La Strada Verso Casa di Roiben (/viewuser.php?uid=601789)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Libero ***
Capitolo 2: *** Incontri ***
Capitolo 3: *** Scontri ***
Capitolo 4: *** Rivelazioni ***
Capitolo 5: *** Proposte ***
Capitolo 6: *** Crepuscolo ***
Capitolo 7: *** Doni ***
Capitolo 8: *** Domande ***
Capitolo 9: *** Andata e Ritorno ***
Capitolo 10: *** Trattative ***
Capitolo 11: *** Pomeriggi Assolati ***
Capitolo 12: *** Impronte sul Cammino ***
Capitolo 13: *** Risvegli ***
Capitolo 14: *** Casa ***
Capitolo 15: *** Luce ***
Capitolo 16: *** Conforto ***
Capitolo 17: *** Sogni ***
Capitolo 18: *** Sorprese inaspettate ***
Capitolo 19: *** Ti vedo ***
Capitolo 20: *** Ricordi ***
Capitolo 21: *** Progetti ***
Capitolo 22: *** Passato ***
Capitolo 23: *** Perdite ***
Capitolo 24: *** Paure ***
Capitolo 25: *** Risoluzione ***
Capitolo 26: *** Dubbi ***
Capitolo 27: *** Esperimenti ***
Capitolo 28: *** Tempesta ***
Capitolo 29: *** Contrasto ***
Capitolo 30: *** Ritorni ***
Capitolo 31: *** Smarrito ***
Capitolo 32: *** Influenza ***
Capitolo 33: *** Ammissioni ***
Capitolo 34: *** Teorie ***
Capitolo 35: *** Allenamenti ***
Capitolo 36: *** Conseguenze ***
Capitolo 37: *** Invisibile ***
Capitolo 38: *** Attesa ***
Capitolo 39: *** Incomprensioni ***
Capitolo 40: *** Ombre ***
Capitolo 41: *** Tramonto ***
Capitolo 42: *** Alba ***
Capitolo 43: *** Buio ***
Capitolo 44: *** Segni ***
Capitolo 45: *** Akh ***
Capitolo 46: *** Divergenze ***
Capitolo 47: *** Decisioni ***
Capitolo 48: *** Taumaturgia ***
Capitolo 49: *** Risposte ***
Capitolo 50: *** Tensioni ***
Capitolo 51: *** Patteggiamenti ***
Capitolo 52: *** Compromessi ***
Capitolo 53: *** Verità ***
Capitolo 54: *** Possibilità ***
Capitolo 55: *** Io credo ***
Capitolo 56: *** Discordia ***
Capitolo 57: *** Confessioni ***
Capitolo 58: *** Ricerche ***
Capitolo 59: *** Imprevisti ***
Capitolo 60: *** Ritrovarsi ***
Capitolo 61: *** Brutte notizie ***
Capitolo 62: *** Persa ***
Capitolo 63: *** Fuori ***
Capitolo 64: *** Incubi ***
Capitolo 65: *** Piani ***
Capitolo 66: *** Achernar ***
Capitolo 67: *** Senza Tracce ***
Capitolo 68: *** Insieme ***
Capitolo 69: *** Altrove ***
Capitolo 70: *** Colpe ***
Capitolo 71: *** Priorità ***
Capitolo 72: *** Eclissi ***
Capitolo 73: *** Incertezze e Risoluzione ***
Capitolo 74: *** Frammenti ***
Capitolo 75: *** Nero e Oro ***
Capitolo 1 *** Libero ***
La
Strada Verso Casa
capitolo
1 – Libero
2027
d.c. – gennaio
Stringe
i denti, digrignandoli con forza, e con le unghie della mano libera
si aggrappa tenacemente all'erba gelata che riesce a sentire oltre la
fenditura nel terreno.
Ancora
poco, solo qualche metro, e infine sarà libero.
Ringhia,
quando uno strattone gli fa perdere per un momento la presa
sull'esterno e lo trascina giù di nuovo. Non abbastanza da
farlo
cadere, non abbastanza perché possa arrendersi anche questa
volta.
«No»
esala con voce rauca e affaticata.
Scalcia
rabbiosamente, un piede si libera e cerca un appiglio più
solido nel
cedevole terreno sotto di sé, le dita pallide si contraggono
spasmodicamente e affondano nella brina che la notte precedente ha
lasciato.
Se
solo riuscisse a issarsi un poco più in alto, solo un poco.
Il suo
corpo trema, provato dalla tensione troppo a lungo sopportata. Con
uno sforzo, dettato più dalla disperazione che dalla
speranza,
strappa un braccio dalla morsa che lo ha ostinatamente intrappolato
fino a quel momento e, prima che sia troppo tardi, sfrutta
quell'impercettibile vantaggio raggiungendo l'aria aperta con
entrambe le mani.
Sibila
di dolore, mentre il suo corpo viene stritolato nel tentativo di
bloccare la sua arrancante avanzata, ma assottiglia le palpebre in
risposta. Non intende mollare la presa a pochi passi dalla
libertà,
da una libertà agognata durante gli ultimi, lunghissimi e
oscuri
quindici anni.
Può
già intravvederlo, il fievole luccichio dell'alba che si
riflette
sui cristalli di ghiaccio nella radura lì attorno.
È vicino, così
vicino, così... Un grido soffocato abbandona le sue labbra
secche.
Qualcosa, dentro di lui, brucia, come una lama arroventata piantata
in profondità nel fianco, là dove c'è
invece il guizzo oscuro di
un'ombra che tortura la sua anima (sempre che ne sia rimasta ancora
un po' da fare a pezzi, a questo punto).
I
suoi occhi dorati si chiudono, ma non a causa di una possibile resa
come potrebbero aspettarsi i suoi carcerieri. Ha unicamente bisogno
di qualche istante per concentrarsi, un momento per poter meglio
radunare le sue poche forze.
Le
sue labbra si storcono in un agghiacciante ghigno e, un momento dopo,
dalla profonda fessura nello scuro terreno si affaccia il volto
stravolto e sofferente di quella che appare, in tutto e per tutto,
come una creatura appena uscita da un incubo. Ed effettivamente
è
proprio di questo che si tratta: Pitch Black, un tempo meglio
conosciuto come Nightmare King.
Ma
è trascorso molto tempo da allora, troppo forse.
Ciò che ne rimane
e che giace a terra, riverso sull'erba gelata e debolmente illuminato
da un'alba opaca, è appena un'ombra, tutto quello che resta
di uno
spirito dopo essere rimasto imprigionato sottoterra per quindici anni
alla mercé di Incubi e Ombre molto più oscure
dell'ombra stessa.
Rimane
immobile per molto tempo, mentre il sole si muove lentamente nel
cielo, divenendo più luminoso e rendendo le ombre del
sottobosco più
nette. Si potrebbe pensare che si sia assopito, ma al contrario
è
perfettamente sveglio e vigile, catalogando ogni rumore e decidendo
se esso rappresenti o meno un possibile pericolo per sé.
Quando
riapre gli occhi ha evidentemente deciso che, per il momento,
è al
sicuro, ma che sarebbe certamente più saggio allontanarsi da
quel
luogo, prima che faccia ritorno l'oscurità e con essa le
più
temibili Ombre.
Con
non poca fatica si rimette in piedi e, traballante, si avvia verso il
limitare della foresta, nella speranza di trovare un luogo sicuro nel
quale trascorrere un po' di tempo, tempo di cui necessita per
recuperare, almeno in minima parte, le proprie energie. Al momento,
infatti, non pensa di essere abbastanza in forze né per
viaggiare
attraverso le ombre e neppure per percorrere lunghi tratti di strada
a piedi. Già si sente esausto dopo aver fatto quella breve
camminata
che lo ha condotto alla periferia del paese.
Si
accascia contro la ruvida corteccia di uno degli ultimi alberi in
vista e sospira piano. I suoi occhi si soffermano a osservare la vita
che anima il pomeriggio di quel piccolo paese. Tra poche ore tutti
quegli umani faranno ritorno alle loro accoglienti dimore,
lasciandosi alle spalle il freddo dell'inverno appena sopraggiunto e
facendosi coccolare dal calore all'interno di mura conosciute.
Trema.
È strano: riesce a percepire sgradevolmente la rigida
temperatura
invernale. Non dovrebbe essere così, poiché lui
è uno spirito e
gli spiriti non soffrono il freddo. Ma ora è debole, le sue
energie
sono state consumate fino a lasciare solo una pallida imitazione di
sé. E allora sì, sente freddo, e vorrebbe avere
una casa alla quale
fare ritorno, proprio come ce l'hanno gli umani di quel paese, con un
camino a riscaldarla, con un giaciglio morbido sul quale riposare.
Invece poco dopo, ormai stremato, si addormenta appoggiato al terreno
gelato e al ruvido tronco.
“Le
paure e le sciagure, fanno sentir freddo d'inverno.”
(Proverbio
italiano)
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Capitolo 2 *** Incontri ***
capitolo
2 – Incontri
È
già mattina quando infine si risveglia (o forse sarebbe
più
corretto dire “riprende coscienza”), una mattina
dal colore
lattiginoso. Gli basta un'occhiata distratta all'intorno per
comprenderne il motivo: durante la notte ha nevicato e ora le strade,
i tetti delle case e i rami degli alberi sono ricoperti da una spessa
coltre candida e fredda.
Un
po' di neve è ricaduta anche su di lui e ora, sarebbe pronto
a
scommetterci, deve avere l'aspetto di un maledettissimo elfo
denutrito e con un attacco di dissenteria. Meraviglioso! E fa
addirittura più freddo della sera precedente.
«Risveglio
eccellente» sibila contrariato fra sé.
Fa
un tentativo per rimettersi nuovamente in piedi e poter proseguire il
cammino, ma quella mattina pare proprio che le gambe non intendano
reggerlo. Non sembra, dopo tutto, che il breve riposo gli abbia
giovato. Probabilmente sarebbe più saggio trovare un rifugio
momentaneo, al riparo e al caldo, o di questo passo finirà
col
trasformarsi in una statua di ghiaccio e, in tutta franchezza, i suoi
primi mille anni sulla terra, bloccato in un sonno fittizio
all'interno di una stupida caverna, gli sono bastati per il resto
della propria esistenza, grazie tante.
Mentre
cerca di ritrovare una posizione più comoda fra le radici
dell'albero, le sue orecchie captano nuovi suoni: schiamazzi, per la
precisione. Solleva un sopracciglio, perplesso, e porta la sua
attenzione sulla strada a pochi passi. Un gemito di sconforto sboccia
dalla sua bocca: bambini, ovviamente intenzionati a sfruttare la
mattinata di sole per giocare in mezzo alla neve.
«Voglio
morire» borbotta, chiudendo gli occhi deciso più
che mai a ignorare
ciò che gli accade intorno.
Come
però accade da un po' di anni a questa parte, non pare
proprio che
la fortuna voglia stare dalla sua parte. Qualcosa, oltre alle risate
allegre e ai rumori fastidiosi dei loro giochi, pungola
insistentemente la sua attenzione. Tutta la sua ostinata
volontà non
è sufficiente a distrarlo. Alla fine si vede costretto ad
arrendersi
e riaprire gli occhi per sincerarsi della natura del disturbo.
“Una
bambina, tanto per cambiare” riflette acido. La differenza
è che
questa bambina in particolare non si trova insieme agli altri per
divertirsi, ma è invece ferma poco prima del limitare della
foresta
in cui si trova lui e, all'apparenza, i suoi occhi stanno guardando
dalla sua parte. Questa ultima opzione, tuttavia, è
piuttosto
improbabile: nessun essere umano dovrebbe essere in grado di vederlo
né sentirlo.
Reclina
un poco la testa di lato, incuriosito dal bizzarro comportamento di
quella bambina. Poi lei fa qualche incerto passo nella sua direzione
e lui, suo malgrado, si irrigidisce e rimane in guardia.
Ha
lunghi capelli neri e grandi occhi verdi, all'interno dei quali
può
facilmente scorgere una lucetta curiosa. Quando è ormai a
una
manciata di passi dal suo
albero, la sua piccola bocca rosea si stiracchia in un esitante
sorriso.
«Ciao».
Al
suono improvviso e cristallino della sua voce, lui sussulta e sgrana
gli occhi, ma non risponde (o forse, più probabilmente, non
riesce a
farlo). Lei però non sembra prendersela per il mancato
saluto.
Invece fa un altro passettino avanti, si ferma e stringe le mani
nella sciarpa soffice e calda che porta attorno al collo.
«Tu
chi sei?» torna alla carica, evidentemente decisa a non
lasciarsi
scoraggiare.
Le
sue iridi dorate sono sempre più grandi, come due minuscoli
soli,
mentre la sorpresa lo costringe ancora all'immobilità e al
silenzio.
Si
fissano a lungo a vicenda; lui ancora congelato sotto l'albero, lei
con il sorriso che pian piano si smorza.
«Boogeyman»
mormora con un filo di voce, rispondendo infine alla domanda della
bambina. «E tu?» chiede a sua volta in un soffio,
ancora troppo
sconvolto per darsi un tono.
«Katherine»
esclama, un rinnovato sorriso che torna a esplodere sul suo giovane
volto arrossato dall'aria fredda.
Lui
scuote la testa, confuso. “Katherine” soppesa fra
sé. E può
vederlo, perfino sentirlo, e non sembra avere nessun tipo di timore
in sua presenza. Qualcosa non va, c'è qualcosa di
profondamente
sbagliato in tutta quella situazione, qualche dettaglio che
però non
è in grado di afferrare, ora come ora.
Solleva
incerto gli occhi e ritrova la piccola figura di Katherine ancora
lì,
proprio di fronte a lui, intenta a osservarlo con innata
curiosità
e... Che cos'è quella lieve ombra che scorge in fondo al suo
sguardo
verde? Preoccupazione?
"La
curiosità è una piantina delicata che ha bisogno
soprattutto di
libertà." (Albert Einstein)
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Capitolo 3 *** Scontri ***
capitolo
3 – Scontri
«Che
cos’hai? Stai male?»
chiede la piccola voce di Katherine.
Se
avesse avuto bisogno di respirare, per sopravvivere, non ci sarebbe
mai riuscito a quel punto.
«Tu…
Come puoi vedermi?» annaspa, incapace di processare
adeguatamente
l’informazione.
All’improvviso
se la ritrova vicina, troppo vicina. Cerca di scostarsi, non ci
riesce. Perde l’appoggio sul tronco alle proprie spalle e si
ritrova (di nuovo) riverso al suolo. Una recente, bruttissima
abitudine, a suo modesto parere.
Ora
la sente, la Paura. Il piccolo, seccante impiastro è
spaventato. Le
sue minuscole mani invadenti lo sfiorano appena, ma è come
una
scossa che lo fa urlare per il dolore.
Anche
lei lancia uno strillo spaventato, vedendolo contorcersi sul terreno
duro.
«Mi
dispiace… Mi dispiace» mormora, soffocando a
stento un singulto.
E
vorrebbe avvicinarsi di nuovo, ma è anche terrorizzata
all’idea di
fargli del male, nonostante non capisca in che modo abbia potuto
farlo.
«Mi
dispiace» ripete sconsolata.
«Finiscila»
comanda Pitch, con il fiatone e ancora percorso da un tremito.
Che
cos’è stato? Perché lei è
diversa? O forse è lui a esserlo.
Forse qualcosa, in quei quindici anni passati là sotto, si
è rotto
definitivamente. Forse nulla tornerà mai al proprio posto.
Forse…
forse… Un ringhio frustrato sfugge alle sue labbra e, anche
con gli
occhi chiusi, percepisce la bambina sobbalzare. Sente ancora
l’odore
della sua paura. Dovrebbe essere una cosa buona, dovrebbe poterlo
fare star meglio. Ma non è così. Si sente male,
male come non
ricorda di essere mai stato. Perché?
«Perché?»
mormora, la voce stanca che riflette alla perfezione il suo attuale
stato mentale.
«Non
volevo farti male» assicura Katherine.
“Argh!”
pensa Pitch “Perché diavolo questa piccola
piantagrane dev’essere
tanto insistente e seccante?”. Ma, al solito, non ha risposte
nemmeno alle domande più elementari.
Se
solo avesse la forza di allontanarsene. Non è molto sicuro,
a quel
punto, di potersi permettere di scacciarla. Non riesce neppure a
immaginare quali potrebbero essere le conseguenze.
«Che
cosa vuoi da me?» chiede, ormai arreso
all’inevitabile.
Nessuna
risposta giunge però ad allietare
i suoi delicati timpani. Che se ne sia finalmente andata? Socchiude
le palpebre e sbircia la situazione: no, il mostriciattolo
piagnucoloso è ancora piantato dinanzi a lui e lo fissa con
occhi
liquidi e spauriti. Ma non di lui, dannazione!
Poi
un’idea, d’un tratto, lo assale, e le sue labbra si
piegano in un
macabro abbozzo di sorriso.
«Avvicinati»
ordina senza troppi riguardi.
Katherine
però rimane ferma dov’è, scuotendo la
testa con decisione.
Fantastico!
Un minuto prima era pronto a proteggersi dalle sue fastidiose manine
appiccicose e insidiose, e ora non c’è verso di
convincerla a
farsi più vicino.
«Ti
ho detto di…» riprova, con una punta di
irritazione.
«Non
posso!» lo interrompe lei. «Se poi stai male di
nuovo?».
Pitch
strabuzza gli occhi. “Questo è un
incubo” pensa. “In realtà
non sono mai fuggito e questa dev’essere la mia ennesima
punizione”.
È
assurdo, è tutto troppo assurdo. Quella bambina non
può essere
reale, non ha senso. Si porta le mani al volto. È troppo
debole per
sopportare anche questo, finirà con l’impazzire,
non c’è
scampo.
«Se…
non ti tocco, forse posso stare vicina, eh?» propone
Katherine,
speranzosa.
Lui
punta i suoi occhi dorati sull’impiastro ambulante e la fissa
con
quanta rabbia riesca a racimolare dentro di sé.
«Perché
sei qui? Perché mi parli? Come… Come fai a
vedermi, a… toccarmi?
Come fai?» sbraita, dopo aver definitivamente perso ogni
grammo di
pazienza.
Lei,
tanto per indispettirlo ulteriormente, non sembra minimamente
impressionata dallo sproloquio, piuttosto confusa, se le sue
sopracciglia aggrottate e le sue labbra arricciate sono un indizio.
«Perché
non devo vederti e sentirti? Sei proprio qui, davanti a me, e mi
parli, e mi guardi arrabbiato, e…».
«Basta!»
ringhia lui.
Lei
trasale, ma è sorpresa e sconcerto, non timore né
paura.
Pitch
ha male alla testa, la sente sempre più pesante,
così come il resto
del suo corpo. E ha di nuovo freddo. Smetterà mai di provare
quel
freddo fastidioso? E, infine, se ne rende conto e trema,
perché sì,
lui ha nuovamente paura,
proprio come accadde quindici anni prima. L’avverte
strisciare,
viscida e insidiosa, dentro di sé e non ha la minima idea di
come
liberarsene.
“La
paura non scompare se ignorata, ma cresce in silenzio, e
ritorna.”
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Capitolo 4 *** Rivelazioni ***
capitolo
4 – Rivelazioni
È
appena riuscito a rimettersi seduto contro l'albero, una piccola
vittoria personale, quando qualcosa di soffice avvolge il suo collo
magro. Si osserva un momento e non può fare a meno di
spalancare la
bocca, nonostante lo abbia sempre ritenuto un comportamento poco
elegante. C'è una sciarpa di lana rossa, proprio
lì, che penzola
sul suo petto nero, e ha un profumo dolce, di caramelle.
Quando
volta prudentemente il capo, si ritrova faccia a faccia con il volto
paffuto di Katherine che, nel frattempo, è tornata a
sorridergli. A
lui: a Pitch Black. E gli ha messo la sua sciarpa al collo; una
sciarpa rossa!
“Me misero” sospira dentro di sé.
«Così
non hai più freddo» fa notare Katherine, con
un'allegria a suo
parere eccessiva.
«Mh»
biascica lui, ben poco convinto della validità di quella
pensata.
«E
ti sta bene, sai! Sei tutto così
nero»
rincara lei.
«Ma
non mi dire» replica lui con sarcasmo. «E non ti
sei, per caso,
chiesta come mai?».
Le
ciglia nere sfarfallano veloci sui sorpresi occhi verdi.
«Beh...
No, magari a te piace» ipotizza. «A me piace il
rosso e il verde!»
esclama eccitata.
Pitch
sbuffa esausto. Fare conversazione con gli umani è
normalmente
tedioso, ma fare conversazione con i bambini è una vera
tortura
psicologica, altro che Incubi.
«Non
dovresti fare ritorno a casa?» tenta speranzoso.
«Tua madre
potrebbe essere in pensiero».
Per
qualche motivo, a quelle parole Katherine reagisce incupendosi e
scostandosi di un passo. Lui ha l'impressione di scorgere qualcosa di
strano nei suoi occhi, ma passa veloce e non è in grado di
identificarlo, per lo meno fino a quando non è la stessa
Katherine a
fornirgli un indizio utile.
«La
mia mamma non si preoccupa. È morta due anni fa».
Poi
torna in silenzio e si perde a osservare gli alberi più
fitti
all'interno della foresta, magari con la speranza di vedere qualche
scoiattolo: Katherine va pazza per gli scoiattoli!
Pitch
è indeciso su come comportarsi. Di certo la tristezza non
è un
sentimento utile ai suoi scopi, quindi ritiene sia perfettamente
inutile provare ad alimentarla. D'altra parte, potrebbe rappresentare
la sua unica possibilità di levarsi dai piedi quella piccola
scocciatrice e le sue sciarpe dai colori improponibili (anche se, lo
deve ammettere, è piacevolmente calda contro la sua pelle).
«Senti,
Boogeyman...» torna disgraziatamente alla carica Katherine.
«Pitch»
la corregge lui.
«Cosa?».
«Pitch.
È il mio nome: Pitch Black. Se proprio devi chiamarmi, fallo
come si
deve e usa il mio nome».
«Ma...»
ribatte lei «avevi detto che ti chiamavi
Boogeyman!» protesta
oltraggiata.
Sembra
perfino sconvolta dalla notizia. Pitch, per la prima volta da molto
tempo, ghigna divertito.
«No,
è inesatto. Tu mi hai chiesto chi sono e io ti ho risposto.
Se tu mi
avessi chiesto come mi chiamo, ti avrei detto il mio nome».
Adora
giocare
con i bambini, oh sì! A modo suo, ovviamente.
Katherine
gonfia le guance, indispettita, con l'intensa sensazione che lui la
stia prendendo in giro.
«Io
ti ho detto il mio nome!» precisa piccata.
«Ma
io non te l'ho chiesto» ribatte lui, mentre il ghigno si
allarga.
«Tu...
Oh, tu! Sei cattivo!» sbotta Katherine, con un bruciante
senso di
tradimento in fondo al cuore.
Pitch
assottiglia gli occhi. «Sì, è
ciò che sono. E non serve affatto
che sia tu a dirmelo. Ma grazie comunque per averlo finalmente
notato» sibila.
A
quel punto dovrebbe essere sollevato perché, alla buon'ora,
la peste
ha compreso con chi ha a che fare. Perché, allora, si sente
invece
pervaso da un senso di inadeguatezza? Perché ha quasi
l'impressione
di provare tristezza?
Frustrato
e confuso più che mai, dà un piccolo calcio al
terreno congelato.
Poco dopo è però costretto a irrigidirsi. Se
ciò fosse possibile,
direbbe di essere rimasto senza fiato, ma gli spiriti non hanno
nessun bisogno d'aria, giusto? Katherine lo sta abbracciando
(perché
sì, il suo piccolo volto affondato nelle vesti nere e le sue
corte
braccia che tentano invano di contenerlo tutto sono esattamente
ciò
che sembrano), e non ci sono state spiacevoli conseguenze questa
volta, e il suo corpo è così caldo
e in qualche modo confortante... Che cosa?!
«No»
rantola Pitch, ormai ampiamente giunto al limite, racchiudendosi il
capo fra le mani. «Che cosa stai facendo? Che cosa... mi
stai facendo?». La sua voce, seppur bassa, ha un tono
disperato.
«Scusa.
Non è vero che sei cattivo. Ero arrabbiata con te
e… Non so»
tituba, mentre la sua stretta si fa più decisa, nel vano
tentativo
di consolarlo. «Non ti volevo offendere, sai. Non
è vero che sei
cattivo» rimarca, nel caso il messaggio non fosse stato
chiaro già
la prima volta.
«Lo
sono, invece. Lo sono! Lo sono sempre stato».
E
vorrebbe crederci lui per primo, ma ultimamente non è
più sicuro di
nulla, nemmeno di sé stesso.
“Quasi
tutte le creature che consideriamo malvagie o cattive, sono
semplicemente sole.” (Big Fish · Le storie di una
vita incredibile
- film)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Non
sapere nemmeno che si è malvagi: è questa la vera
malvagità?”
(David Foster Wallace)
|
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Capitolo 5 *** Proposte ***
capitolo
5 – Proposte
«Vattene»
mormora,
ancora intento a strattonarsi i capelli corvini fra le lunghe dita.
«Va' via... Va' via!» grida.
La
sua voce è rauca, ruvida come carta vetrata, e la sente
scivolare in
gola fastidiosamente.
Le
mani di Katherine si aggrappano meglio allo scuro tessuto della sua
veste. Non sembra proprio intenzionata a dargli retta. Pitch
è
esasperato. Ringhia, soffocando a
stento un'imprecazione poco consona, afferra (forse con troppa forza)
le sue piccole spalle e la strattona lontano da sé.
«Lasciami
in pace» sbotta. «Perché sei ancora qui?
Perché non...».
In
tutto questo, deve proprio averla scrollata con eccessiva energia. Il
risultato è che adesso la snervante piattola ha gli occhi
lucidi e
si mordicchia le labbra nell'evidente tentativo di non scoppiare a
piangere.
«Dannazione!»
sibila.
Al
colmo della frustrazione fa uno scatto che lo riporta in piedi per
una manciata di secondi, poi le gambe non riescono a reggerlo e
nuovamente si ritrova a decorare il sottobosco ghiacciato con il
proprio corpo.
«Dannazione»
ripete in un mormorio affaticato.
«Ti
sei fatto male?».
La
voce sottile di Katherine torna a torturargli i timpani e per un
breve momento si domanda se non sarebbe stato meglio rimanere a fare
il fantoccio per le maledette Ombre. Ma subito scuote la testa,
ritenendolo un semplice momento di sconforto (o un inizio di pazzia,
chissà).
«Pitch».
L'interpellato
sbuffa piano. «Cosa?» borbotta, rabbrividendo a
contatto con la
brina.
«Hai
freddo? Vuoi una cioccolata calda? La nonna dice sempre che non
c'è
niente di meglio di una cioccolata per riscaldarsi e
addolcirsi».
«Fantastico»
bercia Pitch.
Per
sua immensa disgrazia, si è appena mentalmente raffigurato
una
vecchietta tutta rughe e sorrisi intenta a distribuire caramelle e
cioccolatini a tutti i bambini del circondario. “Quale somma
delizia” pensa cinico.
«Pitch».
Pitch
geme, maledicendo sé stesso per aver suggerito a quella
specie di
demone in miniatura di chiamarlo per nome.
«Che
cosa?».
Solleva
lo sguardo dal terreno, trovandosi prevedibilmente osservato dagli
occhi sempre troppo curiosi di Katherine.
«Non
ce l'hai una casa?».
Ecco:
come sanno centrare gli argomenti peggiori i bambini, nessuno mai.
«No»
ringhia «non al momento».
«Oh,
per questo sei triste?».
Katherine
allunga una mano, palesemente intenzionata a toccarlo di nuovo, e
Pitch raccoglie le proprie energie residue per scostarsi il
più in
fretta possibile. Peccato non serva a molto, dato che quello sguardo
verde è ancora spiacevolmente incollato su di lui.
«Non
sono affatto triste» si impunta cocciutamente.
«Sì,
invece. I tuoi occhi sono tristi» insiste lei.
Oscilla
sui talloni, evidentemente nervosa e preoccupantemente pensierosa.
«Se
vuoi... puoi venire a casa mia».
Pitch
sgrana gli occhi e scuote la testa sconcertato.
«Tu
sei pazza» decreta.
«No
che non sono pazza!» strilla Katherine, indignata e forse
anche un
po' delusa dalla risposta.
«Oh
sì, tu sei proprio pazza. Non hai ancora capito con chi stai
parlando? Che cosa ti dice il cervello, piccola
sconsiderata?!».
E
non ha la più pallida idea del motivo per cui se la stia
prendendo
così tanto. A lui che cosa importa se l'impiastro ha
tendenze
masochiste e sembra decisa più che mai a passare una gran
brutta
nottata?
Ecco
fatto! Questa volta pare proprio esserci riuscito: Katherine ha
appena iniziato a piangere. Purtroppo, anche questa volta, il
sentimento trainante è la tristezza, mista a un poco di
rabbia e
delusione. Niente paura, nemmeno un briciolo, da nessuna parte. Una
gran bella fregatura, insomma: la prima persona, dopo tanto tempo, in
grado di vederlo non ne è spaventata.
«Io...
non ti piaccio proprio?» chiede Katherine, sconsolata.
«Sei
una bambina. I bambini non mi piacciono. Niente di personale»
precisa Pitch.
«Ma
io sono una brava bambina. Lo dice la nonna» aggiunge, quasi
a voler
mostrare di non essere l'artefice di una tale opinione.
A
Pitch sfugge un lieve ghigno. «Davvero? E cosa ti fa pensare
che
questo, per me, sia positivo?».
Katherine
sembra volersi prendere un po' di tempo per rifletterci e, infine,
tenta «Beh, di solito non combino guai e non do
fastidio».
Pitch
si produce in una smorfia poco convinta, così Katherine si
affretta
a proseguire con la spiegazione.
«Davvero!
Insomma, sono... ehm, tranquilla e non faccio capricci. E so
cucinare!» esclama, nella speranza di aver trovato
l'argomentazione
giusta per convincerlo.
«Io
non mangio» la informa serafico, osservandola divertito
sgonfiarsi
come un palloncino bucato.
«Non
mangi? Mai?» chiede, dubbiosa e un pochino sconcertata.
«A
volte mi è capitato» ammette. «Ma non
è una necessità come
accade per voi umani».
Katherine
cruccia il viso, pensierosa, e si perde a osservare la figura scura
davanti a sé.
«Tu
non sei come noi» riflette, quasi fra sé, e non
è affatto una
domanda questa volta.
«No,
io sono uno spirito» conferma Pitch.
Lei
sgrana gli occhi e, se possibile, lo osserva ancora più
attentamente.
«Oh,
davvero?!». Le sue labbra rosse ora sono di nuovo incurvate
all'insù. «E... cosa fai?» chiede
eccitata.
Pitch
aggrotta le sopracciglia; non è sicuro di ciò che
lei vuole sapere.
«Cosa
faccio
in che senso?» questiona infatti.
«Beh,
sai fare qualcosa? Non so, tipo volare, o far sbocciare i fiori, o
parlare con gli animali...» propone, sempre più
eccitata.
Lui
la fissa scettico e abbastanza incredulo. Invero, sperava di aver
chiarito almeno quel punto. Evidentemente si sbagliava, di grosso
anche.
«Ho
per caso l'aria di una fatina dei boschi, io?» borbotta
piccato.
Katherine
ride divertita a quella che ha correttamente interpretato come
un'acida battuta di spirito.
«No,
non hai neanche le ali colorate» ammette, giusto un filo
dispiaciuta
per la loro effettiva mancanza. «E quindi, che cosa
fai?» insiste,
con tutta l'intenzione di ottenere una risposta valida.
Arreso
all'evidenza di dover spiegare qualcosa che, dal suo punto di vista
almeno, doveva essere piuttosto chiaro, sospira.
«Io
porto gli Incubi e la Paura, di notte, e posso viaggiare attraverso
le ombre e divenire ombra io stesso». “Quando ho
l'energia
sufficiente per farlo” lo pungola spietatamente la sua
coscienza.
Ora
è Katherine a guardarlo con la bocca spalancata,
apparentemente
incredula. Pitch si trattiene a stento dal gongolare soddisfatto,
anche perché, a conti fatti, c'è comunque
qualcosa di sbagliato:
lei, come sempre, non sta mostrando paura, ma sorpresa in questo
caso. Parecchia, a ben vedere. Pitch si chiede, per l'ennesima volta,
dove ha sbagliato.
“La
luce dà origine all'ombra. E più la luce brilla
forte, più l'ombra
che produce è fitta e oscura. A volte, è nera
come le tenebre.”
(Young Black Jack - anime)
*
* * * * * * * * * * * * *
“L'ombra,
come la polvere, è il nostro fondo nascosto. La si vuole
cancellare.
Deve essere un eterno meriggio.” (Roberto Peregalli)
|
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Capitolo 6 *** Crepuscolo ***
capitolo
6 – Crepuscolo
«Oh,
wow! Ma è fantastico!» esclama Katherine
all'improvviso, facendo
sussultare Pitch.
Il
mal di testa è in aumento e Pitch desidererebbe provare
un'aspirina
per vedere se fa effetto anche sugli spiriti, oltre che sugli esseri
umani. E subito dopo averlo pensato dà un paio di capocciate
contro
il tronco alle sue spalle, dandosi dell'idiota per essere arrivato a
tanto. Deve aver dimenticato qualche pezzo importante di sé,
durante
la fuga. Non c'è altra spiegazione a tutto ciò
che gli sta
capitando nelle ultime ore.
Ormai
è il crepuscolo e Katherine, seppur a malincuore,
è costretta ad
ammettere che è ora di tornare a casa, o la nonna
finirà con il
preoccuparsi sul serio.
«Pitch»
mormora incerta, e attende che i suoi occhi dorati si posino di nuovo
su di lei. «Devo tornare a casa».
Indica
con un dito il cielo cremisi già striato di blu, a mostrare
quanto
si sia già fatto tardi.
Lui
fa per levarsi la sciarpa e rendergliela, ma la bambina scuote la
testa con decisione e appoggia le mani sul suo petto a bloccarne i
movimenti.
«Oh,
no. È per te. Qui fuori fa freddo, e così non ti
ammali».
Pitch
inarca un sopracciglio, dubbioso. Vorrebbe farle notare che le
creature come lui non prendono il raffreddore, tuttalpiù si
indeboliscono. Ma Katherine gli sorride convinta e a lui non rimane
che sbuffare contrariato.
«Torno
domani mattina, prometto» assicura Katherine, piena di
speranza e di
buone intenzioni.
Pitch
non è nemmeno certo che rimarrà lì
quella notte, ma non si prende
la briga di contraddirla, con il rischio di ritardare drammaticamente
la sua dipartita.
«Come
vuoi» risponde infatti monocorde.
Quello
che accade subito dopo non lo ha previsto e non sarebbe comunque
riuscito a impedirlo.
Katherine
si allunga su di lui e posa un bacio sulla sua guancia gelata, poi
sorride di nuovo, inspiegabilmente raggiante.
«Buona
notte, Pitch! Sogni d'oro» gli augura, scostandosi veloce e
correndo
come il vento verso casa.
Pitch,
in tutto questo, non è riuscito a emettere neppure un fiato.
È
rimasto semplicemente pietrificato contro il suo albero, incapace di
processare l'accaduto. Solo dopo lunghi minuti, passati in totale
immobilità, sbatte repentinamente le ciglia, ancora
sconvolto, e si
porta le dita tremanti di una mano alla guancia.
«Sogni
d'oro?»
rantola incredulo. «Che... diavolo?!».
Sospira,
il capo appoggiato alla corteccia, e chiude gli occhi. La sua
esistenza sta lentamente sprofondando in un buco nero di
assurdità e
Pitch non ha la più pallida idea di come interrompere
(né tantomeno
invertire) il processo. E la confusione, nella sua testa, aumenta.
Come
era tutto più semplice, qualche tempo fa, quando ancora
poteva
scorrazzare per il mondo e portare il terrore. Nessun pensiero,
nessun problema, solo qualche incubo e la delizia al suono degli
strilli spaventati dei bambini.
Ora
l'unica bambina che lo vede gli augura di fare bei sogni. A lui: il
Nightmare King. E gli ha dato un bacio... Un bacio!
Qual è stato il suo errore? In che cosa ha sbagliato? Non ha
di
certo chiesto lui tutto ciò, gli è piombato
addosso all'improvviso,
sommergendolo e facendolo annaspare sperduto.
Un
tempo non era così, un tempo lui era potente e temuto.
Chiunque,
alla sola menzione del suo nome, tremava spaventato. Ora invece
è
lui a tremare, e una bambina gli ha donato una sciarpa di lana
(ROSSA!) per non sentire freddo.
“Quanto
può essere profondamente ingiusta l'esistenza?” si
chiede Pitch,
sconsolato.
“Una
persona spesso finisce con l'assomigliare alla sua ombra.”
(Rudyard
Kipling)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Se
non procurate di evitare che vi si facciano piccole ingiustizie, vi
troverete in breve nel caso d'osar di tutto il vostro sapere per
assicurarvi da offese maggiori.” (Confucio)
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Capitolo 7 *** Doni ***
capitolo
7 – Doni
Spalanca
gli occhi all’improvviso. Un tremito violento lo scuote,
facendolo
gemere piano. Si dev’essere addormentato, a un certo punto.
Dopo la
comparsa delle stelle ha tentato di rimettersi in marcia, deciso
più
che mai ad allontanarsi da quell’infausto paesino di
provincia, ma
non ha fatto i conti con la debolezza dilagante.
Se
solo la temperatura non fosse così rigida, probabilmente a
quell’ora
avrebbe già recuperato parte delle proprie energie. Ma
così, il
vento gelido lo costringe a spenderle per proteggersi e non gli
lascia altra scelta se non attendere un momento migliore.
Chissà,
forse dovrebbe sul serio provare a bere qualcosa di caldo, potrebbe
servire a ricaricarlo un po’, quel tanto che basta per
percorrere
ancora qualche chilometro. Essere costretto a rimanere tanto vicino
al luogo nel quale è rimasto intrappolato per tutti quegli
anni non
lo rende per niente sicuro. Se le maledette Ombre decidessero di
mettere il naso fuori, non ci metterebbero nulla a ritrovarlo e a
riportarlo nelle oscure profondità della loro tana.
Ripiega
le ginocchia al petto e serra ostinatamente la mascella. Questa volta
ci riuscirà, deve riuscirci, a ogni costo; non
può permettersi di
perdere tempo in quel modo. Appoggia, il più saldamente
possibile,
le mani sul terreno e fa forza; le braccia tremano incontrollate, ma
non demorde. Sposta appena il peso sulle gambe, solo un poco. La
schiena struscia contro la corteccia, le braccia si spostano
reggendosi al tronco. Ancora un po’, non manca molto. Ora
sono le
ginocchia a tremare. Socchiude le palpebre per mantenere la
concentrazione. Piano, ora: ce l’ha quasi fatta, solo un
piccolo,
ultimo sforzo.
«Ehi,
sei in piedi!»
esulta una vocetta, fin troppo conosciuta, poco distante da lui.
Per
un soffio non perde l’equilibrio stramazzando a terra come un
sacco
di patate. Ringhia seccato, reggendosi a stento al suo albero.
«Sei
tornata, vedo»
sibila, per nulla lieto della novella.
«Oh,
sì!»
esclama Katherine raggiante. «Ti
sono mancata? Tu tantissimo!».
«Come
no. Come un mal di stomaco a Capodanno»
bercia Pitch.
Katherine
invece, come c’era da aspettarsi, ridacchia divertita e per
nulla
offesa; si direbbe, anzi, tutto il contrario.
«Ti
ho portato una cosa»
bisbiglia poi con fare cospiratorio.
Affonda
una mano nella tasca del cappotto e ne estrae un piccolo involto che
porge a Pitch con visibile ansia.
«Per
te»
aggiunge nervosa.
Lui
fissa sospettoso il pacchetto, poi Katherine e di nuovo il pacchetto.
Non fa nulla per avvicinarsi né tantomeno per raccoglierlo
dalle
mani di lei (non che lei se lo aspettasse realmente).
«Che
cos’è?»
chiede invece, aggrottando la fronte.
Katherine
abbozza un timido sorriso e si avvicina di un passo, dato che lui
palesemente non sembra intenzionato a muoversi dalla sua posizione.
«Ho
pensato che…»
inizia. Ma è indecisa, così riparte da capo. «Sai,
quella cosa della cioccolata calda della nonna…
Però non te la
potevo mica portare, no? Ecco, allora ti ho portato questo. Non
è lo
stesso, ma… credo che… Uff! Tieni, prendilo e
basta!»
borbotta infine, piazzando bruscamente il piccolo involto nella mano
di Pitch.
Lui
la osserva stranito e soppesa il pacchetto nella sua mano, suo
malgrado turbato. È
un regalo,
quello. Ed è già il secondo che riceve da quella
bambina, il terzo
se si considera anche il bacio. La Paura, inattesa e sgradita, torna
ad arrampicarsi al suo interno, scuotendolo leggermente e facendolo
boccheggiare. Infine, spazientito da sé stesso, si decide a
scoprire
che cosa si è inventata questa volta la piccola peste.
Appoggia
cautamente la schiena all’albero e afferra
l’involto con entrambe
le mani. È
ricoperto da un fazzoletto bianco che scosta con le lunghe dita,
scoprendo una scatola di cartone con all’interno… quadretti
di cioccolato.
Li fissa, costernato, per un tempo che pare dilatarsi
all’infinito.
Katherine
ha raggiunto e ampiamente superato il suo limite di pazienza. Deve
proprio fare qualcosa e, in mancanza di altre idee, decide che
sommergere tutto di chiacchiere debba essere la soluzione giusta.
«Non
sapevo quale gusto preferisci. Ne ho portati tanti, così
puoi
scegliere, eh? Allora, che dici?».
Poi, vedendo che lui non sembra minimamente intenzionato a dare
risposte, prova a richiamarlo all’attenzione. «Pitch…»
tenta incerta. «Forse
non ti piace il cioccolato»
riflette quasi fra sé, sconsolata.
Finalmente
Pitch solleva lo sguardo su di lei, gli occhi ancora un po’
sgranati per l’incredulità.
«No,
io… Il cioccolato va bene, mi piace»
mormora, confuso.
E
di nuovo deve sforzarsi per non schiantarsi al suolo, ora che la
piccola peste si è presa la libertà di
fiondarglisi addosso,
affondando il viso nel suo stomaco e le mani attorno alle sue gambe
traballanti.
“I
piccoli regali conservano le grandi amicizie.” (Proverbio
francese)
*
* * * * * * * * * * * * *
“L'ostinazione
è un male molto forte; si aggrappa al cervello e spezza il
cuore.”
(Isabel Allende)
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Capitolo 8 *** Domande ***
capitolo
8 – Domande
«Assaggiane
un pezzettino. Dai, dai, dai!» trilla Katherine esaltata.
Pitch
sospira stremato. La voce della bambina è come un trapano a
percussione nel proprio cervello già malandato di suo. Se
solo
stesse in silenzio per un po’, solo un poco, come renderebbe
tutto
più piacevole
Non
è affatto avvezzo ad ascoltare le chiacchiere dei bambini.
Sono così
rumorosi, raggiungono picchi sonori mai sentiti prima, e lui ha
vissuto troppo a lungo in un silenzio di tomba. Inoltre, prima di
ciò, il suo massimo diletto era far loro visita di notte,
per
seminare un po’ di sano
terrore. Ma a parte qualche strillo agghiacciato, non ci si
è mai
veramente soffermato, non lo ha mai ritenuto necessario ai propri
scopi. Ora invece è costretto, per cause di forza maggiore,
a
sorbirsi la compagnia affatto richiesta di una di loro. E la cosa
peggiore è che, ha il malsano sospetto, questa in
particolare sia
una delle meno piantagrane e rumorose della sua specie. Di tanto in
tanto si sofferma a osservarne il comportamento e, non senza una
certa sorpresa, si rende conto che in qualche modo Katherine sa
essere rispettosa dei bisogni del prossimo e molto empatica.
«Pitch».
«Mh?».
«Posso
chiederti una cosa?».
Dal
tono che ha usato la bambina, Pitch può facilmente intuire
che sarà
una di quelle domande scomode e complicate che solo i bambini
riescono a porre senza remore. Sospira di nuovo, affranto e arreso
all’inevitabile.
«Se
proprio lo ritieni necessario» borbotta senza un grammo di
convinzione.
Katherine
abbozza un sorriso che sa di incoraggiamento, poi prende fiato.
Sarà
una cosa lunga e tediosa? Pitch inizia seriamente a preoccuparsi.
«Perché
stai qui?».
Lui
sbatte le palpebre un paio di volte, perplesso. Lei intuisce di non
essere stata troppo chiara, così ci riprova.
«Nel
senso… Hai detto che non hai la casa…»
nota che Pitch sta per
ribattere, così si affretta a mettere le mani avanti e a
proseguire
velocemente. «Per ora! Non hai la casa, per ora»
precisa. «Così,
pensavo… Perché non sei a cercare una casa nuova
o… non so,
qualcosa del genere?».
«È
troppo presto» ribatte piccato.
«Troppo
presto per cosa?» indaga incuriosita.
«È
una storia lunga. E no, non intendo raccontartela, nel caso te lo
stessi chiedendo».
Il
sorriso di Katherine si affievolisce un po’, ma lungi dal
perdersi
d’animo parte immediatamente al contrattacco.
«Quindi
aspetti qui? E cosa aspetti? È qualcuno? O è
qualcosa? O…».
Pitch
sbuffa con forza, travolto da quell’irritante terzo grado.
«Non
sto aspettando proprio nessuno! Non… Ho provato ad
andarmene»
ammette, nonostante sia davvero l’ultima cosa che desidera.
«Ma
non ci sono riuscito» soffia irritato e in parte
demoralizzato al
ricordo del recente insuccesso.
«Oh…
È perché non stai bene?» chiede
Katherine con tono gentile e
comprensivo.
Lui
si limita ad annuire riluttante e spera sia finita lì, ma
è una ben
misera speranza la sua.
«Sono
sicura che se mangi un po’ di cioccolato dopo stai meglio.
Prova.
Oh, ti prego, solo uno» lo incoraggia lei.
Le
insistenze estenuanti di quel soldo di cacio, sommate alle recenti
traversie, non aiutano di certo a farlo rilassare,
tutt’altro.
Così, dopo aver cercato di incenerirla (inutilmente) con uno
sguardo
al cianuro, espira lentamente e si lascia cautamente scivolare al
suolo (tanto non avrebbe comunque retto ancora a lungo, incaponendosi
nel voler rimanere in piedi).
Lei,
prevedibilmente, gli si fa più vicina e gli offre un sorriso
incoraggiante. Così Pitch allunga esitante una mano, afferra
fra due
dita un piccolo quadretto di cioccolato al latte e, dopo
un’ultima
e sospettosa annusatina, lo cattura fra le labbra livide e lo fa
scivolare dolcemente sulla lingua. Un minuscolo, soffice mugolio fa
vibrare la sua gola e, registrando in ritardo quel suono
indesiderato, le sue guance si colorano appena di un tenue violetto.
Oh,
ma Katherine è una bambina attenta e scrupolosa, che sa come
osservare il mondo intorno. E Katherine ha sentito e ha visto molto
più di quanto le serva per caricarsi di nuova speranza.
Quello,
pensa fra sé, non è che l’inizio.
“Questa
è la vera natura della casa: il luogo della pace; il
rifugio, non
soltanto da ogni torto, ma anche da ogni paura, dubbio e
discordia.”
(John Ruskin)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Il
cioccolato è materia viva, ha il suo linguaggio interiore.
Solo
quando si sente oggetto di intima attenzione, e solo allora, esso
cessa di ammaliar la gola e si mette a dialogare con i
sensi.”
(Alexander Von Humboldt)
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Capitolo 9 *** Andata e Ritorno ***
capitolo
9 – Andata e Ritorno
«Pitch».
Pitch,
distratto dal secondo quadretto di cioccolata che si sta lentamente
sciogliendo nella sua bocca, non si avvede immediatamente
dell’ennesimo richiamo della bambina.
Katherine,
con cautela, gli sfiora la spalla e si ritrova improvvisamente
trafitta dai suoi occhi dorati, che la scrutano più in
profondità
di quanto abbia mai potuto fare chiunque altro.
«Ehm…
Volevo solo dirti che tra poco devo andare a scuola. Ma pomeriggio
torno!» assicura.
«Come
preferisci» ribatte come sempre Pitch, il quale non sembra
volerle
concedere alcun tipo di soddisfazione, per lo meno
all’apparenza.
Ma
lei gli offre comunque un sorriso gentile e, tutto sommato, si
ritiene piuttosto fortunata che lui, al posto di quelle sue repliche
monocorde, non le dica chiaro e tondo di non tornare più.
Quello sì
sarebbe un ben duro colpo da digerire.
«Ci
vediamo più tardi, allora» esclama allegramente.
Prima
di andarsene, lascia sulla sua guancia fredda un altro minuscolo
bacio.
Lei
è già sparita all’interno del paese da
qualche minuto, quando
Pitch solleva una mano e con le dita si sfiora pensieroso la guancia
vittima
dell’ennesima libertà della bambina.
Dovrebbe
allontanarsi da lì, da quel buco di provincia. Lo sa bene:
più
tempo rimane e più pericoloso diventa. Certo, fino a ora ha
sempre
avuto una giustificazione più che buona per la sua
permanenza in
quel posto. Tuttavia ora sente di potersi permettere qualche sforzo
in più. Infatti poco dopo si rimette in piedi e, anche se
non ancora
perfettamente saldo sul terreno, pochi passi di prova gli confermano
che quel giorno stesso potrà rimettersi in cammino.
Si
volta un momento a osservare la foresta alle proprie spalle e non
può
fare a meno di lasciarsi scorrere un sottile tremito lungo la schiena
al pensiero di ciò che cela quell’intrico di
alberi secolari.
Scuote la testa e punta lo sguardo in avanti, verso una meta ancora
lontana.
Prima
di avviarsi, osserva indeciso la scatoletta che ancora regge in una
mano e le sue labbra curvano impercettibilmente verso l’alto,
mentre la fa scivolare in una delle tasche della sua veste nera. Solo
allora si allontana definitivamente dall’albero che
è stato suo
negli ultimi due giorni e si incammina ad attraversare il paese che
gli si para di fronte.
Non
è avvezzo a spostarsi durante il giorno, quando il sole
è alto. Ma
visti i recenti sviluppi della sua esistenza ritiene che, per il
momento, sia più saggio: viaggerà durante il
giorno e troverà
rifugio nelle ore buie. Questo sicuramente gli offrirà
qualche
vantaggio su quelle creature che ha lasciato là sotto.
Ha
già quasi attraversato l’interezza di quel paese
(che certo non è
enorme, ma ha comunque il suo peso). Forse, dopo tutto, il cioccolato
è un ottimo modo per recuperare velocemente un po’
di energie.
Chissà che con qualche altro quadretto non riesca anche a
spostarsi
attraverso le ombre. Sarebbe davvero favoloso, se fosse possibile.
Gli
spazi aperti già si intravedono non troppo distanti, e Pitch
per una
volta si rallegra dei progressi fatti, quando qualcosa arresta
bruscamente il suo incedere deciso. Sibila, portandosi una mano alla
tempia e scuotendo la testa ora nuovamente dolorante.
C’è qualcosa
che non va, ma cosa? Tenta un altro passo, nella speranza che il
dolore e il disagio passino, ma al contrario una fitta più
decisa lo
fa barcollare mezzo tramortito.
«Maledizione!»
sbotta, incredulo per quell’ennesimo ostacolo.
Così
si rassegna all’idea di scoprire la sorgente del problema e,
spostandosi in un angolo in ombra, si concentra sulla sgradevole
sensazione che ancora lo sta assalendo: Paura. “Naturalmente,
che
altro se no?” si domanda acido. Ma realmente, questa volta,
c’è
dell’altro, qualcosa di più specifico, qualcosa
che dovrebbe
conoscere, eppure gli sfugge. Almeno fino al momento in cui, per un
istante, la sensazione diviene intensa, quasi insopportabile, per poi
scemare nuovamente a livelli più tollerabili. Katherine. Ed
è così
luminosa, ora, la consapevolezza, che si chiede come possa averci
messo così tanto per capirlo.
«Che
cosa succede?» chiede, quasi il silenzio del pomeriggio possa
rispondere ai suoi dubbi. «Cosa?!».
Paura.
Di nuovo. Più forte ora, qualcosa di più limpido
e crudo. Qualcosa
come… Geme, stringendo i denti all’ennesima
stilettata che gli
arriva diritta al cervello, così precisa da sembrare un
bisturi.
«D’accordo…
D’accordo!» sbotta frustrato.
E
non ha altra scelta. Non c’è abbastanza tempo per
camminare.
Semplicemente, che lo possa fare o meno, deve spostarsi nel modo
più
rapido che conosca: attraverso le ombre.
È
un battito di ciglia. Si ritrova, confuso e frastornato, un poco
più
debole di quando è partito, in un luogo sconosciuto, ma alla
presenza di qualcuno di conosciuto.
Katherine
è lì, poco distante da dove si trova Pitch, ma
non lo ha ancora
veduto. Non può, d'altronde; è evidentemente
troppo impegnata a
tenere lontani da sé cinque ragazzini che sembrano avere
tutte le
intenzioni di farle del male; se a parole o con i fatti è
tutto da
stabilire.
Ma
Pitch non ha né la voglia né tantomeno il tempo
di osservare
l’evolversi della situazione. È stanco,
è dolorante ed è
decisamente arrabbiato. E la piccola Katherine è
terrorizzata, come
non lo è mai stata veramente in sua presenza.
«Maledetti
piccoli teppisti» sibila contrariato.
Infine
si fa avanti. Loro non lo possono vedere né sentire, ma
questo, dopo
tutto, non è un grande problema per Pitch. È
comunque ancora in
grado di infondere una buona dose di terrore, quando si applica con
disciplina.
Si
accosta, silenzioso, alle spalle di quello che gli pare il
più
promettente dei cinque e, chinandosi su di lui, mormora poche oscure
parole al suo giovane orecchio. Parole che hanno l’effetto di
far
sbiancare il malcapitato, il quale, senza apparente ragione, inizia a
tremare incontrollabilmente e infine urla sgomento, incespicando
all’indietro. Pochi istanti dopo si volta, con impressa in
volto
l’aria di qualcuno che è appena passato attraverso
un fantasma, e
se la dà a gambe a una velocità che nessuno si
sarebbe mai
aspettato. Gli altri quattro, dapprima lo fissano straniti; poi gli
gridano di fermarsi, di aspettare; infine, confusi, decidono di
seguirlo, liberando il campo dalla loro presenza per nulla gradita.
Pitch
invece segue l’intera scena e ghigna, perché no, a
quanto pare non
ha del tutto perso il suo tocco oscuro, e questa sì che
è un’ottima
notizia. Si sente, in qualche modo, confortato da questa nuova
consapevolezza. Dopo tutto è ancora il Nightmare King,
almeno per i
teppisti in erba.
“Forse
la vita è come un fiume che va al mare: forse non siamo
andati dove
intendevamo andare, ma siamo finiti dove avevamo bisogno di
essere”
(Fabrizio Caramagna)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Il
camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo
aspetto e pure che qualcosa cambi in noi.” (Italo Calvino)
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Capitolo 10 *** Trattative ***
capitolo
10 – Trattative
Pitch
barcolla e incespica malamente in avanti, travolto
dall’improvviso
peso di qualcuno alle sue spalle.
«Ma
che… ?» borbotta seccato.
Quando
infine, a fatica, riesce a voltarsi di poco, come c’era da
aspettarsi ritrova Katherine, appiccicata alla sua schiena come
un’irritante ventosa umana. Pitch solleva gli occhi al cielo,
sospirando e invocando pazienza.
«Grazie…
Grazie» mormora Katherine, la voce mezza soffocata dalla
veste nera
nella quale ha seppellito il volto.
«Va
bene. Adesso, però… Lasciami andare,
d’accordo?» sibila Pitch,
che sta cercando inutilmente di liberarsi dalla presa ostinata di
quelle piccole braccia invadenti.
«Sì,
io… Scusa».
Katherine,
anche se a malincuore, lascia la presa su di lui e si allontana di un
paio di passi, asciugandosi gli occhi contro la manica del giaccone.
Quando torna a sentirsi meno spaurita, solleva gli occhi arrossati su
di lui e gli regala un lieve sorriso.
«Grazie».
«Già
lo hai detto, mi pare» fa notare Pitch, infastidito (anche se
non sa
bene da cosa).
Katherine
ridacchia. Mezza giornata lontana da lui e già le
è mancata la sua
acidità corrosiva. Lei, personalmente, la trova piuttosto
spassosa.
Ma forse, riflette, non è il caso di farne parola con lui,
almeno
per il momento.
«Lo
so. Come hai fatto a trovarmi?» chiede a quel punto, curiosa.
Pitch
sta ancora sistemandosi la veste stropicciata e solleva appena lo
sguardo su di lei, uno sbuffo annoiato a fare da contorno alla sua
occhiataccia, che non serve però in alcun modo a scalfire
lei e il
suo inspiegabile buon umore.
«La
tua paura. Mi ha assillato al punto da costringermi a precipitarmi
qui» spiega caustico, allargando un braccio a mostrare il
luogo a
lui sconosciuto.
«Oh…
Sul serio?» si meraviglia Katherine.
«Puoi… Cioè, tu senti la
paura di tutti e… ?».
«No»
la ferma Pitch. «Normalmente avverto le paure unicamente di
coloro
cui sto dando la caccia. Tutte le altre vengono solitamente
schermate, altrimenti finirebbe per scoppiarmi la testa».
«Eh
già» ammette Katherine. Poi cruccia le
sopracciglia, dubbiosa.
«Però hai sentito la mia».
Lui
sospira, massaggiandosi una tempia stancamente. Sì, certo
che l’ha
avvertita, forte e chiara (fin troppo, in effetti).
«Sì,
l’ho fatto» bisbiglia.
È
un po’ preoccupato, a dire il vero. Non avrebbe dovuto
percepire
proprio nulla. Non ne aveva l’intenzione ed era concentrato
su ben
altro in quel momento. Perché, allora, gli è
giunta quella di
Katherine? Perché così ineluttabile e invadente
da non permettergli
nemmeno di ignorarla e proseguire per la propria strada? È
strano, e
inspiegabile, e… Katherine lo sta toccando nuovamente,
stringendogli una mano.
«Che
cosa?» chiede irritato.
«Hai
le mani fredde. Forse devi mettere dei guanti» propone lei.
Pitch
storce il naso. «Ho sempre le mani fredde. E non ho alcun
bisogno di
stupidi guanti».
«Beh,
se li metti poi non hai più le mani fredde» spiega
pazientemente,
quasi dovesse illustrare un concetto elementare a un bambino di tre
anni.
«Ma
tu non ti arrendi mai?!» sbotta Pitch. «Non hai
proprio nient’altro
di meglio da fare?» domanda incredulo.
Katherine
si imbroncia per un momento, ma presto torna serena.
«Forse
sì, ma mi piace stare con te» ammette candida.
Pitch
la fissa costernato. Non può essere vero. È
talmente assurdo e
irreale. Come… come può essere possibile?
Katherine è una bambina
umana, non ha alcun senso che… trovi
piacevole la sua compagnia.
Proprio nessuno.
Sospira,
scoraggiato. Estenuante, è assolutamente estenuante. Che
cos’altro
accadrà, ora? Cosa troverà ad attenderlo, nel
momento in cui si
deciderà a riaprire gli occhi, ostinatamente serrati per la
frustrazione? Li socchiude appena, cauto, preparandosi al peggio.
Katherine
sorride ancora, apparentemente instancabile, e gli stringe una mano
con una caparbietà incrollabile.
«Andiamo,
dai» lo sprona.
Pitch,
confuso, la fissa senza proferir parola.
«Dai,
dobbiamo trovare dei guanti» insiste lei, irremovibile.
«No
che non dobbiamo» sibila Pitch, provando perfino a essere
minaccioso, ma risultando solamente petulante.
Già
se lo immagina: un paio di guanti di un qualche assurdo, improbabile
colore creato unicamente per ferire a morte le sue povere e delicate
retine, abituate alla rilassante penombra. Tipo turchese o, il cielo
non voglia, rosa!
«Sì,
dai!» esclama lei per tutta risposta, trascinandoselo dietro
seppur
visibilmente recalcitrante. «Il colore lo scegli tu,
giuro!»
assicura, quasi abbia letto le sue più oscure preoccupazioni.
Pitch,
costretto controvoglia a camminarle appresso, storce il naso poco
persuaso.
«Su
serio?» si accerta, dubbioso.
«Certo!».
E
Pitch si chiede perché i bambini debbano sempre gridare con
quel
tono da lesione al timpano quando sono entusiasti.
«Grigi»
decreta inappellabile.
«Oookey!
Grigi sia!» strepita Katherine, al colmo della gioia
perché non può
credere alla fortuna di poterlo avere con sé ancora per un
po’.
“La
riconoscenza è la memoria del cuore.” (Proverbio
italiano)
*
* * * * * * * * * * * * *
“La
sensibilità è una condanna ma ti consente di
cogliere migliaia di
colori in un viaggio in bianco e nero.” (Michelangelo Da Pisa)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Come
un nulla senza possibilità, un nulla morto dopo la morte del
sole,
come un silenzio eterno senza avvenire, risuona interiormente il
nero.” (Vasilij Kandinskij)
|
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Capitolo 11 *** Pomeriggi Assolati ***
capitolo
11 – Pomeriggi Assolati
Katherine
trascina Pitch in giro per le vie del paese, in un freddo ma assolato
pomeriggio, alla ricerca del negozio adatto in cui poter trovare
qualcosa che vada bene per lui.
A
un tratto, però, si sente strattonare scompostamente
indietro e ha a
mala pena il tempo di voltarsi, per poter capire cosa succede, prima
di vedere Pitch appoggiarsi con la mano libera al muro più
vicino.
«Stai
male?» si allarma Katherine.
«Stavo
meglio prima» sibila Pitch, mentre tenta di rimettere a fuoco
la via
che stavano percorrendo giusto un attimo prima.
Ha
bisogno di ombra e, possibilmente, di silenzio. Invece si trova in
pieno centro paese, nel bel mezzo di un maledetto e assolato
pomeriggio di chiacchiere e shopping. Per di più ha
seriamente corso
il rischio, più e più volte, di vedersi passare
attraverso
marmocchi allo sbando e animali domestici di varia natura. Uno
stress, insomma.
«Pitch?»
la voce di Katherine è insicura e visibilmente preoccupata.
“Devo
proprio avere un aspetto orrendo” riflette Pitch. Digrigna i
denti
e serra con forza gli occhi, nella vana speranza di isolare, almeno
in parte, sé stesso dal resto del mondo. Fatica inutile.
«Mi
serve… un po’ di ombra» mormora con voce
tremante.
Katherine
spalanca gli occhi verdi, consapevole, e in fretta si guarda intorno,
individuando infine un piccolo portico che conduce a un modesto
cortile interno. Non è molto ma, per il momento, si augura
possa
bastare.
«Vieni.
Non è lontano, ti ci accompagno io» assicura,
sperando di risultare
tranquillizzante.
Questa
volta la stretta sulla sua mano vuole solo essere di conforto e la
piccola Katherine si limita a rimanere al suo fianco e a guidarlo
nella direzione giusta. Niente corse frenetiche né strilli
eccitati,
grazie al cielo.
Pitch
avanza lentamente, senza perdere il contatto della mano libera con i
muri delle case che li attorniano, e quando giunge infine oltre
l’arco del portico indicato da Katherine, sospira grato. Una
manciata di passi dopo si stende al fianco di un’aiuola
sempreverde
e lascia che le palpebre scivolino pesantemente verso il basso.
Non
trascorre molto tempo, prima che Pitch avverta qualcosa di caldo
contro il suo petto. Poco dopo può sentire ancora una volta
l’odore
di caramelle di cui era impregnata la sciarpa rossa, prima che la
indossasse lui. È Katherine, che ha evidentemente deciso di
fargli
compagnia anche durante un necessario riposo.
«Scusa.
Non avevo capito» ammette Katherine, dispiaciuta.
«La
cosa non mi sorprende affatto» risponde Pitch, senza neppure
troppa
convinzione.
Si
scosta incerta, riflettendo un momento prima di rimettersi in piedi.
Lui ora la sta osservando quasi con curiosità.
«Torno
subito» lo rassicura.
«Come
vuoi» replica Pitch, con il suo solito tono apparentemente
disinteressato.
Katherine
sorride alle sue parole e, prima di allontanarsi sul serio, si china
appena un poco su di lui. «Torno subito per
davvero».
Poi corre via, alla velocità di un uragano.
Pitch
sta ancora osservando stancamente il punto in cui la bambina
è
scomparsa, inghiottita dalla gente intenta a fare compere. Si
domanda, non per la prima volta, che cosa ci faccia ancora
lì.
Certo, al momento non crede affatto di poter fare anche solo un altro
passo verso qualsivoglia direzione. Tuttavia, prima che la piccola
peste lo trascinasse in quella specie di inferno di colori e di suoni
assordanti, avrebbe potuto benissimo cogliere l’occasione per
darsela
a gambe…
cioè, per allontanarsi elegantemente alla volta di qualche
luogo più
ameno e ospitale.
Invece
è rimasto, e ha permesso a quel piccolo demonio delle
caramelle di
trascinarlo letteralmente con sé, in un’insensata
quanto inutile
spedizione alla ricerca di solo il cielo sa cosa. Perché?
È una
domanda che continua insistentemente a riproporsi, da ben due giorni
ormai, e alla quale ancora non sa dare risposte soddisfacenti.
E
a proposito di ciò che torna: Katherine fa nuovamente la sua
comparsa sulla soglia del portico che lo ha gentilmente ospitato, e
sbandiera allegramente ai quattro venti uno dei suoi sorrisi
smaglianti e vergognosamente soddisfatti. Di cosa, esattamente, non
gli è dato saperlo (per ora).
Solo
quando lo raggiunge e si accuccia al suo fianco, Pitch nota che
Katherine sta letteralmente tremando di eccitazione e, in quel
momento, ringrazia chiunque lo abbia messo su quella terra di non
poter leggere le emozioni positive o a quel punto, in compagnia di
quella bambina, gli sarebbe già scoppiata la testa da un bel
pezzo.
«Ti
ho portato una cosa!» esulta Katherine, in preda alla
frenesia del
momento.
Pitch
solleva gli occhi al cielo e, rassegnato all’inevitabile,
chiede
«Ovvero?» già sospettando di doversene
pentire in un futuro
nemmeno troppo remoto.
«Tadan!»
esclama teatralmente lei, piazzando davanti al visto attonito di
Pitch un grosso contenitore, vagamente cilindrico e coperto da un
tappo dalla forma bizzarra.
«Mh»
commenta Pitch, per nulla impressionato. «E
sarebbe?» indaga.
Katherine
sbatte le palpebre confusa, forse non aspettandosi quel
tipo di reazione.
«Non
lo sai?» chiede incerta.
«Evidentemente»
strascica Pitch, quanto mai seccato dalla scarsa considerazione alle
sue semplici domande.
Invece
di rispondere a parole, Katherine afferra nuovamente, ma con
gentilezza, la sua mano e la guida a stringere l’oggetto
sconosciuto.
Nel
momento in cui le dita gelate di Pitch vi si poggiano, i suoi occhi
dorati si sgranano e un piccolo sobbalzo di sorpresa scuote il suo
corpo.
Katherine,
invece, sorride soddisfatta, osservando il modo in cui lui sporge
anche l’altra mano ad avvolgere il contenitore del mistero in
cerca
del suo inatteso calore.
«Visto?
Cioccolata calda! Non è proprio come quella della nonna,
ma…».
Altro
però non riesce a dire, Katherine, folgorata nel bel mezzo
del suo
sproloquio da qualcosa che, fino a un istante prima, viveva solo
nella sua fantasia: Pitch sorride. Ok, non proprio come lo fa di
solito lei, ma quello che Katherine può vedere è
certamente un
sorriso; deve proprio esserlo! Anche se le sue labbra sono
praticamente viola e solo un angolo è sollevato
all’insù. Oh, ma
che importanza ha?! Pitch sorride: questa è
l’unica vera
cosa importante.
“Era
solo un sorriso, niente di più. Una piccola cosa. Una
fogliolina in
un bosco che trema al battito d'ali di un uccello
spaventato.” (Il
cacciatore di aquiloni – film)
*
* * * * * * * * * * * * *
“I
colori, i suoni, gli sguardi raccontano il nostro tragitto. Un colore
mi può incantare, uno sguardo mi può far
innamorare, un sorriso mi
fa sperare.” (Monica Vitti)
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Capitolo 12 *** Impronte sul Cammino ***
capitolo
12 – Impronte sul Cammino
Pitch
è, piuttosto comicamente, raggomitolato contro la siepe, il
grosso
bicchiere stretto tenacemente fra le mani e uno sguardo
inquietantemente spiritato fisso sul contenitore.
«Come
si apre?» chiede, a un certo punto, imbarazzato.
E
giusto per non smentirsi mai, Katherine ridacchia divertita e, per
pura bontà di spirito, «Così,
ecco» scoperchia per lui il
bicchiere.
Pitch
avvicina maggiormente il bicchiere, socchiude gli occhi e annusa,
questa volta evidentemente non con spirito sospettoso, ma
semplicemente per godersi per bene il profumo.
Il
bizzarro gorgoglio che emette ricorda distintamente a Katherine un
gatto che fa le fusa. Un enorme, nero gatto dagli occhi dorati.
Ridacchia di nuovo, dei suoi stessi pensieri folli, e si mette comoda
osservando felice lo spettacolo del grosso gatto alle prese con la
cioccolata calda.
«Deliziosa»
mormora Pitch, leccandosi i baffi...
ehm, le labbra.
«Allora
è vero che ti piace il cioccolato» nota Katherine,
gongolante per
aver fatto quella nuova, importante scoperta.
«Mh»
è tutto ciò che ha da dire Pitch a riguardo.
«E
cos’altro ti piace?» ritenta Katherine.
Pitch
sposta momentaneamente lo sguardo dalla sua cioccolata agli occhi
curiosi e indagatori di Katherine, poi sbuffa vagamente scocciato.
«Spaventare
a morte gli stupidi marmocchi petulanti, per esempio»
riflette
acido.
«Uh…
Beh, con quei cinque ragazzi hai fatto un grande lavoro»
concorda
Katherine.
«Vero?»
ghigna Pitch, tronfio e compiaciuto del proprio successo.
«Cos’altro?»
insiste lei.
Pitch
si agita nervosamente sul posto, prende un lungo sorso dal suo
bicchiere e si sofferma a riflettere seriamente sulla domanda che gli
ha posto la bambina.
Che
cosa gli piace? A parte il cioccolato, si intende. Qualcuno,
probabilmente, direbbe con una certa sicurezza la
Paura.
Ma non è del tutto esatto. Non è propriamente la
sensazione in sé
a interessarlo, quanto in realtà le reazioni degli umani
dettate
dalla paura. Quelle sì che sono, molto spesso, piuttosto
interessanti. Eppure nemmeno questo può veramente affermare
che gli
piaccia. Forse, più probabilmente, piace alle Ombre e, per
riflesso,
all’oscurità dentro di lui.
Sospira,
confuso. Ha trascorso secoli, letteralmente, su quel pianeta. Quasi
la metà li ha spesi nella totale incoscienza di
sé e del mondo che
lo circondava. Il tempo rimanente lo ha usato per ritrovare
ciò che
credeva di aver perduto. Eppure sente che gli manca ancora qualcosa.
È una sensazione che percepisce solo a livello inconscio, e
tuttavia
è sempre lì, in fondo, seppellita da qualche
parte dentro di lui,
in un luogo che non è mai veramente riuscito a raggiungere,
per
quanto in passato ci abbia provato più volte.
