Undead

di Acqua e Alloro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Emerald Night ***
Capitolo 2: *** Scelta OCs ***
Capitolo 3: *** Seeking Him ***
Capitolo 4: *** The Black Witch ***
Capitolo 5: *** No Escape in Hell ***



Capitolo 1
*** The Emerald Night ***



The Emerald Night
 
 
Qualcuno avrebbe potuto pensare che volare nel mezzo di un cielo color smeraldo fosse un’esperienza magnifica.
Ma non George.
Si teneva ben saldo alla scopa mentre tentava in tutti i modi di schivare i lampi verdi che sferzavano alle sue spalle. I suoni della battaglia rimbombavano come fucili, e tutto attorno a lui infuriava un massacro.
Appena avevano spiccato il volo, erano stati circondati dai Mangiamorte, che avevano iniziato a scagliare incantesimi su incantesimi nel tentativo di disarcionarli dalle scope.
Sarebbe stato un bugiardo se non avesse ammesso di avere paura.
George sentiva letteralmente il sangue rabbrividire nelle sue stesse vene e, come se non bastasse, quella notte era fottutamente freddo.
Cercò di mantenere il controllo, ma soprattutto l’equilibrio, mentre agitava la bacchetta con la mano destra. La sua bocca articolava il latino come mai prima di allora, gli incantesimi fuoriuscivano dalle sue labbra chiari e decisi, nonostante il cuore gli pulsasse frenetico nel petto e i suoi occhi non fossero che due biglie nocciola sbarrate dal terrore.
È l’adrenalina.
Si disse mentre con un colpo deciso colpì un uomo dal fisico snello e longilineo, il cappuccio gli scivolò via dal capo appena in tempo perché George potesse intravedere i suoi occhi; erano del colore dell’ambra, maligni e infidi.
George sentì un brivido percorrergli la schiena, ma non si lasciò distrarre.
Era troppo buio per poter distinguere i volti dei suoi assassini e la notte creava un contrasto fin troppo netto con le scintille che fuoriuscivano dalle loro bacchette.
«Incarceramus!» gridò nel buio.
I lacci di cuoio parvero tranciare l’aria prima di stringersi attorno al corpo di Rabastan Lestrange, che ululò di rabbia quando perse la presa sulla bacchetta. George ovviamente non se ne accorse, troppo occupato a proteggersi dalle maledizioni smeraldine che gli rasentavano l’anima.
Quella coltre di mantelli scuri gli fecero perdere il senso dell’orientamento, e ben presto George si rese conto di essere solo.
Non riusciva a scorgere Lupin da nessuna parte. Quanto si era allontanato dal suo custode?
Era stato così preso a schivare i colpi che gli venivano scagliati addosso da non rendersi conto di aver perso la rotta. Avrebbe dovuto trovarsi già tra le colline di campagna a quell’ora, invece ai suoi piedi risplendevano ancora i lampioni della città e gli edifici in costruzione parevano erigersi a non finire.
Voltò un poco lo sguardo dietro di lui, ma Lupin non c’era.
Merda.
Non avrebbero dovuto separarsi, Malocchio era stato molto chiaro.
Improvvisamente un’ondata di angoscia gli attanagliò il cuore.
Era da solo.
Solo.
Il che voleva dire morto.
Smise di respirare per un secondo lungo una vita, prima di riprendersi e scacciare via quei pensieri. Doveva rimanere concentrato.
L’adrenalina lo aveva reso più rapido e accorto nei movimenti, consentendogli di esibirsi in manovre che altrimenti si sarebbe sognato. Strinse maggiormente la presa sulla scopa, chinandosi in avanti per prendere velocità. Doveva invertire la rotta, era l’unico modo che aveva per ricongiungersi con i suoi compagni.
La sua mente rievocò il volto di Remus dalla sua memoria, e George si domandò cosa stesse passando per la testa al suo ex professore in quel momento. Quell’uomo era sempre stato un tipo piuttosto ambiguo, ma di buon cuore. Probabilmente si stava dannando per averlo perso di vista, se lo immaginava in sella alla sua scopa mentre scandagliava la zona alla sua ricerca.
George covava l’insano presentimento che non si sarebbero mai più rivisti.
Cercò di trovare un punto di riferimento, qualcosa che gli suggerisse che strada prendere per arrivare alla passaporta. Aveva una voglia matta di arrivare a casa, di essere al sicuro.
Sapeva bene di aver passato gli ultimi anni a ridere delle missioni dell’Ordine, insieme a Fred. Si erano impuntati con una gran cocciutaggine pur di partecipare a quella spedizione ed erano andati persino contro il volere di Molly. Ma in cuor suo, George non aveva idea del pericolo che avrebbe corso quella notte. O di cosa sarebbe accaduto di lì a breve.

Successe tutto molto velocemente, quel pensiero gli aveva occupato la mente un secondo di troppo, ma non aveva più importanza. I suoni si erano fatti più offuscati, il mondo che girava vorticosamente e lo lasciava per un attimo senza fiato.
Colpito.
Sentiva qualcosa di caldo bagnargli il lato sinistro del capo, un fiume bollente che gli lavava via pure i pensieri, un dolore acuto che si propagava da un punto indefinito della sua testa, annebbiandogli la vista. Il cuore batteva furiosamente nel suo petto e sembrava volesse scavare un tunnel per fuoriuscirne. Lo sentiva pulsare sia nelle tempie che nella ferita aperta da cui scorreva il sangue.
Quando finalmente riprese fiato, stava precipitando verso il suolo, quasi del tutto incosciente.
I suoi occhi si incrociarono nel tentativo di mettere a fuoco la vetrata contro cui stava per andare a sbattere. Avrebbe dovuto cercare di deviare la rotta, ma le forze gli vennero meno proprio nel momento del bisogno.
Chiuse le palpebre a forza, il respiro irregolare che si perdeva nel vento, ma non svenne.

Il rumore dei vetri infranti fu nulla in confronto al dolore. George sentì la testa sbattere violentemente contro il cemento. Per un attimo niente, il silenzio più assoluto, poi lo sentì: un dolore atroce che si espandeva per tutto il suo corpo.
L’impatto fu così violento da spezzargli il braccio, che rimaneva lì, fermo e immobile, le ossa rotte che urlavano fino a lacerargli i timpani.
Provò a ritrovare il respiro che gli si era rintanato nei polmoni, ma dalla sua bocca non uscì altro che sangue. Tossì a lungo, gli sembrò quasi di svuotarsi il cuore sul cemento mentre gli occhi baluginavano di imprecazioni.
Il dolore era dilaniante, ma era vivo.
L’edificio in cui era piombato era deserto e il pavimento su cui era disteso era ricoperto di frammenti, in ricordo di una vetrata ormai in frantumi.
Sentì gli effetti della pozione polisucco svanire a poco a poco riconsegnandogli dei lineamenti più maturi. I suoi arti si allungarono e trattenne a stento un urlo quando il braccio ritornò alle sue solite dimensioni. Le sue iridi persero quella sfumatura brillante delle foglie zuppe di rugiada e passarono da un verde bosco a un nocciola malandrino, mentre anche i capelli mutavano e riprendevano il manto rossiccio che contraddistingueva la sua famiglia.
Famiglia.
Dov’era la sua famiglia in quel momento?
Il respiro si fece più flebile, il corpo che doleva ad ogni boccata d’aria che entrava e fuoriusciva dalla sua gola. I capelli rossi si mischiarono al colore scarlatto del suo sangue, che continuava a colare sia sul suo volto che sulla felpa babbana che aveva indosso.
La sua scopa giaceva da qualche parte chissà dove, forse rotta. George dubitava che fosse ancora utilizzabile, non dopo quell’incidente.
Sentiva il sapore ferroso del suo sangue invadergli la bocca e sputacchiò appena, prima che un’altra fitta lo prendesse all’improvviso.
Il mondo si era fatto così silenzioso … Cercò di guardarsi intorno, ma non riuscì a muovere un muscolo. Si sentiva ancora scosso, e non riusciva a metabolizzare i pensieri in una sequenza logica. Tutto attorno a lui, le pareti dell’edificio parevano fredde e vaghe, quasi fosse un sogno.
Quando credette di essere finalmente sul punto di svenire, un calpestio di tacchi lo riportò nuovamente alla realtà. Una marcia lunga e senza nome proseguì ritmicamente, avvicinandosi.
E a quel passo incalzante se ne aggiunse un altro e un altro ancora. George sperò che fossero umani.

