Eco nei millenni

di DirceMichelaRivetti
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


La pioggia batteva scrosciante da ogni lato. Era impetuosa ma tranquilla, come una cascata che da secoli precipita nello stesso punto, trascinando centinaia di ettolitri di acqua, ma senza violenza: una forza solida e non dirompente.

Deve essere stata così la discesa del Gange sulla terra. Non mi stupirei se questo fosse l’effetto di Shiva che si strizza i capelli per portare sulla terra un nuovo fiume.

Questo era ciò che pensava una giovane donna, non ancora trentenne, seduta a gambe incrociate sopra il muretto di una piccola terrazza a livello del terreno, riparata da una tettoia in legno.

Il Sole era già tramontato, lei si era sistemata in quel punto un poco arieggiato per allontanarsi un poco dal caldo umido in cui si era ritrovata, teneva con la mano sinistra un piatto con del riso condito con verdure, mentre con la destra ne raccoglieva un poco e se lo portava alla bocca: cenava.

Cenava e intanto osservava quel nuovo panorama: un giardino sconosciuto, assai verde, con piante rigogliose e forse un poco ammassate, strette tra i lati dell’edificio.

Si sarebbe abituata presto a quello scenario, sarebbe stata la sua vista per molte sere. Non le dispiaceva, era semplicemente strano. Era da troppo tempo che Irma non andava in India senza sentirsi a casa. Adesso finalmente era successo: non più i profili famigliari del Tamil e l’accoglienza dei conventi. Non c’era nulla di male in ciò, anzi la giovane era sicuramente contenta di quella nuova opportunità e non vedeva l’ora di mettersi in gioco. Di quella esperienza, faceva anche parte il rapportarsi con un nuovo ambiente.

Goa aveva certamente mille sfumature che la differenziavano dal Tamil e da altre regioni dell’India. Irma era appena arrivata e ancora non conosceva nulla, ma era pronta ad imparare, anzi, molto curiosa; si mescolavano in lei l’eccitazione della scoperta e della voglia di fare e il timore di non essere all’altezza del compito. La paura, però, era davvero poca e soprattutto legata alla sua natura un poco ansiosa e tendente al perfezionismo: pretendeva da sé stessa risultati eccellenti, più che dagli altri, e non si accontentava mai di una modesta riuscita.

Non era da sola e non aveva un ruolo di responsabilità, ma questo la tranquillizzava solo in parte: non voleva deludere il suo professore.

Irma ricordava perfettamente il giorno in cui il professore Erberti le aveva telefonato per informarla: “Un mio vecchio collega, il dottor Vairochana, ha di recente aperto un museo a Goa, ne è proprietario e direttore. Sta ancora cercando e selezionando personale indiano e al momento si trova sotto organico. Mi ha quindi interpellato, chiedendo se posso inviare una qualche valida risorsa dall’Italia per aiutarlo a far fronte al periodo estivo. Sai parlare bene l’inglese, vero? Ecco, perché io voglio che vada tu. Hai già esperienza nel lavoro e in India, ti ho vista sul campo e penso che tu sia adatta a questo. Non è uno scavo, ma sono comunque cose di cui si occupano quelli come noi e poi serve nel curriculum, per cui fai le valigie che si parte presto!”

Così Irma si era ritrovata coinvolta in quella nuova esperienza e non aveva nemmeno ben chiaro quale sarebbe stato il suo ruolo.

Davvero aveva avuto poco tempo per organizzarsi e partire, ma lo aveva fatto ed era certa che qualsiasi cosa sarebbe successa, le avrebbe fatto bene.

Nel viaggio dall’aeroporto al museo, dove avrebbe alloggiato, aveva ritrovato la lontananza dell’orizzonte indiano che ben conosceva e si era meravigliata nel vedere tante ville, in vari stili, ma tutte con colori sgargianti, affacciarsi sulla strada. Doveva essere un luogo di residenza per i benestanti: mai aveva visto case del genere in Tamil!

Non erano mancate, poi, le grandi scritte pubblicitarie sulle pareti di case più umili o lungo muretti d’ignota funzione. C’erano pochissime auto e i clacson si sentivano raramente.

Irma era arrivata al museo piuttosto tardi ed era stata subito accompagnata nella stanza assegnatale; non aveva avuto modo di osservare l’edificio che, di primo acchito, pareva un poco labirintico. Aveva sistemato i suoi abiti nell’armadio e tirato fuori dalla valigia i libri e le cose da tenere sempre a portata di mano; le capitarono sotto gli occhi i regali che alcuni carissimi amici le avevano fatto prima di partire: una cintura con cerniera per nascondere il denaro, un pratico zainetto, minuscoli asciugamani che si sarebbero ingranditi a contatto con l’acqua e una borraccia in grado di depurare l’acqua non potabile. Ecco, di quest’ultima sperò vivamente di non avere bisogno.

Si era fatta una bella doccia e poi era andata a cena. Aveva trovato il riso in quella che le era stata indicata come stanza comune. In comune con chi non era chiaro. Aveva mangiato sulla veranda e ora continuava a guardare la pioggia e a procrastinare l’andare a dormire, sebbene fosse molto stanca. Non poteva fare a meno di ripensare all’ultima volta che era stata in India, quasi due anni prima, a quel che aveva scoperto e a ciò che aveva affrontato.

Se aveva superato indenne e a testa alta la vicenda di due anni prima, perché doveva temere di aiutare in un museo per qualche mese?

La domanda che la solleticava e che non aveva il coraggio di porsi era però un’altra: e se fosse accaduto di nuovo qualcosa come ciò che già era capitato? Scoperte sensazionali, interessanti, ma che non aveva potuto condividere e che, soprattutto, l’avevano portata a rischiare la vita per salvare il mondo.

Non aveva più visto i suoi amici, dopo che la spedizione archeologica di due anni prima era finita. Si erano scritti email per augurarsi buon Natale, Pasqua, compleanno, ma non avevano fatto più menzione di ciò che era accaduto … non che fosse argomento da trattare per email.

Irma comunque non aveva detto a nessuno di loro di essere ritornata in India, seppure in un altro stato; non lo sapeva Jerolam, né Yacqomin, Shijan, Chinnayan e neppure Savariapam che in quella faccenda non era stato invischiato.

Irma voleva pensare solo al museo e nulla più. Alla fine andò a letto, non vedendo l’ora che arrivasse il mattino per poter finalmente esplorare quel nuovo luogo e cominciare a lavorare. Era molto stanca e si addormentò facilmente, nonostante sentisse in lontananza strani versi, probabilmente d’animale. Si era abituata, in passato, a dormire con i versi di tacchini e altri volatili da cortile che le rimbombavano nella testa, quindi non le fu difficile neppure ignorare quei versi lamentosi.

Il mattino seguente, Irma si alzò per essere pronta per la colazione alle ore 8, così come le era stato indicato la sera prima da Ajaya, la bellissima moglie del proprietario del museo, quando l’era andata a prendere in aeroporto. Si recò nella sala comune e finalmente scoprì con chi l’avrebbe condivisa: due giovani indiani.

La donna si presentò immediatamente alla nuova arrivata: si chiamava Bhavani, era originaria del Karnataka, si stava laureando in storia dell’arte e da due mesi abitava in quel museo per svolgere il proprio tirocinio. Indicando il ragazzo, che si era seduto in un angolo a mangiare, spiegò che il suo nome era Ramon, nativo di Goa, dove erano abbondanti i nomi derivati dall’occupazione portoghese; pure lui era un tirocinante, ma non lo si vedeva mai nel museo e non aveva mai dato una vera risposta, quando gli si era chiesto quale fosse il suo progetto.

Irma si sentì sollevata nel rendersi conto che il suo inglese non era poi così pessimo come aveva temuto inizialmente … per lo meno riusciva a capire quello che le era detto, il parlare forse sarebbe stato un poco più difficile, almeno fino a quando non si fosse un poco abituata. Nella propria mente ringraziò Peter, un suo amico madrelingua, per aver accettato di conversare con lei in inglese alcune volte, pochi giorni prima della partenza, per allenarla nella comunicazione.

Irma si presentò e spiegò come fosse capitata da quelle parti e quanto poco le fosse ancora chiaro che cosa avrebbe dovuto fare.

Bhavani la rassicurò, dicendo che Vairochana le avrebbe presto spiegato tutto e che si sarebbe trovata molto bene; dopo poco si congedò, dovendo andare ad occuparsi del proprio lavoro.

Irma si guardò attorno per scambiare qualche parola anche con Ramon e si accorse che l’uomo si era dileguato. Finì la propria colazione a base di latte e frutta, poi uscì per cercare il direttore del museo. In un primo momento non vide nessuno finché non passò attraverso uno stretto vialetto tra due edifici che conduceva a una sorta di bivio: da una parte una specie di gazebo in muratura, dall’altra un campo in cui alcuni uomini stavano abbattendo piante.

Irma chiese a uno dei lavoratori se sapesse dove fosse Vairochana e così scoprì che il direttore non si trovava al museo quella mattina: si era dovuto assolutamente recare in un villaggio di pescatori, ma il bracciante ne ignorava il motivo.

La giovane, allora, decise di fare un giro completo del complesso per imparare ad orientarsi. Alla fine non era così labirintico come aveva avuto l’impressione appena arrivata. Gli edifici sorgevano ai lati di una strada serpentiforme che terminava in una piazzetta su cui si affacciava la casa dei proprietari e un’ala del museo e da cui partiva il vialetto che aveva percorso in precedenza. Si rese anche conto che il gazebo era proprio di fronte alla veranda della sala comune; oltre di esso c’era un vasto campo, in piccola parte recintato e all’interno di quel settore c’erano alcuni uomini che strappavano l’erba.

Passò vicino ad un porticato in cui erano esposti alcuni oggetti di uso comune come il vasellame e poi ad un edificio chiuso da cui sentì provenire gli strani lamenti uditi nella notte; diede una sbirciata all’interno dalla porta e si sentì un’idiota nel vedere un paio di caprette belanti: come aveva fatto a non pensarci prima!

Poi finalmente vide un gruppetto di turisti e con essi una guida che stava finendo la visita. Rimase a osservarli da una certa distanza poi, quando i visitatori si furono avviati all’uscita, lei si avvicinò all’impiegata. Era una donna di mezza età dall’espressione molto simpatica e cordiale. Irma si presentò, spiegò la situazione e domandò se potesse illustrarle il museo. Brescia, così si chiamava la signora, accettò volentieri.

Cinque erano le ali, esclusa quella sotto il porticato: una era dedicata al periodo preistorico, una all’epoca in cui si succedettero stirpi indiane fino a quella dei Vijayanagara, poi una sala per il periodo dell’occupazione portoghese, una per la dominazione inglese e infine quella che accoglieva oggetti sacri, provenienti da templi e chiese, e che contava la maggior parte di reperti artistici e non semplicemente connessi alla vita quotidiana.

Irma fu molto soddisfatta di quella visita e si ripeté che il professore Erberti le aveva fatto un grande favore, segnalandola per quel lavoro, e che avrebbe avuto l’opportunità di imparare molto.

Mentre era assorta in questi pensieri, incontrò Ajaya che la invitò a seguirla fino all’ampia veranda della casa padronale, dove c’era un tavolo con alcune sedie. Lì la donna chiese alla giovane se avesse dormito bene e se le fosse piaciuto il museo, poi iniziò ad elencarle le regole che vigevano all’interno del complesso, indicando gli orari dei pasti, quello di chiusura del cancello, come era gestita la pulizia, quali atteggiamenti erano consentiti e altro ancora. In realtà nulla di dispotico o irrazionale, anzi, semplicemente un vivere civile ed educato.

Giunsero le ore 13 e nella veranda arrivarono anche i due tirocinanti e un uomo la cui età poteva oscillare tra i quaranta e i cinquanta, capelli grigi, lisci, lasciati crescere leggermente, un grosso paio di baffi. Ecco, molto probabilmente lui era Vairochana.

Si erano tutti radunati lì per il pranzo, che sarebbe sempre avvenuto con quella modalità, tranne nei fine settimana. Ajaya introdusse al marito la nuova arrivata e poi Irma fu incoraggiata a presentarsi, spiegare i tipi di studi che aveva intrapreso e quali esperienze lavorative aveva già avuto.

Vairochana ascoltò molto attentamente, senza dire una parola; alla fine, però, si dichiarò compiaciuto da quel curriculum e informò l’ospite che avrebbe iniziato a lavorare dal mattino successivo, che sarebbe dovuta andare nel suo ufficio dopo la colazione per ricevere istruzioni e che, intanto, per quel pomeriggio poteva esplorare il villaggio e i dintorni; addirittura diede il compito a Bhavani di accompagnarla e indicarle che cosa poteva trovare nei paraggi e dove potesse andare in caso di bisogno.

L’Indiana le chiese se avesse già una bicicletta e, alla risposta negativa, la indirizzò alla reception dove avrebbe potuto richiederne una.

Irma percorse la stradina serpeggiante fino ad arrivare al grande cancello dell’entrata che era spalancato e in mezzo era seduto un uomo anziano, con la camicia azzurra e i capelli bianchi; lì accanto cera una guardiola in cui si trovavano la signora che le aveva fatto da guida e un uomo appena uscito dalla giovinezza.

Non sapendo a chi rivolgersi, la ragazza spiegò nella maniera più cortese possibile dove potesse trovare una bicicletta. L’uomo nella guardiola aprì un cassetto, tirò fuori una chiave e poi uscì, dicendo all’Italiana di seguirlo, allontanandosi con passo zoppicante. Ripercorsero la strada interna fino ad arrivare di fianco a un edificio piuttosto grande ma che sembrava chiuso e non solo al pubblico, tuttavia aveva una tettoia sotto cui erano riparate le biciclette. L’uomo ne indicò una alla giovane e le mostrò come aprire e chiudere il lucchetto, poi le lasciò la chiave: quella sarebbe stata la sua bicicletta per tutto il tempo del soggiorno.

Irma tornò da Bhavani e partirono. C’era una strada asfaltata che portava al museo, ma per due o tre chilometri, in entrambe le direzioni, non c’erano altro che grandi piante e tanta vegetazione che cresceva in maniera più o meno disordinata. Andando verso sinistra, dopo aver pedalato alcuni minuti, si vedeva una villa a due piani, piuttosto grande per gli standard del luogo, era sobriamente dipinta prevalentemente di bianco, con le infisse, le grondaie e altre parti in rosso, si notava anche per il portone dalla forma rotonda che richiamava sia una ruota che il Sole.

Da quel punto in poi il panorama verde, sempre rigoglioso, mostrava tante villette, sparpagliate e senza che si affacciassero direttamente sulla strada, tutte dai colori sgargianti: azzurro-blu, arancione, viola e ogni varietà della scala cromatica. Era strano da vedere: abitazioni moderne e di famiglie benestanti, completamente immerse nel bosco e senza seguire nessun piano regolatore. Non c’entravano nulla con il contesto, eppure sembravano a proprio agio.

Irma notò una stradina di terreno battuto che si inoltrava tra gli alberi e domandò se portasse da qualche parte e Bhavani rispose che non lo sapeva. Passata poi un’altra zona dove le case tra le piante si alternavano a quelle che sembravano risaie o, almeno, campi da coltivare, il paesaggio cambiava bruscamente: la vegetazione praticamente spariva e si ergevano tante casette e botteghe, basse, ai lati della strada, mostravano uno stile di vita molto più povero rispetto a quello delle ville. C’erano alcuni negozietti che a Irma risultarono famigliari, evocandole i ricordi del tempo trascorso in Tamil, e anche alcune bancarelle di frutta e verdura dai colori e profumi invitanti.

Bhavani le indicò il supermercato, la farmacia, la banca e un negozio di telefonia, nel caso avesse voluto attivare qualche promozione sulla sua scheda sim indiana.

Le due giovani girarono un poco in quel tratto di strada; Irma notò che nessun uomo indossava il dhoti e che molte donne vestivano pantaloni e magliette, ne vide solo poche con il camicione che arrivava al ginocchio e nemmeno una con il sari.

Ebbe voglia di chai: da quando era arrivata in India non ne aveva ancora bevuto uno. Sì, era lì solo da poche ore, ma non poteva fare a meno di quel te speziato, mescolato col latte e una gran quantità di zucchero. Lo cercò in vari posti, ma non ne trovò, una domanda un po’ ironica e un po’ seria le attraversò la mente: in quale sperduta parte dimenticata da Dio dell’India era capitata?

Il cielo si era fatto molto grigio: presto sarebbe ricominciato a piovere. Le due ragazze decisero di tornare indietro. Questa volta Irma notò che ai lati della strada c’erano delle canalette per raccogliere l’acqua e farla defluire; mentre passarono vicino al sentiero di ignota destinazione, lei allungò o sguardo e le parve di vedere, in lontananza, gli stessi tetti in foglia di palma che aveva visto nelle capanne Tamil. Arrivate davanti al museo non si fermarono, procedettero per alcuni minuti per andare a vedere dove si trovava la lavanderia.

Già un paio di centinaia di metri prima si vedeva una grande macchia di colore vicino alla strada e, avvicinandosi, si distinguevano i numerosi abiti appesi ad asciugare all’aperto e, poco più in là, un edificio in mattoni e lamiera.

Irma sorrise: anche quel genere di architettura le era abbastanza famigliare. Si aspettava di trovare, dietro di esso, un piccolo laghetto o un fiume con delle donne intente a lavare. Avvicinatasi, vide dei ragazzini che stavano staccando il bucato dai fili, per non farlo bagnare dalla pioggia. Passarono poi dentro alla lavanderia, poiché Bhavani doveva ritirare alcuni abiti, e vi trovarono innumerevoli tavoli su cui erano appoggiati tantissimi indumenti, tanto da superare in altezza la testa di una persona comune. In fondo questo stanzone, una lavatrice da venti chili si agitava pigramente, evidentemente partecipe dei tempi indiani. Irma la fissò, un poco delusa per la mancanza di un fiume, le sembrò comunque vecchia, ma in realtà non aveva idea di come fossero le lavatrici industriali e quindi non poteva fare un paragone.

