La La Lance

di lillabulleryu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Your coffee sucks ***
Capitolo 2: *** Hamlet wants you ***
Capitolo 3: *** Candid cameras ***
Capitolo 4: *** Tai chi and jazz ***
Capitolo 5: *** Ain't no brother ***
Capitolo 6: *** You jazz mad fools ***



Capitolo 1
*** Your coffee sucks ***



Il tempo era il solito inesorabile stronzo.
Hunk avrebbe dovuto dargli il cambio al lavoro da almeno venti minuti. Ma a lui importava? Era rilevante che lui avesse un appuntamento tra mezz’ora dall’altra parte della città? Che il suddetto appuntamento fosse un provino da cui dipendeva la sua carriera di attore?
Ma per favore. Naturalmente no. Quelli erano problemi dei mortali, mica del tempo. Se la vedano loro con l’incazzatura, la bile, la fretta, l’ansia da prestazione, eccetera.
E non era l’unico a strafregarsene. Lance guardò lo schermo del cellulare per l’ennesima volta. Nulla. Hunk si era preso una pausa dal piano dell’esistenza. Non aveva mai provato tanto odio ingiustificato per il suo telefono.
A forza di controllare sulla schermata di conversazione non aveva più bisogno di rileggere il testo dell’ultimo messaggio ricevuto. Lo riconosceva a colpo d’occhio dalla forma delle righe e degli spazi: c’è traffico arrivo aspetta. Niente maiuscole, niente virgole.
Già si immaginava la lapide con incise le sue ultime, eroiche parole. E di fianco la sua in coordinato: Lance McClain. C’era traffico, Hunk arrivava, lui ha aspettato.
L’unico dettaglio che cambiò sul monitor fu il minuto.
Torse l’asciugamano come un immaginario collo di Hunk; la mezz’ora a disposizione per raggiungere lo studio si assottigliava e lui doveva ancora farsi una doccia. Ingoiò gli improperi che saltellavano roventi in gola come popcorn; poco mancò che gli scappasse un porcone quando un cliente cercò di attirare la sua attenzione. Per miracolo, riuscì a fare appello al residuo di professionalità ancora incrostato sul fondo della pentola cerebrale.
- Mi dica.
Un ragazzo dagli occhi scurissimi lo fissava gravemente da dietro una folta frangetta nera. Non sorrise, non si schiarì la voce.
- Prima di ordinare, avevo chiesto se sapevate fare un caffè italiano.  – lo informò, serio.
Se quella era la modalità casual per parlare di caffè, quando era ai funerali cosa faceva?
Lance ricordava sia domanda che ordinazione. Non ci aveva dato particolare peso. Quando la gente ti chiede cose per almeno otto ore al giorno, ti abitui a sentirne di tutti i tipi. Perché questo gli stava facendo il reminder gratuito di poco fa? Aggrottò le sopracciglia.   
- Non te l’ho portato?
- Era una schifezza.
Il lapidario verdetto fece stringere gli occhi del ragazzo in un’espressione di disprezzo.
- Era acqua che sapeva di bruciato. Ho guardato, mentre lo facevi. Non hai messo abbastanza caffè nella macchinetta. E poi l’espresso italiano non va servito in una tazza così grande.
Lance non voleva credere che stesse accadendo quello che stava accadendo. Ma quel fiume di parole urticante e quella faccia da schiaffi, sì, erano proprio diretti a lui
- Perché scrivete “espresso italiano” se non siete capaci di prepararlo?
Era ufficiale.
Gli era capitata la chicca.
Il Rompipalle della giornata.
- Senti un po’, frangetta, - cominciò, appoggiando entrambe le mani al bancone con un sospiro scocciato, - Se ci tieni particolarmente al caffè performativo, le opzioni che ti consiglio sono due: o ti fai assumere da un bar e rendi onore alla nobile professione, oppure te lo prepari a casa e non frangi le palle!
Il ragazzo incrociò le braccia sul petto, accigliandosi più di quanto già non fosse.
- Quindi non solo non sai fare il caffè, ma non sei neanche capace di parlare coi clienti.
La pazienza di Lance aveva ormai la durezza del guscio di un uovo.
- Quindi non solo vuoi rompere i coglioni, vuoi anche che io ti auguri di non uscire più dalla Magica Landa del Cesso!
Il cliente increspò le labbra in una smorfia sarcastica: - Dovrei sentirmi insultato?
- No, dovresti levarti di torno!
Lance indicò la porta stizzito. Al diavolo la diplomazia, è sprecata per gente così!
- E sentiamo, chi ti dà il diritto di darmi ordini?
- Il diritto di non perdere del tempo con le tue cazzate!
- Non mi sembravi particolarmente affaccendato, visto che stavi guardando il telefono. – sentenziò il ragazzo freddamente.
Era troppo: qualcosa scattò con violenza sanguigna in Lance. Sbatté rumorosamente i palmi sul bancone e spinse in avanti, arrivando così vicino al volto dell’altro che quasi le loro fronti si toccavano. L’assoluta indifferenza in quegli occhi era altra benzina che veniva gettata sui suoi nervi in fiamme.
- Hai bisogno di aiuto per trovare l’uscita?! – ringhiò.
- Lance!!! Ma che stai facendo, sei impazzito?!
Non si seppe mai con quale replica sarebbe stato provocato: Hunk si precipitò trafelato al bancone e lo strattonò indietro, impedendogli probabilmente di tramortire il cliente con una testata o prenderlo per il collo.
La furia di Lance poté rivolgersi e sfogarsi contro il nuovo arrivato; per motivi diversi, era un sollievo per entrambi. E per tutti quanti gli ospiti del locale, che, a giudicare dai loro volti sgomenti o incuriositi, sembravano aspettarsi l’inizio della rissa da un momento all’altro.
- Che sto facendo IO?! – eruppe con voce stridula. – Ma lo sai che ore sono?! Dove cavolo eri finito?! Sei in ritardo!!!
- Parla più piano… - gli ricordò Hunk, facendogli cenno di tacere.
Si guardava intorno, angosciato dalla reazione di qualche cliente o, peggio, del loro capo. Fortunatamente per loro, quest’ultimo non c’era. Confortato che non fosse in vista, accennò un timido sorriso conciliatorio.
– So che sei arrabbiato, davvero, però ho buone notizie per—
- Non me ne frega niente! – lo interruppe bruscamente Lance. Si era già sfilato il grembiule e poco ci mancò che lo schiaffeggiasse con quello. - Non rispondevi più, non ho il tempo di farmi una doccia e mi sono ritrovato con questo—questo…! Ehi!!! Dov’è andato?!
Il Rompipalle con la frangetta di poco prima si era dileguato. Ed era uscito senza pagare.
 
***
 
Dandyville sembrava un soprannome. Eppure la città si chiamava proprio così. Il suo vanto più grande era un teatro che risaliva al Settecento, e ancora oggi era sede di una prestigiosa Accademia.
Lance McClain sognava sin da piccolo di fare l’attore. Gli avevano raccontato che il suo bisnonno era andato a studiare proprio lì, a Dandyville, e poi aveva girato il mondo con la sua compagnia. E così avrebbe fatto anche lui.
Si era trasferito, aveva studiato all’Accademia, l’aveva accettabilmente conclusa da studente-lavoratore e poi aveva iniziato a fare un provino dopo l’altro. Erano sette anni che poteva vedere la sua famiglia e il suo mare a mala pena una volta all’anno, quattro che lavorava nel bar italiano Segafredo, due e mezzo che viveva in un piccolo appartamento sperduto nella periferia. Divideva l’affitto con Hunk, suo amico fraterno dai tempi delle superiori, perito elettrotecnico e provetto tecnico delle luci, e Jeremy, studente ormai laureando in giurisprudenza. 
Il portoncino di casa era a fianco di un bar che in due anni aveva già cambiato gestione per l’ennesima volta. Attualmente faceva anche Kebab. Era prevalentemente frequentato dalle comunità turche, pakistane e greche della zona.
Recava un’insegna talmente vecchia da non riuscirne più a leggere il nome.
Il proprietario originale non era più in città per potergli chiedere come si chiamasse, e tutti quelli che erano venuti dopo di lui non avevano avuto l’ardire di mettere un’insegna nuova. Si erano affezionati? Erano superstiziosi? Non avevano abbastanza soldi per farlo? Difficile dirlo. Ad ogni riavvio del locale si cambiava qualcosa, più o meno drasticamente, ma l’insegna sopravviveva.
Molti passanti o abitanti della zona, incuriositi, avevano tentato di decifrare quella tavola scrostata grigiobianca e le scritte che, nei periodi di gloria andata, dovevano essere di un bell’azzurro-mare. Come nelle macchie di Rorschach, tutti ci vedevano una parola diversa. La cerchia degli interessati si era accordata per un buffo compromesso: Clarokke.
Per Lance il Clarokke era una sorta di maggiordomo immaginario. Quando aveva bisogno di sfogarsi su qualcosa che era meglio tenersi per sé, poteva sempre contare sul suo appoggio: gli dava ragione senza contraddirlo. Per lui Clarokke stava per “Claro que si”. Ed era tutto quello che gli rispondeva, paziente: Claro. Claro que si.
Il provino è andato uno schifo, Clarokke, annunciò al suo interlocutore metaforico, cupamente. Claro.
Era arrivato talmente trafelato che gli tremavano le gambe. Grondante di sudore, rosso in volto e ansante, incominciò il monologo che gli era stato chiesto di preparare: Diario di un pazzo, Nikolaj Gogol’.  
Avrebbe potuto anche recitare l’oroscopo, tanto la commissione era interessata. Claro.
Un inferno così non lo aveva ancora provato, stava memoriando il pazzo di Nikolaj Gogol’, ed ecco che squilla un telefono. Claro. Come se fosse nel bel mezzo di una giornata qualunque nel suo ufficio, il proprietario risponde. Il pazzo continua, perché sa che non può fermarsi; un’altra, di fianco al signore al telefono, sospira e si stiracchia, poi scorre e picchietta pigramente il dito sul proprio cellulare. Entra una tipa in tailleur che richiama l’attenzione di Smithson, il presunto Smithson risponde e poi le chiede un caffè – ecco che si illumina quella della stiracchiata, mica può averlo anche lei?
E Grazie, gli fa il tipo ancora al telefono, interrompendo a metà la frase del pazzo, ti faremo sapere.
Che giornata di merda. Claro que si.
Si era abituato all’idea che potesse andare così, ma ancora non riusciva a trovarlo piacevole.
Raggiunse con le sue ultime forze la sua stanza; non ne aveva più nemmeno per togliersi la giacca. Lasciò cadere lo zaino per terra e crollò a faccia in giù così com’era sul materasso, come un albero abbattuto.
Timber timber, mormorò contro il cuscino, abbracciandolo stretto per meglio nasconderci la faccia. L’assenza di un odore di casa gli strinse la gola. Ripensò alle nuvole di panna nel cielo estivo, ai colori pastello nelle larghe strade assolate, al divano sfondato del salotto di casa e alla candela a forma di mela che sua sorella aveva messo sul tavolo e tutti scambiavano per vera.
Accidenti al mondo, al teatro, a Gogol’, ai pazzi e al caffè italiano! Vadano tutti in malora!
- Lance? Ci sei?
Al richiamo di Hunk rimase inerte come se non l’avesse sentito.
Ce l’aveva anche con lui. Se ci avesse pensato bene, avrebbe trovato un buon motivo per avercela con chiunque.
- Hai mangiato qualcosa?
Si sentiva in colpa. Lo capiva quella nota esitante che faceva tremare impercettibilmente le sue vocali. E faceva bene. Perché nella merda della giornata anche lui aveva messo il suo contributo in grammi. E poi, perché mangiare avrebbe dovuto servirgli? Non tutti pensano al cibo come un conforto universale!
- Non è andata bene, vero?
Un cuscino fu lanciato a tutta forza con uno scatto fulmineo e brutale.
Hunk era sulla soglia della porta e se lo prese dritto in piena faccia, senza avere il tempo materiale di scansarsi.
- Ma che cavolo!!! – si lamentò lui, portandosi le mani al naso dolorante per il colpo. - Mi dispiace!!! Ho trovato coda in tangenziale, lo sai che è un macello a quell’ora!!!
- E per che caspio non sei partito prima?! – sbraitò Lance, scagliando stizzosamente un altro cuscino. - Ma soprattutto – PERCHÉ HO DOVUTO PAGARE IO IL CAFFÈ A QUELLO STUPIDO COGLIONE?!?!
- Te l’ho chiesto come favore!!! – si difese Hunk, questa volta avendo abbastanza prontezza da evitare il lancio. - Avevo speso tutto per fare il pieno!!!
- Quel maledetto espresso io non glielo offro, hai capito?! PER PRINCIPIO!
- D’accordo, ma se Mechetti scopre che abbiamo fatto uscire un tizio senza pagare…
- MECHETTI PUÒ ANDARE IN CIMA ALLA FORCA, SAI QUANTO ME NE FREGA?! – sbottò Lance con un gesto aggressivo della mano. - QUEL DOLLARO E SETTANTACINQUE CE LO METTI TU!
Hunk giunse le mani in preghiera nel massimo slancio di umiltà che poteva mostrare.
- Va bene, giuro che domani te lo restituisco!
Di fronte a tale accondiscendenza, Lance sembrò sgonfiarsi. Prendersela con Hunk lo faceva soltanto sentire un cane idrofobo.  E anche un po’ un verme. Non si meritava una scenata così poco dignitosa.
Rimase in ginocchio sul letto per qualche istante ancora, poi si lasciò ricadere sul letto con un sospiro.
La rete accolse il suo peso cigolando rumorosamente e lo fece oscillare su e giù.
- Io la odio, la gente. – borbottò Lance con lo sguardo torvo fisso sulle ginocchia.
Hunk si fece più vicino.
- Non è vero. – lo blandì.
Potrebbe anche non essere vero, pensò Lance, aggrottando le sopracciglia, ma adesso non voglio darti ragione.
Quei luoghi non erano riusciti a trasformarsi in un nuovo nido. Ovunque era rimasto straniero. Conoscere le strade, entrare negli edifici, studiare, lavorare, parlare: ecco, rivedeva gli ultimi anni dall’alto ed erano una lunga, nauseante pantomima.
Il ricordo del mare lo lacerava fino a fargli desiderare di piangere.
- Mollo tutto, Hunk.
- Lance…
- No, sul serio. Non sto andando da nessuna parte, così.
Quella frase aveva un sapore acre in gola. Non passava giorno in cui non lo pungolasse per venire fuori e per disseminare germi di dubbio ovunque. Era sempre più insistente, sempre più morbosa. Non voleva crederci, eppure stava iniziando a convincersene. La stanchezza riusciva a penetrare fin nelle fibre del suo animo. Reagire diventava un compito sempre più greve.
- Ehi ehi, frena! – l’amico interruppe il flusso sofferente di quei pensieri. Gli appoggiò una mano sulla spalla e lo invitò a sollevare il volto. - Ho una notizia che potrebbe farti cambiare idea… e magari farmi perdonare!
Il sopracciglio di Lance si sollevò con l’eloquenza di mille scetticismi.
- Anche a me oggi al colloquio non è andata una favola, - cominciò Hunk, ignorando quell’espressione, - Ma ho incontrato Shiro.
- Shiro?! – ripeté Lance, incredulo; - Che ci faceva a un colloquio di selezione per il tecnico delle luci del Teatro Miranda?! Non era tornato in Svezia?!
- È tornato da un paio di mesi. Sta cercando gente nuova da inserire nel cast del suo prossimo spettacolo. Vuole partecipare al Mainard!
Lance strabuzzò gli occhi: due notizie assurde si allineavano una dopo l’altra quali palline su un pallottoliere.
- Quel Mainard?!
Il Mainard era un famosissimo festival teatrale di Dandyville. Si teneva da ormai quarantacinque anni, d’inverno. Potevano partecipare compagnie emergenti da ogni paese, purché portassero un’esibizione di tipo sperimentale e il copione fosse originale. Oltre all’onore della targa che si poteva ricevere in premio, c’erano anche in palio i finanziamenti per portare lo spettacolo in tour e farlo conoscere anche in teatri di fama nazionale. Vincere il Mainard era il sogno di tutti i giovani registi e attori. La sola idea di parteciparvi aveva già fatto palpitare il cuore di Lance come innanzi a una proposta di matrimonio.
- Proprio così. Ha chiesto a me per le luci. E caso vuole che cerchi un ragazzo di bella presenza che sappia ballare e cantare…
- Sul serio?! Mi trovi di bella presenza?!
Hunk si strinse nelle spalle con una smorfia, senza approfondire oltre il discorso.
- Quando gli ho parlato di te, si è ricordato di quando avevi fatto Mi Chico Latino con la compagnia di Lothor.
Fortunatamente era seduto. Sentì distintamente il guizzo nervoso del proprio sopracciglio.
- Shiro… ha visto quello spettacolo…?
Non faceva parte della lista delle esperienze di cui andava più fiero. Sapere che anche una sola persona in tutto il monto potesse testimoniare che si era prestato per quella cosa, gli faceva provare il desiderio di trasferirsi nel deserto del Gobi.
- Fregatene, gli sei piaciuto! – esclamò Hunk, colpendolo energicamente sul braccio per riscuoterlo dall’autismo della vergogna, - Ha detto che vuole vederci entrambi domani dopo il lavoro al Circolo Braun!
- Non—non ha per caso—non è che ha visto quando facevo Orazio di Amleto tre anni fa?! – balbettò Lance, smarrito, - O almeno uno degli spettacoli della rassegna di Dürenmatt dell’anno scorso?!
- Che ne so, mica sono stato lì a fargli la radiocronaca della tua carriera!
Lance si prese la testa tra le mani e si accasciò su un lato con un gemito.
- Come cavolo faccio a presentarmi davanti a Shiro, adesso?!
- Stai scherzando?! È stato lui a darti un appuntamento!!!
- Certo, per te è facile a dirsi!!! – sbottò Lance acidamente, senza riuscire a sollevarsi. – Tanto è a me che lui pensa come Chico Latino!!! Maledetto Lothor, non avrei mai dovuto accettare di farmi coinvolgere!!!
Hunk sospirò, alzando gli occhi al cielo.
- Lo so che sei stressato per la situazione precaria. È difficile per tutti.
A Lance non sfuggì la mestizia e la stanchezza amara che tradiva la sua voce. Si rimise a sedere e sfiorò il braccio dell’amico in un silenzioso cenno di conforto; lui gli sorrise.
- Forse questa è l’occasione buona, no? Ed è per Shiro. Se non è in gamba lui.
Il mare era ancora lontano. Ma sentì il nonno più vicino, e il suo sogno emanava un tepore pari a quello del sole e delle stelle. Valeva la pena di aspettare ancora un po’.
- Cominciamo andando domani al circolo Braun, no?
Il sorriso di Hunk si allargò e fece un’O unendo pollice ed indice.
- Clarokke!



