Predator senza gloria

di Lucius Etruscus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** FONTI ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Presentazione

Nel terzo episodio della mia saga Aliens vs Boyka ho immaginato che la Casata Yutani e gli Yautja avessero stretto un’antica alleanza e che le due razze vivessero a stretto contatto. L’idea nasce ovviamente dalla scena finale del film Alien vs Predator: Requiem, con la “Signora Yutani” che recupera un’arma appartenuta ad un Predator.

In questo universo narrativo, in cui su alcuni pianeti gli umani e i Predator convivono più o meno pacificamente, cosa succede quando dei guerrieri Yautja invece di distinguersi in battaglia... si macchiano di disonore? Scacciati dai propri clan o costretti ad allontanarsene per non essere perseguitati, si ritroverebbero costretti a vivere fra gli umani, con tutti i problemi che ne conseguirebbero.

Dove non espressamente specificato, tutti i dialoghi del racconto sono da intendersi in lingua Yautja.

Alla fine del testo riporterò tutte le fonti utilizzate, ma tengo a precisare che malgrado il titolo “tarantiniano” il racconto è in realtà una libera reinterpretazione del film I sette samurai (1954) di Akira Kurosawa – e quindi del suo plagio americano I magnifici sette (1960) di John Sturges: in fondo il codice d’onore dei samurai è in pratica lo stesso dei Predator!

1

Pianeta LV-617
Colonia Weyland-Yutani
Stazione mineraria “Shimada’s Hope”

Quando l’astronave yautja atterrò dolcemente sulla superficie del piccolo pianeta, nessuno dei coloni se ne accorse: la mimetizzazione Predator era eccellente quanto la strumentazione della colonia era fatiscente e non perfettamente calibrata. “Shimada’s Hope” era un ferro vecchio, e ormai i coloni umani si erano abituati ad un livello di vita a bassa tecnologia. Le miniere si stavano esaurendo e la Compagnia aveva perso interesse nella colonia: tutti gli abitanti erano sicuri che nel giro di qualche anno avrebbero dovuto cercarsi un’altra casa.

Quando l’imponente Yautja scese dalla passerella, indossando con scioltezza l’ingente peso di un’armatura strapiena di trofei, si assicurò di annusare l’aria: adorava assaporare l’odore di un pianeta prima che sapesse tutto di morte.

I suoi guerrieri uscirono rapidamente e cominciarono ad allestire il campo base. Non c’era fretta di calare sulla colonia dove vivevano le vittime umane: avevano tutto il tempo del mondo per “giocare” con loro.

Mentre l’imponente Yautja studiava una mappa dell’insediamento, così da organizzare i prossimi “giochi”, un suo guerriero gli si presentò stringendo fra le mani un animale: solo all’ultimo istante si rese conto che era un umano. Un cucciolo di uomo, per la precisione, che li stava spiando da dietro un cespuglio. Probabilmente si trovava lì per caso quando erano atterrati, perché era difficile che gli umani fossero così vigliacchi da mandare i loro cuccioli in avanscoperta.

Il Predator fissò dall’alto il bambino tremante negli occhi, poi gli accarezzò dolcemente la testa. «Sei perfetto», gli disse gracchiando con voce profonda, senza che il cucciolo d’uomo potesse capirlo. «Ho giusto uno spazio vuoto nella cintura della dimensione della tua testa.»

L’orrore era appena arrivato a “Shimada’s Hope”.

~

Pianeta LV-2230
Anderson City

Il Predator ormai si era abituato ad attraversare le piccole porte dei piccoli edifici umani, non sbatteva più la testa come i primi tempi. Ma le sedie erano ancora un incubo, ed era incredibile quanto si seccassero gli umani quando lo invitavano a sedersi e lui gliele rompeva. Perché non si procuravano sedie più grandi?

Quando entrò nell’ufficio di collocamento sapeva che lì avrebbe potuto contare su una grande sedia fatta di legno di quercia, perfetta per il peso e per l’anatomia yautja. Sicuramente era stato qualche Predator a costruirla, perché gli umani non avevano quella considerazione: anche i locali che accettavano Yautja come clienti non si preoccupavano minimamente di fornire sedie resistenti, preferendo infuriarsi una volta rotte quelle che avevano.

«Accomodati», disse la donna alla scrivania.

Il Predator era entrato goffamente nella stanza, perché aggirarsi fra le strutture umane era terribile, ma finalmente poteva sedersi comodamente sull’ampia e resistente sedia di legno. Ne avrebbe voluta una uguale per casa propria, se avesse avuto una vera casa.

«Ho qualcosa per te», iniziò la donna, «ma devi assicurarmi che stai facendo il bravo.»

Lo Yautja annuì abbassando lo sguardo. Era terribile dover subire ramanzine dagli umani, eppure quelli che vendevano alcol ai Predator non si facevano problemi a prendere i loro soldi: quando poi si ritrovavano con bestioni di due metri ubriachi e violenti ecco che iniziavano le lamentele e le denunce.

«Mi servi pulito», continuò la donna, «perché l’occasione è buona. Conosci i campi di meloni di Mr. Majestyk, subito fuori la città? A quanto pare hanno avuto problemi di personale e devono sbrigarsi a raccogliere i meloni prima che vadano a male. Pensaci», la donna sorrise, «un bel lavoro all’aria aperta, senza smog e rumori molesti delle maledette città umane. Tu adori il sole, no? Certo che l’adori, sei uno Yautja, quindi pensa che opportunità: ti sgranchisci le ossa sotto il sole, respiri aria buona, ti tieni in forma e ti pagano pure!»

«Detta così non sembra neanche una merda totale.»

La donna sbuffò. «Che cosa vuoi che ti dica? Sto cercando di venirti incontro, provaci anche tu.»

Il Predator cambiò posizione sulla sedia, per il nervosismo. «Non c’è qualche lavoro al chiuso? Possibilmente senza umani intorno?»

La donna lo fissò. «Certo che c’è, ed è esattamente il lavoro da cui ti hanno licenziato!» Il suo tono era duro ma a quanto pareva c’era bisogno di una ramanzina. «Non sai quanti riesco a sistemare come guardiano notturno, perché appena c’è un cartello “Locale protetto da Yautja” i tentativi di rapina o anche solo di vandalismo praticamente si azzerano. Gli umani adorano affidare ai Predator lavori notturni, che così gli operai di giorno non si innervosiscono, però...» Lo sguardo della donna era spietato. «Quando la mattina trovano l’ufficio distrutto e uno Yautja ubriaco a terra, reagiscono male.»

Il Predator scosse la testa e gracchiò a bassa voce. «È stato solo un incidente...»

«No, è stata una idiozia. Per essere rimborsati dei danni hanno dovuto sporgere denuncia, ed è stato solo perché ho pregato in ginocchio non so più quanta gente che non sei finito dietro le sbarre. Gli umani vanno fuori di testa quando si ubriaca uno Yautja: se al tuo capufficio staccavi la testa forse sarebbe stato meno grave.» Il Predator bofonchiò, ma la donna continuò senza starlo ad ascoltare. «Con una denuncia nel tuo fascicolo puoi scordarti qualsiasi lavoro di responsabilità: sono obbligata per legge ad avvertire i datori di lavoro della tua fedina pernale, e puoi immaginare che non facciano salti di gioia. Ci sono tante cose che posso far finta di dimenticare o posso mascherare dietro linguaggio burocratico, ma una denuncia per danni dovuti ad ubriachezza non posso farla sparire, e questo ti costringe ad accettare solo lavori non di responsabilità. Lavori duri e sgradevoli, che gli altri Predator non sempre accettano.»

Lo Yautja continuava a stare con la testa bassa, come un bambinone sorpreso a rubare la marmellata e sgridato dalla maestra. La donna sospirò. «So che non è facile, credimi: conosci la mia storia, sai che...»

«Grazie», disse d’un tratto il Predator. La donna non se l’aspettava e rimase in silenzio, stupefatta. Dopo qualche secondo di silenzio lo Yautja continuò, sempre guardando in terra. «Grazie per non avermi scacciato dall’agenzia e aver continuato a cercarmi un lavoro. Dopo la figura che ti ho fatto fare...»

La donna arrossì per quelle parole. «Non mi hai fatto fare nessuna figura», disse con tono affettuoso. «Tutti sanno quanto sia difficile la vita per un guerriero senza onore...»

Il silenzio cadde pesante nella stanza, finché la donna continuò con tono amichevole. «So che è sgradevole, ma devo ricordartelo. Se decidi di ucciderti, ricorda di lasciare ben scritto il clan da cui provieni, così da poterlo informare. Lo dico a tutti perché è capitato ad alcuni miei clienti: quando finalmente hanno trovato la forza di fare la cosa giusta, non hanno lasciato scritto nulla così...»

«La cosa giusta....» ripeté il Predator con un fil di voce.

«Sì, la cosa giusta. Lo sai tu come lo so io: l’unico modo per riacquistare parte dell’onore è togliersi la vita. Solo così il clan potrà tornare ad inserire il tuo nome fra i propri membri. Ti consiglio quello che dico a tutti i miei clienti: non aspettare l’ultimo momento, scrivi il tuo clan da qualche parte e portati l’appunto sempre indosso, così se un giorno finalmente trovi la forza...»

Lo Yautja alzò lentamente la testa e mostrò alla donna due occhi tremendamente tristi. «Se avessi la forza di fare “la cosa giusta”, l’avrei fatta tempo fa. Perché pensi che abbia cercato sollievo nel vostro alcol?»

«Non esiste sollievo», replicò la donna, senza alcun tono di rimprovero. Gli occhi dei due si guardarono con pena reciproca, finché la donna non sbatté una mano sul tavolo. «Ok, questa cosa ci sta sfuggendo di mano. La ramanzina te l’ho fatta e ti ho detto quello che ti dovevi dire: ora basta», e un sorriso le si aprì sul volto. «Oggi è venerdì e quindi c’è tempo per decidere se accetti il lavoro di raccogli-meloni. Stasera mi vedo con degli amici per una serata rilassante: perché non vieni anche tu? Mi sa che ne hai bisogno...»

Il Predator la guardò allibito. «Amici?»

La donna rise. «Tranquillo: niente umani. Ho detto “rilassante”.»

I due risero e lo Yautja accettò. «Torno stasera, allora», disse alzandosi. «Grazie per tutto quello che fai per noi», disse prima di uscire. «Grazie, Machiko.»

La donna sorrise, salutandolo.

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Capitolo 2
*** 2 ***


Anderson City
Locale “Big Game Pub”

Il pugno crollò sul suo muso come un’auto in corsa, e l’incontro era in pratica chiuso.

Lo stesso lo Yautja si rialzò e, ricoperto di sangue verde, continuava a gracchiare alla volta dell’avversario. L’aveva stuzzicato perché era davvero convinto di essere più forte di lui. Di solito chi sceglieva un nome altisonante era in realtà scarso, perché i veri guerrieri vivevano nei clan d’appartenenza, sul loro pianeta natale o a caccia per l’universo: non nella cantina di una lurida bettola alla periferia della città.

Il suo avversario aveva un nome che definire altisonante era proco: Berserker. Che tracotanza! L’avrebbe mandato a tappeto in un attimo. Così quando si era ritrovato sotto un fuoco di pugni potenti era rimasto spiazzato: che fosse il primo campione che corrispondeva al proprio nome di battaglia?

Berserker era snello e scattante, aveva muscoli allungati che gli consentivano più prestanza rispetto alla granitica montagnosità dell’avversario: riusciva a dare due pugni nel tempo che l’altro impiegava per prepararne uno solo, quindi in pochi secondi l’incontro era già scontato, tanto che gli scommettitori cominciarono già a pagare le quote, così da portarsi avanti con il lavoro.

Il Predator ricoperto di sangue gridò e lanciò il suo ultimo attacco, quello che nella sua mente doveva essere la tecnica fenomenale che ribaltava l’esito dell’incontro: nessuno poté vedere a quale tecnica pensava, perché mentre ancora apriva la bocca per gridare già Berserker gli aveva assestato una combinazione di pugni che lo sbatté a terra senza fiato.

«Ah», gracchiò un enorme Yautja seduto in tribuna d’onore. «Il tuo Berserker è un fottuto fuoriclasse: ormai scommettere su di lui è come andare a ritirare soldi in banca.»

Accanto a lui uno Yautja più snello scoppiò a ridere. «Banca? Possibile che ci siamo “umanizzati” così tanto da parlare di banche?»

Il primo rise, con la sua voce gutturale e facendo ballare il petto pieno di cicatrici. «Che ci vuoi fare, Achab? Ormai sono un uomo d’affari, e gli affari nell’universo si fanno con gli umani.» Mandò giù il contenuto che gli rimaneva nel bicchiere. «Quando ti allei con qualcuno devi rispettare il suo dio, e il dio umano è la Banca: che ci vuoi fare?»

Achab gli batté una mano sulla spalla. «Ti ricordi, Celtic, quando a questi umani strappavamo la spina dorsale?» I due risero. «Quelli sì che erano tempi, amico mio: ti ricordi quanto strillavano?»

Celtic cominciò ad agitare le mani in aria, ridendo. «Ti prego, così mi farai piangere: non ricordare a un assetato quant’è buona l’acqua.»

«Ora parli pure per proverbi! Mi stai diventando un vero uomo...» E i due sbottarono in una risata ancora più fragorosa.

«Altri tempi davvero, amico mio», disse Celtic, stavolta con un riso amaro. «Sapessi quanto è difficile fare affari con quegli insetti: vedessi che facce da duri fanno, quando pensano che così facendo abbiamo paura di loro. Però ormai ad appendermi i loro crani alla cintura si commette reato, e tocca giocare alle loro regole. Sai ora cosa porto alla cintura?» Il Predator spostò il mantello che lo avvolgeva e mostrò la cintura all’amico, che si mise a ridere forte. «Esatto: una zampa di coniglio! Pare che fra gli umani sia socialmente accettato questo trofeo. Il giorno che comincerò a fare affari con i conigli, mi procurerò un braccio umano da appendere alla cintura.»

I due risero ed Achab ordinò ancora da bere. «Devi passare più spesso a trovarmi, Celtic. Questo posto comincia ad essere frequentato da troppi falliti tristi e piagnucolosi: neanche se li ricordano più i bei tempi in cui eravamo grandi cacciatori.»

«Se non sbaglio qualcuno – cioè io – ti disse di lasciar stare l’idea di gestire un locale per Yautja e di metterti in affari con me.» Celtic mise una mano sulla spalla dell’amico. «Io ti conosco, so quanto vali: se mollassi tutto e venissi via con me non solo guadagneresti molto di più...» Si sporse verso Achab. «Ma potresti avere l’occasione di tornare a cacciare come ai vecchi tempi... A cacciare umani!» Ormai Celtic stava bisbigliando, poi cambiò posizione e tornò a parlare con voce normale. «Le scommesse clandestine sono un buon affare e i combattimenti illegali in fetide cantine sono divertenti, non lo nego, ma io ti conosco: tu non sei come uno di questi falliti alcolizzati, tu sei un cacciatore. Puoi aver perso l’onore secondo quanto dice il codice, ma sono parole: tu sei nato Blooded Warrior e non sarà certo un vecchio codice stantio a dire il contrario.»

Quando arrivò da bere, Achab mandò giù il suo drink tutto d’un fiato. «Mi rimangio tutto: se devi mettermi in testa queste idee... forse è meglio che non passi così spesso.» I due risero, ma poi Achab tornò serio, sebbene l’alcol cominciasse a scioglierlo. «Tu mi conosci, è vero, ma io conosco te, Celtic, e sei l’unico che considero un cacciatore migliore di me.» L’amico inchinò il capo in segno di riconoscenza. «Ma quello che non mi piace... be’, diciamo che l’unico tuo difetto è che ti circondi di gente non proprio simpatica.»

«Mai piaciuta la gente simpatica», rispose sorridendo Celtic.

Achab lo fissò a lungo. «Hai capito cosa intendo: tu gestisci Bad Blood, Celtic. Tu vendi i servizi di assassini spietati a chi ti paga di più. Con te non ho problemi perché ti rispetto, ma coi Bad Blood... io non voglio averci nulla a che fare.»

«Andiamo», lo esortò l’amico. «Non ti sembra di esagerare? Come ti dicevo, sono clausole di un codice d’onore vecchio e sorpassato: non riconosco chi mi chiama “intoccabile” perché ho perso l’onore, così come non riconosco l’etichetta di Bad Blood per i miei uomini. Io offro un servizio a pagamento, esattamente come te: non mi sembra che ti crei dei problemi riempire di alcol dei falliti che poi usciranno ed andranno a fare danni in giro.»

Achab fissò il proprio bicchiere. «Non ho detto che io sia migliore, solo che non voglio avere a che fare coi Bad Blood.»

I due si guardarono e una sola occhiata fece esplodere nella mente di entrambi un ricordo lontano. Un ricordo doloroso. Il ricordo di un’astronave Bad Blood che il loro gruppo avrebbe dovuto assaltare e neutralizzare. Il ricordo di un’azione studiata male da un capo appena promosso sul campo e non ancora capace di intuito: un capo di nome Achab. Il ricordo di come un capo non preparato avesse mandato al massacro i propri guerrieri per colpa di un piano studiato male, il ricordo dei Bad Blood che maciullavano fior fiore di guerrieri, un pezzo alla volta per colpa di Achab. Il ricordo di un capo che, paralizzato dal terrore, assisteva impotente alla morte dei propri sottoposti, finché Celtic non l’aveva preso e l’aveva trascinato verso la salvezza. Verso un futuro di ignominia e disonore. Solo loro due si erano salvati, ma il loro clan li ignorò: scrissero canzoni per ricordare quella tragica battaglia e in esse si parlava di “nessun sopravvissuto”.

Per il loro clan, per la loro famiglia, per i loro amici, Achab e Celtic erano morti, e solamente quando lo sarebbero stati per davvero allora avrebbero avuto l’onore di essere compresi nella canzone: nessun sopravvissuto.

Celtic scosse la testa. «Devi lasciarti il passato alle spalle, Achab, devi fare come ho fatto io. Non puoi continuare a torturarti, dopo tutto questo tempo. Tu sei migliore di quello che pensi, e lo dimostra il fatto che al contrario di molti nostri compagni hai messo su un’attività che funziona, hai un locale avviato con molte iniziative, non tutte legali ma tutte lucrose. Eppure lo stesso sono sicuro che sei ancora un guerriero fenomenale: ti continui ad allenare?»

Achab scosse la testa. «Un po’. Mi tocca farlo di nascosto, lo sai: il primo stronzo umano che mi vede usare un’arma mi denuncia e sono fregato. Così approfitto di quando il locale è vuoto e uso l’arena sotterranea. Ma è poca cosa....»

Celtic si sporse e abbracciò il collo dell’amico con il suo enorme braccio. «Io ti offro aria aperta, caccia alla luce del sole e tutta la libertà che questi umani non ti daranno mai.» Di nuovo stava bisbigliando. «L’universo è grande Achab, smettila di marcire in questo buco e torna a battere territori di caccia vasti e incontaminati.»

Achab stringeva il suo bicchiere fino a farsi male alle dita. «Sai benissimo che mi piacerebbe...»

«E allora? Che ci fai ancora qui? Preferisci la cantina del tuo locale all’universo?»

Achab girò la testa e fissò l’amico a lungo. «Tu mi conosci come nessuno, sei più d’un fratello per me, quindi posso dirtelo...» Esitò ancora prima di continuare a parlare. «Essere circondato da falliti è l’unica soluzione, per me... perché così non mi sento un fallito io.»

Celtic tolse lentamente il braccio dal collo di Achab e mandò giù il suo drink. «Cazzo, fratello, stai messo davvero male.»

Posato pesantemente il bicchiere, l’enorme Yautja si alzò, parlando all’amico dall’alto. «Taglierei la testa a chiunque osasse darti del fallito... ma il problema è che sei tu stesso a farlo.» Gli batté una mano sulla spalla. «Quando smetterai di considerarti tale, sai dove trovarmi.»

E se ne andò.

Quando Berserker raggiunse Achab, quest’ultimo stava ancora fissando il proprio bicchiere vuoto. «Ehi, capo, hai visto come l’ho mandato giù? Come ti sono sembrato?»

«Quasi bravo», mugugnò Achab senza guardarlo.

Il lottatore, ancora su di giri, si sedette dove un attimo prima c’era stato Celtic. «Cosa? Perché “quasi” bravo?»

Achab girò la testa lentamente fino a fissare l’altro Yautja. «Perché se tu fossi stato veramente bravo, all’epoca avresti salvato i tuoi compagni guerrieri, invece di fingerti morto per salvarti il culo per poi scappare come un verme.»

La voce era impastata, l’alcol cominciava a prendere il controllo di Achab e Berserker lo sapeva. Sbuffò e si alzò. «Ogni volta che il tuo amico viene a trovarti diventi sgradevole: perché qualche volta non vai tu da lui?» E se ne andò.

~

Quando la donna entrò nel locale, tutti gli Yautja si voltarono a fissarla, immobilizzandosi. Erano abituati a dover sopportare gli umani tutto il giorno, a stare attenti a non offenderli o ferirli, anche involontariamente, dovevano subire i loro rimbrotti e le loro stupide leggi “civili” ogni ora della loro vita: quando entravano nel locale di Achab, era per allontanarsi da quel mondo. Nessun umano era il benvenuto, lì.

L’elettricità si poteva avvertire nel locale, finché una voce tuonò. «Machiko, amica mia, ti stavo aspettando.»

Achab andò incontro alla piccola donna e l’abbracciò sollevandola di alcuni metri da terra. Machiko era abituata a quella rozza manifestazione d’affetto e irrigidiva i muscoli per resistere a quell’abbraccio.

Quando la rimise a terra, Achab gongolava. «Avevo davvero bisogno di rivederti, come te la passi?» E d’un tratto si rese conto dello Yautja che era entrato con lei: si limitò a fissarlo con sguardo interrogativo.

«Ciao Achab, anch’io non vedevo l’ora di mollare quegli stupidi umani per venire qui.»

«Chi è lui?» Il tono di Achab era curioso: se fosse stato un uomo si sarebbe potuto dire che dalla sua voce traspariva gelosia, ma era ovviamente impossibile.

«Oh lui», disse gesticolando Machiko. «L’ho invitato io. Vedi, lui...»

«Ce l’hai la voce, ragazzo?» chiese Achab al nuovo venuto. «Puoi anche presentarti da solo.» Ad Achab non piacevano i volti nuovi, soprattutto nel locale dove metà delle attività che gestiva erano illegali.

Il Predator si guardava intorno, per nulla a suo agio, e parlò a voce bassa. «Io mi chiamo...»

«Me ne frego di come ti chiami», lo interruppe bruscamente Achab. «Voglio sapere come ti chiamano gli altri. Il nome che ti hanno dato i tuoi genitori ormai è sepolto insieme al tuo onore: ciò che qui conta è tutto ciò che rimane della nostra gloria. Il nostro nome di battaglia.»

«Achab...» cercò di intervenire Machiko, ma senza speranza. Era chiaro che il suo amico avesse bevuto e non volesse estranei in casa.

«Io non ho un nome da battaglia», disse lentamente lo Yautja.

«Cosa?» esclamò Achab con tono di voce più alto del dovuto. «Che cazzo vuol dire? Te ne danno uno subito dopo il rito del First Blood, o il tuo stupido clan aveva regole diverse?»

Machiko cercava di frapporsi fra i due, ma il giovane Yautja non gliene diede il tempo. «Guidavo l’astronave che portava me e i miei compagni al First Blood, ma subito dopo la partenza ho fatto un casino e la nave si è schiantata. Sono tutti morti fra le fiamme... sono tutti morti Unblooded... sono tutti morti senza un nome da battaglia da ricordare nelle canzoni.»

I due Predator si guardarono, finché Achab sibilò: «Cazzo, amico, oggi è la giornata dei brutti ricordi.» Gli assestò una potente manata sulla spalla: Machiko ringraziò che non la diede a lei, altrimenti l’avrebbe fatta volare per la stanza. «Non ci pensare, ragazzo, qui sei fra amici: qui siamo tutti pieni di merda, quindi nessuno ti giudica. Vieni, che ti offro da bere.»

«No!» scattò Machiko. «Ehm, cioè, sarebbe meglio di no...»

Achab la fissò. «Non dirmi che hai portato un alcolizzato nel mio bar», e sbottò in una sonora risata. «Sei troppo crudele, anche per uno Yautja!»

«Non ho portato un alcolizzato», si sbrigò a specificare la donna. «Ho portato un amico che ha bisogno di conforto. Voglio fargli conoscere altri che vivono la sua stessa condizione ma hanno trovato il sistema per non torturarsi. Ecco, guarda Achab», ed indicò il gestore del locale al suo amico Yautja, «non si è mai lasciato abbattere ed ora gestisce un’attività di successo. Non lo trovi un esempio illuminante?»

Achab scoppiò a ridere. «Momento sbagliato, Yautja sbagliato, Machiko: per come mi sento stasera mi sa che mi taglio la gola prima dell’alba.» Cominciò a tastarsi addosso. «Dove ho messo il foglio con su scritto il mio clan?»

Alcuni clienti intorno a lui sghignazzarono. «Scherza», disse Machiko al suo amico, mostrando un sorriso teso. «Vive una vita piena e soddisfacente... vero?»

«Puoi scommetterci la testa, amico», disse Achab ridendo alla volta del nuovo venuto. «Così perdi la scommessa, perdi la testa e anche il tuo nome riacquista un po’ d’onore. Machiko te l’ha detto di girare sempre con un appunto indosso con su scritto il nome del tuo clan?»

Il Predator annuì, a testa china.

Achab lo guardò. Era davvero una pessima serata. Allungò un braccio e prese il drink di uno dei suoi clienti. Lo bevve d’un fiato e mentre ancora inghiottiva fece calare il bicchiere sulla testa del nuovo venuto.

Mentre Machiko gridava e gli altri clienti trattenevano il fiato, il nuovo venuto fissò allibito Achab... ma non mosse un solo muscolo, anche se sentiva il sangue caldo scorrergli sul volto e ricoprirgli la testa.

Achab lo fissò e si ripulì la mano sporca di vetro e sangue sul petto. «Questo è il tuo First Blood, ragazzo, ed ora hai un nome di battaglia: Scar. Come la ferita che ti ho appena inferto.»

Il giovane Yautja lo fissò sgomento, poi parlò con voce calma. «E non potevi chiamarmi Scar e basta, senza ferirmi davvero?»

Achab scosse le spalle. «Sarebbe stato sarcastico: così invece è un nome vero.»

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Capitolo 3
*** 3 ***


«Ta-ta-ta-ta-ta-ta.»

Tutti ridevano sempre quando Jungle si esibiva nella sua imitazione di una mitragliatrice a pieno regime, forse perché la maggior parte degli ascoltatori non ne aveva mai vista una umana rivolta verso di loro.

«Centinaia di colpi in rapida sequenza, la foresta fu inondata di piombo: quei coglioni però stavano sparando dalla parte sbagliata!» Tutti risero, emettendo suoni gracchianti e dandosi pacche sulle spalle. Una reazione esagerata, visto che non era certo la prima volta che Jungle raccontava quella storia.

«Io ero lì che mi godevo lo spettacolo, e mi domandavo come avessero fatto gli umani a sopravvivere alla propria stupidità.» Mentre parlava, curava il maialino che si arrostiva lentamente sullo spiedo. «Ad un certo punto, giuro, mi sono chiesto se avesse senso continuare la caccia: era come appostarsi per schiacciare una formica. Che onore c’era?»

Mentre tutti annuivano, Jungle continuava a cucinare con mosse sapienti il piatto per cui era famoso: maialino arrosto. La cucina yautja era di una semplicità totale, e non c’è niente di più difficile di un piatto semplice. «Insomma ero lì che sghignazzavo mentre questi beoti davano fondo alle loro munizioni sparando alle foglie, e devo essermi graffiato con qualche ramo, perché ho lasciato qualche goccia di sangue in giro. Il più stupido degli umani vede quel sangue e, con una faccia da scemo e due occhi sgranati, aspetta che cali il silenzio per dire la frase della sua vita: “Se può sanguinare, può essere ucciso”.»

Tutti nel locale avevano già sentito almeno una volta quella storia, eppure scoppiarono lo stesso in una fragorosa risata. In fondo erano tutti lì per dimenticare la propria vita e tirarsi su di morale: poco importava la qualità dell’intrattenimento.

Mentre Jungle gongolava e continuava a rosolare il suo maialino, Machiko si sporse verso Achab. «Come mai ogni volta che racconta questa storia si dimentica di dire che gli “stupidi umani” l’hanno battuto? Che ha dovuto inscenare la sua morte con una esplosione per darsela a gambe alla chetichella...»

Achab grugnì e agitò una mano in aria. «Ci mancherebbe solo quello, così ci deprimiamo tutti.»

Machiko approfittò di quel momento in cui nessuno badava a loro. Erano tutti seduti rivolti verso il maialino che si arrostiva – uno spettacolo che ha sempre il suo fascino – così la donna si sporse ancora di più verso il suo amico. «Sono contento che hai... ehm... battezzato quel giovane: è un bravo ragazzo ma ha bisogno di aiuto.» Achab grugnì, ma Machiko non gli diede modo di rispondere. «Non è ancora riuscito a trovare un suo equilibrio con gli umani, avrebbe bisogno di una figura autoritaria che gli desse forza, che lo guidasse...»

«Machiko», esclamò Achab voltandosi a fissarla, «stai per caso chiedendomi di assumerlo?»

La donna si era preparata un discorso molto più lungo, ma a questo punto era costretta a giungere a conclusione. «Ti ringrazio, sapevo di poter contare su di te.»

«Mi ringrazi di cosa? Non ho alcuna intenzione di assumere un tizio problematico, ex (forse) alcolizzato: non solo gestisco un bar, e già questo sarebbe un problema con lui, ma un sacco di roba che deve rimanere segreta. Non posso mettermi in casa il primo che passa.»

«Garantisco io per lui», tentò ancora la donna.

Achab la fissò, poi fece passare il suo grande braccio attorno al corpo della donna, premendo troppo sul suo fisico umano. «Machiko, non puoi salvarli tutti... Anzi, non puoi salvarci tutti, visto che considero più Yautja te che tanti miei simili. Ho grande stima per il tuo lavoro e se un giorno ci sarà la rivoluzione saresti l’unico essere umano a cui non strapperei la spina dorsale, e proprio in nome di questa grande stima te lo ripeto: non puoi salvarli tutti, soprattutto se non vogliono essere salvati.»

Erano tutti discorsi che Machiko aveva già sentito, visto che lei stessa se li ripeteva in testa da anni. Non aveva una risposta ragionevole da opporre a questo ragionamento. «Se riuscissi a farlo passare per suicidio, sparerei loro in testa, così smetterebbero di soffrire e riavrebbero il loro onore.»

Achab esplose in una sonora risata, che Jungle pensò generata dal suo racconto. «Questa è un’idea geniale, Machiko: invece di un ufficio di collocamento dovresti aprire un ufficio di omicidi d’onore!»

Mentre lo Yautja gongolava e rideva, stritolandola nel suo abbraccio, la donna aveva un sorriso amaro sul volto. «Quindi lo lasciamo al suo destino?»

Achab la guardò. «Chi?»

«Quello che hai appena battezzato Scar.»

Lo Yautja agitò una mano in aria. «Quello che riconosco agli umani è di essere tenaci: se non riuscite ad affrontare una montagna, la sgretolate a forza di rimbrotti scoccianti.»

Machiko sorrise e diede dei pugni fra le costole dell’amico: aveva scoperto che era preso come un gesto confidenziale, visto che i suoi pugnetti non facevano neanche il solletico al muscoloso costato dello Yautja. «E quello che riconosco a voi Yautja è di avere un cuore più grande del vostro brutto muso: fate le facce dure ma siete dei teneroni.»

Achab gracchiò. «Tenerone? Io? Quest’offesa te la farò lavare col sangue!» E sollevò la donna fingendo di strozzarla. Mentre i due si divertivano a mimare una lotta inter-specie, gli altri Yautja del locale li guardavano con occhi torvi. Non era dignitoso il comportamento di Achab, visto che stava facendo per finta qualcosa che avrebbe dovuto fare sul serio – cioè uccidere umani a mani nude – ma alla fine quelle strane effusioni venivano prese come se lo Yautja stesse giocando con un animale domestico.

«Piantatela, voi due», gracchiò Jungle, «e datemi una mano con i piatti: la cena è pronta.»

Achab e Machiko si separarono e si alzarono. «Tanto non mi hai convinto», bofonchiò lo Yautja.

La tavolata era rozza e i partecipanti erano più del previsto. All’inizio doveva essere una serata fra amici, qualcosa per pochi intimi, poi la voce si era sparsa e si erano presentati gli amici degli amici. A Jungle piaceva cucinare – o almeno quel poco che per la sua cultura era considerato “cucinare” – e non aveva problemi a rimediare più provviste del preventivato. Da anni lavorava in un grande mattatoio, dove poteva continuare a provare l’emozione di uccidere esseri viventi, ed era molto apprezzato dai proprietari umani: spesso gli lasciavano portar via un paio di animali, come “premio di produzione”. Jungle poi usava i sotterranei del locale di Achab per trattarli e organizzava cenette fra amici.

Stavolta l’ampia sala del locale era piena di Yautja, molti dei quali non aveva mai visto prima, ma poco importava: di carne ce n’era e la confusione avrebbe aiutato a distrarsi.

Achab non era contentissimo di questa “invasione”, soprattutto perché essendo una cena tra amici nessuno pagava, ma con il combattimento di quella sera Berserker gli aveva fatto guadagnare parecchio e quindi stavolta poteva lasciarla passare: la prossima volta però si sarebbero fatti inviti precisi.

Una volta che ognuno ebbe preso posto ad un tavolo – erano troppi per un’unica tavolata – tutti si rivolsero al proprietario: toccava a lui l’onore del brindisi.

Achab alzò il suo calice come fecero gli altri, compreso Scar che in realtà stava già per iniziare a bere quando Machiko gli fece un brusco segno: doveva aspettare il brindisi. Achab fissò la parete dietro il bancone del suo bar, la parete che tutti nella sala potevano vedere, e dove tutti quelli che conoscevano l’usanza del locale avevano avuto accesso. Sin dal primo giorno Achab infatti aveva chiesto agli Yautja che aveva conosciuto di scrivere sulla parete il nome del loro vecchio clan, e da allora tanti avevano tenuto fede alla consuetudine: ora la parete era un unico, enorme affresco di nomi di clan, centinaia e centinaia di nomi provenienti da ogni angolo della galassia.

«A tutti i nostri clan», disse Achab con voce tuonante. «E a tutti i guerrieri che abbiamo fatto morire per la nostra vigliaccheria...» E, dopo qualche attimo di silenzio tesissimo, finì: «che un giorno possano tutti perdonarci.» E mandò giù d’un sorso il contenuto del bicchiere, seguito da tutti gli altri.

Qualcuno spezzò il momento di tristezza con una voce sgradevole. Quando gli venne chiesto di ripetere, lo Yautja gracchiò: «Perché quell’umana ha brindato con noi? Questo è il nostro brindisi, che c’entra lei?»

