2some

di Blablia87
(/viewuser.php?uid=830018)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


 

Note iniziali: come avrete capito dagli avvertimenti riportati nell’introduzione, questa storia si svolgerà all’interno di un AU mutuato dalla serie “sense8”, che amo in modo quasi viscerale.
Alcune scene, dialoghi e personaggi sono presi direttamente dall’opera ideata dalle Sorelle Wachowski (molto dalla prima stagione, pochissimo dalla seconda), pur essendo stati - in parte o in toto – riadattati e plasmati per poter convivere con il “mondo” di Sherlock.
Non esistono spoiler “in senso stretto” su sense8 perché, a parte il prologo, praticamente ogni cosa prenderà una piega a sé rispetto agli avvenimenti raccontati nella serie.
Inizialmente questa mini long, come già successo per “The Answer”, sarebbe dovuta essere una OS. Arrivata alla fine, però, ho contato ben 49 pagine di Word. Ho quindi deciso di dividere la pubblicazione in tre parti, con cadenza settimanale.
 
La seconda parte sarà quindi pubblicata sabato 27 p.v., e l’ultima il 3 giugno.
 
Grazie, fin da ora, a chiunque deciderà di salpare con me per questo nuovo, breve, piccolo viaggio. ^_^
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
a emerenziano
 
“Soyons reconnaissants aux personnes qui nous donnent du bonheur;
elles sont les charmants jardiniers par qui nos âmes sont fleuries.”
(Marcel Proust)
 
 
 
 
 
 
  Prologo  
 
 
 
Il vento, in piccole folate scomposte, accarezza l’edera abbarbicata su quanto resta della parete est di St. Dunstan, risuonando tra gli archi ormai vuoti delle finestre.
Avvolto dalle ombre della sera, un uomo – chino, le mani strette al ventre – si trascina a fatica tra le mura spezzate ed i ciuffi d’erba che crescono rigogliosi nelle fughe della pavimentazione sconnessa.
Dopo qualche secondo si lascia cadere con un gemito, stremato, nell’esatto punto dove –  nel 1941, lacerate da una bomba tedesca –  le centenarie pietre della chiesa si sono ripiegate sopra l’altare.
Inarca la schiena, socchiudendo gli occhi ad ogni spasmo rovente che gli attraversa le viscere.
Si morde le labbra con maggior forza dopo ogni brivido, imponendosi un silenzio che sa di non poter mantenere ancora a lungo.
 
«Sono qui.»
 
All’improvviso, un volto familiare gli appare accanto, e il calore di una mano gli sfiora la fronte madida di sudore. Il suo visitatore inaspettato ha l’espressione tesa, riesce a vederla nonostante l’oscurità. Può percepire la sua paura mescolarsi alla propria, piccole onde che si infrangono contro la sua gabbia toracica.
«Mycroft…?» sussurra, sentendo un’altra contrazione incendiargli il corpo.
«Sì» risponde l’altro, sforzandosi di mantenere un tono di voce fermo.
«Fa male…» geme l’uomo, aggrappandosi con una mano al braccio del visitatore, chino su di lui.
«Lo so.» Mycroft continua ad accarezzargli il viso, scostando con le dita le gocce di sudore che lo attraversano.
«Ho bisogno… devo…» cerca di dire l’uomo, combattendo l’istinto di ripiegarsi su se stesso.
«No… no. Non c’è più tempo.» Mycroft gli posa una mano sul ventre, con delicatezza, deglutendo un paio di volte per cercare di far passare l’aria attraverso la gola stretta dalla paura.
«Non… non sono pronto. Sono troppo debole» prova a spiegargli l’altro, mentre una lacrima si libera, coraggiosa, dalle sue ciglia.
«Nessuno è mai stato forte quanto te. Coraggioso quanto te» lo rassicura lui e, per la prima volta da quando si sono conosciuti, la sua voce si incrina.
«Non voglio che muoiano altre persone, Myc… Gli daranno la caccia, nati o meno.» L’uomo allontana con un gesto brusco la mano dell’altro, portandosi a sedere con estrema fatica. Un nuovo spasmo gli scava la pelle, attraversando i nervi e prosciugando il sangue. Serra le labbra e sente l’altro combattere a sua volta l’istinto di lasciare, semplicemente, andare tutto.
«Tu puoi dargli una speranza. Solo tu puoi farlo» sussurra Mycroft, e l’uomo sa che ha ragione. Che non può arrendersi.
Non ancora.
 
Un urlo acuto, e poi un ringhio sommesso, carico di sofferenza, tagliano l’aria.
Un gruppo di uccelli –  appollaiati su una delle finestre cieche del campanile –  si alza in volo, scurendo il cielo sopra di loro.
 
«Li… li vedo» singhiozza l’uomo dopo qualche secondo, aprendosi in un sorriso affaticato. Tra le ombre della chiesa, il profilo dei due uomini ai quali ha appena donato la vita compare fugace, sparendo in un istante.
«Ce l’hai fatta...» Mycroft alza lo sguardo, ma non riesce a vedere altro che le panchine vuote che la Città ha scelto di mettere attorno ai resti della navata centrale, cercando di donare nuovamente a quel luogo profanato un futuro ed un’utilità per la comunità.
«Proteggili, Myc. Proteggili» prega l’uomo, cercando le sue iridi azzurre. «C’è anche Sherlock…»
«Lo farò. Adesso però riposa. Sono qui» risponde Mycroft e, all’improvviso, sente la morsa del terrore dell’altro avvolgerlo, impedendogli di respirare.
 
«Anche lui…» geme l’uomo. Mycroft riporta una mano sulla sua fronte e si guarda attorno, nel tentativo vano di capire in quale punto della navata si sia materializzata la minaccia che sente incombere su entrambi.
 
«Stai partorendo… È doloroso. Lo percepisco.» La voce di un uomo, allegra, riecheggia tra le pareti spoglie e l’erba silenziosa.
«Qualunque cosa ti stia dicendo…» tenta Mycroft, portando il viso a pochi centimetri dall’orecchio dell’altro.
«È Mycroft?» La domanda rimbomba nuovamente nel vuoto della chiesa smembrata, e una figura esile in abiti eleganti si stacca dalle ombre per avvicinarsi con passi lenti all’uomo ancora a terra.
«Per favore…» mormora lui, sentendo le braccia iniziare a cedere.
«Digli…» continua l’individuo, non dando segno di averlo sentito. «Che sono ansioso di rivederlo.» Si avvicina, pigramente, un sorriso beffardo sul volto.
«Ti amo, Myc» sussurra l’uomo, con voce così bassa che l’altro riesce a vedere le parole prendere forma nella propria mente, ma non a sentirle.
«Greg…» risponde, ma sa già che niente di quanto dirà potrà convincerlo a desistere dal mettere in pratica il piano che ha già studiato nel dettaglio. Che hanno preparato, insieme.
«Va’… Non… non ce la faccio, se ci sei tu» quasi lo prega l’uomo, e si volta per poterlo guardare un’ultima volta.
«Io ci sarò sempre. Sempre. Ed anche tu, ci sarai sempre» gli risponde Mycroft, appoggiando la fronte contro la sua. Qualche secondo dopo l’uomo rimane solo, gli occhi ancora pieni dell’altro. Solo allora, girandosi verso la figura ancora in piedi a pochi passi da lui, estrae la pistola che tiene nella tasca interna del logoro cappotto che lo avvolge.
«Suvvia, mio caro… quante volte hai già minacciato di farlo? Sappiamo entrambi che non lo farai. Non puoi. Sei uno di noi. E verrai a casa, con me» lo deride il visitatore e, dalla piega assunta dalle sue labbra, sembra davvero non essere preoccupato.
«No.» L’uomo impugna l’arma con entrambe le mani, rivolgendo con le ultime forze rimaste la canna metallica verso di sé.
«Dammi la pistola» gli intima l’altro, mentre il sorriso che fino a poco prima gli illuminava il volto si trasforma in una maschera d’ira.
«NO!» urla l’uomo, spingendo a forza le parole oltre la barriera delle proprie labbra secche.
 
«Fermatelo!» grida la figura a due militari comparsi alle sue spalle, ma le parole scompaiono, inghiottite dal boato di uno sparo.
 
Un altro stormo di uccelli, terrorizzati, si alza in volo sopra le mura spoglie di St. Dunstan. Poco dopo –  quando tornano a posarsi sui rami spogli degli alberi che circondano quel che resta della navata centrale –  sotto di loro rimane solo un uomo abbandonato sul selciato, tra le mani una pistola ancora calda.
 
 
 
  1.  
 
 
 
«Sherlock… aiutami.»
 
Nel salotto del numero 221b di Baker Street, a qualche miglio di distanza da St. Dunstan, un uomo si blocca a pochi passi dalla propria poltrona, un violino appoggiato alla spalla sinistra ed un archetto di legno chiaro stretto tra le dita della mano destra.
 
«Per favore…»
 
Si guarda attorno, cercando tra le luci cangianti che il camino acceso sparge nella stanza la fonte della voce che sente vibrare nella propria testa. Socchiude gli occhi, concentrato, voltandosi da una parte e dall’altra con movimenti lenti.
«Signora Hudson?» chiama, anche se non è affatto convinto che possa essere la padrona di casa, al piano di sotto. «Signora Hudson?» tenta di nuovo, portandosi velocemente sul pianerottolo di fronte al proprio appartamento e affacciandosi sulle scale che conducono all’ingresso.
 
«Aiutami.»
 
Si volta di scatto, certo di aver sentito le parole provenire dall’interno del salotto. Per un attimo, scorge l’ombra di un uomo con un pesante cappotto addosso ferma al centro della stanza, che si tende verso di lui. Il violino e l’archetto ancora stretti tra le mani, rientra nella camera in modo precipitoso, il respiro veloce e superficiale ad aiutare i sensi a reagire con la giusta rapidità.
Resta immobile qualche secondo, le gambe divaricate e la vestaglia da notte che si muove appena nella parte inferiore, vicino ai suoi piedi scalzi.
Il salotto è vuoto, e il fuoco che scoppietta nel caminetto è adesso l’unico suono che riesca a sentire, oltre a quello del proprio cuore che vibra con forza nelle orecchie.
Si chiude le labbra tra i denti, girandosi appena in direzione del piccolo tavolino da caffè posto davanti al divano.
Una siringa, appoggiata su di un piccolo panno bordeaux, brilla sotto la luce rossastra delle fiamme.
Abbassa lo sguardo e, per un attimo, appare inquieto. Un’espressione fugace, quasi impercettibile.
Scuotendo la testa, riporta il violino in posizione.
Chiude gli occhi, e comincia a suonare.
 
 
 
Dall’altro capo della città, il dottor John Watson si blocca con lo stetoscopio appoggiato al petto dell’ultimo paziente della serata. Alza la testa, confuso, e si libera le orecchie dalle olivette con un gesto brusco.
«Dottore?» lo chiama l’uomo sul lettino, preoccupato dall’espressione che vede prendere forma sul viso del medico. «Dottore, tutto bene? Ha… ha sentito qualcosa che non va?» ritenta, mentre John si rigira tra le dita la testina dello strumento, con aria assorta.
«No…» risponde lui, distratto. «No» ripete dopo poco, quasi scuotendosi da un torpore nel quale non si è reso conto di essere caduto.
«Ha… ha per caso sentito anche lei della musica?» butta lì, con finta noncuranza, tornando ad appoggiare la membrana sul petto dell’altro.
«Musica? Può sentire anche la musica, con quel coso?» domanda lui, stupito.
«No... Certo che no. Mi era solo sembrato…» John aggrotta la fronte, incapace di trovare le parole adatte a descrivere il modo nel quale ha percepito distintamente, pochi attimi prima, il suono triste di un violino. «Non importa» conclude, muovendo appena la testa.
«Forse dovrebbe riposare…» gli suggerisce l’uomo, e John annuisce appena, continuando a spostare lo strumento da una parte all’altra.
«Sì… credo sia il caso che vada a casa. Ho un terribile mal di testa…» sussurra, più rivolto a se stesso che al paziente.
Dopo qualche minuto torna in posizione eretta, sistemandosi lo stetoscopio attorno al collo.
«Allora… da quanto ho potuto sentire, direi che si tratta solo di una brutta tosse… Adesso le prescrivo qualcosa» rassicura l’uomo, facendogli cenno di rivestirsi.
«Dovrebbe prendere qualcosa anche lei, sa? Ha gli occhi lucidi» risponde lui, iniziando a richiudere i bottoni della camicia.
«Ho solo bisogno di dormire…» John si avvicina a passi lenti alla propria scrivania, sporgendosi per recuperare il ricettario.
Di fianco al blocchetto perlaceo, una siringa aperta è adagiata su un fazzoletto bordeaux.
John si ferma con la mano sospesa sopra il blocchetto, sgranando gli occhi.
Non l’ha mai vista prima e, a giudicare dallo stato dell’ago, qualcuno deve averla usata di recente: una piccola goccia di sangue ancora fresco macchia la punta di metallo.
«Ma che diavolo…» sussurra, aggrottando le sopracciglia.
«Sarah!» chiama ad alta voce, continuando a tenere gli occhi sulla siringa. «Sarah!»
L’uomo sul lettino, preoccupato, si lascia scivolare a terra con sguardo confuso.
«Eccomi!» la segretaria, sul viso un’espressione vagamente turbata, si affaccia nella stanza rimanendo sulla soglia.
«È entrato qualcuno qui, nell’ultima mezzora?» domanda John, aiutandosi a stabilire una tempistica valida attraverso il sangue che vede sull’ago.
«No…» risponde la donna, inclinando la testa da un lato.
«No?» le chiede ancora lui, voltandosi verso la porta e sorprendendosi nel trovarla così distante. «E allora come è finita questa… –   inizia, riportando gli occhi alla scrivania –   questa… qui…?» termina, con un sussurro spezzato. La siringa è scomparsa. Al suo posto,ora, c’è solo un dépliant stropicciato, di quelli lasciati dagli informatori che vengono spesso a fargli visita.
«”Questa”?» La segretaria muove un passo incerto verso l’interno della stanza, frastornata.
«Nulla… Nulla, Sarah.» John prende il blocchetto, cercando di ignorare la sensazione di nausea che gli sta risalendo a fiotti dalla gola. Si allontana dalla scrivania, sorridendo bonariamente alla donna. «Sono solo stanco» le spiega, sperando che possa essere sufficiente. Che basti anche all’uomo che, ancora interdetto, si è spostato di qualche passo verso la porta.
«Ho un’emicrania lancinante. Meglio che vada a casa» tenta di giustificarsi nuovamente, con tono pacato. «Ecco, prenda queste e vedrà che si sentirà subito meglio.» Tende la ricetta verso il paziente, aspettando che la riponga in una delle tasche dei pantaloni prima di salutarlo con una stretta di mano. L’uomo - superando Sarah per dirigersi nel corridoio - le lancia un’occhiata preoccupata, alla quale la donna si limita a rispondere con un sorriso.
«Ti serve qualcosa?» sillaba poi a bassa voce, voltandosi verso John.
«Starò bene» la rassicura lui, aiutandosi con un movimento del capo ad apparire convincente.
Sarah aspetta ancora qualche secondo, immobile sulla soglia. Poi, in silenzio, esce chiudendosi la porta alle spalle.
Non appena rimasto solo nella stanza, John si trascina lento verso il divano logoro di fianco alla scrivania. Sente la testa girare, e lo stomaco contrarsi. Se non fosse del tutto assurdo, attribuirebbe quanto sta provando alla più comune delle fasi discendenti di un’assunzione massiccia di stupefacenti.
Si lascia cadere con un tonfo tra i cuscini sbiaditi, prendendosi la testa tra le mani.
 
«Mi scoppia la testa…» sussurra, chiudendo gli occhi. Prende un respiro profondo e, per un istante, l’odore di legna che arde gli riempie i polmoni. Lo sente nel naso, in bocca, nella gola.
Tossisce, spalancando gli occhi in un luogo che non ha mai visto prima.
È sempre su un divano ma, adesso, di fronte a lui c’è un piccolo tavolino da caffè ricolmo di oggetti.
 
«Mi scoppia la testa…» sente dire ad una voce alla propria sinistra. D’istinto, si volta in direzione della fonte di quelle parole, trovandosi a pochi centimetri da una massa caotica e disordinata di capelli neri, stretta tra le dita di un uomo piegato in avanti, seduto di fianco a lui.
 
 
 
  2.  
 
 
 
«Mi scoppia la testa…» Sherlock allontana le mani dalle tempie e socchiude gli occhi. Un odore che non riesce a riconoscere gli riempie le narici. Sembra dopobarba, di quelli che è solito attribuire – durante le indagini nelle quali aiuta la polizia – a uomini dal temperamento mite che permettono alle proprie compagne di decidere quale profumo ricercato, e di loro gradimento, debbano indossare.
Aggrotta la fronte, confuso, girandosi verso destra.
Per qualche secondo, senza un motivo preciso, il ritrovarsi a pochi centimetri da un perfetto estraneo non sembra turbarlo. Anzi, una parte del suo cervello registra il pensiero che la presenza di quell’uomo in camice bianco –  che lo osserva con le labbra socchiuse e gli occhi sgranati – nel proprio salotto sia, in verità, la cosa più naturale che gli sia mai capitata. Naturale come il battito del cuore che spinge il sangue nelle arterie, o il fatto stesso di respirare.
Come il primo vagito.
Poi, il raziocinio – che da sempre ha elevato a perno centrale della propria esistenza – riprende il controllo, fornendogli una spiegazione razionale a quanto sta vedendo.
«Sei un’allucinazione» afferma, inclinando appena la testa da un lato. «Forse dovrei abbassare il quantitativo di...»
«Morfina?» lo interrompe John, spostando gli occhi sulla siringa poggiata sopra il tavolino di fronte a loro. «Non causa allucinazioni, la morfina» aggiunge, mordendosi le labbra subito dopo. La morfina non darà allucinazioni, ma è quasi sicuro di starne vivendo una proprio in quel momento. E intraprendere una discussione medica all’interno di un delirio dovuto a chissà quali fattori scatenanti non gli sembra un’idea sensata.
«Sto avendo un ictus…» aggiunge poco dopo, annuendo con forza. «Sto avendo un ictus e morirò a breve» conclude, certo di aver compreso l’origine clinica di quanto sta vivendo.
 
«Non vedo perché dovresti morire.» Sherlock, ancora seduto accanto a lui, si alza con un movimento rapido.
«Non saprei… Forse perché si può morire, per un ictus?» risponde John, sollevando lo sguardo su l’altro per cercare di capire dove stia andando. «Ma che diavolo…» esala, sorpreso, vedendolo passeggiare con espressione attenta e curiosa all’interno del proprio studio.
«Sei in ospedale… Non si muore di ictus, se si è già in ospedale» commenta Sherlock, chinandosi per leggere la targhetta metallica appoggiata al centro della scrivania. «Dottor John H. Watson» sillaba, spostando poi la testa verso John, ancora seduto sul divano. «Lavori qui?» domanda, tornando in posizione eretta e riprendendo a camminare.
«Lo sai, che lavoro qui. Sei un’allucinazione. Sei nella mia testa.» John si lascia andare ad un respiro profondo, portandosi le mani al viso.
«Se stessi avendo un ictus, adesso non potresti praticamente più muoverti.» Sherlock si ferma davanti al muro di fianco alla porta d’ingresso, spostando gli occhi su le varie pergamene incorniciate.
«Sei un medico militare» afferma dopo qualche secondo, ancora immobile davanti alla parete.
«Lo sono stato.» John si alza, iniziando a muoversi avanti e indietro, usando come guida le fughe delle mattonelle chiare che rivestono il pavimento.
«Vedi? Non è un ictus» commenta con tono ovvio Sherlock, senza voltarsi.
«Se non sto avendo un ictus, la tua presenza qui è ancora più preoccupante. Te ne rendi conto, vero?»
 
«Divertente…» commenta John solo un attimo dopo, accorgendosi di essere nuovamente nel salotto in penombra. Il fuoco si sta spengendo, e l’ambiente sta diventando più freddo. «È preoccupante anche la mia presenza qui» specifica.
«Condivido. E, ciononostante, non riesco a pensare ad un solo modo per poterti aiutare a sparire. Immagino che dovrai semplicemente attendere che l’effetto della morfina si attenui» considera Sherlock, con tono basso, recuperando il violino dalla propria poltrona e prendendo posto sulla seduta.
«La morfina non genera allucinazioni» ripete John, senza riuscire nemmeno a capire perché lo stia facendo.
«Gli ictus limitano le abilità fisiche, spesso quelle legate al linguaggio» ribatte l’altro, imbracciando il violino.
Sta per appoggiare l’archetto sulle corde, quando lo schermo del cellulare che ha abbandonato ore prima sul tavolino da caffè si illumina. Si voltano entrambi a guardarlo. John, in piedi a pochi passi dal divano, si sporge per leggere il nome sul display.
«Mycroft?» domanda Sherlock, con uno sbuffo.
«Mycroft» conferma il medico, aggrottando le sopracciglia poco dopo. «Che nome è, “Mycroft”?»
«Che nome è, “Hamish”?» ribatte l’altro, e John si volta a guardarlo con aria sorpresa.
«Come… ah, già. Sei nella mia testa» si ricorda quasi subito, tornando a fissare il cellulare.
«Tecnicamente, sei tu ad essere nella mia.» Sherlock porta nuovamente l’archetto sulle corde. «Tecnicamente, sbagliate entrambi. Perché non sei solo, dico bene?» Una voce, piatta, distaccata, riecheggia tra le pareti del salotto. Sherlock alza gli occhi al cielo, lasciandosi andare ad un profondo sospiro. Appoggia il violino al fianco della poltrona, e si alza.
«Che accidenti ci fai, qui? C’è un motivo, se non rispondo alle tue chiamate» soffia, e John, confuso, sposta gli occhi nel punto dove l’altro sta guardando con astio profondo.
«Con chi parli?» domanda, preoccupato che la sua allucinazione stia peggiorando.
«Secondo te con chi parlo? Con l’uomo in completo sartoriale in piedi al centro del mio salotto» ribatte Sherlock, ostile.
«Quale uomo?» ribatte il medico, non riuscendo a vedere nulla oltre alla porta d’ingresso e il pianerottolo in penombra che si apre dietro di essa.
«Non confondere ulteriormente il tuo ospite, fratellino. Non può vedermi» risponde l’uomo, guardandosi attorno con aria attenta. «È un lui? O una lei?» chiede, nella voce una vaga nota di curiosità.
«È un’allucinazione, Mycroft. E inizio a pensare che lo sia anche tu.» Sherlock si porta a passo svelto vicino a lui, allungando una mano in sua direzione.
«Perfetto, le mie allucinazioni hanno allucinazioni a loro volta…» commenta John, lasciandosi cadere sul divano.
«Sei tu ad essere un’allucinazione da morfina» ripete Sherlock, senza voltarsi, mentre muove le dita avanti e indietro sul cotone lavorato della giacca di Mycroft.
«La morfina non dà allucinazioni» ribattono lui e John, insieme.
Sherlock chiude gli occhi e prende un profondo respiro, cercando di tenere sotto controllo la collera che inizia a sentir montare, come un’onda, al centro del petto.
«Dobbiamo parlare.» Mycroft abbassa la voce e la sua espressione diviene, se possibile, ancora più seria. «È di vitale importanza, per tutti noi. Compresa la persona che era qui con te fino ad un attimo fa.»
Sherlock riapre gli occhi e inclina la testa da un lato, lanciando al fratello uno sguardo penetrante.
In silenzio, si volta verso il divano, trovandolo vuoto.
«Come…?» si lascia sfuggire, pentendosi quasi subito di aver mostrato un, seppur minimo, turbamento di fronte all’altro.
«All’inizio è tutto difficile. Instabile.» Mycroft si avvia, con passo lento, verso la poltrona in stoffa posta di fronte a quella del fratello.
«Siediti, abbiamo molto di cui parlare.»
 
«John? John!»
La voce giunge lontana e, per un attimo, il medico non è sicuro di sentirla davvero.
Socchiude gli occhi, cautamente, trovandosi di fronte alla propria scrivania. È ancora seduto sul divano, ed il mal di testa si è solo leggermente affievolito.
«Sarah?» la chiama, girandosi verso l’ingresso dello studio.
«Perdonami, se sono entrata così… ho provato a bussare, ma non rispondevi…» cerca di giustificarsi lei, immobile un passo oltre la soglia. «Sei chiuso qui dentro da un’ora… Iniziavo a preoccuparmi» aggiunge, incrociando le braccia sul petto nel tentativo di nascondere dietro di esse il proprio nervosismo.
John sposta gli occhi sull’orologio appeso poco sopra la porta. Quasi mezzanotte.
«Dio… Mary mi ucciderà» sussurra, alzandosi velocemente dal divano.
«Grazie per avermi… – si blocca, incapace di trovare un termine adatto a rendere l’idea. Avvertito? Scosso? –  svegliato» decide infine, afferrando il cappotto appeso di fianco alla porta e superando la donna, diretto all’uscita.
«John…?» lo richiama lei, voltandosi in direzione del corridoio ma rimanendo immobile.
Lui si ferma, girandosi. Sarah ha un’espressione strana sul viso, e John non riesce a capire se sia preoccupazione, o timore.
«C’era qualcuno, con te?» chiede la donna, e lui socchiude le labbra per la sorpresa.
«No… no. Perché lo chiedi?» indaga, deglutendo a fatica e chiudendo ad intervalli regolari i pugni, per poi tornare a rilassare le dita.
«Mi è parso di sentire…» comincia lei, bloccandosi subito dopo. Si morde le labbra, e sembra che un pensiero le stia appesantendo l’anima stessa. «Nulla. Non importa. Solo… sta attento, ok?» termina, sciogliendo le braccia e iniziando a muoversi verso il desk.
«Certo… ok» balbetta John, celando il turbamento dietro ad un rapido cenno del capo.
L’eco di un fuoco che riprende vigore gli attraversa le orecchie, ma cerca di ignorarlo. Si chiude il soprabito fino all’ultimo bottone, ed esce nel gelo della notte londinese.
 
