Wearing nothing

di bluecoffee
(/viewuser.php?uid=227801)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. I ***
Capitolo 2: *** 2. II ***



Capitolo 1
*** 1. I ***




(I)
 
 
 
 
Batteva le unghie ordinatamente smaltate di bianco sul foglio della verifica di storia, incerta e concentrata sulla risposta che aveva appena finito di dare all’ultima delle quattro domande che doveva compilare per la professoressa e per mantenere la sua media alta. Reggeva la testa con una mano, le ciocche che normalmente le stavano davanti al viso appuntate dietro la nuca con una forcina ornata con piccoli diamantini bianchi. Le punte biondissime dei capelli che le sfioravano la base del collo, coperto dal colletto ordinato della camicia bianca della divisa scolastica.
Era fin troppo annoiata dalle lezioni per essere solamente Novembre.
Rilesse per l’ultima volta la domanda, la propria risposta e scelse che quella andasse bene, che fosse definitiva e che non le importava assolutamente nulla se avesse preso un voto inferiore alla sua iniziale aspettativa. Chiuse la penna che aveva mordicchiato per l’incertezza che non le faceva riportare la risposta finale, la infilò dentro il proprio astuccio e silenziosa prese lo zaino, infilandolo ad una spalla, avvolse la sciarpa pesante attorno il collo con un giro e camminò verso la cattedra decisa a consegnare il suo esito. Aveva lo stomaco che brontolava per la fame, perché durante la pausa non aveva mangiato per ripassare storia chiusa in bagno.
Gli occhi della professoressa la guardarono curiosa di ritrovarsi davanti la persona che pensava avesse consegnato per ultima, incerta se ritirare il foglio della verifica a dieci minuti dalla fine della lezione. Alla fine, dopo un attimo di indecisione, afferrò il foglio firmato che le veniva porto, inserendolo dentro la cartellina colorata da cui aveva estratto i fogli puliti, lasciando la ragazzina libera di andare in sala mensa.
In quindici anni non era mai uscita da un’aula a dieci minuti dalla fine della lezione, specialmente quando si trattava di dover svolgere un compito in classe. Specialmente se il compito fosse storia.
Dalla zip aperta dello zaino si intravedeva il libro di storia, lo stesso che la accompagnava ovunque da almeno tre giorni, sempre in ravvicinata compagnia del quaderno azzurro a quadretti troppo grandi che utilizzava per prendere appunti. Un angolo di una pagina di quaderno era persino macchiata di caffellatte, perché la mattina precedente suo fratello Terence le aveva fatto cadere il biscotto dentro la tazza e lo schizzo era arrivato fino al quaderno.
«Washington!», sentì una voce roca e bassa chiamarla, la suola di un paio di scarpe da tennis strusciare contro il pavimento e produrre un suono fastidioso. Al suo fianco apparve la camicia stropicciata di Jay ed i capelli scuri racchiusi in una crocchia. L’aveva conosciuto l’anno prima, Rosalie, seduta su una panchina davanti il cancello d’entrata della scuola, indecisa se entrare o meno, se accettare di essere cresciuta oppure no.
«Jay» ricambiò il saluto, composta ed equilibrata come non si era mai sforzata di essere, sicura di ciò che faceva anche quando si trattava di qualcosa di nuovo, incerta come quando si parlava solo di cose in cui non riusciva a capire se il suo parere fosse veramente richiesto.
Vicini, camminarono fino alla sala mensa, lo zaino di Rosalie che le pendeva ancora da una spalla e la tracolla del ragazzo che gli batteva su una coscia tonica, tipica da nuotatore. Faceva parte della squadra di pallanuoto da un anno ed era capitato sotto i riflettori dell’intera scuola solamente una volta, per via delle voci che l’avevano visto uscire dal bagno del terzo piano con una ragazza. Jay Campbell era un tipo solitario, parlava poco ed aveva la tendenza a chiamare le persone con il loro cognome, anche se fosse stato più comodo un piccolo diminutivo.
L’aula mensa occupava buona parte dell’ala est del piano terra. Era una stanza fin troppo grande per i pochi studenti che erano iscritti alla scuola, costellata di tavolini rotondi che ospitavano otto persone, ma che non andavano mai sopra i sei posti. Le pareti bianche erano state tappezzate di poster a grandezza naturale di inviti a mangiare cibo sano e salutare e ad una alimentazione equilibrata, assieme ad altri che annunciavano i calendari sportivi e tutti gli altri eventi della scuola, gli stessi che in formato più piccolo si trovavano anche per i corridoi ed alle bacheche in sughero al fianco delle varie aule. Il bancone con i cibi andava a prendere una delle due pareti più piccole, il vetro pulito e basso da cui gli studenti decidevano che mangiare e le due donne dietro che servivano coloro che si presentavano davanti con il vassoio.
