Il Pirata delle Sette Onde

di Aiqul Marnerazver
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione al libro ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Introduzione al libro ***


Vi è mai capitato di ascoltare una storia già sentita?
Una di quelle favole che si raccontano ai bambini per farli dormire, o attorno un fuoco per spaventare gli amici, o magari una di quelle storie che si leggono solo per piacere personale.
Scommetto che vi è capitato, almeno una volta nella vita, di sentir parlare di un pirata, un pirata famoso per la sua ferocia, o per le sue strane abitudini. Vi è capitato di sentir parlare di lui, di Barbanera. Già, Barbanera, il pirata più famoso dei Caraibi, il più spietato di tutti, giusto?
Sbagliato.
Era molte cose, ma di certo non era spietato. Di certo non era il più noto per la ferocia, ma per le strane abitudini sì. Per esempio, lo sapevate che amava attaccare delle micce accese al suo cappello solo per incutere timore ai suoi nemici? O che aveva la barba così lunga che spesso se la legava alle orecchie? O che durante i combattimenti indossava una fascia intorno alle spalle con appese tre paia di pistole complete delle loro fondine?
No, magari non lo sapete. Né sapete qual era il suo cognome, se Teach, Drummond, Thatch, Tirsh o Dirmmon. Né sapete che si sposò in tutto quattordici volte, che fu graziato da Re Giorgio I d’Inghilterra, per poi tornare alla pirateria poco dopo.
Ma io ricordo tutto. È difficile scordare. È difficile dimenticare una vita così, soprattutto quando sei costretto a vagare per sempre nell’oceano per colpa di un maleficio. Ma io, Edward, Barbanera, o come mi volete chiamare, non dimentico, e non dimenticherò mai.  Mi credete cattivo? Un malvagio? Un tiranno?
Seguitemi allora, fate compagnia ad un povero vecchio marinaio maledetto, e vi dimostrerò che vi sbagliate.

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Capitolo 2
*** Prologo ***


Direi di partire da un breve riassunto della mia giovinezza, che ne dite?
Dunque, sono nato a Bristol, Gran Bretagna, il quattro luglio 1680, da una famiglia del basso ceto borghese. Mio padre possedeva un’industria tessile dove lavoravamo io, le mie tre sorelle e mio fratello, e un pezzo di terra da coltivare per guadagnare quel po’ di cibo fresco che il mercato non riusciva sempre a fornire. Io, teoricamente,  ero il secondo genito, ma siccome mio fratello maggiore era morto in tenera età, avevo preso il suo posto prima ancora di saperlo. Le mie tre sorelle minori, Margareth, Emily, e Mary, lavoravano tutte insieme a mia madre, mentre mio fratello minore, il più piccolo della famiglia… beh, lui non lo ricordo molto bene, aveva solo quattro anni quando lo lasciai.
Infatti non mi piaceva per niente l’ambiente in cui vivevo. Non era colpa dei miei genitori: loro erano buoni con noi, ma c’era qualcosa di sbagliato nella nostra famiglia. Primo, non eravamo tutti davvero fratelli. Non che i nostri genitori non si amassero, ma non sempre erano fedeli fra loro: mia madre ebbe me da un altro uomo di cui non volle mai rivelare il nome, ragion per cui io non ho un vero cognome, e mio padre si vendicò avendo le mie sorelle da tre donne diverse. L’unico vero figlio che abbiano mai avuto è morto anni fa, ma nessuno in famiglia ne parlava mai. Si viveva abbastanza bene quando non si parlava, noi figli ci consideravamo fratelli e sorelle e i miei genitori facevano finta di non aver mai infranto i vincoli del matrimonio.
Perché me ne sono andato allora, vi starete chiedendo. Beh, sappiate che non fu un’azione molto consapevole: era il mio diciassettesimo compleanno, e mia madre, che mi amava con tutta sé stessa, aveva convinto il suo coniuge a mandarmi su una nave per tentare la fortuna altrove, così mi imbracai su un mercantile inglese per qualche anno, per poi tornare a casa a lavorare e a incrementare la produzione con i soldi che avevo guadagnato.
