Cuore di Drago

di TotalEclipseOfTheHeart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Ryujin ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Il Naraka ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Shenlong ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - Il Karisuma ***
Capitolo 5: *** Glossario ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Ryujin ***


Note dell’Autrice:
Ebbene, eccomi riapprodata, dopo tanti mesi di inattività, qui su efp.
Faccio un paio di premesse, prima di lasciarvi alla storia.
Innanzitutto, vorrei ringraziare Dollarbaby e Jadis_, le giudicie che hanno ispirato questa mia Mini-Long d’Ambientazione Orientale. Appena vi capita, passate a dare un’occhiatina ai loro contest anche perché, spulciando un po’ tra le altre storie concorrenti, posso assicurarvi che ne troverete indubbiamente molte di vostro gradimento.
Poi, dedico questa mia piccole digressione iniziale alle mie due migliori amiche, EragonForever e KakashiNoSharingan. La prima, per il costante supporto ricevuto durante la stesura, e la seconda per gli assidui GiappiConsigli sui nomi dei personaggi e dei luoghi (quindi se ho scritto balle, colpa sua!!!). Mi hanno accompagnata in questo percorso, sebbene debbano ancora leggere la storia vera e propria, spero comunque che possa essere di loro apprezzamento.
Infine, un piccolo spazio anche per le mie sorelline che, anche quando la scadenza era vicinissima, mi hanno spronata a non mollare e terminare questo racconto per il quale ho faticato tanto.
All’interno del racconto, incontrerete molti nomi e riferimenti alla cultura giapponese o cinese, ma state tranquilli. Il quinti capitolo sarà dedicato interamente a risolvere tali dubbi, e quando troverete una sopra a una certa parola, è perché potrete comodamente consultarne la definizione nella parte finale, in cui inserirò anche alcune piccole curiosità sul perché, per esempio, ho scelto proprio alcuni nomi per i miei personaggi o luoghi invece che altri.
Detto questo, spero di non avervi intrattenuti troppo e vi auguro una buona lettura. Aspetto con ansia le vostre recensioni, e per qualsiasi dubbio e osservazione sono sempre disponibile!!!
 
Teoth

 
 




 
Cuore di Drago
 
 
Gli elementi che identificano il carisma sono tre: 
l’indole innata degli eroi e dei profeti, 
la capacità di infondere benessere agli altri con la sola presenza 
e una cultura che ti permetta una conversazione brillante su ogni argomento.
(Psycho-Pass)
 
 

 
CAPITOLO I – RYUJIN




Iniziamo col dire una cosa.
Io, questo dannatissimo Diario Reale, non volevo proprio scriverlo.
Già ora che tutto è concluso, e ormai la mia fine è vicina, ho ben altre faccende di cui occuparmi, ci manchi solo che quella dolcissima e adorata rompiscatole di mia moglie non se ne venisse fuori con questa storia del “Lasciamo un ricordo ai posteri”.
Ovviamente, io le ho detto chiaro e tondo che nemmeno sotto tortura mi sarei messo a scrivere questa robaccia.
E quindi eccomi qui.
Ogni sacrosanta volta, va sempre a finire così. Anche se so che dovrò diventare imbecille per soddisfare i suoi desideri, alla fine lei e quel suo sorrisino innocente finiscono sempre per farmi fare tutto quello che vuole, manco fossi il suo animaletto domestico.
Dannato matrimonio … lo sapevo che mi stavo scavando la fossa quando la sposai.
Però, quando viene da me con quegli occhioni da cerbiatta supplicante, come diavolo dovrei fare a dirle di no?
Comunque, meglio che mi presenti.
Io sono Ryujin Tianlong … e questa è la mia storia.
 

A quel tempo, vivevo ancora a Shukai – Shi, la Città Celeste dei Naga.
Un posto dalla bellezza sublime, così remoto e irraggiungibile che, per quei poveri mortali che potevano solo limitarsi a osservarlo abbagliati, pareva più un miraggio lontano che altro.
Dopotutto, loro erano sempre stati, sin dal nostro arrivo ad Ayumu, niente di meno che un gruppo eterogeneo e caotico che nomadi e vagabondi barbari e incivili. Continuamente braccati dagli Oni, non avevano né i mezzi né il modo per concedersi il lusso di puntare a un futuro più luminoso e grande, per cui si limitavano a vivere alla giornata, raggomitolati nel loro angolo di terrore, nella speranza che, almeno fino a sera, non venisse un qualche demone affamato a divorarli vivi. Era ancora l’Era della Notte Eterna, e, nel loro futuro, non intravvedevano nemmeno uno squarcio di luce, solo un orizzonte buio e cupo, con cui si erano abituati a convivere e che nemmeno avevano più la forza di affrontare.
Dopotutto, erano solo che delle creature deboli e spaurite, per gli Oni, cacciarli e sterminarli come animali era un giochetto da ragazzi, un passatempo divertente e appagante di cui andavano fieri. In attesa che quella terra che credevano loro venisse finalmente conquistata.
O almeno, così era prima dell’arrivo dei Naga.
Ora, a quel tempo non avevo nemmeno la più pallida idea di perché diavolo i miei antenati avessero deciso di abbandonare il Nirvana per proteggere quella che era, sotto tutti gli aspetti, una razza spregevole e inferiore, che nemmeno meritava le nostre attenzioni, figuriamoci una protezione contro i demoni.
Giunsero una notte, lasciando per sempre quella dimensione che per loro era casa, e le cui porte si chiusero una volta per tutte alle loro spalle.
E offrirono agli umani la loro protezione.
Inutile dire che, quando si trovarono di fronte a quei rettiloni possenti, i mortali rimasero abbagliati dallo splendore che emanavano, arrivando a ritenerli persino divini e inchinandosi senza esitazione al loro cospetto, ringraziandoli quindi per quel generosissimo, e del tutto inatteso, aiuto.
Da allora, i Naga vissero ad Ayumu, combattendo notte e giorno una guerra che divenne, col tempo, prima centenaria e poi millenaria, uno scontro eterno e perenne che nessuno pensava sarebbe mai stato destinato a finire. Si stabilirono sui cieli, costruendo Shukai – Shi, una dimora ben lontana dalle diatribe e dai dolori terreni, che invano cercava di perseguire il miraggio di quella dimensione natia il cui ricordo si era, col tempo, affievolito fino quasi a svanire. Solo una nostalgia infinita permaneva, verso quella casa che mai avremmo potuto rivedere. Quella parte del nostro cuore che mai sarebbe tornata.
Gli anni passarono, mutando in Ere, e lentamente, gli esseri umani parvero, seppur poco a poco, uscire da quello stato di letargo in cui si erano lasciati scivolare durante la Notte Eterna. Certo, erano ben lontani dal raggiungere uno scopo superiore, e la loro cultura ancora regredita e frammentaria, ma, almeno, non erano più costretti a fuggire come conigli spauriti.
Grazie alla protezione offerta da noi, furono liberi di dedicarsi alle colture e agli allevamenti, di costruire villaggi e culti, di tirare su famiglia e di ottenere un lavoro.
Tutto grazie ai Naga.
Inutile dire che, col tempo, si convinsero così radicalmente delle nostre origini divine che finirono col venerarci sul serio, costruendo templi in nostro onore, facendo offerte e indicendo feste in nome nostro. Essi davano le loro figlie in dono ai culti che avevano costruito, perché soddisfacessero i nostri desideri e ci dessero tutto ciò che desideravamo.
Col tempo, i Naga che, inizialmente, avevano cercato di rifiutare con modestia tali doni, finirono col ritenerli prima scontati e poi persino dovuti. Dopotutto, molti di noi donavano il proprio potere e la propria vita per proteggerli, quindi era quantomeno opportuno che loro ricambiassero, no? Anzi, se volevano veramente che continuassimo a garantire la loro pace, se la dovevano proprio guadagnare, e non erano in pochi a pensarlo.
I tributi divennero quindi obbligatori e regolari, anche se, probabilmente, i mortali non lo ritennero mai un problema. Dopotutto, noi li proteggevamo, quindi erano anche felici di dare qualcosa in cambio.
Io crebbi in quell’ambiente, come unico e solo Erede del Grande Tianlong, l’Imperatore Drago che, con il suo Karisuma in grado di guidare interi eserciti, regnava indiscusso su tutta la Città Celeste. Potete quindi immaginare come fui educato, vissi per anni nel lusso più sfrenato, con centinaia di lecchini a elogiare ogni mio singolo gesto e servitrici disposte a soddisfare ogni mio desiderio, anche quello più malsano.
Ero bello, forte e intelligente, perfetto per il trono.
Beh … più o meno. Per essere sincero, ora che ci penso ho seri dubbi che, quando mi voltavo di lato, la mia reputazione fosse proprio buona.
Anche se avevo quasi raggiunto l’età adulta, non mi ero mai interessato agli affari di corte. Ignoravo completamente i continui richiami, i consigli di guerra e i balli della nobiltà che avrebbero dovuto vedermi al centro dell’azione politica ed economica del paese. Spendevo il mio tempo svagandomi come meglio mi veniva, che fosse intrattenendomi con le meretrici dei bordelli della città o a caccia col mio falcone, poco importava.
Guardavo con divertita commiserazione quelle povere anime dei miei simili che, invece, si sbattevano notte e giorno al Fronte Occidentale per combattere con gli Oni. Li deridevo persino, chiedendo loro che senso avesse spendere le nostre inestimabili vite per proteggere quegli inetti dei mortali che erano stati creati solo per leccarci i piedi e soddisfare i nostri desideri.
Peccato, però, che la cosa non fosse destinata a durare.
Dopotutto, ero l’Erede, avrei dovuto immaginarlo che, prima o poi, mio padre mi avrebbe convocato, perché prendessi il mio posto tra i Naga.
 

Ricordo ancora chiaramente come, quel giorno, mi trovassi al Drago Vorace.
Situato nel Quartiere dei Piaceri di Shukai – Shi, quel magnifico locale era il solo che proponesse, ai suoi ricchi frequentatori, dei servizi di sole donne mortali.
Perché dovevo ammetterlo.
Forse, quelle dannate bestioline erano anche inutili sotto parecchi aspetti, ma diavolo se scopavano bene! Quindi, un bel giorno, al proprietario del posto venne la geniale idea di farne arrivare alcune, propriamente addestrate al compito, direttamente dalle terre mortali, perché soddisfacessero le voglie dei Naga ricorrendo al loro fascino di fanciulle dolci e indifese. Inutile dire che gli piovvero in testa soldi a palate.
Dopotutto, anche se la stragrande maggioranza poteva solo sognarsi di raggiungere la Città Celeste, non era comunque raro che alcuni esseri umani avessero la fortuna sfacciata di poterla visitare. Erano ottimi lavoratori, e avrebbero dato la testa per noi, perché non sfruttarli al meglio? Come servi, erano perfetti … non si ribellavano e ci baciavano i piedi come fossero nati per farlo. Inoltre, per evitare un inutile dispendio di energie nel cercarne sempre di nuovi, la consuetudine di concedere a chi di loro alloggiava stabilmente nella città parte della nostra durata vitale si era fatta sempre più diffusa. Anche se, ovviamente, non poteva eguagliare nemmeno remotamente quella di noi Naga.
Quindi perché non usarli anche per altre, e ben più piacevoli (sia per noi che per loro), attività?
Il Drago Vorace era, quindi, la Casa di Piacere più frequentata di tutta Shukai – Shi. E io ne ero, sotto ogni aspetto, il frequentatore più dedito e fedele.
Ero giunto, come ogni sabato, a mattina presto, dopo aver largamente anticipato al proprietario il mio desiderio di vedermi servite, per quella volta, delle fanciulle dalla chioma rosso sangue. Magre, perché in quel periodo mi piacevano quelle con poche tette e fisico esile, e con tante e dolcissime lentiggini a punteggiare il loro volto. Adoravo le lentiggini, mi facevano andare letteralmente fuori di testa.
Quando arrivai, trovai, come sempre, l’accoglienza migliore che potessi desiderare.
Una decina di fanciulle mi accolsero sorridenti, osservando estasiate il mio fisico perfetto e atletico, la mia superba chioma dorata, marchio indelebile del mio sangue reale e mio maggiore vanto. Guardarono contente le mie iridi rettilinee, di tutte le sfumature del tramonto, e la schiera imponente di corna dragonesche che andavano a mettere la ciliegina sulla torta ai miei invidiabili 180 cm di altezza. Soprattutto, cosa che ovviamente non mi sfuggì, osservarono il mio Yukata* dalla foggia pregiata, in seta color porpora con intarsi dorati, che sul dorso andavano a formare l’immagine di un dragone rampate, e così anche l’Obi* che mi cingeva la vita e la magnifica katana che mi pendeva minacciosa sul fianco.
Dopotutto, erano abituate a capire al volo quanto gli sarebbe fruttato un servizio, osservando il modo di vestire dei loro clienti. E più uno era ben vestito, più, una volta tornate a casa, avrebbero avuto il reggipetto grondante di monete d’oro.
Mi guidarono, ancheggiando provocanti, verso una zona appartata, divisa dal resto del locale da un separé raffigurante scene decisamente spinte di sesso.
L’aria era densa e quasi soffocante, così bollente da creare un’atmosfera ovattata e fuori dal tempo, mentre il profumo d’incenso e candele profumate si spargeva per le stanze, da cui chiari suoni di risa, mugolii e gemiti confusi raggiungevano le orecchie dei clienti.
Mi accomodai, abbandonandomi soddisfatto su un letto di cuscini foderati in rosso e oro, e lasciandomi imboccare divertito da quelle bellezze che si diedero subito un gran d’affare per mettermi più a mio agio possibile, iniziando una lenta e pigra danza di forme e colori di fronte al mio sguardo languidamente interessato.
Sorridevo, cercando di penetrare in quel muro di sete e velluti che, ne ero ben consapevole, di lì a poco sarebbe finito a terra, abbandonato sul pavimento di legno, per lasciare spazio a ben più gradevoli panorami.
E ci sarei anche arrivato a quel punto, se improvvisamente una folata gelida non avesse interrotto i miei ben poco casti pensieri, mentre le porte del locale si aprivano di botto e passi pesanti percorrevano il corridoio, fino a penetrare nel mio non più personale angolo di piacere.  Alzai gli occhi al cielo, consapevole che, ormai, il divertimento era andato a farsi benedire.
Spostai lo sguardo a pochi passi da me, dove un molosso dai capelli raccolti in una (a mio parere molto effeminata) coda di cavallo mi osservava gelido.
Isao ed io eravamo amici da tempo, per la precisione, da quando scorazzavamo coi pannolini addosso per il Palazzo di Giada, facendo disperare le nostre matrone coi nostri capricci e le nostre marachelle.
Successivamente, lui si arruolò nella Guardia Reale, succedendo poi al padre come Generale della Settima Divisione, e io mi diedi invece alla pazza gioia tra i piaceri di corte. Quando tornò dall’Accademia Militare, le cose erano ormai totalmente cambiate.
Lui, devoto e fedele sostenitore del dovere e dell’onore, perenne compagno di mio padre in ogni singola riunione strategica nella guerra contro i demoni e rispettatissimo comandante dei suoi uomini. E io, che preferivo di gran lunga non sprecare la mia reale esistenza con tali e inutili perdite di tempo ed energie. Inutile dire come, puntualmente, il mio spasso finiva sempre con l’essere interrotto sul più bello, perché mio padre gli chiedeva di sequestrarmi e ricondurmi e corte anche con la forza se necessario.
Come quel giorno.
Gli occhi gelidi del mio in quel momento non molto carissimo amico mi osservavano critici, mentre concedeva una rapida e abbastanza disapprovata occhiata verso le mie dolci compagne, per poi tornare a soffermarsi su di me.
Incrociò le braccia, per poi dire, schietto e diretto: “Tuo padre ti vuole nella Sala del Trono. Subito. E questa volta sembra anche parecchio importante. Dice che è ora che tu ottenga il tuo Karisuma … cavolo Ryu … si può sapere che hai nel cervello?”
Sospirai, accarezzando annoiato la spalla morbida e perfetta di una delle fanciulle che, nel frattempo, si era accoccolata sul mio petto, ridacchiando divertita alla scena. “Ehi … cerca di calmarti. Guarda che sono passati solo sei mesi dal mio compleanno … ho tutto il tempo per entrare nel Consiglio dei Mille.”
Quello alzò un sopracciglio, per poi massaggiarsi le tempie, con aria visibilmente esasperata: “Lo sai che quando si raggiunge il 777° Anno di Vita arriva per noi il momento di entrare nell’età adulta. Tutti coloro che vivono qui sono impazienti di prendere il loro vero posto tra i Naga, sconfiggendo i 100 demoni e ottenendo finalmente quella forma di cui, a quanto pare, tu non vai affatto fiero. Santo cielo Ryu! Non avrai mica in mente di restartene in quelle spoglie da mortale per il resto dei tuoi giorni, spero! Sei l’Erede, devi prendere il tuo posto sul Fronte!”
Feci una smorfia, ripensando con rammarico a quella patetica situazione che, nonostante tutto, ci vedeva ancora a combattere con gli Oni in quella guerra senza fine. Poi sbuffai: “Senti … io sto bene qui, ok? Non mi interessa il Passaggio, non se questo significa essere spedito in quel buco di fogna che è il Fronte Occidentale, a sbattermi notte e giorno per una causa di cui, francamente, non me ne può fregare proprio una beata sega. Io me ne starò qui, con le mie puttane e i miei servitori, a spassarmela come ho sempre fatto … non sono disposto a buttare via la mia esistenza per dei perdenti che, tanto, alla fine muoiono comunque!”
Inarcò nuovamente un sopracciglio, per poi dire, schietto: “Come ti pare … ma che ti piaccia o no, ora l’Imperatore vuole parlarti. E scommetto che, nonostante tutto, nemmeno tu vuoi disobbedire a una sua convocazione, dico bene?”
Sospirai … in effetti, non aveva tutti i torti.
Anche se negli ultimi anni aveva quasi smesso di farmi chiamare, mio padre era sempre e comunque il re, e che mi piacesse o meno, se mi faceva convocare, dovevo andare, volente o nolente.
Sbuffai, alzandomi e spazzolandomi irritato le vesti, per poi fare un cenno frettoloso a una delle fanciulle: “Torno appena possibile … voi aspettatemi qui, chiaro?”, quindi, prima ancora di ascoltare una risposta, mi avviai tristemente verso il Palazzo di Giada, seguito a ruota da Isao.
 

Era impossibile non innamorarsi per Palazzo di Giada.
Che foste Naga o umani, uomini o donne, vecchi decrepiti o giovani aitanti, quel posto riusciva a conquistarvi l’anima.
E se sapeste quanto ne sia costata la costruzione, non vi sorprendereste nemmeno così tanto.
Comunque, sebbene in molti considererebbero indubbiamente folle l’idea che qualcuno possa cercare di descriverla a parole, temo di non potermi proprio esimere, a seguito di tale premessa, dal parlarvene. E poi, sapevo che stilare questo diario sarebbe stata un’impresa, quindi almeno mi sono preparato.
Allora, il Palazzo di Giada si innalzava sopra Shukai – Shi, costruito su una rupe che permetteva di abbracciare con un solo sguardo il magnifico panorama di ville nobili e perfettamente allineate sotto di esso, dai tetti dipinti in oro zecchino che gettavano su tutta la città quell’atmosfera semi eterea che tanto veniva elogiata nei racconti dei mortali.
Si trattava di un’imponente struttura, un palazzo in stile tipicamente orientaleggiante, difeso da una muraglia in muratura bianca come il latte e vigilata da due possenti dragoni in oro battuto che osservavano con il loro sguardo vigile il passaggio di coloro che desideravano superarli.
Una volta superato l’ingresso, vegliato notte e giorno da due Naga dalle accese sfumature verdi e dorate (di cui ovviamente mi dimenticavo sempre il nome, sebbene fossero anni che lavorano in quel posto), sul loro petto rettilineo spiccavano due gemme dorate, lucenti e grosse quanto un masso, segno che il loro Karisuma doveva essere indubbiamente potente per aver ottenuto un ruolo simile. Una volta superati, ci si trovava in un ampio cortile, il pavimento coperto da mattonelle in marmo, da cui un sentiero in terra battuta guidava dritti dritti verso l’edificio principale, in cui si trovava la Sala del Trono, quella del Consiglio e quella della Meditazione. Ai lati del sentiero, imponenti vasi in giada verde, pieni di … si, oro liquido, decoravano l’ingresso, accompagnati da innumerevoli vetrine in cristallo, contenti katane, kusarigama* e naginata* vecchie di secoli, talmente pregiate da essere praticamente impagabili.
Superato il cortile, vi era la struttura principale e, oltre a essa, tutte le residenze private, l’armeria e la scuderia, i templi e le terme. E fiore all’occhiello, i giardini. Cortili giapponesi con ruscelli d’acqua fresca a cristallina, ninfee dai mille colori e magnifici alberi di pesco e ciliegio, e poi ponticelli sospesi, tempietti e statue in oro zecchino.
Un paradiso.
E poi la Sala del Trono, o Stanza degli Specchi.
Incedetti tranquillo, non era la prima volta che vi entravo, quindi non prestai alcuna attenzione alle pareti coperte da specchi la cui superficie riflettente era interamente in oro, mentre colonne in giada verde smeraldo sorreggevano il soffitto intarsiato d’oro e il pavimento, in onice nera, conduceva direttamente al cosiddetto trono.
In realtà, quello in cui stava sempre mio padre non era proprio un trono nel senso stretto del termine. Dopotutto, è gran difficile trovarne uno in formato Drago. Quindi solitamente se ne stava arrotolato su sé stesso, comodamente e impassibilmente sistemato su un letto di cuscini dall’aria pregiata.
Non era un caso che Tianlong fosse l’Imperatore Drago. Nessuno, e sottolineo nessuno, possedeva un Karisuma come il suo.
Meglio però dare una spiegazione, il Karisuma, o Carisma, è TUTTO, per un Naga. Non denota solo il suo potere, la sua forza e la sua resistenza, ma rappresenta anche la sua capacità di comando, quella virtù unica e insostituibile che ti permette di spiccare sulle masse, incutendo timore e rispetto e spingendo le persone a sacrificare ogni cosa per te.
Tuttavia, ottenerlo non è semplice. E io lo avrei imparato presto.
Quando mi fermai di fronte a lui, mi morsi appena il labbro. Anche se mi ero sempre mostrato strafottente verso tutti gli altri, con lui era diverso … non era esattamente il tipo d’individuo con cui ci si potesse permettere di alzare la voce, e sebbene fossi il suo erede, non facevo eccezione.
Mi fermai, attendendo un suo cenno, mentre uno dei due occhi rettilinei, rimasti fino ad allora socchiusi a dormicchiare pigramente, si apriva, posando le sue pagliuzze color dell’oro su di me. Le squame color rubino risplendettero, riflettendo la luce naturale delle fiaccole e delle candele presenti nel luogo, per poi spandersi sulle pareti dorate e da lì in tutta la sala. La criniera, dorata, come quella di tutti i membri della stirpe reale, brillava come di luce propria, mentre i lunghi baffi volteggiavano nell’aria e una gemma color tramonto splendeva sul suo petto, in tutto il suo unico e reale fulgore. Il suo Karisuma.
Lentamente, come tendeva sempre a fare, d’altronde, si mosse, abbandonando la posizione accoccolata per osservarmi negli occhi, in silenzio.
Mi schiarii la voce, nervoso. Quell’attesa mi stava decisamente dando alla testa … se doveva dirmi qualcosa, che lo facesse in fretta, altrimenti avrei potuto implodere dall’ansia. Sul serio.
Un sospiro, e da lì capii, prima ancora che potesse esordire con: “Ryujin … pensavo che, ormai, avessi iniziato a fare i preparativi per il viaggio.”, disse, osservandomi, questa volta, con un pelo di rassegnazione sul muso rettilineo. Mi morsi il labbro, visibilmente frustrato, quindi dissi, in tutta risposta: “Padre … sono passati solo sei mesi da …”
“SENTI UN PO’, TI CHIEDI MAI COSA CI FAI QUI?!?”, sbottò, di scatto.
Indietreggiai, di riflesso, guardandomi teso alle spalle, dove, fuori dal portone, probabilmente le guardie si stavano godendo il nostro spettacolino con delle battutine idiote sulla mia discutibile condotta come principe.
Parve calmarsi, sospirando allora con aria stanca, e spostando lo sguardo verso la sala, con aria assorta, prima di proseguire: “Sto morendo, Ryujin.”, mi bloccai, di scatto, osservando basito quello che era sempre stato a tutti gli effetti, per me e per tutto il Regno Celeste, l’essenza stessa del potere. Insomma, era Tianlong, il leggendario Dragone Immortale, Imperatore di Mille Regni e Sterminatore di Piaghe … nessuno era come lui, nessuno poteva nemmeno SOGNARSI di eguagliarlo. Quindi, come sarebbe a dire che stava morendo? Era del tutto inaudito, inconcepibile, una realtà così assurda che non potei non rimanerne sconcertato. “E non so più cosa fare, Ryujin. Mi serve un erede, qualcuno che guidi questo popolo quando non ci sarò più … ma tu continui con le tue condotte assurde, coi tuoi passatempi del tutto privi di responsabilità e coi tuoi atteggiamenti incuranti di tutto e di tutti.
Ormai, non può più andare avanti così. Che ti piaccia o meno, il tuo tempo è ormai giunto. Domani partirai, per ottenere il tuo Karisuma, come avresti dovuto fare già da tempo ormai, e allora potrai finalmente entrare a far parte del nostro mondo a tutti gli effetti e prendere sulle tue spalle il destino che ti è stato donato.”, disse, osservandomi in silenzio.
Sospirai, scuotendo il capo, del tutto incredulo: “E’ assurdo.”, dissi, ancora incapace di credere a quelle sue ultime parole, “Mi state dicendo che state per morire? È impossibile, voi … voi … sapete bene che non potrò mai essere un vostro degno successore. E non potete lasciarci così.”
Quello sorrise.
Ora che ci penso, da quando mia madre era morta, non l’avevo mai più rivisto mostrarsi così divertito. Solitamente, era impossibile vederlo sorridere in quel modo, così spontaneo e sincero. Quindi ne rimasi alquanto sorpreso.
“Ryujin …”, era la prima volta che pronunciava il mio nome in quel modo, e confesso che, in quell’istante, sentii una stretta gelida afferrarmi il cuore, “… anche se siamo Naga, non viviamo in eterno. Anche noi giungiamo alla fine del nostro ciclo vitale, quando il nostro Potere si indebolisce, e il Carisma viene meno … anche tu te ne sei accorto, no? Non sono più quello di un tempo, e un Imperatore che non ha un Karisuma in grado di guidare il proprio popolo non serve a nessuno. Per ora, ciò non è stato notato, ma è solo questione di tempo, la mia ora è vicina ed è necessario che il mio trono passi a qualcuno col mio stesso sangue.
Anche se molti potrebbero non essere d’accordo, tu sei il mio erede. E non solo di sangue, quando avrai ottenuto il tuo Carisma, sono sicuro che ti dimostrerai un sovrano persino migliore di quanto io non sia mai stato. Per farlo, però, devi intraprendere il Passaggio.”
Abbassai gli occhi, poi, sorprendendo persino me stesso, a dire il vero, dissi, semplicemente: “Faccio preparare il necessario.”
 

