The Perks Of Being A Fangirl

di Aqua_
(/viewuser.php?uid=127085)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Image and video hosting by TinyPic
 


Vi siete mai chiesti quale sia il lato positivo dell'essere una fangirl - o un fanboy, anche se sono decisamente di meno. O meglio, vi siete mai chiesti se ce ne sia uno? Perché, ammettiamolo, andare a dormire alle quattro di mattina, dopo una maratona di
Sherlock, e alzarsi due ore dopo non è proprio il massimo. Specialmente se quel giorno hai una riunione, anzi, la riunione, quella più importante dell'anno, e l'unica cosa a cui riesci a pensare è... no, scusate, non posso dirlo, magari non avete ancora visto l'episodio, e io non voglio fare spoiler.
Comunque, quello che volevo dire è che la vita di una fangirl non è affatto facile, anzi, tutt'altro. O no?
Basti pensare al fatto che siamo ossessionate - perché non c'è altro modo per definirci - da personaggi immaginari, per la maggior parte morti, e dai rispettivi interpreti. Io, ad esempio, sono ossessionata da Benedict Cumberatch... Cumberbach... lui, insomma.
In questo preciso istante, infatti, sto fissando imbambolata il mio desktop, e indovinate chi c'è come sfondo? Esatto, lui. Credo di aver anche sospirato - e piuttosto forte, direi - o di aver fatto qualcosa di simile perché 1) mi sono appena beccata un calcio sotto al tavolo con aggiunta di occhiataccia in omaggio da parte della mia collega preferita, nonché mia migliore amica e 2) tutti, capo compreso, si sono appena voltati verso di me.
Si prospetta una bellissima giornata di lavoro, se continua come è iniziata.
D'accordo, dai, da adesso in poi faccio attenzione a ciò che sta blaterando, ehm, dicendo, volevo dire "dicendo". Bla bla bla... le cose vanno male... bla bla bla... un'altra decina di licenziamenti... bla bla bla... l'azienda passa a mio figlio... bla bla bla... No, fermi tutti. Cosa? Il capo se ne va?
Mi guardo attorno, cercando di capire se ho sentito male o sta davvero accadendo. Tutti applaudono, e io faccio lo stesso, mentre un ragazzo piuttosto giovane - be', se è un ragazzo è logico che sia giovane - si avvicina al capo.
Capelli castani, occhi... be', ha gli occhi... di un qualche colore indecifrabili, decisamente non il mio tipo d'uomo.
Non che io intendessi provarci con lui, chiaro. O che abbia un tipo, ad essere sinceri.
«Il bambino ci mancava…» biascico, beccandomi l'ennesima occhiataccia da Isabel. Sì, la mia collega, nonché migliore amica, la regina delle occhiatacce. Da quando è iniziata la riunione, ovvero mezz'ora fa, mi ha lanciato almeno una trentina di occhiatacce, di cui buona parte senza motivo.
«Dunque... io vi ringrazio, innanzitutto, per la calorosa accoglienza.»
Ecco, il modo peggiore di iniziare un discorso, specialmente se sei appena diventato il capo di questo gruppo - o forse dovrei dire branco? Sì, è decisamente meglio branco - di incompetenti. Ebbene sì, lo ammetto, siamo una massa di incompetenti. E poi, diciamocelo, l'accoglienza che gli abbiamo appena riservato era tutt'altro che calorosa, un po' per la sorpresa, un po' perché... non lo so, probabilmente oggi non è giornata.
«Spero che potremo diventare amici, oltre che colleghi.»
Oh no, non l'ha detto davvero. Trattengo a stento una risata. Poveri noi, questa è la volta che l'azienda chiude davvero. Dovrei iniziare a cercarmi un nuovo lavoro. Potrei fare, non so... la scrittrice. Sì, farò la scrittrice. La scrittrice di gialli, ovviamente. Agatha Christie 2: la Vendetta, mi chiamerò così. O anche no. Forse potrei scrivere romanzi rosa pieni di cliché che nemmeno la peggior soap opera può immaginare – che poi, non ho mai capito il perché del noma soap opera. Ha qualcosa a che fare con il sapone? - o potrei buttarmi sui fantasy per ragazzi. La principessa e il drago non è un titolo meraviglioso? No? Okay, vorrà dire che farò altro.
«E per la rossa laggiù che continua a ridacchiare, ho ventisei anni, non diciassette.»
Merda.                                                                     
Sono appena diventata "la rossa" e ho appena fatto la peggiore delle figuracce con il nuovo capo. Giuro che vorrei sprofondare, scomparire, seppellirmi viva o quant'altro. Come se non bastasse, sto andando a fuoco. Non sono arrossita, no, io non arrossisco mai. Io mi infiammo direttamente, salto un passaggio. Così, per risparmiare. Cerco di ignorare gli sguardi divertiti dei miei colleghi – bastardi – e mi concentro sulla (pessima) manicure che son riuscita a fare un paio di giorni fa. Dovrei seguire un corso accelerato per estetista e cambiare lavoro. E anche piuttosto in fretta.
«Ha intenzione di rimanere qua tutto il giorno, signorina...?»
Sbuffo, non ho di certo voglia di parlare con il bambino. Bambino invecchiato, ecco come lo chiamerò da oggi in poi.
«Mills, Natalie Mills, e no, adesso me ne vado.»
«Bene. Buon lavoro, signorina Mills.»
Antipatico. Rimarrei in sala riunioni solo per fargli un dispetto. Quando esco, non lo saluto nemmeno. Non è che abbia fatto qualcosa di particolarmente grave per indispormi così nei suoi confronti, è solo che mi infastidisce, non posso farci nulla.
Raggiungo la mia scrivania quasi correndo e mi lascio cadere molto aggraziatamente sulla sedia. Per modo di dire, ovviamente. Sono aggraziata quanto un orso bruno, come direbbe mia madre. Anzi, no. Lei direbbe che un orso bruno senza una zampa e con il mal di schiena riuscirebbe comunque ad essere più aggraziato della sottoscritta. Il genere di complimenti che ti mette di buon umore, insomma.
«Grazie per avermi detto che la riunione era finita, eh! Lo sai che sono distratta.»
Isabel sorride, voltandosi verso di me.
«Pensavo volessi scusarti con il capo» si giustifica, con un'alzata di spalle.
«Scusarmi per cosa?»
«Per averlo definito un bambino?» interviene Leah, una biondina tutto corpo e niente cervello, e non lo dico per cattiveria. «O per aver ridacchiato durante il suo discorso?» continua, imperterrita. «O per avergli mancato di rispetto in quel modo? O per...»
«Ho capito, grazie» la liquido con un gesto della mano. «E poi, non stavo ridacchiando. Sorridevo» aggiungo, rivolta più a me stessa che a qualcun altro.
«Be', potevi sorridere in modo meno vistoso, no?»
«Disse colei che sorride come un... come un... oh, lascia perdere» sbuffo, aprendo a malavoglia il portatile. Non perché non abbia voglia di aprire il portatile, ma perché dovrei anche lavorare. Ogni tanto devo pur farlo. Anche se, se vogliamo essere sinceri, quando accendo il pc qui a lavoro, la prima cosa che faccio non è aprire Word e mettermi a lavorare su uno degli articoli che ci assegna il capo, no, prima vado a leggere un paio di fanfiction, poi, dopo un'oretta, inizio a lavorare. È la mia normale routine, quindi per quale motivo dovrei cambiarla proprio oggi? Esatto, non c'è nessun motivo.
«Hai letto la Drarry che ti ho consigliato ieri?» sussurra Isabel, cercando di farsi sentire il meno possibile dagli altri.
Isabel non è proprio una fangirl come me, ma si avvicina molto. È una di quelle persone che stravede per le coppie slash, di qualunque tipo siano. Passerebbe giornate intere a parlarne, se solo potesse, ed è una cosa che apprezzo particolarmente. Stare con lei mi fa sentire un po' meno idiota.
Faccio cenno di no, non l'ho letta.
«Com'è che si chiama?»
«Moonlight in the City of Stars
Batto il nome sulla tastiera e premo invio. In una ventina di secondi sono lì, la storia pronta ad essere letta. Rating rosso, una quarantina di capitoli, una pacchia, insomma. Non prendetemi per una pervertita o per una maniaca, non lo sono. Credo. Finora nessuno mi ha mai voluta rinchiudere per uno di questi due motivi, quindi credo di essere abbastanza normale. Ehi, non agitatevi. Ho detto abbastanza, non del tutto. Anche perché mi sa che è difficile trovare qualcuno sano di mente, in questi fandom. In qualunque fandom, probabilmente, ma tralasciamo. Tornando alla storia, la Drarry, i capitoli scorrono velocemente, lisci come l'olio, e sono quasi arrivata al momento clou quando Isabel, nonostante l'abbia già letta almeno un centinaio di volte, viene a curiosare.
«Dai, Isabel, lasciami leggere» sbuffo, allontanando il suo volto dalla mia spalla.
Se non fosse che il volto che sposto è un po' troppo peloso per essere quello di una donna. Alzo lo sguardo e mi accorgo che Isabel è tranquillamente seduta dietro la sua scrivania, la fronte corrucciata, come tutte le volte che lavora. Sempre, quindi, o comunque più spesso di quanto faccia io.
«Molto interessante, signorina Mills. Potrebbe seguirmi nel mio ufficio, vorrei discutere con lei del suo, ehm... lavoro
Oh, perfetto. Seconda figuraccia con il nuovo capo. Due in un giorno, sto dando il meglio di me. E tutto per colpa di cosa? Del mio essere fangirl.
Ve l'avevo detto, no? La nostra non è una vita facile.


Angolino Autrice:

Allora... buonsalve a tutti! La faccio breve, così non vi annoio troppo: ho avuto la malsana idea di revisionare questa storia, motivo per cui - per coloro che l'avevano già letta - potrà sembrarvi strano ritrovarla senza, be', senza gli ultimi sei capitoli. Inizialmente avevo pensato di eliminarla del tutto e ripostarla dall'inizio, ma non ho avuto il coraggio di farlo - anche per tutte le povere anime che hanno perso del tempo a recensirla, non è mica giusto, no? Niente, ho cercato di aggiustare un po' di cose, togliendo alcune cose e aggiungendone altre, cercando di dare un senso al tutto - ancora non so se mi sia riuscito o meno? A voi il giudizio.
Grazie a tutti coloro che hanno letto fino qui - o che l'avevano già fatto.
Un bacio,
Aqua_

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Image and video hosting by TinyPic




L'ufficio del vecchio capo era bello. Davvero bello, pieno di mobili antichi e quadri che sembravano appena usciti da una mostra sul diciassettesimo secolo.
Non perché il capo li avesse rubati, solo perché erano di quel periodo. No, probabilmente erano copie ben fatte, perché dubito che potesse permettersi gli originali. Il massimo della trasgressione, per lui, era tenere il riscaldamento un po' più alto del solito. Giusto per farvi capire come andassero - e vadano tuttora - le cose qui al lavoro. Male. Molto male.
Comunque, se l'ufficio del capo era bello, quello del nuovo capo è mille volte meglio. È spettacolare, dico davvero, meraviglioso. A parte il fatto che è enorme, almeno il doppio del precedente, ha una finestra che dà direttamente sul Tamigi. Una vista mozzafiato. E, se devo essere sincera, vorrei che me lo mozzasse davvero, il fiato. Non sono psicologicamente preparata per ricevere una sgridata di quelle colossali - cosa che accadrà tra poco, sicuro come... come... di certo, insomma.
«Si sieda, prego.»
Il capo si piazza - sì, ho detto proprio piazza - dietro la scrivania con così tanta nonchalance da farmi venire voglia di prenderlo a schiaffi. Insomma, mi ha beccata a farmi i fatti miei sul posto di lavoro, potrebbe almeno fingere di essere un po' arrabbiato. Stizzito, se non altro. Invece no, è più che tranquillo. Tranquillissimo, come se non fosse successo niente, o come se la cosa non lo turbasse affatto - o peggio, lo divertisse.
Cerco di sedermi con la sua stessa tranquillità, imitando quella bellissima mossa felina che ho visto fare ad Isabel fin troppo spesso, ma riesco solo ad inciampare nei miei piedi, perdere l'equilibrio e finire, no, atterrare, sulla sedia con un tonfo tutt'altro che silenzioso. Il capo reprime un sorriso - o forse è più esatto dire ghigno - e io non posso fare a meno di maledire la mia geniale idea di qualche istante fa.
«Dunque, signorina Mills, vuole gentilmente spiegarmi cosa stava facendo al posto di lavorare?»
Eccola, la domanda che volevo a tutti i costi evitare. E adesso che gli dico? Oh, niente, leggevo fanfiction vietate ai minori su una coppia gay? No, meglio evitare. A parte il fatto che 1) dovrei spiegargli cos'è una fanfiction, e io non sono in grado di spiegare nulla, 2) potrebbe licenziarmi su due piedi per via del "vietate ai minori" e 3) non voglio che si faccia idee sbagliate su di me. Che poi, se mi licenzia, perché dovrebbe importarmi di quello che pensa?
«Io, ehm... stavo lavorando» mento.
Perfetto, Natalie, prendi tempo. E pensa ad una scusa decente, mentre lo fai.
«Stava lavorando? E su cosa, se posso saperlo?»
Oh, ehm...
Inventati qualcosa, e in fretta!
Diritti universali dell'uomo... no, già usato; giovani scrittori emergenti del mondo... no, non ci crederebbe.
Trovato!
«Mi stavo documentando sulla fauna del Kenya per quell'articolo che...»
Complimenti. No, davvero, brava.
Shh, taci, coscienza. È colpa tua se siamo qui.
Il capo sbuffa, ma senza togliersi quel ghigno pervertito... divertito, scusate, dal volto. Sto facendo la figura dell'idiota, d'accordo, ma potrebbe evitare di ridermi in faccia, no? E no, il fatto che io abbia fatto lo stesso mentre lui parlava, questa mattina, non vuole dire nulla.
«Signorina Mills, vuole fare un giro nella mia stanza del dolore?»
Eh?
Oddio, è un pervertito. Lo sapevo io. Un maniaco travestito da dirigente.
«La sua... cosa?»
«Stanza del dolore. Sa cosa succede là dentro?» domanda, indicando una porta alla mia destra.
Si trasforma in Christian Grey. Non ce lo vedo, onestamente, ma magari va a gusti.
Faccio comunque cenno di no con la testa, cercando al contempo di scacciare l'immagine di lui con una tutina di latex. Fosse Evan Peters, allora sì, ma lui... ugh.
«Lì, licenzio i dipendenti. Vuole essere la prima?»
Ripensandoci, la tutina di latex non è poi una cattiva idea.
«Non mi licenzi, la prego» lo supplico, sbattendo le ciglia come solo una donna sa fare.
Ovviamente, io non posso essere una donna, perché sono totalmente incapace di farlo. Spero solo di fargli così tanta pietà da convincerlo a lasciarmi il posto. D'altronde, dove la trova un'altra come me?
«Perché non dovrei? Mi dia una buona ragione. Insomma, a quanto pare lei mi ha preso per un cretino, mi scusi la parola.»
Oh sì, ti scuso, tranquillo.
Che poi, io non l'ho preso per un cretino. Sono quasi sicura che lo sia. Quasi. Forse un po' furbo è.
«Be', io... io...»
«Vede? Nemmeno lei ne trova.»
Okay, è l'ora di passare al piano B.
«La prego, la prego, la prego, la prego... Io ho bisogno di questo posto!»
Lo sto praticamente supplicando, dovrebbe avere davvero un cuore di pietra per non cedere.
«Perché?»
Perché? Mi ha davvero chiesto perché ho bisogno di questo lavoro?
«Ha idea di quanto sia difficile trovare un lavoro, di questi tempi? Se mi licenzia, avrebbe una senzatetto sulla coscienza.»
Okay, forse non è la cosa più adatta da dire, ma tant'è. Magari, facendo leva sulla sua coscienza - sempre ammesso che ne abbia una - riesco a rimanere qui, alla Clarkson Enterprise. Odio questo postaccio, ma è sempre meglio di nulla. E poi, io dovrei, teoricamente, pagare l'affitto del mio appartamento. Teoricamente. In pratica, sono indietro di un paio di mesi. Tutto perché ho speso la bellezza di duecento sterline per comprare il cacciavite sonico. Sì, quello di Doctor Who. Chiamatemi pazza, se volete, ma sappiate che averlo sempre sul comodino accanto al letto mi riempie di gioia, formula pomposa per dire che ci gioco tutto il tempo, neanche fosse vero.
«Mi sta ascoltando?»
Uhm... no. Decisamente no.
«Certo.»
Sono una bugiarda patologica, mi sa. Lui, però, non sembra essersi accorto della mia spudorata - ed evidente - menzogna, perché riprende a parlare come se niente fosse. Odio quando lo fanno. Dai, la mia capacità di mentire è quasi pari a zero, come si fa a non accorgersene?
«Dunque, riassumendo, lei non perderebbe il posto, verrebbe solo, come dire, declassata. Accetta?»
Faccio cenno di sì con la testa, sebbene non sappia affatto cosa stia accettando. Non è che mi importi molto, a dire il vero. Finché non mi licenzia va bene tutto, o quasi.
«Allora incominci a sbrogliare la sua scrivania e, mentre lo fa, mi porti un caffè. Poi, quando ha finito, venga qui. Ci sono un po' di carte da mettere in ordine.»
Adesso, le cose sono due: o sono appena diventata la sua serva, oppure la sua segretaria. Non so come - anche se, probabilmente, lui mi ha spiegato tutta la procedura - ma ormai ho accettato.
Uscendo dall'ufficio, mi lascio scappare uno sbadiglio colossale, uno di quelli che arrivano solo quando sei davvero stanco, e mi ritrovo a maledire la bella idea di stare sveglia per guardare le puntate, ormai viste già una decina di volte, di uno dei miei telefilm preferiti.
«L'ho sentito!» urla il capo, da dentro la stanza, facendomi arrossire per la vergogna - o meglio, facendomi andare a fuoco.
Per mia fortuna, i distributori automatici sono abbastanza lontani da dove sono io, praticamente dalla parte opposta dell'edificio, e la distanza mi concede il tempo di svegliarmi del tutto. Quando mi ci ritrovo davanti, mi viene in mente che lui, il signor Clarkson, non mi ha nemmeno dato i soldi per pagarglielo, il caffè. Se si aspetta che glielo offra io, si sbaglia di grosso. Lo prendo comunque, ma conto di farmi ridare la mia sterlina non appena arrivo nel suo ufficio.
«Lei mi deve una sterlina.» esordisco, appoggiando il caffè sulla sua scrivania.
«Scusi?»
«Una sterlina. O forse si aspettava che glielo offrissi? Non mi fraintenda, lo farei, ma...»
«Tenga.»
Mi interrompe ancora prima che finisca la frase, mettendo le monete sulla scrivania.
«La prossima volta, però, vada nella sala comune, al piano di sotto. Lì è gratis.»
Ah. Ecco, terza figuraccia. Mi sembrava che due fossero poche. E poi, lui come fa a saperlo? Io lavoro qui da quasi due anni e nemmeno sapevo che esistesse una sala comune - che fa molto Harry Potter, tra l'altro - mentre lui, che è arrivato da nemmeno un paio d'ore, sa già tutto. Glielo avrà detto suo padre, suppongo, oppure ha una mappa di tutto l'edificio e, al posto di aver segnato i passaggi segreti per arrivare da una parte all'altra, si è segnato i punti in cui danno caffè gratis. Che è probabile, mi sa.
«Finalmente, iniziavo a credere di dover scrivere io il tuo articolo!»
Oh, ciao, Natalie. Mi stavo chiedendo dove fossi. Com'è andata con il capo? Non ti ha licenziata, vero? Non può farlo.
«Mi sa di sì, Leah» sbuffo, iniziando a raccogliere i vari fogli che ho lasciato sulla mia scrivania.
Sono più che altro fogli che un insegnante definirebbe volanti, ma non ho alcuna intenzione di buttarli. Ci sono scritte un bel po' di stupidaggini, sopra, ma a me piace conservarli. Non si sa mai, magari tra una decina d'anni mi verrà voglia di rivedere cosa facevo quando ero una giovane donna in carriera. Oddio, in carriera mica tanto, dopo la mia ultima furbata.
«Si può sapere perché stai mettendo via tutto?» domanda Mike, l'ultimo arrivato.
«Il capo è in vena di cambiamenti» mi limito a dire, con un'alzata di spalle.
Lui impallidisce - no, sbianca - come se avessi detto una cosa chissà quanto spaventosa. Probabilmente ha paura di essere licenziato, e posso capirlo.
«Ti ha licenziata? Ti prego, Nat, dimmi di no.»
«No, Isabel, tranquilla. Mi ha solo declassata» spiego, facendo il verso a Mister Parolone.
«Declassata?»
Annuisco.
«In pratica, vuol dire che sono diventata la sua segretaria» biascico, sentendo addirittura le orecchie iniziare a scaldarsi per la vergogna.
Se ce una cosa che proprio non potrei sopportare è vedere quello sguardo di compassione negli occhi dei miei colleghi. Come quello che c'è negli occhi di Leah in questo preciso istante, motivo per cui distolgo lo sguardo da lei e abbasso la testa, in modo che i capelli mi coprano il viso. Rosso con rosso, perfetto. Non si nota nemmeno la differenza, ma, onestamente, non so se sia un bene o un male.
Mi ci vogliono tre viaggi per portare tutte le mie cose davanti all'ufficio del capo, tre viaggi lunghi e faticosi, nonostante le due stanze distino tra loro solo una decina di metri. Ma lasciate che vi dica una cosa, io non sono poi così sportiva, quindi anche solo uscire da casa e andare a prendere la metro - le cui scale sono appena davanti al portone del palazzo in cui vivo - mi costa una fatica immane. Potrei essere un po' pigra, lo ammetto.
«Venga.»
A quanto pare, i riflessi del capo sono estremamente pronti. Non mi ha nemmeno dato il tempo di bussare che già mi ha detto di entrare. O forse c'è una telecamera nascosta appena fuori dal suo ufficio, e lui da dentro riesce a vedere tutto ciò che accade.
«Ho liberato la scrivania.» mi limito a dire, mentre nella mia testa si insinua il dubbio su dove deciderà di mettermi a lavorare. Spero non nello sgabuzzino delle scope, anche se, probabilmente, è l'unica stanza libera. Se non si tiene conto delle scope, certo.
«Bene. Vieni un attimo qui, Natalie. Posso darti del tu, vero?»
«Certo.»
Da quando sono entrata, non ha alzato lo sguardo dallo schermo del computer. Cose di lavoro, probabilmente. Non che io ne sappia qualcosa, chiaro.
«Dimmi un po', che relazione c'è, esattamente, tra Harry Potter e Draco Malfoy?»
O. Mio. Dio.
Ecco perché non alzava lo sguardo dal desktop. Davanti ai miei occhi - e anche ai suoi, ovviamente - c'è la fanfiction che stavo leggendo prima che lui mi scoprisse e, dal suo sguardo, ho come l'impressione che gli piaccia.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Image and video hosting by TinyPic