Ma ormai il danno era fatto, e io mi ero innamorato. Mi ero innamorato del vento sulla faccia, dell’odore della salsedine, del legno di una barca e della ferocia dell’oceano impetuoso durante la tempesta. Mia madre lo aveva capito, mi vedeva sempre più irrequieto, sempre più smanioso di andare. Penso che mio padre fosse un marinaio, e che lei sapesse che, un giorno, io sarei stato richiamato dal mare. Fu così che, all’età di trent’anni, mi arruolai nella marina inglese. Volevo combattere, volevo fare la differenza, volevo vincere e ricevere la gloria. Ed è qui che iniziò il mio viaggio.

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Capitolo 3
*** Capitolo 1 ***


Una secchiata d’acqua gelida mi investe in pieno, qualcuno rovescia la mia branda e finisco sul pavimento legnoso e ondeggiante.
«Sveglia, marinaio! Spagnoli a babordo! Muoversi!»
Subito mi alzo in piedi, ringraziando di non essermi tolto gli stivali ieri sera, e mi precipito sul ponte della nave, dove molti altri marinai corrono di qua e di là per girare le vele.
«Muoviti, aiuta a caricare i cannoni, svelto!» mi urla uno degli ufficiali. Indossa la divisa al completo, inclusa la giubba rossa e il cappello, da fiero Royal Marine qual è. I buoni, vecchi Royal Marines, coloro che mantengono l’ordine sulle navi frustando chiunque si opponga a loro e guadagnando tutta la fama delle imprese di noi marinai. Tutta la ciurma li odia, nonostante senza di loro non sapremmo mai coordinarci: a volte è un bene avere qualcuno che abbia rispetto e potere, anche se lo ha ottenuto con la forza. Ci vuole disciplina su una nave, specialmente una nave come questa. Siamo su un vascello a tre alberi, quattro se consideriamo anche il bompresso, l’asta diagonale che sporge dalla prua, tutti forniti di vele quadrate e triangolari: un vascello di terza classe, con settantaquattro cannoni a bordo e 521 uomini fra ciurma e comandanti. Non proprio facile da gestire, soprattutto quando i membri della ciurma vengono da ogni parte del mondo e non amano essere comandati. La maggior parte di noi è qui perché ha bisogno di soldi, i pochi rimanenti sono quelli considerati stupidi bambini in cerca di avventure immaginarie che presto capiranno come funziona la vita vera. Personalmente, sono nel secondo gruppo.
Subito mi fiondo nella stiva, dove molti altri uomini stanno prendendo delle palle di cannone da portare sul ponte. Cerchiamo di formare una catena, per portarle sul ponte nel minor tempo possibile. Sembrerebbe più facile portare delle palle di ferro così piccole e relativamente leggere, circa uno o due chili l’una, sopra il ponte da soli, ma non è affatto così: il costante rollio della nave rende pericoloso per un singolo uomo portare più di tre palle di cannone alla volta, e noi dobbiamo fornire munizioni e polvere da sparo a tutti i cannoni di babordo, ovvero tutti quelli del lato sinistro della nave.
Sento un ordine, e vedo i pochi marinai con le mani libere che si chiudono le orecchie come possono. Sono su una nave da battaglia da poco, e non sono preparato alla decina di esplosioni contemporanee dei cannoni, che somigliano ai tuoni di una tempesta se sentiti da qui, nella stiva, dove anche un minimo sussurro è vittima dell’eco del legno della nave. Non c’è da stupirsi, quindi, se faccio cadere la palla di cannone che ho in mano direttamente sul mio piede destro, né se inizio ad imprecare e a saltellare in preda al dolore, né se gli altri membri della ciurma accanto a me ridono.
«Riprendi quel pezzo di ferro, Marmocchio, muoviti!» mi grida uno dei marinai, subito accolto dalle risate del resto degli uomini.
Non li biasimo per ridere di me, lo avrei fatto anche io, ma non mi piace quando mi chiamano Marmocchio. Lo so che è una cosa infantile, e che loro sono molto più esperti di me, ma anche io ho trentadue anni! Non proprio un moccioso, ecco. Una recluta, sì. Ma addirittura Moccioso? No, grazie.