Ecco qual era il problema ad organizzare una festa “aperta” agli amici degli amici. Achab si voltò verso chi aveva parlato e continuò ad usare la stessa voce potente di un attimo prima, agitando il bicchiere vuoto in aria. «Machiko Noguchi è un’umana solamente nella forma, perché lei è Yautja a tutti gli effetti. Ha avuto il suo First Blood, ha affrontato una Regina Aliena, ha combattuto al fianco del maestro Duchande e da lui in persona ha ricevuto il marchio che porta sulla fronte.» Ed indicò il simbolo del clan che la donna aveva inciso sulla pelle grazie al sangue acido d’alieno. «Machiko è una guerriera più valorosa di molti in questa stanza, quindi non voglio più sentire una sola parola in proposito. Se non vi piace dividere il vostro pasto con un’umana, siete liberi di andarvene: nessuno vi tratterrà.»

Il silenziò che seguì nascondeva una domanda che tutti i nuovi del locale si stavano ponendo, una domanda con cui Machiko aveva da tempo fatto i conti e trovato un equilibrio. Così si alzò e parlò a voce chiara. «Per due volte mi sono unita ai Blooded Warrior Yautja in una missione contro gli xenomorfi e per due volte... ho scelto di parteggiare per la mia razza. La prima volta sono stata perdonata da un Elder perché ero necessaria in una missione di vitale importanza, ma la seconda ha significato per me il disonore e l’allontanamento.» Si guardò in giro con sguardo fiero. «Vorrei vedere in faccia uno di voi che parteggiasse per una razza diversa dalla propria: solo lui potrebbe criticare la mia scelta. Per il resto, io non provo alcun disonore né vergogna: sono stata marchiata da Duchande, il miglior guerriero Yautja della sua generazione, e tanto mi basta a sentirmi una Blooded Warrior, al di là che non sia riconosciuto a livello ufficiale.»

Machiko fece un cenno al giovane Yautja accanto a lui. «Oggi il mio amico Scar è stato marchiato da un altro grande guerriero, Achab, e spero che anche lui abbia capito quanto questo sia importante.»

«Se avete finito di blaterare», intervenne Jungle, «qui la cena si sta freddando.»

Tutti risero e iniziarono a mangiare, salvando il giovane Scar dal problema di gestire i sentimenti che stava provando: quello era il giorno più felice da quando era stato scacciato dal suo clan, ricoperto di vergogna, e questo non è mai una buona cosa, per un ex alcolizzato... Perché ora aveva una dannata voglia di festeggiare con dell’alcol...

~

Scar si svegliò di colpo, tirando su di scatto la testa dal piatto dov’era appoggiata. La carne era stata ottima ma l’alcol era davvero roba dozzinale: probabilmente Achab aveva offerto il peggio della sua cantina.

La testa gli doleva, e non solo per la ferita ancora fresca. Aveva bevuto quel minimo indispensabile perché fosse inutile, da avere cioè solo gli aspetti negativi dell’alcol, senza poter godere di quelli positivi. Si girò attorno e tutti gli altri invitati dormivano chini sui tavoli o stravaccati da qualche parte. Non era stata una festa così divertente, ma il pessimo alcol l’aveva fatta finire presto.

Scar si alzò lentamente e da un rapido sguardo capì che mancavano solo Achab e Machiko: se l’aspettava. Quei due se la intendevano troppo, altro che semplici amici... Meglio per lui, perché così erano tutti distratti: era il momento giusto per cercare qualcosa di buono da bere. Ora aveva un nome di battaglia, cazzo: era Scar, e questo meritava una bevuta. Una buona bevuta.

Non conosceva il locale, quindi lentamente iniziò ad esplorarlo senza fare rumore. Altri guerrieri avevano imparato la furtività sul terreno di caccia: lui l’aveva imparata a forza di rubare qua e là. Così come aveva imparato a muoversi rapidamente nei posti sconosciuti.

In poco tempo trovò l’accesso ai sotterranei, dove sicuramente Achab conservava la “roba buona”, e scese in silenzio. Si aggirò per qualche secondo prima di vedere una luce che proveniva da dietro l’angolo di una porta. La curiosità lo portò ad avvicinarsi, finché Scar si appoggiò alla parete per ascoltare di nascosto le voci che sentiva provenire dalla stanza: bastò poco per riconoscerle.

«Oggi posso usare la spada vera?» stava dicendo Achab. «Ne ho davvero bisogno: è stata una di quelle giornate che...»

«Non mi importa», lo fermò bruscamente Machiko. «Quando siamo sul dojo non esistono “giornate” né altro: devi svuotare la mente. Ti ho già parlato del mushin, della “mente vuota”.»

Scar cedette alla curiosità e si affacciò lentamente. Vide un’ampia sala vuota, con al centro Achab e Machiko accucciati sulle proprie ginocchia, uno di fronte all’altro. Davanti a loro, in terra, quelli che sembravano due bastoni di legno.

«Va bene, va bene», stava dicendo Achab. «Però se potessi sfogarmi un po’ riuscirei molto meglio a svuotarmi la mente.»

Machiko scosse la testa. «Non sei qua per “sfogarti”, sei qui per meditare. E per annullarti. Non è in fondo il nostro sogno, l’annullamento totale?»

«Veramente io speravo di riuscire ad imparare l’uso della katana», sbuffò lo Yautja. «E finora la tua neanche l’ho mai vista: figuriamoci imparare ad usarla.»

La donna lo fissava molto seria. «La mia spada non è adatta allo studio. La sua lama è quella che ha aperto la gola di mio padre, quando si è suicidato dopo un crollo in borsa: il suo gesto ha salvato la famiglia dal disonore e dalla vergogna. Quando quella lama uscirà dal fodero... sarà per aprire la mia, di gola, e riportare l’onore nella mia famiglia. In tutte le mie famiglie. Solo allora sarò ricordata come l’allieva di Duchande...»

Achab chinò il capo. «Cazzo, anche qui si finisce sempre a parlare...»

La donna scattò con velocità incredibile e, afferrando il bastone davanti a lei, si alzò leggermente: mise un piede davanti a sé e mentre la pianta del piede batteva in terra in contemporanea il bastone calava sulla testa di Achab. Il grido di battaglia di Machiko si fuse con il grido di dolore di Achab.

«Ma sei scema?» gridò lo Yautja.

«Sii sempre pronto», rispose lei. «Mentre pensavi alla vergogna passata, ecco che ne è arrivata una fresca.»

«Ma io...»

Un’altra bastonata rapidissima colpì lo Yautja al fianco. «Stai ancora pensando, Achab: svuota la tua mente

«Ringrazia che sei mia amica, perché se no...»

Un’altra bastonata. «Stai ancora pensando con la testa: devi lasciare al tuo corpo il compito di pensare.»

Machiko caricò un altro colpo che partì con grande velocità, ma stavolta con altrettanta velocità Achab raccolse il suo bastone e lo parò in aria. Il potente schiocco del legno contro il legno rimbombò per tutta la sala, mentre i due rimasero immobili a fissarsi.

La donna sorrise. «Vedi? Il tuo corpo sa pensare bene: sta a te ascoltarlo ed assecondarlo.»

Mentre li spiava, Scar si ritrovò a pensare al fatto che invece il suo corpo pensava male, e lui non sapeva opporgli resistenza. Il suo corpo voleva alcol e non aveva la forza di arginare quella sete profonda.

«Sei fortunata che sono mezzo ubriaco e assonnato», stava dicendo Achab. «Altrimenti ti farei vedere io...»

La donna rise. «A questo servono gli allenamenti: ad essere pronti quando non si è pronti. Se ti capitasse di dover affrontare un nemico quando sei in forma, nel pieno delle forze e concentrato, non ci sarebbero problemi. Purtroppo non capita quasi mai...»

Scar si allontanò lentamente, perché era tempo di continuare a cercare da bere. «Quando senti che stai per cedere, quello è il momento in cui comincia il tuo allenamento.» La voce della donna lo raggiunse vividamente e per un attimo pensò che si stesse rivolgendo a lui.

Il Predator rimase fermo, nel buio della sala. Davanti a lui una fioca luce stava lasciando scorgere una serie di bottiglie. Era sul punto di cedere e quindi, stando alla frase di Machiko, era esattamente in quel momento che avrebbe dovuto iniziare il suo allenamento, era esattamente in quel momento che doveva imporsi di resistere... Ma fu in quel momento che Scar capì di non avere alcuna speranza di resistere a se stesso... Non è facile essere uno Yautja senza onore in un mondo umano, continuava a ripetersi mentre si annullava.

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Capitolo 4
*** 4 ***


Stazione mineraria “Shimada’s Hope”

L’uomo urlava a squarciagola ed agitava scompostamente braccia e gambe, mentre attraversava in volo la parabola che l’avrebbe portato a sfracellarsi nella radura circostante. La buona notizia era che se fosse sopravvissuto sarebbe stato libero di scappare: la cattiva notizia era che sopravvivere forse non era auspicabile.

Lo shock gli impedì di provare dolore, ma mentre roteava in aria l’occhio gli cadde sulla propria gamba, che dopo un’accecante scarica luminosa cominciava a volarsene via, da sola. Mentre cadeva in terra l’uomo si disperava dell’arto che aveva appena perso, e pregò di non sopravvivere all’impatto. Cadendo di testa su un terreno sassoso, fu accontentato.

Il grande Predator abbassò l’enorme fucile laser, ghignando. «Questa roba va calibrata ma è potente: avevo mirato alla testa e invece ho preso la gamba, ma va bene uguale.»

Lo Yautja accanto a lui annuì. «Vuoi provare ancora?»

Il grande Predator si passò distrattamente una mano sulla cicatrice che gli attraversava la fronte. Se la sentiva pulsare, segno che era infiammato, eccitato. «Sì», gracchiò con voce profonda. «Ma stavolta aumentiamo la difficoltà, che voglio studiare quest’arma: lancia dei bambini, che sono più difficili da prendere al volo.»

~

Locale “Big Game Pub”

Il sole era alto quando Machiko si presentò nell’ampio salone. Rimaneva spesso a dormire nel locale, tanto che Achab le aveva riservato una delle stanze che usava per ospitare gli amici di passaggio. Di solito con “amici” intendeva Yautja che lavoravano per lui in varie attività, più o meno legali, ma per la donna intendeva il termine nel vero senso.

Machiko non aveva mai rimpianto di aver scelto la razza umana, anche perché durante l’ultima missione rimanere con gli Yautja significava rinunciare all’uomo che amava. Era stata una storia seria, quella, finché era durata: l’amarezza della donna e l’umiliazione di aver perso un onore conquistato con enormi sacrifici non avevano certo aiutato la vita di coppia. Ora Machiko preferiva la vicinanza con gli Yautja, con cui almeno poteva condividere il dolore.

«Buongiorno», disse alla volta di Achab, che trovò seduto a fare colazione. «Se sono già andati via tutti con le proprie gambe, vuol dire che hai servito poco alcol, ieri sera.»

La battuta della donna, riferita al fatto che tutti i partecipanti del banchetto della sera precedente erano scomparsi, si scontrò con il volto serio e crucciato di Achab. «Buongiorno», disse con voce rauca. «A proposito di alcol, ti ricordi il tizio che volevi farmi assumere qui al bar?»

Solo allora Machiko fece mente locale: che fine aveva fatto Scar? Erano arrivati insieme e aveva dato per scontato che sarebbe rimasto a dormire in una delle stanze di Achab, ma se ne era completamente dimenticata e non pensava a lui dalla sera precedente. Cominciò a guardarsi intorno velocemente, finché in un angolo lontano vide un Predator malamente accasciato su una sedia, appoggiato alla parete nel suo pesante sonno. «Cazzo...» bisbigliò la donna.

«L’hanno trovato i miei inservienti», disse lentamente Achab. «Era sdraiato nella mia cantina di vini pregiati, quelli che tengo per i clienti importanti a cui spillare soldi. Meglio che non ti dica quanto mi è costata la sua sbronza...»

«Mi spiace Achab, sono mortificata», cominciò a bisbigliare Machiko, afferrandosi il volto fra le mani. «Sembrava che stesse meglio, che avesse superato... Giuro che ti ripagherò tutto...»

«Non è colpa tua, Machiko», la interruppe senza astio il proprietario del locale. «Facciamo finta che le bottiglie mi siano cadute in terra, non è quello il problema. La vera questione è quella che ti dicevo ieri sera: non puoi salvarli tutti.»

La donna cadde pesantemente su una sedia lì accanto, contorcendosi le mani. «A me basterebbe già salvarne uno...» Dopo qualche attimo di silenzio carico di tensione riprese a parlare a bassa voce. «Quelli in gamba si salvano da soli, non hanno bisogno di me: il mio lavoro consiste nell’aiutare chi non sa farcela da solo... e mi sembra chiaro che ho fallito miseramente.»

«Non dire così, la tua agenzia aiuta tanti Yautja, non puoi fartene una colpa se non riesci a salvare qualcuno che è impossibile salvare.»

«Dica? Dica?»

Achab e Machiko si voltarono di scatto verso il Predator che aveva gridato: era Jungle che, mettendo a posto la cucina, si era affacciato e stava gridando contro qualcuno. «Che cerca?»

«Con chi ce l’hai?» chiese Achab alla volta dell’amico.

Jungle si limitò a guardarlo con occhi strabuzzati e ad alzare una mano: stava indicando qualcuno, che in quel momento entrò nel locale fino a farsi vedere dal proprietario. Era un umano.

«Cazzo, ci mancava anche questa», sibilò Achab. Poi si alzò e cercò di parlare nella migliore lingua umana di cui era capace. «Mi dispiace, umano, per il rumore di ieri sera. Non capiterà più.»

Achab sapeva per esperienza quanto possano essere pericolosi i vicini che si lamentano per il rumore, quando sei un mostro di due metri guardato male dalle autorità. Se arrivava un’altra denuncia rischiava di dover chiudere il locale.

L’uomo lo fissò con sguardo vacuo, e a sorpresa rispose in lingua Yautja: «Non sono umano, e conosco la vostra lingua.»

Achab aprì la bocca dalla sorpresa. «Che vuol dire che non sei umano?»

L’uomo parlò senza espressione. «Sono un androide modello D, conosco tutte le lingue che possano tornare utili ai miei padroni: lo Yautja è una di queste.»

Machiko fissava la scena quasi con i sensi appannati, perché la mente era occupata dal dispiacere ricevuto da Scar, ma riuscì lo stesso a stuzzicare l’amico. «Parla lo Yautja meglio di quanto tu parli umano.»

Achab non la sentì, e iniziò ad avvicinarsi lentamente al nuovo venuto. «Credo che tu abbia sbagliato locale, androide. Qui siamo tutti Yautja, non sappiamo niente di robotica o che altro.»

L’androide accennò un sorriso, che sul suo viso risultò inquietante. «Allora sono nel posto giusto: ho chiesto a molti dove poter trovare dei guerrieri Yautja in città e mi è stato indicato questo locale.»

La parola “guerrieri” fu come un colpo di fucile sparato nella stanza: a tutti ora fischiavano le orecchie. «Se sei venuto a sfottere...» cominciò a grugnire Jungle, ma Achab lo fermò con un gesto della mano.

«Sei stato male informato», disse all’androide. «Qui abbiamo tutti perso il grado di “guerrieri”: ora siamo cittadini pacifici...» Non gli venne in mente altro da dire, tanto quelle parole facevano male a pronunciarle.

«Io non cerco Yautja con il grado di guerrieri», rispose calmo il sintetico. «Io cerco guerrieri Yautja.»

Jungle stava perdendo la pazienza e cominciava ad avvicinarsi alle sue pentole: stava provando il forte desiderio di smontare quel sintetico.

«Si può sapere a cosa ti servono dei guerrieri Yautja?» chiese d’un tratto Machiko.

L’androide si rivolse alla donna. «I miei padroni mi hanno fatto partire di nascosto da LV-617 con il preciso ordine di trovare guerrieri Yautja in grado di aiutarli. Non ho avuto alcuna specifica di controllare il “grado” di questi guerrieri.»

«Aiutarli in cosa?» chiese Achab, ormai arrivato accanto all’androide.

«I miei padroni sono vittima dell’attacco di Bad Blood, un gruppo di Yautja particolarmente spietati che le risorse umane della colonia “Shimada’s Hope” impediscono di fronteggiare. Quando sono stato lanciato nello spazio tramite una scialuppa di salvataggio sopravvissuta alla distruzione, i Bad Blood avevano preso solamente uno degli edifici della città mineraria: le grida umane che si sono sollevate da esso non fanno sperare in eventuali superstiti.»

«Brutto affare», bisbigliò Machiko, che mentre l’androide parlava si era avvicinata ad Achab. «Anni fa, quando lavoravo per la Weyland-Yutani, ho sentito parlare di LV-617: è un sasso sperduto nella galassia, la Compagnia non sprecherà risorse a correre in aiuto.»

«Esatto», rispose il sintetico. «I miei padroni hanno inviato un SOS ma dubitano fortemente che la Weyland-Yutani lo prenderà in considerazione. Le risorse minerarie si stanno esaurendo velocemente e da anni non riceviamo supporto dalla Compagnia. Secondo il regolamento che è contenuto nel mio database interno, poi, un’azione militare contro degli Yautja, anche se violenti assassini fuorilegge, va concordata con il Governo Yautja. I miei padroni dicono che è una situazione talmente spinosa a livello politico che difficilmente la Weyland-Yutani vi si imbarcherà, per salvare un gruppo di minatori sperduti che non le servono più a niente.»

«Mi spiace per i tuoi padroni», disse Achab scuotendo la testa. «I Bad Blood sono brutte bestie, vivono esclusivamente per torturare e uccidere: mentre stiamo parlando probabilmente gli umani di quel pianeta sono già tutti morti.»

«Se sono fortunati», intervenne Jungle. «Forti dell’impunità, probabilmente “giocheranno” con le loro prede il più a lungo possibile.»

Il silenzio cadde pesante nella stanza, ma non aveva lo stesso significato per tutti. Machiko rabbrividiva al pensiero degli umani in balìa di mostri, mentre i due Yautja invidiavano quella totale libertà a cui loro avevano dovuto rinunciare.

«Proprio questo fornisce tempo per agire», intervenne l’androide. «Sono atterrato qui solo dieci ore fa, è improbabile che i Bad Blood abbiano già ucciso tutti. La popolazione è relativamente numerosa e la città è grande: plausibilmente gli assassini impiegheranno giorni a trovare tutti gli umani che si sono asserragliati negli edifici, così come è plausibile pensare che non sentano alcuna urgenza di sbrigarsi.»

«Va bene», tagliò corto Achab, agitando una mano in aria. «Senti, un mio vecchio amico si occupa di queste cose, e so che è ancora in città. Lo chiamo e ti faccio parlare con lui: vedrai che ti fornirà i guerrieri Yautja che cerchi. Solo che non lo farà gratis.»

«Io non ho potuto portare denaro con me, ma su LV-617 sono sicuro che i miei padroni troveranno il modo di ricompensare questo tuo amico. Inoltre il capo dei Bad Blood è un noto ricercato, è probabile che basterà la taglia sulla sua testa come risarcimento.»

Achab e Jungle si fissarono d’un tratto negli occhi. «Uno Yautja ricercato talmente noto da essere riconosciuto da umani sperduti nel nulla?»

L’androide estrasse un tablet dalla tasca. «Quando ancora il mio database interno riceveva aggiornamenti dalla Compagnia, venivano segnalati i criminali che giravano per la galassia: la grande cicatrice sul volto rende quello Yautja ben riconoscibile.»

Achab, Jungle e Machiko si avvicinarono non appena il tablet si accese, e quando apparve la foto scattata su LV-617 tutti trattennero a stento un’esclamazione.

«Stando alle informazioni in mio possesso, sebbene non aggiornate», disse placidamente l’androide, «il nome di questo leader Bad Blood è...»

«Wolf», lo interruppe Achab.

«Esatto», commentò il sintetico. «Quindi mi confermate che è un criminale noto, con una taglia sulla testa.»

Nessuno rispose.

Il sintetico si guardò intorno, passando da uno all’altro dei suoi interlocutori in attesa che qualcuno prendesse la parola, ma erano tutti come rapiti a fissare la foto nel tablet. «Dal vostro comportamento arguisco che conosciate già questo criminale.»

«Cazzo, Wolf...» bisbigliò Jungle, ignorando la domanda dell’androide. «Se passi questa informazione al tuo amico Celtic, gli farai il più bel regalo della vita.» Scuotendo la testa lo Yautja si appoggiò al bancone. «Acchiappare quel mostro lo ricoprirà di gloria per sempre: tornerà subito Blooded Warrior...» Jungle smise di parlare quando si vide addosso gli sguardi di Machiko ed Achab. «Che ho detto? Perché mi guardate così?»

«E se lo prendessimo noi?» bisbigliò Achab.

Jungle cominciò a passare lo sguardo dall’amico con gli occhi di fuoco alla donna, bianca in volto. «Cosa? Stai scherzando, spero... A malapena qui ammazziamo un maialino per mangiarlo, e vuoi dare la caccia al più pericoloso criminale Yautja della galassia?»

Achab scosse la testa, con il corpo immobilizzato dall’emozione e dall’eccitazione. «Wolf non l’ha mai preso nessuno perché nessuno sa dove sia», cominciò a parlare con la voce vibrante di agitazione. «Piomba su avamposti umani sperduti, massacra tutti e se ne va: al Governo Yautja non interessa perdere tempo a prenderlo, visto che ammazza solo umani, e alla Weyland-Yutani non va di impelagarsi nella questione, perché ammazza solo poveracci su pianeti ormai inutili. Questa è l’unica forza di Wolf: essere sfuggente. Ma ora noi sappiamo dov’è... e dove rimarrà per dei giorni...»

Jungle si portò le mani alla testa, sempre più agitato. «Non puoi parlare sul serio, non... non posso credere di averti sentito dire certe cose.» Si cominciò a muovere accanto al bancone, quasi in preda a convulsioni. «Siamo l’ombra dei guerrieri che eravamo, Achab, e già allora non eravamo chissà che. Siamo dei falliti, lo sai tu come lo so io: quand’è stata l’ultima volta che hai partecipato ad una missione sul campo? Hai il culo a forma di sedia, Achab, come ti viene in mente anche solo di pensare di poter acchiappare Wolf?»

«È l’idea migliore che abbia mai sentito in questo buco di posto.»

Tutti si voltarono e si resero conto che Berserker era in piedi accanto a loro, probabilmente da abbastanza tempo per aver ascoltato i loro discorsi. «Riuscire nell’impresa è l’aspetto minore», continuò il lottatore. «Già solo il gesto di provarci ci riempirà di gloria.»

«Ci?» chiese sarcastico Achab. «Vuoi dire che nel caso faresti parte del gruppo?»

Berserker agitò una mano in aria. «Dove vai tu vado io, lo sai. E finalmente potrò zittirti quando comincerai a rinfacciarmi la mia passata vigliaccheria.» Alzò le mani ad indicare i suoi ascoltatori. «Non lo capite? Questo ci ripulirà tutti...»

«Ah», gridò Jungle. «Parla bene, lui: è allenato, fa a botte con chiunque ed è giovane, cioè un coglione che si butta a occhi chiusi su qualsiasi cosa. Vuoi andare a farti ammazzare? Hai la mia benedizione. Ma tu, Achab, stai sbagliando di grosso.»

«Sbagliando in cosa?» sbottò l’amico. «Nel pensare come un guerriero dopo tanti anni passati a fare l’umano? Tu non sei stanco di sentirti una merda ogni maledetto giorno della nostra vita?»

«Io non mi sento una merda, io sono sceso a patti con la mia nuova vita, ho un lavoro e sono rispettato...» Il silenzio che seguì fu più che eloquente. Jungle si mise una mano sugli occhi. «Cazzo, suonava meglio nella mia testa...»

Achab mise una mano sulla spalla dell’amico. «Da anni cerchiamo giustificazioni per essere ciò che non siamo, ora invece possiamo finalmente tornare alla nostra vera natura. Siamo cacciatori, e abbiamo avuto la fortuna di sapere dove si trova una preda ambita: è il momento di smettere di pensare come un umano e cominciare a pensare come uno Yautja.» Achab alzò lentamente un braccio e indicò Scar addormentato sulla sedia. «Lo vedi quell’ubriacone? Quanto pensi che ci vorrà prima che diventi anch’io come lui? Mi hai visto bere, no? Hai visto che sto aumentando la dose di giorno in giorno.» Afferrò il volto di Jungle fra le mani. «Non voglio arrivare a quel punto... non ora che la fortuna ci ha fatto questo regalo.»

Jungle lo fissava serissimo. «Come fai a sapere che al momento giusto non ci faremo prendere dal panico e dalla vigliaccheria?» chiese. «Viviamo in questo inferno perché nessuno di noi è riuscito ad essere un guerriero, quando eravamo giovani e forti: secondo te riusciremo ad esserlo ora, dopo anni di inattività?»

Achab scosse il capo. «Non lo so, forse no, forse sì. So solo che da giovani avevamo un limite che ora non abbiamo più.»

«Che limite?»

Achab sorrise, amaramente. «Avevamo il terrore di perdere l’onore, ed ora non l’abbiamo più. Né il terrore... né l’onore. Quando non hai più onore, niente ti può spaventare.»

Jungle grugnì. «Non è con queste belle frasi che cattureremo Wolf.»

Achab e Berserker esultarono. «Quindi sei dei nostri.» Non era una domanda.

Jungle alzò le mani. «Non ho detto questo, ma voglio sapere che piano hai: voglio assicurarmi che tu non ti faccia spingere dall’entusiasmo e basta...»

Achab scosse le spalle. «Piano? Ho saputo di Wolf due minuti fa, che piano vuoi che abbia? Dovrai aiutarmi tu a studiarne uno: mica vorrai che ci pensi Berserker!»

«Ehi!», sbottò ridendo il lottatore.

«Sicuramente ci serve altra gente.»

Tutti abbassarono lo sguardo verso Machiko, che aveva parlato. L’espressione degli Yautja era di stupore. «Ci serve?» chiese Berserker.

«Non provateci neanche», disse la donna decisa. «Io sono con voi, e questo non si discute. Di gloria ce ne sarà per tutti, quindi anche per me.»

«Ma la tua amica sa di chi stiamo parlando?» chiese Jungle ad Achab, indicando la donna.

«Sì, la sua amica lo sa!» rispose Machiko, seccata. «Con il mio clan anni fa ci siamo scontrati con alcuni Bad Blood della sua banda, ma purtroppo Wolf non c’era.»

«Ah, ma questo cambia tutto: ti rende perfetta ad affrontarlo», disse sarcastico Jungle.

«Ora basta», intervenne Achab, «Machiko è una dei nostri e se vuole venire è libera di farlo: non sarò certo io a impedire ad un guerriero di cercare l’onore perduto. E poi fra di noi è la più allenata con le armi, che non guasta di certo.»

«Scusate», intervenne il sintetico. «Da questi discorsi evinco che accettiate l’incarico? Lo chiedo perché in caso contrario devo continuare a cercare.»

Achab lo guardò serio. «Hai un nome, robottino?»

Il sintetico sorrise. «Mi chiamo Bishop 3. Sono stato progettato da...»

Achab calò il suo potente braccio sulla spalla dell’androide, che smise di parlare, e sorridendo gli disse: «Bishop 3... puoi scommettere il tuo culo robotico che accettiamo.»

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Capitolo 5
*** 5 ***


Mentre Jungle chiudeva a chiave la porta del locale, Achab e Berserker sgomberarono ed unirono dei tavoli a formare un’unica grande superficie d’appoggio. Tutto per dare all’androide la possibilità di proiettare la piantina digitale della città mineraria di Shimada’s Hope.

«Proiettare?» chiese dubbioso Bishop 3. «Non sono dotato di un proiettore: credevo che voi ne aveste uno da utilizzare.»

Gli Yautja si guardarono in faccia, prima che Achab rispondesse. «Hai visto in che locale sei? Secondo te qua dentro ci sono proiettori?»

«Non c’è problema», tagliò corto il sintetico. «La città mineraria è stata progettata con una struttura semplice e lineare», poi prese una bottiglia e la mise al centro del tavolo. «Questo è l’edificio centrale», poi prese un tovagliolo e glielo mise vicino. «Questo è un edificio adiacente», poi prese un altro tovagliolo, «questo è un altro edificio adiacente», poi prese un altro tovagliolo...

«Ci sta prendendo in giro?» chiese agli altri Jungle.

Achab fissava allibito l’androide. «Amico, non ci serve un modellino in scala della città fatto coi tovaglioli, puoi anche smettere.» Si passò una mano sulla faccia. «Cominciamo bene, non abbiamo neanche una mappa...»

«Non credo che sia un problema», intervenne Machiko. «Nel mio ufficio posso accedere a tutte le cartine che voglio: la posso trovare io una mappa di LV-617 aggiornata... o comunque più precisa di questa roba. Il problema è come poterla utilizzare, visto che nessuno di noi ha un computer da polso.»

«Andiamo», disse Achab a tutti, anche se stava rispondendo alla donna. «Ai vecchi tempi non avevamo computer né altra tecnologia: si cacciava con le mani e con il coraggio.»

Jungle scosse la testa. «Parli di tempi mitologici, Achab. Se devi raggiungere un altro pianeta ti serve tecnologia a quintali. Prima di tutto serve un’astronave, poi serve qualcuno che sappia guidarla, poi serve il carburante, poi servono mappe per raggiungere LV-617. E una volta lì servono armi e strumenti con cui possiamo comunicare e sincronizzarci. Ti rendi conto che ci manca ogni elemento di questa lista?»

«Una cosa alla volta, risolviamo tutto», disse Achab con un tono di voce leggermente disperato. «Nessuno ha mai detto che sarebbe stato semplice.»

«Abbiamo superato la soglia del “non semplice”, amico mio», continuò imperterrito Jungle. «Siamo nel campo dell’impossibile.»

«Perché invece di essere così negativo non ci proponi qualche idea?» intervenne Berserker. «Sappiamo tutti cosa ci manca, perché non parliamo di come procurarcelo?»

L’androide voltava lo sguardo da uno Yautja all’altro. «Siete dunque guerrieri senza armi e senza possibilità di lasciare questo pianeta, ho capito bene?» Seguì un attimo di silenzio. «Forse è il caso che continui la mia ricerca...»

«No!» lo trattenne Achab. «Non ci lasceremo sfuggire la fortuna fra le mani: rasségnati ad avere noi, perché altrimenti dovrò staccarti la testa per impedirti di rivelare ad altri la posizione di Wolf.»

Minacciare un androide era quanto di più inutile ci fosse, Achab lo sapeva benissimo ma era stato più forte di lui. Inoltre era per mettere le cose in chiaro: era disposto a tutto pur di sfruttare quel regalo del Fato.

«Io conoscevo delle persone alla Compagnia», intervenne Machiko, «ma è passato del tempo... e dubito fortemente che mi regalerebbero un’astronave.»

«Io conosco un sacco di gente che viaggia per lo spazio», disse Achab. «Il problema è che sono tutti molto poco raccomandabili: gente inaffidabile, che ci taglierebbe la gola un secondo dopo la partenza.»

«Capite ora che la questione è troppo più grande di noi?» intervenne implacabile Jungle. «Già viaggiare fino a LV-617 è un problema insormontabile, figuriamoci affrontare uno dei più spietati criminali della galassia senza armi e senza alcun tipo di tecnologia.» Gli altri avrebbero voluto zittirlo ma non avevano argomenti. «Cosa vogliamo fare, come gli antichi? Faremo trappole coi rami e foglie? O il nostro Berserker finirà a pugni un gigante come Wolf?»

Achab calò il suo pugno sul tavolo, facendo cadere la bottiglia sistemata dall’androide. «Ci dev’essere un cazzo di modo...» sibilò rabbiosamente.

«Vi ci porto io, su quel pianeta...»

Nel silenzio che seguì tutti alzarono la testa a guardarsi: chi aveva parlato? Dopo qualche secondo la risposta era tanto ovvia quanto sorprendente. Quindi si girarono tutti verso Scar, che era ancora seduto e cercava di sopportare il suo mal di testa da dopo-sbornia. Lo guardarono stirarsi e massaggiarsi la testa, finché Achab chiese: «Stai parlando con noi?»

Scar li guardò con gli occhi semichiusi dal dolore alla testa. «Sì. Se mi fate partecipare alla missione vi risolvo tutti i problemi.»

Seguirono altri momenti di silenzio, in cui tutti si guardarono. «Mi sa che è ancora ubriaco», sussurrò Jungle.

Machiko lo guardava con occhi sofferenti: Scar era stato una tremenda delusione per lei, eppure ancora provava pena per lui. «Non sei in condizione di... Insomma, ci hai dato sotto parecchio, ieri notte.»

Scar annuì. «Mi spiace di averti deluso ancora, Machiko, ma ormai è inutile prenderci in giro: non sarò mai altro che un fallito ubriacone... qui.» D’un tratto fissò gli altri con sguardo deciso. «Per questo devo andarmene, prima di morire in modo ancora meno dignitoso di come ho vissuto. E questa è l’occasione giusta: affrontare Wolf sarà il riscatto della mia vita, in qualunque modo vada a finire.»

«Quindi hai sentito tutto...» borbottò Achab, passando poi a fissare Machiko. «Un altro dannato problema...» Il sottinteso era chiaro ed era lo stesso che valeva per l’androide: si doveva essere disposti a tutto per impedire che le informazioni uscissero da quella stanza.

«Al contrario», disse Scar alzandosi stancamente dalla sedia. «Non sono un problema, bensì la soluzione ai vostri problemi.» Si avvicinò massaggiandosi la schiena, poi estrasse qualcosa da una tasca e la gettò sul tavolo. «Mi hai ospitato a casa tua, Achab, mi hai dato un nome da battaglia... e io ti ho svuotato la cantina», disse con voce neutra. «Questo è il minimo che possa fare per sdebitarmi.»

Nessuno parlava e tutti guardavano il monta rozzo di piccoli oggetti che Scar aveva gettato sul tavolo. Achab non capiva. «Che diavolo sono? Carte?»

«Chiavi digitali sprotette», spiegò Scar, iniziando a parlare a tutti i presenti. «Machiko vi potrà confermare che il guardiano notturno è il lavoro più richiesto per gli Yautja, perché un bestione nell’edificio tiene lontani i ladruncoli. Però né Machiko né gli altri umani hanno pensato che i ladri... potremmo essere proprio noi.» La donna lo fissò strabuzzando gli occhi. «Quelle sono solo un mazzo delle tante chiavi che ho duplicato durante i miei lavori di guardia notturna: ho prestato servizio nei magazzini di mezza città, stanotte stessa potremmo andare a fare il pieno di tutta la tecnologia che volete. Anche se la metà di quelle chiavi non dovesse più funzionare, vi garantisco un equipaggiamento come non ne avete mai avuto, neanche da Blooded Warrior.»

Mentre tutti fissavano allibiti le chiavi, Machiko pensava all’ulteriore delusione subita. «Quindi mentre io cercavo di riabilitarti...»

Scar non la fece finire. «Io sono un ubriacone e sono riuscito a fare ben poca cosa. Ma ho amici che mediante questi lavoretti hanno fatto molto di più. Se mi fate entrare nel gruppo, vi porto da un mio caro amico... che può fornirvi un’astronave.»

Dopo attimi di silenzio teso, Jungle esplose alla volta di Achab. «A questo siamo arrivati? A dare ascolto ad un ubriacone? Guarda caso ha sottomano un’astronave... Solo io trovo ridicolo tutto questo?»

