L'ultimo pezzo del puzzle di Gagiord (/viewuser.php?uid=747294)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I Capitolo ***
Capitolo 3: *** II Capitolo ***
Capitolo 4: *** III Capitolo ***
Capitolo 5: *** IV Capitolo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
«Questo va qui.» E come prese il pezzo di cartone, una dolce melodia, accompagnata dall’immagine di un ragazzino seduto davanti ad un pianoforte a coda, si diffuse nella sua testa. Il volto del ragazzino era contornato da capelli neri, sbarazzini, e le mani piccole, piccolissime, si muovevano rapide sui tasti bianchi e neri. La Gioia di Amare, di Kreisler, era suonata con morbidezza, e la luce abbagliante non riuscì a contenersi e si riversò nella stanza bianca e spoglia, dove stavano solo il ragazzo dagli occhi color dell’ambra e il suo puzzle. Il ragazzo s’illuminò, vedendo che mancava solo un pezzo, quello al centro; presto, però, l’espressione gioiosa tramutò in un cipiglio indispettito: l’ultimo pezzo non combaciava. E allora cosa avrebbe dovuto fare?
Tokyo, 14 novembre 2015, 15:33
Un corvo gracchiò, mentre Shouyou correva, sorridente e pieno di adrenalina come non mai. «Aspettami, Shou-chan!» gridò il suo amico dietro di lui, ma dopotutto non lo si poteva biasimare: la custodia del violino ‒ e il violino stesso dentro, naturalmente ‒ in spalla gli rendeva più difficile di quanto già fosse stare al suo passo. Il quindicenne s’imbronciò e si voltò. «Arriveremo in ritardo se non ci sbrighiamo!» Riprese a correre, e Izumi ebbe l’impressione che fosse ancora più veloce di prima. Lanciò un’occhiata fugace all’orologio da polso azzurro che portava: erano le 15:35, e la gara sarebbe iniziata alle 17:00. «Siamo in anticipo di un sacco!» Shouyou continuò a correre e a lasciarlo indietro.
Sendai, 21 dicembre 2008, 20:54
«Su, su, Tobio-chan! Non ti vergognare, la mamma lo sa che sei bravissimo!» esclamò, sorridendogli dolcemente. Quelle parole, tuttavia, sortirono l’effetto opposto ‒ e la donna ne fu felice, perché l’espressione del figlio ogni volta che riceveva complimenti era insostituibile: le guance rosse d’imbarazzo, le labbra corrugate, nell’indecisione di ringraziare o ammutolirsi. L’amica di sua madre davanti a lui ridacchiò senza malizia e si abbassò alla sua altezza, gravando sulle punte dei piedi. I suoi occhi scuri erano davvero belli, notò Tobio, ma non lo disse. «Tu non ti preoccupare» lo rassicurò, arruffandogli i capelli nerissimi, «suona e basta.»
Tokyo, 14 novembre 2015, 17:09
Seduto a terra con le spalle contro il muro bianco sporco e il volto affondato tra le ginocchia, non si accorse che il numero tre era appena salito sul palco, e che lui, numero quattro, si sarebbe dovuto preparare dietro le quinte. «Kageyama-san, Kindaichi-san, potete entrare!» Fu, però, un uomo sulla trentina, vestito di tutto punto, a ricordarglielo. Doveva essere un assistente o qualcosa del genere, a Tobio non interessava granché. Si alzò con flemma, afferrando il violino e l’archetto, e si diresse verso l’ingresso per il palco senza nemmeno guardare se il suo accompagnatore fosse lì. Se fosse stato per lui, avrebbe anche potuto suonare da solo; il problema era che il concorso richiedeva obbligatoriamente l’accompagnamento del piano. Kindaichi lo affiancò qualche secondo dopo, contrariato dal suo comportamento. «Quanto rispetto» mormorò, una nota sarcastica nella sua voce. Tobio udì comunque quel commento, e contrasse la mascella per l’irritazione; decise, però, di non ribattere. Passò qualche minuto in cui stettero zitti, respirando rumorosamente, il cuore che batteva follemente dentro al petto di entrambi. Tobio, poco prima che il numero tre gli passasse accanto, prese il violino nella mano destra e cominciò a riscaldare le dita di quella sinistra. Poi, quando nella sala in cui si apprestavano ad entrare calò il silenzio, mosse appena due passi avanti e si arrestò. «Sta’ al mio passo» intimò a Kindaichi, il tono piatto. L’accompagnatore fece schioccare la lingua contro il palato e pensò subito a qualche insulto da rivolgergli; non aveva compreso, tuttavia, che quello era il modo di Tobio di dargli la possibilità di stare al suo stesso livello.
— Note d’autrice:
Salve a tutti! Rieccomi qui, ma stavolta con una long/mini-long (non so nemmeno io quanto verrà lunga, oddio…)! L’idea mi frullava in testa già da qualche settimana, ma dato che io ho problemi con le long (non ce n’è una che abbia finito :’D) ero un po’ restia a metterla giù. Però, con il supporto di qualche personcina carina e dopo aver visto Shigatsu wa Kimi no Uso (che, in effetti, mi sta aiutando molto, soprattutto con i brani e con le cose più “tecniche”), che si avvicina un po’ alla trama iniziale di questa storia, mi sono convinta. E ora, here I am! :3 Allora… il prologo è piccolino, lo so, ma spero che vi incuriosisca almeno un po’! Hinata, come sempre, ha energia ‒ e anche tanta felicità <3 ‒ da vendere! Kageyama, invece, almeno “ da grande”, è tutto tranne che energico (sob), mentre da piccolo era un proprio un cinnamon roll (che poi lo è anche ora, ma va be’). <3 Invece, il puzzle... Cosa ne pensate? Per ora non dico nient’altro, o rischio di fare spoiler. :’) Comunque, ringrazio immensamente _ A r i a per aver betato il prologo! ~ Allora alla prossima! :3 Baci Shizuha |
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Capitolo 2 *** I Capitolo ***
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letter-spacing: normal; orphans: 2; text-indent: 0px; text-transform:
none; white-space: normal; widows: 2; word-spacing: 0px; text-align:
center;">I
Capitolo
I Capitolo
Tokyo, 14
novembre 2015, 17:13
Shouyou non
sapeva perché solo lui e Izumi fossero davanti allo schermo
che mostrava le performance degli altri concorrenti.
“È
di cattivo augurio” gli aveva spiegato Izumi, paziente. Quel
ragazzo ne aveva davvero tanta, di pazienza; se così non
fosse stato, probabilmente non si sarebbe ritrovato lì, con
un violino che a malapena sapeva tenere tra la spalla e il mento. Era
Shouyou il più bravo fra i due, in quanto a musica, ma
quella era una competizione di violinisti. Ironico, no?
Ad
ogni
modo, dopo le imperterrite suppliche dell’amico qualche mese
prima ‒ lo aveva letteralmente ricoperto
di volantini sul concorso che si sarebbe svolto a metà
novembre ‒, Izumi aveva preso tra le mani violino e archetto e si era
allenato con Shouyou nel poco tempo che aveva a disposizione.
Ora,
assistendo ‒ seppur tramite uno schermo ‒ alla performance del numero
quattro, quasi si pentì di essersi fatto trascinare fin
lì. Non importava delle chiacchiere che vedevano Kageyama
Tobio come l’indiscusso vincitore di
quell’evento; tutti, in quel
posto, erano di tutt’altro livello. Non c’era la
minima possibilità di gareggiare con gli altri concorrenti.
Izumi
sospirò e osservò il suo accompagnatore ‒ o forse
era lui l’accompagnatore di Shouyou ‒, completamente rapito
dalla melodia che veniva fuori dalle casse del televisore. Non poteva
dargli torto.
Era
la Sonata
N.9 Kreutzer di
Beethoven quella che Tobio stava suonando. Un’esecuzione
perfetta, sia da parte del violinista che del pianista ‒ che,
però, stava evidentemente arrancando per non andare fuori
tempo.
Shouyou,
in ogni caso, non era poi così sorpreso; non piacevolmente,
almeno. Era amareggiato da quella melodia così bella in cui,
però, s’insediavano emozioni talmente negative da
stringergli il cuore. La conosceva, lui, sapeva che non era triste; al
contrario, era vivace, frizzante, sebbene estremamente difficile. Quel
violinista, invece… Tobio stava divenendo il possessore di
quella sonata, sì, ma il quindicenne non avrebbe mai creduto
che la musica di un suo coetaneo potesse essere così
intensa. Percepiva solo astio ‒ quasi odio ‒, confusione, e tanta,
troppa angoscia per essere portata sulle spalle da un ragazzo talmente
giovane.
Rimase
comunque lì, ad ascoltare il dolore del suo avversario,
finché il pezzo non fu concluso e il pianista si
alzò dallo sgabello e Tobio abbassò il violino
con un’eleganza che colpì non poco Izumi. Poi si
precipitò, senza alcun preavviso, fuori dalla stanza, con la
testa bassa e i capelli ribelli color tramonto che gli coprivano gli
occhi dalle stesse sfumature.
Izumi
fece una smorfia scoraggiata e sospirò, seguendolo.
«Aspettami, Shou-chan!» E con quella, forse erano
dieci le volte che gli aveva ripetuto la stessa, identica frase.
Shouyou
non lo sentì nemmeno.
Il
violinista fece giusto in tempo a raggiungere l’amico,
poiché quest’ultimo fissava con determinazione ‒
Izumi decise che non gli piaceva affatto ‒ Kageyama Tobio, che stava
dinanzi a loro, a fianco di un ragazzo che doveva essere stato il suo
accompagnatore ‒ in realtà, non si era fatto notare per
nulla. Guardò ora Shouyou, ora il suo suo avversario, e si
sorprese quando realizzò che il primo non stava tremando
come una foglia, neppure di fronte ad altezza simile ‒ lo sapeva,
Izumi, che il pianista non si sentiva a suo agio con persone molto
più alte di lui.
Tobio,
però, non lo degnò nemmeno di uno sguardo.
Passò semplicemente di lato, continuando a ignorare tutti,
perfino Kindaichi, il quale indossava, senza preoccuparsi di
nasconderlo, un cipiglio a dir poco infuriato.
Shouyou
non distolse gli occhi neanche per un attimo.
«Ehi!» lo chiamò, le braccia lungo i
fianchi e i pugni stretti; Tobio si fermò, ma non si volse.
«Perché hai suonato così?»
E
solo
allora, il violinista si girò e gli indirizzò
un’occhiata: notò subito che aveva degli occhi
grandi e che era molto più basso di lui.
«Eh?» fece, corrugando la fronte e assottigliando
lo sguardo.