Un formicolio alla schiena lo avvertì che gli sguardi dei nuovi arrivati erano tutti rivolti verso di lui. Si sentiva osservato, ma non era una bella sensazione, si sentiva quasi strangolato dai loro stessi occhi. Il suo stomaco aveva cominciato a contorcersi, in tensione.
«È morto?» domandò una voce grave a qualche metro di distanza. Non c’era ombra di pena o dispiacere in quel tono, e George non aveva bisogno di voltarsi per sapere che si trattava di un Mangiamorte.
«No.» proruppe un’altra voce, più soave, «Non vedi che respira?»
Ci fu un breve silenzio e George si immaginò quei due mentre si guardavano in cagnesco, alle sue spalle.
«Beh,» continuò la prima voce, «Direi che è più mezzo morto, ormai.»
Gli occhi di Amycus Carrow vagarono sulla figura insanguinata del ragazzo, divertiti, fino a posarsi sulla chioma fiammeggiante dei suoi capelli.
«Capelli rossi,» mormorò lanciando un’occhiata d’intesa alla compagna, «Ti ricordano qualcosa, sorella?»
Le labbra di Alecto si arricciarono nella medesima smorfia, «Weasley, Lucius sarà contento.»
«Avrà modo di rallegrarsi.» annuì l’uomo avvicinandosi a George, che rimaneva disteso sul pavimento, quasi pietrificato.
Un rumore improvviso alle loro spalle li costrinse a voltarsi, guardinghi, ma quando i loro occhi raggiunsero la sagoma scura che era appena atterrata, si rilassarono. Bellatrix Lestrange sembrava una bambola in quel momento, una bambola inquietante e molto, molto pericolosa. I suoi occhietti feroci fissavano George con tanto ribrezzo da far spavento, probabilmente era venuta a sapere che era stato proprio lui a colpire suo cognato in battaglia. Fortunatamente Rabastan stava bene, ma si sarebbe dovuto procurare una nuova bacchetta, dato che la sua gli era scivolata di mano a più di cento metri da terra.
Bellatrix avrebbe potuto giurare che suo cognato sarebbe stato ben felice di mettere le mani su quello stupido ragazzino.
Stava per avvertire i Carrow che si sarebbe occupata lei del prigioniero, quando un pensiero la bloccò: il Signore Oscuro doveva essere informato della cosa.
Senza ragionare oltre Bellatrix tirò su la manica dell’abito e puntò la bacchetta sul marchio nero, che cominciò a illuminarsi.
Nel giro di qualche istante tutti i Mangiamorte si materializzarono in quell’edificio sperduto. I loro volti erano coperti dalle maschere, ma Bellatrix avrebbe saputo riconoscerli tra mille.
Suo marito, Rodolphus, si avvicinò a lei mentre tutti aspettavano pazientemente l’arrivo del loro Maestro. Sia Rabastan Lestrange che Lucius Malfoy fissavano il ragazzo a terra con un misto di disprezzo e scherno, ma non osarono farsi avanti.
Ci volle un’altra manciata di secondi perché Voldemort si materializzasse in tutto il suo orrore: la veste nera e consunta che sfiorava il pavimento, la pelle cerea come quella di un defunto, gli occhi più rossi del fuoco e il naso ridotto alle fessure di un serpente.
George non aveva mai udito un silenzio più vero. Nei minuti che seguirono l’unico suono udibile fu il fruscio delle vesti dei suoi aguzzini mentre lo scrutavano minacciosi, come avvoltoi.
D’un tratto la paura ebbe il sopravvento; non era stato in grado di sbarazzarsi di loro quando ancora le forze animavano il suo corpo, che speranze aveva di riuscirci in quelle condizioni? Aveva perso l’uso di un braccio, metà del suo volto era ricoperto di sangue e non aveva nemmeno la forza di chiedere aiuto.
Ma aiuto a chi?
Sentì dei passi strisciare fino a lui e qualcosa di freddo sfiorargli un punto particolarmente dolente, probabilmente l’origine dell’emorragia. Si ritrasse di scatto con un movimento inconsulto del corpo, le labbra che si distorcevano impercettibilmente.
In quel momento non voleva urlare, non ne aveva la forza. Era come se Voldemort gli avesse cavato le corde vocali con la sua sola presenza, e l’unica cosa che George desiderava era tornare a casa.
Il Signore Oscuro si chinò abbastanza perché il ragazzo potesse vederlo chiaramente in volto.
«George» mormorò appena, la voce che tradiva l’ira nei suoi occhi.
George avrebbe voluto svegliarsi all’improvviso, ma il panico che provava era fin troppo reale perché potesse trattarsi di un incubo.
«Sei stato bravo.» continuò Voldemort con voce sottile, «Bella mossa quella di tramutarvi tutti in Potter. Deduco sia stata un’idea di Moody, dico bene?»
George non aveva mai avuto così paura in vita sua. Si sentiva con le spalle al muro, totalmente in balia di uno stormo di bestie e privo di qualsiasi protezione. Era debole, stanco e ferito in modo grave, ma i suoi occhi rimanevano sbarrati a fissare quelli più cupi, freddi e maligni dell’essere che aveva di fronte.
Ancora una volta il ricordo della sua famiglia andò a cozzare con la sua memoria, riproducendo davanti ai suoi occhi i volti di chi aveva di più caro: sua madre, suo padre, Fred …
Fred.
Dove minchia era Fred in quel momento? Avrebbe dovuto sperare che fosse al sicuro, a casa, invece non desiderava altro che averlo al suo fianco.
Perché aveva paura, e non voleva essere solo.
Sentì gli occhi pizzicare mentre Voldemort lo squadrava da cima a fondo.
«No, non piangere.» lo riprese il Signore Oscuro, quasi ridendo dello sconforto del giovane, «Qualcuno potrebbe pensare che non apprezzi la nostra compagnia.»
Voldemort fissò gli occhi languidi del diciannovenne, poteva percepire il terrore che la sua sola presenza gli infondeva, e se ne compiacque.
«Volevi imbrogliarmi, è così? Tutti voi volevate farlo. Potter mi è sfuggito questa notte, ma non vivrà a lungo.»
Lo afferrò bruscamente per i capelli alzandogli la testa di qualche centimetro, ignorando i lamenti del ragazzo.
«Non piangere,» ripeté una seconda volta, «Le lacrime ti serviranno, credimi. Pagherai per aver osato sfidarmi.»
I loro volti erano così vicini che Voldemort poteva percepire il respiro spezzato del giovane e l’aura di angoscia che lo animava. Ridacchiò, lasciandolo cadere malamente a terra. Si alzò dal pavimento e rivolse la sua attenzione ai maghi che l’avevano seguito in quell’impresa.
Lucius avrebbe gongolato all’idea di poter uccidere il figlio di Arthur con le sue stesse mani, e magari poi avrebbe fatto scattare una foto da mandare ai Weasley come avvertimento per chi avrebbe ancora osato sfidare Colui-che-non-deve-essere-nominato. Tuttavia, Lucius non meritava alcun premio e finché non avesse dimostrato il suo valore, non avrebbe ricevuto nulla dal Signore Oscuro.
Passò in rassegna tutti i suoi seguaci prima che le sue labbra si distendessero finalmente in un ghigno.
«Bellatrix?» chiamò con voce accogliente, «Ho un regalo per te. Sono sicuro che saprai prenderti cura del nostro piccolo Weasley.»


 




#Angolo Pandacornoso
Eccomi ad inaugurare l’estate con un’interattiva un po’ particolare …
Non so voi, ma io mi sono sempre fatta mille viaggi mentali sulla sky battle e semplicemente non potevo non scrivere niente a riguardo.
Ma ciancio alle bande, in questo enorme What if? George non solo è stato ferito, ma è stato anche catturato e “regalato” (che cosa inquietante -scusa, Georgie ._.)  a Bellatrix Lestrange. Gli OCs, e dunque i vostri personaggi, saranno per l’appunto altri prigionieri che sono stati a loro volta catturati. Capito?
Le vicende del film non cambiano: quelli che finora sono morti restano morti, il trio protagonista va alla ricerca degli Horcrux e blahblablah … l’unica cosa diversa è che George non è alla Tana.
Senza dilungarmi troppo, passiamo subito alla scheda da compilare e inviarmi per messaggio privato entro il 17 giugno. Proroghe su richiesta fino al 21 giugno.
Non so ancora quanti personaggi prenderò, ma non saranno molti. Farò una selezione tra quelli inviati.
 
