On my own

di Damnatio_memoriae
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


On my own
 
Capitolo I
 
There’s gotta be another way out
I’ve been stuck in a cage with my doubt
I’ve tried forever getting out on my own
 

Da lontano Noemi osservò Sasha venirle incontro. Procedeva a passi spediti, battendo i piedi a terra come un maresciallo, i capelli rossi spettinati, la bocca ridotta ad una linea dura, gli occhi infuocati. Era arrabbiata, furiosa, delusa e adesso che anche il suo amico sapeva della loro relazione clandestina si sentiva messa a nudo, scoperta, senza più la possibilità di nascondersi dietro alcuna bugia. Poteva solamente sperare che Luca le volesse ancora bene al punto da non andare a spifferare il suo segreto a qualcun altro.
Sasha si arrestò a pochi passi da lei. Allungò le braccia, stringendo le sue spalle in una morsa ferrea, scuotendola. «Che cazzo ti è saltato in mente?!» le urlò sul viso.
Noemi, questa volta, mantenne il suo sguardo. «Mi avevi promesso che glielo avresti detto!».
«L’avrei fatto!».
«No, non è vero!» la spintonò via «Non credo più ad una sola parola di quello che dici!».
«La cosa vale anche per me!».
Noemi si strinse nelle spalle nel tentativo di smettere di tremare o, quantomeno, di non farlo vedere a Sasha. «Mi avevi assicurato che non c’era mai stato nulla tra di voi…».
«È solo un amico».
«Bhe, lui non la pensa così, me lo ha fatto capire molto chiaramente!».
«E quindi hai pensato bene di aprire la bocca e raccontagli qualsiasi cosa?».
«Non ho avuto altra scelta» ribattè un po’ meno convinta, asciugandosi con le dita una lacrima prima che le sfuggisse dall’occhio.
«Tutte stronzate» la liquidò Sasha, passandosi una mano tra i capelli.
«Mi ha messa alle strette!».
«Oh, ma per favore!».
Noemi si morse le labbra. «Hai sempre creduto più a lui che a me…».
«E continuerò a farlo! È il mio migliore amico, siamo cresciuti insieme, mi è stato vicino nei momenti più difficili, momenti di cui tu non conosci nemmeno l’esistenza».
«È stata una tua scelta escludermi Sasha, non mia».
«E ho fatto bene, direi. Sei solo una stupida che è entrata a gamba tesa nella mia vita senza permesso e in meno di un anno me l’ha rovinata. Non voglio più vederti Noemi. Per me hai smesso di esistere».
 
Andrea rilesse velocemente le ultime righe del romanzo che aveva scritto. Non era stato un capitolo facile e per lei, che prima di buttare giù qualche parola doveva pensarci e ripensarci, si era rivelato un lavoro più lungo del previsto. Caricò il sito in un’altra scheda internet e, dopo aver completato il login, aggiornò la sua terza storia – che andava avanti ormai da un annetto buono – inserendo il testo e il titolo.
Alzò gli occhi sull’orologio accanto alla scrivania. Erano le 7,10 di un martedì qualunque e fuori la pioggia che bagnava le strade faceva ormai capire che l’inverno stava arrivando. Afferrò qualche matita, il diario, il blocco per gli appunti – che diventava troppo spesso un blocco pieno di storie e spezzoni di dialoghi -, i libri delle lezioni. Si pulì gli occhiali dalla montatura grigia, leggermente squadrata, si sistemò sulla testa il berretto, aggiustando la frangia, e si avvolse nel giubbotto e nella sciarpa.
La fermata del pullman era già piena di studenti e più il 15 si avvicinava alla sua scuola, più il mezzo si riempiva senza che nessuno dei passeggeri scendesse. Varcò il cancello dell’istituto e aspettò il suono della campanella vicino alla scalinata, da sola. Non era difficile dividere, in mezzo a quell’ammucchiata di ragazzi, gli studenti del Classico da quelli, come lei, dell’Artistico, sia perché i primi erano rivolti verso l’entrata più a sud mentre i secondi verso quella più a nord, sia perché i capelli blu, i tatuaggi, i piercing, gli abiti di dubbio gusto, parlavano da soli.
Non c’era nulla che Andrea detestasse più dei pregiudizi, ma doveva ammettere che la differenza, ad un occhio esterno, era più che lampante. Non le stavano particolarmente simpatici quelli del Classico: tutti un po’ scontrosi, sempre un po’ con la puzza sotto il naso, sempre pronti a rimarcare la differenza fra i loro studi e quelli di qualsiasi altro istituto. E se si trattava di un artistico, poi, apriti cielo! Eppure, come ripeteva sempre la loro professoressa di Storia dell’Arte, la Cappella Sistina non era stata dipinta da Cicerone.
In lontananza Andrea intravide qualche suo compagno, ma rimase deliberatamente in disparte. Non le piaceva la sezione in cui l’avevano smistata al terzo anno, dopo che la sua classe era stata smembrata. Non credeva di essere una ragazza facile da capire, ma di certo il fatto che l’avessero tutti etichettata come il bastian contrario della situazione non aveva agevolato le cose.
Prese il cellulare dalla tasca e controllò il suo aggiornamento: 7 nuove visualizzazioni del suo capitolo, ma ancora nessuna recensione. Non che si aspettasse qualcosa di diverso: aveva attivato il messaggio automatico all’indirizzo e-mail e nessuna notifica le era arrivata.
La campanella suonò e lei prese posto nella prima fila, il banco appoggiato al muro. Sinceramente non capiva tutta quella voglia di rifugiarsi negli ultimi posti, specie contando che dalla terza fila lei non sarebbe riuscita più a vedere quello che c’era scritto alla lavagna. La vista le era calata di nuovo, ma al momento non aveva risparmi per farsi cambiare le lenti. Di questo passo sarebbe diventata davvero una talpa, come suo padre.
Durante la lezione dell’Amatuzzi, Andrea scarabocchiò qualche schizzo sul taccuino e per la prima ora si concentrò davvero nel prendere appunti, ma poi si perse a guardare il foglio bianco e le venne qualche nuova idea per la sua storia, che subito decise di mettere nero su bianco, prima di dimenticarsi. Da sotto il banco controllò anche il cellulare, mentre la professoressa era distratta a contemplare le slides sul Brunelleschi (era il Brunelleschi?). Aveva due nuove recensioni.
Un sorriso le affiorò subito sul volto. Chissà se anche lei aveva commentato…
Col pollice scorse in basso sul display, ma quando lesse i nicknames dei due profili che le avevano lasciato una recensione venne presa dalla delusione. Di Maeries90 nemmeno l’ombra.
 
Ciao! È da molto che seguo la tua storia. Che dire? Adoro Sasha, anche se mi è dispiaciuto tremendamente per Noemi. Insomma, Luca si è comportato da vero s****o, eppure Sasha se l’è presa con l’unica persona che non c’entrava nulla. Spero facciano pace al più presto, anche se sono volate delle parole davvero pesanti. Aggiorna presto!
 
Questo capitolo era leggermente più lungo degli altri e l’ho apprezzato. Hai messo davvero parecchia carne al fuoco! Non vedo l’ora che Luca si levi dalle palle, è un essere fastidioso e spero che Sasha si renda conto che è Noemi la persona più importante della sua vita, non certo quel mezzo deficiente. Scusa lo sfogo, ma odio davvero il personaggio di Luca. Buon lavoro e a presto!
 
Andrea non poteva dire di non essere contenta. Era sempre entusiasta di constatare quanto la sua storia fosse seguita e forse erano proprio tutti quei commenti positivi a spingerla a continuare a scrivere, capitolo dopo capitolo, su quelle due ragazze, Sasha e Noemi, a cui Andrea si era particolarmente affezionata. Ed era ancora più contenta di vedere come i suoi sforzi venissero ripagati: non era facile per lei scrivere dieci pagine ben fatte, corrette e non scontate, e contemporaneamente andare a scuola e studiare per le verifiche. Ma quei commenti erano davvero un toccasana. Allora, forse, a qualcuno interessava davvero quello che sentiva, quello che aveva da dire. Ad una persona in particolare.
«Professoressa!» sentì urlare dietro di sé «Della Torre sta usando il telefono!».
All’istante Andrea oscurò il display e lo gettò con poca cura sotto il banco, ma l’Amatuzzi l’aveva già scoperta e lei era davvero una pessima bugiarda.
«Ma quanti anni hai, cinque?» sibilò al suo compagno, girandosi a guardarlo.
«Chi la fa l’aspetti. Sfigata» ribattè lui, portandosi le mani dietro la testa e stiracchiandosi.
«Della Torre, Salvemini, cosa state facendo?».
«So cosa non stavo facendo» rispose il ragazzo «io non usavo il cellulare».
La donna passò lo sguardo su entrambi i suoi alunni. «Della Torre» la riprese, avvicinandosi e allungando una mano «Il telefono».
Andrea non oppose alcuna resistenza.
«E tu, Salvemini…» continuò, tornando alla sua cattedra «Conosci così bene le opere del Brunelleschi da poterti permettere di guardare quello che fanno i tuoi compagni? Mi sapresti dire in che anni siamo?».
«Intorno al Settecento?» provò ad indovinare.
Andrea sbuffò sonoramente. «Ma almeno lo sai cos’è il Rinascimento?».
«No, preferisco avere una vita sociale, secchiona!».
«Meglio secchiona che capra!».
«Vediamo cosa dirai quando questa capra getterà i tuoi bei quadernini nel cesso!».
«Cos’è, vuoi forse un’altra sospensione?».
«Ragazzi, adesso basta!» li riprese entrambi l’Amatuzzi, minacciando di segnalare il loro comportamento sul registro.
Quando dopo due ore suonò la campanella, i suoi compagni si alzarono, la sigaretta stretta tra le dita o, per i più precoci, già in bocca. Anche Andrea fece per alzarsi e prendere dallo zaino il suo spuntino, ma dovette posare il cofanetto sul banco quando la professoressa le fece segno di raggiungerla, lo sguardo serio.
Salvemini, insieme al suo gruppetto di finti rockettari, la superò, urtandole volontariamente la spalla. «Ora sono tutti cazzi tuoi, secchiona» le sussurrò ridendo.
Andrea si diresse alla cattedra.
«Posso riprenderlo?» chiese, indicando il telefono posato vicino al registro di classe.
«Certo» acconsentì la donna «Ma non lo voglio più vedere durante le mie lezioni, sono stata chiara?».
«Si…».
«Hai una buona media Della Torre, non vale davvero la pena abbassarla per un brutto voto in condotta».
Andrea sollevò il sopracciglio destro. “Buona media?” pensò  “Soltanto una buona media? Ma se ho tutti nove!”.
«Va bene. Posso andare adesso?».
«No, aspetta, non ti ho chiamata per questo. Mi chiedevo: ti andrebbe di fare una certa cosa…?».
 
Vittoria si asciugò le mani bagnate sui jeans. Non erano neanche le undici e già la carta igienica nei bagni era finita, o forse nessuno l’aveva rimessa a posto dal giorno prima. Appoggiò la schiena alla parete, nel corridoio del quarto piano praticamente semideserto. Si divertiva a considerarla una zona quasi off limits, almeno per gli altri studenti. A destra e a sinistra solo le sale dei professori, la segreteria e, proprio davanti a lei, la porta dello studio del direttore, perennemente chiusa.
Si rigirò la sigaretta fra le dita, buttando un occhio alle finestre che si affacciavano sul cortile interno. Tutti i suoi compagni erano appollaiati sul muretto a mangiare e a fumare, qualcuno anche a copiare le risposte di greco prima che la Marchiandi decidesse di fare un controllo a tappeto.
Non le andava particolarmente a genio saltare i suoi quindici meritati e agognati minuti di intervallo, ma sperava che Matteo avesse abbastanza pietà di lei da ricordarsi di prenderle un caffè alle macchinette e tenerglielo da parte. Senza un briciolo di caffeina in corpo sarebbe stato davvero difficile reggere le due ore di greco successive.
Dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni estrasse il nuovo iphone, aprendo una scheda internet e cliccando sull’icona che aveva salvato fra i preferiti: On my own.
«Oh, eccoti…» si lasciò sfuggire con curiosità quando vide che la storia di Cecille92 era stata aggiornata proprio quella mattina. Ne scorse le righe tutto d’un fiato, mangiando ogni parola, estraniandosi per una manciata di minuti da quella mattinata così noiosa.
«Io impiego un’intera settimana per scrivere il pezzo e tu lo finisci in meno di dieci minuti: non mi rendi la vita facile!» le aveva scritto una volta in un messaggio privato.
Vittoria fra sé e sé aveva sorriso. «Prendilo come un complimento: se non mi fosse piaciuto mi sarei fermata a metà pagina».
L’aveva scoperta un paio di anni fa ed era subito diventata la sua autrice preferita. Non si era mai accontentata di nessuna serie che aveva trovato su quel sito: alcune erano davvero troppo scontate, alcune così piene di errori grammaticali da rovinarle la vista, altre, sì, si potevano salvare, ma nessuna l’aveva entusiasmata veramente. Sapeva di avere dei gusti molto difficili, ma aveva fatto bene a non accontentarsi. Le piaceva il modo in cui scriveva quella ragazza, la sua delicatezza nel tratteggiare la psicologia dei personaggi, il modo in cui dipingeva gli ambienti, anche quelli più comuni, e poi le emozioni che lasciava trasparire, il suo sarcasmo, i colpi di scena. Le aveva lasciato decine e decine di recensioni, ovviamente tutte positive – cosa non affatto scontata – e tra una risposta ed un’altra trovare dei punti di incontro era diventato naturale. La inorgogliva trovare di tanto in tanto, fra le note a fondo pagina, una dedica solo per lei. Non poteva dire di conoscerla a fondo, ma le chiacchierate che erano solite farsi, a volte anche a degli orari improponibili, le davano un senso di calma e sollievo. Sì, in un certo senso poteva dire che si fosse creata una buona sintonia tra di loro.
Era così immersa nella sua lettura che si accorse a malapena dell’arrivo di un’altra ragazza, la quale si sedette sul pavimento, senza troppe pretese, aspettando che arrivassero i professori e il direttore.
«Scusami…» la sentì dire e le ci volle qualche istante per capire a chi si stesse rivolgendo. Alquanto scocciata sollevò gli occhi dal telefono.
«Non adesso» le disse semplicemente, alzando un dito nella sua direzione per farle capire che le sarebbe occorso ancora un altro minuto.
L’altra le riservò un’occhiataccia da dietro quelle spesse lenti, ma rimase in silenzio. Non era molto alta e i capelli scuri erano stati evidentemente pettinati alla bell’e meglio. Un cardigan chiaro le copriva le spalle, ma ancora qualche secondo lì per terra e di chiaro non avrebbe avuto più molto.
Vittoria ultimò la sua lettura.
 
«E ho fatto bene, direi. Sei solo una stupida che è entrata a gamba tesa nella mia vita senza permesso e in meno di un anno me l’ha rovinata. Non voglio più vederti Noemi. Per me hai smesso di esistere».
 
Spalancò gli occhi per il finale inaspettato e dentro la sua testa l’immagine di Sasha prese forma in maniera molto chiara. Adorava quel personaggio, lo sentiva molto vicino, se non dal punto di vista fisico, almeno caratterialmente. E Noemi…bhe. Noemi era la classica ragazzina innamorata che con la sua semplicità sarebbe riuscita a far sciogliere anche una ragazza dal cuore di pietra come lei. Abbastanza nella norma, tutto sommato, ma d’altronde un po’ di romanticismo era d’obbligo.
Si fermò sul fondo della pagina e recensì il capitolo:
 
Ciao ragazzina! Finalmente aggiorni, sembra passata una vita! È sempre bello ricontrollare e vedere cos’hai scritto. Non mi dilungherò sulla forma, perché lo sai come la penso, credo tu sia molto brava. Per quanto riguarda Sasha e Noemi, un confronto ci voleva e l’hai reso in maniera magnificamente burrascosa. Mi piace che non sia sempre tutto rose e fiori. Effettivamente Noemi ha fatto il passo più lungo della gamba, e sappiamo come reagisce Sasha quando deve affrontare un cambiamento, ma sono sicura – o almeno lo spero – che riusciranno a chiarirsi. Sono molta curiosa di sapere come però, visto che la nostra “seme” si è lasciata scappare qualche cattiveria di troppo. Buon lavoro ragazzina, continua così!
 
Premette il tasto invio e internet le ricaricò in automatico la pagina, dandole conferma.
«Dimmi» disse poi all’altra ragazza, mettendo via il cellulare e passandosi una mano fra i capelli biondi nel tentativo di sistemarsi il ciuffo. «Scusami, non volevo essere maleducata, ma stavo leggendo una cosa importante».
Lei la guardò di sbieco, decisamente poco convinta. Gli occhi scuri, anche se grandi e ben definiti, erano duri e severi, la mascella squadrata e tesa. Sarebbe stata anche carina se avesse assunto un’espressione meno scocciata.
«Figurati» le rispose in monotono «Sei qui per…» lasciò la frase a metà quando un sonoro bip-bip la interruppe. Vittoria la osservò mentre guardava il display illuminato e per una frazione di secondo vide quel viso così burbero addolcirsi, l’espressione rilassarsi, le labbra distendersi.
Si grattò la punta del naso pensando che dovesse essere per forza il messaggio di qualche fidanzato, anche se non era sicura che lei avesse mai avuto quell’espressione quando le arrivava una nota vocale da Giorgio. Fece spallucce. Forse erano solo due modi diversi di concepire l’amore.
La mora chiusa il telefono e lo rimise a posto. «Dicevo…» continuò guardandola e riassumendo l’espressione che aveva tenuto prima, anche se gli occhi lasciavano intendere una certa felicità che non poteva essere mascherata «Sei qui per il colloquio sui rappresentanti d’istituto?».
Vittoria annuì. «E tu per cosa sei qui?» le domandò.
«Per lo stesso motivo».
«Ah…» fece dubbiosa «Non sapevo che quelli dell’Artistico avrebbero avuto un loro rappresentante quest’anno. Abbiamo sempre fatto tutto noi».
«Già, forse è per questo che me l’hanno chiesto».
«Con quale lista partecipi?».
«Lista?».
«Si…qualche collaboratore dell’ultimo anno».
«Ma io sono al terzo».
«Sei al terzo anno e non hai una lista?».
«La mia professoressa non ha specificato come requisiti la maggiore età e il marchio di una brigata» ribattè acida.
«Ok, ok, ragazzina, calma» sorrise alzando le mani e stranamente la vide arrossire all’istante.
«Non chiamarmi ragazzina!» la rimbrottò.
«Ma tu sei una ragazzina» specificò.
«Non importa».
«Non ho un altro nome con cui chiamarti» spiegò con semplicità, fermandosi la sigaretta dietro l’orecchio.
«Non ce l’hai perché non me l’hai chiesto» sbuffò.
«Sei sempre così acida o oggi è una giornata particolare?».
«Magari è particolare per te, visto che avevi una cosa così importante da leggere da liquidarmi in meno di tre secondi».
Vittoria incrociò le braccia al petto. «Sto ancora aspettando di sapere come devo chiamarti».
«Andrea» rispose controvoglia.
La bionda attese qualche istante prima di continuare, alzando gli occhi al cielo: «Non mi chiedi il mio?».
«Se ci tieni a dirmelo, fallo e basta».
«Certo che sei proprio un bel peperino, sai? Meno male che non sono una ragazza permalosa, altrimenti dietro di te ci sarebbe una platea di nemici».
«Chi ti dice che non ci sia?».
«Non mi meraviglia di certo» accennò un sorriso sardonico.
Andrea tamburellò con le dita sull’avambraccio. «Non ho capito: vuoi dirmi il tuo nome di tua spontanea volontà oppure ti piace sentirtelo chiedere?».
«Diciamo che sono abbastanza narcisista» la guardò maliziosa.
«Non mi meraviglia di certo» le fece il pappagallo.
«Senti, ma noi due ci conosciamo? Hai un viso familiare».
Lei contraccambiò il suo sorriso, ma non c’era nessuna traccia di divertimento «Ah, allora te ne sei ricordata».
«Tu…» ci pensò su Vittoria e quando un’immagine definita le balenò nella testa battè il pugno destro sul palmo sinistro «Tu sei quella che due anni fa ci ha fatto sospendere».
«Perché tu e i tuoi amici mi avevate ficcato la testa nel cesso prima di uscire da scuola? Già, proprio io».
Sollevò le spalle «San Valentino caccia al primino» spiegò come se fosse una motivazione sufficiente, ma poi vedendola farsi nera in volto aggiunse: «Oh, quanto astio… non te la sarai mica presa».
«Certo che no. Quando vado in chiesa prego il signore di farmi rivivere quella sensazione. Sai, per appagamento personale».
«Matteo è un tipo particolare, a lui piace scherzare sempre».
«Suppongo sia divertente fare i gay col culo degli altri».
«Ok, ok» scandì, alzando le mani in segno di tregua «Forse la mia è stata una constatazione…azzardata».
«No, è stata stupida» puntualizzò.
«Va bene, è stata stupida».
«Allora quelli del classico non sono poi molto svegli».
«No, infatti. A noi basta esserlo più di voi» le fece l’occhiolino.
Andrea serrò la mascella. «Come scusa?» chiese inalberandosi, appoggiandosi al muro per alzarsi, come se stare in piedi la rendesse più minacciosa.
«Hey tigre, non ti scaldare. Se ti piace giocare a questo gioco con me devi anche saperti difendere. Non basta attaccare».
La mora dovette mordersi un labbro per non ribattere con parole troppo offensive.
«Per quello che vale, comunque» continuò Vittoria dopo qualche istante di silenzio «Ho sempre pensato che anche quelli dell’Artistico dovessero avere un loro rappresentante. Insomma, noi non ce ne intendiamo poi molto di pennelli e…» fece dei giri con la mano «Tele, fogli, matite…robe così».
«Tele, fogli, matite e robe così?» ripetè «Stai scherzando? Credi che andare all’Artistico significhi solo, non so, scarabocchiare un po’ con i colori?».
«Guarda che il mio non voleva essere un commento offensivo».
«Bhe, non sembrava».
Arcuò le sopracciglia chiare. «Non è che forse sei tu che la stai prendendo troppo sul personale solo perché ti senti in difetto?».
«In difetto, io? Con i figli di papà?».
«Non so, forse ti trovi meglio con i rastaman e la marjuana».
«Io non ho i rasta e non mi faccio di marjuana».
«Così come io non sono una figlia di papà».
Silenzio.
«Se davvero vuoi essere una rappresentante d’istituto insieme a me – a noi» specificò «Credo sarà necessario mettere da parte questi luoghi comuni. Senza contare che saresti in netta minoranza».
«Io non ho alcun pregiudizio».
«Ah, no?» le sorrise, allungando una mano verso di lei, in segno di pace.
«No» disse stringendola.
«Allora credo tu debba migliorare nell’esposizione orale, ragazzina».
Arrossì di nuovo. «Non chiamarmi ragazzina».
«Va bene, ragazzina».

