Come neve sulla pelle [a winter tale]

di L S Blackrose
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




 


 

Prologo



 

 

C'era una volta, in un regno lontano e plasmato nella neve, una Principessa. Aveva tutto ciò che ognuno potrebbe desiderare: una famiglia amorevole. Potere, forza e bellezza. Una voce da usignolo che poteva sciogliere perfino il più freddo dei cuori. Un radioso futuro.

Ma si sa, il male per natura desidera possedere le cose più pure e belle, e, ahimè, quella Principessa non fece eccezione.

Un mattino d'inverno, un viaggiatore bussò alle porte del castello. Accolto con la tipica calorosità del Nord, che tanto contrasta con i paesaggi innevati delle vette, il misterioso forestiero si inchinò ai reali e chiese udienza.

Il Re, dopo aver scambiato uno sguardo con la moglie, lo invitò con un cenno ad esprimere la propria richiesta. Così il viandante disse loro: « Maestà, ho un solo desiderio. Chiedo in moglie vostra figlia ».

I sovrani, stupefatti, gli risposero che la Principessa era ancora una bambina. Una volta cresciuta e in età da marito, lui avrebbe potuto ripresentarsi assieme agli altri pretendenti per aspirare alla sua mano e al trono, come decretava la legge.

Lo straniero incappucciato, tuttavia, si ribellò con asprezza alle gentili parole del Re. Disse che non era disposto ad aspettare, lui voleva la Principessa e la voleva subito, non fra dieci anni. Allora il sovrano si alzò dallo scranno in preda all'ira e gli intimò di andarsene e di non tornare mai più.

La risata dello sconosciuto, tagliente e dolorosa come una lama ricoperta di ghiaccio, fece tremare i vetri alle finestre e gelare il sangue della Regina. Ella, che aveva ereditato da sua madre il sottile intuito che sfociava nella preveggenza, cercò di riappacificare gli animi dei due uomini, ma il forestiero la interruppe con un gesto della mano. « A nulla varranno le vostre suppliche, mia Regina. Oramai ho deciso ». Alzò le dita pallide e affusolate, puntandole verso di loro. Nella sala ogni candela si spense, le vetrate si ruppero in mille pezzi e la neve riempì in poco tempo il pavimento di pietra.

Con quella manifestazione di potere, l'uomo rivelò la propria identità: era uno degli Spiriti della Neve, padroni delle tempeste e signori dei venti.

I suoi occhi cerulei si posarono in quelli del Re. « Con queste parole io vi maledico, maestà. Che la neve e l'inverno mi siano testimoni. Se non posso avere la Principessa per me, ella non sarà di nessun altro ».

Un silenzio attonito seguì quell'orribile profezia. La Regina si aggrappò al braccio del marito, prima di inginocchiarsi ai piedi dello Spirito e implorare clemenza. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, disse. Qualsiasi cosa pur di salvare la figlia, anche a costo della propria vita.

Ma lo Spirito non accolse le sue suppliche. Si dimostrò implacabile e spietato, come lo strato di ghiaccio che nei fiordi impediva alle navi di salpare.
« Così voglio e così sarà. Bella e pura la Principessa crescerà, ma ogni anno, sulla sua pelle, la neve il suo marchio gelido imprimerà. All'età di vent'anni il suo cuore reclamerò e per sempre all'inverno ella apparterrà ».

Il Re, dapprima impietrito, si fece avanti e sguainò la spada. Lo Spirito maligno rise ancora e la tormenta che imperversava nella sala si intensificò. Accecato dai fiocchi di neve che gli turbinavano intorno, il sovrano chiuse gli occhi e tentò un affondo con la lama.

Come era giunta, la tempesta cessò.

Lo Spirito era scomparso: unica traccia del suo passaggio, il soffice strato di neve al suolo.

Ma le sue perfide e crude parole risuonarono nel cuore dei sovrani fino alla fine dei loro giorni.










* * * * * * *


Ciao a tutti!

Questa è la mia prima ff su Black Friars, nata dopo aver terminato l'ultimo libro. E' il mio umile tributo alla straordinaria Virginia de Winter e alla sua saga, che mi ha appassionato e fatto sognare.

Non sarà un racconto lungo: prevedo circa dieci capitoli, forse meno. E avrà come protagonista l'incubo dei becchini, comunemente noto anche come Bryce Vandemberg. E' il personaggio a cui mi sono affezionata di più, mi ha fatto ridere e riflettere, quindi perché non scrivere qualcosa su di lui?

Spero che il prologo vi abbia incuriosito, alla prossima.

Lizz






 

 

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Capitolo 2
*** I ***




 

Capitolo I

 



 

Un vento insistente e minaccioso soffiava quella sera sulla Vecchia Capitale. Scivolava silenzioso e pungente sulle lastre di pietra delle strade affollate, portando con sé un vago ricordo di notti stellate profumate di neve.

Le soglie dell'inverno si stanno schiudendo, pensò Gwennyfer MacWarden mentre il respiro ghiacciato del vento le accarezzava le guance.

Il cappuccio del mantello le nascondeva a malapena la fronte e i lunghi capelli, ma lei non temeva quella brezza dal sapore agrodolce. Paragonato alle temperature aspre e rigide dell'estremo Nord, quel clima era estremamente mite e piacevole. Niente a che vedere con le bufere che facevano tremare i picchi di Stormhold, il piccolo regno indipendente ai confini di Aldenor. La sua casa, l'inizio e la fine di tutto il suo mondo.

Con una punta di nostalgia, Gwennyfer alzò gli occhi sulle nubi scure del crepuscolo, tra le quali si affacciava timidamente un debole spicchio di luna. Un altro soffio gelido le solleticò il volto, portando scompiglio tra i ciuffi sfuggiti all'elaborata acconciatura. Il breve sospiro che le uscì dalle labbra formò una piccola nuvoletta, subito trasportata via dal vento capriccioso.

Quando infuria la tempesta e il giorno se ne va, attenta bimba mia, attenta. Lo Spirito delle Nevi farà festa...

«Ed il freddo con sé condurrà» recitò in un sussurro, storpiando l'ultimo verso di una tipica romanza di Stormhold. Era una storia tramandata di voce in voce, che le vecchie balie raccontavano ai bimbi per metterli in guardia dagli sconosciuti. Ragazzini rapiti, un perfido uomo dal cuore di ghiaccio...inutile dire che non si trattava della classica fiaba della buonanotte.

Gwen abbassò lo sguardo sulla spessa treccia che le ricadeva su una spalla e sorrise tristemente tra sé. A volte le fiabe si tramutavano in realtà. E non sempre il loro finale era lieto.

«Mia signora». Una voce ruvida interruppe dolcemente le riflessioni della ragazza. Aveva la cadenza secca di Stormhold, consonanti marcate e vocali appena accennate. «Attendiamo i vostri ordini».

Gwennyfer voltò il viso a sinistra, incrociando gli occhi color carbone di Gawain Von Lear, primo ufficiale dell'esercito del regno.

Percival MacWarden, duca di Stormhold nonché suo unico zio e tutore, le aveva gentilmente fatto capire che non avrebbe acconsentito a farla allontanare da palazzo senza un'adeguata scorta, così ora lei si ritrovava alle calcagna quel gruppetto formato da tre soldati, i migliori del reggimento.

Gwen si morse l'interno della guancia per trattenere un sorriso. Erano anni che suo zio fingeva di non notare la stretta amicizia che la nipote aveva instaurato con lame e pugnali: un'abilità che faceva impallidire anche il più anziano dei veterani e che le aveva salvato la vita più di una volta.

I suoi premurosi guardiani – o, come amava definirli lei, cani da guardia – la stavano fissando, attendendo istruzioni.

Gwen osservò i dintorni con occhio critico, respirando la fresca aria della sera che odorava di spezie e focacce appena cotte. Nonostante il chiacchiericcio festoso degli avventori delle vicine taverne e le luci delle lanterne che illuminavano la via, la Vecchia Capitale le appariva inospitale e tetra, peggio delle prigioni nei sotterranei del castello.

Grazie ai poteri ereditati dal ramo materno della famiglia, Gwennyfer percepiva la malvagità a chilometri di distanza. E si chiese come facessero le persone che le passavano accanto a ridere, scherzare - perfino respirare - quando il Male soggiornava appena fuori città. Le tornarono a mente i racconti di Ivayne, la sua fidata balia, e guardò con disgusto la nebbia che si avvolgeva in spire attorno alle zampe dei cavalli.

Il ricordo della Rivolta era ancora vivido e presente: lo avvertiva nelle fessure delle lastre di pietra della strada, celato nelle ombre dei vicoli bui, avvolto nella sottile foschia che si innalzava dalle acque immote del fiume.

Il Presidio era solo stato scacciato, non sconfitto. Si era ritirato nelle tenebre, a guarire dalle ferite, per prepararsi ad una battaglia ancor più brutale.

Ma quando accadrà, le forbici del fato avranno già spezzato ciò che rimane di me.

Sulla scia di quel pensiero cupo, Gwen alzò il mento e tirò le redini per rallentare il passo del proprio destriero. «Tristan, Lancelot. A voi il compito di trovare un luogo confortevole in cui soggiornare. Mi sembra superfluo ricordarvi che non dobbiamo attirare troppo l'attenzione».

I soldati chinarono il capo. «Luogo confortevole, basso profilo. Ricevuto. Provvediamo subito, Altezza» asserì Tristan, efficiente come sempre.

Dopo aver rivolto un cenno rispettoso a Gwen e al loro capitano, i due spronarono i cavalli e proseguirono lungo la via, mischiandosi nelle tenebre.

«Da qui in poi sarà meglio proseguire a piedi, Altezza». Gawain scese da cavallo con un rapido balzo e le porse una mano per aiutarla a fare altrettanto. Quel gesto galante venne debitamente ignorato dalla Principessa, che si limitò a scoccargli un'occhiata ironica.

Più grande di lei di appena tre anni, Gawain Von Lear era stato il suo unico compagno di giochi quando era bambina e, successivamente, si era eletto suo cavalier servente. La trattava con un rispetto e una cortesia quasi irritanti, le dava del 'voi' come se non la conoscesse e si ostinava a riferirsi a lei con appellativi quali 'Vostra Altezza' o 'Maestà'.

Visto che contestare i suoi modi cerimoniosi non sortiva alcun effetto, Gwennyfer aveva presto imparato a fingere di non notare tutte quelle inutili moine.

Si lasciò scivolare con grazia giù dalla sella e sistemò meglio il cappuccio sul capo. Dopo aver controllato anche lo stato dei propri abiti, alzò gli occhi su quelli del capitano Von Lear. «Solo perché sono una principessa, non significa che sia debole o incapace di badare a me stessa» proclamò, prima di superare il ragazzo e dirigersi verso i capannelli di studenti fermi in mezzo alla strada.

Anche se era rimasto qualche secondo indietro per legare i cavalli, Gawain la raggiunse in poche falcate. Lei continuò a parlare senza guardarlo, lo sguardo fiero dritto davanti a sé. «Non lo sono mai stata, non ho certo intenzione di cominciare ora. Mi sembra di avertelo già detto parecchie volte, Wain».

Pur non vedendolo, colse il sorriso nelle parole dell'amico. «Questa è solo la quinta, per oggi. L'avete ripetuto quando ho steso il mio mantello ai vostri piedi per evitarvi di calpestare una pozzanghera questa mattina, in seguito quando ho insistito perché indossaste degli abiti più pesanti e poi quando …».

Gwen lo interruppe con un gesto della mano. «Questo significa che il tuo non è affatto un problema d'udito, bensì una carenza di intelligenza. Proprio come immaginavo».

Le risate degli studenti schiamazzanti non riuscirono a mascherare quella roca del ragazzo al suo fianco. «Vostra Altezza, sapete bene che sono soltanto un umile soldato. Il mio compito non è far sfoggio delle mie capacità intellettuali». Il suo tono scherzoso si velò di serietà nell'aggiungere: «Ho giurato di proteggervi, a costo della vita. E lo farò, anche contro la vostra volontà».

Gwennyfer ricompensò quell'accorata affermazione di lealtà con uno dei suoi rari sorrisi. «Lo so, Wain. Te ne sono grata. Ma sai anche che ci sono cose da cui non posso essere protetta».

Con la coda dell'occhio lo vide stringere i pugni lungo i fianchi. Gawain sapeva a cosa alludeva e difatti non replicò. Come avrebbe potuto? Esistevano pericoli molto più temibili di briganti, pozzanghere melmose e animali selvatici.

Gwen si strinse nel mantello e si fece largo con eleganza in quel mare di feluche e divise studentesche. Suo zio affermava spesso con orgoglio che lei era quel tipo di donna in grado di uscire da una tempesta di neve con i vestiti perfettamente stirati e non un capello fuori posto. E suo fratello Arthur ci teneva sempre a precisare che, nel remoto caso in cui le sue gonne si fossero sgualcite, la tempesta stessa si sarebbe inginocchiata ai suoi piedi e premurata di eliminare ogni piega.

Arthur. Era lui il motivo di quel viaggio, la meta tanto agognata.

Arthur Russell MacWarden era il suo adorato fratellino di diciassette anni, suo unico parente ancora in vita, se si escludeva l'arzillo zio Percival. Da due anni lontano da casa per seguire le lezioni all'Università, Arthur tornava a Stormhold soltanto nei mesi di vacanza e anche in quei periodi Gwen riusciva a vederlo appena.

Non era più un bambino: un giorno sarebbe diventato Re e Gwen cercava in tutti i modi di aiutarlo in quel duro cammino fatto di studio e responsabilità. Questa era una delle ragioni che l'avevano spinta fuori dai confini del regno: trascorrere il più tempo possibile assieme ad Arthur prima che...

Non voleva pensarci. Si rifiutava di pensarci. Le restava ancora un po' di tempo e l'avrebbe impiegato al meglio, l'aveva giurato a se stessa.

La voce rauca di Gawain ruppe di nuovo l'intreccio dei suoi pensieri. «Vogliamo fare un tentativo?» propose, indicando con un cenno del capo una locanda tra le più affollate.

Gwennyfer prese un profondo respiro. Non era ancora entrata e già le mancava l'aria. «Credi che mio fratello si trovi lì dentro?» domandò, con un tono a metà strada tra scetticismo e raccapriccio.

Il capitano Von Lear inclinò la testa, osservando con interesse quasi scientifico un vivace gruppetto di studentesse. «Conoscendo i gusti del Principe, ne dubito. Ma da qualche parte dovremo pur iniziare. Al Collegio non c'era, dove altro potrebbe essere?».

Meglio non approfondire la questione, si disse Gwen. Preferiva mille volte pescare suo fratello ubriaco in un'osteria, piuttosto che saperlo nella casa di qualche scostumata cortigiana.

Abbassò il cappuccio sulle spalle, tanto nessuno tra gli avventori l'avrebbe riconosciuta. Erano troppo impegnati a darsele di santa ragione, urlare insulti a caso e brindare allegramente.

Gawain, nell'ennesimo sfoggio di galanteria, le tenne aperta la porta e lei entrò a passi misurati, guardandosi attorno con attenzione per individuare la familiare chioma corvina e riccioluta di Arthur. Le occorsero pochi secondi per capire che, in mezzo a quel chiasso infernale, le speranze di scorgere anche solo un lembo del mantello del fratello fossero pressoché nulle.

Camminando a testa alta e seguita a ruota da Gawain, si inoltrò nel caos e si fece largo tra la folla armata soltanto della sua innata grazia principesca. E dei suoi impietosi stivali dalla punta rinforzata in acciaio e dal tacco a stiletto.

Gawain si appoggiò mollemente al bancone e fece un cenno all'oste, senza mai perdere di vista lei o le persone che le giravano attorno. Bastò una sua occhiata a far retrocedere alcuni studenti che avevano trovato il coraggio di avvicinarsi a Gwennyfer.

Lei lo guardò sbattendo le ciglia. «Non sarete geloso, capitano» lo provocò, imitando il tono civettuolo e adorante con cui gli si rivolgevano di solito le cameriere a palazzo.

Gawain perse per un attimo il cipiglio corrucciato e ammiccò. «Sarò sempre geloso di voi, Altezza» disse, accompagnando le parole con un tenero sorriso. Le spostò un ciuffo di capelli dalla fronte - uno dei pochi gesti di confidenza che si concedeva quando erano insieme - e poi si rivolse all'uomo dietro al bancone. «Mi perdoni, gentile signore, potrebbe ...».