 
 
  3.  
 
 
 
«E così le mie due nipotine scendono le scale, le mie piccoline… si arrampicano sul divano e si accoccolano tra le mie braccia.»
La voce metallica del televisore –  dal salotto –  giunge fino a John, in piedi nell’ingresso del suo piccolo appartamento a Fulham.
«Siamo molto legati, ma non si erano mai comportate così prima d'ora. Non ne avevamo idea, ma in quel preciso istante, mia sorella era al supermercato...» continua la voce di un uomo, rompendosi per l’emozione.
«Mary?» chiama John, con voce bassa ma udibile, in modo da non correre il rischio di svegliarla nel caso si fosse addormentata aspettandolo.
«Aveva cominciato a sanguinare copiosamente. Era un’emorragia interna, c’era sangue ovunque.
E avevano dovuto chiamare l'ambulanza, ma le mie nipotine lo sapevano. Chissà come, si sono accorte che non lei non stava bene.»
«Mary?» prova di nuovo, affacciandosi nella stanza e trovandola illuminata solo dalla luce cangiante dello schermo acceso.
«Si chiama "risonanza limbica". È una lingua più antica anche della nostra specie. Ha a che vedere con una sostanza chimica, la DMT. È una molecola semplice che si trova in tutti gli organismi viventi. Gli scienziati dicono sia parte integrante di una rete sinaptica eco-biologica» riprende una seconda voce, questa volta femminile. Il medico mette a fuoco, sul monitor, due persone sedute in uno studio televisivo dai colori sgargianti.
«Quelli che la assumono vedono la propria nascita, la propria morte e mondi ultraterreni. Parlano di una verità... di un legame... di trascendenza.»
«Trascendenza. Che idiozia» commenta una voce dietro di lui. Si volta di scatto, trovando Sherlock appoggiato allo stipite della porta che collega il salotto con l’ingresso. «La DMT, invece, è già più interessante. Spiegherebbe molte cose.»
«Che diavolo ci fai ancora…» esala il medico, ma una voce femminile, dall’altro lato della stanza, lo coglie di sorpresa.
«John! Sei tornato! Stavo per telefonare alla clinica!» Mary Morstan, capelli raccolti ed una tazza di the ben stretta tra le mani, compare attraverso il piccolo arco che dà sulla cucina.
«Scusami, mi sono addormentato…» le risponde John, cercando di apparire convincente.
Gira la testa verso l’ingresso, trovando il passaggio vuoto. Sollevato, copre rapidamente la distanza che lo separa dalla donna e le appoggia un bacio leggero sulle labbra. «È stata una giornata pesante.»
«Vieni, guarda con me un po’ di buona tivvù spazzatura» ride lei, accarezzandogli un braccio e prendendo posto sul divano, le gambe incrociate sopra la seduta.
«Sembra interessante…» scherza John, sedendosi di fianco a lei.
«Molto. Parlano di una fantomatica nuova specie di esseri umani. I “Sensorium”. Non
lo trovi meravigliosamente trash?» Mary si porta la tazza alle labbra, soffocando una risata.
John, con la coda dell’occhio, scorge di fianco alla finestra una sagoma che gli sembra familiare. Sta scuotendo la testa, e sembra inquieta.
«Sarah…?» si lascia scappare John, ma l’ombra è già sparita.
«Sarah?» ripete Mary, voltandosi con aria corrucciata verso di lui.
«Sarah… me ne ha parlato, mi pare» mente il medico, gli occhi ancora alla finestra.
«Forse dovreste scegliere gli impiegati con più attenzione…» scherza Mary, e si raggomitola sul suo petto.
«Sì…» si limita a commentare lui, spostando lo sguardo verso lo schermo. «Immagino di sì.»
 
 
«Quindi non saresti davvero qui.» Sherlock si muove impercettibilmente sulla poltrona, allargando le gambe e tamburellando nervosamente con le dita sui braccioli.
«Puoi venire a farmi visita, se lo desideri. Ma ti avverto: non è un bel posto, quello dove mi trovo.» Mycroft alza il mento, stirando le labbra in un sorriso triste.
«Continuo a ritenere la morfina la spiegazione più semplice e, quindi, l’unica possibile» ribatte il fratello inclinando la testa da un lato, con fare sostenuto.
«Una parte di te, invece, sa che questo è reale. Tutti capiamo quando le persone ci mentono. Tu, in special modo, hai fatto di questa particolare “sensibilità” un lavoro. Molti preferiscono semplicemente far finta di niente» continua l’altro, con tono piatto.
«Non è sensibilità, Mycroft. È capacità» ribatte Sherlock, secco.
«Tanti direbbero che non vi sia una grande differenza tra capacità, intuito, e sensibilità.» Mycroft chiude gli occhi per qualche secondo e, all’improvviso, appare profondamente stanco. Sherlock aggrotta le sopracciglia, sorpreso dal vedere il viso dell’altro tanto segnato. Stremato.
«Non ho molto tempo. Quindi ho bisogno che tu mi ascolti attentamente. Anche se non dovessi credere ad una sola delle parole che ti dirò, potrebbero comunque aiutarti, quando verrà a cercarti. A cercarvi
Sherlock deglutisce. Vorrebbe alzarsi, urlare a Mycroft di uscire da casa sua e di lasciarlo in pace. Invece resta seduto, immobile, preparandosi ad ascoltare qualcosa che, lo percepisce chiaramente, non riuscirà a comprendere del tutto. La cosa lo disturba, come lo infastidisce il dover dipendere dal fratello per avere delle informazioni che, in modo quasi atavico, avverte essere di vitale importanza.
«Perché dovrei credere a quello che mi dirai? Potresti essere solo un parto della mia immaginazione» obietta, ma resta in attesa, lo sguardo ben saldo sul viso dell’altro.
«Non devi credere, Sherlock. Già sai.» Mycroft socchiude gli occhi, ancorandoli a quelli del fratello, così simili ai suoi eppure tanto diversi, ancora morbidi, integri.
Capisce perché Greg abbia scelto lui. Eppure, non può che detestare il pensiero di aver messo il suo stesso sangue così in pericolo. Proprio lui, che ha passato una vita intera ad osservarlo da lontano, vigilando su ogni suo passo e tenendolo al sicuro sotto il lungo mantello della propria ombra protettrice.
«Non sei davvero qui, vero?» La domanda di Sherlock, quasi una presa d’atto della verità, non lo sorprende. È sempre stato particolarmente intuitivo. Perspicace. Un “dono”, come lo definiva con chiunque altro parlando di lui, senza mai farne menzione in sua presenza.
«No. Sono in isolamento» risponde Mycroft, abbozzando un sorriso stanco. «E temo che arriveranno a me molto presto.» Abbassa gli occhi e, per un attimo, può quasi sentire la pressione di un proiettile attraversargli la carne, facendosi largo nelle ossa del cranio. «Questo… lo chiamiamo "fare visita"» riprende, e sa che dovrà dire tutto, e in fretta, se vuole che Sherlock abbia almeno una possibilità di riuscita. «I membri di una cerchia lo fanno tra loro istintivamente. Al di fuori di un gruppo, si può far visita solo alle persone con le quali si è stabilito almeno un contatto visivo faccia a faccia.» Si ferma, cercando di capire se Sherlock stia riuscendo a seguirlo nel ragionamento. È certo che lo abbia compreso, a livello logico, ma ha bisogno che lo afferri in modo profondo, viscerale. «Chiunque fosse con te prima, quando sono arrivato… Ecco, lui fa parte della tua cerchia.»
«Quello che dici non ha alcun senso» replica il detective, scuotendo la testa.
«Sì, ne ha. E prima lo capirai, prima potrai imparare la differenza tra "visita", e "condivisione".» Il viso di Mycroft si contrae e, nonostante la penombra, Sherlock riesce a distinguere chiaramente il dolore che gli attraversa gli occhi. Vorrebbe domandargli cosa stia accadendo, ma avverte che non c’è più tempo. Lo legge nelle mani contratte del fratello, nel suo respiro che si è fatto più superficiale e veloce.
«Quello che sto facendo adesso, qui, con te, è una visita. La condivisione, invece, avviene esclusivamente all'interno del tuo gruppo» prosegue Mycroft, rinunciando al proprio usuale tono di voce distaccato. Deve interrompere quel contatto il prima possibile, lo sa. Deve rimanere solo ed isolarsi della rete, o non ci metteranno molto ad arrivare al fratello e, da lui, alla sua cerchia.
«Condivisione di cosa?» domanda Sherlock, ma crede di conoscere già la risposta.
«Conoscenze, lingue, capacità di ogni singolo componente del gruppo.» Mycroft si alza, a fatica. La testa pulsa così forte da non riuscire quasi a sentire i pensieri.
«Cos'è un gruppo?» gli chiede il fratello, alzandosi a sua volta.
«Quante persone ti hanno fatto visita, questa sera?»
«Una… uno. Un medico.»
«Bene. Allora, lui è il tuo gruppo» sussurra Mycroft, mentre un dolore sordo gli serra lo stomaco e spezza il respiro. Due. Sono stati solo in due, a nascere. I più forti, con molta probabilità.
«Cerca di fargli visita… Allenati… È importante…» dice, ma la sua voce giunge alle orecchie di Sherlock come lontana, disturbata.
«Mycroft?» lo chiama, muovendo un passo verso di lui.
«Mi dispiace» sussurra l’altro. Un secondo, il tempo di un battito di ciglia, ed il salotto è di nuovo vuoto. Nella luce fioca e tremula del camino, Sherlock corre fino al tavolino da caffè, afferrando il cellulare. Lo sblocca, portandoselo all’orecchio dopo aver composto il numero del fratello.
Riattacca dopo il sesto squillo, gettando con un ringhio collerico il telefono verso il divano.
Si passa una mano tra i capelli, sentendo la frustrazione risalire a fiotti lungo le vene.
Razionalmente, nulla di quanto ha visto, o sentito, gli appare reale.
Ma una piccola parte di sé, in un punto nascosto del suo Palazzo Mentale, sembra aver serenamente incamerato ed interiorizzato questa nuova visione del mondo. Come se l’idea di poter essere in contatto con qualcun altro, con John Watson, fosse naturale quanto il concetto stesso di esistenza.
È ancora immobile, concentrato sull’immagine del medico, quando rialzando lo sguardo si trova pochi passi dietro di lui.
Qualcuno, in un programma televisivo di dubbia affidabilità, sta discutendo di biologia associandola a discorsi dai tratti marcatamente New Age.
«Quelli che la assumono vedono la propria nascita, la propria morte e mondi ultraterreni. Parlano di una verità... di un legame... di trascendenza.»
«Trascendenza. Che idiozia» commenta Sherlock, di getto, appoggiandosi allo stipite della porta. «La DMT, invece, è già più interessante. Spiegherebbe molte cose» aggiunge, intravedendo una spiegazione logica e fisiologica dietro le parole del fratello.
«Che diavolo ci fai ancora…» esala John, girandosi verso di lui.
Sherlock sta per rispondere ma una voce femminile, dall’altro lato della stanza, lo distrae.
«John! Sei tornato! Stavo per telefonare alla clinica!»
Il detective chiude gli occhi per un secondo, stupito. Quando li riapre, è di nuovo a Baker Street.
È di nuovo solo.
E qualcosa – in mezzo al petto – duole e brucia, incendiando ogni respiro.
 
 
 
  4.  
 
 
 
John appoggia con attenzione la tazza, piena di the, sul tavolo della cucina. Una goccia –  in bilico sul bordo –  ondeggia qualche secondo prima di cadere verso l’esterno, precipitando in direzione del piattino.
Il rumore del fuoco che scoppietta nel camino –  che lo ha accompagnato per le ultime quattro ore –  è scomparso e, sorprendentemente, il silenzio che ha preso il suo posto gli ha lasciato un vuoto al centro del petto. Gli sembra quasi di essere stato staccato bruscamente da un “cordone ancestrale”, un filo atavico che legava il suo corpo a quello di qualcun altro, mescolando il loro sangue.
«È sempre così, finché non impari a gestirlo.» Una voce, alle sue spalle, lo coglie di sorpresa. Nel girarsi, il medico colpisce malamente la tazza, facendola finire a terra.
Sente il the, caldo, arrivare fino ai propri piedi scalzi, impregnando il parquet sul quale poggia le dita.
In piedi a pochi passi da lui, le braccia al petto e lo sguardo colpevole, Sarah osserva quel che resta della ceramica infranta.
«Perdonami…» balbetta. «Non dovrei farti visita in questo modo» aggiunge, spostandosi con passi lenti verso John. Lui, stordito, la segue con gli occhi, fin quando non la vede prendere posto sulla sedia accanto alla sua.
«Sarah… Che…» deglutisce, in cerca di ossigeno. «Cosa fai qui? Come sei entrata?» riesce a dire alla fine, dopo qualche tentativo.
«Non sono entrata, John. Sono qui perché tu, sei qui.»
La donna allunga una mano verso il medico che, d’istinto, si ritrae.
Non appena appoggiatosi allo schienale, però, si rende conto di non essere più seduto su una delle sedie di legno grezzo della propria cucina. Quella su cui si trova adesso ha lo schienale di pelle trattata, morbida, e il tavolino di fronte a lui è divenuto il ripiano lucido dell’isola di una cucina moderna.
«Che diavolo…» geme, guardandosi attorno. Sarah, un sorriso teso in bilico sulle labbra, è ancora seduta accanto a lui, ma la luce dell’ambiente – più calda e soffusa – la fa apparire meno spettrale.
«Lo so che adesso non riesci a capire…» incomincia lei, abbassando gli occhi per un secondo. «Ma so che puoi intuire.»  
«Intuire?» domanda lui, sentendo i propri muscoli rilassarsi, nonostante sappia perfettamente che – nello stato di tensione psicologica ed emotiva nel quale si trova – dovrebbero fare l’esatto opposto: tendersi. Indurirsi. Prepararsi alla fuga.
«Se ti domandassi qual è il primo nome… Il primo nome che ti viene in mente, se spingi la memoria il più possibile indietro nel tempo… Sapresti rispondermi?» Sarah inclina la testa da un lato, accompagnando la domanda con un sorriso incerto, ma rassicurante.
«Vuoi dirmi cosa sta succedendo?» risponde John, avvicinandosi a lei e abbassando la voce fino a farla divenire un sussurro. «Sto impazzendo?»
«No… tutt’altro» dice lei, rapida. «Sta solo diventando pienamente te stesso. Stai evolvendo
«Evolvendo…» ripete lui a mezza bocca, e – si rende conto con stupore – la spiegazione non gli sembra poi così strana.
«Ho bisogno del nome, John. O non saprò se posso fidarmi o meno» lo incalza Sarah, negli occhi una fugace ombra di angoscia.
«Il nome… Ok. Vediamo.» John serra gli occhi, così forte da sentire dolore.
Uno stralcio di conversazione, tra due persone che non conosce, gli giunge come un’eco lontana.
 
«Ti amo
«Greg…»
 
«Greg…?» ripete, incerto.
«Greg! Lo sapevo!» Sarah si alza in piedi, di scatto, e John spalanca gli occhi in risposta a quel movimento repentino. Sono di nuovo nella sua cucina, ed il the è stato quasi del tutto assorbito dal legno del pavimento.
«Chi è Greg?» chiede il medico, e non riesce a capire se l’agitazione che muove i passi dell’altra sia una frenesia buona o un’inquietudine incontenibile.
«Tuo padre. Vostro padre» risponde lei e, per un attimo, un pensiero sembra inchiodarla al suolo. Si blocca, girandosi nuovamente verso di lui. «Quanti siete? Quante… persone hai visto, fare quello che ho fatto io? Comparire in posti dov’eri?»
John socchiude le labbra, sorpreso.
«Quanti, John…!» lo incalza lei, e la tensione nella sua voce ha il potere di scuotere il medico dai propri pensieri.
«Una… una sola. Un uomo» risponde.
«Solo due…» riflette lei, portandosi le dita alle labbra e cominciando a torcerle, sovrappensiero.
«Solo due, cosa?» prova il medico, cercando di combattere la sensazione di agitazione che si sta facendo largo nei suoi respiri.
«Solo due come ultima cerchia a protezione di tutti noi da Whispers…»
«Whispers?» John sente le viscere contrarsi. A Baker Street, Sherlock – addormentato sulla poltrona – viene scosso da un brivido violento. Si sveglia di soprassalto, nelle orecchie il suono lontano di un vociare confuso.
«Lo chiamiamo Whispers, perché è come un bisbiglio continuo nella testa.» Sarah riprende a muoversi, scossa. «Verrà a cercarti. Ma tu non devi guardarlo negli occhi. Mai.»
«Io non capisco…» sussurra John, e la disperazione che gli rompe la voce sembra placare la smania che agita i passi della donna.
Si ferma e, rapida, torna a sedersi accanto a lui.
«Greg lavorava con Whispers» inizia, con voce bassa e parole veloci. «Facevano… Facevano nascere dei gruppi. Greg, li faceva nascere. Ma non aveva capito cosa volesse Whispers davvero. Lui usava i nuovi nati per trovare gli altri. Dava la caccia a quelli come noi.»
«Quelli come noi? Cosa… cosa saremmo, noi
«Una nuova specie. Un’altra specie, se questa definizione può aiutarti a capire.» Sarah sorride, un sorriso amaro, triste. «Un anello nato nella tappa evolutiva tra i Floresiensis e i Sapiens. Un anello fatto sparire, nascosto.»
«Perché qualcuno dovrebbe far sparire una specie intera?» John aggrotta le sopracciglia. Qualcosa però, in una parte recondita della sua mente, gli ha già fornito una risposta valida, per quanto crudele.
«Perché i Sapiens distruggono tutto ciò che percepiscano come una minaccia. E questo lo avevano capito già i nostri antenati, venticinquemila anni fa» conferma Sarah, quasi fosse riuscita a leggere tra le ombre negli occhi dell’altro i timori che gli affollano la mente.
«Whispers… è un Sapiens?» chiede John e la donna, per una frazione di secondo, appare sollevata. Sta capendo, e imparando, più in fretta di quanto avesse immaginato. Sperato.
«Sì. Ma vorrebbe essere come noi.»
«Noi…» ripete John, distrattamente. «Ancora non riesco a capire…»
 «Mio padre, poco dopo la mia nascita, mi disse una cosa che ho sempre portato con me. Forse è ciò che mi ha tenuto in vita fino ad ora.» La donna chiude gli occhi, cercando le definizioni più adatte a rendere concretamente, a parole, quello che all’epoca era stato solo un insegnamento sentimentale, viscerale, rilasciato attraverso uno flusso silenzioso di emozioni.
«Mi disse che ciò che ci rende quello che siamo è molto meno importante di ciò che rende loro quello che sono. Alla fine non conta chi è nato prima, o chi si creda l’unica specie padrona di ogni cosa. Conta solo che una minuscola mutazione cromosomica, più di ventimila anni fa, sia bastata a spezzare il loro legame con la natura. Con gli altri. L'isolamento gli ha permesso di concentrarsi sulla cosa che riesce loro meglio rispetto a qualsiasi altra specie mai esistita. Uccidere. È facile uccidere, se non senti niente.»
«Gli uomini non sono tutti così…» protesta John, mentre ripensa a quanti commilitoni, quanti amici avevano messo la loro stessa a vita a repentaglio, nel tentativo di proteggere quella altrui.
«No… ma i più crudeli tra loro lo sono. E Whispers è l’incarnazione stessa del male.» Il volto di Sarah si contrae e, per qualche secondo, John è convinto che stia per morire di dolore. La sofferenza che le legge tra i lineamenti irrigiditi lo spaventa, perché la conosce bene. L’ha vista mille volte, su facce diverse, in luoghi lontani. È la disperazione dell’agonia che precede la morte, quell’attimo di puro terrore che fa spalancare gli occhi prima di svuotarli della loro luce.
«Quanti… quanti eravate?» le domanda, e sa di dover usare il passato, per chiederle della sua cerchia. Lo sente, perché ha compreso che ogni lacrima che ora le bagna il volto non è che il ricordo di una vita spezzata.
«Otto. Siamo sopravvissuti in due…» geme Sarah, e scuote la testa, come se il movimento l’aiutasse a dimenticare. «Presto scoprirai che le sensazioni che provi… le emozioni… non sono più solo tue. Persino nella morte, non sarai solo. Proteggi te stesso, John. E proteggi l’uomo che ti ha fatto visita, ad ogni costo.»
Alle loro spalle si accende una luce leggera, proveniente dal salotto. Il medico non si volta, ma sa che fra qualche secondo Mary comparirà sulla soglia, preoccupata di non averlo trovato vicino a sé, al risveglio.
«Devo andare.» Sarah gli sfiora con una mano il braccio, un tocco leggero, veloce, ma che John riesce a sentire sulla pelle con la stessa intensità con la quale percepisce il pavimento freddo sotto i propri piedi.
Annuisce, e porta una mano sopra quella della donna. «Grazie» sillaba, in silenzio, e l’altra abbozza un sorriso teso prima di sparire.
John guarda la propria mano svuotarsi, ricadendo sul suo stesso braccio. Per qualche secondo non riesce a pensare ad altro che al tepore. Il lieve calore della mano di Sarah ancora immobile al centro della sua, una sensazione che – più di ogni altra – lo forza a credere che fosse davvero lì, con lui, fino ad un attimo prima.
«John…?» Mary si affaccia in cucina, le braccia strette al petto a chiudere la vestaglia di cotone leggero.
«Mary» risponde lui, e sente la propria voce tremare.
«Va tutto bene?» chiede lei, avvicinandosi con passo incerto. Si ferma dopo poco, avvertendo un liquido freddo bagnarle i piedi. Abbassa la testa, scoprendo i resti della tazza infranta.
«Ho colpito il tavolo per sbaglio» l’anticipa John, e si sente un traditore.
«Non importa, ti do una mano a sistemare» ribatte lei, chinandosi per afferrare i pezzi di ceramica.
«No… no.» John la ferma, scendendo dalla sedia e abbassandosi a sua volta. «Torna a letto. Arrivo subito, promesso.»
Lei si ferma, guardandolo con aria corrucciata.
«Davvero, ci metto un secondo. Io ho fatto il danno, io lo sistemo» insiste lui, sorridendole.
«Ok…» cede Mary dopo un attimo, rialzandosi. «Se hai problemi a prendere sonno possiamo vedere un po’ di televisione» propone, ma il medico scuote la testa con forza.
«Salgo tra poco. Davvero» le dice, iniziando a radunare i pezzi.
Lei annuisce, in silenzio. Lentamente si avvia verso il salotto, voltandosi a guardarlo una volta arrivata alla porta.
Lui rialza la testa, e le sorride di nuovo. «Arrivo» ripete, e Mary sembra convincersi. Esce, spengendo la luce del salotto qualche secondo dopo.
John rimane a fissare la porta, mordendosi un labbro. Poi riprende ad avvicinare i cocci, per poterli raccogliere. Uno, particolarmente aguzzo, gli ferisce il palmo della mano sinistra, entrando sotto pelle. Dolorante, soffoca un gemito di frustrazione, guardando il sangue cominciare ad uscire dalla piccola ferita.
 