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


On my own

Capitolo II
 
But every time I do this my way
I get caught in the lies of the enemy
I lay my troubles down,

I’m ready for you now
 
 
Andrea ancora stentava a credere di essersi fatta coinvolgere in un progetto del genere, al punto di rimanerne ingarbugliata dal collo in giù. Non solo aveva quasi rischiato di beccarsi una nota per quel lercio spione di Salvemini – il loro odio reciproco si era fatto evidente già dal terzo giorno di scuola -, ma avrebbe anche dovuto passare un pomeriggio a settimana in istituto per lavorare ad un progetto che non aveva la più pallida idea da che parte si dovesse prendere. Chi aveva mai fatto il rappresentante d’istituto? Non aveva nemmeno partecipato alle riunioni di quelli degli anni passati, ma non era certa che avessero apportato delle modifiche così pregnanti, contando che tutto era rimasto esattamente uguale. In compenso a quelli del Classico, tutti all’ultimo anno, sarebbe almeno stato riconosciuto un punteggio più alto alla maturità, ma a lei, che era solo al terzo anno, cosa sarebbe spettato? Un voto più alto in pagella, una stretta di mano e chi si è visto si è visto?
Picchiettò nervosamente la matita sul tavolo di legno. Avrebbe potuto impiegare quel tempo per studiare, per scrivere. O per parlare con Maeries. E invece no.
Stappò la sua bottiglietta d’acqua e ne bevve un sorso prima di ritornare a testa china sul suo blocchetto di appunti.
La scuola non era mai stata tanto silenziosa come in quel momento, o forse era il corridoio del quarto piano ad essere sempre così contemplativo. La vicepreside aveva assegnato ai nuovi rappresentanti d’istituto l’ex sala riunioni e Andrea doveva ammettere che i professori del Classico si trattavano più che bene: il tavolo era lungo e curato, gli scaffali in ordine, i volumi nelle vetrinette disposti accuratamente in ordine alfabetico. Nulla a che vedere con le sue sale riunioni, per lo più accampate nelle prime aule disponibili, i muri impiastricciati di scritte, i cavalletti traballanti. Odiava profondamente dover dare ragione a quegli spocchiosi, ma la loro ala della scuola non sembrava aver accolto un’orda di vandali inferociti.
Guardò il foglio bianco che aveva sotto mano. All’inizio di ogni riga aveva segnato dei punti in lettere romane, per buttare giù qualche nuova idea da esporre al comitato…ma esattamente che cosa avrebbe potuto proporre per migliorare la vita a quelli dell’Artistico? Insomma, almeno lei avrebbe dovuto saperlo. Non è che non ci fosse nulla da dire, è che ce n’era troppo. Andrea avrebbe voluto fare come era solita con le storie che non le venivano bene: selezionare tutto, cancellarle e riscriverle. Ma in quel caso bisognava aggiustare e lei non era brava in quello.
Con un tratto incerto riempì i punti con qualche spunto, poi, come da una parola nasce una parola, l’idea VI si trasformò in storia e la storia in descrizione. Erano già tre giorni che non scriveva nulla. Erano già tre giorni che non sentiva Maeries e uno strano vuoto iniziava a farsi strada nel suo stomaco.
 
Sasha provò a trattenerla stringendole un lembo della maglietta, ma Noemi la allontanò malamente.
«Non mi devi toccare!» le sibilò, non potendo alzare la voce senza che qualche bidello le scoprisse a saltare le lezioni.
«Mi devi ascoltare» insistette, lo sguardo deciso ma gli occhi insicuri «Ti prego».
«Perché dovrei?» ribattè aspramente «Io non esisto più, ricordi?». Finse una sicurezza che non sentiva e la voce la tradì, costringendola a darle le spalle per non essere vista.
«Noemi, mi dispiace…».
«Dispiace anche a me. Dispiace anche a me averti dato tutto quello che avevo e averti guardata mentre lo gettavi via».
«Non è così».
«Evidentemente non eravamo nulla di importante».
«Lo so quello che è successo con Luca. Se solo lo avessi saputo, allora avrei…» titubò «Avrei reagito in maniera differente».
«Io invece sono felice che sia andata così. Almeno adesso è chiaro il posto che occupo».
«Bhe, allora gradirei che tu lo spiegassi anche a me!» disse esasperata, allargando le braccia.
Noemi si morse le labbra. «Io adesso torno in classe» sentenziò, asciugandosi gli occhi «Non mi va di restarti vicina».
«Aspetta» le sbarrò la strada, parandosi davanti alla porta «Dobbiamo parlare, non puoi continuare a scappare».
«Oh, tu adesso vuoi parlare? E quando volevo parlarti io, tu dov’eri? Quando io avevo bisogno di chiarire, di capire perché mi avessi riempito la testa di stronzate, tu dov’eri? Non c’eri».
«Noemi…».
«Noemi un cazzo» sbottò «Quante volte te lo sei portata nel letto, Sasha? Quante? Ed io che pensavo ti servisse tempo, ti servisse spazio, io che ti aspettavo pensando che prima o poi ti saresti accorta di me. E intanto Luca ti…» si arrestò, lasciando la frase a metà «Non importa».
«A me importa».
«A me non più!».
«Che cosa vuoi che ti dica?! Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace!».
«Non serve dispiacersi se non hai neanche capito dove hai sbagliato!».
«Posso migliorare!».
«Tu non vuoi migliorare!» pianse «Non ti rendi nemmeno conto dell’effetto che le tue parole possono avere sulle persone. Tu apri la bocca e parli, parli, parli e se qualcuno ci rimane male pazienza, potrai sempre dire che ha frainteso, dico bene?».
«Questo è meschino Noemi».
«No, sei tu quella meschina» alzò un dito per indicarla «Tu che non sei mai brutale, sei solo “sincera”; tu che spari a zero su tutti, ma hey, sei fatta così, ti dobbiamo accettare; tu che sei integerrima e non puoi scendere a compromessi, piuttosto che siano gli altri ad accontentarti; tu che non sbagli mai, siamo noi poveri stupidi che non capiamo quello che vuoi dire».
«Smettila».
«Mi hai guardata in faccia. Mi hai guardata in faccia e mi hai detto che solo ripensare a quello che avevamo fatto ti faceva venire da vomitare. Dimmi, ho frainteso anche questo?».
«Si!».
«Ah…certo. Ovviamente. Colpa mia: avrei dovuto prenderlo come un complimento. Come quando mi hai detto che per te non esistevo più. O quella volta in cui mi hai detto che ero solo uno scherzo. O la volta prima, quando mi hai detto che la nostra era solo una cosa fisica e non c’era nient’altro di importante. Era solamente una “cottarella passeggera”, no?».
«Invece di rinfacciarmelo adesso, perché non hai aperto la bocca quando era il momento di farlo?!».
«E di nuovo la colpa è la mia! Sei un’egoista Sasha. Lo sei sempre stata, ma non credevo fino a questo punto, non dopo tutto quello che mi avevi già fatto passare. Ma non ti stanchi mai di dire e dire e non fare mai nulla? Perché in fon…».
 
«Ciao ragazzina» le sussurrò all’orecchio una voce, facendola sobbalzare. Involontariamente Andrea premette troppo duramente la matita sul foglio e la punta si spezzò, imbrattando l’ultima riga.
Di nuovo lei. E non l’aveva nemmeno sentita arrivare.
Istintivamente girò il quaderno a faccia in giù per evitare che quella ragazza potesse sbirciare i suoi scarabocchi.
Si voltò appena a guardarla e non riuscì a nascondere il fastidio. Non è che avesse qualcosa contro di lei in particolare, ma non la mandava in visibilio l’idea di dover condividere i venerdì con Vittoria e i suoi amici - magari quegli stessi amici che l’avevano bullizzata.
«Ti ho detto di non chiamarmi così» le disse e come saluto lo ritenne più che sufficiente.
L’altra si limitò a sorriderle e a girare con il cucchiaino di plastica il caffè che aveva appena preso alle macchinette. Aveva gli occhi chiari e i capelli biondi tagliati corti, anche se doveva averli avuti lunghi fino a non molto tempo fa; la pelle chiara e liscia coperta da un leggero trucco, il naso all’insù e un’espressione curiosa perennemente stampata sul viso. Una barbie, se non fosse stato per il seno troppo prosperoso e i vestiti sportivi. Andrea avrebbe di gran lunga preferito che Vittoria avesse avuto anche la lingua e l’intelligenza di una barbie. E invece le disgrazie arrivavano sempre tutte insieme.
«Ma a me piace chiamarti così» ribattè.
«Ti diverte essere inopportuna?».
«Mi diverte dare fastidio alla gente, sì. Alle persone permalose soprattutto. Ma non sarebbe così divertente se tu non ti impegnassi tanto per rendermelo facile».
Andrea buttò uno sguardo alla porta. «Ci sei solo tu?».
Scosse la testa «Gli altri arriveranno a momenti. Siamo sole solette».
La mora roteò gli occhi. «Che goduria, aspettavo questo momento da tutta la vita…».
«Dolce come uno yogurt scaduto, andiamo migliorando».
«Se vuoi dolcezza posso darti due euro per andare a comprare una brioches, che dici?».
«Così piccola e già così scontrosa» rise «Hai imboccato la strada per diventare zitella senza passare dal via?». Bevve un sorso di caffè.
«E tu invece? Hai un buono per uscire gratis di prigione?».
«Non te l’hanno mai detto che sembri quasi una ragazza perbene quando sorridi?».
«Non direi».
«Forse perché non sorridi spesso. Mi chiedo come fai a camminare senza inciampare nel broncio che ti ritrovi».
«Non saprei, tu come fai a non inciampare? Ti hanno dato il porto d’armi per andare in giro con quelle due testate nucleari?» alzò un sopracciglio, squadrandola.
Vittoria si passò una mano tra i capelli, scostandosi il ciuffo che le dava fastidio agli occhi. «Ragazzina, dovrai fare di meglio: sono anni che sento queste battute, ormai non mi fanno più nessun effetto. Mi aspetto decisamente più inventiva da una studentessa dell’Artistico».
Andrea picchiettò le dita sul tavolo, ma quando si accorse di star facendo troppo rumore si fermò, la bionda che la osservava con fare compiaciuto.
«Smettila di chiamarmi ragazzina» riuscì solo a ripetere Andrea, guardando da un’altra parte.
«Sei buffa quando ti imbarazzi».
«Io non mi imbarazzo per niente».
«Dillo alle tue guance, magari loro ti credono».
Andrea non rispose e Vittoria continuò «Chi è che ti chiama così?» le rivolse uno sguardo malizioso.
«Te lo direi, se fossero affari tuoi».
«Ah, c’è un amore dunque».
«Smettila, non mi conosci nemmeno».
«Ti ho vista con la testa nel water, direi che abbiamo raggiunto un certo grado di intimità, non credi?».
«Divertente. Davvero divertente» sputò, sperando che quel caffè le si trasformasse in aceto nello stomaco.
«Suvvia, che espressione truce» la blandì l’altra, passandosi il cucchiaino da una parte all’altra della bocca e provando con il bicchierino vuoto a fare canestro nel cestino – senza riuscirci. «Sorridimi come hai fatto l’altro giorno quando ti ha scritto il tuo ragazzo».
Andrea aggrottò la fronte. «Io non ho nessun ragazzo» tagliò corto, senza dilungarsi in troppe spiegazioni.
«Ah, no?» fece spallucce «Poco male. Chi era, qualche tuo amico speciale?» domandò curiosa, tirando indietro la sedia a capotavola e sedendosi a cavalcioni, le braccia appoggiate allo schienale.
Andrea dovette impiegarci qualche secondo per capire a quale momento si stesse riferendo Vittoria e la recensione che le aveva lasciato Maeries le si stampigliò nella mente.
«Bingo!» la indicò Vittoria, schioccando la lingua sul palato.
«Smettila» iniziò a sentirti a disagio «Non te l’hanno insegnato che la curiosità uccide il gatto?».
«E la noia tutto il resto».
«Non hai proprio nessun altro da disturbare? Un amico, un fidanzato, che so io».
Increspò appena le labbra. «Sentirò il mio ragazzo più tardi. Non è altrettanto facile prenderlo in giro, il tuo gesticolare mi dà più soddisfazione».
«Io non gesticolo…» borbottò tra sé, ponendo fine alla conversazione e tornando a scrivere.
 
Nei cinque minuti di silenzio che seguirono, Vittoria non le staccò gli occhi di dosso nemmeno per un istante. In fondo era vero, un po’ si divertiva a mettere in imbarazzo le persone, e con quella piccoletta era tutto molto più semplice. La trovava tenera, in fondo. Forse per la sua età, o per il ciglio che assumeva quando arrossiva e faceva di tutto per sembrare una roccia; un po’ per la sua lingua tagliente che, però, non riusciva a scalfirla minimamente. Ma era simpatico che qualcuno ci provasse ancora, dopo tutto quel tempo. Praticamente, un gattino che si credeva di essere un leone solo perché nessuno l’aveva mai messo davanti ad uno specchio.
Tirò un sospiro. O forse era perché si sentiva un po’ in colpa? Si ricordava di quando aveva trovato Matteo, insieme a Manuel, Giulia e Giacomo, farle tana nel bagno delle ragazze. Lo zaino era stato rovesciato, tutti i fogli, il portapenne e i quaderni erano stati buttati nei lavandini sotto l’acqua corrente. Nessun appunto sarebbe stato più leggibile e Andrea sembrava fosse dispiaciuta soprattutto per quello.
Vittoria si era divertita, almeno all’inizio. Non ci aveva trovato nulla di male, ma sembrava essere l’unica ad aver fatto proprio il motto «Il gioco è bello quando dura poco». O, almeno, il gioco è bello fino a quando qualcuno non si fa male. Quella ragazzina non aveva versato nemmeno una lacrima quando Giacomo l’aveva strattonata per i capelli. Sembrava tutto tranne che intenzionata a farsi vedere debole, ma gli occhi erano rossi e lucidi e stava scoppiando. Aveva incrociato lo sguardo di Vittoria solo per una frazione di secondo e la più grande si era stupita di tutto quel rancore.
«Matteo, adesso basta» gli aveva detto Vittoria «Giacomo, lasciala stare».
«Ma ho appena iniziato».
«No, hai già finito. Forza, torniamo in classe. Se Provero ci becca siamo fottuti».
Ora che la osservava riusciva a rivedere quella ragazzina, ma meno acerba e più distaccata. Andrea si era spostata di una sedia, evidentemente per mettere maggior distanza tra sé stessa e lei, ma Vittoria non se l’era presa. La fissava con il chiaro intento di metterla a disagio, perché sapeva che Andrea si sentiva osservata e la controllava di tanto in tanto da sotto le ciglia, facendo finta di girarsi per sistemarsi i capelli o la maglia. Era decisamente troppo ingenua e Vittoria decisamente troppo sfacciata.
«Che cosa stai scrivendo?» le domandò, poggiando il mento sulle mani unite, piegando la testa e sorridendole.
Sembrò prenderla in contropiede, perché Andrea si affrettò a dire «Nulla!», come se volesse tenere nascosto uno dei più grandi segreti dell’umanità.
«Non mi pare nulla» la punzecchiò.
«Ti pare male».
«Difficile, raramente mi sbaglio. E tu sei un libro aperto».
«E tu hai delle manie di grandezza».
«È vero, sono cresciuta a pane e obiettivi».
«Sono quasi commossa».
«Fa’ un po’ vedere» le disse, poggiando i palmi contro il tavolo e sporgendosi, allungando il collo per sbirciare qualche riga.
«No!» coprì subito la pagina Andrea e quando la vide alzarsi dalla sedia per venirle vicina sbiancò.
«Coraggio ragazzina, non mordo mica».
L’altra era chiaramente agitata. «Non mi interessa» decretò rapida, chiudendo il suo blocco, ma prima che potesse riporlo al sicuro nella sua tracolla Vittoria glielo sfilò dalle dita.
«Ridammelo!» le urlò all’istante, alzando un braccio per riprenderselo, ma la bionda lo teneva a debita distanza.
«Vediamo un po’…» iniziò a dire, aprendo una pagina a caso e indietreggiando per non farsi raggiungere da Andrea.
«Smettila subito!» le saltò addosso, senza riuscire ad afferrarla.
«Che cosa c’è scritto qua?».
«Sono cose personali!».
«Addirittura personali? Allora devo leggerle per forza» scherzò, ma se si fosse curata dell’espressione atterrita di Andrea le avrebbe restituito il quaderno all’istante.
«Smettila Vittoria, smettila!» saltò per strapparle le pagine dalle mani, la bionda continuava a ridere e a scansarsi.
«Mhmhm…» controllò una riga a caso «”Lei la prese e la sbattè al muro”. Ah, iniziamo proprio così? Alla faccia del medias res».
«Falla finita! Subito!» le urlò ancora Andrea, le mani che iniziavano a fremere, gli occhi che le pungevano.
«”E le disse tutto quello che si era tenuta dentro fino a quel momento, tutto ciò che non era riuscita a spiegarle prima e per la prima volta si sentì leggera, perché…”».
«Cazzo, smettila! Vittoria non sono affari tuoi!». Non voleva che una completa estranea leggesse delle cose così intime, c’era troppo di lei dentro quelle parole.
«”Per la prima volta si sentì leggera, perché finalmente Sasha poteva…poteva…”» un impercettibile spezzato nella voce, una sicurezza che veniva meno, le labbra che si chiudevano sui denti, fino a farle perdere del tutto il sorriso «”…poteva vedere quello che Noemi provava per lei”». Deglutí a fatica. «No, aspetta un momento, non può essere, io…» non fece in tempo a finire la frase.
Andrea approfittò della sua distrazione per sottrarle il quaderno dalle mani, stringendoselo al petto per impedirle di portarglielo via di nuovo. Tremava dalla rabbia, dall’indignazione, o forse era solo imbarazzo.
«Sono cose mie!» fremette, la bocca corrucciata che presagiva il pianto «Non dovevi permetterti di fare una cosa simile, non dovevi!».
Vittoria boccheggiò. «Ma io la conosco questa storia» riuscì solo a dire, perché tutto in quel momento sembrava confuso. Poteva davvero essere che…?
«Mi fai schifo!» sbraitò Andrea, affrettandosi a chiudere la tracolla, ficcando a forza il taccuino dentro il primo scomparto «Sei un essere spregevole! Non erano affari tuoi!».
«…Cecille?» la chiamò in un sussurro. No, impossibile, quante possibilità potevano esserci di…?
Andrea si arrestò, la mano ferma a mezz’aria, il corpo piegato sullo zaino. Percepì il cuore mancare un battito e il freddo stringerle le viscere. Solo una lacrima di vergogna lasciò le sue ciglia, finendo sulle lenti degli occhiali.
«Ragazzina?» la chiamò ancora Vittoria, rigida nella voce e nei movimenti, ma ora quella parola aveva assunto un tono diverso, un colore tutto suo, ben definito, un’identità che solo loro due potevano riconoscere. Ad Andrea si ghiacciò il sangue mentre l’immagine del profilo di Maeries prendeva forma nella sua memoria. «Non ci posso credere, tu sei davvero…» continuò la bionda.
«Fai silenzio!» la interruppe con un bisbigliò e la sua espressione era così pesante che Vittoria ammutolì. «Smettila di chiamarmi in questo modo» ripetè ancora una volta, l’ultima volta.
Si mise la tracolla in spalla e si diresse a grandi falcate verso l’uscita.
Vittoria la afferrò per una spalla. «Aspetta, io…».
«No!» la fermò Andrea, schiaffeggiandole la mano «Ti odio!».
La bionda vide il suo sguardo, lo stesso che aveva riconosciuto in quel bagno due anni prima, e non trovò il coraggio di trattenerla.
Andrea si catapultò fuori dalla porta, scontrandosi contro il gruppetto di ragazzi che in quel momento stava entrando. Pestò piedi, diede spintoni.
«Hey, ma guarda dove vai!» le urlò qualcuno.
«Che cogliona!» disse un altro.
Lei corse per il corridoio, quasi caracollando giù dalle scale. Aveva bisogno di allontanarsi da quel posto.
Vittoria la seguì con lo sguardo fino a quando Matteo non le si parò davanti.
«Oh, Vicky!» la prese in giro il suo migliore amico «Non ti posso lasciare un attimo da sola che già mi fai piangere le scolarette?».
«Stai zitto Teo!».

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


On my own
 
Capitolo III

 
Bring me out,
come and find me in the dark now.
Everyday by myself I’m breaking down

I don’t wanna fight alone anymore
 
 
Vittoria diede una sbirciata al suo profilo ancora una volta, l’ultima – o almeno era quello che si ripeteva. Non si riteneva una persona assillante e l’essere ossessiva non aveva mai fatto parte del suo carattere: era cresciuta in una famiglia dove essere indipendenti, ambiziosi e orgogliosi era un prerequisito indispensabile da dover soddisfare. Non si sentiva vicina alle ragazze che rimanevano sveglie per aspettare la buonanotte, o a quelle che andavano in paranoia per il classico “visualizzato e non risposto” e di certo non si era mai fatta troppi problemi per una chiamata mancata. Inseguiva quella che ormai riteneva essere la sua filosofia di vita: vivi e lascia vivere. Di gran lunga preferibile a quella di suo padre: mors tua, vita mea.  
Spostò il mouse sull’icona di riavvio e ricaricò la pagina una, due, tre volte, senza che il risultato cambiasse: nessun messaggio nella casella di posta della sua pagina. Non si sentiva a proprio agio in quella situazione. Sbuffò sonoramente, picchiettando l’indice sul tasto sinistro del mouse colorato. I messaggi che le aveva inviato erano lì in bella vista, in un’anteprima di cui avrebbe fatto volentieri a meno in quel momento.
 
Venerdì 23 Ottobre
h 22.45
Ciao ragazzina. Mi dispiace molto, dico davvero. Non era mia intenzione farti piangere, volevo solo giocare un po’ con te, pensavo mi avresti dato corda. Se avessi saputo che ci tenevi così tanto non mi sarei mai permessa di fare una cosa del genere, non sono quel tipo di persona.
…Quante possibilità c’erano che fossi proprio tu?
 
