Il Mondo a colori

di Nina Ninetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Fabrìcio Joaquim De Sousa Cruz ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Margherite ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Sii felice ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Scelte ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Fabrìcio Joaquim De Sousa Cruz ***


NdA: vi chiedo perdono in anticipo per il "mio" portoghese, non conoscendo la lingua ho dovuto arrangiarmi con Google traduttore.
 

Il Mondo a colori

 
Prologo

"... ma l'amore è cieco..."
 
Sollevo lentamente le palpebre, la luce bianca di un fulmine illumina la camera. Il suo viso è ad una spanna dal mio, ha il respiro regolare e profondo. Un altro bagliore accecante, seguito questa volta da un frastuono, poi solo lo scroscio incessante della pioggia.
Mi metto a sedere sul materasso sfiorando con le dita dei piedi le mattonelle fresche, quindi mi strofino il viso per destarmi dal torpore; attenta a non fare movimenti bruschi che potrebbero svegliarlo mi trascino fuori dal letto e lungo il corridoio buio, ancora senza ciabatte. Mi piace camminare scalza per la casa, è un po’ come tornare bambina.
Ogni tanto un lampo rischiara la strada e le pareti tremano.
Metto a bollire dell'acqua e attendo qualche minuto per versarla nella mia tazza preferita - quella rossa con richiami giapponesi - dove giace una bustina di camomilla. Mi godo il tepore che si dirama lungo il corpo attraverso i palmi delle mani, quindi mi sposto in salotto e mi accomodo sul divano, coprendomi le gambe con un plaid a quadri ripiegato accanto al mio note book che non esito ad avviare.
La luce del portatile rivela ciò che nascondeva la coperta: il mio ultimo libro.
La copertina lo ritrae in primo piano, ha uno sguardo duro e impenetrabile, le iridi marroni e l’aureola gialla che le circondano colpiscono a attraggono come una calamita. È impossibile smettere di fissarle, eppure dal vivo i suoi occhi sono dolci, gentili, rassicuranti. D'altronde fu la prima cosa che notai in lui.
Ok! Forse non proprio la prima, ma neppure l'ultima.
Sorseggio un po' della mia bevanda calda, mentre non riesco a distogliere lo sguardo da quella foto che - a sua volta - mi fissa e ipnotizza.
Sono una giornalista. Una di quelle brave, che si occupa di politica nazionale, che ha raggiunto il successo lavorativo solo grazie alle proprie forze, alla caparbietà e all’abilità innata con le parole. Tuttavia, a causa della mia smania, fui costretta ad accettare un lavoro che non mi garbava per niente (per usare un eufemismo!).
Quando il caporedattore mi chiamò nel suo ufficio ero certa che fosse per affidarmi il compito di scrivere la biografia di un noto politico italiano, il quale ormai si era ritirato in pensione nella sua splendida villa in Sardegna. Io e solo io avrei potuto affrontare e cimentarmi in un'impresa così ardua, ma la mia tracotanza mi aveva fatto lo sgambetto e io ancora non lo sapevo. Non ero stata l'unica dello staff ad essere convocata quella mattina, c'era anche il Clark Kent della situazione: un essere privo di spina dorsale, con grandi occhiali che gli rendevano gli occhi più piccoli del normale e i capelli tirati all’indietro un tantino unticci. Fabio mi faceva venir voglia di fargli una faccia di schiaffi ogni volta che incrociavo il suo sguardo apatico. Entrai e augurai il buon giorno ai presenti, ma dal sorriso ebete del collega intuii che per me non c'erano buone notizie. Giovanni De Angelis, il caporedattore, offrendomi un caffè mi annunciò che mi era stata affidata la stesura della biografia dell'altro soggetto in lista. Mi infuriai. Una rabbia viscerale offuscò la mia mente come una densa nebbia bianca.
«Io cosa?» urlai, battendo i pugni sul tavolo. «Non sprecherò il mio tempo, né il mio talento, appresso a un fottuto calciatore montato!» E vedere Superman sghignazzare al mio fianco non fece che infervorare la mia collera. «Tu...» cominciai rivolta a lui, «tu non hai nemmeno la metà della mia bravura!»
Giovanni De Angelis tentò di placarmi con le buone, ma quando si rese conto che così facendo non avrebbe ottenuto nulla mi intimò di smetterla, aggiungendo che era stato proprio il mio pessimo carattere a fargli prendere quella decisione.
Pessimo carattere, che esagerazione!
Lo guardai a lungo, senza dire nulla. Il caporedattore tornò dietro la scrivania e porse ad entrambi i suoi giornalisti una cartella, spiegando che all’interno avremmo trovato tutti gli appunti necessari per cominciare il nostro lavoro. In particolare si rivolse a me, affermando che il mio “cliente” sarebbe passato in redazione per conoscermi e fissare il primo appuntamento. Afferrai quella cartelletta verde e senza aggiungere altro girai sui tacchi e chiusi con forza la porta alle mie spalle. Ricordo ancora la rabbia rodermi dentro e la sensazione di impotenza che mi attanagliava lo stomaco e la gola. Tornai alla mia scrivania e rimasi qualche minuto con la testa fra le mani, inspirando profondamente. Le lacrime mi bruciavano agli angoli degli occhi. Non ci potevo credere. IO, una delle promesse del giornalismo italiano, impegnata in una biografia su un calciatore! Cosa poteva avere di così interessante da raccontare questa persona?
E invece tutto ciò che mi confessò sconvolse la mia esistenza, fino ad oggi.
Ero ancora immersa nei miei pensieri negativi quando la segretaria della redazione - una ragazzina tanto magra quanto stupida! - mi apparve davanti come un fantasma, annunciando con troppo entusiasmo che lui era appena arrivato e mi stava attendendo nella sala riunioni. Con un cenno della mano le lasciai intendere che avevo recepito il messaggio e che poteva sparire dalla mia vista, grazie!
Sbuffai e aprii la cartella che mi aveva dato Giovanni per leggere almeno il nome della persona di cui avrei dovuto conoscere vita e miracoli; a passo spedito raggiunsi la stanza, dalle vetrate vidi il caporedattore parlare con un tizio e stringergli la mano.
Lo squadrai da capo a piedi: era un ragazzo giovane, forse mio coetaneo, in jeans e maglioncino chiaro a righe orizzontali, sul capo teneva adagiati gli occhiali da sole, grossi e blu, al collo una spessa collana d'argento che richiamava gli orecchini che portava ai lobi; capelli ricci e scuri, carnagione latina, sul dorso della mano destra s’intravedeva un tatuaggio…
Imprecai fra me e me: non bastava il fatto che fosse un calciatore, anche tamarro lo dovevo beccare! Palesai l’idea di licenziarmi.
Entrai senza bussare e mi sembrò che Giovanni sbiancasse un po'. Sapeva a cosa sarebbe andato incontro facendomi imbestialire e non volevo deludere le sue aspettative.
«Oh, ecco Robbie, la tua scrittrice personale!» scherzò con il ragazzo e con l'uomo che lo accompagnava. Lo vidi sorridere e porgermi la mano, quasi con timidezza.
«Ciao Robbie! Io sono Fabrìcio»
«Lo so chi è lei» sbottai, incrociando le braccia. Il suo sorriso scemò e la mano tatuata tornò lungo il corpo, assumendo l'espressione di un bambino a cui si nega il secondo giro di giostra.
«Io sarò la sua scrittrice personale, per usare l’epiteto che il caporedattore mi ha rivolto, tuttavia non sarò sua amica né tanto meno la sua psicologa» continuai. «Quindi, velocemente, mi dica quando le fa più comodo vederci per iniziare la stesura della sua biografia.» Lessi delusione nei suoi occhi, ma io non avevo tempo da perdere, figuriamoci con lui poi…
Lanciò un'occhiata al mio superiore come per cercare aiuto, questo in tutta risposta finse di non aver seguito la conversazione. Allora sospirai irritata e gli proposi un giorno qualsiasi e un orario qualsiasi al "Caffè del Borgo" in via Borgo Palazzo. Non era molto trafficato durante le ore pomeridiane e saremmo potuti stare tranquilli.
«Ah, e un'ultima cosa» non avrei voluto rivolgermi a lui in modo brusco, ma ero troppo adirata per fermarmi, simile a un treno in corsa, e così aggiunsi «Per lei sono Roberta, non Robbie. Le auguro buona giornata».
Probabilmente la giornata gliela avevo rovinata davvero, come l'avevano rovinata a me d'altronde. Accennai un leggero inchino e andai via.
 
 

Capitolo 1
Fabrìcio Joaquim De Sousa Cruz

 
Proprio come in questa nottata  insonne, pioveva a dirotto quel pomeriggio.
Mi piace essere più che puntuale e arrivai con qualche minuto di anticipo rispetto all'ora stabilita (o per meglio dire che io avevo stabilito, lui si era limitato ad annuire). Inoltre sono una persona abitudinaria perciò mi accomodai al solito tavolo in fondo, sulla destra. Iniziai ad occupare la superficie con libri e fogli immacolati, soffermandomi sulla cartella verde che il direttore mi aveva gentilmente concesso. Non l'avevo aperta neanche una volta, se non per sbirciare il suo nome in redazione. Non volevo quel compito, sapevo di valere molto di più e il mio orgoglio ferito scalciava impaziente. La signora del locale, una donna bionda sulla cinquantina, mi offrì una tazza di tè verde e qualche biscottino fatto in casa. Sorrise, chiedendomi a quale articolo stessi lavorando. Non contraccambiai il suo sorriso, piuttosto sbuffai spazientita e risposi che stavo per iniziare una mediocre biografia. Lei andò via mestamente.
La pioggia continuava a cadere incessante, in lontananza potevo udire i tonfi sordi dei tuoni. Consultai l'orologio da polso. Era in ritardo di dieci minuti. Sentii l'irritazione crescermi dentro, anzi aumentare. Detesto le persone che non sono precise, le trovo inaffidabili.
Osservai i quadri retrò appesi al muro, il pianoforte alla mia sinistra, l’antica mobilia restaurata, mentre un giradischi diffondeva la suadente voce di Frank Sinatra. Adoro questo luogo, i tendaggi in stile barocco chiudono il mondo post-industriale fuori e per un po' sembra di aver fatto un salto nel passato. La porta del locale si aprì facendomi tornare violentemente nel presente; lo vidi scrutare l'ambiente, a disagio, infine mi notò e le labbra s’incresparono all’insù. Mi accorsi del suo bellissimo sorriso già allora. Ero una che si credeva la reincarnazione di Dante, non un automa frigida, ma non l'avrei ammesso neanche sotto tortura. Si liberò del giubbotto bagnato e prese posto al mio fianco, cosa che mi stupii: io mi sarei seduta di fronte, non di certo accanto.
«Ciao!» Mi salutò con il suo accento latino. «Sta piovendo e ho dovuto parcheggiare…» con il pollice stava indicando il muro alle sue spalle, io però lo arrestai.
«É in ritardo» non lo guardavo in faccia, non so il perché, ma i suoi occhi mi sembravano magnetici e volevo evitarli.
«Oh, scusami, non sono ancora molto pratico della città. Comunque puoi darmi del tu, non c'è problema.» Questa volta alzai lo sguardo, aveva occhi color nocciola striati di giallo.
«Non è professionale e, le ricordo in caso lo avesse dimenticato signor…» sbirciai il nome «Cruz, che il nostro è solo un incontro di lavoro. Nient'altro.» Parve intristirsi e accantonò quel sorriso che gli illuminava il volto.
Aveva un forte accento latino al quale pensai che non mi sarei mai abituata. Ma lo feci, mi abituai e, dopo qualche giorno, neanche ci facevo più caso. Mi raccontò della sua carriera calcistica; di quando era poco più che un bambino e si divertiva con un pallone in un polveroso campetto di San Paolo, Brasile. I nostri incontri divennero regolari, con il passare delle ore trascorse insieme quasi mi dimenticai del rancore che provavo nei suoi confronti e di quella biografia che – secondo me – mi era stata affidata ingiustamente. A poco a poco mi accorsi che la sua compagnia era piacevole.
 
Poi un pomeriggio Marco entrò nel bar. Stavamo insieme da un paio di anni e ammetto che vederlo mi insospettii. Abbozzai un sorriso incerto, chiedendomi cosa diavolo ci facesse lì, mi scusai con il mio interlocutore sudamericano e feci per alzarmi dalla sedia, peccato che Marco ci avesse già raggiunti attanagliandomi con un braccio intorno alla schiena e baciandomi con ardore, facendo schioccare la sua lingua contro la mia. Avremmo litigato come due cani rabbiosi quella sera: il modo che aveva di dimostrare i suoi sentimenti in pubblico mi metteva in continuo imbarazzo e mi innervosiva. In particolare quando vi erano altri uomini i suoi baci, i suoi schiaffi sulle pacche, il suo modo di stringermi a sé, volevano dire “guardate gente, questa donna è mia e solo mia”.
In quel caso, l'unico spettatore, fu Fabricìo.
Sentii le guance accendersi, mi voltai a guardare il brasiliano che aveva abbassato lo sguardo trattenendo un sorrisetto di scherno.
«Marco» cominciai a disagio, provando a spezzare quel silenzio «Posso presentarti…» proprio in quel momento Fabrìcio tornò a guardarmi.
«Lo so chi è» mi fece eco il mio ragazzo, stringendomi così forte a sé che quasi mi mancò il respiro. Iniziavo ad odiare la sua iperprotezione «Fabricìo Cruz, o guerreiro!» Fece un risolino di sfottò e annotai anche quell'altra voce sotto la mia personalissima lista “motivi per litigare”.
Fabrìcio non rispose, si limitò a stringergli la mano. Marco rimase spiazzato dalla non reazione alla sua battuta sarcastica, allora mi baciò di nuovo (provai a scansarlo, però mi colse alla sprovvista), quindi mi disse che non vedeva l'ora di avermi a casa quella sera, tutta per lui, e quando finalmente tirai un sospiro di sollievo sentendolo staccarsi letteralmente da me, mi schiaffeggiò il didietro, poi andò via.
Sia lodato il Signore! Pensai.
Tornai a sedermi con un certo disagio. Lui, Fabricìo, mi fissava tra il divertito e una persona che si aspetta una spiegazione, in fondo gli avevo propinato più di una volta la parabola della professionalità e - proprio io - ero venuta meno a quell'insegnamento. Abbozzai un sorriso che in realtà assunse le sembianze di un ghigno.
«Lo scusi» mi schiarii la voce raccogliendo le idee, o forse ero solo in attesa di sentirgli dire qualcosa che mi avesse tolto dall'imbarazzo. Non lo fece.
«Non è sempre così...» cominciai, lui si poggiò con la schiena alla sedia, le braccia conserte e gli occhi puntati su di me, le labbra rivolte all'insù. Si divertiva. Mi chiesi perché mai gli dovessi delle spiegazioni e tornai sull'argomento biografia «O guerreiro? Cos'è, un soprannome?»
Mi raccontò che l’appellativo gli era stato dato dai compagni della sua prima squadra in Brasile, perché dopo aver trascorso la giornata a scuola, poi alla scuderia a pulire stalle e a spalare escrementi equini, correva al campetto per l’allenamento. Sorrise, somigliava a un bambino che ha detto una bugia. Ammise che non sempre riusciva ad alzarsi in tempo per andare a scuola, era troppo stanco. Gli chiesi perché sua mamma non lo svegliasse. Che domanda stupida! La madre usciva di casa all’alba e si dirigeva al mercato o in città per provare a racimolare un lavoretto giornaliero che le permettesse di sfamare i suoi cinque figli almeno per quella giornata.
«Ma alla scuderia ci dovevo andare per forza» disse. «Mi pagavano alla giornata.»
«Quanto guadagnavi?» Altra domanda idiota.
«Diciamo…» ci pensò. «Três euro.» Spalancai gli occhi, incredula; lui continuò a sorridere. Suppongo fosse abituato a quelle espressioni. «Credo ci andassi più per i cavalli. Li adoro, sono maravilhosi, forti, orgulhosi» fece una pausa. «Come me.»
Cercava sempre di strapparmi un sorriso, però raramente ci riusciva. Dimenticati di prendere appunti mentre mi parlava - un po’ presa dal suo racconto, un po’ perché la mia mente era già a casa a litigare con Marco - gli chiesi cortesemente di ripetere ciò che aveva appena detto. Lo fece senza lagnarsi.
Quella sera io e il mio fidanzato litigammo come due matti, gli dissi di smetterla di essere così possessivo, di vedere il marcio ovunque e lui, come sempre, mi zittì sul più bello con un lungo bacio, prendendomi in braccio come una principessa e sdraiandomi sul letto, dove facemmo l'amore. Sapeva essere un vero bastardo Marco, quasi un metro e novanta di altezza e con i capelli rasati, ma sapeva anche come far sentire una donna la più bella del reame.
Ricordo che ero sul ciglio del sonno, aggrappata al suo addome nudo, un attimo prima di addormentarmi gli chiesi di non essere più così arrogante con Fabrìcio, in caso si fossero rincontrati. A fare la stronza con lui bastavo io.
 

