Truth of Eternity

di Nalawagel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Svaniti nel nulla - Oyi ***
Capitolo 2: *** Ascesa - Julian ***
Capitolo 3: *** L'inizio della fine - Aiden ***
Capitolo 4: *** La prima domanda - Beta ***
Capitolo 5: *** Presagi a sconvolgere l'equilibrio - Dylan ***
Capitolo 6: *** Coppia combina guai ***
Capitolo 7: *** Locus Adamantis - Ninde ***
Capitolo 8: *** La regina di ghiaccio - Oyi ***
Capitolo 9: *** Peccato, colpa e redenzione- Julian ***



Capitolo 1
*** Svaniti nel nulla - Oyi ***


Capitolo 1 – Svaniti nel nulla

L’hovercraft atterrò sulla piattaforma 37 in perfetto orario. Le luci del posteggio dedicato smisero di lampeggiare non appena il velivolo venne spento e tutti gli occupanti della piattaforma, chi in partenza, chi in arrivo come lui, ripresero la propria attività.
Oyi Brurwelry respirò a pieni polmoni l’aria di Nalawagel. Una giornata nel Locus Magoi era una delle poche cose che detestava, seconda soltanto al rimanere bloccato nel traffico di hovercraft nell’aereodotto est della città, e nelle ultime ore era riuscito a vivere entrambe le esperienze. Poteva ancora sentire l’odore pungente dei fiori jai di quel Locus sui propri vestiti ed accelerò il passo con la ferma intenzione di depositare la camicia nella lavanderia della centrale prima di dirigersi verso il proprio ufficio.
Si fermò solo un istante per riprendere fiato –le scale che conducevano al quinto livello sembravano più ripide ogni giorno che passava- e rimase qualche secondo immobile, il collo teso ad osservare il gioco di luci rosse e blu che illuminavano anche in pieno giorno l’edificio del Valagar a nemmeno dieci minuti di hovercraft dalla sua piattaforma. Le centocinque bandiere, simbolo dei Loci, si muovevano nel vento artificiale creato dalle anemomotrici dell’edificio per essere sempre visibili a tutti, ad ogni ora del giorno e della notte, per ricordare a tutti l’importanza della collaborazione, della solidarietà, dei benefici ottenuti dal superare le singole diversità.
In una parola, di Nalawagel.
Sotto di lui, a livello della strada, il negozio di sferografie era pieno fino al marciapiede di clienti pronti a tutto pur di mettere le mani sulla nuova viasfera Basilisk finalmente in sconto, invadendo persino lo spazio di parcheggio destinato ai consumatori dei velivoli a Materia. Il viavai si estendeva ben oltre il suo edificio, il tutto trasformato in un piacevole brusio e la musica dei locali nei dintorni.
Lontano, dove la città si affacciava sul mare, lo stadio emerse dall’acqua segnando l’inizio della partita di blitzball. Oyi sospirò tra sé pensando ai due biglietti omaggio che aveva ricevuto la settimana scorsa, ma il suo capo, il comandante Yonne, non gli avrebbe certo concesso un pomeriggio di permesso solo per andare a vedere la trasferta degli US Mateyi. Certo, avrebbe potuto regalarli a qualche suo collega, eppure li aveva tenuti egoisticamente per sé nella speranza che il comandante cambiasse idea all’ultimo istante, ma con gli eventi delle ore recenti era stato abbastanza chiaro che avrebbe potuto usare quei biglietti per creare dei meravigliosi hovercraft di carta.
Il pensiero lo riportò alla realtà, e finì gravemente di salire le scale.
Le occhiate che gli scoccarono gli addetti alla lavanderia furono la prima, vera nota positiva del pomeriggio. Oyi constatò con un discreto piacere che il suo girovita era aumentato ancora: tra le due pieghe della pancia era comparso un terzo rotolino, più piccolo degli altri ma assai promettente. Tempo una manciata di mesi e avrebbe potuto cambiare cintura, considerato che quella che aveva indosso era la stessa di quando era stato assegnato al distaccamento di Nalawagel e che ormai gli stringeva in vita anche solo bloccata con la fibbia. Le divise della Y.U.N.A. erano esteticamente gradevoli, ma avevano diversi limiti quando si trattava di taglie un po’ più abbondanti.
Ritirò la camicia pulita dalle mani della giovane impiegata ignorando i suoi nemmeno velati suggerimenti di perdere peso, si cambiò nello spogliatoio adiacente evitando di iniziare chiacchiere inutili con i colleghi ed imboccò il primo ascensore disponibile per raggiungere il proprio ufficio. Ne aveva avuto abbastanza di scale, almeno per quel giorno.
Appena raggiunse la sua scrivania si buttò di peso sulla poltrona girevole, gettando un’occhiata disperata al pad. Lo schermo del dispositivo si accese non appena i recettori posti sulla poltrona vennero attivati dal suo stesso peso. Secondo gli addetti alla sicurezza si trattava di una misura precauzionale per evitare che i preziosi dati nei pad della Y.U.N.A venissero intaccati da degli sconosciuti, ma Oyi era abbastanza convinto che fosse un’idea del comandante Yonne per farli lavorare fino allo stremo senza nemmeno un minuto di pausa. Il pad si illuminò di luci intermittenti rosse e blu e nel periodo di caricamento Oyi osservò lo stemma di Nalawagel proiettato sullo schermo.
“Ispettore Brurwelry, ecco il suo panino!”
“Grazie, Tawaana” disse, sollevando la testa dalla scrivania per accorgersi solo in quel momento del disordine. Ammonticchiò alcuni dischi al lato del tavolo, aprendo su di esso uno spazio dove mangiare. “Cosa farei senza di te?”
“Sarebbe costretto a scendere nuovamente le scale ed andare di persona a comprarsi il pranzo, suppongo …”
Vi erano dei momenti in cui Oyi era sicuro che sua moglie e Tawaana si fossero messe d’accordo per non farlo deperire.
La giovane appuntata rimase immobile, impettita nella sua divisa ancora nuova, ad attendere che lui scartasse il panino. Con un cenno della mano Oyi le fece cenno di accomodarsi sulla sedia di fronte alla scrivania, ma lei rispose che preferiva stare in piedi. Era stata assegnata a lui per completare il suo percorso formativo da agente della Y.U.N.A. da oltre tre mesi, ed in tutto quel tempo Oyi non era riuscito a convincerla a farle fare nemmeno uno strappo alla disciplina della struttura. Probabilmente era l’esuberanza e la voglia di fare bella figura di tutti i nuovi appuntati, ma Oyi ammise tra sé che lui non era stato in grado di rimanere in piedi per più di un’ora nemmeno nel proprio periodo di apprendistato.
Il panino aveva un buon sapore.
“Nessun indizio nemmeno stavolta, ispettore?”
“Niente. Svanita nel nulla”.
Il volto di Mideya comparve sul pad; le sue sorelle ne avevano annunciato la scomparsa quella mattina stessa, sparita senza lasciare traccia mentre stava attraversando il giardino di casa per recarsi a scuola. Cideya, la sorella maggiore, l’aveva vista uscire lungo il vialetto e, nel tempo di voltarsi un istante, l’aveva persa di vista. Ovviamente non era mai arrivata a scuola ed il suo sferofono non risultava più raggiungibile, svanito persino dai tabulati e dai motori di ricerca dei principali gestori.
Di norma la sparizione di una giovane del Locus Magoi sarebbe stata di competenza della polizia di quello stesso Locus, ma non a caso il problema era stato passato alla Y.U.N.A.
Il comandante Brurwelry osservò i lineamenti della ragazza rimpicciolirsi, trasformandola in una piccola foto al margine dello schermo. Al centro del pad, una ad una, iniziarono a sfilare altre facce. Aveva trascorso gli ultimi mesi cercando di accomunare le oltre settanta persone scomparse, qualcosa negli occhi, negli interessi privati, nel lavoro che facesse apparire anche una labile connessione tra loro: maschi e femmine, giovani, giovanissimi ed anziani, appartenenti ai Loci più disparati. Era lì che interveniva la Y.U.N.A.
Il loro corpo di polizia esisteva proprio per risolvere problemi che riguardassero più Loci, mediando tra gli ovvi problemi ed incompatibilità tra i vari popoli. Con un discreto successo, o almeno così ad Oyi piaceva pensare. Il fatto stesso di accogliere nella loro centrale persone provenienti da più contenti lo rendeva sempre più entusiasta di indossare quella divisa –taglia a parte.
“E credo siano ancora di più, Tawaana” disse, rivolgendo il pad verso di lei. Iniziò a scaricare i dati sullo sferofono dell’altra per essere sicuro che anche lei avesse i dati necessari a lavorare. “Queste sono soltanto le persone riportate alle polizie locali. Mi preoccupano le altre …”
“Sta pensando al suo distretto, ispettore?”
“Anche. Ma non solo”.
Aveva lavorato con abbastanza gente da sapere quanto non tutti i Loci fossero collaborativi con le indagini. O, peggio ancora, quanto spesso la sparizione di qualche abitante “scomodo” fosse vista di buon occhio dai distretti di polizia locali che non avevano alcun interesse a far entrare la Y.U.N.A. nella propria giurisdizione.
E, mentre le indagini stagnavano, la gente continuava a sparire nel nulla. Con maggior frequenza. Con la piccola Mideya erano giunte a quattro soltanto in quel mese le persone svanite in un battito di ciglia prima ancora che coloro che vi fossero accanto riuscissero ad accorgersene. Senza aggiungere che il comandante Yonne non era stato esattamente felice di cedergli l’indagine.
Mentre il flusso dei dati scivolava lentamente tra i loro dispositivi, Oyi si concesse un secondo sguardo oltre la finestra. Dal proprio ufficio l’ombra dell’edificio sede degli incontri del Valagar, il consiglio dei rappresentanti dei Loci, sembrava ancora più imponente. L’idea di recarsi lì il giorno dopo interruppe per un istante la preoccupazione dell’indagine.
Vi era un persona ben più in alto del comandante Yonne a cui doveva fare rapporto.
A trasferimento effettuato Tawaana spense il proprio sferofono e lo lasciò cadere nella borsa. Nei suoi grandi occhi vi era molto più nervosismi di quanto riuscisse a dissimulare e, su certe cose, Oyi era convinto che la giovane fosse un libro aperto. Anche troppo. “C’è qualcosa che ti preoccupa, Tawaana?”
“Certamente no, ispettore … è solo che …”
“Sputa il goblin” rispose con calma.
“Ormai nel dipartimento ne parlano tutti e …” le sue iridi giravano a destra ed a sinistra nel tentativo di trovare una qualsivoglia scusa per cambiare argomento. “… come dire … certo, molti si sono fatti delle teorie su questa sparizioni … alcune, sa, piuttosto valide … ma ho anche sentito dire che forse …”
Oyi si ritrovò involontariamente a guardare il soffitto; aveva dimenticato di star parlando con una Valeforiana. E Tawaana, come tutti i Valeforiani, aveva una disciplina di mithril ed un forte senso del lavoro, ma tendeva a credere a qualsiasi frottola di strada o racconto fantasioso senza la benché minima traccia di razionalità.
“Santo cielo, mia cara …” disse, estraendo la propria coda e grattandosi pensosamente il ventre “… non dirmi che credi ancora all’esistenza degli umani!”.

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Capitolo 2
*** Ascesa - Julian ***


 

Volevo essere libero, aprire le ali e volare via... ma non pensavo potesse accadere in questo modo

 

 

h. 10.30 a. m. : "Esca"

 

h. 10.30 a.m. dott. E. Lemair – ed. B, niveau 3, chambre n. 18”

 

-E' permesso?- la voce del ragazzo era timida e remissiva come sempre.

La dottoressa smise di picchiettare sulla tastiera del computer

-Oh certo, Julian, entra pure!-

-Permesso...- il giovane fece il suo ingresso nella stanza ordinata, aveva gli occhi chiari, verde topazio e i capelli biondo cenere, i lineamenti sottili davano un'aria molto infantile ed innocente al suo viso rispetto ai suoi vent'anni

-Buongiorno dottoressa Lemair!-

-Buongiorno Julian, prego siediti pure sulla poltrona, finisco di compilare questo modulo e sono da te!-

Con il solito imbarazzo Julian si guardò attorno, spaesato come un pulcino, individuò il divanetto di velluto bordeaux e si sedette con un certo nervosismo. La dottoressa tamburellò l'ultimo nome sul modulo, poi si alzò e prese posto sulla sua comoda poltrona. Julian era seduto sul ciglio del divanetto in attesa, torturandosi le mani in una morsa molto stretta, era evidentemente a disagio, come attestava anche il sottile velo di sudore attorno alla pelle chiara delle tempie.

-Julian?-

Il ragazzo parve riscuotersi, sbatté un paio di volta le ciglia chiare e accennò un sorriso alla dottoressa – Sì, mi scusi, mi sono imbambolato!-

La dottoressa sorrise prendendo il solito taccuino – Bene, ora che sei di nuovo tra noi dimmi, come va oggi?-

Un velo di tristezza attraversò gli occhi chiari del ragazzo, sospirò, in un momento, nonostante i tratti delicati, sembrò invecchiare di colpo e quei dodici anni di reclusione gli ricaddero pesantemente addosso. La dottoressa Lemair vide lo sconforto impregnare il viso del suo paziente mentre questi si stendeva stancamente sul divano; volta dopo volta, quel gesto era diventato l'emblema della sconfitta per quel ragazzo.

Diventava sempre più difficile assistere a quella scena e cominciava a capire perchè, sei anni prima, il suo predecessore avesse deciso di abbandonare il caso. Lei lo aveva definito un idiota incapace, affezionarsi così, come uno scolaretto, ma si era ricreduta e l'unica ragione per cui non aveva rinunciato anche lei era perché ormai lo considerava, in modo del tutto sconsiderato, come un figlio.

-Dottoressa?- il tono premuroso accompagnato dalla scintilla di preoccupazione nello sguardo smeraldino la riportarono alla realtà e alla sua laurea in psicologia che, assieme agli innumerevoli attestati di criminologia e simili, le ricordarono a gran voce quale fosse il suo ruolo e quale quello del ragazzo davanti a lei.

-Certo, certo, ti stavo ascoltando...- un velo di apprensione attraversò l'espressione del ragazzo

-E' l'ennesimo passo indietro, vero?- era tremendo ascoltare la delusione in quel tono e la sconfitta in quello sguardo, eppure era quello che succedeva ogni volta che lui le raccontava dei suoi momenti di vuoto, dei continui litigi, degli incubi e tutti relativi ad un unico, e ormai immancabile nome: Gerda.

 

Le raccontava di essersi ritrovato, ancora una volta, nella stessa situazione: dolorante, confuso, nell'oscurità della notte, nella sua spoglia stanzetta del centro. Apparentemente tutto normale, la sedia contro la scrivania, l'armadietto chiuso; tutto ordinato in quell'ambiente un po' freddo e senza troppa personalità, la solita stanza d'ospedale, ma l'apparenza, si sa, inganna. Non era normale “svegliarsi “ in piena notte con i propri vestiti accartocciati assieme alle coperte, qua e là macchiate di sangue e di altri fluidi corporei. Gli infermieri continuavano a sostenere fossero sue, quelle tracce. Sì, il sangue di sicuro, ma il resto? Perché a volte non riusciva più a camminare? Quella notte, come le precedenti, qualcun altro aveva lasciato la camera e lo aveva lasciato in quello stato, con la perfida risata di Gerda che, assieme alla vergogna, gli rimbombava nella testa.

 

La dottoressa sospirò, si tolse gli occhiali osservando affranta il suo paziente tremare. Era dannatamente convincente mentre le raccontava tutto ciò. La dottoressa aveva visto i sintomi degli abusi molte volte, troppe, e Julian rispondeva perfettamente a quel profilo, ma c'era un problema: Julian non era un ragazzo normale, no, lui era un paziente dell' Umd – Unités pour malades difficiles- di Bron, Francia, il n° 8358, per la precisione, ossia l'assassino di Marion e Francis Storm, i suoi stessi genitori. Julian li aveva uccisi dodici anni prima, in un spaventoso incendio appiccato nella cucina. Quando era stato miracolosamente ritrovato incolume, il bambino aveva raccontato alla polizia di come un “angelo cattivo” fosse entrato in casa loro e avesse generato un tornado nella cucina, da lì, la scintilla del gas aveva fatto il resto, carbonizzando la cucina, parte della casa e i due coniugi. Il bambino era stato affidato inizialmente agli assistenti sociali, ma attorno a lui succedeva sempre qualcosa, strani incidenti e comportamenti i quali avevano un'unica radice, il solito “angelo cattivo” – a cui infine aveva anche dato un nome: Gerda, infatti-

Così incidente dopo incidente, la situazione fu abbastanza chiara e Julian venne rinchiuso, neanche un anno dopo la morte dei suoi, nell'istituto, archiviato come un comune, quanto tragico, caso di personalità multipla.

Per questo, nonostante lo sguardo affranto e l'innegabile dolcezza di quel ragazzo, le sue parole avevano lo stesso valore di un'onda sulla sabbia, Julian poteva anche essere sincero, ma “Gerda” di sicuro no.

Sfortunatamente la dottoressa aveva sempre avuto a che fare con Julian, aveva letto di Gerda solo nella documentazione del suo predecessore, il quale ne aveva tracciato un profilo agghiacciante: Gerda era crudele non solo con chi le era intorno, quando prendeva il controllo, ma si impegnava a rendere infernale la vita di Julian. La psicologa non sapeva se essere contenta o meno di non aver avuto a che vedere con quella personalità, un caso simile, per le dinamiche, era a dir poco interessante; ma anche il solo modo che aveva Julian di parlare di lei -o con lei- aveva un ché di unico.

-Ultimamente la sento di meno – la voce stanca di Julian la raggiunse mentre la dottoressa continuava a scrivere -Meno di frequente per lo meno-

-Davvero ?- capitava spesso che i pazienti si convincessero di migliorare, quando magari la loro patologia non poteva minimamente essere curata o superata. Julian la guardò supplice, chiaramente voleva credere alla sua stessa bugia.

-La notte... E' come se mi generasse degli incubi, a volte mi forza a non dormire e così controllarla diventa più difficile... Vorrei solo sapere se un giorno potrà finire, se potrò non ascoltarla più ... - il ragazzo si voltò verso la dottoressa, aveva un sorriso tirato – Ma è impossibile con un problema come il mio, non è vero? Posso solo godermi i momenti in cui non c'è e sperare che siano più lunghi!-

-Puoi sempre migliorare Julian, hai fatto progressi...- quella era la parte peggiore con lui. Illudere i pazienti di un ipotetico miglioramento, dare loro una speranza, era parte del mestiere, a volte era anche facile, perché loro in primis volevano crederci, ma Julian non era un illuso.

-”Il primo passo per risolvere un problema è ammettere di avere un problema”- declamò il ragazzo

-So che il mio problema non può essere risolto... Sa ho preso in considerazione quella proposta-

La dottoressa Lemair sussultò, no, non le piaceva affatto quella frase – Quale Julian?- mantenere un tono professionale, non quello da madre surrogato.

-Per... per la notte, i sedativi intendo-

-Ma Julian tu stesso hai detto che la senti di meno, sta migliorando-

-Lo so, ma se non dormo controllarla di giorno diventa più difficile-

-Capisco... avviserò l'infermiera allora-

-Mi spiace...- disse ad un tratto.

-Cosa?-

-Che le sembro normale anche se non lo sono, forse dopotutto non ho ancora ammesso di avere un problema... Comunque la ringrazio per avermi fatto assistere al seminario, l'altro venerdì, è stato molto interessante, soprattutto l'intervento del dottor Rhapsodos. Sa la questione di sentirsi dei mostri... E' stato toccante, non tutti si mettono nella prospettiva del “mostro”, quando si affrontano certi casi, intendo...-

-Ti ci sei ritrovato?-

-Be' si, abbastanza, direi!- rise -Certo avrei preferito di no, ma non sarei qui altrimenti!