Nei pressi della lavanderia c’era qualche casa modesta e si vedevano scorrazzare molti animali, compresa una grufolante famiglia di maialini rosa e neri.

Bhavani ritirò il proprio pacchetto e pagò. Le due giovani rientrarono al museo attorno alle diciotto, giusto in tempo per mettersi al riparo dalla fragorosa pioggia che cadde giù dopo pochi minuti e che proseguì fino al mattino, concedendosi brevi intervalli.

Dopo una colazione consumata in compagnia degli altri due tirocinanti e dopo aver visto Ramon uscire nel cortile, a dispetto del fango, e camminare in tondo, mormorando fra sé parole inudibili agli altri, Irma si presentò davanti all’ufficio del direttore in perfetto orario. Vairochana, invece, tardò di un quarto d’ora e quasi si stupì nello scoprirsi atteso. Fece accomodare la giovane e iniziò a dirle in inglese: “Tutto quello che hai visto oltre il cancello d’ingresso è opera mia. Da trenta anni mi dedico allo studio dei miei compaesani e mi impegno per preservarne e tramandarne la cultura alle future generazioni. Ho investito il patrimonio della mia famiglia per costruire le mura, ogni edificio, ogni singolo mattone di questo luogo, senza il finanziamento del governo o di privati. Allo stesso modo ho raccolto e comprato ogni oggetto che vedi esposto. Ho ricevuto vari riconoscimenti per ciò che ho fatto e ho vinto alcuni premi per l’ottimo lavoro che svolto. Il mio impegno non è finito, sono sempre in moto e all’opera per nuove creazioni ed espandermi. Avrai sicuramente notato che ho avviato i lavori per edificare una nuova ala, anche se sono solamente al principio e sto facendo sistemare il terreno per iniziare a gettare le fondamenta. Ho già accumulato non pochi oggetti che vorrei esporre al suo interno … o, per meglio dire, ho in magazzino molti reperti e manufatti che devono essere esaminati e catalogati; una volta che avrò ben chiaro che cosa ho a disposizione, deciderò come collocarli all’interno della mia collezione e a cosa destinare la nuova ala. Il tuo compito è proprio questo: guardare cosa c’è nel magazzino, classificarlo, descriverlo … insomma, creare un catalogo con le informazioni basilari su ogni oggetto, dunque che genere di strumento è, l’uso, il periodo, magari una descrizione sommaria con le misure. Nel frattempo puoi anche dividerli per categoria, man mano che li studi, così da averli già raggruppati e trovarli più facilmente. Tutto chiaro?”

Irma rispose di sì; non specificò che non si aspettava un compito del genere, soprattutto perché le sue competenze erano in ambito artistico e dunque supponeva di trovarsi in difficoltà davanti ad oggetti d’uso comune e strumenti di lavoro, tuttavia era felice perché le avrebbe dato la possibilità di espandere le proprie conoscenze. Era soddisfatta, dunque, e si lasciò condurre al magazzino.

Era lo scantinato della casa padronale, con un ingresso indipendente. Era molto vasto e lungo le pareti, su scaffali e su tavoli erano deposti molti oggetti, quasi tutti avvolti in carta di giornale.

Irma strinse in una mano un pennarello, sotto l’altro braccio il computer e fu pronta per cominciare.

L’aria nello stanzone era molto più calda che fuori e l’umidità era opprimente, quindi furono immediatamente accese le ventole sul soffitto per far muovere un poco l’aria affinché fosse un po’ più respirabile. Le pale, però, girando, alzarono la polvere depositata ovunque, ma questo era più sopportabile.

La giovane scelse uno scaffale da cui cominciare; prese un pacchetto oblungo e lo scartò trovandovi poi dentro una coppia di candelabri in metallo, decorati con fiori di loto. Probabilmente potevano essere considerati oggetti induisti, sebbene il loto non avesse una connotazione puramente religiosa, ma culturale ed era visto come simbolo di purezza anche dai cristiani. Provò a cercare se ci fosse qualche incisione o impresso un marchio che potesse aiutarla con la datazione, ma non trovò nulla del genere. Si limitò dunque a descrivere la coppia di candelabri, indicando che non poteva riconoscere il materiale in cui erano fatto, me riportò le misure e assegnò loro un numero di inventario. Col pennarello, poi segnò il numero anche su un’etichetta che allegò ai due oggetti prima di risistemarli nel cartoccio di carta.

Sullo scaffale trovò altri arredi simili: vasi di varie dimensioni, posacenere, un treppiede e un catino. Quel che la colpì maggiormente fu uno scrigno di legno anonimo che all’interno conteneva dei bronzetti a testa di animale che probabilmente un tempo erano usati per tenere ferme le imposte delle finestre aperte.

Dopo aver censito ogni oggetto dello scaffale, Irma decise di bere, ma si rese conto di non aver portato la borraccia; uscì dunque dal magazzino per andare nella sala comune dove l’aveva lasciata, dopo averla riempita al depuratore di acqua. Camminando per la stradina interna, si rese conto che c’era una certa agitazione tra alcuni uomini che, probabilmente, lavoravano lì. Li vide correre agitati da una parte e dall’altra. Riuscì a fermarne uno e a domandargli che cosa stesse accadendo. L’uomo spiegò che era stato visto un cobra strisciare fuori dalla zona dei campi e muoversi gli edifici e dunque lo stavano cercando: nel frattempo lei avrebbe dovuto stare attenta.

Irma ringraziò per l’informazione e tra sé sperò che il serpente non fosse trovato e potesse allontanarsi tranquillamente.

Si rimise al lavoro e gioiva ogni volta che riusciva a trovare qualche simbolo o figura conosciuta, oppure quando riusciva a decifrare qualcosa prima sconosciuto, grazie a qualche ricerca in rete. Sì, cercare informazioni su internet non era certo il massimo della professionalità, ma al momento doveva fare un rapido inventario, la parte di analisi sarebbe stata successiva.

Catalogò incessantemente tutto il giorno, fermandosi solo per il pranzo. Andò a mangiare con gli altri tirocinanti, il direttore del museo e sua moglie; chiese se il cobra fosse stato trovato. Le risposero di no, poi Vairochana le spiegò che, anche se lo avessero trovato, non lo avrebbero ucciso: i cobra erano considerati come guardiani e protettori … ma di certo non li avrebbero voluti aggirarsi tra le sale del museo e quindi volevano essere certi che fosse tornato nei campi.

Arrivata a sera, Irma era soddisfatta del proprio operato ma vedeva bene che le sarebbero servite diverse giornate, prima di finire di censire tutto il magazzino.

Era già ora di cena e quindi si recò nella sala comune dove trovò gli altri due tirocinanti, Ramon era fermo a fissare una parete. Arrivò l’inserviente con il cibo e lasciò sul tavolo una grande scodella con del riso bianco e alcune ciottoline con salse diverse, tra cui una ottenuta con ananas e curry.

Irma prese un piatto e lo riempì, mangiò con le mani e parlò con Bhavani, infine lavò il piatto e il bicchiere e se ne andò nella propria stanza: era stanca e aveva bisogno di una doccia!

Entrò in stanza, chiuse la porta, si tolse i sandali per non sporcare, poi si avvicinò all’interruttore e accese la luce; fece qualche passo e vide, arrotolato su se stesso, sul suo letto, un cobra.

La paura durò solo un istante perché lo riconobbe immediatamente. Si sedette accanto a lui e gli carezzò la testa, sussurrando: “Iravan, lo so che sei tu.”

Il serpente si tramutò in un essere umano e rispose: “Certo che sai che sono io! Mi arrabbierei se non mi riconoscessi! Sono stato nella mia forma di naga per evitare che la gente si arrabbiasse nel vedere un uomo nella tua stanza.”

Era un giovane che pareva avere meno di trenta anni, la sua carnagione non era delle più scure, aveva capelli neri che gli scendevano sulle spalle; era a torno nudo tranne che per un largo gilet rosso aperto, mentre sotto aveva stretto un dhoti.

Irma lo abbracciò, contenta, dicendo: “Oh, come sono felice di rivederti! Mi sei mancato!”

“Anche tu, sorellina.” replicò lui, sorridendo “Ma se è vero quel che dici, perché non mi hai fatto sapere che saresti tornata in India?”

“Ho forse modo di contattarmi? Non mi risulta tu abbia un telefono.”

“Questo è vero, ma non credi che Yacqomin avrebbe saputo come informarmi?”

“Beh, mi pari molto informato lo stesso. Non lo hai detto agli altri, vero?”

“Non ancora. Ho pensato che, se non hai detto nulla, probabilmente avevi ragioni per farlo e non sia stata una distrazione.”

“Però eccoti qua … Non che mi dispiaccia, anzi …”

“Perché sei venuta di nascosto?” la interruppe lui.

“Va bene come risposta: non mi sono ancora ripresa dall’ultima volta?”

“Due anni fa? È stato divertente, abbiamo salvato il dharma e il mondo, abbiamo aiutato Visnu. Io dico che non c’è nulla per cui essere traumatizzati.”

“Beh, sono sicura che la cultura naga e la mia siano piuttosto differenti. Non fraintendermi, sono fiera di quello che abbiamo fatto … ma se ricordo quei giorni mi sembra quasi siano stati un sogno e poi … Non ho più ricontattato nessuno, a malapena ho fatto loro gli auguri di Natale, Pasqua e compleanno … sono spaventata all’idea di rincontrali e non so perché.”

“Mi pareva che fossi stata felice di avere un segreto da condividere solo con noi e che lo sentissi come un modo per essere più affiatati, invece ti sei allontanata. È stato traumatico rivedermi?”

“No. La verità, penso, è che devo fare ancora chiarezza in me e capire alcune cose su me stessa. Penso di non poter affrontare gli altri, se prima non ho la sicurezza di cui necessito.”

“Stiamo parlando di amici, non di avversari. Se non puoi fidarti di loro, di chi allora? Comunque per il momento non insisto. Lavori al museo, giusto? Per quanto tempo?”

“Tutta l’estate.”

Iravan stava riflettendo e disse ad alta voce quello che pareva essere solo un pensiero: “Bene, questo significa che potremo rivederci e parlare di nuovo.”

“Lo spero.” rispose Irma, ma capì che qualcosa turbava l’amico, per cui gli domandò: “Vuoi dirmi qualcos’altro, vero? Ti ascolto.”

“Sì.” si decise a spiegare “Ho saputo che eri qui perché ho visto in sogno Dushala a Goa. Ho pensato che significasse che tu saresti venuta da queste parti e quindi ho allertato naga e serpenti e altri alleati di informarmi se ti avessero vista. Volevo rivederti, passare del tempo con te, invitarti al mio matrimonio …”

“Cosa?!” esclamò Irma, felice “Tu e Shunaka vi sposate finalmente? È meraviglioso! Allora la potrò conoscere.”

“Sì, ma non è questo il punto, lasciami finire. Io volevo appunto incontrarti semplicemente per condividere qualche fraterno momento, però, quando ho saputo in quale zona di Goa ti trovassi …” stava cercando le parole da usare “… mi sono preoccupato.”

“Perché?” domandò Irma, molto seriamente.

“Ecco, in realtà non volevo fare preoccupare te. Sicuramente è solo un eccessivo scrupolo mio, ma questo posto non ha una bella reputazione … No, non è quello che intendevo dire. Da queste parti, molti secoli e millenni fa sono accadute cose … dopo è stato tranquillo, credo, o per lo meno non ci sono stati problemi particolari … sì, un po’ di fama sinistra retaggio dell’antichità, si raccontano cose, ma probabilmente sono per lo più leggende … di prove non mi risulta ce ne siano …”

“Però pensi che qui io non sia al sicuro.” concluse Irma, volendo toglierlo da quel balbettio confuso.

“È solo che mi sento molto protettivo verso di te, lo sai. Non voglio rovinarti quest’esperienza e quindi ti ho portato un regalo.”

Nella mano di Iravan apparve un serpente dorato con un occhio verde e uno rosso. Lo appoggiò sul polso della donna e lo strano animale si arrotolò attorno tre volte e si irrigidì, diventando di metallo, mentre gli occhi si mutarono in pietre.

“Ecco, con questo potrai metterti in contatto con me ogni volta che vorrai.” spiegò il naga.

“Davvero? Ma è meraviglioso! Grazie mille e non preoccuparti, non mi accadrà niente.”

“Puoi usarlo anche se non ti senti in pericolo.”

Si abbracciarono nuovamente.

“Dai, intanto che sono qui, raccontami qualcosa. Come ti trovi da questa parte dell’India?”

“Beh … mangiano con le posate, non si tolgono le scarpe prima di entrare in un edificio, le strade non sono sporche e ho visto al massimo due mucche in giro … Non sembra nemmeno India!”

Risero entrambi. Rimasero poi a parlare per alcune ore, finché Iravan non decise di ritrasformarsi in un cobra e strisciare via.

Irma si era mostrata tranquilla e quasi indifferente a ciò che l’amico le aveva detto sulla fama di quel luogo poiché non voleva che lui si agitasse, tuttavia lei era rimasta parecchio incuriosita. Non aveva paura, ma desiderava conoscere quali avvenimenti fossero accaduti in tempi remoti; avrebbe cominciato le ricerche nell’epica e nella mitologia induista, chissà dove ciò l’avrebbe portata.

 

 

Nota dell’Autrice

 

Ciao a tutti, grazie per aver letto tutto il primo capitolo e star leggendo anche questa nota.

Spero che l’inizio vi sia piaciuto e continuerete a seguirmi. Come ho detto nella descrizione della storia, questo è un sequel di un libro scritto da me. Se il mio stile e l’argomento vi piace e volete saperne di più, potete dare un’occhiata qui:

 

http://www.bibliotheka.it/La_chiamata_di_Visnu_IT

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Capitolo 2
*** capitolo 2 ***


Irma era stata occupata tutta la settimana nel suo nuovo lavoro e non aveva avuto il tempo di indagare sulle antiche leggende di Goa. Tutte le ricerche che aveva fatto erano state solo per acquisire informazioni che l’aiutassero ad identificare al meglio gli oggetti nel magazzino. La parte più difficile era stata quella relativa ai vasi, ne aveva trovate diverse decine e aveva dovuto disegnarli, capirne la funzione e risalire al nome in lingua locale, il Konkani; la datazione era poi quasi impossibile, dal momento che per secoli erano stati in un uso gli stessi modelli per la ceramica e la maggior parte di essi non aveva disegni, incisioni o altro che potessero ricondurli ad un’epoca precisa: potevano avere secoli o di essere appena di un centinaio di anni prima.

Irma arrivava a sera stanca e senza voglia di mettersi ad indagare altri argomenti, per cui preferiva rilassarsi e soprattutto far riposare gli occhi.

Era arrivato il fine settimana, si era concessa un paio di ore di sonno in più e poi era andata nella cucina comune. Il pomeriggio prima, appena dopo il lavoro, aveva inforcato la bicicletta ed era andata nel paese a fare le provviste per il sabato e la domenica, in cui avrebbe dovuto arrangiarsi per mangiare; aveva comprato soprattutto verdura, da un ortolano a bordo strada, dietro a un banco di legno, su cui campeggiavano colori vivaci.

Si era però comprata anche cereali e latte per la colazione e quindi, quel sabato mattina, si sedette sul muretto della veranda con una tazza bella piena. Scendeva ancora della pioggia, ma era molto fine e leggera. Successivamente si dedicò alla pulizia della camera e al bucato: non aveva voglia di andare dal lavandaio, poiché non voleva spendere soldi. Al termine di queste faccende, era arrivata l’ora del pranzo e quindi la giovane si mise a cucinare.

Finalmente Irma poté cominciare la sua ricerca, innanzitutto guardando se nel Ramayana o nel Mahabharata ci fossero riferimenti a Goa. Quella terra era nominata col suo antico nome, ma non era stata teatro di fatti particolari; l’unico riferimento che aveva trovato era che lì ci fosse stata una delle tante battaglie tra Krishna e Jarasandha, ma questa non era un’informazione particolarmente utile.

La giovane si ricordò, allora, di avere chiesto, giorni prima, al direttore del museo se ci fossero miti e leggende legati a Goa. Vairochana aveva risposto che ce ne era solamente uno, relativo alla nascita di quella terra: Parashurama, sesto avatara del dio Visnu, in cerca di un nuovo luogo in cui stare, aveva scagliato la sua ascia verso il mare e, quando si era conficcata sul fondale, le acque attorno si ritirarono, lasciando così emergere una nuova terra.

Parashurama aveva poi portato dieci sacerdoti per celebrare un grande sacrificio per Agni, il dio del fuoco.

Vi era poi una leggenda che diceva che a Goa i Saptarishi avevano condotto una penitenza al termine della quale erano stati benedetti da Shiva. I Saptarishi erano sette saggi, tra i più illuminati e protettori del Dharma e delle leggi divine; ogni Manvantaram aveva i suoi sette saggi e tra i meritevoli di ciascuno di questi periodi, venivano individuati i sette che sarebbero sopravvissuti alla distruzione per diventare i Saptarishi dell’epoca successiva.

La cosmocronia induista non è di immediata comprensione e tra nomi e numeri è facile confondersi. L’unità di base sono gli Yuga, ve ne sono quattro di durata e qualità morale decrescente: il Satya Yuga, il Treta Yuga, il Dvapara Yuga e il Kali Yuga. Queste quattro ere formano un ciclo cosmico chiamato Chaturyuga, terminato il quale il mondo sarà devastato da cataclismi e dalla battaglia tra Kalki e Kali, finché il primo non avrà il sopravvento e così avrà inizio un nuovo ciclo con il suo Satya Yuga.

Settantuno Chaturyuga formano un Manvantaram, ossia un regno di Manu, che sarebbe l’uomo primordiale che crea il mondo quando è il momento, gli dà le leggi e lo sostiene. Alla fine del regno di ogni Manu, dunque, c’è una sorta di distruzione e ricreazione, ma essa non è totale.

