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La
pioggia batteva scrosciante da ogni lato. Era impetuosa ma tranquilla, come una
cascata che da secoli precipita nello stesso punto, trascinando centinaia di
ettolitri di acqua, ma senza violenza: una forza solida e non dirompente.
Deve essere stata
così la discesa del Gange sulla terra. Non mi stupirei se questo fosse
l’effetto di Shiva che si strizza i capelli per portare sulla terra un nuovo
fiume.
Questo
era ciò che pensava una giovane donna, non ancora trentenne, seduta a gambe
incrociate sopra il muretto di una piccola terrazza a livello del terreno,
riparata da una tettoia in legno.
Il
Sole era già tramontato, lei si era sistemata in quel punto un poco arieggiato
per allontanarsi un poco dal caldo umido in cui si era ritrovata, teneva con la
mano sinistra un piatto con del riso condito con verdure, mentre con la destra
ne raccoglieva un poco e se lo portava alla bocca: cenava.
Cenava
e intanto osservava quel nuovo panorama: un giardino sconosciuto, assai verde,
con piante rigogliose e forse un poco ammassate, strette tra i lati
dell’edificio.
Si
sarebbe abituata presto a quello scenario, sarebbe stata la sua vista per molte
sere. Non le dispiaceva, era semplicemente strano. Era da troppo tempo che Irma
non andava in India senza sentirsi a casa. Adesso finalmente era successo: non
più i profili famigliari del Tamil e l’accoglienza dei conventi. Non c’era
nulla di male in ciò, anzi la giovane era sicuramente contenta di quella nuova
opportunità e non vedeva l’ora di mettersi in gioco. Di quella esperienza,
faceva anche parte il rapportarsi con un nuovo ambiente.
Goa
aveva certamente mille sfumature che la differenziavano dal Tamil e da altre
regioni dell’India. Irma era appena arrivata e ancora non conosceva nulla, ma
era pronta ad imparare, anzi, molto curiosa; si mescolavano in lei
l’eccitazione della scoperta e della voglia di fare e il timore di non essere
all’altezza del compito. La paura, però, era davvero poca e soprattutto legata
alla sua natura un poco ansiosa e tendente al perfezionismo: pretendeva da sé
stessa risultati eccellenti, più che dagli altri, e non si accontentava mai di
una modesta riuscita.
Non
era da sola e non aveva un ruolo di responsabilità, ma questo la
tranquillizzava solo in parte: non voleva deludere il suo professore.
Irma
ricordava perfettamente il giorno in cui il professore Erberti le aveva
telefonato per informarla: “Un mio vecchio collega, il dottor Vairochana, ha di
recente aperto un museo a Goa, ne è proprietario e direttore. Sta ancora
cercando e selezionando personale indiano e al momento si trova sotto organico.
Mi ha quindi interpellato, chiedendo se posso inviare una qualche valida
risorsa dall’Italia per aiutarlo a far fronte al periodo estivo. Sai parlare
bene l’inglese, vero? Ecco, perché io voglio che vada tu. Hai già esperienza
nel lavoro e in India, ti ho vista sul campo e penso che tu sia adatta a
questo. Non è uno scavo, ma sono comunque cose di cui si occupano quelli come
noi e poi serve nel curriculum, per cui fai le valigie che si parte presto!”
Così
Irma si era ritrovata coinvolta in quella nuova esperienza e non aveva nemmeno
ben chiaro quale sarebbe stato il suo ruolo.
Davvero
aveva avuto poco tempo per organizzarsi e partire, ma lo aveva fatto ed era
certa che qualsiasi cosa sarebbe successa, le avrebbe fatto bene.
Nel
viaggio dall’aeroporto al museo, dove avrebbe alloggiato, aveva ritrovato la
lontananza dell’orizzonte indiano che ben conosceva e si era meravigliata nel
vedere tante ville, in vari stili, ma tutte con colori sgargianti, affacciarsi
sulla strada. Doveva essere un luogo di residenza per i benestanti: mai aveva
visto case del genere in Tamil!
Non
erano mancate, poi, le grandi scritte pubblicitarie sulle pareti di case più
umili o lungo muretti d’ignota funzione. C’erano pochissime auto e i clacson si
sentivano raramente.
Irma
era arrivata al museo piuttosto tardi ed era stata subito accompagnata nella
stanza assegnatale; non aveva avuto modo di osservare l’edificio che, di primo
acchito, pareva un poco labirintico. Aveva sistemato i suoi abiti nell’armadio
e tirato fuori dalla valigia i libri e le cose da tenere sempre a portata di
mano; le capitarono sotto gli occhi i regali che alcuni carissimi amici le
avevano fatto prima di partire: una cintura con cerniera per nascondere il denaro,
un pratico zainetto, minuscoli asciugamani che si sarebbero ingranditi a
contatto con l’acqua e una borraccia in grado di depurare l’acqua non potabile.
Ecco, di quest’ultima sperò vivamente di non avere bisogno.
Si
era fatta una bella doccia e poi era andata a cena. Aveva trovato il riso in
quella che le era stata indicata come stanza comune. In comune con chi non era
chiaro. Aveva mangiato sulla veranda e ora continuava a guardare la pioggia e a
procrastinare l’andare a dormire, sebbene fosse molto stanca. Non poteva fare a
meno di ripensare all’ultima volta che era stata in India, quasi due anni
prima, a quel che aveva scoperto e a ciò che aveva affrontato.
Se
aveva superato indenne e a testa alta la vicenda di due anni prima, perché
doveva temere di aiutare in un museo per qualche mese?
La
domanda che la solleticava e che non aveva il coraggio di porsi era però
un’altra: e se fosse accaduto di nuovo qualcosa come ciò che già era capitato?
Scoperte sensazionali, interessanti, ma che non aveva potuto condividere e che,
soprattutto, l’avevano portata a rischiare la vita per salvare il mondo.
Non
aveva più visto i suoi amici, dopo che la spedizione archeologica di due anni
prima era finita. Si erano scritti email per augurarsi buon Natale, Pasqua,
compleanno, ma non avevano fatto più menzione di ciò che era accaduto … non che
fosse argomento da trattare per email.
Irma
comunque non aveva detto a nessuno di loro di essere ritornata in India,
seppure in un altro stato; non lo sapeva Jerolam, né Yacqomin, Shijan,
Chinnayan e neppure Savariapam che in quella faccenda non era stato
invischiato.
Irma
voleva pensare solo al museo e nulla più. Alla fine andò a letto, non vedendo
l’ora che arrivasse il mattino per poter finalmente esplorare quel nuovo luogo
e cominciare a lavorare. Era molto stanca e si addormentò facilmente,
nonostante sentisse in lontananza strani versi, probabilmente d’animale. Si era
abituata, in passato, a dormire con i versi di tacchini e altri volatili da
cortile che le rimbombavano nella testa, quindi non le fu difficile neppure
ignorare quei versi lamentosi.
Il
mattino seguente, Irma si alzò per essere pronta per la colazione alle ore 8,
così come le era stato indicato la sera prima da Ajaya, la bellissima moglie
del proprietario del museo, quando l’era andata a prendere in aeroporto. Si
recò nella sala comune e finalmente scoprì con chi l’avrebbe condivisa: due
giovani indiani.
La
donna si presentò immediatamente alla nuova arrivata: si chiamava Bhavani, era
originaria del Karnataka, si stava laureando in storia dell’arte e da due mesi
abitava in quel museo per svolgere il proprio tirocinio. Indicando il ragazzo,
che si era seduto in un angolo a mangiare, spiegò che il suo nome era Ramon,
nativo di Goa, dove erano abbondanti i nomi derivati dall’occupazione
portoghese; pure lui era un tirocinante, ma non lo si vedeva mai nel museo e
non aveva mai dato una vera risposta, quando gli si era chiesto quale fosse il
suo progetto.
Irma
si sentì sollevata nel rendersi conto che il suo inglese non era poi così
pessimo come aveva temuto inizialmente … per lo meno riusciva a capire quello
che le era detto, il parlare forse sarebbe stato un poco più difficile, almeno
fino a quando non si fosse un poco abituata. Nella propria mente ringraziò
Peter, un suo amico madrelingua, per aver accettato di conversare con lei in
inglese alcune volte, pochi giorni prima della partenza, per allenarla nella
comunicazione.
Irma
si presentò e spiegò come fosse capitata da quelle parti e quanto poco le fosse
ancora chiaro che cosa avrebbe dovuto fare.
Bhavani
la rassicurò, dicendo che Vairochana le avrebbe presto spiegato tutto e che si
sarebbe trovata molto bene; dopo poco si congedò, dovendo andare ad occuparsi
del proprio lavoro.
Irma
si guardò attorno per scambiare qualche parola anche con Ramon e si accorse che
l’uomo si era dileguato. Finì la propria colazione a base di latte e frutta,
poi uscì per cercare il direttore del museo. In un primo momento non vide
nessuno finché non passò attraverso uno stretto vialetto tra due edifici che
conduceva a una sorta di bivio: da una parte una specie di gazebo in muratura,
dall’altra un campo in cui alcuni uomini stavano abbattendo piante.
Irma
chiese a uno dei lavoratori se sapesse dove fosse Vairochana e così scoprì che
il direttore non si trovava al museo quella mattina: si era dovuto
assolutamente recare in un villaggio di pescatori, ma il bracciante ne ignorava
il motivo.
La
giovane, allora, decise di fare un giro completo del complesso per imparare ad
orientarsi. Alla fine non era così labirintico come aveva avuto l’impressione
appena arrivata. Gli edifici sorgevano ai lati di una strada serpentiforme che
terminava in una piazzetta su cui si affacciava la casa dei proprietari e
un’ala del museo e da cui partiva il vialetto che aveva percorso in precedenza.
Si rese anche conto che il gazebo era proprio di fronte alla veranda della sala
comune; oltre di esso c’era un vasto campo, in piccola parte recintato e
all’interno di quel settore c’erano alcuni uomini che strappavano l’erba.
Passò
vicino ad un porticato in cui erano esposti alcuni oggetti di uso comune come
il vasellame e poi ad un edificio chiuso da cui sentì provenire gli strani
lamenti uditi nella notte; diede una sbirciata all’interno dalla porta e si
sentì un’idiota nel vedere un paio di caprette belanti: come aveva fatto a non
pensarci prima!
Poi
finalmente vide un gruppetto di turisti e con essi una guida che stava finendo
la visita. Rimase a osservarli da una certa distanza poi, quando i visitatori si
furono avviati all’uscita, lei si avvicinò all’impiegata. Era una donna di
mezza età dall’espressione molto simpatica e cordiale. Irma si presentò, spiegò
la situazione e domandò se potesse illustrarle il museo. Brescia, così si
chiamava la signora, accettò volentieri.
Cinque
erano le ali, esclusa quella sotto il porticato: una era dedicata al periodo
preistorico, una all’epoca in cui si succedettero stirpi indiane fino a quella
dei Vijayanagara, poi una sala per il periodo dell’occupazione portoghese, una
per la dominazione inglese e infine quella che accoglieva oggetti sacri,
provenienti da templi e chiese, e che contava la maggior parte di reperti
artistici e non semplicemente connessi alla vita quotidiana.
Irma
fu molto soddisfatta di quella visita e si ripeté che il professore Erberti le
aveva fatto un grande favore, segnalandola per quel lavoro, e che avrebbe avuto
l’opportunità di imparare molto.
Mentre
era assorta in questi pensieri, incontrò Ajaya che la invitò a seguirla fino
all’ampia veranda della casa padronale, dove c’era un tavolo con alcune sedie.
Lì la donna chiese alla giovane se avesse dormito bene e se le fosse piaciuto
il museo, poi iniziò ad elencarle le regole che vigevano all’interno del
complesso, indicando gli orari dei pasti, quello di chiusura del cancello, come
era gestita la pulizia, quali atteggiamenti erano consentiti e altro ancora. In
realtà nulla di dispotico o irrazionale, anzi, semplicemente un vivere civile
ed educato.
Giunsero
le ore 13 e nella veranda arrivarono anche i due tirocinanti e un uomo la cui
età poteva oscillare tra i quaranta e i cinquanta, capelli grigi, lisci,
lasciati crescere leggermente, un grosso paio di baffi. Ecco, molto
probabilmente lui era Vairochana.
Si
erano tutti radunati lì per il pranzo, che sarebbe sempre avvenuto con quella
modalità, tranne nei fine settimana. Ajaya introdusse al marito la nuova
arrivata e poi Irma fu incoraggiata a presentarsi, spiegare i tipi di studi che
aveva intrapreso e quali esperienze lavorative aveva già avuto.
Vairochana
ascoltò molto attentamente, senza dire una parola; alla fine, però, si dichiarò
compiaciuto da quel curriculum e informò l’ospite che avrebbe iniziato a
lavorare dal mattino successivo, che sarebbe dovuta andare nel suo ufficio dopo
la colazione per ricevere istruzioni e che, intanto, per quel pomeriggio poteva
esplorare il villaggio e i dintorni; addirittura diede il compito a Bhavani di
accompagnarla e indicarle che cosa poteva trovare nei paraggi e dove potesse
andare in caso di bisogno.
L’Indiana
le chiese se avesse già una bicicletta e, alla risposta negativa, la indirizzò
alla reception dove avrebbe potuto richiederne una.
Irma
percorse la stradina serpeggiante fino ad arrivare al grande cancello
dell’entrata che era spalancato e in mezzo era seduto un uomo anziano, con la
camicia azzurra e i capelli bianchi; lì accanto cera una guardiola in cui si
trovavano la signora che le aveva fatto da guida e un uomo appena uscito dalla
giovinezza.
Non
sapendo a chi rivolgersi, la ragazza spiegò nella maniera più cortese possibile
dove potesse trovare una bicicletta. L’uomo nella guardiola aprì un cassetto,
tirò fuori una chiave e poi uscì, dicendo all’Italiana di seguirlo,
allontanandosi con passo zoppicante. Ripercorsero la strada interna fino ad
arrivare di fianco a un edificio piuttosto grande ma che sembrava chiuso e non
solo al pubblico, tuttavia aveva una tettoia sotto cui erano riparate le
biciclette. L’uomo ne indicò una alla giovane e le mostrò come aprire e
chiudere il lucchetto, poi le lasciò la chiave: quella sarebbe stata la sua
bicicletta per tutto il tempo del soggiorno.
Irma
tornò da Bhavani e partirono. C’era una strada asfaltata che portava al museo,
ma per due o tre chilometri, in entrambe le direzioni, non c’erano altro che
grandi piante e tanta vegetazione che cresceva in maniera più o meno
disordinata. Andando verso sinistra, dopo aver pedalato alcuni minuti, si
vedeva una villa a due piani, piuttosto grande per gli standard del luogo, era
sobriamente dipinta prevalentemente di bianco, con le infisse, le grondaie e
altre parti in rosso, si notava anche per il portone dalla forma rotonda che
richiamava sia una ruota che il Sole.
Da
quel punto in poi il panorama verde, sempre rigoglioso, mostrava tante
villette, sparpagliate e senza che si affacciassero direttamente sulla strada,
tutte dai colori sgargianti: azzurro-blu, arancione, viola e ogni varietà della
scala cromatica. Era strano da vedere: abitazioni moderne e di famiglie
benestanti, completamente immerse nel bosco e senza seguire nessun piano
regolatore. Non c’entravano nulla con il contesto, eppure sembravano a proprio
agio.
Irma
notò una stradina di terreno battuto che si inoltrava tra gli alberi e domandò
se portasse da qualche parte e Bhavani rispose che non lo sapeva. Passata poi un’altra
zona dove le case tra le piante si alternavano a quelle che sembravano risaie
o, almeno, campi da coltivare, il paesaggio cambiava bruscamente: la
vegetazione praticamente spariva e si ergevano tante casette e botteghe, basse,
ai lati della strada, mostravano uno stile di vita molto più povero rispetto a
quello delle ville. C’erano alcuni negozietti che a Irma risultarono
famigliari, evocandole i ricordi del tempo trascorso in Tamil, e anche alcune
bancarelle di frutta e verdura dai colori e profumi invitanti.
Bhavani
le indicò il supermercato, la farmacia, la banca e un negozio di telefonia, nel
caso avesse voluto attivare qualche promozione sulla sua scheda sim indiana.
Le
due giovani girarono un poco in quel tratto di strada; Irma notò che nessun
uomo indossava il dhoti e che molte donne vestivano pantaloni e magliette, ne
vide solo poche con il camicione che arrivava al ginocchio e nemmeno una con il
sari.
Ebbe
voglia di chai: da quando era arrivata in India non ne aveva ancora bevuto uno.
Sì, era lì solo da poche ore, ma non poteva fare a meno di quel te speziato,
mescolato col latte e una gran quantità di zucchero. Lo cercò in vari posti, ma
non ne trovò, una domanda un po’ ironica e un po’ seria le attraversò la mente:
in quale sperduta parte dimenticata da Dio dell’India era capitata?
Il
cielo si era fatto molto grigio: presto sarebbe ricominciato a piovere. Le due
ragazze decisero di tornare indietro. Questa volta Irma notò che ai lati della
strada c’erano delle canalette per raccogliere l’acqua e farla defluire; mentre
passarono vicino al sentiero di ignota destinazione, lei allungò o sguardo e le
parve di vedere, in lontananza, gli stessi tetti in foglia di palma che aveva
visto nelle capanne Tamil. Arrivate davanti al museo non si fermarono,
procedettero per alcuni minuti per andare a vedere dove si trovava la
lavanderia.
Già
un paio di centinaia di metri prima si vedeva una grande macchia di colore
vicino alla strada e, avvicinandosi, si distinguevano i numerosi abiti appesi
ad asciugare all’aperto e, poco più in là, un edificio in mattoni e lamiera.
Irma
sorrise: anche quel genere di architettura le era abbastanza famigliare. Si
aspettava di trovare, dietro di esso, un piccolo laghetto o un fiume con delle
donne intente a lavare. Avvicinatasi, vide dei ragazzini che stavano staccando
il bucato dai fili, per non farlo bagnare dalla pioggia. Passarono poi dentro
alla lavanderia, poiché Bhavani doveva ritirare alcuni abiti, e vi trovarono
innumerevoli tavoli su cui erano appoggiati tantissimi indumenti, tanto da
superare in altezza la testa di una persona comune. In fondo questo stanzone,
una lavatrice da venti chili si agitava pigramente, evidentemente partecipe dei
tempi indiani. Irma la fissò, un poco delusa per la mancanza di un fiume, le sembrò
comunque vecchia, ma in realtà non aveva idea di come fossero le lavatrici
industriali e quindi non poteva fare un paragone.