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CHIACCHIERE FUCKOLTATIVE

Se state leggendo, molte grazie!
Ancora ignoro dove porterà questa storia; La La Lance è nata per scherzo, come piccola sfida. Avevo bisogno di riscattarmi da una storia che mi ha indisposto non poco, specialmente per l'ipocrisia e il tip-tap a caso.
Non che pensi di poter fare di meglio, ma almeno avrò il piacere di immaginarmi Keith al piano. *pausa purrr*

Un sentito ringraziamento a Yuki Delleran, perché se non fosse stato per lei:
a) avrei mollato Voltron dopo mezz'ora dell'episodio 1;
b) questa storia non sarebbe mai stata scritta!
Poi, come sempre, a Wren, perché la sua pazienza è un infinito wormwhole in cui mi sticka sempre con amore!

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Capitolo 2
*** Hamlet wants you ***



 
Chiunque abbia frequentato almeno uno dei molti teatri di Dandyville o la sua Accademia sa chi sia Shiro.
Nella memoria collettiva di tutti gli studenti si era andato a creare un mito.
Un talento fuori dal comune, che lo distingueva fin dall’infanzia, gli aveva consentito una borsa di studio; dalla Svezia si trasferì a Dandyville per coltivarlo e metterlo a frutto.
Alcuni sostenevano che conoscesse tutto Shakespeare a memoria, altri che avesse appreso la Commedia dell’Arte in Italia, che avesse studiato il Nori, il Kabuki, la narrazione di Kamishibai… e, ovviamente, li padroneggiasse tutti.
Si era indotti a crederci facilmente perché Shiro aveva fatto di tutto:  contraddistinto da una volontà ferrea, si impegnava nelle tecniche, nelle cause sociali, nei movimenti d’avanguardia culturali.
Una volta entrato da professionista nel mondo del teatro, aveva continuato a proporsi come figura di riferimento nella formazione degli apprendisti e dei dilettanti. Non esisteva ambito in cui si risparmiasse. Come facesse, aveva quasi dell’incredibile.
La notizia del suo ritiro fu il fulmine del cielo sereno di qualche anno prima. Di spiegazioni pubbliche o private non ne rilasciò: era tornato da dove era venuto, in Svezia, per poi sparire nel nulla. Così come prima era dovunque, ora non era in nessun posto.
Agli occhi di un fervido ammiratore come Lance, fu uno shock. Lo adorava al punto da tenere una locandina del suo Amleto appesa in camera. Vederlo interpretare Neottolemo nel Filottete gli aveva annodato lo stomaco. Quando aveva vestito i panni di Bruto nel Giulio Cesare, si era ritrovato a compatirlo come se fosse stato lui a beccarsi le coltellate nella schiena.
Aveva solo undici anni in più di Lance ed era già un attore eccezionale: plastico come creta, prendeva le fattezze, i modi e l’espressività di qualunque personaggio. Rivendicava quella fibra fisica e morale per sé, come se non avesse mai vissuto o parlato altrimenti. Bastava il suo primo passo sul palco che vi potevi vedere riflesse le fatiche di una vita intera, una frivolezza spensierata, dolori da scarnificare l’anima, tormenti d’inferno.
Il suo ritorno doveva essere qualcosa di grandioso.
Fece un profondo respiro e una miriade di brividi dalle zampette di ragno gli risalirono fino alla bocca dello stomaco. Hunk si fermò davanti all’ingresso del locale e si voltò a guardarlo.
- Ci sei? – gli chiese, serio.
Anche lui era teso. Si capiva dal fatto che avesse continuato per tutto il tragitto ad asciugarsi i palmi delle mani sui pantaloni.
Lance annuì rigidamente, badando di non deporre il contenuto del suo stomaco prima ancora di entrare.
L’amico lo incitò in silenzio con un pugno chiuso e uno sguardo determinato, poi spinse la porta.
Li accolse la luce soffusa giallo-rossastra di un’ampia sala stile anni ’50 e l’eleganza vivace di un clarinetto che si esibiva nello swing di sottofondo.   
Il Circolo Braun era un jazz club molto noto tra i teatranti: insieme a buona musica dal vivo, spesso offriva spazi in affitto alle compagnie bisognose di luoghi dove provare.
Riconobbero Shiro, seduto a uno dei tavolini in fondo alla sala. Dava le spalle a una folla colorata di manifesti, fotografie, autografi incorniciati e quadri che arrivavano fino al soffitto. Non sembrava in attesa di qualcuno: era immerso in una lettura che gli faceva ignorare il mondo circostante, compreso il bicchiere ancora colmo alla sua destra.
Fu sufficiente che i ragazzi gli si avvicinassero che i suoi occhi si sollevarono immediatamente dai fogli, vigili come se li avessero visti arrivare.
- Ben arrivati. – si alzò in piedi e porse loro la mano in cenno di saluto. Soffermò la sua attenzione su chi, dei due, non aveva ancora incontrato: - Tu devi essere Lance, giusto?
Lo Shiro che Lance si era immaginato era molto diverso da quello che aveva davanti.
Era logico che un attore geniale di carriera si presentasse sicuro di sé, brillante, distinto. Quello era un Amleto invecchiato dall’aura greve e stanca. Il pallore del viso, affilato e smagrito, era accentuato dagli abiti neri che indossava. Gli occhi avevano il colore e la pesantezza del piombo, tradivano il tormento dell’insonne. Il suo sguardo aveva un’intensità perforante, una serietà così assoluta e profonda che avrebbe potuto frantumare le rocce.
Lance si sentiva una di quelle rocce. Tentò di esibire il suo migliore sorriso, ma ottenne solo una stiracchiata di labbra.   
- Piacere! Sono un suo… tuo… grande ammiratore!
- Dammi pure del tu. Sedetevi.
I ragazzi obbedirono; cadde il silenzio.
Shiro parve accorgersi solo in quel momento che aveva ordinato una birra. Bevve un sorso, intrecciò le dita sul tavolo. Fissò le mani, come se su di esse fosse già scritto il copione della conversazione. Tornò a concentrarsi sui ragazzi di fronte, per poi interpellare Lance a bruciapelo:
- Se non ricordo male, sei un ottimo ballerino.
Lance dovette fare appello a tutta la sua fisiologica faccia di tolla per non lasciarsi divorare vivo dalla vergogna. Sul pizzicore del volto poteva fare ben poco, a parte sperare che la penombra del locale lo nascondesse. Mollò un calcio negli stinchi di Hunk, a cui stava, molto poco opportunamente, scappando da ridere.
- Ho… già ballato in altri spettacoli, sì.
Per favore, non chiedermi dettagli, supplicò mentalmente.
- E con il canto?
Il cuore di Lance intonò inni di gioia per il cambio di argomento.
- … non ho dimestichezza a leggere gli spartiti, ma posso imparare.
Shiro annuì, assorto. Tornò a guardare gli appunti sparsi sul tavolo, vagando tra i sentieri invisibili che si intricavano tra le scritte.
Lance e Hunk si scambiarono un’occhiata interrogativa, ma nessuno dei due sembrava essere in grado di chiarificare le idee dell’altro. Quando Shiro riprese a parlare all’improvviso, entrambi sussultarono.
- Come sapete, questo spettacolo parteciperà al Mainard. Ho idee molto precise, ma ve le illustrerò a tempo debito. Hunk. – Hunk scattò sull’attenti, tirando la pancia all’indietro. Poco mancava che portasse la mano a saluto militare. - Mi hai già dato il tuo consenso a partecipare come tecnico delle luci, ma avrei bisogno anche della tua supervisione per il suono. Posso contare su di te?
- Certamente! Ho anche esperienza come DJ! 
- Ottimo. – La bocca di Shiro si distese in un sorriso senza allegria, poi si rivolse a Lance. - Ti porrò la stessa domanda che ho fatto ieri ad Hunk. Non dubito che tu sia un buon attore. In questo spettacolo, però, non cerco semplice bravura accademica. Ho bisogno di qualcuno che sappia dare un’anima autentica al testo, che lo faccia vivere.
Lance deglutì a fatica e rispose con un cenno di assenso. 
- Dovrebbe essere la norma per qualsiasi opera artistica, ma quelle teatrali ne hanno bisogno in modo particolare. Saresti motivato a partecipare a uno spettacolo in cui mettere tutto te stesso? Non ti saranno risparmiati sforzi.
Shiro lo squadrava con severità penetrante, guardingo innanzi a ogni più impercettibile sfumatura di esitazione. Lasciarsi intimidire avrebbe potuto essergli fatale. Usò la sua forza più spontanea ed efficace: la sfacciataggine.
- Il teatro è la mia vita. Se temessi la fatica avrei già smesso da un pezzo. – sorrise più rilassato, appoggiandosi allo schienale della poltroncina come se fosse a suo agio. – Inoltre, lavorare con te sarebbe un onore.
L’espressione di Shiro non mutò di un soffio; prese un foglio appoggiato in cima a una cartella azzurra e glielo porse.
- Vorrei che leggessi questo estratto. – spiegò,  picchiettando leggermente la carta. – Puoi restare seduto. Non ti indicherò il contesto: stai parlando di una persona che hai perduto e che non tornerà mai più. Inizia quando sei pronto.
La musica di sottofondo si impennò in un assolo appassionato di sassofono, mescolandosi con il tonfo erratico del cuore di Lance contro lo sterno e le tempie.
Non era preparato ad esibirsi. Scorse rapidamente il foglio, avido di ogni barlume di senso. Non ci capì un accidente. Un rivolo di sudore gelido gli scese lungo la spina dorsale.
Ok, Ok, McClain, si disse, rileggendo ancora il monologo, vai col metodo Jack di Lost: cinque secondi per il panico. Cazzo, cazzo, cazzo, vaya mierda.
Rilesse una terza volta, supplicando le parole di guidarlo.
Una poesia? Un canto elegiaco?
Una persona che non tornerà mai più?
Ecco che cominciarono a lampeggiare alcune immagini del passato, colori fumosi. Ripensò agli occhi verdi di sua nonna, picchiettati di macchie grigie, e alla sua morbida selva di capelli ricci, che non si erano fatti radi nemmeno con l’età e la malattia. L’ultima volta che la vide, una gioia delira le sconvolgeva lo sguardo ancora così buono. Non aveva mai smesso di rimpiangere di non averla potuta salutare prima dei suoi funerali.
Rilesse ancora, cominciò ad orientarsi, a vedere qualcosa. Rovine di case, desolazione.
Respirò. Di colpo era calmo. Prese a parlare come se fossero gli Inferi a guidarlo. Ogni sillaba era un mattone da attaccare all’impasto fresco del cemento sul muro.

Salute, viaggiatore, che nella morbida notte ti avventuri. Salute, viaggiatore, che nulla temi: che vai cercando in queste terre?
Mille baci ti ha promesso la tua bella dalla mano d’avorio? Sono i suoi capelli di sole? Sono i suoi occhi corolle di stelle?
Torna indietro, rimani al tuo sonno.
Chi ha bruciato di lutto queste mura? Di’, tu lo sai?
Sul suo viso non piove luce: ha soffocato di sbarre la porta, le finestre sanguinano cenere. Cade fuliggine sulle nostre lacrime. Nera di pece è la nebbia del mio cuore; nell’amplesso di terra e pioggia, il solo colore che resta è il belletto di sangue dei giocattoli morti.


Il pezzo era finito. La voce di Lance aveva proseguito in un flusso costante, senza sbavature. Un peso opprimente la aveva costretta a un decrescendo livido, funereo, fino a ridursi a un mormorio.
Due grosse lacrime gli avevano rigato il volto. Se ne accorse soltanto quando ritornò in sé, in quel locale, tra Hunk e Shiro che lo fissavano.
Il foglio cadde sul tavolo.
- Oh—ah… - balbettò confuso, passandosi di riflesso una mano sulla faccia. – Mi—mi dispiace, non pensavo che…
La gola gli si strinse. Qualcosa pungeva nel petto. Il dolore riverberava nelle costole e non riusciva a trattenerlo, nonostante la consapevolezza di essere quasi certamente giudicato.
- Che imbarazzo! – sforzò una risata nervosa e si schiarì la voce. Poco mancò che strappasse il fazzoletto che Hunk, premurosamente, gli stava porgendo.
- Non scusarti. – Shiro lo osservava, imperturbabile. Il suo tono era calmo, senza emozioni. - A me è piaciuto ciò che ho visto.
Il disagio di Lance aumentò nel sostenere uno sguardo che sembrava sottoporlo allo scanning delle ghiandole lacrimali. Quando Shiro parlò, dopo un silenzio di eternità, non fu in grado di cogliere il significato immediato della comunicazione.
- Ci vediamo martedì prossimo alle nove qui, sala K.
***

Il telefono suonava a vuoto.
Contò gli squilli, come ogni volta.
Tre.
Quattro.
Cinque.
Questione di qualche attimo ancora, poi la segreteria telefonica avrebbe interrotto quella litania monocorde.
Al settimo squillo la risposta lo colse in flagrante.
- Pronto?
Sapeva perché non volesse parlargli. Eppure, alla fine, aveva scelto di farlo. Fu un emozione tale che il respiro gli si mozzò in gola.
- Ciao. Scusa l’orario.
Dall’altra parte ci fu un sospiro spazientito.
- Che cosa vuoi?
- La mia domanda è sempre quella. Ho trovato l’ultimo attore e il tecnico. Mancheresti solo tu.
- Ti ho già dato una risposta. – ribatté stancamente. - Col teatro ho smesso.
- Lui avrebbe voluto che tu partecipassi.
Rimasero in silenzio per almeno un minuto, forse trattenendo entrambi il fiato.
- Promettimi che ci penserai ancora. – insisté lui, con docile ostinazione. - Fallo per...
- Non dirlo.
La frase fu tranciata con uno scatto stizzito e ubbidì. Il cuore si era fatto pesante.
- Per favore. Capisco che tu ci tenga. Ma non so come mi potrei sentire. - Si interruppe. Schiarì la gola e inspirò rumorosamente col naso. - Sto cercando di andare avanti.
- Aspetterò fino all’ultimo. – fu strano pronunciare quelle parole e non riconoscere quella voce gracchiante che le aveva pronunciate. Diede un piccolo colpo di tosse e gli parve di tornare in se stesso. - Iniziano le prove la prossima settimana. Ti ho mandato una e-mail con il copione e l’indirizzo del circolo teatrale.
- Sei proprio uno zuccone.
- Sempre stato.
***