Il dottor Hollander invece... ha davvero una laurea!?-

Questa volta fu la dottoressa a ridere, in effetti si era posta la stessa domanda, molti anni prima, ma si era risposta vedendo quale giro di conoscenze avesse quel suo collega. La sveglia suonò

-Ah, è già ora!- Julian si rimise seduto

-Vero...- commentò la dottoressa poggiando il taccuino sul tavolinetto davanti a lei. Era arrivato il momento di rispedire Julian tra gli infermieri e gli altri pazienti, lasciarlo affogare in una realtà di follia in cui solo pochi riuscivano a scorgere l'intelligenza e la sensibilità di quel ragazzo, oltre la sua patologia. Julian si alzò, sporse la mano

-Grazie per oggi e ancora per venerdì dottoressa!-

La psicologa gli strinse la mano, avvertì una strana fitta al cuore, forse si era affezionata troppo a quel ragazzo.

-Quando possibile Julian, è un piacere!-

Il ragazzo la salutò con sorriso – Credo dovrà avvisare lei gli infermieri per... be' i sonniferi, non credo che mi crederebbero sulla parola!-

-Oh, certo Julian, avviserò subito gli infermieri del tuo piano, a domani!-

Julian la fissò qualche istante, poi annuì

-Certo, stessa ora, a domani!-

 

La porta si richiuse alle sue spalle, giusto in tempo per sentire una piccola goccia di sudore scendergli lungo la tempia, odiava mentire, soprattutto alla dottoressa Lemair. Ma non poteva fare altrimenti, sentì Gerda sbuffare. Aveva preso la sua decisione e, stranamente, la sua scomoda coinquilina non gli stava remando contro come al solito, o forse non ancora. L'infermiera lo raggiunse dopo qualche minuto, lo prese per un braccio e lo trascinò verso l'ascensore, non uno sguardo, né una parola, lui, come gli altri, era un pezzo difettoso, un ingranaggio incapace di inserirsi nella società, solo un relitto, un folle senza diritti.

Gerda si limitò a sibilare la sua opinione, ma poi tornò silenziosamente nei meandri della sua psiche, in attesa di un momento migliore, per entrare in azione.

 

h. 09.02 p.m. : “Chi la fa l'aspetti “

 

Aveva gli occhi chiusi, nella mente gli stavano sfilando una serie di immagini, era doloroso, ma ne aveva bisogno, era l'unico modo per convincersi che quella era la strada giusta e non l'ennesima scelta dettata dalla patologia di un folle. Il pazzo che dice di non esserlo!

Ripensò all'ultimo confronto con la dottoressa Lemair, gli sembrava distante di secoli, non di ore. Aveva trascorso il resto della giornata nella sua stanza, nel più mite silenzio e totale tranquillità, preparandosi a quel momento e disponendo tutto nei posti prestabiliti. I suoi occhi andarono subito al vassoio vuoto sul tavolino a muro nella sua “stanza”, ancora qualche minuto e l'infermiere sarebbe arrivato per ritirare i resti della cena e, se la dottoressa avesse mantenuto la parola, anche una fiala di sedativo abbastanza importante. Julian chiuse gli occhi, il cuore gli batteva all'impazzata, nella testa, oltre le risate di Gerda, gli ronzavano anche una miriade di domande sulla legittimità delle sue azioni, a cui, un improvviso scricchiolio, lo sottrasse.

Qualcuno entrò in camera, senza bussare, facile immaginare chi fosse, non solo per il rumore inconfondibile del carrettino, quanto per quella mano umida e febbricitante che solo qualche minuto dopo, cercava di farsi strada nei suoi pantaloni. Inizialmente aveva provato a raccontarlo, ma cosa poteva la parola di un pazzo!?

-Buonasera bella addormentata...- l'odiato tono mellifluo fu accompagnato da uno strattone.

Julian si costrinse a tenere gli occhi chiusi ancora un secondo, lasciò scivolare la propria mano sotto il materasso, le dita si strinsero sulla penna di acciaio. Si girò di scatto, conficcò la penna nella mano di Luis, l'infermiere, questi fece per urlare, ma Julian gli schiaffò il rotolo di calzini nella bocca. Nel buio gli occhi di Luis brillavano per la rabbia e la sorpresa. Julian gli tirò un pugno in pieno volto.

-Mi sa che questa sera niente regalino per Luis!- sibilò con disprezzo.

Doveva fare in fretta, l'effetto sorpresa avrebbe presto lasciato posto all'ira più cieca. Julian saltò giù dal letto, assestando al suo aguzzino una ginocchiata ben mirata al naso. Luis rovinò a terra, sotto di lui si stava aprendo una pozza di sangue. Julian fece un lungo passo fino al carrello delle medicine, riconobbe immediatamente la siringa con dentro il sedativo. Accese la luce e fissò la sottile punta brillante, premette appena lo stantuffo per vederne fuoriuscire una piccola gocciolina trasparente dalla cannula. Si voltò verso l'infermiere, Luis si stava già riprendendo, aveva cominciato a strisciare verso la spalliera del letto. Quante volte era toccato a lui, strisciare, pieno di lividi, abuso dopo abuso. Gerda cominciò a ridere al ricordo.

-E' solo colpa tua! Sei tu che lo hai istigato- le abbaiò contro Julian.

Il guaito dell'infermiere però lo distrasse dall'ennesima discussione con la sua odiata coinquilina.

-Non così in fretta!- Julian conficcò la siringa come aveva fatto poco prima con la penna, ma questa volta nel braccio dell'infermiere, spingendo dentro tutto il liquido. Luis fece per divincolarsi, ma Julian scattò in piedi, colpendolo ancora una volta al viso. La dottoressa aveva mantenuto la parola, il sedativo era di quelli forti e a rapido assorbimento, i movimenti di Luis erano sempre più flemmatici ed imprecisi. Julian lo girò sulla schiena, si concesse un'occhiata di disgusto per quell'elemento, poi, prese a spogliarlo mentre inutilmente cercava di silenziare i gridolini eccitati di Gerda. Doveva fare in fretta.

-Zitta! Stai zitta!- non senza una certa fatica riuscì a spogliare il grasso infermiere e a trattenere un conato di vomito. Lasciò camice e divisa sulla sedia, poi issò Luis sul letto, il quale oppose un misero tentativo di resistenza, gli occhi erano lattiginosi e semichiusi, ma non doveva perdere conoscenza, non così in fretta. Julian rovistò nel carrello.

-Perfetto!- prese i lacci emostatici. Ribaltò l'infermiere sulla pancia, legandogli i polsi alla testiera del letto, gli voltò la faccia larga in modo da fissare i semi-coscienti occhi porcini.

-Sai, Gerda mi ha detto di lasciarti un messaggio- gli costava riferire quel messaggio, visto che lo aveva riguardato in un modo a dir poco disgustoso. Prese un flacone di vetro, quello dal diametro più esteso, glielo rigirò davanti allo sguardo spento – Quando diceva “ fino in fondo”... intendeva questo- Julian svanì dal campo visivo di Luis. L'infermiere ebbe bisogno di qualche secondo per capire, il tempo di sentire il flacone andare, davvero, fino in fondo. Luis prese a guaire, nell'ultimo impeto di disperazione, poi i singhiozzi si fecero sempre più smorzati, il sedativo fece il suo dovere e Luis rimase così: un disgustoso pachiderma addormentato, con le gambe divaricate, su un letto.

 

-Era l'unica cosa che potevo imparare da te!- rispose Julian a Gerda mentre indossava i disgustosi vestiti di Luis, i quali non solo puzzavano come il loro precedente proprietario, ma erano anche ridicolmente larghi. Il ragazzo sospirò, tanto avrebbe dovuto indossarli per poco. Spense la luce e aprì appena la porta, sbirciando oltre. Generalmente, a raccogliere la cena, erano in due, ma l'omertoso collega di Luis gli lasciava la sua intimità con la vittima della serata. Il secondo infermiere passò infatti, senza degnare la stanza di un minimo sguardo.

Julian si appiattì alla porta

-Zitta- sussurrò mentre l'ombra dell'infermiere lo superava. Non appena il fruscio delle ruote fu abbastanza lontano, Julian scivolò oltre la porta, il passo svelto lo condusse fuori dal corridoio spettrale. Di notte c'erano solo dei neon soffusi ad illuminare le corsie, il bagliore indaco raggelava le pareti bianche, proiettando le aguzze e deformate ombre dei lettini e delle flebo, sui muri; i mugolii e i lamenti degli altri pazienti erano il sinistro sottofondo della sua fuga. Alcune voci erano terrificanti e, a capire davvero ciò che dicevano, lo sarebbero state ancora di più. A Julian sembrava di percorrere un cupo cunicolo accompagnato dalle voci spettrali della pazzia, più forte tra tutte, quella di Gerda.

-Zitta!- intimò ancora. Gli tremavano le mani, l'adrenalina era l'unico carburante in grado di farlo andare avanti e a mantenerlo lucido il tanto da permettere ai suoi piedi di andare da soli. Si fermò sul pianerottolo delle scale, chiudendosi finalmente la pesante porta del suo reparto alle spalle. Non sapeva quanto tempo la fortuna gli avrebbe concesso, prima che il secondo infermiere si accorgesse dell'insolita prolungata assenza di Luis. Julian trattenne un conato di vomito non appena l'immagine dell'infermiere e di ciò che lui, l'inerme Julian gli aveva fatto, riemerse nella sua testa, accompagnata dai commenti velenosi di Gerda.

-Zitta, zitta, zitta zitta! ZITTA!- si prese la testa tra le mani, cercando di scuotere via non solo le parole di Gerda, ma anche la tremenda e oscura soddisfazione di aver reso a quell'elemento un assaggio dell'inferno che aveva subito lui. Stava diventando un mostro anche lui? I dottori avevano ragione e quella era solo l'ennesima conferma di una patologia radicata e letale, un virus dentro la sua testa, un veleno nella sua anima? Le porte dell'ascensore si aprirono, proiettando un triangolo di luce sul pavimento a scacchi. Julian fissò la porta vuota, se quella fosse stata una partita a scacchi, sapeva bene quale sarebbe stata la mossa successiva. Si infilò nell'ascensore, giusto il tempo di cogliere l'eco di uno schianto, le porte si richiusero mentre uno scalpiccio concitato dava l'allarme.

 

h 10.04 p.m. : “Il sapore dell'aria”

 

Julian non fu mai abbastanza grato di uscire dall'ascensore, un conto era confrontarsi con i propri demoni, guardarsi nello specchio e riconoscere il mostro dietro i propri occhi, un altro era vedere Gerda, nello specchio, sentire le sue insinuazioni, inutile era stato anche darle le spalle e scivolare miseramente per terra, in un ascensore sporco e angusto. Gerda non era solo nello specchio e anche se non poteva vederla, la sua voce, la sentiva benissimo. Le porte dell'ascensore si aprirono sul silenzioso quarto piano. Il ragazzo si affrettò a premere random il resto dei pulsanti sulla tastiera, lasciando sgusciare via il braccio dalle fauci dell'ascensore una volta completata l'opera. Quando anche la luce dell'ascensore svanì, rimase solo lui, in corridoio buio e silenzioso. Scese al piano inferiore. Se possibile l'atmosfera lì era ancora più lugubre del suo piano- lamentele infernali a parte- il terzo piano era un connubio di penombra e pura oscurità, ferita ogni tanto da qualche luce proiettata oltre le finestre, ma Julian guardò apatico quei profili bizzarri scolpiti dalla scarsa illuminazione, l'unico mostro nascosto nelle tenebre, era lui. Il ragazzo procedette rapido verso il suo obiettivo, la mano stretta alla tessera gentilmente offerta da Luis, si fermò davanti alla soglia nota, provò a girare la maniglia- magari avrebbe avuto fortuna- la risata di Gerda gli echeggiò nella testa. Julian si accucciò, estrasse la tessera e prese ad armeggiare con la serratura. Quel piano era riservato al personale addetto: dottori, psichiatri, infermieri al massimo, non c'era ragione di tenere sotto strenua sicurezza quel luogo, per sua fortuna, anche se, dopo quello scherzetto, era certo che le cose sarebbero cambiate. La serratura scattò, bastò una piccola fessura per farlo scivolare dentro la camera. Julian accese la luce, per qualche istante rimase abbagliato.

-Devo prendere il fascicolo! Si che ci serve!- nulla, discutere con lei era inutile, anzi controproducente, soprattutto quando cominciava a emettere quel verso stridulo – Se fai così, perderemo ancora più tempo, vuoi andare via o no?- finalmente, fare leva sulla loro libertà era l'unico modo per farla collaborare. Julian si precipitò sulla scrivania, aprì con sicurezza il secondo cassetto in basso a destra, scartabellò tra le varie cartelle, estraendo la propria. Non aveva ancora aperto il fascicolo che una sirena – una vera, questa volta- fece udire il suo lamento acuto e accusatore in tutto il campus ospedaliero. L'allarme era stato dato e dopo lo smarrimento iniziale, avrebbero capito dove fosse diretto, ergo, aveva meno di qualche minuto per prendere ciò che gli interessava e filarsela via. Dette un rapido sguardo alla documentazione, tutte cose che sapeva perfettamente, i profili, le descrizioni, leggere rapidamente quelle parole non lo ferì come si era aspettato. La cosa davvero sconvolgente era il freddo distacco che era riuscito a mantenere sino a quel momento, finchè non arrivò alla foto, la foto. Julian prese gli ultimi fogli del fascicolo. Intanto, fuori dall'edificio, l'allarme si era diffuso, le luci irraggiavano ogni dove alla ricerca del fuggitivo, i motori delle auto e delle moto borbottavano infastidite per quell'infelice fuori programma, ad accompagnare quel coro ci fu anche la voce di una ambulanza – comico- dato che comunque la struttura era un ospedale, ma dubitava che nel suo complesso ci fosse qualche medico chirurgo a disposizione per estrarre quello splendido flacone dal posto in cui Julian lo aveva - con tanta dedizione- sistemato. Gerda lo richiamò all'ordine, questa volta aveva ragione. Il ragazzo vide una di quelle sacche da noiosi congressi medici, quelle di materiale scadente e scritte improbabili di questa o quella casa farmaceutica. La prese al volo, ci infilò il fascicolo e corse via. Non aveva varcato la soglia che notò il cappotto assicurato all'appendiabiti. Gli passò un flash, alla fine di una visita, la dottoressa Lemair che lo salutava, prendeva l'accendino dalla tasca del cappotto e si avvicinava alla finestra per godersi l'unico vizio di una vita altrimenti immacolata. Sulla scrivania era rimasto qualche foglio relativo al suo fascicolo, Gerda prese ad esultare, lui una decisione, dettata dalla follia più totale, l'aveva presa, così come aveva fatto con l'accendino in quella tasca. Quando l'intera stanza prese fuoco, Julian stava già seguendo un canto sconosciuto, il quale lo stava portando ad un'uscita del tutto diversa da quella programmata, ma Julian sapeva dove talvolta andassero i programmi, nello stesso posto di alcuni flaconi di vetro, per esempio.

Gerda aveva cominciato ad agitarsi e questo implicava non solo una inarrestabile emicrania ma anche l'incapacità più totale di ascoltare i propri pensieri o comandare il proprio corpo. Julian dovette appoggiarsi più e più volte alla ringhiera delle scale, intimando a Gerda di tacere. Ma la sua instabile compagna sembrava impazzita, colta in una frenesia del tutto insolita. Julian si costrinse a procedere

-Smettila, dannazione, smettila! Gerda!- ma nulla, le strida gli rimbombavano impietose contro le tempie, il ragazzo si accucciò contro il muro mentre sopraffatto da quel lamento.

-JULIAN!- il giovane si risvegliò a quel grido, la voce familiare lo spinse ad affacciarsi verso le rampe inferiori. Poco più giù, un paio di piani, c'era la dottoressa Lemair. L'avevano chiamata, probabilmente stava tornando nella sua casa di Born e aveva fatto inversione per rintracciare il fuggitivo. I capelli scompigliati e l'aria trafelata confermavano quella versione. Ma non c'era solo lei, ancora più giù c'era altro, o meglio, altri. Indossavano divise scure, i volti erano coperti dai caschi, procedevano rapidi sulle rampe, all'inseguimento... Il cuore di Julian si fermò mentre la sua mente rievocava un flash del suo passato, quelle divise non gli erano nuove e men che meno lo erano a Gerda. Non era certo che la dottoressa li avesse visti, ma l'avrebbero raggiunta e, se procedevano a quel passo, avrebbero presto fatto lo stesso con lui. La sensazione di pericolo divenne una certezza, il giovane si inerpicò sulla scala, i piedi andarono da soli, conducendolo verso una strada senza uscita. Poteva solo andare verso l'alto, aprendosi la strada verso il terrazzo dell'edificio, ma da lì, non avrebbe avuto che un'unica via di uscita, simile a quella che le canne a caldo dei suoi inseguitori gli offrivano. Ma lui correva lo stesso, senza fiato, inseguendo la vana speranza di una ancora più vana esistenza. La vera follia non era ascoltare la voce di Gerda, la vera follia era stata credere di avere una speranza, di anelare alla libertà. Julian si avventò contro la porta arrugginita del terrazzo, questa cedette lasciando rotolare il giovane per terra. La pungente aria notturna gli pizzicò le guance roventi, Julian si rialzò

-Non ce la faremo, sono qui, sono già qui... ci prenderanno, è stato inutile.. tutto, tutto inutile- le gambe gli tremavano. Gerda gli aveva avvelenato la testa per anni, da quel fatidico giorno in qui quella scomoda presenza si era insediata, Julian avrebbe solo voluto debellarla, eppure, davanti a quell'inseguimento, l'idea di non essere solo era quasi confortante. Intanto però, Gerda taceva.

-Ci hanno trovati... - silenzio – Mi uccideranno, ci uccideranno, non è così?- nulla.

-Moriremo... Non importa quante volte tenterò di scappare, mi ritroverò sempre in una gabbia... - passo dopo passo era arrivato senza accorgersene sul parapetto, il vento gli sferzava sul viso.

-Un ospedale... una prigione... una torre... Sempre in gabbia, sempre in fuga, non importa quanti mondi potrò visitare, non importa quanti luoghi mi lascerò alle spalle, sarò sempre un'esiliata e... tu lo sarai con me!

Julian guardò in basso, sotto di lui l'oscurità e un volo di 10 piani lo separava dal freddo asfalto.

-Quindi è così che andrà!-

In quel momento la porta del terrazzo sfrigolò sul pavimento. Julian si voltò, i suoi occhi si specchiarono in quelli ben noti della dottoressa Lemair. Era arrivata prima di loro, ma era un traguardo senza significato, dietro la siluette scompigliata della dottoressa emersero i soldati in nero. Julian inclinò la testa osservandoli mentre alzavano le canne delle pistole. Chiuse gli occhi, aprì le braccia e si lasciò avvolgere dal vuoto, l'eco stridulo della dottoressa cercò di inseguirlo, ma era troppo tardi.

 

 

h. 10.57 p. m: "Ascesa"

 

Aveva ascoltato quella storia molte volte, gliela avevano raccontata gli infermieri per introdurla a quel nuovo caso e lo stesso Julian, ovviamente, la prima volta che lo aveva ricevuto. Lo sdoppiamento della personalità e l'allucinazione del racconto erano il risultato del forte trauma, senza dubbio, nessuna delle parole di quel ragazzino poteva avere senso, era la costruzione di uno psicopatico, di un folle assassino incapace di accettare il proprio delitto. Julian aveva dato fuoco a casa sua, aveva ucciso i suoi genitori e aveva incolpato un “angelo cattivo” , con tanto di ali e artigli, dell'accaduto. Era pazzo, per questo era stato portato lì, per questo era in cura da dodici anni, per questo lei lo aveva seguito, ascoltato e cresciuto. Eppure ogni volta che lo aveva visto aveva sentito l'estrema sofferenza di quel ragazzino nel raccontare una storia a cui nessuno avrebbe creduto, la frustrazione più totale dettata dalla consapevolezza della follia di quelle parole.

