Шынайы любовь хикаясы - Storia del mio caro amore

di Marysia Lukasiewicz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Нашақорлық ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Xрупкое сердце ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 – Тоска ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Нашақорлық ***


Yuri si premeva le mani contro la bocca, nel disperato e vano tentativo di soffocare i singhiozzi avviliti e logoranti. Si era gettato nel primo bagno che aveva trovato, non aveva pensato minimamente che qualcuno potesse ascoltarlo. Si era buttato contro la parete e aveva iniziato a piangere, ad urlare, poi a tirare calci e pugni all’aria in preda alla rabbia. Un eterno momento di sfogo straziante, un atroce tentativo di liberarsi di tutto quell’odio che aveva accumulato dentro di sé, essere dalla fragilità incommensurabile. L’innocenza che gli era stata portata via aveva lasciato in lui un vuoto capace di essere colmato solo dall’ira, dalla diffidenza e dalla paura più cieca. Urlava perché sentiva di non poter fare altro, con le mani tra i capelli si lasciava andare in pianti disperati che nessuno aveva mai voluto sentire, era solo come un cane. E quando urlava, l’odio svaniva, e un dolore indescrivibile andava a colmare il suo fragile essere. E così si era accasciato contro una parete, rannicchiato come un bambino, e aveva lasciato sfogo alle lacrime e ai singhiozzi. Il bambino spaventato che era in lui tornava sempre allo scoperto, chiedeva pietà, comprensione, ma in cambio riceveva solo violenza e umiliazioni. Yuri si era rifugiato nei bagni della scuola perché era convinto che nessuno lì l’avrebbe sentito. Ed era rimasto paralizzato quando, attraverso il sottile muro che lo divideva dal bagno accanto, sentì levarsi dei sospiri profondi, lenti e pacati. Yuri non voleva essere ascoltato, non voleva che il suo dolore lo umiliasse ancora e ancora, voleva fingersi adulto nella fragilità del suo animo fanciullesco. Così si premeva le mani contro la bocca, nel disperato e vano tentativo di soffocare i singhiozzi avviliti e logoranti e non essere sentito.

Il perché Otabek si fosse ritrovato proprio in quel bagno è una storia che suscitava in lui grande vergogna e sconforto. Non aveva un animo nobile, nonostante il suo invidiabile cognome trovasse origine in una delle più fiere discendenze di guerrieri kazaki. Era sempre stato molto volubile, piatto, alla costante ricerca di una svolta in quella che lui considerava essere una vita monotona e noiosa. Non aveva particolari talenti, se non un’impeccabile senso del ritmo e una grande familiarità con le console da DJ, e questo l’aveva sempre relegato ai margini della società adolescenziale odierna. Era taciturno e schivo, freddo, restio nel compiere nuove amicizie, un lupo solitario che trovava piacere solo nel suo mondo alternativo e chiuso. Un poeta, quasi, sensibile come pochi. Percepiva la sua diversità e l’essere guardatoto con sguardo diffidente l’aveva sempre ferito, allontanandolo sempre di più da quella che per lui era una società morta, troppo schematizzata per essere umana. Aveva trovato un suo modo particolare per allontanarsi dalle persone che tanto evitava, un modo che, come lui, aveva ben poco di nobile. Aveva iniziato come tutti gli adolescenti frustrati come lui, ma la questione si era spinta troppo oltre, e Otabek se n’era accorto quando ormai era troppo tardi. E così, mentre due estati prima si sballava con una semplice “canna”, si era ritrovato in quel bagno, quel giorno, con una siringa infilata nel braccio, l’atroce sensazione di confusione a sconvolgergli la testa, e il doloroso scorrere dell’eroina nelle vene.

In un istante i singhiozzi strozzati di Yuri e i profondi respiri di Otabek si mescolarono a formare un silenzio quasi tombale. Nessuno dei due aveva il coraggio di parlare. Sapevano ognuno della presenza dell’altro, ma restavano muti, affinché fosse il reciproco desiderio di solitudine ad unirli, invece che le parole. Si vergognavano entrambi del proprio essere, del proprio corpo piegato e sfruttato. Eppure non si mossero, rimasero ognuno ad ascoltare i lamenti dell’altro, come se quella silenziosa compagnia fosse in qualche modo piacevole. Yuri sentì il compagno gemere dall’altra parte, l’ago infilato goffamente in vena cominciava a bruciare tremendamente. Otabek lo tirò fuori con inesperta non curanza, delle gocce di sangue si riversarono a terra, per qualche attimo sentì il braccio intorpidirsi, l’eroina acida corrodergli il corpo fino a salire al cervello. Un ennesimo livido apparve sul suo braccio martoriato, frutto della sua ferocia e del poco rispetto che aveva di sé e del suo corpo. Il suo intero corpo prese a tremare, la testa a bruciare come l’inferno. Sarebbe svenuto, probabilmente, non si era risparmiato, quella volta, con la dose. Un giorno si sarebbe ammazzato, Otabek se lo sentiva, se ne vergognava, ma sapeva che non sarebbe mai stato in grado di smettere. Aveva fatto di quella sofferenza una compagna, la accettava, la sopportava, e si lasciava trascinare da lei in un vortice di confusione e calma, dove per qualche ora si sentiva al sicuro. Quel fastidioso dolore era il prezzo che doveva pagare per poter godere di un’egoistica pausa dal mondo, dalla società, e quindi la affrontava con piacere. Barcollò, la siringa gli cadde dalle mani, ancora macchiata di sangue ed eroina, poi Otabek scivolò a terra, sbattendo rumorosamente contro la parete. Dall’altra parte Yuri ebbe un fremito. Rimase in attesa qualche attimo, quanto bastava per rendersi conto che i sospiri nel bagno accanto erano improvvisamente cessati, lasciando spazio ad un flebile e sottile respiro, quasi impercettibile. Rimase immobile, con l’orecchio attento, rannicchiato nel suo angolo, come un attesa di un segno. Otabek teneva gli occhi appena socchiusi, il respiro calmo e lento come se stesse dormendo. La testa girava come su una giostra, faceva male, ma quel dolore gli permetteva di non pensare ad altro, e il che era gratificante. Nonostante non fosse lucido, non fosse in grado di pensare, si sentiva come in un sogno, che a tratti era meraviglioso e a tratti diventava doloroso. Gemette, e dall’altra parte Yuri lo sentì ancora.

- Hey, che cazzo di problemi hai..? – il biondino, rannicchiato e tremante, non aveva mai avuto un atteggiamento amichevole verso gli sconosciuti. Sentiva il bisogno di proteggersi, di allontanare chi volesse fargli del male, e col tempo aveva imparato a non fidarsi di nessuno. Ma il suo tono, fragile e esitante, lasciava trasparire quella che in realtà era innocente preoccupazione, al di là della frase scontrosa.

Un mugugno strozzato gli rispose dall’altra parte, mentre il diciannovenne dai capelli corvini, dal volto sciupato e scavato dalla droga, tentava di rialzarsi in piedi. Un formicolio insopportabile gli opprimeva le gambe, come se un’intera colonia di formiche vi stesse passeggiando sopra. Sentiva il sangue nelle vene farsi caldo, denso, e una piacevole sensazione di conforto si fece largo in lui. Barcollò ancora, confuso e spaesato, così ricadde nuovamente a terra, in un tonfo secco e spaventoso. Nel bagno accanto Yuri sussultò, trattenendo un grido spaventato. Odiava i suoni forti e improvvisi, aveva imparato che non erano mai di buon auspicio.

- Porca puttana, che cazzo ti succede? – il biondo dagli occhi puri andò nel panico. Fissava spaventato il muro che lo separava dall’altro come sperando di poter intravedere qualcosa attraverso esso. Strinse i pugni, poi scattò in piedi, sentendo dentro di sé la spaventosa sensazione che attorno a lui stessero accadendo cose brutte, orrende, un dolore che lui era stanco di vedere e sopportare.

Otabek tirò un sospiro profondo, la voce di Yuri gli appariva così lontana e vaga, confusa almeno quanto lui, un sogno parallelo a quello che stava vivendo. Gli occhi stanchi non volevano restare aperti, ma non voleva assolutamente svenire. Non lì, non a scuola, non dove sentiva che nessuno l’avrebbe aiutato. Si passò una mano tra i capelli fradici di sudore, il dolore al braccio, nonostante lo stato confusionario, non accennava a sparire.

- Scusa… - si azzardò a dire Otabek, sfruttando la poca lucidità che gli era rimasta. – Non volevo interrompere il tuo sfogo.- e detto ciò, stordito, si ritirò di nuovo in piedi con le forze rimaste. Non badò alla siringa abbandonata sul pavimento, sporca del suo sangue codardo ed ignobile, tanto nessuno si sarebbe fatto problemi nel trovarla lì, ormai la scuola aveva perso l’abitudine di perseguitare i drogati.

Yuri rimase in silenzio, ascoltando la porta del bagno accanto aprirsi con esitazione. I passi pesanti dell’altro riempirono l’angosciante silenzio che si era creato tra i due, scanditi e lenti. Una fila di specchi sovrastava i lavandini, proprio davanti alle porte dei bagni. Otabek fissò la sua figura barcollante e ne rimase disgustato. La pelle lucida di sudore sembrava essere di plastica, le guance scavate dalla droga erano simbolo di quanto questa lo stesse logorando. Due occhiaie profonde e nere si stagliavano sotto gli occhi impenetrabilmente sofferenti. Le labbra secche avevano perso il loro infantile colorito roseo già da tempo. I capelli arruffati non avevano più una forma, ai lati la rasatura stava già ricrescendo, concedendogli un’aria ancor più trascurata. La pelle era pallida. Sembrava un cadavere, Otabek, un morto che continuava ad infestare la Terra con la sua presenza schifosa. Al vedersi in quello specchio sentì risalire in gola un conato di vomito, misto all’acido sapore dell’eroina e gli bruciava in corpo. Aprì in fretta e furia il rubinetto, gettando il braccio martoriato e dolente sotto l’acqua gelida. Un gemito di dolore riempì i bagni quando l’acqua prese a stuzzicare le ferite aperte e sporche di peccato e vergogna. Si morse il labbro, ma non tolse il braccio da sotto l’acqua, nonostante ciò gli comportasse una sofferenza quasi maggiore al delirio che gli devastava la mente. Trattenne un grido disperato, un grido di dolore, vergogna, rabbia, risentimento, odio nei suoi confronti, che si stava gettando in braccio alla morte da solo. Yuri non aveva il coraggio di uscire, di reagire, né si sentiva in grado di aiutare qualcuno, chiunque fosse, quando sentiva di essere lui stesso il primo ad aver bisogno di aiuto. Quei gemiti strozzati, quel dolore, erano per lui troppo familiari, una quotidianità che cercava a tutti i costi di allontanare. Sentì levarsi un bruciore devastante in mezzo alle gambe, laddove la sua innocenza veniva distrutta notte dopo notte, punizione dopo punizione, ingiustizia dopo ingiustizia. Nelle mura della sua stessa casa giacevano dolori che non poteva e non doveva rivelare, dolori che, quantomeno a scuola, voleva esiliare in un angolo del suo essere. Si lasciò sfuggire un singhiozzo, lasciandosi poi andare in un pianto silenzioso, mentre i gemiti incessanti di Otabek, accompagnati dal piacevole e calmo scorrere dell’acqua, si facevano padroni della sua mente. Yuri si premette le mani contro le orecchie, nel disperato tentativo di isolarsi, di allontanare altra sofferenza dalla sua vita.

- Basta cazzo! Basta farti male! – urlò poi il biondino, stanco, esausto di tutto quel dolore inutile. Si alzò in piedi e, con un coraggio che non pensava di avere, aprì la porta del bagno, ritrovandosi finalmente faccia a faccia col suo compagno di sventura.
Davanti a sé vide un ragazzo sciupato, pallido, trascurato piegato in due dal dolore, gli occhi lucidi lasciavano trasparire il delirio e la confusione che lo perseguitavano. Il braccio destro, che era segnato da lividi neri e viola, era immerso nell’acqua, ancora sanguinante e ferito. Yuri corse da lui e, senza pensarci due volte, richiuse il rubinetto dell’acqua con scatto furente. Otabek emise un sospiro di sollievo, il braccio libero da quel dolore che gli aveva autoinflitto. Yuri tremava come una foglia sul punto di cadere, spaventato dalla possibile reazione del ragazzo, terrorizzato da una possibile punizione. Il respiro si fece più rapido e asfissiante, non poté far a meno che abbassare la testa, mortificato, come a chiedere perdono per la sua azione azzardata. Otabek sollevò lo sguardo, la vista di quegli occhi spaventati gli fece riprendere un minimo di lucidità, quanto bastava per elaborare un sincero sentimento di gratitudine.