«Io…
non lo so» ammette.
Questa
ammissione, in qualche modo, gli provoca un dolore sfocato al petto.
Ci sono troppe cose che non sa, che non arriva a comprendere.
Perché?
Tutto questo non è giusto, affatto. Perché mai
non può avere il
controllo su di sé e sulla sua esistenza, sui propri
pensieri, sulle
emozioni e i ricordi? Per quale motivo?
Katherine,
nel mentre, lo osserva un po’ preoccupata. Ha potuto
chiaramente
vedere, e non per la prima volta, la tristezza nei suoi occhi, e
vorrebbe fare qualcosa per lui, qualcosa che lo faccia felice, per
poter avere nuovamente l’occasione di vederlo sorridere
(anche se
in modo strano).
«Non
lo sai?» chiede quindi, dubbiosa.
Pitch
stira le labbra in una smorfia di disgusto. Solo che questa volta non
c’è nessuno al quale rivolgere quel sentimento.
Nessuno a parte sé
stesso.
«No»
conferma, scuotendo la testa. «O forse… non lo
ricordo».
E
per un momento, solo un breve istante, ha davvero
l’impressione che
possa essere così. Poi la sensazione sfuma senza lasciare
traccia di
sé.
«Beh,
non importa. Possiamo trovare qualcosa adesso» propone seria
Katherine.
«Adesso?»
mormora Pitch, incerto.
Katherine
annuisce, più decisa che mai. «Sì, da
questo momento. Cerchiamo
quello che ti piace e che hai perso».
Pitch,
a quelle parole, spalanca gli occhi, e le iridi dorate per un attimo
brillano di una piccola speranza.
“Ricorda
che ogni persona che incontri ha paura di qualcosa, ama qualcosa e ha
perso qualcosa.” (H. Jackson Brown Jr.)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Per
torturare un uomo bisogna conoscere ciò che gli fa
piacere”
(Stanislaw Jerzy Lec)
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Capitolo 13 *** Risvegli ***
capitolo
13 - Risvegli
È
ancora nel dormiveglia, quando avverte una bizzarra sensazione che
riporta la sua coscienza un poco in superficie: la sua schiena
è
gelata, a contatto con il terreno; il suo petto è invece
stranamente
caldo. Sospira, rilasciando un fievole gemito confuso, e d’un
tratto si ritrova desto, le ciglia a sfarfallare freneticamente sugli
occhi ancora appannati.
Buio.
Questa è la prima cosa che riesce a distinguere. Ci sono
delle
stelle di fronte ai suoi occhi? Buio.
I suoi occhi si spalancano di colpo e un rantolo strozzato prorompe
dalle sue labbra.
Prova
a sollevarsi, ma qualcosa lo ostacola. Si guarda attorno,
inspiegabilmente ansioso. Non riesce a rammentare, la sua mente
è un
ammasso ronzante di informazioni frammentate. Il suo sguardo si posa,
quasi per caso, sul proprio petto e lui si lascia sfuggire uno sbuffo
sconvolto. Proprio lì, appoggiato alla veste che gli ricopre
il
petto, c’è il corpo rannicchiato di Katherine.
Pitch
si lascia ricadere pesantemente al suolo. La sua mente è
ancora
maledettamente confusa. Non ha idea del perché la bambina
sia ancora
con lui, nonostante l’evidente ora tarda. È
piuttosto sicuro che
ci debba essere un’ottima spiegazione che tuttavia, al
momento,
sembra volergli sfuggire a ogni costo.
Lei
però non può restare ancora. Non ha idea di
quanto tardi sia, ma di
sicuro non è una buona idea che rimanga fuori casa con il
buio. Già,
il buio: perché, poco prima, quella consapevolezza lo ha
atterrito
tanto? Non dovrebbe essere forse più che avvezzo a vivere
costantemente immerso nell’oscurità? Forse tutti
quegli anni senza
mai vedere la luce sono stati troppi perfino per uno come lui,
chissà.
Allunga
una mano e la posa piano sulla schiena della bambina. E poi,
d’un
tratto, realizza: ecco da dove arrivava quella sensazione di calore
che aveva avvertito poco prima di ridestarsi.
«Katherine»
mormora.
Pitch
socchiude le labbra, sorpreso, rendendosi conto solo in quel momento
di aver pronunciato il nome della bambina ad alta voce per la prima
volta. Anche quella è stata una sensazione strana
e… nuova.
Scuote la testa, rassegnato alla progressiva e inesorabile perdita
della propria ragione.
«Katherine»
ripete di nuovo, esercitando una leggera pressione sulle sue spalle.
Katherine
mugugna qualcosa di totalmente incomprensibile, poi sembra tornare
nel mondo dei sogni senza nessuno scrupolo.
Pitch
sbuffa di nuovo, vagamente scocciato.
«Devi
svegliarti. Ora. È maledettamente tardi».
“E tu sei troppo umana
e troppo fragile per rimanere immersa in questa
oscurità” pensa,
sobbalzando subito dopo, imprevedibilmente investito dai suoi stessi
pensieri incontrollati.
Per
sua fortuna lei non può avvertire ciò che pensa.
Inoltre pare
proprio che abbia il sonno piuttosto leggero dato che, di lì
a poco,
riapre i suoi occhi verdi e, ancora assonnati, li punta diritti in
quelli di Pitch.
«Ciao»
esclama, insensatamente entusiasta, colpendolo in pieno con uno dei
suoi sorrisi inattesi.
Pitch,
come sempre, si esime dal rispondere ai suoi saluti di dubbia
utilità, invece si prodiga a farle notare qualcosa di
decisamente
più importante.
«È
sicuramente piuttosto tardi. Credo che a quest’ora avresti
dovuto
già essere a casa, intenta a far dannare qualcun altro, non
certo
all’aperto, dispersa sotto un cielo stellato».
Katherine
lo fissa attonita e senza parole. Quello, sospetta,
dev’essere il
discorso più lungo in assoluto che gli abbia mai sentito
pronunciare. E, wow, lo ha fatto rendendo più che chiaro che
è
preoccupato per lei! Il suo sorriso si espande ancora, ben oltre il
ragionevole, e lei si allunga a stringergli le braccia attorno al
collo.
«Hai
ragione» ammette di buon grado, felice.
«Grazie» sussurra al suo
orecchio.
«Di
che cosa?» indaga Pitch, incerto.
Lei
scuote la testa a fargli intendere di lasciar correre, poi si rimette
in piedi e lo fissa un lungo istante, pensierosa.
«Stai
meglio, ora?».
Pitch
annuisce, titubante. «Immagino di sì».
«Riesci
a camminare?» chiede ancora Katherine, apparentemente con un
piano
tutto suo per la testa.
«Posso
provarci» offre Pitch, evitando di scoprirsi troppo.
Rimane
un attimo attonito alla vista della bambina che gli tende le mani e
sembra decisa ad aiutarlo ad alzarsi. Pitch deve perfino farsi
violenza per evitare di scoppiarle a ridere in faccia per
l’assurdità
della situazione e, in particolare, della silenziosa offerta. Scuote
la testa seccamente, in qualche modo imbarazzato, e la allontana con
un gesto impaziente della mano. Trae un profondo e lento respiro e si
concentra attentamente su sé stesso. Sì, dopo
tutto pensa proprio
di potercela fare. Appena un poco traballante, si rimette in piedi e
spolvera la veste con un paio di rapidi gesti delle mani. Infine
torna a prestare attenzione a Katherine e la osserva, come a
chiederle “E adesso?”.
Lei,
incredibilmente, quasi abbia potuto vedere
i suoi pensieri, annuisce con decisione.
«Adesso
mi accompagni a casa».
Pitch
la fissa, esterrefatto, e scuote la testa. «Nemmeno per
sogno». Poi
sgrana gli occhi alle sue stesse parole.
«Sì,
invece» si impunta Katherine. «Devi riposare, no? E
in casa c’è
più caldo. E poi c’è ancora un
po’ di torta al cioccolato che
la nonna ha fatto per il mio compleanno» rincara, con la
certezza di
averlo praticamente incastrato.
Pitch
boccheggia, nel lodevole ma del tutto vano tentativo di opporre un
qualsivoglia genere di rifiuto. Rifiuto che non sembra affatto
volerne sapere di venire alla luce. Alla fine si ritrova a sospirare
stancamente e, suo malgrado, ad annuire incerto. “Maledetto
demone
manipolatore!” sbotta nella propria testa. Nel mentre i suoi
pensieri mercenari si perdono nei meandri di soggiorni caldi e torte
al cioccolato.
“Il
momento di coscienza che accompagna il risveglio è la
sofferenza più
acuta.”
(Primo Levi)
*
* * * * * * * * * * * * *
“La
più disgraziata e fragile di tutte le creature è
l'essere umano, e
nello stesso tempo la più orgogliosa.” (Michel de
Montaigne)
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Capitolo 14 *** Casa ***
capitolo
14 - Casa
La
strada verso casa è dannatamente più lunga di
quanto ci si potesse
aspettare. Oppure è la sua attuale autonomia a scarseggiare
drammaticamente. Sta di fatto che, una volta giunto sulla soglia
dell’abitazione di Katherine, Pitch si senta di poco
più vivo di
una carcassa in decomposizione, la qual cosa non è
esattamente
confortante. Si appoggia allo stipite dell’uscio, in paziente
attesa che qualcuno, lì dentro, si decida ad aprire a
Katherine e di
conseguenza anche a lui.
«Pitch»
sussurra Katherine.
Pitch
può sentire disagio nella sua piccola voce.
«Sì?»
risponde in un soffio appena.
«Sei
grigio» gli fa gentilmente notare lei.
«Mh…
Sono sempre grigio» borbotta Pitch, mentre i suoi occhi vanno
chiudendosi inesorabilmente.
«Beh,
sei più
grigio
del solito» insiste Katherine.
Pitch
sta per ribattere (o per lo meno tentare di farlo), quando la porta
finalmente si apre e qualcuno si affaccia a essa. Lui lancia
un’occhiata poco partecipativa alla scena, giusto per notare
svogliatamente una donna piuttosto anziana, dai capelli folti ma
completamente bianchi e, in volto, un’espressione tirata e
piena di
angoscia. Poi sente la voce di Katherine che tenta evidentemente di
tranquillizzare come può la donna. A quel punto smette
completamente
di prestare attenzione e torna a fissare le stelle, chiedendosi se,
dopo tutto, sia stata una buona idea arrivare fino a lì. No,
con
tutta probabilità è stata, anzi, una delle sue
idee più malsane in
assoluto.
Sospira.
Sta per rimettersi seduto per terra, dato che le sue gambe hanno
iniziato a tremare in modo piuttosto spiacevole e preoccupante,
quando una piccola mano lo afferra con decisione per il gomito e lo
trascina praticamente dentro casa.
Pitch
sbatte le palpebre, confuso, tentando come può di mettere a
fuoco la
nuova situazione che gli si para di fronte. Qualcuno ha richiuso la
porta alle sue spalle con un leggero tonfo che lo ha fatto sobbalzare
impreparato. Adesso si trova piantato nel bel mezzo di uno stretto
corridoio fiocamente illuminato. I suoi piedi poggiano sul parquet
chiaro e i suoi capelli sfiorano un vecchio lampadario dai bracci
intricati.
Deglutisce.
Un fremito di disagio scorre freddo lungo la schiena. Gli occhi, poco
prima appannati, ora sono sgranati nell’inutile ricerca di un
qualche particolare familiare. Una piccola mano calda si stringe alla
sua e Pitch volta la testa di scatto in quella direzione. Katherine:
è proprio lì, vicina alla sua gamba, e gli sta
sorridendo.
Katherine è
qualcosa di familiare, ora. Le sue spalle si rilassano
impercettibilmente e Pitch rilascia un lungo sospiro.
«È
tutto a posto» gli assicura Katherine, appoggiandosi al suo
braccio.
«Vieni».
«Dove?»
soffia Pitch, incerto.
«La
nonna mi ha sgridata per aver fatto tardi, sai? Ma adesso è
tornata
a letto perché ha il raffreddore. Quindi non devi
preoccuparti.
Vieni, così puoi riposare anche tu».
Pitch
la guarda, confuso. Ma quando lei lo prende nuovamente per mano, la
segue comunque, docile e stremato, sperando con tutto sé
stesso che
le parole di lei si rivelino veritiere e che lui abbia infine modo di
riposare un po’ come si deve.
La
casa però è calda, proprio come gli era stato
assicurato, e questo
riesce a distendere almeno un poco la tensione che lo stringe nella
sua morsa già da troppo tempo. Salgono un paio di rampe di
scale,
nulla di davvero impegnativo, e percorrono un breve tratto ricoperto
da moquette che attutisce i loro passi. Katherine lo conduce fino
alla soglia di una camera piuttosto spaziosa. Niente di drammatico,
certo, ma indiscutibilmente la camera di una bambina, chiaramente
della stessa Katherine. Pitch la fissa, interdetto.
Katherine
sorride di rimando, imbarazzata.
«Lo
so che non ti piacciono tutti questi colori. Prometto che domani
mattina metterò in ordine quella di fianco. È
panna e beige,
dovrebbe andar bene, eh? Solo, non ero preparata e… questa
sera
puoi stare qui. Che ne dici?» chiede titubante.
Pitch
osserva nuovamente la camera e ringrazia che sia buio, per una volta.
Non osa nemmeno immaginare tutta quell’accozzaglia di verdi,
rossi,
turchesi e rosa alla luce abbagliante del giorno. Trema al solo
pensiero.
«C’è…
un letto solo» fa invece notare, dubbioso.
Il
sorriso di Katherine sfuma leggermente, lasciando trasparire ansia e
disagio.
«Se
vuoi posso… uhm… tornare giù in
soggiorno e dormire sul divano,
per stanotte» propone incerta.
Pitch
sgrana gli occhi, colto alla sprovvista.
«Cosa?
No, io… non intendevo dire questo». Si schiarisce
la voce,
costernato, ma non sa che altro aggiungere a quel punto,
così rimane
in silenzio.
«Bene»
sospira Katherine, visibilmente soddisfatta. «Allora rimango
qui con
te» afferma decisa.
Anche
quella porta si richiude leggera alle sue spalle. Pitch non sa bene
perché, ma ha la netta impressione di essersi cacciato in
qualche
guaio; un guaio enorme, a giudicare dall’ampio sorriso
soddisfatto
di Katherine.
“Non
puoi scappare da una debolezza. Devi sconfiggerla, altrimenti
soccomberai. E se così deve essere, perché non
adesso? E proprio
dove ti trovi?”
(Robert Louis Stevenson)
*
* * * * * * * * * * * * *
“In
pieno smarrimento, la certezza assoluta della mia solitudine”
(Emil
Cioran)
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Capitolo 15 *** Luce ***
capitolo
15 - Luce
Le
pesanti coperte sono morbide e piacevolmente calde. Il respiro
profondo e tranquillo di Katherine, contro la sua spalla, ha lo
sconcertante potere di calmarlo e rassicurarlo. Trascorre qualche
tempo, immobile, a osservare la sua testa arruffata, i capelli neri
sparsi sul cuscino bianco, un lieve sorriso sulle labbra rosa, il
piccolo petto che si alza e si abbassa ritmicamente e in modo quasi
ipnotico. Se, in quel momento, Katherine fosse sveglia, si
prodigherebbe in assurdi salti di gioia alla sola vista di quel
minuscolo accenno di sorriso sulle labbra di Pitch.
Molto
tempo dopo, finalmente, Pitch lascia che i suoi occhi si richiudano e
la sua attenzione scivoli via, mentre il sonno lo prende con
sé e lo
fa nuovamente sprofondare nel buio.
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Un
bagliore dorato, da principio fievole, poi sempre più
deciso,
illumina la camera da letto nella quale riposano due figure
addormentate. Una è fuor di dubbio una bambina umana, con le
gote
piacevolmente arrossate dal calore delle coperte e le labbra
arricciate in una buffa smorfia. L’altra figura è
qualcosa di
inaspettato: uno spirito, ricoperto di nero e dalla carnagione
così
pallida da sembrare gesso. Forse è un fantasma? Ma i
fantasmi
dormono? Impossibile! Qui urge indagare.
Il
bagliore si intensifica, mandando lampi dorati per tutta la stanza e
sfiorando delicatamente, quasi con reverenza, le due figure sopite.
Lo spirito si agita irrequieto al di sotto delle coltri, le
sopracciglia aggrottate e le labbra tirate in una smorfia addolorata.
Il bagliore sembra a tratti solidificarsi in spire e volute che si
insinuano attraverso il pesante tessuto, fino a raggiungere la
diversa consistenza di un corpo estraneo e più freddo del
normale.
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Pitch
spalanca gli occhi e boccheggia, lanciando un grido rauco e
strozzato. Rapidamente si leva a sedere. I suoi occhi dorati
riflettono in modo quasi sinistro il bagliore che impregna ormai
completamente la stanza e il terrore si impadronisce di loro.
Si
scosta bruscamente a un nuovo passaggio di una delle volute luminose
che serpeggiano attraverso l’aria e cerca di lasciare
velocemente
il letto, per guadagnare l’uscita il più in fretta
possibile. Nel
momento in cui posa i piedi a terra, tuttavia, un lembo di luce
scorre troppo vicino e strappa la manica che ricopre il suo braccio
sinistro, lasciandosi dietro un profondo taglio anche sul braccio
stesso. Pitch serra i denti e si divincola in fretta, prima di essere
nuovamente investito.
Si
guarda freneticamente intorno, atterrito nel notare che sia la
finestra che la porta sono ora totalmente invase dal bagliore dorato
e quindi inaccessibili. Indietreggia, cauto, mentre la tensione
dentro di lui sale.
È
in trappola, non c’è modo di lasciare quella
stanza. Se anche
disponesse delle energie sufficienti per viaggiare attraverso le
ombre, non c’è comunque rimasto neppure un angolo
in ombra nel
quale rifugiarsi e fuggire. Sì, è proprio in
trappola.
Sfuggito
per puro miracolo alle Ombre per poi venire fatto a pezzi dalla Luce.
Molto ironico, non c’è che dire.
Bene,
se è questo ciò che vogliono, sia. Che non si
aspettino, però, che
lui renda loro le cose semplici, nemmeno per idea. Dispone di ancora
un poco di energia e, se deve, la userà tutta quanta per dar
loro
del filo da torcere.
I
successivi minuti trascorrono disperatamente lenti, mentre Pitch fa
del proprio peggio per eludere gli insidiosi tentacoli di luce che si
affannano in ogni modo per immobilizzarlo. Toccarli direttamente
sarebbe una pessima idea. Tuttavia, al momento, non può
purtroppo
sfruttare un po’ di quell’utile e interessante
sabbia nera che
era riuscito a creare anni fa, prima della sua ultima sconfitta.
Quella sì, avrebbe dato loro qualcosa di tangibile di cui
preoccuparsi. Ma, ora come ora, Pitch può solamente
limitarsi a
evitare i loro attacchi il più a lungo possibile.
Un’infinitesimale
distrazione e una sottile spira luminosa sfreccia attraverso la sua
gamba destra. Pitch urla di dolore e finisce per urtare la parete
alle sue spalle. Scalcia istericamente nel tentativo di allontanare
alcune di loro, ma sono davvero troppe a circondarlo. Non gli resta
più molto tempo, ora. Sa che di lì a pochi
istanti, probabilmente,
di lui rimarrà poco o nulla. Un’elaborata voluta
di luce trova un
varco nelle sue traballanti difese e si pianta in profondità
poco
sopra il suo cuore. Pitch spalanca la bocca in un grido silenzioso e
alcune lacrime abbandonano i suoi occhi sgranati e colmi di paura.
Non
c’è più molto che possa fare, ormai.
Avverte le proprie forze
venire meno a una velocità allarmante. Sospira, pregando che
almeno
la fine giunga in fretta (indolore, a quel punto, non è
più
un’opzione). Poi un altro grido, acuto; ma questa volta non
è lui
a urlare. Pitch socchiude faticosamente gli occhi stanchi e appannati
dalle lacrime. Di fronte a lui, a separarlo ora dalla luce,
c’è la
piccola Katherine.
“Possiamo
perdonare un bambino quando ha paura del buio. La vera tragedia della
vita è quando un uomo ha paura della luce.”
(Platone)
*
* * * * * * * * * * * * *
“La
luce non è che un dono d'addio delle tenebre a coloro che si
avviano
a morire.” (Metal Gear Solid 3: Snake Eater)
|
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Capitolo 16 *** Conforto ***
capitolo
16 - Conforto
«Basta!»
grida per la seconda volta Katherine. «Andate via!
Via!».
Oh,
Katherine ora è arrabbiata, davvero molto, e i suoi occhi
verdi
lampeggiano di tutta la sua giovane collera.
Si
è ridestata poco prima, bruscamente, riscossa da un urlo che
non le
apparteneva affatto. E dopo un’occhiata stranita
all’assurda
situazione nella sua stanza, ha spalancato la bocca, sconvolta nello
scorgere Pitch aggredito in quel modo da quelle… cose.
Non
ci ha pensato due volte a intervenire, pur non avendo affatto la
situazione ben chiara. Ma a quel paese la chiarezza! Qualcosa stava
facendo del male al suo Pitch!
«Lasciatelo
stare!» strilla fuori di sé, pestando
minacciosamente un piede a
terra e disintegrando una delle volute di luce con un deciso gesto
del braccio.
Tutti
quegli arabeschi di luce possono ferire Pitch, che è uno
spirito, ma
lei è umana ed è una bambina: non le fanno
neppure il solletico.
Ciò nonostante, ostinate come non mai, tentano di passare
oltre
l’ostacolo rappresentato dalla bambina per incenerire la
creatura
maligna alle sue spalle.
«Ho
detto» ringhia furiosa Katherine, intenta a prendere a calci
ogni
singolo ricciolo luminoso «Via!».
Serra
con forza una piccola mano attorno a una graziosa spirale, che va in
mille frantumi disperdendosi in una nuvola dorata.
La
luce nella stanza lampeggia, sembra quasi indignata per il
comportamento fuori del normale di quella piccola umana, ma allo
sguardo truce lanciato da Katherine la luce si ritira, raggruppandosi
in un angolo e scivolando agilmente oltre la finestra, poi su per il
cielo stellato, scomparendo veloce come una cometa in un ultimo
scintillio risentito.
Katherine
sbuffa sonoramente, ancora tremante di rabbia e adrenalina. Si volta
alle proprie spalle e si lascia sfuggire un singhiozzo sgomento.
Pitch è scompostamente riverso contro il muro; sembra
svenuto.
Katherine si avvicina rapida, sta per toccarlo ma si ferma prima, per
un momento timorosa di potergli arrecare ulteriore dolore.
«Pitch»
sussurra, gli occhi liquidi alla vista dello stato in cui versa lo
spirito.
«Ka-therine»
soffia Pitch con voce spezzata.
Vorrebbe
poter aprire gli occhi, così da assicurarsi della sua
effettiva
presenza; ma non ci riesce. Vorrebbe poter allungare una mano, per
chiederle silenziosamente di toccarlo di nuovo, di mostrargli che lui
esiste ancora, dopo tutto; ma non ne trova la forza. Vorrebbe poterle
parlare, e chiederle di abbracciarlo ancora una volta, regalargli
ancora un po’ del suo calore; ma non trova la voce per farlo.
Trema. È così stanco, ora; il dolore che prova
acceca la sua mente.
Altre lacrime rigano il suo volto pallido e scavato, lacrime di
dolore e paura.
Poi
Katherine poggia delicatamente una mano sul suo petto e Pitch sospira
grato, come se quel piccolo gesto potesse riportare pace e conforto a
ciò che rimane della sua anima.
«Ti
hanno fatto del male» mormora Katherine sconvolta, poggiando
piano
la testa sulla spalla sana di Pitch e circondando con attenzione il
suo fianco. «Quelle… cose,
perché? Non… non gli hai fatto niente. Io non
capisco» mugola con
le labbra contro la sua veste stracciata.
Con
estrema fatica Pitch ripiega le dita di una mano sulla piccola
schiena di Katherine. Un gesto di conforto, qualcosa che in centinaia
di anni non gli era ma saltato in mente di offrire. Ma
Katherine…
lei è in qualche modo speciale. Può vederlo,
certo, ma soprattutto
può toccarlo, tanto in profondità come mai
nessuno prima.
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Katherine
è solo una bambina. Se solo potesse, se solo ne avesse la
forza,
ricondurrebbe Pitch al letto e lo guarderebbe riposare per il resto
della notte. Ma è troppo piccola e debole per fare una cosa
del
genere. Così, dopo aver rassicurato Pitch con una stretta
appena più
decisa delle braccia, velocemente si alza e dal suo letto leva la
pesante coperta e, volenterosa, la trascina fino alla parete opposta,
contro la quale è adagiato lo spirito. Se Pitch non
può tornare a
letto, allora sarà lei a fargli compagnia a terra, coprendo
entrambi
perché non prendano freddo e accoccolandosi gentilmente
contro il
suo fianco.
Pitch
sussurra qualcosa, qualcosa che Katherine non riesce a
sentire,
qualcosa che suona sospettosamente come “Grazie”.
“E
come le persone appartenenti allo stesso gruppo sanguigno sono le
uniche che possono donare il loro sangue a chi è vittima di
un
incidente, così anche un’anima può
soccorrerne un’altra solo se
non è diversa da questa, se la sua concezione del mondo
è la
stessa, se tra loro esiste una parentela spirituale.”
(Sándor
Márai)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Una
leggera carezza può donare maggior conforto di quello che
potrebbe
provenire da mille parole.”
(Liomax D'Arrigo)
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L’Angolino
Buio e Polveroso dell’Uomo Nero (e dell’autrice a
cui piace
maltrattarlo)
Ehi!...
Ehm,
scrivo questa nota dell’autrice perché mi
è sorto un dubbio
esistenziale che non so se riuscirò a risolvere. Provo a
spiegare.
Forse,
nell’elenco dei personaggi, vi sarà capitato di
notare il nome di
un certo Kozmotis 'Pitch' Pitchiner. Se così fosse, vorrei
assicurare che non si tratta una svista o di un colpo di testa;
è
voluto e ponderato (cielo, che parolone). Qui però sorge un
problema
che, forse per l’euforia del momento, non avevo preso in
considerazione: il buon signor Joyce, il papà
dei Guardiani, non si
è propriamente
dilungato nel raccontare di questo misterioso personaggio. Si
è
limitato ai fatti essenziali e poco altro. Si sa che era a capo di un
vascello e che la sua flotta aveva il compito di arrestare i Dream
Pirates. Si sa che aveva il titolo ufficiale niente popò di
meno che
di Lord
High General of the
Galaxies.
Si sa che,
nonostante il suo compito difficile, sia i suoi uomini che i Dream
Pirates lo ritenevano un uomo giusto ed equo, compassionevole e umano
con i nemici (e qui, se posso permettermi, il Pitch che conosco io
avrebbe qualcosa da dire). Si sa che aveva un cavolo
di palazzo di marmo con
colonnato (anche
solo questo giustifica il titolo di Lord) su di un satellite interno
alla costellazione di Orione. Si sa che amava alla follia la sua
famiglia e in particolare sua figlia e il suo “cuore
selvaggio”
(parole di Joyce), e forse per questo tendeva a essere piuttosto
permissivo nei suoi confronti.
Tutto
questo è ok, mi sta benissimo, ma… È
qualcosa che Joyce pone come
dato di fatto, zero introspettività (non che Joyce e
narrazione
introspettiva vadano molto a braccetto di per sé), poche
basi da cui
partire per conoscere il personaggio (non per nulla ho esordito
dicendo: “questo misterioso personaggio”, ecco).
In
sostanza, ciò che mi turba un po’ è che
da qui in poi non so se
sono rimasta all’interno dei confini del personaggio oppure
no.
Probabilmente no, ma non posso averne la certezza per i motivi sopra
descritti. Quindi, ci ho riflettuto e credo che sarò
costretta a
inserire nelle note OoC, cosa che di per sé non mi
entusiasma ma che
ritengo più corretto.
Quindi
nulla… Grazie per l’attenzione (sempre che
qualcuno abbia avuto
la voglia di leggere questa cosa)
e alla prossima.
Roiben
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Capitolo 17 *** Sogni ***
capitolo
17 - Sogni
Bianco.
Un’enorme, sconfinata distesa di bianco. E freddo.
Così tanto
freddo, nonostante il sole abbagliante alto nel cielo. Ghiaccio, e
neve, fino oltre ciò che l’occhio può
scorgere e ancora più in
là. Il vento gelido porta con sé
l’odore di una tempesta e si
insinua ovunque, persino sotto la pelle, fin dentro le ossa.
Trema,
anche se sa che non è reale, che non è qui
e ora,
ma lontano nel tempo e nella memoria, quasi dimenticato.
Nuvole
grigie e viola nascondono il sole, il ghiaccio non scintilla
più. Si
fa scuro, come la notte, come la paura dentro il suo cuore.
L’aria
è carica di elettricità, ora, satura lo spazio
tutto attorno.
Qualcosa di nero, nel cielo plumbeo e pesante.
Trema
ancora, questa volta di angoscia e disperazione.
Lei.
È lì per lui? È venuta per
distruggerlo, finalmente?
Una
lacrima, forse l’ultima, scivola sulla sua guancia pallida,
poi
viene catturata e dispersa dal vento sferzante.
«Emily
Jane» bisbiglia, attardandosi a osservare la figura che si
avvicina
rapida, con un mesto sorriso sulle labbra viola.
Un
lampo di luce bianca abbaglia i suoi occhi dorati. Grida.
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Quando
spalanca gli occhi è di nuovo nella camera di Katherine,
molto
lontano dal sogno. Ma il dolore che lo ha pervaso non è
svanito.
Qualcosa brucia nel suo petto. Boccheggia e si appiattisce contro il
muro, in un vano tentativo di sfuggire a quell’agonia. Tutto
è
inutile. Rantola, lanciando un grido strozzato, e contorcendosi
scivola completamente a terra. Le sue lunghe dita raspano
freneticamente il pavimento, cercando un qualsiasi appiglio, un modo
per non sentire più.
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Si
ridesta di soprassalto, ancora una volta a causa di un grido che non
dovrebbe esserci. Questa volta Katherine non perde tempo. È
già
pronta al peggio, ma scorge unicamente Pitch, riverso a terra e
apparentemente preda delle convulsioni. Rapida si avvicina, con
cautela gli sfiora una mano, gelata come al solito, ora tuttavia
contratta nello sforzo di restare aggrappata al parquet.
«Pitch!»
esclama in ansia. «Che cos’hai? Cosa
succede?».
Lui
non le risponde. Probabilmente non ne ha neppure la forza o la
possibilità.
Katherine
non sa cosa fare. Quello che sa, invece, è che odia vederlo
soffrire
senza poter intervenire.
Quando
Pitch stringe le dita di una mano sulla veste all’altezza del
petto, Katherine poggia la propria mano sulla sua e
l’accarezza
delicatamente. Piano, si rannicchia strettamente al suo fianco e posa
il capo proprio sopra il suo cuore. Un sorriso triste le stira le
labbra, mentre constata che ha un suono diverso da quello di chiunque
altro conosca.
Mentre
un gemito di dolore sfugge alle labbra secche di Pitch, alcune
lacrime abbandonano gli occhi tristi di Katherine e si perdono nella
nera veste sotto la sua guancia.
Pitch
trae un brusco respiro e inarca la schiena. Improvvisamente, la
sensazione di fuoco che, fino a un momento prima, lo ha divorato
svanisce nel nulla, come non ci fosse mai stata, e Pitch sbatte le
ciglia, confuso e ancora dolorante.
«K-Katherine?»
mormora, un fastidioso bruciore alla gola ultimamente abusata.
«Sì»
conferma la bambina, abbozzando uno striminzito sorriso che comunque
il destinatario non può scorgere. «Stai
meglio?» domanda
preoccupata.
«Io…
Penso di sì» replica Pitch, per nulla certo di
cosa esattamente
catalogare come meglio,
a quel punto.
«Cos’è
accaduto?» vuole capire Katherine.
«Ah»
soffia Pitch «Gran bella domanda» ammette.
«Non
lo sai?» chiede, dubbiosa e impensierita.
Pitch
non si sente esattamente dell’umore per fare
dell’introspezione.
E ciò nonostante ha i suoi sospetti. Tra l’altro
crede che
Katherine, in qualche strano e assurdo modo, abbia contribuito
involontariamente a risolvere la situazione. Non ha tuttavia le prove
nemmeno per questo. Non ancora, almeno. Ma ci lavorerà
sopra: vuole
vederci chiaro, per una volta.
«Non
ne sono certo. Se… puoi darmi del tempo, cercherò
di venirne a
capo» propone.
Katherine
solleva un momento la testa dal suo petto e lo fissa diritto negli
occhi, provando a sondare dentro di lui, senza troppi risultati.
Sbuffa, all’interno della propria testa: “Pitch
è molto più
bravo in queste cose” riflette.
«E
poi me lo dirai?» si accerta a quel punto lei.
Pitch
la osserva un momento, reclina leggermente il capo, a suo modo
incuriosito, e offre un minuscolo sorriso (o qualcosa di molto
simile).
«E
poi te lo dirò» conferma solennemente,
guadagnandosi un’espressione
felice e deliziata dalla piccola Katherine.
“Ci
sono immagini che non sono fatte per la luce. E certi sogni lo
sanno.”
(Fabrizio Caramagna)
*
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“Esistono
due tipi di luce: la luce che illumina, e il bagliore che
oscura.”
(James Thurber)
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Capitolo 18 *** Sorprese inaspettate ***
capitolo
18 – Sorprese inaspettate
Con
un po’ di impaccio, qualche sibilo dolorante e una
quantità
indefinita di occhiate preoccupate da parte di Katherine (intenta a
girargli attorno frenetica, nel tentativo di sostenerlo,
psicologicamente e perfino fisicamente), Pitch si trascina lentamente
fino al letto e lì si lascia ricadere, tremolante come una
gelatina
alla menta.
«Pitch»
si fa avanti Katherine, ancora in piena modalità
apprensivo-compulsiva.
«Mh»
mugola Pitch, il desiderio di conversazione sepolto sotto tre metri
di terra.
Katherine,
intuendo il suo stato d’animo per nulla incline al dialogo,
decide
di rimanere rispettosamente in silenzio fino a nuovo ordine. Invece
si arrampica sul materasso, recupera la calda coperta e, dopo essersi
rannicchiata al suo fianco, la drappeggia con cura sopra entrambi.
Dopo
una quiete durata lunghi minuti, appoggia con gentilezza una mano sul
suo petto, all’altezza del cuore.
«Io
sono qui, sai» mormora.
Pitch
socchiude gli occhi e la osserva, suo malgrado incuriosito.
«Se
quelle cose tornano, tu puoi chiamarmi. Io ti proteggo,
promesso»
afferma solennemente Katherine.
Pitch
sbatte le palpebre, sorpreso. «Tu… mi
proteggi?» chiede, non
troppo sicuro di aver ben compreso.
«Certo!»
esclama lei, con granitica sicurezza. «Non ti faranno
più del
male».
Pitch
trema leggermente, costernato. Non ha il ricordo di aver mai udito
nulla del genere durante la sua lunga esistenza, né quando
era
ancora un essere umano, né da quando è diventato
Pitch Black.
Nessuno si è mai offerto di proteggere la sua esistenza. Ora
lo sta
facendo una bambina umana; una creatura, apparentemente indifesa, gli
ha appena promesso di difenderlo da qualcosa di cui, probabilmente,
non concepisce nemmeno l’esistenza. Questo è
inaspettato e… lo
fa sentire al tempo stesso vulnerabile e al sicuro. Che
assurdità.
Pitch
non risponde alle parole di Katherine. Per dire cosa, poi? Grazie per
l’offerta ma sono perfettamente in grado di difendermi da
solo?
Sarebbe una menzogna colossale. Lo ha già ampiamente
dimostrato
neppure troppo tempo prima: non ha le forze necessarie per respingere
nessun tipo di aggressione, né da parte delle Ombre
né da parte
della Luce. Sta diventando una creatura patetica. Sospira,
sconfortato, pensando all’attuale inutilità di
quella sua
esistenza. Eppure, nonostante in troppi vogliano distruggerlo, per un
motivo o per l’altro, Pitch non è ancora pronto a
darsi per vinto
e abbandonare il campo. Ci sono ancora troppe questioni in sospeso
che richiedono a gran voce la sua attenzione, e fino a che non
avrà
fatto un po’ di chiarezza si rifiuta categoricamente di
arrendersi
alla fine.
«Riposa
un poco, adesso» mormora Katherine, ripescandolo dai suoi
pensieri
quasi ne avesse seguito il filo e avesse deciso di dargli un
po’ di
respiro.
Si
limita ad annuire e a lasciare che gli occhi si richiudano ancora una
volta, sperando in un risveglio meno traumatico e più
riposante del
precedente.
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Questa
volta a ridestarlo è la fastidiosa luce del sole che filtra
fra le
pesanti tende, creando nette lame di luce che tagliano la camera in
diritti corridoi di ombra.
Mugola,
infastidito ma piacevolmente languido, dopo alcune ore di sonno
tranquillo. Prova cautamente a spostarsi, ancora immerso in una
soffice nube calda, ma qualcosa blocca i suoi movimenti. Socchiude
gli occhi e ciò che ritrova di fronte a sé
è una confusa massa
scura e aggrovigliata. Guardando con più attenzione si rende
conto
che non è una massa scura qualunque, ma sono i capelli neri
di
Katherine, capelli che al mattino hanno tutto l’aspetto della
testa
di una gorgone. Dalle sue labbra sgorga una fioca risatina divertita,
accolta con un borbottio apparentemente indispettito proveniente dal
corpo attaccato a quei capelli neri.
«Per
una volta che ti sento ridere… ridi di me?»
biascica Katherine,
vagamente offesa.
«Scusa»
media Pitch, azzardandosi a sfiorare quel groviglio con due dita,
cauto quasi nella convinzione che possano ridestarsi e mordere.
«Sono… uhm… interessanti»
prova, senza molta convinzione ma
ancora palesemente divertito.
«Sì,
certo. Sono un casino!» si ribella la bambina, sbuffando.
«Come
tutte le mattine» mugugna demoralizzata.
D’un
tratto è perfettamente desta e si accorge di una cosa che,
presa
dall’auto compatimento per il disastro dei suoi capelli, non
aveva
notato prima.
«Pitch!»
esclama eccitata.
«Mh?»
si informa l’interpellato, interdetto per il repentino cambio
di
tono della bambina.
«Oh!
La tua faccia!» strilla, quasi sconvolta. Abbassa un momento
lo
sguardo, come a volersi sincerare di un qualche particolare, e
acchiappa fra le proprie una mano dello spirito. «E guarda:
anche le
tue mani! È… incredibile!» esulta,
evidentemente fuori di sé per
l’entusiasmo.
Intanto
Pitch, ancora profondamente turbato per l’inaspettata
reazione di
Katherine, osserva a sua volta le proprie mani. Solo allora, sorpreso
e sconvolto, vede ciò che la bambina doveva già
aver notato in
precedenza: le sue mani hanno un aspetto quasi del tutto umano, la
sua pelle non è più grigia ma di un pallidissimo
color carne.
Boccheggia e le sue mani ora tremano, mentre una strana
consapevolezza si fa spazio nel suo cuore.
«Questo
non… non è possibile» soffia, gli occhi
dorati puntati con
costernazione sui suoi palmi spalancati verso l’alto.
“Non
esiste circostanza, né destino, né fato che possa
ostacolare la
ferma risolutezza di un animo determinato.”
(Ella Wheeler Wilcox)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Dal
momento in cui viene riconosciuto, l’assurdo diventa la
più
straziante di tutte le passioni.” (Albert Camus)
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Capitolo 19 *** Ti vedo ***
capitolo
19 – Ti vedo
«Pitch?»
pigola Katherine, incerta, mentre il suo precedente entusiasmo
sprofonda rapidamente. «Che cosa c’è?
Non è una buona cosa?»
tenta, non capacitandosi dell’espressione visibilmente
sconvolta di
Pitch.
«Io…»
gracchia Pitch.
Ripiega
le dita, più e più volte, senza realmente
riuscire ad accettare la
situazione. Le sue labbra si stirano in una smorfia quasi addolorata
e, se possibile, impallidisce ancora di più.
Katherine
si stringe al suo fianco. È decisamente preoccupata, ora. Di
certo
non si aspettava una reazione simile a una notizia che dal suo punto
di vista (forse un po’ ingenuo) è certamente
positiva.
«Non
capisco» mormora infine Pitch, ancora palesemente scosso e
turbato.
«Perché
è una cosa tanto brutta?» si azzarda a chiedere
Katherine, che
detesta davvero vederlo soffrire.
Pitch
serra strettamente le palpebre, scuotendo la testa.
«Credevo»
soffia, provando faticosamente a dare un senso e un ordine a quella
nuova e inaspettata situazione. «Ero quasi certo che non
sarebbe mai
più accaduto. Non dopo tanto tempo, non dopo tutto
ciò che è
successo. Invece…». I suoi occhi si attardano a
osservare
nuovamente le sue mani, stentando a riconoscerle come proprie. Si
morde un labbro, nervoso, e sospira pesantemente. «Invece
eccola
qui, di nuovo».
Katherine
lo guarda un momento, confusa. «Che cosa?
Cos’è di nuovo qui?».
Pitch
piega di nuovo le labbra in un sorriso mesto. «La
consapevolezza. Da
qualche parte, qui dentro…» prova a spiegare,
premendo con forza
un palmo contro il suo petto «c’è ancora
un piccolo pezzo di ciò
che ero un tempo. Una parte umana» mormora con voce tremante,
scuotendo nuovamente il capo, incredulo.
Katherine
aggrotta le sopracciglia. Qualcosa le sfugge e vuole proprio vederci
chiaro.
«Avevi
detto che sei uno spirito» fa notare seria.
Le
iridi scintillanti di Pitch si puntano su di lei. Katherine non
riuscirebbe a distogliere lo sguardo nemmeno se lo volesse con tutta
sé stessa.
«È
ciò che sono» conferma Pitch. «Ma non
è ciò che ero» aggiunge
esitante.
Katherine,
suo malgrado, è intrigata. «E cosa eri?».
«È…
una storia lunga» tenta lo spirito.
Lei
replica con una smorfia contrariata e dà un leggero pugno
alla
spalla di Pitch.
«Ho
sette anni, sai. Penso che il tempo per ascoltarla ce
l’ho» fa
notare con sarcasmo, sorprendendo Pitch che la fissa con tanto
d’occhi e sbuffa, suo malgrado divertito.
«Molto
bene, allora. Ma dato che sarà davvero
una faccenda lunga, credo faresti meglio ad alzarti da questo letto e
darti una sistemata. Sembri uno spaventapasseri» ghigna
malizioso.
Katherine
gonfia le guance e sbuffa indispettita.
«Ok,
però allora facciamo colazione, anche» propone
speranzosa.
«Facciamo?»
domanda dubbioso, inarcando un sopracciglio con ovvio scetticismo.
«Certo!
Devi recuperare energie, no? Quindi: ti piacciono i pancake?»
indaga
Katherine, già fin troppo eccitata.
«Mh»
si limita a rispondere Pitch.
Un
“Mh” che Katherine interpreta correttamente come
una risposta
positiva. Così batte le mani, allegra, e si catapulta fuori
dal
letto come un uragano, scomparendo in bagno in un batter
d’occhio.
Pitch
sospira di nuovo. Sta cercando, con tutte le sue forze, di non
abbassare gli occhi sulle sue mani. Guardarle, in quel momento,
sarebbe davvero troppo doloroso. Fatica ancora a credere che possa
essere successo. Non riesce a comprendere come, dopo tanto tempo e
tanti errori, da qualche parte dentro di lui esista ancora un
pezzettino di ciò che era. Sembra assurdo anche solo da
immaginare,
eppure è lì, davanti ai suoi occhi increduli.
Spera di non
incontrare specchi, almeno per le prossime ore; non è molto
sicuro
che riuscirebbe a reggere anche quella vista, per niente.
Torna
a stendersi sul morbido materasso e a coprire il suo corpo con la
pesante coperta. Forse, se tornasse a dormire, al risveglio
scoprirebbe che nulla è cambiato. Storce le labbra in una
smorfia
amareggiata a quei pensieri, poiché sa che la
realtà non è mai
così semplice, e non basta di certo che lui lo voglia per
farlo
semplicemente accadere.
«Che
stupido sono» si rimprovera Pitch.
«Questo
non è vero» replica Katherine, spaventosamente
seria.
Lui
la osserva un po’, ferma in piedi lì di fronte.
Sembra così
sicura di sé stessa. Un po’ la invidia, in effetti.
«Che
cosa te lo fa credere?» indaga Pitch.
«Tu
me lo fai credere. Quello che dici; come pensi sempre, tanto, prima
di ogni altra cosa; come mi osservi. Sembra che vuoi capire tutto
solo guardando».
Pitch
chiude gli occhi e, tanto per cambiare, sospira.
«Forse
ti sbagli. Forse, semplicemente, non ho abbastanza da dire e per
questo rimango in silenzio» ipotizza, finendo per dubitare di
tutto.
Katherine
ride; un suono piacevole, cristallino.
«Non
mi sbaglio, Pitch. Sono piccola, ma so guardare, sai».
Gli
occhi dello spirito, sorpresi, tornano a osservare la bambina.
«Davvero?
E… cosa vedi?» si arrischia, trattenendo il fiato
quasi temesse la
risposta.
Lei
reclina il capo e si accosta maggiormente, allungando una mano fino a
sfiorare la guancia scavata dello spirito.
«Vedo
che sei sempre triste… tranne quando mangi il
cioccolato».
Pitch
sbuffa una mezza risata divertita.
«E
vedo che pensi sempre, e qualcuno di quei pensieri ti fa star male.
Poi vedo che, anche se stai male, mi lasci stare vicina. E qualche
volta penso che ti piace. Io posso vederlo».
Pitch
ora la fissa con gli occhi sgranati e un leggero tremito al petto.
«Perché,
sai» prosegue Katherine, con un sorriso gentile «Io
ti voglio bene
e forse… forse anche tu ne vuoi un poco a me».
“Non
dar retta ai tuoi occhi e non credere a ciò che vedi: gli
occhi
vedono soltanto ciò che è limitato.”
(Richard Bach)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Non
basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che
credono in quello che vedono.” (Galileo Galilei)
|
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Capitolo 20 *** Ricordi ***
capitolo
20 – Ricordi
Ha
la spiacevole sensazione di soffocare. Si aggrappa con le dita alla
stoffa nera che ricopre il suo petto, serra gli occhi con forza e
digrigna i denti. Nulla sembra servire a dargli un po’ di
sollievo.
Geme, di un dolore che non è più fisico.
«Pitch»
chiama Katherine con voce spaventata.
«Io
sono…» un singulto strozzato scuote il suo petto.
«Sono una
pessima persona. Sbagliato, è questo che sono, è
questo che sarò
per il resto della mia esistenza. Ho tentato, Katherine. Io, te lo
giuro, ho provato così tanto, ma non ci sono riuscito. Non
ce l’ho
fatta. Sono… solo un dannato fallimento e ho
fatto… troppe cose
terribili!» rantola, tremando senza controllo.
«Pitch»
ripete Katherine.
La
sua voce ora è più vicina, la sente quasi contro
il suo corpo. Se
solo potesse, la stringerebbe a sé e pregherebbe di poter
svanire
nel nulla, cullato dalle sue piccole braccia. Un vero peccato che non
lo possa realmente fare: non gli è concesso, semplicemente,
di
scegliere la propria fine e il momento in cui essa giungerà.
Una
parte dei suoi desideri viene comunque esaudita e, malgrado tutta la
propria incredulità, Katherine lo stringe fra le braccia e
si
impegna a fondo perché lui ci possa entrare tutto quanto.
«Pitch,
non è vero. Ma anche se lo è, a me non importa.
Già te l’ho
detto: tu non sei cattivo».
«Lo
sono, Katherine. Non capisci?» insiste Pitch.
«No,
io non lo capisco. Da quando ti ho conosciuto non hai mai fatto
niente per essere cattivo. E invece di andartene via, per cercare una
casa nuova, sei tornato per aiutarmi. Oh, Pitch, ma non lo vedi? Come
fai?».
Ma
il suo Pitch sta piangendo, ora. E Katherine non sa davvero cosa fare
per aiutarlo. C’è troppo dolore dentro una sola
persona, ed è
così ingiusto che sia lui solo a doverlo sopportare tutto,
senza mai
poterlo dividere.
«Katherine»
soffia Pitch, fra un tremito e l’altro.
È
un richiamo colmo d’angoscia e bisogno. Lei gli accarezza
gentilmente una spalla, senza mai lasciarlo andare.
«Sono
qui, con te. Resto qui, non vado via» promette Katherine.
Sono
necessari lunghi minuti perché Pitch riesca a placare almeno
in
parte la propria disperazione. Non ricorda, invero, di aver mai
versato così tante lacrime in un’unica volta come
in quel giorno.
A dire il vero, non riesce neppure a rammentare alcuna situazione che
gli abbia richiesto delle lacrime, a parte forse… Pitch ha
un
fremito violento, mentre la sua mente gli riporta alla memoria
l’infausto e sciagurato giorno in cui ha perduto tutto quanto
per
la seconda volta. Chiude gli occhi velocemente, con l’ingenua
speranza di poter così impedire a quelle ultime immagini di
sommergerlo e annientarlo.
«Pitch»
mormora cauta Katherine, sentendolo nuovamente scosso dai brividi.
«Mh».
È solo un gemito fievole, nulla più, ma sembra
che per lei sia
sufficiente.
«Perché
stai così male? Che cos’è?»
domanda angosciata.
«Ricordi»
mormora Pitch con voce spezzata.
Ricordi,
riflette Katherine. Certo devono essere davvero brutti, per farlo
stare in quel modo. Vorrebbe chiedergli di più, al riguardo,
ma allo
stesso tempo teme che la sua curiosità possa solo peggiorare
la
situazione, così tace e si limita a farsi più
vicina e mostrargli
che lei c’è e non intende andare da nessuna parte.
E
di questo, che lui lo ammetta o meno, Pitch le è
incredibilmente
grato. Non ha idea di come avrebbe potuto rimettersi in piedi se
avesse dovuto affrontare uno scorcio così pesante del suo
passato
tutto da solo. Probabilmente sarebbe semplicemente sprofondato,
inesorabilmente, fino a perdersi definitivamente.
«Vorresti
che te ne parlassi, non è vero?» sospira Pitch,
consapevole come
non mai della rassicurante presenza della bambina.
Katherine,
cauta, annuisce. «Credo di sì. Ma… se
non vuoi, se… è troppo
presto, io… Non fa niente, sai» prova a
tranquillizzarlo.
«Sì,
lo so» ammette, con una smorfia triste. «Ma ti
avevo promesso che
ti avrei parlato di ciò che è accaduto questa
notte. E… credo
che, in qualche modo, le due cose siano legate. Quindi, che io lo
desideri o meno, penso proprio che sia giunto il momento di vuotare
il sacco» ironizza Pitch, con uno sforzo titanico e
decisamente
encomiabile.
«D’accordo»
mugugna Katherine, con la testa come al solito seppellita fra le sue
vesti. «Ma dopo» decide perentoria.
Pitch
la guarda stranito e, in parte, incuriosito.
«Adesso:
pancake! Al cioccolato, eh?» propone Katherine, sforzandosi
di
sorridere con una buona dose di allegria.
Pitch
sbuffa ma annuisce e rimane in silenzio.
«Solo
per te» mormora Katherine, posando piano una mano sul suo
cuore.
Le
dita di Pitch si sovrappongono a quelle minute di Katherine,
coprendole completamente.
«Grazie»
mormora.
E
non è solo per la promessa dei pancake.
“Andare
a caccia di ricordi non è un bell’affare. Quelli
belli non li puoi
catturare e quelli brutti non li puoi uccidere.”
(Giorgio Faletti)
*
* * * * * * * * * * * * *
“I
ricordi possono essere un paradiso dal quale non possono toglierci,
ma possono anche essere un inferno dal quale non possiamo
scappare.”
(John Lancaster Spalding)
|
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Capitolo 21 *** Progetti ***
capitolo
21 – Progetti
«Avevi
ragione, infine».
Pitch
è compostamente seduto su una sedia della cucina di
Katherine (o
meglio, della nonna di Katherine). Il sole è ormai alto e
illumina
l’intero locale ma, stranamente, lui non ne è
affatto infastidito.
Al contrario, il chiarore sulla sua pelle gli provoca un curioso
quanto piacevole formicolio.
«Ah
sì? Su cosa?» chiede Katherine, impegnata a
pasticciare con il suo
pancake.
Lui
solleva la forchetta; sembra, in parte, assorto in qualche
riflessione, certamente complicata. Ma scuote la testa e torna a
darle attenzione.
«Sai
cucinare piuttosto bene».
Katherine
arrossisce violentemente perché, diamine, quello
è il primo
complimento ricevuto da Pitch. Dentro di sé, nel suo piccolo
cuore,
si sente assurdamente orgogliosa. Così, per dimostrarlo,
spara uno
dei suoi sorrisi abbaglianti e fisicamente inconcepibili, e salta
dalla sedia, rapida come una cavalletta, fa il giro del tavolo e si
catapulta letteralmente contro Pitch. Il quale ringrazia di essere
ancora uno spirito o, a quel punto, avrebbe dovuto fare i conti con
qualche osso rotto.
«Ma
grazie!» esclama Katherine, incurante del frontale disastroso
e
delle possibili conseguenze.
Lui
si agita sulla sedia, imbarazzato, schiarendosi inutilmente la voce e
distogliendo lo sguardo per puntarlo sul paesaggio esterno. Infine,
dato che lei non dà l’impressione di voler tornare
con i piedi per
terra, sospira e batte gentilmente una mano sulla sua spalla.
«Ehm,
d’accordo… Io, mh, penso possa bastare»
tenta, sperando che lei
si tranquillizzi e decida di mollarlo.
Katherine
deve aver percepito nel suo tono tutto il disagio che sta provando.
Così, per quanto contro voglia, allenta gradualmente la
presa sul
suo collo e si scosta un po’, senza smettere di sorridere.
Invece
sospira, con una bizzarra espressione sognante, e poi ridacchia dello
sguardo perplesso di Pitch.
«Sai,
fino a oggi solo la nonna mi faceva i complimenti per come cucino.
Ora ci sei anche tu, e sono così felice» esclama
deliziata.
Pitch
sbuffa una mezza risata, prima di riaccompagnarla delicatamente a
terra, così da permetterle di tornare alla sua colazione.
«L’ho
notato» commenta ironico.
«Davvero?»
si meraviglia Katherine. «Pensavo che potevi sentire solo la
paura».
Lui
ghigna divertito. «Pensi sul serio che mi servano
capacità
medianiche per notare i tuoi stati d’animo? A questo punto
scommetto mi sarebbe sufficiente misurare l’ampiezza dei tuoi
sorrisi per capire quanto
sei contenta» scherza, divertendosi non poco a prenderla in
giro
senza nessuna cattiveria, tanto per cambiare.
«Pff!»
sbuffa Katherine. «Sei molto divertente. Forse è
tutto quel
cioccolato» ribatte con sarcasmo. «Sai, devi stare
attento però:
la nonna dice che ti vengono i brufoli» ridacchia.
Pitch
la fissa, un’espressione teatralmente oltraggiata dipinta in
volto,
poi scoppia a ridere.
Katherine
rimane incantata a guardarlo, gli occhi spalancati per lo stupore.
Quella dev’essere la mattina delle prime volte, riflette fra
sé,
esaltata dalla piacevole piega che sta prendendo la giornata.
Quando
Pitch si ricompone con un sospiro soddisfatto, la nota nuovamente
intenta a fissarlo con un sorriso e non ne comprende appieno il
motivo, fino a quando è lei stessa a offrirglielo con le
successive
parole.
«Mi
piace quando ridi: i tuoi occhi brillano come il sole» rivela
senza
remore.
Lui
la guarda, interdetto, e aggrotta le sopracciglia.
«Sul
serio?» domanda dubbioso.
Lei
si limita ad annuire e a riprendere a mangiare.
«Mh…
Credo tu sia la prima in assoluto ad aver notato una cosa
simile»
ipotizza Pitch, ancora piuttosto perplesso.
«Beh,
se tu vai in giro tutto serio e arrabbiato non ti aspetti mica
complimenti sul tuo sorriso, no?» pondera Katherine.
Lui
sembra rifletterci su e infine annuisce incerto. «Immagino tu
possa
avere ragione» azzarda.
«Io
non posso. Ce l’ho e basta» obbietta Katherine.
«Quindi…» si
ferma un momento, riflettendo.
«Quindi?»
si informa lui.
«Penso
che dobbiamo trovare il modo per farti felice» risponde
Katherine,
lasciando Pitch senza parole.
“Il
riso è il sole che scaccia l’inverno dal volto
umano.”
(Victor Hugo)
*
* * * * * * * * * * * * *
“I
tre grandi elementi essenziali alla felicità in questa vita
sono
qualcosa da fare, qualcosa da amare, e qualcosa da sperare.”
(Joseph Addison)
|
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Capitolo 22 *** Passato ***
capitolo
22 – Passato
Da
ormai dieci minuti buoni Pitch sembra intento a osservarsi, quasi
ossessivamente, le mani. Una di esse è adagiata sulla
superficie
liscia e scura del tavolo; l’altra, invece, è
sollevata, sospesa a
mezz’aria a incontrare un polveroso fascio di luce
proveniente
dall’esterno.
«Molto
tempo fa» inizia d’un tratto la sua voce, rompendo
infine il
silenzio «avevo una famiglia».
Katherine
trae un brusco respiro, ma si sforza di rimanere in silenzio e
ascoltare, dato che lui sembra aver deciso di raccontarle qualcosa;
qualcosa di importante, a giudicare dalla sua espressione seria e
assorta.
Pitch
chiude un momento gli occhi, oscurando momentaneamente la vista su
quelle sue mani apparentemente umane.
«Loro
erano… tutto ciò per cui avevo vissuto e lottato:
una moglie e una
figlia, una casa, una famiglia». La sua voce ha un tremito e
si
spegne. Pitch deglutisce e inspira profondamente. «Poi, un
giorno,
tutto è andato perduto. Mia… moglie è
morta e… e mia figlia è
scomparsa. Sono rimasto da solo, con l’unica compagnia dei
miei
errori e dei miei rimpianti. E del vuoto che ha preso il posto di
ciò
che amavo di più al mondo, di ciò che era
il mio mondo».
Katherine
deglutisce, spaventata. Sapeva che doveva trattarsi di qualcosa di
brutto, ma non aveva immaginato potesse esserlo tanto.
«E…
l’hai mai ritrovata, tua figlia?» chiede cauta.
Ciò
che ottiene è il sorriso più triste e tirato che
le sia mai
capitato di osservare. Sospetta di aver posto esattamente la domanda
più sbagliata in assoluto.
«Credevo
fosse morta insieme a mia moglie, a quel tempo. Ho scoperto
l’errore
solo molto dopo, solo quando era ormai troppo tardi. Quando non
c’era
assolutamente più nulla che potessi fare per riavere
indietro una
parte del mio passato e della mia famiglia. Lei era viva, ma io
l’avevo comunque perduta. Avevo fallito, di nuovo, e
non… non mi
sarebbe stata concessa nessuna seconda
possibilità».
Lei
lo osserva, l’espressione crucciata e poco convinta. Scuote
la
testa.
«Non
capisco. Se lei è ancora viva, perché non vi
siete riuniti? Tu sei…
beh, ancora il suo papà, no?».
Pitch
serra gli occhi, ritraendosi bruscamente come se fosse stato appena
colpito da qualcosa di invisibile. Si porta le mani al viso, le dita
sottili scorrono fra i capelli. Geme debolmente.
«Oh,
Katherine» soffia con voce spezzata. «Se solo fossi
stato più
forte, se solo fossi stato meno accecato! Sono stato così
stupido.
Avrei dovuto… avrei… dovuto controllare di
persona come stavano
le cose. Ma il dolore mi ha fatto perdere di vista
l’ovvio».
Sospira, nel tentativo di calmarsi e radunare le idee e i ricordi, di
dar loro un senso. «Lei aspettava me. Aspettava che tornassi
a
prenderla e riportarla a casa. Ma io non avevo idea che lei esistesse
ancora e… non l’ho mai cercata. Mai, fino a
quando…». Spalanca
gli occhi e la scheggia di un ricordo minaccia di soffocarlo.
«Fino
a quando?» insiste, per la prima volta, Katherine, convinta
più che
mai che ci sia qualcosa di molto più importante sotto tutto
quel
dolore e senso di colpa, qualcosa che non torna come invece dovrebbe.
«Anni…
No, secoli
dopo, la rividi. Era una donna. Era… bellissima e severa.
Seppi che
era lei dal primo istante in cui posai gli occhi sulla sua figura.
Credetti di essere impazzito, per un momento. Ma certo non potevo
sbagliarmi. Sapevo bene chi avevo di fronte e non c’era modo
di
confonderla. Lei mi aveva tirato fuori da alcuni guai in cui ero
finito a quel tempo, ma era venuta fino a lì per altri
motivi».
«Non
era venuta per te?» domanda Katherine, incredula.
Pitch
scuote mestamente il capo. «No, non proprio. Era
lì per una bambina
e… penso abbia colto l’opportunità per
minacciarmi e farmi
sapere ciò che realmente pensava del sottoscritto. Ma
ciò per cui
aveva fatto tanta strada, in realtà, era la salvezza della
bambina
che si trovava con noi. Lei…» stiracchia un
sorriso che vorrebbe
essere divertito, senza davvero riuscirci «aveva il tuo
stesso
nome».
«Katherine?»
sbotta la bambina, confusa e decisamente sorpresa.
«Sì,
esattamente. Anche lei, a quel tempo, era molto importante; ma per
tutt’altri motivi, ammetto».
«Quali?»
si incuriosisce Katherine.
«Mh…
Potrei provare a raccontarti anche questo. Solo… magari in
un altro
momento» borbotta Pitch, esausto.
«Oh…
Ok. Ma guarda che non mi scordo, eh» lo avverte.
Katherine
allunga un braccio e posa la sua mano su quella di Pitch. Un modo per
fargli sentire la sua presenza e vicinanza senza essere troppo
invadente o stargli troppo appiccicata. Il suo sorriso gentile,
però,
si spegne presto, lasciandola seria e pensierosa.
«Pitch».
«Mh?»
soffia lui, lasciando che le sue dita si riscaldino sotto il piccolo
palmo di Katherine.
«Perché
non è venuta a cercarti lei?» chiede la bambina,
perplessa.
Pitch
aggrotta le sopracciglia. «Cosa intendi?».
«Voglio
dire: tu pensavi che era morta, no? Ma lei, invece, doveva saperlo, o
magari immaginarlo, che tu eri vivo e in giro da solo, no? Allora,
non capisco: perché non è venuta lei a cercare
te?» insiste
Katherine, decisa a chiarire un po’ di cosette.
Lui
la guarda, confuso. Apre la bocca per ribattere. La chiude. La
riapre. «Io… non lo so» ammette.
“Il
passato non è solo ciò che è successo
ma anche ciò che avrebbe
potuto succedere ma non è avvenuto.”
(Sarah Ban Breathnach)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Il
passato è attaccato alle nostre spalle. Non dobbiamo
vederlo; ma
possiamo sempre sentirlo.” (Mignon McLaughlin)
ˇ
ˇ
ˇ
ˇ
L’Angolino
Buio e Polveroso dell’Uomo Nero (e dell’autrice a
cui piace
maltrattarlo)
Roiben
: 1 - Emily Jane : 0
Nulla,
solo un piccolo sfizio personale. Non ci badate
Roiben
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Capitolo 23 *** Perdite ***
capitolo
23 – Perdite
«Pitch»
bisbiglia Katherine con cautela.
Ci
vogliono lunghi attimi affinché giunga la solita replica.
«Mh?».
«Come
stai?».
Gli
occhi di Pitch, lentamente, si risollevano dalle proprie mani e si
fissano in quelli preoccupati di lei. Stira le labbra in una smorfia
addolorata.
«Non
ne sono sicuro. A essere del tutto franco, ultimamente, non sono
più
sicuro di una quantità preoccupante di cose».
Katherine
trae un sospiro silenzioso, si alza dalla sua sedia e fa il giro del
tavolo fino a raggiungere la figura di Pitch.
Lui
osserva i suoi spostamenti, perplesso, fino al momento in cui se la
ritrova al proprio fianco. Allora inarca un sopracciglio e,
interdetto, reclina il capo verso di lei.
Katherine
gli offre un piccolo sorriso, poggia le mani sulle sue ginocchia e,
con una breve spinta, vi si inerpica, accomodandosi sulle sue gambe.
Pitch,
di riflesso, allunga le braccia e circonda la sua minuta figura,
trattenendola perché non rischi di cadere. Poi rilascia un
tremulo
respiro quando la sua testa arruffata si poggia sul proprio petto.
«Mi
dispiace, sai» offre Katherine.
«Per
cosa?» chiede Pitch, confuso.
«Perché
ora sei di nuovo triste. È colpa mia. Avevo promesso che
trovavo il
modo di farti felice. Invece ho fatto il contrario» si
rammarica.
Pitch
accarezza gentilmente la sua piccola schiena e scuote la testa.
«No,
Katherine. Non sei tu che mi rendi triste. È il mio passato,
sono i
miei sbagli, ma certamente non tu. In effetti, in questo momento,
credo tu sia l’unico reale motivo per cui riuscirei a provare
felicità» sussurra fra i suoi capelli scuri.
Katherine,
anche se lui non la può vedere, ha gli occhi sgranati e un
po’
lucidi.
«Davvero?»
mormora, con voce tremante e un po’ rauca.
«Sì,
davvero» assicura Pitch, passando piano le dita fra i suoi
capelli.
Trascorrono
molti minuti di confortevole silenzio, quando improvvisamente questo
viene spezzato da una risatina divertita e deliziata di Katherine.
«Cosa?»
indaga Pitch, a sua volta divertito dal bizzarro comportamento della
bambina.
«I
tuoi vestiti. Odorano di cioccolato».
Pitch
sbuffa una mezza risata e reclina la testa all’indietro. Una
lama
di sole illumina il suo viso e lui strizza appena gli occhi,
sospirando, per un momento stranamente sereno.
«Già,
e chissà come mai» ironizza, scompigliando fra le
dita la testa già
fin troppo arruffata della piccola peste appollaiata comodamente sul
suo grembo.
«Pitch».
«Mh?».
«Mi
racconti della bambina con il mio nome?».
Pitch
trattiene il fiato e, per un momento, si irrigidisce.
«È…
un’altra domanda sbagliata?» chiede Katherine con
rammarico.
Lui
si porta una mano al volto e strofina le dita sulle palpebre pesanti.
«Temo
che, a questo punto, ci sia ben poco che possa essere considerato
facile
o giusto».
Tituba
un momento, indeciso. Poi i suoi occhi si spostano sul paesaggio al
di fuori della finestra e la sua memoria fa un salto nel passato.
Pitch,
con voce pacata, prova a narrare alla bambina di quell’altra
Katherine; di come interessasse al Nightmare King e di come lui la
ritenesse in qualche modo speciale e la volesse per sé, per
farne
una giovane principessa oscura; di come avesse tentato, più
e più
volte e in modi sempre differenti, di trarla a sé e di
convincerla a
essere parte del suo mondo di Ombre e Incubi. Ma anche di come non
fosse mai riuscito nel suo scopo e di come, nel tentativo, fosse
andato fin troppo vicino a perdere alternativamente il senno e la
vita (se poi tale poteva definirsi).
Katherine
ascolta attentamente e in silenzio, curiosa e piena di sorpresa, ma
anche di sgomento e incredulità. Curiosamente, mai di paura.
«Così»
interviene Katherine, quando il silenzio torna a calare fra loro a
storia conclusa «non sei mai riuscito ad averla tutta per
te».
«No»
sospira Pitch. «Lei era… diversa da ogni altro
bambino che avessi
mai incontrato. Per questo, forse, la desideravo. Ma è anche
per
questo che, al contrario, mi è sempre sfuggita».
«Mi
dispiace» sussurra Katherine, realmente costernata per la
sorte di
Pitch.
«Anche
a me. Ma, alla fine, credo sia stato meglio così»
ammette lui.
«Forse
per lei. Ma per te?».
Le
ciglia di Pitch si abbassano, oscurando i suoi occhi chiari, e un
lieve mormorio abbandona le sue labbra tirate. «Per me
è stata
l’ennesima perdita».
“Accade
facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.”
(Primo
Levi)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Puoi
ancora vedere la luce di stelle che non esistono più da
secoli. Così
ancora ti riempie e folgora il ricordo di qualcuno che hai desiderato
per poi vederlo andar via.” (Khalil Gibran)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Ci
sono due tragedie nella vita. Una è perdere ciò
che è il più caro
desiderio del nostro cuore; l’altra è
ottenerlo.” (George
Bernard Shaw)
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Capitolo 24 *** Paure ***
capitolo
24 – Paure
Alla
finestra della cucina giungono, inattesi, degli schiamazzi. Sono i
bambini del quartiere che si sono ritrovati in giardino così
da
sfruttare il luminoso sole di quel sabato mattina per giocare.
Pitch
sbuffa, sconsolato, e porta l’attenzione sulla bambina ancora
accoccolata contro di lui.
«Forse…»
tentenna «Forse dovresti uscire anche tu a giocare con
loro» prova,
esternando i propri dubbi.
Katherine
solleva gli occhi curiosi sul suo volto e nega, scuotendo la testa
con decisione.
«Non
mi piace stare con quelli». E all’espressione
interdetta di Pitch
aggiunge «Mi prendono sempre in giro» in tono mogio.
Pitch
stira le labbra e i suoi occhi brillano d'argento per un breve
istante.
«Davvero?
E perché mai?» indaga.
L’espressione
di Katherine si fa più cupa.
«Lo
fanno da due anni, da quando papà e mamma sono
morti».
Lui
aggrotta le sopracciglia, perplesso. «Non è un
motivo. Che senso
ha?» insiste.
Lei
fa spallucce, nonostante sia ben lontana dal provare indifferenza.
«Non
lo so. Ma dicono che sono strana e… che non faccio le cose
normali,
come tutti gli altri» sussurra a occhi sgranati.
Pitch
fa stridere i denti nervosamente. «È questo che
stavano facendo
quei cinque ragazzi, ieri?».
Katherine
si limita ad annuire, senza proferire parola, e Pitch desidererebbe
ardentemente poterseli ritrovare di nuovo fra i piedi per dar loro
un’altra memorabile lezione. Ma d’un tratto i suoi
occhi si
spalancano e lui trae un brusco respiro, realizzando che, nonostante
l’evidente disagio in cui versa Katherine, non avverte in lei
alcuna paura, nemmeno concentrandosi con la massima attenzione. E, se
è per questo, non riesce ad avvertire nessun altro
sentimento
negativo provenire dalla bambina. Questo è decisamente
inaspettato.
In un istante, un’intensa sensazione di panico dilaga dentro
di
lui, ma altrettanto velocemente la sente ritirarsi, lasciandolo
boccheggiante e sulle spine. Ha bisogno di risposte e ne ha bisogno
immediatamente.
«Katherine»
Lei,
sensibile, avverte al volo l’urgenza nella sua voce, e subito
si fa
attenta.
«Ho
bisogno di un favore» annuncia Pitch. Al cenno di assenso di
Katherine, prosegue «Vorrei… So che potrebbe
rivelarsi spiacevole,
ma vorrei che tu, per un momento, ti concentrassi su qualcosa di
negativo. Qualunque cosa, purché il pensiero sia in grado di
darti
reazioni negative; se fosse possibile, paura».
Pitch
è palesemente nervoso e perfino imbarazzato. Questo
Katherine lo può
facilmente notare, così come nota la sua ansia di avere
risposte.
