⚡ B la c k Fla g

di Ibuki Satsuki
(/viewuser.php?uid=1024362)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ❚❚ Queen ***
Capitolo 2: *** ❚❚ The Clash ***
Capitolo 3: *** ❚❚ Def Leppard ***
Capitolo 4: *** ❚❚ Millencolin ***
Capitolo 5: *** ❚❚ Bon Jovi ***



Capitolo 1
*** ❚❚ Queen ***


Black Flag





 
❚❚ Queen - Don't Stop Me Now

«I'm burnin' through the sky yeah
Two hundred degrees
That's why they call me Mister Fahrenheit
I'm trav'ling at the speed of light»



 



 

Adrien Agreste era sempre in ritardo. Sembrava che il tempo fosse un'unità di misura completamente al di fuori della sua dimensione di realtà. Gli orologi, in camera sua, erano orpelli privi di significato. I quali, una volta fermatasi la batteria, avrebbero potuto giacere anche settimane, in quell'asettica stasi. Limitandosi a segnare l'orario esatto per sole due volte al giorno. Ma a lui non importava. L'unica unità di tempo che pareva contare, per il ragazzo, era la durata media di una canzone. Egli impiegava la musica come strumento per prendere coscienza dei minuti che scorrevano. Riusciva a ragionare solo in termini di brani. Si riteneva in perfetto orario, quando impiegava un'unica traccia per giungere in università, o almeno tre per arrivare al garage di casa Kwami, dove provava con la sua band tre volte a settimana.
Al di là della sua bizzarra scansione temporale, Adrien Agreste era la personificazione speculare di ciò che si potesse trovare nel suo iPod. Indossava abiti rigorosamente neri e dal gusto elegante o maltrattato, a seconda dell'umore del momento. Le sue unghie erano spesso mangiucchiate, dipinte dello stesso colore delle piume di corvo; con qualche scheggia color carne qui e lì, a causa della velocità con cui pizzicasse le corde del basso o della foga con cui usasse picchiare le bacchette sui tamburi della batteria, di quando in quando. Gli occhi, grandi, dal taglio felino e le iridi smeraldine; erano, quando si esibiva, cerchiati da una spessa linea di eyeliner. Facendoli risaltare ancor di più, soprattutto quando il cosmetico tendeva a scendere lievemente al di sotto della palpebra, donandogli un'aria sfatta e vissuta, di lancinante ed immortale bellezza. I suoi amici non riuscivano a ricordare quale fosse stata, l'ultima volta che lo avessero visto con abiti in sfumature differenti da quelle dell'ebano. Non ne era in grado egli stesso, di ricostruire quell'immagine così lontana dal suo essere attuale.
Sapeva solo che, a dodici anni, suo cugino Andrew gli avesse fatto ascoltare per la prima volta un brano dei Queen. Si chiamava "Headlong". L'aveva sparato a tutto volume in camera sua, nel pieno della sua fase rock di ribellione adolescenziale, attirandosi il piccolo ed affascinato ragazzino sulla soglia della porta. Che lo guardava strabiliato, mentre lui si contorceva sul letto a riprodurre l'assolo di chitarra, sentendosi una vera celebrità. A Adrien era parso, in quel momento, di udire l'essenza stessa della musica, negli accordi di Freddie Mercury. Ebbe la stessa epifania che sperimentavano solitamente le persone, nel sentire i componimenti classici per la prima volta. Era rimasto fermo, in piedi, con gli occhioni spalancati e le labbra dischiuse, in completa fascinazione. Nel momento in cui il lettore musicale aveva slittato a "The Show Must Go On", il bambino era quasi scoppiato in lacrime, per quanto bella ed eterna gli fosse parsa, quella canzone.
Da quel momento in poi, la sua vita aveva ricevuto un'unica e decisiva impronta: quella della musica. Il giovane aveva continuato ad ascoltare quei brani di classica gloria, ampliando i propri orizzonti e scoprendo, a sedici anni, il mondo del metalcore. Lì, sentì di essere finalmente a casa. E con quel sentimento, compì una metamorfosi definitiva. Si costruì una sorta di alter ego, dietro il quale confezionare tutti i lati più sensibili del proprio carattere, celandoli al di là dell’ombra di una maschera; una sicurezza per certi versi fittizia, ma che gli permise di crescere. I colori degli abiti nel suo guardaroba iniziarono a digradare inevitabilmente verso il nero; la frangia sulla fronte si fece più piena e delineata, gli occhi cominciarono a vestirsi di una sottile linea scura, lungo tutto il contorno della palpebra inferiore. I lobi delle orecchie vennero lentamente forati in più punti, fino a contare ben otto piercings ciascuno. Ne aggiunse anche uno sulla nuca, un anellino al lato destro del labbro inferiore e un'ultima, subdola sferetta sulla lingua. I suoi amici presero a chiamarlo “Chat Noir”, gatto nero. E quel nomignolo divenne anche la propria firma distintiva, quando si avventurava nelle banlieues, per riempire muri fatiscenti con i brillanti colori delle sue bombolette. Suo padre aveva a lungo combattuto contro quella tendenza di riottosità adolescenziale così pronunciata, arrendendosi finalmente quando il giovane ebbe compiuto la maggiore età. Notando, con sommo dispiacere, che i suoi adorati amichetti di titanio o metallo fossero ancora lì. E che lui non avesse alcuna intenzione di separarsene.
Lentamente, impararò ad accettare quell'ombra silenziosa che si muoveva per casa, sopportando la sua musica potente a qualsiasi ora del giorno e della notte; abituandosi a sentirlo imprecare quando ingoiava accidentalmente una pallina del piercing sulla lingua, o nei momenti in cui le sferette sulla nuca s'impigliavano nei maglioni. Fece il callo ai quantitativi sempre minori di epidermide eburnea priva d'inchiostro sul corpo del suo unico figlio, provando invece a lasciarsi coinvolgere da quell'interiorità così vasta e, in qualche modo tormentata. Si fece spiegare il significato del termine giapponese "yuugen", che lui avesse tatuato sul polso sinistro in eleganti ideogrammi d'ebano. Sollevò un sopracciglio, sentendolo spiegare che "la coscienza stessa dell'universo è in grado di generare delle risposte, nell'animo umano, di una vastità tale da non essere in grado di trovare rappresentazione alcuna nelle parole". Accettò la propensione che quel ragazzo vestito di tenebra avesse, per la musica e per il canto. Finì per volergli bene anche più di prima, a causa di tutte le piccole caratteristiche che, vivendo in una società come quella in cui loro fossero calati, avrebbero finito per precludergli molte strade. Ma, ancora, a lui sembrava non importare. Metteva le cuffiette nelle orecchie, lasciava partire i Queen e il mondo ricominciava a girare nel verso giusto.
Seduto alla fermata dell'autobus, tenendo il ritmo della batteria battendosi le palme sulle cosce, non sembrava minimamente infastidito dall'idea che la sua lezione di letteratura inglese sarebbe cominciata in meno di dieci minuti, e del mezzo pubblico non si scorgesse neanche l'ombra. Nella sua mente, lui era Freddie Mercury e stava stringendo un microfono, saltando da un tavolo all'altro di un salotto anni '90, urlando "don't stop me now". Poco ci mancava che non iniziasse a cantare a squarciagola, afferrando il palo della luce poco lontano dalla pensilina, gridando "call me mr. Farenheit" al vento, lanciandosi in un virtuosistico acuto alle due del pomeriggio d'inizio marzo.
Le occhiatine di biasimo che una coppia di signore piuttosto anziane gli riservarono, scivolarono sul suo scuro giubbotto di pelle come le lievi gocce di pioggia primaverile. Perché, in perfetto contrasto con il suo aspetto dark ed intimidatorio, nel profondo lui era pur sempre un comunissimo ragazzo di vent'anni. Adorava i film comici, giocare ai video games e suonare con i suoi amici. Quella parte più oscura e sensibile di lui, emergeva solamente quando componeva o si ritrovava a passeggiare per le viuzze di Parigi alle quattro del mattino, raccogliendo materiale per i suoi testi, partendo dalle emozioni che la strada e i suoi abitanti fossero in grado di suscitargli. Era una persona complessa, Adrien Agreste. Articolata e dalle migliaia di sfaccettature proprio come un brano dei Queen, la sua band preferita di tutti i tempi. Grazie all'abitudine di appiccicarsi tutto quel nero indosso, era riuscito a diluirlo dalla sua stessa anima.
Quando si rese conto che l'autobus fosse finalmente giunto alla fermata, si sollevò dalla pensilina, recuperando il suo zaino scuro ed issandoselo sulle ampie spalle, lasciandolo pendere solo dalla destra. Si accomodò ad uno dei posti in fondo, incollando lo sguardo al finestrino, mentre nel suo iPod Vic Fuentes si succedeva a Freddie Mercury. Sentendosi trasportato in una dimensione più tagliente e sicuramente meno lontana nel tempo. Osservò il traffico pomeridiano scorrergli sotto lo sguardo, mentre i pendolari riempivano i loro tempi morti con chiacchiere vuote, discutendo delle condizioni meteo o delle abitudini dei propri familiari. Adrien teneva il tempo con il piede, battendolo ritmicamente sul pavimento dell'automezzo, senza perdere un colpo. Attese che l'autobus svoltasse e s'immettesse in una stradina secondaria, costeggiando un centro abitato. E, come d'abitudine, scorse sempre la stessa ragazza sfrecciare in skateboard, muovendosi in linea parallela al mezzo pubblico.
Quella scena, era la medesima che si ripeteva ogni settimana. Tanto, che il biondo avesse perfino dato un soprannome a quella figura, per certi versi anche comica, che gli capitasse di scorgere. L'aveva chiamata "Coccinella" senza un motivo apparente. Forse perché gl’indumenti che le vedeva addosso, avevano sempre a che fare con il rosso ed il nero. E poi, gli suonava bene. Trvoava che le si addicesse. Così, aveva deciso di tenerlo. Tutti i mercoledì pomeriggio, Coccinella sfrecciava sulla sua tavoletta, condividendo il tragitto con l'autobus per quasi cinquanta metri, prima di svoltare in una traversa. E, nonostante quella familiarità quasi quotidiana che li legasse, Adrien non era mai riuscito a vedere il volto di quella ragazza.
La giovane aveva dei lisci capelli d’ebano, che le ricadevano sulla fronte e la schiena stretta in maniera disordinata, scomposti dal vento nonostante i due codini bassi in cui tentasse, senza successo, di disciplinarli. Portava sempre delle enormi cuffie Beats alle orecchie e vestiva in maniera sgangherata; con largo dispendio di camice a pois, top attillati, jeans rattoppati e Vans bucate. Il perfetto stereotipo della skater da rampa al parco di periferia. Sicuramente, nello zainetto nascondeva anche qualche bomboletta spray. Il biondo era divertito, da quella singolare figuretta in equilibrio sulla tavoletta. La sentiva così distante da se stesso, da essere convinto che non si sarebbero mai e poi mai parlati. O che, se mai avessero dovuto farlo, il contrasto sarebbe stato talmente stridente, da indurli a detestarsi reciprocamente in tronco.
Lanciò un'ultima occhiata a Coccinella, osservandola piegarsi leggermente sullo skate e prendere la solita curva, sparendo nel vicolo, mentre il suo autobus procedeva dritto. Allora, distolse lo sguardo, riportandolo sulle sue ampie mani nodose, smanettando con l'iPod per cambiare canzone. Chiedendosi distrattamente che aspetto potesse mai avere, quella giovane. E cos'altro facesse, nella vita. A parte condividere alcuni secondi con la sua esistenza, senza neanche saperlo.