Nei
pressi della lavanderia c’era qualche casa modesta e si vedevano scorrazzare
molti animali, compresa una grufolante famiglia di maialini rosa e neri.
Bhavani
ritirò il proprio pacchetto e pagò. Le due giovani rientrarono al museo attorno
alle diciotto, giusto in tempo per mettersi al riparo dalla fragorosa pioggia
che cadde giù dopo pochi minuti e che proseguì fino al mattino, concedendosi
brevi intervalli.
Dopo
una colazione consumata in compagnia degli altri due tirocinanti e dopo aver
visto Ramon uscire nel cortile, a dispetto del fango, e camminare in tondo,
mormorando fra sé parole inudibili agli altri, Irma si presentò davanti
all’ufficio del direttore in perfetto orario. Vairochana, invece, tardò di un
quarto d’ora e quasi si stupì nello scoprirsi atteso. Fece accomodare la
giovane e iniziò a dirle in inglese: “Tutto quello che hai visto oltre il
cancello d’ingresso è opera mia. Da trenta anni mi dedico allo studio dei miei
compaesani e mi impegno per preservarne e tramandarne la cultura alle future
generazioni. Ho investito il patrimonio della mia famiglia per costruire le
mura, ogni edificio, ogni singolo mattone di questo luogo, senza il
finanziamento del governo o di privati. Allo stesso modo ho raccolto e comprato
ogni oggetto che vedi esposto. Ho ricevuto vari riconoscimenti per ciò che ho
fatto e ho vinto alcuni premi per l’ottimo lavoro che svolto. Il mio impegno non
è finito, sono sempre in moto e all’opera per nuove creazioni ed espandermi.
Avrai sicuramente notato che ho avviato i lavori per edificare una nuova ala,
anche se sono solamente al principio e sto facendo sistemare il terreno per
iniziare a gettare le fondamenta. Ho già accumulato non pochi oggetti che
vorrei esporre al suo interno … o, per meglio dire, ho in magazzino molti
reperti e manufatti che devono essere esaminati e catalogati; una volta che
avrò ben chiaro che cosa ho a disposizione, deciderò come collocarli
all’interno della mia collezione e a cosa destinare la nuova ala. Il tuo
compito è proprio questo: guardare cosa c’è nel magazzino, classificarlo,
descriverlo … insomma, creare un catalogo con le informazioni basilari su ogni
oggetto, dunque che genere di strumento è, l’uso, il periodo, magari una
descrizione sommaria con le misure. Nel frattempo puoi anche dividerli per
categoria, man mano che li studi, così da averli già raggruppati e trovarli più
facilmente. Tutto chiaro?”
Irma
rispose di sì; non specificò che non si aspettava un compito del genere,
soprattutto perché le sue competenze erano in ambito artistico e dunque
supponeva di trovarsi in difficoltà davanti ad oggetti d’uso comune e strumenti
di lavoro, tuttavia era felice perché le avrebbe dato la possibilità di
espandere le proprie conoscenze. Era soddisfatta, dunque, e si lasciò condurre
al magazzino.
Era
lo scantinato della casa padronale, con un ingresso indipendente. Era molto
vasto e lungo le pareti, su scaffali e su tavoli erano deposti molti oggetti,
quasi tutti avvolti in carta di giornale.
Irma
strinse in una mano un pennarello, sotto l’altro braccio il computer e fu
pronta per cominciare.
L’aria
nello stanzone era molto più calda che fuori e l’umidità era opprimente, quindi
furono immediatamente accese le ventole sul soffitto per far muovere un poco
l’aria affinché fosse un po’ più respirabile. Le pale, però, girando, alzarono
la polvere depositata ovunque, ma questo era più sopportabile.
La
giovane scelse uno scaffale da cui cominciare; prese un pacchetto oblungo e lo
scartò trovandovi poi dentro una coppia di candelabri in metallo, decorati con
fiori di loto. Probabilmente potevano essere considerati oggetti induisti,
sebbene il loto non avesse una connotazione puramente religiosa, ma culturale
ed era visto come simbolo di purezza anche dai cristiani. Provò a cercare se ci
fosse qualche incisione o impresso un marchio che potesse aiutarla con la
datazione, ma non trovò nulla del genere. Si limitò dunque a descrivere la
coppia di candelabri, indicando che non poteva riconoscere il materiale in cui
erano fatto, me riportò le misure e assegnò loro un numero di inventario. Col
pennarello, poi segnò il numero anche su un’etichetta che allegò ai due oggetti
prima di risistemarli nel cartoccio di carta.
Sullo
scaffale trovò altri arredi simili: vasi di varie dimensioni, posacenere, un
treppiede e un catino. Quel che la colpì maggiormente fu uno scrigno di legno
anonimo che all’interno conteneva dei bronzetti a testa di animale che probabilmente
un tempo erano usati per tenere ferme le imposte delle finestre aperte.
Dopo
aver censito ogni oggetto dello scaffale, Irma decise di bere, ma si rese conto
di non aver portato la borraccia; uscì dunque dal magazzino per andare nella
sala comune dove l’aveva lasciata, dopo averla riempita al depuratore di acqua.
Camminando per la stradina interna, si rese conto che c’era una certa
agitazione tra alcuni uomini che, probabilmente, lavoravano lì. Li vide correre
agitati da una parte e dall’altra. Riuscì a fermarne uno e a domandargli che
cosa stesse accadendo. L’uomo spiegò che era stato visto un cobra strisciare
fuori dalla zona dei campi e muoversi gli edifici e dunque lo stavano cercando:
nel frattempo lei avrebbe dovuto stare attenta.
Irma
ringraziò per l’informazione e tra sé sperò che il serpente non fosse trovato e
potesse allontanarsi tranquillamente.
Si
rimise al lavoro e gioiva ogni volta che riusciva a trovare qualche simbolo o
figura conosciuta, oppure quando riusciva a decifrare qualcosa prima
sconosciuto, grazie a qualche ricerca in rete. Sì, cercare informazioni su
internet non era certo il massimo della professionalità, ma al momento doveva
fare un rapido inventario, la parte di analisi sarebbe stata successiva.
Catalogò
incessantemente tutto il giorno, fermandosi solo per il pranzo. Andò a mangiare
con gli altri tirocinanti, il direttore del museo e sua moglie; chiese se il
cobra fosse stato trovato. Le risposero di no, poi Vairochana le spiegò che,
anche se lo avessero trovato, non lo avrebbero ucciso: i cobra erano
considerati come guardiani e protettori … ma di certo non li avrebbero voluti
aggirarsi tra le sale del museo e quindi volevano essere certi che fosse
tornato nei campi.
Arrivata
a sera, Irma era soddisfatta del proprio operato ma vedeva bene che le
sarebbero servite diverse giornate, prima di finire di censire tutto il
magazzino.
Era
già ora di cena e quindi si recò nella sala comune dove trovò gli altri due
tirocinanti, Ramon era fermo a fissare una parete. Arrivò l’inserviente con il
cibo e lasciò sul tavolo una grande scodella con del riso bianco e alcune
ciottoline con salse diverse, tra cui una ottenuta con ananas e curry.
Irma
prese un piatto e lo riempì, mangiò con le mani e parlò con Bhavani, infine
lavò il piatto e il bicchiere e se ne andò nella propria stanza: era stanca e
aveva bisogno di una doccia!
Entrò
in stanza, chiuse la porta, si tolse i sandali per non sporcare, poi si
avvicinò all’interruttore e accese la luce; fece qualche passo e vide,
arrotolato su se stesso, sul suo letto, un cobra.
La
paura durò solo un istante perché lo riconobbe immediatamente. Si sedette
accanto a lui e gli carezzò la testa, sussurrando: “Iravan, lo so che sei tu.”
Il
serpente si tramutò in un essere umano e rispose: “Certo che sai che sono io!
Mi arrabbierei se non mi riconoscessi! Sono stato nella mia forma di naga per
evitare che la gente si arrabbiasse nel vedere un uomo nella tua stanza.”
Era
un giovane che pareva avere meno di trenta anni, la sua carnagione non era
delle più scure, aveva capelli neri che gli scendevano sulle spalle; era a
torno nudo tranne che per un largo gilet rosso aperto, mentre sotto aveva
stretto un dhoti.
Irma
lo abbracciò, contenta, dicendo: “Oh, come sono felice di rivederti! Mi sei
mancato!”
“Anche
tu, sorellina.” replicò lui, sorridendo “Ma se è vero quel che dici, perché non
mi hai fatto sapere che saresti tornata in India?”
“Ho
forse modo di contattarmi? Non mi risulta tu abbia un telefono.”
“Questo
è vero, ma non credi che Yacqomin avrebbe saputo come informarmi?”
“Beh,
mi pari molto informato lo stesso. Non lo hai detto agli altri, vero?”
“Non
ancora. Ho pensato che, se non hai detto nulla, probabilmente avevi ragioni per
farlo e non sia stata una distrazione.”
“Però
eccoti qua … Non che mi dispiaccia, anzi …”
“Perché
sei venuta di nascosto?” la interruppe lui.
“Va
bene come risposta: non mi sono ancora ripresa dall’ultima volta?”
“Due
anni fa? È stato divertente, abbiamo salvato il dharma e il mondo, abbiamo
aiutato Visnu. Io dico che non c’è nulla per cui essere traumatizzati.”
“Beh,
sono sicura che la cultura naga e la mia siano piuttosto differenti. Non
fraintendermi, sono fiera di quello che abbiamo fatto … ma se ricordo quei
giorni mi sembra quasi siano stati un sogno e poi … Non ho più ricontattato
nessuno, a malapena ho fatto loro gli auguri di Natale, Pasqua e compleanno …
sono spaventata all’idea di rincontrali e non so perché.”
“Mi
pareva che fossi stata felice di avere un segreto da condividere solo con noi e
che lo sentissi come un modo per essere più affiatati, invece ti sei
allontanata. È stato traumatico rivedermi?”
“No.
La verità, penso, è che devo fare ancora chiarezza in me e capire alcune cose
su me stessa. Penso di non poter affrontare gli altri, se prima non ho la
sicurezza di cui necessito.”
“Stiamo
parlando di amici, non di avversari. Se non puoi fidarti di loro, di chi
allora? Comunque per il momento non insisto. Lavori al museo, giusto? Per
quanto tempo?”
“Tutta
l’estate.”
Iravan
stava riflettendo e disse ad alta voce quello che pareva essere solo un
pensiero: “Bene, questo significa che potremo rivederci e parlare di nuovo.”
“Lo
spero.” rispose Irma, ma capì che qualcosa turbava l’amico, per cui gli
domandò: “Vuoi dirmi qualcos’altro, vero? Ti ascolto.”
“Sì.”
si decise a spiegare “Ho saputo che eri qui perché ho visto in sogno Dushala a
Goa. Ho pensato che significasse che tu saresti venuta da queste parti e quindi
ho allertato naga e serpenti e altri alleati di informarmi se ti avessero
vista. Volevo rivederti, passare del tempo con te, invitarti al mio matrimonio
…”
“Cosa?!”
esclamò Irma, felice “Tu e Shunaka vi sposate finalmente? È meraviglioso!
Allora la potrò conoscere.”
“Sì,
ma non è questo il punto, lasciami finire. Io volevo appunto incontrarti
semplicemente per condividere qualche fraterno momento, però, quando ho saputo
in quale zona di Goa ti trovassi …” stava cercando le parole da usare “… mi
sono preoccupato.”
“Perché?”
domandò Irma, molto seriamente.
“Ecco,
in realtà non volevo fare preoccupare te. Sicuramente è solo un eccessivo
scrupolo mio, ma questo posto non ha una bella reputazione … No, non è quello
che intendevo dire. Da queste parti, molti secoli e millenni fa sono accadute
cose … dopo è stato tranquillo, credo, o per lo meno non ci sono stati problemi
particolari … sì, un po’ di fama sinistra retaggio dell’antichità, si
raccontano cose, ma probabilmente sono per lo più leggende … di prove non mi
risulta ce ne siano …”
“Però
pensi che qui io non sia al sicuro.” concluse Irma, volendo toglierlo da quel
balbettio confuso.
“È
solo che mi sento molto protettivo verso di te, lo sai. Non voglio rovinarti
quest’esperienza e quindi ti ho portato un regalo.”
Nella
mano di Iravan apparve un serpente dorato con un occhio verde e uno rosso. Lo
appoggiò sul polso della donna e lo strano animale si arrotolò attorno tre
volte e si irrigidì, diventando di metallo, mentre gli occhi si mutarono in
pietre.
“Ecco,
con questo potrai metterti in contatto con me ogni volta che vorrai.” spiegò il
naga.
“Davvero?
Ma è meraviglioso! Grazie mille e non preoccuparti, non mi accadrà niente.”
“Puoi
usarlo anche se non ti senti in pericolo.”
Si
abbracciarono nuovamente.
“Dai,
intanto che sono qui, raccontami qualcosa. Come ti trovi da questa parte
dell’India?”
“Beh
… mangiano con le posate, non si tolgono le scarpe prima di entrare in un
edificio, le strade non sono sporche e ho visto al massimo due mucche in giro …
Non sembra nemmeno India!”
Risero
entrambi. Rimasero poi a parlare per alcune ore, finché Iravan non decise di ritrasformarsi
in un cobra e strisciare via.
Irma
si era mostrata tranquilla e quasi indifferente a ciò che l’amico le aveva
detto sulla fama di quel luogo poiché non voleva che lui si agitasse, tuttavia
lei era rimasta parecchio incuriosita. Non aveva paura, ma desiderava conoscere
quali avvenimenti fossero accaduti in tempi remoti; avrebbe cominciato le
ricerche nell’epica e nella mitologia induista, chissà dove ciò l’avrebbe
portata.
Nota dell’Autrice
Ciao a tutti, grazie per aver letto
tutto il primo capitolo e star leggendo anche questa nota.
Spero che l’inizio vi sia piaciuto e
continuerete a seguirmi. Come ho detto nella descrizione della storia, questo è
un sequel di un libro scritto da me. Se il mio stile e l’argomento vi piace e
volete saperne di più, potete dare un’occhiata qui:
Irma
era stata occupata tutta la settimana nel suo nuovo lavoro e non aveva avuto il
tempo di indagare sulle antiche leggende di Goa. Tutte le ricerche che aveva
fatto erano state solo per acquisire informazioni che l’aiutassero ad
identificare al meglio gli oggetti nel magazzino. La parte più difficile era
stata quella relativa ai vasi, ne aveva trovate diverse decine e aveva dovuto
disegnarli, capirne la funzione e risalire al nome in lingua locale, il
Konkani; la datazione era poi quasi impossibile, dal momento che per secoli
erano stati in un uso gli stessi modelli per la ceramica e la maggior parte di
essi non aveva disegni, incisioni o altro che potessero ricondurli ad un’epoca
precisa: potevano avere secoli o di essere appena di un centinaio di anni prima.
Irma
arrivava a sera stanca e senza voglia di mettersi ad indagare altri argomenti,
per cui preferiva rilassarsi e soprattutto far riposare gli occhi.
Era
arrivato il fine settimana, si era concessa un paio di ore di sonno in più e
poi era andata nella cucina comune. Il pomeriggio prima, appena dopo il lavoro,
aveva inforcato la bicicletta ed era andata nel paese a fare le provviste per
il sabato e la domenica, in cui avrebbe dovuto arrangiarsi per mangiare; aveva
comprato soprattutto verdura, da un ortolano a bordo strada, dietro a un banco
di legno, su cui campeggiavano colori vivaci.
Si
era però comprata anche cereali e latte per la colazione e quindi, quel sabato
mattina, si sedette sul muretto della veranda con una tazza bella piena.
Scendeva ancora della pioggia, ma era molto fine e leggera. Successivamente si
dedicò alla pulizia della camera e al bucato: non aveva voglia di andare dal
lavandaio, poiché non voleva spendere soldi. Al termine di queste faccende, era
arrivata l’ora del pranzo e quindi la giovane si mise a cucinare.
Finalmente
Irma poté cominciare la sua ricerca, innanzitutto guardando se nel Ramayana o nel Mahabharata ci fossero riferimenti a Goa. Quella terra era nominata
col suo antico nome, ma non era stata teatro di fatti particolari; l’unico
riferimento che aveva trovato era che lì ci fosse stata una delle tante
battaglie tra Krishna e Jarasandha, ma questa non era un’informazione
particolarmente utile.
La
giovane si ricordò, allora, di avere chiesto, giorni prima, al direttore del
museo se ci fossero miti e leggende legati a Goa. Vairochana aveva risposto che
ce ne era solamente uno, relativo alla nascita di quella terra: Parashurama,
sesto avatara del dio Visnu, in cerca di un nuovo luogo in cui stare, aveva
scagliato la sua ascia verso il mare e, quando si era conficcata sul fondale,
le acque attorno si ritirarono, lasciando così emergere una nuova terra.
Parashurama
aveva poi portato dieci sacerdoti per celebrare un grande sacrificio per Agni,
il dio del fuoco.
Vi
era poi una leggenda che diceva che a Goa i Saptarishi avevano condotto una
penitenza al termine della quale erano stati benedetti da Shiva. I Saptarishi
erano sette saggi, tra i più illuminati e protettori del Dharma e delle leggi
divine; ogni Manvantaram aveva i suoi sette saggi e tra i meritevoli di
ciascuno di questi periodi, venivano individuati i sette che sarebbero
sopravvissuti alla distruzione per diventare i Saptarishi dell’epoca successiva.
La
cosmocronia induista non è di immediata comprensione e tra nomi e numeri è
facile confondersi. L’unità di base sono gli Yuga, ve ne sono quattro di durata
e qualità morale decrescente: il Satya Yuga, il Treta Yuga, il Dvapara Yuga e
il Kali Yuga. Queste quattro ere formano un ciclo cosmico chiamato Chaturyuga,
terminato il quale il mondo sarà devastato da cataclismi e dalla battaglia tra
Kalki e Kali, finché il primo non avrà il sopravvento e così avrà inizio un
nuovo ciclo con il suo Satya Yuga.
Settantuno
Chaturyuga formano un Manvantaram, ossia un regno di Manu, che sarebbe l’uomo
primordiale che crea il mondo quando è il momento, gli dà le leggi e lo
sostiene. Alla fine del regno di ogni Manu, dunque, c’è una sorta di
distruzione e ricreazione, ma essa non è totale.