Nemmeno in quell'occasione i suoi squisiti modi cavallereschi vennero apprezzati. Il nerboruto oste lo squadrò dalla testa ai piedi con sufficienza e lo interruppe a metà frase con un brusco: «Poche ciance. Se volete da bere, vi servo subito. Altrimenti, addio. Ho già il mio bel daffare stasera». E così dicendo indicò il centro della sala, dove due ragazzi si apprestavano a sfidarsi a duello. Uno munito di un boccale di peltro, l'altro di una sedia a cui mancava una gamba.

L'espressione di Gawain, comicamente scioccata, fece ridere Gwen. Lei gli rifilò una gomitata nelle costole per farlo spostare e sorrise all'oste, che la guardò con meraviglia.

Gwen era dolorosamente consapevole del proprio fascino; a Stormhold i pretendenti alla sua mano si presentavano a frotte. Peccato che lei considerasse la propria bellezza esteriore come la più crudele tra le maledizioni che il destino le aveva inflitto.

«Comprendiamo, signore» disse, nel suo tono più dolce. «Volevo solo chiedervi il permesso di utilizzare il vostro stupendo pianoforte».

L'idea le era venuta dopo aver scorto di sfuggita lo strumento, tutto solo in un angolo e ricoperto da un telo impolverato. La musicista che era in lei lo prese come un affronto personale e un esplicito invito. Non era mai riuscita a resistere: non appena vedeva uno strumento musicale sentiva le dita prudere, fremere dalla voglia di impossessarsi di corde e tasti.

«Pianoforte?».

«Stupendo?».

L'oste e Gawain parlarono in simultanea: il primo con stupore, il secondo con palese sarcasmo. Che gli valse un'altra occhiata iraconda da parte del proprietario del locale.

«Ma certamente, signorina» si affrettò a dire quest'ultimo, uscendo da una porticina a lato del bancone per mostrarle lo strumento in questione. Era collocato sopra un piccolo soppalco e, polvere a parte, pareva in perfette condizioni.

Mentre sollevava con prudenza il coperchio e faceva scorrere lentamente le dita sui tasti, Gwen si rese conto che, nonostante quel pianoforte fosse vecchio di almeno un secolo, era stato accordato di recente.

L'oste ripulì il sedile foderato di pelle con uno straccio logoro, per poi gettarlo di malagrazia sul primo tavolo disponibile. La incoraggiò a prendere posto, del tutto dimentico del frastuono della sala e degli avventori da tenere sotto controllo. «Riconosco subito un musicista quando lo vedo. Venite, fanciulla. Fate onore al mio umile pianoforte».

Gwennyfer gli sorrise e si sedette davanti allo strumento, sotto lo sguardo ironico ed esasperato del capitano Von Lear. «Per fortuna che non dovevamo dare nell'occhio, Altezza» sospirò, incrociando le braccia. Sotto lo sguardo ammonitore dell'oste, aggiunse frettolosamente: «Però potrebbe rivelarsi utile per rintracciare vostro fratello. Sappiamo bene che nessuno riesce a resistervi quando cantate. State a vedere», dichiarò rivolto all'uomo che lo stava ancora scrutando con un cipiglio non proprio benevolo sul volto, «risolverà tutti i vostri problemi dopo un solo accordo».

Lei non distolse gli occhi dai tasti. «Adulatore» proferì, lasciando vagare le dita da una nota all'altra con fluidità. Un piccolo sorriso si formò sulle sue labbra nel notare la buona qualità del suono. Girò il viso per osservare Gawain. «Qualche preferenza?».

Lui alzò una spalla. Voleva fingersi indifferente, ma i suoi occhi brillavano. Gwen sapeva che adorava sentirla cantare, il che accadeva raramente da un paio di anni a quella parte.

«Qualsiasi cosa, anche quella filastrocca tremenda che avete scritto a cinque anni, purché cantiate».

Gwen sorvolò sull'offesa esplicita ad una delle sue prime composizioni e intonò il preludio della romanza preferita di Arthur.

Se suo fratello si fosse trovato a portata d'orecchio, di sicuro l'avrebbe riconosciuta e si sarebbe fatto vivo.


 

*
 

 

Ci risiamo, pensò Bryce Vandemberg mentre chinava il capo con grazia per schivare un bicchiere lanciato a tutta velocità nella sua direzione.

Con studiata noncuranza si scostò i riccioli dalla fronte e osservò compiaciuto il proprio riflesso in uno degli specchi decorativi appesi alla parete. Alla sua destra, seduto scomposto sulla dura panca di legno grezzo, stava un sospirante Gilbert Morgan.

Bryce gli lanciò un'occhiata esasperata da sopra il boccale di vino. Pietoso era il termine perfetto per descrivere lo stato dell'amico, che aveva lo sguardo perso nel bicchiere colmo di sidro come se stesse meditando di affogarcisi dentro.

«Perché, perché non mi vuole?» piagnucolò con enfasi, attirando su di sé l'attenzione dei restanti due membri della compagnia. Axel distolse rapidamente lo sguardo da Eloise - non poteva che trattarsi di lei, dato il sorriso sul suo volto -, e Stephen smise di sfogliare il suo fidato taccuino pieno zeppo di schemi e appunti.

Tutti e tre, Bryce incluso, si sporsero nel medesimo istante per impedire che la testa di Gilbert entrasse in collisione col bordo affilato del boccale.

Lui non si prese nemmeno il disturbo di ringraziarli: batté un braccio sulla superficie del tavolo e ci affondò la faccia. «Lara, io ti amo. Amo solo te. Perché non mi vuoi? Perché?».

Gli altri tre ragazzi si scambiarono uno sguardo e sospirarono all'unisono, sconfortati.

Se l'avesse canticchiata da sobrio, quella strofa avrebbe potuto includersi nel suo vasto repertorio di ballate d'amore e forse – forse - sarebbe perfino riuscita a far ammorbidire il cipiglio scontroso che l'Onorabile Lara Degret sfoggiava solo in sua presenza. Pronunciate con quel tono, tuttavia, quelle parole sembravano proprio ciò che erano: farfugli senza senso di un imbecille ubriaco.

Bryce si chiese per quale assurdo motivo non avesse declinato l'invito di Axel, che l'aveva convinto a raggiungerlo in quella bettola maleodorante e dall'arredamento quantomeno discutibile. Avrebbe fatto meglio a restarsene nelle serre, in compagnia delle sue adorate rose, oppure a discutere dell'ultima moda in fatto di urne funerarie con Morton. Entrambe le opzioni erano preferibili a rimanere lì ad ascoltare i lamenti di Morgan.

In quel preciso istante il diretto interessato alzò la testa di scatto, rovesciando gran parte del sidro sul tavolo. «Da dove viene questa musica?» domandò, con sorprendente lucidità.

Axel corrugò le sopracciglia. «Musica? Quale musica?».

Gil chiuse un attimo gli occhi, un'espressione estasiata sul volto. «Questo canto angelico. Non lo sentite?». Notando gli sguardi perplessi degli amici, deglutì e cominciò a tastarsi il petto. «Oh no. Si tratta dei cori del paradiso? Sto per morire? No, non posso morire. Sono troppo giovane per morire. Lara, amore mio, non...».

Dal momento che gettare l'amico giù dalla panca non avrebbe affatto contribuito a fargli chiudere la bocca - come aveva dimostrato più volte, Morgan era capacissimo di cantare alla perfezione anche imbavagliato e a testa in giù -, Bryce fece l'unica scelta possibile per salvaguardare la propria sanità mentale: terminò il vino e si alzò in piedi.

Dopo un breve cenno ad Axel e Stephen, si aggiustò gli alamari del mantello e si diresse con eleganza verso l'uscita, schivando abilmente chiunque si parasse sul suo cammino.

Aveva quasi raggiunto la soglia della taverna, un piede già sollevato per superare una pozza non meglio identificata sul pavimento, quando una scarica di brividi gli percorse la nuca, riversandosi come un'onda sulla spina dorsale e sui nervi delle braccia.

«Ma che...?» mormorò, perdendo per un istante la compostezza che l'aveva reso celebre in tutto lo Studium.

Impiegò qualche attimo di troppo per recuperare l'equilibrio e la padronanza di sé. Si sentiva come se un dardo rovente gli si fosse piantato nella schiena. Voltò automaticamente il capo, quasi si aspettasse di incontrare lo sguardo soddisfatto di un bandito munito di arco e frecce.

Bryce rabbrividì di raccapriccio nell'immaginare la scena. No, non sarebbe morto nel bel mezzo di un'osteria, attorniato da un nauseante puzzo di alcol e fumo. Aveva una dignità da preservare, che diamine. E, non per ultimo, una bara ancora da scegliere.

Ora che ci penso, devo ricordarmi di dire a Morton di scegliere un nuovo tipo di legno. Quello di rovere non mi convince, molto meglio uno più chiaro, più...

«… bianco» esalò, mentre un'altra vertigine lo faceva vacillare sul posto.

Si appoggiò allo stipite della porta con un braccio, incurante delle macchie di unto che gli insozzarono il bordo del mantello.

Una voce gli martellava nel cervello, voce che Bryce classificò senza ombra di dubbio come l'origine dell'inquietante sensazione che ancora gli serpeggiava sulla pelle.

Una voce limpida e cristallina come l'acqua che sgorga da una fonte.

Un timbro candido come la prima neve d'inverno.

E bianca era la proprietaria di quella voce.

Nell'angolo opposto del locale, seminascosta dal bordo del bancone sudicio, una ragazza stava suonando al pianoforte.

Da che Bryce ricordava, l'oste non aveva mai permesso ad anima viva di ciondolare a neanche tre metri dallo strumento, custodendolo con lo stesso amore e la stessa cura che un'altra persona avrebbe riservato alla propria compagna o al proprio figlio.

Ora, al contrario, il proprietario della taverna se ne stava seduto in prima fila davanti al soppalco e fissava la fanciulla, rapito ed estasiato come se si trovasse al cospetto di una dea. E Bryce dovette ammettere che ne aveva tutti i diritti: lei era...semplicemente indescrivibile.

Oltre alla splendida voce di sirena, la ragazza incarnava tutto ciò che il terzogenito dei Vandemberg intendeva per 'perfezione'. Lineamenti delicati e proporzionati, pelle di porcellana, lunghi e folti capelli di un biondo quasi bianco...se solo avesse avuto le iridi color del cielo, Bryce avrebbe potuto scambiarla per Freya, una delle divinità minori venerate nei paesi del Nord.

Incantato e confuso allo stesso tempo, Bryce tese le orecchie per afferrare il testo della canzone: narrava la storia di un giovane poeta, pronto a scalare picchi nebbiosi e attraversare foreste insidiose per ricongiungersi alla propria musa. Non era una romanza allegra, come allegra non era di certo la fine: la tanto amata musa spirava tra le braccia del poeta senza che questi potesse fare nulla per sottrarla alla falce della Morte.

La melodia malinconica e struggente sfumò nel silenzio quasi reverente del locale, dove la folla di avventori in adorazione nemmeno respirava per non perdere neppure una nota di quella toccante composizione.

Un lento battito di mani interruppe l'atmosfera e fece sussultare Bryce. Al suo fianco, sulla porta, era comparso un ragazzino, alto e dai folti capelli neri come ebano. Non poteva avere più di diciassette o diciotto anni, constatò il terzogenito dei Vandemberg. L'aveva visto qualche volta in giro per l'Università, il suo viso non gli era nuovo.

Il ragazzo smise di applaudire e sorrise. «Non potevi farmi sorpresa più gradita» affermò, con lo sguardo rivolto alla giovane musicista. «Sorella» aggiunse, e le strizzo l'occhio. «Posso abbracciarti, o credi che un inchino formale sarebbe più appropriato?».

Prima di terminare quella domanda scherzosa, l'aveva già raggiunta a grandi falcate e circondata con le braccia. Anche se la superava di una spanna buona in altezza, il ragazzo si strinse a lei come un bambino farebbe con la madre dopo un incubo.

La fanciulla gli arruffò i capelli con affetto. «Non sei cambiato di una virgola. Sei sempre il solito ruffiano insolente».

«Così mi offendi, sorella» ribatté il giovanotto, con un'allegra risata. «Sei venuta fin qui solo per rimproverarmi? Ed io che credevo che …».

Le parole del ragazzino si confusero nel chiasso della taverna, dove il pubblico improvvisato aveva perso la posa statica e aveva ricominciato a farsi sentire.

Nonostante il progetto iniziale prevedesse un viaggio immediato e di sola andata verso la residenza cittadina dei Vandemberg, Bryce si ritrovò impossibilitato anche solo a muovere un passo.

E ad invidiare quel ragazzo come non aveva mai fatto con nessuno prima di allora.

Non credeva nemmeno gli sarebbe mai successo: era stato abituato fin da piccolo ad avere qualsiasi cosa desiderasse. Gli bastava allungare una mano, o semplicemente chiedere, perché chiunque esaudisse ogni sua richiesta.

Ora, invece, osservava la mano di quel giovanotto posata sulla vita di lei e l'unica cosa a cui riusciva a pensare era che avrebbe dovuto essere la sua.

Lui, Bryce Jason Vandemberg, avrebbe dovuto essere il solo ad avere il privilegio di avvicinarsi a lei, avvolgerla tra le braccia, toccarle i capelli. Non sapeva come altro descrivere il miscuglio di sensazioni che gli imperversava nel petto, se non come un'inaspettata e irragionevole gelosia.

Non l'aveva mai vista, non conosceva neppure il suo nome, eppure Bryce si convinse, contro ogni buonsenso, che quell'incontro non fosse un puro frutto del caso. Si era sempre tenuto alla larga da qualsiasi legame amoroso, non voleva nemmeno sentir nominare la prima sillaba della parola 'matrimonio', eppure...forse per lei sarebbe stato disposto a fare un'eccezione.

Mosse un passo in avanti, quasi senza rendersene conto. Schivò agilmente una delle indaffarate cameriere che trasportava un vassoio ricolmo di boccali, e si diresse verso la coppia. Non importava che fossero fratello e sorella, si disse. Non avrebbe concesso a nessun altro, oltre a se stesso, di …

Si immobilizzò a metà strada. Non perché si fosse finalmente reso conto dell'assurdità del proprio comportamento, o perché qualcuno gli avesse sbarrato la strada.

No, Bryce si era fermato all'improvviso nel bel mezzo dell'osteria per un altro motivo. Un motivo in carne ed ossa, con due stupefacenti iridi azzurro ghiaccio.

Lei.

Bryce deglutì a vuoto e si sentì cedere le ginocchia, tanto era forte il potere di quello sguardo puntato nel suo. Non aveva mai provato una debolezza simile, neanche durante il più spietato dei duelli.

In un'altra circostanza si sarebbe infuriato con se stesso per quell'inaudita mancanza di contegno e, successivamente, avrebbe implorato Eloise di sottoporlo ad ogni possibile controllo medico. In quell'istante, invece, si limitò a fissare quel viso dalle linee anche troppo perfette e a rimanersene lì impalato mentre l'espressione della ragazza sconosciuta, da sorpresa, si tramutava in una maschera di inorridito sgomento.

Bryce batté lentamente le palpebre, come se si stesse svegliando da un lungo sonno, ma la situazione non cambiò. Lei lo stava ancora guardando, le labbra socchiuse e puro terrore negli occhi. Una ciocca d'oro bianco le ricadde sulla guancia quando si voltò di nuovo verso il fratello, tanto rapidamente da far svolazzare il bordo inferiore del mantello.

Forse era veramente giunta la sua ora, pensò Bryce. Oppure i discorsi sdolcinati sulle anime gemelle, ardentemente declamati da Gilbert Morgan, l'avevano influenzato a tal punto da farlo ammattire.

La ragazza dagli occhi di ghiaccio scambiò qualche altra parola col fratello, poi si rivolse all'uomo che le stava a fianco, probabilmente una guardia o un soldato, a giudicare dall'uniforme e dalle armi che portava appese alla cintura.

Lui si chinò verso la fanciulla e le tolse dalla fronte quel ricciolo sfuggito alle forcine, un gesto che fece irrigidire ulteriormente Bryce.