Tra tutte le varie, e a dir poco numerose, cose che mi facevano andare il sangue al cervello della vita di corte, ve ne era una, tra tutte, che mi dava sempre e immancabilmente sui nervi.
Portava due magnifiche fiaccole color acquamarina, segno di una maledizione che, tra gli esseri umani, l’aveva condannata sin dalla nascita a essere abbandonata nei boschi lontani dai villaggi. Due fiaccole simili agli occhi di una cerbiatta che, con quella chioma corvina e la carnagione di perla, avrebbero fatto volentieri capitolare qualsiasi altro esemplare sessualmente attivo di maschio etero nel giro di migliaia di chilometri. Magra come uno stuzzicadenti e piatta come una tavola, il suo nome era Hitomi … un nome dovuto a quegli stessi occhi che l’avevano quasi uccisa. Un nome che, personalmente, non avrei mai avuto il pessimo umorismo di scegliere, considerato che, tra gli umani, gli occhi acquamarina sono un biglietto di sola andata per l’obitorio, visto quanto gli Oni sembrano esserne attratti.
Comunque, la piccoletta di cui vi sto parlando era la mia ancella. Hitomi.
Sempre tra i piedi, anche quando non serviva, e sempre in ritardo, quando invece serviva. Non riusciva a starsene zitta un istante, e pareva fermamente convinta che, prima o poi, avrei finito col farmi ammazzare, vuoi durante una delle mie battute di caccia, vuoi durante una delle mie festicciole, vuoi per un altro motivo.
Persa come solo lei sapeva essere, era una continua minaccia per sé stessa e per gli altri. Aveva lo straordinario talento di inciampare sempre anche dove non c’era nulla, di perdersi anche quando doveva andare al bagno e di dimenticarsi spesso e volentieri persino il suo stesso compleanno. Insomma, era un pericolo pubblico mascherato da cerbiatta.
Eppure, quando tre giorni dopo me la trovai, con i bagagli già pronti, di fronte alle mie stanze, non potei non rimanerne tacitamente ammirato.
Guardai cinico il complesso assortimento di bisacce, pellicce e vivande che aveva radunato, in perfetto ordine e pronti per il viaggio, a fianco del mezzo che ci avrebbe condotti alle Porte del Naraka, ossia un magnifico, ma forse un pelo pacchiano, tappeto arabo.
Alzai un sopracciglio, fissando divertito la scena, prima di dire, in tronco: “Non se ne parla nemmeno. Tu stai qui, ho già dato disposizione di far convocare un’Eletta dal Tempio. Tornatene alle tue faccende.”
Quella alzò il capo, inaspettatamente tutt’altro che remissiva, come di solito era di fronte alle mie parole.
“Non se ne parla nemmeno. Io sono la vostra ancella, non potete sostituirmi con un’estranea, solo io posso guidarvi nel Naraka e non permetterò che un’altra ragazza, che nemmeno vi conosce o sa quali siano le vostre necessità, prenda il mio posto.”, mi osservò, decisa, “Sono nata per questo compito. Ho conservato la mia innocenza appositamente per potervi accompagnare nel vostro viaggio. Sono preparata, e so cosa mi attende. Non dovete preoccuparvi per me.”
Sbuffai, più infastidito che altro.
Poi le feci cenno di seguirmi, issandola senza mezze misure sul tappeto che, diligente, ci attendeva a pochi centimetri da terra, in attesa del decollo.
Fu in quell’istante, che sentii una leggera brezza colpirmi il capo.
Sorrisi, chiudendo appena gli occhi, prima di voltarmi nuovamente verso il cortile, dove sapevo già ciò che avrei visto.
Il drago color dello smeraldo sorrise, gentile, mentre in un soffio di vento primaverile atterrava debitamente sul terreno soffice del porticato, osservandomi divertito.
Shenlong era, sotto ogni aspetto, totalmente differente dal fratello. Diversamente da mio padre, le sue forme erano ben più armoniose e scattanti, prive della superba possanza del fratello, ma non per questo meno impressionanti. Le squame, verdi come le foglie novelle a primavera, brillavano smeraldine sotto i raggi caldi e avvolgenti del sole, mentre la criniera dorata gli volteggiava silenziosa attorno al collo possente, e imponenti corna color onice, impreziosite da una notevole collezione di anelli dorati, gli decoravano il capo, completando il quadro.
Osservò silenzioso, per un istante, Hitomi, prima di esordire, sereno come sempre: “Ebbene … anche tu hai deciso di partire, vedo.”
Sorrisi, come sempre di fronte a lui.
Dopotutto, diversamente che con gli altri membri della Corte Imperiale, con mio zio ero sempre riuscito ad avere un rapporto insolitamente stretto. Forse perché, sebbene celatamente, anche lui mal sopportava quella vita da schiavi che la guerra con gli Oni ci costringeva a seguire, come si poteva facilmente dedurre dagli innumerevoli viaggi che, puntualmente, gli permettevano di allontanarsi da quell’ambiente tutt’altro che piacevole. Almeno, però, lui poteva farlo.
Nessuno si sarebbe azzardato a dirgli niente.
Dopotutto, era il fratello del re, e la sua tendenza ad assentarsi, anche per lunghi periodi, da Shukai – Shi era tutt’altro che ignota.
Forse, era proprio grazie a questa tacita e comune insofferenza a quel mondo che, tra me a lui, c’era sempre stato quel legame silenzioso che solo noi due parevamo essere in grado di comprendere.
“Già … a quanto pare, il mio ritardo è stato notato. Mio padre ha detto che dovrò partire antro il finesettimana, e … beh, non potevo certo dirgli che avrei ben di meglio da fare, no?”, dissi, sornione. Quello sorrise, divertito, mentre una scintilla ironica gli attraversava lo sguardo: “Hai perfettamente ragione … in tal caso, è meglio che ti sbrighi. Non vorrai certo deludere le aspettative nella nobiltà, vero?”
Scossi il capo, divertito, prima di issarmi, quasi come nulla fosse, Hitomi sulla spalla.
La sentii sussultare, sorpresa, mentre la depositavo sul tappeto e, con un ultimo cenno di saluto, decollavamo verso l’inizio del nostro viaggio.
Osservai in silenzio le squame smeraldine di lui farsi sempre più fioche, fino a quando, lentamente, non scomparvero in lontananza.
 

Sorvolare l’immensità di Ayumu era forse la sola cosa che avrebbe potuto spingermi a cercare di ottenere il mio Karisuma.
Insomma, non c’era assolutamente nulla di anche solo remotamente paragonabile alla sensazione dell’aria tersa sul volto, alle nuvole che ti sfioravano il viso e agli stormi di rondini che ti superavano in volo. E poi i paesaggi.
Perché, nonostante la cultura ancora regredita delle popolazioni mortali che la popolavano, Ayumu era una terra dai panorami impagabili. Distese di pinete color smeraldo, che si estendevano per miglia a miglia sotto di noi, praterie dall’erba gialla e secca, che brillava sotto il sole nelle giornate d’estate, vette ammantate di bianco latte, che si ergevano come a sfidare il cielo stesso.
Spettacoli che, sebbene non potessero certo cambiare il mio disprezzo verso le genti che lo abitavano, non potevano lasciarmi del tutto indifferente.
Le Porte del Naraka, la Dimensione degli Oni, si trovavano presso la zona più oscura di Ayumu … era regione conosciuta col nome di Terra della Notte, in cui le ore di luce si riducevano a si e no alcuni sparuti momenti tra mezzogiorno e pomeriggio.
Il resto del tempo, la regione era ammantata da una notte eterna, ma non per questo sgradevole.
Le piante notturne, dai vivaci colori fosforescenti, permettevano ai viandanti di orientarsi facilmente per quelle aree boscose, mentre i fuochi fatui e le lucciole formavano sentieri luminosi che impedivano a chicchessia di perdersi.
Incuneata tra i monti, in una piccola e modesta valle, la Terra della Notte era composta da un solo centro abitato, Kuraidesu.
Un posticino modesto, composto da niente di più e niente di meno che una cinquantina di catapecchie in legno ordinatamente disposte a cerchio attorno a una piazzetta altrettanto modesta, composta da pozzo, qualche taverna e un mercatino per il finesettimana.
Poco fuori da villaggio, la Capanna del Guardiano.
Il Naraka, infatti, è una dimensione completamente a parte. Raggiungerla, senza qualcuno ad aprire il portale, è pressoché impossibile … anche se, secondo alcuni, potrebbero esistere dei Naga dal Carisma così potente da creare Varchi artificiali per andare a venire a piacimento dalla Dimensione Demoniaca … tuttavia erano solo congetture.
Noi avremmo dovuto affidarci al Guardiano, per quanto, purtroppo, quell’idea non mi andasse particolarmente a genio.
 

“Ryujin.”, una parola, semplice, sintetica …
Peccato che a pronunciarla, con quell’aria ebetamente sorpresa, fosse stato proprio lui.
Era esattamente come lo ricordavo. Occhi blu lapislazzuli, lucenti come la notte più serena e il sonno più consolatorio. I capelli, ora raggelantemente TINTI DI NERO, gli cadevano sui fianchi come una cascata d’inchiostro, mentre la carnagione forse un po’ troppo poco virilmente delicata dava risalto alle sopracciglia arcuate e dal taglio nobile. Il fisico era magro, totalmente privo di quell’aura forte e decisa che avrebbe dovuto contraddistinguerlo … in quanto mio antico mentore, in quanto mio fratello ma, soprattutto, in quanto EX EREDE AL TRONO.
Makoto sorrideva, solare, avvolto in quel patetico saio da sacerdote mortale, e al suo fianco Lei.
Osservai critico quello scricciolo di femmina umana. Cercando di capire che diamine dovesse averci trovato quell’imbecille per innamorarsene, finendo di conseguenza per perdere tutto ciò che era e aveva … e si che, tra i Naga, non era proprio un gran segreto cosa succedeva a quegli idioti che finivano con l’innamorarsi dei mortali.
Eppure lui ci era cascato.
Con ambo i piedi, in una notte di mezz’estate.
Lo scemo aveva appena conseguito il proprio Karisuma, stabilendo un vero e proprio record nello sterminare i 100 demoni necessari per ottenerlo e conquistando senza nemmeno troppa fatica il proprio posto nel Consiglio dei Mille (che poi mille non erano nemmeno, visto che il numero di Naga adulti a quel tempo superava quella cifra, e di parecchio … ma visto che suonava bene veniva chiamato così, valli a capire).
Preso il proprio posto al Fronte Occidentale, nemmeno un mese dopo era riuscito a conseguire l’encomiabile numero di qualcosa come non so bene quante vittorie (non ci ho mai creduto che fossero davvero 100, non da un cretino che poi si fa mettere nel sacco da una mortale niente tette e tutto cervello).
Stava tornando a Shukai – Shi, quando si imbatté in un villaggio di confine, distrutto da una grave pestilenza. Ora … è vero, noi Naga viviamo per migliaia di anni. La nostra corazza è praticamente impenetrabile e le nostre capacità rigenerative così assurde da rasentare il divino … ma non siamo immuni alle malattie, o almeno non a quelle più letali. E questo doveva saperlo, mio fratello.
Quindi qual’era la cosa più naturale da fare?
Ovvio! Gettarsi in quella discarica di cadaveri e cercare di farsi ammazzare.
Come se non bastasse la guerra con gli Oni a decimarci, ora si metteva pure a fare l’eroe.
Comunque … fatto sta che lì conobbe lei, Aiko. Come ho detto sopra, non riuscivo proprio a comprendere cosa con esattezza avrebbe potuto spingerlo a tanto … insomma, era totalmente priva di curve, magra e striminzita da far paura, e ciliegina sulla torta, nemmeno così bella. Non con quel naso totalmente sproporzionato col resto del viso, o con quei denti assurdamente grandi, o ancora con quei capelli perennemente in disordine.
Certo, alcuni avrebbero potuto dire che, tutto sommato, non era così male. Gli occhi erano due onici lucenti e pieni di gentilezza, la carnagione quasi perfetta e il sorriso in grado di sciogliere gli animi. Ma da qui a rinunciare a TUTTO per lei … beh, ce ne voleva.
Anche perché, se quello scemo di Makoto non si fosse andato a invischiare in un guaio simile, in quel momento non avrei dovuto sbattermi tanto per tenere alte le aspettative di mezza corte imperiale. A quel tempo era lui il primogenito … se non avesse mollato tutto, nessuno mi sarebbe mai venuto a scassare i cosiddetti per farmi ottenere il mio Karisuma e un posto tra i Mille.
Invece no … doveva proprio rovinarmi la festa.
Perché non bastavano tutti i paragoni che, alle mie spalle e credendo che non potessi udirli, i membri della nobiltà facevano tra noi due.
Perché lui era perfetto.
Carismatico e deciso, intelligente e pieno d’iniziativa. Era gentile con tutto e con tutti, rispettoso della patria e del nostro “sacro” compito, solare, socievole e simpatico. Non si poteva proprio non esserne attirati.
Invece io ero … beh, ero io, no? Potete immaginare i salti di gioia che fecero quando si venne a sapere che avrei preso il suo posto come Erede al Trono.
Comunque … dove ero rimasto?
Ah, si … l’incontro con mio fratello.
Che dire.
Era sempre lo stesso.
Certo, forse aveva perso completamente l’aspetto di un tempo, abbandonando la forma di Naga per quella umana, ma gli occhi, il sorriso e i modi non erano minimamente cambiati.
Osservai critico la catapecchia alle sue spalle: nulla di più e nulla di meno che un rudere in legno di quercia, dall’aria a dir poco vissuta e vecchia. Un solo piano per un totale di quelle che, dedussi, potevano essere al massimo un paio di stanze, era fornito di un piccolo orticello di lato, così pieno di erbacce da apparire quasi in disuso, se non fosse per gli attrezzi da coltura che s’intravvedevano sul lato. Un pollaio decadente e un piccolo porcile apparentemente vuoto e dall’odore a dir poco nauseabondo completavano poi l’allegro quadretto.
Sorrisi, divertito, per poi tornare a fissarlo.
“Vedo che ti sei sistemato bene, fratellone … anche se, lo confesso, non mi aspettavo di vederti ancora in circolazione.”, esordii, mentre gli occhi di lui si oscuravano.
Lui rispose, serio: “Sai bene che non potrei mai abbandonare il compito che mi è stato affidato, Ryujin. E anche se non ho dubbi sul fatto che avresti di gran lunga preferito trovare un altro al posto mio, ti chiederei di mettere almeno per ora da parte il tuo disprezzo. Sempre se desideri accedere al Naraka, ovviamente.”
Alzai un sopracciglio, e avrei anche voluto ribattere a dovere, se un tonfo sordo non mi avesse interrotto sul più bello.
Mi voltai, fissando esasperato, ma non troppo sorpreso, la mia ancella.
Evidentemente, Hitomi aveva cercato di scaricare da sola tutta la mole di bisacce prese con noi per il viaggio, inceppando come sempre nei suoi stessi piedi per poi cadere a terra con la faccia nella sabbia.
Si rialzò, sorridendo come se nulla fosse, e volgendo ora lo sguardo su Makoto. Vidi i suoi occhi illuminarsi, sorpresi, mentre mi superava e gli si avvicinava baldanzosa, abbracciandolo solare: “Maki! È passato così tanto tempo … temevamo che non ti avremmo più rivisto. Come va con la famiglia? Mi hanno detto che ti sei sposato. A quando i bebè?”
Alzai un sopracciglio, a quel NOI sottinteso, quindi la presi per il kimono, riportandola senza mezze cerimonie al mio fianco per poi dire, falsamente gentile: “Si … ci farebbe veramente MOLTO piacere rimanere qui a discutere di come mio fratello ha gettato via la propria esistenza. Però abbiamo degli affari importanti da sbrigare, ricordi?”, feci, stizzito. Lei mi fissò, lievemente sorpresa, per poi schiarirsi nervosamente la voce e borbottare, indecisa: “Ehm … a-allora … i-io vado a prendere i bagagli!”, e si dileguò alle mie spalle.
Tornai a fissare serio Makoto, che per tutto il tempo aveva osservato la scena in silenzio.
Quindi dissi, spiccio: “Se puoi condurci subito il portale, vorrei liberarmi di questa faccenda il prima possibile.”, feci, impaziente di tornarmene, bello tranquillo, alla mia dimora presso Shukai- Shi.
Quello alzò il capo, guardandomi impassibile, prima di dire: “Sarà lei a guidarti?”, chiese, come se quell’idea non gli piacesse proprio per niente.
Sbuffai, ribattendo: “Si … e non fissarmi in quel modo. Fosse stato per me, mi sarei preso su un’altra Eletta senza tanti problemi … magari una in grado di farmi passare il tempo come si deve, durante il viaggio. Ma Hitomi ha insistito perché fosse lei a guidarmi nella Discesa, quindi alla fine me la sono dovuta portare dietro.”
Makoto osservò silenzioso la ragazza, che nel frattempo, soccorsa prontamente dalla sua compagna, aveva iniziato a scaricare diligentemente le bisacce dal tappeto.
Sospirò, osservandomi un’ultima volta, un’espressione indecifrabile in viso.
Solo dopo avrei capito come, già allora, lui avesse compreso perfettamente il motivo che aveva spinto la mia ancella a rischiare tanto per me.
 

Sebbene controvoglia, alla fine quella sera fummo costretti ad alloggiare presso la dimora di mio fratello.
Il Portale si trovava presso una vecchia rupe, accessibile solo passando attraverso un sentiero di fianco a quella casupola (???). Si trattava di un percorso parecchio infido a tortuoso, quasi invisibile a chi non sapesse esattamente dove guardare e così intaccato dagli anni da essere interamente coperto di erbacce e muschi. Si districava lungo la Gake no Sasayaki, o Rupe dei Sussurri, così chiamata a causa del rumore che il vento faceva la notte quando incontrava le fronde degli alberi sopra di essa. Comunque, era un percorso parecchio lungo e non poco pericoloso, visto che in più punti pareva quasi sporgersi a precipizio nel nulla, stringendosi fino a rendere la scalata difficile anche per gli avventori più tenaci.
Approcciarlo quel giorno, nel mezzo della tempesta che ci aveva sorpresi poco dopo il nostro arrivo, sarebbe stato un vero suicidio.
Ok, forse non per me, in quanto Naga ma … dubitavo seriamente che qualcuno che, come Hitomi, faticava a mantenersi stabile su una superficie liscia e retta avrebbe avuto vita facile con un percorso simile. Probabilmente, ci avrebbe rimesso le penne prima ancora di iniziare.
Quindi dovemmo fermarci alla vecchia catapecchia, con mio notevole e giustificatissimo disgusto.
Aiko si affrettò subito a farci consegnare i nostri vestiti, ormai sporchi per quel viaggio aereo che, comunque, tra una pausa e l’altra ci aveva preso quasi quattro giorni, e sistemarli al meglio. E per l’occasione, lei e Makoto decisero di fare un’eccezione a quella vita forse non molto tale che seguivano sempre, preparando per noi quello che forse loro ritenevano un banchetto e un lauto pasto, ma che a me parve più una merenda alquanto grezza che altro.
Tirarono fuori i formaggi e la carne secca che solitamente conservavano per l’inverno, preparano quello che definirono uno “stufato di verdure”, anche se mi parve più simile ad acqua calda, e infine ci offrirono anche del sakè vecchio, dal sapore a dir poco stantio e amaro. Comunque, Hitomi parve apprezzare molto quell’accoglienza, e io ero troppo concentrato a pensare alla missione che mi attendeva per spiccare parola e rovinare la loro allegra discussione. Quindi alla fine non dissi nulla. Anzi … consumai il mio pasto in silenzio, tra gli sguardi tesi di Aiko e quelli rassegnati di Makoto, per poi ritirarmi a dormire.
Fortunatamente, i due sposini si erano subito offerti di lasciarci la loro stanza da letto, mentre loro avrebbero dormito in salotto, per cui, almeno, potei dire di aver alloggiato in un posto, seppur vagamente, decente. Per quanto spifferi di vento, odore di chiuso, un letto duro come il marmo e l’odore dei polli di fuori non contribuissero esattamente al mio sonno.
Comunque, anche ne avessi avuto l’occasione, dubito che sarei riuscito a dormire.
Anche se avevo passato quegli ultimi 10 anni a biasimare e disprezzare mio fratello, l’averlo rivisto mi aveva scosso non poco, sebbene ovviamente non lo avrei ammesso nemmeno sotto tortura.
Per me, lui aveva sempre rappresentato tutto ciò che non avrei mai potuto essere. E il fatto che, nonostante il mio non molto celato rancore fosse chiaramente percepibile, lui si fosse dimostrato comunque gentile e solidale non poteva certo lasciarmi indifferente. Dubitavo seriamente che, al posto suo, avrei saputo essere altrettanto comprensivo.
Quindi, passai la maggior parte della notte e fissare il soffitto, le braccia incrociate dietro il capo e la mente persa nei ricordi.
Solo quando fu quasi l’alba sentii una mano delicata sfiorarmi il viso.
Mi voltai, in silenzio, incontrando gli occhi color acquamarina di Hitomi, che mi fissavano assonnati ma seri: “Sapete … non dovete per forza fingere che non vi manchi. È vostro fratello, e siete rimasti separati per moltissimo tempo … non c’è nulla di male nell’esservi ancora legato e sono sicura che se gliene parlaste potreste sicuramente riconciliarvi.”
La osservai, interdetto.
A volte, mi chiedevo come facesse, a capire sempre cosa mi passava per la testa.
Certo, eravamo cresciuti praticamente assieme, visto e considerato che, come la maggior parte dei mortali che risiedevano stabilmente a Shukai – Shi, le era stata concessa una durata vitale maggiore, anche se non estesa quanto quella di noi Naga. Però, nonostante l’apparente ottusità che dimostrava in certi momenti, quando si trattava di me pareva essere sempre in grado di capire cosa pensassi. Anche quando io stesso non ci arrivavo, o facevo di tutto per nasconderlo.
Spesso, era stato proprio grazie a questa sua caratteristica, se avevo ricevuto supporto nei momenti più complicati. Era lei a capire se qualcosa non andava, a chiedere aiuto laddove io non mi sarei mai abbassato a tanto, a far si che tutto andasse per il meglio anche quando, di meglio, non vi era poi molto su cui contare. A volte, le ero grato per questa sua dote … altre avrei decisamente preferito che si facesse gli affari suoi.
Odiavo mostrarmi debole di fronte agli altri, specialmente verso coloro che conoscevo.
Quindi mi voltai, turbato, rispondendo, schietto: “Io non fingo proprio niente. Quello scemo ha gettato via tutta la propria vita per quest’esistenza nel fango, non ho più niente a che vedere con lui. Non è più mio fratello.”, dissi, tetro.
Solo un sospiro rispose alle mie parole.
Pochi minuti dopo, Hitomi dormiva beata al mio fianco.
Eppure, quelle parole continuavano a rimbombarmi nella mente.
 