- Grazie…- gli sussurrò, con voce rotta dal dolore e dalla confusione. Un ringraziamento sincero, dolce, e Yuri non poté che notarlo. Il tremore si placò appena, poi il suo sguardo prese a vagare sul corpo trascurato del ragazzo.
I lividi sulle braccia erano orrendamente disgustosi, ma non lo spaventavano, nonostante la società imponesse di aver paura dei drogati, perché li ritiene violenti e spietati. Otabek lo era, sì, era un violento, uno spietato assassino che si stava lentamente e dolorosamente portando via la vita e la felicità. A Yuri non poteva far altro che pena. I loro sguardi, vuoti e spenti, si incontrarono e per un attimo il freddo di quella stanza sembrò farsi più piacevole e accogliente.


Non si sa poi quale scherzo del destino li portò a passare quel pomeriggio assieme. Da uno sguardo timido e distaccato era scaturito un imbarazzante silenzio, poi la loro reciproca diffidenza li unì in uno strano e primordiale legame di fiducia. Perché entrambi negli occhi dell’altro avevano letto una sofferenza estremamente simile alla propria, seppur diversa in causa e conseguenza. E così, ognuno con le proprie esitazioni, si ritrovarono in un piccolo parco isolato, dopo il suonare della campanella, a discutere timidamente su quelle che erano le loro difficoltà. Diffidenti, inizialmente, si erano aperti l’un l’altro tanto lentamente quanto in maniera così sorprendentemente sincera. Seduti l’uno davanti all’altro, sulla stessa panchina, circondati dal calmo fruscio degli alberi in autunno, soli con sé stessi e liberi di parlare. Entrambi sentivano di avere davanti qualcuno pronto e capace di ascoltare, solo quello bastava. Yuri, che aveva gli occhi puri di un angelo e la lingua tagliente, che era divenuta la sua arma contro l’oppressione, aveva un tono leggero e sottile, e la voce perse le note dure e profonde che aveva assunto col tempo. Otabek evitava di guardare in volto Yuri, teneva la testa bassa e parlava piano, lento, vergognandosi persino della sua voce rotta e ruvida, ritorta dalla droga e dalla solitudine in cui si era confinato.

- Perché lo fai se ti fa male? – azzardò il biondino, cauto e sensibile, concedendogli un’occhiata preoccupata e infantile. Otabek teneva le braccia rigorosamente coperte dalle maniche della giacca di pelle, ma il volto segnato e scavato era orribilmente scoperto, simbolo della sua sofferenza, dei suoi orrori, della sua vergogna autoinflitta. Gli occhi vuoti erano inesorabilmente persi nel nulla, mortificati e umiliati, un sospiro amareggiato colmò il silenzio. Improvvisamente un bruciore fastidioso prese a divorargli lo stomaco.

- Fa male solo all’inizio, poi ti calma per un po’. – rispose esitante Otabek, accennando un ghigno furente, colmo d’odio nei suoi confronti. La scusa non era mai cambiata, a distanza di anni, e più la usava più gli suonava ridicola. – Quando vuoi dimenticare il dolore, ne vale la pena. – non era vero, lo sapeva. Drogarsi non era più una sua scelta, una sua idiozia, non lo era più da tempo. La droga era sua padrona, la sua aguzzina, l’aveva accolta nella sua vita e lei se n’era approfittata, aveva radicato dentro di lui una radice di morte, aveva fatto delle sue vene e del suo cervello la propria casa.
E Otabek era troppo debole per riuscire a cacciarla, a rivendicare la vita che lei, parassita, gli stava portando via.

Yuri lo guardò qualche attimo in silenzio, scrutandolo attento e calmo, come a voler leggergli nella mente, cogliere un qualsiasi segno in quegli occhi spenti. Dimenticare era un privilegio che non gli era concesso, neppure nel più roseo dei suoi sogni. Eppure, c’era qualcosa di sbagliato in quel metodo, qualcosa che spaventava Yuri ancor più dei ricordi e che segnava inevitabilmente le braccia di Otabek. Il dolore fisico era la sua più grande paura, così come lo spaventavano quei segni indelebili che l’avrebbero tormentato a vita.

- Se sei tu a farti del male, allora cosa devi dimenticare? – gli chiese con voce convinta e seria, ma allo stesso tempo cortese, curiosa come quella di un bambino. Otabek sussultò, lo stomaco prese a bruciare ancor di più, la sensazione di prigionia che lo opprimeva da anni si fece ancor più soffocante.

- Non lo so. – rispose dopo qualche attimo di amara esitazione. Poi si infilò una mano in tasca, furtivo, rigirandosi tra le dita una bustina. – Devo averlo dimenticato. – aggiunse poi, con una leggera e malinconica nota d’ironia. Tirò poi fuori dalla tasca la piccola bustina di plastica, dove teneva nascosta una piccola quantità d’erba.

Abbassò lo sguardo, Yuri notò la bustina. Tirò poi fuori dall’altra tasca una cartina e si preparò la “canna”. Parlare della sua situazione lo metteva in imbarazzo, si vergognava della sua dipendenza, ma il disagio lo portava inevitabilmente a trovare rifugio in essa. Un circolo vizioso che lo stava logorando. Si accese lo spinello, Yuri lo fissò stupito.

- Voglio provare. – la voce del biondino squarciò improvvisamente l’imbarazzo del momento, Otabek si paralizzò stupito, inquietato. Si voltò verso di lui, con gli occhi contrariati e lo spinello tra le dita.

- No. – rispose secco il moro, con voce severa e autoritaria.

- Perché no? – chiese Yuri con voce indecifrabilmente spenta.

- È da idioti. – ribatté Otabek, il suo tono sembrava non accettare scuse. Allontanò spontaneamente il braccio, come per evitare che il ragazzino cercasse di rubargliela come un bambino.

- Tu te la fumi.- osservò l’altro, scrutandolo con aria di rimprovero. Stava ottenendo quello che voleva, forse, svegliarlo da quello stato di passività che aveva conosciuto di lui. Yuri non capiva che la questione di Otabek era diventata ben più grave di un suo capriccio.

- Perché io sono idiota. – affermò il giovane dalle guance scavate e magre, stampandosi involontariamente in volto un sorriso amaramente sardonico. Sapeva di sbagliare, lo riconosceva, si odiava, si vergognava, non aveva problemi a riconoscere la propria idiozia, quando ormai per lui era troppo tardi per cambiare strada.

Nuovamente i loro sguardi si incontrarono, una particolare energia si accendeva in loro quando vedevano il vuoto degli occhi dell’altro. Yuri non aggiunse altro, abbassò mortificato la testa, distogliendo lo sguardo. Quella risposta era stata più che chiara per lui, non se la sentiva di insistere ancora. Si strinse nella felpa, ben più grande della sua taglia, e rimase timidamente in silenzio. Le mani tremanti, le labbra straziate in una stretta angosciante. Aveva parlato troppo e aveva parlato male, aveva infastidito Otabek con la sua lingua biforcuta e inarrestabile. Aveva sbagliato e lui era abituato a severe punizioni ogni qualvolta commetteva errori. Teneva la testa bassa, come in attesa di ricevere una lezione, sottomesso come uno schiavo. Ad Otabek non sfuggì quella reazione esageratamente mortificata, tanto da rasentare la paura, il terrore più cieco. Mese via lo spinello, temendo di averlo intimorito drogandosi davanti a lui. Yuri lo vide posare la canna e sussultò, come pensasse che volesse colpirlo. Otabek si sorprese ancora di più.

- Se ti dà fastidio… - provò a scusarsi, gettando lo spinello a terra, con tono più cordiale e attento possibile. Yuri strinse i pugni e si tirò indietro, come a voler sparire in mezzo alla felpa.

- Scusa…- sussurrò con voce tremante e terrorizzata. – Non volevo… farti arrabbiare…- teneva gli occhi serrati, la fronte corrugata in un’espressione sottomessa e spaventata, le sue parole, pronunciate con quel tono impaurito, sembravano una richiesta di aiuto. Sembrava implorarlo, Otabek non capiva.

- Vuoi tornare a casa..? – chiese esitante il moro, allungando una mano verso il suo viso per calmarlo. Yuri si lasciò accarezzare, ma la tensione e il tremore non si placarono, anzi. Al solo sentire la parola “casa” ebbe un fremito, una gelida sensazione di angoscia gli pervase la schiena.

- Ecco, io… - Yurì sentì la gola annodarsi, una massa informe di angosce e vergogne prese a soffocarlo, le parole gli morirono tra le labbra. Strinse i pugni, poi si alzò di scatto, tremante, il battito spaventosamente ed irrimediabilmente accelerato. Cerco di evitare qualsiasi contatto con lo sguardo di Otabek, confuso, preoccupato, spaesato. – Preferisco andare da solo. – detto ciò, con voce rotta e roca, si voltò più in fretta possibile e cercò di scappare via, correre più veloce che poteva per non farsi raggiungere.

Le lacrime erano sul punto di uscire allo scoperto, le guance arrossate erano un’umiliazione a cui non voleva sottostare, in particolar modo davanti ad Otabek, che conduceva come lui una vita disgraziata, ma non si era dato al pianto. Il moro reagì con scatto fulmineo, stupito, e senza accorgersene neppure gli strinse il polso, forte e senza esitazione, in un gesto che a Yuri apparve molto, troppo autoritario. Il biondino si fermò, la stretta al polso non era dolorosa, solo molto inaspettata e forte, un gesto talmente rapido da lasciarlo spiacevolmente interdetto e confuso.

- Yuri… - Otabek si rese conto di quanto quel gesto l’avesse messo a disagio quando il ragazzino dai capelli color dell’oro riprese a tremare, gli occhi lucidi chiedevano pietà, lo imploravano di lasciarlo. La stretta sul polso si fece più leggera, ma la mano del moro, che era ruvida e rovinata, ma dal tocco gentile e amorevole, non voleva allontanarsi dalla pelle di Yuri. I loro occhi si riflettevano in quelli dell’altro, un miscuglio di sguardi talmente delicato e genuino da sembrare quasi inumano nella sua purezza. Otabek aveva un’aria così gentile e premurosa da stonare orribilmente con le sue discutibili abitudini, Yuri non poteva desiderare altro che il suo sguardo attento e dolce. – Non voglio importunarti… - s’azzardò a dire il moro dalle occhiaie scavate e stanche a scurirgli gli occhi penetranti. – Ma per qualsiasi cosa, qualsiasi… questo è il mio numero… - tirò poi fuori dallo zaino di scuola, quasi completamente vuoto, una matita e un foglietto di carta, appuntandoci sopra il suo recapito. – So che non potrò essere di grande aiuto, ma…- non fece in tempo a concludere la frase che Yuri già gli aveva preso entusiasta il foglietto dalle mani, con un sorriso innocente e dolce stampato in volto.

- Appena posso ti chiamo.- affermò il biondino, gli occhi ancora immersi in quelli di Otabek, neri e profondi, custodi di chissà quali segreti e tesori, invitanti e affascinanti nel loro essere addolorati. Yuri si infilò il foglietto in tasca, senza rompere il contatto con lo sguardo dell’altro. Mosse un passo indietro, il sorriso gli morì lentamente tra le labbra. – Ora però devo proprio andare… - il contatto che univa i loro occhi fragili si spezzò, Yuri corse via, verso l’uscita del parco. Il cielo stava lentamente assumendo un colorito rossastro e ardente, il fruscio delle foglie morenti d’autunno l’accompagnò fino a casa.