Mancavano sei minuti esatti alle nove di sera del martedì successivo.
- Ti sei ricordato i fazzoletti?
- Fottiti, Hunk!
E, per grande felicità di Lance, l’umorismo del suo coinquilino dimostrava di essere più fecondo e generoso della dea Demetra.
Il riflesso delle loro ombre procedeva svelto sull’asfalto bagnato e calpestava i riflessi aranciati dei lampioni. Attraversarono la strada: dall’angolo in fondo alla via, si intravedeva l’insegna illuminata del Circolo Braun.
- Se il copione sarà tutto come il pezzo che hai letto, ci sarà da tagliarsi le vene…
- Shiro ha le idee chiare, siamo in ottime mani! E poi a te che te ne frega del–
La frase rimase in sospeso. Un ragazzino era sfrecciato davanti a loro, superandoli; una delle molte pin che aveva attaccate allo zaino si sganciò e cadde a terra. I tonfi argentini non attirarono l’attenzione del proprietario, ma quella di Lance; si chinò subito e raccolse l’oggetto da terra. Ritraeva il celebre robot di Star Wars, R2D2, dalla cui calotta sbucava però un gattino grigio.
 - Ehi! Aspetta!
Al richiamo, il ragazzo non si volse; fu necessario che Lance lo prendesse per la spalla, facendolo sussultare dallo spavento. Si sistemò gli occhiali sul naso e si tolse gli auricolari, con aria scocciata.
- Ti è caduta questa!
Il ragazzino scrutò prima la spilla e poi lo sconosciuto, mentre il suo sopracciglio destro si sollevava con diffidenza. Si sfilò uno spallino dello zaino e controllò lo stato del suo reame di pin: un buco di stoffa vuota confermava un’assenza.
– Ah. Grazie. – arrossì lui, afferrando ciò che aveva smarrito.
- R2, eh? – sorrise Lance, evidentemente compiaciuto di dimostrare la sua conoscenza Star Warsiana. - Piace un sacco anche al mio fratellino più piccolo!
Il ragazzo non sembrava pronto alla prospettiva di una chiacchierata; dopo un paio di tentativi di rimettere la spilla andati a vuoto, se la infilò in tasca e rimise lo zaino in spalla.
- Uh… sì. Ok.
Una reazione così evasiva era anomala. Di solito, a nominare un tuo eroe, un fan che si rispetti si illumina, riconoscendo nella figura che ha innanzi un complice e un fratello nel mare magno della gente non curante. Doveva esserci sotto un profondo motivo di turbamento.
- Audizione? – chiese Lance, con la bonarietà paterna di chi la sa lunga.
- Cos—?!
- In bocca al lupo! Anch’io sono sempre nervoso!
Borbottando tra sé qualcosa di incomprensibile, il ragazzino girò i tacchi e si allontanò rapidamente fino a scomparire dietro il bancone del bar.
- Mi sa che l’hai terrorizzato. – osservò Hunk.
- Figurati! Ce ne fossero di persone carine come me, quando vai ai colloqui!
- Quando fai il gentile sembri un depravato. Perché vai ad interessarti dei fatti di uno studente delle medie?!
- Il depravato sei tu, che pensi subito a cose sordide!
- Al giorno d’oggi un sacco di ragazzi sono sociopatici emo, non puoi dare per scontato neanche di salutarli!
- Finiscila, non voglio far tardi per il tuo trattato di sociologia! – sbuffò Lance, affrettando il passo.
Scesero le scale e si inoltrarono nel corridoio; un pianoforte improvvisava, in lontananza, un canto melanconico e strascicato.
La musica veniva proprio dalla sala K, ancora chiusa. Davanti alla porta erano in attesa una giovane donna e un uomo baffuto sulla quarantina.
Sull’uomo, Lance non si soffermò granché. La creatura che gli era accanto, però… oh, wow.
Fisionomia slanciata, vita sottile. Viso delicato e triangolare, carnagione scura. Naso deliziosamente dritto, con la punta all’insù. Occhi grandi, di un azzurro luminoso, incorniciati da ciglia folte e un tenue velo di trucco. Un vestito bianco e azzurro, lungo fino alle ginocchia, esaltava la luminosità dei capelli mossi e vaporosi, che arrivavano alla vita.
Una manifestazione divina.
- Non mi piace quello sguardo da caimano. – commentò Hunk, allarmato. Sperava probabilmente di comunicare con quel residuo senso di decenza che, ogni tanto, Lance dimostrava di avere; invano.
Con un incedere da John Travolta, Lance si avvicinò al duo e si rivolse a lei con il più seducente dei suoi sorrisi di repertorio.
- Scusami… è questa la Sala K?
- Sì. Stanno finendo di provare. – replicò garbatamente. - Siete qui per Shiro?
- A dire la verità, ora io sono a posto. – la sua voce si era abbassata di un paio di ottave; ammiccò. – Per caso ti chiami Google? Sei tutto quello che sto cercando.
Hunk gemette e tentò una fusione tra il palmo della mano e il proprio viso.
- Oh, Dio, no.
La signorina sollevò entrambe le sopracciglia, interdetta. Squadrò Lance con uno sguardo pieno di rassegnata disapprovazione; la sua indole, forse compassionevole, generò un profondo, sconsolato sospiro.
- Perché, Coran. Perché le nuove generazioni sono persuase che questo tipo di approccio funzioni?
Il signore accanto aveva tutta l’aria di essere molto divertito dalla scena e aveva camuffato una risata con un mimetico colpo di tosse.
- Mia cara Allura, non dimenticare che le nuove generazioni rielaborano ciò che viene dalle vecchie. – si sollevò impettito, con fare didascalico e solenne da antico romano shakespeariano. - Anche sul palco della vita bisogna avere la battuta pronta, solo il tempo e l’abitudine ci raffinano!
- È difficile resistere alla tentazione di fare qualche follia, di fronte a una principessa come te! – rilanciò Lance, facendole l’occhiolino. - Piacere di conoscervi. Anche voi siete stati contattati da Shiro?
Il giudizio sfavorevole nei suoi confronti non era svanito dagli occhi della “Principessa”.
- Proprio così. Il mio nome è Allura Arus, lui è Coran Smythe.
- Veramente il nome completo sarebbe Coran Hieronymus Wimbleton Smythe. Ma non è il momento di fare i pignoli, suppongo. Piacere mio!
- Hunk, il tecnico. Lui è Lance. Può essere anche più imbarazzante di così.
- Ehi!!!
In quel momento, Shiro aprì la porta alle loro spalle, interrompendo lo scoppio di risa di Coran e Allura.
- Scusate il ritardo, ragazzi. Stavamo provando un brano. Prego, entrate.
La sala K era un ampio, freddo e umido seminterrato. L’intonaco sporco, un tempo bianco, era pieno di crepe che si inseguivano sulla parete come fulmini sottili. Agli angoli della stanza era accumulato di tutto: casse di bibite, strumenti musicali, cavi, cartoni, ammassi di stoffe colorate, pupazzi, boa di piume, cuscini, materassini gonfiabili. Una porzione sgombra di pavimento era ricoperta da un tatami verde.
Attorno a un vecchio pianoforte a coda scrostato, sei sedie erano disposte a semicerchio. Il pianista non badò ai nuovi arrivati. Ancora seduto, appuntava concentrato sui suoi spartiti.
Quando Lance lo vide, cacciò un urlo.
- CHE DIAVOLO CI FAI TU, QUI?!
Disturbato da quello strillo, il musicista sollevò lo sguardo scocciato.
Non c’era dubbio. Avrebbe riconosciuto dovunque quella pettinatura da sfigato e quella faccia da fighetto presuntuoso: il tizio del caffè!
Questi si prese un primo momento di osservazione dell’elemento di disturbo, prima di sbottare, accigliato:
- Potrei farti la stessa domanda!
- … vi conoscete? – si sorprese Shiro, guardando prima l’uno e poi l’altro.
Entrambi risposero all’unisono, ma all’opposto:
- No.
- Sì!!! – Lance afferrò il braccio di Hunk e lo scosse vigorosamente: - Hunk, ma non te lo ricordi?! È il rompicoglioni-espresso della settimana scorsa!!!
Prima che il collega potesse offrire qualunque testimonianza, le labbra del ragazzo si incresparono in un sogghigno strafottente.
- Ah, il barista imbranato. Se ti fossi presentato con un caffè pessimo, ti avrei riconosciuto meglio.
Hunk riuscì a trattenere (e a fatica) soltanto il corpo di Lance, ma non la sequela di improperi che avrebbero fatto avvizzire le orecchie di un camionista.
Come se di sottofondo ci fosse stato solamente il borbottio di una pentola, il ragazzo tornò ai suoi spartiti.
- Non ti sento, non me ne faccio niente delle tue isterie.
 Un polverone di voci si sollevò insieme a quelle dei litiganti: Shiro, disorientato, chiedeva spiegazioni al pianista; Hunk cercava in tutti i modi di far tacere Lance, Coran commentava ad alta voce qualcosa sul caso e la fiamma della rivalità…
- Silenzio, adesso! -
Fortunatamente, il perentorio ordine di Allura fece ammutolire anche i ragni.
- Signori, - annunciò Shiro, dopo essersi schiarito la voce. - Lui è Keith, il nostro pianista.
- CHEEE?!

---

CHIACCHIERE FUCKOLTATIVE

In questa fanfic, Takashi Shirogane (aka Shiro) è svedese. Verrà, verosimilmente, esplicitato più avanti, ma il suo vero nome qui è Sven Holgersson, detto Shiro.
Perché? PER SVEN, naturalmente.
Era questo il nome del pilota del leone blu di Voltron nella serie anni '80. Muore azzannato dal gatto della vecchia gattara. 
Sublimi vette interpretative. Che pathos. Che dizione.
We enjoy dat gud red appl. (cit.)

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Capitolo 3
*** Candid cameras ***


Nella vita ci si abitua presto o tardi all’ironia dell’imprevisto.
La chiave di casa può finire in gola a un tombino per scherzo della forza di gravità. Possono montarti le piastrelle nuove del pavimento al contrario.  Il telefono può scoprire il suo talento sportivo e fare un tuffo carpiato nel cesso. Il gatto può pisciarti sulla prima edizione di un fumetto introvabile o sul manuale che devi portare al prossimo esame.
Lance lo sapeva bene.
Lo aveva accettato.
Era pronto a tutto questo.
Il Caso, però, lo aveva guardato e aveva detto: aspetta, fammi controllare gli aggiornamenti dell’archivio incontri con deficienti. Sì, penso proprio che quell’ultimo là, che ti ha anche preso per il culo, sia perfetto per fare il pianista di Shiro.
A questo non poteva essere pronto.
Doveva esserci un errore. O una telecamera, nascosta da qualche parte a filmare la sua faccia.
- È uno scherzo, vero?!  
Il suo orrore fu ignorato: evidentemente non era ancora tempo per rivelare la bufala.
Shiro proseguì con le presentazioni.
- Keith, loro sono gli attori: Allura e Coran già li conoscevi, e… a quanto pare, anche Lance. Hunk è il nostro tecnico.
Alla sola menzione di Lance, Keith arricciò il naso senza nascondere un palese disgusto. Rivolse a Coran e Allura un segno di saluto e porse ad Hunk la mano.
- Piacere. Sono Keith Kogane.
Quante parole erano? Quattro?
Bastavano quelle e c’era abbastanza materiale per stendere un pamphlet: “Keith Kogane è uno stronzo”.
 La smorfia di qualche istante prima ora si era dissolta in un’aria da non-me-ne-frega-una-sega. Così si presentava laconicamente al villico, insieme a tutti gli accessori in dotazione: topo morto per capelli. Postura da soldatino. Guanti senza dita da motociclista. Pantaloni e maglia nera. Il suo sguardo si soffermava poco sulla gente, ma, quando lo faceva, era intrusivo e saccente; sembrava dire “vediamo cos’hai di sbagliato”.
Il sensore di odiosità stava raggiungendo percentuali da primato. Tale era la sua concentrazione che la voce degli altri era naufragata in un indistinto cicaleccio di convenevoli; fu una gomitata di Hunk a riscuoterlo dallo scanning e farlo tornare al presente. Forse stava scongiurando il pericolo di una sua implosione.
- Confido nella vostra adattabilità ad ogni evenienza. – stava dicendo Shiro; con bonaria ironia, appoggiò la mano sulla spalla del pianista. - Ci siamo intesi, Keith.
L’imperturbabilità di questi andò in frantumi; con uno scatto rivolse l’indice accusatorio contro Lance, sibilando stizzito:
- È stato lui a cominciare!
Una gioia sadica gongolò nel cuore di Lance: essere sputtanati davanti a Shiro non lo lasciava indifferente, eh?   
- Oh, certo, - rivolse gli occhi al cielo, storcendo la bocca in uno sbuffo sarcastico. - Sono stato io a venirmi a importunare al banco da solo!
- Cosa c’entra adesso?! – un’ombra di rossore sdegnato raggiunse la punta del naso di Keith. - Era nei miei diritti di cliente!
- I clienti pagano quello che comprano!
- I clienti vengono risarciti, se quello che comprano fa schifo!
- Se vi interessa rimanere in questa stanza, prego entrambi di gestire le vostre discussioni in un momento qualsiasi del vostro tempo libero.
Ad interrompere quella schermaglia non servì ricorrere a urla o minacce: l’autorità di Shiro fece ritirare i due litiganti come paguri nel guscio. Bastava il suo sguardo per lasciare intendere che nessuna replica sarebbe stata accolta favorevolmente.
Lance deglutì insieme alla saliva il “fetido accattone snob” che stava per venire alla luce dalla sua gola; Keith si richiuse in un silenzio furibondo e incrociò le braccia sul petto.
Hunk e Coran furono gli unici a cercare di ridare vita e sonorità all’atmosfera con piccoli schiarimenti di voce.
- È umido, oggi, eh?
- Altroché! Un incubo per i capelli crespi!
- Eh, immagino.
Shiro li assecondò distrattamente; lanciò un’occhiata all’ingresso e poi all’orologio. Lo scambio riempitivo sul tempo ebbe tempo di proseguire fino alle caratteristiche del capello afro e alle impegnative cure che richiede. Lance si fingeva interessato pur di evitare qualsiasi contatto visivo con Keith, che nel frattempo era tornato al piano e ai suoi appunti.
- Deve arrivare ancora qualcuno? – domandò Allura.
Shiro si grattò la nuca, esitando. Sembrava che aspettasse che la porta gli suggerisse cosa dire.
- Comincia a farsi tardi. – sospirò, come arreso al suo silenzio. - Direi di cominciare.
Il gruppo si accomodò, prendendo posto sulle sedie; Keith rimase dove si trovava, limitandosi a deporre la matita sul leggio.
Shiro restò in piedi, appoggiato al pianoforte. Li guardò ad uno ad uno, prima di cominciare. Sul suo volto si intravedeva l’accenno di un sorriso, ma la piega dei suoi occhi accentuava la mestizia profonda che tutto il suo essere esprimeva.
- Vi ringrazio di essere venuti. – cominciò, - Ci sarebbero così tante cose da dire che non so nemmeno da dove cominciare. C’è sempre una certa emozione quando si sta per cominciare le prove di un’opera nuova. Sono emozionato anch’io. Forse più di voi.
Il Mainard ha un fascino unico anche per chi fa l’attore da tempo. Dopo un periodo di inattività e di ricerca, perché lanciarsi in un progetto sperimentale assumendo il ruolo di regista? Quest’audacia, per me, è necessaria. E per affrontarla, ho scelto voi. Magari siete curiosi o impazienti. Almeno, spero. – si corresse.
Un’ombra umile di timidezza lo portò a ridere; Coran e Allura gli fecero affettuosamente eco.
Dovevano conoscere Shiro abbastanza da sapere decifrarne le manifestazioni emotive.
- Nei prossimi sei mesi vi chiederò di vivere quest’esperienza con occhi nuovi e di impegnarvi con un’energia particolare. La stessa energia che mi impegno a restituirvi.
Lance sentì un batticuore da innamorato; una gratitudine entusiasta prorompeva in ogni fibra del suo corpo.
Già poteva figurarsi le scene più solenni: Lance, mi aspetto che tu scali un Everest infuocato per domani.
Ok, capo,  dammi il tempo di scegliere la biancheria intima adeguata e ci sono.