Quattordici
Manu si susseguono al potere fino ad ottenere così un Kalpa, ossia un giorno di
Brahma, al termine del quale ogni creatura e ogni cosa nell’universo, ma non
l’universo stesso, si dissolve nella notte di Brahma, anch’essa lunga quanto un
Kalpa; durante questa stasi dove l’universo è ridotto allo stato di potenza,
senza essere in atto, il grande dio Visnu dorme sul suo serpente, avendo
registrato nella sua mente ogni cosa e ricordando i meriti karmici di ognuno,
in modo che il nuovo giorno di Brahma possa riprendere là dove è stato interrotto.
Secondo
i testi, attualmente siamo nel settimo Manvantaram.
Irma
conosceva abbastanza bene l’argomento dei Saptarishi in quanto, due anni prima,
aveva conosciuto un uomo dall’età improbabile ed estremamente saggio che era
stato scelto, sotto i suoi occhi, per essere uno dei sette saggi dell’ottavo
Manvantaram, quindi si era documentata al riguardo.
Ad
ogni modo non pensava che fossero questi Saptarishi ad essere i protagonisti
dell’evento a cui aveva accennato Iravan, per cui andò avanti con le ricerche. L’unica
informazione che ottenne in più fu che Shiva aveva trascorso del tempo a Goa,
dopo un litigio con la moglie Parvati.
Nulla
da fare, ancora non emergeva nulla di interessante. Decise, allora, di
approfondire le sue conoscenze su Parashurama.
Era
la sesta incarnazione di Visnu, era nato da uno dei Saptarishi e da Renuka, la quale era una parziale incarnazione della grande
dea Shakti. Il padre fu ucciso da un nobile kshatrya, casta che aveva iniziato ad opprimere i brahmani.
Parashurama era dunque diventato un devoto di Shiva e un abilissimo guerriero e
con la sua ascia uccise numerosissimi kshatrya fino a
ripristinare la supremazia della casta sacerdotale. Era un immortale, anche lui
scelto come futuro Saptarishi e sarebbe stato il maestro d’armi di Kalki, alla
fine del Kali Yuga.
Vi
erano poi altri aneddoti, ma nessuno connesso con Goa.
Irma
allora decise di provare ad indagare i culti locali e così scoprì che lì erano
venerate in particolare cinque divinità: Devi (grande dea, declinabile in
moltissime forme), Rudra (lo Shiva più antico, il
terribile e temuto urlante di cui si parla nei Veda), Ganesh
(il dio con la testa da elefante), Keshava (anche
detto Narayana, una versione universale e più vasta
di Visnu) e Aaditya (Visnu nella sua forma di Sole, ricordata
nei Veda).
Oltre
a questi cinque dei, ce ne erano altri locali, in particolare Ravalnath, considerato un protettore del luogo dai disastri
climatici, la stregoneria e i morsi di serpenti. Questo tipo di divinità erano
chiamate Kshetrapala ed erano venerate anche in
generale, senza un’attribuzione specifica.
Alla
fine di questa ricerca, Irma fu incuriosita da come fossero rimaste radicate le
forme più antiche di Visnu e Shiva e anche dal fatto che fossero tenute in
grandissima considerazione i generici protettori. Forse questo attaccamento
poteva essere un retaggio di un antichissimo trauma subito, ma questa era solo
un’ipotesi. Di fatto non aveva trovato nulla che potesse riferirsi ai fatti
ancestrali e tremendi a cui aveva fatto riferimento Iravan.
Il
fine settimana era terminato e lei doveva ricominciare a lavorare, il mattino
seguente.
Giorno
dopo giorno, il magazzino assumeva un aspetto più ordinato, gli oggetti avevano
sempre meno segreti ed erano raggruppati secondo la tipologia e, quando era possibile,
sistemati cronologicamente.
Il
venerdì pomeriggio, Irma e Bhavani avevano preso le biciclette per recarsi al
market del paese vicino e fare la spesa. Era praticamente la seconda volta che
l’Italiana usciva dal museo, a causa della pioggia praticamente costante che
aveva caratterizzato quelle giornate. La giovane si era rivolta a Indra di ritirare le sue nuvole qualche ora, sul far della
sera e lasciare un poco di spazio a Surya, così che
lei potesse uscire, senza rischiare di inzupparsi dalla testa ai piedi.
Effettivamente il bel tempo era venuto per due o tre ore, ma lei non avrebbe
saputo dire se fosse stato un caso o se effettivamente il deva l’aveva
ascoltata.
Le
due giovani, oltre ai viveri, dovevano comprare alcune altre cose, per le quali
erano state incaricate dal museo, per cui girarono per diversi negozietti.
A
Irma il paesino sembrava più famigliare della zona del museo, che rimaneva
comunque uno splendido connubio tra natura e antropizzazione.
Le
ragazze si erano fermate in una piccola botteguccia,
formata da un unico stanzino, dentro cui stava solamente il venditore, poiché
il banco si affacciava direttamente sulla strada; le pareti erano coperte da
scaffali traboccanti di tessuti, nastri e passamanerie multicolori.
Le
giovani avevano scelto alcune delle cose da prendere, Bhavani allora domandò se
avesse anche dei piatti di carta. Il proprietario rispose di no, ma chiese
quanti ne servissero; avuta la risposta, telefonò ad un suo amico e cinque
minuti dopo, spuntò un altro uomo con un gran sacchetto di plastica blu, ne
tirò fuori un pacchetto di piatti e li mostrò alle clienti per sincerarsi che
fosse ciò che cercavano. Bhavani li esaminò ed accettò di acquistarli.
Il
venditore del negozietto diede loro il suo biglietto da visita, raccomandandosi
di rivolgersi a lui per qualsiasi bisogno, in più chiese se sapessero che la
domenica ci sarebbe stata una festa in paese e le invitò ad andarci.
Le
ragazze ringraziarono e si allontanarono, ragionando sul fatto che sarebbe
stato interessante partecipare alla festività: avrebbero chiesto maggiori
informazioni al direttore del museo.
Ripresero
le biciclette e iniziarono a pedalare velocemente: volevano rientrare prima che
si facesse buio e da quelle parti il tramonto era molto rapido, Irma non poteva
evitare di pensare, decontestualizzandolo, al verso “Ed è subito sera”.
Avevano
già attraversato la zona con le villette e stavano per entrare nel territorio
completamente naturale che circondava il museo per oltre un paio di chilometri;
sentirono dei latrati. Non vi diedero importanza, pensando a qualche cane che
abbaiasse a una mucca o un qualche altro animale. Presto, però, cinque o sei
cani spuntarono sul margine della strada, ringhiando inferociti. Cominciarono a
inseguire le biciclette.
Le
due giovani pedalarono più velocemente, per distanziarli, ma quelli correvano
rapidamente, senza smettere di guaire. Presto se ne aggiunsero un altro paio
che venivano da più avanti e dunque si lanciavano verso di loro, occupando il
centro della strada.
Irma
era spaventata: che accidenti volevano da loro? Solitamente non aveva paura dei
cani, anche perché magari qualcuno le aveva ringhiato contro, ma mai era stata
inseguita.
Sì,
sapeva che, almeno teoricamente, i cani sentono l’odore della paura e dunque
bisognerebbe fermarsi e al più provare ad intimidirli, ma temeva troppo che, se
anche solo avesse rallentato, quelle fauci l’avrebbero afferrata.
Sentiva
il cuore battere più rapidamente, le sue orecchie erano colme solo dei latrati;
guardava fisso davanti a sé ma le pareva di non vedere nulla o, per meglio
dire, la sua mente era così presa dalla preoccupazione che tutto il resto era
passato in secondo piano e ogni contorno era sfocato nella coscienza.
Era
già andata avanti di alcune centinaia di metri, ma i cani continuavano a
tallonarle. Si decise a cercare con lo sguardo Bhavani, sperando che lei avesse
idee più chiare, ma anche l’indiana pedalava dritta, senza curarsi del resto.
Irma allora voltò la testa per capire se fosse riuscita a distanzia re i cani e
ne vide uno bianco estremamente vicino alla sua caviglia. Quell’immagine bastò
a scaricare in lei una tale adrenalina da aumentare forsennatamente la
velocità; se prima lamentava la fatica per il non potere cambiare marcia, ora
Irma filava talmente rapida da far invidia a Nibali.
Si
fermò soltanto arrivata davanti al cancello del museo. Non si sentiva più
abbaiare. Poco dopo arrivò anche Bhavani che non sembrava particolarmente
scossa, anzi spiegò che ormai era abituata. Apprendendo ciò, Irma non era più
tanto sicura di voler uscire dal museo. Andò nella propria stanza dove si fece
una bella doccia prima della cena.
Il
mattino seguente, la giovane un poco indugiò a letto, sotto le pale del
ventilatore; non doveva lavorare e quindi poteva permettersi di essere un poco
meno mattiniera del solito. Nonostante si fosse concessa un poco di riposo in
più, alle nove era comunque pronta per recarsi nella sala comune a fare
colazione. Ramon era seduto con un libro in mano, ma non pareva lo stesse leggendo,
la informò che qualche animale, nella notte, aveva rovistato tra i sacchi
dell’immondizia che tenevano in veranda, spargendone in giro il contenuto.
Presto sarebbe arrivato Prabhu, il tutto fare del
museo, a ripulire, ma per il momento la veranda non era agibile. Irma allora si
preparò una tazza coi cereali e andò a mangiarla, sedendosi sulle panchine che
si affacciavano sulla stradina interna. Non le piaceva granché stare lì, dove i
visitatori potevano passare e vederla, ma aveva troppa voglia e necessità di
stare all’aperto: insomma, dopo avere passato cinque giorni in un magazzino,
aveva bisogno di aria fresca (… o per lo meno non polverosa) e dei raggi del
Sole.
Oh,
il Sole! Il dio Surya … le risvegliavano il ricordo
del suo caro padre Jerolam, chissà come stava … e chissà come stavano anche
Yacqomin e Savariappam.
Forse
avrebbe dovuto contattarli … anzi, sicuramente. Sì, aveva una gran voglia di
vederli, abbracciarli e parlare con loro ed era stata un sacco sciocca a
sentirsi a disagio per ciò che era successo due anni prima. Iravan aveva
assolutamente ragione!
Li
avrebbe contattati, più avanti, magari verso la fine del contratto di lavoro e
si sarebbe accordata per passare a trovarli in Tamil.
Era
assorta in questi pensieri, quando le si avvicinò un giovane sui trenta anni,
indiano abbastanza scuro, ma non nerissimo, capelli e barba lasciati crescere
in una maniera un po’ sbarazzina, ma non casuale. Irma si accorse di lui solo
quando il sopraggiunto esordì con un Sorry. In un fluente inglese il ragazzo le domandò se
sapesse dove trovare il direttore del museo e lei glielo spiegò garbatamente.
Lo seguì con lo sguardo e si sentì un poco in imbarazzo per essersi fatta
cogliere in un momento sovrappensiero, probabilmente sembrando un po’
rintontita. Certo non si sarebbe sentita così se il giovane fosse stato un po’
meno attraente per lei. Aveva lineamenti ben definiti e volitivi ma armonici; i
suoi occhi, per quei pochi secondi che li aveva incrociati, le erano sembrati
energici come fulmini crepitanti.
Pazienza
se non aveva fatto una buona impressione, si disse Irma, tanto quello era solo
un visitatore del museo o qualcosa di simile e non lo avrebbe rivisto.
Finita
la colazione, lavò tazza e cucchiaio e si mise a fare un po’ di esercizio
fisico nella sala comune, per compensare il lavoro sedentario che stava
svolgendo. Ramon era tornato nella propria stanza, mentre Bhavani si era
svegliata e si stava preparando la colazione con uova, cipolle e patate.
Dopo
un’oretta circa, fece capolino sulla soglia Varoichana,
appena dietro c’era il giovanotto che aveva chiesto di lui.
Il
direttore salutò le due giovani e le informò: “Lui è mio nipote Dhvana, è un musicista ed esperto di meditazione. Ci darà
una mano per alcune settimane, di quanto in quanto. Si occuperà di supervisionare
la costruzione della nuova ala, sperando che nei prossimi giorni piova meno per
poter procedere coi lavori che stanno andando a rilento.”
Il
nuovo arrivato salutò con la mano e sorridente.
Irma
notò il contrasto tra il volto spensierato, quasi felice del ragazzo, e
l’espressione seriosa dello zio. A bene pensarci, l’archeologa non aveva mai
visto il suo capo così formale, almeno in quelle due settimane, pareva come se
non fosse contento della presenza del nipote.
Varoichana continuò con le
presentazioni: “Lei è Bhavani, viene dal Karnataka ed
è tirocinante, si occupa delle visite guidate e il mantenimento delle buona
qualità delle esposizioni. Lei, invece, è Irma, me l’hanno prestata dall’Italia
per qualche mese, sta stilando un inventario del magazzino. Infine lui è Ramon
che … no! Non c’è … Sapete dove sia? Pazienza, quando vi incontrerete vi
presenterete.”
Dhvana prese la
parola: “Piacere di conoscervi, signorine. Non so se avremo molte occasioni di
incontrarci, dal momento che saremo in settori parecchio differenti, tuttavia
spero che avremo modo di conversare di quando in quando … sicuramente durante i
pasti, credo, nei giorni che sarò qui.”
“Certo,
volentieri.” rispose Bhavani, che sarebbe arrossita con una carnagione più
chiara, evidentemente anche lei scossa dal bel porsi del giovane.
“Oggi
hai intenzione di fermarti, oppure sei solo di passaggio?” domandò Irma,
chiedendosi come quelle parole fossero uscite dalla sua bocca.
“Pensavo
di restare questo fine settimana per ambientarmi e poter iniziare il lavoro
lunedì. Vi disturbo?”
“No,
no, era solo per sapere … perché i pasti, oggi e domani, li cuciniamo in
autonomia qui e dunque dobbiamo organizzarci.” Irma aveva farfugliato e sperò
fortemente che sembrasse dovuto a una difficoltà nel parlare inglese, benché la
frase fosse semplice e l’avrebbe saputa dire perfettamente in altre
circostanze. Sperò anche che Dhvana fosse antipatico,
così da smorzare ogni interesse ed evitare che lei facesse altre figure da
idiota.
“Saremmo
in quattro a cucinare ognuno un pasto diverso?” si sorprese il giovane “Sembra
dispersivo … Perché non prepariamo un’unica cosa per tutti?”
“Beh,
io vi lascio alle vostre constatazioni” intervenne Vairochana “Io torno ai miei
affari, a stasera, buona giornata.”
Più
tardi, Dhvana e le due ragazze cominciarono a
cucinare tutti assieme: chi tagliava la verdura, chi controllava le pentole. Il
risultato fu una sorta di insalata di riso, con gli ingredienti reperibili nel
frigorifero. Irma non era troppo entusiasta di mangiare riso anche quel giorno,
dato che lo avevano sempre a pranzo e a cena durante la settimana, ma non disse
nulla.
Mentre
il riso bolliva, arrivò Ramon a cui fu presentato il nuovo collaboratore e fu
molto entusiasta nell’apprendere che fosse un esperto di meditazione.
“Sono
un appassionato di meditazione” spiegò “Anche se in realtà non ho molto tempo
per praticarla, tra lo studio, la famiglia, qualche lavoretto saltuario … Ma tu
quale scuola segui? Ci sono molte varianti e filosofie.”
“Lo
so bene e ne ho sperimentate diverse ma, devo dire, che quella che mi ha
affascinato maggiormente e in cui mi sono specializzato, è la meditazione del
suono. La conosci?”
“Solo
superficialmente. È quella che coadiuva gli esercizi di concentrazione tramite
l’ascolto di suoni, vero? Non ne comprendo molto il funzionamento.”
“Si
basa su una scuola di pensiero che ritiene che il suono sia alla base di tutto.
L’universo stesso e ogni creatura sono suoni, ognuno vibra in questa immensa
cassa armonica. Ciascuno ha la propria frequenza, distinguibile da ogni altra,
è come uno specchio dell’anima: ogni esperienza lascia la sua traccia e le
emozioni la possono alterare temporaneamente. Allo stesso modo interagiscono
con essa paure, tensioni, stress e moltissime altri fattori. La relazione,
però, non è univoca, anzi! È possibile usare la musica per armonizzare ciò che
non va e per aiutare le persone a stare meglio, addirittura a risolvere i
problemi. Certo ci vuole tanta pratica oppure l’auto di un esperto.”
Irma
ricordava di avere studiato l’argomento durante il primo anno di università,
aveva un vago ricordo di un discorso sulle parole, la valenza delle lettere, il
domandarsi se le lettere mutassero in un qualche modo, quando combinate con le
altre ed era stato anche spiegato perché fosse così importante la parola AOM. Nella
sua memoria si agitavano pochi pensieri e confusi: era stato un argomento molto
difficile e che l’aveva pure annoiata. Il concetto in sé era interessante, ma
era stato affrontato in maniera molto tecnica e quasi cavillosa.
“Mi
piacerebbe provare.” affermò Ramon “Credi che avrai il tempo di insegnarmi
qualcosa?”
“Il
tempo non manca mai … il problema del tempo non è mai la quantità, bensì la
qualità. Se vuoi sperimentare qualcosa, sarò ben lieto di guidarti. Ehi,
ragazze, interessa anche a voi?”
“Sì,
certo!” esclamò Bhavani.
“Perché
no?” replicò Irma.
“Perfetto.
Allora potremmo fare oggi pomeriggio stesso, se non avete impegni. In macchina
ho qualche strumento: non esco mai senza.”
Pranzarono
e poi si divisero, ognuno assorto nelle proprie faccende, ma alle diciassette,
tutti e quattro si ritrovarono nella sala comune per la meditazione.
Dhvana aveva steso a
terra tre stuoie, mentre lui era seduto a gambe incrociate su una pelliccia
d’animale. Invitò gli altri a sedersi come lui e spiegò che quella sessione
sarebbe stata divisa in due parti. Nel corso della prima era necessario
rimanere seduti e seguire le varie istruzioni.
Illustrò
poi i tre strumenti che aveva con sé: una campana tibetana, ossia una scodella
di metallo che suonava allorché una bacchetta di ferro fosse stata fatta
scorrere sul suo bordo; c’era poi un ghatam ossia un
tamburo in terracotta simile in tutto e per tutto ad un vaso; infine uno strano
oggetto simile ad un esagono tridimensionale, non era nemmeno ben chiaro di
quale materiale fosse, le dita battute su di esso producevano un suono che
pareva provenire da un’arpa; Irma non era riuscita a capire il nome di
quest’ultimo, benché fosse quello che la intrigava maggiormente.
Cominciarono
la sessione. Innanzitutto fecero un esercizio di respirazione per liberare la
mente e iniziare a concentrarsi, dovevano respirare da una sola narice per
volta., aiutandosi con una mano a tappare l’altra.