Perché agli occhi di tutti, lui era pazzo, un assassino con una visione distorta della realtà. Per una volta i ruoli si erano invertiti, la vera pazzia era stata credere nella placida normalità, dove la follia apparteneva solo a poche sfortunate persone. Forse era stata contagiata anche lei, eppure, sapeva bene che le persone dietro di lei stavano assistendo allo stesso, terrificante, spettacolo.

Un ventaglio di ali si aprì, rischiarato dalla luce dei fari; una pioggia di piume turbinò su quel terrazzo. Julian si era completamente trasfigurato, l'esile ragazzo biondo si era trasformato in una gigantesca creatura con tre paia di ampie ali, le braccia si erano allungate in nervosi arti dotati di artigli, le gambe in zampe simili a quelle dei rapaci.

Davanti a quello spettacolo, il tempo parve fermarsi. E poi la udì, la risata acuta, crudele e perforante, la sprezzante voce della tempesta: la voce di Gerda fu l'ultima cosa che la dottoressa Emily Lemair ascoltò, perché quella risata riuscì a coprire anche il boato dello sparo. La dottoressa abbassò lo sguardo sulla camicia, la macchia cremisi si diffuse rapida attorno al foro fresco, conquistando sempre più tessuto. Quando arrivò a bagnare l'intero torace, lei era già a terra e il suo sguardo fissava solo un immenso cielo vuoto perché l'angelo era ormai svanito nella spirale di cupe nuvole dense come l'inchiostro. 

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Capitolo 3
*** L'inizio della fine - Aiden ***


In questa realtà, in questo tempo fatto di fraintendimenti e di colpe non esiste il troppo tardi ma tutti dispongono di un'altra possibilità o almeno di un ultimo respiro, perché...

Era per questo probabilmente, era per questo che guardandosi intorno poteva osservare solo dolore.

Aiden fece un sorriso amaro pensando a quest'ultima parola.

"Dolore, adatto alla situazione del Locus Animus."

Non solo dolore ma anche disperazione, malattie, perdita e amore.

Cosa c'entrerà mai l'amore con tutti gli aggettivi descritti prima? Perché sono tutti collegati l'uno all'altro. Amare comporterà perdere, comporterà addolorarsi, comporterà ammalarsi.

Alcuni definivano Aiden una persona pessimista, altri ottimista ma lui osava chiamarsi realista.

Questo pianeta non lasciava spazio alla debolezza e lui lo sapeva bene, aveva già perso una cosa importante, indispensabile.

"Aiden dai, vieni con noi." Un ragazzino spuntò dalla cima di un alberello tutto rinsecchito, voleva che andasse con lui per correre un po' ma non poteva proprio, non in queste condizioni.

"Ma... cosa ti ritrovi sopra la testa?" Il ragazzo non sapeva minimamente cosa pensare, sembrava folgorato.

Aiden gli rispose di spalle, prendendo un bel respiro, senza voltarsi. Non sembrava più lo stesso, questa situazione lo aveva messo alle strette, anche per una persona come lui.

"Ti prego Rodin, vattene, lasciami solo..." La supplica raggiunse Rodin e finalmente dopo interminabili secondi decise di lasciarlo a se stesso.

"Devo uscire da qui, non posso di certo restare e farmi uccidere così."

Aiden scalò il palazzo davanti a lui e con la mano destra si dava le giuste spinte per raggiungere le sponde più vicine. Raggiunse il tetto in poco tempo, dopotutto era un Free Runner, per lui era cosa da niente, solo che avendo perso quella... "cosa" non era più abile come prima.

Avvicinandosi alla sporgenza la quale non aveva precauzioni né impalcature osservava il paesaggio:

Il cielo era terso di un verde scuro, carico di nuvole nere come la pece. Palazzi caduti in macerie, devastate le strade e le vite dei poveri abitanti.

I pochi rimasti in vita erano malati, lui compreso. Donne e bambini in gravi condizioni stavano saggiando la vita un'ultima volta prima di scomparire come neve al sole.

Persino gli animali sembravano più prosperosi di loro. Non solo, alcuni si cibavano di carne umana. Messa in questi termini sembrava una specie di apocalisse portata da Dio.

Invece la realtà era ben più crudele. La guerra contro gli Almogaveri gli aveva portato via tutto: I governi decisero di trattarli come carne da macello, rinchiudendo l'intero Locus in una barriera magica insieme ai nemici più pericolosi. Cominciarono a bombardare senza sosta, senza possibilità di appello, devastando ogni cosa nell'arco di chilometri.

Non solo per loro erano alla stregua degli animali ma non si erano nemmeno presi la decenza di aiutarli una volta vinta la guerra ma anzi, li avevano rinchiusi dentro delle mura altissime le quali nemmeno i runner erano capaci di scalare.

Nessun Animus aveva più visto qualcuno degli altri Locus, erano isolati dal resto del mondo, da anni. Nessuno sapeva com'erano dolci i sorrisi delle Siren, belle le donne Shiva o gentili i Valefor. Solo tramite libri o racconti dei più anziani sapevano che aspetto avevano le altre specie.

Aiden non poteva perdonare né gli Almogaveri né Nalawagel, la capitale dei Locus. Perché solo gli Animus erano costretti a sopportare tutto questo? Tra tutti, loro possedevano il maggior concentrato di magia, il maggior concentrato d'amore. Ma ora era l'odio a dominare su questa terra, non più l'amore.

"Li farò pagare per tutto, per essersi presi le nostre case, i nostri averi, le nostre vite." Aiden avrebbe voluto balzare oltre le mura come una cavalletta che salta al di là di una pozzanghera.

Con la mano destra cercò di raggiungere l'altra mano o almeno, avrebbe voluto toccarla ma ora non c'era più. Fremette ancora più dalla rabbia. Quanto altro avrebbe dovuto perdere? Maledetti politici, agiati nelle loro posizioni sociali.

Aiden balzò davvero, raggiungendo il tetto adiacente a quello dove si trovava prima, correndo verso l'altra sponda, scavalcando una sedia di plastica lasciata lì da chissà quanti anni, scivolando sotto un tavolo di metallo e balzando nuovamente.

Correre era tutta la sua vita. Poteva sentirsi libero dentro una gabbia fatta di morte e disperazione. Poteva assaporare quell'aria malaticcia a pieni polmoni, perché questo faceva da anni e questo lo aveva reso quello che era.

Forse non era nemmeno un realista ma solo un pazzo in cerca della vita ma soprattutto della vendetta.

Dopo l'ennesima sporgenza saltò ma piano piano il suo corpo si inclinò verso il basso, precipitando ad alta velocità. Sorrise, prima di conficcarsi dentro un carretto con dentro molta paglia.

Uscì e si tolse di dosso la sporcizia prima di entrare in una piccola cantina dietro ad una casa situata vicino alle mura.

Entrò e non solo la luce, che già scarseggiava fuori, in pieno giorno, era veramente ridotta al nulla ma anche l'aria divenne pesante. Si intravedevano a malapena i bordi di un tavolo e delle sedie ma in sé la stanza era veramente spoglia.

"Heilà, Jensen, ci sei?" In tutta risposta gli arrivò un pugno da dietro la nuca che Aiden schivò all'ultimo secondo abbassandosi e girandosi verso l'individuo.

"Grazie per il solito benvenuto!" Aiden alzò la mano in segno di saluto.

L'uomo davanti a lui, Jensen, era molto anziano, maleodorante e molto scettico sulla nuova generazione. Un po' come tutti gli Animus portava vestiti stracciati, scuri e lugubri. Indossava un cappello da marinaio, scuro anch'esso, e fumava una pipa che da quando Aiden avesse memoria non era mai accesa.

Era un reietto, non si fidava di nessuno, men che meno di Aiden, un giovinastro che non sapeva prendersi le sue responsabilità.

"Ricorda ragazzo" cominciò Jensen ma Aiden lo interruppe e proseguì per lui "Ai miei tempi..." disse, copiandone anche la voce da vecchietto.

Jensen assottigliò gli occhi, era guerra.

"Dai amico, sto solo prendendoti in giro."

Il vegliardo non rispose subito ma dopo un poco: "Cosa vuoi da me?"

"Passi subito al sodo? Mi piaci vecchio, vigoroso come sempre. Sono venuto per il solito." Rispose convinto Aiden.

Jensen sbuffò, sembrava anche un po' seccato.

"Ok, allora devi so-" Prima che potesse continuare si sentì un gemito nell'altra stanza.

Aiden si girò verso il rumore ma in pochi istanti venne spinto al muro dietro di sé, bloccato da un braccio che spintonava contro il suo pomo d'Adamo. Faticava a respirare e si rese conto solo in seguito che chi lo stava soffocando era proprio Jensen.

"Prova anche solo a pensare di dire una sola parola in giro di quanto hai sentito e giuro che ti ammazzo seduta stante, siamo intesi scricciolo?" Il vecchio lo guardava con il fuoco negli occhi. Dopo anni di dolore non poteva credere che avrebbe mai visto certi occhi. Cosa poteva esserci di là di così importante da far infervorare addirittura Jensen?

"Intesi?" Ricalcò lui, spingendo di più sul pomo. Aiden acconsentì con un gesto del capo. Una volta libero cercò di riprendere quanto più fiato potesse, dannato Jensen.

"Ora vieni di là, ti faccio vedere. Magari questa volta potrai renderti utile." Aiden guardava Jensen nell'oscurità mentre si avvicinava alla porta dall'altro capo della stanza.

Il ragazzo si avvicinò e una volta entrato sgranò gli occhi.

"Lei è mia nipote." Jensen si portò il cappello sul petto, lasciando liberi quei pochi capelli bianchi che si ritrovava in testa.

La ragazza, sdraiata su un letto, era dolorante, probabilmente febbricitante, si teneva la caviglia con entrambe le mani.

"Ma lei..." iniziò Aiden "Sì, lei è un'Alexander." finì Jensen.

“Cosa ci fa lei qui? E' un Alexander, nessuno può entrare né uscire da qui. Cosa mi nascondi, vecchio?” Il giovane era sconcertato, non si sarebbe mai aspettato di vedere un'altra razza al di fuori degli Animus.

“Innanzitutto, pulce, devi stare zitto. Secondo, devi portarla via, al suo Locus Alexander. Non si trova molto lontano da qui e comunque non devi preoccuparti, ci penserà mia nipote a portarti là.”

La possibilità di uscire da quell'inferno era ormai prossima, sarebbe stato davvero così semplice?

Il vecchio si sedette su una sedia impolverata, vicino al viso dell'Alexander.

“Una volta usciti, non potrete mai più rientrare, specie tu ragazzo. Il mondo là fuori è perfido, pieno di pericoli e con una certa predisposizione ad inghiottire le proprie vittime. Sarai una di quelle?” Chiese Jensen, con una punta di spavalderia nella voce.

Aiden era più confuso che mai. La sua vita non sarebbe stata più la stessa e finalmente avrebbe avuto la sua vendetta, forse... un giorno.

Per un attimo fissò il vecchio con intensità, senza proferire parola, finché:

“Ascolta bene, devi solo guidarmi fuori da qui e non tornerò più, non è qui il mio posto, non c'è vita qui dentro. Inoltre, come sai, ho meno di un anno di tempo per trovare l'essere che mi ha fatto questo.” Affermò, Indicandosi il numero sopra la sua testa.

La donna gemette nuovamente e finalmente aprì gli occhi, squadrando il giovane davanti a sé.

“Aiden.” Riuscì a dire ma venne fermata subito dal nonno.

“Non devi affaticarti così. Tra poco dovrai riprendere il tuo viaggio e lui ti accompagnerà, andrà tutto bene, vedrai.”

Aiden cominciava ad avere sempre più dubbi, specie sul comportamento di Jensen. Era inusuale vederlo comportarsi in questo modo.

“Fammi capire vecchio, lei è una Alexander. Inoltre, nemmeno pura. I veri Alexander sono giganteschi e con forma completamente meccanica. Lei è un ibrido, vero? Metà Alexander e metà...?” Lasciò in sospeso la frase per ricevere una risposta sicura.

“Umana.” Rispose la donna. “Umana?” Chiese Aiden. “Umana.” Confermo Jensen.

Aiden aveva letto numerosi libri nella biblioteca abbandonata, l'unica forma di conoscenza proveniente dal mondo esterno. Poteva definirsi studioso, amava leggere e conoscere cose sempre nuove, diverse.

“Umana? Cosa significa? E' una razza che non conosco?” Chiese Aiden aggrottando la fronte.

“Possiamo dire così ragazzo, in un certo qual modo hai azzeccato.” Rise il vecchio.

La donna si alzò piano, appoggiandosi alla spalla del nonno.

“Dobbiamo partire subito, non abbiamo molto tempo.”

Jensen stava per replicare ma qualcosa gli impedì di parlare, forse la determinazione negli occhi della nipote o forse perché era troppo vecchio per opporsi.

Ora che la donna era in piedi poteva vederla bene. Era un'umanoide e nemmeno troppo alta, se considerando i veri Alexander, sarà stata poco più alta di lui. La sua pelle era come metallo levigato, di color argento. Inoltre possedeva le forme di una donna, anche abbastanza sensuale. Nonostante si potesse definire nuda poiché non indossava nulla, non aveva piedi normali ma quelli che definivano tacchi alti o così aveva letto nei libri delle Shiva. Per definizione era una macchina, quindi completamente costruita, infatti alcune parti del suo corpo erano diverse. La testa era piatta, senza capelli o altro, e tutto il suo corpo era rivestito da linee arancioni. Forse si trattava di disegni simbolo del proprio Locus di appartenenza.

“Ti prego Aiden, devi accompagnarmi al mio Locus.” L'Alexander supplicava un Anima. Che cosa sconcertante. Dopo essere stati esiliati per secoli, ora erano arrivati a chiedere il loro aiuto. Che pena.

“TI aiuterò solo perché finalmente potrò uscire da qui. Non simpatizzo per gli Alexander né tanto meno per le altre razze.”

Lei sorrise debole prima di rispondere: “Hai ragione Aiden, non ti disturberò più dopo essere giunti a destinazione. Ti ringrazio per la disponibilità.”

“Ho una domanda da farti prima di partire. Come fai a conoscere il mio nome?”

“E' una cosa saprai a tempo debito.”

Aiden storse il naso, non gli piacevano molto le persone come lei.

“Sei pronta? Devi tenere il mio passo anche con la febbre. Il vecchio dice che il Locus non è molto lontano, quindi voglio arrivarci in poco tempo.”

“Certamente, andiamo ora.”

...perché tutti devono avere la possibilità di amare.

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Capitolo 4
*** La prima domanda - Beta ***


La Foresta Cieca

Non suscita un che di inquietante? Già soltanto il nome: la sua definizione è un accostamento del tutto assurdo. Insomma, una foresta non ha gli occhi, no? Eppure continuano a chiamarla così ed io non capisco proprio il motivo.

Ma dopotutto sono tante le cose che non capisco: mi dicono perché sono ancora un Blank e quindi non posso avere per la testa pensieri che non siano elementari, emozioni che non siano impulsive, istinti che non siano primari. I saggi me lo dicono ogni volta che domando loro qualcosa, qualunque cosa, ed io ci cred: per davvero.

Ma allora perché sento il bisogno di scrivere qui?

Perché sento di dovermi liberare la mente in qualche modo? Questa paura di non riuscire più a controllarmi se non lo faccio mi preoccupa, ma finché scrivo queste poche righe la tengo sotto controllo. Se mi scoprissero gli anziani…

Mi chiedo a cosa possa servire? Si scrive perché qualcuno possa leggere, ma chi mai leggerà queste righe? A chi possono interessare i pensieri di un Blank?




Il ragazzo dai capelli cinerei chiuse il quaderno e lo nascose sotto il materasso: c’era un piccolo strappo nella tela nascosto dalla struttura sottostante. Il nascondiglio perfetto per qualcosa di cui nessuno avrebbe mai dovuto sapere l’esistenza. Con un sospiro si alzò e scostò le tende della sua camera. Si soffermò per pochi istanti sull’enorme costruzione sulla collina, che sovrastava il villaggio con il suo aspetto imponente ed invincibile, per poi concentrarsi su ciò che lo angustiava veramente.

Ed eccola lì: la Foresta Cieca.

Un’enorme, intricata selva di alberi le cui fronde violacee si mischiavano in una matassa impenetrabile. Era lì, immobile e minacciosa, che si estendeva per miglia e miglia e circondava il villaggio in un abbraccio allo stesso tempo rassicurante ed opprimente come un dolce abbraccio troppo stretto. Di sera le fronde si coprivano di minuscole luci azzurre che aleggiavano quiete ed ipnotiche. I Famigli.

I saggi gli avevano spiegato che sarebbe arrivato anche per lui il giorno del Bacio del Famiglio e lui era genuinamente indeciso se essere impaziente o terrorizzato dalla promessa. Tutti i suoi simili prima o poi avrebbero ricevuto il Bacio; tutto il villaggio sarebbe stato Baciato prima o poi. Era il loro compito, la loro ragione di vita, il solo scopo per cui venivano preparati ed addestrati.

La ragione per cui lui doveva recarsi al tempio l’indomani. A fatica, volse lo sguardo all’interno della stanza, al piccolo maglio appoggiato sul comodino. Fu assalito dal tremendo sospetto che non funzionasse: lo prese con movimenti febbrili e lo indossò: calzava perfettamente, avvolgendogli il polso e l’avambraccio in una piccola rassicurante morsa, mentre la mitena di cuoio gli accarezzava lievemente la mano. Fece scattare il polso ed il braccio venne istantaneamente coperto da un grosso scudo estendibile. Il ragazzo lo guardò per qualche secondo prima di annuire: funzionava.

Depose nuovamente lo scudo estendibile sul comodino cominciando a chiedersi il motivo di tale gesto: forse era perché era un tipo cauto, chiuso come la sua difesa che non funzionava solo nelle esercitazioni e nei tirocini alle pendici della Foresta Cieca. La sua difesa era utile anche contro le persone, ma quella non richiedeva il suo scudo.

Nulla di così facile, no no: troppo semplice con lo scudo

“Ancora tu?” borbottò a mezza voce. Era da un paio di giorni che non si sentiva più solo nella sua piccola stanza: non era più solo nella sua piccola stanza. Era cominciato una mattina con una voce che gli augurava buongiorno: una voce piccola, quasi un sussurro, ma che risuonava prorompente in mezzo alle orecchie. Le successive ore di quella giornata erano state alquanto bizzarre per un Blank come lui e come tutti: dapprima aveva pensato che quella voce appartenesse agli ultimi strascichi di sogno a cui la sonnolenza è solita aggrapparsi, poi con il passare della giornata quella voce era ancora lì e fu il momento di chiedersi se per caso non

(fosse difettoso)

stesse impazzendo. Arrivato all’ora della cena aveva deciso che forse non stava impazzendo ma che poteva essere il caso di scendere a patti con quella voce che gli aveva sbraitato attenzione nella testa. Dopo quel giorno le chiacchierate con la voce si erano limitate alle sue ore di solitudine, se così poteva ancora chiamarla, all’interno della sua stanza.

E dove dovrei andare scusa?* La vocina pareva seccata dalla domanda stupida. *È veramente un mortorio la tua testa…

“Scusa tanto se non ti piace” sbottò. “Sentiti libera di andare via quando vuoi”.

Mh, un Blank con il senso dell’umorismo. Interessante. Anomalo, ma interessante.

“Sai cosa siamo?” commentò lui, dimenticandosi per qualche secondo di parlare a mezza voce. Nella sua testa risuonò un sospiro.

Ovvio che so cosa siete. Il ragazzo ebbe l’impressione che lo stesse trattando con sufficienza. Sono il tuo Famiglio.

Barcollò: la sorpresa gli procurò una breve vertigine e si aggrappò alla sedia accanto a lui. Quella scricchiolò, ondeggiò pericolosamente sotto il suo peso e poi tornò dritta e solida a sostenerlo.

