Olathe

di vittysch
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dream ***
Capitolo 2: *** Those eyes ***



Capitolo 1
*** Dream ***


Entrò in casa calciando la porta, fra le mani un grosso scatolone sigillato con lo scotch, inspirò a pieni polmoni l’odore di mobili nuovi che conosceva piuttosto bene. Era il quinto trasferimento che facevano lei e la madre in pochi anni, un vero e proprio stress ma ormai vi aveva fatto l’abitudine, ogni volta la madre prometteva che era l’ultima volta che avrebbero cambiato casa e poi, puntualmente, l’azienda per cui lavorava la spostava da qualche parte e di nuovo Alex doveva abbandonare gli amici appena fatti, sistemare tutti i suoi averi nelle scatole e cambiare città. Questa volta erano andate ad Olathe, un paesino insignificante disperso nel Kansas a mezz’ora di auto da Kansas City. Ormai aveva anche smesso di aprire la maggior parte delle scatole, abbandonandole in un angolo della stanza e tirando fuori solo il minimo necessario, a scuola non scambiava che un paio di parole evitando di legare con gente con cui poi avrebbe smesso di avere rapporti, incapace di mantenere un’amicizia a distanza. Una cosa di cui la colpa la attribuiva al padre che, dopo il divorzio, aveva tagliato completamente i ponti con la figlia, portandola a detestarlo oltre che ad evitare qualsiasi rapporto a distanza, troppo faticoso da mantenere efficacemente. Il salotto si apriva in maniera luminosa davanti a lei, ampio ed arieggiato di cui le pareti erano colorate di un brillante ed inusuale arancione. Divano color crema, poltrona abbinata, cuscini variopinti ed un tavolino da caffè nero da un lato, la tv e la grossa libreria a muro dall’altro. In un angolo della stanza vi era anche un caminetto mentre dal lato opposto la porta che conduceva alla cucina che riusciva giusto a scorgere. Affianco all’ingresso vi erano le scale che portavano al piano di sopra della casetta, la classica casa a due piani americana con il tetto spiovente.
«Allora, come ti sembra?»
La madre, Martha, era comparsa da dietro, reggendo a sua volta una scatola sigillata con sopra la scritta “soggiorno”, guardava sorridente la figlia, un sorriso bianco che sembrava cancellare i segni del tempo sulla donna quarantatreenne il cui volto era stato rigato dalle preoccupazioni ed i capelli parzialmente ingrigiti dal tempo. Si guardarono a lungo e solo alla fine Alex decise di darle una risposta, stringendosi nelle spalle e commentando con un semplice:
«Carina»
«Di sopra ci stanno le stanze, vuoi dare un’occhiata?»