Nome e Cognome:
Soprannome:
Anni:
Data di nascita
(giorno e mese):
Stato di sangue:
Luogo di nascita:

Bacchetta:
Patronus
(e perché):
Tre ricordi felici:
Molliccio:

Casa a Hogwarts:
Descrizione caratteriale:
Descrizione fisica
(capelli, occhi, cicatrici, statura, carnagione, malformazioni, profumo, voce … sia come sarebbe davvero che com’è adesso che è in prigionia) :
Segni particolari:

Famiglia e rapporto con essa:
Storia personale
(non dimenticatevi di specificare com’è stato catturato e da quanto tempo si trova nelle segrete):
Passioni e gusti:
Orientamento sessuale
(e rapporto con esso):
Prestavolto:



 

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Capitolo 2
*** Scelta OCs ***





Le iscrizioni si sono chiuse ufficialmente ieri
e dato che non mi sono arrivate richieste di proroga, oggi è il giorno della selezione! Yeee
Spero che chi non è stato scelto non la prenda a male, ma –soprattutto per una storia del genere- non potevo prendere troppi personaggi
sorry ç_ç

Ma ora è arrivato il momento di svelare i volti dei fortunati:
(cliccateci sopra)

 
Melody Alan Hill – Nata Babbana, 19 anni
Buille Suibhne MacSween – Purosangue, 38 anni
Matthew Johnson – Mezzosangue, 31 anni
Alizeah Valery Anne Sinclair – Mezzosangue, 12 anni
Eleutherios Salocis – Mezzosangue, 23 anni
Sean Pattygrew – Magonò, 13 anni
Hunter e Simon Pattygrew – Mezzosangue, 6 anni



 

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Capitolo 3
*** Seeking Him ***



Seeking Him
 
L’aveva cercato in lungo e in largo: giù tra le stradine inglesi, lungo gli argini dei fiumi, oltre le colline che si aprivano al di là della periferia urbana e persino nei cunicoli bui delle città.
Ma di lui non c’era traccia.
Provò un’altra volta, non poteva arrendersi. Strinse le dita ormai gelide al rigido manico di scopa, aguzzando la vista in cerca di una chioma color zenzero. Si era avvicinato al suolo per poter scrutare meglio tra il grigio e il nero della cittadina, ma non aveva ancora trovato niente. Il vento tirava più forte ora, Remus poteva sentire i suoi  pochi capelli smuoversi nell’aria mentre gli occhi guizzavano da una parte all’altra del paesaggio.
Gli aveva detto di rimanere vicino, dannazione. Glielo aveva detto.
L’ultima volta che lo aveva scorto tra la coltre di mantelle nere sembrava star bene, forse un po’ inorridito e sgomento di fronte alla miriade di maledizioni che venivano scagliate nel cielo, ma ragionevolmente integro. E Remus era stato troppo occupato ad occuparsi dei Mangiamorte per riuscire a star dietro ai movimenti del ragazzo. Ora, però, si dannava per averlo perso di vista.
Aveva volato fino alla passaporta sperando di trovare George lì ad aspettarlo, ma le sue speranze si erano dissolte prima ancora di mettere piede a terra. L’unica sfumatura rossa visibile in quella zona era quella della lattina vuota che giaceva tra i fili d’erba secca del campo agricolo, uno dei tanti campi che rivestivano al superficie della Gran Bretagna. A Remus sarebbe bastato prendere in mano quella lattina per arrivare alla Tana in tempo, ma non l’aveva fatto. Non si era nemmeno fermato a pensare, a chiedersi se Tonks stesse bene, che aveva fatto dietrofront con la scopa ed era sfrecciato nuovamente nel cielo nero di agosto, dritto nella tana del lupo.
I mantelli scuri dei Mangiamorte, però, erano scomparsi dall’orizzonte. Remus si era guardato più volte attorno, guardingo, ma nessun nemico si era mai fatto avanti per colpirlo, cosa che aveva fatto aggrottare le sopracciglia al licantropo.
Perché non erano più lì? Che fine avevano fatto quei bastardi? Tutte domande che sarebbero rimaste senza risposta, ovviamente.
Si abbassò di diversi metri così da essere più vicino al terreno e poter scrutare meglio tra le vie oscure della città, ma non riuscì comunque a scorgere anima viva. I Mangiamorte dovevano aver già fatto ritorno alle loro rocche, perché Remus non udiva alcuno schianto di bacchetta nelle immediate vicinanze.
Fece scricchiolare la schiena, che non era più abituata a quei lunghi voli in avanscoperta.
Aveva perlustrato diversi viottoli, ma il tratto che avevano percorso era così lungo e le città che avevano superato così tante e vaste che la sola idea di non averlo ancora trovato gli chiuse lo stomaco in una morsa.
Cercò di concentrarsi meglio, ma più il tempo passava e più la sua vista cominciava a fare cilecca, segno che non era più un giovincello. Si sentiva debole, stanco e decisamente assetato. Aveva la gola secca, anche se non sapeva bene spiegare se fosse dovuto alla miriade di incantesimi che aveva pronunciato in battaglia o più semplicemente fosse una diretta conseguenza della profonda preoccupazione che muoveva il suo cuore in quel momento.
Voleva trovare George a tutti i costi, ma non era sicuro di poter resistere ancora a lungo a cavallo di quella scopa.
“Andiamo, Remus” si fece forza, stringendo nuovamente la mano infreddolita sul manico in legno d’olmo. Cambiò traiettoria per l’ennesima volta quella sera, puntando verso l’alto delle irraggiungibili e torbide nuvole che coprivano la volta del cielo. Era da molto che non pregava le stelle, ma in quel momento l’avrebbe fatto; voleva tuffarsi in quei piccoli e pallidi soli, interrogarli, baciarli, supplicarli. Voleva chiedere loro dove fosse George, scongiurarli di proteggerlo se si trovava ferito o in punto di morte.
No, non voleva neanche pensarci. George morto non era un’immagine che voleva raffigurarsi nella mente, non quella sera, non con tutto quello che aveva passato, non con la responsabilità che gli gravava sul petto. Aveva giurato, promesso, assicurato a Molly che avrebbe vegliato su suo figlio, e aveva fallito. Con che faccia avrebbe mai potuto presentarsi alla Tana? Con quale forza sarebbe stato in grado di guardare i coniugi Weasley mentre con la voce spezzata li avvertiva dell’improvvisa dipartita, o scomparsa, del figlio?
Rallentò progressivamente mettendosi ritto sulla scopa, i piedi che penzolavano nel vuoto a metri e metri d’altitudine. Lanciò un ultimo sguardo ai caseggiati che si protraevano all’orizzonte, e sentì un ago pungergli il cuore. Se George fosse stato ancora vivo, l’avrebbe già trovato, si sarebbero scontrati in volo nel giro di una manciata di minuti. Non vi erano nemici da cui nascondersi, nessun avversario da cui scappare, niente lampi di smeraldo ad abbagliare il cielo ... solo la notte, il buio e il silenzio.
Quell’improvvisa comprensione spinse Remus a guardarsi intorno: era solo.
Solo, il che voleva dire che George non era lì.
Sentì gli occhi inumidirsi un poco e il proprio corpo farsi più pesante. Non era riuscito a proteggerlo.