«Il mio amico fa il guardiano notturno in un hangar della Weyland-Yutani: roba di basso profilo: commerciale, non militare. Niente soldati, niente armi. Quando una nave arriva l’equipaggio va ad ubriacarsi e affida la custodia al mio amico... Vi offro di entrare in un’astronave senza neanche dover forzare la porta.»

Achab lo fissava. «Non mi sembri il ragazzo impacciato che è entrato nel mio locale ieri sera...»

Scar rise. «Perché mi riesce male fare il bravo Yautja amico degli umani: ora sto parlando come un Predator in cerca di gloria, che vuole allontanarsi il più possibile da questi insetti...» Si voltò di scatto verso Machiko. «Te esclusa, ovviamente.» La donna scosse la testa. «Portatemi con voi e non vi deluderò... O meglio...» agitò le mani in aria. «Probabilmente vi deluderò, ma almeno non lo farò per debolezza.»

«Tanto non ci sarà alcol in questa missione», disse sorridendo Berserker.

«Se quello che hai detto è vero...» Achab lo fissò per eterni secondi. «Allora per me sei della partita.» E gli allungò la mano stretta a pugno.

Scar sorrise e rispose al pugno con il suo pugno. «Sarà un onore morire insieme a voi.»

Il gelo si stampò sul volto di tutti.

~

Mentre gli altri parlottavano e stilavano piani d’azione, Machiko afferrò Scar per una mano e lo trasse in disparte. «Quindi è questo che facevi mentre io cercavo di aiutarti? Rubavi nei posti di lavoro che ti procuravo?»

Scar agitò le mani. «Tecnicamente non ho rubato nulla: ho solo fatto duplicati di chiavi e studiato l’interno dei vari magazzini, proprio in vista di un’occasione come questa. Sapevo che un giorno avrei raggiunto il fondo e volevo avere la possibilità di fare qualcosa, prima di ubriacarmi a morte.»

«E ovviamente quando mi vedevi ammattire a cercarti un lavoro, dopo che ne perdevi uno dietro l’altro, non hai pensato di rincuorarmi, dicendomi che lo facevi apposta: consolandomi dicendo che non ero io incapace di aiutarti ma eri tu un fottuto cospiratore.»

Machiko si afferrò il volto con una mano, mentre Scar rispose con tono pacato. «Lo senti come parli? Ti sembra che avrei mai potuto dirti una cosa del genere? “Cospiratore”... chissà, magari se non mi piacesse ubriacarmi lo sarei diventato sul serio.» Afferrò dolcemente la donna per le spalle. «Tu sei una di noi e sono il primo a dirlo... ma sei un’umana. Sono sicuro che certe cose le capisci con la testa, ma credo che non le senti di pancia: io sono straniero in terra straniera, con un nugolo di insetti umani che ronzano intorno a me e che mi fanno paternali. Non puoi chiamarmi “cospiratore” se cerco di studiare un modo per allontanarmi da questo inferno.»

Machiko si tormentava e cercava disperatamente qualcosa da opporre allo Yautja: doveva giustificare la sua indignazione, ma era inutile. Scar aveva ragione, non avrebbe mai permesso che proseguisse il suo operato, avrebbe fatto di tutto per ostacolarlo: forse non sarebbe mai arrivata a denunciarlo, ma di sicuro avrebbe inventato mille sistemi.

D’un tratto le venne in mente una carta facile da giocare. Machiko alzò lo sguardo sofferente verso il suo amico. «Sai cosa vuol dire essere umana ed aiutare gli Yautja in disgrazia? Che gli altri umani mi considerano peggio di voi. Così sono una Yautja per gli umani e un’umana per gli Yautja, e poi scopro che uno dei pochi a cui tengo mi ha mentito e ha complottato alle mie spalle..»

Scar non rispose, ma si intromise Achab. «Ora basta rimbrotti, Scar ne ha avuti anche troppi. Ormai siamo tutti compagni di caccia, e fra di noi non si fanno paternali.»

D’un tratto arrivò la voce di Jungle. «Invece di blaterare, perché non state studiando un piano razionale? O pensate di far fuori Wolf stordendolo di chiacchiere?»

Achab sbuffò e Machiko si ritrovò a sorridere. «Niente paternali, va bene... ma qualcuno lo dica anche a Jungle.»

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Capitolo 6
*** 6 ***


«Dài, muoviti più veloce!»

Berserker riusciva a gridare i suoi ordini senza mostrare il minimo accenno di fiatone, mentre invece Scar non riusciva neanche a respirare: figuriamoci a parlare.

«Non muoverti sempre nella stessa direzione, sei prevedibile. Gira, cambia, muoviti.»

Bisognava aspettare la sera per iniziare ad entrare nei magazzini di nascosto e rimediare quanta più attrezzatura possibile, e tutti si erano divisi dei compiti così da ottimizzare i tempi. Berserker era il più in forma di tutti e si offrì di fare alcune sessioni di allenamento, “per togliere un po’ di ragnatele dai muscoli” aveva detto. Jungle e Achab avevano subito rifiutato: quelle poche energie che rimanevano loro non era il caso di sprecarle in allenamento. Non avrebbero avuto il tempo di ritrovarle. Scar invece accettò: non era stato mai allenato, e un minimo era sempre meglio di zero.

Seguì Berserker nell’arena sotterranea del locale e si ritrovò a tenere le mani strette a pugno davanti alla propria bocca. «È una tecnica del tuo vecchio clan?» chiese.

L’altro gli sferrò un pugno leggero che si infranse contro le mani di Scar. «Serve a proteggere il volto dai pugni», disse il lottatore. «Non è una tecnica Yautja, l’ho imparato dagli umani: non tutto della loro cultura è da buttar via. Avendo la testa debole si sono inventati questo modo per proteggerla, ed essendo ignoto agli altri Yautja è un vantaggio: nessuno si aspetta che io adotti una tecnica di combattimento umano, così prendo tutti alla sprovvista.»

D’un tratto mimò alcuni pugni potenti che però non portò fino alla fine. Per lo spavento Scar contrasse le braccia e in pratica si picchiò da solo con i propri pugni. «Ovviamente è una tecnica che va studiata», rise Berserker.

«Pensi che entro stasera saprò padroneggiarla?»

Il lottatore rise. «Ovviamente no. Mi interessa di più vedere se hai fiato. Non so se arriveremo allo scontro fisico, ma di sicuro dovremo camminare e correre, con del peso sulle spalle: per questo ti sto facendo saltellare, voglio vedere se hai fiato abbastanza anche solo per avvicinarci ai Bad Blood.»

Era chiaro che non ne aveva.

~

Il peso era un problema per tutti: nessuno di loro era così allenato da riuscire a marciare con l’equipaggiamento al completo, a cui andava aggiunto cibo ed acqua. Non sapevano se avrebbero trovato un avamposto dove soggiornare e dove lasciare i bagagli, quindi dovevano partire dall’idea di doversi portare tutto addosso. Anche ammettendo di riuscire ad arrivare con l’astronave il più vicino possibile all’accampamento dei Bad Blood – ed era tutt’altro che scontato – lo stesso avrebbero dovuto marciare e c’era anche il serio rischio che prima o poi avrebbero dovuto correre. E probabilmente questo li avrebbe uccisi prima di qualsiasi scontro con Wolf.

Jungle aveva sottolineato ogni problematica più e più volte, mentre con Achab preparava i bagagli. Avevano fatto scorta di tutto il cibo adatto alla situazione, dividendolo in razioni che ognuno si sarebbe portato appresso, trovando il giusto equilibrio fra il peso e il fabbisogno alimentare. Il vero problema era però l’acqua: le borracce a tracolla non ne portavano tanta da coprire una lunga missione in territorio nemico. Se non avessero trovato scorte a “Shimada’s Hope”, allora avrebbero dovuto fare in modo di sbrigarsi ad affrontare i Bad Blood prima di rimanere a secco.

Mentre preparava i kit di primo soccorso per tutti, Achab borbottava. «Dovremmo passare questo tempo ad affilare lame e a caricare i fucili, e invece sto arrotolando bende...»

Jungle sbuffò. «Sono passati i tempi in cui ci si gettava nella mischia ad occhi chiusi: ora la vera battaglia si organizza a tavolino.» Indicò una delle borracce. «Arrivare davanti a Wolf con un principio di disidratazione non aiuterebbe di certo.»

«Visto che siamo già pesanti così, io direi di lasciare a casa il kit per sbiancare le ossa e farne trofei.»

Jungle scattò a fissarlo, indignato. «Ma che Yautja sei diventato? Ora non esageriamo: con i trofei non si scherza, quindi quel kit lo portiamo eccome.»

~

Machiko aveva presentato Bishop 3 come l’androide di un importante dirigente della società, così da giustificare la sua presenza. Già era strano che la donna si presentasse di sabato negli uffici, e visto che era accompagnata da un estraneo la vigilanza fece storie: appena sentirono un nome importante aprirono tutte le porte alla coppia.

Dal suo terminale Machiko scaricò ogni cartina esistente di LV-617, scoprendo che erano tutt’altro che aggiornate. Sembrava che da qualche anno la Weyland-Yutani avesse dimenticato quella colonia umana. «La Compagnia è una madre crudele», disse la donna quasi fra sé e sé. «Appena i figli non sono più produttivi, vengono dimenticati per strada.»

Bishop annuì, seguendo un comportamento pre-impostato che si era rivelato sempre eccellente: in assenza di risposte da dare, era sempre ottimale annuire. Agli umani piaceva molto.

Machiko scaricò nella memoria interna del sintetico ogni cartina che riuscì a trovare di “Shimada’s Hope” insieme a qualunque dato riuscisse a raggiungere. Era tutto molto pericoloso ma ne avevano parlato ed era un rischio calcolato.

Tutti quei movimenti di Machiko sarebbero stati registrati e quando sarebbero iniziate le indagini la Compagnia avrebbe impiegato un attimo a scoprire che fine avessero fatto la donna e alcuni altri Predator scomparsi nel nulla. Contavano di partire l’indomani, domenica, e questo voleva dire che ci sarebbero voluti almeno due o tre giorni perché le varie assenze ingiustificate avrebbero destato la curiosità di qualcuno. Sicuramente l’assenza di Machiko sarebbe stata la prima ad essere notata, ma era difficile che questo mettesse in guardia qualcuno: ne spariva tanta di gente, ogni giorno. Quando però le denunce di scomparsa di alcuni Predator sarebbero state analizzate, scoprendo che erano tutti legati in qualche modo a Machiko, la quale il sabato precedente aveva scaricato mappe di una colonia su un altro pianeta, la situazione sarebbe cambiata: c’era anche la seria eventualità che la Weyland-Yutani mandasse dei Colonial Marines su LV-617 per scoprire il motivo di quell’interesse improvviso. Non era raro che qualcuno scoprisse risorse nascoste a cui la Compagnia non aveva fatto caso, quindi le indagini sarebbero scattate immediatamente.

Quindi Achab e gli altri avevano pochi giorni per la loro missione, ma vedendola da un altro punto di vista... avevano tutto il tempo del mondo. Perché nessuno di loro aveva un addestramento tale da sopravvivere tutti quei giorni in territorio nemico. In un territorio gestito da uno dei più pericolosi criminali Yautja della galassia.

Se mai un giorno la Compagnia avrebbe indagato su LV-617, avrebbe trovato solamente una città fantasma piena di cadaveri. Alcuni dei quali Yautja.

Machiko rabbrividì, si scosse da questi pensieri e staccò il cavo di collegamento del sintetico. «Forza, andiamocene da qui.»

~

La giornata era stata dura per tutti e con il buio era scesa anche la stanchezza. E lo scoraggiamento. Come potevano affrontare un mostro come Wolf se già una giornata movimentata li aveva fiaccati tutti? Cercarono di non pensarci, anche perché c’era un problema a distrarli.

«Lo ammetto», disse Scar dopo l’ennesimo rimbrotto. «Avrei dovuto scrivere sulle chiavi il magazzino a cui erano collegate.»

Era il quarto magazzino che stavano forzando, e il morale era basso. Dopo un deposito di giocattoli, uno di suppellettili e uno di libri cominciavano ad essere dubbiosi che quella sera sarebbero riusciti a trovare delle armi o qualsiasi altro equipaggiamento utile. E non avevano altro tempo, visto che il giorno dopo dovevano partire.

«Se è un altro deposito di giocattoli, stavolta me ne prendo qualcuno», rise Berserker. «Mi piace sorprendere gli avversari: ve l’immaginate la faccia di Wolf quando gli tireremo addosso dei mattoncini Lego?»

«Beato te che hai la forza di scherzare», disse sbuffando Jungle. «Io non sento più le gambe.»

Achab grugnì. «Nel tuo caso non dovresti più sentire la lingua: hai mosso solo quella, per tutto il giorno.»

Prima che la discussione degenerasse, Scar riuscì ad aprire la porta: anche quel magazzino non aveva cambiato il codice di sicurezza. Aveva scoperto che lo facevano raramente e controvoglia: cambiare tutte le carte d’accesso era noioso e dispendioso, quindi se non c’erano motivi di sicurezza per farlo di solito il codice rimaneva lo stesso. Questo però poteva essere un cattivo segno: un magazzino di giocattoli non sentiva minacce alla propria sicurezza, quindi se anche quella chiave aveva funzionato...

Scar entrò per primo, seguito in silenzio dagli altri. Cercò di ricordare quando aveva lavorato in quel magazzino ma era davvero difficile ricordarsi tutti i posti in cui era stato. Oltre al fatto che di notte tendevano ad essere tutti dannatamente uguali.

«Dove dobbiamo andare?» bisbigliò Achab.

Scar rimase in silenzio. Quel luogo sembrava familiare ma non riusciva a ricordare...

«Andiamo di qua?» chiese Berserker muovendosi verso una vetrata. Affacciandosi, imprecò fra i denti.

«Che succede?» chiese preoccupato Achab.

«Macchine!» sibilò il lottatore. «È un fottuto deposito di automobili», specificò indicando la vetrata, dalla quale si poteva ammirare un enorme parco macchine scintillanti.

Tutti si voltarono verso Scar, che solo in quel momento si riscosse dal suo torpore. «Ora ricordo!» Indicò la vetrata: «quelle auto sono messe lì come copertura, perché eventuali ladri le vedano subito e si concentrino su di loro. Ignorando questa porta...»

Si avvicinò ad una porta e cominciò a provare le varie chiavi per cercare di aprirla.

«È un bagno», disse sconsolato Jungle. «Lo vedi quel simbolo? Lo si trova in tutti i bagni umani.»

«Sì, è una copertura perfetta», disse Scar mentre continuava ad armeggiare per trovare la chiave giusta per aprire la porta. Dentro di sé si malediceva per essere stato così stupido da non annotare la provenienza di ogni chiave, ma era il primo ad ammettere che l’essere un ubriacone rovinava parecchio la sua astuzia.

«Stiamo perdendo tempo prezioso», sussurrò Jungle ad Achab.

«Se hai idee migliori sono tutt’orecchi», gli rispose l’amico.

«Ecco!» gridò Scar, nel momento in cui riuscì ad aprire la porta. Un secondo dopo l’attraversò mentre tutti si ritrovarono ad inseguirlo di corsa, chiedendosi perché mai ora si dovesse correre.

Un secondo dopo Scar era in fondo alla scalinata ed aveva accesso la luce. Gli altri scesero di corsa e non fecero in tempo a chiedergli il motivo di quel comportamento, perché rimasero senza fiato.

«La compra-vendita di auto di lusso è solo una copertura», stava dicendo Scar con un sorriso sul volto. «Il proprietario di questo magazzino traffica in armi.» Davanti ai loro occhi c’era un magazzino pieno di armi da fuoco di ogni calibro. «È tutta roba di basso profilo, così che la Compagnia fa finta di non vedere, ma a noi va più che bene.»

«Scar», lo chiamò Achab.

«Sì?»

«Sono armi umane.»

Lo Yautja rimase un attimo interdetto. «Lo so. E allora?»

«Che cazzo ci facciamo?» gridò Achab. «Le nostre dita sono troppo grandi per i grilletti!»

Il sorriso scomparve dalla faccia di Scar. «Davvero? Ma sei sicuro?» Cominciò a balbettare. «Io... io non ne ho mai imbracciata una ma credevo... Non possono essere così piccoli i grilletti...»

Mentre Achab si prendeva la faccia tra le mani e ripassava ogni bestemmia che conosceva, Jungle si era fatto avanti in un silenzio che non era da lui. «Forse non è stato del tutto inutile», disse d’un tratto, in tono pacato.

Si mise ad accarezzare lentamente un’arma su cui gli erano caduti gli occhi. Un’arma potente. Un’arma gigantesca. Un’arma che andava bene anche per la taglia di uno Yautja.

Una enorme mitragliatrice portatile M134 Minigun.

Jungle la ammirò quasi in estasi. E bisbigliò qualcosa che gli altri non sentirono. Qualcosa che gli si era impressa a fuoco nella mente quando l’aveva sentita, molti anni prima. Qualcosa pronunciata dall’uomo folle che gli aveva scaricato addosso la mitragliatrice.

«Yeah baby, havin’ some fun tonight...»

~

Quando uscirono dal magazzino erano tutti appesantiti, quasi al limite delle forze. Ognuno aveva agguantato quante più armi potesse, scegliendo fra quelle con il grilletto più largo possibile. Nessuno era soddisfatto, quelle armi erano frutto di millenni di tecnologia umana: con gli Yautja non avevano nulla a che vedere. Non erano armi con cui si sentivano a proprio agio. E inoltre erano quelle con cui gli umani li avevano affrontati da sempre: erano le spregevoli armi di un odiato nemico, usarle non faceva piacere a nessuno.

Ad eccezione di Machiko, che invece non disdegnava il fucile che si era messa a tracolla e le due Glock che si era infilata in tasca. Non aveva senso appesantirsi con grandi calibri, impossibili poi da usare per la sua corporatura: con armi piccole ma precise avrebbe ottenuto molto di più.

«Non mi è mai capitato di armarmi per una battaglia senza neanche un laser», stava borbottando Achab.

«Per come stanno andando le cose, ringrazia di non dover usare bastoni di legno», bofonchiò Jungle, che stava ansimando a trasportare la pesantissima mitragliatrice.

«Sei un pazzo a portarti dietro quel macigno», intervenne Berserker. «Sarai a pezzi prima di fare dieci metri.»

«I giovani! Non hanno rispetto per i vecchi guerrieri...»

Era ovvio che non era fattibile portarsi dietro quella mitragliatrice, ma Achab per ora non voleva deludere l’amico. Anche perché c’era una questione che gli ronzava in testa. «Scar, spiegami una cosa», chiese, «quando ti hanno licenziato da guardia notturna di questo posto, hanno assunto qualcun altro?»

«Credo di sì», rispose con il fiatone il giovane, che chiudeva la fila.

«E come mai non abbiamo incontrato nessuno a guardia del magazzino?» chiese Achab... e poi si ritrovò a terra. Senza capire cosa l’avesse colpito né rendendosi conto anche solo d’essere stato colpito.

Prima che gli altri avessero il tempo di capire cosa stesse succedendo, un altro colpo mandò a terra Berserker. In modo rapido e preciso.

«Fermo! Sono io, mi riconosci?» gridò Scar.

Ci vollero lunghi, eterni attimi agli altri per rendersi conto che qualcuno aveva colpito i loro due amici, e che ora quel qualcuno si stava materializzando davanti a loro. Era uno Yautja corpulento ed armato di tutto punto, che li fissava attraverso la sua maschera, e che nascondeva il braccio dietro la schiena per non far vedere l’assenza della mano sinistra.

«Compagni», disse quasi con enfasi Scar, «ho l’onore di presentarvi un mio amico particolarmente agguerrito: City Hunter.»

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Capitolo 7
*** 7 ***


«Forse ho capito male: voi... vorreste andare ad affrontare Wolf?» In quel “voi” c’era così tanto disprezzo misto a stupore che ci volle qualche secondo di silenzio per smaltire tutta quella negatività.

Scar aveva dovuto spiegare all’amico City Hunter il motivo di quel furto serale, e vista la quantità di armi che tutti avevano addosso era difficile trovare altre giustificazioni se non la pura verità. Così gli raccontò della missione e dei Bad Bloods su LV-617, mentre Achab e Berserker lentamente riprendevano conoscenza.

«E pensate che con quelle stupide armi umane possiate affrontare un nemico di quella stazza?»

«Se hai finito le domande, amico», intervenne Jungle, «potresti magari indicarci dove potremmo trovare qualche bel laser, di quelli buoni.» Alzò la mano ad indicare la spalla dell’interlocutore. «Tu ne hai uno niente male: hai un permesso speciale per portarlo?»

Lo Yautja, che nel frattempo si era tolto la maschera, strabuzzò gli occhi. «Diciamo che è un patto che ho stretto con i miei capi: con il laser posso garantire una protezione migliore, e loro fanno finta di non sapere che giro armato.»

Scar gli diede una pacca sulla spalla e poi si rivolse agli altri. «Ci serve uno così: dobbiamo portarlo con noi.»

Machiko e Jungle alzarono le mani. «Devi chiederlo ad Achab, è lui il capo.»

Tutti si voltarono a guardare Achab a terra, che si massaggiava il collo. «Si può sapere che cazzo è successo?» stava borbottando.

«Il nostro nuovo compagno di missione ti ha appena dimostrato quanto vale», disse Scar aiutando l’altro ad alzarsi. «Inoltre venendo con noi ci assicura armi di alto livello, vista l’attrezzatura che si porterà dietro.»

City Hunter grugnì. «Non ho mica detto che verrò con voi.»

Anche Achab grugnì. «Nessuno te l’ha chiesto, infatti.»

«Andiamo», tornò all’attacco Scar. «Deve venire con noi, guarda quanta roba ha addosso! E poi è allenatissimo, ti ha messo fuori combattimento con un soffio: ci serve uno così.»

«Scar, vuoi darti una calmata?» gridò Achab.

«Scar? Da quando ti chiami così?» chiese City Hunter.

Il giovane Yautja lo guardò sorridendo poi mise un braccio sulla spalla di Achab. «Mi ha battezzato lui, proprio ieri», e mostrò orgoglioso la ferita sulla testa. «Ora anch’io ho un nome da battaglia.»

L’amico fissò stupito Achab per alcuni secondi. «Perché hai fatto una cosa del genere? È un grande onore... che non so se lui merita.»

Scar incassò male la frase: il sorriso scomparve dalla sua faccia lasciando spazio ad un broncio seccato.

«Ancora non lo conoscevo», rispose Achab, sempre massaggiandosi il collo. «Ora vorrei ferirlo di nuovo, ma per motivi diversi dal battesimo...»

City Hunter sorrise. «In questa città non è facile trovare gentilezza o anche solo amicizia, specie fra di noi. L’amarezza della nostra condizione ci rende spesso astiosi gli uni con gli altri. Non parliamo poi di chi è come me...» e lentamente mostrò a tutti il proprio braccio privo di mano. «Essere senza onore e senza integrità fisica... è qualcosa che tiene lontani molti Yautja. Solo un sognatore come... come Scar, può essere così pazzo da proporre una missione pericolosa ad uno sciancato come me.»

«Ridicolo», disse sferzante Berserker, dolorante. «Ci hai atterrati entrambi prima che potessimo renderci conto di qualsiasi cosa: a me sembri in piena forma.»

«Già», disse Achab. «Per cui a questo punto rinnovo l’invito di Scar, visto che ora tiene il broncio e non può rinnovarlo lui: vuoi venire con noi? Ci serve dannatamente qualcuno in forma... e con armi Yautja.»

I due si guardarono per un lungo momento, poi City Hunter sorrise. «Cosa mi impedisce di farvi arrestare tutti per furto e andare da solo a ricoprirmi di gloria contro Wolf?»

Una ventata di nervosismo calò all’improvviso, ma Achab mantenne lo sguardo. «Perché da solo, e senza una mano, andresti solo a farti ammazzare come un cane. Insieme...» scrollò le spalle. «Insieme, qualcuno potrebbe anche tornare vivo.»

City Hunter ed Achab si fissarono per qualche secondo, poi il primo allungò la mano destra a pugno alla volta dell’altro. «Sono dei vostri. E spero di essere fra quelli che torneranno vivi.»

Nessuno apprezzò la battuta. Se era una battuta...

~

«Scordatelo, due nomi sono troppi: io ti chiamo City e basta.»

«Ma non ha senso, io mi chiamo City Hunter perché da sempre il mio terreno di caccia è la città.»

«Appunto, quindi City ti si addice alla perfezione.»

«Ma non sono una città, sono un cacciatore di città...»

L’attesa si stava facendo snervante e i bisticci fra Achab e City Hunter non sembravano più così divertenti come all’inizio.

La domenica era passata velocemente, fra gli ultimi preparativi, un lungo sonno ristoratore e un pasto d’addio al pub di Achab. Nessuno lo disse apertamente, ma tutti sapevano che in qualsiasi modo fosse andata la missione... non c’era ritorno. Non lì, almeno. Non in quel mondo umano.

Per chi fosse sopravvissuto c’era il ritorno nel clan d’origine a reclamare l’onore perduto – un sogno che elettrizzava tutti – mentre per gli altri... Be’, una morte onorevole era mille volte meglio che quella vita umiliante. Alla fine ne convenne anche Jungle, anche se non lo disse: da semplice osservatore d’un tratto si considerò parte fondante della missione senza avvertire nessuno. Macellare animali lo divertiva, ma tornare a combattere e soprattutto tornare ad essere un Blooded Warrior... questo lo divertiva molto di più.

La cena fu veloce e tutti cercarono di non parlare dell’impegno che li attendeva. Solamente all’inizio Achab propose un brindisi: «Quando racconteranno la nostra impresa... che il nome di tutti noi venga scandito con orgoglio.» Era il sogno di ogni Yautja. Soprattutto di quelli senza più onore.

Avevano lasciato il locale tutti fomentati ma anche timorosi: un universo di pericoli si apriva davanti a loro, ed era difficile separare l’eccitazione dalla paura. Achab chiuse velocemente la porta dietro di sé e seguì gli altri senza voltarsi indietro. Non l’avrebbe mai ammesso, ma gli straziava il cuore abbandonare per sempre il suo locale, che aveva rappresentato la sua intera vita per così tanti anni. La consapevolezza che sarebbe stata la sua bara, imbottita di umiliazione e vergogna, non stemperava il dolore di lasciare qualcosa che si considera la propria casa. Se si fosse voltato avrebbe vacillato, perciò andrò dritto e deciso.

Dopo una vita senza onore, era tornato a capo di un manipolo di guerrieri, anche se di livello ben misero. Stavolta Achab non era più un ragazzo ardimentoso, non era più un guerriero acerbo. Stavolta era senza energia, senza speranza e senza onore: la morte non aveva più alcun potere su di lui...

~

Una lunga attesa era davvero l’ultima cosa che tutti si sarebbero aspettati, come primo atto della missione.

Raggiunsero il porto camminando per le strade più isolate e buie, perché nessuno si accorgesse di loro e li segnalasse alle autorità prima del tempo. Aggirarsi per la città con borse piene a tracolla non era solo faticoso: era umiliante. «Anche ai vostri tempi i guerrieri si portavano la borsa?» chiese Berserker, sghignazzando.

«Abbiamo capito», sibilò Jungle. «Tu sei giovane e noi siamo vecchi: possiamo considerare chiusa la questione?»

Girare per la città con armi in vista non era affatto una buona idea, così optarono per borse nere che si nascondessero nel buio: ci sarebbe stato tempo su LV-617 per “truccarsi” da guerrieri.

Arrivare al porto fu più faticoso del previsto, semplicemente perché rivelò a tutti il proprio grado di allenamento. Berserker e City Hunter erano quelli in forma migliore, oltre Machiko che però aveva un carico più leggero. Jungle, Achab e Scar avevano il fiato corto. Il che era davvero un brutto segno. «E abbiamo camminato su comode strade asfaltate», sottolineò Jungle fra un respiro pesante e l’altro.

«Forza, chiama il tuo amico», tagliò corto Achab.

Scar indicò in alto. «Credo ci abbia già visti.»

Tutti alzarono di scatto lo sguardo e videro un oggetto che volava sopra di loro. «Un drone!» esclamò City Hunter. «A noi è vietato utilizzarli: sicuro che sia il tuo amico?»

Scar sorrise. «Anche portare un laser da spalla è vietato, eppure tu ieri sera ne avevi uno.» L’altro non rispose. «Quando lavori per loro, gli umani diventano d’un tratto molto elastici con le regole, se hanno un vantaggio.»

~

L’attesa era snervante. Avevano dato per scontato che in porto ci fosse almeno una nave, invece era tutto vuoto: per fortuna era previsto un arrivo, quella notte, ma c’era da aspettare. E per un gruppo di Yautja disposti a rischiare la vita in una missione impossibile... aspettare era una tortura.

«Ha un’autonomia che mi permette di sorvolare l’intero porto». Achab non sopportava più il blaterare dell’amico di Scar, il custode che da tempo infinito stava parlando del suo drone. Achab si sentiva però costretto ad ascoltare fingendosi interessato, per farsi perdonare la sua risata...

«Falconer.»

Achab non voleva credere al nome che il guardiano notturno gli aveva dato. «Puoi ripetere, scusa?» aveva chiesto.

«Mi chiamo Falconer.»

Era dannatamente serio nel pronunciare il suo nome, fu così impossibile per Achab non scoppiargli a ridere in faccia. Nel suo clan quelli che controllavano la zona con strumenti volanti erano considerati il livello sociale più basso: non c’era un briciolo d’onore nello spiare il nemico di nascosto, nella sicurezza di un apparecchio a distanza. E così sin da giovane aveva sempre deriso i tracker, proprio come facevano tutti i suoi compagni. E il vizio gli era rimasto, anche in una situazione in cui nessuno aveva più un briciolo d’onore: non c’era nulla da prendere in giro, eppure la risata sgorgò spontanea.

Falconer capì benissimo cosa stesse succedendo, non era certo la prima volta che gli capitava, ma non disse nulla. Dopo aver cercato di mascherare la risata con un colpo di tosse, fu Achab stesso a dire: «Ehm, sono molto curioso: mi spiegheresti come fai a manovrare quel drone a distanza?»

Era una misera scusa ma Falconer tacitamente accettò quelle specie di scuse e cominciò a torturare il nuovo venuto con lunghe descrizioni dei suoi apparecchi. Bisognava aspettare la nave, e non c’era altro da fare.

~

«Non hai altro da fare che fissarmi?»

Il tono di Machiko era seccato, teso, anche se non c’era cattiveria. Non ce l’aveva con Jungle, ma sentirsi i suoi occhi addosso cominciava a trovarlo insopportabile.

«Posso farti una domanda?»

Machiko non si aspettava questa richiesta, né che Jungle continuasse ancora a fissarla. «Forza, ma poi mettiti a fissare qualcun altro.»

«Che cazzo ci fai qui, con noi?»

Machiko lo fissò a lungo. «Sarebbe questa la domanda?»

«È una grande domanda.»

«Lo so, ma speravo in qualcosa di più preciso. Tipo perché ho scelto due pistole dal calibro troppo piccolo per far del male ad uno Yautja, qualcosa del genere.»

«Quello è tutto sottoposto alla domanda principale: che cazzo ci fai in una missione disperata e quasi senza speranza?»

Machiko cambiò posizione sulla sedia: ma quanto ci metteva quella nave ad arrivare?

«Sono qui perché sono stufa di ricevere domande del genere.»

Jungle rimase in silenzio per qualche secondo. «La tua risposta è vaga per vendicarti della mia domanda generica?»

Le labbra di Machiko si arricciarono in un sorriso amaro. «Se io fossi una Yautja non mi faresti questa domanda, quindi il problema è che dovunque io mi trovi... appartengo alla razza sbagliata. Sono stanca di cercare di accontentare tutti, di dimostrare che Yautja ed umani possono convivere felicemente: non possono, è impossibile. Quindi ho scelto: nel mio cuore sono una Blooded Warrior e voglio comportarmi come tale.»

«Ci sono altri modi...»

«No, non ci sono. A meno che non mi ritiri da sola su un pianeta disabitato, per cacciare con un clan devo riconquistare l’onore, e questa missione è il modo perfetto.» Fissò Jungle per qualche attimo. «Dovresti saperlo che sono già stata sola su un pianeta disabitato, quindi non ho altre alternative.»

Jungle non era convinto, lo si capiva benissimo. «Mi lusinga che tu abbia scelto la nostra specie, ma in fondo se l’alternativa è vivere come gli insetti umani... davvero non avevi altra scelta.»

Machiko d’un tratto non riuscì più a mantenere lo sguardo serio e iniziò a sorridere, trascinando anche lo Yautja. «Ora, per favore, smetti di fissarmi?» chiese sorridendo.

L’altro scosse la testa. «Guarda che non stavo fissando te, ma la spada che porti sulle spalle, a tracolla. Sei più simile ad una Blooded Warrior di quanto pensi...»

Machiko era colpita del pensiero, e pensò che non valesse la pena ricordare all’amico che probabilmente aveva partecipato a più missioni lei di lui, che si era ricoperta di grande onore, prima di cadere. Incassò il complimento in silenzio e si limitò a sorridere.

«Ti ringrazio. La mia lama ha proprio bisogno di incontrare di nuovo il sangue...»

~

«Eccola!» gridò Falconer indicando uno schermo. Premette qualcosa e d’un tratto lo schermo si riempì dell’immagine di un’astronave che faceva manovra in porto.

Il silenzio cadde improvviso. Era arrivato il momento. Era giunta l’ora. Non era più la pazza idea di un weekend agitato: ora era una missione vera. Una missione pericolosissima e forse senza ritorno. Era il momento di dimostrarsi coraggiosi. Di dimostrarsi guerrieri.

«A nome dei miei padroni, ho l’onore di dirvi: grazie per l’aiuto.»

Tutti si voltarono di scatto a guardare Bishop 3: nessuno lo considerava, quindi si erano quasi dimenticati della sua presenza. Achab si alzò e pose un braccio sulla spalla del sintetico. «Siamo noi che ringraziamo te e i tuoi padroni. Ci avete dato quello che nessuno, di nessuna razza, ci ha mai offerto: la possibilità di riscattarci.»

Il sintetico annuì, con un sorriso sincero quanto può esserlo un software robotico.

«Forza, prepariamoci», incitò Achab e tutti iniziarono a raccogliere i bagagli che avevano posato in giro durante la lunga attesa.

«Calma ragazzi», intervenne Falconer, «dobbiamo aspettare che attracchino e che tutto l’equipaggio abbandoni la nave. Non ci vorrà molto ma non sarà neanche rapido: tornate pure a mettervi comodi.»

La delusione fu tangibile, e tutti tornarono ai propri posti: aspettare ancora era una tortura ignobile.

Solo allora Achab si rese conto che non avevano parlato del ruolo di Falconer: perché stava facendo tutto quello? Per semplice amicizia con Scar? Quando l’indomani avrebbero scoperto che mancava una nave, se la sarebbe vista brutta. Sarebbe stato interrogato, torchiato... ed era sicuro che avrebbe raccontato tutto alla Compagnia. Questo riduceva drasticamente il tempo a disposizione per la missione, quindi c’era un’unica cosa da fare.

«Tu lo sai che fai parte della missione, vero?» disse di getto Achab alla volta di Falconer.