Otabek lo guardò allontanarsi, con un sorriso divertito ad arricciargli appena le labbra sottili e tormentate. Dentro di sé coltivava già il desiderio di rivederlo, di risentire la sua voce.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Xрупкое сердце ***


Otabek aspettò la chiamata tutta la sera, fino all’ora di cena, ma Yuri non lo chiamò. Era tornato a casa in silenzio, il più velocemente possibile, e la prima cosa che chiese alla sorella appena arrivato in casa fu “Qualcuno ha chiamato?”. Ayzere, sua amata sorella, dagli occhi furbi di una volpe e il sorriso di una madre, gli aveva riferito che, come avveniva ormai da tempo, il telefono non s’era azzardato a squillare. Lo sguardo di Otabek si fece cupo, Ayzere lo notò, ma non gli chiese spiegazioni e lo lasciò in pace. Da quando erano rimasti soli il suo caro fratello aveva accumulato fin troppi scheletri nell’armadio e, nonostante il bel rapporto che gli univa, sapeva bene che egli stesso s’impegnava a nasconderle molti suoi segreti e guai. Lo faceva per il suo bene, Otabek aveva commesso troppi errori e non voleva metterci in mezzo anche l’innocente e dolce sorella, dal cuore grande come quello di un angelo, troppo pura per avere a che fare con lui. Aveva provato a persuaderlo dalle sue abitudini, dalla droga, ma era intervenuta quando ormai era troppo tardi, Otabek le aveva nascosto i suoi peccati finché questi non divennero irreversibili. E Ayzere non poteva ormai fare altro che medicare le ferite che il fratello si autoinfliggeva con la siringa in mano e un malato desiderio di fuggire da una realtà che era per entrambi troppo difficile da vivere. Eppure lei, fragile e delicata come la più preziosa delle opere d’arte, ci riusciva.  Otabek si chiuse in camera steso sul letto a fissare il soffitto. Sul comodino accanto a lui il telefono continuava a tacere, a torno a lui regnava il più calmo dei silenzi. Un sorriso beffardo si fece largo sul suo viso sciupato e magro, assieme all’amara consapevolezza di essersi lasciato illudere e persuadere dalla tentazione del momento. Non l’avrebbe chiamato, era chiaro, perché mai Yuri si sarebbe dovuto interessare ad un tossico screanzato, l’avrebbe dimenticato e avrebbe fatto bene. Si era illuso, Otabek, che nonostante il suo essere ignobile e deplorevole, potesse sperare in un qualcosa di più, in un’amicizia che in quel pomeriggio gli era parsa possibile e piacevole. Era stato lui stesso ad allontanarsi dal mondo, a rifugiarsi nella droga, era stata una sua decisione isolarsi, quando per lui la vergogna era diventata troppa, e quella vana illusione di poter tornare a vivere era una tentazione che doveva allontanare. Poche ore erano bastate per far maturare in lui il dolce desiderio di avere quel biondino dagli occhi delicati al suo fianco, un’ancora a tenerlo saldo al mondo e alla propria vita, ma solo una volta giunto a casa si rese conto che non era fattibile. Non era una persona stabile, Otabek, né affidabile. Era una mina vagante, un corpo senza anima che si teneva in vita con siringhe e fumo. Nessuno meritava di avere accanto un parassita simile, una zecca insaziabile di chissà quale famelico desiderio. Nessuno, neppure sua sorella, sangue del suo sangue, che era cresciuta troppo presto per essere una madre, sua madre. Eppure lei non l’aveva mai lasciato, né si era mai vergognata di lui. Otabek si sentiva una bestia quella sera, chiuso in camera sua, mentre l’invitate profumo della cena che sua sorella stava preparando si mescolava con l’insipido odore dell’eroina sciolta. Si drogava raramente in casa, soprattutto quando c’era Ayzere, ma quella sera non riusciva a resistere, non trovava stimoli che lo bloccassero da quel malsano desiderio. Teneva nascoste le dosi negli angoli più nascosti della camera, bustine bianche di eroina infilate nei punti più impensabili. Aveva riempito un cucchiaio da cucina di quella polvere fine e invitante e attese in silenzio che questa si sciogliesse col calore dell’accendino. Un aroma rivoltante gli riempì i polmoni e, seppur i suoi polmoni lo odiassero, il suo cervello, bruciato e sottomesso, non poté che gradire. Accanto a sé, sul letto, aveva poggiato l’arma del delitto, la sua fidata siringa assassina della sua anima. Era ancora sigillata, come appena uscita dalla farmacia.
Otabek vi fece scivolare dentro il liquido bollente, l’eroina aveva assunto un poco piacevole colorito giallognolo. Otabek sospirò, stringeva tra le mani la siringa, consapevole dell’errore che stava per compiere, del male che ne sarebbe scaturito. Ma la mano tremante non voleva fermarsi e nella sua mente devastata l’amaro desiderio di fuggire era più forte del poco senno che gli era rimasto. Avvicinò l’ago pungente alla pelle, un elastico stretto sul bicipite per ingrossargli le vene svuotate e indolenzite. La punta della siringa sfiorò il suo braccio rovinato e debole, Otabek esitò ed ebbe un fremito al sentire la vergognosa e irritante sensazione dell’acciaio freddo e tagliente lacerargli la pelle. Davanti a lui c’era uno specchio. L’aveva rotto settimane prima, il ragazzo, quando sul suo viso avevano fatto la loro comparsa le cicatrici del suo peccato, quando la pelle aveva cominciato a morire e le sue guance farsi sempre più magre. Aveva visto nei suoi occhi il nero bagliore dell’oscurità, il vuoto di chi sta perdendo tutto, e i suoi tratti ancora giovani divenire più marcati e crudi sul viso sempre più sciupato. Aveva odiato quella vista più di quanto aveva odiato la droga. Scagliò la prima cosa che si trovò tra le mani, guarda caso proprio una vecchia cornice d’acciaio, custode di una sua foto d’infanzia, contro lo specchio.
E questi si frantumò, ramificandosi in tanti piccoli e grandi frammenti. Ma questo non aveva fatto altro che peggiorare la situazione. Quando Otabek sollevò lo sguardo, cercando di ignorare l’ago che sfiorava la sua vena, si ritrovò decine di copie del suo riflesso, dei suoi occhi stanchi, fissarlo da ogni frammento dello specchio rotto. E il dolore che aveva cercato di ignorare si era amplificato ed era diventato ancora più opprimente. La mano tramava, sentì il flebile pizzicore della punta penetrargli appena la pelle, trattenne il respiro. Attorno a lui era il silenzio a fargli da compagno, una presenza costante nella sua vita, spia e spettatore dei suoi atti deplorevoli. Esitò come sempre, Otabek, quel fastidioso dolore lo bloccava, non aveva il coraggio di spingere più affondo la siringa, ma alla fine si ritrovava sempre a farlo. Poi, quando ormai la sua mente deviata, che faceva sempre più fatica a controllare, decise di andare fino in fondo, un suono acuto e stridulo squarciò  l’asfissiante silenzio che lo circondava. Otabek sussultò, nascose impacciato la siringa, in un irrefrenabile e vigliacco istinto di voler celare i propri peccati per non farsi cogliere in fragrante. Lo squillare del telefono si prolungò per qualche istante prima che il ragazzo si accorgesse della situazione, afferrò la cornetta esitante e rispose con voce tremante e sorpresa.

- Pronto? – gli giunse una tenera voce immatura e fanciullesca, come una calma e dolce nenia angelica, un innocente ninna nanna per allontanare via il male che si stava procurando. Il ragazzo dall’altra parte della cornetta, non sentendo arrivare risposta da un confuso e scosso Otabek, continuò. – Sono Yuri… Oggi siamo andati al parco insieme, ricordi? – la siringa gli scivolò tra le mani, le vene del moro si rilassarono e il sangue prese a scorrere lento e calmo nel suo corpo, senza essere ostacolato dall’odioso veleno. Non si aspettava più quella chiamata, Otabek.

- Certo che ricordo…- sospirò, il suo tono diventava stranamente più sano e piacevolmente armonioso quando parlava con Yuri, l’aveva già notato quel pomeriggio stesso. Un sorriso s’aprì timido tra le sue labbra, sottile e vago. – Mi fa piacere sentirti. – dall’altra parte, Yuri sorrise a sua volta.

- Scusami, mi hanno dato solo ora il permesso di telefonare. – sussurrò il biondino in tono mortificato. Otabek non rispose, non ne sentiva il bisogno. Non aveva nulla di che scusarsi, Yuri, anzi. Aveva pensato a lui e quando aveva potuto l’aveva chiamato. E, anche non sapendolo, l’aveva salvato da un ennesimo folle gesto di dolore. – Comunque, che facevi? –

Otabek sussultò a questa domanda, con la coda dell’occhio vide la siringa, la sua arma, abbandonata sul letto, accanto a lui, ancora colma di morte e veleno. Deglutì, distolse rapidamente lo sguardo, poi chinò il capo, come a volersi scusare, con se stesso e con quei pochi che sembravano preoccuparsi per lui. – Nulla… - un carico di vergogna e rimorso gli si mescolò in gola, distorcendo la sua voce nel suo solito tono roco e vuoto. Aveva gli occhi persi nel nulla, come intimoriti dallo sguardo accusatorio di chi lo giudicava. Yuri percepì quella nota di dolore che gli rese la voce graffiante, si preoccupò come aveva fatto quel pomeriggio.

- Otabek, posso chiederti un favore? – il tono di Yuri era calmo, innocente, un lieve canto dalle note piacevolmente delicate che allontanavano dall’altro ogni tipo di preoccupazione. Una voce che con lui diventava candida, comprensiva, perché Yuri non sentiva il bisogno di provare diffidenza nei suoi confronti, tanto simile era il loro malessere.

- Dipende, Yuri… Se posso, ovviamente. – Otabek esitò, non si sentiva in grado di fare favori agli altri senza temere di deluderli. Non era in grado di badare a se stesso, non poteva pretendere di essere di aiuto agli altri, ma voleva tentare, voleva fare tutto ciò che era il suo potere per essere utile a qualcuno.

- Lunedì possiamo incontrarci? A scuola… - chiese timidamente il biondino, Otabek non poteva vederlo, ma i suoi occhi risplendevano di un meraviglioso verde speranza, la speranza che, nel suo piccolo e nel suo dolore, potesse aiutare il nuovo amico nelle sue atroci pene. Il sorriso del moro si ampliò e si fece grande, bello, splendente come non lo era mai stato da un paio d’anni a quella parte.

- Certo. – il viso di Otabek, il suo tono, non riuscivano ad esprimere la felicità che quelle poche parole gli avevano fatto maturare nel cuore.  Non potevano più farlo. Eppure gioiva, nel più profondo del cuore era felice.

- Però… - Yuri teneva il capo chinato, giocava nervosamente col cavo del telefono, rigirandoselo tra le dita magre e sinuose. – Ti prego… non farlo più fino a lunedì… - la sua voce, troppo profonda e matura per essere quella di un sedicenne esile e minuto, emanava preoccupazione e ancora affetto, un desiderio inaspettato di essere ascoltato. – Farti del male, intendo… drogarti.- non aveva la concezione della gravità della situazione di Otabek, forse perché, nel suo essere maturato troppo in fretta, era fin troppo innocente per capirla. L’aveva visto soffrire non voleva accadesse nuovamente, voleva proteggere quell’amico disperato che non aveva avuto cura della propria umanità.

Otabek sussultò, poi emise un sospiro e si lasciò andare in una flebile, sottile e disperata risatina. Le braccia bruciavano e le vene non la smettevano di pulsare, come a prenderlo in giro, a ricordargli di quanto fosse stato idiota ad intraprendere quella strada senza uscita. – Non è così facile, Yuri…- ci pensò, il moro, e non era facile per nulla. Per quanto volesse, per quanto provasse, non ce l’avrebbe fatta e anche solo provandoci avrebbe solo peggiorato la situazione. Era solo, abbandonato con una sorella premurosa che, nonostante l’amore che provava per lui, non riusciva a portarlo fuori da quel mondo, non poteva. E Otabek si vergognava troppo a chiedere aiuto, paura che ovunque andasse avrebbe trovato solo porte chiuse, occhi diffidenti, malelingue e altra insopportabile sofferenza. – Ma ci proverò, se proprio lo desideri.- ci avrebbe provato, comunque, con tutta la poca forza che gli era rimasta in cuore ci avrebbe provato. La mente distrutta chiedeva pietà, aiuto, sapeva che quello non sarebbe stato il modo giusto. Perché nonostante la droga lo stesse uccidendo, lui ne aveva bisogno, estremo bisogno. Ma l’avrebbe abbondonata, se era questo il volere del suo primo, unico e caro amico, anche a costo di ammazzarsi definitivamente. Non aveva più nulla da perdere, Otabek, assolutamente nulla.