Sherlock, a qualche miglio di distanza, sente qualcosa attraversargli la mano sinistra. Abbassa in fretta il violino, fissandosi il palmo, intonso, con aria stupita. Il tempo di chiudere gli occhi per ritrovare la concentrazione, ed il salotto diviene una cucina dai mobili chiari in legno trattato. John, ancora inginocchiato di fianco al tavolo, osserva con attenzione la ferita che si allarga sulla parte interna della propria mano sinistra, e sembra più stanco e affaticato di qualche ora prima. Sherlock si morde un labbro, in silenzio, concentrandosi su come i movimenti compiuti dall’altro intorno alla lesione sembrino ripercuotersi direttamente sul proprio corpo. Sente tirare, bruciare, e vorrebbe quasi chinarsi di fronte a lui per dirgli di fermarsi. Che non è necessario punirsi per una bugia che era obbligato a raccontare.
«Sei un medico, per l’amore del cielo. Fa’ qualcosa, invece di continuare a slabbrare i bordi!» dice invece, e può percepire il cuore di John aumentare i battiti. Lo avverte dentro la propria gabbia toracica, quasi si trovasse a pochi centimetri dal proprio.
«Non prendo ordini da un’allucinazione. Soprattutto da una della quale non so neanche il nome» ribatte il medico, più per colpire l’altro nell’orgoglio che per reale convincimento che si tratti ancora di una fantasia, un parto della propria mente.
Sherlock sbatte un paio di volte le palpebre, con fare oltraggiato. «Non sono un’allucinazione, e lo sai. Lo so, che lo sai» sbotta, allungando l’archetto verso l’altro. «Ad ogni modo, il nome è Sherlock Holmes.»
«Che razza di nome è, Sherlock?» domanda John, e già sa quale sarà la risposta che otterrà.
«Che razza di nome è, Hamish?» risponde l’altro quasi subito, ed il medico si apre in un sorriso divertito.
«È il mio secondo nome…» Alza le spalle, con noncuranza, finendo di radunare i cocci.
«Anche Sherlock è il mio secondo nome. Ne ho tre, nel caso ti possa interessare.» Sherlock imbraccia il violino con un movimento largo e plateale, dandogli le spalle.
«Lo… so. Credo» ribatte John, raccogliendo quanto resta della tazza e avvicinandosi al cestino della spazzatura, di fianco al mobile del lavello. «Che problemi hai con il nome William?» chiede, mentre l’appellativo compare a chiare lettere nella sua mente.
«È banale» borbotta l’altro, cominciando a suonare.
«Già… la banalità, il grande male del nostro secolo!» Il medico afferra uno straccio pulito, tornando vicino al tavolo. Prima di chinarsi per asciugare quanto resta del the, lancia un’occhiata alla schiena dell’altro, dritta e tesa sotto il cotone leggero della vestaglia.
«Sei bravo, a suonare…» sussurra, appoggiandosi alla seduta della sedia con una mano, per aiutarsi.
«E tu sei un bravo medico. Di quelli a cui interessa davvero della vita delle persone» risponde Sherlock, senza voltarsi.
«Sì… credo di sì.» John, finito il proprio lavoro di asciugatura, torna in posizione eretta. Si passa una mano sulla fronte e, per un attimo, sembra bloccarsi. Sta pensando, e i pensieri sono come ombre nere che si addensano tra loro. Sherlock può sentire la fatica del ragionamento dell’altro, la percepisce nella testa, attaccata alla propria mente come un fardello.
«Sherlock…» Il suono del suo nome, pronunciato dalla voce del medico, lo costringe a fermarsi. Smette di suonare e, lentamente, si gira verso di lui.
«Ho avuto una visita, questa sera…» comincia John, e sembra terribilmente spossato. «Oltre alla tua» precisa, allargando le mani.
«Anche io ne ho avuta una» ribatte Sherlock, serio.
«Mycroft?» chiede il medico, e l’altro alza appena il mento, sorpreso. Annuisce, rimanendo in silenzio.
«Ti ha parlato, per caso, di un certo Whispers? La mia visita ne era molto spaventata.» John si porta le braccia al petto, incrociandole. Indietreggia di un passo, appoggiandosi al tavolino.
«No. Ma ha detto che era importante che imparassi a farti visita. Che capissi in fretta come funziona questa… cosa.» Allarga le braccia, il violino ancora ben stretto nella mano sinistra, e intorno a loro il salotto di Baker Street sembra per un attimo più freddo.
«Vuole che capiamo come spostarci?» chiede John, adesso appoggiato al tavolo di legno al centro della stanza, tra le due grandi finestre che dominano l’ambiente.
«Non credo che sia una cosa che “si fa”. Credo sia più qualcosa che “accade”. Dobbiamo capire solo come farlo accadere.» Sherlock appoggia lo strumento alla poltrona, e si siede accavallando le gambe. «Ma questo Whispers… potrebbe essere la minaccia alla quale accennava Mycroft. Quella dalla quale cercava di nascondersi» riflette, portandosi le labbra tra i denti. «Cosa ti ha detto, esattamente, il tuo visitatore?»
La luce del salotto è di nuovo accesa, e loro sono nuovamente in cucina.
John lancia un’occhiata rapida a Sherlock, ancora seduto sulla poltrona che però, ora, si trova a pochi passi di fornelli.
«Devo andare.» Il medico gli passa accanto, veloce, ma Sherlock gli blocca un polso, impedendogli di proseguire.
John si ferma, girandosi a guardarlo con aria sorpresa.
«Che fai? Lasciami!» sussurra, chinandosi appena verso l’altro.
«Perché lo fai?» gli domanda Sherlock, l’azzurro delle iridi liquido e cangiante.
«Faccio cosa?» ribatte il medico, abbassando ancora di più la voce.
«Continui a mentire a te stesso. Ogni mattina, e ogni sera» risponde l’altro e, per un attimo, sembra quasi amareggiato.
«Io non mento a me stesso! E ora lasciami!» gli intima John, dando uno strattone più forte.
Mary –  di nuovo in piedi nello specchio della porta –  lo trova così, un braccio alzato e la schiena curva, come se stesse parlando ad un bambino.
«John…?» prova, con voce incerta.
«Eccomi» risponde lui, lasciando un ultimo sguardo nel punto dove Sherlock è appena scomparso. «Andiamo a dormire» aggiunge, portandosi velocemente vicino a lei. «Prometto di non alzarmi più.»
 
Sherlock, a Baker Street, si guarda attorno.
È di nuovo solo e, per la prima volta in tutta la vita, si sente vulnerabile. Esposto.
Indifeso.
Ha bisogno di risposte, subito. Chiude gli occhi e si concentra, cercando di mettere a fuoco la figura del fratello, seduto nella poltrona di fronte alla sua.
«Mycroft?» prova, a mezza voce. «Ho bisogno di parlarti.»
Passa qualche minuto. Nel salotto, l’unico rumore udibile è quello della legna che arde nel camino.
Poi, quando sta per arrendersi, una voce malferma lo raggiunge. Appare lontana, all’inizio, ma diviene sempre più forte ad ogni parola.
«Bene…» gli sussurra, e sembra soddisfatta. «Hai impiegato decisamente meno tempo di me, a capire come funzioni. Non spaventarti per quello che vedrai aprendo gli occhi, fratello caro. Purtroppo, al momento non posso fare altro.»
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Poche, pochissime serie televisive mi hanno conquistata, e fatta perdutamente innamorare, fin dalla prima scena. Una è Sherlock, com’era forse facilmente intuibile. XD
Poi è stato il turno di Hannibal.
Alla fine, quando ero convinta che non avrei mai potuto appassionarmi così tanto a qualcosa, è arrivata sense8.
Chi l’ha vista, potrà capirmi. Una serie coraggiosa, libera, commovente, a tratti crudele.
Se siete in dubbio sul cominciarla o meno, fatelo senza ulteriori indugi.
Ho pensato a lungo a come poter far convivere questi due universi, così lontani tra loro, in modo da poter racchiudere in una sola storia due dei miei affetti televisivi più grandi.
Dopo aver iniziato a scrivere, mi sono scontrata quasi subito con la difficoltà di rendere “a parole” il fascino della condivisione che così meravigliosamente, a livello visivo, sense8 riesce a raccontare attraverso i più disparati e suggestivi cambi di scena.
Dopo aver scritto quasi 50 pagine, non sono comunque sicura di esserci riuscita.
Ma se fossi riuscita a trasmettere anche solo una piccola, microscopica parte di quello stupore, potrei dirmi davvero, davvero felice.
 
Grazie di cuore, come sempre, a chiunque abbia letto fin qui.
 
L’appuntamento è per sabato 27. ^_^
 
A presto,
B. 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2 ***


 
 

 
 
 
"The real violence… the violence that I realized was unforgivable is the violence that we do to ourselves, when we’re too afraid to be who we really are."

["La vera violenza, quella che ho capito essere imperdonabile, è quella che facciamo a noi stessi, quando siamo troppo spaventati per essere ciò che siamo realmente."]

(Nomi a Lito – sense8 – 1x09)
 
 
 
 
 
 5. 
 
 
 
Nella penombra, la sagoma di Mycroft Holmes è poco più di una macchia scura che si confonde con le altre. Attorno a loro il silenzio è completo, e Sherlock ha la sensazione di essersi risvegliato in un limbo sospeso nello spazio e nel tempo.
«Cos’è questo posto?» chiede, sentendo le parole sparire non appena uscite dalle sue labbra. «Non riesco a capire dove siamo.»
«È una camera di privazione sensoriale. Un luogo senza alcun tipo di indizio utile al suo riconoscimento. Senza input, di nessun genere» risponde Mycroft, e la sua voce sembra sgorgare direttamente nei timpani di Sherlock. «E siamo qui perché non far capire dove mi trovi è esattamente quello che voglio.»
«Perché?» ribatte il fratello ma, in parte, è convinto di possedere già la risposta.
«Whispers. Viene a farmi visita, ogni tanto. Cerca di trovarmi» conferma Mycroft e, per un attimo, il vuoto che li circonda sembra tremare.
«Chi è, Whispers?» Sherlock non è certo di come il proprio corpo sia distribuito nello spazio. Potrebbe essere seduto come disteso, e la cosa lo irrita e turba in equale misura.
«Whispers è un cannibale.» La voce del maggiore si abbassa, come il tremore della sua eco nelle orecchie di Sherlock. «Lui si nutre di quelli come noi, in cerca della propria evoluzione personale. Vuole possederci… comandarci… e, nel caso non sia possibile soggiogarci alla sua volontà, distruggerci.»
«Un cacciatore» cerca di riassumere Sherlock, ma il termine scelto gli sembra – non appena pronunciato - terribilmente inadeguato, carente.
«È un predatore. Un distruttore» lo corregge Mycroft. Tuttavia, da quanto il detective riesce a capire dal suo tono di voce, il fratello apprezza il suo tentativo di trovare una definizione adatta a descrivere Whispers senza ricorrere a troppi aggettivi. «Vuole capire come divenire simile a noi, per poi condurre il resto della nostra razza all’estinzione.»
Per qualche secondo un silenzio completo, irreale, li avvolge.
È così denso, così pieno, che Sherlock lo avverte entrare sotto la pelle.
«Da quanto… lo sai?» chiede, quando sente persino la propria coscienza sul punto di sparire, fagocitata da quel vuoto smisurato.
«Da quando sono nato. O meglio, da quando la mia natura si è rivelata con la mia seconda nascita.» Mycroft sospira. Sembra così lontano nel tempo, quel momento. Eppure, nella sua memoria, è così vicino da apparire ad un solo passo – un rapido battere di ciglia - da loro.
«Avresti dovuto dirmelo» ribatte Sherlock.
«Mi avresti creduto?» risponde prontamente l’altro, una lieve ironia nella voce. «Ci avresti creduto, senza poterlo vedere
«Perché adesso? Perché io» domanda il detective, cercando di ritrovare la percezione di se stesso all’interno di quel buio mutevole quanto immobile, statico. Costante.
«Quello che siamo è una semplice evoluzione biologica. Non si sceglie il proprio DNA, come non si può decidere quando verremo al mondo. Non ho mai avuto prove che, un giorno, la tua natura si sarebbe rivelata simile alla mia. Eppure, evidentemente, la genetica influisce su questo meccanismo in modo sostanziale.» Mycroft sembra più vicino, adesso, ma è poco più di una percezione.
«Con Greg ne abbiamo parlato a lungo, sai? Ci siamo chiesti per anni se io e te avremmo mai avuto modo di affrontare questo discorso. Lui era convinto che, prima o poi, saresti nato. Da uno di noi, probabilmente, perché eravamo gli unici a conoscerti così bene da riuscire a comprenderti.» La voce del maggiore si incrina leggermente, e Sherlock ha la sensazione che si stia mordendo le labbra fino a ferirsi.
«Greg? Intendi l’Ispettore Lestrade?» chiede, capendo solo in quel momento il rapporto che legava il fratello all’uomo al quale – quasi dieci anni prima – lo aveva presentato, chiedendogli di coinvolgerlo nelle sue indagini.
«Eravamo gli ultimi, della nostra cerchia. A quest’ora avranno già trovato il suo corpo, a St. Dunstan…» Mycroft si interrompe. Fatica a respirare. Boccheggia, in cerca d’aria. «Ma prima dovevamo tentare un’ultima volta. Un’ultima nascita, per cercare di fermarlo. Avrei dovuto essere io, ma… Greg vi stava già cercando. È sempre stato più bravo di me, in questo. A… dare la vita. Anche dopo aver visto morire ogni figlio al quale aveva dato la luce, riusciva ancora a credere che, alla fine, saremmo sopravvissuti.»
Di nuovo il silenzio li avvolge, nascondendo una lacrima che, solitaria, si abbandona oltre le ciglia abbassate di Mycroft. L’uomo la sente scendere lenta lungo la guancia destra e, grato al buio che lo nasconde, attende che trovi da sola la strada verso le sue labbra, dove – in un tremito - muore pochi attimi dopo.
«Perché…» riprende Sherlock, titubante. «Perché dovevate provare un’ultima volta?» chiede, e sa che la verità più grande, quella fondamentale, è racchiusa nella risposta che riceverà.
 
«Perché molto di quello che Whispers conosce, lo conosce per colpa mia.»
 
Mycroft si scuote, prendendo un profondo respiro. «Quando l’ho conosciuto, il suo nome era James Moriarty.» Si ferma, richiamando a sé forze e ricordi. «Era un geniale e giovane professore di Oxford, e sapeva di noi. Aveva dedicato quasi tutti gli anni della sua formazione accademica a raccogliere dati, a ricercare tracce dei Sensorium attraverso i secoli. Mi chiese di coinvolgerlo nel progetto BPO
«BPO?» lo interrompe Sherlock.
«Biologic Preservation Organization.» Mycroft si blocca e, con lui, sembra trattenere il fiato il buio stesso che li avvolge. «Un organismo multi-nazionale e multi-governo di ricerca» riprende poco dopo, la voce affaticata. «Oggi la BPO studia soggetti Sapiens in cerca di mutazioni genetiche che possano renderli potenziali Homo Sensorium. Sensates, come noi. Una volta individuati, i soggetti vengono persuasi ad unirsi alla causa dell’organizzazione. In caso di rifiuto è prevista la lobotomia o, nella peggiore delle possibilità, la morte.»
Sherlock sente il respiro bloccarsi. Deglutisce, ma il nodo che gli stringe la gola non si allenta.
«In origine l’opera della BPO era completamente diversa…» riprende Mycroft, e spera di riuscire a raccontare la storia per intero. «Venne fondata nel 1952 dalla Dottoressa Ruth Al-Saadawi, una Sapiens. Sua sorella gemella, una Sensorium, era stata perseguitata, tacciata di stregoneria ed uccisa nel loro villaggio di origine, in Egitto» continua, le parole improvvisamente veloci. Sente, sa, di non avere più molto tempo, prima che Whispers torni a trovarlo. E, per allora, Sherlock dovrà già aver terminato la propria visita. «Per scongiurare che un destino simile potesse toccare a qualcun altro, convocò vari rappresentanti dell'Alleanza Atlantica, del Patto di Varsavia, della Lega Araba e della Cina. Si incontrarono nella base militare britannica di Cipro, per discutere l'esistenza dei Sensates – termine coniato proprio per quell’occasione dalla comunità scientifica che stava compiendo studi in merito alla loro natura – e, dopo settimane di dibattito intenso, tutte le delegazioni furono d'accordo ad estendere i diritti umani e di protezione anche alla nuova razza scoperta. La BPO avrebbe avuto il compito di proteggere e studiare i Sensates ed i loro potenziali benefici sull’evoluzione umana in generale. Tutto questo sotto nella massima segretezza, in modo da evitare panico e rivolte tra i Sapiens.»
«La BPO avrebbe dovuto proteggerli… proteggerci» analizza Sherlock a mezza voce, ripercorrendo velocemente quanto appena detto dal fratello. «Cosa ha cambiato il progetto iniziale?»
«Quello che ha cambiato ogni cosa nel mondo: l’11 settembre. Con la Guerra al Terrore, è cominciata tra i Sapiens una ancor più marcata diffidenza riguardo ai progetti secretati e verso il potere in generale. I Sensates iniziarono ad essere visti dai Governi come una minaccia ma, anche, come un bene potenziale. La funzione della BPO cambiò, come le sue priorità: passarono dal proteggere i Sensorium, al localizzarli per poterli rimuovere come minacce. Molti Sensates comprarono la propria sicurezza personale dalla BPO, vendendo le identità di appartenenti ad altre cerchie. I più onesti, ancora legati alla causa iniziale, si nascosero.»
La voce di Mycroft comincia a tremare, morbida come una fiamma piegata dal vento. Sherlock ha la sensazione, forte, irrazionale, che lo stia allontanando da sé. Vorrebbe chiedergliene il motivo, ma una parte di lui già lo conosce. Lo capisce.
«Anche se la maggioranza della BPO ha dimenticato la missione originale cominciata a Cipro, una fazione forte all'interno dell'organizzazione sta lottando per ritornare alla visione della Dottoressa Al-Saadawi…» continua il maggiore, le parole sempre più distanti.
«E tu sei tra quelli.»
«Sì. Ma ho commesso un grave errore. Ho creduto a Moriarty. Al fatto che desiderasse compiere studi sui Sensorium per aiutarci a svelarci, con lentezza e accortezza, ai Sapiens. Per venire allo scoperto e, finalmente, non aver più bisogno della BPO e dei suoi segreti. Invece gli ho fornito tutti i mezzi necessari per distruggerci. Ho messo io tra le sue mani gli strumenti che ha usato per analizzare, sezionare, mutilare e distruggere i miei stessi figli. E, alla fine, anche Greg.» La voce di Mycroft è quasi un sussurro, ora, e Sherlock sa di doverlo lasciare andare. Ha avuto tutte le informazioni necessarie per poter comprendere la natura del proprio avversario, e tentare di rimanere più a lungo in contatto con lui metterebbe solo maggiormente in pericolo la vita di Mycroft, se non quella di entrambi. E, con la loro, quella di John.
«Dimmi dove posso trovarlo» dice solo, in fretta, sentendosi scivolare via. Sta perdendo il contatto con il fratello, e non riesce quasi più a sentirne la presenza.
«Quando sarà il momento, sarà lui a trovare voi» risponde Mycroft, con la stessa intensità di un ricordo sbiadito dal tempo.
«Dovrei semplicemente aspettare?» ribatte l’altro, ma è già troppo tardi. Il 221b di Baker Street è di nuovo attorno a lui, vuoto.
Il camino si è spento.
E John dorme con le braccia di una donna bionda strette attorno al petto. Sherlock lo vede per un attimo, con la coda dell’occhio. Il loro letto è comparso sotto la porta tra il salotto e la cucina, mentre lui è solo un’ombra fugace nella camera dell’altro, di fianco all’armadio.
Un secondo, ed il contatto scompare.
In silenzio, lentamente, Sherlock si trascina fino al divano, lasciandocisi cadere sopra.
Le prime luci dell’alba filtrano attraverso la finestra, e il detective si domanda se la morfina potrebbe aiutarlo a dormire. Dopo qualche riflessione, desiste dall’idea di iniettarsi una nuova dose. Non è sicuro di come funzioni esattamente, la condivisione con John. Se lui è riuscito a sentire il dolore di una ferita sulla mano dell’altro, il medico potrebbe risentire degli effetti della morfina durante il proprio turno in clinica.
È la prima volta, riflette stupito, che pensa a come una sua azione potrebbe influire sulla vita di un’altra persona.
Non si è mai posto il problema, mai, neanche sulla scena di un crimine, con Lestrade a pochi passi da lui e…
«Lestrade…» sillaba, rialzandosi di scatto.
 
A quest’ora avranno già trovato il suo corpo, a St. Dunstan.
 
Sherlock, ancora in vestaglia, si dirige quasi correndo verso la propria camera.
Ne riemerge poco dopo, completamente vestito, ancora intento a sistemarsi la camicia nei pantaloni.
Frettolosamente afferra il cappotto, appeso dietro la porta del salotto, e si precipita giù per le scale.
Deve correre, se vuole arrivare in tempo.
Prima che la scientifica sposti ogni cosa.
Prima che Anderson, o Donovan, inquinino la scena senza nemmeno rendersene conto.
 
Prima che portino via Gregory Lestrade, impedendogli di salutarlo un’ultima volta.
 
 
 
 6. 
 
 
 
«Che ci fai qui, strambo?» Sally Donovan, in piedi oltre il nastro giallo e blu della polizia, inclina la testa da un lato e abbassa gli angoli della bocca verso il basso, in una smorfia di malcelato disgusto.
«Troppo tardi…» sospira Sherlock, in piedi a qualche passo da lei, prendendo un respiro profondo e chiudendo per qualche attimo gli occhi, cercando di tenere sotto controllo il fastidio.
«Ripeto: cosa ci fai qui, strambo? Hai ascoltato ancora una volta le trasmissioni radio della polizia? È un reato» insiste la donna, e il detective riapre gli occhi. Accanto a sé, i capelli spettinati e un pigiama azzurro di una taglia più grande, John Watson si blocca con lo spazzolino da denti ancora in mano.
«Non sembri andarle a genio» mugola, il dentifricio a riempirgli la bocca.
«È solo una piccola, triste, inutile, donna» risponde Sherlock, con fare irritato, comparendo dietro il medico nel suo bagno. John ne vede il riflesso nello specchio, ma continua a lavarsi i denti senza scomporsi.
«Come hai detto, scusa?» Donovan scioglie le braccia, che aveva incrociato sul petto solo un attimo prima, e il suo volto diviene una maschera d’ira. «Vuoi che ti arresti? Perché non ci sarà Lestrade ad impedirmelo, questa volta!» minaccia, e sia Sherlock che John sentono lo stomaco contrarsi.
«Vuoi che le dia una lezione?» domanda il medico, dopo aver sputato nel lavandino dentifricio ed acqua. «In missione ho imparato qualche mossa che potrebbe farle passare la voglia di parlarti così» spiega, appoggiando le mani al lavandino e guardando il riflesso di Sherlock dietro di lui.
«No, grazie» risponde il detective, rivolto al medico.
«Bene. Allora sparisci» gli intima Donovan, e Sherlock si porta le labbra tra i denti, cercando di calmarsi in modo da trovare le parole adeguate per farle capire quanto la disprezzi. Non ha mai faticato tanto, prima di quel momento, ma Lestrade è a pochi metri da loro, morto, e riesce quasi a sentire l’eco della sua disperazione arrivare fino ai pensieri, bloccandoli.
«È un suolo pubblico, quello dove mi trovo» comincia John, ma il detective sente la propria voce pronunciare le parole. Si volta verso l’altro, sorpreso, ma non è più accanto a lui. È, in un modo che non riesce a capire, né a spiegare, dentro di lui. «E sono a più di cinque metri dal nastro dietro alle tue spalle. Quindi, almeno che tu non abbia il potere di arrestare qualcuno per il solo fatto di esistere, rimarrò qui. E tu, te ne farai una ragione.»
John è di nuovo di fianco a lui. Osserva con occhi attenti la donna a pochi passi da loro, e tutta la sua natura di ex soldato è in mostra nella schiena dritta e le spalle tese.
«Fa’ come vuoi» ribatte dopo qualche secondo Donovan, la voce leggermente mal ferma. «Goditi pure il tuo ultimo spettacolo, sottospecie di psicopatico. Tanto non vedrai un’altra sola scena del crimine in tutto il resto della tua vita.»
«Psicopatico? Che razza di competenze mediche ha, questa donna?» scuote la testa John.
«Sociopatico ad alta funzionalità, Donovan» la corregge Sherlock, ed il medico si volta verso di lui, annuendo appena.
«Ecco, sociopatico mi sembra già più adatto, sì» conferma, passandosi una mano tra i capelli per riuscire a dargli un ordine.
«Grazie…» sussurra il detective, di nuovo dietro di lui, in bagno. A St. Dunstan, intanto, Sherlock dà le spalle a Donovan, in modo che non possa vederlo parlare.
«Come mai sei già sveglio? Hai fatto il turno di notte…» domanda e John, per un attimo, sembra perso.
«Ho la prova dell’abito, questa mattina» spiega, ma non sembra particolarmente entusiasta. Sherlock glielo legge nelle pieghe accennate attorno agli occhi, e in quelle più profonde vicino alle labbra.
«Certo. Ti sposi.» Sherlock si domanda come abbia fatto a non capirlo. Aveva percepito che l’altro fosse teso, che si sentisse in trappola. Che stesse mentendo, soprattutto a se stesso. Ma non aveva capito da cosa, o chi, stesse fuggendo. Adesso, immobili a pochi passi da dove - solo poche ore prima - qualcuno ha dato loro la vita, la luce, privandosi della propria, il detective riesce a vedere.
«Puoi sempre non farlo…» prova, e non saprebbe dire il perché, ma l’idea che possa succedere davvero gli accende una fiammella tiepida al centro del petto.
«No, non è vero.» John si sfila la maglia del pigiama. Sopra la spalla destra, una cicatrice infiammata si allunga fino a sfiorargli il collo. Sherlock socchiude le labbra, ma non ribatte. Continua a seguire il cheloide rosso che deturpa il rosa della carne sana dell’altro.
«E quello che stai fissando è esattamente il motivo per il quale devo farlo» spiega il medico, alzando uno sguardo veloce su l’altro. Sono di nuovo nel suo bagno, e afferra la maglietta appoggiata al lavandino per indossarla.
«Mary mi ha salvato la vita, in Afghanistan. Non posso… dirle semplicemente che ero confuso. Spaventato. Che era una bugia, e che l’ho capito solo adesso.»
«Era nel tuo gruppo?» domanda il detective, imbarazzato per l’essere stato scoperto, spostando lo sguardo per la stanza in attesa che l’altro si rivesta.
«No. Era una delle volontarie dell’infermeria.» John infila la maglietta con un movimento veloce. «Mi ha letteralmente salvato la vita.»
«Riconoscenza. Capisco» ribatte Sherlock. «Ma non condivido. Decidere di passare la vita con qualcuno non dovrebbe essere una moneta di scambio» continua, tornando con gli occhi sul viso dell’altro.
«Hai una ragazza?» gli chiede John, inclinando la testa da un lato.
«No. Le ragazze non sono esattamente il mio campo.» Sherlock piega il capo a sua volta, serio.
Il medico, per una frazione di secondo, appare spaesato. È solo un’ombra che gli scurisce gli occhi, ma il detective riesce a vederla distintamente.
«Un… ragazzo, allora? Andrebbe bene comunque» riprende John, dopo essersi schiarito la gola.
«Lo so, che andrebbe bene» ribatte il detective, brusco. «Ma no.»
Il medico resta immobile qualche secondo, cercando di capire cosa il suo corpo stia cercando di dirgli. Da quando, la sera prima, quell’uomo dagli occhi chiari è entrato nella sua vita, non è più sicuro di avere il pieno controllo delle proprie emozioni.
«John? Sei pronto?» Un leggero bussare alla porta del bagno li coglie entrambi di sorpresa. Si voltano, di scatto, e Sherlock scompare subito dopo.
John si ritrova a fissare l’uscio attraverso il punto dove, fino a qualche attimo prima, si trovava il corpo alto e magro dell’altro.
«John?» prova ancora Mary, a voce più alta.
«Arrivo!» le risponde lui, dopo poco.
Finisce di vestirsi in fretta, ma, per la prima volta dopo mesi, si domanda se stia davvero facendo la cosa giusta.
 