Irma
riuscì ad eseguirlo, si sentiva molto rilassata e le mente era calma e
silenziosa.
Il
secondo esercizio prevedeva nel rimanere sempre con le palpebre abbassate e
intonare a bocca chiusa alcune note, seguendo quelle emesse da Dhvana.
Irma
riuscì a fare anche quello, poiché c’era un’azione da eseguire; pensò fosse
molto bello risuonare tutti insieme, infatti sembrava essere un’unica persona a
mormorare e non tante separate.
Il
terzo esercizio, invece, fu alquanto difficile. Dhvana
avrebbe suonato e loro avrebbero dovuto concentrarsi nel sentire l’energia
attraversare i propri palmi. Qui iniziavano i problemi per Irma: ogni volta che
in Italia aveva partecipato a lezioni di meditazione, si sentiva sempre in
imbarazzo al momento finale di condivisione delle esperienze. Tutti gli altri
raccontavano di aver sentito la tal cosa o la tal altra, di aver percepito
questo e quello, mentre lei non sentiva mai nulla. Si diceva che ciò era molto
strano perché ricordava ancora nitidamente gli effetti della meditazione con Narada e Yacqomin, ma dopo quella vicenda, non era più riuscita
a rivivere l’esperienza.
Si
perse tra questi pensieri e alla fine dell’esercizio non era riuscita a
svolgerlo, poiché si era distratta.
Dhvana annunciò che
era giunto il momento per la seconda fase che sarebbe stata unitaria: dovevano
sdraiarsi, rimanere concentrati sul respiro e ascoltare, sempre tenendo gli
occhi chiusi.
Irma
ne fu contenta, iniziava a sentire la schiena affaticata e le gambe le si erano
addormentate a rimanere incrociate per oltre mezzora. Per fortuna ora si
sarebbero stesi, perché lei avrebbe avuto seri problemi se avessero dovuto
alzarsi in piedi.
Irma
si sdraiò come gli altri, stese le braccia lungo i fianchi e chiuse gli occhi.
Era già molto rilassata dagli esercizi precedenti, provò a concentrarsi sul
respiro o sul suono.
Dhvana aveva iniziato
a suonare, non pareva esserci ritmo o melodia, erano come singole note,
estremamente delicate, che si propagavano nell’aria. Riecheggiavano con
discrezione, come domestici che non vogliono farsi notare dagli ospiti, che
fanno il loro lavoro senza che li si veda.
Presto
per Irma fu come non sentire nulla, essere sprofondata in un silenzio caldo e
accogliente, come se lei stesse vibrando sulla stessa frequenza di quelle note
e quindi non le udisse semplicemente perché ne faceva parte. Non sentiva il
proprio corpo, ma non se ne accorgeva. Tutta la sua attenzione si era ritratta
nella sua mente. Iniziò a vedere immagini. Non erano pensieri di cui aveva il
controllo, non erano sue riflessioni. Figure e forme le attraversavano la
testa, come in un sogno … eppure non stava dormendo e nemmeno si trovava tra la
veglia e il sonno.
Le
immagini si fecero più nitide e non svanivano in un paio di secondi, ma
restavano più a lungo e si evolvevano in scene. Vide cadaveri straziati, sentì
l’odore del sangue riempirle le narici, udì lamenti. Vide un villaggio di
capanne, uomini possenti e splendide donne, sfoggianti ornamenti preziosi,
passare in mezzo a gente di più modesta condizione che li riveriva; avvertì la
paura. Vide fauci sbranare carne umana.
Sebbene
quelle immagini, normalmente, avrebbero suscitato in lei orrore e inquietudine,
in quella situazione lei continuava a rimanere calma, il suo cuore non aveva
accelerato nemmeno un battito.
Vide
uomini gettati nel fango, sentì risate sprezzanti, suppliche strazianti,
lamenti e grida.
Scoppiò
una guerra. Cavalli correvano trascinando i carri da cui guerrieri scoccavano
piogge di frecce, mentre altri cozzavano le spade, sangue e metallo rivestivano
la terra come un tappeto.
D’improvviso,
però, la terra sparì, la battaglia era nel cielo, tra carri volanti che
attraversavano le nuvole. In lontananza un’isola galleggiante nell’aria.
Infine
un’ultima immagine: gente felice che passeggiava in una città d’oro.
La
voce di Dhvana richiamò lei e gli altri alla realtà.
La meditazione era finita.
Ramon
cominciò a raccontare come si era sentito durante gli esercizi, le sue
impressioni e così via. Bhavani, poi, riferì a propria volta come aveva vissuto
tale esperienza. Quando fu il suo turno, Irma parlò poco, rimanendo sul vago,
di certo non voleva condividere con loro le visioni che aveva avuto.
Ne
era certa: ciò che aveva visto non era stato frutto della sua fantasia. Non era
stato un sogno e nemmeno un ricordo di una vita precedente (o almeno, in
passato, le memorie di Dushala le erano affiorate in maniera differente), non
sapeva che come definire tutto ciò se non semplicemente chiamandole “visioni”.
Era certa che tutto ciò che aveva visto fosse accaduto realmente in passato ma
non aveva idea di come mai nella sua mente si fosse aperta una finestra su
secoli remoti.
Più
tardi, quella sera, rimasta sola, provò a cercare su un motore di ricerca “goldencities India”. Capire a
quale leggenda appartenesse la città d’oro che aveva visto, poteva essere un
buon punto di partenza e, d’altra parte, era l’unico indizio che avesse.
Purtroppo l’unico risultato che trovò fu Jaisalmer,
in Rajasthan, chiamata così per il giallo delle sue
sabbie e dei suoi edifici, trovò un riferimento ad Amritsar in Punjab, ma era anche in quel caso un nome più o meno
recente. Lei stava cercando una città mitologica, non una attualmente
esistente.
Le
venne in mente che la città di Ravana, l’Asura nemico di Rama, era descritta come fatta d’oro e
teoricamente era collocata sull’isola di Lanka. Era però certa che ce ne
fossero altre, doveva solo avere pazienza nel spulciare le varie leggende.
Guardò
il bracciale che Iravan le aveva regalato. Doveva contattarlo? Avrebbe dovuto
raccontargli ciò che aveva visto? No, lo avrebbe allarmato e basta. Lui si
stava preparando per il matrimonio e lei non voleva farlo preoccupare e
distrarre con quella faccenda.
Quella
domenica era anche la festa di San Giovanni il Battista, molto sentita a Goa
che, per via della lunga occupazione portoghese, contava molti cristiani trai
propri abitanti.
Irma
e Bhavani si ricordarono della festa di paese di cui aveva loro parlato il
venditore, due giorni prima, quindi cercarono Vairochana per chiedere se fosse
possibile andarci. Il direttore del museo accettò e disse che sarebbero andati
verso le quattro del pomeriggio.
L’Italiana
si aspettava una celebrazione come quelle a cui aveva assistito in Tamil e
dunque aveva indossato uno degli abiti indiani che aveva comprato negli anni
passati; era blu con ricami in oro, le piaceva moltissimo.
Andarono
con l’automobile. Vairochana guidava, accanto aveva il nipote, mentre gli altri
tre erano seduti sui sedili posteriori. Per strada incrociarono la processione:
una colonna di nemmeno venti persone, vestiti in maniera normale, alcuni
avevano strumenti a fiato o a percussione e li suonavano, altri portavano dei
sacchi, altri ancora di quando in quando lanciavano dei petardi.
Per
le vie, poi, si vedevano molte persone con in testa ghirlande di foglie e
fiori.
Arrivarono
alla spiaggia e scesero. La striscia di sabbia che separava la terra dal mare
era piuttosto stretta, forse poco meno di quelle che si vedono in riviera
romagnola, ben diversa dalla spiaggia chilometrica di Marina Beach a Madras.
Non c’erano nemmeno banchetti o giochi per bambini; forse a causa della
stagione delle piogge.
Dovevano
aspettare lì l’arrivo della processione. Irma allora decise di passeggiare
lungo il bagnasciuga. Il Sole non era più alto nel cielo, ma mancava ancora del
tempo, prima che si tuffasse in mare; il vento era più forte che altrove ed era
ristoratore.
Era
piacevole sentire la sabbia sotto i piedi e in quel momento la giovane riusciva
davvero a non pensare a nulla e rilassarsi; se avesse voluto pensare, sarebbe
stato uno sforzo, e quindi la sua mente rimaneva quieta.
Dopo
alcuni minuti, Dhvana la affiancò e le chiese: “Stai
bene?”
Irma
si stupì della domanda e rispose: “Certo, sto benissimo. Perché?”
“Beh,
gli altri sono seduti là e tu ti sei allontanata …”
“Non
mi andava di stare seduta, preferisco camminare. Surya
veglia su di me, Vayu mi accarezza e Varuna lambisce le mie caviglie … come potrei stare
meglio?”
“Ah,
conosci i Deva.” replicò l’uomo, freddamente.
“Li
ho studiati, sono la mia materia.” spiegò Irma, evitando di aggiungere il fatto
di aver anche parlato ad alcuni di loro.
“Quindi
sei proprio specializzata in cultura indiana?”
“Sì,
sono un’archeologa orientalista. Il mio interesse principale è l’India,
secondariamente e strettamente legato viene la Persia
Antica, poi anche Mesopotamia ed Egitto.”
“Come
mai?”
“Ho
sempre amato l’India, fin da bambina … mi hanno influenzata molto le letture.”
“Quali?”
“Principalmente
il Mahabharata.”
“Davvero
lo hai letto? Ormai tra i giovani indiani non è più un must
come lettura.”
Irma
allora spiegò come avesse incontrato quel poema e come ne aveva cercate
versioni sempre più approfondite.
Continuarono
a parlare per un poco, finché non sentirono le musiche della processione
avvicinarsi.
Tutti
i presenti si radunarono in un punto e lì presto arrivò la colonna di persone.
I sacchi furono depositati a terra e svuotati, rivelando così che erano colmi
di noci di cocco.
Un
uomo, vestito esattamente come gli altri, pronunciò una frase e poi tutti si
fecero il segno della croce. Un attimo dopo, diversi uomini stavano prendendo
alcuni cocchi e li portarono in riva al mare; avevano in mano anche lunghi
bastoni, Irma non aveva visto da dove li avessero presi, iniziarono a colpire
ripetutamente i cocchi fino a che non si spaccavano; allora li raccoglievano e
li portavano agli altri per mangiare assieme.
Dopo
che i primi cinque o sei ebbero fatto, seguiti con grande attenzione da tutti
quanti, al situazione si fece un po’ più disordinata.
Un
sorriso illuminava il volto di Irma e commentò: “Prendere a bastonare noci di
cocco in riva al mare … ecco perché amo questo paese. C’entra con San Giovanni?
Devo chiedere a tuo zio qual è il significato di questo rituale.”
“Oh,
non credo che lui lo sappia.” replicò Dhvana “Lui non
è di queste parti, si è trasferito qui dopo aver sposato mia zia Ajaya. Te lo spiego io. È un’usanza recente. Circa
centocinquanta anni fa ci fu un’epidemia e la gente non sapeva cosa fare. Gli
anziani del villaggio si consultarono e deliberarono che per allontanarla si
sarebbero dovuti rompere cocchi in mare il giorno di San Giovanni e si sarebbe
dovuto continuare a farlo ogni anno per evitare che la piaga tornasse.”
“È
meraviglioso!” commentò Irma, estasiata.
Il
giovanotto rise a bocca chiusa e osservò: “Sembri molto affascinata; vuoi
provare?”
“Da
matti! Ma posso? Vedo solo uomini che lo fanno …”
“Non
c’è problema. Prendi un cocco.”
Irma
non se lo fece ripetere, andò dove si trovavano i cocchi, ne erano rimasti
pochi, e ne prese uno. Raggiunse il ragazzo che si era procurato un bastone
lungo poco più di un metro.
Sistemarono
la noce di cocco tra la sabbia, poi la ragazza strinse il bastone e prese la
mira. Il primo colpo finì sulla spiaggia e così anche il secondo, ma dal terzo
batterono solo il frutto. Irma era determinata, vedeva solo il cocco. Sollevava
il bastone e poi lo abbatteva con forza. Il cocco a volte rotolava via a causa
del colpo subito, ma lei subito lo inseguiva o lo fermava col piede o con il
bastone. Sentiva in sé di non poter rinunciare, voleva andare fino in fondo.
Dentro di sé si sentiva pervasa da una strana sensazione selvaggia. Sferrava un
colpo dopo l’altro senza sosta: non si sarebbe fermata fino a che non avesse
rotto quel cocco. Non vedeva niente e nessuno, solo la noce di cocco e la
sabbia attorno ad essa. Sembrava stesse brandendo una spada, si destreggiava
alla stessa maniera.
Infine
la noce di cocco si ruppe, dopo meno di un paio di minuti che erano sembrati
interminabili.
Irma
la sollevò felicemente e soddisfatta andò verso il gruppetto del museo per
mostrare la buona riuscita.
Nota d’Autrice
Ringrazio tutti i miei lettori per
seguirmi, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Mi scuso per l’attesa, ma
questo racconto è un misto tra trama inventata e fatti reali che sto vivendo
durante la mia esperienza a Goa, dunque aspetto di avere qualcosa di carino da
raccontare, prima di scrivere.
Ditemi pure cosa ne pensate
Vi ricordo che questo racconto è il
seguito del mio romanzo “La chiamata di Visnu” che potete trovare qui:
Iniziò
per Irma la terza settimana di lavoro ed era convinta che entro il venerdì
avrebbe terminato di censire tutti gli oggetti nel magazzino. Aveva trovato di
tutto da utensili da cucina in legno vecchi di qualche decennio a statuette di
molti secoli addietro, sfuggite miracolosamente al periodo portoghese; vasi
assai vari per epoca e qualità, vecchi giochi di società, tavole di legno
incise e tanto altro ancora. Si domandava se avrebbe trovato altre sorprese
quella settimana.
I
giorni continuarono a trascorre, molto simili tra di loro. La presenza del
nipote dei padroni del museo non aveva alterato le abitudini, era molto
cordiale e alla sera scambiava volentieri due chiacchiere con gli altri
giovani.
Il
mercoledì, mentre erano tutti riuniti a pranzo nella grande veranda della casa
del direttore, Ajaya domandò: “Avete voglia di fare qualcosa di diverso dal
solito, questo weekend?”
Tutti
quanti risposero positivamente, incuriositi da quella proposta.
“Oh,
potremmo organizzare una gita nella jungla, che ne pensate? Un’escursione nella
natura e ci sono anche alcune cose interessanti da un punto di vista storico.
Vi interessa? Vairochana vi accompagnerà.”
Il
direttore del museo annuì e aggiunse: “La jungla è un posto molto bello e rilassante,
io ci vado quando devo schiarirmi le idee o riposarmi. Ci sono molti posti
belli da vedere e anche un fiume in cui potete fare il bagno. Non dormiremo
all’aperto ma in un rifugio ben attrezzato, non vi preoccupate.”
“Sì,
è un’ottima idea; partecipo volentieri.” rispose Irma, sollevando lo sguardo
dal piatto di riso, condito con una strana salsa di curry ed ananas.
“Io
sono pronto a qualsiasi pericolo.” si aggregò Ramon.
Bhavani
non sembrava realmente contenta di andare in gita, ma accettò ugualmente.
Dhvana domandò se l’invito fosse valido anche per lui e, avutane la conferma,
dichiarò che non vedeva l’ora: gli piaceva fare escursioni nella jungla ed era
da qualche tempo che non aveva occasione di farne una.
L’idea
di distogliere per un paio di giorni la mente dal lavoro e dalle ricerche e
quindi starsene un poco nella natura, piaceva parecchio ad Irma e spesso il suo
pensiero correva a fantasticare circa come sarebbe stato il fine settimana. Era
cresciuta leggendo le avventure salgariane e quindi immaginava l’escursione
come un piccolo sguardo dal vivo sul mondo che l’aveva fatta sognare da
bambina.
Quel
pomeriggio era uscita dal magazzino una ventina di minuti prima del solito, gli
orari non erano fiscali e lei aveva appena finito di catalogare il contenuto di
una grossa cassa e non aveva voglia di aprirne un’altra e lasciare poi il
lavoro in sospeso fino al giorno dopo.
Richiusa
la porta del seminterrato, la ragazza fece il giro della casa per prendere la
stradina che portava agli alloggi dei dipendenti; quando fu nella piazzetta
antistante la villetta padronale, lanciò un’occhiata al secondo sentiero,
quello che portava all’area dove si stava iniziando a scavare per costruire una
nuova ala. Le venne voglia di andare a vedere come procedessero i lavori e
scoprire come fosse Dhvana all’opera.
Arrivò
sul posto e vide il vasto rettangolo di terra scura, circondato dall’erba verde
acceso, faceva impressione il contrasto. Vide quattro o cinque uomini, curvi
sulla terra che armeggiavano con strumenti che non riusciva ad identificare. Il
giovane stava dando delle direttive in lingua konkani e dunque l’italiana non
le capì; lo trovò che stava spostando la terra smossa.
“Che
cosa ci fai, qui?” domandò Dhvana, sorpreso, ma gentile.
“Volevo
vedere come procedevano le cose qui.”
Il
giovane scosse il capo e disse: “Male, purtroppo. Siamo molto lenti. Dobbiamo
ancora finire di drenare l’acqua in eccesso accumulata con le piogge dei giorni
scorsi. Inoltre, bisognerà stare attenti e setacciare bene la terra, perché
potrebbero esserci cose interessanti per lo zio. Guarda qui cos’è saltato fuori
oggi.”
Dhvana
si spostò sotto a una tettoia dove si trovavano un bagno, lavandini, un
tavolaccio e dove erano sistemati gli attrezzi durante la notte. Irma lo seguì
e trasalì nel vedere tre monete sul tavolo, in mezzo a bicchieri e fogli con
bozze di progetti. Erano ancora sporche, nonostante fosse stata rimossa la
maggior parte della terra, erano rovinate ma si poteva ancora capire che
fossero in oro. Ne prese in mano una per osservarla meglio e distinse
l’immagine battuta: un uomo alato con testa di uccello.
“Questo
è Garuda …!” sussurrò lei, sorpresa e eccitata per la scoperta.
“Brava,
esatto. Sai riconoscere anche le altre?” Dhvana la mise alla prova, sorridendo.
Irma
prese le altre due e ragionò ad alta voce: “Questa scimmia in posizione
devozionale è sicuramente Hanuman. Qui, invece, due uomini armati di arco e una
donna … devono essere Rama, sua moglie Sita e il fratello Lakshmana …”
“Tre
su tre. Mio zio ha scelto una collaboratrice esperta, nonostante la tua origine
occidentale.”