I due si diedero un luogo d’incontro, in mensa, all’ora di pranzo, dove avrebbero mangiato e parlato assieme, dove si sarebbero protetti l’uno dai mali dell’altro. Yuri accennò al suo problema con alcuni individui a scuola, ma nonostante le insistenti e preoccupate domande del povero moro, decise di non approfondire la questione al telefono. Avrebbe preferito parlargliene dal vivo, esattamente come aveva fatto Otabek raccontandogli dei suoi problemi con la droga. I due si salutarono dopo pochi minuti, ma per entrambi furono attimi di estrema felicità e libertà. Era una cosa da ragazzi normali avere una chiacchierata al telefono con un amico, organizzarsi per vedersi a scuola, parlare. Eppure non avevano mai avuto occasione di sperimentare una così semplice e normale esperienza che, nel suo essere quasi insignificante, assumeva per loro un significato enorme di felicità.

- Ti sei fatto di nuovo, Beka..? – Ayzere entrò in camera di Otabek e, vista come al solito la siringa abbandonata accanto a lui sul letto, aveva sentito il cuore farsi pesante e dolente per l’ennesima volta, distrutta nel vedere il suo amato fratellino in quello stato pietoso. Ma Otabek sorrideva, quel poco che bastava per calmare la sorella angosciata e preoccupata.

- No, stasera no.- il suo viso sembrava tornato quello di quando era bambino, ancora troppo innocente e fragile. Ayzere non lo vedeva così raggiante e spensierato da quando erano ancora in Kazakhstan, ad Almaty, a giocare in strada con i genitori. I loro sguardi s’incontrarono, entrambi si sorrisero.

- È pronta la cena. – e per una sera l’atmosfera a tavola sembrava quella di una normale e tranquilla famigliola di campagna.
 

Come detto già, non sarebbe stato facile, neppure un po’, smettere di massacrarsi, acquietare il proprio incontrollabile e malato bisogno di alimentare il male che lo soffocava. Non era una sua scelta, non era un suo desiderio, ma la sua mente, il suo corpo, il suo contaminato e sporco sangue chiedevano di più, sempre di più, sempre più male. Otabek non pensava di potercela fare, di riuscire a ribellarsi, a sopportare, a sopprimere quel malessere soffocante che l’opprimeva. Eppure ce la fece, in qualche modo, ad abbandonare la siringa, l’eroina, l’erba, per quelli che gli sembrarono due giorni infiniti e strazianti. Aveva preso la questione sottomano, all’inizio, scoraggiato dalla sua già nota debolezza e viltà, avrebbe tradito il suo amico e avrebbe ceduto, se ne sarebbe vergognato, ma non poteva fare altro. Eppure quando vide il viso della sorella quella sera, a cena, finalmente rilassato, felice, si convinse definitivamente ad affrontare quell’azzardata sfida suicida. Aveva preso la sua scorta di dosi, l’aveva chiusa in un cofanetto di metallo e l’aveva nascosta nello sgabuzzino di casa, piccolo e pieno di cianfrusaglie. La chiave la teneva Ayzere, che l’avrebbe aperta solo in caso di estrema necessità, Otabek aveva voluto così. Rimase nella sua camera, poi, per tutto il week end, lontano dalle tentazioni e dal mondo. Ascoltava musica, leggeva qualcosa, poi prendeva il telefono e si scambiava messaggi frugali con Yuri, aggiornandolo sulla sua eroica impresa. Il primo giorno sembrò andare tutto bene, o quanto meno non andò troppo male. Già dalla domenica, però, la questione cominciò a degenerare fin troppo rapidamente. Non toccò cibo tutto il giorno, non se la sentiva, e più cercava di reagire, più lo sconquasso che gli sconvolgeva lo stomaco si faceva insopportabile. Nella testa aveva preso vita un inferno di fuoco, fiamme, pensieri sconnessi, dolore, come di un migliaio di piccoli e affilati aghi a pungergli le meningi. Otabek non aveva mai provato un dolore simile, o magari sì, ma la droga lo confondeva e quelle pene le alleviava quanto bastava a convincerlo a non abbandonarle. Forse un minimo di forza l’aveva, anche se dubitava di sé. Quel piccolo e fragile desiderio di rivincita, di rendere felice la sorella dopo anni di angosce, di coltivare quell’amicizia tanto breve quanto meravigliosamente inaspettata che lo spinse ad arrivare al lunedì senza aver messo mano su qualcosa di schifosamente pericoloso. E nonostante il dolore si sentiva fiero di sé.


Yuri, chiuso nella sua piccola stanza grigia e scura, attendeva il nuovo incontro con fervore. Teneva le gambe incrociate e stava seduto sul letto, ben più morbido di quello dove aveva passato l’infanzia, e guardava il cielo e le sue innumerevoli sfumature attraverso la sottile e fragile finestra che lo divideva dal mondo. La sua stanza era il suo guscio, la sua fortezza, un piccolo universo parallelo al nostro dove il giovane e fragile Yuri dava sfogo a rimorsi e dolori che altrimenti lo avrebbero soffocato. Aveva un quadernino nascosto nel cassetto della scrivania e lì, abbozzati a matita, c’erano i suoi ricordi più macabri. Pareva un fumetto dell’orrore, una raccolta di opere grottesche e surreali da far gelare il sangue nelle vene anche del più coraggioso e forte di stomaco. Per Yuri erano solo frammenti di una vita vissuta fin troppo recentemente per poter essere dimenticata. Sull’ultima pagina, quella stessa sera, aiutato dalla flebile luce dorata del tramonto, aveva abbozzato con cura e dedizione una nuova importantissima scena della sua odiata vita. Disegnò con cura le foglie cadenti degli alberi in autunno, una panchina e infine abbozzò le figure di due giovani ragazzi seduti l’uno accanto all’altro, nascosti nei giacconi pesanti come a volersi proteggere. Dedicò particolare cura nel disegnare quanto più dettagliatamente possibile il viso di Otabek, come fosse una fotografia, un cimelio, come a voler imprimere sulla carta ogni singolo particolare del suo viso tanto distrutto quanto tremendamente bello. Lo squadrò, non era soddisfatto della sua opera, ma non poteva fare di meglio. Il ragazzo, l’amico, era troppo particolare e unico per poter essere riprodotto fedelmente, anche dalla mano del più grande degli artisti. Abbozzò infine il proprio viso, protagonista di tutte le scene del suo libricino in tutta la sua oscena crudeltà. Per la prima volta in assoluto si rappresentò con un grande, splendente e irriconoscibile sorriso sulle labbra.
 

Quando giunse l’ora di pranzo, Yuri si gettò fuori dalla classe con una velocità e un entusiasmo innaturale. Non badò alle risatine dei compagni, ormai sua costante piaga, non si fermò neppure a salutare il professore. Appena suonò la campanella lui era già in corridoio a correre verso la mensa. Otabek avrebbe voluto avere una reazione simile, ma non era nelle condizioni fisiche per farlo. Era stato bocciato già due volte, per ovvi motivi, ma in classe non dava mai problemi. Non infastidiva i compagni, non discuteva con i professori. Semplicemente non era nella condizione di ascoltare, di imparare o di essere anche solo un minimo partecipe alla lezione. Si metteva con la testa sul banco, straziato dai problemi che aveva, e nessuno lo vedeva né lo sentiva. Era come un fantasma, una presenza vaga che ogni tanto si materializzava in classe ad occupare svogliatamente l’ultimo banco della fila vicino alla finestra. E quel lunedì era lento, devastato, nonostante il desiderio di rivedere il suo amico lo spronasse e reagire contro il disagio e il dolore che l’astinenza aveva cominciato a procurargli. La testa era un inferno, un delirio di dolore, la sentiva pesante come un masso, le spalle fragili e indebolite da anni di pigrizia facevano fatica a restare dritte. In classe i pensieri, il dolore, si erano accumulati nella mente confusa, non abituata a tale situazione, e avevano dato forma a vere e proprie allucinazioni strazianti. Aveva provato ad addormentarsi e a placare quel delirio che lo stava devastando, ma non ci riuscì e dovette attendere nella sofferenza più indescrivibile che quell’incubo finisse. Voleva solo un po’ di calma, silenzio, o semplicemente una mano, un abbraccio, Yuri o semplicemente una dose. Voleva solo smettere di provare altro dolore.

Yuri era già in mensa mentre Otabek agonizzava sul suo banco nel disperato tentativo di trovare la forza per alzarsi e raggiungerlo. Stava sulla soglia dell’entrata, a testa bassa, come a volersi nascondere da sguardi indiscreti di chi, ormai dal suo arrivo in quella scuola, aveva osato approfittare della sua fragilità sia fisica che, soprattutto, emotiva. Non era capace di difendersi, solo a serbare odio e angoscia nel suo cuore troppo freddo per essere quello di un ragazzino. E lì, in quella mensa, le persone che odiava abbondavano, non farsi vedere era molto meglio per tutti.

- Yuri! – sentì una voce chiamarlo alle sue spalle, la riconobbe in un istante e gli si gelò il sangue nelle vene. Fastidiosa, irritante, provocatoria, non era mai un buon presagio per il povero Yuri e per la sua pace interiore. Lo ignorò, come aveva imparato a fare, e rimase in attesa, in silenzio. – Non ti facevi vedere da un po’ qui, che succede? – ridacchiò il ragazzetto alle sue spalle, Yuri tentò di controllarsi, di placare le mille e ingombranti voci che gli infestavano la mente. Le stesse voci dal tono straziante che l’avevano accompagnato per tutta la vita, quando ancora viveva a casa di suo padre. Odiava chi si prendeva gioco della sua debolezza esattamente come odiava chi gli aveva fatto del male. – Vuoi pranzare con noi? Avevamo proprio voglia di adottare un gattino randagio.-

- Togliti dal cazzo, JJ. – Yuri aveva una lingua inaspettatamente biforcuta e tagliente, irrefrenabile e pungente, che stonava parecchio con il suo essere fragile, debole, segnato da un passato talmente oscuro da apparire quasi impossibile. Era la sua unica arma, la sua unica misera possibilità di ferire chi faceva a lui del male. Ovvio, dipendeva da chi. Non avrebbe mai risposto così a suo padre.

- Cos’è, il micino ha la rabbia? – JJ, il cui nome completo era Jean-Jacques, troppo lungo e serioso per uno come lui, era famoso per il suo sorriso spiacevolmente irritante e odioso. Era un ragazzo affascinante, l’idolo delle ragazze, un donnaiolo popolarissimo in tutta la scuola che dominava in quanto a talento e bellezza su chiunque. Capitano della squadra di hockey aveva portato la scuola vincere per tre volte consecutive il campionato nazionale scolastico, un record che nessun altro istituto aveva mai eguagliato. Si dice anche avesse un senso dell’umorismo piuttosto peculiare ed “elevato”, a tratti perfino raffinato, che lo rendeva una delle persone più amate in circolazione. Yuri, però, non coglieva neppure un minimo di raffinatezza o elevato umorismo nelle battute che gli riservava con quel tono sprezzante e viscido da serpe.

- Ma non capisci proprio un cazzo, ti ho detto di lasciarmi in pace, tu e la tua zoccola. – non si risparmiava, il biondino dal viso infantile, quando desiderava essere lasciato in pace. Odiava essere preso di mira, odiava essere al centro dell’attenzione, odiava quel tono tanto fastidioso. Voleva urlare, piangere, rifugiarsi in bagno da solo e scacciare via tutto quel dolore.

- Forse sei tu che non capisci un cazzo. – il tono di Jean-Jacques s’era fatto d’un tratto ancor più aspro, quella nota sprezzante che Yuri tanto odiava si fece più viva, pungente e schifosa. Lo prese per le spalle, magre, sottili, esili, tanto forte da poterle sgretolare tanto erano fragili. Lo costrinse a voltarsi, lo spinse contro il muro. La sua donna, Isabella, cheerleader dalla bellezza notoriamente impressionante, aveva il viso contratto in un’orrenda espressione di disgusto. – Tu zoccola non lo dici alla mia ragazza, capito micino? – lo sguardo di JJ era profondo, indecifrabile, esattamente come lo era il suo immortale ghigno. Yuri faceva fatica a reggere il suo sguardo, faceva fatica a reagire dopo una vita fatta di sottomissione. Eppure ci provava, ci riusciva e sul suo viso aveva fatto nascere un’espressione tanto vuota quanto colma d’odio. Non rispose, il moro dagli occhi profondi s’irritò ancora. – E poi da che pulpito, proprio tu dai della zoccola a Bella.- Yuri sussultò, non si aspettava quelle parole e non capiva. La sua maschera di ghiaccio prese a vacillare e JJ lo notò. Isabella rimase immobile alle spalle del fidanzato, continuava a squadrare Yuri come fosse la più schifosa delle bestie in circolazione. – Pensi che a scuola non si sappia? – si lasciò sfuggire una risatina, Yuri ebbe un fremito. – Dovevi divertirti tanto da bambino, no?- il biondo s’irrigidì come una statua, l’espressione vuota e cupa da soldato si frantumò e il suo viso tornò innocente, fragile, tornò ad essere il bambino traumatizzato che era e che voleva celare.