Lo Yautja si voltò e presentò un sorriso radioso. «Sarà un onore far parte del vostro gruppo.» Lo dava per scontato, ma sentirselo specificare gli faceva decisamente piacere. «I miei droni vi permetteranno di studiare il nemico senza essere visti: vedrete che vi sarò utilissimo.» Ci furono alcuni cenni di assenso. «Avete già un pilota o posso esservi utile anche in quello?»

Achab si voltò di scatto verso gli altri. «Avevamo pensato ad un pilota?» chiese con voce tremante.

Machiko alzò la mano. «Davo per scontato che avrei guidato io, quando lavoravo per la Compagnia ho imparato a guidare molti veicoli diversi.»

«E quando è stato?» chiese City Hunter.

La donna era stupita della domanda. «Qualche... cioè, diversi anni fa.»

«Quindi non sai se puoi guidare questa nave.»

«Tranquilli, tranquilli», intervenne Falconer. «La so guidare io, non c’è problema. Qui al porto c’è sempre bisogno di qualcuno che sappia manovrare e da tempo me l’hanno insegnato.»

Achab cercò di riprendere il controllo: era una parvenza di problema e già stava lasciandosi prendere dal panico. Cosa sarebbe successo una volta arrivati i problemi veri?

«Sarà una missione gloriosa», continuò Falconer, sempre più entusiasta. «La nostra storia sarà raccontata per tutto l’universo: la storia dei magnifici sei Yautja che sconfissero Wolf!»

Nessuno si sentì così spavaldo da condividere quell’entusiasmo, ma dopo un colpo di tosse Machiko alzò una mano. «Veramente... ci sarei anch’io.»

Falconer si voltò verso la donna. «Oh», disse vistosamente deluso. «Va bene, sarà la storia dei magnifici sette... però così non è più un titolo ad effetto.»

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Capitolo 8
*** 8 ***


Stazione mineraria “Shimada’s Hope”

L’uomo correva a perdifiato lungo la strada. La stessa strada che aveva percorso ogni giorno negli ultimi anni, la strada che portava alla miniera dove lavorava. Aveva lasciato la Terra con la sua famiglia per iniziare una nuova vita lontano dalla civiltà spietata, in un paesino di frontiera dove tutto era più semplice: niente però si era rivelato semplice. La miniera aveva voltato le spalle al paese e così aveva fatto la Compagnia: ed ora erano giunti quei mostri ad ammazzare tutti, perfetti diavoli di quell’inferno.

L’uomo correva perché se avesse raggiunto la miniera avrebbe avuto salva la vita, o almeno così gli aveva promesso quel Predator, parlando in una stentata lingua umana. Tutti sapevano che gli Yautja seguono un ferreo codice morale, e una promessa è sacra, quindi se avesse raggiunto la miniera c’era la concreta speranza di sopravvivere, e di riabbracciare sua moglie e sua fi...

Una nuvola rossa avvolse la sua testa. In realtà, una nuvola rossa fu d’un tratto tutto ciò che rimaneva della sua testa. Un’esplosione senza rumore, secca, istantanea, così improvvisa che il corpo dell’uomo continuò a correre per qualche metro, prima di accasciarsi scompostamente a terra. A pochi metri dalla miniera.

«Perfetto», gracchiò compiaciuto Wolf, ammirando il fucile che stringeva fra le mani. «Ora sì che è calibrato.» Illudere le sue vittime era il suo gioco preferito. Aveva imparato la lingua degli umani lo stretto necessario per promettere loro salva la vita se avessero corso indenni fino ad un certo punto, contando sul fatto che quegli idioti credevano che il codice Yautja valesse anche con le altre razze: per Wolf una promessa fatta ad un insetto non aveva alcun valore, era solo un gioco. E la parte migliore era uccidere le vittime a pochi passi dalla “salvezza”, assaporando tutto quel tempo in cui lo stupido umano aveva sperato di poter sopravvivere.

Wolf fece un cenno allo Yautja che gli era accanto. «Portamene un altro.»

«Guarda che sono quasi finiti», bisbigliò l’altro.

«Di già?» esclamò sorpreso Wolf. «Siete riusciti a stanare quelli nell’edificio centrale?»

L’altro Yautja scosse la testa. «Quelle mura sono le più resistenti che abbiamo mai incontrato. Di solito in queste colonie periferiche troviamo case che vengono giù con un soffio, ma quell’edificio è impenetrabile, a meno di non conoscere il codice d’accesso.»

«E l’avete “chiesto” a qualcuno di quegli insetti, il codice?»

«Per interrogare un umano tocca andarci giù pesante, e così poi diventa inservibile per i tuoi giochi.»

Wolf fissò lo Yautja seccato. «E va bene, prendetene un paio e interrogateli a dovere. Con il codice avrò accesso a molti altri umani con cui giocare.»

~

Nello spazio

Abbandonare il porto di Anderson City era stato meno facile del previsto. Per fortuna era una nottata tranquilla e non c’era traffico, ma lo stesso la guardia portuale continuava a cercare di mettersi in contatto con la nave, chiedendo il motivo di quella partenza non programmata, subito dopo essere arrivati.

Achab e gli altri erano saliti a bordo velocemente e Falconer era ripartito subito, rispondendo ai messaggio radio con scariche elettrostatiche. «Capita a volte che i mercanti siano già ubriachi, quando entrano in porto», spiegò il pilota, «e si mettono a fare dei giretti non autorizzati, tanto per divertirsi. Rispondendo ai messaggi radio con semplici scariche faccio vedere che sto tentando di rispondere senza riuscirci, così che la guardia portuale pensi più ad un idiota ubriaco che ad un ladro.»

«Stai improvvisando o avevi già questo piano da parte?» chiese Achab.

Falconer sorrise. «Faccio parte di quegli Yautja che si tenevano sempre pronti, in attesa del momento giusto per tornare in azione.»

Usciti dal porto era stato tutto più facile: era improbabile che la guardia portuale mettesse in moto un’operazione di inseguimento solo per una minuscola nave mercantile, il cui pilota sicuramente era troppo ubriaco per comunicare il cambio di programma.

«Ancora ad aspettare...» borbottava City Hunter, intollerante come tutti gli altri all’attesa inevitabile. Prese la sua borraccia e fece per bere un sorso, quando fu fermato bruscamente da Jungle.

«Che fai, sei pazzo? Vuoi consumare la tua acqua già da ora?»

City Hunter lo guardò allibito. «Rilassati, amico, quando arriveremo faremo il pieno.»

«Nei sei sicuro?» continuò seccato Jungle. «Hai studiato la mappa del pianeta? Sei sicuro ci siano sorgenti di acqua a volontà e sei sicuro che atterreremo in prossimità di una di queste? Quella che hai nella borraccia è l’unica acqua sicura che avrai per i prossimi giorni: se vuoi finirtela ora, che sei fresco e riposato, fai pure, ma poi non venire a chiederci la nostra acqua.»

City Hunter, seccato, ripose la borraccia con gesti nervosi. «Sì, papà...» mormorò fra i denti.

«Idiota», gli rispose Jungle.

«Compagni, sento un po’ di tensione nell’aria» cominciò a dire Berserker. «Che ne dite di un po’ di allenamento per scaricare i nervi?»

«No», intervenne Achab. «Dobbiamo conservare le energie, ne avremo bisogno più dell’acqua. Tanto nel tempo del viaggio non è che diventeremo più forti o più atletici. Ehi, Falconer...», dovette fare una pausa: ancora gli veniva da ridere a pronunciare quel nome, «se hai già impostato il pilota automatico vieni qui, che facciamo un piano d’azione.»

«Piano d’azione?» chiese deluso Berserker. «Arriviamo e ammazziamo tutti i Bad Blood, ecco pronto il piano d’azione.»

Achab mise una mano sulla spalla dell’amico. «Tu sei un combattente, Berserker, e anche bravo. Quando affronti un avversario metti in pratica un piano d’azione che hai studiato prima, anche se magari non te ne rendi conto. Per questo ti alleni prima di un incontro: ogni tecnica che lanci a vuoto in palestra è un piano d’azione per quando affronterai un vero avversario.»

«Non è una gran che, come metafora», borbottò Jungle alle spalle dei due.

«E va bene», rispose Achab a voce alta. «Faremo un piano d’azione perché ne abbiamo bisogno e perché lo dico io! Dovrò discutere così tanto per ogni decisione futura?»

Tutti fecero “sì” con la testa, mentre passavano davanti ad Achab per andare a sedersi nella sala grande vicino al ponte di comando.

«Che fatica», borbottò Achab, ma in realtà sapeva che non era più il giovane e aitante capo di guerrieri ardimentosi: le sue parole non sarebbero più state considerate ordini da eseguire alla cieca.

Tutti si sedettero intorno al grande tavolo luminoso, una piacevole sorpresa trovata sulla nave. Machiko e Bishop 3 si erano subito messi a lavoro per trasferire tutti i dati disponibili nella memoria del grande tablet che formava la tavola luminosa. Tutti gli Yautja si disposero lungo i lati del tavolo.

Achab si schiarì la voce solo per dire: «Lascio dunque la parola a Machiko.»

«E perché?» chiese stupito City Hunter.

Sarebbe stato gradito che quelli che conoscevano la donna lo avessero zittito, ma così non fu, quindi Achab chinò il capo e parlò con voce seccata. «Farò questo discorso una volta sola, quindi vi prego di ascoltare bene. Tu, City Hunter, eri un cacciatore solitario di città, tu Jungle di montagna, tu Falconer...», un attimo di pausa, «non so bene che facevi ma di sicuro lavoravi da solo.» Lo Yautja cercò di prendere la parola ma Achab non glielo permise. «Berserker eseguiva degli ordini e Scar non è arrivato neanche a quello. Infine io, che alla prima missione importante ho mandato i miei uomini al massacro.» Un altro secondo di silenzio pesante. «Secondo voi c’è qualcuno qui che sappia organizzare una spedizione di sette guerrieri in territorio nemico? Ebbene sì, c’è: Machiko. Come allieva del grande Duchande ha partecipato a missioni di grande importanza e ha fatto parte di squadre Yautja che si sono ricoperte di gloria. Mentre voi perdevate tempo a litigare e a stuzzicarvi lei ha studiato il territorio, ed essendo infine l’unica di noi ad aver portato a termine con successo missioni strategiche con più uomini, non voglio sentire una sola obiezione al fatto che sarà lei a impostare la strategia di questa missione.» Alzò lentamente una mano ad indicare Machiko. «Ogni volta che pensate a lei come a una donna umana... guardate l’onorevole segno che porta sulla fronte, e pensate a lei come a una Yautja.»

La donna era rimasta tutto il tempo con gli occhi bassi sullo schermo. Adorava quando l’amico Achab la onorava con quei discorsi, ma in quel momento poteva essere molto pericoloso: quelli che aveva intorno non erano più miseri fantasmi di guerrieri, privi di dignità, ma Yautja ormai disposti a tutto pur di dimostrare di essere ancora combattenti. E questo rendeva loro più insopportabile prendere anche solo consigli da una donna umana: figuriamoci ordini.

«A te la parola, Machiko», disse infine Achab, mentre tutti voltavano i loro sguardi tesi sulla donna.

Machiko prese la parola cercando di essere più diplomatica possibile. «Mi limito a raccontarvi quello che ho scoperto», come a dire che non stava dando ordini ma semplici informazioni.

Fece apparire una grande mappa sul tavolo, che prendesse l’intera superficie. «Questa è “Shimada’s Hope”, una colonia fondata in una vallata: e questo è il primo problema. Niente boschi, niente alberi, niente montagne: già sarà difficile avvicinarsi a piedi senza essere visti... figuriamoci atterrare nei paraggi. Wolf sicuramente è tranquillo e non si aspetta visitatori, quindi è plausibile pensare che non abbia lasciato sentinelle ai bordi della valle e che non abbia dei radar attivi, ma non possiamo rischiare. La nostra risorsa più grande, anzi oserei dire l’unica nostra risorsa è l’effetto sorpresa: questo vuol dire che dovremo atterrare lontano dalla colonia, per essere sicuri che non ci sentano arrivare.»

«Lontano quanto?» chiese preoccupato Jungle.

Machiko fece scorrere la mappa sul grande schermo. «LV-617 è un pianeta poco rigoglioso e a noi serve acqua e cibo. Perciò ho pensato che il punto migliore dove atterrare sia qui», ed indicò un punto sulla mappa. «C’è un fiume dove fare rifornimento d’acqua e plausibilmente ci sarà della fauna da cacciare. È una delle poche oasi del pianeta: scegliere un punto più vicino alla colonia significa arrivare davanti a Wolf assetati e affamati.»

«Di quanta distanza stiamo parlando?» chiese Achab.

Machiko lo fissò, poi girò la testa verso tutti gli altri. «Non ho strumenti per darvi la cifra esatta, ma parliamo di circa... una trentina di chilometri.»

«Cazzo!» sibilò qualcuno.

«Lo so, detta così sembra tanto», continuò la donna, «ma è una distanza che si può coprire in un solo giorno di cammino e saremo più che sicuri che nessuno potrà averci visto atterrare.»

«Quando parli di un giorno di cammino», intervenne Achab, «hai considerato che siamo fuori allenamento e appesantiti dal carico?»

Machiko annuì. «E qui arriva una bella notizia. Ho consultato il database di questa nave mercantile per vedere se ci fosse qualcosa di utile, e c’è: nella stiva risulta esserci un piccolo veicolo fuoristrada. Potremo usarlo per trasportare tutto il carico pesante e a turno potremo riposarci mentre si procede. Così facendo potremo affrontare l’intera distanza senza mai fermarci.»

Tutti annuirono silenziosamente.

«E per il problema della vallata?» chiese Achab. «Come ci avviciniamo?»

Machiko fece scorrere la mappa. «Non ci dirigeremo direttamente alla colonia ma arriveremo qui», ed indicò un punto, «cioè all’uscita di emergenza della miniera locale. Entreremo da lì e percorreremo la miniera fino all’entrata principale, che affaccia sull’abitato dove probabilmente si sono accampati Wolf e i suoi: dal buio della miniera potremo spiarli e organizzare un piano d’azione.»

Nessuno si sarebbe azzardato a fare i complimenti a Machiko, ma tutti non poterono che essere d’accordo con quel piano. Achab annuì soddisfatto. «Mi piace. Sarà dura ma è un buon piano.» D’un tratto si rivolse a Bishop 3, che di solito ignorava. «Allora, che ne pensi del piano di Machiko per raggiungere i tuoi padroni?»

Il sintetico sorrise e si rivolse alla donna. «Non male, per un’umana.»

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Capitolo 9
*** 9 ***


LV-617

Di nuovo, la lancia colpì l’acqua senza alcun risultato.

Jungle si stava deprimendo sempre di più, eppure l’atterraggio su LV-617 era stato abbastanza tranquillo, con giusto qualche ruzzolamento in cabina dovuto al fatto che nessuno aveva pensato ad infilarsi le cinture di sicurezza. Secondo i piani erano atterrati nei pressi di un’oasi in cui avevano potuto fare il pieno d’acqua, ma il problema del cibo aveva spinto Jungle ad un insano proposito: pescare come faceva un tempo, cioè infilzando i pesci con un bastone di legno.

«Sicuro che sia possibile farlo?» chiedeva sarcastico City Hunter, che beveva di gusto davanti al compagno per il semplice gusto della polemica. Non aveva più sete, ma visto che l’altro lo aveva rimproverato di sprecare acqua, ora, che di acqua ce n’era a bizzeffe, gli piaceva ostentare un inutile spreco.

«Lo facevo sempre, durante le mie stagioni di caccia su altri pianeti», borbottava Jungle, sapendo che non avrebbe dovuto cedere alla provocazione ma era troppo forte la voglia, anzi l’esigenza di mettere in chiaro che era stato un grande cacciatore. «Solo che sono passati anni e forse ho perso un po’ di pratica.»

Non esisteva alcun “forse”: più Jungle mancava clamorosamente i pesci nel ruscello, più era evidente che nemmeno assomigliava al guerriero che era stato un tempo. Né i suoi riflessi né la sua vista lo aiutavano, ed era una consapevolezza amara da acquisire, soprattutto all’inizio della missione più pericolosa della sua vita. Una missione che avrebbe esitato ad accettare già quando era in piena forma. Va bene dare la caccia agli insetti umani, che fanno tanto rumore e poco altro, ma aggredire un proprio simile, per di più un noto criminale spietato e in piena forma... No, non doveva pensarci: ormai non si poteva tornare indietro e quindi riflettere troppo era inutile.

Nel successivo colpo Jungle mise tutta la forza che aveva, schizzando acqua ovunque. Senza ovviamente alcun successo.

«Però!» disse divertito City Hunter. «Questa sì che è una tecnica nuova: prendere pesci facendoli morire di paura.»

~

«Ecco il fumo: vai qui.»

Achab si stava infervorando e premeva il dito sullo schermo del computer come se questo potesse servire a qualcosa. E pensare che solo qualche minuto prima aveva cercato un luogo appartato per riposarsi dallo stress del viaggio. Ufficialmente avevano concordato qualche ora di riposo all’oasi per fare rifornimento di acqua e cibo prima di partire per la missione, ma in realtà sognava di chiudere gli occhi qualche minuto per scaricare la tensione. Quando Machiko l’aveva trovato e svegliato discretamente – facendo apposta rumore nelle vicinanze così da non doverlo svegliarlo di persona – dicendogli che c’erano novità che doveva vedere, tutto lo stress e la tensione erano tornati. Più forti di prima.

Falconer manovrava con maestria il suo joystick mentre il suo drone volava fra gli alberi alti di LV-617. Era stata Machiko a consigliargli di rimanere vicino ai rami, anche se c’era il concreto pericolo che il drone rimanesse incastrato: era peggiore il pericolo che, volando da solo nel cielo, qualche sentinella o radar Yautja potesse individuarlo. Si era rivelato un timore più che fondato.

Mentre il drone si avvicinava al punto indicato da Achab, la situazione si faceva sempre più chiara. Il fumo che Falconer aveva scorto in lontananza si era rivelato essere proprio quello che era più scontato che fosse: il fuoco di un bivacco.

«Magari sono coloni in campeggio che non hanno saputo dell’aggressione di Wolf.»

Falconer snocciolava ipotesi a raffica per spiegare quel bivacco, mentre Achab e Machiko rimanevano in silenzio: era inutile arrovellarsi prima di saperne di più.

«Magari sono...»

«Magari potremmo aspettare che il tuo giocattolo si avvicini di più, che ne dici?» lo interruppe seccato Achab.

Falconer mandò giù il boccone amaro e continuò a manovrare il suo drone con un broncio stampato sul viso. La telecamera si avvicinava lentamente per non dare nell’occhio, ma era ormai chiaro costa stesse riprendendo: la snella astronave che giaceva dietro il bivacco non lasciava dubbi sulla razza dei “campeggiatori”. Erano Yautja.

«Magari sono sentinelle di Wolf», bofonchiò Achab, che non si rese conto dell’occhiataccia che ricevette da Falconer: quindi ora si possono fare ipotesi?, sembravano chiedere i suoi occhi.

«A trenta chilometri dalla colonia? Ne dubito», rispose Machiko.

«Magari è una pattuglia in ricognizione che batte le vicinanze per scoprire se ci sono altre colonie umane.»

Le immagini, sempre più ravvicinate e dettagliate, mostravano uno Yautja davanti al fuoco, plausibilmente a cucinare della selvaggina, e altri due che discorrevano animatamente. Era una scena molto familiare a tutti: quando si cacciava in gruppo, c’era sempre il momento in cui si raccontava come si era acciuffata una preda, e di solito era anche il momento in cui si abbelliva parecchio la propria impresa.

«Non sembrano dei criminali spaziali», azzardò Falconer, per il solo gusto di riprendere il fiume delle sue ipotesi.

«E se fossero altri “noi”?» chiese d’un tratto Machiko. «Cioè altri guerrieri che vogliono ricoprirsi di gloria affrontando Wolf?»

Quella era decisamente l’ipotesi peggiore: arrivare così vicino alla redenzione e alla gloria... per lasciarsela sfuggire sotto il naso... Bisognava fare qualcosa, e anche in fretta.

«Non mi importa chi sono», disse Achab d’un tratto serio, alzandosi in piedi e fissando il monitor con sguardo minaccioso. «In ogni caso dovremo farli fuori.»

~

«Non sembri più l’oste di Anderson City, esperto di vini e risse da bar.»

Jungle stava stuzzicando l’amico Achab semplicemente per non dover ammettere di sentire montare la paura dentro di sé: ammazzare altri Yautja era un passo decisamente grande, e rendeva maledettamente reale la missione. Quella missione che finora stava vivendo quasi come un sogno.

«Grazie al drone ne abbiamo visti tre», stava dicendo Achab con voce tonante alla volta dei compagni raccolti intorno all’entrata dell’astronave. «Ma non escludo che ce ne possano essere altri dentro l’astronave. Stanno per mangiare e in circa mezz’ora di cammino, al massimo un’ora, dovremmo raggiungerli: è una coincidenza troppo perfetta per non approfittarne.» Guardò gli altri negli occhi. «So che avreste voluto riposarvi di più e che non abbiamo trovato molte scorte di cibo», al che Jungle abbassò lo sguardo, sentendosi in colpa per non aver pescato neanche un pesce, «ma dobbiamo metterci in marcia subito così da piombare su di loro mentre stanno mangiando o meglio ancora mentre stanno digerendo.» Poi si rivolse a City Hunter. «Come stiamo con i bagagli?»

Lo Yautja annuì. «Tutti caricati su quella... com’è che si chiama?» chiese rivolto a Machiko.

«Jeep», rispose la donna.

«Tutti caricati sulla jeep», riprese City Hunter alla volta di Achab. «Non è che abbiamo poi molto da portarci appresso.»

«Bene, perché avvicinarci con la jeep è troppo rischioso: quell’affare fa un rumore d’inferno, la useremo solo fino a metà strada poi dovremo portare le armi in spalla. Non abbiamo a che fare con una banda criminale che si sente al sicuro ed è distratta: questi sono plausibilmente Yautja in missione, quindi ben attenti a ciò che li circonda. Solo avvicinandoci in assoluto silenzio potremo prenderli di sorpresa e...» Achab si prese una pausa e guardò in faccia tutti i compagni. «E faremo una prova prima dello scontro con Wolf. Da anni nessuno di noi combatte sul serio, sul campo, quindi uccidere questi Yautja sarà un test per capire se siamo ancora in grado di assomigliare a dei guerrieri.»

«E se non lo siamo?» si ritrovò a chiedere Scar.

Tutti si voltarono a fulminarlo con gli occhi. Achab, dopo qualche attimo d’esitazione, rispose con tono grave. «Allora siamo già morti.»

~

Avvicinarsi in silenzio al bivacco Yautja fu decisamente più impegnativo di quanto ognuno pensasse. Muoversi in silenzio nella foresta era in pratica impossibile: sembrava che già l’atto stesso di respirare facesse muovere foglie e cespugli facendo rumori che qualsiasi cacciatore avrebbe notato.

Per fortuna al loro arrivo gli Yautja stavano ancora mangiando intorno al fuoco, quindi potevano contare su un minimo di distrazione. Erano rimasti in tre, notò Achab, quindi probabilmente la fortuna del guerriero gli era favorevole.

Giunti nelle vicinanze, secondo il piano che Machiko aveva illustrato loro, i sette si separarono in gruppi per poter accerchiare l’accampamento. Era una mossa rischiosa, perché era più alta la possibilità di fare rumore e attirare l’attenzione dei nemici, ma era necessario per poter sferrare attacchi da più punti.

Scar si rese conto che sebbene nella propria testa si sentisse pronto, nella realtà non lo era affatto. Era più facile che mettesse il piede nel punto sbagliato, dove cioè facesse più rumore possibile. Per questo fu affiancato a Jungle, che almeno non aveva perso la capacità di muoversi silenziosamente nella foresta. Lui cercava di guidare il giovane indicando in silenzio i punti giusti dove posare i piedi, ma Scar aveva una esasperante mancanza di capacità mobile: sembra naturalmente portato per i movimenti più sbagliati.

I due girarono intorno alla radura dove gli Yautja si erano accampati e Jungle non si nascondeva il fatto che portarsi dietro quel produttore naturale di rumori molesti significava di sicuro attirare l’attenzione dei cacciatori, ma in fondo era questo il compito di loro due: fare rumore per nascondere i propri compagni pronti all’attacco.

Ad un certo punto, mentre entrambi fissavano tesi i tre Yautja che mangiavano e chiacchieravano, da un cespuglio esplose fuori un cinghiale. In realtà solo dopo Jungle si rese conto che era un cinghiale, perché in quelle frazioni di secondo che seguirono il violento ed assordante rugliare dell’animale si vide solo un’ombra che si muoveva veloce come un fulmine. Ma anche l’istinto di Jungle era veloce, malgrado il suo corpo fosse fuori forma: prima ancora di capire cosa stesse succedendo, ogni muscolo del suo corpo si contrasse, ogni nervo e ogni tendine ricordò il passato glorioso e le sue potenti braccia scattarono: afferrò il cinghiale per il collo e glielo spezzò con un solo gesto delle mani. I suoi muscoli dovettero attingere ad ogni briciolo di forza rimasto in corpo, ma quando Jungle capì cosa aveva fatto d’istinto, rimase piacevolmente colpito: forse non era poi messo così male come pensava...

L’urlo del cinghiale fece quello che avrebbero dovuto fare Jungle e Scar: attirare l’attenzione dei tre Yautja. Questi infatti si erano immobilizzati ed ora guardavano nella loro direzione. Dopo qualche attimo uno prese il fucile che aveva posato di fianco, si alzò e lentamente fece per avvicinarsi alla postazione dove rimanevano nascosti Jungle e Scar, che iniziarono a pregare che il piano di Machiko funzionasse. Quando lo Yautja si fermò e iniziò a mirare con il proprio fucile verso la loro direzione, i dubbi sulla funzionalità del piano si fecero pressanti.

Jungle stava per ordinare a Scar la fuga quando un colpo secco, indistinguibile dai tanti rami spezzati dai piedi del giovane Predator, mise fine al pericolo: la testa dello Yautja con il fucile esplose, lasciando solo la mascella a penzolare, mentre il corpo ci mise qualche istante a iniziare la rovinosa caduta. Uno dei fucili che avevano scelto nel magazzino di Anderson City era un’arma da cecchini, che Machiko sapeva usare molto bene: a quella distanza ravvicinata un qualsiasi fucile sarebbe andato bene, ma così era anche meglio perché la donna poteva tenersi più riparata per sparare.

Gli altri due Yautja scattarono in piedi e cercarono di raggiungere l’astronave, probabilmente per afferrare le proprie armi pesanti, ma City Hunter e Berserker piombarono su di loro ad impedirglielo. I due erano scattati fuori dai cespugli nel momento esatto dello sparo, così ero potuti piombare sui due Yautja mentre ancora questi erano distratti. La mano monca di City Hunter non era assolutamente un impedimento, quando con quella buona imbracciava un lungo coltello dalla lama a doppia punta, utile quando era necessario non fare troppo rumore: sgusciò alle spalle della sua vittima e fece scattare la sua lama a tagliarne la gola, e per impedire un qualche ultimo gesto di aggressione afferrò il collo con il braccio monco mentre con l’altra mano continuò a pugnalare lo Yautja ai reni, per spezzare ogni possibilità di reazione in attesa della morte.

La gola fu il bersaglio anche di Berserker, ma l’ardimento del giovane lo portò a colpire la vittima con un pugno potentissimo, che impedì all’avversario di urlare o anche solo di respirare. Dopo altre due tecniche al volto, per creare confusione e spiazzamento, Berserker si portò alle spalle della vittima, che non riusciva più a respirare, si avvinghiò al suo collo e premette finché non lo sentì cedere con un crack secco.

Secondo quanto si erano ripromessi, nessun rumore molesto si alzò dal campo. Se ci fossero stati altri Yautja in giro, molto probabilmente non si sarebbero resi conto di nulla.

Intanto Achab e Falconer si erano avvicinati velocemente all’entrata dell’astronave. Secondo il piano, il tracker fece entrare il suo drone così da scoprire quanti altri Yautja ci fossero dentro, sperando non fossero troppi. Achab stringeva un fucile umano di cui non era proprio sicuro conoscesse il funzionamento: nel caso avrebbe preferito affrontare a mani nude uno o due Yautja, contando sull’aiuto degli altri compagni. Nei primi secondi concitati il drone non mostrò nulla, facendo sperare nella fortuna del guerriero: l’astronave sembrava vuota. D’un tratto però il segnale si interruppe.

«Cazzo!» sibilò Falconer.

«Che succede?» sussurrò Achab.

«Forse ha sbattuto su qualche paratia...» Falconer scosse la testa, «ma molto più probabilmente il drone è stato intercettato da qualcuno.»

I due si guardarono con apprensione... quando una voce gelò loro il sangue.

«E tu che cazzo ci fai qui, Achab?»

E dal buio dell’astronave fuoriuscì Celtic.

~

Achab fissava allibito l’amico. «Celtic?» Non riuscì a trovare altro da dire.

Il grande Yautja si guardò in giro e vide subito i cadaveri dei tre suoi uomini. «Sei stato tu?» chiese all’amico. Achab rimase in silenzio, così Celtic continuò. «Hai ucciso tre Bad Blood addestrati senza provocare il minimo rumore...» Il suo viso si contorse in un largo sorriso. «Cazzo, questo è l’Achab che conosco!»

D’improvviso abbracciò l’amico, mentre quest’ultimo rimaneva immobile nel suo stupore. Intanto gli altri cominciarono ad avvicinarsi titubanti, cercando di capire perché quel pericoloso Yautja stesse abbracciando Achab invece di cercare di ucciderlo.

«Ce ne hai messo per tornare in campo», continuava a dire sorridendo Celtic. «E questi sono i tuoi uomini?» Si voltò a guardare gli altri che si stavano avvicinando. E il sorriso si smorzò. «Questi sono i tuoi uomini?» Il cambio di tono non lasciava dubbi sul calo della stima. Quando vide Machiko il sorriso ormai era scomparso. «Ma quella... è una donna umana? Achab, fattelo dire: il tuo gusto è peggiorato.»

Achab cominciò ad agitare le mani ma non riusciva a trovare niente da dire.

«Non fa niente», continuò Celtic dandogli pacche sulle spalle. «L’importante è che ci sia tu. Ho bisogno di uomini in gamba come te e in effetti, ora che ci penso, aver organizzato un’azione di questo tipo con... be’, con guerrieri di questo tipo, è segno che sei un grande condottiero.»

«Veramente il piano è mio», disse Machiko, imbracciando in modo spavaldo il fucile da cecchino.

«Ah, la donna umana parla pure la nostra lingua. Splendido...», disse con disgusto Celtic, guardando sprezzante la donna. La ignorò e tornò a rivolgersi ad Achab. «Forza, andiamo, che Wolf ci aspetta: vedrai, ti adorerà. È sempre alla ricerca di validi guerrieri come te.»

Il gelo attraversò le schiene di tutti, e finalmente Achab – fattosi subito scuro in volto – riuscì a parlare all’amico. «Che vuoi dire che Wolf aspetta? Tu... tu conosci Wolf?»

Celtic cadde dalle nuvole. «Perché sei così stupito? Quanti anni sono che ci conosciamo? Gestisco Bad Blood da anni: secondo te posso non conoscere il più famoso di loro?»

«Quindi non sei qui per... per ucciderlo.»

Celtic era sempre più confuso. «Perché mai dovrei ucciderlo?»

Achab già sapeva che quanto stava per dire era oltremodo stupido, in quella situazione, ma lo disse ugualmente. «Per l’onore...»

Celtic scoppiò in una sonora risata, ed abbracciò l’amico. «Non so che strani discorsi ti sei fatto nella mente, Achab, ma non ricordo più cosa sia l’onore, da tanto tempo. Wolf ed io siamo amici da sempre, da...» agitò le mani come a cercar di ricordare, «da quella volta, come si chiamava quel pianeta...? Dài, ti ricordi quella missione...?»

Achab non mosse un muscolo. Avrebbe dovuto saperlo da sempre, o per lo meno avrebbe dovuto sospettarlo, e forse era questo che d’un tratto gli spezzò il cuore: l’essere stato così stupito da non averlo capito prima. Parlò quindi con voce tagliente. «Da quella volta che ci vendesti tutti per fare un favore a Wolf.»

Il silenzio crollò pesante fra i due. Ogni volta che Achab pensava a quando aveva perso l’onore, in quella missione in cui aveva guidato i propri uomini al massacro, si focalizzava solo sui propri errori... non aveva mai, neanche per un attimo, pensato che la missione era stata sabotata da Celtic. Dal suo amico fraterno. Da un Blooded Warrior come lui.

«La missione non aveva speranza, Achab» disse Celtic sulla difensiva. «Che senso aveva morire inutilmente? Lo ammetto, avvertii Wolf così da avere salva la vita... io e te.»

«Lo fai sembrare come un gesto d’amicizia», disse gelido Achab.

«Lo era. Ti ho sempre considerato mio amico, e così ti presenterò a Wolf: come un amico.»

«E se invece io volessi ucciderlo, Wolf?»

Celtic guardò per qualche istante l’amico, come a cercar di capire se stesse parlando seriamente. «Tu insieme a chi altri? Magari a questi quattro catorci? Sii serio, amico mio.»

«Non sono tuo amico.» Nella voce di Achab stava montando la furia di tutti i compagni uccisi, torturati, massacrati perché Celtic aveva sabotato la missione. E c’era anche tutto il tempo in cui Achab si era sentito una nullità per il senso di colpa. «Come immagino non fossero tuoi amici quei tre guerrieri che abbiamo ucciso.»

«Che c’entrano loro? Ovvio che non fossero miei amici, semplicemente lavoravano per me.»

«Eppure non sembri seccato per la loro morte: questo la dice lunga su quanto tu stimi la vita altrui.»

Celtic agitò la mano in aria. «Da quando sei diventato così mollaccione? Cosa dovrei fare, piangere per tre guerrieri morti?»

«Certo che no», sibilò Achab. «Visto che non hai avuto problemi a vendere i tuoi fratelli, figuriamoci quanto te ne freghi di tre guerrieri anonimi.»

Celtic agitò una mano in aria con fare sprezzante. «Anche sentimentale, ora... Gli umani ti hanno contagiato con i loro sentimenti, ma con me e Wolf tornerai lo splendido guerriero che eri un tempo. Molla questi vecchi arnesi e vieni con me...»

Achab cedette alla rabbia che sentiva esplodergli dentro e all’improvviso fece cadere il fucile a terra ed aggredì il vecchio amico. Lo afferrò velocemente alla gola con entrambe le mani, spingendo con tutto il corpo in avanti per farlo retrocedere... ma Celtic non si scompose minimamente.

Se non fosse diventato cieco di rabbia, Achab avrebbe valutato meglio la situazione. Celtic aveva una stazza superiore alla sua, e soprattutto non aveva passato gli ultimi anni a bere in un bar: il suo corpo non si mosse di un millimetro alla spinta che cercava di farlo indietreggiare, e il suo massiccio collo a malapena sentiva le mani che cercavano di stringerlo. Proprio a dimostrare quanto inutile fosse quell’attacco, Celtic parlò con voce normale, per nulla disturbata dal tentativo di strangolamento: «Mi stai deludendo, Achab.»

La dimostrazione di quanto il suo sforzo fosse inutile fece impazzire di rabbia Achab, che iniziò a sferrare pugni sul volto del vecchio amico, che incassò come se fossero punture di zanzara.