Lei, al contrario, non si pone alcuna domanda, ma si limita ad
annuire.
«D’accordo.
Posso farlo» assicura con un piccolo sorriso.
Allora
si concentra attentamente, con tutta la volontà di cui
dispone torna
con la memoria a un giorno in particolare, un giorno durante il
quale, al suo risveglio, tutto ciò che hanno visto i suoi
occhi è
stato il bianco e il grigio. Suoni strani sono giunti alle sue
orecchie, quel giorno, suoni prima d’ora mai sentiti. Faceva
caldo,
allora, eppure lei sentiva freddo, e non poteva muoversi, nonostante
ci avesse così tanto provato, ancora e ancora. E niente,
assolutamente niente, cambiava attorno a lei. Sempre lo stesso
bianco, gli stessi suoni, e nessuno accanto a lei a cui poter
chiedere, che potesse spiegarle perché si sentiva
intrappolata in
quella specie di nuvola bianca e troppo calda. Aveva provato a
parlare, allora, chiamare i suoi genitori, ma nemmeno un suono era
uscito dalla sua bocca. Allora la paura l’aveva presa con
sé e
stretta forte, e lei aveva iniziato a tremare per lo spavento, e le
lacrime a bagnarle le guance già arrossate…
«Katherine»
interviene Pitch, interrompendo bruscamente il corso dei suoi
pensieri. «Basta così. Non serve più
che continui a pensarci» la
rassicura con voce pacata.
«Oh»
sospira Katherine, accorgendosi di stare tremando sul serio.
«Io…
non mi ero accorta che…». Scuote la testa,
cercando di liberarsi
dei ricordi ristagnanti nella sua mente. «Andava
bene?» chiede
allora, un poco più tranquilla.
Pitch
la stringe brevemente a sé. «Sì,
Katherine. Sei stata in gamba»
le assicura in un mormorio appena.
Ora,
tuttavia, deve fare i conti con una nuova consapevolezza: non
è più
in grado di avvertire la paura, né altri sentimenti bui. Se
i suoi
calcoli sono esatti, c’è la concreta
possibilità che anche la sua
capacità di spostarsi attraverso le ombre e di instillare
incubi e
terrore sia ormai andata perduta. Ciò che però
più lo
impensierisce è che non ha idea se essere sconvolto oppure
sollevato.
Qualcosa
è già cambiato, in lui; forse molto
più di quanto non si sia reso
conto inizialmente. Prima i suoi ricordi frammentati, poi il suo
corpo, ora i suoi poteri. Che cosa sta diventando? O forse…
Spalanca gli occhi nel vuoto, a quel pensiero: forse, semplicemente,
sta tornando a essere ciò che era all’inizio?
“Le
paure fanno più rumore di qualunque altro
pensiero.”
*
* * * * * * * * * * * * *
“Il
ricordo è un traditore che ferisce alle spalle.”
(Sören
Kierkegaard)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Importante
è ricordare, ma più importante è
dimenticare.” (Rainer Maria
Rilke)
|
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Capitolo 25 *** Risoluzione ***
capitolo
25 – Risoluzione
«Katherine,
tesoro, che cosa stai facendo?».
Katherine
sussulta. La voce della nonna la coglie decisamente impreparata nel
bel mezzo dei suoi logorroici sproloqui culinari ai danni del povero
Pitch, che la sta a sentire da almeno mezz’ora, rassegnato al
proprio infausto destino.
«Ehm»
tossicchia imbarazzata la bambina. «Cercavo nuove ricette,
nonna.
Per il pranzo di domani, sai».
Ed
è sostanzialmente la verità. Certo, non
considerando il fatto che
per farlo ha chiesto innumerevoli volte il parere di uno spirito
oscuro disadattato e fortemente allergico ai bambini.
La
donna, ancora ferma sulla soglia della cucina e piuttosto perplessa,
osserva dubbiosa ciò che ha di fronte, poi scuote la testa.
«Allora,
per l'amor del cielo, si può sapere perché hai
fatto tutte quelle
frittelle? E a cosa mai possono servirti tutti quei piatti e posate?
Non ti sembra di esagerare?».
«Ehm»
ripete Katherine, rossa in viso. «Scusa, nonna. Prometto che
poi
metto tutto in ordine» assicura, con un ampio sorriso
angelico.
«Molto
bene» taglia corto la donna. «Quest’oggi
sarò fuori. Vado dal
medico, dato che questo raffreddore proprio non vuole andarsene. Tu,
per favore, cerca di non metterti nei guai. Siamo intesi?» si
accerta seria.
«Intesissimi!»
esclama la bambina, annuendo vigorosamente.
Si
catapulta giù dalla sedia e corre a dare un deciso abbraccio
alla
donna, la quale sorride visibilmente soddisfatta e le lascia un
buffetto sui capelli.
«Torno
presto» promette, uscendo di casa e lasciandosi dietro un
silenzio
imbarazzato.
«Mh»
commenta Pitch, dopo qualche minuto.
«Già»
concorda Katherine, ridacchiando subito dopo per
l’assurdità della
situazione. «Raccontami qualcosa» chiede
d’un tratto,
contorcendosi già sull’orlo
dell’entusiasmo.
Pitch
inarca un sopracciglio, perplesso. «Tipo?».
«Mah,
non so… Per esempio: perché la nonna non ti
può vedere?»
domanda, curiosa come una scimmia.
Pitch
però si rabbuia e distoglie lo sguardo, e Katherine sa di
aver detto
nuovamente la cosa sbagliata.
«Scusa»
mormora mogia.
Lui
scuote lentamente la testa. «No. No, non è colpa
tua. Già te l’ho
detto: nella mia esistenza c’è ben poco che non
sia capace di
procurare dolore, a me o ad altri».
«Beh…
Ma non puoi mica imbottirti di cioccolato. Finirai davvero con
l’ingrassare, sai» sussurra lei con leggero
divertimento.
Gli
occhi di Pitch si sgranano di sorpresa e un brillio li illumina
improvvisamente, prima che lui si lasci andare a una risata allegra.
«Sei…
davvero incredibile» ammette, pacato. «E
immensamente preziosa»
mormora quasi fra sé, facendo arrossire Katherine.
Si
sofferma a osservarla, sposta lo sguardo oltre il vetro
dell’ampia
finestra e infine torna su di lei, deciso.
«Usciamo».
Katherine
lo fissa un momento, apparentemente senza ben comprendere. Poi le
parole di lui acquistano il giusto significato, ma lei rimane
incredula.
«Ma,
Pitch… È giorno, c’è il sole
(tanto sole). Ti fa male, poi» si
preoccupa.
Pitch
solleva un angolo della bocca in un lieve sorriso. Sembra
piacevolmente soddisfatto, dopo tutto.
«No,
Katherine, non lo farà» replica, con una sicurezza
davvero strana e
inaspettata.
Lei
è perplessa, non sa cosa pensare. Lui sembra convinto delle
sue
parole, e lei gli crede. Eppure non ha scordato il giorno precedente,
né le conseguenze dell’averlo trascinato con
sé in mezzo alla
confusione e sotto il sole.
«Sei
sicuro?» indaga dubbiosa.
Pitch
annuisce gentilmente. «Sì, lo sono. Comunque non
passeremo fuori
tutto il pomeriggio come la volta precedente. Voglio solo accertarmi
di alcuni particolari. Il sole fa giusto al caso mio. Ed è
altrettanto giusto che tu trascorra del tempo all’aria aperta
come
tutti i bambini sani e forti che si rispettino, giusto?».
«Uhm»
borbotta Katherine, non particolarmente persuasa. «Ma,
Pitch…»
riprova esitante.
«Dimmi».
«Io…».
Gli occhi verdi di Katherine, che ora lo guardano, sono grandi e un
po’ tristi. «Io non sono come tutti i
bambini» mormora,
abbassando lo sguardo e stropicciando i pantaloni fra le dita
nervose.
Pitch
si sofferma a osservarla con attenzione e nota senza
difficoltà la
rigida tensione del suo piccolo corpo e le labbra tese in una smorfia
un poco amareggiata. Sospira e si alza dalla sedia, raggiungendo
quella sulla quale è ancora seduta la bambina. Infine si
accovaccia
al suo fianco e posa una mano sulla sua spalla, attendendo con
pazienza che lei sollevi gli occhi su di lui ancora una volta.
«Katherine,
questo lo so. Ho potuto sentirlo e posso continuare a
vederlo».
Scuote piano la testa, reclinandola un poco di lato. «Ma
questo non
fa e non farà mai di te una persona indegna di beneficiare
degli
stessi momenti piacevoli e sereni dei quali beneficia chiunque altro.
Tu, come tutti gli altri, ne hai tutto il diritto. In
realtà,
sospetto che proprio tu, molto più di chiunque altro, abbia
quel
diritto».
E
Katherine, semplicemente, gli crede, facendogli dono di un altro
piccolo, prezioso sorriso.
“E
quando l'ombra dilegua e se ne va, la luce che si accende diventa
ombra per altra luce.” (Khalil Gibran)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Gira
il tuo viso verso il sole e le ombre cadranno dietro di te.”
(Proverbio Maori)
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Capitolo 26 *** Dubbi ***
capitolo
26 – Dubbi
«Sicuro,
sicuro?» chiede per l’ultima volta Katherine,
visibilmente
agitata, mentre sono sulla porta in procinto di uscire.
Una
lieve risata divertita sgorga dalle labbra, ora curiosamente rosa, di
Pitch. Allunga una mano, attendendo che lei gli porga la propria, e
quando accade la stringe delicatamente fra le dita affusolate.
«Decisamente
sì. Non devi preoccuparti, questa volta. Andrà
tutto bene, te
l’assicuro» promette con voce pacata.
Katherine,
seppur incerta, sospira e, dopo aver stretto con forza la mano in
quella di Pitch, annuisce e apre finalmente la porta di casa,
precedendolo nel brillante pomeriggio di quel sabato invernale.
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ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
«Stai
bene?» chiede con ansia Katherine, dopo i primi dieci minuti
trascorsi passeggiando tranquillamente, diretti al parco.
Pitch
socchiude mollemente gli occhi, sollevando il viso verso il cielo, e
annuisce lentamente.
«Sì,
Katherine. È tutto a posto» conferma, sperando di
riuscire a
tranquillizzarla.
Lei
però lo osserva, scettica e nervosa, e non accenna per nulla
ad
abbassare la guardia.
«Pero…
Tu me lo dici se c’è qualcosa che non va,
sì?» si accerta.
«Sì,
te lo prometto» mormora Pitch che, incredibilmente, sembra si
stia
davvero godendo quella passeggiata.
Sbuffa
un risolino divertito fra sé, pensando che, con un
po’ di fortuna
(tonnellate di fortuna), forse potrebbe perfino riuscire ad
abbronzarsi. Mh… molto più probabilmente
otterrebbe, come unico
risultato, di diventare il Signor
Aragosta,
altro che. Scuote la testa, afflitto dai suoi stessi pensieri
demenziali, dando la colpa a un probabile inizio di insolazione.
«Forse
devi metterti la crema» offre Katherine, ripescandolo dai
suoi
pensieri senza capo né coda.
Lui
abbassa lo sguardo, posandolo sulla bambina, e spalanca gli occhi in
una buffa espressione oltraggiata.
«Giammai!
Il Nightmare King non si abbasserà in nessun caso a
spalmarsi di
protezione solare» decreta solenne.
«Ah-ah…
Poi però ti scotti, e allora ti tocca mettere pure il latte
doposole» scherza lei, un po’ più serena.
«Screanzata»
borbotta Pitch, falsamente scocciato, carezzando il dorso della mano
della bambina con il pollice.
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ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Stanno
camminando, senza nessuna fretta, su un lungo e poco frequentato
viale alberato. Certo, gli alberi attorno a loro sono ormai spogli,
poco più che silhouette nel cielo turchese, ma i rami
reggono la
neve, caduta poco tempo prima, che riesce a ingentilirne le forme.
Pitch
indica una panchina poco più avanti, proponendo alla sua
giovane
accompagnatrice una sosta. Così entrambi si accomodano,
Katherine
molto vicina a Pitch, tanto da poter chiaramente avvertire il tepore
sotto il tessuto nero.
«Sai,
oggi sei più caldo degli altri giorni» fa
innocentemente notare.
Pitch
sospira, pensieroso, soffermandosi ancora una volta a osservare le
sue mani.
«Sì,
immagino sia incluso nel pacchetto dei recenti cambiamenti»
ammette.
«Ti
dà fastidio?» indaga lei.
Lui
sposta un momento l’attenzione sull’espressione
concentrata della
bambina, poi torna con gli occhi al cielo.
«Non
ne sono certo, in verità. Devo ancora raggiungere la fase
dell’accettazione.
Ora come ora sono immerso fino al collo nel momento incredulità.
Non escludo che presto potrei passare in zona rifiuto.
Sarebbe… piuttosto seccante, invero».
«Pensi
che…» tituba Katherine «può
essere colpa mia?» chiede in un
pigolio incerto.
Pitch
abbassa la testa a una velocità tale da far schioccare
sinistramente
tendini e ossa del collo. Fissa Katherine direttamente negli occhi
verdi e confusi, costernato.
«Cos…
No! Katherine, certo che non penso sia colpa tua» esclama
sconvolto.
Lei
però è ancora evidentemente dubbiosa.
«Come
lo sai? Magari ho… che ne so… fatto qualche
pasticcio» tenta.
Pitch
si solleva bruscamente, facendola barcollare per aver perduto
l’appoggio, e altrettanto bruscamente fa un passo indietro e
le si
inginocchia di fronte.
«Adesso
mi ascolti, e lo fai con molta attenzione, chiaro?» sibila
Pitch in
tono di minaccia.
Katherine
annuisce prontamente, più con l’intenzione di
fargli piacere che
per reale convinzione.
«Bene».
Prende un lungo respiro e la fissa risoluto. «Ciò
che è accaduto
ieri notte è qualcosa che prescinde qualunque tipo di
volontà,
umana o non. Tu, in quanto umana, non hai alcun tipo di
responsabilità, né per ciò che
è accaduto né, tantomeno, per le
imprevedibili conseguenze che questo ha comportato. Non ne hai colpa,
in nessun modo. Ti è chiaro il concetto? Hai ben inteso le
mie
parole?» quasi si ritrova a ringhiare.
«Però…»
comincia Katherine, dubbiosa.
«No»
la interrompe prontamente Pitch. «Nessun
però.
Nessun ma,
né forse.
È così. Puoi credermi sulla parola, oppure puoi
decidere che ti sto
mentendo, Katherine. Ma in nessun caso questo cambierà i
fatti».
«So
che non mi ha detto una bugia» mormora Katherine, il cui
reale
intento è quello di rassicurarlo della sua piena fiducia.
Pitch
sfarfalla le ciglia, interdetto. In verità, ha passato buona
parte
della sua esistenza a mentire a chiunque, perfino a sé
stesso. Non
ha idea di come possa, quella bambina, possedere tanta sicurezza
nelle sue parole, quando spesso e volentieri è lui stesso a
non
crederci per primo.
«Mh…
Bene» mugugna, un po’ intontito. «E vedi
di non dimenticartene»
borbotta imbarazzato.
Katherine
ridacchia del suo evidente disagio e si sporge a posargli un morbido
bacio sulla guancia.
«Non
lo dimentico, promesso».
“L’ansia
è un sottile rivolo di paura che si insinua nella mente. Se
incoraggiata, scava un canale nel quale tutti gli altri pensieri
vengono attirati.” (Robert Bloch)
*
* * * * * * * * * * * * *
“La
colpa è proprio l’unico fardello che gli esseri
umani non possono
sopportare da soli.” (Anaïs Nin)
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Capitolo 27 *** Esperimenti ***
capitolo
27 – Esperimenti
Katherine,
improvvisamente, spalanca gli occhi e annaspa, scossa da
un’emozione
inaspettata e turbolenta. Si sporge maggiormente verso Pitch, ancora
inginocchiato di fronte a lei. Il suo sguardo è palesemente
allarmato e Pitch se ne rende conto un attimo prima di ritrovarsela
inspiegabilmente fra le braccia.
«Cosa
succede?» domanda, agitato e confuso.
Lei
continua a fissarlo, la sente tremare nella sua stretta. Le sue
piccole mani si posano sul viso dello spirito e sembrano cercare
qualcosa; una conferma, forse.
«La
tua pelle. Ha…» deglutisce, la sua voce
è un mormorio spaventato
«brillato, per un attimo» termina rabbrividendo.
«Cosa?»
rantola Pitch, scostandosi appena e fissandola sconvolto.
«Io…
uhm, non so. Era… come quelle cose
di luce e… e…». Al posto del resto
della frase, dalle sue labbra
esce un singhiozzo strozzato e qualche lacrima bagna le sue guance.
Pitch
si riscuote dalla propria incredulità e, delicatamente,
stringe le
braccia attorno all’esile figura di Katherine.
«Shh,
calma, è tutto a posto» cerca di tranquillizzarla,
invano.
«No»
mormora lei, apparentemente inconsolabile. «Stai…
Stai bene?»
vuole accertarsi, il suo cuore ancora troppo in subbuglio.
«È
tutto a posto» ripete lui, usando la voce più
calma gli riesca di
trovare. «Sto bene» assicura, per quanto ci sia ben
poco di sicuro
al momento.
Sospira,
spossato. Se deve proprio essere completamente onesto, che stia bene
non è del tutto esatto. Al momento, il suo stato oscilla fra
panico
e senso di impotenza. Molto sgradevole, in effetti.
Passa
leggermente un pollice sulla guancia umida e arrossata di Katherine,
in un gesto che vuole essere rassicurante. Ma i suoi occhi si posano,
di loro volontà, su quelle sue mani che si muovono nello
stesso modo
di sempre, pur essendo così diverse, quasi estranee. Se non
fosse
che, in fondo ai suoi ricordi sepolti, sa di averle già
viste in un
passato molto lontano.
«Pitch»
pigola la piccola voce di Katherine, ovattata dalle sue vesti.
«Mh?».
«Che
cos’è accaduto?».
«Qualcosa
è cambiato» ammette suo malgrado Pitch.
«E qualcosa sta ancora
cambiando, temo» aggiunge, il pensiero rivolto ai nuovi,
recentissimi sviluppi.
Cos’altro
deve aspettarsi? La sua mente è una distesa di rovine; i
ricordi, le
informazioni, i sentimenti. Tutto sparso, tutto così
confuso, poco
oltre il suo controllo.
«Non
sei più uno spirito?» chiede Katherine, in un
certo senso
incuriosita.
«Lo
sono ancora. Se non lo fossi, a quest’ora non esisterei
più»
ragiona soprappensiero.
Lei
sussulta, evidentemente sconvolta da quella prospettiva, e lui si
dà
mentalmente dell’idiota per aver fatto ciò che
fanno solo gli
sciocchi e ottusi: aprire bocca senza aver acceso il cervello.
«Pitch»
soffia Katherine, spaventata.
«Non
devi preoccuparti. Né tu né io siamo in
pericolo». “Per il
momento” aggiunge fra sé, pensando a tutte le
possibili variabili
che si troverà a dover affrontare in un probabile futuro.
«Allora
quella luce cos’era?» vuole a tutti i costi sapere
Katherine, che
non si capacita di come una cosa così diversa dal suo Pitch
possa
non essere un possibile pericolo.
«Conseguenze»
risponde lui.
Pitch
ha una teoria e, giacché è lì,
all’aperto, ha tutta l’intenzione
di provarne la validità. Però
c’è Katherine lì con lui, che
è
già molto spaventata e che lo sarebbe ancora di
più se lui agisse
senza prima spiegarle alcuni dettagli. Si mordicchia distrattamente
un labbro, osservandola pensieroso mentre lei attende con pazienza.
«D’accordo,
ascolta: c’è… qualcosa che vorrei
provare. Non sarà nulla di
pericoloso. Solo… ho bisogno di sapere, di capire se
ciò che penso
sia reale».
«Che
cosa pensi?» chiede seria.
«Che
ieri è accaduto molto più di quanto sia sembrato
a una prima
occhiata».
«Pensi
che… quelle luci ti hanno fatto qualcos’altro,
oltre a farti
male?» dubita Katherine.
Piano,
Pitch annuisce. «Penso possa essere così,
sì. Per questo voglio
accertarmene».
Lei
lo fissa lunghi momenti, incerta, poi si fa seria e annuisce
seccamente.
«Ok,
tu fai le tue prove, io resto di guardia. Se capitano brutte cose, ti
proteggo» annuncia orgogliosa.
Pitch
sgrana gli occhi, sorpreso. «Ah… Ehm,
grazie» borbotta
imbarazzato.
«Avanti,
su!» lo esorta, pratica, Katherine.
Lui
raddrizza la schiena in un gesto automatico, esclamando
«Signorsì!»
e ridacchiando subito dopo delle sue stesse pagliacciate, beccandosi
anche uno sbuffo seccato dalla bambina.
Allora
si riaccomoda sulla panchina, al fianco di una Katherine attenta a
pronta a intervenire in sua difesa al minimo accenno di stranezze
potenzialmente letali. Solleva il viso, i suoi occhi brillano sotto
l’accecante luce del sole e lui, ancora una volta, si
sorprende di
poter sopportare tutta quella luce senza svanire in una nuvola di
fumo nero. Solleva una mano a schermarsi, nel momento in cui i suoi
occhi intercettano la stella attorno alla quale ruota quel piccolo
crocchio di pianeti, e inspira lentamente, socchiudendo le palpebre.
Abbassa lo sguardo sulla mano ancora appoggiata al ginocchio e si
concentra. Ancora. Un poco di più. Solo un altro
po’. Ecco: per un
istante la sua pelle ha brillato di nuovo, proprio come poco prima,
quando ha spaventato la bambina. Le sue labbra si distendono in un
morbido sorriso perché sì, qualcosa è
davvero cambiato. Forse non
potrà più percepire le paure ma, ora,
ciò che era un tempo non
appartiene più alle Ombre.
“Quando
ci si smarrisce, i progetti lasciano il posto alle sorprese, ed
è
allora, ma solamente allora, che il viaggio comincia.”
(Nicolas
Bouvier)
*
* * * * * * * * * * * * *
“La
vita è sempre trionfo dell’improbabile e miracolo
dell’imprevisto.” (Henri de Lubac)
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Capitolo 28 *** Tempesta ***
capitolo
28 – Tempesta
«Hai
brillato di nuovo, sai?» domanda Katherine, titubante.
Pitch
annuisce piano, ancora piuttosto incredulo per la scoperta appena
fatta.
«E…
ehm… era quello che volevi?» si informa lei.
Lui
si riscuote dal proprio torpore e fissa lo sguardo in quello di lei.
«In
effetti non ne sono certo. Mi serviva una conferma, una qualsiasi a
questo punto, a ciò che già
sospettavo». Improvvisamente Pitch si
acciglia, preoccupato dall’espressione che lei gli sta
mostrando.
«Io… ti ho spaventata?».
Katherine
sgrana gli occhi, sorpresa, e rapidamente scuote la testa.
«No, non…
Beh, ecco, forse un po’ sì,
ma…». Si interrompe, però, notando
il rammarico negli occhi del suo Pitch.
«Non
era mia intenzione. Non… non sono neppure sicuro di averne
ancora
il potere, ora come ora. Mi dispiace» mormora.
Lei
gli si fa più vicina e poggia il capo contro il suo fianco.
«Non
è stata colpa tua, davvero. Non ero pronta, così
quando l’hai
fatto di nuovo, per un attimo ho avuto paura». Solleva gli
occhi e
incontra quelli pensierosi di lui. «Almeno adesso so che non
è una
cosa brutta, eh. Così, se ricapita, non ho più
paura» lo
rassicura, raccogliendo fra le proprie una delle sue mani.
«Non sono
più così fredde, ora. Forse non hai
più bisogno di quei guanti
grigi» soppesa, in parte incuriosita da quello strano
cambiamento.
«No»
concorda Pitch. «Penso proprio che ne farò
volentieri a meno»
borbotta.
Tempo
dopo Pitch osserva di nuovo, brevemente, il sole e sospira.
«Si
sta facendo tardi. Sarà meglio che ti riaccompagni a
casa».
«Oh,
no! Facciamo un’altra passeggiata, prima. Ti prego»
supplica
Katherine, che non ha molta voglia di rinchiudersi nuovamente in casa
con quella bella giornata.
«Mh»
mormora Pitch, indeciso.
«Forse…
hai preso di nuovo troppo sole?» si impensierisce la bambina.
Lui
distende le labbra in un accenno di sorriso. È curioso come
le
preoccupazioni di quell’umana agiscano in modo tanto positivo
sul
suo umore.
«No.
Probabilmente avrò bisogno di tempo per recuperare le
energie, ma il
sole non è più un problema» la
rassicura.
Lei
sorride, abbagliante, e si alza repentinamente senza lasciargli la
mano.
«Andiamo
allora. Piano, lo prometto».
Pitch
annuisce e, lentamente, la segue lungo i tranquilli sentieri del
parco, ora colorato dalle sfumature aranciate dell’imminente
tramonto.
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Si
stanno recando, senza nemmeno troppa fretta, verso il viale alberato
principale, per poi dirigersi verso casa, dato che la luce si sta
pian piano ritirando oltre l’orizzonte, quando un vento
freddo e
improvviso porta con sé plumbee nuvole temporalesche.
Katherine,
appesa alla grande mano di Pitch, lo sente d’un tratto
irrigidirsi
e fermarsi di botto nel bel mezzo del sentiero deserto. Solleva lo
sguardo per controllare la situazione e nota il nervosismo impresso
nei lineamenti del suo volto spigoloso.
«Pitch»
sussurra appena.
Lui
deglutisce, visibilmente teso, e fa un passo avanti a coprire
parzialmente la piccola figura della bambina.
Pochi
istanti dopo una nuova figura, molto più imponente, compare
di
fronte ai suoi occhi. Ha lunghi e lucenti capelli neri e un lungo
abito elaborato, grigio come le nuvole di tempesta che ha portato con
sé. Sul suo viso, all’apparenza giovane e
delicato, fa mostra di
sé un’espressione delusa e adirata insieme.
«È
dunque così. Sei tornato, infine» esordisce la
voce profonda e dura
della nuova arrivata.
Pitch
rimane in silenzio, senza mai distogliere lo sguardo da lei, ma
spostandosi ancora un poco, con discrezione, a coprire completamente
alla vista il corpo della bambina.
«Mi
era giunta la voce che ti avessero finalmente sconfitto. Eppure sei
qui, di nuovo, di fronte a me» sibila la creatura con un tono
gelido
che sembra influire sgradevolmente anche sulla temperatura
circostante, facendola drasticamente crollare sotto lo zero.
Pitch
fa stridere i denti in una morsa nervosa. Il suo respiro, affrettato,
si condensa nell’aria in piccole nuvolette candide. La fissa
senza
batter ciglio nei suoi occhi verdi e freddi come la sua voce. Infine
si arrende all’inevitabile e parla con lei.
«Sono
desolato di averti nuovamente delusa ostinandomi a
sopravvivere»
soffia sarcastico.
Il
suo cuore batte troppo velocemente. Somiglia molto di più al
frullio
delle ali di un colibrì.
Il
volto di quell’entità si irrigidisce, divenendo
marmoreo.
«Non
hai mai fatto null’altro che deludermi. Continui a farlo
anche
adesso. Non so nemmeno per quale motivo me ne stupisco ancora. Sei
solo una creatura indegna. Probabilmente avrei fatto meglio a
eliminarti dalla faccia della terra molto tempo fa».
Gli
occhi di Pitch si sgranano impercettibilmente e freme appena.
«Davvero?
E che fine ha fatto, dunque, la tua supposta e decantata
neutralità?
Vale dunque solo per il resto del mondo?» ribatte velenoso.
Lei
assottiglia gli occhi. Il vento gelido ora porta con sé
cristalli di
ghiaccio e spirali di brina.
«Ti
consiglio di fare più attenzione a ciò che dici,
o potrei
dimenticare, per un momento, la disgraziata sfortuna di possedere il
tuo stesso sangue, Padre».
Desidererebbe
avere la possibilità di lasciare libero sfogo al suo stato
d’animo
straziato, ma sospetta che potrebbe rivelarsi una mossa suicida, in
un momento simile. Per di più ha appena avvertito, dietro di
sé, il
corpo di Katherine tremare convulsamente. Se lo abbia fatto per il
freddo sempre più pungente o per l’ultima
sfortunata rivelazione,
non gli è dato di saperlo, almeno per ora.
«Perché
sei qui, dunque? Intendi forse portare a termine ciò che
quegli
inetti dei guardiani hanno lasciato, come sempre, in sospeso? Oppure,
e mi vorrai perdonare lo scetticismo, si tratta solo di una visita di
cortesia?».
Sul
viso della donna si dipinge una smorfia di infastidito disgusto.
«Certo
che no! Nessuna delle due ragioni mi ha condotta qui. Se mi trovo
nuovamente, e mio malgrado, di fronte a te è solo e
unicamente per
rinnovarti il mio passato avvertimento, poiché sembra
proprio che tu
non lo abbia recepito a dovere».
Le
labbra di Pitch si stiracchiano in un macabro ghigno, ma nei suoi
occhi permane il dolore.
«A
che scopo tutto ciò? La tua protetta è un
guardiano ormai, non
posso più toccarla (non lo farei comunque)» fa
notare con sarcasmo.
Le
ciocche scure della donna si agitano con violenza, scosse dal vento.
«Mi
credi una sciocca?» sputa con veemenza. «Se ti
trovi fuori dal tuo
lurido covo c’è evidentemente un ottimo motivo. E
immagino che
quel motivo risieda esattamente alle tue spalle».
Pitch
serra strettamente le dita. Il suo nervosismo sale. Può
sentire la
paura di Katherine perfino ora, anche privo del potere oscuro che gli
permette di farlo.
«Non
sai di cosa parli» sibila adirato.
«No?
Quella dietro di te non è forse una bambina?».
«Lo
è» conferma asciutto. «Ma questo non
significa che…».
«Lasciala
andare. Adesso. Ti ho già avvertito in passato. Sono davvero
stanca
di ripetermi» lo minaccia.
Pitch
soffia frustrato. «Ti sto dicendo che le cose stanno in modo
diverso, ora» sbotta. «Apri gli occhi,
maledizione!» ringhia.
D’un
tratto, un brillio verde. Una violenta raffica di vento lo sospinge
con poca grazia indietro, spedendolo a terra con più forza
di quanta
immaginasse. Per un attimo la vista gli si annebbia e nelle orecchie
avverte un ronzio fastidioso. Poi un grido angosciato lo ridesta
dalla confusione. Quando, con un po’ di fatica, si rimette
seduto,
ciò che scorge gli infiamma la mente e fa vibrare
d’ira il suo
corpo: la piccola Katherine, ancora parzialmente avvolta da ghiaccio
e vento, è riversa a terra priva di sensi.
“Un
viaggio di mille miglia comincia con un solo passo.” (Laozi)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Occorre
avere orecchie sospettose quando si ascoltano accuse.”
(Publilio
Siro)
|
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Capitolo 29 *** Contrasto ***
capitolo
29 – Contrasto
«Tu!
Che cosa hai fatto?» sibila Pitch, minaccioso.
Lei
lo fissa, confusa, scuotendo piano la testa.
«Io
non ho… Non l’ho notata
quando…». Spalanca gli occhi verdi,
realizzando finalmente. «Si è messa in
mezzo» conclude, incredula,
sollevando gli occhi su di lui. «Perché lo ha
fatto?» sbotta
sconvolta.
Pitch
non risponde. Si è già diretto velocemente verso
il corpo della
bambina disteso al suolo e, una volta raggiuntala, si inginocchia al
suo fianco, sfiorandola con attenzione per controllare che respiri e
non abbia nulla di rotto. Solo quando è certo che non abbia
riportato danni gravi, sospira sollevato.
«Rispondimi,
dannazione!» grida ancora la donna.
Pitch
solleva di scatto la testa e assottiglia gli occhi, fissandoli su di
lei.
«Non
ti devo alcuna risposta. Dopo tutto, non mi sembra tu ne abbia mai
davvero cercate, in passato. Non vedo il motivo per cui tu debba
cominciare adesso. Certe brutte abitudini, in fondo, non andrebbero
mai lasciate, non è vero?» ringhia arrabbiato e
deluso.
«Di
cosa stai parlando?» chiede lei in tono pericoloso, avanzando
di
qualche passo.
Un
agghiacciante sorriso, tutto denti affilati, compare in un baluginio
sul volto di Pitch.
«Parlo
del fatto che, forse, non sono l’unica creatura indegna
presente.
Curioso ci sia voluta una bambina umana di sette anni per farmelo
capire. Beh, meglio tardi che mai, come si dice».
La
figura alta e flessuosa della donna freme, colta da nuova ira, e fa
un ulteriore e minaccioso passo avanti.
«Tu!
Come osi?».
«Rimani
indietro» comanda Pitch, ormai giunto al limite della propria
pazienza. «Non sono qui per farti da trastullo personale,
Emily
Jane. Se cerchi un buon passatempo a cui affibbiare ogni tua
disgrazia, ti avverto, hai decisamente fatto male i tuoi calcoli.
Sono secoli, ormai, che non ti devo più nulla. Peccato ci
sia
arrivato così in ritardo. Chissà, forse nutrivo
ancora qualche
speranza». Una risata amara sfugge alle sue labbra.
«Buffo,
considerato che allora ero ancora in potere delle Ombre».
Con
attenzione, raccoglie da terra il corpo ancora privo di sensi della
bambina e, lentamente, si rimette in piedi.
«E
ora, se vuoi scusarmi, si è fatto proprio tardi. A
quest’ora i
bambini dovrebbero già essere al sicuro nelle proprie case,
non lo
credi anche tu?» chiede ironico.
Lei
sussulta, cogliendo, nonostante sia ormai trascorso troppo tempo,
l’allusione. Prima che lui abbia il tempo di andarsene,
tuttavia,
lei si riscuote e gli sbarra la strada.
«Potrei
farlo» sibila. «Un solo gesto e saresti
null’altro che un
ricordo; uno spiacevole ricordo» minaccia.
Lui
rinsalda la presa sulla bambina e solleva il mento, fiero.
«Fallo
dunque. Che cosa stai aspettando? Quale momento migliore, ora che non
ho neppure la possibilità di difendermi» mormora
addolorato.
Lei
sospira e abbassa il braccio. «No, non ora. Vi
sarà un’altra
occasione, molto presto. Ora rischierei di colpire la
bambina» un
“di nuovo” non detto sulle sue labbra.
Allunga
le mani, la sua espressione è un chiaro avvertimento a
lasciare la
bambina e andarsene per la sua strada.
Pitch
volta il capo verso gli ultimi bagliori di un astro morente e un
angolo della sua bocca si solleva impercettibilmente.
«Non
credo» soffia appena.
Le
sue braccia stringono saldamente Katherine contro il proprio corpo e
Pitch prega il cielo che le sue deduzioni non si rivelino una
cantonata madornale. Spalanca gli occhi, le iridi dorate brillano
riflettendo il rosseggiare del tramonto, poi tutto è luce
accecante.
La sensazione è quella di essere trafitto da centinaia di
aghi
roventi. Ma quando la luce, poco a poco, si affievolisce, i suoi
occhi osservano di fronte a lui l’ormai familiare cucina
della casa
in cui abita la bambina, e Pitch trae un profondo e dolorante sospiro
di sollievo, sperando che con la pratica quel nuovo metodo di viaggio
risulti meno doloroso e traumatico.
“Accusare
gli altri delle proprie disgrazie è conseguenza della nostra
ignoranza; accusare sé stessi significa cominciare a capire;
non
accusare né sé, né gli altri, questa
è vera saggezza.”
(Epitteto)
*
* * * * * * * * * * * * *
“L’animo
umano è sempre ingannato nelle sue speranze, e sempre
ingannabile:
sempre deluso dalla speranza medesima, e sempre capace di esserlo:
aperto non solo, ma posseduto dalla speranza nell’atto stesso
dell’ultima disperazione.” (Giacomo Leopardi)
|
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Capitolo 30 *** Ritorni ***
capitolo
30 – Ritorni
Pitch
si osserva intorno: la casa è buia e silenziosa, la nonna di
Katherine dev’essere ancora fuori. Abbassa lo sguardo sulla
bambina
fra le proprie braccia, poi lo risolleva e trova l’entrata
che
conduce al piano superiore. Velocemente la imbocca e sale le poche
scale con agilità, oltrepassando infine la porta della
camera di
Katherine e adagiandola sul materasso dell’unico letto
presente.
Rimane
un istante a fissarne la figura immobile, inspira una tremula boccata
d’aria e sfiora i suoi capelli con la punta delle dita.
«Mi
dispiace. Non volevo che succedesse tutto questo. Io… Mi
dispiace»
mormora abbattuto.
Raccoglie
delicatamente fra le proprie una piccola mano di Katherine.
È
fredda. Non dovrebbe esserlo; le sue mani sono sempre state calde. Si
sente così in colpa, per tutto ciò che
è accaduto, ma più di
tutto per non aver saputo tenere Katherine al sicuro dai suoi
problemi. Alla fine, in un modo o nell’altro, che lui lo
desideri o
meno, finisce sempre con l’essere la causa della sofferenza
del
prossimo; e lei, quella bambina umana, si è ritrovata
invischiata
nelle sue faccende personali irrisolte e ne ha pagato le conseguenze.
“Questo non è giusto” riflette Pitch,
scuotendo la testa
arrabbiato. Lei non merita tutto questo dolore.
«Katherine!».
Pitch
sgrana gli occhi e si rimette velocemente in piedi al suono di quella
voce estranea.
«Katherine,
dove sei, tesoro?».
La
nonna della bambina, ricorda Pitch. Inspira a fondo per calmarsi e,
per precauzione, indietreggia fino alla parete, sapendo che di
lì a
poco la donna avrebbe certamente fatto la sua comparsa alla ricerca
della nipote.
Infatti,
una manciata di minuti dopo l’anziana signora entra in camera
e
scruta dubbiosa il locale, individuando presto l’unico
occupante
che possa vedere: Katherine, ancora compostamente distesa sopra le
coperte e priva di sensi. Certo, questo dettaglio la donna non lo
può
conoscere. È probabile, invece, che la creda assopita. Come
a voler
confermare le deduzioni dello spirito, la signora sorride indulgente
all’indirizzo di Katherine, le accarezza una guancia e,
premurosa,
recupera dall’armadio una seconda coperta con la quale
ricopre la
nipotina per proteggerla dal freddo della notte ormai prossima. Poi
le lascia un soffice bacio sulla fronte ed esce, richiudendosi alle
spalle la porta.
Pitch
scuote la testa, sconcertato. Sono davvero molti i dettagli che gli
esseri umani adulti non sono in grado di vedere. La loro
cecità
selettiva ha qualcosa di inquietante.
Lentamente
si riaccosta al letto e vi si siede accanto. I suoi occhi rimangono a
lungo fissi sulla figura di Katherine, senza trovare la forza di
staccarsene. Attende. Lascia scorrere il tempo senza mai muoversi,
senza perdere mai di vista il ritmico e rassicurante movimento del
petto di Katherine che si solleva e si riabbassa a ogni respiro. Le
stelle percorrono le loro orbite in cielo, il buio si infittisce, poi
digrada al sorgere della luna. Il suo pallido lucore pervade la
stanza e distrae l’attenzione di Pitch, che punta gli occhi
diritti
verso la fonte di quella scarna luminosità. Ghigna, una
smorfia
triste distorce i suoi lineamenti tirati.
«L’avresti
mai detto?» sussurra mesto. Si ferma, come in ascolto di
qualcosa
che lui solo è in grado di sentire. «No, neppure
io. E ciò
nonostante eccomi qui, e perché tu lo sappia: non ho
intenzione di
andarmene, non ora. Ora ho uno scopo. Oh sì, dopo tanto
tempo, ora
ho nuovamente uno scopo. Non è divertente, mh? Un vero
spasso,
vecchio mio».
Distoglie
infine lo sguardo dall’astro notturno e torna a posarlo su
Katherine. Torna ad attendere, paziente, perché molto
è cambiato in
così poco tempo, e Pitch ora non ha solo uno scopo, ma anche
la
pazienza e la volontà necessarie per portarlo a compimento.
Qualcuno,
in passato, ha detto: “Conosci il tuo nemico”.
Ebbene, Pitch il
suo nemico lo conosce molto bene e da troppo tempo ormai. Non vede
l’ora di poter finalmente usare quelle conoscenze per
distruggerlo
una volta per tutte.
“Niente
come tornare in un luogo rimasto immutato ci fa scoprire quanto siamo
cambiati.” (Nelson Mandela)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Folle
è l’uomo che parla alla luna. Stolto chi non le
presta ascolto.”
(William Shakespeare)
|
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Capitolo 31 *** Smarrito ***
capitolo
31 – Smarrito
Pitch
è appollaiato sul davanzale della finestra; dà le
spalle alla notte
ed è concentrato sulle proprie mani che ora, al buio, non
vogliono
proprio saperne di offrirgli gli stessi risultati del pomeriggio
precedente. Sbuffa.
«Che
cosa? Funziona solo alla luce del sole?» sibila seccato.
Assottiglia
le labbra, frustrato, e guarda torvamente le dita pallide, quasi
fosse loro la responsabilità di quell’ennesimo
fallimento.
«Assolutamente
inaccettabile! Deve poter essere usato anche con il buio; soprattutto
con il buio, che diamine. O tutto sarà perfettamente
inutile»
mormora, massaggiandosi le tempie doloranti per la tensione.
È
necessario che trovi il modo per sfruttare quelle differenti
capacità
appena acquisite, e lo deve trovare in fretta. Ha l’infausta
sensazione che presto accadrà qualcosa di spiacevole, e
Pitch ha
tutte le intenzioni di farsi trovare preparato a
quell’evenienza.
«Non
questa volta, è una promessa» assicura al silenzio
della stanza
buia.
Appoggia
la schiena al vetro freddo e si dispone ad attendere che arrivi
l’alba. Per ora dovrà accontentarsi della
possibilità di far
pratica durante il giorno. Ma presto si impone di arrivare a
sfruttare anche le ore notturne.
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Un
fruscio lo ridesta dal leggero dormiveglia nel quale si era lasciato
trasportare. Riapre gli occhi e li punta immediatamente sulla figura
ancora stesa sotto le coperte. Si sta muovendo. Ormai dovrebbe
mancare davvero poco al suo risveglio. Pitch, lentamente, si accosta
e si siede di nuovo in paziente attesa sul bordo del comodino. Ma
solo dopo molti altri lunghi minuti la sua pazienza viene premiata
dal tremolio delle palpebre di Katherine che, infine, si riaprono
piano.
«Pitch»
soffia Katherine incerta, voltando poco la testa nel tentativo di
guardarsi attorno.
Pitch
abbandona la sua seduta e mostra chiaramente la sua presenza alla
bambina.
«Oh,
eccoti. Stai… bene?» mormora, ancora scombussolata.
Lui
sgrana gli occhi, sorpreso, poi scuote appena la testa.
«Io
sì, Katherine. Ma ero un po’ in pensiero per te.
Sei stata
incosciente per molte ore. Temevo non ti saresti svegliata»
soffia
Pitch, esternando le sue preoccupazioni senza neppure avvedersene.
Lei
allunga una mano sopra la coperta, tendendola verso le vesti nere
dello spirito che, notando il gesto, si fa più vicino,
permettendole
di raggiungere il suo palmo aperto in una gentile offerta di
conforto.
«Scusa.
Non ti volevo far preoccupare» prova a giustificarsi.
Pitch
si accomoda con attenzione sul lato del materasso libero, sporge un
braccio e fa scorrere in un tocco leggero i polpastrelli sulla sua
fronte aggrottata, provando a sciogliere i segni della confusione.
«Temo
tu ti sia trovata in mezzo a una situazione ben più seria di
quanto
potessi aspettarmi. Non avevo proprio previsto sviluppi simili; se lo
avessi fatto a quest’ora, probabilmente, non saresti
costretta in
questo letto a riposare. Mi rammarico per ciò che ti
è accaduto;
non ho neppure trovato il tempo per impedirlo».
Vorrebbe
aggiungere altro, ma nota i movimenti impacciati di Katherine,
evidentemente intenzionata a rimettersi seduta, e solleva perplesso
un sopracciglio.
«Se
posso: che cosa staresti cercando di fare?» domanda
pensieroso.
«Alzarmi»
borbotta lei, affannata.
«Vedo»
pondera piattamente. «Credi che sia una buona
idea?» si informa,
ancora senza particolari inflessioni.
«Certo»
si impunta lei, litigando furiosamente con le intricate coperte che
le impediscono i movimenti.
«Con
tutto il rispetto, io penso invece che faresti meglio a rimanere
distesa ancora per qualche tempo» suggerisce pacato e
ragionevole.
«Perché?»
sbuffa lei, respirando pesantemente.
Pitch,
sopraffatto dallo scarso senso pratico della bambina, rotea gli occhi
e sospira affranto.
«Probabilmente
perché sei ancora troppo debole per poterti permettere
altro» fa
rispettosamente notare.
«Non
è vero» si ribella Katherine.
Pitch
raddrizza le spalle e soffia, seccato. «Lo è. E se
solo tu fossi
meno impaziente, lo vedresti da te» sbotta infine,
recuperando un
poco della sua solita acidità.
«Uff!
Come sei noioso» biascica la bambina, rinunciando
momentaneamente
all’impresa di rimettersi seduta e crollando, ora piuttosto
scompostamente, di nuovo distesa.
Lui
storce le labbra e arriccia il naso, offeso.
«Io?
Noioso? Non sai ciò che dici» sibila in
avvertimento.
Ciò
che ottiene, tuttavia, è unicamente la risata sollevata e
cristallina di Katherine.
«Oh,
Pitch. Che bello che sei tornato» esclama gioiosa.
Lui
aggrotta le sopracciglia, dubbioso. «Non sono mai andato da
nessuna
parte, ultimamente».
Gli
occhi verdi e scintillanti di lei lo fissano divertiti.
«Sì,
invece. Quando sei triste, o ti senti in colpa, vai in qualche posto
lontano e buio. È sempre difficile trovarti, là.
Ci vuole tanta
pazienza, sai, per riacchiapparti e portarti via con me, a
casa».
Pitch
socchiude le labbra, sorpreso, e le sue gote si scaldano, tingendosi
di un tenue rosa.
«Mh»
commenta.
Katherine,
in contraccambio, sorride radiosa e stringe la sua mano nella
propria, mostrandogli chiaramente la strada.
“Un
briciolo di preoccupazione è più pesante di
tonnellate di
felicità.” (Stanisław Jerzy Lec)
*
* * * * * * * * * * * * *
“La
vita è come un ritorno a casa: i cuori irrequieti del mondo
cercano
tutti la strada di casa.” (dal film Patch Adams)
|
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Capitolo 32 *** Influenza ***
capitolo
32 – Influenza
È
piacevole il lieve tocco delle sue dita affusolate sulla fronte e fra
i capelli; sembrano le ali di una farfalla, ma sono molto
più calde
e fanno meno solletico. A lei piace sentirlo vicino, e non importa
che stia in silenzio. Il suo silenzio va bene; sa che non deve
aspettarsi nulla di poco simpatico, sa che se non dice nulla
è solo
perché sta pensando (quanto pensa, Pitch!) e non
perché è
arrabbiato con lei. È un silenzio confortante, come una
morbida
felpa nelle giornate più fredde. Le sue labbra si distendono
e
Katherine si addormenta con in volto un’espressione rilassata
e
appagata.
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Quando
si ridesta lo fa consapevole del fatto che il tocco sulla sua fronte
è cambiato.
«Sei
calda, tesoro. Forse hai un po’ di febbre» ipotizza
la nonna,
seduta al suo fianco sul materasso.
«Forse»
conviene Katherine in un soffio appena.
La
nonna la copre meglio e le accarezza gentilmente una guancia.
«Vado
a preparare un po’ di tea caldo. Non ti scoprire, o prenderai
freddo» si accerta, prima di lasciare la stanza.
Le
sue palpebre sfarfallano confuse. Si sente un po’ intontita,
come
se ci fosse nebbia nella sua testa. Sospira e scopre di avere anche
il mal di gola. Dev’essersi presa un gran bel malanno.
«Uff»
brontola contrariata.
Si
volta su un lato, trascinandosi svogliatamente dietro le coperte, e
lo vede. Appiattito in un angolo in ombra, le braccia avvolte attorno
alle spalle, le labbra serrate in una linea rigida e gli occhi vigili
fissi sul letto: Pitch.
«Ciao»
mormora, provando inutilmente a sollevarsi.
Lo
spirito sgrana gli occhi e tenta un passo avanti per impedirle di
muoversi, ma proprio in quel momento la porta si riapre, facendo
entrare la donna che regge fra le mani un piccolo vassoio con il tea
annunciato, così Pitch è costretto a rintanarsi
nuovamente nel suo
angolo ad attendere in silenzio. Non che la donna possa realmente
scorgerlo, ma preferisce non correre il rischio di incrociarne la
strada, se possibile.
«Vuoi
qualcosa da mangiare?».
Katherine
scuote piano la testa. «Non ho fame. Grazie».
La
nonna annuisce, comprensiva, e l’aiuta a mettersi a sedere e
a bere
il suo tea caldo.
«Se
ti viene fame chiamami, d’accordo?» si assicura,
prima di lasciare
nuovamente la stanza.
«Ok»
promette la bambina, rimettendosi docilmente sotto le coperte.
Il
silenzio che permea l’aria nei successivi minuti è
quasi
assordante. Katherine può sentire unicamente il suono del
proprio
respiro. Null’altro incrina quella calma irreale. Con un
po’ di
impaccio, torna a voltarsi verso la parete in fondo alla stanza,
individuando immediatamente la buia figura dello spirito, immobile
nell’ombra. La tristezza, d’un tratto, pervade il
suo piccolo
cuore, al pensiero che quella, con tutta probabilità,
è stata per
lungo tempo l’esistenza del suo Pitch: relegato in un angusto
angolo in ombra. I suoi occhi dorati la stanno ancora osservando,
instancabili. Non sembra aspettarsi nulla; rimane semplicemente
fermo, in attesa di un qualunque cambiamento.
«Pitch»
sussurra.
I
suoi occhi si fanno più attenti, ma ancora non si muove.
«Non
è pericoloso, sai» assicura Katherine. Allunga una
mano sulla
coperta. «Vieni?» offre, accennando uno stentato
sorriso.
Lui
si guarda intorno, circospetto; sembra intento ad ascoltare il
silenzio per percepire qualsiasi possibile cambiamento. Infine,
evidentemente, decide che le precedenti parole della bambina possano
essere veritiere e, lentamente, si scosta dalla parete e raggiunge i
piedi del letto, posando una mano leggera sulle gambe di Katherine.
«Come
ti senti?» chiede in un mormorio appena.
«Stata
meglio» biascica lei, sbadigliando stanca.
«Io…»
prova Pitch, incerto.
«No»
lo interrompe lei. «Non tu. Lei» precisa, sicura.
Lui
trattiene il respiro e china la testa, addolorato.
«Quella
era…» riprende Katherine, aggrottando la fronte.
«Era lei, sì?
Tua figlia» chiede, turbata.
Pitch
annuisce lentamente ma non emette nemmeno un fiato.
«Tu
sei… Sei il suo papà».
Gli
occhi di Pitch scrutano insicuri il volto contratto di Katherine,
attendendo che lei dia voce ai suoi dubbi.
«Sei
il suo papà» ribadisce. «Ma lei ti ha
detto delle cose così
brutte».
«Sì»
soffia lui, triste.
Lo
sguardo di Katherine si infiamma improvvisamente.
«Beh,
questo non è giusto! Lei ha te, ha ancora un papà
e… invece di
essere felice che non è da sola, ti tratta male!
Perché?!» sbotta
nervosa.
Lui
la fissa un lungo momento, attonito, poi scuote la testa.
«Mi
odia» ammette ferito.
Katherine
trema. Pitch, impensierito, cerca di coprirla meglio. Lei
però non
trema per il freddo, ma per la rabbia.
«Non
sei tu che sei cattivo! È lei! Se tu… S-se tu eri
il mio papà, io
non ti scacciavo via, ti tenevo stretto a me, sempre. Ma io…
il mio
papà non ce l’ho più, e non lo posso
tenere sempre con me. E lei…
non capisce niente!».
Pitch
si allunga e la stringe fra le braccia, carezzandole i capelli e
mormorando pacatamente per tranquillizzarla. E quando, dopo diversi
minuti, Katherine si riaddormenta poggiata al suo petto, lui la
riadagia piano sotto le coperte e rimane al suo fianco, chiudendo gli
occhi e prendendosi il lusso di immaginare, per un attimo, un mondo
ideale nel quale la sua bambina gli sorride e lo chiama papà.
“La
mia famiglia è la mia forza e la mia debolezza.”
(Aishwarya Rai)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Il
ricordo della felicità non è più
felicità; il ricordo del dolore
è ancora dolore.” (Albert Einstein)
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Capitolo 33 *** Ammissioni ***
capitolo
33 – Ammissioni
Le
sue mani poggiano leggere sul vetro. Lontano, a dominare il cielo
terso, brilla un sole dorato. La sua luce si posa gentilmente sopra
le palpebre abbassate, sulle quali si possono distinguere sottili
venature blu. Le dita affusolate si flettono appena, scivolando sulla
fredda superficie. Per un breve istante, emanano un bagliore simile a
quello del sole là fuori, poi tornano al loro pallore
naturale.
Un
singulto sorpreso rompe il tranquillo silenzio della stanza e lo
spirito si volta, trovandosi attentamente osservato dagli occhi
curiosi della bambina.
«Sei
sveglia» mormora Pitch, avvicinandosi. «Come ti
senti?».
Katherine
distoglie lo sguardo e annuisce titubante.
«Meglio»
replica nervosamente. «Io…».
Lui
la osserva incuriosito, provando a scorgerne l’espressione
nonostante lei sia mezza sepolta dalle coperte e si ostini a non
incontrare il suo sguardo.
«Mi
dispiace per… Non dovevo dire quelle cose. Io…
È solo che…».
Lui
posa un polpastrello sulle sue labbra e quando lei, finalmente, torna
a guardarlo, scuote la testa, accennando un debole sorriso.
«Va
bene così».
«Ma
io…», tenta Katherine.
Una
mano di Pitch, ora piacevolmente calda, le accarezza gentilmente il
viso, e Katherine sospira, per un momento appagata. I suoi occhi
cercano quelli dello spirito e li trovano intenti a scrutarla con
un’espressione strana, mai vista al loro interno; somiglia
molto
alla serenità, ma è più triste:
malinconia.
«Sarei
stato un uomo felice e un padre orgoglioso, se tu fossi stata la mia
bambina» mormora con voce incrinata.
Katherine
sgrana gli occhi e trema violentemente. Un momento dopo ha nuovamente
il viso seppellito nelle pieghe della veste di Pitch, che fa del
proprio meglio per non lasciarsela sfuggire dalle braccia.
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«Che
cosa stavi facendo?» chiede la voce piccola di Katherine,
molti
minuti dopo aver ritrovato un respiro regolare.
«Allenamento».
Lei
lo fissa, dubbiosa. «Cioè?».
«Hai
presente quella luce che non ti garba molto?» prova a
spiegare
Pitch, e al suo cenno di assenso prosegue. «Sto cercando di
venirne
a capo. Devo trovare il modo per controllarla e poterla usare in
maniera efficace».
«Per
che cosa?» si incuriosisce Katherine.
«Per
potermi difendere».
Lei,
d’un tratto, si allarma. «Pensi che quelle cose
luminose
torneranno?».
«Non
lo so» dubita Pitch. «Ma anche se non lo facessero
loro, devo
comunque tenere in conto la probabilità che le Ombre
intendano
ripresentarsi» ipotizza incerto, lasciandosi cogliere da un
tremito
preoccupato.
Lei
si fa seria e lo osserva, impensierita.
«Ombre?
Quelle altre
cose strane di cui parlavi quando mi hai raccontato
dell’altra
Katherine? Quelle cattive che rubano i sogni?» chiede
sgomenta.
Lui
annuisce piano. «Sì, esatto».
Cautamente,
studia la sua espressione spaventata, indeciso se spiegarle altro
oppure se sia preferibile tacere.
«Che
cosa c’è?» lo incalza invece Katherine,
che ha intuito i dubbi
dello spirito e vuole vederci chiaro.
Pitch
sospira e si siede più comodamente vicino alle sue gambe.
«Ci
sono cose di cui non ti ho parlato. Riguardano le Ombre e una parte
del mio passato. Solo… non sono certo che sia una buona idea
metterti a conoscenza di questo tipo di informazioni. Potrebbero
rivelarsi pericolose per…».
«No»
lo interrompe nuovamente Katherine. «Se ti cercano per farti
del
male, io voglio sapere che cosa sono, e anche perché ce
l’hanno
con te» decreta irremovibile.
Pitch
si massaggia stancamente le tempie e sospira frustrato. Non vuole
metterla in pericolo, non più di quanto sia già
riuscito a fare.
Eppure è anche cosciente del fatto che tacerle quella parte
del suo
passato potrebbe rivelarsi la scelta sbagliata. Inoltre ha il sentore
che lei, a quel punto, non sia particolarmente propensa a
permettergli di tacere oltre.
«D’accordo»
accetta, anche se a malincuore. Poi accenna un ghigno ironico.
«Sei
piuttosto dispotica, quando ti ci metti».
Katherine
ridacchia divertita e annuisce. In fondo è vero, quindi
perché
preoccuparsi di negare?
Lui
la fissa con sguardo speculativo e lei si agita irrequieta, non
sapendo bene cosa aspettarsi.
«Posso…
uhm… sedermi lì di fianco a te?»
bisbiglia Pitch, in imbarazzo.
Katherine,
dapprima interdetta, sorride felice e si scosta un poco per fargli
spazio, invitandolo poi con un colpettino della mano sulla coperta.
Pitch
piega le labbra in un piccolo sorriso più rilassato.
«Sai,
qualche anno fa tutto questo non sarebbe mai potuto accadere»
ragiona divertito. «Di solito aspettavo sotto i letti dei
bambini
che i loro occupanti si addormentassero per portar loro
incubi».
Katherine
spalanca gli occhi, sorpresa. «Sotto il letto? Ma…
non era
scomodo?» dubita, un po’ perplessa.
Pitch
socchiude le labbra, interdetto, poi scoppia a ridere di gusto.
«Accidenti
se lo era!» esclama.
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Il
resto della giornata Pitch la trascorre accoccolato sotto le calde
coperte, con la piccola Katherine appoggiata al suo fianco, impegnato
a narrarle di tempi antichi e nemici insidiosi; di soldati coraggiosi
e pericolose creature oscure; di ciò che, nonostante tutti i
loro
sforzi, è andato irrimediabilmente perduto, e di
ciò che invece è
rimasto e ha continuato, nei secoli, a minacciare la
serenità di
tutti, in particolare dei piccoli sognatori.
"Abbiamo
una vita sola. Nessuno ci offre una seconda occasione. Se ci si
lascia sfuggire qualcosa tra le dita, è perduta per sempre.
E poi si
passa il resto della vita a cercare di ritrovarla." (Rosamunde
Pilcher)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Quando
il cuore piange per ciò che ha perso, l’anima ride
per quello che
ha trovato.” (Detto Sufi)
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Capitolo 34 *** Teorie ***
capitolo
34 – Teorie
«Così,
non porti più incubi la notte, ora?» chiede
Katherine, da poco
risvegliatasi.
È
un lunedì mattina caliginoso quello che Pitch osserva dalla
finestra
della camera. Il cielo è coperto da grigie nuvole che
promettono
neve e le persone già in strada si muovono frettolose e
infagottate
nei loro pesanti cappotti.
«No,
non ne ho più il potere, ormai» conferma.
«Ti
dispiace?» soffia la bambina, cauta.
Pitch
finalmente si volta e posa i suoi occhi brillanti su di lei,
reclinando appena la testa e osservandola pensoso.
«Non
proprio, no. Non è qualcosa che possa seriamente mancarmi.
Tuttavia…».
L’attenzione
dello spirito scivola via, vagando altrove, perdendosi in luoghi che
Katherine non potrà mai veramente raggiungere.
«Pitch».
Lui
si riscuote e scrolla le spalle, cercando il modo per spiegarsi a
dovere.
«Non
so più cosa sono. Non ho idea di ciò che sto
diventando, di ciò
che sarò. Non sono più l’Uomo Nero, ma
non sono neppure la
persona che ero prima delle Ombre. Sono… qualcosa di
diverso, di
nuovo, di… mai davvero sperimentato».
«E
questo è male?» indaga Katherine.
I
suoi occhi la guardano con attenzione e
un’intensità tale da far
quasi paura.
«Non
ne sono certo. So che mi spaventa, però. Mi spaventa
l’idea di non
capire, di non sapere cosa aspettarmi, di non avere il
controllo…
di nuovo» ammette teso.
«Di
nuovo?» domanda lei, confusa.
Le
labbra di Pitch si storcono in una smorfia amareggiata.
«Negli
ultimi secoli non ho mai avuto la possibilità di decidere.
Qualcos’altro lo ha fatto al mio posto. Non… non
credo che
riuscirei a sopportarlo nuovamente. Sono stato, per troppo tempo,
solo uno stupido fantoccio, una marionetta manovrata dalle mani di
qualcosa di più potente, troppo per essere
ostacolato».
«E
ora?» sussurra Katherine, spaventata.
Pitch
sospira e torna a osservare il cielo nuvoloso.
«Ciò
che temo è di essermi liberato da una costrizione solo per
ritrovarmi nuovamente manovrato da altro».
«Quella
luce» ipotizza lei.
Lui
annuisce piano e volta appena la testa.
«Forse».
«Forse?».
Annuisce
nuovamente. «Ho alcune teorie al riguardo, e tutte ruotano
attorno
all’attacco di venerdì scorso, proprio qui, in
questa stessa
camera. Ci ho riflettuto molto. Il fatto che ora possa sfruttare un
po’ di quella stessa luce potrebbe avvalorare la mia
ipotesi».
Katherine
lo fissa insistentemente. Quanto pagherebbe per poter vedere nella
sua testa e carpire tutti i suoi pensieri, certamente uno
più
ingarbugliato dell’altro. Peccato non lo possa proprio fare.
Ma
questa mancanza non la fa certo rinunciare alla sua inesauribile
curiosità.
«E
quindi?» incalza, dopo aver lungamente e inutilmente atteso,
fremente, una qualche spiegazione.
Pitch
ghigna, vedendola già contorcersi per
l’impazienza. Le si avvicina
e si piega su di lei ricoprendola della sua ombra. Punta un dito sul
suo naso e pigia piano.
«Sei
davvero troppo curiosa. Una vera scimmietta. Non hai intenzione di
desistere, vero?» si accerta, già conoscendo il
responso.
Lei
spalanca gli occhi, sorpresa, ma poi scuote la testa con decisione.
«Proprio
no. Voglio sapere ogni cosa. Se no, poi, come faccio ad
aiutarti?».
Come
spesso accade, lei, ancora una volta, è riuscita a colpirlo
e
sorprenderlo.
«Molto
bene. Hai vinto tu. Come sempre, del resto» sbuffa Pitch,
rassegnato.
Katherine
invece solleva le braccia al cielo, vittoriosa, ma rimane in
silenzio, un sorriso trionfante a parlare per lei.
Pitch
si appollaia sul davanzale, sbircia fuori ancora una volta, poi
riporta l’attenzione sulla camera da letto.
«Quelle
che tu chiami cose
luminose
sono magia della luce. Scacciano il buio, i pensieri negativi,
tengono lontani gli incubi o più in generale paura e
tristezza».
«Sono
praticamente cioccolato luminoso» offre Katherine.
Pitch
sbuffa una risata divertita e le lancia un’occhiataccia che
vorrebbe essere di ammonimento ma che ha come unica conseguenza di
farla ridacchiare felice.
«Mh»
commenta solo Pitch, passandosi le dita fra i capelli in un chiaro
gesto esasperato.
«Vai
avanti. Sto buona e zitta, giuro» promette Katherine.
Lui
la guarda dubbioso e lei gli offre una linguaccia dispettosa, poi fa
segno di cucirsi le labbra.
«D’accordo,
uhm… Quando mi hanno preso di mira, l’altra notte,
è stato
evidente che lo hanno fatto perché in me hanno visto uno
spirito
oscuro e potenzialmente pericoloso per
l’incolumità degli esseri
umani presenti, te in particolare» spiega Pitch, pacato.
Katherine
invece lo fissa sconvolta, scuotendo la testa con palese
incredulità.
«Ma
non è vero! Tu… non lo faresti mai!»
esclama, quasi offesa al
solo pensiero.
Lui
sbatte le palpebre, confuso. «Mh… In
realtà io ero davvero
uno spirito oscuro. Quindi, suppongo avessero ragione loro nel
volermi rendere inoffensivo» prova.
Katherine
si imbroncia e gli lancia un’occhiata infuocata che, se solo
potesse, lo farebbe arrosto.
«E
quando
l’hai fatto?» chiede seria.
«Che
cosa?» si accerta lui, interdetto.
«Quando
è che hai cercato di farmi del male?» insiste lei.
«Ecco,
io… non l’ho fatto» bisbiglia Pitch,
stranamente intimidito dal
cipiglio belligerante della bambina.
«Oh,
sul serio?!» domanda, con un pesante tono sarcastico.
«Strano. Non
hai appena detto che quelle cose volevano difendermi da te?
Dì,
pensi che sono stupida solo perché sono piccola?»
sibila
minacciosa.
«N-no,
io… non lo penso» tenta Pitch, decisamente preso
in contropiede.
«Bene»
sbotta spazientita. «Perché se no, tutte le volte
che t’ho detto
che per me non sei cattivo non mi hai sentita».
Lo
spirito abbassa lo sguardo e trae un piccolo sospiro colpevole.
«Ti
ho sentita» assicura. «Solo… Mi
dispiace. È passato davvero
troppo tempo dall’ultima volta in cui qualcuno mi ha rivolto
la
parola senza l’intento di maledirmi o insultarmi. Credo di
aver
perso l’abitudine, semplicemente» commenta incerto.
Katherine
osserva lungamente la sua figura nera raggomitolata sul davanzale e
infine decide di tentare, anche sapendo che, con tutta
probabilità,
non otterrà una risposta, non in quel momento almeno.
«Pitch,
perché nessuno ha mai provato ad aiutarti contro quelle
ombre?».
Lo
spirito trema, stringendosi strettamente le ginocchia al petto.
«K-Katherine,
ti prego. N-non adesso» rantola, gli occhi fissi sulle sue
mani
artigliate alla stoffa nera.
Katherine
sospira ma non insiste. Si limita ad annuire e lasciare a Pitch un
po’ del silenzio e della tranquillità necessari a
farlo tornare
padrone di sé e delle sue emozioni.
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«Attaccandomi,
l’altra notte» riprende debolmente la parola Pitch
«il loro
intento principale era quello di scacciarmi, di farmi allontanare da
qui. In fondo è il loro compito: preservare la
serenità epurando
l’oscurità al loro passaggio».
Appoggia
una mano sul vetro della finestra e osserva assorto l’alone
di
condensa che si crea attorno a essa a causa
dell’umidità e della
differenza di temperatura.
«Credo
che sia esattamente ciò che hanno fatto».
Katherine
scuote la testa, perplessa. «Non capisco» ammette.
Pitch
sospira e si raggomitola meglio su sé stesso.
«Il
Nightmare King era… una creatura composita: non
un’unica essenza,
ma molte tutte assieme, condensate in un’unica
entità corporea, ma
comunque distinte, in qualche modo. Tuttavia, quindici anni fa
è
accaduto un fatto che ne ha modificato
l’equilibrio».
«Cos’è
accaduto?» mormora Katherine sulle spine.
«La
Paura»
rivela Pitch.
«Ma…
credevo che lui era
la paura» obbietta lei.
Lui
annuisce lentamente. «Come creatura sì, avresti
ragione. Ma se
separiamo le diverse essenze che la formavano, allora no, non
è
esattamente così. Vi erano differenti tipologie di essenze,
ogn’una
di esse possiede differenti peculiarità. I Dream Pirates non
sono,
di per sé, portatori di paura, ma creature parassite che si
nutrono
di sogni, lasciando il vuoto dietro di sé. Gli Incubi e i
Fearlings
fanno l’esatto contrario: portano con sé le paure
sopite e da esse
creano incubi capaci di terrorizzare le loro vittime. Infine le
Ombre, creature pressoché incorporee; penetrano nel cuore e
nell’anima e vi depositano la loro oscurità,
sporcando e
torturando fino a ridurne l’anima stessa in
brandelli».
Katherine
lo fissa a occhi sgranati, costernata. Trema, raggomitolata in fondo
al letto.
Avvertendola
silenziosa, Pitch le rivolge uno sguardo cauto e nota presto il suo
turbamento.
«Io…
Perdonami, non intendevo spaventarti. Cercavo di
spiegare…» prova
a giustificarsi impacciatamente.
Ma
lei scuote la testa e balza già dal letto, raggiungendolo
alla
finestra e appollaiandosi ai suoi piedi.
«Non
mi hai spaventata. È solo che… non avevo capito.
Tu e Lui
non siete mai stati davvero la stessa cosa».
Pitch
si rabbuia e, per un momento, chiude gli occhi, vagando alla deriva
dentro di sé.
«No.
Mai» conferma cupo.
Sospira
stancamente, strofinando i palmi delle mani sugli occhi affaticati.
«Dicevo»
riprende, tentando di regolarizzare il respiro. «Quindici
anni fa
c’è stato uno spostamento di equilibri. Le Ombre,
assieme ai
Fearlings e agli Incubi, hanno preso il sopravvento. La Paura ha
spezzato il delicato equilibrio che teneva assieme il Nightmare King
in quanto creatura, e il potere è… passato di
mano, diciamo. Se un
tempo veniva detenuto dai Dream Pirates, dopo quel momento è
stato
trasferito agli Incubi che, a quel punto liberi di scorrazzare a
piacimento, hanno abbandonato
la nave che colava a picco
e si sono… dispersi nel mondo, immagino. Ciò che
è rimasto erano
Ombre, per lo più».
«Sono…
rimaste dentro di te?» chiede Katherine, titubante.
Pitch
nega silenziosamente. «Solo Fearlings e i pochi Dream Pirates
superstiti. Le Ombre… Loro non hanno mai tollerato molto
bene gli
spazi angusti e chiusi. Sono… scivolate fuori alla prima
buona
occasione e…». Pitch si interrompe con un brivido
violento.
Katherine
assottiglia gli occhi e si fa sospettosa.
«E?»
indaga, innervosita.
Pitch
socchiude le labbra, ma nessun suono ne esce.
«Pitch»
insiste Katherine.
«Loro...
tendono a essere piuttosto vendicative» ammette con un filo
di voce.
«E c’ero solo io, lì».
Katherine
gli pianta addosso uno sguardo inorridito. Le sue labbra tremano,
prima di esclamare «Quelle cose
ti hanno fatto del male!» e non è neppure una
domanda, a quel
punto. Poi sgrana gli occhi e impallidisce improvvisamente,
rammentandosi d’un tratto un particolare cui non aveva
prestato
sufficiente attenzione in precedenza. «Per… p-per
quindici anni?»
geme sconvolta.
Vorrebbe
urlare e magari spaccare qualcosa, ma si rende conto che questo non
sarebbe di alcun aiuto al suo Pitch, così tenta in tutti i
modi di
darsi una calmata.
«Odio
quelle Ombre» sibila inviperita.
«Ah,
a chi lo dici» mormora Pitch in tono traballante.
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«Così,
cosa pensi che è successo con quella… magia
della luce?»
torna a informarsi Katherine.
Pitch
si sente la testa scoppiare, ma al momento la sola idea di chiudere
gli occhi e rischiare di assopirsi, con la concreta
possibilità di
procurarsi qualche sogno orribile direttamente ricollegato ai propri
ricordi, lo terrorizza, facendolo desistere da qualunque proposito di
quel genere.
