.
Ad ogni costo.

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Raphael stava impazzendo. Si decise di andare da Lance. Era stufo di non avere risposte e di rodersi dai dubbi. Doveva essere concentrato sul processo. Chiuse il codice con un tonfo, prese la giacca, mise la cravatta, riempì la ventiquattro ore con tutte le carte e uscì, dicendo: «Athos, tieni d’occhio Lily.»
Arrivato all’Altopiano Blu, chiese di vedere Lance. Ebbe il consenso, entrò nell’ufficio del Campione sbattendo la porta e sbottò: «Lance! Dov'è?!»
«Raphael, stai calmo.» rispose lui, pacato e per niente stupito di quell’irruzione.
«No che non sto calmo!» ribatté lui, fuori di sé dalla rabbia: «L’ho vista morire! Non può essere viva! È tutta una tua montatura?! Vuoi farmi impazzire?!»
Lance parve stupito e borbottò, quasi parlando con se stesso: «Ecco cos’era il contrattempo…»
Raphael sbatté la sua valigetta sulla scrivania ed esclamò: «Non divagare, dannazione!»
L’uomo si alzò in piedi, per imporgli il silenzio. Anche se l’avvocato era cresciuto molto da allora, il Campione era molto muscoloso e più alto. Raphael si sentì intimidito, ricordando uno per uno i pugni che aveva preso tempo prima, ma non arretrò; lei era lì, da qualche parte e voleva vederla.
«Ti prego, Lance! Sono quattordici anni che è sparita... solo cinque minuti.» supplicò, tentato addirittura di mettersi in ginocchio per convincerlo che era davvero disperato.
Lui sospirò e disse: «Lei non ti vuole vedere.»
«Cosa?»
«Testuali parole.» ribadì il Campione: «Voleva vedere come stavi per poi consegnarsi, senza che tu venissi a saperlo. È capitata qui, ma io non voglio punirla.»
Raphael scosse la testa, cercando di non cedere alle lacrime e chiese, in una domanda retorica: «Come posso dimenticare l’amore della mia vita? La mia anima gemella? La madre di mia figlia?»
«Ma non hai una moglie?» chiese Lance, avendolo visto parecchie volte con una tizia bionda.
Lui storse la bocca e rispose: «Avevo una… “compagna”… lei forse amava me, ma io ho fatto sesso con lei, ho fatto da amante, pur non amandola e pensando solo al mio angelo che tutti credono un demone. E ora che è qui… non riesco nemmeno a lavorare, maledizione. Penso solo a lei, ogni minuto, ogni ora, ogni giorno… ogni bacio, ogni carezza, ogni parola…»
Raphael si lasciò cadere sulla sedia, affranto. La sua amata era lì, vicina ma irraggiungibile.
Lance lo guardò, impietosito dalla sua disperazione, poi disse: «Chiederò a lei. Non sono io che decido. Se non vuole vederti, non la vedrai, punto. Aspettami qui.»
L’uomo guardò uscire il Campione, che si chiuse la porta alle spalle. Tornò poco dopo, da solo, e sembrava quasi triste.
«Allora?» chiese l’avvocato.
«Allora niente. Non vuole vederti e ha rifiutato la difesa. Non ne capisco proprio il motivo.»
«Forse non mi ama più…» mormorò Raphael, quasi in lacrime, alzandosi e prendendo la porta. Se ne andò, rintanandosi in casa. Era tremendamente triste e si sentiva come se gli avessero tolto il cuore. La consapevolezza che lei non lo amava più, lo aveva svuotato da ogni cosa. La sua anima era andata chissà dove, a piangere il dolore che nessuno avrebbe mai potuto consolare. Un dolore che lo rodeva dentro da quattordici anni.
«Non m’importa.» mormorò, con le lacrime agli occhi e la disperazione nel cuore: «Non m’importa se non mi ama più. Io la amo, la amo con tutto me stesso, e voglio vederla. Voglio sentire quelle parole uscire dalle sue morbide labbra, voglio vedere quegli splendidi occhi del fuoco decisi, mentre parla. O non ci crederò mai!»
Si rialzò più determinato che mai. L’avrebbe vista, in un modo o nell’altro. Passava alla Lega tutti i giorni, sempre e comunque, chiedendo di vedere la sua cliente. Aveva preso la difesa e quindi aveva il diritto di vederla.
Ma niente.
Lance doveva inventarsi scuse assurde per impedirglielo e l’avvocato era furibondo.
«Dannazione Lance! Ho tutto il diritto di vederla! La difendo quindi posso, e voglio, parlarle!»
«No, Raphael. Se lei non ti vuole vedere, può rifiutare l’avvocato. Cosa che ha fatto.»
Ricominciò l’ennesima discussione. E, come ogni volta, la spuntò Lance. Ma Raphael non si sarebbe fatto cacciare un’altra volta. Uscì come sempre, ma si nascose e aspettò il cambio della guardia che presiedeva l’entrata della Lega.
Giunto il momento, si avvicinò, con fare professionale, alla nuova guardia e disse: «Salve. Lance mi sta aspettando. Non serve che lo avverta, ci siamo messi d’accordo al telefono.»
«Come desidera, avvocato Grayhowl. Prego, entri pure.» rispose lui, spostandosi dalla porta.
L’uomo entrò e, una volta varcata la soglia, gli si dipinse in faccia un ghigno mentre pensava: “È fatta!”
Ora che era dentro, doveva diventare invisibile e scoprire dove Lance teneva la sua amata. Vagò per molto, senza trovare nulla. Stava per arrendersi, quando sentì un cigolio provenire da una porta nascosta. Lance uscì da un antro buio, sospirando, chiuse la porta e girò due volte una spessa chiave nel chiavistello. Poi si diresse verso il suo ufficio, brontolando.
Raphael aspettò che il Campione se ne fosse andato, poi corse verso la porta e tentò di forzarla, senza successo.
«Dannazione!» sbottò, seccato: «È di sicuro dietro questa porta. Ma come la apro?»
Stava riflettendo quando sentì dei passi nella sua direzione. Si nascose velocemente e vide Lance tornare, aprire la porta ed entrare. L’avvocato si avvicinò, sbirciò dentro e guardò che fosse libero. Entrato, si mimetizzò in un angolo buio e restò immobile. Doveva aspettare che Lance se ne andasse, per evitare poi di incrociarlo. Avvertito dai suoi passi pesanti, lo vide tornare e uscire, chiudendo la porta. Il chiavistello scattò due volte. Con un ghigno, Raphael si alzò, uscì dal suo nascondiglio e accese una torcia. Si guardò intorno, camminando lentamente per non far rimbombare i passi. Si trovava nei sotterranei della Lega, che si snodavano in cunicoli nel sottosuolo, sotto al palazzo. La roccia umida e vecchia faceva intendere quanto fossero antiche quelle gallerie. Raphael proseguì, passando tra celle aperte, finché non vide una porta di acciaio, chiusa. Sbirciando dalla finestrella, vide una stanza illuminata da tre torce. A destra le sbarre di una cella incassata nel muro, anch’essa illuminata da una fiaccola. L’uomo intravide la parte finale di una branda, occupata da qualcuno.
Raphael spense la torcia e la posò accanto all'uscio; poi spinse la porta che si aprì di poco, cigolando.
«Quella dannata porta.» sbottò una voce femminile, proveniente dalla cella: «Se Lance non si decide ad aggiustarla, potrei impazzire.»
“Athena…” pensò l’uomo, con le lacrime agli occhi e il cuore che martellava come un tamburo. Sentire la sua voce, era come ascoltare la più bella e dolce musica del mondo.
Muovendosi come un ninja, Raphael entrò e sedette a destra della cella, nascosto. Voleva sentire un po’ la sua presenza, senza che lei lo sapesse. Dal canto suo, Athena si sentiva strana. Sentiva il cuore battere forte, agitarsi lo stomaco… sentiva che il suo corpo percepiva qualcosa che a lei sfuggiva.
Ma lui non aveva il coraggio di farsi vedere.
Dopo tanto tempo e tanti anni, era quasi imbarazzato nel rivedere la sua amata. Si diede mentalmente dello stupido, perché sapeva che si stava comportando da … scemo. Il nomignolo che gli aveva dato lei.
Lui però non riusciva a fare altro che ascoltare il suo respiro, sentire la sua presenza lì, al suo fianco.
Il caso volle che gli venne un crampo al quadricipite destro, il muscolo della coscia. Doveva per forza distendere la gamba destra, per far diminuire il dolore. Un gesto automatico, che si compì prima ancora di rendersene conto.
Calò il silenzio più totale.
Athena e Raphael fissavano quella gamba, immobili.
Smisero entrambi di respirare.
Perfino il fuoco sulle torce smise di scoppiettare.
La gamba gli faceva malissimo, ma lui non la mosse di un solo millimetro.
Lei si alzò dalla branda e si avvicinò alle sbarre. Doveva vedere di chi fosse quel piede. Si sporse lentamente, visualizzando prima il piede, poi la gamba intera con due mani che stringevano la coscia… lì il suo sguardo si bloccò.
Un braccialetto.
Un nastrino adornato di conchiglie rosso fuoco circondava il polso destro. Athena guardò in basso. Lei portava ancora un braccialetto molto simile, decorato con delle conchiglie verde smeraldo, al polso sinistro.
Posò le mani e la fronte alle sbarre, stringendo il ferro freddo tra le dita, mentre le lacrime cominciavano a scorrere da sole. Si voltò e fece per allontanarsi, ma una mano forte e dolce afferrò la sua, prima che potesse muoversi.
Lei voleva ritirarsi, ma la sua mano strinse l’altra automaticamente.
Quel contatto, dopo tutti quegli anni, era così bello…
Si riscosse e mormorò: «Lasciami.»
«No.» rispose la sua voce, in un sussurro.
Athena la ascoltò bene. Ormai era la voce di un uomo, fatto e finito, ma quel tono dolce e protettivo non era mai cambiato.
Lei ricominciò a singhiozzare, felice e triste al tempo stesso. Raphael doveva odiarla per quello che aveva fatto, o meglio, cercato di fare. Odiarla e basta.
Una mano, un tocco dolce, le asciugò le lacrime, ma lei si scostò, liberandosi dalla presa e allontanandosi dalle sbarre.
«Vattene…» mormorò lei, girata di spalle, senza avere nemmeno il coraggio di guardarlo.
«No.» rispose lui.
Lei chiuse gli occhi e sbottò: «Ubbidisci una buona volta!»
«Non l'ho mai fatto.» ribatté lui, con la voce velata da una risata: «Dimmi almeno perché vuoi che me ne vada.»
«Perché dovresti odiarmi!»
«Ti potrei odiare solo perché te ne sei andata per tutto questo tempo… ma non ce la faccio.»
«Ma ho cercato di ucciderti!»
«Avrei preferito una pugnalata al cuore, piuttosto che questo dolore. Il dolore di saperti morta.»
Lei non rispose, non riuscendo più a trattenere le lacrime. Perché non voleva capire? Perché non capiva quanto lei stesse male al solo pensiero di aver attaccato l’amore della sua vita?
Raphael continuò: «Vederti viva è stata la cosa più bella che mi sia capitata da quattordici anni a questa parte. Ti prego, piccola pazza, guardami.»
Lei si voltò lentamente, alzando lo sguardo. Quegli occhi verdi, sempre ansiosi e dolci, la fissavano umidi di lacrime. Non erano cambiati in tutti quei lunghi anni. Tutto intorno a loro sì, ma loro no. Erano rimasti quelli che lei amava.
Lui ricambiò lo sguardo. Quegli occhi rossi, nel viso ormai di una donna adulta, erano sempre quelli. Una bambina mai cresciuta, che aveva perso la sua infanzia e che cercava disperatamente di riaverla indietro.
«Io ti amo. Ti ho sempre amata, anche se ero convinto fossi morta.» disse lui, con la voce rotta dai singhiozzi che tratteneva a stento.
Le lacrime scesero più forti mentre lei gli correva incontro, infilava le mani tra le sbarre e lo stringeva forte.
«Ti amo anch'io, Raphael. Più della mia stessa vita!» urlò, in una crisi di pianto isterico.
Lui, infilate le braccia tra le sbarre a sua volta, la stinse a sé e replicò: «Non me l’avevi mai detto… ma ti credo sulla parola. Mi è bastata la dimostrazione pratica.»
Lei lo guardò, con gli occhi lucidi, e borbottò: «Questo sarcasmo da dove esce?»
«Sono molto migliorato lo ammetto.» ghignò lui, guardandola dolcemente: «E ho avuto un’ottima maestra.»
«Adesso saremo in due a rovinare momenti romantici come questo con battutine idiote.» commentò lei.
«È così grave?»
«In effetti no.»
Rimasero abbracciati per un po’, in silenzio, cullandosi l’una nelle braccia dell’altro. Sembrava di vivere un sogno. Entrambi avevano il timore di svegliarsi e vedere che l’altro era sparito, che erano tornati soli.
«Come hai fatto a entrare? Avevo detto a Lance…» chiese lei, appoggiata al suo petto nonostante la sbarra di acciaio che premeva sulla testa, lasciando la frase in sospeso.
Lui la guardò e replicò, lievemente indignato: «Devo avere il permesso di Lance per vedere la mia ragazza, adesso?»
«Sei entrato di nascosto!» realizzò lei, fissandolo stupita da tanto coraggio.
«E sono stato pure bravo. Non mi ha visto nessuno.»
Athena rise e chiese: «Complimenti. E ora come farai a uscire?»
«Vedrai… quando se ne presenterà l’occasione.» rispose lui con un ghigno, ascoltando quella risata come se fosse una melodia bellissima.
Lei gli sorrise e i loro volti si avvicinarono piano. Sbattendo contro il ferro, realizzarono che un bacio era praticamente impossibile, ma non si lasciarono, restando stretti in quell’abbraccio che sapeva di amore eterno e indistruttibile; nemmeno il tempo o la lontananza lo avevano logorato.
«Lancino non gradirà scoprire che hai eluso quella che chiama “la sorveglianza perfetta”.» disse lei, assaporando quel contatto come mai aveva fatto da quando erano insieme.
Stare lontani le aveva aperto del tutto gli occhi: lei lo amava, davvero, con un sentimento reale e potente, e voleva stringerlo, sentire il suo corpo premuto sul suo, le sue labbra sulle sue… come mai aveva pensato di poter desiderare.
«Magari la fa diventare perfetta veramente.» commentò sarcastico lui, felicemente stupito di vedere come ora lei si facesse toccare più di prima. O forse era solo l’esser stato tanto tempo separati che rendeva speciale ogni piccolo gesto.
«Dai scemotto… è grazie a lui se sono ancora viva.»
«Cosa? Perché?»
«Lance non tornerà per un po’…» mormorò lei.
Raphael sedette fuori dalla cella e disse: «Lo sai che adoro sentirti raccontare.»
Athena sedette al suo fianco. Avevano solo le sbarre a dividerli, mentre si tenevano dolcemente le mani.
 
-§-
 
INTERMEZZO: CONSEGNARSI? OVVIO!
 
Athena sbirciò dalla siepe. Non c’erano dubbi. Era lui. Raphael.
Era quasi commossa. Non era cambiato di molto, ma a lei sembrava diventato più bello, più affascinante, più tutto. E lei, ora, era sicura di amarlo. Da quando aveva ripreso l’uso della ragione, non c’era stato giorno in cui non avesse pensato a lui, a loro, crogiolandosi nei ricordi di quella parte felice del suo passato.
E ora era lì, davanti a lei. Lo ammirò un poco, guardandolo mentre leggeva un enorme libro, delle proporzioni di un dizionario, su una panchina, nel parco di Zafferanopoli.
“Chissà perché è tornato a Kanto.” si chiese pensosa.
Restò lì alcuni minuti, ma poi si costrinse ad andarsene. Più lo guardava, più l’istinto di uscire, abbracciarlo e baciarlo si faceva più forte.
Con un dolce sorriso, gli inviò solo un pensiero: “Addio, amore mio. Dimenticami, ma io non lo farò mai. Sarai il mio ultimo grido, il mio ultimo sussurro, il mio ultimo pensiero, prima di varcare davvero la soglia fra questo mondo e gli inferi, che mi aspettano da lungo tempo.”
La donna strisciò via dai cespugli e tornò da N che la stava aspettando. Vedendole gli occhi lucidi, chiese, in una domanda retorica: «Allora?»
«Ora sono pronta.» rispose lei.
Ormai lo sapevano entrambi. Sarebbe morta, era ovvio. Non poteva salvarsi, in nessuna maniera.
N la accompagnò da solo al patibolo: l’Altopiano Blu, sede della Lega Pokémon di Kanto e Johto. Athena non aveva voluto nessun Pokémon. Non poteva chiedere loro di sopportare tanto. Già l'averla lasciata fare, l'aver rispettato il suo desiderio, era un grande regalo sofferto. N le accarezzò dolcemente una guancia, con il cuore a pezzi. Non voleva lasciarla andare, ma lei aveva deciso e nulla le avrebbe fatto cambiare idea.
«Ciao, N. Grazie di tutto. Ti devo così tanto...»
«Non è mai stato un problema, amica mia. È bastata la tua compagnia in questi lunghi anni.»
Lei gli baciò la mano, allontanandola dalla sua guancia, poi mise le mani in tasca e si diresse con passo tranquillo verso il portone di ingresso.
N, finalmente solo, si concesse il lusso del pianto. Con tutta la fatica che aveva fatto per ridarle la vita e la ragione, stava perdendo tutto. Se ne andò a malincuore, maledicendosi per averle permesso di farlo.
Athena entrò nell’edificio e chiese un’udienza a Lance. Aveva gli occhiali a specchio, un berretto da baseball e un impermeabile. Doveva arrivare dal campione senza ostacoli.
La guardia della Lega annuì, prese il cellulare e chiamò. Fu una telefonata molto breve, poi le indicò un ascensore.
«Grazie.» disse solo lei, per poi salire sul macchinario e ascendere verso Lance.
Dopo aver percorso un lungo corridoio, si trovò davanti una porta in legno massiccio, con una targa in ottone
“Campione della Lega”
Bussò.
Una voce rispose: «Avanti.» e lei entrò.
Rimase un momento sulla soglia, mentre Lance la squadrava perplesso, poi disse, togliendosi gli occhiali e il cappellino: «Avevo promesso di consegnarmi, dico bene? Ed ora… eccomi qui.»
Lance sbarrò gli occhi sbalordito, mentre Athena gettava a terra occhiali, berretto, impermeabile e pugnale, e alzava le mani, in segno di resa. Lo guardava fisso negli occhi, decisa e con un sorrisetto. Ormai era convinta di ciò che stava facendo.
Lance si riprese dalla sorpresa e disse: «Ormai avevo perso le speranze. Pensavo avessi mentito.»
«Io non mento mai Lance. Ho avuto un contrattempo, ma ora sono qui. Fa’ di me quello che vuoi, non opporrò resistenza.» buttò lì, con una punta di malizia, sfoderando di nuovo il doppio senso che a lui stesso era sfuggito quando si erano rivisti a Isshu.
Lance si alzò, fissandola e non parve farci caso, perché sbottò: «Questo… “coraggio” ti fa onore, Athena. Molto bene allora. Dovrai subire la seccatura di un processo però.»
“Strano che mi chiami per nome… non gli piace più chiamarmi Bestia?” pensò lei, per poi rispondere: «Lo immaginavo. Non ho fretta di crepare, non temere.»
Lui le legò le mani dietro la schiena, sorpreso nel vederla così docile. Athena si lasciò guidare nei sotterranei, dove Lance la incatenò in una cella pensata appositamente per lei.
“Che pensiero carino.” commentò lei sarcastica, con il pensiero, mentre lui usciva.
«Poteva anche risparmiarsi le catene.» borbottò un po’ seccata, per poi addormentarsi in una posizione non molto comoda.
Si trovava qualcosa da mangiare ogni volta che si svegliava, senza avere mai l’occasione di vedere il Campione. Non l’aveva visto vantarsi, gongolare di averla catturata… niente.
Athena era perplessa, ma poi pensò che magari era su che festeggiava senza farsi vedere.
Finché, tre settimane dopo, Lance non apparve.
«Domani c’è il processo.» disse semplicemente: «Farò in modo che sia corto.»
Lei notò delle ampie occhiaie sul volto dell’uomo, come se non dormisse da molto. Era stanco, sciupato, quasi trascurato. Cercava di apparire normale, con quel suo completo di pelle nero, ma non lo era. I suoi occhi erano spenti, non sorrideva, anzi, era sempre serio.
C’era decisamente qualcosa che non andava.
Il giorno dopo, il Campione tornò. Le legò le mani e la condusse in tribunale da un passaggio che nessuno conosceva: «Nessuno sa che sei qui. La folla ti massacrerebbe.»
Lei ridacchiò, amareggiata: «Certo, perché loro non hanno mai sbagliato. Tutti santi, eh?»
Lui sorrise e rispose: «Già.»
«Potrei invece massacrarli io.» buttò lì, per stuzzicarlo, fissandolo di sottecchi.
«Si farebbe un processo per un motivo valido.» rispose lui, lasciandola perplessa e quasi a bocca aperta.
Il comportamento del Campione era molto strano. Era quasi dispiaciuto, triste e abbattuto. Lei se n'era accorta da quando l'aveva visto e non riuscendo a trattenersi, chiese: «Che cos’hai Lance? Avrei detto che avresti fatto i salti mortali dalla gioia.»
Lui non rispose, ma il suo sguardo si adombrò. Athena non indagò oltre, anche perché non era certa di voler davvero sapere cosa avesse.
Arrivarono nell’aula del tribunale. Era vuota, tranne che per il giudice e l’avvocato dell’accusa, chino su dei fogli e immerso nella lettura. Lance portò Athena sul banco dell’imputato, diede all’avvocato una pila di carte e sedette in parte al giudice per assistere al processo. Lei non guardò nemmeno l’avvocato che doveva processarla, perché immaginava un sorriso da superiore e la voglia di metterla ai ferri nello sguardo. O forse solo semplice odio.
Ma quando lo vide, il mondo crollò sulla sua testa come una frana.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


«Lance mi stupisce sempre di più.» commentò Raphael alla fine del racconto.
«Ha stupito anche me, fidati.» rispose Athena, stringendo la sua mano.
Lui le accarezzò dolcemente la guancia con un sorriso. Un sorriso davvero felice. Non gli importava più di Lance. Era lì, con la sua amata... avrebbe voluto che quel momento non avesse mai fine: «Tu non sai quanto io sia felice in questo istante. Non sorridevo così da quattordici anni.»
«Lo so, fidati. Perché è quello che sento anche io.» rispose lei, chiudendo gli occhi al contatto della mano sulla sua pelle.
«Ti amo.» si dissero in coro, prendendosi entrambe le mani e intrecciando le dita.
Finalmente si erano ritrovati, ormai erano consapevoli del loro reciproco amore e che non era un sogno, ma la realtà in tutta la sua bellezza, processo e affini a parte.
«Ti farò uscire, piccola pazza.» disse convinto lui: «La legge non ha segreti per me.»
«Da quanto sei avvocato?» chiese invece lei, curiosa di sapere com’era proseguita la sua vita.
«Da un po’…» alzò le spalle lui: «Una decina di anni fa ho cominciato l’università. Non so nemmeno io perché, ma sono diventato avvocato. E sono anche bravo!»
Lei sorrise, vedendo che ormai era un uomo realizzato, e disse: «Si è visto. Comunque senti… io non voglio rovinarti la vita. Non volevo nemmeno vederti, non perché non ti amassi, ma perché quattordici anni sono troppi e lo so. Quindi, puoi anche dimetterti e lasciarmi alla forca. Non m’importa…»
«Importa a me!» saltò su lui: «Io ti amo, lo vuoi capire?! E non permetterò a nessuno di farti del male! Fosse l’ultima cosa che faccio. Ora sono la tua difesa legale e ti tirerò fuori da qui, costi quel che costi.»
«Raphael…»
Lui le mise un dito sulle labbra e mormorò: «Non dire nulla. Mi hai rovinato la vita solo una volta. Quando hai fatto finta di morire.»
Lei gli baciò il dito, ma poi lo scostò per poter parlare e borbottò: «Mi ha salvata N. È diverso. Io volevo morire.»
«Ma perché?!»
«Perché… avevo perso il controllo.»
«Era risolvibile, dannazione!»
«Non in quel caso! Era troppo tardi per… maledizione.» ringhiò lei, tacendo quello che l'aveva più di tutto fatta impazzire. La morte del loro bambino.
Athena non riuscì a trattenere le lacrime. Raphael addolcì i toni, pentendosi di quello scatto, e gliele asciugò dolcemente.
«Raphael… stavo per ucciderti, renditene conto!» esclamò lei appena si fu ripresa: «Dopo, ci ho pensato ogni ora, ogni giorno, pregando N di uccidermi piuttosto che vivere con la consapevolezza che stavo per farti del male. Questa, insieme a quella che fosse stata tutta un’illusione, mi ha quasi ucciso! Non potevo vivere con questo peso nel cuore! Sono un mostro, una bestia, ormai è evidente!»
«E allora dovrò adoperarmi per ringraziare il cappellone hippy.» commentò lui, non badando alle sue parole: «Ascoltami bene, piccola pazza. E guardami dritta negli occhi.»
Lei alzò lo sguardo, disperata, e lui disse, deciso: «Tu non mi hai ucciso ok? Pur nella tua follia omicida, dettata poi da quel pazzo di Giovanni, hai preferito sacrificare te stessa piuttosto che farmi del male.
Solo questo ti rende diversa da una bestia. Solo questo ti rende umana, capace di provare empatia. Ok?
In secondo luogo… razza di pazza psicolabile idiota che non sei altro! Come hai anche solo potuto pensare che fosse stata solo un’illusione?!
Dannazione! Cosa ti gira in quella testa, segatura?!
Cosa devo fare ancora per farti capire che ti amo, ti amo davvero?! Eh?! Io ti amo, con tutto me stesso, e ti ho sempre amata, anche con quasi un pugnale nel cuore! Non mi è mai fregato nulla di quello che sei, di quello che fai, di quello che hai fatto, perché ti amo e speravo di essere anche solo minimamente importante per te!
In quattordici anni non mi sono mai innamorato. Ti credevo morta e non mi sono mai innamorato. Forse il mio cuore sapeva che non eri morta davvero, non lo so… So solo che io amo la mia piccola pazza e nessun altra. Quindi ora la pianti di commiserarti, e di sentirti come ti senti, e ti concentri, pensando ad aiutarmi per dare tutta la colpa a Giovanni. Lance mi farà avere i colloqui legali e ti tireremo fuori da qui. Ok?!»
Lei lo fissava, a bocca aperta, sconvolta da quanto fosse diventato … duro e deciso. Annuì, perché non sapeva cosa rispondere a quel discorso davvero convincente. Da vero avvocato.
Lui le prese la mano, calmandosi dopo quella mezza sfogata, e la baciò dolcemente, potendo fare solo quello, per farle capire che comunque la amava lo stesso. Lei chiuse gli occhi, come se quel bacio fosse sulle sue labbra. Restarono vicini finché non sentirono la porta sbattere.
«Lance viene così spesso?» chiese lui, irritato, visto che era la terza volta che il Campione scendeva.
Lei ridacchiò sentendo quel tono geloso e rispose: «Più di quanto pensi.»
«Il caro Campione mi sente. E se allunga le mani dillo che lo sbatto dentro per tentato stupro.»
«Accidenti, addirittura?!»
Lui ridacchiò, poi le fece segno di tacere e si nascose in un angolo buio. Athena gli sussurrò, mentre i passi del Campione si avvicinavano: «Se ti capita… passa a visitare un’isola, terza da Orocea, sotto Iridopoli, a Hoenn. E comunque Lancino mi perseguita per evitarmi la psicosi!»
Lui non poté risponderle perché Lance entrò nella stanza, facendo cigolare la porta e lasciandola aperta dietro di lui.
«Ciao, Athena.» salutò, quando la vide posata alle sbarre.
«Lancino…» rispose lei, con un sorrisetto.
La donna attaccò bottone, facendo un impercettibile cenno a Raphael con la testa. Lui passò dietro Lance, le sorrise, mandandole un bacio aereo, e uscì dalla porta.
«Che cos’hai?» chiese il Campione, scrutandola perplesso: «Non è da te non lamentarti nemmeno una volta.»
Lei balbettò qualcosa, poi buttò lì un: «Sarà che … è una bella giornata!»
«Ritenta. Non sei per niente brava a mentire.» commentò lui, con uno sguardo eloquente.
Athena ridacchiò imbarazzata e si arrese, confessando: «Peccato. D’accordo, Raphael ha superato la tua super sorveglianza.»
«Cosa?!»
«Eh sì. Impegnati di più!» gongolò lei, stupendosi della furbizia dell’amato.
«Ecco perché sei così felice…» commentò l’uomo, ridacchiando.
Lei arrossì e sbottò: «Si vede così tanto?»
«Decisamente.» rispose lui, facendole l’occhiolino per poi aggiungere: «Ora finalmente la difesa può interrogarti e avere basi solide. Ti tirerà fuori dai casini. Può tutto quell’uomo, è una cosa incredibile.»
«Sembri conoscerlo bene.»
«Dimentichi che in fin dei conti i processi li indico io. E Raphael è il mio avvocato di fiducia.»
Lei sorrise ma borbottò: «Sono stata via troppo…»
«Recupererete.»

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Raphael uscì di corsa dai sotterranei. Varcata la soglia però, camminò piano, per non destare sospetti, anche se dentro di lui scoppiava di gioia. Talmente tanta che avrebbe voluto urlare. Riflettendo però sulle parole dell’amata, si fermò a pensare, costringendosi a contenere l’euforia.
Hoenn… Orocea… perché doveva andare proprio lì?
Era così lontana… era un’altra regione, ben distante dal Continente di Johto e Kanto, tra l'altro separata dal mare.
Tornò a casa, perso nei pensieri, e gli venne un’idea. Ormai era sera e non poteva fare nulla, ma il giorno dopo, Lily sarebbe stata tutta la mattina a scuola. Aveva tutto il tempo. Prese il cellulare e chiamò in ufficio, dal quale rispose la sua civettante segretaria. Lui alzò gli occhi al cielo e disse: «Ciao, Elle. Cancella tutti i miei appuntamenti di domani e non aspettarmi in ufficio.»
«Non viene, avvocato? Come mai?» rispose lei, quasi in ansia e pronta a chiedergli se aveva bisogno di un’infermiera.
Lui trattenne un sospiro, intendendo i suoi pensieri, e rispose vagamente: «Ho un impegno. Tranquilla, va tutto bene.»
«Come vuole.» si arrese lei, un po’ delusa.
Raphael chiuse la chiamata, ma non riuscì a levarsi quel sorriso gongolante che aveva dipinto in faccia da quando aveva rivisto l’unica donna che avesse mai davvero amato. Certo, avrebbe anche voluto baciarla, stringerla, sentirla davvero vicino a lui, reale. Ma tutto avrebbe avuto il suo tempo. Ogni cosa. Si fece bastare il ricordo di quegli occhi di fuoco che tanto aveva sognato, che tanto l'avevano tormentato e che mai aveva pensato di poter rivedere. Perso in questi pensieri, camminava beato a tre centimetri da terra, verso la sua casa a Zafferanopoli. Era una strada lunga, ma non gli dispiaceva. Pensava a lei e la fatica di tutto quel camminare non lo sfiorava neppure. Alcune ore più tardi, arrivò in città; si fermò a fissare la bancarella di un fioraio ma... forse non era il caso, soprattutto nella situazione in cui si trovavano. Giunse davanti alle scale dell'appartamento, le salì e aprì la porta. Entrato in casa, Raphael vide la luce accesa e la tavola apparecchiata.
«Ehi, piccola. Già a casa?» chiese, posando le chiavi e togliendosi la giacca.
«Io guardo l'orologio delle volte, sai pa'? Una cosa che a te sfugge!» ribatté la figlia dalla cucina, con un tono sarcastico come quello di sua madre.
Lui guardò l'ora e vide che effettivamente era parecchio tardi; perso nei pensieri e nei dolci ricordi dell’amata, aveva perso la cognizione del tempo. Così si accinse a scusarsi, anche perché avrebbe dovuto preparare la cena lui, quella sera. La figlia apparve dalla cucina; lui la guardò, sovrapponendo l'immagine della madre, che aveva ancora ben chiara in mente, alla sua. Erano davvero troppo simili, in tutto e per tutto. Tranne che per lo sguardo o forse non del tutto. La dolcezza che Athena dedicava esclusivamente a lui aveva un qualcosa di molto simile a quella della figlia.
Lei lo minacciò con il mestolo che aveva in mano e sbottò: «Fai il mio turno per due settimane dopo questo scherzetto!»
Raphael alzò le mani, arreso, e rispose: «Va bene.»
«Come mai così poco combattivo?» chiese lei, fissandolo di sbieco, pensando a qualche tranello.
Lui le sorrise dolcemente e ribatté: «Sono semplicemente contento. E te la voglio dare vinta. Prendi e porta a casa, ti conviene.»
Lei non se lo fece ripetere due volte, tornandosene in cucina, anche se ancora abbastanza sospettosa per quella strana arrendevolezza del padre.
Finita la cena, passarono un po' la serata, parlando e scherzando insieme, e poi lui la mandò a dormire. Quando seppe che era nel mondo dei sogni, borbottò: «Ehi, Athos… sapresti arrivare a Hoenn in breve tempo?»
Il Cobalion lo raggiunse, si sdraiò in parte alla poltrona dove lui era seduto, sbadigliando. Fissandolo intensamente, come per scrutare i suoi pensieri, rispose: “Sì. Posso essere veloce. Ma perché vuoi andare a Hoenn?”
Il sorriso dell'uomo si allargò e i suoi occhi brillarono quando disse: «Ho visto Athena!»
“C-cosa?!” esclamò il Pokémon sconvolto, alzandosi in piedi: “Sei impazzito?!”
«No, hai sentito bene!» ribatté lui, quasi gongolando da quanto era felice; in quattro parole gli spiegò tutto e il Pokémon Metalcuore esclamò: “Salta su.” girandosi e indicando il suo dorso con il muso.
Raphael ridacchiò e disse: «Ma non ora. Domani mattina, appena dopo che Lily sarà uscita. Prima voglio controllare di persona, poi ci porterò mia figlia.»
“Non ne capisco il motivo.”
«Prenderò a pugni N.» dichiarò solo l'avvocato, certo che ci fosse proprio lui, nascosto ad Orocea: «E non voglio che mia figlia mi veda dare di matto.»
Cobalion ridacchiò e assentì, accompagnandolo in camera da letto e acciambellandosi sul tappeto.
“Cerca di dormire. Non pensarla troppo.” borbottò il Pokémon vedendo che l'amico aveva poca voglia di coricarsi: “Dovrai aspettare ancora parecchio, temo.”
Lui si perse a guardare il soffitto, con le mani dietro la testa, e rispose: «Lo so ma... mi ritornano nella mente i suoi bellissimi occhi... vorrei tanto stringerla.»
Cobalion alzò gli occhi al cielo e replicò: “Lo farai se lavorerai bene. E per lavorare bene devi essere riposato.”
«Hai ragione. Buonanotte, Athos.»
“'Notte, Raphael.”
La mattina dopo i due aspettarono che Lily uscisse e poi si guardarono, con un sorriso sotto i baffi.
“Salta su e reggiti forte.” disse il Pokémon, indicando il suo dorso: “Si parte per Hoenn!”
In meno di un’ora, Cobalion portò l’amico a Hoenn, saltando talmente veloce da non affondare in acqua e quindi cavalcando letteralmente le onde.
L'uomo ripensò alle indicazioni dell'amata: “Terza isola da Orocea, quasi sotto Iridopoli.”
«Ma come diavolo trovo quest’isola? Non conosco Hoenn… idea!» borbottò per poi prendere il cellulare, fare velocemente il numero attendere un momento, per poi salutare con un'entusiasta: «Salve, prof! Come sta?»
«Ciao, Raphael.» rispose Aurea, all’altro capo: «Come mai questa chiamata? Hai una voce strana… successo qualcosa?»
Dominato da una felicità che mai aveva pensato di provare, lui esclamò: «Athena è viva! E devo andare ad un isola sotto Orocea, a Hoenn. Me l'ha detto lei! Ma non conosco la regione!»
Aurea sorrise e rispose: «Ti mando la strada segnata sulla carta!»
«Non mi sembra molto stupita…» commentò lui, sentendo un'evidente mancanza di reazioni da parte sua.
«Athena è passata a trovarmi prima di andare da Lance.» spiegò lei, nascondendo un sorriso ma cercando di scusarsi.
«Cosa?! E lei non mi dice nulla?!» replicò lui, alzata la voce, sgomento.
«Avevo promesso, Raphael. Ti spiegherò, ma ora vai. Ti racconteranno tutto e poi tu dovrai dire qualcosina anche a me.» chiuse il discorso la studiosa.
Raphael salutò la scienziata un po' imbronciato e i due ripartirono, una volta ottenuta la cartina. L'uomo però era perplesso e pensava a quel plurale “racconteranno”. Chi è che lo stava aspettando se non N? Magari si riferiva a Reshiram e Zekrom…
Arrivarono sull’isola e si guardarono intorno, cercando una casa o simili. Un posto dove potevano vivere due persone. Lui e Cobalion vagarono per parecchio tempo, nei boschi e nei prati incontaminati di quella splendida isola, finché il Pokémon non vide una casa incastonata nella roccia e ben nascosta. La indicò a Raphael e lui, aguzzando la vista, intravide la sagoma di un mostro bianco sul retro.
“Reshiram, non c’è dubbio” pensò, avvicinandosi all’entrata e guardandosi intorno.
Era un bel posto, immerso nel verde, e la casa era perfettamente inserita nel paesaggio. Era rivestita in legno e sassi, sviluppata su due piani e una mansarda; all’esterno c’era il giardino e all’ingresso un portico rialzato.
Giunto sulla porta, dopo aver salito i gradini in legno, Raphael bussò e attese. La porta si aprì e apparve sulla soglia un bambino di circa otto anni, con i capelli nerissimi e gli occhi scuri, vestito con una semplice tuta da ginnastica; sulla schiena, bloccata con una corda, aveva una mazza da baseball.
Raphael lo squadrò un momento poi chiese: «Ciao. Un uomo di nome N abita qui?»
«Sì.» rispose lui, fissandolo perplesso a sua volta: «Glielo chiamo.»
Si voltò verso l’interno della casa e urlò: «Papà! C’è un signore che ti cerca!»
Raphael realizzò il significato della frase e gelò sul posto. Il cervello era bloccato su quel “papà”. Aveva chiamato N “papà”. E la madre… chi era?
N arrivò di corsa e in allarme, sconvolto che qualcuno li avesse scoperti mentre ancora dovevano capire il da farsi senza Athena, ma, vedendolo, esclamò stupito: «Raphael?!»
L’uomo non ebbe reazioni, sconvolto, e N, capì cosa lo turbasse, perché aggiunse, quasi mettendosi sulla difensiva: «Non è come pensi.»
Il bambino si fece da parte, vedendo che il padre effettivamente conosceva quell'uomo, e rientrò in casa, mentre l'avvocato si scaldò di colpo, avuta finalmente una reazione per la notizia, bruciando l'amico con lo sguardo. La voglia di prenderlo a pugni aumentava, istante dopo istante. Alzando un attimo la voce, ringhiò: «Non è come penso?! E allora com’è, me lo spieghi?!»
«Calmati e parliamone, Raphael.» ribadì N, alzando le mani e cercando di tranquillizzarlo con il tono di voce: «Non trarre conclusioni affrettate. Capisco la tua reazione e cosa hai pensato, ma ti garantisco che non è come pensi.»
Raphael respirò a fondo un paio di volte, per calmare i nervi e cercare di togliersi dalla mente l’immagine di quell'hippy a letto con la sua donna; lievemente più calmo, disse: «D’accordo. Spiegati.»
N annuì, evitando mosse brusche per non irritarlo ulteriormente, e rispose: «Lui è mio figlio, ma non è biologico. Bensì adottivo, anzi, trovatello. Io e lei non siamo mai andati a letto insieme. Dormiamo in due stanze separate da due piani e non c’è nulla tra di noi, se non una splendida amicizia che già avevo avuto modo di spiegarti. Ora vieni dentro, calmati, e lasciami raccontare tutto dal principio.»
Scoccandogli un’occhiataccia inviperita e non credendogli del tutto, Raphael annuì e, seguito da Cobalion, entrò, ma si bloccò sulla soglia. Un grosso Pidgeot senza una zampa gli sbarrava la strada e dietro di lui un Mightyena ringhiava con il pelo alzato e i denti scoperti. Il bambino che prima aveva aperto la porta era nascosto dietro il lupo, con uno sguardo del tutto poco amichevole, come quello dei Pokémon del resto.
“Che bella accoglienza…” si ritrovò a pensare lui, sperando che almeno N lo difendesse in caso di aggressione.
«Sam?!» esclamò invece una voce, con una punta di gaudio: «Samurott!»
Maru uscì dal salotto correndo come un razzo e saltò addosso all’avvocato, posandogli le zampe anteriori sulle spalle e leccandogli la faccia, felice di rivederlo. Riuscì a buttarlo in terra visto il dolce peso.
«Maru!» esclamò lui di risposta, ridendo e cercando di spostarlo: «Stai a cuccia, pazzo di un Samurott!»
«Sam!»
Maru gli leccò la faccia un’ultima volta, poi si spostò per permettergli di alzarsi. L’uomo vide di fronte a lui Shikijika, Warubiaru, Hoshi, Wargle e Deathkan.
«Ecco dov’erano tutti…» mormorò lui, ricordandosi com’era preoccupato per i Pokémon dell’amata quando l’aveva persa; voltatosi verso N chiese, indicando il Pidgeot: «Ma N… lui chi è?»
N attese un momento prima di rispondere, sperando di evitare reazioni violente, poi disse: «Raphael, ti presento Pidg. Pidg, lui è Raphael.»
*«Quel Raphael?»* chiese di rimando il Pokémon.
«Quel Pidg?» gli fece eco l'avvocato.
«Precisamente.» rispose lui, guardando entrambi negli occhi e rispondendo a tutti e due.
*«Con te farò i conti più tardi, umano.»* sbottò Pidg, rivolto all’uomo, anche se lui non poteva capirlo.
Spalancate le ali, spiccò il volo verso il sole, mentre il bambino corse fuori dalla porta e svanì nel bosco, seguito a ruota da un Mankey. Il Mightyena fissò Raphael, con un mezzo ringhio, poi si acciambellò in una cuccia mezza rovinata perché di notte sognava e la mordeva.
N indicò una sedia, con un'espressione parecchio triste sul viso. Raphael, confuso, annuì, sedette e l’amico cominciò a raccontare.
 
-§-

INTERMEZZO: DEPRESSIONE
 
«Andiamo, resisti!» esclamò N alla ragazza rantolante tra le sue braccia, mentre Reshiram volava come una saetta. Il pugnale piantato aiutava a bloccare l'emorragia ma non avrebbe retto a lungo in quelle condizioni.
Eccola, in lontananza, la loro casa nascosta nella regione di Hoenn; quella che lui aveva usato per tutto quel tempo, mentre aspettava che Athena trovasse i Saggi e potessero rivedersi.
Reshiram atterrò con un tonfo e una scivolata vista la troppa velocità, N scese di corsa con un balzo, con la ragazza rantolante e incosciente tra le braccia, ed entrò in casa sbattendo la porta.
*«Che succede?»* chiese il suo coinquilino, perplesso, sentendo tutto quel trambusto e quell’agitazione.
«Vola, amico! Trova un Chansey! Devi aiutarmi!» esclamò di risposta il ragazzo, senza fermarsi.
Lui vide la ragazza trafitta, che respirava male e debolmente, anzi ormai il suo respiro era un rantolo morente, e, spiccando il volo, eseguì, tornando il più in fretta possibile. Andarono rapidi nell’altra stanza, sotterranea, più grande, piena di macchine e scaffali con siringhe e provette. N mise Athena sul lettino, la legò e prese in mano un bisturi. In breve tempo, grazie all'aiuto dei poteri curativi del Pokémon che impedivano il peggiorare delle condizioni e la troppa fuoriuscita di sangue, riuscì a riparare il polmone e a strapparla dalle braccia della morte, senza troppe apparenti complicazioni; fu un vero miracolo, nemmeno lui sapeva come avesse fatto. Le diede un leggero sedativo, per evitare che si svegliasse ancora in preda a quella sorta di pazzia omicida e si facesse male da sola; poi si asciugò la fronte, congedò Chansey che venne riportata a casa, e mormorò: «È fatta.»
*«Umano! Cos’è successo? È andato storto qualcosa?!»* chiese il Pokémon volante, preoccupato e in angoscia, fissando la ragazza con le lacrime agli occhi. L’autocontrollo che si era imposto stava svanendo per lasciare il posto alla tristezza e al pianto.
N lo accompagnò al piano di sopra, per parlare tranquillamente e rispose: «È andato storto che è apparso un certo Giovanni. Non so come abbia fatto, ma l’ha mandata fuori di testa.»
*«Che cosa?!»* stridette sconvolto il grosso Pidgeot storpio.
«Eh si.» annuì il ragazzo: «Ci vorrà di più per metterle a posto la psiche, amico. Da quanto ho visto, è messa piuttosto male.»
Detto questo, abbassò gli occhi affranto, chiedendosi perché le aveva permesso di andare via con quell’uomo, viste le sue ovvie cattive intenzioni, ma dallo zaino della ragazza uscì una luce bianca e Maru apparve davanti a loro, gridando fiero con il corno alzato: *«Ora basta, fatevi sotto!»*
«Maru?!» esclamò N, non aspettandosi la sua entrata in scena.
*«N?! Dove sono? Dov’è Castiga? Ci aveva detto di non uscire per nessuna ragione, ma mi sono stufato di restare inerme e sentirla star male!»* esclamò lui, guardandosi intorno, senza riconoscere il luogo, ma soprattutto non vedendo in giro la sua Allenatrice e amica.
*«E tu chi sei?»* ringhiò ostile il Pidgeot, fissandolo storto.
«Buoni, buoni. Calmiamoci.» intervenne pacato N: «Maru lui è Pidg, Pidg ti presento Maru.»
*«C-cosa?!»* esclamò il Samurott: *«L-lui è Pidg?!»*
Il Pidgeot lo guardò perplesso, arruffando le piume, e Maru abbassò il capo, umilmente, puntando il corno a terra in segno di resa: *«Castiga ci ha parlato tanto di te, grande Pidg.»*
Il rapace non si lasciò incantare, continuando a squadrarlo sospettoso, e ringhiò: *«Non attacca… Pokémon. Dimmi chi sei e chi è questa… Castiga.»*
«Castiga è Athena, e lui…» rispose N, indicando Maru e facendogli una carezza: «… è il Pokémon che le ha impedito di ammazzarsi.»
*«Parla chiaro, N.»* sbottò Pidg, stufo di non capire cosa diavolo stesse succedendo.
*«Da quello che mi ha raccontato.»* borbottò Maru, a mo' di spiegazione, per cercare di calmarlo e farselo un po’ amico: *«Quando vi lanciaste contro Dragonite, le diceste di scappare, di salvarsi. E lei si rifugiò nella regione di Isshu. Solo che non era più in lei. Il dolore per aver perso voi, e gli altri della squadra, la corrodeva dentro. Quando la vidi, capì che lei era l’unica umana che avrei accettato e riuscii a convincerla a prendermi come suo Pokémon. Insieme abbiamo affrontato tante avventure e siamo molto amici.»*
Pidg fece per ribattere, ma Maru aggiunse: *«Non siate arrabbiato. Lei vi ha sempre serbato nel cuore, ma vi credeva morto.»*
*«Mi stai dicendo che… adesso prova dei sentimenti? Che non uccide più?»* chiese sgomento il rapace.
Il Samurott annuì: *«Per merito di una speciale cura.»*
*«E allora perché aveva un pugnale piantato in un polmone?!»* esclamò fumante d'ira, capendo sempre meno di tutta quella assurda storia.
«Giovanni le ha fatto qualcosa, te l’ho detto.» rispose N, cercando di calmarlo: «Non ragionava più. Ha bruciato tre anni di fatiche in un colpo solo.»
*«Stupido umano.»* sbottò lui.
N scese e prese in braccio la ragazza, coprendola con una coperta; la portò su, sotto gli sguardi preoccupati dei Pokémon, e disse: «Ora vediamo come si sveglia. Poi vedremo il da farsi. Se è ancora in vena di trafiggere, oppure se si è calmata.»
Pidg posò la testa sulla fronte della sorella e mormorò: *«Ti ringrazio, N. Se non fosse stato per te, l’avrei persa…»
«Mio caro amico Pokémon, anche io le voglio bene. Non credere che l’abbia fatto solo per te.» rispose lui, sorridendogli.
N mise Athena nel letto della seconda stanza della sua casa, al primo piano, poi fece per chiudere la porta, ma Pidg balzò dentro e si accoccolò al suo fianco. Maru voleva raggiungerlo, ma il ragazzo lo fermò, dicendo: «Lasciali soli, Maru. Non si vedono da molto tempo e forse lui potrà farla rinsavire.»
*«Hai… ragione.»* mormorò il Samurott, triste nel capire che lui non poteva fare nulla.
Athena dormì due giorni interi. La mattina del terzo cominciò a svegliarsi. Mettendo una mano sulla faccia, aprì un occhio, appannato. Il costato le faceva male da morire e la testa pure.
Anche se, la ferita maggiore era ancora quella del cuore.
Si mise seduta, barcollante, tenendosi la testa e con un’immensa voglia di piangere, di sentire le forti braccia di Raphael stringerla e la sua dolce voce sussurrare: “Va tutto bene.”
Ma non sarebbe mai successo. Mai più. Ed era forse questo che faceva più male. L’aveva perso per sempre.
*«Sorellina, come ti senti?»* chiese una voce, preoccupata ma felice di vederla sveglia.
Lei grugnì qualcosa, cercando di rispondere, ma poi si bloccò, sbarrando gli occhi e riconoscendo davvero quella voce. Voltando la testa, vide, nel buio della stanza, due luminosi occhi blu scuro, il colore dell’oceano più profondo, che la fissavano preoccupati e umidi di lacrime. Lo guardava sconvolta, credendo di essere impazzita del tutto; se cominciava ad avere visioni così reali, era completamente fusa. E sentiva dolore, quindi non era possibile fosse morta.
Pidg le sorrise, con le lacrime agli occhi. Le gocce uscivano dall’oceano.
*«N ti ha salvata.»* mormorò lui, sorridendo felice ma piangendo: *«E… sono vivo anche io, come puoi vedere. Non sono uno spettro.»*
«Co-com’è possibile?!» singhiozzò lei, incredula, trovando la voce, trovando la forza di parlare.
Pidg la avvolse con le ali, senza rispondere. Athena cominciò a piangere seriamente. Quell’abbraccio piumato…  non lo sentiva da anni. Aveva pensato di non sentirlo mai più. Il suo di certo poteva essere sostitutivo al quello del suo ragazzo. Anche se era molto diverso.
Un amore diverso.
Lei ricambiò l’abbraccio, posando la testa sulla spalla piumata del Pokémon. Non sembrava vero a nessuno dei due. Sembrava un sogno troppo reale. Reale e crudele. Si bearono di quel contatto per quello che sembrò loro ore. Posati l’uno all’altra. Come una volta, in circostanze ben diverse, dove lui doveva sostenerla in ogni modo.
Poco dopo, N fece per entrare e controllare le condizioni dell’amica, ma poi li vide, fermando Maru che lo stava seguendo.
«Si è svegliata.» mormorò, permettendo al sorriso di increspare le sue labbra, dopo giorni di costante preoccupazione per la sua sorte.
*«Cosa?! Castiga!»* esclamò il Samurott, entrando nella stanza a balzi e saltandole sul letto, costringendo i due a sciogliere l’abbraccio.
«Maru!» esclamò lei ridendo, mentre il Pokémon le atterrava addosso, ammortizzando il peso sulle zampe ai lati della ragazza e le leccava la faccia.
*«Finalmente ti sei svegliata! Ero preoccupatissimo!»* disse, quando smise di lavarla.
«Forse sarebbe stato meglio crepare…» commentò lei, adombrandosi all'improvviso.
Il sorriso che prima era spuntato vedendo i vecchi amici, se ne andò così come era venuto e la tristezza prese il sopravvento nel suo sguardo.
Pidg e Maru si fissarono, guardarono lei, e il Pidgeot disse: *«Non dire così, sorellina…»*
«No, fratello.» lo interruppe lei, decisa: «È vero. Sono solo una bestia, un mostro… dovevo finire all’inferno.»
I due Pokémon tentarono di farla ragionare, ma lei ormai era convinta. Era convinta di essere un mostro che non poteva essere amato. E che ora Raphael sarebbe stato felice senza di lei. Ma non aveva il coraggio di confessare del suo bambino. Come poteva anche solo ripensare al fatto che aveva permesso a Giovanni di portarle via la piccola creatura, frutto dell’unione tra lei e il più dolce e pazzo ragazzo mai esistito sulla terra?
N fece un cenno ai due Pokémon dalla porta, e loro uscirono, lasciandola nel suo sconforto dilagante.
*«Ehi. Chi è questo … Raphael?! Che le ha fatto?!»* sbottò Pidg, minaccioso, una volta che fu fuori.
«Meglio se te lo dice lei, Pidg.» rispose il ragazzo, sospirando dopo aver visto come si era svegliata. Non era pazza fulminata certo, ma non sapeva decidere se fosse meglio così o in fase depressivo andante.
Il Pokémon non rispose e tornò nella stanza, accoccolandosi in parte al letto e fissando la sua amata sorella guardare persa il soffitto.
*«Sorellina… che ti è successo? Non diresti mai che preferiresti morire…»* mormorò, posando la testa sul cuscino, vicino alla sua. Ricordava quanto fosse egoista, quanto preferisse uccidere mezza regione piuttosto che rimetterci lei. Non era possibile che desiderasse davvero la morte.
«Fratello mio… tu ora ricordi ciò che ero, non sai ciò che sono diventata dopo che il dolore per la vostra scomparsa mi ha trasformato. Ora ho capito, tutto. Sono una bestia, lo sono sempre stata. Ho provato a cambiare, ma lui mi ha trovata … sono una belva che non ha il diritto di vivere.» rispose lei, con la voce incrinata, senza nemmeno guardarlo.
Lui non le rispose, avvolgendola con la sua ala, per confortarla con la sola presenza, non capendo molto quel discorso. Lei si posò a lui, piangendo, e lui mormorò: *«Ne abbiamo passate tante insieme, ma non ti permetterò di mollare sorellina. Due anime, una cosa sola.
Io e te.
Per sempre insieme. Non dimenticarlo mai.»*
Lei lo strinse a sua volta, consapevole di quanto le fosse mancato in tutto quel tempo,  e mormorò: «Ti voglio tanto bene, Pidg.»
Lui sorrise, non abituato a quegli attacchi di affetto, e rispose: *«Te ne voglio tanto anche io, sorellina. Ma dimmi… chi è questo Raphael?»*
«Lui… non so come dirlo.» rispose lei, imbarazzata e triste al tempo stesso: «Lui… mi ha fatto capire cos’è l’amore… mi ha fatto provare l’amore… ed è così forte, fratellone. Molto più della rabbia.»
*«E… pensi che non ti ami più?»* borbottò lui, dandole corda per farla parlare e sfogarsi, anche se pensava stesse delirando.
«Mi sono illusa, Pidg… è stata tutta una finzione. Lui non mi ama, non mi ha mai amata… era una mia illusione. Come poteva amare una bestia? Insomma, è assurdo… io però lo amo veramente, sai? Mi… mi sono pugnalata piuttosto che ucciderlo!»
*«Perché volevi ucciderlo?»*
Lei si adombrò, pensando di chi fosse sempre e comunque la colpa, e rispose. «Giovanni mi ha fatto perdere la testa… lo sai come fa, riusciva sempre a farmi infuriare fino a farmi finire nella psicosi più violenta. Ora però, non più farmi del male…»
Pidg la guardò perplesso e lei mormorò, con una lieve gioia nello sguardo: «L’ho ucciso…»
*«Cosa?!»* esclamò lui, incredulo.
Athena si era ribellata al pazzo?! Si era finalmente decisa a liberarsi dal suo giogo?!
Lei annuì e riprese: «Sì. Quarantasette pugnalate. Le ho contate, una ad una... volevo andare avanti, ma non ce la facevo più. Avrei dovuto farlo molto tempo fa... Quel maledetto ha finito di rovinarmi la vita. Sai fratello… sono stata felice quattro anni… mi mancavate tu, Fiamma e gli altri… però è stato bello. Anche se era tutto finto, era davvero bello. Ora però… è tutto finito.» concluse, rassegnata e tremendamente triste.
*«Però ci sono io! E c’è N! E Maru! Non sei sola sorellina!»* esclamò lui, cercando di tirarla su di morale.
«No ma… chi mi dice che non perderò ancora il controllo?» borbottò lei: «Che diventerò davvero una bestia senza umanità?»
*«Non lo permetterò!»* rispose lui fiducioso.
Lei non replicò oltre, ma si posò ai cuscini e si rimise a dormire, cercando di annullare per un momento i pensieri che la tormentavano da quando si era svegliata.
Il Pokémon le rimase accanto per un po’. Non voleva parlare male di questo umano in sua presenza. Sembrava che lei ci tenesse molto, nonostante l’avesse fatta stare male. Nel sonno, lei piangeva, oppure mormorava il suo nome. Pidg uscì fuori, furioso, e sbottò: *«Non so cosa mi trattenga da far vedere a questo… Raphael… chi è Deathly Eagle.»*
«Pidg, calmati…» mormorò N, cercando di spegnere i sentimenti omicidi del rapace.
Un profondo occhio blu lo fissò furioso, mentre lui replicava: *«N. Lui ha illuso la mia sorellina. L’ha fatta soffrire.»*
«A me non sembrava.» rispose secco il ragazzo, seccato che il Pokémon sputasse sentenze senza conoscere: «Tu non li hai visti. Quei due si vogliono bene davvero.»
*«Scusa se credo di più a lei che a te.»* chiuse lì il discorso Pidg.
N non aggiunse altro, ma impegnò anima e corpo per far rinsavire la ragazza. Raphael la amava davvero, era evidente e lei doveva capirlo.
I giorni trascorsero più o meno tranquilli, in quel totale isolamento che era quella pacifica isola; o meglio, N doveva cercare di tirare su di morale l'amica, ormai del tutto depressa e totalmente convinta che solo morire avrebbe reso il mondo un posto migliore e fatto stare meglio tutti. Pidg, Maru e tutti gli altri le provavano tutte ma nulla sembrava funzionare. Il Pidgeot era stupito da quel drastico cambiamento. Lui ricordava la sua piccola belva, la sorellina irritabile, sempre furiosa, sempre pronta a sgozzare al primo insulto... e ora vedeva questa donna, con le sue fattezze, che, nonostante fosse ugualmente irritabile, aveva sviluppato una sorta di autocontrollo. E addirittura, per proteggere chi una volta aveva ucciso, aveva cercato di togliersi la vita lei stessa. Ci fu un periodo in cui dovettero spostarsi, un anno dopo: alcuni disordini a Isshu per colpa di Geechisu richiedevano l’intervento di Reshiram, e così N si spostò insieme alla ragazza nel Castello ormai sotto terra del Team Plasma, facendola tenere d’occhio da Pidg e Zekrom, e tutti i Pokémon.
Sistemati tutti i problemi, tornarono nell’isola a Hoenn. Athena però era curiosa. Accarezzando il suo enorme fratello piumato, ricordandolo stridere morente, chiese: «Ma senti, N. Pidg come l'hai resuscitato?»
Lui le sorrise e le raccontò di quel giorno: «Era ibernato… sai quando hai trovato il tuo Metagross?»
Lei annuì e lui riprese: «Come ben sai, andai a cercare anche gli altri cinque, per scongelarli e dar loro una degna sepoltura. Quando ho scongelato Pidg, mi ha attaccato e mi ha quasi ucciso.»
«Ucciso?»
«Si è svegliato, ha cominciato a urlare “non mi avrete mai” e mi è saltato addosso.»
N si tolse la dolcevita, rimanendo a torso nudo, e Athena vide quattro cicatrici sul petto del ragazzo. Bianche e profonde, lo attraversavano per tutta la sua lunghezza.
«Accidenti.» mormorò lei, fissando quelle striature per nulla imbarazzata: «Come hai fatto a togliertelo di dosso? Pidg furioso è molto pericoloso.»
*«È intervenuta Reshiram.»* rispose il Pokémon, alzando gli occhi al cielo: *«E mi ha fatto malissimo!»*
«Forse voleva evitare che mi staccassi le costole a zampate.» lo rimbeccò secco il ragazzo, rivestendosi.
Athena ignorò il dibattito e chiese al fratello: «Perché l’hai attaccato?»
Lui le sorrise, accocolato a lei, e rispose: *«Quando ti dissi di scappare, andai contro Dragonite per vendicarmi e aiutarti. Ma lui era più sano e più forte di me. Dopo un Tuono, crollai a terra, ma non ero finito. Lance però aveva fretta, ti aveva vista scappare e pensò di avermi ucciso. Ti inseguì e io volevo lasciarmi andare, per raggiungerti… ma poi lui tornò e borbottò: “Maledizione è scappata. Ma prima o poi la prenderò.”.
Questo mi diede la forza di resistere. Lance mi congelò, ma io continuai a vivere. Quando venni scongelato, credevo di trovarmi davanti uno degli scagnozzi di Lance e così attaccai. Non pensavo che questo umano cappellone mi volesse aiutare e fosse addirittura tuo amico!»*
Lei sorrise al ragazzo. N era diventato il suo migliore amico, con il suo modo di fare, con tutto. Lui ricambiò. Era contento di averla salvata. Castiga era da sempre stata l'unica umana degna del suo rispetto e quando aveva conosciuto Pidg, ne aveva avute le migliori conferme. Ora dovevano solo riuscire a convincerla che non era più il Demone anche se era convinta del contrario.
Due anni dopo, N tornò dalla spesa con delle grosse scatole e disse: «Traslochiamo per un po’!»
«Dove?»
«Verdeazzupoli. Io non sono uno psicologo e tu non puoi andare avanti così. Quindi si va da uno specialista. Pidg e Maru sono d’accordo con me, quindi non tentare nemmeno di protestare.»
«Come vuoi.» rispose solo lei, alzando le spalle.
Non le importava cosa facessero o dove andassero. Sarebbe stata comunque male. Volente o nolente.
Partirono la sera stessa. Passarono la notte nella casa che N aveva preso in affitto per un periodo indeterminato e la mattina dopo lui la portò in clinica.
«È in una grave depressione e non so cosa fare.» spiegò l’uomo al direttore della clinica, cercando un tono disperato: «Non reagisce in nessuna maniera.»
La ragazza venne presa in cura e cominciò ad andare lì ogni giorno per fare terapia. Ma nulla sembrava funzionare. La sua depressione rimase quella che era.
«Ehi, guarda quella!» esclamò una voce, alcuni mesi dopo, intravedendo Athena che andava verso l’edificio.
«La vedo da un po’ di tempo.» rispose un’altra: «Ma sembra non migliorare. Anzi, pare sempre peggio. Passo lento, sguardo basso…»
«Terapie che non funzionano.» sentenziò la prima voce: «Quel ciarlatano ha colpito ancora. Proviamo la nostra, vieni!»
Athena stava camminando quasi in trance, senza pensieri se non la sua immensa tristezza. Le mancava Raphael, le mancavano Belle e Cheren, le mancava il suo bambino, le mancava la vita di Castiga.
Felice, serena…
Giovanni aveva rovinato tutto, scatenando la bestia e spezzando l’illusione che l’aveva resa felice per un po’.
All’improvviso, si trovò davanti due ragazzini di quattordici anni. Identici fino all’ultimo capello. Gemelli. Avevano i capelli blu, gli occhi blu e vestivano due vesti dello stesso colore.
«Ciao! Io sono Pat!» disse uno dei due. Anzi, una dalla voce.
«E io sono Tell!» aggiunse l’altro, sicuramente un maschio.
Athena non rispose, fece loro il giro intorno, superandoli, e tirò dritto per la sua strada.
I due però la rincorsero e Tell chiese, vedendo una sfera rossa e bianca attaccata alla cintura: «Aspetta! Hai dei Pokémon?»
Lei annuì, perplessa e Pat aggiunse: «La fai una lotta?»
«No, guardate, devo andare…» borbottò solo lei.
La depressione le aveva fatto passare perfino la voglia di lottare, così riprese a camminare. I due la rincorsero, l'affiancarono e cominciarono a bombardarla, alternandosi le frasi e finendosele a vicenda.
«Dai, non farti pregare!»
«Siamo forti eh!»
«Non è che hai paura?»
«Dovresti averne! Siamo imbattibili!»
Lievemente seccata da tutta quell’insistenza, la donna commentò: «Fareste un doppio, immagino.»
«Esatto!» rispose Tell.
«Un doppincontro!» aggiunse Pat.
La ragazza sospirò, rassegnata, e disse: «D’accordo. Vada per il doppio.» pensando che almeno poi se ne sarebbe finalmente liberata.
«Urrà!» esclamarono i due in coro, andandole di fronte.
Athena prese le ball di Maru e Shikijika, i suoi due Pokémon più forti, e borbottò: «Andiamo.»
«Vai Lunatone!» esclamò Pat.
«Esci Solrock!» urlò Tell.
La ragazza fissò i due avversari perplessa, un sole e una luna, non avendoli mai visti, e prese il Pokédex, che disse:
“Lunatone, il Pokémon Meteorite. Fu scoperto nella zona d’impatto di un meteorite. Diventa attivo nelle notti di luna piena, pertanto si dice che abbia qualche legame con le fasi lunari.
Solrock, il Pokémon Meteorite. Nuova specie di Pokémon che si dice provenga dal sole. Emana luce roteando vorticosamente.”
«Bizzarri.» commentò infine, per poi lanciare svogliatamente le due Ball: «Uscite Maru e Shikijika.»
«Che cosa sono…» chiese Tell
«… quei cosi?!» concluse Pat.
Lei alzò le spalle e rispose: «Pokémon strani contro Pokémon strani. Mi sembra più che equilibrato non credete?»
«Concordo!» esclamò Pat: «Dai Tell, facciamo vedere chi siamo!»
«Sì, andiamo!» rispose lui.
L’incontro fu spettacolare. Man mano che combatteva, Athena sentiva salirle in corpo la carica, la concentrazione, l’adrenalina… tutto quello che serviva per lottare. E la depressione diminuire, lasciando spazio a tutto il resto, a tutte quelle emozioni che la facevano sentire bene. Si scambiarono colpi e attacchi a non finire, poi la donna esclamò: «Vai Shik! Legnicorno su Solrock!»
«Lunatone difendilo presto!» ribatté Pat.
Il cervo si schiantò con un fragore contro il Pokémon avversario, che crollò esausto dopo aver subito un colpo troppo violento per la sua resistenza.
«Solrock, Fuocobomba!» esclamò Tell, cercando di approfittare del momento di calma.
«Maru para il colpo! Shik usa ancora Legnicorno!» ribatté Athena.
I Pokémon erano sfiniti, la lotta durava da ore, e gli ultimi colpi erano di combattenti disperati che davano il tutto per tutto per tentare di vincere. L’avrebbe spuntata chi avesse avuto la testa più dura.
Dopo un’altra esplosione, Solrock e Shikijika caddero a terra. Maru alzò il corno, sfiancato, ma ancora in piedi, ruggendo la sua potenza e brillando di blu. Era sfinito e aveva attivato l’Acquaiuto per non cadere.
«Sei grande, Maru!» esclamò la ragazza, saltandogli in braccio.
*«Che faticaccia!»* rispose lui, ansimando e barcollando.
Tell e Pat fecero rientrare i loro Pokémon e la ragazzina disse: «Caspita che lotta!»
«Degna di una Medaglia!»
«Tell! Pat!» esclamò una voce, furibonda: «Avete una coda di sfidanti! Cosa ci fate fuori dalla Palestra?!»
I due e Athena si voltarono, vedendo arrivare una signora anziana di corsa e molto arrabbiata.
«Oh, accidenti.» borbottò Tell.
«Siamo stati fuori troppo.» aggiunse Pat.
La signora li raggiunse, irata, e urlò: «Ci sono sette sfidanti che aspettano da ore!»
«Scusaci! Passiamo al centro Pokémon e arriviamo.» risposero in coro.
Lei li portò via e i due, voltatisi, salutarono Athena con la mano. Lei ricambiò perplessa. Si sentiva molto meglio dopo quella lotta. Era stato divertente e le aveva fatto svanire per un momento la depressione.
Il giorno dopo, incontrò di nuovo i due bambini sulla strada.
«Vi siete liberati ancora del cane da guardia, vedo.» commentò, con un mezzo sorriso.
Tell ridacchiò e Pat rispose: «Non è così difficile come sembra!»
Visto che stavano facendo conoscenza, la donna borbottò: «Non ho capito perché si è arrabbiata tanto…»
«Hai di fronte a te…» disse Tell, per darle una spiegazione più esauriente.
«… i due Leader della Palestra di Verdeazzupoli!» concluse Pat con un inchino.
«Davvero? Ora mi spiego perché siete così forti.» esclamò lei, stupita, aprendosi la giacca. Prese dalla tasca interna il suo astuccio con le Medaglie, lo aprì, le mostrò ai due e chiese: «Le avete mai viste queste?»
«Di che regione sono?» chiese Tell, osservandole incuriosito.
«Isshu. Una regione un po’ sperduta. Il Campione mi ha sconfitto per poco!»
Pat ridacchiò e disse: «Ecco spiegata anche la tua forza!»
Athena sorrise di risposta e la bambina chiese: «Posso farti una domanda?»
«Certo.»
«Perché vai nel manicomio?»
«Beh… diciamo solo che non sto tanto bene.» rispose Athena, rattristandosi.
Lei scosse le spalle e rispose: «Ovvio, ma cos’hai? Non sembri pazza come tutti gli altri.»
«Ma solo molto triste e depressa.» aggiunse Tell.
Athena sospirò, ripensando alla creatura che Giovanni le aveva portato via; come poteva confessarlo? Sarebbe divenuto tutto troppo reale. Non dirlo rendeva meno dolorosa la consapevolezza di ciò che aveva fatto. E lei si sarebbe sentita meno in colpa.
«Se ti tieni dentro una sofferenza, non te ne libererai mai.» disse Pat, per cercare di convincerla.
«Non potremmo mai giudicarti!» aggiunse Tell.
Lei sospirò nuovamente, poi, sedendosi a terra a gambe incrociate, disse: «È una cosa che so solo io. Non ho avuto il coraggio di dirlo a nessuno.»
Tell e Pat si guardarono, poi guardarono lei e Athena continuò: «Ero incinta del figlio del mio ragazzo, tre anni fa… e un uomo cattivo… me l’ha portato via…»
«Oh…» disse Tell.
«Mi dispiace…» aggiunse Pat.
I due gemelli si fissarono, non sapendo che fare o dire, mentre lei, sbloccatasi, potendone parlare con chi di lei non sapeva nulla e quindi non poteva incolparla di niente, continuò: «Non ce la faccio a confessarlo… ho permesso a quel folle di portarmelo via… e di portarmi via tutto… anche gli amici…»
I due fratelli, non sapendo che fare, si guardarono. Pat le strinse una mano e mormorò: «Non sei sola, ok?»
Lei non rispose ma notò che si sentiva meglio dopo averlo detto. Finalmente si era tolta un peso. Ma questo non le impedì di continuare ad essere triste e depressa. La terapia dei gemelli andò avanti per molti anni, contrastando quella dell’ospedale che sembrava fare l’esatto contrario. La sfidavano spesso e volentieri, riuscendo a fare emergere per poco tempo la vecchia e determinata Castiga. Ma appena smettevano di combattere, tornava tutto come prima.
«Quel ciarlatano insiste. Spilla soldi e non combina nulla.» disse Pat a Tell.
«Già, ma noi saremo più bravi.»
Finché un giorno, sei anni dopo, Athena sentì uno strano rumore mentre tornava dalla clinica. Ormai aveva ventisei anni, ma la sua situazione psichica non era cambiata. Faticava persino a guardarsi allo specchio. Tell e Pat erano i suoi unici amici insieme a N e ai suoi Pokémon.
Avvicinatasi ad un vicolo, il rumore si fece più forte. Lei, perplessa, scostò un bidone e vide un bambino di due anni, terrorizzato e vestito di stracci che, allo scoperto, corse a nascondersi.
“Mi ricorda qualcuno.” pensò la donna con tristezza, ricordando per un momento il giorno in cui Giovanni l’aveva trovata e portata verso la sua fine.
Preso un pezzo di pane, lo mise davanti ai bidoni e, nascondendosi, attese. Molto. Ma alla fine, il piccolo uscì, prese il pane gattonando, e si nascose di nuovo. Lei sorrise e cominciò a portargli da mangiare tutti i giorni. Lui non si mostrava mai direttamente, ma lei lo vedeva prendere il cibo. Tornava, giorno dopo giorno, speranzosa di conquistare la sua fiducia. Sapeva di non poter fare come aveva fatto Giovanni. Da piccola, lei era piuttosto aggressiva e indipendente, e tendeva a combattere piuttosto che nascondersi. Aveva seguito l’uomo sapendo che sarebbe potuta scappare quando avesse voluto, senza il minimo problema. Ovvio che non avrebbe mai potuto prevedere un lavaggio del cervello di quella portata.
Quel piccolo invece era diverso da lei. Impaurito da tutto e da tutti, non avrebbe mai seguito una persona sconosciuta. Doveva prima fargli capire che non voleva fargli del male.
Mesi dopo, il piccolo uscì prima che lei potesse deporre il pane. Si avvicinò, cauto, e lo indicò. Lei gli sorrise e glielo tese. Lui prese il tozzo di pane e si allontanò per mangiarlo, ma non si nascose. Piano, piano cominciò a fidarsi. Lei sedeva un po’ distante e gli raccontava storie, cose che accadevano in città, cosa facesse in clinica. Tutto quello che le passava per la testa. Giusto per parlare.
Un giorno però, arrivata sul posto, sentì urlare e ringhiare. Accorse e vide il bambino rannicchiato che cercava protezione da un feroce Mightyena. La donna non perse tempo e prese un bastone, ma prima tentò la carta della diplomazia.
«Migthyena, per piacere, calmati.» mormorò, restando a distanza di sicurezza.
Il Pokémon voltò la testa ringhiando, senza rispondere, e l’attaccò. Lei si difese con il bastone, azzoppandolo con un colpo mirato, per non fargli ulteriori danni. Lui guaì, finendo a terra.
«Oh, accidenti, scusami.» borbottò lei, capendo di aver colpito troppo forte e avvicinandosi al Pokémon per controllare cosa avesse rotto. Voleva solo ferirlo non rompergli una zampa.
*«Perché lo fai?»* uggiolò lui, vedendo che lei aveva gettato a terra il bastone.
«Potrei farti la stessa domanda.» rispose lei, mentre gli steccava la zampa.
*«Mi capisci?»*
«Perfettamente. Perché volevi fargli del male? È solo un bambino.»
*«Diventerà grande. E comincerà a picchiarmi anche lui.»*
I due discussero un po’. Athena voleva convincerlo che non tutti gli umani sono violenti con i Pokémon e che si può essere amici, mentre Mightyena ribadiva il contrario. Alla fine, lo convinse a lasciare in pace il piccolo.
Il bambino invece si avvicinò a lei e si strinse alla sua gamba, piangendo disperato e urlò: «Mamma!».
Lei lo prese il braccio e lo strinse piano, con quel “mamma” che le rimbombava nel cervello. Era così bello. Il piccolo smise di piangere, cullato dalle sue braccia, e si addormentò sereno.
Lei decise di tenerlo con sé. Quel posto era troppo pericoloso per lui. Lo portò a casa ma N fu abbastanza restio a dirle di sì: «Non so...» disse, non troppo convinto: «Né io, né te abbiamo avuto la migliore delle infanzie... credi che ne saremmo capaci?»
«Io so solo che stare da soli rovina la gente...» mormorò lei, cullando il piccolo tra le sue braccia, con la tristezza nel cuore. Pidg posò la testa contro la sua e N capì. Lei lo aveva sempre detto: era diventata il Demone Rosso perché Giovanni l'aveva trovata in mezzo alla strada, sola e in balia di se stessa. Così, con un sorriso, non potendo negarle niente come al solito, annuì.
Il parere dello psichiatra, però, fu contrario.
«Sei troppo instabile per prendertene cura.»
Questa era la diagnosi. Athena non era d’accordo, ma lui aveva studiato e quindi probabilmente aveva ragione.
«Ma non dire sciocchezze!» esclamò Pat quando Athena raccontò loro la storia.
Nonostante i molti anni di differenza, i gemelli erano gli unici che la ormai donna considerasse amici. E voleva sapere anche il loro parere, essendo molto confusa sulla questione.
«È proprio quello che ti serve!» aggiunse Tell.
«Cosa volete dire?» chiese lei.
«Pensaci. La tua depressione è causata dal trauma per la perdita di tuo figlio. Un altro figlio, ti aiuterebbe a superarla non credi? Hai solo bisogno di qualcuno di cui prenderti cura.» spiegò Pat, concludendo con un secco: «E non ascoltare quel ciarlatano.»
Athena ci pensò su. In effetti, stava meglio da quando teneva in vita quella piccola creatura. Pensava di meno a tutto ciò che aveva perso, ma si dedicava a ciò che stava guadagnando.
Ne parlò con N e lui, pur sempre abbastanza restio, concordò con i gemelli; ma non disse nulla allo psichiatra, che invece si sbalordì della sua incredibile ripresa. Decise di tenere anche il Mightyena, che, in breve tempo, divenne il miglior amico del bambino che una volta voleva uccidere.
Athena e N si dichiararono genitori del piccolo, anche se non erano innamorati. Dormivano in due stanze differenti, separate da due piani, ed erano solo buoni amici. Chiamarono il piccolo Giovanni, perché quel nome non fosse solo un ricordo di qualcosa di negativo, ma anche una speranza per qualcosa di buono.

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


«Per questo mi chiama papà.» concluse N alla fine del racconto, vedendo sollevato che Raphael si era calmato e ascoltava attento: «Non so, però, come potrà prendere la sua scomparsa. Ha un carattere difficile e siamo molto diversi da questo punto di vista.»
Raphael sorrise, notando l'ansia dell'interlocutore; per una frazione di secondo, pensò, per vendetta, di lasciarlo nel dolore di pensarla morta, ma poi il suo animo buono ebbe la meglio e mormorò: «Non ti preoccupare. Athena è viva e mi ha detto proprio lei di questo posto.»
N si illuminò. Sorrise, con un sorriso davvero contento, con il cuore che si liberava da un macigno opprimente. Ricordandosi però che il dubbio gli era comunque sorto, disse: «Ecco come hai fatto a trovarci, quindi. Cos'è successo?»
«Dopo ti spiego...» rispose evasivo lui, facendo un cenno di noncuranza con la mano, volendo sapere prima lui qualcosa: «Piuttosto, dimmi... cosa l'ha fatta consegnarsi? Non mi sembra se la passasse proprio male... voglio dire, aveva un figlio, aveva ritrovato Pidg...»
N scosse la testa affranto e rispose: «Sentiva opprimente il peso dell'obbligo. Era convinta di aver rovinato la vita a tutti con i suoi peccati e voleva espiare, ma non sapeva come spiegarlo a Giovanni. Quando l'ha visto abbastanza cresciuto e in grado di cavarsela, e ci ha visti andare più o meno realmente d'accordo, si è consegnata. Pidg si è dimostrato più comprensivo, ha cercato di dissuaderla con pochi risultati, ma da come lo hai visto anche tu, soffre molto di più di quanto non dia a vedere. Sarà contento di sapere che è viva. Giovanni invece non capirà.»
«Perché?»
«Vedi… non è cattivo, ma è un po’ come lei. Irritato risulta molto violento. E lei è l’unica che sa come tenerlo buono. Sono suo padre, abbiamo imparato a convivere però siamo troppo diversi. Spesso discutiamo perché non siamo d'accordo. E non accetterà mai che sua madre sia andata al patibolo, abbandonandoci tutti.»
Raphael annuì, ma sorrise e rispose: «Rallegrati N. Tornerà presto, credi a me. Non potevano farle nulla senza un giusto processo. E guarda caso, Lance ha chiamato proprio me. Ora sono la sua difesa legale e non permetterò a nessuno di portarmela via ancora.»
N sorrise all’amico, ancora sollevato dalla notizia, e disse: «Ora capisco come mai sei così elegante. È passato molto tempo.»
«Già. Stavo giusto pensando se stringerti la mano o spaccarti i denti.» ringhiò Raphael di risposta, giusto per fargli capire che non l’aveva ancora perdonato per avergli portato via Athena tutto quel tempo.
L’uomo lo fissò un po’ titubante, non sapendo quanto prenderlo sul serio, ma rispose: «Capisco la tua rabbia. Sono passati molti anni da quel giorno. Ma non potevo fare altrimenti.»
«Avremmo potuto fare qualcosa invece, dannazione!» saltò su lui, ricominciando a scaldarsi.
N scosse la testa, per negare le sue parole, e ribatté: «No, tu non l’hai vista. Non avevo mai visto una depressione così forte. E credo che ci sia un motivo che non ha voluto dirmi. Anche se penso di aver capito.»
Raphael si fece perplesso e l’amico continuò, sentendosi un po’ in colpa ma sapendo che lei non avrebbe mai potuto confessarlo a nessuno: «Mi duole essere io a darti questa notizia. Ma lei ha subito un interruzione di gravidanza, penso proprio da Giovanni. Le ha praticamente squartato il ventre, per tirare fuori il piccolo. Dai risultati ho scoperto che erano quasi passati i nove mesi.»
L’avvocato strinse i pugni dalla rabbia pensando a quanto aveva sofferto la sua piccola pazza nelle mani di quel folle. Ma poi sorrise tristemente e disse: «Hai sbagliato i tuoi calcoli, N.»
Lui lo guardò perplesso e l’amico, prendendola dal portafogli, gli mostrò una foto di lui e la sua bambina.
N sbarrò gli occhi, sconvolto, e mormorò, prendendo in mano l’immagine: «È identica…»
«Sono due gocce d’acqua.» annuì l’altro, decidendosi a raccontare la storia a sua volta: «Dopo che me la portasti via, volevo uccidermi. Ma Belle e Cheren mi fermarono. Poi Cobalion mi portò in un’altra stanza e lì la vidi. Una piccola neonata avvolta in uno straccio. Non è stato difficile capire di chi fosse.»
«Ora dov’è?» chiese N, ancora sconvolto ma notando che in effetti, erano arrivati solo l’amico e Cobalion, il leggendario e secolare Pokémon Metalcuore.
Raphael guardò l’ora e rispose: «A scuola. Devo andare a prenderla. Senti… hai due posti per dormire?
Quella sanguisuga della mia ex si è appellata a un pugile per avere gli alimenti. Mi ha spedito all’ospedale già due volte, perché ho tenuto io la casa. Ma se le ridò la casa, sono a posto.»
N ridacchiò, prendendolo un po’ in giro: «Signor avvocato, si fa mettere i piedi in testa così?»
Lui gli fece la linguaccia e sbottò: «Non hai idea dei muscoli che ha quello. E non ho le prove per denunciarlo.»
«Avete tutto lo spazio che vi serve.» sentenziò l’uomo, fattosi serio visto che lui non gli reggeva il gioco: «Questa casa è mia e sua, ma sarà anche vostra. Solo che è un po’ fuori mano… bisognerà trovare una nuova sistemazione nel continente. Qui a Hoenn non riuscirebbe a essere vicina alle scuole.»
«Intanto la faccio venire qui. Poi si vedrà.» rispose l’avvocato, sorridendo e ringraziando.
Raphael prese il cellulare e disse alla figlia di aspettarlo fuori da scuola, dato che sarebbe andato a prenderla con Cobalion, per andare a vedere la nuova casa. Prima di uscire, disse: «Vedrai come le assomiglia N. Dalla foto è evidente, ma dal vivo lo è ancora di più. Sono due gocce d’acqua! Vado con Cobalion e torniamo tra un po’.»
N annuì e li guardò andare, ma era preoccupato per Giovanni. Come avrebbe reagito nell’avere due estranei in casa? Avrebbe notato la somiglianza della bambina con la madre? L’ultima cosa che avrebbe voluto erano dei disordini tra le due sponde della famiglia della donna.
Pidg, nel frattempo, arrivò in volo alla Lega e atterrò nell’ingresso. Come poteva trovare la sua cara sorella?
Da una finestra vide lo svolazzo di un mantello che riconobbe: Lance. Spiccò il volo e raggiunse la finestra, vedendo il Campione seduto a una scrivania, che fissava alcune carte. Beccò sulla finestra e l’uomo si voltò.
Lo fissò sconvolto e, aprendo la finestra, esclamò: «Deathly Eagle?! Come diavolo fai a essere vivo tu?!»
Pidg lo fissò quasi con superiorità, ma non rispose visto che tanto non lo avrebbe capito. Lo guardò invece con uno sguardo di odio. Lance ricambiò con la stessa moneta, anche se doveva ammettere di essere felice di vederlo vivo, ma sbottò: «Non fissarmi così, pennuto. È viva, se è questo che vuoi sapere, e di certo non ho intenzione di farle del male.»
Pidg inarcò un sopracciglio e Lance aggiunse: «Ovvio che non mi credi, ma è così. Ho anche del materiale da dare al suo avvocato per tirarla fuori dai guai.»
Il Pokémon lo fissò perplesso, non convinto che un umano stesse davvero difendendo la sua sorellina, ma Lance aggiunse: «Fidati. Raphael Grayhowl è un avvocato di tutto rispetto.»
«Pidgeo!?» esclamò il Pokémon, tra il furibondo e l’incredulo.
Il Campione lo squadrò e borbottò: «Dalla tua reazione deduco che lo conosci. Sapresti ritrovarlo?»
Pidg annuì e Lance gli porse uno zaino: «Portagli questo allora. Lo aiuterà.»
Lui lo squadrò di rimando, molto restio a fidarsi. Ma per il bene della sua sorellina, questo ed altro. Così prese lo zaino e spiccò il volo, dopo un’ultima occhiataccia a Lance.
Dopo alcune ore, Cobalion tornò. Sulla sua groppa portava Raphael, che stringeva una bambina di quattordici anni, seduta davanti a lui.
«Eccoci di ritorno!» esclamò l’avvocato, quando il Pokémon si fermò dinanzi alla porta, dove N li stava aspettando.
Scese dal dorso del Pokémon, aiutando la figlia ed esclamò, tutto contento: «Lily, ti presento N! Cioè… si chiamerebbe Natural Harmonia Gropius, ma non gli piace e preferisce solo N.»
Lily guardò quell’uomo strano un po’ impaurita, poi gli sorrise timidamente. Lui rispose al sorriso e le tese la mano, cordialmente, presentandosi: «Io sono N. Tanto piacere di conoscerti.»
Lei la strinse e mormorò, un po’ imbarazzata: «Io mi chiamo Lily.»
«Lilith Castiga per la precisione.» aggiunse Raphael.
Lei gli mollò una gomitata e sbottò: «Dai, papà! Lily va benissimo!»
Lui le fece la linguaccia e N intervenne, osservandola, dicendo: «Hai proprio ragione, Raphael. Sono davvero molto simili. Mi meraviglio che nessuno abbia avuto qualche presentimento.»
L’avvocato alzò le spalle e rispose, quasi sul vago, per trovare una risposta al volo: «Probabilmente nessuno si aspetta che lei possa avere figli, non credi?»
«Sicuramente è così. Ed effettivamente, può risultare strano se ci si pensa.» assentì l’amico, chiudendo lì la questione in fretta anche lui, intuendo le ragioni di quella voluta vaghezza: «Ora il problema è Giovanni. Ho solo tre stanze. Tu puoi andare in quella di Athena, ne hai tutto il diritto. Ma lei dovrà dividere il letto a castello con lui. E lui sicuramente non gradirà.»
Raphael annuì ma poi notò che il bambino era sparito quando era andato a recuperare la figlia, così chiese: «Vedremo cosa fare. Ora dov’è?»
«È fuori con Donkey. Il suo Mankey è diventato il suo migliore amico. Prima girava con Wolf, ma quel Mightyena sta invecchiando.» rispose l’amico, mentre un ringhio proveniente dall’interno della casa negava le sue parole: *«Vecchio sarai tu.»*
«Pidg invece? È tornato?» chiese l’avvocato, con un mezzo sogghigno: «Come zio deve conoscere sua nipote.»
N si fece preoccupato e borbottò: «Non credo approverebbe.»
«Perché?»
Vedendo una sagoma alata stagliarsi verso il sole, l’uomo chiuse lì il dibattito dicendo: «Sta arrivando. Nascondi Lilith e… vedrai.»
Raphael annuì e mandò Lily nel disbrigo; le fece una carezza e mormorò: «Resta lì finché non ti chiamo.»
Lei annuì e si nascose. Presa dalla curiosità però entrò nel salotto e vide una specie di lupo nero acciambellato in una cuccia che la fissava con curiosità. Un po’ inquietata viste le grosse zanne e gli artigli, gli restò lontana anche se lui non pareva avere atteggiamenti aggressivi verso di lei.
Pidg atterrò nell’ingresso, posando a terra lo zaino, ma poi si guardò intorno e chiese a N, squadrando l’avvocato: *«È quel Raphael?»
«Sì, proprio lui.» rispose l’uomo annuendo, mentre Raphael li fissava perplesso, ovviamente non capendo cosa si stessero dicendo.
«Che cos’ha detto?» chiese infatti, ma prima che N potesse rispondere, Pidg disse: *«Traduci parola per parola.»*
«Ok. Raphael, Pidg vuole dirti qualcosa. Tradurrò io.»
L’avvocato annuì, sentendosi a disagio sotto quello sguardo blu e furibondo, e il Pokémon, dopo un profondo respiro per calmare i nervi, disse: *«Ti conosco. Tu sei il bambino che riuscì a far ridere il Demone Rosso. Si era divertita. Mi disse che stava bene con te. Io ero felice. Pensai fosse un passo avanti. Tempo fa, N mi disse che vi eravate incontrati di nuovo. E che eravate felici insieme. Ma non sono d’accordo. Tu l’hai fatta soffrire, umano.»*
«Non è vero! Io la…» cercò di ribattere lui, ma Pidg intervenne: *«Non mi interrompere! Ogni giorno, dopo i vari deliri, ripeteva una frase…
“Raphael non mi ama. Mi sono illusa come una stupida. Non mi ama…”
Io tentavo di consolarla, ma il suo cuore spezzato era incurabile. Le velava il sorriso di tristezza e feriva anche me. Ho giurato di proteggerla, perché mai l’avevo vista così distrutta. Mai. Nemmeno dopo le punizioni psicologiche e crudeli di Giovanni. Da quelle si riprendeva, in qualche modo, ma da questo no. Non ce la faceva. Ora tu ti presenti qui, a blaterare di amore. Come pensi di venire accolto? Come un amico?!»*
«Non era nessuna illusione pennuto!» esclamò lui di risposta, ferito da quelle parole, soprattutto perché lui era stato altrettanto male e non c'entrava nulla; era rimasto solo, a prendersi cura di una bambina e ora lui lo accusava di tutto, come se avesse causato lui ogni cosa.
Pidg si infuriò a sua volta e stridette: *«Taci, umano! Io so che lei si è illusa di essere amata da qualcuno che l’ha abbandonata!»*
«Io non l’ho abbandonata! N l’ha portata via in fin di vita dicendomi che era troppo tardi! Cosa avrei dovuto fare?!» esclamò lui di risposta, alzando ancora la voce.
*«E allora perché sei ancora vivo? Se l’avessi amata veramente, ti saresti ucciso!»*
L’uomo si calmò, tentando di controllarsi, e rispose: «Ci ho provato, credimi. Ma Belle e Cheren mi hanno fermato. E poi… non potevo per lei.»
Raphael fece un cenno a Lily, che lo raggiunse e si nascose dietro di lui, avendo sentito i toni un po’ troppo alti delle voci. Il rapace la fissò, sconvolto: quei lineamenti, quegli occhi, la stessa pettinatura. Perfino lo stesso modo di camminare.
«Pidg… lei è Lily.» mormorò Raphael, ma non poté dire altro.
*«Maledetto... bastardo! Ti sei approfittato di lei! Io ti ammazzo!»* gridò il Pokémon, furibondo, alzandosi in volo ad artigli scoperti e piantando la sua unica zampa nel petto dell’uomo.
«Pidg, no!» esclamò N, prendendo il Pidgeot per il petto e cercando di trascinarlo via.
In suo aiuto arrivò Wargle, e insieme, i due riuscirono a bloccarlo, cercando di toglierglielo di dosso prima che lo uccidesse. Athena non avrebbe retto il colpo.
Lui però si batté come un leone, gridando tutta la sua rabbia: *«Lasciatemi! Quell’umano ha sedotto la mia cara sorella, per poi abbandonarla! Deve pagare con la vita!»*
«Pidg, smettila!» ribatté N, trattenendolo a stento: «Lo sai meglio di me che per via del suo carattere non si sarebbe mai fatta giocare così! Ragiona!»
*«Sta’ zitto, umano! Lo so che sei dalla sua parte!»* ringhiò lui, cedendo però alla forza congiunta dei due amici e lasciandosi trascinare via dall’uomo di peso; doveva ammettere però che un po’ la sua furia era stata frenata dal profumo della sua amata sorellina su quell’umano. Lui ce l’aveva addosso e voleva dire solo una cosa: lei doveva averlo minimo abbracciato. Per questo, evitò di ucciderlo.
Raphael cercò di non gridare, lacrimando dal dolore, e si aprì la camicia, vedendo quattro ampi tagli sanguinanti sul petto. Fortunatamente, non erano troppo profondi, ma facevano un male infernale. Lily dietro di lui, fissava Pidg dimenarsi impaurita. Il Pokémon voleva volare via, scappare da tutti e stare solo, ma N e Wargle prendevano la sua ribellione come un tentativo di attaccare ancora e quindi non volevano lasciarlo andare.
*«Datti una calmata, Pidg!»* ringhiò il Braviary, ansimando dalla fatica di trattenere un rapace grande il doppio di lui: *«Castiga e Raphael si amano davvero! Aspetta di vederli insieme e te ne convincerai!»*
«Wargle dice il vero.» aggiunse N, rinforzando le sue parole con un tono di voce il più sincero possibile.
Pidg cercò di liberarsi furibondo, ma l’Aromaterapia di Shikijika, intervenuto sentendo il trambusto, rilassò gli animi e aiutò la guarigione delle ferite, finché il Pokémon non si arrese e capì che doveva calmarsi o ci sarebbe scappato il morto.
«Cambierai idea. Ne sono sicuro.» disse N, prima di lasciarlo insieme a Wargle.
Il Pidgeot si alzò; era furente verso l’avvocato, ma non fece nulla. Restò immobile, come una statua.
Raphael lo guardò bene: era alto quasi due metri e mezzo, con un’apertura alare di tre metri buoni; era più grande del normale per via di tutti gli sforzi fatti per vivere senza una zampa. Il suo piumaggio era lucente e il suo fiero sguardo blu oceano era unico al mondo, dato che solitamente Pidgey e le sue evoluzioni avevano gli occhi nocciola. Il Pokémon si reggeva in perfetto equilibrio sulla zampa sinistra, l’unica rimasta, mentre al posto della destra c’era solo un moncone cicatrizzato. Il taglio netto era ben visibile.
Lily lo osservò, nascosta dietro al padre, mentre il Pokémon si voltava e saltellava sulla zampa verso la finestra, non potendo più guardarlo e non attaccare. Raphael prese coraggio e si avvicinò a lui.
Pidg lo sentì arrivare, ma non si mosse. L’avvocato disse: «Senti, Pidg. Ho passato quattordici anni con il cuore distrutto, vuoto… la mia vita era inutile senza di lei. Ora ho scoperto che è ancora viva. Darei la mia vita per la sua. E non ci sarà tribunale che tenga.»
Raphael si voltò e andò nell’altra stanza, seguito da Lily che, impaurita, non voleva restare sola. Pidg si lasciò sfuggire una lacrima; lei lo aveva abbracciato, lo aveva accolto, nonostante tutto.
N andò al fianco del Pokémon e gli mise la mano sulla spalla: «Amico, tu sai che io nutro un profondo disprezzo verso la mia razza. Come te. Ma ti dico una cosa. Ho imparato a conoscere alcuni umani, come Castiga, e ho capito che alcuni di loro non sono come quelli che tanto disprezziamo.»
*«Me la porterà via…»*
N scosse la testa, e ribatté: «Ma cosa vai farneticando? Sei convinto che lui ti porterà via il suo amore?! Pidg, insomma… sono due tipi di amori diversi.»
Lui non replicò oltre, fece un cenno per indicare lo zaino e tornò a fissare il cielo, mentre N si arrendeva; prima o poi si sarebbe convinto di tutto. Sarebbe bastato vederli insieme solo una volta.
Nell’altra stanza, nel frattempo, anche Lily e Raphael parlavano. Lui sapeva di doversi chiarire con la figlia, che probabilmente non aveva capito nulla di ciò che era successo.
Un po’ titubante ma confusa, la ragazzina chiese: «Papà, perché non mi spieghi cosa sta succedendo? Hai detto che la mamma era morta. E perché quell’aquila si è arrabbiata tanto?»
Raphael le accarezzò dolcemente la testa e disse: «Immagino tu sia confusa piccola mia. Lo sono io.»
Lui guardò fuori dalla finestra, mentre la figlia prendeva un fazzoletto e gli asciugava il sangue, cercando di non fargli male. Tornò a guardarla, le sorrise e riprese: «Ho passato quattordici anni pensando a lei. La tua mamma era… anzi, è la donna più bella di questo globo. La amavo e la amo ancora oggi, da impazzire.
Quel giorno venne ferita al costato. Era tra le mie braccia che rantolava. Io non sapevo cosa fare… tentai di aiutarla a respirare ma sembrava tutto inutile. N la prese in braccio e io cercai di fermarlo, ma lui mi disse: “È troppo tardi.” e se ne andò via, con lei fra le braccia, praticamente più di là che di qua. Ricordo quel giorno come se fosse stato ieri. Il mondo mi è crollato addosso. Volevo uccidermi, farla finita, ma i nostri due amici mi fermarono.»
«Lo zio Cheren e la zia Belle?»
Lui annuì e proseguì: «Sì. Poi ti sentii piangere. Cobalion mi accompagnò da te… e io capì molte cose. Sai, non te l’ho mai detto perché è meglio non si sappia in giro. Ma tu le assomigli tantissimo. Sei la sua piccola fotocopia vivente. Hai visto la faccia di Pidg… ci è rimasto male.»
«Pidg è l’aquila?» chiese lei, mentre posava il fazzoletto e prendeva una benda posata lì vicino.
Lui fece una pausa mentre le sue piccole mani delicate gli medicavano i tagli, poi rispose: «Sì, è un Pidgeot. Ed è il fratello adottivo della tua mamma.»
Lily lo abbracciò alla vita e chiese: «Perché ti ha fatto male?»
«Tipica gelosia del fratello maggiore, immagino. Però non avere paura di lui. A te non farà nulla.» disse lui, stringendola piano, un po' triste che Lily avesse conosciuto quel Pokémon in particolare nel peggior modo possibile. Quando lei lo lasciò, si riabbottonò la camicia, che era comunque lacerata e quindi inutile, e fece per alzarsi. Lei, però, lo bloccò, lo fissò decisa, ancora piuttosto confusa, e chiese: «Papà… dimmi la verità. Un processo, nessuno deve sapere che le assomiglio… che cos’ha fatto?»
Lui si rattristò e rispose: «Un giorno te lo spiegheremo. Fammela prima tirare fuori dai guai. Ora resteremo qui… sempre se vuoi.»
«Così Daisy la smetterà di farti picchiare dal palestrato psicopatico?»
«Lo spero vivamente!»
Lily ridacchiò e lo strinse un’ultima volta. Raphael le accarezzò la testa, e chiuse lì il discorso sulla madre. Uscì dalla stanza e N gli fece un cenno. Lo seguì al piano di sopra, salendo le ripide scale di legno. N si fermò davanti a una porta di legno e disse: «Puoi stare qui. Come ho detto prima, è tua di diritto.»
Lui respirò a fondo, poi entrò, posando la mano sulla maniglia e spalancando l’uscio: la stanza non era molto grande, ma adatta per una persona. Aveva un letto singolo, un armadio, un comodino e un tappeto. Per il resto era completamente spoglia.
Raphael si avvicinò al comodino. Lo sfiorò con un dito, pensando a quante volte lei doveva averlo toccato. Notò una cornice. La prese e… gli venne da piangere: dietro il vetro, c’era un lembo di quel fazzoletto che lui aveva usato per fasciarle la spalla sull’isola. Tanto tempo prima. Lui la riconobbe subito perché era un suo fazzoletto su cui erano state ricamate due lettere: R e G. Raphael Grayhowl. E ora, quelle due lettere erano lì, in bella vista, incorniciate. Non c’erano foto: quello era l’unico ricordo che la donna avesse di lui, se non i suoi, sopiti nella memoria.
«Athena… amore mio… non mi hai mai dimenticato… hai passato tutti questi anni con solo due lettere…» mormorò, piangendo e fissando quella cornice, volendo la sua donna tra le braccia.
Si sdraiò sul letto, abbracciando il cuscino, sentendo il suo profumo ovunque. Ora che sapeva che era viva, la lontananza era quasi dilaniante. La voleva lì con lui a recuperare il tempo perso da quella assurda lontananza.
Nel frattempo, Lily uscì dalla stanza e vide il Pidgeot che guardava perso fuori dalla finestra aperta.
“Se lui è una specie di zio, devo vedere se odia anche me.” si disse, avvicinandosi piano. Aveva paura di quella strana bestia che sembrava così irritabile... però doveva superarla e capire. Capire qualcosa. Qualunque cosa.
Pidg arruffò le piume, pensando alla sua amata sorella, quando sentì una presenza alle sue spalle.
Era la piccola figlia di Athena.
Lui non si mosse, sperando se ne andasse, ma lei si avvicinò lentamente.
«Posso sedermi vicino a te?» chiese la ragazzina, titubante, indicando la sedia al fianco del Pokémon.
Pidg la osservò con la coda dell’occhio, poi fece un salto a destra, liberando una parte della finestra.
Lily si fece coraggio, visto quel gesto amichevole, prese la sedia e la mise davanti alla finestra, a pochi centimetri dall’ala sinistra del Pokémon. Poi sedette.
«Si sta bene qui.» commentò lei, sentendo quel vento frescolino accarezzarle il viso.
Pidg assentì, arruffando le piume, sedendosi più comodamente e chiudendo gli occhi.
“Sembra che mi capisca. Papà lo tratta come se fosse una persona, quindi lo farò anche io.” pensò Lily, per poi dire: «Io mi chiamo Lily. Tu sei Pidg, vero?»
Lui annuì.
«E conosci la mia mamma?»
Annuì di nuovo, stavolta aprendo gli occhi e volgendo lo sguardo su di lei. Non era minaccioso però. Solo curioso.
«Secondo te le assomiglio tanto?»
Pidg annuì una terza volta.
«E sei arrabbiato con me per questo? O con papà?»
Lui scosse prima la testa, poi la fermò con uno sguardo piuttosto eloquente.
Lei ridacchiò, vista la faccia e il cambiamento di risposta repentino, poi chiese: «E la mamma... com'è? Nessuno vuole dirmi niente, a quanto sembra.»
Il rapace la guardò un momento, poi si alzò e indicò la porta che andava sul giro scale con un cenno del capo. Alzatosi in volo rasoterra, si diresse verso le scale, fissandola un momento come per incitarla a seguirlo.
Lily lo guardò, poi si alzò e lo seguì; non sapeva perché ma si fidava di quella creatura. Pidg arrivò alla porta di una camera, quella di N, la aprì con la zampa ed entrò. Lily entrò a sua volta e vide il Pokémon porgerle un album di fotografie che teneva nel becco. Al suo interno c’erano molte foto di una donna trentenne con i capelli rossi. Nella maggior parte era con Pidg, in alcune c’era solo N. Quello che colpì la bambina però fu il sorriso e lo sguardo. Entrambi erano velati di un’immensa tristezza che traspariva dalla carta.
Lily si perse a guardare i lineamenti della donna. Era piuttosto alta, con i capelli rossi, corti e arruffati. Gli occhi dello stesso colore dovevano essere molto profondi. Ed erano incredibilmente uguali ai suoi. La ragazzina sedette a terra e guardò tutte le foto, passando da quelle divertenti a quelle tristi.
«Pidgeo…» mormorò Pidg, tristemente.
«Ti manca tanto, vero?»
Lui annuì e lei aggiunse: «Mi sarebbe piaciuto conoscerla.»
Pidg si mise accanto a lei mentre guardava le foto. Lily si posò a lui e il Pokémon appoggio la testa sulla sua, non riuscendo a trattenere le lacrime di saperla nelle mani di uomini che la odiavano. La ragazzina gli fece una carezza, per confortarlo ma lui si alzò, scese di sotto e prese il volo, per scacciare la tristezza e la malinconia. Magari anche la rabbia.
Lily tornò nel salotto, e vide N guardare di fuori, nella direzione presa da Pidg, sospirando.
«Signor N… posso farle una domanda?» chiese timidamente; quel tipo aveva uno strano modo di porsi. Come se stesse meglio in mezzo ai Pokémon che insieme alle persone.
N si riscosse, si voltò e le sorrise. Poi rispose: «Certamente. E dammi pure del tu.»
Lei si avvicinò titubante e chiese: «A… lei mancava tanto il mio papà?»
«Moltissimo. Credimi poiché non ho mai visto un tale dolore torturare l’anima di qualcuno.» rispose lui.
Lily lo guardò un momento sconvolta, poi, interpretando lo strano linguaggio, concluse che sì, le mancava molto.
«E perché non è tornata?» chiese allora, un po’ seccata. Se si mancavano così tanto a vicenda, poteva tornare e lei sarebbe cresciuta con una madre che l’amasse.
N storse la bocca e rispose: «Prima di poter dare risposta alla tua domanda, dovrò avere il consenso di tuo padre. È un’argomentazione molto delicata.»
Lei annuì, senza insistere, sapendo che tanto nessuno le avrebbe detto qualcosa; pareva che fosse ancora una bambina di tre anni e che non capisse nulla. Un po’ seccata, lasciò correre. Avrebbe scoperto tutto a modo suo.
«Sappi però che è tornata appena ha potuto.» aggiunse lui, per cercare di rendere la pillola meno aspra.