Il
pianista annuì e mosse un passo avanti. «Hai
suonato male!» In realtà non lo pensava. Tobio
aveva fatto tutto tranne che dare un brutto spettacolo; solo non sapeva
come dirlo.
Sentì
le orecchie fischiargli, e dovette stringere il violino e
l’archetto il più forte possibile per evitare di
spaccarli in faccia a quell’idiota. Tutto, ormai, gli era
indifferente; ma la musica no. La musica, forse, era l’unica
porzione di lui che ancora si potesse definire viva. Era grato che
quella porzione fosse relativamente grande. Non tollerava,
perciò, che qualcuno gli dicesse che aveva suonato male. Lui non
suonava mai male. Lui era il “metronomo umano”, era
il “bambino prodigio”, era colui che, nella sua
breve carriera, non aveva mai perso in una competizione. E
finché avrebbe vinto, finché si sarebbe esibito
al massimo, non avrebbe accettato un commento simile.
«E-ehi...»
Per fortuna, fu Izumi a spezzare la tensione che si era creata fra i
due. «Non ha suonato per niente male, Shou-chan, lo
sai…» Poi si sporse verso di lui e gli
sussurrò: «Chiedi scusa, non vogliamo finire nei
pasticci!»
Shouyou,
tuttavia, continuò a tenere lo sguardo fisso sullo sfidante.
«La musica è felicità!»
«La
musica è emozioni» lo
corresse, i lineamenti del volto induriti e gli occhi scuri severi.
«Esistono sia emozioni positive che negative, ma non mi
aspetto che tu lo sappia.» Detto ciò, si
girò un’ultima volta e ricominciò a
camminare a grandi falcate.
Le
sue
labbra si schiusero, già pronte a far uscire le sue
esclamazioni di protesta, ma la mano di Izumi sulla sua spalla gli
suggerì che sarebbe stato meglio incassare il colpo e non
dire null’altro.
In
effetti, non erano nella posizione per poter controbattere.
E
Shouyou, ancora una volta, andrò contro corrente.
«Lo faremo ricredere!»
Tokyo, 14
novembre 2015, 17:39
«Uh,
essere penultimi mette un bel po’ di ansia...»
commentò, muovendo le dita in aria come se stesse premendo
le corde del violino.
Un
brivido di eccitazione attraversò la schiena di Shouyou, lui
annuì e gli occhi gli brillarono.
«Yukitaka-san,
Hinata-san, tra poco è il vostro turno!» li
avvertì un assistente. «Potete entrare.»
I
due
compagni si scambiarono un’occhiata e Izumi
accennò un sorriso, mentre Shouyou rimase con la stessa
espressione euforica che ormai aveva da qualche minuto.
Il
ramato era estremamente nervoso, ma era anche felice per il suo amico,
dato che quella sarebbe stata la sua prima competizione. Purtroppo, non
aveva potuto far altro che assecondarlo in quella pazzia: sapeva quanto
Shouyou amasse la musica, e in particolare il pianoforte, e il fatto
che la sua condizione economica gli impedisse di partecipare ad un
concorso con quello strumento lo aveva sempre un po’
avvilito. Quando, però, si era presentato da lui con quei
volantini, urlando ai quattro venti che “È gratis,
mi serve solo un violinista!” ‒ e poi, in teoria, era lui a
servire ad un violinista, ma questo Izumi aveva preferito non
sottolinearlo ‒, non aveva saputo dirgli di no.
Camminarono
fianco a fianco fino all’ingresso del retroscena, presero
entrambi un profondo respiro e, finalmente, misero piede sul palco
oscurato, giungendo poi sin davanti alla folla.
Izumi
guardò Shouyou di sottecchi: gli tremavano le mani, e ora la
sua bocca, non più sorridente, era diventata una linea
sottile. Poi tornò a guardare tutte le persone davanti a
loro, qualche mormorio che si levava dalle file centrali. Non
c’erano poi così tante persone, in
realtà. «Fa’ del tuo meglio»
sussurrò pianissimo, ma abbastanza forte affinché
l’amico potesse sentirlo.
Shouyou
volse il capo di colpo, leggermente sorpreso; e di nuovo quella
fermezza tornò ad albergare nel suo viso.
«Mh!» fece, convinto, e solo l’istante
successivo si accorse che forse l’aveva fatto a voce troppo
alta. Non se ne preoccupò troppo, comunque; andò
a sedersi sullo sgabello ricoperto di pelle nera, il violinista si
posizionò alla sua destra, a qualche metro da lui.
Giusto
il tempo di mettere il violino sulla spalla e poggiarvi il mento, e un
altro sguardo volò fra i due.
Shouyou
iniziò con il do centrale con la mano destra e quello di
un’ottava più bassa con la sinistra.
Altri
mormorii si alzarono dalla folla quando fu chiaro che il brano non era
altro che la versione semplificata di Ah,
vous dirai-je maman di
Mozart.
«Ma
saranno seri?»
«Non
posso nemmeno pensare di competere con una canzoncina come
quella...»
«Anche
se non facessero nessun errore… sarebbe impossibile
vincere!»
Ed
ecco
che la pressione aumentava: Izumi lo sapeva. Li avrebbero criticati
tutti, una volta lì, non solo i giudici. Sbagliò
una nota, e si rese conto che le dita della sinistra gli tremolavano
eccessivamente. Sentì il panico salirgli in gola. I suoi
occhi marroni cercarono istintivamente la figura di Shouyou. Non si
sarebbe mai aspettato di vederlo in quello stato.
Aveva
le labbra appena socchiuse, il capo buttato indietro, gli occhi
serrati, le mani parevano volare sui
tasti. Sembrava non aver nemmeno udito l’errore
dell’amico: continuò, infatti, a suonare, mentre
il ritmo si stabilizzava e il suono del pianoforte diveniva sempre
più vivo.
In
qualche modo, Shouyou stava riuscendo a coprire i suoi errori,
aumentando di poco la dinamica e allentando il tono subito dopo.
Izumi
si sentì in colpa, incastrato tra tutta quella gente
polemica e il suo migliore amico. Non si era mai accorto di quanto si
fosse impegnato, tanto da poter subito riconoscere uno sbaglio e
nasconderlo dietro quella che gli altri potevano chiamare follia.
Perché, effettivamente, quella lo era: si stava allontanando
piano piano ‒ ma sempre di più ‒ dallo spartito, cominciava
a lanciarsi in un mondo che, almeno da quello che aveva visto Izumi,
era sconosciuto.
Il
capo
di giuria storse la bocca. Se lui si trovava lì, seduto
su quella poltrona,
c’era sicuramente un motivo. «Ormai è il
piano che sta accompagnando il violino.»
Una
sedia di velluto rosso, qualche posto accanto, era vuota, nonostante un
nome spiccasse su di essa.
«Il
ragazzino dai capelli strani, però, ha talento.»
Qualche fila dietro, un giudice incredibilmente giovane se ne stava con
le spalle ricurve, i gomiti appoggiati ai lati delle cosce, una biro
nera nella mano destra e un paio di occhiali sulla punta del naso.
Lasciò andare un piccolo sospiro e fece girare la penna tra
le dita, per poi annotare qualcosa sul pezzo di carta tenuto fermo dal
reggifogli. «Peccato che questo non sia un concorso per
pianisti.»
Tokyo, 14
novembre 2015, 17:43
Tobio,
per quel che ne sapeva, era sempre stato l’unico a popolare
quella stanza illuminata da una fastidiosa luce fredda. Quel
pomeriggio, però, due ragazzini a cui non avrebbe dato
più di dodici anni si erano intrufolati, e per la prima
volta non era stato il solo ad assistere a tutti i suoi avversari. Poi,
si era ritrovato uno di loro davanti a sé, subito dopo la
sua esibizione, a dirgli che lui aveva
suonato male.
In
pochi si permettevano di farlo, in realtà. Tobio non era
abituato alla presunzione ingiustificata; tutti i suoi accompagnatori
non erano male, non poteva negarlo, d’altra parte
però non erano neanche chissà che.
Ma
quel
ragazzo… Quel ragazzo gli aveva tanto fatto la predica,
eppure non aveva portato niente di speciale, eclatante. Una canzoncina
tanto allegra quanto semplice, non qualcosa che, solo dal nome
conosciuto, sapeva farti venire la pelle d’oca,
l’impaziente voglia di ascoltare quel pezzo e
l’inconscia paura che, a suonarlo, sarebbe stato un musicista
magari non particolarmente bravo.
Ad
ogni
modo, non poteva nemmeno dire che facesse assolutamente schifo: il
violinista era mediocre, e probabilmente ne era perfettamente
consapevole. Lo vedeva dal modo in cui suonava, senza cercare di
superarsi; lo vedeva dal modo in cui stava sbagliando e stava andando
velocemente nel pallone. Se fosse stato sul palco qualche volta in
più, avrebbe indubbiamente cercato di pensare velocemente a
come riprendersi.
O
almeno, questo era quello che credeva Tobio.
Non
lo
aveva analizzato troppo, a dir la verità; la sua attenzione
era più che altro sul ragazzino dai capelli rossi. Possedeva
talento, ma aveva di gran lunga sopravvalutato l’effetto che
la sua musica aveva sulle persone. Stava nascondendo discretamente
tutti gli errori del ramato, ma non era niente di che. Qualcuno da
poter dimenticare, insomma.
“Lo
faremo ricredere!”… Ah!
Il
violinista sbagliò di nuovo. Stavolta, però, il
pianista coprì fin troppo magistralmente.
Gli
occhi di Tobio si spalancarono, un’espressione sorpresa e
leggermente innervosita che si faceva strada sul suo volto. Le braccia
fasciate dalla stoffa nera del suo smoking ‒ cozzava in modo quasi
esilarante con i suoi atteggiamenti lievemente impacciati ‒ gli caddero
inermi accanto ai fianchi, mentre il piede destro muoveva
impulsivamente un passo indietro, quasi anche il suo corpo volesse
esternare la sua incredulità.
Quel
ragazzino dai capelli ribelli e gli occhi del colore del tramonto si
era completamente distaccato
dallo spartito.
Tokyo, 14 novembre 2015, 17:44
Non
c’erano più di cinquanta persone, in quella sala.
Potevano anche non essere veterani, ma tutti si erano accorti che, su
quel palco, si stava svolgendo qualsiasi cosa tranne che una
performance regolare.
Izumi
non se lo aspettava. Conosceva tutte le versioni del brano che avevano
portato, ma non avrebbe mai immaginato che Shouyou si fosse esercitato
con più di una di esse, né che, di punto in
bianco, ne avrebbe suonata una completamente differente da quella che
avevano scelto.
Se
quella di prima era stata una follia, Izumi non trovava un termine per
descrivere ciò che stava accedendo in quel momento.
Però ne era felice.