 





 


✿ Ibuki's little letter:  eccomi anche qui! Ultimamente salto da un fandom all'altro come se fosse una disciplina olimpionica...! Dunque, vi consegno questa storia, alla quale sono molto legata per tutta una serie di motivi, facendo i dovuti disclaimers: i protagonisti sono tutti maggiorenni ed hanno età diverse. Per esempio, Nino è più grande di Adrien e anche Nathaniel. Inoltre, il nostro Chat Noir è qui presentato in una versione molto particolare, pieno di piercings e tatuaggi! I Kwami sono umani, da come noterete nei capitoli successivi. Inoltre, il linguaggio sarà sempre abbastanza esplicito (ecco anche perché il rating arancione, oltre alle differenti tematiche trattate). Essendo la prima volta che scrivo su Miraculous, è probabile che i personaggi vadano un po' OOC... in caso, vi prego, fatemelo notare!! La storia sarà narrata in terza persona, ma il focus rimarrà sempre su Adrien e Marinette. I capitoli sono divisi secondo questa sequenza: artisti glam rock/metal/emo-hardcore per Adrien, alternativi/rap/indie per Marinette! I disegni all'inizio, sono tutte stampe dell'artista Banksy.
Penso di avervi detto tutto, credo... come di consuetudine, ringrazio in anticipo chiunque passerà a dare un minuto del proprio tempo a questa long! Sappiate che i vostri pareri sono sempre ben accetti, anche per rendermi conto di come procedere, o nel caso ci fossero accorgimenti da correggere! Alla prossima (?)


 



 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** ❚❚ The Clash ***


Black Flag






 
❚❚The Clash - Complete Control
«Ooh ooh ooh someone's really smart
Ooh ooh ooh complete control, that's a laugh»



 


 