Recupero la palla di cannone proprio mentre sento degli enormi boati, come se qualcosa di incredibilmente pesante e veloce avesse toccato l’acqua, e capisco che anche i nostri nemici stanno sparando, e che presto riusciranno a mirare bene. Subito passo la palla di metallo al marinaio alla mia destra e mi rimetto nella fila. Passa quasi un’ora, corredata da boati tonanti dei cannoni nemici e dei nostri, quando finalmente sento delle grida di vittoria provenire dal ponte, e un membro della ciurma addetto alle vele sbuca dall’entrata della stiva con un sorriso a trentadue denti. Ventinove, in realtà, visto che gli mancano due denti del giudizio e ne ha perso un altro in una rissa, o almeno così dicono.
«Li abbiamo presi, sei colpi nella bassa prua e due all’albero di maestra. Si sono arresi!» urla in preda alla gioia.
La ciurma strepita, lieta per non dover più sollevare oggetti pesanti, e si accalca per rovesciarsi sul ponte a vedere la nave semi-affondata. Provo ad affacciarmi anche io, ma la calca è così fitta che non ci riesco. Per un attimo penso di arrampicarmi su uno degli alberi verso la poppa per vedere meglio, ma ho paura che uno degli ufficiali mi cacci, o peggio, mi punisca. Per cui mi dirigo correndo verso l’albero di bompresso, quello più vicino alla prua, e mi ci arrampico finché posso, cercando di non sporgermi troppo per non cadere in mare. Con tutte le onde improvvise, non si sa mai.
La nave spagnola è anch’essa un vascello a tre alberi, ma con meno cannoni, probabilmente uno degli effetti della crisi interna dovuta alla guerra. Sopra l’albero di maestra è stata abbassata la bandiera dello stato ed è stata alzata una bandiera bianca, segno che si sono arresi. Conoscendo gli spagnoli, probabilmente quella non è che una camicia di uno dei membri della ciurma, visto che è raro che sia permesso di tenere una bandiera bianca nelle navi militari, in quanto l’arrendersi è considerato un sacrilegio. Ma naturalmente, tutti lo fanno comunque.
Vedo che gli ufficiali stanno iniziando a dare ordini ai marinai, dicendogli di tornare ai loro posti. Guardo di nuovo la nave spagnola. Probabilmente si stavano dirigendo verso una piccola isola che vedo in lontananza per fare rifornimento. È una dei piccoli isolotti dell’Oceano Atlantico che sono impossibili da tracciare, in quanto troppo piccole per essere trovate con precisione, ma molto utili se si vuole riparare dei danni alla nave. Sono catturato dalla vista del piccolo isolotto: si intravede solo una striscia biancastra, probabilmente la spiaggia, e una macchia grigia… una scogliera? Difficile da stabilire, visto che il tutto è avvolto dalla nebbia. Eppure… eppure sembra come se qualcosa si muova laggiù. Come se ci fosse un’altra nave che si stia allontanando dopo aver assistito alla battaglia. Penso di essermelo immaginato, ma poi intravedo una poppa di legno scuro scomparire nella nebbia, assieme ad un’enorme bandiera. Subito prendo il cannocchiale pieghevole che tengo sempre appeso alla cintura e guardo meglio. Sì, non mi sono sbagliato. È una bandiera nera, la bandiera dei pirati.
Sono appena giunto a questa conclusione quando la nave sparisce nella nebbia. Subito corro incontro al primo ufficiale che vedo, senza pensare ad altro, la mente invasa dal panico.
«Marinaio, torna nella stiva e prendi qualcosa per pulire i cann…» prova a dire quello, ma subito lo interrompo.
«Pirati!» dico, il fiato mozzo per la corsa e per il panico.
«Come, prego?» chiede quello.
«Pirati! A ore dieci! Vicino a quell’isola!»
Gli porgo il mio cannocchiale, che lui subito afferra, prima di farsi largo fra la folla che si sta ormai disperdendo. Lo vedo guardare attraverso le lenti, scrutare attorno all’isola. Vedo le sue sopracciglia inarcarsi, poi chiude il cannocchiale con uno scatto e mi guarda in modo severo.
«Faresti bene a tenere a freno la lingua, soprattutto su argomenti seri come questo!» mi sgrida. La sua voce è così arrabbiata che i pochi marinai rimasti sul ponte si girano a guardare, per poi sorridere alla mia vista.
«Ma io… era lì, si è nascosto nella nebbia, io l’ho visto!»