«Mi prendi una bottiglietta di succo, per favore?» domandò Jay, dopo aver osservato che la ragazza stava andando verso il bancone per prendere il proprio pranzo.
Rosalie annuì, consapevole che il gusto fosse il solito che prendeva Jay, il quale si diresse ad uno dei tanti tavoli che erano ancora vuoti e che si sarebbero riempiti di lì a poco. Il tempo del pranzo teneva occupati gli studenti per un’ora circa e la maggior parte di loro preferivano di gran lunga fare la sosta agli armadietti prima di recarsi in mensa, sicuri che avrebbero avuto più tempo per scherzare con gli amici seduti attorno il tavolo.
Dopo aver preso una fettina di carne ed un’abbondante dose di verdure ed il succo per sé e Jay, Rosalie camminò per raggiungere il ragazzo seduto al tavolo assieme ad un annoiato Bruce, il libro di economia aperto davanti ed il cellulare tra le mani. Sicuramente si sarebbe alzato all’ultimo momento per andare a prendere ciò che restava del cibo offerto dalla mensa, mangiarlo velocemente e dirigersi – rigorosamente in ritardo! – alla lezione che condivideva con altri del loro gruppo di amici, che erano già entrati in classe.
«Piccola Rosie!», mise il proprio cellulare sopra le pagine aperte del libro, sorridendo ampiamente alla ragazzina appena arrivata e spostando il proprio zaino tra le gambe per far posto al suo fianco.
Rosalie sorrise ai tratti leggermente asiatici che aveva ereditato da sua madre, gli occhi stranamente azzurri ed i capelli corti e pettinati con il poco gel che non riusciva a gestirla a modo. Il modo in cui la chiamava le aveva sempre dato fastidio, ma il tono di simpatia e paternità che impregnava quelle parole le faceva scuotere le spalle ed accettare il continuo marcare la sua età. Bruce era all’ultimo anno ed era il più grande, nato felicemente il due gennaio in un ospedale di Tokyo, dove i suoi genitori erano andati a passare le vacanze di Natale, come tutti gli anni.
Jay ringraziò per il succo che gli era stato preso ed addentò il panino con pomodoro e tonno che sua madre gli preparava almeno una volta a settimana, anche se il pranzo a scuola era compreso nella retta. Si sistemò le maniche del maglione e della camicia che indossava, ordinato ed attento a non sgualcire troppo il tessuto della camicia pulita.
Era un placido lunedì di Novembre, attorno il tavolo arrivarono anche Tammie ed Henry, entrambi con gli occhi verdi che osservavano la situazione attorno a loro come quattro fari accesi.
Le guance leggermente paffute di Rosalie vennero afferrate da un Henry felice per la riconsegna del compito di matematica che era andato bene – anche se fosse una cosa abbastanza scontata. «Il professore mi ha chiesto di incontrarlo un attimo in sala professori dopo la fine dell’ultima ora. Vorrebbe parlarmi dei vari percorsi universitari a base scientifica».
«Secondo me è quello più adatto a te» si lasciò sfuggire Tammie, infilzando il pezzo di carne che Rosalie aveva accantonato e prendendo a masticarlo facendo un leggero rumore che non riusciva mai a tacere.
Bruce si strinse nelle spalle. «Non avevi pensato anche a medicina?».
«A Londra» si impicciò Jay, ripetendo con il tono imitato dal diretto interessato della conversazione. Henry aveva parlato più di una volta delle possibilità che gli si erano presentate davanti durante quell’anno, le possibilità che stava prendendo in considerazione e le università che avrebbe voluto visitare durante il periodo messo a disposizione dopo le vacanze natalizie.
Henry scosse la testa. «La verità è che sono indeciso come sempre ed ogni persona con cui parlo mi confonde ancora di più. Vorrei tornare indietro e fare come Rosalie: non dover pensare ad un futuro troppo vicino e sentirsi addosso gli occhi di troppe persone che sperano di essere state definitive».
Per Henry l’università stava diventando un grande problema. Sua sorella Tammie era sempre stata sicura: fin da piccola aveva pensato all’università per diventare architetto ed aveva già sulla scrivania le brochure delle varie università di Oxford che le potevano dare quella possibilità. Il maschio della famiglia Mells, invece, aveva la passione per i numeri, gli piaceva leggere poesie, aveva gli occhi lucidi quando si parlava delle serate passate in campagna con suo padre a guardare le stelle. Aveva la capacità di gestire tutte le materie ed una media scolastica generale che faceva invidia a parecchie persone e che rendeva orgogliosi tutti i suoi professori, e questo confondeva sempre di più Henry, già indeciso di natura.