Marinette Dupain-Cheng aveva ricevuto un soprannome, dalla sua comitiva del park. La chiamavano “Ladybug”, termine inglese per indicare la parola “coccinella”. Il quale, era stato impietosamente rubato al nome della famosa supereroina dell’universo fumettistico. E lei si era talmente affezionata, a quelle otto lettere, da aver deciso d’impiegarle come tag personale; decorando i muri della periferia con gli stessi, disordinati, caratteri colorati. Lasciando dunque un’impronta indelebile del proprio passaggio, in diversi vicoletti disastrati. La storia, dietro quel nome, era buffa e per niente inusuale. Non aveva compiuto alcuna grande impresa o azione leggendaria, per ottenerlo. Si era semplicemente limitata a sfrecciare così velocemente sul suo skateboard, per non perdere la lezione pomeridiana di letteratura, da aver attraversato un semaforo con il rosso. Raggiungendo il marciapiede giusto un istante prima che le macchine riprendessero la propria corsa, evitandosi l’ospedale per un soffio. Veloce come il vento. Meglio di una coccinella in volo. Quando l’aveva raccontato in giro, con la sua classica ingenuità, gli amici avevano quasi avuto una crisi respiratoria, per il troppo ridere. Perché quell’azione era così propria del suo carattere, da risultare ilare.
La ragazza non aveva idea di cosa fosse il pericolo. Non era una variabile considerata, nella sua realtà. Il cervello di quella giovane procedeva su dritte linee di calcoli, pianificando qualsiasi mossa al millimetro, senza lasciare nulla al caso. Perfino quell’episodio da cui fosse nato il suo soprannome, era stato passato al vaglio da svariati e complessi computi, tutti cerebrali. Ella aveva semplicemente analizzato la situazione, cercando di elaborare il giusto algoritmo che le fornisse una soluzione adeguata. Giungendo alla conclusione che, se avesse sfruttato la velocità del proprio corpo, piegandosi in un certo modo e distribuendo il peso secondo un’altra particolare maniera, sarebbe riuscita ad attraversare indenne. E così era stato.
Marinette Dupain-Cheng era un genio della matematica. La studentessa di cui i docenti, al liceo, avevano paura. Perché trovare un errore sul suo compito, sarebbe equivalso ad una loro svista, non alla sua. Quegli esercizi erano precisi ed impeccabili, proprio come lei. Le cui orecchie si rifiutassero di ascoltare scorrettezze numeriche e non accettavano le spiegazioni approssimative o eccessivamente semplificate. Tant’era, che ella finisse spesso per correggere i docenti direttamente a lezione, alzandosi dal banco e raggiungendoli alla lavagna. Spezzando un pezzettino di gesso e iniziando a scrivere con la mano sinistra, invadendo lo spazio del frustrato insegnante di turno, seccato dall’impudenza di una comunissima ragazzina. Lo stesso professore che, a dimostrazione terminata, si sarebbe infilato le mani nei capelli, istupidito dinanzi alla mole di calcoli che una mente così giovane fosse stata in grado di elaborare.
Per Marinette era tutta questione di cifre, da sempre. Lo era stata da bambina, quando aveva formulato un’espressione che le permettesse di tener su un castello di carte con svariati piani, senza colpo ferire. Medesima situazione al liceo, quando aveva suggerito al playmaker della squadra scolastica di lanciare la palla da basket un millimetro più a destra del canestro, mandando all’aria un’occasione d’oro per vincere la partita. Ottenendo la scusa adatta per farlo mettere in panchina e potersi dunque sedere accanto a Nathanaël Kurtzberg, il senior per cui aveva preso una cotta. L’unico momento in cui i suoi calcoli sfuggivano alla disciplina, era quando ascoltava la musica. Riusciva a ridurre in cifre solo le sonate di Bach. Ma a lei non piacevano poi così tanto. Adorava l’indie americano, quelle sonorità movimentate che strizzavano l’occhio al pop; si divertiva a sentire le svariate storie di gioventù sgangherata di cui i cantanti parlavano, suonando la loro chitarra. Oppure le storie tormentate dei rappers della scena underground internazionale, senza fare distinzioni di lingua. Le piacevano anche le atmosfere che gruppi come gli XX o artisti sul genere di Flume riuscissero a creare, trasportandola in dimensioni così diverse dalla propria. La quale fosse talmente strutturata e solidamente definita, da venirle spesso a noia.
Andare sullo skateboard, disegnare graffiti ed ascoltare la musica, costituivano le sue uniche vie d’uscita alla rigida prigione di numeri che il suo cervello costruiva di volta in volta per lei, senza che ella lo chiedesse. Sfrecciare sulla tavoletta e compiere quegli articolati e bizzarri salti, le permettevano di beffarsi della fisica. Diversi “ollie”* e superfici da grind* facevano a cazzotti con il suo buonsenso matematico. Spingendola automaticamente a lanciarsi nell’impresa, col sorriso sulle labbra e le ginocchia sbucciate, le mani sporche di polvere. A volte, le pareva che cadere e farsi male fosse l’unico modo per sentirsi viva. Si lasciava giacere sul pavimento grezzo del park, abbastanza lontana dalle rampe per non infastidire gli altri skaters, troppo impegnata a bruciarsi la retina per guardare il cielo ad occhio nudo.
I suoi familiari le davano della “strana”. Marinette era più che strana. Era un frammento vagante della stessa sostanza di cui fossero fatti i buchi neri, alla costante ricerca della voragine da cui fosse scaturita. Renoir, il suo migliore amico, la chiamava “mina vagante”. E André, suo cugino infermiere, “Einstrauma”. Appellativo creato fondendo il nome del celebre fisico con la parola “trauma”, a causa delle innumerevoli volte in cui si fosse presentata in ospedale da lui, al reparto traumatologia. Esibendo un entusiastico sorriso sbilenco e qualche lembo sanguinante di pelle o un arto fracassato. A volte, la mora considerava una fortuna che un suo parente quasi coetaneo lavorasse lì. Almeno, non aveva bisogno di allertare i propri genitori ogni qual volta uscisse sconfitta dalle sue sfide contro la fisica e il mondo dei numeri. Ma c’era qualcos’altro che Marinette detestava, più del non riuscirsi a liberare delle cifre, compagne di vita. Ed era arrivare in ritardo, non importava dove.
Ogni mercoledì pomeriggio, ella seguiva la lezione di letteratura inglese alla facoltà di lingue. Un modo amichevole e ricreativo di distrarsi dalla sua imminente laurea in matematica, le due ore che lei adorava di più in assoluto. Aspettava quel giorno della settimana con particolare piacere ed anticipazione, assaporando la gioia che avrebbe provato a buttare all’aria le derivate ed integrali con cui avrebbe dovuto avere a che fare quotidianamente. Abitando relativamente vicino all’ateneo, lo raggiungeva in skateboard, tagliando per alcuni vicoletti del suo centro abitato. Eppure, ogni volta riusciva incredibilmente ad arrivare in ritardo o con quell’anticipo così leggero, da risultare in orario. Se ne accorgeva dalla presenza dell’imponente autobus che le avanzava parallelamente al fianco, mentre lei acquisiva velocità sulla tavoletta. Quell’indiretto contatto durava solo pochi secondi, forse una decina, prima che ella potesse svoltare in un vicoletto, allontanandosi dal bus. Non riusciva mai ad alzare la testa in tempo per vedere chi ci fosse, all’interno dell’automezzo. Particolare che l’aveva, invece, sempre affascinata. Adorava spiare i pendolari dai vetri del trasporto pubblico, chiedendosi cosa ne fosse dei loro sogni, se fossero dove avrebbero voluto essere e se avessero una vita sentimentale felice. Era sciocco formulare simili pensieri, ma anche quello era solo un modo come un altro per combattere quella debilitante razionalità che minacciava di schiacciarla, come il terriccio sotto le rotelline del suo skateboard. Marinette era prigioniera della sua stessa gabbia dorata, alla ricerca di un qualsiasi stratagemma pur di mettere le mani sulla chiave, se mai ne fosse esistita una. Per essere finalmente libera. “To break free”, come diceva il testo di una canzone di cui lei avesse solo un vago ricordo, troppo presa a crogiolarsi nella sua musica alternativa, da approfondire nuovi orizzonti come avrebbe potuto fare.
Rallentando lievemente la sua andatura, lanciò un’occhiata al suo orologio da polso. Se fosse arrivata in università in un massimo di cinque minuti, avrebbe potuto lasciare lo zaino sul banco e farsi un caffè alla macchinetta, insieme a Renoir. Iniziò già a calcolare quale percorso avrebbe potuto intraprendere per accorciare i tempi, ricominciando a prendere velocità. Era vero che, il più delle volte, il suo stesso dono fosse una greve condanna, sulle proprie giovani spalle. Tuttavia, era costretta ad ammettere che risultasse piuttosto utile, in determinati frangenti.
Si congratulò con se stessa quando, giungendo dinanzi all’ateneo nel tempo previsto, il suo orologio le avesse confermato, ancora una volta, la solida esattezza dei suoi calcoli. Scese giù dalla tavoletta, puntando poi il piede in modo particolare, affinché il legno scattasse in avanti e lei potesse acchiappare il muso dello skate con la mano. Si abbassò le grosse cuffie, mettendo in pausa il brano “Complete Control”, dei Clash. Scosse i ciuffi che il vento le aveva spostato negli occhi, con un abitudinario movimento del capo. Poi, infilò la mano libera della tasca dei suoi jeans rattoppati e vissuti, estraendone una Big Babol miracolosamente intatta. La scartò e se la portò alle labbra, ammorbidendola quanto bastasse per poter gonfiare una rosata bolla fluo e si addentrò nel giardino dell’università. Camminando con la caratteristica nonchalance che la contraddistingueva; proprio lei, che sarebbe stata in grado di calcolare la giusta posizione in cui la pianta del suo piede sarebbe dovuta atterrare al suolo, per non rovinarsi la schiena. E invece no. Il suo, era lo stesso passo svogliato con cui si trascinassero gli amici del park, sguazzando nelle loro Vans dalla tomaia bucata e ormai slargata dall’uso. Marinette Dupain-Cheng era un’ottima attrice, da sempre. Soprattutto, quando fingeva di essere più svampita di quanto non fosse realmente. Per evitare che la sua natura analitica erompesse fuori, simile a ghiaccio all’interno di un bicchiere di vetro dalle pareti sottili. Tutto sotto controllo. Come sempre. 


 




 


✿ Ibuki's little letter: eccoci qui, al secondo capitolo! Non mi aspettavo di certo un'accoglienza tanto calorosa, devo proprio ammetterlo! Ero convinta che l'AU così particolare e la stranezza dei caratteri dei protagonisti non avrebbe riscosso molto successo, ed invece è andata molto, molto meglio di quanto mi aspettassi! Adesso, anche Marinette ha fatto la sua comparsa: che ne pensate del nostro eclettico genietto della matematica? Sembra perfetta, vero? Aspettate qualche capitolo, e vi renderete conto di quanto sia brava a fingere. Ma non voglio spoilerare nulla. Anzi, sì, una cosina piccina picciò: la storia del povero Nathaniel rifiutato mi ha rattristata oltre ogni dire. Ragion per la quale, ho voluto rendergli una piccola rivincita: al liceo, Marinette aveva una cotta per lui, il misterioso senior dai capelli rossi (più avanti avrete occasione di conoscere anche lui... in versione Black Flag). Basta, niente più spoilers! In caso non l'aveste notato, creare situazioni strambe ed AU ancora più fuori di testa è uno dei miei passatempi preferiti, avrete modo di rendervene conto, man mano questa storia andrà avanti. Bene, non mi resta che lasciarvi a questo nuovo capitolo, sperando che Marinette non abbia deluso le vostre aspettative! 
Ringrazio moltissimo chiunque abbia inserito la storia nei propri elenchi e chi l'abbia anche recensita: m'impegnerò affinché sia sempre all'altezza delle vostre opinioni! Come sempre, qualsiasi parere è estremamente ben accetto ed io non mordo... a quello ci pensa Adrien! 
Alla prossima!
*ollie: il trick più facile da eseguire sulla tavola, che consiste in un semplice salto.
*grind: percorrere superfici come corrimani o bordi di oggetti (tipo panchine o tavoli, banchi...) o costruzioni con la tavola.


 


 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** ❚❚ Def Leppard ***


Black Flag






 
❚❚⟲ Def Leppard Pour Some Sugar On Me
«Lookin' like a tramp, like a video vamp
Demolition woman, can I be your man
?
»


 



 