«Torna nella stiva, marinaio!» mi abbaia un altro ufficiale, «prima che ti insegni io a non dire bugie!»
Gli altri uomini ridono, e non ho altra scelta che ritornare nella stiva, dove l’intera ciurma ridacchia alla mia vista.
«Visto qualcosa di spaventoso, eh, Marmocchio?» mi dice uno dei marinai più vicini, scatenando un attacco di risa a tutti gli altri.
«State zitti, non c’è niente da ridere» gli rispondo, ma naturalmente scateno solo più risate.
«Magari un bel veliero?» mi grida un altro.
«O una vela nera?»
«Aveva un teschio sopra?» dice qualcuno, prendendomi per le spalle e scuotendomi forte, facendomi scappare un lieve grido acuto.
Tutta la ciurma ride, imitandomi, inventando nuovi nomignoli ancora più ridicoli. Mi divincolo con forza dalla presa del marinaio, e subito quello mi mette in mano un secchio pieno d’acqua e una scopa.
«Se hai tanta paura dei pirati, allora vai a pulire il ponte. Lucidalo per bene, così quando proveranno ad abbordarci scivoleranno, che ne dici?»
Altre risate.
«Vedrete!» urlo, la rabbia ben presente nella voce, «quando arriveranno io sarò pronto, e voi sarete ai miei piedi ad elemosinare aiuto, e vi giuro che non ve lo darò!»
Questo scatena altri attacchi di risa, se possibile ancora più potenti. Nessuno immaginava che facessi sul serio.

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Capitolo 4
*** Capitolo 2 ***


Mi stendo sulla mia branda, cercando una posizione che soddisfi i miei muscoli doloranti.
Dopo la battaglia di questa mattina, dopo essere stato deriso dai miei compagni e dopo aver sgobbato e imprecato come un demonio, diciamo che il mio umore non è proprio alle stelle. Mi giro verso la parete di legno della nave, affondando la testa nel sacco di paglia che mi fa da cuscino e tirandomi le coperte fin sopra la testa. Come la sera precedente, non mi tolgo gli stivali, né mi cambio i vestiti. Sono troppo stanco per farlo, inoltre questa notte voglio essere vigile, devo restare vigile.
Quella nave, quella nave di legno nero, quella vela scura che scompare nella nebbia… io le ho viste, ne sono sicuro. Non era un miraggio frutto dell’adrenalina o della paura come pensano gli altri. Io l’ho vista, e loro hanno visto noi. È un miracolo se non ci hanno attaccato fino ad ora, ma scommetto che stanno aspettando la notte apposta per abbordarci con il favore del buio. Ho cercato, mentre pulivo il ponte della nave, di riflettere, di pensare a che tipo di nave fosse, ma è difficile capirlo solo dalla vista di una poppa immersa nella nebbia. Ad ogni modo, non voglio dormire: se dovessero attaccarci, voglio essere pronto a riceverli.
Ma purtroppo, per quanto mi imponga mentalmente di non farlo, i miei occhi continuano a scivolare, le palpebre continuano a chiudersi… ma no, no, sveglio, devo restare sveglio. Molti mi definiranno testardo, ma in realtà si tratta solo di una ferrea disciplina: tutti coloro che ho mai incontrato, famiglia, amici che avevo a Bristol, commilitoni, tutti sono sempre restati stupiti di quanto la mia volontà sia forte e ferma. Probabilmente è per questo che, quando si tratta di gare di resistenza, sono sempre l’ultimo a cadere. Sorrido nel buio, ricordando delle sfide avute molti anni fa, quando ancora vivevo con la mia famiglia.
D’un tratto, un gemito mi riscuote. Sembra un grido soffocato, subito zittito da un rumore viscido e preciso. Mi congelo. I capelli sulla mia nuca si rizzano all’improvviso. Tendo l’orecchio più che posso, senza osare muovermi. Sento dei bisbigli provenire dalla botola dietro di me, quella che porta al ponte. Non resisto più.
Scatto silenziosamente in piedi, cercando di fare il minimo rumore possibile. Mi avvicino a passi leggeri verso la botola per sentire meglio, quando due voci mi fanno bloccare nuovamente per lo spavento.
«Lo hai sentito?» chiede uno.
«Cosa?» domanda un altro.