Probabilmente,
in quella stanza non c’era nessuno che non stesse
assaporando, anche se poco, la felicità. Come chiusi in una
bolla di colori e luce, assistevano al saltellare vivace delle note su
un prato come bambini sorridenti che giocano a salta
campana sui
marciapiedi, e al centro c’era lui, con la sua leggerezza e,
allo stesso tempo, insistenza. Sì, era insistente,
perché la sua musica voleva entrare nelle teste della gente
e restare lì, per
sempre.
Il
mormorio che era durato qualche minuto si spense, quasi avessero
premuto un interruttore.
Ma
il
capo di giuria non si trovava d’accordo con quella scelta.
«È… inammissibile»
mormorò, con gli occhi sgranati fissi sul pianista. Non ci
credeva neanche lui.
«Oh!»
fece l’uomo qualche fila prima, gli occhi scuri che
brillavano. «Mi piaci, piccoletto...»
Si ricompose subito, facendo una smorfia rassegnata.
«… ma lo sai: non è un concorso per
pianisti.»
Shouyou
non avrebbe potuto sentire in ogni caso quei commenti, anche se avesse
voluto. Non avrebbe potuto nemmeno dire che la sua mente, in quel
momento, fosse svuotata da qualsiasi pensiero; il suo, però,
non era poi così ingombrante. Lo attraversava ogni secondo,
ogni qualvolta le sue dita sfioravano i tasti bianchi e neri.
Non
voglio essere dimenticato.
Tobio
non avrebbe negato che in quella melodia c’era
felicità pura.
Ciò
non significava, comunque, che tutti la potessero provare. Lui
l’aveva semplicemente notata, nulla di più: la
musica di quel ragazzino non era riuscita a raggiungerlo. Sapeva che
non era colpa del pianista, e, se proprio si doveva attribuire la colpa
a qualcuno, non era altri che sua. Se lui
scappava così disperatamente da qualunque emozione positiva
era colpa sua.
Era
sprofondato sempre di più, così da non essere in
grado di vedere la luce. E allora perché lui, quella, la
vedeva, e anche piuttosto chiaramente?
Era irritante. Doveva
cercare di prenderla, di smettere di negarsi ciò che
l’avrebbe sicuramente fatto stare bene, oppure doveva stare a
guardare mentre gli scivolava dalle mani senza che lui opponesse un
minimo di resistenza?
Tobio
non esitò un attimo. Tanto, lo sapeva, sarebbe crollato di
nuovo.
Tokyo, 14
novembre 2015, 17:46
Shouyou
congiunse le mani davanti a sé e si piegò in
avanti tanto violentemente che per poco non finì con la
faccia sul parquet sporco.
Il
violinista si voltò a guardarlo, qualche passo avanti a lui,
con un’espressione interrogativa.
«Scusami,
Izumi!» esclamò, anche troppo forte. Si rimise
dritto e gli rivolse uno sguardo veramente colpevole.
«Non riuscivo a fermarmi… Era come se non stessi
suonando io!» Lo affiancò, gesticolando e
guardando le mani come se non fossero sue. «Cioè,
sì, stavo suonando io, ma le dita mi si muovevano da sole!
Credo… Cioè...»
La
risata gentile di Izumi lo interruppe, mentre riprendeva a camminare
verso il corridoio. «Va bene così, davvero. Tu ci
tenevi molto più di me, dopotutto» lo
rassicurò, per poi sorridergli affabilmente. «Sei
stato bravissimo, delle persone di spicco ti avranno notato
sicuramente!»
Shouyou
ricambiò il sorriso e lo raggiunse, varcando la soglia del
corridoio. «Speriamo» disse, e puntò gli
occhi a terra.
Izumi
gli indirizzò un’occhiata di sottecchi, lievemente
preoccupato. Shouyou non diceva mai parole come
“speriamo”: sono segno di incertezza con una
sfumatura di negatività. E lui negativo non lo era mai
stato. Forse incerto, qualche volta, ma era l’unica cosa che
tentava di non dare a vedere – che non ci riuscisse, poi, era
un’altra storia. Si augurò che ne avrebbe parlato
anche solo un po’; perché, ormai era sicuro, non
c’era possibilità che si fossero classificati.
Sospirò e chiuse gli occhi.
Quando,
qualche istante dopo, li riaprì, vide un ragazzo che fissava
il suo amico; non sapeva cosa volesse, ma si arrestò subito.
Shouyou
non ebbe la stessa accortezza. Sotto i loro sguardi, andò a
sbattere contro il petto del violinista dai capelli corvini, facendosi
sfuggire un’esclamazione sorpresa.
Tobio
Kageyama non ebbe la reazione che Izumi si era immaginato; anzi,
restò per un paio di secondi immobile, a realizzare
ciò che era appena accaduto. Poi, come Shouyou
sollevò lo sguardo smarrito su di lui, parlò.
«Sta’ attento a dove vai, idiota!»
Il
violinista sbarrò gli occhi, così come il suo
accompagnatore. Spostò lo sguardo dal loro avversario a lui.
«Sei
tu che eri sulla mia strada e non ti sei mosso!»
replicò, seppur non troppo prontamente.
«Infatti
non mi volevo muovere!»
«Eh?»
Shouyou sbatté le palpebre qualche volta.
Tobio
assottigliò lo sguardo. «Mi dici che la mia musica
non andava bene e poi suoni così?» chiese, il tono
aspro.
Quella,
per Shouyou, fu come una pugnalata. Nessuno gli aveva mai detto
esplicitamente che non era bravo al piano, e sentirlo da
un’altra persona non era paragonabile ad
un’insicurezza fuggevole.
Abbassò
lo sguardo, i lineamenti del viso contratti in una smorfia amareggiata.
«Non pensavo di aver fatto così male...»
farfugliò, ma i due giovani lo sentirono comunque.
Izumi
non sapeva come agire. La sua indole pacata ed educata era sempre
andata contro le liti o qualsiasi tipo di insulto, e, in ogni modo,
raramente vi si era ritrovato. In quel momento, non riusciva a far
altro che guardare il destino che si metteva in moto e che lo lasciava
fuori dai suoi giochi.
«Non
ho detto che hai fatto male» ribatté con voce
piatta e il volto leggermente più disteso.
«Ciò non implica nemmeno che tu abbia suonato in
modo eccelso, che sia chiaro. Però...»
Aggrottò nuovamente la fronte. «… era
qualcosa di dimenticabile.
Che diamine hai fatto in questi anni?»
Izumi
non credeva che il suo stato d’impotenza fosse cambiato;
semplicemente, ora non era l’ansia a regnare nel suo corpo.
Nessuno aveva il diritto di domandargli una cosa simile, non a lui; non
a Shouyou, che sin da quando aveva iniziato le medie non aveva fatto
altro che esercitarsi in aula musica fino alla chiusura della scuola.
Il
corpo di Shouyou ebbe un fremito, come quello di una marionetta a cui
si tagliano i fili ma che, forse per inerzia o per fortuna, resta in
piedi. Calò il capo e non ribatté.
Tobio
se ne andò senza dire nient’altro, come se tutto
ciò che dovesse fare era vendicarsi di un ragazzo con cui
aveva a malapena parlato. Il problema era che veniva sempre frainteso:
magari, con un po’ di tempo, quel pianista sarebbe diventato
un degno avversario.
«Shou-chan?»
lo chiamò con un sussurro Izumi dopo circa un minuto di
totale silenzio. «Andiamo a cambiarci, vieni.» Gli
prese il polso e lo trascinò quasi di peso fino agli
spogliatoi.
Tokyo, 14
novembre 2015, 18:19
Da
quanto stava correndo? Venti minuti? Eppure sembravano passati appena
dieci secondi, nonostante i polpacci gli dolessero sotto la stoffa di
jeans e la gola bruciasse in un disperato bisogno di aria e acqua.
Si
era
cambiato in pochi minuti e poi era uscito nel cortile esterno come un
razzo, sotto gli occhi sorpresi e confusi di Izumi.
Lo
aveva lasciato andare con un sospiro, perché sapeva come era
fatto Shouyou: se non si sfogava parlando, lo faceva muovendosi. Forse
non era proprio la cosa migliore, dato che comunque non era una corsa
lenta, ma dopotutto non sarebbe riuscito a fermarlo nemmeno con tutta
la sua volontà.
Così,
Izumi si era fatto un giro di quell’edificio enorme e
modernissimo e dopo un quarto d’ora era tornato nel salone
principale gremito di ragazzini, alcuni con le proprie famiglie e altri
con gli insegnanti che comunicavano loro cosa avessero sbagliato.
Loro
non l’avevano, un insegnante. Il solo pensiero di prendere
lezioni non aveva attraversato né la mente di Shouyou
né la sua: il pianista non se lo poteva permettere, mentre
lui aveva poco interesse e tempo per seguire delle lezioni regolari.
Non l’aveva neppure detto ai suoi genitori, figurarsi.
Si
era
seduto su una delle poltroncine di pelle nera che si appiccicava
fastidiosamente alle sue mani sudate di nervosismo e aveva atteso.
Finché, finalmente, i risultati furono comparsi sui quattro
schermi in mezzo alla sala. Izumi aveva deciso di vederli insieme a
Shouyou; non aveva poi chissà quali dubbi sulla loro
posizione, ma stare accanto a quel ragazzo gli aveva insegnato a
pensare sempre e comunque positivo.
L’aveva
cercato per tutto il perimetro della struttura e, dopo un intero giro
che l’aveva sfinito ‒ come aveva fatto Shouyou a correre per
tutto quel tempo? ‒, se l’era trovato davanti di qualche
metro che si precipitava ad una velocità impensabile verso
il prossimo angolo.
Allora
Izumi aveva ricercato le sue energie relegate in qualche angolo del suo
corpo e aveva fatto lo scatto più rapido di cui fosse capace.
Il
quindicenne dai capelli rossicci si era bloccato di colpo sentendo uno
“Shou-chan!” da dietro. Si era voltato e poi si era
piegato sulle ginocchia, il fiato corto e affannoso e l’aria
che gli bruciava le pareti della gola.
«Hanno
messo i risultati» lo aveva informato Izumi, ansante insieme
a lui.
A
Shouyou si erano illuminati gli occhi ed era ripartito verso
l’entrata principale, come se non si fosse appena fermato da
una corsa sfiancante.
E
ora
erano lì, quasi sotto agli enormi schermi che mostravano la
classifica.
Izumi
notò che Shouyou cominciò a leggere dal primo
posto ‒ non si accorse neanche del nome “Tobio
Kageyama” scritto a caratteri cubitali ‒ in giù;
lo comprendeva, era un gesto inconsciamente pregno di speranza.
Una
speranza che, man mano che scendeva e non trovava i loro nomi, andava
sfumando in delusione.