 
 
 7. 
 
 
 
Il corpo di Lestrade viene portato via un’ora più tardi.
Sherlock, per tutto il tempo, resta in piedi a distanza di sicurezza dal cordone della polizia, osservando gli uomini della scientifica, Anderson in testa, muoversi avanti e indietro tra l’esterno e l’interno della chiesa diroccata.
Il sole inonda i marciapiedi, una delle rare tregue dal maltempo londinese che però – in quel momento – gli appare quasi una beffa.
Sotto il cielo più limpido degli ultimi mesi, l’uomo che li ha messi al mondo viene spostato su una barella scura verso il carro funebre del coroner.
In una boutique di moda di Soho, John si immobilizza di fonte allo specchio, nel camerino.
Compare davanti a St. Dunstan poco dopo, un’ombra in abito elegante e sguardo serio che osserva i paramedici spostarsi attorno alla lettiga. In silenzio si avvicina a Sherlock, lasciando che le loro spalle si sfiorino.
Il detective si accorge solo in quel momento di quanto le sue siano tese, contratte. Espira profondamente, cercando di rilassare i muscoli.
«Dobbiamo parlare» gli sussurra dopo qualche secondo, senza staccare gli occhi dalle operazioni attorno al corpo di Lestrade.
«Lo so.» John si allenta la cravatta, con un gesto nervoso. «Sherlock…» aggiunge, esitante, poco dopo.
L’altro si volta verso di lui, rimanendo in silenzio.
«Sta succedendo davvero… non è vero?» chiede il medico, e la voce trema appena sotto l’onda della pressione. «Non sto immaginando ogni cosa… Non sto immaginando te» precisa, e non sa nemmeno bene perché lo stia facendo.
«Non lo so.» Sherlock scuote la testa. «Tu cosa senti?» domanda dopo un attimo, ma il medico è già sparito.
Alla sua sinistra, il viso segnato da una profonda sofferenza, è invece comparso Mycroft. I vestiti sembrano gli stessi della sera prima e, a giudicare dalla lieve peluria che gli adombra il viso, non ha potuto provvedere alla rasatura mattutina.
«E tu, fratello caro? Cosa senti?» gli chiede, osservando un uomo della scientifica chiudere il portellone della lunga berlina.
«Riguardo a cosa?» ribatte Sherlock, fingendo di non aver compreso a cosa il fratello stia facendo riferimento.
«La nascita è sempre un momento destabilizzante. Sovverte una situazione già esistente, la trasforma in modo profondo e totale. È come spalancare mille porte su parti di noi alle quali non abbiamo mai voluto dare ascolto. L’istinto. Le inclinazioni. Gli impulsi. All’improvviso è tutto lì, nelle nostre mani.» Mycroft attende di vedere l’auto sparire oltre una curva, prima di voltarsi verso il fratello. «L’incidenza di appartenenti ad una cerchia che finisce con l’istaurare un rapporto di tipo sentimentale, oltre che emotivo, è molto alta. C’è un motivo, se gli individui nascono in certi gruppi e non in altri. Potremmo chiamarle… affinità elettive
«Sei venuto fin qui dal tuo bunker per parlare di amore?» sbotta Sherlock, continuando a tenere gli occhi fissi davanti a sé.
«Sono venuto per dirgli addio» ribatte l’altro, con voce calma. «Ma la tua domanda all’appartenente alla tua cerchia mi ha ricordato di non averti spiegato una cosa di fondamentale importanza.» Mycroft chiude gli occhi, cercando le parole adatte. «Quello che ci unisce agli altri appartenenti del nostro gruppo è qualcosa che va oltre quello che decidiamo di tenere in superficie, di mostrare. Il legame è viscerale, atavico. Il più primitivo ed ancestrale istinto della nostra specie: la condivisione. Arriverà un momento, presto, nel quale troverai insopportabile l’idea di non condividere qualsiasi cosa con lui. Ti sembrerà di non poter respirare, senza che lui lo faccia a sua volta. Di non poter pensare, se lui sarà distratto. Più le cerchie sono ampie, più questa pulsione può diluirsi, nascondersi. Greg ed io siamo riusciti a nascondere ciò che provavamo per anni. Ma la tua cerchia è molto piccola. La più piccola unità possibile.» Mycroft si interrompe. Non è certo di essere riuscito a far capire a Sherlock cosa intenda trasmettergli.
«Stai dicendo che siamo destinati ad avere un legame sentimentale, perché è così che funziona?» risponde il detective, irritato.
«No. Sto dicendo che c’è un motivo se siete voi, gli ultimi rimasti. Innamorarsi non è un obbligo. Non lo è mai, per nessuno. Ma se dovesse accadere… combattere quello che provi potrebbe mettervi in pericolo più del cedervi. Basta un solo momento di debolezza, uno soltanto, per cadere nelle trappole disseminate da Whispers.»
«Hai sempre detto che i sentimenti sono una distrazione. Che sono loro, la debolezza» ringhia Sherlock, girandosi con sguardo collerico verso il fratello.
«Per i Sapiens, sì. Lo sono. Gli impediscono di vedere lucidamente, di capire. Per noi, invece, le emozioni sono la forma più alta di limpidezza di pensiero e di azione.» Mycroft prende un respiro profondo. La sua immagine, nel chiarore della fredda mattina londinese, trema appena. «Presto Whispers capirà dove sono, e manderà qualcuno a prendermi. Non ci vorrà molto, prima che abbia accesso alla mia mente e, in parte, ai ricordi che la abitano. Allora, verrà a cercarti. E se non potrà catturarti, cercherà di incrociare il tuo sguardo. Perché, una volta che vi sarete visti, potrà farti visita come chiunque altro appartenente ad una cerchia esterna. Nessun posto, a quel punto, sarà più sicuro.»
«È un Sapiens... come può fare una cosa del genere?» domanda Sherlock, spostando gli occhi da una parte all’altra, veloce, inseguendo un pensiero che sente vicino ma che non riesce del tutto ad afferrare.
«Le sue ricerche stanno dando i loro frutti. Non appena avrà capito come far nascere da solo una cerchia, sterminerà il resto di noi senza alcuna pietà. Gli archivi della BPO conservano ogni dato. Ogni nascita. Ogni nome, indirizzo, identità. Tranne…»
«Le nostre. Non conosce la nostra identità…» termina il detective. Tutto, all’improvviso, è divenuto estremamente chiaro. Luminoso, come il cielo sopra di loro.
«No. Greg si è ucciso prima che Whispers potesse carpire i vostri nomi. Ed è per questo che è importante, fondamentale, che tu capisca che non è quello che provi, ciò che devi combattere. Il nemico non sono le tue emozioni, anche se hai passato una vita intera a trattarle come tali.» Mycroft accenna un sorriso stanco, stremato. Desidera ardentemente che il fratello capisca. Che lo perdoni per ogni bugia. Che comprenda nei suoi silenzi perché – quando Whispers capirà dove si nasconda – non esiterà a far fuoco contro se stesso, nella speranza che basti a dare a lui e alla sua cerchia il tempo sufficiente a trovare un modo per fermarlo.
«Stai per morire… non è vero?» chiede Sherlock, atono, un nodo stretto in gola che cerca con ogni mezzo di ignorare.
«Se sarà necessario» è la lapidaria risposta dell’altro, e nessuno dei due ha bisogno di aggiungere altro.
Si guardano, muti, e per entrambi quello sguardo difficile è un addio velato.
«Non tornerò più a farti visita. È troppo pericoloso» riprende Mycroft dopo qualche secondo.
Sherlock annuisce, senza trovare le parole adatte ad un saluto che non si sente pronto a fare.
«Ho sempre detestato i tuoi consigli» sussurra alla fine, abbassando gli occhi per un attimo.
«Lo so.» Mycroft allunga una mano verso di lui, appoggiandola velocemente sulla sua spalla. «Se puoi, ascoltami almeno questa volta» dice, e il suo tocco si è fatto già più leggero. Sherlock annuisce, le mani affondate nelle tasche e la mente piena di parole che – lo sa – non usciranno mai dalle sue labbra piegate in un sorriso amaro.
Il tempo di un battito di ciglia, e Mycroft scompare.
Davanti alla chiesa resta qualche curioso, ed un agente incaricato di delimitare la zona fino a nuovo ordine.
Il detective, con le mani ancora in tasca, lancia un’ultima occhiata attorno a sé. Poi, lento, si avvia verso Baker Street.
In cerca di risposte.
 
 
 
 8. 
 
 
 
«Ahi!» Mary allontana il piede da John e gli lascia le mani. Con un’espressione dolorante sul viso si china per toccarsi la zona dove, un attimo prima, l’uomo le ha dato un calcio senza rendersene conto.
«Dobbiamo ballare, non picchiarci!» scherza, ma il medico, fermo a pochi passi da lei, è diventato paonazzo.
«Non sono proprio capace, mi dispiace!» dice, avvicinandosi per toccarle un braccio.
«Imparerai…» sorride la donna, tornando in posizione eretta. «È il primo ballo, ogni novello sposo deve farlo!» aggiunge, prendendo nuovamente la mano dell’uomo e aspettando che John le poggi quella libera su un fianco.
«Pronto?» gli domanda, e il medico annuisce con poca convinzione.
«Prima che cominci il tuo turno voglio assolutamente riuscire a farlo almeno una volta.» Mary trattiene il fiato, in attesa che il suo cavaliere muova il primo passo.
John barcolla e, goffo e impacciato, comincia a muoversi lungo il salotto.
«Potresti abbassare la musica? Sto cercando di fare una ricerca sul deep web, e questo valzer di infimo livello non aiuta la mia concentrazione.»
John, gli occhi sgranati e il fiato spezzato, passa danzando davanti a Sherlock, immobile vicino alla porta di ingresso nella stanza. Controlla che Mary non lo stia guardando, e lancia uno sguardo furente in sua direzione.
«Tra l’altro stai sbagliando ogni passo» rincara la dose il detective, alzando gli occhi verso il soffitto. «Non è così, che si guida un ballo.»
John prende un respiro profondo, cercando di ignorare l’istinto di urlargli contro di sparire. Si sta vergognando profondamente di ballare, incerto e malfermo, davanti allo sguardo serio dell’altro. Vorrebbe solo potersi fermare e allontanarsi, ma sa che non è possibile. Mary, con gli occhi chiusi e un sorriso leggero sulle labbra, ha aumentato la presa sulla sua spalla, facendo leva su di lui per ogni movimento.
«Permetti?» chiede Sherlock dopo qualche secondo. John si trova improvvisamente dall’altra parte della stanza e, adesso, è il detective a ballare un lento con la sua futura moglie. Mary apre gli occhi quasi subito, stupita. «Quando hai imparato a ballare così?!» chiede, e Sherlock lancia un’occhiata veloce in direzione dell’altro. Resta in silenzio per qualche secondo, mentre John lo prega con gesti disperati di dire qualcosa di credibile.
«Volevo farti una sorpresa» risponde il detective, e Mary vede John fare altrettanto, stretto a lei.
Sherlock si volta di nuovo verso il medico, adesso più rilassato. «Grazie…» sillaba lui, aprendosi in un sorriso che, per un attimo, fa saltare un battito al cuore del detective.
In silenzio, Sherlock riporta gli occhi sulla donna di fronte a sé, continuando a muoversi come ha imparato a fare da ragazzo, durante i lunghi pomeriggi passati ad osservare i ballerini di una scuola di danza poco lontana dal collegio dove studiava.
John resta fermo di fianco alla porta, la testa inclinata da un lato e gli occhi puntati su Sherlock. È così distinto mentre balla, così incantevole, che l’unica cosa che il medico riesce a pensare è che vorrebbe poter ballare anche solo un secondo assieme a lui.
Lo pensa con così tanta intensità - un desiderio profondo, assoluto - da non rimanere quasi sorpreso quando, senza capire come, si trova realmente a stringere la mano dell’altro.
Sherlock socchiude la bocca, colto alla sprovvista. Le sue dita, adesso, non affondano più in un fianco morbido, ma stringono quello forte di un uomo.
Si guardano, in silenzio, continuando a muoversi attraverso una stanza che continua a cambiare.
È il salotto di John, poi Baker Street. Poi, di nuovo, l’appartamento del medico.
Un movimento fluido, e Mary è con John.
Un paio di note, veloci, e le mani della donna stringono quelle di Sherlock.
Un assolo di archi, e ci sono solo loro, solo John e Sherlock, che girano assieme alla musica, ai luoghi, ai respiri. E più la melodia si fa veloce, più vorrebbero avvicinarsi, fino a fondersi.
Un passo, e Mary è ancora lì.
Un altro, e John trova gli occhi di Sherlock così vicini ai suoi da sentirsi annegare in quell’azzurro cangiante.
Un altro ancora, e il medico è di nuovo vicino alla porta, e Sherlock sembra deluso. Infelice.
Quando – dopo più di un minuto – la musica si ferma, John poggia le labbra su quello dell’altro, riuscendo finalmente a respirare. Ma quando riapre gli occhi, il detective è scomparso. Al suo posto Mary, il viso in fiamme, lo guarda come non ha mai fatto prima.
«È stato…» comincia lei, con gli occhi lucidi.
«Incredibile…» ansima John, guardandosi attorno un’ultima volta.
La delusione di non scorgere Sherlock, di non riuscire a leggergli negli occhi se anche per lui è stato lo stesso, gli apre una voragine al centro del petto.
 
Lo stesso abisso – a Baker Street – avvolge il detective, il volto arrossato e gli occhi liquidi.
Si appoggia un dito sulle labbra, premendo nel punto esatto dov’è rimasto il calore di quelle di John.
Abbassa gli occhi, scoprendo con turbamento che ogni parte del suo corpo ha reagito a quel contatto. Si sente fremere, smaniare per averne ancora. Si alza con violenza dalla sedia sulla quale si trova, rovesciandola dietro di sé.
Con passo veloce e testa china si chiude in bagno, aprendo il rubinetto dell’acqua e liberandosi in fretta dai vestiti.
Così, tremante, spaventato, si lascia andare nell’acqua gelata che sta riempiendo la vasca.
Si riempie le mani di liquido gelato, portandoselo al viso, ai capelli, al petto.
Con la coda dell’occhio, un’ombra fugace, vede John seduto a terra – le spalle contro la porta –    nel proprio bagno. Ha il volto nascosto tra le mani, e sembra perso quanto lui.
La vasca continua a riempirsi, rapida, ed il medico è già sparito.
Al suo posto, i vestiti che il detective ha lasciato cadere a terra.
 
Sherlock chiude gli occhi e si lascia scivolare giù, fino a quando l’acqua non lo avvolge completamente, richiudendosi sopra di lui.
 
John, a qualche miglia di distanza, sente Mary canticchiare oltre la porta chiusa dietro la quale – con la scusa di prepararsi per andare in clinica – si è trincerato. È felice, soddisfatta. Ignara.
Ignara che la gioia che ha scorto sul viso del suo fidanzato, chino sulle sue labbra, non era per lei. Che il rossore delle sue guance ed il suo respiro spezzato, non lo erano.
Ignara che l’uomo che sta per sposare vorrebbe solo poter ballare di nuovo con una persona che non ha mai visto prima e che – inspiegabilmente ma in modo totale, annichilente ed ancestrale –  sente scorrere sotto pelle come una malattia della quale non vuole liberarsi.
John prende un respiro profondo, cercando di allontanare i pensieri.
Poco lontano da lui, poco più di un’ombra fugace, Sherlock si alza dalla propria vasca da bagno, gli occhi bassi ed il corpo solcato da piccole gocce d’acqua gelata. John riesce quasi a sentirne il freddo sulla pelle, mentre le osserva muoversi lungo il petto dell’altro. Sulle sue braccia. Il suo viso.
Il tempo di deglutire a fatica, e il detective è scomparso.
Al suo posto, i vestiti che il medico deve indossare per andare a lavoro.
 
 

 9. 
 
 
 
Mycroft – immerso nella penombra – si appoggia una mano all’altezza del petto, sentendo il metallo freddo dell’arma che nasconde sotto la giacca rispondere alla pressione incerta delle dita.
Non ci vorrà ancora molto, lo sa.
Lo percepisce.
Esattamente come aveva avvertito il dolore di Greg, riverso sul selciato di quella chiesa abbandonata.
Nello stesso modo nel quale – un anno prima - aveva intuito che Whispers, il Cannibale, era riuscito ad arrivare al resto della sua cerchia dopo aver catturato e torturato uno degli ultimi appartenenti al gruppo.
Una scarica elettrica su di lui, legato in un laboratorio, e tutti gli altri erano finiti a terra.
Greg durante un pattugliamento. Mycroft nell’anticamera del proprio ufficio. Lady Smallwood a pochi passi dal Primo Ministro.
Mycroft aveva visto Whispers apparire subito dopo - trionfante, un sorriso gioioso sul volto - a pochi passi dal suo corpo scosso dei tremiti.  Era entrato, e non si sarebbe fermato prima di averli uccisi tutti. Prima di aver rimosso l’ultimo ostacolo alla propria, incondizionata, libertà d’azione.
L’aiuto offerto da Greg nel tentativo di prendere tempo - il cercare di patteggiare, di rendersi merce di scambio, il sacrificio dei suoi stessi figli e, infine, della sua stessa vita - lo aveva solo rallentato, ma non arrestato.
«Posso sentire la tua paura, Mycroft.» Una voce allegra, squillante, compare all’improvviso alla sua destra. «Anche se ti ostini a nasconderti in questo buco, la tua angoscia è un segnale inequivocabile.»
«Io, invece, sento la tua frustrazione, Jim. Anche se ti ostini a cercare, la tua insoddisfazione nel non riuscire a trovarmi è un segnale inequivocabile» ribatte Mycroft, lento, pacato. Sorride appena, lasciando andare la testa all’indietro.
«Sai, mi sono chiesto spesso come tu possa vivere così. Rintanato come un topo. Di cosa ti nutri? Dove dormi?» cadenza Whispers, e sembra divertito. «Quanto grande è, realmente, questa stanza?» Si interrompe un attimo, il tempo di alzarsi, avvolto dal buio. Mycroft lo sente sollevarsi, poco più di un fruscio prolungato. «Così ho iniziato a muovermi lungo le sue pareti, un po’ di più ad ogni visita. Palmo… dopo… palmo…» sussurra il Cannibale, un tono di scherno nascosto in un ringhiare basso, divertito. «Non ci sono letti. Tavoli. Gabinetti. È una cella.» Ride, una risata aguzza, alienata, e Mycroft infila una mano sotto la giacca, pronto ad estrarre l’arma. Non ha bisogno che l’altro termini il suo discorso. Sa che la sua fuga è giunta al capolinea.
«Poi mi sono domandato dove, un uomo come te, potrebbe costruire una cosa simile. In quale luogo isolato, e a tua completa disposizione… Un luogo che, oltre a questo bunker insonorizzato, avesse anche un letto accogliente e una cucina» la voce di Whispers è di nuovo vicina, adesso, e Mycroft chiude gli occhi, lasciandosi andare ad un sorriso amaro.
«Assumi Bloccanti, quando esci, non è vero? Peccato che io ne abbia vietato la fabbricazione, qualche mese fa…» continua l’altro. «Quali usi? Quelli di contrabbando? È per questo, per via degli effetti collaterali, che preferisci star chiuso qui?»
Mycroft si lascia scappare uno sbuffo spazientito. Nell’ombra, può sentire l’altro irrigidirsi, confuso.
«Pensi davvero che io non conosca altri modi per avere i Bloccanti con la giusta composizione chimica?» ribatte, ricalcando il tono dell’altro con fare canzonatorio. «Credi davvero che sia costretto a vivere qui?» aggiunge, mentre sfila la pistola con attenzione da sotto la giacca. «Pensi davvero che ti permetterò di entrare nella mia testa?»
«Penso che non dovresti lasciare le tue armi incustodite…» è la risposta atona di Whispers. «Perché altrimenti qualcuno potrebbe manomettere il caricatore, e tu saresti solo e disarmato, al momento dell’irruzione dei miei uomini» gli sussurra all’orecchio, improvvisamente vicino, così tanto che Mycroft ha l’impressione che stia appoggiando la testa contro la sua. «Fra qualche ora saremo di nuovo insieme, amico mio. Non vedo l’ora» aggiunge il Cannibale, smanioso, famelico, prima di sparire inghiottito dal silenzio.
Le mani leggermente tremanti, Mycroft fa scorrere all’indietro il carrello della pistola. Dopo meno della metà della corsa, però, il caricatore si inceppa con uno stridio.
Prova di nuovo, e ancora. Con più forza, più rabbia, più disperazione. Si ferisce le mani, mentre i tonfi sordi che sente in lontananza si fanno più veloci, più pesanti.
«Stanno arrivando» sussurra, e Sherlock alza di scatto lo sguardo verso il centro del salotto.
«Stanno arrivando» ripete Mycroft seduto sul pavimento, la pistola abbandonata sulle gambe e gli occhi spenti. «Mi dispiace, fratello caro.»
Sherlock si allontana dal tavolo della cucina – sul quale stava lavorando chino sul microscopio - in fretta, portandosi all’altezza dell’altro. Dietro di lui, con il camice addosso, John compare sotto la porta che divide le due stanze.
«Che succede?» domanda, ma Sherlock è in ginocchio sul tappeto al centro della stanza, e non dà segno di sentirlo.
«Hai poco tempo. Un giorno. Forse due.» Mycroft sfiora la pistola, ancora inceppata. Con rabbia la scaraventa lontano, facendola sparire.
Nel buio dove si trova, la sente sbattere contro una delle pareti del bunker.
«Dimmi dove sei. Posso fermarli» gli dice Sherlock, ancora a carponi davanti a lui.
Il medico inclina la testa da un lato, e una ruga si disegna sulla sua fronte.
«Cosa sta succedendo?» chiede di nuovo, mentre qualcuno bussa alla porta del suo studio.
«Un attimo!» grida, ed è di nuovo nel salotto di Baker Street.
«Mio fratello. Whispers lo ha trovato» spiega Sherlock, veloce, senza voltarsi. «Dimmi dove sei, maledizione!» urla poi, rivolto a Mycroft.
«Tuo fratello è come noi…?» John si guarda attorno, senza riuscire a vedere altro che il detective in ginocchio davanti a lui.
«Sono troppo lontano, Sherlock» risponde Mycroft, con un sorriso. «Sono nel Sussex, nella nostra casa d’infanzia. E loro sono già… qui» termina, prima di sparire.
Sherlock si lascia cadere all’indietro, cercando di ristabilire un contatto, in modo da potergli fare visita. Chiude gli occhi, li serra al punto da sentire dolore. Si porta le mani alle tempie, premendo in cerca di una concentrazione maggiore.
Tenta, e tenta ancora, mentre John si porta a terra con un movimento lento, incerto, inginocchiandosi accanto a lui e appoggiandogli una mano su una spalla.
Nel Sussex, una squadra di cinque uomini solleva Mycroft – privo di conoscenza – e lo adagia su una barella. Una piccola goccia di sangue gli solca il viso, scivolando giù dalla ferita alla testa che gli hanno provocato con il calcio di uno dei fucili.
Sherlock prova un’ultima volta, chiudendo gli occhi con così tanta forza da sentir dolere le meningi.
John gli sfiora le tempie con un dito, cercando di distendere la contrattura che vede affiorare sotto la pelle, tra le mani rigide.
«Sherlock…» lo chiama.
Intanto nel suo studio Sarah, spaventata, apre la porta dopo aver bussato per l’ennesima volta, trovando il medico a terra, una mano sollevata nel vuoto.
«Ho bisogno di un attimo» le sillaba lui e lei, con il volto teso, annuisce. È successo qualcosa, lo capisce dallo sguardo scuro di John.
«Ok» gli risponde, indugiando qualche attimo prima di richiudersi la porta alle spalle.
«Sherlock» riprova il medico, ancora con una mano sul viso dell’altro.
«Ho bisogno di parlarti» reagisce di colpo il detective, voltandosi verso l’altro. «Ed ho bisogno che tu mi dica esattamente cosa ti ha detto la tua visita, ieri sera. Dobbiamo preparare un piano» butta fuori, tutto d’un fiato. Sono così vicini, adesso, che il medico riesce a vedere il suo viso riflesso nelle iridi dell’altro.
«Ok…» acconsente John, deglutendo appena. Sherlock lo guarda stirare le labbra, teso. «Posso venire lì, se mi dici dove…»
«No» lo interrompe il detective. «È troppo pericoloso, incontrarci di persona. Se Whispers arriva a me, e trova anche te…» si blocca, sorpreso dal pensiero che gli sta attraversando la mente.
Vorrebbe dargli voce, e corpo, ma appare così irrazionale, ai suoi occhi, che non sa come poterlo fare. Un attimo dopo, però, è il medico a farlo al posto suo. A farsi scivolare fuori dalle labbra ciò che lui non è in grado di dire.
«Se arriva a te, ed io non sono lì…» riprende John. «Non potrei mai perdonarmelo
Sherlock sente le parole dell’altro muoversi nella gabbia toracica, risuonando tra le pareti vuote del suo petto. Potrebbe averle dette lui stesso. Con la stessa voce, e lo stesso sguardo. Con la stessa paura e, insieme, lo stesso significato.
«Non voglio che tu venga qui» ribadisce, a fatica, poco dopo. «Ma cerca un posto sicuro per una visita. Ok?»
«Ok. Dico a Sarah che mi prendo il pomeriggio libero.» John si porta il labbro inferiore tra i denti, teso, preparandosi a terminare la visita.
«No… Stasera. Voglio continuare a cercare informazioni su Whispers, finché la mia posizione è abbastanza sicura.» Sherlock esita un ultimo momento sul viso dell’altro. Poi, a fatica, se ne stacca per potersi mettere in piedi.
«Perché… perché stanno facendo questo?» domanda John, alzandosi a sua volta.
«Te lo spiegherò quando ci vedremo.» Il detective si volta verso di lui, abbassando lo sguardo per qualche secondo. «Fino ad allora… non fidarti di nessuno. E se vedi quest’uomo - aggiunge, avvicinandosi al tavolo e prendendo una foto da un cumulo di carte, girandola poi in direzione di John - non guardarlo negli occhi. Non provare a fermarlo. Scappa e basta.»
«È Whispers?» chiede il medico, aggrottando le sopracciglia.
Sherlock annuisce. «Il professor James Moriarty.»
John si avvicina alla foto, allungando una mano verso il volto disteso che vede osservarlo dall’istantanea. «Non sembra un grande pericolo, vero?» sussurra, inclinando la testa da un lato. «Non lo sembrano mai.»
Sherlock socchiude gli occhi, senza riuscire a capire.
«Il proiettile che mi ha quasi ucciso…» comincia il medico, bloccandosi quasi subito. «Non importa» dice, un sorriso mesto a indurirgli il viso.
All’improvviso, un ricordo si affaccia alla mente del detective. Un ragazzo giovane, a terra. John, in tenuta militare, che si china su di lui, per capire se è ferito. Lo sparo. La caduta. Il dolore.
«Non era un ragazzino, John. Ma lo sembrava. Lo avevano scelto proprio per quello» inizia Sherlock, titubante, acquistando sicurezza via via che il ricordo diviene più chiaro, nitido.
«Lo so. Il mio gruppo scoprì poi che aveva quasi ventotto anni, ed era a capo di una delle fazioni più pericolose di insorti. Ma…» John si porta una mano alla spalla, sfiorando la cicatrice. «Sembrava così spaventato, così piccolo, lì a terra, coperto di sabbia.»
«Tutti possono mentire.» Sherlock abbassa il braccio, posando nuovamente la fotografia sul tavolino. «Le bugie sono il motore stesso di questo mondo.»
John annuisce, assorto. «Pensi che, data la situazione… se mentissi… te ne accorgeresti?»
«Non lo so. Non mi importa» risponde il detective, scuotendo la testa.
«Te ne accorgeresti… sì» ribatte John, e Sherlock socchiude gli occhi, osservandolo con aria interrogativa.
«Come puoi dirlo?» domanda, mentre sul viso dell’altro si affaccia un sorriso leggero.
«Perché io mi sono accorto che tu lo hai appena fatto.» John guarda il volto del detective aprirsi per la sorpresa. Così, con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati, sembra quasi un bambino posto per la prima volta di fronte alla vastità del mare.
«Devo andare, adesso...» Il medico chiude gli occhi, senza dare all’altro il tempo di ribattere.
Li riapre nel proprio studio, l’immagine dello stupore di Sherlock impresso al centro dei respiri, come un soffio candido.
 