Rimangono in silenzio per un attimo, in ascolto. Io non oso nemmeno respirare, non mi muovo nonostante il crescente dolore alle gambe.
«Probabilmente nulla, solo uno scricchiolio»
«Ma quanto ci mettono?»
«Lo sai come funziona, sono lenti, il capitano vuole che si faccia tutto per bene prima di attaccare la ciurma vera e propria…»
«Io vado, non ce la faccio più ad aspettare. Saranno morti prima ancora di sapere cosa sia successo…»
«No, dobbiamo aspettare il segnale. Ora stai zitto, mi dai sui nervi con la tua impazienza!»
Ho sentito abbastanza. Lentamente inizio ad indietreggiare, cercando disperatamente un posto dove nascondermi. Dovrei almeno pochi secondi, se non qualche minuto prima che diano il segnale: evidentemente prima vogliono eliminare tutti i Royal Marines che sono sul ponte, per poi passare alla ciurma addormentata. È improbabile che ci uccidano tutti, ma sicuramente più della metà non farà una bella fine: siamo in troppi per le loro prigioni, e uccidere un po’ di uomini fa sempre comodo per intimorire i superstiti. Per un attimo penso di nascondermi nella stiva, magari in una cassa, ma poi scarto l’idea: da lì non riuscirei a capire cosa accade nel resto della nave, né dove andiamo, né riuscirei a fuggire in caso di bisogno, e di certo non voglio fare la fine del topo. Potrei nascondermi in una delle scialuppe di salvataggio, ma dovrei affrontare i due soldati all’ingresso della stiva, e sono sicuro che non ci riuscirei. Poi un’idea completamente diversa mi viene in mente: svegliare tutti. Questa è senza dubbio quella con più possibilità di sopravvivere. Ma qualcosa mi blocca, e il mio sguardo scatta veloce verso il viso del marinaio che mi ha scosso per le spalle poche ore fa, e tutto il piano precedente muta all’improvviso. Potrei svegliarli e provare a combattere contro i pirati: così probabilmente sopravvivranno più marinai, e forse, solo forse, riusciremo a tenere il controllo della nave. Oppure, mi sussurra una voce nella mia testa, potresti non farlo, e fargli pagare ciò che hanno fatto a te. Non è quello che desideravi, non è quello che gli hai detto giusto poche ore fa?
Mi mordo un labbro. Due proposte equamente allettanti, pochi secondi per decidere. Guardo di nuovo verso quelli che dovrebbero essere i miei compagni, poi lo sguardo mi scivola verso la grande cassa dove teniamo i vestiti sporchi. Al diavolo, penso. Mi dirigo verso la cassa, sempre con passi felpati, sollevo il coperchio e entro, richiudendolo dietro di me. Tutto il mio ragionamento non è durato che una ventina di secondi, quindi non c’è da stupirsi se i pirati non hanno ancora dato il segnale. Sposto i vestiti in modo che mi coprano del tutto, così che, se qualcuno apre la cassa, non mi vedrà. Sento i secondi scorrere lentamente, e rimpiango di non aver pensato ad un’alternativa migliore, o perlomeno più profumata, visto che stare chiuso in una cassa così piccola è già asfissiante di suo, ma qui con i vestiti sporchi e sudaticci di un’intera ciurma di marinai… non è piacevole, ecco.
Finalmente sento dei lievi scricchiolii risuonare grazie all’eco della nave, seguiti da dei lievi gemiti soffocati da delle mani esperte. Hanno iniziato ad uccidere la ciurma, proprio come immaginavo. Sono sicuro che ne ammazzeranno almeno una buona metà. La cosa non mi tocca molto: non mi sono imbarcato per ragioni nobili, non mi sono arruolato per amor della patria: l’ho fatto per amore del mare e dell’avventura, e nient’altro. Dopo le varie battaglie di terra e quella di questa mattina, non c’è da stupirsi se non provo più rimorso per le vite che tronco: se un uomo piange su ogni singola vittima che produce vuol dire che non è adatto per uccidere, e tutte le persone a bordo di questa nave non sono così.
Sento altri passi risuonare per le scale legnose, questa volta meno cauti e più decisi, e delle grida di marinai spaventati risuonano nel buio.