Il principe di Aldenor provò un moto di fastidio per la reazione del tutto spropositata del proprio corpo a quella vista, ma ciò non gli impedì di fulminare il soldato con lo sguardo quando questi gli lanciò un'occhiata. Al contrario di quelli della ragazza, gli occhi dell'ufficiale furono percorsi da una scintilla di stupore che si tramutò quasi all'istante in...comprensione?

Sempre più confuso, Bryce decise che per quella sera ne aveva avuto abbastanza. Non importava quanto si sentisse attratto da lei, quanto desiderasse avvicinarlesi e toccarla.

La cosa migliore da fare in quel momento era tornare a casa e riflettere con calma su quanto accaduto. Avrebbe avuto tutto il tempo di rintracciarla in seguito, si disse. Anche a costo di sguinzagliare ogni matricola disponibile in tutti gli alloggi e le locande della Vecchia Capitale.

Lanciò un ultimo sguardo a quella chioma dai riflessi argentati, racchiusa in una folta treccia laterale, quasi sperando che lei si voltasse e lo guardasse di nuovo.

Non accadde: la ragazza continuò a dargli le spalle e a discutere animatamente con il soldato dagli occhi scuri come onice.

Bryce emise un sospiro frustrato, tentennò ancora per qualche secondo, poi imboccò l'uscita senza ulteriori esitazioni. Se Morton avesse assistito all'intera scena, si sarebbe affrettato ad allertare i propri becchini di fiducia e a sollecitare gli operai a velocizzare i lavori di restauro del mausoleo.

Una simile perdita di compostezza da parte di Bryce, che si distingueva tra i fratelli Vandemberg proprio per la capacità di mantenere i nervi saldi - nonché portamento e maniere impeccabili - in qualsiasi circostanza, poteva significare una cosa e una soltanto: la fine del mondo era quantomai prossima.


 

*
 

 

Tre ore e molte chiacchiere dopo, Gwen e Gawain camminavano in silenzio lungo la via principale, diretti alla locanda dove gli altri due soldati li stavano aspettando.

Da quando avevano accompagnato Arthur al Collegio dove alloggiava, nessuno dei due aveva più aperto bocca. Gwen teneva gli occhi puntati davanti a sé, senza fissare nulla di preciso, soltanto per non rischiare di incrociare per errore lo sguardo del capitano. Da parte sua, Von Lear le lanciava occhiate velate di preoccupazione ad ogni passo e più di una volta cercò di dire qualcosa, ma venne sempre anticipato da un'occhiata della Principessa e tanto bastò a farlo desistere.

Gwennyfer Rowena MacWarden aveva a disposizione un'arma molto più temibile delle lame che tanto amava maneggiare: un suo sguardo era sufficiente a raggelare anche il guerriero più ardito.

Gawain sospirò e rinunciò a provare ad iniziare una conversazione. La Principessa l'avrebbe interpellato a tempo debito, su quello non aveva dubbi: Gwen non era il tipo da lasciar correre un affronto di quel tipo. Nemmeno se si trattava di una bugia bianca, un'omissione volontaria, una verità taciuta a fin di bene. Gawain Von Lear si era macchiato del peggiore dei crimini, perlomeno agli occhi della fanciulla: aveva tradito la sua fiducia.

Il falco albino di Lancelot li aveva raggiunti mentre stavano uscendo dal Collegio e li aveva condotti ad una locanda poco distante: il Giglio Nero.

La trascurata e modesta facciata dell'edificio traeva in inganno: l'ambiente interno era confortevole e tutt'altro che anonimo. Tutto, dal mobilio alle tappezzerie, lasciava presupporre un tocco chiaramente femminile. E difatti vennero accolti dalla proprietaria della locanda in persona, una gentile matrona dalla pelle scura.

Eccentrica era l'aggettivo che più si confaceva a Zara de Guyse, nome col quale si presentò la donna. Oltre ad una quantità spropositata di gioielli - anelli, braccialetti tintinnanti e collane dal peso non indifferente -, Zara sfoggiava una chioma vaporosa e variopinta che la faceva assomigliare ad un gigantesco arcobaleno.

Era impossibile non rimanere incantati da una persona del genere, pensò Gwen. La donna emanava positività e spensieratezza, aveva modi spicci e premurosi al tempo stesso, sapeva intrattenere gli ospiti senza risultare invadente. Due minuti in sua compagnia e la Principessa si sentiva già a proprio agio.

«Le vostre stanze sono già state preparate. Per qualsiasi richiesta, rivolgetevi pure a me. Vi basterà suonare» aggiunse Zara, indicando una corta catenella appesa accanto alla porta della camera. Gwen la ringraziò e le augurò la buonanotte, lasciando a Gawain il compito di avvertire i compagni del loro arrivo.

La Principessa osservò con fare pensoso l'alloggio, grande nemmeno la metà della propria stanza a palazzo. Si affacciava sulla strada principale ed era arredato con gusto: si lasciò sfuggire un sorriso quando notò il piccolo pianoforte verticale posto a ridosso della parete. Il caminetto incassato nel muro davanti al letto era stato acceso e il fuoco che vi bruciava all'interno gettava ombre spigolose sui pochi restanti mobili: un vecchio scrittoio e un armadio a due ante.

Terminato il sopralluogo, Gwen si sfilò il mantello e lo ripiegò con cura, per poi infilarlo in uno degli scomparti dell'armadio. Poi si sedette sul letto e attese.

Attese in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto, finché non udì bussare. A quel punto si riscosse dall'immobilità e proruppe in un secco: «Entra».

Gawain obbedì e richiuse la porta a chiave prima di affrontare la Principessa. Sebbene temesse l'ira della ragazza, il suo sguardo non vacillò. «Altezza, io …».

«Tu lo sapevi» lo accusò Gwen, con un tono che colpì il capitano come un pugno dritto allo stomaco. Non era né furibondo né sprezzante: era ferito, profondamente ferito. «Tu sapevi. Conosci tutto di me, tutta la storia fin dal principio» continuò lei, sempre mantenendo un'espressione glaciale. «E nonostante tutto, hai agito alle mie spalle. Mi hai ingannata».

Il soldato le si avvicinò cautamente e fece per toccarla, ma lei si ritrasse.

Le spalle le tremavano, le labbra erano strette in una linea dura. Tutto il suo corpo era teso e scosso da violente emozioni, eppure la sua voce restò piatta e fredda. «Tu sapevi...sai che...manca poco». Gwen chiuse gli occhi e deglutì a fatica. «E sai cosa penso riguardo a...lui. Tuttavia non te n'è importato nulla. Hai insistito con mio zio perché mi permettesse di venire in questa città, mi hai perfino accompagnata e...». A quel punto la Principessa non riuscì a frenare un sospiro tremante, che le spezzò la voce. «E per tutto questo tempo tu sapevi che lui era qui. Sapevi anche chi era, vero? Chissà da quanto tempo conoscevi la sua identità e non mi hai detto nulla».

Gawain tentò di ribattere, forse per difendersi da quelle accuse, ma lei lo zittì con un gesto. «So perché hai taciuto. Tu ti ostini a proteggermi da tutto e da tutti, ma, come ti ho già ripetuto, ci sono cose e persone da cui non posso essere protetta».

Von Lear sembrò afflosciarsi sotto il peso di quelle parole. «Mia signora, io...» cominciò, titubante, e si inginocchiò ai piedi di lei, mettendo i loro volti alla stessa altezza.

Gwen non alzò lo sguardo dal pavimento. Strinse le mani in grembo e scosse piano la testa. «Tu sapevi chi era, vero Wain? Forse speravi che, se l'avessi incontrato, le cose sarebbero cambiate, ma non succederà. Non succederà, lo capisci?». Una lacrima le corse lungo la guancia. Poi un'altra e un'altra ancora. Per ognuna di esse Gawain si sentì trafiggere il petto da aghi roventi. «Io non ho più tempo, Wain. Non ho più tempo».

Per quanto fosse straziante assistere a quel pianto silenzioso e disperato, il capitano non si permise di distogliere lo sguardo. Non disse nulla, non c'era nulla che potesse cancellare quell'atroce sofferenza che con le proprie azioni aveva contribuito a portare a galla.

Quella sarebbe stata la sua punizione, decise Wain. Perché guardarla soffrire era peggio che ricevere mille frustate.

Rimase tutta la notte in quella posizione: una mano tesa ad asciugarle le lacrime dal volto e l'altra stretta a quelle di lei.

 










 

 

* * * * * * *

 

 

Note: chi conosce me e il mio modo di scrivere, sa che ogni riferimento all'interno delle mie storie non è affatto casuale. I nomi che ho scelto per i personaggi originali si rifanno quasi tutti a quelli dei protagonisti del Ciclo bretone. Gwennyfer, Arthur, Gawain, Lancelot, Percival, Tristan: sono tutti nomi tratti dalle leggende dei Cavalieri della Tavola Rotonda.

Per quanto riguarda Zara de Guyse, beh, lei è l'eccezione che conferma la regola. Diciamo che è quasi la personificazione del mio carattere, eccentrico e bizzarro. La sua locanda è una mia invenzione, così come il piccolo stato di Stormhold, un omaggio a Neil Gaiman e al suo Stardust. Inoltre, la filastrocca che Gwen cita all'inizio del capitolo è una mia personale storpiatura di una poesia tratta da Il mistero della caverna di ghiaccio di R. L. Stine. La canzone che canta alla taverna, invece, è un miscuglio tra una delle canzoni scritte da Tolkien ne Lo Hobbit e le strofe di The Poet and the Muse, dei Poets of The Fall.

 

Che dire? Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto e che continuerete a seguire la storia.

Un bacio,

Lizz

 

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Capitolo 3
*** II ***




 


 

Capitolo II

 

In a grave of roses, while the night is closing in
My soul is so cold, but I want to live again
I want to fight for this, save me from this darkness

(I want to live, Skillet)


 

 

«Non l'hai ancora trovata?». La voce incredula del Principe Axel risuonò nel corridoio vuoto, causando un'eco fastidiosa. «Com'è possibile? Hai sguinzagliato, quante? Cinquanta matricole?».

«Cinquantasette» precisò seccamente Bryce, entrando a grandi falcate nel proprio studio. A quell'ora del pomeriggio, quando mancava poco al calar del sole, la facoltà di Botanica era pressoché deserta.

Bryce si avvicinò alla propria scrivania, piena zeppa di carte e spessi tomi enciclopedici. Prese il blocco degli appunti, sul quale aveva disegnato e schematizzato dettagliatamente i progetti dei prossimi impianti da eseguire. Diede loro un'occhiata svogliata, poi gettò il quaderno in uno dei cassetti.

Si sedette compostamente sulla poltrona a lato della finestra che si affacciava direttamente sulle serre e occhieggiò il proprio riflesso. La sua agitazione interiore non traspariva poi molto, si disse. Dopo essersi complimentato con se stesso, trovò persino la forza di invitare il proprio fratello ad accomodarsi, sebbene quel giorno Axel non avesse fatto altro che irritarlo. A morte.

No, non poteva pensare alla morte, non in quel momento.

Bryce scacciò in fretta le immagini di bare e cimiteri dalla mente e si concentrò sul foglio che teneva in mano: un ritratto a carboncino che lui stesso aveva eseguito, più di una settimana prima. Ne tracciò i contorni con la punta delle dita, assorto nella contemplazione della figura eterea e affascinante che lo perseguitava da nove giorni a quella parte.

Nove giorni e ancora nessuna risposta.

Il Principe accarezzò quasi con timore la pergamena, come se temesse di veder sparire la figura impressa nella carta come era successo alla sua gemella di carne e sangue.

Sempre che di carne e sangue fosse realmente, si disse Bryce. Poteva essersi immaginato tutto? L'apparizione improvvisa di lei, il suo canto incantevole e ammaliante, la sua angelica bellezza, i sentimenti che aveva fatto nascere nel suo cuore di solito muto e irraggiungibile... Ripensando a quella sera, gli sfuggì un sospiro.

«Stai sospirando per una donna? Tu?».

Bryce alzò di poco il capo per rivolgere un'occhiata pungente al fratello. Axel aveva chiuso la porta e ci aveva appoggiato contro la schiena. Un raggio di sole gli illuminava metà del volto, rendendo i suoi capelli biondi splendenti come oro fuso.

Il suo sorrisetto incredulo contribuì ad accrescere l'irritazione di Bryce: Axel lo stava fissando con lo stesso cipiglio che lui stesso avrebbe riservato a Morton se l'avesse visto danzare una giga con una corona di fiori in testa. «Non credevo sarei vissuto tanto a lungo da assistere a questo momento. Sul serio, non trovo nemmeno le parole per esprimere la mia…».

«Esatto, fratello». Bryce lo interruppe, seccato e rassegnato allo stesso tempo. Si adagiò più comodamente sulla poltrona, affondando la testa nel morbido schienale. Chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. «Non dire nulla. Taci e lasciami deprimere in solitudine».

Dopo l'ordine perentorio del fratello, Alex restò in silenzio per tre minuti buoni. Praticamente un record, decretò Bryce: da quando Eloise aveva accettato di sposarlo, non c'era stato verso di fargli chiudere la bocca. Era diventato quasi peggio di Gil, che ancora si struggeva per l'indifferenza che Lara mostrava nei suoi confronti. E lui, Bryce, si stava paurosamente avvicinando al loro livello.

Stava diventando un caso pietoso e patetico.

Nel malinconico silenzio dello studio, la voce di Axel risuonò come uno sparo. «Sai qual è la cosa più strana?» chiese, in tono sorprendentemente gentile.

«Sono certo che stai morendo dalla voglia di dirmela» ribatté Bryce, enfatizzando l'affermazione con accento speranzoso.

Lo sguardo truce del fratello non intaccò di una virgola il sorriso indisponente di Axel. Egli non diede segno di aver recepito la minaccia, anzi esibì un ghigno che era il ritratto stesso della perfidia. «La cosa più strana, caro fratellino» esordì, mentre raggiungeva in pochi passi la finestra. «Oltre ai ritratti che stai seminando in giro per la città e ai tuoi lamenti da principessa innamorata, la cosa più sconvolgente è che, da quella sera, da quando hai incontrato la tua bella sconosciuta, non hai più fatto accenno a bare, mausolei e pompe funebri». Axel gli lanciò uno sguardo divertito, fingendo di non notare la sua espressione oltraggiata. «Morton dev'essere quantomeno disperato».

Bryce strinse gli occhi, ma cedette davanti all'evidenza di quelle affermazioni. Rappresentavano esattamente la sua situazione di caso pietoso e patetico.

Scosse la testa, avvilito. Per una volta decise di concedersi la debolezza di mostrare le proprie emozioni, tanto peggio di così non poteva ridursi. «Non so più cosa fare» proruppe, alzandosi di scatto dalla poltrona e cominciando a passeggiare avanti e indietro. «Ho fatto delle ricerche sia su di lei, che sul fratello. Non ne ho ricavato che poche informazioni, superficiali e inutili dal momento che quello che volevo non era sapere chi era, ma rintracciarla».

Bryce prese uno dei fogli in precario equilibrio sulla scrivania e lo porse ad Axel. Era il resoconto che alcune matricole gli avevano riportato e non vi erano trascritti che pochi dati sul conto di Arthur Russell MacWarden, erede al trono del regno indipendente di Stormhold. «Credevo che, finché fosse rimasta in città, avrei potuto facilmente ritrovarla. Invece è come se fosse sparita nel nulla. Eppure so che non è così. Ho visto con i miei occhi una delle sue guardie riportare il principe Arthur al Collegio, quindi significa che lei deve trovarsi ancora qui». Bryce si passò una mano tra i capelli, con stizza. «E' qui, da qualche parte. Così vicina che riesco quasi a…».

«Bryce».

«…a sentirla. Chiamalo presentimento, o semplice intuizione, ma sono certo che…».

«Bryce».

«…che c'è?» esclamò il Principe, perdendo del tutto il controllo sui propri nervi.

Si voltò verso Axel, pronto ad ascoltare di nuovo commenti sarcastici sul proprio comportamento da pazzo innamorato. «Non so cosa mi prende, va bene? Non mi riconosco più neanch'io. Stamattina mi sono visto allo specchio e per poco non sono svenuto. Dormo poco, i capelli non vogliono saperne di stare al loro posto, sono perennemente…».