Partimmo una settimana dopo.
Dopotutto, era la stagione delle piogge, temporali come quello appena trascorso erano all’ordine del giorno e, spesso, potevano trascorrere settimane prima che la furia dei venti si placasse e fosse nuovamente possibile uscire di casa.
Ci alzammo all’alba, le bisacce e i viveri in spalla, e fu salutando silenziosamente la compagna di mio fratello che io, lui e Hitomi ci dirigemmo decisi verso la cima di Gake no Sasayaki.
Solitamente, io e Makoto ci avremmo messo poco più di un’ora a raggiungere la nostra destinazione. Tuttavia, con noi c’era anche Hitomi, che continuava a inciampare ovunque e più di una volta rischiò quasi di finire sotto il precipizio. Fortunatamente per lei, era così magrolina che non faticavo affatto a prenderla in tempo, per poi piazzarmela accanto e riprendere il tragitto con lei vicino.
In quelle occasioni, lei arrossiva sempre, imbarazzata, per poi mormorare un paio di scuse e riprendere la marcia.
E parlare.
Non so cosa avesse esattamente in testa, ma di fronte al silenzio ostinato mio e alla pacatezza tranquilla di lui, evidentemente si era convinta che, continuando a ciarlare di questo o quest’altro, sarebbe riuscita in qualche modo a farci riconciliare prima della nostra definitiva partenza. Non che servisse a molto … io ero troppo assorto nei miei pensieri anche solo per seguire il filo del suo discorso, mentre mio fratello era sempre parecchi passi più avanti, a osservare attento il terreno per non perdere di vista il sentiero e adempiere al suo ruolo di guida.
Giungemmo al Portale verso mezzogiorno.
“Bene … allora, vi aprirò il passaggio per il Naraka. Quando sarà fatto, dovrete solo seguire il sentiero che porta all’entroterra, e vi troverete sulla riva del Namida no Kawa … da li potrete accedere alla Shirosa Baku e raggiungere la Città delle Ossa. Il tragitto vi prenderà almeno qualche mese ma, oltre alla capitale del regno, quello è il solo posto dove si radunano i demoni e potrete certamente trovarne un numero sufficiente a compiere la vostra missione.”, si fermò, osservandoci serio, prima di osservare quindi in silenzio il Portale.
Essenzialmente, si trattava di un semplice arco a sesto acuto aperto sul nulla. Oltre a esso, la rupe si gettava nel vuoto della notte e il vento fischiava forte tra le fronde della pineta alle nostre spalle. Era una struttura in pietra scura, simile all’onice, crepata dagli anni e coperta da fitti tralci di rampicanti. Sotto di essi, si potevano intravvedere appena dei geroglifici scolpiti nella pietra, ma erano troppo usurati per poter essere compresi. Ai lati, due torce dalle fiamme bluette, che illuminavano silenziose il luogo, donando all’atmosfera un non so che di surreale e insolito.
Feci un profondo sospiro, guardando deciso Hitomi, che annuì, al mio fianco.
“Perfetto … vi suggerirei di indietreggiare un istante.”, disse Makoto, prima di sfiorare lievemente la superficie della porta.
Parole arcane e ignote gli uscirono di bocca, sussurri così lievi da apparire quasi incomprensibili, mentre un leggero vento si alzava attorno a noi e il Portale pareva quasi fremere, reagendo a quell’antico richiamo. Un istante dopo, il varco che prima si gettava nel vuoto fu riempito da un tunnel di tenebre scure e informi, da cui proveniva un vago odore di stantio e chiuso.
Lo guardammo, mentre, visibilmente spossato e col volto madido di sudore, mio fratello si faceva da parte.
La mano di Hitomi sfiorò la mia, afferrandola tremante.
La guardai, inespressivo.
Poi, ci inoltrammo nell’oblio senza fine.

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Capitolo 2
*** Capitolo II - Il Naraka ***


CAPITOLO II – IL NARAKA




Ricordo ancora molto bene quei momenti.
Sebbene infatti i racconti sul Passaggio dei Naga non fossero certo pochi, vivere la discesa nel Naraka in prima persona era un qualcosa di completamente diverso, ben differente da ciò che mi ero immaginato per tutto quel tempo e quasi impossibile da spiegare a parole verso coloro che non hanno avuto modo di vivere tale esperienza in prima persona.
Superato il Portale, ci trovammo all’interno di uno stretto, angusto e dannatamente umido percorso sotterraneo. Il soffitto era bassissimo, le pareti in roccia umida e coperta di muschi putridi, a tratti così tagliente che bisognava prestare parecchia attenzione per non finire col ferirsi. Un gocciolio sommesso e continuo riecheggiava presso il sentiero, che si districava tra pozze di liquido scuro, odore di chiuso e continue svolte e curve, tanto che non ci mettemmo certo molto per perdere totalmente il senso dell’orientamento.
Io incedevo per primo, mentre Hitomi mi era alle spalle, la mano imperlata di sudore freddo che stringeva convulsamente il mio yukata in cerca di un minimo di conforto.
Ci vollero almeno tre ore, per emergere finalmente nel Naraka vero e proprio.
Improvvisamente, il sentiero iniziò ad allargarsi, lasciando spazio a un paesaggio ben differente. La riva del Namida no Kawa, il Fiume Infernale, si estendeva per leghe e leghe di fronte a noi, mentre una spiaggetta di ciottoli di un bianco spettrale conduceva alle acque torbide del corso. Il Namida no Kawa, così chiamato a causa dei lamenti dei dannati che provenivano dalle sue onde tumultuose, era composto unicamente da acque rosse e scarlatte come il sangue appena versato: un contrasto insolito con i ciottoli bianchi e perfettamente ovali delle sue rive. L’aria era satura di polveri, che si insinuavano in ogni dove impedendo quasi di respirare, coprendo ogni superficie possibile e avvolgendo l’atmosfera con un forte odore di gesso bruciato e zolfo. Uno spettacolo terribile ma unico al tempo stesso.
Sospirai, depositando momentaneamente a terra i bagagli ed estraendo una vecchia e consunta mappa di viaggio che, da generazioni, guidava i Naga per quelle lande desolate alla ricerca del proprio Karisuma e, quindi, anche di sé stessi. Sebbene, notoriamente, solo la presenza delle Elette, giovani vergini consacrate al Rito del Passaggio, consentiva di capire chiaramente in che direzione ci si stesse dirigendo.
Si trattava di un semplice pezzo di pergamena ingiallito e rovinato dagli anni, ma ancora affidabile e perfettamente utile allo scopo. Lo osservai tetro, e per la prima volta mi ritrovai a sbattere il muso contro tutta la difficoltà della missione che mi aspettava: il Naraka si estendeva per miglia e miglia sottoterra. Era una landa infida e desolata, dove era quasi impossibile sopravvivere se non per gli Oni che vi abitavano, un luogo orribile e inospitale, la cui sola traversata ci avrebbe impiegato, nel migliore dei casi, mesi e mesi di viaggio. Solo superare lo Shirosa Baku, il Deserto Bianco (che a dispetto del nome candido era una landa sterminata e fredda dio solo sa quanto, ma evidentemente gli Oni speravano che, chiamandola così, sarebbe parsa più come un villaggio vacanza) ci avrebbe potuto prendere mesi.
E, diciamocelo, pensavate veramente che fossi il tipo da sprecare il mio INESTIMABILE tempo per un percorso simile? Figuriamoci, non ero minimamente disposto a spendere tutte quelle ore per un viaggio alla cui fine avrei trovato solo un’orda di demoni schizzati, senza garanzia di ritorno e col rischio di finire all’obitorio prima ancora di entrare nella Città delle Ossa. No … infatti, nei giorni precedenti avevo quindi maturato un’ideucccia davvero niente male.
Ok, forse, c’è un motivo preciso se tutti i miei predecessori non l’avevano mai presa in considerazione.
E forse, e sottolineo forse, era l’idea più folle, assurda e bacata che potesse mai capitarmi per la testa. Motivo per cui non avrei certo esitato a metterla in atto!
Ora, è notoriamente risaputo che, tra i demoni, ve ne è uno, e solo uno, in grado di valerne almeno 100 dei suoi simili. Nessuno sapeva quale fosse realmente il suo nome, e d'altronde, era impossibile aver modo di conoscerlo, trattandosi di una creatura così antica e misteriosa da superare di gran lunga, in termini di età, anche i Naga più anziani. Non si sapeva da dove venisse, ma d’altronde poco importava, almeno per i fini della mia ricerca.
Gli Oni solevano rivolgersi a lui come l’Imperatore.
E già qui potete capire il perché a inizio capitolo abbia detto che tale idea, ossia quella di sconfiggere lui invece che i 100 demoni, fosse totalmente e indiscutibilmente assurda.
La cosa però non finisce qui.
L’Imperatore era il sovrano indiscusso degli Oni, la loro autorità massima, e diversamente dalla maggior parte di loro, la sua sede si trovava dal lato opposto del Naraka, nella capitale.
Orochi si ergeva verso Sud, e il tratto che ci separava da essa era indubbiamente più breve di quello che avremmo dovuto percorrere attraversando il Deserto Bianco (che d’ora in poi, per ovvi motivi, chiamerò il Deserto delle Fregature). Con un po’ di fortuna, il viaggio ci avrebbe impiegato poco più di una settimana.
Un affare unico, no?
C’era però un altro piccolo, minuscolo e totalmente insignificante dettaglio, da aggiungere ai motivi per cui altri avrebbero ritenuto la mia idea a dir poco suicida.
Ossia, l’Akai Sabaku o Deserto Rosso (e dal nome potrete capire la straordinaria fantasia che gli Oni possiedono nell’affibbiare nomi in giro). Altrimenti conosciuto come il Cimitero dei Naga.
E con questo ho detto tutto. Fatto sta che si trattava di un apparentemente piccolo e innocuo deserto, le cui sabbie rosse come il sangue venivano continuamente spazzate da tempeste e dove orientarsi, senza ovviamente un’Eletta al seguito, era pressoché impossibile. Inoltre, i vapori e i fumi presenti nell’atmosfera erano a dir poco nocivi per noi Naga, così terribilmente letali che, a dire il vero, si riscontravano si e no un paio di casi in cui lo sfortunato fosse sopravvissuto alla loro inalazione. E anche lì era stato tutto un colpo di fortuna.
Comunque, io ero convinto che la traversata non sarebbe stata affatto impossibile.
Con una buona preparazione, e un turbante coperto d’acqua addosso, ero certo che riuscire nell’impresa non avrebbe potuto certo rivelarsi così complicato come tutti lo descrivevano … o almeno lo speravo.
Risparmiandomi mesi e mesi di tragitto inutili e sfiancanti.
Per poi, finalmente, potermene fare ritorno a Shukai – Shi, a rilassarmi fino all’apparentemente imminente dipartita di mio padre.
Geniale, no?
Purtroppo, non avrei avuto vita facile.
Specialmente visto e considerato che, per quanto spesso persa e sbadata, Hitomi non era certo il tipo da farsi fregare così facilmente.
 

Accadde durante il nostro terzo giorno di viaggio.
Per tutto il tempo, avevo accuratamente evitato di mettere Hitomi a conoscenza del mio progetto suicida, così che, una volta arrivati presso l’Akai Sabaku, con un po’ di fortuna non avrebbe potuto costringermi a fare dietro front nemmeno volendo … o almeno era questa la mia speranza.
Fatto sta che, improvvisamente, mentre percorrevamo ancora la riva del Namida no Kawa, diretti a Sud, sentii un tonfo netto alle mie spalle, e i passi di lei fermarsi. Alzai gli occhi al cielo, esasperato, e già pronto a scommettere che, probabilmente, aveva finito nuovamente con l’inciampare nei propri piedi, finendo dritta distesa a terra.
Mi voltai, per poi alzare un sopracciglio, lievemente sorpreso nel vedermela di fronte. Integra, con le mani sui fianchi, la sacca da viaggio abbandonata a terra e un cipiglio insolitamente furioso in viso.
Sentii il sangue defluirmi dal volto, mentre gli occhi color acquamarina di lei dardeggiavano assassini su di me, e quindi sorrisi, con aria falsamente innocente, cercando di dire: “E-ehi … che fai ferma lì? Guarda che la marcia verso lo Shirosa Baku è ancora lunga … ehm …”
Questa volta, fu lei a inarcare un sopracciglio, e improvvisamente nella mia mente iniziò a fare capolino una bruttissima deduzione. Che avesse seriamente compreso come, per tutto quel tempo, non avessi fatto altro che giocarla?
La conferma arrivò un istante dopo, quando, dopo aver inspirato profondamente, lei finalmente esplose: “TU!”, e già qui eravamo messi male. Insomma, solitamente, lei preferiva sempre darmi del Voi, come d’altronde era stata educata a fare, in qualità di mia ancella e servitrice. Tuttavia c’erano momenti, sebbene solitamente (e fortunatamente) molto rari, in cui lasciava perdere quel piccolo convenevole e, in preda all’ira (solitamente ingiustificata, visto che ovviamente io ero un gran santo e non mi cacciavo proprio mai nei guai, come avrete capito da questo racconto), iniziava a darmi del Tu … oltre che dell’idiota, dell’imbecille, dell’irresponsabile e tanti altri epiteti certamente immeritati. E quando lo faceva … beh, era meglio correre ai ripari.
Comunque, dove ero rimasto?
Ahhh, si …
“TU!”, sbottò, il viso rosso dall’ira, “Sei – un – grandissimo – deficiente Ryujin Amaterasu Tianlong VII!”, raggelai, sentendo il mio nome completo e realizzando che, molto probabilmente, non sarei nemmeno arrivato a Orochi, visto che lei avrebbe risparmiato all’Imperatore Oni la fatica di ammazzarmi, “Seriamente credevi che non avrei capito quello che ti passava per la testa? -Dobbiamo andare a Sud per trovare un guado-, dice lui … come no! Altro che guado e guado, tu stai andando a Sud perché vuoi attraversare l’Akai Sabaku, vero?!?”
Sorrisi, cercando di impostare l’aria da cucciolo innocente più realistica che potessi elaborare, per poi dire, dolcemente: “Eddai Tomi …”, sorrisi tra me e me, sapevo bene come, quando usavo quel soprannome, alla fine lei capitolasse sempre, “… lo sai che non mi farei MAI venire in mente un’idea così folle e assurda, no? Siamo cresciuti insieme … mi ci vedi veramente ad andare incontro a morte certa SOLO per risparmiare qualcosa come mesi e mesi del mio personalmente preziosissimo tempo?”, chiesi.
Lei incrociò le braccia, e in effetti non aveva proprio tutti i torti. Visto che, da come l’avevo buttata giù, pareva che fosse proprio quella la mia intenzione.
Quindi sbuffò: “No, che non lo so. Visto e considerato come, da piccolo, ti cacciassi sempre in situazioni simili … perché -VOLEVI VIVERE LA VITA AL MEGLIO- .”, disse, mimando (e a mio parere anche abbastanza male) una delle mie espressioni tipiche, per poi riprendere, “Però questo … ohhh, no, no, no … che potesse passarti per la testa un’idea simile. Nemmeno io lo avrei mai immaginato. Non se ne parla neanche, tu non ti farai ammazzare, non finché ci sono io qui a guidarti.”
Sospirai, esasperato.
Ecco, ora capite perché non volevo portarmela dietro?
Insomma, quando ci si metteva, sapeva essere davvero incredibilmente fastidiosa.
Mi fossi preso su una delle Elette del Tempio, non avrei nemmeno dovuto tribolare tanto, per convincerle. Dopotutto, forse quelle tipette erano anche totalmente prive di carattere, ma, almeno, non mettevano puntualmente in discussione tutte le mie decisioni come invece faceva lei.
Cadde il silenzio, mentre continuava a fissarmi decisa. Non mi serviva un gran genio per comprendere come, dalla sua insolita postura, non avrebbe mosso più nemmeno un passo per seguirmi.
Quindi … beh, feci la sola cosa che mi rimaneva da fare.
“E-ehi … l-lasciami andare immediatamente, razza di scemo!”, sbottò, mentre, senza tante cerimonie, me la issavo in spalla. Ringraziai il cielo per la sua totale mancanza di peso, che mi permise senza problemi di mettermela in spalla, per poi avviarmi deciso per quella strada che, ormai, avevo ufficialmente deciso di percorrere.

 
Continuò a urlare come una gallina fino a sera, al punto che, quando finalmente la lasciai andare a terra per preparare il campo, mi sentii quasi sollevato.
Avevo le orecchie che mi fischiavano come non mai, e mentre lei si piazzava a braccia incrociate ai miei piedi iniziai a sistemare le nostre cose, preparandoci per la notte.
Quando finalmente ebbi finito, mi voltai, alzando un sopracciglio nel vederla ancora ferma lì, più seria e arrabbiata che mai. Il mio sguardo saettò rapido verso il fuoco, e quel pasto non ancora pronto, visto che, solitamente, fino ad allora era stata lei a occuparsi della preparazione di pranzo e cena.
Tornai a fissarla, questa volta visibilmente scocciato. La cosa iniziava a darmi seriamente sui nervi, e sentivo che, di quel passo, avrei finito veramente col mollarla lì e proseguire da solo. Anche se, senza lei che era un’Eletta, non avrei avuto modo di riconoscere il Nord dal Sud nemmeno volendo, cartina o non cartina che fosse.
“Allora? Che fine ha fatto il mio pranzo?!?”, chiesi, osservandola infastidito.
Gli occhi di lei mi sfiorarono appena, mentre un lampo di frustrazione li attraversava fulmineo.
“Puoi benissimo arrangiarti da solo, principino. Io non muoverò più un dito, fino a quando non avrai deciso di tornare indietro e riprendere il vecchio percorso.”, disse, voltandosi quindi di lato, più determinata che mai a non cedermi nemmeno un centimetro di terreno nella nostra muta lotta a chi l’avrebbe avuta vinta.
Sbuffai, rimboccandomi le maniche e dicendo, altrettanto cocciutamente: “Bene … significa che mi arrangerò da solo. Non mi serve certo il tuo aiuto.”, affermai, prima di armeggiare con le bisacce, alla ricerca di qualcosa per preparare la cena.
Per essere sincero, non avevo nemmeno la più remota idea di come avrei fatto. Insomma … fino ad allora, quando ero stato al Palazzo di Giada ci pensavano i cuochi a soddisfare il mio insaziabile appetito, e da quando eravamo partiti era stata sempre Hitomi a preparare i pasti.
Tuttavia, la determinazione di mostrarle che, nonostante tutto, potevo cavarmela anche senza di lei era troppo forte per farmi demordere, quindi mi diedi da fare … senza successo.
Non avevo nemmeno la più pallida idea di come approcciare quell’insolita situazione, per cui andai a naso. Mentre cercavo di mettere dell’acqua sul pentolino in rame, per fare un brodo, mi scottai qualcosa come una decina buona di volte. Poi, cercai di tagliare le verdure … ma diavolo … come faceva lei a farlo così bene? Erano così umide che schizzavano via ogni volta che cercavo di prenderle, e la carne era durissima.
Dopo qualche minuto di lotta affiatata con le vivande, fu con un: “Cazzo!”, ben poco educato che ritrassi un dito, osservando un lento gocciolio di sangue dorato laddove il coltello era penetrato nella carne.
Osservai critico la ferita.
Non pareva grave, solo estesa, con una buona fasciatura non avrebbe avuto problemi a rimarginarsi. Solo che, da solo, non avevo nemmeno la più pallida idea di come farla.
Intanto, per tutto il tempo lei non mi aveva perso d’occhio nemmeno per un istante.
Osservò critica il mio approccio alla cena, e solo dopo realizzai come, nel frattempo, avesse continuato a ridacchiare divertita da sotto i baffi, posandosi una mano davanti per non essere notata.
Tuttavia, non appena vide il coltello che mi penetrava nelle carni, mi si precipitò subito a fianco. La osservai sorpreso, visto che, comunque, non pensavo si sarebbe mai smossa dalla sua decisione di non aiutarmi.
Però non dissi nulla, limitandomi a guardarla in silenzio mentre, zitta, iniziava a pulire la ferita e fasciarla. Quando ebbe finito, osservai silenzioso il suo operato: “Questa farà male per un po’.”, osservai, afono, mentre lei mi guardava in silenzio.
La sentii sospirare, mentre si alzava e, dandomi alle spalle, iniziava ad armeggiare con le verdure: “Comunque non credere di averla passata liscia, chiaro? Sono ancora contraria a questa cosa. Visto che però se dipendesse da te moriremmo tutti di fame, qui ci penso io.”, disse, senza nemmeno voltarsi. La osservai sorpreso, poi sorrisi.
Dopotutto, aveva perfettamente ragione.
Mi sedetti in un angolo, osservandola in silenzio e riflettendo cupo sulle sue ultime parole. Effettivamente, se non fosse venuta con me probabilmente sarei morto di fame da tempo … e non solo … era lei che sapeva come orientarsi in quel posto, e solo lei sapeva fare il bucato, così come trovare cibo anche in quelle lande o reperire dell’acqua potabile.
Io, invece, oltre a tirare di spada, non era che servissi proprio a molto.
Fino ad allora, in effetti, non ci avevo mai riflettuto particolarmente. E adesso che quella consapevolezza aveva iniziato a fare capolino nella mia mente non potevo che sentirmi frustrato, all’idea di dover dipendere (IO!) in tutto e per tutto da una semplice e comunissima umana.
Non potevo tollerarlo.
La fissai, quindi mi alzai, con un sospiro.
Rimuginarci sopra non mi avrebbe certo aiutato, per cui dissi, tranquillo: “Bene … io vado ad allenarmi. Voglio essere pronto quando sarà ora e … chiamami se hai bisogno.”, dissi, mentre lei sorrideva, divertita.
Certo, come se io, lì, avrei potuto essere di un qualche supporto.
Glielo leggevo in faccia che non ci credeva nemmeno lei.
Tuttavia, non dissi niente, incassando il colpo in silenzio e dirigendomi taciturno verso il retro dell’accampamento, il bokken* stretto in pugno.
Ovviamente, per affrontare l’Imperatore avrei utilizzato Yoosenmaru, la mia katana … fino a quando non fossi però giunto a destinazione, avrei preferito non doverla sfoderare. In parte, perché non volevo utilizzarla per niente e in parte perché … beh, quell’arma aveva una storia molto particolare alle spalle, e ogni volta che la impugnavo avevo come la netta sensazione di avere un enorme peso sulle spalle.
Mi era stata donata da Hitomi … quando compii il mio 100° Anno di Vita.
Inizialmente, non ero poi così intemperante, come divenni invece negli anni successivi.
Passavo il mio tempo al Palazzo di Giada, correndo dietro a Makoto, chiedendogli di portarmi sempre in giro con lui, anche quando aveva delle importanti faccende burocratiche da portare a termine. Ero un ragazzino solare ed energico e io e lei eravamo unitissimi … passavamo il tempo a giocare assieme, nonostante la disapprovazione dei miei tutori, che proprio non riuscivano a comprendere la mia amicizia nei confronti di una servitrice e, peggio ancora, di un essere umana qualunque.
Loro però non erano gli unici a vedere male quella mia abitudine.
Anche gli altri ragazzini, figli di nobili, si chiedevano perché preferissi passare il mio tempo con lei piuttosto che uscire a giocare con loro. Pensavano che fosse quanto mai strano … non avevo altri amici all’infuori di lei, e non parlavo quasi con nessuno, fatta eccezione Hitomi e Makoto.
Un giorno … le cose finirono col degenerare.
Come tutti i pomeriggi, io e lei ci eravamo messi d’accordo per incontrarci alle Scuderie Reali, perché volevo insegnarle la caccia col falcone, arte solitamente riservata solo ai membri più illustri della nobiltà.
Quando arrivò, visibilmente in ritardo e con un grosso livido violaceo sull’occhio, non ci misi molto a fare due più due. Anche perché, già allora, lei non era proprio capace di tenermi segreto qualcosa, e la assillai così tanto per sapere chi l’avesse ferita in quel modo che alla fine cedette.
La sera, andai dagli altri ragazzini.
Per la verità, sebbene a quel tempo fossi molto diverso, una caratteristica rimaneva sempre.
Il mio masochismo.
No, quello non è mai cambiato.
E si che, di fronte a una dozzina buona di ragazzini, alcuni dei quali anche più grandi di me, avrei pur dovuto capire quanto il mio proposito di vendetta fosse del tutto folle.
Tuttavia, in quel momento ero troppo fuori dai gangheri per pensarci … prima ancora che potessero salutarmi (che bastardi … facevano pure come se niente fosse accaduto! Pensai …) ero già loro addosso.
Menando calci e pugni come un forsennato, gridando a squarciagola e si … forse ci diedi un po’ troppo dentro con quelle minacce di morte.
Fatto sta che, alla fine, gli stronzetti tornarono a casa a piangere dietro le sottane delle loro madri, e io finii in infermeria. Con qualche osso rotto, innumerevoli lividi e un occhio pesto.
Quando, comunque, quella sera Hitomi venne da me in lacrime, fu con un sorriso fiero (ma abbastanza ammaccato a dire il vero) che l’accolsi, dicendo che era tutto finito e che, d’ora in poi, nessuno l’avrebbe più ferita.
Peccato che, almeno sulla prima parte, mi sbagliassi di grosso.
Mio padre non prese affatto bene la storia della rissa.
E decise quindi di darmi una punizione esemplare.
Mandando per i successivi 10 anni Hitomi presso il Tempio delle Elette.
Ora … non fu tanto l’idea di vederla andare via a traumatizzarmi, quanto la consapevolezza di ciò che significava essere un’Eletta.
Tutti sapevano molto bene cosa fossero le Elette, e quale destino, spesso e volentieri, le attendesse. Vergini a vita, fungevano da “bussola” all’interno del Naraka ed erano costrette a rispondere immediatamente a qualsiasi Naga decidesse di convocarle. Sebbene fosse considerato un grande onore (certo, costringessero me a restare vergine per sempre probabilmente mi ucciderei prima) spesso finivano per perdere la vita nella propria missione. Visto e considerato che, comunque, nessun Naga era realmente interessato a farle sopravvivere.
Comunque, quella decisione mi fece letteralmente rimanere di sasso.
Non potevo sopportare l’idea di perderla, e sebbene lei l’avesse presa, come sempre d’altronde, bene non potevo che chiedermi se mai l’avrei rivista.
Quando partì, poche settimane dopo, l’aspettavo all’ingresso del palazzo, a capo chino, così da nascondere quelle lacrime che, nonostante tutto, iniziavano già a incresparmi gli occhi, cercando di fuoriuscire.
Non avevo mai pianto prima, non in pubblico almeno. Dopotutto, odiavo mostrarmi debole di fronte agli altri, tuttavia quella volta non potei proprio trattenermi, e quando lei mi venne incontro, abbracciandomi sorridente, prima di guardarmi intensamente negli occhi. Per un istante, trattenni il fiato, mentre quelle iridi color acquamarina riuscivano, come sempre, a penetrarmi nell’animo e a farmi sentire, sebbene non di molto, più tranquillo.
Quando li abbassai, vidi che mi aveva depositato in mano una katana.
La osservai, perplesso, senza capire realmente cosa volesse dire.
Fu lei a rispondere: “Così, la prossima volta che vuoi cacciarti nei guai per aiutare qualcuno potrai difenderti a dovere. Si chiama Yoosenmaru.”
Osservai ammirato la spada, sorridendo appena nel sentire quel nome così particolare.
Era bellissima, leggera come una piuma, ma affilata come un rasoio. La lama era completamente nera, come l’inchiostro, con intarsi dorati che ne decoravano il piatto nei pressi dell’impugnatura, foderata in tessuto onice e oro. La tsuba andava a formare il disegno di un dragone, mentre il filo lievemente seghettato le donava un’aria magnifica e letale al tempo stesso.
Ne rimasi letteralmente conquistato.
La osservai, non sapendo bene cosa dire, ma anche lo avessi saputo, non avrei potuto comunque fare nulla. Prima che potessi anche solo salutarla, il gruppo di sacerdoti giunti per condurla al Tempio del Sole l’avevano già allontanata da me, guidandola in silenzio per il sentiero che, da lì, l’avrebbe condotta verso la sua nuova vita.
Inutile dire come, dopo tutto ciò, trascorsi un lungo periodo chiuso in me stesso.
Il senso di colpa, il dolore e la solitudine mi accompagnavano ovunque andassi, e la consapevolezza di essere il solo e unico responsabile del suo allontanamento mi corrodeva il cuore, impedendomi di dormire e pensare.
Tuttavia, i mesi passarono, trasformandosi in anni.
Lentamente, mi convinsi che, se non mi fossi mai legato a un essere umana come lei, nulla di tutto ciò sarebbe mai accaduto. Lei non mi sarebbe stata portata via, in un viaggio senza garanzia di ritorno, e io non avrei passato tutto quel tempo a soffrire per quel vuoto che, ormai, era quasi divenuto parte integrante di me stesso.
Così, divenni l’uomo che sono ora.
Freddo e indifferente ai dolori degli altri, così da non rischiare di provare nuovamente quella sofferenza. Concentrato su me e me soltanto, così da non dover temere di perdere qualcosa. Sempre e solo alla ricerca di una felicità che, ero convinto, avrei potuto trovare affogando quel peso invisibile che mi assillava da anni nei piaceri e negli svaghi, senza pensare più a nulla.
Eppure, mentre, il viso imperlato di sudore, continuavo a muovermi agile in quella sera silenziosa, non potevo non chiedermi se, per tutto quel tempo, avessi realmente intrapreso la strada giusta. Mi ero isolato dal resto del mondo, sperando di non dover dipendere più da nessuno, ma, senza i miei servitori e le mie ancelle, da solo non valevo nulla.
Ciò che era accaduto quel giorno ne era la prova. Senza Hitomi, sarei stato completamente perso.
Fu allora, credo, che decisi, seppure tacitamente, che, almeno, avrei dovuto fare qualsiasi cosa per riportarla a casa sana e salva. Se la spada era il mio unico pregio, allora che la usassi almeno per difenderla.
Era il minimo che potessi fare, altrimenti, la consapevolezza di dover dipendere in tutto e per tutto da lei mi avrebbe corroso da dentro.
 

