I ricordi persistenti di un ragazzo~

di Gackt_Agito
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** P rologo___ ***
Capitolo 2: *** ~favola ***
Capitolo 3: *** ~loving you ***
Capitolo 4: *** ~meraviglioso ***
Capitolo 5: *** ~going away from here ***
Capitolo 6: *** ~don't erase, just rewind ***
Capitolo 7: *** ~once upon a time ***
Capitolo 8: *** ~children's happiness ***
Capitolo 9: *** ~ti prego, resta! ***
Capitolo 10: *** ~col passare dei giorni ***
Capitolo 11: *** ~i'm a liar ***
Capitolo 12: *** ~you're my eternity ***
Capitolo 13: *** ~samuel ***



Capitolo 1
*** P rologo___ ***



P refazione______
Tornata dopo tanto tempo, finalmente. Inforco nuovamente i mezzi guanti della scrittrice e sblocco le dita, tornando a pigiare i tasti del pc dal quale mi sono dovuta distaccare per motivi scolastici. Rischio bocciatura, tzè. Allora. Inizio questa nuova fiction, premettendo da subito che non so se e quando potrò continuarla. L'idea mi sembrava graziosa, e quindi eccola qua.
Ah beh. Non ho altro da dire; buona lettura !


P rologo
~inafferrabile



Triste.
Zackarhia era triste. E non me l'aveva mai detto. Lui soffriva, ed io ero là per consolarlo, sempre, ero sempre stato accanto a lui per aiutarlo. Quanto mi faceva male vedere che non si fidava più di me… vedere che non mi cercava. Era distruttivo. Mi lacrimavano gli occhi, sempre. Piangevo perché lui si distruggeva e non ne parlava, urlavo perché soffriva e non si voleva sfogare con me. Con me che ero il suo migliore amico… Però ho detto bene: ero. Forse non lo sono mai stato sul serio; gli ero tanto vicino, ma a parte il consolarlo non sapevo fare altro. Non sono mai stato un buon amico per nessuno, meno che mai per lui. Ero una puttana, e so che questo gli dava fastidio. Ma, oh no, non “puttana” nel senso che me lo facevo mettere nel culo da tutti a pagamento, ovvio; però mi piaceva fare l'amore. Mi era sempre piaciuto. E questa cosa mi ha portato alla distruzione, quando a voler scopare con me non era il solito compagno di classe arrapato: era Zackarhia.

Ricordo bene come accadde quel giorno.
Ero disteso sul letto di camera mia rannicchiato sotto le coperte, per colpa del sonno invernale che coglie un po’ tutti; sì, mi sono sempre reputato un animale e come tale ho sempre affermato che d'inverno dovevo andare in letargo. Ma non è questo il punto; quel giorno bussò alla mia porta.
« Mmh… », era stata la mia risposta al sentire quel suono fastidioso, legnoso, fradicio. « Avanti… »; non l'avessi mai detto: quando si aprì la porta, venne verso di me uno Zackarhia in lacrime, distrutto - come sempre negli ultimi tempi, il viso bagnato e i capelli arruffati, vestito come meno si confaceva ad un ragazzo di diciassette anni: la maglia slargata rivelava buona parte del petto e una spalla, i jeans a vita troppo bassa mostravano i boxer calati e il cappotto di pelo - sicuramente di sua madre - che si lasciò cadere alle spalle aveva un che di sospetto. Aveva gli occhi rossissimi, mi crollò accanto al letto, rimase in ginocchio a guardarmi; scattai seduto ma mi coprii col piumone: ero reduce da una scopata particolarmente soddisfacente e maledettamente stancante, perciò ero nudo. « Zack'? »
« Samuel… », bisbigliò qualcos'altro, ma non compresi. Non subito quantomeno. Allungò una mano verso di me, mi sfiorò il viso e accennò un sorriso molto, molto tirato. « Oh, Samuel ! » e mi abbracciò, stretto, affondando il viso nel mio petto. Sgranando gli occhi gli strinsi le braccia intorno al corpo, tenendomelo vicino.
« Cos'è successo, Zack'? », sussurrai.
« Un altro. », disse. « N’è arrivato un altro che cerca Aune. » Aune era la madre di Zackarhia. Era d’origine finlandese e di cognome faceva Koskinen. Come lo stesso Zackarhia dopotutto. « Non ne posso più di stare in quella casa, se lei continua a lasciarli entrare… »; sua madre gli aveva promesso che avrebbe smesso di fare la puttana. Ma era in uno di quei giri dove, una volta entrato, non potevi più uscire. Zack' lo sapeva, e non poteva farci niente. Oh, anche io lo sapevo. Ma oltre ad accarezzargli i capelli con affetto, cosa potevo fare? « Mi ha cacciato; anche oggi, come sempre, tutti i giorni. Lo fa in continuazione. Quella non è più neanche casa mia. Aiutami, Sam. Aiutami! »
« Stai tranquillo mon cher… » gli sussurrai. Gli piaceva il francese. Sapevo che gli piaceva quando lo chiamavo in quel modo. « …puoi rimanere da me. Tranquillo. » Gli baciai la testa, il viso fra i suoi capelli lisci, neri, puliti e profumati. « Puoi rimanere quanto vuoi. Giorni, mesi, anni… »
« Per sempre? »
« Certo, anche per sempre. », acconsentii. Perché no, infondo? Gli volevo bene, ed era il mio migliore amico. Mi piaceva stare con lui, mi piaceva tanto.
« Per sempre con te? Insieme? »
« C-certo… » non seppi mai con esattezza che cosa intendeva, ma acconsentii ugualmente, perché non importava.
Solo dopo mi accorsi del piccolo errore di calcolo; sentii le sue labbra sulle mie, la sua lingua che le sfiorava e poi la sua presenza che ingombrava la mia bocca. A causa dello stupore di quel gesto tanto anomalo, non riuscii a chiudere neppure occhi. Si alzò, mi spinse disteso e mi salì addosso. In un momento di pausa, riuscii a farfugliare qualcosa come: « Ma che cazz…? », prima di sentire di nuovo la sua bocca sulla mia. Avrei potuto respingerlo, mordergli la lingua e spingerlo, ma non lo feci. Aspettai che finisse.
Quel momento non arrivò dopo tanto; si resse sulle braccia e sulle ginocchia, sopra di me, che ero ancora mezzo nudo. Ansimava per il bacio prolungato; probabilmente non era abituato ai baci del genere. Mi stringeva i polsi con ambo le mani, e stringeva i propri occhi in un'espressione sofferente. Quando riaprì gli occhi, mi guardò come se fosse stato spaventato. « S-Sam… » Si alzò sulle ginocchia e si coprì la bocca con una mano. Era sconvolto. « O-oddio… » Farfugliò, e arrossì violentemente. Riprese a piangere, e mi crollò addosso.
Non c'era malizia in quel che faceva; gli strinsi le braccia intorno al corpo.
« Scusami! » esclamò dopo un po’, riprendendosi. « Non so cosa mi sia preso, davvero, io… io… oh, oddio… »
« Mon cher, calmati… » sussurrai. « Hai bisogno di una bella dormita per calmarti. Ti lascio il letto se vuoi, io posso… »
« NO ! » esclamò subito dopo, quasi urlando, e strinse la presa su di me. « Non lasciarmi proprio niente, io… » si bloccò. Esitò. Respirò a fondo, poi alzò il viso e sfiorò le mie labbra con le sue. « Ti va, Sam? » Mi sussurrò. Il suo respiro e il mio si mescolavano. Era una cosa che mi mandava sulle nuvole, ogni volta. Semplicemente una delizia.
« C-cosa? »
« Di fare l'amore. » Rispose, secco. Spalancai gli occhi. « Lo fai sempre. Lo fai con tutti, Sam, perché con me no? Che cos’ho io di diverso dagli altri? » Mi morse il collo strappandomi un mugolio, e si abbassò del tutto su di me; sentivo il suo membro teso contro il mio, e mi sentii confuso: io.. lo eccitavo?
« Zack', ma cosa… » Mi baciò il collo. Non mi divincolavo, non volevo farlo.
« Voglio fare l'amore con te, Sam. » Riprese. « Lo voglio adesso. Ti prego… » Posò le labbra sul mio collo e vi lasciò il segno rosso di un succhiotto; strinsi i pugni sulle coperte, cercai di non pensarci. « Tu… sei esperto del campo, a differenza mia che sono… beh sì, lo sai no? » Sì, lo sapevo: Zackarhia era vergine. Bello, ricercato, ma vergine. Deglutii. « Però io… », e si alzò sulle braccia, fissandomi. « …m’impegnerò al massimo. La mia prima volta, ecco… » tentennò. Poi riprese. « Vorrei che fosse con te. »
Spalancai gli occhi, rimasi un po’ sorpreso ancora per qualche minuto.
Poi, quando si calò nuovamente su di me… decisi di lasciar correre.
Ma sì. Che male c'era, infondo?





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Capitolo 2
*** ~favola ***



P refazione______
Rieccomi col secondo capitolo! Premetto che lo stile varierà da capitolo a capitolo, non seguirò la fabula tipica delle storie di questo genere ma, al contrario, utilizzerò una struttura ad intreccio, andando a valutare situazioni e avvenimenti che accadono o prima, o dopo rispetto al normale svolgersi della vicenda. Premetto anche che è la prima volta che azzardo una cosa simile; siate clementi, se viene male è normale ! ( credo xD ) Il capitolo sarà corto; non sono riuscita a metterci di più. Spero sia in ogni modo apprezzato!
Buona lettura <3