Gli altri cominciarono a guardarsi con occhi gravi: era uno spettacolo terribilmente umiliante, ma era impossibile intervenire. «Forse dovremmo...» bisbigliò Scar ma Jungle lo zittì prontamente. «Non possiamo fare niente», bisbigliò. «Intervenire sarebbe ancora più umiliante per Achab.»

Mentre incassava pugni senza battere ciglio, Celtic fissava il vecchio amico con sguardo grave. «Temo che vivere con gli umani ti abbia fiaccato più di quanto immaginassi. Ormai sei il fantasma del guerriero che ho conosciuto anni fa.»

Achab finalmente si fermò, sfiancato e con il fiatone. Teneva il viso basso mentre ansimava, e finalmente fra un respiro pesante e l’altro tornò a parlare. «Ti ringrazio, Celtic...» Parlava vistosamente a fatica. «Il mio piano, una volta davanti a Wolf, era di ucciderlo a mani nude così da guadagnare più onore.» Deglutì e alzò il viso a guardare gli occhi dell’altro. «Ora so che mi è impossibile, e grazie a te l’ho scoperto per tempo.» Infilò una mano nella tasca posteriore della sua cintura e la piccola lama tagliente che ne estrasse brillò per un secondo alla luce del giorno... prima di affondare nella gola di Celtic.

Il gesto di Achab fu rapido e fluido, perché gli anni passati nei bar se da una parte gli avevano fiaccato il fisico, da un’altra gli avevano insegnato come uscire vivo da scontri con avversari molto più forti di lui. La stazza e i muscoli non possono nulla contro la fragilità della gola, e una lama affilata poteva risolvere anche la situazione più difficile. Non era un soluzione onorevole, era roba da taverna e non certo da guerrieri, ma il problema ormai non si poneva: Achab non era più un guerriero da tanto tempo.

Malgrado l’espressione stupefatta degli occhi di Celtic, il grande Yautja rimase in piedi a lungo cercando di respirare, e soprattutto di parlare, senza riuscirci.

«Mi spiace d’averti deluso, ma sapessi quanto tu hai deluso me», gli disse Achab senza più rabbia nella voce. «Io non sono né sarò mai un Bad Blood, perché io non tradisco i miei fratelli.»

Celtic morì in piedi e in modo composto, come un guerriero. E gli altri assistettero in silenzio in segno di rispetto.

Solo quando il corpo del vecchio amico si accasciò a terra e smise di tremare, allora Achab si voltò verso gli altri, che in quel momento cercarono di assumere facce neutre e non mortalmente dispiaciute per aver assistito ad una scena così umiliante per il loro capo.

Achab li guardò serio ma poi sorrise, teso. «Questa, casomai, nella ballata delle nostra impresa non la inseriamo.»

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Capitolo 10
*** 10 ***


Wolf masticava con un’espressione visibilmente schifata. Era un guerriero, sempre in missione nelle colonie umane più povere della galassia, ma raramente aveva trovato del cibo peggiore, dovuto probabilmente all’estrema povertà ed abbandono della colonia. «Non vedo l’ora di andarmene da questa fogna», continuava a ripetere, «così da fare un pasto decente.»

Lui e un altro Yautja avevano preso possesso della prima casa umana che avevano trovato, non essendo particolarmente interessati né all’accoglienza né alla spaziosità: un qualsiasi riparo andava bene. Il suo aiutante mangiava senza lamentarsi ma era chiaro che neanche lui apprezzava il cibo. «E se mandassimo qualcuno a caccia? Nei boschi sicuramente c’è qualche animale migliore di... qualunque cosa sia stata in vita questa carne.»

Wolf scosse la testa. «Non voglio distrazioni per i miei uomini, che poi si divertono ad andare a caccia e chissà quando tornano. Invece appena arriva Celtic molliamo questo buco. A proposito, hai avuto messaggi da lui?»

«Nella sua ultima comunicazione ha detto che stava per atterrare, ed in effetti avrebbe già dovuto essere qua.»

Wolf scoppiò in una grassa risata. «Quell’idiota non fa che sbagliare a leggere le mie coordinate: niente di più facile che sia atterrato a qualche chilometro da qui. Fa niente, aspetteremo un po’ di più.»

In quel momento entrò un altro Yautja, che rimase sulla porta in attesa che Wolf gli facesse segno che poteva parlare. Quando lo ricevette, disse con tono neutro: «Dopo varie prove, finalmente abbiamo trovato il modo di torturare gli umani senza che ci morissero tra le mani. Però sembra che davvero non sappiano il codice per accedere al palazzo centrale. Cosa devo fare?»

Wolf masticò a lungo, poi si rivolse al suo aiutante. «Puzza anche a te?»

L’altro annuì. «Nelle colonie che Celtic ci segnala troviamo sempre catapecchie e gente che si difende con bastoni di legno, qui invece c’è addirittura un palazzo impenetrabile e ogni casa ha un’armeria.» E con la mano indicò una parete accanto a lui. «Un’armeria vuota. Il che significa che ci sono umani armati in giro che stanno aspettando di agire. Molti saranno incapaci e molti li abbiamo già fatti fuori, ma non è una delle solite situazioni tranquille. E poi...»

Wolf deglutì a fatica. «E poi?»

L’aiutante lo fissò. «So che lo conosci da sempre e ti fidi di lui... ma Celtic non si è ancora visto. Probabilmente ha sbagliato ad atterrare... ma se invece ci avesse fregati? Sono giorni che gli umani sono chiusi in quel palazzo, dove sicuramente ci sarà una radio: a quest’ora magari il cielo è pieno di navi militari.»

Wolf sbuffò. «Assurdo, Celtic non lo farebbe mai.»

«Cosa, non farebbe mai? Tradire un amico?»

Wolf lo fissò. Non amava che gli si parlasse in modo così diretto, ma dall’aiutante lo accettava, perché così facendo lo spronava a pensare. Rimase immobile poi si accorse che l’altro Yautja era ancora sulla porta. «Sei ancora qui, tu?»

L’altro chinò la testa in segno di scusa. «Vorrei sapere se devo continuare a torturare gli umani.»

Wolf agitò una mano. «A che serve, ormai? Magari in quel dannato palazzo hanno armi potenti pronte a tenerci a bada. No, basta così. Appena arriva Celtic ce ne andiamo...» Deglutì rumorosamente. «Intanto mi divertirò con gli ultimi umani rimasti: portameli.»

«Ah, dimenticavo», prese la parola il nuovo arrivato. «Prima di morire uno di loro ha detto che ci sono altri umani nascosti nella miniera. Nessuno degli altri ne ha fatto menzione, forse quell’umano ha mentito per farci cadere in qualche trappola...»

«Se fosse una trappola l’avrebbero già usata al nostro arrivo», rispose Wolf. «Manda qualcuno a controllare e digli di stare attento. Se trova altri umani li voglio vivi: visto che dobbiamo andarcene senza alcun bottino, voglio almeno divertirmi il più possibile.»

~

Percorrere la trentina di chilometri che li separava dalla colonia fu più penoso di quanto avessero immaginato, anche se alla fine impiegarono meno tempo del previsto.

Non era passato neanche un giorno ma sembrava già lontano il ricordo del cinghiale arrosto mangiato all’accampamento di Celtic, sfruttando il fuoco già acceso e l’avere già disponibile un cinghiale appena ucciso. Jungle fece il meglio che poté ma fu lo stesso una cena amara: nessuno parlò di quanto era successo fra Achab e il suo vecchio amico, e anzi si cercò di rimanere in silenzio.

Quando iniziarono la camminata, dopo qualche ora di sonno, la situazione inizialmente non sembrò migliorare. Su consiglio di Machiko non camminarono uno appresso all’altro ma si allargarono il più possibile, così che se uno di loro fosse caduto in qualche trappola gli altri ne sarebbero rimasti fuori. Achab non disse nulla e lasciò che la donna desse consigli e indicazioni: quel silenzio fu interpretato da tutti come la rinuncia a guidare il gruppo.

Ognuno rimuginava sulla propria prestazione, durante quella prima missione su LV-617. Jungle ancora si stupiva di avere i riflessi pronti, City Hunter si compiaceva della capacità di uccidere che aveva conservato e lo stesso faceva Berserker, che sapeva di essere in forma ma non era sicuro che, all’atto pratico, avrebbe avuto la forza di uccidere un proprio simile. Falconer era occupato a guidare il suo drone qualche metro avanti a loro, per controllare che la strada fosse sgombra: non era facile camminare e guardare il suo schermo, quindi non aveva tempo di pensare a quanto era successo. Scar era semplicemente contento di essere ancora vivo e di non aver fatto troppi casini.

Tutti in fondo erano sollevati dalla propria riuscita sul campo, tranne ovviamente Achab. L’aver vendicato i propri compagni massacrati e l’aver scoperto di non aver avuto alcuna colpa nella loro morte era una sensazione liberatoria, ma fortemente annacquata dall’amara constatazione di essere finito, come guerriero. Era un Predator da taverna, era un guerriero da bar. Niente di più.

«Tu non ci crederai, ma quanto è successo è stato un bene.»

Achab si voltò di scatto a fissare Machiko. «Da dove sbuchi, tu? Non stavi camminando là dietro?»

La donna sorrise. «Lo prendo come un complimento: vuol dire che so ancora muovermi silenziosamente.»

Achab non sorrise. «So che è stato un bene», disse tornando a guardare avanti e a cercare di calibrare il respiro per non far vedere che aveva il fiatone. «L’ho detto anche a Celtic: mi ha fatto capire le mie forze prima che fosse troppo tardi. Con Wolf non avrei avuto scampo...»

«Non solo per quello», disse Machiko. «Ti immagini cosa voglia dire essere una donna umana in un gruppo di enormi Yautja muscolosi? Se tu in questo momento ti senti debole, figurati come mi sono sentita io, anni fa, quando ho dovuto affrontare i combattimenti con i miei compagni di clan.»

«Sento che sta per arrivare la morale...»

La donna lo ignorò e continuò a parlare. «Dissi al maestro Duchande che era impossibile per me affrontare avversari così troppo più forti di me, tanto più che in breve tempo tutti nel clan mi odiavano e facevano di tutto per mandarmi via. E sai lui cosa mi rispose?»

Achab sentiva aumentare il fiatone, mentre si faceva strada fra i cespugli stando attento a dove metteva i piedi. «Non ne ho idea», disse in modo secco.

«Mi disse che sentirsi deboli è la più grande forza di un guerriero, perché lo spinge a non fermarsi mai, a studiare se steso e gli avversari: lo porta a migliorare sempre, e questo lo rende un guerriero onorevole. Non è la forza a farlo, bensì la debolezza...»

«Sono contento che mi snoccioli i buoni precetti del maestro», rispose Achab seccato, «ma proprio non mi aiutano.»

«Così io accettai le sfide dei miei compagni di clan», continuò imperterrita Machiko. «E non fu facile evitare pugni che mi avrebbero spaccato la testa. Seguii il consiglio di Duchande e studiai sia me che gli avversari, scoprendo i loro punti deboli: uno dei quali era essere convinti di potermi abbattere con una tecnica potente. A forza di tirarmi pugni micidiali, che andavano a vuoto, si sfiancavano velocemente mentre io rimanevo fresca, così che mi bastavano poche leve per sbatterli a terra.»

«Apprezzo il gesto, Machiko, davvero, ma non mi stai aiutando. Non conosco leve né ho il tempo di impararle. Non conosco altro che la tecnica che ho imparato da ragazzo, e ho appena scoperto che non serve a niente.» Achab si fermò e fissò con occhi di fuoco la donna. «Celtic l’ho fregato con quel coltello, ma dubito che possa succedere con Wolf. Ti rendi conto che sono appena diventato il membro più inutile della squadra? Io... che avrei dovuto guidarla

Ripreso a camminare, a testa bassa, Machiko continuò a seguirlo e a parlare. «Non esistono mica solo strategie di combattimento corpo a corpo, esiste anche la strategia in generale. Adesso sai che affrontare di petto Wolf non è una buona idea, quindi dobbiamo studiare un modo per colpirlo a distanza.»

«Sei brava con quel fucile», disse Achab. «Dimentichiamoci l’onore e arriviamo abbastanza vicini da piantargli una pallottola nella testa. I suoi uomini dopo non saranno più un problema.»

«Vedi? Già è un buon piano. Non un piano definitivo ma un buon inizio. Ti ricordo infatti che io non sono un cecchino, e la mia mira funziona solo ad una certa distanza: se mi avvicino così tanto da poterlo colpire... allora sono troppo vicina a Wolf.»

~

«Maledizione, io cedo: ehi, Bishop, ti vengo a fare compagnia.»

Jungle aveva resistito per molte ore perché non voleva essere il primo a salire sulla jeep per riposarsi, dimostrando così di avere meno resistenza degli altri. Sebbene si fossero portati dietro quel piccolo automezzo rumoroso anche per concedere riposo a turno durante il cammino, avevano lasciato che fosse guidato dall’androide perché nessuno voleva mostrarsi “bisognoso di riposo”. Jungle aveva sopportato il dolore alle gambe e ai piedi finché aveva potuto, ma ora temeva che il sopraggiungere di vesciche e piaghe l’avrebbe reso inservibile: meglio mandar giù l’orgoglio e riposare i suoi poveri stanchi piedi.

Zoppicando si avvicinò alla jeep, che Bishop III aveva fermato vicino a lui. «Siete tutti in forma migliore di quanto immaginavate», disse il sintetico con voce neutra.

Jungle sedette pesantemente al suo fianco, sbuffando. «Credevo che gli androidi non mentissero mai.»

«Sono programmato per essere positivo e proattivo.»

Jungle calò una mano sulla spalla del sintetico, che miracolosamente non andò in mille pezzi. «Parti, “proattivo”, invece di dire stronzate.»

«Aspettate!» Bishop si voltò di scatto e fermò l’automezzo. Scar salì al volo nel portabagagli della jeep. «Non mi va che Jungle faccia la figura dell’unico che si è stancato, così gli faccio compagnia.»

«Ecco un altro “onesto”», ringhiò Jungle. «Ragazzo, come fai ad essere stanco? Io alla tua età... bah, mi sa che neanche l’ho mai avuta la tua età.»

Il sintetico mise in moto e la jeep procedette lentamente, sia perché appesantita dall’eccesivo carico sia per non superare gli altri che camminavano.

«Visto?» disse Machiko alla volta di Achab, indicando l’automezzo. «Scar si è reso conto che non ce la faceva ad affrontare un impegno che sembrava fattibile, ed ha cambiato strategia.»

Achab era sfiancato. «Machiko, non è che ora devi farmi mille esempi: ho capito quello che mi stai dicendo, il problema è che mi sento di merda lo stesso. E guardare quella jeep non mi aiuta.»

«E perché?»

«Perché mi ricorda che tutto questo è un tuo piano, che sei un capo migliore di me e sai organizzare una missione come io non avrai neanche immaginato. Non mi sarei mai portato appresso una stupida macchina umana, invece è dannatamente comoda, altrimenti ora non avremmo speranza di riposo e dovremmo portarci a spalla chili di armi. Capisci? Tutto questo mi ricorda quanto io non valga niente né come guerriero né come stratega.»

Machiko sbuffò. «È solo questione d’esperienza. Tu hai fatto solo una missione, quand’eri giovane, io invece ho passato anni in un clan Yautja in veste di Blooded Warrior. Pensi che io sia nata così? Ho imparato, guardando i migliori e facendo i miei sbagli. Così come tu stai imparando guardando chi ti è migliore... cioè guardando me

La donna esplose in una sonora risata.

~

City Hunter sbuffò al sentire Machiko ridere. «Un tempo mi piaceva imitare il riso delle donne, per attirare uomini in trappola.»

Berserker si avvicinò a lui. «A proposito, complimenti per come hai fatto fuori quel Bad Blood. Per me era il primo, che uccidevo, ma qualcosa mi dice che ne hai fatte, tu, di stagioni di caccia.»

Lo Yautja agitò una mano in aria. «Bei tempi andati. È stato divertente passare le notti in quei magazzini di Anderson City, girando vestito come un guerriero: mi faceva sentire potente, ma la verità è che mi mancano dannatamente i tempi in cui andavo a caccia per la città. Tempi in cui bazzicavo i bassifondi in cerca di teppisti da sventrare.» Ghignò.

«Be’, qui è parecchio diverso da una città, eppure te la sei cavata bene. Mi sa che toccherà a noi il grosso del lavoro, eh?»

«In che senso?» chiese City Hunter senza voltarsi.

«Be’», disse Berserker camminando agilmente fra i cespugli, «siamo quelli più in forma del gruppo e probabilmente dovremo affrontare noi il grosso dei Bad Blood.»

City Hunter si voltò a fulminarlo con gli occhi. «Ragazzo, io ho sempre combattuto da solo, senza chiedere l’aiuto di nessuno... ed ho ottenuto questo», e mostrò il suo braccio monco. «Se avessi avuto qualcuno a coprirmi le spalle sarei ancora un guerriero onorevole. Per cui ti ricordo lo spirito di questa missione: si va tutti insieme, si combatte tutti insieme, e nel caso... si muore tutti insieme. Chiaro?»

Berserker alzò le braccia. «Chiaro, chiaro, non ti scaldare. Era solo per chiacchierare.» E aumentò il passo andando più avanti.

«I giovani d’oggi...» borbottò City Hunter.

~

«Ecco, quella è l’entrata della miniera», disse Falconer mostrando il monitor ad Achab. Quest’ultimo gradì molto il gesto, come se il suo compagno gli avesse testimoniato che lo considerava ancora un capo, ma non poté fare altro che chiamare Machiko.

«Perfetto», disse la donna fissando il monitor legato al braccio di Falconer. «Non ci sono sentinelle né strutture che chiudano l’entrata. In fondo è un pianeta disabitato quindi i coloni non avevano motivo di usare porte con serrature.» Machiko si voltò verso Achab. «Io dico di entrarci subito e lì riposare qualche ora, per riprendere un po’ di energie. Abbiamo ancora un po’ d’acqua e cibo, appresso: non conviene sprecare energie a cacciare, ora.»

Achab annuì, con la grave consapevolezza di star semplicemente salvando la faccia: il suo assenso non aveva importanza, visto che la sua amica era perfettamente in grado di guidare il gruppo da sola. «Forza ragazzi, un ultimo sforzo poi potremo riposare», disse Achab a gran voce, guardando Machiko: i suoi occhi la ringraziarono per averlo spalleggiato.

Arrampicarsi sulla collina per raggiungere l’entrata della miniera fu più dura del previsto: era un pendenza leggerissima ma la stanchezza ormai fiaccava il corpo di tutti. Anche se più riposati, fu dura anche per Jungle e Scar. Per il momento la jeep doveva fermarsi, sia perché la tendenza non permetteva di utilizzarla sia perché faceva un rumore tale che si rischiava di essere sentiti dalla colonia, dall’altra parte della collina. A Bishop fu dato l’ordine di trasportare le pesanti armi fino alla miniera: visto che avevano un androide, era il caso di sfruttarlo a pieno.

Alla fine il primo ad arrivare fu Falconer, che risultò più in forma degli altri. Si guardò in giro poi si voltò verso gli altri, che dal basso stavano salendo. «Via libera!» gridò... prima che stramazzasse al suolo.

«Che cazzo...!» gridò Berserker, che era ormai quasi in cima, poi capì che il rumore che aveva sentito era uno sparo e si gettò a terra, mentre proiettili cominciarono a sibilare sopra di lui. «Ci sparano addosso!» gridò Berserker.

Tutti d’istinto si chinarono e cercarono di non perdere l’equilibrio ruzzolando giù. «Disperdetevi!» gridò Achab, mentre Machiko afferrò in fretta il fucile che aveva a tracolla e, sdraiata a terra, iniziò a mirare in cerca di obiettivi.

Gli spari sembravano provenire dagli alberi intorno all’entrata della miniera ma non si vedeva nessuno, così Machiko iniziò a sparare alla cieca da dove le sembrava provenissero i lampi.

«Io scendo a prendere le armi», gridò Jungle, cercando di scivolare giù senza scorticarsi la pelle.

Nella confusione generale una voce si alzò potente. «Cessate il fuoco!» Era Bishop III che, atteso il silenzio che seguì, continuò. «Sono Bishop e questi sono i valorosi guerrieri che hanno accettato di salvarvi.» Poi si rivolse ad Achab e agli altri. «Permettetemi di presentarvi i miei padroni.»

In quel momento dagli alberi iniziarono a spuntare i volti di alcuni coloni.

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Capitolo 11
*** 11 ***


«Scusate se vi abbiamo sparato contro: non immaginavamo che...»

L’umano parlava vistosamente imbarazzato, balbettando, ed Achab capiva a malapena quello che stava dicendo. Aveva sempre ridotto al minimo i suoi contatti con gli umani quindi la sua conoscenza della lingua era zoppicante. Così una volta ancora dovette sospendere la sua “autorità” e fare segno a Machiko: ci parlasse lei con quel suo simile che non sembrava riuscire ad esprimersi senza balbettare.

«Dice che non volevano spararci addosso», disse la donna ad Achab. I due si voltarono a guardare Falconer che, seduto ed imbronciato, si stava lasciando curare da Jungle il braccio ferito. «Che faccio?» continuò Machiko abbassando la voce. «Glielo dico che non deve preoccuparsi, che in fondo ha solo ferito Falconer?»

I due scoppiarono a ridere. «Sei perfida», sussurrò Achab. «Hai preso il peggio da entrambe le razze.»

Sghignazzando la donna si rivolse al colono che li guardava senza capire. «Non vi preoccupate», gli disse, «avremmo dovuto avvertirvi ma potete immaginare che non ci aspettavamo di trovarvi qui

L’uomo apparve molto sollevato dal sentire la donna parlare la sua lingua, ed era palesemente stupito di vederla vestita come un Predator. Non si azzardò però a fare domande sull’abbigliamento che rischiavano di essere imbarazzanti. «All’arrivo di quei mostri eravamo in miniera a lavorare. Abbiamo capito subito che era inutile cercare di metterci in salvo fuori e siamo rimasti qui.» Gli occhi si fecero tristi. «So che non sembra molto “eroico”, che avremmo dovuto cercare di aiutare gli altri, ma contro...» indicò Achab e gli altri, «... contro “quelli” noi che potevamo fare? Così abbiamo mandato il nostro sintetico verso una delle navicelle d’emergenza, sempre pronte a partire, perché cercasse aiuto

«Ed eccoci qua», concluse Machiko allargando le mani, ad indicare se stessa e gli altri del suo gruppo.

L’uomo tentennò e ci fu qualche secondo di silenzio imbarazzato. «Non... non traduci per loro?»

Machiko sorrise. «Sì, appena mi dirai qualcosa che valga la pena tradurre.» L’uomo accusò il colpo. «Per esempio quanti coloni sono rimasti, se lo sapete, quanti Bad Blood ci sono in totale, dove sono accampati, se ci sono armi nella colonia e dove sono...» Cominciò ad agitare una mano in aria. «Insomma, più informazioni ci darete più sarà facile liberare al zona senza troppi morti

«“Troppi”?» chiese l’altro, deglutendo.

Machiko annuì. «Immagino che vi rendiate conto della gravità della situazione: non sarà facile far fuori quei “mostri” senza che reagiscano con violenza. E se hanno umani a disposizione...» Lasciò che l’altro immaginasse la fine del discorso.

Intanto dal buio dell’entrata della miniera si vedevano facce umane affacciarsi timorose, e volti interdetti sbucavano anche dai cespugli nelle vicinanze. Nessuno sembrava fidarsi poi troppo di questi mostri venuti in aiuto, sebbene l’idea di ingaggiarli fosse stata loro: vederli lì, in carne, ossa e muscoli, così imponenti e così troppo più grandi del più grande degli uomini... alla fin fine non faceva stare tranquilli come sperato.

Dal canto loro neanche gli Yautja fecero un solo passo avanti verso gli umani. Avevano passato molti anni a subire le angherie di quella razza, l’umiliazione di dover eseguire ordini lanciati da quegli insetti fastidiosi, il ritrovarsi schiavi degli stessi esseri a cui prima davano la caccia. Non erano lì per loro, erano lì per recuperare l’onore perduto: qualsiasi gesto d’amicizia o anche solo di non belligeranza nei confronti degli umani era fuori discussione.

«Allora, tu o i tuoi amici siete in grado di rispondere a qualcuna delle domande che ti ho appena fatto?» pressò Machiko. Non era tempo per la diplomazia, e l’essere tornata a vestire i panni da Predator le stava facendo velocemente defluire ogni tolleranza nei confronti del genere umano.

Il colono si passò una mano sulla fronte. «Allora, vuoi sapere quanti sono quei mostri, no?»

La donna sbuffò. «Insieme a tante altre cose, sì. Qualsiasi informazione riusciate a darci sarà un grande aiuto

L’uomo si voltò verso i suoi compagni che se ne rimanevano nascosti. «Qualcuno di voi ha idea di quanti siano quei mostri?»

Achab si avvicinò a Machiko, che nel frattempo si era presa il volto fra le mani. «Che succede? Perché il tizio sta urlando?»

La donna rispose con tono disperato. «Da questi idioti non avremo alcuna informazione. Potrei dire che sono impauriti ma temo che siano semplicemente...» scosse le spalle, «umani», disse con disprezzo.

Achab sghignazzò. «Noto con piacere che diventi sempre più Yautja ogni giorno che passa.»

«Sono sempre stata una Yautja, anche quando trattavo con questi insetti umani.»

Mentre i coloni si rimbalzavano numeri su numeri – dimostrando quindi di non avere idea di quanti Bad Blood li avessero aggrediti – City Hunter si avvicinò ad Achab e Machiko. «Fate sapere qualcosa anche a noi? Perché continuiamo a stare su questa scomoda salita? Non dovevamo riposare nella miniera?»

Berserker apparve all’improvviso. «Perché perdiamo tempo con questi umani? Ormai sono in salvo, dovremmo cominciare a studiare come arrivare a Wolf.»

Achab non era del tutto sicuro che queste domande le stessero ponendo a lui: si trovava vicino a Machiko e probabilmente erano tutte rivolte a lei. «Sì, è inutile rimanere qui, all’aperto», prese d’un tratto l’iniziativa. «Entriamo nella miniera così Falconer può cominciare a spiare con il suo drone cosa ci sia dall’altra parte.»

Era un rischio dare quest’ordine, Achab se ne rendeva conto. Perché se Machiko l’avesse contraddetto sarebbe stata la fine totale di ogni sua leadership, ma per fortuna la donna annuì e cominciò a dirigersi verso l’entrata della miniera, senza più neanche guardare il colono con cui stava parlando. Nulla di utile sarebbe arrivato da lui e non valeva la pena perdere altro tempo in riti umani di cortesia.

«Forza, saliamo», disse Jungle aiutando Falconer a rialzarsi. In realtà quest’ultimo stava benissimo, ma gli piaceva fare un po’ la vittima: in fondo era stato il primo del gruppo ad essere colpito in azione, quindi un po’ sentiva il diritto di zoppicare. Anche se era stato ferito al braccio.

Scar fece di tutto per rimanere invisibile, perché l’avvicinarsi dell’azione vera stava acuendo ogni suo dubbio: trovarsi obiettivo di fuoco nemico – o supposto tale – aveva fiaccato parecchio le sue gambe e tutto il coraggio che fingeva di avere iniziava seriamente a traballare.

Distratto da questi pensieri, non si rese neanche conto del primo strillo umano.

~

Anni prima avevano scoperto che la rete era l’unico modo per catturare vivi gli umani. Era una razza particolarmente agitata e battagliera, quindi qualsiasi altro sistema avrebbe finito per ucciderli o ferirli così seriamente che poi non andavano più bene per i giochi di Wolf, quindi i suoi Bad Blood andavano sempre a caccia con abbondante dose di lancia-reti.

Erano entrati lentamente nella miniera, in modo tanto furtivo che le due sole sentinelle di guardia non avevano potuto fare altro che morire senza accorgersene. L’ordine era di prendere vivi gli umani, se ce n’erano, ma era troppo alto il pericolo che quelle due sentinelle avvertissero gli altri.

Percorsa la miniera in cauta esplorazione, il gruppo di Bad Blood si ritrovò ad osservare gli umani che erano tutti affacciati fuori: non era chiaro il motivo, ma non importava, visto che era un’occasione perfetta per catturarne tanti insieme. I guerrieri si appostarono silenziosamente e lanciarono tutti insieme le loro reti, catturando in un colpo solo quasi tutti gli umani che sporgevano dall’entrata della miniera. Le urla furono immediate e potenti, ed era musica per i Bad Blood, che con il tempo avevano imparato che quando un umano urlava voleva dire che non aveva possibilità di fare altro.

Non rimaneva che catturare i restanti umani, che erano usciti dalla miniera e cercavano di nascondersi fra i cespugli. Fu subito chiaro che acchiapparli uno per uno sarebbe stata una faticata che rischiava di non dare alcun frutto, così uno dei Bad Blood si affacciò dalla miniera e cominciò a sparare agli umani. Non c’era bisogno di prendere troppo la mira, il fucile era così potente che a quella distanza otteneva il suo effetto in ogni caso.

Dopo il secondo colpo il Bad Blood si girò ed alzò il braccio a chiamare i compagni: che si dessero da fare pure loro. Ancora agitava il suo braccio, dopo che un fascio luminoso gliel’aveva portato via.

~

City Hunter era l’unico che avesse con sé armi di alto livello, e non aveva esitato ad usare il suo cannoncino da spalla appena aveva visto il Bad Blood sparare sugli umani. Poco gli importava del destino dei coloni, ma uccidere un Bad Blood così vigliacco da sparare su umani disarmati era qualcosa a cui non poteva resistere. Prima gli moncò un braccio, per sfregio, e poi con un secondo colpo del suo cannoncino gli perforò il petto: il corpo senza vita dello Yautja volò via, verso l’interno della caverna. «E il primo è andato», gracchiò City Hunter, pienamente soddisfatto.

«Bravo!» lo sferzò acida Machiko raggiungendolo velocemente. «Ora i suoi compagni rimarranno rintanati nella caverna e magari andranno ad avvertire Wolf: hai appena infranto l’effetto sorpresa, idiota, cioè la nostra unica arma.»

City Hunter sentì il volto andargli a fuoco: come osava quella piccola umana permettersi di parlargli così? Giocare a fare la Yautja non le consentiva tale confidenza: era seriamente tentato di spazzar via quell’insetto una volta per tutte...

«Via da qui», stava intanto sussurrando Jungle agli altri. «Tutti nei cespugli!»

Machiko e City Hunter si stavano fissando in modo teso, ed era uno spettacolo incredibile: la donna arrivava alla vita del Predator, superandola di poco, quindi l’espressione infuriata non sembrava avere molta ragion d’essere. Stava per dire qualcosa ancora, quando sentirono una voce familiare dire qualcosa che apparentemente non aveva senso.

«Amici, perdonate il mio stupido compagno. Si è fatto prendere dal panico ed ha aperto il fuoco: sarà punito come merita. Siamo i Bad Blood di Celtic: siamo vostri amici.»

Tutti si voltarono a fissare Achab, che con le mani in alto si era avvicinato all’entrata della miniera. Continuava a gridare verso l’interno. «C’è stato un terribile errore, e Celtic saprà ricompensare Wolf del guerriero perso.»

«Ma che diavolo sta dicendo?» chiese City Hunter.

Machiko lo zittì. «Sta rimediando alla stronzata che hai fatto tu.»

Achab afferrò un umano che si ritrovò fra i piedi e lo sollevò alla volta della miniera. «Per farci perdonare vi aiutiamo a raccogliere questi insetti.»

Machiko sentì gli uomini gridare che erano caduti in trappola, che erano stati stupidi a credere quei mostri i loro salvatori. Non era certo quello il momento per spiegare loro la situazione.

Un Bad Blood uscì dalla caverna titubante, con un fucile puntato alla testa di Achab. «Se davvero conosci Celtic», gracchiò, «cosa porta sempre alla cintura?»

Achab ghignò. «Una zampa di coniglio. Ma lui preferirebbe un braccio umano.»

Il Bad Blood abbassò l’arma. «Cazzo, amico, siete troppo nervosi, voi altri. Prima aprite il fuoco e poi salutate?» E fece segno ai suoi compagni di uscire. «A forza di avere a che fare con gli umani in effetti ci siamo disabituati ad affrontare nemici seri.»

Achab rise in modo esagerato, girando la testa e guardando nel punto dove sapeva essere Machiko: vide la donna annidata fra i cespugli, con il suo fucile in mano, pronta al fuoco. «Inoltre», disse alla volta dei guerrieri che lentamente uscivano dal buio, «a forza di bazzicare pianeti fetenti come questo vi state perdendo le nuove armi che sono state inventate.»

Tre Bad Blood ora erano in piedi davanti all’entrata della caverna, a fissare Achab. «Davvero? E che armi sono?»

Achab alzò lentamente la mano, piegò le dita e mise pollice ed indice a forma di pistola, puntandola alla testa di uno di loro. «Armi tipo questa.» E mosse il pollice come a premere un immaginario grilletto.

La testa di uno dei Bad Blood esplose.

Malgrado fosse tutto improvvisato, Machiko aveva capito cosa stava facendo Achab – in fondo era stata lei anni prima a far vedere all’amico un vecchio film umano dove mostravano quel trucco – e subito era stata al gioco.

Prima che gli altri due Bad Blood potessero capire cosa stesse succedendo, Achab ne afferrò uno per il collo lo strinse forte a sé: ne voleva uno vivo, per interrogarlo ed ottenere informazioni All’altro pensò Berserker, che sbucò velocemente dai cespugli. Era sguisciato fin lì approfittando della confusione che stavano facendo gli umani, così che nessuno badasse a lui, ed ora cominciava a riempire di pugni allo stomaco il guerriero nemico, prima di gettarlo in terra.

Gli altri uscirono dai loro rifugi e si avvicinarono lentamente.

«Ascoltate», gridò Berserker. «Ho il diritto di sfidare a duello mortale questo Bad Blood: se vincerà, avrà salva la vita.»

«Che cazzo stai dicendo?» gracchiò Achab. «Non siamo mica nel nostro locale, questo non è un campionato di lotta clandestina.»

Berserker non volle ascoltare ragione e fece segno al Bad Blood di alzarsi. «Uno contro uno, amico: se mi batti, sei libero di andare.»

«Non essere ridicolo, figliolo», gracchiò Jungle, ma il guerriero a terra iniziò lentamente – e minacciosamente – ad alzarsi, senza dire una parola: un leggero cenno della testa fu il segnale che accettava il ridicolo patto di Berserker.

«Non abbiamo tempo per questo», gridò City Hunter.

Berserker agitò una mano in aria. «Ne abbiamo uno vivo per interrogarlo, se questo lo ammazzo di botte non è un problema.»

Tutti si guardarono, colpiti dall’assurdità della richiesta, ma non ci fu tempo per altre discussioni: il Bad Blood scattò e colpì Berserker al ventre. Questi incassò con un sorriso e poi alzò le mani in una guardia umana: la sua tecnica preferita, perché adorava vedere lo stupore negli occhi dei suoi avversari Yautja. Il Bad Blood era tutto tranne che stupito.

Sferrò un pugno laterale che Berserker a malapena riuscì a parare, e mentre si chiedeva come potesse la sua guardia risultare così poco efficace già un altro pugno al petto gli stava togliendo ogni briciolo di respiro.