Raggiungemmo l’inizio dell’Akai Sabaku il giorno seguente.
Per tutto il tragitto, Hitomi non aveva più spiccato parola. Certo, continuava a occuparsi dei pasti e di tutto il resto come prima, anche se dubitavo che lo facesse più per mancanza di alternative che altro, tuttavia, non mi aveva più parlato.
Immaginai che, come avevo sperato nel tenerle nascosto il mio progetto, alla fine si fosse rassegnata all’idea di seguire quel piano. Anche perché, comunque, tornare indietro sarebbe stato totalmente deleterio, ora che eravamo a un passo dal raggiungere la nostra meta.
Comunque, alla fine eravamo arrivati ai margini del Deserto Rosso. E che dire?
Non avevo mai visto nulla del genere. Certo, non è che fosse proprio il tipo di posto che si suggerirebbe per le vacanze estive ma … era comunque di una bellezza unica e sublime, per quanto indubbiamente letale.
Proprio attorno a noi, si distendeva una landa rossa come il sangue, le cui sabbie fini quanto polvere magica venivano spazzate solo ogni tanto da lievi sbuffi di vento bollente, mentre dune altissime si alternavano le une alle altre. Un paesaggio sterminato e infinito, in cui il tempo pareva quasi fermarsi, tale era l’afa e la caluria di quel posto, così intense da creare giochi di tremolii e illusioni evanescenti di fronte ai nostri occhi stupiti. Alto, sopra il nostro capo, un sole lucente, la cui origine non avrei certo saputo spiegare, visto che ci trovavamo sottoterra … comunque, fatto stava che, in quel luogo fuori dallo spazio e dal tempo, quell’astro dannatamente cocente continuava a starsene sempre lì, fermo e immobile, a ustionarci le spalle e ad assistere in silenzio alla nostra solitaria traversata. Visto che, da quando ci eravamo addentrati in quelle lande, non avevamo intravisto alcun segno di anima viva.
Eppure, quando quel giorno iniziammo ad addentrarci nel deserto, nulla avrebbe mai potuto farmi pensare che quello fosse proprio l’Akai Sabaku, il leggendario Cimitero dei Naga. Fatta eccezione per il caldo straziante, non vedevo traccia delle famose polveri e fumi in grado di uccidere persino un Drago adulto, né tantomeno mi sentivo particolarmente affaticato.
Ovviamente, dovevo ancora comprendere come, in realtà, tutto ciò non facesse altro che parte di una trappola mortale in cui, di quel passo, avrei finito col caderci dentro senza speranza di uscita.
 

Ormai, nessuno di noi due sapeva più quanto tempo fosse passato. O quanto mancasse alla meta.
Inizialmente, il viaggio era stato perfettamente tranquillo. Caldo bestiale a parte, procedevamo spediti e decisi, fermandoci per riposare e ripristinare il turbante coperto d’acqua che, di comune accordo con Hitomi, avevo deciso di indossare nella speranza di filtrare, seppure di poco, quelle fantomatiche polveri di cui, a dire il vero, fino ad allora non avevamo nemmeno scorto traccia.
A soli tre giorni di marcia, però, le cose erano cambiate completamente.
Il clima prima tranquillo del deserto era improvvisamente cambiato, quasi come a seguire il muto ordine di una forza maggiore ancora ignota, e in meno di pochi istanti ci eravamo trovati avvolti da una fittissima tempesta di sabbia, sballottati da un lato all’altro e del tutto incapaci di vedere anche solo a un palmo dal naso.
Hitomi e io ci tenevamo il più stretti possibile, il capo chino sotto i cappucci in seta, cercando di ignorare al meglio la sensazione della sabbia bollente che entrava nelle vesti, nelle nari … ovunque, rendendoci impossibile anche solo respirare o tenere gli occhi aperti.
Lentamente, passo dopo passo, continuammo la nostra marcia.
Anche quando i nostri piedi iniziarono ad affondare nella sabbia, e ci trovammo costretti ad aprirci un varco con la forza delle gambe per proseguire. Anche quando il bruciore di quelle polveri incandescenti non iniziò a roderci la pelle, sgretolandola e arrossandola fino a causarci ferite tanto dolorose quanto sfiancanti. Anche quando, dopo ore e ore di marcia continua a ininterrotta, sentimmo le forze venirci lentamente meno.
Eravamo in trappola.
Quel posto maledetto ci aveva letteralmente giocati.
Facendoci percorrere un tragitto così lungo, prima di colpire impietoso col proprio veleno, ci aveva tolto letteralmente ogni speranza di fuga. Non potevamo tornare indietro, sapevamo bene come, altrimenti, saremmo certamente morti nel viaggio. Quindi, che ci piacesse o meno, eravamo costretti a proseguire, cercando di ignorare al meglio quella situazione sempre più disperata.
Iniziai a rendermi conto essere rimasto indietro al terzo giorno di quell’inferno mortale. Quando alzai il capo, verso sera, mi accorsi con stupore di come, nel frattempo, Hitomi avesse continuato a proseguire, lasciandomi a parecchi passi di distanza. Inoltre, con mio sommo stupore, mi dovetti anche rendere conto di come, chissà per quale motivo, la mia vista iniziava a farsi sempre più sfocata. Continuavo a incedere, fermamente convinto che non potesse essere nulla, ma presto mi dovetti rassegnare alla dura verità: non riuscivo a vedere più niente. Gli occhi erano sempre più pesanti, la testa scottava, mi ritrovai ad appoggiarmi alla spalla di lei senza nemmeno rendermi conto di come ci fossi finito, mentre parole confuse e lontane mi giungevano all’orecchio.
Sapevo che era lei a pronunciarle, ma ero così confuso e intontito che mi sembravano quasi un miraggio lontano e remoto, una melodia dolce e suadente che mi incoraggiava a proseguire. E così mi imposi di fare.
Incedetti, passo dopo passo, masticando ogni singolo istante di quella tortura infernale, cercando di guadagnarmi, pollice su pollice, anche solo un minimo di vantaggio contro quel nemico invisibile e spietato, in una lotta che, iniziai a temere, non si sarebbe mai conclusa. Non prima della mia infausta dipartita, almeno.
Le febbri sopraggiunsero poche ore dopo.
Sentivo il corpo farsi sempre più bollente, un torpore letale mi avvolgeva le membra, invitandomi a lasciarmi andare, mentre la schiena di ingobbiva esausta sotto quel senso di suadente pesantezza che mi trascinava sempre più in basso. Giù, giù, giù fino a un oblio senza fine.
Sotto le palpebre socchiuse, immagini indistinte e lontane continuavano ad alternarsi senza sosta. Una sequenza apparentemente priva di senso, ma che riconduceva il me stesso di allora a quel percorso che mi aveva fatto diventare ciò che ero, facendomi riassaggiare, istante dopo istante, ogni singolo ricordo. Ogni singolo dolore. Ogni singola perdita.
Rivissi, come fosse accaduto il giorno prima, la mia infanzia.
Il legame con Hitomi, la mia innocenza ancora priva di preoccupazioni e timori, totalmente all’oscuro di come, in realtà, il mondo sia crudele e ognuno non sappia che pensare solo e soltanto a sé stesso. Rividi quell’amore (perché si, realizzai, quello era amore, seppur ancora acerbo, indifeso e inconsapevole, ma era amore) che ci aveva uniti. Quel sentimento fragile e indeciso, innocente e inesperto … così debole che, quando la tempesta era arrivata, si era sciolto come neve al sole. Lasciando solo un vuoto senza fine alle proprie spalle.
L’ammirazione per mio fratello. I giorni passati a rincorrerlo su quelle mie gambette ancora piccole, cercando sempre di stargli accanto, anche quando, a dire la verità, i suoi doveri avrebbero dovuto intrattenerlo altrove. Eppure, constatai con rammarico, lui trovava sempre un momento per me. Ogni volta che ne aveva l’occasione, mi permetteva di assistere ai concili di guerra, di accompagnarlo nei suoi viaggi, di stare sveglio con lui fino a tardi per rispondere alle missive della nobiltà. Perché, se ero io, Makoto sapeva sempre trovare un momento libero da dedicarmi.
E poi, a coronare il tutto, lui. Mio padre.
Tianlong era, e sarebbe sempre stato, per me e per tutti l’essenza stessa del potere. La sua forza e il suo carisma non avevano rivali, e il mio desiderio, seppure mai realizzato, di essere degno della sua stima e del suo rispetto era sempre stato parte integrante del mio modo di vivere.
O almeno, fino a quando tutto non era cambiato.
Non ero mai riuscito a perdonarlo realmente per aver costretto Hitomi a diventare un’Eletta. E da quel giorno, il nostro rapporto si incrinò irrimediabilmente, finendo sepolto sotto strati e strati di rancore inespresso che mi condussero, negli anni successivi, a staccarmi sempre di più da quella vita di corte che non faceva altro che suscitare in me il più autentico disgusto. Non sopportavo i volti falsamente adulatori dei suoi seguaci, non tolleravo la presenza, sempre e immancabilmente pressante, di tutti quei lecchini e consiglieri, a dirmi cosa fosse o non fosse opportuno fare per un giovane principe della mia età.
Unica consolazione era, forse, la presenza di quell’unica figura che accennava, seppure silenziosamente, a comprendere il mio disagio: mio zio, Shenlong.
Nonostante l’indole radicalmente differente, lui era sempre stato, per me, l’unica ancora di salvezza in quel mare d’ipocrisia e pomposità senza fine. Aveva rappresentato un idolo e un mentore, da seguire e imitare con tutto me stesso … era quella parte di me stesso che mai avrei saputo esprimere. Eppure, diversamente da me, lui sapeva sempre come muoversi all’interno della corte, così da non far trapelare il proprio disprezzo e mascherarlo nei momenti più opportuni con continue e assidue viaggi verso terre lontane.
Mi resi definitivamente conto di stare delirando quando, la sera, ci accampammo per la notte.
Sebbene a fatica, alla fine lei riuscì a erigere una tenda per proteggerci dalle sabbie, e una volta all’interno si mise subito all’opera per preparare dell’acqua fresca e degli impacchi per farmi scendere la febbre.
Seguivo i suoi movimenti intontito e, per la prima volta dopo anni e anni, iniziai a chiedermi come avessi fatto a non notarla per tutto quel tempo.
Le sue movenze erano, seppure pregne d’ansia e preoccupazione, pur sempre aggraziate e sublimi. Si muoveva decisa, perfettamente consapevole, anche tra le lacrime e i singhiozzi causati dalla mia situazione sempre più precaria, di ciò che stava facendo e ciò che doveva essere fatto.
Ok, va bene. Forse, quelle febbri mi avevano completamente dato di volta il cervello, visto come, ormai, mi fossi ripromesso di non cascarci una seconda volta.
Tuttavia qualcosa, probabilmente quella parte dei miei neuroni ancora funzionante (ed erano pochi), mi diceva che forse non avevo mai smesso realmente di vederla in quel modo, o quantomeno di sperare che le cose tornassero come prima. Ero consapevole, almeno in parte, che tutta quell’ammirazione improvvisa nei suoi confronti non poteva essere completamente frutto delle febbri o della mia immaginazione, e quella coscienza mi scuoteva e mi turbava al tempo stesso.
Aprire nuovamente il mio cuore a simili sentimenti avrebbe inevitabilmente significato rimanerne ancora scottato, ed ero sicurissimo che fosse l’ultimo mio desiderio.
Tuttavia, fu solo quando era ormai troppo tardi che mi resi conto di come, tra una riflessione cretina e l’altra, avessi completamente perso il senno. Infatti, quando mi venne appresso, e cercò di consolare il mio dolore con una pezza d’acqua fresca, mi sfuggì, in modo totalmente INNOCENTE E INVOLONTARIO (o forse no … non ne sono ancora venuto a capo): “Ma tu, chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?”
Ecco … questo è il fatto.
Ora vi starete certamente rotolando a terra dal ridere.
Eppure lo dissi veramente, e lei, arrossendo come sempre quando le facevo (seppure di rado) dei complimenti, abbassò il capo, mormorando: “Mio signore, vi prego. Le febbri vi stanno facendo parlare senza coscienza di causa … io sono solo la vostra umile ancella.”
Sorrisi, scuotendo il capo rassegnato.
Dopotutto, lei era sempre stata così: innocente, modesta e incredibilmente gentile. Con tutti e verso tutti … dovevo essere pazzo per non averlo capito prima.
Tuttavia, non avevo ancora compreso quanto la sua dedizione nei miei confronti fosse realmente potente. Ma lo capii molto presto.
 

Il giorno seguente, le mie condizioni non erano minimamente migliorate.
La febbre non accennava a passare, mi rodeva il petto con vampe di calore sempre più potenti, e in alcuni istanti mi pareva quasi di sentire il petto scoppiare, mentre il cuore pompava il sangue nelle vene con una forza mai provata prima. La gola era secca, riarsa dal dolore e della sete, e le palpebre si chiudevano pesanti sugli occhi spossati.
Eppure, al contrario, gli altri miei sensi parevano come affinati da quella situazione sempre più vicina alla morte che mi assillava. Percepivo con chiarezza i movimenti di Hitomi al mio fianco, i suoi singhiozzi disperati e le sue lacrime fedeli … potevo quasi vederla, muoversi assidua da un lato all’altro della tenda, cercando invano di farmi stare meglio.
Improvvisamente, però, parve chetarsi. Alzai, seppure forzatamente, il capo, e allora la vidi.
Stava consultando un vecchio tomo, un manoscritto tramandato di generazione in generazione alle Elette per imparare a gestire e comprendere i propri doveri e poteri.
E quando il suo sguardo, questa volta non più umido di lacrime ma carico di determinazione, incontrò il mio, capii subito cosa volesse fare.
E sentii il terreno inghiottirmi.
Scossi il capo, improvvisamente più lucido, dicendo: “No … non se ne parla nemmeno. Non ti permetterò di fare una cosa del genere per aiutarmi. Vattene … io non posso tornare indietro, ma ora che la morte mi sta già sussurrando suadente all’orecchio, nulla ti intrattiene realmente a starmi accanto. Torna in superficie, creati una nuova vita. Nessuno verrà a cercarti.”
Lei sorrise, e fu allora che lo notai. Per la prima volta, nel suo sguardo: un amore cieco, sincero e profondo.
“Va tutto bene, mio signore. Se siete voi, sarò più che felice di donarvi la mia innocenza … è il solo modo. Sapete bene quanto me che solo il cruore e la verginità di un’Eletta possiede un potere sufficiente a curare il vostro male e se … se sarà necessario per guarirvi, io … sono perfettamente disposta a fare questo sacrificio anche se … anche se sono consapevole che per voi io non varrò mai altrettanto.”, sorrise, questa volta, però, nei suoi occhi vidi anche una tristezza, profonda e implacabile, che mi scavò un vuoto nel cuore.
E l’avrei anche fermata, se proprio in quell’istante le sue labbra non si fossero posate sulle mie. Sgranai gli occhi, sorpreso e indeciso, come non ero mai stato realmente di fronte a nessun’altra donna.
Come immagino avrete certamente già compreso, io non ero proprio un gran stinco di santo in termini di castità, e non avevo mai avuto tante difficoltà a trattare con una fanciulla come mi succedeva con lei.
Tuttavia, ero troppo debole per oppormi quindi, che mi piacesse o meno, fui costretto ad assecondarla, mentre, lentamente, si infilava sotto le coperte e, trepidamente d’attesa inespressa, mi spogliava del kimono e dell’obi, per poi osservare silenziosa quel fisico che, tante volte, si era trovata a curare nei periodi di malattia e sconforto.
Sentii i suoi occhi color acquamarina sondarmi l’animo, andando oltre l’armatura di freddezza e indifferenza che avevo eretto negli anni, osservando silenziosa quel vuoto profondo e inconsolabile che si era formato a seguito della partenza di lei e del tradimento di Makoto.
Voltai il capo, incapace di sostenere quello sguardo in grado, come sempre, di far emergere quei lati di me che spesso vorrei non possedere nemmeno.
Fu lei a sollevarmi il mento, costringendomi a guardarla negli occhi mentre, lentamente, si spogliava a sua volta, lasciando cadere quelle sete che coprivano il suo fisico esile e leggiadro a terra. Osservai, silenzioso, quel fisico che, seppure quasi privo di curve, possedeva lo stesso fascino di uno spirito dei boschi.
La pelle scintillava, perfetta e candida, sotto il lume del candele profumate, mentre i capelli corvini, simili a inchiostro fuso, le cadevano lungo i fianchi, lisci e perfetti. Le mani, piccole ma perfettamente curate, corsero rapide sul mio viso, sfiorandolo appena, con timore quasi reverenziale, per poi toccare lievemente quella chioma dorata di cui ero sempre andato tanto fiero.
Sorrise, timida, mettendosi a cavalcioni su di me e iniziando a percorrere la mia pelle, bollente a causa delle febbri, con una scia di delicati baci.
Sospirai, chiudendo gli occhi e, per la prima volta dopo lungo, lunghissimo tempo, decisi di lasciarmi tutto alle spalle.
Di dimenticare ogni cosa, di scordare il dolore passato e le preoccupazioni future. Non volevo più pensare, desideravo solo abbandonarmi a quelle carezze così dolci e delicate, a quegli occhi così innocenti e a quell’amore tanto fedele e cieco, al punto da sfiorare quasi la venerazione.
Sorrise, quasi potesse realmente sentire i miei pensieri, e, lentamente, iniziò a sfiorarmi, inesperta e indecisa, certo, ma non per questo meno determinata.
Sorrisi, tra me e me, mentre iniziavo ad assecondare i suoi gesti.
Quella notte, a dispetto della tempesta di sabbia che, impietosa, continuava a infuriare fuori dalla nostra tenda, noi consumammo la nostra notte assieme. E nonostante il mio senso di colpa, nonostante il dolore nel vederla donarsi con tanta dedizione a me, nonostante il futuro sempre più incerto, almeno per un istante, potei finalmente vedere uno scorcio di luce nel mio orizzonte. Non ero più solo un principino capriccioso e indifferente, non dovevo più temere il rancore e il biasimo della corte perché sapevo che, per lei, sarei stato sempre solo e soltanto io. Senza doveri, senza oneri o titoli.
E per questo fui felice.
Il nostro rapporto fu dolce, delicato.
Feci il possibile per renderla quell’esperienza il meno dolorosa possibile (sebbene, a dire il vero, ero così rincretinito da capire a malapena DOVE fare COSA, ma dettagli, le mie straordinarie doti riproduttive avrebbero compensano ampiamente a tale mancanza).
Passai la notte al suo fianco, a sfiorare silenzioso quei seni perfetti, quel ventre piatto e liscio, quel collo così esile e innocente. Ascoltai deliziato i suoi sospiri, mentre quei gemiti lievi mi facevano sorridere divertito, e intanto la vidi, seppure nel rossore delle sue gote innocenti, togliersi l’intimo, annuii, silenzioso.
 

Confesso che svegliarmi, all’alba del giorno seguente, mi fu dannatamente difficile.
E non tanto perché stessi ancora male (seriamente, fino ad allora avevo sempre creduto le leggende sul potere della cosiddetta “Innocenza Celestiale” solo delle immense, colossali ed enormi bufale) in fatti, a dire il vero, sprizzavo vitalità da tutti i pori.
Insomma, non mi ero mai sentito meglio in vita mia (eccetto forse quando quel fulmine mi aveva colpito, ma è abbastanza noto come i Naga siano in grado di incanalare l’energia astrale contenuta negli elementi). Era come se fossi risorto a nuova vita, l’adrenalina mi scorreva potente nelle vene, e avevo persino la netta impressione che anche il mio potere spirituale ne fosse uscito fortificato, al punto che ero assolutamente impaziente di proseguire col nostro viaggio.
Il problema fu, piuttosto, il silenzio da funerale che era caduto tra me e Hitomi subito dopo quella notte.
Lei, il viso rosso e imbarazzato, il capo chino e gli occhi lucidi, non riusciva nemmeno a guardarmi in faccia (e non certo perché fosse andata male, perché diciamocelo, sono troppo geniale per fallire su quel fronte). Più che altro, avevo la netta e a dir vero sempre più spiacevole impressione che lei, per tutto il tempo, non avesse mai realmente pensato che ciò che era accaduto tra noi due potesse essere più che un “Andiamo a letto assieme così ti salvo la pelle”.
E la cosa, dovevo ammettere, mi lasciava non certo indifferente.
Anzi, per la prima volta, mi chiedevo come diamine avessi fatto a raggiungere quel punto.
Perché, ogni volta che la guardavo, pareva convincersi sempre di più che io non potessi aver tratto nessun piacere da ciò che era successo tra noi due? L’avevo veramente costretta, con i miei anni di continua e costante indifferenza, ad avere una così bassa opinione di sé. Non riuscivo proprio a capacitarmene … la sola idea che lei potesse arrivare ad abbandonare tutte le proprie speranze e a denigrarsi in quel modo solo a causa mia mi risultava totalmente inconcepibile.
D’altra parte, però, nemmeno io sapevo esattamente come prendere in mano quella situazione.
L’avevo ignorata e sottovalutata per anni, dando per scontata la sua presenza per così tanto tempo da non rendermi mai realmente conto di quanto fosse indispensabile per me. Come potevo anche solo PRETENDERE di cercare delle scuse?
Non ero assolutamente nella posizione di poter avanzare delle pretese su di lei.
Non dopo che, di sua spontanea volontà e perfettamente consapevole della realtà dei fatti, lei mi aveva concesso comunque la sua prima volta. Senza curarsi del fatto che, per quanto ne sapeva, probabilmente l’avrei ricordata come solo una delle tante fanciulle che mi ero portato a letto. Insomma … non potevo proprio dire di essere messo bene.
E ne ero perfettamente consapevole.
Quindi, ci limitammo a sistemare le nostre cose, ognuno immerso nel proprio silenzio, e metterci in marcia per proseguire il viaggio.





Note dell'Autrice:
Eccoci qui con un nuovo capitolo.
Finalmente, è emerso qualche nuovo dettaglio su come Ryujin sia diventato quello del racconto.
Tuttavia, non è certo tutto qui, nei prossimi capitoli troverete molte altre sorprese ... comunque, per ora, spero che la storia sia stata di vostro gradimento. Ringrazio tutti coloro che continuano a seguirmi e mi hanno accompagnata per questo percorso.
Detto questo, attenddo i vostri commenti, e alla prossima!