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


Parentesi.
Dettaglio vagamente OOC: io mi sono sempre immaginata Lance come un palestrato, alto e muscoloso. :P
E quindi così l'ho rappresentato!
Chiusa parentesi.
Buona lettura! :)

-

  Raphael la smise di piangersi addosso. Athena era viva e vegeta e lui doveva aiutarla. Cosa piangeva a fare?
Mentre Lily e Pidg facevano conoscenza, uscì di casa e corse in ufficio, sulla groppa di Cobalion. Mise a posto alcune carte e poi andò alla Lega. Doveva sapere ad ogni costo. Parlare con Lance. E capire.
Il Campione però era in palestra e stava facendo ginnastica. Quando gli dissero che era l’avvocato Grayhowl, ordinò che lo raggiungesse lì, senza incontri formali e simili. Era urgente che si parlassero al più presto.
Raphael seguì l’addetto nella palestra dell’Altopiano Blu, enorme e occupata quasi sempre solo dal Campione e Bruno, il terzo Élite.
«Ciao, Lance.» disse l’uomo entrando, per poi bloccarsi sull’uscio.
Si guardò intorno. La stanza era piena zeppa di attrezzi e Lance di fronte a lui era vestito solo con i pantaloncini corti e una canottiera attillata. I suoi muscoli risaltavano in una maniera spaventosa.
«Se disturbo torno dopo.» borbottò l’avvocato, fissandolo semi sconvolto e pensando: “Se mi dovesse mollare un pugno adesso mi farebbe saltare via tutti i denti…”
«Tranquillo, Raphael.» rispose lui, ignorando la reazione dell’interlocutore: «Dobbiamo parlare, lo so.»
«Perché la stai aiutando? Non capisco…» chiese subito lui, dando voce ai suoi dubbi e per ignorare il mezzo terrore di avere quel gigante davanti al naso.
«Ti racconterò quello che le ho risposto quando mi ha fatto la stessa domanda.» disse Lance, indicando la panca su cui era seduto lui stesso: «Siediti, ascolta e… cerca di capire.»
 
INTERMEZZO: LA VERITA’
 
Finito il processo, Lance rinchiuse ancora Athena, incatenandola al muro in piedi, e la lasciò sola per delle commissioni. Quando tornò, entrò nella stanza e guardò nella cella. La vide con la testa piegata in avanti. Perplesso entrò e con rapidità le tolse la catena dal collo: aveva attorcigliato la catena del braccio destro attorno alla mano, tirandosi su, e si era messa l'altra intorno al collo, lasciandosi poi cadere. La liberò e sentì le funzioni vitali. Non respirava e il cuore pareva non battere. Le slacciò le manette, la stese in terra e le mise le mani sullo sterno, contando fino a trenta. Posò le labbra sulle sue e le diede aria, poi ricominciò a massaggiare. Ripeté l’operazione svariate volte, finché non sentì un debole battito e un flebile respiro. Ansimando dalla fatica, mandò Dragonite a prendere la bombola di ossigeno e per le emergenze e mormorò: «Cosa volevi fare, eh? Ma che ti prende… razza di pazza.»
Il Pokémon Drago tornò in breve tempo e lui le diede un po’ di ossigeno. Il battito si fece più deciso e lei aprì lentamente gli occhi; Lance la tenne stesa a terra. Con un gran respiro, lei li richiuse e tornò incosciente, ma continuando a respirare.
Quando Athena si risvegliò, Lance era ancora lì. Si era posato con la schiena al muro fuori dalla cella e dormicchiava, seduto in terra. Aveva gli occhi segnati da profonde occhiaie, segno di chi non riposava da molto tempo.
Athena invece, era sdraiata su una branda, con un cuscino sotto la testa e una coperta sul corpo. Era un po’ rintontita, ma stava bene. Si alzò e si avvicinò al Campione. Sembrava che dormisse, ma lei sapeva che si sarebbe svegliato al primo suono. Non voleva destarlo, ma per sbaglio urtò un sasso e lui si svegliò di colpo.
Alzatosi, si guardò intorno per capire la fonte del rumore; vide la donna in piedi e si tranquillizzò, massaggiandosi le tempie. Disse, mentre teneva gli occhi chiusi: «Finalmente in piedi. Cominciavo a pensare che fossi finita all’altro mondo e che il battito fosse una mia illusione.»
«Era quella l’intenzione, ma qualcuno mi ha rovinato i piani. Tanto per cambiare.» ribatté secca lei, squadrandolo con un’occhiata del tutto poco amichevole e non capendo cosa gli passasse per la testa.
«Perché l’hai fatto?» chiese lui, ricambiando lo sguardo con la stessa moneta, anche se con una strana sfumatura di rimprovero.
«Potrei farti la stessa domanda.» rispose lapidaria lei: «Ma tanto tu non puoi capire. Perché me lo chiedi, piuttosto? Non è quello che vuoi, Campione da strapazzo? Vedermi… “bruciare con le mie belve”?» domandò secca di rimando lei, citando una frase detta da lui molto tempo prima.
Lui la guardò e la scintilla dell’ira divampò nei suoi occhi quando sbottò: «Ma come fai ad essere così ottusa?! Ti sei convinta che ho preso come avvocato Raphael tanto per darti fastidio, ma in verità sapevo che avrebbe tirato fuori qualunque cavillo legale pur di salvarti.»
Lei lo guardò, interdetta, senza capire e sorpresa da quella risposta; così chiese, senza riflettere: «Cosa?»
«Senti, Athena… se una volta volevo metterti dentro con tutte le mie forze, ora non vale più.» disse lui, secco e un po’ troppo serio, ma soprattutto senza cattiveria.
Lei fece per ribattere, convinta che la stesse prendendo in giro, ma lui le indicò la branda con la mano e aggiunse: «Siediti.»
«Eh no, adesso mi…» tentò di replicare lei, ma lui la interruppe, più deciso, dicendo: «Siediti!»
Lei sedette, perplessa dallo strano comportamento del Campione. Lui aprì la cella e si mise accanto a lei, senza l’odio o la paura che aveva sempre avuto in passato; era tranquillo, come se sapesse che ormai lei era innocua; o quasi. Si prese la testa tra le mani e poi cominciò a parlare, con la voce velata di tristezza: «Ho cominciato a vacillare dopo che ti ho rivista a Isshu. Era difficile per me credere che fossi cambiata così tanto, nel giro di soli tre anni. Ero confuso. Tornai a Kanto e perquisii la base, poi quella di Johto, senza trovare nulla. Tra le cose requisite non c’era niente che mi dicesse qualcosa. Eppure ero convinto che ci fosse un tassello che mi mancava.
Com’era possibile un cambiamento del genere?
Casualmente, trovai una botola nella Palestra di Smeraldopoli.»
«Quella di Giovanni.» borbottò lei, giusto per non fargli fare il monologo.
Lui annuì e proseguì: «Sì. Trovai un magazzino pieno di videocassette e nastri registrati. E sai cosa contenevano?»
Lei scosse la testa, perplessa e non capendo dove lui volesse andare a parare: «Non sapevo nemmeno esistesse quel magazzino.»
Lance sospirò, poi rispose alla domanda sottintesa: «Le registrazioni erano tutte di Giovanni. Spiegava come ti stava piegando al suo volere, giorno dopo giorno, ora dopo ora. C’era dentro tutto. E nei nastri delle videocassette c’era… giuro che non ho mai pianto, in tutta la mia vita. Ma quella volta…»
Lui alzò lo sguardo e la fissò negli occhi, senza timore. Gli si poteva leggere la tristezza e l’amarezza, quasi le lacrime: «In quei nastri c’era… anzi, c’erano… registrate tutte le volte che ti metteva in… punizione. Tutti i castighi, le sue manipolazioni…. Tutto.»
Athena lo guardò, sconvolta da quanto gli stava dicendo, ma soprattutto sconvolta dal fatto che lui ne fosse così colpito. Sembrava scioccato e moralmente distrutto.
Lance fece un respiro profondo e proseguì: «Le ho viste tutte. Una dopo l’altra. E ogni volta mi chiedevo come si potesse essere così crudeli. Come si potesse massacrare psicologicamente così una bambina di soli otto anni. Mi sono sentito un mostro. Ti ho perseguitata, ho ucciso le creature a cui tenevi di più… e alla fine non era colpa tua. Era solo tutta colpa di Giovanni. Mi sono accanito su un’innocente, accecato dalla rabbia e dall’odio.»
Nonostante avesse visto quei nastri molto tempo prima, Lance era ancora molto scosso. Era sull’orlo delle lacrime, che tratteneva a stento per non sembrare ridicolo; non poteva farsi vedere dalla gente difendere quella che tutti credevano una bestia ma si sentiva tremendamente in colpa.
Lei posò la mano sulla sua, che stringeva la stoffa dei pantaloni, colpita dalla sofferenza interiore che mai si sarebbe aspettata da lui, soprattutto per lei, e disse: «Non sentirti in colpa, Lance. Giovanni ha solo usato come arma la mia stessa mente. E io ero troppo piccola per rendermene conto. Me lo spiegò Aurea, poi mi sono informata. Io soffro di sociopatia nevrotica, provo piacere nell’uccidere e nel far soffrire gli altri. Non lo nego e non avrebbe nemmeno senso farlo. Non sono così innocente come dici tu, anzi. Prima che Giovanni mi portasse via, mi insegnarono a reprimere questa indole. Certo, lui riuscì a piegarmi a lui, a farmi il lavaggio del cervello, ma di base sono comunque io a essere sbagliata.»
«E allora cosa ti ha spinto a non uccidere più?» chiese lui di rimando, tornando a guardarla: «Come c’è stata l’escalation, doveva avvenire anche il contrario.»
Lei, annuì, lo guardò a sua volta e, con un sorriso triste, disse: «La tua parte l’hai fatta. Vedendo morire i miei Pokémon, ho avuto un crollo psicotico ed emotivo. Non ho retto il colpo ed è stata la prima volta in cui ho provato il dolore non fisico ma emotivo. Da lì in poi, con l’aiuto di Aurea e di Raphael, mi sono fatta curare: ho spento la mia sete di sangue, insieme alla mia irritabilità, lasciando campo libero ai sentimenti. Ovvio che non si può curare del tutto, ma ho fatto un bel cambiamento. L’escalation al contrario c’è stata… ma solo nella mia testa.» concluse, evitando di parlare di quei pochi omicidi fatti a Isshu. Nardo aveva chiuso la questione dando la colpa a un ex galeotto trovato stecchito in una fossa, probabilmente per overdose mista a alcool. 
«Capisco.» disse solo lui, girando la mano verso l’alto e stringendo piano la sua: «Non avrei mai detto che avessi sofferto così.»
Lei sorrise, alzando le spalle con finta noncuranza per tranquillizzarlo, ancora perplessa da quel suo strano senso di colpa, e rispose: «Ragionavi per ciò che vedevi. Non devi fartene un torto, non sei mica l’unico. I soli ai quali non è mai importato chi fossi, cosa facessi e soprattutto cosa avessi fatto, li hai visti anche tu. La prof, Belle, Cheren e Raphael. Gli unici che hanno visto in me qualcosa che sfuggiva perfino a me stessa.»
«Devi loro molto…»
Lei annuì, conscia dell'enorme debito che aveva con loro e aggiunse: «Più di quanto pensi. Sapessi quanto male li trattavo all’inizio… eppure non hanno mai mollato. Belle soprattutto. Voleva fare amicizia e ce l’avrebbe fatta. Una testona di prima categoria.»
Lance si lasciò sfuggire un sorriso, sentendo con che serenità e quasi affetto la donna raccontava di quei due ragazzini che lui stesso aveva visto e aveva cercato di metterle contro.
«Devo anche chiederti scusa per…» disse all'improvviso, rendendosi conto del brutto tiro che aveva fatto.
«Mi spiace per te, ma hai fallito miseramente.» ridacchiò lei, dandogli un giocoso spintone sulla spalla con la sua, avendo capito a cosa facesse riferimento: «Ti è andata male. Non sei riuscito a farci litigare!»
Lui la fissò come se lo stesse prendendo in giro e lei aggiunse: «No, mio caro Campioncino. Temo di esserci rimasta male perfino io. Ma quei due se ne sono altamente fregati delle tue parole.»
«Mi dichiaro sconfitto.» disse Lance, alzando le mani, ma sotto sotto contento.
Lei rise e lui ascoltò quella risata con attenzione. Così diversa, così umana… divertita, ma per qualcosa di giusto. Del tutto differente da quella assassina e terribile che aveva sempre udito. Come d’altronde anche il tono di voce. Era davvero colpito e quasi incredulo da ciò che sentiva.
«Però sono contento di sapere che Deathly Eagle è vivo. Mi fa stare un po' meglio.» mormorò, quasi imbarazzato ma sincero.
Lei sbuffò: aveva sempre odiato quello stupido soprannome attribuito al dolce Pidg. Un conto era lei, la pazza assassina, ma quel Pokémon volante, buono come il pane, non lo meritava. Aveva la morte nel nome e molto più di quanto la gente sapesse, l'aveva limitata, frenando lei. Così, sbottò: «Si chiama Pidg.»
«Come?»
«Si chiama Pidg. Non merita un nomignolo così denigratorio.»
Lui la fissò, perplesso. Sembrava davvero irritata dal sentire quel nome; così, annuì e mormorò: «Non lo sapevo. Cercherò di ricordarlo.»
Lei non aggiunse altro, così lui, non riuscendo a sopportare quel silenzio, borbottò: «Portando Raphael come accusa, speravo di aiutarti. Ma il giudice non molla.»
Le sfuggì un sogghigno quando rispose: «Quello mi vuole nella tomba. Vediamo… quante ore erano?» fattasi pensierosa, aggiunse: «Mmm… quindici ore di tortura mi sembra. Si è fatto tre mesi di ospedale, per poi scoprire che era rimasto senza moglie e figli. Che pretendi?»
«Cosa?!»
Lei annuì e con fare eloquente aggiunse: «Ehi, Campioncino, devo rinfrescarti la memoria? Sono o non sono comunque il Demone Rosso?! Ho impressi nella mente tutti gli omicidi che ho commesso. Il giudice dava fastidio a Giovanni. Però lui era alquanto sadico in quel periodo, quindi voleva farlo soffrire. Mi disse di catturarlo, dargli il “benservito” e poi fare un piccolo massacro familiare. Mi chiuse tre settimane in isolamento il mese prima. Non voleva tentennamenti e di certo non li ha avuti.»
Non gli servì neanche pensare: Lance ricordava bene quel video, aveva quegli urli disumani che gli rimbombavano ancora nelle orecchie. E lei non si tratteneva dal raccontare: tanto ormai lui sapeva tutto.
Athena gli lasciò la mano, rendendosi conto del gesto quasi all'improvviso, e guardando il pavimento si alzò e disse: «Lascia perdere il senso di colpa. Lascia perdere tutto. Anche se forse non è colpa mia, non era Giovanni che impugnava quella lama e non era lui a gioire quando versava sangue.»
«Forse no, ma credo che abbia diritto anche tu di essere felice. Nonostante tutto...»
Lei scrollò le spalle, senza sapere cosa ribattere. Rimasero lì, ancora in silenzio, poi la donna chiese, rompendo lei stavolta il silenzio: «Perché non mi hai fatto parlare con Raphael?»
Lance rimase un momento colpito dalla domanda, poi rispose: «Perché penso che se è convinto che stai soffrendo, lavora meglio per costruirti la difesa. Farò la parte del cattivo ma tanto non gli sono mai stato simpatico quindi poco importa.»
«Psicologia inversa. Astuto.»
Lui sogghignò, con uno sguardo mezzo complice, e chiese: «Avevi dubbi?»
Lei ridacchiò e rispose: «Hai fatto bene. Sono quattordici anni che non ci vediamo, immagino si sarà fatto una vita. Volevo sparire senza che lui lo sapesse, ma mi hai rovinato anche questo. Non te ne faccio una colpa, non potevi saperlo, ma è meglio se non lo vedo più. Al massimo solo in tribunale.»
Lance ci pensò un attimo, poi però decise di buttarsi, anche per avere una conferma e per vedere se davvero non uccideva più: «Lo ami ancora?»
Athena lo squadrò un momento, come per ponderare la domanda e capire le sue vere intenzioni; era ancora sospettosa, nonostante il Campione sembrasse quasi totalmente amichevole e dalla sua parte. La sua sofferenza era stata reale prima, quindi, forse con un po' di titubanza, rispose: «Ora ci credi?»
Lui alzò le spalle e rispose: «È difficile credere che sia una menzogna...»
La donna lo fissò ancora indagatoria, non sapendo se credergli o meno, ma infondo doveva ammettere di dovergli la vita, quindi rispose: «In questo caso... sì, lo amo. Più della mia stessa vita. Ma non voglio rovinare la sua.»
L'uomo annuì e si alzò dalla branda, dicendo: «Tranquilla. Se è questo che vuoi, sarà fatto.»
«Ti ringrazio.»
Lance uscì e richiuse la cella. Non le mise le catene. Non ne valeva la pena. Ora che si erano chiariti e che erano dalla stessa parte, la scenetta era quasi inutile.
Si guardarono ancora un momento e poi lui sparì con uno svolazzo del mantello.

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII ***


«Lo zaino che mi ha portato Pidg…» commentò Raphael, alla fine del racconto, abbastanza toccato e stranito da quella storia e dal comportamento del Campione che non si sarebbe mai aspettato.
«… contiene i nastri di cui ti ho parlato.» concluse Lance, annuendo, contento di vedere che gli credeva: «Preferirei evitare di farteli vedere, ma ti servono per la difesa. Usali bene e vincerai.»
«Non so cosa dire Lance.» borbottò l'avvocato, ancora incredulo a ciò che aveva sentito.
«Non devi dire nulla.» rispose l'altro, scuotendo la testa con un mezzo sorriso: «Salvala, basta questo. Con tutto quello che ha passato…»
«Conta su di me.» annuì deciso Raphael. L'avrebbe salvata. Ad ogni costo.
I due si strinsero la mano, poi Raphael uscì, salutandolo con amicizia per la prima volta in vita sua, e tornò a casa di N, deciso a vincere per lei. L'avrebbe riavuta al suo fianco.
Nel frattempo, lì a Hoenn, Lily uscì in giardino, dopo aver visto Pidg volare via in lacrime, quelle che cercava disperatamente di nascondere. Davanti a lei vide un cervo elegante, comodamente seduto al sole: il suo palco di corna era carico di foglie verdi e lui sembrava rilassarsi sotto la luce solare. Delle volte scrollava la testa, pigramente.
La ragazzina si avvicinò ancora e lui se ne accorse. Aprì un occhio ambrato e la scrutò, perplesso, come per studiarla a fondo. Lily deglutì e alzò le mani, in segno di resa. Shikijika finì il suo esame, richiuse l’occhio e posò la testa sulle zampe anteriori, pronto a fare un pisolino.
«Saaam!» esclamò una voce gioviale alle spalle della ragazzina.
Lei fece un salto di tre metri buoni e corse via. Si girò e vide un enorme leone marino blu con una conchiglia in testa che la fissava, perplesso da quello scatto.
*«Aspetta, non scappare!»* disse il Pokémon, avvicinandosi, ma ovviamente lei, non potendo capirlo, arretrò ancora decisa a non lasciarsi aggredire.
Lily si tenne lontana, terrorizzata, e Shikijika sbottò, senza nemmeno aprire gli occhi: *«Lasciala in pace, Maru.»*
Maru guardò l’amico perplesso e rispose: *«Cosa? E perché? È sua figlia!»*
La ragazzina li guardò discutere, non sapendo che fare e ovviamente non capendo cosa stessero dicendo. Le sembravano solo versi a caso, ma poi ci ripensò: venivano trattati come esseri umani, quindi sicuramente erano intelligenti e sapevano comunicare fra loro. Quindi forse stavano pensando un piano per farla secca e dare la colpa a lei stessa. Cobalion però la raggiunse e la riscosse dai suoi neri e catastrofici pensieri.
“Lilith! Che succede? Perché sei impaurita?” chiese, lievemente preoccupato, dandole un leggero buffetto sul braccio con il naso.
«C-cobalion!» esclamò lei, abbracciandogli il muso terrorizzata: «Cosa vuole quell’ … animale blu?»
Cobalion ridacchiò, leccandole la faccia, e rispose: “Non temere. Lui è Maru, un Samurott, ed è un Pokémon molto buono e gentile. Quello che vedi in parte a lui è invece Shikijika, un Sawsbuck.”
«Non vuole aggredirmi?» domandò la ragazzina, non del tutto convinta di quegli aggettivi del tutto positivi su quelle bestie strane e terribili.
Il Pokémon Metalcuore rise in un ruggito soffocato e rispose: “Ma certo che no. Maru era curioso di sapere chi tu fossi, poiché assomigli molto a tua madre.”
Lily si fece seria, comprendendo forse di più quell'interesse di tutti verso di lei; lasciando l'amico Pokémon, lo guardò dritto negli occhi rossi e chiese: «Tu l’hai conosciuta?»
Lui annuì e ripose: “Sì. Maru invece la conosce da molto più tempo di me. Non avere paura di loro, sono Pokémon buoni. E nessuno ti farà del male. Fidati di me.”
Cobalion le sorrise, dandole una spinta incoraggiante con il muso, e se ne andò. Lily sedette sul prato. Buoni o no, quegli “animali” le facevano paura. E non poca. Stava pensando alla madre, a tutti quei segreti su lei e a quanto poco volessero dirle tutti, quando, poco dopo, sentì una presenza in parte a lei. Si voltò e vide Maru che le tendeva un fiore che teneva tra i denti. Il Samurott sperava di fare amicizia. Ce l’aveva fatta con Athena, perché con la figlia no?
«Oh… grazie Maru.» mormorò lei, prendendo la margherita in mano, anche se con un lieve tremore.
«Sam!! Samurott!!» esclamò lui, ammiccando e sedendosi in parte a lei, senza lasciarsi scoraggiare dalla sua poca apertura al dialogo.
Lei lo guardò, poi chiese, titubante: «Tu conoscevi mia madre?»
«Sam. Sam samurott!!» rispose lui, annuendo, ma poi batté però una zampa a terra. Come per dire “qui”.
Lily rifletté un momento e mormorò: «Vuoi dire… che tu conosci mia madre?»
«Sam!!» esclamò lui annuendo sorridente, felice che aveva capito.
«E che tipo è?» chiese lei, emozionata, visto che qualcuno era disposto a raccontarle qualcosina.
Maru la guardò un momento, pensando a come spiegarsi. Non era facile visto che la ragazzina non lo capiva.
«Sam…» rispose, indicando la casa, ormai rassegnato al fatto che non le poteva parlare liberamente.
Imbarazzata, la ragazzina annuì e disse: «Oh sì, scusa. Deve essere difficile farsi capire a gesti.»
«Samurott!» ridacchiò lui.
«Ma N vi capisce?»
Lui annuì e si sdraiò accanto a lei; stare vicino alla figlia forse gli avrebbe fatto passare la nostalgia per la sua cara amica e compagna Castiga.
Mentre i due tentavano di comunicare, Raphael tornò e li vide. Si avvicinò a loro, prima di entrare in casa ad aggiornare N, ed esclamò, con un ghigno: «Quanto tempo è passato, eh Maru?!»
«Samuuurott!» rispose lui, alzandosi sulle due zampe e leccandogli la faccia; era l'unico Pokémon davvero felice di rivederlo.
Lui scoppiò a ridere e cercò di spostarlo, esclamando: «Maru, piantala! L’ho già fatta la doccia!» mentre Lily li fissava sconvolta.
«Saaaaam!!» rispose lui, rimettendosi a quattro zampe, ma strusciandogli la conchiglia sotto la mano.
«Ma papà… tu lo conosci?» chiese titubante la figlia, mentre osservava il padre accarezzare il Pokémon.
«Certo.» rispose lui, sorridendo: «Abbiamo viaggiato insieme per tutta Isshu.»
La ragazzina lo fissò sconvolta, immaginandosi il padre nelle vesti del girovago a fatica, ed esclamò: «Veramente?! E non me l’hai mai detto?!»
«Non ce n’è mai stata l’occasione.» rispose lui, alzando le spalle, ed evitando di dire che l'aveva omesso perché il ricordo della madre era troppo doloroso e non voleva scoppiare a piangerle in faccia, ma poi l’occhio gli cade sul Sawsbuck, così chiese a Maru, in un sussurro: «Ehi, di’ un po’… Shikijika mi vuole incornare ancora?»
«Sam.» rispose lui, scrollando le spalle; si voltò verso il Sawsbuck e chiese: *«Ehi, Shik! Vuoi ancora farlo secco?!»*
*«Quell’idiota l’ha messa incinta. Certo che voglio farlo secco. A meno che non la tira fuori dai guai. In quel caso, potrei ripensarci.»* rispose lui.
«Sam…» borbottò Maru, guardandolo sconvolto.
«Ok. Dalla tua faccia deduco di sì.» borbottò l’uomo, tenendosi lontano dal cervo.
Lily lo fissò perplessa e chiese la storia così il padre rispose: «Beh, diciamo che al cervo dal nome impronunciabile non sono mai andato a genio.» ma prima che potesse aggiungere qualunque cosa, il cellulare squillò. Era Lance.
L'avvocato lo posò all'orecchio e rispose: «Pronto? Che succede?»
«Mi sono dimenticato di dirti una cosa, Raphael.» disse il Campione, all'altro capo: «Posso farti avere un colloquio privato con Athena ora. Sei il suo avvocato difensore, quindi puoi vederla quando vuoi.»
Lui sospirò e rispose: «Già lo sapevo, ma serve a poco. Colloquio registrato che può finire nelle mani del procuratore generale in qualunque momento.»
«Ehi, avvocato. Io posso tutto!» esclamò l'altro, con un tono da superiore.
«Cosa intendi dire?»
«Ti ricordo che è sotto la mia custodia. Quindi… spegnere la telecamera e il registratore vocale è uno scherzo!»
Emozionato alla notizia, di poterla stringere finalmente a lui, chiese: «Lo faresti davvero?»
Lance rise sentendo il suo tono felice, e rispose: «Certo. Ho cambiato molto il mio modo di pensare in dieci anni. Athena non ha mai passato un istante della sua vita felice… ne avrebbe anche il diritto.»
Raphael non rispose, mettendo giù, ma il suo sguardo brillava; non vedeva l'ora di riaverla tra le braccia, dopo quell'infinità di tempo. Tornò in casa di corsa per dare la notizia a N.
Lily invece, abbandonata dal padre, si avvicinò a Shikijika. Lo guardò con curiosità, ormai avuta la certezza che nessuno le avrebbe fatto del male; lui, dapprima la ignorò, ma poi, stufo di quello sguardo puntato addosso, aprì un occhio e ricambiò come per dire: “Che vuoi?”
Lei se ne accorse e mormorò, imbarazzata: «Scusa se ti ho disturbato… Non avevo mai visto un Pokémon così da vicino, escludendo Cobalion.»
Shikijika ammiccò, poi si alzò scrollando elegantemente le corna e si avvicinò lentamente a lei. L'Aromaterapia fece il suo dovere e lei, rilassata, non scappò come prima aveva fatto con Maru. Il cervo si accoccolò vicino a lei e le mise la testa sotto la mano. Lei lo accarezzò piano, capendo che non aveva mai avuto nemmeno il pensiero di farle del male. Poco dopo, Lily si trovò circondata da Shikijika, Hoshi, Maru e Wargle. Ed era felicissima in mezzo a quelle strane creature. Le veniva del tutto naturale.
Nel frattempo, N era in ansia. Raphael era uscito per mettersi d'accordo con Lance e avrebbe dormito nella camera di Athena, la sua di diritto, Lilith giocava con i Pokémon, ma non aveva un posto per la notte... come avrebbe fatto con Giovanni? Il figlio aveva un carattere difficile... erano riusciti ad accettarsi, erano riusciti a essere una famiglia, ma ora... il bambino era già abbastanza sulle sue per la scomparsa della madre, avrebbe accettato la piccola Lilith in camera sua, nel suo privato? Si sentiva un mostro a imporre una cosa del genere... mentre rifletteva, la porta si aprì. Giovanni entrò, seguito dal fedele Mankey, e lo vide. Si avvicinò e salutò: «Ciao, papà...»
«Ciao, Gio.» rispose lui, accarezzandogli la testa e notando gli occhi lucidi, ma non facendo domande.
Lui deglutì, buttando giù il magone, e sbottò: «Quando è l'esecuzione, alla fine?»
«Non vorresti davvero assistere.»
«Questo lo dici tu.» ringhiò lui, spostando con un gesto secco la sua mano.
N sospirò e buttò lì: «Non serve nascondersi tutte le volte.»
Giovanni capì l'allusione, ma scosse la testa e borbottò qualcosa di indefinito. N però sorrise e aggiunse: «Non servirà più, tra l'altro.»
«Che vuoi dire?»
Tornando ad accarezzargli i capelli, il padre si chinò alla sua altezza, con un sorriso davvero contento, e rispose: «A quanto pare, il Campione non è più preso dalla follia omicida vendicativa di una volta. Ci hanno detto, e tuo zio ha confermato, che non vuole più metterla alla gogna ma anzi, sta cercando di salvarla.»
«Davvero?!» esclamò lui, aprendosi in un sorriso felice.
N annuì ma aggiunse: «Però c'è una cosa di cui dobbiamo parlare.»
Il bambino lo fissò, notando il tono serio, e fece per chiedere qualcosa, ma il padre andò alla finestra e gli fece cenno di guardare fuori. Lui ubbidì e vide una bambina giocare con Maru. Si voltò verso il padre in una muta domanda e lui rispose: «Tu sai che io e tua madre non ci amiamo... ebbene, lei ama da molti anni una persona che ha cresciuto, senza che lei lo sapesse, la loro figlia.»
Giovanni ci mise un po' a realizzare la frase ma poi vide degli atteggiamenti che gli ricordarono la madre, insieme a tratti fisici evidenti. Arretrando, mormorò: «Non è possibile...»
«Giovanni...» cercò di calmarlo N, ma non riuscì a dire altro. Il bambino corse via, in lacrime, e si chiuse in camera.
Una figlia biologica. Un incubo.
*«Perché sei così spaventato, Gio?»* chiese Donkey, dopo averlo seguito nel suo attacco di panico.
«Una figlia biologica! Ti rendi conto?!» esclamò lui, con il terrore nel cuore. Vedendo lo sguardo perplesso del Mankey, aggiunse: «Se lo dovesse scoprire, le vorrebbe più bene di me! È ovvio! È sangue del suo sangue! Chi sono io per competere con lei?! E per di più è femmina. E magari più ubbidiente di me!»
Donkey fissò il bambino gridare tutta la sua paura, non comprendendola. Perché? Athena non avrebbe mai messo davanti a lui nessuno. Probabilmente li avrebbe messi sullo stesso piano. Ma niente, né le sue parole, né quelle successive di N, riuscirono a convincerlo che stava temendo ciò che non sarebbe mai accaduto. N scese di sotto, dopo l'ultimo tentativo, lasciandolo nella sua confusione mentale e pensando a cos’altro dire per convincerlo che si sbagliava, che poteva andare d'accordo con lei, finendo però a urlare. Si era accorto di alzare troppo la voce, delle volte. Di assomigliare troppo a Geechisu. E aveva deciso da tempo di smettere. Di essere più N e meno Geechisu.
Quella sera furono lampi e fulmini. Giovanni passò tutta la cena a guardare male sia Lily che Raphael, vedendo quanto lei somigliasse alla madre, ma a tratti anche all'uomo. I due, piuttosto a disagio sotto quell'esame, non dissero nulla, cercando di ignorare le occhiate di fuoco.
"Così... la mamma si è fatta quel tipo... tempo fa. Ma allora perché vive con papà? Io pensavo che non amassero nessuno e che quindi stessero insieme per farsi compagnia." pensava, fissando tutti in cagnesco. Finita la cena corse via, trattenendosi a stento dal sfogare la sua rabbia; gli insegnamenti della sua mamma erano stati sempre chiari: non doveva picchiare nessuno.
N sospirò, quando sentì la porta della stanza sbattere, e disse: «A quanto pare, le mie parole sono state vane.»
«Come mai?» chiese Raphael.
«Credo tema qualche tipo di preferenza...» buttò lì, per evitare che Lily capisse di essere il centro del problema.
L'avvocato capì il sottinteso; così, per sdrammatizzare, disse, con un ghigno: «Da quando hai mollato il vocabolario da romanzo, N? Non avrei mai pensato di sentirti parlare in modo così… plebeo.»
L’amico evitò di fargli la linguaccia per pura educazione e rispose, pacato: «Deve essere stato il vivere per lungo tempo solo con Castiga. D’altronde, è dimostrato che si tende a parlare come coloro che ti stanno intorno. Cambiando la compagnia, immagino cambi anche il gergo.»
«Almeno ora sei comprensibile.» ridacchiò l’uomo mentre Lily lo rimproverava di essere maleducato.
Il giorno dopo, Raphael e Athena erano insieme nella stanza degli interrogatori. Lance aveva spento sia audio che video, compreso il registratore, concedendo loro la più completa privacy. Le uniche eccezioni erano Pidg e il nipote. Di nascosto, li stavano osservando per vedere se era davvero amore o una macchinazione di quell’umano. Gli sguardi dei due, però, valevano più di qualunque frase possibile. Due sguardi innamorati, di due persone che si amavano davvero. Si tenevano le mani, assaporando quel contatto che tanto era mancato ad entrambi.
«Mi sento così estranea, Raphael. Non so niente di te … più niente.» mormorò lei forse un po’ triste, ma guardandolo con amore come mai aveva fatto; la distanza da lui le aveva fatto capire quanto veramente lo amasse e lo volesse al suo fianco fino alla morte.
Lui le accarezzò dolcemente la guancia e mormorò: «Si fa presto a rimediare, sai?»
L’uomo le indicò le sue gambe e aprì le braccia. Athena sorrise, si alzò e sedette su di lui, posandosi al suo petto. Raphael la avvolse tra le sue braccia e cominciò a raccontare tutto ciò che gli era successo in quegli anni, cercando di non calcare quanto stesse male senza di lei: raccontò dell’università, del suo lavoro e di Gabriel, di quanto fossero amici, e di quante bravate avessero fatto insieme.
«Siamo molto amici e gli voglio davvero bene.» concluse con un sorriso, mentre le passava dolcemente la mano sulla testa.
Lei non rispose, limitandosi ad annuire. Non voleva parlare, non voleva dire nulla. Voleva solo restare lì, sentirlo al suo fianco, sentire la sua dolce mano accarezzarle piano i capelli. Come una volta.
«Ora tocca a te.» borbottò lui, dopo un attimo di pausa e di silenzio per godere un po' l'uno della presenza dell'altro: «Dimmi tutto quello che è successo tra te e N.»
«Oh, non vorrai ricominciare con questa storia. Non è successo niente tra me e N.» rispose lei, quasi seccata dal fatto che tirasse fuori ancora quella storia assurda: «Siamo solo amici.»
«Potrei cominciare a crederci davvero.» ridacchiò lui, con un ghigno.
«Ma la smetti?»
Lui rise e lei capì che la stava provocando apposta. Gli diede un buffetto con la mano, giusto per fargli capire che sarebbe stato da ceffone, ma poi si ridusse a dargli una carezza sulla guancia. Lui chiuse gli occhi al suo tocco dolce, ma poi si fece serio e chiese, con la voce più dura di quel che avrebbe voluto: «Dimmi una cosa… dopo che è successo quel che è successo, che fine hai fatto?»
Voleva capire meglio il suo stato mentale e anche verificare che N non gli avesse mentito. Doveva ammettere che, conoscendolo in fin dei conti poco, non si fidava troppo di lui. Per verificare, voleva vedere le due storie combaciare. Allora, forse, ci avrebbe creduto.
«N mi portò via con Reshiram, in emergenza.» rispose Athena, alzandosi, sedendo poi sulla sua sedia: «Non so come fece a salvarmi, ma mi tirò fuori dall’inferno appena in tempo. Però ero psicologicamente distrutta. Mi sentivo un mostro, un fallimento... N non ha voluto saperne, cercando insieme a Pidg, Maru e tutti gli altri di fare qualcosa. Ma nulla pareva smuovermi. Le loro parole mi sembravano vuote, prive di significato... N non si arrese e mi portò in una clinica a Hoenn per provare a guarire la mia depressione con la gente che ha studiato, ma nella strada che facevo tutti i giorni vedevo tante coppiette felici che mi facevano solo male. Tutte quelle ragazze carine, sempre vestite bene e accomodanti verso i fidanzati … e io che cercavo solo di non ucciderti, rifiutando per la maggior parte delle volte perfino solo un abbraccio. Che razza di fidanzata ero? Non credevo di meritarmi nemmeno quell’appellativo…»
Raphael la interruppe, alzandosi in piedi di scatto e ribaltando la sedia che cadde a terra con un tonfo. Athena, che stava per proseguire, si bloccò, fissandolo perplessa da quella reazione. Gli occhi dell’uomo erano coperti dal ciuffo, non si poteva vedere cosa pensasse. La odiava, ora?
Raphael spostò di peso il tavolo a lato, facendolo sbattere contro il muro. Si avvicinò a lei e sedette sulle sue gambe, prendendole le guance e baciandola con una passione che era estranea alla sua solita dolcezza.
«Ritira tutto quello che hai detto, zuccona.» sussurrò, sulle sue labbra.
Lei, dapprima un po' stupita, si riprese in fretta dalla sorpresa e ricambiò con la stessa enfasi, affondando le dita nei suoi morbidi capelli castani e stringendosi a lui. I due si fecero guidare dalla passione carnale, trattenuta e isolata per anni e anni. Lui le sbottonò la camicia senza difficoltà, lei ebbe problemi con la cravatta; lasciò perdere, levandogli la giaccia e la camicia. Gli baciava le labbra, il collo, le spalle, godendosi quel momento dopo aver pensato per tanti anni che non l’avrebbe mai potuto rivivere. Lui era della stessa idea, mentre fremeva al contatto delle sue labbra e delle sue mani sul suo corpo...
La porta si spalancò all'improvviso.
«Ehi, voi due. Frenate gli ormoni.» sbottò Lance, per poi richiudere la porta con un tonfo.
Uscito, però, ridacchiò e aggiunse: «L'ultima volta che li ho visti, si davano forse un bacio di cinque secondi... se andava bene! Che passi da gigante!»
I due si bloccarono, avvampando. Quasi del tutto svestiti, pronti ad andare avanti. Si erano completamente dimenticati che non erano soli. Si guardarono, ancora rossi in volto. Ma poi Athena sbottò: «Lance è un guastafeste.»
«Concordo.» rispose lui. Si fissarono un momento ancora, poi scoppiarono entrambi a ridere vista l'epocale figuraccia appena fatta davanti al Campione.
Lui si alzò, riallacciandosi i pantaloni; lei fece altrettanto. Si rivestirono, sfiorandosi, e lui disse: «Comunque… il messaggio è stato chiaro.»
«Messaggio?» ribatté lei, con un ghigno: «Non hai parlato.»
Lui la prese per la vita, sorridendo, e baciandola come sapeva fare. Dolcemente. Lei ricambiò con la stessa dolcezza, mettendogli le dita fra i capelli, accarezzandoli piano.
«Tu sei l’unica che io abbia mai davvero amato. Il resto non conta.» mormorò lui, staccandosi piano e guardandola con amore.
«È talmente strano, ma… ti amo Raphael.» rispose lei, avvampando come poche volte era successo.
«E io amo te, piccola pazza.»
«Quando la smetterai con quell’appellativo, scemotto?»
«Mai.»
Lei rise e si posò a lui, mormorando, mentre lui la stringeva piano: «Avrei potuto non sentire mai di nuovo questo abbraccio. C'è voluto Giovanni per farmi riprendere. Se non fosse stato per lui...»
Raphael storse la bocca, ricordando quello sguardo semi assassino, e borbottò: «L'ho conosciuto... simpatico.»
Athena alzò gli occhi al cielo: vista la reazione dell'amato, suo figlio non doveva averlo accolto proprio benissimo; così tentò di essere convincente nel dire: «Non è così male come sembra sai? È come la sua mamma... scontroso all'esterno. Probabilmente ora ti odierà solo perché sei in camera mia. O sbaglio?»
«N sostiene sia mia di diritto.» ridacchiò lui, colpito dalla sua arguzia.
Lei gli diede un bacino sulla guancia e commentò: «Mica sbagliata come cosa. Senti…» aggiunse abbassando la voce: «Con lui si può costruire un rapporto. In questo momento sarà confuso, ma tutto è possibile. Anche riuscire a convincerlo che non cambierà niente.»
Lui le sorrise e rispose: «Ci proverò, piccola pazza. Te lo prometto. Ho conquistato il Demone Rosso... cos'è infondo un bambino un po' scontroso?»
Lei rise, colpita come sempre dal suo inguaribile ottimismo, e si separarono, un po' a fatica, tenendosi comunque le mani. Ora che erano consapevoli dell’amore che li univa, separarsi e stare lontani era quasi una perdita di tempo. Ora sapevano di essere davvero due anime gemelle che si erano trovate e che niente avrebbe mai separato.
Lei però, fattasi seria, indicò la camicia, e chiese: «È stato Pidg, vero?»
Raphael capì a cosa si riferisse e rispose: «Non è nulla.»
Lei scosse la testa e sbottò: «Maledizione. Speravo che N avesse un po’ di sale in zucca da incatenarlo prima di farvi incontrare…»
Lui cercò di sminuire e borbottò: «Dai, Athena, non ci pensare. Non è successo nulla.»
«No, per fortuna. Ma Pidg poteva ucciderti con un colpo solo.»
Lui ebbe paura solo sentendo quella semplice frase. Con voce tremante, anche se sinceramente perplesso, chiese: «E allora perché non l’ha fatto?»
«Non lo so… qualunque cosa l’abbia fermato, ringrazio che l’abbia fatto.» sospirò lei, tremando al pensiero di cosa avrebbe fatto se Pidg lo avesse davvero ucciso.
L'avvocato cercò di sdrammatizzare e disse: «Però non mi pare così letale. Una zampa da sola cosa può mai fare?»
«Perché tu non l’hai mai visto davvero arrabbiato.» ribatté secca lei: «Non lo chiamavano “Deathly Eagle” per sport. Al massacro dell’Isola Cannella, chi pensi che abbia strappato il cuore di alcune vittime? Io no di certo. Non ne avrei avuto il tempo e forse neanche la forza.»
Raphael sbiancò, pensando a quello che aveva rischiato quando Pidg lo aveva aggredito; quella zampa doveva fare molto più male di quanto lui aveva sentito a primo impatto.
«Pidg furioso, è quasi paragonabile al Demone Rosso.» continuò la donna, senza notare la sua reazione terrorizzata: «Però lui non è mentalmente instabile, quindi è meno pericoloso. Di contro però, se si infuria, è una vera bestia.»
«E credo mi odi…» balbettò lui.
Lei tornò a fissarlo e rispose: «Non è che ti odia… anzi, dovresti stargli perfino simpatico. Ma non capisce. Ha vissuto con me tanto, condividendo con me l’odio verso la mia stessa razza. Un odio che alla fine era rivolto solo a Giovanni e che scaricavo sugli altri. Pretendere che, da un momento all’altro, mi veda innamorata persa di un uomo, è troppo. Per questo volevo che tu incontrassi solo N. Ti avrei presentato a Pidg di persona. Almeno avrei potuto trattenerlo.»
*«Non ce l’avresti fatta.»* borbottò una voce, con un tono dolce.
I due si voltarono di scatto. Athena aveva sentito le parole, Raphael solo un “pidg geot pidgeo”.
«Pidg?!» esclamarono insieme.
Lei felicemente stupita, lui lievemente terrorizzato. Se li aveva visti prima, ora il suo cuore rischiava di fare un viaggio fuori dalla cassa toracica. Di sola andata.
*«Ciao, sorellina! Non avrei mai pensato che Lance…»* mormorò lui volandole vicino e lasciando in sospeso la frase. Giovanni nel frattempo, quasi nauseato nel vedere la madre dolce e carina con quell'uomo estraneo, svanì. Non voleva più assistere.
«Nemmeno io, fratello…» rispose lei, sorridendogli con dolcezza.
I due posarono la testa una contro l’altra, chiudendo gli occhi. Pidg la avvolse con le ali, lei lo strinse.
Due anime, una cosa sola.
Raphael si alzò e uscì piano, lasciandoli soli. Sapeva da tempo quanto la donna volesse bene al fratello, anche quando pensavano fosse defunto, e lui pareva ricambiare con la stessa intensità. Arrivato dietro il vetro da Lance, chiese: «Da quanto è qui?»
«Non l’avevo visto ma… credo dall’inizio.»
«Quello mi uccide.» mormorò l'avvocato, con un tono terrorizzato.
Il Campione scosse la testa e rispose: «No, se lei non vuole. Come lei non uccideva chi lui non voleva.»
«Veramente?»
Lance annuì, mentre fissava i due cullarsi dolcemente. Stavano bene insieme, si vedeva. Si volevano un bene dell'anima, come se fossero stati fratelli di sangue.
«Sai, ne ho avuto la prova.» aggiunse per rafforzare la sua affermazione: «Una volta, il Demone Rosso aveva puntato un ragazzino che l’aveva apertamente sfidata. Pidg si intromise, le disse qualcosa, e lei, massacrando un intero paese, lo lasciò vivere.»
«Oh...» disse solo Raphael, senza sapere che altro aggiungere, colpito da quella scoperta. Mai aveva pensato che qualcuno potesse fermare il Demone.
Mentre i due parlavano, anche Athena e Pidg facevano lo stesso, stretti nel piumato abbraccio.
*«So che sei arrabbiata…»* mormorò lui, dispiaciuto per l'attacco d'ira che aveva avuto. Non era da lui perdere così il controllo. Era sempre stato lui il calmo, il pacato, quello che ponderava sempre tutto... e la sorellina quella che scoppiava. In passato, una scena con le parti invertite non era mai successa.
Lei scosse la testa, sorridendo, e rispose: «No, Pidg. Me lo aspettavo.»
*«Sono così prevedibile?»*
«Ti conosco, fratellone. Semplice.»
Lui dovette annuire alla verità di quella frase, ma poi chiese, sperando in un no, anche se non era molto sicuro di avere quella risposta: *«Sorellina… lo ami davvero?»*
Lei annuì, distruggendogli le speranze: «Sì. Pensavo che avrei provato per tutta la vita solo quella smania di uccidere. E invece Raphael mi ha fatto scoprire qualcos’altro.»
*«Ora mi lascerai…»* mormorò lui, mentre una lacrima gli sfuggiva dall'occhio destro.
«Cosa?! Perché?» esclamò Athena di risposta.
Lui alzò le spalle, cercando di non piangere e rispose: *«Avrete dei progetti in mente. Io sarei solo il terzo incomodo.»*
«Non lo dire mai.» disse decisa lei, fissandolo con intensità negli occhi: «Mai, Pidg. Tu sei mio fratello, il mio più grande amico… non esiste che ti lasci così. Pensavo di averti perso e questo mi ammazzava lo sai.  Anche se cercavo di nasconderlo, pensavo sempre a te. Anche Raphael lo sa. Non so come faccia, ma mi legge dentro. E ha sempre visto il vuoto che avevi lasciato. Non dire più, mai più, una cosa del genere!»
*«Lui l’ha riempito quel vuoto…»*
«No, Pidg. Lui si è costruito un suo spazio, con fatica. Ma il tuo posto nel mio cuore è sempre rimasto vuoto. Finché non ti ho rivisto vivo da N. In quel momento però si sono scambiate le parti. Un posto era vuoto e l’altro si è riempito.»
*«Tu lo ami...»*
«Più della mia stessa vita, fratello. Ma voglio bene anche a te, perché sei mio fratello.»
Pidg le posò la testa sulla spalla e mormorò: *«Ti voglio bene, sorellina.»*
«Anche io, fratellone.» rispose lei, stringendolo.
Si sorrisero e lei disse: «Mi prometti di non fargli niente e di dargli una mano se ne ha bisogno?»
*«Promesso.»* annuì lui.
Lance entrò per portarla nei sotterranei, avendo visto che avevano finito di parlarsi. Lei accarezzò Pidg, per salutarlo, e seguì il Campione, salutando anche il suo amato mentre usciva. Raphael guardò dentro subito dopo e vide Pidg, deglutendo. Il Pokémon lo fissò gelido, poi annuì e gli tese l’ala a malincuore. Raphael sorrise e la strinse.

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Capitolo 10
*** Capitolo IX ***


"Ma perché?" pensava Giovanni inquieto: "Perché la mamma si è concessa così facilmente a quello... non l'ho mai visto, non so quanto si conoscono. Non capisco..."
Con questi pensieri, si dondolava sul ramo di un albero. Era confuso, perplesso e arrabbiato. Si sentiva tradito dalla madre.
*«Giovanni? Permetti una parola?»* chiese una voce, accompagnata da uno spostamento d'aria.
«Dimmi War.» rispose lui, capendo chi fosse arrivato senza voltarsi.
*«Tanto tempo fa, prima che tu nascessi, tua mamma era una giovane ragazza sola, triste e malata.»* disse Wargle, posandosi comodo sul ramo: *«Incontrò un uomo, il tuo omonimo, che la rese sua schiava. Lei divenne molto cattiva, mentalmente disturbata e odiata da tutti. Tuo zio saprebbe dirti molto di più di questa storia, anche se tu la sai già. Io so bene il seguito, quello che la tua mamma non ti ha raccontato perché le faceva troppo male ricordare quel bel periodo. Perse tutti i suoi amici e fuggì in una regione sconosciuta, dove incontrò Raphael. Io ti capisco, piccolo amico, perché a suo tempo, odiai quel ragazzino. Noi tutti eravamo gelosi e protettivi verso la nostra cara Castiga. Ma dovemmo tutti arrenderci. Ragazzo mio, non hai mai visto i tuoi genitori fare nulla perché non si amano. Athena e Raphael sono stati costretti a separarsi contro la loro volontà. Ma i loro cuori si appartengono. Da sempre.»*
«Ma Wargle... come posso accettarlo?» chiese Giovanni di risposta, non riuscendo a capire.
Il Braviary lo fissò e rispose deciso: *«Dovrai, se vuoi vedere tua mamma felice. Come Pidg, anche tu dovrai sotterrare l'ascia da guerra.»*
«Lo zio si è arreso?!» esclamò, sbigottito.
*«Non la metterei su questo piano.»* ribatté il Pokémon: *«Pidg ha solo capito che la felicità di sua sorella è più importante del suo orgoglio. Ha capito che lui la ama, che non la sta prendendo in giro. Ha capito che lei è felice solo con lui.»*
«E io dovrei accettarlo? Come se niente fosse?»
*«So che è difficile piccolo. Devi accettare questo uomo estraneo in casa, insieme a sua figlia, rompendo la routine quotidiana... ma cerca di capire che tua mamma può essere molto più felice ora. Tu sei la sua più grande gioia, lo sai meglio di me, ma anche Raphael ha un posto nel suo cuore.»*
Il bambino non replicò oltre, segnando la chiusura del discorso. Wargle prese il volo, dopo un'ultima occhiata, lasciando Giovanni con i suoi pensieri. Lui tornò a casa verso sera, dopo aver rimuginato tutto il pomeriggio. Si accostò alla porta e ascoltò, sentendo delle voci. Raphael stava parlando, con un tono sul rassicurante: «Sta' calmo, N. Tornerà.»
«E se si fosse fatto male? Donkey è qui, non può proteggerlo!» esclamò lui di rimando, troppo agitato anche solo per stare seduto.
Giovanni sorrise imbarazzato. Ci erano voluti anni, ma finalmente ora sentiva N come un padre e, a quanto pare, la cosa era reciproca. Spingendo la porta, entrò e mormorò: «Scusa, pa'. Ho perso la cognizione del tempo...»
Non poté aggiungere altro perché N lo strinse a lui, in un abbraccio soffocante di un uomo disperato: «Non ce l'avrei fatta a perdere anche te, piccola peste.»
«Sono tornato. E tornerà anche la mamma. Ma quella in camera non ce la voglio.» sbottò lui, con un tono risoluto. Si vergognava troppo quando il padre si apriva in quelle rare smancerie. Preferiva una bella litigata.
L'uomo si tirò su, contrariato, e replicò: «Potresti anche sforzarti di ubbidire una volta tanto. E di essere un po' più ospitale.»
«Con il cavolo. Io non ce la voglio!» ribatté lui, cominciando ad alzare la voce: «Ospitala in camera tua, se proprio ci tieni!»
N fece altrettanto, ignorando la sua imbeccata, e replicò: «E invece sì! Non usare quelle parole con me!»
«Dico quel che mi pare!» esclamò di risposta lui, correndo via come una furia.
N si maledisse per avergli dato corda e aver gridato ma ormai il danno era fatto. Non poteva fare altro che arrendersi, per quel momento. Si girò verso Raphael, un po' imbarazzato, e mormorò: «Purtroppo, per ora, le toccherà il divano.»
Mentre prendeva lenzuola e cuscini per rendere il divano il più comodo possibile, Raphael raggiunse la figlia, rimasta in un angolo in disparte, e chiese: «Sei sicura di non voler andare in camera e lasciare il divano a me?»
«Tranquillo, papà.» sorrise lei, cercando di tranquillizzarlo: «Non mi dispiace stare qui.»
«Come vuoi.» commentò solo il padre, rassegnato. Per quella notte, sarebbe andata così.
Venne la sera e andarono tutti a letto. Lily diede la buonanotte e poi andò sul divano, preparandosi per dormire. Si sdraiò e in poco tempo riuscì a scivolare tra le braccia di Morfeo. Alle due di notte però si svegliò di colpo. Non sapeva cosa fosse, ma qualcosa la inquietava. Si alzò lentamente ma non vide nulla. Guardatasi un momento in giro, concluse che non c'era di che preoccuparsi e si rimise a dormire. Ma stava all'erta.
Giovanni la fissava dall'ombra. Quello sguardo sospettoso era identico a quello di sua madre. Perché doveva essere così difficile? Perché la somiglianza con l'amata mamma complicava tutto? Poteva odiarla come odiava suo padre. Ma non ci riusciva. Tornò di sopra e fissò il letto più in basso. Lui dormiva di sopra, mentre quello sotto era una sorta di mensola. Con un sospiro, Giovanni spostò le sue cose dal letto, liberandolo, e prese delle lenzuola. Sospirando nuovamente, prese la foto che teneva sul comodino. Athena lo stava abbracciando nel prato dietro la loro casa. Si sarebbe arreso e avrebbero diviso la camera ma... quella foto sarebbe stata in bella vista. In qualche modo doveva ferire quella ragazzina che era già in vantaggio su di lui, essendo biologica, e aveva trovato il modo.
Scese di sotto e sentì che faceva molto freddo. Andò da Lily e la scosse.
«Eh?» borbottò lei, svegliandosi mezza rimbambita.
«Papà è passato ai ricatti. Vieni su prima che mi sfratti.» ringhiò lui, sottolineando la sua scontentezza di quella costrizione, non volendo ammettere che, in fin dei conti, la scelta era sua.
Lily non se lo fece ripetere due volte. Stava morendo di freddo. Giovanni non la guardò nemmeno, salendo sul letto sopra e ficcandosi sotto le coperte, ignorandola. Lei si rifece tranquillamente quello sotto e si preparò per dormire. Ma vide quella foto, messa apposta in bella vista.
"Vuoi la guerra, ragazzino?" pensò, seccata: "E guerra sia."
Cominciò una vera e propria battaglia. Rispostacce, frecciatine velenose, scherzi e dispetti vari. N e Raphael cercavano di farli andare d'accordo, ma era tutto inutile. Finché Lily non osò troppo. Prese l'amata foto che Giovanni teneva sul comodino e la nascose, lasciando solo la cornice vuota.
La sera lui arrivò, furibondo, e le urlò: «Dov'è?!»
«Cosa?» fece lei, facendo la finta tonta.
«La mia foto, maledetta mocciosa! Tirala fuori!»
«Io non ho preso niente, ragazzino!»
Giovanni prese la sua mazza da baseball. Gliel'aveva regalata Athena, con l'assoluto divieto di usarla contro le persone, cosa che lui aveva sempre rispettato. Ma la rabbia lo portò a disubbidire. L'unica cosa che gli era rimasta della sua mamma era quella foto; nient'altro. Lei non aveva il diritto di toccare le sue cose, soprattutto quelle importanti. Lily arretrò, spaventata; il bambino sembrava pratico con quell’arnese. N si alzò e fece per intervenire, ma Giovanni ringhiò: «Stanne fuori. È una questione tra me e lei.»
La ragazzina si allontanò ancora, mentre lui si avvicinava furioso. Se l’avesse colpita, le avrebbe sicuramente rotto qualche osso. Il padre non c’era per difenderla, così lei meditò di arrendersi e ridargli la foto. Meglio abbassare la testa che farsela spaccare. Ma ci pensò su troppo: il bambino, furibondo, menò il colpo. N si mise in mezzo, non potendo tollerare che la colpisse, e alzò un braccio per parare la mazzata; il rumore bloccò tutti. Giovanni lasciò cadere la sua arma, sconvolto di aver colpito il padre. N si teneva il braccio dolente, con le lacrime agli occhi. Lily, pietrificata, fissava l'uomo che, con coraggio, le aveva fatto da scudo. Giovanni corse via, non potendo restare oltre. Donkey guardò N, dispiaciuto. Lui fece solo un cenno di assenso, con un mezzo sorriso. Il Mankey annuì e corse dietro al suo allenatore e amico.
«N...» mormorò, ancora sotto shock, Lily.
Lui non rispose. Andò in giardino e chiamò: «Shikijika, potrei chiederti una cortesia?»
Il cervo arrivò, scuotendo il palco di corna; lo scrutò con un occhio ambrato, notando il colorito pallido e il braccio immobile e chiese: *«Di cosa hai bisogno?» *
«Una colluttazione con Giovanni mi ha messo fuori uso il braccio.»
Shikijika, dispiaciuto, scrollò il palco di corna, facendogli diminuire il dolore, ma mormorò: *«Il mio potere non guarisce le ferite.» *
«No, lo so. Ma mi aiuterà a sopportare l'attesa. Reshiram è andata a chiamare un nostro amico Luxray che potrà controllare se ho qualcosa di rotto.»
*«L'ospedale umano non è nemmeno concepito, vero?» * ridacchiò il cervo, sedendosi accanto a lui.
«Perché affidarsi agli umani, quando ho ottimi amici che possono fare la stessa cosa? Deathkan è un mago nelle bendature.» commentò di risposta lui, massaggiandosi l'arto ferito: «Vai a vedere come sta Lilith, per piacere. Mi sembrava molto scossa.»
*«Perché non vai tu?» *
«Lo sai... non sono a mio agio.»
*«Come al solito.» * commentò solo il Sawsbuck, alzandosi e raggiungendo la ragazzina, ancora ferma e immobile in cucina.
N, invece, venne raggiunto da Zoroark. Il Pokémon Mutevolpe lo fissò e mormorò: *«Siete ferito, sire?» *
«Niente di grave, non temere.» rispose lui, guardandolo sedersi al suo fianco e raccontandogli la storia.
*«Interessante.» * commentò il Pokémon, stupito da quanto aveva sentito: *«Trovo sia raro un tale comportamento impulsivo da parte vostra, sire.» *
«Senza dubbio insolito.» chiuse lì il discorso lui. Il Pokémon capì che non ne voleva parlare, così tacque a sua volta. Ma restò lì. Come sempre. Come faceva da tutta una vita.
Quando rientrò in casa, con il braccio fasciato e niente di rotto, N vide Lily in braccio al padre che gli stava dicendo qualcosa. Raphael, un po' triste e un po' arrabbiato, le accarezzava la testa, cercando di consolarla. Era arrivato dalla Lega dopo aver parlato, se così si può definire il suo monologo, con Pidg e aveva visto la figlia ancora tremante in salotto. Dovendo prendersi le sue responsabilità, N entrò e mormorò: «Ti porgo le mie scuse per ciò che è accaduto.»
Raphael non rispose subito, non ben propenso a lasciar correre un'aggressione a sua figlia. Avendone però prima parlato con lei e vedendo quel braccio fasciato attaccato al collo, si limitò a fargli un cenno. N sospirò. Come al solito, non c'era umano che riuscisse a capirlo. Demoralizzato, si voltò e uscì. Salì in camera, per stare un po' solo, ma trovò un bigliettino sulla porta. Sorrise. Mettendolo in tasca, mormorò: «Prego.»
Giovanni tornò verso sera. N non si era ancora visto e Lily ormai si era calmata. La ragazzina fu la prima persona che vide. Con uno sguardo serio, lei mormorò: «Tieni. Scusa, ho esagerato.»
Gli porse la foto, con pentimento. Giovanni la prese, la guardò e lei aggiunse: «Ma ti conviene chiedere scusa a tuo padre.»
Poi si voltò e tornò in cucina, dove era stata messa a spadellare perché N, il cuoco della casa, era indisposto. Giovanni sapeva che era la cosa giusta da fare, così eseguì. Salì in camera e bussò alla porta. N aprì e lo guardò; il figlio vide il braccio al collo, chiuse gli occhi, chinò la testa e mormorò: «Scusa, papà. Mi dispiace di averti colpito!»
N gli accarezzò la testa, avendo capito il motivo del suo scatto, ma rispose: «Non farlo mai più. E per punizione, non voglio più vederti con quella mazza in mano. Intesi?»
«Intesi.» rispose lui, senza alzare lo sguardo.
«Aspettami giù. Tra poco arrivo.»
Il bambino annuì e schizzò giù, contento di aver fatto pace con lui. Un po' meno di averla fatta con la ragazzina antipatica. Aveva restituito il maltolto ma a caro prezzo. N scese poco dopo. Non disse una parola, cenò e poi sparì nuovamente. Nessuno sapeva cosa avesse; nessuno tranne Zoroark e Reshiram. L'uno perché conosceva il suo migliore amico da quando era nato, l'altra perché condivideva con lui l'anima, che in quel momento era troppo confusa.
Passarono i giorni; N sembrò ritornare quello di sempre, mentre Raphael proseguì il suo enorme lavoro per poter tirare fuori Athena dai casini. Soffrì molto vedendo i video che gli aveva dato Lance. Li guardava solo, al buio, con la foto di loro due insieme stretta tra le mani e le lacrime che scendevano praticamente da sole.
“Come si fa a meravigliarsi di quello che è diventata?” pensava, straziato dal dolore: “Come si fa a non capire che diventi un mostro, se tutti ti trattano così? Maledetto Giovanni.”
Mentre li guardava piangeva; stava male per lei, per la tortura a cui era stata sottoposta da quel folle e per la consapevolezza che la sua amata non era mai stata felice, in tutta la sua vita, se non quell'anno con lui.
Ma quei video erano troppo forti. Li avrebbe usati come ultima spiaggia di difesa. Non prima. Gli venne un’idea. Era una difesa un po’ debole, ma serviva solo per prendere tempo e preparare quella vera. Lavorò come un matto finché non arrivò il giorno del processo. Giovanni lo fissava dall’ombra. Quell’uomo sembrava tanto buono e gentile… non il tizio malvagio che voleva distruggere la sua famiglia. Forse... forse si poteva andare d'accordo, come spesso aveva cercato di dirgli N.
Nel frattempo, Athena era ancora nei sotterranei. Molto spesso pensava al boia e alla fine che avrebbe fatto se Raphael avesse fallito. Lance andava a trovarla frequentemente e la tirava un po’ su di morale, ma nulla poteva contro la sua depressione dilagante.
«Athena, quasi non mi sembri tu. Hai esaurito perfino il sarcasmo.» disse un giorno alla donna, che fissava persa e depressa il muro.
Lei sospirò e borbottò, sincera: «Ho paura, Lance. Non voglio andarmene e lasciare Raphael, ancora… non reggerebbe il colpo.»
«Vedrai che non succederà. È un buon avvocato, non ha mai perso una causa. Abbi fiducia.» rispose lui, cercando di consolarla, colpito dalla sua sincera preoccupazione.
«Si sta cacciando nei guai.» mormorò la donna; una lacrima solitaria le solcò la guancia, simbolo del dolore che la rodeva dentro. Non pensava a sé stessa, pensava solo a Raphael e ovviamente al suo bambino del quale però al Campione non aveva detto nulla.
Lance le mise una mano sulla spalla, cercando di aiutarla. Come sempre, quando andava a trovarla, entrava e la consolava come meglio poteva, sedendo accanto a lei sulla brandina rimasta lì da quando l'aveva portata.
Lei si posò a lui, senza problemi o imbarazzo. La loro strana amicizia diventava sempre più forte ed era assurdo, entrambi se ne rendevano conto. Una volta erano nemici giurati, si odiavano a morte, avrebbero voluto uccidersi l’un l’altra. E ora no. Si volevano bene.
Lance notò che era molto calda, così chiese: «Che cos’hai?»
Le girava la testa da tutta la mattina, ma non le sembrava importante; così rispose: «Niente. Sto bene.»
Il Campione non era convinto ma non indagò oltre. Ma il giorno dopo, scese e la trovò svenuta sulla branda. La prese il braccio e, percorrendo un passaggio nascosto, giunse nella sua ala della Lega Pokémon, la più sontuosa e lussuosa. La adagiò sul letto e le provò la febbre: trentanove e mezzo. Cercò di abbassare la temperatura con gli stracci di acqua bagnata e il ghiaccio, ma non sembrava migliorare. Lei tremava e lui alzava il riscaldamento automaticamente, finché non si ritrovò a girare per la stanza a torso nudo per il caldo.
Arrivò la sera e la febbre non le era scesa. Lui la coprì bene e si sdraiò vicino a lei. Aveva un letto matrimoniale, decisamente troppo grande per lui, ma in questo caso molto utile. La strinse, per tenerla più al caldo e si addormentò.
La mattina dopo, si svegliarono quasi insieme. Lei aprì un occhio appannato e vide il Campione che l’abbracciava e la fissava.
«Dove sono?» mormorò debolmente, notando che faceva troppo caldo ed era su una superficie decisamente troppo morbida.
«In camera mia. Hai la febbre che non accenna a scendere.» rispose lui, stranamente accorato.
Lei fece per tirarsi su, ma non ne aveva le forze. La testa girava e batteva paurosamente. Così ricadde sui cuscini, chiudendo gli occhi affaticata. Si fidava di Lance talmente tanto da abbassare così la guardia. Una cosa strana e inquietante al tempo stesso, ma di certo utile. Se fosse stata sul chi va là, probabilmente non sarebbe guarita mai.
«Stai giù o non guarirai mai.» borbottò infatti il Campione, rimboccandole dolcemente le coperte.
«Che ci fai senza maglia?» commentò lei con un ghigno, ignorando le sue premure e vedendo gli ampi pettorali dell’uomo: «Vuoi colpirmi con il tuo fascino?»
Lui ridacchiò, gonfiando i muscoli con fare vanitoso, quasi facendo lo spaccone, e rispose: «Guarda che questo fisico scolpito mi ha fatto fare molte conquiste!»
«E com’è che sei ancora single?» ribatté lei, ghignando.
Lui fece per rispondere a tono, decisamente seccato da quanto fosse insolente e insensibile alle sue premure, ma una luce bianca uscì dalla sua tasca e un enorme Gyarados rosso invase la stanza, apparendo con un luccichio. Serpeggiò tra i mobili finché non posò il muso sul letto ed esclamò: *«Quanto sei cresciuta!»*
«Non ci credo! Ciao, Gyarados!» salutò lei di risposta, incredula nel vederlo lì: «Ecco chi ti ha fatto svanire dal Lago d’Ira!»
Il serpente fece per rispondere, ma Lance li interruppe, squadrandoli, e chiese: «Scusate, voi due… vi conoscete?»
«Certo!» risposero in coro, poi Athena aggiunse: «Quando il segnale radio ha forzato la sua evoluzione ha cominciato a devastare tutto. E sono andata a calmarlo.»
*«E ne ha rimediato una codata in testa!»* ridacchiò il Pokémon Atroce.
«Anche! Ma almeno era involontaria!» rise lei.
Lance fece per dire qualcosa, seccato dall'essere ignorato, ma bussarono alla porta. Tutti e tre si voltarono di scatto, pietrificandosi sul posto. L’uomo fece segno alla sua ospite di tacere e fece rientrare Gyarados; lei annuì ma gli sussurrò: «Mettiti almeno una canottiera.»
Lui, leggermente imbarazzato, annuì. Si mise la prima maglia che gli capitò a tiro e andò ad aprire.
«Ciao, Karen. Scusa se non ti faccio entrare, ma c’è un po’ di disordine.» borbottò, dopo che ebbe riconosciuto la visitatrice.
«Ciao, Lance. Uno sfidante sta massacrando Bruno. Preparati perché dovrai dare il meglio di te.» disse la donna, l’ultimo Élite Four della Lega, ovvero i quattro allenatori più forti del Continente che precedevano il Campione, squadrando l’uomo, tutto sudato e mezzo svestito.
Lui annuì, leggermente rosso in volto visti i mille sottintesi della scena, e rispose: «Arrivo subito.»
Lance richiuse la porta e andò a cambiarsi; mentre si metteva il suo completo di pelle nero da Domadraghi, Athena sghignazzò: «Dal tono di voce, la tua amica avrà pensato a una notte molto alternativa! Che figuraccia!»
«Chiudi quel forno.» sbottò lui, imbarazzato, uscendo dal bagno mentre lei se la rideva alla grande. La fissò un po' seccato ma rosso in viso, trattenne l'insulto, e aggiunse: «Non ti disturberà nessuno. Io vado, lotto, difendo il titolo e torno.»
Lei ricambiò lo sguardo quasi con infantile insolenza e rispose: «Va bene, signor Campione. Ma metti quella cosa per fare paura?»
«Anche.» disse solo lui: «Ci vediamo dopo.»
«Ciao, ciao.» lo salutò lei, facendo il gesto con la mano.
Lance uscì con uno svolazzo del mantello, chiudendo a chiave, e lei si mise comoda. Pensando a quanto si trattasse bene il Campioncino, si riaddormentò tranquilla.
Poco dopo, la serratura scattò, e un bambino entrò in camera dicendo: «Papà, sei qui?»
Vide una gobba sotto le coperte e si avvicinò, ma quella non era suo padre. Guardò il termometro e vide l’ultima temperatura salvata.
«Che febbre alta. Chissà se papà ha trovato le medicine.» borbottò sovrappensiero.
Fissò un momento la donna dormire pacifica, anche se la malattia le rendeva il respiro affaticato. Non l'aveva mai vista... Chi era e che cosa ci faceva allora lì?
Con un'alzata di spalle cercò le medicine ma non le vide; così andò a vedere in bagno, ma gli scappò un barattolo che svegliò Athena. Lui tornò fuori dal bagno con le pastiglie, mentre lei lo fissava, non sapendo se essere perplessa, spaventata, o chissà che altro. Era però colpita dall’incredibile somiglianza con Lance, se non per i capelli solo sfumati dell'arancione del Campione e ovviamente la minor massa muscolare.
Lui le sorrise e le porse una scatolina, dicendo: «Tieni, prendi queste! Fanno magie per la febbre ! Papà è disordinato e non le ha trovate.»
Come ripensandoci, corse via, tornò e le porse una pastiglia e un bicchiere d’acqua, con un sincero sorriso. Lei li prese e disse: «Grazie, Lance junior…»
Lui le sorrise e rispose: «Di niente. Non dire però a mio papà che sono stato qui, per favore.»
Athena annuì e si rimise al caldo, sotto all'enorme piumone matrimoniale del Campione; un’improvvisa sonnolenza la fece ritornare ben presto tra le braccia di Morfeo.
Il bambino sorrise, stupito da quanto la donna assomigliasse alla sua migliore amica, poi però se ne andò. Non voleva farsi vedere da suo padre nella sua stanza. Era zona “off limits”, da sempre.
Il Campione infatti tornò poco dopo e vide le medicine. Perplesso si chiese chi le avesse prese, poi lasciò perdere. Immaginava chi fosse stato e si preparò un bel discorsetto. Come al solito, aveva fatto di testa sua. Con quelle pastiglie, comunque, Athena guarì in un lampo e una settimana dopo Lance la riportò nei sotterranei. Qualche giorno dopo passò a trovarla, per vedere che non avesse avuto delle ricadute di febbre o simili. E doveva ammetterlo, anche per vedere lei e salutarla.
«Ehi. Come stai?» chiese, contento di poterla andare a trovare.
Lei era sdraiata sulla branda, posata al muro con le mani dietro la testa, visibilmente annoiata.
«Bene, grazie.» rispose seccamente: «Anche se, quasi, quasi, preferivo la febbre. Almeno ero in compagnia. Tua, ma sempre meglio di niente.»
Lui aprì la cella, perplesso da quanto fosse scontrosa e poco scherzosa come suo solito, e disse, sedendosi accanto alle sue gambe: «Come siamo nervose. La noia ti fa questo brutto effetto?»
Athena sbuffò e rispose: «Non la noia. L’isolamento. Che è diverso.»
«Se lo dici tu…»
Lei si alzò, sedendosi al suo fianco, più rilassata e tranquilla ora che aveva qualcuno con cui parlare; lo guardò e chiese: «Posso farti una domanda?»
«Certo.»
«Quanti anni hai?»
Lui arrossì leggermente, e chiese, come risposa: «Quanti me ne dai?»
Alzando le spalle, lei rispose: «Più di me di sicuro. Ma non troppi. Meno di quaranta.»
«Vuol dire che li porto bene.» assentì lui: «Comunque faccio i trentotto quest’anno. Sono dello stesso anno del tuo “caro” fratellino Archer. Perché lo volevi sapere?»
Lei alzò le spalle nuovamente e borbottò: «Mi è sorta questa curiosità quando ho conosciuto Nardo. Andava per i quaranta quando io ne avevo diciotto.»
«Effettivamente sono diventato Campione presto.»
«Perché non me lo racconti? Tanto ci sono di sicuro di mezzo io!» chiese lei, con un ghigno.
«Tu sei sempre in mezzo.» ribatté lui, per poi cominciare il racconto: «Quando Giovanni si è messo a fare stragi ero appena diventato un Élite, uno dei quattro allenatori che precedono il Campione. Sai, ho sempre avuto una grande passione per il tipo Drago, e avevo talento. A sedici anni sono diventato il primo Élite e in due anni ho fatto una scalata incredibile. Da primo a quarto. Solo che non riuscivo a sconfiggere il Campione in carica. L'Imbattuto è sempre l'Imbattuto, che ci vuoi fare? Quell’anno comunque Red distrusse voi, e noi, perché divenne Campione, dopo che l'Imbattuto aveva lasciato il posto vacante. L’anno dopo però, il ragazzetto si ritirò sul Monte Argento per allenarsi e io presi il suo posto. A soli diciannove anni. Il più giovane Campione della storia. Da quel giorno, non ho mai perso il titolo.»
«Caspita.» commentò la donna, colpita dalla sua abilità: «Davvero bravo.»
«Bravo, forse. Ma credo che se avessi avuto anni e esperienza in più avrei fatto meno danni.»
Lo sguardo di Lance si adombrò, ripensando a quella assurda strage che aveva compiuto. Andava tanto predicando di punire i malvagi, ma anche lui aveva sparso del sangue che non riusciva a lavarsi via dalla coscienza. Sangue innocente.
«Mettila così. Abbiamo sbagliato entrambi.» mormorò Athena, con la voce leggermente incrinata da quel doloroso ricordo. Sapeva che anche lui ci stava pensando; era quello che aveva oscurato il suo sguardo.
Dopo un attimo di titubanza, lui chiese: «Come hai fatto a perdonarmi?»
«Non lo so.» rispose lei, sincera: «Credevo che non l'avrei mai fatto. Mai. Ma forse ho capito che, infondo, me lo meritavo.»
«Nessuno merita un tale dolore.» dissentì secco lui, sapendo di aver distrutto una famiglia intera. Non voleva ammetterlo, ma sapere che Pidg era sopravvissuto lo aveva reso felice. Almeno lui era ancora in vita.
«Forse si, forse no.» rispose solo lei.
Lui la guardò negli occhi, avvicinandosi al suo volto e allungando una mano verso il suo viso. Ma lei, capite le intenzioni, lo scostò, alzandosi e fissando il muro di fronte.
«Ci vediamo Lance.» borbottò.
Lui capì il messaggio, si alzò, uscì e richiuse la porta, dicendo: «Ciao.»
Lei fissò la porta chiudersi e sentì i passi allontanarsi e la serratura scattare. Ma meglio stare sola e annoiarsi, rischiare la psicosi, che cadere nel tradimento.
Lance tornò nella sua stanza turbato. Perché si sentiva così bene con lei? Perché avrebbe voluto stringerla, baciarla, dirle che andava tutto bene e che l'avrebbe protetta da tutti? Quando lui per primo, anni prima, voleva metterla alla gogna?
«Dannazione, ma che mi succede?» sbottò secco, non volendo accettare che si fosse innamorato.
Gli serviva un parere diverso. Un altro punto di vista, opposto al suo. E sapeva dove andare.
Uscì dalla sua ala, andando in quella degli Élite, ma puntando quella scura. Bussò alla porta. Apparve una donna, alta, con i capelli blu argentato talmente chiari da sembrare bianchi. Indossava una semplice tuta da ginnastica ma riusciva a donarle eleganza. Il suo fisico asciutto era molto attraente e i suoi due occhi color blu argentato coronavano la sua bellezza.
«Ciao, Karen.» salutò il Campione.
«Lance? Che ci fai qui?» rispose lei, stupita da quella visita.
Imbarazzato, lui balbettò: «Mi… servirebbe un parere… sentimentale. Forse lo so che non è il caso… però io ecco…»
Lei lo interruppe, con un sorriso, e scostandosi dalla porta, disse: «Dai entra e dimmi tutto.»
Lui sorrise, ancora imbarazzato, ed entrò nel salottino. Sedettero entrambi e lui disse: «Sono… turbato.»
«Si vede. Parla, dai.» lo incoraggiò lei.
Lui avvampò e fissando il tavolo su cui era posato con i gomiti, mormorò: «È una cosa che non avevo mai sentito prima. Come un calore in fondo al cuore. Con lei sto bene, sento che posso dirle tutto, parlare di ogni cosa, in ogni frangente. Certo… è un po’ irritante perché non la smette di fare battutine sceme, però so che in fondo mi ascolta davvero e sa fare anche la seria.»
«Non saprei che dirti... provi anche qualche tipo di attrazione fisica?» chiese lei, cercando di sondare il terreno, anche se era difficile. Se era complicato valutare i propri sentimenti, quelli degli altri era ancora più un'impresa.
Lui ci pensò su, poi borbottò: «Non mi sembra... un po', credo... prima volevo baciarla. Ma... nient'altro.»
«Allora devi solo aspettare. Se sono rose, fioriranno dice un proverbio. Posso sapere chi è?»
«Meglio di no.» borbottò lui, a mo’ di scusa.
«Non insisto.» alzò solo le spalle lei, cercando di non sembrare troppo triste per quella notizia che aveva passato già parecchie volte, ma mai con tutta quella convinzione. Lance le aveva sempre parlato delle sue conquiste, si era sempre confessato con lei. Ma questa volta non sembrava un gioco come al solito.
I due continuarono a parlare, da buoni amici quali erano, per un po’, poi si salutarono. Si era fatto molto tardi. Lance scese nei sotterranei e si fermò a guardare la sua prigioniera mentre dormiva. In preda ad un sonno agitato, mugolava il nome del suo amato, mentre quasi masticava il cuscino dall’irritazione di essere chiusa dentro. O forse semplicemente perché non poteva avere il suo vero amore tra le braccia.
La settimana dopo, il Campione fu preso da una serie semi infinita di sfidanti e non ebbe tempo di andare a trovare la sua ospite. Finché non riuscì finalmente a liberarsi.
«Ehi, ti ricordi che esisto anche io.» commentò lei, vedendolo entrare: «Pensavo ti fossi scordato che hai una prigioniera.»
«Non farla tanto tragica. Fare il Campione non è così semplice.» rispose lui, aprendo la cella.
Lei lo guardò accigliata e lui entrò, lasciando come sempre la porta aperta. Benché sapesse che non uccideva più, non era di certo una mossa molto furba chiudersi dentro una cella con il Demone Rosso. Sedette sulla branda accanto a lei, ma gli cadde lo sguardo in terra e vide del sangue.
«Che cos’hai combinato?» chiese, indicandolo.
Lei alzò le spalle, nascondendo il pugno destro dietro la schiena e rispose: «Niente.»
«Athena.» la richiamò severo lui.
Lei lo fissò decisa e replicò: «Non sei il mio tutore, Campioncino.»
Lui le prese le mani, deciso a vedere cosa avesse combinato, ma lei oppose resistenza. Alla fine, lei lo immobilizzò con un paio di mosse e lo inchiodò al muro, girandogli un braccio dietro la schiena e bloccando l'altro con la mano; ripeté, fissandolo negli occhi, decisa e definitiva, ma incredibilmente calma e glaciale: «Niente.»
I loro volti erano vicinissimi. Si potevano quasi toccare. Ma Lance, se per un momento aveva appena pensato di scoprire le carte e baciarla, ci ripensò, impaurito da quello sguardo deciso. Nelle profondità di quegli occhi rossi bruciava ancora l'ira omicida del Demone che aveva decimato Kanto e Johto. Stuzzicarla così voleva dire condannare lui stesso e l'intero continente a morte certa.
Così, abbassò lo sguardo e mormorò: «Scusa.» mentre il braccio che lei gli teneva in una posizione pericolosa doleva dal dolore.
Quella parola fu quasi magica. Come in passato, la donna odiava che la obbligassero con arroganza e superiorità a fare qualcosa che non voleva fare. Che la costringessero con la forza. E di certo, ancora oggi era una fonte di ira. Calmatasi, lo lasciò libero, tornandosene sulla branda. Non si preoccupò più però di nascondere la mano destra, che era contornata di lividi, tagli, escoriazioni e ancora sanguinante. Lance vide il muro accanto a lui sporco di rosso e capì. Che stolto. Aveva davvero pensato che l'iraconda belva avesse eliminato il suo lato peggiore? Quello c'era e non se ne sarebbe mai andato. Era sopito nel suo animo, condannato al buio, costretto all'inattività dalla mente. Ma in determinate condizioni, era più forte e emergeva in tutta la sua violenza. Né lei, né Lance dissero altro. Lui sciolse un momento il braccio che aveva temuto di sentire rompersi, prese la porta, chiuse la cella e uscì.
Forse la sua era solo un’illusione. Magari lui si era innamorato veramente ma… quella bestia non lo avrebbe probabilmente mai ricambiato. Quel mezzo attacco d’ira era una conferma: lei avrebbe ancora attaccato chiunque, da furiosa. Chiunque tranne una persona. Raphael Grayhowl.