Quattordici Manu si susseguono al potere fino ad ottenere così un Kalpa, ossia un giorno di Brahma, al termine del quale ogni creatura e ogni cosa nell’universo, ma non l’universo stesso, si dissolve nella notte di Brahma, anch’essa lunga quanto un Kalpa; durante questa stasi dove l’universo è ridotto allo stato di potenza, senza essere in atto, il grande dio Visnu dorme sul suo serpente, avendo registrato nella sua mente ogni cosa e ricordando i meriti karmici di ognuno, in modo che il nuovo giorno di Brahma possa riprendere là dove è stato interrotto.

Secondo i testi, attualmente siamo nel settimo Manvantaram.

Irma conosceva abbastanza bene l’argomento dei Saptarishi in quanto, due anni prima, aveva conosciuto un uomo dall’età improbabile ed estremamente saggio che era stato scelto, sotto i suoi occhi, per essere uno dei sette saggi dell’ottavo Manvantaram, quindi si era documentata al riguardo.

Ad ogni modo non pensava che fossero questi Saptarishi ad essere i protagonisti dell’evento a cui aveva accennato Iravan, per cui andò avanti con le ricerche. L’unica informazione che ottenne in più fu che Shiva aveva trascorso del tempo a Goa, dopo un litigio con la moglie Parvati.

Nulla da fare, ancora non emergeva nulla di interessante. Decise, allora, di approfondire le sue conoscenze su Parashurama.

Era la sesta incarnazione di Visnu, era nato da uno dei Saptarishi e da Renuka, la quale era una parziale incarnazione della grande dea Shakti. Il padre fu ucciso da un nobile kshatrya, casta che aveva iniziato ad opprimere i brahmani. Parashurama era dunque diventato un devoto di Shiva e un abilissimo guerriero e con la sua ascia uccise numerosissimi kshatrya fino a ripristinare la supremazia della casta sacerdotale. Era un immortale, anche lui scelto come futuro Saptarishi e sarebbe stato il maestro d’armi di Kalki, alla fine del Kali Yuga.

Vi erano poi altri aneddoti, ma nessuno connesso con Goa.

Irma allora decise di provare ad indagare i culti locali e così scoprì che lì erano venerate in particolare cinque divinità: Devi (grande dea, declinabile in moltissime forme), Rudra (lo Shiva più antico, il terribile e temuto urlante di cui si parla nei Veda), Ganesh (il dio con la testa da elefante), Keshava (anche detto Narayana, una versione universale e più vasta di Visnu) e Aaditya (Visnu nella sua forma di Sole, ricordata nei Veda).

Oltre a questi cinque dei, ce ne erano altri locali, in particolare Ravalnath, considerato un protettore del luogo dai disastri climatici, la stregoneria e i morsi di serpenti. Questo tipo di divinità erano chiamate Kshetrapala ed erano venerate anche in generale, senza un’attribuzione specifica.

Alla fine di questa ricerca, Irma fu incuriosita da come fossero rimaste radicate le forme più antiche di Visnu e Shiva e anche dal fatto che fossero tenute in grandissima considerazione i generici protettori. Forse questo attaccamento poteva essere un retaggio di un antichissimo trauma subito, ma questa era solo un’ipotesi. Di fatto non aveva trovato nulla che potesse riferirsi ai fatti ancestrali e tremendi a cui aveva fatto riferimento Iravan.

Il fine settimana era terminato e lei doveva ricominciare a lavorare, il mattino seguente.

Giorno dopo giorno, il magazzino assumeva un aspetto più ordinato, gli oggetti avevano sempre meno segreti ed erano raggruppati secondo la tipologia e, quando era possibile, sistemati cronologicamente.

Il venerdì pomeriggio, Irma e Bhavani avevano preso le biciclette per recarsi al market del paese vicino e fare la spesa. Era praticamente la seconda volta che l’Italiana usciva dal museo, a causa della pioggia praticamente costante che aveva caratterizzato quelle giornate. La giovane si era rivolta a Indra di ritirare le sue nuvole qualche ora, sul far della sera e lasciare un poco di spazio a Surya, così che lei potesse uscire, senza rischiare di inzupparsi dalla testa ai piedi. Effettivamente il bel tempo era venuto per due o tre ore, ma lei non avrebbe saputo dire se fosse stato un caso o se effettivamente il deva l’aveva ascoltata.

Le due giovani, oltre ai viveri, dovevano comprare alcune altre cose, per le quali erano state incaricate dal museo, per cui girarono per diversi negozietti.

A Irma il paesino sembrava più famigliare della zona del museo, che rimaneva comunque uno splendido connubio tra natura e antropizzazione.

Le ragazze si erano fermate in una piccola botteguccia, formata da un unico stanzino, dentro cui stava solamente il venditore, poiché il banco si affacciava direttamente sulla strada; le pareti erano coperte da scaffali traboccanti di tessuti, nastri e passamanerie multicolori.

Le giovani avevano scelto alcune delle cose da prendere, Bhavani allora domandò se avesse anche dei piatti di carta. Il proprietario rispose di no, ma chiese quanti ne servissero; avuta la risposta, telefonò ad un suo amico e cinque minuti dopo, spuntò un altro uomo con un gran sacchetto di plastica blu, ne tirò fuori un pacchetto di piatti e li mostrò alle clienti per sincerarsi che fosse ciò che cercavano. Bhavani li esaminò ed accettò di acquistarli.

Il venditore del negozietto diede loro il suo biglietto da visita, raccomandandosi di rivolgersi a lui per qualsiasi bisogno, in più chiese se sapessero che la domenica ci sarebbe stata una festa in paese e le invitò ad andarci.

Le ragazze ringraziarono e si allontanarono, ragionando sul fatto che sarebbe stato interessante partecipare alla festività: avrebbero chiesto maggiori informazioni al direttore del museo.

Ripresero le biciclette e iniziarono a pedalare velocemente: volevano rientrare prima che si facesse buio e da quelle parti il tramonto era molto rapido, Irma non poteva evitare di pensare, decontestualizzandolo, al verso “Ed è subito sera”.

Avevano già attraversato la zona con le villette e stavano per entrare nel territorio completamente naturale che circondava il museo per oltre un paio di chilometri; sentirono dei latrati. Non vi diedero importanza, pensando a qualche cane che abbaiasse a una mucca o un qualche altro animale. Presto, però, cinque o sei cani spuntarono sul margine della strada, ringhiando inferociti. Cominciarono a inseguire le biciclette.

Le due giovani pedalarono più velocemente, per distanziarli, ma quelli correvano rapidamente, senza smettere di guaire. Presto se ne aggiunsero un altro paio che venivano da più avanti e dunque si lanciavano verso di loro, occupando il centro della strada.

Irma era spaventata: che accidenti volevano da loro? Solitamente non aveva paura dei cani, anche perché magari qualcuno le aveva ringhiato contro, ma mai era stata inseguita.

Sì, sapeva che, almeno teoricamente, i cani sentono l’odore della paura e dunque bisognerebbe fermarsi e al più provare ad intimidirli, ma temeva troppo che, se anche solo avesse rallentato, quelle fauci l’avrebbero afferrata.

Sentiva il cuore battere più rapidamente, le sue orecchie erano colme solo dei latrati; guardava fisso davanti a sé ma le pareva di non vedere nulla o, per meglio dire, la sua mente era così presa dalla preoccupazione che tutto il resto era passato in secondo piano e ogni contorno era sfocato nella coscienza.

Era già andata avanti di alcune centinaia di metri, ma i cani continuavano a tallonarle. Si decise a cercare con lo sguardo Bhavani, sperando che lei avesse idee più chiare, ma anche l’indiana pedalava dritta, senza curarsi del resto. Irma allora voltò la testa per capire se fosse riuscita a distanzia re i cani e ne vide uno bianco estremamente vicino alla sua caviglia. Quell’immagine bastò a scaricare in lei una tale adrenalina da aumentare forsennatamente la velocità; se prima lamentava la fatica per il non potere cambiare marcia, ora Irma filava talmente rapida da far invidia a Nibali.

Si fermò soltanto arrivata davanti al cancello del museo. Non si sentiva più abbaiare. Poco dopo arrivò anche Bhavani che non sembrava particolarmente scossa, anzi spiegò che ormai era abituata. Apprendendo ciò, Irma non era più tanto sicura di voler uscire dal museo. Andò nella propria stanza dove si fece una bella doccia prima della cena.

Il mattino seguente, la giovane un poco indugiò a letto, sotto le pale del ventilatore; non doveva lavorare e quindi poteva permettersi di essere un poco meno mattiniera del solito. Nonostante si fosse concessa un poco di riposo in più, alle nove era comunque pronta per recarsi nella sala comune a fare colazione. Ramon era seduto con un libro in mano, ma non pareva lo stesse leggendo, la informò che qualche animale, nella notte, aveva rovistato tra i sacchi dell’immondizia che tenevano in veranda, spargendone in giro il contenuto. Presto sarebbe arrivato Prabhu, il tutto fare del museo, a ripulire, ma per il momento la veranda non era agibile. Irma allora si preparò una tazza coi cereali e andò a mangiarla, sedendosi sulle panchine che si affacciavano sulla stradina interna. Non le piaceva granché stare lì, dove i visitatori potevano passare e vederla, ma aveva troppa voglia e necessità di stare all’aperto: insomma, dopo avere passato cinque giorni in un magazzino, aveva bisogno di aria fresca (… o per lo meno non polverosa) e dei raggi del Sole.

Oh, il Sole! Il dio Surya … le risvegliavano il ricordo del suo caro padre Jerolam, chissà come stava … e chissà come stavano anche Yacqomin e Savariappam.

Forse avrebbe dovuto contattarli … anzi, sicuramente. Sì, aveva una gran voglia di vederli, abbracciarli e parlare con loro ed era stata un sacco sciocca a sentirsi a disagio per ciò che era successo due anni prima. Iravan aveva assolutamente ragione!

Li avrebbe contattati, più avanti, magari verso la fine del contratto di lavoro e si sarebbe accordata per passare a trovarli in Tamil.

Era assorta in questi pensieri, quando le si avvicinò un giovane sui trenta anni, indiano abbastanza scuro, ma non nerissimo, capelli e barba lasciati crescere in una maniera un po’ sbarazzina, ma non casuale. Irma si accorse di lui solo quando il sopraggiunto esordì con un Sorry. In un fluente inglese il ragazzo le domandò se sapesse dove trovare il direttore del museo e lei glielo spiegò garbatamente. Lo seguì con lo sguardo e si sentì un poco in imbarazzo per essersi fatta cogliere in un momento sovrappensiero, probabilmente sembrando un po’ rintontita. Certo non si sarebbe sentita così se il giovane fosse stato un po’ meno attraente per lei. Aveva lineamenti ben definiti e volitivi ma armonici; i suoi occhi, per quei pochi secondi che li aveva incrociati, le erano sembrati energici come fulmini crepitanti.

Pazienza se non aveva fatto una buona impressione, si disse Irma, tanto quello era solo un visitatore del museo o qualcosa di simile e non lo avrebbe rivisto.

Finita la colazione, lavò tazza e cucchiaio e si mise a fare un po’ di esercizio fisico nella sala comune, per compensare il lavoro sedentario che stava svolgendo. Ramon era tornato nella propria stanza, mentre Bhavani si era svegliata e si stava preparando la colazione con uova, cipolle e patate.

Dopo un’oretta circa, fece capolino sulla soglia Varoichana, appena dietro c’era il giovanotto che aveva chiesto di lui.

Il direttore salutò le due giovani e le informò: “Lui è mio nipote Dhvana, è un musicista ed esperto di meditazione. Ci darà una mano per alcune settimane, di quanto in quanto. Si occuperà di supervisionare la costruzione della nuova ala, sperando che nei prossimi giorni piova meno per poter procedere coi lavori che stanno andando a rilento.”

Il nuovo arrivato salutò con la mano e sorridente.

Irma notò il contrasto tra il volto spensierato, quasi felice del ragazzo, e l’espressione seriosa dello zio. A bene pensarci, l’archeologa non aveva mai visto il suo capo così formale, almeno in quelle due settimane, pareva come se non fosse contento della presenza del nipote.

Varoichana continuò con le presentazioni: “Lei è Bhavani, viene dal Karnataka ed è tirocinante, si occupa delle visite guidate e il mantenimento delle buona qualità delle esposizioni. Lei, invece, è Irma, me l’hanno prestata dall’Italia per qualche mese, sta stilando un inventario del magazzino. Infine lui è Ramon che … no! Non c’è … Sapete dove sia? Pazienza, quando vi incontrerete vi presenterete.”

Dhvana prese la parola: “Piacere di conoscervi, signorine. Non so se avremo molte occasioni di incontrarci, dal momento che saremo in settori parecchio differenti, tuttavia spero che avremo modo di conversare di quando in quando … sicuramente durante i pasti, credo, nei giorni che sarò qui.”

“Certo, volentieri.” rispose Bhavani, che sarebbe arrossita con una carnagione più chiara, evidentemente anche lei scossa dal bel porsi del giovane.

“Oggi hai intenzione di fermarti, oppure sei solo di passaggio?” domandò Irma, chiedendosi come quelle parole fossero uscite dalla sua bocca.

“Pensavo di restare questo fine settimana per ambientarmi e poter iniziare il lavoro lunedì. Vi disturbo?”

“No, no, era solo per sapere … perché i pasti, oggi e domani, li cuciniamo in autonomia qui e dunque dobbiamo organizzarci.” Irma aveva farfugliato e sperò fortemente che sembrasse dovuto a una difficoltà nel parlare inglese, benché la frase fosse semplice e l’avrebbe saputa dire perfettamente in altre circostanze. Sperò anche che Dhvana fosse antipatico, così da smorzare ogni interesse ed evitare che lei facesse altre figure da idiota.

“Saremmo in quattro a cucinare ognuno un pasto diverso?” si sorprese il giovane “Sembra dispersivo … Perché non prepariamo un’unica cosa per tutti?”

“Beh, io vi lascio alle vostre constatazioni” intervenne Vairochana “Io torno ai miei affari, a stasera, buona giornata.”

Più tardi, Dhvana e le due ragazze cominciarono a cucinare tutti assieme: chi tagliava la verdura, chi controllava le pentole. Il risultato fu una sorta di insalata di riso, con gli ingredienti reperibili nel frigorifero. Irma non era troppo entusiasta di mangiare riso anche quel giorno, dato che lo avevano sempre a pranzo e a cena durante la settimana, ma non disse nulla.

Mentre il riso bolliva, arrivò Ramon a cui fu presentato il nuovo collaboratore e fu molto entusiasta nell’apprendere che fosse un esperto di meditazione.

“Sono un appassionato di meditazione” spiegò “Anche se in realtà non ho molto tempo per praticarla, tra lo studio, la famiglia, qualche lavoretto saltuario … Ma tu quale scuola segui? Ci sono molte varianti e filosofie.”

“Lo so bene e ne ho sperimentate diverse ma, devo dire, che quella che mi ha affascinato maggiormente e in cui mi sono specializzato, è la meditazione del suono. La conosci?”

“Solo superficialmente. È quella che coadiuva gli esercizi di concentrazione tramite l’ascolto di suoni, vero? Non ne comprendo molto il funzionamento.”

“Si basa su una scuola di pensiero che ritiene che il suono sia alla base di tutto. L’universo stesso e ogni creatura sono suoni, ognuno vibra in questa immensa cassa armonica. Ciascuno ha la propria frequenza, distinguibile da ogni altra, è come uno specchio dell’anima: ogni esperienza lascia la sua traccia e le emozioni la possono alterare temporaneamente. Allo stesso modo interagiscono con essa paure, tensioni, stress e moltissime altri fattori. La relazione, però, non è univoca, anzi! È possibile usare la musica per armonizzare ciò che non va e per aiutare le persone a stare meglio, addirittura a risolvere i problemi. Certo ci vuole tanta pratica oppure l’auto di un esperto.”

Irma ricordava di avere studiato l’argomento durante il primo anno di università, aveva un vago ricordo di un discorso sulle parole, la valenza delle lettere, il domandarsi se le lettere mutassero in un qualche modo, quando combinate con le altre ed era stato anche spiegato perché fosse così importante la parola AOM. Nella sua memoria si agitavano pochi pensieri e confusi: era stato un argomento molto difficile e che l’aveva pure annoiata. Il concetto in sé era interessante, ma era stato affrontato in maniera molto tecnica e quasi cavillosa.

“Mi piacerebbe provare.” affermò Ramon “Credi che avrai il tempo di insegnarmi qualcosa?”

“Il tempo non manca mai … il problema del tempo non è mai la quantità, bensì la qualità. Se vuoi sperimentare qualcosa, sarò ben lieto di guidarti. Ehi, ragazze, interessa anche a voi?”

“Sì, certo!” esclamò Bhavani.

“Perché no?” replicò Irma.

“Perfetto. Allora potremmo fare oggi pomeriggio stesso, se non avete impegni. In macchina ho qualche strumento: non esco mai senza.”

Pranzarono e poi si divisero, ognuno assorto nelle proprie faccende, ma alle diciassette, tutti e quattro si ritrovarono nella sala comune per la meditazione.

Dhvana aveva steso a terra tre stuoie, mentre lui era seduto a gambe incrociate su una pelliccia d’animale. Invitò gli altri a sedersi come lui e spiegò che quella sessione sarebbe stata divisa in due parti. Nel corso della prima era necessario rimanere seduti e seguire le varie istruzioni.

Illustrò poi i tre strumenti che aveva con sé: una campana tibetana, ossia una scodella di metallo che suonava allorché una bacchetta di ferro fosse stata fatta scorrere sul suo bordo; c’era poi un ghatam ossia un tamburo in terracotta simile in tutto e per tutto ad un vaso; infine uno strano oggetto simile ad un esagono tridimensionale, non era nemmeno ben chiaro di quale materiale fosse, le dita battute su di esso producevano un suono che pareva provenire da un’arpa; Irma non era riuscita a capire il nome di quest’ultimo, benché fosse quello che la intrigava maggiormente.