 

 10. 
 
 
 
John si siede a terra, sentendo l’erba umida bagnare la stoffa scura dei pantaloni.
Il laghetto di St. James’s Park si apre davanti a lui, uno specchio d’acqua dove i lampioni accesi si riflettono, piccole sfere dorate che brillano ai margini del bacino.
Un nuovo messaggio di Mary appare sullo schermo del cellulare, che tiene sulle gambe stese.
Si è già scusato più volte, chiamandola per rassicurarla che non farà tardi.
“Un vecchio commilitone in visita”, le ha raccontato, ma lei non è parsa convinta.
La preoccupazione della donna cresce ad ogni messaggio. Vuole sapere dove si trovino. Cosa stiano facendo. Perché non può raggiungerli.
John non vuole ferirla, ma ha bisogno di un po’ di tempo.
Di un posto tranquillo, dove aspettare che Sherlock gli faccia visita.
Una folata di vento si alza dall’erba, scompigliandogli i capelli. Di fianco a lui, quando la raffica si acquieta, siede Sherlock, gli occhi fissi sul laghetto che riempie l’intero orizzonte di fronte a loro.
John sorride, mentre un gruppo di anatre si rincorre poco lontano dalla riva.
Si volta verso di l’altro, sentendo le gambe poggiare adesso su un materiale ben più duro dell’erba sulla quale si trova.
«Un tetto?» commenta, guardandosi attorno.
«Il tetto» risponde Sherlock, con voce calma, gli occhi ancora fissi davanti a sé. «Perché proprio St. James’s Park?» domanda poco dopo, e l’aria pungente della notte londinese è di nuovo attorno a loro, assieme allo starnazzare degli uccelli nell’acqua.
«Ho sempre amato questo posto. È…»
«…tranquillo» terminano insieme, sul tetto.
«Hai detto che dovevi parlarmi» lo incoraggia John.
Un nuovo messaggio di Mary compare sul cellulare. Il medico lo lascia cadere accanto a sé, guardandolo sparire a contatto con le tegole.
Sull’erba, il telefono è caduto a faccia in giù, lo schermo a schiacciare gli esili ciuffi d’erba. Il detective si sporge un attimo, per capire dove sia finito.
«Non ho molto tempo…» lo sprona il medico, mettendosi con il viso sulla traiettoria dello sguardo dell’altro.
«No, certo che no» ribatte lui e, per un attimo, sembra amareggiato. «Ti ho chiesto di incontrarci perché Mycroft mi ha raccontato molto, su Whispers. Sul suo scopo, e sul perché verrà a cercarci. Voleva che fossimo preparati.»
John annuisce, deglutendo con fatica. Il volto dell’altro, sotto la luce dei lampioni, appare quasi fatto di porcellana. Sembra sul punto di andare in frantumi, ed il medico non riesce ad impedirsi di appoggiare una mano sul suo braccio.
Per tutto il tempo del racconto, non interrompe quel contatto. Lo intensifica, alle volte, quando sente la voce dell’altro fremere di rabbia, o tensione.
Non sposta le dita neanche quando arriva il suo turno di dire quanto sa. Usa la mano libera per aiutarsi, la muove nell’aria per descrivere Sarah, la sua cucina, le sue parole. Alle volte dietro il suo palmo aperto intravede il blu scuro del lago. Alle volte i tetti dei palazzi attorno a Baker Street. Continua a parlare, fino a quando non è certo di aver esposto anche il più piccolo particolare, quello all’apparenza più insignificante.
Alla fine, stremati, rimangono in silenzio entrambi.
Sherlock può sentire la tensione di John irrigidirgli la schiena, chiudergli la gola.
La percepisce mischiarsi alla propria, e vorrebbe solo appoggiare la testa contro le sue gambe, e chiudere gli occhi.
Mai, prima di quel momento, ha mai desiderato un contatto umano fino a quel punto.
Forse, si ritrova a pensare, prima di quel momento non ne ha mai desiderato uno.
«Quindi, alla fine, Lestrade si è tolto la vita per niente… Whispers ci troverà comunque» dice il medico dopo qualche minuto, quasi destandosi dai propri pensieri.
«Ci ha dato il tempo di sapere. Di prepararci» ribatte Sherlock, mentre una nuvola passeggera oscura la luna, privandolo dell’immagine del viso dell’altro.
«Dobbiamo vederci. Stare assieme. Non voglio che tu debba trovarti ad affrontarlo da solo.» Il medico si gira verso il detective, sul volto un’espressione seria.
«Non sono mai solo» risponde Sherlock, e vorrebbe riuscire a dirlo con spocchia, altezzosità, ma quell’improvvisa epifania lo riempie di un calore che gli incendia i polmoni.
John si morde un labbro, annuendo. Sembra distratto, mentre un’anatra gli passa vicino, agitando le ali.
«Pensi che sarà così per sempre?» chiede dopo poco, la gola compressa e la voce incerta. «Se dovessimo riuscire a sopravvivere, certo…» specifica.
Sherlock abbassa gli occhi. «Così come?» domanda, ma non ce ne sarebbe bisogno.
«Così… tra noi.» Il medico tossisce un paio di volte, portandosi una mano alla bocca. «Le visite. Le… sensazioni. Perché…» si blocca. Una luce, nel palazzo di fronte, si è spenta. «Perché c’è sempre qualcosa che tira, esattamente qui – si porta un dito al centro del petto – quando siamo così vicini.»
Il detective annuisce, in silenzio. Il vento si è alzato, e il rumore dell’acqua che si increspa sulla superficie si è fatto più forte.
«Io…» John scuote la testa, mentre si apre in un sorriso amaro. «Non ho mai, mai… desiderato così tanto poter sfiorare qualcuno» butta fuori, e Sherlock – per un secondo - si vede attraverso i suoi occhi. Socchiude le labbra, il cuore in fiamme. Il medico, di fianco a lui, si chiude su se stesso, una mano al petto.
L’erba si muove attorno a loro, così come l’ombra di due persone nel palazzo di fronte a quello dove si trovano.
Restano immobili fin quando il dolore non si è esteso ai muscoli, all’anima stessa.
Sono a quel punto, quasi da quello dipendesse la sua – la loro - stessa vita, John si gira di scatto verso l’altro, appoggiando la bocca su quella dell’altro con foga tale da sentire i denti premere contro le labbra.
Sherlock resta immobile un secondo, un solo attimo, il tempo di chiudere gli occhi e lasciargli spazio.
Il mondo sembra fermarsi bruscamente. Una frenata ruvida, che li spinge l’uno contro l’altro con maggior forza. C’è ogni bacio passato, ogni bacio non dato, ogni paura ed ogni speranza, in quel contatto che sembra restringersi ed estendersi con loro, con l’universo stesso.
È come assaggiare una parte della propria anima, e John non riesce a trattenere una lacrima, mentre accompagna con gentilezza Sherlock a terra per potersi sdraiare su di lui, con la sensazione che non farlo significherebbe, semplicemente, smettere di respirare. Di esistere.
C’è l’erba, il vento, e ci sono le tegole. C’è il suono del traffico e quello dell’acqua, e c’è il suono dei loro vestiti che vengono abbandonati, sparendo, o accatastandosi.
C’è la prima spinta, il primo gemito, la prima goccia di sudore. John si sente sopra l’altro e sotto di lui, dentro e fuori allo stesso momento. Lo sente flettersi, inarcarsi, e allo stesso tempo chinarsi su di lui, per stringerlo mentre lo sfiora con le labbra.
Il tempo è un anello circolare, adesso, e lo sono anche loro. Ogni spinta è un cerchio perfetto, fluido, e li collega. Li unisce. Li lega.
Sherlock allarga le gambe, e l’erba fresca spunta adesso tra le tegole del suo tetto. Può sentire l’eccitazione di John dentro di lui, e fuori. Gli sta esplodendo nel petto, come in ogni altra parte del corpo. È il dolore piacevole che riceve il suo basso ventre, ed è il piacere totale che sta invece vivendo l’altro, aumentando ritmo e profondità ad ogni spinta.
John si china su di lui, lo abbraccia, usa il suo corpo come appiglio. Si muove, e sembra sapere esattamente come e quando andare più in profondità, o più veloce. Segue il suo stesso piacere, perché è fuso con quello dell’altro al punto da non capire chi dei due stia davvero decidendo fino a che punto arrivare, fino a dove portare l’altro, prima di lasciarlo libero.
Raggiungono la libertà insieme, dopo poco, un piacere totale, atavico, istintivo, ancestrale, che specchia in quello dell’altro, ampliandosi all’infinito.
John sente che potrebbe vivere solo di quello. Dei gemiti di piacere di Sherlock sotto le sue mani. Che potrebbe continuare a muoversi sopra di lui per sempre, sentendolo muoversi a sua volta.
I volti, i corpi, le bocche stremate, si staccano poco dopo e, per un attimo, l'infinito stesso sembra essersi svuotato.
Sherlock si passa una mano sulle labbra, la schiena graffiata dalle tegole e gli occhi lucidi.
John, ansimante, affonda le mani nell’erba, per cercare di rialzarsi.
«Devo vederti…» geme, debole. «Devo sapere che sei reale» aggiunge, lacrime di piacere e paura a scendere lungo le guance.
Sherlock si chiude su se stesso, guardandolo, in silenzio.
Vorrebbe dargli il suo indirizzo. Implorarlo di andare da lui. Riuscire davvero a sfiorarlo. Vorrebbe sapere che è vero, come il dolore che gli squarcia l’anima.
Ma qualcosa, ben nascosto tra le pieghe della sua coscienza, gli sussurra che è troppo tardi.
Che deve stargli lontano, o li condannerà entrambi. È una comprensione inconscia. Genetica.
Sa che Mycroft, alla fine, non è riuscito a nascondere la sua identità a Whispers.
Che sta facendo il suo nome proprio in quel momento.
«Sherlock…» lo chiama John. Lui lo guarda un’ultima volta.
Poi scompare, lasciandolo solo, i pugni affondati nel terreno.
 
Sul tetto di Baker Street, Sherlock lascia che una sola lacrima si liberi dai suoi occhi.
Le permette di arrivare quasi alle labbra. Poi, con rabbia, l’asciuga con il dorso della mano.
Se Whispers ha potuto interrogare Mycroft così in fretta, probabilmente non si trovava molto lontano dalla loro casa, nel Sussex. Questo gli indica, in modo abbastanza preciso, quanto impiegherà ad arrivare a Londra, e a recarsi al 221B.
 
Ancora ansimante, raccoglie i propri vestiti, tornando in casa attraverso la finestra della cucina. Non ha molto tempo.
Dev’essere tutto pronto, quando Whispers arriverà a fargli visita.
 
 
 
 11. 
 
 
 
Alla terza scarica, il corpo di Mycroft – legato ad un lettino nel centro di una sala operatoria – si inarca, tendendosi. Un fiotto di sangue gli esce dalla bocca, mentre con le mani cerca disperatamente di ancorarsi al metallo freddo sotto di lui.
Le unghie scivolano sul fondo liscio del tavolo chirurgico, senza trovare nulla di adatto a fare presa per aiutarlo a resistere. Non appena la corrente si abbassa, il suo corpo si rilassa. Serra gli occhi, nella speranza di riuscire ancora a tenere lontano Whispers dalla propria mente.
«Ho bisogno di un nome…» gli sussurra lui, chinandosi fin quasi a sfiorargli la fronte con la propria. «Solo un nome.»
Mycroft accenna un sorriso, liberandosi dal sangue che sente ancora riempirgli la bocca con uno sbuffo soffocato.
Una piccola goccia arriva fino a Whispers, sporcandogli la guancia. Lui - con calma e movimenti misurati - si passa senza scomporsi il dorso di una mano sul viso, pulendosi. Poi, in silenzio, si avvicina alle manopole del macchinario, alzando il voltaggio fino al massimo punto consentito.
Fa un cenno ad uno degli uomini, coperti da tute bianche, che si trovano con lui nella stanza che, annuendo a propria volta, appoggia nuovamente le piastre sul petto di Mycroft.
La scarica è immediata. Annichilente. Mycroft sente la propria mente cedere, farsi liquida come il sangue che gli riempie nuovamente il naso, e la bocca. Ringhia, e vorrebbe riuscire a non pensare a nulla. Ma, nel momento in cui perde il contatto con se stesso e con la propria coscienza, il volto di Sherlock si affaccia tra le nubi del dolore che lo attanaglia.
Whispers inclina la testa da un lato, un sorriso soddisfatto sul volto.
Gli passa una mano sulla fronte, quasi una carezza.
«Trovate l’indirizzo di Sherlock Holmes, e preparate un elicottero» dice, continuando a far scorrere le dita tra i capelli madidi di sudore dell’altro. «Sei stato bravissimo, Mycroft. Adesso ti lascerò riposare…» gli sussurra.
Lui apre gli occhi, le viscere contorte dal dolore.
«Non preoccuparti…» bisbiglia ancora Whispers, dolce. «Non voglio che soffra. Ho bisogno, di lui.»
Mycroft cerca di alzare una mano, per fermarlo. I lacci che lo immobilizzano al lettino, però, non glielo permettono.
«Ti farò avere sue notizie» ride l’altro, allontanando le dita da lui. «Adesso riposa.»
Mycroft sente un ago - largo, freddo - entrare sotto pelle, all’altezza del collo.
Soffia sangue e saliva, cercando di parlare, ma Whispers è già vicino alla porta d’uscita. Ed il buio si ripiega su di lui, inghiottendolo.
 
 
* * *
 
 
Circa tre ore più tardi, una macchina scura si arresta davanti al 221B di Baker Street.
Whispers - in abiti eleganti - scende dalla berlina con movimenti misurati, sistemandosi il nodo della cravatta. Un sorriso allegro in bilico sulle labbra si avvicina al portone, trovandolo socchiuso. Oltre la porta, una luce tenue illumina l’ingresso.
«Aspettate qui» comanda, divertito, a due uomini in completo scuro usciti da un’auto appena arrivata. Loro, con passi rapidi, si portano ai due lati dell'entrata, immobilizzandosi.
In un silenzio completo, irreale, l’uomo scosta con una mano la porta di legno, spingendosi nell'atrio deserto. Dopo una rapida occhiata attorno a sé, comincia a salire i gradini che conducono all’appartamento al primo piano dell’immobile.
Ad ogni passo, nella quiete totale che lo avvolge, un piccolo scricchiolio riecheggia lungo le pareti delle scale, unendosi al suono del suo respiro.
Deliziato dal suono stridulo prodotto ad ogni suo movimento, carica il più possibile il peso su ogni gamba, in modo da sentire il legno flettersi e gemere sotto di lui.
Arrivato al pianerottolo scopre, senza molta sorpresa, che anche il salotto che si apre di fronte ai suoi occhi è immerso in un chiarore artificiale – dato da una grossa piantana accesa, posta di fianco ad una delle poltrone collocate in un angolo alla sua sinistra, vicino al camino - che si somma a quello che, faticosamente, filtra dalle finestre. 
Si ferma qualche passo oltre la soglia, guardandosi attorno e respirando a pieni polmoni l’odore di polvere, libri e inchiostro che impregna l’aria. Ad occhi chiusi, gli sembra quasi di riuscire a scorgere l’ombra del detective, immobile davanti ad una delle finestre. Non lo ha mai incontrato di persona - e non può quindi fargli visita - ma ha svolto varie ricerche mentre era in viaggio e, ora, conosce perfettamente il suo volto.
Lo immagina girare per la stanza, rapido, in cerca di qualcosa. O sedersi su una delle poltrone vicino al camino, il violino - che adesso si trova abbandonato in un angolo, muto - stretto al petto. Un sorriso, rapido, obliquo, nasce sul volto dell’uomo mentre riapre gli occhi. Solo qualche secondo dopo, riprendendo a muoversi per la stanza, mette a fuoco un piccolo biglietto lasciato esattamente al centro del tavolo in legno chiaro che si trova a pochi passi da lui. Con calma - il sorriso ancora in bilico sulle labbra - si avvicina, accarezzando la carta ruvida prima di stringerla tra le dita, portandosela a pochi centimetri dal viso.
Sul davanti del biglietto piegato, una grafia veloce ma curata ha scritto: “Jim Moriarty”.
L’uomo si lascia andare ad una risata piena, allegra. Non sentiva un Sensate chiamarlo per nome da anni.
Molti di loro lo conoscono come il Cannibale.
Pochi altri, la maggior parte nella resistenza, lo definiscono Whispers.
Nessuno, da tempo, si rivolge a lui con il nome con il quale aveva varcato per la prima volta – al fianco di Mycroft Holmes - le porte della BPO.
 
Apre il biglietto, leggendone il breve contenuto. Lo stesso tratto ha lasciato poche, semplici parole:
 
“St. Bartholomew's Hospital – Tetto.”
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
mi sono domandata se fosse giusto utilizzare questo spazio per racchiudere un piccolo sfogo personale. In verità uso spesso queste righe finali per raccontare e condividere cosa mi stia accadendo, dove mi trovi, come mi senta. Quindi, alla fine, ho pensato che fosse giusto riportarvi le mie emozioni, anche quelle non proprio “positive”.
È successa una cosa (al di fuori del sito, ma strettamente collegata ad esso) che mi ha profondamente amareggiata.
Dopo parecchie ore di logoramento e un travaso di bile di discrete proporzioni (^_^’’), mi sono ricordata che quello che mi ha fatto avvicinare a questo luogo, e ancora mi lega a lui, vale molto più dell’amarezza, o dell’irritazione.
Partendo dall’amore per la serie tv che ci unisce (o almeno dovrebbe) e ci porta tutti in questi lidi, passando per il bene (in molte forme) che mi viene dallo scrivere, fino ad arrivare alla gioia immensa e al profondo arricchimento personale che mi procura il confrontarmi con chi si trova ad abitare, come me e con me, questi spazi, ciò che ha davvero importanza – mi sono resa conto – è così grande da far apparire tutto il resto (dispiaceri in testa) trascurabile.
 
Quindi ancora una volta, e con – se mai possibile! - ancora maggior forza, grazie a chiunque abbia letto fin qui, aggiunto la storia ad una qualche categoria, lasciato un commento.

A chi, più in generale, rende la mia esperienza su questo sito, e in questo fandom, un piacevole momento di rifugio dalla quotidianità.
 
L’appuntamento finale è per il 3 giugno. ^_^
 
A presto,
B.
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3 ***


 
 
 
 
Note iniziali: giovedì sera, come molti di voi sapranno già, Netflix ha annunciato la sua intenzione di non rinnovare sense8 per una terza stagione.
Oltre all’enorme dispiacere personale, mi sento un po’ “in colpa” verso quelle persone che mi hanno scritto che avrebbero iniziato la serie su mio suggerimento.
Non voglio dilungarmi troppo in questa nota, ma sentivo di dover riportare la notizia, in modo che chi non ha già visto la serie - e non sapesse della cancellazione – abbia tutti gli strumenti del caso per valutare se cominciarla o meno.
Il mio personalissimo (e - in quanto tale - assolutamente opinabile, se non proprio contestabile! XD) parere è che ne valga comunque la pena. Sono troppi i valori trasmessi dalla serie, troppo forti le emozioni e gli insegnamenti che trasmette, per non vederla almeno una volta.
E speriamo che Netflix - o qualsiasi altra piattaforma/emittente - ci dia almeno uno special conclusivo (cosa, a mio avviso, fattibilissima).
 
 
“Questa è la vita: paura, rabbia, desiderio, amore. Non provare più emozioni, non volerle più provare, è provare la morte. [...]
Io prendo tutto ciò che provo, tutto ciò che è importante per me e metto tutto questo nel mio pugno. E per questo combatto.”

(Sun – 1x11)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  “Gli amanti non si incontrano finalmente in qualche luogo. Sono sempre stati l’uno nell’altro.”
 
(Jalāl al-Dīn Rūmī)
 
 
 
 
 
 
  12. 
 