“Il mio Famiglio?” commentò. “Ma io…io non so ancora…”.

Per questo non puoi vedermi. Nemmeno io posso vedermi.

Era completamente priva di logica ma nel suo personale campo dell’assurdo quella situazione aveva un senso: come poteva avere una forma qualcosa che esisteva solo nella sua testa? Istintivamente si volse verso la foto sulla credenza e rimase a fissarlo in silenzio finché la voce non si fece risentire.

Ah, capisco... Solo questo: nella sua testa tornò il silenzio e l’unica compagnia che ebbe fu il turbinare confusionario dei suoi pensieri.

“Capisci?” commentò. “Capisci cosa?”. Silenzio. “Ehi, ci sei?”. Nulla. “Parli continuamente nella mia testa ed ora che ho voglia di parlare tu sparisci?”.

Scusa tanto Vostra Maestà. La voce era tornata, piccata. Potevi dirlo prima che avevi voglia di parlare: tanto io sono il tuo servo, mica il tuo Famiglio. Il ragazzo sospirò.

“Va bene, ti chiedo scusa” disse. “Per me non è…come dire…usuale parlare con una voce nella mia testa”. Una risatina.

Da quello che ho visto, per te non è usuale parlare e basta.

“Hai ragione” concesse lui. “Non sono bravo nei rapporti con i miei simili quindi mi perdonerai se sono partito con il piede sbagliato: come ti chiami?”. Era stata una domanda istintiva: in tutto quel tempo che aveva avuto quella voce nella testa non aveva mai pensato che potesse realmente esistere una cosa del genere, figurarsi poi arrivare a capire che era il suo Famiglio. Se li era sempre immaginati come dei folletti o delle piccole fatine svolazzanti o addirittura come delle sagome in miniatura di animali: non che gli piacessero particolarmente quelle cose o che provasse una qualche forma di attrazione.

In effetti, da dove gli era venuta un’immagine simile?

Immaginarmi come una fatina… commentò la voce: questa volta era genuinamente divertita. Questa poi…

“Non sei una fatina?” chiese lui. La curiosità: altra cosa che non capiva ne riconosceva. L’unica cosa che sapeva della curiosità così come dell’immaginazione era che non avrebbe dovuto possederle.

Non ho forma: non lo so nemmeno io cosa sono. Comunque non ho risposto alla tua domanda: un po’ sgarbato da parte mia, non credi? Io sono Yto.

“Io mi chiamo Beta” si presentò il ragazzo. “Ora…potresti cortesemente dirmi…insomma…come funziona il rapporto tra un Blank ed un Famiglio?”. La vocina ridacchiò leggermente, poi si fece improvvisamente seria: Beta poté percepire la gravita della risposta ed immaginare

(immaginazione, perché?)

un volto, il volto di Yto, farsi grave e assolutamente inespressivo. Per un istante desidero non aver fatto quella domanda.

A fare in modo che uno più uno faccia uno

“Cosa?” commentò il ragazzo. Il Famiglio non gli permise di continuare.

Torneremo sull’argomento quando mi avrai dato una risposta alla domanda che sto per farti

“Una domanda? Che domanda? Non mi hanno detto nulla su nessuna domanda…” tentò di protestare Beta, ma la voce nella sua testa era implacabile e lo zittì all’istante.

Non ti preoccupare, non c’è una risposta giusta o sbagliata. Blank sentì il bisogno di sedersi e si lasciò cadere sul letto, in silenzio, in ascolto. A questa seguiranno altre tre domande, ma prima dovrai darmi una risposta ad ognuna: ovviamente hai tutto il tempo che vuoi per darmela, anche giorni, settimane…ma più tarderai e più tempo ci vorrà per il Bacio.

“Com’è che questa non mi sembra una cosa che insegnano i Saggi?” commentò il ragazzo.

Non possono insegnarlo: ogni Famiglio ha il proprio metodo per valutare il Blank designato e da quel che so non esistono due Famigli che adottano lo stesso criterio. Ognuno è fatto a modo suo, del resto…

Illogico, ma a ben pensarci con un senso.

"Va bene, Yto: fammi la domanda” assentì infine. Il Famiglio si schiarì la voce: un piccolo colpetto di tosse, che gli fece pensare di avere nella testa una figura femminile, qualunque creatura si sarebbe rivelata.

Pensa per un istante che esista un’entità astratta…un’entità che non puoi vedere né toccare, non puoi sentire né entrare in contatto…un’entità che discerne da qualsiasi logica tu voglia usare per cercare di analizzarlo ma che conosce tutto ciò che ti circonda.

Fin qui era facile: gli stava chiedendo di pensare all’assurdo, ma se era per un solo istante Beta sentì di poterlo fare. Yto non aspetto una conferma e continuò.

Un’entità che sa quello che è successo, che succede e che succederà in qualunque parte di qualunque universo: conosce ogni cosa e ne capisce il motivo, il senso, ciò che può spingere a tali opere ed il loro significato. Un’entità che è naturalmente incapace di mentire ma anche di parlare: poniamo che una simile entità esista e chiamiamola Dio.

“Ok…ci posso arrivare…” borbottò lui: la figura che il Famiglio gli stava descrivendo era difficile da visualizzare e fece fatica a fermarla davanti ai suoi occhi. La domanda infine arrivò.

Se tu potessi avere da Dio una sola risposta, quale sarebbe la tua domanda?

E subito dopo silenzio.

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Capitolo 5
*** Presagi a sconvolgere l'equilibrio - Dylan ***


“Seccature in arrivo.”
 
Questa fu la triste constatazione che fece Dylan mentre si lasciava scivolare lungo il costone roccioso cui era appoggiato fino a immergersi quasi del tutto. Cercò di godersi quell’ultimo istante per se stesso, permettendo al calore che lo circondava di penetrargli nei muscoli indolenziti dallo sforzo sostenuto durante l’allenamento di poco prima.
 
“Ehi bello non c’è bisogno di fare salti di gioia, lo so che sei felice di vedermi! Bè...per così dire!”
 
“Se fossi venuto da solo mi avrebbe fatto sicuramente più piacere,” gli rispose riemergendo un poco “ma il fatto che ti sia portato dietro Diamond mi lascia intendere solo qualcosa di altamente noioso.”
 
“In effetti non è proprio una visita di cortesia...” mormorò l’altro evidentemente in imbarazzo “Loro ci hanno mandato a prenderti con una certa urgenza. Usciresti di lì per favore?”
 
“Ti hanno detto cosa fare nel caso rifiutassi?”
 
“No, hanno detto che non ci sarebbe stato bisogno.”
 
“Che presuntuosi...” pensò con disprezzo. Poi si rivolse all’altro, alzando la voce “Sei proprio sicuro di non volerti unire a me?”
 
“Fossi a prova di lava non mi dispiacerebbe ma per quanto mi riguarda temo di essere piuttosto fragile.”
 
Dylan dedusse che Greg doveva aver dato un segnale predisposto al proprio drago perché quello si era mosso improvvisamente ed era saltato nella pozza gorgogliante provocando una discreta ondata che per poco non lo sommerse. Seguiva il suo avvicinamento, ascoltando le quattro imponenti zampe scalpitare in modo impacciato nel liquido denso sforzandosi di tenerlo a galla.
 
Allungò un poco il braccio quando lo percepì abbastanza vicino, incontrandone presto il muso che però si spinse subito prepotentemente contro il suo viso con fare affettuoso. Sentì la propria lieve e intrattenibile risata a quel gesto ancora da cucciolo nonostante la creatura contasse un’età e una stazza ormai da adulto.
Fece scivolare una mano lateralmente per accarezzarlo mentre portava l’altra sulla sua fronte per ascoltarne le emozioni.
 
Il dispiacere che gli arrivò non lasciò alcun dubbio a Dylan che sia il bestione che il suo padrone avrebbero preferito non trovarsi nella posizione di doverlo allontanare dalla sua piacevole attività ma il cenno di preoccupazione che sentiva pungente, li rendeva entrambi piuttosto risoluti.
 
Intendendoci, lui avrebbe potuto benissimo decidere di restare lì e né uno né l’altro sarebbero riusciti in alcun modo a smuoverlo. Ma erano stati scelti con l’unico scopo di convincerlo a tornare indietro in fretta quindi preferì evitare loro qualunque tipo di problema.
 
Nuotò con qualche bracciata fino al collo della creatura che scorse velocemente alla ricerca di una squama cui aggrapparsi con facilità. Una volta trovata, batté un paio di volte su quella pesante corazza e Diamond ruotò velocemente per poi iniziare a muoversi verso la riva dal proprio cavaliere.
 
“Lo stai crescendo bene” gli fece sapere Dylan una volta fuori dalla pozza mentre si scrollava di dosso i residui della lava, imitato in grande scala anche dal drago.
 
“Non è cosa da tutti i giorni ricevere un complimento da te,” notò Greg mentre cercava di evitare con tutta probabilità qualche spruzzo mortale data l’incertezza della sua voce “a che devo l’onore?”
 
“La mia era una semplice constatazione.”
 
Mentre recuperava i propri vestiti seguendo la scia d’aura rilasciata dal suo bastone, gli era impossibile ignorare l’evidente nervosismo del suo amico che non faceva altro che andare avanti e indietro. Il suo drago invece versava in una situazione più placida, dato che si era accucciato in attesa a giudicare dal tonfo che aveva fatto tremare la terra. La spiegazione a ciò doveva  essere imputata al fatto che non fosse in grado di comprendere la preoccupazione che muoveva il suo cavaliere.
 
“Ti turba il fatto che sia nudo per caso?”
 
La sua provocazione ebbe solo effetto di farlo sobbalzare e, se possibile, riuscì a turbarlo di più.
 
“Ma come te ne esci così?! Ma ti pare!” poi si acquietò qualche secondo per poi dire “A proposito di questo, mi spieghi perché stai indossando i pantaloni...in quel modo?”
 
“Ah,” mormorò  Dylan a bassa voce “per questo non trovavo il buco per la testa...maledizione...”
 
Conosceva abbastanza Greg da non restare offeso da quella risatina che in qualche modo cercava di trattenere, e sempre abbastanza da non turbarsi troppo quando questo gli si fece vicino e iniziò a dargli una mano a rivestirsi. Era incredibilmente umiliante ma cercò di non darlo a vedere anche perché preferiva evitare altre figuracce.
 
Cosa che notò nel mentre, era che invece l’altro aveva recuperato il suo equilibrio. Gli sarebbe piaciuto vedere la sua espressione in quell’ istante. Mentre respirava in modo tanto sollevato e il cuore aveva ripreso un ritmo perfettamente costante. Ora che ogni suo gesto non era nervoso ma perfettamente misurato e preciso nel tentativo di essere rapido e meno ingombrante possibile mentre lo aiutava.
 
“Che indossi a fare questa cotta di maglia dato che è praticamente impossibile avvicinarsi a te in combattimento, a meno che tu non voglia?” gli domandò mentre armeggiava con l’indumento.
 
“Come te, anch’io sono abbastanza fragile nei confronti degli oggetti acuminati. Non ci dovrebbe volere un genio a capirlo” commentò forse un po’ troppo freddamente perché l’aura dell’altro ebbe un sussulto.
 
“Bè dopo averti visto fare un bagno in una pozza di lava, mi viene difficile pensare che tu possa essere così fragile sai?” ribatté quello pacatamente mentre gli poggiava il pesante mantello sulle spalle. Quel attimo di esitazione era svanito così com’era arrivato. Come ci riusciva così facilmente?
 
“Quello è solo un giochetto,” mormorò sistemandosi meglio l’indumento “ un giorno potrei anche insegnartelo.”
 
“Perché no? Così la prossima volta facciamo il bagno insieme.”
 
Stavolta fu Dylan a sorridere. O almeno era quello che sperava. L’idea non gli sarebbe dispiaciuta affatto.
 
Gli mancavano solo i sandali. Sentì Greg girargli intorno e poi quel piccolo gemito. Un lungo e profondo sospiro a seguire. Ed ecco che qualcosa lo aveva turbato di nuovo, anche se diversamente da prima. Nonostante questo, gli parlò come se non fosse successo niente quando gli chiese di appoggiarsi a lui per poterglieli infilare.
 
Forse anche lui avrebbe dovuto evitare di dire alcunché ma fu più forte di lui.
 
“Sei venuto in questo mondo per allenarti senza prendere gli antidolorifici?”
 
“Sto bene” rispose solamente.
 
“Mi dispiace dovertelo dire ma non è qualcosa che si può superare col tempo. Questo tipo di conseguenze purtroppo-...”
 
“Non c’è affatto bisogno che tu me lo dica!” tuonò di colpo, sobbalzando bruscamente e rischiando di fargli perdere l’equilibrio. Come un sasso buttato in uno specchio d’acqua, le ondate di turbamento lo raggiunsero impetuosamente nonostante l’altro cercasse di porvi freno.
 
“S-Scusami...” balbettò poi, riprendendo la sua azione con mano un po’ più tremolante “...non volevo alzare la voce...”
 
“Di che ti scusi? Se ti ho fatto arrabbiare non vedo perché non devi farmelo capire.”
 
Greg preferì non rispondere e finì di allacciargli le calzature.
 
Il silenzio però fu più che eloquente e lo convinse definitivamente di aver scoperto la causa di quel suo strano nervosismo . Comprendeva il bisogno di voler superare quella sua grande debolezza procuratagli con tanto dolore e lacrime, ma se anche lui era consapevole di non poterci fare nulla perché doveva continuare a farsi del male in quel modo?
 
Il dolore che provava per via delle innumerevoli ferite che avevano marchiato il  suo corpo e che avevano lasciato segni indelebili e insanabili, lo avrebbero tormentato per sempre.  Così come i ricordi legati a ognuno di essi, al modo crudele e senza scrupoli con cui gli erano stati impressi durante l’arco di tempo in cui era stato in balia dei suoi aguzzini. Quel tempo troppo lungo che avevano impiegato per poterlo salvare.
 
Non c’era possibilità di rimuovere da lui tutto questo. Eppure si ostinava a provarci...
 
Dylan avrebbe tanto voluto non essere cieco. Non avere quel limite che invece gravava su di lui perennemente dal giorno in cui era nato, e così ogni singolo giorno. Invidiava a Greg quell’unico occhio buono che gli era rimasto, per cui lui avrebbe dato ogni cosa. Ma ormai era rassegnato ad accettare ogni conseguenza di quella sua condizione. Ecco cosa non capiva. Perché lui non faceva lo stesso?
 
“Dunque...” riprese decidendo di lasciar perdere il discorso, districando il proprio bastone dalla roccia e facendolo ruotare in aria “...adesso che mi hai tirato fuori di qui, fatto rivestire e indossare i pantaloni nel verso giusto, rientriamo al castello giusto?”
 
“In realtà ci hanno dato disposizioni diverse...anzi per meglio dire hanno dato a Diamond delle coordinate specifiche da seguire” rispose quello.
 
Il drago chiamato in causa si sollevò rumorosamente per andargli incontro e lasciarsi prendere il muso.
 
“Non vi secca essere usati come tramite? Voi mica siete obbligati a fare tutto quello che vi dicono...” borbottò mentre soppesava a destra e sinistra quel grosso testone abbandonato tra le sue mani. Anche un altro cieco avrebbe capito che era stato allevato da un umano vista tutta quella mansuetudine.
 
“Va bene piccolo, fammi vedere dove vogliono che vada.”
 
Stavolta nel momento in cui le loro fronti si sfiorarono, Dylan venne catapultato nell’ultimo posto in cui si aspettava di finire. Ma del resto doveva aspettarselo. Dopotutto era appena uscito da una vasca di lava incandescente, perché non sarebbe dovuto finire nella landa più fredda e desolata con il clima più rigido e ghiacciato che avesse mai visitato?
 
Anche se era solo la sua mente ad essersi ritrovata lì, la percezione del freddo non si faceva mancare. Così come quella di essere finito in mezzo a una bufera di neve. Certo non era come trovarsi lì in carne ed ossa. Lo sapeva perché c’era stato una volta. Il giorno dopo era stato a mollo per tre giorni nel vulcano per scollarsi di dosso la sensazione di congelamento che lo aveva devastato.
 
“Che scherzetto divertente” pensò tra sé “Altro che coordinate, un maledettissimo Varco Mentale gli hanno lasciato! Sa perfettamente che sono inesperti e se ne approfitta il Vecchiaccio! Quando torno al castello, mi sentirà!”
 
Stabilito che non c’era tempo da perdere perché quello sbalzo improvviso nella percezione della propria temperatura stava seriamente mettendo alla prova la sua pazienza, si focalizzò sulla direzione da prendere e una volta individuata si mise in marcia. Certo perché ovviamente non potevano far aprire il varco sulla meta, dovevano anche farlo scarpinare. Per quanto sì, si trattava di uno sforzo mentale minimo.
 
Oh se gliene avrebbe quattro, al rientro.
L’arrabbiatura nei confronti dei suoi superiori era sempre l’ideale per fargli passare il tempo.
 
Si rese conto ben presto di non essere più da solo e che aveva raggiunto il suo obbiettivo. Gli dispiacque non aver tenuto conto del tempo che avevano impiegato i Valigarmanda a trovarlo, e si domandò cosa permettesse loro di percepire persino la presenza mentale di un estraneo che non apparteneva a quel dominio. Sperò di ricordarsi di venire a fondo di quella curiosità non appena avesse avuto tempo.
 
“...perché ti hanno mandato solo, piccolo umano?...” domandò all’improvviso uno di loro, con una voce sibilante che lo turbò quasi quanto il fatto che continuasse assieme agli altri tre compagni a strisciargli intorno con quel loro corpo lungo e sinuoso. Troppa confusione per lui, avrebbe preferito che restassero in volo così come lo avevano raggiunto senza farsi notare fino all’ultimo istante.
 
“Perché basto e avanzo io per qualsiasi problema possiate avere,” rispose incrociando le braccia “quindi prima che decida di mandare voi e i miei amorevoli superiori bellamente a quel paese per avermi fatto venire qui anche solo col pensiero, fareste bene a dirmi cosa-...”
 
Fece un salto all’indietro non appena una delle quattro possenti code che descrivevano circonferenze intorno a lui scattò in avanti nel tentativo di spezzarlo in due. Il secondo dei Valigarmanda tentò un azione più diretta e provò a schiacciarlo con la forza dell’enorme zampa tripunta ma questa affondò inutilmente nella neve fresca.
 
“Suscettibili eh?” chiese ad alta voce, grattandosi la guancia annoiato.

“...Non sfidare troppo la sorte Dylan...” parlò stavolta una terza voce.

“Mi fate la grazia e mi dite perché sono dovuto venire qui? Detesto perdere tempo e credetemi sono stato fin troppo paziente a sopportarvi fino adesso, quindi...vi prego, illuminatemi.”

Seguì una pausa, in cui li udì arrestarsi in quel loro movimento ipnotico che avrebbe confuso probabilmente chiunque non fosse stato lui. Colse che in quell’istante, si erano fatti tutti e quattro più seri e che il momento per andarci piano era finito.

“...scompariamo da qui, cucciolo...e senza una spiegazione apparente...”

“Scomparite? Ma io sono venuto qui apposta per colpa vostra!”

“Smettila di scherzare” ruggì quello che prima lo aveva chiamato per nome “ non ci siamo scomodati a chiedere supporto ai nostri fratelli della terra del fuoco, se si fosse trattato di qualcosa che non meritasse anche la vostra attenzione!”

“Sì sì certo,” sospirò “ci chiamate solo perché voi non volete mai esporvi in prima persona e a noi, anzi...a me tocca fare il lavoro sporco per tutti e due.”

“Razza di insolente!” La voce della creatura si fece tuonante, letteralmente. Il crepitio elettrico nell’aria era chiaramente udibile e questo riuscì a incutergli un minimo di timore, “ i nostri fratelli scompaiono da queste lande e tu ti permetti di-?!”

“Sono i Valigarmanda a scomparire?” lo interruppe “ Siete proprio sicuri?”