Rosalie sbadigliò, richiuse la propria bottiglietta di succo e puntò gli occhi su Henry, che prese a guardarla come fosse stata una piccola perla appena mostrata. «Secondo me, dovresti prenderti il tuo tempo. Un anno sabatico? Bene. Ma prendilo». Era sicura delle sue parole, nonostante fosse troppo piccola per comprendere veramente ciò di cui stavano parlando gli altri amici. Sapeva che tutti avevano bisogno del loro tempo, del loro anno vuoto, anche se questo durava anche più di un anno. Dopo il divorzio dei suoi genitori, aveva seguito suo padre nel suo anno, erano andati in India per due mesi, avevano passato il Natale in Thailandia, aveva imparato a scrivere i numeri in giapponese a Kyoto. Si erano presi il loro tempo, Rosalie aveva studiato con suo padre tra un viaggio e l’altro ed erano tornati in Inghilterra, Horatio più leggero e Belle con di nuovo sua figlia in casa, una figlia da stringere qualche notte, da rassicurare ad ogni uscita, con gli orari di rientro da dettare.
Henry, seduto vicino a lei, si lasciò andare ad un mezzo abbraccio, stringendosela al fianco, protettivo come solo lui riusciva ad essere la maggior parte delle volte. Bruce, dall’altro lato della ragazza, si lasciò andare ad un’occhiata infastidita, gli occhi di Tammie che lo guardarono e che la sapevano lunga.
Jay sospirò. «Non ho nessuna voglia di sentire quella di economia, ora come ora».
«Vedi di stare zitto e va’ a prendere i libri, piuttosto» lo prese in giro Tammie, scompigliandogli i capelli, facendo uscire qualche ciocca dall’elastico in cui li aveva incastrati.
«Devo prendere anche io i libri!» riemerse Rosalie, allontanandosi da Henry in modo brusco e sbilanciandosi leggermente verso Bruce ed il suo sguardo chiaro.
I due piccoli del gruppo si alzarono, lasciando sul tavolo il vassoio di Rosalie ed il succo vuoto di Jay, diretti ai corridoi del primo piano, dove entrambi avevano i propri armadietti. Rosalie teneva lo zaino su una spalla, il cardigan pesante della divisa sulla camicia allacciata e la sciarpa che aveva nuovamente attorcigliato attorno il collo, nella speranza di restare più calda, perché nei corridoi aleggiava sempre un tipico freddo innaturale.
Jay si avvicinò al proprio armadietto, aprendolo velocemente con la combinazione che aveva imparato a memoria già il secondo giorno. Afferrò i libri per le tre materie successive, posandoli all’interno della tracolla, lasciando tra quelli delle ore precedenti, il quaderno ad anelli che rimase dentro la borsa assieme il piccolo astuccio cilindrico pieno di una decina di penne nere. Prima di richiudere l’anta in legno pesante dell’armadietto si voltò verso il viso infantile di Rosalie. «Sai, dovresti darla una possibilità a Bruce. Anche se è più grande».
Rosalie si lasciò andare ad un sorriso e scosse la testa. «Non è il fatto che è più grande, è che è Bruce».
«E con questo?».
«È fatto così», si strinse nelle spalle, voltando le spalle all’amico ed incamminandosi verso il proprio armadietto e poi al piano superiore, dove la aspettava una lezione al laboratorio di chimica. Si sistemò anche la piega della gonna sulle cosce coperte da un pesante collant grigio scuro, non compreso nella divisa scolastica, ma necessario per sopravvivere durante i mesi invernali. Almeno per lei, a Tammie bastavano delle semplice calze velate.
Jay le si fece nuovamente vicino dopo aver chiuso l’armadietto, seguendo la corta chioma bionda della ragazzina e le spalle magre nascoste dal cardigan di una taglia più grande. In fondo, capiva in parte la cotta che Bruce si fosse preso per Rosalie, nonostante i suoi quindici anni, ma aveva ragione lei quando descriveva il ragazzo così, perché poteva anche essere solamente un piccolo capriccio che gli sarebbe passato troppo in fretta.
«Torni in metro, dopo?», Jay non riusciva a tacere, mentre la vedeva concentrata a ricordarsi la combinazione per aprire il proprio armadietto.
Rosalie annuì distrattamente, sbagliando la combinazione di un solo giro e dovette ricominciare, sbuffando e riuscendo solo al terzo tentativo. «Dovrei andare a lezione di pianoforte».
Il ragazzo si lasciò andare ad un verso contrariato: non era un grande amante del pianoforte, non riusciva a distoglierlo dai classici brani che venivano insegnati alle basi, ma poi perché non avrebbe mai immaginato Rosalie suonare uno dei brani che componeva la sua playlist. Sarebbe stato comico trovarsi davanti una figura delicata come quella dell’amica mentre suonava, con un pianoforte, un brano dei Led Zeppelin o degli AC/DC.
Rosalie, nel frattempo, aveva posato i libri che non le sarebbero serviti ed aveva preso con sé il quaderno di chimica e tutto l’occorrente per le ultime due ore, sicura di non aver dimenticato nulla. Mentre chiudeva l’anta dell’armadietto, però, incappò negli occhi chiari di Bruce che le stavano sorridendo, smaliziati ed impertinenti, sicuri di sé e certi che, prima o poi, un appuntamento solo loro due sarebbero riusciti ad ottenerlo. 