Si smaterializzò nel cortile dei Weasley appena qualche attimo dopo, la scopa ben stretta alla mano. Sentì la faccia vuotarsi di ogni emozione fino a trasformarsi in una patetica, e smorta, maschera di cera. Qualche intrepido bambino avrebbe potuto tirargli una pluffa addosso e Remus non se ne sarebbe neanche accorto. In quel momento nemmeno la luna pareva fargli paura.
Il suo corpo non era più un composto di carne e ossa. Sentiva le spalle cadere più del solito, la schiena incurvarsi appena a formare la figura di un uomo rannicchiato. Le gambe, lunghe e longilinee, avevano assunto la forma di due stecchi raggrinziti e la pelle del volto, da sempre caratterizzata dai lividi segni di chi non dorme abbastanza, ora sembrava addirittura più spettrale, cadaverina. Remus Lupin non era più un uomo, era l’ombra della morte, il cupo mietitore che con la sua falce recide vite innocenti, il pallido spettro che bussa alla porta della famiglia della vittima e con un’insolenza vergognosa comunica il decesso dello sventurato.
Remus però non era pronto a bussare a quella porta. Avrebbe voluto nascondersi nel labirinto di spighe che si espandeva alle sue spalle o riprendere la ricerca appena interrotta, tutto pur di rinviare quella trista faccenda.
Rimase paralizzato per diversi minuti, in piedi come uno spaventapasseri mosso appena dal vento, nell’oscurità della notte che pareva divorare ogni lembo di luce che incontrava sul suo cammino, mentre dietro le piccole e squadrate finestre della Tana si poteva intravedere un fievole chiarore.
Remus inghiottì a vuoto sentendo dei rumori provenire dall’interno. Sembravano essere tutti in casa, sebbene vi fosse un silenzio angoscioso nell’aria, almeno di fuori.
Prese un respiro profondo per farsi coraggio, era suo dovere varcare quella soglia. Non arrivò nemmeno a fare un passo, però, che la porta dell’abitazione si aprì all’improvviso, rivelando una figura alta e ben piazzata: Kingsley Shacklebolt sembrava in procinto di andarsene, ma si bloccò non appena incrociò la vista del lupo mannaro.
«Lupin!» esclamò sorpreso, ma sollevato, alzando le sopracciglia fino a farle scomparire sotto il cappello blu del suo abito. L’Auror parve cogliere subito l’aria abbattuta dell’ex professore di Hogwarts e i suoi occhi si spostarono dal volto emaciato del licantropo alla figura invisibile accanto a quest’ultimo. Lupin lo vide sgranare gli occhi e contrarre un poco i muscoli del collo, tornando a fissarlo con un pizzico di orrore e una richiesta di spiegazioni che però Remus non riuscì a dargli.
Il segretario del Primo Ministro della Magia avrebbe dovuto puntare la bacchetta contro quell’uomo strampalato che sostava ancora in piedi di fronte alla Tana, chiedergli delle ultime parole di Silente ed esser pronto a schiantarlo in caso avesse risposto in modo errato, ma non lo fece. Kingley non aveva bisogno di prove per sapere che quello che aveva di fronte era davvero Remus Lupin, glielo leggeva sul volto. Un traditore, un infiltrato non avrebbe mai potuto provare un simile dolore alla perdita di chi aveva tradito.
Gli occhi di Remus invece straripavano di colpe, la sua indole fragile lo spingeva e dannarsi per quello che era accaduto quella notte e la sua coscienza, la sua solitaria e avvilente coscienza, sarebbe andata avanti a dilaniarlo per il resto delle sue giornate, facendolo sprofondare nello sconforto più profondo, più lacero e più smanioso che avesse mai conosciuto.

«Kingsley, perché ti sei fermato …?» una voce femminile raggiunse entrambi dal salotto della Tana, facendosi sempre più vicina.
Remus non aveva bisogno di vederla in faccia per capire di chi si trattasse, perché quella voce, a suo tempo, era stata l’unica in grado di sciogliere la punta dell’iceberg che dimorava nel petto del lupo mannaro.
Vide i suoi capelli lilla spuntare dallo stipite della porta dopo qualche secondo, era bella proprio come la ricordava.
«Tonks»
«Remus!» esclamò Tonks sgranando gli occhi e slanciandosi verso di lui. Lo strinse forte a sé, in una stretta che non aveva bisogno di parole. «Sono stati i minuti più brutti.»
«Perché, che ore sono?» domandò il licantropo allontanando il viso dalla chioma profumata della ragazza per scrutarla bene in volto.
«Tardi, sareste dovuti tornare almeno mezz’ora fa.» rispose Kingsley avvicinandosi e lisciandosi la veste con un che di nervoso, sembrava in procinto di lasciare l’abitazione.
«E gli altri? Stanno bene?»
«Sono dentro. Si stanno ancora chiedendo che fine avete fatto, Molly è … era molto preoccupata, soprattutto dopo non avervi visto comparire insieme alla lattina.» mormorò l’omone, prima di fargli un cenno e svanire nel nulla.
Lupin non lo giudicò per essersene andato. Kingsley aveva i minuti contati, lo sapeva, se non si fosse presentato al Ministero in tempo avrebbe sollevato dei sospetti, e non potevano permetterselo.
«Andiamo!» lo incitò Tonks, raggiante, «Sono tutti così tesi per il vostro arrivo e … ma perché quell’aria così abbattuta? Dov’è George?»
Voltò il capo diverse volte in direzioni differenti, scrutando il buio cortile con occhio di falco, ma non vide nessun altro oltre a loro. Rigirò la testa ad una velocità impressionante, puntando le iridi di pece negli occhi slavati del compagno. La sua espressione era di puro smarrimento, Remus poteva leggere una confusione cieca vagare nelle pupille nere della ragazza, ma non disse niente per farla riaffiorare dal naufragio in cui era precipitata. Lasciò che fossero i suoi occhi a parlare, in un modo che solo le notizie più brutte saprebbero esprimersi.
La sua biada allegria si tramutò istantaneamente in orrore, le guance olivastre impallidirono e persino i suoi capelli si tramutarono in un verde acido e nauseabondo. Ninfadora, questo il suo vero nome, si portò le mani alla bocca, incapace di parlare.

E ora Remus avrebbe dovuto dirlo a Molly, sentiva le ginocchia fremere al solo pensiero.

Lanciò un ultimo sguardo a Tonks e poi puntò dritto alla porta spalancata. Entrò in cucina e il suo cuore già pulsava più forte, superò la soglia e gli sembrò di poter affogare nel suo stesso affanno, ma fu quando arrivò in salotto e vide tutti quei volti che capì quanto fosse difficile e ingiusto.
Molly, girata di spalle, era già in piedi ad attenderlo da chissà quanto tempo –mezz’ora se Kingley gli aveva detto la verità- probabilmente non riusciva nemmeno a rimanere seduta, le mani che continuavano ad andare a tormentare la crocchia di capelli rossi e sfilacciati che le ricadevano ora sul volto, ora sulla veste color salvia. Arthur, seduto sulla poltrona con il volto seppellito nelle mani, non faceva che tamburellare il pavimento con il tallone del piede, in ansia.
C’erano proprio tutti, o quasi. Lupin non riusciva a scorgere Malocchio da nessuna parte e non c’era traccia nemmeno di Mundungus Fletcher, cosa che lo insospettì parecchio.
Quando varcò la soglia del soggiorno vide Bill e Fleur seduti all’angolo del divano, meditabondi ma illesi. Harry, Ron e Hermione rimanevano zitti accanto a Ginny con gli sguardi bassi e le teste piene di pensieri. Fred infine era appoggiato alla credenza, vagamente pallido e con la bocca sigillata in un mutismo che avrebbe sbalordito chiunque lo conoscesse.
Remus fece un passo avanti proprio mentre Bill pronunciava il suo nome e Molly si voltava a guardarlo. In un istante sentì tutti gli sguardi dei presenti fissi su di sé e si sentì quasi male, assumendo un colorito molto più simile al verde.
«Lupin!» esclamò Harry alzandosi in piedi, chiaramente sollevato nel vederlo sano e salvo.
Quella leggera consolazione però non durò molto e il primo a spezzarla fu proprio Arthur.
«Dov’è George?» domandò tentando di scrutare dietro le spalle del lupo mannaro, la pelata che sembrava ancora più lucida sotto la tenue luce del salotto.
Era giunto il momento, doveva tirare fuori la forza e il coraggio di dirglielo, non poteva lasciare che fosse il tempo a suggerire loro quell’amara verità, come aveva fatto con Tonks. Lei era la sua donna, Molly e Arthur invece erano i genitori di quel povero ragazzo.
Aprì la bocca per parlare e con la coda dell’occhio vide Fred muoversi nervoso sul posto, gli occhi nocciola che guizzavano da una parte all’altra della stanza alla ricerca di un gemello che non avrebbe più rivisto.
«Ce ne erano troppi, Arthur. Ho cercato di non perderlo di vista, ma ...»
«Che cosa vorresti d- …»
«NO!»   
«Mi dispiace.» sussurrò Remus mentre le urla di Molly Weasley risuonavano nella casa.
Arthur si alzò dal divano in fretta e furia e raggiunse Lupin, scuotendolo «Dov’è mio figlio?!»
A Remus tremavano le labbra quando rispose «È-È morto, Arhur. I-io sono … non ho potuto fare niente …»
«NO!» lo interruppe Arthur stringendo con più forza le vesti consumate del lupo mannaro, «Non può essere, George non …» si portò una mano alla bocca come se gli venisse da vomitare e scivolò piano sul pavimento, le lacrime che cominciavano a rigare copiose il suo volto, ora lacerato dal dolore.
«Dov’è George? Dov’è mio fratello?» gracchiò Fred, la pelle del viso più bianca che Lupin avesse mai visto. Lunastorta, questo il suo vecchio soprannome, gli lanciò un’occhiata distante e vaga, incapace di dire altro.
Gli occhi di Fred erano languidi adesso, i pugni stretti sui fianchi. Borbottò dei no disconnessi e si precipitò fuori dal salotto prima che chiunque potesse proferire parola.
«FRED, NO!» gridò Bill separandosi da Fleur per seguire il fratello, che era corso fuori dalla Tana in fretta e furia.
Lo raggiunse appena in tempo, un attimo prima che Fred si smaterializzasse, e gli tolse la bacchetta di mano con la forza.
«Dammela!» sbottò Fred slanciandosi contro di lui per riavere indietro la bacchetta. Bill però non demorse e lasciò che il fratello lo riempisse di pugni piuttosto che riconsegnargli ciò che gli aveva sottratto.
«Sei sconvolto.» tentò di farlo ragionare, «Non hai abbastanza concentrazione, ti spezzeresti
«Dammi quella cazzo di bacchetta!»
In una giornata normale Molly gli avrebbe affatturato la lingua per un linguaggio del genere, ma quella sera non aveva nulla di normale.
«E dove andresti?!» chiese Bill continuando a tenere saldamente la bacchetta del fratello tra le dita e sospingendo quest’ultimo per allontanarlo da sé.
«Devo andare via, devo andare …»
«A cercarlo?» completò il maggiore mentre una singola ciocca rossa gli finiva sul viso, oscurandogli la vista, «Fred, non c’è niente che tu possa fare per lui.»
«Sì invece, io posso ... posso ...» la voce gli si spezzò tra le lettere e quelle braccia che avevano tentato di colpire il fratello fino a quel momento si allungarono verso William, cercando un appiglio. Bill non ci pensò un attimo, lasciò cadere la bacchetta per terra e attirò il fratello minore a sé, stringendolo come non aveva mai fatto prima.
I singulti di Fred risuonarono prima sommessi e poi sempre più forti, il suo respiro si fece affannoso e la maglia di Bill si riempì ben presto di un mare di lacrime.
«Shh» sussurrò Bill, tentando in tutti i modi di non farsi prendere dallo stesso sconforto di Frederick. Sentiva un macigno dentro al petto, ma doveva resistere. Almeno per lui.
«Non è vero.» singhiozzò Fred con un fil di voce, «Non può essere … George non ci voleva neanche andare, sono stato io a dirgli …»
«Ehi!» lo bloccò il fratello prendendogli il volto tra le mani e costringendolo a guardarlo negli occhi, «Non è colpa tua, non provare nemmeno a pensarci.»
«Ma-»
«No.» lo strinse di nuovo al petto, gli occhi che cominciavano a pizzicargli a sua volta, «Non è colpa tua, non è colpa tua. Ma troveremo il bastardo che ha fatto questo, te lo giuro.»