«Bryce!» sbottò Axel per la terza volta, quasi ringhiando. Resosi conto che con le parole non avrebbe ottenuto l'attenzione del fratello, lo prese per le spalle e lo fece voltare quasi di peso verso la finestra. «Ecco, dannazione. Guarda con i tuoi occhi e finiscila di agitarti».

Bryce lo assecondò, sporgendosi in avanti per scrutare oltre i vetri opachi. Le proteste per i modi maleducati del consanguineo gli si bloccarono sulle labbra non appena mise a fuoco ciò che Axel intendeva mostrargli.

Dopo una settimana piena di angosce e tormenti, un sorriso si affacciò sul volto del Principe. Il destino aveva ascoltato le sue preghiere. Annuì tra sé. «Andiamo, non c'è tempo da perdere. Dobbiamo mettere in pratica un piano».

Axel posò gli occhi sulla mano del fratello, che si era ancorata al suo braccio in una presa convulsa, non consentendogli alcuna via di fuga. «Noi? Io cosa c'entro, di grazia? E' un problema tuo».

Bryce corrugò la fronte e si schiarì la voce. «Se non fosse stato per il mio intervento, ora Eloise sarebbe fidanzata con qualcun altro e tu vagheresti per il mondo afflitto e consumato dal dolore. Sai che quando vuole vendicarsi, la mia cara sorella non dimostra alcuna pietà. Ho messo a rischio la vita per aiutarti. Non pensi di dovermi un favore?».

Axel si arrese con una smorfia e un sospiro. «Che cosa devo fare?».

Bryce cominciò a trascinarlo verso la porta. «Soltanto usare la tua abile e irritante parlantina con quel soldato: distrailo e toglimelo dai piedi. Al resto penso io».

Bryce non vide il sorriso di Axel, ma percepì il suo sollievo in ciò che gli sussurrò mentre scendevano le scale a precipizio. «Finalmente ti riconosco, fratellino».



 

*




 

«Altezza, si sta facendo tardi». La voce pacata e roca di Gawain rimbombò tra le pareti di vetro della piccola serra. Il capitano teneva un braccio appoggiato allo stipite della porta d'ingresso, l'altro prudentemente vicino alla spada che portava appesa alla cintura. Dalla sua posa rigida e tesa, sembrava quasi che attendesse un attacco a sorpresa da un momento all'altro. A nulla erano valsi i racconti entusiasti di Arthur, che assicurava che non si erano verificati crimini o attacchi di alcun genere da quando era arrivato all'Università. Wain era un soldato, ma si comportava più come un fratello maggiore quando c'era di mezzo la sicurezza di Gwen.

Un fratello maggiore iperprotettivo e paranoico.

La Principessa gli dedicò un sorriso rassicurante. «Non ti preoccupare, ho quasi finito. Aspettami pure fuori».

Il capitano annuì e tornò a montare la guardia. L'unico motivo che gli impediva fisicamente di raggiungerla all'interno della serra, era la sua allergia al polline. In caso contrario, Wain le sarebbe rimasto appiccicato tutto il tempo, come aveva fatto la settimana precedente. Gwen aveva dovuto ricorrere alle minacce per ottenere qualche ora di libertà. E Wain si era arreso solo perché temeva che lei si facesse male nel tentativo di metterle in pratica.

Con un sospiro, la Principessa avanzò lungo il sentiero di sassolini che conduceva verso i cespugli di rose. L'aria umida e calda che si respirava in quell'ambiente solitario le dava sollievo, attutiva il freddo che teneva prigioniero il suo corpo. Un freddo che si faceva ogni giorno più intenso e doloroso.

Lo sguardo di Gwen scivolò lungo la mano che reggeva il libricino di botanica, fino alla pelle del polso che sbucava dalla stretta manica dell'abito di velluto. Pelle del colore della neve, sulla quale spiccavano dei disegni dai bordi d'argento, sottili e delicati come merletto.

I Glifi di Morloch.

La sua maledizione.

Per sempre all'inverno ella apparterrà. Così aveva declamato lo Spirito che le aveva impresso quei segni sul corpo. Marchi che si facevano sempre più spessi e intricati ogni anno che passava, segnando il corso inesorabile del tempo.

Non gliene rimaneva molto, pensò Gwen, rabbrividendo nonostante il caldo afoso che la circondava. Dopo aver preso possesso di entrambe le sue braccia, i Glifi si erano estesi anche al collo e si facevano sempre più vicini al suo…

«Milady?».

Gwen trasalì e si coprì il braccio in tutta fretta. La voce che l'aveva chiamata non era quella familiare di Wain: qualcun altro era entrato nella serra, dalla porta opposta a quella che aveva usato lei.

Gwen si voltò, un'espressione cordiale sul volto. Che scomparve rapidamente quando riconobbe il giovane che le si stava avvicinando. Il sorriso che le riservò, una volta giunto a pochi passi da lei, era luminoso e affascinante. I raggi del tramonto giocavano tra i suoi capelli biondi, creando tra i ricci dei riflessi rosso fuoco.

Era lui, non vi erano più dubbi.

Ogni suo lineamento combaciava con quelli che vedeva in sogno fin da quando era piccola, solo che non si sarebbe mai aspettata di vedere le proprie immagini oniriche prendere forma e colore. Incrociando le iridi turchesi del ragazzo, Gwen per poco non smise di respirare.

Nel notare la sua espressione sconvolta, il sorriso del giovane vacillò. «Perdonatemi, non era mia intenzione spaventarvi».

Gwen era certa di essere impallidita, ma si affrettò a dominarsi. «Sto bene, non preoccupatevi». Puntò gli occhi sul libro che stringeva convulsamente tra le dita e disse con voce ferma: «Scusatemi, so che non ho il permesso di stare qui. Volevo solo vedere con i miei occhi un esemplare di rosa molto raro, poi me ne andrò».

Non ottenendo risposta, rialzò prudentemente lo sguardo sul viso del giovane. Lui la stava osservando con attenzione, le sopracciglia lievemente corrucciate.

Vederlo così concentrato su di lei fece mancare un battito al suo cuore. L'istinto le gridava di fuggire, di scappare il più lontano possibile, di allontanarsi da quegli occhi che le trafiggevano l'anima e le trasmettevano una sensazione piacevole e insolita, simile a ciò che aveva provato non appena era entrata in quella serra. Un calore che le serpeggiava sulla pelle e che riusciva a mettere a tacere il potere latente della maledizione.

«Una rosa, avete detto?». Il ragazzo spostò gli occhi sul libro di Gwen e parve illuminarsi. «Posso aiutarvi, se lo desiderate. Quale esemplare state cercando?».

La Principessa esitò prima di rispondere. «Non vorrei recarvi disturbo, signore».

Se lui notò la sua reticenza, non lo diede a vedere. Al contrario, accennò un inchino e le sorrise. «Chiamatemi Bryce, milady. Per me sarebbe un onore farvi da guida. Conosco queste serre come le mie tasche».

Gwen dovette ricorrere a tutto l'autocontrollo di cui disponeva per non rimanere a bocca aperta come una sciocca.

Bryce.

Come aveva potuto non riconoscerlo? Disegnava il suo volto come lo vedeva nella mente da talmente tanto tempo, che non aveva mai pensato di cercarlo nel mondo reale. Se avesse svolto delle ricerche - come di sicuro aveva fatto Wain -, lo avrebbe riconosciuto subito. Gwen non aveva incontrato molte persone nei suoi diciannove anni di vita, né si era mai interessata ai ritratti e ai libri genealogici delle grandi casate. Eppure ora, dopo aver udito il nome del giovane, le sembrava ovvio: un volto così bello, dai tratti eleganti e regali, non poteva che appartenere ad un membro di una famiglia aristocratica. E non una qualunque: la dinastia dei reali di Aldenor era una delle più antiche e prestigiose del Continente.

Lui era un Principe.

Gwen rivolse al ragazzo lo stesso sguardo indagatore che lui le aveva riservato in precedenza. In particolare notò che non aveva accennato a toccarla, per il baciamano di rito. Doveva aver intuito la sua ritrosia e si era tenuto saggiamente a distanza. Apprezzò talmente quell'accortezza che fu lei a porgergli la mano. Lei, che non osava toccare mai nessuno che non conoscesse. «Capelli biondi, occhi blu, modi galanti. Non potevate che essere un Vandemberg» gli disse, mentre lui, leggermente perplesso, le stringeva delicatamente la mano. «Il piacere è mio, milord. Sono Gwennyfer MacWarden, di Stormhold. Ma, per favore, chiamatemi Gwen».

Il Principe batté due volte le palpebre, come se la sua risposta l'avesse confuso. Aveva ancora la mano di lei tra le sue e Gwen si sorprese del calore che irradiava la sua pelle: un tepore da cui era difficile staccarsi. Lo fece comunque, usando il libro come pretesto. «Ecco, questa è la rosa che sto cercando».

Il Principe Bryce spostò gli occhi da lei alla pagina che gli stava mostrando. Annuì e le indicò un cespuglio poco distante da dove si trovavano. «Prego, da questa parte».

Non accennò a toccarla ancora, né le porse il braccio per accompagnarla. Gwen gliene fu grata, preferiva mantenere una rigorosa distanza tra loro. Averlo incontrato non era un segno del destino, faceva solo parte di una macchinazione messa in moto da Gawain. Era stato lui a convincere suo zio a lasciarla partire, lui a persuaderla ad uscire finalmente dal palazzo per trascorrere un po' di tempo con Arthur. Perché Wain sapeva di lui, e voleva che lei lo incontrasse almeno una volta. Glielo aveva detto quella notte, durante la quale si era scusato un'infinità di volte e Gwen non aveva fatto altro che stringergli la mano e ascoltare le sue motivazioni. Alla fine lo aveva perdonato, come accadeva sempre con Wain. Lo conosceva da diciannove anni e, in tutto quel tempo, non era mai riuscita a restare arrabbiata con lui per più di dieci minuti. L'aveva ferita, ma gli voleva troppo bene per serbargli rancore.

«Gwen». Il suo nome venne pronunciato con dolcezza inaspettata dal principe Bryce. «La vostra rosa, eccola». Si spostò per lasciarle spazio e lei si chinò per portare gli occhi all'altezza dei fiori. «Fate attenzione, hanno spine lunghe e affilate».

Gwen guardò i boccioli con tenerezza. «Mi sembra giusto. Sono fiori talmente rari e delicati. In qualche modo dovranno pur difendersi».

Bryce non replicò. Si fermò accanto ad un gruppo di rose rosse e ne prese una nel palmo. Mentre faceva scorrere le dita tra i petali, fissò Gwen. «Vi interessate di botanica?».

Lei accarezzò con reverenza uno dei boccioli prima di rispondere. «Non proprio. Ho studiato qualche libro, ma non posso definirmi un'esperta».

«Però amate le rose».

Gwen non poté trattenere un sorriso. «Chi potrebbe non amarle?».

«E loro amano voi, a quanto pare». Il giovane le si era avvicinato e Gwen dovette alzare la testa per guardarlo in viso. «Si schiudono soltanto di notte, quando la temperatura è particolarmente fredda. Come avete fatto?».

La Principessa abbassò di nuovo lo sguardo sui boccioli e si accorse con sgomento che uno di essi aveva cominciato ad aprire debolmente i petali. Ritrasse in fretta la mano, spaventata. Di solito riusciva perfettamente a trattenere il freddo dentro di sé, non le era mai successo di trasmetterlo involontariamente a qualcosa o qualcuno.

Rimproverò duramente se stessa per quella perdita di autocontrollo. Sentiva il proprio cuore martellare contro le costole e la testa cominciava a girarle. Che fosse dovuto all'aria soffocante della serra, o alla vicinanza del principe Bryce, Gwen non avrebbe saputo dirlo con certezza.

«Io non…» tentò di giustificarsi, ma le parole le morirono in gola.

Il viso del giovane era chinato verso di lei, i suoi occhi posati sulle sue labbra. Uno di quei ricci bronzei gli ricadeva sulla fronte e Gwen sentiva le dita prudere per il desiderio di toccarlo. Le accadeva lo stesso quando vedeva uno strumento musicale, un fiore particolarmente bello, un libro antico e raro. Non aveva mai provato un'emozione così forte nei confronti di una persona che nemmeno conosceva.

Stava per indietreggiare, quando vide Bryce alzare una mano. Il Principe sembrava aver avuto lo stesso pensiero di Gwen: prese tra le dita un ciuffo che le stuzzicava il mento e glielo riposizionò dietro l'orecchio.

Per la prima volta da che aveva memoria, Gwen si sentì arrossire. Lo sguardo intenso del ragazzo non contribuiva affatto a ridurre l'imbarazzo che provava: lui continuava a guardarla come se stesse cercando di decifrare un mistero alquanto complicato, ma lo trovasse estremamente affascinante. Pareva quasi volesse dirle qualcosa, mentre con la punta delle dita le sfiorava la guancia. Un tocco leggero e impalpabile, ma non invadente: se Gwen avesse voluto, avrebbe potuto ritrarsi in qualunque momento.

Tuttavia non lo fece: il dolce calore che aveva avvertito quando gli aveva stretto la mano stava nuovamente contrastando lo strato di gelo che le avvolgeva il corpo. Era una sensazione inebriante e Gwen si ritrovò ad immaginare a come si sarebbe sentita se lui avesse continuato a toccarla, se gli avesse permesso di far scorrere quelle dita gentili e morbide lungo le braccia, sulla nuca, in mezzo ai capelli.

Chiuse per un attimo gli occhi, abbandonandosi al contatto, sicura che il principe Bryce non avrebbe approfittato della sua debolezza. Non c'era alcuna malizia nel modo in cui la guardava, perfino il suo tocco era rispettoso e misurato. Come se temesse di spaventarla, o di farle del male.

Non appena riaprì le palpebre, Gwen trovò gli occhi turchesi del giovane fissi nei suoi. Il palmo della sua mano riposava sulla sua guancia, le lunghe dita le sfioravano la tempia. Lo sguardo pensieroso di Bryce le percorse tutto il viso, prima di tornare ad incatenarsi al suo.

«Chi siete, milady?». La sua voce era soffocata, velata di un'emozione trattenuta a stento. «E' possibile che vi abbia già incontrata prima d'ora?».

Lei posò la mano su quella del Principe, ancorata fermamente alla propria pelle. «Non sono che una delle tante principesse di questo vasto Continente».

Gwen dovette imporre tutta la forza di volontà di cui disponeva alle proprie dita, che si rifiutavano di lasciar andare quelle del ragazzo. Si concesse di stringergli un'ultima volta la mano, prima di muovere qualche passo indietro. «Ora devo andare. E' stato un onore potervi conoscere, milord».

Bryce aveva di nuovo quell'espressione abbagliata e confusa. Ci mise più del dovuto a riscuotersi; quando finalmente ci riuscì, lei aveva ormai raggiunto la porta.

Il capitano l'aspettava sul viale che conduceva alla serra e stava conversando amabilmente con un altro giovane, alto e biondo. Quest'ultimo si interruppe non appena la scorse e le rivolse un elegante inchino. Gawain aveva perso la posa statica che assumeva quando era di guardia, sembrava più rilassato. Ciò non gli impedì di stringere gli occhi con diffidenza quando vide l'espressione assente della Principessa. «Altezza, vogliamo andare?» le domandò, porgendole il braccio.

Lei annuì meccanicamente, ma prima che potesse avanzare verso Wain, una voce la fermò.

«Gwen».

Lei esitò solo un attimo, poi si voltò. Bryce si ergeva immobile sull'uscio della serra, il respiro affannoso come se avesse attraversato di corsa l'intera Capitale. I suoi occhi color acquamarina non si staccarono da lei nemmeno per un istante. Non ricambiò lo sguardo guardingo di Gawain, né quello incredulo dell'altro ragazzo, il quale, vista la somiglianza, non poteva che essere un altro Vandemberg.

«Permettetemi di rivedervi, Gwen».

La richiesta sussurrata in tono accorato suonò quasi come un'imposizione, alla quale Gawain rispose portando la mano all'elsa della spada. «Come osate rivolgervi in questo modo a…».