Cominciarono la sessione. Innanzitutto fecero un esercizio di respirazione per liberare la mente e iniziare a concentrarsi, dovevano respirare da una sola narice per volta., aiutandosi con una mano a tappare l’altra.

Irma riuscì ad eseguirlo, si sentiva molto rilassata e le mente era calma e silenziosa.

Il secondo esercizio prevedeva nel rimanere sempre con le palpebre abbassate e intonare a bocca chiusa alcune note, seguendo quelle emesse da Dhvana.

Irma riuscì a fare anche quello, poiché c’era un’azione da eseguire; pensò fosse molto bello risuonare tutti insieme, infatti sembrava essere un’unica persona a mormorare e non tante separate.

Il terzo esercizio, invece, fu alquanto difficile. Dhvana avrebbe suonato e loro avrebbero dovuto concentrarsi nel sentire l’energia attraversare i propri palmi. Qui iniziavano i problemi per Irma: ogni volta che in Italia aveva partecipato a lezioni di meditazione, si sentiva sempre in imbarazzo al momento finale di condivisione delle esperienze. Tutti gli altri raccontavano di aver sentito la tal cosa o la tal altra, di aver percepito questo e quello, mentre lei non sentiva mai nulla. Si diceva che ciò era molto strano perché ricordava ancora nitidamente gli effetti della meditazione con Narada e Yacqomin, ma dopo quella vicenda, non era più riuscita a rivivere l’esperienza.

Si perse tra questi pensieri e alla fine dell’esercizio non era riuscita a svolgerlo, poiché si era distratta.

Dhvana annunciò che era giunto il momento per la seconda fase che sarebbe stata unitaria: dovevano sdraiarsi, rimanere concentrati sul respiro e ascoltare, sempre tenendo gli occhi chiusi.

Irma ne fu contenta, iniziava a sentire la schiena affaticata e le gambe le si erano addormentate a rimanere incrociate per oltre mezzora. Per fortuna ora si sarebbero stesi, perché lei avrebbe avuto seri problemi se avessero dovuto alzarsi in piedi.

Irma si sdraiò come gli altri, stese le braccia lungo i fianchi e chiuse gli occhi. Era già molto rilassata dagli esercizi precedenti, provò a concentrarsi sul respiro o sul suono.

Dhvana aveva iniziato a suonare, non pareva esserci ritmo o melodia, erano come singole note, estremamente delicate, che si propagavano nell’aria. Riecheggiavano con discrezione, come domestici che non vogliono farsi notare dagli ospiti, che fanno il loro lavoro senza che li si veda.

Presto per Irma fu come non sentire nulla, essere sprofondata in un silenzio caldo e accogliente, come se lei stesse vibrando sulla stessa frequenza di quelle note e quindi non le udisse semplicemente perché ne faceva parte. Non sentiva il proprio corpo, ma non se ne accorgeva. Tutta la sua attenzione si era ritratta nella sua mente. Iniziò a vedere immagini. Non erano pensieri di cui aveva il controllo, non erano sue riflessioni. Figure e forme le attraversavano la testa, come in un sogno … eppure non stava dormendo e nemmeno si trovava tra la veglia e il sonno.

Le immagini si fecero più nitide e non svanivano in un paio di secondi, ma restavano più a lungo e si evolvevano in scene. Vide cadaveri straziati, sentì l’odore del sangue riempirle le narici, udì lamenti. Vide un villaggio di capanne, uomini possenti e splendide donne, sfoggianti ornamenti preziosi, passare in mezzo a gente di più modesta condizione che li riveriva; avvertì la paura. Vide fauci sbranare carne umana.

Sebbene quelle immagini, normalmente, avrebbero suscitato in lei orrore e inquietudine, in quella situazione lei continuava a rimanere calma, il suo cuore non aveva accelerato nemmeno un battito.

Vide uomini gettati nel fango, sentì risate sprezzanti, suppliche strazianti, lamenti e grida.

Scoppiò una guerra. Cavalli correvano trascinando i carri da cui guerrieri scoccavano piogge di frecce, mentre altri cozzavano le spade, sangue e metallo rivestivano la terra come un tappeto.

D’improvviso, però, la terra sparì, la battaglia era nel cielo, tra carri volanti che attraversavano le nuvole. In lontananza un’isola galleggiante nell’aria.

Infine un’ultima immagine: gente felice che passeggiava in una città d’oro.

La voce di Dhvana richiamò lei e gli altri alla realtà. La meditazione era finita.

Ramon cominciò a raccontare come si era sentito durante gli esercizi, le sue impressioni e così via. Bhavani, poi, riferì a propria volta come aveva vissuto tale esperienza. Quando fu il suo turno, Irma parlò poco, rimanendo sul vago, di certo non voleva condividere con loro le visioni che aveva avuto.

Ne era certa: ciò che aveva visto non era stato frutto della sua fantasia. Non era stato un sogno e nemmeno un ricordo di una vita precedente (o almeno, in passato, le memorie di Dushala le erano affiorate in maniera differente), non sapeva che come definire tutto ciò se non semplicemente chiamandole “visioni”. Era certa che tutto ciò che aveva visto fosse accaduto realmente in passato ma non aveva idea di come mai nella sua mente si fosse aperta una finestra su secoli remoti.

Più tardi, quella sera, rimasta sola, provò a cercare su un motore di ricerca “golden cities India”. Capire a quale leggenda appartenesse la città d’oro che aveva visto, poteva essere un buon punto di partenza e, d’altra parte, era l’unico indizio che avesse. Purtroppo l’unico risultato che trovò fu Jaisalmer, in Rajasthan, chiamata così per il giallo delle sue sabbie e dei suoi edifici, trovò un riferimento ad Amritsar in Punjab, ma era anche in quel caso un nome più o meno recente. Lei stava cercando una città mitologica, non una attualmente esistente.

Le venne in mente che la città di Ravana, l’Asura nemico di Rama, era descritta come fatta d’oro e teoricamente era collocata sull’isola di Lanka. Era però certa che ce ne fossero altre, doveva solo avere pazienza nel spulciare le varie leggende.

Guardò il bracciale che Iravan le aveva regalato. Doveva contattarlo? Avrebbe dovuto raccontargli ciò che aveva visto? No, lo avrebbe allarmato e basta. Lui si stava preparando per il matrimonio e lei non voleva farlo preoccupare e distrarre con quella faccenda.

Quella domenica era anche la festa di San Giovanni il Battista, molto sentita a Goa che, per via della lunga occupazione portoghese, contava molti cristiani trai propri abitanti.

Irma e Bhavani si ricordarono della festa di paese di cui aveva loro parlato il venditore, due giorni prima, quindi cercarono Vairochana per chiedere se fosse possibile andarci. Il direttore del museo accettò e disse che sarebbero andati verso le quattro del pomeriggio.

L’Italiana si aspettava una celebrazione come quelle a cui aveva assistito in Tamil e dunque aveva indossato uno degli abiti indiani che aveva comprato negli anni passati; era blu con ricami in oro, le piaceva moltissimo.

Andarono con l’automobile. Vairochana guidava, accanto aveva il nipote, mentre gli altri tre erano seduti sui sedili posteriori. Per strada incrociarono la processione: una colonna di nemmeno venti persone, vestiti in maniera normale, alcuni avevano strumenti a fiato o a percussione e li suonavano, altri portavano dei sacchi, altri ancora di quando in quando lanciavano dei petardi.

Per le vie, poi, si vedevano molte persone con in testa ghirlande di foglie e fiori.

Arrivarono alla spiaggia e scesero. La striscia di sabbia che separava la terra dal mare era piuttosto stretta, forse poco meno di quelle che si vedono in riviera romagnola, ben diversa dalla spiaggia chilometrica di Marina Beach a Madras. Non c’erano nemmeno banchetti o giochi per bambini; forse a causa della stagione delle piogge.

Dovevano aspettare lì l’arrivo della processione. Irma allora decise di passeggiare lungo il bagnasciuga. Il Sole non era più alto nel cielo, ma mancava ancora del tempo, prima che si tuffasse in mare; il vento era più forte che altrove ed era ristoratore.

Era piacevole sentire la sabbia sotto i piedi e in quel momento la giovane riusciva davvero a non pensare a nulla e rilassarsi; se avesse voluto pensare, sarebbe stato uno sforzo, e quindi la sua mente rimaneva quieta.

Dopo alcuni minuti, Dhvana la affiancò e le chiese: “Stai bene?”

Irma si stupì della domanda e rispose: “Certo, sto benissimo. Perché?”

“Beh, gli altri sono seduti là e tu ti sei allontanata …”

“Non mi andava di stare seduta, preferisco camminare. Surya veglia su di me, Vayu mi accarezza e Varuna lambisce le mie caviglie … come potrei stare meglio?”

“Ah, conosci i Deva.” replicò l’uomo, freddamente.

“Li ho studiati, sono la mia materia.” spiegò Irma, evitando di aggiungere il fatto di aver anche parlato ad alcuni di loro.

“Quindi sei proprio specializzata in cultura indiana?”

“Sì, sono un’archeologa orientalista. Il mio interesse principale è l’India, secondariamente e strettamente legato viene la Persia Antica, poi anche Mesopotamia ed Egitto.”

“Come mai?”

“Ho sempre amato l’India, fin da bambina … mi hanno influenzata molto le letture.”

“Quali?”

“Principalmente il Mahabharata.”

“Davvero lo hai letto? Ormai tra i giovani indiani non è più un must come lettura.”

Irma allora spiegò come avesse incontrato quel poema e come ne aveva cercate versioni sempre più approfondite.

Continuarono a parlare per un poco, finché non sentirono le musiche della processione avvicinarsi.

Tutti i presenti si radunarono in un punto e lì presto arrivò la colonna di persone. I sacchi furono depositati a terra e svuotati, rivelando così che erano colmi di noci di cocco.

Un uomo, vestito esattamente come gli altri, pronunciò una frase e poi tutti si fecero il segno della croce. Un attimo dopo, diversi uomini stavano prendendo alcuni cocchi e li portarono in riva al mare; avevano in mano anche lunghi bastoni, Irma non aveva visto da dove li avessero presi, iniziarono a colpire ripetutamente i cocchi fino a che non si spaccavano; allora li raccoglievano e li portavano agli altri per mangiare assieme.

Dopo che i primi cinque o sei ebbero fatto, seguiti con grande attenzione da tutti quanti, al situazione si fece un po’ più disordinata.

Un sorriso illuminava il volto di Irma e commentò: “Prendere a bastonare noci di cocco in riva al mare … ecco perché amo questo paese. C’entra con San Giovanni? Devo chiedere a tuo zio qual è il significato di questo rituale.”

“Oh, non credo che lui lo sappia.” replicò Dhvana “Lui non è di queste parti, si è trasferito qui dopo aver sposato mia zia Ajaya. Te lo spiego io. È un’usanza recente. Circa centocinquanta anni fa ci fu un’epidemia e la gente non sapeva cosa fare. Gli anziani del villaggio si consultarono e deliberarono che per allontanarla si sarebbero dovuti rompere cocchi in mare il giorno di San Giovanni e si sarebbe dovuto continuare a farlo ogni anno per evitare che la piaga tornasse.”

“È meraviglioso!” commentò Irma, estasiata.

Il giovanotto rise a bocca chiusa e osservò: “Sembri molto affascinata; vuoi provare?”

“Da matti! Ma posso? Vedo solo uomini che lo fanno …”

“Non c’è problema. Prendi un cocco.”

Irma non se lo fece ripetere, andò dove si trovavano i cocchi, ne erano rimasti pochi, e ne prese uno. Raggiunse il ragazzo che si era procurato un bastone lungo poco più di un metro.

Sistemarono la noce di cocco tra la sabbia, poi la ragazza strinse il bastone e prese la mira. Il primo colpo finì sulla spiaggia e così anche il secondo, ma dal terzo batterono solo il frutto. Irma era determinata, vedeva solo il cocco. Sollevava il bastone e poi lo abbatteva con forza. Il cocco a volte rotolava via a causa del colpo subito, ma lei subito lo inseguiva o lo fermava col piede o con il bastone. Sentiva in sé di non poter rinunciare, voleva andare fino in fondo. Dentro di sé si sentiva pervasa da una strana sensazione selvaggia. Sferrava un colpo dopo l’altro senza sosta: non si sarebbe fermata fino a che non avesse rotto quel cocco. Non vedeva niente e nessuno, solo la noce di cocco e la sabbia attorno ad essa. Sembrava stesse brandendo una spada, si destreggiava alla stessa maniera.

Infine la noce di cocco si ruppe, dopo meno di un paio di minuti che erano sembrati interminabili.

Irma la sollevò felicemente e soddisfatta andò verso il gruppetto del museo per mostrare la buona riuscita.

 

 

Nota d’Autrice

Ringrazio tutti i miei lettori per seguirmi, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Mi scuso per l’attesa, ma questo racconto è un misto tra trama inventata e fatti reali che sto vivendo durante la mia esperienza a Goa, dunque aspetto di avere qualcosa di carino da raccontare, prima di scrivere.

Ditemi pure cosa ne pensate

Vi ricordo che questo racconto è il seguito del mio romanzo “La chiamata di Visnu” che potete trovare qui:

 

http://www.bibliotheka.it/La_chiamata_di_Visnu_IT

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Iniziò per Irma la terza settimana di lavoro ed era convinta che entro il venerdì avrebbe terminato di censire tutti gli oggetti nel magazzino. Aveva trovato di tutto da utensili da cucina in legno vecchi di qualche decennio a statuette di molti secoli addietro, sfuggite miracolosamente al periodo portoghese; vasi assai vari per epoca e qualità, vecchi giochi di società, tavole di legno incise e tanto altro ancora. Si domandava se avrebbe trovato altre sorprese quella settimana.

I giorni continuarono a trascorre, molto simili tra di loro. La presenza del nipote dei padroni del museo non aveva alterato le abitudini, era molto cordiale e alla sera scambiava volentieri due chiacchiere con gli altri giovani.

Il mercoledì, mentre erano tutti riuniti a pranzo nella grande veranda della casa del direttore, Ajaya domandò: “Avete voglia di fare qualcosa di diverso dal solito, questo weekend?”

Tutti quanti risposero positivamente, incuriositi da quella proposta.

“Oh, potremmo organizzare una gita nella jungla, che ne pensate? Un’escursione nella natura e ci sono anche alcune cose interessanti da un punto di vista storico. Vi interessa? Vairochana vi accompagnerà.”

Il direttore del museo annuì e aggiunse: “La jungla è un posto molto bello e rilassante, io ci vado quando devo schiarirmi le idee o riposarmi. Ci sono molti posti belli da vedere e anche un fiume in cui potete fare il bagno. Non dormiremo all’aperto ma in un rifugio ben attrezzato, non vi preoccupate.”

“Sì, è un’ottima idea; partecipo volentieri.” rispose Irma, sollevando lo sguardo dal piatto di riso, condito con una strana salsa di curry ed ananas.

“Io sono pronto a qualsiasi pericolo.” si aggregò Ramon.

Bhavani non sembrava realmente contenta di andare in gita, ma accettò ugualmente. Dhvana domandò se l’invito fosse valido anche per lui e, avutane la conferma, dichiarò che non vedeva l’ora: gli piaceva fare escursioni nella jungla ed era da qualche tempo che non aveva occasione di farne una.

L’idea di distogliere per un paio di giorni la mente dal lavoro e dalle ricerche e quindi starsene un poco nella natura, piaceva parecchio ad Irma e spesso il suo pensiero correva a fantasticare circa come sarebbe stato il fine settimana. Era cresciuta leggendo le avventure salgariane e quindi immaginava l’escursione come un piccolo sguardo dal vivo sul mondo che l’aveva fatta sognare da bambina.

Quel pomeriggio era uscita dal magazzino una ventina di minuti prima del solito, gli orari non erano fiscali e lei aveva appena finito di catalogare il contenuto di una grossa cassa e non aveva voglia di aprirne un’altra e lasciare poi il lavoro in sospeso fino al giorno dopo.

Richiusa la porta del seminterrato, la ragazza fece il giro della casa per prendere la stradina che portava agli alloggi dei dipendenti; quando fu nella piazzetta antistante la villetta padronale, lanciò un’occhiata al secondo sentiero, quello che portava all’area dove si stava iniziando a scavare per costruire una nuova ala. Le venne voglia di andare a vedere come procedessero i lavori e scoprire come fosse Dhvana all’opera.

Arrivò sul posto e vide il vasto rettangolo di terra scura, circondato dall’erba verde acceso, faceva impressione il contrasto. Vide quattro o cinque uomini, curvi sulla terra che armeggiavano con strumenti che non riusciva ad identificare. Il giovane stava dando delle direttive in lingua konkani e dunque l’italiana non le capì; lo trovò che stava spostando la terra smossa.

“Che cosa ci fai, qui?” domandò Dhvana, sorpreso, ma gentile.

“Volevo vedere come procedevano le cose qui.”

Il giovane scosse il capo e disse: “Male, purtroppo. Siamo molto lenti. Dobbiamo ancora finire di drenare l’acqua in eccesso accumulata con le piogge dei giorni scorsi. Inoltre, bisognerà stare attenti e setacciare bene la terra, perché potrebbero esserci cose interessanti per lo zio. Guarda qui cos’è saltato fuori oggi.”

Dhvana si spostò sotto a una tettoia dove si trovavano un bagno, lavandini, un tavolaccio e dove erano sistemati gli attrezzi durante la notte. Irma lo seguì e trasalì nel vedere tre monete sul tavolo, in mezzo a bicchieri e fogli con bozze di progetti. Erano ancora sporche, nonostante fosse stata rimossa la maggior parte della terra, erano rovinate ma si poteva ancora capire che fossero in oro. Ne prese in mano una per osservarla meglio e distinse l’immagine battuta: un uomo alato con testa di uccello.

“Questo è Garuda …!” sussurrò lei, sorpresa e eccitata per la scoperta.

“Brava, esatto. Sai riconoscere anche le altre?” Dhvana la mise alla prova, sorridendo.