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Capitolo 11
*** Capitolo X ***


Alcuni giorni dopo ci fu la ripresa del processo. Lance accompagnò Athena in aula, ma i due non si erano ancora parlati. Non sapevano come rompere quel silenzio che si era creato. Lui era sceso e l'aveva trovata davanti alla porta con le mani a pugno tese in avanti, pronta per andare in aula.
Quello stesso giorno, Raphael stava parlando con N, mentre preparava tutto per l'udienza.
«Oggi è il giorno. Posso affrontare chiunque. Non la metteranno mai a morte, costi quel che costi.» sbottò, mettendo via tutte le carte nella valigetta.
«Ti credo, ma non esporti troppo. Ti sei fatto un nome e rischi molto.» gli rispose N, preoccupato.
«Finché nessuno scopre di noi, siamo a cavallo.» ribatté l’avvocato, sistemandosi la cravatta davanti allo specchio: «Infondo, io sono l’avvocato difensore. E quindi il fatto che la difenda, dovrebbe essere normale. Non implica nulla.»
Pidg lo fissava preoccupato e Lily lo abbracciò, dicendo: «Buona fortuna, papà.»
Lui le accarezzò la testa, sorridendo, e rispose: «Grazie piccola.» poi si voltò verso il rapace che era lì con loro e chiese: «Senti, Pidg… vieni con me?»
*«Puoi contarci umano.»* rispose lui, annuendo; poi aggiunse, vedendo N che apriva la bocca: *«Non temere. So bene come nascondermi e voglio vedere che cosa succede alla mia sorellina.»*
N annuì e rispose: «Va bene. State attenti.»
Raphael uscì nel giardino e fece per chiamare Wargle e chiedergli un passaggio; Pidg però gli volò in parte e lo beccò sulla spalla, forse un po' troppo forte, per richiamare la sua attenzione. L'avvocato lo fissò perplesso e il rapace si voltò di spalle, fissandolo con un occhio blu penetrante. Lui ricambiò lo sguardo e si indicò; Pidg annuì. Raphael sorrise e salì sulla groppa di Pidg, che lo portò a Zafferanopoli, volando veloce come solo lui sapeva fare. Durante il viaggio in volo, per consolarlo poiché sapeva quanto fosse preoccupato, l'uomo mormorò, accarezzandogli il collo piumato: «Andrà tutto bene, Pidg.»
Lui annuì, atterrò dolcemente e Raphael entrò in tribunale, sistemandosi la cravatta, pronto per disfare a colpi di cavilli chiunque gli si fosse parato davanti.
Arrivato nell'aula si guardò intorno; Athena era già lì, Lance pure. I due innamorati non si guardarono nemmeno, per evitare di far capire qualcosa. Raphael sedette e mise sul banco le carte. Poi si avvicinò al banco dell'imputata.
«Come stai, piccola pazza?» sussurrò, potendo ancora parlarle in pace visto che non c'era nessuno.
«Sto bene, scemo.» rispose lei, sorridendogli dolcemente: «Non far capire nulla, te ne prego. Non sopporterei di rovinarti la vita così.»
«Me l’hai rovinata tentando di ucciderti.» borbottò lui lapidario.
Lei abbassò lo sguardo, sapendo quanto l'avesse ferito andandosene così, ma non aveva potuto fare altrimenti e lei lo sapeva bene. Per cambiare discorso e rilassarlo un po', chiese: «Posso farti una domanda?»
«Certo.» rispose lui, perplesso non capendone il motivo.
«Come funziona la cosa qua? Nel senso, si cambia da accusa a difesa come si vuole?»
L'uomo la guardò un momento stupito da quella domanda, poi ci pensò su, sorrise e capì: «Ah. Non hai mai studiato diritto, eh?»
«Vedi un po' tu.» rispose ironicamente lei, con una faccia del tutto eloquente.
Lui ridacchiò ma poi rispose seriamente: «In pratica, i processi deve indirli il Campione. Non ci sono scusanti. Quindi se si vuole aprire un processo contro qualcuno bisogna andare da lui e convincerlo.
Poi Lance sceglie il giudice. Ha scelto Vodel per puro caso, non sapeva nulla della controversia tra voi due o lo avrebbe evitato immagino. Comunque, Lance sceglie il giudice e quest'ultimo deve decidere l'accusa. Ovviamente l'avvocato scelto può anche rifiutare. La difesa invece è il contrario. Deve proporsi qualcuno e il giudice può decidere se sì o no.»
«Strano che ti abbia accettato.» borbottò la donna, pensando a quello strano modo di eseguire la legge a cui mai aveva pensato: «Lance ha detto che sei uno dei migliori.»
Raphael si illuminò sentendosi appellare così dalla donna che amava, ma rispose: «Non saprei dirti perché mi ha accettato. Ammetto di aver avuto paura di un rifiuto.»
«Probabilmente ha pensato che con tutte le accuse che ho contro, nemmeno tu potrai fare qualcosa.»
«Forse non mi conosce così bene. Oppure era talmente furioso per aver fatto cadere mezze accuse al primo processo che vuole darmi una lezione. Ma non è così facile come crede...» rise lui, dandole una dolce carezza sulla mano e tornando al suo banco, aspettando di vedere l’accusa che gli aveva rifilato Vodel. Era pronto a tutto, pronto a vincere ad ogni costo.
Quando entrò in aula, alcuni minuti dopo, un uomo biondo, mingherlino, ma con due occhi di ghiaccio, Raphael si pietrificò sul banco, fissandolo camminare altezzoso tra le due navate di seggi.
“Grendel?!” pensò, furibondo: “Maledetto di un giudice!”
L'avvocato Michael Grendel, il fratello maggiore di Gabriel, si avvicinò al suo banco, posando la valigetta, ignorando volutamente l’avversario. Poi alzò lo sguardo e gli scoccò un’occhiata arrogante del tutto poco amichevole; andò da lui, con passo tranquillo e controllato, e disse: «Grayhowl, mi deludi. Neanche accettare ma addirittura proporsi per il banco della difesa per un mostro di questa risma. Davvero, l’età ti fa brutti scherzi.»
Raphael non volle di certo restare più in basso di lui, così si alzò in piedi, raggiungendolo e superandolo in altezza e rispose, ricambiando lo sguardo da superiore: «Grendel, non ti conviene parlare di età. Hai qualche primavera in più di me, se non sbaglio.»
«Risparmia il fiato per l'udienza.» rispose lui, appena toccato dal commento: «Non ci saranno cavilli che tengano. Ho già segnato la mia vittoria.»
Raphael socchiuse gli occhi e rispose: «Questo è ancora tutto da vedere. Credimi.»
Con uno sguardo di sfida, Michael si voltò e tornò al suo banco. Nella strada però fissò anche l’imputata, non potendo evitare un tremore involontario. Quella... cosa aveva ucciso così tanta gente che, averla a così poca distanza, lo inquietava non poco.
“E quello chi è?” si ritrovò a pensare invece Athena, osservando incuriosita i due avvocati fulminarsi con lo sguardo: “Non penso sia quel suo amico, o non sarebbero così ostili tra di loro. Appena ne avrò l’occasione, glielo chiederò.”
Si accorse però dello sguardo di Grendel al ritorno al banco, e lo ricambiò con mezza malizia, vedendolo tremare. Si lasciò sfuggire un ghigno giusto per avvertirlo: “Tocca il mio ragazzo, in qualunque maniera, e non ci sarà prigione che tenga.”
Lui parve accorgersi della minaccia, benché non sapesse a cosa fosse riferita, e si affrettò a sedersi. Fissò però la porta, come per vedere se il giudice fosse arrivato.
“In effetti, ora ci sono solo Lance e Raphael.” pensò la donna, intuendo le paure dell’avvocato di accusa e allargando quel ghigno sornione giusto per fargli un po' di paura: “Potrei benissimo alzarmi, ammazzarlo e risedermi senza che nessuno mi fermi. Che rischio, signor Grendel.”
Appena dopo però, il giudice entrò con passo marziale, interrompendo i pensieri omicidi dell’imputata e tranquillizzando l'avvocato di accusa.
Raphael e Michael si alzarono. Athena e Lance anche. Non c’era nessun altro.
Il giudice raggiunse il suo banco e fissò la donna con occhi di fuoco ma anche terrorizzati. Lei rispose con un ghigno divertito come per chiedere se si ricordasse ancora di quel giorno. Dalla sua faccia però la risposta era più che ovvia. Certo che se lo ricordava.
La donna si trattenne dal ridere per la comicità di quella situazione e provò a fare la faccia seria, mentre il giudice sedeva ed esclamava, battendo il martello sulla cattedra: «Ricomincia il processo contro il Demone Rosso. Presiede l’accusa l’avvocato Michael Grendel, presiede la difesa l’avvocato Raphael Grayhowl.
La parola all’accusa.»
«Grazie vostro Onore.» disse lui, alzandosi in piedi. Si mise in mezzo all’aula, tra il banco di Athena e la cattedra di Vodel, e, passeggiando avanti e indietro, proseguì: «Mi hanno convocato in questa sede, per rendere giustizia alle tante vite spezzate molti anni or sono. La gente dimentica, ma queste famiglie serberanno sempre nel cuore il dolore e il ricordo dei loro cari. Cari che questa donna, se così si può definire, ha volontariamente portato via da questo mondo. Ora io mi chiedo, signor giudice e onorevole Campione… è giusto che questa donna sia ancora in vita e rimanga impunita per ciò che ha fatto?»
Un’arringa breve, ma intensa. La giuria era composta dal giudice, che voleva con tutto il cuore incastrare Athena, e Lance, che voleva salvarla. Solo l’avvocato più convincente l’avrebbe spuntata.
La donna guardò Raphael con la coda dell’occhio; il biondino era in gamba e lei cominciava a essere un po’ preoccupata per il fidanzato: era pallido e fissava le carte velocemente, sfogliandole rapido. Bianco cadaverico certo, ma deciso.
«La parola alla difesa.» disse il giudice, interrompendo il trafficare di Raphael.
Lui probabilmente non aspettava altro, perché si alzò rapido, andò al centro della sala, e si schiarì la voce, sistemandosi la cravatta. Un tic che non si sarebbe mai tolto. Fissando deciso il giudice e Lance, disse: «Vostro Onore, i quindici anni sono passati. Il nostro ordinamento giuridico prescrive l’accusa di omicidio dopo tale periodo di tempo. Quindi l’imputata non può essere accusata di alcunché, se non eventuali rimorsi di coscienza.»
«Obiezione!» ribatté secco Grendel: «Ci sono sette omicidi commessi negli ultimi due anni. Dobbiamo ignorarli?»
Raphael non lo guardò nemmeno e rispose: «Non ci sono prove tangibili che quegli omicidi siano stati commessi dall’imputata. Sono solo congetture.»
«Chiedo di interrogare l’imputata.» chiese Grendel, lanciando un’occhiataccia all’avversario.
Vodel annuì così Raphael sedette ghignando e Lance portò una seccata Athena al banco vicino al giudice, il quale, non molto felice di quella vicinanza e remore di una quindicina di ore di tortura nelle sue mani, rabbrividì e allontanò la sedia.
Grendel si alzò, le andò davanti, fissandola evitando accuratamente gli occhi, e chiese: «Ha ucciso lei così brutalmente queste tre persone negli ultimi due anni?»
Lei medito di rispondere con una frase sibillina, ma poi ci ripensò. Era meglio non mettere Raphael nei guai. Così si limitò a dire: «No.»
«Sono state macellate come animali, con un colpo al cuore e un taglio alla gola. Nega ancora?» ringhiò lui.
«Sì.» rispose lei, con un tono irrisorio volto a irritarlo: «Io non c'entro.»
«Mi vorrebbe far credere che non uccide da diciannove anni?» chiese lui, incredulo.
«Precisamente.»
Grendel fissò quel ghigno divertito e arrogante quasi con rabbia, per poi sbottare secco: «Non ho altre domande. Prego Grayhowl, facci sognare.»
Raphael si alzò, prendendo il posto dell’avversario, evitando accuratamente di scoppiare a ridere nel vedere la fidanzata deridere così il suo acerrimo rivale, e chiese: «Dov’è stata in questi ultimi dodici anni?»
«Nella regione di Hoenn.» rispose lei, cambiando completamente tono ed espressione.
Da sarcastico e strafottente a dolce e comprensivo.
L’avvocato e Lance se ne accorsero subito e si scambiarono un’occhiata. Con una pausa calcolata di Raphael, il Campione si chinò in avanti per sistemare le catene e sussurrò: «Resta sarcastica, maledizione, o si accorgeranno di tutto. Hai cambiato completamente voce!»
Athena si rese conto del casino che poteva comportare un suo errore così banale e annuì leggermente, facendogli capire che aveva inteso. Raphael vide il segno di Lance e seppe di poter andare avanti. Così chiese ancora: «Per fare cosa?»
«Guarire.» rispose lei, autoconvincendosi di avere davanti Grendel e stampandosi in faccia di nuovo quel sorrisetto arrogante: «Nel limite del possibile, ovviamente.»
Raphael si sentì quasi inquietato di fronte a quel ghigno da gatto che gioca con il topo, ma convincendosi che non era diretto a lui, proseguì l’interrogatorio: «E ci è riuscita?»
«Se così non fosse, non sarei di sicuro qui.» ridacchiò lei.
Lance alzò gli occhi al cielo, mentre Grendel esclamò: «Obiezione. Non può provare che l’imputata sia stata davvero a Hoenn.»
«Accolta.» assentì Vodel, tornando a fissare Raphael con uno sguardo del tutto poco amichevole.
«Sì che posso.» rispose quest’ultimo, sorridendo vittorioso e non abbassando gli occhi da quelli del giudice: «Tra le nuove prove che ho raccolto, ho le fatture delle sedute psichiatriche fatte dalla mia cliente a Verdeazzupoli, a Hoenn. Sono tutte datate e assolutamente autentiche. Non mette piede a Kanto da sicuramente dodici anni. Chiedo alla corte di poter mostrare le nuove prove A e B.»
Vodel e Lance annuirono. Raphael tornò al suo banco con un passo quasi gongolante, prese alcune buste, le portò alla cattedra e disse: «Sono vere, potete controllare. La mia cliente è stata a Hoenn fino a quando si è volontariamente consegnata, non sapendo che ormai la sua colpa era caduta in prescrizione. Dobbiamo ignorare quest'atto di presa coscienza di colpa?»
Lance guardò le ricevute nascondendo un ghigno e le passò al giudice che soppresse la voglia di strapparle e bruciarle. Irritato, batté il martello sulla scrivania e esclamò: «La seduta è sospesa. Fino al prossimo processo l’imputata verrà trasferita nel carcere di massima sicurezza di Zafferanopoli, in totale isolamento dagli altri carcerati! Nessuno deve sapere che lei è lì! Il compito sarà affidato al Campione.»
Grendel si alzò e se ne andò furibondo, mormorando maledizioni; il giudice lo imitò, altrettanto seccato.
Lance invece scese dal suo posto, in parte alla scrivania, ridacchiando e commentò: «Ehi, Raphael! Ringrazia che non eri al suo fianco!»
L’uomo sogghignò, raccogliendo le sue carte e buttando tutto alla rinfusa nella valigetta; poi la chiuse e chiese: «Brutte parole?»
«Molto!» rispose il Campione, slegando Athena dal banco.
Lei e lui si guardarono solo, senza parlare. Sorrisero e basta, scambiandosi quel “ti amo” senza la necessità di dirlo. Stavano combattendo insieme e insieme avrebbero vinto. Poi Lance la portò fuori e Raphael, uscì, ricongiungendosi con Pidg e tornò a casa, raccontandogli tutto per filo e per segno durante il viaggio. Pidg si limitò a ridacchiare, non potendo rispondere come avrebbe voluto perché sapeva che l’avvocato non poteva capirlo. Ma era felice perché era stato in gamba ad aiutare la sua amata sorellina.
“Com’è andato il processo?” chiese Cobalion quando l’avvocato fu rientrato insieme al rapace.
«Bene. L’udienza è rimandata. Grazie N per le ricevute.» rispose lui, con un sorriso a trentadue denti.
«Figurati. Tutto quello che serve per tirarla fuori di lì.» aggiunse l’amico, sorridendo, molto speranzoso di poterla salvare dalla ormai lontana pena di morte.
Lily li sentì parlare, ma si nascose. Ogni volta che entrava in una stanza, smettevano tutti di parlare di sua madre. Ma lei voleva ascoltare, voleva sapere qualcosa su di lei.
«Peggiora la cosa il suo passato vero?» chiese N.
Raphael annuì, rabbuiandosi appena, e rispose: «L’intera accusa è fondata su quello. È il Demone Rosso, ok, ma la gente può cambiare. Peccato che nessuno lo capisca.»
«Dovranno capirlo.»
«Vedremo, N. Vedremo.»

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Capitolo 12
*** Capitolo XI ***


-- Attenzione: vietate le parti con le virgolette ai facilmente impressionabili! --
Buona lettura! :)

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~Lance portò Athena nel carcere. Passarono da un'entrata secondaria, con lei nascosta da una felpa con il cappuccio. Nessuno doveva sapere che era viva. Vodel avrebbe potuto metterla alla forca più facilmente, ma aveva paura di un attacco di panico generale se si fosse saputo il ritorno della bestia. Molto meglio farla sparire nell'ombra. Così aveva detto al Campione di rinchiuderla in un posto conosciuto solo da lui, senza dire niente a nessuno, nemmeno alle guardie. Doveva eventualmente dire solo che si trattava di un soggetto pericoloso dal quale stare alla larga.
Lei si tolse il cappuccio quando seppero di essere soli, di fronte a una cella vuota, in un corridoio isolato e chiuso da una porta con la combinazione che sapeva solo Lance. Completamente nascosta a tutti. C'era eventualmente un'altra porta, che dava verso il corridoio di celle degli altri detenuti, ma anche quella aveva la combinazione e quindi era inaccessibile.
I due non si erano ancora parlati, se non per quel piccolo diverbio al processo, ma lei borbottò: «Avevi ragione. Raphael è proprio bravo.»
Lui, ben felice che quel pesante silenzio si fosse rotto, sorrise e rispose: «Con gli elementi giusti, è più in gamba di quanto credi.»
Lei non disse altro, guardandosi intorno tra quelle quattro mura. Con un sospiro, sedette e sbottò: «Questo posto è troppo piccolo e buio per i miei gusti.»
«Non ti preoccupare.» rispose lui, con un ghigno: «Mi vedrai talmente spesso che arriverai a cacciarmi.»
«Non contarci troppo.» ridacchiò lei, salutandolo mentre se ne andava.
A Hoenn, invece, in quello stesso istante, N guardava un biglietto, vergato da quella scrittura, la sua scrittura, e sospirò.
“N, lascialo. Ti prego.”
Lo richiuse, staccando la prima pagina con la frase rivolta a lui e chiamò Giovanni. Il bambino arrivò perplesso, il padre gli tese il biglietto e mormorò: «Questo me l'ha dato Raphael. È da parte della tua mamma.»
Giovanni lo prese con mani tremanti e lesse: “Ciao, Gio. Come stai? Spero tu non stia facendo impazzire tutti come penso... senti, avrei un'idea da proporti, mentre aspetti il mio ritorno. So che ti piace combattere e so che ti senti oppresso, che devi poterti sfogare. Che ne dici di fare come fece la tua mamma a suo tempo e andare a caccia di Medaglie? Le otto palestre Pokémon di Hoenn potrebbero essere un modo per crescere e per legare di più con i tuoi Pokémon. Che dici?”
Lui ci rifletté. Le palestre, lotte con il suo Mankey... si poteva fare! Ma come? Avrebbe dovuto stare via da casa, da solo, senza nessuno... non si era mai allontanato tanto. Però... non sarebbe stato solo. Donkey sarebbe stato sempre al suo fianco e forse lui avrebbe potuto trovare altri Pokémon, farsi una squadra. Aveva l'età, aveva un Pokémon. Nulla l'avrebbe fermato. Guardò N e lui annuì, anche se sembrava preoccupato.
Giovanni non perse tempo: corse in camera, radunò ciò che lui riteneva importante per un viaggio e riempì lo zaino. Si cambiò, vestendosi comodo, prese tutti i suoi soldi dal salvadanaio e si mise lo zaino in spalla. Donkey lo raggiunse e lo fissò. Si guardarono negli occhi e annuirono insieme. Erano pronti e decisi. Non serviva nemmeno parlare. Chiamò Wargle, si fece portare ad Albanova, la città di esordio di ogni ragazzino di Hoenn, accompagnato dal suo focoso compagno d'armi, il Mankey Donkey.
Nel frattempo, Lily era a scuola. Alzò la mano, un po' titubante. Era l’ora di storia e la professoressa le era molto simpatica. E adorava che le ponessero delle domande.
«Dimmi, Grayhowl.» le disse, quando la notò.
Lei deglutì, pensando che poteva ancora ritirarsi, ma poi chiese: «Cosa sa dirmi del… Demone Rosso?»
L’insegnante la guardò, rabbrividendo al solo nome, e borbottò: «Perché vuoi saperlo?»
«Ho trovato un articolo di giornale che ne parlava. Però era abbastanza vecchio e si leggeva solo il titolo. Con questo nome.» rispose lei, ripensando alla scusa che si era inventata per tirare fuori il discorso.
«Non è un argomento piacevole. E siete ancora piccoli.» cercò di dire lei, ma la curiosità di Lily aveva scatenato anche quella dei compagni di classe, che cominciarono ad insistere a loro volta. Così l’insegnante si arrese, si aggiustò gli occhiali e con un respiro prese a parlare: «Dunque. Dovete sapere che stiamo parlando dei tempi del grande Campione dei Campioni, chiamato da alcuni l'Imbattuto o “il Campione senza volto”, perché nessuno lo ha mai visto in faccia, dato che ha sempre indossato una maschera da wrestler che gli copre la testa e la parte alta del viso; di lui non si sa ancora oggi nulla, tranne che ha un potentissimo e poderoso Venusaur.
In quei tempi, più di vent’anni fa, c’era anche un uomo. Il suo nome era Giovanni ed egli gestiva una pericolosa organizzazione criminale chiamata Team Rocket. Il suo scopo era quello di dominare il continente, ma egli non era molto capace con i Pokémon e quindi non aveva la minima speranza di sconfiggere l'Imbattuto. Come ben sapete, colui che detiene il potere sulla regione è il Campione della Lega Pokémon, ovvero l'Allenatore più forte di tutti. Giovanni decise così di attuare un colpo di stato e prendere il governo con la forza. Voleva il potere e nulla gli avrebbe impedito di ottenerlo. Nemmeno la legge.
Non riuscì però a fare nulla, in nessuno dei suoi tre colpi di stato. Il Campione lo aveva sempre fermato senza difficoltà. Era forte, quasi invincibile.
Un giorno però, alcuni anni dopo, in primavera, arrivò nella Palestra di Fucsiapoli una bambina di otto, forse nove anni. Indossava una lunga veste bianca, con una R rossa sul petto, ed era accompagnata da un Pidgeot senza una zampa. Era troppo piccola per avere un Pokémon, figuratevi al secondo stadio evolutivo. I testimoni, anzi il testimone, il Leader Koga, raccontò che quello sguardo rosso infuocato era freddo come il ghiaccio. Freddo e crudele.
Questa bambina entrò in Palestra, ma gli Allenatori la fermarono. Lei... lei prese l’attizzatoio del camino e... compì un vero massacro. All’interno dell’edificio c’erano dieci allenatori, più Koga. Venne risparmiato solo lui, e, da quello che raccontò al Campione, quella bambina aveva ucciso tutti a sprangate. La furia omicida di quella creatura non era umana e tutti seppero che era il nuovo modo di Giovanni per imporre il suo dominio. La lettera R ne era testimone: era il simbolo del Team Rocket, l'organizzazione di quel folle. Si pensò ad un attacco isolato, ma poi accadde un fatto simile nella Palestra di Zafferanopoli e in quella dell’Isola Cannella. Sopravvissero solo i Leader delle Palestre, anche se ne rimasero molto scossi. L’unica Palestra attaccata che si salvò fu quella di Aranciopoli. Si pensa che L.T. Surge si sia salvato grazie alle sue trappole. Come ben sapete, il terzo Leader si diverte a inventare trabocchetti per mettere in difficoltà gli sfidanti, ma anche per proteggersi dai ladri e dai malintenzionati.
La polizia ebbe una fuga di notizie e i media scatenarono il panico. Si stabilì il coprifuoco alle cinque di sera e la popolazione temeva di uscire da casa, terrorizzata dalla minaccia del Demone Rosso, chiamata così perché nessuno sapeva chi fosse o da dove venisse.
Demone, perché la sua crudeltà era pari a quella di un demonio uscito dall'inferno.
Rosso per via del suo aspetto: due occhi rossi come il fuoco, ma gelidi come il ghiaccio, e i capelli dello stesso colore infernale.
Nel frattempo, Giovanni fece varie scorribande con il suo team, approfittando della paura che aveva scatenato con la sua personale bestia assassina. Ma un ragazzino, l’eroe del Continente, Red, lo fermava ogni volta, bloccando i suoi piani e facendo saltare le operazioni. Ancora non è chiaro perché il Demone Rosso non lo abbia mai toccato.
Fatto sta che questo periodo oscuro durò due anni. Poi, Red sconfisse Giovanni e lui sciolse il team Rocket. Ci furono tre anni di pausa, poi, i Quattro Tenenti, tra cui il Demone Rosso stessa, tornarono, per richiamare il capo che li aveva abbandonati. Vennero fermati questa volta dal nostro attuale Campione Lance e il Demone Rosso venne ucciso.
Così venimmo liberati da quella belva assetata di sangue una volta per tutte, ma il suo ricordo aleggia ancora nelle menti di tutti. Il solo nome è fonte di terrore ed è tabù.»
«Ma prof, era davvero così terribile? Voglio dire, di sangue se ne vede tutti i giorni…» chiese un ragazzo, dubbioso e perplesso dal terrore che traspariva dalle parole della donna.
«Non pretendo che capiate, ragazzi. Noi che l’abbiamo vissuta ricordiamo.» si limitò a rispondere lei, sapendo che non avrebbero comunque compreso: «C’è… c’è un video. L’ha fatto un coraggioso allenatore prima di venir ucciso. Però… è forte. Forse troppo per voi. Ma se ve la sentite, venite con me… io non vi obbligo. Dovete essere consapevoli però che è un video terribile.»
I ragazzi si guardarono, poi si alzarono e la seguirono in aula multimediale. Lily deglutì. Ora avrebbe visto cos'era davvero la sua mamma. Quale orrenda creatura l'aveva messa al mondo e lasciata sola con suo padre. L'insegnante mise sul computer una memoria esterna, trovata in un cassetto chiuso a chiave.
«Sono solo pochi minuti, ma bastano e avanzano.» disse, con un leggero tremito nella voce mentre accendeva la televisione e selezionava un file.
Il video partì.

“Una voce sussurrò: «Una soffiata ci ha avvertiti che il Demone Rosso verrà qui. Ci siamo nascosti, tutti, per evitare il massacro. Speriamo che funzioni, ma se ci scopre... voglio documentare cosa fa quella bestia... per la polizia, per i posteri, per chiunque se la troverà davanti in futuro.»
La videocamera inquadrava la porta. Ci fu un po’ di silenzio, abbastanza teso, poi quella si aprì violentemente, sbattendo contro la parete. Una bambina entrò nell’atrio. Nelle mani aveva un’ascia, sporca di sangue, e la trascinava dietro di sé, con noncuranza, scrutando il posto con lo sguardo. Con una voce crudele e minacciosa, e un ghigno dipinto in faccia, disse: «Non mi piace nascondino, sapete? Guardia e ladri è più eccitante.»
Non ottenendo risposta, si guardò intorno pensierosa, mentre l’ascia seguiva i suoi passi, lasciando una scia rossa dietro di lei. Uno strido echeggiò dall'esterno. Lei guardò un attimo l'ora, alzò le spalle e tornò alla sua caccia. Si sentì un rumore e la bambina sollevò l'arma e la lanciò con tutta la forza che aveva, voltandosi. Un uomo cadde a terra trafitto, e lei, con un sogghigno, disse: «Fuori uno.»
Si avvicinò al cadavere, ci mise sopra un piede e tirò, riprendendosi l’arma, incurante del sangue che sgorgava copioso creando una pozza in terra, sulle piastrelle della Palestra.
«Prima o poi vi trovo. Tutti.» mormorò minacciosa, guardando ancora in giro.
Gli allenatori uscirono tutti allo scoperto, capendo che sarebbe stata solo questione di tempo, e l’attaccarono. Forse con l'effetto a sorpresa, sarebbero riusciti a sopraffarla.
Il Demone Rosso fece un ghigno di divertimento puro e afferrò saldamente l’ascia fra le mani. Non sopravvisse nessuno. Menando colpi a non finire, con una gioiosa furia omicida, la bambina fece letteralmente tutti a pezzi.”

L’insegnante spense il televisore.
«Meglio se non vedete nient’altro. E badate che non era un film.» mormorò, scossa e sull'orlo delle lacrime la donna.
Nella stanza, erano rimasti solo Lily e altri cinque ragazzi, tra cui il migliore amico della ragazzina. Tutti gli altri erano usciti dopo che era stato trafitto il primo uomo.
“M-mamma…” era l’unico pensiero della ragazzina dall’inizio. Quella... quella cosa era sua madre. L'avrebbe visto anche un cieco... notava anche lei l'enorme somiglianza fisica. E quello strido. Pidg.
«Questa era il Demone Rosso.» concluse l’insegnante, prima di spegnere tutto.
«Prof.» chiamò Lily.
«Sì, Grayhowl?»
Con gli occhi lucidi, e la voce tremante, la ragazzina disse: «Posso vedere il resto?»
«È meglio di no.»
«Per favore.»
La donna fissò la ragazzina. Quello sguardo convinto, quel tono deciso, la persuasero.
«Io esco, però. Non riesco a guardare questa scena.» rispose, posandole il telecomando sul banco.
Così, Lily rimase sola nella stanza. Prese il telecomando e schiacciò il pulsante play.

“Il Demone Rosso, aprì la porta con un calcio e si trovò davanti Blaine, un vecchietto, anche se molto energico e pimpante per la sua età.
«Non avrai mai la mia vita, mostro!» esclamò, con innato coraggio. Poteva affrontarla con i suoi Pokémon ma... chi gli diceva che quell'essere non avrebbe ucciso anche loro? Inoltre... aveva anche lei dei Pokémon.
La bambina rispose con un ghigno crudele, ancora euforica dopo il massacro avvenuto fuori: «E chi la vuole? Andiamo, hai un piede nella fossa.»
Blaine la attaccò, mulinando il suo bastone. Purtroppo per lui però, era un uomo anziano, mentre lei una scattante bambina. Schivando il colpo, Athena gli mise il gomito sulla spalla e, tirando il braccio verso l’alto, gliela lussò con un colpo secco. Il vecchio urlò di dolore, mollando il bastone e prendendosi la spalla dolorante; accecato dal male cadde a terra, in agonia. Lei gli si avvicinò e gli mise un piede sull’omero fuori dalla sede, schiacciando e facendolo urlare ancora. Ridendo di gusto, lo guardò contorcersi sotto il suo piede. Sembrava la divertisse un mondo causargli tutto quel dolore. Blaine urlò fino a finire la voce, ma la situazione peggiorò quando lei alzò l'ascia, con la punta rivolta verso l'alto, e la abbatté sul suo gomito, rompendolo. L’uomo non riusciva nemmeno a muoversi. Il dolore lancinante lo paralizzava al suolo. Quando lei si stufò di giocare con lui, gli diede un buffetto di disprezzo con il piede e commentò: «Ci si vede, vecchio. E ricorda… mai far arrabbiare il Grande Giovanni.»
Riprendendosi l’arma, uscì dalla stanza, ma vide il cameraman, che stava ancora riprendendo. Un pericoloso scintillio le passò nello sguardo, mentre si avvicinava con un ghigno stampato in faccia.
Un colpo d’ascia.
La telecamera cadde e qualcosa la girò.
Una voce crudele, infantile e divertita commentò: «Buona visione, spettatori.»
Inquadrò l’uomo, a terra, supino, con il cranio spaccato in due.”

La televisione si spense con un effetto neve e la risata di Athena di sottofondo.
Lily era scioccata. Quella era lei. Sua madre. In persona. E in tutta la sua cattiveria assassina.
Ma come poteva suo padre, la più buona e brava persona di questo mondo, essersi innamorato di una creatura del genere?

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Capitolo 13
*** Capitolo XII ***


Quando Lily tornò a casa, era ancora molto scossa. Appena vide il padre, disse: «Oggi ci hanno parlato del Demone Rosso a scuola.»
Raphael gelò sul posto e si voltò, fissandola inorridito; dopo aver deglutito, mentre tutte le sue paure parevano materializzarsi di colpo, chiese: «Cosa… vi hanno detto?»
«La prof ce ne ha parlato e poi abbiamo visto un video. È stato… terribile.» rispose lei. Non c'erano altre parole per descrivere come si era sentita.
Raphael la guardò per un momento, tentato di rivelarle tutto. Ma per dirle cosa? Che quella belva assetata di sangue era la sua mamma? Perché di sicuro non avevano mostrato loro il lato migliore di quella che era stata il Demone Rosso; così, preso dall'angoscia e dal senso di colpa, mormorò: «Lily, è… storia.»
«Sì, storia.» borbottò lei, sentendosi presa in giro dal padre, da N, da tutti. Perché nessuno aveva il coraggio di dirle la verità? Di dirle come realmente stavano le cose? Sconvolta ma anche seccata da quella situazione, andò in camera, senza più una parola. Raphael la fissò salire le scale e sospirò affranto. Perché la sua bambina aveva dovuto conoscere sua madre nel peggiore dei modi?
«Forse avrei dovuto dirglielo prima.» mormorò, preso dal senso di colpa.
«Non crucciarti.» intervenne N, che era rimasto in disparte mentre i due parlavano: «La tua presa di posizione è più che lecita. Forse ora, sarà solo più dura cercare di convincerla che sua madre non è più così.»
«Come se fosse facile.» rispose solo lui.
Lily nel frattempo, chiuse la porta e sedette alla scrivania. Giovanni era chissà dove, quindi non si sarebbe lamentato. Accese il computer e fece una ricerca. Avrebbe voluto chiedere a N, approfittando anche della sua compagnia, ma aveva già avuto modo di vedere che lui non era intenzionato a dirle niente. Non finché non ci fosse stata l'approvazione del padre. Quindi doveva arrangiarsi.
“Da quanto dice qui, il Demone Rosso ha tre fratelli.” pensò scorrendo i risultati: “E sembra che lui sia il più grande. Ora è ad Azzurropoli. L'hanno avvistato e lo tengono d'occhio perché è un pregiudicato e non si fidano. Beh, tentare non nuoce. Infondo… è una specie di zio! Come Pidg!” concluse, chiudendo tutto, per poi cancellare la cronologia, spegnere il computer e uscire di soppiatto. Arrivò ad Azzurropoli grazie ad un volo con Wargle. Il Braviary l'aveva accompagnata nel continente di buon grado, credendo alla scusa dello studio con un'amica. Lei gli disse di tornare verso sera fuori dalla città. Lui annuì, le diede un buffetto con la testa per salutarla e decollò. La ragazzina, invece, si incamminò in città. Il cellulare le vibrava nella tasca, suo padre la cercava. Ma lei voleva sapere di più. E avrebbe scoperto tutto. Lo vide nel parco. Teneva una bancarella di panini e in quel momento era pieno di clienti. O almeno, di quelli che può avere un pregiudicato bollato a vita come un delinquente.
“Diresti mai che quello era il terribile primo tenente del Team Rocket?” si chiese Lily con un ghigno, osservandolo da lontano servire la gente lì attorno con un sorriso cordiale.
Doveva parlargli in qualche modo, ma non poteva in quel momento, davanti a tutti. Aspettare che chiudesse non le pareva il caso, dato che avrebbe fatto troppo tardi. Così le venne un’idea. Si mise a fare la coda e, quando fu il suo turno, Archer la guardò sorridendo e cominciò a dire: «Buongiorno. Che cosa desider…», ma si bloccò, squadrandola perplesso, come se vedesse un’altra persona.
Lei gli sorrise, ordinò e sedette poco lontano. Lui però non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Pareva quasi ipnotizzato. Così, si inventò una scusa per chiudere tutto e mandare via scusandosi i clienti che erano rimasti, promettendo uno sconto la volta dopo. Sistemato tutto, si avvicinò a Lily, non sapendo nemmeno come cominciare un discorso. Si schiarì la voce, per farle capire che era lì, e quando lei si voltò, borbottò:  «Qualcosa mi dice che il panino era una scusa.»
«Infatti.» sorrise lei, quasi ghignando: «Però era buono!»
«Almeno quello.» disse lui, continuando a fissarla: «Volevi parlare con me?»
Il sorriso di lei si allargò quando rispose: «Sì. Ti ricordo qualcuno?»
Archer annuì, soppesando le sue parole ma soprattutto quel ghigno furbo che tanto gli ricordava la sorellina. Dove voleva andare a parare con tutto quel mistero e quelle domande sibilline?
«Sì, ma non è possibile.» si decise a risponderle.
«E perché?» chiese invece lei, incuriosita da quel tono così definitivo.
«Perché questa persona… non può avere figli.»
«E invece sì.» negò lei con forza, balzando in piedi: «Io ne sono la prova. Non l’ho ancora vista, perché papà dice che non posso chiedere le visite, però so che è lei.»
Archer si astenne dal riderle in faccia, vedendo quanto fosse convinta di essere figlia del Demone Rosso. L’unico elemento che lo frenava dall’insultarla, darle della visionaria e rimandarla a casa era quella inquietante somiglianza con la sorella. Erano davvero due gocce d’acqua ed era troppo strano per essere una coincidenza. O comunque perché fosse possibile geneticamente, se non era imparentata con lei.
Sedendosi sulla panca, dove prima era lei, chiese: «E tuo padre chi sarebbe?»
Lei lo imitò, calmandosi anche se non capiva quella ostinata diffidenza, e rispose: «Si chiama Raphael e ha detto che una volta era una Recluta. Gli è scappato, ma sono riuscita ad estorcergli qualcosa. Non so molto però perché papà non ha mai voluto dirmi niente di preciso sulla mia mamma. Anzi, fino a poco tempo fa sosteneva fermamente fosse morta quando ero nata io.»
Archer osservò meglio la ragazzina, mentre ascoltava le sue parole, e soffermandosi sulla parte inferiore del viso, ebbe l’illuminazione; così esclamò, battendosi un pugno sulla mano: «Ma certo. Quel ragazzino che si è quasi fatto ammazzare!»
Spostato lo sguardo nei suoi occhi, chiese: «Cosa ci fai qui?»
Lily ricambiò lo sguardo e rispose: «Volevo sapere qualcosa sulla mamma. Papà e N ne parlano bene, il resto del mondo no.»
Archer la osservò bene. Il taglio degli occhi era uguale, ma il colore e soprattutto l’intensità erano tutta un’altra cosa. La ragazzina aveva uno sguardo dolce e simpatico, per nulla assassino o iracondo. Sorridendole, dato che in fin dei conti era la sua nipotina, disse: «Sai, piccola… tua madre è una persona particolare. Non è cattiva, o almeno non lo era, ma Giovanni era bravo con la mente delle persone. Soprattutto con quelle manipolabili come la sua.»
«Posso sapere la storia? Lo so che sembro piccola e non sono cose da dire e via dicendo. Però a scuola ci hanno fatto una lezione di storia contemporanea e devo dire che ho ancora la pelle d’oca.»
Archer rifletté, capendo come si sentisse. D’altronde, sentire la storia del Demone da chi l’aveva vissuta era tutto fuorché divertente. La gente del continente non sapeva delle sevizie, dei soprusi e dei tormenti psicologici a cui Athena era stata sottoposta da quel folle. Sapevano solo degli omicidi, delle stragi e dei massacri conseguenti a quelle. Così, disse: «Forse è meglio se, almeno tu, sappia com’è realmente successa.»
Lei si mise comoda, pronta ad ascoltare attentamente la storia, e lui proseguì: «Avevo dodici anni e entrai nel Team Rocket. Ero il classico bulletto che voleva di più, orfano, sballottato da una famiglia all’altra, trascorrendo il resto del tempo nell’orfanotrofio. Giovanni mi accolse. Non so cosa vedesse in me, ma dovevo sembrargli un ottimo elemento. Devi sapere che quell’uomo tendeva a portare sotto la sua ala solo ragazzi, ma soprattutto bambini, orfani perché non avevano legami all’esterno e poteva farli suoi nel vero senso della parola. Cominciai a fare missioni qua e là, e divenni il capo dei Fratelli Rocket, le Reclute più importanti. Milas era simpatico, Maxus un idiota, ma andavamo d’accordo. Ci consideravamo quasi fratelli biologici. Lei entrò nel Team un po’ di tempo dopo di me, ma non sapevo che tipo fosse. Nessuno le aveva mai parlato, perché evitava tutti; Giovanni istigava il terrore, voleva che tutti le stessero alla larga. Non doveva sentirsi amata o accettata, altrimenti il suo piano sarebbe fallito. Ma questo purtroppo lo scoprii troppo tardi. Indagando – ammetto che ero piuttosto curioso – notai che, una volta al giorno, Giovanni passava a prenderla e la costringeva a uccidere un prigioniero. Lei si divertiva e lo faceva senza obbiettare. Non si rendeva conto della differenza tra il bene e il male suppongo, ma soprattutto era il macabro divertimento che provava a essere sbagliato. Devi sapere che soffre di una malattia della mente, che la porta ad amare il sapore del sangue. Ma questo non è il problema fondamentale, perché volendo, può essere innocua, come lo è ora; benché adori uccidere, non lo fa perché sa che è sbagliato e non deve farlo. Comunque sia ora, due anni circa dopo, Giovanni capì che non poteva starle dietro, così la mandò dal generale Surge, il Leader di Aranciopoli.»
«Il nonno Surge?! Io pensavo fosse il suo papà biologico!» lo interruppe lei, incredula.
«Nonno?»
Lei annuì e aggiunse: «Sì. Papà mi ha detto che è il papà della mia mamma. Ma a quanto pare, non è così.»
«Questo punto dovrai chiarirlo con lei, o con uno dei due, credo. Comunque sia… Surge la doveva addestrare, ma quando lei tornò si rifiutava in qualunque maniera di uccidere. Giovanni era nero di rabbia, continuava a dire che Surge l’aveva rovinata e che non poteva più contare sulla sua “arma”. Il capo però non si arrese e trovò il modo di piegarla. Vedi, lei diventa pericolosa solo se si arrabbia. Altrimenti riesce a sopprimere il suo desiderio di uccidere. Giovanni cominciò a tenerla costantemente arrabbiata. Non le permetteva di calmarsi in nessun modo e lei uccideva per scaricarsi, finché non divenne l’unica cosa che la faceva sentire bene. Nulla era più importante per lei di uccidere e lui le mise in testa anche il pensiero che Surge non le aveva mai voluto bene e che quindi, quando le aveva detto che fare del male era sbagliato, l’aveva fatto solo per indebolirla. Giovanni sfruttò questa cosa anche come punizione. Il dolore fisico, le punizioni corporali, sembravano farle nulla. Così il capo trovò la punizione ideale: rinchiuderla in isolamento. Era un dolore diverso da quello fisico, una tortura psicologica che la mandava sull’orlo della follia. Io e Pidg, o come tutti lo conoscono, Deathly Eagle, cercavamo spesso di tranquillizzarla quando era in punizione, per evitare che si facesse manovrare come un burattino. Ma io ottenni solo il risultato di starle simpatico e di essere l’unico che poteva parlarle liberamente, senza il rischio di una pugnalata. Non so altro. Non so come fece a disintossicarsi, ma so solo che la rividi tre anni dopo la morte dei suoi Pokémon, che tentava di strappare un ragazzino dalle braccia della morte; quella che lei aveva causato a molte persone.»
Lily, commossa dal dolore che trapelava dalla voce dell’uomo, ma anche per la sofferenza della madre, mormorò: «Papà sa com’è andata. Io so diciamo la parte che lo riguarda direttamente. O meglio, so qualcosa a spezzoni perché non me ne ha mai voluto parlare di sua spontanea volontà.»
«Cioè?» chiese lui, incuriosito; aveva sempre voluto sapere come avesse fatto a calmarsi e a cambiare così radicalmente: «Dopo che lui lasciò la base con un biglietto patetico?»
Lei lo guardò, con un ghigno simile a quello della madre, e chiese: «Che c’era scritto?»
«Lascia stare!» ridacchiò Archer: «Dimmi quello che sai piuttosto.»
Facendo spallucce, Lily proseguì: «Papà scappò dalla base e andò a cercarla. La trovò, fecero amicizia e, piano, piano si innamorarono. Però poi, dopo la mia nascita, la mamma rischiò di morire e N la portò via da papà. Lui ha vissuto quattordici anni credendo fosse morta, ma poi l’ha rivista. È un avvocato e ha preso le sue difese. Non so altro, però so che lei è rinchiusa nel carcere di Zafferanopoli. Papà ne parlava con N, ma non mi vogliono dire niente della mamma.»
Archer annuì, comprendendo le remore del padre, ma borbottò, quasi parlando con sé stesso: «Non so se sia la cosa giusta. Forse vogliono proteggerti ma meglio se sai tutto da loro che da altri no?»
«È quello che ho cercato di dire loro, ma non mi ascoltano.»
«Non è facile dire alla propria figlia che la madre era un mostro, odiata dall’intero globo.»
Lily non rispose, ricordandosi ciò che aveva visto in classe e la paura che aveva provato, ma Archer aggiunse sorridendo, capendo i suoi pensieri e i suoi dubbi: «Devi conoscerla per giudicare. Non puoi basarti solo su quello che ti dicono gli altri. Dovrai farti una tua idea personale.»
Lei annuì, rinfrancata e gli sorrise. I due parlarono ancora un po’, del più e del meno; come zio e nipote, dovevano conoscersi un po’. Poco dopo però si fece davvero tardi e Lily fu costretta ad andarsene, o il padre avrebbe chiamato chissà chi per andare a cercarla. Richiamato Wargle, tornò a Hoenn.
Archer, invece, partì il giorno dopo per Zafferanopoli. Voleva vederla e parlarle. La sua sorellina infondo gli mancava. Arrivò al carcere e chiese una visita.
«Il Demone Rosso? Archer, la libertà ti da' alla testa! È morta fattene una ragione!» rispose quasi sprezzante la guardia all’ingresso, come se fosse completamente suonato.
«Io so che è qui! Fammi entrare!» ribatté lui, cercando di passare.
«Vai a farti un giro, Archer. E qui non ci entrare mai più.»
L’uomo se ne andò seccato, pensando ad un piano per vederla, ma prima che potesse uscire dalla zona protetta, una voce chiese:«Archer?! Che diavolo vuoi?»
«Lance.» salutò lui, freddamente, una volta che si fu voltato e lo ebbe riconosciuto: «Volevo solo vedere mia sorella. Ma a quanto pare sono pazzo.»
I due si fissarono con odio, poi Lance disse: «Non so come tu faccia a saperlo ma… seguimi. E tieni la bocca cucita.»
Archer titubò, non sapendo se fidarsi o meno del suo peggior nemico, ma vedendolo andare via con passo veloce, eseguì e il Campione gli fece strada nel carcere, superando una porta protetta da una password.
«Che non si sappia in giro.» sbottò, per poi accompagnarlo da un corridoio in una stanza isolata dove c’era una cella in penombra.
Gli fece segno di non muoversi e andò verso la cella. Giunto lì, salutò con un cordiale: «Ehi, pazzoide.»
«Lancino, sei ancora qui?» chiese una voce dall’ombra, che Archer riconobbe come quella sempre sarcastica della sorella: «Avevi ragione quando mi hai detto che non ti avrei più sopportato.»
«L’avevo detto io!» rispose lui, quasi con un tono da saccente: «Non avrai nemmeno il tempo di renderti conto di essere sola. Comunque non sono qui di mia iniziativa. Ho incontrato una certa persona che muore dalla voglia di rivederti.»
Lance fece segno all’uomo di avvicinarsi e aprì la cella, per almeno permettere loro di toccarsi. D’altronde, erano fratelli e pareva non si vedessero da parecchio tempo.
Athena sbirciò fuori dalla porta con curiosità ed esclamò, con un sincero sorriso meravigliato: «Archer?!»
«Athena!» esclamò lui, correndo nella cella ed abbracciandola forte; un attacco di dolcezza del quale si pentì quasi subito, ma lei lo strinse di risposta, altrettanto felice, tranquillizzandolo; temendo, però, si fosse cacciato di nuovo nei guai, chiese: «Che ci fai qui?»
Lui probabilmente intuì il pensiero dal tono di voce, perché rispose: «Un angelo custode che ti vuole felice. Non ti dirò altro. Sto diventando un bravo ragazzo.»
«Sei così sibillino quando ti ci metti.» brontolò invece lei, non capendo a chi si riferisse e vedendo che pareva non avere alcuna intenzione di parlare chiaro.
Lui rise e assentì: «Già, lo so. Di’ un po’… tu, piuttosto. Cosa diamine ci fai qui!?»
«Mi sono consegnata, ovvio. Era giusto così…»
«Giusto… relativamente.»
«Mi ha già fatto questo discorso Raphael. Se ha perso lui, tu non hai speranze fidati.»
Lui si arrese alzando le mani e intuendo che la recluta e il famoso papà fosse questo “Raphael”. Sedettero entrambi e parlarono molto, raccontando la vita che avevano passato fino ad allora, con tutti i particolari annessi e connessi. Archer, pochi mesi dopo che lei se n’era andata dalla base, seguita a ruota da Raphael, aveva capito che il Team non avrebbe mai più avuto successo, nemmeno con tutto l’impegno possibile. Così aveva sciolto tutto e aperto un carretto ambulante di panini. All’inizio nessuno andava da lui perché era un pregiudicato, ma dopo un po’ divenne famoso. Era economico, gentile e la gente si trovava a suo agio. Imparando ad essere cordiale e beneducato, aveva rimediato a quasi tutti i problemi portati dalla sua condizione di ex galeotto. Alcuni giorni prima però, era arrivata questa persona a dirgli dov’era la sorella; e lui era ovviamente andato a trovarla.
Anche lei gli narrò tutto ciò che le era successo e lui commentò, alla fine del racconto: «Intelligente questo N. Direi che dovrei andare a ringraziarlo. Piuttosto…» aggiunse con un ghignetto furbo e malizioso insieme: «Quando avevi intenzione di dirmi della tua conquista, signorina?»
Lei avvampò, una cosa nuova per Archer, che non glielo aveva mai visto fare. La donna rispose balbettando, rossa in viso e imbarazzata: «Eh, beh, ecco… non ti ho più visto e… non c’era l’occasione, insomma.»
Archer ridacchiò di gusto, vedendola così in difficoltà e disse: «Non avrei mai detto che ti avrei mai vista imbarazzata sorellina.»
«La gente cambia, come ti ho già detto.» rispose lei, seccata dal suo divertimento: «Posso solo dire che sono migliorata.»
Lui chiese scusa, e annuì, rispondendo: «Già… sai avrei dovuto anche arrivarci. Tutta quella fatica per salvarlo…»
«Non vuol dire niente.» lo interruppe secca Athena: «Ci ho messo molto più tempo di quello che credi per ricambiarlo. Ma devo dire che ne è valsa la pena. Darei la mia stessa vita per lui, ora come ora.»
Il fratello si decise a sorridere, davvero felice della sua nuova umanità e commentò: «È bello sentirtelo dire. Vuol dire che non sei proprio il robot che tutti credevano.»
«Anche le bestie hanno un cuore. Raphael lo ha dimostrato.» alzò le spalle lei, come per sminuire.
Archer ridacchiò e rispose, facendole l’occhiolino: «Io lo sapevo già da prima. E così ora ti difende legalmente...»
«Già. È diventato avvocato dopo una separazione forzata. Ma la vedo in positivo. Dicono che nulla possa fermare l'avvocato Raphael Grayhowl quando vuole vincere.»
Archer non si trattenne più e le accarezzò una guancia, stranito nel vedere che lei non cercava di scansarsi o di abbatterlo per aver osato tanto. Anzi pareva quasi piacerle. Quell’uomo l’aveva davvero cambiata; l’amore l’aveva davvero cambiata e ora apprezzava addirittura le coccole. Tolta la mano, mormorò: «Vedremo dai. Ora però sarà meglio che vada. È la quinta volta che vedo Lance passare davanti alla porta.»
Lei ridacchiò di risposta: «Lancino si agita troppo, ma sono contenta di averti visto. Stai lontano dai guai Archer, per favore.»
«Lo faccio da tanto. Attenta tu, piuttosto. Ciao, sorellina.»
Archer fece per alzarsi, ma in uno slancio di affetto lei lo abbracciò. Lui ovviamente ricambiò e quando si lasciarono, uscì dalla cella e il Campione richiuse la porta, facendole ciao con la mano ma senza farsi vedere dall’uomo. Athena gli sussurrò: «Ti vergogni che siamo amici, scimmione?» ma lui la ignorò volutamente, accompagnando l’ex tenente di fuori e tornando alla Lega per controllare la situazione.
Archer invece si allontanò pensoso dal carcere. Doveva tutto a quel ragazzino, ormai uomo probabilmente, che aveva reso umana e quindi migliore la sorellina.
“Chissà dove abita.” si chiese, per poi chiedere alla guardia.
«L’avvocato Grayhowl?» rispose lui, rimuginando: «Sì lo conosco ma non so dove vive… si è trasferito da poco. Però se vuoi lo trovi in procura il mercoledì e tutti i giorni nel suo ufficio a Zafferanopoli.»
L’ex tenente annuì e ringraziò, ma andare in procura non era una delle idee che preferiva. E nemmeno girare per uffici di avvocati. Decise di andare a ripescare la bambina che lo aveva cercato, per chiedere direttamente a lei dove abitasse con il padre. Andò alla scuola di Zafferanopoli, ricordandosi la sua età, e attese fuori con il suo carretto. Avrebbe aspettato la fine delle lezioni tirando su un po' di soldi.
«Ehi, Lily!» chiamò quando la vide uscire, ma era troppo lontano e lei non lo sentì.
La rincorse dentro ad un bosco e la vide ferma in una radura che fissava il cielo. Rallentò, alzò lo sguardo e vide un grosso rapace planare verso di lei. Archer lo fissò atterrare sbigottito, ricordandoselo in una teca di vetro all'entrata di Zafferanopoli. Togliendosi dalla testa l'opzione fantasma, visto che la ragazzina lo stava accarezzando, si decise a fare qualcosa prima che se ne andassero e così urlò: «Pidg! Ehi, Pidg!»
«Pigeo?» borbottò il Pokémon, per poi voltarsi, non capendo chi potesse chiamarlo con il suo vero nome.
Quando però vide Archer, non perse più tempo a pensare e si lanciò in volo, atterrandogli addosso e becchettandolo affettuosamente, felice di vederlo.
«Aiuto! Pidg, spostati! Ma lo sai quanto pesi?» esclamò l'uomo con il fiato mozzo e il torace compresso da quell'ammasso di penne e piume.
«Pidgeooo!!» rispose lui, becchettandolo affettuosamente, con nessuna intenzione di farlo alzare.
«Spostati, pennuto! Mi stai spiaccicando! Fantasma o zombie che tu sia, levati!»
Pidg si alzò in volo e lo becchettò ancora, giusto per esprimergli tutto il suo affetto. Archer alzò gli occhi al cielo e gli accarezzò la testa, dicendo: «Sei l’ultimo Pokémon che avrei mai pensato di vedere vivo, sai Pidg?»
«Pidgeo!» rispose lui, posandosi alla sua mano tutto contento e arruffando le piume.
Lily li raggiunse titubante e mormorò: «Zio?» intendendo Pidg, ma si voltarono entrambi. Lei ridacchiò per la scena e borbottò: «Intendevo zio Pidg, però se non è un fastidio...»
«Ci mancherebbe altro.» rispose solo lui sorridendo.
La ragazzina sorrise di risposta e chiese: «Che cosa ci fa qui?»
«Cercavo te. Ho visto Athena e mi ha raccontato quello che è successo. Così volevo conoscere tuo padre. Anzi, rivederlo.»
«Venga con me e lo zio!» rispose la bambina, indicandogli il Pokémon: «Papà sarà felice di rivederla! O almeno lo spero!»
Pidg si voltò di spalle per permettere loro di salire. Lily gli saltò in groppa, aggrappandosi al collo, e Archer si mise dietro di lei, sulla coda del Pokémon, attento a dove mettere le mani. Non sapeva se i genitori avessero acconsentito ad un contatto così ravvicinato. Lui di certo non voleva farle nulla, ma era abbastanza ambigua come cosa. Lei non sembrava per niente imbarazzata; probabilmente contava sulla parentela. Comunque fosse, Archer sperò che quel viaggio durasse il meno possibile. Arrivati, atterrarono e Lily corse in casa. Pidg la seguì volando rasoterra e Archer fece lo stesso, bussando giusto per sembrare almeno un minimo educato.
Raphael apparve dal soggiorno, perplesso dal trambusto, lo vide, ed esclamò: «Tenente Archer?!»
«Ex tenente, prego.» sorrise lui, un po’ imbarazzato, per poi dire: «Non pensavo ti avrei rivisto.»
«Lo stesso vale per me… che cosa ci fate qui?» chiese l’avvocato, non molto convinto di quella visita, per poi aggiungere: «Ah, entrate pure.»
Archer ringraziò ed entrò, sedendosi sulla sedia che gli era stata indicata e stringendo la mano a N. Prendendo la parola, disse ridacchiando: «Insomma, la piccola Athena junior è venuta a trovarmi e così ho pensato di venire a ritrovare il miracoloso pazzo che è riuscito a umanizzarla.»
Lui arrossì di risposta, visto il tono scherzoso con cui l’uomo stava parlando, e borbottò qualcosa di indefinito per sminuire la cosa, ma Archer aggiunse: «Credimi quando ti dico che da quando la conosco, non ho mai visto Athena arrossire o parlare con dolcezza di qualcuno.»
«Beh…» rispose Raphael, cercando di formulare una frase di senso compiuto: «Io non ho fatto niente infondo.»
«Niente. Relativamente.» rispose l’altro, non incline a dargliela vinta nel sminuire il suo vero e proprio miracolo: «Quando sei scappato l’avevo capito che eri andato dietro a lei. Ero un po’ preoccupato per te, perché da quanto mi ricordassi, lei era ancora instabile. Così ti ho fatto seguire. Ma quando ho visto che non era ostile nei tuoi confronti, mi sono tranquillizzato. Oggi ho avuto la conferma di aver fatto bene.»
«Non so che dire, Tenente.» borbottò solo Raphael, ancora piuttosto imbarazzato: «Ho seguito quello che provavo. Nulla in più.»
«Sei riuscito a scongelare il suo cuore. Non è da tutti, te lo assicuro. Mi ha raccontato un po’ di cose… anche che si è pugnalata piuttosto che uccidere te. Stiamo parlando del Demone Rosso, eppure ha preferito la morte all’omicidio. È un vero miracolo, non ho altro da aggiungere. E ti ringrazio per averlo fatto.»
«Miracolo, o semplicemente, la persona giusta.» buttò lì lui, sorridendo a sua volta visto che non poteva spuntarla, per poi aggiungere: «Ma non dovete ringraziarmi. In fin dei conti, ho fatto tutto pensando a me stesso.»
Archer rise, annuendo, e rispose: «Allora è una piacevole conseguenza!»
Gli sorrise grato, davvero contento che qualcuno avesse riportato la sorellina sulla via dell’umanità, sopprimendo il mostro che era in lei. Raphael ridacchiò, un po’ meno imbarazzato di prima. Dei passi però li fecero voltare e Giovanni irruppe nella stanza. Era tornato per qualche giorno dal suo viaggio, per consegnare a Raphael delle lettere da dare alla sua mamma; sarebbe ripartito il giorno successivo, alla volta di Brunifoglia. Lily lo squadrò, pronta con la battutaccia in canna.
«Ehi. E tu chi sei?» chiese invece Archer, squadrandolo, sentendo l'aria farsi d'un tratto tesa.
Il bambino lo fissò storto di rimando e rispose secco: «Chi è lei, piuttosto.»
Abbastanza irritato per quell’atteggiamento, l’uomo rispose: «Io mi chiamo Archer e…» ma Giovanni lo interruppe, cambiando di colpo modo di fare, quasi urlando, emozionato: «Cosa?! Lei è Archer?! Il fratello di Athena?!»
«Sì…» rispose, sempre più perplesso: «E tu invece sei?»
«Giovanni! Suo figlio!» si presentò il bambino, cambiando faccia, tutto contento di conoscere uno dei tre fratelli della sua mamma, dei quali lei gli aveva molto parlato.
«Adottivo.» aggiunse pungente Lily.
«Più figlio di te, di sicuro.» ribatté lui, fissando seccato la sorellastra.
«Sul piano biologico non direi.»
«Su quello emotivo, sì.»
«Solo perché io non l’ho mai conosciuta. Altrimenti ti scarterebbe!»
«Certo, perché tu sei la perfezione!»
I due cominciarono a litigare con epiteti molto coloriti. Archer li fissava perplesso, un po’ scioccato soprattutto dal nome, e Raphael, dopo una pausa, si avvicinò a lui e disse: «Fanno sempre così. Non scandalizzatevi troppo.»
«Sempre?» chiese lui.
«Sì. Non riusciamo a farli andare d’accordo. E Giovanni è difficile da gestire. Fortunatamente in questi giorni è poco qua intorno... sta andando in giro per la regione a caccia di Medaglie.»
Archer li osservò ancora un attimo, ridacchiando alle parole dell'avvocato, poi si chinò e chiese ai due bambini: «Perché vi odiate così?»
«Ha cominciato...» cominciarono a dire i due in coro, puntandosi un dito contro a vicenda, ma lui alzò la mano e disse: «Non mi interessa chi ha cominciato. Voglio sapere perché. Insomma, volete stabilire chi è il figlio migliore? Che senso ha?»
I due si guardarono, velenosi ma imbarazzati. Perché si davano guerra?
«Ammettetelo… tu Giovanni, sei invidioso di Lily perché lei è figlia biologica.»
La ragazzina lo guardò con superiorità, ma il suo ghigno venne subito smontato da Archer, che proseguì dicendo: «Mentre tu, Lilith, sei invidiosa di lui perché ha vissuto del tempo con vostra madre mentre tu no.
Quindi, perché invece di farvi la guerra, non provate ad andare d’accordo?
Giovanni, per esempio, da quanto mi ha detto Raphael, Lilith è simile a sua madre anche come carattere. Potresti sentire meno la sua mancanza stando con lei. Mentre tu, Lilith, potresti apprendere qualcosa su vostra madre da Giovanni. Non vi sembra fattibile?»
I due si fissarono a lungo, o meglio squadrarono, poi si voltarono verso Archer e urlarono in coro: «No!» correndo poi via in due direzioni diverse.
Raphael mise una mano sulla spalla dell’uomo e mormorò: «Lasciate perdere. Quei due sono zucconi alla stessa maniera. E non si lasceranno mai convincere da nessuno. O forse, dalla mia piccola paz.. ehm, dalla loro mamma.»
Archer annuì, poco convinto ma incredulo della loro testardaggine. Poi però, un po’ tanto perplesso, chiese: «Ma… davvero si chiama Giovanni?»
Raphael annuì e Archer riprese: «Ma perché?»
«Te lo spiego io.» intervenne N, visto che era stato con lui che Athena aveva scelto il nome: «L’ha proposto proprio lei. Ero perplesso anche io, ma lei mi disse che… gli avrebbe dato quel nome perché non ricordasse solo qualcuno di cattivo, come quell’uomo, ma anche qualcosa di buono. E credi a me, Athena darebbe la vita per quel bambino, anche se si chiama così.»
«Non so perché ma… da lei me lo sarei aspettato.» concluse Archer, annuendo e comprendendo le ragioni della sorella.

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Capitolo 14
*** Capitolo XIII ***


“Archer ci è riuscito.” pensò Lily, assolutamente determinata ad andare fino in fondo: “L’ha vista. Posso farcela anch'io. È mia madre! E io voglio conoscerla.”
Lily era determinata a conoscere Athena, il Demone Rosso e la donna che l’aveva messa al mondo; niente le avrebbe fatto cambiare idea e nessuno l’avrebbe fermata. Nemmeno la paura di venire uccisa o chissà che altro. Doveva però capire come vederla senza chiedere aiuto. Chiunque le avrebbe impedito di andare in un carcere per vedere da sola il Demone Rosso. Era perfettamente logico e anche lei stessa, se non ci fosse stata dentro, avrebbe detto a chiunque di non fare una pazzia del genere. Prese il cellulare, cercò un numero in rubrica e mormorò, appena la persona all'altro capo rispose: «Ehi. Mi serve un favore. Sai trovare l’indirizzo del carcere di Zafferanopoli? No, non sono nei guai, Felix. Mi serve solo l’indirizzo. Ti devo un favore!»
La ragazzina fissò quel foglietto, dove aveva appuntato il nome della strada. Era determinata. Ma doveva agire con calma o il padre l’avrebbe scoperta. E sicuramente bloccata.
Alcuni giorni dopo, aspettò che lui se ne andasse, uscì di casa di soppiatto e chiese a Wargle un passaggio per il continente, con la scusa che doveva studiare da un’amica. Era un trucco che funzionava sempre. Congedata l’aquila, arrivò nella periferia di Zafferanopoli e guardò l’indirizzo sul foglio e quello sul cartello. Coincidevano. Fece un respiro e osservò attenta l’edificio: un enorme fabbricato, circondato da una recinzione molto alta e stretta, con telecamere ovunque e altri sistemi di sicurezza a lei sconosciuti. Giunta al portone di acciaio, si avvicinò alla guardia. L’uomo, in divisa e con una pistola alla cintola, la guardò perplesso e lei chiese: «Mi scusi se la disturbo, signore. Quando… quando si possono fare delle visite?»
«Sei qui da sola?»
«Sì, signore.»
«Non posso farti entrare, bambina. Possono aver accesso alla struttura solo gli adulti.»
Lily ringraziò e si allontanò abbattuta. Non poteva nemmeno vederla, tentare di parlarle. Fece il giro della recinzione, ma c’era un muro dietro. Non riusciva a vedere dentro, figuriamoci superarlo. Sospirando rassegnata, fece per tornare a casa e pensare a qualcos'altro, ma una voce chiese: «E tu chi sei?»
La ragazzina si voltò e vide di fronte a lei un uomo alto con i capelli arancioni sparati in alto con il gel, molto muscoloso, che indossava un completo di pelle nero e un mantello, rosso all’interno e nero all’esterno.
Lance guardò quella bambina con curiosità. Le assomigliava molto, troppo. Fino all’ultimo capello.
«Chi è tua madre?» chiese a bruciapelo, senza nemmeno presentarsi.
Lei lo fissò decisa, anche se leggermente intimorita, e rispose: «Non lo so. Ma mio padre è Raphael Grayhowl.»
Lui si lasciò sfuggire un sorrisetto e comprese. Era passato parecchio tempo tra la sua partenza da Isshu e la presunta morte di Athena. Ovvio che avessero fatto dei passi avanti. Così avanti però non se lo sarebbe mai aspettato. Ma non c'erano dubbi che dicesse la verità. Le assomigliava in tutto e per tutto, anche per il caratterino.
«Capisco.» borbottò, senza riuscire a staccarle gli occhi di dosso; inclinando il capo, aggiunse: «E cosa ti porta qui? Se cerchi tuo padre, non lo troverai.»
«No.» sbottò lei, ricambiando lo sguardo celando il timore: «Non posso vedere chi sto cercando quindi me ne torno a casa.»
Lily cominciò a camminare impettita sul marciapiede, diretta verso la città, ma il Campione sogghignò e chiese: «Vuoi conoscere tua madre?»
La ragazzina si bloccò sul posto, inorridita. Si voltò di scatto e vide l'uomo far penzolare un mazzo di chiavi che teneva per l'anello tra il pollice e l'indice. Fu tentata di accettare, ma poi si insospettì e chiese: «Che cosa ci guadagna lei?»
Il sogghigno del Campione non svanì ma lui rispose: «Direi che questo non è affar tuo. Sappi solo che non hai altri modi per vederla. È sotto la mia custodia e se io non voglio che qualcuno la veda, nessuno la vedrà. È la tua unica possibilità.»
Lei si morse il labbro, ma la curiosità era più forte della diffidenza, così si avvicinò a lui e annuì. Lui sorrise e, mentre andavano sul retro del carcere, a una porta secondaria, lui disse: «Inventati una scusa per la tua presenza lì. Io non c'entro.»
«Va bene...» annuì lei. Cominciava ad avere la tremarella. Era sia terrorizzata che emozionata nel conoscere la madre. E solo quella porta le separava. L'ansia cominciò a prendere il sopravvento. Lily deglutì ma non si sarebbe tirata indietro. Doveva proseguire nel piano. Stava avendo successo, dopotutto.
Lance inserì la chiave nella toppa, digitò una password e le aprì la porta, ma sussurrò: «Resta qua e fai finta di esserti intrufolata. Tra un po' torno e esci, ok?»
«Bel piano.» annuì lei, seguendolo quatta, quatta.
Il Campione andò con passo tranquillo verso la cella e salutò: «Ehi, pazzoide.»
«...ao, Lance.» rispose una voce di donna, un po' flebile.
«Non dirmi che stavi dormendo!» esclamò scherzosamente lui, notando l'entrata della ragazzina con la coda dell'occhio.
Athena si alzò dalla branda, si stiracchio e, avvicinatasi alla grata, gli sbadigliò rumorosamente in faccia giusto per anticipare la risposta, che fu: «Qui è tutto buio. Non starei sveglia nemmeno con tutto il mio impegno.»
Lui ridacchiò e gli venne in mente la risposta degna, ma forse l'avrebbe irritata troppo, così si arrese e disse solo: «Ammettilo che preferivi i sotterranei della Lega.»
«Sicuramente.» annuì lei: «Erano meno soffocanti, accidenti a Vodel.»
I due parlarono per un po’ finché il Campione non salutò e uscì. Lily restò accucciata nel suo angolo, aspettando che l’uomo finisse di chiudere la porta. Ma poi non si mosse. Non sapeva come rivelare la sua presenza alla madre. Doveva ammetterlo, aveva paura di una reazione violenta da parte sua. Non sapeva che lei era sua figlia, quindi avrebbe potuto farle di tutto. Ma ormai era in ballo e doveva ballare. Athena però l’aveva sentita entrare, ma non uscire, dato che i passi rimbombavano: c’era una persona che non voleva farsi vedere. Dopo un po’ di attesa volta a capire se l’estraneo si sarebbe mostrato o meno, la donna borbottò: «Chiunque tu sia… sappi che Lance fa sempre minimo due visite e questa era la prima, quindi prima di stasera esci.»
Vedendo che aveva parlato e sembrava più sana di mente di quanto si fosse aspettata, Lily si fece un po’ di coraggio e rispose: «Non è di questo che ho paura.»
La donna ascoltò la voce: non era di un adulto. Era la voce di una ragazzina, ancora molto giovane. Non toccava probabilmente nemmeno i quindici anni.
“Che ci fa qui?” pensò perplessa, mentre rispondeva: «E di cosa allora?» aspettandosi l’ovvia risposta, cioè che temeva lei; sempre se sapeva chi fosse.
«Del buio.» rispose la ragazzina, con un mezzo ghigno: «Da sempre. Ma dato che c’è qualcun altro, è meno.»
Athena restò un momento interdetta da quella risposta, ma concluse che probabilmente non la conosceva, così espresse la domanda che le premeva da un po’, ovvero cosa ci facesse lì. Lily si fece un po’ di coraggio, si avvicinò un momento e rispose con un’altra domanda: «Sai che mio zio si chiama Archer?»
Lei restò un secondo scioccata dalla notizia del tutto inaspettata, poi fece per borbottare qualcosa di risposta ma la piccola proseguì: «E tu sei sua sorella, no?»
La donna non rispose, cercando di capire dove volesse andare a parare la ragazzina; dopo un po’ di riflessione su cosa dire, chiese: «Chi te l’ha detto?»
«Lui.» rispose lei, sorridendo: «Non voleva parlarmene, ma ho aspettato il momento giusto e ha cantato subito.»
«E come hai fatto a scoprire che sono qui?»
Lily sorrise con un ghigno sornione, ripassando mentalmente la storiella che si era inventata per ribattere all’ovvia domanda e rispose: «Abbiamo fatto una gita in carcere con la scuola e non ti ho vista. Quindi eri nascosta. Allora ho seguito quel tizio palestrato e mi sono nascosta qui finché non è uscito.»
Athena, sempre più colpita da quanto fosse furba, continuò ad interrogarla; quando le chiese però se sapesse chi era lei in realtà, nome, cognome ma soprattutto soprannome, la ragazzina titubò. A scuola, con gli amici, tranne che a casa, aveva imparato a temere quel nome senza realmente sapere cosa fosse successo. E in giro, per le strade, anche solo nominarlo era tabù. Dirlo poi in faccia a lei… era quasi come una provocazione. Ma contando sul suo istinto materno, sperando che esistesse, rispose: «Sì. Il… Demone Rosso.»
Ponderando la risposta, cercando di decifrare il suo tono di voce, la donna chiese nuovamente: «E allora perché sei voluta venire qui?»
Non capiva cosa volesse. Se sapeva chi era, sapeva anche le storie che raccontavano su di lei. Perché andare da sola e senza protezione nella tana del lupo? Non aveva il minimo senso... Non lo disse apertamente, ma con il tono di voce volle far intendere il fatto che avrebbe potuto ucciderla seduta stante; doveva farle paura; doveva capire chi aveva davanti. Lily comprese il sottinteso, perché ribatté: «Allo zio non andrebbe molto giù, se mi succedesse qualcosa. E comunque, sì, so che è un rischio, ma volevo sentire la terza campana. Sono cresciuta con l’idea di aver a che fare con un mostro, ma lo zio mi ha distrutto ogni certezza.»
Athena si mosse apposta, facendo tintinnare le catene nel buio giusto per ricordarle in che situazione era, ma non per farle realmente paura: quella ragazzina le piaceva. Si era buttata a capofitto in un enorme pericolo, senza dar ascolto alle voci di altri. Ci era voluto probabilmente davvero molto coraggio. Prima che la donna potesse dire qualunque cosa però la porta si riaprì e Lance tornò. Lily restò immobile dov’era, davanti alla cella, non aspettandosi già il suo ritorno, ma una mano la prese per la maglia e la trascinò di peso in un angolo buio, nascosta al Campione. Non sapendo che i due erano d’accordo,  Athena aveva agito d’istinto per metterla al sicuro. Perfino lei si era stupita di quel gesto. La donna e Lance parlottarono, mentre la ragazzina scappava, e poi si salutarono. Fuori dall’edificio, il Campione vide Lily e le chiese: «Com’è andata?»
«Benissimo!!» rispose lei, tutta contenta e ancora emozionata di aver davvero parlato con la sua mamma: «Vero che mi fa un calco della chiave e mi da' la password?!»
Lance non rispose subito, non molto convinto di lasciare che quella bambina andasse da sola da Athena; era sua figlia, non era minacciosa, ma non era certo di nulla con quella pazza. Decise che era troppo rischioso, così rifiutò e le disse che gliel’avrebbe fatta vedere qualche volta. Lily però non si diede per vinta: se lui non l’aiutava, si sarebbe arrangiata. Facendosi aiutare dal suo migliore amico, fece un calco della chiave; con la farina soffiata sul tastierino numerico, lesse i tasti premuti per la password, e per l’ordine aspettò che il Campione tornasse per poi spiarlo. Per sua fortuna, essendo piccola, riusciva a nascondersi nei pertugi, diventando completamente invisibile.
Ottenuti il calco e la password, ovviamente alcuni giorni dopo tornò a trovare la madre.
«Ancora qui?» borbottò Athena, vedendo che la sagoma entrata era troppo piccola: «Senza Lance?»
«Non mi serve più lui.» rise la ragazzina, orgogliosa di sé: «Ho fatto un calco della chiave e ricopiato la password!»
Stupita dalla sua furbizia, la donna disse: «Complimenti.»
Athena non riuscì a trattenere un sorriso. Le piaceva quella bambina: nonostante il lampante pericolo, continuava ad andare da lei. Non ne capiva il motivo, ma le faceva piacere.
«Bene, allora. Che cosa vuoi ancora da me?» chiese, visto che lei non pareva spiccicare verbo.
«Parlare!» rispose la ragazzina allegramente: «Ma perché è tutto buio?»
Athena si guardò intorno, ricordandosi che non le piaceva l’oscurità, ma non c’erano né luci, né finestre. Sarebbe stata a rischio psicosi se non fosse stato per la cella bella grande e le visite di Lance.
Sospirando, si scusò: «Eh lo so… Non c’è luce e nemmeno una finestra.»
«E perché?»
«Perché potrei evadere!» rispose lei, con una mezza risata, facendo ridacchiare anche la sua visitatrice. Notando però il suo evidente nervosismo, riprese, seria: «Perché nessuno deve sapere che sono ancora viva. E questo è l’unico posto dove può tenermi Lance, senza che qualcuno mi veda. Non va a genio nemmeno a me in realtà, ma non posso farci niente.»
Lily annuì a voce, per farle capire che aveva compreso, e riprese a parlare; voleva conoscerla sapere tutto di lei, senza riserve, mentre Athena cercava di dire tutto nel peggiore possibile dei modi per spaventarla, per valutare le sue reali intenzioni... ma nulla pareva funzionare. Lei non pareva dare peso al negativo e, nei giorni seguenti, passò spesso a trovarla. Athena continuava a tentare di farle paura, ma Lily non la temeva e anzi, apprezzava il suo sottile sarcasmo. Aveva visto che non era aggressiva, che era solo un po' solitaria e che quindi, poteva costruire un rapporto. Di qualunque tipo. Anche solo conoscenza. Le due cominciarono a parlare di tutto ciò che veniva loro in mente. Anzi, era più la ragazzina a tenere lunghi monologhi, perché Athena era piuttosto chiusa e poco loquace di natura. Con lei però si sentiva stranamente a suo agio. Lily stava cominciando a guadagnarsi la sua fiducia. Era difficile perché la donna sembrava non riuscire a fidarsi molto della gente. Ma la ragazzina era determinata a farcela. Dopo un po’ di tempo, Athena cominciò ad aspettarla. Era bello parlare con quella piccoletta che sembrava non avere la minima paura di lei. E Lily era felicissima. Sentiva finalmente di avere una vera madre, e questo le piaceva. Non per il fatto che ricevesse coccole, carezze o chissà che altro, ma solo perché Athena l’ascoltava e le dava qualche parola di conforto, nei limiti della sua capacità emozionale di psicotica. Per Lily, l’importante era qualcuno che ascoltasse i suoi sfoghi, le sue paure, le sue preoccupazioni. Raphael era un bravo padre, sempre pronto per lei, ma con il lavoro tendeva ad aver poco tempo per la figlia e lei non voleva disturbarlo con i suoi problemi. Soprattutto ora che doveva tirare fuori lei di prigione. Con Athena, invece, parlava libera e si sentiva meglio: raccontava le sue ansie a scuola, la sua rabbia verso alcuni professori, le sue paure… e Athena ascoltava con pazienza e interesse, senza metterle fretta e dandole sempre la certezza di essere ascoltata. A volte esternava consigli macabri che le ricordavano chi fosse davvero, ma Lily faceva di tutto per ignorarla. Quella donna non era la bestia del video, su questo ne era certa. O almeno, non lo era più.
La ragazzina tornava tutti i giorni, ogni mese, con ogni tempo; passò lì tutte le vacanze estive. Voleva solo stare con la sua mamma, parlarle, conoscerla un po’, sentirsi amata. I tempi del processo erano lunghi, molto lunghi, per via delle prove che i due avvocati dovevano raccogliere: erano passati quattro mesi dall'ultimo processo e nulla faceva pensare ad un'udienza nell'immediato futuro. Nei loro incontri clandestini, parlava quasi sempre la ragazzina, anche se avrebbe voluto sapere qualcosa di più sulla donna. Ma non si azzardava a fare troppe domande. Se lei non voleva raccontare, non l'avrebbe forzata. Anche perché temeva la possibilità che si potesse arrabbiare e la uccidesse. Dopo tutto quel tempo passato insieme il timore le era passato ma aveva sentito il padre e N dire che il Demone usciva soprattutto in caso di rabbia. Quindi, era meglio non rischiare.
«… e poi.» stava raccontando quindi, tempo dopo, presa dal racconto, raggomitolata fuori dalla cella per il freddo pungente che quella stagione invernale aveva portato: «È arrivato il prof e ha fatto il tema a sorpresa! C’era Felix, il mio compagno di banco, che praticamente guardava più il mio foglio che il suo e il prof l’ha chiamato fuori interrogato per punizione! Lui ha detto tutte le vocali e nient’altro!»
Athena sogghignò, immaginandosi la scena, e commentò: «E il prof sarà stato estremamente felice immagino.»
«Di più! Voleva quasi tirargli addosso la sedia!»
La donna ridacchiò e Lily sbottò: «Uffa, a te non posso chiedere niente. Qui dentro scommetto che è talmente eccitante che ne hai da dire…»
«Talmente tante da starmene zitta!» assentì lei, per poi scoppiare a ridere con la figlia.
«Il freddo non accenna a diminuire, eh?» chiese poi, notando quanto ancora arrivava vestita pesante.
Lily sbuffò e rispose: «Macché. È già un miracolo che non mi sono ancora ammalata.»
Athena ridacchiò, ringraziando mentalmente Lance per il riscaldamento. Morire di freddo non era una delle opzioni che preferiva.
La ragazzina invece, sfruttando il silenzio, si fece coraggio e chiese, titubante, sperando di non farla arrabbiare: «Posso farti una domanda?»
«L’hai già fatta.» ridacchiò la donna, intuendo l'argomento visto il tono di voce: «Ma puoi farne un’altra, se ti va.»
Lily arrossì imbarazzata e borbottò: «Beh ecco… volevo sapere se… cioè, insomma… perché… ehm, accidenti, non so come dirlo…»
«Fammi indovinare.» la interruppe Athena, intuendo ciò che tanto la imbarazzava e un po’ anche impauriva: «Vuoi sapere perché facevo quelle cose.»
La ragazzina arrossì ancora e annuì, mezza pentita di quella domanda forse troppo impertinente. Athena però non parve offendersi, perché chiese di risposta: «Sai cos’è il disturbo antisociale della personalità?»
«No…» rispose lei, titubante. Forse le stava per rivelare qualcosa su di lei? Di sua spontanea volontà?
La donna sorrise alla reazione. Se voleva mascherare la faccia curiosa e impaziente di sapere, non ci stava riuscendo. Ridacchiò, persa nei ricordi, e commentò: «La prima volta che me l'ha detta il mio, se così posso definirlo, psichiatra, gli ho risposto che secondo me non era nulla più di una parola molto lunga.»
Fattasi seria, aggiunse: «Se ti dico psicopatia, ne sai qualcosa di più?»
Lei alzò le spalle e rispose: «Beh, l’ho sentito usare per definire le persone cattive.»
«Uso improprio del termine.» borbottò la madre, quasi lapidaria, per poi spiegarsi meglio: «Vedi… una persona diciamo normale, tende a fare il meno male possibile agli altri. L’educazione che viene impartita dai genitori insegna le regole morali e il modo di comportarsi. Ma la natura umana è crudele … »
«E questo che centra?» chiese Lily, non sicura di star seguendo il discorso.
«Ti voglio raccontare una cosa… che risponderà alla tua domanda.» rispose la donna. Non sapeva perché volesse dirglielo. Ma quella ragazzina... andava da lei, parlava con lei, le teneva compagnia... era ingiusto che non sapesse niente del Demone. Ingiusto che sapesse solo il peggio e non un po' di quel meglio che era uscito dopo anni di terrore. Voleva confidarsi. Strano ma vero. Sperò solo che non fosse pura follia.
Lily annuì, seria e concentrata, e mormorò: «Sono pronta.»
Athena la imitò, sedendosi a poca distanza da lei; solo le sbarre della cella le separavano. Con un respiro, la donna prese a raccontare: «Avevo cinque anni. Abbandonata in fasce, sopravvissuta da sola per anni. Nei boschi, per le strade... non sapevo nemmeno parlare. Giovanni mi trovò quando, per difendere Pidg, pardon “Deathly Eagle”, uccisi il suo tormentatore. Mi prese sotto la sua ala, e cominciò a crescermi, educandomi a una sorta di culto del sangue. Cosa vuoi farci, mi divertivo, non capivo che era sbagliato. Non potevo capirlo. Nessuno mi aveva mai detto “ehi, Athena, guarda che se uccidi un'altra persona fai una brutta cosa”. Anzi, Giovanni mi diceva l'opposto... Arrivò il giorno in cui non aveva più tempo per starmi dietro. Così mi portò da un suo amico, il generale LT Surge. Lui fece l’esatto contrario, rovinando tutte le fatiche di Giovanni. Mi insegnò la morale, che uccidere è sbagliato e via dicendo… sai, lo considero come un padre, anche se non è quello biologico. E gli voglio bene come se lo fosse. Sembrò che il Demone Rosso non sarebbe mai potuto nascere. Ma vedi… io sono malata. Di mente. E non dico così per dire, ma perché è vero. Soffro del disturbo antisociale della personalità. Sono una sociopatica, che perde la testa con la rabbia e che... beh, che ama uccidere come nient'altro. È inutile negarlo. La sensazione di onnipotenza, avere il potere di vita o di morte... è una sensazione magnifica. Giovanni lo scoprì e usò la mia instabilità mentale per arrivare al suo scopo. Riusciva a manovrarmi come un burattino. Mi vergogno quasi ad ammetterlo... Un sociopatico non ha pietà, non ha scrupoli, non ha coscienza, non si fida di nessuno e vive per uccidere. È disorganizzato, istintivo e non riesce a stare a contatto con la gente. Io sono così. Sono sempre stata meglio da sola, per i fatti miei…
Ma non è tutto. Sono, anzi, ero nevrotica, cioè scattavo alla prima provocazione. Anche una banalità mi faceva salire il sangue alla testa. Immagina la catena: una minima provocazione diventa un affronto per via della nevrosi, la nevrosi aumenta la rabbia, la rabbia scatena la bestia… ed eccoti pronto un bel massacro.
Semplice ed efficace, se nessuno ti insegna a controllare l’ira. E Giovanni non ne aveva alcuna intenzione.»
Presa dal racconto, anche se turbata dal sentire che era tutto vero, detto proprio da lei, Lily chiese: «Poi che è successo?»
Athena alzò le spalle, più serena di quando aveva già raccontato quella storia in passato: «Lance uccise i miei sei Pokémon. E io crollai. Psicologicamente. Scappai a Isshu, per rendere onore all’ultimo desiderio del mio amato fratello, e incontrai la professoressa Aurea Aralia. Devo tutto a lei se non faccio più del male. Mi ha rimesso sulla retta via … quando nessuno era mai riuscito a fermarmi. Non credo di essere guarita. Uccidere mi piace… però ho imparato a trattenere gli istinti omicidi, quindi non sono più pericolosa. Tranne che in casi estremi.»
«Tipo?»
«Se qualcuno osa toccare chi so io… non ci sarà cella che tenga.» rispose la donna, con un tono tetro e velato di minaccia; nessuno poteva toccare Raphael e sperare di passarla liscia.
“Papà ovvio.” intuì invece Lily. Lui l'amava e quando ne parlava, sembrava far intendere che il forte sentimento era ricambiato con la stessa intensità; e voleva crederci. Altrimenti la sua nascita e il processo non avrebbero avuto senso di esistere.
Le venne un pensiero, così chiese: «Si può passare geneticamente secondo te?»
«Non saprei.» rispose lei, alzando le spalle: «Dicono che c’è una predisposizione genetica all’atteggiamento violento in caso di rabbia, ma il mio mix mentale è talmente raro che dubito fortemente.
Poi non si può mai dire. La mente è ancora un campo molto inesplorato.»
«Capisco. Certo che sei strana.»
«Strana. Meglio dire pazza.» commentò lei con un ghigno.
«Preferisco strana.» ribatté la ragazzina, ridacchiando. Non poteva credere che tutti le avessero precluso la conoscenza della madre. Era forte, decisa, simpatica... anche quando doveva parlare di cose delicate. Una figura materna su cui sapeva di poter contare. Era sicura che, se avesse saputo, l'avrebbe aiutata per qualunque cosa. Ma non sapeva se avrebbe potuto avere il suo affetto. Non l'aveva ancora minacciata o simili, ma l'aveva detto anche lei: non era una che legava facilmente. Se avesse saputo, forse... ma si trattenne dal rivelarsi. Forse il desiderio del padre, forse la paura, ma questo qualcosa le impedì di parlare.
In quei mesi, nel frattempo, Raphael era nel suo ufficio che pensava ad un modo per affinare la sua difesa e ovviamente vincere. Il telefono squillò all’improvviso e lui fece in tempo solo a sentire la voce di Elle sussurrare: «È arrivata Gebirge!» che qualcuno bussò alla porta.
Senza attendere risposta, una donna di circa quarant’anni, bionda, vestita con una minigonna e una maglia scollata a mezze maniche, entrò richiudendo la porta dietro di sé.
«Buongiorno, signor procuratore.» salutò l’uomo, perplesso da quella visita inaspettata: «A cosa devo l’onore?»
La donna storse la bocca, seccata, nel vedere che, come sempre, il suo abbigliamento provocante non scatenava nell’uomo alcuna reazione ormonale; si ricompose in fretta e rispose: «Ho un lavoro per lei, Grayhowl. Deve sbattermi dietro le sbarre il cognato del cugino di un mio caro amico.»
«Procuratore, io non faccio queste cose…» cercò di ribattere lui ma lei rispose: «Che saranno mai quattro chiacchere per incantare le Corti. Non faccia il difficile, avvocato. Potrei darle un extra per questo piccolo favore.»
Raphael alzò gli occhi al cielo, immaginandosi che tipo di extra, ma poi disse: «Perché non lo chiede a Grendel? Lo sa che io non accetterò mai. Nemmeno per la sua... ehm, generosa offerta.»
«Grendel senior è occupato per un processo indetto dal giudice Vodel. Grendel junior mi ha risposto in maniera poco elegante.»
Immaginandosi la risposta di Gabriel, e trattenendosi quindi dal ridacchiare, Raphael rispose: «Ho un processo in ballo anche io, procuratore, mi dispiace.»
«Anche lei?! Allora mi dica di cosa si tratta perché Grendel ha la bocca cucita. Un “processo” è troppo vago!» esclamò lei, intuendo che fosse lo stesso per entrambi. Se c'era l'occasione per rivaleggiare in aula, quei due non se la sarebbero lasciata scappare.
«Io pure, mi dispiace.»
La donna cercò di convincerlo in tutti i modi, ma Raphael era irremovibile, anche se non capiva perché Grendel mantenesse il segreto. Il panico sarebbe stato a suo favore infondo. Alla fine, il procuratore si arrese e se ne andò, delusa e arrabbiata, facendo sbattere rumorosamente la porta.
«Katrina von Gebaude, detta Gebirge. La tigre della procura se ne va con la coda tra le gambe.» ridacchiò Raphael sistemando le carte: «Strano però che quello sbruffone non dica nulla.»
Con quel dilemma in testa, chiuse una pratica, ma non resistette alla tentazione. Prese il telefono e fece il numero. Lo accostò all’orecchio, sentendo squillare, mentre spegneva il computer.
«Studio dell’avvocato Grendel.» rispose una voce.
«Sono l’avvocato Raphael Grayhowl. Potrei parlare con il suo principale, per cortesia?»
«Attenda in linea, avvocato.»
L’uomo ascoltò la musichetta di attesa, mentre ripassava cosa doveva dire al rivale. Doveva ponderare bene le parole. Una sbagliata e andava tutto a quel paese.
«Raphael. Quale onore.» rispose dopo alcuni minuti la voce ironica e sarcastica di Grendel.
«Devo farti una domandina, Michael.» disse lui, calcando il nome, che non usava mai, parlando ovviamente con lo stesso tono arrogante e provocatorio.
«Chiedi pure. Starà a me decidere se risponderti o meno.»
«Rispondere è cortesia, dicevano. Che poi tu non lo sia, è un altro discorso.»
«Spero solo che la tua sia una domanda intelligente. Non ho voglia di perdere tempo con discorsi inutili.»
Raphael tagliò corto con le provocazioni e chiese: «Perché Gebirge non sa nulla?»
Grendel capì subito a cosa alludesse l’interlocutore e con un sogghigno si sistemò più comodo sulla sedia. Mettendosi la coda della penna tra i denti, soppesò le tante risposte che gli attraversarono la mente. Finché non ne scelse una e disse: «Sarebbe troppo facile vincere. Vedi, io voglio umiliarti davanti alle Corti. Purtroppo, loro non potranno assistere, ma il giudice Vodel mi ha promesso la celebrità che desidero da anni se vinco. Voglio prendere il tuo posto, Grayhowl. E lo avrò, costi quel che costi.»
Raphael non poté fare a meno di sogghignare. Ancora con quella storia. Era una disputa che risaliva ai tempi dell’università, quando lui prendeva voti più alti del rivale. Michael se l’era legate tutte al dito e ora esigeva vendetta. Soprattutto perché, anche se si era laureato alcuni anni prima, era meno popolare e ricercato di Raphael, che invece era famosissimo e richiestissimo per via della sua innata bravura.
«D’accordo, allora. Vedrò di impegnarmi di più. Ci si vede in aula.»
«Sappi che perderai.» rispose l’altro, gelido.
L’uomo mise giù la cornetta e fissò la foto di Athena. Lei gli sorrideva, lei credeva in lui e questo bastò per fargli tornare la grinta che lo avrebbe fatto vincere. Non l’avrebbe fermato nessuno.
E sempre in quei mesi, tra l'estate, l'autunno e l'inverno, Giovanni sconfisse i vari Leader di Hoenn, costruendosi un forte team e prendendo sempre più fiducia in se stesso. Finché un giorno, deglutendo, non entrò in quella palestra. Con un sorriso un po' imbarazzato, mormorò: «Ciao, Tell. Ciao, Pat. Come state?»
I due gemelli, Leader dell'isola di Verdeazzupoli, stavano giocando a carte quando arrivò. Si voltarono a guardarlo, sorrisero con due sorrisi identici ed esclamarono, in coro: «Ciao, Gio!»
Pat si alzò con un salto e corse ad abbracciarlo, esclamando: «Quanto sei cresciuto, Giovanni! E in che condizioni sei?! Sembra che non vivi in una casa da mesi!»
«Beh.» borbottò lui, imbarazzato: «In effetti, è così...»
Tell lo fissò sospettoso e chiese: «Che vuoi dire?»
Giovanni si liberò dalla stretta della ragazza, fece un passo indietro, mostrò le sue sei medaglie e, con un sorriso, chiese: «Tell, Pat... mi concedete una sfida?»
I due gemelli restarono per un momento immobili, stupiti. Poi sorrisero; Pat lo abbracciò nuovamente, troppo felice della notizia: il piccolo figlio di Athena era cresciuto così tanto da affrontare la Lega. Era una notizia bellissima. Tell invece gli diede una pacca sulla spalla e rispose: «Sì. Ma purtroppo non ora. Stiamo ristrutturando la Palestra e se gli altri sfidanti vanno bene anche nel campo esterno, vorremmo che tu combattessi là, in quel ring. Ti dispiace?»
«No, figurarsi!» rispose lui, contento di vedere che ci tenevano alla sfida quanto lui; avrebbe approfittato del tempo in più per allenarsi e sconfiggerli. Sarebbe stata una lotta epica.