Gwen lo interruppe con un gesto e non riuscì a reprimere un sorriso alla vista dell'espressione determinata e battagliera dipinta sul volto del Principe Bryce. Un sorriso che, da divertito, divenne mesto quando avvertì gli spilli del gelo pungerle il polso. La tregua imposta dal contatto con il Principe era ufficialmente terminata: i Glifi si riappropriarono del suo corpo, scacciando il debole calore che le si era annidato nel petto quando le loro pelli si erano incontrate.

Nonostante la tristezza e il dolore, Gwen non distolse lo sguardo da quello di Bryce. Non avrebbe mai dimenticato il suo volto, la perfezione e la grazia di quei lineamenti, la gentilezza che le aveva mostrato. Il suo cuore avrebbe anche potuto fermarsi, trafitto dalle spine del gelo, ma sarebbe morta senza rimpianti. Aveva incontrato colui che popolava i suoi sogni da più di un decennio, gli aveva parlato, lo aveva toccato.

Bryce.

Avrebbe custodito gelosamente quei pochi ricordi fino al suo ultimo respiro.

Per sempre.

«Vi ringrazio per la cortesia, milord» gli disse, mantenendo un tono volutamente freddo e distaccato. Non poteva alimentare speranze senza futuro. Non poteva permettere che anche lui soffrisse. «Addio».

Il Principe trasalì come se gli avesse conficcato un pugnale tra le scapole. Gwen avvertì i suoi occhi puntati sulla schiena finché lei e Wain non uscirono dai cancelli dei giardini dell'Università.

Il capitano aspettò qualche minuto prima di rivolgerle la parola. «State bene, Altezza?».

L'angoscia nella sua voce fece intenerire Gwen, che gli strinse il braccio con affetto. «No, Wain. Ma era da tanto che non mi sentivo felice come ora. E credo che il merito sia in gran parte tuo. Avevo torto e ti ho rimproverato ingiustamente, quindi ti porgo le mie scuse. E ti ringrazio, mio capitano».

Von Lear chinò rispettosamente il capo. «Farei qualunque cosa per voi, Altezza». Il suo mormorio si perse nell'aria fresca del tramonto. «Qualunque cosa».



 

*



 

Ancora bloccato sulla porta della serra, Bryce rimase ad osservare le due figure perdersi in lontananza. Un istinto che non sapeva di possedere gli urlava di correre, di raggiungerli, di strappare la ragazza dal braccio di quel soldato e di avvolgerla tra le proprie, per non lasciarla andare mai più.

Fece appello al contegno su cui aveva sempre fatto affidamento e si sforzò di respirare normalmente. Aveva il petto che fremeva per l'agitazione, i muscoli tesi e la mascella rigida.

Con la coda dell'occhio, vide Axel che gli si avvicinava. «Fratellino, mi stai spaventando. Ti senti bene?» gli chiese, cautamente.

Bryce si posò una mano sul cuore, la stessa mano con cui aveva avuto l'ardire di toccare quella ragazza. Gwen. «Non proprio, ma sopravviverò. Devo sopravvivere se voglio rivederla».

Sebbene fosse incredulo oltre ogni immaginazione, Axel sogghignò. «Sai, mi dispiace doverti deludere, ma non credo che quella ragazza abbia voglia di incontrarti di nuovo. Quand'è uscita sembrava sconvolta. Il tuo famoso fascino non funziona più?».

Bryce strinse la mano in un pugno. Anche lui si sentiva sconvolto da quel che era accaduto in quella serra. Eppure era sicuro di non sbagliarsi: non appena l'aveva toccata, tra loro si era instaurato un legame, una corda che sentiva vibrare sotto pelle e che lo manteneva in contatto con lei.

No, non poteva morire prima di averla rivista almeno un'altra volta. Doveva risolvere il mistero che aleggiava attorno a quella principessa candida come la neve.

All'improvviso un'idea si fece strada nella sua mente. «Come ho fatto a non pensarci prima? I becchini. Ecco la soluzione».

Bryce era talmente concentrato sulle proprie riflessioni da non accorgersi dell'espressione palesemente sarcastica di Axel. «Credevo avessi messo una pietra sopra ai tuoi consueti presagi di morte. Perdona il gioco di parole».

Il fratello lo fulminò con un'occhiata stizzita. «Ho sempre sostenuto che l'amore rende le persone stupide: tu ne sei la prova vivente». Scosse la testa, esasperato da tanta ottusità. «I becchini, Axel, conoscono tutto e tutti in questa città. Se invece delle matricole avessi assoldato loro, probabilmente a metà settimana avrei ottenuto tutte le informazioni che volevo». Si tolse un ricciolo dalla fronte con un lamento di sconforto. «Andiamo. Devo spiegare tutto a Morton. Sono certo che non mi deluderà».

Axel alzò un sopracciglio, squadrandolo con scetticismo. «E se quella ragazza non volesse essere trovata? Se non volesse rivederti? Dovresti rispettare la sua scelta».

Bryce non replicò. Gli voltò le spalle e si incamminò verso lo studio, le braccia rigide lungo i fianchi. Si fermò in prossimità dell'entrata e voltò la testa quanto bastava per guardare Axel in faccia. «Quella ragazza è pazza di me» proferì, con una sicurezza che sorprese non poco il fratello maggiore.

Il sorriso che danzava sulle labbra di Bryce avrebbe incantato anche il più reticente dei cuori. «Solo che ancora non lo sa. Sarà mia premura informarla».

 

 


 


 

 

* * * * * * *
 

Salve a tutti! Sono finalmente riuscita a terminare il secondo capitolo e mi sento soddisfatta. Ad un certo punto mi sono lasciata trasportare dalla scena che vedevo nella mia mente, quindi credo di aver esagerato e dipinto Bryce molto OOC. Ma chi non diventa OOC quando si innamora? Io stessa mi sentivo molto OOC mentre scrivevo, perché di solito sono la persona meno romantica del pianeta xD

Spero che la storia vi piaccia! Mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate, anche i pareri negativi (purché costruttivi) sono ben accetti.

Vi mando un bacio, alla prossima,

Lizz

 

n.b.: alcuni particolari in riferimento alla saga potrebbero essere sbagliati e/o confusi. Credo sia arrivato il momento di rileggerla da capo per l'ennesima volta *.* per quanto riguarda i Glifi, sono una mia invenzione.

 

 

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Capitolo 4
*** III ***




 



 

Capitolo III

 

I can be the cure
Let me be your remedy

Right beside you
I’ll never leave you


 

Il braccio gli doleva come se qualcuno glielo avesse trafitto con un attizzatoio arroventato. Bryce premette il palmo della mano sulla ferita e imprecò sottovoce. Aveva perso di vista Axel e gli altri subito dopo essere uscito dall'abitazione in cui la Fratellanza aveva fatto irruzione al calar della notte. Erano riusciti a trovare e portare in salvo due giovani fanciulle, imprigionate e denutrite. Raggirando i loschi figuri posti a guardia delle prigioniere, Stephen e Axel avevano aperto la porta della cella grazie ai geniali grimaldelli del giovane studente di medicina. Bryce e Gil aspettavano fuori, pronti ad aiutare le ragazze ad uscire dalla finestra del primo piano.

Disgraziatamente, i banditi si erano accorti della fuga e avevano iniziato a sparare alla cieca per fermarli. Durante la ritirata strategica Bryce era stato colpito al braccio, poco sotto il gomito, ma non si era fermato a controllare la gravità della ferita: aveva continuato a correre, per fare da esca alla banda di rapitori.

Il fiato si condensava in nuvolette davanti al suo viso e il freddo della notte gli ghiacciava il sudore sulla pelle. Questo, unito al dolore lancinante all'avambraccio, gli provocava brividi simili a spasmi lungo tutto il corpo. Bryce ripensò ai lavori ancora in corso al mausoleo di famiglia e digrignò i denti. Aveva sempre creduto di avere il tempo sufficiente per mettere a punto le disposizioni per la propria morte, invece ora, mentre correva a perdifiato per le stradine della Vecchia Capitale, si rendeva conto che tutti i progetti che aveva in mente sarebbero risultati vani. Avrebbe esalato l'ultimo respiro sui ciottoli di un vicolo buio, circondato da nemici e dall'odore ripugnante che fuoriusciva dai canaletti di scolo.

Dando una veloce occhiata alle proprie spalle, il terzogenito dei Vandemberg scoprì di avere i banditi ancora alle calcagna. Accelerando il passo, cercò di pensare ad un'alternativa che non comprendesse la sua imminente dipartita.

Doveva ancora scegliere la giusta sfumatura di nero per il proprio completo funebre, che diamine.

Le locande ai lati della via avevano porte e finestre sprangate; a quell'ora della notte le strade erano vuote, fatta eccezione per il gruppo di mascalzoni che si ostinava a inseguirlo. Bryce si morse un labbro per arginare un lamento di dolore. Sentiva il battito frenetico del proprio cuore e un sapore amaro in gola: doveva trovare una scappatoia, o i banditi l'avrebbero catturato. Erano sempre più vicini, ormai udiva distintamente le loro grida e gli scatti dei fucili che venivano ricaricati. Era questione di secondi e Bryce avrebbe avuto dei problemi più gravi di una ferita al braccio: rischiava davvero la morte.

Dove poteva andare? Chi avrebbe offerto riparo ad un giovane mascherato, ferito e inseguito da un manipolo di fuorilegge vendicativi? La risposta a quelle domande lampeggiò nella mente di Bryce: nessuno. Non uno degli abitanti della via l'avrebbe soccorso se quei banditi l'avessero colpito di nuovo, e questa volta in modo da lasciarlo agonizzante al suolo. No, l'unica alternativa che gli presentava era il fiume. Quelle acque putride che fiancheggiavano la strada erano la sua unica speranza di salvezza. Era già sul punto di girare a sinistra, verso il primo ponte disponibile, quando vide la luce.

E non in senso metaforico.

Oltre i vetri di una delle finestre del secondo piano di quella che sicuramente era una locanda di dubbia fama, una luce tremolante attirò la sua attenzione. Affannato e disperato, Bryce fermò bruscamente la propria corsa e si concesse di riprendere fiato. Quello era l'unico segnale di vita in quella stradina solitaria e silenziosa.

Non si era mai avventurato in quella parte della città, in genere poco frequentata dagli studenti e brulicante di individui misteriosi e dalla reputazione tutt'altro che immacolata. In quel momento, tuttavia, non poteva permettersi ulteriori indugi: se non voleva finire nelle grinfie di quei criminali, doveva implorare aiuto. E, se non gli fosse stato concesso spontaneamente, avrebbe dovuto pretenderlo, andando contro i propri principi e utilizzando le maniere poco educate che di solito aborriva.

Meglio comportarsi da barbaro che rischiare la vita come uno sciocco, si ripeté il ragazzo, cominciando ad arrampicarsi sulla solida grondaia ricoperta di edera. Le foglie e i rametti del rampicante gli fornivano i giusti appigli: si issò sul balconcino che apparteneva alla camera a cui puntava senza alcuna difficoltà.

Mise a tacere il dolore al braccio sinistro e strinse i denti quando dovette caricarvi buona parte del proprio peso per scavalcare la ringhiera di ferro della terrazza. Una goccia di sudore gli colò lungo il collo e Bryce represse un brivido. Trattenendo il respiro, si sporse con circospezione oltre la ringhiera e scoprì con sollievo che gli inseguitori non si erano accorti del suo diversivo: lo stavano ancora cercando, le punte dei fucili che scintillavano sotto la debole luce dei lampioni.

Dopo aver esalato un sospiro tremante, il Principe indietreggiò in direzione della finestra e sbirciò oltre i vetri e le sottili tende di pizzo. La stanza non era molto ampia e, seppur fosse arredata con gusto, il mobilio era essenziale. Ma, cosa più importante, pareva deserta: non vide nessuno seduto sul comodo divanetto, né steso sotto le coperte del piccolo letto. La luce che aveva attratto il suo sguardo proveniva dal caminetto acceso.

Bryce si sfregò le mani sulle braccia, ansioso di avvertire il calore del fuoco sulla pelle gelata. Si sentiva come una falena, abbagliata dalla luce di una fiamma che brilla nel buio, impossibilitata a distogliere gli occhi e attirata dal tepore anche contro il proprio istinto di sopravvivenza. Il ragazzo non si soffermò a pensare al rischio che comportava infilarsi in una stanza altrui nel cuore della notte. Aprì senza sforzo le ante della finestra e scostò le tende, l'ultimo ostacolo che lo separava dal calore del fuoco. Non prestò attenzione alla figura appostata nell'ombra, che aspettava soltanto un suo passo incauto per attaccare.

Il ragazzo non fece nemmeno in tempo a muovere un passo oltre il davanzale: appena i suoi stivali toccarono il pavimento, capì di essere caduto in trappola. Prima che potesse anche solo pensare ad una contromossa adeguata, una lama affilata premette contro la sua giugulare, impedendogli di avanzare e persino di deglutire.

Sentiva il battito veloce del proprio cuore pulsare sulle tempie e non perché fosse spaventato, ma perché, proprio come la proverbiale falena, la luce l'aveva catturato senza lasciargli scampo. «Finalmente», mormorò, prima di accasciarsi a terra e perdere i sensi.

 

*
 

As high as the highest mountain
As low as the deepest sea
Or wherever we settle down
Just let me be your gravity


 

Dopo più di due settimane trascorse in sua compagnia, Gwen decretò che Zara de Guyse, la proprietaria della locanda, era esattamente come aveva immaginato al primo sguardo. Diffidente per natura, la Principessa aveva mantenuto un educato riserbo sulla propria identità e, nel corso della prima settimana, aveva cercato di parlare il meno possibile. Nonostante tutto, Zara l'aveva conquistata: era la persona più eccentrica che avesse mai conosciuto, sempre col sorriso sulle labbra e trattava gli aristocratici con la stessa premura che riservava ai propri domestici. Era gentile e generosa, e Gwen si era lasciata incantare dalle sue maniere spontanee, tanto da accettare di trascorrere le serate nella sua biblioteca privata. Ovviamente sotto lo sguardo vigile di Gawain, che non interveniva nei loro discorsi se non per raccomandare a Gwen di non affaticarsi troppo. Dopo l'ennesima serata trascorsa in quel modo, la ragazza cominciò a rilassarsi e compiacersi di aver incontrato un'ospite così spiritosa e affabile.

In quel periodo dell'anno la locanda non era molto frequentata: oltre a lei e alle sue tre guardie, vi erano soltanto stranieri di passaggio che non si fermavano che per una o due notti. Mentre ascoltava la voce pacata di Zara declamare una delle sue poesie preferite, Gwen pensò che i suoi soldati non avrebbero potuto scegliere una sistemazione migliore. Aveva fatto bene ad affidarsi al gusto di Lancelot e Tristan, i migliori tra i sottoposti di Wain. Lasciando vagare lo sguardo nella stanza in penombra, Gwen incontrò gli occhi scuri del capitano e gli sorrise. Dopo l'episodio della serra, Wain aveva smesso di nominare il nome di Bryce e fatto in modo che anche lei se ne dimenticasse. L'aveva accompagnata dappertutto, organizzato gite in carrozza e a cavallo. Avevano visitato i luoghi più famosi della Vecchia Capitale e Arthur li aveva raggiunti molto spesso, trascorrendo con loro ogni minuto libero dallo studio.

Suo fratello era maturato molto, si disse Gwen, mentre ascoltava i versi letti ad alta voce da Zara. Era diventato più responsabile e studiava con impegno, senza lasciarsi distrarre troppo dagli amici che si ostinavano a trascinarlo nelle taverne ogni sera. Gwen, per mantenere segreta la propria identità, non aveva accettato i suoi numerosi inviti ad uscire con loro, ma lo osservava, nascosta, da lontano. Arthur stava diventando un uomo, e presto avrebbe preso il posto che gli spettava di diritto: il trono di Stormhold. Gwen aveva rinunciato alla corona molti anni prima, adducendo come giustificazione la sua salute cagionevole. Arthur era ignaro della maledizione che la condannava a morire prima di aver raggiunto l'età per regnare: non voleva che la magia contaminasse anche la sua vita, come era accaduto a lei da bambina. Arthur aveva un lato impulsivo come tutti i MacWarden e Gwen temeva avrebbe tentato di vendicarla, se avesse saputo quel che era accaduto pochi anni prima della sua nascita. Non era saggio inimicarsi gli Spiriti della Neve: la sorte di Gwen lo provava. Sperava con tutto il cuore che la propria morte sarebbe servita ad allontanare per sempre la minaccia della magia da Stormhold.