Irma prese le altre due e ragionò ad alta voce: “Questa scimmia in posizione devozionale è sicuramente Hanuman. Qui, invece, due uomini armati di arco e una donna … devono essere Rama, sua moglie Sita e il fratello Lakshmana …”

“Tre su tre. Mio zio ha scelto una collaboratrice esperta, nonostante la tua origine occidentale.”

“… è incredibile! Non mi aspettavo certo di imbattermi nel rinvenimento di monete antiche! Sono sicuramente precedenti al 1469, perché in quell’anno Goa passò sotto il controllo del Sultano di Gulbarga e poi passò ai Portoghesi; monete con immagini induiste devono essere necessariamente precedenti. Probabilmente saranno dei Vijayanagara, le figure fanno riferimento alla loro propaganda politica. Chissà se si riesce a leggere il nome.”

Irma controllò il rovescio delle monete, cola di una curiosa frenesia. L’alfabeto non era quello che meglio conosceva, bensì quello della lingua Kannada e già ciò le confermò che aveva indovinato la dinastia che le aveva emesse. Dopo averle esaminate attentamente, disse: “Il nome credo sia Harihara, ma non dovrebbe essere il fondatore della stirpe, bensì il terzo imperatore poiché è a lui che si attribuisce la conquista di Goa. Incredibile! Sarà un ritrovamento casuale? Ricordo che quando andavo in giro con gli amici del gruppo archeologico, in Italia, usando il metal detector … so che non si dovrebbe fare, ma … va beh, non c’entra, comunque, ci capitava di trovare monete romane, senza che fossero legate ad un sito. Sarà un caso averle trovate qui? Forse più sotto c’è altro e bisognerebbe scavare con più attenzione, magari fare qualche saggio col metodo stratigrafico e poi decidere come procedere … Cielo! Sto parlando come se fossi la responsabile di questo posto, scusami … però, accidenti, tre monete d’oro! Sono straordinarie. Bisognerebbe allertare la sovrintendenza o qualsiasi organo governativo si occupi di queste cose da voi. Lo farai? Ma le avete trovate assieme? Erano vicine oppure sparse? Forse potrebbe esserci un tesoretto nascosto volutamente; insomma, tre monete d’oro dello stesso periodo, trovate nel raggio di pochi metri, fan venire il sospetto che non sia uno smarrimento casuale … Ehi, ma mi stai ascoltando?”

Irma aveva parlato in preda all’entusiasmo, infilando una parola dietro l’altra con grande velocità; solo ora si accorgeva di non avere forse la massima attenzione, notando che Dhvana la stava osservando molto assorto, ma sembrando assente.

Il giovane si scosse e disse: “Sì, sì, ti sto ascoltando … Essendo noi un museo, possiamo condurre ricerche o scavi senza chiedere autorizzazioni, infatti adesso voglio mettere maggiore attenzione. Purtroppo non so come fossero collocate: le ho trovate tra la terra spostata e infatti ora voglio controllare se ce ne sono altre. Scusa se sono sembrato distratto, ma stavo guardando il tuo braccialetto. È molto particolare.”

Irma corrugò la fronte, perplessa: come si poteva pensare al suo bracciale, davanti ad un ritrovamento del genere?

“Dove lo hai preso? Qui in India?”

“È un regalo di un amico, a dire il vero, comunque sì, lui è indiano.”

“Caspita, è un regalo piuttosto di pregio, sei fortunata. Posso vederlo?”

La ragazza esitò: non lo aveva mai tolto, da quando Iravan glielo aveva consegnato e non era sicura di quel che sarebbe successo se lo avesse sfilato, per cui rispose: “È complicato da sfilare, però puoi toccarlo, se vuoi.”

Dhvana si avvicinò e posò due dita sulla testa del serpente d’oro, dopo un paio di istanti le ritrasse, bruscamente e borbottò: “Bah, così non è che riesca a vederlo meglio. Pazienza! Ti va di aiutarmi a setacciare la terra? Vorrei controllarla tutta, prima di cena; se stanotte piovesse, sarebbe più difficoltoso cercare domani nel fango.”

“Va bene, volentieri.” accettò Irma, ben contenta di concedersi un momento di archeologia.

I due giovani frugarono e setacciarono la terra rimossa quel giorno e vi trovarono altre tre monete sempre d’oro e del regno di Harihara II, una rappresentava Krisna col flauto, un’altra Narashima (l’avatar di Visnu con la testa da leone e il corpo umano) e l’ultima con un cinghiale che oltre ad essere simbolo della dinastia era anche un’altra delle manifestazioni di Visnu.

Tornarono agli alloggi che era già stata servita la cena da diverso tempo, per fortuna Bhavani e Ramon si erano ricordati di tenere qualcosa da parte per loro. Mangiarono, parlottando fittamente tra loro delle possibili spiegazioni a quei ritrovamenti ed Irma si lanciava in fantasiose ipotesi e ricostruzioni. Stabilirono di riferire tutto quanto a Vairochana il giorno seguente a pranzo.

“Zio, ci sono delle novità!” annunciò Dhvana, sorridente, mentre si metteva nel piatto un pesce intero, impanato e fritto nella farina di mais.

“Di che tipo?” domandò il direttore con aria piuttosto seria.

“Spostando i primi strati di terra, abbiamo rinvenuto otto monete antiche.”

“Otto?! Ne avete trovate altre due?” domandò Irma che non era stata aggiornata “Che cosa vi è raffigurato? Sono sempre di Harihara II?”

“Sì, più tardi te le mostro.” rispose lui, sbrigativo, per poi rivolgersi nuovamente allo zio: “Pensavo di procedere con metodo stratigrafico. Rallenta i lavori, certo, ma permette di esaminare meglio la situazione. Se scendendo ancora di venti o trenta centimetri non troviamo nulla, allora queste monete saranno state perse per caso, ma se dovesse esserci qualcosa di più importante, è bene scoprirlo con i mezzi adeguati. Potremmo trovare resti importanti della presenza Vijayanagara, oppure quel che resta di un tempio non completamente distrutto dai portoghesi … qualsiasi cosa ci sia là sotto, porterà al museo benefici maggiori della nuova ala. Concordi?”

“Abbiamo trovato qualcosa di molto importante, stando ai tuoi discorsi.” replicò Vairochana, che non sembrava contagiato dall’entusiasmo.

“Potremmo. Bisogna appunto fare scavi più approfonditi, ma io sento che è il posto giusto.”

“D’accordo, hai il mio benestare.” il direttore lo disse più per formalità che non come vera autorizzazione, sapendo bene che il nipote avrebbe agito comunque di testa propria.

“Scusi” intervenne allora Irma “Avrei allora anch’io una richiesta da avanzare. Io prevedo di concludere entro domani il lavoro in magazzino; dal momento che sono qualificata come archeologa e ho già partecipato ad uno scavo in India, mi sarebbe cosa gradita essere assegnata a questa indagine, se non è un problema.”

“Da questo punto di vista hai sicuramente più competenze di mio nipote … d’altra parte sarei di nuovo sotto organico …”

Vairochana rimase in silenzio, meditante, mentre il suo sguardo vagava. Incrociò gli splendidi occhi della moglie che schiuse le carnose labbra per dire: “Dhvana ha ragione a dire che quel che sta emergendo ha sicuramente più importanza e valore dell’attuale museo. È meglio impiegare le nostre risorse dove possono portare maggiori risultati, pazienza se per qualche settimana saremo con un aiuto in meno per altre cose.”

Il direttore si convinse e sospirò; dopo aver confermato alla ragazza che avrebbe potuto seguire gli scavi, cambiò repentinamente umore e si fece molto allegro nel dire: “Allora, stasera iniziate a preparare gli zaini per l’escursione nella jungla, perché sabato partiamo presto e quindi domani li dovrete avere già pronti.”

Continuò poi elencando le cose che era necessario o caldamente consigliato portare.

Più tardi, sotto sera, Irma si recò nuovamente nella zona di scavo per essere aggiornata su quanto emerso nelle ultime ore. Il numero delle monete era aumentato nuovamente a undici e ognuna raffigurava una manifestazione differente del dio Visnu: dormiente sul suo serpente, accompagnato dalla moglie Lakshmi, tartaruga, pesce, il minuto Vamana.

“Non trovi sia singolare e possa celare un qualche significato?” domandò Irma, mentre mettevano le monete appena ritrovate nell’olio d’oliva per consentire una migliore pulitura il giorno successivo.

Erano nella sala comune a svolgere quell’operazione; le incrostazioni non erano eccessive e dunque Irma aveva ritenuto non ci fosse bisogno di ricorrere all’elettrolisi per ripulirle.

“Che cos’è che trovi strano?”

“Sulle monete ci sono solo riferimenti a Visnu, eppure tra i Vijayanagara erano coniate con immagini di molte altre divinità, anzi era molto più diffuso Shiva, dal momento che i regnanti erano shivaiti, quindi mi incuriosisce il fatto che qui non compaia nemmeno una volta. Perché? La regione era visnuita e quindi c’erano coni speciali per la diffusione qui? Oppure qui c’era un tempio o un qualche luogo sacro legato a Visnu e queste monete erano lasciate come un omaggio? Certo, undici monete sono poche, in realtà, per fare teorie, però mi incuriosisco lo stesso.”

“Fai bene.” replicò Dhvana “Formulare supposizioni e ipotesi è giusto, l’importante è non affezionarsi ad una teoria. È bene formularne il più possibile e bisogna essere disposti ad escluderle allorché emergano nuove prove che le confutino.”

Irma fu positivamente sorpresa da quella giusta osservazione; sorrise. Dhvana ricambiò e rimasero qualche istante a fissarsi negli occhi.

“Ciao, siete già qui?”

Era entrata Bhavani che aveva appena finito di lavorare. Continuò chiedendo: “Sapete cosa sia successo?”

“In che senso? Dove?” domandò Irma.

“Non so. Sono andata all’ufficio di Vairochana per consegnargli i documenti di oggi, ma la porta era chiusa a chiave e ho sentito che stava discutendo piuttosto animatamente con la moglie. Mi sembrava lui quello più contrariato, mentre lei era fredda e decisa … o almeno questa è stata l’impressione che ho avuto io. Parlavano in konkani, quindi io non l’ho capito. Voi sapete cosa sia successo?”

“No, non ne abbiamo idea.” rispose Dhvana “Magari vado a controllare. Voi, comunque, non preoccupatevi.”

Il giovanotto uscì. Rientrò solo un’ora più tardi, quando la cena era già stata portata. Agli sguardi interrogativi rispose dicendo che si era trattato di un dissapore privato tra gli zii, per una questione di soldi, nulla che riguardasse loro.

Il giorno dopo, tuttavia, Vairochana fu meno loquace e anche il sabato, quando partirono per la jungla, a Irma parve meno entusiasta di quello che si sarebbe aspettata, considerando come lo aveva sentito parlare nei giorni precedenti.

Con la macchina raggiunsero il confine con l’area protetta dove cresceva rigogliosa la jungla, che ormai si presentava come una riserva naturale; era in una zona di alture e con l’auto avevano percorso diversi tratti di strada in salita. Lasciarono l’automobile in sosta in uno dei parcheggi dedicati proprio agli escursionisti. Zaini in spalla si inoltrarono lungo un sentiero.

La jungla era meno selvaggia di quanto Irma si aspettasse. La giovane era stupita per l’altezza delle piante che davano l’impressione che quella foresta esistesse da secoli o millenni, ma era anche molto tranquilla e silenziosa, fatta eccezione per i cinguettii e dopo due ore di marcia non aveva visto animali se non qualche scoiattolo e qualche farfalla che non risaltava per grandezza o colore. Irma non percepiva una gran differenza tra il passeggiare lì o tra i boschi dell’Appennino, tuttavia era ugualmente un’attività piacevole e rilassante. La sua mente, però, non riusciva a rimanere vuota e silenziosa per godersi il paesaggio, ma si riempiva di pensieri che si susseguivano come in un flusso di coscienza, erano comunque pacifici e non la turbavano.

Era passata da poco la metà della mattina, quando Vairochana li condusse in un sentiero secondario che scendeva di alcune decine di metri. La vegetazione era molto fitta e si poteva guardare solo a breve distanza, tuttavia si sentiva distintamente lo scroscio di acqua corrente, era molto forte e impetuoso: doveva trattarsi di un grande fiume.

Quando arrivarono in fondo alla discesa, la vegetazione si interruppe d’improvviso e loro poterono vedere che in realtà il rumore che li aveva accompagnati era quello di una cascata altissima che precipitava in un piccolo laghetto e poi defluiva placidamente in un fiumiciattolo. Rocce e sassi circondavano la pozza e c’era anche una spianata di pietra liscia e piatta, forse levigata dalle onde di un fiume più grande, molti millenni addietro.

Vairochana li condusse proprio su quella parte e ordinò loro di togliersi le scarpe per non rovinare nulla. Uno sguardo superficiale, infatti, non avrebbe notato nulla, ma un’osservazione più approfondita e un occhio capace di mettere a fuoco le cose facevano riconoscere delle antiche incisioni nella roccia. Erano soprattutto animali: il bufalo, la mucca gobbuta, antilopi, un pavone e altri volatili; l’unico disegno che aveva un soggetto differente era una sorta di spirale che a Irma ricordò parecchio la forma di un labirinto ayurvedico che aveva già visto in più occasioni passate, costruito ovviamente non per far perdere le persone, ma per i benefici che ne avrebbero tratto camminando lungo le linee fino al centro e poi a tornare indietro.

Vairochana spiegò che quella era solo una parte delle 125 incisioni trovate lungo il corso del fiume Kushavati, erano state datata tra i seimila e gli ottomila anni prima ed erano attribuiti ad una praticamente sconosciuta tradizione sciamanica, di cui erano l’unica testimonianza, al momento. Erano note anche col nome di “rocce tagliate di Usgalimal”.

Irma fu molto contenta di scoprire quel tassello di storia che non conosceva e restò ad osservare a lungo ogni incisione, fotografandola per poter poi riguardarle con calma ogni volta che lo desiderasse.

Si domandò anche se quell’antica cultura fosse collegata alle visioni che aveva avuto durante la meditazione, oppure alle leggende a cui aveva accennato Iravan. Ci avrebbe pensato: quello non era il momento adatto per le congetture.

Gli altri, intanto, si erano messi in costume da bagno e si erano immersi nel laghetto per una nuotata. Irma li raggiunse e si unì a loro. Non aveva mai nuotato da nessuna parte in India ed erano passati molti anni anche dall’ultima volta che si era bagnata in un fiume o in un lago anche in Italia. Lo trovò estremamente piacevole: stare in acqua era ciò che la rilassava più di ogni altra cosa e avrebbe potuto stare a mollo per ore e ore, ma furono richiamati a riva per il pranzo.

Mangiarono dei tramezzini che si erano portati dietro e nel frattempo si asciugarono al Sole, dopo un breve riposo, ripresero il cammino.

Fu faticoso risalire il ripido sentiero che li aveva portati alla cascata e, arrivati in cima, si fermarono a bere e riprendere fiato.

Proseguirono l’escursione e non incrociarono mai altre persone lungo il tragitto. Dopo oltre due ore e mezza, il direttore di fermò e comunicò che stavano per addentrarsi in un tratto dove non c’era il sentiero e quindi dovevano rimanere ben in fila compatta, senza perdersi di vista. Si addentrarono nel fitto della jungla; le piante rimanevano distanziate e quindi permettevano il passaggio, ma tra l’una e l’altra crescevano arbusti e cespugli, l’erba era alta e adesso si sentivano molti versi di animali, i loro movimenti che scuotevano le fronde. Il terreno non era uniforme ma aveva qualche piccola altura sparsa qua e là, generalmente non più alte di tre metri, ma molto lunghe.

Dopo un bel po’ che si erano addentrati per quelle strade non battute, Vairochana indicò un’altura dritta davanti a loro. Avvicinandosi, notarono che le piante cresciute attorno avevano nascosto una lunga fenditura che l’attraversava interamente. Di fatto si trattava di una caverna a livello del terreno e poco profonda. Vi entrarono e accesero le torce per vederla meglio, infatti da fuori non penetrava abbastanza luce per illuminarla.

Nelle pareti erano state scavate alcune nicchie che ora non contenevano più nulla; per terra si trovavano canalette artificiali che probabilmente erano servite per far defluire liquidi fuori dalla grotta. Ciò che saltava maggiormente all’occhio, però, era una sorta di grande seggio a più posti e un parallelepipedo che presumibilmente aveva avuto la funzione di altare; entrambi erano stati scolpiti nella roccia in situ e non portati da altrove, quindi forse tutta l’intera grotta era stata costruita artificialmente. Il che non stupì per nulla Irma, aveva ben presente la straordinaria abilità degli indiani di lavorare la roccia e il suo pensiero corse immediatamente al Kailasa di Ellora che si stentava a credere fosse stato scolpito e non edificato, eppure era emerso dalla pietra; oppure pensò ai Pancha Ratha della sua amata Mamallapuram. La grotta in cui si trovavano in quel momento era un lavoretto da dilettanti o l’effetto di un progetto abbandonato sul nascere, se confrontato con i numerosi altri esempi.

Erano però molto carine tre statuette di leoni, abbastanza naturalistiche e non con le corna, come quelle diffuse in Tamil.

Vairochana spiegò che anche quel luogo aveva la stessa datazione delle incisioni e che forse aveva avuto funzione funeraria, poiché vi erano state trovate molte ossa umane, ma anche di animali, forse lasciati come offerte per le divinità o come dotazione dei defunti. In realtà il tutto era stato rinvenuto durante il periodo Portoghese e quindi non si aveva la certezza di cosa fosse stato trovato, in quale modo e quale sorte avesse avuto successivamente. Le fonti parlavano anche di una grotta di Hanuman, ma lui non era mai riuscito ad individuarla.

Irma la ispezionò in ogni centimetro, alla ricerca di qualche dettaglio che potesse essere interessante, ma sfuggire a un rapido sguardo; Ramon gridò alcune parole, come se stesse testando l’eco; Dhvana non sembrava molto interessato e si era appoggiato al seggio, canticchiando a bocca chiusa, aspettando che gli altri fossero pronti; Vairochana, invece, era rimasto immobile accanto all’altare, con lo sguardo perso; Bhavani esaminava soprattutto il sistema delle canalette.