Se non fosse stata una prospettiva davvero imbarazzante, avrebbe levato il pugno al cielo esultando.
- Lo spettacolo è momentaneamente senza titolo, ma il copione è completo. Stasera vi verranno assegnate le parti e vi indicherò alcune letture preliminari.
Shiro recuperò una cartella azzurra (la stessa cartella che aveva portato con sé al colloquio della settimana precedente), appoggiata in mezzo alla distesa di spartiti sulla coda del pianoforte. Ne estrasse quelle che da lontano sembravano le pagine di un quaderno; erano ricoperte di una fitta scrittura caotica e grumose macchie di inchiostro, che aleggiavano controluce come spauracchi di pece. 
- La genesi di questo lavoro comincia circa tre anni fa… tutto nacque da un sogno. Ho intenzione di leggervene la trascrizione, così come io, a suo tempo, la lessi. – tacque. I suoi occhi scivolarono in silenzio lungo le righe prima di cominciare.
– “Siamo in un non-luogo dall’atmosfera gassosa e ovattata, come un quadro di Redon. Ci sono tulle colorati ovunque. Al centro della stanza c’è un ammasso di nuvole a forma di pianoforte. Un pianista lo suona in sordina; la sua musica è soffice e morbida.”
“Arriva un esploratore. Era sulle tracce di un nuovo continente. A bordo della sua nave, stava solcando l’immensità del Pacifico. Quasi gli sembrava di vedere qualcosa all’orizzonte… ma una tempesta improvvisa lo ha travolto. Al suo risveglio si è ritrovato lì, solo, in quello strano limbo.”
“Ci sono anche una giovane e un uomo. Questi raccontano la propria storia.”
“L’uomo era un illustre curioso del passato. Nei tempi antichi c’era ancora tanto da conoscere, da scoprire; un giorno un vulcano eruttò, e lui volle vederlo troppo da vicino.”
“La giovane era una ricercatrice. Stava per trovare una cura per una malattia neurologica molto rara, ma durante il suo esperimento decisivo, qualcosa andò storto.”
“Il pianista non parla, se non tramite il pianoforte. Quando è in ascolto resta in silenzio; se pensa, fa una musica di sottofondo. Se è un altro a pensare, lui dà voce ai suoi pensieri attraverso la musica.”
“Perché sono lì? La loro ricerca non può interrompersi. In quel limbo il tempo non scorre, le immagini della terra sono solo una vago riflesso in lontananza, ma non lo possono raggiungere. Tra loro è molto difficile farsi capire, non tanto per la lingua, ma perché vengono da epoche e luoghi talmente diversi che ascoltarsi  è un fastidio. Soltanto la musica riesce a conciliarli, ma senza essere mai decisiva.”
“È una bambina a trattenerli. L’uomo del tempo antico dice sia un oracolo. Pare che possa esaudire i desideri. Quando il tuo desiderio sta per realizzarsi, a volte sparisci, dice la bambina. È lei a scegliere se farti tornare. Lei renderà visibile il tuo sogno, mostrerà la via. Ma prima, la devi convincere che sia un sogno degno.”  
- Chi dovrebbe fare la bambina?  - intervenne una voce alle loro spalle.
Tutti si voltarono. Accanto alla porta, c’era il ragazzino biondo che subito Lance riconobbe come quello a cui aveva raccolto la spilla di Star Wars. Aveva già appoggiato a terra lo zaino, nonostante nessuno lo avesse sentito entrare.
Shiro era impallidito come Amleto di fronte al fantasma del padre.
- … Katie?! – balbettò.
Il nuovo arrivato aggrottò le sopracciglia e scosse la testa, agitando la mano in segno di disappunto.
- Preferisco Pidge.
- Pidge…? – ripeté Shiro. Sul suo sguardo sbarrato, le palpebre sbattevano nel codice morse oculare dello sconcerto.
E non era il solo; in educata perplessità, il resto dei presenti attendeva che qualcuno consentisse anche a loro di capire il motivo di tanto turbamento. Pidge doveva avere agito di impulso senza valutare le ovvie conseguenze dell’entrata in scena, perché subito si irrigidì.
- Ehm. Scusate. Sono in ritardo. Non volevo disturbare… Ho trovato… traffico.
- Non pensavo più che venissi. Avrei aspettato… voglio dire—
- Ho sentito una parte del discorso. – tagliò corto Pidge. Si avvicinò al resto del gruppo e si sedette sulla sedia vuota. - Penso di raccapezzarmi.
Shiro si schiarì la voce; gli ci volle qualche istante per decidere come riprendere il discorso.
- Ragazzi, lei è… Pidge. – annunciò infine, con leggera titubanza. - Fino all’ultimo non avevo ricevuto una sua conferma di partecipazione, ma non per questo è meno benvenuta.
Lance incontrò lo sguardo di Hunk, confuso quanto il proprio. Cercò di sillabargli “Di che sesso è?!”; lui si strinse nelle spalle. Non fu chiaro se fosse perché non sapeva come rispondere o non aveva proprio decodificato la domanda.
- Coran, tu sarai il curioso del passato. Allura, tu sarai la ricercatrice. Lance, tu sarai l’esploratore. – proseguì Shiro, mentre distribuiva a ciascuno una copia cartacea del copione. - Come ho accennato a qualcuno di voi, lo spettacolo sarà in parte un musical e per alcuni brani prepareremo una coreografia. Per quella, ci affideremo ad Allura e al suo vasto bagaglio di conoscenze nel campo della danza.
Lance non aveva bisogno di incentivi per rivolgere attenzione ad Allura; si beò del sorriso con cui rispose a Shiro e si concesse di fantasticare per un grappolo di secondi sul magico futuro in cui si sarebbe guadagnato anche lui il privilegio di essere guardato a quel modo.
Buono a sapersi, era pure ballerina… chissà come doveva essere in movimento.  Wow. Si sarebbe lasciato coreografare anche le ossa, da lei.
- Keith sarà in scena per tutto il tempo ed eseguirà i brani di sua composizione dal vivo. Per il supporto tecnico e sonoro, attingeremo alle risorse di Hunk.
Con la tenacia della patella allo scoglio, Lance si sforzò di rimanere concentrato sull’immaginaria sequenza di Allura che ballava per ignorare qualsiasi interferenza sgradita.
Ok, no, Hunk non era sgradito. Un cinque mentale se lo meritava. Ma niente balli.
- Pidge. – Shiro si soffermò sulla ragazzina e le offrì l’ultimo copione. Il divario di altezze era accentuato dal fatto che lei fosse ancora seduta, ma non ne sembrò per nulla intimidita; prese il blocco di fotocopie, continuando a sostenerne lo sguardo. Shiro sorrise. - Sono molto felice che tu sia dei nostri. Conto su di te. 
Pidge scrollò le spalle.
- Avrei preferito l’esploratore.
- Ah, temo che non sarei troppo credibile nel ruolo di bambina! – si intromise vivacemente Lance, che già si sentiva territoriale alla sola menzione del suo personaggio.
Keith ringhiò qualcosa tra i denti.
- Beh. Neanch’io. – sentenziò Pidge, acre.
***
 
Come chi non sa che vestito indossare per andare a un appuntamento, così il cielo non sapeva se coprirsi di nuvole o restare sgombro; senza sosta, un vento vivace sospingeva avanti e indietro carovane di ovatta bianca e grigia. 
C’era anche chi era totalmente immune all’indecisione della mattinata; nemmeno l’ombra di un dubbio offuscava le scintillanti certezze di Lance McClain.
Sarebbe riuscito a fare un ottimo lavoro? Non aveva bisogno della conferma di Clarokke. La risposta era più radiosa del volo delle rondini in primavera: certo che sì.
Un rinvigorito fervore per la recitazione e l'arte avvampava in lui come la Forza in un guerriero Jedi. Non esistevano più concetti come stanchezza, tre ore e mezza di sonno, turni al lavoro.
Aveva letto tutto il copione a tempo di record, consacrandovi molto del suo riposo. Già empatizzava con il suo alter-ego esploratore, casualmente uno spagnolo di origine. Ruminava gli intercalari che gli erano rimasti più impressi nell’attesa di farli suoi. Immaginava la cadenza della voce, l’andatura, le interazioni con gli altri.
A lui e al suo monologo ripensava, mentre di buon’ora inforcava la sua bicicletta.
Sulla strada ancora insonnolita, faceva capolino soltanto qualcuno tra gli eletti mattinieri. Lance respirò a fondo il profumo dolce e vanigliato di pastella nell’aria; salutò il Clarokke, lanciandosi a tutta velocità contro il vento.
Per entrare nel vivo della tematica, vi chiedo di leggere questi libri. Ovviamente non è obbligatorio... ma credo siano importanti per chiarirvi le idee.
Se fosse stato il suggerimento di una persona qualsiasi, si sarebbe avvalso del liberatorio sollievo dell’opzione facoltativa. Ma Shiro non era una persona qualsiasi.
Con tempismo provvidenziale, lo aveva avviato verso il cammino stretto e in salita del riscatto; per quella via si accedeva alla rinascita. Non poteva permettersi di non dare il massimo. Avrebbe stupito tutti, perfino se stesso.
La biblioteca più vicina era quella intitolata a Anne Bradstreet e si era di recente trasferita in un ex-carcere ristrutturato. La rigidità sinistra di ogni linea faceva ancora pensare a file squadrate di sbarre. L’intonaco giallo-banana della facciata e le bordature color mattone delle finestre non erano bastati a stemperare la struttura austera e marziale dell’edificio: lo facevano assomigliare a un ufficiale arcigno vestito come Twiggy.
Lance salì le scale a due a due fino all’ingresso principale, dove entrò baldanzoso. Teneva la mano in tasca, stretta tra la lista dei libri che gli occorrevano e le chiavi della bicicletta.
No, le sue fantasie sulla ragazza carina e giovane al banco le dovette accantonare. Non se ne fece davvero cruccio: era pur sempre un gentiluomo. Salutò con un sorriso cortese e molto intellettuale.
- Buongiorno. Vorrei prendere in prestito questi libri.
Mentre terminava la frase, presentò il foglio con un movimento fluido, appoggiandolo sul bancone.
La signora bibliotecaria lo scorse rapidamente. A colpo d'occhio, sembrò riconoscere qualcosa; scosse la testa. Si confrontò in severo silenzio con lo schermo del computer; lo interrogò con due click e un paio di colpi sulla tastiera. Scosse la testa di nuovo.
- Mi dispiace, li ha appena presi quel ragazzo. – spiegò, accennando all’utente con un movimento del capo. Lance seguì il movimento con lo sguardo e poco mancò che gli prendesse un colpo. Strizzò gli occhi, perché non poteva credere a ciò che vedeva; era impossibile sbagliarsi, visto che la sala era deserta.
Prima ancora di prendere forma, l’Atroce Sospetto divenne un’Amara Verità: seduto al tavolo di fronte al banco informazioni, Keith Kogane sfogliava i SUOI libri! È così, dunque, che la gente sana di mente finisce per credere che qualcuno li stia perseguitando?!
-  Siete studenti? Se vi conoscete, mettetevi d'accordo!
- Ma è una congiura!!!
Lance non sentì nemmeno il suggerimento conciliante della bibliotecaria; a grandi falcate, raggiunse il ragazzo come una furia e sbatté le mani sul tavolo.
– Sei ubiquo o che?!
- Ma è impazzito?! Silenzio!!
Keith sollevò un’espressione di sufficienza. Era così poco toccato dall’incontro che poteva dirsi sul punto di sbadigliare. Il massimo segno di scompiglio fu inarcare un sopracciglio.
- Ero qui prima di te. - gli fece notare, avendo cura di non alzare la voce.
Faticando a trattenere una conga di imprecazioni, Lance guardò l’orologio.
- Sono le otto e dieci! – esclamò, allibito. - Vuoi farmi credere che sei qui dalle otto spaccate per prendere in prestito proprio i libri che dovevo leggere io, quando non saresti neanche tenuto a spararteli?!
- Shiro ha detto a tutti di leggerli. – puntualizzò l’altro, appoggiando protettivamente una mano sui testi impilati alla sua destra, - E se tu non sei puntuale, sono cavoli tuoi.
- È PRESTISSIMO, SONO QUI IN PERFETTO ORARIO E—!
- Insomma, vuole darsi un contegno?! – lo rimproverò stizzosamente la signora del banco.
Contenersi era faticosissimo; il risultato che ottenne per finire la frase fu uno straniante falsetto sussurrato. Si sarebbe potuto definire in molti modi, fuorché intimidatorio.
- ... e poi io dovrei leggerli per primo, sono in scena!!!
- Lo farai appena li avrò finiti. - gli concesse Keith.
Lance avrebbe potuto vomitare lava e bile per quella faccia da schiaffi tutta appagata del suo trionfo; strinse i pugni immaginandosi di accartocciarvi il collo del pianista come un pezzo di pollo nell’alluminio, poi si sforzò di riprendere una parvenza di trattazioni diplomatiche.
- Non puoi leggerli tutti insieme, scegline uno e sgancia gli altri!
- Non mi fido. – il ghigno sul volto di Keith si accentuò in una sadica distensione. - Se ci metti una vita e poi non me li passi in tempo?
- IO COSA DOVREI DIRE, NON SONO NEANCHE SICURO CHE TU SAPPIA LEGGERE!
- Sai che ti dico? Li leggerò molto piano apposta!​
- COSA?!  HIJO DE—!!
- Adesso basta, o uscite immediatamente o chiamo la polizia!!!
La signora del banco sovrastò l’insulto di Lance e si alzò in piedi furente, indicando perentoria verso la porta.
Impietrito, Lance balbettò qualcosa di sconnesso, arrossendo di mortificazione; Keith, senza replicare, si alzò e raccolse i libri, infilandoli in uno zaino.
- Sentito? Piantala di fare casino! – infierì, scocciato, mentre si allontanava. - Te la sei cercata.
Per qualche secondo, l’ accumulo di imbarazzo, incazzatura e frustrazione furono tali e tanti che a Lance non fu possibile reagire. Gli occorse una scintilla di furore per scattare, rimettendosi in moto.
Si precipitò fuori dalla biblioteca, fiondandosi giù per le scale a rotta di collo; Keith aveva già fatto in tempo ad attraversare la strada.
Si portò le mani a megafono e urlò a pieni polmoni:
- KEITH KOGANE!!! SEI UN GRANDISSIMO BASTARDO!!!
Si voltarono tutti dall’Antartide in qua, tranne il diretto interessato.
- QUEI LIBRI LI FINIRO' PRIMA DI TE!!!
Soltanto a quella provocazione, Keith si voltò.
- E come pensi di farlo? – gli chiese, con un sorriso beffardo. - I libri ce li ho io.
- PENSI CHE QUESTA SIA L'UNICA BIBLIOTECA CHE ESISTA?!
Keith si strinse nelle spalle con noncuranza prima di salutarlo in maniera falsamente amichevole.
- Io comincio appena arrivo a casa. Ci vediamo!
Lance digrignò i denti così forte che per puro miracolo non se li scheggiò tutti.
- TE LA FARO' VEDERE IO!!! – sbraitò, ricambiando al saluto con il dito medio. - JODETE!!!
Una nuova, ardente consapevolezza si era aggiunta alle motivazioni di Lance McClain: non avrebbe mai e poi mai potuto permettersi di perdere contro quello stronzo di Keith Kogane.

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Capitolo 4
*** Tai chi and jazz ***


Una traccia acidula di mandarino aleggia tra le pareti verdi e il pavimento di linoleum.
La finestra aperta si affaccia sui rossi porpora e gli ocra del giardino.
Matt gli volta le spalle e non si muove quando lui entra nella stanza; guarda fuori.
Vorrebbe salutare, eppure entra in silenzio, come in un tempio. Lo sente sospirare.

« Malinconico tempo! Fascino degli occhi!
Piacevole mi è la tua bellezza di addio—
Io amo della natura lo sfarzoso appassire,
E i boschi avvolti nella porpora e nell’oro,
Alla loro ombra è ancora più fresco il soffio e il rumore del vento,
E il cielo è ricoperto di ondulata nebbiosità,
E il raro raggio di sole e i primi geli,
E le minacce lontane del bianco inverno.
»

Un brivido solenne lo ha lasciato senza fiato.
Non può sopportare tanta tristezza. Sorride.
- Che cos’è?
- Ma come? Non sai riconoscermi Puškin? – si finge scandalizzato, ma subito aggiunge, con aria furbetta: - Me l’ha passato il figlio del nonnetto della stanza accanto. Neanch’io avevo mai letto niente!
Matt ha solchi grigiastri e gonfi attorno agli occhi che risaltano sul colorito terreo, ma il suo sguardo è pieno della luce autunnale.
- È molto bello.
Prende una sedia, gli si accomoda accanto. Osserva le foglie variopinte che gli alberi offrono al cielo, cercando di ricostruire nella memoria i versi appena declamati.
Matt tiene in grembo il libro: lo sfoglia, ne accarezza le pagine, sfiora qualcosa che lo incuriosisce. Poi, lasciando andare il pensiero come un animale selvatico, riapre casualmente, avanti o indietro.
- Sai, stanotte ho fatto un sogno. – dice, interrompendo per primo la quiete. – Era una bella storia. Non come quella del mio alter-ego che non sa contare e che muore investito da una bicicletta.
Come dimenticare quella tragedia delirante ad atto unico? L’aveva scritta a diciassette anni, era stato il primo e unico spettatore del monologo. La risata che gli sfugge è divertita, ma un po’ malinconica.
- Di cosa parlava?
- Era incasinato. – Matt aggrotta le sopracciglia e la sua fronte si arriccia in una fisarmonica di sforzo. – Lo scriverò, così potrai leggerlo. Potrebbe diventare un bel copione!
E poi che successe?
La scena diventava confusa. Suoni, spazi, parole, colori; tutto si liquefaceva in un amalgama sporco.
Di che parlarono? A che spettacolo stava lavorando, lui? Aveva già iniziato a raccontargli le avventure di Odisseo per farlo dormire?
La voce di Matt ancora risuonava nitida, viva. Era una canzone amica, conosciuta da sempre. Aveva accompagnato ogni suo passo; la sola reminescenza era un conforto. Un rifugio.
Sai, Shiro… la vita delle idee è un fiammifero acceso. La fiamma sospesa nel vuoto rischiara la notte quanto basta per intravedere qualcosa innanzi.
Ce la si passa di mano in mano, nel tentativo di avanzare.
Puoi scottarti, puoi rimanere al buio.
Non si torna indietro, però. Mai.
La Fiamma del Genio non si riesce ad estinguere.
C’è sempre qualcuno che la riaccende. Deve esserci.
L’incendio che verrà appiccato non porterà distruzione, ma rinascita.
Il Sognatore lascia tante volte che il suo cuore si infranga. C’è chi ne raccoglie i cocci…