Riscuotendosi da quelle tristi riflessioni, la Principessa si alzò dalla poltrona che aveva occupato per più di due ore. Zara smise all'istante di leggere e si affrettò a chiederle se avesse bisogno di qualcosa. La proprietaria della locanda aveva regole molto ferree per quanto riguardava i propri clienti, che lei aveva riassunto nel Principio delle tre D: dedizione, disponibilità e discrezione. Con Gwen non aveva difficoltà a metterle in pratica perché la ragazza le piaceva, era educata e si offriva perfino di aiutarla in alcune faccende. Aveva curato con un infuso di sua conoscenza il figlio di una cameriera e dato una mano in cucina quando la cuoca si era presa un'infreddatura. Era una fanciulla a modo e non usava le proprie origini nobili – perché nobile era di certo, sebbene Zara non conoscesse il suo titolo – per ottenere privilegi speciali. Quindi la donna l'aveva presa sotto la propria ala e l'aveva protetta in segreto, quando alcuni giovani studenti erano passati alla locanda per mostrarle un suo ritratto e chiederle se per caso l'avesse vista. Zara aveva negato e pagato i ragazzini perché non facessero più domande in giro. Lo stesso era accaduto due giorni prima, ma in quell'occasione si trattava di due attempati becchini, non più di giovani studentelli. La donna aveva corrotto anche loro, assicurandosi che riferissero al mandante di quelle spedizioni di non riprovarci mai più.

Adesso, mentre la ragazza la salutava e si ritirava per la notte, non poté fare a meno di chiedersi da chi si stesse nascondendo. Non era sua abitudine porre domande indiscrete, quindi si limitò ad un lieve inchino. «Vi auguro dei sogni felici, mia signora. Volete che vi faccia portare una tazza di latte caldo?».

Gwen annuì. «Mi leggete nel pensiero, come ogni sera. Buonanotte a voi, Zara».

Come d'abitudine, il capitano si offrì di seguire la donna in cucina e portare lui stesso la bevanda alla Principessa. Era tardi e non voleva disturbare le cameriere che di sicuro dormivano già.

Lasciando dietro di sé una Zara intrigata dai modi galanti di Wain, Gwen salì le scale e augurò la buonanotte anche alle due fidate guardie prima di rifugiarsi nella propria stanza. Il caminetto era già stato acceso e Gwen allungò le mani verso le fiamme, ansiosa di avvertire un po' di calore sulla pelle perennemente fredda. Si affrettò a spogliarsi e indossare una comoda camicia da notte, per poi coprirla con un'ampia vestaglia di velluto blu. Sciolse i capelli, li pettinò con cura e lasciò che le onde biondo pallido le scendessero libere sulle spalle, creando un vivido contrasto col colore della vestaglia.

Si stava godendo in tranquillità il tepore del fuoco, quando udì un rumore. Non proveniva dall'interno della locanda, ma da fuori. Si alzò in piedi e aguzzò le orecchie: sentì distintamente un cigolio, poi un'imprecazione soffocata. Più sorpresa che spaventata, estrasse un pugnale dal cassetto della scrivania e si appostò in una nicchia della parete. Attese, in perfetto silenzio, finché non vide un'ombra stagliarsi contro i vetri della finestra. Con i muscoli pronti ad attaccare, portò lo stiletto davanti al viso e aspettò che il ladro – perché certamente di un ladro si trattava – entrasse.

Non appena lo vide muovere un passo nella stanza, uscì allo scoperto e gli puntò velocemente l'arma alla gola, cogliendolo di sorpresa. L'uomo era poco più alto di lei, ma dovette comunque alzare il viso per guardarlo negli occhi. Indossava abiti scuri come la notte e celava la propria identità dietro una maschera e sotto il cappuccio del mantello. Tuttavia, a Gwen bastarono due particolari per capire di chi si trattasse: il sorriso che le rivolse quando la riconobbe e il suo inconfondibile odore. Un profumo che l'aveva ammaliata in precedenza e al quale era riuscita a dare un nome solo dopo averci riflettuto con lucidità.

Rose in boccio e luce del sole posata sull'erba ancora umida di pioggia.

«Finalmente» le disse il giovane mascherato.

Gwen non ebbe il tempo di chiedersi il perché di quell'affermazione, ma solo la prontezza di sorreggergli il capo prima che toccasse terra.

 

 

*
 

I’ll let you be the one who can lean on me
I’ll catch you when you fall, when you’re falling free
Let me be, be your gravity


 

«Altezza, vi prego di ritornare in voi ed essere ragionevole».

«Wain, per favore».

«No, Gwen. Cosa direbbe vostro zio se sapesse che avete fatto entrare un ragazzo nella vostra camera da letto? Un ladro e per giunta mascherato».

«Veramente è stato lui ad entrare, non l'ho invitato io».

«Dettagli, Altezza. Ora permettetemi di fare il mio dovere e cacciarlo».

«No. E questo è un ordine, Wain».

Bryce riprese conoscenza poco a poco. Si trovava nella stanza nella quale aveva fatto irruzione, steso sul divano davanti al caminetto. Indossava ancora la maschera e il cappuccio, quindi dubitava che le due persone presenti l'avessero riconosciuto.

Doveva andarsene da lì. Immediatamente.

Ormai i banditi dovevano essersi arresi e concluso la loro infruttuosa caccia all'uomo.

Tentò di alzarsi dal divanetto, ma una mano si posò sulla sua spalla e lo invitò gentilmente a stendersi di nuovo. Dita fresche gli toccarono la fronte sudata, donandogli sollievo. Sentì una voce familiare sussurragli all'orecchio e un fuoco più ardente di quello che scoppiettava nel caminetto gli si accese nel petto. «So chi siete. Non muovetevi».

Bryce batté le palpebre e focalizzò un volto che aveva sperato di rivedere con tutto se stesso. Le labbra carnose di Gwen si piegarono in un sorriso che lo riscaldò più del calore emanato dal caminetto. «Non abbiate paura di Wain. Abbaia, ma non morde. Almeno non senza il mio permesso». Nel dirlo rivolse uno sguardo severo al capitano delle guardie, che incombeva su di lui e lo scrutava con disapprovazione da oltre lo schienale del divano. Aveva la mano stretta attorno l'elsa della spada e dal suo atteggiamento si intuiva che aspettava solo un cenno della sua signora per sguainarla e farlo a pezzetti.

Bryce deglutì rumorosamente e tornò a fissare la ragazza, che lo stava ancora toccando per accertarsi che stesse bene. «Siete ferito?» gli chiese, ansiosamente, vedendolo impallidire.

Temendo che il soldato potesse riconoscerlo dalla voce, il Principe non replicò, ma indicò con la mano il proprio braccio. Gwen ordinò alla guardia di andarle a prendere acqua calda e bende pulite. Pur controvoglia, Wain ubbidì e sparì oltre la porta della stanza.

Rimasti soli, la Principessa fissò i suoi seri occhi azzurro ghiaccio in quelli di Bryce, parzialmente celati dalla maschera. «Ora ascoltatemi bene: vi aiuterò e vi permetterò di passare la notte qui, in cambio del vostro silenzio. Fingerò di non avervi visto entrare da quella finestra, mascherato e ferito come un qualunque bandito, se mi giurate che non direte a nessuno di essere rimasto solo con me». La ragazza tacque e diede una veloce occhiata alla porta, per accertarsi che Wain non stesse tornando proprio in quel momento. «Non mi importa della mia reputazione, ma non voglio creare uno scandalo e rovinare quella della mia famiglia. E sono certa che lo stesso valga per voi, Principe Bryce».

Il ragazzo scosse la testa. «Potete stare tranquilla. Avete la mia parola, non lo dirò a nessuno». Gwen annuì e fece per togliere la mano dalla sua fronte, ma lui la trattenne. «Non smettete. Mi piace essere toccato da voi».

Nel vedere le guance della giovane tingersi di rosa, Bryce esultò tra sé. Allora aveva ragione: anche lei provava attrazione nei suoi confronti. Non gli era indifferente come aveva sostenuto – e ancora sosteneva – Axel. Quella consapevolezza gli diede coraggio e stava per lasciarsi sfuggire un altro commento disgustosamente sdolcinato, quando udì dei passi concitati in avvicinamento. Gwen si premette un dito sulle labbra per imporgli di restare in silenzio e accolse il ritorno del capitano con un sorriso gentile.

Gawain teneva tra le braccia un piccolo catino dal quale si innalzava una nuvoletta di vapore. Collocò il recipiente sul tavolino accanto al divano e porse alla ragazza un pacco di bende candide. «E' tutto quello che sono riuscito a trovare».

Lei lo ringraziò e si alzò dal divano. «Capitano Von Lear, ho un altro favore da chiedervi» ammise, e il soldato strinse gli occhi con sospetto. Ogni volta che Gwen lo interpellava per cognome, aveva in mente qualcosa che sapeva per certo lui non avrebbe approvato. Eppure, da bravo soldato, non poté che sottostare all'autorità della Principessa. «Sono ai vostri ordini, Altezza. Come sempre».

Gwen spostò gli occhi da lui al ragazzo che giaceva sul divano, per poi distoglierli in tutta fretta. «Questo giovane ha bisogno di cure e tu esegui le medicazioni molto meglio di me. Inoltre per curare la ferita, dovresti...ehm...togliergli gli abiti. Cosa che io non posso fare, per ovvie ragioni».

Gwen sorrise divertita alla vista delle espressioni imbarazzate dei due ragazzi. Wain guardò l'altro giovane con le palpebre ridotte a fessura e grugnì il proprio assenso. «Lo farò, ma dovrete togliervi quella maschera. Non intendo curare qualcuno che non posso guardare liberamente in viso».

Gwen e Bryce si scambiarono un'occhiata. Lei annuì, incoraggiante. «Mi fido di Gawain come di me stessa, forse anche di più. Non vi tradirà e vi tratterà con lo stesso rispetto che serberebbe a me. Dico bene, capitano?».

Wain confermò con un rigido cenno del capo e Bryce si lasciò sfilare la maschera. In quel momento, pur di poter godere ancora della compagnia di Gwen, avrebbe fatto qualsiasi cosa. Anche farsi torturare da quel soldato, il cui sguardo truce non prometteva nulla di buono.

Nel riconoscere il Principe, a Wain scappò un'esclamazione di sincero stupore. «Voi? Cosa diavolo credete di ottenere, presentandovi di notte nella stanza della Principessa?».

Bryce emise un sospiro rassegnato. «Non sapevo chi avrei trovato in questa stanza. Mi stavano inseguendo, questa era l'unica finestra illuminata e così ho pensato di chiedere aiuto. L'alternativa era perire per mano dei banditi che mi stavano alle calcagna, ma non si sarebbe certo potuta definire una morte elegante. La proprietaria della locanda avrebbe impiegato settimane per togliere il mio sangue dal vialetto e i suoi ospiti si sarebbero scandalizzati irreparabilmente nel scoprire il mio cadavere davanti all'ingresso. Uno spettacolo che io stesso non gradirei, se avessi appena terminato di fare colazione».

Al termine del discorso, sulla stanza scese il silenzio. La prima a romperlo fu Gwen, che cominciò a ridere sottovoce. Bryce rimase talmente rapito da quel suono e dal guizzo divertito nei suoi occhi, da non accorgersi che anche il capitano stava cercando di dominare l'ilarità. «D'accordo, milord, mi prenderò cura di voi. Altezza, vi prego di uscire dalla stanza. Vi chiamerò non appena avrò finito».

Quando la ragazza si chiuse la porta alle spalle, Bryce notò con soddisfazione che stava ancora sorridendo. Il capitano non perse tempo: gli sfilò in fretta gli indumenti, lasciandogli addosso soltanto stivali e pantaloni. Esaminò con cura la ferita al braccio e, tenendo per sé qualsiasi domanda gli ronzasse in testa, cominciò a lavare via il sangue. La pallottola non l'aveva colpito che di striscio, quindi gli bastò spalmare un unguento che odorava di menta e fasciargli l'avambraccio. Una volta completata l'operazione, il soldato uscì dalla camera per prendergli una camicia pulita. Bryce approfittò di quegli attimi di solitudine per darsi una rapida sistemata. Non volle nemmeno pensare al proprio aspetto: sapeva che, se si fosse imbattuto in uno specchio, sarebbe scappato urlando in preda all'orrore. E alla mortificazione, dal momento che Gwen l'aveva visto in disordine, coperto di sangue, sudore, polvere e anche da un buon numero di foglie d'edera.

Quando Gawain entrò, Bryce aveva domato con successo i ricci che gli ricadevano sulla fronte. Il capitano lo aiutò ad indossare la camicia pulita e il Principe fece per ringraziarlo, ma il soldato lo anticipò, posandogli entrambe le mani sulle spalle.

Wain avvicinò il viso a quello dell'altro ragazzo, che avvertì immediatamente il pericolo e cercò di ritrarsi. Ma il soldato gli impedì la ritirata, aumentando la presa fino a farlo gemere. I suoi occhi color carbone erano alla stessa altezza di quelli di Bryce e lo fissavano con palese ostilità. Eppure, quando parlò, il suo tono fu estremamente controllato. «Ti avverto, Bryce Jason Vandemberg. Puoi anche essere un Principe, ma ti assicuro che per me non fa alcuna differenza. Falla soffrire e te la vedrai con me».

Il passaggio ai modi informali sottolineò la serietà della minaccia. Tuttavia, Bryce non batté ciglio e rispose allo sguardo del capitano con uno altrettanto tagliente. «Tu la ami» soffiò, e il morso della gelosia rese quelle parole quasi un'accusa. «Ho visto come la guardi. Temi forse che te la porti via?».

Wain trasalì, ma la sua stretta non diminuì. «Ti sbagli. La amo come amerei una sorella, se la vita me l'avesse concessa. Gwen e Arthur sono l'unica famiglia che mi è rimasta e non tollero che venga fatto loro del male. Sono disposto a difenderli con la mia vita, se necessario».

«Una lealtà ammirevole» ribatté Bryce, e nella sua voce si avvertiva una nota di puro rispetto. I suoi occhi non mollarono quelli del capitano. «Quindi la tua non è una dichiarazione di guerra, ho inteso bene? Non siamo rivali».

«No, non lo siamo» asserì Gawain, con decisione. «Al contrario, potremmo diventare alleati se mi prometti che non cercherai di nuocere a Gwen in nessun modo. Ho fatto delle ricerche sul tuo conto e so che cambi di frequente le tue...compagnie femminili».

Bryce sentì un fiotto d'imbarazzo colorargli gli zigomi. «Non so cosa tu possa aver sentito, ma ti assicuro che le cose non stanno come credi. E di certo non tratterei mai una fanciulla innocente in modo crudele. Gwen non ha nulla da temere da parte mia».

Come se potesse percepire la sincerità delle sue parole, Wain si rilassò e lentamente mollò la presa sulle spalle di Bryce. Mosse un passo indietro e accennò un sorriso. «Lo spero, visto che, se ho insistito tanto per condurla fin qui, è principalmente a causa tua». Gawain vide la domanda implicita negli occhi di Bryce e alzò una mano. «Non spetta a me rivelarti questo particolare. Lo farà la mia signora quando – e se – lo riterrà opportuno. Sappi che è solo grazie a quel motivo se ti ho risparmiato un incontro ravvicinato con la lama della mia spada».

Bryce era più confuso ad ogni secondo che passava. Forse a causa delle intense emozioni che gli agitavano l'animo, decise di ricambiare la franchezza del capitano con un'affermazione altrettanto sincera. «Non so come o perché, ma credo di essermi innamorato di lei a prima vista. E non intendo scusarmi per questo».

Il tono determinato del Principe fece sorridere Wain. «Dovrò farmene una ragione, suppongo». Passandosi una mano tra i corti capelli castani, il soldato gli strizzò l'occhio. «Ora sarà meglio andarla a chiamare, o penserà che ci stiamo uccidendo a vicenda».