Le dispiaceva ammazzare così l’entusiasmo della madre, le faceva male risponderle con così poca gioia o coinvolgimento ma aveva imparato a non affezionarsi ad un luogo o delle persone proprio per evitare il dolore dell’addio.
«Ok»
Lapidale, senza trasporto mentre iniziò a salire le scale che portavano di sopra lasciandosi alle spalle una madre che provava con tutte le sue forze a rendere quel trasferimento migliore di quanto non fosse. Il piano superiore si apriva sulle scale con un piccolo corridoio, la prima porta a destra era la camera da letto, seguita da una porta che conduceva al bagno ed una terza porta che si apriva sulla sua nuova stanza. Vi entrò, abbandonando sul pavimento in parquet la scatola e, quindi, girando su sé stessa lentamente per osservare un po’ il luogo. Le pareti dovevano essere riverniciate, i vecchi proprietari avevano provveduto a sistemare solo il piano inferiore lasciando i muri di quella stanza, e presumibilmente le altre su quel piano, bianche e stinte, giallognole in alcuni punti. Delle ante in legno bianco separavano l’armadio a muro dal resto della stanza illuminata da un’enorme finestra che, invece, aveva come vista il giardino sul retro che andava sistemato, pieno di erbacce e delimitato da una grossa ed alta recinzione in legno che separava la loro proprietà da un piccolo campo d’erba prima del bosco scuro e rigoglioso ad una ventina di metri da quella casa. Sbuffò dalle narici, e quindi fece dietrofront per poter scendere nuovamente le scale e finire di scaricare le scatole dal camioncino che avevano affittato. Dopo una cena praticamente spartana salì in camera, andando ad infilarsi nel letto su cui aveva messo le prime lenzuola trovate, il resto della stanza era ancora vuoto meno che per le scatole in un angolo, al solito. Martha bussò delicatamente alla porta, entrando ed andando a sedersi sul letto, affianco alla figlia che scorreva annoiata dei post su facebook di cui non le interessava niente, sentì la mano della madre iniziare a giocare in modo dolce con i riccioli neri che si trovavano sparpagliati sul cuscino, Alex sapeva che quello che stava per venire sarebbe stato un momento commovente, qualcosa da nodo alla gola e lacrime agli occhi, conosceva la madre e conosceva quell’espressione che esprimeva colpa e stanchezza
«Mi piace molto qui mà»
Fece un sorriso flebile, provando a far fare lo stesso alla madre, non sopportava l’idea di ferirla con il suo atteggiamento aggressivo-passivo. Martha annuì un paio di volte in modo silenzioso, a differenza di quando sorrideva ora più che mai il viso era segnato da quelle rughe sottili che ne solcavano la fronte pallida e gli angoli esterni degli occhi, altre rughe si trovavano agli angoli delle labbra sottili di un sano rosa scuro. Si passò la mano che non accarezzava la figlia fra i capelli scuri e ricci ereditati da Alex
«Sono contenta, questa volta davvero è diverso, mi hanno detto che è definitivo»
«Lo so»

Non le volle ricordare che anche le altre volte sarebbe dovuto essere definitivo. Si diedero la buonanotte restando entrambe con un sapore agrodolce in bocca, Alex perché avrebbe voluto dirle tante cose, parlarle come quando era piccola e provare a distruggere quel muro che si era costruito fra di loro, magari raccontarle del solito nervosismo che provava quando doveva presentarsi in una scuola nuova, Martha invece avrebbe voluto rassicurare una volta e per tutte la figlia, credere davvero che quello sarebbe stato l’ultimo trasferimento…la verità, però, era che anche lei aveva perso la speranza di stabilità e con quella la speranza di riavere indietro la sua bimba solare.