Mi chiamo Natalie Mills, ho ventiquattro anni e ho appena trasformato il mio capo in un mostro.
Dico sul serio, nei suoi occhi riesco a cogliere lo stesso sguardo di una slasher sfegatata. Lo stesso sguardo che avevo io mentre leggevo - quello che ho sempre, a dire il vero, anche se io assomiglio di più a una carpa appena pescata.
«Allora? Che relazione c'è tra loro due?»
Sospiro, cercando un modo per spiegarglielo. Non posso certo dirgli la verità. Non posso dirgli che non c'è nessuna relazione tra Malfoy e Potter e che quello è il frutto di una mente leggermente deviata come quella della sottoscritta. O forse sì, potrei dirglielo, ma dovrei forse correre il rischio di essere ritenuta una pazza? E no, il fatto che lui abbia lo stesso sguardo assatanato da fangirl - o meglio, fanboy - non è un'attenuante.
«Allora? Natalie?»
Menti, Nat, menti spudoratamente.
«Ehm, a dire il vero... Non ne ho idea.»
Spero con tutta me stessa che ci creda, anche se dubito fortemente che possa farlo. Anche perché, diciamocelo, sono la peggiore bugiarda di tutto il mondo, se non si fosse ancora capito. Anzi, di tutta la galassia.
«Okay» si limita a dire, e io posso tirare un sospiro di sollievo.
Sto quasi per sentirmi più rilassata, quando il signor Clarkson decide di pronunciare sette parole - le uniche sette che non avrei mai voluto sentire nella stessa frase, soprattutto se dette da lui.
«Vorrà dire che lo scoprirò da solo.»
No. No. No. No.
Non può averlo detto davvero. Non può. Non è pensabile che lo abbia detto.
Devo impedirlo. Non può davvero cercare "relazione tra Draco Malfoy e Harry Potter" su Google - cosa che, tra l'altro, ha appena fatto. Per mia fortuna, i risultati non sono così scabrosi come immaginavo. A dirla tutta, non c'è nulla di cui doversi preoccupare particolarmente. È quando digita "Draco Malfoy + Harry Potter" che inizio a preoccuparmi, visti i primi tre risultati: slash, fanficton e slash fanficton.
«Quale scegliamo?» sussurra, a voce talmente tanto bassa che subito penso stia parlando da solo. Quando, però, si volta verso di me, mi trovo costretta a rispondergli.
«Ehm...»
«Non importa. Uhm... questo.»
Sceglie un risultato a caso, che, ovviamente, è slash. Mai, e dico mai, una volta che la fortuna sia dalla mia parte. Stringo nervosamente le dita attorno allo schienale della sedia, cercando un modo di impedire che veda quello che sicuramente vedrà, a meno che io non glielo impedisca, scusate il gioco di parole. Ecco, se avessi con me il cacciavite del Dottore sarebbe tutto più facile. Un click e via, il computer sarebbe già spento e, probabilmente, anche da buttare. Adesso ditemi che non sarebbe utile.
Per mia grandissima fortuna, la pagina è abbastanza lenta a caricare, il che mi concede una decina di secondi per pensare. Cosa farebbe il Dottore? Ah, be', lui avrebbe il cacciavite sonico. E cosa farebbe Sherlock? Oh. Ma certo. Perché non ci ho pensato prima?
Faccio casualmente cadere a terra il mio cellulare - non giudicatemi, non ho trovato altro - che, ovviamente, inizia a squillare. Nonostante l'imbarazzo per la suoneria (che ho cambiato proprio questa mattina in metro, tra l'altro), riesco a staccare il cavo del computer, rischiando di causare un cortocircuito in tutto l'edificio.
«Natalie!»
Dal suo tono capisco di essere riuscita nel mio scopo. Potrei mettermi a ballare, talmente sono felice, ma non sarebbe il caso.
«Sì?» dico, guardandolo e facendo lo sguardo innocente che mi riesce tanto bene. Non sto scherzando, sono bravissima a farlo. Almeno una cosa le riesce, direte voi, e avete ragione.
«Hai appena staccato il cavo del mio computer, per caso?»
«Non l'ho fatto apposta» mento, cercando di sembrare il più sincera possibile.
Lui sospira, più per la stanchezza che per la rabbia, credo.
«Hai intenzione di rispondere a quel dannato cellulare?» sbotta, qualche istante dopo, facendomi trasalire.
Pff, snobbare in questo modo la mia bellissima (e imbarazzantissima) suoneria. Ma chi si crede di essere? Scommetto che la sua è una di quelle preimpostate, di suoneria. Ad ogni modo, non rispondo alla chiamata e riattacco semplicemente.
«E adesso, potresti dirmi per quale motivo hai staccato la corrente?»
E rieccoci. Adesso che gli dico? Dalla sua faccia, mi sa che potrebbe anche licenziarmi seduta stante.
«L'ho fatto per lei.» mi limito a dire, evitando di scendere nei particolari.
Fortunatamente, lui decide di credermi - o almeno, di far finta di credermi - e lascia cadere la questione.
Si passa una mano tra i capelli, sospira e si appoggia allo schienale, mentre io mi limito a stare lì impalata, sempre più vicina alla porta.
«Sei brava con la lingua, Natalie?»
Eh?
Non l'ha appena detto. Non l'ha fatto, vero? Non mi ha appena chiesto una cosa del genere. Non mi sembrava così disperato da fare richieste tanto esplicite. Evidentemente mi sono sbagliata.
«Scu-Scusi?» balbetto, troppo incredula per riuscire a formulare una frase di più di due parole.
«Ti ho chiesto se sei brava con la lingua, se ci sai fare, insomma.» ripete, con lo stesso tono che userebbe davanti a un bambino. Sempre ammesso che osi dire una cosa del genere a un bambino.
Mi sento avvampare più del solito, talmente tanto velocemente che in una frazione di secondo le mie orecchie sono già bollenti.
«I-Io... Non credo di aver capito.»
Wow, sei parole. Ho appena battuto il mio record personale.
«Quanto sai usare la lingua, Natalie? Ho dato un'occhiata al tuo curriculum e non mi è parso che tu sia laureata in Lettere.»
Posso dire una cosa? Una cosina-ina?
Vaffanculo, signor Clarkson. Con tutto il cuore.
Mi ha fatto perdere dieci anni di vita, il simpaticone. Certo, sono io quella che ha subito pensato male, però lui poteva esprimersi meglio.
«Io, uhm... non ho mai finito l’università, m-ma ero iscritta a Lettere!» rispondo, mentre riprendo un colorito normale.
«Bene. Per domani voglio una relazione sulla differenza tra il XIX secolo ed oggi in campo letterario.»
Perfetto, il mio campo.
Non ho idea di perché lo voglia, ma non mi importa molto, a dire il vero. No, forse un pochino mi importa.
«Potrei sapere il perché?» domando.
«No, puoi solo sapere che lo voglio» risponde lui, scuotendo la testa. «E adesso potresti farmi il favore di aiutarmi con questi fascicoli?» aggiunge poi, indicando una pila di dossier alta almeno quanto me.
Certo, tanto non ho altro da fare, vero? Cielo, se solo penso che potrei tranquillamente starmene dietro la mia scrivania a lavorare duramente (ovvero, farmi i fatti miei) mi viene un nervoso che non potete nemmeno immaginare. O forse sì, potete farlo.
«Cosa dovrei fare, esattamente?» domando, reprimendo uno sbuffo che rischia di rendere poco credibile il mio tono da persona seria.
«Dobbiamo metterli in ordine, dai più vecchi ai più recenti, e anche in ordine alfabetico.»
E poi? Mi sa che qui ci perdo tutta la giornata, e anche la pausa pranzo. Tra l'altro, mi sto seriamente chiedendo che ora sia, ma a quanto pare avere un orologio in ufficio non è una delle priorità del capo. Anche perché, a essere onesti, credo che quel Rolex al polso da millemila sterline gli basti e avanzi.
Con la scusa di prendere i fascicoli, cerco di dare una sbirciatina al suo orologio. Con mio grande dispiacere - anche se sarebbe più corretto dire disperazione - scopro che manca ancora più di un'ora alla mia pausa pranzo, il che non fa altro che tirarmi ancor più giù di morale, morale che oramai è finito nel Tartaro già da un po'.
«Dividili per anno» si limita a dire, vedendomi litigare con quei fogli.
Ovviamente, non intendo litigare in senso letterale. Mi sono limitata a guardarli male, sperando che bruciassero per autocombustione. Altrettanto ovviamente, però, non è successo. Sarebbe stato un vero e proprio miracolo. Comunque, lasciamo perdere i miei litigi immaginari con fascicoli inanimati. Metto l'ennesimo fascicolo tra quelli datati al 1946 - ennesimo per modo di dire, è solo il quinto - e iniziano a sorgermi spontanee due domande: 1) quanto accidenti è vecchia questa azienda? e 2) non è che i fascicoli sono già in ordine? No, perché non può essere un caso che sia io che il capo abbiamo trovato solo fascicoli di quell'anno. O sì? Dite che può essere un caso? No, secondo me no. La mia logica sherlockiana mi impedisce di credere a una tale ipotesi.
Passo più di un'ora e mezza con quelle domande in testa, fra uno starnuto per la polvere e un'imprecazione soffocata, fino a quando il capo non decide che è arrivata l'ora di pranzo.
Solo per lui, ovviamente.
Io devo rimanere qui a finire di mettere in ordine questi dannati documenti anche se ho i crampi allo stomaco. Capitemi, sono tre ore che non mangio. A dirla tutta, poi, non ho nemmeno fatto una colazione così sostanziosa. Cioè, avete presente il tipico brunch della domenica, quello che si fa quasi sempre verso mezzogiorno? Ecco, io l'ho fatto alle nove di mattina. È logico che abbia di nuovo fame.
Comunque, fatto sta che, mentre io sono qui a contorcermi per la fame, il mio caro capo è andato a pranzare, e io devo aspettare che torni lui per poter mettere qualcosa sotto i denti, anche se la voglia di mollare tutto e andare al McDonald che c'è qua di fronte è tanta. Questo è sfruttamento, poco ma sicuro. Quando torna gli faccio un bel discorsetto. Non può permettersi di tenere i suoi dipendenti in questo stato, maledetto...
«Cosa?»
«Stronzo.»
Accidenti.
Perché ho la brutta impressione di aver appena fatto la peggiore delle figure possibili. Perché sono un'idiota che non si è nemmeno resa conto di star parlando ad alta voce, ecco perché. Non ho nemmeno la forza (e il coraggio) di voltarmi per vedere se è davvero il capo quello che è appena arrivato e a cui ho appena dato dello stronzo. Non posso farcela. Non può capitare tutto a me, non è giusto.
«Ti prego, continua. Non mi arrabbio.» dice, sbrogliando la scrivania per appoggiarci sopra quello che ai miei occhi sembra proprio cibo. No, impossibile, devo avere le allucinazioni. Eppure, a me questi sembrano proprio due sacchetti del Mc.
«Io, cioè... Stavo vaneggiando, non lo penso davvero.» mi scuso, anche se so perfettamente che non è la verità.
Devo ammettere, però, che potrei anche rivalutarlo. Voglio dire, mi ha portato del cibo. CIBO.
«Spero tu non sia una da insalata, anche se, a giudicare dai brontolii del tuo stomaco, direi proprio di no.» dice, sorridendo, mentre tira fuori non uno, non due, ma tre panini. Evidentemente, nemmeno lui ha mangiato.
«Be', buon appetito.» aggiunge poi, appena prima di fiondarsi su quel povero panino come se non mangiasse da mesi.
Cercando di non ridergli in faccia, faccio lo stesso. Perché dovrei ridere? Voi avete mai visto uno in giacca e cravatta mangiare un panino? No? Be', vi assicuro che è divertente. Specialmente se quello specifico "uno" è il vostro nuovo capo.
«Mmh, tra l'altro, Natalie, non voglio che mi chiami "capo", "signore" o cose simili, capito?»
Faccio cenno di sì con la testa, ricordandomi il discorso - per modo di dire -  che ha fatto quella mattina.
«Sono Robert. Solo Robert.»
Vuole essere nostro amico.
Per ora, temo dovrà accontentarsi di essermi amico-nemico – esatto, proprio come Red e Toby, nemici-amici, possibilmente con un finale meno tragico. Inoltre, non ho ancora deciso se mi stia simpatico o no. 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Image and video hosting by TinyPic