Dopo aver scattato altre foto, uscirono e tornarono indietro; le due ragazze espressero la loro ammirazione a Vairochana per quanto fosse abile ad orientarsi, loro non erano riuscite a trovare punti di riferimento per riconoscere il percorso del ritorno.

Instradati nuovamente nel sentiero principale, in meno di un’ora arrivarono in una radura molto piccola, attraversata da un torrentello, l’unica altra cosa che c’era era una capanna in legno e fango. Dei pali spessi erano stati posizionati ai quattro angoli e a metà delle pareti, erano uniti da un muro fatto da canne intrecciate poi ricoperte di terra; non c’era il pavimento e il soffitto consisteva in due travi incrociate su cui potevano essere distese larghe foglie di palma. Quello era il rifugio in cui avrebbero trascorso la notte.

Fuori dalla capanna c’era una coppia di mezza età con abiti tradizionali: torso nudo e dhoti per lui, sari per lei, i colori erano stinti e i bordi usurati. La donna stava impastando una palla di farina e acqua, mentre l’uomo cercava di accendere un fuoco sotto al fornello, che consisteva in un cubo aperto da un lato e vuoto all’interno, era in terra che si era cotta naturalmente con il fuoco che veniva acceso al suo interno.

Quando videro il gruppo arrivare, i due signori non interruppero il loro lavoro, ma quando furono a portata di voce li salutarono con grande cordialità.

L’uomo aveva acceso il fuoco e si rivolse a loro in lingua konkani. Vairochana tradusse: l’uomo si era detto veramente felice di avere ospiti; non capitava spesso che la gente si fermasse lì, quindi era molto contento; la moglie si sarebbe preoccupata di preparare la cena anche per loro.

Li condusse a vedere l’interno della capanna che era molto largo e quasi completamente spoglio, c’erano solo alcuni vasi, delle stuoie e delle stoffe ammucchiate tra due angoli, poi uscirono perché c’era troppo caldo.

Volle mostrare loro anche l’altare privato che si era costruito dal lato opposto rispetto a quello in cui cucinavano e mangiavano. C’erano due cubi di terra, su uno aveva modellato un lingam che emergeva dalla yoni, il ché lo indicava come shivaita; la seconda scultura, piuttosto rudimentale, presentava un uomo con serpenti al posto dei capelli, una collana di teschi, teneva nelle quattro mani una coppa, un tridente, un arco e una freccia; stava cavalcando un toro dalle alte corna che, in un primo momento, erano sembrate orecchie ad Irma e quindi lo aveva scambiato per un asino. Capì, comunque, che si trattava di Rudra. Le sembrò una scelta strana, però di ricordava che quello era una delle cinque divinità principali di Goa; inoltre pensò che avesse una certa logica venerare il dio della tempesta e delle malattie per chi viveva nella jungla, in balia degli elementi e senza igiene e medici.

L’uomo prese una campana posta tra i due cubi e la suonò, poi si stese a terra con il viso rivolto al suolo, congiunse le mani sopra la propria testa e pronunciò una preghiera sottovoce, difficile da capire.

Irma domandò a Dhvana se lui l’avesse capita. Il giovane le spiegò che era uno dei tanti inni pronunciati per placare la furia di Rudra, supplicandolo di essere pago delle offerte e dei sacrifici e non imperversare su di loro.

Tornarono sul davanti della casa e trovarono la proprietaria intenta a tagliare verdura e frutta selvatica. Le offrirono aiuto, ma lei rifiutò categoricamente: nessun ospite doveva lavorare, avrebbe fatto tutto da sola.

Gli escursionisti allora si sedettero a riposare, bere e chiacchierare tranquillamente.

La cena fu servita su foglie di palma, adagiate al suolo; non c’erano né piatti, né posate, solo delle tazze per l’acqua. L’uomo pronunciò un’invocazione alle divinità e gettò qualche pezzetto di cibo alle proprie spalle, come offerta agli spiriti.

Mangiarono tranquillamente, rimasero un poco svegli per digerire e guardarono le stelle in un cielo che, per la prima volta, Irma notò fosse nero e non semplicemente blu scuro come quello a cui era abituata in Italia.

Si coricarono poco più tardi. Entrarono nella capanna, ognuno prese una stuoia, la distese e vi si sdraiò sopra, mentre il proprietario toglieva le foglie dal tetto per far entrare un poco d’aria fresca.

Si addormentarono subito, stanchi dalla lunghissima escursione.

Irma stava sognando di essere coi nipoti al parco e di star giocando con loro, quando si avvicinarono alcune scimmie che li guardavano incuriosite, prima interagivano con timidezza, poi iniziavano ad agitarsi e ad urlare. Strillavano così forte che Irma si svegliò. Attorno a lei non c’era il silenzio, poiché l’aria era colma del frinire di grilli e cicale e del gracidare delle rane, comunque non c’erano scimmie in vista. Stava per rimettersi a dormire, quando si rese conto che Bhavani magari. Probabilmente si era alzata per andare in bagno, eppure Irma fu colta da una spiacevole sensazione, il presentimento di un pericolo. Decise di rimanere sveglia fino a che l’amica non fosse ritornata. Dopo diversi minuti, però, non era ancora rientrata. Si alzò in piedi e uscì per controllare: magari Bhavani non riusciva a dormire, oppure cercava più fresco, dunque l’avrebbe trovata appena fuori dalla porta.

Nessuno all’esterno della capanna.

Irma si preoccupò seriamente, ragionò circa se convenisse svegliare gli altri per andare a cercarla, ma temette che qualcuno dei compagni potesse centrare con quella sparizione. Un’idea assurda? Beh, da un punto di vista logico sì, tuttavia dentro di sé sentiva di non potersi fidare e che avrebbe dovuto affrontare quella situazione da sola.

Prese lo zaino e se lo mise in spalla e tirò fuori la torcia per partire alla ricerca dell’amica, per fortuna la Luna era quasi piena e rischiarava la terra, nonostante l’oscurità del cielo. Raggiunse il sentiero e lo percorse a ritroso. Bhavani era realmente andata in quella direzione? Impossibile a dirsi, ma Irma si fidava del proprio istinto.

Fino a qualche anno prima, non si sarebbe mai avventurata in un bosco da sola nel cuore della notte, nonostante fosse su un sentiero. Nemmeno in quel momento i sentiva a proprio agio e, infatti, il cuore le batteva piuttosto rapidamente e doveva impegnarsi a respingere la paura, ogni volta che sentiva un rumore. Aveva però imparato che le situazioni vanno affrontate, non si può rimanere fermi, bisogna reagire a dispetto di insicurezze e timori. Se la sua amica era davvero in pericolo, chi l’avrebbe salvata, se lei non fosse stata coraggiosa?

Procedeva alternando la corsetta alla marcia rapida, per poter recuperare terreno, senza affaticarsi e spezzare il fiato. Di Bhavani, però, non c’erano traccia. Solo dopo una mezzora, Irma vide una figura umana, più avanti di lei di una trentina di metri, abbandonare il sentiero e scivolare tra gli alberi. La giovane ricordò quanto intricato fosse il percorso nella jungla e allora urlò il nome dell’amica, sperando di fermarla e farla tornare indietro. Inutile.

Irma entrò nel fitto della foresta, correndo, cercando di raggiungere l’altra ragazza, ma la perse di vista. Si ritrovò a vagare nelle tenebre, con la torcia che illuminava a malapena un paio di metri attorno a lei. Vedeva radici e cespugli tra cui si muovevano animali discreti che sfuggivano alla sua vista.

Dove andare? Non lo sapeva, non era nemmeno certa che voltandosi sarebbe riuscita a tornare al sentiero. Voleva comunque continuare la ricerca, poco le interessava se si stava smarrendo. Pensò alle conseguenze della sua ostinazione, ma decretò che l’aiutare Bhavani era più importante e si augurò che Visnu la proteggesse. In fondo era anche colpa o merito di quel dio, se aveva il presentimento di un pericolo e voleva sventarlo.

Si guardò attorno, cercando un’ispirazione per decidere dove dirigersi. Notò delle luci che volavano tra le piante, anche attorno alle chiome più alte. Sembravano lucciole, ma il loro bagliore era molto più grande. Erano cinque e si avvicinarono tra loro per poi volteggiare fino a un paio di metri davanti ad Irma.

Erano insetti normali? Forse in India le lucciole erano di dimensioni maggiori.

La ragazza mosse qualche passo nella loro direzione e loro rimasero sospese dove erano. Lei le raggiunse e, prima di riuscire a metterle a fuoco, esse ripartirono, spostandosi lentamente come se volessero essere seguite.

Ecco, a quel punto Irma poteva essere certa che non si trattava di normali insetti. Si augurò che fossero lì per aiutarla e le seguì.

Avanzò tra gli alberi stando attenta a non inciampare; le lucciole l’attendevano, se si attardava e poi ripartivano sempre in tempo per non farsi raggiungere.

Irma non aveva idea di da quanto stesse camminando, la preoccupazione, l’oscurità e il non conoscere il posto le rendevano distorta la percezione del tempo.

Si domandò chissà perché in Italia la sua vita fosse tranquilla e normale e, invece, in India si ritrovasse coinvolta in eventi sovrannaturali. Tra l’altro, quella notte, non c’erano neppure i suoi amici ad aiutarla. Forse avrebbe dovuto chiamare Iravan. Come funzionava il bracciale? Come poteva servire per comunicare con lui? E poi quanto tempo avrebbe impiegato ad arrivare? Se fosse giunto quando ormai la faccenda era risolta? Oppure se lo avesse scomodato inutilmente? Preferì proseguire da sola e avere maggiori informazioni, prima di chiedere aiuto al naga.

Le lucciole iniziarono ad illuminare un’altura. Irma la riconobbe immediatamente: era la grotta dove erano stati quel pomeriggio. Le luci si precipitarono all’apertura e mostrarono una figura umana che stava entrando.

Era Bhavani?

Le lucciole si mossero nuovamente a gran velocità, tornando verso la ragazza e sollecitandola ad andare avanti.

Irma non perse ulteriormente tempo e andò nella grotta.

Era leggermente diversa da come era apparsa nel pomeriggio: c’erano candele e incensi che bruciavano.

Non ebbe il tempo di domandarsi chi potesse aver portato lì quelle cose, poiché immediatamente si accorse che Bhavani si stava stendendo sopra l’altare.

Oh, doppia porzione! Ma che bella sorpresa …”

Una profonda e cupa voce echeggiò nella caverna.

Irma si guardò attorno alla ricerca di chi avesse parlato, ma non vi era nessun altro.

Tu sei molto sostanziosa … tu potresti bastare per ristorarmi completamente … eppure non ti hanno scelta … sei venuta qui cosciente, non ti hanno mandata … perché? Perché avendo te, mi hanno servito un’altra? Poco male, visto che sei qui …”

“Chi sei?!” urlò Irma, con grande forza “Chi sono quelli che hanno fatto venire Bhavani qui e come?”

Non ci fu risposta.

Gli occhi nelle tre statue dei leoni brillarono, crebbero di misura, un ruggito le scosse dando loro vita. I tre felini di pietra balzarono verso Irma e la circondarono.

La donna ebbe paura: doveva agire, non aveva modo di prendere tempo.

Erano due anni che non ricorreva ai propri poteri, non ne aveva più fatto uso, dopo la sconfitta di Hiranyakshva. Si concentrò profondamente, sperò di ritrovare rapidamente le memorie di Dusshala, in fondo ogni tanto, in sogno, ancora vedeva frammenti della sua vita precedente, quindi forse non sarebbe stato difficile ritrovare il contatto con essa.

Le labbra di Irma si schiusero e lasciarono uscire un mantra per il dio Vayu. Un piccolo vortice d’aria la circondò, poi il vento soffiò violentemente, sbalzando indietro di alcuni metri i leoni.

Irma ne approfittò per raggiungere l’altare, dove Bhavani era sdraiata con gli occhi spalancati, come fosse in trance. Provò a svegliarla e la scosse, ma nulla servì. Intanto i leoni stavano già tornando all’attacco.

Questa volta la giovane pronunciò un mantra di Indra e così tre fulmini colpirono in pieno i leoni.

Oh, sì … tu mi ridarai il mio vigore … non puoi nulla contro di me: la pietra resiste a tutto. Lascia che io mi nutra, in un certo senso non morirai del tutto …

Irma non sapeva cosa fare: se nemmeno i fulmini erano riusciti a mandare in frantumi quelle bestie, che cosa poteva fermarle?

Doveva cercare di trattenerle il più a lungo possibile e contattare Iravan, lui sarebbe venuto armato.

Usò un mantra di Bhumi e la roccia sotto le zampe si trasformò in molle fango che le risucchiò prima di solidificarsi e tornare pietra. Ecco, quello avrebbe dovuto trattenerli per un poco.

La donna sollevò Bhavani e se la caricò in spalla e raggiunse l’uscita.

Non andrai lontano!”

I leoni spezzarono la roccia che li tratteneva e si slanciarono all’inseguimento. Irma si era allontanata solo di pochi metri, poiché era faticoso trasportare una persona a peso morto, in più stava cercando di capire come il bracciale potesse fungere da comunicatore.

Udì i ruggiti vicini.

Un grande tonfo che fece tremare la terra.

Irma si voltò e vide un’enorme scimmia, alta tre metri che brandiva una mazza e si apprestava ad abbatterla in testa ai leoni.

“Hanuman …?” farfugliò la donna, confusa.

La scimmia si voltò un istante a guardarla per farle capire che doveva andare.

Irma si sentì sicura, tornò a camminare, sperando di non perdersi. In suo aiuto ritornarono le lucciole giganti che la guidarono fino a ritrovare il sentiero.

Bhavani era uscita dallo stato di trance, ma non si era svegliata; ora aveva gli occhi chiusi e dormiva profondamente.

Non fu facile per Irma trasportarla fino al rifugio, ma vi riuscì. La risistemò sulla stuoia, poi si sdraiò anche lei. Si ripromise di non dormire, per continuare a vegliare, ma alla fine la stanchezza ebbe la meglio e si addormentò. Scivolò nel sonno domandandosi chi potesse essere l’entità che abitava nella caverna e con chi fosse in combutta. Chi poteva essere incorporeo o invisibile e avere bisogno di nutrirsi di carne umana? Chi poteva essere disposto a procurargliela?

Un motivo per cui voleva rimanere sveglia era anche il poter osservare le reazioni di tutti gli altri allorché si fossero accorti che non mancava nessuno all’appello e così forse capire chi potesse essere coinvolto. Purtroppo si addormentò e quando si destò il mattino era già inoltrato e i suoi compagni avevano già finito la colazione.

Più tardi si rimisero in cammino per ritornare all’automobile e rientrare in museo; non fermandosi a visitare altri posti, il percorso fu più breve.

Irma era molto delusa; aveva le idee sempre più confuse e non poteva parlarne con nessuno. Le preoccupazioni di Iravan, forse non troppo infondate, le strane visioni che aveva avuto durante la meditazione e ora l’aver sfiorato un sacrificio umano … e aver perfino visto Hanuman! (era certa fosse lui) … tutto ciò era in un qualche modo collegato, ne era sicura, ma in che modo era ancora difficile da capire. Non era certa di volere ulteriori dettagli per fare chiarezza.

Si consolò, pensando che dal giorno dopo si sarebbe dedicata ad uno scavo archeologico.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Irma non avrebbe mai dimenticato quella gita nella jungla. Come avrebbe potuto?

Era certa che, qualsiasi cosa fosse accaduta in quella caverna, non era una faccenda conclusa. Chi abitava la spelonca? Un Asura? Un Rakshasa? Qualcos’altro di cui ignorava la conoscenza? Qualcosa legato al passato di Goa, smarrito dalla memoria anche delle leggende?

Hanuman era davvero intervenuto in suo aiuto? Se sì, era stato in grado di sconfiggere l’invisibile nemico, oppure lo aveva trattenuto solo il tempo necessario per consentirle di mettersi in salvo? Hanuman era forte, era figlio di Vayu, il dio del vento, non poteva essere facilmente sconfitto. Certo ormai doveva avere qualche decina di migliaia di anni; chissà se aveva ancora le stesse abilità narrate nei poemi. Forse si era limitato a distruggere i leoni di pietra …

Troppe domande, troppi dubbi e non aveva nessuno con cui poter parlarne.

Irma non si godette il primo giorno di scavo proprio a causa dei mille quesiti che continuava a porsi circa cosa fosse realmente accaduto nella jungla, chi poteva essere in combutta con un mostro antropofago e se il pericolo si sarebbe ripresentato.

Si scosse da quei pensieri solo a metà pomeriggio, quando dallo scavo emerse qualcosa: cinque pietre lavorate. Per la precisione erano la parte più alta di qualcosa che, per il momento, non si poteva stabilire se fosse una stele, un cippo, una statua o i resti di una qualche struttura.

Purtroppo si era fatto ormai tardi e per quel giorno non potevano approfondire la scoperta. Irma e Dhvana coprirono lo scavo con grandi teli impermeabili per evitare che le piogge lo danneggiassero, poi tornarono ognuno nella propria  stanza per ripulirsi dalla terra e dal sudore, prima della cena.

Quella sera, Irma si era ritirata presto nella propria stanza, sia perché stanca dal lavoro fisico della giornata, sia perché ormai si era decisa a consultarsi con qualcuno. Si sdraiò sul letto, sollevò il braccio a cui era avvolto il serpente d’oro e lo scrutò attentamente per diversi istanti, poi si rilassò e si concentrò su Iravan, cercando di chiamarlo. In fondo non aveva ricevuto istruzioni circa l’utilizzo di quel bracciale. Dopo pochi istanti, la testa del serpente si mosse, si srotolò dal braccio e assunse l’aspetto di un piccolo essere umano, sempre in oro.

La ragazza lo osservò meglio ed esclamò: “Iravan! Sei proprio tu?”