Quella notte fu particolarmente agitata per Alex, si svegliava e si riaddormentava, faceva sogni vividi intrisi di sangue che si alternavano con sogni più piacevoli, di gattini o dolciumi. Ad un certo punto però fece il sogno più vivido della sua esistenza. Si trovava davanti ad una scuola, la classica scuola americana color mattone, insignificante e ad un piano, nevicava pesantemente e non vi era nessuno nel raggio di chilometri, il silenzio tombale era rotto solo dal vento che di tanto in tanto ululava furibondo trascinando con sé raffiche di neve candida e fredda. Si guardava attorno, girò su sé stessa e quando ritornò a guardare in direzione della scuola davanti a sé era comparsa una locomotiva lunghissima. Era in metallo scuro, quasi nero, i vagoni erano chiusi, privi di finestre, collegati fra di loro con fili a lei invisibili. Teste animali si trovavano in rilievo su tutti i vagoni che avevano una forma cilindrica a differenza dei soliti treni e, inoltre, fluttuavano a pochi centimetri da terreno. Il vapore sbuffava dal metallo incandescente di cui era composto quell’insolito mezzo di trasporto andando a sciogliere la neve che si trovava sotto per terra, creando pozze d’acqua e gocce di pioggia nell’area che lo circondava. Sembrava uscito direttamente dall’Inferno.
«Infatti viene dall’Inferno»
Qualcuno dietro di lei parlò leggendole letteralmente nel pensiero e nel mentre poggiava lunghe dita ossute sulle sue spalle, stringendole con una forza inumana ed impedendole di girarsi per poterlo guardare in volto. Fece un lieve mugolio di protesta davanti a quella stretta provando a scivolare via da questa, così da potersene andare quanto più lontano possibile ma fu tutto inutile. Quelle dita simili ad artigli ormai l’avevano bloccata e non sembravano intenzionate a farla andare via.
«No no, resta qui un attimo, ssssh, lo senti?»
Era perplessa, non sapeva che cosa avrebbe dovuto sentire, stava anche per aprire la bocca per iniziare a dare addosso all’individuo che finalmente capì di che cosa stesse parlando. Urla, grida disperate e strazianti che provenivano da quei vagoni di quel treno tanto lungo da perdersi all’orizzonte, quegli ululati quasi inumani venivano soffocati dal metallo dei vagoni oblunghi e inusuali
«Ti toccherà scegliere chi salvare fra di loro un giorno, lo sai?»
Apparvero uno accanto all’altro diverse figure, maschi e femmine, tutti terribilmente e giovani e nessuno che avesse mai visto prima…coetanei, strano a dirsi ma stava davvero sognando coetanei. Non le accadeva mai, il più delle volte riadattava film o serie tv, nelle notti particolarmente fantasiose faceva una mescolanza di tutto quello che le era capitato di vedere. Li guardava, le mani ferme che continuavano a tenere nella loro morsa che sembrava incredibilmente reale, poteva sentire il dolore…era lì, era vivo e presente, i ragazzi la guardavano a sua volta spaventati e confusi almeno quanto lei
«Se solo potessi…»
L’ultimo sussurro dello sconosciuto che fece scivolare le mani artigliate sulla sua trachea, iniziando a stringere il collo esile con forza crescente. Alex annaspava alla ricerca d’aria, scalciava, si dimenava ma fu solo la sveglia con i suo rumore squillante a salvarla dal soffocamento, facendole aprire gli occhi nella stanza in cui si era coricata la sera precedente. Aveva le mani strette attorno al collo, fece quasi fatica ad allentare la presa nervosa che stava esercitando su sé stessa. Si rilassò con fatica, riprese il controllo di sé e rabbrividì nel constatare che il cuscino era pregno di sudore di puro terrore, terrore che si trovava ancora annidato in fondo al cuoricino dal battito sempre più regolare. Attese un po’ prima di spegnere la sveglia e quindi alzarsi, trascinandosi in bagno e fissandosi lungamente nello specchio. I riccioli neri erano ancora lì, umidi ed appiccicati alla fronte, la pelle pallida aveva meno colorito del solito, risultato tesa e malsana, quasi come se fosse ammalata…le occhiaie violacee sotto gli occhi grandi ed orlati da folte ciglia nere poi non aiutavano affatto a dare l’impressione che fosse sana. Si tastò il volto stanco con le dita affusolate e sottili, stranamente eleganti, il naso schiacciato, le labbra carnose e gli occhi dalle iridi grigie che la fissavano senza cambiare improvvisamente. Era lei, lei con il corpo slanciato e sottile, le curve femminili appena accentuate che stavano facendo la loro timida comparsa forse un po’ in ritardo considerando i suoi sedici anni, nel complesso era graziosa, non proprio un esempio lampante di sensualità.