Intanto Achab si era distratto a guardare il combattimento e il Bad Blood che teneva per il collo lo agguantò per una caviglia, lo sollevò in aria e lo fece crollare pesantemente a terra. Jungle e City Hunter furono subito addosso allo Yautja e cercarono in qualche modo di immobilizzarlo. Non era così facile, vista la sua forza... e la loro debolezza.

Intanto Berserker provò una delle sue celebri tecniche di pugno che tanti incontri gli avevano fatto vincere, ma appena dato il primo colpo l’altro rispose limitandosi a proteggersi con il braccio: così facendo lasciò che il pugno avversario si infrangesse contro il gomito. Quando Berserker ritirò il braccio sentiva qualcosa di strano, e un colpo d’occhio gli mandò un’immagine che non riuscì a capire: perché le sue dita avevano ora quell’aspetto strano? Ci mise eterni secondi a capire che si era appena rotto la mano contro il possente gomito dell’avversario. Non era giusto: aveva partecipato a centinaia di combattimenti, e aveva sempre vinto...

La consapevolezza che combattere contro ubriaconi falliti nelle cantine dei bar di Anderson City non faceva di lui un campione non arrivò mai, perché nel frattempo il Bad Blood lo aveva afferrato per la vita e per il collo: sollevato agevolmente in aria, lo aveva lanciato contro un albero lì vicino. La testa di Berserker sbatté così forte che la corteccia si sgretolò. Mentre ancora il suo corpo era in aria, l’avversario si era avvicinato, raccogliendo qualcosa da terra. Solamente il suono raccapricciante che risuonò nell’aria fece capire che con una grossa pietra il guerriero aveva appena spiaccicato la testa di Berserker.

I suoi compagni erano troppo impegnati a tenere a bada l’altro Bad Blood per poter sentire alcun rumore, ed ogni sforzo era vano. Jungle era troppo spompato e City Hunter aveva una mano in meno, mentre Achab stava ancora cercando di tornare a respirare. In tre non riuscivano a tenere fermo un solo Bad Blood.

Scar e Falconer stavano fissando allibiti lo spettacolo del loro compagno massacrato. Berserker non era loro amico, non ricordavano neanche se avesse mai rivolto loro la parola: averlo perso non era un problema. A terrorizzarli era stato la velocità e la spietatezza con cui tutto si era svolto: la pratica era decisamente più orribile della teoria. E loro erano guerrieri solo in teoria.

Quando il Bad Blood si voltò verso di loro rimasero paralizzati. I tre si guardarono per lunghi secondi. Lo Yautja nemico guardò il braccio ferito di Falconer e spostò lo sguardo verso Scar: alzò un braccio e lo indicò. Il prossimo era lui.

Scar non mosse un muscolo, immobile nel suo terrore, ma si limitò a sollevare il braccio... lentamente... e a mettere la mano a forma di pistola, puntata alla tempia dell’avversario. «Bum», disse con un filo di voce, muovendo il pollice come aveva fatto Achab.

Il Bad Blood lo fissò, stupefatto. «Tu sei il genio del gruppo, vero?» chiese.

«Mi sa che è scarica», disse Scar con un filo di voce.

Il guerriero nemico iniziò ad avvicinarsi a lui, e fu allora che qualcosa lo colpì. Pesantemente.

Falconer aveva fatto salire in volo il suo drone per controllare che non ci fossero altri Bad Blood nelle vicinanze, ed ora l’aveva mandato in picchiata contro lo Yautja che avevano di fronte. Non poteva certo ferirlo seriamente, ma l’apparecchio lo colpì a massima velocità scendendo da almeno dieci metri di altezza. L’impatto fu potente e il guerriero cadde pesantemente.

Mentre il Bad Blood rantolava a terra, tenendosi la testa fra le mani, Scar estrasse il suo coltello, si chinò su di lui e lentamente, quasi se fosse un altro a guidare la sua mano, lo infilò nella sua gola. Non era una morte misericordiosa, né onorevole, ma era l’unica che Scar poteva dare a quell’assassino. Aspettò che il Bad Blood morisse asfissiato, accucciato sopra di lui mentre premeva la lama nella sua gola, agitandola lentamente per lacerare la carne. Il tutto in estremo silenzio. Solo quando il nemico si rilasciò e smise di tremare Scar si rimise in piedi, tenendo in mano il coltello grondante di sangue.

«Questo invece è sempre carico.»

Scar fece scattare la testa alla volta di Machiko, che aveva parlato. «Cosa?»

La donna, che gli si era avvicinata lentamente, gli sorrise in modo triste. «Avevi appena detto che il tuo dito-pistola era scarico, quindi ora mentre gli piantavi una lama in gola dovevi dirgli che il coltello invece era sempre carico. Devi imparare a dire frasi ad effetto, se vuoi essere un vero guerriero.»

Scar non trovò divertente la cosa. «Perché non gli hai sparato prima che uccidesse Berserker?», disse come se fosse un rimprovero. Era in realtà un cruccio.

«Perché era suo diritto morire da coglione: l’ha voluto e l’ha ottenuto. Non era mio compito spiegargli la stupidità di ciò che riteneva giusto.»

«E perché non hai sparato quando ho fatto il dito-pistola come Achab?»

«Perché ho cercato di darti la possibilità di dimostrare quanto vali. Anzi», indicò Falconer. «Quanto valete. Insieme magari riuscite a fare un buon guerriero.» Sorrise, amaramente.

Falconer si avventò sul suo drone, pesantemente ammaccato. «Se sparavi, però, era meglio: guarda come ho dovuto ridurre il mio apparecchio.»

Machiko scosse la testa. «Sparo solo quando ormai non c’è altra soluzione.»

Detto questo, si voltò, imbracciò velocemente il suo fucile e sparò nel mucchio di membra Yautja che si stava rotolando all’entrata della miniera. Nessuno dei suoi tre compagni riusciva ad avere la meglio sul Bad Blood, che stava ormai per liberarsi. Si era appena alzato, quando il colpo di Machiko gli trapassò la coscia, facendolo cadere pesantemente in terra. Gli anni che aveva passato ad accompagnare i ricconi umani a caccia, quando era stata cacciata dal clan la prima volta, finalmente le tornavano utili.

«Ehi!» gridò City Hunter cercando di rialzarsi con dignità. «Potevi colpire noi!»

«Non c’era pericolo», gridò la donna. «Già ci state pensando da soli ad ammazzarvi.»

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Capitolo 12
*** 12 ***


Il Bad Blood gridava, ma non era a causa della ferita alla gamba o perché Achab, Jungle e City Hunter stavano tentando di trascinarlo verso un albero, per legarlo. Stava urlando di frustrazione.

«Battuto da dei buffoni!» digrignava fra i denti, e per sottolineare il concetto tirò a sé il braccio che i tre stavano tirando per trascinarlo via: li fece cadere tutti e tre.

«Stai buono amico, o ti apro un buco anche nell’altra gamba.» Machiko lo teneva sotto mira ma in realtà non costituiva alcuna minaccia per il prigioniero.

«Una donna umana», stava ringhiando lo Yautja. «Colpito da una donna umana con un’arma umana: un’umiliazione maggiore non poteva esistere.» Achab lo afferrò al collo per trascinarlo via di peso, ma il prigioniero lo colpì con un pugno al viso, così potente da farlo cadere a terra di peso.

Machiko era tentata di sparare di nuovo ma non voleva sprecare un proiettile per una situazione di pericolo, soprattutto perché non era sicura che nella jeep ci fossero altre munizioni per quel fucile. Non aveva preventivato di usare così spesso quell’arma e non si era assicurata che ci fossero scorte adeguate di munizioni. Era inutile anche minacciare lo Yautja, visto che era un Bad Blood, un criminale che si era macchiato con così tanto sangue... che nulla di ciò che la donna poteva dirgli l’avrebbe spaventato.

Jungle cedette alla frustrazione, raccolse un grosso ramo dai cespugli e con rapido gesto lo calò sulla testa del prigioniero... che a malapena si accorse del gesto. Mentre lo osservava, imbambolato in piedi davanti a lui, Jungle non si rese conto che il prigioniero gli aveva afferrato la caviglia con la mano: si ritrovò anche lui a terra in un attimo, mentre lo Yautja con un rapido gesto lo immobilizzò afferrandolo al collo.

Machiko si avvicinò ancora di più, poggiando la canna del fucile sulla testa dello Yautja. «Mollalo.» Era inutile aggiungere altro: sarebbero state solo minacce vuote.

Il prigioniero alzò lo sguardo a fissare gli occhi della donna. Lasciò la presa ed anzi alzò le mani, in un gesto sarcastico accompagnato da un sorriso. Aspettò che gli altri si fossero rimessi in piedi prima di parlare a tutti. «Mi dispiace di aver ucciso il vostro amico», disse, aspettando qualche secondo prima di allargare il sorriso e continuare. «Perché regalandogli una morte veloce gli ho evitato la lunga agonia che toccherà a voi.» Rise forte. «Wolf farà scempio dei vostri corpi, e quando sarà stanco vi lascerà vivi, ad agonizzare: carne tremante che chiederà solo di essere uccisa per smettere di soffrire.» Rise, ma stavolta in tono più basso, più sinistro. «Il mio unico rimpianto è di non potermi godere lo spettacolo...» Con la mano destra si afferrò la fronte e con la sinistra la mascella: con uno scatto potente e un rumore secco si spezzò il collo, accasciandosi a terra.

Il silenzio che seguì al rumore del collo rotto fu pesante e mortale. «Ma... perché l’ha fatto?» chiese Scar, visibilmente scioccato. «Aveva paura che lo torturassimo?»

«No», rispose in tono basso Achab. «Si sarebbe fatto grasse risate a vederci provare a torturarlo. No, il problema è Wolf: non accetta feriti, sono solo una perdita di tempo, e con quel buco nella gamba non c’era speranza di tornare un guerriero attivo. Se fosse tornato da Wolf questi l’avrebbe ucciso, magari non in modo così veloce, quindi ha semplicemente anticipato l’inevitabile.»

Nessuno parlò, ma lo svolgimento di quella azione inaspettata aveva reso chiara la situazione: la morte d’un tratto sembrava davvero il minimo che poteva accadere loro.

~

«Sei sicuro?»

Wolf stava in piedi, in mezzo alla strada principale della colonia, e fissava in direzione dell’entrata della miniera.

«Assolutamente», rispose il suo assistente lì vicino. «Solamente due dei quattro colpi di fucile che si sono sentiti erano dei nostri, gli altri due potevano assomigliarci ma sono sicuro provenissero da altre armi.»

Wolf stringeva i pugni per il nervoso. Quel dannato pianetino schifoso gli stava dando più grattacapi del previsto, e mai nella sua attività di criminale aveva avuto così tanti dubbi sulla situazione. «Magari quei coloni si sono davvero andati a nascondere nella miniera e si sono portati dietro delle armi.»

«Sì, può darsi», rispose velocemente l’aiutante. «Però i nostri non stanno tornando, e non posso pensare che degli insetti umani abbiano potuto avere la meglio su quattro Bad Blood di lunga esperienza. Magari questi coloni sono più duri del previsto, ma allora perché non ci hanno affrontato prima? Se hanno armi così potenti, perché finora non le hanno usate?»

Wolf odiava quando le sue certezze venivano sgretolate, ma sapeva che era necessario avere chi gli suggerisse sempre il peggio: era così che dopo tanti anni poteva ancora scorrazzare per l’universo. «Pensi che si tratti dei soldati della Compagnia?»

L’aiutante annuì. «Sicuramente mi sbaglio, ma pensaci. Celtic ancora non si è visto e non lo si può certo definire uno che rispetta sempre gli accordi. E se avesse fatto un accordo con la Weyland-Yutani? Se ci avesse mandato su questo pianetino su consiglio loro? Hai visto quella struttura in cui gli umani si sono chiusi dentro? Non è roba da minatori: questo pianeta è controllato strettamente dalla Compagnia e Celtic ci ha mandati in una trappola.»

Wolf non poteva crederci. Sapeva benissimo che Celtic era un serpente velenoso ma il loro sodalizio era troppo solido e di lunga data... come poteva prendere in considerazione quell’ipotesi? «Va bene», disse dopo lunghi attimi pensosi. «Nel dubbio, filiamocela. Avremo tempo di indagare e, nel caso, vendicarci di quell’infame di Celtic.»

«Do l’ordine di smontare tutto e di prepararsi a partire», disse l’aiutante, accennando un inchino del capo e andandosene, lasciando Wolf solo.

Il possente Yautja fissava sempre più nervoso l’entrata della miniera. Pensò che si stava facendo vecchio, perché altrimenti avrebbe dovuto prevedere dal primo giorno che se si fosse preparato un attacco contro di lui... è dall’ingresso della miniera che sarebbe arrivato.

~

«Si stanno preparando a partire», disse Machiko senza togliere gli occhi dal suo cannocchiale. Era sdraiata da parecchio sul limitare dell’entrata della miniera, e sperava di riuscire a farsi un’idea di quanti Bad Blood ci fossero, senza purtroppo riuscirci.

Gli altri erano tutti stretti in prossimità dell’entrata, ma cercavano di appiattirsi contro qualche parete, per non far vedere ombre o movimenti da fuori. Erano distanti dalla colonia e avevano il sole alle spalle, quindi teoricamente erano invisibili, ma quando Wolf si mise a fissare nella loro direzione non poterono reprimere un brivido.

Malgrado la lontananza, la visione del potente Bad Blood li aveva terrorizzati, anche perché il morale di tutti era talmente a terra da essere particolarmente sensibile.

«Pensi che si sentano minacciati?» chiese Achab.

«Forse hanno sentito i miei spari e hanno capito che non provenivano da una loro arma», disse Machiko. Non era stata una mossa saggia, sparare, ma non si rimproverava: vista la manifesta incapacità degli altri era l’unica scelta possibile.

Da quando erano entrati nella miniera tutti pensavano solamente a come sferrare l’attacco finale. Tutto, pur di non pensare a Berserker.

Nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di dirlo ad alta voce, ma era stato un bene che il loro amico avesse fatto l’idiota, sfidando il Bad Blood a combattere: così facendo aveva reso meno spaventosa la sua morte. Bastava non sfidare nessuno, e quel tipo di morte si poteva evitare. Era un pensiero irrazionale, ma attraversava le menti di tutti.

In un’altra occasione Achab si sarebbe straziato il cuore a vedere il proprio amico maciullato a sassate, ma ora c’era un pericolo talmente grande che cancellava tutto il resto. E forse era un bene: non avrebbe avuto tempo di soffrire per la fine di Berserker.

Le minacce del prigioniero poi avevano gelato il sangue a tutti, ed era meglio non pensare all’eventualità di finire vivi nelle mani di Wolf. Sapevano tutti chi era quel criminale e di cosa era capace, ma fino al giorno prima la missione aveva i contorni del sogno: ora invece era maledettamente reale e metteva maledettamente paura.

«Dobbiamo agire in fretta, altrimenti sarà stato tutto inutile», spezzò il silenzio City Hunter.

«Agire come?» scattò rabbioso Jungle. «In tre non siamo riusciti a tenere fermo uno solo di loro, che cazzo di speranze abbiamo?» Tutti si voltarono a fissarlo stupiti: non era il solito tono di voce brontolone di Jungle. Era il tono della disperazione, come se non ce la facesse più a contenere la pressione di quell’esperienza più traumatica del previsto. «È finita, ci siamo divertiti a fingerci guerrieri ma ora il gioco è arrivato alla conclusione. Siamo un manipolo di inetti che un tempo si credevano Blooded Warrior: esiste un solo piano d’azione, per noi...»

Dopo un silenzio pesante di qualche secondo, Achab prese la parola. «Si può sapere di che stai parlando, amico?»

Jungle guardò tutti con occhi durissimi. «Non è più tempo di bei discorsi, ora è il tempo della verità. Siamo venuti qui per morire da guerrieri... quindi è arrivato il momento di farlo.» Dopo un secondo di gelido silenzio continuò. «Ci buttiamo addosso a tutto ciò che si muove e ne portiamo via con noi il più possibile...»

Mentre Scar e Falconer rimanevano in disparte, sperando che il buio della miniera che li avvolgeva li nascondesse anche agli altri compagni, City Hunter rispose seccato. «C’è sempre tempo per morire, non sarebbe meglio provare prima a far fuori qualche Bad Blood in sicurezza?»

«E come?» quasi urlò Jungle. «Siamo spompati, fiacchi, non abbiamo più un briciolo di forza. Non siamo riusciti a tenerne fermo uno ferito, come pensi di avere la meglio su quelli laggiù?»

«Con l’inganno», rispose d’un tratto Machiko, che abbandonò il posto d’osservazione per rimettersi in piedi, riparata dal buio. «Wolf ha guardato da questa parte a lungo e sicuramente ha dato l’ordine di partire: si aspetta un attacco dalla miniera, e noi faremo come i nazisti.»

«Come cosa?»

Machiko non rispose ma chiamò uno dei coloni, che si avvicinò titubante. «So che lavorare in miniera significa anche usare la dinamite: ne avete una scorta, qui?»

L’uomo annuì. «Non proprio una scorta, dovevamo rifornirci quando sono arrivati i mostri. Se non ricordo male è rimasto giusto qualche candelotto.»

«Perfetto» esultò la donna, tornando dai compagni. Prima che gli ponessero altre domande iniziò subito a parlare. «I nazisti erano dei gran cattivoni che, nel passato del mio pianeta, tentarono di invadere un territorio molto grande. I loro nemici sapevano benissimo cosa stavano per fare e si prepararono ad affrontarli nel punto dove era più ovvio che attaccassero. I nazisti infatti attaccarono da lì, ma fu solo un trucco: solo una minima parte delle loro forze fu impegnata nel punto “ovvio”, il resto se ne andò da un’altra parte e penetrò in profondità nel territorio nemico. In pratica i nazisti conquistarono un enorme territorio con relativamente poco sforzo. Così dobbiamo fare noi: Wolf si aspetta un attacco dalla miniera e noi glielo daremo, ma in realtà saranno i coloni a farlo: noi faremo il giro ed attaccheremo dall’altra parte della colonia. Beccheremo Wolf e i suoi alle spalle, mentre sparano ad una miniera vuota.»

Tutti si guardarono, finché Achab prese la parola. «Quanto sono riusciti a mantenere la loro vittoria, quei nazisti?»

Machiko non se l’aspettava, come domanda. «L’ho detto all’inizio, erano cattivoni quindi alla fine hanno perso, ma a noi non interessa: quella vittoria è stata la più grandiosa e inaspettata del periodo, e noi dobbiamo seguirne la tecnica. Fai credere all’avversario di aver capito cosa farai, così che non si metta a guardare da un’altra parte: così che cioè non si accorga che in realtà stai facendo tutt’altro.»

«Pensi che gli umani ci aiuteranno?» chiese Falconer.

Machiko si voltò a guardarli, mentre rimanevano in fondo alla miniera, sorrise loro e poi tornò a guardare i suoi compagni. «Dovranno per forza, altrimenti legheremo la dinamite ai loro corpi e li manderemo fuori dalla miniera.»

Mentre gli altri la fissavano, Machiko si inchinò verso Jungle, che rimaneva seduto a fissarla con occhi spiritati. «Uno dei libri sacri degli umani dice: c’è un tempo per vivere e un tempo per morire», sussurrò la donna afferrando tra le mani la testa di Jungle. «Non è ancora tempo di morire, amico mio: è tempo di uccidere.»

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Capitolo 13
*** 13 ***


L’esplosione del primo candelotto di dinamite fu il segnale che tutto era giunto a compimento. Non c’era più tempo per i ripensamenti e i ragionamenti, per i pianti e per i rimpianti. L’attacco finale era appena iniziato e al di là di come sarebbe finito, ciò che importava era proprio questo: che tutto sarebbe finito. Quel suono esplosivo significava che erano tutti tornati Blooded Warrior, guerrieri onorevoli, in quanto stavano per affrontare con coraggio e sprezzo del pericolo un nemico palesemente superiore in ogni aspetto.

Erano belle parole da rigirarsi nella mente, ma non potevano nulla contro il terrore più nero.

Machiko aveva spiegato con calma e pazienza ai coloni che ad un tempo prestabilito avrebbero dovuto accendere quei candelotti di dinamite e iniziare a lanciarli ad intervalli crescenti: prima dieci secondi, poi trenta, poi un minuto e via così. Serviva a destabilizzare il nemico, per non far capire quando sarebbe arrivata la prossima esplosione, creando momenti di panico preziosissimi per poter intervenire di sorpresa.

C’erano pochissimi candelotti, l’attacco finto non sarebbe durato molto, ma era più che sufficiente per sferrare un attacco mortale ai Bad Blood.

Achab guidò la silenziosa camminata per arginare la colonia, così da attaccare dalla parte opposta da dove sarebbero arrivate le esplosioni e prendere i Bad Blood alle spalle. Non se la sentì però di dare ordini: ognuno sapeva già che avrebbe dovuto sgattaiolare il più silenziosamente possibile alle spalle dei nemici distratti per poi ucciderli, possibilmente in modo veloce: se perdevano l’effetto sorpresa o riuscivano solo a ferire il nemico di turno, erano in pratica già morti.

Erano passati dalla jeep per fare il carico di armi. Nessuno credeva che sarebbero vissuti così tanto da tornare indietro a ricaricare, quindi cercarono tutti di dotarsi il più possibile. Solo City Hunter non prese nulla. «Ho già addosso tutto quello che mi serve», disse. «Armi Yautja che mi hanno accompagnato per tutta la vita: non ho bisogno d’altro.»

Machiko si tenne a tracolla il fucile che aveva usato finora, sebbene con rassegnazione avesse notato che non c’erano altre munizioni: le rimaneva un colpo, ma era sempre un colpo in più rispetto allo zero. Si infilò le due piccole pistole Glock dietro la cintura e prese un fucile M16. Un classico, nella caccia al Predator: non era mai servito, ma solo perché chi lo aveva usato non sapeva dove colpire.

«Tu non prendi niente?» chiese la donna rivolta a Scar, che se ne rimaneva immobile a fissare il magro arsenale.

«Non so usare le armi Yautja, figuriamoci quelle umane», bisbigliò Scar, dal volto scuro. «L’unica arma che finora ho saputo usare è questa», e mostrò il suo lungo coltello. «Tante vale continuare ad usarla.»

Finito di armarsi, tutti procedettero in silenzio e rapidamente, non avendo molto tempo prima dell’inizio dell’operazione. Falconer avrebbe voluto assicurarsi che la strada fosse libera ma ormai il suo drone era inservibile: prese un Kalashnikov più per scena che per altro. Il suo cuore si era fermato quando aveva dovuto abbandonare il suo amato e inseparabile drone, del resto ormai gli importava poco. Aveva approfittato dell’occasione di tornare un guerriero onorevole senza molto sforzo e l’aveva presa: l’unico impegno che gli si richiedeva era morire, e per far questo un’arma o un’altra poco importava.

Il gruppo entrò guardingo nella colonia stupendosi che non ci fossero sentinelle. In fondo i Bad Blood non si aspettavano visite ed anzi si stavano preparando a partire, quindi in fondo era logico che l’accesso fosse sguarnito.

Machiko aveva dato l’ordine di separarsi e procedere ognuno in una direzione diversa, così da risultare più difficile dare nell’occhio: dovevano trovare Bad Blood isolati e, appena iniziate le esplosioni, ucciderli. Uno per uno. Detta così sembrava facile...

Si addentrarono nella colonia in silenzio, infilandosi fra la vegetazione e le case, muovendosi lentamente e guardando ovunque. Sembrava una città fantasma ma l’importante era assicurarsi di procedere senza lasciarsi nemici alle spalle. Machiko chiudeva il gruppo, come ai vecchi tempi. Ai tempi in cui andava a caccia con il Maestro Dachande. Ai tempi in cui era una guerriera onorevole. Quella sensazione di adrenalina e sangue gli era maledettamente mancata...

La donna guardava l’orologio che aveva sincronizzato con il colono: mancavano pochi secondi all’inizio della fine. Quando finalmente la sua inutile e umiliante vita umana sarebbe finita... e sarebbe iniziata la sua fama Yautja...

«E tu chi cazzo sei?»

Il sangue le si gelò nelle vene. Nel momento più importante della sua vita... si era distratta...

Non aveva visto nessuno in giro e per quegli ultimi secondi era rimasta allo scoperto, a guardare la colonia e a pensare alla sua fama Yautja. E da un cespuglio alla sua destra era fuoriuscito un Bad Blood: forse era una sentinella distratta o qualcos’altro, poco importava. Importava che mancavano ancora quattro secondi all’inizio del piano e non poteva attirare l’attenzione prima del tempo..

quattro secondi

Machiko lanciò il suo M16 addosso allo Yautja che, sorpreso e confuso, lo afferrò, come a parare un colpo.

Era proprio quello su cui contava la donna, che scattò in avanti.

tre secondi

Si lanciò verso il Bad Blood prima che questi, con le mani ancora occupate dall’arma, potesse reagire. Con mosse rapide si arrampicò sul busto dello Yautja fino a stringergli i fianchi con le cosce, in una tecnica che non proveniva certo dal Maestro Dachande bensì dallo studio delle arti marziali asiatiche terrestri.

due secondi

Il Bad Blood lasciò cadere l’M16 e si preparava a strapparsi di dosso la donna, ma Machiko aveva già estratto le Glock e le aveva posizionate ai due lati del collo del Predator proprio sotto la mandibola. Schiacciò il grilletto di entrambe le pistole.

un secondo

La dura pelle dello Yautja e la sua massa cerebrale fecero da silenziatore alle Glock, mentre i rispettivi proiettili squarciavano il cranio del Bad Blood. Un doppio tonfo sordo fu tutto ciò che si udì, e Machiko sperò che gli altri fossero troppo lontani per averlo notato.

La prima esplosione dalla miniera cancellò ogni altra esitazione.

~

Caso volle che Wolf stesse guardando in direzione della miniera quando avvenne la prima esplosione. Non aveva altro da fare, mentre i suoi uomini preparavano la nave per il ritorno.

Guardo quella deflagrazione, quella fiamma e quel fumo con uno stupore profondo: ogni dubbio finalmente lo abbandonò. Non sapeva se ci fosse Celtic, dietro, ma ora alla fine l’attacco temuto era arrivato aveva finalmente modo di entrare in azione. E Wolf amava l’azione.

Imperversava da molti anni per l’universo, depredando pianetini poveri ma pieni di occasioni per divertirsi. Ne aveva di esperienza, così tanta da sapere che i Colonial Marines non lanciano bombe a caso, quando attaccano: chiunque ci fosse in quella miniera, era talmente più debole di lui da dover fare la “voce grossa” con ridicole esplosioni fuori portata.

«Guardatevi le spalle!» gridò il grosso Yautja ai suoi uomini, sparsi per la colonia.

~

Dopo il fragore dell’esplosione Achab sentì in lontananza una voce potente cominciare ad impartire ordini: sicuramente era Wolf, e una scarica di adrenalina mista a terrore gli irrorò ogni ganglio nervoso.

Si spinse in avanti più velocemente, visto che finora quella parte di colonia sembrava deserta. Girato l’angolo di una casa vide la schiena di un Bad Blood che stava fermo in mezzo alla strada, a fissare in direzione della miniera lontana: il piano di Machiko funziona, pensò Achab.

Si avvicinò lentamente sentendo tremare ogni centimetro del suo corpo, finché reputò che non sarebbe riuscito ad andare oltre senza fare rumore, alzò il corto fucile che aveva scelto, lo puntò alla nuca dello Yautja e sparò. Aveva scelto il fucile a pompa perché le sue munizioni erano racchiuse in cartucciere di cuoio da tenere a tracolla, non certo perché conoscesse la forza dell’arma. Quando vide la testa del nemico aprirsi in due, sventrata dall’esplosione ravvicinata, il terrore sembrò diminuire di molto: se fosse stato sempre così facile, c’era addirittura la possibilità di uscire vivi da quella missione.

~

Jungle non aveva più aperto bocca da quando erano nella miniera: il terrore glielo impediva. Un terrore che l’aveva gettato nello sconforto e nel panico, anche se non voleva darlo a vedere ai suoi compagni. Avrebbe scommesso sarebbero stati altri a cedere prima di lui, vista la sua esperienza maggiore, e invece gli altri andavano avanti mentre lui era finito. Continuava a camminare e si atteneva al piano, ma sapeva benissimo di non avere più il controllo di sé: si muoveva in automatico in attesa della morte.

La vegetazione che aveva davanti gli si sovrapponeva al ricordo della giungla in cui uno stupido umano aveva avuto la meglio su di lui. Ritornò il terrore, ritornò lo sconforto di aver perso, l’umiliazione, la vergogna, la sconcia paura della morte, volgare per definizione. Aveva nascosto tutto dentro, aveva fatto finta di niente per tutti quegli anni ma era tutto lì: ed ora era salito a galla.

Jungle stringeva uno dei fucili rubati ai Bad Blood di Celtic ma neanche se ne rendeva conto, e si aggirava fra le case dei coloni alla ricerca di un unico obiettivo: trovare chi finalmente mettesse fine a quel dolore. Il dolore di aver fallito miseramente la ricerca di gloria e onore, il dolore di aver voglia di scappare e di non farlo unicamente perché non aveva alcun mezzo per sottrarsi al suo destino. Il dolore di vergognarsi così tanto di se stesso.

Quando si ritrovò d’improvviso faccia a faccia uno Yautja, sorpreso, una strana calma avvolse Jungle. Finalmente era finita.

Il Bad Blood era confuso, sentiva delle esplosioni lontane e si aspettava l’arrivo di umani, coloni o militari: invece davanti a lui c’era uno Yautja. Non lo conosceva, ma non poteva essere una nemico. O sì? Attimi preziosi di esitazione che permisero a Jungle di alzare il fucile e sparare.

Non lo fece convinto, in fondo addirittura voleva mancarlo perché così il Bad Blood lo uccidesse e tutta questa orribile vicenda sarebbe finita. Infatti il colpo non fece altro che ferire il braccio del nemico.

Un fiotto di sangue verde acceso fuoriuscì dalla ferita ma il Bad Blood sembrò addirittura non accorgersene. Jungle guardò gli occhi furiosi del nemico mentre questi prendeva lo slancio, e rimase inerme aspettando la morte, che sperò fosse veloce. Almeno un’ultima grazia alla fine di quella ferita vergognosa che era stata la sua vita.

Il Bad Blood era già saltato quando una lama ne bloccò lo slancio: la lama di Scar che si conficcò nel ventre del nemico distratto. Quest’ultimo incespicò ed urlò dal dolore. «Forza, aiutami!» gridò Scar a Jungle.

Quest’ultimo era raggelato a guardare il giovane amico che, inchinato, premeva con forza la sua lama nel ventre del Bad Blood, che cominciava a spillare sangue fosforescente ovunque. Il nemico gridava, non era un’azione pulita ed altri avrebbero sentito tutto: non cera tempo di riflettere. Jungle alzò il fucile e lo puntò alla testa del Bad Blood. Fece fuoco e questa scomparve, lasciando membra sconquassate da convulsioni. E sangue verde dappertutto.

Crollato il corpo a terra, Scar estrasse la lama e la pulì sul cadavere. «Non un bel lavoro ma almeno è uno in meno, no?» disse rialzandosi e sorridendo. Ma ciò che vide fu solo Jungle con gli occhi fissi nel vuoto. «Ehi, che hai? Sei ferito?»

Jungle, con il volto ricoperto di sangue, roteò lentamente gli occhi e li fermò guardando Scar. «Ho... capito...» bisbigliò.

«Come? Cosa hai detto...?»

Ma ormai Jungle non c’era più: aveva iniziato una corsa disperata e scomposta fuori dalla colonia.

~

Falconer sentiva rumori strani e terribili. Rumori di morte.

Avanzava lentamente tenendo puntata davanti a sé la sua arma, senza in realtà sapere molto del suo funzionamento. Procedeva quasi come un sonnambulo finché non vide in lontananza un paio di Bad Blood: prima di avere l’istinto di nascondersi per avvicinarsi di più, non visto, quelli si girarono verso di lui. Era finita. Tanto valeva premere il grilletto.

Partì una rumorosissima raffica di proiettili che cominciò a colpire qualsiasi cosa nelle vicinanze, e dopo qualche secondo Falconer capì che il Kalashnikov non era un’arma di precisione e che gli era impossibile controllarlo.

Il suo corpo tremava ed ondeggiava, mentre la forza dell’arma a ripetizione lo scuoteva con forza, finché d’un tratto tutto si placò. Il suo corpo non fremette più. Né toccava più terra.

Come in un sogno, Falconer vide davanti a sé il mondo sfrigolare mentre sentiva il suo collo stringersi. Avvicinatosi con attiva la propria invisibilità, ora Wolf gli si materializzò davanti agli occhi, mentre lo teneva sollevato da terra. L’imponente Yautja aveva indosso la maschera ma bastava il fiammeggiare dei suoi occhi per incutere terrore.

Wolf afferrò la mano di Falconer che teneva l’arma e la strinse. La strinse lentamente ma inesorabilmente finché non fu completamente maciullata.

Falconer non poteva gridare, aveva il collo saldamente stretto dalle possenti mani di Wolf, quindi poteva limitarsi a mugolare disperatamente.

Wolf si avvicinò al suo volto. «Posso distruggerti ogni osso del corpo o posso darti una morte rapida, tutto dipende se rispondi a questa domanda: quanti guerrieri siete?»

Falconer aveva dato più di quanto fosse in grado di dare, quindi non aveva senso continuare. «Cinque» gorgogliò.

Wolf annuì soddisfatto, e rispose: «No... quattro.» E spezzò il collo a Falconer. In altre occasioni non sarebbe stato così magnanimo, né si sarebbe sentito in dovere di mantenere un patto con una vittima, ma non aveva tempo.

L’ultimo pensiero di Falconer prima di morire fu di soddisfazione per la risposta data. Gli aveva fornito il numero dei guerrieri... non il numero totale.

~

Machiko non riusciva a ritrovare la concentrazione: come aveva potuto distrarsi così? Proprio nel momento più importante della sua...

Un fruscio violento la fece voltare di scatto e stava già per sparare, quando riconobbe all’ultimo secondo Jungle. «Dove cazzo vai?» gli gridò dietro, ma lo Yautja era ormai già lontano: aveva abbandonato la colonia.

Non stava andando come sperato, si disse la donna.

~

«Ho finito, ho lanciato l’ultimo candelotto. Ora non ci resta che pregare

I coloni si stringevano fra di loro mentre lanciavano idee sul da farsi. «Che bisogno c’era di stuzzicare quei mostri? Avete visto, stavano partendo, bastava aspettare

«Proprio così ci siamo messi nei guai: abbiamo aspettato e a momenti facevamo la fine di quegli altri. Non ti bastano tutti i morti che abbiamo avuto?»

«Ora che si fa?»

«Ovvio, aspettiamo che si ammazzino fra di loro poi raggiungiamo la nostra nave e ce la filiamo

«Ma se...» tutti iniziarono a gridare alla visione di uno Yautja che li raggiungeva correndo.

«Calmi, calmi, è uno dei nostri», li tranquillizzò Bishop.

Jungle si avvicinò proprio al sintetico, gli batté una mano sulla spalla e gli gridò: «Tu, vieni con me.»

Lo trascinò fuori dalla miniera e lo portò alla jeep. «Ho visto che guidi bene, sai farlo aumentando la velocità?»

«Aumentandola quanto?»