«Posso
ipotizzare che, al loro passaggio, abbiano operato esattamente come
farebbero in qualunque altro contesto simile: scacciando via buio e
affini. Infine, ciò che è rimasto lo vedi da
te» commenta, con
cupo cinismo.
Katherine,
inaspettatamente, sorride. «A me piace molto quello che
è rimasto»
afferma sicura.
Lui
la fissa un momento, interdetto, poi arrossisce (o per lo meno ci va
vicino, dato che la sua carnagione, per quanto attualmente
più
simile a quella umana, rimane comunque molto più pallida del
normale).
«Mh»
sospira imbarazzato, indeciso su cos’altro aggiungere e
rimanendo
quindi in silenzio.
«E
poi?» incalza Katherine «Che altro è
successo?».
Pitch
torna con la memoria a un momento particolare, lo stesso che sospetta
abbia modificato definitivamente la sua esistenza.
«Non
posso averne la certezza, tuttavia credo che, nel tentativo di
spazzare via l’oscurità, sia stata lasciata
indietro una parte di
Luce che, non mi è perfettamente chiaro in che modo,
dev’essersi
legata alla mia essenza. Questo però non è stato
un passaggio
graduale e naturale ma… guidato, suppongo».
«Non
ho capito» mugugna Katherine, persa in ragionamenti un
po’ troppo
complicati per i suoi gusti.
Pitch
ghigna e lei ribatte con una linguaccia indispettita.
«Dopo
l’attacco mi sono addormentato, ho anche sognato, ma quando
mi sono
risvegliato qualcosa, dentro di me, stava già cambiando.
La… Luce,
immagino, quella residua per lo meno, stava ancora tentando di
scacciarmi. Solo che ormai non c’era più molto da
allontanare.
Oltre a me stesso non rimaneva granché da combattere. Ma,
ovvio, una
volta attivatasi non è così semplice uscirne
tutti d’un pezzo».
«Quindi
è per questo che stavi male?» ragiona Katherine,
ricordando i
dolorosi lamenti dello spirito.
Pitch
annuisce. «Sì, la Luce brucia. In
realtà è qualcosa che ho sempre
saputo, ma non l’avevo mai provato così da
vicino».
«E»
tituba la bambina «perché poi ha smesso di
bruciare?».
Lo
sguardo brillante e calcolatore dello spirito la scruta per un lungo
momento, prima di offrirle una risposta.
«Per
te».
Katherine
sfarfalla le ciglia, attonita. «Per me? Cosa vuoi
dire?».
«Tu
hai interrotto un processo che, altrimenti, si sarebbe probabilmente
rivelato irreversibile».
«Come?»
chiede confusa.
«È
un’ipotesi della quale non ho modo di accertarmi. Sospetto
che
siano state le tue lacrime, venute a contatto con… il nucleo
della
mia essenza, credo. E di conseguenza con la Luce residua presente al
mio interno, che si è infine placata. Ma non è
svanita, non
completamente» termina Pitch con le sopracciglia aggrottate
per la
concentrazione.
Katherine
lo fissa a bocca aperta e occhi spalancati per un minuto buono. Poi
prorompe in un «Wow!» meravigliato.
E
Pitch ridacchia, ora curiosamente sereno e incredibilmente appagato
per la reazione della bambina.
«E
quindi… ora siete una cosa sola?» chiede Katherine
eccitata.
«Così
pare» sbuffa lui, solo in parte impressionato.
In
fondo ha passato più d’una vita in una condizione
analoga. Non è
certo qualcosa di eclatante, dal suo punto di vista. La notizia
positiva, invece, è che dopo tanto tempo sembra proprio che
si sia
liberato delle ultime vestigia oscure e che, con un poco di fortuna,
se anche dovessero tornare, non avranno vita facile nel fronteggiare
tutta quella Luce dentro di lui.
“Pitch
sembrava senza età, giovane e vecchio al tempo stesso. Un
tormento
infinito solcava il suo volto e non sembrava volerlo lasciare
mai.”
(notpoignant)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Il
sole mi è entrato nelle vene e ha trasformato tutto in
oro.”
(Elizabeth von Arnim)
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Capitolo 35 *** Allenamenti ***
capitolo
35 – Allenamenti
Il
sole è alto, Katherine è tornata a scuola e Pitch
è seduto a gambe
incrociate sul tetto della casa della bambina; le tegole scintillano,
ricoperte della brina notturna non ancora sciolta.
I
suoi occhi sono chiusi, ma puntano direttamente verso il sole. Non
è
mai stato granché in fatto di concentrazione; tuttavia,
poiché deve
assolutamente trovare un modo per far funzionare la Luce annidata
dentro di sé, è necessario che impari, alla
svelta anche.
I
suoi denti scricchiolano sinistramente, mentre il nervosismo sale. Si
trova a fare il corvaccio sul tetto già da più di
un’ora, ormai,
ma non ha notato alcun miglioramento: ancora non è in grado
di
capire come accedere all’energia accumulatasi in seguito
all’attacco della Luce, e se non ci riesce allora diventa
perfettamente inutile disporne.
Avrebbe
probabilmente bisogno di un qualche maestro di meditazione che possa
dargli le basi da cui partire. Quella ricerca del suo nucleo, finora,
si è rivelata del tutto infruttuosa. Già, ma dove
lo dovrebbe
trovare un umano adulto in grado di vederlo? Solleva un sopracciglio,
scettico, pensando che potrebbe invece cercare qualche spirito con le
necessarie conoscenze. Poi però sbuffa: gli spiriti non
l’hanno
particolarmente in simpatia.
«Chissà
come mai?» borbotta sarcastico.
Ecco
fatto: ora si è distratto definitivamente e dovrà
ricominciare
tutto da capo.
«Dannazione»
sibila frustrato.
Inspira
a fondo ed espira lentamente. Cerca un po’ di calma,
nonostante
l’agitazione non sembri volergli concedere tregua.
C’è una
sensazione di urgenza, da qualche giorno, dentro di lui; urgenza e
ineluttabilità: un pessimo binomio, invero.
Un
basso ringhio fa vibrare la sua gola e le sue dita affondano come
artigli nelle cosce.
«Avanti,
non distrarti, stupido» mormora.
Le
ciglia tremano per un attimo, ma gli occhi rimangono ostinatamente
chiusi, costretti in quella posizione dalla cocciutaggine del loro
proprietario. La patina rosso cupo che vede dietro le palpebre, per
un brevissimo istante, si accende di una luce abbagliante che lo fa
boccheggiare e rischia, per la sorpresa, di fargli perdere
l’equilibrio. Poi tutto torna buio; un buio non
più rosso sangue,
ma screziato di aloni dorati.
Rilascia
un tremulo sospiro e prova a riaccomodarsi meglio. Non che il luogo
che si è scelto possa sul serio definirsi comodo, ma non
è certo di
una seduta confortevole che necessita in quel momento.
Schiude
le palpebre, le nere pupille si contraggono rapide, lasciando spazio
alle iridi che sembrano assorbire e riflettere luce. Gli occhi
bruciano e protestano per l’eccessiva sollecitazione
inumidendosi.
Solleva il braccio destro nella stessa direzione e aggrotta le
sopracciglia, deciso più che mai a ottenere un risultato che
ripaghi
i suoi sforzi.
E
un risultato, in effetti, lo ottiene. La Luce si accende partendo
dalla punta delle dita protese, e risale su, oltre il polso, fino al
gomito, e ancora più su, a lambire la stoffa nera della
maglietta
che indossa. Socchiude le labbra tremanti in un’espressione
stupita
e, in quel momento, la sua già scarsa concentrazione va
irrimediabilmente perduta.
Tuttavia,
invece di estinguersi come si aspettava, la Luce diventa più
violenta, tanto da costringerlo a socchiudere gli occhi per
proteggersi, poi inizia a bruciare.
Pitch
emette un rantolo strozzato. L’iniziale sorpresa lascia
presto il
posto al dolore. Un grido sordo prorompe dalle sue labbra. Flette il
braccio e prova a piegare le dita, ma la sensazione di accecante
calore non scema, si fa anzi più acuta, tanto da imporgli
l’azione,
una qualunque, che serva a placare il fuoco che sta tentando di
ridurgli il braccio in cenere.
Balza
giù dal tetto, atterra scompostamente nel giardino sul retro
e, a
corto di idee migliori, immerge il braccio in un cumulo di neve
spalata. Il freddo improvviso e pungente, a contatto con il braccio
rovente, lo fa gridare nuovamente, ma sembra raggiungere lo scopo di
placare la Luce e con essa il bruciore.
Pitch,
raggomitolato in mezzo alla neve, geme e rabbrividisce, tentando come
può di riprendere fiato. I minuti successivi li trascorre in
un
ovattato stato confusionale, con la vista ancora annebbiata dallo
shock e le membra contratte dalla tensione.
«Ottimo
lavoro» mormora sarcastico, sibilando a ogni minimo movimento.
Un
tempo indefinito più tardi, si risolve a prendere coraggio e
provare
a rimettersi in piedi. Traballante e intontito, fa qualche incerto
passo indietro e dà una veloce sbirciata al braccio destro,
distogliendo rapidamente lo sguardo e mugolando sconfortato.
«Meraviglioso»
geme, passandosi stancamente le dita della mano sinistra fra i
capelli disordinati.
Più
della metà del suo braccio destro è ricoperta da
bruciature e segni
violacei, la parte restante è bianca come gesso e a tratti
traslucida. Prova a flettere le dita, poi il gomito, senza alcun
risultato apprezzabile. Sbuffa, esausto e sconfortato. Infine, onde
evitare di trascorrere il resto della giornata a piangersi addosso in
mezzo a cumuli di neve e passeri guardoni, decide di raccattare la
propria carcassa marcescente e riguadagnare la più
confortevole e
riscaldata camera che gli ha gentilmente predisposto Katherine quella
stessa mattina: panna e beige, proprio come gli aveva promesso.
“Perché
la luce sia splendente, ci deve essere
l'oscurità.” (Francis
Bacon)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Se
c'è un vero desiderio, se l'oggetto del desiderio
è veramente la
luce, il desiderio della luce produce la luce.” (Simone Weil)
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Capitolo 36 *** Conseguenze ***
capitolo
36 – Conseguenze
Mugolando,
borbottando e gemendo, Pitch raggiunge infine la
tranquillità della
sua nuova camera. Sfinito, si sdraia cautamente al di sopra del
piumone chiaro. Un tremulo sospiro abbandona le sue labbra e le sue
palpebre si abbassano pesanti. Poco dopo la sua coscienza è
trascinata via, in un limbo oscuro.
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Katherine,
di ritorno dalla lunga e noiosa giornata trascorsa dietro i banchi di
scuola, irrompe come una bufera invernale in casa e si precipita in
cucina, dove sa di trovare la nonna a quell’ora. Lei infatti
è lì,
intenta a terminare i preparativi per il pranzo, e accoglie con un
sorriso gentile la bambina che, per non smentirsi mai, si catapulta
sulla povera donna, soffocandola in un caldo e irruente abbraccio.
«Ciao!
Mi sei mancata! Oh, non vedevo l’ora di tornare, sai.
Quei… quei…
teppisti!»
esclama su di giri.
La
donna annuisce comprensiva e le elargisce una delicata carezza sui
disordinati capelli.
«Di
nuovo?» chiede accigliata. «Non ti hanno fatto del
male, vero?» si
accerta, preoccupata.
«Oh,
no!» assicura Katherine, volando letteralmente sulla sedia
più
vicina. «Non più, sai. Da quando
Pitch…».
Si
interrompe bruscamente, spalancando gli occhi nel rendersi conto che
stava per rivelare il suo grande
segreto segretissimo
alla nonna. E Pitch non ne sarebbe stato molto entusiasta. Oh, no,
proprio per niente.
«Come?»
dubita la donna, confusa.
«Oh,
nulla» sorvola Katherine, scuotendo la mano con noncuranza.
«Non
preoccuparti. Non mi hanno proprio toccata, è tutto a
posto»
assicura.
La
nonna la fissa dubbiosa ancora per qualche secondo, poi scuote la
testa e decide di lasciar correre.
«Meglio
così. Ora, da brava, va’ a lavarti le mani.
È quasi pronto»
avverte premurosa.
Così
Katherine salta giù dalla sedia e, veloce come una saetta,
si
affretta a obbedire.
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Finito
il pranzo, Katherine ringrazia la nonna e, dopo aver promesso
solennemente di lavarsi i denti, scompare su per le scale come
inghiottita da un buco nero. Vuole salutare il suo Pitch, che non
vede da ben sei ore! Ma prima, ubbidiente, si chiude in bagno per
fare il suo dovere.
Sorridente
e con i denti più splendenti che mai, Katherine si ferma
davanti
alla porta della camera che ospita lo spirito e, piano, bussa,
attendendo un qualsiasi segnale che le dia il permesso di entrare. Un
minuto più tardi, tuttavia, quel segnale non è
ancora giunto e lei,
impaziente, sbuffa e socchiude comunque l’uscio, facendo meno
rumore possibile.
Dentro,
la camera è in ombra e non si avverte alcun suono. Katherine
sporge
la testa e osserva meglio, individuando presto la figura dello
spirito distesa sul letto. Dapprima lo osserva interdetta,
chiedendosi come mai stia dormendo a quell’ora improbabile,
poi
supera la soglia con discrezione, richiudendosi la porta alle spalle,
e si avvicina al letto, osservandone incuriosita l’occupante.
La
sua sorpresa lascia presto il posto alla preoccupazione, notando che
Pitch non sta affatto dormendo; i suoi occhi sono socchiusi e
apparentemente persi nel vuoto, mentre il resto del suo corpo trema
senza sosta.
«Pitch»
soffia Katherine spaventata.
Il
suo richiamo non riceve risposta. Lei si accosta maggiormente e
sfiora il suo viso, sobbalzando incredula subito dopo. È
caldo,
decisamente più caldo del normale. Si arrampica sul
materasso,
sperando di capire quale sia il problema, ma una volta raggiunta la
vetta,
trattiene bruscamente il fiato, lo sguardo sgranato e fisso sul
braccio destro dello spirito ricoperto di bruciature e segni lividi.
«Pitch!»
esclama, stavolta prossima al panico.
«Cos’è accaduto? Che
cos’hai?».
Poggia
cautamente una mano sul suo collo sottile, trovandolo umido e
bollente. Le labbra tremano, la paura si fa prepotentemente spazio
nel suo piccolo cuore. Lui però non sembra averla notata,
non dà
alcun segno di aver percepito la sua presenza, i suoi occhi sono
ancora persi nel nulla, o forse in qualcosa di molto peggio.
“Nella
nostra oscurità, in tutta questa vastità, non
c’è nessuna
indicazione che possa giungere aiuto da qualche altra parte per
salvarci da noi stessi.” (Carl Sagan)
*
* * * * * * * * * * * * *
“È
l'ignoto che temiamo, quando guardiamo la morte e il buio,
nient'altro.” (J.K. Rowling)
|
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Capitolo 37 *** Invisibile ***
capitolo
37 – Invisibile
Katherine
si scosta bruscamente da Pitch, lo fissa ancora per qualche momento,
spaventata, poi serra la mascella, risoluta, e si allontana dalla
camera, imboccando nuovamente le scale e scendendole quasi di corsa.
Agitata,
fa il suo ingresso in cucina come una furia e pianta i piedi,
frenando la propria corsa poco prima di schiantarsi contro la nonna.
«Oh,
Katherine! Santo cielo, cosa ti prende, ora?» sbotta la
donna,
reggendosi il petto con una mano.
La
bambina, ignorando le proteste, afferra i polsi della nonna in modo
da costringerla a darle ascolto.
«Mi
serve il tuo aiuto, per favore» esclama con foga.
«Katherine,
tesoro, ora prova a calmarti e spiegami per bene. Cosa può
essere
successo in questo poco tempo in cui sei stata di sopra?»
media
pacatamente la donna.
Katherine
libera i polsi della nonna e affonda le mani nei propri capelli,
strattonando leggermente. Cosa mai potrebbe dire per spiegarsi? Come
potrebbe mai far capire alla nonna la situazione? Non le ha mai
accennato di Pitch e, anche se fosse, lei non lo può vedere,
giusto?
La prenderebbe per pazza, come già fanno gli altri bambini?
La
guarderebbe con compassione e proverebbe a farle capire il suo
errore? Ma Pitch non è un errore, non è il frutto
della fantasia
troppo fervida di una povera sciocca. E Pitch, ora, sta male. Deve
aiutarlo, deve assolutamente!
«Ti
prego» geme, fissandola con occhi grandi e imploranti.
«Katherine,
ascolta…» prova la donna, perplessa e impensierita
dall’insensato
comportamento della bambina.
«No»
ribatte Katherine, decisa a non perdere ulteriore tempo. Afferra una
mano della nonna e tira gentilmente. «Vieni, per
favore» incita,
pregando che accetti di seguirla, senza tuttavia sapere quale
sarà
la sua prossima mossa.
Incredibilmente,
Katherine è riuscita a farsi seguire, e ora percorrono (con
esasperante lentezza, a suo modesto parere) per l’ennesima
volta la
breve scalinata che le condurrà al piano superiore. La
bambina,
impaziente, è già corsa avanti ad aprire la porta
della camera per
gli ospiti, mentre la nonna la guarda dubbiosa, tentennando sul
pianerottolo. Poi, con uno stanco sospiro, decide che, giunta fin
lì,
tanto vale andare fino in fondo. Così raggiunge la nipote
sulla
soglia della camera e osserva, interdetta, la stanza curiosamente in
ordine e già pronta a ospitare qualcuno.
«Hai
rifatto tu il letto?» indaga sorpresa.
La
donna, impegnata in una superficiale perlustrazione delle dotazioni
della camera, non nota l’occhiata sconvolta ai limiti della
disperazione della bambina.
«Tu…
non lo vedi?» sussurra, il respiro più rapido del
normale,
osservando confusa ora la nonna ora Pitch, che sembra in
peggioramento rispetto a quando lo ha lasciato l’ultima volta.
La
donna le rivolge uno sguardo confuso e, dopo aver visto la sua
espressione, anche un po’ preoccupato.
«Perché
hai voluto che venissi qui? E come mai hai preparato il letto?
Aspettiamo qualcuno di cui ti sei scordata di parlarmi?»
indaga
sospettosa.
«No»
geme la bambina, ormai prossima al panico.
Perché
la nonna non può vederlo? Perché Pitch non ha
voluto spiegarle il
motivo? Adesso sarebbe sicuramente stato di aiuto saperlo. Ma
è
inutile farsi domande cui non può dare una risposta al
momento. Deve
trovare una soluzione a quel problema, poi penserà anche a
scoprire
certi segreti, quando Pitch starà abbastanza bene da poterla
accontentare.
Inspira
a fondo per calmarsi e posa i suoi occhi verdi e decisi sulla donna.
«Nonna,
senti, lo so che non lo puoi vedere, ma…» sbuffa.
Così non va.
«Tesoro,
se ora tu provassi a calmarti e spiegarmi, una buona volta, che cosa
ti sta capitando» fa presente.
«Siedi.
Devo raccontarti una cosa» annuncia Katherine,
mordicchiandosi
nervosamente un labbro.
La
donna, con un mesto sospiro, annuisce e si sposta per seguire il
consiglio della bambina. Katherine, seguendone i movimenti per la
stanza, spalanca la bocca, inorridendo nello scorgerla decisa ad
accomodarsi sul letto.
«No!»
strilla nel panico. «Non lì. Su… sulla
s-sedia, per favore»
implora, scossa dai brividi.
Non
crede che potrebbe reggere lo shock di vedere la nonna sedersi dentro
Pitch. Sente lo stomaco contorcersi alla sola idea. Scuote la testa
per scacciare quel pensiero molesto e, con un sospiro di sollievo,
guarda la nonna prendere invece posto sulla sedia vicino alla
finestra.
«Adesso
spiega» impone la donna con un cipiglio serio e risoluto.
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Torturandosi
le mani e facendo saettare gli occhi da un angolo all’altro
della
stanza, Katherine racconta alla nonna degli ultimi giorni, del suo
incontro con Pitch, delle loro chiacchierate,
delle scoperte sconcertanti e delle avventure che li hanno coinvolti
durante quell’ultima, incredibile settimana. Le parla di lui,
delle
emozioni che riesce a suscitarle senza neppure aprire bocca, della
sua onnipresente tristezza, di quella balorda di sua figlia e delle
ultime novità sulla Luce. Il tutto senza quasi riprendere
fiato per
l’agitazione. Conclude il suo appassionato racconto
spiegandole che
ora, per motivi ignoti, Pitch sta male e lei non sa proprio cosa fare
per aiutarlo. Infine rivolge uno sguardo angosciato alla nonna.
Nonna
che, con grande e ammirevole stoicismo, è rimasta per tutto
il tempo
ferma e zitta a seguire le parole della bambina.
«Katherine»
comincia, sospirando e scuotendo piano la testa. «Tesoro, non
pensi
che sarebbe, forse, meglio giocare con i bambini reali,
anziché con
bizzarri amici immaginari?».
Katherine
sgrana gli occhi e rabbrividisce, poi la fissa con espressione
tradita e addolorata, infine si lascia sfuggire qualche lacrima.
«Non
hai… ascoltato proprio nulla, di tutto quello che ho
detto»
mormora incredula.
«Ti
ho ascoltata, invece» replica la donna.
«No.
Tu… sei rimasta a sentire quello che avevo da dire, ma non
mi hai
ascoltata, non hai… capito, non… Non mi aiuterai,
vero?» chiede,
sconfortata e delusa.
«Tesoro,
come puoi pretendere che io…».
«Va’
via» sibila Katherine.
«Katherine,
ascolta…».
«No!
Tu non ascolti me, io non ascolto te! Adesso vattene via. Devo
aiutare Pitch, e ho perso così tanto tempo, per niente. Sono
stata
proprio stupida a pensare che…».
Senza
aggiungere altro, si aggrappa al maglioncino della donna,
costringendola a rimettersi in piedi e la sospinge fuori dalla porta,
richiudendola sulla sua espressione sconvolta senza alcun
ripensamento.
"L’ansia
è sempre un vuoto che si genera tra il modo in cui le cose
sono e il
modo in cui pensiamo che dovrebbero essere; è qualcosa che
si
colloca tra il reale e l’irreale." (Charlotte Joko Beck)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Si
vede bene solo con il cuore. L’essenziale è
invisibile agli
occhi.” (Antoine de Saint-Exupéry)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Pochi
sono coloro che vedono con i propri occhi e sentono con il proprio
cuore." (Albert Einstein)
|
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Capitolo 38 *** Attesa ***
capitolo
38 – Attesa
Quando
Katherine si volta nuovamente, le ginocchia le tremano e qualche
lacrima clandestina sfugge al suo controllo. Ma con un gesto stizzito
del braccio le asciuga, inumidendo la manica della maglia.
Rapidamente
corre in bagno e ne torna con uno straccio bagnato che posa
delicatamente sulla fronte dello spirito, nella speranza che qualcosa
di fresco possa aiutare. Nel fare questo, il suo sguardo si sofferma
sul suo braccio rovinato e, dopo essersi mordicchiata un labbro,
incerta, decide di provare a ripulirlo, per cominciare, e magari
disinfettarlo, sempre che le riesca di trovare il disinfettante.
È
concentrata a passare con cautela una spugna bagnata sul braccio di
Pitch, quando un gemito rauco la fa sussultare. Velocemente risolleva
la testa, piantando gli occhi sul viso spettralmente pallido dello
spirito.
«Pitch?»
sussurra debolmente, incerta se disturbarlo oppure attendere.
Riprende
nel frattempo la sua opera di lavaggio, ma presto è
costretta a
interrompersi nuovamente, distratta da un movimento e da un nuovo
lamento.
«P-Pitch.
Puoi sentirmi?» tenta, poggiando leggermente una mano sul suo
petto.
Lui
non le risponde a parole, ma rabbrividisce violentemente
nell’apparente tentativo di spostarsi, e un suono rauco
striscia
nella sua gola, forse cercando di attirare l’attenzione.
«Sono
qui. Non preoccuparti, Pitch. Non ti lascio solo. Te lo
prometto»
mormora, carezzandogli il viso dai lineamenti tirati.
Mentre
porta a termine il suo compito, Katherine osserva attentamente la
mano di Pitch, notando quanto le sue belle dita sottili ed eleganti
siano ora rovinate e chiedendosi, per l’ennesima volta, cosa
possa
essergli accaduto per ridurlo in quello stato, e quanto possa aver
sofferto, se le bruciature e i segni scuri sulla sua pelle sono un
indizio.
Dopo
aver nuovamente inumidito lo straccio sulla sua fronte e riposto il
resto per non intralciare, si arrampica sul letto e, attenta, si
distende al suo fianco, posando un braccio sul suo costato e il viso
sul suo cuore, cosa che sembra far piacere a entrambi. Poi,
nonostante non ne abbia l’intenzione, si addormenta.
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È
faticoso imporre ai propri occhi di riaprirsi, dopo essere stati a
lungo chiusi. La luce, davanti alle sue iridi dorate, è
fioca e
argentata. Notte, di nuovo. Si è perso un altro giorno senza
nemmeno
rendersene conto. Tempo perduto; tempo che, per quanto faccia, non
tornerà indietro, esattamente come il suo passato.
Sospira
e cerca di muoversi, ma un dolore sordo e improvviso lo fa sussultare
impreparato. Tutto, d’un tratto, torna alla sua memoria: il
tetto,
la luce, il fuoco, la neve, il letto, il buio. Il buio… E
ora, nel
buio, scorge la fioca luce lunare brillare attraverso le tende
sottili.
Il
suo braccio, bruciato, probabilmente sarà inutilizzabile per
qualche
giorno. Ma Pitch ne ha due di braccia; non sarà certo uno
stupido
incidente causato dalla perdita di controllo della Luce a fermarlo.
Riprova
a muoversi. Vuole cercare di alzarsi, almeno per capire in che
condizioni si trova. Eppure, nonostante la sua buona
volontà, non ci
riesce. Qualcosa sembra deciso a impedirgli il seppur minimo
movimento. Qualcosa che… respira sul suo petto, realizza in
uno
sprazzo di lucidità. Con estrema fatica, solleva la testa e
strizza
gli occhi per cercare di mettere a fuoco la situazione: Katherine,
addormentata sul suo petto, di nuovo. Katherine che… Pitch
sussulta, osservando, con un senso di colpa, le tracce salate rimaste
sulle guance rosa.
Che
riesca a far piangere i bambini anche ora, pur non avendone
più le
capacità né tantomeno le intenzioni, è
profondamente ingiusto. E
Katherine, meno di chiunque altro, merita di soffrire per colpa sua.
Ma, dopo tutto, sembra proprio non riesca a fare altro nella propria
esistenza: prima la sua Emily Jane, poi tutti quei bambini della
Terra, ora la piccola Katherine. Riuscirà mai a realizzare
qualcosa
di positivo? Oppure continuerà a essere la causa del pianto
di tutti
i bambini con i quali verrà a contatto?
Sospira,
amareggiato, e titubante solleva il braccio sano, posando la mano
sulla tiepida schiena di Katherine, ascoltando il suo lento e calmo
respiro e perdendovisi, nell’utopica speranza che possa
aiutarlo a
trovare un poco di serenità anche per sé, dargli
un motivo per
andare avanti, per continuare a sopportare le insidie che
già
intravede di fronte a sé.
“La
carezza di una persona cara, il contatto con qualcosa di morbido
culla il nostro dolore meglio di tutti i ragionamenti del
mondo.”
(Lucien Arréat)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Chissà
perché la notte, come la gomma, è di
un’infinita elasticità e
morbidezza, mentre il mattino è così
spietatamente affilato.”
(Banana Yoshimoto)
|
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Capitolo 39 *** Incomprensioni ***
capitolo
39 – Incomprensioni
Dalle
tende di lino beige filtra la timida luce del mattino. Katherine
mugola e si stiracchia, le sue dita si aggrappano al cotone tiepido e
un sospiro non suo si spande nell’aria quieta.
«Pitch!»
sussulta, rammentandosi improvvisamente di trovarsi nella camera
dello spirito e in sua compagnia.
«Mh»
mormora debolmente lui.
Katherine
solleva velocemente lo sguardo e lo punta sul suo volto,
impensierita.
«Sei
sveglio» constata felice. «Come stai?».
Inizialmente
è solo il silenzio a risponderle. Pitch si limita a posare
gli occhi
su di lei, pensieroso. Infine, forse persuaso della
necessità di
dire qualcosa, socchiude le labbra e… sospira di nuovo.
«Stanco»
ammette. «E… credo un po’ deluso per
l’esito dei miei sforzi».
Lei
lo fissa perplessa, poi sembra comprendere ciò che lui ha
provato a
confessarle e, timidamente, stiracchia un piccolo sorriso di
conforto.
«È
di nuovo per colpa di quella stupida Luce?» borbotta con un
ghignetto.
«Mh»
conferma di malavoglia Pitch. «Temo ci vorrà
più tempo del
previsto» azzarda contrariato.
«Ma
tu non ti arrendi» offre Katherine, posando nuovamente una
guancia
sul suo petto.
«Nemmeno
per idea» asserisce, quasi in un ringhio.
Il
sorriso sulle labbra di Katherine si distende e diviene più
ampio e
appagato. Si stringe maggiormente a lui, rannicchiandosi strettamente
al suo fianco, e un piccolo gorgoglìo compiaciuto scivola
lungo la
sua gola quando Pitch circonda le sue spalle con un braccio.
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«Tra
poco devo andare a scuola» mugola infastidita. Incerta,
solleva
nuovamente il capo e osserva lo spirito, tentennante.
«Tu… starai
bene?».
Pitch
sforza un ghigno ironico. «Naturalmente» sostiene,
in uno
strascicato tono sarcastico. «Conto di riuscire a conservare
almeno
un arto sano. Diciamo fino a domani».
Katherine
sbuffa e lo colpisce piano sulla spalla.
«Dico
davvero, sai» obbietta seria.
«Lo
so. Ma non sarà un braccio fuori uso a fermarmi. Perdere
altro tempo
prezioso non è un’opzione».
Lei
annuisce. Comprende ciò che lui le sta dicendo;
ciò non toglie che
sia comunque preoccupata per lui.
«Però…
Stai attento, sì?» si accerta, ansiosa.
Lui
distoglie lo sguardo dalla sua osservazione del soffitto intonacato
di panna e porta invece tutta la sua attenzione sulla bambina,
cercando ma non trovando le parole giuste per rassicurarla.
«Farò
ciò che è in mio potere per non darti ulteriori
preoccupazioni»
tenta.
Katherine,
che non ha mai smesso di fissarlo crucciata, sbuffa facendo fremere
le narici.
«Ma?»
insiste.
Pitch
stira le labbra, chiude gli occhi e reclina la testa
all’indietro
sul cuscino, lasciando scoperto il sottile collo teso.
«Farò
anche ciò che devo affinché giungano i risultati
sperati. Non posso
permettermi di rimanere indifeso, non di questi tempi. Sento che
manca poco» rivela cupo.
«Manca
poco a cosa?» chiede, dubbiosa.
«Vorrei
saperlo». Scuote la testa, contrariato. «Purtroppo,
al momento, non
ho modo di accertarmene. Inoltre, grazie al Nightmare King, non ho
neppure la possibilità di rivolgermi a chicchessia per
chiedere
aiuto e consiglio. Sono praticamente, drammaticamente isolato, sia
dal mondo degli spiriti che da quello degli esseri umani».
«Non
hai nessun amico?» domanda Katherine, incredula.
«No»
esala caustico Pitch.
«Per-perché?»
insiste con voce tremante.
Pitch
digrigna i denti, apparentemente infastidito.
«Mi
pare ovvio» sibila. «A chi pensi possa far piacere
essere amico di
uno spirito oscuro con i miei trascorsi?».
«A
me fa piacere» offre innocentemente Katherine.
Pitch
assottiglia gli occhi e soffia, irritato.
«Questo
non fa testo. Non si può certamente affermare che tu sia un
normale
esponente del mondo umano da prendere a esempio».
Il
tempo materiale per completare la frase e Pitch si rende conto,
tardi, di ciò che realmente ha detto. Sgrana gli occhi, nel
momento
in cui sente la bambina risollevarsi di scatto.
«Tu…
A-anche tu pensi che sono pazza?» soffia Katherine, sconvolta.
«No»
rantola Pitch, mentre tenta di rimettersi seduto. «Mi
dispiace. Io…
non intendevo dire…».
«Che
cosa?» geme Katherine con voce strozzata. «Hai
appena detto che non
sono normale».
«No»
ripete Pitch, aggrappandosi con la mano sana al copriletto per
mantenere l’equilibrio. «Quello che ho detto
non… È stato un
errore. Te lo giuro».
«Non
pensi che sono pazza?».
«No»
rimarca, scuotendo velocemente la testa.
«Allora
perché hai detto quelle cose cattive?» insiste
irremovibile.
«Io…
Mi dispiace, non stavo pensando».
«No.
Tu pensi sempre. Perché non me lo hai mai detto?
Perché… p-perché
adesso?» chiede con disperazione.
«Katherine,
no, non è così» geme.
«Pensavo
che… almeno un po’, solo un pochino, mi volevi
bene» soffia
Katherine. Scuote la testa e si alza in piedi sul letto, fissando il
piumone senza realmente vederlo. «Invece» gracchia,
tremando «pensi
che sono solo una sciocca bambina pazza».
Solleva
gli occhi, sgranati e lucidi, e lo fissa con rabbia e dolore.
Lui
prova ad allungare un braccio nella sua direzione, ma lei si scosta
bruscamente e, dopo essere scesa dal letto con un balzo, velocemente
scompare oltre la porta senza aggiungere altro.
«No…
Katherine!» grida, incredulo.
Rimane
immobile ancora per qualche istante; infine si riscuote con un
rantolo strozzato e, strisciando goffamente sulla trapunta, posa
finalmente i piedi a terra e si rimette in piedi, traballando un
po’
per ritrovare l’equilibrio. Poi, arrancando e borbottando,
scompare
a sua volta oltre l’uscio, alla ricerca della bambina.
“Niente
ferisce, avvelena, ammala, quanto la delusione. Perché la
delusione
è un dolore che deriva sempre da una speranza svanita, una
sconfitta
che nasce sempre da una fiducia tradita cioè dal voltafaccia
di
qualcuno o qualcosa in cui credevamo. E a subirla ti senti ingannato,
beffato, umiliato. La vittima d’una ingiustizia che non
t’aspettavi, d’un fallimento che non
meritavi.” (Oriana
Fallaci)
*
* * * * * * * * * * * * *
“La
maggior parte delle liti amplifica un malinteso.”
(André Gide)
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Capitolo 40 *** Ombre ***
capitolo
40 – Ombre
Tutto
è cristallizzato, quella mattina, perfino l’aria.
Ma pare che,
dopo tutto, qualche vantaggio ci sia nel disporre di una scorta di
Luce interna: niente più freddo, nonostante sia
tutt’altro che in
ottima forma.
Pitch
arranca testardamente lungo la strada, a quell’ora un
po’ troppo
trafficata per i suoi gusti. Non è in grado di scorgere la
figura
della bambina, tuttavia sembra che una parte delle sue percezioni si
sia risvegliata; non può tuttora avvertire la sua paura,
né altri
sentimenti similari, ma al contrario riesce a distinguere, con una
certa vivida chiarezza, il bagliore della sua anima: una sottile scia
azzurra che si dipana nella sua mente come un bizzarro itinerario su
di una mappa stradale.
Si
muove a rilento, evitando il più possibile gli umani
infreddoliti e
frettolosi che sciamano per la strada, sperando in cuor suo che
Katherine stia bene, che non le accada nulla di male nel tempo in cui
non si trova al suo fianco e non ha dunque la possibilità di
proteggerla.
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“Ecco
fatto: di nuovo da sola” sbuffa Katherine fra sé,
tirando un
debole calcio a una lattina abbandonata sul marciapiedi. Davvero un
bell’affare ha fatto, illudendosi di poter essere amica di
qualcuno, finalmente. Certo, l’idea di diventare amica di
qualcuno
che può vedere solo lei, già di partenza, non
sembrava promettere
molto bene. Eppure lei ci si è impegnata, davvero tanto, pur
di
farla funzionare. Ma a quanto pare tutta la sua buona
volontà non è
stata sufficiente. Forse, dopo tutto, è lei quella
sbagliata; forse
dovrebbe semplicemente rassegnarsi, una volta per tutte,
all’idea
di rimanere da sola per il resto della sua vita. In fondo
c’è una
cosa positiva in tutto questo: lei è solo un essere umano,
non uno
spirito, e quindi per fortuna il
resto della sua vita
ha un limite di tempo. Sospira sconfortata, appoggiando il volto tra
le mani. Con la fortuna che notoriamente si ritrova, ci scommette,
vivrà fino a cent’anni! Che bella schifezza.
«Pitch»
sussurra, avvertendo il magone salire e invadergli il petto e la
gola.
Si
rimette in piedi e riprende il cammino senza meta iniziato dalla sua
improvvisa fuga da casa. I suoi giovani piedi la conducono, senza che
lei se ne avveda, nuovamente nel parco nel quale è stata in
compagnia dello spirito durante l’ultima occasione in cui
sono
stati a spasso insieme. Quella sì era una giornata iniziata
bene.
Certo, non è che si sia conclusa altrettanto lietamente, ma
non può
proprio fare a meno di ricordarla comunque con un piccolo sorriso
malinconico sulle labbra.
Trema.
Fa freddo, accidenti, e lei ha scordato la sua sciarpa in camera.
D’altra parte, chi sapeva che sarebbe uscita di casa con
tanta
fretta? Sperava di poter fare il suo dovere a scuola e poi tornare a
casa per rimanere a chiacchierare con il suo Pitch, aspettando
assieme che il suo braccio guarisse. Invece lui non è
più il
suo Pitch.
Forse non lo è nemmeno mai stato e quelle di Katherine erano
solo
stupide illusioni di una bambina sciocca.
Qualche
tiepida lacrima sfugge ai suoi occhi già arrossati dallo
sfogo
precedente, ma non ha proprio voglia di asciugarsele questa volta, lo
faranno da sole.
Un
fruscio indistinto la distrae dai suoi pensieri. Katherine solleva lo
sguardo, perplessa. La sua vista è momentaneamente appannata
e tutto
quello che riesce a distinguere è il conosciuto viale
alberato e
qualche cincia indaffarata. Reclina dubbiosa la testa
all’indietro,
osservando il cielo limpido, di un acceso turchese che quasi brucia
gli occhi. Sospira di nuovo e riprende il cammino, più per
forza di
inerzia che per vera volontà di procedere oltre.
Qualche
minuto dopo, tuttavia, mentre sta attraversando un piccolo ponticello
in legno che unisce le due sponde di un tranquillo ed esile
fiumiciattolo, lo sente ancora: quel fruscio indistinto. Si affaccia
dal parapetto del ponte, ascoltando il dolce gorgogliare
dell’acqua,
e scuote la testa, perplessa: no, non è quello il suono che
ha
sentito poco prima. È qualcosa d’altro, ma cosa?
Procede
silenziosa, le mani in tasca per evitare che le si congelino. In
vista c’è una bella abetaia; la neve sui rami
robusti scintilla
come diamante alla luce del sole splendente. Katherine stiracchia un
debole sorriso pensando che, con un po’ di fortuna,
lì riuscirà a
incontrare qualche scoiattolo rosso: in assoluto il suo preferito.
Così affretta di poco il passo, speranzosa di poter
finalmente
distrarre la propria mente con altri pensieri meno tristi.
Due
allegre cince la superano con un gran frullio d’ali,
battibeccando
rumorosamente in volo, proprio mentre Katherine raggiunge i primi
abeti. Il profumo della resina le solletica piacevolmente le narici e
i suoi piedi fanno scricchiolare il soffice manto di aghi secchi che
ricopre il terreno come un enorme tappeto appuntito. Solleva lo
sguardo sui rami e rallenta il passo, osservando con perizia nella
penombra tra le fronde, dove il sole filtra solo a tratti creando un
curioso effetto maculato.
Un
rapido movimento sopra la sua testa attira l’attenzione di
Katherine; il suo sorriso si fa più deciso nel momento in
cui i suoi
occhi scorgono finalmente la vaporosa coda di un piccolo scoiattolo.
«Ciao»
mormora cauta, rimanendo ferma per non spaventare il piccolo
roditore.
Lui
la osserva a sua volta, incuriosito, piegando di lato la testa e
facendo vibrare i lunghi baffi e il frenetico, minuscolo naso. I suoi
occhi neri sono grandi e luminosi e seguono con attenzione ogni
movimento della bambina.
Katherine,
felice, si bea di quel breve momento di perfezione, rimanendo in
assoluto silenzio e osservando a sua volta il folto pelo rosseggiante
dello scoiattolo. Poco dopo, tuttavia, il roditore raddrizza le
orecchie e si puntella sulle robuste zampe posteriori, visibilmente
allarmato da qualche particolare che Katherine, evidentemente, non
è
riuscita ad avvertire. In un battito di ciglia lo scoiattolo fugge
via, scomparendo fra i rami in un lampo marroncino, e Katherine
sbuffa delusa, preparandosi a riprendere il proprio cammino.
Non
ha però il tempo di completare quel pensiero che fra i rami
degli
abeti che la circondano sente il frullare simultaneo di molte ali che
prendono rapidamente quota, disperdendosi nel cielo oltre le scure
fronde.
Katherine
sussulta e trattiene il fiato mentre un fruscio, di nuovo quello che
già due volte in precedenza aveva sentito, serpeggia alle
sue
spalle. Piano si volta, decisa a scoprire, questa volta, di cosa
possa mai trattarsi. Ma di nuovo non vede nulla di diverso dal
sottobosco che ha percorso poco prima, almeno fino a quando, con la
coda dell’occhio, scorge un movimento fluido alla sua
sinistra. Di
scatto punta gli occhi in quella direzione e poi li sgrana, mentre un
ansito di sorpresa la coglie.
Le
ombre degli abeti, improvvisamente, si allungano sul terreno senza
più seguire le comuni leggi fisiche che le vogliono in
direzione
opposta a quella della luce. Queste, invece, puntano tutte quante
verso un unico obbiettivo: Katherine, che colta impreparata sbarra
gli occhi e incespica all’indietro.
«Che
cosa… C-chi siete?» chiede con voce tremante.
Non
ottiene risposta. Non che se l’aspettasse seriamente, ma in
qualche
modo ci sperava. Osserva, con preoccupazione crescente, le ombre
divenire più scure e dense. Indietreggia di qualche passo,
il cuore
accelera e lo stesso fa il suo respiro. È in guai seri,
questa
volta. E dire che la nonna si era tanto raccomandata. Geme,
sconsolata, sapendo che in questo caso la sua volontà vale
poco o
nulla di fronte a quelle… cose. Ombre,
Pitch le ha chiamate Ombre. Quale nome potrebbe essere più
azzeccato, ora che se le trova di fronte?
Alla
sua destra, altre Ombre strisciano, frusciando nella sua direzione.
La paura l’assale e, per quanto lo vorrebbe, non
può impedirsi di
reagire nell’esatto modo in cui la maggior parte degli esseri
umani
reagisce alla paura: scappando.
Corre
veloce fra i tronchi degli abeti, sparpagliando al suo passaggio
nuvole di sottili aghi secchi. Nella sua testa unicamente il
desiderio di ritrovare la rassicurante luce del sole e il terrore di
essere raggiunta da quelle cose. E poi, poi il pensiero del suo Pitch
deflagra nella sua testa, per un istante così vivido da
bruciare.
Inciampa
fra rami di edera, ruzzola sul tappeto di aghi, si rialza ansante e
riprende la corsa, stringendo i denti e impedendosi di versare anche
una singola lacrima, che avrebbe l’unica conseguenza di
annebbiarle
la vista e rallentarla ulteriormente.
Sul
suo orizzonte, nemmeno troppo distante, può scorgere la luce
di una
radura. Accelera ancora, risoluta a raggiungerla prima possibile, ma
d’un tratto una nera colonna le si para di fronte in un punto
che,
fino a un momento prima, era totalmente sgombro. Katherine lancia un
grido sorpreso e spaventato e scarta di lato per evitare di finire
direttamente addosso a quella cosa. Cerca di aggirarla, ma altre si
aggiungono alla prima e Katherine, presa dal panico, rinuncia al suo
precedente obbiettivo e riprende la fuga in un’altra
direzione.
Una
parte di lei è cosciente che quelle cose, con ogni
probabilità,
stanno cercando di attirarla in un qualche tipo di trappola.
Tuttavia, al momento non riesce a essere sufficientemente lucida da
trovare la giusta alternativa. Il percorso che sta seguendo in quel
momento, purtroppo, non mostra segni di sbocco dal quel fitto intrico
di alberi. Il buio, attorno a lei, sembra infittirsi. A mala pena
riesce a distinguere dove posa i piedi, ora. Il suo respiro
è sempre
più affannato e sente le gambe stanche. Senza una meta a cui
puntare, la sua volontà non è più
così forte. I suoi occhi si
inumidiscono e qualche lacrima riga le sue guance arrossate.
Il
fruscio diviene più alto e sembra molto più
vicino di prima. Ha
l’impressione di sentirselo tutto attorno, perfino addosso in
alcuni momenti. Un’Ombra compare improvvisamente al suo
fianco,
oscurando il terreno. Lei volta la testa di scatto e di nuovo
inciampa, finendo per scivolare qualche metro più avanti.
Con un po’
di fatica si rimette in piedi ma, quando tenta di riprendere la fuga,
si rende improvvisamente conto di essere ora circondata e sbarra gli
occhi, colta dal terrore.
«No»
geme, tremando. «No!» grida poi, con più
forza, digrignando i
denti e piantando i piedi per terra.
I
suoi occhi dardeggiano rapidamente all’intorno, cercando,
pregando
di poter ancora trovare una via di fuga. Il buio, fra gli alberi,
è
ora così fitto da farle credere che sia già scesa
la notte. Cosa
del tutto impossibile, considerato che dev’essere ancora
mattina.
Ansima
pesantemente, indecisa su cosa sia meglio fare. Ma proprio quando
sposta lo sguardo di lato, cercando di capire dove potrebbe condurla
quel sentiero alla sua sinistra, una massa più scura di
Ombre
sfreccia rapida nella sua direzione, e Katherine ha solo il tempo di
urlare e gettarsi di lato, evitando per un soffio il loro attacco
diretto. Veloce si rialza e indietreggia guardinga.
Il
fruscio adesso è quasi assordante, ma non è
più un suono
indistinto, sembrano voci, bisbigli, risate, perfino
l’inquietante
rumore del raspare di unghie.
«Ombre»
riflette, confusa. «Di che cosa siete fatte?»
chiede, in un flebile
mormorio. «Perché ce l’avete con
me?» esclama, pretendendo di
capire quel loro comportamento per lei senza senso.
Un’altra
massa scura si distacca parzialmente dal resto delle ombre e sembra
prendere una forma più distinta. Katherine è
già pronta a
scansarsi rapidamente, quando la forma diviene nitida e perfettamente
riconoscibile: un grosso lupo fatto di ombra, con le fauci spalancate
e lunghe zanne affilate.
«Oh»
rantola Katherine, colta alla sprovvista e momentaneamente
paralizzata sul posto.
Il
lupo di ombra le si scaglia d’un tratto addosso, tallonato da
vicino dal resto delle Ombre. Lei boccheggia, indietreggiando a
fatica di un paio di passi esitanti. Breve ma violenta, d’un
tratto
lampeggia una luce che brucia le Ombre più vicine. Per un
momento
tutto sembra congelarsi, l’attimo successivo qualcosa urta
prepotentemente il fianco della bambina, spedendola a rotolare
scompostamente diversi metri più in là. Il lupo
di ombra e le sue
compagne, tuttavia, non si sono fermate e, al loro rapido passaggio,
spazzano il punto in cui era ferma Katherine un momento prima,
investendo ciò che ne ha preso il posto.
Un
grido, che sembra un misto fra dolore e disperazione, riecheggia nel
cupo sottobosco. Poi uno schianto rimbomba, facendo tremare le alte
fronde degli abeti e precipitare soffici cumuli di neve.
Katherine,
spaventata e tremante, volta il viso e spalanca gli occhi:
intrappolato contro il tronco di un albero c’è il
suo Pitch; i
suoi occhi dorati sono sgranati e fissano il nulla. Le Ombre, come
calamitate da qualcosa e apparentemente incapaci di arrestarsi o
deviare il proprio percorso, scompaiono all’interno dello
spirito
che, ora non più trattenuto, richiude gli occhi e scivola a
terra
scompostamente come una marionetta privata dei fili.
“Lo
scoramento è una tentazione. La tentazione di lasciarsi
andare, di
cedere alla fatica, al pericolo, di arrendersi. Ma vivere significa
saper resistere allo scoramento provocato dalle sconfitte.”
(Francesco Alberoni)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Ora
che ti ho completamente confuso, permettimi una pausa per sentire il
tuo grido di sgomento.” (Ray
Bradbury)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Se
guardi nel buio a lungo, c'è sempre qualcosa.”
(William Butler
Yeats)
|
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Capitolo 41 *** Tramonto ***
capitolo
41 – Tramonto
«Pitch»
soffia Katherine, ancora seduta a terra.
Il
sottobosco è tornato alla sua normale penombra mattutina, ma
c’è
un inquietante silenzio che ristagna là dove, normalmente,
si odono
i suoni della vita degli animali che lo popolano.
Katherine
prova ad alzarsi, ricade a terra, trema. Decide che avanzare a
carponi debba essere un buon compromesso, dopo tutto. Procede
lentamente, il respiro spezzato, gli occhi che bruciano. Di tanto in
tanto si guarda attorno, terrorizzata all’idea di vedere
nuovamente
quelle Ombre farsi strada in mezzo agli abeti. Ma di loro, ormai, non
si vede più traccia, e pian piano anche i suoni della natura
tornano
al loro posto.
Finalmente
è riuscita a raggiungere lo spirito riverso al suolo.
Allunga
incerta una mano, si arresta un istante, poi la poggia sul suo
braccio (quello sano) e di scatto la ritrae, portandosela alle labbra
per trattenere il rauco suono del suo sgomento. La sua pelle
è
fredda come la neve, e questo non va bene, affatto. Nemmeno il giorno
in cui si sono incontrati per la prima volta, la sua pelle era
così
fredda.
«P-Pitch»
chiama, mentre il panico sale.
Appoggia
entrambe le mani sulla sua schiena, resistendo con tenacia
all’impulso di ritrarle anche questa volta e fuggire. Stringe
fra
le dita il sottile tessuto della sua maglietta e, piano, lo scuote.
Niente però sembra cambiare; lo spirito rimane immobile e
freddo. E
silenzioso, troppo. Le sue labbra tremano incontrollabilmente mentre
allunga un palmo a sfiorare la scapola sinistra dello spirito.
Niente. Si accuccia su di lui, strusciando una guancia sul cotone
stropicciato. Ascolta. Chiude gli occhi. Un violento singhiozzo
sfugge alle sue labbra, ed è l’unico suono che
riesce a sentire.
Il resto è silenzio.
«Pitch»
sussurra, aggrappandosi alla sua schiena per evitare di finire a
pezzi.
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Trascorrono
lunghi minuti, o forse sono ore, senza che nulla cambi. È
come nei
suoi ricordi confusi di dopo l’incidente:
tutto sembrava uguale, indistinto e nessuno era rimasto accanto a lei
per aiutarla. Ma ora, in parte, è diverso: qualcuno
c’è accanto a
lei, e qualcuno l’ha aiutata, ma quello stesso qualcuno non
lo può
più fare, perché…
«È
morto, infine».
Katherine
fa scattare in su la testa e fissa gli occhi in quelli altrettanto
verdi ma più freddi dell’inverno di Emily Jane.
«Tu!»
l’aggredisce Katherine con rabbia. «Che cosa vuoi
ancora?!».
La
creatura si attarda a osservare distrattamente la bambina. Piega le
labbra in una pessima imitazione di sorriso.
«Da
te proprio nulla, piccola umana. Sono qui solo per accertarmi che
questa volta se ne sia andato davvero».
Katherine
sbianca e socchiude le labbra in un’espressione colma di
shock.
«Come…»
gracchia, deglutendo nervosa. «Come fai a… d-dire
cose così
cattive?» domanda incredula.
«Cattive?
No, non lo sono. Non hai idea di cosa realmente sia cattivo. In
fondo, sei solamente una bambina umana. Come potresti
mai…».
«Tu
lo sei!» ribatte Katherine, furiosa. «Sono una
bambina, sì. Ma so
molte cose; cose che tu non conosci. E so che tu sei un mostro. E
voglio che te ne vai».
La
creatura solleva il mento e la fissa con occhi glaciali.
«Non
mi dirai ciò che devo fare, piccola umana. Non ne hai il
diritto. E
ora, allontanati da lui» comanda.
«No».
«Non
costringermi a farti del male» minaccia Emily Jane.
«L’hai
già fatto l’altra volta, mi sembra»
l’accusa Katherine. «Dove
sta la differenza?».
«Insolente.
Come osi?».
«Io
non me ne vado. Vai via tu, tanto qui nessuno ti vuole»
contrattacca
la bambina, facendo sussultare la creatura.
«Non
hai la minima idea di chi tu abbia di fronte» sibila in
avvertimento.
«Lo
so, invece» ribatte testardamente. «Tu sei Emily
Jane, la figlia di
Pitch».
«Bene.
Dunque, fatti da parte» sbotta Emily Jane.
Katherine,
per tutta risposta, si risiede a terra a gambe incrociate, proprio a
fianco del corpo dello spirito.
«Costringimi»
sfida, senza nessun apparente timore.
«Sei
solo una stupida umana!» soffia irritata.
«Forse»
conviene la bambina. «Io, però, l’ho
visto sorridere e mangiare
cioccolata. E tu, invece, che cosa hai visto?».
«Non
sai quel che dici» sibila nervosa.
Katherine
abbozza un mesto sorriso e scuote piano la testa.
«Lo
so, invece. Te l’ho detto: io so molte cose. Per esempio, so
che a
sei anni sei morta».
«Ti
sbagli!» grida Emily Jane, ormai preda della rabbia.
«A sei anni
sono fuggita dai Dream Pirates e mi sono rifugiata in una vecchia
costellazione *».
«Davvero?»
si informa Katherine, con una strana curiosità quasi
annoiata. «E
qualcuno, oltre a te, lo sapeva?».
«Ma
certo!» ringhia. «Mio padre…».
«No.
Il tuo papà pensava che eri morta» la corregge
prontamente
Katherine.
«Cosa?
Di che parli? Lui sapeva benissimo che…».
Katherine
scuote la testa. «Ti ho detto di no. Al tuo papà
hanno detto che
eri morta assieme alla tua mamma. Solo tu sapevi che non era
vero».
Emily
Jane la fissa incredula, scuotendo insistentemente la testa.
«Questo
non… questo non è possibile».
«Sì,
invece. Gli hai mai chiesto perché non è venuto a
cercarti? No,
vero? Eri troppo arrabbiata e non ci hai neppure parlato».
«Non
è vero. Tu menti!» prorompe Emily Jane, puntando
un dito tremante
sulla bambina.
«Dici?»
ribatte Katherine, fissandola senza batter ciglio.
Lentamente,
Emily Jane sposta lo sguardo da Katherine a Pitch. Prova ad
avvicinarsi, esitante, ma Katherine nel frattempo si è
rimessa in
piedi e, ostinata, le sbarra il cammino.
«Perché?»
mormora Emily Jane.
«Perché
non sai usare gli occhi per vedere. Quanto tempo hai sprecato? Adesso
è tardi. Vattene».
Emily
Jane si attarda ancora un momento a osservare Pitch, poi solleva gli
occhi al cielo e sospira stancamente, infine torna a incontrare lo
sguardo determinato di Katherine.
«Hai
ragione. Ormai è tardi». Allunga una mano e sfiora
con le dita i
capelli arruffati della bambina, poi piega le labbra in un sorriso
triste. «Mi dispiace».
Katherine
socchiude le labbra, incerta su cosa dire. Ma non ha il tempo di
rispondere: un attimo dopo, la figura della creatura è
scomparsa fra
gli alberi, come svanita nel nulla, e il silenzio torna opprimente a
depositarsi nel sottobosco.
“Nessun
carico di sensi di colpa può cambiare il passato e nessun
carico di
preoccupazioni può cambiare il futuro.” (Anonimo)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Non
dispiacerti di ciò che non hai potuto fare, rammaricati solo
di
quando potevi e non hai voluto.”
(Mao
Tse Tung)
*
* * * * * * * * * * * * *
“La
luce dei nostri sogni si trasforma nel mostro dei nostri incubi. E
diventiamo schiavi delle cose non realizzate, delle
possibilità non
vissute.” (Paulo Coelho)
*
Typhan:
definito
dal suo autore "God of Storms" a causa della sua abilità
nell'evocare tempeste e venti solari. Oltre che Costellazione, viene
anche considerato un Titano, ovvero una forza primordiale del cosmo.
Per informazione generale, lui è quello che ha insegnato
l’arte
del controllo degli elementi a Emily Jane (e che poi, quando se
l’è
presa con lei, l’ha tramutata in cometa @_@). Un tipo
simpaticissimo,
insomma.
|
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Capitolo 42 *** Alba ***
capitolo
42 – Alba
«Pitch»
mormora, posando ancora una volta la guancia sulla sua schiena.
«Io…
Mi dispiace, sai. Ho… E-ero così arrabbiata.
L’ho cacciata via,
Emily Jane». Sussurra con voce tremante. «Mi
dispiace» ripete,
ancora e ancora.
E
non è solo per aver mandato via sua figlia, ma anche per
aver
litigato con lui per quella che ora, accucciata contro il suo corpo
gelato, ritiene una sciocchezza senza nessuna importanza. Domanda
scusa per essere fuggita di casa in quel modo, senza fermarsi e
provare a parlare con lui. Chiede perdono per essersi messa di nuovo
nei guai e averlo così costretto ad accorrere in suo
soccorso.
Quello
che è successo è stato orribile, e può
solo immaginare quanto
esserci in mezzo debba essere stato molto, molto peggio. Per colpa
sua quelle maledette Ombre se la sono nuovamente presa con Pitch, e
ora…
Katherine
trema e, incapace di trattenersi oltre, cede al bisogno di piangere
che l’ha torturata fino a quel momento, e si stringe con
più forza
al cotone ormai rovinato della maglietta nera di Pitch.
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Il
sole ora è alto e vivido nel cielo; i suoi raggi riescono a
farsi
largo anche attraverso le fronde degli abeti e a illuminare di luce
ambrata il sottobosco, scintillando sulla neve accumulata sui rami e
sulle chiazze di brina notturna. Qualcuno si attarda sulle goccioline
salate impigliate fra le ciglia nere di Katherine.
Uno
scossone improvviso la fa sussultare, impreparata e spaventata. Di
scatto si rimette seduta e freneticamente si guarda attorno, pregando
di non scorgere alcuna ombra sospetta. Invece sono le sue orecchie a
metterla in allarme. Un rantolo incomprensibile inquieta la bambina,
ma quando questo viene seguito da un basso gemito, Katherine riporta
gli occhi al suolo e li spalanca, sconvolta.
«P-Pitch?»
balbetta, incerta.
Il
corpo dello spirito si tende in un istante e un ringhio sordo scivola
nella sua gola. Nonostante le premesse, gli occhi di Katherine
brillano di nuova speranza e lei si affretta a stringersi a lui,
sussurrando gentilmente il suo nome.
«Katherine»
rantola lo spirito.
La
sua voce ha ben poco di umano, ora. Ma questo non sembra importare
granché alla bambina che, entusiasta che lui
l’abbia cercata e
riconosciuta nonostante tutto, sorride felice.
«Sì!»
esclama.
«Allontanati»
soffia lo spirito, senza tuttavia riuscire a muovere un solo dito per
imporle la sua volontà.
La
bambina, nonostante lui non abbia la possibilità di vederla,
scuote
la testa con forza.
«No!
Non voglio andare via. Voglio… stare con te».
Il
corpo dello spirito vibra con violenza e un grido erompe dalle sue
labbra violacee. Cerca di spostarsi, ma riesce solo a raggomitolarsi
su sé stesso.
«Pitch»
chiama Katherine, preoccupata vedendolo in quello stato.
«Va…
Vai via. Allontanati, Katherine» ansima lo spirito,
raccogliendo
strettamente le ginocchia contro il petto.
«Ma…»
tenta, incerta. «Pitch, perché?».
Cauta,
allunga una mano, sfiorando appena la sua spalla, ma tutto
ciò che
ottiene è un altro grido, un grido di dolore, proprio come
quello
della prima volta in cui lo ha sfiorato, sotto l’albero al
limitare
della foresta. Lo stesso, identico dolore. Veloce, ritrae la mano e
lo fissa spaesata.
«Che
cosa… Cosa succede, Pitch?».
Con
evidente fatica, lo spirito socchiude gli occhi e cerca
freneticamente la piccola figura della bambina.
«Katherine,
per… p-per favore, ho bisogno che tu ti allontani. Adesso.
Non…
n-non credo di… riuscire a trattenermi ancora per
molto» soffia
fra un ansito e l’altro.
La
bambina sgrana gli occhi e, per quanto non abbia la
possibilità di
comprendere appieno la situazione, almeno una cosa riesce a capirla:
a Pitch, ora, serve molto più spazio di quanto lei gli stia
concedendo; la sua presenza al suo fianco, al momento, sembra essere
decisamente di intralcio.
Katherine
fa un secco cenno di assenso e, sorpresa, osserva le livide labbra
dello spirito curvarsi tremanti in uno stentato sorriso, per poi
accartocciarsi in una smorfia sconvolta. Velocemente, Katherine
indietreggia di qualche passo e, risoluta, corre verso un gruppo
più
folto di alberi, appiattendosi dietro il tronco di uno di essi e
facendo prudentemente capolino con un occhio per tenere la situazione
monitorata.
Non
trascorre molto tempo dal suo allontanamento che, nel punto esatto in
cui ha lasciato lo spirito, si forma un piccolo gorgo di vento e aghi
di abete. Poi, senza preavviso, un’abbagliante luce la
costringe a
serrare gli occhi per evitare di venire accecata. Uno stridio che fa
battere i denti si spande per il sottobosco, disperdendosi
rapidamente. Infine tutto sembra tornare alla calma
tranquillità che
regnava nell’abetaia qualche minuto prima: la penombra
maculata dal
sole, il rumoroso silenzio colmo della vita animale, l’aria
frizzante e limpida, il cielo turchese e terso.
Katherine
torna a osservare la piccola radura nel sottobosco e il suo cuore
perde qualche prezioso battito alla vista dello spirito nuovamente
riverso al suolo e apparentemente immobile. Veloce come una saetta e
ignorando qualunque genere di buon senso, la bambina corre a
riprendere posto al suo fianco, sperando, pregando che stia bene, che
nella peggiore delle ipotesi sia semplicemente svenuto.
«Pitch,
Pitch! Ci sei ancora? Come stai?» si allarma, indecisa se
toccarlo o
meno.
Alla
fine, dopo molti ripensamenti, allunga tentennante una mano e sfiora
appena il suo braccio sano, e dato che nulla di spiacevole accade, si
affretta a stringersi convulsamente a lui, tremando, emotivamente
esausta e spaventata.
«Pitch»
mormora contro il suo petto.
I
suoi occhi verdi tornano a spalancarsi, increduli: la pelle dello
spirito è di nuovo piacevolmente calda, ora.
«Mh»
soffia appena Pitch.
«Già»
ridacchia Katherine, fra un singhiozzo e l’altro.
“La
speranza vede l’invisibile, tocca l’intangibile e
raggiunge
l’impossibile.” (Anonimo)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Siamo
una cosa impossibile in un universo impossibile.” (Ray
Bradbury)
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Capitolo 43 *** Buio ***
capitolo
43 – Buio
Riesce
a sentire il calore del piccolo corpo di Katherine poggiato contro il
suo petto. È una bella sensazione, il tepore; una sensazione
che
credeva ormai definitivamente perduta. Invece eccola lì, di
nuovo.
Non riesce a muoversi e non è sicuro di riuscire a parlare,
ma lungo
le sue braccia avverte il solletico causato dagli aghi di abete e una
mano della bambina fruscia sulla sua spalla in un gesto
d’impacciato
conforto. Pitch, ora come ora, non pensa di poter chiedere di
più;
esiste ancora, sente ancora: al momento, tanto basta.
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Arrancava
testardamente in mezzo al traffico dell’ora di punta
mattutina,
totalmente incurante della presenza di una buona fetta della
popolazione del paese, concentrato sul suo obbiettivo e
sull’impellenza di raggiungerlo.
Katherine
non era più molto lontana, ormai: a quanto sembrava aveva
fatto
ritorno al parco, probabilmente con l’intento di smaltire
l’agitazione e il nervosismo. Presto l’avrebbe
raggiunta e,
parlandole con calma, l’avrebbe certamente convinta a fare
ritorno
a casa; un luogo indiscutibilmente più sicuro, di quei tempi.
Lunghi
minuti dopo, quando era finalmente riuscito a raggiungere
l’agognata
entrata del parco, un inatteso brivido gelato lo aveva percorso da
capo a piedi. La sua testa si era allora sollevata repentinamente e,
lontano, sopra la cima di un lontano boschetto di abeti, aveva
osservato impotente un nutrito stormo di uccelli di varia natura
alzarsi in volo simultaneamente e scomparire nel cielo limpido.
«No»
aveva mormorato Pitch in un roco rantolio. «Non ora, non
ora» era
stata la sua preghiera, desiderando con tutto sé stesso di
essere
altrove, al sicuro, insieme a Katherine.
Eppure
i segnali erano tutti lì, di fronte al suo sguardo
frastornato e
incredulo. Inoltre lo sentiva fin troppo distintamente, dentro di
sé,
il freddo avanzare indisturbato, spazzando via speranze e calore.
Il
bagliore azzurro che era l’anima di Katherine aveva mandato
un
lampo, abbagliando per un breve momento l’oscurità
dentro di lui e
avvertendolo del pericolo imminente. Così Pitch aveva
digrignato i
denti e accelerato il passo, supplicando il cielo di poter arrivare
in tempo per evitare il peggio.
Ma
il tempo, improvvisamente, era giunto al termine, e Pitch,
terrorizzato, aveva mandato al diavolo qualunque genere di pensiero
razionale e, agendo per semplice istinto, era scomparso dal punto in
cui si trovava un istante prima in un lampo dorato ed era ricomparso
l’istante successivo all’interno della piccola
abetaia,
rischiarando il sottobosco di una violenta luce.
Quel
brevissimo lasso di tempo gli aveva permesso di individuare la
bambina e, a corto di altre opzioni realizzabili, si era praticamente
gettato nella sua direzione, sospingendola il più lontano
possibile
dalla linea di azione delle Ombre.
Un
battito di ciglia dopo, quelle stesse Ombre gli si erano avventate
contro, incapaci di arrestare la loro avanzata, e lo avevano
scaraventato contro il tronco di uno dei tanti abeti. Pitch, senza
fiato, non era neppure riuscito a urlare una seconda volta. Il freddo
e l’oscurità si erano fatti spazio con la forza
dentro di lui,
senza che lo spirito potesse fare alcunché per opporsi. Per
un lungo
momento, Pitch aveva temuto, perfino quasi sperato, che la sua anima
potesse venir spazzata via
definitivamente dalla sistematica
e violenta avanzata delle Ombre, ma prima che quel pensiero avesse il
tempo di attecchire, la sua coscienza era scivolata via e tutto era
divenuto buio.
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ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Molto
tempo dopo, una piccola fiammella si era accesa dentro di lui,
ridestando una parte della sua coscienza. Attorno, tutto era buio e
freddo, un freddo strano, innaturale, un freddo che a lungo gli aveva
impedito di muoversi e di risvegliarsi. Si era così limitato
a
tremare, immerso nel gelo e nell’oscurità, senza
mai distogliere
l’attenzione da quella piccola fiammella che sembrava
chiamarlo a
sé, con sempre maggior insistenza. Alla fine, incapace di
sopportare
oltre, la sua coscienza intrappolata si era divincolata
violentemente, ringhiando e graffiando. Quasi in risposta, la
fiammella aveva dunque preso ad ardere con più energia,
ingrandendosi un pochino, e progressivamente sempre di più,
fino a
divenire accecante e a bruciare l’oscurità che la
circondava. Solo
allora Pitch si era ridestato con un sussulto strozzato, ritrovandosi
riverso sul tappeto di aghi secchi. Il suo corpo era ancora rigido e
ghiacciato; nella sua testa sibilava ancora il buio, mentre nel suo
petto bruciava la luce. Pitch aveva socchiuso a fatica le labbra, ma
tutto ciò che ne era uscito non era che un fievole gemito
agonizzante.
Poi,
in mezzo al caos della sua mente, era giunta la voce di Katherine, e
Pitch aveva radunato la sua ostinata volontà e le aveva
risposto, e
dopo averle risposto, facendo violenza sul suo stesso bisogno, le
aveva chiesto di allontanarsi. Era stata davvero un’impresa:
convincere lei e convincere sé stesso, nello stesso momento,
non si
poteva certo considerare semplice. Ma alla fine il suo buon senso
aveva prevalso su tutto e la bambina, intelligente e intuitiva come
pochi, aveva capito la sua urgenza e gli aveva dato ascolto,
trovandosi un posto riparato e distante a sufficienza da non
rischiare di essere nuovamente coinvolta dai pericoli che avevano la
spiacevole abitudine di perseguitarlo fin dalla notte dei tempi.
Ciò
che era accaduto in seguito lo ricorda con estrema
difficoltà.
Quello che è certo è che, finalmente libero di
agire a piacimento,
si era limitato ad allentare la presa sulla sua volontà e a
lasciare
che la fiamma dentro di lui divampasse, polverizzando tutto
ciò che
non era stato abbastanza rapido da fuggire in tempo.
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Pitch
non si illude che la Luce sia stata in grado di eliminare tutte le
Ombre che si erano scioccamente rifugiate dentro di lui. Sa fin
troppo bene che il loro istinto di conservazione è di molto
superiore a quello di qualunque altra creatura, oscura o meno che
sia. Molte sono fuggite all’attacco della Luce, disperdendosi
all’esterno e trovando certamente un nuovo e più
sicuro rifugio in
un angolo buio, nell’attesa della prossima mossa.
Sospira,
conscio di quanto il suo compito si stia facendo via via sempre
più
complicato. Tuttavia Pitch è determinato a trovare il modo
per
compierlo, a qualunque costo. Non può permettere che
ciò che è
successo quella mattina ricapiti nuovamente. Il rischio che ha corso
Katherine è stato assolutamente intollerabile; se le fosse
capitato
qualcosa, se le Ombre fossero riuscite a prenderla, come avrebbe mai
potuto perdonarselo? Come avrebbe mai potuto sopravvivere, dopo una
cosa simile?
“Il
tocco della tua mano che passa, così lieve, così
rapido che nessun
altro sospetta quanto possa essere rassicurante. Quel tocco mi
è di
sostegno nei giorni più duri.” (Marion C. Garretty)
*
* * * * * * * * * * * * *
“L’oscurità
si avvicina dall’esterno. Non sento dentro di me nessuna luce
abbastanza forte per resistere.” (Christopher Pik)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Non
fa mai così freddo come quando non c’è
nessuno a scaldarti.”
(Francesco Roversi)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Lo
stormo, terrorizzato, si alzò in cielo, come una nube di
fumo
sprigionata da un incendio. Era così grande che avresti
potuto
vederla a giorni e giorni di cammino da lì. Scura nel cielo,
senz'altra meta che il proprio smarrimento.” (Alessandro
Baricco)
|
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Capitolo 44 *** Segni ***
capitolo
44 – Segni
«Pitch»
mormora Katherine delicatamente.
La
voce della bambina sembra essere in grado di riscuoterlo parzialmente
e farlo momentaneamente tornare alla realtà.