Shiro riaprì gli occhi.
Il riflesso lo guardava con occhi estranei; era rimasto soltanto il respiro a ricordargli di essere vivo.
Lo spirito è il generale, il corpo le sue truppe, pensò, mentre accoglieva il pugno destro nella mano sinistra.
La sequenza cominciò.
Per Shiro il Tai Chi era più di un allenamento; era una battaglia contro le ombre e contro se stesso.
Di continuo, gli spettri erano in agguato. Incombevano alle sue spalle, gli ghermivano la gola, gli schiacciavano le vertebre con catene di piombo.
(« Malinconico tempo! Fascino degli occhi! »)
Doveva seguire vie arcane di energia per rigirarli tra le mani. Sgusciava via dalla loro presa; tornava eretto. Fluido, gentile. Fili di seta srotolati da un bozzolo, acqua di fiume che scorre placida. Stabile come la montagna, leggero come la piuma – così avrebbe dovuto essere.
Piacevole mi è la tua bellezza di addio—
Io amo della natura lo sfarzoso appassire,
»)
Tutto avveniva in sincronia: i passi che ruotavano sospinti dal dondolio del corpo. Le spirali disegnate nell’aria dalle mani, lo sfiorarsi dei polsi.
E i boschi avvolti nella porpora e nell’oro,
Alla loro ombra è ancora più fresco il soffio e il rumore del vento,
»)
Non una sosta, non un’interruzione. Nessuna immobilità. Le gambe erano radici mobili, flessuose, che mai si stancavano di danzare.
E il cielo è ricoperto di ondulata nebbiosità,
E il raro raggio di sole e i primi geli,
»)
Le ombre infuriavano, ma finché un flusso costante guidava le sue braccia e le sue gambe, tra pieni e vuoti, erano impotenti contro di lui. Ne trattenne un colpo; spinse innanzi un pugno e poi lo ritrasse.
Poteva quasi vivere l’immaginario della sequenza come se lo affrontasse di persona; lo specchio generava i suoi avversari. Ricacciò indietro la ferocia della tigre; un carcere di roccia dura era il posto della belva.
Lo specchio voleva riportarlo al presente, ma lui avrebbe resistito.
Il presente era una palude di ricordi. Ecco, la gru aveva disteso le ali.
Bisognava andare avanti. Si inchinò a recuperare aghi nel profondo del mare.
Non si poteva tornare indietro…
(Credo che sarà il mio ultimo inverno.)
Il respiro si mozzò in gola.
I pensieri ruppero gli argini di ogni controllo e lo distrussero come fiume in piena.
Shiro si arrestò.
Appoggiò la schiena allo specchio e si lasciò scivolare a terra, esausto. Il vetro era gelido sulla pelle.
Richiuse gli occhi e attese che l’intensità del ricordo sfumasse in altro.
Qualunque cosa. Una risata, un sapore dolce. Un tramonto. Un viaggio. L’adrenalina che tendeva ogni suo passo prima di andare in scena. Gli applausi.
Nel momento in cui inizi a parlare, tu sei Atlante, il mondo è sulle tue spalle.
Sì. Così gli diceva Matt.
Qualcosa, sulle sue spalle, sembrava che ci fosse rimasto, nonostante avesse preso la decisione di non salire mai più sul palco.
Il campanello squarciò il silenzio con uno strillo metallico. Trasalì, distolto bruscamente dal giogo di quelle riflessioni.
Si avvolse un asciugamano attorno al collo e andò ad aprire al suo inconsapevole salvatore.
- Keith.
- Disturbo? – fu quello l’unico convenevole in cui il ragazzo si dilungò; la premura di annunciargli il suo messaggio era troppa per aspettare una risposta: - Ho finito di modificare il tema della bambina.
Shiro non si sorprese; aveva le sue ragioni per non trovare quella visita del tutto inattesa.
- Accomodati.
Non c’era bisogno di fargli strada: era di casa da tempo, ormai, e conosceva gli spazi come fossero in parte anche suoi.
Il corridoio d’ingresso sfociava su un soggiorno ampio e spoglio. Un lato lungo della parete era coperto da uno specchio, in cui si rifletteva il drappo etnico color mattone che occupava quella di fronte. Tra le pieghe della stoffa grezza, si intravedevano tracce di soli slavati. Accanto a questo sipario improvvisato, stavano gli unici mobili della stanza: una tastiera elettronica e due sedie.
Quello era l’angolo di Keith.
Con la naturalezza di due coinquilini, uno si diresse in cucina a bere, mentre l’altro raggiungeva il suo piccolo feudo.
- Ti allenavi?
A Shiro bastava ascoltare i rumori per figurarsi ogni gesto di Keith, come se non avesse mai lasciato la stanza. Il fruscio della giacca, abbandonata sullo schienale della sedia. Il tonfo dello zaino a terra; il ronzio stridulo della zip difettosa che si apriva. Lo stropiccio della carta del quaderno.
- Provavo. – sospirò. - Ci vorrebbe la mente sgombra. Vuoi qualcosa?
Keith non rispose subito. Probabilmente stava rileggendo le sue ultime annotazioni.
- Sono a posto. – sentenziò distrattamente.
Prima ancora che Shiro ritornasse dissetato, una musica brillante aveva già riempito l’aria. Una marcetta di archi briosi, spensierati, intreccio tondeggiante di arpeggi. Ecco un glissando sui tasti, come burro spalmato su una tartina, e poi… una distensione. Il tempo si dilatava, facendosi più elegiaco e sognante. A Shiro balenarono davanti grappoli di nuvole del cielo primaverile. Trattenuto dall’incanto della visione, quasi non si accorse che la musica era cessata. 
- Mi piace molto, - fu il suo primo, spontaneo commento. - Ma la vorrei più cantabile. – soggiunse. - Puoi snellire la prima parte?
Keith aggrottò le sopracciglia e si incupì. Shiro conosceva bene quello sguardo: era la risposta immancabile a qualsiasi osservazione sulla musica. Detestava che gli venisse richiesto di modificare le sue composizioni. Con quella, era già la seconda volta che capitava. Nel momento in cui presentava un lavoro al committente, per lui era già perfetto. Se non lo fosse stato, non si sarebbe nemmeno preso il disturbo di farsi vivo.
- È cantabile. – ribatté, piccato. - Basta scriverci le parole.
- Più bambinesca. – insisté Shiro, cercando nei suoi archivi uditivi qualcosa che potesse rendere l’idea. -  Tipo… le Nursery Rhymes.
Quasi la sola parola emettesse cattivo odore, Keith arricciò il naso.
- Banali. Abusatissime.
Poteva essere più rilassante la prospettiva di arruolarsi nella legione straniera che sostenere una polemica sui cliché contro Keith Kogane.
- Ok, senti. Fallo come ti pare, la voglio meno da cabaret.
- Da cabaret?!
- Più semplice. – si corresse, tentando di suonare accomodante, almeno nella scelta dei termini.
L’unica risposta a riguardo fu una piccata e linearissima esecuzione di Twinkle, Twinkle, Little Star.
 Shiro era combattuto se scoppiare a ridere o inzuccarlo sulla tastiera.
Senza neanche mettersi d’accordo, si erano divisi la scena di Amadeus in cui Giuseppe II critica alla musica di Mozart di avere “troppe note”.
Scosse la testa e si premette la fronte sul palmo aperto.
Le idee chiare che aveva non compensavano la sua mancanza di teoria e gergo tecnico. Era difficile intendersi a intuito quanto spiegare una poesia in una lingua che si conosce a mala pena.
Fermo, riprova. Esci da Giuseppe II.
 - Questo personaggio è un mistero estroso e insondabile, ma ha un’essenza giocosa e ingenua. Come una bambina vera, appunto. Non deve essere troppo costruita, troppo adulta, quell’allegria. Era questo che intendevo.
Keith si concesse un momento di riflessione, prima di annuire. Ancora non era convinto, ma non c’era sarcasmo in lui quando rispose:
- Tenterò.
Shiro sollevò il pollice in un cenno di “ok” e respirò sollevato.
A volte, con Keith, gli sembrava di avere a che fare con un cavallo riottoso. Rifiutava selle e padroni, briglie, regole, convenzioni; rispondeva soltanto al suo orgoglio.
La musica non aveva ingentilito il suo animo, ma lo aveva aiutato ad erodere la pietra che lo teneva attaccato al resto dell’umanità, scavando attorno a lui un recinto elitario: era diventato un’isola.
Lui era il solo da cui, talvolta, accettasse di lasciarsi guidare. Da quando si erano conosciuti, gli aveva progressivamente dato fiducia. Quella docilità era così inaspettata che finiva più per meravigliarlo che lusingarlo.
Keith si era subito rimesso al lavoro: smontava gli accordi, li rallentava, ne dilatava la durata col pedale, li macchiava di semitoni. Concentrato sui suoi appunti, li fissava quasi potesse perforare la carta.
Nonostante la gratitudine per quell’impegno, Shiro sapeva che non poteva limitare la loro conversazione allo spettacolo. C’era “altro” di cui parlare. Ed era anche importante.
Sperava che non dovesse partire tutto da lui; si rese conto ben presto che non aveva altra scelta.
- Keith. – cominciò, in tono fermo. - Sei venuto solo per farmi sentire le correzioni?
Le dita irrequiete si congelarono in posizione sulla tastiera. Si distesero, lentamente, poi ripresero a suonare.
Così come la gente cambia argomento per evitare le tematiche scomode, lui aveva attaccato con un pezzo che non c’entrava nulla con quello di prima: un’improvvisazione di Errol Garner, She’s funny that way.
Shiro si chiese, come in passato, se pensava davvero che potesse funzionare come diversivo.
Si schiarì la voce.
- Ho parlato con Joe. Ti ha licenziato di nuovo. – continuò, andando dritto al punto. - Tre giorni fa.
La canzone proseguiva, noncurante, sorda alle sue parole.
- Il giorno stesso in cui hai ricominciato.
La melodia si interruppe bruscamente; una manata rabbiosa pestò sui tasti, generando un chiasso di note.
- È stato un incidente! – Keith scattò sul sedile, staccandosi dal pianoforte. - Ho soltanto suonato DUKE ELLINGTON invece dei Beatles!!!
Shiro avvertì distintamente l’oscillazione involontaria del sopracciglio destro.
- Come puoi definire “incidente” non rispettare la scaletta che ti ha detto di seguire?
- Quello cretino di Joe Marmellata, cosa vuoi che capisca la differenza?!
Joe Jann era stato ribattezzato da Keith “Marmellata”, forse per il colorito da fragola matura delle guance cascanti e del naso tondo e butterato. Era il proprietario del ristorante Chérie, raffinato locale di un borgo ottocentesco nel centro storico di Dandyville.
Anche se era uno chef, Joe aveva una grande passione per la musica. Vantava di essere stato un virtuoso del pianoforte, in gioventù. Gli piacevano Rossini, Elvis Presley, i Beatles. In memoria di questo, nel suo ristorante si allietavano gli ospiti con musica dal vivo da lui accuratamente selezionata.
Keith aveva lavorato al Chérie resistendo per un mese e mezzo; la seconda volta, era stato Shiro a farlo riassumere, approfittando dell’amicizia con Joe e mettendoci una buona parola.
A quanto pareva, tutta l’arte retorica e persuasiva che aveva impiegato non era stata sufficiente per mantenere a Keith il posto per più di otto ore.
- L’unica condizione che aveva chiesto “Joe Marmellata” per riassumerti, era che questa volta tu ti attenessi alle sue direttive!
- Mi ha licenziato per principio, solo perché si è accorto che ho migliorato il suo programma schifoso!!! – sbottò Keith acidamente, incrociando le braccia sul petto.
- Keith, non è tuo, il locale! – proruppe Shiro, sull’orlo dell’esasperazione.
- Non puoi non far sentire almeno un pezzo di Duke Ellington tutte le sere!
 Come temeva.
Era convinto, come al solito, di avere agito nel pieno dei suoi diritti.
Un cavallo riottoso bambino, ecco la definizione completa.
Ogni forza gli scivolava via dalle ossa; avrebbe potuto afflosciarsi sul tavolo, inerte.
Sospirò, sconsolato.
– Lo sai che non ti riassumerà ancora, anche se torno a parlarci, vero?
Keith abbassò il volto. Sdegno e disprezzo crepitavano ancora nel suo sguardo impetuoso, ma doveva essere inibito all’idea di esagerare. La presenza di Shiro era un freno fisiologico ai suoi eccessi.
- Shiro… mi dispiace. – dichiarò, con visibile sforzo. - Non pensavo che se la prendesse così tanto. Ho cambiato soltanto un brano. Avrei… dovuto fare più attenzione.
E quello era il massimo che si poteva ottenere dalla auto-consapevolezza di Keith. Fare ammenda, però, non era lo scopo ultimo del discorso.
- Non dovrei spiegarti io quanto sia sciocco questo atteggiamento.
- Joe Marmellata si crede dio in terra e non sa un cazzo.  
– Ti aveva dato una possibilità, almeno.
Shiro carbonizzò sul nascere l’acidità di quel commento con un’occhiataccia laser; Keith se ne rese conto e chinò nuovamente il capo, questa volta genuinamente mortificato.
- Scusami. – mormorò. - Crearti problemi era l’ultima cosa che volevo.
- Non è a me che hai creato problemi… è a te stesso. – precisò Shiro, con tono più morbido. Gli appoggiò una mano sulla spalla e lo invitò a guardarlo. - So che hai bisogno di un lavoro. Sei un pianista eccezionale, non dovrebbe essere un problema trovarne uno… eppure ti ostini a fare di testa tua. Vorrei poterti aiutare, ma non è facile.
Sulla stanza cadde un silenzio avvilente. Keith rimase immobile a fissare le punte delle dita rivolte al soffitto, inerti sulle proprie ginocchia.
Shiro si grattò la nuca per alleviare un prurito immaginario. Avrebbero potuto rimanere anche per giorni in quel cupo stallo dialogico; fortunatamente per entrambi, si era preparato.
- Prova a contattare Ulaz. – propose. - Prima lavorava in un’agenzia di collocamento, adesso si è messo in proprio e trova sostituzioni all’ultimo momento nelle orchestre o nelle esibizioni live. È difficile che ti chiami per più di tre serate. – prese un mozzicone di matita appoggiato al leggio e gli scrisse il numero su un angolo della pagina del quaderno. – È comunque meglio di nulla, mentre cerchi qualcos’altro.
Sapeva che per Keith ringraziare era faticoso. Dalla sua isola di orgoglio selvatico e indomabile, giunse solamente il suo sguardo a scusarsi si nuovo, con tristezza e riconoscenza. 
- Lo farò.
Non resistendo oltre al silenzio, tornò alle correzioni del tema della bambina; riprese il brano dalla metà migliore e la eseguì di nuovo, più lentamente.
Shiro si sentì in dovere di alleggerire l’atmosfera, perché non finisse per gravare troppo su entrambi.
- Ti sta piacendo, almeno, lavorare al progetto per il Mainard?  
- Lavorare con te mi piace. – rispose Keith, indugiando per qualche secondo sulla durata di un accordo. - È la gente, il problema.
- Quello del teatro è un lavoro di squadra.
Keith fece spallucce, con un’espressione di sufficienza.
- Alla fine, io devo solo suonare. Mi va bene così.
- Non direi proprio. – lo corresse Shiro benevolmente. - Sei in scena tutto il tempo e dai voce all’interiorità degli altri.
- Già. – una smorfia di biasimo increspò le labbra del pianista. Parte del disprezzo si riversò sulla musica, che improvvisò un tema cinico, canzonatorio. – È così che funziona. Gli altri parlano. Io suono. Non funziona invertire i ruoli. Loro credono di conoscere la musica, ma non è così. E io odio parlare. È un casino e una perdita di tempo. Ognuno faccia quello che sa fare.
Non era la prima volta che Shiro ascoltava quel tipo di rigurgiti misantropici e individualisti. Sapeva che era inutile cercare di opporvisi, ma assecondarli non era un’opzione che aveva mai accettato.
- Purtroppo per te, sono convinto che si possa imparare qualunque cosa. – lo punzecchiò con un dito sul fianco e lui sussultò per il fastidio. - Sopporta il casino e la perdita di tempo… è solo per sei mesi. Ed è tutta pubblicità.
Keith sorrise, scuotendo la testa. Le sue dita non conoscevano sosta, smaniose e sagaci; si lanciarono nel tema delle Mentos ed entrambi scoppiarono a ridere. 