 
Il rumore della pioggia battente mi accompagna in uno stato di dormiveglia, allungo il braccio sicuro di trovarla, ma sprofonda nel vuoto. Apro gli occhi e mi accorgo che nel letto sono da solo.
Dove sei Robbie?
Mi copro gli occhi con l'avambraccio, mentre mi lascio cullare dallo scroscio dell'acqua.
Anche al nostro primo incontro per la stesura della mia biografia pioveva a dirotto e io mi presentai tutto bagnato al "Bar del Borgo", perlopiù con qualche minuto di ritardo. Le sorrisi e mi sedetti al suo fianco, liberandomi del giubbotto fradicio. Mi guardò accigliata e quando la salutai, iniziando un discorso vacuo, mi fermò facendomi notare che ero fuori orario. Mi ghiacciò. Le stavo parlando a raffica perché ero nervoso e questo, di solito, mi fa essere logorroico.
Ma lei non poteva saperlo.
Percepivo una sorta di avversione nei miei confronti, pregiudizi che vibravano nell'aria e che quasi potevo afferrare, ma non riuscivo a spiegarmi il motivo per cui potesse avercela con me. Quando mi fu presentata alla redazione rimasi colpito dalla sua personalità spiccata e austera. Indossava un tailleur scuro e una camicia chiara, i capelli castani tirati in una crocchia sul capo. Le porsi la mano e mi presentai, ma lei non mi lasciò terminare la frase. Tirò via gli occhiali da vista e disse che sapeva chi fossi.
Ne dubitai, ma lo tenni per me.
Affermò categoricamente che i nostri erano solo incontri di lavoro e nient'altro, che non sarebbe diventata mia amica, né la mia psicologa. Si ostinava a darmi del lei e vani furono i tentativi di abbattere quel muro che aveva issato fra noi. Non volevo prendermi troppe confidenze, semplicemente mi imbarazzava essere trattato come una persona importante. Ma Robbie aveva la fissa della professionalità e fin dal nostro primo incontro (quando non si scomodò neppure a stringermi la mano) ci tenne a sottolineare che per me era Roberta, non Robbie.
Gli parlai di me, della mia infanzia trascorsa in una favela di San Paolo dopo che mio padre era stato trovato morto ammazzato nei pressi di una miniera. Allora io, mia madre e i restanti quattro figli fummo costretti a lasciare la casa poiché non potevamo più permetterci il fitto. Ci trasferimmo nella degradata periferia, avevo solo 5 anni, ero il terzo di cinque figli. A otto anni trovai lavoro in una scuderia a qualche kilometro da casa, il mio compito era pulire le stalle – spalare la merda insomma. Quando per la prima volta mi trovai faccia a faccia un con cavallo me ne innamorai. Volevo essere come lui: fiero, libero, potente, eppure gentile e sensibile. Fu in quel preciso istante che promisi a me stesso che sarei diventato una persona migliore di ciò che la vita mi aveva offerto fino a quel momento.
Robbie prendeva appunti senza emozioni e mi chiesi se ne provasse, di emozioni. Ebbi la conferma a questo mio dubbio durante il quarto appuntamento (per scrivere la biografia, sia chiaro!), quando venne a trovarla il suo fidanzato. Lo vidi avvicinarsi a lei e baciarla con tanta foga da farmi abbassare lo sguardo. Non sono una persona che si scandalizza per così poco, però quel bacio non nascondeva amore, tutt'altro. Era una forma ossessiva di possesso e mi infastidii. Era venuto lì solo per marcare il territorio e quando mi guardò i suoi occhi sembrarono dirmi che lei gli apparteneva: era la sua donna, la sua preda, il suo trofeo. Robbie mi parve imbarazzata, per la prima volta la vidi vulnerabile e fui sul punto di interrompere le sue scuse per la scena patetica alla quale avevo dovuto assistere, magari chiederle per quale motivo stesse con quel tizio. Glielo chiesi giorni dopo, eccome se lo feci, ma quel pomeriggio mi parve una domanda avventata.
Non parlavo molto bene l'italiano (ancora tutt'ora faccio fatica in verità, però sto imparando nuovi vocaboli grazie a lei), e spesso mi ritrovavo a descrivere situazioni nella mia lingua madre, inconsciamente. Di solito, a quel punto, lei si arrestava dal prendere appunti, alzava lo sguardo su di me  provando a tradurre insieme quello che intendevo.
Era proprio questo il motivo per cui il caporedattore l'aveva scelta per scrivere la mia biografia (fortemente voluta dal mio manager, diceva che avrebbe aumentato la  notorietà): Roberta era l'unica in grado di trasformare le mie frasi stroppiate, un po' italiane un po' brasiliane, in qualcosa di bello e leggibile. Peccato che Robbie avesse la mente offuscata dalla rabbia e dalla collera da non riuscire a comprenderlo.
Un pomeriggio, quando feci per l'ennesima volta l'errore di raccontare nella mia lingua un avvenimento accaduto tanto tempo fa, mi interruppe con un cenno della mano:
«Aspetti, aspetti, aspetti!» Mi guardò da sopra gli occhiali. «Si sta di nuovo esprimendo in portoghese.» Sorrisi e precisai:
«Brasiliano.»
Mi fissò irritata e capii che detestava essere contraddetta:
«Come scusi?»
«Hai detto portoghese, Roberta, ma in realtà ci sono delle differenze con il brasiliano. Ad esempio…» si tolse gli occhiali, sospirò e si passò una mano sui capelli rigorosamente tirati all'indietro. Non l'avevo mai vista con i capelli sciolti e questa cosa mi incuriosiva molto. In certi momenti, quando mi parlava, mi immaginavo a liberarli da quello chignon che li tratteneva.
«Signor Cruz…» iniziò e io continuai a sorridere:
«Fabrìcio» intensificò il suo sguardo. «Puoi chiamarmi Fabrìcio.»
«Va bene. Signor Facrìcio…» lasciò la frase in sospeso schiarendosi la voce, a voler sottolineare che quello era il massimo livello di confidenza che mi avrebbe concesso. Il mio sorriso si spense. «Non ho bisogno di una lezione di lingua brasiliana» la osservai interdetta, mentre riponeva i suoi occhiali nella custodia e le scartoffie nella borsa. Mi scusai e senza guardarmi mi disse che per quel pomeriggio avevamo finito. Si alzò indossando un lungo cappotto nero su un abito di lana grigio (il suo look era sobrio e classico), fece per lasciare una banconota sul tavolo, accanto alle tazze di caffè che avevamo consumato. D'istinto la fermai, evitando di toccarle la mano: temevo mi avrebbe denunciato.
«No Roberta. Ci penso io, vorrei scusarmi per-»
«Lei lo sa, ma ci tengo a ricordarglielo signor Fabrìcio: ci vediamo in questo bar solo per lavoro. Non so dalle sue parti, ma dalle mie si dice “prima il dovere”. Inoltre, non sia mai che io sia in debito con lei un giorno. Detto questo, le auguro una buona serata».
In quel momento qualcosa scattò in me, non meritavo di essere trattato così. La seguì fuori dal locale, la rincorsi chiamando il suo nome. Si voltò con un'espressione stralunata.
«Scusami, non volevo-»
«Cosa vuole?»
La fissai scuotendo il capo. Non capivo quella domanda, eppure lei si aspettava una risposta.
«Solo chiederti scusa se il mio italiano non è perfetto, ma sai vengo da un paese del Sud America, sto provando ad imparare la tua lingua e…»
Sospirò. Sospirava sempre come se dicessi solo cazzate, mi faceva sentire stupido.
«Mi è stato affidato un compito e ho intenzione di portarlo a termine. Non venga a piagnucolare da me perché le manca il suo paese natio o la sua mamma, signor Cruz» aveva già abbandonato il mio nome di battesimo. «Quindi stia al suo posto che io sto al mio. Di nuovo buona serata».
Aprii la bocca per parlare, ma non uscì neanche una frase. La osservai sparire tra la folla, poi a testa china e con le mani in tasca mi avviai alla mia auto.
"Stia al suo posto che io sto al mio" mi aveva detto e ora, conoscendo i fatti che vennero, mi chiedo se avesse comunque pronunciato queste parole. Sorrido e mi do una risposta: conoscendola, credo proprio di sì.
 
Pioggia, pioggia e solo pioggia.
Vorrei tanto riaddormentarmi, ma la mia mente continua a propinarmi il suo ricordo.
Mi stringo al cuscino e mi volto di lato, fissando la finestra, fra le tende chiuse, intravedo la luce di un lampo seguito dal tonfo sordo di un tuono.
Mi disse che odiava i temporali e io gli risposi che nel mio paese, dopo un temporale, nasce sempre l'arcobaleno.
I suoi occhi azzurri brillarono.
Proseguimmo con i nostri incontri pomeridiani.
Non arrivai più in ritardo, ma per quanto mi sforzassi non riuscii ad arrivare mai prima di lei. Ogni volta era già lì, al solito tavolo, intenta a scribacchiare sul suo block notes a quadri.  Quando era di buon umore mi sbirciava da sopra gli occhiali e mi salutava con un “salve”, altre volte lasciava morire il mio “olà” nell'aria senza degnarmi di uno sguardo.
Sapevo che c'era in lei molto di più di quello che esternava, tuttavia non riuscivo ad andare oltre quella maschera dura e gelida e, dopo un po', mi arresi.
Forse mi ero sbagliato, forse era davvero così stronza come dava a vedere.
Era trascorso un mese o giù di lì, quando la incontrai per caso all'Iside Club fuori città.
Le luci erano soffuse, un gruppo rock strimpellava nell’angolo in alto a sinistra. Ero con un gruppo di vecchi amici che erano arrivati dal Brasile quando la mia attenzione fu rapita da una massa di boccoli castani. Mi avvicinai lentamente, era come se le mie gambe si muovessero da sole e i miei occhi non vedessero altro che quella figura seduta al bancone del bar. Ero alle sue spalle e la sentì dire al barista:
«Un mojito, Kevin. Grazie.»
«Dois» feci eco io.
Si voltò adagio, io ero pronto con il mio sorriso migliore, quello un po' di sbieco, quello da bello e tenebroso. Quello per rimorchiare insomma. Ritrovandomi faccia a faccia con Robbie però rimasi impietrito.
«Roberta?!» Esclamai, anche se suonò più come una domanda. «Non mi aspettavo di incontrarti qui» ero davvero meravigliato e soprattutto mi stavo sforzando di non abbassare gli occhi sulla profonda scollatura del suo abito. Iniziavo a sudare freddo. Mi agitò una mano davanti al viso.
«I miei occhi sono qui!» Esclamò e alzai di scatto lo sguardo, quindi abbozzai un sorriso incerto, come un bambino che viene colto con le mani nella marmellata:
«Che fai di bello?» Una domanda più stupida non potevo porgliela, poi per fortuna il barista ci porse i drink. «Immagino che sia inutile provare ad offrirti questo cocktail, vero?»
Non si girò neanche a guardarmi. Mi detestava come se gli avessi sterminato la famiglia. Forse in una vita precedente l'avevo fatto, ma in questa non di sicuro.
«Non è per me» rispose pagando il suo mojito. «È per Marco.»
Fu come ricevere un pugno allo stomaco. La osservai scendere dallo sgabello con un salto e mi giunse un profumo dolciastro.
«Buona serata» mi disse e io l'augurai a lei.
La vidi allontanarsi e sparire nella ressa, scansando i presenti con grande agilità. Indossava un paio di jeans attillati e tacchi alti, i suoi capelli lunghi e ricci ondeggiavano sinuosi sulla schiena. Avevo già notato il suo fascino un tantino recondito durante i nostri incontri, ma quella sera la trovai stupenda.  
Ancora con la sua immagine impressa nella mente mi lavai il viso con l'acqua corrente nel bagno degli uomini, puntellandomi per qualche secondo sul lavabo, con gli occhi fissi nel riflesso che lo specchio emanava di me. Avevo conosciuto Robbie perché gli raccontassi i fatti miei e farne così un libro, ma adesso ero io a voler conoscere la sua storia.
Uscii dalla toilette e mi arrestai, impassibile. Robbie era a pochi metri, infuriata. Stava sbraitando qualcosa contro Marco che feci fatica a comprendere, in mano stringeva il bicchiere del cocktail. Vuoto. La camicia di Marco invece era completamente inzuppata; alle sue spalle se ne stava una ragazza magrissima fasciata in un vestito bianco, “lunghezza” inguinale, con capelli biondi e lisci.
Ebbi l'impressione che Marco volesse avanzare, tuttavia la furia di Robbie evidentemente lo spaventava. Anche lui gridava e, fra le tante frasi, riuscii a intuire poco e niente.
«Amore, ma cosa dici? Tu non lo faresti mai…»
Robbie si voltò nella mia direzione (non so se sapesse che fossi lì), la guardai inerme avvicinarsi, come se stessi guardando la scena di un film, mentre mi passava le braccia intorno al collo e poggiava le sue labbra sulle mie.
Non so cosa mi prese, ricordo solamente che quel contatto mi piaceva, mi faceva fremere, intanto che il suo profumo mieloso mi inebriava la mente. Incalzato dai miei istinti la strinsi un po' di più, baciandola davvero.
Marco mi allontanò da lei e mi diede un pugno in faccia. Un tantino stordito da quel colpo improvviso mi aggrappai al muro per evitare di finire sul pavimento. Vidi Robbie spintonarlo all’indietro mentre si metteva fra noi, dandomi le spalle, poi udii distintamente le parole di Marco.
«Sei contenta troietta? Questa volta non sono stato arrogante con il tuo guerreiro, proprio come mi avevi chiesto mentre ti scopavo.»
Mi rimisi in piedi, non curante del dolore che dal labbro si diffondeva per tutto il volto. In quel momento avrei solo voluto prendere a schiaffi quel demente, la sua mancanza di rispetto mi dava sui nervi. E anche Robbie iniziava a darmi sui nervi. Proprio lei, che non aveva esitato a trattarmi con arroganza, si era preoccupata di difendermi dal suo ragazzo? Marco si allontanò sollecitato da Robbie e scomparso alla nostra vista lei si voltò a chiedermi come stavo. Mi tamponai la ferita con il dorso della mano destra, macchiando di sangue l’ultimo tatoo che mi ero fatto. Spontaneamente sbottai.
«Stia al suo posto che io sto al mio, eh?»
Il suo sguardo tremò e capii di aver colto nel segno, solo allora sentii l'indignazione scemare dentro di me. Mi porse un fazzoletto di carta e mi disse che casa sua era lì vicino, si offrì di disinfettarmi il taglio.
Accettai.
 

 
I suoi occhi mi guardano dalla copertina del libro. Distrattamente bevo un altro sorso di camomilla: è ancora tiepida. Prendo a giocherellare con una ciocca di riccioli. Stai dormendo Fabrìcio? Magari mi stai sognando. Magari no.
I suoi sorrisi erano splendidi. I suoi occhi castani incantevoli e dolci. Qualsiasi altra donna al mio posto si sarebbe sciolta come neve al sole, eppure continuavo a sentirmi ferita e amareggiata per quel compito di seconda fascia che mi era stato imposto. Inoltre vedevo in lui il motivo concreto di quella insoddisfazione.
Aveva smesso di arrivare tardi ai nostri appuntamenti, ai quali si presentava sempre e rigorosamente con un sorriso stampato sul volto. Anche se non gliel'ho mai detto, donava un po' di colore a quei grigi pomeriggi autunnali.
Il suo italiano non era perfetto, comprensibile di sicuro, ma sovente non riusciva a spiegare una situazione e cominciava a parlare nella sua lingua madre. Mi adiravo perché così avremmo perso più tempo di quello che avrei voluto spendere per finire la biografia. Un pomeriggio mi chiese di insegnargli l'italiano. Gli risposi che per quello si doveva trovare una docente privata, non era compito mio. Nonostante i miei modi sgarbati non ha mai smesso di sorridermi e – per questo – gliene sono grata.
Poi la storia con Marco. Mi accorgevo del fastidio che provava a sapermi con Fabrìcio Cruz, me ne rendevo conto dal modo in cui facevamo l'amore: rude e senza passione, quasi a volermi fare del male, a volermi intimidire. Altre volte si lasciava andare ad impeti di puro affetto e io ritornavo alla mia routine. Ma la gelosia che provava per Fabrìcio era viscerale e una sera all'Iside Club non riuscì più a contenerla.
A Kevin, il barista, avevo appena chiesto un mojito quando sentii alle mie spalle una voce maschile pronunciare “dois”. Mi voltai incredula, sperando che non fosse lui, anche se il tono di voce era inequivocabile. Non volevo che mi vedesse in jeans e top scollato, come una ragazza qualsiasi.
Era proprio lui. Ovviamente.
Il suo sorriso era diverso da quelli a cui mi aveva abituato, era accattivante. Il suo sguardo seducente, quasi felino. Sembrò meravigliato quanto me di vedermi, soprattutto di vedere il mio décolleté messo in risalto. Fu strano, eppure i suoi occhi sulla pelle nuda dello scollo non mi infastidii. In ogni caso non potevo permettergli di guardare con tanta insistenza, ne andava della mia dignità! Richiamai la sua attenzione e si offrì di pagarmi il drink. Gli dissi che non era per me, ma per Marco e lui non replicò. Fin dal primo momento che li avevo presentati avevo percepito le vibrazioni negative che provavano reciprocamente.
Non riuscii a fare a meno di osservare la sua maglia aderente che metteva in risalto il suo fisico perfetto, notai per davvero - come fosse la prima volta - la sua carnagione latina che mi ricordò il caramello, caldo e sensuale. Il tatuaggio sulla mano destra proseguiva lungo il braccio (quello mancino era pulito): nomi, date, carte da poker e ghirigori tribali si alternavano e mescolavano in una sorta di danza infinita.
Dovevo andare via, allontanarmi da lui, quelle sensazioni mi agitavano. Gli augurai buon proseguimento e mi dileguai.
Raggiunsi il tavolo che Marco aveva prenotato per noi e lo trovai vuoto. Attesi qualche minuto, tamburellando le dita sulle cosce, inquieta. Trassi un respiro profondo convincendomi che avesse avuto bisogno della toilette, così raccolsi il cocktail e mi avviai al piano superiore.
Fu come una doccia fredda.
Marco era lì. Eccome se lo era. In un angolo poco illuminato, non lontano dalla toilette dei maschi, con le mani infilate sotto la gonna di una ragazza appena maggiorenne. Sentii rabbia e collera e frustrazione ribollirmi dentro. Lo raggiunsi e mi rivolsi a lui con gentilezza:
«Fottuto stronzo!»
Si voltò a guardarmi con gli occhi sgranati, senza pensarci a lungo gli gettai addosso l'intero mojito, con tanto di fogliolina verde. Feci per andare via, quando mi afferrò il polso.
«Amore, ti prego…».
Mi liberai con uno strattone e fu allora che lo vidi con la coda dell'occhio uscire dal bagno e arrestarsi sulla soglia della porta, a guardarci. In quel momento non avevo tempo per pensare anche a lui (o forse proprio da quel momento non ho fatto altro che pensare a lui).
«Pezzo di merda! Non mi rivolgere più la parola, hai capito? Tu e quella puttanella...»
«Ehi come ti permetti...» s'intromise la biondina alle sue spalle.
«Taci troietta!» L'apostrofai, probabilmente dovevo davvero far paura perché questa tacque senza controbattere.
«E dai Robbie, stavamo solo pomiciando un po'. Tu lo sai che io amo solo te.»
«Ah si! Allora non ti spiace se faccio lo stesso con un altro.»
«Amore mio, cosa dici? Tu non ne avresti il coraggio» sogghignò.
Da non credere: aveva ancora la faccia tosta di farsi beffe di me.
 
Avevo progettato tutto: ogni singola parola della mia ultima frase era stata pensata per fare in modo che avessi potuto baciarlo, trovandomi poi un alibi perfetto.
Mi voltai e avanzai nella sua direzione, guardandolo dritto negli occhi, erano un po' confusi, ma non oppose resistenza quando gli gettai le braccia al collo e, alzandomi sulle punte dei piedi, poggiai le labbra sulle sue.
Mi strinse a sé, i suoi palmi rassicuranti sulla schiena, la lingua farsi strada fra le mie labbra.
Avvertii il suo sapore fresco – di mojito – fondersi con il mio; d'un tratto mi dimenticai il motivo per il quale l'avevo baciato e il tempo parve fermarsi.
Poi lo sentì letteralmente strappato via da me, vidi Marco scagliarli un pugno in pieno volto.
Fabrìcio si puntellò con le spalle contro il muro, evitando di finire a terra. Allontanai Marco con una spinta, mettendomi fra loro due.
«Sei contenta troia?» Mi disse. «Questa volta non sono stato arrogante con il tuo guerreiro, proprio come mi avevi chiesto mentre ti scopavo.»
Avvampai. Non so cosa mi fece più male: il fatto che avesse affermato “mentre ti scopavo” o che avesse rivelato la mia richiesta.
«Vattene Marco. Sparisci dalla mia vita» mi guardò dall'alto, lanciandomi scintille di puro odio, quindi si allontanò e la sua puttanella con lui.
Ricordo di aver inspirato profondamente, prima di voltarmi e di chiedergli come stava.
Ero così imbarazzata, per tutto. Per la scena alla quale aveva assistito, per il bacio, per il pugno, per le parole pronunciate da Marco. Avrei voluto sparire o raggomitolarmi in un angolo buio a piangere come una bambina, e quando notai il suo labbro sanguinare fu anche peggio. Mi sentii in colpa. Si pulì con il dorso della mano e mi lanciò un'occhiata severa.
«Stia al suo posto che io sto al mio, eh?» Quella frase mi fece capitolare del tutto: era la stessa che gli avevo sbattuto in faccia solo qualche settimana prima. 
Guardò il suo sangue e fece per toccarsi di nuovo il labbro rotto, ma lo fermai.
«No, no! Così si rischia un'infezione» mi lanciò un'occhiata glaciale e io ebbi paura.
Di cosa? Non lo so. Forse del fatto che il mio bacio avesse potuto infastidirlo, o della possibilità che non mi volesse più come sua scrittrice personale e - la cosa peggiore - non potevo dargli torto.
«Casa mia è qui vicino. Potrei disinfettare la ferita» dissi senza rifletterci. Volevo solo espiare le mie colpe. Annuì mentre gli porgevo un fazzoletto per tamponare il taglio.
 