«Yo!»
Adrien sollevò di scatto il capo, focalizzando il suo unico amico universitario. Sorrise, alzando una mano a mezz’aria, in un cenno di saluto. Nino Lahiffe lo raggiunse, con il suo solito portamento rilassato. Aveva tagliato i capelli, accorciando i suoi riccioli castani in una pettinatura corta e molto più ordinata, risaltando il suo incarnato bronzeo, baciato dal sole. Nonostante il suo ultimo viaggio negli States, egli non era cambiato per niente. Esibiva ancora i suoi cappellini della Vans e le pesanti cuffie wireless alle orecchie, che portava appese al collo nei tempi morti. Effettivamente, qualsiasi occasione in cui egli non ascoltasse la sua preziosa musica, gli appariva come una pausa un po’ vuota. La quale veniva solitamente riempita dalle parole di docenti o amici, esorcizzando il silenzio.
Quei due ragazzi, a causa della convivenza scolastica prolungata, avevano finito per somigliarsi. Avevano entrambi la concezione che il tempo non esistesse, troppo presi dai loro rispettivi mondi privati, per far veramente caso a quel che accadesse sulla terra. A ventiquattro primavere e parecchi soggiorni Erasmus sulle spalle, Nino era al penultimo anno del corso quinquennale di filosofia. Il plesso universitario di entrambi racchiudeva, al suo interno, una moltitudine così vasta di indirizzi da permettere, a studenti di discipline differenti, d’incontrarsi e chiacchierare nell’ampio giardino. Infatti, Adrien era segnato alla prima annualità di lingue, un percorso di studi completamente diverso da quello del suo amico. E riuscivano comunque a vedersi e a seguire almeno una lezione insieme. Anche se, il biondo fosse dell’idea di essersi voluto iscrivere lì per dare una piccola soddisfazione a suo padre, più che per suo vero interesse personale. Le ore di traduzione inglese lo annoiavano, poiché egli era già ad un livello piuttosto avanzato. Tanto, da potersi permettere di prendere i compiti a casa decisamente più alla leggera di quanto avrebbe dovuto. E presenziando con frequenza sicuramente minore alle lezioni. D’altro canto, il corso di cinese gli dava molto più filo da torcere, costringendolo a riflettere più duramente sulla forma ed il significato degli ideogrammi. Egli avrebbe volentieri voluto essere uno studente modello, sul serio. Aveva dei propositi talmente buoni, da essere ottimi. Tuttavia, appena sentiva il suo cellulare vibrare per segnalare un nuovo messaggio in arrivo da uno dei suoi migliori amici e compagni della band, lo studio slittava di gran carriera. Facendo un risibilissimo capitombolo dalla piramide delle priorità, volando dal primo posto all’ultimo. Finendo addirittura dopo a “cambiare la lettiera al gatto”, occupazione che al ragazzo repellesse più di ogni altra. E così, si dimenticava. Perché lui era fatto in quel modo. Era mortalmente distratto, teneva troppo alla musica per concentrarsi davvero su qualsiasi altra attività. Ecco perché ricordarsi di presenziare alla lezione di letteratura inglese, di mercoledì pomeriggio, fosse un’idea talmente fallace, nella sua mente, da non crucciarsi minimamente di alcun ipotetico ritardo. E Nino, che seguiva lo stesso corso per accumulare crediti extra sul suo piano di studi, se la rideva. Sorrideva ogni qual volta lo vedesse arrivare in università, con quella postura fiera e diritta, abbigliato di nero da capo a piedi, tanto imponente da spiccare a chilometri di distanza.
«E anche oggi, welcome to the black parade» lo accolse il più grande, con il suo accento di Montmartre, protendendo la mano per una fraterna stretta, con tanto di spallata finale. Glielo diceva sempre, ma Adrien non se la prendeva mai. Adorava i My Chemical Romance. E quella, per lui, era la cosa più vicina ad un complimento che potesse sperare di udire, dalle labbra del suo amico. Si sfilò un’auricolare sola, giocherellandoci.
«Sono in ritardo?» Chiese, per il solo piacere di sentire il verso sarcastico che Nino lasciò andare, precedendolo dentro e lasciando la porta aperta per lui.
«Come sempre» commentò l’altro, mentre si avviavano entrambi verso l’aula. «In tutta onestà, mi sorprenderei se ti vedessi arrivare in orario. Allora, capirei che qualcosa non sta andando bene, nella tua vita» gli disse, scompigliandogli le morbide ciocche dorate con le dita, guardandolo arricciare il naso in silenzio. Il chiacchiericcio sommesso degli studenti nei corridoi accompagnò il suono ovattato dei loro passi sulla moquette, mentre avanzavano con due differenti espressioni sui volti. Una, di placida e calma tranquillità. L’altra, d’infastidita seccatura. Appena giunsero nei pressi della classe, Adrien si sporse verso la maniglia della porta, tirandola verso di sé. E volle tornare immediatamente indietro.
«Cristo» commentò, iniziando a detestare il suo essere un ritardatario cronico. L’aula era piena. Quasi straripava. Non ci sarebbe stato verso di trovare un posto libero, in nessuna delle gradinate. Gli unici spazi utilizzabili, erano quelli al di sotto degli appendiabiti, parecchio scomodi e anche poco funzionali per l’acustica.
«Ho capito, provvedo» annunciò Nino, volgendosi immediatamente, senza neanche prendersi la briga di osservare con i propri occhi. Il più giovane lo seguì, aiutandolo a prelevare una sedia dalla classe accanto, miracolosamente vuota a quell’ora. Si sistemarono proprio dietro l’ultima gradinata di banchi, guardando con odio feroce i posti inutilizzati ma occupati da alcuni zaini e cappotti. Sul banco, alla seduta proprio di fronte alla sua, giaceva perfino uno skateboard. Il che, fece affacciare la sinuosa figuretta di Coccinella, alla mente di Adrien. Ma scacciò l’immagine, scuotendo la testa. In quel momento, voleva semplicemente sfogare la sua frustrazione per il ritardo contro quegli studenti abominevoli che tenevano le sedie occupate, per potersi fare comodamente gli affari propri mentre il docente era ancora via.
«Che cazzo, mi verrebbe voglia di sedermi al posto loro. Tanto per fargli un torto» commentò il biondo, allungando un piede fino al limitare della gradinata di fronte a sé, con astio. Nino scosse la testa.
«Lascia fare, amico» gli suggerì, posandogli gentilmente una mano sul braccio. «Il grande universo li ripagherà, non darti pene inutili» enunciò, facendo scoppiare il suo amico a ridere, attirandosi le occhiate sorprese di qualche paia di studenti nei loro pressi; evidentemente colpiti dall’idea che l’emo della classe potesse essere in grado di farsi tutte quelle risate, per qualsiasi motivo.
«Attento a non farmi divertire troppo, potrei far emozionare l’uditorio» prese in giro il suo amico, scatenando un nuovo accesso di risa. «Le mie ammiratrici potrebbero diventare più delle tue».
«Eh già, caro mio. I miei giorni di libertinaggio sono finiti. Si da’ il caso che io sia felicemente fidanzato con Alya Césaire da ben quattro anni» ribatté, sorridendo. Il biondo gli ammiccò, seducente.
«Onesto» ammise. «Perché Nino Lahiffe è un bravo ragazzo» precisò e l’altro annuì.
«Sacrosanto, amico, sacrosanto» convenne.
In quel momento, videro la porta aprirsi e il docente di letteratura inglese quasi lanciarsi verso la cattedra. Scese le gradinate trafelato, agitando la cartellina per effetto degli sbalzi, tentando inutilmente di sfilarsi la sciarpetta leggera dal collo. Iniziò a scusarsi, esibendo il suo accento irlandese con ostentazione, facendo venire nuovamente da ridere a Nino.
«Come faccio a prenderlo sul serio, se parla così? Finirò per commuovermi, credendo di essere finito in qualche serie tv di Netflix» bisbigliò all’orecchio del più giovane, vedendolo annuire. Poi, proprio un istante prima che la porta si richiudesse, comparve un nuovo gruppetto di studenti, dietro di essa.
Adrien li contò. Quattro. Proprio come i posti liberi dinanzi a sé. Così, dovevano essere loro, i soggetti da maledire con un’occhiataccia. Fra l’altro, i bicchierini di caffè fumante che stringevano fra le dita sembravano confermare la sua teoria. Erano divisi in coppie, sebbene fossero tre ragazze e un ragazzo. Il più alto della compagnia si era appena chinato verso la giovane seduta all’estremità della bancata, chiedendole di farli passare. La ringraziò con un sorriso, attento a non rovesciare la bevanda su se stesso e il banco. Il biondo li vide scivolare dinanzi a sé, coprendogli completamente la visuale. Li osservò bene, processando ogni dettaglio. Il tipo che si era seduto per primo, aveva dei capelli piuttosto corti, tinti in un’aggressiva sfumatura di rosso. Sarebbe stato impossibile non notarlo, tant’era, che egli si chiese come mai si fosse accorto solo allora, della sua presenza. Continuò ad osservarlo: indossava una giacchetta stile college, abbinandola ad un’anonima maglietta nera e un paio di jeans. Adrien pensò di non averlo mai visto prima, in giro per l’università. Era anche vero che lui frequentasse molto poco quell’ambiente, c’era da ammetterlo. Tuttavia, si sarebbe sicuramente ricordato di un soggetto tanto singolare.
Passò oltre con lo sguardo, appuntandolo sulla sua amica. E sollevò immediatamente un sopracciglio. Perché quella ragazza era vestita esattamente come Coccinella. Riconobbe le pesanti cuffie appese al collo, la camicia a pois, il liso jeans. Perfino la sfumatura dei capelli, un corvino tanto intenso da digradare nel blu, gli pareva la stessa. Il biondo si raddrizzò sulla sedia, dimenticandosi perfino di rivolgere un’occhiata alle altre ragazze che li avevano accompagnati. Era troppo impegnato a fissare le spalle strette e fasciate nella flanella in fantasia a pallini rossi e neri, per far caso a qualsiasi altro stimolo esterno. Poi, la vide prendere lo skate e volgersi sulla sedia, intenta a lasciarlo per terra, dietro di sé. Proprio dove lui aveva poggiato il piede. Infatti, la mora lanciò un’occhiata stranita alla lustra Dr. Martens, comodamente appoggiata nel punto in cui lei avrebbe voluto depositare la tavoletta. Quindi, masticando la sua gomma, risalì sulla gamba, fino ad incontrare lo sguardo lievemente interdetto di Adrien. Il quale proprio non poteva credere a quel che gli stesse accadendo dinanzi.
La tipa dalla pelle eburnea era proprio Coccinella. E il suo, era il volto più bello sul quale il biondo avesse mai avuto il piacere di posare lo sguardo. Gli ricordava i dipinti di quelle dee greche che a suo cugino piacevano tanto, da bravo amante dell’arte quale era. Il viso della skater era perfino più delicato di quello di Felicia, la sorella del suo migliore amico. La quale sembrava la personificazione di una ninfa marina. Il ragazzo sentiva che avrebbe volentieri speso l’intera mattinata a contemplarla in silenzio, ripercorrendo quei tratti come se ogni occhiata fosse la prima. Un eterno jamais-vu. Un continuo cammino col fiato sospeso, volto ad ammirare il meraviglioso panorama umano che avesse di fronte. Tuttavia, appena la giovane dinanzi a lui scoppiò la grossa bolla che avesse gonfiato con la gomma da masticare, Adrien si riebbe. Riemergendo dalla trance di estasi mistica in cui un volto simile l’avesse spedito. E si ritrovò ad affrontare un’occhiata talmente neutra, da percepirla ostile.
«Spostati» gli mormorò Coccinella, facendo un cenno verso il suo piede.
«No» sorrise il biondo, distendendosi comodamente anche con l’altra scarpa, occupando ulteriore spazio. Quel gesto ebbe il potere di far sollevare un sopracciglio alla ragazza, che gli riservò uno sguardo seccato.
«Mi stai facendo perdere tempo» commentò quindi. Ma quello si stava divertendo troppo, a farla innervosire, per potersi concedere il lusso di essere cortese. Proprio come si fosse aspettato. Erano talmente differenti, da essere già entrati in contrasto ai primi secondi d’interazione.
«Non è un mio problema, milady» ribatté Adrien, con un sorrisetto indisponente, sistemandosi meglio sulla sedia. Allora, Coccinella gli lanciò un’occhiata di puro odio e fece per dire qualcosa, ma il suo amico dai capelli colorati si voltò di tre quarti, dandole una gomitata nel costato.
«Ehi, Marinette!» La richiamò, con un sussurro. «La pianti di litigare con le matricole? Non sto capendo un accidenti, per colpa tua» la rimproverò.
«Ma…» provò a giustificarsi, senza successo. Il ragazzo si era già voltato, sporgendosi lievemente in avanti per riuscire a captare qualche parola in più dalle labbra del docente. Dunque, la mora si risolse a sospirare, affranta, per poi allungarsi verso destra, depositando la tavoletta lontano dal piede del biondo. Fece anche un po’ di fatica a tendersi tanto, lasciandosi perfino sfuggire lo skate di mano. Che atterò con un breve e chiarissimo tonfo sul pavimento, risuonando perfettamente nel silenzio di tomba della classe. Perfino il docente s’interruppe un istante, processando quel suono molesto. E Coccinella si nascose sulla schiena del suo amico, con un’espressione turbata in volto, augurandosi di non venire scoperta. Strinse le palpebre e trattenne il respiro, desiderando di essere invisibile. Due, tre secondi trascorsero, in religioso silenzio. Poi, qualcuno tossì, rompendo l’incantesimo. Passato il momento di shock collettivo, ella tirò un sospiro di sollievo. Si rilassò nello stesso momento in cui il professore riprese a blaterare sul contesto storico in cui “Il Mercante di Venezia” shakespeariano fosse calato. Scena che fece ridacchiare silenziosamente Adrien, cercando di dissimulare e abbassando lo sguardo. Azione che però non fosse sfuggita alla giovane.
«Non finisce qui» sibilò lei, sporgendosi indietro e guardandolo con evidente astio. Il biondo si morse il labbro inferiore, divertito.
«Me lo auguro, principessa» commentò, guardandola volgersi e prendere finalmente appunti. E così, Coccinella seguiva il suo stesso corso di letteratura inglese su Shakespeare. Inoltre, aveva perfino scoperto come si chiamasse. “Marinette”. Una rapida battaglia della lingua contro i denti, ritmica come la batteria di una band prog rock. Ecco cosa sarebbe occorso, per chiamarla per nome.
Adrien aveva sempre avuto un debole per i tratti del volto finemente cesellati, per quell’armonia artistica quasi neoclassica che aleggiava su certi visi femminili. Quella giovane seduta davanti a sé, gli aveva fatto venire in mente le principesse dell’epoca arturiana. Una perfezione coì regale, da appartenere solamente alla prima famiglia baciata dagli dei. Osservò quella capigliatura color tenebra, cosparsa di fili di cielo notturno schiariti dal sole, domandandosi che sapore potesse mai avere la sua pelle. E a quale suono corrispondesse la sua voce. Sarebbe stato un tono profondo e corposo come quello di Janice Joplin, o una sfumatura più alta come per Steve Nicks? Una ginocchiata di Nino lo distrasse dalle sue fantasticherie, costringendolo a guardare il pezzo di carta che gli fece passare sotto gli occhi.