C apitolo P rimo
~favola



C'erano una volta…
un ragazzino, un bambino e un husky. Il ragazzino abitava all'orfanotrofio, aveva corti capelli neri e occhi di un azzurro cielo meraviglioso, e ogni mattina portava in giro l'husky, per la passeggiatina che gli spettava. Il bambino aveva capelli rossi e lunghi, sembrava una bambina, occhi grandi di un verde prato sorprendente e una spruzzata di lentiggini sul naso e sulle gote. Il bambino osservava sempre dalla finestra della sua stanza il ragazzino e l'husky che passeggiavano, rimaneva con le manine incollate al vetro e il naso schiacciato contro di esso. Desiderava con tutto se stesso poter scendere e parlare con quel ragazzino che, in effetti, non poteva avere più di un anno di più.
Ma c'era un problema; al bambino non era permesso uscire da casa poiché di salute cagionevole. Il suo massimo consisteva nell'andare in giardino, ma non poteva allontanarsi granché dalla porta. Il cancello poi era sempre chiuso, ma le sbarre erano abbastanza larghe da far passare un corpicino minuto; questo fu molto buono poiché, un giorno, il bambino era seduto sulla scalinata sotto il protiro classicheggiante della propria casa, e si vide spuntare un cosino grazioso davanti al naso: l'husky. Il ragazzino, ovviamente, doveva pur riprenderlo no? Ma non potendo entrare dal cancello fu costretto a scavalcarlo a fatica, arrampicandosi lungo l'edera che cresceva sui muretti a fianco. Una volta riuscito nell'impresa, avanzò a passo spedito verso il bambino.
« Scusa, il cane è del mio orfanotrofio… », disse il ragazzino. Il bambino lo guardò sbatacchiando le palpebre, mentre con una mano accarezzava il pelo del cane. Poi sorrise.
« Lo so », rispose. E dando una botta leggera sul busto del cane, lo fece tornare da lui. « Vi guardo sempre dalla finestra », aggiunse subito dopo.
« Oh », disse il ragazzino, arrossendo sotto il ciuffetto di capelli neri che gli copriva appena gli occhi. « Come mai? », domandò poi, inclinando il viso di lato.
« Non lo so », il bambino scosse la testa. « Ma desideravo conoscervi. »
« Davvero? », domandò il ragazzino.
« », rispose il bambino. « Sai, io non ho amici; pensavo che… », e abbassò il viso.
« Sei il figlio dei padroni della villa? », lo interruppe il ragazzino, alzando il viso a guardare il protiro. Accarezzava con la mano libera il cagnolino. Il bambino annuì. « Perché non esci mai? Potremmo passeggiare entrambi con Billie », e gli si allargò un sorrisone sul viso.
« Billie? », domandò il bambino, inclinando il viso di lato.
« Il mio cane », e indicò l'husky. Il bambino fece una smorfia triste.
« Mamma e papà dicono che mi sento male se esco », disse piano.
« Tua mamma e tuo papà sono a casa ora? », domandò il ragazzino. Il bambino scosse la testa. « Bene allora! Scappiamo! », lo afferrò per un braccio e lo aiutò a scavalcare il muretto; corsero via velocemente, con il cane che li seguiva. Il ragazzino rideva contento. « Come ti chiami? »
Il bambino esitò. Lo guardò attentamente, poi sorrise. « Samuel! E tu? »
« Zackarhia! Non te lo dimenticare! »
« Mai! », scapparono, e le loro vite si legarono per sempre.





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Capitolo 3
*** ~loving you ***



P refazione______
Lo so, è da molto che non aggiorno, ma ho avuto un bel pò da fare in giro per il mondo. Non aggiornerò spesso purtroppo e questo mi addolora particolarmente, sì. La storia a me piaceva; pazienza che non abbia granché tempo da dedicarle. Cercherò lo stesso di fare del mio meglio per il futuro. Frattanto, ecco a voi il secondo capitolo; scusatemi se non è tanto lungo.
Buona lettura <3


C apitolo S econdo
~loving you



Samuel era solito fare molte cazzate, sì.
Devo dire che sono sempre state rare le volte che lo vedevo tranquillo seduto da qualche parte, solitamente gongolava, o andava in giro ridendo come un cretino: questo almeno fino a quando non scopò per la prima volta. Dopo quel momento, la sua cazzata ricorrente era sempre la solita: faceva sesso a destra e a manca, e non se ne vergognava. E' vero che mi dava fastidio, questa cosa; so che va in giro a lamentarsi di come non riesca a sopportarlo ma c'è ben poco da fare. Infondo credo che a me sia sempre piaciuto, lui. Non per niente gli chiesi di fare l'amore con me quella volta. Volevo provare la mia prima volta con lui perché, appunto, mi piaceva.
« Ma se io un giorno m’innamorassi di te? » eh sì, un giorno glielo chiesi. Fu in un giorno di pioggia, sotto l'ombrello comune, qualche tempo dopo aver fatto l'amore. Una cosa che ricordo perfettamente di quel momento, fu il suo sguardo stralunato che incontrava il mio, ed il sorriso che misi su per far capire che lo stavo prendendo in giro. « …Sam, ma ti pare possibile? Sto scherzando! » e sghignazzai. Poi proseguimmo e tutto quel che sentii da quel momento fu silenzio: un silenzio tombale e pesante, un silenzio fastidioso e presente, come palpabile. L'argomento non lo affrontammo più… quel giorno, almeno.
« Sicuro che ieri mi prendevi in giro? »
« Cazzo, Sam, certo che sì. » Sbuffai e proseguii, per i corridoi della scuola, con le mani nelle tasche. « Ti pare che potrei innamorarmi di te? Sei il mio migliore amico, mein Gott… » Sì. Una delle cose che mi riescono meglio è mentire, soprattutto in questo modo così maledettamente spudorato.
« Sì, ma rimane che sei venuto da me a chiedere di far l'amore l'altra volta » mi riprese Sam. « E ancora non ho scoperto il perché di quell'atto folle. Quindi è normale che io dubiti, adesso. »
« Sam » mi girai, lo fronteggiai, gli presi le spalle con ambo le mani. « Io non ti amo. Okay? »
« ...okay. »
Ancora non sono riuscito a spiegarmi come mai il suo viso sembrasse così offeso.




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Capitolo 4
*** ~meraviglioso ***



P refazione______
Anche questa volta mi ritrovo a farvi le mie scuse. Ultimamente non ho aggiornato granché cose, ma .. oggi mi sto rifacendo al meglio: e questo capitolo ne è la prova. Alcuni di voi magari lo stavano aspettando, altri no, chi lo sa? Io ve lo propongo. Spero che vi piaccia. Eventuali errori gradirei che me li segnalaste, anche perché ora come ora ho il brutto vizio di non rileggere quel che scrivo ( gomenasai ç.ç ). Basta, vi lascio qui.
Buona lettura <3


C apitolo T erzo
~meraviglioso



« Ti odio. »
Me lo aveva detto davvero. Zackarhia mi aveva detto espressamente che mi odiava. Mi aveva trovato nello sgabuzzino della scuola con Joshua, un suo compagno di classe. Non stavamo facendo niente di male. Ci stavamo soltanto… baciando, ecco. Nascosti, è vero, ma non c'era niente di male. Lo so. Lo so che a Zack non è mai andata giù questa cosa. So bene che il fatto che mi frequentassi con una sequela di ragazzi infinita senza legarmi a nessuno di loro gli desse fastidio. Eppure io non lo sapevo più come dovevo comportarmi. Se ero me stesso, non andavo bene; se fingevo di essere un altro, non andava bene; se ponevo limiti a me stesso, non andava bene. Ma cosa andava bene, allora? Non lo sapevo. Non riuscivo a chiederglielo. Avevo paura, una paura folle, sconfinata. Se solo ci pensavo, tremavo.
Una settimana dopo la sua dichiarazione d'odio, c’incontrammo alla festa di un compagno di classe. Eravamo grandi per giocare al gioco della bottiglia, eppure in quel momento ci costrinsero a farlo. Quando la bottiglia m’indicò, rabbrividii. Obbligo o verità?
« Obbligo » buttai lì, sospirando. Era una cosa tanto normale quanto ricorrente; ero la puttana del gruppo, alla fine mi andava bene qualunque cosa, meno…
« Sette minuti in Paradiso con Zackarhia », sentenziò il mio boia.
Ecco. Era esattamente quello che temevo. Ci alzammo: nessuno osava ribattere alle regole del gioco, altrimenti lo scotto era doppio. E probabilmente né io né Zack volevamo raddoppiare la cosa. Lo guardai per un attimo breve, lui non guardò me. Guardava per terra. Strinsi i pugni e mi diressi nello sgabuzzino più vicino, che più che altro si rivelò essere il bagno. Era davvero minuscolo. Ci spinsero a forza Zack dentro, perché proprio all'ultimo aveva deciso che la cosa non gli andava bene. Mi si gelò il sangue.
« Penitenza doppia! » E ci chiusero la porta del bagno a chiave. Io guardai Zack, lui mi guardò. Lui arrossì e probabilmente lo feci anche io. Guardammo altrove. Abbassai il copri-tavolozza del water e mi ci sedetti: era scomodissimo, ma non protestai. Lui si sedette sul lavandino, ma solo dopo aver tappato il buco della serratura così che nessuno potesse vederci. Erano le regole del gioco, sì. Includeva anche questo. Si voltò verso di me quando io sollevai lo sguardo su di lui un'altra volta. Deglutii.
« Lo pensavi davvero? » Gli chiesi. Era la prima volta che ci parlavamo dopo una settimana. Con quelle parole mi aveva fatto talmente tanto male che non avevo neanche il coraggio di salutarlo la mattina in classe. Mi morsi il labbro inferiore per paura di una sua risposta. Però, felicemente, mi accorsi che scosse la testa, veloce.
« No, non lo pensavo » mi disse. Si allontanò dal lavandino e mi si avvicinò. Si inginocchiò davanti a me, guardandomi. Mi prese le mani e le baciò. « Scusami. Non volevo, Sam… »
« Non fa niente » intervenni, subito. Odiavo sentirlo che si scusava. « Va bene così, davvero » e gli sorrisi. « Mi basta sapere che non lo pensavi realmente. E' tutto a posto », dissi ancora, ma lui continuava a guardarmi così… strano. Sorrise, stringendo appena le mie mani e spostandole ai lati del mio corpo, con le sue mani sulle mie cosce. Mi guardava. Sorrideva.
« Sei… bellissimo, Sam » mi sussurrò, dolce. « Sei… meraviglioso… » si sporse verso di me e mi baciò. Portò le mani sulla cerniera dei miei jeans, che abbassò. Mi aprì i jeans e calò il viso in mezzo alle mie gambe.
Credo che sia inutile spiegare cos'è successo dopo, eh?





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Capitolo 5
*** ~going away from here ***



P refazione______
Aggiornamento lampo: l'idea è buttata giù per come capita. Neanche questa volta l'ho corretta, indi per cui vi sarei grata se mi avvisaste di eventuali errori di grammatica/omissioni/errori di battitura/eccetera eccetera. Probabilmente il fatto che io abbia aggiornato così presto premette un'ennesima pausa fin troppo lunga. Oppure no, chi lo sa? Infondo adesso inizia l'estate e sarò molto più senza impiego di prima. v_v° Detto questo: buona lettura <3 *O*