Pensai a Marco mentre entravo in casa con lui, al fatto che se mi avesse visto sarebbe andato su tutte le furie e avrebbe potuto ucciderlo di botte. Continuando a parlargli in terza persona singolare lo invitai ad attendere in cucina, intanto che prendevo il kit di pronto soccorso in bagno.
Vederlo seduto su quella sedia ad attendermi come un bambino mi intenerii molto. Gli feci cenno di accomodarsi sul tavolo. Nessuno dei due aveva ancora menzionato il bacio e fui quasi contenta di quel pugno che sembrava aver fatto passare in secondo piano ciò che c'era stato prima, almeno per il momento.
Con un batuffolo di cotone imbevuto di acqua ossigenata gli frizionai delicatamente la ferita e lui si scansò, mugolando per il dolore. Mi scappò un sorrisino.
«Davvero ha paura di un po' di bruciore. Se non sbaglio mi ha parlato dei suoi tatuaggi e dei loro significati l'altro giorno.»
«Si, ma è diverso» mi rispose e io scossi il capo.
Che assurdità era quella?
Si riavvicinò a me e ripresi a tamponargli il taglio, le sue labbra schiuse mi fecero tornare alla mente il ricordo del bacio di poco prima. In fondo si era trattato di un bel bacio.
«Ecco fatto!» Finsi di riordinare il kit del pronto soccorso, non smetteva di osservarmi.
«Grazie Roberta.»
«Se preferisce, può chiamarmi Robbie.»
«Davvero?» Era come se si aspettasse una frase simile perciò parlò velocemente, con il suo  tipico accento. «E mi concedi questo permesso perché mi hai baciato, perché ti senti in colpa per il pugno, o perché hai detto al tuo ragazzo di non essere arrogante con me, mentre...» finse di ricordare la parola che gli mancava «... mentre ti scopava? Sei stata molto poco professionale questa sera».
Me lo ero meritato. Desiderai di poter ricominciare da zero con lui, dal momento in cui mi venne presentato nella sala del caffè in redazione, anche solo per stringergli la mano. Lo sentì sbuffare:
«Ti chiamerò Robbie solo se tu smetterai di rivolgerti a me come se fossi un ministro».
«Posso provarci» gli risposi abbozzando un sorriso, poi mi domandò io come mi sentissi.
Era stato gentile a chiederlo, peccato che mi vennero le lacrime agli occhi rivedendo Marco palpeggiare la bionda. Lui era stato il primo amore della mia vita, il primo uomo al quale mi ero concessa, il mio primo tutto e mi aveva tradita miseramente.
«Starò bene» affermai, sforzandomi di non piangere.
«Perché lui? Perché proprio lui?»
«Perché non è sempre così pessimo e perché, a volte, non c'è nessun altro» non disse nulla, scosse il capo e balzò giù dal tavolo. Mi indignai.
«Che c'è?» Chiesi, ma Fabrìcio aveva già raggiunto l'ingresso e augurandomi la buona notte si chiuse la porta alle spalle.
Avrei voluto chiedergli scusa, ma il mio stupido orgoglio non me lo aveva permesso.
Avrei voluto augurargli la buona notte, ma quel groppo alla gola mi aveva fatto temere che la voce s’incrinasse. Così rimasi immobile e in silenzio a rimuginare sugli eventi appena conclusi, con il suo sapore fresco ancora sulle labbra.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Margherite ***


Capitolo 2
Margherite

"... e gli amanti..."
 
Adagio la tazza ormai vuota sul tavolino accanto al portatile acceso, lo screensaver impazza sul desktop. Prendo la sua biografia e sfoglio le prime pagine, scorrendo le righe dell'introduzione:
 
“Fabrìcio Joaquim De Sousa Cruz è una di quelle persone che non ti aspetti.
È una forza della natura, una forza buona, come il sole che
sa donarci i colori, anche dopo una tempesta. Sa regalarci l'arcobaleno.
Voleva che gli insegnassi tante cose sull'Italia, ma alla fine è stato
 lui ad insegnare qualcosa a me:
mi ha insegnato a essere una persona migliore.
Come disse Victor Hugo: c'è uno spettacolo più grandioso del mare, ed è il cielo,
c'è uno spettacolo più grandioso del cielo, ed è l'interno di un'anima”.

 
Ricordo ancora quando gli consegnai la prima bozza del libro. Avevo il cuore che batteva forte e mi sudavano le mani per l'emozione. Eravamo seduti al solito tavolo, nel solito locale, gli porsi i fogli della prima stesura e mi guardò con fare interrogativo. Gli dissi di leggere. Lui tentò, ma dopo un po' (dopo che avevo rischiato un infarto in pratica!) alzò quei suoi occhietti indagatori su di me, scuotendo il capo.
«Non ci riesco. Non è come l'altro libro che mi hai dato» sbuffai innervosita e gli strappai i fogli da mano. Lui replicò.
«Ehi! Ma che modi!» Io intanto li riponevo nella bustina di cellofan per posarli in borsa.
«Lascia stare! Non si può fare niente con te! Sei un disastro!»
Ero arrabbiata perché avevo passato tutta la notte a chiedermi se avessi dovuto inserire quelle frasi nella prefazione oppure no. Tutta la notte a crucciarmi se lasciargliele leggere oppure no. Tutta la notte a pensare a lui e alle reazioni che avrebbe potuto avere per quelle quattro righe.
In una parola? Tutta la notte a pensare a lui.
Presi quaderno e matita e guardandolo gli dissi:
«Allora, di cosa mi vuoi parlare oggi? Cavalli? Tatuaggi? Fidanzate?»
Lui incrociò le braccia al petto e mise il broncio, sostenendo che voleva sapere cosa c'era scritto su quei fogli. Gli risposi che non erano affari suoi.
 
Il pomeriggio che seguì la triste e patetica parentesi di Marco all'Osiride Club, quindi il bacio e il pugno che ne scaturì, Fabrìcio si presentò con un leggero ritardo al nostro consueto appuntamento, tuttavia questa volta non infierii. Prese posto accanto a me e notai subito il suo labbro gonfio. Mi sentii in colpa, manco se a mollargli quel pugno fossi stata io, ma sapevo di esserne responsabile, seppur indirettamente.
«Robbie» mi salutò, senza sorridermi.
Robbie. Mi aveva chiamata Robbie. Adesso toccava a me.
Tentai di abbozzare una specie di sorriso e mi augurai che non fosse troppo brutto da vedere.
«Come va?» Gli domandai, indicando il labbro inferiore con la matita.
«Oggi all'allenamento tutti mi chiedevano con chi avessi fatto a pugni» mi sentii anche peggio «Quando ho risposto che una menina mi aveva bejio per fare un dispetto al suo amigo e che questi mi aveva preso a pugni, mi hanno riso e face» pronunciò la frase con più vocaboli brasiliani che italiani, ma non mi fu difficile intuirne il senso.
Non so per quale motivo mi stesse raccontando quell'aneddoto: se per farsi commiserare; se per farmi sapere che si aspettava una spiegazione (magari delle scuse) o semplicemente per menzionare il bacio che gli avevo dato e che avevo finto di dimenticare.
Ah, ma io ero più che pronta a quell'evenienza. Non ci avevo dormito la notte per essere preparata ad ogni sua supposizione scomoda su quel bacio. Io l'avevo si baciato per prima, ma a mettermi la lingua in bocca non ero stata io.
«Ti ho portato una cosa per farmi perdonare» mi sembrò davvero meravigliato, probabilmente lo era più per il fatto che, finalmente, gli avevo dato del tu. Presi un libro con la copertina colorata dalla borsa e lo posai sul tavolo. Lo guardò con curiosità, chiedendomi cosa fosse.
«Mi avevi detto che volevi imparare l'italiano, no? Per i tuoi tifosi» il suo sguardo s'insospettiva sempre di più. «Ecco! Questo ti aiuterà!»
«È un libro para infantil» non conoscevo molto bene la sua lingua madre, giorno dopo giorno stavo migliorando molto, in ogni caso mi fece notare che era un libro per bambini e io sorrisi divertita.
«Esatto! É un libro che i bambini italiani usano in prima elementare per imparare a leggere e scrivere. É perfetto per te!» Fabrìcio non riusciva a staccare gli occhi da quelle pagine colorate con disegni e vignette grossolani.
«Mi prendi per il culo?!» Questo però lo aveva imparato in fretta, pensai.
Con pazienza gli mostrai gli esercizi semplici e le parole facili che poteva apprendere e, dopo le sue mille occhiate supplichevoli, gli promisi che avremmo speso un po' di tempo insieme per fare quei compiti.
Mi parve sollevato e io con lui.
Quello stesso pomeriggio mi parlò di quando il Santos - una delle società calcistiche più famose al Mondo - comprò il suo cartellino; della festa che sua madre organizzò invitando parenti e vicini. Peccato che la splendida notizia comportò anche sacrifici: innanzitutto abbandonò il lavoro al maneggio, però quando poteva faceva un salto a salutare i "suoi" cavalli. Di conseguenza, senza un lavoro giornaliero i soldi iniziarono a scarseggiare.
«Mia mamma nascondeva quei pochi real che guadagnava per me. Avevo bisogno di cibo per sostenere gli allenamenti.»
«E i tuoi fratelli non mangiavano?» Chiesi sbigottita, lui rispose con un'alzata di spalle. Non riuscivo ad immaginare una madre che dovesse scegliere tra nutrire l'uno o l'altro figlio, eppure avevo la prova vivente davanti ai miei occhi. Per fortuna il gioco era valso la candela adesso che Fabrìcio Cruz era diventato uno sportivo professionista. Lasciare il Brasile a venti anni per trasferirsi in un club tedesco si era rivelato alquanto complicato, più di quanto si aspettasse mi confidò. Quello che più di tutto mi stupii fu la naturalezza con la quale mi raccontava la sua infanzia tutt'altro che felice, manco fossimo stati amici di vecchia data. Lo ascoltavo rapita, cominciando a vedere un mondo immenso, profondo e sconosciuto prendere forma oltre quel suo sguardo esuberante e a tratti impudente.
Mi chiesi se io fossi mai stata capace di cotanta forza.
 

 
Robbie stava cambiando e me ne rendevo conto giorno dopo giorno.
Nonostante tutto io non fui meravigliato o stupito: sapevo che era molto meglio della ragazza arrogante e scontrosa che si era presentata a me nei primi e grigi pomeriggi. Lo avevo letto nei suoi occhi azzurri. Una persona con degli occhi così belli non può essere una cattiva persona.
Si arrabbiava ancora con me, tuttavia cominciai a comprendere che quella era una caratteristica del suo carattere, non lo faceva perché ero io, Facrìcio Cruz, ma solo perché era così e basta. Si spazientiva soprattutto quando iniziavo a parlare nella mia lingua madre, guardandomi da sopra gli occhiali mi chiedeva:
«Ma li stai facendo gli esercizi su quel libro?» Io ridevo e le rispondevo:
«Sì, professor» la vedevo roteare gli occhi al soffitto e sospirare e mi sentivo bene.
Nessuno dei due toccò più l'argomento bacio. Devo ammettere che dopo gli incontri successivi a quell'assurda serata provai a tirare in ballo il bacio che mi aveva dato, nonostante sapessi che l'aveva fatto per ingelosire il suo amigo. Ma Robbie è una tosta e non si è mai lasciata sfuggire una parola e, a lungo andare, smisi di lanciarle quelle frecciatine.
Ci vedevamo quasi tutti i giorni, eccetto il sabato e la domenica, oppure quando avevo impegni con la squadra, però due week end successivi al bacio - o al pugno, come preferite - accadde qualcosa di strano.
Ero particolarmente irritabile quel lunedì. Il giorno precedente avevo disputato una pessima gara e, come se non bastasse, avevamo perso una partita fondamentale. Arrivai con qualche minuto di ritardo, notando da lontano Robbie smanettare con il suo cellulare.
Mi incuriosirono due cose: la prima era il fatto che non stesse scrivendo o leggendo, la seconda che parve agitarsi vedendomi e, prontamente, abbandonò il telefono sul tavolo. La salutai senza sorriderle, lei al contrario abbozzò un sorrisino stentato.
Il suo cellulare continuava a squillare e ogni volta Robbie arrestava la chiamata. Iniziavo ad arrabbiarmi davvero.  All'ennesimo tentativo di telefonata afferrai quel cellulare e lessi il nome sul display: Marco. Alzai lo sguardo su Robbie che mi strappò il telefono dalle mani, era leggermente arrossita e teneva lo sguardo basso.
«Ci sei tornata insieme?» Il mio timbro di voce era allibito, glielo chiesi senza rifletterci e quella stessa sera nel letto, ripensando alla nostra discussione, me ne pentii.
Aveva avuto ragione lei: non mi riguardava!
«Diciamo...»
«Ti ha tradito. Ma ce l'hai un po' de dignidade?» Fu un colpo basso per lei, una persona così orgogliosa, l'avevo ferita, me lo dissero gli occhi freddi e duri che mi fulminarono.
«Non ti riguarda!»
«Quel tipo mi ha dato un pugno in faccia dopo che-» mi fermai.
«Che cosa? Aventi dillo! Abbi il coraggio di dire quello che ti passa per la testa!»
“Dopo che tu mi hai baciato e mi hai lasciato come un idiota” erano queste le parole che stavo per pronunciare, ma non lo feci e con un gesto della mano le dissi di lasciar perdere.
Incrociai le braccia e poggiai la schiena alla sedia, distendendo le gambe sotto al tavolo. Non mi andava di cominciare quella conversazione, non quel giorno e con la rabbia che provavo.
«Nada! Fai quello che vuoi!»
«Esatto! Farò proprio quello che voglio!» Sbottò seccata.
«Brava!» Aggiunsi schernendola con un applauso sarcastico.
«Che c'è? Siamo nervosi oggi?» Affondò lei.
«Em caso afirmativo?».
Abbozzò un sorrisetto, dicendomi che, evidentemente, quel dannato libro di italiano per bambini non lo stavo nemmeno aprendo. La mia indignazione crebbe. Le risposi a tono, affermando che forse non le avrebbe fatto male imparare a conoscere la mia lingua!
La battuta fu abbastanza infelice. Il passo per il doppio senso era breve, glielo lessi in faccia. Molto probabilmente una parte di me aveva voluto quell'ambiguità. Una parte di me esigeva di sapere cosa era realmente accaduto quella sera.
La vibrazione del cellulare smorzò quell'imbarazzo che si era venuto a creare. Questa volta rispose alla chiamata e io mi alzai dal tavolo per rinfrescarmi il viso (e le idee) in bagno. Da lontano la sentì dire «Ciao Marco» e ne fui disgustato.
Quando tornai stava annotando qualcosa sul suo quaderno. Mi accomodai al mio posto e mi chiese una cosa che non mi aspettavo.
«Allora, perché sei così nervoso oggi? Cos'è successo?» Ero troppo furioso per vedere la genuinità di quella domanda e le risposi con asprezza.
«Adesso mi fai anche da psicologa e amica? Una volta mi dicesti che non saresti mai stata né l'una né l'altra per me» cominciò a riordinare le sue cose.
«Sai una cosa, Fabrìcio? Per oggi è meglio finirla qua! Prima che-»
«Che mi baci o che mi prendi a pugni?» Non riuscivo più a tenere a bada le parole.
«Che la situazione peggiori!» Mi guardò dall'alto, fulminandomi con quei suoi occhi glaciali, quindi prese le sue cose e uscì dal bar. Per la fretta e la collera aveva dimenticato di pagare il suo caffè. Lo feci io per lei. Almeno ero riuscito ad offrirle qualcosa.
 
Quella stessa sera mi chiamò Giovanni De Angelis, il caporedattore della testata giornalistica. Mi disse che aveva una cosa urgente da comunicarmi e che mi aspettava l'indomani nel suo ufficio. Fui certo che Robbie aveva dato le dimissioni per quel lavoro della biografia. Quella notte non riuscii a chiudere occhio.
Robbie era già lì quando quella mattina giunsi in redazione.
La segretaria, ammiccante per tutto il tempo, mi accompagnò nella sala riunioni.
Un ragazzo giovane e con enormi occhiali da vista sedeva sul divanetto in pelle, tenendo la testa china e le mani intrecciate gli ricadevano inermi oltre le ginocchia.
Roberta era in piedi e stava discutendo animatamente con il suo superiore, entrambi si arrestarono quando la segretaria annunciò il mio ingresso. Augurai il buongiorno a tutti. Giovanni mi accolse porgendomi la mano e con un gran sorriso tirato, ma pur sempre un sorriso. Robbie non si voltò neanche a guardarmi in faccia.
Mi chiesi se fosse ancora in collera per la sfuriata del pomeriggio precedente o per qualcos'altro, magari aveva di nuovo litigato con Marco. Indossava una gonna che le arrivava alle ginocchia e una camicia rosa. I capelli erano legati in una treccia.
La stavo ancora osservando quando il caporedattore mi invitò a sedermi, continuando ad avere quel sorriso stentato sul viso mi indicò il ragazzo occhialuto alla mia sinistra, annunciandomi che quello sarebbe stato il nuovo autore della mia biografia.
Non mi sarei dovuto sorprendere, in fondo l'avevo sempre saputo che io e Robbie non saremmo resistiti a lungo. Eravamo troppo diversi: lei un Purosangue Inglese, io un Mustang indomito.
La guardai di soppiatto: Roberta teneva lo sguardo basso e le braccia conserte, si stava morsicando il labbro inferiore. Una volta quelle stesse labbra avevano sfiorato le mie, ma quello era stato solo un incidente di percorso. Mi ritrovai a pensare che forse avrebbe baciato chiunque si fosse trovato a passare di lì in quel momento.
Tornai con l'attenzione sull'uomo di fronte a me, annuii con il capo e aggiunsi:
«Okay, per me è uguale».
Robbie proiettò il suo sguardo furente nei miei occhi, vi lessi delusione ed ebbi l'impressione che fossero lucidi, poi sentii solo il ticchettio dei suoi tacchi sul pavimento e la porta che sbatteva.
Cosa avevo fatto?
 