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Capitolo 15
*** Capitolo XIV ***


«Donkey!» esclamò Giovanni, vedendo il suo amato Primeape cadere a terra con un tonfo, senza forze.
*«Amico, stai bene?!»* chiese preoccupato Wing, il Pelipper compagno di squadra.
Ma Donkey, svenuto, non rispose. Lunatone e Solrock levitavano di fronte a loro, quasi indenni. Tell e Pat sembravano irriconoscibili. A braccia incrociate, in piedi, specchiati l'uno all'altra. E implacabili.
Giovanni fece rientrare l'amico e tentò il tutto per tutto: «Vai, Wing! Usa Idropulsar!»
Il Pelipper volò verso gli avversari e sparò un violento getto d'acqua dal becco. Lunatone si mise davanti a Solrock, usando lo Schermoluce, mentre il compagno caricava un cono di luce solare che si abbatté il turno dopo sul povero Pelipper, sottoforma di Solarraggio. Il Pokémon volante resistette ma uno Psichico gli bloccò ogni movimento e Solrock si scagliò contro di lui con tutto il suo peso, mandandolo KO e mettendo fine all'incontro.
Giovanni lo fece rientrare, sconvolto. La battaglia era durata pochissimo: Tell e Pat avevano una strategia perfetta, rodata in anni di sfide, mentre lui, avendo fatto pochissimi incontri doppi, non aveva capito come fare. Ed era stato schiacciato dalla loro forza. Non riuscì più a rimanere lì. La vergogna della delusione lo fece fuggire via. Pat guardò Tell, un po' dispiaciuta, e mormorò: «Non è che forse ci siamo andati giù troppo pesanti?»
«È nostro amico ma questo non deve cambiare le cose.» le rispose Tell: «Se Giovanni vuole la medaglia Mente, dovrà fare meglio di così.»
«Al nostro posto, c'è chi avrebbe paura della reazione materna!» rise la sorella, dandogli un buffetto.
Tell sorrise e rispose: «Athena sarebbe d'accordo con noi.»
Giovanni uscì dal centro Pokémon ancora giù di corda. Guardò il mare. Fece uscire Pelipper e fece rotta verso Orocea. Doveva fare una cosa di vitale importanza.
A Zafferanopoli, invece, in quel momento, Lily stava uscendo da scuola, abbattuta per quel tema a sorpresa. Sperò di essersela cavata, commentando con l’amico Felix il disastro, ma si bloccò vedendo una figurina ferma sul marciapiede.
«Martha! Che ci fai qui?!» chiese, avvicinandosi a lei seguita dall’amico.
«Sorellona!» esclamò la bionda ragazzina di nove anni, correndole incontro e cingendole la vita: «Non voglio più tornare a casa! Voglio venire con te e papà! Ti prego! Ho paura!»
«Calmati sorellina.» mormorò dolcemente Lily, accarezzandole la testa: «Forza, raccontami tutto.»
«Il compagno della mamma è cattivo!» urlò lei, scoppiando in lacrime: «È cattiva anche lei! Non la voglio più vedere, mi odia!»
Lily capì al volo cosa intendesse la sorella. Sembrava davvero spaventata e lei sapeva benissimo come si sentisse. Tenendole una mano intorno alle spalle per confortarla, con l’altra prese il cellulare ma Felix intervenne per aiutarla e mormorò: «Ehi, Mary. Queste lacrime non sono da te. Dov'è il tuo bel sorriso di sempre?»
La bambina avvampò di colpo, notando il ragazzino solo ora che le aveva rivolto la parola, e balbettò qualcosa mentre la sorella chiamava il padre. Quando lui rispose, disse: «Papà, Martha è disperata e vorrebbe venire a vivere con noi. Non me la sento di rimandarla a casa in queste condizioni…»
Raphael annuì e rispose: «Chiama N e chiedigli se ha un posto. Al limite vado sul divano. Con Daisy me la sbrigo io.»
«Ok, pa’. Ci vediamo dopo.»
«Ciao.»
Lily mise via il cellulare sospirando, ma si fece passare la malinconia e il ricordo, e disse, sorridendo alla sorella: «Ehi, Mary. Per stanotte vieni da noi. Sei contenta?»
«Davvero?!» chiese lei, illuminandosi di colpo.
Lei annuì e la sorellina le prese la mano, trascinandola e urlando: «Andiamo, andiamo!»
Lily fece un cenno di saluto a Felix, che mimò il gesto di usare il cellulare. Lei annuì, lo salutò nuovamente, e quando lui si fu allontanato, disse: «Aspetta, Mary! Devo prima dirti un paio di cose.»
Martha si bloccò e fissandola chiese: «Cioè?»
«Cioè… con me e papà vive un altro signore, che si chiama N. È un tipo un po’ strano, ma non devi aver paura di lui. Ok?»
«Ma io…» cominciò a rispondere la bambina, terrorizzata, ma la sorella la interruppe dicendo: «Mary, lo so cosa ti ha fatto. Credimi. Ma ti assicuro che di lui non c’è da preoccuparsi. È gentile e tanto dolce…»
Lily arrossì appena, ma poi scosse la testa, si riprese e disse: «Di lui non devi avere paura. Fidati di me.»
«Cercherò…» mormorò lei, aggrappandosi alla sua maglia in cerca di protezione.
«Brava, piccola. E un’altra cosa… con noi vivono tanti Pokémon, ma Daisy si sbaglia quando dice che sono cattivi. Sono delle creature buone e simpatiche!»
Martha arretrò, impaurita, ma Lily le sorrise e aggiunse: «Capirai cosa intendo quando arriva lo zio. Mi porta sempre lui a casa perché è lontana. E terzo… te lo dico anche se per ora non serve, stai lontana da Giovanni.»
«Chi è?»
«Il mio fratellastro. E lui è veramente “astro”, non come te. È antipatico, violento e cattivo. Non parlargli nemmeno che è meglio.»
Martha annuì, prendendo la mano della sorella e cercando di memorizzare tutte le avvertenze, mentre lei prendeva il cellulare e faceva il numero. Dovevano aspettare Pidg, quindi avevano tempo.
«Ciao, N.» salutò arrossendo lievemente quando l’uomo rispose con un elegante: «Dimmi pure, mia cara.»
«Hai un altro posto in casa?» chiese lei, quasi cinguettando, tutta contenta di sentirlo.
«Per chi, se mi è lecito saperlo?»
«Certo che ti è lecito!» rispose lei, ridacchiando divertita: «È per la mia sorellina. Ti spiego meglio quando siamo lì.»
«Non c’è problema, Lilith.» annuì lui, con un sorriso: «C’è tutto lo spazio disponibile. Vi attendo sull’uscio.»
«Va bene N, grazie! A dopo!»
«Ciao.»
Martha la guardò perplessa e lei le fece segno con il pollice in su. La sorella le rispose con un sorrisone.
«Pidgeoooo!» esclamò una voce.
Pidg fece due cerchi su di loro, ruotando la zampa per scaldarla, e scese di quota, preparandosi all’atterraggio.
«Ciao, zio!» salutò Lily quando il Pokémon si posò vicino a loro.
Lui ammiccò, poi guardò incuriosito la bambina al fianco della nipote, che si nascondeva dietro alla gamba della sorella, fissandolo quasi terrorizzata.
«Zio Pidg, ti presento Martha, la mia sorellastra.» disse la ragazzina, rispondendo allo sguardo perplesso del Pokémon, che poi comprese il significato di quella parola. L’umano aveva tradito la sua sorellina. E l’avrebbe pagata… ma solo dopo il processo.
Martha invece esclamò: «Noi siamo sorelle!»
«Sì, sì… comunque, Martha, lui è Pidg.»
«Ma è un…» iniziò a dire la piccola, impaurita, ma Lily le completò la frase dicendo: «Pokémon, sì. È il fratello acquisito della mia mamma. Dai andiamo. La casa è lontana ed è meglio arrivare presto.»
Mary guardò il rapace con un po’ di timore. Era grande e forte. Ma non sembrava cattivo. Pidg arruffò le piume e ammiccò, per farle capire che non voleva far loro del male. Abbassando la testa fino al suo livello, strusciò le piume sotto la sua mano. Lei gli accarezzò piano la testa, sentendo com’era morbido e sorrise. Lily sorrise a sua volta, la prese in braccio e la mise sul collo del Pokémon. Martha non smise di coccolarlo nemmeno mentre la sorella saliva dietro di lei o Pidg decollava verso Hoenn. Il Pokémon le portò entrambe senza fatica e in un’oretta di volo arrivarono alla casa. N era sulla porta che le attendeva e le salutò con la mano quando vide la sagoma del rapace stagliarsi nel cielo. Il rapace atterrò dolcemente. Lily scese e aiutò la sorella; poi disse, indicando l’uomo sulla soglia della porta di casa: «Mary, lui è N.»
«Piacere!» esclamò subito la bionda bambina, ancora eccitata dal volo, correndogli davanti e tendendo la mano all’uomo, che la strinse sorridendo e rispose: «Piacere mio. Io sono N.»
Martha e N fecero subito amicizia. Lei era una bambina solare, come suo padre, e riusciva a fare amicizia con chiunque. Anche con lo scontroso bambino che apparve dalle scale e che disse: «Chi si vede. Ciao, Sapientina.»
Lily lo squadrò, non troppo felice di vederlo, e rispose: «Mostriciattolo. Già di ritorno con la coda tra le gambe?»
Giovanni si irritò, ancora abbattuto per la sconfitta, e fece per tornare di sopra, ma Martha corse verso di lui, sorrise sincera e disse: «Ciao! Tu chi sei? Io sono Martha!»
Lui la fissò perplesso: era raro che qualcuno fosse così gentile con lui. Con un mezzo sorriso titubante, rispose: «Beh, piacere. Io mi chiamo Giovanni.»
«Che bel nome! Spero che diventeremo amici!» esclamò di nuovo lei, sorridendo.
Lui ricambiò, stupito da tanta gentilezza. Poi prese le scale e tornò in camera. N sospirò e mormorò: «Purtroppo però non ho più letti. L'unica sarebbe che Martha resti sul divano, ma non mi sembra molto ospitale.»
«Non è un problema per me.» intervenne la bambina: «A patto che Pidg mi faccia compagnia!»
Il Pokémon la fissò, con un sorrisetto, e la bambina esclamò, abbracciandolo: «È tanto simpatico e carino!»
Lily e N si guardarono, sorrisero, annuirono e lei chiese: «Per te va bene, zio?»
Lui annuì, abbassando la testa e permettendo alla bambina di accarezzarlo tutta contenta, e così ebbero deciso. Verso sera, cominciarono a preparare la cena. Raphael sarebbe arrivato a momenti, così si divisero i compiti. N come sempre si chiuse in cucina, mentre Lily e Mary apparecchiavano la tavola. Quando finalmente anche Raphael rientrò, il ragazzino scese per cena, unendosi agli altri. L'avvocato sorrise ed esclamò: «Ciao, Giovanni! Quando sei tornato? Come va il viaggio?»
Lui borbottò qualcosa di incomprensibile, imbarazzato dal suo interessamento, e poi rimase in silenzio; durante la cena, però, si fece coraggio e mormorò: «Signor Grayhowl... potrei vedere la mia mamma cinque minuti?»
Ormai aveva chiara la situazione. Ogni secondo era prezioso e voleva rivederla. E quell'uomo poteva aiutarlo. Raphael sorrise e promise che avrebbe esaudito la sua richiesta. Finita la cena e passata un po’ la serata, si prepararono per andare a dormire. Lily e Giovanni andarono in camera fissandosi in cagnesco, N tornò nella sua e Raphael mise Martha a dormire.
«Sei sicura che non vuoi venire nel mio letto, Mary?» chiese, preoccupato per lei.
«No, papà! Voglio stare qui con Pidg!» rispose lei, sorridendo al Pokémon.
Pidg ammiccò di risposta, mettendosi comodo accanto al bracciolo dove lei posava la testa, e Raphael le diede un bacio sulla fronte, rimboccandole le coperte.
«Buonanotte, piccola mia.»
«’notte papà.»
Raphael andò in camera sua, raccomandando Mary al cognato; lui annuì e la vegliò finché non fu sicuro che stesse dormendo. Poi si addormentò a sua volta, mettendo la testa sotto l'ala. Più tardi, nel cuore della notte, N scese e bussò alla camera di Giovanni, sussurrando: «Lilith? Sei sveglia?»
Rimase tutto silenzioso per un po’, finché la porta non si aprì e la ragazzina chiese: «Che… che c’è?»
Era avvampata, nascosta fortunatamente dal buio, e le erano venuti in mente un milione di motivi per giustificare una visita di N alla sua camera di notte. Lui aspettò un momento, ma quando non sentì rumori, chiese: «Giovanni dorme?»
«Penso di sì…» rispose lei, in un sussurro.
N controllò di nuovo che nessuno fosse sveglio, poi le prese la mano e la allontanò dalla porta. Lei avvampò ancora, mentre il cuore cominciava a batterle forte; lui la adagiò al muro, si chinò alla sua altezza, guardandola fissa negli occhi, e chiese: «Mi è parso di capire che tu sai perché Martha ha paura del suo patrigno. Mi duole chiedertelo, però… vorrei capire. Tale paura non può nascere da una cosa di poco conto.»
Lily si rabbuiò, vedendo che nessuno dei mille motivi che aveva pensato si era avverato, anche se da una parte era contenta che N non avesse avuto strane intenzioni nei suoi confronti.
«Richard Ragefire… è un bastardo.» rispose secca la ragazzina, sia per il ricordo di ciò che aveva passato, sia per il fatto che la visita avesse Martha come oggetto di discussione: «Io so perché lei ha tanta paura. L’ho passata anche io. O almeno… spero non l’abbia davvero toccata.»
N non voleva girare il coltello nella piaga, così fece per chiudere il discorso, ma lei gli strinse la mano, volendo che quel momento non finisse mai, loro due soli, e sussurrò: «Vuoi saperlo?»
«Se ti addolora, non importa. Non voglio risvegliare brutti ricordi…»
Lei scosse la testa e rispose: «È un … pervertito. Se dovessi tornare da Daisy, probabilmente non mi farebbe più niente perché ormai ho quattordici anni. Ma Martha… ha la stessa età di quando ha provato… con me…»
La presa di N si strinse di colpo. L’uomo era sempre calmo e quasi imperturbabile, ma sentire che Lily era stata toccata così vilmente, l’aveva fatto infuriare. E non poco. La ragazzina strinse la mano con le sue, mentre le lacrime dell’umiliazione scendevano dai suoi occhi, e continuò: «Per un anno non mi ha fatto nulla, perché mi nascondevo… ma quando mi ha visto la prima volta… ha tentato fallendo un paio di volte perché Daisy tornava sempre prima del previsto a casa. Ma poi ci è riuscito. Non so perché sia ancora libero. Qualche denuncia se l’è presa, ma non è servito a nulla. Non è mai stato incriminato.»
N le porse un fazzoletto, ma lei scosse la testa e si posò a lui, singhiozzando silenziosamente per non svegliare nessuno. In quel momento era felice e triste al tempo stesso. Felice perché poteva stringere forte N, senza preoccuparsi di inventarsi una scusa, ma quella brutta esperienza l’aveva segnata. E fino a quel momento, aveva avuto un brivido di terrore ad ogni contatto fisico. Tranne che con lui. Ma forse perché sapeva, o sperava, che lui non avesse cattive intenzioni nei suoi confronti. Era in uno stato strano, a metà: la sua compagnia la faceva stare bene, voleva che l'abbracciasse, che la stringesse, ma temeva allo stesso tempo che potesse andare oltre. Non sapeva cosa provasse lui e questo la terrorizzava. Ma quando lui la strinse piano, accarezzandole la testa, lei sentì che tra quelle braccia non doveva temere niente.
«Sei al sicuro ora.» sussurrò lui, cercando nei limiti del possibile di confortarla.
«Lo so.» rispose lei, chiudendo gli occhi, avvolta tra le sue braccia. Lui le asciugò le lacrime dolcemente, non sapendo che altro fare per aiutarla e sostenerla. Sembrava così fragile in quel momento… La accompagnò in camera e lei andò nel letto.
«Se ti serve qualcosa, non esitare…» sussurrò lui, rimboccandole le coperte.
«Grazie, N… ti voglio bene.»
Lui le sorrise, accarezzandole la testa, poi uscì, chiudendo piano la porta.
Nel letto di sopra, Giovanni era perplesso, ma furioso. Dalla reazione di Lily, qualcuno aveva tentato di fare del male a Martha. Chi aveva osato tentare di nuocere una creatura bella e dolce come lei?
“Io lo scoprirò.” pensò furioso: “E gliela farò pagare.
La mattina dopo, in tarda mattinata, Raphael era alle prese con il telefono. Anzi, con la persona all’altro capo.
«Non me ne frega niente. Se lei ha paura di venire da te, resta con me, punto.» sbottò nel ricevitore: «Me ne infischio! Martha sta da me. Vieni in tribunale se vuoi, ma finché piange quando le dico “andiamo dalla mamma”, da te non ci torna.»
«Smettila di accusarmi di cose assurde, Raphael! Non farei mai del male a mia figlia!»  rispose furibonda Daisy, ancora incredula nel constatare che la piccola era andata a piangere dal padre.
«Certo, così si è inventata tutto!? Dai Daisy piantala con queste cavolate!»
«Piantala tu! Come pensi che potrei farle del male?!»
«Non tu, ma quella simpatia del tuo nuovo ed ennesimo amante! E ancora mi chiedo come ti viene in mente di lasciare mia figlia nelle mani del primo che passa!»
Daisy non lo lasciò nemmeno finire di parlare, seccata da quelle accuse, e rispose a tono: «Tieniti la tua orfana, Raphael, ma Martha è mia e la rivoglio indietro! Non le ho fatto nulla!»
«Sentitela! Ne parli come se fosse un oggetto Daisy! Martha non è solo tua. Io sono suo padre e ho il dovere di proteggerla.»
«Non sa nemmeno cosa sta dicendo quella bambina! Ha nove anni, si sarà inventata tutto per costringermi a farla venire da te!»
«Capisco solo che ha paura di qualcosa. E finché non sarà lei a voler tornare, il discorso finisce qui.»
Raphael sbatté il telefono nella sua sede, sbuffando, lasciando Daisy in compagnia di un ripetitivo “tu, tu, tu”, e sbottò: «Che vada al diavolo quella maledetta arpia!»
«Papà...?» mormorò una timida voce dietro di lui.
Lui si voltò e sorrise alla secondogenita, calmandosi subito e cercando di non sembrare troppo furibondo: «Ciao, Mary… dormito bene?»
La bambina gli saltò in braccio, piangendo e urlando: «Papà! Mi sei mancato tanto! La mamma non voleva che io ti vedessi! È cattiva, non voglio più stare con lei!»
Martha si era trattenuta davanti agli altri, ma ora voleva solo abbracciare il suo papà e versare disperata tutte le sue lacrime; tra le sue braccia forti si sentiva al sicuro come in nessun altro posto.
«Mi sei mancata anche tu, piccola.» mormorò lui, accarezzandole piano la testa: «Cosa ti ha fatto?»
Lei si strinse alla sua giacca e rispose, con la faccia premuta sulla camicia ormai bagnata: «Il compagno della mamma è cattivo. E lei non mi difende, non c’è mai. Ho tanta paura papà…»
«Tranquilla, piccolina. Se non vuoi andare dalla tua mamma, resterai con il tuo papà. O almeno lo spero…»
«Perché?» chiese lei, incredula che il suo super papà non potesse fare qualcosa.
L’avvocato sospirò e rispose: «Perché legalmente i figli devono stare con la madre se i genitori sono separati. E se, come in questo caso, non sono sposati, teoricamente parlando, sei più figlia sua che mia.»
«Ma Lily…» cominciò ad obbiettare lei, ma lui la interruppe e disse: «Lily non è figlia di Daisy. Sua madre è impossibilitata a tenerla e quindi sono riuscito ad avere l’affidamento totale.»
«Voglio stare qui con voi.» urlò la bambina, in un mezzo capriccio, non comprendendo la serietà del discorso paterno: «Stamattina mi ha svegliata una strana foca con la colazione in cima al corno. Si è messo a fare il giocoliere! Faceva ridere tantissimo!»
Raphael ridacchiò immaginandosi la scena e rispose: «Lui è Maru. E non è una “strana foca”, è un Samurott. È simpatico, vero?»
«Simpaticissimo!» annuì lei, con ancora le lacrime agli occhi ma sorridendo.
Lui le asciugò gli occhi dolcemente, poi disse: «Vai a giocare ora. Devo parlare con N.»
La bambina saltò giù dalle sue gambe, ripresasi da quell’attacco di tristezza, e corse a cercare Lily o Giovanni, per stare un po’ in loro compagnia. N apparve dalle scale, dove era rimasto mentre padre e figlia parlavano, sedette accanto a Raphael e chiese: «È così dura?»
Lui annuì e rispose: «Sì. Vodel mi odia perché difendo Athena. Non mi concederà mai l’affidamento di Martha maledizione. Vorrei tanto sapere cosa diavolo ha fatto quel tizio…»
L’amico sospirò, ma rispose: «Quando se la sentiranno, te lo diranno loro.»
«Tu sai qualcosa vero?»
«Sì. Ma non potrei mai rivelare una confidenza. Nemmeno al loro padre. L’ho promesso, mi duole.»
Raphael alzò le mani e borbottò: «Mi arrendo. Do' battaglia anche troppo in tribunale.»
N annuì tristemente, ma poi chiese: «Ma perché dovrebbe emettere la sentenza Vodel? Non è una questione civile?»
«Sì, ma Daisy la metterà giù sicuro sul penale, denunciandomi per rapimento. Te lo garantisco sul mio nome.»
Mentre cercava di pensare ad un modo per tenere Martha, Raphael andò da Lance a chiedere un colloquio informale con la sua cliente. Aveva promesso, dopotutto. Il Campione acconsentì e quando furono soli nella stanza, l'avvocato aprì la porta e fece entrare il bambino.
«Giovanni!» esclamò Athena, felice di vederlo, aprendo le braccia e accogliendolo tra le sue.
«Ciao, mamma.» mormorò lui, saltandole in braccio, facendo inclinare la sedia, e stringendola forte.
Raphael sorrise, vedendo quanto fossero legati, e uscì, mentre lei chiedeva: «Allora, piccolo mio, come stai? Hai seguito il mio consiglio?»
«Sì.» annuì lui: «Ho cominciato il viaggio ed è proprio di questo che ti volevo parlare.»
Lei lo guardò perplessa, mentre gli si riempivano gli occhi di lacrime e mormorava: «Io... ho vinto sei medaglie, credevo di essere ormai forte. Ma...»
Athena sorrise e chiese: «Fammi indovinare: Tell e Pat ti hanno rispedito a casa a calci.»
Lui tirò su con il naso ed esclamò: «È stato terribile, mamma! Non sembravano neanche loro! Nessuna pietà!»
Lei lo strinse e spiegò: «Gio, devi capire che Tell e Pat hanno un ruolo. E non possono permettere che i sentimenti interferiscano. In quel momento, loro erano i Leader e tu lo sfidante. Niente in più.»
«Ma ora...»
«No, Gio, non penseranno mai che sei debole o simili. Resterete sempre amici e, anzi, se tornerai più forte, saranno felici di sfidarti ancora. Ma devi allenarti con il doppio. Pensa alle debolezze, deve esserci equilibrio. Chiedi aiuto a Maru e Shikijika... noi tre li abbiamo sconfitti!»
Giovanni si asciugò le lacrime. La mamma aveva ragione. Tell e Pat non avrebbero mai potuto disprezzarlo solo perché aveva perso la lotta. E lui doveva dimostrare di aver imparato la lezione. La strinse forte, grato del consiglio, e mormorò: «Grazie. Tornerò vincitore.»
«Ci conto!» sorrise lei, ricambiando la stretta e tornando in cella, dopo averlo salutato.
Il momento di gioia datole dal suo bambino, però, durò poco perché, quando quel giorno tornò la ragazzina a trovarla, Athena sentì che qualcosa non andava. Il tono di voce, il comportamento, la tensione nell'aria... c'era qualcosa di strano. Così, chiese: «Cosa ti è successo oggi?»
Colta in flagrante, Lily borbottò: «C-cosa? Perché?»
«Hai paura… si sente dalla voce.» ribatté la donna, pensando che forse ora aveva paura di lei. Magari aveva scoperto qualcosa su di lei, qualcos'altro, che l'aveva spaventata maggiormente. Un video, un racconto... poteva aver visto qualunque cosa.
Cercando di controllare la voce, Lily rispose: «Ti sbagli… sto bene.»
«Non mi mentire. Non sei capace.» sbottò la donna, notando che quel difetto lo aveva anche lei. Non era mai stata capace di mentire ma era brava a velare la voce di minaccia, la giusta dose per farsi dire tutto ciò che voleva. Lily fece un respiro profondo, cercando di scacciare la paura, ma pareva tutto inutile. Ma come confessarlo? Si vergognava così tanto... le venne in mente che lei aveva confessato traumi del passato per spiegarle la nascita del Demone. Perché non fare altrettanto? Glielo doveva, dopotutto...
«Mi hanno ricordato una persona che… mi fa tanta paura.» borbottò quindi, trattenendo a stento il tremore.
«Come mai?»
Lily titubava a rispondere, così Athena le prese la mano, attraversando le sbarre e sperando che lei non scappasse. Quella stretta gentile, diede sollievo alla ragazzina che continuò: «La compagna del mio papà aveva un amante. Lo portava spesso a casa, ma io mi nascondevo in camera. Un giorno però lui mi vide.
Mi guardò strano, e poi venne nella mia camera. Io non ricordo dove fosse lei, ma…»
La voce le si ruppe in piccoli singhiozzi, che cercava di trattenere. Si sentiva ferita e umiliata, e si vergognava immensamente. Sentì la stretta della donna farsi più forte. Athena bruciava di rabbia. Se c’era una cosa che la faceva infuriare, era proprio quella vigliaccheria.
«Ci è riuscito solo u-una volta ma… è b-bastato…» mormorò la ragazzina, fra le lacrime.
Senza riuscire a trattenersi, cominciò a singhiozzare, disperata, e si rannicchiò vicino alla cella.
Una mano si posò sulla sua guancia e un pollice le asciugò le lacrime, mentre la voce della donna, stranamente dolce, mormorava: «Non può più farti del male, ok?»
Lily si posò alle sbarre, per trovare conforto nell’abbraccio materno, mentre Athena la stringeva piano, cercando di non farle male, anche se dentro di lei divampava il fuoco dell’ira. Ora poteva ancora nuocerle. Bisognava fare in modo che non ci fosse più nemmeno il minimo rischio.
Nel frattempo, le previsioni di Raphael si avverarono. Lui e Daisy finirono nel tribunale penale perché lei lo denunciò di rapimento di minore. Vodel emise la sentenza di affido a Daisy e intimò all’uomo di riconsegnare la figlia alla donna, senza possibilità di vederla mai più. Raphael tornò a casa furibondo. Quella strega lo aveva giocato come un novellino. Mollò un pugno contro il muro. Non poteva sfogarsi, non aveva una spalla su cui piangere… Però ora lei era tornata. Prese il telefono… poi lo rimise giù. Aveva già tanti problemi. Perché turbarla con anche i suoi?
Prese la valigetta e andò al carcere per chiarire alcuni punti della difesa, ma soprattutto per vedere la sua piccola pazza. Sperava che il solo vederla lo avrebbe fatto sentire meglio. Accordarono e dieci minuti dopo i due erano lì, insieme. Stavano distanti mentre parlavano di cavilli legali, ma poi Lance spense tutto, lasciando loro la privacy di cui avevano bisogno. Athena sedette sulle sue gambe, posandosi a lui, e lui la strinse, appoggiando il mento sulla sua testa.
«Raphael, che cos’hai?» chiese d’un tratto lei, alzando lo sguardo e fissandolo negli occhi.
«Cosa?»
«Non fare il finto tonto con me. Lo capisco quando hai qualcosa che non va.»
Lui si rattristò, ma rispose: «Non è nulla…»
«Raphael… sei il mio ragazzo, io ti amo e voglio che tu sia felice. In questo momento non lo sei. Possibile che tu non lo capisca?» gli sbottò secca, guardandolo negli occhi e ripetendo le parole che lui stesso aveva detto a lei, molto tempo prima.
«È che… mi sento uno schifo a dirtelo, piccola pazza.» borbottò lui di risposta, imbarazzato.
«Non mi farai mai schifo…»
«Ho una figlia con Daisy.» dichiarò secco, quasi per sfidarla a non avere reazioni.
Athena gelò sul posto, inorridita e sgomenta, e lui disse: «Ecco. Vedi? Ora…»
«Sssh.» mormorò solo lei, posandogli l’indice sulle labbra: «Sta’ zitto. Mi riprendo. È normale dopotutto. Io dovrei essere morta quindi non capisco perché stupirsi tanto.»
«Lo so, sono un idiota. Però mi servivano i suoi soldi e lei… beh, diciamo che pensa solo a quello. Anzi meglio dire che… sapevo non mi sarei mai più innamorato. L’unica che avrebbe accettato senza diciamo romanticismo era lei… non gliene fregava molto in realtà, bastava accontentarla qualche volta. Martha è stata un incidente di percorso. Ma ora Daisy usa lei per tenermi legato a sé.»
Athena sbuffò, non potendo trattenersi dalla voglia di scannare quella donna solo per il fatto che fosse andata a letto con il suo Raphael, ma poi sbottò: «Quella dannata bionda non cambierà mai…»
«Sai che… mi ha tolto la paternità?»
«Cosa?!»
«Già…» rispose lui, sconsolato e triste: «Mary ha paura di qualcosa in quella casa e l’altro giorno è venuta da me dicendo che non voleva più stare con la mamma. L’ho tenuta con me un paio di giorni, ma poi Daisy mi ha trascinato in tribunale e ti lascio immaginare che sentenza ha emesso Vodel.»
Intuendo, la compagna rispose: «Non la puoi più vedere.»
«Esatto. Maledizione, per me non è un incidente. Le voglio bene… è mia figlia.»
Lei gli accarezzò una guancia, cercando le parole per consolarlo. Ma non le veniva in mente nulla. Raphael era in quella situazione perché difendeva lei. Era tutta colpa sua se l’amore della sua vita era nei casini.
Lui la strinse più forte. Non voleva nient’altro. Solo sentirla lì, al suo fianco, in qualunque situazione.
Non sapendo cos’altro dire, Athena mormorò: «Ti amo, avvocato scemo. So di non poter fare molto chiusa qui dentro… però sappi che non ti lascerò mai.»
Lui posò la fronte sulla sua, perdendosi in quei due pozzi rossi che tanto amava, e rispose: «E io nemmeno… non ci separerà mai più nessuno. Ti amo anch'io, piccola pazza.»
Si scambiarono un lungo bacio, simbolo dell’amore che provavano l’uno per l’altra, poi Raphael la salutò, triste perché non voleva lasciarla di nuovo sola in quel posto, e tornò a casa.
Quella sera, dopo cena, Lily lo fissò un momento, rivedendo quello sguardo triste e spento, e chiese: «Papà… non c’è nessuna speranza di far venire qui Mary per sempre, vero?»
Lui scosse la testa e rispose: «No, purtroppo. I figli restano quasi sempre con la madre. Se poi il padre di turno è dipinto come il peggiore…»
«Non è giusto. Quella vipera non può tenersi Mary così!»
«Purtroppo la legge è dalla sua. Se riuscissimo a dimostrare che Daisy trascura Mary con le sue tresche, forse avremmo qualche possibilità. Ma lei è troppo furba…»
La ragazzina ci pensò su poi chiese: «Mettere delle telecamere?»
«Senza un motivo valido, non si possono usare le registrazioni come prove legali… un esempio potrebbe essere che lei si scorda di andare a prendere Mary a scuola per chissà quale motivo…»
«Si può fare, papà… prendi un giorno di sciopero. Mary scrive la comunicazione sul libretto, falsifichiamo la firma, Daisy non va a prenderla, e Mary viene qui!»
«Non è legale, Lily.»
«Ma se nessuno lo scopre, che male c’è?» chiese una voce, interrompendo il loro discorso.
I due si voltarono di scatto e Giovanni apparve sulle scale, fissandoli intensamente, con l'onnipresente mazza sulla schiena; fermatosi in fondo alla rampa, aggiunse: «Il piano della Sapientina può funzionare, signor Grayhowl. Basta solo volerlo.»
«Non è molto etico andare contro la legge… soprattutto per me.» commentò lui, ponderando il piano.
«Non è etico che una madre se la spassi con una figlia a carico.» rispose il ragazzino, continuando a fissarlo e senza retrocedere: «Non è etico che il mondo se la prenda con una donna che ce la mette tutta per essere una buona madre e nessuno le crede. Eppure tutti lo fanno.»
«Per una volta siamo d’accordo, Mostriciattolo.» concordò Lily, anche se seccata di doverlo ammettere.
Giovanni espresse il suo disappunto dell’essere d’accordo con lei con una smorfia, ma poi aggiunse: «Potrei anche aiutarvi. Innocentemente, potrei portare Mary alla polizia dicendo di averla trovata che cercava la mamma fuori da scuola.»
«E da quando tu sei innocente?» chiese pungente Lily, mentre Raphael si lasciava scappare un sorriso, immaginandosi la lezione che avrebbero dato a Daisy; sovrappensiero, commentò: «Devo ammettere che è un piano diabolicamente geniale. Probabilmente non mi lasceranno Mary subito, ma ho molte più speranze al tribunale civile.»
«Quindi? Lo facciamo?» chiese Giovanni.
Prima che Raphael potesse rispondere, Lily chiese, pungente e socchiudendo gli occhi sospettosa: «Perché vuoi aiutare tu? Qual è il tuo scopo?»
«Fatti gli affari tuoi.» ribatté lui.
«Sono affari miei, carino. Lei è mia sorella.»
Lui la fissò, acido. Non poteva confessare di voler rivedere la bambina, quindi si arrese e borbottò l'altro motivo che lo aveva spinto ad aiutarli: «Oh, e va bene... se lui..» rispose, indicando Raphael: «... è felice, lo è anche la mamma.»
Raphael rimase toccato da quella frase. Aveva sempre visto Giovanni come solo una peste ingestibile, ma il bambino voleva bene davvero ad Athena. E lui doveva costruire un rapporto. Come aveva fatto N, doveva imparare a comunicare con lui. Dopo l’ultima riflessione, disse: «D'accordo, ecco il piano. Scoprire quando è il giorno di sciopero e se gli insegnanti scioperano. Poi, falsifico la firma di Daisy e Mary riporta a scuola la comunicazione. A quel punto, Giovanni va da Jason e fa la sua scenetta. Mi raccomando Lily, devi dire a tua sorella di portare a me il libretto e non a sua madre.»
«Me lo faccio dare e glielo porto il giorno dopo.»
«Perfetto. Dovrebbe funzionare. Poi, in tribunale, si vedrà.»

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Capitolo 16
*** Capitolo XV ***


«Mary, ascolta. Mi puoi prestare il tuo libretto?» chiese Lily alla sorella, giorni dopo, quando la vide fuori scuola.
L'edificio unico, ma man mano che si saliva con l'età, si saliva di piano. Era una struttura enorme che ospitava elementari, medie e superiori.
Il piano d’attacco era stato macchinato da lei e Giovanni per tutta la notte. I due bambini avevano complottato, sdraiati vicini sul letto di lei, senza badare ai dissapori di sempre. Per il bene di Mary, bisognava collaborare. Era un piano d’azione quasi perfetto. Dovevano solo riuscire nell’impresa, poi avrebbero passato la palla a Raphael che avrebbe agito in tribunale.
«Perché?» rispose quindi perplessa la sorella.
Lily fece finta di essere disperata e disse: «Ho finito le giustificazioni e visto che sono uguali... non posso strapparla perché il prof romperebbe come suo solito. Per piacere!»
«Certo!» acconsentì lei, con un sorriso, passandole il libretto preso dallo zaino: «Tieni! Riportamelo presto però che devo far firmare una comunicazione alla mamma!»
«Guarda, lo faccio io. Non dirle niente, lascia fare a me. Visto che mi fai questo piacere, devo poter ricambiare.»
«Va bene Lily, grazie!»
Martha corse via, salutandola, verso la macchina di Daisy, mentre la sorella ghignava soddisfatta. La fase uno del piano era completata: il libretto era in mano sua.
«Caspita. Sei uguale alla mamma con quell'espressione. È inquietante.» commentò una voce dai cespugli.
«Ovvio che le somiglio… sono sua figlia, a differenza tua.» ribatté lei, acida, mentre Giovanni usciva dal suo nascondiglio e riprendeva il suo solito atteggiamento scontroso. La sola presenza di Martha era riuscita a renderlo più amichevole. Giovanni strinse il pugno, seccato dalla rispostaccia ricevuta. Con quella ragazzina, dimostrarsi gentili era inutile. Per lei era sempre un espediente per dare fastidio. Ma... la somiglianza con sua madre, lo frenava a farle del male. Più la frequentava, più capiva che sotto sotto le poteva anche volere un po' di bene. Molto sotto. Ma solo se lei avesse cambiato atteggiamento. Giratosi, il bambino se ne tornò a casa. Lily lo guardò andare via. Da un po' di giorni non era aggressivo come suo solito. Non la insultava, ma anzi... si era offerto perfino di aiutarli.
Quella sera, la ragazzina aspettò che il padre se ne andasse, poi fermò Giovanni che stava tornando in camera e lo chiamò dicendo: «Aspetta.»
«Che vuoi?» rispose lui, fissandola in cagnesco.
«Chiederti scusa.... le vuoi bene come gliene voglio io. Non dovevo aggredirti così.» borbottò lei, abbassando lo sguardo e sentendosi davvero in colpa.
«Ti importano i miei sentimenti adesso?» chiese lui, ostile, per farle capire che non le voleva nemmeno parlare e che se l'era davvero presa.
«Senti. Sto cercando di scusarmi, ok? Non rendermi tutto più difficile!» ribatté lei, alzando la voce e puntando lo sguardo dritto nel suo.
Giovanni non rispose, cercando di capire se fosse sincera o meno; poi sbottò: «Buon per te. Io vado a Verdeazzupoli. Devo rifarmi della sconfitta.»
Il bambino fece per andarsene con passo marziale ma lei lo bloccò e mormorò: «Aspetta. In bocca al lupo, Giovanni. Vedrai che vincerai.»
«Vedremo. Mamma non può aiutarmi, questa volta... chissà se potrà ancora...»
«Che vuoi dire?»
Lui sbuffò, mordendosi la lingua per aver parlato troppo, e rispose: «Quando scoprirà chi sei tu, io finirò in secondo piano. Solo solo un trovatello...»
«Al quale la mamma vuole molto bene. Non sminuirti così, io credo abbia un posto nel cuore per entrambi. Il dna, il sangue, non può cambiare i sentimenti.»
«Ripeto, vedremo. Buonanotte.» sbottò lui, per poi infilarsi sotto le coperte e dormire. Non voleva parlare con lei, farsi consolare da lei. Non avrebbe mai abbassato così la guardia. Dormì male, preso dai pensieri, ma la mattina dopo, fatto il viaggio, curati i Pokémon e giunto sul posto, varcò la soglia della palestra di Verdeazzupoli. Era pronto e avrebbe vinto.
Tell e Pat lo stavano aspettando, dal lato opposto del ring, con un espressione decisa e un sorriso di vittoria. Lui fece un respiro profondo e si posizionò nel suo rettangolo.
Tell sorrise, prendendo la sfera di Xatu, ed esclamò: «Rieccoti per la Medaglia Mente.»
Pat alzò quella di Claydol e aggiunse: «Preparati. Non avremo pietà.»
Giovanni strinse le due di Magneto, il Magnezone, e Donkey, pronto a rifarsi dalla sconfitta. Determinato, li fece scendere in campo e lo scontro cominciò. Si scambiarono qualche colpo, per saggiare l'avversario, poi Pat esclamò: «Claydol, Psichico su Donkey!»
«Xatu, rincara la dose!»
Il doppio attacco mirò il Primeape ma il compagno Magnezone si mise in mezzo, usò Schermoluce e sostenne senza troppi danni l'offensiva; poi però si girò e diede una leggera scossa al compagno di squadra. I due Leader fissarono perplessi i Pokémon avversari, ma Giovanni sorrise. Donkey cominciò a respirare più forte, strinse i pugni e con un grido mostrò tutta la sua furia: Grancollera attiva voleva dire pugni più potenti. Il ragazzino non perse tempo e gridò: «Vai, Magneto, usa Fulmine su Xatu!»
Il Pokémon eseguì ma Pat fece intervenire Claydol come scudo. Giovanni se lo aspettava perché esclamò: «Donkey, mentre Magneto si carica, usa Punizione!»
Rapido, in un impeto furioso, Donkey si lanciò contro Claydol che, pronto a ricevere il fulmine, non riuscì a mettersi sulla difensiva abbastanza in fretta. Il colpo fu talmente forte da stenderlo. Xatu e Tell lo fissarono sconvolti e Magneto, approfittando del momentaneo stupore, scaricò tutti i suoi volt sull'avversario che crollò a terra. Stupiti da quel turno lampo, i due gemelli sorrisero. E fu il turno dei loro campioni: Lunatone e Solrock. Per Giovanni cominciò il travaglio. Donkey andò KO e lui fece rientrare Magneto per farlo riposare. Ma non sarebbe stato troppo utile. Andò sempre peggio finché non si ritrovarono in piedi solo Magneto e Jukain jr. Ma non stava andando bene. Sia il Magnezone che lo Sceptile erano provati dalla lotta.
«Andiamo, andiamo, forza ragazzi!» esclamò il bambino, sull'orlo delle lacrime nel vedere i suoi Pokémon ridotti allo stremo senza poter fare niente: «Possiamo farcela, dobbiamo farcela!»
Jukain cadde; Magneto cercò di sostenerlo, ma rovinò a terra. Solrcok preparò il colpo finale, il Fuocobomba. Con le lacrime della disperazione che gli rigavano il viso, Giovanni urlò: «Jukain! Spostati!»
Era tentato di intervenire, salvarlo, fare qualcosa per proteggerlo da quel colpo che sarebbe potuto essere anche fatale. La pietra agganciata al foulard che Jukain portava al collo brillò: era un regalo della professoressa amica di Athena. Giovanni guardò la sua tasca dei pantaloni: aveva anche lui una strana pietra, anche questa un regalo della donna. E anche questa emanava una forte luce. Tutti le fissarono brillare, senza capire. Jukain venne avvolto da una sfera di energia, verde e viola, che lo rialzò in piedi; con un grido, la ruppe dall'interno, esclamando: *«Pronto al secondo round!»*
Era mutato: la sua voce aveva un effetto eco, era più alto, la coda più lunga e letale, le foglie più lunghe e taglienti, nonché uno sguardo più deciso, determinato, quasi cattivo. Giovanni lo fissò, insieme agli avversari e lo stesso Magneto. Nessuno capiva cosa fosse successo ma non importava. Jukain si voltò verso il Magnezone e mormorò: *«Amico, ti chiedo un ultimo favore.»*
Magneto annuì e lui chiese: *«Usa tutta l'energia che hai, scaricala su di me. E vinceremo.»*
Né Giovanni né Magneto capirono il motivo di quella richiesta ma annuirono. Il Pokémon eseguì, scaricando tutta la sua elettricità sul compagno, lasciando Tell e Pat perplessi. Dentro alla scarica elettrica, Jukain spalancò gli occhi: i semi sulla sua schiena divennero più grandi, le sue foglie più luminose. Lui sorrise. Le spade del Fendifoglia apparvero sulle sue braccia mentre, notava Giovanni, i semi cominciarono ad assorbire la luce del sole. E capì il piano.
«Vai, Jukain! Fendifoglia a ripetizione, più veloce che puoi!» esclamò, dandogli corda. Il sorriso di Jukain si fece più largo nel vedere che l'amico umano aveva perfettamente inteso il piano.
Lui eseguì, correndo come un fulmine e stordendo gli avversari che cercarono di difendersi. Ma nessuno notò la luce, troppo presi dalle lame d'erba. Jukain atterrò davanti a Giovanni, con la schiena rivolta verso gli avversari. Gli fece il pollice verso, poi si voltò scrutandoli con la coda dell'occhio. Alzò la coda e disse: *«Game over.»*
«Jukain, Solarraggio!» esclamò Giovanni, vedendo la sua vittoria in quell'attacco.
Come da un cannone, il MegaSceptile sparò un violento raggio di luce dalla punta della coda, un Solarraggio che devastò i due avversari, grazie al potenziamento di Magneto. L'abilità acquisita era Parafulmine. E Lunatone e Solrock andarono KO. Vedendo gli avversari a terra senza forze, Jukain sorrise al suo amico umano, chiuse gli occhi e cadde a terra, tornando lo Sceptile di prima. Lui lo fece entrare e corse al centro Pokémon. Era stato grande, ora poteva riposarsi. I gemelli lo raggiunsero. Tell si avvicinò all'amico ed esclamò: «Grandissimo, Gio! Non so cosa caspita sia successo ma sei stato fantastico! È stata una lotta mitica!»
Pat sorrise a sua volta e mormorò: «Tieni, ti meriti questa.»
Giovanni sorrise a tutti e due, con ancora i segni delle lacrime versate, e prese la medaglia Mente con la felicità nel cuore. Ce l'aveva fatta. Aveva vinto.
A Orocea, nel frattempo, altri stavano mettendo a punto la mossa finale del malefico piano per togliere Martha dalle grinfie di Daisy. Raphael falsificò la firma della ex compagna sul libretto e il giorno dopo Lily lo riconsegnò alla sorellina. Ora dovevano solo aspettare il fatidico giorno X, nel quale avrebbero attuato il piano che però fallì miseramente. Martha ricordò alla madre la sera prima, di venirla a prendere presto perché c’era sciopero, e la donna, fingendo di sapere tutto, si perse a pensare. Il giorno dopo recuperò la figlia all’ora giusta, avendo visto la firma falsa sul libretto, prese il telefono e disse semplicemente: «Risparmiati questi colpi bassi, Raphael. Non sono da te.»
Poi chiuse la chiamata e lasciò correre. Ma se il suo ex aveva cominciato a fare cose così sleali, doveva proprio essere disperato. Lui si sentì un fallimento totale: prima come padre, poi come avvocato. Ma tenne a mente quella lezione. Doveva sempre rispettare le regole. E così fece, anche nel suo lavoro per tirare fuori la sua amata dai guai. Venne indetta una nuova udienza, nel tentativo di chiudere quell'ormai troppo lungo processo. Athena venne condotta nell’aula da Lance. Vedere finalmente un po' di luce le aveva provocato un'emicrania spaventosa che non aveva alcuna intenzione di andarsene. Venne incatenata al banco, sul quale si lasciò cadere nell'attesa del difensore. Poco dopo, arrivò anche Raphael, che si avvicinò a lei, guardandola nascondendo la preoccupazione; a bassa voce, chiese: «Come stai?»
«Ho un gran mal di testa, ma bene.» rispose lei, pacata, ancora mezza stordita dal dolore.
Lui ridacchiò sotto i baffi e le sfiorò la mano, potendo limitarsi a quello. Lei gli sorrise di risposta e si preparò a fare l'arrogante sarcastica anche con lui. Poco dopo, la porta dell'aula si aprì ed entrarono Grendel e Vodel, seguiti da Lily che sedette dietro al padre. Athena la notò e si chiese cosa ci facesse lì la ragazzina che spesso e volentieri andava a trovarla. Nonostante nella sua cella ci fosse buio, delle volte, durante le sue visite, la ragazzina aveva acceso il cellulare per guardare l'ora e così Athena ne aveva potuti riconoscere i tratti.
La vide anche Raphael, che si voltò e le disse: «Mi raccomando, Lily, non intervenire. Puoi restare solo perché sei mia figlia, ma se dici una parola, Vodel ti butta fuori a calci.»
«Sì, va bene, papà.» rispose lei, annuendo.
Athena, nel frattempo, era sconvolta e non riusciva a pensare ad altro che: “La bambina che viene sempre a trovarmi è la figlia di Raphael?! Ma non ha senso… perché dovrebbe?”
La guardò con la coda dell’occhio, studiandone i lineamenti, mente lei evitava accuratamente il suo sguardo.
“Non assomiglia molto a Daisy.” notò perplessa: “Raphael aveva detto che è la sua fotocopia, ma non mi pare proprio.”
Mentre lei rifletteva, l’avvocato e Grendel si batterono come due leoni, a suon di cavilli assurdi, risalenti a secoli prima e mai abrogati, che nessuno conosceva tranne loro e i fantomatici testi che li provavano.
All’improvviso però, si aprì la porta dell’aula e Martha entrò di corsa urlando: «Papà!»
«Mary!» esclamò l’uomo, interrompendo un avvincente scontro verbale con il suo avversario, mentre la piccola si attaccava alla sua gamba, piangendo, e lo stringeva forte.
«Lily, prendi tua sorella per piacere.» disse poi all’altra figlia, cercando di calmarla senza successo.
La ragazzina annuì e, avvicinatasi, mormorò: «Dai Mary, vieni con me. È tutto a posto, non piangere.»
Lily cercò di portare via la sorellina dal banco della difesa, ma la porta si riaprì ed entrò in aula Daisy. Tutti si voltarono una seconda volta, ma la bionda non fece un passo, fulminata da quello sguardo rosso e furibondo, e anche lievemente assassino.
Vodel batté il martello ed esclamò: «Ordine! Stiamo facendo un processo qui! Daisy esca per cortesia. Martha Grandview può restare ma lei deve uscire.»
«Ma Vostro Onore…» tentò di replicare la bionda, ma il giudice vide quel barlume omicida negli occhi dell’imputata, così la interruppe e ordinò: «Esca subito!»
Daisy uscì, sbattendo il portone, e Athena si calmò all’istante. La sola presenza di quella donna era fonte di ira. Poi guardò Martha e pensò: “Lei è decisamente la fotocopia sputata di quell’arpia. Però non ha il suo atteggiamento da sciacquetta.”
«Mary, siediti lì dietro con Lily. Nessuno ti farà del male, ok?» mormorò dolcemente Raphael alla figlia, lasciando un momento il banco per calmarla, mentre lei piangeva disperata.
«Va bene, papà…» rispose lei, seguendo la sorella che la teneva per mano e asciugandosi le lacrime.
“Un momento.” si fermò a pensare invece Athena: “Anche l’altra l’ha chiamato papà. Non sto decisamente capendo più niente”.
Con un’alzata di spalle, si mise ad ascoltare i due avvocati darsi battaglia a colpi di obiezioni, decisamente annoiata, mentre nella sua mente pensava a qualche plausibile spiegazione, per evitare di pensare a una figlia di Raphael della quale lui non aveva detto nulla. Ma soprattutto di togliersi il pensiero di una rivale che avrebbe dovuto uccidere; oltre a Daisy, ovviamente.
Martha, nel frattempo, osservò la situazione e chiese alla sorella: «Ma… papà sta difendendo quella signora con i capelli rossi?»
«Sì.» rispose Lily, con un mezzo sorriso.
«Lo sai che ti assomiglia tanto?» constatò la bambina, perplessa che nessuno se ne fosse accorto.
Il sorriso della sorella si allargò, mentre rispondeva: «Già. Sai tenere un segreto, Mary?»
«Certo!»
«Guarda che è un segreto grande.»
«Prometto di mantenerlo!» giurò lei.
Lily le accarezzò la testa e disse: «Quella donna… è la mia mamma! Mia e di Giovanni.»
«Veramente?!»
«Sì, ma shh mi raccomando. Non deve saperlo nessuno.» ribadì la ragazzina, facendole segno di tacere con il dito davanti alle labbra.
La bambina annuì, poi si perse a fissare quella donna incatenata al banco come una bestia. Chissà perché era lì... non sembrava cattiva... Raphael e Grendel si batterono fino all’ultimo, finché Vodel non dovette sospendere ancora il processo per mancanza di prove. Anche perché la stavano tirando un po’ troppo per le lunghe e il tempo pesava sulle spalle di tutti. Sospesa la seduta, lui e Grendel se ne andarono. Lance invece acconsentì il colloquio privato e portò Athena e Raphael nella stanza degli interrogatori, spegnendo tutto, mentre teneva d’occhio Lily e Martha fuori dalla stanza. I due avevano bisogno di parlare in tranquillità, da soli.
«Raphael… credo di non aver capito quante figlie hai.» sbottò lei, leggermente seccata, prendendo una sedia e sedendosi.
«Non fare quella faccia.» sogghignò lui, sedendosi a sua volta di fronte a lei, quasi gongolando: «Tu mi hai fatto lo scherzetto con Giovanni, quindi siamo pari. Comunque sono due: una con Daisy e l’altra…»
Athena si spazientì quasi subito, notando la pausa nella frase, e incalzò, con uno sguardo eloquente: «L’altra?»
«Dovresti saperlo signorina “sono incinta ma non ti dico niente e poi mi ammazzo”!» cantilenò lui, con un ghigno furbo, aspettando di godersi la reazione.
«C-cosa?» balbettò lei, non riuscendo a capire davvero quelle parole.
«Sai quanti anni ha? Quattordici. Fai un po’ il conto…»
«Ma non è possibile…»
Lui sorrise ancora di più, vedendo la sua espressione, godendosi quello stupore come mai, e ribatté: «È possibilissimo invece. N ti portò via e io trovai una neonata nella base. Ma tu guarda, che bella sorpresina! Padre a diciotto anni nel giro di mezzo minuto.»
Lei borbottò cose senza senso, non riuscendo a mettere in fila i pensieri, non riuscendo a concepire quello che lui le stava dicendo; quasi balbettando, buttò lì: «No, no non è possibile. Giovanni mi disse che l’aveva uccisa, non può essere… no.»
«Hai visto il corpo?»
«No, be’ lui mi portò un sacco dell’im… oddio.» borbottò la donna, prendendo la piena consapevolezza di quello che era accaduto: «Non ci credo. Mi sono fatta fregare. Ma che idiota!»
«Spiegati, va’… poi parlo io!» esclamò lui, felice di poterglielo finalmente dire e soprattutto felice della faccia semi sconvolta che aveva davanti. La vendetta era estremamente gratificante delle volte.
Athena ci mise un momento a formulare un discorso sensato, poi borbottò: «Quel maledetto vigliacco… mi fece un cesareo alla sua maniera e poi mi disse che l’avrebbe ucciso se non avessi collaborato. Io lo mandai a quel paese e lui tornò con un sacco delle immondizie… e io persi la testa. Fu quello che mi fece dare i numeri, più di tutto il resto: il sapere che avevo permesso a quel maledetto di portarmi via e di uccidere nostro figlio… anzi figlia, a questo punto. Era tutto quello il problema…»
«Ah ecco a cosa gli serviva…» borbottò Raphael, pensieroso: «Turno mio. Allora… quando N ti portò via, arrivò Cobalion che mi condusse in una stanza, dove trovai una neonata e un sacco pieno di indumenti. Non avevo idea che fosse servito per prenderti in giro. Poi... beh, diciamo che è stata lei a tirarmi fuori dal baratro. Non potevo vivere senza di te, ma dovevo vivere per lei.»
La donna si rabbuiò un momento e sbottò: «Maledetto Giovanni. Se non l'avessi già fatto trapassare con queste mani andrei a cercarlo!»
«Ammettilo che sei contenta!» ghignò lui, giusto per rimettere la conversazione sulla retta via e spegnerle la sete di sangue prima di finire nella strage.
Lei lo guardò, cercando di nascondere il sorriso e il sollievo di sapere che la sua creatura era ancora viva e non dargliela vinta così facilmente. Quindi sbottò, seccata: «Ma si può sapere per quale arcano e misterioso motivo non mi hai detto nulla fino ad ora?!»
«Volevo prima tirarti fuori di prigione e dai guai. Solo che Lily è diventata stressante… alla fine l’ho portata in tribunale, che almeno potevi vederla, e poi ti avrei detto tutto. Come ho effettivamente fatto.»
“Quindi… la ragazzina che veniva a trovarmi… è mia figlia.” pensò la donna, ancora in mezzo stato di shock, senza più ascoltare le parole dell’uomo: “Ecco perché mi sentivo così bene con lei. Chissà se… verrà ancora...”
Sentiva però che qualcosa non tornava. Questo qualcosa le oscurava la felicità della notizia.
Lance la riportò in cella. E le venne in mente tutto. Il compagno di Daisy aveva violentato la sua piccola.
L’ira sanguinaria del Demone le salì in corpo. Voleva farlo a pezzi.
Ergastolo? Tanto lo avrebbe avuto comunque.
Pena di morte? Al diavolo.
Quel mostro doveva pagarla. Con gli interessi.
Dopo che Lance se ne fu andato, Athena tolse la cintura, riuscì ad aprire le manette, tolse le catene e aprì la cella. Ora niente poteva fermarla. Andò alla porta. Quella fu più difficile da aprire ma aveva dalla sua che dall'interno bastava far scattare la serratura. Non serviva la password. Uscita dalla prigione, lasciò socchiusa la porta, mise gli occhiali da sole e sorrise; le si dipinse sul volto un ghigno, mentre diceva: «Nessuno disonora mia figlia e la passa liscia. Parola del Demone Rosso.»

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Capitolo 17
*** Capitolo XVI ***


Giovanni tramortì l’uomo con la sua mazza. Aveva fatto delle ricerche e scoperto chi era il compagno di Daisy. Doveva fargliela pagare. Anche se era più piccolo, si sentiva in dovere di proteggere quella dolce creatura. E Mary sarebbe stata ancora in pericolo se lui avesse vissuto. Portò la sua vittima in un magazzino abbandonato, trascinandolo a fatica, vicino al porto di Fucsiapoli. Era uno dei luoghi più isolati di tutto il continente. Alzò la mazza, sentendo la gola stranamente secca e una brutta sensazione addosso, e si preparò a colpire, ma una voce disse: «Metti giù quella mazza, Gio.»
Lui non si voltò, ma rispose: «Ma è un uomo cattivo.»
«Ti ho insegnato a non usarla contro le persone, o sbaglio? Per nessuna ragione.»
«Ma, mamma…»
Athena si avvicinò a lui e gli tolse la mazza dalle mani, dicendo dolcemente: «Non ti spingere troppo oltre piccolo mio. Una volta che cominci a uccidere, non smetti più. Lascia sistemare tutto a me.»
Lui annuì, ma poi chiese: «Come mi hai trovato?»
«Lo sai che la tua mamma trova sempre tutto.» sorrise lei, facendogli l’occhiolino mentre pensava: “Soprattutto se si tratta solo di seguire una scia di sangue.”
«Cosa farai ora?» chiese lui.
Lei si limitò a sorridergli e dargli un bacio sulla fronte. Poi, mormorò: «Vai a casa, piccolo mio.»
Giovanni la abbracciò forte, poi uscì. Ma non se ne andò. Si nascose sotto la finestra e sbirciò dentro, dopo un po’. Voleva vedere cosa la madre intendesse con “lascia sistemare tutto a me”. Athena stava cercando qualcosa, gironzolando per la stanza. Trovato un ferro, controllò che le porte e le finestre fossero ben chiuse. Poi attese. Se doveva uccidere ancora, tanto valeva farlo bene. E niente era più divertente del brivido della caccia: la vittima libera tentava ogni sorta di espediente per fuggire e lei si sarebbe divertita di più. Non si accorse del figlio, che assisté scioccato a tutto il massacro quando Ragefire si svegliò.
La donna tornò in cella, dopo nemmeno un paio d'ore. Nessuno se n’era accorto, dato che Lance l'aveva appena congedata e Lily non aveva avuto tempo di andare da lei. Athena pigiò il bottone di chiamata per Lance appena tornò. Il Campione aveva messo quell'apparecchio per fare in modo che se la donna avesse avuto qualunque tipo di problema, lui sarebbe potuto accorrere.
E così fu.
«Devo parlare con l’agente speciale Jason Johnson. Il profiler, quello che studia la testa.» gli disse, appena lo vide entrare. Lui la guardò perplesso e lei aggiunse: «Non può essere sparito dalle scene. Era troppo bravo.»
«Perché vuoi vederlo?» chiese lui, vedendola stranamente su di giri.
«Affari miei.» rispose vaga lei, cercando di calmare la voglia di uccidere: «Ma portami una scacchiera.»
Non era abituata a fare una sola vittima, tra l’altro in così poco tempo, quindi doveva riprendere un momento il controllo.
Perplesso, Lance la fissò ponderando la richiesta, ma poi alzò le spalle e non indagò oltre. La mattina dopo, la scortò nella sala degli interrogatori dove lei trovò ciò che aveva chiesto. Poco dopo, Jason entrò, perplesso da quella convocazione, ma quando la vide, la fissò sgomento ed esclamò: «Tu?!»
«Jason Johnson, il curiosone.» salutò Athena con un ghigno, vedendolo: «Quanto tempo. Sbaglio o stai invecchiando?»
Lui non rispose alla provocazione, fissandola studiando il suo strano comportamento per nulla minaccioso come una volta, poi si decise e disse: «La vecchiaia fa un brutto effetto anche a te, se qualcuno è riuscito a prenderti.»
Il ghigno si allargò, mentre Athena rispondeva: «Mi prendono solo se voglio farmi prendere, dovresti saperlo...»
Jason smise di darle corda; erano finiti i tempi in cui poteva darle così tanta confidenza; così, sbottò: «Cosa vuoi, Demone Rosso?»
«Rilassati, agente.» rispose lei, facendogli vedere le mani e mettendole sul tavolo a palmo in giù, quasi con arroganza, un po' seccata dal sentire il suo soprannome, e non il nome, uscire dalla sua bocca: «Voglio solo parlare. E insomma, abbiamo una regola... però facciamola breve, chi mangia, domanda.»
«Fatico a crederti.» disse lui, fissandola storto, ma sedendosi visto che aveva messo le mani sul tavolo e quindi poteva tenerla d'occhio; guardò la scacchiera e molti ricordi gli salirono nella mente. Era stato un bel periodo, tra partite e risate. Doveva ammettere che gli era molto mancato ma ricordava bene quello sguardo, quando avevano chiuso i buoni rapporti. Non era sicuro di potersi fidare, poteva essere una trappola; così, mosse un pezzo, lei fece altrettanto, finché lui non si portò via uno dei suoi pedoni e chiese: «Ripeto, cosa vuoi?»
«Jason, rilassati, non sono armata.» commentò con disappunto lei, vedendo con quanta ostilità interagiva con lei. Non la chiamava nemmeno per nome. Un chiaro segno di distanza.
«Quando mai ti è servita un'arma?» chiese di riflesso lui, ironico; sembrava davvero tranquilla ma... non riusciva ad abbassare la guardia. Temeva la vendetta. Ma non aveva nemmeno il coraggio di dirlo. Si teneva dentro quel peso da anni. La colpa di un tradimento mai avvenuto. Voleva gridare la sua innocenza, ma sapeva che tanto lei non gli avrebbe creduto.
«Lo so che è la verità.» mormorò lei, rompendo il silenzio che si era andato a creare. Immaginava cosa pensasse, glielo leggeva in faccia. Anche lei rimpiangeva quel periodo. Quel breve periodo che poteva quasi definire felice, quell'attesa impaziente dei venerdì per poter giocare a scacchi, per poter stare tranquilla e non dover temere provocazioni, paura, disprezzo. Per essere al sicuro. Perché così si era sempre sentita... al sicuro. Da Giovanni, dalla sua mente... non sentiva mai le voci quando era da lui. Mai.
«C-come?» balbettò lui, fissandola dritta negli occhi.
Lei sorrise tristemente, conscia del suo grave errore di valutazione, e mormorò: «Penso sia stato Giovanni a fare la soffiata. A suo tempo, non avevo dubbi che fosse tua la colpa, ma poi ho avuto modo di pensarci. È più ovvio pensare che lui non sopportasse di vedermi disubbidire. D'altronde, so bene quanto era bravo a manovrarmi, quindi ha senso.»
Jason si sentì liberato da un peso; lei gli stava dicendo, sinceramente, che non lo riteneva responsabile; che non lo credeva un traditore, che potevano ancora restare... amici? Era una parola pesante, ma lui l'aveva davvero sentita tale. Lei sorrise, vedendo come si fosse rilassato di colpo, e commentò: «Comunque, ora saltiamo i convenevoli. Voglio una risposta.»
Lui scosse la testa e, con un cenno alla scacchiera e un sorriso, rispose: «Guadagnala.»
Lei ricambiò con uno sguardo di sfida: sì, le era decisamente mancato quel profiler. E finalmente, sembrava tornato quello che ricordava. Con una mossa a sorpresa, gli mangiò un alfiere e chiese: «Hai presente un certo Richard Ragefire?»
Johnson la fissò, sempre più perplesso, ma rispose: «Sì. Non sono ancora riuscito a metterlo dentro, bastardo stupratore. Perché?»
«Perché non serve più.» cantilenò lei, allargando il suo sogghigno, scrivendo un indirizzo su un foglio di carta, dopo averlo messo in scacco matto: «Lo troverai qui. Non è in grado di scappare. O di fare qualunque altra cosa, in effetti.»
«Ma…»
«Ciao, ciao Jason. Un consiglio… visto che sei bravo e i miei consigli li ascolti. Vacci tu. Sei… testato.»
Jason uscì, un po’ perso dopo quel discorso, mentre lei gli faceva ciao con la mano e un ghigno quasi infantile stampato in faccia. Arrivato al magazzino abbandonato, entrò e rimase pietrificato sulla soglia, guardandosi intorno inorridito.
«Non uccide più, è evidente, ma quando ci si mette…» commentò, notando gli schizzi di sangue fin sul soffitto: «Non ha di certo perso il tocco. Testato… non ho vomitato nel mattatoio, quindi reggo tutto, eh? Che tipa…»
Richiuse la porta, prese il cellulare e chiamò Lance, dicendo: «Riportala in cella. Ti spiego tutto alla Lega.»
«Qualcosa di preoccupante?» chiese di risposta il Campione, sentendo il suo tono lievemente tremolante.
«Questo dovrai deciderlo tu.» rispose Jason, chiudendo la chiamata.
Il Campione riportò la donna in cella e durante il tragitto le chiese: «Cosa gli hai detto? Sembrava sconvolto.»
«Diciamo solo che Raphael dovrà fare gli straordinari...» commentò solo lei per poi non aggiungere più una parola.
Jason invece andò dall'avvocato, per raccontargli tutto ciò che aveva visto e magari per riuscire a fargli qualche domanda sul suo rapporto con quella donna. Aveva saputo da poco da Lance del fatto che erano fidanzati e doveva ammettere che era curioso. Conosceva Raphael Grayhowl da molto tempo, dato che era un grande avvocato che lo aveva spesso aiutato a sbattere in cella pericolosi criminali, e non riusciva a cogliere il legame tra lui e una bestia della risma del Demone Rosso. Quando lo vide, nel suo ufficio a porta chiusa, solo loro due soli, esordì dicendo: «Ho visto la tua fidanzata, Raphael.»
Lui inorridì, non aspettandosi che Lance avesse spifferato tutto a qualcuno, e cercò di restare sul vago, ma Jason non gli permise di fare alcun giro di parole. Essendo un avvocato con una parlantina eccezionale, quell’uomo era bravo a incantare la gente, ma lui era un profiler, specializzato nel capire la mente delle persone, così disse: «Non cercare di incantarmi. Non funzionerà… le ho fatto un profilo accuratissimo, la conosco talmente bene da poter dire che non è più quella che conoscevo e che è davvero innamorata, per quanto assurdo sia. Ma voglio solo sapere tutta la storia, poi potremo parlare del motivo della mia visita.»
Raphael, senza vie di fuga, non poté fare altro che narrargli tutto; sperò che quella fiducia fosse ben riposta. Alla fine del racconto, Jason annuì e disse: «D’accordo. Beh, sappi che puoi contare su di me. Esaminare la sua testa con la sua collaborazione sarà molto gratificante. Comunque ero venuto per dirti che sei nei guai. Ha massacrato a sprangate Richard Ragefire, un noto stupratore. E devo ammettere che sono rimasto colpito. È la prima volta che vedo una sola vittima.»
L’avvocato lo fissò, sgomento, e chiese: «Cosa?! Hai visto la scena del crimine?!»
«Sì. Ed è un mattatoio. Per evitare attacchi di panico potremmo tentare di non ricondurlo a lei ma...»
«Scommetto che è troppo evidente, eh?»
Jason annuì e Raphael aggiunse: «Non voglio mentire e quindi andare contro la legge. Disonorerei il mio giuramento. La amo più della mia stessa vita, ma… non posso fare nulla, se non tentare di difenderla usando i precedenti della vittima. Il panico però non aiuterà...»
L'agente sospirò; da come l'aveva vista, sembrava in grado di fare una vita normale. Ma sapeva anche lui che era giusto così. Per consolare un po' l'amico, disse: «Devi essere fiero di te. Anche se ha ucciso ancora, si è accontentata solo di una persona e quando l'ho vista, alcune ore dopo, era perfettamente calma, una cosa che non sarebbe stata possibile anni fa.»
«Ho presente, fidati.» rispose lui: «E le aspetta una bella ramanzina.»
Jason ridacchiò, stupito nel vedere come lui la trattasse come una persona normale, senza aver paura di venire squartato seduta stante, ma poi disse tutto anche a Lance, che si sfogò con una strigliata alla prigioniera.
«Oh, ma piantala!» ribatté lei, interrompendo la sequela di rimproveri: «Ho le mie buone ragioni!»
Lui la fissò imbronciato e rispose: «Le avrei anche io nel darti un pugno sul naso.»
«Devi solo provarci...» disse lei, quasi minacciosa.
Nel frattempo, Raphael lavorò qualche giorno, per capire come strutturare la difesa, mentre Lily fremeva dall'agitazione. Non le aveva mai parlato, come figlia e non come visitatrice occasionale, e già lei l'aveva protetta. Come faceva una vera madre. Il fatto che avesse ucciso quell'uomo con una spranga di ferro non le importava. Continuava a ripetersi che se l'era meritato, che non avrebbe mai dovuto toccarla... in fondo al cuore però, sapeva che ciò che aveva fatto la madre, anche se in buona fede, era sbagliato.
Guardando i giornali, le si stringeva il cuore.

“Il Demone Rosso è tornato!
Nessuno è più al sicuro: la bestia di Kanto è qui.”

E via dicendo. Titoli accusatori, articoli crudeli fatti in modo per aizzare la gente contro la donna che tutti credevano morta da vent'anni.
In un’altra casa, a Borgo Foglianova, nella regione di Johto, la parte est del Continente, Milas stava dormicchiando sul divano. Tanto per cambiare lo avevano rifiutato per l’ennesimo lavoro. Chissà se qualcuno avrebbe mai sorvolato sul fatto che fosse un pregiudicato… Gli arrivò un sms. Il cellulare era dall’altra parte della stanza e lui aveva ben poca voglia di alzarsi. Si costrinse però ad andare al tavolo e a prendere il telefonino.

“Da Crys.
Guarda subito PokéTg24!”

Milas fissò lo schermo accigliato. Quel canale era quello in cui la sua ragazza lavorava come giornalista. Il messaggio aveva un tono quasi di urgenza, così non se lo fece ripetere due volte e accese la televisione.
Crystal era in mezzo allo schermo, con il microfono in mano, e alle spalle un vecchio magazzino abbandonato. Aveva l’espressione decisa ma terrorizzata e stava dicendo: «… Ragefire è stato trovato in un vero e proprio lago di sangue. Alle prime analisi sembrava l’opera di un animale, anche perché nessuno voleva credere che… lei fosse davvero tornata. Eppure, dall’obitorio hanno detto che le ferite sono state provocate da una violenta serie di colpi con un ferro trovato accanto al cadavere. Non convinti, i poliziotti hanno fatto altre analisi, ma purtroppo l’agente speciale Jason Johnson, colui che conosce quella bestia meglio di chiunque altro, ha confermato il modus operandi, e ha individuato la firma, eseguita con una pietra affilata: un taglio netto alla gola e il cuore trafitto perfettamente al centro.
“Nessun essere umano sarebbe capace di una tale violenza.” ha dichiarato: “Non ho alcun dubbio che sia lei. Il Demone Rosso è tornato.”
Quindi, vi consiglio di sprangare le porte. Il coprifuoco è ristabilito temporaneamente. Nessuno giri da solo. Per ora non abbiamo notizie di dove sia quindi state attenti quando siete per le strade.
Ora sentiamo l’intervista fatta al Campione Lance, che deve difendersi dalle accuse di aver nascosto la bestia del continente; aveva detto di averla uccisa, cosa, a quanto sembra, non vera.»
Milas ebbe la tentazione di spegnere tutto, ma poi ascoltò tutto il resto, ammirando la sua ragazza al lavoro. Mentre aspettava che lei tornasse, prese il telefono e chiamò Archer.
«Fratello.» lo salutò, quando lui rispose: «Come va? Hai sentito il tg?»
«Tutto bene.» rispose lui, dall'altro capo: «La tua ragazza è in gamba. Mi meraviglia che non si sia sentita male. Dalle foto, quel posto era nelle condizioni del mattatoio.»
«Sono preoccupato comunque. È dura da mandare giù. Ma non ti ho chiamato di certo per questo.»
«Ti stai chiedendo se sia stata lei?»
Milas scosse la testa e rispose: «Sarei più propenso per “Perché l’ha fatto?”. È ovvio che è opera sua, hanno inquadrato il cadavere mezzo secondo ed è bastato. Ma quando l’abbiamo rivista non era più la bestia che ricordavo. Non ha senso che abbia perso così il controllo.»
«Concordo con te. L’ho rivista tempo fa ed era tutto fuorché instabile. Ma c’è un fattore che nessuno sa e che quindi nessuno considera.»
«Cioè?»
Archer sorrise, pronto a scusarsi e dichiarò: «Non ho avuto occasione di dirtelo ma... siamo zii.»
«Che cosa?!» esclamò il fratello, balzando in piedi.
«Hai capito bene. Senti… non sono cose da dire al telefono. Che ne dici se ci vediamo?»
«Forse è meglio. Vieni qua da me subito, se puoi. Crys dovrebbe stare al lavoro fino a stasera. Vieni a Borgo Foglianova e cerca una casa con il tetto verde. È più o meno dalla parte opposta del laboratorio di Elm.»
«Ok, arrivo.»
I due si salutarono e Milas mise in tasca il telefonino. Mise un po’ a posto mentre aspettava l’arrivo del fratello, ma sentì la serratura scattare. Andò alla porta, la aprì e Crystal gli cadde letteralmente tra le braccia. Svenuta.
«Crys?» la chiamò, scuotendola dolcemente, ma lei non diede segni.
Milas la stese sul divanetto in cucina, per evitare che si svegliasse e si trovasse Archer davanti al naso. Le mise una spugna sulla fronte, preoccupato, e sperò che non fosse nulla di grave. Nel frattempo, però, bussarono alla porta. Milas aprì e sorrise vedendo che Archer non era cambiato di una virgola. Si abbracciarono con qualche pacca sulla spalla e il padrone di casa sussurrò: «Vuoi qualcosa? Scusa se parlo basso, ma Crys è tornata prima del previsto e non stava molto bene.»
«Tranquillo.» rispose il fratello, con un mezzo sogghigno, per poi aggiungere: «Che fidanzatino premuroso!»
«Dai non prendermi in giro.» lo rimbeccò lui: «Spiegati piuttosto!»
Archer ridacchiò, ma fattosi serio aggiunse: «Comunque sia, prima o poi dovrai farmela conoscere.»
«Sai già chi è.»
«Certo, ma la conosco come la ragazzina che ci ha mandato tutto a monte, non come la tua ragazza.»
«Vedremo.» rispose il fratello, vagamente: «Ora parla, però.»
Lui annuì, sedettero, e gli narrò di quel giorno in cui una piccola Athena con i colori sbagliati gli aveva detto di essere figlia della loro sorella, raccontandogli poi tutta la storia della sua famiglia.
«Che cosa!?» esclamò Milas, balzando in piedi.
Archer fece per replicare, ma una voce dalla cucina chiese: «Milas? Che cos’hai da urlare?»
L’uomo si tappò la bocca e fece cenno ad Archer di aspettare. Poi andò in cucina e chiese: «Yo. Come stai? Meglio?»
«Sì, sì.» rispose lei, mettendosi seduta: «Ho retto per tutto il servizio ma poi non ce l’ho più fatta.»
Lui le accarezzò dolcemente la guancia e mormorò: «Sei stata fin troppo brava, credimi.»
«Ora mi dici che hai da urlare?» chiese lei, posandosi alla sua mano sorridendo.
«Scusami.» disse subito lui: «C’è mio fratello e…»
«Quale?»
Lui fece un'espressione di scusa mentre rispondeva: «Archer… Maxus non si sa che fine abbia fatto. E mi stava giusto spiegando perché Athena ha fatto quel che ha fatto.»
Crystal titubò un momento, poi chiese: «Posso… ascoltare anche io? Vorrei capire un po’ di più la tua famiglia. D’altronde, tu hai sopportato l’esame con i miei. Ora tocca a me.»
Milas guardò un momento fuori, poi annuì, dicendole: «Se stai male ancora però dillo.»
«Tranquillo.» sorrise lei.
L’uomo presentò quindi al fratello la fidanzata. L’atmosfera tesa si rilassò subito. Archer infondo era una brava persona e sapeva essere simpatico e gioviale. Per questo, era anche l’unico che era riuscito a stabilire un vero legame con la pazza sorella.
«Quindi mi stavi dicendo che qualcuno l’ha messa incinta?» riprese il discorso Milas, una volta che ebbero davanti una tazza di caffè e furono tranquilli.
Crystal gli lanciò un’occhiataccia ma Archer rispose: «Ci ho pensato anche io, ma ammettiamolo: credi davvero che qualcuno avrebbe potuto sedurla, o ancora più follemente, stuprarla? Siamo seri… stiamo parlando del Demone Rosso non della prima che capita. Sai bene com’è fatta con quel caratterino che si ritrova. Se uno le avesse messo le mani addosso, le avrebbe ritrovate dall'altra parte della regione.»
«D’accordo, ma allora…?» replicò lui, non avendo altre idee da proporre per giustificare una figlia saltata fuori dal nulla: «I bambini non li portano i Pelipper!»
«Mi sembra ovvio.» intervenne Crystal, lanciando un'occhiatina all'ospite: «Archer sta dicendo che probabilmente si è innamorata.»
Milas li guardò entrambi e scoppiò a ridere: «Voi mi state prendendo in giro!» esclamò, con le lacrime agli occhi: «Athena… la pazza bambina che ti taglia la gola se le dici che è piccola, innamorata?! Ma mi credete fesso?»
I due tentarono di convincerlo, ma Milas non ci riusciva. Athena non poteva provare affetto, figuriamoci innamorarsi. Certo, aveva aiutato quella Recluta l’ultima volta che l’avevano vista. Ma da lì ad innamorarsi ne passava di acqua sotto ai ponti. Cominciò addirittura a sostenere che Archer si fosse sbagliato e si fosse confuso, illudendosi.
«D’accordo, testone. Visto che non mi credi ti mostrerò la piccola.» sbottò il fratello maggiore, prendendo una foto dalla tasca della giacca: «Me l’ha data lei perché non sapeva quando ci saremmo rivisti e non voleva che lo zio si dimenticasse la sua faccia. Come se fosse possibile.»
Archer mise la foto di Lily davanti ai due. Crystal aveva visto Athena solo un paio di volte, a Mogania e alla torre Radio, e di sfuggita, ma dal poco che si ricordava, sembrava ritratta in quella foto con la tinta e le lenti a contatto colorate. Milas invece era sgomento. Facendo mente locale, riconobbe il mento e la zona inferiore del viso, disse: «Lui l’ha messa incinta?!»
«Hai capito chi è vero?»
«Porca miseria, sì!» esclamò lui: «Il ragazzo! Quello che quasi si era fatto uccidere dicendoci che era viva! Non ci credo!»
«Credici, fratello. Non li ho visti insieme ma quei due si amano e non poco. E quella bambina ne è la prova vivente. E questo spiega anche perché ha perso la testa. Ho fatto delle ricerche. L’uomo morto era uno stupratore preferenziale che era stato un po’ di anni l’amante della compagna di quel ragazzo. È una questione un po’ complicata, ti spiegherà meglio lei. Comunque sia, il morto è stato almeno due anni a stretto contatto con la figlia di Athena. E aveva l’età giusta.»
«E Athena l’ha saputo.» concluse Milas, capendo il motivo di quel violento scatto d'ira alla Demone Rosso: «Ora è tutto chiaro. Limpido.»
«Se vuoi sapere qualcosa di più, contatta Raphael Grayhowl. Lui saprà dirti tutto.»
«È il tizio in questione?»
Archer annuì. Cambiarono poi discorso, facendo partecipare anche la povera Crystal che si era messa in disparte per lasciarli parlare. Alcune ore dopo, verso sera, si salutarono e Archer tornò ad Azzurropoli. Prima di salutarsi, i fratelli si promisero di vedersi un po’ di più. Milas e Crystal invece cominciarono a preparare la cena. Mentre apparecchiava la tavola, lui borbottò: «Ho visto l’intervista. Lance è messo male. Lo hanno davvero massacrato per la ricomparsa di Athena.»
Crystal sedette accanto a lui e mormorò: «Non credo l'abbia fatto apposta. A farla sopravvivere, intendo. Sbaglio o erano tutt'altro che amici?»
«Già. È stato proprio lui a dirci della sua morte. Ti ricordi quando non ti ho risposto per più di una settimana?»
Lei annuì e lui continuò: «Era venuto in prigione con un sorriso gongolante... e ci ha dato la notizia.»
«L'avete presa male, eh?»
«Io ero arrabbiato, ma credimi quando ti dico che non ho mai visto Archer così furioso. Penso volesse strangolarlo con le sue mani... Sai... ammetto che non era la migliore delle sorelle e di certo ha sempre avuto un pessimo carattere. Ma noi quattro ci volevamo bene davvero. Per quanto Maxus, e anche io, la facessimo infuriare non poco, non ci avrebbe mai fatto del male. Archer poi era messo ancora meglio... l'unico che con lei ha avuto un vero rapporto fin dall'inizio.»
«Io l'ho vista solo una volta... ma mi è bastato.» ammise lei, disseppellendo quel ricordo che aveva cercato di sopprimere negli angoli più reconditi della mente: «Ero terrorizzata. Paralizzata dalla paura.»
«Parli di Mogania, vero?»
Lei annuì e disse: «È strano come si è comportata, però. Ci aveva in pugno, ma non ha fatto nulla. Anzi, si è immobilizzata, ha detto quattro frasi quasi “da manuale” e se n'è andata come nulla fosse. Mentre prima pareva avere tutte le intenzioni di ucciderci.»
Milas arrossì e lei chiese: «Dimmi la verità. C'entri qualcosa?»
Lui avvampò ancora e borbottò parole senza senso. Crystal gli prese il mento con due dita e lo costrinse a posare gli occhi nel suo sguardo di cristallo. Gli lesse ancora la paura che aveva provato quel giorno, sapendola nelle mani del Demone, sotto chissà quale tortura. Lei sorrise e mormorò: «Grazie.»
Lui si lasciò sfuggire un sorrisetto imbarazzato e rispose: «Beh... figurati.»
Avvicinandosi piano l'uno all'altra, si scambiarono un bacio appassionato, stringendosi. Separarono le labbra, ma lui le mise un braccio intorno alle spalle e lei si posò al suo petto, tenendosi stretti.
In un'altra regione, invece, Lily era in ansia, nella casa vicino a Orocea. Saputo di ciò che aveva fatto la madre, non aveva ancora avuto il coraggio di sollevare l'argomento con il padre. Non sapeva nemmeno lei perché avesse paura di parlarne con lui. Forse semplicemente temeva che l’uomo non le avrebbe più fatto vedere la madre. Gliel'aveva preclusa già prima, avrebbe potuto rimarcare il divieto, dopo quello che era successo. Rimuginando, tornò a pensare a lei. Tutto il continente era terrorizzato e nessuno osava uscire di casa dopo le cinque del pomeriggio. Avevano tutti una paura folle. Eppure lei sapeva che la donna non voleva ferire nessuno. O meglio, a meno che non l’avessero stuzzicata. Athena aveva fatto quel che aveva fatto perché lei era stata toccata da Ragefire. Di questo ne era certa. Ricordava ancora la stretta fattasi forte, la voce fattasi scura, quando le aveva raccontato di quella storia. Probabilmente, sapere che era stata sua figlia a finire nelle mani del malvagio, le aveva fatto perdere le staffe del tutto. Tornata in camera e persa nei suoi pensieri, Lily non vide né Giovanni, né N; chiedendosi dove fossero finiti, cercò di pensare a cosa dire al padre; lei voleva rivedere la madre, pur sapendo ciò che poteva fare.
In quello stesso istante, N e Donkey cercavano di consolare Giovanni, nel cielo, in groppa a Reshiram. Il bambino era stretto tra le braccia paterne e piangeva, disperato, urlando: «Ho visto tutto, papà! Non voglio più assistere a niente del genere!»
N non sapeva cosa dire. Come spiegare al figlio che aveva solamente visto il Demone Rosso, la parte nascosta della madre? Come dirgli che, nonostante tutto, lei non era più così? Per capire meglio, doveva fargli vuotare il sacco, così chiese: «Giovanni, spiegami meglio cos'è successo. Come hai fatto a vederla?»
«Io avevo catturato quell’uomo per fargli pagare il male che aveva fatto a Martha. Però, lei mi ha raggiunto e mi ha detto di andarmene che avrebbe sistemato tutto. Io però mi sono nascosto perché volevo vedere cosa gli avrebbe fatto…»
N sospirò, avendo chiaro cosa era successo. Gli accarezzò la testa e sussurrò: «Lei non è più così. Wargle mi aveva accennato di averti detto qualcosa, vero?»
Lui annuì, il viso inondato di lacrime, così il padre aggiunse: «Ti ha detto che era malvagia, che era odiata da tutti... faceva quello che le hai visto fare tutti i giorni. Le piaceva, era un passatempo. Ora è cambiata. Hai visto anche tu: ti cresce da anni, eppure non ha mai fatto nulla.
«S-si è trasformata, papà! E rideva!» esclamò lui, con ancora quelle immagini impresse nella mente. Non poteva credere di aver davvero visto l'amata mamma fare quelle cose crudeli.
Lui annuì e rispose: «Lo so, credimi. L'ho vista nelle peggiori condizioni.»
«E come hai fatto a...» mormorò lui, ma N lo interruppe e chiese: «A starle vicino? È la mia migliore amica, figlio mio. Era una ragazza con la volontà di cambiare. Ho visto in lei uno spirito diverso da quello dell'altra gente, che tanto disprezzo. Lei sapeva cosa fosse la sofferenza, aveva toccato il fondo con la perdita dei suoi Pokémon ma non si è lasciata abbattere. E nei Pokémon, ha trovato un ancora, ancora. Ho visto una ragazza forte, nella sua debolezza. Tua madre ha avuto un passato terribile, per lei e per gli altri, ma può ancora avere un ottimo futuro. Ma tu amala per come la conosci, perché so che sai che non potrebbe mai farti del male. Mai. Lo sai meglio di me.»
Giovanni si asciugò le lacrime e annuì. Poi mormorò: «Hai ragione papà. Ora so perché tu le stai accanto. E lo farò anche io.»
Reshiram prese la rotta della discesa; all'improvviso, Giovanni mormorò: «Papà, senti. Tu hai sempre vissuto con la mamma che ama un altro. Tu ti sei mai innamorato?»
N avvampò di colpo, Reshiram lo fissò intensamente. Cercando di mettere in fila i pensieri, l'uomo rispose: «Diciamo, forse... non ho mai interagito troppo con la mia razza per essere sicuro che questo sia amore.»
«E quindi?»
N sorrise e rispose: «Quindi, quando saprò di essere effettivamente innamorato, figlio mio, sarai il primo a saperlo.»
I due atterrarono e videro Raphael in giardino. Giovanni restò con la viverna, mentre N si avvicinò all'amico e mormorò: «Raphael?»
«Non so cosa dire a Lily. Lo confesso.» disse lui, di getto, senza perdersi in chiacchere inutili.
N lo guardò, cercando di capire cosa intendesse, e chiese: «In che senso?»
«Chi vorrebbe avere per madre una belva?»
«Chi vorrebbe averla come fidanzata?» chiese lui di risposta, sfidandolo a rispondere.
Raphael alzò lo sguardo. Negli occhi verdi di N vide la speranza, la tranquillità; così rispose: «Un pazzo, forse...»
«Allora, forse, questa pazzia l'hai passata a lei.»
«Ma come posso saperlo?»
N lo spiazzò, rispondendo: «Facendo la cosa più ovvia, anche se è la più difficile. Chiedendolo a lei.»
«Come?» balbettò lui, senza capire.
N si fece serio; gli mise le mani sulle spalle, lo fissò intensamente e disse: «Smettila di proteggerla. Ha quasi quindici anni, sa benissimo cosa vuole e quando è in pericolo. Non è più la tua piccola bambina che devi proteggere da tutto e da tutti. Sono stato zitto quando hai deciso di non dirle niente di sua madre, ma hai solo peggiorato le cose. Parlale, dille tutto. E lei penserà con la sua testa. Credo sia la cosa migliore che puoi fare.»
Raphael guardò per un momento l'albero solitario fuori dalla casa. Poi annuì e sbottò: «Grazie, N.»
«Sempre disponibile.» sorrise lui.
Giovanni invece, stava parlando con Lily. Cercava di capire se ora la sorellastra avrebbe temuto la madre. In quel caso, non avrebbe più avuto rivali. Ma cascò male.
«Paura? Certo che no!» gli aveva risposto quando lui le aveva chiesto se la temesse: «Quell'uomo ha fatto del male a me e a Martha. Non mi dispiace di certo che sia morto.»
Notando lo sguardo deluso, aggiunse, pungente: «Giovanni smettiamola con questa competizione stupida! Vorrà bene a entrambi, non c'è bisogno di fare una gara!»
«Parla per te.» sbottò lui, andandosene di corsa amareggiato.
Lily lasciò perdere e attese il padre. Doveva parlare con lui. Quando si aprì la porta, esclamò: «Papà, io...» ma si bloccò, avvampando, nel vedere N. Lui ricambiò lo sguardo, sorrise e disse: «Tuo padre è qui fuori, se lo stavi cercando.»
«Oh... ehm, sì, grazie.» balbettò lei, imbarazzata; guardando in terra, lo sentì passare accanto a lei, diretto al piano superiore; così, mormorò: «A-aspetta.»
Lui si voltò, perplesso, fissandola, aspettando che parlasse. Lei deglutì, rossa in viso, e mormorò: «Grazie ancora per... quella volta. Devo... devo esserti sembrata patetica ma...»
«Non dire sciocchezze.» la interruppe secco lui. Non poteva accettare che si scusasse per essersi sfogata. Non era di certo una cosa di cui scusarsi.
Lei alzò lo sguardo, sentendo il tono più duro del solito, e lo vide più vicino, sorridente; ricambiò timidamente, vedendo che non era arrabbiato come pensava. Lui addolcì i toni e disse: «Sfiderei chiunque a non crollare dopo una cosa del genere. E sono lusingato che ti sia confidata così con me.»
Lily osò; gli prese una mano, portandosela alla guancia, e mormorò: «Ora l'incubo è finito.»
Lui le accarezzò la pelle con il pollice e assentì, sussurrando: «Non permetterò a nessuno di farti ancora del male.»
Lei si specchiò in quegli occhi verdi, che tanto l'avevano colpita dal primo momento in cui li aveva visti.
La porta si aprì di colpo. N ritirò velocemente la mano, sfuggendo alla sua presa, e fece un paio di passi indietro; Lily scosse la testa e guardò da un'altra parte mentre Raphael entrava e li raggiungeva. N si schiarì un momento la voce e buttò lì: «Io, ehm... vado... vado a fare un giro con Reshiram. Di nuovo. Deve... deve volare molto, sì.»
Veloce come un fulmine, prese la porta, salutò e sparì. Raphael lo guardò uscire, perplesso dallo scatto, Lily sospirò giù di corda, e il padre la udì. Pensando pensasse alla madre, mormorò: «Lily... io devo parlarti.»
Lei alzò lo sguardo su di lui; Raphael si allentò la cravatta, un po' agitato, e mormorò: «Dunque... da dove cominciare...»
«Papà, smettila di fare così. So benissimo chi è mia madre.»
Lui la fissò, vagamente perplesso, e lei aggiunse: «Da quando è venuto Archer. Ho fatto qualche ricerca. So che mia mamma è il Demone Rosso e so cos'ha fatto.»
«Non ti spaventa neanche un po'?» chiese lui, non troppo stupito della sua arguzia. Sapeva da troppo tempo che lei era curiosa come sua madre. Era stato un illuso nel pensare che tacendole tutto, avrebbe potuto tenerla nell'ignoranza.
«No, anzi! Mi ha fatto un favore! Quell'uomo... mi ha fatto del male! Era con Daisy, non so se hai presente!» esclamò lei, non potendo accettare che il padre pensasse che lei avesse paura della madre.
Raphael si bloccò per un secondo. Realizzò lentamente la frase, unendo tutti i tasselli in un puzzle che materializzava i suoi peggiori incubi. Fece per chiederle perché non gli avesse detto nulla, perché avesse taciuto una cosa del genere. Ma un'altra domanda gli salì alla mente. Athena non poteva aver ucciso, per caso, lo stesso uomo che aveva fatto del male a sua figlia il giorno dopo aver scoperto di avere una figlia. Era una coincidenza enorme per essere tale. Così, sbottò: «Come faceva lei a saperlo?»
Lily arrossì, con una faccia colpevole che parlava da sola, ma intervenne N, che comparve alla finestra e disse: «Colpa mia.»
I due si voltarono nel vederlo ricomparire e Raphael chiese: «Come, scusa?»
«In un momento di grave crisi emotiva, Lily è scoppiata e mi ha detto tutto. Allora, gliel'ho fatto sapere.» disse l'amico, entrando in casa con passo tranquillo.
Raphael lo fissò, non troppo convinto. Non aveva molto senso, ma decise di lasciare momentaneamente perdere la questione. Abbracciò però la figlia e mormorò: «Lily senti. So di essere un padre distante. Però... se ti succede qualcosa, vorrei che tu me lo dicessi. Cercherò di esserti più vicino... te lo prometto.»
«Porta a casa la mamma, papà. Per ora basta questo.»
«Sicura?»
«Se avrò problemi, te lo dirò, promesso.» sorrise lei, abbracciandolo forte.
«E io farò bene il mio lavoro. Promesso.» rispose lui, stringendola a sua volta: «Vado a sistemare alcune carte e a vedere come sta. Temo che ora la situazione si farà dura... il continente non è troppo contento della sua ricomparsa.»
«Buona fortuna.» mormorò lei, salutandolo con la mano mentre usciva. Raphael rispose al cenno, ne fece uno anche a N e, uscì, chiudendo la porta dietro di sé. Lily spostò lo sguardo dalla porta all'uomo. Lui ricambiò lo sguardo senza parlare. Si avvicinò a lei, scrutandola. Sembrava titubare. Lei sorrise e borbottò: «Grazie dell'aiuto... Zoroark.»
Lui si fermò e sorrise, notando soddisfatto di essere stato scoperto con molto occhio, ma non ruppe l'illusione. Lei lo fissò perplessa e lui rispose ai suoi dubbi: «Posso parlarti solo dentro la mia illusione. Sono stupito. Non è da tutti smascherarmi.»
Lei alzò le spalle, con finta modestia, e lui chiese: «Come hai fatto?»
«Un mago non svela mai i suoi segreti.» rispose lei; non poteva dirgli che l'aveva notato diverso dal solito. Troppo diverso dall'uomo che aveva osservato per tutto quel tempo. Molto curiosa, invece, chiese: «Tu invece? Perché sei intervenuto?»
Lui fece spallucce, nascondendo la sua curiosità nell'osservare la ragazzina che tanto interessava il suo amico e rispose: «Il sovrano mi ha chiesto di tenere d'occhio la situazione mentre lui si occupava di Reshiram. E ha fatto bene... si stava mettendo male.»
«Non credo che papà se la sia bevuta.» commentò lei, un po' preoccupata: «Prima o poi dovrò confessare.»
«Prima o poi, dovrai confessare... tutto.» disse solo il Pokémon, guardandola come per valutarne la reazione, ma poi rompendo l'illusione e mostrandosi nella sua forma originale.
Lei guardò quegli occhi blu. Quella volpe aveva capito molto di più di quanto dava a vedere o era un commento totalmente innocente? Lui ricambiò lo sguardo con un mezzo sogghigno; lei sospirò e sbottò: «Vedi di non fare la spia, almeno. Neanche con lui.»
Lui sorrise, sedette accanto a lei in attesa dell'amico umano, borbottando: *«Ottima scelta, sire. Devo proprio confessarlo. Veramente una buona scelta.» * sapendo che la piccola umana non lo avrebbe capito.
Lily lo squadrò e chiese: «Sarebbe bello capirti ora. Non dire niente a nessuno dai... fammi questo piacere.»
Zoroark ridacchiò e le fece l'occhiolino. Lei alzò gli occhi al cielo, visto quel sogghigno di pura derisione, ma borbottò: «Grazie.»
Fuori dalla casa, Raphael stava per salire su Pidg ma venne fermato da Giovanni che mormorò: «Signor Grayhowl, mi fa un favore?»
«Dimmi.» rispose lui, cercando di notare qualche reazione. Ma dopo il volo con N, il bambino sembrava molto più tranquillo e sereno.
«Me la può salutare?»
«Certo. Tu non cacciarti nei guai, mi raccomando.» sorrise Raphael, per poi incamminarsi verso la città.
«Prenderò l'ultima Medaglia per dimostrarle che con me non ha fallito!» gridò lui di risposta; corse poi in casa, prese lo zaino e ripartì. Raphael, invece, arrivò al carcere e chiese una visita alla sua cliente. L’agente esitò un attimo. Avevano appena chiuso in gabbia la più terribile bestia dell’ultimo secolo e avvicinarsi così a lei non era una delle sue priorità. Vista la sua insistenza però, lo accompagnò alla cella e poi se ne andò quasi di corsa.
Raphael aspettò che non ci fosse più nessuno, poi si posò alle sbarre e mormorò: «Piccola pazza, stai bene?»
«Ehi, ciao avvocato scemo…» rispose lei, con voce flebile e la parvenza di un sorriso sul volto.
Lui prese la copia delle chiavi che gli aveva dato Lance, e aprì la cella, entrando. La trovò praticamente immobilizzata. I polsi, le caviglie e il bacino erano incatenati a anelli di ferro saldati nel muro.
«Mi sembri stanca…» mormorò lui, accarezzandole dolcemente la guancia.
Lei si posò alla sua mano. Finalmente qualcuno che non la fissava come se dovesse azzannarli da un momento all’altro, e rispose: «Non mangio da quando mi sono costituita. Immagino sia normale…»
«Cosa?»
«Vogliono farmi morire di fame. Idea carina e originale. Oppure vogliono farmi arrivare mezza morta al processo.»
Raphael la guardò in faccia. Il suo viso era segnato da profonde occhiaie, la pelle pallida, gli occhi erano traslucidi, con le pupille dilatate al massimo.
«Da quanto tempo non esci?» chiese preoccupato.
«Troppo. Non so se hai fatto caso che sono evasa di notte. Credo che la luce del sole potrebbe uccidermi in questo momento. Ti ricordi no che al processo avevo mal di testa?»
«Occhio a non cominciare a bere sangue.» ridacchiò lui, cercando di tirarla su di morale.
Le si dipinse un ghigno sul volto, quando rispose: «Il tuo sarcasmo migliora. Molto bravo.»
Lui sorrise, ma poi mormorò: «Mi uccide vederti in questo stato.»
«L’unica che morirà, probabilmente sarò io.»
«Non lo permetterò.»
Lei scosse la testa, anche se apprezzava la sua fiducia, e rispose: «Non puoi fare i miracoli. Come pensi che reagirà il continente? Lanciandomi fiori?»
«Beh chi ti dice che…»
«Raphael. Lo so che è scritto in tutti i giornali a caratteri cubitali.»
«Posso provare il miracolo.» dichiarò lui, prendendole la guancia e baciandola dolcemente.
Lei rispose al bacio, mentre le lacrime le solcavano il viso. Non voleva perderlo proprio ora. Aveva scoperto di essere di nuovo madre, aveva ritrovato il suo amore perduto… non poteva finire così.
«Ti amo. Non lasciarmi mai…» mormorò, posata alle sue labbra.
Lui le accarezzò la testa e rispose: «Non lo farei mai. Sono rimasto quattordici anni aspettando chi pensavo nella tomba, e ora che ti ho qui, nemmeno il giudice potrà portarti via da me. Te lo prom…»
«Sssht.» lo interruppe lei: «Non promettere se non sei sicuro di poter mantenere.»
«Grendel è capace di tutto. Ma la mia difesa sarà migliore.» rispose lui, convinto, ma poi aggiunse: «Devo però darti una brutta notizia.»
«Cioè?»
Raphael sospirò e rispose: «Viste le proteste di più o meno tutti, Lance è stato costretto a rivelare dove sei, del processo e il nome del giudice. Il simpaticone ha prescritto che, per avere una pena carceraria corretta, dovrai andare con gli altri detenuti.»
Lei fece spallucce e commentò: «Beh, poco male. Anzi, almeno ho compagnia.»
«Sarà una compagnia maschile.» buttò lì lui.
Athena non poté che sogghignare alla sua espressione e chiese: «Geloso?»
«Non essere sciocca.» ringhiò lui, irritato dallo sguardo di pura derisione che le leggeva in faccia: «Sono solo preoccupato.»
«Tranquillo. Fidati di me.»
Raphael mugugnò qualcosa irritato, poi concluse con l'ultima notizia: «Altra cosa, Giovanni ti ha vista. »
«Che cosa?!» esclamò lei.
Lui annuì e lei aggiunse: «Maledizione. Gli avevo detto di andare a casa.»
«Dai, non è colpa tua. Vedrai che d’ora in poi non ti disubbidirà più.»
«Se vorrà ancora vedermi…»
Raphael le diede un buffetto e sbottò: «Ehi, ehi non dire così. Tuo figlio ti vuole un gran bene... vedrai che superato lo shock, gli passerà. Ha parlato con N e l'ho visto subito dopo. Sembrava tranquillo, davvero.»
Athena non replicò, abbattuta, così lui la salutò tristemente, e tornò a casa. Prese il codice penale, carta e penna, e si mise al lavoro. Lance lo chiamò poco dopo, comunicandogli in anteprima che si sarebbe svolto un processo straordinario due settimane più tardi.
Giovanni invece, in groppa al suo Pelipper, stava navigando sotto Verdeazzupoli, nel tentativo di trovare l'isola nascosta di Ceneride.
«Perché non ho un sonar quando serve?» brontolò, non sapendo dove andare e vedendo intorno a lui solo acqua.
*«Ti ricordo che Tell e Pat ci hanno detto di andare sott'acqua. Non troveremo mai Ceneride in superficie.» * rispose il pellicano, guardandosi intorno per niente convinto.
«A quello infatti servirebbe il sonar.» sbottò Giovanni, irritato per po fare rotta per Verdeazzupoli. Comprò una bombola di ossigeno e la maschera e ripartì. In mezzo al mare, dove in teoria erano le coordinate per l'entrata sottomarina di Ceneride, borbottò: «Andiamo sotto, Wing. E se ci resto secco, sarà per una buona causa.»
*«Non succederà.» * rise il pellicano, per poi tuffarsi.
Athena nel frattempo, cominciò la vita nella zona abitata del carcere. Per renderle tutto il peggio possibile, Vodel aveva prescritto che fosse rinchiusa nella parte maschile della prigione che, nonostante fosse mista, non rendeva possibile l’incontro tra i due sessi in nessuna maniera.
Lei era l’unica eccezione.
La donna vedeva gli altri detenuti solo nell’ora d’aria, nell’atrio del carcere, perché era in cella da sola, in mezzo isolamento. Già dal primo giorno, un ex stupratore cercò di divertirsi, ma lei lo mise a tacere, spezzandogli un braccio di netto. Come se non si fosse reso conto che lei era lì dentro per il semplice fatto di aver massacrato di botte uno del suo stesso stampo. La sua resistenza non piacque però agli altri detenuti che, vedendola incatenata, pensarono giustamente che fosse innocua. Purtroppo per loro, avevano sbagliato persona. Athena era comunque il Demone Rosso e di certo delle catene non l’avrebbero fermata.
Nel giro di poche ore, divenne l’essere più temuto del carcere.
Finché non arrivò un uomo che la mise alle corde. Thomas O’Bull. I due erano furbi quasi allo stesso livello. La donna poco di più e questo le permise di scamparla. Più affrontava quell’uomo, più le piaceva sfidarlo. Era furbo, arguto, quasi quanto lei. Inizialmente, un po' anche per mitigare la sua indole assassina, la donna andò a cercare i carcerati finiti dentro per stupro e si divertì, picchiandoli quasi a morte. Non finiva mai in isolamento perché i secondini avevano paura, così lei poteva fare il bello e il cattivo tempo. Un giorno però volle imbarcarsi in una sfida più interessante; sempre durante l’ora d’aria, andò dall'unico carcerato che gli stava simpatico e chiese: «Sai giocare a scacchi?»
Lui annuì e lei disse: «Ti sfido, O’Bull.»
«Con molto piacere, Demone Rosso.»
E la partita cominciò. Passarono quasi tutta l’ora a fissare la scacchiera, uno nella testa dell’altra, per intuire le mosse avversarie e metterlo in crisi. Suonò la campana che avvertiva della fine dell’ora d’aria, ma nessuno dei due la sentì. Un secondino si avvicinò a loro e borbottò: «Ehi, voi due. Dovete tornare in cella.»
I due lo fissarono seccati, poi la donna parlò, con un tono del quale bisognava avere davvero paura: «Se domani i pezzi non sono in questa precisa posizione… vengo a cercarti.»
Il poliziotto deglutì e annuì terrorizzato. Poi i due vennero condotti nelle rispettive celle. I giorni passavano ma la situazione non era cambiata. Athena e Thomas restavano lì, fissando la scacchiera nel loro angolino, a volte muovendo, a volte borbottando.
Finché…
«Scacco matto!» esclamò la donna vittoriosa.
«Oh no… no, no, no! Mi hai fregato! Dannazione!» sbottò l’uomo che aveva di fronte, fissando orripilato la scacchiera, mentre lei gli mangiava il re con un ghigno di crudele soddisfazione.
Erano passati dieci giorni, quindi la loro partita era durata dieci ore secche.
«I miei complimenti, Demone Rosso. Nessuno mi aveva mai battuto a scacchi.» disse O’Bull, tendendole la mano, strabiliato dalla sua intelligenza.
«Altrettanto. È la prima volta che devo impegnarmi così.» rispose lei, ancora ghignando tutta contenta, ma stringendo la manona del carcerato.
I due cominciarono a chiacchierare. Avevano finito cinque minuti dopo l’inizio dell’ora, così avevano un po’ di tempo per conoscersi un po’, visto che avevano parlato assai poco prima di cominciare a giocare. Lui si era semplicemente limitato ad osservarla massacrare di botte gli stupratori e lei lo aveva praticamente ignorato, anche se pensava a una sfida da lanciargli.
«Di’ un po’… che ci fai qui dentro? Mi sembri una brava persona.» chiese la donna, esprimendo il dubbio che la tormentava da un bel pezzo: «Non come tutta la marmaglia di gente idiota rinchiusa qua.»
«Anche tu lo sembri. Eppure…» ribatté lui, fissandola non molto convinto di aver conosciuto la vera Athena, ma una sorta di maschera dolce, tenera e carina. O meglio, aveva visto qualcosa della vera lei mentre pestava a sangue i galeotti che in quel momento erano in terapia intensiva.
Lei ghignò di risposta e commentò: «Carino da parte tua. Non è da tutti quest’affermazione.»
«Lo credo bene!» esclamò lui, ricordando qualche servizio del telegiornale con gente fatta a pezzi e laghi di sangue. Tutto compiuto da lei, solo undicenne se non più piccola.
«Comunque d’accordo…» borbottò lei, cambiando discorso per evitare di dover descrivere torture varie all’unica persona simpatica di tutto il carcere: «Visto che fai tanto il difficile ti cambio la domanda. Che cos’hai combinato per finire dietro le sbarre?»
Thomas la fissò un secondo, intuendo il motivo del cambio rapido di discorso, e disse: «Visto che insisti… insomma, come hai detto tu, non sono cattivo. Sono solo molto geloso. E avevo dubbi su mia moglie. Un giorno l’ho vista con un ragazzetto e li ho picchiati. Entrambi. Sono dentro per aggressione aggravata, ma se lei non mi avesse fermato credo che l’avrei ucciso. Mi hanno dato vent’anni e ne ho scontati cinque. Con la buona condotta forse esco prima.»
«Era davvero tradimento?»
Lui arrossì, imbarazzato e quasi seccato, e rispose: «Non ho nemmeno la soddisfazione di aver massacrato un bastardo. E ora lei non mi vuole più vedere… non risponde nemmeno alle mie lettere.»
Lei scosse la testa, e mormorò: «Si può essere persone migliori, basta volerlo davvero. Falle capire che la ami, che non sei cattivo, che è stato un incidente… e tutto si sistemerà. Una volta un mio amico mi disse: “La volontà può tutto.”»
«Farò del mio meglio.»
I due carcerati strinsero amicizia. Parlavano, giocavano a scacchi… passavano il tempo, facendosi compagnia a vicenda visto che andavano così d'accordo. Un giorno però O’Bull la vide arrivare zoppicando e trascinando le catene a fatica, cercando di non darlo a vedere. Sembrava solo che avesse male a una gamba.
«Demone Rosso! Stai bene?!» chiese preoccupato, avvicinandosi per aiutarla.
«Sì, tutto a posto.» rispose lei, scostandolo.
Non voleva che gli altri detenuti vedessero che stava male; ne avrebbero approfittato e di certo non era proprio in grado di difendersi.
L’uomo la fissò un momento e chiese: «Sicura?»
Lei annuì. Lui non indagò oltre, ma la vide spesso arrivare camminando storta. Finché non riuscì a farla parlare: dato che erano diventati quasi amici, lei era abbastanza loquace e lui sapeva porre bene le domande.
«Sono passati alla frusta.» borbottò, un po' seccata dal non poter reagire: «A quanto pare hanno capito che non posso toccarli. Comunque, vogliono farmi confessare alcuni omicidi avvenuti nei mesi appena prima la mia resa. Ma io non c'entro e non cederò mai.»
L’uomo non sapeva cosa dire. Avrebbe voluto aiutarla, ma come? Intanto però tentò di tenerla un po’ su di morale e di sostenerla almeno in quel modo. È quello che fa un amico, si disse, un vero amico.
Lily invece scoprì come entrare nel carcere. Sapeva che l’avevano trasferita e così si mise a studiare la piantina del posto per capire come entrare. Scoprì con l’aiuto di Lance, che la madre era nella cella più in fondo, attaccata al muro che la separava da quella nascosta dove stava prima. Aveva ancora il calco e la password, bastava scoprire l’altra password, per aprire la porta che dalla cella nascosta portava al corridoio, e sarebbe arrivata. Con il fondamentale aiuto di Lance, Lily ci riuscì, e, sgusciata fuori dalla porta, si guardò intorno. Ora era molto più pericoloso, glielo aveva detto anche Lance, perché c’erano gli altri carcerati e i secondini. La cella però era abbastanza isolata, lontana da tutto e da tutti, ma soprattutto poco visitata, così lei si avvicinò ma poi si nascose. Non aveva ancora potuto chiamarla “mamma”, parlarle, sapere se era felice o meno. Sbattere in faccia a Giovanni che era lei la migliore, la preferita, la vera figlia. Ma, senza un apparente motivo, aveva una grande paura. Non sapeva cosa aspettarsi da lei. Nella cella, anche Athena era rosa dai dubbi: erano passate settimane dall'ultima visita della figlia, prima ancora dell'omicidio di Ragefire. La donna temeva che scoprire cosa poteva fare, l'avesse spaventata a tal punto da non andare più da lei, a non volere una belva come madre.
Lily alla fine si fece coraggio. Doveva parlare, voleva parlarle... e sapere. Anche a costo di venire ferita. In cuor suo, sapeva che lei non le avrebbe mai fatto del male, ma non si era mai sicuri di nulla.
«C-ciao…» mormorò quindi, avvicinandosi alle sbarre.
La donna sbarrò gli occhi. Il cuore cominciò a battere come un tamburo mentre sentiva contorcersi le viscere dall’ansia. Lei, sua figlia, era lì. E ora sapeva chi era.
Cosa poteva dire?
Cosa poteva fare?
Non si era mai vergognata dei suoi lavori, ma questa volta... Il cervello era ingrippato e lei non riusciva a pensare. Ma Lily disse: «Non è cambiato niente per me. Quello era cattivo. Ha fatto del male a me e ci ha provato con Martha. Per non parlare di tutte le altre.»
«Però…» borbottò la donna, sentendosi sporca per ciò che aveva fatto. Ed era ovvio che la figlia sapesse già tutto. Magari scritto bello grande e trucido sui giornali. Nel peggior modo possibile.
«No, niente però. Non l’avrebbero mai condannato.» disse convinta la ragazzina; non sentendo risposte dalla madre, continuò: «Io lo sapevo già. Perché non vuoi accettarlo? Non … non mi vuoi come figlia? Preferisci... preferisci Giovanni?»
Athena alzò appena la testa e rispose subito: «No, no certo che no. È che… insomma…»
Lily sedette fuori dalla cella e mormorò: «Non l’ho mai detto perché papà voleva dirtelo di persona. Ero tentata ma non l’ho fatto. Anche se ho faticato per non tradirmi parlando.»
«Ma… non ha senso.»
«Cosa?»
«Insomma… hai una madre con cinque ergastoli, il rischio della pena di morte, ne parlano tutti male… e ti introduci nella prigione di nascosto solo per parlare con me. Non ha il minimo senso.»
Lily scosse la testa sorridendo e rispose: «Ce l’ha invece. Sei la mia mamma, questo basta. E comunque anche Giovanni è nella mia stessa situazione.»
La donna trattenne una risata e prontamente ribatté: «Lui è un caso a parte. Patologicamente affine al mio carattere. Ma... non ti fa neanche un po’ strano?»
«No. Mi faceva strano dover chiamare “mamma” Daisy. Infatti non l’ho mai fatto.»
Athena si fece coraggio e si alzò, avvicinandosi di poco alle sbarre. Lily sorrise e disse: «Tanto perché tu lo sappia… il mio nome completo è Lilith Castiga Grayhowl, ma mi chiamano tutti Lily.»
“Non ci credo. Raphael le ha dato il mio soprannome come secondo nome.” pensò la donna, ridacchiando leggermente, ancora titubante nell'avvicinarsi.
«Che cosa c’è da ridere?» chiese invece Lily.
«Niente, niente.» rispose la donna, sorridendo timidamente, ma poi aggiunse: «E dell’altra che mi dici?»
«L’altra? Mary?»
«Sì, mi pare si chiami così.»
La ragazzina alzò le spalle e rispose: «È la mia sorellastra. Figlia di papà e Daisy. Però non assomiglia a lei. Cioè fisicamente sì, e anche tanto, però è solo un po’ vanitosa. Per il resto…»
«Non ha un atteggiamento da puttanella in calore.» concluse Athena, con un tono eloquente che sottolineava il suo disprezzo per quella donna.
Lily ridacchiò e rispose: «Non avrei usato queste parole, ma il concetto è quello. Tra te e papà siamo in tre, contando la peste con la mazza.»
Athena sospirò, sentendo l'appellativo con il quale veniva chiamato il suo bambino, e chiese, quasi come domanda retorica più che per sincera curiosità: «Vi fa impazzire eh?»
Lei annuì e rispose: «Abbastanza... È sempre così scontroso, asociale... per fortuna ora è in giro per la regione.»
«Devo trovare il modo di parlagli.» commentò la donna, avendone sentite abbastanza contro il figlio.
Restarono in silenzio per un po’, poi Athena chiese: «Come hai fatto a entrare?»
Lily mostrò il calco e rispose, allegra: «Non mi andava che mi avessero fregato spostandoti. Ora li ho fregati io!»
La donna sorrise, poi mormorò, quasi dolcemente: «È così strano… per mesi mia figlia è venuta a trovarmi e io non mi sono resa conto di nulla.»
«Non è del tutto vero.» rispose Lily: «Insomma… papà ha detto che di solito tendi ad allontanare gli estranei. Con me non l’hai fatto.»
«Chissà.»
«Posso venire ancora a trovarti… mamma?»
Lei le sorrise: «Quando vuoi, mi trovi qui. Ma meglio non nei prossimi giorni.»
«Perché?»
«Problemi...» rispose evasiva lei.