“All’incirca. Sono io, ma non mi trovo lì con te, sono a Vasukiprastha, tuttavia riesco a comunicare con te … un po’ come i vostri telefoni. Mi fa piacere sentirti, allora che cosa mi racconti? Come procedono le cose al museo?”

Irma fece un gran respiro e raccontò per filo e per segno quanto aveva vissuto nella jungla.

“E stai bene? Ne sei sicura?” si preoccupò vivamente il Naga, dopo aver ascoltato tutto.

“Sì, sono tutta intera, grazie agli aiuti inaspettati. Vorrei però tanto sapere con cosa ho avuto a che fare, voglio essere pronta se il pericolo dovesse ripresentarsi. Tu puoi aiutarmi a capire qualcosa di più?”

“Le lucciole che ti hanno aiutato, probabilmente erano una manifestazione di un Rakandar.”

“Un che?” si stupì la giovane “Credevo di conoscere ormai tutte le creature mitologiche indiane.”

“Non ti illudere, non le conosco tutte nemmeno io che ho un paio di secoli in più di te e sono cresciuto nel mondo che voi definite del mito. I Rakandar sono spettri buoni, protettori dei viandanti e della natura. Il loro reale aspetto sarebbe quello di un gigante, ma possono assumere molte forme a seconda del bisogno o del loro umore. Se la prendono spesso con gli ubriachi: li afferrano e li lasciano sui rami più alti degli alberi; non è raro, poi, che appaiano come lucciole per aiutare chi si è perso a ritrovare il giusto cammino. Spesso le persone li confondono con i Vetala che sono sempre spettri, anzi sarebbe il nome proprio del re dei fantasmi, per essere precisi, i quali hanno funzioni protettive più guerresche, attaccando entità demoniache. Sei stata fortunata, anche se non credo che il Rakandar ti abbia soccorsa per puro caso.”

“Ciò che hai detto è stato molto interessante, sicuramente, tuttavia le lucciole non erano la mia preoccupazione principale.” ribatté Irma “Iravan, per favore, parlami con franchezza. Eravamo fratelli e forse tu non mi hai voluto dire nulla prima perché credevi di tenermi maggiormente al sicuro, ma ormai ho incontrato qualcosa di pericolo e quella cosa ha visto me. Devo sapere con cosa ho a che fare. Per favore.”

“Hai ragione. Visto che le mie preoccupazioni non erano del tutto infondate, tanto vale condividerle totalmente. Hai mai sentito parlare dei Kalakeya oppure della città di Hiranyapura?”

“Della città sì. Vi abitavano degli Asura, una volta era sul fondo dell’oceano e poi è stata anche sospesa nel cielo … si è spostata spesso, insomma. Sono state combattute molte battaglie tra i suoi abitanti e i Deva, perfino Arjuna ha dovuto affrontarli; ricordo un altro caso in cui nella lotta fu coinvolto il saggio Agastya.”

“Complimenti, sai comunque abbastanza cose, per essere un’umana e occidentale.” scherzò un poco l’altro “I Kalakeya sono stati un clan di Asura particolarmente feroce e crudele, il più noto di loro fu Vritra.”

“Il drago della siccità che aveva imprigionato le acque?”

“Sì, quello è sicuramente l’episodio più famoso. In generale fu un nemico assai temibile per i Deva, li sconfisse più volte e pure li sottomise, addirittura inghiottì Indra e solo con grande difficoltà gli altri dei riuscirono a farglielo sputare fuori. Dominò anche vari luoghi nei cieli, sulla terra, negli abissi, nel sottosuolo e procurò indicibili sofferenze. Infine, Indra riuscì a sconfiggerlo solo grazie all’aiuto di Visnu e di alcuni suoi saggi seguaci. Dopo la sconfitta di Vritra, i Kalakeya non ottennero più un così sconfinato potere e dominio, ma continuarono a prosperare, non si estinsero. Persa la loro città, si stabilirono proprio in questa regione e vi regnarono efferatamente per millenni anche nei tempi riconosciuti col nome di storia. Nonostante col passare dei secoli abbiano imparato ad essere più cauti e a non manifestare apertamente poteri e crudeltà, pare che solamente poco più di seicento anni fa siano stati definitivamente sconfitti … o per lo meno annientati quasi totalmente. Pare che in realtà qualche loro discendente sia ancora sopravvissuto. Non si sa che cosa sia realmente accaduto e come sia stato possibile che un re umano abbia potuto distruggere i Kalakeya che dominavano segretamente Goa da millenni. Si dice che fosse un grande devoto di Visnu, in particolare del suo avatara di Rama, e che sia stato aiutato da Hanuman e dal suo esercito di scimmie; infatti la capitale del suo impero era nello stesso luogo in cui millenni prima sorgeva il regno delle scimmie. Non mi stupisce che una scimmia sia accorsa in tuo aiuto: è comprensibile che alcune siano rimaste qui per contrastare i possibili discendenti dei Kalakeya. Paradossalmente, però, questo fatto relativamente recente, è avvolto da maggiore mistero che le leggende.”

“Tu credi che nella grotta ci fosse un Kalakeya? Quei signori che vivono nella foresta potrebbero essere dei suoi adoratori?”

“Oppure esserne terribilmente spaventati … oppure potrebbe essere qualcun altro che voleva compiere il sacrificio. Hai detto che c’erano altre tre persone in viaggio, oltre a te e alla ragazza.”

“È vero … ma preferirei non pensare al fatto che un adoratore degli Asura possa vivere in questo museo!”

“Invece ti converrebbe pensarlo, anche solo per precauzione.”

Rimasero in silenzio qualche momento, poi Irma chiese: “Hiranyapura era un città d’oro, giusto?”

“Sì, esatto. Perché me lo chiedi?”

“Credo di averla vista in una visione … e di aver visto alcune delle atrocità a cui hai accennato.”

“In che modo?”

“Ho meditato una volta, da quando sono qui … o almeno ci ho provato. Mi sono affiorate nella mente immagini di battaglie, di una prospera città d’oro e di crudeltà verso gli uomini.”

Iravan corrugò la fronte e replicò: “Dushala non dovrebbe aver mai visto nulla del genere, quindi come puoi averle viste tu?”

“Una vita ancor più precedente?” ipotizzò la giovane “Oppure sono i suoi poteri che mi hanno permesso di guardare nel passato.”

“È possibile. Credo però sarebbe meglio ne parlassimo anche con qualcun altro.”

“E chi?”

Aswatthaman, almeno. Lui dovrebbe essere libero di spostarsi, a differenza degli altri.”

“Hai ragione. Sai come contattarlo?”

“Forse. Farò il possibile, intanto tu poni molta attenzione a tutto.”

I due amici si fecero qualche altra raccomandazione e infine si diedero la buonanotte e si salutarono. Il bracciale tornò ad avere le sembianza di un serpente e si riavvolse attorno al polso dell’archeologa.

Irma andò a dormire, indecisa se sentirsi rassicurata o meno da quanto aveva appena scoperto. Presto, però, il sonno ebbe la meglio su di lei.

Il giorno seguente la giovane fu pervasa dal buon umore: avrebbero indagato quelle misteriose pietre e ciò la riempiva di entusiasmo. Era dispiaciuta, tuttavia, per il fatto che avrebbero dovuto procedere in maniera molto lenta per rispettare la stratigrafia e che dunque richiedeva di rimuovere minuziosamente uno strato per volta. Presto, però, si rese conto che quello in cui stavano scavando era semplice materiale di riempimento, scaricato in quel luogo in epoche antiche, probabilmente proprio con lo scopo di nascondere quegli oggetti in pietra. Irma fu felice di tale scoperta che dunque le permetteva di rimuovere il terreno molto più rapidamente, non essendoci il bisogno di procedere per strati.

Lavorarono tutto il giorno per rimuovere la terra e si ripromisero di setacciarla successivamente, alla ricerca di materiali che potessero aiutarli a datare l’interramento di quel luogo.

Scesero in profondità di un metro e mezzo, riuscendo a liberare quasi completamente tre delle cinque pietre che si rivelarono essere statue raffiguranti il medesimo soggetto: un uomo completamente nudo, avente ben in evidenza i suoi attributi maschili; il volto e il petto erano tremendi: il viso era scavato, barba ispida sopra cui sporgevano un paio di zanne, i bulbi oculari sporgevano, mentre nel torace risaltavano le costole ed era impossibile stabilire se fosse stato rappresentato estremamente magro, oppure del tutto privo di carne. Attorno al collo era avvolto un serpente e portava anche una lunga ghirlanda che arrivava fino alle ginocchia, composta da teschi umani.

Era sicuramente un ritrovamento straordinario e che meritava di essere approfondito.

Cosa ci facevano cinque statue assieme? Indicavano un antico tempio? Era forse stato sotterrato in epoca portoghese, magari per evitare che fosse distrutto?

C’erano molte ricerche da svolgere e questo stimolava molto Irma, convinta di trovarsi davanti ad una scoperta di non poco conto.

Innanzitutto doveva capire che cosa rappresentassero. Scrutò attentamente le statue, vi girò attorno, cercando di cogliere ogni particolare. Commentò: “Figure così scheletriche non le ho mai viste nell’arte indiana, eccetto che tra i Buddha del Gandhara … ma, a parte la distanza geografica, direi che decisamente questo non sia lo stile gandharico.”

Improvvisamente, Irma ebbe una sorta di dejavu, non le sembrava di aver già visto proprio quelle statue, ma altre simili e di sapere perfettamente che cosa raffigurassero, nonostante non si fosse mai imbattuta in esse durante i suoi studi. Sussurrò: “…Vetala…

“Come?” domandò Dhvana che era accanto a lei, ma non aveva sentito bene.

“Sono statue di Vetala.” ribatté Irma con maggiore decisione.

“Sì … è plausibile.” concordò l’uomo, dopo una rapida riflessione “La loro presenza è però inquietante.”

“Perché? Non sono protettori? Non combattono contro entità maligne.”

“Beh, il maligne è discutibile” replicò Dhvana “Nel senso che molto dipende dal punto di vista, ma a parte questo, il mio inquietante si riferiva più che altro alla loro connessione con i cimiteri, i luoghi dove si lasciano decomporre i corpi. Loro sono fantasmi e si dice che entrano nei cadaveri e li animino. Per me è una cosa piuttosto inquietante. Per te no?”

“Non conoscevo questo aspetto.” ammise l’archeologa.

“Penso sarà davvero interessante scoprire che cosa ci sia qua sotto.” continuò l’uomo “Mi hai contagiato con lo spirito archeologico, evidentemente.” e si mise a ridere.

“Tuo zio sarà molto contento di questo, darà grande risalto al museo.”

“Ne sono convinto. Stiamo facendo un grande lavoro, sono felice che tu sia qui ad aiutarci.”

Dopo aver detto ciò, Dhvana abbracciò Irma che rimase un poco sbigottita, ma ne fu felice.

Pure quel giorno di lavoro era terminato e quindi era necessario rimandare all’indomani ulteriori indagini.

Il mercoledì, tuttavia, lo trascorsero a setacciare il terreno di riempimento rimosso, sperando di poter trovare ceramiche o qualche materiale dante. Forse anche le prime monete rinvenute facevano parte dell’interramento volontario, tuttavia a Irma sembrava improbabile che ben diciotto monete d’oro fossero state smarrite e per caso si fossero ritrovate nello stesso luogo.

Non trovarono resti di alcun oggetto creato dall’uomo, ma soltanto moltissime ossa animali che Dhvana identificò come appartenenti a capre, bufali e polli. Si poteva trattare sia di resti provenienti da una sorta di discarica oppure, più probabilmente, testimonianze di pasti rituali od offerte sacrificali che si erano volute consegnare ai Vetal, mentre li si seppelliva.

Il giovedì piovve quasi tutto il giorno e dunque non si poté continuare con gli scavi; Irma e Dhvana si dedicarono alla stesura del diario di scavo, descrivendo minuziosamente come avevano impostato i lavori, le procedure, i reperti e la loro collocazione e molti altri dettagli necessari.

Il venerdì poterono continuare con gli scavi. Liberarono completamente le altre tre statue e scavando un poco più a fondo, trovarono altre offerte votive, o quel che ne restava, deposte ai piedi delle statue. Erano alcune larghe ciotole in terracotta semplice in cui restavano pezzi di ossa, inoltre c’erano anche alcune piccole brocche che probabilmente avevano contenuto liquore.

L’entusiasmo di Irma era salito alle stelle, ma sembrava che le sorprese non fossero ancora finite. Infatti, un saggio effettuato nel suolo per controllare se ci fosse ancora terreno di riempimento, rivelò che sotto un paio di centimetri si nascondeva qualcosa di estremamente solido e duro, forse un pavimento. Lo avrebbero potuto scoprire solo la settimana successiva.

Irma si concesse qualche ora di riposo in più, il sabato mattina, immaginandosi un bel fine settimana di assoluto relax. A metà mattina, si recò in sala comune per farsi una tazza di te e cercare qualche frutto o altro da mettere nello stomaco. Mentre lei stava sorseggiando lentamente la tisana, aspettando che si raffreddasse, fece capolino nella stanza Dhvana che, dopo averle dato un raggiante buongiorno, le comunicò: “Allora, finita la colazione, ti prepari e andiamo in città.”

Irma lo guardò storto qualche istante: non le piaceva quando gli indiani prendevano decisioni al suo posto, ma era una cosa piuttosto comune che lì le persone prendessero iniziative, volendo essere gentili, senza domandare al diretto interessato che cosa volesse.

La giovane lo sapeva e infatti non se la prese più di tanto ma domandò: “Questo quando lo avremmo deciso?”

“Non ti va di andare a Margao?”

“Non avevo previsto di uscire, ma un giro lo si può fare, sì.”

“Perfetto. Qual è il problema, allora?”

“Il fatto che tu abbia deciso per entrambi, senza chiedere a me se volessi venire.”

“Ma hai detto che va bene?” Dhvana era confuso, non capiva “Io ho detto di andare, se poi tu non vuoi venire lo dici e resti qui.”

“Va beh, lasciamo perdere. Che si fa a Margao? Restiamo fuori anche per il pranzo, così non dobbiamo cucinare?”

“Sì, sì. Innanzitutto cerchiamo un bel vestito per te, poi andiamo al cinema.”

“Un vestito?” si accigliò Irma “E perché dovrei comprarmene uno?”

“Perché domani è il compleanno di mia zia.”

“E allora?”

“Fa una festa elegante.”

“Ma io non sono stata invitata.”

“Adesso sì. Sarai il mio più uno.”

Irma lo fissò interdetta per qualche secondo, poi scosse il capo e borbottò: “Devo decisamente farti capire il concetto: tu puoi proporre le cose, ma non puoi dare per scontato che gli altri accettino.”

“Va bene, va bene” replicò frettolosamente il ragazzo “Allora ci vieni?”

“Sì, volentieri: sono curiosa di vedere come si festeggiano i compleanni a Goa. Comunque non ho bisogno di un abito, ne ho un paio di quelli presi in Tamil che sono certa andranno bene.”

Poco dopo i due giovani uscirono dal cancello del museo; presero una scorciatoia tra la boscaglia per raggiungere più rapidamente la fermata dell’autobus, ma il terreno era ancora fangoso per la pioggia di un paio di giorni prima e si sporcarono i sandali. Appena giunti sulla strada, cercarono una pozzanghera abbastanza profonda dove immergere i piedi e ripulirsi. Salirono poi sul bus, come al solito straripante di persone: ad una fermata scesero in dieci e nessuno salì, eppure il mezzo non sembrava aver più posto libero. Irma comunque notò con piacere che il cruscotto era decorato con un paio di piccole statuette, ma non riuscì a metterle a fuoco e capire quale divinità rappresentassero.

I due scesero in quella che era la piazza principale di Margao, un lunghissimo e stretto ovale, attraversato da un parchetto. Non c’era un vero e proprio centro della città, ma quello sembrava essere una sorta di fulcro commerciale. Girovagarono senza meta e Irma continuava ad essere delusa per la mancanza di tempietti e nicchie ad ogni angolo, come invece era stata solita trovare in Tamil. Passarono per il mercato coperto, per il semplice gusto di vederlo: era molto buio, pieno di banchi stretti gli uni agli altri, alternati a minuscoli box, i sentieri tra di essi erano angusti e si districavano in maniera labirintica. I tavoli straripavano di merce, dalla bigiotteria sfavillante, ai tessuti arlecchineschi, alle odorose carni essiccate.

Pranzarono in un locale molto semplice con tavoli e divanetti che ricordavano quelli americani degli anni ’50. Entrambi ordinarono una masala dosa, ossia una sorta di crepes di farina di riso, ripiena di patate.

Nel pomeriggio si spostarono e andarono al cinema: un grande multisala che si estendeva per due palazzoni a torre. Comprarono i biglietti per un film americano, così da poterlo capire entrambi. Il box office era esterno, quando entrarono nell’ingresso, Irma fu stupita di trovarci un metal detector: tutti i clienti erano perquisiti, borse comprese, prima di poter accedere ai piani superiori dove si trovavano le sale. Si trovarono poi davanti al bar che vendeva snack vari tra cui popcorn di tre tipi: normali, con formaggio, caramellati. Dhvana prese un grosso pacchetto misto da condividere.

Si sedettero in sala, guardarono i trailer di altri film, poi la bandiera dell’India comparve sullo schermo, tutti si alzarono in piedi e fu eseguito l’inno nazionale, prima della proiezione.

Fu una giornata molto piacevole per entrambi. Irma era contenta di trascorrere così tanto tempo con quel giovane; l’attività di scavo li aveva resi molto affiatati e passare una giornata assieme, senza pensare al lavoro, aveva permesso che si accorgessero quanto si trovassero bene l’un con l’altro.

Quella sera ordinarono una pizza, o una specie di tale, da un negozio di una diffusa catena: non era male, non era pizza, ma era comunque buona, con la pasta alta e soffice.