“…
è incredibile! Non mi aspettavo certo di imbattermi nel rinvenimento di monete
antiche! Sono sicuramente precedenti al 1469, perché in quell’anno Goa passò
sotto il controllo del Sultano di Gulbarga e poi passò ai Portoghesi; monete
con immagini induiste devono essere necessariamente precedenti. Probabilmente
saranno dei Vijayanagara, le figure fanno riferimento alla loro propaganda
politica. Chissà se si riesce a leggere il nome.”
Irma
controllò il rovescio delle monete, cola di una curiosa frenesia. L’alfabeto
non era quello che meglio conosceva, bensì quello della lingua Kannada e già
ciò le confermò che aveva indovinato la dinastia che le aveva emesse. Dopo
averle esaminate attentamente, disse: “Il nome credo sia Harihara, ma non
dovrebbe essere il fondatore della stirpe, bensì il terzo imperatore poiché è a
lui che si attribuisce la conquista di Goa. Incredibile! Sarà un ritrovamento
casuale? Ricordo che quando andavo in giro con gli amici del gruppo
archeologico, in Italia, usando il metal detector … so che non si dovrebbe
fare, ma … va beh, non c’entra, comunque, ci capitava di trovare monete romane,
senza che fossero legate ad un sito. Sarà un caso averle trovate qui? Forse più
sotto c’è altro e bisognerebbe scavare con più attenzione, magari fare qualche
saggio col metodo stratigrafico e poi decidere come procedere … Cielo! Sto
parlando come se fossi la responsabile di questo posto, scusami … però,
accidenti, tre monete d’oro! Sono straordinarie. Bisognerebbe allertare la
sovrintendenza o qualsiasi organo governativo si occupi di queste cose da voi.
Lo farai? Ma le avete trovate assieme? Erano vicine oppure sparse? Forse
potrebbe esserci un tesoretto nascosto volutamente; insomma, tre monete d’oro
dello stesso periodo, trovate nel raggio di pochi metri, fan venire il sospetto
che non sia uno smarrimento casuale … Ehi, ma mi stai ascoltando?”
Irma
aveva parlato in preda all’entusiasmo, infilando una parola dietro l’altra con
grande velocità; solo ora si accorgeva di non avere forse la massima
attenzione, notando che Dhvana la stava osservando molto assorto, ma sembrando
assente.
Il
giovane si scosse e disse: “Sì, sì, ti sto ascoltando … Essendo noi un museo,
possiamo condurre ricerche o scavi senza chiedere autorizzazioni, infatti
adesso voglio mettere maggiore attenzione. Purtroppo non so come fossero
collocate: le ho trovate tra la terra spostata e infatti ora voglio controllare
se ce ne sono altre. Scusa se sono sembrato distratto, ma stavo guardando il
tuo braccialetto. È molto particolare.”
Irma
corrugò la fronte, perplessa: come si poteva pensare al suo bracciale, davanti
ad un ritrovamento del genere?
“Dove
lo hai preso? Qui in India?”
“È
un regalo di un amico, a dire il vero, comunque sì, lui è indiano.”
“Caspita,
è un regalo piuttosto di pregio, sei fortunata. Posso vederlo?”
La
ragazza esitò: non lo aveva mai tolto, da quando Iravan glielo aveva consegnato
e non era sicura di quel che sarebbe successo se lo avesse sfilato, per cui
rispose: “È complicato da sfilare, però puoi toccarlo, se vuoi.”
Dhvana
si avvicinò e posò due dita sulla testa del serpente d’oro, dopo un paio di
istanti le ritrasse, bruscamente e borbottò: “Bah, così non è che riesca a
vederlo meglio. Pazienza! Ti va di aiutarmi a setacciare la terra? Vorrei
controllarla tutta, prima di cena; se stanotte piovesse, sarebbe più
difficoltoso cercare domani nel fango.”
“Va
bene, volentieri.” accettò Irma, ben contenta di concedersi un momento di
archeologia.
I
due giovani frugarono e setacciarono la terra rimossa quel giorno e vi
trovarono altre tre monete sempre d’oro e del regno di Harihara II, una
rappresentava Krisna col flauto, un’altra Narashima (l’avatar di Visnu con la
testa da leone e il corpo umano) e l’ultima con un cinghiale che oltre ad
essere simbolo della dinastia era anche un’altra delle manifestazioni di Visnu.
Tornarono
agli alloggi che era già stata servita la cena da diverso tempo, per fortuna
Bhavani e Ramon si erano ricordati di tenere qualcosa da parte per loro.
Mangiarono, parlottando fittamente tra loro delle possibili spiegazioni a quei
ritrovamenti ed Irma si lanciava in fantasiose ipotesi e ricostruzioni.
Stabilirono di riferire tutto quanto a Vairochana il giorno seguente a pranzo.
“Zio,
ci sono delle novità!” annunciò Dhvana, sorridente, mentre si metteva nel
piatto un pesce intero, impanato e fritto nella farina di mais.
“Di
che tipo?” domandò il direttore con aria piuttosto seria.
“Spostando
i primi strati di terra, abbiamo rinvenuto otto monete antiche.”
“Otto?!
Ne avete trovate altre due?” domandò Irma che non era stata aggiornata “Che
cosa vi è raffigurato? Sono sempre di Harihara II?”
“Sì,
più tardi te le mostro.” rispose lui, sbrigativo, per poi rivolgersi nuovamente
allo zio: “Pensavo di procedere con metodo stratigrafico. Rallenta i lavori,
certo, ma permette di esaminare meglio la situazione. Se scendendo ancora di
venti o trenta centimetri non troviamo nulla, allora queste monete saranno
state perse per caso, ma se dovesse esserci qualcosa di più importante, è bene
scoprirlo con i mezzi adeguati. Potremmo trovare resti importanti della
presenza Vijayanagara, oppure quel che resta di un tempio non completamente
distrutto dai portoghesi … qualsiasi cosa ci sia là sotto, porterà al museo
benefici maggiori della nuova ala. Concordi?”
“Abbiamo
trovato qualcosa di molto importante, stando ai tuoi discorsi.” replicò
Vairochana, che non sembrava contagiato dall’entusiasmo.
“Potremmo.
Bisogna appunto fare scavi più approfonditi, ma io sento che è il posto giusto.”
“D’accordo,
hai il mio benestare.” il direttore lo disse più per formalità che non come
vera autorizzazione, sapendo bene che il nipote avrebbe agito comunque di testa
propria.
“Scusi”
intervenne allora Irma “Avrei allora anch’io una richiesta da avanzare. Io
prevedo di concludere entro domani il lavoro in magazzino; dal momento che sono
qualificata come archeologa e ho già partecipato ad uno scavo in India, mi
sarebbe cosa gradita essere assegnata a questa indagine, se non è un problema.”
“Da
questo punto di vista hai sicuramente più competenze di mio nipote … d’altra
parte sarei di nuovo sotto organico …”
Vairochana
rimase in silenzio, meditante, mentre il suo sguardo vagava. Incrociò gli
splendidi occhi della moglie che schiuse le carnose labbra per dire: “Dhvana ha
ragione a dire che quel che sta emergendo ha sicuramente più importanza e
valore dell’attuale museo. È meglio impiegare le nostre risorse dove possono
portare maggiori risultati, pazienza se per qualche settimana saremo con un
aiuto in meno per altre cose.”
Il
direttore si convinse e sospirò; dopo aver confermato alla ragazza che avrebbe
potuto seguire gli scavi, cambiò repentinamente umore e si fece molto allegro
nel dire: “Allora, stasera iniziate a preparare gli zaini per l’escursione nella
jungla, perché sabato partiamo presto e quindi domani li dovrete avere già
pronti.”
Continuò
poi elencando le cose che era necessario o caldamente consigliato portare.
Più
tardi, sotto sera, Irma si recò nuovamente nella zona di scavo per essere aggiornata
su quanto emerso nelle ultime ore. Il numero delle monete era aumentato
nuovamente a undici e ognuna raffigurava una manifestazione differente del dio
Visnu: dormiente sul suo serpente, accompagnato dalla moglie Lakshmi,
tartaruga, pesce, il minuto Vamana.
“Non
trovi sia singolare e possa celare un qualche significato?” domandò Irma,
mentre mettevano le monete appena ritrovate nell’olio d’oliva per consentire
una migliore pulitura il giorno successivo.
Erano
nella sala comune a svolgere quell’operazione; le incrostazioni non erano
eccessive e dunque Irma aveva ritenuto non ci fosse bisogno di ricorrere
all’elettrolisi per ripulirle.
“Che
cos’è che trovi strano?”
“Sulle
monete ci sono solo riferimenti a Visnu, eppure tra i Vijayanagara erano
coniate con immagini di molte altre divinità, anzi era molto più diffuso Shiva,
dal momento che i regnanti erano shivaiti, quindi mi incuriosisce il fatto che
qui non compaia nemmeno una volta. Perché? La regione era visnuita e quindi
c’erano coni speciali per la diffusione qui? Oppure qui c’era un tempio o un
qualche luogo sacro legato a Visnu e queste monete erano lasciate come un
omaggio? Certo, undici monete sono poche, in realtà, per fare teorie, però mi
incuriosisco lo stesso.”
“Fai
bene.” replicò Dhvana “Formulare supposizioni e ipotesi è giusto, l’importante
è non affezionarsi ad una teoria. È bene formularne il più possibile e bisogna
essere disposti ad escluderle allorché emergano nuove prove che le confutino.”
Irma
fu positivamente sorpresa da quella giusta osservazione; sorrise. Dhvana
ricambiò e rimasero qualche istante a fissarsi negli occhi.
“Ciao,
siete già qui?”
Era
entrata Bhavani che aveva appena finito di lavorare. Continuò chiedendo:
“Sapete cosa sia successo?”
“In
che senso? Dove?” domandò Irma.
“Non
so. Sono andata all’ufficio di Vairochana per consegnargli i documenti di oggi,
ma la porta era chiusa a chiave e ho sentito che stava discutendo piuttosto
animatamente con la moglie. Mi sembrava lui quello più contrariato, mentre lei
era fredda e decisa … o almeno questa è stata l’impressione che ho avuto io.
Parlavano in konkani, quindi io non l’ho capito. Voi sapete cosa sia successo?”
“No,
non ne abbiamo idea.” rispose Dhvana “Magari vado a controllare. Voi, comunque,
non preoccupatevi.”
Il
giovanotto uscì. Rientrò solo un’ora più tardi, quando la cena era già stata
portata. Agli sguardi interrogativi rispose dicendo che si era trattato di un
dissapore privato tra gli zii, per una questione di soldi, nulla che
riguardasse loro.
Il
giorno dopo, tuttavia, Vairochana fu meno loquace e anche il sabato, quando
partirono per la jungla, a Irma parve meno entusiasta di quello che si sarebbe
aspettata, considerando come lo aveva sentito parlare nei giorni precedenti.
Con
la macchina raggiunsero il confine con l’area protetta dove cresceva rigogliosa
la jungla, che ormai si presentava come una riserva naturale; era in una zona
di alture e con l’auto avevano percorso diversi tratti di strada in salita.
Lasciarono l’automobile in sosta in uno dei parcheggi dedicati proprio agli
escursionisti. Zaini in spalla si inoltrarono lungo un sentiero.
La
jungla era meno selvaggia di quanto Irma si aspettasse. La giovane era stupita
per l’altezza delle piante che davano l’impressione che quella foresta
esistesse da secoli o millenni, ma era anche molto tranquilla e silenziosa,
fatta eccezione per i cinguettii e dopo due ore di marcia non aveva visto
animali se non qualche scoiattolo e qualche farfalla che non risaltava per
grandezza o colore. Irma non percepiva una gran differenza tra il passeggiare
lì o tra i boschi dell’Appennino, tuttavia era ugualmente un’attività piacevole
e rilassante. La sua mente, però, non riusciva a rimanere vuota e silenziosa
per godersi il paesaggio, ma si riempiva di pensieri che si susseguivano come in
un flusso di coscienza, erano comunque pacifici e non la turbavano.
Era
passata da poco la metà della mattina, quando Vairochana li condusse in un
sentiero secondario che scendeva di alcune decine di metri. La vegetazione era
molto fitta e si poteva guardare solo a breve distanza, tuttavia si sentiva
distintamente lo scroscio di acqua corrente, era molto forte e impetuoso:
doveva trattarsi di un grande fiume.
Quando
arrivarono in fondo alla discesa, la vegetazione si interruppe d’improvviso e
loro poterono vedere che in realtà il rumore che li aveva accompagnati era
quello di una cascata altissima che precipitava in un piccolo laghetto e poi
defluiva placidamente in un fiumiciattolo. Rocce e sassi circondavano la pozza
e c’era anche una spianata di pietra liscia e piatta, forse levigata dalle onde
di un fiume più grande, molti millenni addietro.
Vairochana
li condusse proprio su quella parte e ordinò loro di togliersi le scarpe per
non rovinare nulla. Uno sguardo superficiale, infatti, non avrebbe notato nulla,
ma un’osservazione più approfondita e un occhio capace di mettere a fuoco le
cose facevano riconoscere delle antiche incisioni nella roccia. Erano
soprattutto animali: il bufalo, la mucca gobbuta, antilopi, un pavone e altri
volatili; l’unico disegno che aveva un soggetto differente era una sorta di
spirale che a Irma ricordò parecchio la forma di un labirinto ayurvedico che
aveva già visto in più occasioni passate, costruito ovviamente non per far
perdere le persone, ma per i benefici che ne avrebbero tratto camminando lungo
le linee fino al centro e poi a tornare indietro.
Vairochana
spiegò che quella era solo una parte delle 125 incisioni trovate lungo il corso
del fiume Kushavati, erano state datata tra i seimila e gli ottomila anni prima
ed erano attribuiti ad una praticamente sconosciuta tradizione sciamanica, di
cui erano l’unica testimonianza, al momento. Erano note anche col nome di
“rocce tagliate di Usgalimal”.
Irma
fu molto contenta di scoprire quel tassello di storia che non conosceva e restò
ad osservare a lungo ogni incisione, fotografandola per poter poi riguardarle
con calma ogni volta che lo desiderasse.
Si
domandò anche se quell’antica cultura fosse collegata alle visioni che aveva
avuto durante la meditazione, oppure alle leggende a cui aveva accennato
Iravan. Ci avrebbe pensato: quello non era il momento adatto per le congetture.
Gli
altri, intanto, si erano messi in costume da bagno e si erano immersi nel
laghetto per una nuotata. Irma li raggiunse e si unì a loro. Non aveva mai
nuotato da nessuna parte in India ed erano passati molti anni anche dall’ultima
volta che si era bagnata in un fiume o in un lago anche in Italia. Lo trovò
estremamente piacevole: stare in acqua era ciò che la rilassava più di ogni
altra cosa e avrebbe potuto stare a mollo per ore e ore, ma furono richiamati a
riva per il pranzo.
Mangiarono
dei tramezzini che si erano portati dietro e nel frattempo si asciugarono al
Sole, dopo un breve riposo, ripresero il cammino.
Fu
faticoso risalire il ripido sentiero che li aveva portati alla cascata e,
arrivati in cima, si fermarono a bere e riprendere fiato.
Proseguirono
l’escursione e non incrociarono mai altre persone lungo il tragitto. Dopo oltre
due ore e mezza, il direttore di fermò e comunicò che stavano per addentrarsi
in un tratto dove non c’era il sentiero e quindi dovevano rimanere ben in fila
compatta, senza perdersi di vista. Si addentrarono nel fitto della jungla; le
piante rimanevano distanziate e quindi permettevano il passaggio, ma tra l’una
e l’altra crescevano arbusti e cespugli, l’erba era alta e adesso si sentivano
molti versi di animali, i loro movimenti che scuotevano le fronde. Il terreno
non era uniforme ma aveva qualche piccola altura sparsa qua e là, generalmente
non più alte di tre metri, ma molto lunghe.
Dopo
un bel po’ che si erano addentrati per quelle strade non battute, Vairochana
indicò un’altura dritta davanti a loro. Avvicinandosi, notarono che le piante
cresciute attorno avevano nascosto una lunga fenditura che l’attraversava
interamente. Di fatto si trattava di una caverna a livello del terreno e poco
profonda. Vi entrarono e accesero le torce per vederla meglio, infatti da fuori
non penetrava abbastanza luce per illuminarla.
Nelle
pareti erano state scavate alcune nicchie che ora non contenevano più nulla;
per terra si trovavano canalette artificiali che probabilmente erano servite
per far defluire liquidi fuori dalla grotta. Ciò che saltava maggiormente
all’occhio, però, era una sorta di grande seggio a più posti e un
parallelepipedo che presumibilmente aveva avuto la funzione di altare; entrambi
erano stati scolpiti nella roccia in situ e non portati da altrove, quindi
forse tutta l’intera grotta era stata costruita artificialmente. Il che non
stupì per nulla Irma, aveva ben presente la straordinaria abilità degli indiani
di lavorare la roccia e il suo pensiero corse immediatamente al Kailasa di
Ellora che si stentava a credere fosse stato scolpito e non edificato, eppure
era emerso dalla pietra; oppure pensò ai Pancha Ratha della sua amata Mamallapuram.
La grotta in cui si trovavano in quel momento era un lavoretto da dilettanti o
l’effetto di un progetto abbandonato sul nascere, se confrontato con i numerosi
altri esempi.
Erano
però molto carine tre statuette di leoni, abbastanza naturalistiche e non con
le corna, come quelle diffuse in Tamil.
Vairochana
spiegò che anche quel luogo aveva la stessa datazione delle incisioni e che
forse aveva avuto funzione funeraria, poiché vi erano state trovate molte ossa
umane, ma anche di animali, forse lasciati come offerte per le divinità o come
dotazione dei defunti. In realtà il tutto era stato rinvenuto durante il periodo
Portoghese e quindi non si aveva la certezza di cosa fosse stato trovato, in
quale modo e quale sorte avesse avuto successivamente. Le fonti parlavano anche
di una grotta di Hanuman, ma lui non era mai riuscito ad individuarla.
Irma
la ispezionò in ogni centimetro, alla ricerca di qualche dettaglio che potesse
essere interessante, ma sfuggire a un rapido sguardo; Ramon gridò alcune
parole, come se stesse testando l’eco; Dhvana non sembrava molto interessato e
si era appoggiato al seggio, canticchiando a bocca chiusa, aspettando che gli
altri fossero pronti; Vairochana, invece, era rimasto immobile accanto all’altare,
con lo sguardo perso; Bhavani esaminava soprattutto il sistema delle canalette.