Mercoledì 28 Ottobre
h 21,05
Hey ragazzina. Ho visto che non hai più aggiornato nulla e che non hai risposto al mio messaggio. Penso sia utile per entrambe chiarirsi, specie contando che dovremo lavorare insieme per tutto l’anno. Non mi sembra il modo migliore per iniziare questo rapporto. Di iniziarlo “dal vivo”, intendo.
 
Le scrisse di nuovo.
 
Sabato 31 Ottobre
h 23,12
Buonasera Andrea. Venerdì ci sarà la riunione dei rappresentanti d’istituto, sarebbe il caso che tu questa volta ti presentassi. Dobbiamo stilare il rendiconto da consegnare alla vicepreside e non sappiamo ancora quali siano le tue proposte, visto il modo in cui sei scappata via settimana scorsa. Sarebbe gradito, nonché necessario, un riscontro. Siamo troppo grandi per questi giochetti, spero tu ne convenga con me.
 
«Vittoria?» la chiamò Giorgio, una punta di rimprovero nella voce.
La ragazza si rassegnò a chiudere la pagina e spegnere il computer. «Eccomi» gli rispose, colpendo il pavimento coi talloni e girandosi, seduta sulla sua sedia ergonomica un po’ troppo vecchia. Si tolse le scarpe con fretta, senza nemmeno slacciarle, utilizzando la punta del piede sinistro per la scarpa destra e la punta di quello destro per la scarpa sinistra.
«Ancora pensi a quella studentessa?» le domandò accennando un sorriso, metà viso completamente affondato tra le pagine di un saggio sull’economia del Mali. Che poi, in fondo, Vittoria nemmeno lo sapeva esattamente dove fosse il Mali, figurarsi le sue strategie di mercato.
«Non mi risponde» disse laconica.
«Non è obbligata a farlo, fino a prova contraria».
Vittoria sollevò un sopracciglio. «Non mi aiuti molto così».
Giorgio chiuse il libro, mantenendo il segno inserendo tra le pagine l’indice e il medio. Si puntellò sui gomiti per appoggiare meglio la schiena alla tastiera del letto.
Ormai erano cinque anni che stavano insieme e ogni volta che Vittoria ci pensava le veniva spontaneo storcere il naso. Indubbiamente si erano trovati, lui così pacato e serioso, lei sempre un po’ con la testa tra le nuvole e decisamente troppo irruenta. Ormai da un anno Giorgio aveva lasciato la città per trasferirsi e studiare Economia, ma puntualmente ogni weekend prendeva il treno per tornare a casa, salvo periodi di sessione, per passare del tempo con la sua famiglia e la sua ragazza. E a Vittoria questa situazione, tutto sommato, andava più che bene, specie contando lo studio che presto l’avrebbe sommersa in vista della maturità.
«Dico solo» continuò il ragazzo, aggiustandosi gli occhiali «Che a volte chiedere scusa non è sufficiente. Insomma, lo sai».
«Cosa dovrei sapere?».
«Non puoi sempre pensare che tutto ti sia dovuto».
«Non lo penso affatto».
«Invece sì. Hai sbagliato, hai chiesto scusa e ora ti aspetti di essere perdonata».
«Solitamente è quello che succede quando si chiede scusa» ribattè.
«No, non è vero. Puoi essere dispiaciuta, ovviamente, ma non puoi obbligare gli altri a perdonarti».
«E quindi che cosa dovrei fare secondo te?».
«Non lo so. Aspettare».
«Aspettare cosa? Le calende greche?».
Giorgio la guardò di sottecchi «Puoi provarci…».
«E comunque» puntualizzò «Gradirei mi rispondesse perché preferirei sapere che cosa dobbiamo farne di quelli dell’Artistico. Non è certo per questioni personali» provò a sembrare il più convincente possibile.
«E allora diglielo».
«Cosa pensi che stessi facendo?» sospirò, chiudendo la porta e abbassando le luci «Ma non mi risponde».
«Trova un altro modo».
«La dovrei costringere?».
«Non era esattamente questo quello che intendevo».
Lei ci pensò su. «Hai ragione, la dovrei costringere a parlarmi» si svestì e indossò il pigiama «Insomma, non potrà ignorarmi in eterno. Quantomeno mi dovrà ascoltare».
«Come credi» si limitò a sussurrare Giorgio, dandogliela vinta, posando gli occhiali e il libro sul comodino dalla sua parte del letto. «Come sta andando lo studio per il test?» cambiò argomento.
Vittoria si infilò accanto a lui sotto le coperte. «Quale test?» domandò distratta.
Lui scosse la testa «Quello di ammissione ad Economia» la riprese con sguardo torvo.
«Ah, quello…».
«Sì, quello».
«Ho iniziato a leggere qualche bignami» rimase sul vago.
«Lo sai che la graduatoria è spietata».
«Sì, Giorgio, lo so, me lo ripetete in continuazione» borbottò, affondando la testa nel cuscino.
«Lo diciamo per te».
«Il fatto che tu e i miei genitori parliate sempre al plurale come se foste un’unica entità mi fa venire i brividi».
Lui, per scherzare, le tirò una gomitata. «Dico sul serio Vicky. Quest’anno hanno anche anticipato l’iscrizione».
«So anche questo. Non mettermi pressione pure tu, ok?».
«Vorrei solo che tu fossi preparata» si allungò per darle un bacio sulla fronte «Almeno riusciremmo a vederci in facoltà ogni giorno e potrei aiutarti a preparare gli esami».
Le venne spontaneo sollevare gli occhi al cielo. «Perché dai per scontato che mi servirà un aiuto per superare gli esami?».
«Diritto Pubblico è una brutta bestia il primo semestre».
«Tu l’hai passato» gli fece notare.
«Bhe» fece spallucce «Non tutti sono portati per queste materie».
«Ma sentiti…» sbuffò, prendendolo in giro «Un anno all’università e già è avvenuta la metamorfosi da “piccolo nerd di campagna” a “Dio onnipotente sceso in terra”?».
«Quanto sei diventata simpatica!» rise, iniziando a farle il solletico.
Vittoria disse tra una riso e un altro: «Non sono più così sicura di volerti vedere ogni giorno».
«Tranquilla, sarà sufficiente continuare a non studiare!» ribattè, assicurandosi una linguaccia. «Allora?» le domandò poi.
«Cosa?».
«Dormiamo?».
Le labbra di Vittoria si piegarono in un sorriso e due fossette le scavarono le guance. «Oh, no, non credo proprio…». Lo baciò a fondo e quando gli si mise a cavalcioni sui fianchi, Giorgio la tenne per la vita.
«Allora ti sono mancato». Guardò Vittoria spogliarsi, mangiandola con gli occhi.
Si piegò su di lui e il suo ciuffo biondo gli coprì la fronte. «Non montarti la testa, nerd».
 
Sasha si svegliò quando un nuovo lampo illuminò la stanza, seguito dopo qualche attimo da un sordo fragore. Le previsioni non avevano mostrato alcuna pietà né per lei, né per la sua classe, e il temporale che stava imperversando avrebbe rovinato la gita a tutti.
Non che il soggiorno fosse iniziato nel migliore dei modi, in ogni caso.
“Quindici ragazze”, si ritrovò a pensare Sasha, sbirciando il letto della sua compagna di stanza “Quindici ragazze per classe ed io dovevo capitare proprio con te…”.
Un altro fulmine squarciò il cielo con la sua luce sinistra e fredda e il tuono non tardò a farsi sentire.
Noemi, immobile nel letto accanto al suo, sobbalzò, tappandosi le orecchie con i palmi delle mani.
Sasha si tirò su, mettendosi a sedere sul materasso, le gambe incrociate. Ricordava quando, ormai cinque mesi prima, aveva iniziato a parlare con quella ragazza per cercare di conoscerla meglio.
«E tu Noemi?» le aveva domandato «Hai qualche paura in particolare? Scarafaggi, fantasmi, robe così?».
«Solo una, in verità…» le aveva risposto con imbarazzo, lasciando la frase a metà.
«Bhe?»
«Soffro di tonitofobia».
«Tronicoche?».
Noemi aveva riso e Sasha si era ritrovata a pensare che fosse molto dolce «Tonitofobia. È la paura dei temporali...».
«Sei proprio una bambina!» l’aveva presa in giro, accarezzandole la testa.
Il cielo si imbruttì ancora, dopo il fulmine il rumore. Nella stanza scese il silenzio, interrotto solo da qualche gemito a stento soffocato.
«Noemi…» la chiamò Sasha, strizzando gli occhi per riuscire a riconoscerne la sagoma.
«Lasciami stare» bisbigliò tremando.
«Stai bene?».
Ancora un tuono e ancora un pianto. Nel letto accanto al suo Noemi si accartocciò sotto le coperte.
Sasha si morse le labbra. Avrebbe voluto aiutarla, avrebbe voluto abbracciarla e cullarla fino a quando non si fosse addormentata, se necessario fino all’alba, ma sembrava che mille catene la bloccassero dal compiere un gesto tanto avventato.
Detestava la situazione che si era venuta a creare e l’indifferenza che serpeggiava tra di loro ormai da troppo tempo. Un’indifferenza ostentata, alla quale nessuna delle due credeva, ma che entrambe continuavano a portare fieramente avanti.
Tornò a sdraiarsi, ma non riuscì a prendere sonno. Mezz’ora dopo era più vigile di una faina che punta la preda, quaranta minuti dopo il temporale si era fatto se possibile ancora più furioso e cinquanta minuti dopo sarebbe stato impossibile per chiunque ignorare il pianto di Noemi.
Sasha afferrò il suo cellulare, srotolò le cuffie che vi aveva lasciato attaccate e scivolò fuori dalle lenzuola e dalla trapunta.
Si avvicinò al letto della ragazza quasi a tentoni, tastando il bordo del materasso e tirando verso il basso l’orlo delle coperte per scoprire la testa di Noemi.
«Che cosa stai facendo?» le domandò con sorpresa la mora, la voce rotta irriconoscibile.
«Fammi spazio» le disse semplicemente.
«No!» allungò un braccio per tenerla lontana.
«Forza Noemi. Voglio solo aiutarti».
«Non mi serve il tuo aiuto» sputò.
«Stai tremando come una foglia» le fece notare duramente.
«E a te cosa importa?».
«Mi importa invece. Forza, levati, prima che io cambi idea» la costrinse a cederle il posto e quando l’altra si bloccò al rumore dell’ennesimo tuono, Sasha le si sdraiò accanto senza incontrare grandi resistenze.
Le cinse il fianco con il braccio destro, le teste appoggiate sullo stesso scomodo cuscino. Sasha non ricordava neanche più l’ultima volta che le era stata vicina al punto da percepirne così chiaramente il profumo.
Storse il naso a quel pensiero. No, non era vero, se lo ricordava. Se lo ricordava troppo bene.
Istintivamente avvicinò le labbra alla sua fronte e la sentì sudata. Noemi, anche se con reticenza, la lasciò fare.
«Questo non cambia nulla tra di noi, Sasha» ci tenne a puntualizzare, forse per mantenere il confine che avevano tracciato, forse per non mostrarsi fragile. Più fragile.
La rossa finse di non averla ascoltata e porgendole le cuffie ordinò: «Mettile. Forse così non sentirai più rumore».
Noemi ubbidì e il display si illuminò per far partire la musica, una canzone dopo l’altra. Ad ogni lampo sussultava e Sasha la stringeva un po’ di più al suo petto, e non sapeva se amarla od odiarla per il fatto che solo quel gesto fosse sufficiente a farla sentire protetta. Sarebbe stato tutto molto più semplice se non avesse provato nulla stando fra le sue braccia.
Nonostante il sonno iniziasse a farsi sentire, Sasha si sforzò di rimanere sveglia. Percepì il corpo di Noemi irrigidirsi e tendersi e socchiuse gli occhi per vederla scivolare più in basso e avvicinare la testa al suo petto, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. Attivò la schermata di blocco del cellulare per assicurarsi che l’MP3 non si fosse fermato. In alto a destra passò il titolo della nuova musica caricata: On my own.
Sasha sentì un nodo serrarle la gola. La loro canzone…Strano che due come loro, che si divertivano a fingere disinteresse, avessero ancora una canzone in comune.
«Mi manchi tanto…» si scoprì a sussurrare, scostandole la frangia dalla fronte.
«Mhm? Hai detto qualcosa?».       
«No» sospirò «Nulla di importante».
 
Andrea si passò la matita tra le dita, mordicchiando la punta già rovinata.
Non andava bene. Nulla andava bene, ormai.
Corrucciandosi, tirò una spessa e pesante riga su tutto quello che aveva scritto fino a quel momento e, non contenta, ne strappò la pagina, appallottolandola e gettandola alla rinfusa dentro lo zaino.
Il professor Grimaldi, seduto alla cattedra con il suo solito atteggiamento rigido e composto, guardò l’ora e invitò l’interrogato a concludere: «E dunque da questo discorso cosa si può evincere? La pace di Westafalia è oppure non è dovuta alla nuova politica della penisola iberica?».
«Emhm…» silenzio «E-evincere?».
«Sì, Fumagalli: evincere. Dedurre, ipotizzare, ricavare o, nel suo caso, semplicemente ragionare».
Una risata di sottofondo venne immediatamente zittita dallo sguardo torvo del docente.
«Ma» continuò il ragazzo, in evidente difficoltà «Evincere in che senso?».
Andrea si passò una mano tra i capelli. «No, non ci credo…» sussurrò, storcendo il naso e osservando il suo compagno che tornava al proprio banco con un misero 6 di cui sembrava essere ben più che contento. Lei, dal canto suo, evinceva che fosse un emerito ignorante.
Posò gli occhi sul suo blocchetto di appunti, fatto ultimamente di sole pagine vuote, fogli strappati e parole scritte a caso sui margini. Neanche messe insieme con la migliore fantasia quelle parole avrebbero potuto originare una frase di senso compiuto.
Tutto storto. Semplicemente tutto storto. Sua madre la considerava una melodrammatica, ma Andrea non ci vedeva assolutamente nulla di teatrale in quello che era accaduto.
Non avrebbe più potuto scrivere utilizzando il profilo di Cecille92, non ora che sapeva che Vittoria l’avrebbe spulciato fino in fondo, ricollegando ogni parola a lei. Alzò gli occhi al cielo. In realtà erano già due anni che Vittoria leggeva e recensiva quello che Andrea pubblicava, ma ora nulla sarebbe più stato come prima. Aveva passato notti intere a parlare con Maeries, a condividere con lei i pensieri, i desideri, le voglie più nascoste, certa del fatto che tutti i loro dialoghi sarebbero rimasti rigorosamente chiusi in quello schermo. Non si sarebbe mai aperta così tanto con quella sconosciuta se solo avesse sospettato di doverla incontrare. Non era assolutamente come se l’era immaginata. La Maeries che aveva conosciuto era attenta, gentile, dolce, premurosa, simpatica. Vittoria invece era…era Vittoria. E giusto per gradire, la sua allegra combriccola si era divertita a rendere il suo primo anno in quell’istituto un inferno dantesco. Com’era possibile che fossero davvero la stessa persona? Eppure il modo in cui l’aveva chiamata l’ultima volta, la sua insistenza nell’utilizzare quel maledetto soprannome…
Si bloccò, la mano ferma a mezz’aria mentre faceva per lanciare la matita nell’astuccio. Aveva sempre significato qualcosa quel soprannome, per lei: intimità, affetto, sintonia. L’aveva fatta sentire meno sola, le aveva fatto credere di aver trovato anche lei qualcuno, le aveva fatto credere di essere di qualcuno. E invece Vittoria, o Maeries, o come diavolo avrebbe dovuto chiamarla adesso, evidentemente lo utilizzava indiscriminatamente con tutte le ragazze. Dio, che amarezza.
«Non m’importa…» sussurrò, chiudendo la zip del portapenne e aspettando il suono della campanella.
«Eh?» le chiese il suo compagno di banco, degnandola appena di uno sguardo «Che c’è?».
«Non dicevo a te» ribattè stizzita, scuotendo la testa.
Durante l’intervallo estrasse il telefono e come d’abitudine controllò la casella di posta elettronica, che le segnalava l’arrivo di un altro messaggio da parte di Vittoria.
 
Sabato 31 Ottobre
h 23,12
Buonasera Andrea. Venerdì ci sarà la riunione dei rappresentanti d’istituto, sarebbe il caso che tu questa volta ti presentassi. Dobbiamo stilare il rendiconto da consegnare alla vicepreside e non sappiamo ancora quali siano le tue proposte, visto il modo in cui sei scappata via settimana scorsa. Sarebbe gradito, nonché necessario, un riscontro. Siamo troppo grandi per questi giochetti, spero tu ne convenga con me.
 
Rilesse le righe famelica e più andava avanti più sentiva il nervoso farsi strada attraverso il suo stomaco, bucandole l’intestino. Quanta stizza trasudava da quelle poche parole, stentava a credere che il corpo di una ragazza potesse contenere tutta quell’arroganza. Digitò velocemente una risposta, battendo sui tasti, facendo attenzione al correttore automatico che troppo spesso le giocava brutti scherzi.
 
Molto bene Vittoria, prenderò atto della tua richiesta e ti farò sapere. Ti auguro una buona giornata.
 
Smettila di scrivermi, stai diventando pedante.
 
Una sola parola: vaffanculo.
 
Tirò un profondo sospiro.
 
Non usare quel tono saccente con me, non sono una tua amica.  
 