Mi chiedo perché proprio in questa notte i ricordi mi perseguitano. Forse è a causa della pioggia. Questa pioggia incessante che non vuole smettere di venire giù; questa stessa pioggia che scandì i momenti salienti della nostra storia. Fisso il soffitto nella penombra.
Mi domandai per tutta la giornata cosa cavolo avessi combinato.
Il caporedattore mi aveva detto che quel ragazzo sarebbe stato il mio nuovo scrittore personale e io gli avevo risposto che per me andava bene, che era uguale.
Ma chi volevo prendere in giro?
Uguale? Davvero quell'individuo avrebbe potuto sopperire la presenza di Robbie nei freddi e uggiosi pomeriggi autunnali?
Ero convinto che fosse stata lei a dare le dimissioni e a proporre a De Angelis di affidare a qualcun altro quel lavoro, eppure avevo imparato a conoscerla abbastanza per sapere che lei non si sarebbe mai tirata indietro, neanche dinnanzi a qualche mio comportamento incollerito. D'altra parte mi sembrava di avere tutti i diritti per essere arrabbiato con lei.
E allora perché continuavo a sentirmi così?
Se solo fosse stata un po' meno complicata e scontrosa ne avremmo potuto parlarne. Quella stessa sera tornai al famigerato locale Osiride Club dove tutto era cominciato e - paradossalmente - anche finito. Un bacio. Uno stupido e fugace bacio che sarebbe stato meglio non avercelo mai scambiato. Passai i primi minuti a guardarmi attorno, sperando di vederla; dopo un paio di birre decisi che dovevo assolutamente parlarle.
Colpa dell'alcool in circolo per il mio corpo? Non credo, però di sicuro servì a darmi quel po' di coraggio che mi mancava per dirigermi a casa sua, a qualche isolato di distanza. Non so cosa speravo di ottenere facendo così; mi dicevo che se avessi trovato il portone chiuso mi sarei arreso e sarei tornato a bere qualche altra birra, ma il portone era spalancato e le mie gambe mi condussero lungo la rampa di scale. Suonai il campanello e attesi, mi sembrava di poter sentire i battiti accelerati del mio cuore. Nulla. Mi indispettii e bussai di nuovo, colpendo la porta anche con il pugno. Nada.
Che stolto ero stato! Di sicuro era in giro con il suo fantoccio di nome Marco.
Come aveva potuto dare un'altra chance a quell'imbusto arrogante e presuntuoso?
"A volte non c'è nessun altro" mi aveva detto dopo avermi disinfettato il taglio al labbro. Strinsi i pugni. Era una bugia. Qualcun altro c'era, era lei a non volerlo vedere.
«Che ci fai qua?»
La sua voce mi rimbombò in testa e nell'ambiente silenzioso parve troppo alta. Quando la vidi mi ritrovai senza parole. D'improvviso il motivo che mi aveva spinto ad andarla a cercare mi sembrò futile e insulso. Sospirò e la osservai in silenzio salire gli ultimi gradini e inserire la chiave nella serratura. Aprì la porta d'ingresso e accese la luce nel piccolo salone. Le chiesi se potessi entrare. Si disfò del giubbotto gettandolo sul divano, rispondendomi che la porta era aperta e lasciò la frase in sospeso. Lo presi come un sì.
Chiusi la porta alle mie spalle e la raggiunsi in cucina. Aveva messo a bollire dell'acqua, quindi prese due bustine di tè dalla credenza e due tazze. Aveva i capelli legati in una coda alta, indossava una felpa rosa e bianca aperta su una canotta immacolata, ma il mio sguardo si posò sul didietro messo in risalto dal fuseaux nero. Avvertii un sussulto nelle parti basse e mi costrinsi a distogliere lo sguardo. In verità non ci riuscii fin quando la sua voce non mi riportò sulla terra ferma.
«Sto aspettando» il suo tono era piatto.
«Como?» mi sentivo un imbecille, sospirò di nuovo e incrociò le braccia, poggiandosi al lavabo.
«Se sei venuto fin qui immagino che tu debba dirmi qualcosa».
In realtà questo era il piano, peccato avessi la mente bacata. Quella sera era particolarmente affascinante, senza un velo di trucco sul viso, con le guance arrossate per la corsa, era genuina e autentica.
«Sei andata a fare jogging? Non ti facevo una menina sportiva» accennai un sorriso sperando di alleggerire l'atmosfera.
Lei fece un risolino sarcastico e si sciolse i capelli che le caddero sulle spalle. Sotto quella luce emanavano riflessi ramati, con i pantacollant e la maglia aperta sul seno il mio amigo laggiù mi stava inviando segnali chiari e nitidi. Dovevo sedermi prima che si accorgesse del leggero rigonfiamento nei miei jeans. Robbie mi diede le spalle e cominciò a preparare il tè, continuando il discorso.
«Sei venuto qui solo per dirmi che non mi facevi una “menina sportiva”?» Fece una pausa. «Non credo proprio. Quindi di' quello che devi dire» mi porse una tazza di liquido fumante e prese posto di fronte a me. Guardarla negli occhi era dannatamente difficile, cosa resa ancor più complicata dal fatto che ero attratto da lei come non mai.
«Oggi in ufficio mi sei sembrata arrabbiata. Volevo assicurarmi che non fosse per colpa mia» avrei voluto che mi interrompesse come faceva di solito, mi stavo arrampicando sugli specchi, non sapevo più cosa dirle, ma lei rimase in silenzio e fui costretto a proseguire. «Sei stata tu a voler lasciare questa storia della biografia, quindi non capisco-» mi interruppe (finalmente).
«Oh, no, no, no! Sei stato tu a dire “per me è uguale”. Prenditi le responsabilità delle tue parole!» Non capivo. Responsabilità? Ma di cosa stava parlando. Scossi il capo interdetto e lei riprese. «Ti troverai benissimo con Clark Kent, vedrai. Diventerete ottimi amici. D'altro canto io l'avevo detto a Giovanni che si sarebbe pentito della sua scelta di lasciar scrivere a lui la biografia di un politico, non ha le basi poverino. Quindi, adesso, tutto torna nell'ordine universale delle cose, come sarebbe dovuto essere dall'inizio: lui scriverà di te e io scriverò del grande uomo di politica italiana» sorrise per schernirmi. «L'hai deciso tu!»
Continuava a darmi la colpa per una decisione che avevo preso senza rendermene conto: la situazione cominciava a farsi sempre più chiara.
Iniziavo a comprendere come erano andate le cose: il giornalista (che Robbie si ostinava a chiamare Clark Kent) non era stato in grado di scrivere la biografia di un politico e il caporedattore aveva ben pensato di fare uno scambio di ruoli. Ciò nonostante se avessi risposto che no, per me non era uguale e che volevo che fosse Robbie a continuare il mio libro, tutto sarebbe rimasto com'era.
«È quello che hai sempre voluto, no? Quindi dovresti essermi grata» vidi un lampo di collera nei suoi occhi. Nessuno dei due aveva ancora toccato il suo tè.
«Non avrai la migliore per il tuo libro...»
«Sopravvivrò» non era vero, le stavo mentendo, avrei voluto dirle di tornare a occuparsi della mia biografia e non perché era la migliore, tuttavia Robbie aveva innalzato di nuovo quel muro fra noi. Non riuscivo ad essere me stesso.
«Bene!» Esclamò sorseggiando dalla tazza, poi la suoneria del suo cellulare prese a strimpellare. Si scusò e uscì dalla cucina, da lontano la sentì affermare che era appena rientrata, sì, aveva dimenticato il telefonino a casa e che era dispiaciuta, ma aveva urgente bisogno di una doccia. Tornò da me e abbozzò un timido sorriso, quindi riprese posto dall'altra parte del tavolo, iniziando a giocherellare con la tazza ancora piena.
«Non gli hai detto che ero qui?»
«Credi che ne sarebbe stato contento?» Quella risposta mi confermò che al telefono fosse Marco. Provai una punta di fastidio. Oramai era chiaro che Robbie mi faceva un certo effetto, mi piaceva, e se non fosse stata lei - così com'era - l'avrei già invitata a uscire. E quel Marco poi, cosa ci trovava in lui? Lo amava?
In fondo chi ero io per giudicare?
Mi alzai e lei mi seguì con lo sguardo, scusandomi per non aver bevuto il suo tè, era stata molto gentile ad offrirmelo, ma a me non piace il tè. Si offrì di accompagnarmi fino all'uscio. Mi voltai a guardarla un'ultima volta, oramai fuori da casa sua:
«Per quel che vale» iniziai, senza neanche sapere bene quello che avrei detto «Marco non ti merita. Lo so che pensi che a volte non c'è nessun altro, ma forse sei tu a non volerlo vedere quell'altro».
Non rispose alla mia provocazione, semplicemente mi augurò la buona notte e chiuse la porta con delicatezza; rimasi qualche altro secondo a fissare il legno scuro, illudendomi di vederla riaprirsi. Se fosse successo sarebbe cambiato tutto ciò che ne seguì di lì a qualche minuto, ma ciò non avvenne e mi chiesi se ci saremmo più rivisti.
Lo avremmo fatto eccome, sicuramente non nelle condizioni che mi sarei augurato.
Non in una austera camera d'ospedale.
 

 
Chiudo il libro e lo ripongo sul tavolino, tiro su le ginocchia poggiandovi sopra il mento.
Un brivido di freddo mi percorre tutta, nonostante la coperta a quadri mi copra le spalle come un mantello. Sento ancora lo scroscio forte della pioggia e qualche altro tuono in lontananza. Anche in quella dannata notte dell'incidente pioveva a dirotto.
Quando lo vidi imbambolato sul pianerottolo di casa mia stentai a credere che fosse davvero lui. Per un attimo mi illusi che fosse venuto a dirmi che non gli andava affatto bene che fosse quell'invertebrato a scrivere la sua biografia, ma non sono una persona che vive di illusioni e mi costrinsi a porre un freno alla mia speranza. Certo, avrei potuto fare io il primo passo e fargli sapere che non volevo abbandonare il lavoro (non volevo abbandonare lui), peccato che il mio stupido orgoglio non me lo concesse.
Il cuore mi batteva forte, e non per i 50 minuti di corsa, per niente, a dirmelo fu la sensazione di vuoto allo stomaco che provai alla sua vista.
Cielo e se era bello visto da là, quattro o cinque gradini più giù: la sua carnagione color caramello, i suoi ricci sbarazzini, il fisico da atleta, il tatoo che spiccava sul dorso della mano. Mi intrigava tutto di lui. Tutto! Oramai anche la cadenza da America Latina che i primi giorni mi scocciava era diventata una specie di droga.
Eppure non riuscivo ad essere me stessa in sua presenza, diventavo impaziente e questo mi portava ad essere antipatica. Sentivo che se non avessi fatto così gli sarei saltata addosso, come era accaduto quella sera al pub, quando ogni mia parola contro Marco era stata progettata per far in modo che avessi potuto baciarlo, con l'alibi della ripicca.
Sedemmo dinnanzi a tazze di tè fumante e non mi disse mai di tornare a lavorare per lui. Ero così delusa e amareggiata. Quando il mio cellulare trillò mi assentai per rispondere: era mia madre. Fabrìcio mi chiese se gli avessi detto che era lì con me, era ovvio che dava per scontato che a telefono fosse Marco e io glielo lasciai credere, così come gli avevo lasciato credere che eravamo tornati insieme. Il mio ex fidanzato mi stava facendo una corte sfrenata, ma non mi sarei mai sognata di dargli una seconda chance,  a causa del tradimento certo, ma soprattutto perché non ero più innamorata di lui.
Sulla soglia di casa mi disse che Marco non mi meritava, che non era l'unico, che c'era qualcun altro, se solo mi fossi sforzata di vederlo. Se gli avessi sfiorato il viso e baciato la bocca (così come desideravo) avrei evitato l'incidente, ma ancora una volta a scegliere per me fu l'orgoglio.
O forse no, forse stavo confondendo la codardia con l'orgoglio.
Adagiai la fronte contro quella dannata porta che ci separava. Una voce insistente mi urlava di riaprirla e di dirgli che non doveva mandarmi via, perché volevo continuare a scrivere di lui e con lui, al "Bar del Borgo", seduti al nostro tavolo. D'istinto riaprii la porta con slancio.
«Fabrìcio!» Mi sentii dire al nulla, ma lui non c'era più, era già andato via. La richiusi e mi lasciai scivolare contro di essa, sul pavimento. Rimasi così, con lo sguardo puntato al soffitto sforzandomi di non piangere. Lui era appena andato via e già sentivo la sua mancanza.
Ero frustrata e triste.
Uguale: per lui non c'era differenza fra me e Clark Kent e cosa mi sarei dovuta aspettare? Era quello che meritavo! Eppure avrei voluto sentirgli dire che no, Robbie non si toccava, Robbie doveva rimanere la sua scrittrice.
Ero completamente assorta nei miei pensieri quando il campanello trillò, seguito da due colpi di pugno. Letteralmente balzai in piedi.
Era lui! Era tornato!
Spalancai la porta con un gran sorriso sul volto, ero felice.
«Fabrì-» le parole si strozzarono in gola.
Dinnanzi a me c'era Marco, inviperito, rosso in viso per la rabbia, gli occhi spiritati.
«Puttana!» Esclamò e feci per chiudergli la porta in faccia «Che c'è? Ti fai sbattere dal brasiliano adesso?» Spinsi con quanta forza avevo in corpo per chiuderlo fuori casa, però era troppo forte e con un colpo secco spalancò la porta, scaraventandomi a terra, e quando la sentii sbattere con un tonfo provai una paura viscerale. In un attimo fu su di me.
«Alzati, troia!» Sbottò, afferrandomi sotto l'ascella per rimettermi in piedi. Mi stava facendo male, scuotendomi avanti e indietro. «L'ho visto sai, il tuo amichetto, uscire dal palazzo!» Mi spiava? Da quando?
Urlai di lasciarmi andare e lui, in tutta risposta, mi lanciò contro il divano. Avvertii una fitta alla base della spina dorsale. Ero totalmente scioccata e sopraffatta dal terrore. Lo conoscevo fin troppo bene e i suoi occhi striati di rosso mi confermarono che aveva bevuto, il suo alito ne era la prova concreta e quando era ubriaco era capace di tutto…
«Vattene Marco. Lasciami in pace!»
«Non vuoi tornare con me perché ti sei innamorata del calciatore famoso? Eh, lurida puttana da quattro soldi, è così?»
Era come se le mie parole non gli fossero mai giunte. Cercai con gli occhi una via di fuga, ma quando feci per muovermi la schiena inviò squarci di dolore acuto e mi arrestai. Mi porse la mano, era sull'orlo delle lacrime e questo mi spaventò ancor di più.
«Torna con me, Robbie. Io ti amo.»
«Te lo ripeto per l'ultima volta: vattene! Esci da casa mia e dalla mia vita!»
La sua mascella si indurì, con la stessa mano protesa verso di me mi schiaffeggiò. Un rivolo di sangue prese a scorrermi dal sopracciglio destro lungo la guancia. Il dolore fu istantaneo, ma ancor di più lo fu la mia reazione. Puntellandomi contro la spalliera del divano gli restituii lo schiaffo. Marco parve non accusarlo nemmeno, mi sorrise tracotante e mi afferrò il volto attirandomi contro di sé. Le nostre labbra si sfioravano, potevo sentire distintamente l'odore di alcool trasudare da ogni poro della sua pelle e il suo respiro umidiccio mi finiva in faccia. Aveva l'espressione di un pazzo.
«È più bravo di me a fotterti?»
Gli sputai in faccia. Era riprovevole e mi chiesi come avessi fatto a stare con una persona come lui per ben due anni!
Probabilmente perché davvero non c'era nessun altro.
Mi baciò con cattiveria, continuando a stringere le mie guance, serrai la bocca per evitare che la sua lingua vi entrasse dentro, però fu del tutto inutile. La schiena mi doleva e la ferita sul sopracciglio pulsava e avevo tanta, tanta paura. Con la mano libera mi stritolò un seno, provocandomi una nuova fitta, poi lo sentì scendere lungo il ventre e quando fece per entrare nei fuseaux iniziai a dibattermi, le lacrime iniziarono a bagnare il mio viso. Si arrestò sopra le mutandine e finalmente allontanò la sua bocca dalla mia.
«Ti piacerebbe farti scopare ancora da me, vero? Ma non ti darò questo piacere!» Estrasse dalla tasca dei pantaloni un coltellino svizzero e lo spinse dentro il mio ventre.
Mi accasciai al suolo, premendo il palmo contro la ferita e inzuppandolo in un attimo di sangue. Lo vidi aprire la porta e andare via, senza richiuderla. Calai lo sguardo sulla mano bagnata del mio stesso sangue, ciò nonostante la prima sensazione che provai fu sollievo: era andato via e questo mi bastava. I miei respiri erano rantoli, sangue e lacrime si mischiavano sul pavimento sopra il quale ero riversa, qui iniziava a formarsi una pozzanghera rossa e la vista si stava annebbiando. Con le poche forze che mi rimanevano mi trascinai nella mia camera da letto, afferrai il cellulare sul comò e composi il 118. L'ultima immagine che si formò nella mia mente, prima di perdere i sensi, fu il ricordo del mio primo e unico bacio dato a Fabrìcio Cruz.
 