Il giorno dopo Irma non indugiò troppo nel letto a sonnecchiare, poiché sapeva che sarebbero partiti attorno alle undici del mattino per andare nel luogo scelto per i festeggiamenti del compleanno di Ajaya. La giovane italiana si sentiva un poco in imbarazzo: non conosceva nessuno degli invitati, a parte Dhvana, il quale sarebbe stato sicuramente coinvolto in conversazioni con i parenti. Cosa a avrebbe fatto lei? Si sarebbe annoiata?

Indosso un abito lungo azzurro con ricami in argento e decori di perline; vestito che in Italia poteva sembrare un poco appariscente, ma che lì in India avrebbero sicuramente giudicato sobrio. Indossò anche una collana, degli orecchini e braccialetti coordinati. Quella era la mise che aveva deciso di indossare il 15 di agosto, festa della Repubblica indiana.

Dhvana la passò a chiamare per partire, lui indossava una camicia rossa e un dhoti bianco con decori laterali d’oro. Andarono nel piazzale antistante il museo dove Vairochana e sua moglie li attendevano a bordo della grossa automobile.

Viaggiarono per oltre mezzora prima di arrivare al locale che si rivelò essere un raffinato ristorante con un vasto giardino e piscina. All’ingresso c’erano due ragazze: una reggeva delle ghirlande di fiori e l’altra le appendeva al collo di chi entrava.

Sotto a tende gazebo c’erano divanetti in vimini con cuscini e tavolini bassi. Vicino ad essi si trovava un bancone con vari cocktail esposti e camerieri pronti a servirli. Vi era un uomo con un machete che apriva un piccolo buco in cima alle noci di cocco, le svuotava a metà del latte e lo sostituiva con vodka, vi inseriva poi una cannuccia e lo offriva a tutti i nuovi arrivati.

Dhvana indicò a Irma dove si sarebbero seduti e dove sistemarsi, poi le propose di farsi subito il bagno, prima che iniziassero a servire da mangiare. Messisi il costume, si tuffarono in acqua e nuotarono e scherzarono per un’oretta abbondante; a loro si unirono anche alcune cugine e cugini del ragazzo e l’Italiana cominciò a fare la loro conoscenza, pur certa che non avrebbe ricordato neppure un nome da lì a poco.

Ad allietare tutta l’atmosfera, c’erano tre musicisti con piccoli strumenti portatili che suonavano e cantavano, spostandosi di quando in quando. A Irma ricordarono immediatamente i mariachi.

Verso le tredici, i camerieri iniziarono a passare tra le persone servendo tartine, quindi la piscina si svuotò e i giovani cominciarono a sbocconcellare l’antipasto, ancora avvolti nei teli per asciugarsi.

Il pranzo vero e proprio fu servito a buffet e consumato sotto i gazebo.

Irma si stava divertendo e non le dispiaceva affatto essere lì, si era anche concessa di ballare un poco in mezzo agli altri. Non poteva però fare a meno di sentire gli sguardi altrui che indugiavano su di lei come a studiarla per poi dare un giudizio. Sensazione che ebbe una sorta di conferma nel momento in cui il nonno di Dhvana e alcuni di lui zii le fecero una serie di domande su chi fosse, che cosa facesse nella vita, come fosse composta la sua famiglia, che aspirazioni avesse e così via. Per fortuna quell’interrogatorio fu interrotto dall’arrivo della torta. Allora tutti si radunarono attorno ad essa e alla festeggiata e iniziarono a cantare la classica canzone con l’aggiunta di tre strofe: Possa tu averne molti altri; possa tu bere l’Amrita; possa Surabhi benedirti.

L’Amrita era la bevanda dell’immortalità che donava grande vigore e forza, secondo la mitologia induista; Surabhi era invece la mucca cosmica dell’abbondanza.

Irma trovò quegli auguri molto interessanti e apprezzabili.

Dopo la canzone di auguri, Ajaya tagliò un grosso spicchio di torta, lo mise su un piatto e iniziò a fare il giro degli invitati, staccando un pezzetto con le mani e mettendolo in bocca alle persone.

La festa proseguì ancora un poco, ma tutti si ritirarono prima del tramonto.

Irma andò a dormire presto, sapendo che il giorno dopo sarebbe ricominciato il lavoro impegnativo.

Lo strato di terra che ricopriva il presunto pavimento era davvero sottile e bastarono un paio di giorni per rimuoverlo completamente. Ciò che nascondeva era davvero sorprendente: mattonelle in pietra di mezzo metro quadro l’una, scolpite con larghi medaglioni che contenevano figure umane di svariato genere, alcune facilmente identificabili come avatara di Visnu, altre come Garuda od Hanuman, altre ancora erano invece difficili da interpretare, ma mostravano guerrieri. La lastra più strana di tutte, però, era quella centrale, larga quattro volte le altre: non aveva immagini scolpite, ma recava un lungo testo. Le lettere erano molto tondeggianti e ad Irma ricordavano l’alfabeto kannada o telegu, ma le lingue non erano il suo forte. Domandò a Dhvana se lui riconoscesse qualcosa, ma il giovane le ricordò che lui non era uno studioso. Interpellarono allora Bhavani che confermò che quell’alfabeto sembrava una forma arcaica di quello kannada, ma tuttavia le parole non le parevano avere alcun senso, le parevano suoni messi a caso.

“Ci resta una sola cosa da fare.” annunciò allora l’archeologa.

“Sarebbe?” domandò il giovane, incuriosito.

“Fotografiamo bene il testo e lo invierò a un mio buon conoscente, il professor Nicolani. Non è della mia università ed è piuttosto giovane, però è espertissimo in lingue e filologia, nonostante non siano i suoi studi primari. Mi ha aiutato davvero tanto, in passato, sia col sanscrito che col ceppo dravidico. Sono sicura che lui saprà illuminarci circa l’origine di questa scrittura e, forse, potrà anche tradurla o almeno indicarci il contenuto.”

“Credi davvero sia necessario?” domandò Dhvana, un po’ bruscamente “Anche qui ci sono molti professori competenti, anzi probabilmente di più, visto che è il loro settore.”

“Non ne conosciamo e non abbiamo punti di riferimento, però” fece notare lei “Nicolani risponderà subito alla mia mail, se non lo farà o non avrà risposte, saremo sempre in tempo per cercare esperti in loco.”

L’uomo non pareva ancora convinto, anzi, sembrava quasi seccato. Irma pensò che fosse l’orgoglio patriottico a farlo reagire così, dunque disse dolcemente: “Dobbiamo usare ogni risorsa e cercare di essere rapidi. Quello che abbiamo trovato mi sembra qualcosa di raro, è una forma di luogo sacro del tutto particolare e inedita, almeno per quanto abbia studiato io finora. Non possiamo procedere con gli scavi o l’indagine finché non sapremo che cosa dice quel testo e il professor Nicolani è la persona più indicata e più facilmente reperibile, tra quelli che conosciamo.”

“Va bene” si arrese Dhvana “In fondo l’archeologa sei tu. Contattalo pure, ma io intanto cercherò qualcun altro, nel caso questo professore ti deluda.”

Irma era troppo entusiasta per il ritrovamento per dare peso al malumore manifestato da Dhvana; fotografò ogni singola lastra per documentarla e non faceva altro che domandarsi che cosa fosse quel luogo e che cos’altro nascondesse. Non le risultava la pratica di decorare i pavimenti, dunque era convinta che quel luogo non fosse stato costruito come luogo di culto, inoltre gli scavi avevano fatto scoprire che era stato sepolto volontariamente. I Portoghesi non potevano essere stati: avrebbero distrutto tutto e non solo seppellito. Forse gli indigeni avevano voluto nascondere quel luogo per proteggerlo? Non era da escludere. Irma però si andava sempre più persuadendo di trovarsi davanti alla testimonianza di uno sconosciuto rituale, una sorta di sacrificio, poi subito seppellito come a volerlo rendere perpetuo. Certo, erano solo speculazioni e fantasie, non aveva alcuna prova, però non c’era nulla di male nell’ipotizzare. Sperava davvero che l’iscrizione potesse contenere informazioni utili e quindi non perse tempo a scrivere al professore suo conoscente, allegando le foto.

Più tardi, in serata, mentre sistemava il registro di scavo a computer, Irma vide lampeggiare l’avviso di una videochiamata in arrivo. L’accettò e sullo schermo comparve il mezzo busto di un uomo piuttosto imponente, trentacinque anni circa, capelli rossicci e un paio di occhiali, seduto alla scrivania, con dietro uno scaffale pieno di libri.

“Oh, salve, professor Nicolani” salutò Irma, un poco sorpresa “Non mi aspettavo di essere contattata così velocemente.”

“Oh ma figurati, è un lavoro presto fatto, purtroppo. Comunque, ricordati che puoi chiamarmi semplicemente Rinaldo: non sono un tuo insegnante.”

“Eh, sì, però, sa, l’abitudine … Come mai dice che è un lavoro presto fatto?”

“Perché è quello che è. innanzitutto, però, permettimi di congratularmi per il lavoro che stai svolgendo: hai portato avanti uno scavo accurato e quello che hai trovato farà invidia sicuramente a molti tuoi colleghi. Ad ogni modo, le notizie che ho da darti sull’iscrizione sono molto interessanti e faranno sicuramente infittire il mistero, purtroppo non aiutano a chiarire le cose.”

“Sentiamo.”

“La lingua in cui è scritta è praticamente sconosciuta. Ci sono molti elementi dravidici e alcuni prestiti dal vedico e addirittura dal gatico, poi ci sono altri fonemi che mi lasciano spiazzato, tuttavia non è nulla di davvero conosciuto, è di un arcaismo sconcertante.”

“Strano. La conservazione è ottima e anche il resto del sito sembra essere databile a quando i Vijayanagara dominavano Goa. I bassorilievi in mezzo a cui è inserita rispecchiano perfettamente lo stile Vijayanagara e sembrano coevi, sistemati nello stesso momento, la tipologia di pietra è la medesima, probabilmente sono state ricavate dalla stessa roccia.”

“Questo io non lo posso dire, non ho nemmeno visto lo scavo dal vivo. La lingua è assolutamente arcaica ma è evidente che è trascritta in un alfabeto che non è stato creato per lei, ci sono certi suoni resi in maniera un po’ approssimativa, cercando di accorpare lettere, evidentemente perché non esisteva un suono corrispondente. Probabilmente chi l’ha incisa ha usato una lingua sopravvissuta della tradizione orale per millenni, utilizzando un alfabeto moderno. Questo mi fa pensare possa trattarsi di un testo religioso: solo la canonizzazione di un inno permette la sua trasmissione attraverso i secoli, senza che la lingua venga alterata dal normale sviluppo.”

Irma aveva ascoltato molto attentamente e non poteva nascondere del tutto la frustrazione per essersi trovata in un vicolo cieco.

“Una nota positiva e uno spiraglio di luce, tuttavia, ci sono.” continuò seraficamente il professor Nicolani, dopo aver bevuto dalla tazza che teneva davanti a sé “Questo non è il solo caso di attestazione di questa lingua.”

“Davvero?” l’archeologa si riempì di speranza.

“Davvero. A metà degli anni Ottanta, è stata trovata una lastra simile, ma in un contesto completamente diverso, proprio ad Hampi.”

“Nella capitale Vijayanagara?”

“Esattamente. Questo mi fa pensare ancor di più ad una lingua sacra o dinastica. Purtroppo non esistono immagini della stele degli anni Ottanta o, per meglio dire, esistono ma non si riesce a leggere, poiché è presa da lontano. Ahimè non è nemmeno stata musealizzata, ma è tenuta come oggetto di studio in non so quale dipartimento universitario od archeologico nei pressi di Hampi. Ecco, se io potessi avere immagini di quell’iscrizione, forse avrei abbastanza testo per ricostruire esattamente il sistema linguistico, colmare le lacune e … sì, insomma, tradurla.”

Irma si accigliò, rimase un attimo confusa e poi domandò: “Sta velatamente dicendo che io dovrei andare ad Hampi e trovare un modo per vedere quella stele e fotografarla?”

“Precisamente. Se vuoi saperne di più e riuscire a comprendere il tuo scavo, ovviamente. Li contatterei anche io stesso per email, ma le mie esperienze passate mi hanno insegnato che la burocrazia e gli incartamenti per ottenere qualcosa, mesciuti con i tempi indiani, inducono ad attese estenuanti. Credo che tu otterrai più facilmente l’accesso a quella stele, se ti recherai personalmente sul posto.”

“Sì, quel che dice è vero, ma non so se otterrò il permesso del mio capo di partire, in fondo io sto lavorando per questo museo.”

“Tu fa a lui presente che è per il museo che chiedi di partire: insomma, è ricerca, rientra nella norma.”

Irma sospirò ed annuì: “Va bene, vedrò quel che si può fare. Intanto la ringrazio davvero tantissimo per quello che ha fatto e per le sue indicazioni. Spero davvero che potremo proseguire questa collaborazione … e scusi per il disturbo.”

“Nessun disturbo! Fa sempre piacere aiutare e, inoltre, sarà un bel successo anche per me, se sarò il primo a decifrare queste iscrizioni. Tienimi aggiornato, mi raccomando, a presto!”

Irma lo rassicurò e poi chiuse la videochiamata. Nonostante non avesse ottenuto le risposte che sperava, era comunque molto soddisfatta: Rinaldo era sempre così gentile e aveva una risposta per qualsiasi domanda … almeno in campo umanistico, ma comunque aveva anche buone basi in ambito scientifico. Era davvero un uomo poliedrico negli studi e per questo Irma lo stimava moltissimo. Si diceva di essere stata davvero fortunata a conoscerlo, quasi un anno prima, a un convegno sui popoli indo-iranici, in cui lui aveva tenuto un intervento sugli Yazata nei testi avestici e non. Assieme avevano intessuto ottime conversazioni, molto coinvolgenti.

Per qualche momento Irma si vergognò di averlo contattato solo per chiedergli aiuto con l’iscrizione e non avergli scritto nulla prima, però poi si giustificò, ricordandosi che, a parte i genitori, aveva sentito solo un paio di amici da quando era a Goa.

Il mattino dopo comunicò a Dhvana le informazioni e il consiglio ricevuti. Il giovane non parve preoccuparsi, anzi si rallegrò e asserì che era un’ottima idea recarsi ad Hampi per continuare le ricerche; aggiunse anche di essere certo che Vairochana avrebbe dato il proprio consenso, senza lamentarsi: avrebbe parlato lui stesso con lo zio e ottenuto di organizzare la spedizione.

Dhvana non affrontò l’argomento a tavola, ma aspettò dopo pranzo e chiese di conferire privatamente con gli zii.

Poco più tardi si ripresentò allo scavo e rassicurò l’archeologa circa il fatto che tutto era a posto e che sarebbero potuti partire il venerdì sera con un autobus notturno.

Irma era incredula per la facilità con cui Dhvana aveva ottenuto l’autorizzazione e si domandò se non fosse lei a farsi troppi problemi. Domandò se anche Bhavani sarebbe andata con loro: in fondo lei era originaria del Karnataka e quindi conosceva la lingua locale. Il giovane disse che sarebbero partiti solo loro due: lo zio non poteva rinunciare ad altro personale.

Passarono il resto di quel mercoledì e tutto il giovedì per sistemare lo scavo e metterlo al riparo dalle intemperie, durante la loro assenza.

Il venerdì, Irma sistemò le sue cose nella valigia: aveva deciso di portare tutto con sé, dal momento che non aveva idea di quanto a lungo sarebbe stata lontana da Goa.

Aveva appena finito di chiudere il bagaglio, quando pensò ad Iravan. Lui si preoccupava per lei, quindi forse era meglio avvisarlo del suo spostamento. Usò allora il braccialetto per contattare il naga che, quando seppe che la ragazza era in partenza per Hampi, ne fu molto contento e spiegò: “Sai, la coincidenza è molto strana, ma forse è stato il karma ad aiutarci. Io stavo cercando una soluzione per permetterti di venire al mio matrimonio, senza che la tua assenza si notasse da Goa e non riuscivo a trovare un buon rimedio. Adesso, però, sei tu che vieni qui spontaneamente! È meraviglioso.”

“Come? Tu sei ad Hampi?”

Vasukiprastha giace sotto le acque di un fiume lì vicino, conosco bene il luogo e le rovine dei templi e dell’antica capitale. Sarò contento di accompagnarti in giro. Poi mi dovrai spiegare nel dettaglio quello che hai trovato lì e che cosa sarebbe l’iscrizione che vieni a cercare. Sono molto contento, vedrai che saranno giorni stupendi. Adesso non posso fermarmi a parlare di più perché Shunaka mi aspetta, tuttavia se arrivi domani mattina, dal pomeriggio mi farò già trovare, così ti mostro qualche bel posto e mi racconti tutto. Ciao e a domani!”

Irma non si aspettava nulla di tutto ciò, ma ne fu estremamente contenta: adorava quanto l’antico fratello le volesse bene.

Tornò a pensare agli ultimi preparativi per la partenza, ormai mancava poco tempo.

 

 

 

Nota dell’Autrice

 

Cari lettori, vi sono mancata? … Spero di sì, almeno un pochino … ^___^

Ho cercato di ripagare la vostra pazienza per l’attesa, scrivendo un capitolo un poco più lungo.

Questa settimana mi sono trasferita nella nuova tappa del mio viaggio, quella che presto raggiungerà anche Irma. Qui ci sono veramente tantissimi templi e luoghi naturali da vedere e sarà difficile doverne selezionare solo alcuni di cui parlarvi. Se volete vedere le foto di questi posti stupendi, potete visitare il mio profilo facebook: Michela Rivetti (sono vestita di nero e tengo in mano un teschio)

Voglio ringraziarvi di tutto cuore per l’assiduità che mi dedicate. È la prima volta che il numero dei lettori non cala con il passare dei capitoli bensì rimane costante, questo mi rende molto felice e per questo voglio che sappiate quanto vi sono grata per seguirmi.

Spero di aggiornare tra una settimana, intanto vi saluto e vi lascio con il link dove potete trovare informazioni sul prequel di questa storia.

Ciao a tutti!!!

 

http://www.bibliotheka.it/La_chiamata_di_Visnu_IT

 

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