Fred continuò a piangere, così come Bill. Se solo avessero saputo la verità …
 





#Angolo Pandacornoso
Ehi -.^
Probabilmente vi aspettavate un capitolo con i nuovi OCs, ma dovrete aspettare un pochino per vederli apparire ù.ù
Mi sembrava doveroso scrivere qualcosa per i Weasley, poveri pimpi c.c
Non ho molto altro da dire se non fatemi sapere se vi è piaciuto almeno un po’ e se l’attesa ne è valsa la pena ;^)

Sayonara,



 

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Capitolo 4
*** The Black Witch ***



The Black Witch

Si prese il suo tempo per riprendere conoscenza. Sentiva lo stomaco in gola e la testa vorticava pericolosamente, quasi fosse stato appena colpito da un bolide durante una partita di Quidditch. Era come se una mano tozza e invisibile gli stesse premendo il cervello, mandandogli continue fitte di dolore. Respirava con fatica e ad ogni boccata d’aria i muscoli dell’addome si contraevano, spezzandogli il fiato.
I suoni attorno a lui somigliavano alle tempere di un dipinto: vaghi, sfuocati, indefiniti. George non riusciva nemmeno a cogliere l’origine di quei rumori.
Provò ad aprire gli occhi, ma la stanchezza lo costrinse a mantenere le palpebre chiuse. Doveva aver battuto molto forte perché gli sembrava di poter cadere nel vuoto sotto di sé e precipitare per altri mille metri, nel buio. Il lato sinistro del viso bruciava ancora come magma bollente, ma George non riusciva a muovere un muscolo. Era troppo stanco per controllare il danno.
Nella sua mente i ricordi si mescolavano l’uno all’altro. Aveva come un abisso al posto dei pensieri e le immagini del suo passato erano lontane, irraggiungibili.
Cercò di concentrarsi sulle sensazioni che provava per riprendere il controllo e si ancorò al dolore fisico che incendiava tutto il suo corpo. Lasciò che il suo braccio urlasse fino a lacerargli i timpani, contò l’andatura claudicante del suo cuore mentre arrancava nel suo petto e si forzò di aprire gli occhi.
Ci volle qualche secondo perché si abituasse alla luce soffusa della stanza. Si trovava disteso su un freddo pavimento di marmo grigio, sotto un soffitto perlaceo che si articolava in decorazioni e rifiniture. Non riusciva a intravedere con chiarezza il mobilio di legno che tappezzava la stanza, ma era sicuro di non aver mai messo piede lì dentro prima di allora.
Combatté contro l’istinto di chiudere nuovamente le palpebre e lasciarsi sprofondare in un sonno profondo, e  tentò di mettere a fuoco ciò che lo circondava. Non c’era alcun candelabro appeso al soffitto, anzi la luce era debole e proveniva unicamente dalle file di candele che aleggiavano nell’aria come per incanto. C’era un tavolo in cedro a qualche metro di distanza e la superficie era ingombra di vecchi volumi di magia dalle pagine sgualcite e un paio di ampolle maleodoranti che impestavano la stanza.
La sua bocca si contrasse in una smorfia involontaria. Il solo pensiero di cosa avessero messo dentro il calderone per produrre quelle pozioni gli fece accartocciare lo stomaco su se stesso.
Il fetore era così acido da fargli pizzicare il naso. Avrebbe voluto alzarsi e lasciare quella stanza il più in fretta possibile, ma era troppo stanco, così si lasciò andare a uno sbuffo esasperato.