C apitolo Q uarto
~going away from here



Camminavamo mano nella mano.
Io ero al suo fianco e lui mi stava vicino. Mi stringeva la mano come mai l'aveva stretta: le mie dita erano intrecciate con le sue. Abbassai gli occhi fino a incontrare i suoi, ma non mi guardava. Osservava la gente. E' sempre stato così, Sam: gli piaceva tanto studiare le persone, poi sorridere ed amarle. Le adorava fino in fondo. Gli piaceva come parlavano, quel che dicevano, la loro voce e il loro corpo… se soltanto avesse potuto si sarebbe iniettato qualcuno direttamente in vena, e sempre più dentro; sempre di più e ancora e ancora fino a goderne in maniera impressionante. Sospirai. Non mi piaceva quando non mi osservava. Non se eravamo così vicini, e…
« Zackarhia? » mi sussurrò. Voltai gli occhi verso di lui ancora una volta, lo osservai accennando un sorriso.
« Sì? », gli chiesi. Camminavamo senza una meta. Stavamo tornando da scuola: ma non andavamo da nessuna parte in particolare.
« Quelli dell'istituto non si arrabbieranno con te se farai tardi a tornare? », mi chiese. Fermai il passo e lo osservai incerto. Si era dimenticato che non abitavo più all'orfanotrofio da anni…? Mi osservò. Poi abbassò gli occhi. « Ah, già… vivi con Aune adesso… », sussurrò.
« Sì, Sam… da una decina d'anni », gli ricordai, sottovoce. Lui scosse la testa come per dimenticare qualcosa e riprese a camminare. Io rimasi immobile, persi la presa sulla sua mano e lo osservai mentre andava dritto. « Samuel…? » lo chiamai con calma. Avanzai piano verso di lui, ma non si fermava per aspettarmi. Io mi fermai nuovamente. « SAMUEL! » alzai la voce perché mi sentisse, ma non cambiò niente, continuò a tirare dritto. Abbassando il viso riconobbi la via nella quale mi trovavo; a destra c'era la casa d’Aune, a sinistra l'orfanotrofio, e poco più avanti la casa di Samuel. Sospirai, al notare che il suo era un saluto. Abbassai il viso, mi voltai verso casa mia ed entrai.
Ero giù di corda, non mi piaceva quando Samuel non mi salutava, così mi chiusi in camera e vi rimasi per un po'. Un po' troppo effettivamente, morii sul letto in preda al sonno: passarono un paio d’ore che sentii rumori fastidiosi dalla stanza adiacente. Gemiti, urla, mugolii soffusi e strinsi il cuscino sulle orecchie per rimanere così, senza sentirla… sentirli, anzi. Mia madre e un altro uomo. Anzi, la donna che mi ha adottato e un altro uomo qualsiasi, di quelli che si danno il cambio nella sua stanza senza problemi. Senza pensare che a meno di un metro da loro ci sono io, che sento tutto. Presi il lettore mp3 e mi sparai la musica nelle orecchie ad un volume spaccatimpani, con le cuffie. Non volevo sentire, ma vedevo le immagini che slittavano davanti ai miei occhi come se li stessi vedendo. Strinsi il cuscino fra le braccia e mi scappò una lacrima.
Quando finalmente era finito tutto, mi alzai e barcollando raggiunsi la cucina, per bere qualcosa di fresco. Proprio lì, vi trovai mia madre, seduta con un caffè fra le mani, con l'aria mortalmente stanca. « Aune… » sussurrai alla sua volta. Lei alzò lo sguardo e mi guardò.
« James voleva farlo con te, non con me, oggi », mi disse. Io sbiancai probabilmente. « Ha detto che vuole fottersi la tua verginità prima che qualcun altro fotta te », continuò. Si accese una sigaretta e rimasi a guardarla. « Io non sono una buona madre », riprese, « ma almeno so che cosa non va bene per un ragazzo. Meno che mai se ha la tua età », sospirò, buttando via fumo. « Se James ti prende, finisci nel giro pure tu, Zack. Hai fino a domani pomeriggio per fare le valigie ed andartene. »
« …stai scherzando, vero? »
« No, Zack. Trovati dove stare e non farmelo sapere in alcun modo. Non voglio che quel bastardo prenda anche te. Scusa per la velocità delle cose, ma… » e si ammutolì. Abbassò il viso, e riprese a bere.
« Aune, io non… io voglio vivere con te », esordii. Mi avvicinai a lei e mi sedetti al tavolo prendendo una mano sua fra le mie. « Andiamocene insieme da qui. Cambiamo città, ti va? I soldi li abbiamo, non voglio che… » e ritrasse la mano di scatto.
« Io non posso fuggire! » urlò, « appartengo a quel bastardo! Se scappo, quello mi riprende in qualunque modo in suo possesso » e si alzò in piedi, indicando la porta. « Vattene, Zackarhia Hornines, o ti caccio io con la forza! », tuonò. Sbiancai. E mentre mi alzavo per raggiungere la porta, la vidi crollare sulla sedia e iniziare a piangere silenziosamente.
« ...torno domani a prendere la mia roba, dissi.
Quel giorno stesso andai da Samuel. Casa sua era l'unico posto dove io potevo andare a rifugiarmi in quel momento. Avevo il duplicato delle chiavi di casa sua, quindi entrai di soppiatto e raggiunsi la sua stanza. Lo trovai a letto, disteso, raggomitolato sotto le lenzuola. E io ero fradicio di pioggia perché fuori aveva iniziato a piovere come mai aveva piovuto. Ma pioveva anche dentro di me. E piangevo, ero io a piovere!
Quel giorno Samuel ed io abbiamo fatto l'amore. Gliel'avevo chiesto per favore e lui aveva accettato. Ricordo ancora il suo fiato caldo contro la mia pelle. La sua espressione e il suo calore. Io ricordo ancora come si aggrappava a me e invocava il mio nome: ricordo l'estasi di quel momento che mi è sembrato così speciale. Ricordo tutto di quel giorno, perché lui è presente ogni volta che sorge il sole per ricordarmelo… Sorrido al ripensarci adesso, forse quella volta è stata una benedizione, oppure no? Non lo so. Non lo saprò mai probabilmente, ma… Cristo… se c'è una sola cosa di cui sono sicuro, quella è Samuel: lo amo, come non ho mai amato nessun altro.
Da sempre.





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Capitolo 6
*** ~don't erase, just rewind ***



P refazione______
Avviso importante e molto, molto veloce: ho rivisto i precedenti capitoli e li ho corretti tutti, perciò non dovrebbero esserci più errori, adesso. =] Questo capitolo è stato volontariamente lasciato in anonimo, non è un errore: è per non farvi troppo spoiler per quello che succederà in futuro e spero che non si capisca troppo, anche perché altrimenti non ci sarebbe più gusto a leggerne il seguito, vi pare? Bene, ora.. volevo passare ai ringraziamenti. Innanzitutto, volevo ringraziare RiflessoCondizionato: grazie per i tuoi commenti, mi fa certamente piacere riceverli, anche se non mi fido molto del tuo affermare che io scrivo bene, infondo c’è un abisso che separa il mio stile dal tuo, che reputo sicuramente migliore. Inoltre volevo rigirarti la frase, perché “sapere che la mia fiction piace ad una persona che scrive bene come te mi ha sorpreso e resa contenta”. :] Oltre a questo, volevo lasciare un grazie anche a lightnight, Pandemonium e sunlight che hanno messo la fiction fra i preferiti e alle diciannove persone che la seguono. Tutto questo mi fa arrossire per la contentezza, vi ringrazio tutti dal più profondo di me. Grazie!



C apitolo Q uinto
~don’t erase, just rewind



Avrei voluto staccare la spina molte volte.
Guardarlo lì, così spento e vuoto, causava in me un dolore così forte da farmi venire le lacrime agli occhi. Lui era immobile. Con l’elettrocardiogramma che scandiva i battiti del suo cuore secondo dopo secondo, io non potevo fare altro che rimanere immobile a guardarlo. Lui era così bello anche nel coma. Così silenzioso anche se dentro di lui, sicuramente mi stava ascoltando. Avrei dato la vita per sentire la sua voce rassicurarmi, sorridermi. Avrei dato l’anima per sentire le sue labbra sulle mie per un bacio. Avrei dato qualunque cosa per riavere lui, semplicemente. E piangevo: non potevo fare altro. Dimentico del fatto che il futuro lo stavo vivendo, passavo il tempo piegato su di lui, le braccia conserte e i singhiozzi a scandire il tempo. Tremavo perché non ero riuscito a fare niente per lui nemmeno questa volta.
Avrei voluto essere in un gioco per play station. Sarebbe stato tutto diverso, allora. Avrei potuto spegnere la console e ricominciare da capo il gioco. Avrei potuto non salvare e rifare tutto da capo. Avrei potuto cancellare tutto quello che era appena successo, ma mi rendevo conto che non ero in un fottutissimo gioco, ma nella realtà. Stringevo la sua mano e chiamavo il suo nome, lo invocavo e piangevo. Non potevo fare altro. Già altre volte avevano cercato di portarmi via dal suo giaciglio, spostarmi, ma era stato inutile. C’era voluto solo il cloroformio, per lasciarmi a dormire sulle sedie della sala d’attesa dell’ospedale, e neanche è durata tanto, poiché sono scappato: sì, sono tornato da lui di corsa, spalancando la porta e lanciandomi contro la sua mano per stringerla di nuovo, urlando frasi sconnesse.
« Sono qui! Sono qui: lo giuro! Hanno cercato di portarmi via, ma io sono qui… sono qui, sì, e adesso non me ne andrò più, te lo giuro, lasciami qui con te ancora un po’… Svegliati, ti scongiuro, mi manchi da morire. Svegliati, te ne prego, svegliati… ti prometto che non me ne vado, ti giuro che rimarrò con te per il resto della vita, ma tu non andartene, non morire, te ne prego, rimani vivo… svegliati, ti scongiuro, svegliati.. svegliati… »
E piangevo. L’elettrocardiogramma mi portava in un sonno spaventoso dal quale mi risvegliavo di soprassalto ogni momento. Erano due mesi che andavamo avanti così, neanche i sonniferi potevano niente. Perché io dovevo essere sveglio. Avrei aspettato il momento in cui l’avrei visto riaprire gli occhi, e lo avrei aspettato senza chiudere occhio. Non gli avrei permesso di svegliarsi mentre dormivo, non sarebbe stato giusto, io volevo… volevo soltanto… volevo soltanto lui, lui e basta, lui per tutta la vita. Mi sentivo così stupido, ma non riuscivo a fare nient’altro da quando l’avevo visto in piedi sul muro del ponte sopra il canale. Lo ricordo bene, si era voltato verso di me e mi aveva sorriso dolcemente, per poi lasciarsi scivolare indietro, nell’acqua. Nella caduta aveva urtato un battello, aveva battuto la testa e da allora non aveva più riaperto gli occhi. Ricordo le mie urla, il sorriso che aveva sulle labbra mentre cadeva e il sangue che usciva dalla ferita sulla testa e si disperdeva in acqua. Ricordo tutto perché dopo di lui, in acqua mi ci sono buttato io per riprenderlo. Sembrava così morto, molto più di come lo avevo davanti in quel momento. Spostai gli occhi verso l’elettrocardiogramma e tirai su col naso.
Tremilacinquecentoventidue. Tremilacinquecentoventitre. Tremilacinquecentoventiquattro.
E poi niente, il silenzio. Sgranai gli occhi: saltai in piedi di scatto e mi avvicinai al display dell’aggeggio, che con un “pi” troppo lungo segnava una linea verde prolungata. Iniziai a tremare, quando sentii correre fuori del corridoio, e voci allarmate. Tremai più forte, divisi le labbra fra loro e osservando il suo corpo morto urlai il suo nome così alto e forte da fare vibrare le pareti: lo urlai più volte, così follemente, e mi aggrappai al suo corpo spasmodicamente, invocando il suo nome e chiedendogli di non morire, era troppo presto. Ancora troppo presto…
« NO! NO! SVEGLIATI, TI PREGO, SVEGLIATI! »
Arrivarono i medici e mi separarono da lui a forza. Mi scaraventarono fuori della stanza mentre cercavano di farlo riprendere, di fargli riaprire gli occhi.
« NON MORIRE! NON MORIRE! » Lo urlavo, ero disperato. « NON FATELO MORIRE! NON FATELO MORIRE, VI PREGO, NON FATELO MORIRE! » Piangevo. Automaticamente le lacrime erano tornate a fare capolino sulle mie guance, e i miei occhi dolevano per quante lacrime avevano perso. Tremavo spaventato per quello che sarebbe potuto succedere di lì a pochi secondi, mentre il medico urlava “Libera!” e cercava di far tornare in vita lui, lui.. il mio lui.
Sbattevo i pugni contro la porta che mi separava dal ragazzo, il mio ragazzo, e mi feci male, così male che per un solo attimo pensai di poter archiviare il dolore che provavo al petto. Continuai con le ginocchiate, con tutta l’intenzione di sfondare la porta, ma non riuscii a farlo. Urlavo il suo nome: lo urlavo forte, fortissimo. Aveva sofferto tanto in vita, non poteva morire prima che io potessi riuscire a farlo felice, non… non poteva… era troppo presto per morire, troppo presto! Non poteva finire così, maledizione!
« APRI GLI OCCHI! TI PREGO! SVEGLIATI, VIVI! NON MORIRE, NON MORIRE, NON MO- » e qualcosa mi colpì alla nuca. Riuscii per un pelo a vedere l’infermiera reggermi, prima di perdere del tutto coscienza.
E in un attimo, non sapevo più chi ero, dove ero e che cosa stavo facendo.