“Sì...” gli venne risposto, una volta recuperato il controllo “...uno dopo l’altro, all’improvviso...e non riusciamo in alcun modo a rintracciare la loro presenza...”

Ma Dylan non stava già più ascoltando. Qualcosa dentro di lui si era innescato e non riusciva a porre un freno ai suoi pensieri. Si sentiva come se stesse andando a fuoco per quella necessità di trovare la risposta che sapeva di conoscere. Questo almeno finché non capì di essersi sbagliato fino a quel momento.

“Ecco perché hanno mandato me...” pensò mordendosi un labbro “...sono l’unico a poterlo fare...”

“Signori, perdonate il mio tergiversare su una questione così delicata ma vedrete che verrò a capo di questa faccenda” comunicò a voce alta e chinandosi finalmente in un gesto rispettoso “  adesso se volete scusarmi, credo che sia il caso che mi metta in viaggio quanto prima.”

La prospettiva di quello che lo aspettava non gli piaceva affatto ma ancor meno gli garbava anche solo il sospetto di quello che stava accadendo e la causa di quelle sparizioni.

Così neanche il tempo per i Valigarmanda di aggiungere altro che la sua mente si ritirò dalle loro terre.

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Capitolo 6
*** Coppia combina guai ***


Silenzio, era questa la parola d'ordine, dovevano essere silenziosi e non farsi scoprire in alcun modo.
Entrarono dalla finestra e qui sorse il primo problema visto che il suo piede fini dentro l'acquario inzuppandosi fino alla caviglia.
Si decise di ignorare la cosa e si avventurarono nella villa schiacciandosi contro la libreria in un pallido tentativo di mimetizzarsi.
Al passaggio del compagno una lieve polvere si alzò da uno dei libri finendogli nel naso e provocandogli un irresistibile impulso di starnutire.
Fu sul punto di farlo quando una manata un po' troppo forte dell'amico raggiunse la sua bocca impedendogli di far rumore.
Il complice lo guardò con sguardo severo per poi svoltare lungo il corridoio ed infilarsi nella prima di tante stanze.
Cercavano una cosa in particolare, una cosa molto preziosa per loro, una cosa che gli era stata tolta.
Nella penombra creata dalle due lune di quel mondo I loro volti giovani furono illuminati.
Il primo, biondo con i capelli sparati in alto lunghissimi, tre ciocche ricadevano davanti la fronte senza ostacolare gli occhi gialli e luminosi.
Il viso pulito da ragazzino era corrucciato da un'espressione sbarazzina e ribelle.
Il secondo invece aveva i capelli corti e castani, gli occhi erano marroni e un accenno di barba era presente con un pizzetto leggero.
Più grande del compagno ma non di molto,nonostante il piede zuppo e il naso dolorante per prima, condivideva la stessa aria spensierata e allegra mentre entrambi cercavano nei cassetti quello per cui erano venuti.
-"Possible che il vecchio le abbia messe da un'altra parte?!"- il biondo sbotto' accorgendosi che non vi era nulla dove aveva cercato.
-"Sei sicuro che le abbia messe in questa stanza? Magari sono in camera da letto.." - rispose il moro addocchiando all'improvviso dall'altro lato della stanza una serie di piedistalli con dei vasi sopra.
-"No di solito li mette qui in questo mobile dentro la teca e...ma che stai facendo?" - il ragazzo dagli occhi d'oro guardò l'altro intento ad infilare la testa nel primo vaso.
-"magari li ha nascosti qui!" - disse l'altro come se fosse la cosa più naturale del mondo, rimanendo con la testa dentro.
Il biondo lo fissò per qualche secondo chiedendosi per quanto avrebbe guardato il buio all'interno del vaso prima di levarlo.
-"hey non viene via.." - se ne uscì il castano all'improvviso
-"stai scherzando spero!" - sbraito' lui incredulo.
Afferrò con entrambe le mani i manici del prezioso vaso tirandolo a se mentre il compagno cercava di tirare dal lato opposto;i manici si staccarono di netto.
Il moro con ancora il vaso in testa sbatté contro il supporto del suddetto vaso che sbilanciandosi urtò il seguente creando un effetto domino e facendo cadere a terra tutti i dieci piedistalli e mandando in frantumi altrettanti artefatti.
-"dici che l'ha sentito?" - si senti chiedere da dentro il primo vaso ancora sulla testa del complice quando un bagliore luminoso dietro di loro l'avviso' che si, il padrone di casa li aveva sentiti.
Ramuh, la cui lunga barba era ispida e pervasa da scariche elettriche per l'evidente turbamento osservo' il disastro nel suo studio.
Di fronte a se ancora a terra c'erano suo figlio Raiden, che lo guardava in un misto di paura e vergogna e il suo amico con la testa infilata in uno dei preziosi vasi di manifattura Shiva che gli erano stati donati dalla defunta Matriarca in segno di pace.
Mentre il capo tribù e suo figlio si scambiarono uno sguardo lungo e pieno di significato il ragazzo moro riuscì a togliersi, finalmente, il vaso  di dosso accompagnandolo con un verso liberatorio, poi notando la situazione l'unica cosa che riuscì a fare fu deglutire rumorosamente.
 
Il giorno seguente
 
-"Quello era un set di vasi molto prezioso, le Shiva ci hanno messo un anno intero per forgiare tale splendore e voi l'avete distrutto in una notte.." -
Ramuh era seduto sul suo trono reggendosi la testa e massaggiandosi le tempie,aveva deciso di rimandare la ramanzina a quei due al giorno successivo sperando che la rabbia potesse sbollire un po', si sbagliava.
Raiden e il suo particolare amico erano di fronte a lui, tutti i vari capifamiglia a ridosso della sala grande dove si trovavano osservavano la scena aspettandone la giusta punizione.
-"..non è il valore monetario che mi preoccupa ma i problemi diplomatici che questo comporterà, erano un dono di pace per suggellare il patto di non aggressione che vi è tra le nostre razze." - il suo sguardo ornato dalle rughe passava dal volto del figlio a quello del compagno.
Un capofamiglia appartenente ai Quetzacoltiani, Valfgor, si fece avanti.
-" Mio Signore, ci vuole una punizione esemplare anche se si tratta di vostro figlio. Stiamo parlando di un disastro diplomatico!" - il suo sguardo però pendeva sul ragazzo moro che notandolo cercò di parlare.
-"Noi non volevamo causare probl..." - una scarica elettrica colpì il terreno di fronte a lui è tutte le guardie scattarono mettendo mani alle armi ma Ramuh con un gesto della mano riportò la calma.
L'attacco era stato scagliato dallo stesso Valfgor che con astio riprese.
-"un essere come te non dovrebbe nemmeno esistere, sei fortunato che il capotribú Ramuh è fin troppo magnanimo con chi è diverso." - la frecciata fu evidente a tutti e lo stesso sovrano rispose.
-"In tempi come questi, dove gli umani si affacciano a questo mondo di nuovo dopo millenni essere chiusi e ottusi è controproducente Valfgor, io c'ero quando questo mondo è piombato nel caos e il consiglio di NALAWAGEL è stato fondato perché non si ripeta mai più un fatto del genere. "-
Il Quetzacoltiano si portò al centro della sala di fronte ai due ragazzi, fronteggiando con lo sguardo il suo capotribú.
-" E lei pensa che accettando uno stupido umano nella nostra città si possa evitare un conflitto? Quando le altre razze lo sapranno ci dichiareranno guerra! Sta portando alla rovina il nostro popol.."-
-"ORA BASTA!" - la voce possente di Ramuh echeggio' come un rombo di tuono per tutta la città e nella sala tutti i presenti fecero un passo indietro per la potenza sprigionata dalla sola voce del loro padrone.
-"Valfgor, fino a quando sarò io a comandare questo popolo, che tu sia Quetzacoltiano, Ixioniano o sotto la mia effigie seguirai la mia volontà." -
-"Forse è ora che le cose cambino allora, capotribú" - l'oppositore fece un mezzo inchino e tornò al suo posto.
-"Come osi rivolgerti con questa insolenza al tuo Re, Valfgor, questo è abbastanza per accusati di tradimento" - il consigliere , un Ixioniano di nome S'htor non riuscì a trattenersi,Ramuh lo calmò con un cenno.
-"La tua famiglia Valfgor, ha servito la mia casata per decadi e tu hai un posto nel consiglio per questo, ciò però non ti dà il potere di sostituirmi per quanto so che tu lo voglia." - il capotribú parlò con calma, troppa forse.
-"Io ho deciso di aiutare e accogliere questo umano, risponderò io di quanto accaduto e se il consiglio al completo riterrà che debba abdicare lo farò, quando troverò qualcuno degno."
Si alzò dal trono fluttuando fino ai due ragazzi.
-"Raiden, le tue bravate non si addicono a colui che per diritto di successione alla mia morte potrebbe governare questo popolo.."- il ragazzo abbassò lo sguardo vergognandosi.
-".. E tu Arok, sei un umano e non puoi capire le questioni di questo mondo, ti ho accolto e lo rifarei ancora ma nonostante sia il capotribú devo comunque rispondere al mio popolo, rispetta le leggi o non potrò più proteggerti" -
Materializzò il suo bastone e lo batté tre volte a terra.
-"Io, Ramuh, fondatore del Locus Fulgur dichiaro che come punizione all'incontro diplomatico di domani con la delegazione dei Ronso voi due farete i loro facchini, con questo concludo l'incontro potete tutti andare" -
I due colpevoli si guardarono sconvolti, i Ronso erano potenti guerrieri dall'aspetto possente e minaccioso, ogni volta che facevano visita al Locus Fulgur portavano con loro talmente tanta roba da commerciare che il solo pensiero di doverla trasportare per loro li fece sbiancare.
Pian piano la sala si liberò fino a quando non rimasero solo il capotribú, il suo consigliere e i due ragazzi. 
-"Ne valeva davvero la pena ragazzi?cosa cercavate di così importante da procurare tutti quei danni? " - chiese S'htor all'indirizzo dei due.
Fu Raiden a rispondere.
-"Le fette di torta di Ulwaat.. Papà ce le ha tolte per punizione ieri pomeriggio" - il consigliere rise di gusto mentre Ramuh si mise una mano sulla fronte.
-"Non le avreste trovate mai, le ha mangiate lui durante il consiglio di ieri." -
-"Papà!" -
Anche Ramuh, il millenario signore dei lampi, sovrano del Locus Fulgur andava matto per la torta di Ulwaat.
 
 
 
 
 
La notte il cielo fu coperto da nubi e ciò aiutò una figura avvolta in un mantello nero a lasciare indisturbato il Locus Fulgur per andare nel bosco vicino.
Raggiunse una radura senza che nessuna creatura selvatica si facesse vedere e ormai sicuro di non essere stato seguito il misterioso individuo prese uno strano apparecchio.
La scatola si accese aprendosi e dopo qualche ronzio una voce fu udibile.
-" RAPPORTO."-
-"La missione prosegue senza problemi, S'htor il consigliere si è messo in mezzo ma il vecchio preferisce tenere un basso profilo e non inimicarsi il consiglio" - la figura teneva la voce bassa e il volto sempre coperto.
-"NON ABBIAMO TEMPO, CON LA MORTE DI RAMUH IL LOCUS FULGUR CADRÀ E ANCHE IL CONSIGLIO DI NALAWAGEL SARÀ PIÙ VULNERABILE" -
-"Ci sto lavorando, le altre tribù gli sono molto fedeli, sarà difficile fargliele rivoltare contro" -
-"FA CIÒ CHE DEVI" -
La comunicazione si chiuse e la scatola venne nascosta tra le radici di un albero, al sicuro.

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Capitolo 7
*** Locus Adamantis - Ninde ***


Adamantis è sempre stata una città riservata e misteriosa, talmente maestosa da poter essere intravista a miglia di distanza . L’accesso principale è tramite l’insenatura posta tra uno squarcio nella montagna di ghiaccio creata dalle fondatrici, che girandole intorno la circonda come un abbraccio, proteggendola.
Le navi che vogliono entrare ad Adamantis sono costrette a passare sotto lo sguardo vigile delle due statue poste sulla cima delle rupi che formano l’entrata .
Esse, raffiguranti le due matriarche fondatrici della città, sono rivolte verso il mare tenendosi per mano mentre l’altro braccio è leggermente proteso verso la distesa acquatica , quasi come a richiamare il mare. Anche le due statue sono fatte di pregevole fattura: l’arte usata, infatti, sembrava quella dei più grandi scultori di un tempo. Le tuniche, che avvolgevano le gambe, il petto e il basso ventre, lasciano scoperta gran parte dell’addome e non sembrano fatti di marmo ma bensì, di vera stoffa.
Anche se ben simili nella posa solenne e nel vestiario, è possibile notare la differenza fra le due statue delle matriarche fondatrici.
La prima intorno alla vita ha una cintura costernata da gemme scintillanti color zaffiro e capelli lunghi , legati solo da una coda di cavallo. Le curve di questi ultimi sembrano seguire il vento quasi come se fossero reali. Nell’altra matriarca i capelli sono ben raccolti in trecce sinuose, avvolte su loro stesse. Nel braccio destro possiede un bracciale con delle pietre luccicanti color turchese.
Superata la barriera naturale si può intravedere Adamantis in tutta la sua completezza. La montagna la circonda completamente e chiunque la visiti può notare come la città si estenda su quasi tutta la sua facciata.
La sezione inferiore è formata dalla zona portuale che ricopre buona parte della costa: qui si trovano i cantieri navali , le zone industriali e uno dei quartieri più poveri, dove vivono in quasi del tutta uguaglianza uomini e donne della specie.
Le navi , quando il porto è al completo, possono attraccare nelle conche naturali della montagna e tramite piccoli shoopuf , strani animali molto simili ad elefanti , ci si può spostare per il porto. Alle spalle del distretto una grande scalinata conduce alla prima stazione di controllo situata su una collina. Essa quasi del tutto disabitata è adibita principalmente allo smistamento dei visitatori ed è collegata al secondo distretto, mediante un imponente ponte di ghiaccio molto lungo grazie al quale le persone autorizzate possono superare lo strapiombo.
Il secondo distretto quello commerciale , chiamato così per il grande mercato posto al centro della maestosa piazza , è abitato principalmente dal ceto medio alto , composto da coloro che garantiscono la stabilità monetaria della città.
Tutte le personalità più importanti e facoltose negli ambiti bancari, azionistici e commerciali abitano questo quartiere pieno di vita.
Le shivanidi che riescono ad entrare in questa casta sono considerate uno dei perni principali per l’economia della città.
Il distretto commerciale predispone inoltre di un servizio di sorveglianza preposto alla salvaguardia dei beni economici, fatto esclusivamente da shivanidi donne.
Il loro compito è quello di pattugliare in coppia di due o quattro per cicli alterni di tempo. La loro marcia prosegue per le strade della grande piazza commerciale per poi ruotare intorno alla banca, dove danno il cambio alla pattugliata che vi era prima, per poi aspettare di essere sostituite a loro volta e dirigersi nuovamente verso i palazzi più sontuosi e la piazza commerciale.
In tutto il secondo distretto è possibile notare come i maschi della specie siano relegati a lavori esclusivamente di manovalanza. Una particolarità del popolo delle shivanidi consiste nella raffinatezza dei propri abiti che vanno migliorando parallelamente alla casta di appartenenza, ed ognuno è libero di sfoggiare i tessuti e gli abiti che più sente appartenergli.
Nelle due zone si respira aria completamente diversa, le abitazioni e i palazzi imponenti sono stati costruiti secoli prima con la stessa tecnica muraria dei colossi delle matriarche. Il clima che vi è nel secondo distretto è sereno, allegro e spensierato. Le shivanidi vivono agiate nel loro benessere senza doversi preoccupare dei problemi che affliggono il primo distretto.
I Fumi delle fabbriche del distretto più basso rendono pesante l’aria che è avvizzita e difficile da respirare, tanto che gli operai che escono da lì spesso sono pieni di fuliggine e camminano chini su loro stessi , cercando d’intravedere il mare, unica loro forza che li spinge ad andare avanti nonostante tutto, nella continua speranza che presto le cose cambieranno.
Dal secondo distretto è possibile avere una prima impressione di come appaia il possente distretto nobiliare. Le cinte murarie seguono il dislivello del terreno sfruttandolo al meglio per garantire sicurezza alla popolazione del settore nobiliare. Tutto questo diventa un punto strategico difensivo, qualora le forze nemiche attacchino la città. Create per proteggere il distretto più importante, per oltrepassarle, serve un permesso speciale della matriarca o delle forze miliziane , la cui base e il centro di addestramento risiedono nel distretto nobiliare.
Il terzo distretto, il più importante, è la sede del palazzo reale, imponente e preziosa struttura di tutto il regno. Da lì la matriarca amministra tutta la città potendola osservare completamente ed in una delle sue sale accoglie i vari diplomatici. Le sue apparizioni sono tanto rare quanto preziose e nella maggior parte dei casi, lascia che siano le sue portavoci ad informare il popolo delle sue decisioni.
Oltre al palazzo reale il terzo distretto comprende anche la tesoreria , l’accademia militare, il consiglio di guerra, le ville dei più alti nobili del popolo, l’ambasciata e la statua raffigurante la matriarca attuale.
Una peculiarità del terzo distretto, oltre ai vari collegamenti dei ponti di ghiaccio che si diramano per poi scomparire verso la grande muraglia come una sorta di miraggio, è lo sfarzo con cui ogni edificio è creato. A testimonianza della forza economica dei suoi abitanti, persino la strada fatta per essere calpestata è costituita da leghe preziose e pietre scintillanti.
La statua della matriarca è talmente imponente da poterla scorgere già al ponte di collegamento del secondo distretto. La monarca è raffigurata con la corazza da guerriera nel momento culminante di un attacco, così da voler raffigurare il suo spirito combattivo.
Adamantis è un impero stoico e millenario, che rivaleggia con i grandi regni mantenendo l’equilibrio e la pace. Oggi però il Locus è in preda all’agitazione mista ad ansia. I suoi abitanti echeggiano e si fanno passaparola di un vociare chiassoso. Nel porto è appena aggiunta una grande nave.