«Mh»
soffia appena in risposta.
La
guancia di Katherine è ancora appoggiata al petto di Pitch.
Non
riesce a decidersi a muoversi, spaventata all’idea che il suo
cuore
smetta nuovamente di battere.
«Come…
Come ti senti?» chiede, cauta.
Lo
osserva, pensierosa, lottare per aprire gli occhi, prima, e la bocca,
dopo. Ma nessuna delle due azioni sembra avere successo. È
piuttosto
ovvio che non sia in condizione di muoversi da lì, al
momento.
Katherine
ci ha riflettuto parecchio ed è giunta a una conclusione:
è
necessario che si allontani per cercare aiuto. Da sola, allo stato
attuale delle cose, non c’è altro che possa fare.
«Pitch»
bisbiglia vicina al suo orecchio. «Lo so che non puoi
rispondermi.
Ascolta e basta, d’accordo?».
Un
minuscolo, esitante cenno del capo le dice che lui l’ha
sentita e
la sta ascoltando. Sospira: a lui non piacerà affatto la sua
idea,
ma Katherine non ne ha altre, ora come ora.
«Non
posso stare qui con te, questa notte. Ma non posso nemmeno lasciarti
da solo. E tu… non ti puoi muovere.
Quindi…». Si mordicchia un
labbro, nervosa, poi tenta il tutto per tutto. «Vado a
cercare
aiuto» spara, tremando come una foglia.
Le
ciglia di Pitch fremono. Ha chiaramente percepito il suono del suo
cuore cambiare ancora, fino a divenire simile a quello delle ali di
un colibrì. Lo sente tremare, sotto di sé,
probabilmente
nell’inutile sforzo di muoversi, di fare qualcosa, qualunque
cosa.
Nel momento in cui il respiro diviene affannoso, trasformandosi in
rapidi singulti frammentati, Katherine, spaventata, si aggrappa alle
sue spalle e preme la fronte sul suo collo.
«Ti
prego, non fare così, Pitch. Io… non so cosa
fare, non… Per
favore» supplica, notando tuttavia che nulla sembra placare
l’agitazione dello spirito, nulla a parte… Solleva
appena il
viso, sfiorando con le labbra screpolate il padiglione auricolare.
«Io ho paura, Pitch» ammette suo malgrado.
Il
corpo dello spirito si irrigidisce improvvisamente. Sembra perfino
aver smesso di respirare. Schiude le labbra e lentamente le muove, ma
nessun suono ne esce. La bambina le osserva con più
attenzione e,
sorpresa, si rende conto che il loro movimento forma sempre la stessa
parola: Katherine.
«Ti
prometto che tornerò, Pitch. Te lo prometto.
Tornerò e mi farò
perdonare. Lo giuro, lo giuro» soffia Katherine, stringendosi
a lui
e stritolandolo nelle sue braccia.
Posa
un piccolo bacio sulla sua gota spigolosa poi, onde non correre il
rischio di cambiare idea, si scosta velocemente e riprende una corsa
interrotta molto tempo prima, questa volta nella speranza di poter
fare ritorno con l’aiuto necessario.
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La
mente di Pitch è confusa, i pensieri pesanti, i concetti
sfuggono
prima di venire afferrati, la ragione è qualcosa di
impalpabile,
perfino la paura fatica ad attecchire come un seme piantato
nell’arido deserto.
Ha
provato più volte ad aprire gli occhi, ma quelli si ostinano
a
rimanere chiusi, relegandolo nell’oscurità,
nonostante sia a
tratti consapevole che là fuori, oltre il velo sottile delle
palpebre, si trovi la rassicurante luce del sole.
Katherine,
il suo unico appiglio sicuro alla realtà, non è
più vicina a lui.
Quando ha annunciato che si sarebbe allontanata per cercare qualcuno
che potesse aiutarli, il panico più puro è
dilagato in lui,
sommergendo ogni altro pensiero razionale. Nonostante tutto, lei
è
in qualche modo riuscita a rassicurarlo che avrebbe fatto ritorno.
Eppure
ora, da solo, ha l’impressione di affogare nelle buie
profondità
di un luogo senza confini definiti. Un luogo così simile a
quello
dei suoi incubi più realistici da fargli pensare che non ne
uscirà
mai più.
Il
rassicurante tepore di Katherine gli manca così tanto.
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Katherine
non sa come riuscirà a trovare ciò che sta
cercando. Ma se ha
imparato qualche cosa da quando conosce Pitch, quel qualcosa
è che
bisogna crederci, crederci sul serio. E lei ci crede, con tutta
sé
stessa, ne ha bisogno, è qualcosa che sente distintamente
dentro di
sé e che guida i suoi passi, rischiarando per lei la strada
giusta.
«Ti
prego, per favore, ho bisogno di un segno» mormora,
concentrata,
senza mai smettere di correre.
Il
sole è alto e si riflette scintillante sulle vetrine di
fronte alle
quali passa, procedendo nella sua ricerca. All’improvviso si
blocca
di fronte a una di quelle vetrine; non è ciò che
si trova dietro ad
aver attirato la sua attenzione, ma quello che riflette: il tetto
spiovente di un palazzo più alto degli altri, e
sopra… Katherine
si fa più vicina, osservando meglio il riflesso, poi sgrana
gli
occhi e spalanca la bocca.
Velocemente
si volta verso il palazzo riflesso. Lassù, in cima al tetto
aguzzo,
c’è qualcosa, qualcosa che sembra tendere quasi
disperatamente
verso il cielo, qualcosa che richiama il colore stesso del cielo, ma
in modo più sgargiante.
«Eccolo!»
esclama su di giri.
Sì,
dev’essere quello il suo segno, ciò che cercava
con tanto
accadimento. Ma come raggiungerlo? Riprende a correre, questa volta
con una meta precisa: il tetto di quel palazzo e ciò che vi
si trova
sopra.
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ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Il
palazzo, alla fine, lo ha trovato. Ci ha messo quasi mezz’ora
per
scovarlo, fra un dedalo di vie e l’altro, ma in quel momento
lei si
trova proprio di fronte alla sua entrata, ansimante e sudata per la
fatica. Sbuffa, pensando che, accidenti, il suo segno poteva pure
scegliersi un posto con meno scale da salire!
«O
con un ascensore che funziona» inveisce, dopo averlo scoperto
guasto.
Quando
si dice la sfortuna. Katherine si rassegna a farsi tutte quelle scale
a piedi e si augura che, nel frattempo, qual cavolo di segno non si
stanchi di aspettare e se ne vada a far da segno a qualcun altro.
«Oh,
questo no! Non ci provare!» borbotta tra una rampa e
l’altra.
Dopo
la bellezza di un altro quarto d’ora abbondante, finalmente
raggiunge la cima dell’edificio e solo per pura forza di
volontà
non stramazza a terra priva di sensi. Invece arranca verso la porta
che, spera, conduca alla terrazza e… Sorpresa: è
chiusa a chiave.
Katherine
ringhia, pestando i piedi per terra, pericolosamente vicina
all’esaurimento nervoso. Per fortuna, sua e del suo sistema
nervoso, nota delle grosse finestre alla fine del corridoio. Magari
non potrà salire sul terrazzo, però forse
riuscirà a vedere fuori
e, con un po’ di fortuna, a scorgere quel maledetto segno
così
elusivo.
Con
un diavolo per capello, macina il resto del corridoio e,
aggrappandosi alla prima maniglia a portata di mano, spalanca una
finestra e, freneticamente, si guarda intorno.
Sta
quasi per gridare dalla frustrazione per non aver ancora visto un
accidenti, quando scorge un brillio blu sopra la sua testa. Spalanca
la bocca, sconcertata, fissando quel maledetto segno: ha le ali! Ali
blu!
«Ehi,
tu!» strilla con poca grazia.
Quello
però nemmeno si accorge del suo richiamo. Forse il suono del
vento,
lassù, è troppo forte. Beh, col cavolo che
rinuncia, giunta a quel
punto.
«EHI!»
grida ancora più forte, sbracciandosi nella speranza di
essere
vista.
E
in effetti, qualunque sia la natura del suo segno, alla fine abbassa
lo sguardo e la vede. Per un lungo momento si fissano senza fare
assolutamente nulla, entrambi apparentemente troppo sorpresi per la
presenza l’uno dell’altra. Poi il segno in cima al
tetto spalanca
gli occhi, sbigottito.
«Tu
puoi vedermi?».
Katherine
lo fissa ancora, stranita, poi sospira. “Ci
risiamo” pensa,
scuotendo la testa sconfortata.
"Promettiamo
secondo le nostre speranze, e manteniamo secondo i nostri timori."
(François de La Rochefoucauld)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Se
continuerai a camminare le strade si apriranno." (Welcome to the
NHK)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Noi
possiamo trasformare la disperazione in speranza, e questa è
una
magia." (Leo Buscaglia)
|
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Capitolo 45 *** Akh ***
capitolo
45 – Akh
«Spiriti!»
borbotta fra sé, frustrata.
Solleva
nuovamente gli occhi sul tizio del tetto e fa segno con la mano di
scendere giù. Quello, incredibilmente, le dà
retta e,
insospettabilmente aggraziato, plana oltre la finestra dalla quale si
era affacciata Katherine e atterra morbidamente nel corridoio.
Ora
che lo può vedere con più precisione, si rende
conto che è perfino
più strano di quanto apparisse a una prima occhiata. A parte
le
grosse ali blu, che già aveva notato in precedenza, anche i
suoi
capelli corti sono blu e, nota gongolante Katherine, sparano in tutte
le direzioni esattamente se non peggio dei suoi la mattina.
Fissandolo diritto negli occhi, si ritrova a pensare che, in effetti,
è un tipo molto blu: anche i suoi occhi lo sono, e non ha le
pupille
nere. Attorno ai suoi occhi c’è un disegno, blu
anche quello, che
ricorda curiosamente un pesciolino. La sua pelle invece (grazie al
cielo) non è blu, è bianca; ma non bianco latte,
tipo quella
pallidissima di Pitch, piuttosto bianco borotalco, si ritrova a
pensare Katherine, ridacchiando un momento fra sé.
«Sei
una bambina umana, giusto?».
La
voce incuriosita dello spirito la riscuote dai suoi pensieri e la fa
tornare con i piedi per terra, nel suo caso solo in modo metaforico.
«Sì,
giusto. E tu sei uno spirito» commenta Katherine, un
po’ sulle
spine.
L’interpellato
sgrana gli occhi e la osserva con sempre maggior interesse.
«Come
lo sai? E in che modo riesci a vedermi?».
La
bambina sbuffa stizzita e, nervosamente, inizia a battere un piede a
terra.
«Ti
vedo con gli occhi. Perché, tu mi vedi con il naso,
forse?».
Lui
la fissa interdetto e forse un po’ imbarazzato.
«Beh,
no. Ma non intendevo…».
Non
lo lascia finire. Normalmente Katherine coglierebbe
l’occasione
propizia per cercare di fare amicizia, ma quello non è un
momento
normale; ha fretta di tornare dal suo Pitch.
«Senti,
lo so cosa volevi dire, e sembri anche simpatico, sai. Ma io, adesso,
non ho tempo per stare qui con te a spiegarti tutto. Forse
più
tardi, se vuoi, possiamo parlare. Ma ora mi serve il tuo
aiuto»
butta lì tutto d’un fiato.
Lui
la guarda con tanto d’occhi e non accenna a ribattere, forse
troppo
frastornato per poterlo fare.
«Ehm…
Comunque io mi chiamo Katherine» tenta, sperando di non aver
rovinato tutto con la sua precedente scortesia.
«Akh»
si limita a dire lui.
«Eh?»
gracchia Katherine, confusa.
«Akh»
ripete lui, convinto. «È il mio nome».
«Oh!»
si riprende lei. «È un nome divertente».
«Lo
è?» indaga Akh.
«Oh
sì. Però mi piace» assicura Katherine,
gentile.
Lui
sorride e lei rimane un lungo momento bloccata sul posto, come
incatenata nelle maglie di un qualche sortilegio
«C-cosa…?»
prova balbettante.
«Cielo!
Scusami. Avevo scordato il pessimo effetto che fa sugli esseri
umani»
si giustifica Akh.
«Che
cos’era?» domanda Katherine, scuotendo la testa
ancora un po’
intontita.
«Ehm…
Ecco, io… Mi dispiace, davvero. L’ho fatto senza
pensarci»
ammette contrito.
«Non
importa» taglia corto Katherine. «Puoi aiutarmi,
allora?» insiste,
decisa ad avere la sua risposta, possibilmente in tempi brevi.
Akh,
interdetto, si passa una mano sulla nuca e sposta nervosamente il
peso da un piede all’altro.
«Beh,
dipende, immagino. Di cosa si tratta? Qual è esattamente il
problema?».
«Un
mio amico sta male. È uno spirito, come te. L’ho
lasciato nel
parco. Ho dovuto, sai; lui non può muoversi e io sono troppo
piccola
per portarlo con me. Così sono corsa a cercare aiuto, e
dalla strada
giù in paese ti ho visto e ho pensato che tu, forse, puoi
aiutarmi.
Allora? Puoi?» sproloquia Katherine, lasciando nuovamente lo
spirito
mezzo intontito.
«Ehm…
Penso di sì. Voglio dire: perché no, in
fondo?» blatera Akh, per
nulla convinto.
Katherine,
che nel frattempo ha perduto i pochi resti della sua pazienza,
sbuffa.
«Bene.
Allora non stare lì fermo. Andiamo!».
Detto
questo, senza attendere una risposta che non è affatto
sicura
giungerà mai, si avvia decisa verso le scale.
Nel
mentre Akh sembra aver ritrovato un minimo di raziocinio e, con un
paio di colpi d’ala, la raggiunge e le si para di fronte,
costringendola a fermarsi.
«Che
c’è? Mi fai perdere tempo» si ribella
Katherine.
Akh
sorride, questa volta stando attento a farlo in modo normale, poi le
porge una mano.
«Esistono
modi più rapidi per raggiungere una meta» espone,
in tono vagamente
profetico.
«Ok,
allora datti una mossa e usali» ribatte Katherine, per nulla
impressionata.
Akh,
sorpreso, sta per mettersi a ridere della situazione stravagante, ma
un’occhiata incendiaria della bambina lo convince a desistere
dai
suoi propositi suicidi. Invece annuisce e nuovamente le allunga una
mano.
«Prendila»
propone gentilmente. «So dove si trova il parco. Ci porto
direttamente lì».
Katherine,
leggermente sospettosa, esita. Poi solleva un sopracciglio, lo scruta
attentamente nei suoi occhi blu e, con un sospiro rassegnato,
annuisce e accetta la sua mano.
Pochi
istanti dopo il corridoio del palazzo svanisce in una luce
abbagliante e i due scompaiono nel nulla con essa.
"Un
sorriso è una luce attraverso la finestra del tuo viso che
dice alla
gente che il tuo cuore è in casa." (Anonimo)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Il
mio primo ricordo è luce – la
luminosità della luce – luce
tutto intorno." (Georgia O’Keeffe)
|
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Capitolo 46 *** Divergenze ***
capitolo
46 – Divergenze
Sempre
avvolti nella luce, Akh e Katherine ricompaiono all’interno
del
parco, per fortuna della bambina in una zona sgombra di gente e nelle
dirette vicinanze dell’abetaia.
«Wow»
mormora Katherine, impressionata. «Che forza».
Akh,
per tutta risposta, ridacchia divertito.
«Felice
che ti abbia soddisfatta» gongola. «Ora, da che
parte andiamo, mia
piccola amica?» si informa gentilmente.
Katherine
solleva lo sguardo e punta il dito fra gli alberi lì a
fianco.
«Lì
dentro. Seguimi» esclama risoluta, incamminandosi spedita.
Akh
avrebbe di gran lunga preferito volare ma, per come stanno le cose,
dubita sia una soluzione praticabile, così si rassegna a
camminare
al fianco della piccola umana che, al momento, sbandiera il cipiglio
poco rassicurante di un generale di armata; e lui, di armate e
generali, ne sa qualcosa.
Vorrebbe
imbastire un qualche genere di conversazione ma, suo malgrado, si
sente un po’ intimidito dall’attuale atteggiamento
della bambina.
Decide quindi sia più saggio rimandare i convenevoli e le
amenità a
un momento in cui la tensione sia minore e si limita a seguirla in
rispettoso silenzio.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
«Sei
certa si trovi da questa parte?» si arrischia a domandare,
dopo
interi minuti di silenziosa camminata.
«Certo»
ribatte asciutta, ritornando in un silenzio teso.
«D’accordo,
però…» tenta Akh, prudente.
Katherine,
senza fermarsi né rallentare, volta un poco la testa nella
direzione
dello spirito e lo squadra con sospetto.
«Hai
detto che mi aiutavi» fa presente.
«Sì,
l’ho detto» conferma, deglutendo nervosamente.
«Allora
qual è il problema?» sibila Katherine.
«Hai cambiato idea?».
«Cosa?»
sussulta. «Ma… No, non ho cambiato idea.
È solo che… è
strano».
Gli
occhi di Katherine si assottigliano in due fessure.
«Cos’è
che è strano?».
«Beh,
tutta questa situazione lo è» prova, gesticolando
con le mani e
scuotendo un po’ le ali.
«Non
lo è affatto» sbuffa frustrata.
«No?
Tutti i giorni vai a caccia di spiriti per soccorrerne
altri?»
ironizza Akh.
Katherine
si ferma improvvisamente in mezzo agli alberi e Akh, due passi dopo,
fa lo stesso, sorpreso e un po’ impensierito per
l’aria poco
felice che riflette il viso della bambina.
«Che
cosa vuoi? Qualcosa in cambio? Vuoi un… premio?»
ringhia
arrabbiata.
Akh
sgrana gli occhi, colto alla sprovvista, e indietreggia di un passo.
«Che…
No! Hai capito male, io… Non è questo che
intendevo» tenta di
giustificarsi.
Katherine
freme, le piccole mani serrate strettamente a pugno; poi le sue
spalle si abbassano e rilascia un respiro tremolante.
«Forse…
Forse ho sbagliato, forse non sei il segno che cercavo, magari tu
stavi solo guardando il cielo e io…» scuote la
testa.
Il
pensiero di Pitch, da solo nel bosco, si fa più pesante
nella sua
mente. Volta le spalle allo spirito e riprende il cammino, questa
volta di corsa; vuole arrivare da lui e lo vuole fare in fretta.
Akh
rimane a osservarla correre via con le sopracciglia aggrottate.
Quando la bambina scompare oltre gli alberi, si decide e spicca il
volo, ritrovandola in pochi battiti d’ala. Quel posto non lo
convince per niente, e lasciarla da sola lì dentro non la
trova
un’idea positiva.
I
dubbi dello spirito trovano conferma nel momento in cui raggiungono
una piccola radura in ombra. Akh spalanca gli occhi e, con una rapida
virata, atterra bruscamente di fronte alla bambina prima che
quest’ultima possa procedere oltre e avvicinarsi troppo a
ciò che
lo spirito ha individuato.
«Ehi!»
protesta vivacemente Katherine. «Che ti prende?».
Cerca
di aggirare l’ostacolo ma quello spalanca le grosse ali blu e
le
impedisce il passaggio.
«Spostati!»
esplode infuriata.
«No,
è pericoloso» ribatte graniticamente lo spirito.
Katherine
sbuffa. Tra una piuma e l’altra riesce a intravvedere Pitch:
è
ancora disteso a terra, immobile. Spera con tutto il cuore che stia
bene, ma con quel bellimbusto piantato in mezzo ai piedi non
può
esserne sicura. Ah, che pessima idea cercare aiuto in un tipo simile!
Probabilmente avrebbe fatto meglio a trascinare Pitch a casa un
centimetro alla volta; ci avrebbe messo
un’eternità, ma sempre
meglio che stare con le mani in mano a fissare torvamente
quell’uccellaccio blu.
«No
che non è pericoloso!» si impunta Katherine,
pestando un piede a
terra, decisa più che mai a far valere le sue ragioni.
«Prima,
quando c’erano in giro quelle Ombre orribili, sì
che era
pericoloso. Ma adesso non ci sono più, e io devo
aiutare Pitch!».
Akh
la fissa con un’espressione sconvolta e scuote la testa.
«Non
posso permettertelo. Sarebbe rischioso, tu non hai idea di chi
sia…».
«No.
Tu
non ne hai idea!» strilla, perdendo definitivamente la
pazienza.
«Adesso ti sposti, o ti prendo a calci».
Akh,
confuso e costernato, rimane immobile senza sapere come reagire.
Katherine
invece, notando la sua indecisione, coglie l’occasione per
girargli
attorno e raggiungere finalmente il suo Pitch. Si inginocchia al suo
fianco e, piano, sfiora il suo petto, sospirando: il suo cuore batte
ancora e la sua pelle è ancora calda; è un buon
segno dopo tutto.
Sta
per chinarsi su di lui e fargli sapere che è tornata, quando
quel
cavolo di uccellaccio guastafeste si risveglia dal suo sonno
catatonico.
«Allontanati»
lo sente ringhiare.
Quando
si volta, decisa a dirgliene quattro per essere tanto fastidioso,
sbianca vedendolo puntar loro addosso una freccia fissata a un arco
teso (blu, per non smentirsi mai).
«Che
cosa fai?» chiede incredula.
Akh
assottiglia gli occhi. «Ti ho detto di allontanarti da
lui».
Katherine
ne ha decisamente abbastanza di quel tipo. Lentamente si rialza,
senza però lasciare il fianco di Pitch.
«Sei
stupido o cosa? Io, a te, non ti conosco» tiene a precisare.
Poi
allunga un braccio dietro di sé e punta una mano verso
Pitch.
«Invece lui è mio amico, e non me ne importa un
fico secco se a te
non piace, capito? Già te l’ho detto: se non mi
vuoi aiutare,
vattene».
La
presa dello spirito sull’arco si fa meno sicura. Schiude le
labbra,
confuso, la sua voce ha un tremito quando torna a farsi sentire.
«Ma…
Non mi avevi detto che era per lui» protesta debolmente.
Katherine
fa scricchiolare i denti per la frustrazione.
«Ti
ho detto che il mio amico spirito sta male. È la
verità. Non ti
basta? Che cosa dovevo dirti ancora?» sbotta stanca.
«Quello
che tu vorresti soccorrere è il Nightmare King. È
una creatura
pericolosa» tenta, un filo di disperazione nella propria voce.
Katherine
spalanca gli occhi e, finalmente, comprende. Pitch gliene aveva
parlato, ma lei non gli aveva dato particolarmente ascolto, in
effetti. Eppure eccola lì, la dimostrazione: nessuno vuole
avere a
che fare con Pitch. “Che maledetta ingiustizia!” si
ritrova a
pensare.
«Lui
non…». Katherine ha deciso che deve tentare di
spiegare, che dopo
tutto un aiuto non sarebbe male. Ma è così
difficile. «Tu non
capisci. Lui non è come dici tu, non è quello che
credi. Lui è…
è mio amico, e sta male e… Ti prego, mi serve il
tuo aiuto. Per
favore».
«Pitch
Black?» chiede per conferma Akh.
A
Katherine sfugge un singhiozzo, poi stringe i denti e annuisce.
«Sì,
è Pitch… Ma niente Incubi» precisa.
Lo
spirito la fissa, incredulo e scuote leggermente la testa.
«Cosa?
Stai… scherzando?».
Ha
così voglia di prenderlo a calci, in quel momento. Ma ha
anche
bisogno di lui, e non sarebbe molto diplomatico picchiarlo e poi
pretendere che le offra la sua collaborazione. Quindi, per amore di
Pitch e del suo benessere, si trattiene (per ora).
«No.
Non sto scherzando, non sono pazza e nessuno mi obbliga»
borbotta.
«Allora? Per favore» ringhia, decisamente
impaziente a quel punto.
Akh
la fissa insistentemente negli occhi per lunghi momenti; poi, piano,
abbassa l’arco e trae un profondo sospiro.
«D’accordo,
hai vinto tu».
"Tieniti
al lato più luminoso del dubbio." (Lord Alfred Tennyson)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Ci
sono verità che fanno dubitare più di tante
menzogne."
(Roberto Gervaso)
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Capitolo 47 *** Decisioni ***
capitolo
47 – Decisioni
Con
circospezione, Akh si avvicina a quell’improbabile coppia
formata
da una bambina umana e da uno spirito oscuro. Solo che, nel momento
in cui è sufficientemente vicino per dare
un’occhiata più
approfondita, si rende conto che qualcosa non torna: lo spirito
oscuro in questione è decisamente meno oscuro di quanto
rammentasse.
«È…
diverso» tenta, sommerso da dubbi e domande. «Che
cosa gli è
capitato?».
Katherine
gli risponde senza neppure sollevare lo sguardo, troppo occupata a
controllare le condizioni di Pitch.
«Le
Ombre l’hanno attaccato. No, aspetta! Le Ombre hanno
attaccato me,
a dir la verità, e lui s’è messo in
mezzo per proteggermi e… e
poi non lo so bene che cosa è successo» ammette
contrita.
«S’è
messo in mezzo…» ripete fra sé,
frastornato. «Questo non ha
senso. Perché mai lo avrebbe fatto?».
«Nessuno
mi ascolta mai» sbuffa indispettita. «Non
t’ho detto che Pitch
non è come credi tu? Ma mi stai a sentire o no?».
Lui
la osserva e scuote la testa. «Uhm… Beh, qualcosa
di strano ha di
sicuro. Ma non capisco cosa» ammette.
«Non
importa» taglia corto Katherine. «A me basta solo
che mi aiuti a
riportarlo a casa».
Akh
la squadra, interdetto. «A casa? Quale casa?».
«Ma
la mia, no!» esclama, sottolineando quella che ritiene
un’ovvietà.
Lo
spirito continua a fissarla, non riesce a comprendere se lei lo stia
prendendo per i fondelli oppure no, e a dirla tutta non è
sicuro di
quale delle due eventualità sia preferibile.
«Allora»
insiste la bambina. «Lo puoi fare sì o
no?».
«Ma
non… non dirai sul serio?».
Katherine,
per l’ennesima volta, si insulta mentalmente per aver scelto
uno
spirito tanto piantagrane a cui chiedere aiuto. A saperlo prima,
quanti guai si sarebbe certo risparmiata. Ma adesso che è in
ballo,
per sua disgrazia, teme di non potersi più tirare indietro.
Inoltre
si sta facendo davvero tardi e il rischio, altrimenti, sarebbe di
essere costretta ad abbandonare Pitch da solo nel parco; ipotesi
assolutamente da scartare.
Incrocia
le braccia e pianta gli occhi in quelli blu dello spirito.
«Ti
sembra che sto scherzando?».
«Ehm…
A dire il vero, no. Però… Andiamo, non puoi
parlare seriamente.
Insomma, questo qui è…».
Prima
che Akh abbia il tempo di completare la frase, Katherine, colta da un
attimo di rabbia, gli pesta un piede con tutta la forza che ha e lo
osserva, compiaciuta, saltellare guaendo per il sottobosco.
«Non
dirlo. Non lo dire mai più, chiaro?» lo ammonisce
seriamente,
mentre lui torna zoppicando ad avvicinarsi.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Ha
l’impressione che la sfortuna lo stia perseguitando. Come
spiegare,
altrimenti, l’incontro con questa bambina umana? Secoli
trascorsi
con la sola compagnia di qualche sporadico spirito di passaggio, e
quando finalmente incontra un essere umano in grado di vederlo, ecco
che quell’essere umano lo trascina in un folle salvataggio di
uno
spirito oscuro. E non uno spirito oscuro qualsiasi, oh no,
direttamente il Nightmare King. Qualcuno di potente si sta certo
divertendo un mondo a sue spese; magari addirittura
quell’idiota di
Seth, tsk!
«Molto
bene» borbotta un po’ offeso (per non parlare del
dolore al piede,
accidenti!). «Fai strada. Io prendo il tuo amico
e ti seguo».
Lei
lo esamina con sguardo scettico e sospettoso. L’idea di
lasciare
Pitch nelle mani dell’uccellaccio blu non la entusiasma per
nulla.
E se, mentre è distratta, gli facesse del male?
Akh
sta giusto manovrando per raccogliere da terra il dannato spirito
oscuro, quando Katherine, colta dal panico, gli si para di fronte.
«No!»
esclama atterrita, impedendogli di avvicinarsi oltre.
Akh
solleva dubbioso un sopracciglio (blu, per non smentirsi mai).
«Cosa?
Non dirmi che hai cambiato idea» la schernisce.
Katherine
si mordicchia un labbro, pensierosa. «No,
però…».
«Però?»
incalza, piegando curiosamente il capo di lato.
Lei
deglutisce e lancia una discreta occhiata al suo Pitch, che in tutta
quella baraonda non si è mai mosso né ridestato.
«Promettimi
che non gli farai del male» mormora incerta.
Akh
socchiude le labbra, sorpreso. «Non era mia intenzione. Non
sono
certo una creatura malvagia, io» sottolinea.
Katherine
si imbroncia. «Nemmeno Pitch è malvagio. Tu non lo
conosci»
insiste.
Lo
spirito storce le labbra in una smorfia sarcastica.
«Tu
sì?» chiede, per nulla convinto.
«Sì,
io lo conosco» afferma inflessibile, senza mai distogliere lo
sguardo da quello scettico dello spirito. «Siete voi, tutti
quanti,
che vedete solo quello che sembra da fuori. Ma nessuno si è
mai
preoccupato di sapere, di capire perché, di guardare meglio
e
scoprire cosa c’è dietro le Ombre. Voi, che
credete di essere i
buoni,
e che invece non avete mai fatto niente. Lo avete lasciato da solo,
per così tanto tempo. Non vi siete certo preoccupati di
sapere che
cosa sentiva, giusto? Nessuno di voi. Mai. Beh, se è questo
che vuol
dire essere buoni, accidenti, spero proprio di non esserlo».
Le
ali di Akh frusciano nervosamente.
«Ahm…
Ecco, io…» tenta, senza avere realmente idea di
cosa dire.
«Guarda,
alla fine non mi interessa. Sono stanca, e Pitch ha bisogno di
riposare tranquillo in un posto sicuro. Quindi, per favore, fai
quella cosa di scomparire e riapparire, ci porti a casa e poi puoi
pure tornare a guardare il cielo. Io non ti disturbo più,
promesso»
assicura Katherine.
«D’accordo»
si limita a mormorare lo spirito.
Con
calma si china sui due, solleva appena il corpo di Pitch, offre
nuovamente una mano a Katherine e, dopo averle gentilmente chiesto di
concentrarsi, trasferisce tutti sulla soglia di casa della nonna
della bambina senza ulteriori incidenti.
"Per
vedere cosa c’è sotto il proprio naso occorre un
grande sforzo."
(George Orwell)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Ci
sono molti modi di andare avanti, ma solo un modo di stare fermo."
(Franklin D. Roosevelt)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Se
questo è il vostro modo di amare, vi prego di odiarmi."
(Molière)
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Capitolo 48 *** Taumaturgia ***
capitolo
48 – Taumaturgia
Katherine
apre piano la porta di casa e fa silenziosamente segno ad Akh di
entrare, poi cauta si incammina lungo il corridoio, seguita da uno
spirito che ne regge un altro e si guarda attorno con
curiosità. La
bambina scuote lentamente la testa, riflettendo che casa sua si sta
trasformando in un covo di creature davvero bizzarre.
«Katherine!
Dove sei stata?».
Sulla
soglia della cucina c’è la nonna della bambina,
braccia
strettamente conserte e cipiglio belligerante, che la fissa
pretendendo risposte valide.
«Uhm…
Fuori» tenta Katherine, vaga.
«Non
sei andata a scuola, questa mattina. Le tue cose sono ancora di
sopra. Sei uscita, senza fare colazione e senza sciarpa, e torni a
quest’ora del pomeriggio. Pretendo di sapere
perché hai saltato la
scuola e dove hai trascorso la giornata».
«Al
parco» mugugna Katherine. «A scuola ci volevo
andare, ma poi…»
gesticola, nel vano tentativo di spiegare e non spiegare al tempo
stesso. «Sono successe cose,
il tempo è passato e… Ci andrò domani,
a scuola» promette con
poco entusiasmo ma tanta buona volontà.
«Questa
non è una spiegazione. Perché hai trascorso la
giornata al parco, e
con questo freddo poi, senza coprirti bene. Sei guarita da poco, non
vorrai ammalarti di nuovo?».
«No,
non voglio» mormora mogia. «Non… Mi
dispiace. Quando sono uscita
non pensavo di rimanere fuori tanto, ma poi…». Di
nuovo si
interrompe, senza ben sapere cosa dire.
Non
desidera raccontare bugie a sua nonna, ma non può nemmeno
raccontarle la verità. L’ha già presa
per matta una volta e,
francamente, non ci tiene per nulla a ripetere l’esperienza.
La
nonna sospira e scuote la testa.
«Katherine,
io davvero non riesco più a capirti. Ci sono cose che non mi
dici,
di cui non vuoi parlarmi. Lo so, ma non so di cosa si tratta. Sei
forse nei guai? Ci sono dei problemi a scuola?».
«No,
nonna. Nessun problema a scuola, e non sono nei guai».
“O almeno
lo spero” pensa Katherine, un po’ preoccupata al
riguardo.
Certo
non si metterà a raccontare a sua nonna di essere quasi
stata
catturata dalle Ombre. In ogni caso non le crederebbe, quindi
perché
sprecare fiato? Sa di essere ingiusta con lei; gli ultimi due anni li
ha trascorsi in sua compagnia e sotto la sua custodia, e si
è sempre
dimostrata gentile e comprensiva. Ma alcune cose, semplicemente,
è
meglio tenersele per sé; quando ha tentato di parlarle di
Pitch, ha
commesso un enorme errore di valutazione e lo ha fatto unicamente con
la speranza di poterlo aiutare.
«Io…»
tenta, spostando nervosamente il peso da un piede all’altro.
«Posso… potrei andare a sciacquarmi? Sono un
po’, uhm,
impolverata» ammette impacciata, sperando ancora una volta
nella
comprensione della nonna.
«Molto
bene» sospira la donna. «Vai pure. Ma ricorda che
la discussione è
solamente rimandata» avverte.
Katherine
non può evitarsi di tremare leggermente. Osserva la nonna
fare
ritorno in cucina e trae un lungo, silenzioso sospiro di sollievo,
poi si volta e, sollevando un sopracciglio, fa nuovamente segno ad
Akh di seguirla.
«Tua
nonna sembra simpatica» prova maldestramente lo spirito.
«Sì»
concorda Katherine. «Quando sei bravo e ubbidiente lo
è di sicuro.
Poi però ti capita di portare a casa gente strana e non
sapere come
spiegarlo. Allora non pensi più che è tanto
simpatica» borbotta
contrariata.
Akh
varca la porta della camera momentaneamente prestata a Pitch e, su
indicazione di Katherine, lo adagia sul conosciuto piumone beige.
«Spiegarlo?
Per quale motivo? Lei non può vederci» indaga lo
spirito.
La
bambina sbuffa piano. «Lei no, ma io sì. E non mi
va di essere
quella
bambina matta che parla da sola.
Sai com’è, non è molto
divertente».
«In
effetti» concorda Akh.
Mentre
Katherine si toglie il cappotto e si accomoda sul letto di fianco a
Pitch, Akh, che ora come ora non ha più molta voglia di
tornare a
guardare
il cielo
come ha suggerito la bambina, si appollaia sul davanzale e rimane un
po’ a osservare Katherine che sembra intenta ad ascoltare il
suono
del cuore dello spirito oscuro. Tuttavia, con il trascorrere dei
minuti, nota qualcosa di bizzarro e si concentra con più
attenzione
per cercare di cogliere una logica in ciò che i suoi occhi
stanno
vedendo: pare che la vicinanza, o meglio il contatto diretto, della
bambina sia in grado di giovare, in qualche incomprensibile modo,
alla salute dello spirito. Il suo attuale aspetto è
indiscutibilmente meno emaciato di quanto non fosse
all’interno
dell’abetaia.
«Katherine»
sussurra, quasi timidamente, per attirare la sua attenzione senza
disturbarla.
Piano,
Katherine si volta e posa lo sguardo su Akh.
«Sì?»
chiede, senza spostarsi.
«Tu…
stai bene?».
Lei
sfarfalla le ciglia e lo fissa perplessa.
«Certo.
La nonna aveva paura che mi potevo ammalare di nuovo, ma oggi non ho
preso tanto freddo per davvero. Perché?» si
incuriosisce.
In
effetti lei non sembra risentire per nulla di quell’inattesa
vicinanza. L’unico su cui fa differenza pare essere lo
spirito
oscuro. Una stranezza.
«Ti
sei accorta che… il tuo amico sta migliorando?»
domanda cauto.
Katherine,
confusa, abbassa lo sguardo su Pitch, nota che in effetti ha un
aspetto meno grigio e sorride.
«È
vero. È una buona cosa, no?».
Akh
si prende la briga di rifletterci su, ma non ha risposte al riguardo.
«Non
saprei. Dal suo punto di vista, immagino di sì. Che cosa ha
fatto al
braccio?».
Il
sorriso sulle labbra di Katherine sfuma.
«La
Luce. Si è bruciato mentre si allenava» rivela
senza porsi
particolari problemi.
Il
problema, invece, Akh se lo pone eccome. Fissa la bambina con sguardo
incredulo e sconvolto e torna a indicare l’altro spirito.
«Bru-bruciato?
Non capisco» ammette confuso.
«Oh…»
sospira Katherine, ridacchiando suo malgrado per ciò che sta
per
dire. «È
una storia lunga»
commenta, con un sarcastico stirarsi di labbra.
"Essere
incompresi da coloro che amiamo è la condizione peggiore per
vivere
e affrontare ogni giorno gli impegni della vita.
L’incomprensione
pesa come una montagna e traccia solchi profondi sull’anima."
(Romano Battaglia)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Il
tocco è essenziale come la luce del sole." (Diane Ackerman)
|
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Capitolo 49 *** Risposte ***
capitolo
49 – Risposte
Katherine
ha deciso che, dopo tutto, non può essere un’idea
tanto malvagia
raccontare la storia della Luce a quell’uccellaccio blu.
Così,
poiché non intende muoversi da lì fino a che
Pitch non avrà
riaperto gli occhi e l’avrà riconosciuta,
Katherine si mette
comoda, poggiando la schiena alla spalliera del letto ricoperta di
cuscini e passando piano le dita fra i capelli di uno spirito, mentre
inizia a narrare all’altro ciò che conosce di
tutta quella
vicenda.
Akh,
dal canto suo, rimane docilmente ad ascoltare la bambina e
ciò che
ha da dire riguardo al Nightmare King, o almeno a ciò che ne
rimane.
Ma quando, dopo aver faticosamente cercato di seguire il
confusionario resoconto di Katherine, la narrazione ha termine, Akh
si sente ancora decisamente incredulo e spaesato.
«Tutto
questo non ha senso» ci tiene a far presente, beccandosi
l’ennesima
occhiataccia dalla bambina.
«Sei
proprio insopportabile, sai. Io sto qui a raccontarti quello che so e
scommetto che tu non credi nemmeno a una parola. Beh, io non so che
farci. Quello che è successo, te l’ho detto. Se ci
vuoi credere,
oppure no, a me non importa. Basta che lasci in pace Pitch»
borbotta
scocciata.
«Non
ho detto che non ti credo» fa impacciatamente notare Akh.
«No.
Però è quello che sembra».
«Nessuno
spirito oscuro può portare la Luce dentro di
sé» insiste Akh.
Katherine
sbuffa spazientita. «Ma lo vedi che non mi ascolti! Pitch non
è uno
spirito oscuro. Sono quelle cose
che erano dentro di lui che sono oscure».
Akh
però scuote la testa, per nulla persuaso.
«Affatto.
Io l’ho visto, secoli fa. E si dà il caso che
avesse tutta l’aria
di un maledetto spirito oscuro, con tanto di servi ai suoi
ordini».
Si
squadrano in cagnesco per diversi secondi, infine Katherine sbotta
«Non capisci niente!» voltandogli le spalle,
arrabbiata, e Akh leva
gli occhi al cielo e ribatte «E tu sei la bambina
più sconsiderata
e impertinente che abbia mai incontrato».
«Ah
sì? Beh, questa è casa mia e posso essere quello
che mi pare»
ringhia.
Sotto
le sue dita avverte un lieve fremito e, rapida, sposta lo sguardo su
Pitch. I suoi occhi sono ancora ostinatamente chiusi e non sembra
essersi mosso; eppure, ora, la sua pelle ha di nuovo una sfumatura
molto più umana. Katherine sospira e spera che possa
svegliarsi
presto, rassicurandola sulle sue condizioni.
Un
pensiero, improvvisamente, le sovviene, deviando ancora una volta la
sua attenzione.
«Non
capisco: se lo odi così tanto, perché mi hai
aiutata a portarlo
fino a qui?» domanda incuriosita.
Akh
storce le labbra in una smorfia amara e si sofferma a osservare,
ancora una volta, quella che dovrebbe essere una creatura maligna,
per quanto al momento non ne abbia affatto l’aspetto.
«Non
potevo certo lasciarti sola in quella situazione» fa presente.
«Potevi,
invece. Non mi pare che t’ho costretto, no?».
«No,
non l’hai fatto, in teoria. Ma in pratica
sì».
«Questo
non è vero» si impunta Katherine. «Mi
serviva un aiuto ma, se non
volevi, potevi dire di no. E comunque mi sembra che sei ancora qui,
invece potevi pure tornare a… boh, fare quello che facevi
prima».
«Avrei
potuto, certo. Ma a che scopo? Sai quand’è stata
l’ultima volta
in cui ho potuto parlare con un essere umano?» chiede
d’un tratto
Akh.
Katherine,
colta alla sprovvista, si limita a scuotere la testa in segno di
diniego.
Akh
stiracchia le labbra in un tentativo di sorriso mal riuscito.
«Circa
ottocento anni fa» rivela.
Katherine
spalanca sia gli occhi che la bocca.
«Sono…
tantissimi» rantola sconvolta.
«Sì,
lo sono. E pensare che l’ultima volta sono stato scambiato
per un
angelo» borbotta offeso.
La
bambina solleva un sopracciglio, scettica.
«Non
ci somigli per niente. Gli angeli non dovrebbero essere
così…
arruffati».
«Ehi!
Io non sono affatto arruffato!» protesta vivacemente Akh.
Katherine
si esibisce in un ghignetto provocatorio e poi ridacchia.
«Certo,
come no. Hai tutti i capelli e le piume scompigliati. Sembra che hai
appena litigato con qualche altro grosso uccellaccio».
Akh
si imbroncia, arrossendo di imbarazzo suo malgrado.
«È
il vento» prova, poco convinto.
«Uh,
sì sì, ci credo» garantisce lei,
ridacchiando ancora.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
«Akh»
bisbiglia Katherine, dopo molti minuti trascorsi in tranquillo
silenzio.
«Sì?».
«Perché
nessuno ti può vedere? Perché io posso, invece?
Non riesco a
capire, e Pitch non ha voluto spiegarmelo. Nemmeno lui lo vedono. Ma
io sì: vedo lui, come vedo te. Perché? Tu lo sai,
vero?».
«Sì»
sospira Akh «lo so. Ma non è facile, non lo
è mai veramente
stato».
«Spiegami.
Ti prego».
Lui
rimane a lungo in silenzio, osservandola e spostando di tanto in
tanto l’attenzione sull’altro spirito.
«Posso
avvicinarmi?» rompe improvvisamente il silenzio Akh.
Katherine
si irrigidisce e soppesa la richiesta con attenzione.
«Per
fare cosa?» indaga indecisa.
«C’è
un particolare di cui ancora non ti ho accennato: io sono uno spirito
della Luce».
Lei
lo fissa con occhi grandi e sconvolti e si ritrae appena.
«Tu…
Sei stato tu a mandare quelle cose?» gracchia inorridita.
Akh,
sorpreso, scuote la testa. «No, certo che no. Agiscono di
propria
iniziativa, senza nessun bisogno di una guida esterna».
Torna
un momento in silenzio, fissando lo sguardo in quello di lei che,
ora, appare un po’ spaventato.
«Ti
assicuro che non ho cattive intenzioni. Devo solo… Voglio
solo controllare una cosa. Non gli farò alcun male, hai la
mia
parola».
Katherine
sospira. È piuttosto evidente che non sia affatto convinta.
Eppure
lui sembra sincero, e non ha mai avuto sentore che le stesse
apertamente raccontando menzogne.
«Va
bene, ti credo e… puoi avvicinarti e controllare quello che
ti
pare» acconsente, anche se di malavoglia.
Akh
la ringrazia con un piccolo, esitante sorriso e, cauto, si lascia
scivolare a terra e raggiunge, con pochi passi, la bizzarra coppia
che occupa attualmente il grosso letto al centro della stanza.
Lentamente, si china sull’altro spirito e osserva da vicino
ciò
che già aveva notato in precedenza. Tuttavia, non
può accontentarsi
di un esame così superficiale; per questo, dopo aver
lanciato una
rapida occhiata a Katherine, allunga su di lui entrambe le mani,
appoggiandone una sul petto e l’altra sulla fronte. Non ha
però il
tempo materiale per concentrarsi su nulla; nel momento stesso in cui
i suoi polpastrelli poggiano sulla pelle dell’altro, un
inatteso
bagliore dorato emana da entrambi e, istintivamente, Akh se ne separa
e balza verso il soffitto, allontanandosi e rimanendo sospeso in aria
a metabolizzare l’accaduto.
Katherine,
dal canto suo, stava per mettersi a gridare ma, a conti fatti, tutto
si è concluso prima ancora che ne trovasse il tempo. Ora
fissa
accigliata lo spirito della Luce che svolazza agitato sul soffitto.
«Che
cos’è successo?» pretende di sapere.
Akh
sposta l’attenzione su di lei e freme leggermente, confuso.
«La
mia Luce ha… reagito a qualcosa».
«Qualcosa
tipo?» insiste Katherine.
«Ehm…
Credo sia entrata in risonanza con quella all’interno del tuo
amico» ipotizza scombussolato.
«Ah,
quindi adesso ci credi?» domanda sarcastica.
«Sarebbe
piuttosto difficile non farlo, a questo punto» ammette Akh.
Lentamente,
torna con i piedi per terra. Qualcosa è cambiato; qualcosa
di
grosso, a giudicare dai recenti accadimenti.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
«Dimmi,
Katherine, hai mai visto il vento?».
«Il
vento?» chiede perplessa. «Non si può
vedere il vento. È
trasparente» obbietta.
Akh
annuisce piano e siede cauto sul bordo del materasso, facendo
scorrere lo sguardo lungo la nera figura di Pitch.
«Sì,
lo è. Gli spiriti sono un po’ come il vento:
invisibili
all’occhio. Ma qualcuno, di tanto in tanto, è in
grado di
avvertirne la presenza, proprio come è possibile sentire il
vento. E
poi ci sei tu; i tuoi occhi possono vedere e le tue mani toccare
ciò
che il tuo cuore e la tua anima già avevano
percepito».
Katherine
riflette sulle parole di Akh e infine scuote la testa.
«Non
capisco» ammette dispiaciuta.
«Lo
so» concede lo spirito. «Proverò a
spiegarlo meglio, ammesso che
ne sia in grado» dubita con una smorfia. «Noi
esistiamo, nello
stesso spazio e nello stesso tempo degli esseri umani, ma su piani
differenti. Non tutti gli spiriti sono uguali, non tutti sono della
stessa natura. Alcuni nascono
autonomamente, creati dall’energia stessa della Terra o
dell’Universo. Altri sono il frutto dell’energia
degli esseri
umani; voi la chiamate immaginazione, o in altri casi fede. La mente
umana è molto potente, tanto da dare vita a creature come
gli
spiriti».
«E
tu» chiede Katherine, guardandolo incuriosita «di
che tipo sei?».
«Appartengo
alla seconda categoria. Io sono il frutto di generazioni di umani che
credevano nell’esistenza di determinati spiriti, i quali
dovevano
fungere da guida e fulcro del potere. Loro lo hanno voluto e noi
siamo comparsi sulla Terra».
«E
loro… potevano vedervi?».
«Sì,
molti di loro potevano vederci. Non tutti, solo chi possedeva la
conoscenza, certo. Ma comunque un nutrito numero di esseri umani. E
tuttavia… La vita degli umani è così
breve; il loro tempo non
dura che pochi battiti d’ali. Il trascorrere del tempo, il
succedersi di generazioni, ha fatto sì che gli esseri umani
dimenticassero ciò in cui credevano in passato: la nostra
esistenza.
Così… noi continuiamo a esistere ma, di fatto,
siamo scomparsi,
per la maggior parte di voi».
Katherine
rimane a lungo in silenzio. Si limita a mordicchiarsi nervosamente un
labbro e a osservare lo spirito, addolorata.
«E…
Pitch?» domanda infine, cauta.
Akh,
a quella richiesta, aggrotta le sopracciglia e si fa pensieroso.
«Posso
ipotizzare che il suo sia un ulteriore caso; che non appartenga a
nessuno dei due già citati. Da quanto mi hai narrato, lui
non è
nato come spirito, lo è divenuto in seguito, da… vivo.
Per questo è lecito supporre che non lo sia divenuto a
seguito di un
accumulo di energia, come invece succede nella maggior parte dei
casi. O forse… forse sì, ma in modo differente.
La nascita di
questo particolare spirito è avvenuta nel momento in cui
entità di
natura oscura si sono unite» pondera Akh, pensieroso.
«Però
lui è ancora uno spirito» obbietta Katherine.
«Anche se non ci
sono più le Ombre che c’erano prima».
Akh
annuisce e riflette. «Sì, probabilmente lo
è ancora poiché il
vuoto lasciato dalle Ombre è stato riempito dalla
Luce».
«Ha
senso?» dubita Katherine.
«Ce
l’ha» conferma Akh.
Lei
lo fissa un momento, solleva un sopracciglio, scettica, infine soffia
una mezza risata.
«Se
lo dici tu» ironizza.
"La
cosa più insensata è di ritenere che ogni cosa
debba avere un
senso." (Alessandro Morandotti)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Solo
coloro che possono vedere l’invisibile, possono compiere
l’impossibile!" (Patrick Snow)
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Capitolo 50 *** Tensioni ***
capitolo
50 – Tensioni
Un
soffice mugolio rompe improvvisamente il silenzio e due paia di occhi
si posano contemporaneamente sull’origine del suono: Pitch si
sta
risvegliando e Katherine, a stento, si trattiene dall’urlare
entusiasta e soprattutto dal gettarsi su di lui, dato che con tutta
probabilità finirebbe col fargli male. Akh, al contrario,
decide di
mettere un poco di distanza in più fra loro; sospetta che la
sua
presenza potrebbe risultare indigesta.
«Katherine?»
mormora Pitch, ancora a occhi chiusi.
«Sì!»
trilla lei, mandando alle ortiche i suoi precedenti scrupoli e
aggrappandosi al suo petto come un koala al suo eucalipto.
Le
labbra di Pitch si curvano in un piccolo sorriso soddisfatto e gli
occhi di Akh minacciano di volar fuori dalle loro orbite.
«Stai
meglio?» domanda Katherine, trepidante.
Finalmente
Pitch dischiude gli occhi e posa lo sguardo sulla piccola figura
della bambina.
«Indubbiamente»
soffia, accarezzandole la schiena con l’intento di
rassicurarla.
Il
suo sguardo si attarda poi su ciò che lo circonda e aggrotta
le
sopracciglia, interdetto.
«Siamo…
a casa?» chiede, con una punta di sorpresa.
Katherine
si limita ad annuire. Non ha proprio desiderio di separarsi da lui,
adesso.
«Come…».
Un
fruscio fuori posto interrompe ogni riflessione e attira tutta la sua
attenzione. Appena oltre il suo campo visivo, scorge un movimento
nell’ombra e volta di scatto la testa, sgranando gli occhi
alla
vista della figura alata che gli si mostra in quel momento. Con una
rapidità sconcertante, si rimette seduto, facendo ruzzolare
Katherine gambe all’aria e ringhia contro lo sconosciuto, con
tutta
l’intenzione di saltargli alla gola e, nel caso, farlo a
pezzi a
mani nude, se lo riterrà necessario.
«Woh!
Calma, amico. Vengo in pace!» si affretta a mediare Akh,
pronto a
schizzare fuori a tutta velocità, se le cose dovessero
mettersi
veramente male.
«Chi
sei?» sibila Pitch, mentre i suoi occhi baluginano
d’argento in
modo piuttosto inquietante.
«Akh!
E ti assicuro che non cerco guai».
Katherine,
dopo essere riuscita a districarsi dal groviglio di capelli e coperte
e aver lanciato una rapida occhiata alla situazione, vedendola
degenerare tanto velocemente, si affretta a tornare su Pitch,
attirandone l’attenzione.
«Pitch,
no! Lui è ok, va tutto bene» tenta di
tranquillizzarlo.
Lui
la guarda stranito. «Cosa?» rantola, scuotendo la
testa, confuso.
«È
tutto a posto. Mi ha aiutata lui a riportarti a casa»
assicura,
stringendosi a lui. «È tutto a posto»
ripete, pregando di riuscire
a placarlo senza danni.
«A-a
posto?» soffia incerto, facendo rimbalzare lo sguardo da lei
a lui e
viceversa.
«Sì,
te lo giuro».
Pitch
rabbrividisce con violenza ed esala un sospiro stremato e incredulo.
Serra gli occhi con forza, nel tentativo di ritrovare la calma
così
bruscamente perduta. Infine si lascia nuovamente scivolare disteso,
chiedendosi per quale misterioso motivo i suoi rari momenti di
tranquillità e pace vengano sistematicamente distrutti in
modo tanto
brutale e traumatico.
«Pitch»
sussurra Katherine, con l’intento di attirare la sua
attenzione ma
contemporaneamente di non disturbarlo.
«Mh».
E
quel piccolo mugolio le strappa un sorriso perché, ora ne
è certa,
è nuovamente il suo Pitch.
«Mi
dispiace» offre Katherine.
Lui
socchiude gli occhi e la osserva, sorpreso.
«Per
che cosa?».
«Oh,
molte cose» ammette. «Ma per ora, penso, per il
brutto risveglio».
E
Pitch stiracchia uno stentato sorriso e rilascia un lungo, debole
sospiro.
«Invero,
il risveglio non è stato pessimo, anzi. Tuttavia, come
spesso
accade, il momento è decisamente degradato. E
così, per capire, chi
sarebbe costui?» borbotta, indicando, con un vago gesto della
mano,
Akh acquattato in un angolo.
«Lui
è Akh. Ti avevo promesso di tornare con qualche aiuto, no?
Beh, ho
trovato lui. Non sarà il massimo, ma mi sono
accontentata».
«Ehi!
Come sarebbe?» esclama Akh, offeso.
Suo
malgrado, strabuzza gli occhi alla vista di una duplice occhiata
ironica, sia dalla bambina che dallo spirito.
«Ma
tu guarda l’ingratitudine di certa gente» brontola,
raggomitolandosi più strettamente e sbuffando seccato.
Katherine
ridacchia e poggia il capo sulla spalla di Pitch.
«Visto?
Te l’ho detto che è a posto».
«Così
sembra» conviene Pitch, divertito.
«Oh,
sicuro! Prendetevi pure gioco del povero Akh. Tanto,
ormai…»
seguita a mugugnare, alimentando inconsapevolmente la sensazione di
tranquillità nel cuore di Katherine e di Pitch.
"Ogni
testardaggine è basata sul fatto che la volontà
ha usurpato il
posto della conoscenza." (Arthur Schopenhauer)
*
* * * * * * * * * * * * *
"I
conflitti interiori più insanabili non nascono dalla
contrapposizione tra cuore e cervello, ma dal contrasto del cuore con
sé stesso." (Giovanni Soriano)
|
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Capitolo 51 *** Patteggiamenti ***
capitolo
51 – Patteggiamenti
«Akh:
la Luce dell’energia cosmica che si genera nelle
tenebre» riflette
ad alta voce Pitch.
Akh
sussulta impreparato e lo fissa incredulo, quasi aspettandosi un
seguito.
«È
corretto?» indaga invece Pitch.
Cauto,
Akh annuisce. «Sì, è
corretto».
«Quindi…
Tu dovresti essere, a rigor di logica, lo spirito che incarna una
parte dell’anima umana, quella che è luce e che,
alla morte del
corpo, torna a fondersi con l’energia che crea la vita. Come
sto
andando?» insiste Pitch.
«Direi
che è una definizione abbastanza precisa, in modo anche
piuttosto
inquietante. Tu… come conosci queste
particolarità?».
Pitch
inarca un sopracciglio e lo fissa un po’ perplesso.
«Ho
avuto una gran quantità di tempo libero» replica
sarcastico. «E
tu, invece? Dimmi, Akh, quanti millenni hai?».
Pare,
dopo tutto, che Akh non si aspettasse che gli eventi prendessero
questa piega. Lo fissa, senza proferir parola.
«Mh…
Ti assicuro che non mi formalizzo per così poco»
commenta
ironicamente Pitch. Tuttavia, dato che non sembra che il suo
interlocutore voglia collaborare, sbuffa e si risolve a continuare
quel monologo. «Molto bene. In questo caso, se non ti va di
offrirmi
risposte, lo farò al posto tuo». E,
chissà perché, sembra molto
una minaccia, la sua. Ciò nonostante non ottiene alcun
effetto,
tranne un impercettibile fruscio di piume. «Uno spirito
dotato di
scarsa dialettica? Oppure, più semplicemente, reticente.
Immagino
sia più probabile la seconda opzione». I suoi
occhi dorati lo
scrutano qualche lungo momento e un brillio di sadico divertimento vi
compare, notando l’evidente turbamento dell’altro
spirito. «È
lecito supporre che la tua nascita risalga direttamente ai tempi
della I
Dinastia,
sbaglio? In questo caso, dunque, dovresti avere poco più di
cinquemila anni. Dico bene?».
Un
respiro tremolante giunge come prima risposta, seguito da un gemito
strozzato.
«Esattamente,
quanto tempo libero hai avuto?» si risolve a chiedere Akh.
Incredibilmente,
ottiene una piccola, genuinamente divertita risata.
«Ah,
decisamente molto più di quanto tu possa immaginare, mio
piccolo
spirito della Luce».
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Katherine
è rimasta ferma e zitta a lungo, osservando con attenzione
lo
scambio
di opinioni
fra i due spiriti. Inizialmente ha pensato che Pitch intendesse
informarsi sulle origini di Akh, per accertarsi che fosse
effettivamente affidabile. Ma non le è certo occorso molto
tempo per
capire che, in realtà, Pitch sembra sapere già
molte più cose di
quanto sia logico aspettarsi. Come le conosce? Forse si sono
già
precedentemente incontrati? Da come ha reagito Akh, Katherine non
crede che sia così. Eppure è evidente che Pitch
non si è certo
limitato a tirare a indovinare. No, lui sa e ha semplicemente bisogno
di qualche conferma.
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ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
«Pitch»
interviene Katherine, titubante.
L’interpellato
smette di indirizzare penetranti occhiate ad Akh e porta invece la
sua attenzione sulla bambina.
«Mh?».
«Tu…
Voi vi conoscete?» prova, incerta.
Dopo
una fugace occhiata allo spirito alato, Pitch scuote la testa.
«No,
non ho mai avuto il piacere di scambiare qualche parola con lui, fino
a oggi. Come ho avuto modo di accennarti, sono decisamente scarne le
mie conoscenze dirette, e nessuna particolarmente stretta;
tutt’altro, direi».
Katherine
annuisce. Akh si è riaccostato alla finestra e ora
è intento a
guardare fuori con apparente interesse.
«Me
lo ricordo. Però, prima, sembrava che lo
conoscevi» fa notare
Katherine.
«Non
proprio. Mi sono preso la briga, una volta compreso di chi
effettivamente si trattasse, di verificare alcune informazioni che
avevo raccolto tempo addietro».
D’un
tratto si fa silenzioso. Sembra occupato a riflettere e, a tratti, la
sua attenzione si posa sulla figura di Akh. Katherine lo scruta,
pensierosa e un po’ preoccupata perché non sembra
in grado di
comprendere i crucci che angustiano il suo Pitch.
«Pensavo»
mormora Pitch, rivolto all’altro spirito, il quale si volta
adagio
e si dispone all’ascolto. «Forse,
potresti…».
Assottiglia
le labbra in un piccolo broncio. Appare, in qualche modo, contrariato
dai suoi stessi pensieri, e non sembra volersi decidere a dar loro
voce.
Akh,
al contrario, pare trovare giovamento dall’indecisione
dell’altro
spirito, e accenna un lieve sorriso incoraggiante.
«Ti
farebbe comodo una piccola consulenza, magari?».
Pitch
trasale e sgrana gli occhi. Ovviamente non si aspettava quella
proposta. Il suo sguardo vaga distrattamente sul suo braccio destro,
il quale mostra ancora visibili i segni del suo recente fallimento.
Serra le palpebre qualche istante e sospira.
«Immagino
di sì» ammette di malavoglia.
«E
questo ti crea problemi?» chiede Akh, incuriosito.
«Qualcuno,
in effetti» borbotta Pitch.
Il
sorriso sulle labbra di Akh si accentua. Si accosta di qualche passo
e attende che gli occhi di Pitch tornino su di lui, prima di parlare.
«Credo
dovresti lasciarteli alle spalle, se realmente desideri fare qualche
passo avanti nel tuo lavoro sul controllo della Luce. Conti di
doverla usare per scopi concreti?».
Lo
sguardo di Pitch si indurisce, i suoi occhi brillano di riflessi
argentei.
«Conto
di spazzare via ogni singola Ombra sulla quale riuscirò a
posare lo
sguardo» sibila. «Per questo ti chiedo, qui e ora,
puoi aiutarmi?».
Senza
che ne abbia reale coscienza, il sorriso di Akh diviene Luce capace
di incatenare e piegare la mente di qualunque essere umano, Katherine
compresa.
«Ci
puoi scommettere che posso» conferma, sentendosi euforico per
la
prima volta da molti secoli.
"I
nostri dubbi sono traditori e ci fanno perdere il bene che potremmo
ottenere perché abbiamo paura di tentare." (William
Shakespeare)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Dubita
di tutto. Trova la tua propria luce." (Buddha)
ˇ
ˇ
ˇ
ˇ
L’Angolino
Buio e Polveroso dell’Uomo Nero (e dell’autrice a
cui piace
maltrattarlo)
Ho
sempre avuto questo dubbio riguardante l’effettiva
età di Pitch, e
con questo capitolo mi è tornato alla mente in modo ancora
più
fastidioso.
Diverse
volte ho tentato di fare calcoli (nonostante la mia accertata
avversione per la matematica), ma non ho avuto molta fortuna.
C’è
da dire che, tra l’autore William Joyce e lo staff di
DreamWorks,
sono passati diversi segnali contrastanti sull’argomento.
Il
film parla della presenza attiva di Pitch sulla Terra antecedente ai
secoli bui (palesemente il Medioevo). L’inizio del Medioevo
oscilla
tra il 410 e il 1000 (data di divisione tra l’Alto Medioevo e
il
Basso Medioevo). Ma il sig. W. Joyce, nel primo libro che racconta di
Nicholas, narrando della sua giovinezza (quella di North) dice che da
ragazzino ha militato per un breve periodo fra i Cosacchi. I Cosacchi
sono comparsi alla fine del XII secolo (1395, pare). E anni dopo
(credo circa dieci o quindici anni) Nicholas si presenta in questo
paesino “gestito” dal mago Ombric e lì
compare Pitch, che non
era certo in forma smagliante, dato che si era appena risvegliato da
un migliaio di anni di incoscienza indotta. Ora, dalla narrazione di
Joyce parrebbe essere ricomparso fra i mortali circa nel 1400 (sempre
che Joyce parlasse dei Cosacchi intesi storicamente, ovvio), e si
dà
il caso che nel 1400 il Medioevo fosse già in fin di vita e,
in
questo caso, Pitch si sarebbe perso tutto il
“bello” della peste
nera. Allora, mi chiedo, come si spiega la scelta di DreamWorks di
farlo comparire in pieno Medioevo a dare man forte alla superstizione
del popolo? Alla meno peggio ci sarebbe uno scarto di quattrocento
anni; di più se si tiene conto del fatto che Pitch avrebbe
dovuto
essere, in quell’epoca, già piuttosto fiorente, o
per lo meno per
come viene ritratto nella versione animata.
La
base: Pitch s’è schiantato sulla Terra e ha
stazionato incosciente
per mille anni (anno più, anno meno). Quindi: 1000. Aveva
una figlia
di sei anni, prima che la sua bella e sbrilluccicosa vita andasse
allo sfacelo. Diciamo che s’è sposato sui
vent’anni e che,
all’epoca dello sfacelo
ne avesse una trentina? Bene, allora: 1000 + 30. Dallo sfacelo
alla possessione
dovrebbero essere trascorsi circa dieci anni. Poi Pitch se la prende
con Sanderson e spedisce lui e la figlia/cometa a spiaccicarsi sulla
Terra. Allora: 1000 + 30 + 10. Da quando NON incontra la figlia
rediviva a quando inizia la caccia all’Uomo nella Luna/Manny
non ho
capito quanti anni passano, ma Pitch ha tutto il tempo per spazzar
via le altre belle famigliole altolocate nel frattempo; quindi direi
che, per quanto veloce, qualche anno gli ci sarà voluto.
Facciamo
cinque? Facciamo altri dieci (in fondo, i Dream Pirates ci hanno
messo un mucchio di tempo per prenderselo)? Va bene, dunque: 1000 +
30 + 10 + 10 = 1050.
Versione
DreamWorks: 1050 + 1400 (media calcolata dal 600 al 2000) = 2450
Versione
William Joyce: 1050 + 600 = 1650
Scommetto
che mi sono persa qualcosa ç_ç
Per
esempio il fatto che Wikia sostiene che Pitch è stato
imprigionato
(assieme a Nightlight e alla sua punta di lancia) tempo prima
dell’emergenza dei Lunar Lamas (non ho idea di cosa parlino)
durante il periodo di Atlantide. 9600 a.c.! Staranno scherzando,
spero? @_@ William Joyce parla di mille anni, non di diecimila. Ok
che del primo libro ho letto la traduzione in italiano di Rizzoli, ma
mi auguro vivamente non abbiano confuso gli zeri. Anche
perché
questo significherebbe quasi dodicimila anni di esistenza.
Adesso
vado a prendere l’aereo, busso alla porta di Joyce e gli
ficco
cookies al cioccolato in bocca fino a quando non mi dice quanti
cavolo di anni ha Pitch! “Dimmi
in che secolo è nato Pitch, o ti rimpinzo di
biscotti”
… Mh, temo non funzionerebbe granché bene come
minaccia.
Roiben
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Capitolo 52 *** Compromessi ***
capitolo
52 – Compromessi
«Maledizione!
Così rischi di mandarci entrambi al creatore!»
ringhia Akh
arrabbiato, mentre si impegna a domare la Luce in eccesso sfuggita al
controllo di Pitch.
«Davvero?
Chi l’avrebbe mai immaginato» sibila sarcastico in
risposta.
«Hai
un dannato, pessimo carattere, ecco cosa» borbotta seccato lo
spirito della Luce. «Solo perché mi sono reso
disponibile a darti
una mano con quella Luce, questo non significa che tu te ne debba
approfittare».
Il
ghigno che si apre come una ferita sul volto di Pitch non preannuncia
nulla di buono.
«È
ciò che ho fatto durante gli ultimi millenni. Pretendi
seriamente
che possa cambiare dall’oggi al domani?».
Akh
sbuffa, esausto. «Evidentemente no. Ma ammetto che speravo in
una
parvenza di comprensione».
«Comprensione?»
domanda interdetto. «Seriamente? Temo, mio piccolo spirito
della
Luce, che tu abbia decisamente contato sulla persona sbagliata, se
è
comprensione che vai cercando».
«Già»
sospira Akh. «Me ne sono accorto, purtroppo».
Sono
al lavoro già da più di quattro ore, ormai. Si
sono mossi all’alba,
raggiungendo il parco, per sfruttare ogni momento di luce diurna a
loro disposizione, nella speranza di riuscire a fare qualche buon
progresso velocemente. Quello che non hanno però tenuto in
considerazione, nonostante tutto il loro impegno, è la
scarsa
compatibilità delle loro personalità. Ovviamente
non può essere
sufficiente contare su di un obbiettivo comune, è necessario
trovare
un punto d’incontro stabile e forte abbastanza da spronarli a
mettere da parte i loro piccoli (o grandi) screzi.
«Vuoi
una pausa?» offre Pitch, sedendosi sul corrimano di uno
stretto
ponte in legno.
Akh
sembra pensieroso. Si perde a osservare il sinuoso e gentile scorrere
del piccolo torrente sotto i loro piedi e a respirare lentamente,
deciso a ritrovare la calma perduta nelle ultime ore.
Dopo
minuti interi, sposta lo sguardo su Pitch e scrolla le spalle.
«Come
desideri» mormora. «Ma, guardandoti, credo che
dovresti essere tu a
prenderti quella pausa. Hai un aspetto orribile».
Pitch
soffia un mezzo sbuffo. «Non mi pare di essere una visione,
normalmente».
Ad
Akh sfugge un piccolo sorriso. «Forse no, ma ti posso
assicurare che
il grigio non dona per nulla al tuo viso».
Gli
occhi dorati di Pitch si sgranano sorpresi, poi si richiudono
mollemente.
«La
mia attuale autonomia lascia molto a desiderare, ammetto».
Ed
è così che, insieme, raggiungono una tranquilla
radura accanto a un
piccolo gruppo di olmi, in cerca di un poco di meritato riposo. Ed
è
sempre così che li ritrova Katherine nel pomeriggio, dopo
aver
diligentemente concluso la sua giornata scolastica e regolarmente
pranzato. Akh è appollaiato su un grosso ramo come un gufo,
mentre
Pitch è compostamente sdraiato sulle foglie secche
lì accanto,
entrambi intenti a sonnecchiare e a godere dei tiepidi raggi di sole
di quel pomeriggio invernale.
«Sapete,
pensavo che volevate allenarvi con quella cavolo di Luce»
esordisce
divertita la bambina, ridestando bruscamente i due spiriti.
«Ah,
Katherine. Non ti ho sentita arrivare, mi dispiace» soffia
Pitch,
affrettandosi come può a tornare in piedi.
Lei
lo scruta con un pizzico di apprensione, ma annuisce.
«Lo
so, ma non importa. Stavate facendo un sonnellino?» sorride,
andando
incontro al suo Pitch e stringendolo gentilmente fra le braccia.
«Stai bene?» chiede poi, ancora un po’
impensierita.
Pitch
annuisce. «Bene, sì. Solo un pochino stanco. Mi
manca ancora la
resistenza per poter fare degnamente fronte a prove del genere. Ma
tornerà» afferma con sicurezza.
«Bene»
si rallegra Katherine, sollevata nel vederlo così deciso.
«Ti ho
portato questo» aggiunge, porgendogli un piccolo pacchetto.
«Forse
ti può aiutare, eh».
Dopo
averlo scartato, Pitch solleva un angolo della bocca, si china su di
lei e poggia un leggero bacio sulla sua fronte.
«Grazie.
Sono certo che saranno molto utili» assicura.
«Che
cos’è? E perché a me nulla?»
si lamenta Akh, svolazzando a
fianco di Pitch. «Uh, biscotti! Ne posso assaggiare uno? Sono
secoli
che non ne mangio» esclama entusiasta.
Katherine
e Pitch lo fissano con il medesimo sguardo sorpreso e attonito. Poi
Pitch rilascia un minuscolo sospiro e allunga il pacchetto, lasciando
che Akh ne prenda per sé. Katherine, dal canto suo, ha un
attimo di
confuso sbandamento, ma quando nota il gentile gesto di Pitch non
può
fare a meno di sorridere compiaciuta.