 
 
Il vento - in raffiche disordinate, caotiche - gioca tra i capelli del detective, muovendoli prima in avanti e poi, rapidamente, quasi con forza, indietro.
Sherlock - seduto sul basso parapetto, spalle alla terrazza - sente la porta che conduce alle scale aprirsi, cigolando sui cardini. Gli occhi fissi verso la strada sotto di lui, non si volta. In silenzio, aspetta che sia l’altro a parlare.
«Eccoci qui, finalmente» inizia Whispers, e la sua voce è molto diversa da come il detective l’aveva immaginata. È squillante, alta. Allegra. Non un sussurro basso e sottile, stridulo.
«Tu ed io. E il nostro problema. L'ultimo problema» continua, fermandosi a pochi passi dal detective. Solo allora Sherlock si gira adagio in sua direzione, trovandosi di fronte un uomo giovane avvolto in un elegante completo scuro, nero come i suoi occhi.
«È proprio noioso, vero?» prosegue Whispers, domandando all’altro - con un cenno della mano – il permesso di prendere posto accanto a lui. Dopo un attimo di attesa si accomoda ugualmente, un sorriso divertito sul volto, nonostante Sherlock non abbia accennato alcuna risposta. «Essere un Sapiens…» spiega, sporgendosi all’esterno, verso la strada pullulante di persone che si apre sotto di loro.  «Sai, per tutta la vita ho cercato delle distrazioni. E tu, la tua cerchia, eravate il mio ultimo passatempo.» Whispers muove la testa da una parte all’altra, lento, allungando uno ad uno i muscoli del collo. «Ora non ho più neanche voi... perché ti ho battuto. E sai una cosa? È stato fin troppo semplice.»
«Sono stato io a dirti dove trovarmi» ribatte Sherlock, allontanando lo sguardo dal viso dell’altro e tornando a fissare il frenetico brulicare di vita che anima la via di fronte all’ingresso dell’ospedale.
«Sbagliato… È stato Mycroft, a farlo» replica l’altro, ed il detective stringe i pugni per non cedere all’ira che, all’improvviso, sente scorrere lungo il corpo.
«Ora dovrò tornare a giocare con le persone comuni e, a quanto pare, anche tu sei solo una persona comune, proprio come loro.» Whispers si riporta verso l’interno del tetto, alzandosi con un movimento repentino, brusco.
«Ma sono felice che tu abbia scelto un edificio alto. È un buon modo per farlo» aggiunge, con voce docile, inclinando la testa da un lato.
«Farlo? Fare cosa?» domanda Sherlock, aggrottando le sopracciglia. Dopo qualche secondo si gira a sua volta verso il ballatoio, trovando Whispers di spalle, il capo leggermente reclinata all’indietro.
«Sai che adoro i giornali? Sono come fiabe. E anche piuttosto spaventose» risponde lui, senza dar segno si averlo sentito.
«Qualunque cosa tu abbia in mente… ti fermerò» afferma il detective senza scomporsi, la voce dura, distaccata.
«Pensi di riuscirci?» ride Whispers, voltandosi di scatto.
«Sì. E lo pensi anche tu.» Sherlock si alza a sua volta, pigramente.
«Sherlock… nemmeno tuo fratello o tutti i cavalli del Re riuscirebbero a farmi fare qualcosa che non voglio» sogghigna Whispers e, per un attimo, un’espressione folle gli adombra il viso.
«Certo, ma io non sono mio fratello…» Il detective si avvicina all’altro, passo dopo passo. Il Cannibale, divertito, non si allontana. Si limita a guardarlo, con curiosità mista ad eccitazione.
«Io sono come te. Pronto a fare qualunque cosa. Pronto a bruciare…» continua Sherlock, fermandosi a pochi centimetri dal suo viso. «Pronto a fare ciò che le persone comuni non farebbero. Vuoi che ti stringa la mano all'inferno? - domanda, allungando una mano verso Whispers - Non ti deluderò.».
«No.» L’uomo prende le dita del detective tra le sue, stringendole prima con gentilezza, poi con sempre maggiore energia. «Sei solo una persona comune. Stai dalla parte dei “buoni”. Degli angeli.»
«Oh…» Sherlock si libera dalla presa con uno strattone secco, violento. Con un unico movimento fluido fa scivolare in avanti la mano, afferrando il polso dell’altro e affondando con forza i polpastrelli nella sua pelle. «Starò anche dalla parte degli angeli... ma non pensare nemmeno per un secondo che io sia uno di loro» ringhia, caricando un colpo con la mano libera e aiutandosi con l’altra a tenere fermo l’uomo davanti a sé.
L’altro, con un gesto repentino, si piega in avanti, costringendo il detective ad allentare la presa. Il polso piegato in modo innaturale, Sherlock sente le dita allargarsi, e la presa farsi meno salda. Colpisce Whispers su un fianco, ma il pugno è meno forte di come lo aveva preparato.
Piegandosi ancora, Whispers riesce a mettere in leva il braccio del detective, costringendolo a cedere. Solo allora - con un sorriso allegro sul volto - lo colpisce su uno zigomo, facendolo sbilanciare.
Sherlock porta le mani all’indietro, istintivamente, e sente i palmi aprirsi sotto il proprio peso non appena finisce, con violenza, a terra.
Ancora sul pavimento – il respiro affannoso e il sapore del sangue a riempirgli la gola - scorge con la coda dell’occhio John, sdraiato a pochi passi da lui.
«Bene bene bene…» ride Whispers, seguendo la traiettoria dello sguardo del detective verso un punto, apparentemente vuoto, poco lontano da loro. «La tua cerchia è arrivata?»
La sua voce allegra, raggiante, richiama il detective alla realtà, costringendolo a staccare lo sguardo del medico.
Con uno sbuffo dolorante, facendo leva con i palmi sulle ginocchia, Sherlock si riporta in piedi, pronto ad attaccare di nuovo.
 
 
* * *
 
 
«Io non… non so più nulla.» John, stremato, incrocia le braccia sulla scrivania, appoggiandoci la testa. A contatto con la pelle fresca degli arti sente la fronte incendiarsi, bruciando per la stanchezza e la tensione accumulata.
«Molte volte sapere è meno importante di sentire.» Sarah, comparsa nel suo studio pochi minuti dopo il suo arrivo in clinica, sembra aver intuito tutto.
Sembra sapere che, nel cuore della notte, ha detto alla sua promessa sposa di essersi accorto di non amarla come dovrebbe.
Pare essere a conoscenza delle grida, delle porte sbattute. Del divano, e della valigia pronta vicino alla porta d’ingresso.
Ha parlato con Mary per tutta la notte e l’eco delle sue lacrime, e poi delle urla, continua a riaffiorare, come se la discussione avuta fosse il fondale di un mare di silenzi e bugie che riemerge solo quando – ancora incredulo – si rende conto di averne davvero attraversato le acque.
John sa di averla ferita. Delusa. E sa che averlo fatto per un uomo che – in realtà – non è nemmeno del tutto certo che esista. Una follia.
Ma quanto gli era rimasto addosso - tra le mani, nei respiri - dopo averlo stretto tra le braccia, era qualcosa che non sarebbe riuscito a nascondere. O ad accantonare. Se ne era reso conto immediatamente, non appena varcata la porta del proprio appartamento, il cuore ancora sdraiato su quel prato. Ancora steso, in frantumi, sul tetto di Baker Street.
«Senti di aver fatto la cosa giusta?» domanda Sarah, mentre qualcuno, dall’altra parte della porta, si avvicina al desk dov’è seduta. «Paziente. Lo registro e torno» espone, sbrigativa, prima di sparire.
John sospira, il viso chiuso tra le braccia e un senso di oppressione a stringergli il petto.
Ha fatto la cosa giusta, lo avverte distintamente. Ma ha la terribile sensazione di non riuscire più a tenere le redini della propria vita, del proprio corpo, delle proprie emozioni.
«È complicato, quando ciò che provi è amplificato da ciò che prova un’altra persona.» Sarah è di nuovo nella stanza. Si lascia cadere sul divano, gli occhi fissi sul medico.
«Non riesci a capire cosa provenga davvero da te, dal tuo volere, e cosa sia invece un riflesso.» Sorride, ripensando ai primi mesi dopo la tua nascita. A tutta quella paura che si mescolava all’eccitazione di riuscire a percepire altre persone, gli appartenenti della sua cerchia, in modo così profondo da divenire assoluto, totalizzante. «La verità, John, è che non ci sono più confini. Il tuo corpo, non ne ha. La tua mente. Ed il tuo cuore» prosegue, mentre il medico, lentamente, gira la testa verso di lei. «Se sei felice in modo folle, è perché entrambi lo siete. Se sei triste, lo sarete insieme. Se senti di amarlo...»
«Come si può provare amore per qualcuno che si è appena conosciuto? Come può essere, un’emozione, così… forte?» obietta lui, il viso ancora appoggiato alle braccia.
«Benjamin Disraeli diceva: “Non v’è amore se non a prima vista.” Ed era un Sapiens» ribatte lei, sorridendo. «Alla fine cosa racchiude, in sé, la parola “amore”? Quale concetti? Quali emozioni? Perché non è possibile, innamorarsi profondamente al primo sguardo?»
John schiude la bocca, per ribattere. Vorrebbe dire che per innamorarsi di qualcuno bisogna prima conoscerlo. Viverlo. Capire i punti in comune, e quelli divergenti. Le compatibilità, le affinità.
Sarah, la testa inclinata da un lato, lo osserva con fare indulgente.
«Sai perché si nasce in una cerchia, e non in un’altra?» gli domanda, dopo qualche secondo. Il medico scuote il capo, sollevandolo un po’ dalle braccia conserte.
«È una questione di compatibilità, chimica e biologia. Si nasce con chi saprà capirci, amarci e proteggerci. Si nasce con chi è il nostro destino.» La donna si morde un labbro, cercando di nascondere una commozione che si sta facendo largo nel suo petto, bloccando i pensieri e rendendo difficoltosi i respiri. «Sid è convinto che… - riprende, fermandosi per schiarirsi la gola e tentare di allentare il nodo dolce che sente muoversi attraverso le sue pareti – anche senza nascita, gli appartenenti ad una cerchia finirebbero comunque con l’incontrarsi, prima o poi. Non importa quanto lontano vivano, se abbiano età diverse, o l’oceano stesso li separi. Sono predestinati. E non si può sfuggire, al proprio destino» conclude, sorridendo piano in direzione dell’uomo che le è comparso di fianco e che – annuendo con convinzione, seduto sul divano – ha sillabato con lei ogni singola parola.
«Sid?» chiede John, guardandola fissare con affetto qualcosa nello spazio vuoto alla propria destra.
«Già… È un informatico… Vive a Sydney» risponde la donna, accarezzando con gentilezza il viso di Sid.
Lui, prima di scomparire, chiude la mano di Sarah tra le sue, appoggiandole un bacio sul palmo aperto.
«Ho capito di amarlo dopo la prima visita» ride lei, spostando nuovamente gli occhi su John. «Circa otto anni fa. Nessuna domanda, nessuna paura. Dall’amore non può venire alcun male, quando il cuore dell’altra persona è anche il tuo.»
Un nuovo paziente si ferma davanti al desk, oltre la porta chiusa dello studio, e la donna scompare.
John, rimasto solo, si da una spinta per poter tornare in posizione eretta con la schiena. È stanco, confuso, e nella testa un fruscio costante continua a soffocare i pensieri.
«Dove sei…?» chiede, a mezza bocca, cercando di visualizzare Sherlock. «Ho bisogno di parlarti.»
 
Un attimo dopo si ritrova a terra, sul selciato di un luogo che non riesce a riconoscere. Sorpreso si gira verso sinistra, in direzione di un ringhio sordo e basso nel quale riconosce il timbro di voce basso del detective.
Sherlock è a terra, poco lontano da lui, i palmi delle mani graffiati dal cemento sul quale hanno fatto presa per rallentare la caduta e un rivolo di sangue scuro a macchiargli il viso, scendendo dal naso fino alla bocca.
«Sherlock!» lo chiama e l’altro, sorpreso, si volta in sua direzione, il respiro affannoso e gli occhi spalancati.
«Bene bene bene…» ride qualcuno, poco lontano. «La tua cerchia è arrivata?»
Il detective stacca lo sguardo dal medico, riportandosi in posizione eretta con uno sbuffo soffocato. Allarga le gambe, distribuendo meglio il peso nel caso di un altro attacco.
«Che sta succedendo?» John si rialza in fretta, spostandosi di lato quel tanto da riuscire a vedere chi si nasconda dietro il corpo dell’altro.
Si ferma quasi subito, il fiato spezzato in gola, mentre Whispers appare oltre le spalle tese del detective.
«Credi davvero che fingere che non sia qui mi impedirà di trovarlo?» domanda il Cannibale, allegro, continuando a guardarsi attorno. «Credi davvero che ne uscirete incolumi?»
Sherlock lo ignora, piegandosi, pronto all’attacco.
«Dimmi dove sei.» John si porta al suo fianco, sfiorandolo. «Sherlock, dimmi dove sei!» sibila, mentre Whispers, un sorriso storto sul viso, si flette a sua volta.
«Sai qual è la parte migliore, nell’entrare nella testa dei Sensate?» ghigna, ondeggiando lento la testa da una parte e dall’altra. «Che puoi apprendere ogni loro abilità, come se fossero parte della tua cerchia» ringhia, scaraventandosi in avanti. Sherlock riesce ad evitare il primo colpo, allontanando la testa all’indietro. Il secondo, però, lo colpisce in pieno stomaco. Il detective si chiude in avanti mentre John - a pochi passi da lui - fa altrettanto, le mani strette attorno al ventre squassato dagli spasmi.
«Pugilato…» continua Whispers, sferrando un altro pugno, questa volta sul viso. «Jujitsu, Kick boxing…» elenca, cambiando stile di combattimento ad ogni colpo. Sherlock finisce a terra, il viso coperto di lividi violacei. John, steso di fianco a lui, rimette un fiotto di saliva e sangue.
Il detective prova a rialzarsi, ma il medico lo ferma con una mano. «Dimmi dove sei…» lo prega, rotolando verso di lui e cercando di rimettersi in piedi. «Dimmi dove sei…» insiste John, disperato. «Penserò io a lui fino al mio arrivo… ma devi dirmi dove sei, adesso.»
Sherlock chiude gli occhi per un attimo, deglutendo aria, saliva e sangue.
«Se muori adesso, morirò anche io» continua il medico, un dolore lancinante a serrargli i respiri. «Ti prego…»
Sherlock annuisce appena, socchiudendo le palpebre.
Mentre sente Whispers afferrarlo per la camicia per alzarlo dal suolo, volta la testa verso sinistra. Di fianco alla piccola porta in metallo scuro che porta alle scale, una targhetta metallica porta inciso il nome del St. Bartholomew's Hospital. Appena sotto, un altro cartello reca la scritta “Roof - Forbidden Access”.
«Ok… ok.» John si alza dal pavimento e, allo stesso tempo, si allontana dalla propria scrivania, nel suo studio. Sta perdendo sangue dal naso, ma non gli importa. Si pulisce con il dorso della mano e corre fuori dalla stanza, sotto gli occhi terrorizzati di Sarah, immobile dietro il bancone dell’accoglienza. Un anziano paziente, in piedi a pochi passi dal desk, si allontana di scatto, spaventato.
«Whispers?» riesce a sussurrare la donna, un nodo stretto attorno alla gola, mentre John la supera con passo veloce.
Lui annuisce appena, diretto all’uscita.
«Dove?» domanda lei, ma il medico è già in strada, gli occhi lucidi ed il fiato corto.
«Dove, John!» grida lei, seguendolo precipitosamente fuori dalla porta scorrevole.
Lui non le risponde. Si libera dal camice e - il petto in fiamme - comincia a correre, sperando di riuscire ad arrivare in tempo.
 
«Tutto qui, quello che sai fare?» lo canzona Whispers, le mani ancora serrate attorno alla sua camicia, riportandolo in piedi. «Speravo in uno scontro alla pari, come con tuo fratello in questi anni… sono molto deluso.» ride.
John, al fianco di Sherlock, sfiora con una mano la sua.
«Ci penso io, adesso» gli sussurra, cercando di stemperare la tensione che riveste le parole con un tono dolce, morbido. Il detective annuisce appena, reclinando la testa all’indietro. Si rilassa, sotto la presa decisa di Whispers, lasciando che John prenda il comando del suo corpo.
Un attimo, il tempo di un respiro, ed il medico si trova di fronte al Cannibale. Alza entrambe le braccia velocemente, lasciandole ricadere con un colpo secco, violento, sui polsi di Whispers. Istintivamente l’uomo allenta la presa, dando a John sufficientemente spazio per liberarsi con un brusco movimento laterale. Prima che l’altro possa reagire, il medico lo colpisce in pieno viso con un pugno. Whispers indietreggia, sorpreso, mentre sul volto gli affiora un sorriso soddisfatto.
«Con chi ho il piacere di…» domanda, ma John non gli da il tempo di concludere la frase. Carica un nuovo colpo che, però, l’altro para senza difficoltà, fermandogli il braccio con entrambe le mani.
«Non è bello picchiare qualcuno senza presentarsi…» insiste Whispers, l’arto di John ben stretto tra le dita.
«Mi chiamo John… Watson…» ringhia lui, girandosi in modo da usare la presa dell’altro come leva per atterrarlo. «Ex… Quinto Fucilieri… Nothumberland» continua, sbilanciandosi in avanti con tutto il peso. Finiscono a terra, insieme, e il medico punta sull’altro un ginocchio, in modo che gli sia difficile sollevarsi.
Whispers, a terra, annuisce. «Un ex militare… ora capisco» ansima, nella voce una vena di allegro compiacimento. «Immagino che avrei dovuto aspettarmelo… una mente geniale ed un buon combattente… chi meglio di voi come ultima barriera tra me ed il completo controllo.»
John si solleva appena, spostandosi in modo da posizionarsi sull’altro con tutto il peso. Whispers, sotto di lui, assume un’espressione raggiante. «La parte più divertente di tutto questo è il fatto che non abbiate capito perché vi volessi incontrare… Ma immagino che la colpa sia mia» sussurra, complice, e Sherlock è di nuovo padrone del suo corpo. John, ansante, li osserva qualche passo più indietro.
«So perché dovevi trovarci. Mycroft me lo ha detto» ribatte il detective, con un sibilo.
«Mycroft non ha capito niente. Non ha mai capito niente.» Whispers, ancora bloccato dal corpo del detective a cavalcioni su di lui, muove i fianchi, eccitato.
John - poco lontano - riesce a stento a trattenere l’istinto di riprendere il controllo per potergli sbattere ripetutamente e con violenza la testa a terra, fino a fargli capire in modo inequivocabile che non deve nemmeno provare a pensare di sfiorare Sherlock, in nessun modo.
«Lui crede che io voglia sterminarvi tutti… uno… a… uno…» sussurra Whispers, continuando a muoversi. Sherlock si ritrova in piedi, lontano da loro, senza neanche rendersene conto. John, di nuovo sopra Whispers, gli porta una mano alla gola, costringendolo a terra. Si china su di lui, furente, appoggiando la propria fronte contro la sua.
«Lo sai, John Watson, che quello che sto vedendo io è solo il viso di Sherlock Holmes a pochi centimetri dal mio, vero?» ride Whispers, ed il medico si allontana appena, il necessario ad evitare un qualsiasi tipo di contatto.
«Muoviti ancora, una sola volta, e giuro che dovrà essere qualcun altro a completare questa chiacchierata al posto tuo» ringhia, tornando al proprio posto subito dopo.
Sherlock si volta un attimo in sua direzione, trovandolo con il viso arrossato e le mani serrate.
«Ah, l’amore tra gli appartenenti ad una cerchia…» sussurra Whispers sotto di lui, divertito. «La cosa più naturale e, allo stesso tempo, più banale dell’intero creato.»
«Dimmi cosa vuoi» risponde il detective, ignorando le sue allusioni. «Dimmi cos’è che vuoi, davvero.»
«Oh, piccolo Sherlock… quello che voglio è che smettiate di nascondervi come topi… Perennemente impauriti, perennemente nell’ombra… Voglio liberarvi…» Whispers inclina la testa da un lato, uno scintillio allegro negli occhi. I capelli si allargano dietro di lui, trattenuti dal cemento della pavimentazione. «È per questo, vedi, che ci sono telecamere ovunque. Qui, come in ogni parte del mondo…» Ride, e il modo nel quale lo fa apre qualcosa in mezzo al petto del detective. Si volta, ma John è sparito. «Voglio che il mondo veda cosa un Sensate è in grado di fare… Voglio che creda che possiate, con il solo pensiero, distruggere e soggiogare le loro povere, piccole menti… Quello che voglio, Sherlock, è la guerra
La porta scura, poco lontano da loro, si spalanca.
John, il volto arrossato dalla corsa e dalla tensione, cerca con lo sguardo il detective, fino a trovarlo.
Per un attimo - il tempo di respiro - il pensiero che sia davvero lì, davanti a lui, lo tramortisce.
Il detective, la bocca socchiusa e gli occhi lucidi, guarda il medico ed ha l’impressione forte, potente, violenta, di essere divenuto completo solo in quel momento.
Si guardano - in silenzio - per qualche istante, e davanti a loro sembra schiudersi l’eternità stessa.
È la voce di Whispers, un sussurro lieve, a richiamare l’attenzione del detective.
«…no… no… ti prego» singhiozza. «Non voglio, non voglio morire! No, ti prego! Ti PREGO!» urla, e John scorge la pistola solo quando ormai è quasi del tutto nella bocca dell’uomo.
Sherlock abbassa gli occhi, sorpreso. Ancora seduto su di lui, dopo un secondo di esitazione, allunga una mano per cercare di bloccarlo, ma Whispers è più veloce.
Un boato esplode nell’aria, ed il detective rimane immobile, sbigottito, il braccio sospeso nell’aria e il viso coperto di piccoli schizzi di sangue.
«Sherlock!» John corre verso di loro, lasciandosi cadere a terra, vicino a dove l’altro è ancora bloccato, paralizzato.
Il medico abbassa lo sguardo, smarrito, su quanto rimane del volto di Whispers, mentre una chiazza scura si allarga sotto la sua testa, impregnando i capelli.
«Allontanati, andiamo…» sussurra il medico, staccando gli occhi a fatica dal foro che deturpa il viso del Cannibale e girandosi verso il detective. «Sherlock, allontanati…» ripete, poggiandogli una mano sulle spalle.
Il calore dell’altro, così reale, così tangibile, scuote il detective dal torpore che sente bloccargli i pensieri. Boccheggia, iniziando a sollevarsi.
«Sei davvero qui…?» domanda in un sussurro, aggrappandosi a John per riuscire a mettersi in piedi.
«Sì, sono qui» gli risponde lui, facendosi passare il braccio di Sherlock sopra le spalle in modo da poterlo sorreggere meglio ed aiutarlo ad alzarsi.
In lontananza, il suono delle sirene della polizia si mescola a quello di un elicottero in avvicinamento.
John, disorientato, si guarda attorno.
«È una trappola…» sussurra Sherlock, la testa a pochi centimetri dalla sua.
Le stesse parole escono dalla bocca di Sarah, ora in piedi di fianco al corpo esanime di Whispers.
«Non capisco…» mormora il medico, gli occhi sulla donna ma il volto girato verso quello del detective.
«Non sarà la BPO ad ucciderci uno ad uno…» singhiozza lei, negli occhi un terrore totale, completo, annichilente.
«Sarà il Governo stesso, a farlo…» conclude per lei Sid, apparso al suo fianco.
«Sono certo che la registrazione di quanto successo sia già sul tavolo di qualche politico…» Sherlock si stacca da John con forza, mentre il rumore delle eliche dell'aeromobile diventa più forte. La sua sagoma scura, metallica, è adesso visibile contro il grigiore del cielo ed il detective allontana con una spinta il medico da sé.
«Vattene» gli intima, iniziando ad indietreggiare, diretto al bordo.
«Sherlock, che diavolo stai facendo?!» John, gli occhi lucidi e la gola secca, si muove verso di lui, ma viene fermato da un gesto brusco dell’altro.
«Mi terranno sotto tiro, quando arriveranno. Devi andartene» gli ripete lui, cercando di forzare le parole ad uscire dalla barriera delle sue labbra secche.
«Non me ne vado da nessuna parte, senza di te!» esplode il medico, cercando di raggiungerlo.
«Non ha senso che ci prendano in due, lo capisci?!» grida il detective, ormai quasi sul bordo. «VATTENE!»
John si ferma, terrorizzato dall’idea che solo un passo separi l’altro dal basso cornicione di mattoni chiari dietro di lui. Alza le mani e indietreggia a sua volta, allontanandosi dal corpo di Whispers.
«Fa’ qualcosa!» implora Sarah voltandosi verso Sid, in piedi a pochi passi da lei.
«Non posso. La polizia è già qui» risponde lui, sul viso un’espressione di paura che la donna non gli ha mai visto prima.
«Lo uccideranno!» grida lei e John si gira a guardarla, atterrito. «E poi diranno che un Sensate ha ucciso uno degli esponenti più importanti dell’organizzazione nata per proteggerli! Che siamo senza controllo! I governi autorizzeranno azioni di attacco preventivo!» singhiozza Sarah, disperata, e Sid si morde con forza un labbro.
Si volta verso Sherlock, anche se sa che lui non può vederlo. Ha alzato le mani e, lentamente, si sta mettendo in ginocchio.
L’elicottero, ormai, è quasi sopra il tetto.
«Di’ al tuo amico di andarsene. Cercherò di tirarlo fuori, ma ci serve qualcuno in grado di fargli visita, in caso.» Sid aspetta di vedere un cenno d’assenso da parte di Sarah, prima di sparire.
«Va’ via, John» sussurra la donna, la voce ridotta ad un sussurro.
«No, non me ne vado» ripete il medico ancora una volta, mentre Sherlock posa su di lui uno sguardo implorante.
«Sid troverà un modo per aiutarlo, ma ci serve qualcuno che possa fargli visita, quando sarà in carcere» insiste lei, comparendo al suo fianco. «Ti prego…»
«Lo uccideranno…» geme il medico, il petto sul punto di esplodere. Sherlock, a terra, abbassa gli occhi.
«Non possono. Non così. Ma lo faranno in fretta, questo sì.» Sarah posa una mano su un braccio di John, premendo appena. «Ti prego, è l’unico modo…» lo implora.
Lui si volta a guardarla. La donna gli lancia un ultimo sguardo disperato. Poi, scompare.
«Sistemeremo tutto, te lo prometto» sussurra il medico, rivolto a Sherlock, mentre il velivolo - sopra le loro teste - comincia a scendere di quota. Il detective annuisce, deglutendo a fatica. Non ha la forza di alzare la testa, ma sente i passi dell’altro raggiungere la porta, e sparire lungo le scale.
«Tornerò appena possibile» lo rassicura John, adesso in ginocchio accanto a lui, poco più di un’ombra. «Non ti lascio» aggiunge, chinandosi in modo da potergli appoggiare le labbra tra i capelli scompigliati.
I passi pesanti e veloci dei poliziotti lungo le scale si fanno più vicini.
Sherlock può sentirli muoversi in piccoli gruppi, le pistole puntate di fronte a loro.
«Sono qui» ripete John, vedendo la porta che ha chiuso dietro di sé solo qualche attimo prima spalancarsi con uno schianto.
Due agenti, l’arma puntata sul detective, gli intimano di sdraiarsi. Lui, in silenzio, si porta a terra, permettendogli di ammanettarlo. Il volto girato verso sinistra, vede John un’ultima volta. Una lacrima gli sta solcando il viso. È nascosto un isolato più avanti, in un vicolo.
«Sono qui» sta ripetendo, ancora.
Poi, il calcio di una pistola colpisce Sherlock alla testa, e fa cadere il medico a terra.
Le mani contro il selciato, John rimane senza fiato.
Solo.
Il contatto si è interrotto.
 