Vorrei davvero poter dire che io e il capo abbiamo trascorso un pomeriggio entusiasmante, parlando del più e del meno, ma sarebbe una balla di dimensioni colossali. Avete presente il lato B di Nicki Minaj, o come si scrive? Ecco, moltiplicatelo per, uhm..., mille. Quelle sarebbero le dimensioni della mia innocente bugia.
Vi spiego: in pratica, abbiamo passato il tempo mettendo in ordine cronologico quei maledetti fascicoli, per poi scoprire che erano già in ordine. Dopo, non contento di tutto quel lavoro inutile, il capo ha deciso di fotocopiarli tutti e trascriverli - o meglio, farmeli fotocopiare e farmeli trascrivere - al computer. Adesso ho una domanda, ma come diavolo gli è saltato in mente? Cioè, mi ha fatto sprecare un intero pomeriggio a copiare dati, nomi e date, quando invece avrei potuto trascorrerlo a parlare di cose molto più interessanti di quei vecchi fogli.
Credo sia stata la prima volta in cui io sia stata davvero felice di tornare a casa. A essere sinceri, però, a casa ci sono rimasta per - quanto? - due ore, perché poi Isabel, la peggiore coinquilina nella storia dei coinquilini, ha avuto un'altra delle sue idee. Di quelle geniali, davvero. Ha deciso che, visto che io avevo sgobbato come non mai, noi dovevamo andare a ballare, il che non avrebbe fatto una piega, se non fosse stato che i miei poveri piedi imploravano pietà e minacciavano di farmi cadere in mezzo alla strada. Fatto sta, comunque, che adesso mi trovo in un locale davvero troppo affollato, con la musica troppo alta, stanca morta e sola. Sì, sola, perché la mia cara e gentilissima amica ha deciso di abbandonarmi per sparire con un tizio platinato. Cioè, i suoi capelli erano biondo platino, non lui. Sarebbe stato troppo strano anche per Izzy - ovvero Isabel, il cui soprannome è stato spudoratamente ispirato dalla saga di Shadowhunters. Ma tralasciamo. D'altronde, sono stata io a spingerla a provarci con lui, ma con tutt'altro fine. Io volevo sapere se fosse, ehm, dell'altra sponda, ipotesi che si è rivelata del tutto infondata. Ormai sono fuori controllo. Ho una concezione completamente distorta della realtà. Vivo in un mondo in cui metà della popolazione ha fatto coming out e l'altra metà sta per farlo, non so se mi spiego, e tutto ciò si ripercuote sulla mia vita. Adesso capite perché sono così?
Comunque, sto seriamente prendendo in considerazione l'idea di andarmene e lasciare la povera Isabel da sola. Per modo di dire, ovviamente, visto che è in compagnia di quel tipo che sembra la versione bionda del protagonista di Piovono polpette. Osceno, davvero, ma non mi sorprenderei se domani vedessi la mia migliore amica ancora in compagnia di quel ragazzo. Le piacciono i tipi strani, non posso farci niente. Che poi, chi sono io per giudicare? I miei gusti in fatto di uomini sono ancora più indecenti dei suoi. Questo secondo i miei genitori, ovviamente. Hanno sempre criticato qualunque ragazzo portassi a casa. Questo è troppo basso, questo ha lo sguardo da pesce, questo sembra arrivato direttamente dal 1700, questo ha fatto un giro in lavatrice con la sua amica Candeggina... cose del genere, insomma. Avevano ragione, per carità, ma potevano anche evitare, ogni tanto.
Devo davvero trovare un modo per smettere di cambiare discorso in questo modo. Sì, insomma, lo faccio ogni volta. Inizio a parlare di una cosa e poi passo subito ad un'altra. È snervante, sapete?
Quindi, cosa stavo dicendo? Ah, sì.
Voglio andarmene. Davvero, non ce la faccio più, ho raggiunto il mio limite di sopportazione massimo. Se almeno si degnassero di servirmi un solo benedetto drink, ma a quanto pare senza documenti non ti fanno bere nulla. Neanche non dimostrassi la mia veneranda età. Voglio dire, si vede che non sono minorenne. Però no, non vogliono servirmi niente. E, se ve lo state chiedendo, fare gli occhi dolci al barista è inutile, ho già provato.
Sbuffo sonoramente, come per attirare l'attenzione di qualcuno, ma ovviamente nessuno se ne accorge. Non che me lo aspettassi, eh. Sono in un posto in cui ci saranno sì e no un migliaio di persone, e non esagero. Inoltre, lo spazio del locale è anche abbastanza ristretto, quindi sono tutti accalcati gli uni sugli altri. E poi ci sono io, in un angolino, a guardarmi le unghie, per quanto questa luce psichedelica lo permetta. Luce che, tra l'altro, mi ha già fatto venire il mal di testa. Per mia fortuna, ho già il mio rimedio pronto. Tiro fuori dalla borsetta un paio di pastiglie di Tachipirina, le mie salvatrici. Faccio per ingoiarle nonostante non abbia nulla con cui mandarle giù, ma una mano blocca il mio braccio, impedendomi di muoverlo.
«Sa, signorina, la droga non è legale.»
Ecco, ci mancava solo questo. Chi non ha voglia di venire arrestato perché prova a farsi passare il mal di testa? Non che io sappia con certezza che sarò arrestata, ma ho la vaga sensazione che succederà.
«Sa, nemmeno interrompere una persona che cerca di fare una cosa è legale» commento, acida.
Non guardatemi così. So che non avrei dovuto dirlo, ma divento facilmente irritabile quando non sto bene.
L'uomo - o ragazzo, non saprei - ride, una risata gutturale che è in grado di farmi perdere del tutto la pazienza. Poi, come se non bastasse, ha anche il coraggio di sedersi al mio stesso tavolo. Quando lo fa, riconosco una persona che mai più avrei voluto vedere.
«Potresti almeno condividere, Nat» dice, con un tono stomachevole talmente è falso.
«La Tachipirina, Max? Ecco» rispondo, porgendogli una delle pastiglie, senza riuscire ad evitare di storcere il naso quando pronuncio il suo nome.
Lui ride di nuovo e io sento il mio alter ego psicopatico fare forza per uscire. No, non posso ucciderlo. Non davanti a tutta questa gente, almeno.
«Sai, sei bella, Natalie. Lo sei sempre stata.»
Okay, è ubriaco.
«Se vuoi scusarmi, io me ne vado.»
Mi alzo di scatto dalla sedia e faccio per andarmene, ma sento nuovamente la sua mano sul mio braccio.
«Tu resti qui.»
Non so nemmeno io perché mi risiedo. Probabilmente spero che si stanchi di me e mi lasci andare. L'ha già fatto una volta, quindi potrebbe farlo di nuovo.
«Si può sapere che accidenti vuoi?» domando, con un tono ancor più tagliente.
«Io voglio te.»
Come dicevo, è decisamente ubriaco. Andiamo, quale ex ragazzo cerca di riconquistarti dopo tre anni? Soprattutto dopo che ti ha lasciata? Bah, uomini, non li capirò mai.
«Temo dovrai metterti in fila.»
Una voce si intromette nella nostra conversazione, se così si può chiamare, una voce che non mi aspettavo di sentire - e, onestamente, nemmeno lo speravo - ma che riesce a farmi sospirare di sollievo.
«E tu saresti...?» domanda Max, visibilmente confuso da quell'intromissione.
«Robert Clarkson. Adesso, cortesemente, lascia stare la mia ragazza.»
Non posso fare a meno di sorridere quando vedo un'espressione di puro stupore sul viso di Max. È ovvio che non se lo aspettasse, ma d'altronde nemmeno io me lo aspettavo. Devo dire che sto reagendo bene, però. Non sono ancora arrossita, nonostante senta la mano del capo sulla mia spalla. Non che si possa notare, vista l'illuminazione.
«Tutto bene?» domanda Robert, sedendosi al posto di Max, che ormai suppongo sia già andato a cercare qualcun'altro da rimorchiare.
Annuisco.
«Grazie.»
«Figurati» risponde lui, porgendomi un bicchiere pieno di un qualche drink sconosciuto. «So che pastiglie e alcool non sono una grande combinazione, ma magari puoi rinunciare a una delle due» aggiunge poi, notando il mio sguardo scettico.
«A dire il vero mi stavo chiedendo cosa fosse» ammetto, perfettamente consapevole di star facendo la figura dell'idiota.
Non che sia una novità, chiaro.
«Vodka.»
Sì, come no. Ci credo proprio, io.
«Vodka liscia, per essere precisi» puntualizza lui, forse spinto dal mio sguardo ancora più scettico di prima.
Lo guardo mandar giù quel bicchiere di alcool come se fosse acqua e mi convinco a fare lo stesso. D'altronde, se l'ha bevuta così tranquillamente, la vodka non può essere così terribile come dicono. Ebbene sì, non ne ho mai bevuta, mi avete scoperta. Non sono un'amante degli alcolici, a meno che non si parli di birra, e allora potrei nominarvi tutte le marche e qualità esistenti.
Ad ogni modo, bevo quel liquido trasparente tutto d'un fiato e, in meno di tre secondi, mi ritrovo a maledire la mia idiozia, quella del capo e quella del tizio che ha inventato questa bevanda diabolica. Tossicchio, cercando di far passare il bruciore che mi attanaglia la gola, ma senza riuscirci. Mi bruciano gli occhi e, come se non bastasse, lacrimano anche. Sto per morire, me lo sento.
«Ehi, tutto bene?»
La voce preoccupata mi raggiunge appena, bloccata dai fischi che sento nelle orecchie. Secondo me non mi ha dato della vodka, ma del veleno. Sì, dev'essere così. Non mi spiego in altro modo la mia reazione a quell'innocente bicchierino.
«Natalie, dannazione. Natalie!»
Okay, direi che adesso posso anche smettere. Mi ricompongo come se niente fosse e lo guardo fisso negli occhi. Sì, fingevo di stare così male. Non era poi così forte – okay, lo era, ma ho comunque esagerato.
«Volevi uccidermi, ammettilo» dico con il tono più serio che mi riesca.
In risposta, lui mi fulmina con lo sguardo, e, se gli sguardi potessero uccidere, vi assicuro che sarei già sottoterra.
«Mi hai fatto spaventare.»
«Be', tu volevi farmi ubriacare, no?» ribatto, sorridendo.
«Sì, ma io avevo uno scopo.»
Riesco a intravedere un sorriso sornione sul suo volto non appena pronuncia quelle parole, e mi sento spinta a chiedergli spiegazioni.
«Ovvero?»
«Be', sai, ti avrei fatta ubriacare, ti avrei portata a casa mia e ti avrei sedotta con le mie eccezionali.»
Lo dice con tono talmente tanto serio da farmi credere, per qualche istante, che non stia scherzando. Poi, per fortuna, scoppia a ridere.
«Dovresti vedere la tua faccia.» dice, sghignazzando.
Mi sento violentemente avvampare, ma non per ciò che potreste, giustamente, pensare. Il motivo è un altro, e vi assicuro che è mille volte più imbarazzante.
«Senti, Natalie, ma sei venuta qui da sola?» domanda poi, quando riesce - finalmente - a farsi passare l'attacco di risata isterica.
«Veramente no, sono venuta con Isabel.»
Lui mi guarda stranito per qualche secondo, poi riesce a collegare il nome alla persona.
«Ah, la signorina Duhrson. Dov'è?»
Oh, non lo so. Probabilmente è finita a letto con un tizio che ha il naso più grande di quello di Piton.
Che poi, a pensarci bene, se è vero che le due appendici sono proporzionate... Oh, ma perché sto pensando ad una cosa del genere?
«Mi ha, diciamo, lasciata qui.»
«Capisco.»
«Probabilmente a piedi.»
«Capisco.»
«E senza chiavi.»
«Mm-mm.»
Quasi non mi accorgo dei commenti molto poco interessati del capo, impegnata come sono a cercare un modo per tornare a casa senza dover chiamare un taxi, visto che sono anche senza soldi. Cioè, mi spiego. Ho una decina di sterline e abito dall'altra parte della città. Non mi basterebbero nemmeno se abitassi a duecento metri da qui.
«Ti accompagno io» si propone lui, distogliendomi dalle mie turbe mentali.
«Davvero?»
Lui annuisce, senza togliersi dal volto quel ghigno che fino a qualche ora fa trovavo fastidioso.
«Grazie» dico per la seconda volta.
Lui mi fa l'occhiolino, come a voler dire qualcosa simile a "figurati" o "non c'è di che". Almeno credo.
«Allons-y!» dice poi, alzandosi e prendendo la giacca.
No, fermi tutti.
Avete sentito quello che ho sentito io?
Ha, per caso, citato Doctor Who? Perché, se così fosse, potrei dare di matto.
«S-Sì, andiamo» balbetto, e, alzandomi, riesco, nemmeno io so come, a far cadere la sedia.
Adesso ditemi se è normale reagire così per una sola frase.
«Mi sa che sei davvero ubriaca, quella vodka era troppo forte» mormora lui, aggrottando le sopracciglia e sorreggendomi per il braccio, nemmeno stessi per cadere. Prevenzione, mi sa.
Riusciamo ad uscire dal locale piuttosto in fretta, nonostante la calca blocchi spesso il passaggio. Quando siamo fuori, respiro a pieni polmoni. Non sopportavo più quell'odore umano - eufemismo per dire puzza. Non appena vedo la sua macchina, però, devo ripetermi più e più volte di respirare, a meno che non voglia che mi faccia la respirazione bocca a bocca, cosa che non mi dispiacerebbe vorrei evitare.
«Hai intenzione di salire o devo prenderti di peso?» domanda, dopo aver aperto la portiera, da vero galantuomo (anche se, va detto, è un gesto che non sopporto).
Entro nella macchina, cercando di togliermi l'espressione imbambolata che signoreggia la mia faccia. Certo, però, che deve essere piuttosto benestante. E suo padre si lamentava di come andavano le cose per l'azienda. Sono io l'unica che si può lamentare, visto che vado in giro con il maggiolone giallo di mia nonna. Non sto scherzando, era davvero di mia nonna.
«Dunque... sai se Isabel sia a casa?» domanda, quando arriviamo al semaforo di quella via, ovviamente rosso.
«Uhm, no. La chiamo» rispondo, cercando il cellulare nella borsa che, neanche a farlo apposta, sembra essere sparito. Eppure, non si tratta della borsa di Mary Poppins, e nemmeno di quella di Hermione. È una dannatissima pochette in cui mi sta a malapena il telefono. Com'è possibile che non lo trovi?
«Tieni» dice lui, porgendomi il suo. Evidentemente, ha notato che ho qualche difficoltà.
Prendo il suo cellulare, probabilmente l'ultimo modello di iPhone, e cerco inutilmente di sbloccarlo.
«5722.»
«Cosa?»
«Il codice. È 5722.»
Rendiamoci conto, signori, posso sbloccare il cellulare del mio capo. Potrei andare a sbirciare i messaggi della sua ragazza. Così, tanto per fare qualcosa. Sempre ammesso che ne abbia una, ovviamente. Visto che non sono una ficcanaso, però, mi limito a comporre il mio numero e chiamarmi. Bastano tre squilli perché io mi renda conto di aver fatto la figura peggiore di tutta la mia vita. Sì, perché il mio cellulare non era nella borsa, bensì nella tasca dei miei jeans. Sto quasi per rispondere, quando mi rendo conto di essere io stessa a chiamarmi. La normalità, insomma.
Faccio velocemente il numero di Isabel e mi tocca aspettare la bellezza di cinque squilli prima che risponda.
«Natalie!»
«Ti prego, dimmi che sei a casa» dico, quasi supplicandola.
«Sì, ma c'è anche James.»
Riesco a immaginare le sue labbra formare un sorriso sincero sul suo bel volto. E no, non lo dico perché è mia amica. È davvero bella. Con i capelli corti, poi, sta ancora meglio di prima. Non è una cosa strana che metà della popolazione maschile le sbavi dietro in maniera allucinante.
«Chi, Flint?» mi trovo a dire, quasi sovrappensiero.
«Chi è Flint?»
«Lascia perdere. Sto arrivando, comunque.»
Evito di dirle che il suo "amico" mi ricorda Flint Lockwood, che non è altri che il protagonista di Piovono polpette. Non credo la prenderebbe bene.
«Ti devo aspettare in piedi?»
«Basta che metti le chiavi sotto lo zerbino.»
«Andata.»
Riattacchiamo nello stesso istante, cosa leggermente strana, dato che di solito sono io quella che riattacca per prima. Da quando ci conosciamo, ovvero nove anni, sono sempre stata io la prima a riattaccare. Evidentemente ha fretta di tornare dal suo James.
«Però, che conversazione emozionante» commenta Robert, sarcastico.
«Be', che ti aspettavi?» mormoro in risposta, accennando un sorriso.
«No, niente.»
Rimaniamo in silenzio per il resto del tragitto, lasciando che sia solo la radio a parlare per noi. Non so se sentirmi in imbarazzo o no. Vorrei dire qualcosa ma, conoscendomi, è meglio che stia zitta.
«Eccoci» dice infine lui, accostando esattamente davanti a casa mia.
«Grazie. Di nuovo» lo ringrazio, scendendo dalla macchina.
«Figurati. Buonanotte, Natalie.»
«’Notte.»
«Uhm, ehi, aspetta» mi ferma, appena prima che scenda dalla macchina. «Riguardo a quello che ho detto prima, sul farti ubriacare e portarti a casa mia, ecco… non ero serio. Non faccio questo genere di cose.»
Annuisco, chiedendomi per quale motivo stia ancora pensando a quella frase. Voglio dire, aveva già detto di non essere serio, non c’è motivo per ripeterlo – anche perché quella triste uscita è stata abbastanza imbarazzante nel momento in cui l’ha detta, non c’era bisogno di farmici pensare di nuovo. Ecco, sto arrossendo un’altra volta. Non poteva tenere la bocca chiusa, vero? No, ovviamente no.
«Il fatto è che mi hai fatto agitare e io, be’, ho detto una cazzata» conclude, lasciandomi a bocca aperta.
Io l’ho fatto agitare. Io, che stavo per avere una discussione decisamente poco bella a vedersi con il mio ex ragazzo. Io, che gli ho dato del bambino non appena mi si è presentato – e mi sono anche fatta sentire, ovviamente. Io l’ho fatto agitare.
Mormoro un okay decisamente poco convinto e scendo dalla macchina, facendo attenzione che il vestito non rimanga impigliato da qualche parte – mi è già capitato una volta, al matrimonio di mio fratello; inutile dire che sono finita il sedere per terra, tra le risate dei presenti e gli sguardi imbarazzati dei miei genitori. Il capo mi dà appena il tempo di chiudere la portiera che già riparte. Io, di conseguenza, mi affretto ad entrare in casa, anche se preferirei evitarlo, visto che probabilmente Isabel e quel James saranno impegnati in attività non nominabili. Mi fiondo in camera alla velocità della luce, mi metto il mio adorato pigiama (rosa, con i coniglietti) e mi infilo sotto le coperte. Ovviamente, dopo neanche dieci minuti, mi devo rialzare perché 1) non ho messo la sveglia e 2) ho lasciato il cellulare nella borsa, che è sulla cassettiera. Sbuffo rumorosamente e, a mala voglia, mi alzo e cerco il cellulare, senza nemmeno accendere la luce, ma dopo qualche secondo mi vedo costretta a farlo.
In qualche modo, ma sono tornata a casa con due cellulari. E uno è quello del mio capo.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Image and video hosting by TinyPic