 

“La smetti di provarci con quelle che ti rifiutano? La tizia, lì, sarebbe più contenta di leggersi l’opera omnia di Shakespeare, piuttosto che prendere un caffè con te”.

 

Adrien lanciò un’occhiata di divertita incredulità al suo amico, che la ricambiò con un’espressione di studiata neutralità, facendo finta di nulla. Allora, il biondo si apprestò a scrivere una risposta, pescando il proprio astuccio dallo zaino e rovistandovi dentro, alla ricerca di una matita.

 

“Stavo semplicemente reclamando lo spazio che mi spettava, proprio come lei aveva fatto con il suo stramaledetto posto a sedere”.
 

Appena ebbe finito di scrivere, lo passò al castano. Che lo lesse e poi si produsse in un verso di puro sarcasmo, scuotendo la testa.

 

“E hai sempre quell’espressione da rimorchio, quando amministri la tua -del tutto ingiustificata- giustizia privata?”

 

«Ma che cazzo dici?» Chiese Adrien in un mormorio, dando una gomitata all’altro.
«Amico, stavi per miagolare solamente avendola guardata in faccia» ribatté, con lo stesso tono e un’occhiata eloquente. «Impara un po’ di autocontrollo. Non hai più sedici anni».
A quelle parole, il biondo spalancò gli occhi e arrossì di colpo. Era stato così evidente? Eppure, non gli era sembrato di aver compiuto gesti tanto eclatanti, per manifestare il suo apprezzamento. Tuttavia, Nino se n’era comunque accorto. Insinuando il tarlo dell’insicurezza nella sua coscienza. Era veramente così facile, riuscire a leggere i pensieri che si agitassero nella sua mente?



 



 


✿ Ibuki's little letter: finalmente si sono incontrati! Che ve ne pare? Personalmente, mi sono divertita (mi sto tutt'ora divertendo) un sacco a scrivere le loro interazioni! Sappiate che, da questo momento in poi, la storia prenderà una parte molto più attiva, visto che i due precedenti capitoli sono stati piuttosto lenti e descrittivi! Sto notando che le mie canzoni-citazioni hanno risvegliato il vostro interesse per i Queen, ne sono molto felice! Qualsiasi cosa sia rock e provenga da decenni ormai passati, è buona e giusta (anche qualche artista contemporaneo, però, non va gettato via)!
Non mi resta quindi che leggere i vostri pareri sul fatidico incontro e, perché no, anche cosa penserete accadrà da qui in poi! Posso farvi un piccolissimo spoiler: ci sarà un sacco di drama. Ma non la roba lacrimosa che sono ahimé abituata a scrivere, vi parlo del drama trash, quello da serie tv alla Shonda Rhymes, con un pizzico di umorismo alla 2 Broke Girls... poi lo vedrete!
Colgo l'occasione per ringraziarvi un sacco, per tutto il calore che state donando a Black Flag, l'attenzione e le recensioni (credetemi, per me vuol dire tantissimo che apprezziate questa storia, con i suoi pro e contro)! Un grazie anche a chi ha inserito BF negli elenchi e anche ai lettori silenziosi, voglio bene anche a voi, sappiatelo! E con questo, vi auguro un bel fine settimana, possibilmente al fresco e non come me, a studiare con cinquanta gradi e un ventilatore affannato.
Alla prossima!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** ❚❚ Millencolin ***


Black Flag





 
❚❚⟲  Millencolin - Sense & Sensibilit
«This is the rational side of me I guess
The same side that I use when playing chess
Lex yin and yang there's also the other side of me
Acting based on emotion and sensibility»


 


 