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Capitolo 18
*** Capitolo XVII ***


Lily non si fece scoraggiare dai commenti della madre; problemi o non problemi, lei voleva vederla. Entrò in carcere il giorno dopo, ma sentì dei passi avvicinarsi. Fece per andare via ma prima di uscire, vide un antro tra la parete della cella e il muro divisorio. Quell’errore di costruzione poteva esserle d’aiuto. Si sarebbe nascosta, aspettando che i secondini fossero passati, e poi sarebbe andata dalla donna. Si infilò quindi nel pertugio e attese.
«Ehi, bestia. Forse oggi ti deciderai a confessare.» disse sprezzante un secondino, anche se il tono da spaccone voleva nascondere la paura che aveva di quella donna.
«Se non l’ho fatto, non contarci, pagliaccio.» ribatté lei, cambiando totalmente tono, sentì Lily; quando parlava con la bambina era quasi tendente al dolce, un po’ freddo ma non cattivo. Con quella gentaglia invece tirava fuori il tono più crudele e sarcastico che conosceva, giusto per ricordare loro chi avevano davanti. Non poteva difendersi, certo, ma spaventare era lecito.
Il poliziotto non rispose, aprì la cella e la portò via. Lily, nel suo nascondiglio, si chiese dove la stessero portando e decise di aspettarla, giusto per poterle parlare ancora un pochino. Raphael era convinto stesse studiando da un’amica, quindi aveva tempo… Passò quello che le sembrò un’eternità, poi tornarono i due secondini, trascinando qualcosa. Lily sbirciò e vide che stavano trascinando Athena, ancora sanguinante e svenuta, tenendola per le braccia con poca delicatezza.
«Dovrò andare a far smacchiare la divisa un’altra volta.» si lamentò un secondino, vedendo la macchia di sangue sui pantaloni.
Ora che la donna era svenuta, potevano permettersi di fare i gradassi, ma se lei si fosse anche solo mossa, era garantita la fuga lasciandola nel corridoio.
«La prossima volta mettiti la tuta da lavoro. Almeno salvi la divisa.» rispose l’altro.
«Già.»
Uno dei due aprì la cella e l’altro lanciò dentro il corpo svenuto della donna. Poi se ne andarono. Lily era preoccupata e orripilata. Non sentendo più rumori, uscì dal nascondiglio e spiò dentro la cella. Era sempre nella penombra, ma vide distintamente una caviglia della donna. Era lacerata dai segni di un cordino di fil di ferro e sanguinava ancora.
“Cosa le avranno fatto?” si chiese, trattenendo le lacrime.
Restò lì, vicina al suo nascondiglio, finché non sentì dei rumori: Athena si era svegliata, e, con una mano, aveva tentato di alzarsi, aggrappandosi al letto. Con un gemito, si tirò su a fatica, mettendosi sulla branda più in basso e cercando di riprendersi.
«C-come stai?» chiese la ragazzina, dopo essersi avvicinata alla cella, titubante ma convinta.
Un debole respiro affaticato precedette la risposta, che suonò quasi come un rimprovero: «Ti avevo detto di non tornare.»
“Come faccio a dirti che voglio stare vicino a te… mamma?!” pensò Lily, seccata da quel commento, mentre pensava a qualcosa di intelligente, e magari confortante, da dire.
Un gemito la riscosse. Ma non riusciva a capire cosa stesse facendo la donna, mentre i rumori sommessi riecheggiavano flebili.
«Posso aiutarti mamma?» chiese dopo un po', decidendosi a parlare.
La donna scosse la testa, ma capì che non poteva vederla, così rispose: «Non è un bello spettacolo… ti risparmio la visione.»
«Non mi fa paura il sangue. Se posso fare qualcosa, volentieri…»
Athena ci pensò su. Quella ragazzina, la sua bambina, le aveva reso la reclusione molto meno dura, era simpatica, le faceva piacere quando andava a trovarla… e poteva davvero aiutarla.
«I secondini ci metteranno un po’… Se non te la senti, dillo subito.» borbottò, andando verso le sbarre e sedendosi di schiena, passandole una pietra piatta.
Lily vide la camicia incollata in alcuni punti, mentre prendeva la pietra, e Athena spiegò: «Devi riaprire le ferite e tirare fuori la stoffa.»
«Perché?»
«Perché altrimenti fa infezione e patisco le pene dell’inferno. Se riesci a tirarla fuori, cicatrizza bene e guarisce.»
«Ma se ti faccio male…» cominciò Lily, ma la donna la interruppe: «Fa male. Ma fa peggio se non lo si fa. Se non te la senti faccio da sola, non importa.»
«No, no. Va bene.»
Lily deglutì, si fece coraggio e sollevò la camicia. Doveva tagliare tutte le ferite mezze rimarginate e togliere la stoffa, per poi tenerla lontana dai tagli per evitare che si incollasse di nuovo. Athena doveva sentire molto dolore, ma, a parte qualche contrazione involontaria dei muscoli della schiena, non emise un rumore.
Dopo quelle che parvero ore, Lily tagliò l’ultima cicatrice e mormorò: «F-fatto…»
Athena si alzò e levò la camicia, per far cicatrizzare le ferite all’aria, stando decisamente meglio di poco prima. Senza il rischio dell'infezione, si sarebbe rimessa in breve tempo.
«Brava, piccola.» borbottò, stendendosi sul letto a pancia in giù: «Sei stata molto coraggiosa.»
Lily sorrise e rispose: «Figurati, mamma.»
Vedendo che la donna non rispondeva, Lily fece per andarsene, ma una voce la fermò: «Ciao. E grazie…»
Lily sorrise, e corse via, ma tornò il giorno dopo, come sempre, a trovarla.
Cinque giorni dopo venne quindi indetto il processo contro Athena per l'omicidio di Ragefire. Era mattina presto, per evitare che la folla inferocita e assetata di vendetta attaccasse il tribunale, scatenasse l'ira di Athena e ci fosse il massacro. Ora ad assistere e giudicare, c’erano entrambe le Corti. Solitamente i processi erano presieduti da un giudice, ma anche da due giurie, una formata dai quattro Élite della Lega Pokémon (Pino, Koga, Bruno e Karen) e l'altra dagli otto Leaders delle Palestre, ovvero Brock di Plumbeopoli, Misty di Celestopoli, L.T. Surge di Aranciopoli, Erika di Azzurropoli, Sabrina di Zafferanopoli, Nina di Fucsiapoli e Blaine dell’Isola Cannella. Dato che l’ex palestra di Giovanni a Smeraldopoli era chiusa, come ottavo membro della Corte dei Leader era stata scelta la cugina del Campione, Sandra, ultima Leader della confinante Johto, ovvero della città di Ebanopoli. Le due corti giudicavano e collaboravano insieme per decidere la sorte dell’imputato.
Grendel, che come sempre faceva da accusa, era molto turbato questa volta. Aveva sentito parlare di quello stupratore seriale e aveva visto con disappunto e sdegno che non era mai stato accusato per i suoi crimini.
“Il Demone Rosso ha ucciso una persona giusta, per una volta.” pensò, affranto da quello che doveva fare.
Era consapevole che l'omicidio non è una buona cosa ma anche le aggressioni mai denunciate di quell'uomo... Non se la sentiva di condannarla alla sicura pena capitale, ma Vodel aveva insistito perché presiedesse lui l’accusa. Non aveva potuto rifiutare.
Athena invece voltò un momento lo sguardo verso la Corte dei Leader. Anzi, verso il terzo posto di quella Corte. Non avrebbe dovuto, ma dentro di lei qualcosa lo imponeva. Non riuscì a non fare quel piccolo sorrisetto, mentre guardava con dolcezza quell’uomo che ormai considerava suo padre e che la fissava stralunato e incredulo.
“È bello rivederti Surge … papà …” pensò, ignorando il tremore di tutti gli altri Leader.
L.T. Surge era sconvolto. Non poteva credere ai suoi occhi. La sua piccola Athena era lì, in quel banco, pensante, ma soprattutto, viva. E lui ricordava ancora quella pozza di sangue nella quale aveva versato tutte le sue lacrime. Non riusciva a credere a quello che vedeva, ma soprattutto voleva la testa di Raphael. Dal suo comportamento era evidente che lui sapeva già da prima che Athena era viva, e probabilmente le aveva anche parlato. Fece di tutto per non pensarci, per tutta la durata del processo, o l'avrebbe picchiato.
«Lo Stato di Kanto contro il Demone Rosso!» esclamò il giudice, battendo il martello sulla scrivania e interrompendo i pensieri di padre e figlia: «L’imputata è accusata dell'omicidio di Richard Ragefire, avvenuto due settimane fa.
Presiede l’accusa, l’avvocato Michael Grendel.
Presiede la difesa, l’avvocato Raphael Grayhowl.»
Il giudice sedette e diede la parola all’accusa. Grendel si alzò, ma non sapeva proprio cosa dire. Non si era preparato bene, e non era convinto del suo ruolo.
Vodel lo guardò perplesso, notando che era ancora muto. Pensando che stesse raccogliendo le idee, non disse nulla, in attesa. Così come Lance, le Corti, l’avversario e perfino l’imputata. Grendel respirò a fondo. Aveva deciso di provare la tattica della sincerità. Si sarebbe inimicato il giudice, lo sapeva, ma non se la sentiva di fare l’accusa. Fece per parlare, ma si sentirono delle grida provenire dall’esterno del tribunale. Karen si alzò dai seggi della Corte degli Élite e sbirciò fuori, sollevando le veneziane tirate: il piazzale era colmo di donne urlanti, che portavano dei cartelli. Le frasi erano tutte in difesa di Athena, e, alcune di loro erano ragazzine, vittime dello stupratore seriale che lei aveva ucciso. Le figlie, accompagnate dalle madri, ringraziavano la Bestia del Continente per averle liberate da quell'uomo. Sui cartelli c'erano riportate delle vere e proprie confessioni: il numero di volte che erano state aggredite e altre cose che testimoniavano le loro vicende. Dopo aver sentito le parole di Karen, che spiegava cosa accadesse di fuori, Vodel si alzò e andò a vedere a sua volta.
Inorridito ma furioso, risedette e sbottò: «Ignoratele e andiamo avanti con il processo.»
Grendel guardò con la coda dell’occhio Raphael e vide che stava annotando velocemente qualcosa su un foglio scarabocchiato.
“Probabilmente è qualcosa in difesa. Bene, Raphael fa’ del tuo meglio.” pensò, schiarendosi la voce.
«Una serial killer recidiva, ecco cos’è il Demone Rosso.» esordì con un tono volutamente arrogante per far infuriare l'avversario e aspettarsi il meglio da lui: «Ce l’ha dimostrato, torturando, fino a renderlo quasi irriconoscibile, un uomo, per poi ucciderlo senza pietà. Dopo che il giudice aveva deciso di graziarla dalla pena capitale, dandole l'opportunità di salvarsi con un avvocato. Secondo la legge. Che altro serve sapere?!
Io chiedo la pena capitale per tortura e omicidio volontario.»
L’avvocato risedette e Vodel disse, soddisfatto: «La parola alla difesa.»
Raphael si alzò, andò in mezzo all'aula e fissò le Corti con decisione, evitando però lo sguardo di Surge, giusto per non cominciare a tremare. Riportata la sua attenzione al giudice, rispose alla provocazione dell’accusa: «L’uomo in questione era uno stupratore seriale che non ha mai scontato la sua pena. L’imputata, al contrario, si è consegnata alla giustizia, pentita dei suoi crimini. Scoprire che un animale del genere era libero di operare, mentre lei, ormai innocua, era in gabbia, non è stato piacevole. Mettetevi nei suoi panni. Farebbe arrabbiare chiunque assistere a questa sorta di favoritismi ingiustificati, per lo più scontati da ragazzine minorenni che non potevano fare altro che subire le angherie di quel mostro.
Quindi, in risposta all’accusa, io chiedo un altro ergastolo.»
Grendel voleva dargliela vinta, ma l’occhiataccia del giudice lo fece alzare e rispondere alla difesa. Raphael fece lo stesso finché non arrivò la pausa.
«Senti, Raphael… posso dire una cosa anche io o devi parlare solo tu?» chiese Athena all’uomo, sottovoce, mentre lui guardava alcuni appunti, vicino al suo banco.
Lui la guardò perplesso e rispose: «Se Grendel lo richiede, possiamo interrogarti a turno. Perché?»
«Sembra che Vodel si accanisca su di me perché gli ho toccato la famiglia, mentre invece Ragefire non ha fatto niente a lui e quindi era libero. Sembra che sia un fatto personale, ecco.»
Ruotando la testa mentre pensava, lui rispose: «Non ti conviene piccola pazza. È un’accusa diretta al giudice che dispone a suo piacimento della tua vita. Non è il caso di aggredirlo così. Però effettivamente hai ragione, quindi forse riesco a tirare fuori il discorso, magari mettendo un po’ di dubbio nella Corte. È una cosa sottile però, che non ho mai usato. Spero di non fare un casino.»
«Peggio di così non può andare, scemotto. Chissà che non serva a qualcosa.»
Lei gli sorrise fugacemente, per fargli forza, e lui le fece un occhiolino veloce.
Vodel batté il martello sulla cattedra e disse: «Riprende il processo contro il Demone Rosso. Avvocato Grayhowl, a lei la parola.»
Raphael si alzò, andò al centro della sala, respirando e riordinando le idee; poi disse: «Signori delle Corti, durante il processo mi è venuto un dubbio. Perché questo accanimento verso la mia cliente? Ha commesso dei crimini, d’accordo, ne sono consapevole, ma anche la vittima di questo processo aveva commesso molti reati. Ma perché allora, era ancora a piede libero, con la fedina penale totalmente immacolata? Non c’è alcun tipo di denuncia o simili. Solo ragazze umiliate che non hanno il coraggio di parlare. Perché lo stiamo trattando come una vittima, mentre invece era forse molto più colpevole?»
«Obiezione! La difesa sta insinuando che la Corte abbia dei pregiudizi.» sbottò Grendel, anche se sapeva che Raphael aveva ragione.
Il giudice scoccò all'avvocato un'occhiata di fuoco, diventando lievemente rosso, e ringhiò: «Accolta. Non giochi con il fuoco Grayhowl. Non le conviene.»
Raphael risedette, lanciando un’occhiata fulminante ad Athena per tenerla buona, ma vedeva le Corti mormorare. Soprattutto per quella visibile irritazione che si leggeva sul volto di Vodel e per quella sua velata minaccia. Vide con chiarezza Surge, furibondo, che parlottava con i Leader, e Karen che parlava con gli Élite. Più loro discutevano, più l'uomo al banco si agitava. L'imputata invece era tentata di saltare al collo del giudice. Nessuno poteva permettersi di minacciare il suo ragazzo e passarla liscia. Nemmeno quel giudice da strapazzo.
“Beccato, giudice. Brava, piccola pazza, ottima osservazione” pensò Raphael, vedendo come la situazione andasse a suo vantaggio, ma tornando a fissarla per tenerla buona e impedirle di scannare l’uomo. Lei ricambiò lo sguardo con un mezzo avvertimento; se Vodel l’avesse toccato, avrebbe potuto dire addio a questo mondo. E le quindici ore di tortura gli sarebbero sembrato un nulla a confronto di quello che gli avrebbe fatto passare.
«Chiedo di interrogare l’imputata.» esclamò Grendel, vedendo un cenno del giudice. Non ne aveva voglia, voleva chiudere quel processo una volta per tutte, ma doveva ubbidire.
«Accordato.» acconsentì lui.
Jason Johnson lasciò la sua postazione a guardia della porta di ingresso e si avvicinò ad Athena. Era l'incaricato degli spostamenti dell'imputata perché nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi a lei così tanto e Lance non poteva più per non far salire strani sospetti nelle Corti vista la gentilezza con cui la trattava, nonostante dovesse odiarla. Le slegò le catene dal banco e la fece alzare. Si lasciò scappare un sorrisetto quando sentì quel bassissimo e sconsolato: «Devo proprio?»
La fece sedere al banco dei testimoni, in parte al giudice e le riagganciò le catene, rispondendo: «Sì.»
Lei si lasciò sfuggire un sogghigno. Grendel invece si alzò e andò in mezzo all'aula. Schiaritosi la voce, chiese: «È consapevole di ciò che ha fatto?»
«Sì.»
«È stato un atto volontario?»
«Sì.»
«Era consapevole che avrebbe rischiato la pena capitale.»
«Sì.»
«Non ho altre domande.»
Grendel tornò a sedere. Non sapeva cos'altro chiedere.
«La parola alla difesa!» esclamò Vodel, seriamente irritato per come stavano andando le cose.
Raphael si alzò, scambiandosi di posto con l'avversario, e chiese, guardando la sua amata con celato affetto: «Perché ha ucciso Ragefire?»
«Mi è giunta voce che era uno stupratore seriale a piede libero da anni. Visto che la legge non fa il suo lavoro, l’ho fatto io.» commentò lei pacata, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo: «Non sopporto quella gentaglia.»
«Obiezione! La legge non dispone di farsi giustizia da soli!» esclamò Grendel: «Ci sono i tribunali che svolgono una precisa funzione proprio per evitare questo!»
«Accolta.» disse Vodel.
«Perché si è consegnata allora?» chiese Raphael, ignorando l'obiezione: «Non ha senso commettere un crimine e poi confessarlo.»
«Perché lo so che non si deve uccidere.» rispose la donna, con un'alzata di spalle.
«Non ho altre domande ma… signori, le ragazze qui fuori sono tutte vittime di Ragefire. Tutte ragazzine che, prima di qualche giorno fa, avevano il terrore di uscire di casa, per paura di essere aggredite e violentate ancora. Ma ora non hanno più questo timore. Sanno che non verranno più usate come oggetti, oggetti con l’unico scopo di soddisfare un bisogno unilaterale. Perché non chiamare una di loro a testimoniare?»
«Obiezione! Sono tutte fuori età! Ragefire era preferenziale, loro non avrebbero mai più avuto alcun pericolo di aggressione!» esclamò Grendel, balzando in piedi.
Raphael lo fissò e rispose, alzando il tono di voce: «Ma sta' zitto, Grendel! Forse non loro, ma altre ragazzine di otto anni sarebbero finite nelle sue grinfie, perché era ancora a piede libero!»
«Come tutta la gente di questo continente, se la tua bestia finisce in libertà!»
«E questo cosa c'entra?! Stiamo processando per l'omicidio di Ragefire, non per gli altri!»
Grendel stava perdendo il controllo. Il suo orgoglio aveva avuto la meglio sul buonsenso e ora stava contestando Raphael non tanto per il processo, ma solo perché era lui. Dopo un po' però, Vodel perse la pazienza. Le Corti stavano cominciando a scommettere sull'inizio della rissa, Athena si stava addormentando sul banco e Lance era piuttosto seccato. Battendo il martello esclamò: «Silenzio, avvocati! Il processo è chiuso. Condanno il Demone Rosso ad un altro ergastolo.»
Raphael e Grendel si fissarono. Erano entrambi in piedi, uno contro l'altro, pronti a urlarsi ancora contro. Lance si alzò, felice di poterlo fare, e slegò Athena per portarla in cella.
Uscendo lei mormorò: «Ma è normale?»
«Normalissimo.» rispose lui: «Anzi, si sono trattenuti oggi. Solitamente, presi bene, sono molto peggio.»
«Ah... non avevo mai visto Raphael così arrabbiato. Di solito sono io quella da calmare.»
Il Campione ridacchiò e parlottando lontani dal tribunale, andarono verso il carcere.
In aula invece, Vodel diede una bella strigliata agli avvocati, sotto gli occhi delle Corti che, divertiti, li deridevano: «Signori, mi avete stufato! Le vostre litigate da bambini dell'asilo le fate fuori dal tribunale, non a ogni processo in cui siete avversari!»
Sbattendo il portone, uscì, seguito dai Leader e gli Élite, che ridacchiando, commentarono il bisticcio dei due. Raphael si mise a mettere a posto le sue carte, seccato di aver fatto quella figuraccia davanti ad Athena, quando si avvicinò Grendel.
«Ehi, Grayhowl…» esordì, avvicinandosi al suo banco.
«Non finisce qui. Avrò la vittoria, costi quel che costi.» sbottò secco lui, scoccandogli una degna occhiataccia.
«Oggi sono stato gentile sai?» ribatté l’avversario, alzando il tono di voce: «Non volevo il banco questa volta. Ma alla prossima seduta, vediamo chi riderà.»
«Che tu voglia il banco o meno non m'importa. Io sono imbattibile!»
«Lo vedremo al prossimo processo, schiappa.»
I toni di voce arroganti e sarcastici erano volti a provocarsi l’un l’altro, e sottolineavano l’animo di sfida dei due avvocati. Con un ultimo sguardo, i due se ne andarono.
Athena venne invece riportata in cella. Sedette sul letto, sbadigliando, e fece per sdraiarsi quando…
«Prosciolta?» chiese una voce.
Lei la riconobbe subito, ma si fece perplessa e chiese: «Che ci fai qui?»
«Ho dato una lezioncina al mio ex compagno di cella.» rispose O’Bull, ghignando.
«Ma fare qualcosa per controllare l’ira no eh?»
«Perché dovrei? Ho ottenuto quello che volevo! Ho picchiato quasi a sangue quel cretino e insultato la guardia. Ed ecco la mia punizione!»
Lei ridacchiò, scuotendo la testa, e commentò: «Penso tu sia l’unica persona al mondo che fa una cosa del genere solo per essere nella stessa gabbia con il Demone Rosso.»
«Forse sono un po’ pazzo.» rise lui.
«In questo caso, siamo in due.» annuì lei.
Athena e O’Bull, si guardarono, sorrisero, presero la scacchiera, che era stata portata lì per richiesta dell’uomo, e cominciarono una partita. Erano velocissimi le prime mosse, poi si perdevano l’uno nella testa dell’altra, finché passavano minuti e minuti da una mossa all’altra.
«Sai che avevi ragione?» chiese l’uomo all'avversaria, d'un tratto, come folgorato da un pensiero.
«In merito a…?»
«A quando mi hai detto che potevo ancora avere qualche speranza con mia moglie… l’ho convinta a venire a trovarmi e… abbiamo parlato. È venuta altri giorni e mi ha spiegato che il ragazzetto era una specie di parente acquisito. Che idiota. Le ho chiesto scusa, sinceramente, e lei ha capito. Ha detto che mi aspetta fuori con impazienza.»
«Vedi? Bastava chiarirsi.» commentò Athena, sorridendo ma pensando al suo Raphael, che purtroppo non era così sicuro che avrebbe potuto rivedere.
O'Bull tolse gli occhi dalla scacchiera, la fissò sincero e mormorò: «Devo tutto a te, Demone Rosso.»
Lei gli scoccò un'occhiatina, sogghignò e disse, quasi con ironia: «Chissà se mi tolgono l’ergastolo per opera pia… ah già. Ne ho cinque quindi sarebbe inutile.»
«Cinque?!»
«E che pretendi?» chiese lei, quasi sconcertata dal suo stupore: «Hai davanti agli occhi la più sanguinaria bestia dell’ultimo secolo. Mi ritengo fortunata che posso ancora respirare.»
Lui la fissò, vedendo come lei non avesse problemi ad ammettere le proprie colpe, poi borbottò: «Posso chiederti una cosa?»
«L’hai già fatto!» ghignò la donna: «Comunque puoi chiederne un’altra.»
Lui respirò a fondo, non convinto di fare la scelta giusta, ma si fece coraggio e chiese: «Cosa ti è successo? Voglio dire… non si cambia così. È passato tanto tempo, ok, però è un cambiamento mostruoso.»
«Non sei l’unico che lo pensa. E uno dei pochi che crede che non stia facendo finta.» rispose lei con un’alzata di spalle, per tranquillizzarlo dato che aveva notato la sua paura.
«Non avrebbe senso.» commentò lui, sperando di non essere troppo invadente: «Se non sbaglio ti sei consegnata volontariamente.»
«Trapelano in fretta le notizie eh?»
«I secondini mormorano. Non mi hai ancora risposto…»
Athena alzò le spalle; si fidava di quell'uomo, una cosa strana per lei. Ma lui era riuscito ad ottenerla e questo voleva dire amicizia eterna. Così disse: «Visto che hai preso moglie… forse puoi capirmi. Un pazzo ragazzino è riuscito a farmi innamorare. Talmente tanto da farmi smettere di uccidere.»
«E lo ami ancora.»
Lei si limitò ad annuire e lui proseguì con le domande, notando quanto fosse ben disposta a rispondere e non sembrasse irritata: «E lui ha lasciato che ti consegnassi?»
Athena scosse la testa e gli raccontò brevemente cos’era successo quando erano stati costretti a separarsi per lunghi anni. Lui chiese scusa, poi borbottò: «Quindi non lo vedi da…»
«… stamattina.»
O’Bull la fissò perplesso e lei aggiunse, con un sorriso e una strizzatina d’occhio: «Non ti ho detto la parte migliore. Lance fu costretto a processarmi prima, e sai chi scelse come avvocato?»
«Non me lo dire.» borbottò lui, quasi sconvolto da quella sottospecie di assurda coincidenza.
Lei sorrise, notando la sua faccia, e rispose: «Esatto.»
Non voleva però dire della sua amicizia con il Campione; era troppo assurda perché potesse crederci. Lei per prima faticava a crederci, anche se era davvero così. Thomas scosse la testa, ridacchiando per l'assurdità del racconto, poi chiese: «Ti ha tolto lui dalle braccia della morte, vero?»
«Con un vero miracolo. Adesso si è messo in testa la condizionale. Non riesce ad accontentarsi… e forse ora ho capito perché.»
Alla sua faccia perplessa, Athena proseguì: «Prima di uccidermi… ero incinta e… mi portarono via il mio bambino. Io pensavo… fosse morto. E invece l’ha trovato… anzi… trovata lui. L’ha cresciuta da solo mentre io ero lontana… se l’avessi saputo forse.. mi sarei ripresa prima. Il pensiero che lei fosse morta mi tirava nel baratro. Se avessi saputo che era viva… sarei tornata prima. Molto prima.»
Lui annuì, comprendendo il suo dolore, e borbottò: «Deve essere stato un bel colpo.»
«È stato un colpo scoprire che Ragefire le aveva messo le mani addosso.» ribatté lei.
L’uomo ridacchiò, e commentò: «Ora capisco l’evasione e tutto il resto. Una madre infuriata è terribile. Se poi questa madre è il Demone Rosso…»
Athena lo fissò negli occhi, in una muta preghiera, e mormorò: «Amico di scacchi, ti devo chiedere un favore… tieni tutto per te. Se qualcuno scopre tutto quello che ti ho detto… sono rovinati.»
Lui sorrise e rispose: «Saresti un’ottima madre.»
«Forse non lo saprò mai.» rispose lei, nascondendo volontariamente l'esistenza di Giovanni:  «Ora muovi. La scacchiera sta facendo le ragnatele.»
I due ripresero a giocare, mentre Lily li ascoltava in silenzio, nascosta nel suo antro. Era andata a trovare la madre per festeggiare con lei lo scampato pericolo, ma l'aveva sentita parlare con qualcuno. Così, impaurita, si era nascosta; voleva parlarle ma non sapeva come fare dato che c'era anche quell'altra persona. L'occasione buona arrivò quando quell'uomo uscì dalla cella per l'ora d'aria. Chiedendosi perché la madre non fosse andata con lui, la ragazzina si avvicinò alle sbarre e borbottò: «Ciao, mamma.»
«Lily!» esclamò lei, non aspettandosi ormai la sua visita: «Non ho sentito la porta… Da quanto sei qui?»
«Da un po’…» rispose lei: «Ma c'era quel tizio e non sapevo che fare... perché non sei andata con lui?»
«Mi hanno tolto l'ora d'aria.» commentò la donna, con un tono eloquente e seccato.
La figlia la fissò un momento, poi chiese: «Cos'hai combinato?»
«Niente!»
«Mamma!» la rimproverò Lily, con un tono quasi da mamma che riprende la figlia.
Athena ghignò soddisfatta e rispose: «Frustarmi va bene... infierire e deridere a parole no. E l'imbecille è andato a lamentarsi che gli ho spezzato un braccio. Questa è la punizione.»
La ragazzina sospirò e commentò: «Te l'avrà già detto cento volte papà, quindi non mi aggiungo alla lista, ma stai attenta ma'... ci mettono poco a peggiorarti la situazione.»
«Non ho di certo paura di loro.» commentò solo lei, salutandola mentre se ne andava.
A Hoenn, invece, Giovanni finalmente vide la fine del tunnel. Lui e Donkey si aprirono in un sorriso, vedendo finalmente la fine della via Vittoria. Dopo settimane persi in quella grotta, tra fatiche e lo sconforto, la tentazione di mollare e la successiva grinta, avevano trovato l'uscita. Corsero fuori, non riuscendo a capacitarsi di avercela fatta. E, di fronte a loro, si ergeva maestoso l'edificio in marmo della Lega Pokémon di Hoenn. Una costruzione alta, enorme; allenatori e Pokémon affollavano l'ingresso e il giardino esterno: si allenavano, parlavano, pensavano alle tattiche... tutti pronti per la sfida finale. Giovanni fece uscire tutti: Jukain jr, Wing, Magnezone, Aggron e Camerupt.
«Guardate, ragazzi. Questa è la nostra sfida finale.» disse, con emozione, con il cuore pieno di gioia.
*«Vinceremo.» * sorrise Jukain, stringendosi il foulard alla quale era cucita la Sceptilite.
Gli altri annuirono. E furono pronti.

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Capitolo 19
*** Capitolo XVIII ***


Il giudice allentò la cravatta. In quella stanza cominciava a fare caldo. Facendosi coraggio, borbottò, rivolgendosi a Lance: «Per questo processo segreto eravate d'accordo anche voi, onorevole Campione. Il mio intento era far sparire il Demone Rosso, in modo che nessuno sapesse niente. Risparmiare al Continente la paura che ora invade le strade.»
«Confesso, ero concorde.» rispose lui, annuendo: «Evitare l'attacco di panico era una buona idea.»
Le corti si fissarono, in quella riunione segreta per decidere il da farsi. Scoprire che il Demone Rosso era processata da così tanto tempo, senza Corti, era stato abbastanza scioccante. Karen respirò a fondo, ma Sandra intervenne al suo posto, anticipandola, e ringhiò: «Sei stato ingenuo, Lance. Ti consiglio di aumentare la sicurezza. È scappata e nemmeno te ne sei accorto.»
«L'ho fatto.» rispose lui, rivolgendo un mezzo sorriso colpevole alla cugina: «Ora è matematicamente impossibile che possa uscire. Ci vuole il riconoscimento della retina.»
«Se ti vedremo senza un occhio, sapremo chi è stato.» ridacchiò Karen, per allentare la tensione: «È inutile che stiamo qui a crocifiggere qualcuno. Ognuno ha agito come meglio credeva. Ora dobbiamo solo fare il nostro lavoro di giudizio rispettando la legge e andrà tutto bene. Senza fare favoritismi o il contrario. Gli avvocati esporranno come in tutti i processi. Dobbiamo trattarla come un imputato normale e non farci forviare dalla paura o da che altro.»
Gli altri annuirono ma la convinzione era poca. C'era anche chi, come Vodel, avrebbe preferito un processo diverso, senza difesa, sommario, per quella bestia. Ma non si poteva fare. Karen aveva ragione: la legge è uguale per tutti. Anche per lei. Surge si guardò intorno. Perché nessuno lo diceva? Si fece coraggio, nella speranza che nessuno capisse niente, e sbottò: «Allora smettetela con la tortura.»
Tutti lo guardarono e lui ringhiò: «Ho visto chiari segni di ferite sul corpo del Demone Rosso. So chi è, so cosa ha fatto ma la tortura è stata messa fuori legge se non sbaglio. L'avvocato Grayhowl potrebbe sfruttare la cosa.»
«Lei è un militare, generale.» rispose il giudice, estraendo un foglio e dandolo a Lance: «Non si immischi in cose che non conosce.»
Lance lesse il foglio; il segugio del giudice era dannatamente bravo nel suo lavoro. Aveva fotocopiato il codice penale del Continente e tutti i comma che giustificavano la tortura sulla donna, probabilmente fatti ad hoc per lei, poiché riportavano i crimini e i reati simultanei dei quali si doveva macchiare chi cadeva nell'eccezione. Ed erano tutti quelli sulla fedina penale del Demone. Erano tutti secondo disposizioni datate al decimo anno di titolo dell'Imbattuto. Seccato, Lance fece girare il foglio per tutte e due le Corti e sbottò: «L'Imbattuto sapeva fare il suo lavoro.»
«Un indubbio, ottimo giurista.» sorrise Vodel, riprendendosi la sua fotocopia del codice penale con un ghigno sornione: «Grayhowl non è un allocco, Lance. Se non obbietta, vuol dire che sa di non poter obbiettare. Non lo prenda sotto gamba, è un avversario di tutto rispetto.»
«Ancora mi chiedo cosa l'abbia spinta ad accettarlo, giudice.» rispose il Campione, irritato da quella situazione a svantaggio della sua amica, guardando il suo interlocutore di traverso.
Lui sbuffò, ancora pentito del suo gesto, e rispose: «La rabbia del momento mi ha portato a non ragionare su chi avevo davanti. Un errore di valutazione che allunga solo i tempi ma non fermerà il giusto corso della legge.»
«Vedremo. La riunione è finita, gente. Buonanotte.» chiuse lì la questione il Campione, prendendo la porta e andandosene.
Arrivato alla Lega, si chiuse in casa. Sbuffò. Lui non aveva il potere dell'Imbattuto. Non poteva permettersi di sfidare il Continente cambiando la legge a suo piacimento. L'Imbattuto lo aveva potuto fare con la scusa di proteggere tutti dalla minaccia di Giovanni e della sua piccola belva. Lui non poteva permettersi di difenderla pubblicamente. Rischiava la sommossa.
«Fa del tuo meglio, Raphael.» mormorò, dopo un ennesimo sospiro.
In quel momento, l'avvocato aveva ben altro a cui pensare. Furioso, attendeva che la porta si aprisse. E quando questo accadde, vide la figlia sbiancare e arretrare. Mai avrebbe pensato che sarebbe riuscita a cacciarsi in un guaio così grande.
Lily, appena uscita dal carcere, vide il padre e sbiancò di botto. Deglutendo e arretrando, mormorò:«Oh, no… papà…»
Lui rimase in silenzio, fissandola con lo sguardo di uno veramente arrabbiato.
«Papà, io…» cominciò a dire lei, per cercare di giustificarsi, ma lui la interruppe: «Sta’ zitta. Parliamo a casa. Muoviti, vieni con me.»
Il padre la prese per un braccio, furibondo, e la trascinò quasi di peso a casa. Lily sapeva che era in arrivo la tempesta ma non aveva il coraggio di opporsi. Suo padre era quasi sempre calmo e paziente, ma arrabbiato era veramente una bestia. E probabilmente ora era davvero furioso.
«Maledizione, Lily, ma che ti è saltato in testa!?» esclamò, arrivati dietro casa, faccia a faccia.
Lei abbassò un momento lo sguardo, chiudendo gli occhi, incassando il rimprovero; ma poi li riaprì, fissò il padre con altrettanta decisione e ribatté: «Io volevo solo… io volevo conoscerla! Tu non mi dici mai niente di lei, io volevo sapere! Vederla in faccia, parlarle!»
Un po’ seccato dalla reazione quasi istantanea, lui quasi gridò: «E allora hai pensato bene di andare di nascosto dentro il carcere?! Ma sei diventata matta?! Sai cosa ti sarebbe successo se ti avessero beccata?!»
«Non ci sono mai riusciti! E vado lì da mesi!»
Esterrefatto, lui ripeté: «Che cosa?! Mesi?!»
«Sì! Da quando ho conosciuto Archer! E lei è stata tanto gentile con me, anche se non sapeva che sono sua figlia!»
«Tu là dentro non ci vai più.» dichiarò l’uomo, chiudendo lì il discorso, furioso e preoccupato insieme.
Lily lo guardò interdetta, ma scattò, convinta di aver capito male: «Cosa?!»
«Hai capito bene, signorina. Tu non ti devi avvicinare a quel luogo!»
«Ma papà…» protestò lei: «Non mi è mai successo niente!»
«Non mi interessa. Ubbidisci.» chiuse secco lì la discussione lui.
Lily lo guardò con le lacrime agli occhi, di tristezza perché non avrebbe più potuto vedere la sua mamma, ma anche di rabbia, perché come sempre il padre imponeva il suo volere su di lei senza lasciarle scampo; disperata, corse via. Piangendo, andò a sbattere contro qualcuno, ruzzolando in terra. Alzò la testa e vide N, che, preoccupato, la fissava e le tendeva la mano per aiutarla a rialzarsi.
«Lilith… che cosa ti accade?» domandò, notando le lacrime e sentendo stringersi il cuore.
«N…» mormorò lei, guardando in terra, imbarazzata nel farsi vedere piangere; lasciandosi andare alle lacrime, esclamò: «Papà è cattivo!»
«Non dire così.» sussurrò lui dolcemente, chinandosi accanto a lei e prendendole una mano: «Avanti, dimmi cosa succede.»
«S-sono mesi che… vado di nascosto in prigione.» dichiarò lei, stringendo quella calda mano nella sua, cercando di trattenere il tremito della voce: «Volevo conoscere la mia mamma, parlarle un po’… ma papà mi ha scoperto e non vuole che io vada. Ma è bello! Lei è gentile con me, mi ascolta sempre e mi vuole bene! Non è giusto che non possa più vederla!»
N sospirò, comprendendo il suo stato d’animo, ma disse: «Cerca di capire la situazione. In quel luogo non ci sono solo i detenuti. I secondini sono violenti e rischi molto.»
«Pensi davvero che lei li lascerebbe fare?» chiese quasi sprezzante la ragazzina: «Li fa a pezzi se mi toccano.»
N non rispose, non avendo nulla in mano per contraddirla, ma capì che Lily aveva ben chiaro il carattere della madre. Limitandosi a tenerle la mano, pensò: “È molto furba. Lo sa che Athena è una garanzia per la sua incolumità. Furba, davvero…”
Lei sedette a terra, asciugandosi gli occhi. N era così diverso... anche lui pareva contrario che andasse nel carcere, ma invece che urlare, le parlava, senza il bisogno di alzare la voce. Perché anche Raphael non faceva lo stesso? Restò lì, seduta, cercando di calmarsi, sentendo la mano di lui accarezzare la sua. N, invece, si era perso a pensare, mentre in un movimento ritmico delle dita cercava di tranquillizzare la ragazzina. Ma era molto dubbioso. Come fare per risolvere quella situazione?
Nel frattempo Athena stava fantasticando, sdraiata sulla brandina nella sua cella in penombra, sola dato che O’Bull era fuori per l’ora d’aria. La sua bambina era fantastica: sveglia e furba come la sua mamma. Raphael aveva fatto un ottimo lavoro. Mandò a mente di ringraziarlo appena l’avesse visto, ma la porta esterna si aprì, portandola via dalle sue illusioni. Si alzò, per vedere cosa volesse il secondino, ma vide Lance che aprì la cella e la portò nella stanza degli interrogatori.
«C’è una persona che vuole vederti.» disse a mo’ di spiegazione.
Arrivati, la prima cosa che lei vide nella stanza fu il viso un po’ invecchiato, di quel biondo generale che vedeva come suo padre, e non poté fare a meno di piangere.
«Papà…» mormorò, con gli occhi lucidi.
«Athé… non è possibile…» borbottò lui, ancora sconvolto di vederla viva e posandosi al tavolo, stringendolo forte per essere sicuro di non stare sognando.
La donna lo raggiunse e posò le mani alle sue, per fargli scartare l’ipotesi fantasma, ma cercò di riprendersi, puntando sul suo solito sarcasmo: «Cosa avevo detto tempo fa? L’erba cattiva non muore mai.»
Dagli occhi del Generale cominciarono a uscire le lacrime. Ancora una volta la sua bambina era uscita dagli inferi, migliore di com’era stata. Si avvicinò a lei e la strinse, forte ma con dolcezza, scoppiando in lacrime senza ritegno. Le mani incatenate lo strinsero a loro volta, mentre anche lei piangeva, felice di rivedere l’uomo che le aveva salvato la vita.
«Quante volte lo farai ancora?!» borbottò, arrabbiato e felice insieme, il Generale: «Quante volte mi farai soffrire così, ancora?!»
«Spero mai più, papà… mai più.» mormorò lei, decisamente stufa di tutto quel vagare e con una voglia immensa di poter vivere tranquilla con la sua famiglia.
Surge la strinse ancora un attimo, poi si allontanò, ma le prese le mani, sorridendole. Sedettero vicini e lui disse, cercando di sembrare serio: «Ora raccontami tutto. E dammi il permesso di spaccare la faccia a quell’idiota di un marmocchio.»
Le si dipinse in volto quel ghigno divertito che gli piaceva e lei rispose: «Tanto per cambiare. E perché questa volta?»
«Perché non mi ha detto nulla!» esclamò lui, con una punta di ira nella voce: «Mesi di processi segreti e non ritiene opportuno dirmelo?!»
Lei lo guardò scioccata dal cambio di toni, ma ripensandoci, annuì: «Sì, concesso. Però sia… ehm, sii delicato. Un avvocato in prognosi riservata è completamente inutile.»
«Manina leggera. Promesso.» ghignò lui.
Athena ridacchiò sentendo il suo tono sul sadico; ma si decise a fargli una domanda che la tormentava da un pezzo. Non aveva voluto parlarne con Raphael, ma Surge era la persona ideale. Era stata con lui e quindi forse ne sapeva qualcosa. Così, borbottò: «Papà… Mia madre che fine ha fatto?»
«Non lo so.» rispose lui cupo, adombrando il sorriso: «Avrei voluto proteggere almeno lei, restarle vicino... ma quando te ne sei andata, poco dopo, è sparita con Zeus.»
Lei notò che era avvampato, e, ricordandosi che i due stavano insieme spesso e volentieri, chiese: «Dimmi la verità papà... ti piaceva?»
Lui arrossì vistosamente e rispose: «E mi piace ancora. Ma ormai... è andata via prima che potessi dirle qualcosa.»
«Papà... trovala.» disse decisa la donna: «Ha bisogno di qualcuno che le stia accanto. Almeno lei... non ha sofferto meno di me.»
«Non sai quanto mi rendono felice queste parole, Athé.» sorrise lui, ma poi ribatté, colto da un pensiero: «Ma anche tu, la mia bambina, hai bisogno dell’affetto che quel folle non ti ha mai dato. Non posso lasciarti sola.»
«Ma io non sono sola.» sorrise lei, serena nel cuore ormai da lungo tempo: «Sai, ho capito come si deve essere sentita la mia mamma quando ho perso, o meglio, credevo di aver perso Lily.»
«La tua bambina… Raphael ti ha detto tutto quindi.»
Lei sorrise e rispose: «Sì. Tu la conoscerai molto meglio di me immagino.»
«Eccome. È una peste tale quale a te. E adora il nonno!»
Athena ridacchiò, sentendo quanto fosse orgoglioso, ma poi aggiunse: «Quando ho perso lei, ho capito come doveva essersi sentita… e ho scoperto che un figlio non riceve solo amore, ma ne dà tanto a sua volta. Talmente tanto che il resto non conta.»
«Ma…» borbottò lui, non capendo cosa intendesse; era stata in prigione fino a quel momento, non aveva potuto conoscere Lily. Lei però intuì i suoi dubbi perché borbottò con un ghigno furbo: «Capirai quando conoscerai Giovanni.»
Lui la fissò, perplesso e un po' spaventato da quel nome, ma lei si affrettò a raccontare la sua storia.
«Un trovatello? Era proprio quello che ti ci voleva eh? Una peste da tenere a bada! E com'è?»
«Un po' lunatico, ma è più normale di me. Se ti prende in simpatia, è fatta.»
Surge le mise una mano sulla spalla, vedendo quanto lei si fosse legata al bambino, e mormorò: «Che direbbe conoscendo il nonno?»
Athena lo guardò e scrollò le spalle, rispondendo: «Non lo so. Vedi, reagisce in base a come si approccia chi gli parla. A parte con Raphael. Lì è odio puro...»
«Concordo con lui.»
Lei ridacchiò borbottando: «Un punto in più per andare d’accordo, direi. Ora però non lo troverai. È alla Lega Pokémon di Hoenn, a Iridopoli.»
«Caspita. È stato molto bravo!» esclamò l'uomo, colpito. Era un ottimo allenatore se era riuscito a prendere tutte le medaglie di Hoenn. Walter, collega Leader di tipo elettro e grande amico, era una spina nel fianco quando si impegnava.
«Già... sto aspettando notizie. Mi sarebbe piaciuto andare a vederlo...» commentò lei, un po' triste, non sapendo come fosse messo il figlio. Dall'espressione seria e ancora preoccupata dell'uomo però, capì che doveva spiegare meglio ciò che era successo. Doveva dargli qualche motivazione e ora finalmente, aveva anche tutti i tasselli al loro posto. Poteva narrare anche ciò che aveva sempre taciuto, sempre nascosto, perché faceva troppo male. Alla fine del racconto, Surge ringhiò: «Ora capisco meglio. Maledetto Giovanni. È riuscito a rovinarti una seconda volta.»
«Non può più farlo. A meno che non esca dalla mia testa. La psicosi c’è ancora, ma si scatena solo in isolamento totale. La galera non è di certo un problema. Anche perché adesso ho anche un compagno di cella. Penso sia impossibile perdere il lume.»
«Tu stai pure tranquilla di una cosa… se chiedono la pena di morte, ci vuole l’unanimità. E non ce l’avranno mai.» borbottò lui, serio. A costo di inimicarsi le Corti, non avrebbe mai dato il sì senza prove tangibili di colpevolezza oltre ogni minimo dubbio. Era folle ma la legge era chiara: il Demone può essere sottoposta alla pena di morte ma solo se tutti i membri della Corte più il Campione sono d'accordo.
«Anche solo per un voto?»
«Anche solo per un voto.»
Athena si posò alla sua spalla, chiudendo gli occhi e sentendo quel profumo che aveva imparato ad associare a una persona così importante come lui. Felice come una bambina, mormorò: «Ti voglio bene… papà.»
Surge l’abbracciò, posando la testa sulla sua, e rispose: «Anche io, piccola mia.»
Il Generale uscì dalla stanza, per tornare ad Aranciopoli, e non vide Raphael, che, dopo una scenata di ira a Lance per costringerlo a farlo passare, entrò subito dopo di lui. Athena lo vide irrompere con passo veloce, quasi di corsa, e decisamente poco amichevole.
«Raphael?» chiese, perplessa di vederlo lì: «Che ci fai qui?»
«Come hai potuto permettere che Lily entrasse di nascosto in questo posto, eh?!» esclamò lui, furibondo, sbattendo le mani sul tavolo, nero di rabbia.
«Ma non sapevo che fosse mia figlia…» replicò lei, non capendo come mai fosse così arrabbiato e allontanandosi da lui, per evitare scatti d’ira improvvisi vista la piega che stava prendendo la conversazione.
«Non me ne frega niente!» ribatté lui, alzando ancora il tono della voce: «Maledizione, sei un’irresponsabile! Dovevi mandarla via, non permetterle di entrare qui per mesi di nascosto! Lo sai meglio di me quello che fanno i secondini!»
«Se l’avessero solo sfiorata li avrei sistemati io!» rispose lei, con quasi arroganza, come se stesse dicendo la cosa più ovvia del mondo e cominciando a scaldarsi a sua volta.
«Non puoi pretendere di risolvere tutto con la violenza! C’è la legge apposta per evitare di farsi giustizia da soli!»
«Certo, la legge che tu stai manipolando per farmi uscire di qui! È debole la legge. Non serve a nulla!»
«E allora quale dovrebbe esserci? Quella del taglione?»
«No. Ha troppe regole. Vige la legge del più forte, come è in natura e come dovrebbe essere!»
I due discussero un po’, a toni alti, finché Raphael non se ne andò furioso. Lei lo fissò uscire, altrettanto di malumore. Nessuno dei due capiva ciò che l'altro voleva intendere.
Tornato a casa, Raphael litigò anche con Lily. La figlia sosteneva la stessa cosa della madre. Si urlarono contro per un bel pezzo ma non conclusero nulla se non il reciproco broncio.
«Ma perché non capiscono che con la violenza non si ottiene nulla…» mormorò l’uomo, posato al tavolo con la testa tra le mani, furioso e frustrato che non capissero quello che voleva dire. Lily era corsa in camera e ancora la sentiva brontolare.
N, dopo averci pensato su, si avvicinò lentamente a lui, prese la parola e disse: «Raphael, mi permetti di fare un commento?»
«Spara.» borbottò lui, abbastanza depresso.
L'amico sedette sulla sedia accanto a lui; fece un respiro, per schiarirsi le idee, poi disse: «Non convincerai mai Athena così su due piedi. Ma non perché lei non voglia capire, ma per via della sua educazione. Ricorda che l’ha allevata Giovanni. Fin da piccola le ha inculcato nella testa che solo chi ha il potere può prevalere sugli altri. Lei ha sempre vissuto con questa regola. E per tutta la vita, ogni volta che è stata contraddetta, è bastata una minaccia per farsi rispettare. Per lei è naturale come per te lo è rispettare l’ordinamento giuridico. Cerca di metterti nei suoi panni, non è facile. È come se tu dovessi accettare che lo stato approvi la legge del taglione come legge universale. Non credo che cederesti così facilmente, dico bene?»
«E allora che devo fare secondo te?»
«Lascia che si vedano.» rispose lui, con un sorriso, nel tentativo di convincerlo, anche se doveva ammettere di essere preoccupato a sua volta: «Lilith è stata brava per parecchio tempo. È giusto che si possano parlare un po’ non credi?»
«E se la dovessero scoprire?»
«Ci penserai a tempo debito.»
Raphael sospirò e borbottò: «Non lo so, N. Ho paura a farla andare da sola in un posto così. E se Athena combina qualcosa, peggiora solo la sua situazione.»
N lo fissò, comprendendo le sue ragioni, ma ribatté prontamente: «Hai mai pensato a quanto deve essere umiliante per lei subire così?»
L’amico ricambiò lo sguardo e chiese: «Che vuoi dire?»
«Prova a pensare.» spiegò l’altro, in un tentativo di farlo ragionare: «Ha passato tutta la vita a rispondere a ogni provocazione, a farsi rispettare con la violenza, a uccidere al minimo insulto. Pensa a quanto deve essere umiliante dover sottostare a quello che ordina un giudice, a farsi difendere da qualcuno che nemmeno è sicuro di salvarla. Se solo volesse, potrebbe fare a pezzi tutto il carcere e andarsene come nulla fosse, lo sai. Eppure, abbassa la testa, solo per te. Sei tu l’unica cosa che la tiene ancorata all’umano. Se non ci fossi tu, lei tornerebbe la bestia che è stata. Ricordalo sempre.»
«Ma non avevi detto che…» borbottò l’avvocato, ma N lo interruppe e proseguì: «Sì. So cosa vuoi dire. Ma la psicosi non è guarita. Non credo nemmeno che si possa senza gli psicofarmaci. C’è ancora, ma è come dire, addormentata, perché non ci sono le condizioni per far si che si scateni. La tua presenza però, aiuta molto.»
«Ma se litighiamo potrebbe…» protestò lui, ma N lo interruppe dicendo: «No. Ti ama troppo. Dovresti combinargliela molto grossa per farla schizzare. E fidati, ora che sa di Lily, sarà ancora più difficile. Se solo lo avesse saputo, forse sarebbe tornata prima. Giovanni ha fatto il miracolo, ma in fin dei conti è quasi un surrogato... la perdita di Lilith era la causa maggiore della sua depressione.»
«Sì, lo so... però...»
«Fidati di me. Ora è molto più difficile che perda la ragione.»
Un telefono squillò, rompendo il silenzio che si era andato a creare. N lo prese, sorrise e disse: «Giovanni mi aveva detto che si sarebbe allenato e mi avrebbe chiamato prima di entrare al primo scontro della Lega. Credo che sia giunto il momento.»
«Fagli gli auguri da parte di tutti.» sorrise l'avvocato, alzandosi per andare dalla sua ragazza e raccontarle del figlio, nonché per chiederle scusa di quello scatto non voluto.
Nel frattempo, anche Athena si stava sfogando con Thomas per la sfuriata di Raphael. Non capiva il motivo della sua rabbia, non capiva perché se la fosse presa così. Infondo che male c’era se poteva vedere la sua bambina? Se poteva qualche volta parlarle e farla sentire amata dalla sua vera mamma? L’avrebbe protetta da tutto e da tutti, Raphael doveva saperlo, eppure lui si ostinava a dire che quel posto era pericoloso e che Lily stessa era in pericolo con lei.
«Irresponsabile!» sbottò furibonda e un po’ offesa da quell’epiteto: «Mi ha dato dell’irresponsabile! Cosa crede, che permetterei a qualcuno di farle del male? Ovviamente no! E se pensa che sarei così stupida da farmi beccare, allora non mi conosce! Maledizione, avrò il diritto di parlare con mia figlia! E lei ha il diritto di avere una madre che non sia quella strega di Daisy!»
O’Bull stava ascoltando da una buona oretta le sue maledizioni contro il suo stesso fidanzato. Era sdraiato di schiena sulla branda in basso, quella che gli era toccata per aver perso a scacchi, con le mani dietro la testa e fissava la compagna di cella camminare avanti e indietro nello stretto corridoio tra la branda e il muro, inveendo contro Raphael ai quattro venti.
«Athena, calmati.» borbottò lui in un momento di pausa tra una maledizione e l’altra: «È ovvio che tu sia furiosa, ma cerca di capirlo. È solo preoccupato per sua figlia.»
Lei arrestò i passi, fissandolo con un’occhiataccia e ribatté: «Non è sua. È nostra! E io posso proteggerla da chiunque!»
«Hai ragione, ma rischi la tua posizione a esporti troppo.» disse l’amico implorante: «Il tuo ragazzo sta facendo i salti mortali per salvarti. Non aiuti a scannare gente a caso.»
«Me ne infischio della mia posizione. La mia bambina è più importante.»
Thomas non rispose oltre, arreso da quanto avesse la testa dura. Arrivò però un secondino che, pigolando scuse e riverenze, disse di doverla portare nella stanza degli interrogatori. Lei, già parecchio seccata per la discussione con Raphael avvenuta alcune ore prima, fu tentata di far andare via quel pinguino da strapazzo con qualche minaccia, ma si rese conto di una cosa: pur nella sua cocciutaggine, l’avvocato stava tentando un vero miracolo ed era meglio non fare troppi casini. Così, quando arrivò e vide che era proprio il fidanzato quello che la stava aspettando, tenne comunque un cipiglio furioso, giusto per fargli capire quanto fosse offesa. Lui sorrise a mo' di scusa e mormorò: «Scusami. Sono stato uno stupido, mi sono lasciato prendere dalla paura. Non volevo insinuare che tu non potresti prenderti cura di lei. Perdonami.»
Lei non rispose, fissandolo ancora seccata da quell'eccessiva mancanza di fiducia. Lui cercò di sorridere e, anche forse per cambiare discorso e sperare che si calmasse, mormorò: «Giovanni ha cominciato.»
Athena lo fissò, lasciando che un sorriso le aprisse il broncio, e chiese: «Ha chiamato?»
Lui annuì e lei sedette. Voleva essere lì, a fare il tifo per lui. Ma purtroppo, non era possibile. In quel momento, Giovanni stava lottando contro Fosco. Donkey era preso in un violento corpo a corpo contro il Mightyena avversario. Nonostante il vantaggio di tipo, il Pokémon Suinpanzé non riusciva a mettere la parola fine sul duello. Cercava di colpirlo con il suo Colpo Karate ma il lupo era troppo rapido e riusciva a schivare ogni colpo, infierendo con violenti morsi appena ne aveva l'occasione. Il Primeape ebbe un'illuminazione; memore dei frequenti scontri con Wolf, seppe cosa fare per passare in vantaggio. Appena ne ebbe l'occasione, pestò la coda dell'avversario che, uggiolando, si rannicchiò su se stesso. Cogliendo l'attimo, Giovanni urlò: «Donkey! Dinamipugno!»
Il Pokémon caricò indietro il pugno, con tutta la forza che aveva e si scagliò come una furia verso il lupo, scaricando tutta la sua potenza in quel pugno. Il Mightyena, colto alla sprovvista, venne colpito in pieno, volò contro il muro e andò KO. Donkey, ansimante, alzò i pugni al cielo, in segno di vittoria.
«Molto bene. Mi piace come combatti. Vai Cacturne!» esclamò l'Élite, soddisfatto, mandando in campo lo spaventapasseri.
«Donkey, vuoi continuare?»
Saltando da un piede all'altro per tenersi caldo, il Primeape rispose: *«Dovranno abbattermi per farmi smettere di lottare!» *
«Molto bene, allora! Vai con Colpo Karate!»
«Cacturne, schivalo!» rispose l'avversario. Il Pokémon eseguì, stupendo tutti con la sua rapidità: «Parassiseme!»
Donkey fece del suo meglio per schivare ma un seme gli cadde sul guantone e germogliò in un enorme rovo che lo strinse, togliendogli le energie.
«Donkey!»
*«Perirò ma tu verrai con me!» * urlò infuriato il Primeape, cominciando a correre con il Dinamipugno attivo. Cacturne si scostò ma Giovanni gridò: «Destra!»
E destra fu. Donkey eseguì, anticipò lo spostamento di Cacturne e gli mollò un secco pugno, che venne contrastato dal Pugnospine, ma senza troppi risultati. Dopo uno schianto fragoroso, i due Pokémon si rivelarono entrambi KO.
«Donkey ritorna.» sbottò Giovanni, contento del risultato ma in dubbio su chi mandare in campo: «Al diavolo. Vai Jukain!»
Lo Sceptile entrò in campo con un ruggito. Fosco fece uscire il suo Absol. Era un Pokémon potente, che riuscì a tenere occupato Jukain. Ma lo Sceptile, determinato come mai, gli impedì ogni resistenza e vinse. Fosco mandò, quindi, il suo Sharpedo. Velocissimi, i due Pokémon cominciarono un corpo a corpo, Nottesferza contro Fendifoglia. Jukain era determinato a tutto, doveva sconfiggere quel pesce. Amplificò la velocità, nel tentativo di battere l'avversario sul tempo. Ma Sharpedo sapeva come tenergli testa. Dopo un colpo dritto nel muso del suo Pokémon, Fosco sorrise e disse: «Mi piaci, ragazzino. Sei in gamba. Vediamo come te la cavi così.»
Fosco lanciò una pietra al suo Pokémon che la prese in bocca. Estrasse una pietrachiave ed esclamò: «Megaevolvi Sharpedo!»
Il Pokémon brillò di una luce che si scontrò contro quella emanata dalla pietrachiave. Divenne più grosso, il muso si allungò, si munì di spuntoni, e con un ruggito, MegaSharpedo fu pronto alla lotta. Giovanni sorrise, insieme a Jukain, mostrò la sua pietrachiave e rispose: «Siamo in due.»
MegaJukain e MegaSharpedo cominciarono il corpo a corpo ma per lo Sceptile cominciò a essere dura. La nuova abilità dell'avversario rendeva i morsi più potenti; essendo anche a metà di tipo Drago, il Gelodenti avversario era di una potenza tremenda. Jukain non si arrese. Non era arrivato fin lì per perdere. Furioso, bloccò il Gelodenti con la lama del Fendifoglia e con l'altra lo colpì ripetutamente. Il braccio gli faceva male ma non avrebbe mollato. Mai. Con un ultimo colpo, unito ad un urlo di rabbia, stroncò ogni resistenza avversaria. Sharpedo cadde a terra, tornando normale, e Jukain esultò. Fuori uno.
Fosco sorrise, facendo rientrare lo squalo e disse: «Molto bene, giovanotto. La porta dietro di me conduce al tuo prossimo avversario. Se hai medicine da dare ai tuoi Pokémon, potrai farlo qui. In bocca all'Absol.»
«Ti ringrazio, Fosco.» sorrise lui, aprendo lo zaino: «Farò del mio meglio!»
Mandò un messaggio a Raphael e N, e poi cominciò le cure. L'avvocato era ancora dalla sua cliente quando gli arrivò la notizia. Lesse il messaggio ed esclamò: «Ottime notizie. Giovanni ha sconfitto il primo degli Élite. È stato molto bravo!»
Athena sorrise. Sì, davvero molto bravo. Tornò però a squadrare il fidanzato e sbottò: «Comunque non te la perdono.»
«Dai Athena, ti ho chiesto scusa, mi sono lasciato trascinare dalla rabbia... non essere offesa.»
Lei gli scoccò un'occhiataccia, poi sorrise quasi malvagia e disse: «Ah, a proposito. L’altro giorno è passato il generale e ha detto che, come nonno, vorrebbe conoscere il nipote pestifero. Quindi per piacere, evita di farti pestare davanti a lui. Credo verrà a cercarti prima che lui torni ma non si sa mai...»
L’uomo arretrò, fissandola perplesso, convinto di aver capito male, e chiese: «No, aspetta. Pestare?»
«Papà vuole la tua testa, ma l’ho convinto a limitarsi.»
«Dovevi convincerlo a evitare proprio!»
«Insomma, me la sono presa anche io che non me l’hai fatto rivedere dopo così tanto tempo, sai?»
Lui la fissò un secondo sgomento, poi se ne andò, rifiutandosi di darle il bacio di saluto, mentre lei lo salutava con la mano e un ghigno di velata vendetta. Naturalmente, Surge arrivò ben presto a trovarlo in ufficio. Lo aspettò fuori, verso sera, e lo salutò con un pugno nei denti. Raphael cercò di difendersi a parole, blaterando che le persone civili non fanno così, ma l’uomo era irremovibile. Furioso per aver avuto la sua bambina a così poca distanza e non saperlo, lo riempì di legnate.
«Piuttosto marmocchio.» disse alla fine l’ex soldato, dopo che ebbe sfogato per bene il suo rancore regalandogli come souvenir un occhio nero e contusioni varie: «Athena mi ha detto che avrei un altro nipote.»
Raphael annuì, muovendo la mandibola per sentire se tutti i denti erano al loro posto e, annuendo, borbottò: «Già. Ma ora è alla Lega di Hoenn, non so se glielo ha detto Athena. Quindi non potrà ancora vederlo.»
«Lo so, lo so. Ci vediamo, marmocchio. E fai bene il tuo lavoro.» sbottò, voltandosi e andandosene. Raphael gli fece un cenno e rispose: «Anche lei il suo di giurista.»
Prima di andare in ufficio, fece un salto in ospedale, per evitare complicazioni dovute alla trascuratezza delle ferite. Ora che aveva sistemato i conti con il generale, forse, si poteva essere amici. Finiti i controlli, saputo di non avere niente di grave e irreversibile, Raphael andò a lavorare.
«Grayhowl!» tuonò il procuratore generale, piombandogli in ufficio, facendo sbattere la porta contro il muro e venire giù l’intonaco sotto al segno della maniglia: «Lei è malato! Quando la paga quella bestia, per difenderla?! È diventato pazzo tutto d’un tratto?!»
La donna era appena tornata dalle vacanze a Sinnoh e le prime cose che aveva sentito al ritorno erano che il Demone Rosso era vivo e che l’onesto avvocato Grayhowl la stava difendendo. Quello era il misterioso processo del quale né lui, né Grendel, l’accusa, avevano voluto fare parola; l’essere stata esclusa da quella macchinazione l’aveva resa furibonda non poco.
«Procuratore, mi hanno affidato la difesa e io difendo.» rispose lui pacato, alzandosi e chiudendo la porta senza agitarsi: «Vuole accomodarsi?»
Lei gli scoccò un’occhiata velenosa e ribatté: «Non mi prenda in giro, avvocato, non sono nata ieri. Ogni uomo è guidato dai soldi e dal profitto. E sicuramente, ora lei sta andando contro i saldi principi che predicava tempo fa! Una bestia della risma del Demone Rosso non è retta e men che meno onesta!»
«Che cosa sta insinuando?» chiese lui, accigliato, seccato dal fatto che quella sputasse sentenze così, senza nemmeno conoscere i dettagli di nulla.
Lei rispose alla sua occhiata con uno sguardo del tutto inviperito e ringhiò: «Non mi dica che non ha mai mentito per difendere quella bestia, perché non le credo. Ora… il caso che le propongo io, e che non sono ancora riuscita a mettere a posto perché lei e Grendel siete i migliori e gli unici che riuscirebbero a vincere, le frutterebbe milioni e milioni come se fossero noccioline. Una bestia in catene dubito che le dia di più come parcella. O sbaglio?»
Lui si trattenne dal sogghignare, pensando: “La suddetta -bestia in catene- mi darà una parcella che è molto diversa e di certo più gratificante dei soldi” ma poi, imponendosi di restare serio e togliendosi dalla testa pensieri che era meglio non avere per restare concentrato, rispose pacatamente: «Vorrei concludere questo processo prima.»
«Non può rifiutare! Sa quanti soldi sono?!» esclamò la donna sull’orlo di una crisi isterica.
«Sì, ma non mi interessa. Chieda a qualcun altro.» tentò di chiudere lì il discorso lui, categorico.
Non poteva avere distrazioni con Athena a rischio della pena di morte. Doveva essere concentrato per salvarla e di certo, in quel momento, non aveva bisogno di soldi. Aveva avuto un bel periodo appena prima di ritrovare il suo amore perduto e aveva fatto parecchi quattrini.
Il procuratore tentò di convincerlo in tutti i modi ma non servì a nulla. Uscita dalla stanza, mormorava, camminando: «Ma com’è possibile? Sapevo che Grayhowl è un raro avvocato onesto… ma non ha senso che difenda una belva come il Demone Rosso così ingenuamente. Deve esserci sotto qualcosa. Senza alcuna ombra di dubbio. E forse so come scoprire tutto.»

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Capitolo 20
*** Capitolo XIX ***


Giovanni entrò nel cimitero infestato di Ester, la seconda Élite. Aveva battuto Fosco, poteva andare avanti. Quel posto spettrale gli mise i brividi. Immaginò il tipo principale della donna... spettri. Ester emerse dalla nebbia: era una bella ragazza, mora, decisa. Giovanni strinse la Pokéball di Donkey e mormorò: «Sono qui per sfidarti.»
«E sia. Io sono Ester, il tuo secondo scoglio. Mostrami ciò che sai fare! Vai Dusknoir!»
«Esci Donkey! Usa Nottesferza!»
Ester sorrise. Donkey si lanciò come una furia contro l'avversario, menando pugni potenti, volendo finirla il prima possibile. Ma si rese presto conto che l'avversario non pareva risentirne troppo. Sembrava che i colpi non gli facessero nemmeno il solletico. Il Primeape arretrò, perplesso, respirando affaticato.
«Dusknoir, Fuocofatuo.»
Donkey cercò di schivare ma i piccoli fuochi blu partiti dalle mani dello spettro lo seguirono, riuscendo a scottarlo. Il Primeape cadde su un ginocchio, sentendosi un braccio andare in fiamme.
«Dannazione! Dai Donkey, cerca di abbatterlo!»
*«E andiamo!» * rispose lui, ricominciando a colpire l'avversario con Nottesferza.
«Dusknoir, Sciagura!»
Piccoli fuochi blu comparvero intorno al Primeape e si schiantarono contro di lui, causandogli maggior dolore per via della scottatura. Donkey si allontanò dall'avversario, ferito e affaticato. Come poteva sconfiggerlo? Pareva non sentisse nemmeno i suoi colpi. Giovanni rifletté e gli vennero in mente alcune parole della sua mamma. Athena spesso gli aveva detto che qualunque Pokémon, anche il più forte, ha un punto debole. E i danni, per quanto pochi siano, servono.
«Donkey, ritorna. Vai Magma!»
La Camerupt uscì dalla sfera con un ruggito. Ester sorrise nel vedere che, in quel modo, la sua strategia era bloccata.
«Dusknoir, usa Malediz...» cominciò a dire, ma non riuscì a terminare la frase perché Giovanni gridò: «Erutta, Magma!»
Dal vulcano sulla schiena del Pokémon scoppiò una bomba di lava che colpì in pieno l'avversario, non pronto a ricevere un colpo di quella potenza. Avendo aperto la bocca sulla pancia per usare la sua mossa, Dusknoir non riuscì a mettersi sulla difensiva e la vampa di fuoco lo colpì lì, proprio nel suo punto più debole. Diradata la polvere, Dusknoir era KO.
«Ottima mossa.» sorrise l'Élite, facendo rientrare il suo Pokémon: «Ma non basterà. Vai Sableye!»
Il nero Pokémon cercatore di gemme apparve sul campo. Gli occhi brillavano e il ghigno malvagio fece rabbrividire i due avversari.
«Vai, di nuovo, Eruzione!» esclamò Giovanni, cercando di batterla sul tempo. Lei sorrise e disse: «Sbigoattacco, segui con Ombrartigli.»
Il ragazzino sbarrò gli occhi quando l'avversario, velocissimo, colpì per primo e le impedì di usare la sua potentissima mossa. Con una sequenza rapida di colpi, la ferì gravemente con l'Ombrartigli sul muso. Ora Eruzione era preclusa. La potenza della mossa dipendeva dalla salute. Da così stanca non avrebbe fatto molto.
«Vai, usa Geoforza!»
Il terreno sotto i piedi di Sableye cominciò a ribollire e il Pokémon, dopo essere stato colpito da un geyser, rimase intrappolato in una spaccatura del terreno; con la vittoria nello sguardo, approfittando di quel colpo di fortuna, Giovanni esclamò: «Sì! Vai usa Lavasbuffo!»
«Sableye! Megaevolvi!» esclamò, sorridendo emozionata da quella lotta, l'Élite.
Giovanni non credette ai suoi occhi quando una luce avvolse l'avversario che riuscì a proteggersi da metà dell'attacco con il rubino che usava come scudo, ottenuto dalla megaevoluzione. La potenza della nuova forma lo rese in grado di uscire dalla sua trappola. Con due rubini negli occhi e uno gigante come scudo, MegaSableye sembrava un muro impenetrabile. Magma e Giovanni, colti alla sprovvista, non sapevano cosa fare. Così, Ester colse la palla al balzo ed esclamò: «Usa Gemmoforza!»
«Bloccalo con Lavasbuffo!»
Piccole pietre affilate apparvero intorno a MegaSableye e si scagliarono contro la Camerupt che rispose lanciando potenti lapilli di lava. I due Pokémon si concentrarono, persistendo nel loro attacco. Avrebbe perito il primo che avesse ceduto. MegaSableye però interruppe, mise il rubino davanti a sé e ci si nascose dietro. Magma esaurì tutta l'energia in quell'attacco e affaticata, guardò il nemico, che la spiò da dietro il suo scudo, sogghignando. Giovanni si bloccò un attimo, poi sorrise. In un sussurro, mormorò: «Magma, ti fidi di me?»
*«Al cento per cento.» * rispose lei, pronta ad attaccare di nuovo.
«Allora mira la parte alta dello scudo e continua con il Pirolancio. Vai avanti più che puoi.»
Lei annuì ed eseguì; MegaSableye si nascose dietro al suo scudo e, insieme alla sua allenatrice, attese che l'avversario si stancasse per contrattaccare. Ma non poté prevedere quello che successe. Il Pirolancio ripetuto allargò una crepa ggià presente che, arrivata al punto di rottura, spezzò lo scudo. MegaSableye inorridì, senza più la sua difesa, e la sequenza di colpi infuocati lo centrò in pieno, mandandolo KO. Ester lo fece rientrare, stupita. Senza parole, mandò in campo Banette, ma era davvero colpita da quel ragazzino. Sconfiggere così il suo campione non era da tutti. Contento di quel due a zero, Giovanni fece rientrare Magma e mandò Jukain. Quel Banette sembrava molto forte e, forse un po' per vendicarsi, fu il suo turno di megaevolvere. Con un paio di Dragartigli ben piazzati, Jukain mise la parola fine a quello scontro, permettendo al suo amico umano di proseguire.
Al carcere di Zafferanopoli, invece, madre e figlia si stavano sfogando, entrambe ancora furiose con un certo avvocato. Pur avendo passato i trent'anni, Athena era infondo ancora una bambina capricciosa e ancora adesso non tollerava che le facessero torti.
«Glielo tiro in testa il pericolo.» sbottò, ancora irritata da quel fastidioso epiteto che le era stato attribuito: «Non sono un'irresponsabile, accidenti a lui.»
Lily, però, un po' si sentiva in colpa. Superato il momento di rabbia, riusciva a capire perché il padre si fosse agitato tanto. Così, mormorò: «Di certo non voleva offenderti. Però, forse, un po' di ragione ce l'ha.»
«Che vuoi dire?»
Sentendo il tono seccato, lei evitò di essere troppo polemica, ma mormorò: «Intendo... metti che mi dovessero beccare...»
«Io...» cominciò a dire la donna, ma la figlia la bloccò e disse: «Appunto. Aggredisci due secondini e poi? Allunghiamo la lista? Da quel punto di vista non posso dargli torto... però se stiamo attente, non vedo dove sia il problema!»
Athena annuì, convinta, e rispose: «Esatto, basta fare più attenzione.»
Non si era nemmeno resa conto che la figlia le aveva fatto ammettere di essere almeno a metà in torto, ma che comunque Raphael aveva ragione, semplicemente girandole la frase. Anzi, più tranquilla, dopo una pausa, cambiò discorso e chiese: «N come sta? Ti sta simpatico?»
Lily avvampò di colpo; sperando che non si fosse notato, deglutì e rispose: «Perché?»
«Deve esserci un motivo? È mio amico e non lo vedo da un sacco di tempo...» commentò lei, notando come la figlia si fosse fatta nervosa: «E poi, insomma... un estraneo, così. Magari non ti piaceva.»
«Oh... chiaro... beh, sta... bene. Sì. Bene.» balbettò lei, cercando di essere normale ma senza successo: «È, sì. Simpatico, sì.»
Athena la squadrò per un momento, poi cambiò discorso, senza però capire il motivo di tutta quell'ansia; prese dalla tasca una lettera, scritta su un tovagliolo della mensa, e sbottò: «Fammi un piacere. Porta questa a Pidg e digli di darla ad Aurea.»
Lily annuì, prendendo il pacchettino di tovaglioli quasi sigillato, e si alzò. Le sorrise e mormorò: «Ci vediamo domani.»
«Buonanotte, piccola mia.»
Athena la guardò uscire con un sorriso. Quanto avrebbe voluto andare con lei, abbracciarla, darle il bacio della buonanotte... forse non avrebbe mai potuto. Arrivata a casa, invece, Lily individuò Pidg che in quel momento era preso in un allenamento con Wargle e Archeops. I due Pokémon più giovani passavano spesso i pomeriggi in lotte due contro uno per riuscire a sconfiggere l'anziano rivale. Ma il Pidgeot, allenato in anni e anni di lotte con il Demone Rosso, costretto a vincere in ogni situazione perché nessuno potesse catturare la sua amata sorellina, riusciva a metterli in difficoltà entrambi. Lily sedette, ammirando lo zio e la sua abilità nel volo. Sembrava fosse un tutt'uno con il vento. Se a terra su muoveva a fatica, sofferente, zoppicante, in cielo era un re. Wargle attaccò dall'alto con il Baldeali. Pidg schivò più e più colpi, abbassandosi di quota. Archeops ne approfittò e usò Pietrataglio, facendo apparire dal terreno degli spuntoni di roccia. Pidg caricò l'Alacciaio e si fece strada tra le rocce, spezzandole tutte e limitando i danni. Sbuffando, Wargle fece salire Archeops sulla schiena per permettergli di riposare mentre pensavano a qualcosa. Pidg sorrise, vedendoli in difficoltà, e gridò: *«Arrendetevi, ragazzini!» *
*«Per questa volta...» * sbottò Archeops, convincendo Wargle a scendere: *«Siamo troppo stanchi. Lasciamo perdere.» *
Wargle si limitò ad annuire, ansimante, e atterrò. Pidg fece lo stesso ma si posò accanto alla nipote; ammiccò, salutandola, contento di vederla. Lei sorrise e commentò: «Non li lascerai mai vincere, vero zio?»
Lui ridacchiò e lei aggiunse: «Guarda come emerge il lato sadico di Deathly Eagle.»
Pidg guardò dall'altra, un po' offeso. Lei gli accarezzò le piume sotto il becco ed esclamò: «Dai, zio Pidg! Stavo scherzando!»
«Pigeo.» brontolò lui, chiudendo gli occhi alle coccole. Quei grattini erano il suo punto debole.
«Ah, a proposito! Mamma mi ha detto di darti questa per una tale Aurea. Conosci?» borbottò lei, prendendo la lettera dalla tasca e facendogliela vedere. Pidg annuì, la prese nel becco, ammiccò e decollò, alzando un polverone. Lasciandosi trasportare dai venti, fece rotta verso Isshu. N lo vide decollare; abbassò lo sguardo e vide Lily accarezzare Wargle. Perplesso, uscì e chiese: «Ciao, piccola. Dove sta andando Pidg?»
Lei si voltò, sorrise rossa in volto, e rispose: «Mamma aveva una lettera per una certa Aurea e mi ha chiesto di darla a Pidg perché gliela portasse. È partito subito.»
«Posta prioritaria.» sorrise lui, sedendosi accanto a lei: «Come stai?»
«Bene. Se non penso che ho una tonnellata di compiti e sono già a metà vacanze.»
N ridacchiò, sentendo il tono sconsolato, e lei aggiunse: «Mi toccherà mettermici dietro. È ora e tempo e papà potrebbe sfruttare la cosa per impedirmi di andare nel continente.»
«Sarebbe un'ottima scusa in effetti. Vuoi una mano?» chiese lui, con un sorriso.
Lei scosse la testa. Fare i compiti con N avrebbe voluto dire perdersi a fissarlo sognante e zero concentrazione. Era meglio evitare e fare la seria. Così declinò, sperando che non si offendesse. Sedette fuori casa, all'ombra del solitario grande albero. L'unica volta che N comparve, fu per portargli un po' di frutta, giustificando la visita dicendo: «Non studi da un bel po'. Non vorrei mai che mi svenissi qui per un calo di zuccheri!»
«Spiritoso!» ribatté lei, facendogli la linguaccia.
Lui ridacchiò e si allontanò, tornando in casa, ma si mise sul davanzale della finestra sul portico, a guardarla. Si sentiva un infame ma cercava di convincersi che, stando lì, solo a osservarla, non faceva niente di male... poi, però, si costrinse ad andarsene. Non poteva continuare così.
Lily, invece, andava avanti con gli studi; con N lontano era decisamente più concentrata. Qualche mese e avrebbe avuto gli esami di fine anno. Un incubo sempre più vicino. All'improvviso, sentì qualcosa di appuntito nella ciotola nella quale aveva infilato la mano per prendere da mangiare. Con un salto alto tre metri, lanciando quaderni, astuccio e penne, si allontanò di scatto, voltandosi poi per vedere cosa avesse toccato. Non vide nulla inizialmente, ma poi notò dell'arancione tra il verde dei cespugli. Perplessa, si avvicinò e il cespuglio arancione si mosse. Era stranissimo, con tre piccole foglie gialle. Lily deglutì: era terrorizzata ma voleva sapere. Si avvicinò al cespuglio e scostò le fronde con un gesto secco.
«Tor!» esclamò un piccolo pulcino arancione, sparando piccole braci dal becco e cominciando a correre. Lily si riparò con le braccia e si nascose.
«Cavoli!» esclamò: «Quello doveva essere un Pokémon selvatico. Che spavento...»
Fece per recuperare le sue cose e rimettersi a studiare in casa, quando sentì di nuovo il verso del Pokémon. Ma questa volta sembrava spaventato. Restò un momento immobile. Poi, istintivamente, cominciò a correre. Vide il piccolo Pokémon gemere e cadere a terra, colpito da un violento attacco di un rapace fatto di acciaio. Lily deglutì ma quando vide gli artigli del Pokémon avvicinarsi pericolosamente al pulcino, agì senza nemmeno pensare. Prese un sasso e colpì in testa il nemico. Skarmory si voltò, furioso. Gli artigli si illuminarono e l'attaccò, ma il Torchic si mise in mezzo e con le piccole braci lo tenne lontano. Lily corse in avanti, abbracciò il pulcino, e gridò: «Cobalion!»
Il Pokémon Metalcuore arrivò ruggendo furioso, avendo percepito il panico nella sua voce. Le corna si fecero luminose e con due colpi della sua Spadasolenne, scacciò il nemico. Lily respirò a fondo, stringendo la piccola palla di piume che in quel momento tremava. Cercando di non sembrare troppo spaventata, mormorò: «Tranquilla, piccolina. Non avere paura.»
Lei si nascose tra le sue braccia, cercando di calmarsi. Cobalion si avvicinò e mormorò: “Ora provo a vedere da dove arriva.”
Cobalion sedette accanto a loro e mormorò: *«Piccola Torchic, da dove vieni?» *
La Pokémon alzò lo sguardo e fissò l'interlocutore. Cobalion sorrise e borbottò: *«Non aver paura, non voglio farti del male. Voglio solo sapere come sei finita qui.» *
*«Il professore faceva ricerche con la nave.» * borbottò lei, accoccolata sul grembo di Lily: *«Non mi piace l'acqua, non volevo stare sulla barca. È attraccato e io sono scappata.» *
“A quanto pare è fuggita dal professore Pokémon della regione. Salta su che lo cerchiamo.” spiegò Cobalion alla ragazzina, alzandosi e indicandole con il muso il suo dorso.
Lily sospirò, essendosi già affezionata a quella calda creatura, ma annuì e mormorò: «Ti riporto a casa, va bene?»
Torchic la guardò negli occhi per un istante. Poi, forse un po' triste, annuì. Lily saltò sul dorso di Cobalion ma la ricerca fu breve. In mezzo al bosco videro un uomo vestito con un camice che gridava: «Torchic!»
La Pokémon abbassò lo sguardo mentre loro si avvicinavano. Lily sorrise e mormorò: «Professore, cercava lei?»
«Oh, sì! Ti ringrazio molto! È sparita dalla barca ed ero disperato!»
Lily sorrise e le tese la Pokémon; ma sembrava triste. Quando Birch le puntò la Pokéball per farla rientrare, lei saltò giù e schivò il raggio rosso. Lui ritentò varie volte ma lei scappò tutte le volte. Poi saltò in braccio a Lily, fissando intensamente il professore. Lui sorrise e mormorò: «Ho capito. Senti, piccola, Torchic vorrebbe restare con te. La terresti?»
«C-come?» chiese lei, stupita, non aspettandosi una richiesta del genere. Guardò la piccola Pokémon che ricambiò lo sguardo. E ammiccò, strusciando la testa contro la sua faccia. Lei sorrise e rispose: «Molto volentieri, professore!»
Birch sorrise, poi levò le ancore e ripartì con la sua barca. Lily fece saltare a terra Torchic e mormorò: «Non sono mai stata amica di un Pokémon. Io sono Lilith!»
«Tor!» ammiccò lei, saltando sulle piccole zampe e correndole intorno.
«Ehi, che energia!» esclamò lei, accogliendola tra le sue braccia: «Sei così carina... lo vuoi un nome? Ti renderebbe diversa!»
Torchic annuì così lei si perse a pensare, mentre camminava diretta alla casa con Cobalion al fianco. Sorridendo, avuta un'idea, Lily chiese: «Ti piace il nome Flamey?»
«Tor!» rispose lei, annuendo convinta. E così, tornarono a casa. Quando N le vide, esclamò: «Ehi! E lei dove l'hai trovata?»
«È scappata dal professore e ha passato un brutto momento contro uno Skarmory.» rispose Lily, accarezzandole la testa: «A quanto pare, le sto simpatica.»
*«Non è da tutti buttarsi sotto un Ferrartigli per proteggere un Pokémon che non conosci.» * borbottò Flamey, accoccolandosi più comoda tra le sue braccia.
N sbiancò e borbottò: «C-come?!»
La Torchic lo fissò, perplessa. Lily pure e chiese: «Che cosa ha detto?»
«Ti sei buttata davanti a uno Skarmory che stava usando Ferrartigli?!» esclamò lui, sconvolto e impaurito. Era pura follia un gesto del genere. Il solo pensiero di quello che le sarebbe potuto accadere lo aveva raggelato. Lei, imbarazzata, cercò di giustificarsi e mormorò: «Volevo aiutarla e ho agito d'istinto...»
N si calmò, pensando che comunque ora stava bene, e replicò: «Tale e quale a tua madre. E a me. Scusa lo scatto, capisco benissimo come ti sei potuta sentire.»
«È successo anche a te?» chiese lei, interessata nello scoprire qualcosa della vita dell'uomo: «Ti sei mai ferito per proteggere un Pokémon?»
«È capitato, sì. Ma io avevo la fortuna di avere con me Zorua.» sorrise lui, accarezzando il suo Zoroark, arrivato lì silenziosamente: «Zoroark è con me da quando siamo piccoli. Che risate che mi faceva fare quando era uno Zorua. Mio padre mi precludeva l'esterno, quindi ero sempre nella mia stanza... Zorua creava mille illusioni, le più assurde che gli venivano in mente, per distrarmi. E spesso di trasformava in me e si faceva rimproverare lui al mio posto... non so come avrei fatto senza di lui. E quando invece vedevo Pokémon soffrire o altri aggressivi, mi mettevo in mezzo ma lui interveniva. Creava le sue illusioni e gli avversari, non sapendo più cosa era vero, si calmavano o comunque non colpivano me.»
Zoroark ridacchiò, mettendosi il cappello da baseball dell'amico umano, e commentò: *«Per fortuna non sei più così folle, sire.» *
«Lo sarei se ce ne fosse il bisogno, mio caro.» rispose piccato N. Flamey intervenne e chiese: *«Perché lo chiami sire?» *
*«N è nato per essere un sovrano. Nessuno lo riconosce, ma è così. E nulla potrà mai impedirmi di riconoscerlo come tale.» * rispose il Pokémon, togliendosi il cappello con un breve inchino.
N sorrise, da un certo punto di vista onorato che almeno il suo Zoroark riconoscesse il suo titolo, ma replicò: «Non esageriamo.»
*«Non lo faccio. Dico solo come stanno le cose.» *
N non aggiunse altro, ma gli fece un cenno di noncuranza e rivolse la sua attenzione a Lily, dicendo: «Quindi ora lei è tua?»
«Papà mi ucciderà.» rispose lei, con un sospiro. N ridacchiò e replicò: «Non credo. Se non sbaglio, era la tua matrigna ad avere problemi con i Pokémon, non Raphael.»
Lily arrossì. Si guardò intorno, imbarazzata, poi mormorò: «Mi accompagneresti a dirglielo?»
«Certo.» sorrise lui, tendendole la mano.
La ragazzina sorrise di risposta. Mise in terra Flamey, facendole una carezza, e prese la mano di N; insieme, si avviarono verso la casa. Zoroark rise, così Flamey chiese: *«Perché ridi?» *
*«Capirai presto. Sono cotti.» * ridacchiò lui, avviandosi verso la casa a sua volta. La Torchic alzò le spalle e lo imitò. Quella sera, quando Raphael arrivò, si accorse subito della novità. Lily era sdraiata sul divano che spazzolava le piume di un piccolo Pokémon pulcino. Zoroark stava apparecchiando, N cucinava, come al solito, e tutti i Pokémon erano pronti per mangiare. Perplesso chiese: «Qualcuno deve dirmi qualcosa?»
«Posso tenerla, vero?» chiese subito Lily, mentre l'ansia cominciava a stringerle lo stomaco. Se avesse detto di no? Se avesse dovuto abbandonarla?
«Certo.» sorrise il padre, andando poi a cambiarsi.
Lei ci rimase di sasso. Aveva davvero detto di sì? Raphael ritornò poco dopo e, vedendo quello sguardo incredulo, esclamò: «Lily, ti faccio notare che in questa casa ci sono più Pokémon che persone. Che fastidio dovrebbe darmi un Pokémon in più?»
Lei non parlò ma lo abbracciò forte. Lui sorrise e chiese: «Me la presenti?»
E così, alla famiglia, si aggiunse un membro.