Dopo
aver scattato altre foto, uscirono e tornarono indietro; le due ragazze
espressero la loro ammirazione a Vairochana per quanto fosse abile ad
orientarsi, loro non erano riuscite a trovare punti di riferimento per
riconoscere il percorso del ritorno.
Instradati
nuovamente nel sentiero principale, in meno di un’ora arrivarono in una radura
molto piccola, attraversata da un torrentello, l’unica altra cosa che c’era era
una capanna in legno e fango. Dei pali spessi erano stati posizionati ai
quattro angoli e a metà delle pareti, erano uniti da un muro fatto da canne
intrecciate poi ricoperte di terra; non c’era il pavimento e il soffitto
consisteva in due travi incrociate su cui potevano essere distese larghe foglie
di palma. Quello era il rifugio in cui avrebbero trascorso la notte.
Fuori
dalla capanna c’era una coppia di mezza età con abiti tradizionali: torso nudo
e dhoti per lui, sari per lei, i colori erano stinti e i bordi usurati. La
donna stava impastando una palla di farina e acqua, mentre l’uomo cercava di accendere
un fuoco sotto al fornello, che consisteva in un cubo aperto da un lato e vuoto
all’interno, era in terra che si era cotta naturalmente con il fuoco che veniva
acceso al suo interno.
Quando
videro il gruppo arrivare, i due signori non interruppero il loro lavoro, ma
quando furono a portata di voce li salutarono con grande cordialità.
L’uomo
aveva acceso il fuoco e si rivolse a loro in lingua konkani. Vairochana tradusse:
l’uomo si era detto veramente felice di avere ospiti; non capitava spesso che
la gente si fermasse lì, quindi era molto contento; la moglie si sarebbe
preoccupata di preparare la cena anche per loro.
Li
condusse a vedere l’interno della capanna che era molto largo e quasi
completamente spoglio, c’erano solo alcuni vasi, delle stuoie e delle stoffe
ammucchiate tra due angoli, poi uscirono perché c’era troppo caldo.
Volle
mostrare loro anche l’altare privato che si era costruito dal lato opposto
rispetto a quello in cui cucinavano e mangiavano. C’erano due cubi di terra, su
uno aveva modellato un lingam che emergeva dalla yoni, il ché lo indicava come
shivaita; la seconda scultura, piuttosto rudimentale, presentava un uomo con
serpenti al posto dei capelli, una collana di teschi, teneva nelle quattro mani
una coppa, un tridente, un arco e una freccia; stava cavalcando un toro dalle
alte corna che, in un primo momento, erano sembrate orecchie ad Irma e quindi
lo aveva scambiato per un asino. Capì, comunque, che si trattava di Rudra. Le
sembrò una scelta strana, però di ricordava che quello era una delle cinque divinità
principali di Goa; inoltre pensò che avesse una certa logica venerare il dio
della tempesta e delle malattie per chi viveva nella jungla, in balia degli
elementi e senza igiene e medici.
L’uomo
prese una campana posta tra i due cubi e la suonò, poi si stese a terra con il
viso rivolto al suolo, congiunse le mani sopra la propria testa e pronunciò una
preghiera sottovoce, difficile da capire.
Irma
domandò a Dhvana se lui l’avesse capita. Il giovane le spiegò che era uno dei
tanti inni pronunciati per placare la furia di Rudra, supplicandolo di essere
pago delle offerte e dei sacrifici e non imperversare su di loro.
Tornarono
sul davanti della casa e trovarono la proprietaria intenta a tagliare verdura e
frutta selvatica. Le offrirono aiuto, ma lei rifiutò categoricamente: nessun
ospite doveva lavorare, avrebbe fatto tutto da sola.
Gli
escursionisti allora si sedettero a riposare, bere e chiacchierare tranquillamente.
La
cena fu servita su foglie di palma, adagiate al suolo; non c’erano né piatti,
né posate, solo delle tazze per l’acqua. L’uomo pronunciò un’invocazione alle
divinità e gettò qualche pezzetto di cibo alle proprie spalle, come offerta agli
spiriti.
Mangiarono
tranquillamente, rimasero un poco svegli per digerire e guardarono le stelle in
un cielo che, per la prima volta, Irma notò fosse nero e non semplicemente blu
scuro come quello a cui era abituata in Italia.
Si
coricarono poco più tardi. Entrarono nella capanna, ognuno prese una stuoia, la
distese e vi si sdraiò sopra, mentre il proprietario toglieva le foglie dal
tetto per far entrare un poco d’aria fresca.
Si
addormentarono subito, stanchi dalla lunghissima escursione.
Irma
stava sognando di essere coi nipoti al parco e di star giocando con loro,
quando si avvicinarono alcune scimmie che li guardavano incuriosite, prima
interagivano con timidezza, poi iniziavano ad agitarsi e ad urlare. Strillavano
così forte che Irma si svegliò. Attorno a lei non c’era il silenzio, poiché l’aria
era colma del frinire di grilli e cicale e del gracidare delle rane, comunque
non c’erano scimmie in vista. Stava per rimettersi a dormire, quando si rese
conto che Bhavani magari. Probabilmente si era alzata per andare in bagno,
eppure Irma fu colta da una spiacevole sensazione, il presentimento di un
pericolo. Decise di rimanere sveglia fino a che l’amica non fosse ritornata. Dopo
diversi minuti, però, non era ancora rientrata. Si alzò in piedi e uscì per
controllare: magari Bhavani non riusciva a dormire, oppure cercava più fresco,
dunque l’avrebbe trovata appena fuori dalla porta.
Nessuno
all’esterno della capanna.
Irma
si preoccupò seriamente, ragionò circa se convenisse svegliare gli altri per
andare a cercarla, ma temette che qualcuno dei compagni potesse centrare con
quella sparizione. Un’idea assurda? Beh, da un punto di vista logico sì,
tuttavia dentro di sé sentiva di non potersi fidare e che avrebbe dovuto
affrontare quella situazione da sola.
Prese
lo zaino e se lo mise in spalla e tirò fuori la torcia per partire alla ricerca
dell’amica, per fortuna la Luna era quasi piena e rischiarava la terra,
nonostante l’oscurità del cielo. Raggiunse il sentiero e lo percorse a ritroso.
Bhavani era realmente andata in quella direzione? Impossibile a dirsi, ma Irma
si fidava del proprio istinto.
Fino
a qualche anno prima, non si sarebbe mai avventurata in un bosco da sola nel
cuore della notte, nonostante fosse su un sentiero. Nemmeno in quel momento i
sentiva a proprio agio e, infatti, il cuore le batteva piuttosto rapidamente e
doveva impegnarsi a respingere la paura, ogni volta che sentiva un rumore. Aveva
però imparato che le situazioni vanno affrontate, non si può rimanere fermi,
bisogna reagire a dispetto di insicurezze e timori. Se la sua amica era davvero
in pericolo, chi l’avrebbe salvata, se lei non fosse stata coraggiosa?
Procedeva
alternando la corsetta alla marcia rapida, per poter recuperare terreno, senza
affaticarsi e spezzare il fiato. Di Bhavani, però, non c’erano traccia. Solo dopo
una mezzora, Irma vide una figura umana, più avanti di lei di una trentina di
metri, abbandonare il sentiero e scivolare tra gli alberi. La giovane ricordò
quanto intricato fosse il percorso nella jungla e allora urlò il nome dell’amica,
sperando di fermarla e farla tornare indietro. Inutile.
Irma
entrò nel fitto della foresta, correndo, cercando di raggiungere l’altra
ragazza, ma la perse di vista. Si ritrovò a vagare nelle tenebre, con la torcia
che illuminava a malapena un paio di metri attorno a lei. Vedeva radici e
cespugli tra cui si muovevano animali discreti che sfuggivano alla sua vista.
Dove
andare? Non lo sapeva, non era nemmeno certa che voltandosi sarebbe riuscita a
tornare al sentiero. Voleva comunque continuare la ricerca, poco le interessava
se si stava smarrendo. Pensò alle conseguenze della sua ostinazione, ma decretò
che l’aiutare Bhavani era più importante e si augurò che Visnu la proteggesse. In
fondo era anche colpa o merito di quel dio, se aveva il presentimento di un
pericolo e voleva sventarlo.
Si
guardò attorno, cercando un’ispirazione per decidere dove dirigersi. Notò delle
luci che volavano tra le piante, anche attorno alle chiome più alte. Sembravano
lucciole, ma il loro bagliore era molto più grande. Erano cinque e si
avvicinarono tra loro per poi volteggiare fino a un paio di metri davanti ad
Irma.
Erano
insetti normali? Forse in India le lucciole erano di dimensioni maggiori.
La
ragazza mosse qualche passo nella loro direzione e loro rimasero sospese dove
erano. Lei le raggiunse e, prima di riuscire a metterle a fuoco, esse
ripartirono, spostandosi lentamente come se volessero essere seguite.
Ecco,
a quel punto Irma poteva essere certa che non si trattava di normali insetti. Si
augurò che fossero lì per aiutarla e le seguì.
Avanzò
tra gli alberi stando attenta a non inciampare; le lucciole l’attendevano, se
si attardava e poi ripartivano sempre in tempo per non farsi raggiungere.
Irma
non aveva idea di da quanto stesse camminando, la preoccupazione, l’oscurità e
il non conoscere il posto le rendevano distorta la percezione del tempo.
Si
domandò chissà perché in Italia la sua vita fosse tranquilla e normale e,
invece, in India si ritrovasse coinvolta in eventi sovrannaturali. Tra l’altro,
quella notte, non c’erano neppure i suoi amici ad aiutarla. Forse avrebbe
dovuto chiamare Iravan. Come funzionava il bracciale? Come poteva servire per
comunicare con lui? E poi quanto tempo avrebbe impiegato ad arrivare? Se fosse
giunto quando ormai la faccenda era risolta? Oppure se lo avesse scomodato
inutilmente? Preferì proseguire da sola e avere maggiori informazioni, prima di
chiedere aiuto al naga.
Le
lucciole iniziarono ad illuminare un’altura. Irma la riconobbe immediatamente:
era la grotta dove erano stati quel pomeriggio. Le luci si precipitarono all’apertura
e mostrarono una figura umana che stava entrando.
Era
Bhavani?
Le
lucciole si mossero nuovamente a gran velocità, tornando verso la ragazza e
sollecitandola ad andare avanti.
Irma
non perse ulteriormente tempo e andò nella grotta.
Era
leggermente diversa da come era apparsa nel pomeriggio: c’erano candele e
incensi che bruciavano.
Non
ebbe il tempo di domandarsi chi potesse aver portato lì quelle cose, poiché
immediatamente si accorse che Bhavani si stava stendendo sopra l’altare.
“Oh, doppia porzione! Ma che bella sorpresa …”
Una
profonda e cupa voce echeggiò nella caverna.
Irma
si guardò attorno alla ricerca di chi avesse parlato, ma non vi era nessun
altro.
“Tu sei molto sostanziosa … tu potresti
bastare per ristorarmi completamente … eppure non ti hanno scelta … sei venuta
qui cosciente, non ti hanno mandata … perché? Perché avendo te, mi hanno
servito un’altra? Poco male, visto che sei qui …”
“Chi
sei?!” urlò Irma, con grande forza “Chi sono quelli che hanno fatto venire
Bhavani qui e come?”
Non
ci fu risposta.
Gli
occhi nelle tre statue dei leoni brillarono, crebbero di misura, un ruggito le
scosse dando loro vita. I tre felini di pietra balzarono verso Irma e la
circondarono.
La
donna ebbe paura: doveva agire, non aveva modo di prendere tempo.
Erano
due anni che non ricorreva ai propri poteri, non ne aveva più fatto uso, dopo
la sconfitta di Hiranyakshva. Si concentrò profondamente, sperò di ritrovare
rapidamente le memorie di Dusshala, in fondo ogni tanto, in sogno, ancora
vedeva frammenti della sua vita precedente, quindi forse non sarebbe stato
difficile ritrovare il contatto con essa.
Le
labbra di Irma si schiusero e lasciarono uscire un mantra per il dio Vayu. Un
piccolo vortice d’aria la circondò, poi il vento soffiò violentemente,
sbalzando indietro di alcuni metri i leoni.
Irma
ne approfittò per raggiungere l’altare, dove Bhavani era sdraiata con gli occhi
spalancati, come fosse in trance. Provò a svegliarla e la scosse, ma nulla
servì. Intanto i leoni stavano già tornando all’attacco.
Questa
volta la giovane pronunciò un mantra di Indra e così tre fulmini colpirono in
pieno i leoni.
“Oh, sì … tu mi ridarai il mio vigore … non
puoi nulla contro di me: la pietra resiste a tutto. Lascia che io mi nutra, in
un certo senso non morirai del tutto …”
Irma
non sapeva cosa fare: se nemmeno i fulmini erano riusciti a mandare in frantumi
quelle bestie, che cosa poteva fermarle?
Doveva
cercare di trattenerle il più a lungo possibile e contattare Iravan, lui
sarebbe venuto armato.
Usò
un mantra di Bhumi e la roccia sotto le zampe si trasformò in molle fango che
le risucchiò prima di solidificarsi e tornare pietra. Ecco, quello avrebbe
dovuto trattenerli per un poco.
La
donna sollevò Bhavani e se la caricò in spalla e raggiunse l’uscita.
“Non andrai lontano!”
I
leoni spezzarono la roccia che li tratteneva e si slanciarono all’inseguimento.
Irma si era allontanata solo di pochi metri, poiché era faticoso trasportare
una persona a peso morto, in più stava cercando di capire come il bracciale
potesse fungere da comunicatore.
Udì
i ruggiti vicini.
Un
grande tonfo che fece tremare la terra.
Irma
si voltò e vide un’enorme scimmia, alta tre metri che brandiva una mazza e si
apprestava ad abbatterla in testa ai leoni.
“Hanuman
…?” farfugliò la donna, confusa.
La
scimmia si voltò un istante a guardarla per farle capire che doveva andare.
Irma
si sentì sicura, tornò a camminare, sperando di non perdersi. In suo aiuto
ritornarono le lucciole giganti che la guidarono fino a ritrovare il sentiero.
Bhavani
era uscita dallo stato di trance, ma non si era svegliata; ora aveva gli occhi
chiusi e dormiva profondamente.
Non
fu facile per Irma trasportarla fino al rifugio, ma vi riuscì. La risistemò
sulla stuoia, poi si sdraiò anche lei. Si ripromise di non dormire, per
continuare a vegliare, ma alla fine la stanchezza ebbe la meglio e si
addormentò. Scivolò nel sonno domandandosi chi potesse essere l’entità che
abitava nella caverna e con chi fosse in combutta. Chi poteva essere incorporeo
o invisibile e avere bisogno di nutrirsi di carne umana? Chi poteva essere
disposto a procurargliela?
Un
motivo per cui voleva rimanere sveglia era anche il poter osservare le reazioni
di tutti gli altri allorché si fossero accorti che non mancava nessuno all’appello
e così forse capire chi potesse essere coinvolto. Purtroppo si addormentò e
quando si destò il mattino era già inoltrato e i suoi compagni avevano già
finito la colazione.
Più
tardi si rimisero in cammino per ritornare all’automobile e rientrare in museo;
non fermandosi a visitare altri posti, il percorso fu più breve.
Irma
era molto delusa; aveva le idee sempre più confuse e non poteva parlarne con
nessuno. Le preoccupazioni di Iravan, forse non troppo infondate, le strane
visioni che aveva avuto durante la meditazione e ora l’aver sfiorato un
sacrificio umano … e aver perfino visto Hanuman! (era certa fosse lui) … tutto
ciò era in un qualche modo collegato, ne era sicura, ma in che modo era ancora
difficile da capire. Non era certa di volere ulteriori dettagli per fare
chiarezza.
Si
consolò, pensando che dal giorno dopo si sarebbe dedicata ad uno scavo
archeologico.
Irma
non avrebbe mai dimenticato quella gita nella jungla. Come avrebbe potuto?
Era
certa che, qualsiasi cosa fosse accaduta in quella caverna, non era una
faccenda conclusa. Chi abitava la spelonca? Un Asura?
Un Rakshasa? Qualcos’altro di cui ignorava la conoscenza?
Qualcosa legato al passato di Goa, smarrito dalla memoria anche delle leggende?
Hanuman era davvero
intervenuto in suo aiuto? Se sì, era stato in grado di sconfiggere l’invisibile
nemico, oppure lo aveva trattenuto solo il tempo necessario per consentirle di
mettersi in salvo? Hanuman era forte, era figlio di Vayu, il dio del vento, non poteva essere facilmente
sconfitto. Certo ormai doveva avere qualche decina di migliaia di anni; chissà
se aveva ancora le stesse abilità narrate nei poemi. Forse si era limitato a
distruggere i leoni di pietra …
Troppe
domande, troppi dubbi e non aveva nessuno con cui poter parlarne.
Irma
non si godette il primo giorno di scavo proprio a causa dei mille quesiti che
continuava a porsi circa cosa fosse realmente accaduto nella jungla, chi poteva
essere in combutta con un mostro antropofago e se il pericolo si sarebbe
ripresentato.
Si
scosse da quei pensieri solo a metà pomeriggio, quando dallo scavo emerse
qualcosa: cinque pietre lavorate. Per la precisione erano la parte più alta di
qualcosa che, per il momento, non si poteva stabilire se fosse una stele, un
cippo, una statua o i resti di una qualche struttura.
Purtroppo
si era fatto ormai tardi e per quel giorno non potevano approfondire la
scoperta. Irma e Dhvana coprirono lo scavo con grandi teli impermeabili per
evitare che le piogge lo danneggiassero, poi tornarono ognuno nella
propriastanza per ripulirsi dalla terra
e dal sudore, prima della cena.
Quella
sera, Irma si era ritirata presto nella propria stanza, sia perché stanca dal
lavoro fisico della giornata, sia perché ormai si era decisa a consultarsi con
qualcuno. Si sdraiò sul letto, sollevò il braccio a cui era avvolto il serpente
d’oro e lo scrutò attentamente per diversi istanti, poi si rilassò e si concentrò
su Iravan, cercando di chiamarlo. In fondo non aveva ricevuto istruzioni circa
l’utilizzo di quel bracciale. Dopo pochi istanti, la testa del serpente si
mosse, si srotolò dal braccio e assunse l’aspetto di un piccolo essere umano,
sempre in oro.
La
ragazza lo osservò meglio ed esclamò: “Iravan! Sei proprio tu?”
“All’incirca.