 
il caldo fa male, io l'ho sempre detto ahaha
sono tornata a pubblicare dopo mesi. anche se sto usufruendo impropriamente del computer di mia zia e della sua connessione. anche se dopo mesi dovrei avere la decenza di mettere il capitolo di un'altra storia. però ho deciso che rosalie è rosalie e non ho il coraggio di lasciar marcire anche lei nella mia chiavetta, quindi un piccolo spiraglio glielo volevo dare.
non è niente di che, lo so. c'è un però: rosalie è nata dai miei piccoli ricordi di quindicenne, quando tentavo di fare ribelle e ci riuscivo anche. rosalie è un po' me, ma più responsabile, più bella e con amici meno raccomandabili dei miei.
vi auguro buona estate, nella speranza di rivederci ahaha
federica,

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2. II ***




(II)
 
 
 
 
Sbadigliò rumorosamente, Henry, sistemandosi più comodo sul divanetto in ecopelle blu notte, per poi allargare maggiormente le gambe e posare la testa sulla spalla coperta da una semplice camicetta di Tammie. Avevano deciso di cenare in un diner che sembrava di quelli americani, incastrato sotto un palazzo di una decina di appartamenti, poco fuori il centro di Londra. C’erano i tavoli contro il muro, i divanetti ai due lati, il bancone con dietro una ragazza annoiata e con la chewing-gum che emanava un fastidioso odore di fragola ed il pavimento con gli scacchettoni bianchi e neri. Avevano ordinato sette hamburger con insalata e pomodoro, uno solamente non prevedeva il ketchup che aveva imbrattato le dita di Tammie per tutta la durata del panino tra le sue mani magre.
Erano usciti tutti i componenti del loro gruppo, stranamente. Blake si era liberata del suo ragazzo con modi poco delicati e Calvin aveva disdetto all’ultimo un appuntamento con una ragazza che aveva conosciuto in discoteca la settimana prima. Persino Fran era riuscita ad alzare la testa dai libri dell’università per stare con loro e far tornare il sorriso a Bruce, ancora afflitto per l’ennesimo rifiuto da parte di una piccola quindicenne, sempre la solita, che gli aveva fatto perdere la testa.
Miles lo stava ancora prendendo in giro per le sue doti da seduttore – «non posso crederci che perfino una quindicenne ti abbia detto di no! Una quindicenne, Bruce!».
Blake, invece, sembrava l’unica a credere alle descrizioni che le erano state fatte dalla parte della comitiva che conosceva la famosa Rosalie, anche se dal nome non le ispirava per nulla tutta la simpatia decantata da Tammie. La ammirava per la fermezza con cui si ostinava ad accantonare gli inviti di Bruce, mai brusca o maleducata, per le parole tenere che riuscivano a calmare i dubbi di Henry e per quel maglioncino bellissimo che aveva portato a Tammie dall’Italia e che entrava anche a lei. E per il coraggio di abbandonare l’Inghilterra per partecipare all’anno di vuoto di suo padre, accettando di venir scarrozzata in piccoli paradisi in alcuni angoli di mondo.
«Suo padre è il preside di mio fratello ed un vecchio amico di mia madre. Sicuramente è di buona famiglia», Fran si strinse nelle spalle e bevve un sorso della Coca Cola che le era rimasta nel bicchiere in vetro.
Calvin finì la birra che Tammie gli aveva lasciato e scosse la testa. «Ha pur sempre quindici anni, non capisco perché continuare a fissarsi su una bambina». Ne aveva sentiti tanti di racconti su Rosalie Washington e sui suoi capelli biondi, eppure non era mai riuscito a capire dove stesse quel qualcosa che Bruce si ostinava a vedere solo in lei. Henry aveva sempre insistito su molti aspetti della ragazzina, aspetti del carattere che sì, è vero, Calvin aveva faticato ad associare a ragazze della sua età, ma era pur sempre una ragazzina, porca troia!