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Capitolo 21
*** Capitolo XX ***


Giovanni entrò nella ghiacciaia di Frida. La terza Élite aveva probabilmente Pokémon di tipo Ghiaccio. Poteva farcela. L'anziata donna lo accolse con un sorriso gelido. Giovanni deglutì vedendo in lei una determinazione quasi glaciale. Prese la sfera di Magneto ed esclamò: «Sono qui per sfidarti!»
«Sei stato molto bravo ad arrivare fin qui. Ma è finita. Vai Walrein!»
«Esci Magneto!»
Il Magnezone si preparò alla lotta, fronteggiando il tricheco avversario. Frida sorrise ed esclamò: «Walrein, Ventogelato!»
«Aspetta, Magneto.»
Il Magnezone incassò il colpo, stupendo sia Frida che Walrein, ma poi Giovanni esclamò: «Usa Raggioscossa»
Roteando le calamite sul suo corpo, Magneto scaricò una scossa elettrica contro l'avversario, di innata potenza. Frida non capì la strategia, ma non si pose troppe domande. Era lento? Peggio per lui.
«Walrein, rapido, usa Geloraggio e bloccalo!»
«Spostati, Magneto!»
Il Magnezone riuscì a schivare l'attacco, ma l'avversario, cominciando a pattinare sul ghiaccio, lo rincorse, aumentando la velocità e riuscì a colpirlo, congelandogli una calamita con il terreno. Giovanni, preoccupato, lo incitò perché si liberasse, ma sbiancò quando Frida ordinò: «Usa Purogelo.»
La temperatura scese di colpo. Magneto si bloccò, sbarrò i tre occhi e andò KO. Giovanni si strofinò le mani sulle braccia, infreddolito. Come poteva mandare in campo i suoi amici in quella ghiacciaia? Decise di sfruttare il più agile: «Vai Jukain! Pattina!» esclamò, lanciando la sfera. Lo Sceptile uscì con un ruggito, atterrò sulle zampe e cominciò a muoversi per tutto il campo lotta, pattinando velocissimo. Walrein cercò di seguirlo ma non ci riusciva nemmeno con lo sguardo, figurarsi con i movimenti. Giovanni sorrise, forse non sarebbe nemmeno servito megaevolvere: «Jukain, Fendifoglia!»
Lo Sceptile sfoderò le lame d'erba e continuò a pattinare. Frida cercò di mettere sulla difensiva il suo Pokémon ma fu tutto inutile. Sfruttando la velocità datagli dal ghiaccio, Jukain lo stese. La vittoria sembrava in tasca ma all'ultimo Pokémon, Frida megaevolse Glalie. Giovanni ormai se lo aspettava, ma non sapendo cosa potesse megaevolvere, ora era nei casini. Il vento gelido di MegaGlalie era tremendo. Jukain venne sconfitto dal Purogelo, insieme a tutti gli altri. L'ultima spiaggia era Magma. Era stanca, stravolta, ma la sua abilità Magmascudo riusciva a difenderla bene dal gelo estremo dell'avversario. Giovanni era in dubbio su cosa fare. Provare o non provare? Con Jukain era andata bene e Magma aveva un temperamento molto più pacifico. Decise di tentare il tutto per tutto quando MegaGlalie ferì profondamente la sua Camerupt. Prese dallo zaino una piccola pietra rossa e crema che gli aveva donato Maxi, il capo del team Magma, e gridò: «Magma! Prendi!»
La Cameruptite le cadde nel cratere che portava sulla schiena. Perplessa, lei si voltò; Giovanni prese la sua Pietrachiave, la strinse e la alzò, gridando: «Dammi la tua energia, Pietrachiave! Magma, megaevolvi!»
Dal cratere partì una luce: Magma brillò, divenne più grande con un unico grande cratere strabordante di lava liquida, il pelo più lungo e lo sguardo più deciso. Con un ruggito in eco, fu pronta al secondo round. La sua potenza di MegaCamerupt mise in seria difficoltà MegaGlalie che, già provato dalle precedenti lotte, non poté fare altro che andare KO. Giovanni esultò di gioia. Era riuscito a sconfiggere anche la terza Élite. Era sempre più vicino allo scontro finale contro il Campione. L'emozione era grande. Lo aveva già incontrato in  giro per la regione e non vedeva l'ora di sfidare lui e il suo portentoso MegaMetagross. Nel Continente, invece, Lily stava andando dalla madre. Flamey le saltellava accanto, agitata. Aveva conosciuto tutti della famiglia, tranne lei, la donna chiusa in cella. La piccola Torchic era molto nervosa. Tutti avevano cercato di tranquillizzarla, dicendole che era un'amante dei Pokémon, che non le avrebbe mai fatto del male e via dicendo. Ma la Torchic non riusciva a stare calma. Dal suo punto di vista, pure Lily era agitata. Non sapeva se la madre avrebbe approvato quel tipo di Pokémon... debole, dolce. Lei, che aveva avuto dei bestioni forti e possenti. Forse anche un po' violenti. Aveva sempre cercato di immaginarli come Pokémon buoni, soprattutto dopo aver conosciuto Pidg, ma dai video, dalle foto, sembravano... malvagi. Come lei, del resto. Arrivata al carcere, aprì la porta come faceva sempre ed entrò. Flamey si avvicinò alla sua gamba, guardandosi intorno impaurita. Lily sorrise e mormorò: «Non ti preoccupare. Non c'è niente di pericoloso qui.»
*«La cosa non mi consola.» * rispose lei, tremante. Non era molto convinta di essere lì, sembrava un posto tremendo. Sentiva urla, grida, colpi... Lily la prese in braccio e mormorò: «Non avere paura ti dico. È normale, siamo in un carcere.»
*«Ma queste urla...» * borbottò lei, non sapendo come porle la sua domanda, come fare a dirle che le sembravano rumori disumani.
«Risse.» rispose una voce dalla cella, con tono annoiato: «Risse di piantagrane che poi vengono conciati male da chi è più furbo e si lamentano.»
«Cosa blateri, ma'?» chiese Lily, avvicinandosi alla cella mentre Torchic fissava le sbarre con uno sguardo ambrato e curioso.
Athena alzò la testa dalla branda su cui era sdraiata e commentò: «Rispondevo alla sua domanda. Qua urlano più o meno tutti per fare scena. Non c'è né uno che sia serio.»
«A meno che non ti incontra quando hai la luna storta?» ridacchiò la figlia, con un sogghigno furbo.
Athena rispose con uno sguardo sul sadico e replicò: «Esatto.»
Alzandosi, andò verso le sbarre per salutare la figlia e aggiunse: «In quel caso però, non possono più nemmeno urlare. Ciao, Lily.» salutò poi, facendo un cenno annoiato. Rivolse poi la sua attenzione verso la piccola Pokémon e mormorò: «Ciao anche a te, nuova arrivata. Chi sei?»
*«Mi chiamo Flamey.» * rispose lei, con voce tremante. Lily le diede manforte e mormorò: «L'ho trovata nel bosco l'altro giorno. Era alle prese con uno Skarmory.»
«Caspita, avversario temibile. Quello stordito di un pennuto cosa stava facendo, invece di proteggerti?» sbottò lei, pronta a rimproverare Pidg per aver abbandonato la ragazzina.
Lily sorrise e rispose: «Faceva il lavoro di postino che gli hai affibbiato.»
«Giusto.» annuì lei, ricordandosi quello che le aveva dato tempo prima: «Per questa volta lo giustifico.»
La figlia ridacchiò e Flamey stessa si rilassò. Quella strana signora sembrava simpatica. E anche lei, come N, poteva capirla. Una cosa stranissima che non le era mai successa. Quando uscirono, Lily guardò la sua piccola Pokémon e chiese: «Allora? Pensi di poterci andare d'accordo?»
«Tor!» saltellò lei, correndo intorno, finalmente all'aria aperta e lontana da quelle urla. La ragazzina sorrise e aggiunse: «Vedrai. Mamma saprà darci consigli per diventare brave nella lotta!»
Flamey la fissò, perplessa. Perché? Lei non voleva lottare, preferiva correre, giocare... ma non si pose troppe domande. Ne avrebbe parlato con lei quando sarebbe stata ora. La piccola Torchic e Lily divennero sempre più amiche ma non mancarono i momenti di litigio. Soprattutto con gli esami in avvicinamento: la ragazzina, presa dall'ansia, era sempre più irritata e nervosa e la piccola Pokémon non riusciva a capire la serietà della cosa, cercando in tutti i modi di costringerla a giocare con lei. E gli animi, scoppiarono in un litigio infuocato.
«Oh, insomma, ci sono centomila Pokémon in questa casa, non continuare a seccarmi!» scoppiò la ragazzina.
Flamey non aspettava altro perché rispose: *«Non giochi mai con me! Sei sempre su quelle maledette carte!»*
Lily ovviamente non capiva, ma il tono era perfettamente chiaro e la Pokémon stava indicando i suoi libri con il becco; così, furiosa, rispose: «Ah e quindi? Devo farmi bocciare agli esami perché sei egocentrica?!»
*«Non so cosa voglia dire ma di sicuro è una brutta parola! Ti pensavo diversa! Che mi volessi bene! Non che saresti stata sempre su quei fogli!» * ribatté lei, furiosa, correndo via in lacrime.
«Corri, corri! Visto che nemmeno ti impegni a capirmi e pensi solo a te stessa!» esclamò furibonda la ragazzina, prendendo la sua roba e andandosene dalla parte opposta. N e Zoroark si guardarono. Poi andarono. N raggiunse Lily. Lei, furiosa, stava evidenziando dei testi che doveva preparare per l'esame. Ma era evidente che faceva tutto a caso. L'uomo si avvicinò a lei, sorrise e salutò: «Ciao.»
Lei non smise di fare il suo lavoro, non alzò nemmeno lo sguardo ma rispose: «Ciao.»
N sedette accanto a lei e borbottò: «Sarà dura cancellare se hai sbagliato qualcosa.»
«Non c'è niente di sbagliato.» ringhiò lei di risposta, furiosa.
Lui la guardò per un momento, poi incalzò e chiese: «Cos'è successo?»
Lei si bloccò, avvampando, fermando l'isterica corsa del pennarello. A lui poteva dirlo? Non era convinta, lui aveva sempre appoggiato i Pokémon. Lei non lo aveva mai visto appoggiare le persone.
«Io...» mormorò, alzando lo sguardo, ma si bloccò all'improvviso. Mise gli occhi nei suoi, verde nel verde. Poi fece un mezzo sorriso, togliendosi l'imbarazzo di dosso, e domandò di risposta: «Perché?»
Lui sorrise, mise le mani dietro la testa e si sdraiò, rispondendo: «L'ho reputato più opportuno. La presenza del sovrano ti agita.»
Lily tornò vagamente ad arrossire e rispose: «Volpe arguta.»
Zoroark ridacchiò e aggiunse: «Resto comunque stupito. Nonostante io abbia le fattezze del sovrano, non ti faccio alcun effetto. Avevo avuto modo di notarlo, ma ora ne ho la conferma.»
Lily alzò le spalle e, semplicemente, disse: «So che non sei lui. Non serve altro.»
Sentendosi però lo sguardo inquisitorio puntato addosso, lei sospirò, tornando a fissarlo negli occhi. Affranta, sbottò: «Non capisce che non posso passare tutto il mio tempo con lei. Devo passare gli esami. Se mi bocciano, mio padre mi uccide.»
«Glielo hai spiegato?»
Una constatazione che la bloccò. Lei lo guardò per un momento, spiazzata, e lui aggiunse: «Flamey è un Pokémon da laboratorio. Non sa niente di come gira il mondo. Se lei pensava di starsene con te tutto il giorno e si è vista respingere, è ovvio che si sia offesa.»
Lily rifletté. In effetti, le aveva solo urlato contro, snervata, di essere lasciata in pace. Non le aveva spiegato il motivo, anche perché poi Flamey si era scaldata subito ed era finita a urli. Zoroark sorrise, vedendo che aveva realizzato il senso del discorso, e aggiunse: «Spiegale come stanno le cose. E capirà.»
«E se non mi volesse più parlare?»
Lui ridacchiò al suo evidente panico e replicò: «Il legame tra un Pokémon e un umano va oltre ogni cosa. Io e il sovrano abbiamo spesso litigato, ma come puoi vedere siamo ancora qui. Anche tuo zio potrebbe dirti molto delle discussioni avute con tua madre.»
«Non ce li vedo litigare...»
«Eppure è successo. Fa parte del volersi bene. Se non importa dell'altro, non si litiga. Credimi, parla con lei, vedrai che capirà.»
Lily annuì. Chiuse i libri con un colpo secco, mise tutto nella borsa e si alzò. Guardando quegli occhi verdi che amava, ma che sapeva non essere quelli autentici, sorrise e disse: «Ti ringrazio, Zoroark. Dovresti fare lo psicologo.»
Lui ridacchiò, alzandosi a sua volta, e replicò: «Nessun problema. Ho un discreto allenamento alle spalle. Ma non temere... lascerò sempre libera quella del sovrano come spalla su cui piangere e lagnarti.»
Avvampando come non mai, lei gli pestò il piede con forza, sapendo che la scarpa che vedeva in realtà non esisteva. Lui ruppe l'illusione, ridendo con le lacrime agli occhi, guardandola allontanarsi impettita.
Nel frattempo, il vero N aveva raggiunto la Torchic che, furiosa, stava spaccando pietre con il suo Graffio. Gli artigli le sanguinavano dal male ma era troppo rabbiosa per smettere. All'improvviso, vide accanto a sé una mano che le porgeva delle bende. Lei abbassò lo sguardo e mormorò: *«Lasciami stare, N.»
«Non è mio uso lasciar soffrire un Pokémon ferito.» rispose lui, cercando di sorridere e di farle capire che non la stava prendendo in giro.
Flamey non rispose ma le zampe le facevano davvero molto male. Così, anche se un po' triste e abbattuta, gliene tese una. Lui sorrise, prese il disinfettante e le bende, e cominciando a curarla. Vedendola abbastanza tranquilla, mormorò: «Come mai hai discusso con Lily?»
*«La mia amica non mi vuole bene. Pensavo mi volesse bene, invece mi sbagliavo.» * ringhiò lei, ancora molto arrabbiata.
N la guardò e chiese: «Sei convinta di questo?»
*«Cosa vuoi dire?» *
«Se ha fatto qualcosa che ti ha dato fastidio, non è detto che sia un torto nei tuoi confronti. Magari potresti averlo inteso come tale, ma forse non è così.»
Flamey lo fissò negli occhi. Forse lui aveva ragione. Forse... corse via, convinta, volendo provare a parlarle.
N venne raggiunto da Zoroark che, dopo aver salutato con un inchino, chiese: *«Ottenuto qualcosa, sire?» *
«Direi di sì. Tu?» rispose lui, vedendolo stranamente allegro.
*«Faranno pace.» *
«Ci confido.»
In effetti, in quel momento, Flamey e Lily si stavano scrutando. Entrambe offese, entrambe orgogliose. La ragazzina fu la prima a fare una mossa. Chinò la testa, in segno di scusa e mormorò: «Perdonami. Non ti ho spiegato perché ti allontanavo. C'è un motivo e tu non c'entri in alcun modo. Davvero, scusa.»
*«Anche io non ho chiesto, scusa.» * rispose la Pokémon. Lily ne sentì solo il pigolio, ma alzò lo sguardo e vide che anche lei aveva chinato la testa, nel suo stesso modo. Si guardarono. Poi la ragazzina sedette a terra e aprì le braccia. Flamey le corse incontro, sedendosi nel suo grembo; Lily la strinse, poi spiegò: «Vedi, devi sapere che vado a scuola, in un posto dove mi insegnano le cose. E ogni anno dobbiamo fare delle prove che verifichino che abbiamo studiato. Sono tra poco e devo assolutamente studiare per passare gli esami o mio padre mi ammazza.»
Flamey ruotò la testa di lato perplessa; Lily capì cosa volesse dirle perché replicò: «Papà è severo nei confronti dello studio. Vuole che vada bene e se mi distraggo si arrabbia. Ora che poi vado anche dalla mamma, è ancora più attento ai miei voti. Non aspetta altro che prenda voti atroci per mettermi in punizione e impedirmi di andare da lei.»
La Torchic abbassò gli occhi, sentendosi in colpa per averla distratta in quel modo. Lily sorrise, le accarezzò il becco e mormorò: «Ti va di aiutarmi?»
Lei annuì e insieme, passarono il pomeriggio. Era bello essere di nuovo insieme. Dalla casa, N e Zoroark li fissavano. Il Pokémon mutevolpe sorrise, contento che avessero fatto pace, poi notò lo sguardo perso del suo amico e commentò: *«Lei pensa che voi non siate interessato, sapete?» *
«Meglio così.» rispose solo lui, allontanandosi dalla finestra. Con la coda dell'occhio, incrociò lo sguardo ghiacciato di Reshiram, che lo fissava dalla finestra. Poi svanì nella sua stanza.

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Capitolo 22
*** Capitolo XXI ***


Giovanni entrò nel campo di battaglia dell'ultimo Élite, Drake. Era un enorme stanza, piena di rocce, sassi e montagne. Davanti a lui, un marinaio tutto muscoli: la giacca aperta ne mostrava i possenti addominali; nonostante i capelli e i baffi bianchi, sembrava un avversario temibile. L'uomo sorrise ed esclamò: «Il tuo viaggio finisce qui ragazzino. Ho molta fretta e poco tempo. Vai Salamence, megaevolvi.»
Il Pokémon Drago uscì dalla sua sfera già megaevoluto. Giovanni mandò tutti ma niente pareva riuscire ad arrestare la sua furia. Perfino MegaJukain aveva problemi. Le tentava tutte, con il Dragartigli, ma Salamence, di tipo drago-volante, si teneva al sicuro e attaccava con una rapidità disarmante.
«Ottima lotta. Ma ci vuole qualcosa di meglio per arrivare da Rocco. Allenati e ne riparleremo.» sorrise beffardo, per poi chiamare qualcuno che lo accompagnasse fuori. Triste, Giovanni tornò a casa, sulle ali del suo Pelipper. Quando giunse, vide Lily presa con gli studi e il suo nuovo Pokémon.
«Ehi, Sapientina.» salutò, avvicinandosi cercando di nascondere il suo disappunto vista la sconfitta.
«Mostriciattolo.» ricambiò lei, non troppo lieta di vederlo: «Già qui?»
«Affari miei. Tu invece, chi sei?» chiese alla Torchic, ignorando la sorellastra.
Lei sorrise e rispose: *«Mi chiamo Flamey! E tu?» *
«Giovanni. Il suo fratellastro.» rispose, indicando la ragazzina. Rivolgendosi a lei, chiede: «Papà?»
«Dentro credo.»
Senza più una parola, Giovanni si diresse verso la casa. Vedendo il padre posato al davanzale, lo salutò da lontano. Lui ricambiò con un gesto della mano e uscì per salutarlo. Lo strinse e chiese: «Se sei già qui, non sei arrivato in fondo.»
Lui si fece imbarazzato e mormorò: «Tre su quattro. Il primato di aver sconfitto un Campione resta a te.»
«Avevo Reshiram con me. Temo non sia troppo valido. In lotta non ufficiale, tua madre ha sconfitto Lance.»
«Allora si riconferma la migliore.» sorrise lui: «Come state? C'è qualche novità?»
N lo fissò per un momento, ricordando la promessa che gli aveva fatto. Ma non era sicuro. Non ancora. Così, sorrise e rispose: «Niente di che. Stasera cena grande. Finalmente sei tornato.»
E così effettivamente fu. N diede prova di tutto il suo estro culinario per festeggiare il figlio tornato. Lily, imbronciata per tutta la sera, ebbe il suo momento quando N, alla fine della serata, sedette accanto a lei e mormorò: «Ora tocca a te. Ma non accettiamo sconfitte.»
Lei gli sorrise, imbarazzata ma convinta, e rispose: «Non fallirò.»
E finalmente, arrivò il grande giorno; Lily entrò nella scuola con il cuore in gola. La Pokéball di Flamey nella tasca le dava un minimo di tranquillità, ma l'ansia era comunque opprimente. Venne affiancata dall'amico Felix e, dopo l'appello, sedette al suo banco. Quando uscì, sentiva di aver fatto il peggior disastro della sua vita. Ma per fortuna si sbagliava e, un paio di settimane dopo, i risultati smentirono tutte le sue paure. L'ansia, però, tornò a perseguitarla presto, quando fu ora di cominciare alle superiori. In preda al panico, camminava davanti alla cella della madre, come se non riuscisse a stare ferma. Athena bloccò la camminata ansiosa e le prese le mani dolcemente, mormorando: «Vedrai che ce la farai. Devi solo andare a scuola come fai sempre.»
Il loro rapporto era migliorato man mano che il tempo passava, rinsaldandosi, nonostante lei fosse la Bestia del Continente e la distanza forzata. Sapeva solo che le voleva stranamente bene, una cosa più unica che rara, e le faceva molto piacere la sua compagnia ormai divenuta quotidiana. Non si erano viste per quattordici anni, entrambe avevano avuto paura di non riuscire a costruire un rapporto sano, ma era andato tutto bene. E questo le rendeva molto felici. La ragazzina ricambiò, quindi, la stretta, desiderando ardentemente di essere tra le sue braccia, ma facendosi bastare quello, e rispose, agitata e preoccupata: «No! Sono le superiori! E … ci sono tutti i grandi! Io… non solo all’altezza!»
«Sì che lo sei.» disse la donna, tentando di calmarla con il tono di voce: «Gli esami sono andati bene, non sei stupida. Stai calma, vedrai che poi farai amicizia e ti divertirai.»
Lily la fissò, cercando di scacciare l’ansia, e mormorò: «Dici?»
«Dico, dico.» sorrise lei, anche se realmente nemmeno sapeva cosa si provasse ad andare a scuola, dato che non ci era mai stata: «Fatti accompagnare da Pidg, se vuoi. Andrà tutto bene Lily. Tu sii te stessa e non permettere a nessuno di metterti i piedi in testa. Rispetto per rispetto.»
«Rispetto per rispetto.» annuì la ragazzina: «Grazie, mamma…»
«E di cosa?» sorrise lei, allungando una mano fuori dalle sbarre e scompigliandole i capelli con un gesto affettuoso. Lei sorrise e chiuse gli occhi, felice di sentire quel tocco dolce.
Lily andò via qualche minuto dopo, prima del rientro di O’Bull. Arrivata a casa non mangiò nulla. Non si sentiva pronta, anzi completamente inadatta, e aveva una fifa folle. Raphael cercò di calmarla in tutti i modi ma, coma la madre, non ottenne il minimo risultato.
Il giorno dopo, Lily si alzò e schizzò ovunque per la casa in preda ad un attacco d’ansia. Dormivano ancora tutti, visto che erano le cinque di mattina, e dovette intervenire N per calmarla. La placcò mentre correva con la felpa messa a metà, e stringendola, mormorò: «Allora, ci calmiamo o cosa?»
Lei avvampò, non aspettandosi un suo intervento così diretto, e balbettò qualcosa di non ben identificato. Lui sorrise, la lasciò andare – anche se lei pareva avere tutt’altre idee – e chiese: «Vuoi qualcosa per colazione?»
Lily borbottò qualcosa in merito al fatto che lui si era allontanato subito e ponderò l’idea di ricominciare a dare di matto per obbligarlo ad abbracciarla di nuovo. Togliendosi le idee folli dalla testa, rispose: «Non credo di riuscire a mangiare.»
N ridacchiò e lei si perse ad ascoltare quella risata quasi adorante. Poi lo seguì in cucina, mentre lui si faceva un caffè doppio. Alzarsi alle cinque di mattina non era di certo una cosa che faceva spesso, ma aveva deciso di starle vicino, e quindi dormire non era tra le sue priorità. Lei sedette accanto a lui. Voleva saltargli in braccio, ma sapeva di non potere. Così restò pacifica al suo fianco, assaporando la sua presenza, solo loro due soli, facendo due chiacchere, ridendo e scherzando insieme. Alle sette però si svegliarono tutti e la pace fu interrotta bruscamente, anche perché Lily doveva andare. Le lezioni sarebbero cominciate alle otto e ci voleva almeno un’ora di volo per arrivare nel continente. Così, montata su Pidg dopo aver salutato tutti, la ragazzina partì e alle otto meno cinque entrò nella scuola superiore di Zafferanopoli con agitazione. Era il suo primo giorno del primo anno e non conosceva nessuno. Scoprì ben presto che nella sua classe ci sarebbe stato anche Felix, il suo miglior amico d'infanzia, e già quello ebbe il potere di calmarla. Il primo giorno andò tranquillo. Conobbe il resto della classe e visitò la scuola. L’ansia si trasformò in eccitazione e quel posto che prima le faceva tanta paura, divenne il luogo più bello del mondo.
Altri, però, avevano idee ben diverse su di lei.
«L’hai vista quella primina?» chiese una voce maschile, fissandola correre giù per le scale al cambio dell’ora.
«Vista, vista… carina non c’è dubbio.» rispose un’altra, vicino alla prima.
«La fai una scommessa, tigre?»
«Sentiamo…»
Finite le lezioni, Lily corse come un siluro al carcere, facendo un cenno a Pidg di non planare. Tanto la scuola e la prigione erano nella stessa città, solo che una era in pieno centro, l’altra in periferia. Voleva raccontare della giornata alla madre e poi sarebbe tornata a casa. Entrò dalla sua solita porta, e, vedendo che non c’erano secondini in giro, corse alla cella.
«È andato tutto benone!!» esclamò, euforica, piazzandosi davanti alla cella con uno scivolone.
«Sssssht!» le risposero secche due voci.
Lily ci mise un attimo a capire, bloccandosi sul posto. Ma poi si rese contro che non era il momento dell’ora d’aria, la madre stava giocando a scacchi, ma soprattutto c’era il compagno di cella. Mise a fuoco e, abituata la vista al buio, vide due sagome chine su un tavolino. Arretrando impaurita, cercò un’idea per … non sapeva nemmeno cosa, ma sperò che la madre la proteggesse. Dopo un momento di silenzio, Athena ghignò ed esclamò: «Scacco matto in tre mosse. Arrenditi e ti risparmio l’umiliazione.»
«Maledetta tu sia per l’eternità.» sbottò O’Bull, fissando la scacchiera e non vedendo né possibilità di fuga, né lo scacco matto che l’amica andava blaterando: «Mi ritiro.»
«Bravo, Thomas! Ottima scelta!» ridacchiò lei, mettendo via i suoi amati neri che l’avevano portata alla vittoria spesso e volentieri: «E la branda di sopra è mia un altro mese!»
«Non ti rispondo nemmeno.» borbottò lui, spostando i suoi bianchi nel cassettino, imbronciato.
Lei gli fece il verso, deridendolo e ribatté: «Permaloso! Sei scarso, cosa ci devo fare io?»
«Ma taci!»
La donna ridacchiò e si prese un cuscino in faccia. Lily li osservava bisticciare. Se non fosse stato per le catene che limitavano i momenti della donna, sembravano solo due amici che litigavano bonariamente.
«Allora? Com’è andata?» chiese la madre, finendola di giocare come una bambina e sedendosi vicino a lei.
«Bene!!» rispose Lily tutta eccitata, scordandosi che c’era O’Bull e tutta la paura avuta prima: «La scuola è enorme! Sono sicura che mi perderò! Però i professori sembrano bravi e ho in classe un mio caro amico!»
Athena sorrise e commentò: «Bene. Vorrà dire che non sarai proprio così sola come avevi previsto.»
«Già! Ora devo scappare perché papà starà morendo d’ansia. Ci vediamo domani!»
«Salutamelo. E se riesci anche il mio piccolino. E al matematico hippy. A tutti, insomma!»
Lei fece una faccia storta al nome di Giovanni, ma poi disse: «Va bene, va bene... ciao ma'!»
La ragazzina le strinse un momento la mano, poi corse fuori e Thomas commentò: «Certo che è vivace.»
Athena si arrampicò sulla sua branda, vinta ancora una volta, e rispose: «Mi ricorda me alla sua età. Voglia di imparare, di mettersi alla prova… solo che in contesti differenti.»
«Lei a scuola…»
«… e io in una sala delle torture.» concluse tetra la donna, sdraiandosi a pancia in su e mettendo le mani dietro la testa: «Però almeno non mi assomiglia in quell'ambito.»
«Giovanni sì?»
«Eccome. Meglio che Raphael non lo sappia, ma ho avuto la fortuna di trovare in mezzo alla strada un mezzo sociopatico in erba. Giovanni ha tutte le caratteristiche della patologia, ma ha imparato a trattenersi. Poi magari mi sbaglio ed ha solo il carattere un po' violento. Non lo so... ha dimostrato di saper provare affetto, quindi non credo che sia grave. Il problema è che se alza le mani su Lily, Raphael lo ammazza. E vivo con la paura che possa accadere.»
«Parlane con Johnson. Non è uno di quelli che studiano la testa?» chiese l’amico, sporgendosi dalla branda con la testa e guardando in su.
Lei si batté un pugno sulla mano, illuminata, ed esclamò: «Tu sei un maledetto genio!»
Chiamò il secondino di turno e chiese un colloqui con Jason, che però le venne rifiutato “cortesemente”. Dopo aver ricevuto qualche insulto misto a minaccia, la guardia se ne andò, ma lei borbottò: «Sia mai che mi arrendo perché un pinguino non mi aiuta.»
Da tutt’altra parte invece, Lily raccontò tutto ciò che era successo al padre e a N, mentre Giovanni ascoltava di nascosto, non volendo mostrare che era un pochino interessato.
Il giorno dopo, la ragazzina era pronta ad affrontare il nuovo anno: libri, quaderni, astuccio… tutto pronto nello zaino. Arrivata a scuola, sedette al banco che aveva scelto il giorno prima, in parte a Felix, e fecero le prime tre ore di scuola. Alla ricreazione, la ragazzina sbirciò fuori dall’aula. Doveva fare un giro per orientarsi, però si vergognava. Con un’alzata di spalle, si fece coraggio e uscì in corridoio. Stava vagando quando si trovò davanti un ragazzo alto, molto più grande di lei. Era biondo, spettinato e con un vistoso ciuffo, ma ciò che saltava all’occhio erano i suoi profondi occhi di un colore strano. Una tonalità del blu molto particolare. Blu acciaio.
«Ciao, bellezza.» le disse lui, sbarrandole la strada e facendole l’occhiolino: «Lo fai un giro in moto dopo la scuola?»
Lei lo guardò, perplessa e un po’ sconvolta da tanta faccia tosta. Rimase un momento in silenzio, ponderando se rispondergli o meno, ma poi si decise a non essere maleducata, così rispose: «Sarebbe carino sapere con chi ho l’onore di parlare prima.»
Lui sorrise, vedendo che faceva già resistenza, ma prontamente si presentò, tendendo la mano verso di lei: «Joshua Blade. Quarto anno.»
Lei guardò la mano e la strinse, presentandosi a sua volta, ma poi commentò: «Ora posso cortesemente rifiutare. Grazie dell’offerta, comunque.» disse lei infine con un sorrisone, per poi fargli il giro, superarlo e continuare la visita della scuola.
Il ragazzo restò un momento immobile. Non gli era mai successo che una ragazza rifiutasse un suo invito e se ne andasse da lui come nulla fosse. Guardando con la coda dell’occhio vide il ghigno del suo amico, pronto a deriderlo per tutta la vita. Era anche un’onta nel suo orgoglio. Mai e poi mai era stato scaricato.
Voltatosi, Joshua rincorse Lily e, affiancatala, le disse, con voce provocante e quasi suadente: «Dai, dolcezza. Non fare la difficile. È solo un giro in moto.»
Lei sbuffò lievemente rivedendolo, ma rispose secca: «Dolcezza lo dici a tua sorella.»
«Andiamo, che fastidio può mai dare un invito.» insistette lui.
Lei alzò gli occhi al cielo, rispondendo per pura educazione ma con una voglia immensa di ignorarlo e sperare che desistesse: «Pari al fastidio che da una zanzara nelle mutande.»
«Ehi, ma come siamo scontrose! Ma che t’ho fatto?»
«Scocciato. Ti basta?»
Con un’occhiataccia, la ragazzina accelerò il passo per tentare di seminarlo. Lui ovviamente la rincorse ma suonò la campanella. Lily si voltò, gli fece un saluto quasi arrogante con la mano e tornò in classe.
«Salvata dal gong.» borbottò seccato, guardandola andare verso il secondo piano.
Venne raggiunto un secondo dopo dal suo amico, Kevin, che, sogghignando, si preparò a prenderlo in giro a vita per essere stato scaricato così in tre secondi netti.
«Mi devi una pizza, tigre!» gli disse, ridendosela come un cretino e assaporando la vittoria.
«Ho ancora tempo. Non cantare vittoria troppo presto.» gli rispose lui, seccato e irritato da quella figuraccia che mai avrebbe pensato di fare in vita sua. Era visto da sempre come il rubacuori dell’istituto, come il playboy, come colui al quale cadevano tutte ai piedi. Non sarebbe di certo stata una ragazzina appena arrivata a fargli fare la figura dell'allocco. Quanto a Lily invece, quel tipo non interessava minimamente. Era il classico sbruffone che si era aspettata di incontrare. Quello che seduce tutte per poi scaricarle e aumentare il numero di conquiste. E lei sicuramente non ci sarebbe cascata. Aveva ben altre mire, dopotutto... Alla fine delle lezioni, quando andò a trovare la madre, non pensò opportuno dirle di quel tipo, e le raccontò il resto. Prima di salutarsi, la donna le diede un foglietto che aveva rubato nell'ora d'aria e chiese: «Lo daresti a Raphael, per favore?»
«Certo! Ci vediamo domani!»
«Fa la brava!»
«Anche tu!»
Lily tornò a casa, accompagnata ovviamente da Pidg, e diede il messaggio al padre con i saluti della madre. Lui lo prese, piuttosto controvoglia dato che non voleva che Lily andasse in carcere, e lo lesse: Athena chiedeva un colloquio urgente con Jason. Dato che nessuno l'ascoltava, chiedeva se lui poteva andare dall'agente e diglielo. Ovviamente lui eseguì. Si fidava di lei e se non fosse stato urgente, non glielo avrebbe chiesto. Il giorno dopo, un secondino terrorizzato andò a prendere la donna e la portò nella stanza degli interrogatori. Jason la stava aspettando, parecchio perplesso dal venire convocato dal Demone: altre confessioni di omicidi in vista? Ma lei, entrata, gli indicò con un cenno la telecamera. Annuendo e fidandosi, dato che sapeva come prenderla e eventualmente fermarla in un attacco psicotico, l'agente congedò tutti, spense audio e video, e chiese: «Si può sapere come mai tutta questa segretezza?»
«Evitami la faccia da funerale.» sbottò lei, inarcando un sopracciglio: «Non ho ucciso nessuno, se è di questo che hai paura.»
Lui alzò gli occhi al cielo e rispose: «Mi aspetterei di tutto. E allora cosa vuoi?»
«Mi serve aiuto.» borbottò lei, un po’ seccata di doverlo ammettere: «L'aiuto che solo un profiler può darmi. Tu sei l’unico che conosco; e so che sai fare il tuo lavoro.»
Jason la fissò sempre più perplesso e fece l’ovvia domanda: «Vuoi che ti faccia il profilo?»
«Ma non a me, idiota!» ribatté lei, spazientita: «Lo so meglio di te che sono pazza. Dovresti farlo a mio figlio... vedi, l'ho trovato abbandonato a Hoenn, però è un tipo un po' violento. Non capisco se sia sociopatico oppure se sia così perché lo hanno sempre maltrattato quando era piccolo. Vivo nel terrore che alzi le mani su Lily. Se lo fa, Raphael lo ammazza e vorrei evitare tutto questo.»
Jason soppesò le sue parole, poi sorrise e disse: «Che protettiva. È proprio vero che i figli fanno miracoli.»
Lei arrossì leggermente e sbottò, tentando di riprendere il cipiglio perduto: «Sta' zitto e rispondi.»
Lui scoppiò a ridere e rispose: «Tranquilla. Gli do' un'occhiata, poi ti dico.»
«Grazie... Jason.» borbottò lei, guardando da un’altra parte: «Sai che è andato alla Lega di Hoenn?»
«Abile con i Pokémon come te?»
«Quasi...»
Lui le fece l'occhiolino. Athena però voleva parlargli ancora; quell’agente era troppo simpatico e questo la seccava. Soprattutto per il fatto che una volta avrebbe dovuto ucciderlo. Ma chissà come mai, lui le era sempre andato molto a genio, non si era mai sentita in pericolo; si era sempre sentita al sicuro, anche dalla sua testa; lui non l’aveva mai fissata come una bestia da comandare e da tenere a bada, ma come una persona capace di pensare nei limiti del possibile. Anche se, come tutti, aveva sempre avuto paura. Tranne ora. Sembrava perfettamente a suo agio, tranquillo. Ormai potevano quasi considerarsi amici di vecchia data ma, a differenza di anni prima, ora lui non aveva quel sentore di timore, quella guardia un poco alzata. Gli espresse i suoi dubbi, sperando che magari lui avesse qualche risposta a questo suo strano comportamento.
«È semplice, in realtà.» le sorrise lui: «Come ho già detto a Raphael, ti ho fatto il profilo psicologico. Ed è più accurato di quanto pensi. Quando mi sono infiltrato, certo, sono rimasto traumatizzato dal mattatoio, ma sapevo come prenderti. C’è un motivo per il quale non ti sono mai sembrato ostile. Era tutto calcolato.»
Lei lo fissò, riflettendo sulle sue parole e su quanto lui dovesse sapere su di lei, probabilmente molto più di lei stessa. Così borbottò: «E in cosa consisteva?»
«Non farti sentire con un riflettore puntato addosso.» rispose lui, fissandola per carpire le reazioni alle sue parole: «Secondo il mio profilo, e ora potrò chiederti conferma, oltre alle punizioni di Giovanni che non ho mai capito in cosa consistessero, quello che ti faceva perdere la testa era sentirti osservata. La paranoia ti portava a intendere ogni sguardo come uno sguardo ostile, quasi minaccioso, e quindi, ti portava ad attaccare per difenderti. Non so se ci hai fatto caso, ma non ti ho mai fissata per più di un secondo. E questo non ha scatenato il tuo istinto difensivo, portandoti a non vedermi come una minaccia.»
Davvero colpita, dato che lui le aveva letto la mente, Athena borbottò: «Accidenti.»
Jason sorrise vista la faccia sconvolta e stupita che aveva davanti e aggiunse: «Anche quando sono entrato qui la prima volta, inizialmente guardavo il vetro dietro di te. Ma con la coda dell’occhio ti ho studiato e ho visto che qualcosa non andava. Così ho aggiunto qualcosina al mio profilo, giusto per fare il precisino.»
«Beh, tanti, complimenti.» disse lei, dopo un momento di pausa: «Come immaginavo conosci la mia testa meglio di me.»
Lui ridacchiò, ma aggiunse: «Insegnandoti a giocare a scacchi poi, ho sfruttato la tua indole competitiva. Quando mi chiedesti delle gare su a Fiordoropoli, vidi con quanto impegno ti stavi allenando. Ammetto che la cosa mi sconvolse... allevata da un Giovanni che pur di vincere farebbe carte false con chiunque, uno spirito agonistico così pulito non me lo sarei mai aspettato. E nemmeno l'accettazione senza riserve del secondo posto.»
Athena lo fissò e sbottò: «Piano. Fammi capire... mi hai spiata tutto il tempo?!»
«Spiata è un parolone.» sorrise lui, a mo' di scusa: «Che ne dici di: “osservata per motivi scientifici?”»
Lei non rispose. La cavia non era il ruolo che preferiva. Jason però non demorse e aggiunse: «Dai, non ti offendere. Volevo solo essere pronto a un eventuale cambio di gioco. E poi ha funzionato, non ho mai rischiato niente vincendo e questo lo sapevo per la mia piccola osservazione preliminare. Sai, sono contento... mi dicono che per passare il tempo giochi a scacchi. Il mio lavoro è servito a qualcosa.»
Lei rispose con un grugnito offeso. Come aveva fatto a non accorgersi di quegli occhi puntati addosso? Quell'uomo era più bravo di quanto pensasse. Molto più bravo, accidenti a lui. Jason si alzò e, per concludere, disse: «Se me lo permetti, vorrei conoscere entrambi i tuoi figli. Soprattutto la biologica. L’ho vista di sfuggita e mi sono sconvolto, lo ammetto. Il mio primo assurdo pensiero è stato che fossi venuta nel futuro con la tinta, ma mi sembrava seriamente improbabile. Poi ho conosciuto Raphael e ho avuto qualche risposta in più. Ma vorrei solo controllare che lei non abbia qualche problema di testa nascosto.»
«Non credo.» rispose la donna, con un’alzata di spalle: «Comunque se controlli è meglio. Sei dannatamente bravo.»
Lui alzò il cappello lusingato e rispose: «Mi fai onore con questo complimento, grazie.»
Athena alzò gli occhi al cielo e tornò scontrosa come sempre, ma lui ormai sapeva che era solo una maschera. Lui aveva conosciuto ciò che si nasconde nell'angolo più remoto del suo animo. Ma quella era la sua maniera per sottolineare il fatto che lei era, è, e sarà il Demone Rosso. Per sempre.

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Capitolo 23
*** Capitolo XXII ***


La settimana dopo, per Lily fu una persecuzione. Da ogni angolo sbucava quel ragazzo, con ogni tipo di invito possibile e lei ogni volta rifiutava, un po' scontrosa per via della sua snervante insistenza. Così, per evitare altri agguati, si rifugiò in classe, non uscendo più per farsi un giro.
«Sai chi è un certo Joshua Blade?» chiese a Felix, l'ennesima ricreazione confinata in aula.
«Non ne ho idea. Ne so quanto te della gente che c'è qui.» rispose lui, ma una voce si intromise: «Posso risponderti io!»
I due si voltarono e videro una ragazza venire loro incontro, sorridente, tendendo la mano. Lily l’aveva intravista spesso, dato che era una vera e propria secchiona. Faceva continuamente domande e si interessava di tutto ciò che si faceva a lezione.
«Io mi chiamo Amanda.» si presentò, per poi aggiungere: «Scusate l'interruzione.»
«Tranquilla.» rispose Lily, stringendo la mano e presentandosi a sua volta: «Io sono Lilith Grayhowl e lui è il mio amico Felix.»
La ragazzina sorrise, riconoscendo di fama il padre della compagna di classe, ma poi si fece seria e la mise in guardia, dicendo: «Stai attenta a Joshua. È un ragazzo di quarta che non fa altro che allungare la sua lista di conquiste.»
Lily annuì, rispondendo: «Lo immaginavo. Sono giorni che mi perseguita con questa storia della moto. Mi ha stufata.»
«Hai rifiutato un giro con lui?! Sei la prima che sento!» esclamò la nuova amica, meravigliata da quella scoperta.
Seccata, la ragazzina aggiunse: «Non sono un numero e uno che ti chiede un giro in moto prima ancora di presentarsi non è affidabile. Lezione numero uno di mio papà.»
«Eh certo… con un papà avvocato non sei di sicuro una sprovveduta.»
Lily ridacchiò, annuendo, e fece volentieri amicizia con quella compagna di classe. Era molto simpatica e si trovavano bene insieme. Uscì però solo finite le lezioni e andati via quasi tutti, per evitare problemi, ma, ovviamente, la sua bionda persecuzione riapparve. Prima ancora che lui potesse dire qualunque cosa, lei gli scoccò un'occhiataccia e sbottò: «Blade mi hai stufata. Non so cosa ti sia messo in testa, ma io non sono un numero.»
Facendogli il giro intorno, prese e si incamminò sulla via principale. Non si accorse però che Joshua, per nulla seccato dalla risposta, la stava seguendo furtivo. Non riuscendo a convincerla, era passato al metodo “seguila e guarda cosa le piace”. Lily andò come sempre al carcere. Era ora di raccontare alla mamma di quel tipo e magari chiederle consiglio su cosa fare per levandoselo di torno, anche se temeva varie soluzioni, tutte con almeno due litri di sangue sparso ovunque. Così, controllando che nessuno la vedesse, entrò mettendo il suo calco al posto della chiave e inserendo rapida la password. Blade si nascose lì fuori, decisamente perplesso, osservandola sparire dietro al portone blindato.
“Ha un galeotto come fidanzato?” gli venne da pensare, non riuscendo a capire cosa ci facesse lì dentro.
Nel mentre, la ragazzina varcò anche la seconda porta, sbirciando che non ci fosse nessuno, e, giunta davanti alla cella, disse: «Ciao, ma’. Ciao, Thomas.»
I due risposero al saluto. Il secondo giorno di scuola, Athena le aveva detto che Thomas O'Bull era forse l'unico della gente lì dentro con un po' di sale in zucca e le aveva proposto di provare a conoscerlo. Fidandosi della madre, ed eventualmente della sua protezione, la ragazzina aveva eseguito e avuto successo.
«Com’è andata a scuola?» chiese la madre, avvicinandosi alle sbarre per vedere sua figlia in faccia.
Lei sorrise, con il solito istinto di abbracciarla forte, ma costretta a non poterlo fare, e rispose: «Bene ma… c’è un ragazzo seccante. Non fa altro che tentare di abbordarmi. È una persecuzione.»
«Cerca di evitarlo, prima o poi si stuferà.» borbottò Athena, seccandosi lievemente sentendo che qualcuno osava importunare la sua bambina: «E se ti tocca, dimmelo.»
Lily sogghignò, facendosi spuntare in faccia un sogghigno quasi sadico, terribilmente simile a quello della madre, e rispose: «Contaci. Cambiando discorso... come state voi due?»
La donna lasciò perdere i toni tetri, e, gongolando come una bambina davanti a un sacchetto di caramelle, rispose: «Mi hanno ridato l’ora d’aria!»
«Davvero?» chiese la figlia, stupita da quella novità.
Ormai la madre non usciva dalla cella da mesi, visto che tra ossa rotte e minacce, nessuno si azzardava a ridarle l’ora d’aria per paura che facesse una carneficina.
«Finalmente sì! Non ci speravo più!» ridacchiò lei, ancora gongolante.
Thomas sbuffò dalla sua branda, alzando la testa e tirandole un cuscino addosso, e intervenne nel discorso, dicendo: «Ma non dire scemenze! Hai rotto le palle a tutto il carcere per tutte le ultime settimane!»
Lei ghignò soddisfatta e lui, vedendo lo sguardo interrogativo di Lily, spiegò: «Continuava a urlare: “Aria! Soffoco!” e cose così, finché non gliel’hanno ridata per disperazione.»
«Tutta tattica.» disse la donna, apprezzando la propria intelligenza e la poca pazienza delle guardie: «Insomma, non è giusto che voi vedete il sole e io no!»
«Noi non stuzzichiamo i secondini come fai tu.» ribatté lui.
«Perché siete fifoni.»
Lily li guardò litigare sorridendo. Era bello vedere che la madre non si buttava mai giù. E Thomas era un ottimo compagno di cella. Parlarono un po' tutti e tre, poi la ragazzina uscì, visto che si era fatto tardi. Blade la vide, chiedendosi sempre più curioso cosa avesse fatto per così tanto tempo lì dentro. Immerso nei pensieri, la perse di vista, e non la vide raggiungere un bosco, montare in groppa a Pidg e volare via, verso casa. Continuò gli appostamenti, ma lasciava perdere ogni volta che la vedeva andare nel carcere. Sapeva che non faceva nulla di interessante dopo, e per fortuna della ragazzina quindi, non scoprì mai nulla su Pidg e su dove abitasse. Lei, nel frattempo, cercava disperatamente le attenzioni di N. Voleva almeno un abbraccio, una parola, una stretta di mano, uno sguardo. Ma niente; lui sembrava non badare più a lei, quasi ignorarla. E questo la feriva. Molto. Ma non ne capiva il motivo.
Passati i due mesi, Lily era ancora una preda ambita del compagno di scuola. Molto ambita.
«Ora basta. Non mi farò prendere in giro da una mocciosa.» sbottò seccato l’ultimo giorno della scommessa: «Devo portarmela a letto e così farò. Anche a costo di usare la forza.»
Non era particolarmente carina o chissà che altro, ma semplicemente la sua irritante resistenza era un'onta nel suo orgoglio. Lui, il grande playboy, che veniva preso in giro così.
La braccò quindi fuori da scuola e la trascinò dietro l’edificio, convinto delle sue intenzioni. Lei tentò di difendersi, ma non aveva speranze contro un ragazzo di tre anni più grande e decisamente più forte. Lui la inchiodò al muro, senza possibilità di fuga, e la costrinse a baciarlo, posando le labbra sulle sue. Lei, scioccata dall’assalto e immobilizzata, non riuscì a reagire. Joshua si sentì scaldare dentro, mentre si appassionava a quel bacio rubato. Era una sensazione strana, che lo eccitava e spaventava al tempo stesso. Lily era pietrificata e spaventata, mentre lui le prendeva il viso con le mani e si posava a lei, baciandola quasi con foga e desiderio.
La salvò Amanda. Perplessa dal fatto che l’amica non fosse ancora nei paraggi, pur avendola vista scendere prima di lei, era andata a cercarla. Andando dietro alla scuola, aveva visto Joshua molestarla e si era messa a urlare a pieni polmoni, chiamando la polizia. Lui, sentendo gridare, si era voltato e dato alla fuga prima di venir preso per l'ennesima volta e sbattuto di nuovo in riformatorio, ma gli agenti di pattuglia erano lì vicino ed erano intervenuti subito, catturandolo prima che potesse dileguarsi.
«Lasciatemi!» urlò lui, divincolandosi e cercando di liberare le braccia imprigionate dai due poliziotti.
Lily lo fissò dall'angolo, con uno sguardo di disprezzo, sentendosi ancora una volta il bersaglio delle mire di pazzi pervertiti, e lo guardò venire quasi buttato a forza nella volante. Amanda l'abbracciò e tentò di consolarla, dicendo: «Tranquilla. È tutto finito.» ma lei la scostò. In quel momento, non avrebbe tollerato l'abbraccio di nessuno.
Nel frattempo, nella macchina degli agenti, uno dei due disse, con un sogghigno di crudele vendetta: «Un tentato stupro non te lo toglie nessuno Blade.»
Lui fissò quello sguardo gongolante nello specchietto retrovisore con rabbia, e rispose: «Non era uno stupro.»
L’uomo non si tolse dal viso quell’espressione di malcelata gioia e ribatté, guardando nello specchietto laterale Lily che li osservava andare via: «Ah no? Ragazzo, quella ragazzina ha tutta la faccia di una che non acconsentiva. Sei un violento e ora finirai insieme ai tuoi simili per un po’. Che ti serva da lezione. Ora sei maggiorenne bello mio. Sognati il riformatorio e quell'idiota di un assistente sociale.»
Lo sbatterono nel carcere di Zafferanopoli senza tanti preamboli. Come reclusione provvisoria, non serviva un processo. Venne chiuso in cella, ma l’incubo cominciò nell’ora d’aria.
«Ehi, ragazzino. Non si stupra, non lo sapevi?» lo canzonò uno dei detenuti, dandogli uno spintone, poco dopo che lui fu scortato nell'ampio cortile recintato.
Lui non rispose, ma continuarono a canzonarlo finché non reagì. Purtroppo però, era il più debole e poteva fare ben poco contro quegli uomini decisamente più grandi e forti di lui. Criminali incalliti che, chiusi da tempo dietro le sbarre, non facevano altro che aumentare la loro massa muscolare.
Uno dei detenuti lo rinchiuse in un angolo, visto che non prendeva sul serio le loro minacce, e gli sussurrò, minaccioso: «Ragazzino, tu non sai chi c’è qui dentro. Fa’ poco il gradasso o qualcuno potrebbe dire a qualcun altro quello che volevi fare. E ti avverto… non gradirà.»
Joshua lo ignorò, pensando a cosa ribattere per dimostrare che non l’avrebbe spaventato così facilmente, ma l’uomo lo prese per il mento e lo costrinse a guardare verso destra, continuando a parlare a voce molto bassa, per evitare che venisse sentito e martoriato: «Vedi quell’uomo? Quello con il gesso alla gamba e al braccio?
È uno stupratore seriale, finito delle mani di chi ti dicevo prima.»
Lo lasciò andare, allontanandosi da lui per raggiungere un gruppetto, e il ragazzo fissò quel detenuto con paura. Chi l’aveva ridotto così doveva avere una violenza dentro fuori dal comune. Sembrava essere vivo per miracolo. Non intendeva però lasciarsi intimidire, permettere loro di giocare così con lui, al che urlò al suo aggressore: «Io non temo nessuno!»
Lui si voltò con un ghigno e rispose: «Te ne pentirai.»
Passarono alcuni giorni e Joshua cominciò a pensare che quel tipo si fosse inventato tutto per spaventarlo. Un rumore di catene lo contraddisse. Non l’aveva mai sentito nei pochi giorni che era stato lì fino a quel momento. Si voltò spaventato e vide un’ombra avvicinarsi dal corridoio delle celle, scortata da tre secondini.
Uno dei tizi che giorni prima avevano deriso il ragazzo, si posò al muro a braccia incrociate, fissando la persona che stava arrivando dal corridoio, e disse, quasi con voce suadente: «Ciao, bella. Finalmente ti hanno ridato l’ora d’aria.»
Athena venne accompagnata dai secondini fino in fondo al corridoio, ma ignorò quell’imbecille sbuffando, e raggiunse O’Bull che era poco lontano da Joshua.
«Come mai non gli rispondi?» chiese l’uomo, mentre lei si sedeva di fronte a lui, tintinnando.
«Se gli rispondo è la volta buona che lo strangolo.» rispose lei, posando le braccia sul tavolino: «E mi tolgono l'ora d'aria di nuovo. Dopo un minuto secco farei un primato.»
La sua voce era tetra, glaciale. Il ragazzo l’ascoltò, rabbrividendo; temeva più quella donna che tutti i detenuti messi assieme. Era incatenata ai polsi, alle caviglie, al collo e perfino al bacino. Pareva che dovessero in qualche modo trattenerla con tutti i mezzi a loro disposizione.
O'Bull rise e disse: «Ti aiuto molto volentieri! Liberata di nuovo per l'ennesima volta, eh?»
«Non è giusto che mi tolgano questa bella oretta di sole perché prendo a sberle gli idioti che ci sono qui dentro. Faccio un favore alla comunità.» sbottò lei, fingendosi offesa.
«E alle pompe funebri!» concluse lui la frase, ridendo.
«Non è ancora morto nessuno.» gli fece il verso lei, sogghignando: «Sto facendo un record.»
Blade invece si chiedeva chi fosse quella donna. Ne aveva paura certo, ma era anche piuttosto curioso. Non l'aveva mai vista e non sembrava pericolosa, eppure aveva un qualcosa che la rendeva temibile. Inoltre, gli ricordava tremendamente qualcuno, ma non riusciva a collocarla da nessuna parte.
Comunque fosse, se era lì dentro, qualcosa doveva aver pur fatto, e lui non intendeva di certo stuzzicarla.
«Ehi, Demone!» urlò un detenuto, rovinandogli i piani, rivolto alla donna, mentre gli altri sghignazzavano scommettendo quante ossa rotte avrebbe rimediato: «Sai che ha fatto quel ragazzino? Ha tentato di violentare una minorenne della sua scuola!»
Joshua si sentì morire sotto quello sguardo rosso di ghiaccio e gli venne in mente tutto. L’aveva letto sul giornale: il Demone Rosso era rinchiusa nel carcere di Zafferanopoli. Si allontanò da lei, terrorizzato, ma non poteva nascondersi e lo sapeva bene; sarebbe stato ucciso dopo ore di sofferenza. Volente o nolente. Infatti, due giorni dopo, venne sbattuto contro il muro e due occhi rossi e gelidi lo fissarono con ira. Si sentì mancare l'aria, oltre che la terra sotto i piedi, e un dolore lancinante partì dal polso destro e lo imprigionò in una morsa di sofferenza.
«Non volevo farle del male! Non so cosa mi sia preso! Era solo una scommessa! Lo giuro, non sto mentendo!» esclamò lui, cercando di parlare nonostante il male, fissandola negli occhi con convinzione e innato coraggio.
Lei lo scrutò a lungo, poi lo lasciò andare. Lui respirò di sollievo, massaggiandosi il polso, ma una banda di detenuti lo prese, seccati che il Demone non lo avesse toccato, e lo pestarono a sangue, giusto per dare una lezione alla sua arroganza. Quello e anche i giorni seguenti.
Quella sera, invece, Lily riuscì a introdursi nel carcere con molta fatica. Raphael aveva saputo dell'aggressione, ma sapeva di non poter agire in prima persona. E non poteva nemmeno avviare un'inchiesta. Rischiava che, nelle indagini contro Blade, uscissero cose che era meglio non sapere della famiglia Grayhowl. Così aveva chiesto a Pidg di tenere d'occhio la figlia, facendolo andare fin dentro il cortile per recuperarla, a rischio di farsi vedere. Anche lo zio, seriamente preoccupato, non si era opposto e aveva eseguito ben volentieri la richiesta. Si era detto che tanto, i giovani delle scuole non avrebbero potuto riconoscerlo e lui era bravo a mimetizzarsi.
«Finalmente ce l’ho fatta.» borbottò quindi la ragazzina, avvicinandosi alla cella: «Papà è diventato oppressivo.»
«Come mai?» chiese la madre, perplessa.
«Ma niente, lascia stare.» chiuse il discorso la figlia, per evitare di parlarle dell’aggressione: «Come stai?»
«Bene. Nel senso lato del termine. Qui dentro non si può star bene. Tu?»
«Anche direi...»
«Giovanni?»
Lily alzò le spalle e rispose: «Lui è quello che sta meglio fidati. Esce la mattina alle sei e torna la sera alle nove... non si sa dove sia stato ma se N è tranquillo, non vedo perché dovremmo preoccuparci noi.»
Athena annuì, conoscendo l'indole del figlio, e replicò: «Sarà in giro, ancora abbattuto per aver perso.»
«Non hai paura che si faccia del male?» chiese invece la ragazzina, dato che il fratellastro era sempre in giro da solo e con il caratteraccio che si trovava, poteva facilmente finire in problemi seri.
«Non sottovalutarlo.» rispose la madre, seria: «È meno indifeso di quanto sembri. E poi ha i suoi Pokémon. Donkey è una testa calda, ma sa come farsi rispettare. Giovanni è fatto a modo suo, ormai l'abbiamo capito.»
La piccola annuì e borbottò: «Forse dovrei essere più gentile anche io...»
«Che vuoi dire?»
«È talmente antipatico che forse lo tratto troppo male...» confessò Lily, sentendosi un pochino in colpa.
La madre sospirò, capendone il motivo, ma poi disse: «Non è colpa tua... posso capire che sia difficile, però cerca di andarci un po' d'accordo. Ha un brutto carattere, lo so, ma se te lo tiri dalla tua può essere un buon alleato. Devi solo capire come prenderlo. Lui pensa che vogliate portarmi via da lui, per questo non riesce ad adattarsi.»
«È difficile ma potrei provarci...»
«Piuttosto.» disse la donna, cambiando discorso visto che si stava cadendo nella tristezza: «Sai che hanno sbattuto dentro un ragazzino? Forse l’hai visto a scuola… non avrà più di diciotto anni.»
«Com’è fatto?» chiese lei, anche se sapeva già di chi stesse parlando.
La madre guardò un angolo per fare mente locale e rispose: «Biondo, occhi azzurri.. carino ma un po’ spaccone. Deve essere il classico bulletto. Mi ricorda Archer… comunque, è dentro per tentato stupro. Ma quello non ha fatto niente, se non allungare un po’ le mani. Oppure l’hanno fermato in tempo.»
Lily si rabbuiò ma cercò di non darlo a vedere e andò via prima del solito, dopo aver dato qualche risposta secca come parvenza di dialogo; ma i monosillabi non riuscirono a ingannare molto. Thomas osservò la sua compagna di cella arrampicarsi sulla branda e chiese: «Che hai?»
«Devo aver detto qualcosa di male. Lily sembrava offesa.» mormorò lei sovrappensiero, sdraiandosi sul materasso.
Lui alzò le spalle, senza sapere cosa rispondere, anche se aveva notato l’irritazione della ragazzina.
Lily invece stava tornando a casa, furibonda, pensando: “Non ha fatto niente. Grazie! Ci mancava solo che ci fosse riuscito! Anzi, sarebbe stato meglio. Almeno la mamma lo avrebbe ucciso. Invece solo un bacio non è stupro. Maledizione. Con tutto quello che ho passato con Ragefire, anche questa doveva capitarmi … mi sento sola… tanto sola… N non mi guarda nemmeno più, papà ha quella faccia che mi fa scoppiare, mamma pensa che un bacio non sia niente...”
Quando la vide, Pidg non disse nulla perché non sapeva come chiederle cosa avesse e confidò nella consolazione del padre. Giovanni la guardò passare, quasi in lacrime. Le tratteneva a stento. La bambina si chiuse in camera. Piangeva silenziosamente, ma non voleva farsi sentire. Nessuno la capiva. Flamey, entrata dalla finestra dopo essersi arrampicata, le si accoccolò tra le braccia ma la sua presenza non sembrava consolare la tristissima amica.
Un tamburellare sulla porta ruppe il silenzio.
Lei però non rispose, chiusa nel suo dolore.
N scostò appena la porta e spiò dentro. La vide piangere ma gli sembrò strano che Athena l'avesse ferita. Non era da lei.
Voleva alleviarle la sofferenza, ma come fare?
Probabilmente… non voleva vedere nessuno del sesso opposto. Era stata molto traumatizzata dalle violenze subite. E lui, volontariamente, non le aveva riservato troppe attenzioni nell'ultimo periodo. Ma non se la sentiva di lasciarla sola in quelle condizioni. Le lasciò un biglietto sotto la porta. Poi se ne andò con passo felpato.
Quando Giovanni tornò in camera la sera, non vide il biglietto, e mormorò: «Sapientina, stai bene?»
Doveva ammettere di essere un po' preoccupato per la sorellastra. Non era da lei comportarsi così e magari era successo qualcosa alla loro mamma. Ma lei, rannicchiata sotto le coperte ancora in lacrime, non gli rispose.
Lui non insisté, anche se infondo era preoccupato, e andò a dormire, pensando a come ripartire all'attacco la mattina dopo.
Più tardi, a notte fonda, Lily si calmò e pensò di andare a rubare qualcosa dal frigo. Non volendo vedere gente, aveva saltato la cena e la fame era arrivata a perseguitarla. Arrivata sulla porta però vide il pezzettino di carta in terra davanti all'uscio. Lo prese perplessa e lo aprì.

“Piccola Lilith,
immagino che il tuo animo sia ferito nel profondo per via delle violenze che hai subito da uomini che non hanno un minimo di sensibilità. Per questo, non ho reputato adatto e opportuno avvicinarmi a te. Come nell'ultimo periodo. Perdonami per il distacco, non avrei dovuto, probabilmente. Ma credimi quando ti scrivo che vorrei aiutarti, alleviare questo tuo tormento.
Mi piange il cuore vedere una giovane vita così solitaria …
           N”

Lily lesse quel biglietto talmente tante volte da impararlo a memoria. Quell’uomo le aveva sempre ispirato una calma e una pace fuori dal comune. E se n'era presa una tremenda cotta. Forse poteva davvero aiutarla... come aveva già fatto in precedenza. Uscì dalla sua stanza e, facendo silenziosamente le scale, si avvicinò alla porta della sua, all'ultimo piano. Bussò e attese, stringendosi le mani dall'ansia. Stava andando a disturbare una persona che la salutava a malapena. Non sembrava il caso. Mentre ponderava se restare o andarsene, la porta si aprì e lei vide N, in pigiama, che si stropicciava un occhio.
«Disturbo?» mormorò lei, con gli occhi ancora rossi dal pianto e la voce tremante.
Lui le sorrise dolcemente, intenerito, e rispose: «Certo che no.»
Lily aveva ancora bisogno di sfogarsi, di sentire gente amica, così, ricominciando a singhiozzare disperata, scoppiò, entrando nella sua stanza e camminando qua e là: «Non è giusto! La mamma pensa che solo perché quel Blade si è “limitato” ad un bacio, non mi abbia messo le mani addosso! Dopo quello che ho passato con quel bastardo di Ragefire, anche solo un banale bacio è una cosa orribile! Perché non lo capisce?! Perché non ha ammazzato anche lui?!»
N non rispose subito, notando come sembrasse desiderare il sangue del ragazzo. Cercando di mantenere il tono di voce calmo, replicò: «Non è che non lo capisce. Vedi … lei non sa che la vittima sei tu. Prova a pensare razionalmente. Un semplice bacio, benché sia senza dubbio una violenza, non è così traumatico. Ma se è solo quello. Athena non sa che la ragazza che Blade ha aggredito, ha subito anche violenze maggiori, che rendono quel bacio peggio di ciò che è realmente. Mi segui?»
«Sì.» annuì lei, rendendosi conto di aver preso un granchio enorme: «Mi sono lasciata prendere dalla frustrazione…»
Lui sorrise, vedendo come fosse sconvolta da quella consapevolezza, e si avvicinò a lei; mettendole le mani sulle spalle, mormorò: «Non crucciarti, è normale. D’altronde sei stata messa a dura prova. Ora hai solo una scelta da fare: dirle che la vittima sei tu o tacere questo dettaglio.»
«Lo uccide se scopre che mi ha toccata.» disse lei, quasi pentendosi di quello scatto e delle sue parole cattive nei confronti di quello che comunque era un essere umano.
N le strinse le spalle con affetto, vedendo che non si stava ritirando al contatto, ma rispose: «Mi duole dirlo ma… questo è poco ma sicuro.»
Lily sorrise, alzando un braccio e posando la mano sulla sua. Non gli parlava così da tanto tempo. Le era mancato. Lui sorrise ma nascose uno sbadiglio; lei lo notò e disse: «Oh, scusami tanto. Sono venuta a svegliarti in piena notte, scaricandoti addosso tutte le mie frustrazioni senza preoccuparmi di niente.»
«Non è un problema.» rispose lui, sorridendo: «Se c’è una cosa che ho imparato da tua madre, è che non c’è nulla di meglio di un pisolino dopo pranzo al sole.»
«Concordo appieno!»
Lily lo guardò negli occhi, gli sorrise a sua volta e disse: «Ciao N. buonanotte e… grazie di tutto.»
«Figurati. Sempre disponibile.» rispose solo lui, guardandola uscire.

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Capitolo 24
*** Capitolo XXIII ***


Il giorno dopo, Giovanni era sul suo albero. Aveva origliato alla porta di N, avendo sentito la sorellastra uscire in lacrime, e aveva sentito cosa quel "Blade" le aveva fatto. E gli dava molto fastidio. Non capiva perché, eppure la violenza subita dalla sorellastra lo aveva irritato parecchio. Saltò giù dall'albero e prese la sua mazza. Poi uscì dal cancello.
Nel frattempo, Athena era stata messa di nuovo sotto torchio dalle guardie, più del solito, ma non aveva ceduto. Non avrebbe mai confessato quel che non aveva fatto. Non aveva mai taciuto i suoi lavori, anzi, ma non si era nemmeno mai presa meriti non suoi. Infischiandosene delle lamentele dell'amico Thomas che la voleva a riposo per riprendersi, andò a prendere un po’ d’aria. Non usciva da un po’, zoppicava, ma stava piuttosto bene. Anche quel giorno vide il ragazzino che scappava dai detenuti. Lei e Thomas invece cominciarono l'ennesima partita a scacchi. Non si stufavano mai. Inventavano sempre nuove strategie per mettere nei guai l'altro, con combinazioni sempre nuove.
«Non credi che potresti aiutarlo?» le chiese O’Bull ad un certo punto, mentre sentiva i gemiti sommessi di Blade, ormai ridotto a bersaglio del carcere.
«Perché?» rispose distrattamente lei, continuando a fissare la scacchiera.
L’amico la guardò con un sorrisetto e disse: «In fondo, è solo un ragazzino. E non credo abbia violentato qualcuna.»
Athena lo fissò accigliata e lui rispose alla domanda silenziosa: «Non l’hai ucciso. Anzi, non gli hai fatto proprio niente. L'ultimo è finito decisamente peggio.»
Lei sogghignò e rispose: «Complimenti, Thomas. Sei un acuto osservatore, vedo.»
Lui ghignò di risposta, lusingato da quel complimento, e ribatté: «Dai, dagli una mano.»
«Ma non puoi farlo tu?»
«No. Secondo me fai finta di niente, ma quel ragazzino ti piace.»
Athena si alzò e gli rispose, alzando le spalle: «Non è da tutti avere il suo coraggio.»
Sistemandosi le catene ai polsi, la donna si diresse verso il gruppetto che stava massacrando Joshua. Lui cercava inutilmente di difendersi ma aveva poche se non nulle speranze.
«Vuoi unirti a noi, Demone?» chiese beffardo uno degli aggressori, quando la vide avvicinarsi.
«Siete i soliti vigliacchi.» rispose lei, con disprezzo: «Vi sentite forti a prendervela con i più deboli vero? Perché non cercate qualcuno della vostra taglia?»
I detenuti, seccati, si bloccarono fissandola, mentre lei si avvicinava con tutta calma.
«Come te?» chiese lo stesso uomo, per poi tentare di afferrarla. Lei prese la sua catena e lo immobilizzò, poi gli rispose, passandogli un dito sulla vertebra cervicale: «No. Io sono troppo forte. Ora lo lascerete in pace, se non vuoi sentire quest’ossicino fare crack e salutare questo mondo.»
«D’accordo.» rispose lui, rabbrividendo al contatto e a quelle parole che sapeva essere vere.
Lei lo lasciò andare e tornò alla sua partita a scacchi. Joshua tentò di trascinarsi in piedi, sputando un po’ di sangue, e la seguì. Sapeva che lei era la sua unica protezione. Da quel momento, non lo toccò più nessuno. Lui rimaneva sempre vicino ad Athena e O’Bull, osservandoli giocare, e i due lo ignoravano.
«Ah-ha! Scacco!» esclamò un paio di giorni dopo la donna, con un gongolante sorriso di vittoria.
«Non ci credo! Ma come diavolo…» borbottò sconvolto Thomas, osservando la scacchiera per cercare una via di fuga.
«Se mette la regina qua.» intervenne Joshua, spostando il pezzo e pregando di non morire all'istante: «Si salva.»
I due fissarono la scacchiera quasi sconvolti. Poi Athena si accarezzò il mento riflettendo e socchiudendo gli occhi, poi muovendo, concluse il suo pensiero con: «... e guerra sia.»
Lui mosse a sua volta, riuscendo a metterla in crisi. Lei e O'Bull avevano giocato insieme troppo e ormai sapevano le tecniche dell'altro a memoria. Il ragazzino invece era una testa nuova, piuttosto brava, che sconvolse i ritmi alla donna. Dopo un breve momento di panico però, lei si riprese e lo mandò in scacco matto. Thomas scoppiò a ridere e commentò: «E bravo ragazzo! L'hai messa in crisi!»
«Ma sta' zitto tu!» lo rimbeccò lei: «Sei il più scarso, non hai diritto di parola.»
Lui continuò a deriderla imperterrito e lei, ignorandolo debitamente dopo avergli pestato un piede, commentò, rivolgendosi a Joshua: «Complimenti davvero, ragazzo. Ottimo gioco.»
Poi si alzò e si diresse verso la cella. Ormai l'ora era finita e dovevano tornare in cella.
«Grazie.» mormorò solo lui, ormai al nulla, mentre andava nel corridoio.
In cella solo, si mise a ripensare ai lineamenti della donna. Gli era venuto in mente. Era impossibile non farci caso. Si somigliavano come due gocce d'acqua. Quella donna era quasi identica a Lilith. O meglio, la ragazzina somigliava molto a lei.
“È quasi assurdo ma... mi viene da pensare che siano madre e figlia. Spiegherebbe anche perché lei venga qui di nascosto quasi tutti i giorni.” si ritrovò a pensare, anche se gli sembrava strano. Non si sapeva niente di figli del Demone Rosso.
I giorni seguenti, il ragazzo si sentì sempre più a suo agio. Restava sempre a fissare i due che giocavano, e se gli chiedevano se voleva giocare, rifiutava. Aveva ancora troppa paura per arrivare a tanto. Un giorno, preso il coraggio necessario, chiese alla donna: «Ma perché non mi fa niente?»
«Perché non hai violentato nessuna. Quindi…» rispose lei, con un'alzata di spalle, senza degnarsi di guardarlo.
«Ma…»
«Senti.» lo interruppe lei, alzando appena gli occhi su di lui: «Mi hai detto la verità, te l’ho letto negli occhi. E quelli non mentono mai. Probabilmente hai solo allungato le mani su una stupida ragazzina che si mette in mostra e poi non vuole essere toccata. E qualcuno ti ha visto.»
Joshua si scaldò, non accettando che la dolce Lilith venisse appellata così, e ribatté: «Lei non è stupida!»
Athena sogghignò e chiese: «Un tranello in cui cascano tutti. Lo scatto mi dice molto... Ti sei preso una cotta vero?»
Lui arrossì imbarazzato, capendo di essere finito in una trappola, e annuendo, rispose: «Credo sia qualcosa di più. All'inizio era una semplice scommessa. Ora non più, credo.»
«Si può sapere cosa le hai fatto per beccarti una denuncia?» chiese lei, cercando di capire quanto davvero avesse fatto a quella povera vittima. E magari, in base a quello, decidere una piccola punizione.
«Non è stata lei, ma una sua amica. All’inizio era solo una scommessa. Il mio migliore amico mi ha sfidato a portarmela a letto in due mesi. Io ho accettato, ma le mie solite tecniche sono fallite miseramente.
L’ultimo giorno ho alzato le mani. Non era più questione di scommesse, ero ferito nell’orgoglio. Ma quando l’ho baciata, anzi l’ho costretta a baciarmi, ho sentito una sensazione strana… Non voglio nessun’altra. Voglio solo lei.»
«Dimenticala in fretta.» borbottò secca Athena.
Lui, sconvolto da quel mezzo ordine, chiese: «Perché? Io …»
«Credimi, non deve aver preso bene il tuo assalto.» lo interruppe lei nuovamente: «Soprattutto perché non sa che ti sei innamorato. Lei penserà di essere solo un oggetto per te e d’ora in poi cercherà di starti il più lontano possibile.»
Blade tentò di protestare, per difendere il suo punto di vista: «Ma io non sapevo di … cioè, è carina ok, però pensavo fosse come le altre.»
«È questo il punto. Ora lei avrà paura che tu le metta ancora le mani addosso.»
«Io non voglio farle del male…»
«E secondo te lei lo sa? Prima devi cercare di fartela amica. Vai con calma, abbi pazienza, o la perderai per sempre. Stai già rischiando ora, non ti conviene peggiorare la situazione. Se poi anche lei prova lo stesso bene. Altrimenti non ti azzardare a metterle le mani addosso di nuovo. Non mi importa come sia vestita. Non sopporto gli stupratori e i violenti sulle donne e il fatto che sei un ragazzino non mi fa differenza. Ti spezzo le ossa, una per una.»
Lui rabbrividì e annuì, dicendo: «Me lo ricorderò. Mi è bastato leggere l’articolo sul giornale.»
Athena non commentò oltre, pensando però a quanta gente dovesse aver letto quell'articolo. E chissà come l'avevano dipinta. La sua popolarità stava aumentando. Peccato fosse negativa.
Il mese finì in fretta. Alcuni giorni prima, Joshua aveva preso abbastanza confidenza con Athena e Thomas, anche se usava ancora un tono molto formale. Durante l'ora d'aria parlavano molto, mentre loro giocavano, non con impegno ma quasi come abitudine rituale.
«Dimmi un po’, ragazzino.» chiese un giorno la donna, mentre muoveva la sua regina: «Chi è che ti usa come sacco da boxe?»
Joshua ponderò la risposta, poi disse: «Tutto il carcere no? O almeno, era così prima del suo aiuto.»
Athena scosse la testa e aggiunse: «Non ora. Prima che finissi qui dentro.»
Lui sbiancò e mormorò: «Cosa… perché me lo chiede?»
Lei si alzò, si avvicinò a lui e gli alzò la maglia con un gesto secco. Indicando alcuni lividi sulle costole, disse: «Questi… sono troppo vecchi.»
Poi lo lasciò andare e risedette, guardando cosa aveva combinato O'Bull.
«Allora?» chiese ancora.
«Perché le è venuto questo dubbio?»
Alzate le spalle, la donna rispose: «Hai un modo strano di incassare i colpi. Come se fossi abituato.»
Lui non rispose, abbassando lo sguardo e sentendosi un debole, così lei aggiunse: «Non sentirti così. I prepotenti esistono e se gli resisti sei tutto fuorché un debole.»
Joshua respirò a fondo. Quella donna era incredibile. Riusciva a dire sempre cose che lo convincevano a parlare. Così, mormorò: «È stato mio padre.»
Athena fece per dire qualcosa, ma lui la precedette e aggiunse: «È un ubriacone violento che per sport mi picchia… mia madre è fuggita tempo fa… così quando lui torna e non trova tutto pronto, o semplicemente è nervoso, si sfoga…»
Abbastanza irritata per quella situazione familiare, lei pensò a qualcosa da consigliargli; o almeno per tirarlo su di morale. Quella gente non meritava di avere il bel regalo che è un figlio… avevano quella fortuna e non se ne prendevano cura come avrebbero dovuto fare. Con gioia e amore, come lei tentava di fare da quelle quattro mura. Dopo un po’, borbottò: «Non è una questione di forza fisica, sai? Non del tutto, almeno.»
Lui la guardò perplesso e chiese: «Come no?»
«È psicologia.» rispose Athena, finalmente degnandosi di guardarlo: «Lui sa di avere il controllo, tu sai che ce l’ha lui. La mancanza di controllo porta alla paura e… se hai paura non combini niente.»
Il ragazzo abbassò lo sguardo e mormorò: «Se solo fossi più forte…»
«Non c'entra molto.» ribatté lei, costringendolo a guardarla: «Ascoltami. Io avevo dieci anni, ok? E ho ucciso, da sola, undici uomini sopra i trenta, fisicamente in forma. Ti pare che c'entri la forza fisica?»
Lui la fissò a bocca aperta, sentendo con le sue orecchie che le storie erano tutte maledettamente vere, e chiese: «Ma come…»
«Io avevo il controllo.» disse lei, sottolineando il concetto con il tono di voce: «Io avevo il potere. Loro solo la paura che li ha resi incapaci di reagire. Finché non ti convincerai che lui non è invincibile, che puoi rovesciarlo, continuerai a subire. È tutto qui dentro.» aggiunse, battendosi un dito sulla testa: «Per farti un altro esempio, Giovanni era un uomo singolo, nemmeno molto forte. Eppure non l’ho mai ucciso. Perché il controllo ce l’aveva lui. È tutta testa, fidati.»
Il ragazzo l’ascoltava interessato. Presi dal discorso, si fissavano negli occhi senza quasi battere le ciglia.
«Anche qui.» aggiunse lei, giusto per rendere l’idea: «Hanno provato a sottomettermi. Ma è bastato qualche osso rotto per ottenere il controllo e il potere.»
Colpito da quel ragionamento che non aveva mai fatto, lui chiese: «Quindi crede che se riesco a ottenere il controllo, riesco a fermarlo?»
«Credo di sì. Ma non è facile. Tu non sei un fifone. Fidati quando ti dico che sei stato l’unico di tutta questa marmaglia che ha avuto il coraggio di guardarmi negli occhi sotto minaccia. Ma lui è tuo padre e questo implica una forte soggezione. Vincilo psicologicamente e non potrà più farti del male. Comunque se vuoi, non ci metto niente a rimetterlo in riga. Uscire da qua è uno scherzo.»
Lui ridacchiò e chiese: «È davvero così semplice?»
«Per chi sa come fare sì.» gli rispose lei, facendogli l’occhiolino.
«Grazie… Demone Rosso.» mormorò lui, imbarazzato.
Lei riprese a fissare la scacchiera, sotto lo sguardo di Thomas, e disse: «Figurati. Tanto perché tu lo sappia, io ho un nome. Che nessuno usa, ma pazienza.»
«Posso saperlo?»
La donna mosse il cavallo e rispose: «Certo. Mi chiamo Athena, detta il Demone Rosso. È solo un banale soprannome che mi hanno dato.»
«È un bel nome… io sono Joshua Blade…»
«Stai per uscire e ci siamo presentati adesso. Che cosa curiosa.» ridacchiò lei, per poi venire interrotta dalla sirena che annunciava la fine dell’ora d’aria.
Tornando in cella, Joshua si perse a pensare. Doveva dirglielo. Lei aveva fatto tanto per lui, era sempre stata amichevole e gentile, e lui doveva essere sincero. Mancava ancora una settimana e poi sarebbe uscito.
Seduto nel suo angolino, pensò, roso dai dubbi: “Dirglielo l’ultimo giorno sarebbe troppo vigliacco. No, devo essere sincero. A costo di farmi ammazzare.”
Così, il giorno dopo, l’aspettò convinto di ciò che voleva fare. Il tintinnare delle molte catene, precedette il suo arrivo, come sempre con la scorta triplicata. Lei sedette, dolorante, dato che anche la notte passata avevano tentato di farle confessare cose assurde mai fatte, e lui chiese: «Buongiorno. Ma perché delle volte zoppica?»
«Lascia stare… i secondini giocano con le fruste.» sminuì lei, con un cenno, mentre tutto le doleva.
Il ragazzo non aggiunse altro, quasi scioccato, però poi si fece coraggio e mormorò: «D-devo dirle una cosa…»
Lei lo fissò, perplessa, e lui deglutì, per poi dire: «Io… sono qui perché ho cercato… anzi no, perché ho aggredito… Lilith Grayhowl.»
L’aveva detto quasi tremando, fissandola però negli occhi, con pentimento e malcelato terrore. Vide accendersi la fiamma della rabbia in quegli occhi rossi e gelidi, e Athena si scagliò come una belva su di lui. Thomas fu rapido ad intervenire, più coraggioso dei secondini che avrebbero guardato il ragazzo morire senza battere ciglio, e la afferrò per la vita, tentando di allontanarla da lui. Athena si voltò verso destra, sentendosi trattenuta da qualcuno, ruotò il busto, gli mise la mano destra sulla fronte e l'altra dietro la nuca. Un colpo secco e gli avrebbe spezzato l'osso del collo, ma Thomas sussurrò: «Athena, calmati. Noi siamo amici...»
La donna rimase immobile. Le emozioni che aveva imparato a conoscere si scontravano con la sua malattia mentale ed erano in grado di vincere. Riconoscendo la voce, riconoscendo l'amico, in uno sforzo di concentrazione sui sentimenti, tolse le mani dalla sua testa e le chiuse a pugno. Lui la lasciò andare e lei tornò in cella, mentre tutti quelli che incrociava sul suo cammino fuggivano al suo passaggio. Tornò in cella, ma la rabbia non era ancora diminuita.
«Io lo ammazzo.» ringhiò, andando avanti e indietro in quell’angusto spazio, cercando di scaricare la furia: «Gli taglio le mani. Ora capisco perché Lily si è sentita offesa. Ma che ne sapevo io? Io lo ammazzo.»
In preda alla rabbia, tirò un pugno al muro, seguito da altri, più forti. Doveva scaricarsi o lo avrebbe ucciso davvero. Aveva già rischiato e quasi ci era andato di mezzo un amico. Sedette in un angolino, con le mani sanguinanti, e cominciò a ripetere: «Non lo uccidere. Si è pentito. Non ha fatto nulla, in fondo. Sta’ calma. Calma…»
Dentro di lei, aveva paura di un attacco psicotico. Thomas l'aveva bloccata, le aveva impedito di sfogare, e rischiava molto... se fosse arrivata la voce... Se si fosse scatenata la psicosi, la vera psicosi, sarebbe stato davvero sangue e morte, “pianto e stridore di denti”.
Joshua invece, nell’atrio, si sentiva male. L’aveva delusa, era ovvio e gli dispiaceva. Quella strana donna lo aveva protetto, fatto sentire accettato… e ora, quasi ucciso. Quella rabbia era quella che aveva terrorizzato il continente. La temeva, ma era giusto così. Il suo errore era imperdonabile. Thomas tornò in cella finita l’ora d’aria e la vide nell’angolo, con le mani sulle tempie, che borbottava qualcosa di incomprensibile. Tremava dalla rabbia.
«Athena… che ti è preso?» chiese, con un poco di timore viste le sue condizioni; aveva rischiato di morire anche lui; ancora non capiva cosa l'avesse scatenata e cosa fermata dal spezzargli il collo e ucciderlo.
Lei non si mosse, restando concentrata sulla cantilena che si ripeteva in mente per stare calma e padrona di sé, ma ringhiò di risposta: «Ha messo le mani addosso a Lily. Ha messo le mani addosso a Lily!»
O’Bull la fissò, comprendendo la sua forte rabbia e capendo meglio il perché di quello scatto; con un sospiro, pensò a un modo per calmarla, ricordandosi le storie che lei gli aveva raccontato: la rabbia poteva provocare la psicosi, ma era necessaria la solitudine. Lui avrebbe potuto evitare il casino, così sedette a poca distanza da lei, e disse, calmo: «Idiota. Non so se abbia fatto la scelta giusta venendotelo a dire... però pensandoci, sarebbe stato peggio se lo avessi saputo dopo. Voglio dire, è stato sincero e te lo ha detto, sapendo a che rischio andava incontro.»
Lei respirò a fondo, sentendosi un po’ meglio con la compagnia dell’amico, ma sbottò: «In questo momento sto solo cercando di non pensare a quanto bello sarebbe ammazzarlo.»
«Cerca di calmarti, Athena. Hai visto, è sinceramente pentito. Non la toccherà più.»
La donna non rispose, ma il giorno dopo uscì dalla cella, prese Joshua per il colletto e ringhiò: «Toccala di nuovo e giuro sul mio nome che ti ammazzo.»
Poi, tornò in cella a sbollire. Il ragazzo deglutì, tristemente, perché sapeva di averla delusa, e si sentiva in colpa perché, dopotutto, lui amava la ragazzina. O almeno, reputava tale il sentimento che serbava nel cuore. Ma le cose stavano peggiorando, soprattutto quando vide che Athena non uscì dalla cella per tutta la restante settimana. L’ultimo giorno di reclusione, Joshua uscì per l’ora d’aria e la vide che imprecava, probabilmente perché Thomas era riuscita a metterla all’angolo a scacchi. Le si avvicinò a testa bassa, andando lì un po’ per salutarla e un po’ perché quello era l’unico posto sicuro per lui. Lei mando l’amico a quel paese con insulti vari molto coloriti, ma poi si voltò verso il ragazzo con un mezzo sorriso, ormai calma dato che aveva metabolizzato la notizia e sapeva che una sua minaccia non andava mai a vuoto, e disse: «Prendi un po’ di sole anche per me.»
Lui non alzò la testa, senza avere il coraggio di guardarla perché pentito del suo gesto, e rispose: «Mi dispiace… mi scusi, davvero.»
«Non devi chiedere scusa a me.» ribatté lei, cercando di essere amichevole per fargli capire che non voleva scannarlo, o almeno, non più: «Ma sappi che ha la testa dura.»
Il ragazzo annuì e rispose: «Farò quello che posso. E terrò le mani al loro posto.»
«Ti conviene, se non vuoi che ti spezzi tutte le ossa, una per una. Spero di non vederti mai più.»
Lui capì l’allusione, la guardò negli occhi e rispose: «Grazie. Starò fuori dai guai.»
Lei sorrise di risposta, dandogli un’amichevole pacca sulla spalla. Nonostante tutto, quel ragazzino le piaceva. Parecchio.
Il giorno dopo, Joshua uscì di prigione, felice di prendere un po’ di aria, e se ne sentì di ogni dal padre, poi dagli insegnanti, e infine dal preside. Finalmente poi poté andare a scuola e venne accolto sia da occhiatacce che da sguardi ammirati.
«Ecco il mio galeotto preferito!» esclamò Kevin, andandogli incontro. L'unico in verità di tutto l'istituto che gli era rimasto sempre e comunque davvero amico, nonostante le sue ribellioni e le vacanze in riformatorio.
«Taci, Kevin.» rispose lui secco, con un mezzo sorriso, felice di vederlo; si batterono il pugno ma poi lui, voltando la testa, intravide Lily. La ricorse e cercò di scusarsi, dicendo: «Lilith, io…»
«Stammi lontano, bastardo!» esclamò lei, interrompendolo avendo visto chi fosse e arretrando di qualche metro: «Non ti avvicinare. E ringrazia che mio padre è un avvocato che sa quanto rischia a non usare la testa.»
“E ringrazia che non abbia detto niente soprattutto alla mamma.” pensò poi, senza dirlo per non rivelare troppo.
Il ragazzo non si fece scoraggiare e mormorò: «Io volevo chiederti scusa…»
«Non attacca.» ribatté lei, irata, allontanandosi ancora: «E stai alla larga da me.»
Lui rimase un momento fermo, pensando a cosa fare, ma delle mani lo presero per un braccio e una voce suadente disse: «Lascia perdere quella preziosetta smorfiosa. Com'è andare in prigione?»
Joshua si voltò e vide alcune delle sue vecchie conquiste mai arrese che lo circondarono cinguettanti per sapere i dettagli. Lui fece lo spaccone, come voleva la sua reputazione di duro, vantandosi di come avesse subito preso il controllo della situazione, ma quando intravide quello smeraldino sguardo di puro disprezzo e odio, non poté che rattristarsi. Forse doveva cambiare vita, diventare un ragazzo degno della sua fiducia. Ma di certo non pubblicamente. Aveva un nome nella scuola e doveva mantenerlo. I giorni seguenti, Joshua le provò tutte per farsi perdonare, ovviamente quando nessuno lo vedeva. Ma era inutile. Lily lo odiava a morte, non voleva nemmeno fare la sua stessa rampa di scale. Finché, all’ennesimo rifiuto, non disse, guardandola andare via da lui con passo veloce: «Insomma, credi davvero che sia così stupido da toccare di nuovo la figlia del Demone Rosso?»
Lily si pietrificò sul posto, mentre il ragazzo alle sue spalle sogghignava vittorioso vista la reazione.
«E se posso darti un consiglio…» aggiunse: «Evita questa reazione. Se qualcuno lo dice per scherzo, rischia di smascherarti.»
Lei si voltò, senza dire una parola, sconvolta, e lui rispose alla domanda silenziosa: «Come faccio a saperlo? Siete due gocce d’acqua. E se ti chiedi come faccio a conoscerla, ti ricordo che la denuncia della tua amichetta mi ha fatto fare un mese di prigione. Guarda caso proprio a Zafferanopoli.»
«Beh, e allora?» ribatté lei, cercando di non farsi prendere dal panico: «Vuoi ricattarmi per caso?»
Lui sorrise storto, pensando per un attimo di costringerla a diventare sua con la minaccia di un ricatto, ma ovviamente si tolse quell'idea dalla mente e rispose: «No. Non sono così stupido e non intendo farmi “spezzare tutte le ossa una per una”. Voglio solo dirti che non ti farò nulla. La non molto velata minaccia di tua madre è stata piuttosto chiara, e con tutto quello che ha fatto per me non intendo mancarle di fiducia.»
Lily lo squadrò, perplessa da quell'inutile discorso, e ribatté: «Fa’ quello che ti pare. Basta che mi stai lontano.»
«Voglio solo esserti amico. Dammi una seconda chance.» quasi implorò lui.
Doveva diventare suo amico, conquistarla con le buone. Solo così sarebbe stata davvero sua e naturalmente avrebbe avuto l'approvazione della madre. Di certo era forse la seconda cosa più importante.
«Non ne hai mai avute.» ringhiò lei.
«Appunto. Per piacere.»
La ragazzina si scaldò, sempre più seccata da quell'insistenza e, nonostante la paura, sapeva che la madre l'avrebbe vendicata, così quasi gridò: «Ma si può sapere perché insisti?! Ci sono ragazze molto più disponibili, vai da loro e lasciami in pace.»
«Perché non voglio quello da te.» ribatté lui, restando forzatamente calmo e posato, nonostante fosse piuttosto seccato da come si stava facendo trattare da quella mocciosetta di tre anni più piccola: «Ho sbagliato approccio, l’ho capito. Kevin mi spenna, ma pazienza. Davvero, ti giuro che voglio solo essere tuo amico. Nulla in più.»
«Vedremo.» rispose solo lei, giusto per dargli il contentino, per poi andarsene via. Andò però dalla madre, per avere supporto e consiglio; e magari anche la promessa di un benservito se per caso lui avesse ancora allungato le mani su di lei e le avesse fatto del male. Giunta davanti alla cella, salutò i due galeotti e poi chiese alla madre, forse con un po' troppa ansia nel tono di voce: «Che ne pensi di quel ragazzo che è stato qui un mese?»
Lei la fissò un momento, ponderando la domanda, ma poi rispose: «Abbaia ma non morde. O almeno, non dovrebbe più. La mia parola è legge, almeno qui. Se non vuole finire al camposanto, gli conviene tenere le mani in tasca.»
Lily si rabbuiò, ma borbottò: «Ha detto che vuole essere mio … “amico”.»
«Dagli una possibilità. Se fa davvero l’amico bene, se allunga le mani lo dici a me che esco da qua, lo spedisco in ospedale, e ritorno senza che nessuno se ne accorga.» disse Athena con un sogghigno, con un tono di minaccia che fece rabbrividire perfino la figlia: «Se ha letto la lezioncina che ho dato a tu sai chi, sa anche che ha un mirino in fronte e gli occhi puntati addosso.»
«Lo faresti davvero?» chiese la figlia, con il cuore in gola, vedendo come alla madre non importasse niente della sua posizione e della sua fedina penale se era per proteggere lei.
«Certo.»
«Ti voglio bene.»
«Anche io.»

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Capitolo 25
*** Capitolo XXIV ***


Quel pomeriggio, Joshua stava tornando tranquillamente a casa, pensando a Lily e a come fare colpo su di lei, quando una voce alle sue spalle chiese: «Sei tu Joshua Blade?»
Lui si voltò, perplesso, e vide un bambino che lo fissava arcigno; sempre più perplesso, rispose: «Sì, perché?»
«Per non sbagliare persona.»
Giovanni tirò fuori la sua mazza da baseball e si avvicinò minaccioso, con un pericoloso scintillio negli occhi. Joshua fece lo spavaldo. Cosa mai poteva fargli un ragazzino? Anzi, era solo un bambino.
Sbaglio però i conti. Giovanni furioso era una vera macchina da guerra. Avvicinatosi, alzò la mazza e colpì.
Si fermò solo quando il suo nemico svenne. Poi girò sui tacchi e tornò a casa, con la mazza in spalla, soddisfatto del lavoro. Vendetta era stata fatta.
Il ragazzo invece si risvegliò alcune ore dopo, lì dove quel bambino l'aveva pestato. Tornò a casa e si curò come meglio poteva da solo, per evitare i pettegolezzi. Non disse mai a nessuno quello che era successo, ma qualcuno aveva ripreso tutto il pestaggio con il cellulare e il video aveva fatto il giro del web. L'ovvia conseguenza era semplice: cominciarono tutti a deriderlo. Il grande Blade, il playboy e il galeotto, si era fatto pestare da un bambino di nemmeno dieci anni. Ci sarebbe voluto un vero miracolo per recuperare tutta la popolarità perduta.
La voce arrivò anche all'orecchio di Lily e di Raphael, il quale andò in prigione per essere sicuro che Athena non c'entrasse. Non era ancora riuscito a parlarle da quando era successo il fatto e voleva capire la situazione e quanto fosse realmente arrabbiata. Gli era parso strano che il ragazzino fosse uscito dal carcere incolume. Aveva sperato, doveva ammetterlo, che Athena avrebbe fatto quello che lui non poteva fare.
«Certo.» rispose lei all'ovvia domanda: «L'ho minacciato ben bene. Sa che non deve più toccarla. Se mi arriva solo mezza voce, sa cosa gli aspetta. Tu stai tranquillo e stalle vicino.»
«Quindi non hai detto tu a Giovanni di prenderlo a mazzate?» chiese lui, cercando di capire.
Athena lo guardò perplessa e replicò: «Giovanni cosa c'entra?»
Raphael sorrise, ma mormorò: «Da una parte sono contento. Se l'ha aggredito vuol dire che Lily comincia a piacergli. Ma dall'altra, non sono un amante di questi comportamenti.»
«Disse quello che ha come fidanzata il Demone Rosso.» sogghignò lei, facendolo arrossire: «Di' pure al mio bambino che se si azzarda di nuovo ad alzare la mazza su qualcuno, suo padre avrà il diritto di sequestrarla.»
Raphael annuì, anche se non era proprio di quella idea, visto che aveva eseguito solo i suoi più reconditi desideri, ma Athena aggiunse: «Stalle vicino, Raphael. Ne ha passate troppe per avere solo quindici anni.»
E lui eseguì, sospendendo per un po' il processo e cercando di essere più padre e meno avvocato. La vedeva giù di corda, sfuggente, più chiusa del solito. E doveva fare qualcosa. Aveva dalla sua che sapeva come prenderla. Erano praticamente cresciuti insieme. Così, una domenica, la prese e la portò via, al parco naturale di Fiordoropoli: era il posto che la ragazzina amava di più in assoluto. Si circondava di Pokémon, giocava, correva... lì riusciva a rilassarsi e a svuotare la mente da tutte le sue preoccupazioni. Fu una giornata che le rese tutto molto più facile: giocava con Flamey, si riposava nell'erba, mangiarono un gelato... Nel tornare a casa, la sera, strinse la mano del padre e mormorò: «Grazie, papà. Mi ci voleva.»
Lui le sorrise ma, preso dai sensi di colpa, mormorò: «Senti, piccola, io devo scusarmi con te. Non sono mai stato davvero presente nella tua vita ma ho cercato di fare il possibile. Fortunatamente ora c'è anche tua madre, però... se ti succede qualcosa, vorrei che me lo dicessi. Vorrei essere lì per te, nei limiti del possibile. E se necessario, anche nell'impossibile. Vorrei essere un buon padre...»
Lei si bloccò. È vero, aveva taciuto tante cose, ma lui era sempre stato così distante, per la scuola prima e il lavoro poi. Però forse, si poteva ancora rimediare. Si era accorto dei suoi errori, le stava tendendo la mano. Ora toccava a lei. Lo abbracciò e mormorò: «Ti voglio tanto bene, papà.»
«Anche io, piccola. E se Giovanni non gli ha fatto troppo male, posso dargli la seconda dose.»
Lily ridacchiò ma prontamente rispose: «Sei un pacifista, papà, lascia stare. In caso esce la mamma.»
«Spero non le venga in mente questa splendida idea.»
Ridendo e scherzando, tornarono a casa. Ma lei voleva vederci chiaro: così, il giorno dopo, a scuola, andò a cercare Joshua e, fissandolo con il peggior sguardo che riusciva a fare, chiese: «È vera la voce?»
«Vuoi ridere anche tu?» sbottò secco lui, guardandola attraverso gli occhiali da sole che teneva sempre per nascondere l'occhio nero: «Guardati quel bel video. Comunque, sì è vero. E spero proprio che tutti loro incontrino quella belva.»
«Sono spettacoli più da mia mamma che da me...» borbottò lei, alzando gli occhi al cielo, ma poi fattasi seria, aggiunse: «Lo conosci?»
Joshua scosse la testa, rispondendo solo perché era lei. Se fosse stato qualcun altro, l'avrebbe di certo presa a pugni, cosa che in verità aveva fatto parecchie volte in quei giorni: «No. So solo che era furioso e mi ha urlato "Lascia stare mia sorella", come se io sapessi chi è sua sorella.»
Lily ebbe la sua conferma e sorrise. Non le serviva il video per capire chi fosse stato. Ripensando a quel sorella, e non sorellastra, Lily passò la mattinata, ignorando la presenza quasi costante alle sue spalle di Blade, e poi tornò a casa. Giovanni era scontroso come sempre, ma era diverso. Come se lo facesse per far vedere che la odiava, ma che in realtà non la odiasse per niente. Arrivata in camera, lei controllò la porta. Non vedendo arrivare nessuno, prese la mazza di Giovanni e vide delle tracce di sangue che lui aveva cercato di lavare via, ma che erano rimaste impregnate nel legno. Sorrise, rimettendola al suo posto. Quella notte, andati a dormire, Lily attese che si facesse buio e che non girasse più nessuno per casa, poi sussurrò: «Mostriciattolo?»
Lui rispose con un grugnito assonnato.
«Grazie.»
Lily sorrise e si voltò su un fianco; lui sorrise e pensò: “Prego.”
Il loro rapporto era cambiato in meglio, senza che nessuno dei due potesse controllarlo.
La mattina dopo, lei si svegliò sbadigliando per andare a scuola. Giovanni era come sempre già uscito molto presto, prima dell'alba, e lei era sola in camera. Poco dopo, pronta per partire, prese la cartella, ma vide un bigliettino posato sulla scrivania.