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Capitolo 7
*** ~once upon a time ***



P refazione______
Ho come la terrificante idea di dover rivedere la struttura lessicale dei capitoli passati. Mi sono resa conto di aver fatto una sequela d’errori inimmaginabile, e la cosa non è che mi vada molto a genio, quindi il prima possibile li rivedrò e li correggerò. A dire il vero questa è una delle poche fiction che mi sta prendendo, fra quelle che ho scritto io. Se tutto va bene… lo so io cosa me ne faccio. x] Ma vedremo più avanti. Ad ogni modo, temo che la storia stia iniziando a prendere una piega che porta verso la fine, con questo capitolo. Non credo che manchi particolarmente tanto, ormai. Entro la fine dell’estate sicuramente la fiction sarà completa. Continuate a seguirla! Infine volevo rispondere a RiflessoCondizionato - tanto per cambiare, insomma, no? – e allora… No che non ti voglio morta, cara o_o Piuttosto, esponimi un po’ la tua idea, magari non è del tutto sbagliato quel che pensi. E… angst esattamente che vuol dire? ._.’’ Ho cercato di capirlo molte volte ma ancora nisba >.> E di fare ricerche via internet non ne ho voglia u_u Comunque non preoccuparti, credo che aggiornerò abbastanza spesso, quindi anche una o due volte alla settimana.. minimo. Ho altre fiction da mandare avanti – perché sì, sono una terribile masochista e ne inizio tremila che poi so che non porterò a termine x] – ma ciò non m’impedirà di continuare questa. Quindi rilassati pure, non c’è bisogno di appostarsi xD E poi le tue recensioni mi fanno venire una gran voglia di aggiornare al più presto. Detto questo, per il capitolo scorso ti lascerò ancora un po’ sulle spine: non se ne parla minimamente di farti sapere adesso o prossimamente chi e perché è morto. Soffri in silenzio, che tanto lo scoprirai presto. u_u Detto questo, spero il capitolo di seguito ti piaccia. Sarà in anonimo anche questo. Mi dispiace u_u/



C apitolo S esto
~once upon a time



I bambini giocavano spensierati fuori, in giardino.
La palla altalenava fra Josh e Madeline: erano entrambi nipoti, ma non perché figli dei suoi stessi figli, purtroppo. In verità, semplicemente erano i figli dei figli di suo fratello che era ormai morto da anni. Sua moglie Chrissy, con gran gentilezza, aveva deciso di badare a lui. Stare sulla carrozzella era un fastidio immenso: non sentirsi più dalle ginocchia in poi era persino peggio. Probabilmente avrebbe preferito farsele amputare, ma all’idea non aveva pensato mai con gran serietà. Era vecchio e stanco… stanco da tanti, tantissimi anni. E sulla carrozzella da molti di più. Si sentiva in un certo qual modo impedito per fare la maggior parte delle cose basilari di un essere umano. Aspettava soltanto di morire. Quanti anni aveva? Novantatre? Non erano forse abbastanza da sopportare così, in tacita sofferenza? Sì. Erano abbastanza. Poveraccio, non ne poteva davvero più.
In quel momento era lì, con i suoi capelli bianchi e la carrozzina, a guardare i bambini che giocavano nel giardino. Li osservava e lì si rivedeva da bambino, quando giocava con lui a palla. Un sorriso spontaneo gli solcò le labbra, e sorrise stupidamente, con il viso pieno di rughe e le labbra raggrinzite dietro le quali non si nascondevano più i denti bianchi di una volta. Ma quelle, quelle erano le labbra che avevano amato, avevano baciato e morso, erano le labbra più dolci e oscene di tutta la città. Il problema, si diceva, era che avrebbe dovuto perdere la vita insieme con lui, tantissimi anni fa. Avrebbe preferito così, perché sinceramente non ne poteva più. Ci ripensava ogni giorno. Dopo tutti questi anni, lo amava ancora? Ebbene sì, lo amava ancora follemente, e se ne vergognava. Aveva iniziato a credere in Dio nel pregare che non morisse, e adesso ci credeva ancora nella speranza che potesse ucciderlo e portarlo da lui. Ma che razza di Dio implorava? Gli amori di questo genere lui non li promuoveva, no?
Posò le mani con l’artrite sulle gambe. La gamba sinistra tremava come di consueto, ed umettò le labbra screpolate passandoci sopra la lingua. Dondolò un po’ avanti e indietro, fino a quando i bambini non si avvicinarono a lui ridendo e saltellando. « Nonno, non sei stanco ? » aveva chiesto la più grande – quanti anni poteva avere? Dieci? – e il vecchio annuì.
« Sì, Madeline… sono tanto, tanto stanco. »
« Allora vieni nonno: ti porto al letto. » E spinse la carrozzella fino all’interno, svoltando per quei pochi corridoi che c’erano, e lo condusse in camera sua, dove lo aiutò a sedersi sul letto. Arrivò il bambino più piccolo – quanti anni aveva, sette? -, Josh, e si sedette a gambe incrociate per terra come se stesse aspettando qualcosa. « Josh ? » Domandò Madeline. « Che cosa stai facendo? Perché ti sei seduto a terra? »
Il bambino ondeggiò per un po’, infine sorrise all’indirizzo del nonno. « Voglio fare compagnia al nonno prima che si addormenti. »
L’uomo sorrideva. Era seduto sul letto ed esalava sospiri stanchi. Era vecchio oramai, e guardava i propri nipoti con un’espressione dolce… i figli di suo fratello.
« Nonno, ci racconti una storia? Una bella, bellissima storia. » Intervenne Madeline. L’uomo annuì tristemente, con calma. Mugolò qualcosa a mezze labbra ed alzò una mano verso il comodino, indicando qualcosa che vi stava sopra.
« Tesoro, il nonno è stanco... mi passi quell’album di fotografie? »
« Certo » e la bambina obbedì. L’uomo prese a sfogliare con calma disarmante le pagine: le foto dapprima raffiguravano bambini, sempre gli stessi due; poi ragazzi, sempre gli stessi, e infine uno che sembrava un po’ un uomo in carriera e l’altro appena un maturando. L’ultima foto raffigurava gli stessi due che si baciavano, stringendosi l’un l’altro. Al vecchio scappò un sorriso, ed una lacrima scivolò lungo la sua guancia rugosa. Tirò su col naso, forte. « Nonno, va tutto bene? » domandò Madeline.
« Questa che sto per raccontarti è una storia vera, nipotina mia. Ascoltami. » sussurrò il vecchio « Desidero che qualcuno la conosca, prima che io abbandoni questo mondo. E se ti piace, vorrei che un giorno tu la raccontassi ai tuoi figli, e loro ai propri figli e così via per generazioni. Perché finché ci sarà qualcuno a ricordarsi di Samuel e Zackarhia, allora non morirò. E neanche lui morirà. I nostri ricordi vivranno insieme per sempre… »
« Parli di te e di quel ragazzo che amavi in gioventù, nonno? »
« Sì, tesoro. Non ti ho mai raccontato la storia… Ma adesso voglio farlo. Ora ascoltami. »
« Racconta: io ti ascolto. » Poi si voltò verso Josh. « Tu sei troppo piccolo. Vai via, su. »
« Uffa! » Piagnucolò il bambino. Ma, da bravo, prese le sue cose e se n’andò ugualmente. Madeline volse il viso di nuovo verso il nonno, sorridendo. Con un gesto delle mani, lento, lo invitava a parlare. Il vecchio sorrise appena.
« Questa storia inizia come le favole, tesoro mio… » e respirò lentamente, come se gli facesse male.
La bimba annuì, silenziosa.
« Inizia con un C’erano una volta… un ragazzino, un bambino ed un husky. »
E le raccontò la storia della propria vita.






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Capitolo 8
*** ~children's happiness ***



P refazione______
Per la prima volta in vita mia mi sono commossa per i commenti. Grazie a voi che mi commentate, mi rendete una piccola scrittrice in erba felice. Davvero. Questo è un altro capitolo in anonimo. Inizia a piacermi scriverli. Mi dispiace se creerò altra confusione. Ho cambiato idea circa la fine di questo racconto: credo che la farò più lunga di quel che pensavo inizialmente. Perché se tutto va bene, appena la termino la lascio on-line per davvero poco tempo. Il fatto è che vorrei formattarla per bene e mandarla al Gruppo Albatros, che ogni due mesi seleziona delle storie da pubblicare per aiutare i neoscrittori. Dato che è un mio piccolo sogno, credo che lo farò. Voi che ne pensate? Ne vale la pena? Trasformare quest’apparente fiction in un piccolo libro, o almeno tentare la sorte proponendolo ad un editore? Fatemi sapere, perché una cosa che non riesco a decidere da sola. Ah, ho corretto il primo capitolo della storia: presto correggerò anche gli altri. Chiedo scusa per quel piccolo disagio. E mi dispiace che nessuno si sia accorto del falso errore che ho fatto nel capitolo precedente, quando il narratore non è un “nonno”, ma effettivamente è un “prozio”. Lo spiego ora brevemente: i bambini non hanno più un nonno, e siccome vivono con il fratello del loro defunto parente, si sono abituati a chiamare lui così. Chiusa questa piccola parentesi così che non sorgano dubbi e perplessità a riguardo, vi lascio alla lettura di questo nuovo capitolo. Arigatou gozaimasu!