Si mise il migliore paio di jeans che possedesse, un paio a vita alta ma piuttosto semplici, delle scarpe da ginnastica ed una maglietta decisamente anonima ma che apprezzava per il bel color bordeaux scuro che metteva in risalto l’incarnato pallido di cui in fondo andava fiera. Salutò la madre andando quindi alla scuola che si trovava a mezz’ora di distanza forse anche quaranta minuti, certo, si sarebbe potuta far accompagnare o prendere il bus ma camminare quel mattino le avrebbe fatto bene, doveva distendere i nervi e riprendersi dalla nottataccia e da quello che riteneva fosse un brutto attacco di sonnambulismo autodistruttivo, non ne aveva idea e non voleva neanche pensarci troppo. Vide altri giovani convogliare verso un punto, segno che stava andando nella direzione giusta e, quando alzò lo sguardo, rimase letteralmente pietrificata. Quell’ammasso di mattoni era la stessa identica scuola che aveva visto nel sogno, mancava solo la neve ed il treno infernale ma l’angolazione, le ombre…tutto era identico. Deglutì a fatica intanto che il cuore iniziò a galoppare nel petto, era quasi tentata di andarsene presa dalla suggestione, ma cominciò a dirsi che la sua mente le stesse giocando solo dei brutti tiri per via della stanchezza, roba da nulla. Probabile che il giorno prima passando con il camion dei traslochi abbia visto la scuola, anzi, era certa che le cose fossero andate così…sì. Quella montagna russa di emozioni stava giungendo al capolinea, Alex ne era convinta, in fondo era di nuovo tranquilla o almeno si stava calmando. I passi che continuarono incerti verso l’edificio…eppure non aveva neanche la più pallida idea che il suo cuore stava per andare ancora una volta in tachicardia. Davanti a lei a diversi metri di distanza vi era lo stesso gruppo di ragazzi del sogno non si poteva sbagliare per nessun motivo al mondo, parlavano fra di loro in modo fitto, gli zaini sulle spalle, gli sguardi adombrati e, alla fine, si accorsero di come li stesse osservando sull’orlo di un attacco di panico. Riusciva quasi a percepire le mani omicida attorno al collo. Il corpo si ribellò in automatico intanto che fece svariati passi indietro, il gruppetto sembrava sconvolto almeno quanto lei ma non potette chiedere il perché, ormai stava già correndo via.

End of chapter one
To be continued...

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Capitolo 2
*** Those eyes ***