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Capitolo 8
*** La regina di ghiaccio - Oyi ***


Capitolo II – La regina di ghiaccio


“Yoyo! Sei tornato!”
Oyi si voltò verso la porta appena spalancata, ma la proprietaria della voce squillante lo aveva già raggiunto. “Buongiorno, Winter!”
“Ehi, ti sei ingrassato ancora!”
Non poté trattenere un sorriso mentre le esili braccia della bambina cercarono, senza successo, di percorrere tutta la sua pancia per abbracciarlo. “Modestamente faccio del mio meglio”.
La piccola prese a battere prima le dita e poi entrambi i palmi sul suo ventre, ascoltandone il rumore cavo ed i rotolini che si muovevano sotto il suo sforzo; le sue mani, come quelle di ogni abitante del locus Adamantis, erano fredde e pungenti. “Sei venuto per vedere la mamma?”
“Anche”.
Dalla sacca conservante sulla sua schiena estrasse il pacchetto che tanto si era sforzato di non aprire di nascosto durante il viaggio in hovercraft; il profumo di miele e natka appena sfornato si spanse tutt’intorno a loro e Oyi fece dondolare l’oggetto agognato con la coda su e giù, invitando la bambina a saltellare come un Kappa per afferrarlo. Dopo qualche minuto di risate e salti mal riusciti si decise ad abbassare il carico e farla vincere, osservando con un certo appetito la carta che veniva rimossa con rapidità ed i minuscoli dolci apparire alla loro vista in tutto il loro profumo. Vi erano dei momenti –tanti momenti, a dire il vero. In effetti si trattava di buona parte della giornata- in cui Oyi era orgoglioso di aver sposato la migliore pasticcera di Nalawagel: a conti fatti nessuno sapeva lavorare il miele jai come una Magus, ed in quei biscotti a forma di fiocco di neve c’era l’assoluta perfezione alimentare. La piccola Winter si sbrigò a metterne uno tra i denti poi, quasi riflettendoci su, ne scelse un secondo e glielo porse. “Ne vuoi uno anche tu?”
Un piccolo atto di educazione, forse nato non esattamente dalla generosità disinteressata, ma di certo Oyi non poteva rifiutare una tale offerta dalle mani di una signorina.
Mentre addentava l’agognato premio si prese del tempo per guardarsi intorno, rendendosi conto che, sebbene mancasse dai quartieri privati della Valagara Nives da oltre tre mesi, ogni cosa era rimasta immutata.
Le finestre diffondevano una luce chiara e azzurra grazie a dei filtri di produzione Basilisk: il sole pomeridiano riusciva ad entrare in quegli alloggi soltanto come un umile ospite, per di più sgradito, consentendo ai propri raggi di illuminare senza scaldare. La sala d’attesa, dove già si stava formando una consistente coda di diplomatici ed attendenti, era illuminata per lo più da minuscoli fari artificiali la cui luce si rifletteva sui cristalli di ghiaccio incastonati nel soffitto; le sedie, pensate per ospitare praticamente qualsiasi abitante dei Loci, erano state ricavate da un legno di un blu intenso rinvenibile soltanto nel Locus Adamantis e si distendevano in delle nicchie nella parete bianca che rendevano praticamente impossibile l’ascoltare le comunicazioni altrui. Un paio di assistenti della Valagara passeggiavano silenziose da una loggia all’altra con bevande di ogni tipo; un’altra coppia scivolava elegante sulla superficie fredda dello specchio di ghiaccio che costituiva il pavimento dando delle occhiate nervose ai propri pad. Nessuno dei diplomatici mostrava alcuna fretta, sebbene una Sylph non fosse chiaramente a proprio agio in quel luogo così immobile da sembrare artificiale. Molti di loro erano lì da ben prima del suo arrivo, e nel vederlo chiacchierare in maniera familiare con la figlia della padrona di casa alcuni gli schioccarono delle occhiate di disapprovazione.
“La mamma ha fatto arrivare una cosa bellissima! Vuoi vederla?” esclamò Winter alzandosi sulle punte per prendergli la mano. Per Oyi fu la via di fuga migliore per andarsene da quella situazione imbarazzante “Ma certo. Purché non ci siano troppe scale …”
Trotterellarono fuori da quel posto, Oyi sempre attento a non rompere quel pavimento glaciale che aveva l’aria di frantumarsi al suo primo passo disattento.
Il percorso fu breve e senza scale. Winter lo accompagnò verso gli alloggi di sua madre e del corpo diplomatico shivanide, una parte dove quasi nessun altro abitante del mondo avrebbe potuto far entrare nemmeno la coda. La temperatura si abbassò di oltre venti gradi nel momento in cui entrarono nel giardino interno: Oyi pensò alla giovane Sylph già quasi congelata nell’ingresso e non poté trattenere il piccolo moto di orgoglio nel pensare che il proprio grasso protettivo, quello che gli altri membri della Y.U.N.A. guardavano con palese disgusto, fosse l’unica cosa che gli permettesse di ritrovarsi lì dentro e godere di quello spettacolo.
La fontana riluceva, resa quasi viva dalle sfere di Materia Crio. Le schegge di ghiaccio si muovevano quasi fossero acqua pura, spinte dall’energia motrice che permeava l’intero oggetto, tintinnando l’una contro l’altra dando l’idea di minuscoli campanelli in grado di muoversi, scorrere, congelare e poi tornare di nuovo nell’aria. La sottile luce azzurra che aveva notato all’ingresso era anche lì, illuminando i volti scolpiti nel ghiaccio che immortalavano la Creazione.
Le circa centocinque figure si stagliavano nella loro assoluta perfezione: le ali della dea Phenex sembravano abbracciare la composizione intera, le fiamme che emanavano la vita create ad arte con sottili fiocchi di neve intrecciati a mimare il fuoco creatore delle fenici. Fenrir con la sua cucciolata ed Exodus nell’atto di pesare i propri figli. Sette raggi di luce erano stati realizzati per unirsi sulla gemma bianca sulla fronte di Carbuncle e sulla base, un po’ nascosto alla vista, vi era Cactuar nell’atto di spargere nel deserto i propri aghi pronti a fiorire.
Oyi, guidato da Winter, dovette fare il giro della fontana per portare un saluto all’immagine di Cúchulainn: il suo signore era stato scolpito con il viso rivolto verso l’angolo meno frequentato del giardino in modo da non risultare sgradito alla vista di tutte le creature leggiadre di quel posto. Lo avevano realizzato con della neve fresca e morbida in grado di riproporne il ventre enorme con dovizia di pieghe mentre nella bocca spalancata i denti erano stati costruiti in piccolissimi cristalli. Mancava in lui la precisione dei dettagli che caratterizzava quasi tutti gli altri dèi, ma per Oyi questo era un segno molto positivo: Cúchulainn non aveva mai dato peso alle chiacchiere frivole degli altri Celesti. Stava spinto in avanti, con la coda sollevata, chiaramente perché la notte della Creazione aveva mangiato pesante ed aveva plasmato la sua stirpe, i primissimi Cúchul, con ciò che rimaneva della propria digestione. Nonostante il freddo, Oyi trovò la scena incredibilmente toccante.
Lo sguardo di Winter, però, era molto più in alto: sopra di loro, oltre ogni Celeste, la dea Shiva regnava sovrana, intenta a modellare le proprie figlie nella neve. A Brurwelry parve di riconoscere, nei lineamenti della sacra madre shivanide, i tratti marcati della Valagara Nives, ma per fortuna non aprì bocca.
“Io voglio diventare bellissima come Shiva!”
“Beh, io credo che tu già lo sia. Devi solo crescere un pochino e vedrai che …”
“La mamma dice di no. Ma non è giusto!”
Oyi sospirò, cercando di trovare la risposta giusta. Non che si intendesse dei canoni di bellezza shivanide –non avrebbe mai messo la propria coda in delle femmine così esili e gelide, la sola idea lo faceva rabbrividire- ma Winter non gli sembrava troppo diversa dalle altre bambine del suo mondo. Era leggermente più grande, con la pelle più vicina al bianco che all’azzurro, ma in compenso aveva un accenno di pancia davvero grazioso. Non aveva idea di quale Amor fosse stato selezionato dalla Valagara per l’accoppiamento, ma da quello che poteva capirne la bambina ricordava la nobile Nives in molti aspetti.
“E poi dice che non devo mangiare tanti dolci. Mi vengono i buchi ai denti!”
“Che esagerazione! Chi non mangia zuccheri diventa magro, debole e triste. E tu non vuoi essere triste, giusto?”
“Dubito fortemente che la felicità di Winter possa essere rinvenuta nel cibo” disse una voce alle loro spalle. Oyi sobbalzò come se gli avessero schiacciato la coda. “Non dovevi dirmi qualcosa, Oyi?”

Nives Ta’firi Krjesta Rug era entrata nel Valagar da circa dieci anni. Oyi l’aveva conosciuta sei anni più tardi e da sempre l’aveva trovata una figura di grande livello, un senso di saggezza che traspariva persino dagli ologrammi delle comunicazioni ufficiali.
C’era da dire che gli ologrammi non erano del tutto fedeli, perché anche se i capelli della shivanide erano di un blu intenso sia nell’immagine che nella realtà, allo sferogiornale apparivano più folti ed irradiati da luci argentate. Nella realtà, poi, sul lato destro del viso vi era una patina di ghiaccio fredda e dura che andava dall’orecchio fino allo zigomo di cui Oyi non comprendeva la funzione, e questo particolare negli ologrammi non si notava. E se Nives si fosse messa accanto alle suddette immagini qualcuno avrebbe potuto notare che alla Valagara mancavano almeno tre dita per raggiungere l’altezza “ufficiale” … e senza dubbio i suoi seni erano molto meno accentuati.
Nonostante le ricostruzioni fossero il ritratto della fermezza e del rigore Oyi sapeva che, quando non era presa dalle interviste, dalle udienze e dai discorsi, i lineamenti accentuati della donna sapevano assumere un’espressione di cordialità. Per lo standard shivanide, ovviamente.
Il che aveva più o meno lo stesso livello di espressività di una maschera di disgusto cúchul: se non fosse stato per la sottile increspatura all’angolo del labbro sinistro e per il lieve cenno del capo, l’ispettore Brurwelry avrebbe potuto pensare che la figura ritta davanti a lui, immobile come una statua, fosse sul punto di congelarlo sul posto solo perché aveva portato la sua flaccida e flatulenta presenza nei quartieri privati di una delle figure più famose di tutta Nalawagel.
Forse un tempo lo avrebbe fatto davvero, ma molte cose erano cambiate dal loro primo incontro.
“Vengo innanzitutto a porgerle il mio saluto, Valagara”.
La donna mosse il capo una seconda volta. “Siamo lontani dalle sferocamere, ed i miei attendenti riusciranno a tenere a bada gli ospiti per un altro po’. Possiamo passare a darci del tu, non trovi?”
“Preferisco sempre aspettare che sia tu ad iniziare, Nives, e lo sai”.
“E io?” chiese Winter speranzosa.
“Tu non dovresti essere in camera a terminare i compiti?” le rispose la madre. Oyi sorrise, ricordando se stesso e la grande fatica fatta per studiare, ma la bambina strusciò i piedi tra loro con fare contrito: doveva trattarsi di un rimprovero frequente, perché diventò subito mesta e prese le distanze da lui. Si girò per salutarlo con un cenno della mano, cosa che ricambiò, ma non disse nemmeno una parola e corse via. Nives la fissò andarsene “La sua assenza di disciplina mi preoccupa. Dovrebbe imparare a comportarsi in pubblico”.
“A me sembra fin troppo tranquilla” disse Oyi, ricevendo in cambio un’occhiata seria e scura. Le shivanidi mal tolleravano il contatto fisico con gli altri popoli, e sapeva che Nives trovava inconcepibile il fatto che la propria figlia si mostrasse così espansiva con tutti. Brulwelry era conscio che la donna facesse ogni giorno appello al proprio autocontrollo per non impedire a Winter di toccare un Cúchul come lui. Se non fosse stato per il loro incontro di tanti anni prima probabilmente lo avrebbe congelato per il solo fatto di aver insozzato le mani della sua preziosa progenie.
Alcune persone, come Tawanaa, trovavano questo aspetto shivanide assolutamente insopportabile. Per Oyi era un mero dato di fatto, considerato che in fondo nessun popolo provasse simpatia per la sua gente. Nives faceva uno sforzo, e per questo la apprezzava ancora di più.
Uscirono dal giardino, dirigendosi verso le balconate.
L’ambiente era coperto nonostante si protendesse all’esterno, e l’aria continuava ad essere gelida. La Valagara rimase in silenzio per tutto il percorso, ed aprì bocca soltanto quando le lastre passanti di cristallo furono chiuse alle loro spalle, lasciandoli nella solitudine più assoluta. “Dimmi”.
“Un’altra sparizione, stavolta nel Locus Magoi. Una bambina”.
“Immagino tu abbia escluso ogni altra possibilità”.
“Non sarebbe arrivato alla Y.U.N.A. se così fosse. I cronisti ci stanno già sguazzando. A quanto pare il comandante Yonne non è riuscito a mantenere il silenzio abbastanza a lungo”.
“Il comandante Yonne è un diabloide, ricordo bene?”
“Sì”.
“Che casualità …”
Nives troncò il discorso a metà, e senza dire nulla si ritirò all’interno, abbandonando il balcone. Oyi era abbastanza abituato a questo modo bizzarro di concludere un discorso e continuò come se nulla fosse, camminandole dietro senza mai sopravanzare la sua figura.
Oyi aveva visitato solo una volta il Locus Adamantis, la patria delle shivanidi, e sapeva che tra gli abitanti vi era la tendenza ad indossare vestiti semplici e marroni, fatti con pellicce di animali, e che praticamente nessuno facesse uso di scarpe. Trattandosi di creature in grado di ripristinare le proprie forze con il gelo, la cosa gli era sembrata del tutto naturale: trovava dunque difficile, anche dopo tanti anni, abituarsi al suono ritmato degli alti tacchi di Nives contro il pavimento ghiacciato, un rumore secco che avvisata i suoi dipendenti della presenza della signora delle nevi. Gli abiti che indossava erano sempre eleganti e perfetti, tagliati in tessuti sylph che su di lei cadevano sempre in modo strano, come dei vestiti di seta su una bambola di porcellana.
Raggiunsero una nuova balconata, stavolta scoperta, verosimilmente sul lato est dell’edificio. Da quella parte poteva vedere lo stadio immergersi nelle acque del mare e godere appieno del rumore degli hovercraft bloccati per gli spazi aerei di Nalawagel. Avrebbe osservato il panorama per ore, ma il dito della sua ospite si alzò, puntando un’area della città ben precisa. Oyi seguì il suo silenzioso comando, e quando si affacciò … capì.
Da quando si era immerso nel caso delle sparizioni misteriose non aveva più prestato attenzione alle elezioni per la carica di Primo Lettore. Sebbene ogni Locus inviasse un proprio rappresentante al Valagar, la principale struttura legislativa, ogni tredici anni si teneva la nomina del Primo Lettore, la più alta posizione all’interno dello stesso Valagar. Per Nives si trattava della sua primissima corsa alla carica, ma per Abraxas Maximus, il cui viso campeggiava su una decina di schermi pubblicitari di Nalawagel, era la quinta –se non la sesta- candidatura.
I lineamenti diabloidi, così simili a quelli del comandante Yonne quando lo guardava con disprezzo in sala mensa, sembravano trafiggere tutta la città. “Ne sarà felice, suppongo”
“Non ne hai idea. I sondaggi lo vedono in testa di almeno sette punti. Queste sparizioni sono la miglior campagna pubblicitaria che potesse chiedere. La gente di tutti i Loci è spaventata per questi ed altri problemi, la linea politica di Abraxas si nutre di questo”.
“Pensi che la sua proposta del corpo di Pretoriani verrà davvero presa in considerazione dal Valagar?”
“Molto peggio” mormorò lei, aggrottando le sopracciglia. “Molti si sono mostrati apertamente d’accordo”.
Brulwelry si accorse di non esserne poi così sorpreso. Gli Ifriti ed i Titani da sempre avevano espresso le loro lamentele sull’inefficienza della Y.U.N.A. nel risolvere casi di interesse comune –con la scarsità di membri, di fondi e di risorse Oyi trovava già una gran cosa il riuscire ancora ad esistere. Sapeva che, qualche anno prima, la mozione di un corpo speciale con maggior potere esecutivo proposta da un Valagara cerbero era stata respinta per pochissimi voti. Era un dato di fatto che i rappresentanti più aggressivi cercassero di conferire ordine e certezze attraverso un potenziamento delle strutture militari, e una proposta da parte di una figura stimata ed influente come il Valagara Maximus, unita alle ultime vicende, sarebbe stata appoggiata da molti. Nives, al contrario, si era opposta a questo tipo di soluzione e da sempre aveva riposto molte speranze nell’operato della Y.U.N.A. “Stiamo perdendo consensi, Oyi. Anche tra i miei alleati. Oggi devo parlare assolutamente con la delegata sylph, mi ha comunicato che dall’Alveare la loro regina sia propensa ad appoggiare la causa di Maximus” sospirò. “I Loci più deboli iniziano a richiedere protezione, quelli più aggressivi sono pronti ad offrirla alle loro condizioni. E questo mi terrorizza, Oyi. Sono convinta che non sia la strada migliore per nessuno di noi”.
“Lo sai che mi trovi d’accordo. Cosa posso fare per aiutarti?”
Un flebile alito di vento proveniente dal mare sollevò i capelli della shivanide, lasciandoli fluttuare in aria come un manto. Nives continuava a fissare lo schermo pubblicitario, lo sguardo fisso su quello di Abraxas, come una statua di ghiaccio in attesa che il resto del mondo congeli insieme a lei; l’ispettore era consapevole di quanto la donna si stesse battendo anima e corpo per impedire un simile cambiamento, specie sapendo le implicazioni di un corpo militare autorizzato ad usare la forza dove in maniera invariabile le figure più forti ed aggressive avrebbero trovato una scusa per prevalere. I cúchul, nonostante ciò che pensavano quelli dei piani alti e profumati, non erano affatto attaccabrighe come i diabloidi o i titani, e la sola idea di avere esseri del genere a zampa libera nel proprio Locus gli fece arrotolare la coda nella pancia. La maggioranza del suo popolo avrebbe abbracciato la causa diplomatica della Valagara Nives, ma purtroppo era chiaro che la linea moderata e pacifista avrebbe trovato nel pensiero di Abraxas Maximus un avversario molto più forte di prima.
La shivanide chinò il capo, mesta. “Scopri la causa di queste sparizioni prima delle elezioni. Mostreremo ancora una volta l’utilità di un organo come la Y.U.N.A. e dimostreremo che un corpo di Pretoriani non è affatto necessario né a Nalawagel né altrove. Posso contare su di te?”
 

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Capitolo 9
*** Peccato, colpa e redenzione- Julian ***


Julian si era alzato presto quel giorno, aveva davvero troppe cose da fare per lamentarsi dell'ennesimo giorno nuvoloso. In realtà aveva visto ben poche mattine assolate ad 'Evreux, pioveva un giorno sì e l'altro pure, per cui, non solo non se ne lamentava, ma non lo sorprendeva neppure. Mentre metteva in ordine l'ennesimo fascicolo nella libreria della sagrestia, avvertì una lieve fitta al braccio, un attimo di distrazione e i fogli scivolarono tutti via dal raccoglitore, frusciando sul pavimento pulito e lucido. Sospirò, era da qualche giorno che si sentiva debole e stanco, persino padre Boutrox se n'era accorto e gli aveva premurosamente consigliato di rimanersene a letto finché non fosse stato meglio. Ma Julian era troppo preso dalla sua nuova vita e dal suo nuovo importante compito per permettere ad un lieve malessere di avere la meglio su di lui. Raccolse i vari fogli, indugiando sull'ultimo, il quale portava il nome del fascicolo e quindi, del paziente. Infilò tutto nella cartella e la mise assieme alle altre. Non era certo che “paziente” fosse il termine più adeguato, ma aveva conosciuto ben poco della religione per trovare un altro termine, considerando che “posseduto” gli suonava piuttosto male. Non che li guardasse con disprezzo- al contrario- sapeva bene cosa volesse dire convivere con un demone, lui stesso ne era la prova e sapeva quanto fossero importanti le persone come padre Boutrox che combattevano instancabilmente questo male, per questo non voleva riposarsi, non voleva essere da meno. Ancora un paio di giorni e sarebbero stati sei mesi da quando era arrivato in quella cittadina della Provenza- chissà come- stravolto e con i vestiti stracciati, era stato accolto da padre Boutrox il quale si era preso cura di lui. Quando Julian capì quali altre mansioni avesse il parroco della più bella cattedrale della città, lo ritenne un segno parecchio ironico del destino, rafforzato anche dal prolungato silenzio di Gerda. Così, quando il prete gli propose di restare con lui per occuparsi delle scartoffie o degli aspetti burocratici che potevano essere facilmente gestiti, Julian accettò subito e molto volentieri. Dopo un mese di permanenza, oltre a mettere in ordine pratiche e documenti, Boutrox aveva cominciato a portarlo con sé anche durante gli esorcismi e, in cinque mesi, erano stati davvero tanti. Probabilmente era per quello che non era così sorpreso dall'aria greve e uggiosa di 'Evreux, c'era talmente tanto “male” in quella città che persino il sole temeva di illuminarla, eppure, per fortuna, c'era padre Boutrox. Lungi dall'essere un fanatico, Boutrox trattava tutti, pazienti e amici – e, nel caso di Julian, le due cose coincidevano – con affabile premura, ridendo e scherzando con il suo spirito attento e vivace. Non mancavano le battute sulle sue mansioni, sia quelle più allegre che quelle più drammatiche.