Sono io, ma non mi trovo lì con te, sono a Vasukiprastha,
tuttavia riesco a comunicare con te … un po’ come i vostri telefoni. Mi fa
piacere sentirti, allora che cosa mi racconti? Come procedono le cose al
museo?”
Irma
fece un gran respiro e raccontò per filo e per segno quanto aveva vissuto nella
jungla.
“E
stai bene? Ne sei sicura?” si preoccupò vivamente il Naga, dopo aver ascoltato
tutto.
“Sì,
sono tutta intera, grazie agli aiuti inaspettati. Vorrei però tanto sapere con
cosa ho avuto a che fare, voglio essere pronta se il pericolo dovesse
ripresentarsi. Tu puoi aiutarmi a capire qualcosa di più?”
“Le
lucciole che ti hanno aiutato, probabilmente erano una manifestazione di un Rakandar.”
“Un
che?” si stupì la giovane “Credevo di conoscere ormai tutte le creature
mitologiche indiane.”
“Non
ti illudere, non le conosco tutte nemmeno io che ho un paio di secoli in più di
te e sono cresciuto nel mondo che voi definite del mito. I Rakandar
sono spettri buoni, protettori dei viandanti e della natura. Il loro reale
aspetto sarebbe quello di un gigante, ma possono assumere molte forme a seconda
del bisogno o del loro umore. Se la prendono spesso con gli ubriachi: li
afferrano e li lasciano sui rami più alti degli alberi; non è raro, poi, che
appaiano come lucciole per aiutare chi si è perso a ritrovare il giusto
cammino. Spesso le persone li confondono con i Vetala
che sono sempre spettri, anzi sarebbe il nome proprio del re dei fantasmi, per
essere precisi, i quali hanno funzioni protettive più guerresche, attaccando
entità demoniache. Sei stata fortunata, anche se non credo che il Rakandar ti abbia soccorsa per puro caso.”
“Ciò
che hai detto è stato molto interessante, sicuramente, tuttavia le lucciole non
erano la mia preoccupazione principale.” ribatté Irma “Iravan, per favore,
parlami con franchezza. Eravamo fratelli e forse tu non mi hai voluto dire
nulla prima perché credevi di tenermi maggiormente al sicuro, ma ormai ho
incontrato qualcosa di pericolo e quella cosa ha visto me. Devo sapere con cosa
ho a che fare. Per favore.”
“Hai
ragione. Visto che le mie preoccupazioni non erano del tutto infondate, tanto
vale condividerle totalmente. Hai mai sentito parlare dei Kalakeya
oppure della città di Hiranyapura?”
“Della
città sì. Vi abitavano degli Asura, una volta era sul
fondo dell’oceano e poi è stata anche sospesa nel cielo … si è spostata spesso,
insomma. Sono state combattute molte battaglie tra i suoi abitanti e i Deva,
perfino Arjuna ha dovuto affrontarli; ricordo un
altro caso in cui nella lotta fu coinvolto il saggio Agastya.”
“Complimenti,
sai comunque abbastanza cose, per essere un’umana e occidentale.” scherzò un
poco l’altro “I Kalakeya sono stati un clan di Asura particolarmente feroce e crudele, il più noto di loro
fu Vritra.”
“Il
drago della siccità che aveva imprigionato le acque?”
“Sì,
quello è sicuramente l’episodio più famoso. In generale fu un nemico assai
temibile per i Deva, li sconfisse più volte e pure li sottomise, addirittura
inghiottì Indra e solo con grande difficoltà gli
altri dei riuscirono a farglielo sputare fuori. Dominò anche vari luoghi nei
cieli, sulla terra, negli abissi, nel sottosuolo e procurò indicibili
sofferenze. Infine, Indra riuscì a sconfiggerlo solo
grazie all’aiuto di Visnu e di alcuni suoi saggi seguaci. Dopo la sconfitta di Vritra, i Kalakeya non ottennero
più un così sconfinato potere e dominio, ma continuarono a prosperare, non si
estinsero. Persa la loro città, si stabilirono proprio in questa regione e vi
regnarono efferatamente per millenni anche nei tempi riconosciuti col nome di
storia. Nonostante col passare dei secoli abbiano imparato ad essere più cauti
e a non manifestare apertamente poteri e crudeltà, pare che solamente poco più di
seicento anni fa siano stati definitivamente sconfitti … o per lo meno
annientati quasi totalmente. Pare che in realtà qualche loro discendente sia
ancora sopravvissuto. Non si sa che cosa sia realmente accaduto e come sia
stato possibile che un re umano abbia potuto distruggere i Kalakeya
che dominavano segretamente Goa da millenni. Si dice che fosse un grande devoto
di Visnu, in particolare del suo avatara di Rama, e che sia stato aiutato da Hanuman e dal suo esercito di scimmie; infatti la capitale
del suo impero era nello stesso luogo in cui millenni prima sorgeva il regno
delle scimmie. Non mi stupisce che una scimmia sia accorsa in tuo aiuto: è
comprensibile che alcune siano rimaste qui per contrastare i possibili
discendenti dei Kalakeya. Paradossalmente, però, questo fatto relativamente
recente, è avvolto da maggiore mistero che le leggende.”
“Tu
credi che nella grotta ci fosse un Kalakeya? Quei
signori che vivono nella foresta potrebbero essere dei suoi adoratori?”
“Oppure
esserne terribilmente spaventati … oppure potrebbe essere qualcun altro che
voleva compiere il sacrificio. Hai detto che c’erano altre tre persone in
viaggio, oltre a te e alla ragazza.”
“È
vero … ma preferirei non pensare al fatto che un adoratore degli Asura possa vivere in questo museo!”
“Invece
ti converrebbe pensarlo, anche solo per precauzione.”
Rimasero
in silenzio qualche momento, poi Irma chiese: “Hiranyapura
era un città d’oro, giusto?”
“Sì,
esatto. Perché me lo chiedi?”
“Credo
di averla vista in una visione … e di aver visto alcune delle atrocità a cui
hai accennato.”
“In
che modo?”
“Ho
meditato una volta, da quando sono qui … o almeno ci ho provato. Mi sono
affiorate nella mente immagini di battaglie, di una prospera città d’oro e di
crudeltà verso gli uomini.”
Iravan
corrugò la fronte e replicò: “Dushala non dovrebbe aver mai visto nulla del
genere, quindi come puoi averle viste tu?”
“Una
vita ancor più precedente?” ipotizzò la giovane “Oppure sono i suoi poteri che
mi hanno permesso di guardare nel passato.”
“È
possibile. Credo però sarebbe meglio ne parlassimo anche con qualcun altro.”
“E
chi?”
“Aswatthaman, almeno. Lui dovrebbe essere libero di
spostarsi, a differenza degli altri.”
“Hai
ragione. Sai come contattarlo?”
“Forse.
Farò il possibile, intanto tu poni molta attenzione a tutto.”
I
due amici si fecero qualche altra raccomandazione e infine si diedero la
buonanotte e si salutarono. Il bracciale tornò ad avere le sembianza di un
serpente e si riavvolse attorno al polso dell’archeologa.
Irma
andò a dormire, indecisa se sentirsi rassicurata o meno da quanto aveva appena
scoperto. Presto, però, il sonno ebbe la meglio su di lei.
Il
giorno seguente la giovane fu pervasa dal buon umore: avrebbero indagato quelle
misteriose pietre e ciò la riempiva di entusiasmo. Era dispiaciuta, tuttavia,
per il fatto che avrebbero dovuto procedere in maniera molto lenta per
rispettare la stratigrafia e che dunque richiedeva di rimuovere minuziosamente
uno strato per volta. Presto, però, si rese conto che quello in cui stavano
scavando era semplice materiale di riempimento, scaricato in quel luogo in
epoche antiche, probabilmente proprio con lo scopo di nascondere quegli oggetti
in pietra. Irma fu felice di tale scoperta che dunque le permetteva di
rimuovere il terreno molto più rapidamente, non essendoci il bisogno di
procedere per strati.
Lavorarono
tutto il giorno per rimuovere la terra e si ripromisero di setacciarla
successivamente, alla ricerca di materiali che potessero aiutarli a datare
l’interramento di quel luogo.
Scesero
in profondità di un metro e mezzo, riuscendo a liberare quasi completamente tre
delle cinque pietre che si rivelarono essere statue raffiguranti il medesimo
soggetto: un uomo completamente nudo, avente ben in evidenza i suoi attributi
maschili; il volto e il petto erano tremendi: il viso era scavato, barba ispida
sopra cui sporgevano un paio di zanne, i bulbi oculari sporgevano, mentre nel
torace risaltavano le costole ed era impossibile stabilire se fosse stato
rappresentato estremamente magro, oppure del tutto privo di carne. Attorno al
collo era avvolto un serpente e portava anche una lunga ghirlanda che arrivava
fino alle ginocchia, composta da teschi umani.
Era
sicuramente un ritrovamento straordinario e che meritava di essere
approfondito.
Cosa
ci facevano cinque statue assieme? Indicavano un antico tempio? Era forse stato
sotterrato in epoca portoghese, magari per evitare che fosse distrutto?
C’erano
molte ricerche da svolgere e questo stimolava molto Irma, convinta di trovarsi
davanti ad una scoperta di non poco conto.
Innanzitutto
doveva capire che cosa rappresentassero. Scrutò attentamente le statue, vi girò
attorno, cercando di cogliere ogni particolare. Commentò: “Figure così
scheletriche non le ho mai viste nell’arte indiana, eccetto che tra i Buddha del
Gandhara … ma, a parte la distanza geografica, direi
che decisamente questo non sia lo stile gandharico.”
Improvvisamente,
Irma ebbe una sorta di dejavu, non le sembrava di
aver già visto proprio quelle statue, ma altre simili e di sapere perfettamente
che cosa raffigurassero, nonostante non si fosse mai imbattuta in esse durante
i suoi studi. Sussurrò: “…Vetala…”
“Come?”
domandò Dhvana che era accanto a lei, ma non aveva sentito bene.
“Sono
statue di Vetala.” ribatté Irma con maggiore
decisione.
“Sì
… è plausibile.” concordò l’uomo, dopo una rapida riflessione “La loro presenza
è però inquietante.”
“Perché?
Non sono protettori? Non combattono contro entità maligne.”
“Beh,
il maligne è discutibile” replicò Dhvana “Nel senso che molto dipende dal punto
di vista, ma a parte questo, il mio inquietante
si riferiva più che altro alla loro connessione con i cimiteri, i luoghi dove
si lasciano decomporre i corpi. Loro sono fantasmi e si dice che entrano nei
cadaveri e li animino. Per me è una cosa piuttosto inquietante. Per te no?”
“Non
conoscevo questo aspetto.” ammise l’archeologa.
“Penso
sarà davvero interessante scoprire che cosa ci sia qua sotto.” continuò l’uomo
“Mi hai contagiato con lo spirito archeologico, evidentemente.” e si mise a
ridere.
“Tuo
zio sarà molto contento di questo, darà grande risalto al museo.”
“Ne
sono convinto. Stiamo facendo un grande lavoro, sono felice che tu sia qui ad
aiutarci.”
Dopo
aver detto ciò, Dhvana abbracciò Irma che rimase un poco sbigottita, ma ne fu
felice.
Pure
quel giorno di lavoro era terminato e quindi era necessario rimandare
all’indomani ulteriori indagini.
Il
mercoledì, tuttavia, lo trascorsero a setacciare il terreno di riempimento
rimosso, sperando di poter trovare ceramiche o qualche materiale dante. Forse
anche le prime monete rinvenute facevano parte dell’interramento volontario,
tuttavia a Irma sembrava improbabile che ben diciotto monete d’oro fossero
state smarrite e per caso si fossero ritrovate nello stesso luogo.
Non
trovarono resti di alcun oggetto creato dall’uomo, ma soltanto moltissime ossa
animali che Dhvana identificò come appartenenti a capre, bufali e polli. Si
poteva trattare sia di resti provenienti da una sorta di discarica oppure, più
probabilmente, testimonianze di pasti rituali od offerte sacrificali che si
erano volute consegnare ai Vetal, mentre li si
seppelliva.
Il
giovedì piovve quasi tutto il giorno e dunque non si poté continuare con gli scavi;
Irma e Dhvana si dedicarono alla stesura del diario di scavo, descrivendo
minuziosamente come avevano impostato i lavori, le procedure, i reperti e la
loro collocazione e molti altri dettagli necessari.
Il
venerdì poterono continuare con gli scavi. Liberarono completamente le altre
tre statue e scavando un poco più a fondo, trovarono altre offerte votive, o
quel che ne restava, deposte ai piedi delle statue. Erano alcune larghe ciotole
in terracotta semplice in cui restavano pezzi di ossa, inoltre c’erano anche
alcune piccole brocche che probabilmente avevano contenuto liquore.
L’entusiasmo
di Irma era salito alle stelle, ma sembrava che le sorprese non fossero ancora
finite. Infatti, un saggio effettuato nel suolo per controllare se ci fosse
ancora terreno di riempimento, rivelò che sotto un paio di centimetri si
nascondeva qualcosa di estremamente solido e duro, forse un pavimento. Lo
avrebbero potuto scoprire solo la settimana successiva.
Irma
si concesse qualche ora di riposo in più, il sabato mattina, immaginandosi un
bel fine settimana di assoluto relax. A metà mattina, si recò in sala comune
per farsi una tazza di te e cercare qualche frutto o altro da mettere nello
stomaco. Mentre lei stava sorseggiando lentamente la tisana, aspettando che si
raffreddasse, fece capolino nella stanza Dhvana che, dopo averle dato un raggiante
buongiorno, le comunicò: “Allora, finita la colazione, ti prepari e andiamo in
città.”
Irma
lo guardò storto qualche istante: non le piaceva quando gli indiani prendevano
decisioni al suo posto, ma era una cosa piuttosto comune che lì le persone
prendessero iniziative, volendo essere gentili, senza domandare al diretto
interessato che cosa volesse.
La
giovane lo sapeva e infatti non se la prese più di tanto ma domandò: “Questo
quando lo avremmo deciso?”
“Non
ti va di andare a Margao?”
“Non
avevo previsto di uscire, ma un giro lo si può fare, sì.”
“Perfetto.
Qual è il problema, allora?”
“Il
fatto che tu abbia deciso per entrambi, senza chiedere a me se volessi venire.”
“Ma
hai detto che va bene?” Dhvana era confuso, non capiva “Io ho detto di andare,
se poi tu non vuoi venire lo dici e resti qui.”
“Va
beh, lasciamo perdere. Che si fa a Margao? Restiamo
fuori anche per il pranzo, così non dobbiamo cucinare?”
“Sì,
sì. Innanzitutto cerchiamo un bel vestito per te, poi andiamo al cinema.”
“Un
vestito?” si accigliò Irma “E perché dovrei comprarmene uno?”
“Perché
domani è il compleanno di mia zia.”
“E
allora?”
“Fa
una festa elegante.”
“Ma
io non sono stata invitata.”
“Adesso
sì. Sarai il mio più uno.”
Irma
lo fissò interdetta per qualche secondo, poi scosse il capo e borbottò: “Devo
decisamente farti capire il concetto: tu puoi proporre le cose, ma non puoi
dare per scontato che gli altri accettino.”
“Va
bene, va bene” replicò frettolosamente il ragazzo “Allora ci vieni?”
“Sì,
volentieri: sono curiosa di vedere come si festeggiano i compleanni a Goa.
Comunque non ho bisogno di un abito, ne ho un paio di quelli presi in Tamil che
sono certa andranno bene.”
Poco
dopo i due giovani uscirono dal cancello del museo; presero una scorciatoia tra
la boscaglia per raggiungere più rapidamente la fermata dell’autobus, ma il
terreno era ancora fangoso per la pioggia di un paio di giorni prima e si
sporcarono i sandali. Appena giunti sulla strada, cercarono una pozzanghera
abbastanza profonda dove immergere i piedi e ripulirsi. Salirono poi sul bus,
come al solito straripante di persone: ad una fermata scesero in dieci e
nessuno salì, eppure il mezzo non sembrava aver più posto libero. Irma comunque
notò con piacere che il cruscotto era decorato con un paio di piccole
statuette, ma non riuscì a metterle a fuoco e capire quale divinità
rappresentassero.
I
due scesero in quella che era la piazza principale di Margao,
un lunghissimo e stretto ovale, attraversato da un parchetto. Non c’era un vero
e proprio centro della città, ma quello sembrava essere una sorta di fulcro
commerciale. Girovagarono senza meta e Irma continuava ad essere delusa per la
mancanza di tempietti e nicchie ad ogni angolo, come invece era stata solita
trovare in Tamil. Passarono per il mercato coperto, per il semplice gusto di
vederlo: era molto buio, pieno di banchi stretti gli uni agli altri, alternati
a minuscoli box, i sentieri tra di essi erano angusti e si districavano in
maniera labirintica. I tavoli straripavano di merce, dalla bigiotteria
sfavillante, ai tessuti arlecchineschi, alle odorose carni essiccate.
Pranzarono
in un locale molto semplice con tavoli e divanetti che ricordavano quelli
americani degli anni ’50. Entrambi ordinarono una masala
dosa, ossia una sorta di crepes di farina di riso,
ripiena di patate.
Nel
pomeriggio si spostarono e andarono al cinema: un grande multisala che si
estendeva per due palazzoni a torre. Comprarono i biglietti per un film
americano, così da poterlo capire entrambi. Il box office era esterno, quando
entrarono nell’ingresso, Irma fu stupita di trovarci un metal detector: tutti i
clienti erano perquisiti, borse comprese, prima di poter accedere ai piani
superiori dove si trovavano le sale. Si trovarono poi davanti al bar che
vendeva snack vari tra cui popcorn di tre tipi: normali, con formaggio,
caramellati. Dhvana prese un grosso pacchetto misto da condividere.
Si
sedettero in sala, guardarono i trailer di altri film, poi la bandiera dell’India
comparve sullo schermo, tutti si alzarono in piedi e fu eseguito l’inno
nazionale, prima della proiezione.
Fu
una giornata molto piacevole per entrambi. Irma era contenta di trascorrere così
tanto tempo con quel giovane; l’attività di scavo li aveva resi molto affiatati
e passare una giornata assieme, senza pensare al lavoro, aveva permesso che si
accorgessero quanto si trovassero bene l’un con l’altro.
Quella
sera ordinarono una pizza, o una specie di tale, da un negozio di una diffusa
catena: non era male, non era pizza, ma era comunque buona, con la pasta alta e
soffice.