La professoressa Amatuzzi iniziò la lezione di Storia dell’Arte con un evidente raffreddore, interrompendo i suoi sproloqui di tanto in tanto con qualche starnuto.
Andrea sfogliò svogliatamente le pagine del libro di testo, aggiungendo qualche freccetta sui bordi e segnando una data importante.
Bussarono alla porta e la professoressa si bloccò. Il gesso stridette sulla lavagna e un suono fastidiosissimo serpeggiò tra le orecchie degli studenti con un profondo dissenso. Con il senno di poi Andrea avrebbe dovuto cogliere quel segno come un preavviso molto chiaro.
«Avanti!» disse e una testa bionda fece capolino nell’aula.
«Permesso». Vittoria rimase ferma sullo stipite della porta, gettando uno sguardo alla classe e alla cattedra. «Buongiorno professoressa».
«Buongiorno».
Un brusio si alzò dalle ultime file e nessuno si stupì nel constatare che quei banchi fossero occupati solamente da maschi.
Andrea istintivamente si lasciò scivolare sulla sedia, coprendosi la fronte con la mano, facendo finta di doversi aggiustare i capelli.
«Scusi l’interruzione, dovrei parlare con Della Torre per l’incontro con la Genovesi, posso rubargliela un attimo?».
«Si, si, certamente. Andrea?» la Amatuzzi la guardò allusivamente, facendole segno di alzarsi.
Vittoria rivolse un grande sorriso alla professoressa, probabilmente lo stesso sorriso che sfoggiava durante le interrogazioni per ottenere mezzo punto in più. «Ci vorrà solo un secondo, glielo garantisco».
«Non si preoccupi signorina, non è un problema. Della Torre, forza, non possiamo fare notte».
La bionda le tenne la porta aperta e Andrea la superò con malcelato fastidio, tenendo la testa bassa.
«Ma si può sapere quel è il tuo proble…?!» iniziò a dire, prima che Vittoria la strattonasse per un braccio, costringendola a seguirla al fondo del corridoio, spalancando la porta del bagno dei disabili.
«Noi non possiamo entrare qui» la accusò Andrea quando l’altra la spintonò all’interno con la delicatezza di un giocatore di rugby dopato e lei quasi non inciampò sul gradino.
«Perché no?».
«Perché è il bagno degli handicappati!».
«Allora sei nel posto giusto» la beffeggiò senza più neanche l’ombra di un sorriso, chiudendosi la porta alle spalle e girando la manopola sull’occupato. Dubitava che in quell’ala dell’edificio ci fosse un bagno più pulito di quello. «Non mi piace essere ignorata, Andrea» attaccò senza preamboli.
«Già, il tuo egocentrismo è più che evidente, te lo posso assicurare» si strinse nelle spalle.
«Perchè, credi che il tuo atteggiamento sia quello di una persona matura?».
Andrea spalancò le braccia «Io non trascino le ragazze nei cessi!».
«Ma come, dovresti sentirti più a tuo agio qui».
Le lanciò un’occhiata torva. «Divertente, davvero molto, molto divertente. Ora, se vuoi scusarmi…» fece per uscire ma Vittoria le si parò davanti.
«Toglitelo dalla testa, ragazzina».
«Non puoi obbligarmi a rimanere qui».
«È una sfida?».
«Senti» sbottò «Ma si può sapere che cosa vuoi da me? Mi stai facendo perdere una lezione importante».
«E tu mi stai facendo perdere la pazienza».
«Oh, quanta importanza che mi dai, non dovevi scomodarti».
«Mi chiedo quanta importanza hai dato tu a me per arrivare ad ignorare tutti i miei messaggi».
«Ti ho colpita nell’orgoglio forse? A saperlo l’avrei fatto prima, ma più forte».
Vittoria scosse la testa e si avvicinò a lei lentamente, un piede davanti all’altro. Senza quasi rendersene conto, Andrea indietreggiò.
«Hai paura ragazzina?» le domandò la bionda.
«La devi smettere di chiamarmi così, è insopportabile».
«Insopportabile, dici?» fece finta di pensarci su «Strano, io mi ricordo una cosa diversa. Chissà, forse mi sbaglio».
«Può essere: la presunzione e l’Alzheimer vanno d’accordo».
«Questo carattere l’hai costruito a tavolino oppure ti sale da dentro il bisogno di essere così scontrosa?».
«No, è una reazione naturale alla tua faccia».
«Mi commuove sapere che almeno tu mi guardi negli occhi» un angolo della bocca le si piegò in un sorriso malizioso «Ancora non mi capacito del fatto che tu riesca a scrivere delle cose così dolci e romantiche, visto che – lasciatelo dire – dal vivo sei davvero un dito nel culo».
Andrea si sentì avvampare fino alla radice dei capelli. «Già e tu la sensazione la conosci benissimo, dico bene?».
«Non giocare a questo gioco con me Andrea, non sono io quella che si è cimentata in descrizioni sessuali così dettagliate».
«Zitta, zitta, zitta!» la interruppe all’istante l’altra agitando convulsamente le mani, come se questo fosse sufficiente ad allontanare la consapevolezza che Vittoria aveva letto cose che ora Andrea rimpiangeva di aver scritto.
La bionda la osservò sotto le lunghe ciglia, godendosi il suo imbarazzo. «Cos’è, adesso ti vergogni? Quando scrivi non mostri tutto questo pudore» disse allusivamente.
«Smettila!».
«Lo sai che il bollino della tua storia è rosso quasi quanto la tua faccia in questo momento?».
«Voglio morire…» sussurrò, passandosi una mano sul viso e sperando che una pala da becchino calasse miracolosamente dall’alto. Per colpirla in testa oppure per sotterrarla.
«Avevo ragione» fece spallucce Vittoria, prima di avvicinarsi «Tu ti vergogni».
«Non sai quello che dici, non mi conosci nemmeno».
«Invece è proprio perché ti conosco che ti vergogni» si dondolò sul posto «Ma non ne capisco il motivo: non ti giudico mica».
«Devo aver fatto qualcosa di veramente riprovevole nella mia vita passata per meritarmi proprio te».
Vittoria arcuò un sopracciglio. «Scusa, ma non sei contenta di avermi conosciuta?».
«Certo che no!». Andrea si voltò, allargando le braccia e facendole poi ricadere lungo il corpo.
«Ah…» l’aveva presa in contropiede.
«B-bhe, perché, tu lo sei?» le chiese come se fosse una cosa completamente fuori dal mondo.
«Certo che lo sono» le disse con semplicità, facendo spallucce «Insomma, quante possibilità avevamo di incontrarci? Non capita certo tutti i giorni una coincidenza simile. Secondo me è una cosa che dovrebbe essere sfruttata» le fece l’occhiolino «Sai che bella storia potrebbe venir fuori? Ci conto».
«Mi sa che non sei brava in matematica allora».
Vittoria si portò le mani dietro la testa «Oh, andiamo! Se continui così morirai zitella. Ascolta, forse non abbiamo iniziato nel migliore dei modi» si corresse «Bhe, diciamo che non abbiamo continuato nel migliore dei modi. Mi dispiace per quello che è successo la scorsa settimana, forse ho esagerato».
«No, cosa te lo fa pensare?» replicò a denti stretti, ma l’altra finse di non averla sentita e continuò.
«Vedila così: se non ti avessi forzata ora non saremmo qui insieme».
«Scusa, quale sarebbe l’aspetto positivo in tutto ciò?».
«Ce l’hai davanti».
Alzò gli occhi al cielo. «Giusto, certo. C’è chi nasce con la camicia e chi con la modestia».
«Non fare la dura con me Andrea, non ti riesce bene la parte del lupo cattivo» le si avvicinò ancora, l’espressione divertita, e l’altra per risposta si appiattì contro le piastrelle.
«Non sarò Cappuccetto Rosso, se è questo che intendi».
«Ah, no?».
«No».
«E allora ti conviene riscrivere la tua recita, ragazzina. Lo so che sei più dolce di quello che vuoi mostrare» le posò una mano sulla testa e subito Andrea la allontanò.
«Non mi toccare mentre parli» sbottò arrossendo e fremendo «Detesto il contatto fisico e detesto i soprannomi».
Vittoria agitò la mano per farle capire che non ci avrebbe dato molto peso. «Sai? È strano».
«Cosa?» borbottò Andrea, stringendosi le braccia intorno al petto e abbassando lo sguardo. La metteva a disagio il modo in cui gli occhi di quella ragazza la indagavano.
«Ogni tanto rivedo un po’ di Cecille in te, adesso che ci faccio caso» distese le labbra, ma in quel sorriso c’era qualcosa di diverso, più gentile e genuino «Ora sì che ti riconosco».
Andrea biascicò qualcosa tra sé e sé e quando Vittoria le chiese di ripetere, rimase ostinatamente chiusa nel suo silenzio. Senza farlo di proposito abbassò lo sguardo sulla scollatura della ragazza che, anche se non molto profonda, non celava nulla.
«Hey ragazzina, occhi a me» le schioccò le dita davanti alla faccia.
«A-allora non mettermi questi due airbag sotto al naso!».
«Guarda che non sono in comodato d’uso, non posso mica restituirle. Se non ti piacciono non guardarle, non me la prendo di certo».
«E allora anche tu smettila di guardarmi così».
«Se fosse per te dovrei anche smettere di respirare».
«Magari fosse così facile…».
La bionda si mise le mani nelle tasche posteriori dei jeans. «Hai proprio un bel caratterino. Mi piacciono le sfide».
«Ti piace perderle?».
«Io non perdo mai».
«Allora è il momento che qualcuno ti insegni la lezione».
«Questo sì che sarebbe proprio divertente!» la prese in giro, senza darle molto peso. «Forza ragazzina, torna in classe. Non voglio avere la tua media sulla coscienza. Ah, ho preso il tuo numero di telefono».
«Come scusa?».
«Hai sentito bene».
«E dove?».
«Dal tuo fascicolo nel gabbiotto degli insegnanti» fece spallucce «Come pensi sia riuscita a capire in quale classe ti trovavi? È utile avere dalla propria parte la vicepreside, ogni tanto».
«Bhe, non ha importanza, lo cancellerai».
«No, non lo farò».
«Lo sai che potrei denunciarti? Esistono delle leggi che tutelano la privacy».
«Ah, sì? E quali?».
Andrea passò il peso da un piede all’altro. «Qualcuna!».
«Qualcuna?» ripetè «Questo sì che è essere persuasivi…» le diede le spalle e si avvicinò all’uscita «E poi dovevo trovare un modo per darti fastidio in tempo reale. Cecille l’ho già conosciuta, ora voglio conoscere Andrea».
«Vittoria…» la chiamò.
«Mhmh?».
«Ecco…» si guardò le scarpe «Tu leggi le mie storie perché sei…tu sei…».
Sollevò un sopracciglio «Guarda che puoi dirlo, non è una parolaccia. No, non sono lesbica».
«E allora perché?».
«Non sta scritto da nessuna parte che gli etero non possano apprezzare una storia scritta decentemente. E personalmente ho sempre trovato più interessanti le storie d’amore fra due ragazze, sono decisamente meno scontate».
«Vittoria…».
«Cos’è ragazzina, ti piace il mio nome adesso?».
«Non mi chiedi se io sono…?».
L’altra voltò appena la testa per guardarla, le mani sui fianchi. «Lasciami qualcosa da scoprire. Abbiamo ancora sette lunghi mesi da passare insieme».
 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***



On my own
 
Capitolo IV
 
Bring me out,
from the prison of my own pride.

My God, I need a hope, I can’t deny.
 
 
«Dovremo condividere questa camera per altri quattro giorni, Noemi» le disse Sasha guardandola ripiegare i lati del suo asciugamano e posarlo ai piedi del letto. «Sarebbe carino, se non addirittura educato e civile, se tu ti rendessi conto di avere una compagna di stanza e provassi a dialogarci, di tanto in tanto».
«Se il tuo obiettivo era quello di invogliarmi a farlo, allora sappi che è fallito miseramente».
La rossa incrociò le braccia al petto, battendo impazientemente il piede a terra. «È sempre esilarante vedere quanto riescano a cambiare le persone. Se qualcuno, due mesi fa, mi avesse detto che ti saresti comportata in questo modo, giuro, non gli avrei creduto. E ora guardati…».
«Io mi guardo, Sasha. Mi sono sempre chiesta quando avresti iniziato a farlo tu. Sei un essere così semplice…Ero convinta – e lo ero davvero – che dentro di te ci fosse un intero mondo da scoprire, che ci fosse qualcosa dietro alla tua facciata da femme fatale a cui tutto è dovuto. E invece avevi ragione: ti ho idealizzata. Non hai né sapore, né colore, né odore. Sei piatta, senza spessore. Il tuo mondo inizia e finisce con te. Ed è un mondo così piccolo, Sasha, così piccolo che non c’è spazio per nessun altro. E tu hai l’incredibile capacità, te lo devo riconoscere, di farlo sembrare enorme agli occhi di chi non ti conosce. Sei vuota. E sei sola. E un po’ ti compatisco. Ti circondi di persone che si fanno chiamare amici perché sperano prima o poi di riuscire a strapparti una scopata e Dio solo sa quanto tu sia incapace di riconoscere chi ti vuole veramente. Mi sarei presa una pallottola per te se solo me lo avessi chiesto e lo avrei fatto lo stesso anche se non ti fossi disturbata a domandarmelo. E tu mi hai messa da parte. Hai preferito persone di cui a stento adesso ricordi il nome, persone sbucate fuori dal nulla che non ti chiedevano attenzione perché nemmeno te ne davano. E ti prego, risparmiami la scusa della donna complicata, piena di problemi, che fugge dall’amore perché fatica a legarsi alle persone ma aspetta l’uomo che saprà superare tutte le sue paure e stronzate simili. Non sei complicata, sei solo imbecille, e non sei spaventata, ma svogliata. Hai professato amore a uomini di dubbio gusto, ti sei fidata di amici che non vedevano l’ora di scaricarti, sei rimasta accanto a chi non avrebbe mosso un solo dito per te. Tu sai fare tutto, Sasha, ma lo fai per le persone sbagliate, perché ti piace compatirti e non ti piace faticare. Chiedevo costanza, chiedevo coerenza e chiedevo attenzione e tu non sei stata né coerente, né costante, né attenta. E ora te ne stai ferma qui, piena d’indignazione, perché non stai ricevendo quello che tu stessa non hai voluto darmi. Ed è ancora più patetico se penso che ti sei accorta della mia esistenza solo perché ho smesso di essere il tuo zerbino. Tu non mi vuoi, eppure, adesso che non mi hai più, mi trovi improvvisamente interessante, ti infastidisce addirittura l’idea che io possa sostituirti, ed è davvero la cosa più scontata che tu potessi fare. Ecco, Sasha, adesso sei soddisfatta di questa bella chiacchierata tra compagne?».
 
Andrea spostò il pollice sullo schermo del telefonino, scorrendo verso il lato basso della pagina per cliccare sul tasto “modifica storia” e correggere una parola che si era accorta solo in quel momento di aver scritto male.
Seduta nella sala riunioni del quarto piano, le caviglie accavallate sotto al tavolo, continuava a guardare l’orologio che portava al polso, ma le lancette si muovevano così lentamente che Andrea quasi dubitava si stessero muovendo davvero. Aveva smesso in fretta di prestare attenzione ai discorsi dei colleghi seduti vicino a lei, intenti com’erano a parlare di tutto fuorchè di quello per cui erano stati eletti. Lei non sapeva spiegare con esattezza la sensazione che provava quando era costretta a trovarsi in loro compagnia, ma quei rappresentanti avevano un che di svogliato, di becero e di superficiale da renderla per una volta contenta di passare inosservata. D’altronde era da tutta una vita che se ne stava rintanata in disparte, anche se “rintanata” non era esattamente la parola che avrebbe scelto per sé stessa. Preferiva piuttosto immaginarsi dentro una grande bolla di sapone che la proteggeva dalla vista degli altri, permettendole allo stesso tempo di osservare la vita frenetica delle persone che la circondavano.
Ad Andrea era sempre piaciuta la sua bolla, non aveva mai sentito la necessità di essere salvata, semplicemente perché non c’era nulla di pericoloso nel suo modo di vivere le relazioni con gli altri. Che cosa c’era di così sbagliato nel volersi scegliere con tanta e oculata attenzione gli amici? Se proprio doveva condividere l’O2 della sua amata bolla con qualcuno, allora ne doveva valere la pena. A meno che questo qualcuno non avesse sviluppato una qualche speciale capacità di sintesi clorofilliana e allora non si sarebbe posto il problema.
Poi la sua bolla di sapone era scoppiata e lei era stata così cieca da regalare tutto il suo ossigeno ad una persona che non si era fatta scrupoli a lasciarla senza respiro.
Il foglio delle presenze che era stato portato direttamente dalla segreteria studenti segnava, alle ore 14.10, la presenza di sette ragazzi, ma due firme erano state falsificate e nella stanza si trovavano solo cinque studenti, Andrea inclusa.
«Una piscina» rise il giovane davanti a lei, un ragazzo alto e dinoccolato dai capelli mossi «Voglio chiedere al Preside una piscina».
«Sul serio, Teo? Una piscina?».
«Perché no? Alla scuola di mio cugino hanno la piscina, potremmo ospitare delle gare di nuoto».
«Forse ha la piscina perché tuo zio paga una retta di tremila euro per mandarlo alla privata».
«E noi dobbiamo portarci la carta igienica da casa!».
«Tu te la porteresti comunque da casa, ti piace pulirti il culo con i rotoli morbidi!».
«E aromatizzati alla camomilla!»
«E tu Giacomo lo sai perché ce li rubi dall’armadietto, infame che non sei altro».
«Perché, vuoi essere l’unico ad avere il cazzo profumato?».
«Nessuna se ne è mai lamentata».
«Lo dici solo perché Giulia non c’è!» il suo amico gli lanciò addosso una gomma.
Un terzo si intromise: «A Giulia piace in tutti i modi, non fa discriminazioni».
«Sta’ zitto Manuel, lo sanno tutti che te la sei legata al dito perché ti ha rifiutato!».
«Sarò l’unico di voi che a fine anno non avrà contratto l’AIDS».
«Sarai anche l’unico a non essersi fatto una scopata con Giulia! Sarebbe come andare tutti i giorni al McDonald’s senza mai prendere un cheeseburger».
«Io almeno non mangio un cheeseburger che è stato già masticato dall’intero staff!».
«Quando la volpe non arriva all’uva…».
«Ragazzi» li canzonò bonariamente Vittoria «State rasentando lo squallore». La ragazza si stropicciò gli occhi con il dorso delle mani prima di sollevare le braccia in aria e stiracchiarsi. Estrasse dalla tasca dei jeans chiari il suo iphone, inserendo il codice di sblocco dello schermo per digitare velocemente un messaggio.   
«Parla facile lei» storse il naso uno dei tre «Tanto è venerdì e Giorgio torna a casa».
«Questo week-end salta» puntualizzò la bionda «È iniziata la sessione e deve studiare».
«Quindi lunedì possiamo copiare da te la versione di Provero, tanto studierai».
«Se non mi sposta vicino alla cattedra come l’altra volta…».
«Spererei di no, non mi basterebbero quattro dieci per recuperare un altro tre».
Andrea sollevò gli occhi al cielo, scuotendo la testa in maniera appena accennata, trattenendo uno sbuffo. Non sarebbe mai riuscita a capire il comportamento di certe persone e come Vittoria, o chiunque altro, riuscisse spensieratamente a frequentarle senza rischiare di cadere al loro livello. D’altronde era stato uno dei primi insegnamenti di sua madre: «Ricorda: chi va con lo zoppo impara a zoppicare». Ma in quella stanza si era andati ben oltre la zoppia.
Forse mi sono sbagliata, pensò con una punta di rammarico, forse Vittoria non è poi così diversa da loro.
Ricaricò la pagina del sito ma, prima di poter controllare le visualizzazioni del nuovo capitolo, la luce del telefono lampeggiò verde e la schermata di whats’app si aprì in automatico sull’anteprima di un nuovo messaggio inviato da un numero sconosciuto.
 
337*******
Ciao ragazzina =]
 
Subito Andrea alzò gli occhi su Vittoria, intenta a ridere con i suoi amici, le dita che picchiettavano sullo schermo del telefono poggiato davanti a lei. La più grande le lanciò un’occhiata di sottecchi, abbozzando un sorriso malizioso nella sua direzione.
 
Ciao” scrisse di rimando, senza dilungarsi oltre, e non dovette attendere a lungo una risposta.
Non badare a loro, ok? Sono maschi, si divertono con poco, ma in realtà sono brave persone”.
Mi sembra che anche tu ti stia divertendo con il loro poco”.
Bhe, nemmeno da piccola ho mai giocato a fare la principessina. Troppo noioso”.
Meglio il principe?”.
Meglio il drago”.
Intendi quello che alla fine muore nella torre?”.
Intendo quello che brucia tutto”.
Ecco perché scarseggi in buone maniere”.
Alle recite scolastiche ti facevano travestire da acido muriatico? Doveva essere una parte che ti veniva bene, corrosiva come sei”.
Almeno io posso dire di essere brava in qualcosa”.
Oh, non ne ho mai dubitato. Che ne dici di prendere qualche lezione di diplomazia? Sai, per imparare a relazionarti con il prossimo”.
No, grazie, il mio brutto carattere tiene lontano gli zotici. E i draghi”.
Dovresti scioglierti un po’ di più”.
Perché?”.
Perchè deve farti molto male…”.
Che cosa?”.
Vivere come se avessi costantemente un bastone infilato su per il culo”.
Strabuzzò gli occhi. La saliva - o forse era una imprecazione - le andò dritta di traverso, costringendola a tossire un paio di volte. Con malcelato appagamento, Vittoria continuò a sorridere ai suoi coetanei e a rispondere con battuta pronta alle loro allusioni.
Andrea oscurò lo schermo del suo vecchio samsung senza avere la benchè minima intenzione di darle altri motivi per compiacersi della sua goffaggine.
Stavo scherzando, ragazzina. Ti svelo un trucco: non prendermi mai troppo sul serio. Mi piace giocare”.
Lasciami indovinare: questa è la parte in cui io fingo di averti trovata divertente?”.
No, è la parte in cui dici alla commissione quali progetti vuoi discutere per la scuola. Fra poco è il tuo turno ;]”.
Nel corso della mezz’ora seguente, la maggior parte dei punti che Andrea si era annotata nel corso della settimana vennero bocciati senza fornire troppe spiegazioni. Non erano servite a molto le sue obiezioni in merito alla necessità di incentivare il dialogo tra il liceo e i principali musei della città, di suggerire il rientro pomeridiano per evitare le lezioni del sabato, di istituire anche per il quinto anno dell’Artistico un soggiorno di una settimana in una città d’arte europea e, perché no, di fare in modo che le gite giornaliere venissero programmate fuori dall’orario scolastico, per non saltare inutilmente i corsi.
«Ma dici sul serio?» le domandò scocciato il ragazzo che aveva capito chiamarsi Manuel.
«Lo sono sempre» ribattè risoluta lei, storcendo la bocca.
«Aiutami a capire: tu vorresti che io usassi uno dei miei pomeriggi liberi per fare quello che adesso faccio durante le ore di scuola?».
«Le visite guidate dovrebbero essere un’aggiunta, non una sostituzione. È per questo che si organizzano in centri di cultura e non in una sala da biliardo».
«Senti…cosa…».
«Andrea» sibilò.
«Senti, Andrea».
«Ma Andrea non è un nome da maschio?» lo interruppe il suo compagno, appoggiandogli il gomito sulla spalla con fare complice.
«Non lo so» la ragazza si sistemò meglio gli occhiali sul naso «Dimmelo tu. Ti sembro forse un maschio?».
«Non credo tu voglia sapere davvero quello che mi sembri…».
«Oh, è qui che ti sbagli. Lo voglio sapere eccome».
Manuel si sporse per sussurrare qualcosa all’orecchio del suo amico ed entrambi scoppiarono in una fragorosa risata.
«Cazzo, hai ragione!» si bisbigliarono a vicenda «Guardala!».
«Allora?» Andrea premette i palmi sul tavolo ed il legno scricchiolò «Volete rendermi partecipe del vostro sottile scambio?».
«No, no».
«Coraggio. Sembra divertente, perché non fate ridere anche me?».
Giacomo si schiarì la voce prima di risponderle «Nulla, nulla» agitò una mano a mezz’aria «Ha detto che sembri piccola, tutto qua».
«”Piccola”, eh? Che strano. E pensare che da qui mi era sembrato di sentire “Racchia”».
«Ah, si?» Manuel trattenne a stento un ghigno «Magari hai capito male».
«Mi aspettavo un discorso più articolato da uno del Classico».
«Dubito che voi dell’Artistico sappiate comprendere una frase più complessa di “soggetto, predicato, complemento”. Sempre che sappiate cosa sia un predicato».
Vittoria si portò dietro l’orecchio il ciuffo di capelli che, ancora troppo corto, le scivolò di nuovo davanti agli occhi. «Manuel» lo chiamò con tono perentorio «Non esagerare».
«Non è esagerazione se dico la verità».
«In ogni caso lasciala stare».
«Ha iniziato lei».
«Ho la faccia di una a cui interessa?».
«Ma…».
«Ma cosa?».
«Si stava solo scherzando, non fare la bulla con me».
«Non mi sembra che Andrea stia apprezzando la vostra ironia, tu che dici? E per amor di cronaca, io non vedo racchie qui».
«Cazzo Vicky, quando ti ci metti sai essere davvero peggio di tuo padre».
«Te l’abbiamo già detto molte volte ma vedo che ancora non hai elaborato il concetto: il gioco è bello quando dura poco».
«Vuoi che vada a prendere il cilicio per frustarmi e chiedere venia?».
«Sì. E se lungo il tragitto trovi anche delle scuse, prendi pure quelle».
«Quanto sei pesante quando vuoi atteggiarti da buona samaritana, Vittoria. Non fingere con me: ti conosco da troppo tempo e so bene di quale pasta sei fatta» sbuffò sonoramente il ragazzo, alzandosi dalla sedia e mettendosi in spalla lo zaino. «Sono le tre. Possiamo andarcene da questo posto. Inizio a soffocare in mezzo a tutto questo buonismo».
 