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Capitolo 5
*** Ain't no brother ***


 
Perché, quando vuoi sapere come stia il tuo gatto, non puoi iniziare la conversazione al telefono con Ciao mamma, come sta Curie?, ma devi optare per Ciao mamma, com’è andato il matrimonio di Stacey?
Per lo stesso motivo per cui, nel problema di Erone devi determinare il percorso minimo che si deve compiere per andare da un punto A ad un punto B toccando una certa retta r esterna ai due punti.
Scusa, Erone, non si può passare da A a B direttamente? Di sicuro fai prima.
B, B, B! Sempre a pensare ai punti B! Non c’è altro, per te, nella vita? Con che valori ti ho cresciuto? Non te ne importa niente della retta r? Sei egoista, maleducata e insensibile!
Niente è mai così semplice.
C’è sempre una retta r esterna per cui sei obbligato dal problema a passare, anche se il punto di arrivo è altrove.
E allora, eccoci qui: tua cugina era molto dispiaciuta che non ci fossi, sapessi quant’era bella, ha scelto un vestito meraviglioso, bisognerà che guardi il video e che la chiami…
Pidge aveva messo il feedback assertivo automatico, mentre pensava a Curie, al suo nasino rosa e al cappuccio grigio che ricopriva testa e schiena del suo tondo corpo bianco latte.
(No, non “Curry”, come la miscela di spezie indiana, Curie come Marie Curie, sì, anche se era un maschio, e allora?)
La vita lontana da lui era straniante: nessun ruffiano che saltasse sul tavolo per riempirla di disinteressate testatine e casuali musate nel piatto. Nessun agguato ai lacci delle scarpe. Nessun cuscino vibrante che le venisse in grembo mentre studiava.
L’assenza di Curie era un vuoto incolmabile. La più abissale differenza tra Casa e un luogo estraneo.
- Sì, sì. – rassicurò sua madre e picchiettò nervosamente la sigaretta.
La cenere si sbriciolò leggiadra e si confuse nella strada sudicia.
- No… niente di nuovo. Continuo a scrivere. Come sta Curie?
La mamma lasciò cadere una piccata pausa di silenzio. Bene. Mangia e dorme.
Non aggiunse altro.
Pidge avrebbe voluto che le raccontasse tutto quello che aveva combinato, ma a insistere l’avrebbe solo innervosita. Sua madre trovava immorale affezionarsi troppo agli animali: non puoi preferire un gatto alla tua famiglia, alla vita di altre persone, specialmente quelle più sfortunate.
Pidge aveva smesso di cercare di spiegarsi: non è che conta di più la sua vita, mi sta molto a cuore anche quella.
Come ogni persona segnata da tanto dolore, sua madre si era atrofizzata nelle sue rigidità. La filantropia era un dogma da perseguire e diffondere: aveva bisogno di partecipare alle miserie umane e sostenere ogni giusta causa a favore degli oppressi. Si nutriva del conforto che poteva offrire per sentirsi più giusta, più pulita.
Lasciò che cambiasse argomento e che parlasse di quello che desiderava: del tempo, degli zii, degli altri parenti, dei fantasmi dell’ospedale.
Lei taceva, respirava il fumo a boccate e poi lo cacciava fuori.
Nel marciapiede di fronte, un signore lavava il vetro di un negozio di scarpe; un odore pungente di detersivo alla lavanda arrivava fino a lei e si impastava nel naso a quello del tabacco. 
C’era qualcosa di gratificante in quei gesti fluidi; sulla matassa schiumosa tracciavano sentieri trasparenti. Tutto il superfluo, colava giù.
Ormai sul mercato esistevano persino i robot lavavetri, con potenza massima oltre i 30 W e una velocità di pulizia di 0,15 m/s…
- Sì, ti sto ascoltando. – mentì Pidge, distogliendo lo sguardo dall’ipnotico oggetto. - Il tempo qui è schifoso, ma finché non fa caldo, va bene.
Prendi anche un po’ di sole.
Metti la gonna.
Ce la fai ad andare al mare? Lo sai che manchi di vitamina D.
Pidge fece una smorfia.
- Se trovo il tempo.
Le sigarette lasciavano dentro una traccia appiccicosa di sporco grigiastro.
Perché si ostinasse a fumarne, poi… Persino queste, che dovevano sapere di ciliegia, erano nauseanti.
- Ora ti devo salutare.
Chiuse la conversazione e avviò Neko Atsume. Per oscuri e ingiustificati motivi, i gattini animati che venivano a mangiare, giocare e dormire in un cortile virtuale la rilassavano. Sperava che la aiutassero a sciogliere quella maledetta matassa di stoppa che si era avviluppata in gola e che la facevano sentire come un lavandino otturato.
- Non sei un po’ troppo piccola, per fumare?
Pidge sussultò: era l’Esploratore, seguito dal Tecnico-delle-luci.
Dei suoi colleghi non conosceva quasi nulla, se non le viscerali reazioni che il proprio istinto le suggeriva.
L’Esploratore era quello che le ispirava un’avversione particolare: non sopportava le persone invadenti. Aveva l’aggravante di comportarsi da montato e parlare sempre, per altro a voce altissima. Era abbastanza per non meritarsi nessuno sforzo di memorizzare il suo nome.
- E tu non sei abbastanza grande per farti i cavoli tuoi? – gli rispose acidamente.
- A cuccia, fratellone! – il Tecnico lo prevenì dal replicare a tono e subito si scusò: - È una sua deformazione professionale. Siccome ha tredicimila fratelli, quando fiuta un pericolo si fa subito una chioccia impicciona!
L’Esploratore gli mollò un calcio negli stinchi.
 – Con te la voglia mi è passata subito! E per la cronaca, sono sei fratelli e tre nipoti!
- Perché mi devi sempre prendere a calci a destra, non puoi alternare?!
Il Tecnico dava un’impressione molto diversa: goffo nei movimenti, gentile, sempre con la battuta pronta. La simpatia che esprimeva il suo sorriso sembrava genuina.
Avrebbe anche potuto essere associato a un nome, ma, quando si era presentato, Pidge aveva sentito “Trunk” e aveva rifiutato di credere di aver capito bene. Chiedergli di ripetere, in ogni caso, era fuori discussione.
- Perché non vieni a prendere un tè o un caffè al bar dove lavoriamo?
Il Tecnico Trunk non considerava ancora conclusa la conversazione; la domanda era rivolta a lei.
Tutta quella confidenza da parte di due ragazzi che aveva visto non più di due volte era inspiegabile.
Per non dire irritante.
- No, grazie.
- Ci sono sempre dei muffin al burro d’arachidi che sono oltre l’oltre del buono! – insistette il ragazzo. Il solo ricordo dei dolci dipinse un’espressione estatica sul suo volto, mentre univa il pollice e l’indice in una “O”. – Come fan del burro d’arachidi, non puoi perderteli!
La sorpresa prevalse sul fastidio di Pidge.
- Come fai a sapere che mi piace il burro d’arachidi?
- Uhm, me lo ha detto la pin più grossa del tuo zaino con su scritto “I LOVE PEANUT BUTTER”?
- Oh.
Tendeva a dimenticare che quelle spille potevano essere lette. Le esibiva come una pinacoteca di metallo, ma era abituata che la gente ne scorgesse distrattamente l’accozzaglia informe. Era per se stessa, non per il pubblico.
- È meglio un dolcetto delle sigarette!
Grazie, Esploratore.
Meno male che non hai perso la predica salutistica delle otto e diciassette post meridium.
Ricordandomi perché vi evitassi.

- Vi paga la campagna anti-fumo?
I due ragazzi scoppiarono a ridere, anche se Pidge non intendeva divertirli.
- Dici che dovremmo farci rimborsare questa chiacchierata igienica?
- Dovremmo chiedere una percentuale anche a Mechetti per la pubblicità al bar!
Il Tecnico si fece improvvisamente solenne, raddrizzando la postura e portandosi la mano destra sul cuore.
- Per quei muffin lo farei anche gratis! – poi tornò a rivolgersi a lei con un sorriso caldo: - Molti studenti vengono da noi a studiare, puoi venire anche tu!
- È vicino al teatro! – gli diede manforte l’Esploratore, illuminandosi come se avesse appena sentito l’idea più magnifica degli ultimi mesi, - Qua ci devi passare per le prove, no?
Pidge riuscì a tenere per sé la raffica di risposte al vetriolo che le salirono alla gola.
Sull’educazione riusciva ancora ad avere controllo, ma non sarebbero bastati lustri di addestramento per correggere la sua proverbiale socievolezza di ghianda.
- Beh… io a dire il vero...
Una scusa, un rifiuto cortese o accenni evasivi non furono necessari: il Tecnico la dispensò dallo sforzo, forse rendendosi conto che non la proposta non l’aveva entusiasmata.
- Pensaci con calma. – ebbe anche la premura di cambiare argomento, con grande naturalezza: - Da quanto tempo reciti?
- Ho iniziato quando ero bambina. – rispose lei, di malavoglia, - A metà del liceo, ho smesso.
- Hai l’esame finale quest’anno?
Il sopracciglio sinistro di Pidge ebbe un guizzo nervoso.
- Sto scrivendo la tesi di laurea.
Gli occhi dell’Esploratore e del Tecnico si sgranarono di incredulità fino a diventare grandi il doppio; si guardarono tra loro e aprirono stolidamente la bocca, senza emettere suono.
Poi iniziarono i balbettii:
- Oh… ah… eh…
- Sai, sembri… più…
- Lo so. – li interruppe bruscamente, con la voce più asciutta di un deserto di sale.
Nessuno dei due proferì altro sugli studi. Sarebbe stato meno faticoso e imbarazzante per tutti se la conversazione fosse terminata, ma ancora non volevano darsi per vinti.
- Quindi hai fatto teatro con Shiro?
- Lo conoscevo da prima. – sapeva che non se la sarebbe cavata con così poco, così anticipò le risposte successive: - Lui e mio fratello erano compagni all’accademia. Hanno lavorato insieme da sempre. 
- Wow! Complimenti! Sei praticamente figlia… no, sorella d’arte!
Lasciò cadere il discorso.
***
 
Antico: Giovanotto, è una matassa ingarbugliata, con quella dal labirinto non si esce.
Ricercatrice: Il tempo passa… o forse non più?
Esploratore: Terra vedevo! Terra, vi giuro… potrei disegnarvela.
Antico: Eh, Odisseo, Odisseo… seminò il sale pur di non partire, ma nemmeno dopo anni di patimenti riuscì a fermarsi. Forse sei giunto nella terra senza remi.
Esploratore: In mezzo alla tempesta la scorsi… l’isola degli Uccelli! La mia Nefelokokugia! La sua schiena di gobbo dormiente, riversa sull’orizzonte.
Ricercatrice: Ah, eccola. Ritorna!
Esploratore: Chi?
Ricercatrice: Lei… la custode.
Antico: È una dea antica. Creò il mondo, ma mai vi mise piede. Lo sogna solamente.
(entra la Bambina; il pianista accenna il Suo Tema. Ha in braccio tanti veli, vestiti e sciarpe colorati; li porta malamente, ne dissemina molti dietro di lei. Ne appoggia un po’ sul pianoforte e comincia a rimirarli.)
Esploratore: Mia signora... ditemelo, se potete, vi prego. Dove mi trovo? Ricordo solo che, ad un tratto, infuriò una tempesta tremenda. Un fulmine fu così accecante da stordirmi. Non saprei neanche dire se presi fuoco. Forse sono morto?
Bambina: (alla Ricercatrice, porgendole un lembo di tulle) Vestimi come una principessa. O come una farfalla. Voglio volare!
Ricercatrice: Vuoi fare la fatina?
Bambina: Sì! (si mette a canticchiare, accompagnata dal pianoforte)
Voglio volare, volare, volare
Come la nube, la nube, la nube.
(si accorge dell’Esploratore solo in quel momento) Ciao. Chi sei?
(Parte la Prima Canzone: “Nefelokokugia”)
Esploratore:
Dormi figliolo,
Non hai da cercare,
Questo orizzonte
è sabbia tra dita…

- Io la gonna non me la faccio mettere.
I personaggi, con un sussulto, si congelarono sulla scena.
Bastò un istante e tornarono gli attori; si volsero perplessi verso chi aveva interrotto l’illusione.
Pidge si sentì l’imbarazzo e lo sdegno infiammarle le guance. Ma era fatta: anche a costo di passare per la capricciosa prima donna di turno, non era disposta a tacere. Se ne sentiva in diritto come se lo spettacolo le appartenesse.
- Questa bambina mi dà sui nervi! È stupida! Perché va a chiedere proprio alla Ricercatrice di vestirla? Se non ha mai visitato il mondo che differenza le fa? Può andare da chiunque, anche dall’Antico!
- È chiaro che la bambina ricerca nella donna adulta una figura materna in cui rifugiarsi. E poi, la battuta successiva è della Ricercatrice.
Allura, con l’eleganza della sua dizione britannica e le sue vocali chiare e pulite, tentò benevolmente di placare lo sfogo. Pidge se ne sentì ancora più irritata.
- La battuta la puoi dire anche senza vestirmi.
- Potrei drappeggiarti addosso un peplo di tulle. - Coran sembrava aver gradito l’idea di essere investito della vestizione. - Non è proprio una gonna, ma nell’antichità—
- È proprio necessario che appoggi la roba sul pianoforte? – lo interruppe Keith, scocciato. Si era alzato in piedi e aveva afferrato un lembo del tulle più vicino, come se non vedesse l’ora di levarlo dalla preziosa superficie d’appoggio.
- Oh, che palle, ci mancava giusto lui.
Lance rovesciò gli occhi al cielo. Il commento era stato fatto a voce talmente alta che nessuno dubitò che si trattasse di deliberata provocazione.
- Sta’ zitto! – Keith si stizzì immediatamente e il tulle ne fece le spese: fu lanciato in aria e si afflosciò a terra con la grazia di una razza in un acquario. - Tu, specialmente, non ti puoi appoggiare! Ci lasci le ditate!
- Stai insinuando che ho le mani sporche?! 
- Tu l’hai detto!
Shiro era al limite della sopportazione: si era alzato in piedi e teneva gli occhi chiusi, la bocca tirata nello sforzo di dominarsi e i muscoli sopraccigliari in evidente tensione.
- Ragazzi. – la parola fu scandita con ruvidezza, - Per favore.
- Il registro linguistico non è un po’ aulico, Shiro?
- Sì, per essere un testo nuovo ci siamo fatti tutti un’overdose di Shakespeare…
- Il testo è scritto come è scritto!
Shiro aveva rimarcato il concetto alzando la voce con violenza inaspettata: la livida severità che gli inaspriva lo sguardo privò chiunque del coraggio di proseguire con le obiezioni: tutti sembrarono farsi piccoli dentro un guscio invisibile.
- Keith, il pianoforte è un oggetto di scena, dovrai sopportare che la gente ci si appoggi. - sentenziò deciso Shiro, una volta che fu sicuro di avere ripristinato l’ordine; - Pidge, il tuo personaggio è una bambina e, come tale, è femminile e aggraziata nei modi.
- Come se tutte le bambine fossero così. - replicò lei, sprezzante.
Non era intimorita né dal tono né dal ruolo, una rovente sete di giustizia la faceva sentire come se fosse stata più alta di lui.
- Dovrei avere il diritto di scegliere come interpretarla. Non sopporto quelle robe stucchevoli che sono scritte tra parentesi! La fai sembrare una demente!
- Se avessi letto tutto il copione, ti renderesti conto che non è sempre così. Ha un’essenza praticamente eterna, un’incredibile forza carismatica…
- Proprio perché l’ho letto, non capisco perché debba fare la bambina anche se ne ha l’aspetto! E poi, è proprio essenziale che sia femminile?!
- Sì, lo è!
Pidge conosceva bene quel tono. Dall’alto veniva lanciato un monolita che si schiantava nelle conversazioni per stroncarle come una perdita di tempo indesiderata.
Non hai ragione, stava inciso sul macigno.
Stai zitta.
Non ne sai niente.
Non sei tu a decidere, quindi basta.
Firmato: Io Sìchehoragione.
Nulla da scalfire.
Nulla da smuovere.
Probabilmente era così che avevano costruito Stonehenge.
- Ora, statemi bene a sentire. Non possiamo perdere tutto questo tempo a discutere. Se avete qualche perplessità, possiamo parlarne, ma è essenziale che siate precisi nell’eseguire gli spunti del vostro personaggio e vi atteniate al testo. Per me è fondamentale.
Sì, certo, il testo. Come no. 
Assecondare le sue pretese, semmai.
Perché si era lasciata incastrare?
Recitare non le piaceva più. Disciogliere se stessa in un’entità costruita a tavolino aveva cominciato ad essere uno sforzo insopportabile. Di ruoli se ne devono ricoprire fin troppi; parti distribuite per aspettative altrui, per sentito dire, per ignoranza, per educazione. 
Matt se n’era accorto prima di chiunque altro. Non aveva obiettato quando aveva annunciato che voleva smettere. Aveva sempre capito tutto, di lei, con naturalezza: era l’unico a non la farla sentire un essere enigmatico, assurdamente pretenzioso, perennemente fuori posto. Gli bastava ascoltare. La lasciava libera di essere chi voleva, come voleva.
Non si sarebbe trovata lì, se il copione non l’avesse scritto Matt. Eppure, anche davanti all’ultima possibilità di partecipare alla messa in scena della sua ultima opera, non era disposta a piegarsi alle presunzioni di una persona che non era l’autore.
Concentrò su Shiro tutto il suo disappunto e la sua rabbia, incurante del fatto che anche lui la stesse guardando.
La fermezza di lui sembrò incrinarsi sotto il peso del tacito rimprovero.
Fu il primo a distogliere lo sguardo.
- Cinque minuti di pausa.