Seduta su questo divano, in questa fredda notte piovosa, mi sembra ancora di sentir correre sulla mia pelle le emozioni e le sensazioni che provai incrociando i suoi occhi dispiaciuti e insieme furenti sull'uscio di quella camera d'ospedale, con un fascio di margherite in mano, quasi a disagio.
Quando riaprii gli occhi feci fatica a comprendere la situazione. Mi guardai attorno, spaesata, inequivocabilmente era una stanza d'ospedale. Il mio era l'unico letto in quella piccola camera rigorosamente candida, con le pareti di un verdino tenue. E tenue era la luce che filtrava attraverso le veneziane.
Potevo sentire il dolce fragore della pioggia.
Ad entrambi i lati del letto, sul quale me ne stavo sdraiata a pancia in su, torreggiavano  flebo che finivano la loro corsa direttamente nelle mie vene: una sacca conteneva del liquido rosso scuro, l'altra un liquido trasparente. Piano piano mi stavano tornando in mente le scene della sera precedente: avevo avuto una discussione con un Marco ubriaco che mi aveva pugnalata con il suo coltellino svizzero. Non ho mai approvato che se ne andasse in giro con quell'affare in tasca.
E Fabrìcio. Già, anche lui era venuto a casa mia. Distesa in quel letto scarno ed essenziale desiderai ardentemente di vederlo e di sentire la voce di quest'ultimo.
La porta della camera si aprì e un'infermiera intorno ai cinquant'anni ne fece capolino, spingendo con sé un carrello colmo di medicine e bende. Mi sorrise e mi disse che era contenta di vedermi sveglia, controllò la flebo di destra affermando che l'avevo scampata per un pelo, un po' più giù e avrei potuto riportare danni letali. Senza smettere di sorridere la vidi fare il giro del letto per controllare la sacca rossa, quindi aggiunse che avevo perso molto sangue, per questo mi sarebbe servita almeno una trasfusione. Rigirò intorno a me e prese un aggeggio per misurarmi la temperatura corporea, la osservai in silenzio contare i secondi sull'orologio da polso e fare una piccola smorfia:
«Hai un po' di febbre, ma questo è normale» tornò a sorridermi e mi accarezzò la testa. «Allora, piccola, chi vuoi chiamare per dirgli della tua situazione?»
Il primo nome che mi venne in mente fu quello di Fabrìcio Cruz, ma telefonarlo per dirgli che ero in ospedale mi parve azzardato. Avrebbe potuto rispondermi che non gliene poteva fregar di meno o credere che volessi essere compatita. La verità è che ancora una volta ebbi paura a mostrare la mia debolezza.
Guardai la signora bionda, ancora in attesa della mia risposta.
«Il mio capo. Devo dirgli che non andrò a lavoro oggi.»
La donna parve delusa, si limitò a porgermi il mio cellulare che, mi spiegò, stringevo ancora in mano quando i ragazzi del pronto soccorso erano venuti in casa e mi avevano trovato ai piedi del comò, priva di sensi, in una pozza di sangue fresco.
La ringraziai e aspettai che fosse uscita dalla stanza per chiamare Giovanni.
Passai le ore successive a fissare il soffitto. Avevo le braccia che mi formicolavano a causa dei lavaggi e la ferita iniziava a pulsarmi. Avrei voluto piangere, però mi resi conto che non avevo lacrime da versare. Stanca di guardare all'insù voltai lo sguardo fuori dalla finestra, dove il cielo era plumbeo e non smetteva di piovere, proprio come dentro di me: solo grigiore e tanta paura.
E se Marco fosse tornato? Come lo avrei fermato?
Sapevo bene che se ero ancora viva era solo per un colpo di fortuna e nient'altro.
Giovanni De Angelis passò a trovarmi all'ora di pranzo, accompagnato dalla segretaria. Mi baciò la fronte e vidi che aveva le lacrime agli occhi. È un brav'uomo e si era affezionato davvero a me, forse ancora tuttora che non lavoro più nella sua testata giornalistica. La ragazza che era con lui piangeva senza riserva. Mi abbracciò facendomi quasi male alla ferita, ma trattenni il gemito di dolore, nonostante l'avessi sempre trattata con amarezza era lì e stava piangendo per me. Avrei voluto informarmi su come procedeva il lavoro di Clark Kent, però questo significava implicare - seppur indirettamente - il nome di Fabrìcio e non mi andava. Parlammo dell'altra biografia invece, quella che avrei dovuto cominciare a scrivere di lì a qualche giorno. Il caporedattore mi disse che dovevo solo pensare a guarire, la data di pubblicazione di quel libro poteva anche slittare.
Andarono via e mi sentii di nuovo sola.
Quel pomeriggio dormii profondamente, senza alcun sogno, probabilmente a causa degli analgesici per il dolore, perciò fui grata a quei medicinali: preferivo dormire piuttosto che passare il tempo a rimuginare sulla mia vita.
La sera successiva la solita, dolce infermiera (con la quale avevo stretto un rapporto quasi materno e che spesso veniva a farmi visita anche fuori dall'orario di servizio), mi stava cambiando la flebo e ricordo che sorridevo per un aneddoto buffo su un suo vecchio paziente. Quando sentimmo un toc-toc sulla porta la vidi alzare lo sguardo in quella direzione e gli occhi le brillarono. Batté le mani sul grosso seno ed esclamò:
«Oh cielo! Sono bellissime!»
Molto lentamente (avevo la schiena ancora indolenzita a causa della botta contro il divano) mi voltai in direzione della porta. Fabrìcio era fermo sulla soglia, con un piede dentro e uno fuori, in mano stringeva un fascio di margherite bianche. Il mio sorriso morì sulle labbra e il cuore iniziò a battere più velocemente. Avevo avuto una così grande voglia di vederlo che in quel momento non mi parve vero che potesse essere davvero lì.
I nostri sguardi erano come incollati, vidi come in un sogno la donna cinquantenne dirgli qualcosa, lui le sorrise e le rispose, ma non riuscii a intercettare il loro breve dialogo, poi lei gli tolse i fiori dalle mani e scomparve nei corridoi dell'ospedale.
Lo osservai, impossibilitata a muovermi, sia per la sua presenza, sia per il dolore alla spina dorsale, stava avanzando verso di me, aveva l'aria imbarazzata, l'aria di un bambino dannatamente sexy. Quando fu accanto al letto indicò con il pollice alle sue spalle.
«Ti avevo portato dei fiori, ma la signora me li ha presi» si voltò indietro, forse per evitare il mio sguardo. «Ha detto che serviva un vaso» si girò di nuovo verso di me. Non riuscivo a parlare, avevo la gola secca e inoltre ero consapevole del fatto che non appena avessi aperto bocca sarei scoppiata in un pianto isterico. Adesso Fabrìcio era lì con me e mi sentivo protetta, potevo anche abbassare le difese, eppure continuava ad essere così maledettamente difficile. Si avvicinò ancor di più, aveva uno sguardo dolcissimo, mi sfiorò il cerotto sul sopracciglio con le dita.
«È stato Marco?» Niente giri di parole pensai e mi voltai dall'altro lato, intimidita anche da quel tocco. Fissai la pioggia cadere fuori dalla finestra, da troppe notti non vedevo le stelle. Sentii la prima lacrima rigarmi la guancia destra. Non potevo asciugarla, se ne sarebbe accorto.
«Robbie, è stato Marco?» Il suo tono s'indurì e io non poté fare altro che annuire con il capo, lo sentì sospirare. «L'hai detto alla polizia?» Questa volta scossi la testa in segno di negazione. Oramai le lacrime non si contavano più.
L'infermiera irruppe con la sua solita allegria, adagiò il vaso proprio davanti ai miei occhi,  notò il mio volto bagnato dalle lacrime e con discrezione andò via, chiudendo la porta dietro di sé. La vista di quel fascio di margherite bianche fu il colpo di grazia. Mi coprii il viso con le mani (come meglio potevo perché i lavaggi limitavano i movimenti) e piansi.
Sentii la sua mano calda e rassicurante posarsi sul mio capo e delicatamente se lo portò contro l'addome. Tutto quello che mi serviva era con me in quella desolata camera d'ospedale.
«Devi dirlo alla polizia, devi denunciarlo!» Scossi la testa e mi allontanai dal suo abbraccio accogliente, asciugandomi le guance con i palmi. «È successo dopo che sono andato via?» Annuii con un cenno del capo. «Gli avevi detto che ero stato da te?»
Sospirai. Era tempo di parlare.
«No, ti ha visto uscire da casa mia» si sedette ai piedi del letto, mi guardò con aria interessata e io proseguii. «Mi stava spiando».
«No entendo» avevo dimenticato il fatto che lui credesse che io e Marco fossimo tornati insieme. Abbozzai un sorrisino timido, sembrava sinceramente preoccupato e fui sul punto di carezzargli il volto.
«Non ci sono mai tornata con Marco. Quella sera, al telefono, era mia madre» avevo una paura tremenda che si potesse arrabbiare, ma lui rimase seduto lì dinnanzi a me, a scrutarmi con attenzione. «Marco si è indispettito perché ti ha visto uscire dal palazzo e… si è fatto delle strane idee… su di noi».
Lasciò dondolare il capo un paio di volte, fissando i miei occhi con intensità; era ora di cambiare argomento, perciò lo ringraziai per i fiori, ma lui non abboccò.
«… e per il bacio» aggiunse raggelandomi.
Mi guardai le mani e gli risposi di sì, Marco si era indispettito anche per il bacio, o meglio, da lì era cominciato tutto. Per un attimo calò il silenzio, poi decisi di continuare quel discorso taciuto per troppo tempo.
«Senti Fabrìcio, riguardo a quella sera, volevo dirti che-» mi fermò subitaneo.
«Tranquilla, lo so» davvero? Lo sapeva? «L'ho capito: era per far ingelosire Marco».
Lo fissai incredula. Non sarei mai riuscita a dirgli la verità, ossia che quel bacio era stato ponderato e cercato. Sorrisi in segno di assenso.
Rimase lì a tenermi compagnia per le due ore successive. Quando si alzò per andare via si chinò a baciarmi una guancia, poi disse una cosa che mi rese la paziente più felice del mondo.
«Ho detto a Giovanni che mi piacerebbe che a scrivere la mia biografia fossi tu. Lui mi ha risposto che avrei dovuto chiedere a te... »
«Vuoi la migliore, non è vero?»
Sorrise in maniera disarmante.
«Ci tengo al mio nome» concluse che sarebbe passato il pomeriggio seguente per riprendere i nostri consueti incontri. Non chiedevo altro.
Una cosa è certa: non mi sarei mai aspettata che Marco si facesse vivo di nuovo, come un ladro torna nella casa che ha derubato o come un assassino sul luogo del delitto e il cadavere ancora caldo. Non ebbi paura per me, quanto per Fabrìcio e fu in quel momento che compresi quanto tenessi a lui: molto, molto di più di quello che volevo credere e accettare. Quel pomeriggio capii che c'era qualcosa di ancora più importante della mia stessa vita: la sua.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Sii felice ***


Capitolo 3
Sii felice

"... non possono vedere..."
 
Vedere Robbie in quel letto d'ospedale mi scosse fortemente. Strinsi lo stelo di quel bouquet di margherite bianche fino a farmi penetrare le unghie nel palmo della mano destra. 
Sapevo che era stato il suo ex fidanzato ancor prima che me lo dicessero i suoi occhi azzurri. Provai l'incontrollabile desiderio di prenderlo a calci e pugni e fargli ancor più male di quanto ne avesse fatto a lei, semmai fosse stato possibile. Immaginai la paura che doveva aver provato la mia Robbie e la rabbia aumentò, non solo nei confronti di quell'animale, ma anche nei miei.
Già. Ero in collera con me stesso perché se non l'avessi lasciata sola, se le avessi confessato il motivo per cui ero andato a casa sua quella sera, se avessi bussato di nuovo alla sua porta, invece di starmene imbambolato su quel pianerottolo, molto probabilmente non avrebbe dovuto sopportare tutto quello che venne, e questo mi faceva un gran male.
In ogni caso scorgere il suo sorriso, mentre era intenta a conversare con l'infermiera, mi sollevò appena. La stessa, una donna tonda e bionda, si avvicinò a me euforica offrendosi di riporre quel fascio di margherite in un vaso. Accettai, perlomeno avevo evitato l'imbarazzo di porgerli a Roberta. Con lei non potevi mai sapere quale reazione avrebbe avuto.
Mi avvicinai al letto, sempre con circospezione, dovevo andarci piano se non volevo essere cacciato in malo modo. Subito notai il cerotto sul sopracciglio destro e non mi importò più di nulla, né di quello che avrebbe potuto dire, né di quello che avrebbe potuto fare, semplicemente la collera mi ribollì dentro, offuscando una parte della razionalità. Vedere i segni di quelle percosse e sapere della profonda ferita riportata all'addome mi fece desiderare ardentemente non solo di ucciderlo, ma di farlo con lentezza.
Per i primi minuti non parlò, lo fecero i suoi occhi per lei, sembravano implorare solo un po' di tranquillità e io ero disposto a concedergliela, ma prima dovevo conoscere come erano andate le cose, sapere se in qualche modo, seppur recondito, ne ero colpevole.
Sì, purtroppo lo ero!
Le mie dita sembravano avere un'anima a sé, sfiorandole il cerotto sopra l'occhio, a quel punto le chiesi se fosse stato lui. Si voltò verso la finestra senza rispondere alla mia domanda, allora glielo chiesi di nuovo, questa volta con un tono più duro. Scorsi la sua immagine riflessa nel vetro e vidi una lacrima solcarle la guancia sinistra.
Avrei potuto abbracciarla e consolarla, ma sapevo quanto fosse orgogliosa quella scrittrice ferita già troppe volte, fisicamente e spiritualmente, quindi mi costrinsi a fingere di non averla notata. Continuai a farle domande forse inopportune in quel frangente, tuttavia  non potevo vivere e illudermi che tutto quello non fosse accaduto anche per causa mia.
L'infermiera tornò un vaso, nel quale se ne stavano i fiori che avevo scelto per lei. Commossa Roberta si nascose il viso come meglio poteva e pianse. Posai una mano sul suo capo e la tenni stretta contro il mio addome. Non mi lasciai intenerire dalle sue lacrime, non potevo, poi finalmente mi raccontò che Marco la stava spiando e che si era indispettito dopo avermi visto uscire dal suo palazzo. Mi disse che si era fatto delle strane idee su di noi, soprattutto dopo il nostro bacio al pub. Fece per dire qualcosa a proposito di quella sera, ma non mi andava di ascoltare le sue scuse o quel che sia, promisi a me stesso che avrei riaperto l'argomento (e che lo avremmo affrontato a modo mio).
Mi confessò che non erano mai tornati insieme e mi chiesi perché mai mi avesse lasciato credere una cosa simile, ma non glielo domandai: forse aveva paura quanto me di quei sentimenti che provavamo l'uno per l'altra. Le annunciai che sarei tornato il pomeriggio successivo per riprendere i nostri consueti incontri, almeno riuscii a dirle che volevo fosse lei a scrivere il mio libro e mi sembrò soddisfatta: avevo dato una bella pacca sulla spalla al suo orgoglio.
 
Il giorno seguente tornai e Robbie non era sola, con lei c'era Marco.
Non credo di aver mai provato quella furia che si scatenò in me quando lo vidi. Fu come se la mia mente si fosse svuotata, non riuscivo a pensare a nient'altro, non vedevo che lui. La sovrastava con la sua stazza, entrambi in piedi dinnanzi alla porta del bagno.
Ho ricordi più o meno offuscati di quel momento, a volte nei sogni rivivo con angoscia quegli attimi, chiedendomi cosa sarebbe accaduto se non fossi arrivato in tempo. Senza preavviso lo afferrai per le spalle sbattendolo contro il muro, mentre gli stringevo una mano intorno alla gola. Lo guardavo dal basso, mi superava di dieci centimetri almeno. Sorrise tracotante e la sua voce irrisoria esclamò:
«Oh, è arrivato il fidanzatino!»
Avvicinai il mio viso al suo, digrignai i denti intimandogli di andarsene, ma lui scoppiò in una risata e protese una mano verso Robbie, che era lì in piedi accanto a me e teneva le dita adagiate sul mio avambraccio, come a dirmi di lasciarlo andare. Altri cinque o sei millimetri e l'avrebbe toccata, prontamente gli afferrai il polso, voltandolo con la faccia contro il muro:
«Você não deve tocar!»
Sentii gli occhi di Robbie su di me e, attratto, mi voltai a guardarla.
Brillavano. I suoi occhi brillavano.
Non la devi toccare!” avevo pronunciato quelle parole d'istinto, senza rifletterci, mi erano uscite così spontaneamente che mi stupirono e spaventarono insieme. Marco mi spintonò all'indietro liberandosi della mia morsa, lo vidi estrarre un coltellino svizzero dalla tasca dei jeans e puntarmelo contro. In quel momento compresi con cosa l'aveva ferita e provai un inarrestabile istinto omicida.
Come poteva esser stato così vigliacco? Come può un uomo essere così meschino?
Al rallentatore osservai Robbie mettersi fra noi, urlandogli di andarsene e mi chiesi quanto coraggio dovesse possedere per fronteggiare di nuovo quell'arma impugnata dall'uomo che l'aveva già ferita una volta.
Marco allungò di nuovo la mano intento a  sfiorarle il viso.
«Robbie, amore. Torna con me, io ti am- »
Lo fermai appena prima che potesse anche solo sfiorarla.
«Ti ho detto que não deve tocar ribadii il concetto di poco prima, mentre con la mano libera gli sferravo un pugno. «Isto é para o punho al pub» ovviamente mi riferivo alla serata all'Osiride Club, quando ancora scioccato per il bacio non ero stato in grado di reagire, poi lo colpii di nuovo. «E isto é para Robbie!» ero consapevole che un solo pugno non avrebbe potuto rendere giustizia a tutto il male che le aveva fatto, eppure vederlo cadere ginocchioni, con il sangue che gli colava dal naso e le lacrime agli occhi per il dolore, fu abbastanza soddisfacente. Si alzò, farfugliando qualcosa che non compresi, quindi uscì dalla stanza e dalle nostre vite: qualche settimana dopo scoprimmo che si era trasferito in un altra città.
Roberta se ne stava immobile, gli occhi fissi sul coltellino che Marco aveva perso quando lo avevo colpito. Lo raccolsi  e glielo porsi, con il palmo aperto.
«Vuoi tenerlo?»
«No.»
«Bem» mi avvicinai alla finestra, l'aprii e lo gettai di sotto. Solo allora mi accorsi che il vaso con le margherite era stato rovesciato. Ai miei piedi si mischiavano pezzi di vetro, fiori e acqua. Non ci voleva una cartomante per indovinare chi l'avesse scaraventato a terra.
In lontananza vibrò un tuono. Robbie fissò il cielo plumbeo, illuminato a tratti da lampi verdastri, gli occhi lucidi di lacrime.
«Non fa che piovere» esclamò quasi in un sussurro, come in trance. Raccolsi una margherita e gliela offrii.
«Non so nel vostro paese, ma nel mio si dice che dopo un temporale nasce sempre l'arcobaleno» di nuovo notai quella luce brillare in fondo ai suoi occhi. Prese la margherita sfiorandomi la mano con le dita, quindi si sistemò sul letto d'ospedale, un tantino goffamente, poi adagio aprì il primo cassetto del mobiletto sulla destra, estraendone un piccolo quaderno e una penna.
«Allora, signor Cruz, di cosa mi vuole parlare oggi?»
Abbozzò un sorriso che trovai bellissimo, perché nato dalla sofferenza. Ricambiai a mia volta, accomodandomi su quello stesso letto.
 
Oramai ho abbandonato l'idea di riaddormentarmi. La mia mente è un frullio di ricordi che si sovrappongono. Ripenso a quella margherita che gli porsi e che ancora conserva.
Robbie fu dimessa dopo sei giorni dal ricovero; riprendemmo a vederci per gli ultimissimi accorgimenti alla mia biografia. Ai seguenti appuntamenti al "Caffè del Borgo" smise di indossare tailleur classici rigorosamente neri o grigi; qualcosa era indubbiamente mutato in lei e mi piaceva di più adesso che portava i capelli sciolti e jeans chiari. Un giorno, mentre parlava velocemente gesticolando molto mentre mi spiegava come avrebbe impostato la narrazione del libro, io non facevo che fissare i suoi boccoli e a immaginarmi di farvi sprofondare dentro le dita. Lei se ne accorse e mi agitò una mano davanti al volto.
«I miei capelli hanno qualcosa che non va per caso?»
«Como?»  fu come se mi svegliassi da un lungo sonno. Sospirò.
«Se non la smetti di fissarmeli, li lego!»
Le sorrisi, pensando che alcune cose non sarebbero mai cambiate.
«Sono bellissimi» mi ritrovai a dire senza averci pensato su. Quel pomeriggio compresi che Robbie non gradiva molto i complimenti, la mettevano a disagio e tendeva a mettersi sulla difensiva. La adoro anche per questo. Arrossì e cominciò a cercare qualcosa nella borsa che portava sempre con sé. Mi porse alcuni fogli, fu in quel momento che scorsi la margherita rinsecchita – ma intatta – scivolare sul pavimento. La raccolsi abbozzando un sorrisetto, lei non tardò a strapparmela di mano, imbarazzata.
«L'ho tenuta perché è il simbolo del mio addio a Marco» non le avevo chiesto spiegazioni, eppure evidentemente sentì il bisogno di giustificarsi.
«Ovviamente» affermai, senza smettere di sorridere e il suo rossore aumentò. Mi chiesi dove fosse finita la Robbie sprezzante e sicura di sé che avevo conosciuto alla redazione giornalistica. Avrei ottenuto la risposta quella sera stessa: stava solo facendo una pennichella.
Presi a leggere i fogli che avevo davanti a me, dopo le prime righe (da cui riuscii a comprendere solo poche parole, tra cui il mio nome) le dissi che non ci capivo niente, che non era come quel libro per bambini che mi aveva dato.
Se li riprese con impeto, sbottando che ero un disastro, con me non si poteva fare nulla.
Mi portai le braccia sul petto e mi intestardii, volevo sapere quello che c'era scritto, mi rispose che non erano fatti miei.
Ne dubitavo largamente.
Qualche ora più tarda la rincontrai all'Osiride Club.
Ero in attesa che il barista mi servisse la birra che gli avevo chiesto, intanto mi guardavo attorno. Non c'era molta gente, forse perché era solo un giovedì qualunque. Pagai la birra e ne bevvi subito un sorso, assaporando il suo retrogusto al miele, poi notai i suoi riccioli. Distrattamente mi asciugai le labbra con il dorso della mano e mi avvicinai: al tavolo con lei c'era il suo collega Clark Kent.
Sentii subito vibrare la gelosia, feci fatica a fingere che non mi importasse della situazione, come se non mi stessi chiedendo cosa ci facevano quei due insieme. Li osservai da lontano alzarsi e uscire, lui le tenne aperta la porta e fece il cenno universale del “prego, prima le signore”, poi sparirono. Bevvi un altro sorso di birra, annunciai alle persone che erano con me quella sera che ero dispiaciuto, ma dovevo scappare. Non diedi loro il tempo di replicare che ero già fuori dal locale. Mi accinsi a percorrere la distanza che ci divideva, intanto Roberta gli stava posando una mano sulla spalla, mentre gli parlava.
«Clar… ehm, cioè, Fabio, tu sei un caro collega per me, però non credo che tra di noi possa funzion… Fabrìcio?»
Facevo fatica a trattenere le risa e l'espressione di Clark Kent non mi aiutava affatto; scorsi Robbie scuotere il capo, quasi supplichevole, a lasciarmi intendere di non ridergli in faccia. In effetti non sarebbe stato carino nei confronti di quel ragazzo che aveva appena incassato un rifiuto. Lui chinò la testa bisbigliando che sarebbe tornato a casa e Robbie lo salutò dandogli appuntamento all'indomani in redazione, io invece lo salutai in tono cantilenante.
«Lo stavi chiamando Clark Kent! Seis insensìvel!»
Si accigliò appena, trattenendo un risolino.
«Ehi! Io non sono insensìvel!» esclamò, marcando il mio accento. 
«Oh, si che lo sei. Devo ricordarti quando ci hanno presentati, oppure quella volta che…» mi mostrò il palmo, in segno di stop.
«Ok! Ho capito! Sono insensìvel!» aveva uno splendido sorriso. «Per farmi perdonare mi lascerò offrire un caffè all'Osiride» indicò il locale alle nostre spalle.
«Excusa, non dovresti essere tu a dover offrire allora?»
Mi colpì all'addome e mi disse di fare il cavaliere, seppur di principesco avevo ben poco, tra orecchini sfavillanti e tatuaggi sparsi per il braccio. Fui più che orgoglioso di farle da cavaliere quella sera.
 