Un
palmo si posò sulla sua spalla prima che potesse venire a
sapere in che posizione fosse finito, ma volle ignorarlo.
Ne
fu
in grado fino alla vista del penultimo classificato.
10. IZUMI
YUKITAKA – SHOUYOU HINATA
NON QUALIFICATI
Così
recitava la dicitura.
Le
dita
di Izumi strinsero un po’ la stoffa azzurra della sua felpa,
ma Shouyou le sentì come artigli di un’aquila
fiondatasi su di lui.
«Shou-chan...»
Sapeva
che non poteva aspettarsi altro dal suo primo concorso, allora
perché faceva comunque male? Erano le aspettative che si era
costruito?
C’erano
un altro paio di ragazzini al massimo che guardavano i tabelloni;
probabilmente tutti avevano visto i risultati e se n’erano
andati.
Quel
pensiero nella testa di Izumi venne smentito da un violinista che si
stava avvicinando, dietro un ragazzo più alto che il ramato
ricordava come il suo accompagnatore. Quest’ultimo
tirò dritto e nemmeno salutò il violinista. Lui,
invece, stette fermo qualche passo prima di Shouyou e alzò
lo sguardo sullo schermo. Le sue guance si imporporarono appena e la
bocca gli tremò un po’.
Fece
per andarsene, ma Shouyou si volse di scatto e lui si
arrestò, sorpreso.
«Io
ti batterò!» esclamò, gli occhi
d’ambra velati di lacrime e il viso già paonazzo
dallo sforzo precedente. «Raggiungerò prima di te
i cuori delle persone e ti batterò!»
L’espressione
di Tobio non mutò di una virgola. «Allenati ogni giorno e diventa più bravo. Poi accetterò le
tue parole» disse con serietà. Non lo stava
guardando dall’alto al basso.
Shouyou
annuì e basta, le lacrime che scendevano copiose e si
allargavano sulla moquette tortora come gocce d’olio, e Tobio
se ne andò.
Ci
fu
un momento d’immobilità, in cui Izumi
realizzò ciò che era successo. Erano stati
quanti, venti secondi? Venti secondi in cui non si era nemmeno
capacitato che Shouyou stava parlando con qualcuno.
Poi
si
girò e rivolse al violinista uno dei sorrisi più
luminosi che avesse visto ‒ era un po’ esilarante, visti gli
occhi e il viso arrossati. «Grazie, Izumi!»
Lui
non
poté far altro che ricambiare il sorriso, mentre le guance
si coloravano di un vivace rosa.
Tokyo, 7
aprile 2016, 12:42
Shouyou
aveva scelto di andare a scuola in bici sin dall’inverno
precedente: avrebbe fatto prima e avrebbe avuto la
possibilità di sgusciare dentro l’aula di musica e
suonare un poco prima delle lezioni.
Certo,
se solo in quei due giorni non avesse piovuto. Il primo era stato
occupato dalla cerimonia di benvenuto ai nuovi ragazzi, mentre al
successivo era arrivato puntuale per un pelo.
Stava
entrando nell’aula di musica solo ora per la prima volta, ma
una melodia lo fece fermare. Era la pausa pranzo, e in ogni caso sapeva
che il club di musica si fosse sciolto da un bel po’ di anni;
chi poteva essere, quindi?
Un
po’ correndo e un po’ saltellando nei corridoi,
cercando qualunque indicazione, alla fine arrivò davanti
alla porta di legno verniciato di beige; da lì la musica si
sentiva ancora di più e istintivamente vi riconobbe qualcosa
di familiare.
Si
avvicinò e abbassò la maniglia con un
po’ di esitazione. La melodia non s’interruppe.
Socchiuse la porta e fece capolino con la testa quanto più
furtivamente possibile. Chi stava suonando parve non sentirlo, ma
Shouyou si accorse subito che qualcosa non andava: quel ragazzo non
avrebbe dovuto essere lì.
Lanciò
un urlo soffocato, che fece sobbalzare il violinista e quasi gli fece
cadere l’archetto. «T-tu…
perché sei qui?»
Il
moro
aggrottò la fronte e si voltò verso Shouyou.
«Eh?»
Shouyou
ricordava bene che l’ultimo tassello non combaciava con gli
altri in nessun lato. Uno, tuttavia, stava lentamente
cambiando… ma ancora non lo poteva sapere.
― Note
d’autrice:
Salve
a
tutti! Per prima cosa, scusatemi per il ritardo, ma chi mi segue su
Twitter sa che ho avuto qualche problema con questo capitolo.
:’) Ma comunque! Vorrei ringraziare chi ha già
messo la storia tra le preferite, seguite e ricordate e chi ha
recensito, non avete idea di quanto mi faccia felice!
Allora,
il capitolo… Anche questo è introduttivo,
diciamo. :’) Tutti i parallelismi con la serie, comunque,
sono voluti, ma andranno via via scemando!
Già
si può intuire che Tobio non sprizza esattamente
felicità, e, sì, piange il cuore anche a me.
…
Sì, mi fa male il cuore anche a vedere Shouyou che piange,
ma don’t worry, lui ha moooolto meno angst. ;’D
*continuano a picchiarla*
Comunque,
ringrazio centomila volte _
A r i a, che si
è presa l’onere di betare il capitolo –
in pochissimo tempo, tra l’altro! <3
Mmh,
non penso di dover dire altro… Naturalmente, le vostre
opinioni sono sempre ben accette! 〜
Alla
prossima! :3
Baci
Shizuha
|
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Capitolo 3 *** II Capitolo ***
II
Capitolo
Tokyo,
7 aprile 2016, 12:56
Tobio
si trovava lì giusto da un paio di minuti. Era nella terza
classe, che stava al primo piano, e per sua fortuna l’aula di
musica stava tre classi dopo la sua, perciò nemmeno venti
metri e poteva avere davanti a sé la porta che avrebbe
sicuramente aperto milioni di volte.
Aveva
suonato per una mezz’ora buona anche prima delle lezioni:
sapeva che il club di musica, in quella scuola, non esisteva
più da anni e l’aveva scelta esattamente per
quello.
Aveva
il violino sotto il mento e le dita affusolate sulle corde anche in
quel momento, quando la porta si aprì e non per sua
volontà.
Sobbalzò
nel sentire una voce acuta giungergli alle orecchie; quella stanza non
era completamente insonorizzata, ma un minuscolo effetto doveva pur
farlo, per cui qualcuno doveva essere entrato per forza qualcuno.
«T-tu…
perché sei qui?»
Tobio
abbassò l’archetto e il violino e si
voltò verso la persona che aveva interrotto la sua
tranquillità.
La
prima cosa che vide furono dei capelli di un colore che sembrava
impossibile: non era esattamente rosso, tendeva più verso
l’arancione. I ciuffi sbarazzini ricadevano sugli occhi color
nocciola. Ed era terribilmente,
estremamente
basso
agli occhi di Tobio.
Corrugò
le sopracciglia. «Eh?» fece con aria vagamente
confusa.
«Kageyama
Tobio...» Shouyou si raddrizzò e lo
guardò come se, in realtà, fosse un intruso in un
luogo sacro. «Perché sei qui?»
esclamò scandendo bene le parole di quella che sembrava
più un’affermazione che una domanda.
Tobio,
come lo squadrò meglio, sgranò gli occhi scuri.
«Sei quello dell’anno scorso...»
osservò senza nessuna particolare intonazione.
«Non ricordo il tuo nome.»
«Sono
Hinata Shouyou!» Fece una smorfia infastidita. «E
mettitelo bene in testa: anche io userò l’aula
musica, che tu lo voglia o meno!»
Tobio
ricordava bene la sfacciataggine di quel ragazzo. Ricordava anche la
zazzera di capelli ribelli, i suoi occhi pieni di luce e
vitalità. Tuttavia, ricordava ancora meglio il suo
inimmaginabile talento al pianoforte, la capacità di fare un
brano suo e suo soltanto.
«Sei
un idiota» sbottò, e lo fece come se fosse un dato
di fatto e non un insulto. La linea delle sue labbra, però,
era dura.
Shouyou
schiuse le labbra e rimase a fissarlo come se avesse appena visto un
fantasma per più tempo di quanto gli fosse conveniente.
Quando si riprese dallo sbigottimento ‒ chi ha il coraggio di dire:
“Sei un idiota” a qualcuno che non conosce? ‒, si
fece avanti con capo chino. «Io… ho perso
l’anno scorso, è vero!»
Sollevò lo sguardo ardente di sfida sull’altro.
«Ma ho intenzione di stracciarti, ora! Mi sono allenato un
sacco in questi mesi e sono venuto qui proprio per poter continuare a
farlo!»
«Anche
io.»
Shouyou
non comprese subito a cosa si riferisse: se al fatto di poter suonare o
di volerlo battere. L’aveva già fatto una volta,
dopotutto.
«Anche
io sono venuto qui per lo stesso motivo» chiarì
Tobio, gli occhi blu ridotti a due fessure. «Proprio
perché sapevo che sarei stato solo.»
Il
pianista si raddrizzò e lo guardò con autentica
curiosità. «Pensavo che uno come te sarebbe andato
in un liceo musicale. Sai, no,» fece vagare un po’
lo sguardo per la stanza, «di quelli con
l’orchestra enorme, che si esibisce sempre nei teatri
più grandi del Giappone...»
La
fronte di Tobio si increspò come un foglio di carta.
«Non mi hanno preso.»
Shouyou
si trattenne a stento dal ridergli in faccia e, anzi, si impose di
rimanere composto nei limiti del possibile. «Ma tu sei il
“metronomo umano”, il prodigio di cui tutti
parlano!» esclamò gesticolando.
«Com’è che non ti hanno preso?»
«Non
sono affari tuoi.» Così, si girò e si
allontanò di qualche passo. Alzò il violino, ma,
prima che potesse poggiarvi il mento, lanciò
un’occhiata gelida al ragazzo dai capelli rossicci.
«E per poter vincere contro di me dovresti diventare un
violinista.» Riprese a suonare come se non fosse successo
nulla.
«Ah,
sì?» Arricciò le labbra, e con passi
leggeri raggiunse lo sgabello davanti all’elegante pianoforte
verticale, posizionato esattamente alla destra di Tobio. Non era di
pelle come quello della sua vecchia scuola, ma il colore che spiccava
era sempre il nero, esattamente come quello del piano.
Era
vero, non si esercitava per bene da circa un mese. Tuttavia, alcuni bar
con dei pianoforti al loro interno distavano al massimo un paio di
chilometri da casa sua, e ogni giorno lui era disposto a percorrere
qualsiasi strada pur di suonare anche solo per trenta minuti. Ai
clienti, di solito, non dispiaceva, e ormai l’anziano e
scorbutico proprietario di uno dei locali si era abituato alla sua
presenza. Shouyou, per ringraziarlo di quella possibilità
che gli era stata offerta, prendeva spesso qualche dolcetto, o anche
soltanto una bibita.