«Buongiorno! Dormito bene?» chiede una voce, seguita rapidamente da un coro di risate a me sconosciute. «Portateli sul ponte»  
Delle esortazioni concitate e dei passi impauriti mi fanno capire che sia i pirati che i marinai si stanno spostando sul ponte.
«Ci sono altri uomini a bordo?»
«Solo dei prigionieri spagnoli, capitano»
Capitano, eh? Interessante. La voce che ho sentito è chiaramente inglese. Quindi sia ciurma che capitano sono inglesi, il che mi fa capire subito dove faranno rotta dopo aver saccheggiato la nave: New Providence, la capitale inglese dei pirati inglesi. Niente di più che una piccola isola, ma brulicante di ogni genere di brigante, di tutte le lingue e nazionalità, ma soprattutto di ex-marinai britannici. Ma perché attaccare una nave da combattimento inglese? Mi ci vuole poco per arrivare alla risposta: i cannoni. Per i pirati i cannoni sono come l’oro, e riuscire a catturare una nave di questa portata e di questo carico è un bottino a dir poco magnifico.
Non sento più nessun rumore provenire dall’esterno e, con molta cautela, mi arrischio a sollevare lievemente il coperchio della cassa. Come immaginavo, non c’è nessuno in vista. Una ciurma pirata è molto meno numerosa di una normale, e devono tenere il controllo della loro nave più quello della nostra, per cui è improbabile che abbiano lasciato qualcuno qua giù. Sono indeciso se uscire o no, ma l’aria fuori dalla cassa è così invitante che non mi lascia scelta.
Sposto silenziosamente i vestiti e il coperchio e mi rimetto in piedi, grato di respirare finalmente dell’aria fresca. Rimetto in ordine la cassa, in caso la dovessi riutilizzare per nascondermi di nuovo (anche se dubito che accadrà) e mi avvicino alla botola per sentire cosa sta accadendo all’esterno.
«… buttati a mare, o sgozzati come gli altri, chiaro?» sta dicendo la voce che ho sentito prima, quella che deve appartenere al capitano pirata. «Ora andremo verso un’isola, seguite la nostra nave. Muoversi!»
Quindi avevo ragione, vogliono fare rotta verso New Providence, e hanno minacciato la ciurma. Un tipico assalto pirata, insomma.
«Hai qualcosa da dire, signor Giubba Rossa?» chiede di nuovo il Capitano in tono di scherno.
«Nessuno eseguirà i tuoi ordini qui» e sono sorpreso di sentire la voce del nostro Comandante. Devono averlo lasciato in vita come ostaggio, o come esempio nel caso la ciurma non ubbidisca: è meglio uccidere un ex-Comandante conosciuto da tutti piuttosto di un utile membro della ciurma.
«E chi lo dice? Tu? Non hai più potere qui» ribatte il capitano pirata.
«Siamo fieri marinai inglesi, la nostra volontà non si piega di fronte ad un vile pira…»
«Certo, certo» lo interruppe l’altro. «Allora facciamo così… tu e un altro marinaio sarete liberi di andare. Scegli tu»
Seguirono dei lievi mormorii increduli.
«Vieni qui» disse il Capitano, probabilmente riferendosi al marinaio scelto dal Comandante.
 Sorrido amaramente: in questo modo il pirata ha dimostrato due cose: che il Comandante non è fedele al suo credo e che non ci tratta tutti in modo equo, ma che ha delle preferenze. Mi arrischio a dare un’occhiata, per vedere chi ha scelto. Come immaginavo, ha scelto il marinaio che mi ha spaventato questa mattina, quello che lo tratta sempre esaltandolo in modi ridicoli, neanche fosse Re Giorgio I.
 «Uno di voi» dice il Capitano rivolgendosi alla ciurma, «può uccidere questo marinaio, e prendere il suo posto. Per lui sarà garantita l’immunità, e sarà lasciato in un porto sicuro, lontano dagli altri, da dove potrà tornare facilmente a casa. Volontari?»
Questi sono esperti, penso. In questo modo può capire quanta lealtà c’è all’interno della ciurma ora che non è comandata. Se qualcuno si offre volontario, vuol dire che preferisce essere un pirata che un militare. Sento il sangue pulsare nelle tempie, mentre cerco di prendere una decisione.
«Nessuno nessuno?» chiede il Capitano.
«Lo farò io» dico, salendo le scale.

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