La sveglia suona, come al solito, troppo presto. Dovrebbe essere illegale alzarsi alle sei di mattina, visto che, al lavoro, ti chiedono anche di non addormentarti. Andiamo, chi è che riesce a rimanere sveglio a quest'ora? Nessuno, esatto, io in primis.
Gironzolo per la stanza per una decina di minuti, poi mi decido ad accendere la luce e - dannazione! - mi sembra di essere diventata un cavolo di vampiro. Non di quelli che brillano, però.
«Brucia, brucia!» mi lamento, mettendo una mano sugli occhi, nel ridicolo tentativo di filtrare la luce. Ridicolo perché non vedo nulla, e quindi devo togliere la mia mano-schermo. Ecco, gli Stilnovisti avevano la donna-schermo, io ho la mano-schermo. No? No. Non chiedetemi da dove mi sia uscita, per favore, non ne ho idea.
Riesco stranamente a vestirmi senza inciampare nei miei stessi piedi, il che è un miracolo, per i miei standard. Barcollo come se fossi ubriaca fino in cucina, con una mezza idea di farmi un caffè per svegliarmi, ma, per sfortuna, è ciò che mi trovo davanti a svegliarmi del tutto. Appunto per me: impedire a Isabel di portare ancora ragazzi a casa. Voglio dire, che schifo! Sembra che qualcuno abbia avuto la bella idea di fare uno streap-tease sul tavolo. Il mio tavolo. Di mogano. No, non è vero, penso sia di castagno, ma almeno rende l'idea.
Faccio un respiro profondo, cercando di ignorare l'intimo di dubbia datazione messo bene in mostra sul tavolo - di chi? Ma come, di James! - e, con molta calma, mi dirigo verso la camera di Isabel. Busso un paio di volte, aspettando una risposta che non arriva, il che è strano, visto che dovrebbe essere già in piedi.
Oh, al diavolo le buone maniere.
«Isabel Duhrson, come hai osato?» esclamo, aprendo la porta ed entrando come una furia.
Nel letto Isabel e il suo nuovo ragazzo sussultano e, fortunatamente, la persona tirata in causa balza a sedere.
«Nat-Natalie? Che ore sono?» biascica, la bocca ancora impastata.
«Le sei e mezza, cara.» rispondo, un po' troppo vivacemente.
«E perché sei venuta a svegliarmi?»
«Oh, forse perché dobbiamo andare a lavoro?»
«Di sabato?»
Come? Oggi è venerdì, non sabato. O no?
No, fermi tutti. Sono la più grande idiota sulla faccia della terra. Oggi è davvero sabato, o ieri non sarei potuta andare in quel meraviglioso locale con Isabel.
«Ehm... be', sappi che il tuo amico deve muovere le chiappe e andare a mettere a posto la cucina» rispondo, affrettandomi ad uscire dalla stanza. «Adesso» aggiungo, facendo appena capolino dalla porta.
Torno in camera mia sentendomi una completa idiota, borbottando tra me e me. Sbatto la porta facendo (quasi) tremare le pareti, mi lascio aggraziatamente cadere sul letto e mi infilo sotto le coperte. Potrei seriamente rimettermi a dormire, ma è meglio che eviti. Molto probabilmente mi sveglierei verso mezzogiorno, e vi assicuro che è meglio starmi lontani quando succede. Quindi, onde evitare spiacevoli comportamenti, mi limiterò a poltrire sotto il mio caldo piumone, proprio come un orso polare in letargo. Mi tiro le coperte fin sopra la testa e, ovviamente, mi scopro del tutto i piedi. Stupido piumone. L'ho sempre detto io che non bisogna fidarsi di mia madre, in fatto di coperte. È sempre riuscita a prenderle o troppo lunghe o troppo corte, mai della misura giusta. Che poi dico, non le facevano di un'unica lunghezza?
Sbuffo rumorosamente e mi metto a sedere, maledicendomi per non aver messo il silenzioso, anche se, devo ammetterlo, non mi ricordo di aver cambiato la suoneria. Cioè, voglio dire, l'ho cambiata ieri mattina, ma non è di sicuro quella che sento adesso.
Oh, accidenti.
Il cellulare del capo. Mi ero quasi dimenticata di averlo. E adesso che faccio, rispondo o no? Okay, rispondo.
«Pro-Pronto?» balbetto.
«Natalie?» risponde la voce dall'altro capo del telefono.
«Ehm, sì...»
«Grazie al cielo. Ti spiace se vengo a riprendermi il cellulare tra, diciamo, un'ora?»
Ah, ecco chi era.
«No, nessun problema» affermo.
«Allora a più tardi» conclude il capo, poi riattacca.
Bene. Ho esattamente un'ora per buttare giù dal letto il caro James, fargli mettere a posto la cucina - perché, di sicuro, non lo avrà ancora fatto - e rendermi presentabile. Ah, e, ovviamente, dovrei anche tenermi il più alla larga possibile da quel telefono, perché ho davvero una gran voglia di curiosare, nonostante la mia coscienza mi dica di non farlo. Appoggio il telefono sul comodino, evitando accuratamente di guardarlo, ed esco dalla stanza.
«Tu, ragazzo inutile, alza il tuo nobile posteriore e fila a raccogliere i tuoi vestiti. ORA!» urlo, entrando in camera di Isabel.
James balza a sedere sul letto, si passa una mano tra i capelli platinati e si stropiccia gli occhi.
«Uhm... perché?» domanda stiracchiandosi.
«Fallo e basta.»
Esco dalla stanza e torno nella mia con una velocità che non credevo di avere, apro l'armadio e resto a contemplare la mia figura nello specchio. Dei, ma davvero vado in giro così? Cioè, ho i capelli talmente tanto arruffati che sembra sia appena uscita da una rissa - piuttosto violenta, tra l'altro. Per non parlare di quello che mi sono messa addosso. Avete presente Aria di Pretty Little Liars? Ecco, sembra quasi che abbia voluto imitarla. Mi cambio alla velocità della luce, optando per un look provocante stravagante comodo, poi guardo l'ora. Manca più di mezz'ora all'arrivo del capo, ma io sono già agitata. Okay, Natalie, calmati. Capisco che i tuoi rapporti con l'altro sesso, ultimamente, sono in via d'estinzione come i panda, ma questa reazione è inaccettabile. Voglio dire, devo solo ridargli il cellulare che, tra l'altro, non ho nemmeno toccato.
Ah.
Ecco spiegata l'agitazione.
Chiunque si ritrovi con il cellulare del proprio capo avrebbe una voglia matta di dare almeno un'occhiata ai suoi messaggi e, d'altronde, io non sono poi tanto diversa dalla massa. Ignoro la vocina della mia coscienza che mi dice di non farlo e prendo il telefono del capo.
5722.
Cinquemilasettecentoventidue.
Cinquantasette-ventidue, se preferite. O anche cinque-sette-due-due.
Sta di fatto che sono solo quattro numeri, che problema potranno mai causare? Esatto, nessuno.
Li digito sul tastierino numerico - se così si può chiamare - e aspetto che appaia il solito menù. Bene, l'unico problema adesso è trovare i messaggi. Dannata tecnologia, sempre un passo avanti alla sottoscritta (non che ci voglia molto, intendiamoci). Okay, mentre aspetto l'illuminazione divina per capire quale sia l'icona giusta, mi faccio un giretto nella rubrica.
Oh. Mio. Dio.
Sono diventata scema io - come se prima non lo fossi - o qui ci sono almeno una cinquantina di contatti femminili? Contatti dai nomi piuttosto casti e puri, secondo me. Bethany, Sasha, Liza (ma sì, Liza è passabile), Tanja, Jennifer, Sarah, Jessica, Katjusha (no, seriamente, chi mai chiamerebbe la propria figlia Katjusha?), cose del genere. Non so se pensare che siano 1) russe, 2) prostitute donne oneste 3) entrambe.
«Okay...» sospiro, uscendo da quell'orrore che tre minuti fa ho avuto l'ardire di chiamare "rubrica".
Adesso voglio leggere i messaggi, però. Impiego almeno cinque minuti - e una decina di tentativi - prima di trovare l'icona giusta.
Sì, però, quest'uomo è tremendo. Ditemi se è normale avere così tanti messaggi, e con "tanti" intendo almeno un centinaio, se non di più. Non mi basterebbe una giornata intera per leggerli tutti, quindi, purtroppo, dovrò selezionarli.
Uhm, direi che inizierò con quelli di Jessica, che mi ispira particolarmente. Faccio un respiro profondo, non sentendomi particolarmente preparata per quello che potrei vedere, poi leggo.
Ecco, infatti...
 
Grazie per lo "spettacolo" di ieri.
Ci vediamo lunedì, solito posto, solita ora.
XOXO, Jess
 
Amore, perché non ti sei fatto vivo?
Mi stai evitando? Ho fatto qualcosa di sbagliato?
Rispondi, ti prego.
XOXO, Jess
 
Robert, perché non rispondi?
Richiamami quando vedi questo messaggio.
XOXO, Jess
 
Dico davvero, dobbiamo parlare.
XOXO, Jess
 
Okay, ho letto abbastanza. Non so chi sia questa Jessica, ma ho come l'impressione che stia - o sia stata - con il capo. E che creda di essere Gossip Girl, ovviamente, anche se sappiamo tutti che Gossip Girl è Dan.
Adesso passo a... uhm, Liza.
 
Sabato sera a casa mia, avvisa anche Luke. Offro la pizza :D
 
Okay, questo sembra normale. Probabilmente si tratta di un’amica, o magari di qualche parente.
 
Probabilmente non è il momento adatto, ma volevo farti sapere che hai davvero un bel lato B. Specialmente quando è scoperto.
 
Dei, mi bruciano gli occhi. Direi che ho finito di farmi i fatti del capo. E direi anche che non si tratta certamente di una sua parente – a meno che non siano particolarmente amanti dell’incesto.
Riesco miracolosamente a bloccare il telefono, lo appoggio sul comodino e rimango a osservarlo per una decina di minuti, fino a quando non sento suonare il citofono. Mi catapulto fuori dalla stanza e apro il portone prima che possa farlo qualcun'altro, ovvero Isabel o James.
James.
Dannazione, la cucina.
Faccio uno scatto da maratoneta - il che non ha molto senso - per andare a vedere se quel ragazzo ha raccolto i suoi vestiti, ma, ovviamente, è ancora tutto lì. Bene, perfetto. Vorrà dire che non farò entrare il capo in casa, molto semplice. Se non fosse che lui è già alla porta e ha già suonato un paio di volte. Il lato negativo dell'abitare al piano terra è che le persone arrivano subito. Quello positivo è che, be', non devo salire le scale per arrivare a casa mia e spaparanzarmi sul letto dopo il lavoro. Non che io lo faccia, ovviamente, era solo un'ipotesi.
Torno in camera, prendo il cellulare da restituire al proprietario e vado ad aprire la porta. Per l'ennesima volta, maledico la mia lentezza.
Sì, perché davanti a un Robert piuttosto imbarazzato, c'è un James in mutande, e vi assicuro che non è un bello spettacolo.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Image and video hosting by TinyPic