Teoth

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Capitolo 3
*** Capitolo III - Shenlong ***


CAPITOLO III – SHENLONG




Il resto del viaggio fu, con nostra somma sorpresa, totalmente differente.
Non so bene cosa fosse successo, dopo la notte passata assieme. Le continue tempeste di sabbia rossa e cocente erano svanite nel nulla, come se non vi fossero mai state. I vapori avevano smesso di incendiarmi i polmoni e la sabbia, seppure ugualmente calda, non cercava più di ustionarci la pelle e infiltrarsi in ogni singolo spazio disponibile. Certo, ci trovavamo sempre all’interno di una landa sconfinata e ardente, ma, almeno, non dovevamo più spaccarci la schiena per guadagnare anche solo un passo di vantaggio verso la nostra meta. Pareva quasi come se l’Akai Sabaku stesso, alla fine, avesse compreso come continuare con la sua muta guerra nei nostri confronti fosse praticamente inutile.
Dopotutto, sia io che Hitomi sapevamo bene quanto ciò non potesse essere molto distante dalla verità. Il potere contenuto nel corpo di un’Eletta del Tempio, sebbene non si riscontrassero casi in cui fosse stato usato per attraversare con successo il Deserto Rosso, era notoriamente in grado di guarire persino i mali apparentemente più incurabili e letali.
Tuttavia, era raro che venisse utilizzato in tal modo, visto e considerato come i Sacerdoti fossero incredibilmente protettivi verso le loro adepte, e non vedessero affatto di buon occhio chi cercava di mettere loro le mani addosso.
Effettivamente, dovetti ammettere, tra la mia decisione discretamente masochista di attraversare l’Akai Sabaku e il fatto che avevo disgraziatamente tolto l’innocenza a una delle migliori Elette del Tempio, c’erano probabilità non proprio scarse che, al mio ritorno, sarei per lo meno rinchiuso nelle mie stanze da mio padre per il resto dei miei giorni Naghici (dopo l’uscita sul Deserto delle Fregature, ho deciso di darmi alla coniazione di nuovi termini). Per il resto della mia lunga e si, forse tenderò a ripetermi, anche indubbiamente inestimabile esistenza.
Per la prima volta, non mi sentivo poi così ansioso di tornare a Shukai – Shi.
E non solo per questo motivo.
Osservai Hitomi, che procedeva silenziosa di fronte a me, la figura esile che si scontrava determinata contro i raggi cocenti del sole infernale, ma che, nonostante tutto, continuava a procedere con la stessa decisione di sempre.
Perché si … anche se avevamo rischiato entrambi di rimetterci le penne, avevo come la netta impressione che, in quei giorni, fossimo riusciti a riavvicinarci come mai saremmo stati in grado di fare sulla superficie.
Nonostante la sua contrarietà verso la mia decisione di raggiungere Orochi, Hitomi, alla fine, si era dimostrata incredibilmente forte e fermamente determinata a portare a termine quella missione al mio fianco. Indipendentemente dai rischi e dai pericoli che avremmo potuto incontrare sul nostro cammino.
Non l’avevo sentita lamentarsi neanche una volta, anzi … forse, sotto certi aspetti, aveva preso quella situazione persino meglio di quanto io avrei mai potuto essere in grado di fare. Silenziosa ma sempre sorridente, faceva tutto il possibile per farci proseguire al meglio, continuando a preparare i pasti e a procurarci cibo e scorte … anche quando, alcuni giorni dopo, e con a dire il vero un certo imbarazzo, le chiesi timidamente (ok, cancellate l’ultima parte) di insegnarmi a farlo.
Lei alzò il capo, visibilmente sorpresa, al che, ovviamente, il mio orgoglio di reale emerse subito a difendere quello sprazzo di umanità che si era fatto strada nella mia armatura perfetta, per cui mi affrettai ad aggiungere, deciso: “Non credere che lo faccia per dare una mano. Solo non sopporto dover dipendere da qualcuno che non sia me stesso … ecco …”
Lei sorrise, condiscendente.
A dire il vero, da come le sue iridi color acquamarina brillarono in quell’istante, ebbi il mezzo dubbio che non avesse creduto a nemmeno una delle mie parole.
Tuttavia, non disse nulla e, anzi, si fece da parte, spiegandomi brevemente come fare per preparare la zuppa e la carne essiccata, come ricavare l’acqua dall’umidità della notte e come intrecciare i Waraji* dalle corde di paglia. Visto che, con la calura del deserto, attraversarlo con dei normali Geta* sarebbe stato un vero suicidio, con il tacco alto e stabile solo su una superficie retta e dritta (tipo quelle che Hitomi poteva percorrere senza inciampare nel nulla, per farvi un esempio) che possedevano.
Si dimostrò una mentore incredibilmente paziente e gentile, anche quando, a dire il vero, mi trovavo a imprecare, sparando termini non molto educati contro la verdura o la carne di turno, e lei si limitava a sorride, alzando gli occhi al cielo con fare esasperato, per poi proseguire con le sue lezioni di sopravvivenza.
Durante quelle ore, avemmo modo di parlare molto, più di quanto avessimo mai fatto prima.
E scoprii molti lati di lei che, in precedenza, non mi sarei mai sognato di conoscere.
Per esempio, il fatto che, da quando eravamo partiti, si era sempre portata con sé un Tanto* da combattimento, e amava passare le ore serali, quando ormai io mi ero coricato da un pezzo, ad allenarsi.
Non che mi piacesse molto, l’idea che si preparasse a un eventuale combattimento, quasi come se lei stessa dovesse trovarsi in prima linea nel momento del bisogno. Tuttavia, ammirai la sua costanza e la sua dedizione verso quel compito che le era stato affidato e, alla fine, accondiscesi a insegnarle alcune mosse di base.
In parte, perché mi sentivo ancora incredibilmente debitore, per essersi occupata di me sin dall’inizio del nostro viaggio, provvedendo da sola alle provviste e ai pasti. E in parte perché, in fondo in fondo, non potevo proprio evitare di provare un seppur lieve piacere nell’insegnarle quelle tecniche che non solo avrebbero potuto salvarle la vita, ma che erano anche, per me, motivo di vero orgoglio.
Così proseguimmo, silenti, la nostra marcia silenziosa.
Ormai, erano passati quindici giorni dalla nostra partenza e fu quando finalmente le sabbie rosse iniziarono a ritirarsi lasciando spazio a ben differenti (ma non per questo particolarmente migliori) panorami, che iniziammo a intravvedere la nostra ambita meta.

 
Fu con l’arrivo alla Kage no Heigen, la Pianura delle Nebbie in cui, da sempre, si erigeva Orochi, che il percorso avrebbe inevitabilmente finito col farsi più complicato e rischioso.
Notoriamente, il Naraka era una landa tetra e sconfinata, che si estendeva per miglia e miglia sotto il suolo terrestre ma che, di fatto, non comprendeva che due zone realmente abitate dagli Oni i quali, altrimenti, ben di rado si aggiravano per le sue terre.
Tali centri erano, innanzitutto, la Città delle Ossa, situata a Nord del Naraka e oltre l’immensa distesa del Deserto delle Fregature (il famoso Shirosa Baku, per intenderci), e poi Orochi, la capitale, che si trovava a Sud, oltre il più modesto ma senza dubbio maggiormente letale Akai Sabaku (come io stesso avevo avuto modo di constatare pochi giorni prima).
Il primo centro abitato era, essenzialmente, un’immensa metropoli, che si estendeva per miglia e miglia, tra paludi mefitiche ma chissà come comunque coltivate (anche se non credo ci tenessero il riso, lì … magari qualche pianta carnivora, ma certo non colture normali) e innumerevoli distretti minori. Per quel che avevo sentito, non era proprio un posto molto piacevole. Le casupole, in legno scuro e marcio, si alternavano tutte uguali, sporgendosi tetre su strade insozzate da fango ed escrementi, mentre nebbie perenni ne coprivano il suolo e un vento gelido spirava tra quelle vie, rendendo quasi impossibile uscire di casa. Eppure, la popolazione al suo interno sarebbe bastata, da sola, a riempire quasi tutta la superficie, tanto era numerosa e diffusa.
Il secondo, invece, era totalmente differente. Innanzitutto, non lo si poteva definire proprio una città. Orochi, sebbene ufficialmente fosse riconosciuta come la capitale, di fatto non era altro che una Fortezza Giapponese in Stile Todaiji. Normalmente, tali costruzioni, ricche di Pagode* e Jishi* che vigilavano agli ingressi dei templi, erano usate in superficie per venerare noi Naga o, in alternativa, il Culto dei Morti.
Qui, invece, fungevano da vera e propria dimora imperiale.
La fortezza si trovava su una piattaforma in legno, eretta all’interno di un modesto lago e circondata su tre lati da fitte paludi mefitiche, giungle letali e foreste oscure. Sulla parte frontale, alcuni ciottoli sormontati da delle Torii* nere come l’ebano erano l’unico sentiero che permettesse di attraversare le acque nere e putride del lago per raggiungere quindi il Sanmon* che, essenzialmente, non era altro che una porta d’ingresso che permetteva di accedere alla capitale vera e propria.
Situata nel mezzo di un’imponente cinta muraria, e costruita interamente in legno scuro, come a dire il vero anche il resto della struttura, era sormontata ai lati da alcune colonne che ne sostenevano il tetto spiovente, mentre due Jishi ne controllano l’ingresso. Diversamente che dalle statue di leone messe a guardia dell’ingresso del Palazzo di Giada, a Shukai – Shi, questi due, che, come da tradizione, possedevano uno una bocca spalancata in un ruggito e uno una bocca chiusa ma ringhiante, non erano costruiti interamente in oro ma intagliati in una pietra nera e lucente. Alti quanto tre uomini adulti, ci osservavano in silenzio, con i loro occhietti ostili, mentre superate le mura si accedeva finalmente a Orochi.
Le mura si gettavano, all’interno, in un grande e ampio portico, il cui pavimento era coperto da piastrelle in marmo color onice, mentre sul fondo si trovava la Sede Principale, ossia il Kondo* con la Sala del Trono, e a ogni angolo della struttura squadrata vi quattro Pagode di guardia, alte all’incirca una dozzina buona di piani.
Come potrete certamente avere compreso, Orochi, per quanto indubbiamente più affascinante (si fa per dire) della controparte settentrionale, non vantava nemmeno un milionesimo della sua grandezza e, a dire il vero, neanche della sua protezione.
Dopotutto, nessuno si sarebbe mai fatto venire in mente (o almeno così credevano) che potesse esistere persona tanto idiota (o geniale) da decidere di attraversare l’Akai Sabaku per raggiungere la capitale. Quindi, di fatto, coloro che la abitavano si ritenevano relativamente sicuri, e anche se alcuni plotoni di guardie non mancavano di certo, non per questo si poteva dire che la guardia del luogo avrebbe potuto essere un grande problema. Con la giusta copertura, ovviamente.
Comunque, essenzialmente, la Sede Principale era composta da un’unica grande struttura, posizionata a ridosso delle mura più meridionali, costruita su tre piani e formata da alcuni portici in legno e innumerevoli stanze. Il tetto, spiovente e sempre di quel nero che, di quel passo, mi avrebbe fatto rincretinire, era decorato da alcuni bassorilievi a forma di Oni in guerra … e Naga morti e agonizzanti (allegria!).
Il cortile era quasi totalmente deserto, fatta eccezione per un’imponente statua al centro, raffigurante un intrico molto allegro di membra e arti umani mezzi mozzati e in via di decomposizione, così intrecciati tra loro da formare un amalgama disgustoso e sgradevole di corpi e volti agonizzanti. Vecchi, donne e bambini si stringevano e si avvinghiavano gli uni agli altri, i visi stravolti da espressioni di dolore e sofferenza, a sorreggere una bandiera con l’emblema dell’Impero Oni, ossia un uomo squartato ed esposto in pubblica piazza.
Sinceramente, il loro gusto artistico mi lasciava senza parole.
Comunque, oltre a questo, poco altro.  Il cortile era per lo più deserto, fatta eccezione per qualche cornuta e deformata ancella oni che si muoveva da un lato all’altro, mentre le guardie, essenzialmente, si trovavano solo sulle Mura e sulle quattro Pagode messe a sentinella degli angoli della struttura.
Il tutto, non avrebbe compreso più di un qualche centinaio di persone, di cui solo una minima parte soldati, quindi, in pratica, eravamo abbastanza ottimisti.
La vera gatta da pelare sarebbe giunta una volta all’interno delle Stanze Reali, visto che dubitavo seriamente che un essere leggendariamente millenario come l’Imperatore Oni potesse essere un tipo semplice da sopraffare.
Comunque, giungemmo ad Orochi la sera del nostro diciassettesimo giorno di viaggio.
Ormai, avevamo superato da un pezzo l’Akai Sabaku, addentrandoci sempre di più nelle lande grigie e desolate del Kage no Heigen. La Pianura delle Nebbie (altro esempio della creatività oni in fatto di nominativi) era, essenzialmente, composta da una distesa fredda e morta di rocce scure e informi, costeggiata ogni tanto da un qualche alberello o arbusto rachitico e annerito dagli anni, contorto su sé stesso e quasi in punto di morte. Una nebbia fine e perlacea ne percorreva silenziosa il terreno, gelandoci i piedi, mentre raggiungevamo in silenzio il lago.
Avevamo già incontrato alcuni plotoni di guardia, probabilmente sentinelle messe a controllo dei confini col deserto, ma avevamo subito provveduto a nascondere a dovere le nostre fattezze, utilizzando i mantelli per coprirci e un impasto precedentemente fatto da Hitomi per far assomigliare la nostra pelle a quella spesso grigia e tumefatta dei demoni. Qualche domanda veloce, e ci avevano fatti passare senza troppi problemi.
Nulla di più semplice.
Giungemmo quindi a Orochi, e quando le guardie messe a controllo dell’ingresso ci interrogarono sul motivo della nostra venuta, spiegammo velocemente di essere due viandanti, giunti dalla Città delle Ossa per mettere i nostri servigi come menestrelli a disposizione del sovrano. Quelle si osservarono in silenzio, poi annuirono, indicandoci sbrigativamente che strada prendere per incontrarlo.
Hitomi, silenziosa, mi procedeva alle spalle, stringendo spasmodica il mio kimono, e osservandosi tesa attorno.
Sebbene infatti la nostra copertura, grazie alle tecniche di lei nel mutare i nostri tratti di base, fosse indubbiamente impeccabile, e sapessimo molto bene che nessuno avrebbe mai nemmeno remotamente osato immaginarsi di infiltrarsi in quel luogo (a maggior ragione se si trattata di un Naga lì per il Passaggio), era comunque impossibile non sentirci tesi e nervosi.
Quel posto in culo al mondo sprigionava negatività e pericolo da tutti i pori, l’aura mefitica e asfissiante che emanava era così potente da impregnare ogni cosa, e ogni passo, respiro o parola parevano farsi quasi troppo pesanti di fronte a tutto quel concentrato di malvagità allo stato puro.
Che, passo dopo passo, mano a mano che ci avvicinavamo alla Sala del Trono si faceva sempre più forte e insormontabile.
Certo, forse per Hitomi, che comunque, in quanto essere umano, non possedeva un allineamento prettamente celestiale come quello dei Naga, tutto ciò non era nemmeno così chiaramente percepibile. Ma per me, che avevo passato anni ad affinare le mie tecniche sensoriali, e appartenevo inoltre a una specie naturalmente votata alla luce, era del tutto impossibile ignorare quel peso asfissiante che continuava ad assillarmi.
Feci un profondo respiro, sperando vivamente che, nonostante tutto, fossi comunque in grado di combattere come facevo sempre. Altrimenti, se quell’aura si fosse rivelata realmente in grado di intaccare le mie capacità belliche, le probabilità di rimanere sconfitto non erano nemmeno così scarse come inizialmente avevo pensato.
Fummo quindi guidati verso la Sala del Trono e, una volta che gli ampi portoni in legno scuro si furono aperti, potemmo vedere, per la prima volta, quello era stato il motivo essenziale per cui ci eravamo spinti fin lì.
L’Imperatore Oni.