Forse neppure si stava rendendo conto, Jean-Jacques, di quanto quella frase potesse fare male. O almeno Yuri sperava che non se ne fosse reso conto, nonostante lo odiasse, sperava che quella cattiveria così maligna non fosse mirata. Magari in realtà non sapeva, non conosceva quello che gli era successo, il passato da cui cercava di scappare. Yuri prese a tremare, un vecchio ma indimenticabile dolore iniziò ad ardergli in mezzo alle gambe, forte, sempre più forte, sempre più vicino al dolore che aveva provato tempo prima. La paura che quel dolore portava era indescrivibile, la paura che lui fosse ancora lì, pronto a prenderlo e a punirlo per chissà quale effimero male. JJ lo fissava mentre lentamente si trasformava nel vero Yuri, nel sedicenne debole e spaventato, nel bambino terrorizzato, ubidiente, sottomesso. Il sorriso spregevole non abbandonò mai il suo viso. Non aveva neppure il coraggio di urlare, Yuri, come fosse ferito, trafitto, inchiodato al muro da quelle parole spinte e crudeli, dai ricordi e dalla paura. Voleva mandarlo a fanculo, perdonatemi tale scempio nella prosa, spingerlo via, toglierselo di dosso, e così urlare quanto facesse male. Non ne aveva la forza e sia JJ che Isabella stavano godendo di quel dolore che, finalmente, l’avevano costretto a mostrare. Ridevano per aver piegato di nuovo l’animo duro di quella creatura fragile.

Un colpo di tosse chiaramente e volutamente spazientito interruppe la grottesca e inaccettabile scena, Jean-Jacques si voltò stizzito e Yuri, una volta interrotto il contatto con gli occhi del bulletto di turno, si lasciò sfuggire un singhiozzo che altrimenti l’avrebbe soffocato.

- Gradirei ti levassi dalle palle, Leory. – Otabek, nonostante la confusione che gli annebbiava la mente, nonostante avesse difficoltà addirittura a stare in piedi, non poté che intervenire in difesa dell’amico, chiaramente scosso, distrutto da qualcosa che JJ gli aveva fatto. I loro occhi s’incontrarono, a Yuri parve come se un angelo fosse intervenuto in sua difesa, in tutto il suo brillante fascino. Jeann- Jacques si lasciò andare in un’ennesima risata.

- Te la fai perfino con i drogati. – sembrava una vipera, JJ, un serpente assetato di sangue che diffondeva veleno a tutto spiano attorno a sé. Otabek si sentì particolarmente colpito dalle sue parole, fecero male e non se l’aspettava. Era un’ovvietà, una realtà evidente che non poteva nascondere, un fatto troppo chiaro da poter essere ignorato, ma faceva male lo stesso. Faceva male che il suo dolore e i suoi errori gli venissero rinfacciati con tanto disprezzo quando era lui il primo a cercare di allontanarli. Eppure non si sentiva nella posizione di controbattere: che facesse male o no, lui lo era.

- Yuri? – Otabek finse di non aver badato a quelle parole struggenti, rivolse invece lo sguardo all’amico che, felice del suo intervento, sembrava essersi ripreso da quello spiacevole momento di dolore. Il biondo dal corpo esile e dalle braccia magre spinse via il ben più robusto JJ, con un coraggio inaspettato che gli aveva animato il cuore dall’arrivo di Otabek. “Fanculo” gridò il ragazzino con voce innocente, Jean-Jacques era sbigottito, Isabella ammutolita. E Otabek e Yuri poterono finalmente godersi la pausa assieme, in tranquillità.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 – Тоска ***


Otabek non stava bene, era evidente. Aveva fatto la fila con Yuri, ma una volta arrivato al bancone non aveva preso neppure una fetta di pane. Yuri aveva insistito a finché prendesse qualcosa almeno dal suo vassoio, ma si era rifiutato, aveva gli occhi socchiusi, palesemente stanchi. Stavano seduti in un angolo, dove nessuno avrebbe badato a loro o li avrebbe disturbati. Yuri aveva una voglia matta e sconfinata di parlare, parlare del più e del meno, parlare per tutte quelle volte che nella vita era dovuto rimanere in silenzio. Otabek desiderava lo stesso, voleva conoscerlo e farsi conoscere, ma la testa bruciava, le mani tramavano, non riuscì a dire nulla. Il biondo dalla pelle diafana e pura scrutava l’amico con preoccupazione, ma non si rese conto, in un primo momento, della gravità della situazione, che di lì a poco sarebbe degenerata in una scena disgustosamente dolorosa.

- Yuri… - la voce di Otabek si era trasformata in un flebile lamento disperato e tremante, lo specchio perfetto del male che il suo corpo e la sua mente gli stavano procurando, prosciugandolo lentamente della poca forza rimasta. Yuri sussultò e gli passò una mano sulla fronte, sudata, bollente, ruvida. I suoi occhi smeraldini odiavano vedere il dolore.

- Otabek, cos’hai..? – il contatto con la pelle distrutta e sofferente di Otabek sarebbe stato per chiunque un’esperienza spiacevole, ma non per Yuri, che nel cuore colmo d’odio maturava la delicatezza di una fata. Sudava come se stesse soffocando, era caldo come il fuoco, fragile, come se potesse spezzarsi da un momento all’altro. Il moro, che era una roccia dallo sguardo di ghiaccio e il volto inespressivo, sembrava sul punto di piegarsi in un pianto amaro di dolore. A Yuri continuava a far pena.

Otabek non rispose, aveva lo sguardo perso nel vuoto, si dondolava sulla sedia come un bambino in preda al panico. Gli occhi svuotati di luce e vita, la mente buia, oscura, colma di voci confuse e sensazioni che la pelle del giovane non riusciva più a provare. Nello stomaco sentiva muoversi una colonia di piccole creaturine dagli artigli affilati, che si appendevano alle pareti del suo corpo distrutto e lo laceravano con squarci profondi e dolorosi. Un’improvvisa sensazione di freddo l’aveva travolto, un gelo incomprensibilmente soffocante. Tremava, ma la pelle ribolliva come fosse lava. La mano docile e delicata di Yuri gli accarezzava il volto bollente con la stessa cura che avrebbe una madre con un figlio.

- Otabek…- lo chiamò, Otabek non lo sentì neppure. Ogni suono in quell’immensa sala era amplificato nella sua testa e diveniva mille volte più fastidioso e rivoltante, la voce di Yuri veniva surclassata dalla confusione e dal caos. Un ruggito sconvolse lo stomaco del moro, una frustata di dolore, poi un disgustoso sapore acido a riempirgli la gola. Si bloccò la bocca con le mani, doveva buttare fuori tutto lo schifo che aveva in corpo, ma non lì, non davanti a tutti, non accanto a Yuri. – Otabek! – Yuri vide l’amico alzarsi di scatto, barcollare appena sulle gambe dolenti, e poi correre via, con le mani premute sulla bocca, verso i bagni.

Yuri abbandonò il vassoio e, senza pensarci due volte, gli corse dietro. Otabek si fiondò nel primo bagno disponibile, Yuri alle sue spalle lo raggiunse giusto in tempo per sentirlo sputare fuori il male che in quei giorni di astinenza non aveva avuto modo di reprimere. Yuri rimase in attesa fuori dal bagno, pietrificato, scosso, Otabek intanto vomitava sangue, l’anima a stento riuscì a tenersi aggrappata in lui.

- Yuri…- tossiva, Otabek, Yuri non poteva vederlo ma era sicuro che stesse ancora vomitando. Il biondino era ancora pietrificato, sconvolto da tale improvvisa e violenta reazione. Si avvicinò alla porta, provò ad entrare, a soccorrerlo, ma Otabek la richiuse immediatamente. Non voleva lo vedesse ridotto così, ad uno straccio coperto di sangue. – Nikiforov…- non riusciva a parlare, la gola era serrata dal dolore e dai rifiuti del suo corpo distrutto. Yuri non capì subito. – Nikiforov… Cercalo… Per favore…- aveva un tono disperato, parlava piano, cercava di scandire ogni parola per farsi capire. Yuri strinse i pugni, Viktor Nikiforov aveva la nominata di essere uno spacciatore.

- Resisti… Torno subito.- Yuri non voleva che si drogasse, non voleva vederlo ricadere ancora in quel baratro dal quale aveva innocentemente tentato di salvarlo. Non voleva andare da Viktor, famoso per i suoi occhi di ghiacco famelici e profondi, e procurargli egli stesso quel veleno che gli procurava tanto male. L’unica cosa che desiderava era che riuscisse a superare quell’ostacolo. E, di conseguenza, era costretto ad andare da Nikiforov.

Non era difficile da riconoscere, Viktor. Spiccava in mezzo agli altri sotto numerosi aspetti, era tremendamente e fatalmente unico. Capelli che fin dalla nascita vantavano rare sfumature d’argento, lo sguardo indecifrabile specchio di un’anima vuota e oscura. Alto, fisico snello, marmoreo, sembrava più grande di quanto in realtà non fosse. Era maturo nello sguardo, negli atteggiamenti, nelle parole, era adulto in tutto e per tutto, un vero gentiluomo. Eppure la sua fama lo precedeva. Giravano voci sulla famiglia Nikiforov, voci che da anni facevano il giro del paese intero. Erano ricchi, i Nikiforov, tra i più ricchi in tutta la Russia, il loro nome era noto da San Pietroburgo sino a Vladivostok, da un estremo all’altro della loro meravigliosa patria. Ma tale ricchezza e prosperità improvvisa divenne un mistero, un enigma segreto che si ricollegava alla cattiva reputazione del bel rampollo dei Nikiforov. Viktor spacciava fin dai suoi primi tempi a scuola, dalle droghette più leggere, fino alle droghe pesanti, il veleno che scorreva nel corpo di Otabek. E come riuscisse a procurarsi tutta quella roba indisturbato, fin da ragazzino, era chiaro a tutti, esattamente com’era chiaro il motivo del prestigio della sua famiglia. In Russia, dopotutto, uno dei modi più noti per raggiungere il successo è proprio la mafia. E che i Nikiforov ne fossero ai vertici non era mai stato un segreto. Viktor possedeva un fascino raffinato, una poetica tutta sua, unica, una filosofia di vita accattivante che riduceva ai suoi piedi ogni ragazza dotata di quel minimo di cultura che bastava per ammirarlo. E non solo ragazze, anzi. Si diceva che Viktor fosse l’esemplare tipico di un malato di AIDS: drogato e omosessuale, dichiaratamente omosessuale.

Yuri lo trovò, guarda caso, proprio in mensa, ben esposto, accomodato elegantemente ad uno dei tavoli al centro, mentre flirtava senza ritegno con un novellino di un paio d’anni più piccolo. Vestito come al solito di tutto punto, tirato a lucido come un modello. Il ragazzino che aveva avuto l’onore di attirare l’attenzione del bello e proibito Viktor si chiamava, per ironia della sorte, proprio Yuri. Eppure era ben diverso dallo Yuri protagonista del racconto, seppur entrambi condividessero ansie e insicurezze. Yuri Katsuki, questo il suo nome completo, aveva un aspetto tenero quasi quanto lo era il suo animo. Guance paffute, sguardo timido e perso, costantemente celato da un paio di enormi occhialoni da vista, i capelli neri come la notte sempre e costantemente spettinati. Era mite, delicato e pacato come lo erano pochi, timido e silenzioso, un ascoltatore con i fiocchi e un grandissimo golosone. Era esattamente il tipo che ci si aspetterebbe Viktor ignorasse completamente, viste le enormi differenze tra i due. Eppure i due erano l’umana rappresentazione della sacra legge degli opposti. Viktor, che era abituato ad una vita elegantemente derivata dall’illegalità, era affascinato dalla semplicità dell’essere del piccolo, passivo e dolce Katsuki. E, come era chiaro che fosse, il caro Yuri era attirato da quello che era il fascino magnetico dello studente più misterioso di tutto l’istituto. Era bramoso, forse, di scoprire i suoi segreti, di estrapolare dalla loro sempre più chiusa intimità un qualcosa, un segno, un Viktor che i suoi occhi di ghiaccio non lasciavano trasparire. E Viktor, quando era con lui, sembrava tutto fuorché uno spacciatore figlio della mafia.