Gettai la bottiglia di birra – vuota solo per metà – nel primo cestino della spazzatura e mi inoltrai con lei nel locale. Seduti al tavolo le chiesi da quanto tempo Clark Kent era innamorato e se si fosse mai accorta di quei sentimenti. Mi raccontò che doveva esser cotto di lei dal primo giorno che si erano conosciuti, ma lui non si era mai dichiarato, probabilmente aveva preso coraggio dopo l'uscita di scena di Marco. In fondo ero un po' come Clark Kent: anche io stavo man mano prendendo coraggio ora che Marco era scomparso dalle nostre vite e soprattutto da quella di Robbie.
La osservai avvicinare la tazzina di caffè alle labbra, inevitabilmente riaffiorò il ricordo del bacio avvenuto proprio in quello stesso luogo. Giocherellando con la mia tazza  provai ad introdurre il discorso.
«A proposito del nostro bacio...» alzò di scatto lo sguardo su di me, prendendo a toccarsi l'ultima curva di un ricciolo.
«Credevo ne avessimo già discusso, ricordi? In ospedale...» tentò di abbozzare un sorriso, chiaramente a disagio.
«Oh, lo ricordo eccome. Però sei stata la sola a giustificarsi e… » arrestò la frase sul più bello.
«Davvero, è acqua pass-»
«Robbie?»
«S-si» non riusciva a guardarmi per più di qualche secondo negli occhi, distoglieva continuamente lo sguardo.
«Ti sei mai chiesta perché risposi al tuo bacio quella sera?»
Chinò definitivamente lo sguardo sul fondo della tazzina e sospirò, ma non era uno dei suoi soliti sbuffi indispettiti, era il sospiro di una persona che si è arresa e pensa “se proprio dobbiamo parlarne, allora facciamolo”.
«Ogni santo giorno» fu la sua risposta. Sentii lo stomaco in subbuglio, ma Robbie rimaneva sempre Robbie e guardandomi con circospezione affermò: «E se questo fosse un film d'amore adesso sarebbe il momento di massima tensione, dove mi afferri il viso e mi baci» si alzò in piedi, senza smettere di fissarmi. «Ma questo non è un film, quindi non lo farai perché io adesso me ne tornerò a casa mia a terminare quel tuo stupido libro!» Si infilò velocemente il cappotto scuro e afferrò la sua borsa, mentre io sogghignavo con amarezza, incredulo, scuotendo il capo.
«Sai cosa penso?» La mia domanda riuscì ad arrestarla. «Penso che tutto ciò di cui hai bisogno è bilanciare le passioni del cuore e le ragioni della mente.»
Mi augurò la buona notte e andò via, senza aggiungere altro. I suoi modi ambigui di porsi nei miei confronti e i suoi improvvisi sbalzi d'umore, cominciavano a stancarmi sul serio.
Eppure di lì a qualche settimana sarebbe cambiato tutto.
 

 
Sapevo di aver solo rimandato quel bacio. Intorno a noi c'era l'atmosfera ideale perché accadesse. Stavo uscendo da un periodo buio durante il quale lui mi era stato accanto più di chiunque altro, più degli amici di vecchia data, più della mia stessa famiglia, e io desideravo tremendamente perdermi nelle sensazioni che quel bacio mi avrebbe trasmesso, sentirmi amata e desiderata come non mi era mai capitato. Nonostante ciò ero consapevole che se quella sera mi fossi lasciata sopraffare dalle emozioni il mio giudizio, in quanto autrice della sua biografia, non sarebbe più stato imparziale. In quegli ultimi giorni mi veniva già difficile, figuriamoci dopo un bacio e Dio solo sa cos'altro! Ecco perché aveva avuto dannatamente ragione quando mi aveva detto che tutto ciò di cui avevo bisogno era bilanciare le passioni del cuore e le ragioni della mente. In una sola frase era riuscito a racchiudere tutte le fisime mentali che in quel periodo mi avevano portato all’esaurimento nervoso. Come se non bastasse, la data di pubblicazione del libro si avvicinava inesorabilmente. Trascorrevo le giornate in casa a scrivere di lui e della sua vita che giorno dopo giorno mi aveva raccontato, ripercorrendo con la memoria tutti i momenti passati insieme. Era sempre al centro dei miei pensieri, fuori e dentro la vita lavorativa.
Smettemmo di incontrarci al bar e fu inevitabile vederlo solo di rado e per lo più in redazione, quando non facevo altro che chiedergli qualcosa circa la biografia. Avrei voluto conversare con lui come facevamo un tempo, bearmi dei suoi splendidi sorrisi, ma dopo avergli rivolto le domande che avevo annotato sul quaderno mi guardava seriamente e mi chiedeva se avessimo finito, se potesse andare. Mi dava un dolore al cuore che nemmeno immaginava, ma l'avevo voluto io, non potevo prendermela che con me stessa. Allora annuivo e lo osservavo mentre si allontanava da me - in tutti i sensi - senza che io potessi far nulla per fermarlo. Fingevo che tutto andava bene, che io stavo bene. Invece mi mancava terribilmente.
La mattina del gala per la presentazione della biografia di Fabrìcio Cruz, lasciai le mie dimissioni sulla scrivania di Giovanni De Angelis. Mi guardò sconvolto. Sprofondato nella sua poltroncina mi parve vecchio e stanco. Mi disse che non poteva accettarle, gli spiegai le ragioni che mi avevano portato ad una decisione così drastica: avevo bisogno di prendermi cura di me stessa, di staccare un attimo dal lavoro e trovare nuovi stimoli. Lo ringraziai per tutto, anche per quell'ultimo incarico che mi aveva affidato. Non rispose, mi fissava dispiaciuto, ma io avevo fatto la mia scelta.
Al Royal Palace Hotel la sala era gremita e ne rimasi meravigliata. La maggior parte dei presenti erano ragazzi, probabilmente compagni di squadra di Fabrìcio. Tra questi ne riconobbi alcuni dei più noti. Avanzando nella sala finalmente lo intercettai. Era in smoking nero, dannatamente affascinante. Scherzava con un gruppetto di conoscenti, sembrava a suo agio come non l'avevo mai visto. Per la prima volta provai la recondita paura di perderlo: non volevo che la nostra storia finisse ancor prima di cominciare. Incrociò il mio sguardo e alzai una mano in segno di saluto, distendendo le labbra con timidezza. Lui si limitò a ricambiare mostrando il palmo, nient'altro, poi tornò a dedicarsi ai convenuti.
Mi si gelò il cuore.
 
Il caporedattore era al centro del piccolo palco, montato per l'occasione, aveva un microfono e ciarlava, ma la sua voce era solo un brusio poiché la mia mente era impegnata su altro. In piedi, accanto all'uomo che un tempo era stato il mio capo, lo vedevo sorridere imbarazzato ai complimenti che gli venivano rivolti e ridere alle consuete battute degli amici da basso.
Cielo! Cosa avevo fatto? Lo avevo mandato via, lo avevo allontanato. Mi chiesi se avessi avuto un'altra opportunità, chiedevo solo un’altra chance. La segretaria bionda della redazione mi scrollò delicatamente: Giovanni mi aveva appena invitato a raggiungerlo sul palco. Mi mossi fra gli invitati come farebbe un robot arrugginito. Avevo le guance in fiamme e lo sguardo di Fabrìcio fermo su di me non mi aiutava affatto.
Sarei sprofondata all'inferno se fosse servito a salvarmi da quella situazione.
De Angelis, dopo vari convenevoli, mi chiese di leggere dinnanzi a tutti la parte del libro che avevo scritto e che preferivo. Feci per rifiutarmi, ma le decine e decine di occhi puntati su di me non me lo concessero. Fabrìcio mi offrì una copia della sua biografia, evitando di incontrare il suo sguardo la presi e sospirai: avevo evitato i suoi occhi, però ce n'erano un altro paio che mi fissavano dalla copertina del libro, perciò mi affrettai ad aprirlo.
Per un attimo temetti che il mio cuore potesse uscirmi dal petto, tuttavia rimase al suo posto e questo mi costrinse a proseguire con la lettura, mentre il caporedattore mi sorreggeva il microfono.
«Vi leggerò i primi versi dell'introduzione» dissi alla sala, immersa in un innaturale silenzio. «Perché credo che racchiuda in poche parole tutto ciò che hanno significato per me questi mesi» presi un bel respiro profondo e lo feci, lessi a voce alta e leggermente incrinata dall'emozione. «Fabrìcio Joaquim De Sousa Cruz è una di quelle persone che non ti aspetti.
È una forza della natura, una forza buona, come il sole che sa donarci i colori, anche dopo una tempesta. Sa regalarci l'arcobaleno. Voleva che gli insegnassi tante cose sull'Italia, ma alla fine è stato lui ad insegnare qualcosa a me. Mi ha insegnato ad essere una persona migliore. Come disse Victor Hugo: c'è uno spettacolo più grandioso del mare, ed è il cielo, c'è uno spettacolo più grandioso del cielo, ed è l'interno di un'anima.» Chiusi la biografia con un tonfo prima di aggiungere: «E io sono d'accordo con lui».
Le lacrime mi avevano offuscato la vista. Partii un applauso ordinato, mi chinai in avanti in segno di ringraziamento, sperando vivamente che Giovanni non mi chiedesse altro. Non lo fece, forse si era reso conto della mia profonda commozione. Mi defilai abilmente, ancora una volta evitando il suo sguardo. Lui non stava applaudendo. In quel momento mi detestavo, mi sentivo vulnerabile e vigliacca, come un coniglio che si nasconde nella tana, ma non potevo fare di meglio.
 
Uscii in giardino, muovendomi come un ladruncolo. La piscina illuminata dai faretti rifletteva la mia immagine. Alzai gli occhi al cielo, provando a scorgere le stelle. Ne vidi una sola, piccola piccola e abbandonata al suo desolato destino, soffocata da nubi grigi e imponenti. Mi immedesimai un po' in quel puntino luminoso, disperso nello spazio immenso. Quando riabbassai lo sguardo notai la sua figura stendersi sul letto dell'acqua e, lentamente, avvicinarsi alla mia. Avvertii una sensazione di vuoto allo stomaco. Mi porse un calice con dello champagne, lo presi sfiorando le sue dita. Quella sensazione allo stomaco s'intensificò. Senza che nessuno dei due pronunciasse parola lasciammo che i nostri bicchieri tintinnassero, quindi bevemmo un sorso di spumante.
«Alla tua biografia!» Ricordo che ero così nervosa che se non avessi detto qualcosa sarei implosa, poi provai a sorridergli. Lui non ricambiò la mia benedizione, né il mio sorriso stentato.
«Giovanni mi ha detto che questa mattina hai dato le renùncia»  distolsi lo sguardo dal suo viso e confermai. «Por quêPossibile che solo in quel momento mi resi conto di adorare la sua cadenza quasi cantilenante?
«Ho bisogno di prendermi cura di me stessa per un po' » mi voltai a guardarlo. «Magari farò un viaggio».
«No Brasil
Mi scappò un risolino sincero a quella sua domanda ironica.
«Perché no! Così finalmente potrei imparare la tua lingua» questa volta fu lui a sorridermi, un sorriso che aveva un retrogusto amaro. Eravamo sul tramontare di quella nostra storia mai nata, un'amicizia durata troppo poco. Avevo le lacrime agli occhi.
«Robbie ascolta, io…»
«No» lo interruppi, accostandomi a lui e posandogli una mano sul cuore. Lo sentii battere. «Va bene così» mi alzai sulle punte dei piedi e posai le labbra sulle sue.
Non so cosa mi aspettassi, forse che reagisse come quella prima volta, travolgendomi in un impeto di passione imprevista e meravigliosa. Fatto sta che rimase impassibile. Mi allontanai da lui perdendomi ancora nei suoi profondi occhi castani striati del colore del miele, quindi parlai con voce strozzata.
«Sii felice, Fabrìcio» gli accarezzai la guancia destra e andai via, mentre in lontananza echeggiava il rombo di un tuono.
 

 
Osservo il cielo al di là del vetro. Ha smesso di piovere, ma le nubi grigie vengono ancora attraversate da lampi furiosi. Cosa stai facendo Robbie? A cosa stai pensando? Ricordi quando ti dissi che dopo un temporale nasce sempre l'arcobaleno?
Abbi fede, amor. Credici.
Ascoltare la sua voce palesemente commossa mentre leggeva quelle frasi scritte da lei mi procurò una miriade di sensazioni. Non sapevo come comportarmi, desideravo che fosse una persona più semplice, ma in questo modo non sarebbe stata la stessa Robbie che, nonostante i suoi modi e i suoi sbalzi d'umore repentini, mi aveva fatto innamorare. Notai la sua mano tremare appena quando prese il libro che le porgevo, avrei voluto fare un cenno per lasciarle intendere che se non le andava di leggere davanti a tutti l'avrei tolta da quella situazione imbarazzante, ma Robbie non mi guardò neanche in faccia. Ascoltai con grande emozione le sue parole, chiedendomi il vero significato di quelle frasi, semmai ce ne fosse stato uno. L'applauso che seguì mi sembrò provenire da miglia e miglia di lontananza, io non mi unii al resto della sala, troppo preso ad osservarla mentre accennava un leggero inchino in direzione degli ospiti. Adesso che la storia della biografia era giunta al termine cosa ne sarebbe stato di noi?
La cercai con lo sguardo quando la sala cominciò a svuotarsi, però non riuscii a trovarla. Chiesi a Giovanni se sapesse dove fosse e - complice qualche bicchierino di troppo - rammaricato mi confessò delle sue dimissioni. Mi mancò il respiro: perché mai aveva preso una decisione simile?
La vidi al bordo della piscina, stretta nel suo stesso abbraccio. Ricordo il vestito aderente, lungo poco sotto il ginocchio, e le scarpe di pelle lucida con tacchi alti; i capelli legati sul capo mi scaraventarono indietro nel tempo. Mi avvicinai piano, porgendole un calice di champagne. Brindò al mio libro e confermò il suo addio alla redazione: disse che aveva bisogno di prendersi cura di sé. Fui sul punto di controbattere che mi sarei preso cura io di lei, se solo me lo avesse permesso. Mi fermò poggiandomi una mano sul petto e affermando che qualsiasi cosa fosse, andava bene così.
Per lei forse, ma non per me.
Posò la sua bocca sulla mia e andò via, augurandomi di essere felice.
Davvero potevo ancora essere felice anche senza di lei?
Non la seguii, ero come paralizzato, mente e corpo ibernati e confusi in un miscuglio di pensieri e sensazioni che si sovrapponevano. Quando tornai dentro lei non c'era più. La segretaria bionda della redazione mi disse che era appena andata via in taxi, annunciando di avere un forte mal di testa. La ringraziai e corsi alla mia macchina: dovevo arrivare in città prima di Robbie.
Dopo qualche giorno mi sarebbe arrivata una multa per eccesso di velocità, tuttavia ne è valsa la pena…
Il portone era chiuso, allora lo colpii con entrambi i palmi, inveendo nella mia lingua.
«Hai deciso di sfondarlo?»
Mi voltai di scatto e Robbie era proprio lì davanti a me, interdetto vidi il taxi sgommare e andare via, tornai a fissarla. Sentivo l'indignazione crescere verso quella ragazza, misto a sollievo perché qualcuno, lassù in cielo, mi stava dando un'altra possibilità. L'afferrai per le spalle.
«E quello alla piscina cos'era, un adeus?» Mi parve stralunata, non riusciva a comprendere la paura che avevo provato al solo pensiero di perderla.
«Ok, adesso calmati e...»
«No!» la interruppi con impeto. «No! Ma ti sei mai davvero chiesta perché ti baciai quella sera?»
«Ti ho già risposto mi pare!» Riusciva ad avere un autocontrollo da far invidia, mentre io avevo la mente offuscata da tutte quelle sensazioni e il desiderio che avevo di lei.
«Allora chiedimelo» voltò lo sguardo di lato e io la scossi appena. «Chiedimelo! Para Deus!»
«Non mi interessa» la sentii bisbigliare, ma non potevo crederle.
«Dimmelo guardandomi negli occhi, Robbie! Dimmi che tra di noi non c'è niente e non sentirai più parlare di me» abbassai il tono di voce in un sussurro. «Eu juro». 
Tornò a guardarmi negli occhi, sforzandosi di sorridere. I secondi che mi divisero dalla sua risposta mi parvero anni e anni di attesa. Alzò una mano non proprio ferma, arrestandola all'altezza del viso, titubante, poi raggiunse i miei capelli e vi passò attraverso le dita. Quel tocco mi corse giù, oltre la nuca e lungo la schiena. Volevo baciarla, ma obbligai me stesso ad ascoltare ciò che aveva da dire, sapevo che le sue parole sarebbero state il punto di svolta, nel bene e nel male.
«Ho così tanta paura di quello che provo per te» lasciò scendere la sua mano alla base del collo. «E tu adesso mi minacci, giurandomi che non ti vedrò più… al solo pensiero mi crolla il mondo addosso» sorrise in maniera dolcissima, sentivo che se mi fossi trattenuto ancora sarei esploso. «Mi crolla tutto il tuo Brasile addosso» adagiai la fronte contro la sua e a entrambi scappò un risolino nervoso, poi chiusi gli occhi e la baciai, avido delle sue labbra.
Quelle dita sottili mi solleticavano la nuca e il collo, sfiorando la pelle del viso; stringendola fra le mie braccia la avvertì terribilmente piccola e vulnerabile. Il suo odore dolce mi riportò al nostro primo bacio, quando me ne inebriai per la prima volta, tuttavia sapevo che questo bacio era ancora più speciale dell'altro: era l'inizio di qualcosa, qualsiasi cosa fosse. 
Una leggera pioggerellina prese a bagnarci i capelli, scivolando in rivoli sul volto, nonostante ciò nessuno se ne curò, troppo presi dall'euforia del momento; poi la pioggia s'intensificò, allora Roberta mi guardò con occhi scintillanti. Aveva il viso bagnato e alcune ciocche di capelli le si erano appiccicate sulle guance. Risposi al suo sorriso.
«Vieni» mi disse, prendendomi per mano, ci riparammo nell'atrio del palazzo. Senza sciogliere l'intreccio delle nostre dita prendemmo a salire le scale, in silenzio, entrambi consci del desiderio che bruciava in noi. Ci chiudemmo la porta del suo grazioso appartamento alle spalle, estraniandoci dal resto del mondo.
Tutto il nostro universo era rinchiuso in quei 50 mq.
Un tuono mi rinviene dal ricordo di quella notte, lentamente mi trascino fuori dalla camera da letto.
 