Vittoria racimolò sul fondo dell’astuccio qualche molletta e la usò per sistemarsi alla svelta i capelli.
«Andiamo al Mony prima di tornare a casa. Ti fermi a prendere un caffè con noi?» le domandò Matteo, fermo sullo stipite della porta, il giubbotto di pelle chiara chiuso fino al mento «Ci dovrebbero raggiungere anche Giulia e Claudia».
«Oggi passo. Vado in piscina a fare un paio di vasche e poi corro a casa a studiare. Scusa, non riesco a riaccompagnarti oggi».
«Non importa, Giacomo ha fatto riparare la macchina, ci pensa lui. E non ti preoccupare per Manuel, lo sai che è una testa calda».
«Lo so. Una sigaretta e passa tutto» abbozzò un sorriso la ragazza, salutandolo con la mano prima di vederlo andare via per seguire i suoi compagni.
La bionda raccolse da terra la sua borsa e ne aprì il primo scompartimento per riporre il materiale che la vicepreside le aveva fornito per quell’incontro ed estrasse da una tasca laterale il suo pacchetto di marlboro rosse. Corrugò la fronte nel rendersi conto che Giacomo le aveva preso senza permesso altre tre sigarette e che Teo si era dimenticato, di nuovo, di restituirle l’accendino. Sospirò rumorosamente e senza aspettarsi davvero una risposta affermativa chiese ad Andrea: «Tu non hai un accendino, vero ragazzina?».
«No».
«Un fiammifero? Delle pietre focaie? Qualcosa che giustifichi il tuo aspetto da giovane marmotta o piccola fiammiferaia?».
«Io non fumo» disse a denti stretti la mora, senza alzare gli occhi su di lei.
«E scommetto un posto in Paradiso che non bevi, non ti droghi, non passi il termometro sotto la lampadina prima di misurarti la febbre e bevi acqua naturale fuori frigo. Potresti anche ricevere l’indulgenza plenaria dal Papa, ma prima dovresti commettere almeno qualche peccatuccio da farti perdonare».
«Non avevo bisogno del tuo aiuto». Le rinfacciò Andrea di punto in bianco e Vittoria dovette fare mente locale per capire a che cosa si stesse riferendo «Sono abbastanza grande da cavarmela da sola».
«Non ne dubito».
«E allora perché ti sei intromessa? Mi hai fatto passare per debole» ribattè in malo modo, infilando alla rinfusa volanti fogli stropicciati nello zaino.
«Hai frainteso, ragazzina. Innanzitutto non l’ho fatto per te, ma per Manuel. È bravo, ma tende a perdere facilmente la testa quando viene stuzzicato e tu sai essere parecchio fastidiosa - senza doverti sforzare, per giunta. Secondo poi, ti stavi rendendo ridicola, che è decisamente peggio che sembrare debole».
«Ah. Quindi adesso difendere le proprie idee è una cosa grottesca. Ricordati di mandarmi una mail quando i princìpi diventeranno demodè».
«Sono semplicemente dell’opinione che atteggiarsi da saccente permalosa non sia la strategia vincente per farsi ascoltare. Potrai anche avere un tir con rimorchio di idee favolose, ma fino a quando non imparerai a dialogare in maniera civile con gli altri, non importerà a nessuno. Non ti offendere Andrea, ma devi ancora capire quando è il caso impuntarsi e quando è invece più opportuno lasciar correre: non puoi pretendere di averla sempre vinta».
«Non farmi la paternale Vittoria».
«Ti sto solo dando un consiglio».
«Non richiesto».
«Hai ragione, ma lo ascolterai comunque».
«Tu credi?».
«Ne sono convinta».
«E perché?».
«Perché sono io a dartelo e, nonostante la tua voglia di farmi sembrare il contrario, ti importa quello che penso. Commetti troppo spesso l’errore di credere che tutto quello che esce dalla tua bocca sia oro colato, ma non è così. Oh, non fraintendermi, hai una bella boccuccia, ma non è certo una miniera di gemme e qualche insana cazzata esce anche da lì».
«Io non dico cazzate!».
«Forse no, ma qualcuna la spari bella grossa ed il tuo essere così aggressiva fa il resto. Avere opinioni diverse non significa necessariamente essere più stupidi, più ingenui o più ignoranti di te».
«Bhe, visto che hai una considerazione così bassa della sottoscritta perché continui a parlarmi?».
Vittoria si sistemò meglio il colletto della camicia mentre Andrea spingeva la sua sedia contro il tavolo, facendo stridere i piedini sul pavimento dell’aula. «Non devi metterti così sulla difensiva ogni volta che qualcuno ti muove una critica, sai? Le critiche sono costruttive».
«Grazie, sono commossa, la tua maturità è così abbagliante che mi acceca».
«Vuoi dimostrarmi di non essere suscettibile? Allora non prendere come un affronto personale qualsiasi cosa ti venga detta».
«Ho una domanda per te: tutta questa saggezza l’hai scoperta prima o dopo aver fatto tana ai primini nei bagni di sotto?».
Vittoria scosse la testa, le mani sui fianchi. «Non me lo perdonerai mai, non è vero?».
«Come posso perdonarti se non mi hai nemmeno mai chiesto scusa?» alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
«È successo due anni fa!».
«I tedeschi si sentono ancora in colpa per la seconda guerra mondiale e siamo nel 2017».
«Mi stai dando della nazista, ragazzina?».
«Di certo sei prepotente. E invasiva».
«Dovresti ringraziarmi, la tranquillità è così noiosa e monotona…».
«A me piace».
«No, non è vero» le si avvicinò «Altrimenti non saresti qui a battibeccare con me».
«Ne farei volentieri a meno».
«Sul “volentieri” ho i miei dubbi. Ma hai vinto» le concesse con ironia. Allungò le braccia verso di lei, circondandole il collo e premendosi contro la sua schiena, le mani intrecciate all’altezza del torace per poterla stringere in un fermo abbraccio dal quale Andrea non potesse liberarsi facilmente. Anche se dubitava che non ci avrebbe provato.
Per una frazione di secondo tutto rimase in sospeso e Vittoria attese con malizia che Andrea si accorgesse dell’accaduto prima di scaldarsi e divincolarsi come se qualcuno l’avesse costretta a camminare scalza sui carboni ardenti.
«Che diavolo stai facendo?» si infiammò, il tono della voce improvvisamente acuto.
«Mi faccio perdonare».
«Delle semplici scuse sarebbero state decisamente più apprezzate».
«Mi piace fare le cose con stile» rise Vittoria, poggiando il mento sulla sua spalla, il naso che quasi le sfiorava la guancia.
«Non mi piacciono gli abbracci!» spiegò concitatamente.
«A tutti piacciono gli abbracci».
«A me no».
«Lo sai quante persone vorrebbero essere al tuo posto in questo momento?».
«Meno di quante credi!». Si irrigidì quando Vittoria la trasse ancora più vicino a sé, così vicino da sentirne distintamente il petto premere sulla spina dorsale.
«Se fossimo in un libro…» le sussurrò divertita all’orecchio «Adesso avresti il respiro affannoso, le guance rosse e il cuore che batte all’impazzata».
«S-stai decisamente sopravalutando le tue capacità. Se fossimo in una storia saresti di gran lunga più attraente».
«Che è esattamente quello che diresti se fossimo in una storia».
«E perché mai dovrei dire cose che non penso?».
«Non lo so ragazzina, forse per nascondere il fatto che stai avvampando come una scolaretta delle medie davanti al belloccio della scuola?».
«Io mi chiamo Andrea!».
«Tutti ti chiamano così. Io voglio essere speciale».
«Bhe, non lo sei».
«Io forse no, ma Maeries lo è di certo. Ah, ma che sbadata! Io sono Maeries. Questo sì che è un bel problema…».
«Se non mi lasci andare immediatamente ti assesterò un ceffone così forte che in piscina non potrai fare altro che galleggiare come un salvagente».
«Se ti serviva una scusa per toccarmi avrei potuto suggerirtene un paio più accattivanti».
«Sei sempre così…così irriverente?!».
«Ti da fastidio?».
«Puoi giurarci!».
«Perfetto, vuol dire che sono sulla strada giusta».
Andrea posò i palmi delle mani sulle braccia di Vittoria, facendo forza per staccarseli da dosso. «Mi vuoi lasciar andare?».
La bionda arricciò il naso, inclinando il viso per poterla guardare meglio. «Solo se prima rispondi ad una domanda».
«E se rifiutassi?».
«Non credo che tu abbia capito a fondo il significato della parola “ricatto” ma, per farla breve, non hai altre opzioni oltre a quella che ti do io. E smettila di agitarti come un bambino posseduto, non sono un esorcista».
«Che cosa vuoi, Vittoria?» rinunciò infine Andrea, lasciando cadere le mani lungo i fianchi.
«Mi chiedevo… Chi è Sasha?».
«Eh?».
«Intendo dire» continuò l’altra con una punta di esitazione «Chi è davvero? Chi rappresenta?».
«Non riesco a seguirti».
«Nulla. Lascia stare, impressione mia» tagliò corto Vittoria, dandole un buffetto sulla testa ed indietreggiando di qualche passo. Andrea, seppur libera, non si mosse.
«Spiegati» la incalzò.
«Non saprei, è solo che mi sembra incoerente come personaggio».
«Non ti è piaciuto il nuovo capitolo?» le chiese preoccupata.
«Non dire sciocchezze» agitò una mano in aria «Dovresti avere un po’ più di fiducia nei tuoi lettori, me inclusa. E lo sai che adoro Sasha, non ho mai fatto mistero della mia preferenza, ma non riesco a capire quale possa essere il tuo obiettivo con lei. Insomma, che cosa vuole da Noemi? Prima torna, poi la lascia, si scusa, ci riprova, scappa, ritorna…Capisco la volontà di inserire qualche ostacolo nel loro rapporto, ma così mi sembra eccessivo. Non lo so» ripetè «È troppo contraddittorio come personaggio. Sembra quasi che tu non sappia cosa succede dopo che due persone si sono trovate».
«Non succede nulla».
«Mi sembra un po’ riduttiva come visione del mondo, non credi?».
«Che cosa ti aspetti? Vuoi i baci, il matrimonio, l’unicorno che porta in processione le fedi nuziali? Non ho mai raccontato cose di questo tipo, lo dovresti sapere bene».
«Ho sempre seguito tutte le tue storie e da quel che ricordo nessuna ha un lieto fine».
«Le critiche non dovevano essere costruttive?».
«Non era una critica, era una constatazione. O, meglio, semplice curiosità. Perché una ragazzina di sedici anni…?».
«Diciassette» la interruppe Andrea «Quasi diciassette».
«Perché una ragazzina di quasi diciassette anni non scrive di promesse di amore eterno, di coppie che sfidano le convenzioni sociali, di finali disneyani in carrozza?».
«Non succedono mai queste cose».
«A volte succedono».
«Raramente».
«Mhmh…come immaginavo».
«Cosa?».
«Una volta mi hai detto che si scrive solo di cose di cui si ha esperienza. Dimmi un po’ Andrea…» Vittoria incrociò le braccia al petto, il primo bottone della camicia bianca lasciato aperto. L’espressione era indecifrabile. «Era una ragazza?».
«Chi?».
«Chi ti ha fatto male al punto da meritarsi un posto nelle tue storie». 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


On my own
 

Capitolo V
 
In the end, I’m realizing
I was never meant to fight

On my own
 
 
«Allora?» la incalzò nuovamente Vittoria, le mani dietro la testa e a tracolla una cartella troppo piccola per contenere tutti i libri di scuola. «Dimmi chi è».
«Ti ho detto di no» continuò a ribattere fermamente Andrea.
Intorno a loro una moltitudine di ragazzi affollava il marciapiede: chi aspettava che il semaforo diventasse verde, chi si affrettava a prendere l’autobus, chi sostava vicino ai muretti del liceo per fumarsi una sigaretta in compagnia. Novembre incalzava e il cielo che diventava ogni giorno sempre più scuro e nuvoloso lasciava presagire un inverno freddo.
Andrea accelerò sensibilmente il passo, desiderosa di lasciarsi alle spalle quella fiumana di gente e, insieme a quella, anche Vittoria. Si strinse di più la sciarpa intorno al collo quando un vento troppo pungente le soffiò sulla faccia. Ormai erano quasi da dimenticare i cappotti leggeri, le foglie colorate, le giornate più lunghe e quel cielo plumbeo le metteva addosso una indicibile tristezza.
«Avanti!» le sbarrò la strada Vittoria, piantando i talloni in una pozzanghera e continuando a guardarla come se nulla fosse.
«Sei uno strazio!» sbottò esasperata Andrea «Questa è pressione psicologica e tu, tu saresti da denuncia».
«Un motivo in più per raccontarmi del tuo passato, non trovi? Non vorrei di certo che tu mi venissi a trovare in prigione: non ci sono i bagni privati».
«Allora sei fortunata che la cosa non dipenda da me, altrimenti butterei in un tombino la chiave della tua cella prima ancora di aspettare la sentenza del giudice».
«Ho i brividi. Ah, no, scusa, è il freddo».
«Smettila di seguirmi, Vittoria» la scansò Andra urtandole la spalla e tirando dritta. Una goccia le cadde sulla testa e un’altra le bagnò le lenti degli occhiali. Sbuffando sonoramente cercò di pulirli alla bell’e meglio strofinandoseli sulla manica della giacca, ma non migliorò di molto la situazione.
«Non ti sto seguendo, sto tornando a casa anche io».
Andrea si girò appena per degnarla di uno sguardo. «La tua moto è parcheggiata dall’altra parte della strada».
«Appunto».
«Non di questa strada!» puntualizzò alzando gli occhi al cielo.
«Sono commossa da tanta perspicacia, Holmes. Mi basta accompagnarti per un pezzo».
«Non voglio essere accompagnata, non mi serve la scorta!».
«E io vorrei che tu non scappassi». La rincorse.
«Non sto scappando».
«Non da me: da te». Vittoria la afferrò per un gomito, spingendola contro una delle colonne che reggevano il porticato e permettendo alla coppia dietro di loro, munita di passeggino, di superarle.
«Ma si può sapere che cosa vuoi?» scoppiò Andrea, guardandosi intorno con fare sospettoso, temendo di dare troppo nell’occhio.
«Io non voglio nulla da te, se non conoscerti meglio».
«E credi che il modo migliore per farlo sia quello di impormi la tua presenza?».
«Per diciotto anni ha funzionato bene» provò a scherzare Vittoria, senza ottenere l’effetto desiderato.
«Non con me!».
«Già, ne sto avendo una prova. No, no, no, ferma!» la trattenne nuovamente quando l’altra provò ad andarsene. Le mise entrambe le mani sulle spalle e quando un ciuffo le cadde sugli occhi, pur di non lasciare la presa, provò a spostarlo con un movimento del capo.
«Tu non accetti il fatto che ci siano delle cose di cui non voglio parlare e cose che tu non puoi sapere».
«No, non accetto il fatto che tu non ti fidi di me, che è una cosa diversa».
«Fidarmi di te?» spalancò gli occhi «Ma se non ti conosco nemmeno!».
«E allora scoprimi! Mi tratti come se ti fossi dimenticata tutto» la accusò «Non dico che dobbiamo diventare come culo e camicia – e credimi se ti dico che la parte della camicia non la riserverei per te -, ma inizio a pensare seriamente che tu non abbia mai dato la minima importanza alle nostre conversazioni, il che è alquanto deprimente se consideri che sono durate due anni».
«Conversazioni fatte dietro ad un computer!».
«E allora?» lo sguardo di Vittoria si fece immediatamente cupo.
«E allora cambia!».
«Cambia in cosa?».
«Erano virtuali!».
«E quindi?».
«Quindi io…io non lo so, ma è diverso».
«Stai annaspando».
«Non sto annaspando».
«Mi vuoi forse dire che non erano reali?».
«Certo che non erano reali!» rispose di getto Andrea, scuotendo forte la testa, come a volersi togliere un fastidioso sassolino dal cervello. «Cioè, nel senso che…».
«Che ero solo un’immagine, con delle scritte, dietro ad un monitor?».
«No, non volevo dire questo» si strinse le mani nelle mani, fortemente imbarazzata. Odiava quando dava così tanto sfoggio della sua pessima capacità di esternare correttamente quello che provava.
«Però non sembra tu voglia farmi intendere qualcosa di diverso».
«No, lo so, ma…» tirò un respiro profondo «Sto cercando di dire che…».
Vittoria si staccò da lei, muovendo un passo indietro e lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi e questo bastò per mettere a tacere i suoi buoni propositi. «Solo per sapere, mi consideri un Mac o un Windows?».
«Eh?».
«Mi chiedo se tu ti sia resa conto del fatto che dietro il tuo caro schermo c’era una persona. Una persona vera, intendo».
«No, non volevo offenderti».
«Risparmiamelo Andrea, davvero» la interruppe nuovamente e il suo tono così amareggiato fece temere ad Andrea di aver tirato troppo la corda. La pervase una sensazione strana, quella che la coglieva sempre quando litigava per la prima volta con una persona a cui era legata e che ogni volta le faceva capire che nessun rapporto sarebbe mai stato esente da incomprensioni. Davanti a lei, Vittoria – solitamente irriverente, giocosa e ironica – aveva assunto un piglio nuovo, severo, con cui Andrea non era abituata a fare i conti.
«Non volevo farti arrabbiare».
«Non sono arrabbiata Andrea, sono delusa».
«Non avresti dovuto insistere».
«Oh, no» le diede le spalle «Non è per quello. Io ci credevo» le disse semplicemente «A quello che mi dicevi, io ci credevo. Ma evidentemente è stato un mio errore» le labbra le si piegarono in un ghigno cinico «Non so se mi scocci di più capire di aver perso il mio tempo con te o di essermela fatta fare sotto il naso da una ragazzina».
«Mi hai fraintesa e lo sai».
«No, non lo so. Non ti conosco nemmeno, dico bene?».
«Adesso chi è quella permalosa?» borbottò tra sé, ma Vittoria finse di non sentirla. Mise la mano in una delle tasche del cappotto e ne estrasse un pacchetto di sigarette rosse. Ne accese una e, inamovibile nel suo silenzio, ne tirò lunghe boccate.
Andrea provò più volte a formulare una frase, ma ogni volta che le sembrava di aver pensato un concetto ragionevole, questo si smaterializzava appena provava a dargli una voce.
Vittoria digitò rapidamente un messaggio sul suo Iphone e lo inviò. «Adesso vado» disse infine «Non ho intenzione di trattenerti oltre».
«Ci sono delle cose, su di me, che non puoi forzarmi a dirti. Sono cose personali. Io non me la sento e non mi scuserò mai per questo».
«Non sarò di certo io a mettere il nostro rapporto su un piano personale, Andrea. E non mi interessa quello che cerchi di nascondere, la mia non era curiosità. Volevo solo conoscerti, perché le persone fanno così. Si vengono incontro, ma è una cosa che tu non riesci a fare. Tratti tutti – me inclusa – come se qualcuno ti dovesse saltare alla gola da un momento all’altro. Ti svelo un nuovo gossip: non esistono lupi e non esistono agnelli. Ci sei solo tu, che ti credi una vittima designata, e io, che mi sono stufata di correrti dietro» scosse la testa «Avevamo una cosa bella. E semplice. Lo è stata sempre, almeno per me. Tu sei riuscita a renderla complicata. Nessuno qui aveva cattive intenzioni, nessuno voleva metterti alle strette. All’angolo ti ci sei messa da sola. Ma forse è meglio così. Meglio se sei convinta che da soli si possa stare bene».
Senza salutarla, Vittoria ritornò dalla strada da cui erano venute, la pioggia che iniziava a cadere più forte.
Dopo qualche titubanza, Andrea estrasse dallo zaino un ombrello e, aprendolo, corse per raggiungerla.
«Aspetta» la fermò, tirandola per un lembo del cappotto «Aspetta» ripetè, tagliandole la strada quando l’altra non diede cenni di volerla ascoltare.
«Che cosa stai facendo, ragazzina?» le chiese senza mostrare interesse.
Andrea non rispose. La fronte era corrucciata, le dita strette saldamente intorno al manico dell’ombrello come se fosse un salvagente e lei stesse per affogare. Allungò il braccio davanti a sé per riparare Vittoria dalla pioggia, ma dovette tendersi per arrivare alla sua altezza.
«Così ti bagni».
«Lo so…» bisbigliò impercettibilmente.
«È una cosa molto romantica, dico sul serio, ma casa tua è dall’altra parte e sulla mia moto non c’è posto per te».
Andrea provò a reggere il suo sguardo freddo, ma inutilmente. «A-anche io» cercò di sembrare sicura di sé ma la voce la tradì.
«Prego?».
«Anche io ci credevo. A quello che mi dicevi».
«Oh, che coincidenza».
«Dico sul serio!».
«Lo dici come se a me, adesso, dovesse interessare».
«Potresti almeno apprezzare lo sforzo!».
«Hai ragione, potrei. Ti farò sapere».
«Hai almeno sentito quello che ti ho detto?» urlò, rossa in viso.
«Non fare la prepotente, Andrea, non te lo puoi più permettere».
«Non sono prepotente sto solo cercando di farti capire!».
«Non sono un prete, non vivo di parole, mi devi dimostrare quello che dici».
«Ma…» si sentì in difficoltà.
«Appunto» concluse per lei Vittoria «Questa è già una dimostrazione».
«No, non lo è» ribattè fermamente. Andrea distolse lo sguardo da lei e, cercando di aprire con una sola mano la zip del suo zaino, ne estrasse il cellulare. Lo tenne tra le dita, quasi soppesandolo. La sfiorò il pensiero di ricacciarlo dentro la borsa, mandare Vittoria al diavolo e tenersi i suoi demoni per sé, ma sentiva che se avesse tardato ancora qualche istante Vittoria se ne sarebbe andata e con lei, probabilmente, anche Maeries. «Tieni» le disse in tono di comando, sbloccando la schermata con la password.
«Che cosa ci dovrei fare?» domandò Vittoria, arcuando un sopracciglio e storcendo il naso.
«Quello che ti pare» replicò acida. Con il dito scorse le cartelle della galleria, fino ad arrivare ad una raccolta a parte, contrassegnata da tre asterischi. La aprì.
«Ma non c’è nulla» constatò annoiata la bionda.
«Dagli almeno il tempo di caricare!» alzò gli occhi al cielo spazientita e quando li riportò sul cellulare le prime immagini si erano già caricate: «Ecco!» esclamò.
«Che cosa sono?».
«Dimmelo tu, lo dovresti sapere».
«Che cosa te ne fai di tutti questi screenshot?».
«Bhe…» Andrea si grattò la fronte «Nulla…li conservo» ammise.
«Questa sono io» constatò Vittoria, passando da una immagine ad un’altra. In ogni sfondo la schermata di MSN, la data, e i loro messaggi, scritti con colori e caratteri diversi.
«Si, lo so».
«In tutti?».
«In tutti…» annuì controvoglia «In realtà» titubò «Non è che li abbia salvati proprio tutti, tutti. Insomma, solo quelli più…speciali».
«Speciali, eh?» la guardò di sottecchi Vittoria.
Andrea agitò la mano come se potesse dimenticare quello che aveva appena detto o, almeno, farlo dimenticare a lei. «Io li tengo. E posso andare a rileggerli, qualche volta. Se voglio. Mi calmano, credo. Quando non so cosa scrivere…mi fanno venire in mente quello che a te piacerebbe leggere» alzò le spalle «E allora penso che potrebbe andare bene, sì, potrebbe andare bene se io continuassi a farlo. A scrivere per far leggere te. Per quel che può valere».
«Non lo devi fare per me».
«Lo si fa sempre per qualcuno. Desiderando qualcuno. Pensando a qualcuno. Odiando qualcuno. Se quel qualcuno fossi tu, forse sarebbe tutto più facile, forse potrebbe servire…potrebbe servire davvero a qualcosa questa volta».
«Andrea…Andrea perché piangi?».
«Non piango. È la pioggia che non mi da pace».
 