Marinette non si era mai sentita più oltraggiata in vita sua. Quel ragazzo con i piercing era riuscito a rovinarle una giornata che, inaspettatamente, era riuscita a prendere la piega giusta. Aveva trovato Renoir ad attenderla alle macchinette, già pronto a porgerle il suo solito caffè macchiato con due cucchiaini di zucchero, unito ad un caloroso sorriso e un bacio affettuoso sulla guancia. Inoltre, il giovane si era perfino accertato che loro avessero i posti assicurati, passando in aula e occupandone due con il proprio zaino e quaderno. Tuttavia, ella aveva comunque dovuto passare di lì, per liberarsi del peso della sua tavoletta, prima di accompagnarlo a fumare in giardino. Così, si era seduta sul muretto a gambe incrociate, guardando Renoir accendersi il suo drum con fatica, a causa del vento fresco d’inizio marzo. Aveva assaporato quella calma che li circondava, proprio come facevano le foglie con la luce del sole. Non era arrivata in ritardo, il caffè era ottimo ed era mercoledì pomeriggio. Poteva essere perfetto.
Peccato per quell’unica macchia scura nella candida tela della sua fragile gioia quotidiana. Quando aveva implorato il suo amico di tornare in classe, incrociando il docente e altre due studentesse sulla porta, non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi due alunni seduti dietro di sé. Probabilmente, avevano anche dovuto recuperare le sedie da un’altra classe, per non dover seguire la lezione dal pavimento. Marinette aveva lanciato loro una fugace occhiata, soffermandosi sul più giovane per qualche istante di più. Renoir lo chiamava, scherzosamente, “Chat Noir”. Era al primo anno e seguiva inglese e cinese. Tuttavia, non veniva spesso a lezione, lasciando intuire quanto a cuore potesse mai avere la propria istruzione. Il suo amico l’aveva dipinto come una figura quasi mitologica, l’ombra della facoltà di lingue. Il ragazzo biondo alto e ben piantato, che vestiva di nero tutto l’anno e parlava solamente con il suo amico di filosofia. Non si sarebbe mai aspettata di ritrovarselo in classe, non l’aveva mai incrociato prima di allora. Forse perché tendevano sedersi alle gradinate più avanti, grazie al tempismo di Renoir. Il quale sembrava possedere un talento, nell’infilarsi nella classe nei momenti giusti. Quel giorno, invece, doveva aver fatto tardi anche lui, per aver recuperato due sedie all’ultima bancata, quella più in alto di tutte. Ad ogni modo, Marinette aveva cercato di non darci peso, comportandosi come se nulla fosse. Non avrebbe mai dato a vedere che, in altri contesti, si sarebbe pietrificata sul posto, guardandolo.
Nonostante l’abbondante abuso di indumenti scuri e dispendio di metallo, quello Chat Noir era decisamente attraente, per essere una matricola. E lei non avrebbe dovuto indugiare quell’istante di troppo a fissargli il labbro inferiore, decorato dall’anellino all’estremità destra. Pregando che nessuno avesse fatto caso a quella scena pietosa, si era accomodata accanto a Renoir, appoggiando il caffè ormai tiepido sul banco. Dunque, aveva afferrato il suo skate, voltandosi per depositarlo a terra. Ma quale sorpresa, ritrovarsi la Dr. Martens lucida e minacciosa di quel ragazzo conturbante proprio sotto il naso. Gli aveva lanciato l’occhiata più neutra di cui avesse disposto il suo repertorio da Oscar, chiedendogli di farle posto. Però, il bastardello, aveva sorriso e si era rifiutato. Aveva declinato il suo cortese invito, schiaffando anche l’altro piede ad occuparle lo spazio, per il puro gusto di provocarla. Così, senza neanche rendersene conto, aveva iniziato a discutere con quell’indisponente matricola, pentendosi all’istante di aver formulato anche un solo, misero pensiero poco casto su di lui. Dopo che perfino Renoir l’ebbe sgridata, per avergli impedito di ascoltare la lezione in pace, si era risolta a procurarsi quasi una lussatura alla spalla, pur di posare il suo skate poco lontano dal piede di Chat Noir. Che continuava a guardarla con quell’aria maliziosa nei grandi occhioni smeraldini dal taglio felino, credendosi una divinità assisa nel suo trono.
Egli sembrava la personificazione di tutto ciò che Marinette detestasse: indisponenza, arroganza, ego sovrasviluppato e modi assurdi di conciarsi ed andare in giro, peggio di come il suo amico si divertisse a vestirsi quando andava alle fiere del fumetto. Era perfino certa che potessero condividere metà del repertorio musicale, sebbene quel particolare le diede immediatamente sui nervi. Quel ragazzo non le dava alcuna possibilità di poter creare dei calcoli o supposizioni sulla sua persona, benché, suo malgrado, ella le avesse già fatte. Sentiva semplicemente di provare un’istintiva antipatia, verso di lui. Avrebbe volentieri trovato l’algoritmo esatto, per inclinare la sedia sulla quale era seduto, nell’angolo giusto. Per farlo cadere in terra, solamente al fine di fargli un dispetto. Rimase di cattivo umore per tutta la lezione, captando di volta in volta parole sconnesse che non avevano alcun senso fra di loro, invidiando la costanza con cui Renoir prendesse appunti, facendo scivolare la sua sinuosa mano sul quadernino, riempiendolo di frasi di senso compiuto. Lei riusciva solo a concentrarsi per figurarsi scene in cui Chat Noir finiva scaraventato dentro i cestini dei rifiuti, in giro per l’ateneo.
«Prima di andare avanti e affrontare l’argomento, vorrei dividervi in coppie e affidarvi delle scene da approfondire. Lavorerete in due ad un essay di massimo trenta pagine, in cui esporrete tutto ciò che sarete stati in grado di trovare in giro per internet o la biblioteca, che possa essere relativo agli argomenti trattati lì dentro. Il termine ultimo per consegnarmi i vostri lavori sarà entro la fine di aprile, quindi avete un intero mese per lavorarci su» annunciò il docente, lentamente. Di modo che tutti potessero afferrare il significato delle sue parole, a prescindere dal suo accento.
«Ah» si lamentò Renoir, lasciando andare la penna sul banco e sventolando la mano, aprendo e chiudendo le dita ritmicamente. «Che gioia, non vedo l’ora di rompermi la testa sulle inutili parole di Antonio e Bassanio» commentò. «La facciamo insieme, vero?» Domandò, del tutto relativamente.
«Ovvio» convenne ella, annuendo.
«E sappiate che le coppie le deciderò io. La prima cosa che voglio, in una classe, è la collaborazione fra i membri. Così potrete coinvolgere anche i nostri ragazzi Erasmus» aggiunse il professore, scatenando un coro di sommesse rimostranze.
«Ma ti pare?» Esclamò il giovane dai capelli di tramonto, sbuffando e incrociando le braccia. «Non ho alcuna intenzione di dover perdere tempo con qualche sconosciuto che legge una riga all’ora» si lamentò, senza nemmeno prendersi la briga di abbassare la voce. Marinette non trovava le parole adatte, per esprimere il suo sconforto. Neanche i suoi adorati calcoli riuscirono a trarla in salvo dalla voragine di panico che un compagno sconosciuto avrebbe potuto creare. Conosceva Renoir dal liceo, erano migliori amici. Lui non faceva domande sulle sue piccole abitudini, ascoltava i suoi ragionamenti astrusi e, soprattutto rispettava i suoi tempi. Come avrebbe fatto, con una persona diversa da lui? Era inconcepibile.
«Ribelliamoci» suggerì, dando di gomito al giovane accanto a lei, ottenendo un verso di sofferenza.
«Non possiamo. Questa è la vita reale, non l’ultimo video dei Blink-182» ribatté, mentre il docente già annunciava le prime coppie.
«Fingi di essere gay. Fai una scenata. Piangi e urla che, senza la tua best friend forevr, non farai nulla» mormorò allora Marinette all’orecchio del suo amico. Ottenendo immediatamente un’occhiataccia in risposta.
«Perché dovrei frignare come una ragazzina e fingere che mi piacciano i maschi? Solo perché ho i capelli tinti, non vuol dire che io abbia altre preferenze sessuali» s’indignò. E l’amica gli rivolse un’occhiata neutra.
«Perché io non faccio la femminuccia isterica e dobbiamo riuscire a lavorare insieme ad ogni costo» disse, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Renoir chiuse gli occhi e scosse la testa, quasi a voler dimenticare quel che lui avesse appena udito.
«Non voglio essere costretto a sprecare il mio talento da attore per delle stronzate, ne avevamo già parlato».
«Ti prego, Ree» lo supplicò, sporgendo il labbro in fuori, come faceva quando erano al liceo insieme e lei finiva sempre per convincere il suo amico a cederle metà della merenda, quando si scordava la propria a casa.
«No» rispose quello, fermo. «E non farmi il labbruccio» aggiunse, coprendosi gli occhi per non guardarla. In compenso, la sentì sbuffare, mentre si afflosciava contro lo schienale della sedia.
«Nino Lahiffe e Renoir Couffaine. Atto uno, scena quattro» annunciò il professore, facendo scattare il giovane dai capelli color tramonto sull’attenti, quasi come se gli avessero infilzato uno spillo nei reni. Si guardò attorno, alla ricerca di un volto con la sua stessa espressione guardinga ma confusa, finché una voce non lo richiamò.
«Da questa parte» e il ragazzo si voltò indietro, focalizzando la figura del castano seduto accanto alla matricola dark. Marinette si girò per riflesso, osservando quello sconosciuto fortunato, che il caso avesse preferito a lei. Affascinante, di ottima presenza e dall’aria placida e tranquilla. L’esatto opposto di quel tornado di ossidiana nordica che gli sedesse al fianco.
«Mettiamoci d’accordo sulla tabella di marcia, alla fine della lezione» gli propose Renoir, cercando di dimostrarsi amichevole fin da subito. «Prima cominciamo, meglio sarà per entrambi» aggiunse, vedendo l’altro annuire. Dunque, si voltò nuovamente, iniziando a raccattare i suoi oggetti dal banco. «E più in fretta io potrò tornare ai miei videogames» proseguì, a voce bassa. Poi, diede una leggera gomitata alla ragazza, sollevando un angolo delle belle labbra rosate. «Ho vinto l’amico di Chat Noir» commentò, conciliante.
«Oh, evviva. Aspetta che adesso salto di gioia» ribatté ella, in tono mortifero.
«E dai, Marinette, non sarà poi così mal…»
«Adrien Agreste e Marinette Dupain-Cheng. Atto uno, scena due» passò oltre il docente. E una fragorosa risata dai posti di dietro fece gelare il sangue nelle vene della ragazza. Che si voltò lentamente, come avrebbe fatto se fosse stata costretta a fronteggiare un fantasma in un film horror. Similitudine non molto calzante, visto che il suo sguardo incontrò il volto ben definito e dal labbro decorato dal piercing della matricola alle sue spalle, che le sorrideva come un gatto dinanzi ad un indifeso cardellino.
«Adrien Agreste» mormorò lei, con una punta d’incertezza.
«Marinette Dupain-Cheng» rispose il biondo, e la luce guizzò sulla sferetta del piercing che egli aveva sulla lingua, facendo deglutire con fatica la skater, mandando giù il groppo che le si fosse formato in gola. «Chiamami solo Adri, è più facile da memorizzare» parlò nuovamente il giovane, scoccandole un provocatorio occhiolino, sorridendo con malizia. La mora si voltò di scatto, prim’ancora che quello potesse anche solo pensare a qualcos’altro da dire. Senza aprir bocca, Marinette iniziò ad infilare astuccio e quaderno nello zaino, con un’espressione determinata in volto.
«Mari, che stai architettando?» Le chiese Renoir, che conosceva fin troppo bene la sua espressione da calcolo subdolo.
«Vado a parlare con il professore, lo convincerò a scambiare le coppie» ribatté infatti ella, in una mortale serietà. Il giovane dai capelli di tramonto sospirò.
«È inutile, non ti darà mai retta» le disse, mettendole una mano sulla spalla.
«Watch me» rispose la ragazza, citando una delle battute delle sue serie tv preferite. Gli lanciò un’occhiata di sfida, facendo per alzarsi. Tuttavia, la pressione delle dita dell’amico la forzarono a sedersi, nuovamente.
«Ho un’idea migliore» le disse, allora. «Potremmo convincere questi due, qui dietro, a lasciarci svolgere il lavoro scambiandoci di posto. Però, non alterando le formazioni sulle firme dell’essay» propose, attendendo che ella processasse le informazioni.
«Fammi capire… dovrei prestare il mio nome a quella testa vuota con il piercing al labbro? Per poter fare lo stramaledetto compito insieme a te?» Chiese, in conferma. Vide Renoir annuire, con un sorriso conciliante. Era una buona proposta, più che fattibile. Del tutto ragionevole. Annuì. «Affare fatto» decretò.
«Non ci resta che metterci d’accordo, allora», aggiunse il suo amico, lanciando un’occhiata di traverso alla coppia di amici alle sue spalle. Che parlottavano fra di loro, ridacchiando per delle parole che egli non poteva udire. Sperando che non sarebbero stati poi così difficili, da convincere.