Non so se vi sia mai capitato di vedere la faccia del vostro capo quando si trova in una situazione imbarazzante. Nel caso fosse successo, potete capirmi; se non fosse successo, invece, non avete idea di cosa vi siate persi - per fortuna, aggiungerei. Che poi, sono imbarazzata anche io, se vogliamo dirla tutta. L'unico che sembra indifferente a tutto è James, che invece sarebbe già dovuto andarsi a nascondere in camera di Isabel per la vergogna. Invece no, se ne sta lì, a dieci centimetri dal capo, con un sorriso più che ebete stampato in faccia. Potrei capire se fosse Johnny Depp, Robert Downey Jr, o anche Brad Pitt, ma si tratta di James Nonhouncognome. La situazione è leggermente diversa, mi sa.
«I-Il cellulare» balbetto, allungando la diavoleria tecnologica al suo proprietario. Nel farlo, mi metto casualmente davanti a James, nel bizzarro tentativo di coprirlo.
«Grazie» risponde lui, reprimendo malamente una risata che assomiglia molto a un ghigno. «Sono arrivati messaggi, chiamate o...?» aggiunge poi, iniziando a controllare.
«Uhm, no, non mi pare.»
«E non ti è venuta voglia di dare una sbirciatina, immagino...»
«Assolutamente» rispondo, cercando di sembrare il più seria possibile, il che mi riesce abbastanza decentemente, visto che non sto mentendo, teoricamente. Non ho detto "assolutamente no" né tantomeno "assolutamente sì", quindi non si tratta di una bugia. È, diciamo, un'omissione a fin di bene.
«Bene» conclude lui, e l'espressione preoccupata che occupava il suo volto lascia il posto ad una decisamente più rilassata. Che poi, di cosa dovrebbe preoccuparsi? Non c'era nulla di particolarmente scandaloso da vedere - a parte quei messaggi, certo.
«Non mi offri un tè?» aggiunge poi, con un sorriso serafico stampato sul volto.
«Ehm, la cucina è inagibile» mento, evitando di incrociare il suo sguardo.
«Suvvia, Nat, non è inagibile. Ti assicuro che il tuo amico non si scandalizzerà» si intromette James, facendo sentire me un'idiota e Robert nuovamente in imbarazzo.
«James, perché non torni da Isabel?» domando, acida, supportata da un "ecco" di Robert.
James sbuffa, scocciato, ma ascolta me e il capo e se ne va.
«Il ragazzo della signorina Duhrman?» domanda Robert, quando le mutande di James - e tutto il resto, ovviamente - spariscono in camera di Isabel.
«Più o meno...» borbotto, spostandomi i capelli dalla faccia.
«Capisco» mormora lui, in risposta. «Dunque, devo aspettare molto per questo tè?» aggiunge poi, cambiando completamente discorso.
Ecco, ci risiamo.
«Come ho già detto, la cucina è inagibile» ribadisco, decisa a non farlo entrare là dentro nemmeno per sbaglio.
«Allora prendi la giacca» risponde lui, con una tale tranquillità da essere fin troppo, uhm, sospetta.
Nonostante sia non poco sospettosa, prendo comunque la giacca e seguo il capo fuori dall'appartamento, decisa a non fare nessuna delle mie solite figure. Almeno in un luogo pubblico preferirei evitarle. Okay, avete ragione. Anche il posto di lavoro è un luogo pubblico, ma lì mi conoscono tutti, oramai sono abituati alle mie geniali idee pre-pranzo. Non che mi vengano solo a quell'ora, chiaro. La mezz'ora che precede la pausa pranzo, però, è una delle mezz'ore in cui il mio cervello partorisce più boiate pensieri con una logica e un senso. Le altre mezz'ore non ve le elenco, tanto mi sa che non vi interessano, vero? Ecco, come immaginavo.
«Potrei sapere dove andiamo, esattamente?» domando, scendendo le scale della metro e cercando di tenere il passo del capo. Accidenti se corre.
«Puoi saperlo, sì, ma non ho intenzione di dirtelo» risponde lui, passando il tornello e aspettando che io faccia lo stesso, se non fosse che la sottoscritta è senza biglietto.
«Non ti muovere» gli ordino, girandomi per cercare una di quelle benedette macchine per i biglietti, ma, ovviamente, questa sembra essere l'unica stazione che non ne ha. Ci mancava solo questa. «Faccio una corsa al tabacchino, prendo il biglietto e torno» aggiungo, voltandomi verso il capo.
«Non ce n'è bisogno» risponde lui, tranquillamente, poi scavalca il tornello come se niente fosse e mi si avvicina. «Salti?»
No. No, no, no e poi no.
Si sbaglia se pensa che scavalcherò quel coso come ha fatto lui. A parte che non riuscirei mai e poi mai ad avere nemmeno la metà dell'eleganza che ha avuto lui, io riuscirei anche a rimanere incastrata e/o atterrare di faccia. Non è il caso, decisamente.
«Negativo» rispondo, scuotendo energicamente la testa.
«Hai paura, Mills?» ribatte, sarcastico.
«Sì, e anche tanta» rispondo io, con una smorfia.
«Vorrà dire che te lo farò fare con la forza» sospira lui, passandosi una mano sulla fronte con aria decisamente troppo drammatica.
«E come faresti, di grazia?» continuo ingenuamente io, nonostante non voglia assolutamente sapere la risposta.
«Così.»
Prima che possa fare qualcosa per impedirlo, sento le mani di Robert sui miei fianchi, vengo sollevata di peso e letteralmente costretta a scavalcare il tornello.
«Non lasciarmi. Non osare. Robert, Robert, n-no.»
Ringrazio con tutta me stessa chiunque ci sia lassù perché, stranamente, oggi non c'è nessuno che possa assistere alla mia imminente fine. Non appena il capo mi lascia, infatti, riesco a malapena a reggermi in piedi e barcollo come un'ubriaca. Riesco a inciampare nei miei stessi piedi e BOOM, finisco aggraziatamente con il sedere a terra. Il bastardo causa dei miei dolori Robert scoppia a ridere senza alcun ritegno e, quando mi volto per chiedergli di smettere, lo trovo piegato in due dalle risate.
«Non è poi così divertente...» brontolo, mettendo su il miglior broncio che sia mai esistito nella storia dei bronci.
«Dovevi vederti. Sembravi, uhm, un pinguino ubriaco» ribatte lui, senza smettere di ridere nemmeno per un istante.
Mi lascio scappare un sorriso, ma non perché l'idea di me stessa che cade mi faccia ridere, ma solo perché mi sto immaginando come un pinguino. Come? Dite che è grave? No, secondo me no.
Robert scavalca il tornello con la stessa eleganza di prima - smettendo, finalmente, di ridere - e io mi ritrovo a sperare che la sua bella giacca elegante si incastri. No, non è vero. Subito, ho sperato che una parte piuttosto delicata del suo corpo urtasse il metallo, ma poi mi sono pentita. Nemmeno io sono così cattiva.
«Andiamo?» domanda, porgendomi il braccio, proprio come farebbe un vero galantuomo degli anni Venti. 
«Andiamo» affermo, accettando il suo sostegno. Non so se lo faccia per gentilezza o perché non voglia vedermi finire nuovamente a terra ma, onestamente, non mi interessa più di tanto.
Per nostra fortuna, la metropolitana a quest'ora non è molto affollata, anzi, è praticamente vuota. Mi siedo accanto ad una vecchietta - per modo di dire, avrà sì e no una cinquantina d'anni - e Robert occupa il posto accanto al mio, in mezzo a due ragazzi (niente male, se devo essere sincera).
«Allora, mi dici dove stiamo andando?» cantileno, cercando di prenderlo per sfinimento, in modo da costringerlo a rispondere.
«È un segreto, non voglio rovinarti la sorpresa» ribatte lui, ancor più deciso a non dirmi nulla.
Sbuffo e alzo gli occhi al cielo, appoggiando la schiena alla fredda plastica del sedile - sempre che si chiamino così, certo.
«Potrei dire che mi hai rapita» mormoro.
«Primo, non ci crederebbe nessuno e secondo, sei venuta di tua spontanea volontà» risponde lui, mentre lo stesso sorriso serafico di questa mattina si dipinge sul suo volto.
«Questo lo dici tu» mugugno in risposta, nascondendo il viso nella sciarpa.
Robert ridacchia, si passa una mano tra i capelli e ridacchia nuovamente. È ufficiale, posso fare la comica, visto quanto sono divertente. Guadagnerei di più di sicuro.
«Tieni» dice poi Robert, porgendomi il suo biglietto.
Lo afferro senza chiedergli il perché e faccio per metterlo nella borsa, ma non faccio in tempo ad aprirla che un controllore si avvicina e chiede di vedere i biglietti. Istintivamente, allungo il biglietto a Robert, mentre nella mia mente si formano tre sole parole: sono nei guai. Non so per quale motivo, ma il capo non prende il biglietto, e, anzi, mi fa cenno di darlo al controllore. L'uomo fa un cenno con la testa, poi si rivolge a lui.
«Il suo biglietto?» domanda.
Robert si stringe nelle spalle.
«È in un posto sicuro. Al tabacchino» risponde, sarcastico, facendo alzare gli occhi al cielo al controllore.
«Direi che una multa non gliela toglie nessuno, in questo caso» ribatte l'uomo, scribacchiando qualcosa su un pezzo di carta e porgendolo a Robert, che lo afferra e lo infila malamente in tasca, sbuffando.
«Ma sei impazzito?» domando, non appena il controllore si allontana. «Questo è il tuo biglietto, non il mio!»
Lui si stringe nelle spalle, con espressione innocente.
«L'ho fatto volentieri» dice, facendomi sospirare. Non riesco a capire come possa dire di essersi preso volentieri una multa al mio posto. È assurdo, siamo sinceri.
«Siete davvero una bella coppia» si intromette la nonnina seduta accanto a me e, mentre lo dice, le sue labbra si curvano fino a formare un sorriso a trentadue denti - anche se, vista l'età, mi sa che i suoi denti sono meno di trentadue.
«Oh, no, no. Noi non siamo una coppia!» mi sbrigo a puntualizzare, con una risatina imbarazzata e nervosa, beccandomi un'occhiata sospettosa da parte della vecchietta.
Robert, per la terza volta in questa mattinata, ridacchia, ma, questa volta, si limita a una risata veloce. Dopo si alza e si avvicina alle porte, facendomi cenno di seguirlo. A quanto pare siamo arrivati. Dove, non si sa. Lo seguo su per le scale, faticando a tenere il suo passo - come ho già detto, corre come se ci fosse un tirannosauro che lo segue.
«C'è ancora un pezzo a piedi, porta pazienza» spiega, vedendo la mia espressione affranta dopo aver scoperto che non c'è alcun bar nel raggio di una decina di metri.
«Oh, sì, certo» borbotto, più a me stessa che lui, sospirando con fare teatrale.
«Su, coraggio!» scherza lui, prendendomi a braccetto con fare più che giocoso.
Non so perché, ma mi lascio trasportare dalla sua allegria e, alla fine, ci ritroviamo a correre attraverso Regent Street come due bambini. Alla fine, arrivati in Portland Place, mi appoggio alla parete di un edificio - un hotel, probabilmente - per riprendere fiato. Se ve lo state chiedendo, no, non sono affatto atletica.
«Contenta, Natalie? Siamo arrivati» dice, sorridendo e appoggiandosi alla parete con una mano, in una posa che, oltre a sembrare piuttosto scomoda, è anche abbastanza provocante. E va bene, lo ammetto. Il capo è un gran bel pezzo di ragazzo e io non sono insensibile al fascino maschile. Siete contenti, adesso?
«Io vedo solo un hotel, a dire il vero» commento.
«Perché è lì che stiamo andando» risponde lui. «L'Artesian è là dentro» aggiunge poi, vedendo la mia espressione confusa.
Non ci credo.
Non ha davvero nominato quel posto. Uno dei bar più costosi dell'intera Londra. Io non potrei permettermi nemmeno di respirare, là dentro.
«Credo che tu abbia sopravvalutato la mia situazione economica» mormoro, visibilmente a disagio.
«Non ho detto che devi pagare. Non come pensi tu, almeno» risponde lui, con un sorrisetto malizioso sulle labbra.
«No? E come, se posso saperlo?» ribatto, con una punta di sarcasmo.
Robert finge di pensarci su per qualche istante, poi, come se avesse ricevuto l'illuminazione divina, mi risponde.
«Potresti, uhm, non so... potresti baciarmi.»

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Image and video hosting by TinyPic



«Che cosa?» domando, basita, sperando che quello che ho sentito sia solo un'allucinazione. A essere sinceri, una parte di me, quella irrazionale, spera che non sia così, ma sto cercando di farla ragionare, il che è tutto dire.
«Ho detto che potresti baciarmi» ripete lui, tranquillamente, come se stesse dicendo una cosa più che normale.
«N-No!» balbetto, mentre la mia parte irrazionale cerca di far uscire un "okay" dalla mia bocca, che resta più che chiusa.
Il capo sembra sorpreso da quella risposta e solleva un sopracciglio, confuso.
«No?»
Scuoto energicamente la testa, cercando di farlo desistere, ma a quanto pare è abituato ad ottenere quello che vuole. Non che io sia sorpresa, diciamocelo. Cosa ci si può aspettare da una persona del genere?
«P-Perché no?» chiede, indietreggiando di qualche passo.
Perché, probabilmente, ti porti a letto tutte quelle che incontri.
Perché hai un centinaio di contatti femminili sul cellulare.
Perché, be', perché non avrebbe alcun senso.
«Perché non sarebbe giusto» rispondo, invece.
«Perché sono il tuo capo, Mills? Perché se è così, non c'è alcun problema. So tenere un segreto e, se vuoi che non si sappia, non si saprà» risponde frettolosamente, cercando di farmi cambiare idea.
«No, no, non è per quello» borbotto, anche se, in realtà, quel fattore incide non poco. È un cliché visto e rivisto, purtroppo.
«E allora dov'è il problema?»
Okay, non so a voi, ma a me sembra un pelino isterico.
«Il problema sei tu, okay?» sbotto, per poi pentirmene immediatamente dopo.
«Cosa?»
Ecco, lo sapevo. Devo imparare a tenere la bocca chiusa, una volta per tutte. Borbotto un "lascia perdere" e mi allontano velocemente da lui. Anzi, a essere sinceri, possiamo dire che inizio a correre, correre a più non posso, ignorando la voce di Robert che mi chiama. Corro fino a quando non arrivo sulla Marylebone Road, poi mi fermo. Mi pulsa la testa in una maniera indicibile e ho una gran voglia di mettermi a urlare. E anche di piangere, senza un motivo preciso. Voglio dire, non è che quello che è appena accaduto non sia un motivo, ma, normalmente, non reagirei così.
Cerco frettolosamente il cellulare nella borsa, compongo il numero e aspetto una risposta.
«Nat?»
«Vienimi a prendere, ti supplico. Sono all'angolo tra Park Crescent e Marylebone Road» spiego velocemente, appena prima di riattaccare. Sospiro e rimetto il cellulare nella borsa.
Aspetto una decina di minuti, poi vedo una macchina familiare avvicinarsi a me, e mi ritrovo a ringraziare l'ipotetico Creatore per aver creato una persona tanto buona con la sottoscritta.
«Martin, grazie al cielo!» esclamo, entrando in macchina e sbattendo la portiera più forte del necessario.
«Nat! Che diavolo è successo?» risponde l'uomo al volante, con tono allarmato.
«Te lo dico a casa» mi limito a dire.
Martin sbuffa, ma non replica. Evidentemente, ha capito che non è il caso di parlarne ora. Non che sia poi tanto difficile da capire, chiaro. Si vede che non ho voglia di parlare, non adesso. E poi, lui è il mio fratellone, sa che vuoterò il sacco non appena metterò piede in quella che lui si ostina a definire "casa" - ma che sembra più un asilo - quindi non vale la pena insistere.
«Devo chiamare anche Kyle?» domanda poi.
«Sì.»
«È una cosa grave, allora» scherza, cercando di tirarmi su il morale.
Vi spiego. Kyle è l'altro mio fratello, gemello, per la precisione, anche se è convinto di essere più grande della sottoscritta solo perché è nato trenta secondi prima di me. Di conseguenza, ad ogni compleanno, esigeva di spegnere le candeline trenta secondi prima di me, forse per farmi un dispetto, forse perché era davvero convinto che trenta secondi potessero fare la differenza. Tra l'altro, indovinate chi si è preso i geni della bellezza? Esatto, lui.
Se ve lo state chiedendo, no, non siamo solo tre fratelli. Quando siamo nati io e Kyle, i miei hanno avuto un'ulteriore sorpresa che, oggi, ha il nome di Joe. Parto trigemellare, esatto. Una bella sorpresa per la nonna, che voleva solo una nipotina da viziare - ovvero, la sottoscritta - e si è ritrovata altri due maschietti. Siamo una famiglia allargata, sì. Ho anche proposto ai miei di cambiare il nostro cognome in Weasley - visto che siamo tutti rossi - ma non hanno voluto, nemmeno quando ho proposto di usare Millsey. I miei genitori sono due babbani, esatto.
Va be', la smetto di annoiarvi con la descrizione del mio albero genealogico, anche perché ho la vaga impressione che quel diavoletto biondo di mio nipote abbia una gran voglia di farsi abbracciare. Per modo di dire, certo. Non si farebbe abbracciare nemmeno sotto tortura, non da me, almeno.
«Mikey, amore della zia, vieni qua!» esclamo, preparandomi ad inseguire la peste per tutta la casa.
«Prima devi prendermi!» risponde lui, scappando su per le scale.
«Cioccolata?» domanda Martin, pur sapendo già la risposta.
«Ovvio!» rispondo io, per poi seguire Mikey su per le scale.
Riesco ad afferrarlo appena prima che si nasconda dentro l'armadio della sua cameretta e gli stampo uno di quei baci odiosi sulla fronte.
«Zia!» si lamenta lui, cercando di divincolarsi, fino a quando non lo lascio andare. Scappa nuovamente giù in salotto e io mi affretto a seguirlo prima che il mio lato materno - quello che cerco di seppellire ogni volta che entro in questa casa - inizi a farsi sentire. Non fraintendetemi, adoro i bambini e voglio avere una famiglia molto numerosa, ma non adesso e, se voglio che la situazione rimanga inalterata, mi conviene uscire da questa stanza al più presto. Così, per sicurezza.
Scendo le scale facendo molta più attenzione del normale, visto che sono fermamente convinta che queste siano la versione malefica delle scale di Hogwarts. Insomma, sono caduta già tre volte, e non perché sia particolarmente imbranata. Probabilmente, le scale mi odiano.
«Allora, Nat, mi dici cos'è successo?» domanda poi Martin, quando, finalmente, arriva con il mio Tardis di cioccolata fumante. Tazza, scusate. È una tazza a forma di Tardis, che io chiamo solo Tardis. Tanto per risparmiare, sì.
«Be', allora...» inizio, ma vengo interrotta da tre ripetuti drin del citofono - perché, sapete, il citofono di mio fratello ha lo stesso suono di un telefono - che annunciano la venuta dell'altro fratello (anche se non si tratta di Gesù). Impiega la bellezza di dieci minuti per fare due piani di scale, anche se, probabilmente, ha preso l'ascensore. Non che io non l'abbia fatto, per carità, ma non ho mai impiegato così tanto.
«Qual è il problema, cozzetta?» esordisce, entrando in salotto e appoggiando - no, lanciando - la giacca sul divano, a meno di due centimetri dalle mie gambe.
«Se ti siedi te lo dico, caro il mio prostituto» ribatto, con la consapevolezza di averlo irritato. Volontariamente, certo.
«Non sono un prostituto, anzi, non so nemmeno se questa parola esista.»
«E io non sono un mollusco.»
«Avete finito?» domanda Martin, stizzito, cercando di interrompere quello che sembra essere il principio di un battibecco con i fiocchi e i controfiocchi.
«Scusa» borbottiamo all'unisono.
Non stupitevi, è una cosa che succede, uhm, ogni volta che ci vediamo. Lui mi chiama "cozzetta" e io "prostituto", è diventata una sorta di abitudine, così come il fatto che finiamo sempre per litigare.
«Dunque, cosa stavamo dicendo?» riprende il fratellone, togliendomi la mia (amata) cioccolata dalle mani per costringermi a parlare.
«Aspetta! Dobbiamo chiamare Joe» lo interrompe Kyle, prendendo il cellulare e componendo il numero di Joe alla velocità della luce.
Se ve lo state chiedendo, al momento Joe non è a Londra. Non è nemmeno in Inghilterra, se vogliamo dirla tutta. È, per qualche strano motivo che lui ha definito "di lavoro", in Russia. Non mi ha voluta portare con sé, nonostante sappia quanto io ami quel paese. L'ho pregato in tutte le maniere per, più o meno, due mesi, ma non è servito a nulla. Peggio per lui, perché, quando tornerà, troverà una bella sorpresina ad aspettarlo. Non posso dirvi altro, non sia mai che faccia spoiler.
«Sarà meglio per te che tu sia in punto di morte, Kyle, perché hai appena interrotto l'appuntamento più importante della mia vita.»
È la voce isterica di Joe a riportarmi alla realtà e a farmi ricordare perché, effettivamente, mi trovi in questa riunione di famiglia improvvisata.
«Natalie è incinta» ribatte Kyle, tranquillamente.
Strabuzzo gli occhi, stupita da quanto stupido possa essere quel ragazzo. Sto per spiegare che non è così, ma Joe mi interrompe.
«Co-Cosa?! Lo sapevo che non dovevo fidarmi, io. Natalie Mills, aspetta solo che torni a casa e vedrai... T-Ti chiudo in soffitta!» urla, ancora più isterico di prima.
«Non sono incinta, Joe, ma grazie per la comprensione» sbuffo, tirando un cuscino addosso a Kyle, che continua a sghignazzare come se niente fosse. Quando il cuscino lo colpisce, però, smette.
«Ah... Allora perché avete chiamato?» domanda poi Joe, senza nemmeno (ovviamente) scusarsi per avermi implicitamente dato dell’imprudente.
«È quello che sto cercando di capire anch'io» borbotta Martin, passandosi una mano tra i capelli.
Non prendetemi per una qualche sorta di pervertita, ma ho sempre pensato che i miei fratelli fossero estremamente sexy quando si passano una mano tra i capelli, Martin in particolare. Credo sia merito dei capelli rossi che, si sa, sono incredibilmente attraenti. Ecco, lo sapevo, non dovevo dirlo. Adesso penserete che io sia la versione sfigata di Cersei Lannister, ma non lo sono. Dico davvero. Insomma, non riuscirei mai a fare pensieri impuri su uno di loro! Certo, però, che se non fossimo imparentati... No. Devo stare zitta, prima che qualcuno mi faccia rinchiudere. Non mi stupirei, certo, ma preferirei evitare.
«Allora?»
Faccio un respiro profondo, cercando di capire da dove poter cominciare.
«Uhm, Martin... dov'è tuo figlio?» dico, provando a cambiare argomento. Inutilmente, devo dire, perché oramai mio fratello conosce tutti i miei trucchi.
«Di sopra, ma non cambiare argomento» risponde lui.
Sospirando, alzo dal divano e riprendo la mia tazza dalle mani di Martin.
«Allora, uhm...» inizio, dopo averne bevuto un sorso. «C'è un ragazzo, un gran bel ragazzo, devo dire...»
«Visto? Lo sapevo che c'era in mezzo un ragazzo!» esclama Kyle, interrompendomi. Per quanto la trovi una cosa irritante, devo ammettere che, in questo preciso istante, non mi dà alcun fastidio, anzi, potrei seriamente ringraziarlo per averlo fatto.
«Oh, Kyle, taci!» borbotta Joe dall'altro capo del telefono.
Kyle sbuffa, appoggia i piedi sul tavolino davanti al divano e mi fa cenno di continuare.
«Be', ecco, questo ragazzo ha, diciamo, provato a baciarmi.»
Lascio la frase in sospeso, aspettando la una qualche reazione da parte dei ragazzi, ma nessuno di loro dice o fa nulla.
«Avete capito cosa ho detto?» domando, stranita.
«Non vedo cosa ci sia di strano...» risponde Martin, tirando un sospiro di sollievo. Evidentemente, si aspettava qualcosa di peggio. «Voglio dire, quando mi hai chiamato, questa mattina, sembravi sconvolta.»
Oh, sai com'è, il mio capo aveva appena cercato di baciarmi. Un po' sconvolta ero, no?
«Il punto è che lui è il mio capo, Martin!» spiego, sentendomi leggermente innervosita dalla sua precedente affermazione.
«Fammi capire, Nat, il tuo capo ha cercato di baciarti e tu l'hai rifiutato?» domanda Kyle, mettendosi improvvisamente a sedere.
«È il mio capo, cosa avrei dovuto fare?»
Non faccio in tempo a finire la frase che Kyle inizia a ridere, seguito a sua volta da Joe. Come se ci fosse qualcosa di divertente, in questa situazione.
«Dio, la piccola Natalie ha paura di diventare un cliché.» dice, ridendo di gusto.
Gli ci vuole una decina di minuti per riuscire a smettere, ma, nonostante il mio broncio strategico, non smette di sorridere sotto i baffi – anche se no, non ha baffi, per fortuna.
«Natalie, stai parlando Hector?» domanda Martin, preoccupato – e chi non lo sarebbe, sentendosi dire che il capo ultracinquantenne della propria sorella ha provato a baciarla? Kyle, tanto per iniziare – e lanciando un'occhiataccia a Kyle, che smette immediatamente di sorridere e torna serio. Ah, come farei senza il mio fratellone?
«No, suo figlio. Lo conosco da due giorni, da quando Hector ha lasciato l’azienda» ammetto, arrossendo più violentemente del previsto.
«Du-Due giorni? Persino io faccio passare più tempo, prima di provarci con una ragazza!» esclama Kyle, sbigottito.
Visto che prima non l'ho ancora detto, lo faccio adesso. Kyle, il mio adorabile fratellino, è una sorta di spogliarellista-gigolò, motivo per cui l'ho soprannominato "prostituto". Svelato l'arcano. Non ve lo aspettavate, ammettetelo.
«Di' un po', com'è che si chiama?» continua Kyle, alzandosi e venendosi a sedere accanto a me.
«Robert. Robert Clarkson.»
«Quel Robert Clarkson?» domanda Joe, con voce preoccupata. Troppo preoccupata, per i miei gusti.
«Ho paura che sia proprio lui» ribatte Kyle, con tono grave.
«Cosa? Di che state parlando?» mi intrometto, cercando di capirci qualcosa.
«Non preoccuparti, Nat, ci siamo noi, ora.»
Okay, tutto questo è ridicolo.
Non ho la più pallida idea del perché Kyle abbia quel tono paterno e quell'espressione preoccupata stampata in faccia, quel che so è che mi sta nascondendo qualcosa, e io devo assolutamente sapere cosa.
E se si sta prendendo gioco di me, cosa che fa praticamente sempre, saranno guai.
Okay, non volevo suonare così minacciosa, ma ci siamo capiti.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Image and video hosting by TinyPic