Bryce abbassò lo sguardo sul pavimento sotto i suoi piedi e fremette di raccapriccio. «Senza offesa, ma nemmeno questo è uno scenario adatto alla mia dipartita. Se proprio devo congedarmi da questo mondo nel fiore degli anni, tanto vale farlo con stile. Hai visto il pavimento? È pieno di macchie di ogni genere, nemmeno da morto oserei stendermici sopra».

Un discreto bussare interruppe la risata spontanea del capitano. Gwen azzardò un'occhiata all'interno della stanza: nel vedere il Principe vestito e ripulito, aprì del tutto la porta e sorrise. «Era da tanto che non ti sentivo ridere così, Wain. Noto con piacere che avete stretto amicizia».

Il soldato alzò le spalle. «Il Principe Bryce ha uno strano senso dell'umorismo».

Bryce evitò di precisare che nulla di ciò che aveva detto era uno scherzo. Pensava davvero che quella stanza rappresentasse un pessimo luogo nel quale esalare l'ultimo respiro. A meno che non si fosse trovato tra le braccia della Principessa: in quel caso sarebbe morto senza rimpianti e col sorriso sulle labbra.

Un caso pietoso e patetico, canticchiò una voce nel profondo della sua mente. E Bryce non poté che scuotere la testa, davanti all'evidenza dei propri sentimenti.

 

*
 

Attached inseperately
It’s all we’ll ever be
You, me, gravity


 

Bryce si girò su un fianco ed emise un sospiro sconfortato. Non sapeva quanto tempo era trascorso da quando il capitano Von Lear aveva lasciato la stanza, ma, a giudicare dalle braci ormai quasi del tutto spente, dovevano essere trascorse diverse ore. Il Principe, però, continuava a rigirarsi su quel divano come se, invece di aver sotto la schiena dei morbidi cuscini, si fosse adagiato su una superficie disseminata di chiodi e frammenti di vetro. Pareva che il suo corpo fosse cosciente della presenza di Gwen, addormentata sotto vari strati di coperte nel letto adiacente, e fremesse per la voglia di raggiungerla.

Imponendosi una calma che era lungi dal provare, Bryce allungò le gambe e portò le braccia sotto la testa.

Doveva dare ragione al capitano, il quale aveva tentato di impedirgli di dormire in quella stanza, adducendo scuse quali la possibile compromissione della reputazione di Gwen e il disonore che ne sarebbe derivato. Alla fine si era dovuto arrendere alla logica inappuntabile della sua signora: se avessero condotto il Principe nella stanza che Gawain condivideva con Tristan e Lancelot, o in un'altra, avevano più probabilità di essere scoperti. Una cameriera poteva vederli e mandare in fumo il loro intento di segretezza. D'altronde era questione di poche ore: al sorgere del sole, Bryce sarebbe sgattaiolato fuori da lì esattamente com'era entrato e non avrebbe corso il rischio di imbattersi di nuovo nei suoi inseguitori.

Così il Principe era stato fatto accomodare sul divano, dal momento che si era rifiutato con decisione di prendere il posto di Gwen sul letto. Anche se la sua ferita fosse stata tanto grave da giustificare quell'offerta, Bryce si sarebbe ugualmente opposto: non avrebbe sottratto il letto alla fanciulla nemmeno se si fosse trovato in punto di morte.

Troppo stanco per pensare ad un'opzione che non comprendesse far dormire Gwen e Bryce da soli nella stessa camera, Wain aveva ammesso la sconfitta e si era diretto verso la propria stanza, borbottando sottovoce. Non prima, però, di aver messo in guardia il Principe con un'occhiata.

Bryce si tolse di dosso la ruvida coperta di lana che Gwen gli aveva procurato e sfilò i primi bottoni della camicia dalle asole. Il fuoco non bruciava più, ma nella stanza aleggiava ancora un calore che impediva al giovane di lasciarsi andare al sonno. Abituato com'era ai rigidi inverni di Aldenor, di certo non aveva bisogno di...

Un gemito improvviso infranse il corso dei suoi pensieri. Bryce scattò a sedere come se la fodera del divano si fosse d'un tratto ricoperta di spine e una di esse l'avesse punto. Un altro lamento e il Principe si ritrovò in piedi senza rendersene conto.

Ai piedi del letto scorse un fagotto fatto di coperte e lenzuola, da cui sbucava una mano bianca come la neve, protesa verso il caminetto.

«Gwen» mormorò, precipitandosi a soccorrere la ragazza.

Era lei ad emettere quei gemiti di dolore: quando la liberò dai vari strati di coperte, Bryce si accorse che tremava convulsamente e aveva le guance striate di lacrime.

Da ipocondriaco qual era, il Principe non poteva che formulare delle ipotesi sulle cause di quegli spasmi e le alternative che si affollarono nella sua mente erano una più inquietante dell'altra. Agì d'istinto: prese Gwen tra le braccia e l'adagiò sul divano, che provvide a trascinare più vicino al caminetto. Dopo di che prese dei ciocchi di legna e l'attizzatoio, e tentò, con successo, di alimentare le poche braci rimaste.

La ragazza non smetteva di tremare: sembrava ancora addormentata e non protestò quando Bryce si tolse la camicia per mettergliela sulle spalle. Fece lo stesso con la propria coperta, che conservava ancora il calore del suo corpo. Gwen non aprì gli occhi, ma si raggomitolò in quel bozzolo di tessuto come un cucciolo appena nato accanto al ventre della propria madre. «Ho tanto freddo» sussurrò, e Bryce prese una decisione senza soffermarsi a chiedersi se fosse appropriata o meno.

Sistemò la ragazza sulle proprie ginocchia e cominciò a cullarla dolcemente, sentendosi esaltato e ridicolo al tempo stesso. «Va tutto bene, Gwen, ci sono io. Non sono sicuro che la mia presenza faccia miracoli, di solito scappo a gambe levate quando ci sono di mezzo malattie, o donne in lacrime. Tuttavia sono certo che sarai felice di avermi accanto a te quando ti sveglierai. Almeno avrai qualcosa di bello su cui posare gli occhi. Ora cerca di dormire, mia Principessa».

Il suo discorso mormorato parve sortire l'effetto sperato: la ragazza smise gradualmente di tremare ed emise un sospiro di pura beatitudine. Orgoglioso di se stesso anche se un po' a disagio, Bryce osservò la pelle della giovane riprendere colore alla luce del fuoco.

Non resistette all'impulso di passare le dita tra quei capelli d'oro bianco, come aveva desiderato fare dalla prima volta che l'aveva vista. Gwen appoggiò la testa nell'incavo del suo collo e smise del tutto di muoversi.

Bryce rimase immobile, cercando di respirare il più lentamente possibile per non svegliarla. Ma il suo cuore non voleva saperne di calmarsi: pulsava talmente forte che gli sembrava di sentirlo riecheggiare nella stanza.

Nonostante avesse la fronte imperlata di sudore a causa del calore soffocante del fuoco e il braccio gli dolesse per la scomoda posizione, Bryce pensò che non si era mai sentivo vivo come in quel momento.

Avvicinò la fronte a quella di Gwen e lasciò che il sonno vincesse le sue ultime resistenze.

 

 

 

 

 

 

* * * * * * *

 

Ciao a tutti!
Mi sentivo molto ispirata mentre terminavo questo capitolo, quindi spero vi sia piaciuto leggerlo tanto quanto è piaciuto a me scriverlo.

Un bacio da Lizz

 

n.b. i versi che ho disseminato nel capitolo appartengono alla canzone Gravity di Hovig. Mi sembrava una colonna sonora perfetta per Bryce e Gwen.

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Capitolo 5
*** IV ***




Capitolo IV



 

Here comes the darkness

It's eating on my soul

Now that the spark has

Run out of control


 

 

La fiamma della candela baluginava tra le fitte tenebre della stanza come la luce di un faro che richiama a sé i marinai sperduti.

La bambina temeva il buio, ma le bastò stringere la mano che la balia le porgeva per sentirsi al sicuro.

La donna le sorrise, incoraggiante. «Ecco, Principessina. Avvicinatevi al bacile».

La bambina si lasciò condurre accanto al piccolo catino, riempito fin quasi all'orlo di fresca acqua di sorgente. Una lunga candela era stata posta al centro, e sulla superficie dell'acqua la cera cadente creava increspature che solo l'esperta balia riusciva a leggere.

Ne indicò una e sorrise. «Questo è un buon segno. Significa che vivrete sempre circondata dall'amore». Chinò il capo per dare un bacio alla bambina e le strinse forte la mano. «Quello non vi mancherà mai, Altezza».

La donna era presente, il giorno in cui lo Spirito della Neve aveva scagliato la crudele maledizione sulla piccola Principessa. Sapeva cosa l'attendeva nel prossimo futuro. Per questo coglieva ogni occasione per farla sorridere e divertire. Quella sera le aveva insegnato un rito magico, che quasi tutte le fanciulle svolgevano il giorno del loro nono compleanno. Se avesse prestato attenzione, nei riflessi dorati creati dalle fiamme della candela avrebbe scorto il volto dell'uomo che il destino le aveva riservato.

Più incuriosita che emozionata, la piccola posò le mani sul bordo del bacile e attese. La cera continuava a cadere; mancava poco perché la fiamma raggiungesse l'acqua e si spegnesse definitivamente.

La bimba osservò i riflessi dorati del fuoco e si chiese se valesse la pena continuare il rito, dal momento che attendevano da mezz'ora e nessun volto era ancora apparso.

Stava per tirarsi indietro, quando la fiamma iniziò ad oscillare. Non c'era vento nella stanza, quindi la bimba non capì a cosa fosse dovuto quell'improvviso spostamento. La luce brillò per l'ultima volta, prima di estinguersi sulla superficie dell'acqua. Il buio tornò ad invadere la stanza, ma la Principessa non aveva più paura.

Perché, proprio un istante prima che la fiamma morisse a contatto con l'acqua, aveva scorto un volto sulla superficie del bacile. E quel viso, dai tratti pennellati d'ombra, aveva la stessa luminosa bellezza di un faro nella notte.




 

*

 

Now that the light has

Driven me insane

This fire is blazing

And I'm still inside




 

 

Gwen avvertì un calore piacevole tutt'intorno a sé e sospirò, deliziata.

Anche se si copriva con vari strati di lenzuola e spesse coperte, ogni notte si svegliava più volte, il dolore imposto dal gelo che le tormentava le membra anche nel sonno. Eppure, quando quel mattino aprì gli occhi, il pensiero della maledizione fu scalzato via dalla sua mente come una foglia da una brezza imprevista.

La prima cosa che vide fu la mano. Una mano indubbiamente maschile stringeva la sua con delicata fermezza e la premeva contro la pelle nuda di un torace, anch'esso indubbiamente maschile.

Trattenendo il respiro, la Principessa alzò di poco la testa e sbarrò gli occhi. Non si trovava nel suo letto, ma stesa sul divano, che era stato spostato dalla sua posizione originaria e ora si trovava a meno di un metro dal caminetto.

La seconda cosa che stuzzicò i suoi sensi fu il profumo.

Fragranza di rose appena sbocciate, avvolte dalla prima luce del sole.

Il suo cuore perse un battito. Soltanto una persona profumava in quel modo e Gwen sapeva bene di chi si trattava.

Quando vide il volto di Bryce a poca distanza dal suo, si lasciò sfuggire un sibilo.

Il Principe stava ancora dormendo: aveva la testa inclinata di lato, i ricci color bronzo gli nascondevano la fronte e gli occhi. Era talmente bello, illuminato dalle fiamme del fuoco, che Gwen desiderò avere a portata di mano un blocco da disegno e un carboncino per imprimere sulla carta quel volto e poterlo ammirare in segreto, una volta lasciata la Capitale.

Il giovane era così bello che faceva quasi male agli occhi guardarlo: era come fissare il sole troppo a lungo. Avrebbe potuto persino metter fine ad una guerra, si disse Gwen. Se si fosse presentato sul campo di battaglia com'era ora al suo fianco, senza camicia e con i capelli arruffati ad incorniciargli il viso, chi avrebbe osato colpirlo? Un'occhiata ai suoi ammalianti occhi turchesi e i soldati avrebbero gettato a terra le armi, preoccupati di scalfire quel volto di così rara bellezza.

La ragazza scosse la testa per scacciare quelle fantasticherie. Poi alzò la mano libera, quella che non era stretta al petto del giovane, e gli toccò piano una guancia con la punta delle dita. Bryce assecondò inconsciamente il suo tocco e una lieve smorfia si disegnò sulle sue labbra quando lei ritrasse entrambe le mani dalla sua pelle. Non fu semplice sciogliere la presa della mano del Principe, che pareva non volesse permetterle di allontanarsi da lui. Le sembrava di udire ancora le parole che le aveva mormorato poche ore prima, quando si stava assicurando che non fosse ferito in modo grave.

No, non smettete. Mi piace quando mi toccate.

Sempre più accaldata e in imbarazzo, Gwen cercò di mettersi a sedere, invano. Le lunghe gambe del ragazzo erano intrecciate alle sue e il suo braccio destro le cingeva la vita, tenendola stretta contro il suo petto nudo. Bryce era tutto avvolto attorno a lei come una calda coperta e per un istante Gwen espresse il desiderio di svegliarsi in quel modo ogni mattina, circondata dal calore e stretta al suo corpo forte e protettivo. Sapendo che ciò non sarebbe mai potuto accadere, invidiò con tutta se stessa la donna a cui sarebbe stato concesso quel privilegio. La donna che, in un futuro nemmeno troppo lontano, lui avrebbe amato, desiderato, sposato.

Accetta i petali e le spine, era un vecchio detto di Stormhold. E particolarmente adatto al momento presente, visto che, non appena staccò la propria pelle da quella del giovane, le punte acuminate del gelo ricominciarono a pungerle il corpo.

Gwen alzò gli occhi al cielo mentre per la prima volta constatava quanti ricordi, modi di dire e filastrocche che non udiva da anni le fossero tornati alla memoria da quando aveva messo piede in quella città infestata.

«Gwen».

La voce roca del Principe Bryce la riportò alla realtà. Incrociò il suo sguardo annebbiato, ma lo abbassò quasi subito nel timore di arrossire.

Quando aveva detto a Wain che non c'era nulla da temere, che seppur avessero dormito nella stessa stanza da soli, non sarebbe accaduto nulla di compromettente, non avrebbe mai immaginato che si sarebbe trovata in una situazione del genere: rischiava di uscire con la reputazione a brandelli. Non che per lei contasse poi molto, ma cosa avrebbero detto zio Percival e Arthur, se una voce fosse giunta a Stormhold? Se il Principe Bryce avesse raccontato anche solo ad un amico, o a suo fratello, che lei aveva dormito tra le sue braccia, lei avrebbe dovuto...

«Guardatemi, Gwen», le ordinò il Principe in questione, forse intuendo il suo disagio.

Lei alzò timidamente gli occhi e vide che il ragazzo stava sorridendo leggermente. «Principessa, vi devo mettere in guardia. Se guardate un uomo in quel modo, rischiate di fermargli il cuore». Protese la mano e le tolse una ciocca di capelli dalla guancia. Il suo volto si fece serio. «Per un attimo il mio dev'essersi davvero fermato stanotte, nel vedervi in quelle condizioni. Come state, ora? Vi sentite un po' meglio?».

Gwen non capì cosa intendesse. Cos'era accaduto quella notte? L'ultima cosa che ricordava era la discussione con Wain, avuta prima di coricarsi. Poi si era addormentata, cullata dallo scoppiettio del fuoco che ardeva nel caminetto e dal respiro del giovane che riposava a pochi passi da lei. Non ricordava di essersi svegliata, né di aver percorso la distanza che la separava da Bryce con le proprie gambe. Allora perché si trovava stesa su quel divano, avviluppata al Principe, e non nel suo letto?

Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, perché soltanto un fatto poteva giustificare quella breve perdita di memoria e lo spavento racchiuso nello sguardo che il Principe le stava rivolgendo.

La comparsa di un nuovo Glifo.

Il ragazzo si affrettò a rassicurarla, forse pensando che l'improvviso irrigidimento di Gwen fosse dovuto all'imbarazzo. «State tranquilla. Vi do la mia parola che non ho fatto niente di riprovevole, ho solo tentato di scaldarvi. Tremavate e dicevate di avere freddo, così ho pensato che...».