 
Ora, premetto una cosa.
Solitamente, non è che gli Oni spicchino chissà quanto per bellezza o avvenenza.
Per quel che ero riuscito a vedere, nella maggior parte dei casi si trattava di umanoidi dall’aria tutt’altro che simpatica, le cui forme sproporzionate e inquietanti nulla avevano a che vedere manco remotamente con la figura umana, figuriamoci, poi, quella celestiale e sublime di noi Naga.
Le loro pelli erano, nel migliore dei casi, coperte di pustole e squame dall’aria spessa e ruvida, gli arti totalmente privi di una seppur pallida idea di armonia e le dimensioni corporee parevano quasi un’accozzaglia confusa di membra sparse e informi.
Certo, in linea generica (mooolto generica, a dire il vero), potevano, magari nascosti sotto strati e strati di veli e tessuti, apparire vagamente umani.
Bastava tuttavia uno sguardo più attento per notare come, tra zanne giallastre, corna rachitiche e code adunche non potessero avere proprio nulla di anche solo remotamente normale. Figuriamoci poi di affascinante.
Insomma, per farla breve, da che mondo e mondo gli Oni erano, e sarebbero sempre stati, una specie tanto malvagia quando sgradevole a vedersi. O almeno credevamo … prima di raggiungere la Sala del Trono.
Ci trovammo in un ampio salone, il pavimento, in legno scuro e lucido, era connesso al soffitto da alcune imponenti colonne in onice nera, sulle quali alcune non molto rassicuranti fiaccole dalle fiammelle verde smeraldo gettavano luci vaghe e surreali in quell’ambiente che, per il resto, non era che scarsamente illuminato.
Accostate alle pareti, vi erano innumerevoli vetrine in cristallo, contenenti vasi antichi e pregiati, ma dalle parvenze così malefiche e dai decori così crudi da non rassicurare affatto sulla loro natura maligna. C’erano anche alcune porta armi, sorreggenti innumerevoli katane dal taglio seghettato e letale, oltre che collezioni molto incoraggianti di teschi scuri e ghignanti.
Verso il fondo della sala, vi era, infine, quello che doveva essere l’alloggio dell’Imperatore, separato, almeno inizialmente, dal resto della stanza grazie a un velo semitrasparente in seta nera. Di fronte a esso, si trovavano innumerevoli candele in cera scura, decorate con forme in oro, che diffondevano un vago sentore d’incenso nella stanza e le cui fiammelle verde acceso illuminavano a malapena quel luogo altrimenti buio e freddo come la morte stessa.
Tuttavia, dovetti riconoscere (seppure a mio malgrado), che quel posto (letalità a parte) non era nemmeno così male.
Certo, la bellezza che lo contraddistingueva non aveva assolutamente NULLA che vedere con quella pacata, serafica e pacifica di Shukai – Shi ma, a modo suo, anche quel posto sapeva incutere un’autentica ammirazione in coloro che lo vedevano.
Era, sotto ogni aspetto, l’essenza stessa della definizione di “Sublime”.
Un fascino macabro e oscuro, lo stesso di quando si osserva un abisso eterno e senza fine, e si è consapevoli di come, in fondo al proprio cuore, oltre al terrore vi sia comunque anche una lieve scintilla di curiosità. Mentre un richiamo oscuro e ancestrale ci spinge, seppure inconsapevolmente, a desiderare di scandagliarne i terribili segreti, fino a diventarne parte noi stessi.
Cosa si celerà mai in fondo a esso?
Avrà mai fine?
Ecco, quel luogo, seppure in modo differente, ne condivideva lo stesso fascino.
Immerso nella sua aura oscura ed eterna, era proprio in virtù della sua macabra bellezza che era totalmente impossibile non esserne attratti.
Sussultammo mentre, con un tonfo sordo, le porte alle nostre spalle si chiudevano. Mi voltai appena, mentre vedevo gli occhi da cerbiatta di lei iniziare a tremolare in preda al terrore, tuttavia, non so come, trovai la forza di sorriderle.
Mi guardai attorno, assottigliando appena gli occhi nel notare come, stranamente, nemmeno all’interno vi fossero guardie.
La cosa non mi piaceva … nel migliore dei casi, poteva essere a causa di una loro qualche imbecillità latente ancora ignota (ma non ci speravo molto, altrimenti la guerra sarebbe finita da un pezzo), nel peggiore, o perché quel tipo era troppo forte per essere anche solo sfiorato o perché volevano metterci in trappola.
Eppure, le sorrisi, sfiorandole la mano e assicurandomi che mi restasse alle spalle, mentre una voce suadente ci accoglieva, dicendo: “Noto con piacere che la mia dimora è di vostro gradimento.”, spostai lo sguardo verso il velo, unica barriera che, ancora, ci impediva di vedere con chiarezza con chi stessimo parlando.
Sorrisi, cercando di piantarmi in faccia l’espressione più leccaculo che potesse venirmi in mente, per poi esibirmi in un profondo (e se posso dire la mia anche incredibilmente sofferto) inchino, e dire, con aria volutamente altisonante: “Vostra Immensità …”, sogghignai, mentre un ben altro (meno lusinghiero) aggettivo mi veniva in mente, “… la ringraziamo per averci accolto nella vostra illustre dimora.
Il mio nome è Ichigo …”, balle, “… e sono giunto qui con la mia compagna così da sperare che la nostra arte di cantori possa essere di vostro gradimento …”, altre balle, “… quindi, sarebbe per noi un vero onore suonare per voi.”, balla finale. O almeno in parte, visto che si, gliele avrei suonate di sicuro, ma non proprio nel senso che si sarebbe immaginato lui.
Una risata divertita ci sorprese, mentre le tende si scostavano e, con nostro immenso stupore, di trovammo di fronte a una creatura che, giuro, di Oniaco (non so se si possa dire o meno ma pazienza) non aveva proprio un bel niente. In effetti, non aveva nulla nemmeno di Imperatore, visto che, per essere sincero, non fosse stato per la voce indubbiamente maschile lo avrei scambiato facilmente per una donna.
Comunque, il punto è che, essenzialmente, non ci saremmo mai aspettati di poterci trovare di fronte a una creatura così … così … beh, va bene, io sono figo (e fin qui non ci piove) però anche lui non era così male. Diciamo che, se non fosse stato un fottuto Oni del ca***, allora avrei anche potuto farmelo stare simpatico.
Osservammo, visibilmente scettici, quei lineamenti quasi femminei, la carnagione candida e delicata, gli occhi dal taglio fine e nobile oltre che la fronte alta e spaziosa. Le iridi, erano due ametiste profonde e lucenti, i capelli, neri come l’inchiostro, gli cadevano in una morbida coda fino ai fianchi, così sottili da parere quasi quelli di una fanciulla.
Unico segno della sua origine demoniaca erano, essenzialmente, due imponenti corna da ariete, anch’esse scure come onici e decorate da innumerevoli anelli in oro, oltre che un terzo occhio posizionato, verticalmente, sulla fronte.
Per il resto, avrebbe comodamente potuto farsi passare per un dio in terra.
Il vestiario era composto, in sintesi, da un ampio Yukata viola acceso, con intarsi dorati che si avvolgevano lungo tutto il suo corpo, a raffigurare scene di caccia in cui demoni dalle fattezze informi uccidevano e scannavano umani indifesi. Le maniche erano ampie e voluminose, sotto di esse, potemmo intravvedere delle mani delicate e curate, cariche di anelli in oro e bracciali di gemme e pietre preziose. L’Obi, sempre in oro e che sorreggeva il tutto, era avvolto stretto sulla vita sottile, ad accentuarne ulteriormente le forme decisamente poco virili mentre, depositata al suo fianco, una naginata nera risplendeva letale sotto la luce soffusa delle candele.
Lo guardammo, visibilmente perplessi, mentre quello sorrideva, con fare tutt’altro che rassicurante.
Mi sentii gelare il sangue nelle vene notando come, in modo a dire il vero nemmeno troppo celato, i suoi occhi si trovarono a percorrere, con un’aria di apprezzamento che da parte di una donna non mi sarebbe dispiaciuta, ma che con lui non poteva non farmi venire la nausea, il mio fisico solido e allenato. Soffermandosi forse un po’ troppo a lungo le cosiddette zone meridionali.
Sentii Hitomi arrossire, abbassando il capo.
Evidentemente, nemmeno a lei doveva essere sfuggito tale dettaglio.
Tuttavia, col cavolo che gli avrei permesso di fare i propri porci comodi, quindi sorrisi, prendendola per mano e portandomela ancora più vicina. In parte, per rassicurarla (come se ce ne fosse bisogno, non ci pensavo nemmeno a farmi mettere sotto da un dannato ermafrodito), e in parte per chiarire, indirettamente, come fossi già impegnato (almeno in teoria).
L’altro sorrise, divertito, per poi constatare, con un tono che, sin dall’inizio, mi fece letteralmente immobilizzare dal terrore: “Vostro zio aveva perfettamente ragione. Siete proprio come vi aveva descritto: sfrontato, sciocco ma anche incredibilmente affascinante … sfortunatamente per voi, mio giovane RYUJIN, temo che non potrò godere molto della vostra indubbiamente gradevole compagnia. Perché la vostra permanenza nel Naraka finisce ora.”, sorrise, alzandosi pigramente in piedi.
Mi bloccai, fissandolo senza realmente capire.
Osservai interdetto Hitomi, ma anche lei pareva non comprendere di cosa stesse parlando, ed era sconvolta almeno quanto me.
Lo osservai, scettico e diffidente, quasi a carpire dove stesse la menzogna. Eppure, mentre scrutavo quelle iridi color ametista, fu con mio immenso dolore che non riuscii a scorgervi nemmeno una più pallida scintilla d’inganno.
Deglutii, scoppiando a ridere.
Per la verità, il suono che ne uscì fu fin troppo forzato, segno indelebile del nervosismo che, subdolo e letale, si stava facendo strada nel mio animo: “Quello che state dicendo è totalmente assurdo, Shenlong non avrebbe avuto alcun motivo per entrare in contatto con voi.”
L’altro sorrise, e per poco non avrei voluto staccargli la testa a morsi, nel vedere il tono quasi compassionevole con cui mi aveva guardato.
“Principe Ryujin, la vostra ingenuità mi sorprende. E si che, in tutti questi anni, avreste ormai dovuto comprendere come vostro zio disprezzi la vita a cui voi Naga siete costretti … dopotutto, non avete condiviso lo stesso modo di vedere le cose, in questi anni?”, sorrise, riprendendo, con tono laconicamente triste, “Una specie così splendida e magnifica, che avrebbe dovuto essere destinata a regnare sui mortali, e invece si trova a doverli servire, proteggendoli come cani da guardia! Non ditemi che non lo avete mai pensato, anche se per un solo istante, da quando avete vissuto al Palazzo di Giada.”
Tremai, incapace di credere a quelle parole. Era vero, avevo sempre saputo del disprezzo che mio zio aveva per la vita di corte, e per la situazione in cui ci trovavamo, ma mai, nemmeno per un istante, avrei potuto immaginare che potesse ordire una trama simile. Contro la sua famiglia, contro la sua specie e contro l’umanità intera.
Lui era sempre stato, per me, l’ancora di salvezza, l’unico cenno di comprensione in quel mondo altrimenti monotono e distante, il solo in grado di comprendere i miei pensieri e desideri. Aveva rappresentato tutto ciò a cui ambivo e che desideravo essere, era stato un amico, un mentore e un padre, laddove Tianlong aveva fallito più volte. E la fiducia, cieca e assoluta, che avevo sempre avuto nei suoi confronti m’impediva anche solo di IMMAGINARE che potesse tradirmi in quel modo. Non dopo tutte le ore passate assieme, non dopo tutti gli sguardi complici, i viaggi compiuti, le giornate passate a chiedergli delle sue avventure.
Era stato, laddove tutti gli altri avevano fallito, il solo in grado di comprendere il mio disagio. Il solo che, seppure silenziosamente, sapesse cosa mi passava per la testa, e condividesse i miei stessi pensieri e preoccupazioni.
Mi morsi il labbro, mentre lo sguardo indeciso di Hitomi si posava sul mio.
Era vero … io avevo sempre considerato gli esseri umani come niente di più e niente di meno che delle creature deboli e inferiori. Non l’avevo mai nascosto e, anzi, non perdevo certo occasione per far sapere al mondo come la pensassi ma … ma …
La guardai, terrorizzato mentre, per la prima volta, un’ombra di dubbio si faceva strada in quelle iridi color acquamarina. Come poteva veramente credere che avrei mai potuto appoggiare un tradimento simile? Che desiderassi realmente solo e soltanto la distruzione della sua specie? Che li disprezzassi a tal punto?
Mi morsi il labbro, guardandola supplice, consapevole di come, in tutti quegli anni, non le avessi mai realmente dato modo di pensare il contrario.
L’avevo sempre maltrattata e denigrata, continuando a rimproverarla ogni giorno che passava, vessandola in ogni modo possibile e immaginabile. E standomi a fianco, aveva potuto vedere bene come, con gli altri suoi simili, non fossi certo più gentile.
Mi voltai a osservare l’Imperatore, furioso, sbottando in preda a un’ira a stento trattenuta: “Q-questo … non è affatto vero! Non avrei mai potuto desiderare la distruzione della razza umana, né mi sarei mai sognato di tradire in questo modo la mia specie!”
Quello sorrise, bonario, per poi rispondere, perfettamente pacato: “Davvero? Non hai mai desiderato poterli vedere svanire, cosicchè non fossi costretto a prendere il tuo posto come Imperatore, passando la tua esistenza a difendere una guerra non tua? Hai mai sperato che se fossero svaniti nel nulla, senza lasciare traccia, tu saresti stato finalmente libero? Ti sei mai chiesto, anche se solo per un minimo istante, come sarebbe stata la tua esistenza senza di loro?”
Mi bloccai, incapace di rispondere.
Perché si, in cuor mio, lo avevo desiderato.
Forse non in modo conscio, forse non con l’intento di esternare tale mio pensiero … ma lo avevo fatto.
E mi sentivo un verme per questo.
Strinsi i denti, furioso, deglutendo a forza quel senso di colpa che mi vessava l’animo e proseguendo, cercando, con mio immenso sforzo, di ignorare gli occhi, ormai colmi di lacrime, di Hitomi, che mi fissavano alle mie spalle: “Che cosa avete fatto?!? Cosa vi ha detto mio zio, e perché siete in combutta con lui?”
Quello sospirò, con aria quasi annoiata, per poi riprendere, perfettamente tranquillo: “Vedete giovane principe, è proprio grazie questa vostra incredibile ingenuità se, per tutti questi anni, io e il vostro stimatissimo consanguineo siamo sempre riusciti a nascondervi tanto bene le sue intenzioni. Davvero mi fate una domanda simile? Eppure, ormai dovreste averlo compreso … come, ormai, voi siete l’unico ostacolo che ancora possa impedire a vostro zio di salire sul trono di Shukai – Shi.”, sorrise, osservandomi divertito, per poi sfiorare annoiato la propria arma.
Strinsi i denti, indietreggiando di riflesso e portando la mano sull’impugnatura di Yoosenmaru, pronto a sfoderarla non appena se ne fosse presentata la necessità. Costrinsi Hitomi a mettersi dietro di me, proteggendola col mio corpo, e determinato a sacrificare anche la mia stessa vita per salvare la sua sebbene, per tutto quel tempo, gli occhi pieni di dolore e d’incertezza di lei avessero continuato a perforarmi dolorosi la schiena.
Osservai silenzioso il demone, ascoltando in silenzio quelle parole e stupendomi ancor di più nel constatare come, in realtà, tale tradimento non fosse stato affatto frutto di recenti congetture, come avevo inizialmente pensato, ma un qualcosa di maturato consapevolmente negli anni.
“Quindi … voi conoscete mio zio. E per quale motivo dovreste desiderare di aiutarlo? Mettere un altro sul trono di Shukai – Shi non vi darà alcun vantaggio.”, lo osservai, mentre quello sorrideva, serafico, e una pessima sensazione si faceva strada dentro di me, mentre azzardavo, “A meno che … no, non vi credo. È totalmente assurdo, nemmeno lui si spingerebbe così oltre.”
Quello scoppiò a ridere, divertito: “Ebbene, ci siete arrivato, dunque? Si … vostro zio ha fatto un accordo con me. La vostra testa, in cambio della totale libertà sugli umani. Una volta salito al trono, metterà finalmente fine a questa vostra patetica guerra, e nessun Naga sarà più costretto a perire per una causa non sua.
Voi sarete liberi, e finalmente Ayumu sarà nostra! Non è magnifico? Finalmente, tutti i vostri sogni si potranno avverare. Non è forse questo quello che volevate? La fine di un conflitto che, nei millenni, non ha fatto altro che corroderci da ambo le parti? Vostro zio ha compreso in fretta cosa fosse meglio per la propria specie, e, diversamente che da quello sciocco pacifista di vostro padre, ha preso una decisione che nessun altro al posto suo avrebbe avuto il coraggio di prendere. Grazie a lui, nessun Naga dovrà più morire invano e noi, d’altra parte, potremmo finalmente riprenderci quella terra che avrebbe dovuto essere nostra sin dall’inizio!”
Lo osservai, totalmente scioccato, per poi sbottare, incapace di trattenermi: “Si, e in base a quale diritto immaginario, eh? Ayumu non appartiene a nessuno … né ai Naga, né agli umani e nemmeno agli Oni. Solo a coloro che desiderano amarla a difenderla, e sono disposti a sacrificare la vita per farlo. E visto come avete ridotto le vostre stesse terre, non dubito certo che potreste mai nemmeno remotamente adempiere a un compito simile! Non vi permetterò di distruggere la mia patria, potete anche chiamare tutti i soldati che volete, io vi staccherò la testa, e la riporterò a mio zio, come segno di ciò che accade a coloro che minacciano gli esseri umani di fronte a me!”
Quello scoppiò a ridere, divertito, mentre, lentamente, si spogliava del kimono, rimanendo con solo delle brache in seta e una rosario al collo. Sorrise, impugnando assorto la propria arma, e osservandomi silenzioso, prima di dire, perfettamente tranquillo: “Non angustiatevi troppo, giovane principe. Non mi priverei mai del piacere di dilaniarvi le carni con le mie stesse mani e, d’altronde, le mia guardie danno bene come non ami essere interrotto quando faccio AFFARI con delle personalità importanti.
Io basto e avanzo per tenervi a bada, Erede di Tianlong e, anzi, spero per voi che siate preparato. C’è un motivo se, finora, nessuno è mai riuscito anche solo a scalfirmi, e anche se dal vostro sguardo ironico posso dedurre facilmente il biasimo causato dal mio aspetto, vi posso altresì assicurare che troverete in me un osso molto ostico da affrontare.”
Assottigliai gli occhi, per poi sorridere, impavido, ed estrarre Yoosenmaru.
Guardai appena Hitomi, sussurrandole: “Stai indietro … questa cosa non deve riguardarti.”
Mi osservò, ancora indecisa.
Potevo chiaramente percepire come, dopo le infide (ma brutalmente veritiere) parole di lui nemmeno lei fosse più realmente sicura su cosa pensare al mio riguardo.
Sospirai, chiudendo appena gli occhi, prima di voltarmi e alzarle il mento, osservando assorto quelle iridi imperlate di lacrime, così dannatamente magnifiche e struggenti da farmi stringere il cuore nel petto, di fronte alla consapevolezza di averla ferita in quel modo orribile e crudele. Sorrisi, tristemente, consapevole di come, dopo tutto ciò che avevo fatto, non meritassi certo il suo perdono, o la sua comprensione: “Hitomi … guardami, ti prego.”, alzò il capo, fissandomi spaurita, tremava e, in fondo al cuore, non potevo certo biasimarla per questo, “Lo so. Ti ho delusa, non sono mai stato un padrone, o un compagno, che si potesse definire responsabile. Ti ho biasimata, per le tue origini mortali e per la natura debole della specie a cui appartieni, e per questo non sono mai stato capace di dare, a te o ad altri, il reale valore che meritate.”, mi morsi il labbro, deglutendo appena, per poi riprendere, la gola che quasi mi doleva nel pronunciare quel fiume di parole che, in tutto quel tempo, non avevo mai avuto il coraggio di dire, “E me ne pento. Me ne pento amaramente, perché so di averti ferita e sfruttata, nonostante la tua dedizione, nonostante il tuo coraggio e nonostante la tua gentilezza. Io sono stato cieco, e non potrò mai perdonarmi per questo.
È vero”, ammisi, abbassando il capo colpevole, “Io ho sempre pensato, in fondo al cuore, che non valesse realmente la pena di proteggervi. Ho biasimato il mio stesso fratello per essersi unito a un’umana, rinnegato mio padre per il suo amore verso di voi e abbandonato te, che mi eri sempre rimasta fedele, per le tue origini. Vi credevo una razza debole e inferiore, perché non possedevate la nostra stessa forza, la nostra durata vitale o i nostri poteri. Ma, mentre attraversavamo assieme il Naraka, ho visto in te qualcosa che prima non ero mai riuscito a vedere, una forza unica e differente che per anni ha permesso alla tua specie di rialzarsi, sempre e comunque, anche di fronte alle difficoltà apparentemente più insormontabili. Forse, non sarete come noi, ma possedete, senza ombra di dubbio, una grandissimo potenziale che, spero, potrò un giorno vedere trasformarsi in qualcosa di nuovo e unico, in grado di cambiare il mondo.”, le sorrisi, mentre vedevo quei bellissimi occhi da cerbiatta sgranarsi, e le lacrime smettere di imperlarle le gote candide e perfette.
“Ryu …”, si limitò a dire, mentre le sfioravo leggermente, e con una dolcezza quasi reverenziale, le labbra. Sorrisi, accarezzandole il viso, consapevole di come, se avessi fallito, avrei potuto non rivederla mai più: “Tranquilla, nessuno ti farà del male. Finché avrò vita, non permetterò che gli esseri umani possano soffrire. Ho già fallito troppe volte, commesso troppi errori e perso troppe persone care … ora che finalmente posso comprendere le motivazioni di mio padre, voglio poter reggere a dovere quel compito che mi è stato affidato.”
Mi voltai, mentre i miei occhi penetravano, incandescenti, quelli color ametista dell’Imperatore Oni, e lui sorrideva, impugnando la propria arma.
Si schioccò il collo, dicendo: “Molto bene, ora che hai avuto il tempo per dare il tuo ultimo addio alla tua SCHIAVA, direi che è meglio non perdere altro tempo. Ti presento Seshamaru, la mia naginata … tramite lei, ho tolto la testa a così tanti Naga da perderne il conto. Spero sarai felice di entrare presto nella mia collezione.”
Sbuffai, ironico, osservando quell’arma in silenzio.
L’asta, costruita in un solido legno color onice, era fornita di un’impugnatura in oro, mentre la lama, lunga quasi un terzo dell’arma stessa, era forgiata in un lucente metallo nero come l’inchiostro liquido, e decorata da alcuni intagli dorati, raffiguranti geroglifici e simboli propiziatori per colui che aveva il dovere di brandirla. Presso il punto che congiungeva la lama all’asta, un semplice drappo nero ne decorava le forme, mentre la lama seghettata (fatta più per tranciare che per tagliare) brillava ostile sotto la luce soffusa delle candele.
Sfoderai rapido la mia Yoosenmaru, e, per la prima volta da quando l’avevo ricevuta in dono, quel peso che di solito mi accompagnava nel brandirla parve come dissolversi.
Questa volta, SAPEVO, dentro di me, che stavo facendo la cosa giusta. Che avrei lottato per una causa per cui valeva realmente la pena di combattere, e che finalmente avrei potuto proteggere coloro che amavo e che stimavo.
Strinsi i denti, ostile, alle parole di lui, sbottando: “Mettiamo bene in chiaro una cosa, razza di demonietto ermafrodito e senza palle, Hitomi NON E’ la mia schiava! Chiaro? È una carissima amica …”, la sentii arrossire, dietro di me, anche se, per essere sincero, iniziavo realmente a dubitare di quelle parole, ma non osavo ancora sperare che potesse essere di più, “… e una mia fedele ancella. E tu … sei un’uom … ehm … un tizio morto!”
Gli occhi di quello si raggelarono mentre, prima ancora che potesse trovare di che protestare, mi slanciavo in avanti, pronto a colpire.

 
Non mi ci volle molto per comprendere come, se per tutti quegli anni non era mai stato ucciso, ci dovesse essere necessariamente un buon motivo dietro.
E infatti un motivo c’era.
A dispetto del fisico effeminato e ben più esile del mio, quel tipo possedeva una potenza a dir poco impressionante, oltre che dei riflessi e un’agilità ben superiori anche a quelli di un Naga adulto ed esperto.
Si muoveva con una grazia che, altrimenti, avrei creduto impossibile all’interno di uno scontro come quello, ma non per questo le sue movenze erano meno precise, o letali.
Si spostava, colpiva e parava con un precisione e una puntualità estreme, senza smuoversi nemmeno di un millimetro di fronte alla mia carica affiatata e senza nemmeno curarsi troppo di rispondere ai miei continui assalti. Si limitava a evitare, tranquillo e pacato, oltre che con un sorrisino decisamente molto irritante in viso, tutti i miei colpi, giocando con me come il gatto fa col topo, e col chiaro intento di stancarmi e farmi arrivare al limite.
Così da potermi infliggere il colpo di grazie senza troppe difficoltà.
Ovviamente, se credeva sul serio che glielo avrei permesso, allora si sbagliava di grosso.
Nonostante fosse un ottimo guerriero, e i miei attacchi continuassero ad andare a vuoto, la situazione non era nemmeno così precaria. Seppure a fatica, anch’io riuscivo a reggere ai suoi assalti, e grazie alla determinazione che avevo acquisito, ero tutt’altro di che disposto a perdere … anzi, da quando avevo iniziato ad apprendere l’arte della spada, potevo dire con assoluta certezza che mai, come allora, raggiunsi simili livelli di forza.
La consapevolezza di trovarmi con le spalle al muro, e il sapere che tutta l’umanità si appoggiava ora sulle mie spalle, mi spinsero a dare il massimo di me stesso, superando di gran lunga quelle che sarebbero state le mie naturali capacità e facendomi procedere spedito, rialzandomi sempre e comunque.
Lo scontro procedeva spedito, senza esclusione di colpi.
Io, spinto dall’ardore e dalle determinazione, cercavo in tutti i modi possibili di penetrare nella difesa del mio avversario ma, purtroppo, l’arma a medio raggio di cui disponeva mi metteva in una naturale posizione di svantaggio. La naginata è un’arma ad asta, contro cui, notoriamente, una comune katana può ben poco, vista la possibilità di tenere lontano l’avversario e controllare il gioco senza problemi … e se non potevo avvicinarmi troppo, ferirlo sarebbe stato ancora più complicato.
Lu, d’altro canto, come potei notare col proseguire dell’incontro, pareva iniziare a infastidirsi sempre di più. Era riuscito a farmi un paio di graffi, ma ogni volta che cercava di prendere in mano la situazione, mi spingevo con le spalle al muro, verso quella zona della sala in cui la sua arma a medio raggio avrebbe avuto maggiori difficoltà a essere maneggiata facilmente. E allora ritornava alla sua posizione di base, osservandomi sempre più irritato da quel naturale fervore che gli impediva di darmi il colpo di grazia.
Tuttavia, ero ben consapevole come, di quel passo, avrei finito immancabilmente con l’essere ucciso.
Il braccio sinistro era già stato ferito, e sebbene il graffio non fosse eccessivamente profondo, trattandosi della mia mano portante fui costretto a continuare a combattere con la destra, cosa che rese immancabilmente più impacciati i miei movimenti. Inoltre, era riuscito anche a farmi un taglio alla gamba, anche questo lieve ma comunque doloroso e in grado di rallentarmi non poco, e quello che avevo sulla fronte mi offuscava la vista, col sangue che gocciolava fastidioso sull’occhio sinistro. Potevo anche muovermi, ma era chiaro che, così continuando, avrei seriamente rischiato di rimanere ucciso.
Fu allora che mi venne l’illuminazione.
Non potendo avvicinarmi troppo al mio avversario, mi condussi con le spalle contro una delle colonne in onice nera, così da dargli l’impressione di avermi messo con le spalle al muro.
Quando questo si slanciò in avanti, mi scansai di lato, lasciando che la lama di Seshamaru penetrasse nella colonna, restando bloccata, giusto il tempo per afferrare una delle torce ivi appese e scagliarla con precisione contro il mio avversario.
L’Imparatore Oni fu costretto a indietreggiare, lasciando l’arma conficcata nella colonna, ma finendo comunque con l’essere ustionato dalle ceneri e dai lapilli verde smeraldo provocati dalla torcia, che si conficcarono letali negli occhi, facendoli sfrigolare in modo decisamente sinistro mentre, con un grido di agonia, si portava le mani al viso, accasciandosi a terra dal dolore.
Mi fermai, annaspando stremato, e portandomi istintivo una mano alla gamba, che, a dispetto della ferita lieve, continuava a sanguinare, e in modo anche abbastanza insistente e fastidioso.
Lo osservai, avvicinandomi a lui lentamente, e osservando disgustato quell’essere prima così arrogante e pieno di sé.
Il volto, ridotto ormai a un ammasso scuro e fumante, era totalmente deturpato. Le fiamme avevano scavato la carne senza pietà, fondendola senza fermarsi e bruciando in larga parte anche la chioma prima magnifica, per poi procedere letali lungo tutto il busto.
Ormai, non rimaneva che l’ombra della figura bellissima che era un tempo.
Fissai, serio, quella creatura ormai sconfitta, al che dissi: “E’ finita. Siete stato sconfitto.”
Quello mi fissò, le orbite vuote che mi sondavano l’animo, quindi sorrise. In mezzo a quella pozza di sangue nero e rappreso, sentii quasi il cuore gelarmisi nel petto, mentre la risata roca e disperata di lui riecheggiava nella stanza, mentre rispondeva, in preda al delirio: “Certamente, uccidimi pure, giovane principe. Ma non uscirete MAI di qui. Pensavi veramente che fossi così sciocco da non avere un piano di riserva? Le Porte del Naraka sono sigillate, puoi anche ammazzarmi, ma per quanto potente possa mai essere il tuo Karisuma, non tornerai mai a Shukai – Shi e, con la tua scomparsa, alla fine la razza umana sarà comunque condannata!”
Mi bloccai, fissandolo, incapace di credere a quelle parole.
Digrignai i denti, mentre l’ira prendeva possesso del mio animo.
Lo osservai, carico di disprezzo poi, senza attendere oltre, conficcai Yoosenmaru nel suo cuore.




Note dell'Autrice:
Ebbene, ecco a voi il nuovo capitolo.
Sorpresi?
Può darsi, spero tuttavia che, con questo colpo di scena finale, la vostra curiosità non si esaurisca e possiate godervi appieno anche il prossimo, e temo ultimo, capitolo della storia.
Durante questa breve parte, abbiamo fatto molte scoperte. Ryujin e Hitomi hanno finalmente iniziato a riallacciare quel legame che pensavano ormai perso, sono giunti a Orochi e qui hanno fatto la spiacevole scoperta sulla reale natura di Shenlong. E, ovviamente, sono giunte anche le scazzottate, col nostro carissimo Imperatore Oni ... che diciamocelo, è proprio un figo da paura (anche se probabilmente Ryu non sarebbe d'accordo).
Quindi che dire ... passo subito alla pubblicazione del prossimo capitolo.
Prima, però, un breve ringraziamento a EragonForever, per le sue generosissime recensioni, e per tutti coloro che hanno amato questa storia e continuano a seguirla. 
Detto questo, alla prossima!

Teoth

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - Il Karisuma ***


CAPITOLO IV – IL KARISUMA




Non avrei mai immaginato che il Passaggio avrebbe potuto essere tanto doloroso.
Gemetti, stramazzando al suolo, mentre un dolore atroce, quale non avevo mai provato prima, mi invadeva le membra, impedendomi di vedere, si sentire … o anche solo di pensare. Sentivo il sangue ribollirmi nelle vene, mentre un’energia gelida e ardente al tempo stesso mi attraversava le membra, inebriandomi i sensi e tormentandomi la mente.
Sentii, lente, le mie parvenze umane svanire, le carni lacerarsi, i muscoli piegarsi e modellarsi a nuova forma. Le ossa schioccarono, dolorose, mentre la fragile pelle mortale lasciava lentamente spazio a un’armatura rossa come il tramonto, spessa e lucente, di squame dal profilo tagliente e seghettato. Sentii, con una chiarezza quasi sconcertante, il mio corpo mutare, i capelli color dell’oro trasformarsi in una possente criniera, che andò ad avvolgermi il collo per poi scendere giù, lungo quella spina dorsale sempre più affusolata e dai tratti sempre meno umani e più rettilinei.
I muscoli schioccarono, lasciando spazio a una creatura persino più possente e immensa di ciò che ricordavo essere mio padre, mentre le membra scattanti da rettile si muovevano sinuose e le corna si torcevano, fino a trasformarsi in un’imponente corona a dodici palchi, in oro, così come la criniera e il resto del corpo.
Così come gli occhi che, quando li riaprii, si soffermarono silenziosi su quella stanza improvvisamente piccola e stretta, e sullo sguardo stupito e ammaliato di Hitomi.
Abbassai lo sguardo, a osservare quel corpo non più mortale, assaggiando quelle membra così cariche di potere che, lo sentivo, avrebbero potuto facilmente radere al suolo l’intera Orochi se solo lo avessi desiderato. Ma, soprattutto, di soffermarono su quella gemma, tonda e lucente che brillava elusiva sul mio petto, intrisa di un potere più profondo, di una nuova consapevolezza di me stesso, che aveva cambiato per sempre.
Il mio Karisuma.
Ne osservai, quasi commosso, quasi incerto, quelle sfumature color acquamarina, così simili agli occhi di lei che, per la prima volta, mi resi realmente conto di come se non fosse stato per il suo aiuto probabilmente non avrei nemmeno potuto essere lì in quel momento.
Sorrisi, tra me e me, ripensando alle parole che mi aveva rivolto Makoto, al ritorno dal suo, di Passaggio.
Ryu, i 100 Oni della leggenda non sono ciò che realmente consente a un Naga di entrare tra i Mille. Essi, sono solo un pretesto, un misero rituale, che non ha nulla a che vedere con ciò che, realmente, permette a noi Naga di raggiungere quella nuova consapevolezza di noi stessi che solo il Karisuma ci concede. Il viaggio che compiamo per ottenerlo, i dubbi e le incertezze, le continue sfide e le notti insonni, ci mettono di fronte a una sfida con noi stessi, e solo dopo averla superata possiamo dire di essere, veramente,dei Naga. Solo superando le nostre paure e accettando i nostri difetti senza “ma” e senza “se”, possiamo finalmente ottenere quella forma perfetta che tutti ci invidiano. E allora … nessun demone, nessun potere e nessuna forza potrà mai essere paragonata alla soddisfazione di aver, finalmente, compreso quale sia il nostro posto nel mondo.
E aveva perfettamente ragione.
Grazie a Hitomi, ero finalmente riuscito ad aprire gli occhi, a comprendere ciò che realmente avrei dovuto fare di tale potere. A vedere, per la prima volta dopo anni, quando fossi stato sciocco nell’isolarmi da tutto e da tutti, temendo quei legami che, invece, le avevano permesso di starmi accanto nonostante le sfide del destino.
Lei, più di ogni altro, mi aveva dimostrato come, in quel mondo in cui eravamo destinati a vivere, non ci fosse solo odio e rancore. Col suo amore, sempre dedito e fedele, mi aveva permesso di comprendere che ognuno aveva il diritto di essere amato e che, alla fin fine, l’immortalità di noi Naga non ci rendeva, per questo, migliori degli umani, anzi.
Proprio in virtù della loro vita breve, quelle creature apparentemente così deboli e indifese cercavano sempre di vivere la propria esistenza al meglio. Alzandosi sempre e comunque, facendo dei legami e del numero la loro forza, appoggiandosi gli uni agli altri, così da superare anche i momenti più bui. Consapevoli che, insieme, nessuna sfida sarebbe mai parsa troppo difficile.
Sorrisi, alzando il capo verso il soffitto, silenzioso.
Sentii Hitomi avvicinarmisi, con un timore quasi reverenziale che, a dire il vero, per un istante mi fece stringere il cuore.
La osservai, triste, nel constatare come, ormai, dovessi apparirle troppo lontano e irraggiungibile per essere anche solo desiderato.
Forse, finché mi ostinavo a rimanere in forma umana, poteva anche esserci qualcosa nel nostro futuro, ma ormai sapeva bene quanto me come, una volta tornato a corte, avrei dovuto prendere in mano i miei doveri. E lasciarla indietro.
Mi sarei trovato una moglie, della mia specie, e allora lei sarebbe rimasta sempre a osservarmi, lontana, ma comunque fedele, e rimpiangere quella felicità che non le sarebbe mai appartenuta realmente.
Purtroppo, dubitavo che vi saremmo mai risaliti, in superficie.
Il Passaggio per il Naraka era stato sigillato, e non c’erano altre vie che permettessero di tornare in superficie.
Nessuna che sia mai stata tentata.
Osservai sorpreso la gemma, mentre quella voce, ormai parte di me, mi sussurrava suadente all’orecchio.
Scossi il capo, incerto.
È impossibile … sono solo leggende.
Pensai … eppure … eppure … se davvero ci fossi riuscito?
Questo è quello che direbbe Ryujin. Il vecchio,  Ryujin. Ora, però, lui è morto. E questo nuovo Ryujin ha una motivazione per continuare a vivere. O, quantomeno, per far vivere lei.
Osservai silenzioso Hitomi che, il capo chino e le gote arrossate d’imbarazzo, attendeva silenziosa una mia parola.
La amo.
Quella consapevolezza mi sconvolse.
Per la prima volta, me ne resi realmente conto.
Fino ad allora, non ero mai riuscito a pensare seriamente a quell’alternativa. Eppure, dopo ciò che aveva fatto, dopo i giorni trascorsi assieme, lentamente, la sua dolcezza era riuscita a fare breccia nel mio animo, a illuminare nuovamente quel buco vuoto e nero che era divenuto il mio cuore in quegli anni.
Sospirai … ormai, adesso che avevo realizzato i miei reali sentimenti per lei, era solo questione di tempo, prima che tutto tornasse come prima.
Avrei perso il mio Karisuma, e, con esso, anche la possibilità di trarla in salvo.
Annuii, tra me e me, poi, silenzioso, mi preparai …
Avrei aperto un Varco per la superficie.