 
Io. Odio. Il. Lunedì.
Davvero. Non avete idea di cosa voglia dire, per me, dovermi alzare, abbandonando il mio amorevole lettone, che cerca comunque di tenermi stretta a sé - lo fa davvero, visto che mi risveglio sempre attorcigliata al piumone, e non so mai come sia finita in quella posizione. Il lunedì, in più, mi capita sempre, e sottolineo sempre, qualcosa che non dovrebbe succedere. Qualcosa di simile alla macchinetta del caffè rotta, alla metropolitana troppo affollata e alla sottoscritta incastrata tra le porte, alla sveglia che non suona e così via. Potrei riempire un'agenda solo scrivendo cosa è successo nei lunedì della mia vita. Ovviamente, questo lunedì non si prospetta migliore degli altri, anzi, credo che sarà il peggiore nella storia dei lunedì peggiori.
Che poi, è già iniziato male.
Ho trascorso sabato e domenica a casa di mio fratello - di Martin, non di Kyle - con il resto della ciurma, ovvero i suoi tre figli. Sua moglie non mi ha nemmeno salutata, quando è venuta a portare i due che mancavano all’appello, visto che Mickey era già con noi. Adesso, posso capire che sia arrabbiata con Martin per non so quali motivi, ma io non le ho fatto assolutamente niente. Be', oddio, potrei averla chiamata "sciacquetta" un paio di volte, ma non credo che mi abbia mai sentita. Certo, questo spiegherebbe il suo comportamento, però...
Ma tralasciamo, non è di lei che mi devo occupare. Come dicevo, in questa casa, oltre a me e a mio fratello, ci sono tre adorabili bimbi. Adorabili fino a quando non vengono a svegliarti alle cinque di mattina senza un motivo apparente. Poi, come se non bastasse, si intrufolano nel letto e rimangono lì fino a quando non ti alzi, il che non è di sicuro il miglior modo per iniziare una giornata. E Martin? Lui si è accorto che i suoi figli non erano nei loro letti solo quando gliel'ho fatto notare io.
L'unica nota positiva della mattinata è stata la colazione. Magari sarà scontato da dire, ma mio fratello fa i pancakes migliori di tutta Londra. Se non mi credete, be', peggio per voi. Non avete idea di cosa vi stiate perdendo – e a me nemmeno piacciono i pancakes, per dire.
Comunque, è inutile che continui a vaneggiare. Dovrò entrare in ufficio, prima o poi. Anzi, mi conviene farlo in fretta, se non voglio arrivare in ritardo. Faccio un respiro profondo ed entro in ascensore, sperando seriamente che il capo sia a casa con il raffreddore - che poi, sarei potuta rimanere io a casa, se ci avessi pensato prima. Non oso nemmeno immaginare che cosa potrebbe accadere oggi. Adesso che ci penso, il capo potrebbe anche licenziarmi. Così, tanto per farmi un dispetto. O per ricatto.
No, no, Natalie, smettila. Non succederà proprio un bel niente. Robert non è quel tipo di persona. Credo.
«Aspetta!» esclama qualcuno, infilando prontamente la ventiquattrore tra le porte dell'ascensore, che stavano per chiudersi completamente.
Quando il "qualcuno" entra, mi ritrovo a imprecare sottovoce. Possibile che, con tutte le persone che lavorano in questa azienda, abbia dovuto incontrare proprio lui? Le opzioni sono due: o mi aspettava, o sono molto più sfortunata di quanto pensassi.
«Signor Clarkson» mi ritrovo a dire a mo' di saluto, senza nemmeno accorgermi di aver collegato la bocca al cervello. Per modo di dire, certo, nessuno se ne accorgerebbe.
«Natalie» risponde lui, e io sono assolutamente sicura di aver sentito un tremolio nel suo tono, anche se solo per qualche istante. «Vorrei parlarti. Da solo» aggiunge poi, accennando con un gesto della testa alle altre persone presenti.
Okay, di solito non mi piace prendere l'ascensore con troppe persone, ma, questa volta, sono davvero grata a tutti quelli che sono saliti con me. Almeno, sono loro grata fino a quando non scendono. Mi lasciano sola con Robert quando arriviamo al terzo piano e, sfortunatamente per me, ne mancano ancora quattro per raggiungere il nostro. Ovviamente, quasi fosse fatto apposta, nessun altro sale.
«Okay, adesso siamo soli» mormora Robert, armeggiando con la pulsantiera fino a quando l'ascensore non si ferma, tra il quarto e il quinto piano.
«Cosa hai fatto?» borbotto, nonostante sappia perfettamente cosa ha fatto. Ha bloccato l'ascensore, il genio.
«Fa' la brava, Natalie, e rispondi alle domande. Abbiamo un bel po' di tempo prima che arrivino i soccorsi.»
Anche perché non li hai ancora chiamati, penso, sarcastica.
Onestamente, di tutte le cose che potevano succedermi, questa è la peggiore. Va bene, dai, devo stare calma. D'altronde, sono solo bloccata in un ascensore con l'uomo che, nemmeno due giorni fa, ha cercato di baciarmi. Tutto normale, insomma.
«Cosa vuoi sapere?» domando, scocciata.
«Perché sei scappata, sabato?»
Di nuovo? Sul serio?
Inizio a credere che abbia una sorta di Alzheimer precoce. Sì, insomma, gli ho spiegato sabato perché non potesse esserci nulla tra di noi.
«Perché sei il mio capo, te l'ho già detto» sbuffo, tamburellando nervosamente con il piede sul pavimento.
«E allora? Dov'è il problema?» ribatte, sinceramente incuriosito dal fatto che trovi qualcosa di "sbagliato" in quella relazione.
«Il problema è che tu sei il mio capo e non dovrebbe nemmeno passarti per la testa un'idea simile!»
L'ultima parola esce insieme ad una sorta di urlo molto sgradevole a sentirsi. Non lo faccio apposta, ma Robert mi sta irritando. Davvero tanto. Voglio dire, è davvero tanto difficile credere che non voglia avere una relazione - se così la si può chiamare - con lui solo perché è il mio capo? A me non sembra poi così assurdo, o no?
«E dove sei andata?»
«Da mio fratello.»
Il capo si irrigidisce, come se quell'affermazione lo avesse messo a disagio. Lo vedo contrarre la mascella e lo sento scrocchiare le nocche, nemmeno si stesse preparando a un incontro di pugilato. Uomini, quando li capirò sarò una persona più felice, poco ma sicuro.
«Hai un fratello?»
«Tre, a dire il vero» puntualizzo.
«Ah. Dovevo immaginarlo» mormora, poi si mette nuovamente ad armeggiare con la pulsantiera fino a quando una voce gracchiante non gli risponde dall'interfono. A quanto pare si è deciso a chiamare l'assistenza e, per fortuna, non c'è bisogno di aspettare che qualcuno ci tiri fuori di lì. Schiaccio il numero sette, come ha detto la voce, e l'ascensore riparte.
Non oso nemmeno immaginare che espressione devo avere quando entro negli uffici. Probabilmente, a giudicare da come mi guardano tutti, devo sembrare mezza tramortita. Certo, anche il fatto che mi sia presentata con venti minuti di ritardo insieme al capo, entrambi accaldati ed imbarazzati, è un fattore non poco importante, ma lasciamo stare.
«Nel mio ufficio tra dieci minuti, signorina Mills» dice il capo, ritrovando la serietà che lo contraddistingue dagli altri miei colleghi.
Annuisco in risposta e mi avvicino alla scrivania di Isabel, che mi guarda con aria preoccupata. Isabel, non la sua scrivania.
«Natalie! Dove sei stata? Iniziavo a preoccuparmi!» esclama, appena mi avvicino a lei.
«Da Martin» mi limito a dire, senza la minima intenzione di spiegarle cosa sia successo. Non le dirò che il capo ci ha provato con me, non ora. È la mia migliore amica, sì, ma non è il momento – né il luogo – adatto a parlarne.
Tira un sospiro di sollievo quando realizza che non sono stata rapita per un weekend intero, cosa che ha quasi sicuramente pensato, visto che non ho risposto né ai suoi messaggi né alle sue chiamate - che, al momento, sono 394 e, no, non sto scherzando. Deve averlo fatto di proposito. Chiamarmi 394 volte, intendo.
Sbuffo, do un'occhiata all'orologio e vado nell'ufficio del capo. Un po' in anticipo, forse, ma non sembra che gli importi. Anzi, a dirla tutta, non sembra nemmeno che si sia accorto della mia presenza.
«Ehm...»
Robert alza la testa dal giornale che sta leggendo – bel modo di lavorare, il suo, e ha anche il coraggio di prendersela quando io faccio una cosa del genere – e mi fa cenno di sedermi. Adesso, in questo preciso istante, è completamente diverso dal ragazzo che ho visto nell'ascensore. Mi viene quasi da pensare che stesse fingendo.
«Dunque, signorina Mills, le farà piacere sapere che le ho trovato un ufficio» inizia, sospirando.
Oddio, è tornato a darmi del lei. No, un momento, perché ho detto "oddio"? Va più che bene!
«Be', grazie» mormoro, spostando lo sguardo sull'enorme libreria che il capo ha deciso di mettere al posto dei quadri che c'erano prima. Devo dire che ha fatto bene, anche se mi piacevano. I quadri, intendo.
«Chieda a Leah di accompagnarla» dice poi, invitandomi poco cortesemente ad uscire.
Esco dall'ufficio sbattendo la porta, ma senza farlo apposta. No, okay, non è vero, era più che voluto. Insomma, un momento prima blocca l'ascensore per parlare e un momento dopo mi tratta come se nemmeno mi conoscesse. Non mi lamento, per carità, era quello che volevo, ma un minimo di coerenza è chiedere troppo? Se proprio devi essere così freddo, comportati sempre così, non solo quando ti pare. Insomma, fa la stessa cosa che faccio io in quei giorni, ma io sono giustificata. A meno che non abbia il ciclo anche lui, e allora sarebbe giustificato, ma mi sembra un po' improbabile. Certo, mai dire mai.
«Natalie, Natalie, cara. Il signor Clarkson ha detto che devo farti vedere il tuo ufficio!» trilla Leah, raggiungendomi e distogliendomi da pensieri poco consoni all'ambiente lavorativo. Legittimi e sensati, sì, ma che farei meglio ad evitare.
«Sì, devi accompagnarmi» brontolo, cercando di non dar troppo a vedere quanto quel fatto non mi entusiasmi affatto - perdonate il gioco di parole.
La biondina petulante mi prende a braccetto come se fosse la mia migliore amica e mi trascina letteralmente verso l'ascensore.
«Allora, Nat, cos'hai fatto di tanto speciale per meritarti un ufficio tutto tuo?» sussurra, maliziosa.
Oh, fidati, se lo sapessi sarei una persona più felice.
«È un mistero anche per me» rispondo, iniziando a tamburellare nervosamente con il piede sul pavimento, per la seconda volta in questa mattinata. Per quale motivo l'ascensore deve impiegare tanto tempo ad arrivare?
«Oh, andiamo, Nat, a me puoi dirlo» insiste Leah, stringendosi morbosamente a me.
«Primo, non chiamarmi Nat; secondo, non è successo nulla» ribatto, spazientita, e sul suo volto si forma un'espressione offesa. Poco male, almeno starà zitta per un po'.
«Sai che ti dico? Trovatelo da sola, l'ufficio» dice, per poi voltarmi le spalle ed andarsene.
Oh, fantastico. Ci mancava solo questa. Adesso come lo trovo questo fantomatico ufficio, io?
Cerco di richiamare Leah per scusarmi, mentre provo ad inventarmi una qualche storia da raccontarle, ma non c'è verso di farla tornare indietro. Mannaggia a me e alla mia boccaccia. Quando imparerò a tenerla chiusa sarà troppo tardi, ne sono sicura.
Va bene, proviamo a ragionare. I primi due piani sono utilizzati da un'altra azienda, quindi sono da escludere. Il terzo piano è il magazzino, quindi devo escludere anche quello. Quarto piano, contabilità; quinto piano, uhm, non ne ho idea. Be', per fortuna sono solo due i piani da controllare. Be', teoricamente ci sarebbe anche il piano di sopra, ma quello è off-limits per la sottoscritta - e anche per tutti gli altri, a meno che non siano pezzi grossi.
Quando arrivo al sesto piano, tiro un sospiro di sollievo. Esattamente davanti alle porte dell'ascensore, c'è una porta con sopra attaccato un cartello con la scritta "Mills" enorme. Direi che ho trovato il mio ufficio.
Okay, lo ammetto. Onestamente, è tutto il contrario di quello che mi aspettavo. Posso capire la polvere, certo, ma sembra di essere appena entrati in una cantina chiusa dal 1400. E io, ovviamente, sono allergica alla polvere, motivo per cui inizio a starnutire come ogni volta che Isabel fa le pulizie in casa - una volta all'anno, per intenderci. Appunto per me: trovare qualcuno che pulisca questa stanza gratuitamente. Oh, e anche dire al capo che "sgabuzzino" non è la stessa cosa di "ufficio".
«Tutto bene?»
Sussulto quando sento una mano sulla spalla e mi giro di scatto.
«Uhm, sì» borbotto, facendo un grande sforzo per non starnutire davanti allo sconosciuto - un gran bel pezzo di sconosciuto, devo ammettere.
«Scusa tanto, ma non sembra» ribatte lui, sorridendo.
«Sto bene, è solo un po' di allergia.»
Lui mi guarda, scettico. Effettivamente, sembro più una persona in punto di morte che una con un po' di allergia. Non posso farci niente, è così.
«Mi chiamo Jake, comunque» dice, allungando la mano.
«Natalie» rispondo, stringendola, forse un po' troppo forte.
«Wow, che presa!»
Ecco, lo sapevo. Arrossisco di colpo e mi volto, in modo da non darlo a vedere.
«Era un complimento» mi rassicura lui, entrando nella stanza e guardandosi attorno. «Vuoi una mano con le pulizie?» aggiunge poi, passando un dito su quella che dovrebbe essere la mia scrivania e lasciando traccia del suo passaggio in mezzo ad uno spesso strato di polvere.
«Sì, direi di sì» mormoro, iniziando a domandarmi per quale motivo voglia aiutarmi. Cioè, è liberissimo di farlo, a meno che non voglia qualcosa in cambio e sì, con "qualcosa" intendo quel qualcosa.
«Io vado a prendere uno straccio, tu, be', vai a prenderti un caffè, mi sembri stanca» dice, appena prima di scomparire in una stanza lì vicino.
Seguo il suo consiglio e torno nuovamente al piano di sopra. So perfettamente che, sullo stesso piano in cui mi trovo, ci sarebbe caffè gratis, ma non ho alcuna voglia di incontrare l’assiduo frequentatore della sala comune - ovvero Robert – cosa che potrebbe, effettivamente, accadere. E poi, ammettiamolo, non posso tradire i miei amati distributori.
Come sempre, non c'è nessuno a fare la coda per un sanissimo e santissimo caffè, quindi lo prendo abbastanza in fretta. Mentre cerco di tornare in ufficio, quello vero, mi imbatto in Isabel, che mi fa un veloce cenno di saluto con la testa. Sta parlando al telefono e, a giudicare dalla sua espressione, l'altro interlocutore è James.
«Cazzo!»
Oh no. No, no, no, e no. Non è successo davvero.
«I-Io, scusa, mi dispiace.»
Non so se disperarmi per via del caffè che è finito sulla mia camicia - bianca, ovviamente - o ridere per l'espressione mortificata del capo. Mi è venuto addosso, se ve lo state chiedendo, e, come è giusto che sia, il caffè è magicamente volato sulla mia camicia.
«Mi dispiace, mi dispiace» continua a ripetere, mentre tira fuori dalla tasca un fazzoletto di stoffa e cerca inutilmente di pulire il disastro che ha combinato. Senza farlo apposta, mi auguro.
«No, no. Lascia stare» dico, allontanando le sue mani dal mio petto - anche perché si stavano trattenendo troppo in posti in cui non sarebbero dovute essere.
«Vai nel mio ufficio, Natalie, vedo di rimediarti una camicia» mi dice, per poi letteralmente mettersi a correre verso l'infinito e oltre non so dove. Lo imito, andando a nascondermi nel suo ufficio, con la speranza che riesca a trovare davvero una camicia.
Il capo arriva dopo una ventina di minuti, con in mano un qualcosa che sembra tutto meno che una camicia.
«Ecco» dice, porgendomelo.
Guardo l'abito che ha recuperato, chiedendomi 1) dove diavolo l'abbia trovato e 2) chi si metterebbe mai un pezzo di stoffa tanto corto. Sospiro, pensando che probabilmente non c'era nulla di meglio. Anzi, probabilmente è un miracolo che abbia trovato questo.
Mi sbottono tranquillamente la camicia, dando le spalle alla finestra. Siamo al settimo piano, sì, ma i guardoni arrivano ovunque. Come in quella pubblicità, com'è che si chiamava? Oh, non mi ricordo. Era di un qualche profumo, però, ne sono sicura.
«Ehm, Natalie...»
Dannazione.
Cioè, non era uscito?
Alzo lo sguardo in un modo assurdamente lento, sperando di avere le allucinazioni. Invece no, Robert è davvero di fronte a me. E io sono in reggiseno.
Non so perché, ma ho come l'impressione che lo spettacolo gli piaccia.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Image and video hosting by TinyPic