- Grazie per avermi aiutato a sistemare. - Hunk si caricò il grosso cavo arrotolato sulla spalla, mentre con la mano libera si sistemava la borsa a tracolla. - Con te ci vediamo dopodomani, Pidgey! O domani, se passi al bar dalle sette alle due. E noi al cambio della guardia, Lance.
Pidge sorvolò sul soprannome stucchevole e si sforzò di ricambiare il sorriso. Hunk era troppo carino per meritarsi polemiche. Se era fortunata, se ne sarebbe dimenticato.
- Buona notte.
- Cia’, Hunk. Salutami la tua bella.
Il tecnico trotterellò fino alla porta, l’aprì con un calcio e si affrettò a varcarla, canticchiando tra sé le note di Don’t Stop Me Now dei Queen.
Lance si stiracchiò e si portò le mani alla nuca con un sospiro.
- Che invidia fottuta. Avere una ragazza che ti viene a prendere in macchina!
Che invidia fottuta. Lui è già fuori di qui.
- Lo viene a prendere sempre, a qualsiasi orario. Sono due piccioncinelli di primavera. Da cinque anni!
- Hm.
Pidge infilò il copione nello zaino con la matita ancora dentro e richiuse in fretta la zip. Quella giornata sembrava durare da mesi. Non vedeva l’ora di tornare al dormitorio.
Anche se adesso ricordava di essere in presenza di un individuo di nome Lance, non significava che in quelle ore avesse scalato la classifica delle sue persone preferite. Eppure, a dispetto della logica, lui e le sue acute osservazioni su cose di cui non gliene fregava un emerito cappio, continuavano a seguirla.
Quando l’aria della notte le sfiorò il volto, la speranza della rinascita la rianimò come una pianta a cui viene dato da bere. Inspirò a pieni polmoni e sorrise, pensando alla mezz’oretta silenziosa di camminata che l’attendeva. Avrebbe raggiunto casa, bevuto un latte al cioccolato per cena e lavorato sul suo framework implementato in Python almeno fino alle quattro.
Ora, buona notte a tutti e…
- Tu come torni a casa?
… E prima di partire si aspettava con pazienza di essere liberata dagli ultimi convenevoli.
- A piedi.
- Eh? Ma non hai detto che abiti lontano?!
Sempre se qualcuno si rassegnava a lasciarla alla sua passeggiata notturna e alla sua meritatissima notte al computer.
- L’ho già fatto altre volte.
- Ti accompagno.
- No! – a Pidge la voce sfuggì con un po’ troppa veemenza. Si schiarì la gola e tornò a una tonalità neutra. - Non mi è mai successo niente, è tutto ok!
- Sono in bici, ho dietro un sellino.
- Lascia stare, davvero!
- Guarda che se ci entra Hunk... Più o meno. No, più meno che più. Non riesco a pedalare davvero con lui dietro. Insomma, ci dovresti stare quasi comoda!
- Ti ho detto che non c’è bisogno!
- Non mi sento tranquillo a farti andare da sola! Sarebbe come mollare una sorella minore in giro di notte!
Lo stomaco di Pidge si improvvisò trapezista e si contrasse in una capriola dolorosa.
C’era un motivo per cui gli organi interni non erano fatti per intraprendere la carriera circense.
- Non sono tua sorella!
Il suo scatto stizzito fu una ghigliottina. Ad ogni suono fu recisa la testa. Il silenzio, gelido e imbarazzante, venne interrotto soltanto dal ronzio di qualche motore che sfrecciava in lontananza, perdendosi nella notte.
- Ok. Era… un esempio. Per dire. – farfugliò Lance. Si vedeva che era indispettito, ma fu la mortificazione a prevalere: - Scusa.
Pidge si sentiva la faccia e i polmoni andare a fuoco.
Sembrava che la sua voce stesse echeggiando per tutte le strade della città. Non avrebbe voluto urlare. Né maltrattare una persona, per quanto antipatica, e trovarsi innanzi a quell’espressione da lesso che la faceva sentire in colpa. Avrebbe solamente voluto essere lasciata in pace.
Avrebbe dovuto laurearsi, studiare ancora, vivere la vita come capitava e rassegnarsi al fatto che Matt non era più neanche in quello che restava dei suoi scritti.
- VAYA MIERDA!!! HO DIMENTICATO DENTRO LE CHIAVI E IL COPIONE!
- Eh…?
Pidge fu strappata ai suoi pensieri da uno strillo apocalittico; non fu immediato mettere insieme tutti i frammenti di frase per intendere che cosa avesse causato l’isteria di Lance.
- Beh… valli a riprendere… non è ancora l’una, il locale è aperto.
Il giovane attore rispose afferrandole un braccio e guardandola con occhi mezzi fuori dalle orbite.
- Vieni con me.
- Perché dovrei?! - obiettò lei stizzita, cercando di divincolarsi.
Lance aumentò la stretta, lo sguardo smarrito e confuso, vicino al panico.
- Perché… perché… - deglutì. Non sembrava sapere come continuare la frase.
Si risolse per non farlo, ma la lasciò andare.
Appoggiò le mani ai fianchi e concluse con cipiglio deciso: - Beh, così dopo prendiamo la bici e ti riporto a casa!
- Hai problemi di udito? Ti ho già detto che…!
- QUEL CAZZO DI CORRIDOIO MERDOSO AVRA’ TUTTE LE LUCI SPENTISSIME.
- … mi stai… chiedendo di accompagnarti perché hai paura del buio?
- ACCOMPAGNAMI E BASTA.


Il Braun stava per chiudere: soltanto le luci rossastre erano rimaste accese, difendendo la sua inconfondibile atmosfera da quell’insolito vuoto di musica. I camerieri avevano iniziato a rovesciare le sedie sui tavoli, mentre il barista ripuliva il bancone.
Fu l’unico ad alzare uno sguardo torvo, quando Lance e Pidge varcarono la soglia.
Lance farfugliò che doveva recuperare una cosa; quello non si oppose e non chiese altro. Tornò a strofinare il bicchiere con scontroso zelo. Doveva essere stanco o abituato agli attori fuori orario. O entrambe le cose.
Vennero inghiottiti dall’oscurità del corridoio.
Il ragazzo avanzava a rilento, precedendola. Ripeteva tra sé un sussurro continuo, come un mantra Tercera puerta a la izquierda, tercera puerta a la izquierda…
In Pidge si scontravano uno spietato senso di superiorità e una divertita tenerezza.
- Quindi il tuo coinquilino ti deve accompagnare al bagno, di notte?
Lance la zittì, punto sul vivo; lo sentì agitarsi nel buio e ne intravide un gesto stizzito.
Bene.
Accompagnandolo poteva mettere a tacere il suo senso di colpa e guadagnare un ottimo argomento di difesa dalla sua petulanza.
Essere trascinata controvoglia nelle situazioni poteva rivelare dei piacevoli vantaggi strategici.
Lance si bloccò, sussultando: stava trattenendo il fiato. Delle voci ovattate provenivano dalla terza stanza a sinistra, a pochi passi da loro.
Si accostarono e Lance socchiuse appena la porta, senza far rumore: uno spiraglio di luce si stiracchiò debolmente fino a toccare la parete di fronte.
Pidge aveva riconosciuto le voci di Shiro e del pianista emo; Lance, però, non aprì la porta ma rimase in attesa, a fissarli. Gli tirò una gomitata, ma lui la ignorò. Si sporse anche lei a guardare.
- … non dovresti, però. - stava dicendo Shiro. Era l’unico dei due che riusciva a vedere in pieno viso: un sorriso mesto rendeva il suo volto più pallido e più stanco. - È un peccato.
Avvertì uno schiocco della lingua del pianista e uno sbuffo sarcastico.
- Che cos’è rimasto, alla fine, per cui valga la pena farlo? Non ha senso. Figurati se perdo tempo con queste scemenze.
- Beh, Ulaz ti ha richiamato, no? Prendilo come una specie di regalo.
Il pianista esitò. Un fruscio di fogli, lo scorrere fulmineo di una zip. Dei passi. Riuscì a intravedere il profilo del ragazzo. Teneva lo sguardo basso.
- … mi dispiace per la cosa del pianoforte. - soggiunse infine in tono sommesso. La sua voce sembrava rotta. Shiro gli appoggiò una mano sulla spalla. Accennò una risata leggera, piena di affetto.
- Se non ti lamentassi, come farei a riconoscerti?
Lo strinse in un abbraccio. Il pianista lo subì con inerzia, prima di ricambiarlo titubante.
E, probabilmente, sarebbero rimasti così a lungo, se Lance, forse nel tentativo di allontanarsi, non l’avesse calciata.
Toc. La gomma delle scarpe risuonò con un tonfo sgraziato sul laminato della porta.
Pidge si ritrasse di scatto, appiattendosi contro il muro. Per Lance era tardi.
Balbettò qualcosa a voce altissima. Spalancò la porta e si infilò dentro rapidamente, iniziando a sciorinare una stridula raffica di parole: - SCU—SCUSA, HO DIMENTICATO LE CHIAVONE E IL COPIAVI, ehm, l—le chiavi e il copione!
Per sua fortuna, non doveva averle abbandonate troppo lontane, perché in pochi secondi stava già facendo dietrofront; Shiro stava dicendo qualcosa, ma il suo saluto istericamente allegro lo coprì del tutto:
- CIVEDIAMOCIAO!
Lance fuggì così rapidamente che a Pidge sembrò di vederlo dall’altra parte del corridoio prima ancora di cominciare a correre.
 

 
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CHIACCHIERE FUCKOLTATIVE

Un grazie speciale a Kijomi, che ha iniziato a seguire Voltron e a leggere questa storia, e a LizHawk, che è stata così gentile da scrivermi <3
Grazie graziosi ai soliti noti che mi sopportano e a chiunque stia leggendo! 

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Capitolo 6
*** You jazz mad fools ***


È vero, sì, è successo,  
non vorrei, però persisto 
Ma finché io fiato avrò

Il mio cuore salperà!
Quanto mondo ancor non visto
Sparso in tutto il vasto Oceano!
Si fa polvere il ricordo
della Terra mia petrosa
Se mi vengono a cercare,
In gabbiano vo’ mutare!

 
- No, non di nuovo!!!
Lance strillò d’orrore.
Agognava la strofa successiva con tutte le sue forze, ma gli accordi ricominciarono, implacabili.
Da capo.
Per la settima volta.
- Mi esce da ogni orifizio! Basta!
Le mani di Keith piombarono sulla tastiera. Il rimbombo tanto cacofonico quanto esasperato annunciava l’imminente esaurimento della sua pazienza.
- Credi che io mi diverta?! – i suoi occhi si strinsero in due velenose fessure, - Sbagli sempre le stesse note, comincio a chiedermi che tu non sia sordo!
- Se vuoi andare a casa, vai! – Lance non si fece intimorire né dal veleno, né dalla provocazione. Era pronto a ricambiare tutto con altrettanto livore. - Tanto meglio! Chi ti ha chiesto di rimanere?!
- Shiro mi ha chiesto di rimanere perché il tuo primo pezzo musicale è una pena. E io non intendo deluderlo.Keith calcò ferocemente sulle parole un’asciutta enfasi. – Se non sei all’altezza dell’impegno che ti sei preso, dovevi pensarci prima!
Lance rovesciò lo sguardo al soffitto, sbuffando come un mantice.
- Solo perché non riesco a memorizzare il motivetto che tu hai scritto, non significa che la colpa sia mia! Questa roba è una porcheria!
- Shiro lo ha approvato. Vedi di fartene una ragione!
- ... Shiro ha dei gusti che non capisco.
- Se avessi letto i libri, forse, ci riusciresti...
Un sorriso scintillò sinistro sul viso di Keith mentre rigirava malignamente il coltello nella piaga; Lance digrignò i denti.
- Li sto leggendo!
Come un boccone di tabacco cattivo, sputò un insulto in spagnolo; la musica lo coprì, ricominciando con ostentata allegria. 
L’attore strinse i pugni ed espirò, nel tentativo di liberarsi dall’orticaria dell’odio.
Il quadrante dell’orologio a muro segnava le dieci e venti: un’ora e un quarto di prove musicali e fetore umano di Keith in endovena. Nessuno del gruppo che fosse rimasto a incoraggiarlo o a smorzare l’insopportabile vicinanza dell’arci-nemico.
Sembravano passati lustri. Nemmeno gli ebrei in Egitto se la passavano così male.
Improvvisando malamente sulla metrica, riprese a cantare in un eccesso di vigore: - È vero, sì è successo, Provo con un tipo abbietto/ Notte tarda, sì lo so, / Ma di scelte non ne ho / Shiro Shiro, blablabla/ Keith ancora romperà/ se l'ha detto lui va bene / ripetiamo tutto insieme! 
Keith interruppe l'esecuzione pestando di nuovo un chiasso di note.
- La pianti di fare il cretino?!
- O mi dai una pausa o te la canto tutta così!
- E fatti la tua pausa!
Al culmine dell’esasperazione, Keith sbottò. Si spinse indietro sulla sedia con uno scatto nervoso. Fissò i tasti per meno di un minuto, prima di tornare a toccarli. Ne fece uscire qualche accordo distratto, finché non ritrovò quelli di una vecchia canzone. Iniziò a ripeterla, la rallentò; la variazione gli scorse tra le dita prima ancora di averla pensata e ci si abbandonò. Le sue spalle subito si rilassarono e la sua postura più morbida.  
- E questo che sarebbe?
- John Coltrane.
Lance storse naso e bocca, ma rimase in ascolto.
- È per lo spettacolo?
- È per i miei nervi e le mie orecchie, dopo tanto strazio.
- A me quello che suoni pare uno strazio.
Keith ridacchiò. La linea delle sue labbra si arricciò in una smorfia acida, come se si stesse sforzando di reprimere il disgusto di un morso al limone. L’incedere sui tasti si fece più lento e ampio, distendendosi in accordi languidi.
- Beh, sarei rimasto sorpreso del contrario. – il suo sorriso si accentuò, senza guardarlo. – Figuriamoci se potevi apprezzare il jazz.
- Ah, oh, capisco… è jaaassssssssssss. – la voce di Lance si sforzò in uno strascico lunghissimo di sibilanti sonore, come se imitasse il ronzio di una mosca. Si spense solo quando ebbe finito il fiato; Keith riuscì a ignorarlo a fatica. Attaccò subito con la domanda che sorse più immediata: - Sul serio a Shiro piace questa litania?!
- Shiro di musica ne capisce. – fu la laconica risposta del pianista; glissò sulla tastiera e si prese una pausa di due battiti, prima di attaccare il ritornello della canzone.
Per almeno un minuto, fu unico e indisturbato sovrano sonoro della stanza. Lo rimase finché Lance non si decise a riscuotersi dall’ascolto passivo.
-  … vi conoscete da tanto?
Keith non rispose immediatamente; quando le dita tornarono in una posizione più confortevole, sembrò realizzare il senso della domanda che gli era stata posta.
- Abbastanza.
- Da prima che tornasse in Svezia e si ritirasse dalla scena?
- Che te ne frega? Non ti farebbe nessuna differenza saperlo.
- Sto cercando di fare conversazione!
- No, stai cercando di impicciarti. – gli lanciò di sottecchi un’occhiata giudicante, ma divertita. - Che figura di merda, l’altra sera.
Il volto di Lance divenne rosso cremisi; strabuzzò gli occhi e l’indignazione gli fece gonfiare il petto. Sollevò un indice e lo rivolse minaccioso a un soffio dal naso dell’altro.
- Se–senti, Keith-Vaffanculo-Kogane, mi sono già scusato! Smettila di fare il saputello perché credi di essere Louis Armstrong!
Keith si interruppe bruscamente, inorridito e sdegnato.
- Armstrong era un trombettista, stupido ignorante!
- Lo so benissimo chi era!
- Non parlare di cose che non conosci!
- Io parlo di quel cacchio che mi pare! Non sei nessuno per vietarmi di avere un’opinione su musica noiosa, con tutto quel casino inascoltabile di diesis, bemolli e beduri!
Keith spinse indietro la sedia facendo più rumore possibile. Scattò in piedi e spense la tastiera, scuro in volto.
- Ne ho abbastanza delle tue cazzate. – dichiarò.
Raccolse appunti e borsa; non perse tempo nemmeno per riporli e si avviò verso la porta. Ignorò i commenti di Lance e, deliberatamente, vi parlò sopra:
- Per oggi la finiamo qua. Ripeti quello che abbiamo fatto e vedi di fare meno schifo la prossima volta.
Solo un istante prima di uscire si fermò e si volse indietro.
- E, per la cronaca, - aggiunse, - Sidney Bechet ha sparato a uno che gli aveva detto di avere sbagliato una nota. Non la definirei “musica noiosa”.
E se ne andò, sbattendo la porta.