Sasha aprì gli occhi, sbattendoli una, due o forse tre volte. Intorno a lei si muovevano confusamente delle figure che saltellavano intorno al letto come se fare avanti e indietro per quella stanza asettica potesse fare qualche differenza o, anche, dar loro sollievo. L’unica donna di cui riuscì a mettere a fuoco i contorni aveva un qualcosa di morbosamente familiare, con il suo profumo aspro e pungente che le pizzicava le narici. I capelli chiari, toccati qua e là da una punta di bianco, erano stati stretti sulla nuca in un’elaborata acconciatura che le ricordava molto gli anni ’50. Il rigido tailleur le stringeva la vita sottile e il rumore dei tacchi sul pavimento le faceva sospettare che fosse alta, in realtà, cinque o sei centimetri in meno.
«Mi dica» disse strattonando il braccio di un uomo completamente vestito di bianco «Dottore, mi dica, come sta?». La sua voce era impostata e seriosa, ma un timbro troppo acuto tradiva una certa agitazione.
La voce calda di un uomo le rispose: «Giorgia, cara, lascialo stare. Stanno facendo tutto il possibile».

Sasha riaprii gli occhi e, questa volta, i contorni degli oggetti che la circondavano erano più definiti, ma l’emicrania sembrava avesse ancora intenzione di spaccarle in due la testa. Le lampade al neon erano spente, ma la stanza era illuminata dalla luce che, impertinente, entrava dalle finestre lasciate aperte. Una delle infermiere, quando la vide sveglia, le rimboccò le coperte come una mamma e andò a chiamare il dottore di turno.
«Una macchina…» bisbigliò quando dovette rispondere alle sue incessanti e altamente fastidiose domande «Una macchina deve avermi tagliato la strada. O io devo aver tagliato la strada a lei, non ricordo».
«Le abbiamo diagnosticato una forte commozione celebrale. I soccorsi sono arrivati tempestivamente e questo ci ha permesso di sanare l’emorragia senza incorrere in ulteriori complicazioni, ma al momento lei soffre di una leggera forma di TGA. E’ una sorta di amnesia temporanea, prevedibile in seguito ad incidenti come il suo, ma è importante tenerla sotto osservazione per assicurarsi che non degeneri, evolvendo in una perdita di memoria più gravosa».
Lei aggrottò la fronte e abbassò lo sguardo. All’avambraccio sinistro le era stata attaccata una flebo e da quel sacchetto di plastica scendevano un paio di gocce al secondo, ma non avrebbe saputo dire quale farmaco contenessero. «Da quanto tempo sono qui?» trovò il coraggio di domandargli, aspettandosi come risposta due, forse tre giorni.
«Una settimana».
«Una settimana?» spalancò gli occhi e subito provò una fitta di dolore.
Il dottore annuì. «E dovrà rimanere da noi per altre due, se non di più. Una costola è rotta e l’altra incrinata. Il piatto tibiale è fratturato, ma il nostro ortopedico l’ha già sottoposta ad intervento chirurgico e, salvo complicazioni, il gesso sarà sufficiente fino alla completa guarigione. Inoltre» aggiunse, allungando le dita e tastandole la faccia «Dobbiamo controllare che il gonfiore allo zigomo non vada a premere sul nervo ottico».
«Devo sembrare un mostro» concluse ironicamente Sasha.
Si sentiva stanca, mentalmente e fisicamente. Il costato le doleva, la testa le scoppiava. Quando si svegliava, il tempo sembrava non dover passare mai. Ferma in quel letto, senza la possibilità di muoversi, costretta a suonare il citofono per chiamare l’inserviente ad ogni bisogno. Non credeva sarebbe mai giunto il giorno in cui avrebbe desiderato con tutta se stessa di poter andare in bagno da sola, senza essere costretta ad usare una stupida bacinella. Tutto questo era davvero umiliante, oltre che spossatamente noioso.
Poi, ad un tratto, si risvegliò e non fu più da sola.
Doveva essere sera, visto che fuori dalla stanza il via vai di personale si era più che dimezzato e le lampade al neon della camera la illuminavano di una luce che, per fortuna, aveva smesso di darmi fastidio. Le pesanti tende di velluto verde erano state tirate, coprendo il profilo della città. E ai piedi del letto, le braccia incrociate e il volto nascosto, sonnecchiava una ragazza. Si stupí del fatto che le visite fossero consentite a quell’ora – si sporse per guardare l’orologio che segnava le nove meno un quarto. Cerò di tirarsi su a sedere, premendo la mano buona contro il materasso, ma le risultò particolarmente difficile e non riuscì a non svegliarla.
Quella sconosciuta si rizzò immediatamente, guardando prima davanti a sé, poi alla sua sinistra, infine fissò gli occhi su di lei.
Una frangetta probabilmente troppo lunga le ricadeva sugli occhi nocciola e i lunghi capelli, le coprivano tutta la schiena. Una moltitudine di lentiggini le incorniciava il viso, puntellandole naso, fronte, guance, mento, contribuendo a farla sembrare più giovane, quasi una ragazzina delle medie. Era bella, di una bellezza genuina, che può piacere o meno, che tutto sommato passa inosservata per le strade – forse anche a causa dei vestiti un po’ sciatti che indossava. Non aveva un filo di trucco e anche lei aveva l’aria spossata e sciupata. Guardò Sasha per un lungo, lungo istante, e i suoi occhi le sembrarono così tristi, arrossati e umidi da farle provare quasi rimorso.
Una lacrima timida le segnò la guancia. «Ciao…» sussurrò semplicemente, quasi imbarazzata, come se si vergognasse a rivolgerle la parola. Era una strana sensazione ricordarsi della sua voce ma, al tempo stesso, non riconoscerla. Aveva una tonalità abbastanza profonda, rauca, non certo quella che si sarebbe aspettata da una ragazza così.
«Ciao» ricambiò il saluto.
La sconosciuta aprí la bocca per dire qualcosa. Le labbra tremarono, ma lei non riuscì ad emettere nemmeno un suono. Si asciugò in fretta le guance con il palmo della mano, quindi si lasciò andare ad un sorriso tirato e un po’ impacciato.
«Io…» sembrò indecisa «Io non credo tu mi riconosca. Non credo tu riconosca nessuno, in realtà».
«Già».
«Già».
Rimasero in silenzio qualche istante. Sasha puntualizzò: «I dottori dicono che è solo questione di tempo, comunque».

L’altra annuì, ma non sembrò esserne entusiasta. «E’ una cosa bella, ovviamente» si affrettò subito a precisare, per non essere fraintesa.
«Chi sei tu?» trovò il coraggio di domandarle.
Lei non rispose subito. Abbassò lo sguardo e si strinse le mani tra le mani, torturandosi un anello che portava all’anulare.
«Mi sa che siamo in due ad aver perso la memoria» borbottò.
«Io so chi sono. Ma tu vuoi sapere cosa sono. Per te».
Sasha alzò un sopracciglio. «E cosa saresti per me?».
Si morse le labbra e tentennò prima di risponderle. «Sarebbe carino se tu recuperassi la memoria in fretta, così potresti spiegarlo anche a me».
«Non ti seguo».
«Certo, è naturale».
«Sei una mia parente? Sorella, cugina, nipote…dirimpettaia?».
«No, no, no e no».
«Allora sei una mia amica?».
«Una specie».
«Quale specie?».
«Una in via di estinzione» provò a scherzare e un angolo della sua bocca si piegò in un sorriso mesto. «Scusami, non sono brava nelle battute. Solitamente sei tu quella che fa ridere la gente. In senso buono!».
Sasha storse il naso, squadrandola attentamente. Aveva un qualcosa che le suonava familiare, un non-so-che nel modo in cui stava seduta, in cui incurvava la bocca, anche solo nel modo in cui corrucciava la fronte. Indizi di un puzzle che non ere ancora in grado di risolvere. Provò un profondo fastidio e non tentó nemmeno di nasconderlo. «Sei buffa» le disse, senza rendersi conto di aver pronunciato il mio pensiero ad alta voce.

Lei si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Si, me lo dicevi spesso» commentò in un sussurro.
«Bhe, almeno sono rimasta coerente con me stessa».
«Già…».
«Quindi…come hai detto che ti chiami?».

«Non l’ho detto».
«Si, lo so che non l’hai detto. E’ un modo di dire. Credo che il mio cervello riesca ancora a ricordarsi gli ultimi cinque minuti di conversazione».
La mora le lanciò un’occhiata torva, ma anche da arrabbiata non incuteva molto timore.
«Scusami» provò a rimediare Sasha, mettendosi seduta più comodamente «Non volevo essere burbera».
«Nessun problema. Sei sempre stata molto diretta».

«Ah, sì?» domandò, senza nascondere una punta di orgoglio.
«Non voleva essere un complimento. Non ci trovo nulla di particolarmente felice nel parlare senza curarsi delle conseguenze».
«Non ti sto molto simpatica, vero?».
«Questa è una domanda stupida».
«E questa era una conferma».
Si corrucciò, ma prese tempo prima di rispondere e quando lo fece il tono si era fatto più dolce. O più triste. «Se non tenessi a te non mi troverei qui a quest’ora, non credi?».
«Effettivamente il coprifuoco per i ragazzini non dovrebbe essere già scattato?».
«Non lo so, dimmelo tu» si mise sulla difensiva «Quanti anni pensi io abbia?».
La rossa arricciò le labbra. «Non ti sembra di chiedermi un po’ troppo, adesso? A quanto pare è un miracolo che io riesca a ricordarmi la mia di età, figurarsi quella di una sconosciuta».
La ragazza si irrigidì immediatamente e sembrò che ogni goccia di sangue che aveva in corpo si fosse gelato, perché iniziò a tremare. Abbassò lo sguardo sulle sue mani e i capelli le coprirono il viso senza permettere di vederne l’espressione. «Non sono una sconosciuta…» bisbigliò piangendo.

Sasha non fece in tempo a scusarsi, perché repentinamente l’altra si piegò a prendere la borsa che aveva lasciato sul pavimento e si diresse verso l’uscita.
«Hey!» la chiamò, non potendo fermarla in altro modo «Ma dove vai? Almeno dimmi come ti chiami, maleducata!» sbottò e se ne avesse avuto la possibilità le avrebbe tirato dietro qualcosa, una scarpa, un libro, un vaso.
La sconosciuta, prima di imboccare il corridoio, si girò un’ultima volta a guardarla. Aveva la bocca imbronciata, gli occhi pieni di lacrime e, nonostante la sofferenza incisa sul suo volto – sentimento che non provava nemmeno a mascherare -, a Sasha sembrò anche arrabbiata, almeno nel modo in cui aveva aggrottato le sopracciglia. Come faceva una sola persona a provare tutte quelle emozioni? Rabbia, dolore, imbarazzo, felicità, delusione, rammarico…
«Noemi» scandì lei e altre lacrime le sfuggirono dagli occhi prima che si decidesse a chiudersi la porta alle spalle.

Ormai sola, Sasha si chiese dove avesse sbagliato. Adesso o prima.
 
Vittoria appoggiò la schiena alla poltrona girevole, inclinando la testa, facendo scrocchiare il collo: un suo personalissimo segno di approvazione.
Sorrise tra sé prima di afferrare il mouse, duplicare la schermata su cui aveva appena finito di leggere il nuovo capitolo di Andrea e creare un nuovo messaggio da inviare all’account di Cecille92.
 
Ciao ragazzina. Come sempre, ti faccio i miei più sinceri – e sai che lo sono davvero - complimenti. Un colpo di scena un po’ estremo forse, ma che di certo ha raggiunto il suo scopo: sei riuscita a sorprendermi ed è una cosa che non succede di frequente. Hai reso in maniera perfettamente limpida l’immagine di Noemi e le emozioni che avevi in mente di trasmettere. Non la considero una cosa da poco e non mi sarei aspettata nulla di meno da te.
Sai…Noemi ti somiglia. Forse è solo un mio vaneggiamento, ma quando leggo di lei, rivedo te. È una cosa che prima di conoscerti di persona non sarebbe potuta accadere. Come vedi, questo è un altro punto che va a favore del nostro incontro.
Ovviamente recensirò il nuovo capitolo, ma questo messaggio volevo rimanesse tra noi. Come ai vecchi tempi. Se vuoi, puoi fare lo screenshot anche di questo ;]
Buonanotte ragazzina, ci vediamo lunedì.
 
Vittoria fissò la schermata per qualche istante, ricaricando la pagina. Non sapeva se Andrea si fosse già addormentata, ma vista l’ora non se la sentiva di escluderlo del tutto, e un po’ le dispiacque perché, nonostante la stanchezza che si sentiva addosso, avrebbe voluto leggere subito la sua risposta.
Passarono cinque minuti, poi dieci, ma sul suo profilo personale non comparve nessuna nuova notifica. Spense il pc e si spogliò, ma prima di mettersi a letto la schermata del suo cellulare si accese ed illuminò il soffitto.
L’anteprima del messaggio di WhatsApp mostrava la foto inconfondibile di Andrea, il soprannome con il quale Vittoria aveva salvato il suo contatto e una breve e concisa scritta:
 
“Era una ragazza”.
 
Senza provare a fingere di non sapere a cosa stesse alludendo, Vittoria digitò subito la sua risposta.
 
“Lo sospettavo. Come si chiamava?”.
“Claudia”.
“È un nome carino”.
“Bhe, qualcosa di carino doveva pur averlo”.
 

 
Ciao a tutti! Innanzitutto chiedo perdono per la latitanza prolungata, ma tra la laurea, il trasferimento e la nuova università – più che il tempo per scrivere – mancano le giuste idee e la concentrazione adatta. Sono stata comunque felice di aver messo nuovamente mano a questa storia e spero che il capitolo possa essere all’altezza. Ringrazio come sempre tutti quelli che spenderanno qualche minuto del loro tempo per leggere queste righe e un saluto speciale mi sento di farlo a Celian1987 che, oltre a leggere e recensire la maggior parte delle cose che scrivo, dimostra anche un’infinita pazienza – e mi rendo conto che con una “scrittrice” molto incostante di pazienza ne serve parecchia!
Detto ciò, ad maiora!

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***



On my own
 
Capitolo VI
 
Every little thing that I’ve know
Is every thing I need to let go
You’re so much bigger than the world I’ve made
 

Andrea scrisse in stampatello minuscolo, sui margini lasciati vuoti del libro di Arte, qualche dialogo che sperava le sarebbe tornato utile quando si sarebbe finalmente decisa a completare il capitolo che aveva iniziato più di una settimana prima.
 
«E così…» le sussurrò Sasha quando Noemi si sedette al fondo del suo letto. Fuori dalla stanza che era stata preparata per lei, gli infermieri si affannavano per i corridoi trasportando barelle e spingendo carrozzine, mentre i dottori leggevano le cartelle cliniche dei loro pazienti «Tu saresti una mia amica».
«Così parrebbe» le rispose, strofinandosi i palmi delle mani nel tentativo di scaldarle «Ma non ne sembri affatto convinta».
«Scusami. È che oggi sono venute davvero molte persone a trovarmi…» le venne spontaneo guardarsi intorno, circondata com’era da vasi e mazzi di fiori.
«Si, lo vedo». Noemi seguì il suo sguardo con fare contrariato.
«A quanto sembra sono amica di parecchia gente».
«Già…» provò ad assecondarla senza riuscire a mascherare il suo contrariamento.
«Che c’è?».
«Nulla».
«Guarda che ti vedo».
«Abbiamo un’idea dell’amicizia molto differente, io e te».
«Illuminami».
Noemi posò lo sguardo prima su Sasha, poi sulla profusione di rose, margherite, gigli che facevano odorare quella camera come un vivaio, quindi di nuovo sulla ragazza. «Tu odi i fiori» spiegò semplicemente «E il freddo. E il vento. E la montagna. Non mangi nessun tipo di verdura, sei allergica alle arachidi, alle noci e alle nocciole. Ti piace l’acqua frizzante, ma tua madre continua a comprare quella naturale. Porti sempre con te il franco che tuo nonno ti ha regalato quando è tornato dalla Svizzera e non esci di casa se prima non hai controllato di averlo nel portafoglio. Hai preso la patente l’anno scorso e hai fatto tre errori all’esame di teoria, ma agli altri hai detto di non averne fatto nessuno. Non sopporti l’odore del sigaro, né quello della pipa. A volte bevi, ma non reggi molto l’alcool, quindi cerchi di farlo con moderazione. Non vedi bene da lontano ma ti ostini a portare gli occhiali solo quando sei a casa, perché dici che ti stanno male» si strinse le mani nelle mani «Anche se non è vero. Ti piace leggere, riesci a studiare con la televisione accesa e guardi male quelli che al bar ordinano caffè d’orzo. Vuoi fare l’architetto, ma da piccola volevi diventare poliziotto.  Dici sempre di volerti iscrivere in palestra ma non lo fai mai. E poi…» la voce le si incrinò. Due rughe le si formarono agli angoli della bocca quando provò a trattenere il pianto.
«E poi?».
«E poi continui a chiamare amici quelli che ancora ti portano i fiori. E non ti ricordi di me, anche se io ricordo tutto di te. Troppo di te».
 
Seduta alla cattedra, la professoressa Amatuzzi dettava ai suoi studenti qualche cenno biografico per contestualizzare l’attività del Verrocchio, ma Andrea quel giorno non riusciva proprio a mantenere la giusta concentrazione per prendere appunti.
Non poteva farsene una ragione. Ancora non si capacitava di quello che le aveva detto Vittoria e le sue parole le rimbombavano nella mente riempiendola di dubbi.
Perchè aveva dovuto farle tornare in mente Claudia? Che cosa c’entrava con loro? Era convinta di essere riuscita a confinarla nell’angolo più remoto della sua coscienza, di aver tenuto debitamente sottochiave tutti i ricordi che la riguardavano; era riuscita ad imporsi di non pensarla, di non cercarla, addirittura di non sognarla e ci era riuscita! Ci era riuscita così bene da sentirsi quasi orgogliosa della sua forza d’animo.
Davvero un grande risultato. E una immensa fatica.
Poi Vittoria le aveva detto che Claudia si trovava in ogni suo personaggio e tutto si era ridotto in nulla. Nessun risultato se davvero, quando scriveva, la pensava. Nessun risultato se davvero, quando scriveva, ne metteva nero su bianco i ricordi. Nessuna guarigione se davvero, quando scriveva, la raccontava.
Ora non riusciva più a provare diletto nel fare quello che le era sempre piaciuto. E, d’altronde, come sarebbe stato possibile se ad ogni riga doveva fermarsi per chiedersi se davvero Claudia le avesse mai fatto o domandato quello che Sasha stava facendo o domandando a Noemi?
Forse Claudia era veramente una pallottola, come l’aveva sempre immaginata. Una pallottola senza un foro di uscita. Perché alcune persone ti rimangono dentro, come i bossoli nel petto dei soldati da telefilm. Si incastrano tra i muscoli, scavano a fondo e fanno infezione. E non ha poi molta importanza se ci guarisci o se ci muori: continui a portarteli dentro.
Estrasse con cautela il cellulare dallo zaino, prestando attenzione che né il suo compagno di banco né la professoressa potessero coglierla in flagrante. Sfogliò le immagini alla ricerca dell’ultima immagine della galleria, l’unica foto – in mezzo a tante – che ancora non era riuscita a cancellare e prima ancora di vederla a schermo intero sentì un nodo prenderla alla bocca dello stomaco. Strano come a certe cose non ci si abituasse mai.
L’arrivo di un messaggio la distrasse dai suoi pensieri e il breve testo di quel whatsapp si sovrappose alla foto che per troppo tempo Andrea aveva inutilmente utilizzato come sfondo.
 
  • Solito posto. Ti aspetto. Non sarebbe educato farmi aspettare.
 
Andrea alzò gli occhi al cielo, oscurò lo schermo e rimise il cellulare al suo posto. Si sedette più compostamente sulla sedia, costringendosi a prestare attenzione almeno per quella manciata di minuti che rimanevano prima del suono della campanella, ma inutilmente.
Alzò la mano, attendendo che l’Amatuzzi le desse la parola.
«Si, Della Torre?».
«Scusi, non mi sento troppo bene. Potrei uscire?».
 