 
Il terrore di perderlo, per una volta, fu più grande del mio orgoglio. Più grande della paura che mi facevano i sentimenti che provavo nei suoi confronti. Dichiararli apertamente mi donò un senso di sollievo, mi sentivo come una persona che per troppo tempo aveva dovuto sopportare un fardello da sola e, finalmente, poteva condividere il suo peso con un’altra persona. Sentivo la pioggia bagnare il mio viso, qualche ricciolo mi ricadeva sulla fronte, ma nulla aveva importanza, le nostre labbra erano congiunte e tutto mi sembrava perfetto. Non potevo fingere che il tocco delle sue mani sui miei fianchi e la furia di quel bacio che era esploso,non mi provocassero un inarrestabile desiderio di lui, allora lo presi per mano e insieme raggiungemmo il mio monolocale.
Mi aggrappai al suo collo, accarezzandogli ora i capelli, ora la schiena, mentre la sua lingua tornava prepotentemente nella mia bocca, pronta ad ospitarla con passione. Uno dopo l'altro slacciò gli alamari del cappotto che ancora indossavo, vi infilò sotto le mani e afferrandomi per la vita mi spinse contro la parete. La mia mente non riusciva che a pensare all'idea di noi due insieme, ai nostri corpi nudi e sudati, fusi in un unico essere.
Con un gesto repentino mi liberai dell'ingombrante soprabito, lasciando che scivolasse sul pavimento, quindi lo spogliai della giacca che lui stesso gettò via, senza smettere di cercare le labbra. Sciolsi velocemente il nodo della cravatta e i bottoni della camicia bianca, con le mani sfiorai il suo addome, percorrendolo con i polpastrelli. Mi sentivo attratta da lui come se non avessi mai toccato il fisico di un uomo adulto prima di allora. Avvertii concretamente il suo piacere crescere quando mi sollevò da terra, le gambe strette intorno al suo bacino. Tornai con le mani fra i capelli, carezzandogli il viso bagnato dalla pioggia, mentre la sua lingua prendeva a lambire il mio collo scoperto. Gettai la testa all'indietro, contro il muro, morsicando il labbro inferiore per trattenere un gemito.
Accennai di spostarci in camera da letto.
 
Si sedette sul bordo letto e mi attirò a sé, sciogliendomi i capelli mentre gli accarezzavo le guance. Lasciò scorrere la lampo del vestito che cadde ai nostri piedi, in un volo muto. Lo scostai con un calcio, liberandomi anche delle scarpe. Lo invitai a sdraiarsi e lo ricoprii con il mio corpo seminudo. Le sue mani erano ovunque, bramose di passione. Baciai i muscoli del suo ventre, scoprendo altri tatuaggi che ritraevano volti di donne indigene e mani giunte in segno di preghiera; raggiunsi la cintura che slacciai senza esitazione, quindi infilai la mano fin dentro la patta dei pantaloni classici. Lo sentii sussultare e gemere. Mi capovolse sulle coperte del letto che iniziavano a stropicciarsi, mi baciò fugacemente, quindi prese a far scivolare la sua lingua lungo il collo, fra i seni, seguitando sino all'ombelico. I nostri corpi fremevano di desiderio, oramai i miei ansimi di piacere si diffondevano in tutto l'ambiente e quando fece per sfilarmi le mutandine, fu come se il cuore si fermasse.
In quell'istante il cordless sul comò accanto prese a suonare all’impazzata.
«Devo rispondere» dissi e la voce tremolante tradì tutta la mia eccitazione.
«Você não pode» mi rispose, continuando a languire la mia pelle, rasentando il merletto della biancheria intima.
«Non ci metterò molto» affermai prima di prendere il telefono e aprire la conversazione. Lo sentii sbuffare e tornò a solleticarmi il collo, mi lasciai sfuggire un risolino.
«Pronto?»
«AMORE MIO! Indovina chi è…»
Scattai a sedere, mettendo una mano in faccia a Fabrìcio per allontanarlo da me. Farneticò qualcosa di incomprensibile nella sua lingua, ma non credo siano state parole gentili.
«Papi!» esclamai, mentre lui si liberava dalla mia zampata sul viso, tutt'altro che eccitante.
«Tesoro! Sto venendo a casa tua. Ma tranquilla, prima sono passato a far rifornimento al giapponese!» Dopo ventinove anni dalla mia nascita mio padre ancora non ha compreso la differenza fra la cucina cinese e quella giapponese e il fatto che io amo la prima, non la seconda.
«Papi, ma sai che ore sono?» Fabrìcio mi guardava con un'espressione ebete sul viso.
«Certo amorino mio, ma so che per te è un momento difficile e...»
«Papi, sto benissimo, credimi» ed era la pura verità, con quel ragazzo latino sul mio letto, mezzo nudo ed eccitato, stavo più che bene, non avevo bisogno di involtini primavera o sashimi.
«C'è una cosa di cui dobbiamo discutere, amore di papà...»
Le dimissioni! Accidenti a me! Pensai. Quando feci per replicare ancora il mio caro paparino aveva ormai chiuso la conversazione. Stava arrivando!
Fabrìcio riprese a sbaciucchiarmi il collo e le spalle, circondandomi con le braccia provò a distendermi sotto il peso del suo corpo, ma riuscì a liberarmi con slancio. Mi guardò interdetto.
«Te ne devi andare!» sbottai, raccogliendo il mio abito dal pavimento e cominciando a vestirmi.
«Como?» Uscii dalla camera e mi seguì a ruota. Lo aiutai ad indossare velocemente la giacca. «Robbie, che stai facendo?»
«Mio padre sta venendo qui! È convinto che la sua unica e adorata figlia sia caduta in depressione» mi baciò con impeto, cogliendomi di sorpresa.
«Ma tu non sei depressa» mi disse guardandomi dritto negli occhi.
Quegli occhi, cielo e che voglia di fare l'amore con lui, di perdermi nel suo sguardo e inebriarmi del suo profumo. Gli abbottonai la camicia controvoglia ma alacremente e gli porsi la cravatta.
«Se prendi le scale rischi di incontrarlo…»
«Ma non mi conosce» lo osservai come chi ha appena detto un'assurdità.
«Credi che mio padre non conosca il protagonista del mio ultimo libro?» Scossi la testa e mi venne un'idea. «Siamo al secondo piano, potresti scendere dalla finestra.»
«Sai quanto valgono queste gambe, querido? Se me le rompo…» sospirai, non aveva tutti i torti in fondo.
«Ok, ok!» Aprii la porta e lo spinsi sul pianerottolo. «Fai presto e cammina a testa china.»
Mi sorrise divertito, mi sfiorò una guancia con il dorso della mano e mi bacio delicatamente.
«Boa noite» sussurrò, prima di andare via.
 

 
Robbie mi diede buca per ben due volte il giorno successivo a quella notte pazzesca, dove tutto era accaduto e dove tutto sarebbe potuto accadere se il suo telefono non avesse preso a strimpellare. Cosa ancora peggiore suo padre aveva deciso che la sua figlioletta aveva bisogno di lui e di cucina giapponese. Lo incontrai fuori dal portone, aveva gli occhiali sulla punta del naso per cercare il nome di sua figlia sui citofoni. Inizialmente mi guardò con aria stralunata, poi sorrise mentre gli tenevo aperta l'anta del portone.
«Grazie figliolo!»
Feci un cenno con la testa e andai via. Mi sembrò da subito una persona simpatica.
La mattina seguente chiamai Robbie per chiederle se avesse impegni all'ora di pranzo. Avevo scoperto un locale fuori città adiacente ad un maneggio: avevo proprio voglia di una galoppata salutare. Inoltre trascorrere un po' di tempo insieme era una buona occasione per parlare di noi e di quello che stava per accadere. Era successo tutto così in fretta ed ero confuso, sapere cosa ne pensasse Robbie mi avrebbe aiutato, ma – soprattutto - avevo voglia di vederla e baciare di nuovo quelle labbra rosate e morbide. Rispose al telefono con un filo di voce, mentre intorno a lei c'era un brusio di voci e musica. Le chiesi dove fosse e mi disse che era in un negozio con suo padre, l'aveva praticamente costretta a comprare abiti nuovi. Si era rifugiata in un camerino per rispondere alla mia telefonata. Risi e le raccontai che uscendo dal suo palazzo la sera precedente lo avevo incontrato. La sentii urlare qualcosa tipo "no papi, questo vestito non mi sta bene" sospirò e compresi che non aveva colto una parola di quello che le avevo appena detto, pazienza. A quel punto le proposi di pranzare insieme. Mi sembrò entusiasta.
«Oh, sì, magari! Così potrei liberarmi di lui per un po'!» Mi sfuggii un nuovo risolino e le confermai che sarei passato a prenderla sotto casa.
L'aspettai per più di venti minuti nell'abitacolo della mia macchina, parcheggiato sul retro del quartiere in cui abitava, provando a contattarla sul cellulare e quando non rispose alle prime sette telefonate cominciai ad adirarmi sul serio. Mi richiamò lei dopo i miei vani tentativi, scusandosi all'infinito: paparino non aveva voluto sentire storie, desiderava che pranzassero insieme e non aveva potuto rifiutare il suo invito. Le dissi che andava bene, che non doveva preoccuparsi, peccato che il mio tono di voce lasciasse trasparire l'indignazione che non poté passarle indifferente. Quella storia del papà venuto da chissà dove iniziava a stancarmi. Mi disse che il nostro incontro non era stato cancellato, solo rimandato alla sera. Sinceramente indugiai, tuttavia la voglia di riabbracciarla era troppo forte e alla fine acconsentii.
La scena fu più o meno la stessa di quella avvenuta a metà giornata: mi telefonò per scusarsi e disdire la nostra serata insieme. Perlomeno si era preoccupata di avvertirmi con un'ora di anticipo:
«Mi dispiace tanto Fabrìcio. Mio padre ha prenotato in un ristorante e non ho saputo dirgli di no» ero nervoso, ciò nonostante mi costrinsi ad essere gentile. «Ci vediamo domani?» In lontananza udii una voce maschile invocare il suo nome Robertinaaa”. «Scusami, devo chiudere» non attese la mia risposta, la salutai con un freddo ciao e spensi il telefono.
Per quella giornata non volevo più sentir parlare di lei. Un attimo dopo però stavo infilando il giubbotto, un'ultima acconciatina ai capelli, chiavi, I Phone e via. Le telefonai una volta in macchina, pregando gli dei affinché rispondesse ai primi squilli. Lo fece e dalla sua voce capii che era meravigliata, ciò nonostante rispose alla mia domanda, quindi chiusi la conversazione con un ok.
Avevo quello che mi serviva.
Quando entrai nel ristorante un cameriere impettito mi venne incontro, domandandomi se avessi prenotato. Gli dissi di sì, che ero semplicemente in ritardo per la cena, li vidi e glieli indicai. Il cameriere mi fece un leggero inchino e mi invitò ad accomodarmi.
Sedevano vicino ad un enorme finestra con i tendaggi color panna. Accorgendosi della mia presenza il sorriso di Robbie si spense e assunse un'espressione stupefatta. Si alzò dalla sedia e avanzò di un paio di passi, suo padre la seguiva con lo sguardo, confuso a sua volta.
«C-che…» balbettò.
Era bellissima, con un velo di trucco sul viso, i capelli sciolti e solo alcune ciocche legate all'indietro. Indossava un top candido e una giacca blu, corta in vita, jeans chiari e decolté beige. Le strizzai l’occhio mentre porgevo la mano all'uomo accomodato al tavolo.
«Piacere, sono Fabrìcio Cruz» questo ricambiò la mia stretta continuando a guardarmi interdetto. «O amigo di sua figlia» il papà di Roberta scoppiò in una risata fragorosa, alzandosi e battendomi una mano sulla spalla, mi invitò a sedere con loro. Il resto dei presenti ci guardavano incuriositi.  Robbie teneva una mano sul viso, le guance infuocate, non riuscii a decifrare il suo sguardo, sorrideva a stento alle battute di suo padre.
Forse avevo reagito in maniera irrazionale, ma era quello che avevo sentito di fare e lo avevo fatto.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Scelte ***


Capitolo 4
Scelte

"... le piacevoli follie che essi commettono..."
 
Lo vidi apparire come un ologramma, un minuto prima non c'era, un minuto dopo si era materializzato a un passo dal tavolo dove sedevo con mio padre. D'istinto mi alzai, senza sapere bene cosa fare o cosa avrebbe fatto lui. Mi lanciò uno sguardo fiero prima di presentarsi al mio vecchio come Fabrìcio Cruz, o amigo di sua figlia.
Sapevo che se non mi fossi seduta immediatamente le gambe non mi avrebbero retta a lungo. Cosa intendevano precisamente i brasiliani per amigo?
Amico? Compagno? Fidanzato?
La risata di mio padre mi riportò con la mente sulla terra, lo sentii mentre lo invitava a sedersi con noi.
Cosa stava succedendo?
Parlarono di calcio, di club e nazionali, di cucina tipica sud americana e di carni da macello argentine. L'unica che si sentiva come quelle povere bestiole era proprio la sottoscritta.
Avevo appena infilato in bocca una forchettata di risotto quando mio padre esclamò.
«Robertina» lo guardai da sopra il piatto e avvertii gli occhietti irrisori di Fabrìcio su di me. «Com'è strana la vita, amore» mi preparai psicologicamente al peggio. «Ti ricordi quando da piccola dicevi che i tipi mori, quelli con la carnagione scura e non ti piacevano?» Rischiai di soffocare, afferrai il bicchiere con l'acqua e bevvi a grandi sorsate.
«Papi!» Sbottai, ma nemmeno quello fermò la folle corsa di mio padre. Lo osservai posare una mano sul braccio di Fabrìcio, il quale sorrideva di sottecchi, si stava divertendo da matti.
«Li odiava proprio!» Rise. «E detestava i ragazzi pieni di tatuaggi dove non batte il sole!»
Fabrìcio si voltò nella mia direzione, continuando a tenere quel sorriso ebete dipinto sul viso.
«Realmente
Gli lanciai un'occhiata di fuoco, lasciandogli intendere che se avesse approfondito quell'assurda conversazione sarebbe stato peggio per lui.
Fabrìcio si offrì di accompagnarlo fino alla stazione, tuttavia mio padre preferì chiamare un taxi. Mi abbracciò forte al momento di salutarci e sentii, come ogni volta, un groppo alla gola. Sapevo che lui ci sarebbe sempre stato, qualsiasi cosa fosse successa, qualsiasi scelta avessi preso in futuro, lui mi avrebbe sostenuta.
Porse la mano al mio amigo, quindi lo attirò a sé abbracciandolo e stampandogli due baci sulle guance. Il taxi lo portò via da me, rimasi ad osservare la macchina fin quando svoltò al semaforo.
«E così odiavi i tipi con i tatuaggi e la pelle scura» quella sua vocina insolente s'insinuò nella mia mente, roteai gli occhi al cielo e sospirai.
«Non iniziare!» Esclamai prendendo a camminare, ma la sua mano si chiuse intorno alla mia e mi tirò a sé, stringendomi in un abbraccio. Il cuore aumentò i suoi battiti e a soli pochi millimetri dalle sue labbra le ricordai sulla mia pelle nuda.
«La mia auto è proprio lì» la sua bocca era vicinissima, dannatamente eccitante.
«Volevo fare due passi» lo stuzzicai e mi strinse ancor di più.
«Io avevo un'altra idea…» mi sorrise accattivante e mi sciolsi.
 
Ricordo la camera immersa nella penombra, a malapena riuscivo a distinguere le sagome dei mobili. Mi sdraiai sul letto, poi fu su di me. Mi baciò a lungo, le nostre lingue s'intrecciavano e si scioglievano in una danza perpetua, ma instancabile. Con delicatezza sfiorò il mio ventre con le dita, fino a salire sulla curva dei seni e lì trattenni il primo gemito. Mi afferrai alla sua schiena forte per liberarmi della giacca e del top. La sua lingua prese a lambire la pelle scoperta della pancia e del collo, inarcai la schiena per slacciare i gancetti del reggiseno e ben presto lo sentii sui miei seni.  
Ero in estasi ed eravamo solo a metà dell'opera.
Ginocchioni su di me lo osservai disfarsi della maglia. Non riuscivo a smettere di fissare il suo fisico perfetto e la sua carnagione ambrata, così diversa dalla mia, così diabolicamente invitante. Mi sorrise malizioso e riprese a lasciare scie di baci su ogni centimetro di pelle libera da indumenti, mentre prendeva a slacciare i bottoni del mio jeans. Il primo, il secondo, il terzo, ma il quarto oppose resistenza.
«Accidenti» disse fra i denti, mentre la sua bocca era sulla mia. Ridemmo insieme e le mie mani andarono in soccorso alle sue. Mi sfilò i pantaloni, però questa volta fui io a prendere il controllo di lui, mettendomi cavalcioni e percorrendo con le labbra il suo addome glabro. Gli slacciai la cintura e tirai giù la lampo dei pantaloni. Eravamo entrambi in biancheria intima e il desiderio che avevamo l'uno dell'altra era così forte da poterlo afferrare concretamente. Quasi doleva. Aprii gli occhi e mi persi nei suoi: il castano pareva più scuro, l'aureola gialla brillava come il sole. Aveva il respiro irregolare e il viso madido di sudore. Era così perfettamente meraviglioso. Gli accarezzai la nuca.
«Rimani a dormire da me esta noite» la sua non era una domanda. Sorrisi con malizia, giocherellando con i suoi capelli.
«Dipende da lei… signor Cruz» ricambiò con uno splendido sorriso.
Feci l’amore come se fosse stata la mia prima volta, con l’ansia di sentirlo mio e di sentirmi sua, persi in un solo corpo, senz’altro al mondo, eccetto noi due.
Restò qualche secondo ancora dentro di me, senza smettere quell’espressione birbante. Gli diedi un simpatico buffetto sul viso, sorridendo a mia volta.
«Non montarti la testa!» Scherzai. Mi baciò in modo fugace prima di sdraiarsi al mio fianco e tenermi stretta. Poco dopo ci addormentammo: in fondo aveva passato il test, per quella notte potevo concedergli la mia presenza al suo canto.
 