“Camminiamo sempre con i demoni, ragazzo mio, alcuni si scacciano via con Pater Nostrum, altri non basta la finanza a scacciarli dai seggi comunali ma...c'est la Vie ” e questa ed altre massime comparivano spesso tra i discorsi dell'uomo di chiesa. Ma se c'era qualcosa che davvero Julian ammirava del suo nuovo mentore era l'instancabile tempra e spirito nel fronteggiare le difficoltà e nel sostenere i suoi “pazienti” nei loro momenti più bui, il tutto senza far loro pesare nulla, trattandoli con compassione e rispetto, nonostante tutto. Si chiese quando avrebbe raccontato la sua storia al prete, anche se in cuor suo era convinto che Boutrox sapesse, ma che appunto fosse fiducioso nello spirito di Julian. Per cui, quel periodo ad 'Everux, sebbene non godesse del benestare del sole, fu comunque uno dei più felici che Julian riuscì mai a ricordare, complice anche, l'imperterrito silenzio di Gerda. La voce nella sua testa infatti era quasi del tutto sparita, sopravvivevano sporadici sogni, flash di luoghi impervi e aspri dirupi, o strani mostri antropomorfi e non, la cui memoria di certo non apparteneva al ragazzo. Ancor più raramente Julian poteva isolare come un sibilo nella sua mente, sottile come la voce della brezza, ma che per lui, abituato a conviverci da quindici anni, era l'unico segno lasciato dalla sua scomoda coinquilina. Questo prolungato silenzio Julian lo attribuì subito alla presenza di padre Boutrox e questa fu l'ennesima conferma che la diagnosi di psicosi dell'Umd aveva un risvolto molto meno medico di quanto anche la dottoressa Lemair avesse creduto. Provava sempre una certa malinconia pensando a lei, non sapeva se l'avesse in un certo senso tradita fuggendo via dall'Umd, ma la bellezza di 'Everux era anche quella dell'oblio, come se prima di quel periodo tutto fosse avvolto nella foschia. Julian aveva poco alla volta lasciato scomparire i suoi ricordi in una nebbia indistinta in cui non aveva la minima voglia di reimmergersi. Così accompagnato dalle varie riflessioni il ragazzo continuò a riassettare documenti, correggere bilanci e aprire lettere. Proprio mentre stava compilando la domanda di restauro di uno degli affreschi della sublime chiesa gotica, la porta della sagrestia si aprì con un sibilo acuto. Julian sussultò e con lui anche qualcuno che non si faceva sentire da un po', il ragazzo boccheggiò per qualche istante, rivolgendo i suoi occhi smeraldini verso l'uscio. La vista della figura massiccia di padre Boutrox mise un freno al suo cuore impazzito.

-Buongiorno sign...- ma la voce gli si strozzò in gola quando vide lo sguardo truce del suo mentore, fu solo un istante, talmente rapido da far chiedere a Julian se non si fosse sbagliato.

-Julian... sei qui...- disse brusco l'uomo, vederlo così, sudato e nervoso, allarmò Julian.

-Signore è successo qualcosa, posso...?-

-Il fascicolo- lo incalzò subito il prete avventandosi sulle scartoffie sulla scrivania, aveva il fiatone e grosse gocce di sudore gli scendevano dalle tempie.

-Li ho appena messi tutti nella teca- balbettò il ragazzo – Cosa è successo?-

Boutrox lo fissò per qualche istante, il petto si alzava e abbassava affannosamente – Io... il bambino... quello della crisi ...-

-Josh Atrax!- ricordò subito Julian, era uno degli ultimi pazienti, quello che aveva accusato i malesseri peggiori, debilitato fino allo sfinimento, scosso da incubi, visioni e altri strani fenomeni che avevano fatto venire i brividi a Julian.

-Sì, sì, proprio il giovane Atrax, ti ricordi dove hai messo il suo fascicolo?- chiese il prete, nonostante avesse smesso di rovistare nelle carte, aveva ancora le mani scosse da fremiti.

-Certo che sì!- Julian aprì subito la teca della libreria, estraendo con sicurezza un raccoglitore tra i tanti dello stesso tipo – Eccolo!- lo porse subito al prete, il quale quasi glielo strappò dalle mani

-Molto bene, lasciami solo ragazzo!-

Julian annuì – Chiamo la signora Atrax ? L'avviso, se questa sera andremo da loro...-

Boutrox alzò lo sguardo pensieroso, ma molto più calmo, sul ragazzo – No, no, grazie Julian, stanno già venendo loro anzi, per favore, non appena arrivano portali nel mio studio e vienimi a chiamare!-

-Certo signore!- affermò il ragazzo sollevato dalla solita risolutezza del suo mentore. Julian lasciò quindi Boutrox immerso nella lettura e nella riflessione. Uscì dalla sagrestia e si ritrovò in una delle navate della chiesa. Rimase per qualche istante a contemplare le volte a sesto acuto sorrette dalle svettanti colonne decorate, i cori arabescati ed i ricchi affreschi. A volte si sentiva quasi schiacciato dalla magnificenza di quel gusto spiccatamente gotico che rivendicava con superbia la propria augusta bellezza fatta di pinnacoli, vetrate e forme sinuose. In realtà tra le varie decorazioni vi erano anche bassorilievi, alcuni rappresentavano scene del Vangelo, altri l'Apocalisse. Julian indugiò sulle figure mostruose, deformi e cornute ritratte in quelle lastre di pietra. Molte di quelle creature avevano le ali da pipistrello, contrapposte a quelle piumate degli angeli. Julian fece un sorriso amaro, le piume rimandavano alla leggerezza e alla morbidezza, rispetto alle membranose e artigliate ali dei demoni, eppure il ragazzo si chiese se davvero gli angeli non nascondessero qualche lama sotto quelle piume, visti gli avversari che si ritrovavano ad affrontare. I demoni erano grossi, nerboruti, massicci, con le fauci ritorte da zanne affilate: che Boutrox ne avesse appena visto uno? E se lui se ne fosse trovato davanti uno simile? O se lo avesse avuto dentro?

La risata di Gerda gli tornò alla mente accompagnata da un brivido.

Scosse la testa dandosi dell'idiota. Stava vaneggiando, probabilmente era stato lo spavento nel vedere atterrito Boutrox a fargli venire quelle stupide fisime. Si chiese cosa mai avesse potuto avere un simile effetto sul prete e sul suo rinomato contegno. Il pensiero di dover riceve il “paziente” che aveva scatenato quella reazione non lo esaltava, ma Julian intraprese comunque una delle vecchie scale laterali per scendere nella chiesetta inferiore. Si sentiva sempre soffocare ogni qual volta scendeva, preferiva di gran lunga i luoghi ariosi e la vecchia chiesetta sotterranea di sicuro non ne faceva parte. Era una costruzione precedente di appena un secolo a quella superiore, infatti veniva usata giusto per qualche occasione più intima, quali funerali o celebrazioni più specifiche del calendario liturgico. Boutrox aveva adibito la vecchia cripta a studio e, nonostante tutto, era riuscito a renderlo accogliente. Julian accese subito le luci, il buio rendeva solo più soffocante quel luogo. Sebbene ogni angolo fosse illuminato, il ragazzo non riusciva ad apprezzare lo stile spoglio ed essenziale di quella chiesa soprattutto se paragonata alla costruzione sovrastante. Il soffitto era basso, piatto, tutto in pietra fredda e sagomata, giusto qualche inserto in legno, forse solo l'altare e il tabernacolo, ma nulla avevano a che vedere con il solenne ostensorio della chiesa superiore. Julian passò accanto all'altare, fece un inchino e il segno della croce, rimanendo abbagliato per un istante dallo sportellino lucido del tabernacolo. Osservandolo meglio vide che era leggermente accostato. Con il trambusto padre Boutrox l'aveva certamente lasciato aperto. Julian salì con reverenza sul presbiterio e si avvicinò al tabernacolo, lo sportello lasciava entrare la luce, la quale colpiva il piedistallo dell'ostensorio. Julian lo guardò interdetto, aprì del tutto lo sportello: l'oggetto non era per nulla simile a quello della chiesa grande, anzi, non aveva neppure la classica forma a raggiera, somigliava per lo più ad una sorta di salsiera, era bassa e affusolata, laccata in oro e con i bordi decorati da un sottile filo di rubini. Aveva un manico sottile e arricciato, il quale bilanciava sul lato opposto il beccuccio del medesimo gusto sinuoso. Julian si chiese in che modo venisse conservata l'ostia lì dentro, sollevò il coperchio il cui pomolo era costituito da un rubino sanguigno e sfaccettato.

-Una candela!?- Julian osservò stranito il vivace stoppino rosso, che, nel nero della cera, sembrava un papavero venuto fuori dall'asfalto. Rimase a fissare lo strano oggetto nelle sue mani, girandolo e rigirandolo, studiando i piccoli caratteri che ne decoravano la superficie.

-Dunque è stata quella...-

Julian sussultò, la lampada gli sfuggì dalle mani, cadendo rumorosamente per terra. Il ragazzo si affrettò a recuperarla, terrorizzato non solo dalla sottile voce femminea, ma anche dalla prospettiva di aver rotto o danneggiato il turibolo.

-E' una lampada, idiota!-

Julian prese la lampada, per un istante gli parve di vederla brillare, ancora più atterrito la schiaffò nel tabernacolo e richiuse immediatamente lo sportello – Chi è là!?- urlò poi mentre i suoi occhi sfrecciavano da un angolo all'altro dell'essenziale sala sacra.

-Io... sono... sono la signora Atrax- disse allora una voce sottile. Julian sbatté più volte le palpebre, la gola gli si era fatta improvvisamente secca.

-Ah, sì, sì, certo, signora Atrax... Venga, padre Boutrox... Vado a chiamarlo... si accomodi-

La signora Atrax era una donna minuta, Julian l'aveva vista un paio di volte, aveva i capelli corti e lisci e il viso piccolo e rotondo. Quando la vide sbucare fuori da una delle scale di servizio, il ragazzo rimase sconcertato da come quel viso fosse dimagrito e di come lei si fosse fatta persino più piccola, stava tremando. Julian cercò di farle un sorriso e di calmarsi, nonostante si fosse reso perfettamente conto che la voce che aveva sentito non aveva nulla a che fare con quella della signora Atrax.

-Signora Atrax, venga avanti, padre Boutrox mi ha detto di farla accomodare nel suo studio!- insistette Julian allontanandosi grandi passi dall'altare. La signora Atrax si ritrasse verso la breccia della scalinata. Julian si fermò, osservandola attentamente, quella donna non era solo spaventata: aveva il terrore negli occhi, gonfi e lucidi. Julian sentì una stretta al cuore.

-Signora Atrax...- disse senza fare un altro passo verso di lei, si limitò a incrociare il suo sguardo, riempiendolo di tutta la compassione e premura avesse in corpo, proprio come faceva padre Boutrox. Sperò di avere almeno la minima empatia di quell'uomo – La prego, sono qui per aiutarla, non abbia paura, qualsiasi cosa sia successa... Padre Boutrox arriverà presto, venga avanti!-

La donna annuì ancora titubante, ma fece un passo avanti e, trattenendo un fremito, portò avanti la piccola figura dietro di sé. Non appena la luce della sala accolse il figlio, la donna emise un gemito, portandosi la mano alla bocca mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Julian rimase impassibile, ad una prima occhiata il bambino sembrava perfettamente normale, eppure un dettaglio inquietante bastava a rompere l'incantesimo: gli occhi del bambino erano completamente neri, la sclera sembrava invasa da denso inchiostro, inoltre la madre lo trascinava dietro come se fosse una bambola inanimata. Julian aveva visto anche Josh, una volta o l'altra, a letto, pallido, ma effettivamente il suo aspetto non si era mai scostato troppo da quello di tanti altri malati che aveva visto nell'Umd, ma quella era davvero tutt'altra storia, quello era davvero un mostro. Julian si sentì pervadere dal gelo, era questo quello che succedeva in realtà? Una cosa annientava nel suo nero un'intera persona, anche la più innocente, dall'interno. Forse anche lui aveva avuto quell'aspetto quando aveva appiccato l'incendio fatale nella sua casa. La donna stava ancora singhiozzando, per cui non si accorse di Julian, il quale si avvicinò al bambino, si inginocchiò e gli prese delicatamente le fragili spalle tra le mani

-Andrà tutto bene Josh, resisti! Vado a chiamare padre Boutrox!-

La donna si fermò osservando sconcerta il gesto del ragazzo. Julian si voltò verso di lei, abbozzando un timido sorriso – E' un bambino forte, vedrà, padre Boutrox riuscirà ad aiutarlo!-

La signora aveva ancora gli occhi pieni di lacrime, ma tra tanto dolore Julian vide brillare la tenue luce di una speranza e finché quella risplendeva, nessuna battaglia poteva dirsi conclusa.

-Resisti, campione, va bene ? Io torno subito!- Julian gli prese il volto tra le mani, la pelle era gelida – Andate nel suo studio, quella porta lì!- il ragazzo si rialzò e indicò la porta – Il tempo di chiamarlo!- fece per andare, ma la manina del bambino si serrò sul lembo della camicia, Julian si girò, la bocca del bambino si aprì appena, il ragazzo colse un unico inquietante sussurro, basso, ma chiarissimo, diceva “scappa”.

 

Julian continuò a pensare al bambino e a ciò che gli aveva sussurrato anche dopo che padre Boutrox era accorso. Il prete aveva riacquistato tutto il suo contegno, persino mentre raggiungevano lo studio, il suo passo era rapido, ma non frettoloso come quello di Julian. Il ragazzo da parte sua cercava di ostentare quanta più tranquillità il momento richiedesse, sebbene dentro di lui quell'avvertimento aveva lasciato uno squarcio significativo. L'apprensione per il destino del suo mentore lo stava soffocando e, nonostante lo stesso Boutrox gli avesse consigliato di tornare nelle sue stanze, Julian, una volta che la porta dello studio si era richiusa alle sue spalle, non ebbe il cuore di lasciare sola la signora Atrax né tanto meno Boutrox. Così aveva aspettato insieme alla signora, confortandola quando i nervi di lei si facevano più tesi o quando le crisi di pianto esplodevano violente. Dopo un paio di ore interminabili, la porta dello studio si era aperta, l'espressione di Boutrox era grave, ma non allarmata e un primo nodo nello stomaco di Julian si era sciolto. Il prete si confrontò con la madre del “paziente”, le mostrò il figlio, il quale si era addormentato- o per lo meno così sembrava - sulla sedia. La signora aveva ascoltato in silenzio le parole del diacono in silenzio, stritolando nelle proprie mani la tracolla della borsa. Il verdetto di padre Boutrox non fu troppo drammatico, ma vista la situazione invitò la signora a rimanere nella chiesa assieme al figlio. La signora Atrax era entrata in una sorta di catatonia, per cui Boutrox l'affidò a Julian, il quale non appena la vide crollare, la sistemò nei propri alloggi, lasciandole una luce accesa, un gramo pasto (che non avrebbe sicuramente mangiato) e una piantina della struttura nel qual caso si fosse svegliata e avesse voluto raggiungere la chiesetta. Sistemati tutti gli accorgimenti che gli vennero in mente, il ragazzo provò a tenersi occupato, ma l'agitazione e il nervosismo non accennavano a smorzarsi. Julian ritrovava sempre a rigirare davanti alle scale per la chiesa inferiore, con quella parolina di Josh che non accennava ad uscirgli dalla testa. Era un avvertimento di Josh, o del demone? Cosa sarebbe accaduto a padre Boutrox? Tutte quelle domane divennero insostenibili al punto che Julian non se la prese poi tanto con le sue gambe che lo avevano condotto alla chiesetta inferiore. Le luci, ad eccezione di quella proveniente dallo studio del prete, erano spente, l'ambiente in penombra aveva un'aria a dir poco spettrale. Julian cercò di immaginarlo alla luce, ripercorrendone tutti i dettagli come se fosse illuminato, gli occhi ricaddero sul tabernacolo. Il sottile cono di luce gettato dalla porta semiaperta veniva intercettato dallo sportello aperto. Julian aguzzò la vista, il tabernacolo sembrava una scatola vuota. Il ragazzo proseguì automaticamente verso lo studio del prete, attirato dalla luce come una falena. Scostò la porta con una delicatezza tale da non fare minimamente rumore, si affacciò appena per assicurarsi che non ci fossero problemi, lo fece con quella leggerezza caratteristica di chi sa di fare drammatici voli pindarici con la fantasia, per questo, probabilmente, la scena gli risultò talmente surreale, da percepirla con un certo ritardo.

Josh era ancora sulla sedia, ma in una posa innaturale, inarcato sullo schienale e con la testa rovesciata all'indietro, la bocca aperta, gli occhi neri e sbarrati. Padre Boutrox era in piedi accanto a lui mentre, sorreggendo la lampada adornata di rubini, ne versava la cera- densa e scura come la sclera del bambino- nella bocca di Josh. Julian alzò lo sguardo sul volto di Boutrox, colse una scintilla sanguigna nel ghigno diabolico del prete, i cui occhi erano neri come la pece. Julian aprì la bocca, inspirò : un urlo stridulo e assordante lo fece sussultare, la porta venne spalancata con una violenza inaudita. La signora Atrax si scagliò sul bambino, avvolgendolo nel suo abbraccio. Julian vide la goccia di cera caderle sulla spalla e corroderle la stoffa della maglia. La donna urlò ancora per il dolore. Quello che accadde poi Julian non lo seppe ricostruire, aveva solo visto la mano del prete diventare una sorta di zampa artigliata, pronta a lacerare la signora Atrax. Le gambe erano scattate da sole, il ragazzo si era lanciato a sua volta contro il prete, spingendolo contro la libreria a muro. Il peso del prete ridusse gli scaffali in pezzi, la lampada gli era caduta dalle mani schiantandosi rumorosamente contro il pavimento.

-SCAPPATE!- gridò il ragazzo contro la donna. La signora Atrax lo guardò istupidita per qualche istante, come se si fosse appena svegliata da un incubo, ma si sbagliava, l'incubo era appena cominciato-ANDATE! VIA! ORA!- le ruggì contro Julian. La donna trascinò via il bambino con sè schizzando oltre la porta e superando Julian. Il ragazzo si voltò per seguirla con lo sguardo, colse un guizzo con la coda dell'occhio, arretrò con un salto, ma sentì il petto bruciargli dal dolore. Allarmato vide la stoffa candida della camicia lacerata e imporporata mentre gli artigli di padre Boutrox erano bagnati del proprio sangue.

-Non ti avevo forse detto che non volevo essere disturbato?- gracchiò il mostro con una voce crudele. Julian alzò lo sguardo atterrito su padre Boutrox: l'abbagliante iride rossa brillava al centro di una sclera completamente nera, entrambe le braccia erano zampe dai lunghi artigli affilati, la pelle in necrosi era nera e squamosa.

-Oh Julian, chi sistemerà questo disastro una volta che ti avrò smembrato?- chiese il mostro schioccando la testa e mostrando una fila di denti aguzzi -Allora!?- Boutrox si avventò su Julian, il quale si lanciò a terra per eluderlo.

-La lampada, prendi la lampada!-

Julian si voltò, la lampada era a pochi centimetri da lui, incrociò lo sguardo con il mostro. Si tuffarono entrambi verso la lampada, ma Julian fu più rapido, l'afferrò e scattò in piedi. Non appena la strinse tra le mani avvertì una scossa percorrergli il braccio, nella testa gli esplosero una marea di voci, grida, urla. Julian si accartocciò a terra, con la testa tra le mani. Boutrox afferrò subito il manufatto, prendendo a girare attorno a Julian come uno squalo.

-Quelle voci...- bisbigliò il ragazzo. Boutrox proruppe in una risata

-Voci!? Cos' è Julian, ora senti le voci? Non verrai a dirmi che vedi anche i demoni?-

Julian alzò lo sguardo carico di risentimento – Lei!- ringhiò- E' lei, è sempre stato lei!- la pedata lo colpì dritto in faccia spedendolo contro il muro. Julian sentì esplodergli il sapore del proprio sangue nella bocca – Non la passerà liscia... tutte quelle persone...- cercò di biascicare Julian le gambe gli tremavano, si appoggiò al muro per rialzarsi.