 
 
 13. 
 
 
 
«Mycroft…» Una voce, lontana, conosciuta, familiare, lo chiama.
Lui, a fatica, socchiude gli occhi, sentendo il sapore metallico del sangue ancora in bocca. Muove gli occhi lungo la stanza, adesso disabitata, ingombra di macchinari medici.
«Whispers è morto…» sussurra ancora la voce e Mycroft, con estrema debolezza, abbozza un sorriso tirato.
«Sono morto anche io?» domanda, in un bisbiglio, quando i suoi occhi incrociano quelli di Greg, in piedi a pochi passi da lui.
«No. E cerca di non farlo nella prossima ora… stanno venendo per te.» Greg, con un sorriso, è scomparso. Al suo posto resta un uomo dalle iridi scure. Mycroft si ricorda di lui, lo ha conosciuto tanti anni prima, in un viaggio in India.
«Chi…?» cerca di dire, ma la saliva, vischiosa, gli ottura la gola, facendolo tossire.
«I rinforzi…» L’uomo gli si accosta, appoggiandogli una mano sul petto, sopra i vestiti lacerati e anneriti. «Whispers ci ha teso una trappola… nell’ultimo anno ha registrato atti di violenza perpetrata o presumibilmente compiuta da Sensate, ed ha preparato un dossier per farci dichiarare “pubblica minaccia”. Lo sai cosa prevede il trattato, in questo caso…» Mycroft geme, stremato. Vorrebbe chiedere come sia successo, e dove si trovi Sherlock, ma – forse per la prima volta in tutta la vita - ha paura di sentire la verità. L’uomo sembra leggere i timori tra le rughe profonde del suo viso, perché aumenta la pressione sul suo petto. «L’Arcipelago ha funzionato alla perfezione, Mycroft» si affretta a rassicurarlo. «Ed è solo merito tuo. Ci sono ribellioni ovunque, ovunque. I nostri, all’interno della BPO, stanno cercando di far rimuovere Richard Wilson Croome, affermando che lui sapesse quali crudeltà Whispers perpetrasse sulla nostra razza, violando ogni singolo articolo della carta di Cipro. I migliori hacker tra noi si sono messi a lavoro. Le casseforti sono state aperte, i fascicoli desecretati. Ora una copia di ognuno di loro si trova su ogni singola scrivania che conti qualcosa. E non è qualcosa che, semplicemente, si possa ignorare.»
«Sherlock…?» cede Mycroft e, per un attimo, il timore per la risposta che sta per ottenere annulla ogni altro pensiero.
«A Marshalsea, cella 187. Ma stiamo lavorando anche per lui» risponde l’uomo, aprendosi in un sorriso sincero.
«Il tuo inglese è migliorato, Raj…» sussurra Mycroft, un grazie nascosto tra le pieghe delle parole.
«Il tuo hindi, invece, è ancora incomprensibile» scherza l’altro, allontanando la mano ed interrompendo il contatto tra loro. «Resisti ancora per un po’. Va bene?» aggiunge, tornando serio.
Mycroft annuisce appena, chiudendo gli occhi di nuovo.
«Tuo fratello e la sua cerchia sono stati bravi, davvero» sente dire, ma la voce è già lontana, quasi un fruscio leggero. «Mai visto nessuno arrivare ad atterrare Whispers.»
Di nuovo solo nella sala operatoria, Mycroft sorride.
 
«Le coincidenze non esistono, Myc.» Aveva detto Gregory durante il loro primo appuntamento, appoggiando le labbra alle sue. «L’Universo non è mai pigro al punto da far scegliere al Caso.»
 
 
* * *
 
 
«Sherlock…!» È quasi mezzanotte quando John - maglietta stropicciata e jeans scuri - compare in un angolo della cella 187 di Marshalsea, il viso segnato dalla tensione.
Ha provato per quasi tutto il giorno – disperatamente - a far visita all’altro e, dopo ogni tentativo fallito, il silenzio è divenuto più doloroso, più desolante, sommandosi lentamente alla paura fino a trasformarsi in un’angoscia profonda. Un abisso sempre più ampio, scuro, opaco come – nonostante il sollievo di avere il detective nuovamente di fronte a sé – appare il suo sguardo nella penombra della stanza angusta.
 
Nel pomeriggio - dopo decine di prove, tutte vane – aveva cercato ristoro, stremato, in una caffetteria. Sarah era comparsa pochi minuti dopo, una visita breve, il tempo di metterlo a conoscenza del piano di Sid e dei tentativi che stava già compiendo per la sua attuazione. Per un attimo, John aveva rivisto se stesso – tutta la sua preoccupazione, tutta la sua apprensione - nel volto profondamente scavato della donna.
Alla fine, al termine dell’ennesima visita mancata, si era trascinato fino alla camera del piccolo albergo prenotato per la notte. Lì, il viso nascosto tra le mani, aveva atteso ancora, e ancora. Fino a quando – solo qualche minuto prima, in un impeto di ira mista a frustrazione – si era alzato di colpo, diretto in bagno, i passi incerti e le dita scosse da tremiti impercettibili. Aveva messo con foga la testa sotto il rubinetto del lavandino, aprendo l’acqua fredda in cerca di sollievo.
Pochi istanti, il tempo di tornare in posizione eretta, e le pareti in mattonelle bianche del bagno erano divenute ruvide, buie come l’intonaco grezzo del carcere dove, improvvisamente, si trova rinchiuso a sua volta.
 
«Dio» esala aprendosi in un sorriso esausto, mentre sottili rivoli d’acqua gli scendono lungo il collo, arrivando ad impregnare la stoffa della t-shirt. «Mi stavo preoccupando… Non riuscivo a mettermi in contatto con te in nessun modo…»
Sherlock – il viso tumefatto ed un grosso grumo di sangue rappreso sulla tempia sinistra - alza sorpreso gli occhi su di lui. «Mi hanno dato dei calmanti…» spiega con voce bassa, atona. Nella poca luce che illumina l’ambiente, sembra incredibilmente piccolo, fragile. John gli si avvicina in fretta, inginocchiandosi di fronte alla brandina sulla quale in detective è seduto, le mani sulle ginocchia e la testa bassa.
«Cosa ti hanno fatto…» sussurra l’altro, passandogli una mano sulla ferita, delicatamente. «Avrebbero almeno potuto fermare il sangue…» sussurra, e l’ira che gli fa fremere le mani si allarga anche nel petto del detective.
«Non è grave…» ribatte lui, ma John continua a spostargli piano i capelli, analizzando la ferita.
«Non avrebbero dovuto comunque toccarti» sibila il medico, gli occhi arrossati.
«John… davvero» Sherlock gli ferma la mano, portandosela sulle gambe. «Non è importante.»
Il medico, con un respiro profondo, si rialza, andandosi a sedere accanto al detective.
«Sid sta cercando di farti uscire» inizia, e adesso sono entrambi nella camera d’albergo. Sherlock aggrotta le sopracciglia, confuso.
«Perché non sei a casa?» domanda, ma una parte della sua mente, del suo cuore, conosce già la risposta.
«Ho deciso di smettere di mentire» sintetizza John, e sa che sarà sufficiente. Porta le dita tra quelle dell’altro e stringe appena, con dolcezza.
«Chi è Sid?» chiede il detective dopo aver fissato in silenzio, per qualche attimo, il volto dell’altro.
«Il ragazzo di Sarah, la segretaria della clinica dove lavoro.»
«Sensate?» Sherlock inclina la testa da un lato, stupito.
«Sensate» conferma John, di nuovo in cella. Si guarda attorno, scorgendo in un angolo il vassoio con il pasto serale dell’altro, ancora intonso.
«Devi mangiare…» gli dice, nella voce una vena di preoccupazione.
«Quando sarò fuori di qui» ribatte Sherlock, chiudendosi nelle spalle in un chiaro segnale di disinteresse.
«Non sappiamo quanto tempo ci vorrà, ancora…» ribatte John, cercando di far comprendere all’altro quanto il digiuno fino allo scarceramento non sia una strada percorribile. «Stiamo cercando di arrivare alla registrazione delle telecamere di sorveglianza di Bart’s, ma sono dati ben protetti e…»
«Eliminare la registrazione non fermerà il piano di Whispers.» Sherlock si alza, muovendosi avanti e indietro nella piccola stanza d’hotel.
«No. È vero.» Il medico scuote la testa, mentre piccole gocce d’acqua si liberano dalle ciocche bionde che gli ricadono sulla fronte, bagnandogli il viso. «Ma cancellare il video è solo una piccola parte del piano» spiega, raggiungendo l’altro e bloccandolo per le braccia, le mani strette con gentilezza poco sopra i suoi gomiti. «Fidati, ti tireremo fuori» sussurra con convinzione, gli occhi seri e lo sguardo sicuro. Il detective resta immobile qualche secondo, cercando di capire se quello che sente aprirsi in mezzo al petto ogni volta che si trova così vicino all’altro occupi i pensieri di John quanto fa con i suoi.
«Non permetterò a nessuno, di torcerti un capello» continua il medico, e la furia nei suoi occhi è calda come i respiri che Sherlock sente spezzarsi in gola.
Restano così - fermi l’uno di fronte all’altro, gli occhi e le mani tenacemente legati tra loro - fino a quando Sherlock, un nodo stretto con forza attorno alla trachea, non si china, posando le labbra su quelle socchiuse dell’altro.
John gli fa spazio tra i respiri, ricambiando il bacio.
«Ti tirerò fuori da qui» gli soffia sul viso quando, più di un minuto più tardi, riesce a staccarsi da lui. Le mura scure della cella sono umide, si accorge il medico non appena Sherlock – indietreggiando di qualche passo - ci poggia le spalle, alzando il viso verso il soffitto buio.
«Cerca di riposare.» John allunga una mano verso di lui, e aspetta di sentire la presa dell’altro attorno al proprio polso prima di guidarlo verso la brandina. «Dormi un po’. Io resto qui» gli sussurra sedendosi all’estremo del materasso, in modo che Sherlock, sdraiandosi, possa appoggiare la testa sulle sue gambe.
Il detective rimane in piedi per qualche secondo, incerto.
«Sparirai non appena mi sarò addormentato…» dice, e sa che il medico ne è consapevole esattamente quanto lui.
John annuisce, piano, ma gli fa cenno comunque di distendersi.
«Presto potremo dormire vicini, e non importerà chi dei due prenderà sonno per primo» mormora, mentre il detective si accovaccia sul materasso logoro. «Presto potrò guardarti dormire senza la paura che tu scompaia tra le mie dita» aggiunge, passando una mano, lenta, tra i capelli dell’altro.
Lo accarezza, adagio, ancora, e ancora.
Lo fa fino a quando, un senso di vuoto incolmabile al centro del petto, non resta solo – la mano sospesa nel vuoto – nel silenzio di una stanza d’albergo.
Sherlock - nella penombra della cella - si porta istintivamente una mano alla testa, cercando le dita dell’altro nel sonno, il loro calore ancora sulla pelle.
 
 
 
 14. 
 
 
 
«John… JOHN!»
Il medico si sveglia di soprassalto, il viso di Sarah a pochi centimetri da suo.
Istintivamente si porta il lenzuolo sul petto nudo, cercando di coprirsi. «Sarah… cosa… che succede?» domanda, la bocca impastata dal sonno e dalla sorpresa.
«Non c’è tempo per questo!» si spazientisce lei, indicandogli con un rapido gesto della mano gli abiti - abbandonati su una delle sedie della camera - e facendogli cenno di vestirsi. «Alzati. Preparati. Muoviti!» lo incita e il medico, ancora confuso, scende in fretta dal letto, avviandosi con passi esitanti verso i vestiti.
«Che succede? Sid è arrivato alle registrazioni…?» chiede, mentre si infila con gesti scoordinati maglietta e jeans.
«Sì. Ma è successo molto più di questo!» esclama lei, entusiasta. «E non me lo perderei per nulla al mondo, fossi in te!» aggiunge, voltandosi verso il piccolo televisore appeso sopra la porta della stanza. «Puoi accenderlo?» domanda poi, mentre John termina di allacciarsi le scarpe. «Metti la BBC News.»
«Inizio a preoccuparmi…» ribatte lui, ma si allunga comunque verso il comodino, afferrando il telecomando. Sarah, in silenzio, prende posto accanto al medico.
Con un lieve ronzio, lo schermo si accende.
Due uomini, seduti dietro una larga scrivania di vetro sabbiato, stanno discutendo animatamente di qualcosa.
«Alza il volume!» lo incoraggia Sarah, gli occhi rivolti al monitor. John annuisce, trovandosi improvvisamente nell’abitazione dell’altra, seduto con lei sul divano del salotto.
Sid - in piedi dietro di loro, nello spazio tra il sofà e la parete – si china in avanti, appoggiandosi allo schienale per poter abbracciare la donna.
«È John?» le domanda allegro in un orecchio. Lei annuisce, con un sorriso.
«Sid ti saluta» dice poi, rivolta a John.
«Oh, grazie!» ricambia il medico, guardandosi attorno. «Saluti a te, Sid…!» aggiunge, incerto, lasciando vagare gli occhi lungo la stanza senza riuscire a vederlo.
«Alza il volume!» ripete lei, di nuovo nella stanza d’albergo. John abbassa gli occhi sul telecomando, in cerca del tasto giusto.
La voce dei due uomini riempie la camera poco dopo, rimbalzando sulle pareti ricoperte di carta da parati chiara.
«Cosa ne pensi, di questo improvviso cambio al vertice della BPO, colosso internazionale della ricerca medica?» chiede il primo, con tono serio.
«La BPO è, in parte, sotto il controllo del Governo Centrale, e sovvenzionata con fondi pubblici. Se il Primo Ministro ha ritenuto che Croome non fosse più la persona adatta a gestirla, era nei suoi pieni diritti destituirlo dalla carica di amministratore delegato» ribatte l’altro mentre John, le sopracciglia aggrottate, si volta verso Sarah in cerca di risposte.
«Non capisco…» ammette, e la donna sorride bonariamente.
«Capirai» gli sussurra, tornando a prestare attenzione allo schermo.
«Si hanno già anticipazioni su chi sarà chiamato a sostituire Croome alla direzione?» domanda ancora il primo uomo, avvicinandosi all’altro come a voler ascoltare un pettegolezzo rivelato a mezza voce.
«Indiscrezioni provenienti da fonti affidabili – e autorevoli - parlano di Mycroft Holmes, funzionario governativo di comprovata esperienza, come prossimo leader del colosso di ricerca medica. Trovo…»
Il medico - gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa – si volge di scatto verso Sarah, seduta nuovamente accanto a lui sul divano. La donna, un enorme sorriso sul volto, alza la testa verso Sid. «Ha capito, adesso» lo informa, e l’uomo le appoggia un bacio su una tempia.
«Allora digli di prepararsi. Le udienze per le scarcerazioni iniziano alle undici in punto» sussurra lui, prima di sparire.
Nella camera d’albergo, Sarah appoggia una mano sulle spalle tremanti di John.
«Come… come avete fatto?» le domanda il medico, una felicità violenta a mozzargli il respiro e le parole.
«L’Arcipelago» svela lei, allegra. «Esiste da anni, ma eravamo tutti così spaventati… che per molto tempo abbiamo finto di non ricordare la sua esistenza.»
«L’Arcipelago…» ripete John, percependo quasi – nel pronunciarlo - il senso celato dietro quel termine così particolare, evocativo.
«C'è una rete tra di noi, con rami in tutto il mondo. Lo chiamiamo l'Arcipelago, perché è questo, ciò che siamo: apparentemente soli in superficie, ma connessi nel profondo» conferma involontariamente Sarah, poco dopo. «Qualcuno che conosci parla con qualcuno che conosce, che a sua volta propaga l’informazione con le persone con le quali è venuto direttamente in contatto. È stato proprio Mycroft Holmes, quando le cose alle BPO iniziarono ad andare male, a scegliere l’Arcipelago come ultima misura di sicurezza.» La donna scuote la testa, improvvisamente assorbita da quel ricordo.
«Lo hai mai conosciuto?» domanda John, smorzando l’audio della televisione nella propria stanza.
«No. Ma lo ha conosciuto Rajad, un compagno di studi di Sid. A proposito di Sid» Sarah si alza di scatto e John, sul divano, si solleva istintivamente a sua volta. «Mi ha detto che devi prepararti, le udienze per i rilasci cominciano alle undici.»
«Rilasceranno Sherlock?» chiede il medico, e quasi non riesce a trovare la forza di far uscire le parole dalla gola secca.
«Senza video e con un fratello a capo della BPO, dubito che i poliziotti collusi con Whispers abbiano i mezzi per poterlo trattenere più a lungo» risponde la donna, ma lui non la sta più ascoltando. È di nuovo a Marshalsea, gli occhi fissi su Sherlock voltato verso il muro, intento a vestirsi. Ha la schiena coperta di lividi violacei, e John inclina la testa da un lato mentre un’espressione di sordo furore gli abbuia gli occhi, mischiandosi alla preoccupazione ora aggrappata – quasi dolorosamente - alle rughe ammassate attorno alla bocca.
«Cosa ti hanno fatto?» sussurra, teso, avvicinandosi a l’altro.
Il detective, colto di sorpresa, si gira verso di lui con ancora la camicia stretta tra le mani. Un ricciolo scuro, bagnato, gli ricade sugli occhi spalancati.
«Sei ricoperto di lividi.» John ha gli occhi scuri, e la voce roca. Sherlock alza le spalle, scuotendo con noncuranza la testa.
«Te l’ho detto, che mi hanno sedato» dice, con voce bassa.
«Ma non mi hai detto che ti avevano picchiato» ringhia l’altro. Può sentire la schiena bruciare e dolere, adesso, esattamente nei punti dove quella dell’altro è ricoperta da ecchimosi profonde.
«Hanno solo cercato di fare “il loro lavoro”, immagino» ribatte il detective, iniziando ad indossare la camicia. «Trovare nomi, connessioni, estorcere confessioni…»
John, di fronte a lui, lo aiuta a chiudere i bottoni, gli occhi bassi e i respiri veloci, superficiali.
«Mio fratello è appena stato qui» gli dice Sherlock, cercando di tranquillizzarlo. «Non ha un bell’aspetto… ma sembra che il suo volto tumefatto abbia giocato un ruolo fondamentale, nel convincere il Primo Ministro che fosse la persona giusta per presiedere il consiglio direttivo della BPO» aggiunge, arricciando il naso.
«Ero venuto proprio per dirti questo…» risponde John, ma la voce trema sotto la collera che ancora lo attraversa. «Dovresti…» si blocca, fatica a trovare le parole. «Dovresti mettere qualcosa, tra la pelle e il cotone della camicia. Per evitare che la cute strofini contro il tessuto. Dovresti chiedere…» riesce a dire, dopo essersi schiarito la gola.
«Vieni all’udienza. È questo, ciò che chiedo» lo interrompe il detective, fermando le mani dell’altro, ancora intente a far passare i bottoni della camicia all’interno delle asole. «Il resto non importa. Sono lividi, John. Spariranno.»
Il medico si morde un labbro, alzando gli occhi sul viso dell’altro.
«Potrai curarli, o non farlo, quando sarò fuori di qui.» Sherlock si china in avanti, appoggiando la fronte a quella del medico. Quel contatto, più di qualsiasi altra parola, riesce a placare la furia del medico. Chiude gli occhi, e lascia che i capelli umidi dell’altro bagnino i suoi.
 
Quando li riapre, la camera d’albergo è vuota, e l’orologio di fianco alla porta d’ingresso segna le dieci e venticinque del mattino.
John afferra il cappotto abbandonato sopra la piccola scrivania in legno chiaro della stanza ed esce in fretta, il cuore che batte con violenza nel petto ed un sorriso timido – carico di speranza - a rischiarargli il volto.
 
 
 
 15. 
 