Yuri, quello che fin dalla prima pagina è stato il nostro protagonista, non si fece problemi nell’interrompere il magico momento tra i due innamorati più famosi della scuola, troppo in pena per la sorte del suo amico sofferente. Viktor sfoggiava un sorriso splendente e bianchissimo, elegante quanto misterioso, invitante e unicamente amorevole. Il biondo lo assalì, un nodo a stringergli la gola come a soffocarlo. La paura, l’ansia incontrollabile per quello che stava inaspettatamente accadendo al suo amico lo distruggeva. Yuri aveva gli occhi che chiedevano pietà, occhi che supplicavano aiuto. Viktor lo squadrò con occhi freddi e indecifrabili, non voleva essere interrotto da un ragazzino insignificante.

- Ho bisogno di roba, Nikiforov. – Yuri non riusciva a tenere a freno le mani, tremavano come se stessero gelando. Non diede freno alle parole, le disse tutto d’un fiato, con tono più sicuro e rispettoso possibile. Non bisognava presentarsi male al sommo Nikiforov, né deboli, né scontrosi. Yuri era entrambe le cose. – Roba pesante. – Viktor lo squadrava con occhi di ghiaccio, sul volto aveva stampato un sorriso beffardo. Ne aveva avuti di clienti giovani, ma Yuri sembrava fin troppo immaturo per poter anche solo pensare di avvicinarsi al mondo di cui lui gestiva il monopolio. Non sapeva se ridere o incazzarsi a vedere tanti di quei ragazzini rovinarsi e ridursi a degli stracci usati e sporchi, ma alla fine non poteva pretendere che gl’importasse molto di loro. Dopotutto, era grazie a loro che faceva soldi.

- Potresti ripassare tra dieci minuti? Sai… - Viktor allungò il braccio verso l’altro Yuri, dalle guance paffute e dallo sguardo fanciullesco, cingendolo a sé come fosse il più prezioso dei tesori. Gli sguardi dei due si unirono, il giovane occhialuto non disse nulla, sembrava a disagio per la presenza del biondo. Non aveva mai amato il “lavoro” di Viktor e mai l’avrebbe fatto. Sperava che col tempo, col diploma, cambiasse e si rendesse più idoneo ad una vita da semplice ventenne, ma lui non accennava a cambiare. Non ancora, almeno, Yuri continuava a sperare.

- No, ho bisogno di roba ora.- fremeva, lo Yuri dagli occhi splendenti di un bambino spaventato. Non riusciva a stare fermo, a placare quella preoccupazione che lo affliggeva al solo pensare a cosa Otabek stesse passando, solo e abbandonato col suo male. Aveva bisogno di salvarlo immediatamente o nessuno dei due avrebbe retto al dolore delle conseguenze di quella tremenda crisi d’astinenza.

Viktor si fece d’un tratto serio, un pezzo di ghiaccio integro e compatto, la mascella contratta in un’espressione alquanto infastidita quanto sprezzante. Se al cuor non si comanda, allora neppure ai soldi. Sogghignò e sciolse il tenero abbraccio con la sua giovane e bella preda, bramosa ancora del suo amore, e incrociò lo sguardo con quello ribollente di paura e ansia del piccolo e insignificante ragazzino. Non gli importava davvero nulla di ciò che lo circondava, non aveva interesse nel male che causava ai giovani novelli dell’istituto. Il suo mondo ruotava attorno al suo tenero amato, il resto era solo denaro.

- Ebbene, parliamo in privato. – Viktor conosceva bene il suo dolce Yuri e che il suo modo di fare soldi lo infastidisse non era una novità. Non aveva intenzione di smettere, perché quella sua posizione privilegiata era tanto gratificante quanto utile. Aveva metà scuola in pugno, l’altra metà lo temeva o lo ammirava. Si sentiva come un dio, aveva quel poco di potere che gli bastava per sentirsi anche lui importante, esattamente come lo erano i suoi più stretti parenti.

Yuri sembrava uno scricciolo in confronto a Viktor, possente nella sua eleganza. Quello che sembrava già da sé un bambino sembrava quasi svanire al fianco dell’onorevole Nikiforov. Eppure non si sentiva in soggezione, non percepiva quel distacco che gli altri notavano all’istante. Nella sua testa non c’era spazio per pensieri come quello, temeva per Otabek e non ragionava su nient’altro. La sua mente cresciuta troppo in fretta non riusciva ad elaborare più di un pensiero doloroso alla volta, non avrebbe retto nella sua fragilità. I due si allontanarono, Yuri immerso nella sua felpa, come a voler sparire, Viktor, al contrario, con passo fiero e sicuro.

- Allora… - Viktor lo fissò con i suoi occhi vitrei, specchio di chissà quale profonda e contorta anima. Un sorriso pacato dalle mille sfaccettature si affacciò sul suo viso, non sembrava amichevole, ma neppure minaccioso. – Di cosa hai bisogno, ragazzino?- si poggiò ad una parete, con la sua solita e ammaliante eleganza, nell’imbottitura del cappotto teneva nascosto di tutto. Sembrava un pozzo, Viktor, sia metaforicamente che letteralmente. Un pozzo di mistero e fascino e un magazzino immenso di veleno e morte. Yuri esitò, si sentiva improvvisamente catapultato in un mondo non suo, era a disagio.

- Eroina. – rispose secco, con lo sguardo perso nel vuoto, troppo confuso per reggere gli occhi penetranti di Viktor. Questi lo fissò stupito, squadrandolo da capo a piedi come se, fino a quel momento, non avesse capito bene chi aveva davanti. Non gli era mai capitato, e mai avrebbe sperato fosse successo, che un ragazzino talmente giovane gli fosse venuto a chiedere roba così forte.

- Ci vai giù pesante. – commentò, profondamente scosso nel vedere risplendere nei suoi occhi quella scintilla così infantile e docile che tutti i suoi clienti più anziani avevano ormai perso. Si sarebbe sentito sporco, probabilmente, a vendere morte e dolore ad un ragazzino, ma non avrebbe rifiutato e ben presto se ne sarebbe sicuramente dimenticato. Era una loro scelta, quella di drogarsi e soffrire di conseguenza, lui non era altro che colui che avrebbe portato a compimento quel macabro desiderio, arricchendosi nel soddisfare le fantasie malate dei giovani e frustrati compagni.

- Non è per me, che cazzo. – Yuri si morse un labbro, il solo pensiero di drogarsi come faceva Otabek lo disgustava, lo spaventava. – Quella roba non la tocco neppure sotto tortura. – non aveva mai conosciuto quel dolore, ma sembrava fin troppo atroce per essere sopportato. Avrebbe preferito qualsiasi altro osceno abuso, ma mai avrebbe concesso a quello schifo di prendere possesso di lui nella sua interezza e poi devastarlo dall’interno. Otabek aveva aperto le porte del suo corpo alla droga e quando questi aveva deciso di mandarla via, lei era divenuta aggressiva e l’aveva divorato, l’aveva fatto suo come un amante. Yuri non voleva la stessa sorte e voleva salvare il suo caro amico dall’oscuro destino che si era creato.

- E per chi sarebbe? – non sembrava particolarmente interessato, Viktor, ma si prese la briga di chiedere lo stesso. Si mise una mano nella tasca del giaccone, sul fondo vi era un grosso squarcio tappato alla bella e buona con due toppe a strappo. Infilò la mano in mezzo alla voragine e si mise a frugare con disinvoltura tra le bustine che teneva nascoste nella fodera e nell’imbottitura.

- Otabek.- Yuri non riusciva a stare fermo, tremava e si dondolava da un piede all’altro come in preda all’ansia. Era lento, Viktor, a cercare la roba, ma non se la sentiva di mettergli fretta, di contrastare il più potente guru in quella grottesca e gerarchica società scolastica. Non voleva metterselo contro o infastidirlo.

- Otabek Altin… - commentò Viktor tra sé e sé, tirando finalmente fuori dalla tasca una bustina bianca sigillata. Richiuse le toppe a strappo e si lasciò andare poi in una flebile quanto sinistra risata. – Quella zecca ha mandato te per non mettersi nei guai, che codardo. – Yuri lo fissò confuso, infastidito da quelle parole, poi Viktor gli allungò la bustina di eroina con fare fin troppo poco furtivo. Non temeva di essere visto, anzi, godeva nel sentirsi al centro dell’attenzione e sapeva che mai nessuno avrebbe osato puntargli un dito contro. Yuri fece per prenderla, ma si sentì puntare addosso gli occhi freddi e intimidatori dell’affascinante Nikiforov e questi ritirò la mano. – Prima i soldi. –

La voce ruvida e fredda di Viktor gelò istantaneamente il sangue nelle vene del povero Yuri. Rimase paralizzato, un groppo gli salì in gola a soffocarlo quando si rese conto di non avere dietro neppure un centesimo, figurarsi se poteva permettersi una dose di eroina. Il sommo Nikiforov lo scrutava in attesa, sembrava essere sul punto di perdere completamente la pazienza davanti a quel misero ragazzino tremante e dall’aria confusa. Cosa credeva di fare senza soldi, Yuri, al cospetto del ragazzo più avido e materialista della scuola? Non ci aveva minimamente pensato, era talmente in pensiero per il suo caro amico che non si era fatto il benché minimo problema per il pagamento. Non poteva permettersi quella dose, non poteva permettersi di salvarlo e si sentì inutile, uno schifoso parassita.

- Non li ho… - ammise con voce assente, tremante, Viktor lo guardò con aria schifosamente stupita e contrariata. Otabek era molto indebitato nei suoi confronti, ma era stato clemente con lui. Sapeva che non viaggiasse in acque neppur lontanamente calme e gli aveva concesso di posticipare il pagamento di numerose dosi, i debiti che aveva accumulato arrivavano a cifre quasi vertiginose per due studenti del liceo. Non sapeva cosa stesse accadendo ad Otabek in quel preciso istante, soffocato da vomito e sangue mentre si contorceva in preda a spasmi di dolore, ma non sarebbe stato di nuovo così comprensivo. Il fatto che non avesse neppure la faccia per affrontarlo, ma avesse mandato un ragazzino dallo sguardo innocente, a ritirare una dose lo mandò su tutte le furie. Non aveva intenzione di graziarlo ancora una volta.

- Allora nulla, ragazzino. – si rimise la bustina in tasca e la infilò nell’imbottitura della giacca, poi, senza aggiungere altro, si apprestò a tornare dal suo amato che lo attendeva a tavola. Yuri sussultò, non poteva permettere che lo lasciasse senza eroina, che lasciasse morire Otabek così. Gli afferrò il braccio senza pensarci due volte, tremante e spaventato per la sorte del suo compagno. Viktor si voltò schifato, infastidito da quel gesto a suo avviso troppo arrogante.

- Ti prego, ne ha bisogno! Otabek ne ha bisogno ora!- non si rese neppure conto di ciò che stava dicendo, né riuscì a controllare quella nota di disperazione che gli riempì la voce. Non l’avrebbe lasciato andare senza aiutarlo, non avrebbe abbandonato Otabek al suo destino e pur di proteggerlo era arrivato addirittura ad umiliarsi in quel modo irrefrenabile ed esilarante. Viktor trattenne una risata sprezzante, lo trovava ridicolo esattamente come il suo amico morente. Entrambi disperati e volubili, una feccia.

- Ora come ora per me può pure crepare, ok? – il suo sguardo freddo fece rabbrividire il giovane Yuri, quelle parole gli fecero male. – Mi deve una barca di soldi, sai cosa m’importa di come stia? – sbuffò come fosse spazientito, si passò una mano tra i capelli e si sistemò l’ordinato ed elegante ciuffo argentato che gli ricadeva sul viso. Non aveva altro da aggiungere ed era stanco di discutere con quell’inutile ragazzino, voleva tornare dal suo Yuri, non gl’importava di lasciare l’altro nei guai. – Ora devo andare, mi hai fatto solo perdere tempo.- Yuri provò a trattenerlo ancora, ma Viktor non gli diede minimamente ascolto. Fiero e sicuro del suo potere, del suo prestigio, decise deliberatamente di abbandonare quei poveri disgraziati al loro destino, avido di una ricompensa che loro non potevano concedergli.