C apitolo S ettimo
~children's happiness



Il viaggio in Inghilterra mi aveva distrutto.
Il lavoro che facevo non mi aveva mai soddisfatto, e andare ad esercitarlo in un altro stato non aveva cambiato esattamente niente. Perciò mi sono licenziato e ho iniziato a vivere a scrocco: mio fratello, il mio caro, buon fratello, aveva sempre detto che ospitarmi era un piacere. Poveretto, non sapeva che sarei rimasto a scroccargli alloggio per tutta la vita: ne ha pagate le conseguenze fino a quando non è morto. Avevano detto che fosse infarto, ma io sapevo bene delle pillole che mio fratello ingoiava giornalmente. Non per niente dopo la sua morte sua moglie è stata più che lieta di tenere me in casa. Diceva che ero tanto diverso e tanto buono. Con gli anni, quella buona donna mi confessò di essersi innamorata di me. Quanto male le feci quando, in un barlume di lucidità, mi ricordai quel volto sorridente che avevo amato per anni senza accorgermene! Probabilmente fu in quel momento che lo capii davvero. Lo ricordo bene quel giorno: si era appena confessata e io sono scoppiato in lacrime. Ero vecchio e stanco, ricordo che le chiesi di lasciarmi solo e lei lo fece. Fu quel giorno che trovai quel vecchio album che custodiva le fotografie che mi avevano tenuto compagnia per tanto tempo dopo la sua morte. Fu quando iniziai a sfogliare le pagine che io mi resi conto di quanto veramente avevo amato in tutto quel tempo… di quanto era andato perso… di quanto male mi ero fatto da solo illudendomi di poter vivere senza. Senza di lui? Vivere senza di lui? Come avevo fatto in tutti quegli anni a non sentirne la mancanza?
Quel giorno fu quello stesso che mi costrinse sulla sedia a rotelle. Uscii di casa di corsa, perché volevo andare a prendere il treno per andare al cimitero. Al cimitero dove era sepolto lui, volevo rimanere sulla sua tomba fino a quando le forze non mi avessero abbandonato. Fossero stati altri tempi, se mi fossi accorto prima di tutto quanto, mi sarei direttamente chiuso nella tomba con lui come Quasimodo con Esmeralda in Notredame de Paris. Tanto ero preso, con la foto di noi due in mano, che attraversando la strada, banalmente mi dimenticai di guardare. Una macchina mi ha sfracellato le gambe all’impatto, rovesciandomi le ginocchia. Non ricordo il dolore lancinante in quel momento, poiché ai miei occhi comparve il suo viso sorridente, il suo corpo che mi tendeva la mano.
Quel giorno fui così felice…

Quella foto non la recuperai più. La pioggia e l’asfalto se la mangiarono, ma ricordo ancora bene cosa vi era rappresentato sopra: io e lui avvolti nella coperta comune della casa sull’albero dove andavamo per rifugiarci quando ci cercavano, quando uno dei due doveva andare via. Quasi d’istinto, col sottofondo della sirena dell’ambulanza che avanzava imperterrita per venirmi a soccorrere, io iniziai a sentire qualcosa: un dolce tepore, ed era come se fossi tornato indietro nel tempo, come se stessi vivendo di nuovo quel momento. Sentivo il calore del suo corpo così vicino che mi cullava, mi riscaldava. I suoi baci sulla fronte e il suo lieve sussurrare. Il suo dolce, dolcissimo respiro sulla mia pelle, e la sua canzone della buonanotte che mi trasportava direttamente dalle sue braccia a quelle di Morfeo.
La felicità che provi da bambino è qualcosa che non ti dimentichi mai facilmente.






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Capitolo 9
*** ~ti prego, resta! ***



P refazione______
Aggiornamento! :D Ho scritto questo capitolo questa notte, ma non avevo la benché minima voglia di aggiungerlo. xD Ora però è fatto. E’ qui. Spero vi piaccia, e spero che continuerete a seguirmi. Smetterò per un po’ con l’anonimato, credo. Penso proprio che sarà meglio così, magari piace di più. Non lo so. In ogni caso, per una volta vi presento un capitolo un po’ più lungo degli altri. Preparatevi i fazzoletti però, perché se quelli scorsi sono stati tristi, questo capitolo probabilmente lo sarà di più. Oppure non so. Grazie, RiflessoCondizionato, per le tue parole. Inizio a protendere sempre di più per il proporre questa storia ad un editore, e lo farò non appena finirò la fiction. Quando avrà abbastanza capitoli da formare qualcosa di consistente, tirerò fuori tutto il mio coraggio e scriverò al Gruppo Albatros. Auguratemi in bocca al lupo, e mi raccomando, continuate a seguirmi! *-* Arigatou gozaimasu!



C apitolo O ttavo
~ti prego, resta!



Samuel sarebbe partito.
Quando me lo disse, ci rimasi davvero di stucco. Aggiunse che gli dispiaceva e che i suoi genitori non ammettevano repliche. Si sarebbero trasferiti a Bristol, in Inghilterra, e io sarei rimasto a Berlino, dove ero nato e cresciuto. Ricordo perfettamente quando me lo disse: era seduto sull’altalena di fianco a quella sulla quale ero seduto io. Dondolava appena, fissava per terra e i capelli gli coprivano la visuale del viso e tutto il resto. « Zack’ », mi chiamò. Io mi voltai verso di lui, succhiando il ghiacciolo che mi ero comprato qualche momento prima. Si, sono sempre stato un gran goloso, ma d’estate ci vuole sempre. Anche lui aveva comprato un gelato, solo che ormai ne rimaneva solo il bastoncino, che teneva fra i denti giocandoci. « Ci conosciamo da tantissimo tempo… sei sempre stato il mio più grande amico, ci sei sempre stato in ogni circostanza. » Sussurrò. Sollevò il viso e mi guardò, dischiudendo appena le labbra: il suo viso assunse un’espressione triste che mi chiuse il cuore, me lo strinse in una morsa dolorosissima. « Mi mancherai tantissimo quando non sarò più qui, Zack’… » aveva aggiunto, dopo.
« Cosa? » Domandai, perplesso. « Perché, dove devi andare? » Aggiunsi, allarmato.
« Zack’… » Si morse forte il labbro inferiore. Tirò su col naso, poi abbassò il viso. « La mia famiglia si trasferisce a Bristol… anche io, quindi. » Strinse le catene dell’altalena così tanto che le nocche gli diventarono bianche. Quando lasciò andare le catene, il colore rossastro della ruggine gli aveva macchiato le mani. E io, dallo shock probabilmente, lasciai scivolare per terra il mio gelato, sulla ghiaia che avevo sotto i piedi. Rimasi a guardarlo per un po’. « Mia madre voleva portare anche te, visto che ormai vivi con noi… » Continuò, piano. « Però sai… è ancora Aune la tua tutrice. Papà dice che è meglio se torni da lei, perché non sa che cosa c’è lì. Lui non sa la situazione. Io, tu e mamma però sì. Ma nessuno glielo vuole dire. Papà è così pieno di pregiudizi… Pur conoscendoti, sapendo che sei figlio di Aune – adottivo, sì, ma lui questo dettaglio lo ignora – vorrebbe ancor meno portarti con noi. » Iniziò a strisciare i piedi per terra con forza, voltando appena gli occhi verso di me. Lo guardavo. Non so che faccia avessi messo su in quel momento, ma dall’espressione che fece Samuel doveva essere davvero terribile.
« Te ne vai », realizzai piano. « Tu… tu te ne vai. » Ripetei. Spostai lo sguardo da lui alla ghiaia, sconvolto. « …tu mi lasci qui da solo? » Domandai, poi. Iniziai a tremare. Non avevo nessuno oltre Samuel: avevo soltanto me stesso. Non avevo una famiglia, una casa o anche amici, solo una valanga di conoscenti di cui io non riuscivo a fidarmi e che non si fidavano di me. Il mio mondo personale, che avevo costruito con così tanta attenzione in diciotto anni di vita consumata tristemente e portata oltre i limiti per renderla decente, si distrusse nel giro di pochi secondi. Lasciai andare le catene dell’altalena e continuai a fissare per terra. « Tu te ne vai. Tu mi lasci da solo. Te ne vai. » Continuai a ripeterlo con calma. Con la coda dell’occhio lo vidi muoversi, lo vidi mimare delle parole ma io non riuscii a sentirlo. Non provavo semplicemente niente, sentivo solo qualcosa nel mio petto che con calma iniziava a rompersi. « Tu… via. Io… » Iniziai a balbettare. « Tu… T- tu a Bristol… e… e i- io… e io a Berlino… »
« Zack’… » La sua voce arrivò ovattata alle mie orecchie. Non mi mossi minimamente. Nel giro di pochi secondi lo ritrovai a pochi centimetri dal mio volto, inginocchiato davanti a me. « Zackarhia, tu sei sempre stato il mio più grande amico, la mia vera famiglia, la mia casa, il mio rifugio, le braccia sicure che mi coccolavano e probabilmente la persona che in questo mondo mi ha amato di più fra tutte. Questa è una delle due cose di cui sono più certo in questa mia stramaledettissima vita. » Alzò le mani verso il mio viso, che prese ad accarezzare tanto dolcemente. « Tu lo sai qual è l’unica altra cosa di cui sono assolutamente certo? » Domandò, e avvicinò lievemente il viso al mio, ancora un po’. « L’unica altra cosa, Zack’, è che su questa terra nessuno ti amerà mai quanto ti amo io. E forse è una cosa un po’ stupida, perché a parte me tu non hai mai avuto uno straccio di persona che ti abbia mai amato per davvero. Io però basto e avanzo. Non te l’ho mai detto, Zack’, ma io ti amo. Ti amo. » E vidi le lacrime scivolare giù lungo il suo viso. « E’ una cosa distruttiva anche per me lasciarti qui. Sai che non vorrei, sai quanto amo stare con te. Credo di averti sempre amato e non averlo mai capito abbastanza infondo, credo che questo stupido cuore abbia sempre e solo battuto per te. Sono stato sicuro per anni che tu non mi volevi perché mi consideravi solo un amico, ma io lo so che non è così. Mi hai dimostrato tutti i giorni della tua vita che per te io sono speciale: quando sei venuto a casa mia piangendo e abbiamo fatto l’amore, ogni mattina con le tue parole dolci al mio risveglio, ogni volta che mi hai protetto, ogni volta che mi hai stretto la mano o mi hai abbracciato, tenendomi al tuo petto. Ogni giorno, Zack’, ogni stramaledettissimo giorno della tua vita non hai fatto altro che dimostrarmi quanto valgo effettivamente per te. Ti ricordi quando eravamo piccoli, il giorno in cui hai dato fondo alla tua paghetta mensile per comprarmi tutte quelle caramelle pur sapendo che mia madre non voleva che le mangiassi? Le notti passate alla casa sull’albero, con la neve fuori e solo io con tutta la coperta perché tu non volevi che prendessi freddo? Con la tua gelosia costante, col tuo arrabbiarti, con quel ti odio quel giorno in cui mi hai beccato con quel ragazzo nello stanzino della scuola… Anche con quello mi hai detto cosa provavi. E me ne sono accorto spesso, sai, Zack’? Hai sempre cercato di fare parte del mio mondo, del mio giornaliero ma non ne hai mai avuto motivo. Perché tu eri e sei sempre stato il mio mondo, tutto il mio mondo! Tu sei parte del mio giorno, tu sei tutto quello che ho sempre desiderato. Sei le ventiquattro ore che compongono il dì, ma non sei routine. Non sarai mai una routine. Io sono sempre stato cieco, ho sempre equivocato tutto e col tempo ho deciso che avrei smesso di amarti. Alla fine credevo di esserci riuscito, ed è così, ma quando mi sono accorto che tu provavi lo stesso è cambiato tutto. » Piangeva. Ormai Samuel aveva iniziato a piangere e il dolore che provai in quel momento era così forte… lo volevo fare di nuovo. Volevo afferrarlo e stringerlo a me, dirgli di non piangere, dirgli di restare con me, ma non mi mossi. « Quando i miei mi hanno detto del trasferimento sono morto dentro. Non volevo, e non voglio neanche adesso. Mi opporrò a loro, se tu ora mi dirai che mi ami, Zack’. »
Se tu mi dirai che mi ami.
No. Non dissi nulla. Continuai a guardare il suo viso in lacrime, sentendo il calore delle sue mani sulle guance, e si sporse verso di me per baciarmi: un qualcosa di dolce, di momentaneo, che finì con un sussurro lieve. « Dimmi che mi ami ora, Zackarhia. »
Il problema era che io non sapevo più che cosa volevo. Automaticamente nella mia testa si attivò un processo autodistruttivo: smisi di respirare e iniziai a pensare con tutta la forza che avevo nel corpo. Lui era davanti a me e m’amava. Avrei potuto averlo tutto per me. Perché lui si sarebbe opposto ai suoi genitori, solo per me, per stare con me ed amarmi. Sarei potuto stare vicino a lui per tutta la vita se avessi voluto, oppure… ero solo io che pensavo e speravo? Pensai che se gli avessi detto che l’amavo avrebbe litigato con i suoi genitori. Pensai che l’avrebbero portato via con la forza e iniziai a sentirmi male sin da quel momento. Cosa volevo? Cosa volevo? Cosa volevo? Non riuscivo in alcun modo a trovare una risposta, perciò rimasi a guardare il suo viso a pochi centimetri dal mio. Deglutii. Lui aspettava soltanto che io dicessi qualcosa. Volevo rovinargli la vita ed essere egoista?
La mia testa rispose più forte del mio cuore, e disse: NO!
« Samuel… » Gli sussurrai. « Io… io… » Balbettai, abbassai lo sguardo con calma. E le parole che tirai fuori un attimo dopo, causarono in lui ulteriori lacrime, tremore, e scappò via senza emettere più alcun suono. Lo uccisi perché avevo deciso di fare per lui la cosa migliore. Lo avrei lasciato andare via da me per renderlo più felice, trovarsi un futuro là dove i suoi volevano che lui lo trovasse. Iniziai a dirmi che mi avrebbe dimenticato presto, a rassicurarmi pensando che anche io lo avrei sicuramente dimenticato… solo, ci sarebbe voluto del tempo per entrambi. Era normale, avremmo sofferto un po’ entrambi ma alla fine saremmo stati felici sicuramente. Sì. Sorrisi stupidamente fra me e me.
Iniziai a ridere. Dondolai sull’altalena con forza, arrivai in alto e tesi le braccia verso il cielo, dove per un solo momento vidi il suo volto sorridente. Al dondolio successivo mi lanciai verso il sole, tendendo una mano, urlando il suo nome mentre le lacrime automaticamente scendevano di nuovo lungo il mio volto, questa volta disperdendosi nell’aria con così tanta calma da essere pure peggio.
« Samuel… Io… Io… Io non ti amo… »
Come mi era venuto in mente di dire una così grande stupidaggine?