Spostò
lo sgabello provando a creare meno rumore possibile, mentre ancora
Tobio suonava, e si sedette.
Non
era un semplice pizzicare di corde. Il violinista stava eseguendo un
vero e proprio brano, nonostante non si fosse ancora riscaldato per
bene: la Danza
Macabra
di
Camille Saint-Saëns.
Aveva già scordato la corda del Mi
in
Mi
bemolle,
perciò quella era stata la prima opzione a sfiorargli il
pensiero. Richiedeva anche una certa abilità, e questo Tobio
lo sapeva bene. La sfida a Shouyou, però, l’aveva
lanciata lui, e non poteva permettersi di perdere.
Shouyou
non conosceva quel
pezzo. O per meglio dire, lo aveva udito più volte nei video
che, quando non suonava, vedeva e rivedeva come se ne andasse della sua
vita. Non sapeva il suo nome, ma ormai la melodia era impressa a fuoco
nella sua mente.
Il
pianoforte era vecchio e poco utilizzato, si vedeva; i tasti colmi di
polvere e un
po’ ingialliti, comunque, non intimidirono il pianista
nemmeno un po’.
Aspettò
qualche secondo per poter prendere il tempo giusto. Poi, come una
reazione a catena, le sue dita premettero i tasti e i martelletti
colpirono le corde. Il suono venne fuori, perfetto ed armonioso contro
la musica di Tobio.
Nessuno
dei due si fermò. La
melodia si fece sempre più intensa, come se fosse una gara
per decretare il migliore e stessero cercando di superarsi ogni secondo
che passava. Il cuore batteva come dopo una maratona interminabile.
A
Shouyou
tremarono appena le mani. Non suonava da due giorni, e tra
l’altro stava andando puramente ad orecchio. Le sue mani
erano agili, certo, ma lo sforzo fisico era immane e se riusciva ancora
a stare dietro al moro il merito andava attribuito per la maggior parte
alla fortuna e alla voglia di vincere quella tacita sfida. La fortuna
sapeva tradire e lo spirito combattivo, da solo, non sarebbe mai
bastato.
E
lo dimostrò la nota successiva, e quella dopo ancora: aveva
esitato troppo nel ricordare una nota e un attimo dopo si era trovato
rovinosamente fuori tempo.
Non
si diede per vinto e Tobio continuò a suonare, sebbene si
fosse accorto sicuramente di quell’errore. Con sorpresa di
quest’ultimo, Shouyou recuperò in modo quasi
inumano.
Non
aveva mai sentito né visto nessuno stargli dietro
così tenacemente.
Il solo fatto di suonare ad orecchio un brano così
complicato come quello era ammirevole, ma il violinista aveva saputo di
avere la vittoria in pugno sin da quella nota saltata, dopo appena
quindici secondi di un testa a testa.
La
sua abilità al piano era indubbiamente incrementata, questo
il violinista l’aveva notato subito. Ma così pochi
mesi non sarebbero bastati a colmare la differenza che li separava.
Aumentò
ancora di più la dinamica e, seppur questo volesse dire non
seguire più lo spartito ‒
tanto quella sfida vi era già andata oltre ‒,
velocizzò di poco il tempo. Le dita cominciarono subito a
dolergli, ma non se ne dovette preoccupare per più di tre
secondi.
Shouyou
perse quel duello. Era andato completamente fuori tempo e il suono del
violino aveva sopraffatto quello del pianoforte.
Un
pesante silenzio calò nell’aula per qualche attimo.
Tobio
fu il primo a muoversi: si girò a guardare le spalle del
rosso ancora ricurve sulla tastiera. «Come vedi, non sei
l’unico ad essersi esercitato.»
Contrasse
le labbra fino a farle diventare una linea sottile. Quel ragazzo aveva
vinto contro di lui ancora una volta, e lui non poteva far nulla per la
sua carenza di esperienza e tecnica. Tutti quei mesi passati a scuola
fino al tramonto erano davvero serviti a qualcosa?
Shouyou
si voltò d’improvviso. «Ancora una
volta!» disse, gli occhi color nocciola splendenti di
determinazione.
Certo
che erano serviti a qualcosa. Altrimenti non si sarebbe trovato
lì, in quel momento.
Il
violinista sbarrò le palpebre, stupefatto, per poi
accigliarsi. «Non potresti comunque»
obiettò con fare infastidito. «Non hai lo
spartito.»
«Mi
puoi dare il tuo.» Scrollò le spalle, come se
fosse ovvio.
Tobio
fece una smorfia e fece due passi avanti. «Quello
è per il violino, idiota!»
Shouyou
gonfiò le guance come un bambino che fa i capricci,
continuando a fissarlo con quei suoi occhi enormi e profondi che
sembravano sempre chiedere qualcosa. Stette un po’ in
silenzio, ma poi, con voce squillante, aggiunse: «Non
possiamo fare come prima? Io ho suonato senza spartito!»
«E
infatti», accennò un ghigno, «hai perso
dopo
nemmeno un minuto.»
Il
ragazzo lasciò nuovamente che un cipiglio mostrasse la sua
stizza. «Ma ti ho tenuto testa per quei pochi
secondi.»
Tobio
incatenò i suoi occhi seri a quelli dell’altro.
«Poco importa» decise, ma Shouyou non
percepì alcuna nota di scherno. «Solo chi suona
fino all’ultima nota vince. E solo uno può
vincere.»
Il
suono della campana che segnava la fine della prima metà
della pausa e il brontolio dei loro stomaci lasciarono albergare quella
convinzione assoluta nella testa di Tobio.
Ma
si sa: ogni persona cambia, e con lei le sue idee.
Tokyo,
7 aprile 2015, 15:00
Shouyou
aveva già buttato tutto nello zaino prima della conclusione
ufficiale delle lezioni, ma nessuno aveva avuto da ridire. Era solo il
secondo giorno di scuola, con insegnanti e compagni estranei, e le
novità erano troppe perché avessero
già iniziato il programma.
Si
era dondolato per cinque minuti buoni sulla sedia, fremendo per uscire
e andare in aula musica ‒ preferibilmente prima di
quell’antipatico di Tobio. Non sapeva in che classe si
trovasse ‒ se fosse stata la quarta o la quinta, che stavano al piano
di sopra, lui avrebbe sicuramente avuto un grande vantaggio ‒, ma
ciò non lo avrebbe frenato di certo.
Quando
la campanella suonò, non esitò un attimo.
Afferrò la cartella con una mano e salutò
frettolosamente tutti, per poi sfrecciare nel corridoio per raggiungere
la porta senza alcuna indicazione sopra di essa.
Peccato
non avesse notato una figura che gli venne quasi addosso.
Toccarono
la maniglia nello stesso momento e nello stesso momento sollevarono gli
occhi sui rispettivi visi. Sembrava quasi una scena di un film, detta
così, ma in quegli sguardi non ci fu niente di romantico
né tantomeno sentimentale: da disorientati e confusi, i due
ragazzi passarono a guardarsi in cagnesco.
«Ma
ora non puoi andare a suonare a casa?» chiese Shouyou con
tono indispettito, aprendo la porta ma non smettendo di giocare a
quella sfida di sguardi.
«Perché
invece non ci vai tu?» abbaiò. Tobio non si
tirò indietro a quell’ennesima competizione. Fece
per entrare nell’aula di musica prima di lui, ma gli occhi
d’ambra che si abbassarono lentamente lo fecero ricredere.
«Perché
non potrei farlo.» Si morse il labbro e, con lo sguardo
ancora rivolto a terra, non si accorse di quello limpido e curioso del
violinista. Non prolungò, però, la sua perdita
ulteriormente: riprese a guardarlo, ma senza nessuna intenzione
provocatoria. «Suonare, intendo.»
La
sua espressione aveva parlato ancora prima della sua voce. Tobio la
conosceva benissimo: era contrita, quasi angosciata. Alcune immagini di
sua madre in atteggiamenti naturali come cucinare o accennare qualcosa
al piano gli attraversarono la mente. Non era la prima volta che
accadeva. Non volle approfondire, non erano cose che gli sarebbero
dovute interessare.
Annuì
una volta sola, col volto disteso e non con quel solito cipiglio ad
aggrottargli le sopracciglia. Poi si voltò sotto gli occhi
perplessi di Shouyou e prese a camminare.
«Ma
dobbiamo metterci d’accordo sulla pausa!» gli
urlò dietro il pianista.
Tutto
ciò che fece Tobio fu annuire nuovamente e proseguire.
Un
lato era cambiato.
Ricordava
benissimo quel pezzo, lo aveva rigirato tra le dita decine e decine di
volte.
Lo
toccò con malcelata titubanza, sperando che fosse finalmente
diventato come tutti
gli altri.
Tutti
gli altri
erano
letteralmente un trionfo di emozioni, di immagini e di passioni
che, in un modo o nell’altro, facevano parte della sua vita.
Ma
quella parte era sempre stata vuota come un guscio che deve ancora
essere abitato. Era avvilente, stancante, perché svuotava
anche lui di tutta la sua euforia.
Quando,
però, il viso di Tobio gli si parò davanti agli
occhi, pensò con un broncio che quello doveva il pezzo degli
antipatici.
Tokyo,
8 aprile 2016, 7:35
Contrariamente
a ciò che si poteva pensare vedendolo, a Tobio non piacevano
solo le melodie cupe e ostiche. Anche il solo pizzicare le corde e il
suono frammentato che questo generava lo rilassavano. E persino il
solfeggio non dispiaceva a uno come lui, che non sopportava stare fermo.
Tutto
ciò che la musica implicava era quasi sacro, per Tobio, che
fosse l’esibirsi davanti a un pubblico o lo studiare uno
spartito, ripetere le sue note fino alla nausea, conoscerlo
così bene da poterlo fare proprio.
Per
questo, chiunque non si impegnasse suscitava uno strano fastidio che
strisciava sotto pelle, come se fosse un serpente intento a osservare
la preda e pronto ad aggredirla appena avesse fatto un passo falso. Non
aveva nulla contro chi, al contrario, era ancora alle prime armi e
poteva ‒ ma soprattutto voleva
‒
ancora migliorarsi.
La
voglia di migliorarsi e di vincere ‒ e non per qualcosa che non fosse
la vittoria in sé ‒ l’aveva notata eccome, in
Shouyou. Eppure quel ragazzo lo irritava oltre ogni limite e non era
ancora riuscito a capirne il motivo.
Non
che ci avesse pensato troppo, certo. Shouyou Hinata lo irritava e basta.