 


 
«Ti prego, non fare caso a me.»
Posso sentirmi una completa idiota? Sì? Bene, perché è esattamente così che mi sento.
Non so né come né perché, ma sono riuscita a spogliarmi davanti al mio capo. Se qualcuno dovesse entrare in questo istante, be', non potrebbe far altro che fraintendere. Non potrei biasimarlo, anche io fraintenderei, se vedessi una situazione del genere.
«Anzi, la sai una cosa, Mills? Potrei anche prendere in considerazione un aumento» mormora, avvicinandosi pericolosamente. Sono ufficialmente un'idiota. E sono anche nei guai. «Basterebbe fare così...» aggiunge poi, prendendosi la libertà di sbottonarmi i jeans e meritandosi, di conseguenza, uno schiaffo.
«Pervertito!» esclamo, cercando di allontanarlo da me. Si sposta appena di un paio di centimetri grazie alla sorpresa dello schiaffo, poi si riavvicina.
«Non fare la santarellina, Mills, non ci crede nessuno.»
Ma come si permette?
Lo schiaffeggio nuovamente, ma, questa volta, capisce la mia intenzione e blocca la mia mano prima che riesca ad avvicinarmi al suo volto. Poi, senza un motivo preciso, scoppia a ridere e si allontana.
«Vestiti» si limita a dire, senza smettere di ridere, uscendo finalmente dalla stanza.
Rimango immobile, con il vestito in una mano e la camicia nell'altra, basita da quel comportamento. Che accidenti gli è preso? No, seriamente, come gli è saltato in testa di sbottonarmi i jeans, o anche solo di pensare di provarci? Non so per chi mi abbia presa, ma quasi sicuramente non ha capito un bel nulla.
Sbuffando e brontolando tra me e me, mi cambio il più velocemente possibile, casomai gli venisse la malsana idea di rientrare. Infatti, nemmeno a farlo apposta, apre la porta prima che io sia riuscita a tirare su la zip dell'abito, trovandosi così la mia schiena nuda davanti agli occhi. Sì, mi sono girata in modo da dare le spalle alla porta. Meglio un eventuale guardone che lui, o no? Specialmente dopo la geniale idea che ha avuto cinque minuti fa.
«Non ho finito» brontolo, tentando invano di chiudere quella benedetta zip.
«Ferma» dice lui, spostandomi le mani dalla cerniera e tirandola su al posto mio.
Quando toglie le mani dalla mia schiena, mi volto di scatto e faccio per andarmene, ma Robert afferra il mio braccio, trattenendomi. Stizzita, mi volto a guardarlo, attendendo una spiegazione.
«Mi dispiace, Natalie. Non so cosa mi sia preso, non ne ho davvero idea» dice, con un'espressione che sembra realmente dispiaciuta. Certo, però, che è grave se nemmeno lui sa perché abbia fatto quello che ha fatto. «Ogni tanto mi capita» continua, arrossendo leggermente.
«Cosa? Cosa ti capita?» domando, con un tono leggermente più alto del normale.
«Di fare quella cosa» risponde lui, arrossendo, questa volta sul serio.
«Ah, quindi ogni tanto ti capita di cercare di spogliare una donna contro la sua volontà. Non è normale, lo sai?» gli urlo contro, leggermente irritata. No, un po' più che "irritata". Direi che sono leggermente infuriata. Tipo Hulk. Che poi, tra l'altro, una volta ho fatto un test per scoprire quale personaggio degli Avengers fossi, ed è uscito proprio Hulk. Ma tralasciamo.
«Non esagerare, mi fai passare per uno stupratore. E abbassa la voce, per favore» si difende lui, facendo spallucce.
«Ti faccio passare per quello che sei, ovvero uno sporco maschilista, sessista e petulante, credi di essere il centro del mondo, ma devi capire che n-»
Non faccio in tempo a finire la frase che mi ritrovo zittita in un modo più che inusuale. Almeno, inusuale per me. Per quanto mi costi ammetterlo, però, devo dire che una parte di me - una parte piuttosto malata - non è affatto dispiaciuta di trovarsi in quella situazione. Poi c'è la parte razionale, che insiste perché allontani Robert e, possibilmente, gli dia anche un calcio dove non batte il sole, cosa che sono abbastanza tentata di fare. Solo che non lo faccio e, onestamente, non so nemmeno io perché.
«Io credo che, uhm, ti... ti stia squillando il cellulare» sussurro, trovando la scusa perfetta per interrompere quello che non sarebbe nemmeno dovuto accadere.
«Eh? No, non penso» risponde lui, riavvicinandosi, evidentemente per riprendere quello che stava facendo.
«Come no? Non senti?»
Mi fingo sorpresa, sperando seriamente che il suo cellulare inizi a squillare da un momento all'altro, ma, ovviamente, non succede. Perché dovrebbe, è lunedì. Come ho già detto, di lunedì accade sempre qualcosa che non dovrebbe accadere.
«Ho il silenzioso, Natalie»
Ecco.
Figura da completa idiota: fatta.
Arrossisco e mi copro il viso con le mani, decidendo di passare al lato B. Piano, piano B. Non che ci sia un piano B, non ancora, almeno. E se...? Sì, sono ufficialmente un genio.
Fingo di singhiozzare una, due, tre volte, fino a quando non sono assolutamente sicura di essere riuscita nel mio intento. Adesso Robert pensa che io stia piangendo. Per colpa sua.
«Natalie? Ehi, Natalie. Mills, che ti prende?»
Perfetto, è preoccupato.
Singhiozzo ancora, sforzandomi di fare uscire qualche lacrima per rendere il tutto più credibile.
«Natalie, cazzo!»
Non so se l'avete già notato, ma, a quanto pare, questo ragazzo è leggermente fissato con questa parola. La mette un po' ovunque, come il prezzemolo. Però devo ammetterlo, in bocca a lui non sembra nemmeno lontanamente volgare. Sì, so perfettamente che questa frase è leggermente ambigua, ma non importa.
«Ehi, ehi, tranquilla» sussurra Robert, spostandomi le mani dal volto e stringendole tra le sue.
«Scu-scusa, è solo che...»
"Solo che" cosa? Dovevo pensarci prima. Ti prego, fa che non me lo chieda. Fa che sia distratto dalle lacrime che sono riuscita a far uscire dai miei occhi. Probabilmente, in una vita precedente, ero un'attrice, e anche piuttosto brava.
«No, Natalie, non piangere» sussurra, e io mi sento leggermente in colpa per la mia messinscena. Voglio dire, mi fa un po' di tenerezza, a vederlo così preoccupato. Però se lo merita, visto quello che fatto e cercato di fare.
«Devo andare» mormoro, cercando di dare l'impressione di una persona che cerca di darsi un po' di contegno. Ovviamente, ci riesco. Come ho già detto, in una vita precedente ero un'attrice. Potrei farlo anche in questa vita, magari.
Robert mi lascia andare, ma, ovviamente, non mi dice che ha chiuso a chiave la porta. Non mi lascia il tempo di dire nulla, appoggia la mano sulla mia, che tenta inutilmente di aprire la porta, e mi costringe a toglierla. In meno di cinque minuti, mi ritrovo intrappolata tra il muro e il suo corpo, l'uno troppo freddo, l'altro troppo vicino. Cerco di protestare, ma riesce a farmi desistere con un solo sguardo.
«Non accadrà mai più, se non vuoi. Te lo giuro» sussurra, prima di suggellare il nostro, uhm, accordo, con un bacio. Uno di quelli da togliere il fiato, a dirla tutta. Poi, come se niente fosse, torna a sedersi dietro la scrivania e mi guarda uscire. Quando mi chiudo la porta alle spalle, sento ancora i suoi occhi fissi sulla mia schiena.
Sospiro, cercando di reprimere un sorriso ebete che minaccia di comparire sul mio volto. Non posso gioire di una cosa simile, devo impedirlo. Sì, Natalie, impediscilo. Tu lo detesti, lo detesti per quello che ha fatto e non vorresti mai e poi mai che tra voi due ci fosse qualcosa. Mai.
Sbuffando, decido che, per oggi, ho lavorato abbastanza. Non che consideri quello che è successo una sorta di lavoro, certo. Quello che intendevo dire è che ne ho avuto abbastanza di questo posto, motivo per cui sono più che felice di andarmene. Mando un messaggio a Kyle per avvisarlo che ho intenzione di andare a scocciarlo sul posto di lavoro, aspettandomi qualche protesta in risposta, ma invece mi risponde con un'emoticon, una faccina sorridente. Evidentemente, non lo disturbo.
Per mia fortuna, il night club in cui lavora Kyle non è molto lontano da dove lavoro io, perciò impiego davvero pochissimo ad arrivare - grazie anche a un taxista alquanto di fretta, devo dire. Ovviamente, a quest'ora, il locale è chiuso, ma, per fortuna, il mio fratellone mi sta aspettando esattamente davanti all'entrata.
«Natalie! Sei venuta a goderti lo spettacolo?» mi domanda, non appena sono abbastanza vicina da poterlo sentire senza bisogno che urli, ovvero quando sono praticamente a dieci centimetri di distanza da lui.
«Veramente sono venuta a darti fastidio.» ribatto, facendogli la linguaccia e guadagnandomi un pizzicotto lì dove non avrebbe mai dovuto mettere le mani. «Tra l'altro, ci sei solo tu?» aggiungo poi, sperando vivamente che la risposta sia un "sì".
«Uhm, no. Ci sono anche Don, James e Martin.» risponde lui, passandosi una mano tra i capelli.
«Chi?» ribatto, sperando di aver frainteso tutto. Conosco Don, ma James e Martin non li ho mai sentiti. A meno che non siano chi penso che siano, e allora li conoscerei di sicuro.
«Sì, ecco, dobbiamo parlare...» borbotta Kyle, precedendomi nella spaziosa sala in cui si esibisce, se così si può dire.
Su un divanetto piuttosto sgualcito, intravedo Don, pigramente sdraiato, con un basco con la fantasia scozzese a coprirgli il volto. Mormora un "ciao" senza né mettersi a sedere né alzare lo sguardo. Non che me lo aspettassi, certo. Voglio dire, Don è il tipo di persona che ha la capacità di ignorare tutto e tutti in qualsivoglia situazione.
Poco più in là, su uno degli sgabelli del bar, vedo, come temevo, Martin, impegnato a leggere dei fogli che, a mio parere, potrebbero essere un contratto. Be', se così fosse, potrei anche ucciderlo. E poi ucciderei Kyle, perché l'idea dev'essere arrivata sicuramente da lui.
«Devi dirmi qualcosa?» domando, sedendomi di fronte a lui e strappandogli i fogli dalle mani, facendolo sussultare.
«Dai, Nat, non è il caso» si lamenta, cercando di riprendere i fogli che, ovviamente, vanno a finire nella mia borsa. Sarà strano, ma non permetterò in alcun modo a mio fratello di seguire le orme dell'altro perditempo e fare lo spogliarellista.
«Sei impazzito?» domando, con un tono a metà tra il deluso e l'arrabbiato.
«Mi servono soldi, ergo mi serve un lavoro» si giustifica lui, facendo spallucce.
«Hai tre figli!» gli ricordo, piuttosto irritata dal gesto che ha fatto nemmeno dieci secondi prima.
«Appunto, motivo in più per cercare un lavoro» continua, imperterrito.
Sbuffando, mi alzo e raggiungo Kyle con una mezza intenzione di schiaffeggiarlo un paio di volte – oggi è la giornata degli schiaffi, sì – ma cambio idea non appena vedo dov'è, ma soprattutto con chi. Non avete la più pallida idea di quanto io shippi mio fratello e Don. Ovviamente, nessuno dei due lo sa, anche se credo che Kyle sospetti qualcosa. Però, insomma, sono perfetti insieme. Cioè, dico davvero, sono la tenerezza fatta coppia. Non che siano una coppia, non ancora, almeno. Purtroppo per me, temo che non lo saranno mai, anche perché, se non mi ricordo male, Don ha una ragazza. O la aveva. Insomma, di sicuro non è dell'altra sponda, e non lo è nemmeno Kyle.
«Di chi è l'idea?» dico, interrompendo quello che stavano facendo.
«Di Martin.»
Oh, sì, certo. Magari si aspetta anche che gli creda. L'idea è sicuramente sua, solo che non lo ammetterebbe mai, visto cosa lo aspetterebbe.
«Martin non lo farebbe mai» ribatto, incrociando le braccia e mettendo il broncio.
Mi siedo sullo stesso divanetto su cui era sdraiato Don, tra lui e mio fratello, per nulla intenzionata ad andarmene fino a quando Kyle non mi avrà spiegato per filo e per segno in che modo abbia avuto quell'idea. Ovviamente, però, vengo tranquillamente ignorata da entrambi e, dopo un paio di minuti, costretta ad andarmene. Sbuffo sonoramente, allontanandomi per andare a fare un bel discorsetto a Martin, se non fosse che l'interessato è scomparso. Scomparso per modo di dire, certo, so perfettamente dov'è andato a finire, ovvero negli spogliatoi, se così si possono chiamare.
Sto quasi per entrare urlandogli di trovarsi un vero lavoro, ma cambio idea non appena sento una voce dall'interno, e di sicuro non è quella di Martin. Scuoto la testa, pensando che è impossibile che sia lui, anche se la voce è praticamente identica. Mi affaccio appena dalla porta e riconosco immediatamente il cespuglio biondo platino che Isabel si è portata a casa venerdì. Fortunatamente, è di spalle, quindi non mi vede. Be', adesso ho qualcosa con cui ricattarlo, anche perché sono davvero curiosa di sapere con chi stia parlando e per quale motivo abbia messo nella stessa frase le parole Natalie e scommessa.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo X ***