«Povero, piccolo Weasley.» gracchiò una voce nell’ombra. George sobbalzò, aveva già udito quel tono accorato in passato, solo non ricordava dove.
Non si era accorto di non essere solo finché la donna non aveva cominciato a parlare, avvicinandosi. Ora il pavimento era scosso da uno stock di passi ritmati e ogni volta che il tacco nero delle scarpe si scontrava col marmo, George sussultava, in parte curioso e in parte diffidente.
Emise un suono flebile, simile a un mugugno, ma non riuscì a fare altro. Voleva chiedere aiuto, domandare se per carità di Merlino quella donna potesse aiutarlo in qualche modo.
Provò a parlare, ma aveva la gola secca e le sue labbra si rifiutavano di articolare le parole. Una fitta al braccio lo costrinse a stringere i denti e gli sfuggì un gemito.
La serie di calpestii si bloccò mentre gli occhi della donna vagavano sul corpo del giovane che aveva ai piedi.
«Oh, Georgie, ti sei fatto la bua?» Ancora quel tono mellifluo.
George tentò di non darci troppo peso e provò nuovamente a muoversi, meno bruscamente. Tutti i suoi tentativi, però, risultarono vani. Il suo respiro aveva un’andatura affaticata e i muscoli si contraevano ad ogni minimo sforzo. Parte della sua maglia era zuppa di un liquido scuro, vermiglio, e la stoffa era sgualcita e appiccicosa come la pelle di una biscia.
Mosse le pupille di qualche millimetro per scrutare meglio ciò che riusciva a intravedere, dato che la donna non era ancora entrata nel suo campo visivo, ma non trovò nulla di interessante. I colori che percepiva erano freddi e opachi, austeri, e le pareti erano spoglie e tristi. Sentiva un che di asfissiante permeare ogni sua fibra, ma non aveva la forza mentale di ragionarci sopra. Quel posto non gli piaceva, di questo era sicuro.
«Georgieee» cantilenò di nuovo la sconosciuta riprendendo a camminare. La sua voce era velata di un che di malsano, constatò il ragazzo. Provò a passare in rassegna tutti i volti che conosceva, ma quel tono invadente e gravido di freddo umorismo non si collegava a nessuno di loro.
L’unico modo per svelare l’arcano era guardare la donna in volto.
Ascoltò i tacchi muoversi fino a lui e un’ombra oscurò finalmente la luce delle candele, che si spensero dietro il groviglio di ciocche scure che ricoprivano il capo della donna come un insieme di infidi serpenti neri. Gli occhi di George scattarono verso quelli più larghi e folli della strega, e per la prima volta in vita sua a George mancò il respiro.
Bellatrix Lestrange lo fissava con bramosia e crudeltà dall’alto del suo metro e settanta, il corpo ancora leggermente emaciato dalla prigionia ad Azkaban. Aveva sulla pelle i segni di cicatrici profonde e il suo volto, solcato appena dalle rughe, esibiva due abbaglianti occhi color pece e labbra carnose e nere, ora piegate in un sorriso di puro godimento.
George sentì un brivido percorrergli tutta la spina dorsale mentre un singolo frammento di consapevolezza gli faceva sgranare gli occhi. Per un attimo dimenticò tutto il dolore e scattò indietro in preda al terrore, tentando di sfuggire alla strega. Le fitte che lo rivestirono furono atroci, ma erano niente in confronto alla paura.
Si mosse impacciato e boccheggiò per un istante, alla ricerca di aria. Sentiva i polmoni bruciare, bisognosi di ossigeno. Percepiva la necessità di abbandonare quella stanza e correre fuori all’aria aperta, per rigenerarsi, ma sapeva che non ci sarebbe mai riuscito.
Sussultò quando Bellatrix si mise a cavalcioni sul suo addome, afferrandogli il viso con le sue lunghe unghie smaltate di nero.
«Credi davvero di poter scappare?» domandò con una punta di scherno, «Tu sei mio, adesso.»
George impallidì. All’improvviso tutti i pezzi andarono al loro posto. Ora ricordava cos’era successo, ricordava tutto: la battaglia, il cielo sferzato dai bagliori, i frastuoni, la vetrata … Era successo tutto molto velocemente, qualcosa doveva averlo preso in pieno perché non ricordava nient’altro che una lunga, immobile e agonizzante caduta verso il basso, e un impatto violento che gli aveva tolto vista e udito per qualche secondo. Il sangue era colato sul pavimento, i vetri si erano disseminati come una pioggia di cristalli e poi tutto aveva avuto fine. Loro lo avevano preso.
Sentiva le unghie di Bellatrix scavare le sue guance arrossate. Faceva dannatamente male, tanto che George avrebbe voluto divincolarsi dalla sua presa e materializzarsi il più lontano possibile da lei, ma era a pezzi e non aveva più la bacchetta.
Sentiva il marmo ruvido sotto i polpastrelli, il gelo di quel luogo era attutito dal solo –e vago- intervento delle candele, George poteva già sentire la pelle rivestirsi di brividi. Tentò di muovere la bocca per articolare qualche parola, ma Bellatrix lo bloccò prima ancora che ci provasse.
«Abbiamo molto di cui parlare, Georgie.» non gli piaceva il suono del proprio nome pronunciato da quelle labbra. «E resteremo insieme per un bel po’.»
George strinse gli occhi mentre il suo corpo ancora non si decideva a eseguire i suoi comandi. Non aveva abbastanza forze per accettare la situazione, sembrava solo un orribile incubo.
Bellatrix scoccò la lingua sul palato, la schiena ingobbita sul ragazzo.
«Dov’è Potter?» la sua voce soffiava, pericolosa, come una scia di insetti morti che ti entrano in bocca e ti mangiano la lingua. George non era pronto per questo, quella era una cosa più grande di lui, lo sapeva.
Non rispose alla domanda e anche se voleva pregarla di lasciarlo andare, la sua cocciutaggine gli fece tenere la bocca chiusa.
Voleva tornare a casa, un desiderio così ardente che George sentiva il cuore fremere nel petto fino a fracassargli le costole con i suoi battiti. Voleva aggrapparsi al ricordo della sua famiglia, ma la stretta di Bellatrix non faceva che riportarlo bruscamente alla realtà.
«Dov’è Potter?» domandò di nuovo Bellatrix sfiorandogli le labbra con un’unghia. Le sue mani erano del colore dell’avorio e avevano dita lunghe e affusolate che si intrecciavano, nodose, agli artigli d’ossidiana.
George non sapeva che rispondere. La verità era che non ne era sicuro; non sapeva quanto tempo era rimasto incosciente, quanti giorni o ore fossero passati dalla battaglia. Nella sua testa non c’era che il buio, ma anche se l’avesse saputo, George dubitava che avrebbe mai tradito Harry.
Il sangue che raggrumava sui suoi vestiti babbani sapeva di metallo sporco, era a questo che George pensava mentre storceva il naso, disgustato.
«Lasciami andare!» sbottò in un impeto di coraggio.
La strega mosse il lungo indice della mano sinistra in tre semplici rintocchi, la lingua che schioccava sul palato come quella di una madre che rimprovera il figlioletto spericolato. «Risposta sbagliata.»
«Io…» cominciò il ragazzo, ma un lampo oscuro attraversò il volto di Bellatrix Lestrange, qualcosa di molto simile alla rabbia.
«Dov’è Potter?» gridò a pochi centimetri dal volto del più giovane. Strinse la mano fino a fargli sanguinare le guance e George chiuse gli occhi.
«Guardami!» gli ordinò con tono grave, «Guardami!»
George avrebbe voluto scappare, ma quello non era un incubo e il dolore che percepiva era reale. Tremando appena, aprì nuovamente le palpebre e si perse nelle pupille scure e maligne della strega.
«So che lo sai.» bisbigliò la donna. C’era un ghigno folle sul suo volto e George d’un tratto capì di non potergli sfuggire nemmeno col pensiero. Lei lo voleva , in quella stanza, sotto le sue grinfie e lui non avrebbe potuto fare niente per sfuggirle.
Sentì gli occhi inumidirsi di qualcosa di simile al pianto, ma nessuna lacrima solcò il suo volto quella sera.
Inspirò aria col naso, ossigeno tremolante che vibrò fino ai suoi polmoni e gli permise di non soffocare.
Avrebbe preferito che si scostasse di qualche centimetro permettendogli di respirare senza sentirsi strangolare dal suo sguardo di mangiamorte.
«Dimmi dov’è, Georgie. Non costringermi a farti male … perché te ne farò, lo sai.»
«Lasciami andare!» avrebbe voluto apparire più sicuro, ma la verità era che la paura regnava sovrana in quel momento e la sua voce era incrinata quanto il suo braccio destro. Avrebbe voluto avere Fred al suo fianco, era sempre più coraggioso quando erano insieme.
«Lasciami,» mugugnò la strega muovendo la bocca a simulare un piccolo broncio, «Voglio la mamma, lasciami.»
Scoppiò a ridere, una risata amara e spettrale che gli fece accapponare la pelle.
Poi tornò a guardarlo.
«Sono io la tua mamma, adesso.» si chinò fino a toccargli le labbra con le proprie «E giocheremo insieme per molto tempo, Georgie
Era piegata su di lui, bloccato a terra, e la mano libera vagava sul suo braccio. In quel frangente, George poté quasi vedere la vita fermarsi e il futuro che aveva sempre sognato infrangersi come le schegge di uno specchio rotto. In quel momento non esisteva nulla al di fuori di loro; non aveva un passato, non aveva sogni o speranze, non aveva famiglia e non aveva neanche un nome. Dentro di sé qualcosa si era spezzato e George stava affogando nel mare del proprio sconforto.
Bellatrix si allontanò dal suo volto con un vago sorriso e tirò fuori la bacchetta. Era piegata come una rivoltella, opaca come la morte, di un legno semiflessibile che le permetteva di non spezzarsi. Per un attimo George pensò che fosse la fine.
Poi una luce sfuocata proruppe dalla punta della bacchetta e si infranse sul suo braccio inerme. Sentì distintamente il suono delle sue ossa che si rimettevano a posto e poté nuovamente muovere le dita della mano. Sbatté le palpebre, attonito, e fissò il braccio guarito con un’occhiata stranita.
«Come si dice?» domandò Bellatrix con voce affabile, una punta di velato pericolo nella voce.
George inghiottì a vuoto, ma balbettò un grazie poco deciso e ascoltò i battiti celeri del suo cuore mentre rimbombava nel petto.
Finalmente, Bellatrix  lo lasciò andare e le sue guance cantarono di sollievo, ma non per molto. Gli occhi di George fissavano ancora con timore la bacchetta della sua carceriera. Si muoveva lenta nell’aria come una libellula, ma sapeva bene che avrebbe potuto essergli fatale in un secondo.
Avrebbe voluto essere libero da ogni catena, prendere la scopa e volare fino a casa in un colpo solo, ma il suo corpo rimase fermo e immobile come una statua, inerme sotto il voglioso sorriso che deformava il volto di Bellatrix Lestrange.
Lei gli afferrò strettamente il polso, forse più del necessario e le labbra del rosso si incresparono in una smorfia. La vide avvicinare la bacchetta al suo braccio come se impugnasse una piuma dalla punta affilata e d’un tratto tutto divenne rosso. Poteva percepire quello stiletto scavare la sua carne e incidere i segni di un’ottusa calligrafia sulla pelle. Tentò di divincolarsi, ma più ci provava e più la bacchetta andava più a fondo. Gli occhi di Bellatrix lampeggiavano di bramosia e il pavimento si tingeva di un rosso vermiglio. Sentiva il braccio ardere di fuoco e sangue, le forze che si raggrumavano fino a disperdersi. La diga era stata infranta e una marea rossa si riversava fuori dalle vene del ragazzo. Aveva già perso troppo sangue per un taglio del genere e la sua vista si imbrattò di nero. Provò a urlare, a pregarla di fermarsi, ma il dolore continuò e un suono simile a un fischio cominciò e invadere i suoi timpani. Si morse la lingua e poi le labbra, tentò di aggrapparsi a quella realtà orrenda con tutte le forze che gli rimanevano ancora in corpo, ma invano. La testa ciondolò sul pavimento come un guscio vuoto, i ricordi che appassivano nuovamente e un vago silenzio che lo riportò giù nelle tenebre.