Vittoria appoggiò la schiena alle piastrelle fredde del bagno, impaziente. Si rigirò tra il pollice e l’indice l’ultima sigaretta del suo pacchetto, proprio quella che si era conservata per tutta la mattinata in vista dell’ultimo intervallo e che, lei già lo sapeva, non sarebbe durata tanto.
Tra sé e sé, mentre la accendeva, pensò che prima o poi avrebbe dovuto farla finita con le marlboro, ma di certo non sarebbe stato quello il giorno.
Dopo la prima boccata – sempre la più soddisfacente – si sentì subito meno irritabile e nervosa, ma ancora il fastidio che aveva provato non sembrava volerla lasciar andare.
Il cellulare, immobile nella stretta tasca dei jeans, vibrò e Vittoria, sbuffando, lo afferrò bruscamente, sospettando già l’arrivo – insieme al messaggio di Giorgio - di un brutto mal di testa. A malapena lesse le prime parole, senza nemmeno prendersi la briga di visualizzare il testo completo prima di cancellarlo.
Ormai erano settimane che Giorgio le sembrava più ripetitivo di un disco rotto, sempre pronto a ricordarle – anzi, a intimarle – di prepararsi adeguatamente per il test d’ammissione, come se da quella università, per quanto rinomata e all’avanguardia, ne dovesse dipendere la sua intera esistenza. Anzi, la loro intera esistenza. Mai un pronome era riuscito a darle così tanto l’orticaria.
“Lo faccio per noi”, “Non vuoi stare insieme a me?”, “Non voglio che sprechi un’opportunità”, “Ne va della tua carriera”, “E’ quello che hai sempre voluto fare”, “Non ti stai impegnando”.
Che i suoi genitori fossero dello stesso parere di Giorgio era una cosa che aveva imparato a prevedere (un po’ meno ad accettare). Ma che la stessa erba l’avesse mangiata anche Matteo – proprio lui, l’amico di una vita, quello che avrebbe sempre dovuto supportarla e indicarle una via d’uscita – no, era intollerabile. Avrebbe preferito che lui e Giorgio avessero continuato tacitamente a detestarsi, perché adesso che facevano fronte comune lei si sentiva isolata.
Soffiò fuori dalla bocca il fumo della sua sigaretta e si formò una piccola nube che subito si dissolse. Era un sollievo sapere che nessuno si sarebbe mai preoccupato di andare a controllare quel bagno durante le ore di lezione. Non era facile, in mezzo al trambusto della sua vita, trovare un nascondiglio silenzioso.
Quando la porta si aprì Vittoria non si scompose e Andrea fece capolino dal corridoio. Sgusciò all’interno della toilette svelta e circospetta, richiudendosi subito la porta alle spalle come se fosse inseguita da un branco di cani da caccia. Indossava una maglia pesante e i pantaloni, troppo lunghi, le si erano arricciati sugli stivali. Gli occhiali spessi le erano scivolati quasi sulla punta del naso ed Andrea provvide subito a sistemarli prima che le cadessero per terra.
Ancora Vittoria non si capacitava di come una ragazza anonima come quella, incontrata forse decine di volte in giro per la scuola senza che ciò avesse mai destato in lei il minimo interesse, riuscisse ora a passarle così poco inosservata. Le domandò: «Hai mai preso in considerazione l’idea di darti allo spionaggio? Riusciresti a far sentire in gamba anche il peggiore agente della CIA».
«Buongiorno anche a te» ne sembrò risentita la mora.
«Ce ne hai messo di tempo» picchiettò la sigaretta facendo cadere la cenere nel lavandino «Iniziavo a credere che mi avessi scaricata».
«Ci sono andata vicino».
«Purtroppo per te non abbastanza. Ma non farne un fatto personale: deve ancora nascere chi riesce a resistermi».
«Spero davvero che venga messo al mondo presto, non vorrei perdermi la scena».
«In ogni caso pensavo di essere un motivo sufficiente per farti correre».
«Non fino a quando non diventerai una Windsor e io non mi aggirerò per i corridoi di Buckingham Palace vestita come un pinguino!».
«In mia difesa posso dire che a volte cammini come un pinguino. Non sei molto aggraziata».
«Mi basta essere intelligente».
«E senza dubbio modesta».
«Scusami, il tuo pulpito è così alto che da quaggiù non riesco a sentirti».
Vittoria finse di applaudirla. «Brava, questa era carina. Sottile come un baobab, come quasi tutte le tue battute. Dubito persino sia tutta farina del tuo sacco».
«L’ho rubata al tuo mulino».
«Vecchia volpe».
«Io almeno so che nei bagni della scuola non si fuma».
«Oh, ragazzina» la vezzeggiò «Io lo so, è solo che non mi interessa».
«Sbagli sapendo di sbagliare».
«Diciamo più che delinquo sapendo di delinquere».
«Una vera cittadina modello».
«La parte della brava ragazza la lascio a te, ti sta così bene» la guardò di sbieco.
«Esilarante». Andrea ricambiò l’occhiata di Vittoria con aria truce. Appoggiò una mano sulla maniglia, pronta a tornare in classe appena la campanella l’avesse avvisata della fine della lezione. «Perché mi hai fatta venire?».
La bionda si sistemò il colletto della camicia. «Non c’è un motivo» le confessò con indifferenza, avvicinando di nuovo la sigaretta alla bocca «Ne avevo voglia e basta. E la mia lezione era estremamente noiosa».
«Non potevi distrarti insieme ai tuoi amici?» ribattè «Per i corridoi mi saluti a stento quando sei con loro».
«I miei amici non ti piacciono e non cerchi nemmeno di nasconderlo. Il venerdì faccio quasi fatica a sentire la tua voce. E poi… mi piace tenere le cose separate».
«Quali cose?».
«Te. Da tutto il resto».
«Dovrei esserne lusingata?».
«Non lo so, dimmelo tu. Quanto ti piaccio da nove a dieci?».
«Quanto alla neve piace il sole».
«Lo so che ti sciogli per me ragazzina, ma non darmela vinta così facilmente».
«Non dire scemenze!» arrossì e Vittoria rise.
«Vuoi fare un tiro?» le chiese, allungando la sigaretta nella sua direzione.
«Sono asmatica» rispose controvoglia.
«Certo. E io narcolettica».
«No…» continuò, abbassando lo sguardo «Dico davvero. Soffro d’asma».
«Ah…» riuscì solo a dire dopo qualche istante Vittoria, la mano ferma a mezz’aria. «Ops. Scusa». Aprì il rubinetto più vicino e spense la sua sigaretta, poi aprì la piccola finestra per far uscire il fumo e gettare la cicca. «Una gran bella coppia. Un’asmatica e una fumatrice cronica entrano in un bagno…».
«Io avrei detto più il diavolo e l’acqua santa».
«Non devi avere una considerazione così bassa di te, non sei poi così cattiva».
«Quanto sei spiritosa!».
«Gli opposti si attraggono, no?».
«O si respingono».
«Non in fisica».
«Bhe, in antropologia sì».
Vittoria fece schioccare la lingua sul palato. «Qualcosa in comune dovremo pur avercelo. Oltre ai cromosomi, intendo».
«Ne sei convinta, eh?».
«In realtà…» bisbigliò stancamente, indietreggiando di qualche passo e tornando ad appoggiare la schiena al muro. «Più ti guardo e meno lo sono. Convinta».
Andrea aprì la bocca per replicare, ma non le affiorò alla mente nessuna battuta, nessuna frase pungente da poter sputare come se fosse acido, e qualcosa, nell’espressione di Vittoria, la fece vacillare.
«Smettila di fissarmi così» riuscì solo a dirle.
«Così come?».
«Come se fossi un indovinello da risolvere. È fastidioso. E imbarazzante»
 «Perché ti imbarazza tanto essere guardata?».
«Mi imbarazza essere guardata da te».
«Allora permettimi di riformulare la mia domanda: quanto ti piaccio da dieci a dieci?».
«Non mi fa ridere questo gioco».
«Lo so. Lo vedo. E il tuo problema è proprio questo. Che ti piaccia o meno, io ti vedo. Sei così abituata a fuggire dalle persone, a trincerarti nel tuo silenzio, a nasconderti dietro muri di parole che pensi di essere invisibile. E forse per il resto del mondo lo sei davvero. Ma non per me. Non più, ormai. Non puoi fingere e non dovresti nemmeno provarci. So leggerti meglio di quanto tu non creda, di certo meglio di quanto avresti voluto. E dovresti sul serio lasciarti andare più di quanto tu non stia facendo, perché ci troviamo nella stessa condizione, ma io sono più brava di te a nasconderlo e ad accettarlo. Sai, per mia madre sono sempre stata quella problematica. Per mio padre sono la figlia svogliata, per i miei compagni sono quella da ammirare, per Giorgio sono un trofeo di cui vantarsi e per Matteo sono quella che non riuscirà mai ad avere. O la spalla su cui piangere, nel migliore dei casi. Io non mi sento nessuna di queste cose e, allo stesso tempo, mi riconosco un po’ in tutte. Mi sembra di avere delle sfumature solo quando mi guardi tu» sbuffò «Anche se il più delle volte mi guardi come se ti aspettassi di vedermi sparire da un momento all’altro. Per quel che può valere, non ho intenzione di andare da nessuna parte senza di te. E nemmeno tu, visto che non hai tolto la mano da quella maniglia un solo istante ma non ti sei ancora decisa ad uscire».
Andrea sgranò gli occhi ma non un solo suono uscì dalla sua bocca.
«Dì qualcosa ragazzina» la incalzò Vittoria.
«Che cosa vuoi che ti dica?».
«Dimmi se sto sprecando il mio fiato e il tuo tempo, se condividi almeno qualcosa di tutto quello che ti ho detto, se ti riconosci, se ti lascia indifferente, se…».
«Perché invece non mi dici chiaramente quello che vuoi da me?» la interruppe.
«Voglio sapere se senti quello che sento io».
«Non è così facile».
«Rendilo semplice».
«Non posso essere il tuo diversivo».
«Non potresti esserlo nemmeno se lo volessi».
«Sei fidanzata!».
«Io e te siamo una cosa diversa, non fingere di non saperlo. Mi ritengo troppo orgogliosa per pensare di non essere ricambiata».
«Non giocare a questo gioco con me, Vittoria. Ti prego. Con tutti, ma non con me. Non ho nulla da darti. Non ho più nulla da dare a nessuno. E non ho davvero la forza di assecondare la tua curiosità per poi scoprire che non volevi nient’altro».
Lo sguardo di Vittoria si fece torvo e la voce, solitamente modulata, dura. «Non sono una bestia Andrea, non mi serve un osso da mordere».
«Davvero? E da quando ti piacciono le donne? In due anni non ne hai fatto cenno nemmeno una volta».
«Non mi interessano le donne, mi interessi tu!».
«L’ho sentita talmente tante volte questa frase che sarebbe stupido crederci di nuovo».
«Per chi mi stai scambiando, Andrea? Non ho intenzione di prendermi la colpa degli errori commessi da altri».
La ragazza le diede le spalle. «Non sarei dovuta venire» sussurrò, passandosi una mano sugli occhi e quando Vittoria la raggiunse si scansò, ma non fu sufficiente per tenerla lontana. Cercò inutilmente di ritrarsi quando le posò la fronte sulla sua e quella vicinanza così intima la atterrì. Andrea le tenne fermi i polsi per scongiurare il pericolo che la toccasse con più intenzione. Mai più, si era ripromessa, ma l’odore di Vittoria sembrava la stesse invitando a cedere nei suoi propositi.
«Guardami».
«La devi smettere».
«Sei davvero pazza se pensi che potrei costringerti a fare qualcosa che non vuoi. Ma non mi rimangio una sola parola di quello che ti ho detto. Io gioco a carte scoperte, Andrea. Quando ti deciderai a mostrare la tua mano, sapremo chi avrà vinto».

 
 
Note dell’autrice: Io – come sempre – mi scuso dell’immenso ritardo e dell’assenza completa di regolarità nell’aggiornamento delle storie. Giuro che Andrea l’ho pensata volutamente più ligia al dovere e puntuale di me nella pubblicazione dei suoi racconti! Ringrazio comunque tutti quelli che mi seguono nonostante questo mio difetto cronico e se serve/volete potete riempire il tempo che passa tra un capitolo e un altro provando a leggere altre storie che ho pubblicato – e se pensate che io sia stata regolare almeno nell’aggiornamento di quelle la risposta è: bhe no. A mia discolpa dico che alcune sono complete e altre sono sulla via della conclusione. Una via lunga e tortuosa inframmezzata da esami universitari.

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


On my own

Capitolo VII
 
So I surrender my soul
I'm reaching out for your hope
I lay my weapons down

I'm ready for you now
 

La professoressa Tommasi si sistemò gli occhiali sul naso, aprì il registro di classe e con il dito passò sui nomi degli studenti della III°D, pronta a procedere con l’appello.
«Alfonsi?» chiamò con la sua usuale voce stridula, senza scomodarsi ad alzare gli occhi sull’alunno.
«Presente!» rispose il ragazzo della prima fila.
«Astigiani?».
«Presente» ripetè distrattamente Vittoria, in quel giovedì mattina svogliato che proprio non la vedeva al massimo della forma. Sconsolata, fece scivolare il bacino sulla sedia e allungò le gambe nel tentativo di distendersi, ma quella classe era diventata fastidiosamente piccola dopo l’accorpamento della II°A e della II°D e subito si ritrovò per sbaglio a colpire lo zaino del compagno seduto di fronte a lei. Poggiò i palmi delle mani sul bordo del banco e si tirò su, sedendosi più compostamente. Incrociò le mani per farle scrocchiare e piegò il collo a destra e a sinistra nel tentativo di rilassare le spalle.
«Sembri un robot da cucina arrugginito» le bisbigliò all’orecchio Matteo, seduto di fianco a lei. Da che ne aveva memoria, erano sempre stati compagni di banco, sia al Ginnasio che al Liceo.
«In effetti mi sento un tostapane stamattina» lo assecondò «Un tostapane senza corrente. Ieri l’allenatore mi ha distrutta, non credo di aver mai fatto tante vasche tutte insieme».
«Ti prepari per la gara?».
«Già» rispose con una smorfia che lasciava trasparire tutto il suo malcontento «Non vedo l’ora che finisca questa stagione».
«Pensavo ti piacesse nuotare. È praticamente l’unica cosa che non ti è venuta a noia da quando ti conosco. Oltre al sottoscritto, ovviamente» sottolineò, dandole un buffetto sulla testa e scompigliandole i capelli.
«Tutti si stufano di tutto dopo dodici anni» borbottò e aggiunse guardandolo di sottecchi: «Noi da quanto tempo ci conosciamo esattamente?».
«Undici faticosissimi anni» rispose orgoglioso, gonfiando il petto come se fosse un gallo.
Lo guardò di sottecchi, arricciando il naso. «Fossi in te, allora, mi preparerei al peggio. In ogni caso, al momento l’unica acqua che non mi fa venir voglia di fingermi malata è quella del rubinetto. E forse nemmeno quella».
«Romano?» continuò a chiamare la professoressa Tommasi.
«Presente!». La ragazza seduta dietro Matteo alzò la mano e Vittoria si piegò all’indietro, guardandola sottosopra. Avrebbe riconosciuto anche nel mezzo della strada più affollata quella lunga treccia scura– ormai un segno più che distintivo -, gli occhi grandi sempre entusiasti, le guance colorate dal fard e un’angolazione della bocca che le dava un’aria tanto furba.
«Ci sei mancata» le disse a bassa voce per non farsi sentire «E un po’ sei mancata anche a Manuel, ma non lo ammetterà mai. Lo sai come è fatto».
«Male?» tirò ad indovinare lei, aprendo la zip del suo astuccio per tirarne fuori matite e penne colorate.
«Decisamente!» rise Matteo «Senza di te non sa a chi scroccare il pranzo».
«Romano!» la riprese con aria severa la docente «Deve recuperare la verifica della scorsa settimana».
«Certo» la assecondò la studentessa, pronta ad annotare tutto sulla sua agenda «Quando?».
«Il primo giorno utile».
«Lunedì?».
«No, il primo giorno utile di questa settimana».
«Ma…» la sua faccia cambiò subito espressione «Ma oggi è giovedì…».
«Bene. La farà domani».
«Domani?!».
«Sì, Romano, domani. Non prenda impegni dalle otto alle dieci. E adesso» rivolse la sua attenzione alla lavagna «Parliamo della rimilitarizzazione della Renania. Eravamo rimasti al 1935…».
Matteo strappò un pezzo di carta dal suo quaderno, lo appallottolò e lo lanciò dietro di sé. «Hey, Cla! Claudia!» chiamò.
La ragazza alzò gli occhi per guardarlo. «Eh?».
«Si vede che sei mancata anche alla Tommasi, vero?».
«Se solo lo avessi saputo mi sarei data malata per altri due giorni» ammise.
«E pensare che una volta eri la sua preferita».
Sorrise e due fossette le bucarono le guance «Già, è un brutto vizio: all’inizio piaccio a tutti».
La lezione proseguì senza sosta per le due ore successive e il suono della campanella non fu sufficiente a fermare la professoressa, che rubò altri cinque minuti ai suoi studenti per assegnare i compiti da svolgere per il fine settimana.
Quando intorno alle dieci il bisogno di caffè si fece impellente, Vittoria prese Claudia sottobraccio e insieme a lei attraversò il corridoio mentre gli studenti delle classi vicine si affrettavano a ritornare in aula.
«Allora?» la incalzò subito Claudia senza badare ai convenevoli, lanciandole un’occhiata smaliziata «Tu e Giorgio siete in dirittura d’arrivo?».
«All’incirca» rimase vaga la bionda «Se con “arrivo” intendi più un vicolo cieco che una pista d’atterraggio».
«Che cosa hai combinato questa volta?».
«Perché dai per scontato che io abbia combinato qualcosa?».
Claudia alzò gli occhi al cielo «Giorgio fatica a trovare le palle per allacciarsi gli stivali, figurarsi se trova il coraggio per tenere testa a te».
«E questo sarebbe un punto a suo favore o no?».
«Dipende» fece spallucce «Non abbiamo bisogno tutte di un maschio Alfa e tu sei più credibile come uomo che come donna».
«Meschina» la riprese scherzosamente Vittoria, pizzicandole il braccio. «Avanti, perché non me lo dici anche tu?».
«Dirti cosa?».
«Che sarebbe più opportuno che io tornassi sui miei passi, che Giorgio è l’uomo perfetto per me, che sto agendo in maniera troppo avventata. Oppure che era ora che io mi decidessi a rompere un fidanzamento che non aveva ragione d’essere. Scegli la tua versione».
«In entrambi i casi non ci faccio una bella figura, dico bene?».
«Esatto» rise.
«Tu cosa ti senti di fare?».
«Un omicidio».
«Qualcosa che non sia perseguibile penalmente?».
La bionda arricciò il naso e assunse un’aria pensierosa. «Così me la rendi difficile…».
«Perché semplicemente non ti prendi un po’ di tempo?».
«Non credo che il ticchettio delle lancette di un orologio mi aiuteranno a capire se rimanere insieme a Giorgio è effettivamente quello che desidero» incrociò le braccia al petto, continuando a camminare. «Lo vedo che mi guardi» la riprese poi dopo qualche attimo di silenzio «Sputa il rospo. Il peggio che possa accadere è che io ti costringa a ringoiarlo. Riesco a vedere chiaramente gli ingranaggi che stridono nella tua testa».
«E’ solo che è un po’ ambiguo…Ti ho lasciata che spulciavi i piani di studio per l’università, che guardavi dove partire dopo il diploma insieme a Giorgio e che facevi il giro di chiamate per sapere chi sarebbe venuto a vederti alle regionali di nuoto. Faccio appena in tempo a farmi passare la gastrite e scopro che ti senti più single che impegnata, che non sai se valga la pena o meno andare all’università e che, se potessi, ti frattureresti un femore pur di non rimetterti un costume».
«Temi mi abbiano rapita i russi per farmi il lavaggio del cervello?».
«O quello o una sbandata».
«Con la moto?».
«Peggio: con un ragazzo».
«Ma per favore!».
«Chi è? Lo conosco?» la strattonò con fare bambinesco.
«Quando hai finito di montare questo bellissimo film regalami un biglietto per il cinema. Ultima fila, posto centrale, lontano dai bambini che masticano i pop-corn nelle mie orecchie, grazie».
«Non sarà mica Matteo, vero?».
«Ti prego, che immagine squallida».
«Lui non sarebbe dello stesso avviso. Quindi, io non lo conosco?».
«Davvero Claudia, non c’è nessuno da conoscere. Non ho bisogno di una cotta per rivedere le mie priorità».
«Mhmh…Non mi hai convinta del tutto, ma mi voglio fidare. Sono troppo impegnata a pensare a come nascondere ai miei genitori l’insufficienza che prenderò domani» ammise, mettendosi in fila dietro un ragazzo fermo alle macchinette.
«Che fai?» le domandò Vittoria perplessa, passando oltre.
«Attendo pazientemente il mio turno».
«No, non qui. Andiamo alle altre macchinette: danno il resto».
«Quali altre macchinette?».
Vittoria le diede le spalle, alzò le braccia verso il soffitto e si stiracchiò fino a quando non sentì le ossa scricchiolare. «Quelle che hanno montato nell’altra ala».
L’espressione di Claudia passò in un attimo da allegra a dubbiosa, da dubbiosa a malinconica e da malinconica a spaventata. Gli occhi si velarono di una punta di tristezza e tutta la sua figura esitò, ma Vittoria non riuscì a vederlo. «All’artistico?» domandò con voce incerta e per nasconderla finse un colpo di tosse.
«Già» confermò con noncuranza l’amica, scendendo gli scalini due a due, convinta di essere seguita.
«No, Vicky aspetta…» tentò di fermarla, allungando inutilmente le mani e mancandola per un soffio.
«Che c’è?».
Prese tempo, ferma sul pianerottolo. «L’intervallo è quasi finito, ormai siamo qui».
«Non essere pigra: l’accidia è un peccato capitale».
«Però io non…».
«Oh, andiamo! Sei un’antropologa nata, vedilo come un esperimento sociale: Caronte incontra Van Gogh».
Borbottò, stringendosi nelle spalle: «Immagino i dialoghi macabri».
«Facciamo così» le concesse infine «Ci vado da sola se tu mi copri per i prossimi dieci minuti. Sicuramente quello di Educazione fisica sarà già arrivato in classe».
«Andata» le accordò la mora, visibilmente sollevata, gli occhi di nuovo lucidi e vispi. Scese anche lei le scale per batterle un sonoro cinque, poi la ammonì giocosamente. «Ma non tardare troppo, altrimenti ci tocca fare le flessioni per punizione».
 
«Qualcuno sa di noi?» le domandò a bruciapelo Sasha, improvvisamente seria, le braccia distese sul materasso dell’ospedale, le flebo ancora attaccate.
L’altra, colta alla sprovvista, sussultò. «Che cosa pensi ci sia da sapere?» riuscì a risponderle poi con voce incerta.
«Andiamo Noemi, non sono nata ieri. Lo riconosco il modo in cui mi guardi e l’attenzione che ci metti quando lo fai. Ed è tremendo star fermi in questa stanza così spoglia senza poter far altro che fissare il soffitto, ma io ne sono costretta, tu no. Eppure ti trovo al mio capezzale ogni giorno, anche se nessuno sembra conoscerti. La mia famiglia non ti ha mai vista, i miei amici non sanno chi tu sia» si allungò, non senza una certa dose di fatica, per prendere il cellulare poggiato vicino al letto «E non c’è traccia di te, qui dentro. Non ti vedo in nessuna foto, in nessun messaggio, in nessuna mail. Non ho il tuo numero, né il tuo contatto facebook, o instagram. Sei sfuggente, sei…» cercò le parole, ma Noemi finì la frase per lei.
«Un fantasma» bisbigliò amaramente.
«E cos’altro?».
«Niente di più».
«È impossibile».
«Non c’è nulla di mio vicino a te, lo hai visto tu stessa. È come se non fossi mai esistita. E ora sei libera anche dal peso del mio ricordo. Chissà, forse hai sempre desiderato andasse così».
«Tutti lasciano delle tracce quando entrano nella vita delle altre persone».
«Forse ti vergognavi troppo di me per lasciarmi entrare del tutto».
La ragazza corrugò la fronte, presa in contropiede. «Non sento di essere quel tipo di persona, Noemi».
«Il problema è che non sei quello che pensi, sei quello che fai».
«E tu devi odiarmi molto per quello che ti ho fatto, dico bene?» ribattè risentita.
«No» strinse i pugni «Non potrei odiarti nemmeno se lo volessi» confessò a bassa voce, più a sé stessa che a Sasha.
«Dove stai andando?» le chiese la rossa quando la vide alzarsi dalla sedia e mettersi in spalla il suo zaino. «Non puoi scappare ogni volta che tocco l’argomento. Devi dirmi la verità. Ehi! Sto parlando con te! Merito di sapere!».
«Sono io che non me lo merito!» esplose fremente e davanti all’espressione sbigottita della ragazza tutta la sua compostezza sembrò come evaporata. «Non mi merito di doverti raccontare una storia che per te non è mai stata nulla più di un gioco. Sono io che non mi merito di ricordare tutte le cose che abbiamo costruito e che hai disfatto, tutte le promesse che mi hai fatto e che poi non hai mantenuto. Non mi merito di doverti ripetere tutte le cose che mi hai detto e che io mi ricordo, altrochè se me le ricordo!» pianse «Non potrebbero essere più indelebili nemmeno se tu me le avessi incise addosso. E io mi ricordo ogni parola, ma ti sei impegnata così tanto per farmi credere che fossero solo questo, parole, che alla fine sei riuscita a convincermi. Ma io non riesco comunque a dimenticarle». Si avventò su di lei, strappandole il cellulare dalle mani e agitandoglielo davanti agli occhi «Non hai tenuto nulla di me perché era più facile cancellarmi che scendere a patti con quello che avevamo fatto. Vuoi sapere chi eravamo? Per me eravamo tutto. Per te? A malapena uno sbaglio, una curiosità, un errore che non si pronuncia ad alta voce, perché se di quello che è stato ne siamo a conoscenza solo noi è un po’ come se non fosse mai accaduto niente. Ma il tuo niente mi ha fatto male, Sasha. E l’espressione che hai ora…l’aria di chi crede che io abbia confuso l’amore con una cotta, la dice lunga su chi sei tu».
 