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Capitolo 10
*** ~col passare dei giorni ***



P refazione______
Ennesimo aggiornamento: andrò spedita, è bene che lo sappiate! =P Mai ho voluto continuare a scrivere una storia con una frequenza del genere. Ma lo avevo detto, con l’arrivo dell’estate sarebbe cambiato tutto, ed ecco qui che lo dimostro! Ora, ecco una grandissima rivelazione: la fiction avrà diciassette capitoli, epilogo e prologo esclusi! Quindi mi smentisco un’altra volta. La fiction, ve lo dico ora anche questo, finirà entro il due luglio. Volete sapere anche perché, magari? Semplicissimo: quel giorno scade il concorso bimestrale del Gruppo Albatros in voga per ora. E se perdessi altro tempo avrei dei ripensamenti, e non voglio affatto! Per i capitoli, se sarete fortunati saranno un po’ di più. Dipenderà dal tempo a mia disposizione, anche perché ho già scritto quelli finali. Potrei terminarla da un momento all’altro quindi! xD Ciò non significa di certo che perderanno di significato: tutt’altro. Con questo capitolo il salto indietro nel tempo si fa molto, molto più evidente. Spero vi piaccia!
Arigatou gozaimasu!



C apitolo N ono
~col passare dei giorni



« Zackarhia, che cosa stai facendo?! »
Il bambino stava rubando dei soldi dai cassetti del padre. Si staccò dal mobile e si buttò indietro, indietreggiando veloce fino a sbattere la schiena contro il muro. Guardava l’uomo con terrore, dalla sua mole immensa quello incombeva e spaventava. Zackarhia non poteva fare altro che tremare, schiacciandosi sempre un po’ più contro il muro alle sue spalle. « Io… io non volevo… io… » Balbettava: aveva soltanto nove anni, e nella famiglia che l’aveva appena adottato non riusciva ad ambientarsi bene. « Io… volevo solo… qualche moneta… »
« Volevi comprare qualcosa per te? » Domandò l’uomo, avvicinandosi con passo calmo a lui. Allungò una mano verso il viso del bambino, che chiuse gli occhi e strinse le palpebre le une fra le altre con forza, sull’orlo delle lacrime. « Piccolo, se vuoi qualcosa basta che tu me lo dica, okay? Non dirò niente ad Aune. Sai come si arrabbierebbe, altrimenti… » Una carezza sulla gota del bimbo, che spalancò gli occhi e osservò il padre adottivo come se fosse un miraggio. Pian pianino sulle sue labbra si creò un piccolo sorriso, tutto per l’uomo davanti a me. « Impara, tesoro: non si ruba. Neanche a papà. A papà si chiedono i soldi, perché papà te li dà tranquillamente se gli dici a che cosa ti servono. » Gli scompigliò dolcemente i capelli, sedendosi sul letto a fianco al ragazzino. Inclinò il viso un po’ di lato, lo osservò e aspettò qualcosa. Il bambino lo osservava di rimando. Nessuno dei due mosse un muscolo finché l’uomo non riprese uso della parola: « Quindi, che cosa volevi comprare? »
Zackarhia esitò un po’. « Volevo comprare le caramelle a Samuel. » Confessò. « La paghetta l’ho spesa tutta per comprargli il trenino che gli piaceva tanto. Suo padre non gli compra mai nulla. Tutto quello che ha Samuel in camera, l’ha grazie a me. » Aggiunse, velocemente. Guardò l’uomo e poi abbassò lentamente la testa, fino ad osservare per terra senza avere il coraggio di dire nient’altro.
« Vuoi davvero bene al tuo amico, eh? » Domandò l’uomo. Dopodiché si mise una mano in tasca ed estrasse il portafoglio. Svuotò il portamonete sulla propria mano e lasciò cadere l’agglomerato tintinnante su quella del bambino. « Ecco, con questi potrai comprargli tutte le caramelle che vorrai. Attento a non fargli venire il mal di pancia, però, mh? » Gli scompigliò un’altra volta i capelli, dolcemente. Il bambino osservò i soldi sulla propria mano con un’espressione stupita: le labbra aperte formavano una piccola “o”, gli occhi spalancati erano fissi sulle monetine disordinatamente disposte sulla sua mano. Poi sorrise più apertamente, infilò le monete in tasca e poi, con un breve salto, allacciò le braccia intorno al collo dell’uomo, che lo strinse ridendo.
« Grazie papà! »

« Zackarhia, vuoi svegliarti? Devi andare a scuola! »
Trascorsero anni da quel giorno. Zackarhia viveva soltanto con Aune, la quale era rimasta vedova. Bartholomäus Lauridsen era morto in un incidente stradale qualche mese dopo aver adottato il ragazzino. Da quel momento per madre e figlio iniziarono i veri problemi: economici, prima di tutto. Bartholomäus era l’unico che portava a casa i soldi, col suo lavoro che svolgeva con arguzia e volontà. Erano riusciti persino a mettere da parte un po’ di soldi per creare il piccolo salvadanaio di Zackarhia, che avrebbe dovuto aprire soltanto una volta raggiunta la maggiore età, e n’avrebbe fatto quel che voleva. Non sarebbero stati tanti, ma almeno erano qualcosa. Invece, finì che quei soldi li utilizzarono per sopravvivere e, poiché insufficienti, Aune iniziò a slittare da un lavoro all’altro: fece la commessa in un bar, la postina, l’impiegata in un centro commerciale; le mancava davvero poco che con tutta probabilità avrebbe iniziato a fare la fruttivendola. Alla fine, forse perché era maledettamente bella, fu avvicinata da un uomo che vendeva donne. Si chiamava James, e la portò nel giro peggiore di Berlino. Battere le strade divenne un’abitudine ed una costrizione: era qualcosa dalla quale non poteva salvarsi. Tutte le mattine presto, quando la madre rincasava, Zackarhia la sentiva piangere in camera sua. Soltanto un giorno ebbe l’accortezza di spiarla dalla porta socchiusa: abbracciava la camicia preferita di Bartholomäus, respirandone quei residui d’odore che ancora la impregnavano. Quel giorno pianse anche Zackarhia, che a differenza si rifugiò in camera sua, con la foto del padre adottivo fra le braccia. In quei pochi mesi che era stato con lui, aveva stretto un rapporto così forte da fargli credere che quello fosse davvero suo padre.
Zackarhia aprì gli occhi con lentezza, osservando Aune. « …non è domenica? »
« No, tesoro, è lunedì. Ieri era domenica. Alzati, coraggio. Non vuoi fare colazione con Bartholomäus prima di andare a scuola? E’ di là che ci aspetta, andiamo… » e Aune lasciò la stanza, abbandonando uno Zack’ sconvolto fra le coperte. Si lasciò cadere di nuovo disteso, sospirando e stringendo gli occhi. Non appena si avvicinava l’anniversario di morte dell’uomo, Aune iniziava a comportarsi sempre in modo strano. Mancavano due giorni, in quel momento. Zackarhia si alzò con calma, ed era già sicuro di quello che avrebbe visto nell’altra stanza, nella cucina. Deglutì, indossò un paio di pantaloni rimanendo a petto nudo ed uscì. Osservò la tavola imbandita per tre. Sgranò gli occhi e iniziò a tremare. Aune, sorridente, stava mettendo del latte sui suoi cereali. « E’ andato un momento al bagno. Ora tuo padre torna, non ti preoccupare. Nel frattempo inizia pure a mangiare… » Ed annuì, sicura. « Cereali al cioccolato. I tuoi preferiti, giusto? Anche a Bartholomäus piacciono tanto. Oh… » E si voltò un momento verso la porta del bagno. « Mi sta chiamando. Un momento, tesoro. »
« Aune… » Zackarhia si apprestò ad andare dietro alla donna, afferrandole il polso.
« Caro, tuo padre mi ha chiamato, devo… »
« Aune, papà è morto! » Nello stesso momento in cui lo disse, iniziò a piangere. Dirlo gli costava sempre tanto, e a lei costava sentirlo, ogni anno. Anniversario dopo anniversario. L’espressione della donna si fece per un attimo vuota, poi iniziò a piangere.
« Non dirlo! NON DIRLO! » Iniziò a dibattersi, tirando via il braccio, muovendosi come un pesce fuori dell’acqua. « Bartholomäus, tesoro! Amore! Amore, diglielo tu! Amore, per favore, amore! » Si dibatté di più. « BARTHOLOMAUS, TI PREGO! »
A Zackarhia sembrò di star rivivendo il momento in cui suo padre morì. Aune si era buttata sulla strada, sul corpo dell’uomo che già non respirava più. Zackarhia, abbandonato sul marciapiede, osservava. Quel giorno i giornali che pubblicarono un articolo in proposito, furono tantissimi. Tutti quegli stessi articoli erano gelosamente custoditi in una piccola cassetta che Zackarhia aveva tenuto per sé, la nascondeva sotto il letto insieme alle pillole che il padre era costretto a prendere. Pillole contro il colesterolo. Ormai erano scadute da un pezzo, ma il ragazzo le custodiva ancora gelosamente, soprattutto perché la madre ogni anno le ricomprava col pretesto che a suo marito erano finite. Era una situazione di stallo da cui non si riusciva ad uscire mai.
Il ragazzo strinse ulteriormente il polso della donna. Erano entrambi in lacrime e si guardavano. « Per favore, Aune. » L’aveva implorata. « Smettiamola di farci del male. E’ morto, e lo sai. Non può tornare. Smettiamola di farci del male. » Con uno strattone l’avvicinò a sé e l’abbracciò. Aune era sempre stata più bassa di lui. Lei gli si strinse addosso, singhiozzando. Pian piano, scivolarono entrambi seduti per terra, in una morsa dolce e confortevole più del solito, dove il ragazzo faceva le veci dell’uomo di casa. « Smettiamola di farci del male… mamma. »
Era la prima volta che Zackarhia chiamava così la donna. Quella sgranò gli occhi e lo osservò. Sorrise, lo baciò e tornò ad abbracciarlo, a reggersi a lui come se fosse la sua unica ragione di vita. Gli si strinse addosso dolcemente, e lo amò. Lo amò smisuratamente. Sapeva che sarebbe stato qualcosa di poco duraturo, perché, una volta terminate le lacrime, sarebbe tornata la situazione di sempre nella quale lei era il lupo cattivo, la donna scostante che era sempre stata. Il problema stava nel fatto che Aune era pur sempre una donna, o meglio, un essere umano. E come ogni essere umano aveva i suoi punti deboli e le sue ferite: aveva perso l’uomo della sua vita, e stringendo il busto del figlio adottivo che l’abbracciava, sussurrò parole dolci che Zackarhia udì per la prima ed ultima volta in tutta la sua vita.
« Presto troverai qualcuno da amare e che ti ami, tesoro mio… fa in modo di non perderlo mai… se perderai quel qualcuno, non lo dimenticherai mai, né sarai dimenticato. Ti prego, figlio mio, sii felice almeno tu. » E chiudendo gli occhi, si lasciò andare al suo tenero calore.
Purtroppo, Zackarhia dimenticò quelle parole così profonde col passare dei giorni.