"Sapientina...
Se ti fa ancora qualcosa, dimmelo.
Mamma non serve che si disturbi.
Posso uccidere anche io."

Lily rabbrividì. Era un'espressione di affetto in fin dei conti, ma la pazzia di Giovanni era comunque inquietante. Però tutto sommato ne era felice. Voleva dire che le voleva davvero bene sotto sotto e che forse potevano essere davvero fratelli, anche dopo quella convivenza forzata e sofferta. Voltato il biglietto, rispose:

"Ti ringrazio... fratellino.
Ma avendo conosciuto nostra madre, gli è passata la voglia di fare qualunque cosa."

La ragazzina uscì dalla stanza ma prima di andare a scuola, incrociò N. Da parecchi giorni lo trovava in cucina, sveglio prima di lei e la sera gli sembrava sempre di notarlo fuori dalla porta. Aveva uno sguardo preoccupato, apprensivo, con delle vistose occhiaie, ma non le aveva mai detto niente. L'aveva solo vegliata, come un'ombra silenziosa. Si fece coraggio, almeno per vederci chiaro, e chiese: «N... che cos'hai?»
«Io niente. E tu?» rispose lui.
Lei sorrise, cercando di trasmettergli serenità, e replicò: «Sto bene. Davvero.»
Lui annuì e tornò a fare quello che stava facendo ma non era convinto. Sentì una mano posata sulla sua; spostò lo sguardo alla sua destra e la vide lì, vicino a lui. Lily si posò al suo braccio, chiudendo gli occhi e mormorò: «Se mai dovesse andare storto qualcosa, sarai il primo a saperlo.»
Lui le accarezzò la testa con l'altra mano, stringendola, e rispose: «La prendo come una promessa.»
Lei sorrise, perdendosi nei suoi occhi, ma sentì dei passi giù per le scale. Si allontanò di qualche passo da lui, mentre N uscì direttamente. La ragazzina ridacchiò, con il cuore in gola dallo spavento, mentre salutava il padre. Fatta colazione, andò a scuola, ma nel viaggio vide uno Swellow lontano dallo stormo, troppo vicino a loro. Ridacchiando, pensò: “Zoroark mi starà seguendo da tutto il mese. Probabilmente è d'accordo con Pidg. Vi voglio bene, ragazzi”. Arrivata all'edificio, salutò lo zio, entrò e vide Joshua, guardando con quasi soddisfazione il braccio al collo e i lividi sparsi. Doveva ammetterlo, Giovanni sapeva provare anche dei sentimenti. Il diciottenne, però, meditava vendetta. Nessuno, soprattutto un bambinetto, poteva umiliarlo pubblicamente così. Stava faticando non poco per tornare a farsi rispettare e si era beccato una mezza dozzina di denunce per aggressione. Non sopportava di venire deriso e scattava più del solito, irritato dalla situazione e dal fatto che non avesse guadagnato il minimo di terreno in più con Lily. Anzi, la cosa pareva peggiorare. Doveva scoprire chi fosse la sorella e avrebbe trovato anche quel maledetto bambino. Visto che minacciare, picchiare e spaventare non era stato per niente fruttuoso, si costrinse a pensare a tutte quelle che aveva abbordato negli ultimi tempi. Era sicuramente l'unica cosa fatta su una ragazza che avrebbe potuto far arrabbiare un famigliare. L'ultima era stata ovviamente Lilith, ma era stata la prima dopo una lunga pausa. Dal ragionamento quindi, la famosa sorella era proprio lei, però risultava l'unica figlia di Raphael Grayhowl, senza contare la sorellina a metà Martha. Gli venne un'idea. I bambini piccoli erano piuttosto facili da manipolare. Trovata Martha, si finse suo amico e la convinse a vuotare il sacco, scoprendo così del piccolo Giovanni, figlio della compagna di suo padre, della quale però lei non conosceva nemmeno di nome. Sapeva solo che il papà aveva ritrovato una sua vecchia fiamma, della quale era molto innamorato, e che lei aveva un bambino che viveva con loro. Joshua diede quasi per scontato si trattasse del Demone Rosso, sia perché la donna era in galera e quindi non poteva prendersi cura del figlio, sia perché quel bambino era un violento, come lei. Ingegnò quindi una trappola, mettendo in giro la voce che voleva riprovarci con Lily e stavolta riuscire nel suo intento. Il bambino abboccò all'esca, beccandolo solo in un vicolo.
«Aspetta, aspetta.» esclamò il diciottenne, quando lo vide, armato e furibondo, alzando le mani per dargli un segno di resa e poter parlare in pace: «Tu vuoi solo proteggere Lily, giusto?»
Giovanni fermò la mazza e annuì sospettoso. Joshua sorrise e disse: «Ascolta, io non le voglio fare del male, ok? Però non posso proteggerla come vorrei perché mi ritiene un violento e in effetti non fa bene alla mia reputazione... ma se...»
«... io li pesto, tu hai la fedina pulita.» finì la frase Giovanni, intendendo l’assurdità di quel discorso.
«Esatto.»
Giovanni rialzò la sua arma, scrutandolo come per scannerizzarlo, e ringhiò: «Non mi fido di te.»
«Lecito.» ribatté il ragazzo, annuendo e aspettandosi la sua ostilità, ma poi aggiunse, per convincerlo: «Senti, se la tocco tra te e tua madre non so se ne esco vivo. Quindi direi che potresti fidarti. Non sono così stupido e non ho manie suicide.»
Il bambino ci pensò su. In effetti, se l'aveva minacciato la madre, quel tipo era del tutto innocuo. Così mise via la sua mazza e gli disse: «D'accordo, ci sto. Ma non fare mai il mio nome.»
Lui annuì, vittorioso.
Una sera invece, poco tempo dopo, nel suo appartamento all’Altopiano Blu, Lance stava guardando pacifico la televisione, quando vide un messaggio sul cellulare. Perplesso, lo lesse: era un invito a cena del procuratore. Sbuffando si alzò per prepararsi e uscire. Non aveva molta voglia ma non poteva rifiutarlo perché quella donna era potente e rischiava problemi mettendosela contro come stava facendo Raphael. Era il Campione ma non un dittatore. Così le rispose che avrebbe accettato e uscì, trovandosi mezz’ora dopo con la donna in un ristorante di Fiodoropoli, a Johto. La serata passò tranquilla, tra discorsi politici ed economici, e Lance smise di stare in guardia. Non sembrava ci fossero doppi fini, quindi non doveva preoccuparsi come stava facendo. E fu in quel momento che lei attaccò. Lo fece ubriacare, ma non troppo perché si dimenticasse ciò che era successo. Doveva ricordare tutto. Sarebbe stata una dolce vendetta vederlo macerare nel senso di colpa per aver provocato un casino. La donna ormai era certa che il Campione nascondesse qualcosa in merito all’alleanza del buon avvocato Grayhowl con la Bestia del Continente e quindi doveva scoprire tutto. Troppo brillo per star zitto, Lance rispose a tutte le domande senza rendersi conto di cosa stava facendo. In quel vicolo, loro due soli, il procuratore seppe tutto. Lo lasciò lì, senza preoccuparsi di riportarlo in un luogo decente, pronta per spalare fango su quell’avvocato arrogante che aveva osato sfidarla.

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Capitolo 26
*** Capitolo XXV ***


La notizia era su tutti i telegiornali e su tutti i quotidiani di tutta la nazione. E anche oltre oceano.
L'avvocato Raphael Grayhowl era un corrotto e difendeva una bestia perché ne era innamorato.
La belva tornata e mai dimenticata aveva sedotto uno dei più grandi avvocati del continente e lui ci era cascato.
Lilith Grayhowl è figlia del Demone Rosso.
Tre notizie, scritte in tutti i modi possibili, che dicevano sostanzialmente la stessa cosa.
L’avvocato ormai, non veniva più richiesto, perché dicevano fosse un corrotto, e i suoi “amici” in procura lo canzonavano, dicendogli che aveva rotto il suo giuramento, che doveva solo vergognarsi di ciò che stava facendo. Ma a lui non importava. Lui doveva salvare Athena. Lei non lo avrebbe mai tradito. Sarebbe stata sempre e comunque con lui, nel bene e nel male. La batosta più grande fu quando Gabriel lo cercò per inveirgli contro, concludendo con: «Mi hai molto deluso. Ti credevo una brava persona e, invece, scopro che ti sei fatto intortare da una pazza psicopatica. Per fortuna, ho aperto gli occhi.»
Raphael, sconvolto, cercò di chiedere spiegazioni, di capire il motivo di tanta ostilità e di questo voltafaccia dal suo migliore amico, ma lui, con un’occhiataccia gelida degna del fratello, l'aveva salutato, dicendo: «Le tue giustificazioni non mi toccano.»
Poi, aveva preso la porta ed era andato via, per non farsi vedere mai più. Raphael non poteva credere che la loro amicizia fosse finita così. Tentò di chiamarlo, di parlargli, ma nulla. Distrutto, andò da Lance e lo pregò in ginocchio di poter vedere la sua ragazza, trattenendo a stento le lacrime. Il Campione vide quanto fosse disperato, così ovviamente acconsentì, sentendosi però tremendamente in colpa. Era stato lui a far uscire quel macello. Athena entrò poco dopo nella stanza degli interrogatori, isolata e sigillata, e lo vide in lacrime.
«Raphael! Che cosa succede?!» esclamò, correndogli vicino mentre le catene tintinnavano.
Lui l’abbracciò, quasi aggrappandosi a lei con disperazione, piangendo sulla sua spalla; lei lo strinse piano, non capendo cosa gli fosse successo ma dandogli tutto il conforto possibile in quel momento. Un crollo del genere non era da lui. Lance le aveva detto ciò che era successo e lei immaginava che ora gli dessero tutti contro, ma non capiva cosa potesse averlo distrutto in quel modo. Lui si calmò un momento e singhiozzò, per spiegarle: «Non vuole più vedermi, Athena. Pensavo che la nostra amicizia avrebbe resistito a tutto e invece mi sbagliavo. Gabriel non vuole più vedermi!»
Lei lo cullò dolcemente, accarezzandolo piano, con un quadro chiaro della situazione. Raphael le aveva spesso parlato di questo Gabriel, di come fossero amici, quindi poteva capire il motivo della sua sofferenza. Cercava di consolarlo, conscia che però la colpa era sia di Lance ma anche sua, per via della sua brutta fama di Bestia del Continente. Se Raphael non si fosse mai innamorato di lei, ora non avrebbe avuto tutti questi problemi.
“Il fratellino di mister Legge ha fatto proprio un bel lavoro. Non avevo mai visto Raphael così distrutto.” pensò mentre cercava di confortarlo in qualche modo, nel limite delle sue capacità di psicotica.
Quando si fu sfogato del tutto, la spalla di Athena era bagnata fradicia e lui aveva gli occhi rossi.
«Scusami…» mormorò, asciugandosi le ultime lacrime e sentendosi un po' in imbarazzo.
Lei gli sorrise e rispose, accarezzandogli la testa: «Shh.. va tutto bene scemo… tutto bene…»
Lui si posò ancora a lei, in cerca di conforto. Sapeva che con Athena non doveva vergognarsi di nulla. La sua piccola pazza sarebbe stata sempre al suo fianco. Come lui per lei.
«Credevo che la nostra amicizia avrebbe superato tutto.» borbottò, chiudendo gli occhi al tocco sulla sua testa: «Ma evidentemente mi sbagliavo.»
«Secondo me ritorna.» rispose lei, in un tentativo di risollevargli il morale: «Sai, quando Belle e Cheren mi videro sistemare Maxus, scoprendo poi chi ero veramente, mi evitarono per parecchio tempo. Poi non so cosa li ha fatti cambiare, ma hanno deciso che mi volevano bene e che era stupido starmi lontana. A loro non avevo mai torto un capello.»
«Credi che una volta elaborata la cosa, tornerà?» chiese lui, quasi speranzoso; Gabriel era stato il suo unico e vero amico in un momento di grande dolore, quindi non poteva pensare di non vederlo mai più, di non uscire più con lui, di non divertirsi più insieme a lui.
Lei alzò le spalle, rispondendo automaticamente in maniera lievemente insensibile ma diretta, come voleva la sua malattia mentale: «Non lo so. È una delle opzioni. Le reazioni sono soggettive.»
Raphael ignorò il commento, sapendo che la sua compagna faceva del suo meglio per consolarlo, si drizzò in piedi, ritrovando un po' di dignità e disse, abbracciandola e stringendola a sé: «Grazie, piccola pazza.»
«E di cosa, scemotto?» rispose lei, sorridendogli. Aveva, però, un sorriso strano, velato da qualcosa. Sembrava inquieta e non pareva rilassarsi un momento, neanche tra le sue braccia. Raphael non ci diede peso, pur sentendo dal suo corpo che qualcosa non andava. Era normale. Dopotutto, erano loro contro il mondo: il peso di quella responsabilità era enorme ma solo insieme sarebbero potuti resistere. Athena tornò in cella, dopo averlo salutato e si massaggiò le tempie, chiudendo gli occhi... ma quando cominciò a parlare con Thomas, sembrava tutto normale.
Anche Lily non se la passava bene. Non poteva più andare a scuola senza che la tormentassero.
«Mostro! Mostro!» le urlavano tutti nella scuola: «Tua madre è un mostro e anche tu lo sei!»
La gente per strada la additava e mormorava malignità, additandola come una pazza criminale pronta ad uccidere senza motivo. Era tutti i giorni la stessa storia. Lei smise di andare a trovare la madre, non riusciva nemmeno a pensarla senza arrabbiarsi; non parlò né con N, né con suo padre, perché difendevano quella donna che le stava rovinando la vita; nemmeno con Giovanni, nonostante il loro rapporto fosse migliorato parecchio. Alla fine, snervata da tutto e da tutti, soprattutto dalla pressione di quel periodo nero e dall’accanimento del mondo verso di lei, urlò contro il padre: «Sarebbe stato meglio se non fosse mai tornata! La odio! È un mostro e mi ha rovinato la vita!»
Raphael cercò di parlarle, ma lei non era lucida. L'ira per l'incomprensione di tutto quello che le stava accadendo l'aveva portata a chiudere gli occhi e vedere la madre come la vedevano tutti: una bestia. Lui cercò di farla ragionare, ma non riuscendoci, andò da Athena. Aveva bisogno di parlarle e di chiederle consiglio. Lily le assomigliava molto e magari lei aveva qualche idea per calmarla.
«Non mi meraviglia.» rispose la donna, con un’alzata di spalle alla fine del racconto: «Me lo immaginavo. Per lei deve essere dura. Finché danno del mostro a me, non è un problema. In fin dei conti è quello che sono. Ma lei non c'entra nulla. È solo vittima dell’ignoranza della gente.»
Lui si rattristò, pensando a quanto avesse ragione, anche se odiava sentirla darsi della bestia, e ribatté: «Sì, però… non voglio che lei odi sua madre… almeno lei dovrebbe…»
«Lei non deve niente, Raphael.» borbottò la donna, interrompendolo decisa a chiarire la questione: «È normale che ce l’abbia con me. Da un giorno all’altro è stata additata come una belva malata di mente per causa mia. Cosa pretendi? Dai tempo al tempo. Forse capirà, forse no… non lo so, ma voglio solo che lei sia felice. E se lo è odiandomi, ben venga.»
Raphael non seppe che replicare. Non voleva darle ragione. Guardandola, notò delle marcate occhiaie, così chiese: «Senti, Athena ma... va tutto bene? Cioè, lo so, è un periodo di inferno, ma...»
«Sì, sì.» rispose distrattamente lei, leccandosi le labbra, in un tic involontario che aveva un preciso significato e che lui conosceva bene: «Tutto bene.»
A lui il segnale non sfuggì. Sapeva bene cosa voleva dire. La strinse, cercando di darle un po' di affetto, di farle capire che lui era con lei e che non l'avrebbe mai abbandonata. Poi la salutò, uscì, ma quando fu fuori, chiamò Lance: «Senti, Campione. Qualcosa non va. Tieni d'occhio, Athena; credo sia un po' troppo sotto pressione.»
Lui annuì e promise di stare in guardia. Così Raphael tornò a casa tranquillo. Athena faceva quel gesto quando voleva uccidere. Se lo ricordava troppo bene. Ma se l'avessero tenuta d'occhio, non sarebbe successo niente. Purtroppo per lui, l'avvocato sottovalutava l'imprevedibilità della mente della compagna. Lei non aveva ancora incontrollabili istinti omicidi. Non ancora. Ma da troppo tempo la sentiva. Da quando era uscita la notizia e Raphael le aveva detto che per loro cominciava ad andare male. Era cominciata con un lieve sussurro, che spariva quando era in compagnia di qualcuno. Poi, aveva cominciato ad essere più forte, permanente, persistente... Quella voce, nell'antro più remoto del suo cervello, come succedeva in passato; usciva di testa per colpa di quella voce. Cercava di ignorarla, ma si faceva opprimente, sempre più opprimente... le aveva provate tutte per farla sparire: distrarsi, giocare a scacchi, parlare con Thomas ma niente serviva più. L'unica cosa che non aveva provato non poteva farla, quindi l'aveva scartata a prescindere.
“Sei un mostro, il mio mostro. Rovini la vita a chi ti sta intorno perché ti ho creata io così. Sei mia, sarai sempre mia...”
Athena si prese la testa, camminando inquieta nella piccola cella. Il suo amico non c'era, era sola, in compagnia dei suoi fantasmi che, nelle orecchie, le sussurravano: “Bestia, sei una bestia. La mia arma. Sai solo uccidere, prima o poi ucciderai di nuovo e tutti ti odieranno. Odieranno te, la tua famiglia, tutti. Stolta. Non puoi farne a meno, mia creatura... uccidi. Uccidi per me.”
Tirò una testata al muro, in un estremo tentativo di zittire tutto; un taglio sanguinò sulla fronte ma la voce non se ne andava. Lui era sempre lì, in agguato, pronto a reclamarla. A reclamare la sua creazione che non avrebbe avuto pace. Mai. Ma se neanche ucciderlo aveva aiutato a eliminarlo, cos'altro poteva fare? Sarebbe vissuto per sempre nella sua testa, senza lasciarle scampo? Senza darle tregua? Pronto a riapparire al minimo problema?
Prese un lenzuolo, salì sul letto a castello e lo legò al lampadario. Se uccidere lui non era servito, uccidere la fonte della voce avrebbe funzionato. La voce viveva nella sua testa. Era ora di estirparla. Non ce la faceva più, non voleva più sopportare quel continuo mormorio nella sua mente. La portava sull'orlo della follia. Non voleva impazzire di nuovo. Non voleva rischiare ancora di fare del male a qualche persona importante. O fare del male a qualcuno e mettere ancora più nei guai le persone importanti. Fece un cappio molto vicino alla lampada, di modo da non toccare a terra. Se lo mise intorno al collo, poi legò le mani tra di loro.
Sorrise e disse: «Ciao, capo.»
Poi si lasciò cadere. L’aria si bloccò, trovando la trachea occlusa. I polmoni non avevano più aria, il cuore cominciò a battere più forte.
Poi divenne tutto buio.
 

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Capitolo 27
*** Capitolo XXVI ***


«Mmmh…» borbottò l’insegnante nell’ora di storia, la professoressa Willow: «Chi potrei interrogare?»
Il dito scorreva la lista dei nomi avanti e indietro, soffermandosi alcune volte in orizzontale sui voti già dati. Era molto perplessa su chi chiamare fuori alla lavagna, per una piccola verifica delle nozioni apprese.
«Ma sì.» concluse, segnando un nome sul registro: «Grayhowl, hai studiato?»
Lily alzò lo sguardo, seduta nel suo solito banco solitario, e annuì, perplessa. Non la interrogava alla lavagna più nessuno, per paura di chissà che, e lei doveva arrangiarsi con i compiti scritti sperando andassero bene. Quell’insegnante era l’unica che non aveva cambiato il suo modo di trattarla. La ragazzina si alzò, mentre un tremito invadeva i compagni e rimediò un voto piuttosto alto, dopo un'ora secca di domande sola alla lavagna; ma era triste comunque. Cos’era un successo scolastico, quando non avevi più nessuno? Più un amico, dei compagni, anche solo semplici conoscenti… Felix tentava di starle vicino, ma tutti lo tenevano a distanza e lo spingevano a starle lontano, trattenendolo delle volte anche a forza. E lei stava allontanando tutti per difendersi, anche chi le sarebbe stato amico.
Finita la mattinata, la ragazzina uscì dalle scale di servizio sul retro. Erano vietate agli studenti, ma lei voleva evitare di mostrarsi troppo in pubblico. Rischiava un pestaggio in piazza senza la possibilità che qualcuno muovesse un solo dito per soccorrerla. Aprendo la porta della scala, però, si trovò davanti proprio quella donna, la sua insegnante preferita, che quando sentì la porta aprirsi, si voltò e chiese sorpresa: «Lilith? Che cosa ci fai qui?»
«Oh.» rispose lei, arretrando un momento e non alzando nemmeno lo sguardo nel suo: «Io… ehm, esco di qua.»
Lei parve capire il sottinteso, perché le sorrise e annuì, aggiungendo: «Lascia andare prima me.»
La donna la precedette per tutte le scale, mentre la ragazzina la seguiva con le mani in tasca e lo sguardo fisso a terra. Arrivate in fondo, l'insegnante aprì la porta e si trovò davanti un gruppetto di studenti armati di mazze che, quando la videro, gelarono sul posto.
«Non sapete che da qua escono gli insegnanti?» sbottò, con un tono volontariamente rabbioso: «Sparite e andate a casa. O domani vi interrogo su tutto il programma.»
La minaccia funzionò, perché quelli fuggirono a gambe levate. Lily uscì e si guardò intorno, più tranquilla.
«Grazie.» borbottò, contenta di aver schivato il pestaggio.
Lei sorrise e rispose: «Per un po’ non ti daranno fastidio. Buon pomeriggio.»
La donna aveva visto un’ombra volare sopra le nuvole. Sapeva che Lily andava a casa accompagnata da Deathly Eagle, perché una volta l'aveva seguita, preoccupata per la sua incolumità, e sapeva ancora meglio che il Pokémon non sarebbe sceso finché non se ne fosse andata. E così fu. Quando tornò su dal vialetto con la macchina, vide la sua ombra volare verso il sole. Sorrise, sapendo che almeno fuori da scuola era al sicuro.
Il giorno dopo, però, la prese in parte dopo le lezioni e le disse: «È da un po' che non vedo tuo padre a udienze, Lilith.»
Lei abbassò lo sguardo e mormorò: «Che ho fatto?»
«Niente.» sorrise lei, cercando di tranquillizzarla, notando la sua ansia: «Volevo solo parlare con lui.»
«Glielo dirò...» borbottò solo la ragazzina, per nulla calma, per poi salutare e andarsene in fretta, prima di restare sola e presa di mira da qualche giustiziere. Arrivata a casa con lo zio, posò la cartella e disse: «Pa’… la prof di storia ti vuole a udienze.»
«Come? Perché?» chiese lui, scendendo dalle scale che portavano al piano di sopra.
«Non ne ho idea…»
Raphael non indagò oltre, vedendo quanto fosse abbattuta la figlia, ma il giorno dopo andò a scuola, nel pomeriggio per parlare con l’insegnante. Prese vicoli secondari per evitare problemi con i moralisti che lo vedevano come un pazzo e, entrato nell'edificio, si fermò davanti alla porta. Bussò e l’insegnante lo fece entrare nel suo ufficio; sedette alla cattedra e lo guardò mentre sedeva di fronte a lei. Poi sorrise e, notando lo sguardo preoccupato dell'interlocutore, disse: «Non mi guardi così, avvocato. Non è nulla di grave.»
«E allora perché mi ha fatto venire?» chiese lui di rimando, un po' secco ma ancora in ansia per quella convocazione inaspettata.
«Volevo solo chiederle se ha pensato all’insegnamento privato per sua figlia.»
Raphael la fissò, non convinto di aver capito bene, e lei aggiunse: «Capisce anche lei che per Lilith è una tortura venire tutti i giorni a scuola. Se potesse starsene a casa a studiare forse starebbe meglio non crede?»
«Ci ho pensato.» ammise lui, annuendo: «Ma Lily non ha voluto.»
La donna parve perplessa e chiese: «Come?»
«Ha capito bene. Mi ha detto che lei non ha fatto niente e che ha tutto il diritto di andare a scuola come gli altri.» rispose lui, lasciandosi sfuggire un dolce: «Ha il carattere di sua madre…»
«Cioè?»
«Testona.» borbottò solo lui, pentendosi di essersi fatto scappare quella frase, per poi chiedere: «Era solo questo?»
«Sì. Volevo solo esprimerle la mia preoccupazione per sua figlia. Non sta bene, non più.» disse affranta la donna. Si era quasi affezionata a quella ragazzina. Era brava, buona, intelligente ed educata. Non era mai stata violenta o aggressiva. E dipingeva la sua mamma come la persona migliore del mondo. Si ricordava quel tema in classe; aveva come argomento proprio la mamma. E Lily l'aveva scritto con il cuore. La donna era rimasta molto colpita quando aveva scoperto chi era la famosa mamma, dato che non sembrava per nulla la descrizione della Bestia del Continente, ma di una mamma che sapeva difendere e supportare la figlia.
«Purtroppo lo so…» rispose lui, adombrandosi: «Ma non posso farci niente. Posso solo difendere le mie ragioni e abbassare la testa.» aggiunse, sperando che prima o poi finisse quell'ondata di odio.
«È una ragazzina coraggiosa.» sorrise la donna, cercando di tirarlo su di morale: «Non è da tutti avere tutto questo fegato. Le prometto una cosa… cercherò di proteggerla almeno tra queste quattro mura. La scuola deve essere un posto sicuro. So che lei è una brava ragazza e che la stanno prendendo di mira per niente.»
«La ringrazio.» borbottò lui, lasciandosi sfuggire un sorriso: «Fuori da qua c'è chi la può proteggere.»
«Ho notato.» assentì la donna, facendogli l'occhiolino quasi da complice: «Non sono tutti contro di voi, stia pure tranquillo.»
Raphael annuì, riconoscente; le stinse la mano e la salutò, per poi uscire e tornare a casa.
I giorni passarono e Lily veniva maltrattata ogni giorno, continuamente, senza tregue. Si era spostata di banco, mettendosi nell’angolo più buio della classe, da sola. Non parlava con nessuno, si faceva gli affari suoi più che poteva, per non dare a nessuno motivo di darle fastidio. L’unico che aveva un contatto con lei era il suo amico Felix che, dopo un periodo nel quale l’avevano costretto a starle lontano, era ripartito all’attacco per supportarla. Era da sempre il suo migliore amico e il solo che non l’aveva mai abbandonata. Quando era venuta fuori la notizia che lei era figlia di Athena e lui si era liberato degli scocciatori che lo obbligavano a prendere le distanze, il suo commento era stato: «È fantastico Lily! Non sei figlia di quell’antipatica di Daisy!»
Lei aveva risposto, scioccata: «Felix… stai scherzando?»
Ridendo sincero, lui aveva risposto: «Certo che no! Chiunque è meglio di quella strega!»
Ed era sempre così. Felix ci scherzava su, cercava di rendere meno pensante la cosa all’amica, e quando lei finì per andare a scuola con una pistola, da usare in caso di aggressione, riuscì a dissuaderla dal fare follie. Di lui, lei si fidava moltissimo. Di lui e solo lui. Tutta la scuola, invece, evitava o malmenava quella piccola ragazzina che non sembrava più quella di prima. L’ostilità di tutti aveva reso il suo sguardo duro, non necessariamente cattivo ma sicuramente scuro e infelice, e il sorriso era un gesto ormai dimenticato, se non per quello che riusciva a strapparle ogni tanto Felix. Joshua la osservava, da lontano. Non poteva avvicinarsi perché lei l'avrebbe sicuramente scacciato, ma era preoccupato. Sembrava soffrisse molto, ma lui non la temeva. Aveva conosciuto il mostro di cui tutti parlavano e sapeva che Athena non era cattiva. Tranne con chi se lo meritava. Mentre Lily… lei era tutto fuorché una bestia.
In quei mesi, Joshua aveva riguadagnato un po' dell'antico rispetto perduto con il pestaggio di Giovanni, ma non era felice. Andava in moto con la banda di amici, si divertivano a fare i vandali, a ubriacarsi e ad abbordare le ragazzine, come sempre... come aveva fatto da tutta la vita, per ribellione a una madre mai avuta e un padre assente. Non si sentiva però bene come una volta. Quando aveva baciato Lily, quella sì che era stata felicità vera. Sentiva di volerle essere accanto, di stringerla e dirle che andava tutto bene. Ma non poteva. Lei lo avrebbe mandato via e lui sarebbe ritornato lo zimbello dell'istituto. Voleva però rivedere almeno il suo viso, anche da lontano. Finite le lezioni, aspettò che se ne andassero tutti, poi la vide uscire, guardarsi intorno e correre giù dalle scale di servizio. Con un sospiro, prese la porta principale e andò a casa. Avrebbe trovato il modo per conquistarla, per darle il suo appoggio, rimanendo però il grande Blade. Giunto fuori però, sentì dei rumori provenire dal retro della scuola, così andò a vedere, incuriosito e magari con la speranza di infilarsi in qualche rissa. Vide dei ragazzi del quinto anno che avevano circondato qualcuno ed erano armati di sassi.
“Oh no, Lilith!” pensò il ragazzo quando la sentì urlare e supplicare nel mezzo del cerchio, colpita dalle pietre.
I ragazzi lo sentirono accorrere. Uno si voltò, lo vide e disse: «Ciao, Blade! Puoi vendicarti su questo esserino se vuoi. Ti ha mandato in prigione, immagino tu non veda l'ora di fargliela pagare!»
Lui prese il cellulare, facendo finta di guardare l’ora, parlando a vanvera per prendere tempo, ma invece fece uno squillo al primo numero in memoria. Poi, si avvicinò ancora, con un sorriso spavaldo, e vide che Lily era svenuta. Così poté fare meglio la sua recita, sperando che Giovanni si muovesse.
«Certo.» rispose quindi con un ghigno: «Era anche ora di prendersi la rivincita, no?»
Gli altri sghignazzarono, facendogli spazio, e lui pensò a un modo per allungare i tempi. L'istinto di approfittarne era forte... era svenuta, non avrebbe sentito nulla, e la sua recita sarebbe stata più convincente. Si chinò su di lei e posò le labbra alle sue, ma una mazzata secca sulla testa lo fece rotolare in terra. Sentendo il cranio spaccarsi in due, aprì un momento un occhio e vide Giovanni circondato dai cinque ragazzi. O meglio, Giovanni stava stendendo a mazzate i suddetti cinque ragazzi. Probabilmente spaccando loro qualche osso. Tramortiti tutti e cinque, si avvicinò a Joshua con la chiara intenzione di fare altrettanto, ma lui pigolò qualcosa in merito al fatto che stava recitando.
«Mi prendi in giro?!» ringhiò il bambino, furioso per averlo visto mettere di nuovo le mani addosso alla sorella: «Io odio essere preso in giro.»
«No, davvero...» balbettò lui, vedendoci doppio per via della commozione cerebrale e non riuscendo nemmeno a mettere a fuoco: «Stavo prendendo tempo...»
«Toccala di nuovo e ti spacco la testa.» minacciò lui, non del tutto convinto se credergli o meno. Mise via la mazza e cominciò a camminare, ma poi aggiunse: «Ti tengo d'occhio Blade. Ricordatelo.»
Il giovane lo guardò allontanarsi, poi, scuotendo la testa per riprendersi, sedette a terra e vide Lily che, ancora svenuta, stava perdendo molto sangue. Si avvicinò a lei e le mise due dita sulla gola, sentendo il battito. Si rialzò barcollante e pensò di chiamare l'ambulanza. Ma gli avrebbero fatto domande scomode, così la prese in braccio e la portò via, controllando le sue condizioni nel tragitto. Aveva un brutto taglio sulla testa, oltre ai vari lividi sparsi un po’ ovunque e respirava a fatica. Lui la accarezzò dolcemente, spaventato da quel sentimento che non aveva mai provato, e sentendo dentro di lui una grande voglia di proteggerla.
La portò a casa sua. Il padre era probabilmente in un qualche bar a bere, e lui, dopo aver curato alla buona le ferite della ragazzina, si preparò il pranzo, aspettando che si svegliasse per chiedere a lei dove volesse andare. Lily restò incosciente alcune ore, poi il suo cellulare prese a vibrare. Il ragazzo lo cercò per spegnerlo e evitare che lei si svegliasse troppo presto, ma quando lo prese in mano, lesse il nome del chiamante.
“Papà.”
Con un respiro per farsi coraggio, rispose e disse, senza lasciar dire una parola a Raphael: «Avvocato Grayhowl, mi chiamo Joshua Blade. Non si agiti e mi lasci spiegare. Dei tizi hanno aggredito Lilith e sono intervenuto. È un po’ ammaccata e ancora priva di sensi, ma penso stia bene.»
«Vengo a prenderla.» disse subito lui: «Dimmi dove abiti e non ti azzardare a metterle le mani addosso.»
«Sì, signore. Giuro, non intendo fare nulla se non aiutarla.» balbettò lui, sentendo il tono particolarmente furioso del solitamente mite avvocato: «Ha presente la ciclabile che va da Azzurropoli a Fucsiapoli?»
«Quella che parte a ovest del centro commerciale?»
Il ragazzo annuì e aggiunse: «Esatto. Nella parte finale della pista, prima di entrare a Fucsiapoli, c’è una casa. Suoni sotto Blade. La aspetto.»
«Arrivo subito.»
Joshua mise giù e controllò le ferite di Lily. Era ancora incosciente ma respirava meglio ed era meno pallida. Si chiese però se l'uomo avesse intenzioni violente; sperando nel buonsenso, o forse solo nella fortuna, lo attese. Poco dopo, qualcuno suonò il campanello. Il ragazzo si avvicinò al videocitofono e vide sullo schermo il biglietto da visita di Raphael. Aprì la porta e poco dopo l’uomo entrò, togliendosi il cappuccio.
«Cos’è successo?» chiese, in ansia, vedendo la figlia ancora svenuta sul divano.
«L’hanno aggredita con delle pietre. Penso ci voglia l’ospedale, ma non volevo fare casini…»
«D'accordo. Ora ci penso io. Senti, scusa la minaccia, sono solo preoccupato.» borbottò, un po' imbarazzato per aver fatto una cosa che non faceva mai: «Ti ringrazio per l'aiuto.»
«Si figuri, avvocato.» rispose lui, sorridendo ma preoccupato per la ragazzina: «Era lecito. Ma la sua compagna è stata molto chiara sulle conseguenze di determinati gesti. Non intendo provocare nessuno.»
Raphael alzò gli occhi al cielo, conoscendo i modi di Athena, lo salutò con un cenno, poi portò la figlia dal dottor Wilson, un dottore molto particolare. Era un medico molto bravo, estremamente competente, ma non era molto amato perché curava chiunque. Anche gli ergastolani che si pestavano in carcere. Sosteneva che il giuramento di Ippocrate non andrebbe mai tradito, in nessun caso e per nessuna ragione.
«Un altro pestaggio?!» esclamò il medico, quando lo vide entrare nel piccolo ospedale di campagna con la ragazzina tra le braccia e lo sguardo affranto: «Povera piccola… addirittura le pietre.» aggiunse, dando un’occhiata veloce alle ferite e ai lividi sparsi.
«Ci manco solo io in ospedale e facciamo tombola.» mormorò lui di risposta, posando la figlia sul lettino che il medico aveva portato.
Wilson sospirò, prendendole alcuni parametri, e disse: «Non migliora, Raphael. Sono preoccupato.»
«Sa perché non si sveglia?»
«Da come sia tu che il suo compagno di cella mi avete raccontato, credo abbia avuto un attacco psicotico. Non è raro sotto forte stress emotivo e probabilmente il suo cervello ha pensato fosse l'unica soluzione. È una situazione molto particolare, ma anche davvero strana. Di solito gli psicopatici tendono a tenere di più alla propria vita che a quella degli altri. Il suicidio non è quasi mai contemplato.»
«Ne so meno di lei, dottore... Dio solo sa quanto devo a quel carcerato per averla salvata.»
Wilson gli diede una pacca sulla spalla e disse: «Si riprenderà, sta’ tranquillo. Quella donna ha una tempra d'acciaio. Comunque, mi ha chiamato Lance. Se vuoi, puoi parlargli. Piuttosto dimmi… cos’è successo a Lily?»
L’avvocato raccontò del salvataggio e lui lo fissò perplesso: «Joshua Blade? Sei sicuro?»
«Sì... tranquillo, so tutto. E so anche che Athena l'ha rimesso in riga, quindi non ho di che preoccuparmi.» rispose lui, con uno sguardo eloquente. Raccomandandogli la figlia, lo salutò per lasciarlo lavorare. Wilson portò Lily in una stanza per controllare i danni. L'avvocato, invece, entrò in quella accanto. Prese la sedia e sedette in parte al letto. Era una delle poche volte che era vuota, poiché N era sempre lì. Non avevano ancora detto nulla a Giovanni, ma presto l'avrebbe scoperto.
«Piccola pazza, svegliati.» implorò, con le lacrime agli occhi, tenendole stretta una mano e sperando che sentisse le sue parole: «Non puoi mollare così. Tu sei forte, sei … grandiosa. Perché vuoi farmi questo? Perché vuoi andartene da me?»
Le teneva la mano, sperando in un risveglio. Da quando l’avevano chiamato, cinque giorni prima, dicendogli che si era impiccata tentando il suicidio, appena poteva andava a trovarla. L’avevano salvata per il rotto della cuffia, ma Wilson aveva paura di danni cerebrali. Raphael aveva finito le lacrime. Gli occhi gli bruciavano, ma non riuscivano più a piangere. Ora era semplicemente… vuoto. Non sapeva se sperare, se rassegnarsi … non sapeva nulla.
Quel pomeriggio, però, il bambino di Athena andò nell'ospedale, per vedere come stesse la sorella. Casualmente, vide Raphael nella stanza accanto. Perplesso, curiosò dal vetro e vide la madre stesa sul letto, a occhi chiusi, con la flebo e l'ossigeno. Irruppe dentro, bloccandosi sulla porta sconvolto. La mazza gli cadde dalle mani, finendo in terra. Raphael lo vide, ma non fece nulla. Sapeva come si sentiva il bambino. Era probabilmente la stessa orribile sensazione che attanagliava il suo cuore. Giovanni si avvicinò lentamente, prese un'altra sedia e la mise vicino all'uomo, fissando la madre con gli occhi pieni di lacrime e di mute domande. L'avvocato non disse nulla. Gli porse un fazzoletto, che lui prese, e si passò una mano tra i capelli. Non dormiva da giorni e stava malissimo. Senza alcun preavviso, Giovanni crollò. Si buttò tra le braccia di Raphael e pianse disperato. Lui lo strinse e fece del suo meglio per consolarlo, invece che seguire il suo esempio e piangere a sua volta.
«Non è finita, Giovanni.» mormorò poi, quando il bambino si fu calmato, tenendolo stretto tra le sue braccia: «Finché non smetteremo di sperare, non finirà così.»
Il bambino annuì, stringendosi a lui; era tra le braccia di uno sconosciuto ma era scoppiato. Raphael gli accarezzò la testa in un ultimo tentativo di consolazione. La sera stessa, Lily si svegliò e si riprese bene, grazie alle cure del dottore. Restò in ospedale due giorni, poi tornò a scuola, ancora piena di lividi ma non c’erano state complicazioni. Né l'avvocato, né Giovanni fecero parola di quello che era successo nella stanza di Athena. L'uomo capiva che lui non voleva mostrarsi “debole” e rispettò la sua scelta. Il bambino, però, doveva far pagare a qualcuno la sofferenza della sua famiglia, in un modo o nell’altro.
Raphael raccontò tutto a Lily, così lei, appena vide Joshua a scuola, gli si avvicinò e disse: «Non so che cosa ti sia passato per il cervello ma… grazie dell’aiuto, Blade. Papà mi ha detto quello che hai fatto.»
Lui sorrise, rinfrancato nel vederla in piedi, e rispose: «Figurati… ma cosa ci fai già a scuola?»
«Jack ha detto che sto bene. Non c’era bisogno di stare a letto. Soprattutto perché se perdo scuola nessuno mi aiuterebbe a recuperare.» rispose lei, con un’alzata di spalle.
Vedendo come fosse aperta al dialogo, meno ostile del solito, lui ci prese gusto nel parlare e chiese: «Ma non avevi il tuo amico?»
«Felix è malato.» ribatté secca solo lei, allontanandosi mentre lui si avvicinava.
«Ti prego, non avere paura di me. Voglio solo aiutarti.» quasi implorò lui, vedendo che la fiducia era solo apparente; non voleva sottolineare il fatto di averla salvata, ma doveva capirlo che non aveva più cattive intenzioni e che era dalla sua parte.
Lei scosse la testa e se ne andò, ma lui la inseguì e aggiunse: «Io l’ho conosciuta! Non è cattiva, e tu lo sei ancora meno! Voglio solo esserti amico, Lilith, per piacere.»
Lily sospirò, non sapendo se fidarsi o meno, poi disse: «Avresti l’odio di tutti.»
«Non è un problema.»
«E della tua “reputazione”?» chiese lei, quasi schernendolo, sapendo che teneva al suo nome più di ogni altra cosa: «Anche quella non è un problema?»
«Senti, io…» cercò di dire lui, ma lei non riuscì a trattenere l’occhiata di disprezzo e se ne andò, cercando di essere invisibile per non farsi picchiare l’ennesima volta.

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Capitolo 28
*** Capitolo XXVII ***


Poco tempo dopo, la situazione non era cambiata. Lily era nel boschetto fuori dalla scuola, aspettando lo zio. Ma non ne poteva più di quella situazione. Le lacrime scendevano senza che potesse fermarle... Sentì un rumore alle sue spalle e si voltò di scatto. L’ultima lacrima, solitaria, si asciugò al sole, lasciando il posto a uno sguardo fiero, molto simile a quello della madre. Non avrebbe dato la soddisfazione ai suoi aggressori di vedere le sue lacrime. Tutto ma non quello. Dai cespugli, però, comparve la sua insegnante preferita, che, preoccupata avendola vista uscire sofferente, era andata a cercarla per vedere come stesse. Quando Lily la riconobbe, si calmò togliendosi dalla difensiva. Sapeva che lei era dalla sua parte.
La donna si avvicinò e vide il braccio immobile e sanguinante. Sospirando per quelle violenze senza senso, chiese: «Riesci a muoverlo?»
Lei scosse la testa, borbottando: «Non sento niente.»
«Vuoi che ti porto in ospedale?»
«No, grazie.» rispose Lily, anche se era contenta di quelle premure nei suoi confronti: «Devo andarci comunque con mio padre.»
L’insegnante annuì e la salutò, avendo visto l'ombra di Deathly Eagle nel cielo. Sapeva che non sarebbe sceso, oppure l’avrebbe attaccata, quindi era meglio lasciarli in pace. Così se ne andò, sorridendo, mentre la ragazzina borbottava ringraziamenti. Il rapace di Athena invece atterrò e fissò storto i cespugli.
«Ciao, zio.» salutò la nipote, sorridendo: «Non ti preoccupare, non aveva cattive intenzioni.»
Pidg la prese sulla parola, ma vide il braccio ferito e ci strusciò sopra la testa, preoccupato per la salute e l’incolumità della sua nipotina.
«Tranquillo, guarirà.» rispose lei, accarezzandolo con la mano sana sul becco.
Lui si abbassò il più possibile, per facilitarle la salita sul suo dorso; poi, dopo un breve sguardo nei dintorni per individuare eventuali pericoli, decollò, spiccando un balzo da fermo con l'unica zampa e spalancando le lunghe ali. Lily arrivò a casa e, entrata, sedette sul divano insieme allo zio, mentre N preparava il pranzo per lei e suo padre, e quest’ultimo apparecchiava la tavola. Giovanni non c'era mai a pranzo.
Raphael vide che era ferita, ma non disse nulla. Cosa poteva dire? Le aveva già provate tutte... i suoi tentativi di convincerla a studiare a casa erano falliti miseramente, le sue consolazioni sembravano inutili e non poteva nemmeno fingere che la cosa sarebbe migliorata. Come poteva migliorare? I Pokémon della casa facevano del loro meglio per tirarla su di morale ma niente sembrava funzionare... gli mancava solo una carta da giocare: le lotte Pokémon. Flamey stava crescendo bene, poteva cominciare a mostrare il suo fuoco interiore. Ma non si era mai fidato a proporlo... e, egoisticamente, ci teneva molto che fosse sua madre a insegnarle l'arte della lotta. Motivo per il quale si stava impegnando più che poteva per tirarla fuori dai guai giudiziari e portarla da loro... dopo averla strappata dalle braccia della morte, ovviamente. N non sapeva che fare, guardandola con la coda dell'occhio. Gli piangeva il cuore vederla in quelle condizioni, ma non sapeva se intervenire o se lasciarla in pace. Lei non dava segni di cercarlo, perché avrebbe dovuto farlo lui? Era sempre stata lei a cercarlo quando aveva bisogno, mai il contrario. Così non si fidava a esporsi. Temeva di peggiorare le cose. Con un sospiro, tornò a fare il suo lavoro mentre lei, sdraiata sul divano, pensava: doveva ammetterlo, la madre le mancava molto. Era stata bene in sua compagnia e, ora, sentiva di aver perso un’amica, una confidente… una madre. E pensava a tutto quello che lei aveva passato. Alle volte che le aveva riaperto le ferite della frusta per alleviarle la sofferenza, a quanto odiasse essere comandata e non poter fare quello che voleva, a quanto le mancasse Giovanni... Tutte cose che i giornali non riportavano. Nessuno aveva mai detto che lei si era consegnata, aveva accettato ogni punizione, ogni processo, ogni insulto, ogni derisione… tutto per espiare la sua colpa e stare in pace con i suoi bambini. Ora era bastato il fatto che lei potesse amare per rovinare tutto. Lei e Raphael stavano vincendo... ma tutti avevano visto il loro amore come una cosa negativa, come un subdolo gioco di seduzione e corruzione.
E l'idilliaco castello della libertà era crollato.
La donna aveva perso tutto. Anche l'amore della sua unica figlia biologica. E aveva pensato bene di impiccarsi. Come se fosse una soluzione. Quando il padre glielo aveva detto, le era crollato il mondo addosso. Non poteva crederci. Il senso di colpa non l'aveva mai dilaniata così tanto come in quella occasione.
«Athena è in ospedale, Lily. Ha tentato il suicidio e non si risveglia.» le aveva detto con voce grave e la faccia di uno che aveva pianto per troppo tempo.
Da allora, la piccola passava tutti i giorni in ospedale. Le prendeva la mano, le chiedeva scusa, la pregava di svegliarsi, le diceva che si sarebbe sistemato tutto, che le voleva bene e che voleva stare al suo fianco. Ma la donna restava incosciente. La nutrivano attraverso una macchina, ma non poteva vivere così in eterno. Se fosse sopravvissuta. Lily sapeva che anche Giovanni passava tutti i giorni. La tazza con la cioccolata era sempre sul comodino, e la sedia più piccola in una posizione diversa. Stava probabilmente lì tutta la notte, a vegliare.
Quel giorno, disperata, già a pezzi per la mattinata orrenda che aveva passato, crollò, senza nemmeno aver fatto controllare il braccio, e gridò: «Maledizione, mamma, svegliati! Perché l’hai fatto?! Eh?! Perché?!
È colpa mia?! Perché… perché ce l’avevo con te?! Scusa, mamma, scusa! Sono stata una stupida! Ma io ti voglio bene, tanto, e ti voglio al mio fianco!»
La ragazzina scoppiò in lacrime senza ritegno, posandosi alla sua mano e bagnandola. Pianse forte, urlandole quanto le mancasse e quanto fosse stata idiota a fare quel gesto scemo, quella vigliaccata tremenda che l'aveva quasi portata via da lei. D'un tratto, sentì la mano su cui aveva posato la fronte muoversi debolmente; alzò la testa, con ancora gli occhi umidi, e vide quello sguardo rosso, un po’ appannato, che la fissava semiaperto.
«M-mamma…» esclamò, restando un momento immobile; poi le saltò al collo, quasi soffocandola, urlandole di essere una stupida codarda psicolabile e altri insulti, tra le lacrime di gioia nel vedere che si era svegliata. Athena sorrise, come per assentire, e tirò un sospiro. Nonostante tutto, era davvero bello sentire l’aria nei polmoni. Ancora. Alzò piano un braccio e lo strinse attorno alla figlia, volendo mostrarle tutto l'affetto di cui era capace in quel momento.
Lily si posò alla sua spalla, abbracciandola forte e mormorò: «Ti voglio tanto bene, mamma.»
Restarono un momento strette ma poi, dopo un ultimo abbraccio e la promessa di non fare più scherzi del genere, la ragazzina andò a chiamare Wilson, che la fece restare fuori per un controllo e per evitare crolli se non si fosse ripresa del tutto. La visitò senza una parola, lasciandola riposare e non permettendo l'accesso a nessuno. La sera, quando vide parametri stabili e un colorito migliore, sbottò: «Che diavolo ti è preso, si può sapere?»
«Lo sentivo di nuovo.» rispose lei, con voce flebile e affaticata, interdetta dal tono di un medico che teoricamente avrebbe dovuto essere terrorizzato, ma continuando a parlare, giusto per giustificare un’impiccagione senza senso: «Giovanni... nella mia testa. Era tornato a tormentarmi, a ricordarmi che ero sua, a dirmi tutto quello che mi diceva sempre... deve essersi scatenato perché ho realizzato di star rovinando la vita a tutti quelli che amo. E allora, per farla finire, ho deciso di farla finita.»
Il medico sbuffò, alzando gli occhi al cielo mentre controllava alcuni valori, e sbottò: «Adesso che sei sveglia e mi sembri abbastanza in forma, se così si può dire, posso controllare quelle frustate. Sono stati i secondini, vero?»
Lei alzò le spalle con noncuranza, sempre più curiosa di sapere qualcosa su quello strano tizio, e rispose: «Vogliono farmi confessare cose che non ho fatto...»
«Incredibile. Resisti a violenze del genere e crolli per lo sfogo di una ragazzina.» commentò lui, seccato, annotando le ultime cose sulla cartelletta che aveva con sé.
La donna alzò le spalle e replicò: «È mia figlia, dopotutto… e poi la mia testa è strana. Non so nemmeno io come ragiona.»
Il dottore le puntò un dito contro e sbottò: «Fai più attenzione. Non intendo fare tutta la fatica che ho fatto un’altra volta.»
«E perché si è sprecato tanto?» chiese invece lei, ignorando il moto di stizza nell’avere qualcuno che la minacciava; d’altronde quell’uomo le aveva salvato la pelle.
«Forse perché so che non sei una bestia, come vuoi far credere, o come tutti credono. Da molto, molto tempo.» rispose lui, con uno strano sguardo di uno che la sapeva lunga, infilando la penna nel taschino del camice e prendendo la porta, per uscire e andare a fare le analisi del sangue. Athena, invece, fissò il bianco rettangolo di legno della porta ormai chiusa, persa nei pensieri. Dove poteva averlo già visto? Era chiaro che la conosceva già, non come Demone Rosso, ma dopo la morte della sua squadra. E i suoi lineamenti le ricordavano qualcosa...
«Ma certo.» esclamò, battendo il pugno sulla mano, avuta un’illuminazione: «Il dottore di Austropoli! Che stupida era ovvio che mi avesse riconosciuta. Quello sguardo... ora è tutto chiaro. Limpido.»
Il dottore tornò poco dopo, con il telefono in mano aspettando la comunicazione dei risultati delle analisi e le vide in faccia il sogghigno di una che aveva capito tutto; prima che potesse dire qualcosa, lei chiese: «Jack Wilson, vero?»
«Complimenti per la memoria.» commentò solo lui, ancora abbastanza preoccupato per la sua salute da non riuscire a rallegrarsi per il suo risveglio.
Lei ridacchiò, decisamente contenta di essere ancora viva, e, non badando alle preoccupazioni del medico, rispose: «Almeno quella funziona. Posso togliere la maschera?»
«No.»
«Perché?»
Lui le scoccò un'occhiataccia e lei alzò le mani senza replicare oltre. Quel dottore aveva fatto tanto per lei, quindi era meglio non disubbidire. Però, la mascherina dell'ossigeno le dava fastidio.
«Riesci a metterti seduta?» chiese lui, controllando alcune carte.
«Boh. Penso di sì.» rispose lei, provando ad alzarsi, felice di vedere che lui aveva deciso di darle retta e lasciarla tornare in cella.
La testa, però, le girò paurosamente e lei cadde tra i cuscini con gli occhi chiusi, tenendosi le tempie e borbottando: «Come non detto.»
Wilson la fissò un momento, per assicurarsi che stesse male davvero, poi commentò: «Ti sei davvero svegliata ora. Avevo il sospetto avessi fatto finta per riprenderti prima e scapparmi da sotto il naso.»
«E perché avrei dovuto?» ridacchiò lei, notando come la stesse trattando come una dodicenne anche ora che aveva trent'anni passati.
Wilson la fissò da sopra gli occhiali quadrati e replicò: «Una come te non sta ferma se può muoversi. Ti aiuto a stenderti sul lettino, sei ancora troppo debole per farcela da sola...»
Athena non replicò oltre, sbadigliando piuttosto stanca, e lui la girò a pancia in giù su un lettino. Poi la portò in sala operatoria, l'unico posto tranquillo per controllare le ferite senza che nessuno potesse intervenire e disturbare.
«Cos’è successo… dopo?» chiese però lei d'un tratto, mentre passavano tra i vari corridoi.
«Il tuo compagno di cella è venuto a vedere perché non arrivavi e ti ha trovata appesa al lampadario.» rispose il medico: «Ti ha tirata giù subito, ha chiamato i secondini e ha fatto un po’ di massaggio cardiaco. Ti ha salvato quello. Se non fosse stato per lui a quest’ora saresti viva, ma in stato vegetativo.»
Lei non rispose di nuovo, limitandosi ad annuire vaga, e lui disse: «Lily e Raphael erano distrutti. Ora staranno meglio vedendo che ti sei ripresa. E che stai bene. Le analisi parlano chiaro.»
Arrivarono nella sala operatoria e, prima di controllare i danni, lui disse: «Sarò franco… non fare altre cazzate. Per entrambi, è meglio essere odiati e averti viva, che ritornare alla vita di prima senza di te. Fidati.»
Athena non commentò, persa nei pensieri e nei discorsi di quello stranissimo ma simpatico medico. Lui le alzò la camicia dell'ospedale e verificò che tutte quelle frustate non avessero fatto infezione. La schiena della donna era in condizioni estreme, ma sembrava tutto a posto. Seccato, lui sbottò, mentre notava vari livelli di cicatrizzazione: «Guarda qua che animali. E si che le punizioni corporali dovrebbero essere vietate per legge. Se poi inflitte inutilmente.»
Athena ridacchiò, per niente turbata dai suoi commenti sulle sue condizioni, e replicò: «Farò una petizione: “Salvate la povera bestia innocente.”»
Lui non poté non sorridere a quell'ironia e lei aggiunse: «L’ho fatta sorridere! Mi sento realizzata!»
Wilson alzò gli occhi al cielo, ma non si tolse il sorriso, colpito da come lei non si buttasse mai giù. Per nessuna ragione. Così le chiese come facesse a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno.
«Non è così difficile, sa? Giovanni è morto... è ora di essere un po’ felici!» rispose lei, decisamente di buon umore.
«Una vera liberazione a quanto sembra.» commentò lui, notando quanto fosse cambiata ancora dall’ultima volta in cui l’aveva vista.
«Non sa quanto.» annuì lei, per poi aggiungere: «Anche se, a quanto pare, non se n'è andato del tutto. Può ricomparire nella mia testa e questo è assolutamente da evitare. Non deve succedere di nuovo.»
«Rischiamo la strage?» chiese Wilson, finendo le cure, fasciandole bene la schiena, per poi avviarsi verso la camera.
«Dopo questo scherzetto, non so cosa aspettarmi nemmeno io. Diciamo che, questa volta, ero arrabbiata con la voce nella mia testa, quindi si può trovare un senso nel mio comportamento...» rispose lei, sentendo la schiena un po' dolere dopo essere stata stuzzicata dal medico: «Ma non si può sapere cosa succederà la prossima volta.»
L’uomo la aiutò a stendersi e uscì dalla stanza, raccomandandole un po’ di senno, e sentendosi dire che lei non era la persona adatta; Lily entrò subito dopo, con le lacrime agli occhi, sia di gioia che di dolore. Athena distolse lo sguardo e le si adombrò il sorriso. Aveva tentato un gesto così codardo che se ne vergognava immensamente.
«Dimmi che non eri cosciente…» mormorò la ragazzina, avvicinandosi lentamente al letto e sforzandosi di non piangere.
«Non del tutto, mettiamola così.» borbottò la donna, altrettanto triste: «Hai una mamma matta. Ancora mi chiedo cosa ti spinga a passarmi a trovare…»
«Il fatto che sei comunque mia mamma.» rispose lei, sedendosi accanto al letto e prendendole la mano: «Anche se sei matta, ti voglio bene lo stesso. Tranne quando cerchi di ucciderti. Prima che tu me lo chieda, Giovanni non sa ancora nulla. Non lo vediamo da giorni, ma sappiamo che stava qua tutte le notti.»
Lei annuì, guardando un momento quella sedia vuota, e disse: «Allora lo scoprirà presto. Tra poco chiudono le visite.»
Lily seguì il suo sguardo, fisso sulla sedia dove Giovanni sedeva solo tutte le notti, poi mormorò: «Mi dici cosa ti è preso?»
«Attacco psicotico, credo.» rispose la donna, volgendo lo sguardo su di lei, cercando di non darle certezze e risposte che non aveva nemmeno lei: «Almeno non è frequente come una volta, vediamola in positivo.» aggiunse con un’alzata di spalle.
«Ma cosa ti succede?» chiese ancora la figlia.
«Sotto pressione, reagisco. Parte il cervello.»
Confusa, Lily chiese: «In che senso?»
Athena storse la bocca e mormorò: «Vedi… da piccola, avevo degli attacchi di psicosi breve piuttosto violenti. Giovanni senior mi ingabbiava per istigarmi al sangue e dopo un po' ho sviluppato tutta una serie di allucinazioni che mi facevano, ma fanno ancora, scattare. Ora non mi succede più, anche perché non sono più così sotto pressione, però non si è mai certi.»
«Io sono certa.» disse convinta Lily, decisa a non abbandonarla più, anche se non capiva bene il discorso.
Rischiando di perderla, aveva capito che ormai la mamma era a posto, che non era cattiva come tutti pensavano. Solo un po’ malata, ma controllabile; voleva solo stare in pace con i suoi figli, null’altro. E lei non doveva vergognarsi di ciò che era, anzi, doveva essere fiera di avere una mamma così forte da andare contro la sua stessa natura per fare la cosa giusta. Athena le sorrise, dopotutto felice di vedere che l’aveva perdonata per averle reso la vita un inferno, ma poi commentò, per sciogliere quella triste atmosfera: «Non mi sarei mai aspettata un atto così vigliacco, però. Sarebbe più glorioso farsi sparare.»
«Evita.» rispose lei, con uno sguardo del tutto convincente.
«Ci proverò!» ridacchiò lei, scompigliandole i capelli.
Lily sorrise di risposta, chiudendo gli occhi a quel tocco affettuoso sulla sua testa, ma poi si fece seria e un po’ triste e mormorò: «Comunque sia… non volevo dire davvero quelle cose. Era un momento di rabbia, di frustrazione. Però, poi, ci ho riflettuto e ho concluso che non è giusto. Voglio dire… sei dentro di tua volontà, perché vuoi redimerti, non sei più pericolosa e il mondo ce l'ha con te. Non è giusto.»
«Il mondo è ingiusto, piccola.» rispose Athena, fattasi triste per come doveva essere trattata la sua innocente e piccola bambina: «E comunque, ce l'ha con me un po' a ragione...»
«Io ti voglio bene, mamma.» disse convinta lei, guardandola fissa e decisa: «Non m’importa cosa pensa il mondo.»
«Però, a me importa, se ti fanno del male…» borbottò la madre, ma la figlia la interruppe, dicendo: «Non devi preoccuparti, ok? Prima o poi si stuferanno.»
«Ma Lily… è tutta colpa mia.»
«Forse. Ma preferisco così che sopportare Daisy un altro po’ o tornare a vivere sola con papà. Nonostante tutto, è bello avere una mamma e di certo non ti voglio morta. Ero solo nervosa ma ora ho capito.»
La donna le fece un sorriso, un po’ triste visto tutto quello che stava passando e Lily aggiunse: «Tra l’altro non ce l’hanno tutti con me! Il mio amico Felix se ne sbatte di quello che dice la gente e la prof di storia mi difende fin che può. Quindi tranquilla, ok?»
«Ok.» rispose lei, mettendosi comoda.
Lily sentì la comunicazione di chiusura delle visite all'altoparlante, così la salutò e uscì. Athena si mise comoda, chiudendo gli occhi, pronta a fare un pisolino. Tutto sommato stare in ospedale non era male. Era tranquilla, dormiva senza doversi preoccupare, nel silenzio e tra gente che le voleva bene. Era una bella sensazione. Un po' di pace ristoratrice.
Nel frattempo, Raphael andò nel carcere e venne accolto da occhiate di disprezzo da parte delle guardie. Ecco altri che lo vedevano come quello che aveva venduto l'anima al demone terreno. Non ci badò e raggiunse il suo amico Jason Johnson nella stanza degli interrogatori. L’uomo lo stava aspettando da un pezzo, ma lui era riuscito a liberarsi solo in quel momento. La sua segretaria si era licenziata scoperto tutto, e ora doveva lavorare il doppio per tenere l'agenda un minimo ordinata. Anche se, gli seccava ammetterlo, il carico di lavoro era decisamente diminuito.
«Ciao, Jason.» salutò entrando e posando la valigetta sul tavolo: «Come ti ho detto al telefono, vorrei parlare con il compagno di cella di Athena.»
Lui annuì e rispose: «Tra dieci minuti te lo porto qui. Lei come sta?»
«Pare bene. Lily mi ha detto che si è svegliata da poco e le analisi sono positive. Dopo vado a prenderla a schiaffi.»
L’agente rise e ribatté: «Saresti probabilmente l’unico che può azzardarsi a fare una cosa del genere senza rischiare di perdere la mano!» ma tornato serio, aggiunse: «Sono contento comunque che stia bene. Quella pazza non può morire ora che non è un pericolo.»
L’uomo annuì, ridacchiando al suo commento, e sedette per aspettare il suo interlocutore. O’Bull venne prelevato da Jason in persona ed entrò poco dopo; quando lo vide, lo riconobbe subito e chiese, ancora in ansia per la sua amica di scacchi: «Avvocato, come sta Athena?»
Lui lo fissò, perplesso dal fatto che lo conoscesse e da quel tono preoccupato, e nel contempo scrutandolo per capire che tipo fosse, ma si affrettò a rispondere: «Si è svegliata da poco e secondo il dottore sta bene. Io sono qui perché volevo ringraziarla…»
«Mi dia pure del tu, avvocato.» ribatté Thomas, sedendosi sulla sedia di fronte a lui: «E comunque, si figuri. Lei mi ha aiutato molto e non potevo permetterle di andarsene così.»
Raphael fece un sorrisetto storto, ormai convinto che quell’uomo non fosse un normale carcerato ma una persona di cui poteva fidarsi e alla quale Athena stessa riponeva fiducia, e rispose: «Già… Se non fosse stato per il tuo massaggio cardiaco, ora non sarebbe più con me…»
«Ma c’è.» esclamò il carcerato, sentendo l'ansia liberarlo dal groppo allo stomaco: «Guardi il lato positivo, avvocato.»
Lui annuì e borbottò: «Hai ragione.» poi lo fissò, lo sguardo smeraldino carico di angoscia e quasi implorò: «Per piacere, tienila d’occhio. Non sopporterei di perderla ancora.»
Thomas gli sorrise, vedendo quanto davvero si amassero e che l’avvocato pareva averlo preso in simpatia, come la fidanzata del resto, e rispose: «Non si preoccupi. Sarò la sua ombra.»
Si strinsero la mano e Raphael uscì, diretto all’ospedale per poter finalmente rivedere i suoi amati occhi infuocati. Thomas invece tornò in cella, preparandosi la sua personale ramanzina per quando l’amica sarebbe ritornata. L’avvocato arrivò alla struttura, entrò salutando il dottore e salì verso la stanza di Athena ma sentì delle voci urlarsi contro. Sbirciò nella stanza dell’amata e vide Lance, girato di spalle, che con la sua mole gli copriva la visuale di quasi tutto il letto.
«Razza di incosciente!» stava urlando furibondo il Campione: «Ma cosa ti è saltato in mente, eh?!»
«Non farmi la paternale, Lance!» ribatté seccata Athena. L’uomo le era irrotto in camera, senza nemmeno degnarsi di bussare, e aveva cominciato a urlarle contro senza ascoltare minimamente le sue spiegazioni: «Ti ho detto che è colpa della psicosi e comunque non devo rendere conto a te di quello che faccio!»
La irritava non il fatto che lui la stesse rimproverando, ma tutto quel incavolarsi con lei; lo sapeva che era stato un gesto senza senso, ma Lance pareva non capire che in quel momento la donna aveva perso il lume della ragione. Non capiva che non era lucida, dominata dagli istinti, e che di certo non voleva morire, soprattutto in quel modo assurdo. Ma lui le scaricava addosso tutta la colpa, come se avesse fatto tutto lei, consapevolmente, per chissà quale motivo.
«Se fai stupidate eccome se devi rendermene conto!» ribatté lui, alzando ancora il tono di voce, sempre più infuriato: «Con tutto quello che stiamo facendo per evitarti la condanna a morte, tu che ti appendi a un lampadario è l’ultima cosa che mi aspetto! Dannazione, ma allora vuoi proprio crepare!»
Lance era furibondo; la notizia del suo tentato suicidio era stato un mezzo shock. L'amava, o almeno credeva di amarla, e il solo pensiero che se ne fosse andata lo aveva mandato fuori controllo al punto che, preso dalla disperazione, saputa la notizia, aveva spostato dalla sua strada le guardie della lega con talmente tanta forza da farli cadere a terra. E anche in ospedale, quando ancora lei era incosciente, aveva voluto vederla con i suoi occhi per crederci, usando la forza su chiunque gli avesse impedito di raggiungere il suo obbiettivo. E ora che era sveglia, poteva scaricarle addosso la sua sofferenza, almeno a parole. Ma lei non capiva che lui semplicemente si era spaventato a morte. Gli sembrava solo che la stesse aggredendo senza motivo, così sbottò: «Vai via e non urlare. Non ho voglia di sentirti.»
«Il discorso non è chiuso qui. Ricordatelo.» ringhiò lui, ancora furioso, fissandola storto.
Athena non gli rispose e lui se ne andò sbattendo la porta. Perché non capiva? Perché non ci arrivava? Lui era solo ancora spaventato... Raphael, spostatosi dall’uscio per farlo passare, lo guardò camminare irato, mentre il mantello svolazzava dietro di lui. Si affacciò poi dalla porta e bussò, per mostrare la sua presenza. Athena si voltò, convinta fosse ancora Lance, ma l’avvocato vide modificarsi l'espressione della sua amata compagna appena che lo ebbe riconosciuto: da seccata a felicemente imbarazzata.
«Raphael…» mormorò, senza saper come giustificare il suo comportamento e distogliendo lo sguardo dal suo, sentendosi in colpa per ciò che aveva fatto, anche se non consapevolmente.
Lui si avvicinò al letto e le prese la mano, non riuscendo a trattenere le lacrime. Non sapeva cosa dire, ma voleva sentirla sulla sua pelle. Lei posò l’altra mano sulla guancia, asciugandogli le lacrime con il pollice, anche se ora scendevano anche dai suoi occhi, copiose e calde.
«Scusami…» aggiunse piano lei, trattenendo i singhiozzi a stento; si era spaventata anche lei, doveva ammetterlo. La consapevolezza che poteva uccidersi con le sue mani l’aveva sconvolta.
Lui la abbracciò di risposta, stringendola piano ma con forza, come se avesse paura di perderla ancora, e sussurrò: «Non ci provare mai più. Non sopporterei di perderti ancora.»
Lei posò il mento alla sua spalla, cingendolo a sua volta, e rispose, con voce tremante per colpa del pianto: «Mi sono tornate le voci, dannazione! Ero sconvolta perché Lily mi odiava e per farle smettere, sono arrivata all'estremo! Ma se tornano le voci è grave... è troppo grave! L'ho detto anche a Wilson. Ero arrabbiata con la mia testa perché lì c'erano le voci, volevo estirpare Giovanni dalla mia mente... ma se ricominciano le voci, la prossima volta potrei vederlo in qualcuno!»
Raphael la strinse, non sapendo che cosa dirle per calmarla, ma mormorò: «Avevo visto che non eri messa bene e sono stato così stupido da parlarti dello sfogo di Lily... dovevo tacere.»
«No, non è colpa tua.» ribatté lei, staccandosi e fissandolo con decisione: «Non è colpa tua. Per questa volta, è andata bene, non pensiamoci o è peggio.»
«Sì ma tu devi dirmelo se senti le voci!» sbottò lui, furioso nel vedere che ancora non si fidava da dirgli tutto: «Non posso prevedere cosa farai se non conosco il tuo stato mentale, piccola pazza!»
«Non puoi far andare via le voci...»
«Forse sì, forse no, non puoi saperlo. Ma posso provarci. E voglio saperlo se non stai bene!» ribatté lui, fissandola deciso negli occhi. Doveva farle entrare in quella testa vuota che lui non l'avrebbe mai abbandonata, nemmeno durante il crollo psicotico più violento.
«Scusa, scusa...»
Lui le sorrise e avvicinò il volto al suo, baciandola e placando la paura che l’aveva tormentato in tutti quei giorni, senza aggiungere altro a quell’inutile discussione. Fuori dalla stanza però, Lily era in angoscia. Era stata tutta colpa sua. La madre lo aveva taciuto, ma era stata lei a provocare quella cosa. Si era acquattata dietro la porta sentendo i genitori parlare; voleva stare da sola con la madre, quindi si era messa ad aspettare l'uscita del padre, ma poi aveva sentito ciò che avevano detto e si era pietrificata dall’orrore. La ragazzina corse via, non sapendo dove andare. L’importante era andare lontana per non fare più del male a nessuno, soprattutto all’amata mamma.. Era tutta colpa sua. Tutta. Quella sua isteria a caso, quello sfogo che non sarebbe mai dovuto accadere, aveva quasi portato alla morte della sua mamma.
Piangendo in un prato isolato e solitario, dopo il bosco, pensò ad un modo per farla finita, per liberare il mondo dai suoi danni. Ma una voce, alle sue spalle, disse: «Non può controllare la psicosi. È più forte di lei. È solo colpa della sua testa.»
«Lasciami stare, Giovanni.» ribatté secca, chiedendosi cosa ci facesse lui lì: «Dovresti essere contento che esca di scena.»
Il bambino ignorò il suo commento e sedette accanto a lei; fissando le nuvole, disse: «Posso raccontarti una storia?»
Lily lo guardò curiosa e perplessa, e lui aggiunse: «Capirai cosa voglio dire con “non riesce a controllarlo.”

-§-

INTERMEZZO: PSICOSI BREVE

Athena aveva ventotto anni. Allevava il piccolo Giovanni da un po' di tempo e si sentiva decisamente meglio. Era ancora triste, rimpiangeva la sua vita a Isshu, ma riusciva comunque a tirarsi fuori di casa e a combattere la depressione.
Un giorno, però, un vecchio demone tornò a trovarla: era stata una giornata piuttosto dura, il dottore l'aveva martoriata più del solito con le sue assurde terapie psicologiche e aveva litigato con N. Riuscì comunque a calmare i nervi in qualche modo e finalmente giunse la cena.
Giovanni corse a giocare con un videogioco e, a metà partita, esclamò: «Io sono invincibile! Onnipotente! Nessuno mi può fermare!» ridendo sguaiatamente e quasi con “crudeltà”.
Nel cervello della donna scattò qualcosa. Prese il pugnale, con il dolore e la rabbia nello sguardo, e lo sguainò. Lo vide, davanti a lui... lo sguardo d'acciaio, la risata malvagia, le sue manie di grandezza. Era lì, davanti a lei, nella sua casa. Il mormorio nella sua testa si faceva sempre più forte.
«Tu devi morire. E sparire dalla mia vita!» urlò, attaccando il povero bambino che si lanciò a terra, schivando l'assalto, e cominciò a correre, chiamando il padre in soccorso.
Giovanni corse su per le scale, seguito a ruota dalla madre assetata di sangue che, nella furia della corsa, sbatteva contro ogni muro, ogni porta, ogni oggetto che si trovava sulla sua strada. N uscì dalla camera, allarmato, vide quello sguardo, quella furia e capì. Si mise davanti al bambino, dicendo: «Athena, calmati!»
«Levati o uccido anche te! Deve morire! Mi ha rovinato la vita, deve morire!» urlò lei di risposta lanciandosi contro l'uomo a lama tesa.
La donna lo spinse di lato, ferendolo ad un fianco, poi si lanciò sul bambino. N prese una siringa dalla tasca, la placcò alla vita, buttandola a terra, e le iniettò il sedativo dritto in un arteria. Il pugnale si avvicinò alla gola di Giovanni, ma poi la mano cedette e la lama cadde con un tintinnio. Con un ultimo ringhio, la donna svenne, crollando a faccia a terra con un tonfo e il respiro ansimante dalla furia.
N si alzò gemendo, mentre il sangue gli inzuppava la camicia e chiese al bambino: «Giovanni! Stai bene?»
«Papà!» urlò lui, con il cuore che gli martellava nel petto e ancora addosso la paura. Corse verso N, si buttò tra le sue braccia e pianse. N restò un momento immobile. Giovanni non aveva mai cercato protezione o conforto da lui. N non si era mai sentito pronto per fare il padre e questo aveva allontanato il bambino, come se avesse sempre percepito la sua insicurezza. In quel momento, ricordò. Geechisu non era mai stato un buon padre. Lo aveva spesso lasciato solo... spesso si era sentito abbandonato. Ma c'erano state quelle volte, quelle rare volte, in cui era stato triste o impaurito e solo l'abbraccio di suo padre aveva avuto il potere di calmarlo. Rinfrancato da quel ricordo, N strinse il figlio e gli accarezzò la testa. Se ce l'aveva fatta Geechisu a essere padre, poteva farcela anche lui. Anche Giovanni stava bene in quell'abbraccio. Sentiva che finalmente, forse, aveva davvero un padre. Finite le lacrime, non volle però lasciarlo. N gli asciugò le guance e mormorò: «Va meglio ora?»
Giovanni annuì. Ma non voleva andarsene. N, però, aggiunse: «Dobbiamo aiutare la mamma.»
Il bambino alzò lo sguardo e vide la preoccupazione negli occhi verdi del padre. Così annuì, si alzò e N fece lo stesso. Notando il sangue, però, il bambino buttò lì: «Prima è meglio se sistemiamo te, non pensi?»
N, imbarazzato, fece un cenno di assenso con la testa. Giovanni corse a prendere delle bende e quando tornò il padre si era tolto la camicia macchiata. Il torace era segnato da un profondo taglio.
«Fortunatamente non è nulla di grave.» dichiarò, mentre il figlio lo aiutava a bendarsi: «L'importante è che stia bene tu.»
«Stai facendo una collezione invidiabile. Questa si aggiunge alle quattro dello zio.» rispose Giovanni, per nulla intenzionato a perdersi in smancerie di quella portata.
«Non sarà contento di vedere questo sviluppo.» sospirò N, guardando tristemente Athena profondamente addormentata sul pavimento: «Sperava di non assistere più a un crollo del genere, povero Pidgeot.»
Mentre finivano la medicazione, il Pokémon arrivò, planando dalla finestra aperta. Visto il suo sguardo sbigottito, N prese la parola e spiegò l'accaduto. Dopo un ultimo sguardo, il rapace disse solo: *«Lasciateci soli.» *
E i due obbedirono.
N prese l'amica in braccio e la stese sul letto. Era ancora profondamente addormentata. Pidg si mise accanto al letto. Dopo un ultimo sguardo, il ragazzo uscì. Andò in cucina, triste, fissando la sua camicia sporca di sangue. Lo raggiunse Giovanni che, dopo una prima titubanza, chiese: «Come stai, papà?»
Lui si voltò con un mezzo sorriso e rispose: «Abbastanza bene. Tu? Sei ancora spaventato?»
«Voglio solo vederla sveglia...» mormorò lui, con le lacrime agli occhi. Quella cosa non era la sua mamma... lei era ben altro. N andò vicino a lui e lo strinse a lui. Giovanni rimase immobile e il padre, tentando di essere rassicurante, mormorò: «Vedrai, quando si sveglierà sarà di nuovo in lei.»
Non sapeva quanto dirgli. Non voleva dire troppo. Così, aggiunse: «In caso, ti spiegherà meglio lei.»
«Tu sei molto leale a lei, vero papà?»
«Cosa vuoi dire?»
«Non faresti mai niente che potrebbe metterla in pericolo... nemmeno parlare. È una bella cosa.»
N sorrise e commentò: «Il fatto che non siamo innamorati non vuol dire che non ci vogliamo bene. Siamo amici, certo, ma il nostro è un legame molto forte. E sì, hai ragione, non potrei mai metterla in pericolo. Ma sai... è una cosa che riguarda lei, quindi vorrei che fosse lei a parlartene. Se poi mi chiederà consiglio, sarò ben felice di dirle la mia opinione.»
Giovanni restò tranquillo, stretto tra le sue braccia, sentendosi unito al padre come mai gli era successo. In un momento di coraggio, chiese: «Tu non sei mai andato d'accordo con tuo papà, vero?»
«Perché?»
«Non mi avete mai parlato di eventuali nonni... e non ne ho mai visti.»
N sospirò; probabilmente il bambino aveva percepito il suo rifiuto e voleva capire meglio la situazione. Così, spiegò: «Geechisu non era il migliore dei padri. Non mi ha cresciuto come un figlio, ma come uno strumento per i suoi scopi. Mi ha usato, per tutta la vita. Eppure, non ho potuto che volergli bene. Sai... quando Athena ti porta via, per le giornate, lo fa sia per stare con te che per lasciarmi libero. Vado a trovarlo nel carcere della polizia internazionale. Non posso farci niente, è pur sempre mio padre. Non posso abbandonarlo.»
«È addirittura in prigione?!» chiese lui, stupito dalla notizia.
N annuì, raccontandogli la storia, e concluse, dicendo: «Aveva piani di regno che io non mi sarei mai sognato. Zoroark potrebbe dirti molto su questo. Lui è con me da quando sono nato. Un piccolo Zorua che per farmi ridere creava delle illusioni assurde.»
«Ecco perché ti chiama “sire”. Pensavo fosse un soprannome casuale.»
«No, non lo è. Non te l'ho mai raccontato ma forse avrei dovuto.»
In quello stesso istante, Pidg stava vegliando la sorella, che dormiva nel letto. Preoccupato per il suo stato mentale, attendeva un suo segno. Qualche ora dopo, lei si svegliò, rintontita, e si guardò intorno.
*«Buongiorno, sorellina.» * mormorò il Pidgeot, vedendole uno sguardo assennato.
Lei alzò un momento la mano, per salutarlo, ancora troppo stordita per parlare. Poi, sussurrò: «Dove sono? Cosa è successo?»
*«Dimmelo tu.» * propose lui, per valutare cosa si ricordasse ma soprattutto cosa avesse visto.
Lei ci pensò su, poi mormorò: «Ho visto Giovanni in casa. E volevo proteggere mio figlio e N. Allora ho attaccato. E poi sono svenuta.»
*«Ecco il problema. Il pazzo lo vedeva solo la tua testa. Non è mai stato in questa casa...» *
Lei sbiancò, presa dai peggiori pensieri, e chiese: «E allora chi ho attaccato?»
*«Il piccolo Gio.» *
Athena si sentì morire dentro. Lo psichiatra aveva ragione. Lei era troppo instabile per prendersi cura di qualcuno. Non potendo più restare lì, con il senso di colpa che la dilaniava, scappò dalla finestra. Si fermò nel parco della città e sedette su una panchina, fissando il vuoto con il senso di colpa che l'attanagliava.
«Ma'?» chiese una voce alla sua destra, qualche ora dopo: «Vuoi un po' di gelato?»
Lei voltò lo sguardo e vide Giovanni sorridente che le tendeva un cono a due palline. Aveva lo sguardo tra il sereno e l'imbarazzato; ma quello era da sempre il loro modo di fare pace. La condivisione del gelato.
«No, grazie, piccolo. Mangialo tu.» rispose, tornando a fissare il sasso che aveva tra i piedi, sospirando.
Il bambino sedette accanto a lei; non sapeva cosa dire, cosa fare, per farle capire che le voleva bene comunque. E se lei aveva rifiutato la pace, voleva dire che si sentiva proprio in colpa.
Athena sospirò nuovamente e, non capendo perché restasse lì, chiese: «Vai da tuo padre, Giovanni...»
«No.»
Lei lo guardò e lui, sorridendo, aggiunse: «Tu mi vuoi bene, mamma. Io lo so. E io te ne voglio altrettanto. Non so cosa sia successo ma so che non vuoi farmi del male.»
Abbracciandola, il bambino confermò le sue parole, scaldandole il cuore. La donna lo strinse a sua volta, felice come non mai. Quelle maledette allucinazioni non l'avrebbero separata dal suo bambino. Prese la paletta, ancora piantata nel cono gelato, e così fecero ufficialmente pace.
Su quella panchina del parco, lei gli spiegò tutto. Non sapeva se lui capisse, ma sapeva di doverlo fare.

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Capitolo 29
*** Capitolo XXVIII ***


«Capisci?» disse Giovanni rivolto alla sorellastra, alla fine del racconto: «Mamma non controlla quella cosa. Se le prende l'allucinazione, o le voci, non ragiona più. Poi si riprende.»
«N-non posso credere che tu sia rimasto con lei lo stesso...» ribatté Lily sconvolta da ciò che aveva sentito.
«L'avresti fatto anche tu se l'avessi conosciuta come l'ho conosciuta io.» rispose convinto lui: «Avevo visto che non era in lei, che non era lì con me con la testa. Poi quando mi ha spiegato tutto, ho capito che dovevo fare di tutto per aiutarla, per impedire le allucinazioni. Quella è stata l'unica volta che ha perso la testa. Ed era stata un po’ colpa mia. Eppure non mi sono abbattuto, ma ho fatto di tutto per aiutarla a mantenere la lucidità.»
Lily lo osservò sconvolta, vedendolo raccontare quell'episodio drammatico con il sorriso. Lei non sapeva se avrebbe mai retto a uno spavento del genere. Al vedere sua madre cercare di ucciderla. Giovanni si fece imbarazzato e borbottò: «Ammetto di essermi spaventato tanto quando l’ho vista… uccidere l’uomo che ti ha fatto del male. Però perché era diverso… intendo, lì era perfettamente lucida. Voleva farlo. E per questo mi ha scioccato. Ma papà mi ha parlato e mi ha spiegato alcune cose… che sommate a ciò che mi aveva detto lei, mi hanno dato un quadro chiaro della situazione e ho compreso.»
Giovanni attese un po’, ma Lily non disse nulla, così aggiunse: «Mi ha anche spiegato l'origine del mio nome, quel giorno.» ma lei fissava il vuoto ancora sconvolta da quella storia. Lui attese una reazione che non avvenne, così chiese: «Vuoi saperlo?»
Lei annuì aspettandosi il peggio e tornando a guardarlo, e lui disse: «Mamma è diventata cattiva per colpa di un pazzo mio omonimo. Mi ha dato il suo nome perché potesse ricordarle anche qualcuno di buono... peccato di non esserci riuscito molto bene.»
Lily si riprese dallo shock con quella frase detta con sincero rammarico, e gli sorrise rispondendo: «Non dire così, Gio... d'accordo, sei violento e irritabile, ma cattivo o pazzo non direi.»
Lui sospirò, affranto ma anche imbarazzato nel confidare ciò che sentiva dentro e commentò: «A me sembra solo di deluderla. Insomma, guardami... non ho amici e allontano tutti.»
«Non tutti, tutti. Sbaglio o non cerchi di spaccarmi la testa da un pezzo?»
Giovanni si fece perplesso, e la guardò, mentre lei continuava, con un sorriso amichevole sulle labbra: «Se qualcuno ti dimostra gentilezza, tu sai ricambiarlo. È ovvio che non è il primo approccio, visto che vai in giro con una mazza, ma basta capirlo e comportarsi di conseguenza. Ammetto che me l'ha confidato lei, perché da sola non ci sarei mai arrivata. Però è così e ne prendo atto.»
Il bambino capì molte cose. Ecco il motivo di quello strano cambiamento della sorellastra. Da un po' di tempo lo faceva sentire come un fratello e ora si spiegava tutto. Lei era stata bravissima a seguire il consiglio della madre. Lo doveva ammettere. Tutto sommato, era bello stare in sua compagnia. Avevano una strana affinità che non riusciva a spiegarsi, ma che era... bella.
«E poi non penso che tu sia andato a pestare Joshua Blade per sport. O sbaglio?» buttò lì lei con un ghigno furbo.
«Anche, forse.» rispose lui, ghignando a sua volta, per poi aggiungere, leggermente rosso in volto ma convinto di ciò che stava dicendo: «Non avrei mai pensato di dirlo, ma non è male avere una sorella.»
«Anche un fratellino guardia del corpo!» esclamò lei, ridacchiando e scompigliandogli i capelli, anche se aveva fifa di una reazione tipo mazzata nei denti.
Giovanni però sembrò non darci molto peso e anzi, scoppiò a ridere anche lui, ma poi borbottò: «Adesso però basta farsi problemi. Ok?»
Lei annuì e lui aggiunse: «E non dire mai niente a nessuno.»
Lily annuì una seconda volta, fattasi seria e capendo che il fratellastro voleva ad ogni costo avere la maschera del duro e ingestibile. Ma sapeva che ora sarebbe andata meglio con lei e Raphael. Salutatisi, presero due strade completamente diverse.
Verso le dieci di sera, Athena stava leggendo una rivista che le aveva portato Raphael, ma una voce la interruppe e mormorò: «Ehi, ma'...»
Athena sorrise, posando il fascicoletto sul lenzuolo; lo stava aspettando da un po'. Voltandosi a guardarlo, rispose: «Ehi, piccolo.»
Giovanni si avvicinò al suo letto e sedette sulla sedia più piccola, con la cioccolata calda in mano e un sorriso furbo, ma felice, sul volto.
«Stavolta non ho rischiato la pelle io, eh?» disse, mettendosi comodo e sorseggiando la sua bevanda con un ghigno che lei conosceva bene.
«Per quanto ancora me lo rinfaccerai?» chiese lei, guardando da un'altra parte, con quel ricordo sempre maledettamente vivido nella mente.
«Per sempre.» rispose lui, con una punta di ilarità nella voce; Athena sapeva che scherzava e non voleva farglielo davvero pesare, ma era comunque doloroso. Lui aggiunse: «Anche se preferisco rischiare io, che rischiare di perdere te.»
«Vuoi sapere la mia scelta?»
«No.»
«Immaginavo.»
Il bambino le prese la mano. Non avrebbe mai avuto paura di lei. Non ce l'aveva mai avuta, se non per solo un momento di dubbio, ma che poi era passato. Nemmeno dopo quel giorno, nemmeno dopo tutto ciò che aveva visto. Entrambi lo sapevano, ma lei non poteva fare a meno di vergognarsene immensamente.
«Dai, ma'... non è successo nulla, non fare quella faccia.» borbottò lui, in un tentativo di tirarla su di morale.
«Ho sempre paura che...» borbottò lei, ma lui la interruppe e disse: «Paura di cosa? Sei più stabile ora. Non succederà più. O comunque, non inconsciamente…»
Lei lo guardò con la coda dell’occhio, storcendo la bocca. Il suo bambino aveva visto troppe cose brutte… eppure l’amava ancora come solo un figlio può fare. Lui le sorrise, scendendo dalla sedia e spostandosi sulla traiettoria del suo sguardo e disse: «Quello mi ha traumatizzato di più.»
«È il lato di me che non avrei mai voluto farti vedere, piccolo…» mormorò, affranta.
«Adesso posso dire di conoscerti del tutto.» sorrise lui, avendo ormai superato quella brutta fase di terrore.
Lei non rispose, non molto convinta. Non sapeva come funzionava la sua maledetta testa e il fatto che il figlio avesse visto in diretta una delle sue torture non aiutava di certo.
«Ma se la prossima volta succedesse con Lily?» riprese lei, decisamente di umore triste: «Tu te ne sei fatto una ragione. Hai una mamma pazza e non ci fai caso. Ma lei? Se dovesse partirmi tutto con lei?»
«E per il signor Grayhowl non hai paura?» chiese di rimando lui; se l'amava così tanto, vedere una belva del genere poteva forse anche cambiare quel sentimento.
Lei ridacchiò tetra, interrompendolo, e mormorò: «Raphael ha visto il mio peggio.»
«Peggio di quello che ho visto io?»
«Molto peggio. Assolutamente il peggio del peggio.» rispose lei, non sapendo se dirgli anche quello o meno. Aveva visto cosa aveva fatto a Ragefire, quindi avrebbe potuto reggere anche il massacro dei pirati. Ma lei poteva riuscire a narrarlo al suo stesso figlio?
«Se non vuoi dirmelo, non importa.» borbottò lui, vedendo quanto fosse combattuta: «E poi, immaginavo che lui ne sapesse più di me. Pare che nulla di quello che fai possa spaventarlo.»
«Ah be’.» assentì lei: «Con tutto quello che ha visto, dubito fortemente di riuscire a fargli paura… anche volendo. Temo che fallirei miseramente e, detto fra noi, non ci tengo nemmeno a provarci.»
Lui rise e sedette sul bordo del suo letto, dicendo: «Sai, ma’? Comincia a starmi simpatico!»
«Ma davvero?» chiese lei, prendendolo in braccio.
«Davvero, davvero.» ribatté lui: «Nei momenti in cui stavo peggio, mi è stato tanto vicino. Anche quando ti ho vista incosciente in questo letto. Non pensavo che… lui potesse farmi sentire così.»
Athena sorrise e ribatté, accarezzandogli dolcemente la testa: «Sai, Gio, anche se Raphael sarebbe una sorta di... “patrigno”. Brutta parola, non mi piace. Comunque, nonostante questo, è una brava persona, inutile girarci intorno. È il mio opposto… e ancora mi chiedo cosa ci abbia mai trovato in me.»
«Forse solo tutto quello che vedo io.» rispose lui, sorridendo; per cambiare discorso e farle passare la tristezza, aggiunse: «A proposito! Ti ho detto della trasformazione di Jukain jr e di Magma?»
Athena si fece perplessa e chiese: «Trasformazione? No, non mi hai detto nulla...»
Giovanni si affrettò a spiegare e disse: «La professoressa tua amica ci ha regalato, per mezzo del professor Birch, due collane con delle pietre incastonate. Reagiscono durante la lotta e lo rendono più forte, mutando anche la forma! È diventato fortissimo! Ho scoperto che si chiama megaevoluzione e avviene quando un Pokémon e il suo allenatore sono molto uniti!»
La donna si perse a pensare. Sembrava la stessa cosa che era successa a Fiammata una volta. Lasciò cadere il discorso e disse: «Chiederò delucidazioni alla prof. E una volta che sarò a casa, faremo una lotta per studiare il fenomeno. D'accordo?»
Lui vide passare il dottor Wilson dal vetro sulla porta, così batté il pugno contro quello della madre e disse: «D'accordo. Devo uscire. Rimettiti presto, ma’.»
«E tu fai il bravo, piccolo.»
Giovanni scese dal letto e le fece un ultimo cenno; poi prese la finestra e uscì, tornando a casa in groppa all’amico Wargle, che come sempre lo aveva accompagnato.
Il bambino arrivò alla casa e entrò nella sua camera dalla finestra. Nessuno si era accorto della sua assenza o forse sapevano dove fosse e non si erano più di tanto preoccupati. Scendendo le scale, vide Raphael solo in soggiorno, che guardava distrattamente la televisione, decisamente annoiato. Sentendo la doccia del bagno, capì che Lily era impegnata e N lo aveva visto in camera sua, notando la luce dall'esterno. Così si avvicinò al divano e mormorò: «Volevo ringraziarla, signor Grayhowl.»
L’uomo si voltò e vide Giovanni, imbarazzato, che guardava il bracciolo del divano, un po’ rosso in viso.
«Per cosa?» chiese, perplesso.
«Per quella sera… in ospedale. Non ha detto nulla.» rispose lui, sempre più a disagio.
«Non c’era niente da dire.» disse Raphael, sorridendo: «Non devi vergognarti Giovanni. Può capitare di cedere. È normale.»
Lui si decise ad alzare lo sguardo nel suo, e chiese titubante: «A lei capita mai?»
«Molto spesso.» ammise lui, dando una pacca al divano, sul cuscino in parte al suo, invitandolo a sedersi; il bambino titubò un momento, poi sedette e l’uomo proseguì, sospirando e mettendo le mani dietro la nuca, guardando il soffitto: «Da quando ho cominciato questo dannato processo, vedo la fine sempre più nera e capitano quei giorni nei quali non vedo soluzione. Ma non bisogna lasciarsi abbattere perché non è mai troppo tardi per fare qualcosa e migliorare tutto.»
Giovanni non seppe che rispondere, vista la sincerità con cui lui gli stava parlando, così borbottò: «Senta... mi dispiace, ok? Le vogliamo tutti bene, e io mi sto comportando da scemo. Davvero...  mi scusi.»
Raphael gli sorrise e ribatté: «Tranquillo. Immagino non sia facile. Prima o poi, andremo d'accordo.»
Giovanni lo fissò di sottecchi senza sapere cosa dire. Poteva davvero andare d'accordo con l'uomo che potenzialmente, avrebbe potuto portargli via la sua mamma? Raphael parve intuire i pensieri, perché aggiunse: «Ti garantisco che non è mai stata mia intenzione portarla via di qui. A me non cambia che ci siate tu e N o meno. Cioè, N si ma è un altro discorso. Comunque, a me importa solo vederla felice. E si illumina quando ti vede. Quindi...»
Giovanni ridacchiò e chiese: «Che cosa le ha fatto mio padre?»
Raphael si fece imbarazzato e commentò: «Fatto niente in realtà. Ma quei due vanno troppo d'accordo... lui è così dannatamente perfetto...»
«Li osservo da quando mi hanno raccolto. Si fidi, non hanno alcun interesse reciproco.»
«Lo so.» ridacchiò l'altro: «O meglio, lo spero. Però niente mi impedisce di temere la concorrenza.»
Giovanni rise e le cose tra di loro migliorarono. Già dal giorno seguente, a colazione, il bambino scese dalla camera allegro e vivace, salutando tutti con enfasi. Lily, Raphael e N lo fissarono un momento perplessi, mentre usciva dopo aver mangiato qualcosa, salutando, e poi si guardarono, senza sapere cosa dire.
Il bambino andò invece in ospedale a trovare la madre. Entrato, la trovò ovviamente sveglia e disse: «Ehi, ma’! Come stai?»
«Gio, ci siamo visti ieri sera. Dubito che dormendo, abbia potuto fare qualunque cosa!» rispose lei, sorridendogli e vedendolo stranamente allegro.
Lui le raccontò tutto e disse: «Mi sono trovato bene. È simpatico e posso davvero credere che non voglia distruggere la mia famiglia e portarti via da me.»
La donna gli sorrise, felice di vedere che Raphael aveva colpito anche lui, e i due parlarono un po’, felici di avere finalmente tempo per stare in pace. L’uomo arrivò poco dopo, brontolando, ma si bloccò sulla soglia, vedendoli addormentati entrambi sul letto. Giovanni era in braccio alla mamma e lei lo teneva stretto. Lui si avvicinò e scosse un momento la fidanzata, che si svegliò abbastanza rintontita e mormorò: «Accidenti ai sedativi di Wilson.»
«Buongiorno.» la salutò l’avvocato: «Sedativi?»
Athena sbadigliò e si tirò un po’ su, cercando di non svegliare il figlio, e rispose: «Quel dottore folle mi sta riempiendo di sedativi. Dice che non vuole tenermi sotto pressione, ma sono soggetta a collassi di sonno!»
Raphael ridacchiò, dando ragione al dottore, ma lei aggiunse: «E così hai fatto colpo su Giovanni.»
«Abbiamo fatto due chiacchere. Mi è crollato davanti quando ti ha vista in coma nel letto e forse, da lì, ha capito che non ho mai avuto cattive intenzioni.»
Athena annuì e rispose: «Ha problemi di fiducia, da sempre. Ma forse si sta abituando.»
Lui annuì, ricordando che un tempo qualcun altro aveva problemi di fiducia, ma non reputando opportuno dirlo. Per cambiare discorso, buttò lì: «Senti piccola pazza, avrei una curiosità. Come mai non va a scuola?»
Lei lo guardò, perplessa. Non ci aveva mai pensato. Né lei né N erano mai andati a scuola e quindi a nessuno dei due era venuta in mente quella opzione. Così, borbottò: «Non ci avevo mai pensato.»
«Pensi che sarebbe un'idea?»
«Boh, chiedi a lui e a N... è un piccolo genio in matematica però altro non so. Non so nemmeno se avrebbe la giusta disciplina per andare a scuola.»
Raphael annuì e mandò a mente di parlarne con N. Athena assentì, sapendo che, con un’istruzione, sarebbe vissuto molto meglio. Doveva imparare a leggere e a scrivere, ma soprattutto capire come girava il mondo. I due amanti parlarono un po’, tranquillamente, ma poi arrivò Wilson per un controllo e così dovettero svegliare Giovanni e andare via entrambi, con la promessa però di rivedersi quella sera. Raphael accompagnò Giovanni a casa e, nel tragitto, gli chiese: «Hai dormito bene?»
Lui ridacchiò imbarazzato, ma annuì, sottolineando che non era voluto; l’uomo ci rise su, tranquillizzandolo, poi disse: «Senti un po’… ti piacerebbe andare a scuola?»
«Perché? Io sto bene così.»
«Lo so, ma ti sarebbe utile sapere un po’ di cose penso… potresti magari farti degli amici e vedresti Martha più spesso.» concluse con un ghigno.
Lui si voltò a fissarlo, illuminato, e borbottò: «Ci va anche lei?»
Raphael annuì e Giovanni esclamò: «Va bene! Vado anch’io!»
L’avvocato rise, ma poi aggiunse: «Però dovrai impegnarti molto. Sei indietro di tre anni e se non recuperi rischi di perderla per la strada. Lei è già in quarta, ma tu dovresti ripartire dalla prima. Se invece accetti che N e una mia amica ti facciano da insegnanti, potresti entrare a settembre in quarta, nella classe in parte a quella di Mary.»
Giovanni annuì e rispose: «Papà già mi ha insegnato qualcosa di matematica. È bravissimo con i numeri e si diverte. Ogni tanto facciamo le sfide con i giochi aritmetici.»
«Ottimo. Quello allora non sarà da recuperare.»
Raphael lo portò a casa e gli disse che il giorno dopo avrebbe iniziato con N. Andò in ufficio, a sistemare alcune pratiche e a smistare la segreteria tra messaggi utili e minacce; pranzò velocemente e prese un bigliettino: il numero dell’insegnante di storia e italiano di Lily. La donna glielo aveva lasciato alle ultime udienze, con l’invito di chiamare se per caso avesse avuto bisogno di aiuto per qualcosa, o se Lily avesse deciso di cedere all’insegnamento privato. Compose rapidamente il numero sul cellulare e lo accostò all’orecchio, in attesa di una risposta. Quando questa avvenne, alcuni squilli dopo, mormorò: «Salve. Sono Raphael Grayhowl.»
«Buon pomeriggio avvocato. Mi dica. C’è qualche problema?»
«No ecco… non è che possiamo vederci? Più che un problema, è un favore.»
La donna acconsentì e si diedero appuntamento nel parco di Zafferanopoli un’ora più tardi. Quando Raphael raggiunse il posto, la vide seduta a una panchina e la raggiunse, sedendosi a sua volta.
«Buongiorno avvocato.» salutò la donna con un sorriso.
Lui ricambiò il saluto e lei chiese: «Di che favore ha bisogno?»
«Ecco… diciamo che avrei un figliastro che non è mai andato a scuola… e da una parte non so nemmeno se me lo accettano e dall’altra lui vorrebbe stare vicino a Martha, ma finirebbe in prima e allora…»
«Vuole che gli dia delle lezioni private.» concluse lei.
Lui annuì, un po’ imbarazzato dalla richiesta. Quell'insegnante era molto gentile con loro, e la sua bontà pareva quasi irreale. Chiedere aiuto lo aveva spesso imbarazzato; come la sua ragazza, preferiva fare da sé e risolvere i problemi da solo. Ma ora non poteva permetterselo. Ogni aiuto era ben voluto. La donna accettò dunque e prese appuntamento per la settimana dopo. Raphael tornò in ufficio, sistemò alcune cose e tirò fuori il suo consumatissimo plico, il più alto che avesse mai fatto. Sul frontespizio recitava ancora il nome che aveva messo all'inizio, non sapendo ancora nulla.
“Soggetto Ignoto”
Guardò quella scritta con nostalgia, poi prese una penna rossa, barrò la prima scritta e ne aggiunse una seconda sotto: “Piccola Pazza”. Poi lo aprì nel mezzo, appuntandosi alcune cose che doveva sistemare.
A scuola invece, sempre quella mattina, Joshua arrivò malconcio. Tutti quelli che lo guardavano, dal disprezzo all'ammirazione, avevano in mente il medesimo pensiero: “Le avrà prese in una rissa”. Lui non badava alle occhiate degli altri; non gli importava più di tanto purché rimanessero quelle. Se avessero cominciato ad arrivargli occhiate di pietà, avrebbe ristabilito il suo nome con la forza. L'unico che però sapeva la verità su ciò che gli succedeva era il suo unico, migliore e vero amico Kevin, che quando lo vide zoppicare su per le scale, gli corse incontro per aiutarlo.
«Quando finirà, eh Josh?» gli chiese, sostenendolo per un braccio: «Dovresti andare in ospedale.»
«Ma no.» ribatté lui, sentendo mezze ossa rotte: «Non è nulla di grave.»
«Josh...» tentò di replicare l'amico, ma il diciottenne chiuse il discorso, dicendo: «È sopportabile. Lascia stare.»
Kevin si arrese, ma Joshua non volle farsi accompagnare in classe. Gli diede appuntamento a ricreazione e andò in aula. All'intervallo però, Kevin ritardò e Lily lo vide solo. L'aveva visto zoppicare e ci stava riflettendo... lui l'aveva aggredita certo, ma sembrava sinceramente pentito; il miglioramento del rapporto con Giovanni la stava facendo pensare molto. Magari era davvero disposto a essere solo un amico. Dopotutto, nelle condizioni in cui era, un amico le faceva comodo. Lui poteva esserlo davvero, soprattutto per il fatto che aveva saputo prima che lei era la figlia del Demone Rosso ma non aveva mai detto niente a nessuno, e ora che era venuto fuori tutto, non pareva darci molto peso. Ma era molto restia a fidarsi.
«Che ti è successo, Blade?» gli chiese, restando sempre lontana e in zona sicura, appena si fu fatta un po' di coraggio.
Lui si voltò e la vide, ma con un sorrisetto storto rispose: «Da quando ti interessa cosa mi succede? Pareva ti piacesse vedermi mezzo rotto.»
Seccata dalla rispostaccia, e non molto convinta di ciò che stava facendo, Lily alzò le spalle e sbottò: «Scusa il disturbo, allora.»
Prese le scale di servizio, se ne andò cercando di non farsi notare troppo; lui però si rese conto di essere stato troppo scontroso, così la inseguì, facendo un cenno a Kevin di restare dov'era, e fermata, le disse: «Scusa, non volevo risponderti male, ok? È solo che mi sembra strano...»
Lei alzò le spalle nuovamente e rispose: «È una domanda lecita. E comunque non è stato Giovanni, quindi non ci trovo niente di soddisfacente.»
«E non credi alla voce che gira?»
«No. Sei violento forse, ma di certo non stupido. Non ti imbarchi in cose più grandi di te.»
Lui inclinò la testa, colpito da quanto lei lo avesse osservato bene, e rispose, abbassando gli occhi: «È una cosa che sa solo Kevin e... be', si anche tua madre.»
Lily lo fissò interdetta, e lui aggiunse: «Ha uno spirito di osservazione medica molto sviluppato... l'ha capito subito.»
La ragazzina non disse nulla, non volendo sembrare invadente, ma lui aggiunse: «Probabilmente deriva da questo il mio carattere aggressivo. Mio padre è... un alcolizzato che passa il suo tempo a bere e picchiare me.»
Lei non riuscì a spiccicare parola; non si aspettava una cosa del genere. Non avrebbe mai pensato che il violento playboy dell'istituto soffrisse così tanto. Lui invece, sentendosi sempre meglio mentre le confidava tutto questo, aggiunse: «E se ti stai chiedendo perché mia madre glielo permette, be' lei è scappata, quindi... le poche volte che sono a casa cerco di schivarlo ma capita il giorno in cui mi aspetta giusto per ricordarmi quanto fa male...»
«Ma.... mamma....» balbettò lei, ancora sconvolta e incredula che la madre non fosse andata a scuoiarlo.
Lui sorrise e la interruppe, dicendo: «Me l'ha proposto quando mi ha costretto a vuotare il sacco, ma ho rifiutato. È già abbastanza nei guai senza altri capi di accusa. E comunque posso resistere. Delle volte Kevin mi ospita da lui e riesco a scamparla.»
La ragazzina non sapeva che dire, mentre lui le confidava una cosa così importante; suonò la campanella e dovettero entrare in classe, ma lei non smise di pensare a quanto il giovane dovesse soffrire.
Nel frattempo, Athena venne riportata in cella e si sentì una paternale semi infinita da Thomas. Ignorando le sue lamentele, la donna si limitò ad annuire e a rispondere: «Sì, va bene, hai ragione.» quasi a macchinetta, senza realmente ascoltare ciò che lui le stava dicendo. Finiti i rimproveri, l’uomo disse: «Comunque, mentre eri via, ti sono arrivate altre lettere del maniaco.»
Lei fissò la pila di buste ed esclamò: «Tutta questa roba?! Ma quel tipo non sa cosa vuol dire rinunciare?!»
«Non le ho aperte, ma ti prego, leggile. Ho proprio voglia di farmi due risate!» ridacchiò l’amico, mettendosi comodo e preparandosi a rotolare dal ridere.
Lei prese la prima, la aprì e prima di leggerla disse: «Non sei tu quello tormentato da un folle.»
Già alla prima riga, la donna scoppiò a ridere senza parole per ciò che stava leggendo.
«Quest’uomo è completamente fuso! Senti, senti… “Mio sanguinario angelo,” che già qui siamo messi male…
“Oggi stavo scuoiando un maiale e ho pensato a te. Sei il mio pensiero fisso di tutta la giornata… vorrei potermi far torturare dal tuo delicato pugnale…”»
Athena rimise via la lettera, con una faccia mezza disgustata, e borbottò: «Non oso leggere altro. Potrei sentirmi male.»
Thomas, che stava ridendo come un cretino, piegato in due sulla branda, non riuscì nemmeno a fare una frase di senso compiuto, soffocato dal suo stesso ridere. Lei lo fissò, inarcando un sopracciglio, e lanciò tutto il plico di buste nel comodino, dato che erano tutte del matto. Sospirò, pensando a quanta gente malata c’era in giro oltre a lei; ma soprattutto a quanto fosse dannatamente insistente. Lei era fidanzata e innamorata. Possibile che non lo capisse?
«Spero solo di non vederlo mai di persona.» commentò alla fine di un lungo riflettere: «O potrei davvero torturarlo con il mio “delicato” pugnale. E non sarebbe una cosa così piacevole aggiungerei…»
Il compagno di cella assentì, cercando poi di distrarla dai pensieri omicidi.
Quella sera, da tutt’altra parte, quando Raphael tornò a casa, trovò tempesta. Strano ma vero, Lily stava difendendo Giovanni contro N.