 
“N-no … i-io … sai bene che non voglio lasciarti.”, gli occhi di Hitomi erano coperti di lacrime mentre, disperata, mi osservava tremante, dopo aver sentito la breve spiegazione di ciò che avrei voluto fare.
Tuttavia, ormai, niente avrebbe più potuto farmi tornare sui miei passi.
Ero perfettamente consapevole di quanto disperata fosse la nostra situazione, e, ormai, conoscevo troppo bene i miei limiti per poter anche solo sperare di portarci in salvo entrambi.
Confidavo nel mio Karisuma, e sentivo che, se lo avessi voluto, non avrei affatto faticato ad aprire un Varco Artificiale per la superficie. Purtroppo però, e ne ero perfettamente consapevole, non sarei mai stato in grado di tenerlo spalancato per il tempo sufficiente affinché ambedue potessimo trarci in salvo.
Solo uno sarebbe tornato a casa.
E, se dovevo scegliere, allora quel qualcuno doveva essere lei.
Non avrei mai potuto sopportare di perderla, e, ora che l’Imperatore Oni era stato sconfitto, non vi era più nessuna reale minaccia che potesse oscurare l’orizzonte luminoso che, speravo, gli esseri umani avrebbero potuto raggiungere anche senza di me.
Privi della loro guida, gli Oni, per natura particolarmente propensi al caos e al tradimento, avrebbero finito con lo sfaldarsi da sé, e anche se Shenlong fosse salito al trono, poco avrebbe importato cosa avrebbe deciso di fare.
Conoscendolo, ero sicuro che, senza più una guerra da combattere, avrebbe fatto esattamente ciò che aveva sempre sognato di fare: vivere la propria vita, senza preoccuparsi di combattere in nome d’altri, e senza, altresì, curarsi più di quella specie che, ormai, non vedeva altro che come una razza debole e inferiore.
Quindi, poco avrebbe importato se fossi rimasto chiuso, per il resto della mia eternità, nel sottosuolo.
Hitomi avrebbe continuato a vivere … certo, probabilmente, il suo amore le avrebbe impedito di dimenticarmi, perseguitandola per il resto dei suoi giorni.
Almeno, però, avrei saputo che lei era al sicuro, che poteva proseguire con la propria vita, che poteva ancora inseguire i propri sogni. E tanto bastava.
Sorrisi, tristemente: “Ormai ho deciso, ti farò tornare in superficie. E io resterò qui.”
Lei mi guardò, le lacrime agli occhi, singhiozzando disperata e cercando invano di sfiorarmi la zampa. Tuttavia, mi imposi di non guardarla, altrimenti tutta la mia determinazione sarebbe venuta meno, e non potevo assolutamente permettermelo.
Già così, la sola idea di perderla di nuovo mi stava letteralmente dilaniando il cuore. L’avevo appena ritrovata, e la consapevolezza che non l’avrei più rivista, che la nostra felicità non era stata che un miraggio provvisorio, mi faceva impazzire dal dolore. Ma non potevo indugiarvi troppo, non potevo fermarmi su certi pensieri, altrimenti avrei rischiato di perdere ogni determinazione, e allora sarebbe finita per sempre.
Così, mi costrinsi a fare quell’unica cosa che, forse, avrebbe potuto spingerla ad andarsene.
Probabilmente, avrebbe passato il resto della sua esistenza a odiarmi.
Se però questo era il prezzo per salvarla, allora sarei stato ben felice di pagarlo. Anche se farlo mi sarebbe costato uno sforzo enorme e, probabilmente, avrebbe finito con lo spezzarmi il cuore una volta per tutte.
Scostai la zampa, imprimendo nelle mie iridi l’espressione più fredda e glaciale che potessi elaborare. Per un’ultima volta, richiamai a me tutta forza e la disperazione che mi avevano portato a erigere quel muro tra me e il mondo, ricorrendovi, questa volta, non per difendere il mio cuore ma per salvaguardare lei.
Sbuffai, mentre i miei occhi la perforavano, più crudeli che mai, e quelle parole che, ne ero certo, non avrebbe mai scordato mi uscivano di bocca, precise e letali: “Hitomi, io non ti sto CHIEDENDO di andare, te lo sto ORDINANDO.
Come tuo signore e padrone, tu farai ciò che ti ho chiesto. Quando partimmo, dicesti che mi avresti protetto, che mi saresti sempre rimasta accanto, e così hai fatto. Mi hai protetto e incoraggiato anche quando io stesso non avrei avuto la forza di rialzarmi, da solo, e sei stata disposta persino a sacrificare la tua innocenza, senza alcuna garanzia di essere ricambiata, pur di farmi sopravvivere. Ora, però, le cose sono cambiate. Grazie a te, ho finalmente aperto gli occhi, e proprio per questo, mi rifiuto di prendere anche solo in considerazione l’idea di perderti di nuovo!!!”, esclamai, mentre, silenzioso, radunavo tutta quell’energia millenaria che, lo sentivo, ormai era parte di me.
Osservai determinato il soffitto, pronto a sfidare ogni legge della natura, a bruciare tutta la mia forza vitale se fosse stato necessario, pur di portarla in salvo.
Sentii quel corpo nuovo scattare, repentino e possente, mentre un’energia mai provava prima, un potere illimitato e incommensurabile mi incendiava il petto e le vene. Sentii il mio Karisuma rifulgere, di una luce tale da invadere non solo quella sala, ma la capitale intera, facendo indietreggiare terrorizzati gli Oni che, in preda al terrore di fronte a tutto quel potere dalla natura tanto differente dal loro, iniziarono a sparpagliarsi terrorizzati in cerca di riparo. Quasi come se l’ira degli dei si stesse apprestando a cadere impietosa sul loro capo.
I miei occhi brillarono, illuminati da una scintilla di determinazione che mai avevo provato prima, mentre spalancavo le fauci e, con un ruggito che per poco fece tremare il terreno stesso, una vampa di fiamme incandescenti si scagliò rapida e potente verso il soffitto.
Il soffio scarlatto fuse completamente il tetto, per poi avanzare, letale e impietoso, per miglia e miglia sopra il nostro capo, lasciandosi dietro una scia di scintille incandescenti, fino a quando, con un rombo assordante, non sentimmo quella realtà dimensionale tremare, scossa da quell’onda di potere mai combattuta prima.
Un live silenzio, poi, con un tremolio lieve, l’intero Naraka venne scosso da un fremito inatteso, mentre un ponte di luce, Luce Terrestre, si formava ai nostri piedi, congiungendo la Sala del Trono al mondo esterno.
Annaspai, sfinito, le membra scosse dallo sforzo e il capo imperlato di sudore.
I miei occhi si spostarono nuovamente su Hitomi, che osservava tentennante quell’unica via di fuga.
Sospirai, stringendo i denti, nello sforzo di mantenere aperto quel portale e, prima ancora che lei potesse voltarsi per rispondere alle mie parole, le spinsi deciso col muso nel mezzo del fascio di luce.
Lei mi guardò, disperata, cercando invano di raggiungermi mentre, poco a poco, il passaggio la sollevava da terra, pronto a ricondurla in quel luogo a cui era sempre appartenuta. Ma che, inevitabilmente, l’avrebbe separata da me per sempre.
La osservai, sorridendo tristemente.
“Ti prego …”, dissi, mentre il cuore mi si stringeva, nel vedere le lacrime disperate di lei, “… non odiarmi per questo. Mi hai salvato da una vita che, altrimenti, non avrebbe nemmeno avuto realmente la pena di essere vissuta. Mi hai guarito dalla sfiducia che mi aveva sempre spinto a diffidare degli altri, pensando sempre e solo a me stesso. Ma, soprattutto, mi hai insegnato ad amare. E proprio per questo non posso permettermi di privarti della possibilità di continuare la tua esistenza.”, per la prima volta, sentii che erano i miei occhi a imperlarsi di calde lacrime mentre, sorridendo appena, ammettevo, il capo chino, “Perché si … Hitomi. Io mi sono innamorato di te. E sono stato uno sciocco a non comprendere prima i tuoi sentimenti nei miei confronti. Tuttavia, se solo potessi perdonarmi, allora, potrei anche morire in pace, sapendo che, almeno, nel tuo cuore ci sarà sempre uno spazio per me. Anche se, dopo questa confessione, dovessi perdere per sempre il mio Karisuma. Non me ne pento, se è questo il prezzo del poter finalmente realizzare quali siano i miei sentimenti per te, sarò ben felice di pagarlo.”
La osservai, e mentre, ancora con le lacrime agli occhi, la sua figura si allontanava sempre di più, sentii qualcosa spezzarsi.
Il mio sguardo si abbassò, triste, verso quella gemma che possedevo da così poco.
E fu mentre osservavo le crepe iniziare a invaderne la superficie perfetta che, in un rombo di grida e urla furiose, un plotone di guardie oni fece irruzione nella stanza, circondandomi su ogni lato.
Chiusi gli occhi, pronto ad accettare il mio destino a braccia aperte.

 
Era finita.
Ormai, la mia fine non poteva essere più vicina.
Gemetti, rialzandomi, nonostante tutto e nonostante tutti, ancora una volta.
Era bastato che ammettessi il mio amore, a me stesso e a lei, che nemmeno pochi istanti dopo avevo sentito il mio Karisuma iniziare a sgretolarsi.
Lentamente ma progressivamente, vidi la gemma color acquamarina, unico ricordo ancora vivo di quella donna che mai avrei potuto rivedere, andare in pezzi, sgretolandosi come neve al sole sotto i miei occhi angustiati ma carichi di rassegnazione.
Come se non vi fossero mai state, le squame che ricoprivano il mio corpo, prima ardenti di purpureo fulgore, vennero spazzate via dal mio corpo, abbandonandomi in un turbinio vago e indistinto di sfumature color tramonto, e lasciandomi così come ero sempre stato.
Eppure, quando mi sentii circondare da tutte quelle guardie, sapevo fin troppo bene come, nonostante tutto, avrei continuato a combattere. Anche se, in quella forma ormai mortale, non avrei potuto sopravvivere che per pochi istanti, anche se, ormai, avevo perso qualsiasi potere che prima potesse permettermi di tenere loro testa con estrema facilità.
Quando mi furono addosso, gridando in preda all’ira nel vedere il corpo sconfitto e martoriato del loro sovrano ai miei piedi, fu con sguardo di fiamma che li accolsi a me. Raccogliendo, ancora una volta, la mia Yoosenmaru.
E apprestandomi allo scontro.
Combattei … non so per quanto tempo con esattezza.
La sola cosa che so era che, in quel momento, la mia tristezza, la mia disperazione e la mia rabbia erano tali da impedirmi anche solo di pensare.
Il vuoto lasciato dalla partenza di Hitomi mi corrodeva il petto, rendendomi impossibile riflettere lucidamente. Ma, d’altra parte, non era che me ne potesse mai importare moltissimo … finché avessi potuto affogare il mio dolore nel combattimento, poco avrebbe importato.
Gridai, alternando colpi su colpi senza fermarmi nemmeno per un istante, facendo susseguire affondi a rapide ritirate, per poi partire nuovamente alla carica.
Inaspettatamente, potei constatare, le mie capacità con la spada rimanevano, nonostante la forza ormai umana, quelle di un tempo. E l’esperienza mi permise, quantomeno, di ucciderne una dozzina buona prima di trovarmi con le spalle al muro.
Annaspai, mentre l’asta di una naginata nemica mi spingeva contro una delle pareti della sala, e la vista mi si annebbiava per un secondo.
Ormai, il corpo era costellato di tagli e ferite, lividi e graffi. La veste era ormai completamente rovinata, l’oro della seta imbrattato dal vermiglio del sangue, mentre un gocciolio sommesso mi accompagna a ogni passo.
Alzai nuovamente lo sguardo, osservando, irato, i miei nemici, mentre stringevo compulsivamente la mia Yoosenmaru.
La osservai … anche nel furore dello scontro, conservava la sua bellezza. Perfetta e sublime, unico ricordo di quell’amore che mi avrebbe permesso, sempre e comunque, di rialzarmi e brandirla con onore, senza più vergognarmi dei sentimenti che ormai sapevo di provare verso colei che me l’aveva donata. Il mio sguardo si spostò, istintivo, poco più in là, dove i frammenti del mio Karisuma giacevano, spenti e polverizzati, a terra.
Tuttavia, strinsi i denti. Non importava che non fossi più un Naga, non importava che non possedessi più quella dannati sima gemma, o che non potessi più scuotere il mondo con la sola forza del mio ruggito.
Dopotutto, se possedere un Karisuma significava solo accedere a una forma superiore, e rincretinirsi a causa del potere che dava, come d’altronde era accaduto a mio zio, ne potevo anche fare a meno. E ben volentieri.
Makoto aveva ragione, il Carisma è qualcosa di diverso che del semplice potere. E, anche quando si viene banditi, lo si conserva per sempre.
Il viaggio che avevo compiuto, assieme a Hitomi e dentro me stesso, mi aveva fatto aprire gli occhi su ciò che realmente valeva la pena di proteggere. Ora che lo sapevo, non mi sarei mai tirato indietro, nemmeno di fronte a nemici cento, mille o un miliardo di volte più potenti di me.
Avevo qualcuno per cui valeva la pena vivere, e se il Karisuma non era semplice potere, ma risiedeva nel cuore delle persone, allora non lo avrei mai perso realmente.
Lo pensi davvero?
Alzai il capo, perplesso, senza comprendere cosa stesse accadendo.
Ormai, doveva essere spezzato quindi, perché sentivo ancora quella voce?
Potresti abbandonare tutto. Nessuno ti garantisce che una volta tornato in superficie tu possa essere in grado di proteggerla, e prendere quel posto che ti spetta di diritto. Sarebbe moto più semplice fermarsi qui, non credi?
Un luccichio.
Il mio sguardo si posò nuovamente sulla gemma, i cui frammenti mi osservavano silenziosi da lontano.
Corrugai le sopracciglia, tetro, poi sorrisi, come, d’altronde, mi ero abituato a fare anche di fronte alle situazioni più disperate e assurde.
Io? Mollare qui? Per chi mi hai preso? Dovessi pure perdere sia le braccia che le gambe, continuerò a combattere … c’è gente che vuole rivedermi, non posso nemmeno PENSARE di mollare!
Silenzio.
Ebbene, in questo caso, ti accompagnerò ancora una volta.
Un boato sconvolse la stanza, propagandosi fino nelle profondità più remote del Naraka, mentre un turbine impetuoso mi piegava a terra e l’intera città veniva spazzata via, come se non fosse mai esistita. Tra le grida disperate degli Oni, sentii quell’energia che credevo svanita tornare, diversa, mutata, più consapevole ma, anche, in un certo tempo più fragile.
Vedi i frammenti della gemma fondersi con quell’oggetto che, ormai, era divenuto l’emblema stessa del mio legame con Hitomi, con quella strada che mi ero scelto e che ero disposto a percorrere al suo fianco.
Le mie fattezza rimasero quelle di un mortale, ma il mio Karisuma si fuse una volta per tutte con la mia spada, e mi bastò anche solo sollevarla per sentire il Naraka fremere e contorcersi dal dolore. Fino a collassare su sé stesso.

 
Ancora oggi, mi chiedo cosa dovessero avere pensato quei poveretti quando, quel mattino ormai lontano, mi videro emergere, sporco e sputacchiante rimasugli informi di terra, dal suolo.
Effettivamente, di cose, allora, ne accaddero veramente parecchie.
L’ondata di potere causata dal ritorno del mio Karisuma, che seppure si era fuso con Yoosenmaru, non per questo mi aveva concesso nuovamente la mia precedente forma, o l’antica immortalità, rase completamente al suolo il Naraka.
Nemmeno un istante, e tutti gli Oni ivi presenti furono letteralmente spazzati via, con una facilità che, per essere sincero, forse in altre occasioni mi avrebbe fatto andare in brodo di giuggiole, ma allora mi inquietò non poco. Comunque, bastò un mio solo cenno, perché un’intera specie giungesse alla sua fine … e va bene che, come avrete capito, non amo certo essere modesto, ma posso assicurarvi che è proprio tutto vero.
Booom.
E tutti caddero per terra.
Privata delle creature per cui era stata eretta, la Dimensione Demoniaca stessa non potè che collassare su sé stessa, crollandomi letteralmente addosso e costringendomi a stringere i denti e raccogliere le ultime energie per scavarmi a mano un varco per la superficie.
Sopra di me, ovviamente, anche gli umani si accorsero che qualcosa non andava.
La distruzione del Naraka aveva scosso nelle fondamenta l’equilibrio naturale di Ayumu stessa, e quando anch’essi compresero cosa fosse accaduto, fu con immenso stupore che, nel cratere creato dall’apertura del portale che aveva condotto in salvo Hitomi, poterono vedere emergere anche me. Certo … forse con un po’ meno stile.
Visto che riemersi, sputacchiante e imprecando in tutti i modi possibili e immaginabili, proprio nei pressi della dimora di Makoto ove, a seguito del fascio di luce causato dal ritorno di Hitomi, sia lui che tutti gli abitanti del villaggio vicino si erano radunati per vedere cosa stesse accadendo.
Alzai il capo, mentre, ancora attoniti e incapaci di proferire parola, i presenti mi fissavano a bocca aperta.
Tra tutti, la mia attenzione, però, era incentrata solo su loro tre.
Potei vedere Hitomi singhiozzare, disperata, tra le braccia di Makoto.
Evidentemente, doveva avergli raccontato cosa fosse successo in sua assenza, e ora mio fratello la osservava, tristemente rammaricato, mentre Aiko cercava invano di accarezzarle dolcemente la schiena, per consolarla.
Quando mi videro emergere, arrossii, senza sapere bene cosa dire. Insomma, in una sola settimana, io e lei eravamo andati a letto assieme, le avevo detto di amarla (quando, per tutto quel tempo, non aveva mai realmente sperato di poter essere ricambiata allo stesso modo) e poi l’avevo costretta a mettersi in salvo, abbandonandomi nel Naraka.
Il tutto senza fare una piega.
Visto che però ero miracolosamente sopravvissuto (lei successivamente sostenne che era perché “L’erba cattiva non muore proprio mai”), mi aspettavo, per lo meno, un bell’abbraccio.
O un bacio.
Sorrisi, quasi come se, in realtà, non fossi appena emerso da una dimensione mezza distrutta, con i vestiti lacerati e tutta l’aria di uno che ha appena tirato su un casino incredibile.
Poi, arrivò lo schiaffo.
Voltai la testa di lato, massaggiandomi sorpreso la guancia arrossata, mentre gli occhi ricolmi di lacrime di lei mi fissavano, furiosi.
Cercai di dire qualcosa, ma, alla fine, non riuscii proprio a trovare di che parlare.
Quindi abbassai il capo, colpevole, in attesa della sfuriata.
Che non tardò certo ad arrivare.
“TU!”, eccola, lanciai un’occhiataccia a Makoto, che sorrideva divertito alla scena, poco lontano, “SEI UN’IMMENSO DEFICIENTE, RYUJIN! Si può sapere che diamine ti è passato per la mente? Hai idea di come mi sia sentita? Spero per te che tu abbia delle OTTIME  scuse, altrimenti, Ser Ti-amo-ma-te-lo-dico-solo-ora-che-sto-per-schiattare, posso assicurarti che, amore o non amore, col cavolo che diventerò tua moglie! Anzi … puoi scordarti pure di venire a letto con me, per quel che mi riguarda, io sciopero!”
La osservai, scandalizzato, mentre Makoto mi osservava, con l’aria compassionevole di chi ci è già passato, e sa bene cosa significhi.
“Aspetta un attimo!”, risposi, per poi riprendere, “E che cavolo … sono appena riemerso da un viaggio di miglia e miglia di terra, vermi e cose che non starò a descrivere. Ho fatto fuori una razza intera e raso al suolo una dimensione, e tutto perché volevo rivederti, ed è così che mi accogli? Grazie tante, eh!”
“La prima lite di coppia, crescono così in fretta.”, altra occhiataccia verso Makoto.
I miei occhi si spostarono nuovamente su di lei, in attesa.
Inaspettatamente, però, non disse altro.
Un istante dopo, era tra le mie braccia, ancora in lacrime, certo, ma, almeno, da come le sue labbra cercarono, quasi istintivamente, le mie, dovetti per lo meno credere che mi avesse perdonato. Sorrisi, assaporando in silenzio quell’aroma di pesche e ciliegia, gustandomi quel momento perfetto prima che, seppure a  malavoglia, mi staccassi da lei con un sospiro.
Osservai Yoosenmaru, ferma al mio fianco, poi il mio sguardo si spostò nuovamente su Makoto, che annuì.
C’era ancora una cosa che dovevo fare.
“Il tuo tappeto è già pronto … gli abbiamo apportato alcune modifiche, sarai alla Città Celeste in meno di pochi minuti.”, disse, inespressivo.
Sentii Hitomi sfiorarmi la mano, apprensiva, tuttavia le sorrisi, rassicurandola.
Poi, tornai a fissare mio fratello.
Non sapevo bene cosa dire, per cui tentai: “Senti … per quello che è successo …”
“Non importa.”, alzai lo sguardo, sorpreso, incontrando le iridi color lapislazzuli di lui, “Va bene. Hitomi mi ha raccontato tutto, sappiamo cosa hai fatto nel Naraka. Ora, però, devi partire. È giunta voce che Tianlong è morto … a quest’ora, nostro zio avrà già preso il trono. E tu devi assolutamente impedirglielo.”
Annuii, quindi, con un lieve bacio sulle labbra di lei, balzai agile sul tappeto, diretto, finalmente, a casa.