«E se cambiassimo argomento?» propose Miles, stanco di doversi concentrare su un discorso che non gli interessava. E che non voleva interessargli.
«Andiamo, ad esempio, all’appuntamento annullato di Berry», Blake gli diede mal forte, saltellando un paio di volte sul divanetto e sistemando la maglietta a manica lunga che indossava e che lasciava intravedere il reggiseno rosso dalla stoffa bianca e sottile. Teneva i capelli neri raccolti in una coda di cavallo ben ordinata che le lasciava in mostra la fronte alta e priva di acne o trucco.
Calvin sbuffò. «Credo che andrò a dormire, domani devo iniziare a lavorare alle otto». Si alzò in piedi, afferrando la giacca a vento blu notte che aveva pagato mezzo stipendio ed indossandola sul maglione nero che lo scaldava più del necessario dentro il locale, pieno di aria consumata e che sapeva di patatine fritte e birra di bassa categoria. Pagò la propria parte di consumazione alla cassa, assieme alla birra di Tammie che aveva finito ed uscì dal locale con il telefono tra le mani, la chiamata avviata sul nome di sua sorella Emma, alla quale non aveva risposto durante la cena. Aspettò una risposta ed inforcò la bicicletta con la quale era giunto al diner, salì e richiuse la chiamata senza risposta, prima di partire, diretto a casa propria, quella che condivideva ancora con la propria famiglia.
Ancora dentro il locale, Blake sbuffò contrariata, mentre Miles scoppiava a ridere per la reazione esagerata del loro amico, lamentandosi del suo essere troppo riservato per i propri fatti. Effettivamente, Calvin era quello del gruppo che parlava meno di tutti, nonostante stesse sempre attento anche ai più piccoli discorsi che venivano intavolati.
Bruce sentì il proprio cellulare vibrare dentro la tasca della felpa verde bosco che indossava, lo afferrò sicuro di trovare il messaggio di sua madre che gli chiedeva quando sarebbe tornato a casa e che gli raccomandava di non fare troppo tardi, perché il giorno successivo aveva scuola. Sorrise allo sguardo interrogativo di Tammie e sentì Fran iniziare a lamentarsi per gli esami che le mancavano, anche se l’anno era appena iniziato.
«Henry, il colloquio con il professore che dicevi oggi, come è andato?» chiese Fran, tornando a complicare la situazione del ragazzo, confuso come sempre – o forse di più – dopo aver parlato con il professore il pomeriggio stesso. Non sapeva più dove puntare, anche le più piccole certezze gli erano crollate addosso, sotto il peso di nuove possibilità che venivano aggiunte da lui stesso o da altre persone.
Tammie gli accarezzò la catasta di ricci rossicci e scomposti, le dita affusolate che giocavano con qualche ciocca in modo materno. «Siamo a Novembre, c’è tempo per decidere».
Henry sospirò, stanco, per poi annuire e chiudere gli occhi: era solamente Novembre ed era già stanco di quella situazione che doveva solo che peggiorare. Perché sapeva che sarebbe peggiorata, ne era sicuro, soprattutto all’avvicinarsi degli esami di fine anno, soprattutto all’avvicinarsi della decisione che avrebbe dovuto prendere a tutti i costi.
«È mezzanotte e mezzo» emerse Blake, sbadigliando ed evitando di stropicciarsi gli occhi per non andare a sbavare il trucco pesante che portava sempre. «Io direi di rimandare tutti i discorsi a mente più lucida, un altro giorno, magari a pranzo. Ora propongo solamente di andare a dormire».
Tammie si vide d’accordo, il sonno che le stava lentamente abbassando le palpebre ed il ripasso di economia che l’attendeva il giorno successivo, il più a lungo possibile, per superare il test che sarebbe dovuto essere a sorpresa. Si alzò, facendo borbottare Henry per il movimento brusco che fu obbligato a fare, raccolse i soldi di tutti i presenti ed andò alla cassa a pagare, il giubbetto in jeans sulla felpa pesante presa dentro l’armadio di suo fratello.