 



 


✿ Ibuki's little letter:  perdonate la lunga attesaaaaa! Però, con l'esame di oggi la mia sessione estiva è terminata... e sono finalmente in vacanza! Questo vuol dire che non toccherò più libri universitari per almeno un mese, yeah! E quindi eccomi qui a festeggiare con un nuovo capitolo di BF! Voglio spendere giusto due paroline su Renoir: è un mio OC e gli voglio molto bene (okay, detta così è terribile). Non fraintendetemi, non ho davvero idea di come sia uscito fuori. Si è semplicemente creato e la sua funzione, come vedrete, sarà quella del "grillo parlante" sulla spalla della nostra Marinette. Lo so, nel cartone questo ruolo è di Tikki. Ma nella mia ff nulla va come dovrebbe e quindi per la nostra Kwami avevo altri piani! Poi farete anche la sua conoscenza!
Che dire? Non vedo l'ora che Marinette ed Adrien inizino a tirarsi matite e quaderni, anche se dubito che il nostro KittyCat sia in una simile disposizione d'animo. Comunque, ho trovato un'illustrazione che boh, è lo spirito di questa ff. E voglio mostrarvela, perché ve la meritate... quindi la allegherò in basso! La maglietta della ragazza ha anche scritto sopra "Black Flag". 100% appropriate.
Adesso, procedo con i miei consueti ringraziamenti, le vostre recensioni sono piacevoli come i quattro secondi di ventilatore, quando gira nella mia direzione! Ringrazio tantissimo anche tutti coloro che hanno inserito BF fra le seguite/preferite/ricordate e i lettori silenziosi! Non mi resta che lasciarvi al vostro nuovo capitolo, e al disegno!
Alla prossima!!
 


credits to: A
dams Carvalho
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** ❚❚ Bon Jovi ***


Black Flag





 
❚❚⟲  Bon Jovi - You Give Love a Bad Name

«Oh, you're a loaded gun, yeah
Oh, there's nowhere to run
No one can save me
The damage is done»



 



 