Un fisarmonicista suonava Libertango all’angolo della strada.
Il lampione illuminava il profilo appuntito, chino sullo strumento, i radi capelli castani, la sagoma grigio-blu di un grosso murales informe che troneggiava alle sue spalle.
Bastavano le sue mani a interpretare il ruolo dell’orchestra: sospinte dal vortice seducente del ritmo, plasmavano la musica come una compagna di ballo.
Keith restò a guardarlo. Un uomo senza nome gli narrava una storia appassionata, un parossismo di desideri cocenti e inespressi; i palpiti di una terra arida, assolata, irraggiungibile.
In lui riconobbe un fratello.
Tutto quello che aveva in tasca era una moneta da cinquanta centesimi e gliela lasciò.
La musica è l’unica cosa vera che riempie il mondo.
La musica trascende barriere, lingua, logica.
Il jazz ne ha fatto dialogo puro.
Cristo è nato in una mangiatoia di Betlemme e il canto più sublime dell’uomo moderno è nato in una stamberga di New Orleans, trionfando sul caos di Babele.
Thace era un uomo devoto: la musica era un tutt’uno con la sua fede. Per lui era usuale paragonarla alla Bibbia. Era il suo modo di pregare.
Dopo avere suonato per ore, spesso si riposava rimanendo seduto al piano, le mani sulle ginocchia, perdendosi nella contemplazione delle righe dello spartito.
Nella memoria di Keith, quell’immagine del suo maestro era satura di colori e dell’odore della stanza.
Per ironia, ricordava meglio il silenzio, riverberante di tutte le note svanite. La polvere che volteggiava lenta alla luce del sole, salutando la finestra socchiusa.
Da quando era morto, il mondo sembrava essersi svuotato di senso e bellezza.
Era sempre più faticoso ritrovarli: rare gocce di bellezza casuale, troppo pure per mischiarsi al fango, ma troppo esigue per dare pace.
Per le strade affollate della città, nei grandi magazzini, alle fermate del tram, tra i locali notturni, sgomitava tra la sterilità del materialismo e dei luoghi comuni.
L’uomo che passa ha risate che sono ragli, sbadigli da bue. Gli starnazzi del suo piacere sono banalità. Si ciba della spazzatura delle ovvietà. Domina il pieno ripieno di niente. L’abbondanza sintetica del superfluo. La musica onnipresente ricopre le pareti del mondo come carta da parati.
Svuotateci qualunque cosa di animo, perché sennò non si capisce che cosa sia.
Keith non avrebbe ceduto a quel ricatto. Non pretendeva di cambiare le regole, ma non intendeva rispettarle: non si sarebbe piegato a un’era desolante o al chiasso del vuoto.
Keith resisteva per il Jazz, per l’anima dell’Arte.  
Keith odiava il mondo e si compiaceva all’idea di essere ricambiato.


Lo strato di polvere sulla vetrina dello Yazoo era tale da far sembrare l’interno avvolto in una nebbia giallastra. Qualcuno dovrebbe pulirla, pensò Keith distrattamente. Mille altre volte aveva ripetuto queste parole, e forse altre mille le aveva sentite dire da altri.
Let’s jazz we’re open, diceva il cartello sbiadito e arricciato, appeso all’ingresso. Abbassò in automatico la maniglia scrostata; la porta cigolò e si richiuse alle sue spalle.
Lo accolse un familiare odore di vecchio cedro, di tabacco e caffè. Accarezzò con lo sguardo la carta da parati ingiallita, indugiò sulla sensazione del pavimento di cotto sotto le suole.
Non c’era musica, ma i ragazzi erano ancora lì, sparsi nella sala deserta tra il palco e i tavoli: alcuni di loro tenevano gli strumenti in mano, come animali da compagnia.
- Ok, ragazzi, forse è arrivato il momento di giocare l’ultima carta: - stava dicendo Blaytz, dondolandosi pigramente sulla sedia con le mani intrecciate sulla nuca, - facciamo a Kolivan i frisé e lanciamo qualche cover di Kenny G.
 Le idee di Blaytz si distinguevano per eccentricità e ottimismo. Amava scherzare, ma non lo faceva mai fino in fondo quando proponeva qualcosa, per assurdo che potesse suonare: la sua fantasia era vivace quanto la sua parlantina e nella musica era eclettico e imprevedibile.
I suoi grandi occhi dalle lunghe ciglia scure mostravano un’espressività limpida ed entusiasta. Ben poco di infantile c’era nella sua fisionomia: anni di nuoto professionale e di esperienza come bagnino avevano reso le sue spalle larghe e la sua muscolatura possente. Profilo greco, fronte alta, mento marcato, incorniciato da un curatissimo pizzetto e da folte basette ben pettinate. Si vestiva di colori sgargianti e non faceva mai abbastanza freddo per fargli sentire il bisogno di coprirsi con abiti più pesanti di una giacca.
- … c’è l’85 per cento di probabilità che in questa realtà la nostra dignità possa subire un danno peggiore dei nostri affari!
Dal fondo della stanza si levò la voce stridula di Slav: la smilza figura sollevò uno sguardo smarrito, solcato da profonde occhiaie, dal contrabbasso che stava accordando. I suoi occhi tondi erano così grandi e così sporgenti che sembravano sul punto di uscirgli dalle orbite. Si percepiva quanto fosse alto anche da seduto, tutto incurvato. Era magro e di un pallore malsano. Dai radi capelli scarmigliati sbucavano grandi orecchie a sventola. Le dita nodose e irrequiete scivolavano tremanti sul collo dello strumento, come a rassicurarsi che fosse ancora lì.
Il suo vicino di posto gli sussurrò qualcosa in tono rassicurante e gli porse una mela sbucciata. Lui la ignorò.
Slav era uno degli emblemi più pittoreschi di “genio e sregolatezza”. Nonostante avesse sei dita in una mano e quattro in un’altra, era un musicista prodigioso dalla memoria fenomenale, ma soffriva di manie di persecuzione e di molte altre nevrosi. Non amava raccontare di sé, ma si diceva che fosse un genio di fisica quantistica caduto in disgrazia per oscure trame complottistiche. Era superstizioso, paranoico e diffidente. Soffriva di tic nervosi, raramente ascoltava, spesso interveniva per parlare di argomenti non comprensibili. Più volte aveva cercato a spiegare i principi della matematica vedica, sostenendo che fosse l'approccio più intuitivo. Non c’era quasi nulla in cui non eccellesse, all’infuori di qualsiasi tipo di interazione sociale.
- Solo quella di Kolivan!
Kolivan assottigliò lo sguardo, ma non ebbe altra reazione.
Era un uomo imponente, da cui era facile sentirsi in soggezione. Sulla pelle olivastra, una grossa macchia triangolare di vitiligine si estendeva tra mento e zigomi; una profonda cicatrice a destra del viso arrivava dalla fronte al labbro superiore. Nessuno sapeva come se la fosse procurata, ma in lui c’era una marzialità che ricordava quella del soldato o del reduce di guerra.
La serietà impassibile del suo volto era accentuata dal naso schiacciato, dalla curva severa delle labbra piene e dall’assenza sopracciglia e dagli occhi penetranti, dal taglio obliquo, che esprimevano una durezza truce. I capelli, candidi come neve, li portava raccolti in una lunga treccia.
Per lo più ascoltava e di rado pronunciava opinioni. L’unica voce delle sue emozioni  proveniva dall’abbraccio del sassofono.
- Oppure iniziamo a stampare sulle bustine di zucchero le mie vignette umoristiche!
- Secondo me, questo è anche peggio. – fu l’asciutta replica di Kolivan.
Sven, il trombettista, era tutto concentrato a sbucciare un’altra mela; quando udì il nuovo piano di Blaytz, scosse la testa con aria grave.
- Non ci possiamo permetterlo.
Non era arrivato dall’Estonia da poco, eppure la sua parlata non migliorava per correttezza grammaticale e per naturalezza sonora. La sua cadenza era un susseguirsi di vocali chiuse e spesso mangiate, consonanti dure, v che sembravano f, r ridicolmente vibranti. Difficile ascoltarlo per la prima volta senza dubitare delle proprie orecchie; il gruppo era talmente affezionato al suo accento che alcune parole avevano iniziate a pronunciarle “alla Sven”.
Era impossibile dargli un’età: se fosse stato un ventenne o un trentenne, si sarebbe dimostrato troppo senile, ma come quarantenne sembrava ancora immaturo.  Aveva occhi e capelli neri, foltissimi come le sopracciglia. Il pallore dei lineamenti sottili e del volto squadrato era accentuato dagli abiti neri che sempre indossava, come se fosse sempre vestito a lutto. Non di rado, anche per questo veniva scambiato per un prete.
- Sven, frequentare Slav ti ha reso così ottimista? – lo interrogò Blaytz, sarcastico.
La risposta non arrivò: il trombettista notò la sagoma di Keith, che ascoltava in disparte, senza che si fosse ancora fatto avanti: - Ehi, Redko! – lo salutò, con un cenno del capo.
Tutto il gruppo si volse verso di lui e gli rivolse un coro dissonante di saluti.
- Guarda guarda, ecco il nostro festeggiato assenteista! – esclamò Blaytz, raddrizzando la sedia di colpo, - Dov’eri finito? Per il tuo compleanno Slav ti aveva anche preparato una torta! L’abbiamo dovuta mangiare noi, è stato tremendo.
- C’è un motivo per cui in questa realtà non sono un pasticcere.
- Tu guardi i programmi di cucina e poi dimentichi. Vuoi una bella mela buona? Ho portate per tutti.
- Sven è rimasto molto impressionato dagli effetti leggendari di una mela al giorno.
Perché tutti gli anni la stessa storia? Avrebbe preferito che quel giorno venisse trattato come gli altri, in cui la gente si comportava come al solito nei suoi confronti. Mai una volta che fosse riuscito a scamparla. Persino Shiro si era ricordato.
Fece un gesto sbrigativo per metterli a tacere.
- Non c’era proprio niente da festeggiare. – e si affrettò subito a cambiare argomento: - Come va?
- Uhm, malino. – Non era mai un buon segno quando Blaytz diceva “malino” grattandosi la nuca. – Micia[i] se n’è andata. E ha preso i soldi dalla cassa.
- Non la pagavamo da due mesi.
- Beh, con quella maschera…
- Ma il gatto piaceva a tutti.
- Bestiaccia! – borbottò Sven con un’acredine che doveva aver maturato a lungo, - Lui morto mi voleva.
- Ve lo dico io. In questa realtà, c’è il 97 per cento di probabilità che dovremo chiudere entro la fine dell’anno!
- Non chiuderemo. – ribatté il pianista, interrompendoli, - Ho trovato un lavoro, venerdì vado a suonare al Batìk.
Si levarono esclamazioni di sorpresa e approvazione; Keith sentì su di sé lo sguardo e la severità del silenzio di Kolivan. Lo sostenne con aria di sfida.
Sapeva cosa significasse: Quante altre volte hai detto così? Finirà come sempre. Non resisterai.
Sarebbe stato difficile ribattere, ma era indispensabile non cedere.
- Hai convinto Marmellata a ripigliarti? – chiese Blaytz, incuriosito.
- Con Marmellata ho chiuso. Sostituisco un tastierista per quattro serate, poi vedremo.
- Per mantenere questo posto serve molto di più di quello che riusciamo a risicare noi cinque. – La voce profonda di Kolivan emise una sentenza perentoria. – E adesso siamo anche a corto di personale.
Una morsa elettrica e rabbiosa strinse la bocca dello stomaco di Keith.
L’opinione del gruppo era spaccata su cosa fare: perseguire il sogno e ingegnarsi per mandare avanti la baracca e ricominciare altrove – o, semplicemente, lasciare perdere.
Kolivan era stato il primo a prendere posizione: solo perché lo Yazoo aveva vissuto tempi d’oro, non si poteva continuare a dormire sugli allori degli anni ‘60. Bisognava rassegnarsi al presente e vendere il locale, prima di ritrovarsi coi conti troppo in rosso per poter farci qualcosa.
Keith avrebbe rinunciato più volentieri ai denti o a entrambi i reni che allo Yazoo.
- Thace ha fatto di tutto fino all’ultimo per tenerlo aperto!
- Thace non è arrivato agli anni di crisi peggiori.
- E questo che significa?! – Keith alzò la voce. I suoi pugni erano così stretti da sentire il graffio delle unghie contro la carne. - Non parlare come se per lui fosse sempre stato facile!
- Calma… calma, ragazzi. – li interruppe Blaytz. I suoi modi non avevano perso di gentilezza, ma quella fermezza non ammetteva repliche. – Ognuno di noi ce la sta mettendo tutta per tenere vivo lo Yazoo. A nessuno fa piacere l’idea che debba chiudere… è pur sempre l’eredità di Thace.
- È inutile fare i sentimentali, nessuno di noi è un imprenditore! – tuonò Kolivan, - Alla gente non piace quello che suoniamo, guardatevi attorno! Il jazz che facciamo noi è finito!
Seguì un momento di greve silenzio, in cui ognuno dei presenti si rifugiò nel carapace dei propri rimpianti inespressi.
Nessuno sguardo si incrociò.
La dura tristezza che aleggiava nell’aria rendeva la sala vuota ancora più squallida; Keith chiuse gli occhi per non essere costretto a guardarla.
Il mondo si era preso la vita di ciò che amava e ne sfoggiava fieramente l’assenza – Qui non c’è niente, sorrideva, odioso – Thace era morto, il jazz stava morendo, ingoiato da desolanti ibridi. Lo Yazoo lo seguiva.
Blaytz mal sopportava arrendersi allo sconforto: così fu il primo a far rumore, alzandosi in piedi per prendere il suo banjo, che riposava sdraiato sul palco. Cominciò ad accordarlo con dolcezza e a improvvisare qualche arpeggio.
- Qualcosa ci inventeremo. Ne siamo sempre venuti a capo!
Kolivan scosse la testa e sospirò.
- È una brutta vita, per i musicisti.
- Dice Bob Kaufman: Il cuore è tristo musico / che sempre suona il blues!
- Jazz ascolta a tuo rischio e pericolo! – terminarono Slav e Sven in coro.
Il musicista suona via la sua angoscia. Non per risolvere, ma perché gli è spontaneo come respirare. Soffia in un corno, pesta il suo ritmo con mani o piedi: malinconia, gioia, lutto, rabbia, ansia.
Così fecero anche loro: il banjo di Blaytz guidò il sax delicato di Kolivan in una disputa irriverente e, a poco a poco, si lanciarono anche contrabbasso e tromba. Il pianoforte fu l’ultimo ad arrivare e la sua voce restò in disparte, assorta in un eremo lontano.
Keith sentiva un’ira confusa, che non sapeva contro chi sfogare. Nemmeno il pensiero che là fuori qualcuno avesse suonato Libertango così bene da farlo fermare riusciva a donargli conforto.
Ogni nota sui tasti era come una lacrima mai versata, uno stillicidio di ricordi che bruciavano e di speranze ridicole.
 

CHIACCHIERE FUCKOLTATIVE

Grazie mille a itsaliss per avere recensito il capitolo 5!
Posso dire con grande onestà che se questo capitolo è online il merito è anche della sua iniziativa di scrivermi! ;P Vedremo come andrà da qui in avanti. 

Nel film La La Land, Kenny G viene menzionato come pietra di paragone di jazz da parte della protagonista dimostrando di capirne veramente poco, in quanto per lei jazz=musica chilling da ascensore.
esempio: https://www.youtube.com/watch?v=447yaU_4DF8
 Mi sembra doveroso mostrarvi una sua foto, affinché chiunque possa sovrapporre a quest’uomo l’immagine di Kolivan coi frisé:
https://www.saxophonebackingtracks.com/wp-content/uploads/2013/07/KENNYGsongPics12B29wLASLH34sM.jpg
… avreste potuto googlarlo, ma era una mia precisa responsabilità fornirvi lo spunto.
(Se lo googlerete, troverete anche il famoso fotomontaggio “Kenny G with no nose”, che costituisce una grande pièce di intrattenimento. Lo consiglio a tutti.)
Tengo a precisare che Kenny G è una persona rispettabilissima, degna di stima artistica.
Dal momento che Sven è stato introdotto come personaggio nella terza serie [UNA DELLE POCHE COSE PER CUI RINGRAZIO SENTITAMENTE GLI AUTORI], ho rinunciato con gioia ai miei propositi di sovrapposizione di Sven e Shiro; gli ho quindi reso un omaggio a parte. (SVEN YOUR POWAA COMES FROM THAT sTATIU OF A LAIAN )
VORREI CHE FOSSE CHIARO CHE IO LO SHIPPO CON SLAV SERIAMENTE, quindi, anche se non sarà oggetto di approfondimento, in questa AU sono graziosamente fidanzati.
Per chiunque fosse interessato, un ricapitolo dei ruoli della jazz band di Keith, i Sing Sin!
sax – Kolivan
batteria, banjo, chitarra, ukulele – Blaytz
contrabbasso – SLAV
tromba – Sven
piano – Keith (Redko)
 
[i] Micia = Narti del Lotor Squad. Sì, quella che non ha gli occhi, con la coda e il micio sulla spalla.
Non potrò mai chiamare quelle fanciulle con il loro nome di appartenenza, perché sono indicibili.
 

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