Una notifica sulla cartella di posta elettronica la informò dell’arrivo di una nuova recensione ma, a differenza dei giorni passati, Andrea aveva smesso di sperare che si potesse trattare di Vittoria.
Le aveva lasciato addosso una sensazione ambigua la confessione – che alle orecchie di Andrea era sembrata più un tragico ultimatum – della ragazza e oramai aveva smesso di contare i giorni che erano passati dal loro ultimo incontro.
Si era rifiutata categoricamente di cercarla, in parte per via dell’imbarazzo che l’avrebbe di sicuro colta se le avesse rivolto la parola; in parte perché era maturata nella sua testa la convinzione che – a tempo debito – ci avrebbe pensato Vittoria a rompere il ghiaccio. Ma dopo una decina di giorni il ghiaccio si era fatto più duro e gelido, il debito del tempo non era stato saldato e quella parte del suo cervello che l’aveva convinta ad attendere fiduciosa le aveva poi chiarito che, così facendo, avrebbe aspettato inutilmente.
Non era sicura di poter definire “mancanza” il sentimento che provava da quando Vittoria l’aveva lasciata da sola in quel bagno, senza avere una risposta alle sue pretese. Di certo si sentiva turbata, angosciata, stupita, se per Vittoria o per il ricordo che la legava ancora a Maeries non aveva più importanza.
Il suo imbarazzo e il suo malessere li aveva trasformati, come sempre, in parole e le parole erano diventate capitoli, scritti e riscritti senza sosta, aggiornati, corretti, eliminati e ricaricati. Sapeva che Vittoria li avrebbe letti, perché quella storia era nata per lei ed era continuata su sua richiesta. Perché era la sua preferita, o così Maeries le aveva detto. Eppure nessuna recensione gliene aveva ancora dato conferma, nessun messaggio privato le era arrivato per pregarla di continuare al più presto, nessun segno che di quello che scriveva gliene potesse ancora importare qualcosa – se mai gliene fosse importato davvero.
«Forza secchia!» le urlò nelle orecchie Salvemini, facendola sobbalzare e per poco Andrea non rischiò di far cadere tutte le monetine che teneva in mano sul pavimento. «Non ho mica tutto il giorno! È già suonata la campanella!».
«Ma che ti dice il cervello?» gli urlò di rimando lei, dando le spalle all’unica macchinetta funzionante del piano.
«Mi dice che sei un’incapace! Levati, adesso faccio io!».
«Non è il tuo turno!».
«E me frego» ribattè prontamente il ragazzo, infilandosi una mano nella tasca dei jeans per estrarre due euro, ma Andrea non si schiodò dalla sua posizione.
«Ho detto che non è il tuo turno!».
«Se non te ne vai immediatamente…» alzò il dito minaccioso.
«Cosa? Il massimo che potresti fare per stupirmi sarebbe coniugare i verbi al tempo corretto».
Salvemini sbuffò, visibilmente irritato. La spinse via con un braccio e, imprecando, si piazzò prepotentemente di fronte alla macchinetta. Regolò lo zucchero, ma prima di poter selezionare la bevanda che desiderava e pagarla, una mano più veloce della sua gli rubò la scena, lasciandolo interdetto.
«Che diavolo stai facendo?» urlò poi alla ragazza che gli si era parata di fronte e che, con disinvoltura, quasi senza accorgersi – o curarsi – della sua presenza, aveva inserito le sue monete e aveva premuto il tasto del caffè.
«Mhm?» domandò lei sovrappensiero, girando appena il viso, ma l’occhiata che gli riservò sembrò bastargli.
«C’ero io!».
«Ah, sì?» gli sorrise Vittoria, riservando uno sguardo complice per Andrea. «Che sbadata. Eppure non mi sembrava stessi dando così tanta importanza alla fila, dico bene?». Si chinò per prendere il suo caffè e lo mescolò con il cucchiaino di plastica.
«Vuoi forse litigare? Non mi farò problemi solo perché sei una femmina!».
«Non ho remore a crederti». Sorseggiò il suo caffè, ma non riuscì a trattenere una smorfia quando si rese conto di quanto fosse zuccherato. «Però, vedi…oggi non sembra essere proprio la tua giornata fortunata. Io sono di cattivo umore e questo caffè disgustoso non mi ha resa di certo più clemente. Hai spinto un rappresentante d’istituto e ora ne stai minacciando un altro e siamo ai limiti del comico se penso che su quella porta, sì proprio quella, campeggia una scritta che dovrebbe avere un chè di minaccioso: Sala Insegnanti. Se non fosse che io ho amici più minacciosi di un paio di professori frustrati che insegnano matematica a quelli come te. Se ci aggiungiamo poi la nuova politica del Preside a tolleranza zero sul bullismo e il fatto che ti trovi fuori dall’aula a lezione iniziata, bhè…allora direi che stai facendo il prepotente con la prepotente sbagliata. Ma non fartene un cruccio» lo vezzeggiò, assestandogli una pacca sulla spalla. «Sono cose che capitano, lo capisco, ma questa volta sono capitate vicino a me e faccio un po’ fatica a girare la testa dall’altra parte, è un vizio di famiglia, sai? Padre avvocato, zio poliziotto, cugino carabiniere, cose così ecco. Possiamo dire che ormai l’Arma italiana porta il mio cognome e non vorrei mai che qualche piedi-piatti portasse il suo amico a quattro zampe a ficcanasare nel tuo zaino, quindi facciamoci entrambi un favore, che ne dici? Ti riprendi i tuoi spiccioli e torni al prossimo intervallo. Io in cambio ti lascio andare in classe senza fare la spia alla vice-preside che, per pura coincidenza, mi adora. Andata?» gli domandò un’ultima volta, ma il ragazzo già le aveva voltato le spalle – non senza essersi preso la soddisfazione di riservarle un gestaccio.
Andrea posò gli occhi prima su Vittoria, poi su Salvemini, e quando vide che il suo compagno di classe si era allontanato a sufficienza cominciò con impaccio: «I-io…».
«Lo so». La interruppe prontamente la bionda, buttando nel cestino il bicchierino ancora pieno e sistemandosi intorno ai fianchi la maglietta «Non avevi bisogno del mio aiuto».
«In realtà stavo per ringraziarti» si risentì.
«Davvero? Strano, sarebbe la prima volta da quando ti conosco».
«Evidentemente da quando mi conosci non hai fatto nulla per meritarti un ringraziamento».
«Altro che ringraziamenti, con te mi servirebbe un’aureola».
«Certo» ribattè stizzita «Sei così Santa e immacolata che la scambieresti per un frisbee».
«Allora?» la incalzò Vittoria, tamburellando le dita sulla macchinetta «Lo prendi questo caffè sì o no?».
La mora fremette, rossa in viso. «Io non bevo il caffè» le fece presente alzando altezzosamente il mento e avvicinandosi a lei quel tanto che bastava per premere il tasto del thè.
«Ecco perché sei sempre intrattabile…» alluse, storcendo la bocca.
«Senti» alzò la mano e, a palmo aperto, gliela avvicinò al viso, come a volerla zittire una volta per tutte «Se ti piaccio così poco, vorrà dire che…». La voce le morì in gola. Si bloccò ripensando a quello che Vittoria le aveva confessato, al modo in cui l’aveva guardata e al totale silenzio dei giorni che erano seguiti e si sentì in difetto per aver iniziato la frase in una maniera tanto sconveniente.
«Vorrà dire che cosa?».
«Nulla» rispose in fretta, abbassando lo sguardo, e ringraziò il suono prolungato della macchinetta che l’avvisò di ritirare la sua bevanda. Aprì lo sportello in plastica e, per non bruciarsi, prese il thè tenendolo per i bordi. Il vapore le appannò gli occhiali.
Contrariata, Vittoria le trattenne il braccio, posando la mano sul polso di Andrea prima che questa potesse avvicinare il thè alla bocca. «Abbiamo la memoria corta qui, ragazzina» affermò gelida, quasi le avesse letto nel pensiero.
«La mia memoria funziona benissimo».
«A me non sembra».
«Perché non ti limiti ad evitarmi come hai fatto fino ad ora?» si ritrovò a rinfacciarle, più astiosa di quanto avesse voluto.
«Non pensavo ti importasse».
«Non è quello che ho detto» la sorpassò, sottraendosi al suo contatto.
«Ma è quello che intendevi».
«Affatto».
«Andrea, ti sto parlando» l’afferrò di nuovo prima che potesse muovere anche solo un altro passo, stanca di doverla perennemente inseguire.
«Lasciami».
«Credo di essere stata poco chiara con te, quindi permettimi di rimediare: quando ti parlo non devi voltarmi le spalle. Se avessi voluto sprecare la mia voce sarei andata a vendere sogliole al mercato».
«Io non prendo ordini da te».
«Non è un ordine, è un invito a non farmi arrabbiare».
«Altrimenti?».
«Non mi istigare Andrea, non è giornata».
«E tu non minacciarmi. Non mi metti di certo in soggezione».
«Andrea! Andrea, vieni qua!» proruppe e quando l’ebbe raggiunta di nuovo la afferrò, senza avere davvero l’intenzione di strattonarla, ma quando la ragazza reagì era già troppo tardi e il bicchiere di plastica le era scivolato dalle dita, rovesciando il suo contenuto sulla mano di Vittoria e sul pavimento appena lavato dalle inservienti.
«Dannazione!» imprecò subito la bionda, obbligandosi ad abbassare la voce per non farsi scoprire e stringendosi la mano al petto.
«Oddio» spalancò gli occhi la ragazza più piccola, perdendosi in una serie infinita di «Scusa, scusa, scusa…».
«Scusa un cazzo Andrea, mi hai ustionata, accidenti!».
«Non volevo!».
«Ah! Che male, che male!».
«Mi dispiace, mi dispiace. Giuro, non l’ho fatto di proposito!».
«Quasi fatico a crederti».
«Non farmi sentire ancora più in colpa, è stato un incidente!».
«Se avessi saputo che ti serviva un’ustione di terzo grado per provare un minimo di rimorso, avrei messo la mano sul fornello diverse settimane fa!».
Andrea ignorò deliberatamente il suo sfogo, frenandosi dal risponderle a tono. «La smetti di agitarti? Fammi vedere».
«Perché, vuoi finire l’opera?».
«Dammi quella mano!»  le ordinò, ma in verità ci pensò da sé ad agguantarla, cercando di essere il più delicata possibile, ma il rossore era evidente. «M-mi dispiace…» sussurrò contrita, senza avere l’ardire di incrociare i suoi occhi. «Aspetta, ce l’hai del dentifricio?».
«Ma che razza di domanda è?» si esasperò l’altra, alzando gli occhi al cielo «Vuoi andarti a lavare i denti proprio adesso?».
«E’ per non farti venire le bolle!».
«E questo dove l’hai letto? Sulla scatola dell’Allegro chirurgo?».
«Per tua informazione, il dentifricio contiene fluoro e il fluoro permette…» sbuffò «Ascolta, non lo so cosa fa il fluoro, so solo che funziona e basta».
«Mi sento in ottime mani, davvero in ottime mani».
La strattonò. «Vieni, andiamo da Maria».
«Di Nazaret? Vuoi mandarmi all’altro mondo?».
«Quella dell’infermeria!».
«Da quando abbiamo una infermeria?» domandò Vittoria, seguendola con reticenza.
«Non lo so, magari da quando si sono accorti che a quelli del Classico piace bullizzare le ragazzine nei bagni».
«E spennare i fenicotteri nelle oasi protette, ma smettila una buona volta!».
 
Andrea si sbrigò a rimediare la chiave dell’infermeria nel bugigattolo vicino all’entrata principale, quando la bidella del piano la informò che la signora Maria non era in quel momento presente nell’istituto. Aprì la porta dello stanzino – rimediato evidentemente da un ufficio preesistente – e subito la colpì un forte odore di chiuso. Accese la luce e indicò a Vittoria dove sedersi, su uno dei due lettini presenti nella stanza.
La ragazza obbedì, finendo di digitare con le dita della mano sana- sfortunatamente quella sinistra – un messaggio per Claudia.
 
  • Sono in infermeria, avvisa il professore del mio ritardo. Fra una decina di minuti dovrei essere in palestra.
 
«Ecco» le si avvicinò Andrea, le mani ancora bagnate per essersele lavate nel lavandino vicino alla finestra. Si sedette sullo sgabello di fronte a lei, posando sul letto tutto quello che era riuscita a recuperare: del ghiaccio istantaneo, delle bende, delle fasce, un cerotto, delle forbici e un dentifricio mezzo usato. Si legò i capelli alla buona e Vittoria lasciò che le tastasse il palmo.
«Fa un male cane» borbottò la bionda con una smorfia.
«Lo so…scusami» bisbigliò imbarazzata, spremendole quel che rimaneva della pasta dentifricia sulla pelle. «Brucerà un po’» la avvertì, iniziando a massaggiare sulla parte arrossata.
Vittoria inclinò la testa di lato, ma anche così non riuscì ad incrociare gli occhi di Andrea. «Hai le dita fredde».
«Oh…Mi dispiace. Vuoi continuare tu?».
«No. Quando mi ricapita di giocare al dottore con te? Ahia! Fai piano!».
«E tu smettila di dire scemenze!».
«Cos’è, vuoi forse mettermi fuori gioco anche l’altra mano?».
«Ti ho già detto che mi dispiace, cos’altro vuoi che ti dica? MI-DIS-PIA-CE».
«Se tu mi avessi dato retta a quest’ora non saremmo qui».
«E se tu avessi usato un tono più gentile, io non mi sarei sentita in dovere di fare di testa mia».
«Se tu riuscissi ad essere un po’ più conciliante mi renderesti più semplice essere gentile con te».
«Quando parlavi con Cecille sapevi essere gentile a prescindere» la accusò, lanciandole un’occhiataccia.
«Perché ho sempre l’impressione che tu preferisca Maeries a me?».
«Almeno prima non mi evitavi» borbottò.
«Pensavo saresti stata contenta della mia assenza. Dopotutto era questo quello che volevi, lo hai sempre ammesso».
«Ti sbagli, non ho mai voluto una cosa simile».
«L’ultima volta non mi sembravi particolarmente felice di avermi intorno».
«Per te è tutto semplice, vero? O è bianco o è nero, in mezzo c’è il vuoto cosmico».
«E tu cosa ci vorresti mettere in mezzo, di grazia?».
«Te» sbottò, pulendosi le dita con un fazzoletto e iniziando ad avvolgerle la mano nelle bende. «Io ci metto te. E tutta la confusione che ti porti dietro e che mi metti addosso. Cosa vorresti sentirti dire più di questo, Vittoria?».
«Mi basterebbe se tu riuscissi, per una volta, ad esprimere quello che provi senza trattenerti. Come se qualche estraneo ci stesse riprendendo con una telecamera o, non so, come se temessi di sentirmi usare le tue parole per farti del male».
«Sì, bhe, tu non puoi assicurarmi che non me ne farai. Del male».
«Non voglio ferirti, ragazzina».
«Ha poca importanza quello che dici adesso. Nessuno mantiene quello che promette».
«Non ti ho detto che non ti farò mai del male. Ho detto una cosa più importante: che non voglio fartene. Andrea…fermati, ascoltami» le posò la mano sulla sua, impedendole di continuare la medicazione. «Nessun rapporto è libero dalle incomprensioni o dai litigi, non sempre le persone riescono a fare la cosa corretta e il rischio di provarci è che a volte…anzi, spesso, si sbaglia. Guarda noi».
«Noi non ne facciamo una giusta».
«E a chi importa? Saremo anche un casino, ma nel nostro caos ci capiamo solo noi. Non mi piace dare un nome alle cose Andrea, non lo so cosa siamo e nemmeno mi interessa. Il destino non esiste, la coincidenza neppure, forse non significa nulla il fatto che proprio noi ci siamo avvicinate prima ancora di sapere chi fossimo davvero, salvo poi scoprire che ci saremo incontrate un’infinità di volte senza riconoscerci. Ma se, invece, qualcosa volesse dire? Lo ignoreresti e basta?».
«Non lo ignoro» la contraddisse «Ma…non so che fare. Vittoria, tu vuoi che io mi lasci andare, ma a cosa non lo sai nemmeno tu. Non esiste un banco di prova, non è come leggere uno stupido racconto. Tu non hai mai…ecco…» si sistemò gli occhiali sul naso, lasciando la frase a metà «E poi sei fidanzata e io non mi trovo bene a giocare in squadra».
«C’era solo una cosa sicura nella mia vita ed era Giorgio, sei arrivata tu e hai messo in discussione anche lui. Forse ti troveresti bene a fare squadra solo con me».
«Non sai nemmeno come si gioca a questo gioco».
«Imparo velocemente» sorrise con malizia, sporgendosi verso di lei e sfiorandole la fronte con la propria.
Andrea roteò gli occhi. «Incantevole» borbottò in tono piatto, mentre le avvolgeva l’ultima benda e preparava il ghiaccio.
«Non arrossire così in fretta, non mi lasci il tempo per la battuta».
«Ah-ah-ah. Divertente».
«Lo è davvero».
«Sto ridendo interiormente. Tieni» le allungò il ghiaccio «Se vuoi calmare i bollenti spiriti sai dove metterlo».
«Non ne ho bisogno, ma grazie per l’interessamento. E anche tu mi sei mancata, ragazzina».
«Non ho detto che mi sei mancata».
«No, ma so che è così» le pizzicò la guancia, le labbra distese in un ghigno beffardo, gli occhi vivaci di chi la sa lunga.
La mora accennò un broncio. «Sei molto sicura di te stessa, non è vero?» le domandò in tono contrariato e poco a poco osservò la leggerezza di Vittoria abbandonare il suo sguardo, lasciandolo velato di un certo imbarazzo.
«Non esattamente…» sussurrò, facendo cadere la busta del ghiaccio, cercando con le dita quelle dell’altra. Le portò la mano all’altezza del petto e Andrea sentì sotto la stoffa il battito accelerato del suo cuore. «Ma so nasconderlo bene».
«I-io…» riuscì solo a mormorare confusamente la ragazza, senza sapere se essere più disorientata per il calore che sentiva provenire dal corpo di Vittoria o per gli occhi che aveva in quel momento e che non le facevano desiderare di abbassare lo sguardo.
«Chissà…» ruppe il silenzio la bionda, facendosi più vicina e stringendo la presa sulla mano di Andrea «Viste le circostanze, forse potrei anche ammettere di aver…».
Andrea espirò tutto il fiato che aveva trattenuto fino a quel momento e le tappò la bocca con il palmo. «Te l’hanno mai detto che parli troppo?» chiese e capì subito che la voce la stava tradendo, dando mostra a Vittoria di tutta la sua agitazione. Ritirò le mani.
«Di solito non è la prima cosa che mi dicono».
«E cosa ti dicono?».
«Non lasciano molto spazio alle parole».
Si preparò per risponderle a dovere, ma non le sovvenne nessuna battuta sarcastica e per una volta non le importò avere la meglio. «Questa mi sembra una buona idea…» riuscì a dirle infine. Le sfiorò la guancia con la sua, il naso con il suo, e Vittoria non la fermò. Si incontrarono le labbra, la bocca si schiuse contro la sua e i dubbi e le reticenze che le affollavano la mente si dileguarono quando Vittoria, impaziente, si abbandonò completamente a lei. Le insinuò una mano tra i capelli, tenendole la testa per baciarla più a fondo e Andrea sentì sulla lingua il sapore amaro del caffè. Quado glielo disse, mormorandolo a stento sulle sue labbra, senza staccarsene del tutto, l’altra le rispose: «A te non piace il caffè».
«Farò un’eccezione per questa volta…».
«Non potrei essere più d’accordo» la viziò, ma prima di poterla baciare ancora una volta un rumore di passi sopraggiunse dal corridoio, chiaro e spedito, e senza preavviso la porta dell’infermeria venne spalancata.
«Vicky» la chiamò allegramente una voce e la figura di Claudia si materializzò «Sciagurata, ma dove sei…finita?». La ragazza terminò la frase, ma il volume della voce, in decrescendo, non lasciava margine di dubbio su che cosa i suoi occhi avessero visto, se mai la sua espressione avesse lasciato dei dubbi.
Come colte in flagranza di reato, Vittoria e Andrea trasalirono, separandosi all’istante.
La bionda si schiarì la voce. «Claudia, sì, io stavo per arrivare».
«Sì…» la ascoltò appena l’amica, inebetita e attonita, il corpo immobile, tutte le sue attenzioni rivolte all’unica persona che non avrebbe mai immaginato di poter trovare in quella stanza. «Io…lo vedo» incespicò incontrando gli occhi di Andrea. «Emhm, ero preoccupata, ti ho mandato un messaggio».
«Scusami, non l’ho visto».
«Già, immagino…».
Per Andrea fu come se una scossa di corrente le avesse attraversato la spina dorsale. Piantò i talloni bene a terra, sentendosi venir meno il pavimento sotto ai piedi. Sentì caldo, se per Vittoria o per Claudia non avrebbe saputo dirlo, ma il biasimo che leggeva negli occhi di quella ragazza la faceva adirare e sentire colpevole allo stesso tempo.
Incredibile come ancora, dopo tutto quel tempo, la sua vista fosse sufficiente a farla morire dentro.

 

Ps: Ah, malfidate! Avete visto che con solo cinque mesi di ritardo ho infine aggiornato anche questa storia? Spero come sempre che l'attesa sia stata ripagata a dovere. Un ringraziamento è d'obbligo per tutte quelle persone che mi seguono e che trovano il tempo per lasciare un commento e anche per quelle che mi hanno scritto in pvt per avere aggiornamenti. Vi lascio con il link della canzone che mi ha ispirato questa storia, da brava djay improvvisata: 
https://www.youtube.com/watch?v=4l7fhxNrrrM
 

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