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Capitolo 30
*** Capitolo XXIX ***


«Pensavo che non avrei vissuto abbastanza per assistere a una scena del genere.» commentò Raphael, interrompendo la furiosa discussione che si sentiva fino in giardino: «Che è successo?»
«Finalmente sei qui.» rispose secco N, fissandolo per un momento ma poi tornando a squadrare furioso il figlio: «Così puoi portarti via tua figlia e farmi fare il padre.»
«Non ho fatto niente di male!» lo interruppe gridando Giovanni.
N alzò il tono di voce a sua volta e ribatté: «Hai picchiato un ragazzo quasi a morte! Ti avevo detto di farla sparire!»
Lily intervenne, spalleggiando il fratellastro, e disse, cercando di non essere troppo polemica dato che comunque aveva una mezza cotta per l’uomo: «Stava difendendo me!»
«Il fine non ha importanza.» rispose lui, più dolcemente di quando si rivolgeva al figlio: «È l'atto che è sbagliato!» aggiunse, invece, lanciando un'occhiata di fuoco a Giovanni.
I tre ripresero a discutere sotto lo sguardo perplesso di Raphael e quello rassegnato di tutti i Pokémon che inizialmente avevano tentato di mediare; prima o poi, si dissero, avrebbero smesso. Alla fine però, senza possibilità di spuntarla, i due ragazzi corsero insieme in camera, sapendo di essere dalla stessa parte. Raphael invece si chiese come mai N non avesse saputo prima di ciò che era successo. Ma probabilmente, il suo isolamento su quella sperduta isola lo aveva tagliato fuori dalle notizie.
«Senti N...» disse invece, avvicinandosi all'amico: «Il problema persisterebbe se andasse in giro a massacrare gente a caso come sua madre. Ma se vogliamo vederla così, allora dovresti sopprimerlo. Io credo che lui abbia bene in mente cosa sia giusto e sbagliato e semplicemente ha voluto difendere mia figlia, cosa che io trovo quasi un pensiero carino.»
«Tu che ne sai?» gli ribatté secco lui, ancora arrabbiato e piuttosto aggressivo per i suoi standard, tra l’altro irritato che l’amico gli dicesse come trattare suo figlio: «Non lo conosci nemmeno!»
«Non come te, certo.» annuì lui, calmo e posato, tentando di farlo ragionare e di calmarlo: «Però secondo me ti preoccupi troppo. Ne ho parlato con sua madre e... be' se si fida lei...»
N sospirò, sapendo di essere in netta minoranza e chiuse il discorso dicendo: «Fate quel che volete. Mi arrendo. Ma sappiate che non approvo.»
Nella stanza di sopra intanto, i due fratellastri stavano parlando. Lily cercava di consolare Giovanni, di tirarlo su di morale: d’altronde, l’aveva aiutata quando era intervenuto contro Blade. Così, disse: «Dai, mamma si fida di te. N ha perso la testa. So che non sei cattivo...»
Lui non rispose, imbarazzato dalla gentilezza e dall’appoggio della sorella, e si nascose sotto le coperte, in silenzio. Lei gli diede la buonanotte, tirò la tenda e andò anche lei a dormire. Però era molto triste. Non aveva mai visto N in quelle condizioni. Probabilmente ora stava male anche lui. Silenziosamente, scese dal letto e uscì, salendo le scale fino alla mansarda. Aprì appena la porta e lo vide, avvampando: stava leggendo, sdraiato sul letto, con la maglia del pigiama sbottonata. Zoroark mormorò qualcosa e lui alzò la testa, voltandosi verso la porta. Posò gli occhi nei suoi. Lily si sentì bruciare e scappò come un fulmine, sperando che lui non la seguisse e facesse domande scomode; e così, in effetti, fu. N si alzò solamente, aprendo la porta per controllare che se ne fosse andata, e si abbottonò il pigiama, vagamente imbarazzato. Zoroark rise e commentò: *«Siamo passati allo spionaggio, sire. La cosa si fa interessante.» *
«Ti ringrazio per avermi avvertito ma non fare pericolose allusioni.» sbottò lui, non sapendo che pensare: «Credo fosse solo preoccupata che stessi male dopo quel litigio.»
La volpe si acciambellò nel suo letto e commentò: *«Siete un rubacuori confuso ma sì. Non credo volesse altro.» *
«Speriamo. Buonanotte.»
*«Buonanotte a voi, sire.» *
N si rifugiò nei sogni, dove niente era sbagliato, mentre Lily non riuscì a dormire. Restò sveglia a pensare, tutta la notte. Il giorno dopo, andò a scuola come tutte le mattine, ma le tesero un agguato fuori dal cancello. Pidg era già volato via, convinto fosse al sicuro, e alcuni ragazzi di quinta l'avevano presa e malmenata, trovandola sola fuori dall’edificio. Entrò in classe zoppicando al suono della campanella e sedette al suo banco, asciugandosi il sangue che le scendeva dalla bocca e tentando di nascondere i lividi nelle zone scoperte.
Felix le si avvicinò, preoccupato avendola vista malconcia, e mormorò: «Lily dovresti farti vedere.»
«Non serve. I denti sono tutti al loro posto.» ribatté secca lei, nervosa e con poca voglia di parlare.
«Non puoi andare avanti così.» insisté lui.
Lei non gli rispose e lui si arrese. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma quando era così arrabbiata, l'amica si chiudeva in sé stessa, come sua madre. E lui non poteva farci nulla. Lily però era oltre il limite. E quando a ricreazione tentarono di picchiarla di nuovo, si ribellò. Era stufa: mesi che le davano della bestia; mesi che la canzonavano, la picchiavano. Mesi che abbassava la testa, dicendosi che non era nulla, che prima o poi sarebbe finita.
Ora basta.
Fu un raptus, un eccesso di violenza dovuto alla pressione a cui era sottoposta. E con uno scatto d'ira, spinse dalle scale uno dei suoi aggressori che volò di sotto e si ruppe una gamba. Joshua arrivò troppo tardi e non poté prendersi la colpa come avrebbe voluto. Era accorso, sentito il baccano e il nome della ragazzina, ma era stato troppo lento.
Ci fu il finimondo.
Professori, bidelli, il preside... tutti accorsero a controllare le condizioni del ferito e a fissarla come se fosse una belva, come se i lividi che le avevano provocato poco prima fossero il simbolo della sua malvagità invece che i segni di una vittima. Tutte le volte che avevano pestato lei, non era successo nulla. Dentro o fuori la scuola fosse stato, non era importato a nessuno. Ora che, per una volta, lei si ribellava a quelle violenze insensate, quasi le costò la sospensione. Raphael arrivò a scuola in un lampo, chiese scusa ai genitori, sentendosi insulti e maledizioni, prese la figlia e la portò a casa. Nel tragitto cercò di parlarle, di tranquillizzarla; farle capire che non era arrabbiato con lei. Ma Lily non rispondeva. Voleva solo la sua mamma. Parlare solo con lei, calmarsi. Capire se stava diventando come lei. Una bestia violenta fuori controllo. Un pericolo per la comunità. Arrivati a casa, trovarono N e Giovanni intenti a fare matematica, ma viste le facce dei due, sospesero la lezione per capire cosa fosse successo. Padre e figlio avevano pattato che N non lo avrebbe più rimproverato se lui avesse tenuto la mazza sempre in camera. L'avvocato prese l’amico da parte e gli spiegò tutto mentre Giovanni sedette sul divano accanto alla sorellastra e mormorò, avendo capito cos’era successo: «Non è colpa tua. Tu non sei cattiva.»
Lei non rispose, nella disperazione più totale. Lui capì che lei non voleva dire nulla, così le prese timidamente la mano e la strinse. Lei chiuse gli occhi, trattenendo le lacrime a stento.
«Portala da Athena.» disse infine N, sospirando abbattuto per come stavano trattando la piccola Lilith: «So che sei un buon padre, amico mio, ma lei ora ha bisogno di sua madre.»
Raphael annuì e prese il cellulare per chiamare Lance. Gli spiegò rapidamente la situazione e lui rispose secco con: «Stanza degli interrogatori tra un'ora. Mi sarà più difficile, ma spengo tutto. E tu vieni via con me. Devono stare da sole e tu sei assillante in queste condizioni.»
L'avvocato eseguì, portando la figlia in carcere, e Lance andò a prendere Athena. Entrò in carcere con passo marziale e tutto il corpo di polizia fu al suo servizio. Arrivato dal direttore, disse: «Devo vedere il Demone Rosso.»
Dopo un tremito a quel nome, il direttore rispose: «Gliela porteremo subito nella stanza blindata...»
«No.» lo interruppe secco lui, con voce quasi dispotica: «Andrò a prelevarla personalmente. E la interrogherò io stesso nella stanza quattro. Non voglio vedere in giro nessuno. Chiaro?»
«Sissignore!» esclamarono tutti, direttore compreso, schizzando sull'attenti.
Lance prese il corridoio con passo deciso e sguardo fiero, ignorando tutti i detenuti che lo deridevano al suo passaggio. Giunto nella cella in fondo, sentì delle risate. Athena e Thomas erano talmente isolati che non si sentiva quando qualcuno entrava o usciva dal corridoio. Il Campione si avvicinò lentamente e si fermò per ascoltare: la donna stava ridendo mentre la voce di un uomo borbottava maledizioni. Lance tossicchiò, per mostrare la sua presenza e lei riconobbe la sua stazza perché chiese: «Che ci fai qui, Lancino?»
Lui alzò gli occhi a quel nomignolo idiota poi rispose: «Problemi con tua figlia, pazza. Ti spiego tutto dopo.»
Lei si fece perplessa, fece un cenno di saluto a Thomas e poi uscì dalla cella, seguendo Lance, che la tirava per le catene. Fece finta di essere irritata per non far capire nulla della loro amicizia ma dentro di lei era confusa e voleva spiegazioni. Arrivati nella stanza blindata e insonorizzata degli interrogatori, l'uomo le spiegò ciò che era successo, slacciandole le catene: «Non so però bene la dinamica. Lei non vuole parlare e Raphael è arrivato dopo il fatto. Ha visto solo tutti intorno al ragazzo ferito e lei in un angolo che fissava il vuoto.»
La donna si massaggiò i polsi, e rispose, seriamente: «Quando ti trattano come una bestia, alla fine lo diventi. Ma non permetterò che mia figlia prenda questo come mia eredità. Grazie dell’aiuto Lance.»
Lui annuì, sminuendo il suo contributo con un cenno, e rispose: «Figurati. Lei ha bisogno di qualcuno che la sostenga e Raphael non ne è in grado. È troppo emotivo e certe situazioni sono più forti di lui. Lei ha il tuo carattere e solo tu puoi capirla.»
«Lo spero, ma credo di sapere cosa sia successo.» borbottò lei, avendo intuito una possibile dinamica vista la situazione: «Lascia fare a me, Campioncino.»
Lance le diede una pacca sulla spalla, poi uscì, e Athena mise le mani sul tavolo, incrociando le dita e pensando a cosa dire alla sua piccola. Poco dopo la porta si riaprì. Lily corse dentro e abbracciò la madre, senza tanti preamboli. Cominciando a singhiozzare disperata, urlò frasi sconnesse, tipo che era cattiva e stava diventando come Giovanni e via dicendo. Singhiozzava mentre nella mente rivedeva solo il ragazzo che aveva colpito che si dimenava, urlava, piangeva. Era stata lei a fargli del male. Athena la lasciò sfogare; doveva calmarsi per essere lucida. Quando questo avvenne, le asciugò dolcemente le lacrime, mentre la figlia posava lo sguardo su di lei, e mormorò: «Non è così grave esplodere. Non finché ti limiti a spingere la gente, diciamo.»
Lily guardò quella mano delicata, rovinata ormai perennemente dall'autolesionismo che l'ira a volte scatenava, e il polso segnato da un livido che percorreva tutta la circonferenza: il segno delle catene che la donna portava praticamente sempre, perché tutti avevano paura di chissà che attacchi. In ospedale la ragazzina non si era accorta di nulla, presa com'era dalla felicità di vederla sveglia, ma ora poteva contare una per una, tutte le ferite che la madre portava sul corpo. Ed erano davvero tantissime.
«Gli ho fatto del male.» rispose dopo un po', con la voce tremante.
La donna le accarezzò dolcemente la testa, non comprendendo del tutto il senso di colpa che la rodeva; di certo però sapeva a cosa si riferiva, anche se raramente lo provava. Ponderando le varie risposte che le venivano in mente, tra cui vari “se l'è meritato”, commentò: «Ti sei solo difesa.»
«Ma gli ho fatto del male.» esclamò lei, disperata.
La donna si trattenne dal sospirare e chiese: «Tu volevi fargli del male?»
Lily scosse la testa, disperata e rispose: «No! Volevo solo che la smettesse di picchiarmi, ma non mi ascoltava. Io lo pregavo, lo supplicavo, ma non smetteva. Non … non ne potevo più! Ho perso la testa…»
“Supplicare per far smettere...” commentò Athena con il pensiero, mentre la figlia la stringeva singhiozzando: “Al posto suo altro che gamba rotta. L'avrei fatto lentamente a pezzettini, piccoli piccoli.”
Lily scoppiò a piangere nuovamente, distogliendo la madre dai pensieri omicidi, ed esclamò: «Sono stanca mamma. Sono stanca di essere additata come una bestia! Non ho mai fatto del male a nessuno…»
Athena la strinse, piano, per confortarla e pensare a qualcosa di intelligente e consolante da dire; poi mormorò, tentando di essere convinta di ciò che stava dicendo: «Tu non hai nulla che non va Lily. Il DNA è cosa siamo, non chi siamo. Io sono una bestia, tu solo una dolce ragazzina. Lo so che non sei come me e ringrazio per questo. Sei esplosa e hai attaccato perché sono mesi che ti provocano, ti tormentano. Ma non è colpa tua. Se la smettessero, tu ritorneresti la piccola e solare Lily che eri prima, mandando via questa maschera da scontrosa che ti sei costruita per proteggerti. Se devi sfogarti, fallo con me, visto che è per causa mia che ti perseguitano. Ma cerca di mantenere la calma e tutto si aggiusterà.»
Di tutta risposta la figlia abbracciò la madre. Ma poi mormorò: «T-tu cosa avresti fatto al mio posto?»
Lei non riuscì a trattenere un sogghigno lievemente sadico e rispose: «Lo vuoi davvero sapere?»
Lily scosse la testa e ribatté: «La tua faccia vale più di mille parole.»
Athena ridacchiò e la figlia si mise comoda seduta sulle sue gambe. Posata a lei, si godette il momento, sapendo che una volta uscita di lì, l'avrebbe forse rivista, ma solo dietro le sbarre di una cella. Era la prima volta che l’abbracciava davvero, senza sbarre o flebo di mezzo. E si sentiva bene. La donna, della stessa opinione, la strinse a lei, contenta di averla avuta almeno una volta tra le braccia. Ora poteva morire felice.
Lance tamburellò sulla porta e Athena sospirò. Doveva lasciar andare la figlia, di nuovo. Lily sciolse controvoglia quel dolce abbraccio e mormorò: «Non voglio andare via.»
«Io nemmeno. Ma sai com'è... non comando io. Non più almeno.» rispose lei, con un mezzo sogghigno triste.
«Ti faceva comodo avere il potere, ah?» ridacchiò Lily.
«Non sai quanto!» sorrise la madre, scompigliandole i capelli.
La ragazzina l'abbracciò forte di nuovo, imprimendosi nella mente quella bella sensazione e poi salutò la madre con la mano. Lei ricambiò, per poi tornare in cella scortata da Lance.
Lily fissò la porta chiudersi, sospirando. In quel momento non voleva altro che la sua mamma; ma non poteva farci nulla, così si costrinse a tornare dal padre che, quando la vide, la strinse forte. Lei ricambiò l’abbraccio e lui disse: «Stai meglio, piccola mia?»
«Si papà, tranquillo.» rispose lei, con un sorriso, per cercare di calmare l'ansia che gli leggeva negli occhi: «Sto meglio.»
«Tua madre non ti ha consigliato terapie, vero?» chiese lui, lievemente preoccupato.
«Se intendi cose tipo da abituarmi alla vista del sangue… no tranquillo, anzi, è stata molto consolante!»
Scoppiarono entrambi a ridere e uscirono insieme dal carcere, tornando a casa ad aggiornare N e Giovanni.
Il giorno dopo, Lily rimase a casa, con nessuna voglia di andare a scuola. Raphael la capiva e aveva anche sentito l’insegnante loro amica, che aveva altamente sconsigliato la presenza per tutta la settimana. A scuola era fermento e ira, ed era meglio non farsi vedere per un po’. Il pomeriggio, tornando dal bagno, vide N fermo davanti alle scale, posato al muro a braccia incrociate. Lei arrossì. Da quando lo aveva spiato, invadendo il suo privato senza consenso, aveva cercato di schivarlo il più possibile. Si sentiva quasi una maniaca. Imbarazzata, lo ignorò, passandogli davanti guardando fisso in terra ma lui la fermò, posandole la mano sulla spalla. Lei non poté che bloccarsi e lo guardò di sottecchi. Sembrava così serio... lui si chinò e chiese: «Come stai?»
«B-bene, credo.» rispose lei, sentendosi stranamente a disagio: «Scusa, devo andare.»
Con un gesto secco, tolse la sua mano dalla sua spalla e corse via. N la guardò correre, affranto, ma non la seguì. Non avrebbe mai potuto forzarla alla sua compagnia. Ma era triste, troppo triste.
Qualche giorno dopo, a metà mattina, bussarono alla porta. Wolf uscì dalla sua cuccia, ringhiando con il pelo ritto; Giovanni, che stava guardando un film con Lily, scese dal divano e prese la mazza, pronto a proteggere la sorella. Erano loro due soli, poiché N era andato a fare un giro con Reshiram e Raphael era al lavoro. Lily scoccò un’occhiata preoccupata a Giovanni. Lui le fece un cenno con la mano e sussurrò: «Sta’ tranquilla.»
Si avvicinò alla porta, lentamente. La spalancò di colpo e mollò una mazzata all’intruso con tutte le forze che aveva.
Fu un miracolo se non gli spaccò il cranio.
Sbirciando da dietro il fratellastro, Lily lo riconobbe ed esclamò: «Felix?! Fermo, Gio, fermo!»
Il bambino bloccò il secondo colpo, fissandola correre verso il coetaneo e sentirgli il battito. Preoccupata, la ragazzina lo soccorse, non capendo cosa ci facesse lì, ma di certo doveva fare qualcosa per aiutarlo. Giovanni fece per dire qualcosa ma lei lo anticipò e disse: «Lui è il mio unico amico. Aiutami a portarlo dentro.»
Il bambino lanciò la mazza in cucina e prese Felix per le gambe, mentre lei lo teneva per le spalle, e lo posarono sul divano.
«Sapientina, io…» provò a scusarsi Giovanni, capendo di aver fatto un casino, ma lei gli sorrise e mormorò: «Non serve, Gio. Nessuno si sarebbe aspettato una visita dall’unica persona che non ci è ostile. Pensavo non sapesse nemmeno dove abito…»
«E allora come…?»
«Non lo so.» lo interruppe lei, alzando le spalle: «Ma è un tipo sveglio. Avrà fatto qualche ricerca.»
Giovanni annuì e portò rapido una bacinella piena d’acqua e una spugna, insieme ad alcune bende e il ghiaccio. Il povero Felix restò KO per alcune ore, nelle quali Lily ponderò di chiamare Wilson.
«Forse ci conviene.» borbottò il fratellastro: «Non vorrei che avesse complicazioni.»
Lei annuì e corse a prendere il telefono, mentre lui teneva d’occhio l’ospite. Felix si riprese lentamente, mettendo poco a fuoco e tentando di alzarsi, ma il bambino mormorò: «Non alzarti, che stai peggio. Lily arriva subito.»
«Chi… sei?» borbottò lui, ancora mezzo rintontito: «Che è… successo?»
«Io mi chiamo Giovanni.» si presentò il figlio di Athena: «Sono il fratellastro di Lily. È andata a chiamare un dottore… tra poco torna.»
Felix annuì, mettendosi una mano sulla testa e sentendola quasi rotta; gli doleva da morire. La ragazzina arrivò poco dopo, borbottando: «Jack arriva tra poco… ehi Felix! Ti sei ripreso, vedo!»
«Per modo di dire, Lily… che è successo?» rispose lui, tenendo gli occhi chiusi.
«Ho un fratellastro protettivo.» spiegò lei, sorridendo a Giovanni: «Non ci aspettavamo visite, soprattutto dall’unica persona amichevole.»
«Scusami.» aggiunse il bambino, davvero pentito di avergli fatto del male.
Felix sminuì la cosa nonostante si sentisse la testa spaccata in due, e poco dopo arrivò Wilson che, dopo una breve visita e un antidolorifico, gli disse solo di tornare due giorni dopo per farsi vedere.
Il ragazzino si mise seduto, con ancora il ghiaccio in testa, e mormorò: «Ero preoccupato per te, non vedendoti e non sentendoti… Hai fatto bene a mandare quello all’ospedale!»
Lei sospirò, non molto convinta, e rispose: «Non credo… ora mi eviteranno tutti.»
«E lasciali! Chi non ti vuole, non ti merita!» ribatté lui, spalleggiato da Giovanni che trovava quel tizio simpatico a pelle, nonostante si sentisse ancora in colpa per averlo quasi ammazzato.
«Grazie Felix…» disse lei, davvero grata all’amico per la sua presenza costante: «Ma cosa ci fai qui?»
«Ho fatto alcune ricerche.» disse solo lui, per non dover confessare di aver chiesto a suo padre.
Lei non insistette oltre, ma lui borbottò qualcosa, diventando tutto rosso, poi mormorò, titubante: «Lily… io vorrei conoscere la tua mamma. Cioè… vostra in realtà.»
«Cosa?!» esclamarono in coro i due fratellastri.
Lui guardò a lato, imbarazzato, e aggiunse: «Insomma, ecco… se tu dici che va bene… cioè… io credo sia una brava persona, tu ne parli bene e allora…»
Lasciata la frase in sospeso, concluse con il pensiero, non avendo il coraggio di dirlo: “E magari per vedere se è d’accordo se io … sono pazzo di te.”
Lily si riprese dallo shock di quella richiesta e borbottò, non molto convinta: «Non saprei, Felix… a parte che tu puoi benissimo chiedere a tuo padre.»
«C-come fai a…?!» esclamò lui, sconvolto a sua volta di scoprire che lei sapeva chi fosse suo papà.
«Lo so da mesi.» rispose lei, seccata da quanto insultassero la sua intelligenza: «Non riesco a capire come si riesca a mantenere un segreto di questa portata ma siete uguali! Che pretendi? L’ho incontrato e ho visto subito che sei la sua fotocopia.»
«Papà dice che tu lo sei di tua madre…»
«Questo lo dovrai valutare tu. Comunque, chiedi a lui se puoi.» chiuse lì il discorso lei, per evitare di allungare ulteriormente il dibattito, per poi dire: «Vuoi restare a cena? Non credo che papà abbia qualcosa in contrario.»
Lui avvampò nuovamente e balbettò: «B-beh, se non disturbo…»
I due fratelli lo tranquillizzarono, così lui accettò, chiamò Lance per comunicarglielo, e passarono tutti insieme una bella serata, tra umani e Pokémon. Pidg, poi, lo riportò a casa e il bambino, entrato nell’appartamento che divideva con il padre, salutò con: «Ciao, papà. Hai cenato?»
Lance sbucò dal divano, tra pop corn e film, e lo salutò, annuendo con la bocca troppo piena per parlare; il bambino sedette con lui, rubandogli la ciotola e sfogando le sue frustrazioni di cuore nel cibo. Lo vedeva da troppo tempo che ogni tanto la sua amica pareva sulle nuvole, ma non aveva mai capito perché. Ma quando l'aveva vista guardare con quello sguardo sognante il tizio che era entrato verso sera e aveva cenato con loro... tutto era stato più chiaro. Sembrava imbarazzata, in qualche modo a disagio, ma quegli occhi avevano chiarito tutto. Maledettamente bene.
«È successo qualcosa?» chiese il Campione, vedendo quanto fosse giù.
«No, è andato tutto bene.» borbottò lui di risposta, guardando intensamente la ciotola e non l’interlocutore: «Papà… posso vedere la mamma di Lily?»
Lui lo fissò, non convinto di quella richiesta, e chiese: «Cosa? Perché?»
«Perché lei è la mia migliore amica…» rispose lui, arrossendo leggermente.
Lance sorrise, intuendo forse qualcosa, ma poi disse, con tono categorico: «Non puoi vedere Athena. Non sei autorizzato.»
«Ma dai papà…!»
«No.»
Lance non voleva essere duro, ma Athena era molto sotto pressione e non voleva rischiare attacchi di chissà che. La mente di quella donna era tutto un programma. Di riabilitazione psichiatrica. Ma non conosceva suo figlio. Riuscì a seguirlo, intrufolandosi nel carcere, e quando fu dentro, prese la carta che aveva in tasca e respirò a fondo. Doveva recitare bene. Un secondino lo bloccò presto. Lui sfoderò la sua più grande faccia tosta e rispose: «Mio padre, il Campione, mi ha incaricato di controllare il Demone Rosso. Essendo io piccolo e indifeso, pensa che potrei osservare il suo comportamento naturale.»
«Non mi è stato detto niente...» borbottò la guardia, ma Felix lo interruppe e aggiunse: «No, infatti. Il Campione desiderava che nessuno sapesse niente per evitare che lo strano comportamento dei secondini la mettesse in guardia. Quindi, chiedo se per cortesia mi può scortare alla cella e evitare di dire in giro che sono qui.»
Quello guardò la carta che gli era stata porta. La firma sembrava autentica, il tono della comunicazione anche. Così, alzando le spalle, la guardia lo scortò al corridoio e disse: «La cella è quella in fondo.»
Poi se ne andò. Felix sorrise per la grande recitazione e si incamminò. Il corridoio era totalmente vuoto, tranne per l'ultima cella. Ma quando fu a pochi metri dal fondo, rimase pietrificato dov’era.
Lily.
La ragazzina era posata a una cella e parlava animatamente con qualcuno.
“Ma come ha fatto a entrare?” si chiese, perplesso ma anche preoccupato.
Quello era un posto pericoloso, soprattutto per una ragazzina. Felix si avvicinò lentamente, senza fare rumore, nascosto nell’ombra, per capire meglio la situazione.
«… è simpatico.» stava dicendo Lily.
«Lance junior. Sai che credo di averlo visto?» rispose una voce dalla cella: «Una volta avevo la febbre e Lance mi ha portato nella sua stanza. In una cella umida non sarei guarita mai. Lui se ne andò per una lotta e poco dopo entrò questo bambino. Senza fare tante domande, mi diede le medicine che quel distratto di un Campione non aveva trovato e se ne andò.»
«Probabilmente era lui. Chissà cosa avrà pensato.»
«Che ero l’amante del Campioncino!» sghignazzò Athena: «Che cosa divertente!»
«Non credo proprio.» la rimbeccò la figlia, delle volte stupita da quanto potesse essere infantile: «Perché se è vero mi immagino che brutto che deve essere per lui. Dici che è così donnaiolo?»
La madre alzò le spalle e rispose: «Che sia carino non c’è dubbio. Ha il suo fascino. Ma è più muto di una tomba. E francamente, io non sono così curiosa da insistere.»
«Una volta lo era molto di più. Adesso si è calmato.» rispose una voce, ridacchiando: «Sarà l'età.»
Lily si voltò di scatto, Athena sbirciò dalla cella. La ragazzina sorrise e salutò: «Ciao, Felix!»
Lui le sorrise a sua volta e, avvicinandosi, mormorò: «Finalmente ti ho trovata.»
Athena intervenne e buttò lì: «Cammina da solo! È un buon segno…»
«Mamma!»
Lei rise e rispose: «Scusa! Ma dalla scena che mi hai raccontato, mi sarei aspettata una commozione cerebrale, ovvero steso a letto per almeno una settimana!»
Felix sorrise a sua volta e i due si presentarono, stringendosi la mano, anche se si erano già incontrati. Parlarono un po’ giusto per fare meglio conoscenza, anche se Felix era stupito. Non capiva perché tutti avessero paura di quella donna. Così, quando uscì insieme a Lily, le espresse il suo dubbio e lei rispose: «È come con Giovanni. Cambia reazione in base all’atteggiamento di chi le parla. Se già l’interlocutore è amichevole e non minaccioso, non ci sono problemi. Se però cominciasse a diventare pauroso o scontroso, allora lei tenderebbe ad allontanarlo, diventando aggressiva. Dipende tutto da quello.»
«Anche con Giovanni?»
Lei annuì e rispose: «Sì, ma non devi preoccuparti. Ti ha preso in simpatia!»
Felix le sorrise e i due tornarono insieme a casa, accompagnati in volo da Pidg per fare prima.
 “Ma tu guarda.” pensò invece Athena ridacchiando, quando i due ragazzini se ne furono andati: “Mia figlia ha ben due pretendenti. Accidenti che rubacuori. Spero non mi chieda pareri, perché proprio non saprei chi consigliarle.”
«Che hai da ridere?» chiese Thomas, sentendola sghignazzare.
Lei guardò sulla branda in basso con un ghigno e rispose: «Te ne sei accorto anche tu?»
Lui ricambiò lo sguardo da sotto e ribatté: «Che il figlio di Lance ha una cotta per la tua? Sì, è evidente. E mi meraviglia che lei non se ne sia accorta.»
«A me no.» ribatté lei, salendo sul suo letto: «Nemmeno io mi ero accorta della sbandata di Raphael a suo tempo, finché lui non me lo disse. Però in effetti non eravamo così intimi.»
L’uomo alzò le spalle, non sapendo che dirle, ma lei aspettò che Lance arrivasse a salutarla, come faceva tutti i giorni, per poi dire: «Ehi, Campioncino. Simpatico tuo figlio!»
Lui restò un momento immobile, perplesso da quel saluto, poi chiese, per paura di aver capito male: «Cosa?»
Lei ghignò e rispose: «Siete identici, non fare il furbo.»
Lance continuò a fissare quel ghigno sempre più confuso poi chiese: «Come l’hai conosciuto?»
«È venuto a trovarmi. È andato via appena prima che tu entrassi.» rispose lei, smettendola di prenderlo in giro e tentando di essere seria: «Ma lo conoscevo già. Quando mi ammalai, a suo tempo, mi diede lui le medicine.»
«Oh. Capisco.» borbottò solo il Campione, ricordandosi che si era dimenticato di fargli la ramanzina per essere entrato in camera sua senza dirglielo quel giorno.
Athena lo fissò, sempre più curiosa e troppo seria, così chiese, forse in modo un po’ invadente: «Di’ un po’… ma da dove salta fuori? Se non sbaglio non sei fidanzato e nemmeno sposato.»
Lui scosse la testa, nascondendo volontariamente le sue tresche, e rispose: «No, infatti. È stato un incidente. Dopo che sono tornato da Isshu e le mie ricerche sono andate a vuoto, mi sono ubriacato. E poi… beh, lei non so nemmeno chi sia, dove sono andato a pescarla... niente. Nove mesi dopo mi sono trovato Felix nella culla fuori dalla Lega. Non potevo abbandonarlo… così mi sono preso le mie responsabilità e l’ho tenuto. In pochi sanno che è mio figlio. Penso che comunque la voce si sia sparsa, ma cerco sempre di tenerlo celato. Non voglio che abbia sulle spalle il peso del mio titolo.»
«Che padre modello.»
«Non prendermi in giro…» sbottò secco lui, ma lei aggiunse: «Dico sul serio. Anche io avrei fatto a meno di dire a tutti che Lily è mia figlia. Per proteggerla. Peccato che i geni e i chiacchieroni ci tradiscano.»
Lance sospirò e, guardandola dispiaciuto, borbottò: «Non ti ho ancora chiesto scusa. È per colpa mia se è venuto fuori tutto questo casino. Gebirge ne ha approfittato, ma so di essermi fatto giocare come un novellino.»
Lei alzò le spalle, anche se, sotto sotto, era abbastanza seccata che fosse uscito tutto quel polverone per un po’ troppo alcol, e disse: «Non ci posso fare nulla se sei un mezzo alcolizzato. E comunque più che a me devi chiedere scusa a Lily. È lei che viene picchiata spesso e volentieri a causa mia.»
Lui annuì e la salutò, molto abbattuto e pensando a un  modo per sistemare le cose.
Tempo dopo, qualcuno bussò alla porta dell’ufficio di Raphael. Lui si avvicinò alla porta e guardò dallo spioncino. Non conosceva quella donna, non l’aveva mai vista. Così, preparandosi a difendersi, aprì tutti i lucchetti, lasciando però attaccata la catenella, e dischiuse appena l’uscio.
«Chi è lei?» chiese sospettoso, mantenendo il tono appena cordiale.
La donna arretrò un momento, vista la sua aperta ostilità, e mormorò, pronta alla fuga se per caso si fosse dimostrato violento: «Mi chiamo Kathrin Johnson. Sono la moglie di Jason.»
Raphael la fissò attento, pensando. Jason Johnson, l’agente della polizia internazionale e criminologo, era sempre stato dalla loro parte, da quando era partito il processo contro Athena. E aveva fatto di tutto per aiutarli, essendo stato l’unico a capire che lei poco c'entrava con le uccisioni, perché la mente era stata sempre e solo Giovanni. Non ricevendo risposta, dato che l’uomo era perso nei suoi pensieri, più calmo di prima, la donna aggiunse, timida ma convinta: «La prego, avvocato Grayhowl, mi faccia entrare. Ho una cosa molto importante da dirle che la può aiutare nel processo.»
Raphael si degnò di ascoltarla di nuovo e chiese, non convinto di aver capito bene: «Come? Veramente?»
«Sì, mi creda!» rispose lei, illuminata.
Lui ci pensò ancora un istante, restio a fidarsi di una perfetta sconosciuta, ma la curiosità martellava, così lasciò perdere la prudenza: chiuse la porta, tolse la catenella, riaprì e fece entrare la visitatrice, richiudendo poi tutti i lucchetti velocemente. Voltatosi, le tese la mano imbarazzato, e mormorò: «Mi scusi per l’accoglienza, ma non è un bel periodo.»
Lei la strinse, sorridendo felice di averlo convinto delle sue buone intenzioni, e rispose: «Posso capirla, non si preoccupi.»
Lui la fece accomodare davanti alla scrivania; lei sedette, notando la silenziosa presenza di Cobalion, e disse: «Come le stavo dicendo, posso darle un aiuto. Ero impaurita, per questo non mi sono fatta avanti fin ora, ma Jason mi ha convinta. È giusto che la Corte sappia… e anche lei.»
Raphael si fece attento, non capendo cosa volesse dire la donna con quel discorso pieno di sottintesi che lui non comprendeva. Lei proseguì con un tremore nella voce, ma decisa ad arrivare fino in fondo: «Molti anni fa… venti per l’esattezza… subii un’aggressione, perdendo conoscenza. Quando mi risvegliai, avevo un cappuccio sulla testa e sentivo una voce sghignazzare. Non capivo dove fossi, ma chiaramente ero stata rapita. Mi buttarono in terra e sentii scattare una serratura. Qualcuno mi tolse il cappuccio. E lo vidi. Quell’uomo, il capo del team Rocket, mi fissava… con uno sguardo …»
Kathrin si interruppe, chiudendo gli occhi. Non riusciva ad andare avanti, mentre rivedeva quegli occhi vogliosi, maniacali, che la spogliavano precedendo le mani, che poi avrebbero fatto il resto. L'incubo la tormentava tutt'ora. Raphael non le fece pressioni, non sicuro di capire cosa gli stesse raccontando la donna, e attese, sperando che finisse il racconto per capire se fosse utile o meno, anche se era un po’ dispiaciuto nel doverle far ricordare una cosa che probabilmente aveva tentato di rimuovere con tutte le sue forze. Lei fece un respiro profondo, riaprì gli occhi e proseguì, tremando nella voce: «Quell’animale era scapolo… e l’unica dell’altro sesso in quel posto penso che fosse lei… ma lui non era un idiota. Sapeva che, se l’avesse toccata, l’avrebbe persa… Quando cominciò, capì che non era la prima volta che lo faceva… più reagivo, più lui si divertiva. Ma non avevo speranze… era troppo forte. Venne interrotto da qualcuno che bussava sulla porta. Era lei, il Demone Rosso, ma lui la scacciò in malo modo e ricominciò, più violento di prima. Rischiò quasi di strangolarmi, fece i suoi comodi per chissà quanto tempo… e poi se ne andò, dicendomi che sarebbe ritornato. Io ero senza forze. Vedevo sopra di me il condotto di aerazione, cercavo di pensare a una via di fuga. Ma non avevo speranze… La porta si aprì di colpo. Pensai fosse lui, ma invece vidi venire verso di me quella bambina. I suoi occhi erano fissi nei miei. Ma non erano come sempre. Le giuro che mi sono sempre data della pazza per questo pensiero ma… aveva uno sguardo preoccupato!»
Raphael, preso dal discorso e atterrito nell’udire ciò che lei stava raccontando, si fece più attento e lei continuò: «Venne da me, forzò le manette e mi portò via. Ricordo ancora le zampe quasi delicate di quel Charizard che mi prendono in braccio, mi stringono e mi sorreggono mentre vola via da quell’incubo, e ricordo ancora quella voce, quasi sollevata, che dice: “Fiamma, portala via da qui.”»
«Quindi…» cominciò lui, ma lei lo anticipò e disse: «Sì. Le devo la vita. Se non fosse stato per lei, sarei morta dopo una vita di violenze e umiliazioni. Avevo paura lo ammetto… ma Jason mi ha raccontato cosa le fanno per farle confessare cose mai avvenute. Le devo tutto e per questo voglio deporre in tribunale in suo favore. Per quello che può valere…»
Cinque minuti dopo, Raphael stava correndo come un matto verso il carcere. Aveva chiamato Lance prima di uscire, dicendogli che voleva vedere Athena, e poi era partito a razzo. Irruppe nella stanza ansimando e disse, vedendo l’amata già seduta e incatenata alla sedia saldata al pavimento: «Ho grandi notizie, piccola pazza!»
Lei lo squadrò, senza scomporsi, e rispose: «Riprendi fiato e contieniti, Raphael. Ci stanno registrando.»
«Scusa. Sì, hai ragione.» borbottò lui, rendendosi conto di tutto.
Raphael tossicchiò, mentre lei alzava gli occhi al cielo, si aggiustò la cravatta, si sistemò un momento riprendendo fiato e disse, con un sorriso raggiante: «Abbiamo un testimone a tuo favore!»
«Scusa? Puoi ripetere?» chiese lei, stupita.
Il suo sorriso si allargò, mentre lui ripeteva: «Una donna, Kathrin Johnson, testimonierà a tuo favore. Sostiene di essere stata rapita da Giovanni i tempi che furono e che tu l’abbia fatta scappare.»
Athena si perse a pensare, ma quell’immagine le apparve subito nella mente. Un’immagine che l’aveva spesso tormentata perché non capiva cosa l’avesse fatta così infuriare quel giorno. Talmente tanto da far fuggire una donna dalla base, rischiando di rimetterci lei stessa.
«Sì, mi ricordo.» borbottò alla fine, ancora non ben convinta se felicitarsi o no della notizia.
Lui sorrise alla sua confusione e aggiunse: «Vuole testimoniare in tribunale. Lei farà la sua deposizione, poi io e Grendel la interrogheremo a turno. Poi toccherà a te.»
«A me?»
«Sì. Vodel sicuramente ti chiamerà al banco per confermare la deposizione. Stai attenta alle domande di Grendel. Può essere molto sottile. E mi raccomando, stai calma.»
«Farò del mio meglio.» rispose solo lei, con un'alzata di spalle: «Dipende tutto da Mister Legge.»
Raphael ridacchiò, ma sottolineò l’obbligo di stare calma e tranquilla. La salutò con un bacio appassionato, contento di come stavano andando le cose e tornò in ufficio per mettere insieme il suo discorso; poco dopo però bussarono nuovamente alla porta. Lui aprì e vide padre Lorenzo.
«Oh… buonasera, padre.» mormorò, aprendo del tutto la porta, stupito di vederlo.
«Buonasera, Raphael.» sorrise lui.
«Che cosa ci fa qua?» chiese l’avvocato, lievemente scortese ma molto perplesso.
«Vorrei sapere come procede il tuo lavoro. Quella povera donna ne ha passate troppe per prendersi una condanna a morte a causa di Giovanni.»
Raphael sorrise e lo fece accomodare, spiegandogli a grandi linee la sua difesa e la deposizione del nuovo testimone a favore della donna. Padre Lorenzo, molto interessato, aggiunse: «Potrei aiutare anche io, figliolo. Ho in mente un episodio nel quale l’aiuto del Demone Rosso è stato molto importante.»

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Capitolo 31
*** Capitolo XXX ***


Tornato a casa, Raphael si rimise a lavorare. Per il processo aveva ancora tempo e poteva mettere a posto tutti i suoi elementi. N lo raggiunse e chiese: «Secondo te siamo ancora in tempo per iscrivere Giovanni a scuola?»
«Perché?»
«I rudimenti ormai ce li ha.» spiegò l’uomo: «Se riesci a inserirlo in seconda, durante l’anno può fare corsi di recupero e migliorare più velocemente con maestri qualificati. Ed è stufo di non poter vedere Martha. Me lo ripete in continuazione.»
L’avvocato scosse la testa sorridendo, capendo un po’ lo stato d’animo del bambino, e rispose, semplicemente: «Vedo cosa posso fare.»
Tempo una settimana, e, grazie anche all’aiuto della loro amica e insegnante, Giovanni varcò per la prima volta le porte della scuola. E per sua scontentezza, senza mazza. Fino a ricreazione gli parve tutto una noia mortale, soprattutto perché non aveva ancora visto Martha, ma all’intervallo finalmente la vide andare in giardino con alcune amiche. Con un sorrisone stampato in faccia, le rincorse, chiamandola gran voce. Lei si voltò e ovviamente lo riconobbe, ma le sue amiche mormorarono cattiverie appena lo videro.
«E questo chi è?» chiese una.
«È quell’asino che dovrebbe andare in quarta e invece va ancora in seconda. Cosa viene a fare qui?» rispose un’altra.
«Non lo so… Non dirmi che lo conosci, Martha.»
Lei si fece imbarazzata, sentendo i commenti delle amiche, e guardò un momento Giovanni; poi però prese un cipiglio arrogante, quasi altezzoso, schiarì la voce, e rispose: «Certo che no. Frequento ben altre compagnie. Saprà chi sono perché mi conoscono tutti qui.»
Le coetanee cinguettarono adoranti, approvando le sue parole, e lui fece per chiederle cosa le avesse mai fatto per un trattamento del genere, ma lei, con un fare altezzoso molto tipico di sua madre da giovane, tornò nell’edificio, concludendo con: «Non mi importa niente di lui. Basta guardarlo… è solo un vagabondo senza nessuno.»
Il povero bambino restò dov’era, immobile e ferito. Non poteva credere che la dolce Mary avesse detto quelle cose così crudeli. Tornato a casa, non spiccicò parola con nessuno, affranto; così Lily gli si avvicinò quando lo vide solo e chiese: «Gio che ti prende?»
«Niente.» borbottò, restando accucciato sotto l’albero a fissare il tronco.
Lei sedette vicino a lui e aggiunse: «Non ti credo. Hai una faccia da funerale.»
«Che ti importa?»
«Sei mio fratello, Mostriciattolo con la mazza. Questo dovrebbe bastarti come risposta.»
Lui sospirò, poi mormorò: «Martha…»
«Martha che?» chiese lei ancora, perplessa: «Pensavo ti stesse simpatica.»
«A me si ma… a quanto pare non è reciproco.» rispose lui, con le lacrime agli occhi: «Oggi ha detto davanti a tutti che non le importa niente di me e che sono solo un vagabondo senza nessuno.»
Lily ponderò il racconto, poi chiese: «Era con delle amiche?»
Lui annuì e lei proseguì: «Allora capisco meglio. Vedi… doveva pur prendere qualcosa da Daisy. Martha è socievole e amichevole con tutti, come il mio papà, ma ha un bruttissimo difetto: odia sfigurare davanti alle amiche. Per lei è fondamentale essere al centro del gruppo, del quale poi è leader perché ha un caratterino… però, dicendo alle amiche che conosce un bambino sbucato dal nulla e legato ai Grayhowl, cosa che purtroppo ora non è molto una buona cosa, le avrebbe fatto fare la figura della sfigata.»
«Ma perché? Voglio dire… cos’ho che non va?»
Lily gli accarezzò la testa, un gesto dolce che aveva imparato dalla madre, e rispose: «Sei un comune mortale. Non dell’alta società come lei e le sue amiche da quattro soldi. Fidati che se lei dovesse cominciare a dar loro di meno, se ne andrebbero seduta stante. Ma l’età di Martha non è una delle più belle. Lei ha bisogno di quella compagnia e farebbe di tutto pur di tenersela. Nega perfino di essere mia sorella delle volte e mi addita come sorellastra con un disprezzo che da lei non mi sarei mai aspettata.»
Giovanni non riusciva a comprendere quello strano comportamento, così chiese: «E io che cosa devo fare?»
«Porta pazienza.» alzò le spalle la sorella: «Per ora non possiamo fare altro. Dobbiamo aspettare che maturi quel tanto per capire che si sta comportando da cretina. Ma tu non te la prendere… quando è con le amiche, non è mai sincera. Dice quello che sa che loro vogliono sentir dire da lei.»
Il bambino si asciugò le lacrime, sorrise e mormorò: «Grazie, Lilith…»
Lei gli scompigliò i capelli e rispose: «Tra fratelli ci si aiuta.»
Le cose andarono avanti così per un po’. Giovanni cercava di non far caso alla freddezza dell’amica, anche se delle volte faticava; finché, alcuni giorni dopo, il bambino stava pranzando nel cortile. Quel pomeriggio aveva i recuperi, così per non perdere tempo, restava a scuola a mangiare e riposava un po’ prima di riprendere a studiare. Si stese sul prato a godersi un po’ di sole e chiuse gli occhi; poi però decise di cominciare a darsi da fare, così tirò fuori i quaderni e si mise al lavoro, cercando di risolvere un problema che lo bloccava da parecchio. Rimuginò un po’, con la penna in bocca, grattandosi la testa e borbottando.
«Uffa, non riesco a risolverlo.» sbuffò, cancellando per l’ennesima volta i calcoli, frustrato: «Che nervi!»
Lanciò il quaderno poco distante, seccato, e si sdraiò nuovamente sull’erba, ma sentì una voce incerta mormorare, piuttosto titubante: «Ciao, Giovanni…»
Il bambino si tirò su, guardandosi intorno per capire da dove fosse venuta la voce, e, poco distante da lui, vide Martha, che, non riuscendo a sostenere il suo sguardo, lo volse in basso.
«Ciao a te.» rispose lui, scrutandola perplesso: «Che cosa vuoi?»
Vedendo come l’amico fosse freddo, lei si morse la lingua, chinò la testa e mormorò: «Ti chiedo scusa!»
Lui restò un momento perplesso, restio a fidarsi. Ricordava bene le parole di Lily e ciò che aveva visto. Martha cambiava faccia come le maglie: aveva un volto per ogni situazione. E questo di certo non gli andava. Così alzò le spalle e rispose: «Non c’è problema.»
Si sdraiò nuovamente, fissando l’orologio. Mezz’ora e poi sarebbe dovuto tornare in classe. Sbadigliò, coprendosi la bocca con la mano, ma sentì una presenza al suo fianco. Voltò un momento la testa e vide Martha seduta accanto a lui, con lo sguardo fisso a terra, le braccia attorno alle ginocchia, e il mento posato a esse. Si rialzò, sedendo anche lui, e la fissò perplesso. Non capiva cosa volesse da lui.
Lei titubò, poi borbottò: «Davvero, so di averti ferito ma…»
«Sta’ zitta.» ringhiò solo lui, la ferita ancora aperta: «Visto che ti faccio “sfigurare”, stammi pure lontana. Non me ne importa niente. E ora devo andare.»
Detto questo, Giovanni si alzò, raccolse da terra il suo quaderno e se ne andò con passo deciso verso l’edificio scolastico. Gli dispiaceva trattarla male ma lui non era un oggetto da prendere e mollare quando le faceva comodo. Lui aveva dei sentimenti. Martha lo fissò andare via con le lacrime agli occhi. Perché Giovanni non capiva il suo punto di vista?
Quella sera, Giovanni ne parlò con Lily e Martha si sfogò al telefono con Felix. Lui era carino, socievole e riscuoteva un discreto successo, quindi era perfetto per mettere lei in buona luce stando in sua compagnia. Inoltre, il coetaneo di Lily aveva catturato anche il suo di cuore.
«Sai, Mary…» le disse lui, dopo che lei gli ebbe raccontato tutto: «Penso di capire il punto di vista di Giovanni. Non è bello vedersi scartati su due piedi o accolti a braccia aperte in base alla persona con cui si sta parlando. Giovanni è un bravo bambino e fa tanto lo scontroso, ma è evidente che sotto sotto è molto sensibile. Ci tiene molto a te e il tuo trattamento deve averlo fatto ragionare, anche troppo.»
Sentendo silenzio dalla cornetta, Felix aggiunse, dato che ne aveva parlato poco prima con Lily: «Credo che ora lui pensi che tu fai la doppia faccia anche quando lo tratti bene.»
«Ma non è vero!» replicò lei, saltando su: «Io gli voglio bene!»
«E allora dimostraglielo. Se continuerai come hai sempre fatto, lo perderai per sempre.»
Martha non seppe come replicare e buttò giù la cornetta ma, dopo una notte di pensieri e riflessioni, andò a scuola, lo vide e disse, davanti a tutti: «Ciao, Giovanni.»
Lui si voltò a fissarla, perplesso e chiedendosi cosa avesse in mente, e rispose al saluto, mentre le amiche della bambina chiedevano sgomente: «Martha, ma che fai?»
«Fai silenzio.» ribatté lei, quasi dispotica: «Non vedo perché dovrei togliere il saluto a un amico solo perché è rimasto indietro con la scuola. Ora andiamo.»
Se ne andarono con passo marziale, ma Giovanni sorrise: forse Martha stava maturando. Nei giorni seguenti, lei non gli negò più il saluto e anzi, si offrì di aiutarlo a studiare.
Nel frattempo, arrivò anche il giorno del processo. Athena venne condotta in aula da Lance, incatenata come sempre al banco nel centro della sala. Poi entrarono le due Corti e, infine, i due avvocati. Raphael le diede alcune disposizioni sottovoce, ma suonò la campanella e lui dovette tornare al suo posto. Entrò il giudice Vodel, sedette, imitato poi da tutta l’aula, e il processo cominciò.
«Si riapre il processo contro il Demone Rosso, sospeso per mancanza di prove.» esordì l’uomo evitando come sempre lo sguardo della donna: «Si chiama a testimoniare in favore della difesa padre Lorenzo, il sacerdote di Plumbeopoli.»
L’uomo venne condotto al banco da due agenti, sedette e ebbe il permesso di parlare.
«Dodici anni fa.» narrò con voce tranquilla: «Stavo tornando nella mia casa. Voltato l’angolo, vidi però il Demone Rosso. Pensai volesse compiere qualche strage in città, così cercai di avvicinarmi pensando ad un modo per mandarla via. Ma lei sembrava sofferente. Si teneva aggrappata al muro, barcollava… Pensando ad un bluff, mi avvicinai e lei estrasse il pugnale. Lentamente. Poi le cadde di mano. A quel punto, capii che non stava fingendo. Svenne e io la portai nella mia parrocchia. L’avevano drogata con una sostanza che non avevo mai visto, ma con le dovute cure, in tre giorni guarì. Poco tempo dopo, scoppiò una violenta epidemia. Ma io avevo l’antidoto, datomi proprio dal Demone Rosso, e molte vite vennero salvate.»
«Grazie padre.» disse Vodel, per poi rivolgersi agli avvocati: «Qualche domanda?»
«Io vorrei interrogare il testimone.» disse Grendel.
«Prego avvocato.» acconsentì il giudice.
L’uomo si alzò e andò davanti a padre Lorenzo, con un pericoloso scintillio negli occhi di ghiaccio. Passeggiando avanti e indietro, con calma misurata, esordì: «Così lei ammette di aver salvato la vita del Demone Rosso. Dico bene?»
«Sì.»
Grendel lo fissò, notando che aveva risposto all’istante e chiese: «Quindi, è consapevole che ha tenuto in vita una bestia sanguinaria che, dopo quel giorno, ha mietuto altre vittime?»
«Sì, avvocato, però…» cercò di ribattere il sacerdote, ma l’avvocato non lo lasciò finire: «Lei ha salvato un mostro uscito dall’inferno e dice di essere un uomo di Dio?!»
«Obiezione!» saltò su Raphael, interrompendo il rivale: «Non stiamo mettendo in discussione la vocazione del testimone!»
«Accolta.» rispose Vodel, seccato di non poter rigettare come prima perché le Corti avrebbero avuto da ridire sui palesi favoritismi verso l’accusa.
«Ritiro.» sbottò Grendel, per poi ricomporsi e dire: «Comunque sia, lei ha tenuto in vita una bestia che non meritava di vivere ancora allora.»
«Ma il mio atto di carità ha permesso la salvezza dal veleno degli infetti.» protestò il sacerdote, in un tentativo di difendersi da quelle accuse infamanti e di sottolineare l’atto di carità.
«Le vite salvate dal suo antidoto, sono state uccise da una lama tempo dopo.» ribatté l’avvocato, sedendosi: «Non ho altre domande.»
«La parola alla difesa.» disse Vodel.
Raphael si alzò, pensando: “Grendel l’ha stravolto. Ci è andato giù molto pesante. Devo stare attento.”
Andò al centro della sala, perso a pensare a qualcosa di decente da dire, mentre Athena lo fissava preoccupata. Sembrava in difficoltà e non era un buon segno.
«Mi dica, padre, perché l’ha salvata? Come ha detto l’avvocato Grendel, avrebbe potuto fare finta di niente.»
«Nessuno merita di morire.» rispose il padre: «E a nessuno devono essere negate cure e carità.»
L’avvocato annuì e riprese: «E il suo atto benevolo ha portato alla creazione di un antidoto, giusto?»
«Sì, che ha salvato molte vite.»
«E sarebbe riuscito a crearlo senza l’aiuto dell’imputata?»
Il sacerdote scosse la testa e rispose: «Assolutamente no. Sarebbe stata una tremenda epidemia.»
Lui annuì nuovamente, poi disse: «Signori delle Corti, devo concordare con l’accusa nel dire che dopo questo episodio, molta gente è morta comunque per mano dell’imputata ma… senza l’antidoto, le vittime sarebbero state ancora di più. È innegabile.»
«Obiezione.» intervenne Grendel: «Vittime o non vittime, un’epidemia avrebbe ucciso molta meno gente del Demone Rosso e se non ci fosse stato l’antidoto, lei sarebbe morta per la stessa malattia. È stata tenuta in vita ed è stato un grave errore di calcolo. Il sangue infetto si sarebbe potuto prelevare dalle prime vittime del virus e il siero si sarebbe potuto distillare comunque. Anche senza antidoto, l’epidemia si sarebbe potuta fermare e un mostro assetato di sangue non girerebbe ancora per le strade.»
Grendel risedette, scoccò uno sguardo a Raphael, pensando: “Prova a obbiettare, campione.”
Ma Raphael non seppe che controbattere. Sedette seccato dopo quella partita persa, ma determinato a tirare su la sua parte. Vodel chiese: «Avvocati, volete interrogare l’imputata in merito alla questione?»
Entrambi scossero la testa, ma poi Raphael borbottò: «Chiamo a testimoniare Kathrin Johnson, in favore della difesa.»
Vodel acconsentì con un sorriso gongolante. Il suo avvocato stava facendo un ottimo lavoro. Qualunque testimone Grayhowl avesse portato, Grendel l’avrebbe smontato senza problemi. Titubante, la donna entrò in aula. Era impaurita, ma un’occhiata fiduciosa di Jason le diede coraggio e la fece proseguire. Mentre andava verso il banco, volse lo sguardo verso Athena. Di lei, ricordava solo quegli occhi rossi, e, finalmente, ora poteva metterli in un viso, associarli a una persona. Athena ricambiò lo sguardo. Non sapeva cosa pensare. Se essere felice, triste… si limitava solo ad osservare, ma quando Kathrin sorrise, lei ricambiò con un sorrisetto storto, un po’ indeciso. La donna sedette al banco, fece un respiro profondo, e depose con le stesse parole che aveva detto a Raphael.
«Chiedo di interrogare la testimone.» esclamò Grendel, con già in mente una tattica per mandare il piano dell’avversario all’aria.
Il giudice annuì e disse: «Accordato.»
Convinto di prendersi anche quel punto, l’avvocato si alzò e, andato davanti alla donna, chiese: «Lei quindi sostiene di essere stata rapita da Giovanni e salvata dal Demone Rosso. Dico bene?»
«Sì, avvocato.»
«Chi mi dice che sia tutto vero?» chiese a bruciapelo.
Raphael non voleva perdere anche quella, così intervenne ed esclamò: «Obiezione! La testimone ha giurato sulla Costituzione, redatta dal Campione dei Campioni!»
«Respinta. Non è una conferma, avvocato Grayhowl.» rispose secco Vodel.
Kathrin non sapeva cosa rispondere per confermare ciò che stava dicendo e Grendel già pregustava la vittoria, ma Raphael si alzò e disse: «Chiedo alle Corti di aggiungere al verbale del processo le prove D e E.»
«Quali prove?» chiese Vodel, mentre Sandra e Karen, le due portavoce, annuivano.
«I referti medici delle analisi fatte dalla testimone i giorni successivi al rapimento e i test del DNA ricavati dallo sperma trovato sul suo corpo. Il riscontro c’è con le impronte digitali. Ed era Giovanni.»
Raphael mise le carte sul banco del giudice e, tornato al suo, disse: «È tutto vero signor giudice. La testimone non sarebbe potuta fuggire dalla base senza un aiuto dall’interno. E chi, se non una creatura del genere femminile, poteva essere disturbata da uno stupro su una sconosciuta?»
«La testimone può andare. Nel banco la bestia. Voglio anche la sua versione dei fatti.» disse Vodel, seccato dalla piega che stava prendendo il processo.
Athena, piuttosto irritata, venne condotta al posto di Kathrin da un sogghignante Johnson.
«Non ridere, agente.» sbottò lei, mentre faceva il breve tragitto tra i due banchi.
«Hai una faccia da oscar, pazza. Se non sapessi quanto sei innocua, potrei pensare che trami per scannare il giudice.» ridacchiò lui.
«Chissà che non lo faccia davvero.» soffiò solo lei, mentre lui la incatenava nuovamente.
Jason sospirò e sussurrò: «Stai calma… Fammi questo favore… le ci è voluto molto coraggio per venire qui a deporre.»
«Farò del mio meglio.» rispose solo lei, guardandolo tornare al suo posto, raggiungere l’amata e abbracciarla sussurrandole qualcosa. Lei annuì e continuò a fissare Athena, colma di gratitudine. Athena distolse lo sguardo e Grendel le andò davanti, fissandola deciso. Lei rispose con uno sguardo di sfida, come per dire: “Dai, Mister Legge, stupiscimi.”
«Premettendo che so che tutto quello che dirai sarà falso e pura follia… perché l’hai aiutata?!» chiese secco.
«Perché mi andava di farlo.» ribatté lei.
«Ovviamente… ti andava di liberarla così avresti potuto ucciderla poi? Oppure certo… ti seccava che qualcun’altra fosse più importante di te per Giovanni.»
Athena si alzò in piedi, seccata da quell’insinuazione, soprattutto perché il giorno più felice della sua vita era stato quando aveva ucciso quell’uomo, e ringhiò: «Ritira tutto damerino.»
«Oppure?» chiese lui, con un sogghigno.
Lance intervenne, la prese per le catene e la costrinse a sedersi, mettendole le braccia dietro la schiena e immobilizzandola del tutto, ma borbottando: «Stai calma, maledizione. Quello ti provoca apposta.»
«Che vada al diavolo.» ringhiò lei, con una voglia immane di strangolarlo.
Grendel cercò ancora di irritarla ma niente. Si era imposta di ignorarlo e di pensare a Raphael quando le veniva voglia di scannarlo, e questo bastò, almeno finché era immobilizzata così.
«Non ho altre domande.» ringhiò quindi seccato l’avvocato, tornando a sedersi.
Raphael prese il suo posto, gongolante, e le fece un breve occhiolino prima di partire con il suo contro interrogatorio, diretto ad umanizzarla; concluse, con un'arringa finale: «Signori della corte, ciò che esce da queste due testimonianze non sono tanto i morti successivi, non sono le vite perse. Ma quelle guadagnate. Perché il Demone Rosso avrebbe dovuto agire così? Concordo con l'accusa, il sangue infetto si sarebbe potuto recuperare altrove, ma perché l'imputata avrebbe di sua spontanea volontà, donato sangue e siero? Perché avrebbe dovuto aiutare una sconosciuta, non essendo lei in diretto pericolo e anzi, rischiando di finire nei guai? Solo a me sembra che questo sia un comportamento molto più autonomo e ragionato rispetto a quello solito? Non è che, forse, qualcuno abbia tirato i fili per tre anni, nascondendosi dietro al Demone? Datele questa possibilità. Datele il modo di dimostrare che davvero era Giovanni a volere tutte quelle morti e non lei. Datele una possibilità con la libertà vigilata!»
Il giudice e le Corti si ritirarono. Quando uscirono, Vodel dovette battere il suo martello e dire: «L’imputata avrà la libertà vigilata sei giorni alla settimana fino alla prossima udienza. Ciò significa che dovrà essere in carcere dalle diciotto alle otto di ogni giorno e l’intera giornata di domenica.
Un solo ritardo e la pena verrà aumentata ad un altro ergastolo, senza possibilità di riduzione.
La seduta è tolta.»
Erano le sette di sera, quindi Athena venne condotta in carcere, ma i due innamorati si promisero di vedersi il giorno dopo, alle otto in punto.
Quella mattina, Athena uscì dal carcere con ancora le manette. Il secondino le mise alla caviglia il bracciale elettronico, un marchingegno che trasmetteva un segnale radio ventiquattro ore su ventiquattro e che tracciava ogni suo minimo spostamento, poi le slacciò le manette, sbottando: «Ci si rivede stasera, Bestia.»
«Contaci, Pinguino.» rispose lei, gongolando.
Non le sembrava vero di essere fuori di prigione. Solo per il giorno, ok, ma era comunque fantastico. Raphael arrivò a prenderla un secondo dopo, in groppa a Pidg.
«Fratellone!!» esclamò lei, correndo loro incontro.
*«Sorellina!»* rispose lui, altrettanto felice, atterrandole letteralmente addosso e becchettandola piano.
«Levati dalla mia ragazza, cognato!» esclamò Raphael, tentando di spostarlo di peso, ma lui gli sbatté un’alata in faccia rispondendo: *«Ma taci umano!»*
«Non andate ancora d’accordo voi due?» ridacchiò lei, rialzandosi e guardandoli entrambi con dolcezza.
Aveva di fronte le uniche due creature che amava con tutto il cuore, pareggiati ovviamente dai due figli.
«E dopo con chi litigherei?» rispose Raphael, sogghignando.
*«A me irriti e basta umano, sappilo.»* rispose il Pidgeot.
Athena li abbracciò entrambi, facendoli smettere di litigare; Pidg poi si preparò al decollo, ma quando Raphael salì dietro alla compagna e le mise le mani intorno alla vita, ringhiò: *«Attento a dove metti le mani umano.»*
«Basta Pidg, dai.» rispose la donna, chiudendo gli occhi e posandosi al petto del suo amato mentre lui la stringeva e faceva la linguaccia al rapace.
Pidg non commentò oltre, alzando gli occhi al cielo, continuando a volare veloce, e in breve, arrivarono alla casa.
«Mia cara.» sorrise N, vedendola entrare in casa, finalmente in piedi e cosciente ma soprattutto ancora viva e vegeta: «È bello rivederti in forma.»
«Ciao, matematico!» rispose lei, sorridendo a sua volta: «Non te lo aspettavi, eh?»
Lui scosse la testa, sorridendo, ma ovviamente felice di aver sbagliato ipotesi.
«Dove sono i miei bambini?» chiese lei, impaziente di vederli.
L’amico sorrise, vedendola così felice, e rispose: «Entrambi a scuola. Ora che ci va anche Giovanni, la mattina è sempre libera.»
«Ma io volevo vederli!» piagnucolò la donna, mostrando quel suo lato infantile sconosciuto ai molti.
«Dopo li vedrai.» le rispose Raphael, quasi per rimproverarla di quei capricci: «Perché non ti dedichi un po’ al tuo ragazzo prima?»
Lei sorrise maliziosa e rispose: «Oh, sentitelo. Ma come siamo gelosi.»
N sorrise e trascinò via Pidg che, furibondo, tentava di liberarsi per tenere d’occhio l’umano. Riuscì solo a vederli avvicinarsi l’uno all’altra e scambiarsi un bacio sulle labbra. Ovviamente, la sua prima reazione fu quella di liberarsi e attaccare, ma gli altri Pokémon intervennero per fermarlo e farlo ragionare, lasciando i due amati in intimità ma soprattutto soli. All'improvviso però bussarono alla porta. Athena andò ad aprire, perplessa; rivide N che, sorridente, esclamò: «Ho girato parecchio in questi giorni. Sapevo che Raphael stava macchinando qualcosa e diciamo che ho sparso un po' la voce.»
Si scostò e una figura bionda e fosforescente le saltò in braccio, facendola cadere in terra come un sacco di patate. Soffocata nello stritolante abbraccio, riuscì solo a mugugnare: «Belle! Lasciami!»
«Ma neanche per sogno, Castì!» esclamò l'amica, con nessuna intenzione di farla respirare. Intervenne Emboar che la scostò di peso, dicendo, sconsolato: *«Perdonala, Castiga. Ma sai com'è fatta.» *
«Fin troppo bene, amico mio!» rise lei, alzandosi da terra: «Cosa ci fate tutti qui?» chiese, con un sorriso, vedendo dietro a Belle Cheren, la professoressa Aralia e Nardo.
«Volevamo salutarti, ovviamente!» esclamò allegra Aurea: «E festeggiare questo grande traguardo computo da Raphael!»
Athena sorrise e si perse in chiacchere con i vecchi amici, non potendo credere di essere davvero lì. Aurea la prese in parte e mormorò: «Senti, Athena. Aspettavo che fossi fuori per dirtelo. Un mio collega viene da una regione molto lontana dove hanno sviluppato un'alta tecnologia nella rigenerazione dei fossili.»
«Quindi?» chiese lei, senza capire.
Pidg, che stava ascoltando interessato, capì; intervenendo, mormorò: *«Credo intenda che possono fare un tentativo per farli rivivere, sorellina.» *
Athena ci mise un attimo a capire. Ma poi, con gli occhi lucidi, guardò prima Pidg, poi la prof e mormorò: «Dice che è possibile?»
«Se mi permetti di prelevare le ossa, saprò dirti. È un tentativo, non garantisco ma...»
«Fatelo.» sbottò lei, annuendo convinta.
La prof la guardò ma lei annuì di nuovo e ripeté: «Fatelo. Provateci.»
Aurea sorrise e concluse solo: «Ti farò sapere.»
La donna annuì e cercò di distrarsi per far passare la tristezza e poter accogliere i figli al meglio. Alle una, i due ragazzi tornarono da scuola, portati come sempre dallo zio Pidg. Salutando con due: «Ciao papà.», un  «Ciao, N.» e un «Salve signor Grayhowl.» i due entrarono in casa, posando le cartelle. Non notarono la madre che sorrise e disse: «’giorno, ragazzi.»
I due avevano preso le scale per salire in camera si bloccarono e si voltarono. Finalmente la videro, in casa, da loro, e urlando in coro: «Mamma!» le saltarono in braccio. O meglio, Giovanni tra le braccia e Lily la strinse alla vita.
«Eccoli qua i miei bambini!» esclamò lei, stringendoli entrambi.
Martha sbirciò dalla porta, indecisa se mostrarsi o starsene nascosta. La sua mamma era a lavorare e quindi lei era dal padre, che la teneva quando Daisy non poteva. Ma si vergognava… Era felice però di vedere Lily e Giovanni così contenti, tra le braccia di quella strana donna che aveva visto solo in lontananza, incatenata come una bestia. I due bambini partirono a razzo a raccontarle la loro mattinata, interrompendosi a vicenda, così lei mise pace dicendo: «Giocatevela a carte e parlate tutti e due! Abbiamo tutto il pomeriggio!»
I due se la giocarono a sasso, carta, forbice; vinse uno ma l’altro gli diede del barone, così rifecero e ci fu la litigata contraria. Athena alzò gli occhi al cielo e li lasciò litigare, così si sarebbero sfogati. N era ai fornelli, Raphael in camera a cambiarsi, così la donna fece due passi in giardino. Non aspettandosi di trovare qualcun altro, urtò per sbaglio Martha, nascosta ancora dietro alla porta, facendola cadere a gambe all’aria.
«Oh, accidenti, scusa.» borbottò, tendendole la mano.
La bambina la fissò un po’ impaurita e intimidita, attimo nel quale anche la donna la riconobbe e ebbe risposta a tutte le sue domande, ma poi prese titubante la mano. Athena le sorrise, la aiutò ad alzarsi, e poi riprese a camminare, diretta a un albero piuttosto alto, l’unico staccato dal bosco. Martha però la rincorse, le si piazzò davanti tutta rossa in faccia, e tendendo la mano a occhi chiusi, esclamò: «Io mi chiamo Martha!»
La donna sorrise, non potendo avercela con una bambina innocente e per nulla minacciosa, benché somigliasse troppo a Daisy, così gliela strinse, e rispose: «Io, Athena. Piacere mio.»
Mary la fissò aprendo un occhio, e le sembrò che fosse gentile. Non cattiva come l’aveva dipinta la sua mamma. Così mormorò: «V-vuoi farmi del male?»
«Certo che no.» rispose lei, non convinta di quello strano discorso, ma prima che potesse aggiungere altro, Lily e Giovanni arrivarono di corsa, tirando fuori il lato migliore sia di Martha che della madre stessa. Alla fine di quella serata, la secondogenita di Raphael seppe che non doveva temere quella signora un po’ strana ma simpatica.
«Ma mamma perché devi andare via la sera?» chiese Giovanni, triste nel vederla alzarsi alle cinque per tornare nel continente.
«Perché così è, piccolo mio.» rispose lei, prendendolo in braccio e dandogli un bacio sulla fronte: «Dai ci vediamo domani, non sei contento?»
«Sì ma…»
«Fatti bastare questo, Gio.» sorrise lei, rimettendolo a terra e ripartendo alla volta del carcere.
Quella stessa sera invece, Grendel andò al bar furibondo. Quel maledetto di Grayhowl era riuscito a ottenere la condizionale. Una vittoria su tutti i fronti. L’avvocato si appoggiò al bancone, nero di rabbia, e ordinò la cosa più superalcolica che avevano. Un bicchiere gli venne appoggiato davanti e riempito, ma una voce chiese: «Qualcosa non va, Michael?»
«Tutto.» rispose lui, scolando il bicchiere come se fosse acqua.
Fece per ordinarne un altro, ma la voce di prima lo anticipò e disse: «Questo non lo farà passare.»
«Cosa suggerisci?»
«Parlamene.» rispose: «Ha funzionato con me. Magari anche per te farà lo stesso.»
Grendel alzò lo sguardo e il sorriso di Daisy lo convinse. Spostando il bicchiere dal davanti, cominciò a narrarle come odiasse nel più profondo Raphael Grayhowl. Non perché fosse una brutta persona, ma solo perché era molto più bravo di lui. E questo lo rodeva di invidia.
«Ha ottenuto la condizionale, dannazione! Un colpo da maestro, devo ammetterlo, ma comunque seccante.» sbottò alla fine, battendo il pugno sul bancone: «Avevo la vittoria lì. A un palmo di mano. Ed è andato tutto a puttane!»
Daisy mise la mano sopra la sua e disse: «Perché non rifletti un po’ invece di accanirti così?»
Lui la guardò e chiese: «Che vuoi dire?»
«Capisco perché Raphael ce la stia mettendo tutta. Tu no?»
Dopo una piccola pausa, Michael mormorò: «Per amore…»
Lei lo guardò negli occhi azzurri e ribadì: «Esatto. Dovresti comprenderlo…»
Lui le strinse la mano e rispose: «Prima non lo comprendevo, ora credo di sì. Quello che non capisco è come faccia a essere amore davvero.»
«Anche se uccideva, questo non vuol dire che non possa amare.» alzò le spalle la donna, anche se lei per prima non riusciva a comprendere: «Fidati di me, con la persona giusta, chiunque può cedere all’amore. Ti trafigge quando meno te lo aspetti e non ti molla più.»
«Ho capito, Das, ma non lo concepisco. Insomma… com’è possibile?»
Lei sorrise maliziosa e sussurrò: «Devo spiegartelo in privato?»
Lui ricambiò il sorrisetto e rispose: «Potresti provarci…»
Daisy gli diede un buffetto sul naso, poi prese un vassoio e disse: «Devo lavorare, ubriacone. Non vuoi che ricominci, vero?»
«Ne abbiamo già discusso se non sbaglio.» rispose lui.
«Amo provocarti.» aggiunse lei, ridendo.
«E io amo te.» ribatté lui, mandandole un bacio aereo, soffiandolo dalla mano.
Daisy rise e si allontanò verso i tavoli, mentre Michael ripensava a quel giorno.

-§-

INTERMEZZO: CUPIDO NON SBAGLIA MAI

Daisy stava letteralmente congelando. In pieno inverno il suo lavoro non era per nulla consigliabile. Soprattutto nei giorni più rigidi e nella zona vicino al Monteluna, dove batteva meno il sole. Fortunatamente lei non era lì, ma anche sopra Zafferanopoli la neve non scherzava. I piccoli cristalli di ghiaccio le sferzavano il viso, le gambe e le braccia con violenza, mentre lei, vestita molto poco, attendeva che arrivasse qualcuno. Dopo il suo fallimento con Raphael, i suoi genitori l’avevano diseredata e tagliato i fondi. Non avendo mai lavorato, aveva ripiegato sul mestiere più antico del mondo, anche perché così facendo sperava di trovare un surrogato della sua preda ideale, che aveva avuto e perso in un breve lasso di tempo. In quelle condizioni però, poteva saltare la serata. Non ne valeva la pena e poi, se si fosse ammalata, avrebbe dovuto saltare molti più giorni. Cominciò ad arrancare verso casa. Guardare Martha dormire l'avrebbe rallegrata. La sua bambina era l’unica cura per tirarle su un po’ il morale. Una macchina però accostò in parte a lei. Daisy non si fermò nemmeno. Le era passata la voglia di fare qualunque cosa se non rimediare un fornelletto, una cioccolata calda e le morbide coperte del suo letto. La macchina proseguì al passo, restandole a fianco, e il finestrino si abbassò.
«Ehi. Tutto bene?» chiese la voce di un uomo, stranamente accorata.
Lei, convinta che la stesse prendendo in giro, continuò per la sua strada, sbottando: «Non attacca, bello. Niente servizi.»
Lui non si arrese e rispose: «Non siamo mica tutti così.» ridacchiò, con un tono di voce scherzoso e affabile: «Non voglio nulla. Solo sapere se vuole scaldarsi un po’. La temperatura è polare in questi giorni.»
«Ma va' al diavolo.» rispose molto educatamente lei, riprendendo il passo.
L’uomo parve arrendersi perché la superò e tirò dritto, e lei continuò per la sua strada. Il tempo però peggiorò. Il turbinio di neve la stordiva, la gelava fin dentro le ossa. Daisy quasi rimpianse di non aver accettato l’offerta di quell’uomo. Avrebbe potuto scaldarsi un po’, accontentarlo e andarsene, con anche un po' di soldi in tasca. Ma ormai era sfumata l’occasione. Vide un supermercato, ma era senza soldi. E comunque si ricordava bene del proprietario. Era uno molto ligio che non sopportava il suo lavoro e chi ne faceva parte. Una volta aveva rimediato una scopa sulla testa da quel folle. Rabbrividendo per la neve, proseguì, ma rivide la macchina che prima l’aveva affiancata. Non poteva sbagliarsi: un auto sportiva di quel livello non si vedeva tutti i giorni. Vide anche il conducente, ma era nascosto dal cappuccio. Stava portando una borsa verso la sua autovettura. Daisy pensò di scusarsi e partire all’attacco, ma qualcosa la frenava. Così lasciò perdere e gli passò dietro. Lui la vide, ma non fece nulla. Tutto ciò che gli veniva in mente sembrava un mero tentativo di abbordaggio e non gli andava che dovesse per forza sembrare così. Sospirò, ma decise di riprovarci. Non ci avrebbe perso nulla e comunque avrebbe potuto farle capire più tardi che non voleva ciò che lei pensava. La chiamò e rinnovò l’invito. Questa volta lei accettò.
“Probabilmente il freddo ha vinto sulla cocciutaggine.” commentò l’uomo con il pensiero mentre le apriva galantemente lo sportello.
Daisy si accomodò nell’abitacolo e si sentì subito meglio. Il riscaldamento era acceso e il tepore la riscaldò un momento. Ma non abbassò la guardia. Con quelle come lei, nessuno è così gentile. Mai.
L’uomo avviò la macchina che ruggì e ripartì con calma, senza scossoni. Dopo un breve tratto di strada, lui chiese: «Dove ti porto?»
Lei inizialmente pensò di rispondere a casa sua, ma poi ci ripensò. Non era prudente dire in giro dove abitasse e poi c’era Martha. Nessuno le aveva creduto quando aveva detto che non era d’accordo con Ragefire e quindi ora era molto più prudente con gli uomini con cui usciva. Dopo di lui, ancora nessuno aveva saputo dove abitasse e men che meno aveva saputo della sua bambina. 
Lui attese una risposta che non venne, così aggiunse: «Non è un problema la distanza.»
Lei borbottò qualcosa di incomprensibile, da cui lui tradusse parole sporadiche che gli fecero capire che non lo sapeva nemmeno lei. Lui non voleva azzardare troppo e sembrare il solito pervertito, quindi non gli parve opportuno proporre di andare a casa sua. Così prese una via a caso, impostandosi nella mente un percorso da eventualmente ripetere, e le chiese se stesse un po’ meglio. Lei annuì di risposta, sempre molto sospettosa. Quel tipo era davvero strano. Non l’aveva mai fissata come facevano tutti gli altri. O meglio, l’aveva guardata solo in faccia e dritta negli occhi, una cosa più unica che rara. Dopo la terza volta che vedeva la stessa casa fuori dal finestrino, chiese: «Dove stiamo andando?»
«Da nessuna parte.» rispose lui, ridacchiando: «Non mi hai risposto e io continuo a girare.»
Lei lo fissò di sottecchi e sbottò: «Si può sapere cosa vuoi?»
«Niente di quello che stai pensando.» sorrise lui, guardandola solo per un momento.
Lei rimase colpita da quello sguardo. Come aveva visto prima, non era il solito sguardo maniacale. Quei due occhi del ghiaccio andavano oltre ciò che era l’esteriore e vedevano il suo animo triste e solo, che aveva solo bisogno di affetto, accecato però dal desiderio di un amore impossibile che forse nemmeno amore era.
Senza rendersene conto, Daisy cominciò a parlare. Lui rispondeva senza problemi e anzi, sembrava felice del dialogo. Si capitò sul discorso del lavoro della donna. Lei gli narrò che lo faceva in primis per problemi finanziari, ma anche perché cercava il surrogato dell’uomo che desiderava e che la rifiutava. Purtroppo però aveva miseramente fallito.
«E ci credo.» commentò solo lui, alla fine della storia: «Anche se a parer mio, ti stai rovinando la vita per un semplice desiderio. L’amore è tutt’altro e credimi, da molte più soddisfazioni.»
Daisy, ormai presa dalla conversazione, chiese: «Che cosa intendi?»
Lui alzò le spalle e rispose: «Intendo dire che ti sei intestardita con lui perché ti ha ferita nell’orgoglio il suo rifiuto. Ma non ne sei innamorata…»
«E tu che ne sai?» lo rimbeccò lei.
Lui sorrise storto e rispose: «Non ho mai creduto nell’amore. Pensavo fosse una cosa inutile che rende idioti. Ma poi ho conosciuto due persone che…credo sia amore solo da una parte, ma comunque mi hanno fatto cambiare idea. Il loro amore dona loro una forza fuori dal comune, capace di sostenerli anche nelle situazioni più disastrose e negative. E ammetto di esserne un po’ invidioso…»
Daisy ripensò alle sue parole valutando cosa provasse lei. In effetti, il suo desiderio di avere Raphael era puramente carnale. Nulla in più. Solo un’onta nel suo orgoglio.
«Dai retta a me.» aggiunse lui, per rompere il silenzio meditativo: «A far quello che fai, non lo troverai mai il vero amore. Se quello che ti manca è un po’ di affetto, lascia perdere, cerca un lavoro normale e… aspetta. Quando arriverà la persona giusta, lo saprai.»
L’uomo la scaricò dove l’aveva trovata alcune ore dopo. Ormai non nevicava più. Avevano parlato tutto il tempo e Daisy era stata proprio bene. Un po’ le dispiaceva doverlo salutare, ma il tempo ormai era passato. Guardando la macchina andare via, alzò titubante la mano in segno di saluto e vide lui fare lo stesso, mentre la guardava dallo specchietto retrovisore. Seguì i consigli che lui le aveva dato: cercò lavoro e lo trovò presso un bar che chiedeva turni assurdi. Lei non aveva problemi di orario, Martha era una brava bambina che si adattava a tutto e al limite avrebbe chiesto a Raphael di tenerla; tutto sommato era una donna carina e se la cavava piuttosto bene con la gente. Così la assunsero prima di prova e poi fissa. Tempo dopo, sul far della sera, l’uomo che l’aveva, per come dire, salvata entrò e sedette a un tavolino, sbottando qualcosa al cellulare. Mentre passava tra gli altri tavoli, venne salutato con dei rispettosi ma timorosi: «Buongiorno, avvocato.»
Alcuni chinavano perfino la testa al suo passaggio. Sembrava incutere un alone di terrore ovunque passasse. Daisy si perse a fissarlo, pensando: “E così è un avvocato. Non l’avrei mai detto. Non so nemmeno il suo nome…”
Ci mise un po’ a prendere il coraggio necessario, soprattutto perché lui parlava al telefono con uno sguardo furioso, ma alla fine si avvicinò un po’ titubante e chiese se voleva ordinare. Lui la fissò irritato, ma il suo sguardo cambiò quando la riconobbe. Divenne istantaneamente amichevole e con un sorriso ordinò, per poi liquidare in quattro parole seccate il suo interlocutore al telefono. Daisy voleva attaccare bottone, ma non sapeva come, così se ne resto zitta zitta quando gli portò l’ordine. Lui però ruppe il ghiaccio e le chiese con un sorriso come stesse. Lei rispose più che volentieri e i due parlarono un po’, questa volta presentandosi.
Michael Grendel non conosceva la ex di Raphael per un motivo ben preciso: i due non erano mai stati amici, ma solo rivali, e quindi parlare della propria vita personale non era tra le opzioni più gradite. Daisy invece non conosceva le amicizie/rivalità di Raphael per il semplice motivo che, quando stavano insieme, non si erano mai parlati. Delle volte erano andati a letto insieme ma era tutto fermo a quello.
«E così sei avvocato...» buttò lì lei, soppesando la parola.
«Già.» rispose solo lui: «È un lavoro come un altro.»
I giorni seguenti, lui tornò più spesso in quel bar. Voleva starle accanto e con lei si sentiva bene. Per Daisy era uguale. Fecero amicizia, parlando di tutto. Dalle cose serie a quelle più stupide. Insieme si sentivano in sintonia e si allontanava la solitudine che spesso attanagliava loro il cuore: lui per il suo atteggiamento arrogante e superbo, lei per la sua bellezza e i costumi molto libertini. Ora che si erano trovati, tutto il male del loro animo svaniva.
Una sera, lui restò fino alla chiusura. Attese la donna fuori dalla porta, e quando lei uscì, lo vide perplessa e chiese: «Che ci fai ancora qui?»
Lui le sorrise e si avvicinò a lei. La prese dolcemente per i fianchi e sussurrò: «Voglio rovinarmi la vita.»
Avvicinate le labbra alle sue, la baciò piano, cercando di trasmetterle ciò che serbava nel cuore. Lei sentì quel bacio strano, caldo e diverso; dapprima rimase un momento scioccata, poi si lasciò andare, cercando di ricambiarlo come meglio poteva, riuscendoci parzialmente. Si separarono. Lui le sorrise, montò in macchina e sparì nella notte. Lei rimase ferma un momento, accarezzandosi le labbra, con una felicità dentro al cuore che non aveva mai provato.
Michael il giorno dopo ovviamente tornò, e la scena si ripeté altre volte, fino a sfociare nel reciproco «Ti amo.»

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