Bruce si strinse nelle spalle, la mattina successiva, le occhiaie scure sotto gli occhi, perché non aveva dormito molto, perché tornato a casa non aveva fatto altro che rigirarsi a letto, rassegnandosi a prendere in mano il libro di economia per finire il capitolo che aveva interrotto a pranzo. Sistemò la camicia sulle spalle larghe e sbadigliò di nuovo, Rosalie che lo guardò con un sorriso intenerito dalla situazione dell’amico e gli passò una mano tra i capelli rasati il pomeriggio precedente.
«Ore piccole, Bruce?».
Il ragazzo annuì con una sorta di grugnito, storse il naso e sbuffò. «Non ho nessuna voglia di andare a lezione, ho sonno e sono già stufo di tutto».
Rosalie scoppiò in una piccola risata e sistemò il colletto della camicia sotto il cardigan completamente allacciato che indossava. «Dovresti andare a lezione, la signora Willer non aspetta nessuno».
«E tu dovresti venire fuori con me, una sera di queste».
Rosalie scosse la testa e sbuffò infastidita, alzando gli occhi al cielo e sentendo quella frase, di nuovo, che non riusciva più a gestire, perché sentiva il peso di un diciottenne ancora infantile addosso, un peso che non voleva per i suoi quindici anni. «Dovresti smetterla, tu, invece. Mi dispiace che a te piaccio più di quanto credevamo tutti all’inizio, mi dispiace non poterti dire di sì, mi dispiace, okay? Però no, non voglio uscire con te. Buona lezione». Forse era stata troppo brusca, questa volta, ma non poté far altro che sentirsi più libera, dopo, il peso di non sentire più le braccia di Bruce che continuavano a farla sentire in gabbia, bloccata contro ogni sua aspettativa.
Chiuse l’anta del proprio armadietto, dentro lo zaino aveva incastrato i libri necessari per le prime due ore di scuola e quelli di letteratura, decisa ad iniziare a studiare gli argomenti dell’interrogazione che le sarebbe sicuramente capitata la settimana successiva. Camminò velocemente per il corridoio che aveva iniziato ad affollarsi di studenti ancora assonnati, il tessuto della gonna a pieghe che le carezzava il collant pesante ed aderente alle gambe. Sorrise fuggitiva a Tammie e le sue parigine sopra il velo del collant color carne, la gonna più corta di quanto sarebbe dovuta essere secondo il regolamento ed i capelli lunghi legati in due trecce che le ricadevano sul petto.
La ragazza più grande teneva tra le mani i libri di economia e trigonometria, un quaderno consumato agli angoli ed una penna incastrata tra le pagine. Quando individuò Bruce ancora appoggiato all’armadietto al fianco di quello di Rosalie sospirò e si avvicinò.
«Mi ha detto di no», sbuffò Bruce, passandosi una mano tra i capelli. «Mi dice sempre di no».
Tammie gli diede un buffetto sulla guancia, seguito da un bacio leggero stampato sulla pelle liscia della guancia sinistra. «Andiamo a prendere i tuoi libri ed evitiamo di fare tardi con la Willer?».
Bruce sorrise ed annuì: Tammie riusciva sempre a risollevarlo dopo i soliti rifiuti che gli venivano rifilati da Rosalie.






 
c'è l'ho fatta anche io!
​è tantissimo che avevo pronto questo capitolo, lo ammetto. volevo rivederlo ed allungarlo, ma va bene così com'è, per quanto corto e privo di occasioni sia. serve più che altro a presentare i nomi dei personaggi e piccoli dettagli che dovevano essere messi in chiaro fin da subito. il problema è che siamo a novembre, iniziano con le simulazioni di esame e le prime verifiche sono già state fatte ed io ho iniziato subito a sclerare. in questo sclero, rosalie ha il suo angoletto caldo, in cui si è addormentata un pochino, ma in cui sta progettando piccoli e futuri mali ahaha 
​se notate errori o l'impaginazione fatta male, sono di fretta - fanculo fisica - e provvederò quanto prima a sistemare tutti i disastri.
​mi defilo e ringrazio chi ha messo la storia tra le seguite. (un seguito ci sarà, lo prometto!)
federica,

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3680384