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Capitolo 11
*** ~i'm a liar ***






C apitolo D ecimo
~i'm a liar



Sono sempre stato un grandissimo bugiardo.
Ho mentito a me stesso, ho mentito a lui, ho mentito a tutti quelli che ho conosciuto. E ho sempre detto la stessa cosa, la stessa bugia. La cosa tragica di tutto quel continuo mentire è che alla fine iniziai a crederci davvero, a quella bugia. Me n’accorsi davvero quando, disteso sul letto dell’ospedale, rievocai tutti i ricordi che lo comprendevano. Chrissy mi aveva portato alcune cose, compreso l’album di fotografie. Lo collocò con un leggio particolare su di me, ne sfogliava le pagine e io le raccontavo la storia d’ogni foto, piangendo.
« Lo amavi? » Mi chiese a tradimento, dopo un po’. Il suo viso era atono e le rughe le solcavano la fronte e la pelle intorno alle labbra. Vecchio io e vecchia lei. La bellezza che l’aveva contraddistinta in passato era come se non esistesse più. Ma anche gli avvenimenti avevano fatto il loro corso sulla sua pelle.
Volsi gli occhi verso di lei e la osservai. Tirai le labbra in un sorriso triste e l’ennesima lacrima lasciò il segno sulla mia pelle. « No. » Risposi.
Lei mi osservò di sbieco. « Perché piangi, allora? »
Volsi il capo verso un altro lato, sollevai a fatica un braccio e mi coprii gli occhi con quello: non volevo che mi vedesse in quello stato, perché le emozioni erano lì, e premevano per uscire, mi urlavano contro di dire la verità, finalmente, di ammettere quale fosse effettivamente il problema che mi portavo nel cuore.
« NON E’ VERO CHE NON L’HO MAI AMATO! » Urlai. « Lo amavo con tutto me stesso! Lo amavo! E ho sempre detto a tutti di no, anche a me stesso, e sono un idiota! Lo amavo, Chrissy, e l’amo ancora adesso! Lo amo come non ho mai amato me stesso! Io lo amo! Lo amo! Lo amo! »
« Smettila di urlare e smettila di ripeterlo! Non fare il bambino, non ha senso piangere sul latte versato. Va’ a dirglielo, piuttosto. » Mi suggerì.
Spalancai gli occhi e osservai il soffitto, spostando il braccio. Non avevo mai detto che era morto, quindi le sue parole mi colpirono alla sprovvista. Non ricordo che cosa pensai in quel momento, ma la voglia di abbracciarlo s’impossessò di me come non aveva mai fatto. Lo volevo baciare, stringere a me. Scoppiai a ridere, con gli occhi ancora pieni di lacrime ed iniziai a dibattermi dal lettino sul quale ero: le gambe facevano un male dannato, ingessate tutte e due, e non le sentivo tranne che dall’inizio, sopra il ginocchio, fino a metà coscia. Da sotto quel punto in poi, nulla.
« FAMMI ALZARE! »
« Non intendevo adesso! Stai giù! Stai giù! » E mi tenette per le spalle sul letto. « Se anche ti lasciassi alzarti non potresti camminare! L’hai sentito il dottore, no? Rimarrai sulla sedia a rotelle per tutta la vita. »
« NON M’IMPORTA! FAMMI ALZARE! »
Continuai a dibattermi continuamente. Volevo andare al cimitero, volevo completare quello per cui avevo perso le gambe. Volevo andare al cimitero. Dovevo vedere la sua tomba dopo tanti anni, volevo morire sul terriccio che mi separava dal suo corpo ormai perduto e volevo chiedergli scusa per tutto, per tutte le menzogne a me stesso, per avere dimenticato per anni della sua esistenza e aver represso tutto quello che per tanto tempo aveva avuto un senso. Volevo chiedergli scusa per aver inconsciamente amato la vita senza di lui, per essermi sentito più leggero dopo la sua morte, per aver dimenticato che senso aveva la vita con lui.
E tutto un tratto, quando tutto quello entrò nella mia testa, mi resi conto che per tutto quel tempo altro non ero stato che uno zombie. Davvero avevo vissuto, o era tutta una patetica messa in scena da me stesso? Avevo vissuto? Tutti i giorni, tutti i giorni… Avevo vissuto? No, quello non era vivere: era lasciare passivamente che la vita mi scivolasse addosso. Era attesa, una lunga e straziante attesa che mi rendeva le giornate vuote. Per anni mi sono chiesto com’è che non riuscissi ad innamorarmi di nessuno, per anni guardavo le coppiette lontane da me e mi chiedevo stupidamente perché anche io non ero come loro: felice.
Con quale coraggio avrei potuto vivere felice senza di lui?
Per calmarmi, dovettero fare uso del cloroformio: era la seconda volta che succedeva, in tutta la mia vita. E mi spensi: chiusi gli occhi lentamente fino a non sapere più nulla.
Ma fu uno dei più bei sogni della mia vita, perché lo vidi ancora una volta. La sua mano tesa verso di me e il suo sorriso dolce, mentre mi chiamava, ed io chiamavo lui. Tesi le braccia e gli corsi incontro, quando lui fece lo stesso nei miei confronti. Urlai il suo nome e lui mi chiamò nel medesimo modo.
« Samuel… »
Non c’erano parole: ero felice.






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Capitolo 12
*** ~you're my eternity ***






C apitolo U ndicesimo
~you're my eternity



Si accese una sigaretta ed aspirò forte.
Poi buttò la schicchera per terra, dove capitava. Sbuffò e si sedette su uno dei gradini dell’aeroporto. Apatico come non era stato mai, guardava per terra senza muovere neanche un muscolo. Era in anticipo e lo sapeva: iniziò a tossire, perché abitualmente non fumava. Quasi si affogò con la saliva, e già che c’era poteva cadere per terra e lasciarsi morire. Al suo fianco c’era una valigia di dimensioni notevoli, e dentro poteva esserci qualunque cosa e anche niente. Ma sicuramente racchiudeva una vita passata a fare niente. Aspettava la sua famiglia per partire, era andato lì prima perché a casa non c’era niente da fare. Voleva lasciare Berlino il prima possibile, ormai. Non c’era più niente a trattenerlo lì.
Gli venne l’amaro in bocca, e sputò per terra, fra le gambe divaricate sulle quali poggiava le braccia. C’era un freddo cane, infatti era infagottato nel giubbotto di pelle e nella sciarpa. Dentro c’era sicuramente più caldo, ma la voglia di entrare scarseggiava.
Rimase dov’era per interminabili minuti, finché il cellulare non decise di squillare. Ma fu un momento, perché lo afferrò e lesse il messaggio.
Stiamo arrivando. Ah, va bene. Chi altro poteva essere infondo? Socchiuse gli occhi, pigiò un paio di tasti e scorse la rubrica telefonica. Sospirò, rivedendo quel suo maledettissimo numero. Lo sapeva a memoria. Che delusione era stata sentire quelle parole da lui... E dire che aveva sempre capito il contrario, ma ormai non importava più. Gli aveva dato quell’unica possibilità di farlo restare e l’aveva bruciata. Se Zackarhia l’avesse amato sul serio, sicuramente non lo avrebbe fermato così. Rimase a rifletterci per istanti che duravano un’eternità ciascuno. Chiuse gli occhi.
Ehi, Samuel.
Sì?
Sei la mia eternità.