#Angolo Pandacornoso
BUM! Torture già di prima mattina è.è (o pomeriggio inoltrato, dipende dai punti di vista)
So che George potrebbe apparire un po’ OOC in questo capitolo, ma provate voi a svegliarvi sotto le grinfie di Bellatrix Lestrange, tutt’al più se ricoperti di sangue ormai rappreso. Non lo augurerei quasi a nessuno.
Tornando a noi, è chiaro che nel prossimo capitolo compariranno gli altri prigionieri e so che non vedete l’ora di vederli approcciarsi l’un l’altro ù.ù
Non preoccupatevi, verrete accontentati ;)


 

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Capitolo 5
*** No Escape in Hell ***



No Escape in Hell

Quando diverso tempo dopo George riaprì gli occhi la risata di Bellatrix era ancora vivida nella sua memoria, ma della vasta stanza piena di candele non erano rimaste che quattro pareti lerce e polverose, quasi prive di luce.
Faceva talmente freddo là dentro da fargli venire i brividi, si ritrovò a pensare mentre si riempiva i polmoni di aria sporca. Stropicciò istintivamente le labbra in una smorfia di disgusto.
Stanco morto, ecco come si sentiva. La testa gli mandava fitte atroci, così come il braccio, ma a parte questo sembrava star bene.
«Si è svegliato.» Una voce poco distante attirò la sua attenzione in un balzo George scattò dritto con la schiena, gli occhi sgranati e la mano destra che accorreva ad afferrare una bacchetta invisibile. Aprì gli occhi all’istante, ancora vagamente intontito, e guardò dritto davanti a sé; la vista scemò leggermente sia per le tenebre della stanza che per il brusco movimento del corpo mentre il cuore martellava spasmodico da dentro la gabbia toracica.
Si aspettava di vedere il volto di Bellatrix davanti a sé, ma i lineamenti che intravide dopo qualche attimo di smarrimento erano ben diversi da quelli della strega nera. A pochi centimetri di distanza da dove George si trovava, un ragazzo della sua età lo squadrava con vago interesse. Aveva il volto lurido di quelle che parevano botte e terriccio, i capelli castani sparpagliati intorno al viso e due occhi blu oltremare che non facevano che fissarlo, insistenti. George inghiottì a vuoto e aprì la bocca per dire qualcosa, ma lo sconosciuto lo anticipò.
«È tutto apposto, non ti farò niente.» la sua voce era incredibilmente calma per essere quella di un prigioniero di guerra, dovette ammettere il rosso dopo qualche attimo di sconcerto.
«Chi sei?» domandò all’istante, diffidente. Non era mai stato un tipo difficile da avvicinare, ma con tutto quello che era successo …
Il ragazzo mise le mani davanti a sé, come a tentare di placare il rosso, prima di prendere la parola, «Io mi chiamo Eleutherios e non ho intenzione di farti del male, sia chiaro. Siamo tutti sulla stessa barca qui.» concluse, tentando di racimolare un sorriso da regalare all’inglese. Aveva un accento strano, come se quella non fosse la sua lingua madre. Stava per chiedergli da dove provenisse, ma un dettaglio in ciò che aveva detto gli fece arcuare le sopracciglia: siamo? Quindi noi.
Si guardò rapidamente attorno, rendendosi conto solo allora della presenza di altre persone oltre a loro due. Si trovava in una cella squadrata e piuttosto stretta, probabilmente nei sotterranei di qualche castello. Le pareti erano di roccia ben incastonata, ruvide e antiche, difficili da scalfire. L’unica via d’uscita sembrava essere la porta di legno massiccio, sicuramente sbarrata. Era completamente buio, fatta eccezione per il fioco raggio di luna che filtrava da un buco nel soffitto. Sembrava un pozzo al contrario ed era chiuso con una fitta rete di metallo arrugginito.
«Un brutto posto eh?» mormorò Eleutherios sommessamente, prima di intuire i pensieri del ragazzo, « Ci abbiamo già provato; il metallo è ben incassato nella roccia, non riusciremmo mai a spezzarlo, non a mani nude. E poi, dovrebbe esserci un’altra rete di metallo in superficie. Non c’è via di uscita da questo tugurio, credimi.»
«Ne sei sicuro?»
Eleutherios scosse la testa, «Potresti provare a prendere di soppiatto chi entra, metterlo fuori gioco e uscire direttamente dalla porta, ma non ti conviene: quei corridoi sono come un labirinto, ti perderesti e verresti scovato da uno di loro. Non hai nemmeno la bacchetta per combatterli, ti faresti solo uccidere.»
George sentì un peso enorme piombargli sul petto a quelle parole. Era davvero in trappola? Come un topo.
Percepì lo sguardo di Eleutherios farsi più insistente e capì che a breve avrebbe risentito il suono della sua voce.
«Tu sei …»
«George.» rispose il rosso, secco, «Dove siamo?»
«Nessuno lo sa. Le segrete di un maniero, senza dubbio.»
«Un maniero?» alzò un sopracciglio il rosso. Non era mai stato in un maniero prima.
Eleutherios ignorò l’aria sbalordita dell’inglese e continuò a parlare, «Deve appartenere a qualche mangiamorte, è ovvio. Comunque puoi chiamarmi Ele, so che il mio nome potrebbe sembrare un po’ strano.»
E difficile, avrebbe voluto aggiungere George, ma era troppo frastornato per aprire bocca. Il pensiero di trovarsi a casa di un mangiamorte gli rivoltava lo stomaco, poteva sentire le sue budella scompigliarsi fino a formare una gelatina di vomito. Cercò di non farci caso, concentrandosi su qualcosa che non lo spingesse a rimettere la cena sul pavimento di quella putrida cella.
Per quanto volesse darsi una calmata però, i suoi timori non facevano che cozzare nella sua testa, sfinendolo. Alla fine rinunciò a rilassarsi e si lasciò andare, «Che cosa ci faranno?»
Ele non parve sorpreso di quella domanda, «Ci tengono qui come loro sollazzi, come i loro giocattoli.»
George sgranò gli occhi, «Ci tortureranno?»
Eleutherios lo scrutò attentamente prima di rispondere.
«Lo hanno già fatto.»
C’era una nota dolente nella sua voce mentre indicava l’incisione che deturpava il braccio di George. Il rosso abbassò lo sguardo sul suo arto destro: una scritta profonda e gutturale gli imbrattava la pelle disegnando lettere macabre e solchi del colore dell’odio.
TRADITORE.
Una parola rossa come il fuoco, nera come il disprezzo dei seguaci del serpente e indelebile come una condanna a morte.
George sapeva che non sarebbe mai andata via e che quella cicatrice lo avrebbe rincorso per tutta la vita solo per ricordargli di Bellatrix, del suo sguardo folle e delle sue mani sul suo corpo. Gli veniva male solo a pensarci.
Incrociò le gambe, il viso spento e sbarrato. Rimase a fissare quel tatuaggio, quell’insulto, per minuti che parvero ore. Gli anatemi scagliati nei cieli durante la battaglia sembravano ricordi lontani in quel momento.
«Mi dispiace.» la voce di Ele riuscì a riscuoterlo dai suoi pensieri. Era incrinata e fievole, talmente sincera da apparire falsa.
Eleutherios gli mise una mano sulla spalla per fargli sentire il suo supporto, ma George rimase silenzioso. Lanciò un ultimo sguardo al proprio braccio e si costrinse a guardare altrove, facendo vagare gli occhi per la stanza adombrata. Poté scorgere alcune figure raggomitolate negli angoli con la testa china tra le ginocchia e le gambe ormai magre e ossute. Alcuni di loro erano più coraggiosi e si erano fatti avanti per osservare meglio il nuovo arrivato.