 
 
John, seduto in fondo alla piccola aula adibita alle discussioni sulle scarcerazioni, guarda con aria attenta i giudici prendere posto dietro la lunga scrivania in mogano scuro sistemata nella parte opposta della stanza. Alle loro spalle, nuvole grigie e cariche di pioggia si inseguono veloci oltre le alte finestre dai vetri opachi.
Nervoso, apre e chiude ritmicamente le dita delle mani, appoggiate sul cotone scolorito dei jeans. Vorrebbe visitare Sherlock, fargli sapere che è lì, ma non è certo che sia il momento migliore. Con molta probabilità sta spiegando alla polizia, per l’ultima volta, la sua versione dei fatti. La sua presenza finirebbe con l’essere una distrazione, più che un sostegno.
«Il dottor Watson, immagino.» Un uomo dall’aspetto distinto, in completo scuro, prende posto accanto a lui. Si tiene con forza una mano contro lo sterno e, sul viso, porta i segni di un pestaggio recente.
«Mycroft…?» domanda John e l’altro si limita ad annuire in silenzio, con un movimento lento della testa.
«Penso di dovermi complimentare con lei, per il modo nel quale Jim Moriarty è stato atterrato su quel tetto» riprende l’uomo dopo qualche secondo, con voce atona. «Una leva perfetta.»
«Perché crede che non possa essere stato Sherlock?» chiede John, muovendosi impercettibilmente sulla sedia, a disagio.
«Mio fratello ha la mente di un scienziato o un filosofo, ma ha deciso di essere un detective. Questo lo rende sicuramente molte cose, alcune delle quali inimmaginabili per la maggior parte di noi… ma, di certo, non un combattente addestrato.» Mycroft si gira verso il medico, lo sguardo serio ed il mento leggermente alzato.
«Mi dispiace. Non mi sono accorto della pistola» scuote la testa John dopo qualche secondo, combattendo l’istinto di abbassare gli occhi.
«Non si può avere il controllo su ogni cosa. Soprattutto all’inizio» risponde Mycroft, calmo. «È già molto che sia riuscito a combattere mentre correva lungo le strade di Londra.»
«Come…» comincia il medico, ma la campanella sopra la porta d’ingresso richiama la loro attenzione. Uno squillo acuto, aguzzo, che copre le sue parole, inghiottendole. È il segnale che Sherlock sta per essere portato a cospetto dei giudici.
«Mio fratello le ha mai detto quale sia il mio lavoro?» sussurra Mycroft, alzandosi con fatica dalla propria sedia, in modo che la sua figura sia distintamente visibile agli uomini e le donne in toga dall’altra parte della stanza.
John fa cenno di no con la testa, spostando gli occhi verso la commissione con espressione accigliata.
«Bene. Probabilmente, come al suo solito, esagererebbe. Ama ripetere che io sia il Governo inglese. In verità ho solo un piccolo ruolo dirigenziale, all’interno dell’autorità che ci amministra. Sono a capo dell’organo di controllo della sicurezza pubblica» continua l’altro, con voce bassa. John sgrana gli occhi, girandosi verso l’altro con la bocca socchiusa per la sorpresa.
«Quindi, so della sua corsa perché-»
«Mi ha visto correre» conclude il medico.
«Non io personalmente, è abbastanza palese. Ma mi è stato riferito. Al di là degli usi abietti che alcune persone decidono di farne, abbiamo un ottimo sistema di sorveglianza.» Mycroft si porta una mano alla cravatta, sistemandosi il nodo con un movimento misurato. Per un istante, il pensiero che Whispers abbia provato ad usare come un’arma un altro mezzo – oltre alla BPO - nato con lo scopo di proteggerli gli appesantisce le spalle, obbligandolo ad abbassarle. Qualche attimo dopo - quando la porta dietro di loro si apre e Sherlock, i polsi stretti posteriormente dalle manette, viene scortato da due agenti verso il centro della stanza - torna ad assumere una postura eretta, rigida.
John vorrebbe alzarsi, ma la mano di Mycroft - rigorosa, ferma - lo blocca al suo posto.
Il medico, allora, compare per un attimo al fianco di Sherlock. «Sono qui» gli sussurra, prima di sparire. Il detective, immobile di fronte ai giudici, accenna un sorriso.
«Sa come funzionano le visite, dopo che tra appartenenti a gruppi diversi si è instaurato un contatto visivo?» domanda Mycroft con tono vagamente irritato, voltandosi verso John. Il medico aggrotta la fronte, in silenzio, ma sa perfettamente cosa l’altro stia per dirgli.
«La vedo, adesso. E se le impedisco di alzarsi per non distrarre mio fratello in questo momento, non significa che può comparire dove vuole all’interno della stanza per sottrarsi al mio consiglio.»
«Più che un consiglio, sembrava un’imposizione…» sussurra John, ma la sua voce viene coperta da quella del giudice seduto al centro della fila.
«William Sherlock Scott Holmes, numero di matricola 19870312» dice, rivolto ai colleghi, con tono stentoreo. «Signor Holmes, ha rilasciato spontanea dichiarazione di fronte ad un membro del tribunale?» domanda poi, voltandosi a guardarlo. Il detective, a voce bassa, risponde di averlo fatto.
«Ha dichiarato la sua completa estraneità ai fatti a lei imputateti, conscio che un suo eventuale rilascio – in parte o in toto - di una falsa testimonianza sia da considerarsi grave reato e atto di offesa verso questa corte?»
Di nuovo, Sherlock annuisce. «Sì» ribadisce, con voce ferma.
«Il Consiglio ha deciso, all’unanimità, per la sua scarcerazione. Non potrà comunque allontanarsi da Londra prima che ogni documento prodotto - dal suo arresto fino al momento del suo rilascio - sia stato registrato e depositato. Ha capito?»
«Sì. Ho capito» conferma lui, sentendo uno dei poliziotti avvicinarsi.
«William Sherlock Scott Holmes, la dichiariamo libero di andare, fermo restando l’obbligo di dimora presso il suo domicilio, fino a data da comunicarsi.»
Qualche secondo dopo, il detective riesce a portarsi le mani davanti al viso, libere. Si osserva con interesse i polsi doloranti, attraversati da piccoli segni rossastri. I giudici, in silenzio, attendono di vedere il cancelliere apporre la propria firma in calce al verbale appena redatto. Poi - uno alla volta – si alzano, recandosi a sottoscrivere a loro volta il documento prima di avviarsi con passo spedito verso le porte laterali alle loro spalle.
L’ultimo, prima di uscire, rivolge a Mycroft - nuovamente in piedi, un’espressione altèra sul viso - uno sguardo d’intesa. Lui, rapido, ricambia con un cenno del capo, mentre un abbozzo di sorriso gli stira le labbra.
I poliziotti aspettano, ai due lati del detective, che tutti i giudici lascino dall’aula. Poi, velocemente, si avviano lungo il corridoio, uscendo a loro volta.
Solo dopo aver sentito la porta chiudersi dietro i due agenti Sherlock si volta, lento, cercando con gli occhi John e trovandolo in piedi accanto al fratello.
Per un attimo restano immobili, un sorriso impercettibile in bilico ai bordi delle labbra.
«Immagino che adesso vogliate restare soli» inizia Mycroft, atono, recuperando il proprio ombrello dalla sedia ed indirizzando al fratello uno sguardo serio, ma disteso.
«Dottor Watson, è stato un vero piacere, incontrarla» aggiunge poi, abbassando la testa in segno di saluto in direzione di John.
«Piacere mio» gli risponde lui, imitandone il movimento.
Mycroft lancia un’ultima occhiata al fratello, in silenzio, prima di avviarsi con passo lento verso l’uscita.
Il detective resta fermo, muto. Aspetta di vederlo uscire dalla stanza, prima di comparire al suo fianco mentre compie i primi passi attraverso il lungo corridoio che conduce all’ingresso del tribunale. «Grazie» gli sussurra, posandogli una mano su un braccio. Un tocco veloce, rapido, che Mycroft accoglie con stupore. «Serba con cura il ricordo di questo momento, perché non capiterà più che io dica una cosa simile» aggiunge con sguardo divertito il detective, prima di sparire.
Mycroft si ferma per un attimo, lasciandosi andare ad un breve sorriso. Poi, con calma, una mano allo sterno ed una sull’ombrello, si avvia verso l’uscita del tribunale. Dietro di lui, quieto, un gruppo di uomini, donne, bambini, si unisce ai suoi passi. Li percepisce, ma non si volta. È l’Arcipelago, e sa che da quel momento governerà con lui la BPO e le sue operazioni.
«Vogliamo andare a vedere il nostro ufficio?» chiede a mezza voce, alzando uno sguardo su Raj, ora in piedi accanto a lui.
«Che dite, vogliamo andare a dare un’occhiata al nostro ufficio?» domanda lui, voltandosi, e la domanda comincia a girare di orecchio in orecchio, in modo che possa giungere a tutti.
«Mi sembra un’ottima idea» sorride l’uomo, tornando a volgersi verso Mycroft dopo qualche secondo.
«Bene. Perché abbiamo molte cose, di cui parlare» ribatte lui, iniziando a scendere la scalinata posta di fronte all’ingresso principale del tribunale. «Molte cose da cambiare.»
 
 
 
 Epilogo 
 
 
 
John aspetta di vedere Mycroft chiudersi la porta alle spalle, prima di portare nuovamente gli occhi su Sherlock, ancora immobile al centro della stanza.
Gli sorride, esitante, e non sa se avvicinarsi o meno. Il detective, la testa leggermente inclinata da un lato e le labbra socchiuse, riporta le braccia lungo i fianchi, incerto su cosa fare.
«Posso…?» domanda il medico dopo qualche secondo, accennando un sorriso dubbioso.
«Sì. Direi… direi di sì» risponde l’altro, sentendo il petto iniziare a farsi stretto, incapace di contenere del tutto il battito del suo cuore e la paura - mista a desiderio - che sembra avvolgerlo, aumentando ad ogni pulsazione.
«Ok… bene» sussurra il medico, cominciando a muovere qualche passo incerto in direzione dell’altro.
Quando, dopo qualche secondo, si trovano l’uno di fronte all’altro, riescono solo ad allungare una mano in modo da sfiorarsi. Basta un tocco leggero, accennato, per riempire gli occhi di lacrime e svuotare i respiri. Per un attimo, uno soltanto, il medico ha la sensazione di riuscire ad accarezzare se stesso, la propria anima. È come una scarica elettrica continua, una muta comunicazione tra due organismi simbiotici.
«Sei davvero qui?» domanda, ed il detective annuisce appena, abbassando la testa in modo da poterla appoggiare a quella dell’altro.
«Dio…» esala John, il corpo teso al punto da tremare. Il sudore sulla pelle di Sherlock, fresco, sembra quasi una fiamma, a contatto con il suo. Si sente avvampare, ma il fuoco che lo avvolge è ristoratore come acqua fredda in una giornata d’arsura.
«Andiamo a casa… vuoi?» sussurra il detective, e non riesce a trattenere un brivido. Ha freddo, un freddo così forte, totale, da sembrare cocente.
«Casa?» chiede con un sussurro John, gi occhi chiusi e i capelli dell’altro a mescolarsi ai propri.
«Baker Street» mormora Sherlock, abbassando le palpebre a sua volta.
Il medico annuisce, prima piano, poi con maggior convinzione. Poco lontano, le loro ombre si fanno visita, unendosi in un bacio nel quale sembra rannicchiarsi, per un attimo, l’intero universo.
 
La signora Hudson si affaccia nel salotto pochi minuti dopo il loro arrivo. Accoglie la notizia del trasferimento di John – che il detective le comunica senza giri di parole, in modo risoluto, fermo - nella stanza al piano superiore con sollievo evidente e sguardo gioioso. John e Sherlock ne hanno parlato durante tutto il tragitto per tornare a Baker Street, e la scelta è parsa la più logica, e naturale, ad entrambi.
«Almeno saremo in due, adesso, a controllare le follie di questo benedetto ragazzo!» commenta la donna, allegra, porgendo una mano in direzione del medico. «Solo una cosa: io sono la padrona di casa, non la vostra governante» si affrettata a sottolineare, e John annuisce con forza, rassicurandola di non aver alcuna intenzione di confondere le due cose.
«Poi dovrai spiegarmi, caro, cosa sia accaduto al tuo viso. E perché io sia dovuta rimanere lontana da casa mia per ben due giorni, in attesa di una tua chiamata» aggiunge lei, rivolgendosi a Sherlock. «Il tuo messaggio mi ha molto impensierita, lo sai? Non si fanno queste cose, ad una donna della mia età!» lo sgrida bonariamente, ammiccando in direzione del medico.
«Ha ragione, signora Hudson» le concede il detective, appoggiandole una mano sulle spalle. «Ma avevo una piccola cosa di sistemare, e non potevo permettere che corresse qualche rischio. Lo sappiamo tutti che senza di lei crollerebbe l’Inghilterra!» aggiunge e John, a pochi passi da loro, non può che notare quanto profondo sia l’affetto che li lega.
La donna scuote la testa, sorridendo. Da un paio di pacche sul petto di Sherlock, con premura, prima di staccarsi da lui, diretta alla porta. «Ragazzo mio, chi riesce a capirti è bravo!» ride, fermandosi sul pianerottolo e girandosi in direzione di John. «Lei dev’essere un uomo davvero straordinario, se Sherlock l’ha scelta» afferma, affettuosa.
«Ci siamo scelti a vicenda» replica il detective e la donna, sorpresa, non riesce a trattenere un moto di commozione.
«Meglio che vada…» sussurra dopo un secondo di spaesamento, emozionata, sparendo in fretta lungo le scale.
«Deve volerti veramente molto bene…» commenta il medico, girandosi verso Sherlock con il viso disteso.
«Certo che me ne vuole. Ho fatto arrestare suo marito!» ribatte lui, sorridendo davanti all’espressione smarrita dell’altro. «Thè?»
«Prima occupiamoci della tua schiena» risponde John, tornando serio. «Hai una cassetta di pronto soccorso?»
 
«Non ti muovere… ho quasi finito.» John immerge ancora una volta una garza nell’acqua fredda, appoggiandola con attenzione sulla cute arrossata dell’altro.
Seduto a cavalcioni su una delle sedie del salotto - le braccia appoggiate allo schienale che ha davanti - Sherlock chiude gli occhi con forza, cercando di trattenere un gemito di dolore che, lo sa, finirebbe solo con l’aumentare la rabbia che si agita nel petto dell’altro ad ogni medicazione che compie sulla sua schiena.
«Non dovresti essere così teso» gli dice dopo qualche secondo, quando lo shock del contatto tra l’acqua gelata ed il caldo dell’epidermide irritata si è alleviato, mitigato. «Sono solo lividi.»
«Sono lividi sulla tua pelle» ribatte il medico, chiudendo con violenza la cassettina bianca del primo soccorso. «Perché, esattamente, non dovrei essere “teso”? O furibondo?»
«Perché esserlo non li farà sparire prima» risponde il detective, calmo. «E non cambierà quello che è successo.»
John si blocca, sul viso un’espressione pensierosa che si rispecchia nei movimenti inquieti delle mani.
«Non puoi cambiare il passato, John. Non è in tuo potere.» Sherlock gira la testa verso di lui, gli occhi azzurri fissi sul suo volto serio.
«Sarei dovuto rimanere con te, su quel tetto» sussurra il medico, scuotendo la testa.
«Sei rimasto con me» gli ricorda Sherlock, aspettando di sentire il respiro dell’altro farsi più leggero, meno affannoso. «Sei con me dal primo momento nel quale ho incrociato lo sguardo su quel divano» dice, indicando con un cenno della mano il sofà alla loro destra. «Probabilmente ci sei da sempre, dal primo vagito.»
Il medico socchiude gli occhi, aggrottando la fronte.
«Ho fatto un po’ di ricerche, prima di incontrare Whispers, su quel tetto.» Sherlock si alza, scendendo dalla sedia con un gesto fluido. «Alcuni scienziati hanno scritto articoli e libri sulla possibile esistenza dell’Homo Sensorium» spiega, andando a recuperare il proprio computer, abbandonato sul tavolo della cucina. «Diversi di loro sostengono che gli appartenenti ad una cerchia condividano il primo pianto, nascendo nello stesso esatto momento. Che questo li leghi l’un l’altro ancor prima che i loro geni si risveglino» legge, il pc aperto stretto tra le mani.
«Quando sei nato?» chiede poi, alzando gli occhi sul medico.
«Il sei gennaio» risponde lui, abbozzando un sorriso davanti all’espressione stupita dell’altro.
«Oh…» sussurra il detective, sbattendo un paio di volte le palpebre, meravigliato. «Sì… è probabile che fossi lì davvero dal primo momento» aggiunge, mentre il medico si avvicina a lui con passi lenti.
«Bene» inizia John, togliendogli il computer dalle mani, e appoggiandolo con delicatezza sul bracciolo della poltrona di stoffa alla propria destra. «È meraviglioso, saperlo» continua, voltandosi nuovamente verso l’altro. «Così saprò di esserci stato dal primo momento fino all’ultimo» gli soffia sulle labbra, portandogli una mano su una guancia e spingendolo verso di sé.
Sherlock si lascia guidare, docile, aspettando di sentire la pressione delle labbra dell’altro sulle sue, prima di schiuderle.
C’è qualcosa, nel sapore di quel bacio, che ricorda al medico un giorno di primavera di molti anni prima, l’odore del mare in tempesta che si infrangeva sulla scogliera dalla quale – curioso – si era affacciato, ancora bambino, con le mani strette all’erba alta e il ventre a terra.
Per Sherlock, invece, ha l’odore dei campi aridi del Sussex, gialli come il sole che li bruciava rendendo la terra dura sotto i suoi piedi scalzi.
Ha il dolore della solitudine, ed il piacere della lettura.
John ci scorge la paura della morte, chino su un campo di battaglia, e le lacrime di gioia di scoprirsi vivo.
Restano così, immobili, uniti, fino a quando anche l’ultimo ricordo, l’ultima emozione, non è passata da l’uno a l’altro. Fin quando l’ultimo pianto non è stato consolato, e l’ultima risata condivisa. Fin quando non restano che loro, soli, spogliati di ogni cosa, di ogni pudore. Nudi come si erano incontrati anni prima, per un secondo, il miracolo della nascita ancora addosso - tra le dita, su ogni centimetro di pelle - ed un filo invisibile a legarli.
John si stacca per primo, respirando con affanno sul volto dell’altro. Ha freddo e, allo stesso tempo, si sente bruciare.
Sherlock, il viso arrossato e gli occhi lucidi, lo guarda per qualche secondo, cercando di capire dove finisca il proprio corpo, e dove inizi quello dell’altro. Dove terminino i suoi pensieri, i suoi desideri, e dove inizino quelli di John.
«Vorresti…?» inizia il medico, ma non riesce quasi a parlare. Trema, spaventato che qualcosa mandi in frantumi il miracolo di cristallo che ha davanti agli occhi.
«Vorresti?» gli fa eco Sherlock, mordendosi le labbra, e John non ha mai desiderato nulla in tutta la vita tanto quanto adesso desidera stringere l’altro tra le braccia.
Il detective lo sente. Percepisce quella necessità come propria, un riflesso forte e tirannico di ciò che si agita nelle sue vene, nei suoi respiri.
Sono le loro ombre, in un angolo della stanza, a dirsi reciprocamente che sì, lo vogliono più di ogni altra cosa al mondo. Loro, le bocche di nuovo vicine, si stanno invece sfilando gli abiti, veloci.
«Ti farai male…» riesce a dire John, a fatica, mentre l’altro finisce con la schiena contro il muro di fianco alla porta della cucina. «Non voglio che ti faccia male» insiste, e Sherlock si blocca, cercando di riprendere fiato.
«Vieni…» riesce a dire dopo qualche secondo, a singhiozzi, afferrando la mano dell’altro e portandolo verso la propria stanza, veloce, attraverso il corridoio in penombra.
Dietro di loro, in un angolo della sala, le loro ombre si mescolano, a terra, in un movimento ritmico e pulsante.
Senza parlare, in silenzio, il medico accompagna Sherlock sul letto, facendolo sdraiare con attenzione. Lui, la testa inclinata all’indietro e le labbra socchiuse, aspetta solo di sentire John muoversi su di lui come già sta facendo, nel loro salotto.
C’è un attimo, un attimo preciso, unico, perfetto, nel quale John scivola in lui nello stesso momento e con la stessa intensità con cui - nell’altra stanza - i loro stessi spiriti, il loro essere, stanno facendo altrettanto. Le ombre spariscono, lasciando solo il piacere di sentirsi, percepirsi, in ogni più piccolo aspetto, respiro, movimento.
Ad ogni spinta Sherlock inarca la schiena, cercando di aggrapparsi con le dita al corpo dell’altro, steso sopra di lui. John, ad ogni gemito dell’altro, sente i propri aumentare, amplificarsi, sdoppiarsi.
Una spinta e Sherlock lo sta guardando, con i capelli umidi e le labbra arrossate, socchiuse. Una spinta ed è sdraiato di schiena, i segni dei lividi quasi invisibili nel rossore della pelle. Un’altra e sono abbracciati, uniti, e John lo bacia con tanta foga da sentir dolore i muscoli del viso.
Continua a muoversi, John, e attorno a loro il paesaggio muta costantemente, ad ogni brivido, ad ogni gemito, ad ogni goccia di sudore che si stacca dai loro corpi.
Sono in prato, poi nel mare. La sabbia calda li circonda, sostituita poi dal fresco delle tegole del tetto sopra le loro teste. Sono ovunque, in ogni luogo riescano ad arrivare con la mentre. Prima è John a muoversi dentro di lui, e un attimo dopo è Sherlock a scegliere come e quanto in profondità spingersi.
«John…?» lo chiama il detective quando, sdraiato sotto di lui, sente di non riuscire a trattenersi oltre.
«Sherlock» gli risponde l’altro, in ogni luogo si trovino. Nel silenzio di una spiaggia deserta, nella confusione di una piazza affollata. In posti persi nel tempo, ed in altri che non hanno mai visto, che riescono solo ad immaginare.
L’ultima spinta, l’ultimo respiro, l’ultimo gemito si mescolano tra loro con così tanta forza che John ha l’impressione che non riuscirà mai più a staccarsi dall’altro. Che si siano fusi, insieme, in un unico corpo che può sopravvivere solo se resta unito, ansimante, bollente, coperto di sudore, baci e lacrime di gioia.
Sono di nuovo a Baker Street ed il letto, attorno a loro, sembra un campo di battaglia. John, scosso dei tremiti, si accascia vibrante e fremente accanto all’altro, il viso arrossato dallo sforzo e dal piacere.
Sherlock ha solo la forza di girare il volto verso di lui, mentre un brivido lo scuote, facendolo tremare.
«Dio…» sussurra il medico, allungando una mano per sfiorarlo. Un tocco leggero, lieve, che quasi riesce a percepire, a sua volta, sulla propria pelle.
Sherlock socchiude le palpebre, stremato.
Vorrebbe dormire, ma ha il terrore che John possa sparire non appena avrà chiuso gli occhi.
«Dormi» gli sussurra lui, passandogli una mano tra i capelli bagnati. «Io resto qui.»
«Sei sicuro…?» domanda il detective, la voce impastata.
«Mi troverai qui ad ogni risveglio. Te lo prometto» mormora John, con un sorriso. «Non importa chi dei due prende sonno per primo» aggiunge, mentre il detective si accovaccia di fianco a lui. «Siamo qui. Siamo davvero qui. Insieme» termina a voce bassa, continuando a muovere le dita, lente, tra i capelli di Sherlock, già addormentato.
Dopo qualche minuto si gira su un fianco a sua volta, appoggiando la fronte a quella dell’altro. Chiude gli occhi, prendendo sonno quasi subito.
 
 
Il vento, in piccole folate scomposte, accarezza l’edera abbarbicata su quanto resta della parete est di St. Dunstan, risuonando tra gli archi ormai vuoti delle finestre.
Due ombre passeggere, fugaci, compaiono nell’esatto punto dove - nel 1941, lacerate da una bomba tedesca - le centenarie pietre della chiesa si sono ripiegate sopra l’altare.
Sdraiate a terra, addormentate, si tengono per mano con forza, e respirano all’unisono.
 
Insieme.
 
Come hanno sempre fatto, da quando sono nate.
 
 
 
 
 
  
 
 “Non so esattamente cosa spinga due persone a legarsi. Forse la sintonia, forse le risate, forse le parole. […] O forse accade perché doveva accadere. Perché le anime sono destinate a trovarsi, prima o poi.”
 
(Paulo Coelho)
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Sono stata a lungo in dubbio sullo sviluppo della scena sul tetto ma, dopo molte riflessioni, ho pensato che fosse la soluzione “più in linea” con il personaggio (sia come Whispers che, soprattutto, come Moriarty). Jim ha lavorato a lungo nella BPO, raccogliendo materiale da usare come arma. Per lui si tratta di una partita a scacchi e, pur di vincere, è disposto a sacrificarsi come in qualità di pedina fondamentale. Per molto tempo (diciamo fino alla conclusione della s4! ^_^’’) sono stata fermamente convinta che Moriarty si fosse sparato, al termine della seconda stagione di Sherlock, per lo stesso identico motivo.
 
Eccoci qui. Dopo tre settimane, questa piccola (piccolissima!) immersione nell’universo sense8 si è conclusa.
Ho amato davvero molto scrivere questa storia (e non escludo di tornare a farlo!), e spero di cuore che il tempo passato in sua compagnia possa essere stato piacevole. ^_^
Vi ringrazio, come sempre, per aver letto fin qui. Per aver commentato, aggiunto la storia a qualche categoria, condiviso con me i vostri pensieri, sensazioni ed emozioni.
Questo viaggio – come del resto tutti i precedenti - non avrebbe avuto senso senza voi dall’altra parte, quindi grazie ancora per avermi accompagnata in questa avventura.
 
 
 
 
Rubo – a chi vorrà continuare a leggere – qualche secondo per condividere una cosa che mi sta molto a cuore: l’inizio di un altro viaggio che, però, si svolgerà al di fuori di questo luogo.
Ho cominciato a pubblicare su questo sito il 4 gennaio del 2016 e, in quei giorni, avevo da poco finito di scrivere il manoscritto di un romanzo giallo.
Il titolo iniziale - quello con il quale lo hanno conosciuto parenti e amici, lo stesso usato per le prime spedizioni alle case editrici, quello impresso sulla prima pagina di pile e pile di fogli stampati in copisteria per le correzioni - era “Rebus”. A ripensarci adesso, sembra passato un secolo.
In questo anno e poco più, a quel manoscritto è successo un po’ di tutto.
Ha cambiato titolo, divenendo “Brainteaser”. Ha partecipato ad un concorso nazionale, arrivando tra i finalisti come opera scelta dalla Scuola Holden, che si è poi presa carico – per sei mesi - di fargli da agenzia letteraria. Infine, è approdato ad una piccola Casa Editrice siciliana, la Smasher Edizioni, che lo ha voluto nel proprio catalogo.
Durante questi passaggi ho spesso gioito, condividendo piccoli e grandi traguardi con chi mi era accanto (comprese alcune persone – che reputo amiche a tutti gli effetti - conosciute proprio su EFP). Ogni tanto c’è stata qualche ferita da curare, e momenti di stanchezza da superare. Più volte mi sono chiesta se avrei mai avuto un porto davvero sicuro per Sasha ed Alex, i due protagonisti.
 
Vi scrivo tutto questo per raccontarvi la fine di questo percorso (in parte lontano ed in parte così vicino a quelli che, ogni giorno, compiamo tra le pagine di questo sito) che è anche l’inizio – come vi accennavo - di un nuovo viaggio:
 
Brainteaser uscirà il 7 giugno.
 
Come ho avuto modo di scrivere su Facebook, e poi su Twitter, sono felice e – allo stesso tempo – terrorizzata.
Per questo vorrei chiedervi, se possibile, un favore.
Come già fatto in fase di trasferimento all’estero vi domando, se vi va, di dedicare un piccolo pensiero positivo (un po’ come i “Pensieri Felici” che facevano volare i Bambini Sperduti in “Hook - Capitano Uncino”! XD) per me ma, soprattutto, per Sasha ed Alex (che sono di certo più importanti).
 
Sarebbe bellissimo iniziare questa nuova fase con la compagnia del vostro sostegno emotivo.
 
 
Grazie, ancora una volta e come sempre, a chiunque abbia letto fin qui.
 
A presto,
B.
 
 
 
 
 
Il viaggio comincia laddove il ritmo del cuore s’espone al vento della paura.
(Fabrizio Resca)
 
 
 
 
 
P.S.: Vi lascio con la copertina del romanzo (che amo profondamente). Se volete, cliccandoci sopra verrete portati alla scheda del libro sul sito della Casa Editrice. ^_^
 
 
 



 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3668348