Gwen si schiarì la voce e si districò dal suo abbraccio, sedendosi compostamente sul divano. «Vi credo, milord. Sono solo un po' scombussolata. Non è mia abitudine risvegliarmi accanto a qualcuno che conosco a malapena».

Nel dirlo si accorse di avere la camicia del giovane attorcigliata attorno alle spalle. Che l'indumento appartenesse a Wain non faceva alcuna differenza: ora era impregnato del profumo del Principe e Gwen dovette reprimere l'impulso di avvolgerselo stretto attorno al corpo, come aveva fatto il giovane con lei durante la notte.

Vedendola confusa, Bryce accennò un sorriso. Si alzò su un gomito e si stiracchiò pigramente, passandosi una mano tra i capelli scompigliati. «Se vi fa sentire meglio, sappiate che siete la prima donna a cui concedo il privilegio di vedermi appena sveglio e in disordine. Ad eccezione dei domestici e dei miei familiari, non permetto a nessun altro di entrare nelle mie stanze, se non sono quantomeno presentabile».

L'espressione imbarazzata di Gwen si sciolse in un mezzo sorriso. «Ne sono onorata, milord». Spinta dalla gratitudine e dalla confidenza che le riservava il Principe, gli coprì una mano con la propria e lo guardò negli occhi. «Vi sono grata per ciò che avete fatto per me stanotte». Sulle sue labbra aleggiò un sorriso furbo quando aggiunse: «Soprattutto per non aver chiamato Wain. Se glielo aveste detto, avrebbe allertato ogni singola persona della locanda. Invece non ce n'è bisogno, come vedete. Non era nulla di grave».

La bugia le lasciò un sapore amaro sulla lingua, ma non poteva fare altrimenti. Non intendeva coinvolgere anche il Principe nel suo triste destino.

Più che un sorriso, sul volto di Bryce si formò un ghigno. «Chiamare il capitano? Oh, l'idea non mi ha nemmeno sfiorato la mente». In tono suadente, domandò: «Quindi d'ora in avanti sarò io il vostro cavalier servente, milady?».

La Principessa rise sottovoce. «Voi non vi arrendete mai, vero?».

Il sorriso di Bryce divenne più ampio. «No, mia signora. Noi Vandemberg siamo caparbi e testardi per natura. Chiedetelo alla fidanzata di mio fratello: sono fermamente convinto che abbia accettato di sposarlo solo perché la smettesse di esasperarla».

Gwen inclinò la testa, curiosa. «State parlando di quel giovane che vi aspettava fuori della serra, quel giorno?».

Bryce annuì. «La somiglianza è troppo lampante per negarla. Non che io non ci abbia provato, si intende. A volte Axel è talmente insopportabile che mi chiedo se sia davvero mio parente, o se qualche fata l'abbia scambiato col mio vero fratello nella culla».

«Credo sia così per tutti i fratelli» affermò Gwen, saggiamente. «Però non possiamo fare a meno di amarli. Un po' come le rose: anche se le loro spine ci graffiano la pelle, torneremo comunque ad avvicinarci per ammirarne i petali e respirarne il profumo. Non importa quante volte ci feriranno, il nostro amore per loro non si affievolirà».

Bryce chiuse gli occhi e sospirò. «I vostri discorsi sono talmente affascinanti, milady, che rimarrei tutto il giorno ad ascoltarvi. Siete proprio sicura di non voler congedare il capitano Von Lear? Sarei molto più che onorato di prendere il suo posto».

Gwen scosse il capo, sorridendo a fior di labbra. «Vi ringrazio ancora per l'offerta, Principe Bryce, ma Wain è l'unico cavaliere che non può essere sostituito. Più che un soldato, lo considero un fratello e lo amo come tale. Non è facile sopportarlo, ma non potrei mai preferirgli qualcun altro. Spero capirete».

Il giovane emise un sospiro mesto. «Voi mi trafiggete il cuore con il vostro rifiuto, milady. Ma non posso che piegarmi al vostro volere».

Gwen lo fissò con quella che si poteva definire solo tenerezza. «Ve l'ha mai detto nessuno che avete uno spiccato talento per l'arte drammatica?».

«Me lo dicono di continuo, mia signora».

Lei rise e Bryce perse per un attimo il proprio atteggiamento teatrale. I capelli di Gwen catturavano la luce dei primi raggi di sole del mattino e lui si incantò ad osservarne le varie sfumature. Alcune ciocche erano così chiare da sembrare argentate, altre, più scure, erano dello stesso colore dell'oro bianco.

La guardò intensamente, mentre lei allungava una mano per sistemargli un ricciolo che gli ricadeva sulla fronte. «Forse non potrete diventare il mio cavalier servente, ma avete diritto ad una ricompensa per avermi soccorsa stanotte».

Bryce stava per dirle che aveva soltanto ripagato l'aiuto che lei gli aveva concesso facendolo rimanere nascosto, ma chiuse la bocca non appena la vide chinarsi verso di lui.

Gwen gli posò un lieve bacio sulla guancia, leggero e morbido come il battito d'ali di una farfalla. Il ragazzo chiuse gli occhi per un momento, per gustare al meglio quella sensazione dolce e piacevole, e impose al proprio corpo un'immobilità assoluta. Se avesse spostato di poco il viso, come una voce nella mente gli stava suggerendo di fare, le loro labbra si sarebbero incontrate. E probabilmente sarebbe stato il colpo di grazia, si disse Bryce. Temeva già di avere un infarto in corso: quando si trovava accanto a Gwen, il suo cuore scriveva una musica tutta sua. Gli batteva nel petto, frenetico e indomabile come un cavallo lanciato al galoppo.

La Principessa si tirò indietro, dopo aver indugiato qualche attimo con le labbra sulla sua pelle e la mano di Bryce scattò ad acciuffare la sua, per riportarla dove aveva riposato tutta la notte: sul suo petto, all'altezza del cuore. I loro occhi rimasero incatenati per quella che sembrò un'eternità e, nel mezzo di quell'istante infinito, Bryce prese una decisione. «Gwen» mormorò, avvicinando lentamente il viso a quello della ragazza. La sua espressione, da divertita, era diventata seria, quasi solenne, come se stesse per compiere un giuramento. «Gwen» disse di nuovo, quando i loro volti furono talmente vicini da sfiorarsi. Lei non si tirò indietro, né tentò di sfuggire alla sua presa. Quegli occhi azzurro ghiaccio restarono puntati nei suoi, senza mai vacillare.

Bryce stava per inclinare il capo, le palpebre semichiuse, quando un colpo alla porta lo fece trasalire. Anche Gwen sobbalzò, ma non si allontanò da lui come il Principe temeva. Continuò a guardarlo e si lasciò sfuggire un sorriso. «Sapevo che l'avrebbe fatto» ammise, un attimo prima che la voce del capitano Von Lear arrivasse alle loro orecchie.

«Spero per voi che ve ne siate già andato da un pezzo, Principe Bryce. Se così non fosse, vi do cinque minuti a partire da ora. Poi entrerò e, se vi troverò ancora addormentato...», Wain sembrò esitare, forse per cercare una minaccia adeguata, «...vi taglierò personalmente tutti quei bei ricci di cui andate tanto fiero. Siete avvisato». Ciò detto, sentirono i passi del capitano allontanarsi lungo il corridoio.

Bryce si toccò i capelli, spaventato. «Non diceva sul serio, vero milady?».

Gwen si portò una mano davanti alla bocca, per tentare di nascondere una risata. «Temo di sì, invece: Wain mantiene sempre la parola data. Fareste meglio a sbrigarvi».

Si tolse la camicia di lui dalle spalle e si alzò dal divano per recuperare gli altri indumenti del Principe.

Dopo aver insistito per controllare la ferita, Gwen lo aiutò a vestirsi. Invece di apparire imbarazzato, Bryce sembrava raggiante: tutte quelle premure da parte della fanciulla lo riempivano di soddisfazione. Mentre Gwen gli aggiustava gli alamari del mantello, dovette ripetersi di non fare nulla che potesse ledere permanentemente la propria immagine, e la propria dignità. Per esempio mettersi a saltellare per la stanza fischiettando.

La ragazza fece un passo indietro e lo squadrò da capo a piedi, annuendo tra sé. «Se indosserete anche il cappuccio, potete star certo che nessuno vi riconoscerà. Provvederò a far lavare i vostri abiti e manderò una delle mie guardie a riportarveli».

Bryce aprì la bocca per dirle che non sarebbe stato necessario, che li avrebbe ritirati personalmente, così avrebbe potuto rivederla, ma si trattenne. Forse Axel aveva ragione. Forse lei non desiderava rivederlo ancora. Il tono freddo che aveva usato in precedenza, la distanza che stava ponendo tra loro in quel momento...davvero Gwen non voleva trascorrere altro tempo in sua compagnia? Ripensò a com'era stato tenerla stretta contro il proprio corpo nella notte, al bacio che le labbra di lei gli avevano impresso sulla guancia e che sentiva ancora scottare sulla pelle.

No, non si sarebbe arreso. Non con lei.

Bryce prese la maschera che Gwen gli stava porgendo e la mise nella tasca interna del mantello. Poi, invece di dirigersi verso la finestra e scappare prima che Gawain tornasse e mettesse in atto la spregevole minaccia, prese il viso di lei tra le mani e inclinò il proprio finché le loro fronti non si toccarono. «Perdonatemi, Gwen. Devo osare ora, o non troverò più il coraggio di guardarvi negli occhi», mormorò, in tono febbrile, prima di premere le labbra su quelle appena dischiuse della giovane.

Durò solo un istante, ma l'effetto fu immediato: sentì un brivido serpeggiargli sulla pelle del collo e le labbra bruciare a contatto con quelle di Gwen. Spostò una mano sulla nuca della Principessa e l'altro braccio a circondarle la vita, per avvicinarla ancora di più a sé. Dopo un altro bacio delicato, si limitò a far scorrere le labbra sulle guance di lei, non osando avventurarsi oltre il mento. Desiderava scoprirle il collo, celato dal pizzo della camicia da notte, e percorrerlo con la bocca fino ad arrivare alla gola, nel punto in cui il cuore batte più forte e...

«Principe Bryce, pregate di non esserci quando entrerò, o voi e i vostri capelli farete una brutta fine, ve lo garantisco».

Il capitano Von Lear era tornato, e con lui la sua temibile minaccia.

Bryce scostò il viso da quello di Gwen e attese, quasi trattenendo il fiato, una mossa da parte della ragazza. Si aspettava di tutto: uno schiaffo, un'espressione indignata, una frase tagliente che l'avrebbe rimesso in riga e fatto vergognare del proprio comportamento. Era stato un gesto sconsiderato, impulsivo, totalmente non da lui. Non si sarebbe lamentato se la Principessa avesse ordinato a Gawain di infilzarlo con la spada, dopo avergli rasato personalmente la folta chioma bronzea. Dietro il suo aspetto freddo e altero, Gwen nascondeva un fuoco interiore che avrebbe potuto incenerirlo facilmente. L'aveva intravisto la sera prima, quando gli era saltata alla gola con quel pugnale affilato.

Lei era come una fiamma che ardeva sotto un'impenetrabile cupola di ghiaccio. Lui, la falena incauta che, pur di raggiungere il fuoco, si sarebbe fatta imprigionare per sempre dal morso del gelo.

Come era successo la sera prima, lei lo colse di sorpresa. «Non c'è nulla da perdonare», disse, sottovoce. Gli posò una mano sul petto e si alzò in punta di piedi per baciargli una guancia, ad un soffio dalle labbra. Il suo respiro fresco gli sfiorò il collo e Bryce si chiese dove avrebbe trovato la forza per uscire da quella stanza con le proprie gambe. Se oltre la porta non ci fosse stato il capitano Von Lear pronto a usare la sua lama contro di lui, il Principe avrebbe avvolto Gwen nel proprio mantello e l'avrebbe portata in un luogo dove avrebbero potuto stare da soli, dove avrebbe lasciato che il fuoco che lei gli aveva acceso sottopelle lo consumasse.

Gwen lo sospinse gentilmente verso la finestra. «Ora andate».

Bryce non se lo fece ripetere, perché i colpi alla porta si facevano sempre più rapidi e pressanti. Scavalcò il davanzale e si voltò solo dopo aver poggiato entrambi i piedi sul piccolo balconcino. «Permettetemi di rivedervi, Gwen» disse, e, a differenza dell'ultima volta in cui le aveva pronunciate, quelle parole suonarono più come una supplica che come un ordine.

Gwen non rispose. «Andate. O Wain taglierà i vostri bei ricci, e sarebbe davvero un peccato. A me piacciono molto» ammise, e, così dicendo, chiuse i vetri della finestra davanti al viso di un frastornato Principe.

 

 

*


 

You want me to burn

And maybe I will finally learn


 

 

«Se n'è appena andato, dico bene?» chiese il capitano, con rassegnazione e un pizzico di divertimento, entrando nella stanza. Scrutò con ostilità il divano e, non trovando traccia del Principe a cui era pronto a fare lo scalpo, posò gli occhi sulla figura di Gwen.

La ragazza stava sbirciando tra il fitto pizzo delle tende e gli dava le spalle. Di punto in bianco, crollò in ginocchio, le mani strette alla camicia da notte.

Con un'esclamazione soffocata, Gawain corse da lei. Si inginocchiò al suo fianco e le scostò i capelli dal volto. «Altezza, cosa vi succede?» domandò, l'agitazione che trapelava da ogni sillaba.

La ragazza alzò il viso e gli sorrise debolmente. Le spalle le tremavano; aveva gli occhi lucidi, la pelle più pallida del solito. Fece un gesto con la mano, come per dirgli di non preoccuparsi. Si rialzò a fatica dal pavimento, ma non accettò il braccio che il capitano le porgeva. Si diresse verso l'armadio e aprì le ante, posizionandosi davanti allo specchio che era racchiuso all'interno. Sbottonò la camicia da notte fin sotto la gola e scostò la stoffa con mani tremanti.

Un singhiozzo strozzato le uscì dalle labbra quando il suo sguardo si fermò sul pezzo di pelle tra la clavicola e il seno. Tracciò con un dito il marchio traslucido che vi era impresso e che solo la sera prima non c'era. Spostò lo sguardo di lato e incrociò quello atterrito di Gawain. «Un nuovo Glifo» annunciò, in tono noncurante, e si strinse le braccia attorno al busto.

Il capitano si avvicinò cautamente e le posò una mano sulla spalla. «Dovete aver sofferto molto. Avrei dovuto essere al vostro fianco. Perché non mi avete fatto chiamare?».

Gwen sorrise tra le lacrime che le scorrevano sulle guance. «Sei in errore, Wain. Per la prima volta, non ho sentito dolore. Solo calore, fino al risveglio».

Von Lear corrugò la fronte. «Fatemi indovinare: tutto merito del Principe» sbottò, lanciando un'altra occhiata furente alla stoffa sgualcita del divano.

Gwen nascose il volto tra le mani, sospirando. «Credo di essermi innamorata di lui, Wain. Non era previsto e non volevo accadesse. E puoi anche sgridarmi e arrabbiarti, ma non chiederò scusa».

Gawain accolse la sua ammissione in silenzio. Quando la ragazza lo guardò negli occhi, vide che faticava a restare serio. Le accarezzò una guancia, asciugandole le lacrime con il pollice. «Era da molto che aspettavo di sentirvi dire queste parole. Sono felice per voi, Gwen».

Lei gli circondò la vita con le braccia, affondando il viso nella stoffa ruvida dell'uniforme. «Grazie. Quindi significa che non torcerai un capello a Bryce? Posso stare tranquilla?».

Wain le fece scorrere le dita tra i capelli, come faceva sempre quando erano bambini. «Certo, Altezza. Finché rimarrò all'oscuro su ciò che è accaduto tra voi stanotte, i suoi bei capelli sono al sicuro».

 








 

 

* * * * * * *

 

Ormai approfitto di ogni attimo libero per continuare a scrivere. Spero che la storia vi piaccia! E che dite del banner?

Un bacio da Lizz

 

n.b. i versi appartengono alla canzone Burn dei The Pretty Reckless. Per il flashback iniziale, invece, ho preso vagamente spunto da un rito della cultura russa.

 

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