E
la porta che si spalancò di scatto mentre lui si allenava lo
confermò.
Il
sole si era alzato da dietro l’orizzonte già da un
paio d’ore, i suoi raggi ancora deboli inondavano dolcemente
la stanza di luce. Tobio non ebbe problemi a riconoscere prima la sua
voce e poi la sua figura esile.
«Di
nuovo tu?» si lagnò il più basso,
mettendo piede nell’aula.
Shouyou
si guardò attorno solo in quel momento. Non c’era
poi molto da guardare, in realtà: l’area era
abbastanza grande, intorno ai venticinque metri quadrati, e il fatto
che fosse quasi totalmente spoglia non faceva altro che renderla
più immensa all’occhio esterno. Il bianco sporco
delle mattonelle in granito del pavimento contribuiva ancor di
più; a Shouyou ricordavano tanto quelle degli ospedali.
Dalla parte del muro più corta, a destra
dell’entrata e lontano dai raggi solari, si stagliava un
pianoforte verticale, ancora non spolverato, mentre agli angoli erano
ammassati banchi, sedie e leggii.
Ma
una cosa gli piaceva più di tutte, e si notava subito,
appena entrati: le finestre. Erano due, larghe e alte, occupavano circa
metà della parete opposta alla porta, e davano sul cortile
posteriore della scuola; di mattina il sole non si poteva vedere
perché erano posizionate ad ovest, ma il tramonto era uno
spettacolo senza prezzo.
Shouyou
odiava il tramonto. L’aveva sempre visto come il colpevole
della fine dei suoi allenamenti, che, se fosse dipeso da lui, si
sarebbero potuti protrarre all’infinito. Il giorno prima,
quando aveva visto quella sfera di fuoco tingere di mille sfumature di
rosso il cielo di Tokyo, aveva pensato che forse da quel momento in poi
non sarebbe stato così sgradevole.
«Voglio
dire,» ciancicò poi, risentito,
«perché non poteva esserci qualche persona
più simpatica a suonare di prima mattina?»
Le
guance di Tobio si colorarono lievemente di rosso, ma l’altro
non fu capace di spiegarsi la causa. Poi avanzò, passando il
violino nella mano in cui teneva l’archetto, e prendendolo
per il colletto lo strattonò. «Che vorresti
dire?» strillò, ancora imbarazzato.
Shouyou,
se avesse potuto, sarebbe andato in bagno per la paura. Non trovava il
motivo di prendersela tanto per un commento del genere; dopotutto, lui
l’aveva insultato più e più volte!
Lo
lasciò andare quasi subito senza nemmeno provare a
sfiorarlo, per poi allontanarsi e dargli le spalle. «Si
può sapere che diamine vuoi?»
«Suonare,
ovvio!» Il pianista accennò un sorriso e, con
passo deciso, giunse davanti allo strumento.
Tobio
si voltò di nuovo, frustrato. «Ma non puoi farlo a
casa?»
Shouyou
storse la bocca come se avesse appena sentito qualcosa che conosceva a
memoria. «Ti ho già detto di no!» Gli
indirizzò un’occhiataccia da sopra la spalla.
Sbuffò
tutta l’aria che aveva nei polmoni il più
rumorosamente possibile. «Ma perché?»
s’informò, moderando appena i toni.
«Perché
non ho un pianoforte.»
Tobio,
per un attimo, prima che l’altro gli desse di nuovo le
spalle, rivide la stessa espressione del giorno precedente. Quella
quasi addolorata, come se gli mancasse qualcosa. Ora sapeva cosa, ma
lui, in ogni caso, cosa poteva fare? Provò ad immaginare
casa sua senza il violino, il leggio e i mille libri di musica sparsi
dappertutto; per poco non gli vennero i brividi. Sarebbe stata un corpo
senza anima.
Gli
rivolse uno sguardo grave, e così fu la sua voce.
«Suoni da tre anni, no?»
Shouyou
fece sì col capo, ma insisté a non guardarlo. Le
piccole labbra rosee si erano ridotte a una linea finissima, gli occhi
inchiodati in un punto a caso del muro sporco di muffa e polvere.
Tobio
tentennò un poco prima di porgli un’altra domanda.
Forse non era la persona più simpatica e affettuosa del
mondo, tuttavia era in grado di fermarsi quando stava per urtare la
sensibilità di qualcun altro. L’aveva imparato a
sue spese. Inoltre, lui non aveva nessun diritto né di
chiedere né di sapere: si conoscevano a malapena e i loro
pochi incontri non erano stati troppo amichevoli.
Poi
esalò un sospiro rassegnato. «Senti...»
Shouyou si voltò di scatto, segno che lo stava ascoltando.
«Non avrebbe senso ritornare a casa a
quest’ora», il suo sguardo vagò per la
stanza fino a riconoscere un orologio analogico a muro giallo limone,
«perciò dobbiamo trovare un accordo.»
Il
rosso si stupì: non sembrava il ragazzo da cercare accordi.
Piuttosto, si aspettava che l’avrebbe buttato fuori a calci.
«Va bene» esclamò, annuendo
vigorosamente.
Tobio
arricciò il naso: l’aria pensierosa che lo aveva
circondato qualche attimo prima pareva magicamente svanita. Si mosse
verso l’estremità sinistra dell’aula,
sollevando un reggispartito di acciaio laccato in nero, un
po’ rotto, e posizionandolo al centro, a qualche metro dal
piano. «Quindi?» fece dopo aver sostenuto un gioco
di sguardi con l’altro per dieci secondi, un sopracciglio
alzato. «Qualche idea?»
Shouyou
si sedette sullo sgabello, alzando le spalle. «Possiamo
suonare insieme» propose con il tono di chi lo conosceva da
anni.
Il
violinista si accigliò, ma poggiò ugualmente lo
strumento sulla spalla. «Non sei nemmeno lontanamente vicino
al mio livello» replicò lui freddo, austero.
«E poi chi te lo dice che abbiamo gli spartiti degli stessi
brani?»
Si
era imbronciato un secondo alle parole del più piccolo, ma
alla domanda rispose con un sorriso smagliante. «Suono ad
orecchio!» confessò con orgoglio. Sapeva che non
era per niente facile e, nonostante tutto, seppur con melodie semplici,
lui ci riusciva. Di certo sbagliava ‒ e neppure troppo raramente ‒,
però era normale, no?
Il
suo mento per poco non toccò il pavimento. Ecco, si disse,
perché l’anno precedente l’aveva sentito
allontanarsi dalla partitura: non l’aveva seguita
dapprincipio. Si chiese ingenuamente perché, dato che almeno
lì, durante l’esibizione, la aveva praticamente
spiaccicata in faccia. Magari era questione di abitudine… ma
ciò non rese meno seccante la notizia.
Poi
un’idea molesta gli trillò in testa come una
campanella. Si chinò sulla sua borsa, frugò un
po’ e ne tirò fuori un mattone vecchio, con su
scritto: “Rachmaninoff”.
Shouyou
non riuscì a leggerlo, mentre allungava il collo per capire
cosa l’altro volesse fare.
Poi
lo aprì sul leggio. «Forza, suoniamo»
ghignò. Alzò l’archetto fino a che esso
non toccò le corde, sfiorando col mento la mentoniera.
Shouyou
strabuzzò gli occhi e li sbatté un paio di volte
prima di metabolizzare bene l’invito a
quell’ennesima sfida. «Aspetta!» Si
alzò di scatto. «Non conosco mica tutti i brani
del mondo!» pigolò gesticolando.
«Vediamo
se conosci questo, allora.» Prese posizione e, con lo sguardo
fisso sullo spartito, iniziò.
Era
indubbiamente in vantaggio, Tobio lo sapeva. Ma la vittoria non sarebbe
stata soddisfacente se ne avesse scelto difficile; insomma,
già il rosso doveva ascoltare bene le note, adattarsi al
tempo e suonare. E, naturalmente, doveva anche averne la piena
conoscenza.
Lui,
contro ogni aspettativa del violinista, ghignò a sua volta.
Fece il giro della sedia, lentamente, e si mise a sedere con
un’eleganza che dimostrava di rado.
La
decisione che Tobio aveva fatto non poteva essere migliore. Il moro
ovviamente non poteva prevedere che l’amore
dell’altro per tutte le composizioni di Rachmaninoff era
spropositato.
Shouyou
ricordava di aver sentito lo stomaco attorcigliarsi, il rumore del
sangue pompato nelle orecchie e un groppo in gola, la prima volta. Al
tempo non aveva potuto immaginare che avrebbe provato quelle sensazioni
ogni qualvolta avesse udito i pezzi di quell’autore. Era
grazie al suo arrangiamento de La
Gioia
di Amare
di
Kreisler se era entrato in quell’enorme e affascinante
universo.
Non
c’era un solo suo brano che non conoscesse; senza dubbio non
li sapeva tutti a memoria, ma Tobio lo aveva aiutato non poco, forse
inconsapevolmente. Il Preludio
in fa diesis minore Op.23 n.1 l’aveva
suonato centinaia di volte, principalmente perché era
semplice abbastanza per il suo livello e perché con ogni
probabilità era l’unico in cui riusciva a premere
cinque tasti di fila senza andare nel pallone.
Le
prime volte aveva provato solo con gli accordi della mano destra, che
si erano dimostrati più difficili e veloci di quanto avesse
immaginato. Poi, dopo un po’ di pratica e la consapevolezza
di essere migliorato, era passato a quelli della mano sinistra, che
servivano ad accompagnare. In questo caso aveva impiegato molto meno
tempo; quando, però, si era deciso a suonare finalmente con
entrambe le mani, la testa gli si era fusa come ghiaccio al sole. Piano
piano, con una caparbietà che faceva in tutto e per tutto
parte della sua persona, aveva imparato a premere i tasti con
più disinvoltura, senza il bisogno di guardare il suo
cellulare ogni dieci secondi per vedere se quello che stava suonando
fosse quello giusto. Non senza errori, vero, ma esserci riuscito era
appagante ed elettrizzante come poche cose. Anche ora vi dedicava
almeno un quarto d’ora al giorno: era magico
anche
solo sapere di eseguire un pezzo di Rachmaninoff.
Di
quello, sì, lo poteva dire: era a conoscenza di ogni
sfaccettatura,
di quando doveva aumentare o diminuire la dinamica, di
come fare pressione sulla tastiera e sui pedali.
Sorrise
e agì allo stesso modo di qualche mese prima, come se stesse
rivivendo quei momenti di totale immersione nella musica.
Esordì con la melodia principale, la mano destra che
già volava.
Tobio
gli lanciò una fugace occhiata sorpresa. Era partito senza
alcuna esitazione e praticamente subito. Comprese altrettanto
rapidamente che non stava accompagnando proprio nessuno: quella era la
versione originale, da solista.