George non sapeva che pensare, molti di loro sembravano lì da tempo, eppure non riusciva nemmeno a immaginare di passare anche solo poco più di una settimana in quel posto. Non avrebbe retto.
Si spazzolò i capelli con le dita e sentì il sangue rappreso sporcargli i polpastrelli e le unghie. Doveva esserci una ferita là a sinistra, proprio all’altezza dello zigomo. Era stato così preso dalla situazione da ignorare le fitte che il suo corpo continuava a inviargli, ma ora era tempo di controllare i danni.
«Fermo.» lo avvertì Ele bloccandogli la mano, «Hai una brutta ferita, è meglio se non la tocchi con le mani.»
«Che cos’ho?» sentiva la gola occlusa mentre un improvviso timore si faceva strada dentro di lui. I suoni che udiva sembravano appartenere al solo lato destro del mondo, si rese conto, come se quello sinistro si fosse assopito. Si liberò dalla presa del ragazzo e avvicinò di nuovo la mano al capo, le dita che cercavano con folle bisogno i lembi di un orecchio che non c’era più.
«Mi dispiace.» ripeté Eleutherios, come se fosse stato lui a fargli questo.
Una parte di George stava ridendo, trovava quasi buffo che fino a poco tempo prima fosse stato tutto intero, sorridente e quasi allegro di prender parte a una missione dell’Ordine. E ora? Ora George si malediva per essersi messo in mezzo, per non aver lasciato che fossero i grandi a fare le cose e non essere rimasto a casa con Molly e Ginny. Non aveva più un orecchio, la magia nera glielo aveva tranciato via insieme all’udito, il suo braccio giaceva in un tatuaggio obbrobrioso e la sua mente avrebbe rievocato la risata di Bellatrix ogni volta che avrebbe mai provato a chiudere gli occhi per tentare di dormire.
D’un tratto provò una rabbia incontrollata riversarsi dentro di lui. Non era giusto. Non aveva mai fatto niente di male per finire laggiù. Era un bravo ragazzo, un po’ sopra le righe ma in gamba. Non meritava niente di tutto questo.
Eleutherios parve intuire ancora una volta i pensieri del ragazzo perché la sua espressione si raddolcì, «Puoi piangere se vuoi, nessuno ti giudicherà per questo.»
George sbuffò, amareggiato, «Non sono una ragazzina.»
Non voleva essere così brusco, dopotutto Ele stava cercando di essere gentile, ma quelle parole erano uscite di loro spontanea volontà, automatiche. Cercò di reprimere la stizza che provava in quel momento e si concentrò sugli altri prigionieri.
Aveva fatto bene a non aprire i rubinetti, pensò tra sé e sé mentre i suoi occhi si posavano sui volti emaciati dei suoi compagni. Quei ragazzi dovevano aver visto fin troppi pianti e il fatto che permettessero a George di sfogarsi non voleva dire che desiderassero vedere altre lacrime.
«Fai bene.» esclamò un uomo appoggiato al muro opposto, «Sprecar lacrime è da sciocchi. Dammi retta: non disidratarti, l’acqua che hai ora in corpo ti servirà tutta.»
George assottigliò gli occhi per avere una migliore visuale dello sconosciuto, ma l’unica cosa che riusciva a vedere era un uomo corpulento dagli abiti luridi e una marea di graffi sul viso.
«Buile MacSween.» si presentò l’energumeno accennando un saluto col mento. Aveva una voce rauca e baritonale, con un accento particolarmente spiccato che, insieme ai rossi capelli pel di carota, non lasciava scampo alle sue origini.
«Irlanda?» intuì il ragazzo, quando uno sbuffo ironico lo costrinse a voltare il capo verso un’altra figura, alla sua destra. Una giovane ragazza se ne stava raggomitolata in silenzio, esausta, con i capelli più lunghi e scompigliati del normale. Stavolta George non dovette strabuzzare gli occhi per vederla perché la luce della luna stava illuminando proprio quel lato della cella, trasformando la figura sottile e sciupata della ragazza in un giogo di luci e ombre particolarmente impressionante.
Sembrava una bambola di pezza, ragionò George senza proferire parola, osservando con occhio impressionato il profilo sporgente delle ossa e gli zigomi affilati che le deturpavano il volto. Le labbra erano pallide e screpolate, la pelle rivestita di una patina di fuliggine e gli occhi, un tempo di un vivido grigio perla, sembravano laceri e slavati. Due biglie spente che galleggiavano in due orbite oscure.
George inghiottì a vuoto, «Che ho detto di così divertente?»
«Oh niente.» sollevò le spalle la giovane stropicciando le labbra all’insù, «Solo che è piuttosto evidente che il nostro beneamato Sweeney provenga dall’Irlanda.»
George avrebbe probabilmente riso del sarcasmo di quella ragazza in una situazione normale, ma era ancora troppo frastornato e sfinito per riuscire a seguire i discorsi di chi lo circondava.
«Eddài, Mel, lascialo in pace.» proruppe Ele con scarsa convinzione, «È appena arrivato, dagli tempo.»
Melody Hill sbuffò un’altra volta e alzò le mani in aria in segno di resa, poi tornò a giocherellare con le maniche logore della felpa e riappoggiò la nuca alla parete di pietra alle sue spalle, lasciandosi andare a un sospiro di pura noia.
George continuò a guardarla per un po’, senza dire nulla. Mel aveva perso tutte le sue forme con l’avanzare della magrezza e i capelli mori invece di apparire morbidi e setosi, sembravano crespi e sudici. Aveva un’aria selvatica, si ritrovò a pensare il rosso. Un selvatico sbagliato però.
Si passò una mano sulla faccia tentando di inspirare quanta più aria riuscisse a contenere e rendendosi conto solo in quell’istante di quanto fosse difficile respirare là dentro.
«Cerca di non farti venire un attacco di panico.» lo avvertì Ele spulciando il suo volto alla ricerca di un segno d’allarme. George annuì lentamente, ma dovette comunque tornare a distendersi sul pavimento e chiudere gli occhi.
«Respira piano.»
La voce di Eleutherios continuò a riempire la stanza finché non cominciò a scemare insieme alle fitte di dolore che ancora dilaniavano il corpo del mago.
George si sentiva spezzato in due tra il desiderio di abbandonare quell’orribile realtà e la paura di addormentarsi e non svegliarsi più. Provò a dibattersi tra questi due fronti, ma era troppo stanco e prima che se ne rendesse conto, stava già dormendo.

 
 




#Angolo Pandacornoso
Ehilà, ci siete ancora?
Stavolta siamo presenti tutti e due per chiedervi perdono per il clamoroso ritardo. In realtà il capitolo era pronto già da tempo, ma non ci convinceva del tutto così l’abbiamo modificato in due o tre parti.
Parliamo chiaramente, la scuola è iniziata e difficilmente riusciremo ad aggiornare in tempi brevi.

Speriamo ugualmente che il capitolo sia stato di vostro gradimento ^-^ come avete visto non compaiono tutti i personaggi, ma solo alcuni. Questo perché non volevamo farvi troppa confusione, così abbiamo deciso di introdurre solo Eleutherios, Buile e Melody e in modo molto superficiale. Con l’avanzare dei capitoli avrete l’occasione di scoprire la personalità e la storia di ognuno di loro, ma per il momento volevamo lasciarli nel mistero. Dopotutto questo capitolo è ancora dal punto di vista di George e visto che per il nostro Weasley quei tre non sono altro che sconosciuti, è giusto che lo siano anche per voi ;)

Ok, non vogliamo rendere quest’angolo più lungo del capitolo, perciò chiudiamo qui ù.ù
Alla prossima,

Acqua e Alloro

 

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