Il
giorno dopo Irma non indugiò troppo nel letto a sonnecchiare, poiché sapeva che
sarebbero partiti attorno alle undici del mattino per andare nel luogo scelto
per i festeggiamenti del compleanno di Ajaya. La
giovane italiana si sentiva un poco in imbarazzo: non conosceva nessuno degli
invitati, a parte Dhvana, il quale sarebbe stato sicuramente coinvolto in
conversazioni con i parenti. Cosa a avrebbe fatto lei? Si sarebbe annoiata?
Indosso
un abito lungo azzurro con ricami in argento e decori di perline; vestito che
in Italia poteva sembrare un poco appariscente, ma che lì in India avrebbero
sicuramente giudicato sobrio. Indossò anche una collana, degli orecchini e braccialetti
coordinati. Quella era la mise che aveva deciso di indossare il 15 di agosto,
festa della Repubblica indiana.
Dhvana
la passò a chiamare per partire, lui indossava una camicia rossa e un dhoti
bianco con decori laterali d’oro. Andarono nel piazzale antistante il museo
dove Vairochana e sua moglie li attendevano a bordo della grossa automobile.
Viaggiarono
per oltre mezzora prima di arrivare al locale che si rivelò essere un raffinato
ristorante con un vasto giardino e piscina. All’ingresso c’erano due ragazze:
una reggeva delle ghirlande di fiori e l’altra le appendeva al collo di chi
entrava.
Sotto
a tende gazebo c’erano divanetti in vimini con cuscini e tavolini bassi. Vicino
ad essi si trovava un bancone con vari cocktail esposti e camerieri pronti a
servirli. Vi era un uomo con un machete che apriva un piccolo buco in cima alle
noci di cocco, le svuotava a metà del latte e lo sostituiva con vodka, vi
inseriva poi una cannuccia e lo offriva a tutti i nuovi arrivati.
Dhvana
indicò a Irma dove si sarebbero seduti e dove sistemarsi, poi le propose di
farsi subito il bagno, prima che iniziassero a servire da mangiare. Messisi il
costume, si tuffarono in acqua e nuotarono e scherzarono per un’oretta
abbondante; a loro si unirono anche alcune cugine e cugini del ragazzo e l’Italiana
cominciò a fare la loro conoscenza, pur certa che non avrebbe ricordato neppure
un nome da lì a poco.
Ad
allietare tutta l’atmosfera, c’erano tre musicisti con piccoli strumenti
portatili che suonavano e cantavano, spostandosi di quando in quando. A Irma ricordarono
immediatamente i mariachi.
Verso
le tredici, i camerieri iniziarono a passare tra le persone servendo tartine,
quindi la piscina si svuotò e i giovani cominciarono a sbocconcellare l’antipasto,
ancora avvolti nei teli per asciugarsi.
Il
pranzo vero e proprio fu servito a buffet e consumato sotto i gazebo.
Irma
si stava divertendo e non le dispiaceva affatto essere lì, si era anche
concessa di ballare un poco in mezzo agli altri. Non poteva però fare a meno di
sentire gli sguardi altrui che indugiavano su di lei come a studiarla per poi
dare un giudizio. Sensazione che ebbe una sorta di conferma nel momento in cui
il nonno di Dhvana e alcuni di lui zii le fecero una serie di domande su chi
fosse, che cosa facesse nella vita, come fosse composta la sua famiglia, che
aspirazioni avesse e così via. Per fortuna quell’interrogatorio fu interrotto
dall’arrivo della torta. Allora tutti si radunarono attorno ad essa e alla
festeggiata e iniziarono a cantare la classica canzone con l’aggiunta di tre
strofe: Possa tu averne molti altri;
possa tu bere l’Amrita; possa Surabhi
benedirti.
L’Amrita era la bevanda dell’immortalità che donava grande
vigore e forza, secondo la mitologia induista; Surabhi
era invece la mucca cosmica dell’abbondanza.
Irma
trovò quegli auguri molto interessanti e apprezzabili.
Dopo
la canzone di auguri, Ajaya tagliò un grosso spicchio
di torta, lo mise su un piatto e iniziò a fare il giro degli invitati,
staccando un pezzetto con le mani e mettendolo in bocca alle persone.
La
festa proseguì ancora un poco, ma tutti si ritirarono prima del tramonto.
Irma
andò a dormire presto, sapendo che il giorno dopo sarebbe ricominciato il
lavoro impegnativo.
Lo
strato di terra che ricopriva il presunto pavimento era davvero sottile e
bastarono un paio di giorni per rimuoverlo completamente. Ciò che nascondeva
era davvero sorprendente: mattonelle in pietra di mezzo metro quadro l’una,
scolpite con larghi medaglioni che contenevano figure umane di svariato genere,
alcune facilmente identificabili come avatara di Visnu, altre come Garuda od Hanuman, altre ancora
erano invece difficili da interpretare, ma mostravano guerrieri. La lastra più
strana di tutte, però, era quella centrale, larga quattro volte le altre: non
aveva immagini scolpite, ma recava un lungo testo. Le lettere erano molto
tondeggianti e ad Irma ricordavano l’alfabeto kannada
o telegu, ma le lingue non erano il suo forte.
Domandò a Dhvana se lui riconoscesse qualcosa, ma il giovane le ricordò che lui
non era uno studioso. Interpellarono allora Bhavani che confermò che quell’alfabeto
sembrava una forma arcaica di quello kannada, ma
tuttavia le parole non le parevano avere alcun senso, le parevano suoni messi a
caso.
“Ci
resta una sola cosa da fare.” annunciò allora l’archeologa.
“Sarebbe?”
domandò il giovane, incuriosito.
“Fotografiamo
bene il testo e lo invierò a un mio buon conoscente, il professor Nicolani. Non è della mia università ed è piuttosto
giovane, però è espertissimo in lingue e filologia, nonostante non siano i suoi
studi primari. Mi ha aiutato davvero tanto, in passato, sia col sanscrito che
col ceppo dravidico. Sono sicura che lui saprà illuminarci circa l’origine di
questa scrittura e, forse, potrà anche tradurla o almeno indicarci il
contenuto.”
“Credi
davvero sia necessario?” domandò Dhvana, un po’ bruscamente “Anche qui ci sono
molti professori competenti, anzi probabilmente di più, visto che è il loro
settore.”
“Non
ne conosciamo e non abbiamo punti di riferimento, però” fece notare lei “Nicolani risponderà subito alla mia mail, se non lo farà o
non avrà risposte, saremo sempre in tempo per cercare esperti in loco.”
L’uomo
non pareva ancora convinto, anzi, sembrava quasi seccato. Irma pensò che fosse
l’orgoglio patriottico a farlo reagire così, dunque disse dolcemente: “Dobbiamo
usare ogni risorsa e cercare di essere rapidi. Quello che abbiamo trovato mi
sembra qualcosa di raro, è una forma di luogo sacro del tutto particolare e
inedita, almeno per quanto abbia studiato io finora. Non possiamo procedere con
gli scavi o l’indagine finché non sapremo che cosa dice quel testo e il
professor Nicolani è la persona più indicata e più
facilmente reperibile, tra quelli che conosciamo.”
“Va
bene” si arrese Dhvana “In fondo l’archeologa sei tu. Contattalo pure, ma io
intanto cercherò qualcun altro, nel caso questo professore ti deluda.”
Irma
era troppo entusiasta per il ritrovamento per dare peso al malumore manifestato
da Dhvana; fotografò ogni singola lastra per documentarla e non faceva altro
che domandarsi che cosa fosse quel luogo e che cos’altro nascondesse. Non le
risultava la pratica di decorare i pavimenti, dunque era convinta che quel
luogo non fosse stato costruito come luogo di culto, inoltre gli scavi avevano
fatto scoprire che era stato sepolto volontariamente. I Portoghesi non potevano
essere stati: avrebbero distrutto tutto e non solo seppellito. Forse gli
indigeni avevano voluto nascondere quel luogo per proteggerlo? Non era da
escludere. Irma però si andava sempre più persuadendo di trovarsi davanti alla
testimonianza di uno sconosciuto rituale, una sorta di sacrificio, poi subito
seppellito come a volerlo rendere perpetuo. Certo, erano solo speculazioni e
fantasie, non aveva alcuna prova, però non c’era nulla di male nell’ipotizzare.
Sperava davvero che l’iscrizione potesse contenere informazioni utili e quindi
non perse tempo a scrivere al professore suo conoscente, allegando le foto.
Più
tardi, in serata, mentre sistemava il registro di scavo a computer, Irma vide
lampeggiare l’avviso di una videochiamata in arrivo. L’accettò e sullo schermo
comparve il mezzo busto di un uomo piuttosto imponente, trentacinque anni
circa, capelli rossicci e un paio di occhiali, seduto alla scrivania, con
dietro uno scaffale pieno di libri.
“Oh,
salve, professor Nicolani” salutò Irma, un poco sorpresa
“Non mi aspettavo di essere contattata così velocemente.”
“Oh
ma figurati, è un lavoro presto fatto, purtroppo. Comunque, ricordati che puoi
chiamarmi semplicemente Rinaldo: non sono un tuo insegnante.”
“Eh,
sì, però, sa, l’abitudine … Come mai dice che è un lavoro presto fatto?”
“Perché
è quello che è. innanzitutto, però, permettimi di congratularmi per il lavoro
che stai svolgendo: hai portato avanti uno scavo accurato e quello che hai
trovato farà invidia sicuramente a molti tuoi colleghi. Ad ogni modo, le
notizie che ho da darti sull’iscrizione sono molto interessanti e faranno
sicuramente infittire il mistero, purtroppo non aiutano a chiarire le cose.”
“Sentiamo.”
“La
lingua in cui è scritta è praticamente sconosciuta. Ci sono molti elementi
dravidici e alcuni prestiti dal vedico e addirittura dal gatico,
poi ci sono altri fonemi che mi lasciano spiazzato, tuttavia non è nulla di
davvero conosciuto, è di un arcaismo sconcertante.”
“Strano.
La conservazione è ottima e anche il resto del sito sembra essere databile a
quando i Vijayanagara dominavano Goa. I bassorilievi in mezzo a cui è inserita
rispecchiano perfettamente lo stile Vijayanagara e sembrano coevi, sistemati
nello stesso momento, la tipologia di pietra è la medesima, probabilmente sono
state ricavate dalla stessa roccia.”
“Questo
io non lo posso dire, non ho nemmeno visto lo scavo dal vivo. La lingua è
assolutamente arcaica ma è evidente che è trascritta in un alfabeto che non è
stato creato per lei, ci sono certi suoni resi in maniera un po’ approssimativa,
cercando di accorpare lettere, evidentemente perché non esisteva un suono
corrispondente. Probabilmente chi l’ha incisa ha usato una lingua sopravvissuta
della tradizione orale per millenni, utilizzando un alfabeto moderno. Questo mi
fa pensare possa trattarsi di un testo religioso: solo la canonizzazione di un
inno permette la sua trasmissione attraverso i secoli, senza che la lingua
venga alterata dal normale sviluppo.”
Irma
aveva ascoltato molto attentamente e non poteva nascondere del tutto la frustrazione
per essersi trovata in un vicolo cieco.
“Una
nota positiva e uno spiraglio di luce, tuttavia, ci sono.” continuò seraficamente
il professor Nicolani, dopo aver bevuto dalla tazza
che teneva davanti a sé “Questo non è il solo caso di attestazione di questa
lingua.”
“Davvero?”
l’archeologa si riempì di speranza.
“Davvero.
A metà degli anni Ottanta, è stata trovata una lastra simile, ma in un contesto
completamente diverso, proprio ad Hampi.”
“Nella
capitale Vijayanagara?”
“Esattamente.
Questo mi fa pensare ancor di più ad una lingua sacra o dinastica. Purtroppo non
esistono immagini della stele degli anni Ottanta o, per meglio dire, esistono
ma non si riesce a leggere, poiché è presa da lontano. Ahimè non è nemmeno
stata musealizzata, ma è tenuta come oggetto di
studio in non so quale dipartimento universitario od archeologico nei pressi di
Hampi. Ecco, se io potessi avere immagini di quell’iscrizione,
forse avrei abbastanza testo per ricostruire esattamente il sistema
linguistico, colmare le lacune e … sì, insomma, tradurla.”
Irma
si accigliò, rimase un attimo confusa e poi domandò: “Sta velatamente dicendo
che io dovrei andare ad Hampi e trovare un modo per
vedere quella stele e fotografarla?”
“Precisamente.
Se vuoi saperne di più e riuscire a comprendere il tuo scavo, ovviamente. Li contatterei
anche io stesso per email, ma le mie esperienze
passate mi hanno insegnato che la burocrazia e gli incartamenti per ottenere
qualcosa, mesciuti con i tempi indiani, inducono ad attese estenuanti. Credo che
tu otterrai più facilmente l’accesso a quella stele, se ti recherai personalmente
sul posto.”
“Sì,
quel che dice è vero, ma non so se otterrò il permesso del mio capo di partire,
in fondo io sto lavorando per questo museo.”
“Tu
fa a lui presente che è per il museo che chiedi di partire: insomma, è ricerca,
rientra nella norma.”
Irma
sospirò ed annuì: “Va bene, vedrò quel che si può fare. Intanto la ringrazio
davvero tantissimo per quello che ha fatto e per le sue indicazioni. Spero davvero
che potremo proseguire questa collaborazione … e scusi per il disturbo.”
“Nessun
disturbo! Fa sempre piacere aiutare e, inoltre, sarà un bel successo anche per
me, se sarò il primo a decifrare queste iscrizioni. Tienimi aggiornato, mi
raccomando, a presto!”
Irma
lo rassicurò e poi chiuse la videochiamata. Nonostante non avesse ottenuto le
risposte che sperava, era comunque molto soddisfatta: Rinaldo era sempre così
gentile e aveva una risposta per qualsiasi domanda … almeno in campo
umanistico, ma comunque aveva anche buone basi in ambito scientifico. Era davvero
un uomo poliedrico negli studi e per questo Irma lo stimava moltissimo. Si diceva
di essere stata davvero fortunata a conoscerlo, quasi un anno prima, a un
convegno sui popoli indo-iranici, in cui lui aveva tenuto un intervento sugli Yazata nei testi avestici e non. Assieme avevano intessuto
ottime conversazioni, molto coinvolgenti.
Per
qualche momento Irma si vergognò di averlo contattato solo per chiedergli aiuto
con l’iscrizione e non avergli scritto nulla prima, però poi si giustificò,
ricordandosi che, a parte i genitori, aveva sentito solo un paio di amici da
quando era a Goa.
Il
mattino dopo comunicò a Dhvana le informazioni e il consiglio ricevuti. Il giovane
non parve preoccuparsi, anzi si rallegrò e asserì che era un’ottima idea recarsi
ad Hampi per continuare le ricerche; aggiunse anche
di essere certo che Vairochana avrebbe dato il proprio consenso, senza
lamentarsi: avrebbe parlato lui stesso con lo zio e ottenuto di organizzare la
spedizione.
Dhvana
non affrontò l’argomento a tavola, ma aspettò dopo pranzo e chiese di conferire
privatamente con gli zii.
Poco
più tardi si ripresentò allo scavo e rassicurò l’archeologa circa il fatto che
tutto era a posto e che sarebbero potuti partire il venerdì sera con un autobus
notturno.
Irma
era incredula per la facilità con cui Dhvana aveva ottenuto l’autorizzazione e
si domandò se non fosse lei a farsi troppi problemi. Domandò se anche Bhavani
sarebbe andata con loro: in fondo lei era originaria del Karnataka
e quindi conosceva la lingua locale. Il giovane disse che sarebbero partiti
solo loro due: lo zio non poteva rinunciare ad altro personale.
Passarono
il resto di quel mercoledì e tutto il giovedì per sistemare lo scavo e metterlo
al riparo dalle intemperie, durante la loro assenza.
Il
venerdì, Irma sistemò le sue cose nella valigia: aveva deciso di portare tutto
con sé, dal momento che non aveva idea di quanto a lungo sarebbe stata lontana
da Goa.
Aveva
appena finito di chiudere il bagaglio, quando pensò ad Iravan. Lui si
preoccupava per lei, quindi forse era meglio avvisarlo del suo spostamento. Usò
allora il braccialetto per contattare il naga che, quando seppe che la ragazza
era in partenza per Hampi, ne fu molto contento e
spiegò: “Sai, la coincidenza è molto strana, ma forse è stato il karma ad
aiutarci. Io stavo cercando una soluzione per permetterti di venire al mio
matrimonio, senza che la tua assenza si notasse da Goa e non riuscivo a trovare
un buon rimedio. Adesso, però, sei tu che vieni qui spontaneamente! È meraviglioso.”
“Come?
Tu sei ad Hampi?”
“Vasukiprastha giace sotto le acque di un fiume lì vicino,
conosco bene il luogo e le rovine dei templi e dell’antica capitale. Sarò
contento di accompagnarti in giro. Poi mi dovrai spiegare nel dettaglio quello
che hai trovato lì e che cosa sarebbe l’iscrizione che vieni a cercare. Sono molto
contento, vedrai che saranno giorni stupendi. Adesso non posso fermarmi a
parlare di più perché Shunaka mi aspetta, tuttavia se arrivi domani mattina,
dal pomeriggio mi farò già trovare, così ti mostro qualche bel posto e mi
racconti tutto. Ciao e a domani!”
Irma
non si aspettava nulla di tutto ciò, ma ne fu estremamente contenta: adorava
quanto l’antico fratello le volesse bene.
Tornò
a pensare agli ultimi preparativi per la partenza, ormai mancava poco tempo.
Nota dell’Autrice
Cari lettori, vi sono mancata? … Spero di
sì, almeno un pochino … ^___^
Ho cercato di ripagare la vostra
pazienza per l’attesa, scrivendo un capitolo un poco più lungo.
Questa settimana mi sono trasferita
nella nuova tappa del mio viaggio, quella che presto raggiungerà anche Irma. Qui
ci sono veramente tantissimi templi e luoghi naturali da vedere e sarà
difficile doverne selezionare solo alcuni di cui parlarvi. Se volete vedere le
foto di questi posti stupendi, potete visitare il mio profilo facebook: Michela Rivetti (sono vestita di nero e tengo in
mano un teschio)
Voglio ringraziarvi di tutto cuore per
l’assiduità che mi dedicate. È la prima volta che il numero dei lettori non
cala con il passare dei capitoli bensì rimane costante, questo mi rende molto
felice e per questo voglio che sappiate quanto vi sono grata per seguirmi.
Spero di aggiornare tra una settimana,
intanto vi saluto e vi lascio con il link dove potete trovare informazioni sul
prequel di questa storia.