Non era mai stata una grande corritrice, questo è da dire, anzi non è mai stata chissà quanto brava negli sport. Un po’ troppo fragile per le discipline pesanti, un po’ troppo alta e con il baricentro elevato per le discipline che richiedevano invece eleganza e coordinazione. Anche adesso che scappava dagli strascichi di quel terribile incubo, da quella scuola e da quelle persone, ebbene anche in quel momento poteva sentire quanto fosse terribilmente fuori forma, il fianco indolenzito e la gola che bruciava a causa dell’aria che respirava in maniera violenta. Non corse a lungo ma si allontanò abbastanza da arrivare ad un parco. Un parchetto misero, neanche chissà quanto grande, un insieme di alberi alti e robusti, erbetta verdeggiante, un paio di altalene, altrettanti scivoli ed un castello in legno di modeste dimensioni in cui i bambini si potevano arrampicare. Vi erano giusto un paio di mamme con i figli piccoli nei passeggini o che muovevano i primi passi nell’erba, donne che la guardarono in malo modo giudicando la fronte sudata, l’aspetto disordinato, gli occhi strabuzzati ed il fiatone. Sembrava una poco di buono, lo sapeva ma non le importava. Attraversò a grandi falcate il parco giochi, andando quindi velocemente verso una zona più fitta di alberi, una barriera naturale che separavano il piccolo Woodland Park dalla piscina pubblica Mill Creek, altrettanto squallida e deprimente come il resto di quella cittadina che non si era presentata benissimo. Si nascose fra gli alberi, da un lato riusciva a sentire ancora molto lontani i suoni delle risate dei bambini, dall’altro poteva invece sentire i bagnini che iniziavano a trascinare quelle poche sdraio in plastica che la piscina poteva offrire a prezzi decisamente esorbitanti. Solo i veri ricchi di Olathe si potevano permettere il lusso di quelle doghe in plastica bianca e sporca tenute insieme fra di loro solo con la pura fortuna. Poggiò la schiena contro un tronco, sentiva la cartella premuta contro la spina dorsale e la maglietta madida di sudore che si attaccava fastidiosamente alla pelle la quale, piano, si stava raffreddando. Quello era il momento migliore per poter capire cosa cavolo fosse appena successo, perché la spiegazione della scuola nel proprio sogno c’era, era palese. Passando di lì con il camioncino per il trasloco aveva visto l’edificio scolastico e poi la notte se ne era ricordata…ma quel gruppo di ragazzi? Non li aveva mai visti prima, di questo era più che certa. Magari li aveva visti male, si era lasciata trasportare dalla vivida fantasia che possedeva, forse nella confusione mattutina aveva fatto collegamenti che non c’erano. Magari il sogno non aveva quelle persone all’interno e semplicemente ha collegato il primo gruppo di ragazzi che aveva incontrato con quelli visti durante l’incubo. La spiegazione razionale c’era, per forza. Chiuse gli occhi per provare a calmare il mal di testa che pian pianino si stava insinuando fra le tempie, facendola sentire ancora più folle di quanto già non si sentisse, in tutto ciò avrebbe dovuto dire in qualche modo a sua madre che quel giorno non era riuscita ad entrare a scuola. I pensieri scivolavano e più passava il tempo più sentiva che tutta quella paura provata prima non era altro che una cosa stupida ed infantile. Si accorse di alcuni passi in avvicinamento, cercò di darsi un’aria composta pronta a rassicurare qualsiasi mamma spaventata ed invece si ritrovò a pochi metri da uno di quei ragazzi del gruppo. La osservava con un’attenzione animale mentre Alex, semplicemente, sentiva di nuovo tutte le paure riaffiorare e la sensazione che quelle mani ossute ed ignote sarebbero tornate da un secondo all’altro per strangolarla. Si guardò alle spalle, attraversando gli alberi e costeggiando sulla sinistra la piscina arrivava a Woodland Street, sarebbe potuta scappare facilmente
«Oh no, tu non ti muovi da qui»
Era il ragazzo ad aver parlato, accigliato e serio mentre la fissava con occhi di un verde così chiaro da sembrare quasi fatti di vetro
«Perché mai no?»
In quell’unica frase tirò fuori tutta l’aggressività di cui era capace, guardandolo in maniera decisa, pronta a darsela a gambe mentre il terrore si faceva quasi opprimente nel retro della sua testa ricciuta e scompigliata. Il tipo era alto, ricci castani ma aventi un certo garbo a differenza dei suoi, tratti decisi che però conservavano ancora quel quid di infantile, un’ombra che l’adolescenza stava finendo di cancellare man mano che si avvicinava all’età adulta. Il mento era sporcato da una barbetta castana corta e decisamente spennacchiata, dei peletti facciali che l’altro sembrava portare con orgoglio mascolino e che Alex trovava piuttosto divertenti, forse anche un filo patetici. Eppure l’ilarità crudele della ragazza doveva aspettare perché l’altro, letteralmente, le ringhiò addosso come una belva, un ringhio fatto con trasporto, basso e rauco che partiva dalla gola
«Lo sai perché»
No, non lo sapeva. Ma quel verso bestiale la ammutolì come un pesce, non sapeva come comportarsi, come reagire…se prendere tutto sullo scherzo, etichettarlo come un ragazzo pazzo che credere di essere in parte belva oppure credere a sua volta che vi fosse qualcosa di animale nell’interlocutore. Passarono secondi che pesavano come anni e solo dopo un tempo semplicemente indefinibile l’altro riprese a parlare, colmando il silenzio gelido e terrorizzato che Alex portava avanti
«Come hai fatto a trascinarci tutti in quel sogno?»
La razionalità venne completamente meno ed Alex, semplicemente, si lasciò andare a terra accasciandosi nell’erba e provando a trovare una spiegazione anche per questo, la testa leggera ed i pensieri che le affollavano la mente. Non riusciva a trovare nulla che giustificasse davvero quegli eventi. L’altro la guardò, perdendo parte del suo atteggiamento aggressivo nel momento in cui la ragazza si era andata a sedere a terra con quello sguardo stravolto. Non aveva l’aria di una che potesse fare qualcosa di sovrannaturale, non aveva neanche l’aria di una che facesse parte dei suoi. No, non era come lui, non era come i suoi amici, era terribilmente normale.
«Quindi c’eravate davvero? Tu ed i tuoi…amici?»
Lo fissava con gli occhioni dalle iridi di un chiaro e freddo grigio mentre in lui improvvisamente aveva trovato colui che avrebbe potuto risolvere quello stupido ed insignificante mistero.
«Pensavo fosse solo un brutto sogno, poi ho visto te e gli altri fuori scuola e…non lo so»
Continuava a parlare, andando ad aggrottare le sopracciglia scura in un’espressione perplessa e pensierosa intanto che la lingua di Alex si era ormai completamente, o quasi, sciolta con lo sconosciuto. Era troppo stanca per poter essere testarda in quel momento e fingere di avere tutto sotto controllo. Lo aveva fatto fino a quel momento e, adesso, si sentiva esausta. E pensare che non si stava sforzando che da un paio di ore. Si osservarono ostinatamente ancora per un po’, lui che cercava di capire se vi era qualche trucco o se Alex gli stesse servendo una bugia e lei che invece cercava qualcuno che potesse dissipare il dubbio di essere folle o, meglio ancora, che tutto con un clic ritornasse normale.
«Facciamo finta di non aver mai parlato»
Furono le parole secche del ragazzo che aveva deciso che da lei non avrebbe cavato un ragno dal buco, non sapeva nulla ed era meglio così, una persona in meno ad Olathe che avrebbe provato a farsi i cavoli suoi o dei suoi amici.
«Tu prima mi insegui facendomi domande strane sul mio sogno e poi pretendi che faccia finta di niente?»
Protestò così Alex, alzandosi in piedi e provando a fronteggiarlo già dimentica del ringhio che l’altro aveva fatto poco prima
«Esatto»
Rimase letteralmente senza parole mentre l’altro se ne stava già andando, deciso più che mai che quella conversazione doveva avere termine subito, senza indugiare oltre, senza dirle altro o fingere di non sapere altro. Eppure non aveva fatto i conti con la ragazza che, in preda alla frustrazione, decide di afferrargli un braccio con una stretta dalla forza decisamente discutibile. Non appena la mano di Alex toccò il suo braccio sentì elettricità pura scorrergli sotto pelle, nelle vene, in ogni singola cellula del suo corpo che in quel momento reagiva a quel contatto esattamente come stava facendo il corpo di Alex. Di nuovo si guardarono, questa volta con maggiore curiosità e minore circospezione, era appena accaduta l’ennesima cosa inspiegabile. L’energia cresceva in intensità, tanto che la pelle della ragazza si accapponò e diversi brividi la scossero da capo a piedi, gli occhi scivolarono su quella mano che tratteneva l’altro, notando come l’aria attorno al suo braccio stesse cambiando impercettibilmente ma in modo inequivocabile, tremolava come quando si guarda lontano durante una giornata torrida ma, lentamente, divenne più scura e densa, quasi come se dei nuvoli invisibili stessero filtrando la luce attorno al corpo del ragazzo. Ancora una volta alzò gli occhi per cercare il suo volto, capire se la sua era solo una brutta allucinazione o vi era del vero in quello che stava vedendo. Gli occhi verde chiaro del ragazzo però erano spariti, divenendo completamente neri, persino la sclera era di un nero profondo ed impossibile da scrutare, abissale. L’unica cosa che si poteva vedere in quell’oscurità era la pupilla, bianca quanto la neve, stretta ed affilata come quella dei felini. Lo lasciò andare di colpo guardandolo letteralmente terrorizzata, indietreggiando di un paio di passi nel frattempo che lui la guardava stranito ancora una volta. Era strano aver a che fare con quella ragazza, un momento prima credeva di aver capito tutto ed il momento dopo lei riusciva a distruggergli ogni convinzione, lasciandolo semplicemente basito e confuso proprio come in quel preciso istante…perché aveva visto qualcosa, qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di vedere. Forse non era dei suoi ma era qualcosa.
«Chi sei?»
Le chiese nel frattempo che indietreggiava ricevendo come risposta secca e spaventata
«No, cosa sei tu piuttosto»
«Te lo dico se stasera ci rivediamo qui»