«La
prossima volta ne porto qualcuno in più, promesso»
assicura,
ridacchiando all’espressione imbarazzata di Akh ma godendosi
al
contempo il momento di calma serenità che ancora permane sul
volto
del suo Pitch.
"La
vita è un compromesso tra ciò che il tuo ego
vuole fare, ciò che
l’esperienza ti dice di fare, e ciò che i tuoi
nervi ti lasciano
fare." (Bruce Crampton)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Se
tiri troppo la corda di una chitarra la romperai, ma se la lasci
troppo allentata non suonerà. Imparare è
Cambiare. La strada
dell’Illuminazione sta nella via di Mezzo. È la
linea che sta tra
tutti gli opposti estremi." (Buddha)
|
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Capitolo 53 *** Verità ***
capitolo
53 – Verità
Quando
il bagliore dorato affievolisce e infine si spegne, una scintilla
ardente, nel mezzo del petto di Pitch, gli spezza il respiro e piega
le sue ginocchia,
costringendolo a terra e rantolante. Le lunghe dita artigliano il
cotone della maglietta e un gemito d’agonia scivola fra le
sue
labbra viola.
«Pitch»
soffia Akh allarmato, vedendolo piegarsi su sé stesso.
Rapido
lo raggiunge e solleva di poco il suo viso, scrutando attentamente
nei suoi occhi sbarrati. Ciò che vi scorge lo fa trasalire
per la
sorpresa e lo sgomento. Un brivido violento scuote il corpo di Pitch
e Akh si affretta a stringerlo maggiormente.
«Calma»
soffia pacato contro il suo orecchio. «Ci penso io.
Andrà tutto
bene» assicura, facendo lentamente scorrere una mano lungo la
sua
schiena nel tentativo di tranquillizzarlo.
Quando
la sua mano si ferma al centro esatto della schiena di Pitch, Akh
chiude gli occhi e respira a fondo, comandando alla Luce di placarsi
e tornare silente in fondo al nucleo, in attesa del prossimo
richiamo.
Pitch
trema lievemente, poi Akh lo sente abbandonarsi pesantemente contro
il suo petto e, scrutandolo dall’alto, realizza che ha perso
i
sensi e sospira, massaggiandosi stancamente il collo.
«Poteva
andare meglio» riflette a voce alta. «O, certo,
poteva invece
benissimo incenerire definitivamente uno spirito inadatto»
ammette,
incerto su cosa aspettarsi in futuro.
Lo
osserva di nuovo, tentennante. Al momento non può che
sorprendersi
del fatto che abbia ancora qualcosa di tangibile da stringere fra le
braccia. Il suo incarnato ha un colorito grigio più
spettrale del
solito. Sarebbe stato più logico se fosse semplicemente
stato
consumato completamente fino a scomparire del tutto, magari facendo
ritorno alle energie primordiali. Invece no, lui è ancora
lì,
malgrado tutto, intatto per quanto possa esserlo uno spirito con il
nucleo incompleto come il suo. “Che creatura
testarda” si ritrova
a pensare Akh, lasciandosi sfuggire un piccolo sorriso.
«D’accordo,
amico, ti riporto a casa dalla tua principessa umana. Ah, sono
piuttosto sicuro che mi darà il tormento per come ti ho
ricondotto
da lei. Come se fosse colpa mia, dopo tutto» sbuffa ironico.
Stringendo
con più forza le braccia attorno all’altro
spirito, Akh si rimette
in piedi e, avvolto in un bozzolo di brillante luce, trasporta
entrambi direttamente nella camera di Pitch.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Apparentemente,
la bambina si è trasferita lì per fare i compiti
del doposcuola, e
il loro arrivo non passa propriamente inosservato come invece doveva
essere nelle futili speranze di Akh.
«Pitch»
soffia Katherine, sbarrando gli occhi alla vista dei due spiriti.
«Che cos’è successo?» si
allarma, precipitandosi incontro ad Akh
e al suo Pitch.
«Non
è nulla» tenta Akh. «È solo
svenuto» si affanna inutilmente,
avanzando nel contempo per posare il suo fardello sul più
comodo
materasso.
Katherine
però lo fissa come se improvvisamente le sue ali avessero
preso
fuoco. Una gran brutta sensazione, in effetti.
«Nulla
un corno!» sbraita. Poi abbassa la voce in un tono sepolcrale
che
non migliora affatto l’umore di Akh, e ordina in un sibilo
«Voglio
sapere che cosa gli è capitato».
Non
dà affatto l’impressione di voler desistere.
Così Akh è
costretto, suo malgrado, a spiegarle i fatti. Prima però si
accomoda
sulla sedia che stava usando Katherine fino a qualche momento prima e
strofina stancamente i polpastrelli sulle palpebre abbassate.
«L’ennesimo
incidente, temo. Posso assicurarti che non ho alcuna
responsabilità
in merito. Ne abbiamo parlato chiaramente, all’inizio, prima
di…
metterci all’opera. Ma, dopo tutto, a lui non sembra
interessare
granché, e chi sono mai io per scoraggiare le sue decisioni
e
intromettermi nei suoi affari?» si lagna Akh.
«Di
cosa avete parlato? Che cos’è che non gli
interessa? E perché
adesso è nel letto con quello spaventoso aspetto? Guarda che
ci vedo
bene, sai. Pensi che non lo vedo che sembra…»
Katherine si morde
un labbro, esitante «un fantasma?».
Akh
la guarda e stiracchia un vago sorriso.
«Ah,
lieto che tu l’abbia notato».
«Non
mi prendere in giro, Akh. Sai che non mi piace» lo avverte
Katherine.
«Lo
so. Scusami. Credo di essere un poco stanco anche io, in
effetti»
ammette Akh. «Va bene, ascolta, se davvero desideri conoscere
la
verità, suppongo di potertene parlare. Credi di essere
pronta per
ascoltarla?».
Katherine
lo fissa un lungo momento, smarrita, ma infine annuisce decisa e gli
fa segno di procedere.
«Ricordi
quando ti ho spiegato delle diverse origini degli spiriti?».
Lei
annuisce di nuovo, convinta.
«Ok,
bene. L’energia che li crea si accumula, in seguito, formando
un
nucleo, una sorta di… chiamiamolo serbatoio. In questo
nucleo
risiede prevalentemente il potere che sostiene l’esistenza
dello
spirito stesso. È un po’ come se prendessimo
l’energia e la
comprimessimo in un unico punto, un… diciamo una sfera, per
semplificare. Lo spirito formato attinge dal suo nucleo per
continuare non solo a esistere, ma anche a sfruttare le proprie
potenzialità, le capacità di cui è
naturalmente dotato per
nascita. Per esempio, io sono uno spirito della Luce, pertanto
l’energia che prendo dal mio nucleo viene automaticamente
convertita in Luce. Capisci ciò che intendo?» si
accerta Akh.
Katherine,
troppo concentrata su quelle parole, si limita a un brusco cenno
della testa, impaziente.
«D’accordo»
sospira Akh. Cielo, si sente decisamente scarico. Una giornata
davvero pessima, per quanto lo riguarda. «Ora, abbiamo
già
stabilito in precedenza che Pitch non è propriamente come la
maggior
parte degli altri spiriti. Il suo nucleo è…
incompleto, per così
dire. Fortemente instabile, in quanto non formatosi come un normale
nucleo fonte di energia, come invece accade alla quasi
totalità di
noi. Pitch stesso non traeva energia dal suo nucleo, non
completamente, almeno; l’assorbiva di prevalenza dalle
creature
oscure al suo interno, dalle Ombre stesse, se vogliamo, che a loro
volta la prendevano da sogni e incubi. Ma
l’oscurità al suo
interno non è più presente e ha…
lasciato un vuoto, possiamo
dire. Quel vuoto è stato provvisoriamente colmato dalla
Luce».
«Provvisoriamente?»
chiede Katherine, allarmata.
Akh
annuisce lentamente. «La Luce… non fa parte di
lui, non è il suo
elemento né la sua originale fonte di energia. È
un elemento
estraneo e… dannoso, in qualche modo» tenta, cauto.
«Da-dannoso?»
bisbiglia Katherine, tremando leggermente.
«L’energia
cui Pitch attinge non è qualcosa di idoneo. La Luce stessa
cede
energia ma al contempo prosciuga le sue scorte, indebolendolo. Non
è
qualcosa che si possa sfruttare a lungo senza pagarne le
conseguenze».
«Si
può… togliere la Luce da lui?» si
interroga Katherine.
Akh
scuote la testa. «Non senza sostituirla con una nuova fonte
di
energia. Come dicevo all’inizio, il suo nucleo è
incompleto, da
solo non sarebbe mai in grado di far fronte alle necessità
dello
spirito. Finirebbe con il collassare su sé stesso,
provocando la
scomparsa dello spirito stesso».
«Che
cosa stai dicendo, Akh?».
«Sto
dicendo che la Luce finirà con l’esaurire le sue
energie fino a
consumarlo completamente».
"Esaminava
quel volto, cercando di non leggere quello che vi era scritto
così
chiaramente, e contro la sua volontà vi leggeva quello che
non
voleva sapere." (Lev Tolstoj)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Sappiamo
che c'è la luce perché c'è il buio,
che c'è la gioia perché c'è
il dolore, che c'è la pace perché c'è
la guerra, e dobbiamo sapere
che la vita vive di questi contrasti." (Romano Battaglia)
|
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Capitolo 54 *** Possibilità ***
capitolo
54 – Possibilità
«No.
No, non può, non deve. Pitch è… Non
è vero» soffia Katherine,
strattonando ciocche di capelli fra le dita.
Akh
la guarda con tristezza, chiedendosi se sia stato corretto parlarle
di come stanno realmente le cose.
«Lo
è, purtroppo» mormora, quasi augurandosi che lei
non lo abbia
udito.
I
suoi occhi verdi si sollevano su di lui, liquidi, e lo fissano a
lungo e con insistenza.
«Lui…
lo sa?».
Di
nuovo Akh sospira, avvertendo lo sconforto espandersi rapidamente.
«Sì,
lui lo sa. Ne abbiamo discusso all’inizio, prima di ogni
altra
cosa».
Lei
lo guarda ancora, incredula. «E non… non gli
importa?».
«Beh,
sospetto di sì, in realtà. Ma è un
tipo parecchio ostinato, non so
se tu l’abbia notato» ironizza con un po’
di fatica. «Non che
sia possibile impedire che accada, tuttavia il processo potrebbe
essere rallentato semplicemente evitando di sfruttare direttamente la
Luce. E, ciò nonostante, neppure questa opzione
verrà presa in
considerazione».
«Perché?»
chiede Katherine, con un’evidente nota di disperazione nella
voce.
«Perché,
e a essere sincero avevo creduto che tu l’avessi capito, lui
ha
intenzione di estirpare definitivamente le Ombre da questo pianeta. E
purtroppo, per fare ciò, temo gli sarà necessario
ogni grammo di
energia che riuscirà a estrarre dalla Luce che risiede
attualmente
dentro di lui».
«Non
è giusto» geme Katherine.
«Perché? Perché lui? Perché
non
qualche altro spirito normale?».
«Perché
lui ha le conoscenze per farlo. Potrei anche provarci io stesso, ma
non servirebbe a molto; non è mai realmente servito, non le
conosco
a sufficienza e tutto il mio potere non basterebbe comunque allo
scopo. Lui invece lo può fare; sa come, conosce
ciò contro cui
combatte, e questo gli fornisce un enorme vantaggio».
«Non
importa! È comunque sbagliato» si impunta
Katherine.
Akh
aggrotta le sopracciglia, interdetto. «Non capisco. Che cosa
è
sbagliato?».
«Che
deve farlo. Quelle cose gli hanno fatto del male e… lo
faranno di
nuovo. Lui non lo merita».
«Hai
ragione. Purtroppo non ci sono molte alternative».
«Sì
invece!» esclama Katherine. «Dobbiamo fermarlo.
Dobbiamo…
convincerlo a non farlo».
«Ah
sì?» domanda ironico. «E sentiamo, come
conti di riuscirci?».
«Pa-parlandoci?»
propone Katherine, dubbiosa.
Akh
solleva gli occhi al cielo. «Sicuro! Perché non ci
ho pensato
prima? Lo prendiamo da parte, gli facciamo un bel discorsetto ed
è
tutto sistemato. Facile, no?» sbotta, sarcastico.
«Non
sei divertente» sibila Katherine, arrabbiata.
«Non
era affatto mia intenzione esserlo» ribatte cocciutamente
Akh,
imbronciandosi subito dopo e chiedendosi chi dei due, in fin dei
conti, sia il bambino.
Katherine
è raggomitolata su sé stessa, intenta a
prosciugare le sue scorte
di lacrime, e Akh, giusto per aggiungere ulteriori pesi a quelli
attuali, si sente dannatamente in colpa per averle parlato in modo
tanto brusco e con ben poco tatto.
«Perdonami»
tenta. «Non avrei dovuto perdere la pazienza in quel
modo».
Katherine
solleva lo sguardo annacquato su di lui e, fra un singulto e
l’altro,
borbotta «Non piango per quello. Non sono mica una bimbetta
stupida,
io».
Akh
reclina il capo di lato e la scruta interdetto. Poi ha
un’illuminazione (perché pare che, dopo tutto,
anche gli spiriti
della Luce possano averne).
«Piangi
per Pitch?».
«Sì»
soffia, mordendosi furiosamente il labbro inferiore e tentando di
smettere di piagnucolare.
«Beh,
mi dispiace comunque. Probabilmente lui non avrebbe desiderato che tu
ne venissi a conoscenza».
«Forse
no» conviene. «Ma preferisco così. Mi
piace conoscere le cose, è
meglio che cercare al buio senza sapere bene dove andare».
Akh,
suo malgrado, abbozza un’idea di sorriso.
«Sei
piuttosto saggia, per essere una bambina di soli sette anni»
ammette
con una certa ammirazione.
«Già»
mormora tristemente, voltandosi a osservare il suo Pitch che riposa.
«Credo
dovresti stare con lui, adesso» propone Akh. «La
tua presenza lo fa
stare meglio».
Katherine
torna su di lui e lo fissa interdetta. «Sul serio? E
come?».
«Non
ne sono certo, non l’ho ben capito. Però ho notato
che averti
accanto sembra acquietare la Luce ed equilibrare il suo nucleo. Prova
a stringergli la mano e osserva ciò che accade».
Katherine
annuisce e si inerpica sul letto, seguendo il consiglio di Akh alla
lettera. Gentilmente, raccoglie una mano di Pitch fra le sue e posa
gli occhi ansiosi sul viso tirato dello spirito. Con sua enorme
sorpresa, poco dopo nota i suoi lineamenti distendersi lentamente
fino a che la sua espressione non torna serena e stranamente
riposata.
«Wow»
mormora piano.
«Già»
sorride Akh, decidendo di lasciare un po’ da soli quei due e
di
svolazzarsene liberamente per il cielo già tinto di sera.
"Non
c’è problema così terribile a cui non
si possa aggiungere un po’
di senso di colpa per renderlo ancora peggiore." (Bill
Watterson)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Qualsiasi
cosa incrinata andrà in frantumi con un semplice tocco."
(Ovidio)
|
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Capitolo 55 *** Io credo ***
capitolo
55 – Io credo
Quando
Pitch riapre gli occhi, c’è il familiare soffitto
color panna
sopra di lui e, facendo brevemente vagare lo sguardo, il tiepido viso
di Katherine sul suo petto. Stiracchia uno stentato sorriso e si
morde le guance colpevole, notando ancora una volta tracce di lacrime
seccatesi sulla sua pelle. Con delicata cautela, fa scorrere le dita
fra i suoi neri capelli scompigliati, chiedendosi se sia realmente
giusto ciò che sta facendo. Vedendo ora i risultati, non ne
è più
granché sicuro.
Pitch
sta ancora riflettendo sui suoi possibili errori, quando Katherine si
ridesta bruscamente, guardandosi attorno palesemente allarmata.
Pitch
le accarezza gentilmente una mano, attirando su di sé la sua
attenzione.
«Pitch»
geme Katherine, aggrappandosi strettamente al suo collo.
«Va
tutto bene» mormora pacatamente lui, posando piano una mano
sulla
sua schiena.
Katherine,
tuttavia, non sembra incline a credere alle sue rassicurazioni,
questa volta. Scuote la testa e stringe la presa su di lui, tremando.
«Katherine»
prova, confuso dalla sua inaspettata reazione. «Che cosa
succede?»
domanda, mentre l’agitazione sale.
«Ti
prego, resta con me» supplica Katherine, lasciando cadere
qualche
lacrima sul collo dello spirito.
«Io…
sono con te, Katherine» mormora, stringendola a sua volta fra
le
braccia.
Per
quanto tenti di rassicurarla, Katherine non accenna a calmarsi. Pare,
anzi, che la sua disperazione aumenti a ogni parola di conforto di
Pitch.
«Non
andare via. Non andare».
Pitch
rimane un attimo senza parole, troppo sorpreso e confuso per dare il
giusto ordine ai pensieri. Infine la comprensione si fa strada dentro
di lui e Pitch impreca mentalmente e, incapace di trattenersi oltre,
sbotta «Quel maledetto spirito con le piume al posto del
cervello!
Oh, ma lo troverò un modo per fargliela pagare»
promette a sé
stesso.
«Non…
non fargli del male, ti prego».
La
voce piccola di Katherine lo ripesca dai suoi foschi propositi,
riportandolo alla cruda realtà.
«Si
è messo in mezzo in un problema che non lo
riguarda» obbietta
duramente.
«Non
è stata colpa sua. L’ho costretto io».
«Oh,
ma certo! Immagino quanto fosse intimorito dalle minacce di una
bambina umana» sibila contrariato.
«Pitch»
la voce di Katherine trema pericolosamente.
Lui
posa lo sguardo in quello affranto di lei e sospira piano.
«Perdonami.
Non so far altro che procurarti sofferenza» si rammarica.
Lei
però scuote la testa. «Non è vero,
Pitch. Quando sei vicino, io
sto bene».
Una
smorfia triste distorce gli spigolosi lineamenti del volto dello
spirito.
«Adesso
sono vicino ma, onestamente, non mi pare tu stia molto bene».
«No,
è vero. Adesso io ho paura».
Pitch
la scruta con attenzione, sfiora appena le sue gote con i
polpastrelli.
«Di
che cosa hai paura?» mormora, reggendo nella sua una piccola
mano
della bambina.
«Ho
paura che non ti rivedrò più. Te ne andrai via,
per sempre, e non
tornerai mai più da me. E io… rimarrò
da sola, di nuovo».
Le
spalle di Katherine tremano e Pitch le circonda con un braccio.
«Katherine,
io non me ne andrò mai via davvero. Rimarrò con
te; fino a che mi
vorrai, io resterò».
«Come?»
chiede lei in un singulto.
Pitch
distende le labbra in un sorriso dolce e malinconico.
«Rimarrò
con te» ripete sicuro. «Qui» sussurra,
posando il palmo di una
mano sul suo piccolo cuore «e qui» aggiunge,
facendo scorrere
leggere le dita dell’altra sulla sua fronte. «Puoi
credere in
questo, Katherine. Io l’ho fatto, e continuerò a
farlo fino alla
fine».
«Io…
ci credo. Ti credo, Pitch. Io credo in te».
Gli
occhi di Pitch si spalancano sorpresi e le sue labbra tremano. Piano,
avvolge la bambina fra le braccia e la stringe delicatamente al
petto.
«Ti
voglio bene, Katherine» mormora fra i suoi capelli, e avverte
le sue
dita aggrapparsi a lui.
"Non
esiste scelta che non comporti una perdita." (Jeanette
Winterson)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Il
dolore che sento ora è la felicità che avevo
prima. Questa è la
storia." (CS Lewis)
|
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Capitolo 56 *** Discordia ***
capitolo
56 – Discordia
«Akh,
brutto idiota! Esci fuori, immediatamente!» ringhia Pitch,
marciando
furioso lungo un sentiero deserto all’interno del parco.
«Dove ti
sei cacciato? Credi forse che non riuscirò a scovarti?
Oppure speri
di riuscire a rimanere nascosto abbastanza a lungo da vedermi andare
in cenere?» inveisce adirato.
«Non
è così» soffia una voce
dall’alto.
Akh
atterra leggero in mezzo al sentiero, proprio di fronte a Pitch, che
gli sibila contro una piccola parte della sua nutrita collezione di
insulti e imprecazioni. Lo spirito della Luce rimane immobile a farsi
sommergere di male parole e non sembra per nulla intenzionato a
controbattere. Così, alla fine, Pitch sbuffa piccato e gli
volta
bruscamente le spalle, riprendendo a marciare in direzione opposta.
Nemmeno
un minuto dopo, tuttavia, avverte un frusciare di piume alle sue
spalle e, voltando di poco il capo, scorge la figura blu
dell’altro
spirito che gli svolazza appresso.
«Che
diavolo vuoi adesso?» sbotta insofferente.
«Parlarti»
propone pacatamente Akh.
«Scordatelo.
Per quanto mi riguarda, hai già parlato fin
troppo».
Detto
questo, Pitch riprende il cammino senza una seconda occhiata.
Purtroppo per lui, Akh non appare decisamente intenzionato a lasciar
correre e rapidamente gli si riaffianca.
«Che
cosa vuoi fare?» domanda, suo malgrado preoccupato.
«Non
sono affari che ti riguardino. Scompari dalla mia vista».
«Mi
riguardano, invece» replica cocciutamente Akh.
«Aspetta» lo prega,
posando una mano sulla sua spalla ossuta.
«Non
mi toccare» sibila Pitch, scrollandoselo di dosso con
malagrazia. «O
ti assicuro che lo trovo un modo per rispedirti al creatore»
minaccia senza mezzi termini.
«Pensi
sul serio che non l’avrebbe capito da sola?! Presto o tardi
ci
sarebbe comunque arrivata. Lo sai che lo avrebbe fatto. Ti secca solo
non essere stato pronto nel momento giusto» recrimina Akh.
«Mi
secca? Starai scherzando, voglio sperare. Tu non hai idea! Io non
sono seccato, sono furioso. E se solo avessi ancora i poteri di cui
disponevo qualche anno fa, a quest’ora non saresti altro che
un
insulso mucchietto di polvere. Ti è chiaro il
concetto?».
«Cristallino»
replica Akh asciutto.
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Hanno
ripreso il cammino, questa volta affiancati e senza eccessiva fretta.
Akh, di tanto in tanto, sposta lo sguardo su Pitch, provando
inutilmente a immaginare il tenore dei suoi pensieri.
«Ci
sono momenti in cui ho la sensazione che sia tutto sbagliato. Come
faccio a decidere se ciò che sto cercando di fare sia giusto
o meno?
Come lo capisco?».
«In
teoria, la decisione giusta dovrebbe essere quella che fa meno
danni»
prova Akh.
Pitch
sbuffa una mezza risata sarcastica. «Beh, ma è
fantastico! Ora
posso affermare con estrema certezza di aver sempre preso decisioni
sbagliate».
«Pitch…».
«Vorrei…
solo fare la cosa giusta, per una maledetta volta nella mia vita. E
vorrei poter non essere… egoista. Ma lei… non lo
so, Akh. Ho come
la sensazione che, qualunque decisione io possa prendere,
finirò
comunque col farle del male. Come faccio?».
«Forse
la decisione giusta è far decidere a lei ciò che
desidera» propone
Akh.
Pitch
lo guarda allucinato e scuote la testa.
«Ha
sette anni! Potresti non averlo notato, immagino».
Akh
replica con una smorfia seccata.
«L’ho
notato, invece».
«Ah
sì? Non sembrerebbe. Se non riesco a fare una scelta io, che
ho alle
spalle così tanti secoli, come puoi pretendere che lo faccia
lei? E
comunque non potrei mai scaricarle un peso simile sulle spalle. Non
solo perché è troppo giovane, ma soprattutto
perché non lo merita
affatto».
«Tu
sì?» vuol sapere Akh.
Pitch
lo fissa diritto nei suoi occhi blu.
«Suppongo
di sì» offre.
«E
questo chi l’ha deciso?» si intestardisce Akh.
Le
labbra di Pitch si piegano in una smorfia amareggiata.
«Chiedilo
al primo spirito che incontri sulla tua strada. Cosa pensi che ti
risponderà?».
Akh
abbassa la testa, contrariato. «Giochi sporco»
borbotta.
«Affatto.
Mi limito a riportare i fatti, in modo anche piuttosto fedele. E tu,
mio piccolo spirito della Luce, dovresti ben saperlo. Non la pensavi
forse così anche tu, fino a pochi giorni fa?».
«Sì,
è così. Ma non puoi farmene una colpa».
«Non
lo faccio» assicura Pitch.
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«Forse…
potrebbe esserci un’altra soluzione» prova Akh,
dubbioso.
«Ma
davvero?» chiede Pitch, squadrandolo con espressione ironica.
«E
quale sarebbe questa miracolosa soluzione?».
«Katherine»
soffia Akh, visibilmente combattuto.
Pitch
socchiude le palpebre e lo fissa sospettoso.
«Katherine,
cosa?» incalza, deciso più che mai a capire se
è solo aria che
passa nel cervello di quello spirito sciroccato, o
c’è dell’altro.
«Lei
potrebbe essere la chiave per preservare il tuo nucleo».
«Non
ti seguo. Di cosa stai parlando?» replica Pitch, dubbioso.
«Oh,
andiamo. Non cercherai di farmi credere che non ti sei mai reso conto
di ciò che fa, dell’effetto che ha la sua
vicinanza su di te?
Credi forse che io sia così stupido?» reagisce Akh.
«Non
ne ho idea. Lo sei?» ribatte Pitch, che sta cercando di
venire a
patti con le parole dell’altro.
«No
di certo!» sbraita offeso. Poi inspira e prova a darsi una
calmata.
«Quello che voglio dire è che potremmo cercare un
modo per
sfruttare questa particolarità a tuo vantaggio. Forse esiste
qualche
pratica in grado di trasferire parte della sua essenza
all’interno
del tuo nucleo per…».
Il
resto della frase va irrimediabilmente perduto in un rantolo
soffocato.
«Non
osare toccarla, verme» sibila Pitch, serrando con forza le
dita di
una mano attorno al collo di Akh e reggendolo sospeso a
mezz’aria.
«Falle del male e io ti uccido. Non importa come, non importa
quando. Troverò il modo e libererò per sempre il
mondo della tua
presenza».
Akh,
intanto, sta cercando inutilmente di liberarsi dalla stretta di Pitch
sulla sua gola; le sue unghie graffiano le dita dell’altro,
senza
tuttavia ottenere la libertà desiderata.
«La-lasciami»
borbotta, afferrando il polso di Pitch e strattonandolo per levarselo
di dosso. «Pitch! Accidenti… Non intendo farle
alcun male».
Per
tutta risposta Pitch ringhia e rafforza la stretta, fissandolo con
odio e provando (senza risultati apprezzabili) a incenerirlo con lo
sguardo.
Akh,
esasperato, pianta le unghie nella sua mano e abbaglia i suoi occhi
dorati con un breve lampo di Luce. Pitch sibila di dolore e
finalmente Akh è libero e sbuffa per
l’assurdità di quanto
accaduto: l’ex Nightmare King lo ha appena minacciato di
morte per
difendere una bambina umana? Sul serio? “Molto presto il
mondo
andrà a rotoli”, riflette sconvolto.
«Si
può sapere che ti prende? Non ho proposto di sacrificarla su
un
qualche stupido altare pagano! Sto solo cercando di trovare una
soluzione al tuo
problema, dannazione».
Pitch
continua a guardarlo come se fosse la più orrenda delle
creature
sulla Terra. I riflessi argentei nei suoi occhi fanno pensare che non
sia affatto disposto a tollerare altre idee malsane.
«Allora
cerca una soluzione che non includa Katherine e la probabile
prospettiva di metterla in pericolo» replica velenoso.
Akh
sbuffa e si massaggia stancamente le tempie. “Maledetto Pitch
Black!” borbotta mentalmente.
"Nel
mondo non ci sono mai state due opinioni uguali. Non più di
quanto
ci siano mai stati due capelli o due grani identici: la
qualità più
universale è la diversità." (Michel de Montaigne)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Me
ne vado in cerca di un grande forse." (François Rabelais)
*
* * * * * * * * * * * * *
"La
vita sceglie la musica, noi scegliamo come ballarla." (John
Galsworthy)
ˇ
ˇ
ˇ
ˇ
L’Angolino
Buio e Polveroso dell’Uomo Nero (e dell’autrice a
cui piace
maltrattarlo)
Sono
taaanto carini insieme, non è vero?
Ehm...
Beh, non si sono ancora ammazzati a vicenda, in fondo. Direi che
è
un fatto positivo.
Comunque,
sciroccato o meno, Akh ha, nel suo piccolo, cercato di dare un
suggerimento a Pitch. Buono o pessimo che sia, è tutto da
vedere.
Roiben
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Capitolo 57 *** Confessioni ***
capitolo
57 – Confessioni
Sono
già dieci minuti buoni che Katherine è ferma in
piedi di fronte
alla porta della camera di Pitch. Non riesce proprio a decidersi a
entrare. Non perché non desideri vederlo, al contrario. La
verità è
che, una volta dentro, sa che dovrà parlargli di qualcosa
che, fino
a quel momento, ha preferito rimandare. Ma non può proprio
continuare a farlo; è necessario che lui sappia, prima che
sia
troppo tardi. Sbuffa, indispettita dalla sua stessa indecisione,
bussa con decisione e, al cenno di assenso proveniente
dall’interno,
finalmente si fa avanti ed entra, richiudendosi delicatamente
l’uscio
alle spalle.
«Katherine»
l’accoglie Pitch, con un piccolo sorriso. «Ero
certo che fossi giù
in cucina a creare,
a quest’ora» fa notare con lieve divertimento.
Katherine
non risponde; invece raggiunge silenziosamente la finestra e il
davanzale su cui è accomodato lo spirito e sfiora con
cautela il suo
braccio.
«Io…
devo parlarti» soffia, un po’ spaurita.
Lui
ha notato la sua evidente ansia, alla quale non ha tuttavia saputo
dare una spiegazione logica. Annuisce e, dopo una breve occhiata di
conferma, la solleva da terra e l’accomoda sulle sue gambe.
«Ti
ascolto, Katherine. Dimmi pure».
Lei
si mordicchia un labbro, nervosa, e posa una mano sul suo petto,
nella speranza che, come sempre, il battito del suo cuore possa
alleviare un poco l’agitazione.
«Io…
ho fatto una cosa cattiva» rivela con voce tremante.
Ciò
che ottiene, inaspettatamente, è una soffice risatina.
Solleva lo
sguardo, crucciata, ed effettivamente nota l’evidente
divertimento
sul volto di Pitch.
«Non
ridere. Non è divertente» borbotta imbronciata.
«Perdonami»
si scusa lo spirito. «Non avrei dovuto, probabilmente. Il
fatto è
che, sinceramente, dubito tu sia al corrente di cosa realmente
significhi fare
qualcosa di cattivo.
Non era comunque mia intenzione sminuire le tue preoccupazioni.
Pertanto, continua pure; farò il possibile per non
interromperti
ulteriormente» promette con serietà.
Lentamente,
Katherine annuisce e, con voce piccola, prova a spiegare.
«È per
quello che è capitato l’altra settimana nel bosco.
Io… ho
pensato che eri… Beh, lo so che è stupido, ed ero
così
spaventata, e…».
«Katherine»
soffia Pitch sui suoi capelli. «Shh… Calma. Va
tutto bene».
Katherine,
rannicchiata contro il petto di Pitch, riflette che, dopo tutto, non
è solo lei a far star meglio lui con la sua vicinanza, ma
pare
funzioni egregiamente anche al contrario.
«C’è
una cosa che non ti ho detto… di quel giorno»
bisbiglia contro la
sua veste tiepida. «E forse… forse dopo tu sarai
arrabbiato con
me. Ma devo dirtela lo stesso».
«Oh,
Katherine, perché mai dovrei essere arrabbiato con
te?» si chiede,
scuotendo la testa, trovandola una probabilità piuttosto
remota.
«Perché
Emily Jane era lì» annuncia, avvertendo Pitch
irrigidirsi sotto il
suo tocco. «E io l’ho mandata via»
mormora dispiaciuta.
Così,
lentamente e con molta ansia, Katherine racconta a Pitch di
quell’ultimo incontro con sua figlia, spiegandogli di averle
rivelato la reale dinamica dei fatti che li hanno condotti a perdersi
per tutti quei secoli. Ogni tanto si interrompe per dirgli quanto sia
dispiaciuta per come sono finite le cose. Alla fine torna in
silenzio, aggrappandosi strettamente, nonostante tutto, alla stoffa
nera contro la quale è raggomitolata, e non può
proprio evitarsi di
tremare un pochino.
«Non…
non ti ha fatto del male, vero?».
Queste
sono le prime parole che escono dalle labbra di Pitch da quando
Katherine ha iniziato a narrare.
«No,
non mi ha fatto nulla. Cioè, a parte gridarmi
contro» lo rassicura
lei.
E,
curiosamente, le sue parole sembrano davvero servire a
tranquillizzarlo. La tensione che lo aveva bloccato dal momento in
cui aveva udito il nome della figlia lo abbandona repentinamente e
Pitch torna a rilassarsi contro la finestra.
«Bene»
soffia appena.
«Non…
sei arrabbiato?» domanda incredula.
Lui
abbassa lo sguardo su di lei e solleva appena un angolo della bocca.
«No,
Katherine, non sono arrabbiato» assicura, accarezzandole
delicatamente la fronte.
«Oh»
mormora confusa.
L’aveva
immaginata molto diversa quella chiacchierata chiarificatrice. Ma non
si arrende di certo con tanta facilità, nossignore.
«Devi
andare a cercarla» ordina perentoria.
Lui
la squadra interdetto. «Cercarla? Per quale
motivo?».
Katherine
sbuffa scocciata. Possibile che gli adulti siano così duri
di
comprendonio? Vabbè, inutile girarci attorno, a questo
punto; tanto
vale parlare chiaro e spiegargli come stiano le cose.
«Perché
adesso lei sa che se non l’hai cercata è
perché non sapevi che
era viva, e non perché non le volevi più bene. E
tu sei ancora
vivo… Cioè, più o meno, ecco. Insomma,
hai capito, no? Dovete
ritrovarvi! Dovete, capito? Lei è ancora tua figlia;
è la tua
famiglia, Pitch!» insiste, accalorandosi.
Pitch
però sembra molto dubbioso in proposito. Nei suoi occhi
può ancora
vedere tutta quella tristezza che troppo spesso vi ha scorto dentro.
«Non
sono certo che lei lo desideri ancora» mormora.
«Sì,
invece. Pitch, ti prego, devi almeno provare» supplica
Katherine.
Gli
occhi dorati di Pitch si posano a lungo in quelli della bambina.
Vorrebbe davvero crederle, lo vorrebbe così tanto. Eppure
dentro di
lui sente che, se anche questa volta dovesse fallire, difficilmente
riuscirebbe a trovare la forza di alzarsi nuovamente.
«Credi
che… che lei mi vorrebbe di nuovo?» mormora
tremante. «Dopo tutto
ciò che è accaduto?».
Lei
lo fissa risoluta e annuisce seria.
«Ma
certo che ti vuole. Sei ancora il suo papà, e lei ora lo
sa».
Pitch
abbozza un faticoso sorriso e annuisce piano. Le sue braccia
avvolgono la piccola figura di Katherine, questa volta non per darle
conforto ma per riceverne.
"Ho
un’ingenua fiducia nell’universo … che
ad un certo livello
tutto abbia un senso, e possiamo ottenere scorci di quel senso, se ci
proviamo." (Mihaly Csikszentmihalyi)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Il
più delle volte, le cose non ci capitano e basta –
noi le facciamo
accadere col fare ciò che facciamo e nel modo in cui siamo."
(Tony Jeary)
|
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Capitolo 58 *** Ricerche ***
capitolo
58 – Ricerche
«Akh?
Avanti, figlio di un pellicano mal riuscito, dove diamine ti sei
cacciato questa volta?» borbotta Pitch, indispettito
perché sono
già più di venti minuti ormai che scarpina in
giro per il paese
sulle tracce di quello stupido spirito della Luce, senza ottenere uno
straccio di risultato. “Quando ti serve, non
c’è mai” protesta
fra sé, indignato. «Andiamo, accidenti, mi serve
il tuo aiuto!»
sbotta, la pazienza decisamente agli sgoccioli.
«Di
nuovo?» domanda annoiata la voce di Akh da un punto
imprecisato
sopra la sua testa.
Pitch
solleva rapidamente lo sguardo e finalmente lo vede: svolazza qualche
metro più in alto, apparentemente senza un pensiero in testa
(e
chissà perché, Pitch sospetta che non sia tutta
apparenza).
«Scendi.
Mi servi» comanda.
Akh,
lungi dal voler tornare con i piedi per terra, solleva un
sopracciglio, scettico.
«Sicuro.
Farai di certo molta strada con le tue lusinghe e le tue dolci
paroline» lo sbeffeggia.
Pitch
assottiglia gli occhi e fa schioccare la lingua sul palato.
«Posso
tirarti giù io, se lo desideri» propone, in modo
per nulla
rassicurante.
Akh,
per tutta risposta, incrocia le braccia al petto e svolazza un poco
più in alto.
«Certo,
potresti provarci» ghigna.
Il
suo sorrisetto strafottente scompare molto presto, però,
sostituito
da un’occhiata preoccupata a Pitch e
all’inquietante bagliore
argenteo comparso nei suoi occhi. Occhiata che si fa spaurita nel
momento in cui l’altro spirito porta un piede più
indietro e
richiama alla mano destra una piccola parte di Luce, accingendosi a
sospingerla verso l’alto.
«Woh!
Ok, pace!» strilla Akh, affrettandosi ad atterrare di fronte
a
Pitch. «Sono sceso. Ecco, ecco, sono sceso, vedi?».
«Era
maledettamente ora» sibila inviperito Pitch.
«Dì,
sei sempre così deliziosamente gentile con tutti, oppure
sono io in
particolare che ispiro tanto garbo?» borbotta sarcastico Akh.
Le
labbra di Pitch si storcono in un ghigno poco amichevole.
«Ammetto
che la tua presenza mi istilla particolare
acidità» mormora, ora
pacato.
«Uh…
ottimo. Quindi, perché tanto chiasso? Dicevi di aver
bisogno. O mi
sbaglio?».
«Non
sbagli» annuisce Pitch. «Devo trovare qualcuno. Non
credo,
tuttavia, di aver abbastanza energie da sprecare per farlo. Ho
bisogno che mi aiuti».
Akh
aggrotta le sopracciglia, dubbioso. «Qualcuno? Di chi si
tratta?
Spero non sia qualche creatura pericolosa».
Pitch
si stringe brevemente nelle spalle, pensieroso.
«In
effetti, potrebbe esserlo» sospira incerto. «Si
tratta di mia
figlia» spiega in un bisbiglio a malapena udibile.
Ciò
nonostante Akh lo ha sentito e strabuzza gli occhi, ben più
che
sorpreso.
«Hai
una figlia? E… da quando?».
«Mh»
tentenna. «Immagino da sempre, dal vostro punto di
vista». Poi
volta il capo e fissa gli occhi blu dello spirito della Luce.
«Hai
mai sentito parlare di Madre Natura?».
Akh
schiude le labbra e, piano, scuote la testa, sconcertato.
«Mi
prendi in giro?» si accerta.
«Direi
di no» conferma Pitch con un sorrisetto stentato.
Akh
lo scruta, sospettoso, poi sbuffa. «D’accordo,
diciamo che ti
credo: Madre Natura è tua figlia…».
Ancora parecchio incredulo,
scompiglia irrimediabilmente i capelli fra le dita.
«Tu… sei
proprio sicuro sicuro?».
«Mh-mh»
annuisce Pitch. «Molto più che sicuro».
Dentro
di sé non può fare a meno di ridacchiare,
divertito dalle occhiate
allucinate che gli indirizza l’altro spirito.
«Io…
non ci devo parlare, vero?» torna a chiedere Akh.
Pitch
reclina appena il capo e lo scruta dubbioso.
«Se
non lo ritieni necessario, direi che puoi farne tranquillamente a
meno» lo informa pragmatico.
Akh
sospira. «Grazie al cielo!» esclama, visibilmente
sollevato.
Pitch
inarca un sopracciglio, suo malgrado incuriosito.
«Beh,
ti dirò: di spirito con un pessimo carattere me ne basta uno
e
avanza anche. Due, in tutta onestà, sarebbero ben oltre i
miei
limiti».
E
Pitch, a quel punto, non può proprio trattenere una risata.
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«Sei
proprio sicuro che si trovi qui?» bisbiglia Akh, guardandosi
nervosamente intorno.
Pitch
gli indirizza un’occhiata poco simpatica e soffia, seccato
«Ti
faccio rispettosamente notare che sei stato tu ad averci condotti
qui».
«Pignolo»
borbotta Akh, imbronciato.
«Chiudi
quella bocca e cammina, stupido volatile» sibila Pitch, di
nuovo a
corto di pazienza.
Nonostante
l’avvertimento, Akh prosegue imperterrito con il suo
incessante
brontolio, incredulo del fatto che, ancora una volta, si veda
costretto a camminare, nonostante disponga di due ali perfettamente
funzionanti.
«Silenzio»
ordina a un certo punto Pitch.
Curiosamente,
questa volta Akh esegue all’istante senza batter ciglio, ed
entrambi si dispongono all’ascolto.
«Che
cos’è?» soffia appena Akh, tanto che
Pitch è costretto a
cercarne il significato sulle sue labbra.
«Non
ne ho la certezza» dubita Pitch. «Qualcosa di poco
simpatico, a
ogni modo» avverte.
Entrambi,
immobili e silenziosi, si guardano attorno, incerti su come
comportarsi. Akh sta giusto per proporre di cambiare aria, prima di
essere aggrediti da qualche creatura misteriosa e potenzialmente
letale, quando qualcosa striscia sulle sue caviglie. Akh lancia un
grido allarmato e in un attimo si ritrova a penzolare nel vuoto a
testa in giù, le gambe strettamente aggrovigliate in
qualcosa che ha
tutto l’aspetto di un ammasso di radici contorte. Pitch, che
nel
frattempo aveva tentato un passo avanti per soccorrere lo spirito
della Luce, è costretto a indietreggiare bruscamente per
evitare la
medesima sorte toccata al compagno. Peccato solo che, di qualunque
cosa si tratti, non sembra intenzionata a lasciarlo in pace;
così
ora Pitch si vede nuovamente costretto a sprecare preziose energie
nel tentativo di sfuggire all’ennesima trappola.
«Maledizione»
bercia, schivando ancora una volta l’offensiva di quelle cose
ostinate. «Non stare lì impalato come un
allocco!» inveisce
rivolto ad Akh. «Fai qualcosa!».
«Qualcosa
tipo?» bofonchia lo spirito della Luce, ancora a testa in
giù e ora
ben impacchettato come un salame.
«Idiota!
Inservibile ammasso di piume, usa quella tua dannata Luce per
qualcosa di utile una buona volta!» ringhia Pitch,
rimbalzando con
rapidità da un ramo all’altro nel tentativo di
depistare i suoi
assalitori.
«Uh…
Beh, potresti anche chiederlo più gentilmente»
replica Akh,
risentito.
«Io
ti ammazzo!» esclama Pitch, sibilando dopo aver strappato a
fatica
un piede dalla scomoda morsa di un groviglio di radici.
«Prima mi
libero da queste cose e poi, giuro, ti faccio allo spiedo»
promette
sinistro.
«Ok,
ok! Ora… ci provo» borbotta Akh, divincolandosi
con forza e
riuscendo a malapena a liberare una mano.
Le
sue dita si serrano attorno a una delle radici più grosse e
un
bagliore dorato ne scaturisce, serpeggiando veloce lungo
l’interno
della pianta che sembra risentirne e, lentamente, si ritira. Libero,
vittorioso e nuovamente svolazzante, Akh si perde un attimo a
felicitarsi con sé stesso per l’ottimo lavoro,
salvo poi essere
riportato (metaforicamente) con i piedi per terra da un rantolo
strozzato proveniente da un punto qualche metro più in basso.
«Akh»
affanna Pitch, scomodamente appeso per un braccio e penzolante nel
vuoto.
«Arrivo»
si annuncia Akh, poco prima di piombare come un falco sul groviglio
di radici che imprigiona il compagno e costringerle a lasciarlo
andare.
Lentamente,
Akh riconduce a terra Pitch, scrutandolo attentamente e con leggera
preoccupazione.
«Stai
bene?».
Pitch,
che si sta muovendo per il sottobosco con la rigidità di un
pezzo di
legno, solleva gli occhi su Akh e prova, per l’ennesima
volta, a
incenerirlo.
«Stavo
decisamente meglio prima» sibila irritato.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Proseguono
arrancando, facendosi faticosamente strada nell’intrico di
una
foresta che sembra divenire più fitta a ogni passo in
avanti. La
luce che filtra con difficoltà ha perso da tempo il colore
dorato
del sole ed è invece divenuto un sinistro lucore verdognolo.
«Ci
siamo persi, secondo te?» domanda a un tratto Akh, ridestando
Pitch
dai suoi rarefatti pensieri.
«Mi
auguro di no, anche se ammetto che tutto concorre a farmi supporre
che sia così».
«Grande»
borbotta acido Akh, fissando l’altro spirito in modo ben poco
amichevole.
«È
perfettamente inutile che tu mi guardi in quel modo. E di certo non
ci farà trovare la strada giusta più
velocemente» fa pacatamente
presente Pitch, la testa troppo persa altrove per potersi permettere
qualche frase caustica in risposta alle insulse provocazioni dello
spirito della Luce.
«Potrei
sempre mollarti qui e passare a riprenderti quando la tua visita di
cortesia si sarà conclusa» propone Akh in
un’illusoria speranza.
Pitch
lo squadra brevemente con espressione basita. «Vorrai
scherzare?
Ricordo piuttosto distintamente di averti chiesto di accompagnarmi da
mia figlia». Si guarda attorno con fare indagatore, poi torna
su di
lui. «E magari non l’avrai notato, ma siamo nel bel
mezzo di una
foresta impenetrabile, e di colei che cerco non si scorge nemmeno
l’ombra. Per quanto mi riguarda, mi ritengo assolutamente
insoddisfatto del servizio» fa ironicamente presente.
Akh
sbuffa, frustrato. «Beh, sono ragionevolmente sicuro che
questo
posto, invece, c’entri qualcosa. Dev’essere, in
qualche modo,
collegato a lei. Altrimenti non saremmo qui» insiste.
«Non
sembra tu sia disposto a prendere in considerazione l’idea di
aver
semplicemente sbagliato strada».
«Io
non ho affatto sbagliato
strada!»
pesta i piedi Akh. «Non è possibile. È
una probabilità ridicola e
assolutamente da scartare».
«Mh»
ribatte Pitch. «Noto con dispiacere che qui
c’è qualcuno
un po’ troppo pieno di sé».
«Beh,
se c’è, quello non sono di certo io»
replica velenoso Akh.
Pitch
spalanca comicamente gli occhi, quasi a dire “Ma
davvero?”.
Tuttavia decide, forse perfino saggiamente, di esimersi dal
ribattere, lasciando così cadere quella sterile e puerile
discussione.
Purtroppo,
nemmeno dieci minuti dopo, Akh ritorna alla carica più
agguerrito
che mai.
«Ebbene?»
sbotta, stufo marcio di camminare, inciampando ogni tre passi su
qualche stupida radice che pare messa in mezzo al solo scopo di
dargli noia. «Dove accidenti sarebbe questa fantomatica Madre
Natura?!».
«Qui»
ribatte una gelida voce di donna, immediatamente seguita da un vento
altrettanto gelido che spazza impietoso la foresta, investendo i due
incauti viandanti.
"È
di notte che è bello credere alla luce." (Edmond Rostand)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Si
hanno due vite. La seconda comincia il giorno in cui ci si rende
conto che non se ne ha che una." (Confucio)
|
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Capitolo 59 *** Imprevisti ***
capitolo
59 – Imprevisti
Akh
e Pitch sgranano gli occhi quasi in simultanea. L’hanno
trovata,
finalmente; anche se, in effetti, sarebbe più corretto
affermare che
sia stata lei a trovare loro. Il vero problema, ora come ora,
è
piuttosto come sopravvivere abbastanza a lungo da farle capire chi
effettivamente siano gli inattesi visitatori.
«Perché
ho l’impressione che non siamo affatto i
benvenuti?» bisbiglia a
mezza bocca Akh, senza mai distogliere lo sguardo dalla donna.
«Mh…
Forse perché non lo siamo?» ipotizza Pitch,
fingendo invece
interesse per la propria manicure.
«Che
cosa?!» ringhia Akh, colto da un istante di panico.
Certo,
il pensiero di trovarsi in pieno dominio di Madre Natura,
direttamente al suo cospetto, non invitati né tantomeno
particolarmente desiderati, non è proprio un pensiero
confortante.
Akh non trova tuttavia il tempo per recriminare oltre,
poiché da un
momento all’altro la signora
di casa
decide di fare
gli onori.
«Non
ricordo di aver invitato nessuno» afferma stentorea.
«Quindi,
sparite» ordina.
Pitch
avrebbe voluto avere il tempo di farsi avanti e palesare la sua
effettiva identità, invece l’unica cosa che riesce
a fare è
impallidire più di quanto già non sia, prima che
una violenta
raffica di vento li investa entrambi.
Per
loro fortuna Akh, nonostante tutti i suoi borbottii e le sue
proteste, può ancora contare su un’ottima forma e
degli
invidiabili riflessi. Rapido acchiappa Pitch e schizza verso il cielo
a velocità vertiginosa, facendo venire un poco di nausea a
Pitch.
«Avevi
detto che è tua figlia o mi sbaglio?» fa
sarcasticamente presente
Akh.
«L’ho
detto» conferma asciutto Pitch. «Ma non ricordo di
aver mai
accennato a calorosi benvenuti» precisa.
Akh
lo fissa un momento, allucinato, poi sbuffa.
«Beh,
grazie tante per non
avermi avvertito» borbotta seccato.
«Oh,
figurati» replica Pitch con un gesto noncurante della mano.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Akh
non è proprio sicuro che continuare a svolazzare sopra le
chiome di
quell’intricata foresta sia poi così scevro di
pericoli. Se ben
ricorda, quella donna è in grado di sfruttare le correnti
per
spostarsi.
«Credi
che se riuscissimo a farti riconoscere ci potrebbe essere la vaga
possibilità di sopravvivere alla sua ira?» si
azzarda a informarsi.
«Potrebbe»
ammette Pitch. «Lo spero, a essere sincero».
«Fantastico»
bercia. «Finiremo in polvere, ma almeno lo faremo con la
speranza
nel cuore» declama con un romanticismo falso come una
banconota da
tre dollari.
«Eccovi!»
esclama improvvisamente una voce femminile alle loro spalle.
«Pensavate davvero di potermi sfuggire?» ringhia,
questa volta
riuscendo nell’intendo di investirli con il vento.
Akh,
impreparato, viene scaraventato lontano e, nello scompiglio, si rende
conto in ritardo di aver perso Pitch.
«Oh,
maledizione!» sbotta. «Pitch!» urla,
guardandosi freneticamente
intorno, senza però riuscire a individuare né la
nera figura del
compagno né, stranamente, quella grigia di tempesta di Madre
Natura.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Nel
mentre Pitch, dopo aver cacciato un grido allarmato ed essersi
ritrovato quasi a fluttuare nell’aria a decine di metri dal
suolo,
è infine attirato irrimediabilmente verso terra dalla forza
di
gravità.
“Mh”
soppesa mentalmente. “Chissà se sono ancora
abbastanza immortale
da sopravvivere anche a questo” si domanda con un inquietante
pragmatismo assolutamente fuori luogo, vista la situazione.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
La
creatura alata, che è riuscita a spazzare via con qualche
difficoltà, ha inaspettatamente gridato qualcosa.
Ed è qualcosa che fa accapponare la pelle a Emily Jane,
perché quel
qualcosa è un nome, il nome di qualcuno che, questa volta,
era più
che certa di aver perduto per sempre. E invece, guarda un po’
i
casi della vita, a quanto pare non è affatto scomparso; non
ancora,
per lo meno.
Con
una nuova, febbrile urgenza, fa vagare lo sguardo nel cielo blu, alla
ricerca di qualcosa di più scuro, di nero. E infine lo vede,
a ormai
pochi metri dalle chiome degli alberi più alti,
così pochi da farla
tremare di un improvviso terrore.
«No»
soffia. «Non di nuovo, per favore».
Ed
è davvero un attimo. L’istante successivo si
è già gettata verso
il basso, decisa a impedire che accada di nuovo, come troppo tempo
prima, proprio di fronte ai suoi occhi.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
La
figura nera di Pitch è già svanita oltre le prime
foglie più
tenere sulle cime dei rami, quando una seconda figura piomba
giù dal
cielo, su di lui, a una velocità allarmante, e lo afferra
per le
spalle frenando bruscamente la caduta di entrambi.
Atterrano,
un po’ troppo duramente, nel sottobosco, ma senza riportare
danni
degni di nota.
Uno
strano silenzio cala fra gli alberi. Emily Jane scruta con ansia gli
occhi chiusi di Pitch e, piano, lo adagia a terra. Le sue mani
vagano, quasi incredule, sul suo viso e sul suo petto, senza riuscire
a capacitarsi di averlo proprio lì, di fronte ai suoi occhi.
«Papà»
mormora, sorpresa nell’avvertire l’inatteso tepore
della sua
pelle.
«Non
lo toccare. Allontanati» giunge all’improvviso una
voce da poco
distante.
Quando
Emily Jane si volta, scorge nuovamente quello strano spirito alato
che pensava d’aver allontanato poco prima. E sembra
intenzionato a
darle del filo da torcere, a giudicare dal suo cipiglio battagliero e
dall’arco e frecce sapientemente puntati su di lei.
«Non
intendo fargli del male» tenta di rassicurarlo.
«Ah
sì? Beh, mi permetto di dubitarne. Poco fa lo hai
fatto» replica
Akh, per nulla persuaso.
«Poco
fa non avevo idea di chi foste» precisa lei. Poi lo scruta
con un
breve moto di curiosità. «A dire il vero, neppure
ora ho idea di
chi tu sia. Ma lui è mio padre e, ti ripeto, non
è mia intenzione
arrecagli danno».
Akh
sbuffa, ancora leggermente dubbioso, ma con cautela ripone, ancora
una volta, il proprio arco e si avvicina per accertarsi delle reali
condizioni di Pitch.
«Il
mio nome è Akh, signora. Lui mi ha pregato di accompagnarlo
da te,
ma non aveva affatto accennato a possibili battaglie per riportare a
casa la pelle» fa ironicamente notare.
Emily
Jane, con sua sorpresa, arrossisce.
«Avreste
dovuto annunciarvi» borbotta imbarazzata.
«Oh,
ma certo! Alla prossima occasione porteremo con noi una fanfara e un
ciambellano» commenta Akh con sarcasmo.
Lei
gli riserva un’occhiataccia seccata e si imbroncia,
incrociando le
braccia al petto.
«Che
cosa saresti, tu? Lo spirito guida dei buffoni di corte?».
«Niente
affatto» ribatte Akh, sollevando il mento. «Io sono
uno spirito
della Luce».
“La
vita è una grande sorpresa. Non vedo perché la
morte non potrebbe
esserne una anche più grande.” (Vladimir Nabokov)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Il
nostro destino viene formato dai nostri pensieri e dalle nostre
azioni. Non possiamo cambiare il vento ma possiamo orientare le
vele.” (Anthony Robbins)
|
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Capitolo 60 *** Ritrovarsi ***
capitolo
60 – Ritrovarsi
«Sei
serio?» indaga Emily Jane, affatto convinta delle parole di
Akh e
per questo intenzionata a capire meglio la situazione.
«Naturalmente!»
afferma Akh, gonfiando il petto come un galletto.
Lei
però lo squadra ancora parecchio dubbiosa.
«E
cosa ci farebbe uno spirito della Luce in compagnia di mio padre?
Devi perdonarmi, ma suona come una possibilità davvero
remota».
«Si
vede che non sei aggiornata» si indispettisce Akh,
contrariato
perché, al di là delle creature con cui possa
essere solito
accompagnarsi, trova piuttosto offensivo che qualcuno possa mettere
in dubbio la sua parola e perfino la sua natura. «La
situazione,
ora, è molto differente. E non appena il
bastardo… ehm, tuo
padre
si sarà risvegliato, provvederà lui stesso a
spiegartela». Detto
questo, e deciso a dare una bella smossa alle tempistiche, si
accoscia al fianco di Pitch e, posato un palmo sul suo petto, fa
scivolare attorno al suo nucleo una piccola quantità della
sua luce.
Pitch
si ridesta bruscamente, annaspando; l’ombra della sensazione
di
andare a fuoco ancora ben impressa dentro di lui. Il suo sguardo
allarmato si sposta su Akh e un soffio incredulo abbandona le sue
labbra.
«Mh»
commenta infine, un filo stralunato.
«Pff!
Questa poi… Per un puro miracolo non ti sei schiantato nella
dannata foresta e quando ti risvegli tutto quello che sai dire
è
“Mh”?» reagisce Akh, spazientito.
Pitch
aggrotta appena le sopracciglia, poi scuote la testa, turbato.
«Sei
solo invidioso della mia innata capacità di spiegare
qualunque
concetto con una sola parola» soppesa, con atteggiamento
quasi
annoiato.
«Tsk!»
replica piccato Akh.
Pitch
invece tenta un misero sorriso. «Ecco, vedi. Sei sulla buona
strada»
offre.
«Papà».
Pitch
volta di scatto la testa, attirato da quella voce, e strabuzza gli
occhi, impreparato.
«Emily
Jane» sussurra, spaventato all’idea che possa
svanire nel nulla se
solo alzasse un poco la voce. «Io… speravo
di…» tenta incerto,
senza ben sapere come spiegarsi.
Ma
dopo tutto non sembra ce ne sia bisogno. Lei circonda il suo collo
con le esili braccia e lo stringe tanto che, se Pitch fosse ancora
umano, rimarrebbe senza fiato.
«Credevo
che fossi morto» mormora lei, sospirando ancora incredula.
«Ah,
vedo che, in fondo, abbiamo ancora qualcosa in comune, a parte il
sangue» replica Pitch con sarcasmo.
Emily
Jane sobbalza a quella che, a tutti gli effetti, non può che
ritenere un’accusa.
«Mi
dispiace. Non avevo capito» mormora contrita.
Il
più silenziosamente possibile, Akh si allontana dai due,
indietreggiando con cautela. Nonostante le sue buone intenzioni,
tuttavia, Pitch solleva lo sguardo su di lui come a chiedere
spiegazioni. Così Akh, colto da improvviso imbarazzo, si
stringe
nelle spalle e fa intendere di volersi allontanare.
“Torno
fra un po’” sillaba, senza emettere suono.
Pitch
annuisce e Akh è finalmente libero di riprendere il volo,
indeciso
se godersi un po’ della momentanea libertà o se
invece sia più
saggio raggiungere subito il paese dall’altra parte del mondo
e con
esso la giovane umana che tanto subbuglio ha creato nelle loro vite
millenarie.
Pitch,
rimasto solo con Emily Jane, poggia le mani sulle sue spalle e,
delicatamente, la scosta da sé quel tanto che basta per
guardarla
negli occhi.
«Così
tanto tempo» soffia, accarezzando piano il suo viso.
«Così tanti
sbagli» si rammarica.
«Possiamo
provare a rimediare a qualcuno di quegli errori» propone
Emily Jane.
Pitch
piega le labbra in un piccolo sorriso triste.
«Mi
piacerebbe. Purtroppo non ci sarà il tempo per
farlo».
«Che
cosa vuoi dire?» chiede interdetta.
«Molto
è cambiato, Emily Jane. Di ciò che ero prima non
rimane molto,
ormai. Giusto i ricordi e questa specie di carcassa che mi trascino
dietro e che si ostina ancora a rimanere. Ma… non lo
farà ancora a
lungo».
«Perché?»
insiste lei con una sorta di disperazione nella voce.
«Credevo fossi
divenuto uno spirito. Lo eri, me lo rammento molto bene. Che cosa
è
cambiato, da allora? Non lo sei forse più?» indaga
ostinata.
Pitch
scuote la testa. Da quanto tempo non fa altro che sentirsi stanco?
Non ricorda nemmeno più come sia non avvertire mai la
fatica, né il
dolore. Certo, a quel tempo era come essere isolati da tutto. La
maggior parte del tempo non sentiva proprio nulla, né in
positivo né
in negativo. Solo vuoto; un’enorme, buia voragine di nulla.
Ora è
differente: avverte ogni singola cosa, ogni sensazione. Il suo umore
oscilla sconvenientemente come quello di una donna in gravidanza.
È
tutto così vivido; terrificante.
«Non
sono mai stato un vero e proprio spirito. Una parte di me è
andata
irrimediabilmente perduta alla mia morte. L’altra
è stata colmata
dall’oscurità. Ora, quella stessa
oscurità non è più dentro di
me, e ciò che resta non… è
sufficiente».
«Stai
dicendo che…» prova Emily Jane, rifiutandosi
tuttavia di terminare
il pensiero.
Gli
occhi di Pitch si soffermano a lungo in quelli della figlia, prima di
darle una risposta che probabilmente lei nemmeno desidera.
«Sto
dicendo che presto svanirò definitivamente»
conferma. «Dovevo…
Avevo bisogno di rivederti, almeno un’ultima volta, prima che
accadesse» ammette con tristezza. «Non ti ho mai
dimenticata, Emily
Jane. Non l’ho mai fatto, neppure quando ti credevo perduta
per
sempre. Ti voglio bene».
"La
principale e la più grave punizione per chi ha commesso una
colpa
sta nel sentirsi colpevole." (Lucio Anneo Seneca)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Che
oggi sia il giorno in cui smetti di essere ossessionato dal fantasma
di ieri. Portare rancore e nutrire rabbia e risentimento è
un veleno
per l’anima." (Steve Maraboli)
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Capitolo 61 *** Brutte notizie ***
capitolo
61 – Brutte notizie
Si
prende del tempo, Pitch. Tempo che forse non ha, ma che gli serve
comunque per radunare e rimettere ordine nei suoi ricordi sparsi.
Sono tutti lì, ora; premono insistenti nella sua mente,
sembrano
decisi a uscire, infine, dopo tanto tempo segregati
nell’oscurità.
I ricordi di Pitch somigliano molto al loro proprietario, dopo tutto:
un confuso ammasso fuligginoso alla ricerca di un ordine e di un poco
di luce.
Piano,
a bassa voce, Pitch inizia a farli uscire, dar loro la luce che
cercano, un poco d’aria e di libertà. Racconta,
cercando di non
tralasciare nulla, nonostante alcuni di loro facciano ancora male.
È
giusto così, in fondo; che lei conosca ciò che
è stato e che non è
più possibile cambiare. Passato.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Ore
intere sono state necessarie per portare a compimento il compito di
narrarle gran parte di quanto accaduto fino a quel momento. Ora lei
sa e non c’è altro che possa fare, al momento, a
parte osservare
le sagome degli alberi secolari, ancora visibili nonostante il
crepuscolo sia già giunto. I suoi occhi si attardano ancora
sulla
bruma che inizia a sollevarsi dal terreno umido;
c’è un velo di
tristezza, nel fondo, che non ha la forza di scacciare, proprio come
non trova la forza per muoversi da lì, nonostante sappia di
doverlo
fare. Sospira.
Labbra,
morbide e tiepide, si posano gentili sul suo zigomo appuntito. Odore
di foglie secche e resina, il profumo del vento greve di pioggia.
L’umidore improvviso di una lacrima che rotola fino al suo
volto
dall’incarnato quasi spettrale.
«Ti
voglio bene anch’io, papà» soffia sulla
sua guancia la bassa voce
di Emily Jane.
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Emily
Jane e Pitch sono accoccolati l’uno all’altra,
intenti a
confortarsi a vicenda, al riparo dal freddo della notte sotto un
grosso tronco cavo, quando un’abbagliante luce mette per un
momento
in fuga il buio tutto intorno.
Pitch
spalanca gli occhi, sorpreso e agitato, e avvolge più
strettamente
la figlia fra le braccia, scrutando attento il bagliore che
lentamente si affievolisce, fino a scomparire del tutto. Ciò
che
rimane è Akh, le grandi ali blu spiegate al cielo e ancora
frementi.
Quando
lo spirito della Luce solleva il volto verso di lui, Pitch si
irrigidisce, notando l’angoscia visibile nei suoi lineamenti
eternamente giovani già da quella distanza.
«Che
cosa succede?» lo interroga Pitch senza preamboli.
Akh,
invece di rispondere immediatamente, fa qualche incerto passo avanti.
I suoi occhi blu, fissi su di lui, riescono a inquietarlo come poche
cose al mondo.
Spazientito
dal prolungato silenzio, infine prorompe «Akh, dimmi cosa sta
succedendo. Adesso» ordina.
Le
labbra di Akh fremono brevemente, prima di socchiudersi incerte e
permettere a una voce stranamente roca di scorrere liberamente.
«È…
scomparsa, Pitch».
Pitch
aggrotta le sopracciglia, confuso. «Di cosa parli?».
«Katherine.
È scomparsa. Svanita, nel nulla. Non sono riuscito a
ritrovarne le
tracce». Akh lo scruta, incerto. «Pitch?»
sussurra, preoccupato
dal pallore cadaverico assunto dal suo viso.
«Sc-scomparsa?
Ma… come…?» incespica Pitch.
Cauto,
Akh si accosta all’altro, accovacciandosi al suo fianco.
«Sono
stato a casa sua, ma non c’era. Ho scoperto che sua nonna ne
ha
denunciato la scomparsa due giorni fa. Ma pare che nessuno
l’abbia
vista né sappia dove possa essere. Non riesco a sentirla,
Pitch.
Potrebbe…».
«Non
dirlo!» ringhia Pitch, afferrando malamente la sua blusa e
strattonandolo a sé. Scuote la testa, nel tentativo di
schiarirsi le
idee. «Devo trovarla» riflette a voce alta. Poi lo
fissa duramente
negli occhi e digrigna i denti, arrabbiato. «E tu vieni con
me»
comanda.
«D’accordo»
soffia Akh, per nulla intenzionato a contraddirlo; non in un momento
simile.
«Verrò
anch’io con voi» si intromette la voce risoluta di
Emily Jane,
inducendo i due spiriti a voltarsi verso di lei.
«Non
sono certo sia una buona idea» tentenna Pitch, nervoso.
«Forse
no» sogghigna lei «ma non è che tu abbia
poi molte alternative».
Pitch
assottiglia pericolosamente lo sguardo, poi sbuffa, seccato.
«Molto
bene» sputa, pensando l’esatto contrario.
«Ma fai in modo di non
intralciarmi mai. Altrimenti, figlia o non figlia, sarà mia
premura
fartene pentire amaramente».
Emily
Jane abbozza un sorriso e annuisce. «Messaggio ricevuto.
Posso
assicurarti che non ho alcun desiderio di darti problemi».
«Andiamo,
allora» si affretta, sempre più nervoso.
«Akh!» sbotta,
guardandosi attorno senza riuscire a trovarlo. «Ma
perché diavolo
sparisce sempre in questo modo?» si lagna, strappando
inconsapevolmente un sorriso alla figlia.
«Sono
qui. Arrivo subito» annuncia Akh, planando leggero sopra le
loro
teste e toccando terra proprio di fronte agli altri due.
«Odio
che tu sparisca in questo modo» bercia Pitch, infastidito.
«Sei
solo invidioso perché io posso permettermelo» lo
apostrofa Akh,
guadagnandosi un’occhiata truce da Pitch.
«Muoviamoci»
sibila, drammaticamente a corto di pazienza e di tempo.
Afferra
saldamente un braccio dello spirito della Luce e fa impazientemente
segno a Emily Jane di fare altrettanto, poi pianta gli occhi in
quelli interdetti di Akh.
«Adesso»
ordina.
Il
terzetto svanisce dal regno di Madre Natura in uno sfolgorio di luce
dorata, lasciandosi indietro solo il buio della notte e il suo
silenzio ovattato.
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Akh
li ha condotti fino al parco, il medesimo luogo nel quale ha
incontrato per la prima volta l’ex Nightmare King. Un buon
posto, a
suo avviso, da cui partire per le ricerche. Tuttavia Pitch non sembra
propriamente dello stesso avviso: non appare infatti per nulla
interessato a quel luogo; il tempo di ambientarsi e subito riprende
la strada, camminando veloce senza degnare d’un ulteriore
sguardo
ciò che lo circonda.
«Pitch,
dove stiamo andando?» chiede a quel punto Akh, volandogli a
fianco.
«A
cercare Katherine, mi pare ovvio» sbotta Pitch senza
accennare a
rallentare il passo.
«Sì,
ma…» ritenta, incerto.
«Chiudi
il becco» sibila per tutta risposta, affatto intenzionato a
fornire
ulteriori dettagli.
Akh
sbuffa, scocciato, ma decide di rimanere in silenzio, almeno per il
momento.
Improvvisamente,
nel bel mezzo di una strada a prima vista identica a qualunque altra,
Pitch si blocca e lì rimane. Sembra occupato ad ascoltare
qualcosa,
ma deve trattarsi di un qualcosa che è in grado di udire
solo lui,
dato che né Akh né Emily Jane sembrano avvertire
nulla di
particolare.
In
realtà non sono le orecchie di Pitch a sentire, ma si tratta
nuovamente di quella curiosa capacità di individuare la
strana
luminosità azzurra che rappresenta, almeno nella sua testa,
l’anima
della bambina. Questa volta, tuttavia, è stato molto
più difficile
ritrovarla ed è inoltre preoccupantemente più
fioca e tremolante,
come la fiammella di una candela in mezzo al vento.
«Akh»
bisbiglia d’un tratto Pitch.
L’interpellato
si avvicina, suo malgrado incuriosito.
«Dimmi».
«L’ho
trovata» annuncia Pitch.
Ma
il suo tono è tutt’altro che esultante; sembra, al
contrario,
spaventato.
«Beh,
bene, no?» offre incerto Akh. «Dove si
trova?».
«Nella
foresta» risponde Pitch con un filo di voce.
"Ho
cercato di non barcollare; ho fatto passi falsi lungo il cammino. Ma
ho imparato che solo dopo aver scalato una grande collina, uno scopre
che ci sono molte altre colline da scalare. Mi sono preso un momento
per ammirare il panorama glorioso che mi circondava, per dare
un’occhiata da dove ero venuto. Ma posso riposarmi solo un
momento,
perché con la libertà arrivano le
responsabilità e non voglio
indugiare, il mio lungo cammino non è finito." (Nelson
Mandela)
*
* * * * * * * * * * * * *
"La
mia famiglia è la mia forza e la mia debolezza." (Aishwarya
Rai).
*
* * * * * * * * * * * * *
"Avere
paura è una delle tante naturali funzioni umane, come
respirare. È
come si reagisce alla paura quello che veramente conta. Può
perdere
la testa, nascondersi sotto il letto oppure controllare le emozioni e
ragionare." (The Twilight Zone)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Le
ombre celano un'oscurità in cui dimora un potere malvagio."
(The
Legend of Zelda: Twilight Princess)
|
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Capitolo 62 *** Persa ***
capitolo
62 – Persa
«La
foresta?» chiede Akh, atterrito. «La stessa dalla
quale mi ha detto
di essere sfuggito?». La sua voce è incerta e
traballante.
Pitch
annuisce, visibilmente turbato.
«Dobbiamo
andare» decide, lasciando senza fiato lo spirito della Luce.
«Che
cosa?» gracchia Akh. «Pitch, quel posto
è pericoloso» gli
rammenta con ansia crescente.
Tutto
ciò che ne ricava, tuttavia, è una delle
agghiaccianti smorfie di
Pitch, di quelle che dovrebbero rappresentare un sorriso, ma sono
sempre troppo lontane dall’obbiettivo.