«Sai cosa vuol dire fottere?»

Il sintetico lo guardò fisso. «In senso letterale o metaforico?»

Jungle gli calò di nuovo la mano sulla spalla. «Devi guidare questo giocattolo in modo fottutamente veloce, come se avessi qualcuno alle spalle che vuole fotterti.»

«Penso di poterlo fare», rispose Bishop senza espressione.

Jungle girò intorno alla jeep e cominciò ad armeggiare con degli attrezzi, velocemente ma in modo preciso, mentre continuava a bofonchiare «Ci ho messo anni... ci ho messo una vita... ma finalmente... ho capito...»

Bishop prese posto alla guida e rimase immobile. Solo quando Jungle finì di armeggiare alle sue spalle l’androide piegò leggermente la testa. «Posso chiedere cos’è che avresti capito, dopo tutto questo tempo?»

Con uno strappo secco Jungle scoprì la mitragliatrice che aveva appena montato su un treppiede nel retro della jeep, e gorgogliò profondamente: «Se può sanguinare... può essere ucciso!»

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Capitolo 14
*** 14 ***


City Hunter era in piena frenesia.

Il suo ambiente era sempre stata la città, dopo il suo battesimo del sangue non era più tornato in un territorio boschivo o anche solo di campagna, ma scopriva che il piacere della caccia non ne risentiva.

Forse avrebbe dovuto rivelare ai suoi compagni che la sua attrezzatura gli permetteva l’invisibilità, ma non aveva molta autonomia e c’era il rischio che quella donna gli impartisse ordini di avanscoperta. Perché sprecare quella possibilità nella semplice esplorazione, ora che poteva aggirarsi non visto in mezzo al panico? Sì, il panico dei Bad Blood che si sentivano sotto attacco senza riuscire a capire da dove arrivasse il pericolo, e da chi. La confusione delle prede era il piacere preferito di City Hunter, durante una caccia.

Gli tornarono alla mente i criminali esagitati nelle strade della sua città, quando era lui il re indiscusso e quegli insetti umani giocavano a spararsi l’un l’altro tutto il giorno. Amava avvicinarsi non visto e schiacciarli uno per uno: non erano trofei onorevoli, ma con così tante vittime poteva concedersi il lusso di fare “pulizia”.

Quando girò l’angolo, invisibile, e vide l’astronave dei Bad Blood da cui fuoriuscivano guerrieri armati: troppi di più di quanto avessero immaginato, troppi per affrontarli a viso aperto. Ma perfetti per lui.

City Hunter, in preda ad un’euforia che lo fece tornare giovane, cominciò velocemente a passare in mezzo ai Bad Blood agitati, che gridavano e si agitavano cercando di capire il da farsi. Quell’adrenalina era come tornare ad una dipendenza ormai dimenticata, era come una droga che da anni non si assumeva più. C’erano modi decisamente peggiori di chiudere la propria vita, pensò City Hunter.

~

Machiko non riusciva a scrollarsi dal petto l’oppressione per essersi fatta sorprendere come l’ultima delle reclute, lei che era stata addestrata in uno dei migliori clan Yautja: che davvero l’età fosse diventato un problema insormontabile? Aveva cercato di ovviare studiando un piano cauto e strategico, eppure sembrava andare tutto a rotoli.

Da quando erano arrivati sul pianeta niente era andato come previsto ed ora si ritrovavano in schiacciante inferiorità numerica senza neanche più l’arma della sorpresa: quanti Bad Blood erano riusciti a far fuori attaccando quando e dove meno se l’aspettavano? Davvero pochi, in confronto a quanti ora ne vedeva in lontananza. Stavano uscendo dalla loro nave. Stavano uscendo in tanti. In troppi.

La sorpresa era finita, ora non avevano più armi se non quelle ridicole che stringevano fra le mani: roba che non sarebbe bastata per degli umani, figuriamoci per dei Predator addestrati.

Machiko avanzò stringendo il suo M16, sparando qualche colpo giusto per tenere a distanza i nemici: per uccidere uno Yautja con quell’arma avrebbe avuto bisogno di avvicinarglisi, e quello poteva davvero essere fatale, per lei.

Sentiva echi di grida e di spari, la battaglia doveva essere iniziata molto prima di quanto avesse immaginato: sperava che sarebbero riusciti ad uccidere di nascosto molti più nemici prima di uno scontro aperto. Ma ormai tutto era precipitato.

D’un tratto vide Achab correre all’incontrario, allontanandosi da un gruppo di nemici che stavano sparando tutti insieme: era un miracolo che non l’avessero ancora preso. Machiko si spostò di lato ed aprì il fuoco per coprire la ritirata del compagno. Forse colpì qualche Bad Blood ma nel caso si trattava di ferite superficiali: giusto per fermare la loro avanzata.

Achab la vide e la raggiunse. Entrambi si ripararono dietro la parete di una delle case. Non era assolutamente un riparo sicuro, in pochi secondi sarebbero stati loro addosso... ma forse trovare un altro riparo non aveva più senso.

«Perdonami», disse Machiko con voce affranta. «Non sono riuscita ad ideare un piano migliore: mi sono atteggiata a stratega invece...»

«Piantala!» la interruppe Achab, che si teneva un braccio ferito, probabilmente da uno dei colpi dei Bad Blood. «Se tu non ci fossi stata saremmo morti molto prima. E male. Almeno così siamo arrivati alla battaglia e possiamo morire con onore.»

«Hai visto qualcuno degli altri?»

Achab scosse la testa. «Non so dove siano ma spero che stiano portandosi dietro più guerrieri possibile.»

«Temo che non stia andando così.» Quando vide che Achab la fissava, Machiko continuò con tono grave. «Ho visto Jungle scappare via, ricoperto di sangue e con gli occhi spiritati...»

Achab incassò male il colpo. Non aveva battuto ciglio per la stupida morte di Berserker, malgrado fossero amici da anni, ma la fuga di Jungle... questo faceva maledettamente male.

I rumori dei passi dei nemici erano ormai vicinissimi. Era tempo di cambiare riparo... o lasciarsi andare...

«È stato un onore combattere al tuo fianco», disse Machiko, stringendo il braccio di Achab, che non rispose. Si limitò a girare lo sguardo e a fissare gli occhi sul Bad Blood che si era affacciato: prima che quest’ultimo potesse alzare la sua arma, Achab aveva allungato il braccio e gli aveva sparato a breve distanza in direzione del petto, facendogli esplodere il cuore.

«Mi spiace averti trascinato in questa follia», bisbigliò Achab, «ma morire combattendo è un sogno che non speravo più di poter realizzare.»

Machiko non si alzò, aveva capito che non aveva più senso cercare riparo davanti a quell’ondata di nemici inarrestabili. Sapeva che erano dietro l’angolo, in attesa di stanarli, così si limitò a sporgere il braccio e a sparare alla cieca. «Almeno assicuriamoci di avere buona compagnia, all’inferno.»

Premette il grilletto... ma il rumore non corrispondeva al fuoco dell’M16. D’un tratto l’intera vallata si riempì di un rumore potente... che voleva solamente dire morte...

~

Wolf aveva dato l’ordine di guardarsi le spalle e nessuno prestava più attenzione all’entrata della miniera, visto poi che le esplosioni erano finite. Così nessun Bad Blood si accorse che qualcosa ne era sfrecciata fuori, qualcosa che si era avvicinata alla colonia a grandissima velocità, qualcosa che ora stava raggiungendo alle spalle gli Yautja impegnati a stanare i nemici che li avevano attaccati, proprio alle spalle.

L’unica traccia che qualcosa stesse andando male era uno strano rumore, continuo e rutilante che sembrava provocare altro rumore. E le pareti delle case cominciavano ad eruttare. E il terreno eruttava. E i Bad Blood si guardarono l’un l’altro stupiti... mentre loro stessi eruttavano.

Tutta la colonia stava esplodendo... sotto i colpi della mitragliatrice di Jungle.

Mentre Bishop guidava la jeep con espressione neutra, dietro di lui Jungle in piedi azionava la potente minigun agitandola a destra e a sinistra, vomitando piombo bollente ovunque con un rumore che avrebbe distrutto i timpani del pilota, se quella jeep fosse stata pilotata da un umano. Se lo Yautja avesse avuto ancora un minimo di giudizio avrebbe pensato che così metteva in pericolo i suoi stessi compagni, rischiando di colpirli lui stesso, ma il Jungle di una volta – quello che pensava bene prima di agire – non esisteva più. Si era semplicemente spento. Al suo posto c’era uno Yautja che urlava con ogni goccia di fiato i suoi polmoni riuscissero a distillare.

Se qualcuno avesse ascoltato bene, nel delirio che fuoriusciva dalla sua bocca avrebbe potuto riconoscere la frase «Ha tutto ciò che rende felice zio Jungle...»

~

Quando Scar vide in lontananza la jeep, impiegò poco a capire cosa fosse quel rumore e si gettò a terra. I potenti proiettili sparati dalla mitragliatrice colpivano ovunque ma se non altro in orizzontale, non in verticale. Sembrava che l’intera colonia stesse esplodendo, sotto i colpi di Jungle.

Da sdraiato, Scar si guardò attorno in cerca di un riparo migliore, ma la velocità con cui la jeep procedeva non lasciava speranze che esistesse davvero un riparo a quel fiume di piombo. Se non altro stava già dando i suoi frutti: anche da terra Scar poteva vedere i Bad Blood cadere a raffica sventagliati dai colpi potenti, così potenti che all’apparenza ne bastava uno per uccidere uno Yautja. E ne stavano volando a centinaia.

Scar non sapeva quanti Bad Blood ci fossero in totale in quella colonia, ma di sicuro il loro numero si stava riducendo drasticamente. Quella continua sventagliata di piombo li aveva colti di sorpresa ed essendo un’arma umana non sembravano in grado di capire come ripararsi. O comunque il tempo che impiegavano a capire che tipo di arma fosse non bastava a rimanere in vita.

Strisciando velocemente, Scar si andò a proteggere dietro il muro di una casa, disposta in modo tale che la jeep non sarebbe mai arrivata laggiù. Era un ottimo posto per nascondersi... e infatti era già occupato.

Quando Scar vide dei piedi davanti a sé, non ebbe tempo per far altro che tentare di alzarsi velocemente: una mano possente lo afferrò al collo e lo trascinò lentamente in alto.

Scar fissò terrorizzato gli occhi fiammeggianti dello Yautja che aveva di fronte. Non poteva sapere che era il braccio destro di Wolf. «Chi cazzo siete, voi?» gli domandò con voce minacciosa lo Yautja.

Scar emise solamente un balbettio. «Siamo guerrieri... venuti a fermarvi...»

Lo Yautja d’un tratto scoppiò a ridere. «No, siete solo pidocchi, e come tale verrete schiacciati.» Detto questo sbatté la testa di Scar contro la parete. «In quanti siete? Mi hai sentito, pidocchio? In quanti...»

Solo allora lo Yautja si focalizzò con il dolore che iniziò a provare. Solo allora si rese conto che non riusciva più a tenere in alto la sua vittima. Solo allora spostò lo sguardo e vide che dalla sua ascella destra fuoriusciva il manico di un coltello. Mentre lo sbatteva contro il muro, quel pidocchio l’aveva pugnalato.

Quando lo Yautja gridò non fu di dolore, bensì di rabbia. E voglia di massacrare quell’inutile pidocchio.

~

Machiko non aveva riconosciuto la mitragliatrice di Jungle ma non serviva: aveva capito che c’era qualche distrazione “importante” ed andava sfruttata. Non poteva essere sicura che i Bad Blood che stavano dietro la parete della casa aspettando che lei ed Achab uscissero fossero ora tutti distratti dal nuovo rumore, ma a quel punto bisognava giocare il tutto per tutto.

La donna si slanciò in avanti buttandosi a terra, in modo da uscire dalla parete dove si stava riparando cercando di prendere di sorpresa eventuali Yautja rivolti nella sua direzione: per fortuna non ce n’erano. Rimanendo a terra, usò il suo M16 sparando sventagliate ad ampio spettro. Quel tipo d’arma, a corta distanza, non aveva bisogno di perdite di tempo come mirare: bastava lasciare andare le braccia e le vibrazioni del potente mitragliatore facevano il resto, agitandosi da una parte all’altra e ricoprendo di piombo tutto ciò che aveva davanti.

Dal basso Machiko inondò di proiettili i Bad Blood che stavano per aggredirli, seguita subito da Achab che invece si sporse mettendosi in piedi, e cominciò a sparare con il suo fucile senza stare troppo a mirare. Il tempo di svuotare il suo caricatore e non c’era più alcuno Yautja in piedi.

Machiko si alzò di scatto. «Un altro minuto di vita conquistato», disse sorridendo. Achab non le rispose, né la guardò: il suo sguardo era fisso in lontananza... verso l’amico d’un tempo, che correva verso la morte.

~

«Ferma qui!» gridò Jungle a Bishop. Aveva la gola in fiamme, a forza di gridare e di lasciare andare tutta l’energia che per anni aveva tenuto compressa.

Non sapeva quante munizioni gli rimanessero, ma non era importante: ruotò la mitragliatrice e la puntò verso il punto che aveva raggiunto dalla miniera. La jeep infatti era sfrecciata in direzione dell’astronave di Wolf.

«Siamo alla fine della corsa, Bishop», disse Jungle. «Ma prima assicuriamoci che Wolf non possa andarsene.» Ed aprì il fuoco contro l’astronave.

Il rumore di ferraglia contorta si fece stridente. Jungle non conosceva quel modello di nave e non sapeva bene dove fosse il deposito di carburante, così nel dubbio sparava ad ampio spettro: e la minigun faceva il resto, devastando tutto.

Jungle riprese ad urlare, sfogando il suo furore... finché non si sentì il fiato spezzare in gola. Un’espressione di stupore infastidito gli contrasse il volto: quello dunque significava morire? Resistette e non lasciò la presa dal grilletto... almeno finché Wolf, alle sue spalle, non lo strappò via di peso...

~

Achab vide tutto, e appena notò la luce sfrigolante dietro la jeep cominciò a correre. Aveva già capito che qualche Yautja si era avvicinato invisibile ed ora stava tornando visibile. E visto che gli altri non stavano usando quella tecnica, di sicuro doveva essere Wolf. Lo vide apparire alle spalle di Jungle così come vide apparire la lancia che stringeva fra le mani. Lancia che terminava nella schiena di Jungle.

Urlando di rabbia, la corsa di Achab si fece frenetica, ma dovette interrompersi bruscamente davanti ad uno Yautja che gli era spuntato davanti. Uno Yautja ricoperto di sangue che trascinava Scar per il collo.

Il potente Yautja emise un profondo grugnito e lanciò qualcosa contro Achab, che non riusciva più a pensare lucidamente: dovette impiegare diversi secondi per rendersi conto che ciò che gli era stato tirato addosso era il corpo senza vita di Scar.

Achab si ritrovò il suo giovane compagno fra le mani, mentre lentamente iniziava a scivolare scompostamente sul terreno. Il volto di Scar era una maschera di sangue, ma era ancora visibile la cicatrice con cui Achab l’aveva “battezzato”.

«E ora tocca a te», sentì grugnire lo Yautja. «Mi sembri più in gamba di quel ragazzino, con te sarà un combattimento più interessante. Come ti chiami? Io sono Hornhead.»

Achab perse ogni controllo, e scattò gettandosi contro lo Yautja.

~

Vedere il corpo di Scar afflosciarsi al suolo spezzò il cuore di Machiko, ma non ne rallentò i riflessi. Era orgogliosa che quel giovane Yautja senza speranza, votato all’autodistruzione, avesse coronato il suo desiderio: non era morto ubriaco in qualche angolo di una città straniera, ricoperto di vomito, ma combattendo da guerriero onorevole, affrontando con coraggio un nemico più forte. Questo però non voleva dire che facesse meno male...

Rapidamente afferrò il fucile a lunga gittata che teneva a tracolla, perché anche lei in lontananza aveva visto Wolf. Da quella distanza non sarebbe stato facile colpirlo, ma era un’occasione troppo perfetta per non provarci.

Si mise in ginocchio, roteò il braccio destro fino a stringere saldamente la tracolla dell’arma così da tenerla immobile in posizione. Non poteva perdere troppo tempo e aveva un proiettile solo... Ma appena inquadrato Wolf nel mirino, proprio nella stessa traiettoria vide Achab avventarsi sullo Yautja che aveva ucciso Scar...

D’un tratto non era più così scontato l’obiettivo del suo ultimo colpo...

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Capitolo 15
*** 15 ***


Il mondo vibrò e tremò, e mantenere l’equilibrio fu all’improvviso dannatamente difficile. Questo fu l’effetto del primo pugno che Hornhead fece crollare sul volto di Achab.

Lo Yautja non era imponente come Wolf, né sembrava particolarmente muscoloso, ma erano sottigliezze: quand’anche fosse stato un suo pari, Achab lo stesso sarebbe stato in difficoltà. E chiaramente era molto più di un suo pari. Lo dimostrò con la velocità con cui tornò a colpire l’avversario, prendendolo ad un fianco e spezzandogli completamente il fiato. Achab non riusciva a ritrovare l’equilibrio ma di una cosa era assolutamente conscio: non sarebbe sopravvissuto ad un terzo pugno.

Hornhead avrebbe velocemente atterrato l’avversario ma proprio per questo non aveva alcun interesse a farlo. Aveva il braccio destro gravemente ferito, per la pugnalata di Scar, eppure era chiaro che poteva batterlo con una mano sola: perché sbrigarsi? Si limitò a sghignazzare guardando Achab. «Tu saresti il migliore del gruppo?» chiese gracchiando. «Com’è possibile che a voi insetti sia venuto in mente di aggredirci? Sapete contro chi vi siete messi?»

Non erano vere domande, ma più Hornhead parlava meno colpiva, così Achab decise di stuzzicarlo. «E voi? Voi sapete con chi avete a che fare?»

Hornhead lo fissò per qualche secondo, interdetto. Che avesse sottovalutato il suo avversario? Mostrarsi deboli è una tipica tecnica di chi invece è forte... o degli idioti che si credono forti. Poi però Achab alzò lentamente le braccia e le mise davanti al proprio corpo con i pugni chiusi, al che Hornhead non poté fare a meno di scoppiare in una risata: il suo avversario apparteneva sicuramente alla seconda categoria. Sferrò un blando pugno per divertirsi a ferirlo ancora un po’, ma a sorpresa il pugno andò a vuoto...

Achab aveva assunto una posa da combattimento umano, che gli Yautja di solito non conoscevano: Berserker era stato un arrogante coglione, ma non diceva cose sbagliate. Mentre Hornhead colpiva dritto, incanalando la sua energia dritto davanti a sé, Achab senza alcuno sforzo ruotò leggermente il busto, così che il suo corpo non si trovasse più parallelo al nemico ma perpendicolare. Così che il suo corpo offrisse la minor superficie possibile da colpire, così che bastò scansarsi di pochi millimetri per evitare il pugno, approfittandone per colpire il nemico in faccia.

Un pugno fiacco, senza energia, Achab ormai era allo stremo delle forze, ma anche solo quel ridicolo pugno fu bruciante per Hornhead: il più debole dei suoi avversari l’aveva appena fregato. Ritrovandoselo alla sua sinistra, ed avendo ormai solo il braccio sinistro buono, lo roteò nella sua direzione per cercare di spazzarlo. Una tecnica banale, scontata, che Achab poté evitare anticipandola ed abbassandosi: si ritrovò in un attimo davanti all’avversario e gli assestò altri due pugni, in rapida sequenza. Nessun danno, solo un gesto di puro sfregio per far perdere la concentrazione.

Hornhead cominciava a vedere rosso di rabbia: il suo avversario non gli faceva neanche il solletico eppure si permetteva di prenderlo in giro sgusciando dai suoi colpi. Lo Yautja aumentò la forza nei propri pugni ma proprio per questo divenne ancora più lento nei movimenti, perché ogni volta doveva caricarli al massimo: Achab, che non poteva mettere alcuna energia nelle sue tecniche, poteva muoversi più veloce e scansare tutti i colpi. Il suo ultimo combattimento non sarebbe stato onorevole, a meno di non lodare un guerriero che schernisce un avversario più forte.

~

Ogni secondo in cui Machiko non sparava, era un secondo che rendeva più facile sbagliare colpo. Non era un cecchino, non era stata addestrata a mantenere una posizione di tiro rimanendo immobile in una situazione concitata. Quando accompagnava i ricconi a caccia poteva sdraiarsi su rocce calde o in posti comodi, e quando le capitava di sparare – perché magari i ricchi non erano capaci ma non volevano andar via senza un trofeo, così gliene commissionavano uno – si trattava di colpire ad una distanza media degli animali molto grandi e di solito fermi.

Ora la donna da troppi secondi era accucciata a terra su un ginocchio, con i muscoli contratti a tenere fermo il suo fucile di precisione, così da capire a chi dovesse sparare: ad Hornhead, più vicino ma con il rischio di colpire Achab, o Wolf, molto più lontano e meno facile da centrare. Il capo dei Bad Blood stava sgrullando il cadavere di Jungle dalla propria lancia, lentamente, e intanto si gustava il suo fido braccio destro che affrontava il capo di quegli strani assalitori. Ormai nella colonia si respirava solo aria di morte, quindi non c’era alcuna fretta.

Machiko mirava a ripetizione prima uno poi l’altro: chi colpire? Con chi utilizzare l’ultimo colpo rimasto? Fermo restando che c’era solo una pallida possibilità che quest’ultimo colpo andasse a segno.

Fissò in lontananza Wolf che, tronfio, ripuliva la propria lancia sul corpo inerte di Jungle, e la rabbia montò. Era lui il bersaglio da provare a colpire: avevano fatto tutta quella strada e avevano versato tutto quel sangue proprio per quello, avevano votato la loro vita all’eliminazione di Wolf quindi non c’erano altre scelte da fare. Poi però diede un’ultima occhiata allo scontro fra Achab ed Hornhead, giusto in tempo per vedere quest’ultimo afferrare l’avversario al collo. Dopo varie tecniche andate a vuoto finalmente aveva smesso di colpire ed era passato ad afferrare: ora aveva agguantato Achab per il collo, l’aveva fatto girare e lo stava strangolando. Mentre entrambi guardavano proprio in direzione di Machiko.

Le mani della donna non riuscivano più a tenere fermo il fucile, ogni istante era un passo avanti verso lo sbagliare mira. Il sudore le rigava il volto e il cuore le si fece pesante... quando attraverso il mirino dell’arma vide che Achab le stava parlando... Vide che lo Yautja con cui aveva condiviso la dura vita ad Anderson City stava muovendo la bocca formando un’espressione inequivocabile: «Spara».

Ma a chi? Voleva che Machiko colpisse Hornhead... o voleva che mettesse fine in modo rapido alle sue sofferenze?

I nervi cedettero, non c’era più tempo per aspettare, non c’era più tempo per pensare: c’era solo un ultimo istante per sparare. E Machiko premette il grilletto...

~

Non gli era mai piaciuto Jungle, faceva troppo lo spiritoso e non lo trattava con il rispetto che meritava, ma vederlo morire fu lo stesso doloroso.

Nascosto dalla sua invisibilità, City Hunter si trovava vicino all’astronave dei Bad Blood e quindi vicino anche a Wolf: assistette a tutta la scena del ripulimento della lancia dal sangue di Jungle. Non gli rimaneva ancora molta energia, a momenti avrebbe iniziato a tornare visibile e non aveva speranza contro Wolf... perciò decise che un’ultima soddisfazione voleva togliersela. E cominciò a convogliare l’energia rimasta...

Wolf era tranquillo, stava guardando in lontananza qualcosa che City Hunter non vedeva, né gli importava: avere il capo dei Bad Blood distratto, lì a due passi, era un’occasione troppo perfetta per lasciarsela sfuggire. Era il modo migliore di andarsene. Andarsene con il botto...

Il suo cannone da spalla era carico, ogni briciolo di energia che rimaneva alla sua armatura era pronta ad esplodere... e con un brivido di piacere City Hunter la liberò.

Dal suo cannone da spalla fuoriuscì un fiotto di plasma molto più intenso di quanto mai City Hunter avesse visto. Un’enorme dose di plasma che piombò addosso a Wolf, che distrattamente aveva alzato la lancia: quell’esile arma non bastò a proteggerlo.

Il grande Yautja fu investito sulla spalla da una quantità di plasma che avrebbe polverizzato un umano, ma per un Predator della sua stazza non rappresentava un pericolo mortale. Lo stesso però l’ustione fu devastante e lo Yautja cominciò ad urlare, mentre il plasma gli mangiava il braccio, la spalla e almeno metà della faccia: Wolf non sarebbe morto, ma avrebbe sofferto tanto. E a lungo. Quasi quanto avrebbe fatto soffrire per vendetta chi l’aveva colpito...

~

L’esplosione provocata da City Hunter fu potente, e la sentì anche Hornhead, capendo subito che qualcosa non andava. Quei pidocchi li avevano aggrediti con armi rudimentali, come poteva essere quello il rumore di un’arma Yautja di alto livello? Bastò questa domanda a far voltare Hornhead, anche se non di molto. Bastò quel rumore a spostare il bersaglio... e a far fallire il colpo di Machiko.

Hornhead non aveva sentito lo sparo della donna... ma sentì il colpo. Sentì il proiettile che gli trapassava il collo, così come sentì il liquido che fuoriusciva dalla voragine che la pallottola si era lasciata dietro. Sentì l’aria che gli usciva dal collo... o da quel punto in cui prima c’era il suo collo.

Achab invece aveva sentito lo sparo, perché lo aspettava e lo aveva riconosciuto. Quindi capì subito cosa stava accadendo e si liberò dalla presa dell’avversario: nella rigidità della morte, c’era il rischio che lo Yautja gli stringesse ancora di più il collo. Liberatosi, per rabbia colpì Hornhead al volto, e quasi gli staccò la testa, visto che questa si teneva in equilibrio solo su deboli lembi di carne residua. Il corpo dello Yautja crollò a terra lentamente, con un grande tonfo.

«Achab!» gridò Machiko, correndo a perdifiato verso di lui. «Stai bene?»

Lui le sorrise. «Sì. Sapevo che non avresti sbagliato mira.» Sorrise e scosse la testa. «O meglio, più che saperlo ci speravo.»

Machiko non riuscì a rispondere al sorriso, malgrado fosse felice che l’amico fosse ancora vivo. Perché l’attenzione fu attirata da Wolf che più avanti si stava contorcendo dal dolore, gridando e chiamando a raccolta i suoi uomini rimasti. E ce n’erano ancora, in vita, di Bad Blood che pian piano si avvicinavano. Si erano protetti dentro l’astronave, ed ora che la battaglia sembrava finita stavano uscendo.

«Ci siamo», disse Achab, alzandosi in piedi e massaggiandosi il collo dolorante.

«Sì, un ultimo sforzo ed è finita», rispose Machiko incamminandosi.

Una mano sulla spalla la fermò. «No», le disse Achab, «tu no: la tua caccia finisce qui.» La donna lo fissò senza capire, e lui continuò. «Hai fatto più di quanto ci si possa aspettare da un’umana... ma che dico? Più di quanto ci si possa aspettare da uno Yautja. Hai portato una banda di vecchi falliti a colpire al cuore uno dei più pericolosi criminali della galassia: solo tu potevi riuscire a farci arrivare vivi fin qui e a ricoprirci d’onore. Ma ora basta, Machiko: sei già tornata ad essere una Blooded Warrior, non hai bisogno di morire inutilmente. Non hai che qualche arma inutile e Wolf, anche se ferito, è fuori dalla tua portata, senza dimenticare che non è da solo.» I due si voltarono velocemente a vedere i Bad Blood che uscivano dall’astronave: non era no molti, ma di sicuro erano troppi.

Machiko fissò Achab. «Quindi ce ne andiamo?» Sapeva che non era così, ma aveva voluto provare.

«No», sorrise lui. «Tu te ne vai. Io vado da Wolf. Io sono alla fine della pista, come hai visto sono un peso morto: morire affrontando Wolf è un onore che mai avrei potuto sperare di avere. Tu invece...» e fece una pausa silenziosa di qualche attimo, «tu devi vivere, e raccontare la nostra storia. Wolf non sa che c’è anche un’umana con noi, sono sicuro che non se lo aspetterebbe mai, quindi non ti cercherà. Segui loro e vivi.»

Achab indicò un punto e Machiko seguì il dito con lo sguardo. In lontananza vide i coloni che fuggivano in una direzione: tutti diretti all’astronave della colonia, evidentemente non danneggiata dai Bad Blood. Approfittando della battaglia i coloni evidentemente avevano deciso di darsela a gambe, di nascosto e velocemente, ma c’era qualcosa di più. Non erano solo i coloni che si erano nascosti nella miniera: della gente stava uscendo da un edificio che sembrava blindato. «Mentre noi tenevamo a bada i pirati», disse Machiko, «i topi abbandonavano la nave...»

«I topi?»

«Lascia stare, è un modo di dire terrestre. Dici quindi che dovrei andare con loro?»

Achab annuì. «Fatti lasciare in qualche porto sicuro e poi raggiungi i nostri clan. Racconta a tutti la nostra avventura, la nostra storia: il tuo nome è noto, a te daranno ascolto. Racconta di quei guerrieri senza gloria che un giorno hanno deciso di alzare la testa... e morire con onore.» Indicò poi a terra il cadavere di Scar. «E porta lui con te. Mi ha confidato che è partito per la missione infilandosi in una tasca un appunto con il nome del suo clan, seguendo il nostro consiglio. Riportalo a casa e riabilita il suo nome: che ci sia anche lui, nelle leggende che scriveranno sui sette Yautja senza gloria...»

Machiko era impossibilitata a parlare, perché se avesse aperto bocca sarebbe scoppiata a piangere... e l’ultima cosa che voleva era farsi vedere in quello stato da Achab. Il loro ultimo saluto se l’erano già dato, non c’era bisogno di aggiungere altro.

La donna annuì, si inchinò, afferrò il corpo di Scar e cominciò a trascinarlo. Achab si voltò senza aggiungere altro e si diresse verso Wolf.

«Achab», cedette Machiko, riuscendo a controllare il tono della voce. Lui si voltò a guardarla, con occhi tristi. «Ho avuto il privilegio di combattere al fianco di splendidi guerrieri, felicitandomi ogni volta della loro morte onorevole... Tu sei il primo per cui invece provo dolore...» Lui annuì ma lei continuò subito. «Prima, quando ho sparato, in realtà stavo mirando...»

«Non mi importa», la interruppe Achab. «A chiunque stessi mirando... hai fatto la scelta giusta.» Si voltò ma continuò a parlare, senza mostrare il volto. «Un giorno, un guerriero Yautja potrebbe provare amore per una donna umana... Quel giorno... non sarà la prima volta che questo accade.» E scattò in avanti, verso il suo destino.

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Capitolo 16
*** 16 ***


L’urlo di Wolf proveniva da ogni anfratto del suo corpo. Non era un urlo di dolore: era un urlo di rabbia e umiliazione. Era il signore della galassia, da tempo immemore scorazzava in lungo e in largo senza che nessuno avesse mai osato contrastarlo. E ora... Ora dei vecchi buffoni malandati erano stati così pazzi da aggredirlo... e ferirlo.

Agitava il braccio ferito come a tentar di spegnerne il fuoco, come se davvero ci fossero delle fiamme che lo stessero lambendo: il fuoco in realtà era dentro, e lo stava divorando. Ciò che rimaneva del suo braccio destro non era altro che una protuberanza di carne martoriata e fumante.

Metà del suo volto aveva perso completamente sembianze riconoscibili, ma non era quello il problema: l’ustione penetrava sempre di più in profondità e il dolore cresceva a livello esponenziale. Non era così che aveva sognato sarebbe finita la sua caccia...

City Hunter non aveva tempo di contare quanti altri Bad Blood fossero usciti dall’astronave di Wolf: non erano tanti ma lo stesso era un’informazione ininfluente. Era morto, questo era chiaro, rimaneva solo da assicurarsi un ulteriore ultimo colpo. Afferrò il lungo pugnale che portava alla cintura e in pochi rapidi passi raggiunse Wolf, per conficcarglielo completamente nel fianco ustionato. City Hunter avrebbe voluto provare la sensazione della lama che penetrava nella carne del suo nemico, del sangue verde che ne sarebbe sprizzato fuori, ma non poté farlo: riuscì solo a dare il comando al suo braccio di pugnalare Wolf, e un attimo dopo i Bad Blood aprirono il fuoco su di lui. Tutti insieme.

L’urlo di Wolf fu potente, primordiale, carico di ogni briciolo di potenza Yautja nascosta nelle sue cellule. Il più infame dei suoi nemici, quello che gli aveva provocato il dolore che lo stava divorando, se l’era cavata: era morto in un lampo, crivellato da decine di colpi, ed ora il suo corpo straziato giaceva a terra. Quel cane era crepato senza un lamento, mentre lui, il capo incontrastato dei Bad Blood, il più grande criminale che l’universo avesse mai conosciuto, stava gridando come una quella bestia ferita che in effetti era.

Nel suo agitarsi Wolf cominciò a pestare il cadavere di City Hunter, ricoperto di sangue: la rabbia impotente lo spingeva comunque a fare scempio del suo nemico. Almeno finché non ne arrivò un altro. Uno vivo...

Achab era arrivato alle spalle di Wolf e aveva raccolto da terra la lancia che il criminale aveva usato per trapassare Jungle: era il modo perfetto per vendicarsi. Premette la lancia nella schiena del Bad Blood con ogni singolo briciolo di forza che gli era rimasta nei muscoli. Cioè niente.

Nell’oceano di dolore in cui Wolf stava rantolando non fu neanche notato quello proveniente dal fianco in cui si era appena conficcata la lama della lancia: una ferita del tutto ininfluente, in mezzo alle altre che stavano torturando il criminale. Si girò più per istinto che per altro, e così facendo spinse via la lancia dalle mani di Achab, visto che la lama rimaneva conficcata nel fianco dov’era penetrata solo in parte.

Nel delirio gorgheggiante che fuoriusciva dalla gola di Wolf si riuscirono a distinguere solo alcune parole. «Ti stavo aspettando.» Agitò la mano sinistra alla volta dei suoi Bad Blood. «Non sparate: questo è mio... Sconterà lui per tutti gli altri...»

~

Trasportare il cadavere di Scar sull’astronave non era stato affatto facile, e per fortuna era un giovane Yautja molto più piccolo rispetto ai suoi compagni. Nessuno dei coloni che le erano passati davanti aveva aiutato Machiko, ma lei non se l’aspettava di certo.

La nave era appena partita e la donna fissava la parete davanti a lei. Era totalmente annientata e ogni pensiero le faceva male, ogni ricordo era una fitta dolorosa. Stava usando la forza rimastale per impedirsi di pensare. Di pensare che la sua missione di raccontare la storia dei sette guerrieri sembrava più una fuga. Una delle tante della sua vita. Fissava il vuoto sperando che il vuoto entrasse dentro di lei e le concedesse un po’ di pace da ogni pensiero.

«Certo però che potevate aspettarci, cazzo», stava urlando un colono rivolto all’altro, seduti a pochi metri da Machiko. «Invece vi siete subito chiusi dentro e noi siamo rimasti nella miniera a fare i topi in trappola.»

«Sapevate benissimo qual era la procedura, se fosse toccato a voi non ci avreste aspettato, quindi vediamo di non fare i santarellini.»