«No».
«Che vuol dire “no”?»
«Quello che hai sentito: no».
Adrien rivolse un sorrisetto furbo a Marinette e al suo amico, incrociando le braccia al petto. Fermi in un lato poco praticato di corridoio, la mora aveva proposto a Nino e a lui di fare uno scambio di coppie, limitandosi solo a lasciare i nomi che il professore avesse assegnato in precedenza. Quello avrebbe voluto dire che lei avrebbe potuto tranquillamente svolgere il suo essay insieme all’amico. Senza coinvolgere estranei, né doversi dare pena di trovare nuove modalità di collaborazione con degli sconosciuti. Era la soluzione migliore, quella che avrebbe permesso a tutti e quattro di lavorare meglio e più facilmente. Peccato che ad Adrien proprio non andasse, di lasciarsi sfuggire l’opportunità di dover passare del tempo insieme a Coccinella.
Quando il docente aveva unito i loro due nomi, lui si era passato la lingua sul labbro inferiore, estremamente divertito all’idea che entrambi lavorassero così a stretto contatto. Era l’occasione perfetta per conoscerla meglio. Senza contare l’innumerevole ammontare di momenti in cui avrebbe potuto prenderla in giro per qualsiasi cosa, guardandola innervosirsi e, probabilmente, intimargli di tornare a studiare in silenzio. Sì, l’idea gli piaceva davvero un sacco. E sentire quella proposta di scambio gli fece venire talmente da ridere, che proprio non ce la fece a comportarsi da persona matura. Ebbe solamente la forza di declinare l’offerta, non riuscendo a reprimere un sorrisetto divertito.
La guardò, Coccinella aveva spalancato gli occhi, sorpresa. Sembrava assolutamente certa che nessuno di loro due avrebbe rifiutato la sua idea. Vedersi sbattere in faccia un effettivo diniego, doveva averla turbata parecchio. Adrien rifletté che fosse bella anche in stato di shock. Probabilmente, non c’era una sola espressione che, passando su quel volto, non sarebbe valsa la pena di essere trasformata in una canzone.
“Occhi come vetro a mezzanotte, labbra in velluto di ribes”.
Quelle due frasi gli piacquero parecchio, tanto che dovette sfilarsi la cartella dalla spalla e rovistarci dentro alla ricerca di una penna, scrivendosele sul palmo. Le avrebbe riportate in musica successivamente, insieme agli altri. Ecco. Venti minuti e aveva già trovato il modo di cavar fuori dell’arte da quella ragazza. Incredibile.
«Ma perché?» Chiese ancora Marinette, con aria esausta, guardando fisso il biondo. Egli si strinse nelle spalle, giocherellando con il piercing al labbro, distrattamente.
«Sono uno studente diligente. Non s’imbroglia il sistema così» rispose, mentre Nino soffocava un accesso di risa in un colpo di tosse. Allora, lo sguardo della giovane si fece tagliente.
«Ah sì? Ripetimi il concetto fondamentale della lezione di oggi, allora» lo provocò, incrociando le braccia al petto. Renoir rivolse gli occhi al cielo, grattandosi la fronte, a disagio. A lui non sarebbe cambiato poi molto, lavorare con un ragazzo o Marinette. L’unica cosa che volesse, era completare l’essay quanto prima, poter tornare a giocare a LOL in biblioteca nel tempo libero. Attività che la sua amica stesse così perfidamente procrastinando, con quel suo attacco d’infantilismo.
«I tuoi occhi» rispose il biondo, come se nulla fosse. Poi, sorrise a mezza bocca, sollevando solamente il lato forato dal piercing. Ottenendo di far scoppiare il giovane dai capelli cremisi in una fragorosa risata e udì Nino mormorare un “Cristo, che trash”, passandosi una mano sulla faccia. Mentre Marinette si limitò a roteare gli occhi, sbuffando.
«Non te ne frega niente, dell’università» commentò.
«Potrebbe anche darsi» ammise lui, poi intrecciò le dita dietro il capo. «Anche se… ti suggerirei di essere più gentile, con me, visto che non ho alcuna intenzione di cambiare partner… milady» aggiuse, stringendosi nelle spalle e sorridendole amabilmente. Rimasero a guardarsi per alcuni secondi, poi la mora posò a terra lo skate e vi salì sopra, allontanandosi da loro. Nino la seguì con lo sguardo, lasciandosi sfuggire un fischio d’ammirazione.
«Ma perché i geni fanno sempre così?» Si lagnò Renoir. «Aspettami, Mari!» Aggiunse, iniziando a correre per inseguirla, mentre Adrien si spostava per non perdere di vista la figuretta in equilibrio sulla tavoletta.
«Non si va in skate nei corridoi!» Le urlò dietro, per poi ridacchiare, osservandola sparire dalla sua visuale con un dito medio alzato. Una gomitata del suo amico lo riportò sul pianeta terra, strappandogli un’esclamazione di dolore.
«Ouch, Nino» commentò, sfregandosi le dita sulla porzione dolorante di petto. «Che ti è preso?»
«A me? Cosa prende a te!» Esclamò. «“I tuoi occhi”? Amico, da quant’è che non hai una ragazza? Avrei voluto strapparmi le orecchie» lo rimproverò, sollevando un sopracciglio. Allora, il biondo ridacchiò, facendogli passare un braccio attorno alle spalle e incamminandosi con lui verso i giardini.
«Mi diverte, provocarla» rispose, socchiudendo gli occhi alla luce sfolgorante di un sole prossimo al tramonto, abituando le pupille al passaggio dai neon artificiali all’astro naturale. Infilò la mano nella tasca degli skinny neri e strappati sulle ginocchia, estraendone un pacchetto di sigarette. Lasciò andare le spalle del suo amico e aprì la piccola confezione, tirando fuori uno degli esili cilindretti bianchi, portandoselo alle labbra. Ne offrì anche al castano, che declinò, scuotendo la testa.
«Sto cercando di smettere» si giustificò. «E dovresti provarci anche tu» lo rimbeccò. «Sei troppo giovane per fumare così tanto» aggiunse. Adrien si strinse nelle spalle, mettendo una mano a coppa sull’estremità della sigaretta, per riparare la fiammella dell’accendino dal venticello pomeridiano.
«Lo faccio per il growl» rispose, riponendo pacchetto e acciarino, per poi tirare una generosa boccata ed espirare il fumo grigiastro dal lato in cui tirasse l’aria.
«La tua voce a me piace quando è pulita. Non dovresti sporcarla così».
«Dici? A me sembra quella di una ragazzina. Mi detesto, quando non sono in growl» obiettò, dando un altro tiro alla sigaretta e accomodandosi sul muretto su cui si fosse già seduto Nino. Che scosse la testa, sospirando.
«Ora vorrei proprio sapere come farai, a contattare quella tipa. L’hai fatta innervosire prim’ancora che potesse lasciarti un recapito qualsiasi» commentò il castano, distendendosi al sole, assaporando quegli ultimi raggi di un giorno che volgeva al termine. Adrien si grattò distrattamente la testa con il pollice, tenendo il cilindretto fra indice e medio.
«Non abita lontano da qui, la vedo venire in skate tutti i mercoledì pomeriggio. Probabilmente, frequenta il park del quartiere. So che lì hanno le rampe» disse il biondo, guardando fisso davanti a sé.
«E quindi?» Incalzò Nino. «Vuoi presentarti lì e farla incazzare ancora di più?»
«Forse» ammise l’altro, ridacchiando. In effetti, non sarebbe stata una cattiva idea. Magari, l’indomani avrebbe potuto farci un salto sul serio. E poi, non era nemmeno sicuro che l’avrebbe realmente incontrata lì. La sua, era una semplice deduzione, ottenuta in base a ciò che lui fosse riuscito ad osservare dall’inizio del secondo semestre. Avrebbe anche potuto sbagliarsi. Allora, si sarebbe fatto un giro al park a vuoto.
«Da quand’è che voi emo andate d’accordo con gli skaters?» Lo prese in giro, ottenendo un’amichevole spinta.
«La pianti di chiamarmi emo? Non sono emo» puntualizzò Adrien.
«Oh certo. Adesso mi dirai di non avere una band e che il cielo è, probabilmente, verde» rise il biondo. Ottenendo un cenno con il capo.
«Ovviamente. È “smeraldo”, non verde. Comprati un paio di occhiali» disse, con aria saccente. «E poi, non è vero che non ci sopportiamo. È Marinette Dupain-Cheng a non andare d’accordo con me» aggiunse, con un sorrisetto.
«Ma sai almeno chi sia, quella ragazza?» Gli chiese Nino. Il biondo scosse la testa, facendo cadere la cenere in eccesso dalla sigaretta, dandole un colpetto con il pollice. «Dicono che sia una specie di genio. E che si stia laureando in matematica con due anni di anticipo rispetto ai suoi coetanei», spiegò. Il più giovane si produsse in un fischio ammirato. «Nella sua facoltà è abbastanza famosa, la chiamano Marie Curie».
«E che ci fa, qui dentro, a seguire letteratura shakespeariana uno?» Domandò, non afferrando il punto. Il suo amico si strinse nelle spalle.
«Crediti extra, credo. Proprio come me».
«Come le sai, tutte queste cose?»
«Hai presente quanto questo plesso non sia poi così grande? Le voci girano. E le persone credono sempre che chi legga in silenzio sia sordo. Quando è proprio il contrario» aggiunse, sogghignando.
«A volte, mi spaventi» ribatté Adrien, dando un ultimo tiro e spegnendo la cicca sotto la suola della sua Dr. Martins. «Quindi… mi stai dicendo che ho preso in giro qualcuno che, con molta probabilità, potrebbe progettare la prossima bomba atomica, per un’ipotetica terza guerra mondiale?»
«Già» convenne. «Chi è l’idiota, adesso?»
«Sempre lei. Avrebbe potuto chiudermi la bocca con mezza parola» obiettò, prontissimo. «Invece, non l’ha fatto».
«Magari le piace, ascoltare le tue stronzate romantiche da commedia romantica» lo canzonò, ridendo, mentre il biondo protestava.
«La mia è una strategia sicura ed approvata» si ribellò il più giovane. Ottenendo solo di far aumentare il ritmico sussulto delle spalle del suo amico.
«Da chi? Il Consorzio degli Sfigati? Ti regalano una bambola gonfiabile e porno amatoriali, se entri nel club?»
«Vaffanculo».
«Dopo di te» rispose Nino, facendogli un occhiolino e cercando di smettere di ridere così tanto, alzandosi dal muretto. In quel momento, il suono di un cellulare che indicava un messaggio in arrivo li interruppe. Adrien si portò una mano alla tasca, estraendone un Samsung piuttosto vissuto, con lo schermo spaccato e gli angoli scrostati.
«Amico, per il compleanno ti regalerò un nuovo telefonino. Quel coso mi sta facendo più pena del movimento degli scettici greci» commentò il castano, occhieggiando il relitto tecnologico che il suo amico stringeva fra le dita.
«Nah, è okay» minimizzò il biondo. «Finché si accenderà, non lo cambierò» aggiunse, sbloccando la tastiera e aprendo la chat di gruppo con la sua band.

 
KozmicBlues:
È mercoledì e siamo ancora senza batterista. Senza offesa Adri, ma sei più bravo come bassista ^^’
 
PlaggRadke:
Quello stronzo di Hayden. Spero che lo boccino a vita, ai suoi esami di giurisprudenza del cazzo
 
KozmicBlues:
Il karma, fratellone. Ci penserà il karma a punirlo.
 
PlaggRadke:
Ma ‘sti cazzi del karma, Felicia, le mani addosso gliele metterò lo stesso. Aspetta solo che mi capiti fra i piedi…
 
NatheeSixx:
Stavo disegnando, le vostre notifiche mi hanno sballato le proporzioni.

 


Adrien sospirò, leggendo i messaggi accumulati. Il loro batterista, Hayden, aveva deciso di uscire dalla band. Diceva di non riuscire a stare al passo con l’università e che la scorsa sessione fosse stata un disastro per colpa loro. Così, non avevano potuto trattenerlo oltre. Tuttavia, il cattivo sangue era comunque rimasto, nell’apparato circolatorio di quella band ormai priva di un arto. Non potevano provare senza batteria e il biondo non riusciva a sdoppiarsi fra il basso e lo strumento mancante. Era impossibile.
«Bro?» Chiamò Nino, il quale si era momentaneamente voltato, seguendo con lo sguardo un gruppetto di studentesse, probabilmente matricole.
«Mh?» Rispose, riportando l’attenzione su di lui.
«Sai suonare la batteria?» S’informò Adrien, in modo del tutto casuale, non sperandoci nemmeno. Quasi non gli caddero gli occhi dal capo, quando vide il suo amico annuire.
«Da cinque anni» precisò il castano. «Ma perché?» Chiese, non capendo la reazione che il più giovane stesse avendo. Lo vide alzarsi ed afferrargli il braccio, guardandolo con i suoi grandi occhioni da gatto, mettendo su la stessa espressione che i bambini esibivano al parco giochi, di fronte allo zucchero filato.
«Ti andrebbe di entrare in una band?»



 




 


 

✿ Ibuki's little letter: ah, perdonate il ritardo! Sembra sempre che d'estate non ci sia mai nulla da fare, ma poi gli impegni si accumulano... allora! Adri e Mari già si odiano, eheheh. E posso rivelarvi che questa relazione andrà avanti in questo modo per parecchi capitoli... vi conviene abituarvi ad un bel po' di battutine acide e pessimi tentativi da rimorchio alla Chat Noir! Presto conoscerete sia i compagni di band di Adrien, che gli amici del park di Marinette: ci saranno sia personaggi conosciuti, che OC, poi vedrete! Dunque, non mi resta molto da aggiungere, se non i consueti ringraziamenti per tutte le attenzioni che donate a BF, per le recensioni, per le letture silenziose e per averla inserita nei vostri elenchi!
Alla prossima!

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3681967