-Tutte quelle persone mi hanno assicurato abbastanza energia per continuare a svolgere il mio lavoro indisturbato! Servo una causa più alta Julian!- rise – E pensavo che proprio tu avresti capito, devo dirlo, sono piuttosto deluso, credevo ci fosse qualcosa di più in te...- padre Boutrox aprì la lampada, lo stoppino bruciò immediatamente. Julian si ritrovò a terra, le mani serrate sulle orecchie mentre un fischio acuto gli perforava i timpani, urlò, ma alla sua voce si aggiunse un altro grido, uno che non sentiva da tempo. Il prete appoggiò la lampada sulla scrivania, più la fiamma divampava, più il richiamo si faceva acuto e insopportabile. Julian si accartocciò a terra urlando disperato, lacerato dal richiamo e dallo stridore di Gerda.

-E a quanto pare non mi ero sbagliato...- Boutrox assestò un calcio al ragazzo, girandolo sulla schiena – Chi sei? -chiese in tono perentorio. Julian aveva gli occhi sbarrati puntati sul prete senza vederlo davvero, la testa gli stava esplodendo e anzi, sperò accadesse davvero.

-Rispondi!- Boutrox afferrò la testa del ragazzo sollevandolo come un peso morto. Julian sentì le punte acuminate di quelle unghie affondargli nelle tempie.

-Julian... Storm...- biascicò. Il prete sorrise ferino, scagliò la testa di Julian contro il piano della scrivania.

-E' inutile che ti nascondi! Chi sei?- gli urlò direttamente nelle orecchie. Julian emise un altro stridore agghiacciante – SPENGA QUELLA COSA!-

Boutrox per tutta risposta premette con ancora più forza la testa di Julian contro la scrivania

-Solo quelli come me possono sentire il richiamo della lampada magica, non gli umani!- gli scandì – E' un oggetto straordinario, sai? E' con questa che sono giunto qui... Un portale tra dimensioni, ne esistono pochi preziosi esemplari e tutti in mano nostra!-

Julian implorò Gerda di tacere, ma la voce di lei continuava a stridere per il dolore, mai in vita sua l'aveva sentita così. La vista del ragazzo cominciava ad appannarsi, tempo qualche minuto e sarebbe svenuto per il dolore e, a quel punto, non si sarebbe più svegliato. Lo sguardo del ragazzo saettò sul piano gremito di scartoffie, tra cui molte lettere aperte. Boutrox amava la corrispondenza cartacea, per questo il sindaco gli aveva regalato un elegante set da scrivania in cuoio, completo di tutto, tra cui un finissimo tagliacarte in peltro e acciaio, con il manico adorno. La punta lucida e affilata era ormai l'unica cosa che il ragazzo fosse in grado di vedere, ma era appena fuori dalla sua portata.

-Voi?- tentò il ragazzo. Boutrox gli rissò la testa

-Esattamente! Perchè nessuno ne saprebbe sfruttare i segreti meglio di noi... Tutti pensano che sia solo una porta dimensionale, uno strumento per richiamare le esper più potenti di sempre, ma in realtà può essere un richiamo per qualsiasi esper! La notte in cui ti trovai, l'avevo appunto accesa per richiamare qualche esper sperduta in questa valle di lacrime, ed eccoti qui, un giovane senza passato caduto dal cielo! Non te lo chiederò una seconda volta, CHI SEI?-

Boutrox scaraventò Julian contro la scrivania per la seconda volta, il ragazzo si mosse velocemente, afferrò il tagliacarte e, con tutta forza che aveva, lo lanciò dietro di sé, sperando di colpire il suo aguzzino. Il suono che seguì, assieme al rammollirsi della stretta di Boutrox fu di buon auspicio. Julian sgusciò via afferrando la lampada e spegnendo il tremendo oggetto, strozzando finalmente quel suono acuto e pungente che lo stava facendo impazzire. Boutrox cadde all'indietro, il tagliacarte era affondato nella fronte sino al manico, un rivolo di sangue gli colò lungo il naso diritto. Julian gli lanciò un breve sguardo disgustato, poi, portando con sé la lampada, scappò via da quella sala degli orrori.

-Gerda? Gerda, dannazione, rispondi! Ho la lampada!- grosse gocce di sudore freddo gli scendevano, assieme a qualche goccia di sangue, lungo le tempie. Julian inciampò più volte sulla rampa di scale. Varie immagini presero a scorrere nella sua mente, la lampada accesa, padre Boutrox con i suoi occhi demoniaci, il prete steso a terra con un tagliacarte conficcato nella fronte e poi le sue folli parole; non aveva parlato di demoni, aveva parlato di Esper. A quella parola Gerda parve risvegliarsi

-Distruggila!-

Julian si ritrovò, nel buio, sul pianerottolo della chiesa grande, si fermò esasperato cercando di riprendere fiato.

-Come dovrei fare?- aveva visto quella lampada cadere un paio di volte e sopravvivere. Gerda tacque per qualche istante, abbastanza da sentire, dalle profondità della chiesa inferiore dei frusci poco rassicuranti. Julian corse nella sagrestia, fece per accendere la luce, ma la sua mano si bloccò

-Cosa vuoi fare, idiota?-

Il ragazzo stava per obiettare che al buio non vedeva nulla, ma prima ancora di formulare la frase, la stanza gli parve immediatamente distinta.

-Prendi quello che devi e fai in fretta!-

Julian cercò subito qualcosa con lo sguardo, ma nulla sembrava in grado di scalfire l'oggetto brillante nelle sue mani

-Gerda qui non c'è niente!- l'occhio gli cadde sul turibolo e sulle boccette accanto. Julian ne agguantò un paio e prese poi l'accendino che il sagrestano teneva per riserva. Intanto, nella chiesa grande, pesanti passi echeggiavano tra le navate. Avvantaggiato dalla visione al buio, il ragazzo sgattaiolò verso il presbiterio e si nascose dietro l'ambone. La figura tetra e caracollante del prete lo superò, lungo gli artigli del prete colava ancora qualche goccia di sangue. Persino nell'oscurità gli artigli affilati sembravano persino brillare, tradendo tutto il loro potere distruttivo

Solo le esper più potenti...”

Prima ancora che Gerda potesse fermarlo, Julian si alzò di scatto

-Ehi, ESPER!-

Il mostro si voltò di scatto, gli occhi erano due fessure color rubino, mentre ormai la pelle sembrava aver subito una necrosi precoce, il manico del tagliacarte nell'oscurità sembrava il corno di quel demone spaventoso. Boutrox fece per avventarsi su Julian, il ragazzo gli lanciò contro le boccette. Il frastuono di vetri infranti coprì il sibilo della miccia, passarono secondi interminabili, poi, il fuoco divampò arrampicandosi lungo le vesti del prete. Questi cominciò ad emettere stridori e gracidii terrificanti, lanciandosi contro il ragazzo. Julian prese la lampada e la usò come scudo. Gli artigli del mostro si conficcarono nel metallo, Julian allora gli dette un calcio, aprì un altro vaso d'olio lanciandoglielo contro. La fiamma si alzò ancora di più e avvolse l'uomo nelle sue spire, dalla bocca e dagli altri orifizi prese a fuoriuscire un liquido nero e viscoso che alimentò ulteriormente le lingue infernali e consumò qualsiasi cosa venisse a contatto. Quando il liquido toccò la lampada, questa emise un sibilo acuto, poi, prese a tremare: sulla superficie metallica si aprirono delle crepe infuocate. Le urla disumane di Boutrox si combinarono allo stridore dell'oggetto infernale, l'intero ammasso di carne e stoffa venne ingoiato da un globo di fuoco, il quale si ingigantì, staccandosi da terra, rivelando nel suo centro un nucleo nero e lucido come l'inchiostro. Julian fece per allontanarsi, ma il globo di fuoco esplose, l'onda d'urto investì il ragazzo. Riaprì gli occhi giusto un secondo dopo, avvertendo sulla pelle delle piccole bruciature generate da quella pioggia di fiamme. Ci volle un po' per mettere a fuoco, ma quando accadde, il sangue di Julian gli si raggelò nelle vene, davanti a lui, sospeso nel vuoto c'era un enorme mostro con gigantesche ali da pipistrello.

A Julian era capitato spesso di vedere rappresentazioni di demoni, sia nei libri della chiesa, che tra i basso rilievi, ma nulla era paragonabile a ciò che aveva davanti agli occhi: il mostro aveva un corpo antropomorfo, ma di proporzioni tali da coprire l'intera navata centrale, la grossa testa nera e lucida portava due paia di corna affilate, il mento acuminato e sporgente sembrava la lunga lama di un pugnale, la bocca, completamente priva di labbra era occupata da grosse zanne bianche e brillanti. Tutto in lui era letale, persino la coda, la cui estremità sembrava la punta di una freccia, frustava l'aria in attesa di ghermire qualche preda.

-Diablos...-

Julian sussultò, lo sguardo sanguigno del mostro si abbatté su di lui. Il ragazzo, ipnotizzato dal terrore, non riusciva più a muoversi.

-Sembra che il mio involucro sia saltato...- disse con una strana voce gutturale il mostro, si osservò le zampe artigliate – E la lampada è anche andata distrutta... Pagherai per questo, umano!-

Il mostro planò su Julian, il quale rotolò di lato per evitarlo nascondendosi dietro l'altare.

-Gerda devi aiutarmi!- bisbigliò terrorizzato il ragazzo, mentre si appiattiva quanto più poteva sotto l'altare.

-Vieni fuori Julian, ora che hai visto come sono davvero, credo sia il minimo vedere come sia tu!-

-Gerda...- sussurrò ancora Julian, il cuore prese a martellargli nel petto.

-Allora, ragazzino?-

-Non posso farcela, mi ucciderà-

-Taci- la voce di Gerda divenne una fredda lama di ghiaccio. Il pesante artiglio della bastia si abbatté sull'altare dietro cui si era nascosto Julian. Il marmo si spaccò come fosse porcellana, il ragazzo rotolò di lato, ma un dolore lancinante al braccio lo avvertì di essere stato preso. Julian colse il guizzo cremisi del proprio sangue imbevergli le maniche della camicia. Il clangore di candelabri appena caduti accompagnò il ruggito delle fiamme divampate dagli stoppini, le lingue infernali si arrampicarono sui drappi del vecchio coro, propagandosi rapide e fameliche. Il ragazzo osservò ipnotizzato quello spettacolo terrificante, al centro della cornice infuocata sospeso nel centro della navata, c'era il messaggero oscuro: torreggiava su di lui con i suoi denti affilati e gli occhi rubino pieni di una innata ed implacabile ferocia.

-Mi ucciderà!- gridò disperato il ragazzo cercando di evitare l'ennesimo attacco del mostro. Fece appena in tempo a scartarlo, riparandosi dietro un banco, ma la coda affilata riuscì a fendergli la gamba, un ventaglio di sangue imporporò l'antico pavimento sacro. Stava giocando con lui: chiaramente avrebbe fatto soffrire la sua preda sino all'ultimo e forse anche oltre, per segnare definitivamente la sua esistenza nel dolore e nella sconfitta -Mi ucciderà Gerda! Aiutami!- implorò il ragazzo tra i singhiozzi, le ferite gli bruciavano così tanto da impedirgli di pensare. Il caldo era insostenibile, grosse gocce di sudore gli scesero lungo il collo. Il silenzio di Gerda fu più crudele di qualsiasi sua parola. Julian, cercò di alzarsi, ma era solo un povero verme contro un gigantesco rapace, sovrastato allora, come sempre, da una oscura presenza sovrannaturale: non poteva farcela, come le vittime di quella creatura prima di lui, era completamente inerme. Le lacrime calde come il sangue gli scesero sulle guance sporche. Il muso di Diablos si distorse in un ghigno malvagio, aprì le braccia lunghe e muscolose, tra gli artigli si materializzarono dei globi luminosi, energie risucchiate via dalle vite attorno a lui.

-Se non sei in grado di convivere con i tuoi demoni, Julian, non meriti di vivere- commentò disgustata Gerda. I suoi lunghi silenzi, il profondo risentimento per essere rimasta nascosta per sei mesi, e tutto perché in qualche modo sapeva di quel mostro. Presagito il pericolo, la sua inquilina era rimasta nell'ombra ascoltando tutto l'odio e il disgusto che Julian provava per lei. Julian osservò quei globi luminosi crescere mentre sentiva il suo tempo scadere

-Ne sai molto tu Gerda, vero?- ringhiò allora il ragazzo cercando di sopprimere i singhiozzi – Hai passato quindici anni nascosta... La vita non sarà per i deboli come me, ma non lo è nemmeno per i codardi come te!- Julian alzò gli occhi verso Diablos, il quale inclinò appena la testa cornuta , pronto a scagliare i suoi colpi. Il ragazzo si raddrizzò mentre il suo corpo si stagliava contro il bagliore accecante di quei globi.

-Sei morto ragazzo!- grugnì il mostro. I colpi partirono, seppellendo nella loro luce l'esile figura di Julian.

I colpi anti-elementali di Diablos assorbirono tutto, colori, suoni e odori, annullando per qualche istante la realtà lì dove erano stati scagliati. Il grande mostro emise un verso roco, una cavernosa risata sostenuta dal crepitare delle fiamme.

-Un colpo devastante...- squillò una voce acuta – Mi avevano parlato di voi Diablos: feroci, forti, possenti, peccato non accennassero alla vostra abissale stupidità!-

Il mostro sussultò, guardandosi attorno, scrutò tra le navate della chiesa, le quali, rischiarate dalla luce del fuoco, rivelavano solo ombre e i severi cipigli di santi sconosciuti nascosti nelle nicchie finemente decorate.

-Sopra di te, idiota!- il mostro non ebbe neppure il tempo di alzare la testa, una raffica di vento lo colse con una forza brutale, accompagnata da una stridula onda sonica che frantumò le vetrate dalla chiesa gotica. Diablos venne scagliato contro il suolo duro mentre le schegge di vetro gli ricadevano addosso come pioggia. L'onda sonica si trasformò in una risata cristallina e crudele. La raffica di vento si schiuse come la corolla di un fiore, rivelando al suo interno una creatura poco più piccola di Diablos, con due paia di ali sulla schiena, il corpo sinuoso lasciava poi spazio a braccia e zampe artigliate come quelle dei rapaci

-Io sono Gerda, il vento della distruzione!- disse la creatura alzando teatralmente le braccia e inarcando la schiena mentre le ali incorniciarono la sua figura. La luce delle fiamme rischiarò i suoi folli occhi completamente neri.

-Un esper... il vecchio non aveva tutti i torti... Una Garuda...- Diablos emise un'altra profonda risata e si rialzò in volo. Le schegge tintinnavano ad ogni colpo d'ali, ammutolendo non appena l'esper fronteggiò la nuova creatura: era un grande demone nero che ne fronteggiava uno bianco.

-Ti eri nascosta in quel fragile umano! Che vergogna...-

-Parlò il Diablos uomo di Dio... Non si accennava neanche alla vostra ironia!- rispose Gerda sbadigliando

-Oh, ma io sono davvero un missionario – ghignò la creatura mettendo in mostra le sue zanne aguzze – Sono qui per riportare pace alle anime perdute!- Diablos si scagliò contro Gerda. L'artiglio cremisi della bestia affondò nell'aria. Gerda gli servì una zampata sul muso, spingendolo via con tutta la sua forza e riversandogli addosso un'altra delle sue assordanti strida. Diablos venne scaraventato contro il grande crocifisso d'ottone: marmo e metalli gli ricaddero addosso non appena scivolò sul pavimento dell'altare maggiore.

-Sulla lunga distanza... Voi creature insulse e incapaci...- Diablos scattò in avanti, Gerda si avvitò su sé stessa, afferrò la coda di Diablos e con tutte le sue forze lo scagliò contro il pavimento. Il grande mosaico si frantumò, ma di Diablos ne rimase solo l'impronta delle possenti membra.

-Sopra di te!-

Gerda dette un colpo d'ali in avanti, arretrando giusto in tempo, gli artigli di Diablos trafissero solo qualche piuma. La Garuda urlò, generando un muro sonico per impedire a Diablos di avvicinarsi. Il demone oscuro però rise, opponendo tutta la sua mole a quella spinta e avanzando lentamente verso la sua avversaria.

-Sei una povera, fragile... rondine-Lo stridio della creatura venne strozzato. la stretta di Diablos si serrò sul collo di Gerda. I serpetini occhi cremisi si specchiarono in quelli color onice. Una delle zampe di Gerda si avvinghiò alle braccia nerborute del Diablos, cercando di graffiarlo o di allentare, senza successo, la presa. La Garuda cercò di divincolarsi, ma la stretta del mostro era una tenaglia di acciaio avvinghiata alla sua trachea.

-Pensavi davvero di sopravvivere, essere indegno?-

Gerda si specchiò nel suo stesso sguardo pieno di odio -Mi er..a... stata... promessa... la... libertà...- biascicò mentre ancora cercava di dimenarsi.

Diablos gorgogliò divertito – Povera ingenua creatura, è proprio per questo che sono qui, sai? Fare pulizia di te e di quelli come te! Ne verranno altri come me, molti altri, qualcosa si sta muovendo, sciocca Garuda e quando avremo finito qui, i Diablos avranno preso in mano la situazione a Nalawagel! - Gerda sentì gli artigli di Diablos affondarle lentamente nel collo, alzò la testa, boccheggiando e smaniando per un alito d'aria.

-No..i.ta.....la..iNa..gel- tossì la creatura piumata.

Il Diablos rise ancora, avvicinò la Garuda a sé tenendo sempre ben salda la stretta -Come hai detto, piccola rondine?-

Gli occhi piedi d'odio di Gerda si riempirono di altro, un solo guizzo, poi il ruggito di Diablos fece tremare le fondamenta della chiesa, la stretta si sciolse. Gli spuntoni sulle ali di Gerda erano affondati, per lato, nelle clavicole del Diablos, facendo zampillare fiotti di sangue dalle profonde pugnalate. Il corpo dell'enorme bestia prese a tremare, Gerda allora conficcò i suoi artigli nell'addome del suo avversario, le cui zanne vennero travolte da un primo flusso di sangue. Gli occhi rubino cominciarono a spegnersi mentre la vita sgocciolava via, allora Gerda tirò a sé il suo avversario, appoggiò le labbra sui condotti uditivi del Diablos

-Ho detto...- sussurrò – “Non m'importa nulla di Nalawagel!”- la risata di Gerda si trasformò in un attimo in uno stridulo grido che divampò direttamente nel condotto uditivo del Diablos, facendo esplodere la grossa testa del mostro. Così mentre la pioggia di sangue e grumi spegneva le ultime fiamme rimaste, Gerda estrasse le proprie ali affilate dal corpo decapitato, lasciandolo cadere. Si sgranchì il collo, facendo schioccare le vertebre. Si voltò un istante sul corpo monco del suo avversario – Davvero... La vostra stupidità dovrebbe essere documentata! Au revoir, mon ami!- La creatura uscì fuori dalla chiesa maledetta, fece frusciare le sue ali mentre il ticchettio della pioggia e il boato dei tuoni copriva la sua selvaggia e crudele risata.

-Dove andremo adesso Gerda?- la voce spaventata di Julian riemerse dalle profondità della sua mente. Gerda fece roteare gli occhi, presto o tardi Julian avrebbe ripreso il controllo e le ali sarebbero state utili ancora per un po'

-Dobbiamo trovare una persona!-

-Un altro esper?- Si avrebbe davvero voluto che Julian vedesse la sua espressione annoiata e infastidita. Il ragazzino aveva imparato una nuova parola. Non gli rispose, lo avrebbe visto da sé. Finalmente Gerda uscì fuori dalla nube carica, l'oscurità della notte l'abbracciò nel suo manto puntellato di stelle, il vento freddo le sferzava tra le ali. La libertà aveva il sapore del vento.

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