«Abbiamo visto Wolf con largo anticipo: avevate tutto il tempo di farci entrare nel rifugio, e invece no. Sapete quanti sono morti? Sapete quanti ne hanno torturati?»

La concentrazione di Machiko non riusciva ad isolarsi. Che vuol dire che hanno visto Wolf in anticipo? cominciava a chiedersi, ma non voleva pensarci.

«Stavolta la Compagnia non se la cava facilmente: eravamo tutti d’accordo a fare da esca a quel mostro, ma non a costo di vedere i nostri amici e parenti massacrati come animali.»

Non voleva badarci, non voleva pensare, eppure Machiko si voltò di scatto. «Che cosa vuol dire che avete fatto da esca?» chiese di getto a chi stava parlando.

I due uomini si voltarono di scatto, come se solo in quel momento si fossero accorti della presenza della donna, vestita come una guerriera Yautja. Ci fu un attimo di esitazione e uno degli uomini si stava già girando di nuovo, intenzionato a non rispondere, mentre l’altro – il più agitato – parlò a voce alta. «Siamo una colonia finita, così la Compagnia ci ha usato per creare un incidente diplomatico con gli Yautja amici della Yutani. Dovevamo lamentare la distruzione della miniera per riscuotere l’assicurazione e risollevarci, poi la Weyland avrebbe avuto la scusa per accusare la Yutani di connivenza con un pericoloso nemico, o che so io: qualche impiccio politico del genere. Però non ci sono stati solo danni fisici», continuò rivolto all’altro uomo, «ci sono stati massacri vergognosi.»

«Perché stai raccontando tutto a una sconosciuta? E se ora quella va a denunciarci alla Yutani?»

Machiko aveva smesso di ascoltare. Troppo schifo, troppa merda. Troppa umanità.

La parete non bastava più, doveva scacciare ogni umanità dal proprio essere, per non doversi vergognare così tanto di una razza infame. Così si chinò sul corpo di Scar e cercò l’appunto con il nome del suo clan. Voleva pensare a cose Yautja, voleva pensare all’altra sua natura, quella vera, quella che non voleva più tradire. Ora era una Blooded Warrior di nuovo e stavolta avrebbe preferito vivere sola su un pianeta deserto che perdere questo rango per colpa degli umani.

Machiko frugò nelle tasche di Scar e trovò l’appunto. Un piccolo foglio, proprio come lei consigliava ai suoi clienti: sicuramente i cadaveri degli Yautja sarebbero stati trovati da umani quindi avrebbero dovuto usare il loro sistema di scrittura, per farsi riportare in seno al proprio clan. La donna aprì il foglietto e lesse il nome del clan di Scar.

C’era una sola scritta.

C’era un solo nome.

«Machiko

Tutto si smorzò intorno alla donna. Tutto tacque.

Scar aveva rinunciato per sempre ad essere riabilitato. Il suo vero nome non l’avrebbe mai ricordato nessuno e il suo nome di battaglia sarebbe rimasto ignoto per sempre. Aveva rinunciato all’onore. Aveva rinunciato alla gloria. Aveva rinunciato alla memoria. Tutto pur di dimostrare la sua appartenenza a Machiko. All’unico essere vivente che aveva avuto cura di un Predator senza onore...

Arriva un momento in cui tutto finisce.

Ma arriva anche un momento in cui tutto inizia.

E tutto inizia con il sangue.

«Mi sa che il mio amico ha parlato troppo», stava dicendo un colono. «Capisci che non possiamo lasciarti andare in giro a rivelare certi particolari, visto che non sappiamo chi sei.»

I due uomini si stavano avvicinando ma Machiko non sembrava accorgersi di loro.

«Niente di personale, ma capisci che c’è troppo in ballo per metterlo a rischio. Quindi facciamo che fra tante vittime... ce n’è una più...»

Solo allora Machiko si girò e, accucciata per terra vicino a Scar, guardò i due uomini dal basso. «Una in più? Facciamo due...»

Prima che i due uomini potessero rendersi conto di quello che stava accadendo, Machiko aveva afferrato il manico della spada che portava legata sulla schiena sin dall’inizio della missione e la lama snudata aveva già tagliato le ginocchia di entrambi i coloni. Probabilmente caddero gridando, ma la donna non se ne accorse.

«Nel passato, sulla Terra, il mio popolo si è trovato aggredito da un nemico superiore, enormemente superiore», cominciò a parlare Machiko, con voce alta ma neutra, alzandosi lentamente e cominciando a camminare. «Si preparavano a morire, perché non in grado di affrontare quel nemico, finché accadde qualcosa di inaspettato.» La donna procedeva mentre i coloni gridavano accanto a lei. «Un forte vento si alzò sul mare e le navi del nemico vennero spazzate via. Così» e Machiko con rapido gesto tagliò la testa di un colono che si era avvicinato per aggredirla.

Mentre il corpo cadeva e tutti gridavano, la donna continuava a camminare e a parlare, alzando la voce perché tutti sentissero. «Da allora il mio popolo ha spesso affrontato nemici di gran lunga superiori, e ogni volta ha invocato l’aiuto di quel vento sacro che tutto vince.» Raggiunta la cabina di pilotaggio, usò il manico della spada per bussare, mentre intorno a lei uomini e donne la fissavano urlanti. «Sapete come chiamavano i miei avi, nella loro lingua, quel potente vento sacro?»

Uno dei piloti aprì la porta... e Machiko lo decapitò.

«Kamikaze

~

Perdere l’occhio non fu doloroso come si sarebbe aspettato. In realtà lo shock che dominava il fisico di Achab gli evitava per il momento troppe sollecitazioni nervose, sicuramente il dolore sarebbe arrivato dopo, e potente. Se fosse stato fortunato non ci sarebbe stato alcun “dopo”, ma Wolf era troppo intenzionato a torturarlo per lasciarlo morire in fretta.

Il potente criminale gridava, non riusciva più a star zitto, anche se ormai si limitava a gorgogliare visto che le corde vocali erano lese dall’ustione e dallo sforzo.

«Questo è solo l’inizio», sibilò ad Achab, mentre continuava a picchiarlo con l’unica mano buona rimastagli.

«Capo», disse uno dei Bad Blood.

Wolf si voltò indispettito. «Che vuoi? Avete riparato la nave?»

«Ancora no», si scusò lo Yautja. «Ma a proposito di navi, ce n’è una che ci viene contro.»

Wolf fissò il Bad Blood per qualche secondo. «Che cazzo vuol dire?»

«Che c’è una nave che ci sta venendo contro», disse l’altro senza emozione.

«Non ti ho chiesto di ripetere, idiota, ti ho chiesto di spiegare.»

Lo Yautja pensò per qualche secondo, poi rispose sempre con lo stesso tono: «Non trovo un altro modo per avvertirti che c’è una nave che ci viene contro.»

Wolf gli fu addosso e lo afferrò al collo. «Ti rendi conto che siamo a terra? Non stiamo volando nello spazio: mi spieghi esattamente come può una nave venirci contro?»

Lo Yautja, rantolando, alzò una mano ad indicare un punto alle spalle di Wolf. «Così...»

Il criminale si voltò lentamente... e rimase alcuni istanti a fissare, con l’unico occhio rimastogli, il cielo che cadeva. Con la gola in fiamme, riuscì solo a bisbigliare: «Ma chi cazzo è questa gente?»

~

L’astronave della colonia non era grande, era un vecchio cargo adattato al trasporto di merci e persone per tratti medi, ma lo stesso quando arrivò a volo radente sulla colonia il mondo cominciò ad esplodere.

Gli anni passati nella Compagnia avevano insegnato a Machiko come guidare molti tipi di veicoli, e per fortuna quella nave era abbastanza vecchia da essere semplice da pilotare. Entrata nella cabina di comando, neutralizzati i piloti e sigillata la porta, la donna aveva virato violentemente ed era tornata giù per la stessa strada seguita finora. Si abbassò di quota fino a passare radente sui tetti delle case, diretta verso l’astronave Yautja.

Tutta la colonia iniziò ad esplodere al passaggio della nave, facendole perdere solamente una piccola percentuale della velocità acquisita, una velocità che comunque impedì agli Yautja qualsiasi movimento. Il tempo di capire cosa stesse accadendo... e la nave arrivò a destinazione.

I danni provocati dai tetti delle case furono ingenti, ma tanto non era previsto alcun ritorno: era un viaggio di sola andata verso l’inferno. Sin dal primo danno la nave cominciò a perdere carburante che subito prese fuoco, inondando la colonia di fiamme liquide che avrebbero a breve fatto esplodere tutto ciò che poteva esplodere. Era questione di secondi prima che “Shimada’s Hope” diventasse una gigantesca palla di fuoco.

Gli Yautja rimasero fermi, sia perché non ebbero il tempo di comprendere a pieno cosa stesse accadendo – nella loro lunga carriera mai avevano trovato un umano disposto ad un sacrificio così devastante – sia perché non aveva più senso muoversi: se non li avesse uccisi l’impatto, li avrebbe uccisi l’esplosione successiva. O le fiamme liquide che stavano inondando tutto a gran velocità. I più fortunati furono quelli che vennero schiacciati dallo scontro fra l’astronave dei coloni e quella Yautja.

L’impatto dell’enorme massa ricoperta di combustibile ardente fu devastante, e un secondo dopo tutto esplose, spazzando via qualsiasi forma di vita nei paraggi, inondando di fuoco liquido decine di metri circostanti. In pochi secondi non c’era più alcuna colonia umana, non c’era più alcuna astronave Yautja, non c’era più alcun Bad Blood. Non c’erano neanche più i cadaveri dei Predator senza gloria che avevano osato sfidare il gigante...

Sopito il boato rombante che aveva riempito l’aria, ora rimaneva solo il crepitio delle fiamme... e l’urlo di Wolf.

L’enorme Yautja uscì dalla piccola costruzione in cui all’ultimo secondo era riuscito a ripararsi, una piccola struttura a pochi metri che, lontana dall’impatto, era riuscita a proteggerlo dall’inondazione di carburante liquido. Il suo scatto era stato dettato più da un istinto sviluppato in decenni di cacce piuttosto che ad un pensiero razionale. E anche essere stato un torturatore per così tanto tempo gli aveva sviluppato una certa prontezza di riflessi: insieme a sé, al riparo, si era portato Achab. Un torturatore non concede mai alla propria vittima una morte veloce e pietosa.

«Ti sarebbe piaciuto morire in fretta, eh?» stava rantolando Wolf alla volta di Achab, gettato a terra in un piccolo spazio fra le fiamme che ormai avvolgevano tutto. «Lo ammetto, vi ho sottovalutato, ma ormai è finita. Ora siamo solo tu ed io, con a disposizione solo il poco tempo che ci resta da vivere: vediamo di sfruttarlo bene.» Agitò il proprio braccio, ridotto ormai ad un moncherino fumante, davanti alla propria vittima. «Ti farò scontare tutto il dolore che ho subìto, e ti farò rimpiangere quello che mi avete fatto al braccio.»

Achab lo guardava rimanendo sdraiato a terra, completamente privo di forze anche per colpa del sangue che stava perdendo dalle ferite infertegli. Fissò Wolf... poi rispose con uno strano sorriso sul volto. «Quale braccio?»

Come poteva scherzare in un momento come quello? Wolf si infuriò ancora di più, finché con la coda dell’occhio vide qualcosa volare via. Qualcosa di strano eppure di familiare. Qualcosa che... Possibile che quello fosse il suo braccio ustionato? Era maciullato eppure poteva riconoscerlo, lo stesso la sua mente non riusciva a capire: perché ora il suo braccio stava volando via?

Girò leggermente la testa e vide fiotti di sangue verde spillare dalla propria spalla, dove prima c’era il suo braccio. Ancora non riusciva a capire, non riusciva a focalizzare, i suoi pensieri schizzavano in ogni direzione senza riuscire a trovare un filo da seguire. La sua mente era appannata, e cominciò a ritrovare un minimo di chiarezza quando si voltò ancora di più... e vide Machiko a pochi passi da lui. Con la spada impugnata.

Wolf la guardò e se da una parte riuscì a capire che era stata lei a tagliargli via il braccio, lo stesso la situazione non era chiara: perché quella femmina umana stava lì? Perché era vestita quasi fosse uno Yautja? Perché lo stava sfidando?

«Chi... cazzo... sei... tu?»

La donna rispose con tono neutro. «Sono la fine di questa storia.»

~

Machiko era ricoperta di sangue e sotto il sangue era ricoperta di liquidi. L’astronave era un modello vecchio e soprattutto non era pensata per viaggi spaziali, bensì per spostamenti interplanetari. Sarebbe stato un problema raggiungere un altro pianeta – visto che la nave serviva solo per superare l’atmosfera e raggiungere una nave più grande – ma non era stato un problema farla schiantare sulla colonia e distruggere tutto. E poi essendo una nave prevalentemente terrestre aveva qualcosa di insperato: un sistema di eiezione per i piloti. Subito dopo la prima esplosione, Machiko si era legata al sedile e si era espulsa, volando fin sugli alberi ai lati della colonia: un piccolo paracadute aveva attutito la caduta ma lo stesso si era provocata molte ferite.

La donna comunque non sentiva alcun dolore, la sua concentrazione era totale e ora l’unica emozione che provava era di totale fusione con la propria spada. No, in realtà non era una fusione: era un annullamento. Un guerriero non usa la propria spada, un guerriero si annulla in essa: un guerriero è la propria spada.

La paura, lo sconforto e il dolore di prima sarebbero stati un impedimento, le sarebbe stato impossibile sfoderare la propria katana in quelle condizioni. La madre le aveva insegnato che quando un guerriero estrae la spada, in quel gesto è già presente il destino proprio e del suo avversario: se non si è nella giusta disposizione d’animo, se non si è disposti ad accettare quel destino, è molto meglio non snudare la lama. Ora Machiko era pronta, ora aveva superato ogni sentimento ed emozione: ora era nulla, quindi poteva lasciare la propria spada libera di agire.

Era immobile, davanti a Wolf, e gli indicava qualcosa. Il Bad Blood capì che stava indicando la sua cintura: lo stava incitando ad estrarre anche lui la spada che portava legata al fianco. Wolf non girava mai disarmato, ma certo quelle lame le teneva più per ornamento che per altro. In ogni caso fissò stranito la donna. «Vuoi davvero sfidarmi? Pensi che se anche afferro la mia spada saremo ad armi pari?»

Machiko lo fissava senza alcuna espressione, tenendo la sua katana puntata verso di lui. «Non uccido chi è disarmato: sono una guerriera, non un Bad Blood.» Non era questione di razza umana o Yautja: l’onore era insito nell’essere guerrieri. Gliel’aveva insegnato sua madre, discendente di nobili donne guerriere, che da tempo immemore avevano combattuto con onore. Quando Machiko aveva conosciuto il codice Yautja, in realtà aveva ritrovato qualcosa a lei molto familiare.

Wolf non poté fare a meno di sghignazzare. «Tu non sei niente, anzi peggio: sei un’umana. Come osi chiamarti guerriera?» Machiko non mosse un ciglio. «Sono tre volte più grande di te, e dieci volte più potente, anche da ferito: pensi che io abbia bisogno di una spada... o di due braccia per ucciderti? Vuoi sfidarmi? E allora mi basterà il mio braccio sinistro per massacrarti.»

Non aspettò la risposta e Wolf partì con un pugno in direzione di Machiko, un colpo a spazzare che sarebbe stato in grado di staccarle la testa se l’avesse presa. Se l’avesse presa. Machiko non dovette muoversi molto, le bastò scansarsi di un passo dalla traiettoria e lasciare che la katana parlasse per lei: la spada sguisciò agile e si aprì la sua strada nella carne dello Yautja. Altro sangue verde ricoprì il terreno, mentre Wolf caracollava: la lama di Machiko gli aveva appena leso un tendine del ginocchio sinistro. Il dolore era accecante, ma quel che peggio era che ora non aveva più il controllo della gamba.

«Afferra la tua spada», urlò Machiko, «o dovrò smantellarti una fetta alla volta.»

Wolf zoppicava sull’unica gamba rimastagli, mentre fissava la donna che lo stava minacciando: sebbene ricoperta di sangue, i suoi occhi fiammeggiavano. «Chi l’avrebbe mai detto?» gracchiò il Bad Blood, «che alla fine della corsa sarei stato battuto da un insetto umano. E femmina, per lo più.»

Machiko non cadde nella provocazione, non reagì come avrebbe fatto in un’altra occasione: era un patetico tentativo dello Yautja morente di farle perdere il controllo. Non ci sarebbe riuscito. Non ora, che la donna era tutt’uno con la propria spada.

Wolf grugnì, ormai provava così tanto dolore in ogni parte del corpo che stava per perdere i sensi. Almeno questa umiliazione volle evitarsela. Ma non prese la spada che portava al fianco: fissando negli occhi la sfidante, afferrò lo spunzone di lancia che ancora gli fuoriusciva dal fianco, dove l’aveva infilata Achab. Estrasse lentamente la lama – tanto ormai in mezzo a quel dolore non distingueva più quello nuovo da quello vecchio – e alla fine impugnò la lama ricoperta di sangue verde. Apparteneva ad una grande lancia Yautja, quindi solo la lama era grande quanto una piccola spada. E con essa si gettò contro Machiko. Era palesemente un tentativo fasullo, il cui unico scopo era mettere fine a quella situazione. Mettere fine al dolore.

Wolf non meritava alcuna pietà, ma Machiko era una guerriera, non un macellaio. La sua katana vibrò e scattò, parando il colpo dello Yautja per puro rispetto nei confronti di un guerriero che aveva accettato il combattimento pur sapendo che avrebbe perso. Il suo destino era già scritto sulla lama di Machiko, sul sangue verde che già in parte la ricopriva e sul sangue rosso delle mani che la impugnavano. Wolf aveva l’occasione di morire in azione, con l’onore di un guerriero, anche se era un onore che non meritava vista la sua vita criminale. Era una concessione che non proveniva da Machiko: proveniva dalla katana.

Lo Yautja calò dei colpi potenti che la donna poté agilmente schivare, perché pesando tre volte di meno dell’avversario era facile svicolargli. E la lama la proteggeva sempre. Bastava impugnarla come la sua famiglia le aveva insegnato, bastava trattarla con il rispetto che le era dovuto e la forza che bisognava dimostrarle: mai mostrarsi deboli con la propria katana. Glielo ricordava sempre suo padre, che non l’aveva mai considerata una guerriera, piuttosto una ragazzina che giocava con i giocattoli dei maschi. Aveva sofferto a lungo e si era allenata duramente per riuscire a dimostrare al padre quanto valeva, che nelle proprie vene scorreva il sangue delle onna-bugeisha, le donne guerriere da cui discendeva la madre. La morte del padre aveva reso impossibile fargli cambiare idea, gettando Machiko nella disperazione: sarebbe rimasta per sempre una ragazzina. La madre non cercò di consolarla, si limitò a dirle che tutto questo apparteneva alla storia della katana: doveva lasciare quel dolore imprigionato nella sua lama e sigillarne il fodero. Quando un giorno l’avrebbe snudata, la lama avrebbe ricordato tutto quel dolore, tutta quella frustrazione e tutte quelle lacrime... e le avrebbe tramutate in sangue.

Rantolando, Wolf sferrò un nuovo potente colpo... e la katana di Machiko decise che era tempo di compiere il proprio destino. Con un colpo recise la mano armata del Bad Blood e poi, penetrando nelle carni agilmente, come se non trovasse alcuna resistenza, lo decapitò. La testa rimase qualche attimo in bilico sul collo, prima che il rilassamento dei tessuti fece crollare Wolf a terra come fosse un sacco di carne tremolante.

Machiko rimase immobile a fissare il proprio avversario. Questo era il momento peggiore per ogni guerriero: il momento in cui la fine della missione lascia un vuoto bruciante dentro di sé. L’obiettivo di un guerriero è la morte: la vittoria è solo una tappa amara e solitaria.

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«Ce ne hai messo di tempo.»

Achab era divertito e soprattutto era contento di poter vedere di nuovo Machiko. Questo non cambiava il fatto che non riusciva più ad alzarsi. Troppe ferite, troppo dolore, troppo di tutto.

La donna si sedette per terra, al suo fianco, incrociando le gambe e posando la sua katana con dolcezza al suo fianco. L’aveva riposta nel fodero, perché assorbisse in sé il sangue che aveva versato e il dolore che aveva acquisito.

«Sai che è la prima volta, in tanti anni, che ti vedo tirar fuori quella lama dal fodero?» disse Achab.

Machiko annuì. «Te l’ho detto, la lama della propria katana si snuda solo per farle bere sangue. Estrarla senza la giusta condizione dell’animo è un sacrilegio, oltre inutile: serve solo a farsi ammazzare.» Guardò la spada. «È molto antica, molto più di noi e di questa colonia e forse della Compagnia stessa: è stato un onore per Wolf essere ucciso da una lama del genere. Un onore che non meritava.»

«E io?» chiese d’un tratto Achab. «Io merito questo onore?»

Machiko scattò a fissarlo, stupita. Era l’ovvia conseguenza, quasi scontata. Aveva concesso a quella bestia criminale di Wolf di morire rapidamente e con onore... Non poteva negarlo ad Achab... «Ti prego, non dirlo neanche per scherzo. Abbiamo ben due astronavi con cui andarcene, quella di Celtic e la nostra, entrambe perfettamente funzionanti.»

«Sono troppo lontane, per me, lo sai...»

«Ho trascinato il peso morto del cadavere di Scar: posso trascinare il tuo, vivo.»

«Machiko...»

Il silenzio calò fra di loro. Achab, sempre sdraiato immobile, continuò. «Hai fatto proprio un bell’incendio, solo che quando si estinguerà arriverà il freddo...»

«Facciamo così», disse la donna. «Rimaniamo qui ancora per un po’... e vediamo che succede.»

Machiko si sistemò a guardare l’incendio che divorava la colonia, con le fiamme che avevano un innegabile effetto rilassante, e i due rimasero in silenzio per un po’. Finché Achab non riprese la parola. «Machiko... stai sanguinando...»

La donna, che fissava il fuoco fra le lacrime, silenziosamente cominciò a ridere. Finché non rispose. «Non ho tempo di sanguinare...»

FINE

(A presto per le fonti e i retroscena)

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Capitolo 17
*** FONTI ***


Questa fan fiction è una storia originale che utilizza però personaggi e situazioni pre-esistenti, estratti da varie fonti: ecco la specifica del materiale a cui ho attinto per la stesura di Predator senza gloria.

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Il titolo di questa fan fiction è un omaggio incrociato a più film e più titoli. La storia parte come ispirata dal giapponese I sette samurai (1954) di Akira Kurosawa e relativa fotocopia americana I magnifici sette (1960) di John Sturges, ma anche ad un altro “sette”, forse meno famoso dei precedenti: il britannico I 7 senza gloria (Play Dirty, 1969) di André De Toth. Sette è un “numero magico” per una missione suicida, lo dimostra Dago di Robin Wood, che raccoglie sei mercenari e sbandati per l’intensa e straziante missione raccontata nella saga Roxana (raccolta in “Euracomix” n. 63, dicembre 1993, Eura Editoriale).

Giappone, 1587. Un tempo erano nobili guerrieri, rispettati e anche temuti: oggi sono sette straccioni, che vivono di espedienti e fanno piccoli lavoretti umili per guadagnare un pasto. Quando dei miseri contadini, più poveri di loro, li ingaggiano per difenderli da una banda di criminali, offrendo un pugno di riso come pagamento – mentre i contadini si limitano a mangiare il miglio – Shimada ed altri sei ronin accettano, ma non certo per il “compenso”. Accettano perché sono guerrieri, e i guerrieri combattono. L’alternativa è spaccare legna per qualcosa da mangiare o saltare direttamente il pasto.

Sono partito da questo spunto, con l’idea di divertirmi a sovrapporre semplicemente dei Predator ai samurai del film – visto che in fondo condividono il codice di comportamento – però poi i personaggi hanno preso il sopravvento e io mi sono fatto indietro: mi sono limitato a scrivere ciò che loro volevano...

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Achab e gli altri - Al momento di iniziare a scrivere è nato un bel problema: non sono mica la S.D. Perry, non ho alcuna intenzione di inventarmi di sana pianta dei nomi di Predator! Sia perché non ne sono capace sia perché è un’idea che non mi piace: non è più divertente usare nomi che già esistono? Così ho utilizzato nomignoli più o meno ufficiali di veri Predator apparsi nei film: Jungle da Predator (1987), City Hunter da Predator 2 (1990), Scar e Celtic da Alien vs Predator (2004), Wolf da Aliens vs Predator: Requiem (2007), Berserker e Falconer da Predators (2010). A parte Jungle e City Hunter, che fanno chiaro riferimento alle vicende filmiche, gli altri sono semplici nomi che ho preso in prestito a mo’ di citazione: le vicende che ho raccontato non hanno nulla a che vedere con i relativi Predator visti nei film. Però il “capo” volevo fosse diverso: doveva venire dai fumetti.

Ahab nasce nell’ottobre 2014 all’interno del vasto universo a fumetti chiamato “Fire and Stone”, ed è protagonista della saga Predator: Fire and Stone di Joshua Williamson. (Appare di sfuggita anche nella parallela Alien vs Predator: Fire and Stone ma è proprio una comparsata.) È nel bel mezzo di una caccia solitaria contro un Ingegnere ed è aiutato dal mercenario Galgo, ben poco disposto: è proprio quest’ultimo che, alla fine della saga (gennaio 2015) lo battezza Ahab, perché ha dato la caccia all’Ingegnere come “l’altro” Ahab l’ha data alla balena bianca. Un momento, ma perché qui ho scritto Ahab se per tutta la storia l’ho chiamato Achab?

Il nome è ovviamente un omaggio al capitano del romanzo Moby Dick (1851) di Herman Melville, che al suo arrivo in Italia è stato stampato da più case editrici, seguendo filosofie di traduzione spesso distanti: il nome del capitano dunque ha conosciuto più versioni. Dall’Acab scelto da Cesarina Melandri Minoli per l’edizione UTET nel 1958 alla storica traduzione di Cesare Pavese per Frassinelli nel 1932, ristampata ampiamente ancora oggi. Quest’ultima versione usa Achab, che è come l’ho sempre chiamato e quindi l’ho preferita ad altre traduzioni. In tempi recenti ha preso sempre più piede la moda di tradurre il meno possibile, ma trattandosi di un classico quella “c” è entrata più a fondo nell’immaginario collettivo. È come la “g” dell’ispettore Callaghan: agli italiani non importa che per tutto il mondo sia Callahan, a noi piace quella “g” aggiunta dal doppiaggio italiano e ce la teniamo stretta.

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Machiko Noguchi - Il personaggio nasce a fumetti nel giugno del 1990 all’interno dello storico Aliens vs Predator (Dark Horse Comics 1990 / PlayPress 1992) di Randy Stradley. Lo stesso autore negli anni successi è tornato a raccontare le vicende di Machiko – brevemente citate all’interno di questa fan fiction – mentre la romanziera S.D. Perry trasformava i vari fumetti in romanzi (noiosetti). Su di lei sto preparando uno speciale con tutta la storia di uno dei migliori personaggi dell’universo alieno espanso.

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Hornhead è un Predator “nuovo”, nel senso che il nome è stato inventato dalla NECA nell’estate del 2017 presentando uno dei suoi nuovi modelli di Predator, in uscita nell’ottobre successivo, ispirato ad un personaggio apparso brevemente nel fumetto Alien vs Predator: Life and Death (2016). Ha l’onore della copertina del numero 3 ma lo vediamo in azione solamente nel numero 2 (gennaio 2017), quando sfida ad un duello mortale proprio Achab.

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Dachande / Broken Tusk - Il Predator “buono” che aiuta Machiko a combattere tanto gli alieni quanto gli altri Yautja, e che morendo le incide sulla fronte il simbolo del suo clan, nasce nel 1990 come co-protagonista del fumetto Aliens vs Predator, anche se appare già nelle anteprime del 1989 su “Dark Horse Presents”. Il suo nome Broken Tusk, dovuto ad un dente spezzato, è a malapena citato. Quando poi S.D. Perry nel 1994 trasforma il fumetto nel romanzo Aliens vs Predator: Prey cambia il nome in Broken Fang (non si sa perché) ma inventa anche il suo nome proprio in lingua Yautja: Dachande, che vuol dire appunto “dente spezzato”.

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Yautja - Quando nel 1994 la romanziera S.D. Perry, figlia del celebre Steve, si ritrovò a dover trasformare in romanzo il celebre fumetto Aliens vs Predator (Dark Horse Comics 1990 / PlayPress 1992), si rese conto che sarebbe stato molto difficile descrivere i Predator. Gli xenomorfi poteva chiamarli bugs o vari altri sinonimi animaleschi, ma i Predator? Il semplice sinonimo hunters non bastava, così decise di pensare in grande: si inventò di sana pianta un’intera cultura e una intera lingua. Nacque così il termine Yautja come nome proprio della razza dei Predator.

A parte qualche fan sfegatato, nessuno ha mai utilizzato questo nome negli anni a venire: viene tuttora ignorato dalla Fox per i film e dalla Dark Horse per i fumetti, rimanendo puro e semplice fun stuff, roba da fan. Poi è arrivata Wikipedia e d’un tratto tutti pensano che Yautja sia il nome “ufficiale” dei Predator, quando invece è usato solo ed esclusivamente per un paio di libri della Perry. Così nel 2015 l’ha iniziato ad usare Tim Lebbon per la sua trilogia di romanzi “Rage War” (Titan Books) e nel 2016 anche la Dark Horse si è arresa e ha usato il termine nella saga Predator vs Judge Dredd vs Aliens: Splice and Dice.

Avendolo ignorato per circa 25 anni, il nome Yautja non mi ha mai conquistato ma è innegabile che scrivere un racconto con dei Predator rende indispensabile un qualche sinonimo per loro, a meno di non usare nomi propri singoli: così mi sono ritrovato a farne largo uso.

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Lingua Yautja - I Predator si sono sempre espressi a gesti, al massimo hanno comunicato con gli umani ripetendo storpiandole alcune frasi di questi ultimi. Poi, come dicevo, la Perry si è inventata di sana pianta la loro lingua e da quel 1994 i Predator hanno cominciato a parlare fra di loro.

I film ignorano la loro lingua mentre la Dark Horse ne ha fatto un accenno all’inizio della saga Alien vs Predator: Fire and Stone (2014) di Christopher Sebela. Visto che in Aliens vs Boyka ho immaginato i Predator come alleati della Casata Yutani, cioè di umani, mi è piaciuto dare per scontato che le due razze si siano anche parlate, studiando le rispettive lingue.

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Shimada’s Hope - Il nome della colonia umana, costruito sull’esempio della “Hadley’s Hope” di Aliens (1986), omaggia Kambei Shimada, il protagonista del film I sette samurai (1954) di Akira Kurosawa nonché leader dei “magnifici sette” eroi: l’attore che lo impersona è il titanico Takashi Shimura, fedele di Kurosawa. Shimada si presenta definendosi ronin, ma essendo il termine entrato tardi nella cultura popolare italiana il doppiaggio nostrano ha preferito la sua corretta traduzione «samurai senza padrone».

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«Conosci i campi di meloni di Mr. Majestyk?» - Piccolo omaggio al film A muso duro (Mr. Majestyk, 1974) di Richard Fleischer, scritto dal romanziere Elmore Leonard. Qui il protagonista Mr. Majestyk - interpretato da uno Charles Bronson in pieno fulgore - non cede ai ricatti della malavita locale perché deve raccogliere i suoi meloni, e la farà pagare cara a chiunque glielo impedirà.

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«Yeah baby, havin’ some fun tonight» - Brano dalla canzone Long Tall Sally (1956) di Little Richard, utilizzata all’inizio del film Predator (1987). Questa strofa in particolare viene sbiascicata da Mac (Bill Duke), in preda all’esaltazione, mentre svuota il caricatore della sua mitragliatrice addosso al Predator, mancandolo. Per saperne di più su questa sequenza, rimando al mio speciale Long Tall Duke.

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«Se può sanguinare...» - Quando nel film Predator (1987) Anna (Elpidia Carrillo) avverte che sulle foglie c’è il sangue della creatura che sta uccidendo i protagonisti, Dutch (Arnold Schwarzenegger) lancia una delle sue storiche frasi ad effetto: «If it bleeds, we can kill it» (“Se sanguina, possiamo ucciderlo”). Una frase entrata da poco nell’universo espanso alieno con l’antologia If It Bleeds (Titan Books, ottobre 2017) a cura di Bryan Thomas Schmidt.

Il doppiaggio italiano del film, a cura di Alberto Toschi, rende la frase con «Se può essere ferito, può essere ucciso», un apprezzabile gioco di parole con “può essere” ripetuto, gioco assente nell’originale quindi intrigante, però manca la parte “sanguinante”. Così per la mia fan fiction ho preferito fare una media delle due frasi: «Se può sanguinare, può essere ucciso».

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«Piegò le dita e mise pollice ed indice a forma di pistola» - Citazione dal film The Losers (id., 2010) di Sylvain White, ispirato alla saga a fumetti omonima (Vertigo 2003-2006) del britannico Andy Diggle. La scena del “dito a pistola che spara sul serio” viene ricopiata pressoché identica due anni dopo ne I mercenari 2 (The Expendables 2, 2012) di Sylvester Stallone, e ancora in Explorer (Arrowhead, 2016), scritto e diretto da Jesse O’Brien. Per saperne di più, rimando al mio speciale Finger Guns: dita che sparano.

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«I nazisti conquistarono un enorme territorio con relativamente poco sforzo» - Machiko racconta la strategia adottata da Hitler per invadere la Francia durante la Seconda guerra mondiale, adottata in realtà per caso ma che riuscì nell’intento perché era un modo troppo “moderno” di fare la guerra. L’evento finale di quella strategia è protagonista del film Dunkirk (2017): sul film e sulla storia della strategia nazista parlo in questo speciale de La Storia e la Finzione.

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«Uno dei libri sacri degli umani dice: c’è un tempo per vivere e un tempo per morire» - Pseudo-citazione dall’Ecclesiaste, testo disincantato dell’Antico Testamento: in realtà nel terzo capitolo si legge «C’è un tempo per nascere e un tempo per morire». La citazione infatti si rifà al romanzo Tempo di vivere, tempo di morire (Zeit zu leben und Zeit zu sterben, 1954) di Erich Maria Remarque, che appunto “manomette” quel passo dell’Ecclesiaste.

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«Rimaniamo qui ancora per un po’... e vediamo che succede.» - Spero di cuore si sia colta la citazione dal film La Cosa (The Thing, 1982) del Maestro John Carpenter. Gli unici due sopravvissuti, soli e dispersi fra i ghiacci polari, hanno un dialogo che sin da ragazzino mi è entrato nel cuore.

Childs: «Gli incendi hanno rialzato la temperatura: non durerà a lungo.» Mac: «Nemmeno noi.» Childs: «Be’... che facciamo?» Mac: «Perché non aspettiamo qui ancora un po’... e vediamo che succede?»

Parte la musica di Ennio Morricone... e scatta l’applauso.

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«Non ho tempo di sanguinare...» - Ultima citazione dal film Predator (1987). Quando Poncho fa notare a Blain che sta sanguinando («You’re bleedin’, man»), Jesse Ventura sfoggia la sua “frase maschia”: «Non ho tempo di sanguinare» (I ain’t got time to bleed).

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