Yuri si ritrovò improvvisamente più solo che mai. Il frastuono della mensa affollata si placò improvvisamente, nella sua fragile e delicata mente alleggiava solo il più spaventoso dei silenzi. Un ammassarsi di pensieri assordanti, la confusione, l’ennesima dolorosa ed inaccettabile sensazione di abbandono, sconforto. Non sapeva più che fare. Il dolore di Otabek, i suoi gemiti angoscianti, la sua disperata richiesta di aiuto lo tormentavano. Non era riuscito a salvarlo e mentre lui se ne stava immobile a fissare il potente Nikiforov che si allontanava, il suo amico pativa il peggiore dei dolori. Era stato uno sciocco, Yuri, a chiedergli di compiere un suicidio simile. Non immaginava neppure quello che la droga potesse fare, non si aspettava che rinunciare all’ebrezza dell’eroina anche solo per poco tempo potesse ridurre un ragazzo in uno stato talmente pietoso. Era forse convinto, nella sua fragile ingenuità, che la droga fosse solo una medicina, proprio come quelle che era costretto a prendere lui stesso. Otabek gli aveva detto che l’eroina serviva a dimenticare, che alleviava i dolori, e non aveva potuto non accostarla ai suoi antidepressivi. Quando gli erano stati prescritti, lo psichiatra gli aveva giurato che l’avrebbero aiutato a dimenticare e a stare meglio, ma non avevano mai realmente fatto effetto, esattamente come non sembrava fare effetto l’eroina su Otabek. Era disperato, Yuri, giunto al limite della sopportazione. Voleva solo stare bene, voleva che quell’ansia andasse via, voleva avere il suo amico sano e cosciente, voleva che quel delirio di angosce finisse. Ed era ormai pronto a tutto per proteggere il suo caro amico, che a sua volta era ormai allo stremo, svuotato da quel dolore che voleva allontanare. Vomitava ininterrottamente, si contorceva, i muscoli erano pervasi da spasmi dolorosi, violenti e improvvisi.
Pensava a Yuri come ad un angelo, alla sua venuta come un miracolo e, nonostante non avesse fede in nulla che non fosse il dolore, pregava affinché potesse avere le sue tanto gentili attenzioni. Pregava affinché non l’avesse abbandonato lì, nel sangue, nel dolore, pregava di non essere più solo e intanto Yuri si dannava per poterlo aiutare. Corse in classe, voleva urlare, voleva chiedere aiuto, ma come al solito nessuno gli avrebbe dato ascolto. A nessuno importava dell’inutile biondino scontroso e solitario. Decise di compiere una follia, una follia che avrebbe potuto condannare ad una serie di spiacevoli inconvenienti sia lui che l’amico. Ma se non poteva chiedere aiuto a nessuno, compiere una follia era la sua unica soluzione. Fortunatamente in aula non trovò nessuno, neppure il professore, così poté agire completamente indisturbato senza essere colto in fragrante. Si avvicinò al suo zaino è frugò frettolosamente e ansiosamente nella tasca anteriore. Né tirò fuori una scatolina colma di pillole, che si portava costantemente dietro nonostante non volesse mai prenderle. Da quando gli era stata diagnosticata quell’innominabile, peculiare e mutevole malattia quale era la depressione, sentiva il costante e irrefrenabile desiderio di avere quelle pasticche con sé, eppure le prendeva raramente, fin troppo raramente. Le strinse al petto, le strinse tra le mani, e il desiderio di prenderne una si fece forte, la vana speranza di poter stare meglio non lo abbandonava. Erano medicine per la mente, che servivano a dimenticare e a stare bene. Non erano, appunto, tanto diverse dalla droga. E seppur fosse un rischio, era l’unico modo che gli venne in mente per aiutare il suo amico anche solo a stare vagamente meglio. Si mise la scatolina in tasca, si lasciò andare in gemito disperato, carico di ansie e paure. Era troppo fragile per sopportare tutto quello. La corsa in bagno fu tanto breve quanto angosciante e ansiogena, Yuri correva col fiato sospeso, un nodo a soffocargli la gola.

Otabek era ancora lì, devastato da dolori umanamente inconcepibili, sveglio, ma non cosciente, tremava come se stesse gelando. Una vista rivoltante, sembrava essere sul punto di morire tanto era bianco in volto, gli occhi erano svuotati della loro luce vitale. Yuri non era più abituato a tutto quel dolore, il sangue gli faceva ribrezzo, lo terrorizzava, quella situazione era per lui devastante. Otabek si accasciò a terra, il suo amico dalla pelle diafana al suo fianco gli passò tremante una mano tra i capelli fradici e spettinati, un disperato quanto delicato gesto per alleviare quelle infernali pene. Tremava come una fogliolina in autunno, fragile e dimenticata, il piccolo Yuri mentre tirava fuori una delle sue pillole dalla scatola. Gli occhi di Otabek non erano vigili, neri come la pece, sembravano morti. Non vedeva, non sentiva, non capiva. Yuri gli prese il viso tra le mani, la pelle ruvida e secca dell’altro gli apparve stranamente più morbida e delicata. Yuri non riusciva a smettere di piangere, i singhiozzi asfissianti gli facevano morire tra le labbra ogni parola di conforto. Otabek non sentiva nulla, neppure le tenere carezze dell’amico o le sue ingenue suppliche.

- Otabek… a… apri la bocca…- lo stomaco prese a bruciargli come l’inferno, divorato dalla paura più cieca. Non provava una sensazione tanto orrenda da mesi. Otabek non lo ascoltò, i muscoli contratti dal dolore erano pervasi dai soliti violenti spasmi, Yuri temeva addirittura che potesse fargli male. Ma Otabek non l’avrebbe mai fatto, non avrebbe mai fatto del male a nessuno, in particolar modo a quell’angelica creatura dagli occhi smeraldini. – Per favore… - Yuri, terrorizzato, riuscì ad infilare a forza la pasticca tra le labbra di Otabek e questi la ingerì in preda alla disperazione. La follia era compiuta, restava solo da sperare che non sarebbe accaduto nulla di grave.

Yuri si accasciò contro una parete, lasciandosi andare in un gemito disperato di terrore. Lo stomaco faceva male, gli occhi gonfi di pianto bruciavano come l’inferno e i lamenti incessanti dell’amico lo ferivano come la punta di mille aghi sul cuore. Lo fissava senza il coraggio di intervenire, attendeva che la pillola che gli aveva dato facesse effetto, attendeva un segno, un qualsiasi segno. Se ne stava rannicchiato, la testa sulle ginocchia, come faceva sempre per isolarsi dal mondo. Si richiudeva nel suo piccolo spazio e tremava, aspettava solo che il male che c’era attorno a lui svanisse, rimaneva chiuso in sé stesso finché non si sentiva al sicuro. Otabek aveva la mente che era un tripudio di caos, talmente tanto confusa da mescolare il dolore più cieco ai più indecifrabili deliri, respirava piano, pacato, come se facesse fatica a prendere aria. Era pervaso da una sensazione strana, indescrivibile, che mai aveva provato prima. Il dolore era lancinante, ma era un dolore lontano e confuso, lo percepiva più potente che mai, ma sembrava come fosse un sogno. Era un dolore strano, acuto, ma pur sempre strano. Yuri tremava come se riuscisse a percepirlo a sua volta in tutto il suo orrore. Il dolore di Otabek non si placò mai, ma la pillola ebbe un lieve effetto su di lui, quanto bastò per calmarlo e alleviare la confusione che gli annebbiava la mente. Era come se qualcosa avesse rimesso in ordine i suoi pensieri come fa un magazziniere con la merce. Nel giro di poco aveva la mente sgombra, buia, vuota, si ritrovò immerso nel silenzio più armonioso e soave, riaveva il controllo del suo corpo, dolente e rotto, e riaveva la percezione del mondo attorno a sé. Era fradicio di sudore, ma aveva freddo. Sentiva un lamento, flebile, tremendamente angosciante e candido, una triste ninna nanna a risuonare nel silenzio che gli si era creato attorno. Vide così lo splendore dei prati del suo Kazakhstan, verdi come la speranza, e l’oro del sole splendente simbolo fiero della sua patria. Riconobbe Yuri per i suoi occhi incredibilmente sofferenti, ma tanto coraggiosi da incutere timore, sembrava un soldato. Un soldato piangente.

- Yuri… - lo chiamò con un fil di voce, roca, profonda, rotta, devastata dal dolore che non accennava a lasciarlo. Yuri ebbe un fremito, sollevò titubante il capo e i loro occhi, arrossati, gonfi, stanchi e tristi s’incontrarono in un armonioso attimo di pace. Yuri non aveva il coraggio di sorridere, Otabek non né aveva la forza, ma entrambi avrebbero desiderato farlo. Entrambi, in quell’istante, si sentirono più sollevati nel trovarsi l’uno accanto all’altro. – Cosa mi hai dato..? – Yuri strinse a sé la scatolina, poi chinò di nuovo il capo e la nascose frettolosamente sotto la felpa. Le mani tremanti e una scintilla di spiacevole dolore che s’accese nei suoi occhi fecero allarmare Otabek, che di dolore ne stava già subendo abbastanza.

- Nulla… - tentò di sbrigarsela il ragazzino, la voce sottile era spezzata dalla paura. Non era pronto per raccontargli la sua storia, non voleva che scoprisse la sua malattia, non voleva essere giudicato. Chi a scuola sapeva della sua depressione lo derideva, lo umiliava, e non sopportava più tanta cattiveria. Gli avevano detto che solo i pazzi andavano dallo psichiatra e che di conseguenza solo i pazzi prendevano gli psicofarmaci. E non voleva più essere giudicato come un pazzo.

- Yuri… - si stava preoccupando, Otabek, sia per sé stesso che per Yuri. Non avrebbe mai dovuto mandarlo da Viktor, non avrebbe dovuto lasciare che s’intromesse nel suo giro deplorevole. Vedeva la paura nei suoi occhi e temeva che gli fosse accaduto qualcosa per colpa sua e della sua schifosa astinenza. Tentò di tirarsi su, le gambe tremanti e i nervi tesi che gli bruciavano in corpo, e si trascinò accanto a lui. Yuri si rannicchiò su sé stesso, non gli avrebbe permesso di prendersi le pillole. Otabek allungò un braccio verso di lui, non sapeva neppure se fosse per abbracciarlo o per recuperare la scatola che stava nascondendo, Yuri si allontanò di scatto. – Che mi hai dato, Yuri..? – i loro sguardi s’incontrarono di nuovo. Otabek lo guardò preoccupato, gli occhi stanchi e smorti lo squadravano con una dolcezza a cui Yuri non era abituato. Aveva paura fosse arrabbiato, ma si accorse immediatamente di quanto fosse in realtà comprensivo e gentile. Yuri trattenne un singhiozzo, non riusciva a nascondere i propri mali davanti agli occhi amorevoli del suo amico. Tirò fuori titubante la scatola, Otabek esitò, poi ebbe un fremito. – A… Antidepressivi...?

– Otabek non sapeva se essere sorpreso o allarmato. Yuri non disse nulla, rimase rannicchiato, con il capo chino e lo sguardo mortificato perso nel vuoto. Non sapeva che reazione aspettarsi e questo gl’incuteva ansia. – Come li hai avuti..? – Otabek avvicinò cautamente la mano al suo viso, gli accarezzò la guancia con la delicatezza di una madre. Lo vedeva così spaventato, non voleva soffrisse anche lui.

- Sono miei. – rispose secco, con gli occhi fissi nel vuoto, in cerca di conforto. Non aveva il coraggio di guardarlo, eppure desiderava la sua comprensione e quella calda mano sul suo viso lo faceva sentire quasi meglio.

- Come sono tuoi? – Otabek non aveva la più pallida idea di come sentirsi. Guardava quei suoi occhi spenti e spaventati e vedeva in loro la fragilità e la tristezza di un bambino abbandonato. Per arrivare al punto da prendere psicofarmaci vuol dire superare il limite della stabilità psicologica, vuol dire essere rotti dentro, spezzati, vuol dire aver sofferto e star soffrendo troppo per vivere una vita tranquilla. Yuri aveva gli occhi di chi ha l’anima rotta e lacerata, Otabek, nel suo essere a sua volta instabile, voleva proteggerlo da qualsiasi ombra annebbiasse il suo essere.

- M… mi servono…- voleva chiudere quella conversazione, non voleva parlarne. Era felice di vedere che Otabek stava meglio, o almeno quanto bastava per riuscire a ragionare. Voleva godersi quegli attimi di pace senza pensare ad altro, senza ricordare, voleva solo abbracciare il suo amico e vivere quel momento in tranquillità. Ma Otabek, che aveva gli occhi profondi e indecifrabili, aveva un viso tanto preoccupato quanto premuroso e non avrebbe mai ignorato l’argomento. Yuri ebbe un fremito.