Come
biasimarlo, d’altronde? Era abituato da sempre a suonare
solo, senza neanche un insegnante, e l’unica volta in cui
aveva cercato di accompagnare qualcuno non era finita meravigliosamente.
Ma
questo Tobio non lo sapeva. Con lo sguardo fisso sulle pagine colme di
note, spostò le dita sulle corde e l’archetto tra
le mani. Non avrebbe potuto smettere comunque: quella era una sfida.
Gli
attimi passavano velocemente, ma entrambi avrebbero saputo descrivere
ogni emozione, per filo e per segno.
Shouyou,
dopo venti secondi, era già sull’orlo delle
lacrime: non ci poteva fare nulla, suonare quel pezzo lo emozionava
sempre. Sentiva il cuore in gola e il suo rumore irregolare scuoterlo
troppo spesso, esattamente come era successo il giorno prima. Quella
volta, però, batteva all’impazzata a causa della
perenne paura di sbagliare di nuovo e che Tobio gli dicesse di
interrompersi; ora invece provava qualcosa di più grande,
più tranquillo, come se si trovasse davanti a una tigre che
non mangia da giorni e che, ciononostante, gli andasse bene
così, perché sarebbe stato capace di domarla.
Tobio
preferì non farsi domande, non mentre suonava. Lo avrebbero
solo distratto.
Ancora
qualche secondo e Shouyou mise in moto anche la mano sinistra,
spostandola decisamente meno freneticamente e facendole compiere
movimenti più dolci.
Il
moro aggrottò le sopracciglia e si permise di guardare di
nuovo il ragazzo. Era vero, non se l’aspettava: non aveva mai
dimostrato queste capacità, dopotutto. Ma lui non aveva di
certo intenzione di perdere.
Erano
passati più di tre minuti da quando avevano cominciato. Il
sudore di Shouyou si confondeva con le lacrime, tuttavia lui non si
scompose nemmeno leggermente. Stava suonando al massimo e non poteva
chiedere di meglio.
Se
non fosse stato per il suo incrollabile orgoglio e la sua spaventosa
concentrazione, Tobio sarebbe stato già boccheggiante, sia
per la fatica emotiva sia per quella fisica. Quella situazione stava
divenendo sfiancante, ma non di certo per la composizione: era la
competizione con il rosso e con se stesso che lo spingeva a superare
ogni suo limite. Pensò che sarebbe stato bellissimo e al
tempo soffocante se quei pochi minuti si fossero prolungati
nell’eternità.
A
qualche secondo dal termine si accorsero che, in teoria, nessuno dei
due aveva ancora vinto. E benché fossero talmente delicate
da risultare a malapena udibili, nelle ultime note abbandonarono se
stessi e ad entrambi si strinse il cuore. Fu come conoscersi da una
vita e voler scoprire ancora di più.
Il
silenzio non era pesante, né imbarazzante o fastidioso. Non
era nemmeno assoluto: Shouyou poteva sentire i respiri di Tobio anche a
quella distanza e viceversa.
«È
un pareggio» soffiò il pianista, ancora con le
mani sulla tastiera e gli occhi arrossati dalle lacrime.
Tobio
lo osservò, il violino sulla sua spalla, e solo dopo
mormorò un «Sì» incredulo.
«Lo conoscevi bene» aggiunse, sospirando appena.
«Era
Rachmaninoff.» Lo disse come se fosse una spiegazione
scontata.
«Sì»
ripeté in un sussurro.
Seguì
un’elettrica staticità: sembrava che volessero
riprendere a suonare e contemporaneamente urlarsi contro.
Tokyo,
8 aprile 2016, 12:46
Si
scorsero nello stesso momento. E, per quanto pericoloso fosse tra i
corridoi colmi di studenti, non riuscirono a evitare di notare anche la
combattuta porta beige e di correre verso di essa con tutte le proprie
forze. La distanza era su per giù la stessa da entrambe le
parti: nessuno dei due poteva dire di essere partito in vantaggio.
Certo,
a parte Shouyou, che si era avviato un secondo prima ‒ un secondo che
faceva la differenza ‒ e che, quindi, si appoggiò per primo
allo stipite per un pelo.
Sul
suo viso sbocciò un arrogante sorrisetto vittorioso.
«Ho vinto io!»
Tobio
gli ringhiò contro e lo guardò in cagnesco, il
cuore che batteva un po’ più velocemente del
normale. Poi spalancò l’ingresso con veemenza, la
custodia del violino in spalla, e si intrufolò impettito.
Era
tutto come l’avevano lasciato quella mattina: un leggio al
centro della stanza, una sedia circa un metro più in
là, lo sgabello storto lontano dal pianoforte, le finestre
aperte da cui entrava una piacevole frescura. Non si erano detti nulla,
dopo quel breve scambio di battute. Erano stati immobili per un quarto
d’ora, fino al suono della campana, e lanciandosi appena
un’occhiata erano schizzati fuori dall’aula.
Peccato che Tobio avesse dimenticato la borsa sulla sedia e fosse
dovuto tornare indietro.
«Ehi,
Kageyama!» lo chiamò Shouyou con un gran sorriso,
mentre entrava e si dirigeva al piano. Lui si girò ma non
disse nulla. «In che classe vai?»
«Che
t’interessa?» masticò a mezza bocca,
voltandosi di nuovo e aprendo la custodia.
Il
rosso sbuffò e brontolò qualcosa, poi si
lasciò cadere sul tessuto nera della sedia a gambe
incrociate. «Io sono nella prima!» Si
dondolò un po’. «Ci sono un sacco di
ragazzi simpaticissimi! Dovresti conoscerli, magari ti toglierebbero
quel broncio spaventoso dalla faccia...»
Un’occhiata bieca di Tobio bastò a farlo zittire.
«Che
diamine vuoi e perché sei qui?» Prese la colofonia
e iniziò a passarla sui crini dell’archetto,
tentando in tutti i modi di non lanciarla in faccia al quindicenne.
«Ma
sei sordo?» disse Shouyou ironico, per poi alzarsi nuovamente
e avvicinarsi al ragazzo più alto, guadagnandosi un altro
sguardo torvo. «Ti ho detto che voglio suonare!»
Il
violinista storse la bocca. «Per forza quando lo faccio
io?»
«Guarda
che sei l’unico che si sta facendo problemi.»
Sbirciò da sopra la sua spalla per vedere cosa stesse
facendo, socchiudendo la bocca lievemente meravigliato.
«Comunque» riprese con tono offeso
«l’aula musica è solo una, io posso
suonare solo qui e tu non puoi andare a casa durante la
pausa.»
Tobio
lo squadrò per qualche attimo, volgendo solo la testa.
«Dobbiamo trovare un accordo» concluse, decidendo
di aver finito con la colofonia e riposandola.
«Io
te l’ho detto: per me possiamo anche suonare insieme. Tanto
non sono più di venti minuti e tu hai suonato un sacco di
volte con degli accompagnatori.» Fece una pausa.
«Chissà quanti ne avrai cambiati con la tua
antipatia...» parlottò, prendendo a camminare
un’altra volta verso il piano.
Se
fosse dipeso da Tobio, in realtà, avrebbe suonato da solo
per sempre. Ma la sua vecchia scuola non si era trovata
d’accordo: il club di musica era uno dei migliori delle
scuole medie di Tokyo. E seppure fosse già stato appurato
che fosse un prodigio, dopo diverse esibizioni non gli era stato
più permesso di suonare nell’orchestra della
scuola. Uno degli insegnanti lo aveva allenato in disparte, con altri
ragazzi che avevano scelto la strada da solista. Allora si era
ripromesso che, una volta giunti i diciannove anni e la
possibilità di suonare nella classe senior, avrebbe suonato da
solo,
senza neppure l’accompagnamento.
«Sei
una palla al piede» lo aggredì, facendo una
smorfia ed estraendo il violino e un libro ingiallito.
Con
Shouyou era diverso. Era insopportabile, su questo non aveva dubbi,
però… con lui, la voglia di suonare aumentava e
basta. L’ultima volta aveva eseguito il brano decentemente.
Non quanto lui, certo, ma gli errori di tempo e di dinamica erano stati
impercettibili, e a differenza del giorno precedente non aveva
sbagliato nessuna nota ‒ non gli avrebbe fatto nessun complimento,
naturalmente. Tuttavia, più di tutte le sue discutibili
abilità,
lo aveva colpito la totale fiducia che aveva nella
musica e nel pianoforte. Infondeva tutti i suoi sentimenti in
ciò che suonava; Tobio poteva quasi sentire tutto il suo
spirito combattivo urlare ed essere rumoroso esattamente come lui.
«Ci
riesci a stare qualche secondo senza insultarmi?» rispose
Shouyou a tono, indignato. Si sedette e stavolta diede anche lui le
spalle al moro.
«Non
è colpa mia se sei uno stupido.» Pose il libro sul
leggio e fissò una pagina, poi sollevò il violino
e lo adagiò sulla clavicola.
«E
magari ti aspetti anche che ti dia ragione!»
Sbuffò, ma tornò di buon umore appena vide la
tastiera sotto di lui. «Allora, che suoniamo?» fece
concitato, girandosi per guardarlo. «Hai
qualcos’altro di Rachmaninoff?»
«Ho
più di dieci libri di Rachmaninoff, a casa.»
L’altro s’imbronciò. «E in
ogni caso prima si fanno le scale, idiota»
puntualizzò.
«Scale?»
chiese il pianista come se non ne avesse mai sentito parlare.
«Non servivano solo ad imparare le note e ad accordare gli
strumenti?»
Tobio
sgranò gli occhi, scandalizzato. Ebbe, per
l’ennesima volta, l’irrefrenabile voglia di
buttargli addosso qualsiasi oggetto contundente avesse a portata di
mano. «Ma sei deficiente?» tuonò,
puntandogli l’archetto contro. «Le scale sono le
basi della musica! Sono fondamentali, ti preparano a movimenti
più difficili e rendono le dita diecimila volte
più agili!»
Shouyou
parve colpito da quello scoppio improvviso. «Ma sono
noiose...»
Scelse
una di quelle più semplici, che si imparano giusto dopo
qualche mese: quella in Sol
maggiore.
Ci era abituato, la faceva ogni giorno da quasi un decennio.
Finì in pochissimo tempo per quanto rapidamente la
eseguì, dando a malapena il tempo a Shouyou di spalancare le
labbra.
«Dato
che sono così noiose, perché non ci provi anche
tu?»
Il
rosso si concesse un risolino nervoso. «Saranno diverse per
pianoforte, come gli spartiti...»