«Giusto»
conferma con un angosciante tono pacato. «Ed è
esattamente questa
la ragione per cui ora noi ci andremo. Katherine è una
bambina
umana; non ho nessuna intenzione di lasciarla in quel posto da sola
un minuto in più del necessario» rimarca con
fermezza. «Adesso
raccogli un po’ del tuo coraggio e portami fino alla foresta.
Oppure preferisci che ci arrivi a piedi? Mi ci vorrebbero per lo meno
due ore abbondanti, in queste condizioni».
«Ti
accompagno io» offre Emily Jane. E allo sguardo indagatore di
Pitch,
fa un lieve cenno di assenso. «Non sarò certamente
veloce come lui,
ma potremo essere lì al massimo in una manciata di
minuti»
assicura.
«Molto
bene. Andiamo, allora» acconsente Pitch.
Spera
con tutto sé stesso che non sia ormai tardi. Non ha
accennato nulla
agli altri, ma le condizioni in cui ha percepito la bambina non sono
per nulla confortanti. Serra strettamente i denti pensando che,
comunque vada, Katherine dovrà tornare in salvo a casa sua;
non
possono esserci altre opzioni, non in questo caso.
Avverte
appena Emily Jane che gli stringe una mano, poi viene nuovamente
avvolto da grigie nuvole di tempesta e improvvisamente non ha
più il
solido terreno sotto i suoi piedi, ma solo aria turbinante. Si
permette un minuscolo sorriso al pensiero che, questa volta, non lo
aspetta nessuna dolorosa discussione con la figlia. Poi,
però, i
suoi pensieri vanno al reale motivo per cui si trovano sospesi in
aria e il sorriso muore definitivamente sulle sue labbra.
«Siamo
quasi a destinazione» annuncia Emily Jane direttamente al suo
orecchio.
Pitch
si limita ad annuire e a stringersi di più alla figlia,
preparandosi
all’imminente atterraggio e a ciò che lo attende.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Un
attimo dopo il loro arrivo, giunge dietro di loro anche Akh, che li
ha seguiti in volo nonostante il suo parere palesemente contrario.
«Mi
sembrava d’aver inteso che non saresti stato dei
nostri» lo
apostrofa Pitch.
«Avrai
capito male» borbotta Akh, infastidito e, in parte,
imbarazzato.
«Mh»
si limita a commentare Pitch, mentre tutti i suoi sensi vengono
allertati dall’atmosfera pesante di quel luogo.
«Pitch?»
sussurra Akh, preoccupato.
«Non
ora» sibila l’interpellato, concentrandosi su
ciò che può
avvertire.
Katherine
è lì, da qualche parte; riesce a sentirla.
È più forte la sua
presenza, ora. Ma non è la sola, purtroppo. Rabbrividisce,
mentre
procede cauto verso il luogo che sperava di non dover mai
più
rivedere per il resto della sua esistenza. Evidentemente non era
destino, dato che ora vi si trova proprio di fronte.
«Lei
è qui» soffia rauco. «E ci sono anche
loro» aggiunge, fremendo in
un misto di terrore, ribrezzo e rabbia.
Si
riscuote da quei sentimenti sgraditi e, assottigliando gli occhi e
acuendo i sensi, si affaccia sullo stretto e buio passaggio, cercando
inutilmente di vedere oltre l’irreale oscurità che
sembra
permearlo.
Ha
già sporto un piede oltre l’orlo, quando una mano
si richiude
fermamente attorno al suo braccio.
«Che
cosa fai?» sibila Akh.
I
suoi occhi blu sono spaventati, lo può vedere con chiarezza.
Aggrotta la fronte, perplesso.
«Entro.
Che altro?» spiega con fare ovvio.
«Sei
impazzito, forse? Ti faranno a pezzi».
«Oh,
davvero?» soffia Pitch sarcasticamente. «Vorrei
proprio ascoltare
il tuo piano di riserva, ora».
Akh
storce la bocca in una smorfia infastidita e amareggiata.
«Non
ho nessun maledetto piano di riserva, e tu lo sai!» lo
accusa,
trattenendosi a stento dal gridare. «Ma questo non significa
che ti
permetterò di scendere in quel posto a farti
ammazzare».
«Primo:
io sono già
morto, nessuno può ammazzarmi. Tuttalpiù
svanirei» fa notare con
un tono angosciosamente calmo. «Secondo» trae un
respiro che sembra
costargli enorme fatica. «Tu
mi permetti?» sibila, la sua voce vibra pericolosamente.
«Tu non
detti legge nella mia esistenza. Io
decido per me, non tu, né chiunque altro. Sono stato
abbastanza
chiaro?» ringhia adirato, mentre i suoi occhi mandano
bagliori
argentei.
«Cristallino»
mormora Akh, mettendo un paio di passi di distanza fra loro.
«Eccellente»
commenta asciutto. «Ora, se volete scusarmi, credo proprio
che andrò
laggiù a riprendermi Katherine. Nel caso in cui decideste (a
vostro
rischio, naturalmente) di seguirmi, vi consiglierei di prestare la
massima attenzione a dove appoggiate mani e piedi».
Ciò
detto, Pitch dà loro le spalle e, senza procrastinare
ulteriormente,
con un passo avanti si lascia cadere all’interno della
fenditura
nel terreno che lo ricondurrà nel medesimo luogo dal quale
è così
faticosamente fuggito poche settimane prima.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Buio.
Aveva quasi dimenticato quanto possa essere fitto e impenetrabile
quel buio; così soffocante da dare la nausea. Non riesce in
nessun
modo a impedirsi di tremare. A che servirebbe, d'altronde? Nessuno lo
vedrebbe comunque, in quell’oscurità senza fine e
senza via
d’uscita. La paura è nuovamente con lui, ma questa
volta non è un
sottile rivolo che scorre subdolo lungo il suo corpo e la sua anima;
no, adesso è qualcosa di netto, come la lama affilata di un
coltello
che incide su di lui, dentro di lui, con squarci netti e profondi,
tanto da arrivare fino al nucleo del suo essere. Stringe i denti; non
ha nessuna intenzione di farsi vincere da qualcosa di così
volubile
e intangibile. Altro è ciò che realmente deve
temere, non di certo
qualche stupido fremito di paura.
«Pitch».
Sgrana
gli occhi nell’oscurità, tentando inutilmente di
scorgere
qualcosa. La sua voce: quella era la sua voce, la piccola voce di
Katherine. Ma era realmente lei? Lui questo non lo sa e non
può
neppure esserne sicuro. Ormai conosce fin troppo bene quelle
creature, sa come lavorano ed è cosciente di quanto amino
quel
genere di intrattenimento. E tuttavia, pur sapendo, non può
evitare
di credere, forse perfino sperare, che si tratti davvero di
Katherine.
Freneticamente,
continua a guardarsi attorno, sondando nel buio, impaziente di vedere
qualcosa che non sia il nero pece di cui è impregnato quel
luogo
non-luogo.
«Katherine»
sussurra appena.
Il
suo corpo sta ancora scendendo. Non ha la possibilità di
osservarne
lo spostamento, ma lo avverte comunque attraverso gli altri sensi.
Nel momento in cui giungerà sul fondo, forse sarà
nuovamente in
grado di orientarsi, ma fino ad allora può solo sperare di
giungervi
illeso. Fino a quel momento niente lo ha aggredito, e questo
già di
per sé è strano. Probabilmente lo stanno
aspettando e non hanno
intenzione di ritardare il suo ritorno unicamente per il gusto di
giocare un poco con lui.
«Pitch».
Trattiene
bruscamente il respiro. Il suo cuore accelera furiosamente. Forse,
dopo tutto, è proprio questo il loro gioco; forse si stanno
già
divertendo alle sue spalle. Forse, forse…
«Pitch».
«K-Katherine»
ansima, tremando sgomento.
No,
non può farlo, non adesso, non di nuovo. Deve assolutamente
controllarsi, o sarà tutto perduto, ancora una volta.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Niente.
I suoi piedi hanno finalmente toccato il fondo, ma nulla sembra
cambiato. Pitch continua a scorgere solo il buio; il silenzio
è
tornato, opprimente. Non sa cosa fare, non ha idea di cosa pensare.
Deve trovare Katherine, ma non riesce a orientarsi là sotto
e la sua
luce è sempre più fioca. Che cosa farà
se dovesse scomparire
completamente?
Mentre
procede a tentoni lungo i contorti cunicoli, d’un tratto i
suoi
occhi scorgono un pallido lucore. Pitch stira le labbra,
impensierito, augurandosi di non finire diritto fra le braccia
delle Ombre; ma poiché quello è l’unico
cambiamento significativo
da quando è sceso nelle profondità della terra,
teme purtroppo di
non avere molte altre scelte. Quindi si incammina, con rinnovata
decisione, nella direzione della scarna luminosità, pregando
che sia
quella giusta.
E
in un certo senso lo è: lo ha condotto dove voleva, certo.
Ma una
sensazione di gelo senza speranza satura il suo petto, mentre i suoi
occhi, increduli, si soffermano sofferenti sulla piccola figura
immobile della bambina, adagiata a terra nel centro di una camera
circolare.
«Katherine»
soffia Pitch, avvicinandosi esitante di qualche passo.
Da
quella breve distanza può già scorgere i
conosciuti tratti del suo
volto e i neri capelli, molto più arruffati del solito.
Altri due
passi e, con un fremito, ne osserva le labbra violacee e le scure
ombre sotto i suoi occhi chiusi. Ormai torreggia vacillante su di
lei, e i suoi occhi guizzano sgranati sulla chiara pelle, attraverso
la quale serpeggiano scure linee che creano strani e incomprensibili
disegni.
“Katherine”
sillaba, senza che la sua voce rompa nuovamente il silenzio di tomba
che li attornia.
Piano,
si inginocchia al suo fianco, raccoglie delicatamente fra le proprie
una delle sue minuscole mani e un singhiozzo incredulo scuote il suo
petto.
«No.
Questo no. Non lei, non lei, per favore» geme, sollevando il
corpo
della bambina da terra e stringendolo fra le braccia.
«Perché?»
soffia, gli occhi spalancati nel nulla.
«Perché?!» grida,
tremando, incurante delle lacrime che hanno iniziato a scorrere lungo
il volto scavato, perdendosi fra i capelli di Katherine.
Fruscii,
sibili, sussurri, ansimi, poi quello che sembra un roco, profondo
sospiro che ha l’apparente capacità di far
contrarre su sé stesse
le pareti della camera.
«Eri
nostro» mormora il sospiro, facendo serpeggiare quel suono in
una
morbida onda che colma l’aria. «Eri nostro,
Generale. E ora? Di
chi sei, ora?» rantola fremente.
Pitch
digrigna i denti. «Non sono mai stato vostro» sputa
con rabbia.
«Mai. Voi mi avete fatto vostro, contro la mia
volontà. Ma non vi
sono mai veramente appartenuto».
«Lo
eri» obbiettano le Ombre con un lungo ansito. «Lo
sappiamo, lo
abbiamo sentito. Eri come noi: oscuro».
«No!»
ringhia Pitch. «Voi non sapete. A voi non è mai
nemmeno
interessato, sapere. Desideravate solo… uno stramaledetto
vessillo
da sbandierare, da… ostentare per il vostro piacere. Nulla
di più»
soffia, soffocato dalle sue stesse lacrime.
«Ma
noi lo vogliamo ancora» sussurrano. «Ti vogliamo
ancora, Generale».
Pitch
sgrana gli occhi e, rimettendosi in piedi con ancora la bambina
stretta al petto, incespica all’indietro.
«Mai!»
grida sconvolto. «Non ve lo permetterò. Non
sarò una preda e non
sarò mai più la vostra marionetta da manovrare a
piacimento»
sibila, pregando in cuor suo di essere abbastanza forte da poter
mantenere i suoi propositi.
Ancora
fruscii attorno a lui, così simili a risatine da fargli
accapponare
la pelle.
«Ma
noi abbiamo una bambolina, ora» sussurrano velenose.
«Lei è già
nostra, e presto lo sarai anche tu, Generale» bisbigliano
suadenti.
Pitch
si guarda freneticamente attorno, con disperazione, nella vana
illusione di scorgere una via d’uscita da quella situazione
che
invece non sembra averne. Le sue braccia si stringono più
saldamente
attorno al leggero corpo di Katherine e le sue mani tremano, sapendo
quanto quelle loro ultime parole potrebbero invece facilmente
avverarsi.
«Katherine»
soffia fra i suoi capelli, respirando con affanno per
l’agitazione.
«Resisti, piccola. Presto saremo fuori» promette,
senza sapere se
potrà mai mantenere la parola. «Non ti lascio
sola, te lo giuro»
offre, questa volta con la certezza che così sarà.
Nel
tempo in cui Pitch cerca una via d’uscita che forse neppure
esiste,
le Ombre sono strisciate, senza che lui se ne avvedesse, più
vicine,
intorno a loro, oscurando tutto ciò che li circonda. La loro
vicinanza, i loro sussurri, fanno battere i denti allo spirito.
Katherine geme debolmente, il corpo scosso dai tremiti.
«Lasciatela
stare» ringhia, provando inutilmente a farle scudo con il
proprio
corpo. «Lei non vi appartiene. Non vi permetterò
di averla!»
esclama, atterrito alla prospettiva di non poter invece trovare la
forza per impedirlo.
Una
sottile e vellutata propaggine d’ombra scivola, quasi
dolcemente,
attorno al suo polpaccio e Pitch lancia un urlo e si scosta
bruscamente, senza tuttavia osare muoversi liberamente per la stanza,
con il concreto rischio di farsi definitivamente sopraffare dalle
Ombre presenti.
«Non
puoi aiutarla, Generale. Non è più tua, ormai.
È nostra. Lei ci
serve».
«No!
Che cosa volete da lei?! È solo una bambina».
Non
riesce a capacitarsi di questo loro inspiegabile accanimento per
quella piccola umana. Che cosa mai potrebbero guadagnarci
nell’averla
con loro? Non è una creatura potente, non ha conoscenze
importanti,
ed è così giovane, senza nessun tipo di utile
esperienza. Non ha
senso che loro si ostinino a cercarla. Non ne ha nessuno.
«Solo
una bambina?».
Dal
tono usato, sembra quasi stiano ridendo di lui; cosa, tutto sommato,
piuttosto probabile. Non sarebbe comunque la prima volta.
«Sei
sempre stato così ingenuo, Generale. Troppo, per un uomo con
il tuo
potere. Ma, in fondo, a noi va più che bene
così».
Pitch
non capisce. Sa, lo sente, che qualcosa gli sfugge; ed è
qualcosa di
molto importante. Solo, non sa proprio di cosa possa trattarsi.
«Di
cosa diavolo state parlando?» inveisce, confuso e adirato.
Di
nuovo quei fastidiosi sibili, così simili a risate di
scherno. Lo
stanno facendo diventare pazzo.
«Hai
perduto qualcosa che ti appartiene, Generale. È accaduto
tanto tempo
fa. Non lo ricordi? Naturalmente no. Abbiamo provveduto a estirpare
molti preziosi dettagli dalla tua memoria».
Pitch
è molto vicino al punto di rottura. Il suo respiro
è tanto
superficiale che, se fosse stato un semplice essere umano, avrebbe
già perso i sensi da un bel pezzo. Purtroppo per lui, non
può
sperare nemmeno in questa grazia.
«Devo
proprio cavarvi le informazioni a forza?» ringhia, frustrato.
«Avanti, parlate chiaro una buona volta».
Come
nebbia, o impalpabile fumo, le Ombre sfiorano la sua pelle sudata,
strisciano lungo la sua schiena e giocano fra i suoi capelli.
«Come
desideri, Generale» decretano pacate. «Non ti sei
mai domandato
perché sei uno spirito incompleto? Una creatura a
metà? Il motivo
non sta nel fatto che sei nato
a causa della nostra possessione; certo che no. Quando siamo entrate
dentro di te, prendendo comodamente posto nel tuo cuore spezzato, una
parte della tua anima ti ha abbandonato. Non volontariamente, ovvio.
Semplicemente, non avrebbe avuto spazio e luce a sufficienza per
sopravvivere al tuo interno. Così è stata
costretta a separarsi dal
suo contenitore originale e a vagare a lungo senza meta. E sai una
cosa buffa, Generale? Alla fine, una meta l’ha trovata; ha
trovato
una nuova casa. Le è costato molto tempo e fatica, cercare
un nuovo
contenitore adatto; ma è proprio come il suo custode
originale:
ostinata e determinata».
Pitch
sta tremando. I suoi occhi, sgranati, non riescono a mettere a fuoco
ciò che ha di fronte. Il vuoto, dentro di lui, è
quasi palpabile.
Fa così male.
«Non
è possibile. Non è vero» soffia,
chiudendo gli occhi e scuotendo
la testa.
«Oh,
lo è, invece. Lo hai capito, vero? Il piccolo corpo mortale
che
stringi al petto con tanto accanimento racchiude una parte di te.
Ciò
che credevi perduto per sempre è invece sopravvissuto. Fino
a ora».
"Il
guerriero che crede nel suo cammino, non ha bisogno di dimostrare che
quello degli altri è sbagliato." (Paulo Coelho)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Tutto
è perso se si perde il coraggio." (Sir James Matthew Barrie).
*
* * * * * * * * * * * * *
"Soltanto
chi mette a prova l'assurdo è capace di conquistar
l'impossibile."
(Miguel de Unamuno)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Solo
i demoni percorrono strade diritte." (Antoni Gaudi)
*
* * * * * * * * * * * * *
"La
confusione è un lusso che solo quelli molto, molto giovani
possono
permettersi e tu non sei più quel giovane." (James Baldwin)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Quando
guardi a lungo nell’abisso, l’abisso ti guarda
dentro."
(Friedrich Nietzsche)
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Capitolo 63 *** Fuori ***
capitolo
63 – Fuori
Riderebbe,
se solo il dolore dentro di lui non lo stesse facendo a pezzi. Tutto
quel tempo, così tanti secoli spesi a lambiccarsi su di una
confusa
sensazione di perdita e smarrimento e ora, che nuovamente si ritrova
in mezzo alle odiate Ombre, eccola lì la risposta. Pensare
che
ultimamente ci era così vicino, proprio a portata di mano.
Invece
non ha mai capito. Chissà, forse è davvero
ingenuo e ottuso come lo
considerano le Ombre.
Scuote
la testa, incredulo, riflettendo su tutte le domande che si
è posto
continuamente in quelle ultime settimane e che, finalmente, hanno
trovato una risposta. Katherine: è lei la risposta a ogni
suo
dubbio. Ora che sa, non serve più chiedersi come quella
bambina
potesse essere l’unica a vederlo; perché mai non
servisse a nulla
tentare di spaventarla per cercare di allontanarla; come mai lei
sembrasse così ostinatamente attaccata a lui, tanto da
cercarlo in
continuazione; per non parlare di quell’inspiegabile
capacità, che
possiede unicamente lei, di equilibrare il suo nucleo; e infine il
fatto che Pitch sia l’unico a scorgere la luminosa presenza
della
bambina, anche attraverso le Ombre, laddove neppure uno spirito della
Luce ha potuto fare alcunché. È tutto
così ovvio, ora, così
chiaro che pare impossibile non esserci mai arrivato prima. Tutti
quei dettagli, all’apparenza insignificanti, ora acquistano
invece
un evidente significato, se posti di fronte alla realtà dei
fatti;
Katherine è la parte mancante della sua anima spezzata.
Un
tremito violento scuote lo spirito, che sgrana gli occhi,
improvvisamente consapevole. Quelle cose
desiderano Katherine tanto quanto desiderano lui. Intendono
ricongiungere i pezzi della sua anima e averla completamente in loro
potere. Pitch sposta lo sguardo sulla bambina e digrigna i denti.
Mai, non permetterà loro di prendersi Katherine, per nessun
motivo
al mondo.
«Non
è vostra, e non lo sarà mai»
è l’inappellabile verdetto di
Pitch.
«Lo
vedremo» sussurrano. «Tu sei potente, Generale, ma
non hai mai
avuto la forza necessaria per resistere alle nostre lusinghe e
riuscire a contrastarci» lo scherniscono divertite.
Forse,
riflette Pitch. O più probabilmente non aveva un buon motivo
per
farlo. A che scopo combattere, in fondo, se non
c’è nulla a cui
aggrapparsi? Nulla per cui valga veramente la pena? Ma ora, ora
è
diverso, ora c’è Katherine, ed Emily Jane esiste
ancora e non lo
odia più. Una speranza. Sì, questa volta ha una
speranza.
Un
cupo sorriso infernale si apre sul suo volto pallido. I suoi occhi
scintillano d’argento.
«Non
siatene così certe» sibila.
Il
buio sembra deciso a inghiottirlo. Le sue dita si stringono
spasmodicamente alle spalle e alla schiena di Katherine. È
rischioso, ma non c’è altro che possa fare. La sua
meta è a
decine di metri sopra la sua testa, e la Luce che è ancora
racchiusa
dentro di lui scintilla abbagliante nel buio pesto, portando con
sé
lo spirito e la bambina, lontano dal cuore della terra e da
ciò che
vi dimora, fino in superficie.
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Akh
è il primo a notare il bagliore dorato comparso
improvvisamente fra
gli alberi. Stupito, attira l’attenzione della donna e gli
indica
una zona in cui la luce sta lentamente scemando. Insieme si
affrettano a raggiungere il punto non lontano in cui è
appena
scomparsa e lì ritrovano Pitch, raggomitolato a terra e
scosso dai
brividi, che stringe a sé il corpo apparentemente privo di
sensi di
Katherine.
«Padre!»
esclama preoccupata Emily Jane, accorrendo al suo fianco.
Akh
prova a sollevare la bambina, così da permettere a entrambi
di
respirare con maggiore libertà, ma ciò che
ottiene è un ringhio
furioso che lo costringe a indietreggiare.
«Calma,
calma. Sono Akh, amico. Non voglio farti del male» cerca di
tranquillizzarlo.
«Non
sono certa che ti abbia sentito» lo avverte Emily Jane,
accarezzando
lentamente un braccio del padre, nella speranza di placare la sua
rabbia apparentemente ingiustificata. «Sembra perso in
qualcosa che
noi non possiamo scorgere» ragiona fra sé,
scrutando nei suoi occhi
dorati con preoccupazione.
«Ma
la bambina è qui, le Ombre invece no. Che cosa lo turba,
allora?»
chiede Akh, confuso.
Emily
Jane scuote mestamente la testa. «Non ne ho idea»
ammette. «Ma di
qualunque cosa si tratti, sarà comunque meglio se ci
affrettiamo ad
allontanarci da qui. Se tornassero non sapremmo in che modo
difenderci, con mio padre momentaneamente fuori gioco».
«Giusto»
annuisce Akh, guardandosi nervosamente alle spalle, quasi a
controllare che le Ombre non li abbiano seguiti fino a lì.
«Ma non
credo sia il caso di portare la bambina a casa sua in queste
condizioni. Chi spiegherebbe a sua nonna ciò che
è accaduto?».
«Va
bene» replica lei, pensierosa. «Ci porti da me.
Cerchiamo di
rimettere in sesto Katherine e allora potrai ricondurla a
casa».
Akh
sorride mesto. «Non vorrei essere nei panni della bambina,
quando
rivedrà sua nonna».
Emily
Jane fa spallucce. «I rischi di dover rendere conto alla
propria
famiglia».
Lui
solleva scettico un sopracciglio. «E tu pensi sul serio di
esserne
immune?».
Gli
occhi verdi di lei si soffermano qualche istante sulla nera figura di
Pitch. Sembra indecisa su cosa rispondere.
«Per
come stanno le cose, direi che chi dovrà rendere conto,
stavolta, è
lui».
«Pff!
Che donna sadica» borbotta Akh, incredulo, guadagnandosi un
ghigno
pericoloso in risposta.
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Akh
ed Emily Jane sono riusciti a separare Katherine da Pitch solo dopo
che quest’ultimo è crollato privo di sensi a causa
della fatica
accumulata. Come lei gli ha chiesto, Akh riporta tutti e quattro nel
regno di Madre Natura ed Emily Jane si occupa di trovare una
sistemazione comoda per i suoi ospiti. Presto tuttavia si rendono
conto che la bambina è in condizioni ben peggiori di quanto
non
avessero immaginato in un primo momento. Lo spirito della Luce ha
tentato di aiutarla, ma non ha ottenuto alcun risultato degno di
nota.
«Non
ho idea di cosa abbia» ammette sconfortato, sentendosi
terribilmente
inutile in quel frangente.
«Le
Ombre le hanno fatto qualcosa» ragiona cupamente Emily Jane.
«Forse
mio padre è al corrente di ciò che le
è successo. Purtroppo non ha
ancora ripreso conoscenza» si rammarica.
«Lo
farà presto» la informa prontamente, nella
speranza di
tranquillizzarla. «Riesco a sentire da qui la Luce che lavora
alacremente per ripristinare il suo nucleo». Sbuffa una
risata,
scuotendo la testa. «Tornerà fin troppo in fretta
a tiranneggiarmi,
vedrai».
Emily
Jane si lascia sfuggire una risata divertita, schiaffeggiandolo poi
su un braccio per ammonirlo a non dire certe cose, soprattutto alla
presenza di determinate persone.
«Vorresti
forse tiranneggiarmi anche tu?» si informa ironicamente Akh.
«Chissà»
replica enigmatica lei. Lo osserva qualche lungo momento, tanto che
lui inizia seriamente a sentirsi a disagio. «Ti ho
già accennato a
quanto io trovi bizzarra l’idea che mio padre si accompagni a
uno
spirito tuo pari?» chiede d’un tratto.
«Ehm…
In effetti sì, lo hai fatto» commenta Akh, incerto
su dove voglia
arrivare quella donna imprevedibile.
Emily
Jane sorride, tutto sommato divertita.
«Sono
felice che sia così. Credo avesse veramente bisogno di un
sostegno
valido come il tuo» spiega.
Akh
arrossisce violentemente e distoglie velocemente lo sguardo, mezzo
morto dall’imbarazzo.
«Io
vado da mio padre. Aspetterò che si risvegli. Tu rimani con
Katherine, per favore. Se dovesse mai riprendere conoscenza, puoi
venire a chiamarmi» offre, alzandosi in piedi e
allontanandosi senza
aggiungere altro.
“Riprendere
conoscenza?” pensa Akh. “Certo, come no”
riflette sarcastico,
ben sapendo che difficilmente accadrà, non prima che Pitch
si sia
rimesso in piedi e abbia scoperto che cosa hanno fatto alla bambina,
per lo meno.
"La
luce crede di viaggiare più veloce di ogni altra cosa, ma si
sbaglia. Per quanto veloce viaggi, la luce scopre che
l’oscurità
arriva sempre prima, ed è lì che
l’aspetta." (Terry
Pratchett)
*
* * * * * * * * * * * * *
"La
più antica e potente emozione umana è la paura, e
la paura più
antica e potente è la paura dell'ignoto." (Howard Phillips
Lovecraft)
*
* * * * * * * * * * * * *
"La
consolazione di un dolore inconsolabile sta nella sua grandezza."
(Lou Andreas Salomè)
|
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Capitolo 64 *** Incubi ***
capitolo
64 – Incubi
«Katherine…
K-Katherine, no… Lei non… Vi prego…
La-lasciatela stare… Non…
non le fate del male… Katherine… No…
Per… P-per favore…».
Emily
Jane, crucciata, solleva gli occhi dal libro nel quale era assorta un
momento prima e li punta sul volto del padre, in quel momento
contratto e sudato, evidentemente preda di un qualche incubo ben poco
simpatico. Rapidamente si fa incontro al letto che ospita Pitch e
allunga una mano ad accarezzargli la fronte.
«È
solo un sogno. Non devi avere paura, papà» mormora
gentilmente al
suo orecchio.
Questo
però non sembra servire a placare l’evidente ansia
nell’animo
dello spirito addormentato, il quale continua imperterrito a dormire
e a sognare, senza accennare a un possibile risveglio né
tantomeno a
un sonno tranquillo.
«Papà,
svegliati, non è reale. Puoi sfuggirgli, sei molto
più forte di
così» lo sprona, cercando di sottrarlo alle
grinfie dell’infido
incubo.
«N-no…»
ansima Pitch «K-Katherine…» geme,
tremando d’angoscia.
«Svegliati.
Torna da me. Puoi farcela, lo so» soffia Emily Jane,
trattenendo il
suo viso fra le mani.
«Nh!»
rantola, aggrappandosi strettamente alle ignare coperte.
«Papà!»
esclama, strattonando la sua veste nera.
Con
un grido roco, gli occhi dorati di Pitch si spalancano terrorizzati e
ancora momentaneamente persi nelle ultime immagini
dell’incubo.
Infine riescono a mettere a fuoco la conosciuta figura della figlia e
Pitch sbatte più volte le palpebre, confuso ed esausto.
«Em-Emily
Jane?» chiede, quasi a volersi assicurare di avere
effettivamente di
fronte a sé sua figlia e non l’ennesima illusione.
«Sì»
conferma lei, con un sorriso gentile. «Ben tornato»
sussurra,
stringendolo in un esitante abbraccio.
«Mh»
sospira Pitch, stravolto.
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ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Per
qualche lungo minuto, Pitch si gode la piacevole sensazione di essere
stretto fra le braccia della figlia. Poi, incerto, socchiude gli
occhi e li fa vagare all’intorno, incuriosito.
«Dove
siamo?» mormora.
«All’interno
dei miei appartamenti» risponde di buon grado Emily Jane.
Ancora
il suo sguardo vaga, un po’ confuso, su ciò che li
circonda. Non
riesce a spiegarsi come faccia a trovarsi lì, in un luogo
che non ha
neppure mai visto, quando l’ultima cosa che ricorda era di
essere
immerso nelle profondità della terra alla ricerca
di…
«Katherine!»
esclama improvvisamente, con un brusco sussulto.
Come
ha fatto a scordarsi quel dettaglio fino ad allora? E dove si trova,
adesso, la bambina? Freneticamente riprende a sondare
l’ambiente,
ma di Katherine non c’è traccia.
«Dov’è?
Che cos’è successo? Perché non
è qui? E perché io sono qui? Lei
sta bene?».
La
tempesta di domande intontisce un po’ la donna che non trova
neppure il modo per tranquillizzarlo.
«Dov’è
Katherine?!» grida Pitch, sentendo il panico salire.
«Adesso
calmati, padre. Anche lei è qui, ma si trova in
un’altra stanza»
lo informa, con tutta la calma di cui dispone.
«Ho…
Ho bisogno di vederla… Adesso!» esclama,
visibilmente sconvolto.
«Non
è necessario che…».
Emily
Jane è costretta a interrompersi. Pitch ha sconsideratamente
tentato
di buttarsi, letteralmente, fuori dal letto, e lei, di conseguenza,
gli si è gettata contro per fermarlo e bloccarlo sul
materasso,
prima che potesse peggiorare una situazione già di per
sé molto
precaria.
«Sei
impazzito? Non lo vedi che non ti reggi in piedi?» sibila
contrariata.
Ma
la risposta caustica che si attendeva non giunge mai. Invece, basita,
osserva il padre affondare le lunghe dita fra i capelli scarmigliati
e cedere a un pianto colmo di dolore e stanchezza.
«Papà»
mormora Emily Jane, profondamente turbata.
Infine
si risolve a fare ciò che, a quel punto, appare necessario.
Appoggia
una mano sulla sua spalla e l’altra sul suo viso, attirando
in
parte la sua attenzione.
«Vado
a prenderla. Tu, però, non ti muovere di qui, te ne prego.
Torno in
fretta, te lo prometto».
Pitch,
stordito e con lo sguardo annebbiato, osserva distrattamente la
figlia scomparire velocemente oltre la porta e chiude strettamente
gli occhi, pregando di non impazzire prima del suo ritorno.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Come
una furia, Emily Jane fa praticamente irruzione nella camera che ha
riservato alla bambina, facendo, tra le altre cose, trasalire il
povero Akh, il quale la fissa costernato mentre si precipita su
Katherine come un grigio avvoltoio, la raccoglie con il maggior garbo
possibile dal suo giaciglio e gli volta le spalle decisa a lasciare
immediatamente la stanza senza una parola.
«Ehi!
Aspetta un po’» sbotta Akh, afferrandola per un
gomito.
Lei
si volta, facendo turbinare i lunghi e neri capelli come pericolosi
serpenti, e lo scruta con un’occhiata per nulla benevola.
«Devo
andare, Akh. Non ho proprio il tempo per fermarmi a fare quattro
chiacchiere con te, adesso».
Detto
questo, cerca di liberarsi dalla sua stretta per poter tornare
velocemente dal padre, ma non sembra che Akh sia d’accordo,
dopo
tutto.
«Che
cosa è successo? Questa sarà anche casa tua, ma
credo, a questo
punto, di avere il diritto di sapere perché ti comporti come
una
pazza, girando per casa e facendo venire un infarto agli
ospiti»
borbotta Akh, seccato.
«Come
una pazza?» sibila Emily Jane. «Ritieniti fortunato
che le mie mani
siano attualmente occupate a sorreggere la bambina. In caso
contrario, a quest’ora ti ritroveresti in ginocchio sul
pavimento,
alla ricerca dei tuoi preziosi attributi» lo minaccia.
Tuttavia
Akh, lungi dall’essere impressionato, soffia stizzito
«Ah, quindi
cosa? Servo solo da messaggero, fattorino e chauffeur? Non credi
forse opportuno informare la manovalanza delle faccende al di sopra
delle mie capacità?».
Emily
Jane si trattiene a stento dal mettere in pratica la sua precedente
minaccia. Stringe invece più saldamente al petto Katherine e
pianta
i suoi occhi verdi e glaciali in quelli nervosi di Akh.
«Mio
padre si è risvegliato. Sembrava andare tutto discretamente
bene, in
principio. Poi, non ho idea del come né tantomeno del
perché, ha
semplicemente perso la testa. Dice di aver assolutamente bisogno di
Katherine. Sospetto che se tu lo avessi visto nello stato in cui ho
dovuto vederlo io, avresti già provveduto a portargli la
bambina»
illustra gelida.
Tutto
ciò che rimane da fare ad Akh è deglutire a
disagio e lasciarsi
sfuggire un piccolo gemito sconfortato.
«Posso…
accompagnarti?» chiede dubbioso.
Lei
annuisce seccamente. «D’accordo» conferma
e, senza attendere
risposta, riprende la propria marcia per raggiungere il padre.
"Il
sogno è l'infinita ombra del Vero." (Giovanni Pascoli)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Preoccuparsi
soprattutto di due momenti della giornata: di quando ci si addormenta
e di quando ci si risveglia. Perché in entrambi occorre
sottoporre a
un esame gli atti già compiuti e quelli ancora da compiere,
dando
conto a sé stessi delle azioni compiute e prevedendo quelle
future."
(Pitagora)
|
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Capitolo 65 *** Piani ***
Capitolo
65 – Piani
Quando
Emily Jane e Akh entrano nella camera di Pitch, lo trovano
raggomitolato su sé stesso, intento a fare profondi respiri
con
l’obbiettivo di mantenere una parvenza di
lucidità.
All’appressarsi dei due, solleva cauto gli occhi e, scorgendo
la
piccola figura della bambina, li fissa su di lei senza più
distoglierli.
«Ecco,
te l’ho riportata, visto?» annuncia dolcemente
Emily Jane,
deponendo il suo leggero fardello fra le braccia tremanti del padre.
«G-grazie»
soffia Pitch, accarezzando piano i capelli della bambina.
Sì,
Katherine è nuovamente con lui, ora; ma per quanto ancora lo
sarà?
Pitch non ha scordato lo stato in cui l’ha ritrovata. Da
allora non
sembra che la situazione sia migliorata: Katherine è ancora
priva di
sensi, l’oscurità di quelle Ombre continua ad
avvelenare il suo
cuore.
«Ho…
bisogno del tuo aiuto, Akh» mormora Pitch, agitato.
«Pff!
Tanto per cambiare, giusto?» borbotta lo spirito della Luce
senza
riflettere.
Gli
occhi di Pitch si allargano, sorpresi e sgomenti, e le sue labbra
tremano d’angoscia.
«Io…
n-non» balbetta incerto.
Nel
mentre Akh, resosi immediatamente conto del pasticcio, si affretta a
porvi rimedio.
«Accidenti,
mi dispiace. Ho parlato a sproposito, come faccio quasi sempre del
resto» cerca di sdrammatizzare. Ma notando, con un certo
sconcerto,
che l’espressione dell’altro è ancora
confusa, aggiunge «Certo
che ti aiuto, Pitch. Avanti, dimmi che ti serve» lo sprona,
pregando
di non aver combinato un guaio serio con una manciata di parole.
«Mh…»
tentenna Pitch.
Le
sue braccia stringono con maggior decisione Katherine a sé.
Non è
più così convinto di voler mettere altri a parte
delle sue recenti
scoperte. Eppure lei ha assoluto bisogno di aiuto, non può
lasciarla
in quello stato, rischierebbe di perderla, di nuovo e forse questa
volta per sempre.
«C’è…
una questione della quale vorrei parlarvi» tenta, spaventato
dalle
possibili conseguenze dell’esprimere a voce alta
ciò che turbina
nella sua mente da qualche ora.
Emily
Jane si siede sul bordo del materasso e posa leggera una mano sul suo
avambraccio, in un gesto che vuol essere tranquillizzante; Akh invece
va a posarsi, come d’abitudine, sul davanzale della finestra
più
vicina.
«Siamo
qui. Ti ascoltiamo» lo rassicura lei con un piccolo sorriso
incoraggiante.
Così
Pitch, tremando e interrompendosi un numero spropositato di volte,
racconta loro dell’illuminante
conversazione avuta con le Ombre, di ciò che ora sa e di
ciò che
questa scoperta comporterà.
Akh
ed Emily Jane, seppur pallidi e sconvolti, rimangono in silenzio per
tutto il tempo necessario a Pitch per completare la sua narrazione.
Di frequente si lanciano occhiate preoccupate e si soffermano a
osservare il modo in cui Pitch stringe Katherine con mani tremanti.
Alla
fine il silenzio che permea la camera viene riempito dalla voce
pensierosa di Akh.
«E
Katherine? Che cosa le hanno fatto? Ho tentato più volte di
risvegliarla, ma niente ha funzionato».
Pitch
abbassa lo sguardo sulla bambina sopita.
«Avevano
intenzione di prendersela e controllarla» mormora con appena
un filo
di voce.
«Volevano
usarla per avere te?» chiede Emily Jane.
Pitch
annuisce lentamente. «Anche, sì. In
realtà vogliono entrambi»
rivela spaventato.
«Entrambi?»
domanda Akh, dubbioso. «A che scopo?».
«È
ovvio, no?» si intromette lei. «Vogliono riunire
l’anima divisa.
Non ha poi molta importanza che ora risieda in due custodi
diversi».
Akh
la fissa sconvolto e poi sposta lo sguardo su Pitch, come a chiedere
conferma.
«Sì,
è così» ammette Pitch.
«Hanno… avvelenato il suo cuore e la sua
mente con la loro oscurità, in modo da indebolirla e
controllarla.
L’anima, anche quella di Katherine, è immortale,
ma il suo corpo
non lo è affatto. Credo che contino di poterlo sottomettere
senza
troppa fatica» bisbiglia, raccapricciato e furioso al tempo
stesso.
«E
noi… che cosa possiamo fare?» domanda Akh,
sconvolto.
Pitch
solleva su di lui i suoi occhi dorati e serra strettamente la
mascella, preparandosi a quello che potrebbe rivelarsi un duro
confronto.
«Dobbiamo
contrastare l’oscurità che sta cercando di
possederla. Creeremo
per lei un piccolo nucleo di Luce che tenga lontano dal suo cuore e
dalla sua mente le Ombre che la stanno insidiando».
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
«Sei
pazzo?» prorompe Akh, allucinato. «Gli esseri umani
non hanno
nuclei di energia. Come pensi possa sopravvivere Katherine, che
è
solo una bambina, a una cosa simile?».
Pitch
lo fissa duramente. I suoi occhi mandano bagliori argentei e il suo
corpo freme d’angoscia.
«Pensi
che non lo sappia?» sibila arrabbiato. «Credi
davvero che non ci
abbia riflettuto? Cosa ritieni le accadrà, quando
l’oscurità che
è penetrata dentro di lei avrà invaso
completamente il suo corpo e
la sua anima? Non lo sai? Beh, lo dico io, allora: il suo corpo
mortale cederà e, nel migliore dei casi, finirà
col diventare lei
stessa uno spirito, mentre nel peggiore probabilmente
svanirà, con
la concreta possibilità che sia la sua anima che la mia
vengano
seriamente danneggiate o direttamente sequestrate dalle Ombre. Ora,
dimmi, quale prospettiva ti sembra più
accettabile?».
Akh
si passa mestamente le dita sugli occhi, desiderando di tornare a
essere il solito spirito della Luce: indisciplinato e poco incline
alla compagnia, desideroso solo di percorrere il cielo azzurro in
lungo e in largo e nient’altro. Invece si trova incastrato in
una
situazione per la quale non sarà mai abbastanza preparato.
«Non
lo so» risponde infine con voce incrinata. «Questo
è… Non è
questo il motivo per il quale sono stato creato» protesta
flebilmente.
Lo
sguardo di Pitch si attarda su di lui più a lungo del
solito, poi
scuote la testa.
«Beh,
sei fortunato. Io nemmeno lo conosco il motivo per il quale sono
stato creato. Anche se sospetto non esista affatto, quel motivo. La
qual cosa sarebbe piuttosto disturbante, ammetto» fa
ironicamente
notare.
«Credi
veramente che potremmo riuscirci?» chiede Akh, tremante.
Pitch
si sofferma sugli occhi chiusi di Katherine e sospira.
«Lo
spero, Akh. Lo spero davvero. Non vedo altra alternativa, ora come
ora. Se voi… se vi venissero in mente idee migliori,
sarò più che
disposto ad ascoltarle, davvero» mormora Pitch, e nel suo
tono, così
come nel suo sguardo, c’è disperazione.
Il
silenzio che segue le sue parole si protrae a lungo. Nessuno ha
davvero voglia di spezzarlo, nessuno vuole davvero essere il primo a
esprimere ciò che ognuno dei presenti pensa.
Pitch
accarezza fra le dita una mano di Katherine. È di nuovo
fredda.
Tutto è così sbagliato. Ha commesso un errore? In
cosa ha
sbagliato, questa volta? Avrebbe dovuto prevedere che Katherine
sarebbe stata un bersaglio? In che modo? Forse, quella mattina
nell’abetaia, non era stato un caso che le Ombre
l’avessero
attaccata; forse intendevano, già allora, impossessarsene e
usarla
contro di lui. Sì, deve essere così; e lui non
l’ha compreso in
tempo. Così, ora, per colpa della sua cecità,
Katherine rischia di
morire o perfino peggio. Già, perché quando ci
sono di mezzo le
Ombre, c’è sempre qualcosa di peggiore;
è sufficiente dare
un’occhiata alla sua lunga, inutile esistenza segregata
nell’oscurità.
«Papà».
La
voce incerta di Emily Jane lo riporta al presente in uno stato
d’animo perfino più turbato di prima.
«Ho…
paura» soffia, serrando strettamente le labbra per evitarsi
di
crollare di nuovo.
«Lo
so. È normale, ce l’abbiamo anche noi»
prova a rassicurarlo lei.
«Ad Akh tremano le ginocchia» butta lì
per sdrammatizzare.
«Ehi!»
borbotta contrariato Akh. Poi sbuffa, mugolando «Non sono
certo
l’unico».
Emily
Jane abbozza un ghigno tirato e circonda il collo del padre con le
braccia sottili.
«Visto?
Non sei solo» mormora sulla sua guancia.
Pitch
annuisce titubante. «No» esala con voce roca.
«Non lo sono più».
"Ognuno
ha il proprio passato chiuso dentro di sé come le pagine di
un libro
imparato a memoria e di cui gli amici possono solo leggere il
titolo." (Virginia Woolf)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Un
cuore che cerca, sente bene che qualcosa gli manca; ma un cuore che
ha perduto sa di cosa è stato privato." (Johann Wolfgang von
Goethe)
|
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Capitolo 66 *** Achernar ***
capitolo
66 – Achernar
«Non
possiamo farlo adesso. Non ti sei ancora ripreso. Rischieresti di
esaurire le energie e…».
Le
vivaci proteste di Akh vengono tacitate da un’occhiata
esasperata e
furente di Pitch.
«E
non succederà, Akh. Non con Katherine in questo stato. Speri
seriamente che io possa rimettermi in sesto, quando non posso neppure
fare affidamento sulla sua presenza?» lo ammonisce
severamente. «Non
c’è un’altra scelta. È
necessario agire al più presto o la
situazione non farà che peggiorare».
«Non
potrebbe occuparsene solo Akh?» suggerisce a quel punto Emily
Jane.
«Lo
ha già fatto, se non ho capito male» le ricorda
Pitch. «E,
francamente, non noto miglioramenti».
«Ha
ragione» soffia Akh, mortificato. «Lui è
necessario: il suo
collegamento con la bambina e con le Ombre è probabilmente
l’unica
speranza di riuscita di questo piano» ammette a malincuore.
«Ottimo»
ringhia Pitch, già stremato da tante inutili discussioni.
«Dunque
possiamo cominciare» decreta.
«A-adesso?»
pigola Akh, fissandolo con occhi enormi e terrorizzati.
«Adesso»
conferma asciutto Pitch. Poi lo scruta e sogghigna appena.
«Se mi è
concesso: sei più bianco del solito. Dovrei forse ricordarti
che non
sei tu quello che rischia di dissolversi come la rugiada a
mezzogiorno?».
Akh
borbotta proteste, per lo più insensate, e distoglie lo
sguardo,
indeciso se essere offeso o semplicemente sconvolto.
Emily
Jane, invece, circonda con le braccia le spalle del padre e, a una
sua occhiata perplessa, lo scruta seriamente.
«Forse,
se ti resto incollata addosso come una cozza attaccata allo scoglio,
tu non sparisci da nessuna parte» sbotta fra i denti.
Un
angolo delle labbra di Pitch si solleva, divertito.
«Idea
intrigante. Immagino valga la pena di metterla alla prova»
concede,
stranamente sereno.
Piano,
poggia una mano sul petto di Katherine e l’altra sotto la sua
testa, chiude gli occhi e inspira lentamente. Avverte le bianche dita
di Akh insinuarsi fra le sue e sospira. Una scintilla di Luce si
accende dietro i suoi occhi e Pitch comprende che la connessione ora
è attiva.
“Andrà
bene, Katherine. Andrà bene” ripete nella sua
mente, cercando di
arrivare fino a lei.
Le
dita di Akh si stringono sulla sua mano e Pitch sa che è il
momento.
Devono farlo ora, prima che sia troppo tardi per qualunque tentativo,
prima che tutto vada ancora una volta perduto.
La
sua coscienza affonda in quella di Katherine, e loro sono
lì,
nascoste nel buio che alimentano. Pitch digrigna i denti; vorrebbe
poter arrivare fino a loro e farle a pezzi con le sue mani fino a che
non ne rimanga che uno sbiadito ricordo, ma non è potente a
sufficienza per fare una cosa simile, così si accontenta di
osservare i loro movimenti sinuosi e a pregare che il suo piano
funzioni.
D’un
tratto un luminoso bagliore alle sue spalle sembra innervosire le
Ombre e scacciarle negli angoli più bui. Pitch sa di cosa si
tratta:
è la Luce di Akh che l’ha seguito, guidata da
quella che Pitch ha
portato con sé. Insieme sperano di avere la forza
sufficiente a
tenere lontane le Ombre il tempo necessario per creare un piccolo
nucleo di Luce all’interno di Katherine.
Ancora
Pitch si concentra, il bagliore dietro di lui aumenta. Lentamente,
volute di Luce si dipanano e serpeggiano all’intorno,
intrecciandosi e aggrovigliandosi fino a formare quella che, a prima
vista, ricorda una piccola stella, brillante e calda, che continua a
vorticare pigramente su sé stessa mentre il suo colore muta
da
dorato ad azzurro. Pitch abbozza un piccolo sorriso: quello
è il
colore dell’anima di Katherine. Che abbiamo davvero avuto
successo?
Fissa per diverso tempo, affascinato, quel piccolo globo e ne
distoglie l’attenzione solo quando un basso, fastidioso
sibilo
raggiunge la sua coscienza.
Pare
che, infine, le Ombre si siano ridestate e se la siano presa a male
per la loro intromissione. “Beh, poco male” pensa
Pitch. “Ormai
è tardi perché possano correre ai
ripari”. Sogghigna, intimamente
soddisfatto, e con cautela si appresta a lasciare Katherine e a
portare con sé la Luce di Akh.
Tuttavia
il ritorno al mondo reale non va esattamente nel modo in cui aveva
sperato. Davanti ai suoi occhi affaticati, tutto appare stranamente
grigio e silenzioso; nessun suono proviene, né da dentro
né da
fuori, ove prima si poteva facilmente udire la frenetica vita della
foresta che li circonda. Ora, invece, tutto appare desolato e morto.
Al suo fianco non ci sono più né Emily Jane
né Akh, e Katherine
non si trova più fra le sue braccia.
«Katherine»
mormora, guardandosi attorno.
Con
sgomento, scopre di non trovarsi più nel regno di Madre
Natura.
"Rabbia,
tristezza o frustrazione ci fanno capire che siamo in guerra con il
modo in cui le cose sono." (Byron Katie)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Dentro
di te si vede una cosa che è tonda, bella, triste. Mi fa
pensare a
una lucciola. È una cosa che c’è solo
quando stiamo in silenzio."
(Banana Yoshimoto)
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Capitolo 67 *** Senza Tracce ***
capitolo
67 – Senza Tracce
«Dov’è
mio padre?».
Akh
deglutisce nervosamente e scuote la testa.
«Era
qui fino a un istante fa» sibila Emily Jane. «Dove
è finito? Tu lo
sai. Devi saperlo, eri con lui» insiste.
«Mi
dispiace, io… non ne ho idea» ammette Akh.
La
bambina è ancora con loro, anche se non ha comunque ripreso
conoscenza. Emily Jane tenta invano di trucidare Akh a suon di
occhiatacce.
«Dobbiamo
trovarlo. Non può essere lontano».
«Oh,
può esserlo eccome» la contraddice lui.
«C’è la concreta
probabilità che se lo siano ripreso le Ombre. E se
così fosse,
chissà dove diavolo potrebbe trovarsi a
quest’ora» borbotta.
Emily
Jane scatta in piedi così bruscamente da far volare
all’aria la
poltroncina sulla quale era accomodata poco prima, e ha tutta
l’aria
di voler saltare al collo dello spirito della Luce (ma non
esattamente allo scopo di abbracciarlo).
«Credevo
che ti importasse di lui! Come… come puoi dire cose simili
con
tanto disinteresse?» strilla indignata.
«Disinteresse?!»
reagisce a quel punto Akh, alzandosi in piedi a sua volta.
«Sono
forse io ad aver passato gli ultimi secoli fingendo che non
esistesse?».
Emily
Jane sgrana gli occhi, presa in contropiede. «Tu…
non sai niente!»
ringhia adirata.
«Oh,
sì. Ti piacerebbe, vero?» la schernisce lui,
puntandole contro i
suoi occhi blu e indignati. «Beh, ti dirò una
cosa, Miss
Regina del Dramma:
non sono mai veramente stato l’idiota che tuo padre insiste a
definirmi. E sì, bella, so molte più cose di
quanto ti augureresti.
Ma questo, ora, non ci aiuterà affatto a ritrovarlo, ovunque
sia
finito». “Sempre che non sia davvero svanito per
sempre”
riflette, con un tremito sconvolto.
«Bene!»
sbotta Emily Jane. «Allora metti al lavoro il cervello e
cerca un
modo per scoprire dove si trova» prega con disperazione.
Akh
si passa i palmi sugli occhi stanchi e sospira. Conosce un modo, ma
in quel momento non è sicuro sia praticabile. Infine
risolleva lo
sguardo sulla donna e rimane su di lei, pensieroso.
«Cosa?»
lo incalza poco dopo, impaziente.
«Non
lo sai? Eppure ne abbiamo parlato per tutto il giorno».
Emily
Jane sposta l’attenzione da lui alla bambina stesa sul letto.
«Katherine?
Ma è un essere umano, come potrebbe aiutarci? Inoltre non si
è
ancora risvegliata» protesta.
«Il
piano di Pitch è andato a buon fine. Lei ha un piccolo
nucleo di
Luce, adesso. Forse, grazie a quello, ora potrei riuscire a
ridestarla» dubita Akh.
«E
poi? Anche ammesso che lei possa percepirlo, in che modo questo
potrebbe esserci utile?» insiste lei.
Lui
sbuffa, stizzito. «Beh, è pur sempre un punto di
partenza, no? Lo
sai che, se è davvero in mezzo alle Ombre, la mia Luce non
servirebbe a molto. Ma lei può trovarlo, esattamente come
lui ha
trovato lei» spiega impaziente.
«Va
bene» si arrende infine Emily Jane. «Hai ragione,
proviamoci. Se…
s-se andrà male, troveremo un’altra
soluzione» mormora incerta.
“Non
esiste un’altra soluzione” pensa Akh, senza
tuttavia farne
parola.
Checché
ne dica quella donna, l’improvvisa scomparsa di Pitch ha
turbato
anche lui, ben più di quanto non credesse possibile.
È necessario
che lo rintraccino, ha assolutamente bisogno di sapere che esiste
ancora.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Akh
si china cautamente sulla bambina e si sofferma a scrutarla con un
pizzico di curiosità. Azzurra: la sua Luce è
azzurra. Scuote la
testa, perplesso per il bizzarro scherzo del destino. Oh
chissà,
potrebbe anche non essere affatto un caso che l’unico essere
umano
attualmente dotato di nucleo lo possieda della medesima sfumatura dei
tratti appartenenti a uno spirito della Luce: ad Akh. Forse, anzi,
era in qualche modo predestinato a imbattersi in una tale anomalia.
«Akh»
bisbiglia Emily Jane, confusa dal suo comportamento.
«Sì»
si riscuote lui, scrutandola colpevole. «Scusa, mi ero
smarrito in
alcuni pensieri» prova a giustificarsi.
Sfiora
appena con i polpastrelli la liscia fronte di Katherine e riesce a
sentire
la familiare sensazione di Luce che lo accompagna da
un’intera
esistenza. Accosta il volto a quello della bambina, le sue labbra si
schiudono lentamente e la sua voce scivola all’esterno,
formando
suoni sconosciuti ai più: il verbo degli elementi. Comanda
alla Luce
di ridestarsi e sorgere, come un piccolo sole, riportando alla
realtà
colei che la custodisce. E così accade: pochi istanti dopo
le ciglia
di Katherine sfarfallano indolenti sui suoi occhi verdi e lei mugola
assonnata, stiracchiandosi pigramente.
«Uhm…
Ma è già ora di andare a scuola?»
borbotta, sbadigliando.
Akh
ed Emily Jane rimangono un istante a fissarsi vicendevolmente,
interdetti e sorpresi. Poi Akh ridacchia, suo malgrado divertito
dalla svolta inattesa.
«Akh?
Che fai qui?» si informa Katherine, incerta.
«Ehm…
A dire il vero non siamo a casa tua, principessa» le fa
impacciatamente presente.
«Come…?»
esordisce. Poi, guardandosi intorno, realizza quanto veritiere siano
le parole dello spirito e prorompe «Che posto è
questo?!» un filo
allarmata.
«Ehm…»
ritenta Akh, nervosamente. «È una storia
lunga».
«Oh,
no! Non iniziare con questa cosa della storia
lunga»
protesta vivacemente Katherine.
Infine,
continuando a scrutare ansiosamente attorno a sé, i suoi
occhi si
posano su qualcuno che non credeva avrebbe mai più rivisto.
«Emily
Jane?» chiede, incredula.
«Sì»
mormora la donna, imbarazzata.
Katherine
dà un’occhiata a ciò che riesce a
scorgere fuori dalla finestra
e, collegando gli indizi, giunge a una soluzione che, per quanto
pazzesca, sembra essere l’unica possibile.
«Questa
è casa tua?» torna a informarsi, desiderosa di
conferme.
«Esatto»
replica Emily Jane, piacevolmente colpita dalla mente veloce della
bambina.
«Perché
sono qui?» decide a quel punto di domandare, ritenendola di
gran
lungo l’informazione più importante in quel
momento.
Osserva,
con angoscia, gli sguardi preoccupati e nervosi che si scambiano i
due spiriti, e comprende che la risposta ai suoi dubbi non le
piacerà
nemmeno un po’.
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ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Con
un certo impaccio, Akh ed Emily Jane si sono presi del tempo per
spiegare a Katherine ciò che conoscono di quanto accaduto,
dal
momento in cui si sono separati per permettere a Pitch di incontrare
sua figlia, fino al momento presente.
Katherine,
costernata, ascolta tutto questo in silenzio e, stranamente, senza
mai interrompere; persino quando Akh le spiega di come e
perché lui
e Pitch hanno deciso di creare, per lei, un piccolo nucleo di Luce, e
di come ci siano effettivamente riusciti. Alla fine della lunga
spiegazione, e dopo che un silenzio scomodo ha ammantato
l’intera
stanza, c’è solo una cosa che interessa sapere a
Katherine.
«Dov’è
Pitch?».
E
quella è esattamente l’unica domanda alla quale
nessuno dei
presenti è in grado di dare una risposta.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
«Non
sappiamo dove si trovi in questo momento» ammette infine
Emily Jane,
scuotendo piano la testa. «Akh… Lui sospetta possa
essere stato
trattenuto dalle Ombre».
Katherine
ha gli occhi verdi sbarrati e fissi sulla donna. A stento respira e
sente nuovamente la disperazione crescere.
«Se…
se lo sono ripreso?» geme sconvolta.
L’idea
che il suo Pitch sia nuovamente nelle mani di quelle cose orrende le
stringe il cuore in una morsa dolorosa.
«Non
ne abbiamo la certezza» prova Akh, insicuro, in un maldestro
tentativo di rassicurarla.
«Dobbiamo
trovarlo» gracchia la bambina, sempre più agitata.
«Dobbiamo! Akh,
ti prego».
Un
vago sorriso tende le labbra dello spirito della Luce.
«È
proprio questo il motivo per cui ti ho risvegliata. Io…
credo che
tu possa ritrovarlo».
Lei
lo fissa costernata. «Cosa?! Ma… come?».
«Ehm…
Beh, ecco, non ne sono sicuro, in effetti» tentenna nervoso,
torturando fra le dita i suoi poveri capelli blu. «Tu e
lui… Voi
siete legati, in molti modi. Lo so che sei un essere umano, certo. Ma
forse… forse riusciresti a sentirlo, oppure… non
so, a vederlo,
magari. Non ho idea di come potrebbe funzionare,
però…».
Katherine
assottiglia gli occhi e annuisce seccamente.
«Dobbiamo
provare» conferma asciutta.
«Esatto»
mormora Akh, scorgendo Emily Jane annuire in accordo.
"Un
senso di mistero mi invase il cuore e la mente, quella percezione del
mondo come una pelle sottile su organi e ossa sconosciuti."
(Stephen King)
*
* * * * * * * * * * * * *
"L'uomo
che ha cessato di avere paura ha cessato di preoccuparsi."
(Francis Herbert Bradley)
|
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Capitolo 68 *** Insieme ***
capitolo
68 – Insieme
Un
senso di nausea e repulsione lo invade, nel momento in cui realizza
ciò che è accaduto. Qualcosa è andato
terribilmente storto e, in
qualche modo, le Ombre devono essere riuscite, ancora una volta, ad
aggrapparsi a lui e a portarlo con sé chissà
dove. Ma come è
accaduto? Forse che ci sia ancora una parte di oscurità
dentro di
lui, che gli impedisce di affrancarsi definitivamente dal loro
controllo? Se la sua anima (ciò che ne resta, per lo meno)
fosse
irrimediabilmente sporcata e compromessa, allora per lui non
esisterebbe possibilità al mondo di sfuggire loro. Oppure
è la Luce
momentaneamente annidata dentro di lui a non essere sufficiente a
tenerle lontane? Qualunque sia il motivo, il risultato non cambia:
è
nuovamente rinchiuso in loro compagnia e alla loro mercé.
Quel che è
peggio è che non sa se potrà essere abbastanza
forte da sfuggire
loro ancora una volta. E perché, poi? Se non dovesse
riuscire a
eliminarle, quelle torneranno sempre, minacciando la sua esistenza e
quella di coloro a cui tiene. Sgrana gli occhi, atterrito dalla
prospettiva. No, a questo punto è necessario che trovi la
forza per
liberarsene una volta per sempre.
«Sei
di nuovo con noi, Generale» mormorano quelle, assumendo una
sfumatura quasi gongolante.
«Non
per molto» sibila Pitch, deciso ora più che mai a
farla finita.
«Oh…
E dove speri di andare? La nostra compagnia non è
più di tuo
gradimento?» offrono ironicamente.
«Lo
è mai stata, forse?» borbotta, maledicendo la
facilità con la
quale riescono a distrarlo e farlo imbestialire.
«Assolutamente
sì» sibilano suadenti. «Per noi,
almeno».
«Basta!»
ringhia, desiderando di poter fare di loro cenere e polvere.
Sta
giusto apprestandosi a tentare di mettere in pratica i suoi propositi
quando, per un solo istante, qualcosa di accecante e improvviso lo
abbaglia. Ma davanti a lui c’è solo
oscurità e dolore,
nient’altro che le conosciute Ombre. Che cosa è
stato, dunque?
Confuso e irrequieto, Pitch si guarda attorno, senza tuttavia
riuscire a scorgere la fonte di quell’inatteso chiarore. Che
fosse
dentro di sé? Magari un avvertimento da parte della Luce che
si
porta dietro? No, non era un bagliore dorato, era… Pitch
sgrana gli
occhi, colpito dalla consapevolezza. Un bagliore azzurro: Katherine.
«Katherine»
soffia, sconvolto ed eccitato insieme.
Le
Ombre, attorno a lui, sussurrano ancora, ma l’attenzione di
Pitch
ormai è persa in altro; faccende ben più
importanti richiedono il
suo interesse. E mentre le Ombre sibilano indispettite, un angolo
delle labbra di Pitch si solleva di una speranza un poco esitante.
«Sono
qui» esala, socchiudendo gli occhi. «Sono qui,
Katherine. Sono tuo:
vieni a prendermi».
Un
ghigno si apre sul suo volto. La Luce lo avvolge ancora una volta, ma
questa, a differenza delle altre, è azzurra e, rapida, lo
afferra e
lo trascina via, strappandolo letteralmente dalle grinfie oscure
delle Ombre per ricondurlo a casa.
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«È
qui!» esclama Katherine, eccitata, facendo sussultare sia Akh
che
Emily Jane.
«Che
cosa…» prova Akh.
Ma
la bambina si è già rimessa in piedi e, senza
attendere oltre,
rapida imbocca l’uscita e si catapulta all’esterno,
seguita a
ruota dai due spiriti attoniti e un po’ preoccupati.
È
strano come Katherine, nonostante non possa conoscere il luogo,
sembri trovare con sicurezza la strada per giungere alla meta
desiderata. Veloce e sicura, poco dopo abbandona la dimora di Madre
Natura e si inoltra con decisione all’interno del suo dominio.
«Come
fa?» si interroga Emily Jane, corrucciata.
Akh,
svolazzante al suo fianco, scuote la testa, confuso quanto lei.
«Non
ne ho idea. Dove credi sia diretta?».
«L’hai
sentita, no? Credo che abbia davvero trovato mio padre»
replica,
incredula nonostante tutto.
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ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Katherine
non ha affatto un’idea chiara a proposito di ciò
che è accaduto.
Quello che sa, però, è di aver avvertito il suo
Pitch e di aver
desiderato riaverlo con sé, e di averci creduto sul serio, a
quel
desiderio, così tanto che, infine, si è convinta
di averlo
riacchiappato ancora una volta e riportato indietro dal posto buio
nel quale era finito. Proprio come, del resto, già altre
volte ha
fatto, in passato. Ma questa volta qualcosa è diverso. Lui
non era
fisicamente con lei, quando è successo; si trovava altrove,
in un
luogo oscuro e inaccessibile. Chissà se quel luogo si trova
nel suo
stesso mondo?
Da
interi, lunghissimi minuti, corre a perdifiato fra alberi enormi e
terreni ricoperti di muschio e pietre. Ha come l’impressione
di
aver trascorso gran parte della sua vita a rincorrere qualcosa, o
forse… qualcuno.
E
poi, d’un tratto, lo vede: Pitch, un’ombra
più scura fra le
ombre della foresta, che arranca lentamente e a fatica fra
l’intrico
di rami ed edera.
Katherine
prorompe in un esultante grido di gioia e aumenta ancora
l’andatura
per raggiungerlo il prima possibile. È segretamente
terrorizzata
all’idea di vederlo svanire nel nulla da un momento
all’altro.
«Pitch!»
esclama, ancora troppo lontana per i suoi gusti.
Lo
spirito solleva uno sguardo sorpreso e incredulo. Le sue labbra
tremano, accennando uno stentato sorriso, e le sue ginocchia fanno lo
stesso, arrestando suo malgrado il suo affaticato incedere e
costringendolo al suolo.
«Katherine»
soffia, senza mai perderla d’occhio un solo istante, con la
paura
che possa rivelarsi l’ennesima illusione.
Ma
non lo è, non questa volta. Katherine è reale,
ora, solida e
concreta come gli alberi che li circondano. E quando, poco dopo, le
sue piccole braccia gli circondano il collo, può sentire
anche il
suo morbido tepore, il profumo della sua pelle e dei suoi capelli, e
l’umidore delle sue lacrime.
«Shh,
shh» mormora fra i suoi capelli, stringendola a sé
con delicata
possessività. «Sono qui, Katherine. Sono
qui».
Fra
un singulto e l’altro, Katherine ripete il suo nome, ancora e
ancora, senza riuscire a capacitarsi di come lui possa essere di
nuovo con lei, ma assolutamente grata che così sia.
«L’ho
fatto, Pitch! Hai visto?» esclama agitata. «Ti ho
ritrovato. L’ho
fatto. Ci ho creduto, proprio come mi hai detto tu, e ci sono
riuscita. È vero! Sei… s-sei qui»
rantola, scoppiando nuovamente
a piangere.
«Lo
so, Katherine» le sussurra piano, accarezzandole gentilmente
la
schiena. «Ti ho vista. Ho visto la tua Luce
azzurra» conferma,
senza mai allentare la presa su di lei. «Sei stata
meravigliosa»
soffia, poggiando una guancia sui suoi morbidi capelli e sospirando,
esausto ma anche incredibilmente soddisfatto.
Ed
è proprio così che li ritrovano Akh ed Emily Jane
qualche minuto
dopo, quando infine riescono a raggiungerli. E non possono fare altro
che osservarli sbigottiti, chiedendosi come sia potuto accadere senza
tuttavia trovare alcuna risposta adeguata.
"Le
Ombre sono la nostra origine e destino. La luce ci fu data come un
dono inutile, che lampeggia tristemente prima che le ombre tornino di
nuovo sulla scena" (Francisco Rodriguez Barrientos)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Non
dar retta ai tuoi occhi e non credere a ciò che vedi: gli
occhi
vedono soltanto ciò che è limitato." (Richard
Bach)
|
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Capitolo 69 *** Altrove ***
capitolo
69 – Altrove
«Papà!».
Pitch,
con un poco di affanno, risolleva il volto e sposta lo sguardo sulla
figlia, abbozzando un sorriso tremolante.
«Sì»
soffia appena.
Lei
si inginocchia al suo fianco e posa un bacio sulla sua tempia.
«Sei
tornato davvero» mormora, ancora incredula.
«Mh…
Si direbbe, dopo tutto, che trattenermi in un unico luogo sia
più
arduo di quanto sia lecito aspettarsi» scherza, con il suo
solito
macabro senso dell’umorismo.
«Tsk!»
borbotta contrariato Akh. «Sei sempre il solito bastardo
borioso».
«È
vero» ammette Pitch, senza alcuna traccia di sarcasmo nella
sua
voce.
Abbassa
lo sguardo sulla bambina ancora fra le sue braccia e, tristemente, si
accorge che i suoi occhi sono chiusi. Cerca di alzarsi, ma le gambe
non lo reggono e torna ad affannare al suolo.
«Papà?»
si fa avanti Emily Jane, preoccupata. «Stai bene?».
«Non
esattamente» replica Pitch, continuando ostinatamente a
stringere le
braccia attorno al corpo caldo di Katherine.
«Andiamo»
si intromette Akh. «Ti riporto in camera, così
forse domani
riuscirai anche a camminare sulle tue gambe».
Tuttavia
Pitch non sembra intenzionato a dar retta allo spirito della Luce.
L’idea di doversi separare dalla bambina lo atterrisce; sente
di
avere bisogno della sua vicinanza per scongiurare la
possibilità di
andare in pezzi definitivamente. Quando Akh tenta di trarlo a
sé per
ricondurlo alla dimora della figlia, un senso di panico lo aggredisce
prepotentemente.
«No!»
grida, divincolandosi e affondando febbrilmente le unghie nel
cappotto di Katherine.
Emily
Jane posa una mano sulla spalla di Akh e, a un suo sguardo dubbioso,
scuote la testa.
«Porta
con te entrambi» gli suggerisce, gentile. «Non
credo sia una buona
idea allontanarlo da lei, in questo momento».
Akh
sposta lo sguardo su Pitch e annuisce.
«Immagino
tu abbia ragione. Probabilmente sono entrambi traumatizzati».
I suoi
occhi blu si posano su Emily Jane; sembra prendersi un momento per
ponderare una decisione, infine tenta «Stringiti a lui e alla
bambina. Li terrai uniti mentre sposto tutti nella camera che hai
dato a tuo padre».
Così
Emily Jane si aggrappa con una mano alle spalle del padre e con
l’altra ai fianchi della bambina, mentre Akh afferra
saldamente un
braccio della donna e, con un lampo abbagliante quanto una stella,
trasferisce il piccolo gruppo compatto di nuovo al sicuro
all’interno
degli appartamenti di Madre Natura.
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ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Quando
Akh ed Emily Jane adagiano Pitch e Katherine sull’unico letto
all’interno della camera che ha precedentemente ospitato
l’ex
Nightmare King, si rendono conto che le condizioni dei due sono
peggiori di quanto apparissero a un primo esame superficiale; perfino
la bambina, ora, ha un aspetto spettrale quasi quanto quello dello
spirito con il quale divide una parte di anima.
«Perché
sono in questo stato?» si domanda Emily Jane, ben oltre la
normale
preoccupazione.
Akh,
senza smettere di esaminare l’improbabile coppia, sospira e
scuote
la testa.
«Su
tuo padre ho ben pochi dubbi. Gli ultimi giorni hanno
sistematicamente prosciugato le sue già scarne riserve di
energia.
Non mi sarei aspettato nulla di diverso. Se devo essere sincero, non
faccio che stupirmi che esista ancora».
La
donna trae un brusco respiro e Akh solleva appena gli occhi su di
lei, per distoglierli quasi immediatamente e tornare sullo spirito.
«Perdonami.
So che non deve farti piacere sentirlo».
«No»
ammette lei. «Ma, dopo tutto, è la
verità. So che non c’è molto
che io possa fare per cambiarla».
«Non
sei l’unica» replica Akh, abbattuto.
Lei
lo scruta, impensierita ma anche in parte incuriosita.
«E
la bambina?» torna a informarsi.
Gli
occhi blu si spostano sulla piccola figura trattenuta dalle ostinate
braccia di Pitch.
«Katherine…
Io non lo so. Ho un’ipotesi, ma non è molto.
Parliamo di una
situazione del tutto nuova e senza precedenti, dopo tutto.
C’è
questa possibilità… Il piccolo nucleo di Luce che
abbiamo creato
per lei potrebbe averla aiutata a recuperare tuo padre ma, nel farlo,
potrebbe a sua volta aver richiesto un tributo».