 
L'acqua corrente è gelida a contatto con le mani, ed è proprio quello che mi ci vuole per rinfrescarmi le idee e destarmi da questo torpore. Fisso la mia immagine riflessa nello specchio. Non ho una bella c'era. D'altronde dopo una notte insonne a rimuginare minuziosamente su ogni evento che mi ha portato nella situazione attuale, a fare le scelte che mi aspettano, cosa pretendo? Attraverso l'ampio e breve corridoio che mi porta alla cucina, senza smettere di pensare per un solo momento a lei e a quella notte di passione.
La nostra prima notte insieme, dove ogni parte dei nostri corpi, ogni muscolo, ogni centimetro della nostra pelle furono coinvolti, travolgendoci in un ibrido di sensazioni eccitanti e meravigliose.
Quando quella mattina aprii gli occhi lei era lì, accanto a me, con le ginocchia strette contro i seni e i denti a rosicare nervosamente un'unghia. Aveva lo sguardo fisso davanti a sé. Ancora stordito feci per allungare un braccio e stringerla, ma mi gelò con gli occhi.
«Cosa intendevi per amigo?»
Sbattei le palpebre un paio di volte, incerto. Puntellandomi sui gomiti mi misi a sedere, sentendomi una specie di rottame, abbozzai un sorriso.
«Non ridere» mi apostrofò severa. Ero sempre più confuso, feci per chiederle cosa le era preso, quale fosse il senso di quella domanda, ma di nuovo fermò ogni mio fare o dire.
«Dico sul serio, cosa intendevi per amigo?»
«Ma cos-» smise di guardarmi in faccia e riprese a morsicare le unghie.
«Perché io non l'ho capito e-e»
«Se mi fai parlare!» Sbottai infastidito da ogni sua interruzione. Si voltò di scatto, era evidente che non si aspettava un'esclamazione con tale impeto, ma perlomeno ero riuscito a catturare la sua attenzione. «Forse se mi spiegassi para o bem la situazione, potrei anche risponderti» lei tornò a guardare davanti a sé un punto inesistente.
«Ieri sera, quando ti sei presentato a mio padre, hai detto che eri “l'amigo di sua figlia”» prese una pausa. «Cosa intendevi per amigo?»
Non riuscii a trattenermi dal ridere. Robbie mi fulminò tra l'offesa e l'indignata. L'abbracciai e questa volta non oppose resistenza. Sdraiandola sotto di me intrecciai le mie gambe alle sue, avvertivo distintamente la sua rigidità contro il mio corpo. Esigeva una risposta, glielo leggevo nei suoi occhi azzurri. Di una cosa ero certo: non era quello il risveglio che mi sarei augurato, non era quella la frase che avrei voluto mi rivolgesse dopo la nostra prima volta, ma con Robbie ogni cosa è imprevedibile e fuori dagli schemi.
«Amigo è tutto quello che vuoi» i suoi occhi furono attraversati da uno scintillio appena percettibile, sebbene non fosse appagata da quella spiegazione. Pretendeva certezze.
«Robbie» era il tono che avrei usato per spiegarmi ad un bambino, «sto cercando di dirti che eu sou tuo e che tu sei meu, se lo-» mi passò una mano dietro al collo e spinse la mia bocca contro la sua. Le nostre lingue si avvinghiarono e le sue gambe si strinsero intorno alle mie, sentii immediatamente l'eccitazione concentrarsi nel basso ventre, poi mi sussurrò che avrebbe fatto una doccia.
Sentii distintamente il getto dell'acqua provenire dal bagno accanto alla camera dove me ne stavo sdraiato sul letto, a pancia in su, coperto per metà dalle lenzuola. Ero di nuovo eccitato, mi vedevo a possederla sotto la doccia, con lei aggrappata al mio bacino e la schiena contro le mattonelle bagnate. Mi alzai di slancio e la raggiunsi. Non sembrò meravigliata di vedermi. Ci sorridemmo da buoni intenditori, come due vecchi amanti che si lanciano uno sguardo furtivo e consapevole. La baciai con foga e in quel mentre pensai che non mi sarei mai potuto stancare di lei.
 
Apro il frigo e la luce all'interno inonda me e lo spazio circostante. Osservo il cibo e le bevande che questi contiene, senza vederli realmente. Distrattamente, o forse semplicemente per abitudine, afferro un bibita energetica - dal colore improbabile - e ne bevo un lungo sorso direttamente dalla bottiglia.
Sono trascorsi poco più di due mesi da quella mattina e solo una settimana fa, svegliandomi nel cuore della notte nel suo piccolo monolocale, mi accorsi che lei non era più accanto a me. La trovai in ginocchio e in lacrime sul pavimento del bagno.
Il suo sguardo era disperato, le sue parole incomprensibili. Feci per sollevarla da terra.
«VATTENE VIA!» Mi urlò contro, la sua voce era colma di rabbia. Scossi il capo, incredulo. Vederla così mi faceva male, era fragile e vulnerabile e non riuscivo a capirne il motivo. Mi accovacciai di fronte a lei, senza sapere bene cosa fare o cosa dire. La vidi coprirsi il viso e piangere, provai a parlarle con una calma innaturale.
«Robbie...» presi un po' di tempo, soppesando ogni minima parola. «Por favor, mi vuoi dire cosa è successo?»
Fu come se non avesse udito la mia domanda e feci un respiro profondo, sfiorandole i polsi per liberare il suo volto da quelle mani che lo nascondevano. Fu inutile.
Mi guardai attorno, in cerca di un indizio che mi aiutasse a comprendere la sua disperazione. Lo trovai sul bordo della vasca da bagno. Mi alzai, avevo la sensazione di muovermi al rallentatore, cominciando a rendermi conto della situazione, poi quello che vidi diede conferma ai miei timori.
Mi lasciai cadere con le ginocchia al suo fianco e l'abbracciai, tentò di liberarsi dalla mia morsa colpendomi all'addome e al viso. In parte riuscivo a comprendere la sua rabbia, anche se non del tutto. La strinsi fino a limitare ogni minimo movimento e, alla fine, si arrese.
 

 
Fisso lo schermo del notebook, oramai andato in standby, tutto nero, come il colore che vedevo davanti a me in quella notte in cui ogni progetto che avevo creato per il futuro si stava dissolvendo. Sospiro e volto lo sguardo al soffitto, mentre la pioggia riprende il suo scrosciare tumultuoso.
Mi chiedo se sarà d'accordo con la mia scelta.
Avverto dei passi dietro di me. È lui.
«Ehi» dice, sedendosi al mio fianco e lasciando distrattamente una bottiglia di bevanda energetica accanto alla mia tazza.
«Ehi» gli faccio eco, mentre lo osservo interagire con il PC. La luce artificiale del monitor gli illumina il viso, scorgo i segni della stanchezza e dell'insonnia, dei tormenti che evidentemente non lo lasciano da giorni, gli stessi che attanagliano il mio cuore e la mia coscienza. Istintivamente gli accarezzo una guancia e la barbetta ispida mi punge il palmo. Mi guarda e abbozzo un sorriso.
«Venha cá» bisbiglia, mentre circonda le mie spalle. Mi accoccolo sulle sue gambe e prende a carezzarmi i capelli, delineando la curva dei riccioli. Vorrei piangere.
Ricordo la disperazione e la paura che mi invase in quel momento, lontano solo pochi giorni – tre o forse quattro. Il terrore mi annebbiò ogni pensiero coerente, ogni possibile spiraglio di autocontrollo. Mi sorressi al bordo della vasca, piegandomi lentamente su ginocchia instabili e tremanti. Gli gridai di andare via, coprendomi il volto con le mani per non lasciargli vedere le lacrime, illudendomi che se le avessi nascoste non avrei dovuto affrontare le conseguenze. Mi strinse, ma cercai di allontanarlo colpendolo dove capitava, nonostante ciò non smise mai di abbracciarmi e alla fine, priva di forze, mi lasciai cullare. Dopo qualche minuto aggrappata alla sua canotta scura gli confessai di essere incinta. Mi strinse ancora più forte.
«Lo so» mi disse bisbigliando. «Lo so»,
«Cosa facciamo?» Il mio pianto si era trasformato in singhiozzi convulsi. Non riuscivo a ragionare e questa era la cosa che mi destabilizzava più di tutte, non riuscivo a trovare una via d'uscita e avevo l'impressione che la testa mi sarebbe esplosa da un momento all'altro. Fabrìcio prese a carezzarmi i capelli.
«Qual è il problema? Noi-» lo allontanai da me con una spinta e lo fissai rabbiosa, quasi offesa.
«Qual è il problema?!» Gli feci eco. «Qual è-il-problema?» Ripetei, scandendo parola per parola. «Te lo dico io qual è il problema» iniziai. «Il problema è che io non ti conosco, ecco qual è il problema! Il problema è che non voglio un bambino a rovinare i miei piani per il futuro! È tutto un problema!» Mi alzai e incamminai verso la camera da letto. Lui mi seguì a ruota.
«Cosa significa che non mi conosci?» Si tratteneva dall'urlare, ma io no. Io non riuscivo a catalizzare la rabbia.
«Stiamo insieme da due mesi, come puoi pretendere di conoscere una persona dopo due mesi?!» Le mie parole lo offesero, il suo sguardo si abbassò e strinse i pugni lungo i fianchi.
«Non ti lascerò» inizialmente non compresi la sua frase e gli chiesi di ripetere. Alzò di scatto gli occhi e li puntò dentro i miei. «È questa la tua paura? Che io ti possa abbandonare con il bambino?» Mossi l'indice davanti al suo viso in segno di negazione.
«Oh, no, no, no! Io non ho paura che tu mi possa lasciare da sola con un bambino, e sai perché?» Mi guardò severo, serrando la mascella, sapeva benissimo cosa stavo per dirgli ed era evidente che non gli piaceva, nemmeno un po', eppure dovevo dirglielo.
Dovevo.
«Perché IO non avrò nessun bambino.»
«Lo ucciderai?»
Questa volta fui io a guardarlo incollerita. Uccidere non era la forma verbale che più mi garbava.
«Smettila!» Esclamai, sedendomi sul letto e prendendomi la testa fra le mani.
«Di fare cosa?»
«Di fare esattamente quello che stai facendo!» Sbottai guardandolo. «Di farmi sentire in colpa per una colpa che non ho!» Si accomodò al mio fianco e mi sfiorò una mano. A quel contatto rabbrividii e sentii le lacrime riprendere a bruciare.
«È nostro figlio.»
Quelle parole mi piombarono addosso come un uragano. Mi alzai di scatto, scuotendo il capo, ripresi a piangere.
«Non è giusto» sussurrai, fece per abbracciarmi ma lo arrestai con il palmo delle mani appena prima che potesse toccarmi. «Come abbiamo potuto pensare che tra di noi potesse funzionare?»
«Non-»
«Guardaci, Fabrìcio, guardaci. Siamo il sole e la luna, siamo l'estate e l'inverno. Tu vuoi un bambino, io no. Io devo pensare al lavoro, alla mia carriera. A me stessa» sospirai.
Si voltò, dandomi le spalle, disse che sarebbe stato via qualche giorno con la squadra per una partita in trasferta, disse che al suo ritorno gli avrei dovuto comunicare la mia decisione, perché, a quel punto, la scelta era soltanto mia.
Disse che qualsiasi cosa avessi deciso, lui sarebbe stato dalla mia parte.
Disse che non mi avrebbe lasciata sola, mai.
E poi disse che senza il sole la luna non riuscirebbe a brillare.
Prese le sue cose e andò via.
Non ho avuto sue notizie fino a questa sera, quando ha bussato alla mia porta. Ci siamo salutati senza sorriderci.
Io ho fatto la mia scelta.
 

 
«Venha cá» sussurro, circondandole le spalle con un braccio, lascio che si sdrai sulle mie gambe. Nervosamente prendo a giocherellare con un suo ricciolo.
«Fabrìcio...» la sua voce è flebile, strozzata dal pianto che a stento trattiene. Mi stringe un ginocchio con la mano a volermi trasmettere tutte le sue paure e i suoi timori. Si nasconde il volto con l'altro palmo, come fa sempre per occultare le sue lacrime, infatti inizia a singhiozzare.
Credo di conoscere la sua decisione dal momento in cui ha scoperto di aspettare un bambino da me, e la conferma non sono queste lacrime o la tensione che mi trasmette attraverso la sua morsa, ma è stata la sua non-espressione sul ciglio della porta d'ingresso. Il suo volto era assente, i suoi occhi azzurri tendevano ad una strana tonalità di grigio, il suo sguardo imperscrutabile. Se dovessi descrivere Robbie in una parola userei il termine spenta. Né felicità, né rabbia sul suo viso ed è stata proprio la mancanza di quest'ultima a darmi la certezza che aveva fatto la sua scelta e che la nostra storia non avrebbe avuto un lieto fine.
Peccato.
«I-io…» piange e la luce di un fulmine penetra attraverso le tende. «Io no-non...» le accarezzo il capo, un groppo alla gola mi rende difficile parlare. Deglutisco e  facendo un ultimo sforzo mento, affermando che va tutto bene, deve solo stare tranquilla. Ma la realtà è un'altra, è diversa. Totalmente diversa. Affonda il viso nelle mie cosce e la lacrime mi bagnano il pantalone di felpa. «M-mi dispiace» balbetta. «Mi dispiace ta-tanto» continua e lentamente chiudo gli occhi. Sono umidi. Sto facendo un grande sforzo per evitare di chiederle di ripensarci o di prendersi ancora del tempo, perché so perfettamente che sarebbe del tutto inutile. Robbie ha fatto la sua scelta e non si tirerebbe indietro di fronte a niente.
Se la sto odiando per questo?
Non lo so, ma di sicuro non è amore quello che provo per lei adesso.
«Ho-ho prenotato in-in ospedale  per… pe-per…»
«Ok» è tutto quello che riesco a dire.
«Ve-verrai con me?» Ha smesso di piangere, ma la sua voce rimane rotta da singulti.
«Se vuoi...» stringo i pugni e mi auguro che dica di no, invece annuisce. «Ok» mi ritrovo a ripetere.
Un tuono interrompe il nostro momentaneo silenzio e solo ora mi accorgo di stare a fissare la copertina della mia biografia. Quei giorni mi sembrano lontani anni luce. La pioggia scrosciante ci fa da sottofondo, tuttavia questa volta non ci sarà alcun arcobaleno.
«Hai ragione tu» comincio e lei non si muove, non risponde, attende con il fiato sospeso. «Non siamo fatti per stare insieme» si allontana da me, tira su le ginocchia fino al petto. Non posso vederle ma so che le lacrime hanno ripreso a bagnare le sue guance. «Domani verrò con te» prendo un po' di tempo, «poi-»
«Ho capito» mi interrompe, il suo tono adesso è duro. La osservo alzarsi con lentezza, la coperta a quadri scivola ai suoi piedi e ho un vago ricordo di quando la spogliai del cappotto che, come un mantello, ricadde sul pavimento, proprio qui a casa sua, dopo la presentazione del libro. Ha il capo chino e non si volta a guardarmi mentre si stringe nel suo stesso abbraccio.
«Vado a letto» annuncia e a piedi nudi, proprio come piace a lei, scompare nel buio della casa.
"Poi è finita" stavo per dirle.
 
 

Epilogo


 
La sala d'attesa è vuota.
Ci siamo solo io e lui e questo enorme macigno che mi comprime tutta: testa, gola, stomaco… cuore. Faccio fatica a respirare. Ogni volta che inspiro sento una fitta che mi attanaglia l'addome.
Fabrìcio Cruz è seduto al mio fianco, lo osservo di soppiatto: ha lo sguardo perso nel vuoto, rivolto fuori dalla finestra, il è cielo è di un azzurro terso. Dalla conversazione di questa notte non ci siamo scambiati una sola parola. Ho come l'impressione che sia stata la nostra ultima chiacchierata.
Le sue mani - grandi e scure - sono intrecciate in grembo. Vorrei sfiorargliele, vorrei che prendesse le mie nelle sue e me le stringesse forte, per tranquillizzarmi, per farmi sentire che lui è qui.  Anche se dopo non ci sarà più.
Il suo volto è paurosamente spossato, con le occhiaie e la barbetta di qualche giorno non sembra neppure lui. Sto per chiudere la mano intorno alla sua quando un'infermiera annuncia il mio nome. Confermo la presenza con l'indice.
«Prego, si accomodi» continua, tenendo la porta aperta per me.
Mi alzo e le gambe tremano. Fabrìcio si volta a guardarmi, serio. Pagherei oro per vedere di nuovo un suo sorriso.
«Ti spiace se aspetto qui?»
"Tantissimo" vorrei rispondergli, invece gli rivolgo un flebile "no" scuotendo il capo. 
Nuda dalla vita in giù mi ritrovo distesa su questo anonimo lettino bianco. Alle pareti le immagini dell'evoluzione del feto.
Ho il cuore che martella nel petto come un ossesso, il mio corpo è scosso da brividi che non hanno nulla a che vedere con il freddo.
Stringo i pugni fino a farmi penetrare le unghie nella carne.
Ho bisogno di lui, ho bisogno che stia qui vicino a me a tenermi la mano, ho bisogno di sentire la sua presenza, il calore del suo corpo, il suo respiro, di vedere i suoi occhi striati di giallo dall'aria birbante e furbetta che mi scrutano, ho bisogno del suo immenso sorriso.
Un uomo alto e in camice bianco si avvicina, borbotta un saluto formale, quindi si copre il naso e la bocca con una mascherina mentre si accomoda sullo sgabello accanto al lettino. Mi punta un'enorme lampada in faccia e la luce mi abbaglia.
Cielo e se fa paura!
«Allora, signorina...» la sua voce è roca e profonda. «É sicura?» Mi chiede.
Lo guardo e improvvisamente ogni paura scompare, il cuore rallenta i suoi battiti, il peso della coscienza si alleggerisce.
«No» mi metto a sedere al centro del lettino e lui si toglie la maschera, adesso il suo sorriso è più spontaneo. «Ho cambiato idea. Scusi per il disturbo…» mi aiuta a scendere ed è lui a ringraziare me per la vita di mio figlio che ho appena salvato.
Fabrìcio è accanto alla finestra, con le braccia conserte guarda il cielo sconfinato e le montagne che si stagliano all'orizzonte.
Mi incammino nella sua direzione, nonostante i tacchi delle scarpe ticchettino sul pavimento di linoleum non si volta indietro. Lo affianco e vedo quello che ha rapito la sua attenzione: una scuola di equitazione, alcuni fantini saltano ostacoli in sella a splendidi puledri.
«Signor Cruz...» mi fissa sollevando un sopracciglio, io rivolgo lo sguardo al panorama, a stento trattengo un sorriso. «La avverto fin da adesso che sarà la mamma a scegliere il nome di suo figlio» ritorno a guardarlo e vedo un luccichio nei suoi occhi.
«Graças a Deus! Graças, Robbie!» Fa per abbracciarmi, ma lo fermo.
«Parlo seriamente: niente nomi sudamericani impronunciabili» mi afferra il viso con entrambi i palmi e mi bacia. Il contatto delle nostre labbra è delicato. Uno, due, tre baci casti, poi la sua lingua incontra la mia. Il suo sapore, il suo profumo, con le dita gli sfioro i riccioli morbidi, poi il collo. Ho un'inaspettata e furente voglia di lui. Di noi.
 
Siamo sul divano di casa mia, lo stesso che questa notte ci ha visti distanti chilometri e chilometri, scossi da emozioni simili e insieme diverse.
Sul tavolino vi sono ancora la tazza da cui ho bevuto la camomilla e la bottiglia della sua bevanda energetica, vuota per metà: testimoni imparziali della notte appena trascorsa. E poi, ovviamente, c'è il mio ultimo libro che parla di lui.
In un attimo gli sono addosso cavalcioni, le sue mani sono ovunque sul mio corpo nudo, le mie dita lo accarezzano lungo la schiena e l'addome, le nostre lingue, di nuovo congiunte, si muovono frenetiche e bramose. Ogni tanto mi lascio sfuggire un gemito di piacere quando mi sfora la spina dorsale. Il nostro infinito bacio continua anche adesso che si distende su di me, sfregando i nostri sessi, ancora vestiti.
«Robbie...» mi chiama fra i denti mentre mi spoglia delle mutandine, e la risposta che ottiene è un mugolio. «E se facesse male al bambino?» Sghignazzo, senza allontanare la mia bocca dalla sua, sento il desiderio che ho di lui crescere smisuratamente.
«Oh, ma farà tanto bene alla mamma» alza appena il capo per guardarmi, le nostre labbra si separano, noto il suo sorriso intrigante. So cosa sta per fare: mi entra dentro, di netto, strappandomi un ansimo lungo e profondo. Riprende a baciarmi soffocando i miei gemiti, senza darmi tregua o un momento per riprendere fiato.
 
Tanto è inutile: nostro figlio porterà il nome che sceglierò io.
O almeno credo.



fine

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