Spalancò gli occhi e scosse la testa con forza, prendendola fra le mani. « Basta Sam, finiscila! » Si sussurrò a denti stretti. Non doveva ricordare tutto quello. Faceva male. Tutte quelle cazzate, tutte quelle cose dette lì per fare… figura? Per rendersi bello? Era davvero tutta una farsa? Non ci voleva pensare più. Voleva dimenticarlo in modo definitivo. Una volta per tutte. Doveva cancellarlo, perché Samuel voleva cancellarlo…
« Samuel! Siamo qui! »
Il ragazzo alzò gli occhi. Sua madre, suo padre, suo fratello e la sua piccola sorellina erano tutti lì. Si avvicinavano con calma portando pesanti valigie appresso. Gli scappò un sorriso. Che cosa stai facendo, Samuel? Scosse la testa. Se ne stava andando senza averlo visto un’ultima volta. Se ne stava andando per sempre con quell’orribile ricordo di lui. Di Zackarhia. Ma non è possibile. Quest’idea s’intrufolò nella mente di Samuel. Non è possibile che dopo diciassette anni sia così. No, infatti. Sam lo conosceva benissimo, e poteva giurare che c’era qualcosa che non andava.
C’era arrivato maledettamente in ritardo. Abbassò la testa e spense la sigaretta sui gradini, poi si alzò. Si stiracchiò un po’ e afferrò la sua valigia.
Quando la sua famiglia lo raggiunse, per un attimo gli sembrò di vedere qualcosa dietro le spalle di suo padre, in lontananza, ma subito rifugiò l’idea da un’altra parte. Salì i gradini che lo separavano dalle porte a vetri per entrare all’aeroporto. Poi si fermò.
« Sam, qualcosa non va? » Domandò sua madre, voltandosi in sua direzione. Lo osservò esitare, fermo sul posto. « Hai dimenticato qualcosa a casa? »
Samuel abbassò lo sguardo. « Non ho salutato. » Sussurrò.
« Non hai salutato, chi? »
« Zackarhia. »
Sua madre lo osservò, confusa. « Ma, tesoro… non avevate litigato? Mi hai detto così l’altro giorno, pensavo che… »
« Non l’ho salutato. » Insistette. Lasciò cadere la valigia per terra, che si sbilanciò e ruzzolò all’indietro lungo le scale. « Voglio vederlo. »
« L’aereo parte tra un’ora, non hai il tempo di andare da lui e tornare qui, abita troppo distante. Lascia stare per questa volta, tesoro. Durante l’estate verremo a trovarlo, okay? »
« Non è la stessa cosa. Non posso partire senza salutarlo. »
Il padre di Samuel si voltò. « Non potevi pensarci ieri, razza d’idiota? »
« Ieri lo odiavo a morte. » Ammise Samuel.
« E oggi? »
Samuel sollevò lo sguardo verso sua madre e suo padre. Distese stupidamente le labbra e iniziò a ridere. Portò una mano alle labbra e rise. Rise e basta. Poi scosse la testa. « Oggi è diverso! » Esclamò. Si voltò, dando le spalle ai suoi genitori. Scese i gradini di corsa e poi si voltò. « Partite senza di me. » Disse loro.
« COSA? » Urlò il padre.
« Papà, non posso partire ora. » Samuel sorrise. Poi prese a correre verso la stazione degli autobus.
« SAMUEL, TORNA QUI! »
Il ragazzo corse, e corse a perdifiato, fino a salire sul primo autobus che riportava in città. Rideva come un cretino, coprendosi il viso con le mani, e piangeva. Chi stava prendendo in giro? Non poteva odiarlo, e non poteva partire senza di lui.
No, papà, non posso partire. Ieri l’odiavo, ma oggi lo amo. Lo amo immensamente.





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Capitolo 13
*** ~samuel ***



P refazione______
Tre aggiornamenti in un giorno solo! Mi dispiace per questa settimana d'inattività totale, purtroppo mi avevano bannato l'account per la settimana per falsa dichiarazione della maggiore età: comunque sia, si è sistemato tutto adesso, e quindi eccomi qua. Spero vivamente che questi tre aggiornamenti siano di vostro gradimento. Inoltre volevo dire che non spedirò più il racconto al Gruppo Albatros, ma ad una casa editrice un po' differente che forse apprezzerà questa Teen Story. Io personalmente lo spero tantissimo, quindi me la prenderò comoda ancora per un po' e alla fine invierò il tutto alla Fanucci. Ho chiesto altri pareri in giro e mi è stato detto che ci starebbe bene sotto formato cartaceo, quindi non vedo perché non azzardare! Inoltre ho tutte le informazioni che mi interessano per la spedizione. Ringrazio ancora una volta DominoWhite e RiflessoCondizionato per i commenti, ogni volta mi fanno nascere un gran sorriso sul viso. Mi fanno davvero tanto piacere... Spero dunque che continuerete a seguirmi anche nelle prossime serie dello stesso Fandom di questa. =) Un grazie ed un bacio anche a tutte le altre persone che seguono I ricordi persistenti di un ragazzo e chi l'ha messa fra i preferiti. Arigatou gozaimasu!



C apitolo D odicesimo
~samuel



Baciò le sue labbra con dolcezza.
Stinse la sua pelle con gentilezza, mentre lo abbracciava e lo teneva stretto a sé. Non lo lasciava andare, non voleva e non poteva. L’avevano appena fatto, e Samuel era come se non ci fosse nemmeno. Dormiva beatamente contro il suo petto e Zackarhia poteva quasi contargli le ciglia da quanto erano vicini. Gli accarezzava dolce la schiena, con carezze leggere. Sorrideva beatamente ed ogni tanto sporgeva la testa fino a baciargli la fronte. Lo strinse un po’ più forte fra le sue braccia. Sentiva i brividi lungo il corpo, perché così tanto lo aveva amato, e così tanto aveva bramato di poterlo stringere così, che gli pareva davvero irreale.
Posò la mano libera in mezzo ai suoi capelli, prese ad accarezzarli.
Samuel profumava di buono: Zackarhia non seppe dire se di fragola o di pesca. Forse rose. A riconoscere le essenze non era mai stato particolarmente bravo, ma poteva assicurare che fosse un buon odore. Un buonissimo odore.
Gli baciò i capelli, poi si mosse e lo guardò per bene in viso. Era così dolce mentre dormiva, che avrebbe voluto stare lì ad osservarlo per tutta la vita. Avvicinò nuovamente le labbra alle sue, ma solo per sentire il suo respiro lieve sulla propria pelle, e rabbrividì. Sorrise, non aveva voglia di dormire, né era stanco. O meglio, sì che era stanco, ma rifugiava l’idea di chiudere gli occhi lontano dalla mente. E come avrebbe potuto addormentarsi, con un simile spettacolo davanti agli occhi? Preferiva rimanere là e tenerselo stretto, guardarlo.
Quelle labbra da bambino, quelle ciglia lunghe… era bellissimo.
Probabilmente non lo aveva mai guardato con gli occhi di un amico, perciò gli era sempre sembrato così bello. Di lui gli piacevano soprattutto le lentiggini: erano così lievi e graziose sul suo viso… per non parlare dei capelli. Rossi, un po’ più lunghi di come di solito li portano i maschi, così lisci e morbidi: sì, quelli profumavano di fragola.
I suoi occhi invece non gli erano mai piaciuti particolarmente, al contrario di quel che si sarebbe potuto pensare in altri casi. Gli occhi… quelli di Samuel erano belli, sì, di quel verde smeraldo spettacolare, ma rivelavano troppo le sue emozioni: per questo non gli piacevano. Da quelli capiva se mentiva, se diceva il vero, se la persona di cui stava parlando gli piacesse o no. Queste sono cose che alla fin dei conti si intuiscono più dalla voce che dal resto, ma con Samuel era sempre diverso. Lui parlava di tutto e tutti allo stesso modo, con lo stesso tono e usando le stesse parole la maggior parte delle volte.
Zackarhia l’aveva capito bene: quando Samuel ripeteva più volte il concetto e guardava in basso a destra, lontano dai propri occhi, stava mentendo e pensava l’esatto contrario di quel che diceva, se invece fissava negli occhi e sorrideva, mentiva ma a fin di bene, se rideva chiudendo gli occhi era una cosa forzata, se gesticolava spropositatamente stava iniziando ad innervosirsi, se invece guardava con espressione vuota un qualche punto e rispondeva a monosillabi, o era arrabbiato o stava pensando. Quando era assente, i suoi occhi diventavano vuoti.
Ma quando era felice, quello era l’unico tipo di sguardo che a Zackarhia piaceva spropositatamente: allora i suoi occhi quasi luccicavano, li apriva abbastanza da far vedere perfettamente le pupille e il loro bellissimo colore, e sorrideva così apertamente da sembrare un bambino. La maggior parte delle volte batteva anche le mani così, infantilmente, e a volte arrossiva pure un po’. Era la cosa più bella che Zackarhia avesse mai visto, ed ogni volta che si esibiva in quell’espressione era come se fosse la prima, poiché il modo in cui lo riempiva di gioia era sempre nuovo e sempre, sempre più bello, più presente, più forte.
Avrebbe potuto vivere di quel solo sguardo per tutta la vita, e forse per questo in quel momento aveva deciso che non se lo sarebbe dimenticato mai. E il viso di Samuel durante il sonno… no, non avrebbe dimenticato mai nemmeno quello. Per sua fortuna, avrebbe potuto vederlo tutte le notti a seguire, e ogni mattina al risveglio sarebbe stata la prima cosa che avrebbe visto.
Gli veniva da piangere per quanto era maledettamente felice.
Perché a dire il vero, Zackarhia felice lo era sempre stato. Si accontentava di stare lì, al suo fianco, per sostenerlo e accompagnarlo nel suo andare. Gli bastava poterlo abbracciare e confortare, gli bastavano due parole nel suo orecchio per essere felice, perché alla fine lui aveva Samuel. Sì, era il suo migliore amico, ma era lo stesso suo. Tutto suo, soltanto suo. Perché lui aveva privilegi che altri neanche lontanamente potevano sognarsi, no, era tutto suo. Nient’altro. Per Samuel c’era Zackarhia, e per Zackarhia c’era Samuel.
Lui si accontentava di questo, come poche persone nel mondo.
Era felice di averlo nella classe accanto a scuola, di poter andare e tornare con lui, di uscire a fare shopping insieme benché a nessuno dei due piacesse, di poter allungare una mano e con un dito pulirlo dalla salsa sul labbro quando si sporcava al Mac Donald’s con il ketchup, di potergli dire quando più gli aggradava che gli voleva bene. Zackarhia poteva stringergli la mano davanti a tutti e portarsi Samuel in giro ridendo, poteva intrecciare le dita con le sue, poteva dormire con lui.
Zackarhia poteva baciarlo a stampo quando voleva, perché fra loro le dimostrazioni d’affetto erano anche fatte così. Poteva sorridergli e dargli il calore che voleva, perché era il suo migliore amico. Lui era quello che per tutta la vita lo aveva sostenuto, l’aveva amato, l’aveva viziato, l’aveva consolato.
E anche quando Samuel stava male per qualcuno, lui era lì, a confortarlo e dirgli che sarebbe andato tutto bene. E quando Samuel si fidanzava non cambiava niente, perché il loro rapporto era quello e basta. Era legge per chiunque li conoscesse e nessuno poteva mettere il dito fra loro due.
Però, anche se Samuel poteva fidanzarsi e fare tutto quel che voleva, Zackarhia non poteva. Ma non perché il più piccolo non volesse, bensì perché sarebbe stato come tradire se stesso e i propri sentimenti, sarebbe stato come tradire Samuel ed era l’ultima cosa al mondo che voleva.
Perciò quando Samuel gli chiedeva se c’era qualcuno nel suo cuore, Zack si limitava a guardarlo fisso, sorridere appena e rigirargli la domanda, così come fanno gli amici quando si vogliono punzecchiare un po’.
Stranamente, Zackarhia si diceva, la mia vita è perfetta così com’è.
Zackarhia si accontentava.
Zackarhia era felice e nulla più di questo.






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