Lo guardò in malo modo, no, voleva risposte in quel preciso istante
«Alle nove, sii puntuale…»
Girò i tacchi e se ne andò ignorando le proteste della ragazza che lo inseguì per un paio di metri, lasciandolo poi andare. Lui doveva assolutamente avvisare gli altri e vedere di capire cosa stesse accadendo perché tutto quello aveva l’aria di portare solo ed esclusivamente guai. Alex lo guardò allontanarsi, non sapeva cosa pensare, dire o fare, proprio per questo restò imbambolata a fissare il vuoto, nella direzione dove l’altro era andato via, cercando di raccogliere le idee ma senza successo. Sospirò curvando le spalle ed alla fine decise di guardarsi attorno prima di muoversi ed andare alla ricerca di un posto dove passare la giornata fino all’orario in cui la scuola sarebbe dovuta finire. Camminò per una ventina di minuti, continuando a rimuginare su tutto quello che era successo, sull’incubo che la terrorizzava ogni volta…si era sentita davvero morire. E poi aveva rivisto la stessa scuola e le stesse persone nella vita vera ed alla fine quello. Quell’energia e quegli occhi mostruosi che non sembravano aver niente a che vedere con il verde chiaro che aveva notato all’inizio dell’incontro con il ragazzo di cui, solo adesso, si accorse di non sapere il nome. Lo avrebbe chiesto quella sera, poco ma sicuro. Entrò nel primo caffè disponibile, ordinando un cappuccino e prendendo un tavolino nascosto in un angolo del locale, quei tavolini che vengono spesso dimenticati dagli stessi camerieri che lavorano nel posto. Lì, fra un sorso e l’altro e diversi dolcetti che le svuotarono il portafogli, aspettò che fosse il momento di tornare a casa, trascinando i piedi e mettendosi sul volto il miglior sorriso di cui fosse capace da poter servire a Martha che, quando entrò in casa, l’assalì come un falco bombardandola di domande a cui rispose vagamente, senza scendere nei particolari.
«Com’è andata?»
«Bene»
«Che hai fatto?»
«Niente»
«Hai fatto amicizia?»
«Forse»