Image and video hosting by TinyPic


 
Devo ammetterlo: la mia capacità nel convincere le persone a fare ciò che voglio è maggiore di quanto pensassi. Ovviamente, con Martin non ha funzionato, ma con James sì. È bastato il nome di Isabel per fargli vuotare il sacco, anche se, visto quello che ho scoperto, avrei preferito non lo facesse. Ma ormai l’ha detto e io l’ho sentito, non posso mica dimenticarlo.
Esco dagli spogliatoi trascinandomi dietro il ragazzo, tenendolo per un braccio, senza nemmeno preoccuparmi di non fargli male. So che lui, teoricamente, non ha a che fare con ciò che i ha appena raccontato, ma sono talmente infuriata da non riuscire a pensare a nulla se non a uccidere il mio capo e pretendere spiegazioni dai miei fratelli, che sicuramente sapevano qualcosa e hanno deciso di tenermi all’oscuro della situazione.
«Una scommessa? Ha fatto una scommessa che implica il portarmi a letto e voi non mi avete detto niente?» urlo, appena mi ritrovo davanti a Kyle e Martin, che si scambiano un’occhiata perplessa – e anche colpevole, se devo essere sincera.
Martin sospira, mentre Kyle abbassa lo sguardo, dando l’impressione di essere improvvisamente interessato al colore delle sue scarpe.
«Allora? Potreste almeno degnarvi di rispondermi?» domando, dopo qualche minuto di silenzio, lasciando il braccio di James che, a giudicare dal suo mugolio di dolore, stavo ancora stringendo, e non lievemente.
«Non volevamo che lo sapessi» afferma Martin, rivolgendomi uno sguardo rassegnato.
«Grazie, Martin, non lo avevo capito» ribatto, sarcastica.
«Volevamo tenerti fuori da questo schifo, Nat» precisa Kyle, azzardandosi ad alzare gli occhi dal pavimento.
«Non ci siete riusciti» affermo, senza l’esplicita intenzione di ferire nessuno dei due, ma riuscendoci perfettamente. «E poi, avreste dovuto dirmelo. Dovevate dirmelo» esclamo, con la voce tremante – perché sì, nonostante stia cercando di reprimerle, sono sull’orlo delle lacrime.
«Oh, paperella.»
Martin si avvicina velocemente a me, per stringermi a sé con più forza del solito, in modo da impedirmi di divincolarmi da quella presa.
«Non chiamarmi paperella!» esclamo, tra i singhiozzi. È assurdo come, in quella situazione, riesca ad offendermi per un nomignolo che mi perseguita da, be’, da quando sono nata, e a cui sono abituata.
Rimaniamo immobili in quella posizione per una decina di minuti, fino a quando non sono sicura di aver pianto abbastanza. Mi scosto leggermente da lui, per quanto mi permette la morsa in cui ancora mi tiene, e aspetto che mi lasci andare.
«Ti ho bagnato la maglia» affermo, facendo un cenno alla chiazza umida che si è formata sul tessuto.
Martin fa spallucce, tirando fuori un pacchetto di fazzoletti dalla tasca e porgendomelo – anzi, lanciandomelo.
«Ho tre figli, Nat, ci sono abituato» dice, facendomi l’occhiolino.
Mi siedo accanto a lui – precisamente, tra lui e Don che, fino a quel momento è rimasto immobile e muto, senza fare una piega nonostante lo spettacolo che si è presentato ai suoi occhi – e mi sporgo leggermente per dare un’occhiata a Kyle, per assicurarmi di non averlo ferito troppo.
«Dov’è finito?» mormoro, quando mi ritrovo davanti al nulla.
Con lui, noto, è sparito anche James – non che la cosa mi interessi più di tanto, devo dire.
«Ha detto che andava ad ammazzare Clarkson, o qualcosa del genere» dice Don, con tono quasi annoiato.
«Oh» è l’unica cosa che riesco a dire, un po’ perché Kyle non è mai stato un tipo violento, un po’ perché non sono sicura di volere che prenda a pugni il mio capo.
Mi spiego, una parte di me vuole che lo prenda a pugni, calci e quant’altro, ma l’altra parte di me, quella meno vendicativa, pensa che si sarebbe potuto risolvere tutto a parole. D’altronde, se Kyle dovesse usare la violenza con tutti le persone che mi hanno ferita, a quest’ora mezza Londra potrebbe dichiarare di essere finita in una rissa con mio fratello. Non perché io sia uscita con mezza Londra, chiaro. Nemmeno con un quarto di Londra, né un ottavo, né un sedicesimo e via dicendo. Ringrazio chi di dovere per il fatto di non aver accennato a quanto successo in ufficio quella mattina, o avremmo seriamente rischiato delle denunce, se non peggio, Certo, l’unico a meritare una denuncia sarebbe Robert, e forse, forse, avrà ciò che si merita. Sì, se continua con quel comportamento una denuncia non gliela toglierà nessuno, nemmeno Nessuno in persona.
Okay, forse dovrei prendere la questione più seriamente.
***
La mattina dopo, quando mi presento a lavoro, sono più agitata di quanto non vorrei. Mi faccio coraggio, passando davanti alla scrivania di Isabel – vuota, perché lei è a casa, in malattia – e mi avvicino all’ufficio del capo, decisa a mettere in chiaro le cose e esigere le sue scuse.
«Uhm, capo, stavo pensando che… oh, miseriaccia.» esordisco, entrando senza bussare, cosa che avrei dovuto fare per risparmiarmi una tale vista. Siamo sinceri, onestamente il lato B del capo è un gran bel lato B, quindi non è proprio quello a turbarmi. No, è il fatto che ci siano due mani sopra a turbarmi, anche considerando che quelle sono le mani di Leah.
«Natalie! Non è come sembra, te lo assicuro.»
Lo guardo cercare di abbottonarsi la camicia piuttosto maldestramente, provando a ignorare il fatto che farebbe meglio ad abbottonarsi prima i pantaloni.
«Uffa, Nat, ci stavamo divertendo» sbuffa Leah, aggiustandosi la gonna ed accavallando le gambe.
«Oh, non ne dubito.»
«Posso spiegare.»
Uhm, perché no? Sono curiosa di sapere cosa potrebbe inventarsi.
«Sì, è il caso di farlo» mormoro, pregustandomi già quello che la sua mente potrebbe tirar fuori.
«Ecco, io stavo… noi… Leah stava, ecco, voglio dire…»
«Io?» lo interrompe Leah, senza nemmeno alzare lo sguardo dalla sua perfetta manicure – che ho sempre invidiato, tra l’altro.
«Sì, be’, tecnicamente hai iniziato tu.»
«Non mi sembravi tanto dispiaciuto»
Cerco di reprimere un ghigno, ma, ovviamente, non ci riesco. Non che uno dei due se ne accorga, chiaro, intenti come sono a litigare tra di loro.
«Comunque non è colpa mia se sei un morto di f-»
«MILLS!»
La voce del capo mi fa sobbalzare, distogliendomi dai miei pensieri. Giustamente, vista la mia grazia, il mio braccio destro sbatte contro la maniglia della porta, fortunatamente chiusa (non oso immaginare cosa potrebbero pensare i miei colleghi), e sono più che sicura che domani avrò un livido grande come l’Irlanda e la Groenlandia messe insieme.
Lancio un’occhiataccia al capo, aspettandomi di vederlo arrabbiato, ma invece sembra solo mortificato (e imbarazzato, chiaro. Chiunque sarebbe imbarazzato).
«Dille che non è vero, dille che non sono un… maniaco.»
Bah, capo. Onestamente, secondo me un po’ maniaco sei. Giusto un po’. Specialmente se consideriamo quello che sono venuta a sapere da James.
«Uhm, no. Non è un maniaco» borbotto, convinta più dallo sguardo da cucciolo che il capo sta facendo più che da altro. Devo ammettere che gli riesce piuttosto bene, anche se non gli si addice molto. Sarebbe come vedere Loki implorare la sottoscritta di aiutarlo - non che Loki sia ninfomane come il capo, intendiamoci. Che poi, mi chiedo se ninfomane si possa usare anche per gli uomini. I misteri della vita.
Leah sbuffa, scende dalla scrivania sulla quale era comodamente appollaiata ed esce dall’ufficio, mormorando qualcosa di simile a “Mi hai rovinato il divertimento” seguito da qualche insulto che mi rifiuto di ascoltare.
«Ti devo un favore» dice il capo, appena la porta si chiude alle spalle di Miss Sono-Una-Santarellina.
«Uno grosso, direi» puntualizzo, cercando un modo per cambiare discorso e portarlo su ciò che ho intenzione di dire – e di sentirmi dire.
«Trovato! Ti porto a cena fuori. Stasera.»
Oh, perfetto. Esattamente quello che volevo. Non vedevo l’ora che la persona che sta cercando di portarmi a letto per scommessa decidesse di invitarmi a cena. Mi gratto la testa, alla ricerca di qualcosa di sensato da dire, ma ovviamente non riesco a formulare nulla di abbastanza intelligente perché, a quanto pare, in compagnia di quest’uomo, il mio QI si riduce a zero. Fantastico.
«Okay» mi ritrovo a borbottare, senza alcuna reale convinzione.
Robert strabuzza gli occhi e sono certa che, se stesse bevendo, correrebbe il rischio di soffocarsi. Stupida, stupida Natalie. Accettare era l’ultima cosa che avrei dovuto fare. Sono un’idiota, un’idiota totale.
«Davvero? Hai davvero accettato?» domanda, sorpreso. Povero, non ci credeva nemmeno lui. Sembro davvero così senza cuore? Probabilmente sì.
Annuisco, maledicendomi per la mia assoluta incapacità di mentire.
«Be’, allora passo da te alle… 8?»
«Perfetto. Oh, capo, io mi abbottonerei i pantaloni, se fossi in te.»
Esco dall’ufficio scuotendo la testa, e per poco, assorta come sono nei miei pensieri, non finisco contro Leah che, in maniera decisamente poco carina, decide di rivolgermi un paio di insulti. Questa volta, l’unica cosa che riesco a pensare è che io, quegli insulti, me li merito.
***
Dovevo sapere che sarebbe stata una giornata tremenda dal primo istante in cui ho messo piede fuori dall’ufficio del capo. E invece no, non ci ho dato peso e sono riuscita a farmi mandare a quel paese – non meglio specificato – da almeno cinque persone, tra cui ben due Joe (vedi: fratello e collega sexy) per motivi a me sconosciuti, nel giro di nemmeno due ore. No, non è vero. Joe Uno, mio fratello, l’ha fatto perché gli ho rinfacciato per, più o meno la ventesima volta il fatto di essere andato in Russia senza di me, mentre Joe Due, be’, non ne ho davvero idea. No, fermi tutti. Si chiama Jake, non Joe. Ecco perché mi ha mandato a quel paese: devo aver sbagliato nome un paio di volte. O forse un po’ di più. Nulla di strano, chiaro.
Ma tralasciamo, ora che sono – finalmente – tornata a casa, c’è altro di cui occuparsi, ovvero l’insormontabile scoglio dell’abbigliamento in vista dell’appuntamento – odio definirlo così – con il capo. Per dirlo in altre parole, che accidenti mi metto? Non posso chiedere un consiglio a Isabel, si insospettirebbe troppo. Come biasimarla, io non mi preoccupo mai dei vestiti, nemmeno quando esco con qualcuno. L’ultima volta sono riuscita a presentarmi in jeans e maglietta. Non è durata nemmeno due settimane, ma non sono del tutto convinta che ciò abbia a che fare con il mio modo di vestire.
Okay, ho capito. L’unica possibilità è chiamare Kyle e sperare che non abbia altro da fare. Potrei sempre chiedere a Martin, ma quell’uomo ha un gusto pessimo. Una volta è riuscito a far mettere a sua figlia un vestito che sembrava uscito direttamente dall’armadio della nonna. Mia nonna, non della bambina, nonna che è nata nel 1939.
«Nat!»
Promemoria per me: allontanare il telefono dall’orecchio quando parlo con Kyle o rischiare di diventare prematuramente sorda, scelta mia.
«Ho assolutamente bisogno di un consiglio» rispondo, arrivando subito al punto.
«Uomini o vestiti?»
Sbuffo. Solo mio fratello può ridurre tutto a queste due opzioni. Ha ragione, per carità, ma mi fa sembrare troppo prevedibile.
«Entrambi» borbotto, gettando l’ennesima camicetta sul letto.
«Okay, uhm, a-arrivo» risponde, poi riattacca.
Noto il suo tono leggermente titubante, come se fosse troppo impegnato a fare altro per venire dalla sua adorata sorellina. Non appena arriva avrà un terzo grado con i fiocchi e i controfiocchi.
Come al solito, impiega non più di una decina di minuti per arrivare, ma ne impiega altrettanti per entrare in casa. Adesso, io non vorrei dire, ma quanto ci può volere per salire quattro scalini? E intendo quattro sul serio, ci sono solo quelli a separare il cancello dall’entrata. Il bello delle case indipendenti.
«Allora, qual è il problema?» domanda, chiudendosi la porta alle spalle.
«Non ho vestiti adatti»
«Che novità…» borbotta, entrando in camera mia con la nonchalance che solo lui riesce ad avere. Perché siamo gemelli, dice, ma è una scusa. Joe non è mai entrato in camera mia senza permesso, nemmeno quando eravamo piccoli.
«Uhm, Kyle, che stavi facendo quando ti ho chiamato?» domando, seguendolo e bloccandolo prima che vada a curiosare nel cassetto della biancheria per l’ennesima volta. Non è un maniaco, per carità, è solo che sa dove nascondo il mio diario segreto. Che poi, definirlo “segreto” è un azzardo, visto che lo legge più o meno chiunque.
«Oh, niente» risponde lui, scrollando le spalle.
«Quindi non eri con qualcuno?»
«Cosa te lo fa pensare?» chiede a sua volta, girandosi nel tentativo di non farmi vedere il rossore che gli colora le guance.
Mio fratello è un pessimo bugiardo, è ufficiale. Addirittura peggio di me, oserei dire. Non è nemmeno riuscito ad abbottonarsi la camicia decentemente.
«No, così…»
Preferisco risparmiare il vero terzo grado per quando tornerò a casa dal (disastr)appuntamento con Robert, sperando che non gli venga in mente di farlo a me.
Per ora, è meglio che mi concentri sul vestito che Kyle ha tirato fuori dal mio armadio, o meglio, ha riesumato. L’ultima volta che ho indossato quel vestito è successa, be’, quella cosa, almeno otto anni fa, e, mentre sono sicura che mi vada ancora bene – il bello di non ingrassare facilmente, immagino. E anche di avere le tette ferme alla seconda e mezza dall’età di quattordici anni – non sono altrettanto sicura che quel vestito non mi porterà la mia solita sfortuna.
«Chi è il fortunato?» domanda Kyle, non appena abbiamo constatato che sì, il vestito mi sta ancora.
«Uhm… un collega» mormoro, sperando che non si insospettisca.
Ovviamente, però, mio fratello si insospettisce eccome.
«Nat, non sarà quel viscido verme figlio di put-»
«No!» esclamo, prima che possa dare in escandescenze. «Si chiama Jake, ha l’ufficio vicino al mio» mento spudoratamente, sperando di convincerlo.
A quanto pare, Kyle non nota il mio rossore o, se lo nota, lo associa all’affermazione appena fatta.
«Meglio.»
«A proposito di Robert, Don mi ha detto che volevi picchiarlo o roba del genere…» azzardo, dandogli le spalle.
«Sì, uhm, ecco… volevo farlo» dice, con un espressione abbastanza imbarazzata – come se ci fosse qualcosa di imbarazzante nel voler difendere l’onore della propria amata sorella. «Poi Don mi ha convinto che avrei rischiato una denuncia, e ho pensato che avremmo dovuto risolverla in altro modo.»
«Ovvero?»
«Io, uhm… i-io ho parlato con suo padre.»
«Con Hector.»
«Esatto.»
«Che non ha la minima idea di chi tu sia.»
«Già.»
«E che probabilmente non può fare nulla.»
«Può licenziarlo.»
«Licenziarlo?»
«Sì, Natalie, licenziarlo» afferma Kyle, iniziando ad agitarsi. «Che tu ci creda o no, a Hector interessa il benessere dei suoi dipendenti.»
Se non fosse che non siamo più i suoi dipendenti, mi ritrovo a pensare, ma scelgo di non dire nulla. Improvvisamente, mi ritrovo a maledire la mia stupida idea di accettare l’invito del capo e a cercare un modo per annullare il tutto. Potrei chiamarlo, ma non mi va di sentire la sua voce; potrei mandargli un messaggio, o un’email, ma sarebbe una cosa alquanto… squallida? Capiamoci, io ho sempre detestato le persone che danno buca via messaggio, e non sopporterei l’idea di diventare una di esse.
I miei pensieri vengono interrotti dal trillo del cellulare, che mi avvisa della presenza di un nuovo messaggio. Inizialmente temo che sia Robert, che mi comunica che mi sta aspettando in macchina – in anticipo di una decina di minuti, ma, se non altro, non in ritardo – e inizio immediatamente a pensare a un modo per far sì che Kyle non veda la persona con cui dovrei uscire – anche se controvoglia.
Per mia fortuna – o sfortuna, vedete voi – qualcuno, ai piani alti, decide di concedermi una tregua dall’incredibile dose di sfiga presente nella mia vita. Apro il messaggio con le mani che tremano, ma, appena letto, mi ritrovo a tirare un sospiro di sollievo.
Imprevisto, sono bloccato a casa.
Il mio sospiro di sollievo, tuttavia, impiega pochissimo a diventare preoccupazione. Il “dobbiamo parlare” che segue quella frase è tutto meno che rassicurante.
A quanto pare, ho cantato vittoria troppo presto. Io e la sfiga non ci separeremo mai, mai e poi mai.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2385076