 
Attraversai il Palazzo di Giada con passo di marcia, del tutto incurante degli sguardi sorpresi di coloro che, vedendomi, constatavano, non senza una punta di biasimo, come non fossi minimamente cambiato.
Quasi potevo sentirli, a ridere di come, alla fine, non fossi nemmeno riuscito a ottenere il mio Karisuma. Sorrisi, tra me e me, immaginandomi che faccia avrebbero patto se fossero venuti a conoscenza della verità dei fatti.
Tuttavia, ormai, non m’importava più cosa pensassero le persone.
Avevo una faccenda da portare a termine, e che dicessero pure quello che preferivano.
Io avrei parlato con mio zio, e l’avrei fatto pentire molto amaramente di essersi spinto così oltre.
Quando raggiunsi l’ingresso della Stanza degli Specchi, feci un rapido cenno alle guardie che vi erano di fronte di ritirarsi.
Mi osservarono, perplesse, ma qualcosa (probabilmente il luccichio sinistro che Yoosenmaru, grazie al mio Karisuma, aveva prodotto nel percepire la loro reazione), li convinse che sarebbe stato molto meglio non discutere e farsi da parte.
Quindi, entrai, avvicinandomi a passi pesanti verso il lato opposto della sala, dove un Shenlong visibilmente sconvolto leggeva in silenzio quello che pareva essere una specie di missiva.
“No … non ci credo, è totalmente assurdo. Il Naraka …”, mormorava, al che sorrisi, interrompendolo.
“Eh, già … che disgrazia, non trovi? Pare proprio che sia collassato su sé stesso. Una grandissima perdita, senza ombra di dubbio. Specialmente per chi, come te, contava sull’appoggio dei demoni per liberarsi di un fastidioso terzo incomodo. Nevvero, zietto?”
Gli occhi argentei di lui si alzarono, fissandosi, glaciali, su di me.
Sorrisi, con tutta la strafottenza di cui ero capace, senza nascondere nemmeno un briciolo della soddisfazione che provavo nel vederlo tanto sorpreso di notare come fossi (disgraziatamente per lui) ancora vivo e vegeto.
Sorrise, letale, e giuro … in quel momento avrei sul serio desiderato staccargli quel brutto muso e suon di randellate: “Ryujin … che è successo? Credevo fossi partito per ottenere il tuo Karisuma.”
Lo osservai, irritato: “Non fare il finto tonto, sappiamo entrambi che sei stato tu a chiedere all’Imperatore Oni di farmi fuori. Purtroppo per te, è stato lui a rimetterci le penne. Che peccato, ora non potrai portare a termine il tuo piano.”
Quello alzò un sopracciglio, poi scoppiò a ridere: “Tu, uccidere Seimei? Non farmi ridere! Innanzitutto, se così fosse ora non avresti certo quelle deplorevoli sembianze mortali. E poi, anche fosse, dubito che un fallito, un nullafacente e una delusione pubblica come te possa mai possedere una Karisuma che si definisca tale.”
Scoppiai a ridere, divertito: “Seimei? Quindi è così che si chiamava, quell’ermafrodito dal culo di donna? Effettivamente, non ne sono nemmeno così sorpreso. Comunque, posso assicurarti che è tutto vero … e se, grazie al cielo, ho abbandonato le fattezze di Naga, è solo perché sono riuscito in un impresa che nemmeno tra un milione di anni tu potresti raggiungere. Visto il cuore nero e freddo che ti ritrovi.”
Quello si fermò, sorridendo, carico di biasimo: “Non mi dire, quindi, alla fine, ti sei realmente innamorato di lei? Patetico … avresti potuto perseguire un futuro grandioso, e invece hai gettato tutto all’aria per una futile umana.
Dimmi, che hanno mai fatto loro, per noi? Mentre i nostri soldati continuavano a morire, sul Fronte Occidentale, che cosa facevano gli umani per ripagarci? Se ne stavano nelle loro case, quei codardi! A farsi parare le spalle da altri! E noi avremmo dovuto seriamente combattere per difenderli, noi, che avremmo potuto dominare il mondo intero, inchinarci di fronte a essere così deboli e miserabili? Non farmi ridere! Non mi pento affatto di quello che ho fatto per ottenere il trono.
Quando partisti, capii subito che, con la tua indole sciocca e impudente, non avresti mai perso tempo ad attraversare lo Shirosa Baku. Quindi, ho contattato l’Imperatore Oni, chiedendogli di sigillare il Portale, e toglierti di mezzo … in cambio, io gli avrei permesso di fare quello che preferiva di Ayumu, e avrei ottenuto quel trono che tu, al mio posto, mai saresti stato in grado di gestire. Grazie a me, finalmente i Naga avrebbero ottenuto ciò che era loro di diritto, e sarebbero stati liberi! Alla fine, poco importa cosa facciano i nostri uomini, quando si narrerà delle mie gesta, sarò stato io ad aver fermato questa guerra”, lo osservai, incredulo, mentre proseguiva, “E’ sempre stato così, e così sarà sempre. Sono i re a vincere le guerre, nipote, non i soldati!”, esclamò, per poi sospirare, calmandosi.
Osservò la mia spada, socchiudendo appena gli occhi: “Solo una domanda mi sorge. Come mai, se il Naraka è andato distrutto, tu sei ancora qui? Come umano, non avresti potuto avere il potere per trarti in salvo.”
Sorrisi, sfoderando la mia Yoosenmaru.
Vidi i suoi occhi raggelarsi, nel notare la gemma color acquamarina, che brillava ostile sulla lama nera della mia katana. Feci spallucce, come se nulla fosse: “Beh, sai … non è che m’importi molto di essere una lucertolone grande e grosso. Non sarà certo perché non posso mostrare le zanne che il mio Karisuma svanirà. Ormai, dovresti saperlo … il Carisma non è solo potere.”
Quello scoppiò a ridere, dicendo: “Davvero credi a quello che dici? Non sarai così sicuro di te, quando ti avrò ucciso!”
Lo guardai, incredulo, poi scossi il capo, tristemente: “Io mi fidavo di voi. Per me, eravate come un mentore, ma ora che vi osservo, non vedo altro che un essere spregevole e senza cuore, immeritevole di ogni genere di stima o affetto.
Io, mio padre, i membri della corte. Tenevamo a voi, siete stato, per lungo tempo, stimato a apprezzato da tutti, anche quando lasciaste la carriera militare e iniziaste a viaggiare, tutti erano pronti a giurare senza esitazione sulla vostra buona fede. Certo, conoscevo bene come, come me, anche voi sopportaste male la situazione della nostra specie, e per questo vi sentivo più vicino di quanto facessi con molti altri. Ma arrivare persino a ordire alle spalle del proprio fratello, della propria famiglia e della propria specie. Mi avete deluso, zio. Avete deluso tutti noi.”
Quello mi osservò, gelido, poi sbuffò, ridendo divertito: “E pensi davvero che m’importi qualcosa del vostro biasimo? Nessuno verrà mai a sapere cosa sia successo, perché tu morirai qui, e con te, anche quella sciocca della tua amata!”
Mi irrigidii, osservandolo ostile, poi, sorrisi.
Se credeva realmente che gli avrei dato vita facile, si sbagliava di grosso.

 
Quando, dopo soli pochi minuti di lotta affiatata, finalmente riuscì a comprendere come, a dispetto delle fattezze mortali, potessi comunque tenergli testa, mio zio perse completamente il senno.
Fino ad allora, era stato sempre convinto che, senza quella forma di cui andavamo tanto orgogliosi, noi Naga non valessimo che niente. Ed ora, invece, si trovava ad affrontare un avversario che non solo aveva perso tale fattezze, ma non era che un ragazzo, un umano, un mortale, di quelli che aveva sempre odiato a disprezzato.
Eppure, per quanto, tra ruggiti furiosi e fiammate verdi e incandescenti, cercasse invano di colpirmi, Yoosenmaru era sempre lì, pronta a difendermi, creando un muro impenetrabile che mi proteggesse dalle fiamme, per poi sgretolarsi sotto la mia avanzata implacabile.
I miei colpi si susseguivano, precisi e letali, uno dopo l’altro, senza lasciargli margine di manovra che non fosse continuare a indietreggiare, sempre più con le spalle al muro.
Fu con un ultimo, deciso colpo che, infine, immersi la lama nella gemma color argento incastonata sul suo petto.
Mi osservò, tremante, e per la prima volta da quando l’ebbi conosciuto potei vedere nei suoi occhi una scintilla di autentico terrore.
“T-ti prego … non puoi … i-io … sono tuo zio.”, lo osservai, freddo e indifferente.
Poi sospirai: “E’ vero, siete pur sempre un mio consanguineo. E per questo non vi ucciderò … tuttavia, rimuoverò per sempre questo Karisuma, di cui non siete minimamente degno, dal vostro corpo. Vivrete una vita da mortale, così come avrebbe sempre dovuto essere … e forse, allora, potrete comprendere ciò che realmente avete perso, tradendo per sempre la fiducia mia e di tutti coloro che vi amavano.”
Affermai. Quello tremò, incapace di credere alle mie parole, mentre la gemma incastonata sul suo petto si sgretolava, e in un turbinio di squame color dello smeraldo quelle fattezze da rettile svanivano nel nulla, lasciandosi alle spalle niente di meno che un uomo spaurito e indifeso.
Osservai, inespressivo, gli occhi coperti di lacrime di lui, che, in preda alla follia, gridò: “No … tu, non mi farai questo! Mi rifiuto di vivere un’esistenza simile … piuttosto, preferisco morire!”
Non feci in tempo a fermarlo, un istante dopo, si era gettato sulla mia katana.
Spirando.

 
Quando, pochi istanti dopo, i membri del Consiglio fecero irruzione nella Sala del Trono, e mi trovarono in quello stato, fu in silenzio che, sebbene a malavoglia, mi feci condurre docilmente nelle segrete.
Dopotutto, non potevo certo biasimarli.
Loro non sapevano nulla del tradimento di Shenlong, né della sua cospirazione con l’Imperatore Oni, o di come avessi sconfitto quest’ultimo e fatto collassare il Naraka.
Quindi, ai loro occhi, quando, entrando nella stanza, mi avevano visto reggere il corpo ormai privo di vita di mio zio, non avevano potuto che fare uno più uno.
Tuttavia, quando, alcuni giorni dopo, venni condotto presso il Tribunale, accompagnato da Hitomi e Makoto, e furono costretti ad ascoltare, sorpresi, la mia spiegazione, non poterono che credermi.
D’altronde, la voce sul collasso della Dimensione Demoniaca si era sparsa fin troppo in fretta, facendo sopraggiungere Naga da ogni lato del mondo, per verificare come, quando e perché ciò fosse accaduto. Con la distruzione del Naraka, tutti i demoni, sia quelli che vi abitavano che quelli sul Fronte, erano svaniti nel nulla, quasi come non vi fossero mai stati, e le voci su quel giovane emerso dalla terra proprio laddove era avvenuto il tutto di erano presto parse per tutta Ayumu.
La guerra era finita, e tutto a causa mia.
Per esserne sincero, io stesso stentavo a crederci.
Quindi, alla fine, non restò loro che decidere cosa fare di me.
Riconoscendo come, comunque, avessi dimostrato di essere degno del mio nome, alla fine il Consiglio dei Mille convenne che non necessitavo di alcuna punizione.
Dopotutto, era già tanto che avessi perso per sempre la possibilità di tornare a vivere presso Shukai – Shi, divenendo un mortale a tutti gli effetti e rinunciando definitivamente tanto alle mie pretese al trono quando a un posto tra i Naga.
Per quel che li riguardava, era una punizione più che sufficiente per bilanciare ciò che avevo fatto.
Così, io a Hitomi tornammo ad Ayumu.
E non solo.
Ormai privi dello scopo che li aveva condotti fino a quella dimensione mortale, anche i Naga poterono, alla fine, fare ritorno alla loro terra natia.
Ricordo ancora come, quel giorno, i cieli si aprirono, mentre un fascio di luce calda annunciava come, finalmente, le porte del Nirvana, la loro terra natale, si fossero nuovamente aperte per accoglierli.
Finalmente, dopo secoli e secoli d’attesa, i Naga avrebbero potuto fare ritorno in quella casa che, per tutto quel tempo, avevano sempre agognato di rivedere. Quella dimora senza tempo né spazio, a cui i loro cuori erano sempre rimasti legati, ora apriva le sue porte a loro e, ora, potevano farvi ritorno.

 
Fu da quel giorno che, ad Ayumu, le cose cambiarono per sempre.
Ormai liberi dai vincoli e dai timori, vidi gli esseri umani rialzarsi dalle proprie polveri, e procedere, finalmente, verso quel futuro glorioso di cui, per tutto quel tempo, non avevo mai dubitato potessero far parte.
Ed è con mio immenso piacere, e onore, che posso affermare con convinzione del ruolo che ebbi nel guidarli e accompagnarli.
Una volta scomparsi i Naga, fu a me che si rivolsero.
Riconoscendomi come colui che li aveva salvati, mi chiesero di divenire il loro sovrano, e accompagnarli quindi per quel percorso che, assieme, ci avrebbe condotti fin dove siamo ora.
Lentamente, gli esseri umani si rialzarono.
Uniti, impararono a costruire nuove città, sempre più grandi ed evolute. Crearono uffici e scuole, costruendo una cultura che si potesse finalmente definire tale, erigendo palazzi e luoghi di culto, finalmente liberi da ogni costrizione e capaci di afferrare il proprio destino con mano propria.
Confidenti sul fatto che, assieme, nessun traguardo sarebbe mai parso troppo lontano.
E io fui lì, ogni volta, a osservare sorridente i loro progressi, accompagnato da quella donna che mi aveva aperto gli occhi che, solo pochi mesi dopo gli eventi qui narrati, divenne finalmente mia moglie (il che, quando non era nei suoi “periodi” fu per me motivo d’immensa gioia).

 
Quindi, eccola qui.
La mia storia. Anzi, la NOSTRA storia.
Immagino che, a questo punto, vi starete chiedendo cosa successe poi a me e Hitomi.
Beh, ovviamente (come avrete dedotto nel sentirmi raccontare delle mie incredibili doti di esemplare maschio etero e sessualmente attivo) avemmo tanti piccoli pargoletti.
Assieme, governammo per molti anni, poi, raggiunta una certa età, lasciammo il trono ai nostri figli.
Ormai, sono passati quasi settant’anni da quei giorni.
Eppure, a volte, mi sembra ancora come se fosse ieri …




Note dell'Autrice:
Eccoci infine arrivati al capolinea.
So che è stato un viaggio breve, ma, nonostante questo, ormai vi confesso che Ryujin, così come Hitomi, Makoto e gli altri, erano diventati un po' come una parte di me.
Spero che questo racconto abbia potuto, seppure per poche ore, trasportarvi ad Ayumu, fianco a fianco con quei personaggi per i quali ho faticato tanto ma che, alla fine, mi hanno pienamente soddisfatta. E chissà ... magari, un giorno, potrei anche dedicare un piccolo spazio per un bello spin-off ... chi lo sa.
A voi piacerebbe?
Comunque, per ora inserirò, come promesso, anche il glossario finale. Tutti i termini col segno "*" sulla cima sono lì ripresi con la dovuta spiegazione, e troverete anche qualche piccola chicca di cultura orientale, che spieghi il perchè ho scelto proprio alcuni nomi o riferimenti piuttosto che altri. Certo, sono delle minuziosità, ma spero possiate comunque apprezzarle.
Termino questa nota ringraziando, ancora, le due giudice per i quali contest questo racconto è stato scritto. EragonForever per le sue recensioni e KakashiNoSharingan per gli assidui consigli.
Detto questo, spero di sentire presto i vostri commenti, per qualsiasi cosa, sono sempre a disposizione!!!

Teoth

 

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Capitolo 5
*** Glossario ***


GLOSSARIO




Nomi
 
Ryujin: Protagonista del racconto. È l’Erede al Trono di Shukai – Shi e figlio di Tialong, successivamente, si scopre che all’inizio la corona sarebbe spettata al fratello maggiore. Si innamorerà di Hitomi.
La scelta del nome è stata fatta facendo riferimento a un noto Dragone Giapponese, di nome appunto Ryujin.
Hitomi:  Ancella di Ryujin e sua amica d’infanzia. Venne abbandonata dai genitori a causa del colore dei suoi occhi, che seppur bello e raro tendeva ad attirare gli Oni. È segretamente innamorata di Ryujin sin da quando erano bambini e lo accompagnerà nel suo viaggio.
Il nome sta a significare “Pupilla dell’Occhio”. Solitamente viene dato a fanciulle dagli occhi particolarmente belli, ma nel suo caso il significato è duplice: seppur magnifici, i suoi occhi color acquamarina rappresentano, infatti, anche la sua condanna.
Tianlong: Imperatore Dragone. Più che un vero e proprio nome, si tratta di un nominativo che viene dato ai Naga di Stirpe Reale quando salgono sul trono (infatti all’inizio della storia Ryujin si presenta con tale cognome, in quanto il padre è a quel tempo ormai deceduto).
Secondo il folklore cinese, Tianlong era una Dragone col compito di sorvegliare le città celesti, ma rappresentava anche l’omonima costellazione.
Shenlong: Similmente a Tianlong, anche questo nominativo non è tanto un nome vero e proprio quanto un epiteto conferito a particolari individui. Viene associato, solitamente, al fratello minore dell’imperatore, che assume all’interno dell’esercito un ruolo di guida.
Secondo il folklore cinese, Shenlong era una Dragone del Tuono.
Isao: Amico d’infanzia di Ryujin e Generale della Settima Divisione. È più giovane dell’amico, per cui all’inizio della storia non ha ancora ottenuto il proprio Karisuma.
Il nome significa, letteralmente, “Onore” o “Merito”. Scelta dovuta al carattere incredibilmente devoto del giovane verso i propri doveri di Naga, ben differente da quello dell’amico.
Makoto: Fratello maggiore di Ryujin ed Ex Erede al Trono. Dopo essersi innamorato di un’umana, perde la propria natura di Naga e il proprio Karisuma, venendo definitivamente cancellato dall’albero genealogico di famiglia. Inizialmente, infatti, parrebbe che Ryujin sia il solo figlio dell’Imperatore Drago.
Il nome significa, letteralmente, “Amore” e “Gentilezza”. Si scrive con lo stesso kanji di Aiko, a simboleggiare la loro “unione” anche nel nome, e fa riferimento alla sua scelta di abbandonare tutto e all’indole gentile e serena.
Aiko: Compagna di Makoto. Non si sa molto del suo passato, solo che a causa sua l’altro perse la propria natura di Naga e il proprio Karisuma. Dopo aver lasciato il proprio posto a Shukai – Shi, i due andarono a vivere assieme.
Il nome significa, letteralmente, “Amore” e “Gentilezza”. Si scrive con lo stesso kanji di Makoto, a simboleggiare la loro “unione” anche nel nome, e fa riferimento al sentimento che li lega e all’indole gentile e serena.
 
 
Luoghi, Oggetti e Razze
 
Akai Sabaku: O Cimitero dei Naga. Letteralmente significa “Deserto rosso”, nome dovuto al particolare colore delle sue sabbie. Si tratta di una distesa desertica, dai vapori notoriamente letali per i Naga, che separa il Namida no Kawa da Orochi, la Capitale degli Oni. È meno esteso dello Shirosa Baku ma la sua traversata è molto più pericolosa.
Ayumu: Sta a indicare tutta la terra in cui è ambientato il racconto, anche se nello specifico si riferisce di solito alle terre dei mortali.
Città delle Ossa: Unica altra città presente nel Naraka. Si trova nello Shirosa Baku.
Consiglio dei Mille: Un modo come un altro per indicare in maniera generica tutti i Naga che hanno conseguito il proprio Karisuma. Per ovvi motivi, il “Mille” è puramente indicativo, in quanto non si sa con esattezza quanti siano i Naga di età adulta presenti ad Ayumu.
Drago Vorace: Casa di Piacere più rinomata di tutta Shukai – Shi, caratterizzata dal fatto di offrire delle meretrici unicamente umane.
Elette: Fanciulle vergini che accompagnano i Naga nel Naraka, in quanto solo esse possono orientarvisi all’interno.
Era della Notte Eterna: Periodo antecedente all’arrivo dei Naga, quando ancora gli esseri umani vivevano nel terrore e nella disperazione di essere divorati dagli Oni.
Fronte Occidentale: Area di guerra a Ovest di Ayumu, in cui si consuma il millenario conflitto tra Naga e Oni.
Gake no Sasayaki: Letteralmente, “Rupe dei Sussurri”, così chiamata per il suono che fa il vento quando sfiora le fronde dei suoi alberi. È il luogo in cui si trova il Portale che conduce al Naraka.
Guardiano: Figura a cui viene affidato il compito di aprire il portale che conduce i giovani Naga nel Naraka. Può anche essere umano.
Kage no Heigen: Letteralmente, “Pianura delle Nebbie”. È il luogo in cui è situata Orochi.
Karisuma: Letteralmente, “Carisma”. Fisicamente si presenta come una grossa gemma di dimensioni variabili incastonata sul petto di Naga in forma draconica. È il centro del loro potere, ma rappresenta anche la loro capacità di comando, le loro virtù e la dote che permette a un Naga di imporsi sugli altri e farsi seguire dalle masse.
Naga: Dragoni giapponesi. Possono vivere per migliaia di anni, e sono immuni alla maggior parte delle malattie. Fino al 777° Anno di Vita possiedono l’aspetto di esseri umani particolarmente avvenenti, poi, ottenuto il proprio Karisuma, mutano fino a prendere la classica forma di drago dei Naga adulti.
Namida no Kawa: Letteralmente, “Fiume di Lacrime”. Il nome è devoto ai lamenti dei dannati che si sentono da sotto le sue onde impetuose. È un corso d’acqua che separa l’ingresso del Naraka dall’Akai Sabaku a Sud e dallo Shirosa Baku a Nord.
Naraka: Dimensione Demoniaca. È la patria natia degli Oni e può essere raggiunta solo dal Portale. È  quasi totalmente deserta, in quanto gli Oni che la abitano si concentrano unicamente in due centri abitati, ossia la Città delle Ossa e Orochi.
Secondo la religione buddhista, il Naraka è la dimensione in cui vengono condannate le anime dei peccatori, e si divide, solitamente, in Naraka Freddo e Caldo. Questa duplicità viene mostrata nella storia dall’Akai Sabaku e dallo Shirosa Baku, uno un deserto torrido e l’altro una landa ghiacciata.
Nirvana: Dimensione originaria dei Naga. Non si sa molto sulla sua struttura o conformazione, solo che si tratta di un universo totalmente a parte, così etereo e irraggiungibile da apparire quasi un miraggio remoto.
Secondo la religione buddhista, il Nirvana rappresenta il fine ultimo della vita, che permette di accedere alla liberazione da tutte le sofferenze.
Oni: Demoni dalle sembianze solitamente umanoidi, sebbene per il resto possano avere caratteristiche fisiche anche molto differenti tra di loro.
Orochi: Capitale del Naraka. Si trova nell’Akai Sabaku, e diversamente dalla Città delle Ossa è composta, essenzialmente, da un imponente palazzo in stile giapponese, ben più piccolo e meno popolato dell’altro centro abitato. È separato dall’esterno da una cinta muraria, non possiede molti sistemi difensivi (visto che, comunque, gli Oni sono perfettamente consapevoli di come sia praticamente impossibile per i Naga superare il Deserto Rosso) ma solo qualche plotone di guardie ben armate.
Passaggio: Un modo come un altro per definire il processo che vede un Naga intraprendere il proprio viaggio a caccia dei 100 demoni per ottenere il suo Karisuma.
Palazzo di Giada: Palazzo Reale di Shukai – Shi, così chiamato per il materiale utilizzato nella sua costruzione.
Portale del Naraka: Portale Dimensionale situato nella Terra della Notte, sorvegliato notte e giorno dal Guardiano. Può essere aperto solo con la magia ed è la sola via di accesso al Naraka.
Shirosa Baku: Letteralmente, “Deserto Bianco”. Si tratta di un’immensa distesa ghiacciata, che separa la Città delle Ossa dal Namida no Kawa. È molto più esteso della controparte calda, e la traversata, sebbene meno pericolosa, può impiegare anche mesi, se non anni.
Shukai – Shi: Letteralmente, “Città del Cielo”. È la sede dei Naga e si trova sospesa a miglia e miglia da terra, sulle nuvole.
Stanza degli Specchi: Un modo come un altro per definire la Sala del Trono, così chiamata per gli specchi d’oro alle sue pareti.
Terra della Notte: Luogo in cui si trova la Gake no Sasayaki, e quindi anche il Portale del Naraka. Prende il nome dal fatto che in tale regione è quasi sempre notte, fatta eccezione per pochissime ore pomeridiane.
 
 
Definizioni
 
Ecco qui alcune definizioni con immagini (puramente indicative) riguardo alcuni oggetti o strutture tipicamente orientali che ho deciso di inserire all’interno del racconto.
Con allegata qualche piccole informazione tecnica per i più amanti dell’argomento ;)
Yukata: Tipo particolarmente informale di kimono, utilizzato solitamente nel periodo estivo o, alternativamente, durante le festività.
I colori tradizionali sono il viola, il rosso e l’indaco, tuttavia se ne possono trovare anche di altri. Le maniche, specialmente per le donne, tendono a essere più lunghe e larghe del kimono, mentre il materiale più usato è il cotone, che fa respirare meglio la pelle. È infatti un abito estivo.

Kimono: Indumento tradizionale giapponese, quello femminile può essere composto anche da dodici parti, quello maschile da cinque, le quali vanno indossate e ripiegate secondo procedimenti specifici (per intendere, spesso indossarlo richiedeva il supporto di almeno un’altra persona).
I colori più utilizzati sono quelli scuri, come il blu, il verde, il marrone o il nero. Solitamente sono confezionati in seta, ma si possono trovare anche in cotone o satinato. Solitamente a maniche corte o medio lunghe. È più pesante dello yukata.

Obi: Fusciacca o cintura, indossata in vita su kimono e yukata per tenerne le varie parti legate.

Geta: Tradizionali sandali giapponesi tra gli zoccolo e gli infradito, solitamente indossati in compagnia di kimono o yuakata. Possono essere portati con o senza calzini.
La base è in legno, con un infradito in stoffa a separare l’alluce dall’indice.

Waraji: Tradizionali sandali giapponesi fatti di corda di paglia. Le fibre vengono intrecciate tra di loro, fino a formare la calzatura, che può essere fatta di vari materiali, come canapa o cotone.

Katana: Spada tradizionale giapponese.
Sebbene siano in pochi a saperlo, come arma è relativamente corta, infatti solitamente non supera i 60 cm di lunghezza (se è più lunga non si tratta di una katana, ma di altri tipi di armi tradizionali che portano altri nomi). Possiede un filo unico e una forma lievemente incurvata.

Kusarigama: Combinazione tra una falce corta e un peso, tenuti legati da una catena in acciaio.
Una combinazione parecchio pericolosa, il peso serviva per bilanciarla, la falce per colpire gli avversari e la catena per immobilizzarli. Se poi la si faceva roteare … beh, erano cavoli amari.

Naginata: Simile a una lancia, poteva raggiungere anche i 200 cm e possedere, eccezionalmente, la lama da ambo le parti del bastone in legno. Solitamente tale lama era lievemente ricurva e a filo unico.

Bo: Bastone da combattimento giapponese, lungo 180 cm.
Era costruito in legno cavo o eccezionalmente anche con il bambù.

Bokken: Spada in legno da allenamento, tuttavia, vista la fattura resistente e pesante, i più esperti potevano usarlo anche in combattimento.

Tanto: Pugnale giapponese, simile, alla fin fine, a una mini katana.
Era meno resistente, ma poteva essere comunque usato in combattimento.

Porte Torii:  Tradizionale portale d'accesso giapponese che porta ad un santuario scintoista o, più semplicemente, ad un'area sacra. La sua struttura elementare è formata da due colonne di supporto verticali e un palo orizzontale sulla cima e frequentemente viene dipinto in colore vermiglio. Tradizionalmente sono fatti di pietra o legno, segnalano il passaggio a una vita migliore e solitamente si trovano in gruppi da tre o più.

Pagoda: Torre costituita da diversi piani ciascuno dei quali dotato di un proprio tetto a falde spioventi con gli spigoli inferiori curvati verso l'alto, generalmente di forma quadrangolare o ottagonale.
Sembrerà anche assurdo, ma solitamente sono costruite interamente in legno.

Sanmon: Porta d’ingresso dei tempi buddhisti.

Kodo: Luogo in cui, nei tempi buddhisti, si tengono le scritture.
Qui, l’ho reinterpretato, trasformandolo in uno degli edifici notabili di Orochi.
Kondo: Luogo in cui, nei tempi buddhisti, si tengono le statue della divinità.
Qui, l’ho reinterpretato, trasformandolo nella sede principale dell’Imperatore Oni.
Jishi: Statue in pietra o giada, raffiguranti degli ibridi tra un leone e un cane.
Solitamente si trovano in coppia, l’una, a fauci aperte, invita la buona fortuna a entrare, l’altra, a fauci chiuse, tiene fuori le minacce.

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