Con tanto di stretta nelle spalle, l’incertezza nella ragazza riguardo gli amici fece assumere a Martha quella solita espressione che sfoderava ogni volta che si sentiva triste per la figlia, ogni volta che sarebbe voluta intervenire in qualche modo per sistemare le cose…ma non poteva, sapeva che andare a scuola e chiedere ai coetanei di Alex di fare amicizia con lei sarebbe stata la fine per la ragazzina che, per l’imbarazzo, sarebbe potuta anche andare a scavarsi direttamente la fossa. Come lo sapeva? Alex glielo aveva detto.
«Tesoro…non puoi fare così»
La ragazza alzò gli occhi al cielo, preparandosi al solito discorso su quanto le amicizie siano importanti e via dicendo
«Ti ho detto forse, non che non ho fatto amicizia»
«So già come andrà a finire Alex, dopo un po’ ti isolerai e resterai sempre chiusa in camera con il tuo solito broncio, io alla tua età-»
«Lo so»

La interruppe bruscamente, mettendo fine a quella frase che conosceva fin troppo bene
«Delle ragazze che ho conosciuto a scuola mi hanno invitata a fare un giro dopo cena, non faccio tardi…»
Aspettò il responso di Martha che la guardava combattuta, da un lato farla uscire dopo cena sembrava una follia, dall’altro non poteva negare quella chance alla figlia, non dopo aver combattuto tanto perché si lasciasse un po’ andare e non si chiudesse solo ed esclusivamente in sé stessa
«Se non torni presto ti cerco per tutta Olathe e lo sai che lo faccio.»
Perentoria, marziale. Ma tanto non aveva neanche intenzione di fare tardi, avrebbe appreso quello che doveva apprendere, avrebbe poi fatto “ciao-ciao” con la manina e se ne sarebbe tornata al sicuro della sua stanzetta spoglia e deprimente. Di certo non aveva alcuna intenzione di legare seriamente, era solo per sé stessa tutto quello. Per delle risposte.

End of chapter two
To be continued…

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