Emily
Jane aggrotta le sopracciglia, interdetta.
«Di
che genere?».
«Un
favore per un altro» prova a spiegare Akh. «Un
prestito di potere
in cambio di un po’ di energia giovane e fresca,
diciamo»
ipotizza.
Lei
spalanca gli occhi, sorpresa e inquietata.
«Voi,
questo, lo sapevate?» indaga a quel punto.
Akh
scuote la testa. «Ovvio che no. Pensi seriamente che,
avendolo
saputo, tuo padre avrebbe permesso una cosa del genere?».
«No,
non lo credo» ammette. «Ma le Ombre dentro di lei,
allora? Non c’è
il rischio che possano farle del male, mentre lei si trova a corto di
forze?».
Lui
si mordicchia, pensieroso, un labbro e, titubante, annuisce.
«Sì,
immagino ci sia questo rischio».
«E
allora?» esclama lei, agitata. «Che cosa possiamo
fare?».
«Noi?»
soffia Akh, insicuro. «Francamente, non credo ci sia
realmente
qualcosa che sia in nostro potere fare, né per Katherine
né per
Pitch».
«Questo
è… inaccettabile!» si inalbera Emily
Jane, scattando in piedi. «A
che diavolo serve essere spiriti immortali dai grandi poteri, se
quando c’è bisogno noi siamo perfettamente
inutili?».
Akh
stiracchia uno stentato sorriso addolorato e la guarda con quella che
appare, a tutti gli effetti, pietà.
«Beh,
benvenuta nel mondo reale, Madre Natura».
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Grigio.
Di nuovo. Un ansito terrorizzato abbandona le sue labbra secche.
Cerca di muoversi, ma sente il proprio corpo rigido come marmo. Sta
per aprire la bocca e urlare tutto il raccapriccio che prova, quando
qualcosa di tiepido si posa delicatamente sul suo braccio.
«Non
temere, non sei in pericolo» mormora una voce conosciuta
appena
fuori dal suo campo visivo.
Emily
Jane. Se lei è lì, allora forse
c’è anche Akh e, soprattutto,
Katherine. Ancora prova a spostarsi, e ancora il suo corpo non gli
risponde. Perché tutto è così
difficile? Perché sente freddo,
ancora una volta, e non è in grado di scorgere nulla che non
sia il
grigio monotono e inquietante? Perché esiste ancora, se non
c’è
assolutamente nulla che possa fare?
«Nh»
prova a esporre, con davvero scarsi risultati.
«Stai
tranquillo, ti prego. Hai bisogno di riposo» lo prega la voce
preoccupata della figlia.
Tranquillo?
Come può pensare che possa rimanere tranquillo, se non ha
neppure la
possibilità di capire ciò che gli sta accadendo?
Se solo i suoi
occhi riuscissero a vedere qualcosa, se solo le sue mani potessero
sentire dove poggiano.
Prima
che i suoi dubbi trovino una risoluzione, il grigio torna a essere il
solito, infinito nero, mentre la sua coscienza viene nuovamente
trascinata alla deriva da un sonno pesante e senza sogni.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
«Come
sta?» giunge, improvviso ma rispettoso, il mormorio di Akh.
«Non
bene» replica Emily Jane, sospirando. «Poco fa si
è risvegliato.
Non sono nemmeno certa che mi abbia riconosciuta, a mala pena
sembrava presente. Era… molto agitato. Ho provato a
calmarlo, ma…».
«Non
ti ha dato ascolto» termina per lei lo spirito della Luce.
«No,
non lo ha fatto» si rammarica. «Alla fine ha perso
di nuovo i
sensi. Credi…». Emily Jane solleva lo sguardo
verde su Akh e lo
fissa, incerta e spaventata. «C-credi che tornerà
mai cosciente?».
Akh
storce le labbra in una smorfia addolorata e scuote la testa.
«Non
abbiamo modo di saperlo, purtroppo».
«Aspettiamo?»
chiede lei, sconfortata.
«Sì,
aspettiamo» conferma Akh, che a quella prospettiva non si
sente
affatto di umore migliore rispetto a lei.
È
già trascorso un intero giorno da quando hanno recuperato
Pitch e
Katherine dalla foresta e li hanno ricondotti alla dimora di Madre
Natura. Da quel momento, nulla sembra cambiato: Pitch, di tanto in
tanto, si ridesta per qualche attimo, tornando fin troppo presto
nell’incoscienza; Katherine, al contrario, è
sempre rimasta
addormentata in un sonno tanto profondo quanto impenetrabile.
Akh
ha ipotizzato che il loro stato venga influenzato reciprocamente e
che, se nulla accadrà per spezzare quella fase di stallo,
potrebbe
volerci ben più di qualche giorno perché uno dei
due (o entrambi)
tornino svegli e coscienti. Nel frattempo, se le Ombre dovessero
tornare all’attacco, né Akh né Emily
Jane saprebbero in che modo
proteggere i due dormienti.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Nuotare
è divertente, ma quello non sembra proprio un mare normale:
non si
vedono spiagge, da nessuna parte; il cielo è chiaro, ma non
scorge
il sole a illuminarlo; e quell’acqua è stranamente
calda, come
quella della vasca da bagno, ma più profonda e cristallina.
E poi
non ci sono pesci, solo acqua, tanta, che a tratti scintilla che se
sul fondo fossero posati dei diamanti; ma il fondo non si vede, e
neppure i diamanti.
Comincia
a essere stanca di nuotare. Ma che cosa succederà, quando
non avrà
più le forze per andare avanti, per tenersi a galla? Trema.
Non è
molto sicura di voler pensare a questo, ora. Fa un po’ paura.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Deve
svegliarsi.
Sa
bene che non è quello il mondo reale, e non può
proprio perdere del
tempo prezioso dormendo e facendo sogni assurdi.
Sì,
deve assolutamente svegliarsi.
Katherine
è là fuori, da qualche parte, e ha bisogno di
lui. Le ha promesso
che non l’avrebbe lasciata sola, eppure lo ha fatto,
già troppe
volte.
Deve
svegliarsi, lo deve fare.
Non
può arrendersi in quel modo. Non è ancora finita.
C’è ancora un
intero pianeta che ha giurato di liberare dalle Ombre che non gli
appartengono.
È
necessario che si svegli, se ha intenzione di mantenere la parola,
almeno questa volta.
Deve
proprio svegliarsi.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
«Pitch»
sussurra al suo orecchio, guardandosi fugacemente attorno per
accertarsi di essere il solo cosciente nella stanza. «Avanti,
gran
bastardo, torna tra noi e fammi vedere quello che sai fare».
Gli
occhi blu di Akh scrutano attentamente il viso immobile
dell’altro
spirito. Sospira e abbassa un momento le palpebre, amareggiato e un
po’ deluso. Che cosa pensava, che lo avrebbe accontentato,
solo
perché a chiederglielo era stato lui? Non che ci credesse
realmente,
ben inteso, ma in fondo, molto in fondo, un pochino ci aveva sperato.
«Sei
un maledetto…».
Sta
per inveirgli contro ma, prima che riesca a trovare l’insulto
più
adatto all’occasione, si arresta e solleva un sopracciglio,
interdetto. Ha notato, in effetti, che qualcosa di diverso sta
accadendo: Pitch non è più immobile come
è stato nelle ultime ore.
Ora ha ripiegato leggermente indietro la testa e le sue dita sono
flesse contro la pesante coperta.
«Pitch»
soffia, incredulo ed eccitato.
Si
inginocchia al suo fianco e posa cautamente una mano sulla sua
fronte.
«Torna
indietro. Ci sei vicino, lo sento. Io sono qui, vedi? Puoi sentirmi,
lo so che puoi farlo. Segui me, Pitch, come io ho fatto con te. Torna
indietro, Pitch. Torna indietro» lo esorta, questa volta ben
deciso
a credere in ogni singola parola.
Le
labbra di Pitch si dischiudono piano e lo spirito trae un faticoso
respiro. Le sue dita si contraggono rigidamente, artigliando la
coperta. Un rauco borbottio scivola lungo la sua gola bianca. Le sue
ciglia nere sfarfallano febbrilmente e, infine, permettono ai suoi
occhi dorati di mettere a fuoco l’elaborato soffitto ad archi
sopra
la sua testa.
«Akh?»
rantola, confuso.
«Sì»
ringhia lo spirito della Luce, esultante. «Sono
qui» soffia,
concedendo a Pitch un lieve sorriso di bentornato in risposta al suo
sguardo incerto. «E lo sei anche tu» conferma,
scostando appena la
mano dalla sua fronte. «Era ora che ti decidessi a
tornare» fa
presente, allargando il suo sorriso.
«Idiota»
bercia Pitch, con un soffio appena.
“Accade
facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.”
(Primo
Levi)
*
* * * * * * * * * * * * *
"La
mente, messa davanti a ogni specie di ostacolo, può trovare
una
scappatoia ideale nell’assurdo. L’indulgenza verso
l’assurdo
riapre all’uomo il regno misterioso abitato dai bambini."
(Andrè Breton)
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Capitolo 70 *** Colpe ***
capitolo
70 – Colpe
Con
qualche protesta da parte delle sue membra intorpidite e abusate,
Pitch riesce infine a riguadagnare una posizione più
decorosa,
appoggiandosi alla spalliera dell’ingombrante letto con
l’affanno
di un vecchio di novant’anni dopo aver fatto quattro piani di
scale
a piedi.
«Dannazione»
borbotta contrariato. «Sono proprio un rottame».
Akh
accenna un piccolo sorriso comprensivo.
«Non
essere tanto severo con te stesso, Pitch. Ti ostini a chiedere
troppo; spesso, pretendi ciò che non hai».
Le
labbra viola di Pitch si stirano in una smorfia seccata e, dopo
avergli riservato un’occhiata raggelante, distoglie lo
sguardo,
infastidito. È solo allora che la vede, e il suo incarnato
raggiunge
tonalità mai sperimentate prima e molto più
simili a quelle di un
morto (deceduto da più di una settimana), mentre il suo
cuore salta
un numero imprecisato di battiti.
«Katherine»
soffia, con un tremito nella voce.
Le
sue dita si posano insicure sul volto della bambina adagiata al suo
fianco, trovandolo molto più fresco di quanto dovrebbe
essere e di
quanto è sempre stato in passato. Le ombre scure, sotto i
suoi occhi
chiusi, sembrano persino più accentuate di quanto
ricordasse, e le
sue labbra non hanno più quella rassicurante sfumatura
rosata che
era solito sbirciare a volte di sottecchi, quando lei gli sorrideva.
«Che
cosa…» gracchia, costernato. «Che cosa
è successo? Perché è in
queste condizioni? Lei… stava bene. Avrebbe
dovuto… a-avrebbe
dovuto tornare in salute» geme con disperazione, trattenendo
una
delle piccole mani di Katherine fra le sue tremanti e trovandola
quasi gelata. «Akh» soffia, sconvolto, posando su
di lui uno
sguardo smarrito.
«Si
riprenderà, Pitch. Ora che sei di nuovo sveglio, vedrai,
tornerà
anche lei a stare bene» tenta di rassicurarlo come
può, per nulla
certo di stare facendo un buon lavoro.
«Ma
lei… Credevo si sarebbe ripresa. Io… i-in cosa ho
sbagliato?» si
domanda, mentre l’angoscia si impenna vertiginosamente dentro
di
lui.
«Non
hai sbagliato. Ci sono, probabilmente, sfuggiti alcuni dettagli,
ma…
abbiamo fatto quello che era in nostro potere per
proteggerla» gli
ricorda Akh, deciso a non permettere a Pitch di incolparsi per
qualcosa che nessuno di loro avrebbe mai potuto prevedere.
Tuttavia,
come c’era da aspettarsi, Akh e le sue sagge parole vengono
bellamente snobbate. Pitch, anzi, lo fissa per nulla persuaso e
apparentemente intenzionato a staccargli la testa a morsi per aver
aperto bocca al solo scopo di dargli aria (come del resto è
solito
pensare).
In
conclusione Akh, prevedibilmente, è costretto suo malgrado a
vuotare
il sacco e a illustrare a Pitch ciò che ha dedotto, in quel
tempo, a
proposito delle possibili motivazioni che hanno ridotto la bambina in
quello stato. E per quanto ci provi, non ha neppure la
possibilità
di sorvolare su qualche particolare poco piacevole, come per esempio
il fatto che ora, con tutta probabilità, Katherine
è immersa fino
al collo in qualche incubo gentilmente concessole dalle Ombre.
Lo
sguardo sconvolto che Pitch gli riserva, a resoconto ultimato, ha
l’insana capacità di torcere le budella dello
spirito della Luce,
al quale piacerebbe, a quel punto, potersene uscire con qualche
rassicurante frase di circostanza. Invece, tutto quello che sembra in
grado di fare è starsene fermo e zitto in attesa del
disastro
incombente.
«Non…»
gracchia infine Pitch. «Volevo solo… proteggerla
dalle Ombre»
bisbiglia, con voce incerta e tremante, facendo vagare uno sguardo
vacuo e confuso per la stanza.
«Lo
so, Pitch. È ciò che volevamo tutti»
assicura Akh.
«Allora…
perché, ancora una volta, ho fallito?!» grida,
mentre nella sua
testa la confusione si mescola pericolosamente con rabbia e
impotenza. «Perché non riesco a fare qualcosa di
buono? Mai!
Perché?» rantola, strattonando i capelli fra le
dita sottili.
«Pitch»
soffia Akh, poggiandogli gentilmente una mano sulla spalla nel
tentativo di confortarlo. «Non è così.
Tu non…».
«È
colpa mia» esala Pitch, interrompendo bruscamente qualunque
genere
di rassicurazione fosse in procinto di lasciare la bocca di Akh.
«È
sempre stata colpa mia, fin dal principio. Tutto questo non…
Niente
di tutto ciò sarebbe mai accaduto, se io non
l’avessi permesso».
«Ma
che diavolo dici?!» sbotta Akh, incredulo. «Non sei
stato certo tu
a spedire le Ombre a catturare Katherine. Come
potrebbe…».
Ancora
una volta, tuttavia, non è in grado di portare a termine la
sua
frase. In questo caso è stato sufficiente uno sguardo
addolorato di
Pitch per fargli mancare le parole.
«L’ho
fatto, invece» ribatte, con voce traballante. «Se
sono qui, nel
vostro mondo, è per colpa mia. Io le ho condotte fino a qui,
su
questo pianeta. Sono stato io» soffia, tremando.
«Pitch»
ritenta Akh, angosciato.
«E
ora… ora che non possono più avermi sotto il loro
controllo,
stanno cercando di distruggere tutto ciò che per me
è importante. E
io… io che cosa ho fatto? Che cosa sto facendo, per
impedirglielo?
Niente! Assolutamente niente. E lo sai perché?
Perché sono un
debole, lo sono sempre stato, è
quello…».
L’ispirato
monologo di Pitch viene bruscamente interrotto da un sonoro ceffone
che torce il suo collo a una velocità allarmante. Quando,
prudentemente e piuttosto frastornato, torna a volgere gli occhi di
fronte a sé, deglutisce nervosamente nello scorgere lo
sguardo
adirato dello spirito della Luce, il quale esibisce ancora una mano
levata in aria a conferma della sua precedente azione.
«Mh»
si limita a commentare Pitch, troppo stordito per permettersi altro.
«Deficiente»
sibila Akh, trattenendosi a stento dal colpirlo nuovamente, non fosse
altro che per evitare di dover attendere altri due giorni il suo
risveglio. «È così che speri di
liberarti di quelle Ombre? E come,
esattamente? Annegandole nelle tue lacrime e sensi di colpa, fino a
farle scivolare nel primo tombino a portata di mano? Per quale motivo
mi avresti schiavizzato nelle ultime settimane, costringendomi ad
allenarti con quella Luce? Hai deciso di arrenderti prima ancora di
averci provato?» ringhia arrabbiato.
Pitch
distoglie un momento lo sguardo e stropiccia nervosamente le coperte
fra le dita, poi lo osserva di sottecchi e sospira.
«No»
soffia, contrito. «Mi dispiace» offre desolato.
Akh
sbuffa seccato e, con un gesto impaziente della mano, replica
asciutto «Sì, sì, d’accordo.
Vedi di tornare in te. Qui c’è
parecchio lavoro che ti aspetta».
E
chissà perché, quella ha tanto
l’aspetto di una minaccia.
"Se
scelgo di considerare gli errori solo dei fallimenti, la mia
motivazione si esaurirà in fretta. E velocemente
smetterò di
cercare, di impegnarmi. Se invece vedo negli errori dei passi
inevitabili per raggiungere l’obiettivo, ogni scacco mi
stimolerà
a proseguire con determinazione ancora maggiore." (Pietro
Trabucchi)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Non
c’è nessun testimone così terribile,
nessun accusatore così
implacabile come la coscienza che abita nel cuore di ogni uomo."
(Polibio)
|
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Capitolo 71 *** Priorità ***
capitolo
71 – Priorità
«Padre».
Piano,
Pitch distoglie lo sguardo dal paesaggio al di fuori della finestra
che è rimasto a osservare negli ultimi, lunghi minuti, e si
volta
concedendo un poco della propria attenzione alla nuova presenza.
«Non
dovresti affaticarti così. Non hai ancora recuperato le
forze.
Sarebbe forse più saggio se tu rimanessi a riposo ancora per
qualche
tempo, non pensi?» azzarda Emily Jane, soppesando il padre
con
sguardo preoccupato.
«Mh»
soffia Pitch, poco convinto.
I
suoi occhi sono rivolti nella sua direzione, ma la sua mente
è
altrove e non trova la possibilità di dare retta a
ciò che lei ha
da dirgli.
«Padre»
riprova Emily Jane, mentre l’ansia sale.
«Non
so… cosa fare. Io… credevo di saperlo ma, ormai,
nulla è più
chiaro. Qualunque decisione io possa prendere, non sarà
mai…».
Abbassa
lo sguardo, fissandolo sulla sua mano aperta verso l’alto e
un
tremulo respiro abbandona le sue labbra.
«Vorrei…
continuare a esistere, ancora per un po’. Solo…
solo un pochino
ancora. Credi che… questo mio desiderio sia
egoista?».
Emily
Jane annulla la poca distanza che li separa e circonda i suoi fianchi
con le sottili braccia, poggiando la fronte sulla sua spalla.
«No,
non lo è, papà. Lo vorrei anche io, e sono pronta
a scommettere che
sia così anche per Katherine e Akh». Solleva gli
occhi, puntandoli
nei suoi e sostenendo con decisione il suo sguardo malinconico e un
po’ perso. «Se esistesse un modo, uno solo, sarei
pronta a
sfruttarlo. Se fosse solo per un mese, perfino per un singolo giorno,
non mi importerebbe. Sarebbe comunque un giorno in più nel
quale
poterti avere con me» mormora, sospingendo il volto contro la
sua
spalla.
Pitch
chiude lentamente gli occhi e posa un bacio fra i suoi lunghi
capelli, accarezzandoli dolcemente fra le dita.
«Grazie»
soffia.
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La
punta del suo dito scorre lenta e leggera, sfiorando le nere
sopracciglia aggrottate e sostando qualche momento sulla tempia,
quasi in ascolto di qualcosa, qualcosa che non è in grado di
sentire
ma che ronza assillante nella sua testa, in attesa che qualcuno si
faccia avanti. Ed è proprio ciò che lui ha
intenzione di fare; non
è più tempo di attendere, è necessario
che prenda in mano la
situazione e che sistemi qualcuno dei problemi che si sono
fastidiosamente accumulati durante la sua assenza.
«Katherine»
bisbiglia al suo orecchio. «Sono qui. Ascolta me, non loro.
Segui
me. Loro ti stanno mentendo, Katherine. Ascolta la mia voce e torna
da me. Puoi fidarti; non ti deluderò di nuovo, te lo
prometto. Ma
adesso, Katherine, è tempo che tu faccia ritorno. Ora, prima
che sia
troppo tardi».
Il
suo cuore trema mentre, piano, poggia la fronte sulla sua e prega che
lei possa sentirlo e decida di dargli ascolto.
Non
c’è più tempo; Pitch sente che, ormai,
non è più possibile
tornare indietro, né fermare gli eventi. Tutto
finirà, e lo farà
in fretta, troppo perché lui possa evitarlo. E allora
stringe i
denti e raddrizza le spalle: se è così che deve
andare, Pitch è
pronto ad accettarlo e a fare ciò che è
necessario perché, quando
tutto sarà concluso, coloro che rimarranno siano al sicuro.
E, per
cominciare, deve riportare indietro la sua piccola, dolce Katherine
che, negli ultimi due anni, ha gelosamente custodito e accudito una
parte della sua anima. Lui le appartiene, dopo tutto; lei è
ciò che
lui non è mai stato e che mai potrà essere: una
casa alla quale
fare ritorno e nella quale sentirsi al sicuro, finalmente.
«Katherine»
mormora incessantemente sulla sua tempia. «Ti prego, apri gli
occhi.
Torna da me, Katherine, torna da me» soffia, lasciando che le
sue
labbra si posino leggere sulla sua pelle fresca.
Le
sue palpebre si abbassano, lentamente, impedendo momentaneamente ai
suoi occhi di vedere ciò che hanno di fronte, concentrandosi
invece
su ciò che non possono scorgere ma che è comunque
lì, poco oltre
la sottile barriera fisica che racchiude l’essenza della
bambina.
Nero,
è tutto ciò che riesce a scorgere inizialmente.
Un nero molto più
profondo del buio della notte e dei suoi occhi chiusi. Il buio della
paura e della confusione; l’oscurità del caos.
«Non
potete averla» sibila Pitch, immerso in quella
oscurità. «Non sarà
mai vostra» promette, tendendo una mano nel buio.
Fievole
e incerto, un tremulo bagliore rischiara timidamente una piccola
porzione di quella sconfinata oscurità, che sembra
addensarsi
attorno a lui come vischioso petrolio. Inspira. Uno sfrigolio
serpeggia attraverso le sue terminazioni nervose, disperdendosi
all’esterno.
«Katherine»
mormora, mantenendo gli occhi ostinatamente chiusi. «Ascolta
la mia
voce, ti prego. Vieni da me. Ti mostrerò la strada, faremo
ritorno
insieme» promette, concentrandosi fermamente sul ricordo
della sua
anima azzurra. «Ti aspetterò, Katherine. Non ti
lascerò più
sola».
«Davvero?»
soffia incerta una piccola voce poco lontano.
Le
labbra di Pitch si distendono in un morbido sorriso e, piano,
annuisce.
«Sì,
davvero» conferma sicuro.
«Io…
non voglio perderti, Pitch» prega, con voce tremante.
«Non
accadrà, Katherine. Te lo prometto. Una parte di me
rimarrà con te
per sempre».
Una
piccola mano tiepida si stringe alla sua ancora tesa nel vuoto e
Pitch, cautamente, riapre gli occhi, osservando con stupore e gioia
insieme la bambina che lo guarda con i suoi occhi verdi accesi di
speranza e… fiducia.
«Io
ti credo, Pitch» sussurra Katherine, appoggiando il volto
contro la
sua veste e aggrappandovisi tenacemente con le corte dita.
«Portami
via, Pitch. Portami a casa, con te».
E
Pitch annuisce, sollevando un angolo delle labbra. Le si inginocchia
di fronte, l’avvolge fra le braccia e la stringe al petto. Le
sue
labbra si muovono piano, mentre insieme scompaiono dal mare di
oscurità per riemergere nel mondo reale. Katherine riapre
finalmente
gli occhi e offre a Pitch uno dei suoi sorrisi che tanto erano
mancati allo spirito.
«Ti
voglio bene anche io, Pitch».
"La
speranza. La quintessenziale illusione umana è al tempo
stesso la
fonte della vostra massima forza e della vostra massima debolezza."
(Matrix Reloaded - film)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Le
cose reali nel buio non sembrano più reali dei sogni."
(Murasaki Shikibu)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Vi
dirò soltanto che mi lasciai pilotare nel buio da
qualcheduno che
m’aveva preso in silenzio per la mano.” (Giorgio
Bassani)
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Capitolo 72 *** Eclissi ***
capitolo
72 – Eclissi
«Voglio
venire anch’io! Ti prego, Pitch, lasciami venire con
te».
I
suoi occhi dorati la fissano, costernati.
«Katherine»
soffia esitante. «Io non…». Scuote la
testa. Il solo pensiero di
portarla davvero con sé lo fa rabbrividire di terrore.
«Non è
possibile, Katherine. È troppo pericoloso. Correresti dei
rischi
inutili» tenta di spiegarle ragionevolmente.
La
bambina però, come c’era da immaginarsi, non
sembra minimamente
propensa ad ascoltare le ragioni dello spirito. Alle sue misurate
parole si imbroncia e lo fissa con sguardo deluso e tradito.
«No,
no!» esclama, scompigliandosi selvaggiamente la chioma
già in fin
di vita. «Tu vuoi andare là da loro, da solo.
Ti… ti faranno del
male, Pitch!» grida disperata.
«Ho
giurato che…» tenta lo spirito, subito interrotto
dalle obiezioni
della bambina.
«Non
mi importa. Non è giusto e… e io non voglio! Mi
avevi promesso di
rimanere con me» protesta turbata.
Pitch
sospira, stremato. La osserva con preoccupazione vagare per la grande
stanza come un’anima in pena. Sa di starla facendo soffrire,
di
nuovo. Ma, onestamente, non vede alternative. Non può
tirarsi
indietro, non ora, non più ormai. È tempo che
agisca per porre fine
a una situazione che si è già protratta fin
troppo a lungo. Ma ciò
significa, tra le altre cose, dover fare i conti con ciò che
invece
desidera la piccola Katherine; e quello è decisamente un
altro paio
di maniche.
«So
bene cosa ti ho promesso, e non è davvero mia intenzione
mancare
alla parola. Tuttavia… Non posso permettere che continuino a
proliferare su questo mondo. Loro non appartengono al vostro pianeta;
è necessario che spariscano una volta per tutte
e…».
«Bene!»
sbotta Katherine, arrabbiata. «Ma ci sono in giro mucchi di
spiriti
che possono pensarci. Non devi per forza farlo tu» rimarca
cocciutamente.
«Katherine»
soffia Pitch, massaggiandosi le tempie doloranti.
«Sì,
il mio nome lo conosco già, grazie» rimbrotta
sarcastica. «Se vuoi
andare tu, io vengo con te. Se io non posso venire, nemmeno tu ci
vai» intima, ormai a corto di pazienza.
Pitch
non ha la minima idea di come fare a convincerla che no, non
è
affatto una buona idea presentarsi al cospetto delle Ombre in
compagnia di una bambina umana indifesa e, per di più,
oggetto del
loro dubbio e insano interesse. Certo, potrebbe svignarsela alla
chetichella mentre lei è impegnata in altro; ma sospetta
che, una
volta scoperto il misfatto, non solo ne uscirebbe furiosa, ma
tenterebbe comunque di raggiungerlo, ovunque egli si trovi, non
foss’altro che per dirgliene quattro e prenderlo a calci
sugli
stinchi. No, decisamente non può proprio farle un torto
simile; deve
assolutamente trovare una soluzione che gli permetta di allontanarsi
sapendola al sicuro dalle loro fameliche grinfie, e lo deve fare in
fretta, il tempo stringe.
«Ascolta,
Katherine, so bene che non ti piace l’idea che io mi trovi
nuovamente davanti a loro. Ma non… Non capisci? Non posso
portarti
con me. Se ti accadesse qualcosa, se non riuscissi a proteggersi e
loro tentassero nuovamente di catturarti, come… come potrei
perdonarmelo? Tu sei…». Pitch si interrompe
bruscamente e ansima
scorgendo lo sguardo addolorato della bambina.
«Katherine» soffia,
preoccupato.
«Certo»
replica Katherine con voce raschiante. «Tu vuoi tenermi
lontana
perché ti preoccupi per me. E io, allora? Pensi che sono
troppo
piccola per preoccuparmi? Credi che invece a me non importa se ti
capita qualcosa di brutto?» geme, tremando come una foglia.
«Quindi,
perché tu puoi avere paura per me e io, invece, non posso
avere
paura per te?».
Pitch
stringe i denti e si impone la calma. Sa bene che Katherine, in
fondo, ha ragione. Ma come può pretendere che lui la conduca
in
mezzo a quelle creature pericolose? Sarebbe una follia.
Scuote
la testa, deciso. «Non posso farlo, Katherine. Mi
dispiace».
«Non
è vero» sibila, fissandolo duramente.
Serra
i piccoli pugni e gli dà le spalle, marciando rigidamente
fino alla
porta che apre e richiude con forza dietro di sé,
lasciandolo da
solo nella stanza, in compagnia unicamente dei suoi pensieri.
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Di
nuovo da solo. Si direbbe che non sia particolarmente portato
nell’arte del coltivare i legami. Sospira, per la milionesima
volta
da ché tutto ha avuto inizio, ovvero dalla fredda mattina di
gennaio
durante la quale ha creduto di aver ritrovato, finalmente, la
libertà. Ma la libertà, avrebbe dovuto
immaginarlo già allora, ha
un prezzo; niente viene concesso per niente, è necessario
offrire
qualcosa in cambio. Ma cosa è rimasto a Pitch da poter
offrire? Il
frammento di anima ancora ostinatamente attaccato a lui, forse?
Oppure la sua non-vita oramai agli sgoccioli?
«Patetico»
sibila, insultandosi mentalmente.
Deve
andare. Lo sa bene, questo. Non c’è una seconda
scelta, nessuna
pausa, nessun possibile rinvio, nessun genere di scappatoia.
Digrigna
i denti. Il palmo di una mano sbattuto rumorosamente contro la
superficie fredda e trasparente di un vetro che, solo, lo separa dal
mondo. Quello stesso mondo che mai lo ha voluto e che centinaia di
volte lo ha dimenticato, nonostante i suoi sforzi. E con buona
probabilità nemmeno questa volta verrà ricordato.
Forse, chissà, è
giusto così.
Ancora
una volta i suoi occhi si attardano a osservare la camera silenziosa.
Ricordi, sensazioni, odori; tutto quanto archiviato e custodito
gelosamente nella sua testa. Frammenti di una piccola parte della sua
esistenza, che andranno perduti per sempre nel momento in cui
cesserà
di esistere.
Chiude
gli occhi. Il suo cuore batte ancora, veloce come quello di un
piccolo cerbiatto spaventato. Ma non è più il
momento della paura,
né dell’indecisione. È il momento di
andare avanti, di trovare
una fine.
Le
sue dita scivolano lentamente via dal vetro appannato e si posano
leggermente sul suo petto. Gli ultimi granelli di un lontano ricordo
scivolano via assieme a una vecchia immagine sbiadita dal tempo.
Dischiude
gli occhi; le iridi dorate non sono che un sottile anello di luce
attorno all’oscurità della pupilla, come due
piccole eclissi di
sole. Il tempo è finito.
«Mi
dispiace» mormora, un momento prima di svanire dalla stanza,
lasciando dietro di sé solo il riverbero di un bagliore
dorato.
"La
guerra finirà solo quando i padri ameranno i propri figli
più di
quanto odino i propri nemici." (Proverbio arabo)
*
* * * * * * * * * * * * *
"La
vita dell’uomo è una lunga marcia attraverso la
notte; nemici
invisibili lo circondano, la stanchezza e il dolore lo torturano ed
egli avanza verso una mèta che pochi possono sperare di
raggiungere
e dove nessuno potrà sostare a lungo. Uno per uno, mentre
procedono,
i nostri compagni scompaiono alla vista, colpiti dagli ordini
silenziosi della morte onnipotente." (Bertrand Russell)
|
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Capitolo 73 *** Incertezze e Risoluzione ***
capitolo
73 – Incertezze e Risoluzione
È
nuovamente l’oscurità ad accoglierlo e dargli il
benvenuto. O
forse, nel suo caso, sarebbe più corretto definirlo un
bentornato.
Non che fosse nei suoi piani originari presentarsi al loro cospetto;
ma si sa: il tempo e le esperienze mutano le necessità.
«Sei
tornato, Generale» sussurrano frementi al suo lento passaggio.
«Corretto»
conferma distaccato.
«Sei
qui per restare?» si informano con affettata gentilezza.
Un
nero sopracciglio si inarca seguendo la perplessità del
proprietario.
«Invero,
vi reputavo più intelligenti» replica pensieroso.
«Che vi abbia
sopravvalutate, in fin dei conti?» dubita.
La
grotta sotterranea, umida e buia, nella quale si trovano in quel
momento viene improvvisamente saturata da un fastidioso stridio,
sintomo del fatto che loro non hanno preso affatto bene le sue
irrispettose parole.
«Sei
– Molto - Scortese» ansimano adirate.
«Mh…
Davvero?» replica in tono annoiato. «E cosa mi dite
di voi? Neppure
il vostro atteggiamento, se mi è concesso dirlo, si
è mai rivelato
particolarmente rispettoso. Che nessuno, fino a ora, ve lo abbia mai
fatto notare, è grave lacuna a mio avviso. Tuttavia, non
è questo
il motivo che mi ha spinto fino a qui, oggi».
Il
silenzio, tutto attorno, sembra saturo di tensione e aspettativa.
Pitch sta usando gran parte della sua concentrazione che, si sa, non
abbonda mai, per tenere sotto controllo le sue reazioni istintive.
Per il momento ritiene di aver fatto un lavoro discreto.
«Parla,
dunque!» sbottano infine le Ombre, evidentemente giunte al
limite
della loro pazienza, almeno per quel giorno.
Pitch
si ritrova a sospirare, per l’ennesima e, chissà,
forse ultima
volta. Molti sono i punti rimasti ancora oscuri, nonostante abbia
fatto l’impossibile per riannodare i fili della sua esistenza
e di
quella di coloro che gli erano e gli sono legati. A nulla è
tuttavia
valso tutto il suo impegno, e ci sono almeno un paio di questioni che
vorrebbe risolvere prima che tutto finisca.
«Ho…
delle domande» riprende infine la parola.
La
terra, attorno a lui, trema e il sibilo delle Ombre aumenta fino a
divenire quasi assordante.
«Domande?»
dubitano, in un tono che sembra perfino sorpreso. «Per
noi?».
«Esattamente»
ribatte Pitch con decisione.
«Molto
bene» acconsentono, apparendo in parte compiaciute.
«Sentiamo!»
ordinano.
Socchiude
gli occhi e prende un profondo respiro. “Tutto questo
è davvero
necessario ai miei scopi?” si chiede, avvertendo dentro di
sé
l’angoscia salire. I suoi occhi si assottigliano nel mettere
a
fuoco le figure a tratti evanescenti delle Ombre che lo circondano.
“Sì” decide, non senza una punta di
rammarico, “lo è”.
«Quando
mi avete aggredito, la prima volta, su quel lontano e isolato
pianeta-prigione, forse soprattutto grazie ai Dream Pirates ho potuto
percepire i suoi sogni. L’ho fatto come se fossero parte di
me, ma
non lo erano. Appartenevano a qualcun altro; appartenevano a lei. Ho
creduto fossero stati inviati da qualche maledetto Capitano delle
Stelle per… torturarmi, invece provenivano da mia figlia.
Voi…
eravate al corrente di ciò? Sapevate che lei era da qualche
parte,
fra le Galassie e… s-sognava me?».
Altri
sibili si spandono lungo le pareti di roccia, giungendo in modo
così
fastidioso alle sue orecchie.
«Naturalmente,
Generale. È stato necessario qualche tempo, in effetti. Ma
conoscevamo la verità ancor prima di essere
libere».
Le
sue ciglia nere si posano, delicate, sugli zigomi spigolosi. I suoi
denti scricchiolano sinistramente lungo la mandibola contratta. Un
lungo, vibrante respiro scivola pesante all’interno della sua
gola
contratta raggiungendo poco dopo l’aria fredda esterna.
«Per…
più di mille anni ho continuato a credere che non esistesse
più. E
per tutto quel tempo voi… l’avete sempre
saputo».
«Evidentemente
sì. Ma vedi, Generale, tu ci servivi, e non sarebbe stato
utile, per
noi, che tu conoscessi alcuni… dettagli.
Lo hai pur visto anche tu, no? Quanti secoli ti ci sono voluti per
tornare potente, dopo l’incontro con tua figlia?».
Giusto.
In fondo ciò che interessava loro era accumulare potere per
continuare ad alimentarsi e divenire sempre più temibili. Un
pericoloso circolo vizioso, con lui in mezzo a fare da perno, mentre
la sua vita andava alla malora, sprofondando sempre di più
in
un’oscura melma nauseabonda.
«Capisco»
soffia, apparendo pensieroso. «E ditemi, invece, della
bambina di
Santoff Claussen, la stessa che in seguito è divenuta un
guardiano
al servizio dell’Uomo nella Luna. Perché
lei?».
Il
buio, attorno, sembra infittirsi ulteriormente. Non ha idea di come
ciò sia possibile, eppure riesce a sentirlo
chiaramente, come se fosse ancora parte di lui. Forse che non se ne
sia mai realmente liberato? Un’ingenua illusione, solo questo
era?
No, non è così: la Luce, la stessa che lo sta
consumando, è ancora
tutta lì, dentro di lui, e brucia ancora come la prima volta.
«Lei
era un buon veicolo» rispondono, distogliendolo dai suoi cupi
pensieri per riportarlo a una realtà ancora più
cupa. «Lei è
stata utile. Avevate qualcosa in comune, dopo tutto. Ti ha ricordato
quanto ancora di umano ci fosse in te, quanto realmente debole tu
potessi essere. E lo eri, lo sei ancora. Ma a questo porremo
rimedio».
Dietro
le sue palpebre chiuse balugina uno scintillio argenteo.
«I
suoi ricordi…» soffia incerto.
«Nulla
di importante» assicurano. «Ma hanno certamente
fatto il loro
lavoro per confondere i tuoi».
«Li
ho… distrutti» tentenna, cercando una spiegazione
che non è in
grado di trovare.
«Chiaramente.
Non erano destinati a te. Per quale motivo questo dovrebbe
impensierirti?» indagano, palesemente incapaci di comprendere
il
motivo di tanto scalpore. Tanto più che, in tutto quel tempo
trascorso insieme, hanno fatto molto peggio che polverizzare qualche
futile ricordo.
Che
fosse stato poco più di uno stolto soldato cieco, era parso
chiaro
fin dall’inizio. Solo ora, tuttavia, Pitch si rende conto di
quanto
realmente non abbia mai avuto nessun tipo di controllo sulla sua
esistenza.
Lentamente,
le sue palpebre tornano a sollevarsi, facendo giungere
l’oscurità
circostante fino ai suoi occhi che, ora, hanno la stessa argentea
luminosità della Luna che da sempre ha odiato senza mai
chiedersi
realmente il perché.
Non
è più il tempo di domande. Le risposte che
desiderava le ha avute;
risposte che, come prevedeva, lo hanno colpito e ferito, lasciandolo
ansante e molto, molto arrabbiato. Ma, in fondo, non è forse
questo
che voleva?
Le
sue labbra si stirano in un ghigno malevolo e concede loro una fugace
occhiata ironica.
«Un’ultima
domanda per voi» soffia, fissando lo sguardo in un punto
indefinito
nel fitto delle ombre. «Avete fatto testamento?».
Poi,
l’oscurità scompare inghiottita dalla famelica
Luce, e con essa le
attonite Ombre.
“Non
è la paura a fare la differenza tra un eroe e un vigliacco.
Ciò che
fa la differenza è la capacità mentale di
superare la paura.”
(Metal Gear 2: Solid Snake)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Dove
c'è molta luce, l'ombra è più
nera.” (Johann Wolfgang von
Goethe)
*
* * * * * * * * * * * * *
“I
pensieri sono spiriti in movimento come le onde del mare che fanno
sentire la loro voce infrangendosi sulla riva.” (Romano
Battaglia)
*
* * * * * * * * * * * * *
“Del
passato dovremmo riprendere i fuochi, e non le sue ceneri.”
(Jean
Leon Jaurès)
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Capitolo 74 *** Frammenti ***
capitolo
74 – Frammenti
Le
sottili sopracciglia blu di Akh si aggrottano perplesse. Sbatte le
palpebre, confuso, fissando con più attenzione il cielo nel
quale
brilla il sole dorato. Solo che, per un brevissimo istante, ha avuto
l’impressione che il sole non fosse affatto dorato, ma del
colore
della più pallida Luna: argentato.
«Questa
storia, decisamente, mi sta facendo uscire di testa» commenta
amareggiato.
Ma
un grido, improvvisamente, riporta tutta la sua attenzione al
presente. Ha riconosciuto la voce: è quella della bambina.
Si guarda
freneticamente attorno poi, veloce, si solleva in aria e con
rapidità
fa un largo giro di ispezione, senza però riuscire a
individuarla.
Così, per evitare di perdere altro tempo prezioso, si
concentra
imponendo alla sua mente di allinearsi alla Luce dentro la bambina.
Un attimo dopo scompare per riapparire in uno dei lunghi e ampi
corridoi della dimora di Madre Natura, e lì ritrova
Katherine che
sembra avere una fretta del diavolo. Sempre in volo, le si fa
più
vicino e, presto, nota la sua espressione sconvolta e, si direbbe,
disperata.
«Katherine,
che succede?» si allarma, volandole accanto.
Lei,
che poco prima era troppo occupata a cercare un’uscita da
quella
specie di labirinto, finalmente lo nota e si aggrappa alle sue vesti
costringendolo ad atterrare.
«Akh!
Devi aiutarmi. È… accaduto qualcosa a Pitch.
Dobbiamo andare da
lui, Adesso!» esclama, sempre più agitata.
Akh
trasale alle parole della bambina ma, deciso a non permettere che la
situazione degeneri ulteriormente, si impone di restare lucido e
concentrato.
«Katherine,
calmati. Che cosa…».
«No!
Non mi dire di calmarmi. Non voglio calmarmi, voglio trovare
Pitch!»
sbotta, ormai del tutto priva di controllo.
Akh
inspira, ancora preso dalla sua magra speranza di evitare di perdere
la testa, ma come prevedibile i suoi sforzi si rivelano del tutto
vani. Di lì a poco vengono raggiunti da Emily Jane che, con
cipiglio
marziale e camminata da imperatore, si para di fronte alla coppia.
«Si
può sapere che cosa sta succedendo qui?» chiede,
in un tono che sa
tanto di comando.
Katherine,
affatto impressionata, distoglie lo sguardo dal poco collaborativo
Akh e lo punta sulla donna, trapassandola da parte a parte con i suoi
verdi occhi brucianti.
«Dobbiamo
trovare Pitch. Gli è successo qualcosa» quasi
ringhia, nel
disperato tentativo di far loro intendere l’urgenza del
momento.
Emily
Jane la fissa a sua volta per quella che alla bambina sembra
un’eternità, infine sembra scorgere qualcosa e i
suoi occhi si
sgranano.
«Akh»
sibila nervosa, afferrando con più forza del normale un
braccio
dello spirito della Luce.
«S-sì?»
soffia l’interpellato, già prevedendo gli sviluppi
di quella
situazione.
«Andiamo»
ordina. «E preparati: potrebbero esserci dei
problemi».
Ecco,
appunto. Akh sospira, annuisce, afferra tremolante una mano di
Katherine e, insieme, abbandonano il regno di Madre Natura per una
destinazione che nessuno dei tre si augurava di dover rivisitare.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Emily
Jane trattiene bruscamente il respiro al loro arrivo sul posto. Si
aspettava altro, in effetti. Forse un qualche genere di battaglia.
Quello che sta vedendo in quel momento, invece, è solo e
semplicemente desolazione: un ampio affossamento del terreno e
detriti sparsi ovunque, perfino qualche albero crollato per aver
perduto il sostegno del terreno franato.
«Padre»
soffia, mentre un sottile fremito scuote il suo corpo.
Una
figura sfocata passa veloce al suo fianco e la voce angosciata di Akh
la fa brevemente sussultare.
«Katherine,
no!».
Ma
Katherine non sembra intenzionata a dargli retta, tanto per cambiare,
e si divincola dall’ingombrante presenza dei due spiriti,
avviandosi velocemente verso il centro dell’avvallamento,
sdrucciolando ripetutamente senza però rallentare. Una volta
giunta
in un punto, apparentemente identico agli altri ma che evidentemente
lei ritiene adatto, inizia a scansare detriti, concentrata su
qualcosa che né Akh né Emily Jane sembrano
comprendere.
«Sono
qui, non aver paura» mormora di tanto in tanto, passandosi
con
irritazione le mani sporche di terriccio sul viso per scostare i
fastidiosi capelli.
Lentamente,
con circospezione, Akh le si accosta e osserva crucciato il suo
lavorio.
«Katherine,
che cosa…».
Ancora
una volta non è però in grado di completare la
sua richiesta
perché, un momento dopo, le radici degli alberi caduti
sembrano
prendere vita, scostando i detriti più ingombranti che,
altrimenti,
nessuno di loro avrebbe potuto rimuovere.
Akh
si volta, trovando Emily Jane intenta a impartire silenziosi ordini
alle piante. Digrigna i denti, soffia fuori uno sbuffo d’aria
e
infine, non potendo fare altrimenti, si mette al lavoro a sua volta.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Un
singhiozzo fa sussultare il piccolo corpo di Katherine quando,
levando di mezzo un altro stupido sasso (l’ennesimo e,
prontissima
a scommetterci, neppure l’ultimo), le sue dita incontrano
qualcosa
di più morbido ma altrettanto freddo. Spalanca gli occhi, le
sue
labbra rosse tremano.
«Pitch.
P-Pitch…» rantola, affondando una mano nel terreno
cedevole fino a
stringere le dita attorno a quello che immagina essere il suo polso.
«Akh! Vieni!» esclama, indecisa fra vana
eccitazione e cupa
disperazione.
Akh,
svolazzante sul terreno accidentato, si getta alle spalle il pezzo di
roccia che stava trasportando e, veloce, raggiunge la bambina,
strabuzzando gli occhi su ciò che si trova di fronte.
«Non
ci credo» mormora fra sé, atterrando leggero poco
distante e
aiutando Katherine a liberarsi di quegli ultimi, seccanti detriti.
Ciò
che trovano, una volta tolto il grosso, è per lo
più un ammasso di
stracci una volta neri, ora ricoperti di polvere e terriccio e,
dentro, qualcosa che somiglia vagamente a una figura umana, se solo
non avesse il colore della cenere e non ne fosse praticamente
ricoperto dalla punta dei capelli fino ai piedi.
«Pitch»
soffia Katherine tremante.
Gli
occhi blu di Akh vagano stravolti su quell’inattesa figura,
alla
vana ricerca di una qualche spiegazione. Spiegazione che,
puntualmente, non arriva. Osserva Katherine far scorrere le dita
sulle mani di Pitch, probabilmente nella speranza che, come
già
accaduto in passato, il suo tocco possa migliorare le condizioni
dello spirito. Ma tutto ciò che sembra ottenere è
di sporcarsi a
sua volta di cenere.
«Katherine»
mormora, spaventato. «Io non credo che…».
«Padre».
Akh
sussulta e si irrigidisce. Non l’ha affatto sentita arrivare.
L’idea di trovarsi fra due femmine potenzialmente isteriche
non era
propriamente in cima alla sua lista dei desideri. Piano, si fa
discretamente da parte.
Titubante
e spaventata, Emily Jane si inginocchia al fianco di Katherine e del
corpo immobile del padre. Non sembra riuscire a smettere di fissarlo,
attonita. Avverte qualcosa di pesante comprimere il suo esile petto.
Cauta, allunga una mano e sfiora i suoi capelli, trovandoli ancora
solidi contro la sua pelle, oltre che completamente impolverati.
«Papà»
mormora, stranamente impreparata a tutto quello che sta vivendo.
Una
lacrima tiepida della bambina scivola lungo il collo di Pitch,
lasciandosi dietro una striscia più chiara. Un piccolo
ansito fa
vibrare la gola dello spirito che socchiude appena le palpebre,
facendo cadere al suolo un poco della cenere che le ricopre.
Akh,
dalle spalle delle due, spalanca gli occhi ancora più di
quanto già
avesse fatto e si avvicina di un paio di esitanti passi.
«Pitch»
esala Katherine, stordita e angosciata.
Lentamente,
i suoi occhi dorati si spostano sulla bambina e tenta, senza tuttavia
riuscirci, di offrirle un sorriso. Invece soffia un debole gemito
quando la figlia lo solleva appena dal terreno, appoggiando il suo
capo contro le gambe.
«Avevi…
p-promesso di rimanere» soffia Katherine, tremando come una
foglia.
«Lo
so» mormora la voce rovinata di Pitch. «Mi
dispiace» offre,
sapendo quanto poco valgano quelle sue parole.
Katherine
sta piangendo e, sollevando appena un poco lo sguardo, nota con
dolore che anche Emily Jane è nelle medesime condizioni.
Avrebbe
unicamente desiderato non arrecar loro ulteriore sofferenza. Ma, dopo
tutto, la sua era probabilmente una speranza inutile. Riesce a
scorgere, attonito, del dolore perfino negli occhi blu dello spirito
della Luce. Pitch non è mai stato portato nello scegliere la
strada
meno spiacevole, né nel dare la giusta priorità a
ciò che gli
offre la vita. Ha perduto una famiglia, a causa delle sue scelte, e
ora succederà nuovamente.
Faticosamente,
distende le dita di una mano, pregando silenziosamente che la sua
offerta venga accettata. E Katherine, ancora una volta, non lo
delude, poggiandovi sopra una delle sue piccole mani.
Finalmente
Pitch ha la meglio sul suo corpo poco reattivo e riesce a distendere
le labbra in un minuscolo sorriso.
«Grazie»
soffia.
Avverte
la tristezza farsi largo dentro di lui, osservando la bambina
scuotere la testa con ostinazione.
«Io
non…» prova incerto.
«No»
lo trattiene Katherine. «Non è giusto,
Pitch».
«Perdonami.
Non ho mai voluto farti soffrire. Non lo vorrei nemmeno ora».
Esausto,
appoggia la fronte sullo stomaco di Emily Jane che, piano, accarezza
i suoi capelli.
«Nessuno
di noi l’avrebbe voluto» mormora al suo orecchio,
sporcandosi le
labbra di grigio. «Ma è accaduto e, purtroppo, non
c’è modo di
tornare indietro. Il nostro passato è prezioso e
rimarrà con noi,
assieme ai ricordi».
C’è
stato un tempo in cui Pitch avrebbe desiderato la morte, pur di
smettere di soffrire. Ma ora è diverso.
C’è qualcuno, accanto a
lui, che lo ama e continuerà a farlo; e tutto ciò
che Pitch
vorrebbe è avere altro tempo per godersi la loro vicinanza.
Ma il
tempo, purtroppo, è giunto al termine.
«Non…
dimenticarmi» soffia, la mano stretta fra quelle tremanti di
Katherine. «Ti prego».
«No,
Pitch» offre Katherine. «Mai. Te lo
prometto».
Un
angolo delle labbra di Pitch si solleva appena.
«Mh»
esala, e un piccolo scintillio argenteo balugina nei suoi occhi
dorati.
Infine,
tutto ciò che rimane è cenere e polvere, e dello
spirito nero non
resta nemmeno più l’ombra.
"Sorridi
anche se il tuo sorriso è triste, perché
più triste di un sorriso
triste c'è la tristezza di non saper sorridere." (Jim
Morrison)
*
* * * * * * * * * * * * *
"There's
no time for us
There's
no place for us
What
is this thing that builds our dreams, yet slips away from us
Who
wants to live forever
There's
no chance for us
It's
all decided for us
This
world has only one sweet moment set aside for us
Who
wants to live forever"
(Queen)
*
* * * * * * * * * * * * *
"La
nostalgia è la sofferenza provocata dal desiderio inappagato
di
ritornare." (Milan Kundera)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Il
fiume è simile alla mia pena: scorre e non si esaurisce."
(Guillaume Apollinaire)
*
* * * * * * * * * * * * *
"Ho
sentito troppo per poter continuare a sentire. Mi si è
esaurita
l’anima. È rimasta solo l’eco dentro di
me." (Fernando
Pessoa)
|
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Capitolo 75 *** Nero e Oro ***
capitolo
75 – Nero e Oro
2028
d.c. – marzo
«Katherine!
Katherine, dove sei?».
La
voce allarmata della donna raggiunge velocemente la bambina,
distogliendola dai suoi pensieri e costringendola a tornare con la
mente al presente.
«Sono
qui, in camera mia, nonna» si affretta a risponderle,
così da non
farla inutilmente preoccupare.
È
difficile, da un anno a questa parte, riuscire a rimanere sola con i
propri pensieri, senza che la nonna corra presto a cercarla.
Katherine la comprende: sa che non dev’essere stata una bella
esperienza, per lei, rimanere giorni interi sola in casa, senza avere
idea di dove potesse trovarsi né se stesse bene, senza poter
fare
nulla per cambiare le cose. E no, Katherine in effetti non stava per
niente bene, a quel tempo. A dire il vero, nemmeno ora sente di
riuscire a stare davvero bene; e in fondo, la costante presenza della
nonna fa sì che non possa mai realmente perdersi nei propri
ricordi.
La
donna si affaccia alla porta della sua stanza e le sorride,
rassicurata.
«Fra
un’oretta sarà pronta la cena» le
ricorda gentilmente. «È tutto
a posto?» si accerta, come sempre.
Katherine
stiracchia un sorriso per lei.
«Sì,
nonna, è tutto a posto. Tra poco scendo» promette,
sospirando
quando lei lascia la camera e torna al piano inferiore.
No
che non è tutto a posto. Affatto. È
così tanto tempo che non lo è,
troppo.
Katherine
volta le spalle all’entrata e si appoggia al davanzale della
finestra, osservando il cielo imbrunire e le prime stelle comparire
contro il blu che va infittendosi. Poggia la fronte sul vetro freddo
e chiude gli occhi. Dietro le sue palpebre serrate può
ancora vedere
polvere e pietre, la cenere grigia che imbratta le sue piccole mani.
Qualcosa graffia, nel suo petto. È gelo, e poi il fuoco che
lo
spazza via, bruciando e ricoprendo tutto di cenere, di nuovo.
Una
lacrima scivola lungo la sua guancia e Katherine riapre gli occhi,
ora leggermente appannati.
«Io…
io ci credo» soffia con voce tremante. «Ci credo,
ci credo, ci
credo» mormora, gli occhi puntati con decisione sul cielo
ormai buio
e adorno di milioni di stelle.
Un
angolo delle sue labbra si curva verso l’alto, mentre le sue
mani
poggiano brevemente sul proprio petto. Annuisce e infine esce dalla
camera, scendendo per la cena come ha promesso alla nonna.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Un
minuscolo frammento luminoso compare fra gli alberi fitti della
foresta. Sembra una lucciola, ma la sua luce è dorata e
fluttua,
quasi incerta, a mezz’aria nell’oscurità
impenetrabile della
notte priva di Luna.
Non
sembra sapere cosa fare, né dove andare. Rimane
lì, come in
ascolto, nell’attesa di qualcosa, o forse di qualcuno.
Aspetta.
Il tempo non sembra mancargli, e neppure la pazienza.
Aspetta.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Gli
occhi blu di Akh si spalancano sulla nera volta celeste. È
notte,
nessuno spirito è in vista da mesi, ormai. Che cosa lo ha
risvegliato? Si guarda intorno. Niente.
Ha
deciso di cambiare aria, per un po’. Ha pensato che, per
distrarsi,
la vecchia Europa potesse fare al caso suo. Ma nulla, in fondo,
è
cambiato. A niente è davvero servito cambiare
città, paese,
continente. I pensieri, i ricordi, sono tutti ancora lì. No,
nulla
sembra cambiato.
Eppure,
qualcosa lo ha ridestato. Inspira a fondo l’aria fredda e
salmastra
della costa scozzese. Che cosa è stato? Akh è da
solo, nessuno è
più andato a disturbarlo da circa sei mesi, ovvero
dall’ultima
occasione nella quale ha quasi preso a pugni uno scocciatore che si
ostinava a seguirlo per cercare di attaccare bottone. Preso
a pugni?
Che assurdità! Non ha mai davvero fatto a botte con nessuno,
durante
la sua lunga esistenza; non è mai servito: la sua Luce ha
sempre
egregiamente lavorato al suo posto. La sua Luce…
Akh
serra le palpebre e si concentra sul suo nucleo. È
irrequieto,
quella notte. Sente che c’è qualcosa di strano.
Forse un
cambiamento all’orizzonte? Vuole capire, deve
capire. Sente che la risposta è lì, molto vicina,
e lui intende
trovarla. La risposta è… I suoi occhi si sgranano
improvvisamente
nel vuoto.
«Questo
non… È impossibile» esclama incredulo.
Ma,
possibile o meno che sia, è necessario che se ne accerti di
persona.
Per questo motivo, poco dopo, si alza in volo abbandonando il suo
momentaneo isolamento e librandosi leggero nel cielo notturno,
portato dal vento sempre più in alto, le ali blu frementi di
smania
ed eccitazione.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Un
fruscio tra le fitte fronde richiama l’attenzione di Emily
Jane.
Quando si volta scorge, incredula, la figura di Akh, che non vede da
quasi un anno ormai e che, francamente, credeva non avrebbe
più
rivisto. E invece eccolo lì, proprio di fronte al suo
sguardo
attonito. Ma qualcosa non va; se ne rende conto presto, ancora prima
di avere il tempo per salutarlo in modo appropriato. Sta tremando e i
suoi occhi sono enormi e smarriti. Gli si fa incontro, preoccupata.
«Akh!
Cosa succede? Come mai sei qui?» gli chiede con voce tesa.
Il
comportamento dello spirito della Luce diviene, se possibile, ancora
più strano. Le sue ali si spalancano e si richiudono
più volte,
quasi febbrilmente, e i suoi occhi la guardano palesemente stravolti.
Per qualche motivo a lei ignoto, tiene le braccia raccolte al petto,
come a volersi proteggere da qualcosa.
«Akh?»
ritenta, ormai a pochi passi da lui.
«C’è…
qualcosa che devi vedere» soffia lui, aprendo bocca per la
prima
volta e facendo un paio di incerti passi avanti.
«Di
che cosa si tratta? È accaduto qualcosa di
brutto?» si accerta
Emily Jane, sempre più preoccupata.
«No»
soffia Akh, anche se, a ben vedere, è un no
veramente poco persuasivo.
Emily
Jane non riesce a comprendere cosa gli stia succedendo. Ma, vedendolo
vacillare, si affretta a sostenerlo per le spalle e a condurlo vicino
ad alcuni grossi tronchi d’albero caduti.
«Vieni,
siedi qui» lo istruisce, paziente. «Ecco, bene.
Vuoi che ti porti
qualcosa di caldo da bere?» domanda gentile.
«Io…
N-no, grazie» balbetta.
Sta
ancora tremando. Lo nota mentre si rende conto che è anche
completamente fradicio d’acqua e mezzo congelato. Sembra
anche
esausto, come se avesse trascorso molto tempo in volo sotto un
acquazzone.
«Cos’è
accaduto?» riprova a chiedere, sperando di ottenere qualche
risposta
degna di questo nome, stavolta.
Così
non è. Tuttavia, al posto dell’attesa spiegazione,
Akh rilassa
faticosamente le braccia, allontanandole finalmente dal petto, e
mostra con visibile ansia ciò che trattiene nelle proprie
mani.
Emily
Jane aggrotta le sopracciglia, confusa. A una prima occhiata, giudica
possa trattarsi di una piccola, ignota fonte di luce, forse
appartenente a qualche creatura magica? Eppure, in quel piccolo
bagliore, avverte un che di strano.
«Akh,
che cosa…?» tenta incerta.
«Non…
n-non so come sia potuto accadere» soffia sgomento.
«L’ho…
t-trovato nella foresta. Era l-lì, aspettava.
As-aspettava» ripete,
in un fievole balbettio costernato.
Una
parte della sua mente sconvolta si chiede da quanto tempo,
esattamente, potesse trovarsi lì ad attendere. Un fremito
più
violento lo coglie al solo pensiero.
«Akh,
io non capisco» prova a far presente Emily Jane.
Akh
non sa davvero come spiegarglielo. Così, invece di cercare
invano le
parole giuste, afferra con delicatezza uno dei suoi sottili polsi,
facendo ben attenzione a non farsi sfuggire la piccola luce
dall’altra mano, e lascia che le dita di lei la sfiorino
appena.
Emily
Jane spalanca gli occhi e un rauco gemito sconvolto scivola fuori
dalle sue labbra tremanti.
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2030
d.c. – giugno
Un
tiepido peso preme sul suo petto. Quando Akh apre pigramente gli
occhi e dà un’occhiata, si trova a incrociare lo
sguardo con
quello di un paio di affilati occhi dorati, che probabilmente lo
fissano insistenti da chissà quanto tempo, ormai. Solleva un
sopracciglio blu e reclina il capo di lato, buffamente imitato dal
nero felino acciambellato su di lui.
«Che
cosa?» mormora Akh, assonnato.
«Meow»
replica il gatto per tutta risposta.
Lo
spirito della Luce storce le labbra in una smorfia esasperata.
«Ah,
certo. Ora sì che è tutto perfettamente
chiaro».
«Meeeowww»
ripete il gatto, con maggior enfasi.
Sembra
proprio che si stia spazientendo.
«Senti,
io non lo capisco quello che stai dicendo» borbotta Akh,
seccato.
«MEOW!»
sbotta il gatto, piantando una zampata fra le costole dello spirito e
facendolo sussultare.
«Okay!
Facciamo quello che vuoi tu, creatura dispotica. Datti una calmata,
però» protesta Akh, turbato.
Nonostante
le sue lamentele, lo spirito della Luce allunga le braccia e
raccoglie delicatamente fra le mani la piccola palla di lucido pelo
nero, sollevandosi a sedere e riportandosela al petto. Infine si
rimette in piedi e permette al gatto di arrampicarsi sulla sua
spalla.
«Qual
è la destinazione?» chiede ironico, senza
aspettarsi una reale
risposta.
Ciò
che ottiene è uno zampettìo nervoso e un soffio
irritato un po’
troppo vicino al suo orecchio.
Akh
sbuffa. «Non cambierai mai, vero? Sempre a
tiranneggiarmi» si
lamenta teatralmente, ricevendo in cambio l’ennesima zampata
di
avvertimento. Sospira. «Molto bene: reggiti»
avverte, un istante
prima di scomparire in un accecante bagliore dorato.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Il
luogo nel quale atterrano morbidamente non è familiare a
nessuno dei
due. Eppure il piccolo felino, senza più degnare di
un’occhiata
Akh, balza giù dalla sua spalla e trotterella in una precisa
direzione. Perplesso, lo spirito della Luce lo segue in silenzio per
una manciata di minuti, fino a quando le orecchie di entrambi captano
una voce conosciuta.
«…
che non mi interessa di cosa pensi tu. Non sono affari tuoi. Non
puoi… immischiarti in faccende che non ti riguardano.
È la mia
vita, non la tua! Perché non lo vuoi capire?».
Katherine.
Sapeva che l’avrebbero trovata al loro arrivo. Ma pare
proprio non
essere un buon momento per una visita di cortesia, dopo tutto. Akh,
stranito, osserva il gatto che, lungi dal volersi fermare, si
appiattisce al suolo e procede veloce e attento, deciso a raggiungere
la bambina e chi si trova con lei in quel momento.
«Ehi»
sibila, cercando di attirare l’attenzione del gatto senza
farsi
scoprire da Katherine. «Fermati. Dove vai?».
Ma
a nulla valgono i suoi richiami. Pare proprio che la palla di pelo
intenda fare da terzo incomodo.
Non
è la prima volta che il maledetto gattaccio lo trascina fino
a
quella cittadina per osservare Katherine e dare un’occhiata a
come
se la passa. Akh non ha mai obbiettato a quel genere di incursioni.
Nessuno dei due si è mai apertamente mostrato a lei,
d’altronde;
si sono sempre limitati a rimanere a debita distanza e prendersi
qualche ora per accertarsi che tutto andasse bene, per poi tornarsene
dall’altra parte del mondo soddisfatti.
Quel
giorno, tuttavia, dev’esserci qualcosa di diverso. Il
gattaccio non
sembra minimamente intenzionato a rimanere, come al solito,
nell’ombra. Tutt’altro, e Akh non ne comprende
granché il
motivo. O per lo meno non lo comprende fino al momento in cui,
allibito, assiste al degenerare della precedente discussione fra
Katherine e il suo interlocutore, che culmina in un tentativo, da
parte di quest’ultimo, di darle uno schiaffo. Tentativo
andato in
fumo all’ultimo momento proprio a causa di una macchia nera
piombata giù da chissà dove direttamente sulla
testa del
malcapitato.
Akh,
suo malgrado, ridacchia osservando il suo gattaccio accanirsi sui
capelli del ragazzino e schivare agilmente un suo presunto tentativo
di scrollarselo di dosso. Alla fine, pieno di graffi e bestemmiante,
l’idiota di turno saggiamente decide di abbandonare
l’impresa e
di darsi a una ritirata
strategica.
Il gatto riguadagna il terreno con un soffice balzo e, dopo
un’ultima
occhiata per controllare che Katherine stia bene, corre via
eclissandosi nel nulla dal quale è venuto.
ҩ
ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ ҩ
Quando
le sue nere e morbide zampe poggiano nuovamente sulla spalla dello
spirito, Akh si concede un sorriso compiaciuto, osservando il musetto
serio ma soddisfatto del felino.
«Ottimo
lavoro» si congratula Akh, allungando lentamente una mano e
grattando morbidamente fra le sue orecchie ritte.
Per
tutta risposta, il gatto reclina il capo verso il suo e fuseggia con
appagamento.
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2038
d.c. – ottobre
«Sei
proprio sicuro di volerlo fare?» domanda la donna con
evidente
nervosismo.
«Sarà
la centesima volta che glielo chiedi. Se continui così, di
questo
passo finirà col passare un altro anno senza riuscire a fare
nulla
di concreto» si lagna Akh.
«Zitto,
tu! Non ho chiesto il tuo parere» bercia lei.
«Sì,
sono sicuro» mormora pacatamente l’interpellato.
«Visto,
che ti dicevo?» si intromette nuovamente lo spirito della
Luce,
guadagnandosi un’occhiata truce e una silenziosa promessa di
rappresaglie future.
Al
contrario, un paio di labbra si incurvano impercettibilmente verso
l’alto, seguendo il rassegnato divertimento del proprietario.
«Va
bene, ho capito» soffia la donna, prendendosi comunque un
lungo
momento per studiare i suoi occhi apparentemente tranquilli.
«Però…
promettimi che farai attenzione, e che…» tentenna,
visibilmente
combattuta, ma infine sembra decidersi a completare la sua richiesta
«che tornerai» soffia, suo malgrado spaventata.
L’accenno
di sorriso diviene più ampio e gentile.
«Sulla
mia anima» replica sicuro.
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Gli
alberi hanno il colore del tramonto, questa volta, e l’aria
è
piacevolmente fresca e profuma di pioggia. Un piccolo scoiattolo
rosseggiante, su un ramo poco lontano, lo osserva con cauta
curiosità
dopo aver momentaneamente interrotto il proprio frenetico lavoro
sulle provviste per l’inverno.
Attende.
Sa che manca poco, ormai. Quando il sole sarà appena
più alto e
abbagliante, otterrà ciò che desidera da anni,
senza tuttavia
essersi potuto permettere alcuna mossa per accelerarne i tempi.
Sospira.
Si sente nervoso e impaziente. L’incertezza, a volte,
è più dura
da gestire rispetto alla delusione.
D’un
tratto, sul suo orizzonte, intravede una figura conosciuta che,
lentamente, si avvicina. Ha lunghi capelli, lucidi e neri, raccolti
in una morbida coda; indossa un paio di jeans e un maglioncino verde;
sulla spalla sinistra porta una borsa di tela dall’aria
consunta e
decisamente pesante; dalle sue orecchie penzolano un paio di fili
bianchi che si uniscono al centro, scomparendo all’interno
della
tasca dei jeans; non ha purtroppo la possibilità di
osservare i suoi
occhi, al momento coperti da scuri occhiali da sole, ma sa bene che
sono verdi come il maglioncino e curiosi come quelli di un gatto.
Sorride.
La strada verso casa è stata lunga e impegnativa, ma infine
ce l’ha
fatta, e lei è rimasta ad aspettarlo; non lo ha mai
dimenticato,
proprio come gli aveva promesso tanto tempo prima.
Si
scosta dal tronco dell’albero a cui è rimasto
appoggiato fino a
quel momento e fa alcuni passi avanti, così da mostrarsi
chiaramente.
«Katherine»
soffia con voce tranquilla e un poco roca.
Rapidamente,
la ragazza volta il capo nella direzione dalla quale le è
giunta la
voce. Quella voce, che non è mai davvero riuscita a
scordare, e che
ora ha nuovamente una forma concreta.
Sgrana
gli occhi oltre le lenti scure, le sue labbra tremano appena e un
brusco respiro solleva il suo petto.
«Pitch».
"Gli
umani sono schiavi della nostalgia, del dolore che nasce dalla
separazione; soffrono se sono lontano da chi amano. Ma questo non li
indebolisce, semmai li rende sempre più forti,
perché hanno
qualcosa in cui credere." (I Cavalieri dello zodiaco: Le porte
del paradiso)
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"La
speranza è un sogno fatto da svegli." (Aristotele)
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"Dalla
mia oscurità nacque una luce che mi rischiarò il
cammino."
(Khalil Gibran)
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"Mi
fermai, battei le palpebre: non capivo niente. Niente, niente del
tutto: non capivo le ragioni delle cose, degli uomini, era tutto
senza senso, assurdo. E mi misi a ridere." (Italo Calvino, Il
lampo)
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"L’ira
del gatto è bella, bruciante di pura fiamma felina, pelo
irto e
scintille blu, occhi fiammanti e crepitanti." (W. S. Borroughs)
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"Meravigliosa
creatura,
sei
sola al mondo,
meravigliosa
paura
di
averti accanto,
occhi
di sole
mi
bruciano in mezzo al cuore
amo
la vita meravigliosa.
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Meravigliosa
creatura,
sei
sola al mondo,
meravigliosa
paura
di
averti accanto.
Occhi
di sole,
mi
tremano le parole,
amo
la vita meravigliosa."
(Gianna
Nannini)
Fine…
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L’Angolino
Buio e Polveroso dell’Uomo Nero (e dell’autrice a
cui piace
maltrattarlo)
Salve
^-^
Ho
scritto “fine”, vero? Ho mentito (oh, andiamo, con
tutte le balle
che racconta Pitch, una ogni tanto posso dirla anche io, no?).
Bene,
bene… Detto questo, dato che quest’ultimo capitolo
mi ha dato un
po’ da pensare e quello che ne è sorto
è stato un grosso punto di
domanda, ho deciso di provare a rimpicciolirlo questo punto di
domanda, per quanto mi sia possibile.
In
sostanza ho scritto una storia (una one shot) che spiega, almeno in
parte, i fatti di questo capitolo. Inoltre ho scritto
un’altra
storia (in due parti, perché più di quaranta
pagine in una sola
volta mi parevano eccessive) che invece racconta ciò che
accade
dopo.
Siccome
sono entrambe concluse, ma devono ancora essere revisionate,
è
probabile che mi serva qualche giorno in più per metterle
online.
Credo, se tutto va come deve andare, che la prima vedrà
la luce
domenica prossima e l’altra a seguire.
Spero
che qualcuno sia interessato a leggerle, ovviamente. Se no pace: le
terrò sul mio e-reader e mi diletterò con me
stessa.
Vorrei
infine ringraziare tutti i lettori di questa storia, chiunque abbia
apprezzato il modo in cui amo mettere nei guai Pitch e, soprattutto,
chi ha voluto dirmi qualcosa in proposito: OlzawerBlack,
Emma
Laurence
e in particolare _Anthos_
che dà sempre qualche buon motivo per riflettere (e trovare
soluzioni creative).
Credo
sia tutto, per ora.
Un
saluto,
Roiben
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