- Che ti è successo Yuri..? – Otabek incuteva quasi timore, una presenza vaga e silenziosa, vuota e imperscrutabile, eppure celava il cuore d’oro di un angelo. Yuri si sentiva protetto con lui accanto, non lo temeva e non lo disprezzata. Esitava perché aveva paura del suo passato e non aveva il coraggio di riviverlo. Distolse lo sguardo, Otabek gli prese delicatamente il volto tra le mani e lo costrinse a guardarlo. I suoi occhi neri come la pece apparivano incredibilmente caldi. – Ti prego, dimmelo. – Yuri esitò ancora, il suo sguardo era ipnotico, la sua voce un’armoniosa e profonda melodia.

Cominciò a piangere, prima piano, poi sempre più forte e disperato. Ricordava ancora tutto, ogni singola dettaglio del suo dolore. Ricordava la paura, la sensazione di abbandono, ricordava gli incubi e i pianti, ricordava il bambino che era stato e che non sarebbe tornato più. Iniziò a singhiozzare pesantemente, sembrava sul punto di soffocare, tremava, nella sua testa vedeva orribili e macabre scene degne del peggiore dei film horror. Vita vissuta, vita vera, era la sua storia rivoltante e oscena.
Otabek sussultò, non si aspettava una reazione del genere, vederlo così era uno strazio per gli occhi. Provò ad avvicinarsi a lui, provò ad avvolgerlo tra le sue braccia, macchiate di peccato, voleva farlo sentire al sicuro. Ma Yuri si allontanò, si rannicchiò ancor di più e piangeva, piangeva come non mai. Cercò di trattenere un gemito strozzato, improvvisamente il ricordo del suo dolore si fece vivo come non lo era mai stato.

Lui non aveva una madre, l’aveva avuta, ma quella se n’era andata con chissà chi quando lui era ancora troppo piccolo per ricordarsela. Non aveva mai avuto nessuno che tenesse davvero a lui, suo padre l’aveva tenuto solo perché era l’unico ricordo di un amore che aveva inseguito disperatamente e che aveva perso in pochi anni.
Era un oggetto, il piccolo Yuri, e come tale veniva trattato. Parlava pochissimo, quando iniziò ad andare a scuola sapeva molte parole in meno rispetto ai suoi compagni, pretesto per essere chiamato stupido o idiota. Yuri non era un bambino stupido, anzi, le maestre lo notarono subito. Semplicemente non aveva avuto nessuno che badasse ad insegnargli le basi della vita. Era magro, uno scricciolo, e mangiava poco e male, sia a scuola che, soprattutto, a casa. Non aveva giocattoli, non aveva amici, e passò i primi anni della sua vita nel buio e nella solitudine. Il piccolo Yuri, però, godeva di una bellezza che tutti gli altri bambini non potevano fare a meno che invidiare. Aveva preso tutto dalla madre, i lineamenti dolci e morbidi, i capelli morbidi e dorati, e labbra di un rosa invitante e genuino, gli occhi felini e docili di un gattino abbandonato. E quando un bambino dalla bellezza fin troppo matura per la sua età cresce sotto lo stesso tetto di un uomo mentalmente instabile, devastato dal dolore del perduto amore, tenuto in vita solo da bottiglie di alcool, la tragedia è solo che inevitabile. Un bambino magro, esile, troppo spaventato dal mondo, non poteva in nessun modo reagire quando un uomo grande, possente e pazzo andava a mettergli le mani addosso. Forse non capiva neppure, il piccolo Yuri, quanto quel dolore fosse straziante e indelebile. Non sapeva che quegli abusi sarebbero stati il suo incubo per sempre. Le prime volte, ricorda, aveva fatto davvero male, un dolore troppo straziante per essere anche solo vagamente ricordato. Un bambino, un angelo innocente, che si ritrova a subire una violenza troppo adulta da parte di chi, invece, avrebbe dovuto proteggerlo. Per il piccolo Yuri gli abusi erano una punizione, nulla di più e nulla di meno rispetto alle bacchettate che riceveva dalle maestre quando faceva un errore in un compito. Era una realtà che per lui era fin troppo quotidiana, nella sua mente innocente quello era un male che spettava a tutti i bambini disubbidienti. Nel suo piccolo mondo, gli stupri erano la normalità e anzi, accusava sé stesso di essere un debole quando quel dolore diventava insopportabile. Vedeva gli altri bambini correre e giocare, mentre lui doveva rimanere seduto, perché faceva troppo male. Quanto poteva essere doloroso per un bambino rifiutare di giocare perché quella sofferenza che provava era troppo forte? Un bambino che del mondo non conosce ancora nulla, come può sopportare un’oscenità simile? Aveva paura di tutto, perfino della sua ombra, e si vergognava della sua debolezza. Era convinto di essere un bambino cattivo, nonostante il suo essere mite e delicato. Era sottomesso e fragile in qualunque situazione, voleva essere un bambino ubidiente ed essere amato, non voleva più quelle punizioni. Eppure più s’impegnava per essere un figlio modello, più le violenze ingiustificate aumentavano. E crescendo si sentiva sempre più inutile, disgustoso e il dolore cominciava a lasciar spazio anche alla vergogna. Più cresceva, più la consapevolezza che tutto ciò che viveva fosse sbagliato si faceva largo in lui. Più cresceva e più le violenze non si risparmiavano e più cresceva più il desiderio di ribellarsi si faceva forte. Eppure non ci riuscì mai. Accucciato lì, sul pavimento del bagno, sentiva le gambe bruciare come l’inferno, le cicatrici che gli aveva lasciato suo padre non sarebbero mai guarite. Yuri piangeva disperato, le gambe tese, si teneva stretto ad Otabek come aveva fatto ai poliziotti quella sera, sentiva ancora il sangue scorrergli tra le cosce.

- Yuri…- Otabek lo teneva stretto a sé, gli accarezzava i capelli, lo accudiva come fosse un figlio. Yuri teneva il viso poggiato sul suo petto, le sue braccia lo avvolgevano teneramente e si sentiva al sicuro, come in una fortezza indistruttibile. Teneva gli occhi chiusi e non aveva il coraggio di riaprirli. Vedeva in piedi, davanti a sé, gli occhi assetati di sangue del padre, quella notte, mentre Yuri si stringeva ai poliziotti.

Aveva parlato, Yuri, a quindici anni trovò il coraggio di reagire. A scuola continuava ad essere molto bravo e aveva stretto uno strano ma confortevole rapporto di fiducia con il suo professore di arte. Yuri amava l’arte, amava il disegno, amava l’ideale poetico dei colori e delle linee, esprimeva tutte le sue parole nelle sue opere stravaganti e uniche. A lui disse tutto, di come suo padre lo prendesse, lo spogliasse e poi l’aveva visto inorridire mentre gli raccontava di ciò che gli faceva. Spesso lo implorava,
Yuri, gli chiedeva pietà perché quel dolore era troppo insopportabile. Suo padre lo guardava con disprezzo e gli diceva che lo meritava, meritava tutto quel male e anche di più. Il lavoro che aveva fatto sul giovane e fragile Yuri era un vero e proprio lavaggio del cervello. Gli ripeteva che anzi, lui era fin troppo buono e lo risparmiava, che avrebbe meritato più dolore ma che lui lo proteggeva. L’aveva convinto che in realtà fosse dalla parte del bene e per un po’ Yuri ci aveva creduto. Poi aveva raccontato tutto e suo padre lo scoprì prima ancora che potessero intervenire per aiutarlo. Quella sera il giovane Yuri conobbe l’inferno. L’avrebbe ucciso, ne era convinto, gli avrebbe squarciato la gola così che non potesse parlare più. Ma ucciderlo era troppo semplice, quell’uomo, pazzo e furioso, doveva distruggerlo. E così fece. La polizia irruppe in casa quella sera stessa e si trovarono davanti la scena più straziante della loro vita. Yuri era sempre stato un ragazzino fragile, vederlo ridotto in uno stato tanto pietoso era un colpo al cuore. I poliziotti lo portarono in ospedale che era completamente viola per il freddo e per le botte subite, le gambe erano un lago di sangue.
Se c’era un qualcosa di ancora innocente in lui, non esisteva più. Quello che aveva subito nella sua vita non può essere raccontato, nessuno ci riuscirebbe, ma il dolore che i suoi occhi trasmettevano era fin troppo chiaro. Rimase in ospedale qualche mese e in quel periodo gli venne diagnosticata una gravissima forma di depressione e una leggera psicosi, prendeva più medicine che cibo. Saltò un anno di scuola, poi ricominciò sotto consiglio dello psichiatra stesso. Venne mandato in una casa famiglia, circondato da disgraziati come lui, si sentiva al sicuro lì ma era solo. Aveva bramato l’affetto di qualcuno da quando era nato e finalmente aveva trovato qualcuno che, in pochi giorni, si era affezionato a lui. L’abbraccio di Otabek era un sogno che finalmente era diventato realtà. Stava prendendo la decisione più importante della sua misera e sconvolta vita. Voleva dirgli tutto, voleva la sua comprensione e voleva essere protetto. Sperava di essere capito.

- Mio papà…- sussurrò, tremante e spaventato, si teneva stretto ad Otabek disperato, questi lo accarezzava teneramente. Contrasse le gambe e trattenne un gemito, sentiva dolore, sempre lo stesso, sempre più forte. Otabek aveva capito, ormai, e non aveva la forza di dire nulla, non aveva il coraggio di accettare l’idea che il suo caro e fragile amico avesse subito un male simile. Non lo trovava umanamente accettabile, abusare di un ragazzino come lui. Yuri singhiozzava disperato, voleva urlare, ma la presenza di Otabek lo calmava quel minimo che bastava per mantenere il controllo.

Il moro non ce la faceva a sentirlo piangere. Gli faceva male al cuore, era una sofferenza insopportabile, perfino maggiore dei dolori che lo laceravano da capo a piedi. Vedere quel viso meraviglioso e puro ridotto ad un pianto tanto disperato era tremendamente triste. Gli passò una mano tra i capelli, poi gli accarezzò la guancia e avvicinò il viso al suo. I loro sguardi s’incontrarono, Yuri si perse nella profondità dei suoi occhi, voleva solo fuggire dai suoi ricordi. Entrambi rimasero incantati alla vista dell’altro, entrambi vantavano visi peculiari e incantevoli. Otabek gli prese delicatamente il mento tra le dita e Yuri placò il suo pianto. Nessuno dei due voleva spezzare il contatto dei loro sguardi, nessuno dei due voleva separarsi da quell’abbraccio tenero, cado e confortevole. Le morbide e delicate mani del biondo dal viso fatato si posarono sulle guance scavate del duro Otabek, entrambi bramavano comprensione, affetto, amore. Avvicinarono le labbra l’uno a quelle dell’altro, e si baciarono. Non dissero nulla, non ne sentivano la necessità. Avevano bisogno l’uno dell’altro, non serviva altro. Si scambiarono un bacio dolce, amorevole, interminabile. Nessuno dei due aveva il coraggio di interrompere quel momento, nessuno dei due voleva separarsi dalle labbra dell’altro. Era una sensazione meravigliosa che non avevano mai provato, una gioia indescrivibile. Otabek lo stringeva a sé, Yuri gli accarezzava i capelli arruffati e scuri. Si sentivano al sicuro, si sentivano felici.

- Ti amo… - sussurrò Otabek, il cuore colmo di una dolcezza che aveva dimenticato di avere. Non pensò neppure a quelle parole, gli vennero dritte dal cuore, sincere, quel sentimento dolce era tanto vero e potente da riempire il vuoto che il dolore aveva lasciato in entrambi. Yuri non disse nulla, singhiozzava ancora, ma non piangeva più. Non sapeva cos’era l’amore, ma era sicuro di amarlo a sua volta.

E così iniziò il percorso che portò entrambi alla felicità. Insieme, devastati dai propri mali, si fecero carico del dolore l’uno dell’altro mentre un amore delicato e fine li unì in un legame indistruttibile che di lì a qualche anno li avrebbe portati a vivere una vita tranquilla, fatta di affetto e dolcezza. In breve, questa è la storia di come si conobbero, del dolore che li accumunava e del reciproco desiderio di redimersi, di come nacque un tenero amore che durò fino alla fine del mondo. 

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