Tobio
depositò con garbo il violino e l’archetto nella
borsa di spugna rossa ancora aperta. Poi, con poche e grandi falcate,
raggiunse l’altro alla sua sinistra e si abbassò
abbastanza per toccare i tasti.
«Che
stai facendo?» Notò che il suo fianco gli sfiorava
la spalla, così scivolò a destra, sgabello
compreso.
«Sta’
un po’ zitto!»
Optò
ancora una volta per quella in Sol
maggiore.
Dovette farla di un’ottava più bassa per impedirsi
di spiaccicarsi addosso al ragazzo. La fece a due mani e
terminò quasi con la stessa velocità con cui
l’aveva suonata col violino, le dita lunghe che si muovevano
come se fosse la cosa più semplice e naturale del mondo.
Ancora una volta Shouyou non riuscì a non restare attonito
da tanta maestria.
Il
violinista si raddrizzò e le sue labbra si piegarono in un
ghigno sfacciato. «Su, provaci tu»
incalzò con l’aria di chi sa di avere
già vinto.
«Suoni
anche il piano?» Shouyou, però, non lo stette a
sentire.
Tobio
scrollò le spalle con nonchalance.
«Ovvio.»
«Mica
tanto» brontolò arricciando il naso e tenendo gli
occhi bassi sui pedali. Poi lo guardò di sottecchi.
«In pratica sarebbe ovvio se io suonassi il violino,
allora...»
«No,»
disse tornando al centro dell’aula,
«perché sei un idiota.»
Il
pianista gonfiò le guance indispettito. «E tu sei
insopportabile!»
«Come
te!»
Shouyou
fissò i tasti con stizza. Provò a mettere il
pollice sul Sol
centrale
ma, dopo averlo pigiato e aver continuato con le altre quattro dita, si
bloccò: non sapeva più come continuare. Tobio
gliel’aveva mostrato, ma aveva a malapena visto i suoi
polpastrelli toccare la tastiera. Era stato troppo rapido
perché lui imparasse anche solo con gli occhi.
«Idiota...»
Tobio non lo aveva visto, tuttavia si aspettava un errore del genere.
Riprese in mano il suo strumento. «Ascolta bene di nuovo e
prova a rifarla. Non hai sette dita, perciò vedi di trovare
una soluzione!»
Strinse
le labbra: il giovane aveva ragione, ma non gli avrebbe mai dato una
soddisfazione del genere. Guardò le sue dita per un istante,
poi, come sentì la melodia allegra, tornò con lo
sguardo sul violinista. Accadde di nuovo tanto velocemente che
registrò appena le note. L’unica fortuna era che,
dopotutto, si trattava comunque di una scala: andava dal Sol
al
Sol,
e di certo non si dovevano fare salti mortali.
Il
moro lo affiancò di nuovo mentre Shouyou fece nuovamente
aderire il pollice al tasto.
Sentiva
un po’ di pressione ad essere osservato e giudicato in quel
modo, non lo poteva negare. Era abituato a suonare da solo o al massimo
con Izumi o qualche altro suo amico attorno, ma loro non se ne
intendevano e si complimentavano indipendentemente da cosa faceva.
Sino
al Re
eseguì
la scala con le cinque dita; poi, non trovando
alternative, spostò la mano e concluse col medio. Nemmeno un
secondo dopo qualcosa di duro gli colpì la nuca.
«Ahi!» strepitò, portandosi le mani alla
parte interessata e reclinando la testa indietro per vedere degli occhi
blu che lo scrutavano con fastidio e sufficienza.
«Perché l’hai fatto?»
«Perché,
oltre ad essere un idiota, sei anche impedito!»
gridò a sua volta Tobio, picchiettando un dito sulla sua
fronte. «Ti ho detto di trovare una soluzione, non di
rallentarti ancora di più!»
«Ma
io che ci posso fare?» gemette Shouyou, storcendo la bocca.
«Non sono mica nato riuscendo a suonare, che so, Mozart! Non
ho mai fatto le scale, quindi non lo posso sapere!»
Il
moro sbuffò e, mormorando un «Ma ti si deve
insegnare tutto?», si chinò, ripetendo la stessa
azione di qualche minuto fa ma più lentamente. Shouyou
notò che le prime tre note le suonava con il pollice,
l’indice e il medio, per poi ricominciare col pollice e
tornare indietro.
Pollice,
indice, medio, pollice, indice, medio, anulare, mignolo.
Se
lo disse e ridisse come se fosse una nenia.
Appoggiò
il polpastrello al tasto, le sopracciglia corrugate per la
concentrazione. Con molta più lentezza, ma se la
cavò ‒ o almeno così credette. Finché
non avvertì un altro scappellotto in testa. Si
girò con impeto e gli indirizzò
un’occhiataccia rabbiosa, tirando pugni a vuoto,
poiché Tobio si era già spostato e le sue braccia
erano troppo corte. «La vuoi finire?»
esclamò esasperato.
«Ma
se tu non mi ascolti!» ribatté il violinista a
voce altrettanto alta. «Te l’ho anche fatta vedere,
idiota! Suoni ad orecchio e non sai distinguere il Fa
dal
Fa
diesis?»
Il
viso di Shouyou si tinse di una decina di smorfie incomprensibili:
ancora una volta, Tobio aveva ragione. Si era concentrato troppo sul
movimento delle dita e si era affidato come sempre al suo udito per la
natura delle note. Buttò fuori un
«Uffa!», ma subito ci riprovò.
Soffermandosi sul cambio del pollice e del medio e raggiungendo a
fatica il tasto nero per era appena stato rimproverato, ci
riuscì. Non importava quanto poco svelto fosse stato, ci era
riuscito e tanto bastava a fargli gettare un urlo eccitato.
Si
voltò verso il ragazzo dietro solo per trovarlo a ridere
sotto i baffi. «E ora che hai da ridere?»
Tobio
lo guardò con scherno. «Hai le dita piccolissime!
A stento arrivi ai diesis e bemolle!»
Shouyou
arrossì, colpito nell’orgoglio. «Non
è colpa mia se sono nato così!»
balbettò, cercando nuovamente di mollare qualche pugno nella
pancia dell’altro, sbilanciandosi però troppo e
rischiando di cadere.
«No,
almeno questo no» gli concesse coi lineamenti più
addolciti. «Però di solito i pianisti hanno le
dita lunghe… Magari avresti più successo con la
batteria.» Ci pensò un attimo e l’aria
altezzosa riapparve. «Ma faresti schifo anche con quella,
figuriamoci!»
«Cosa
c’entra adesso?» sbottò Shouyou con il
tono di chi sta per scoppiare. «Le mie dita saranno piccole,
ma sono veloci!»
Non
poteva dargli del tutto torto: aveva suonato un pezzo, seppur uno dei
più semplici, di Rachmaninoff, e per giunta senza la
partitura davanti. «Resti un incapace» disse
comunque.
Il
pianista ringhiò, frustrato. «Tra poco quel
violino te lo sbatto in testa!» Non si accorse del lampo di
orrore negli occhi di Tobio. «E poi»
proseguì, il tono più pacato ma pieno di
fierezza, «mi stai insegnando le scale! Significa che vedi
del talento in me.» Fece un sorrisetto gongolante e
alzò il mento.
Tobio
sbarrò le palpebre, ma si costrinse a non farlo almeno con
la bocca, già dimentico di ciò che aveva detto
prima il quindicenne. Era vero? Riconosceva del talento in lui? Certo,
pensò, ma non pensava fosse così lampante. In
realtà, non sapeva nemmeno lui perché gli stava
mostrando le scale come se fosse una questione di vita o di morte.
Perché
ha detto un mucchio di cazzate,
si
rispose istintivamente.
Qualche
istante dopo si riebbe dal momentaneo smarrimento. «In te
vedo solo idiozia! E io non ti sto insegnando un bel niente, ti sto
facendo capire che le scale sono molto più importanti di
quanto pensi!» Shouyou schivò per poco un altro
pugno. «Se proprio avessi voluto insegnartele, sarei partito
da quella del Do,
imbecille.»
S’indispettì,
ma non replicò al colpo dell’altro. «Ma
prima hai suonato con me e ti ho tenuto testa!» Incrociando
le braccia al petto, si rese conto che la persona con cui stava
parlando non era una qualunque: l’anno scorso aveva
gareggiato fino ai regionali del torneo e, per di più, non
aveva mai perso un concorso. Sorrise. «E abbiamo pareggiato!
Quindi non sono poi così tanto più scarso di
te.»
Tobio
lo fissò con ira e, al tempo stesso, determinazione.
«Fino a prova contraria, ho vinto io sia l’anno
scorso che ieri.» Si voltò e camminò
fino al centro della stanza. «Quella di ieri pomeriggio
sarà stata solo fortuna!» sibilò mentre
sistemava il violino e l’archetto dentro la borsa.
Shouyou
inclinò la testa da un lato, curioso. «E adesso
che fai?»
«Me
ne vado a suonare sul serio! Qui perdo solo tempo.»
«Ti
hanno mai detto che sei odioso?» sbraitò alzandosi
improvvisamente e stringendo i pugni. «Qualunque
accompagnatore riesca a sopportarti è un santo!»
Tobio
chiuse la zip della custodia nera con uno scatto violento, riversando
tutta la rabbia nei suoi gesti. Le ultime parole del pianista lo
inquietarono e innervosirono ancora di più. «Suono
da solo, non ho bisogno di nessun accompagnatore!»
«Perciò
non parteciperai al torneo di quest’anno.» Shouyou
contrasse le labbra: meglio star zitto che dire qualcosa di cui avrebbe
potuto pentirsi. Quelle poche volte in cui perdeva le staffe ne diceva
sempre, di cose del genere.
«Perché,
tu sì?» Sogghignò a denti stretti,
quasi gli facesse pena, e si mise la borsa in spalla. «Ti
ricordo che è per violinisti e
per
pianisti.»
Il
rosso lo guardò come se avesse detto una cosa e poi fatta
una totalmente diversa. «Dovresti ricordartelo anche tu!
Oppure farai concorsi a pagamento? Ah, ecco perché vinci
sempre!»
Voilà:
era successo. Fu anche più velenoso di quanto si aspettava.
Non sembrava nemmeno averle dette lui, quelle parole: non era un
ragazzo che si arrabbiava spesso, o almeno non seriamente. Era gentile
e dolce con tutti, e a stento riusciva a dimostrarsi sarcastico,
figurarsi acido o rancoroso. Non si sarebbe mai sognato di parlare in
questo modo a qualcuno.
Nonostante
se ne fosse pentito subito dopo averle sentite scivolare sulla lingua,
la collera e l’orgoglio erano troppi affinché si
scusasse.
Lo
sguardo di ghiaccio di Tobio divenne mare in tempesta. Fece appena tre
passi per raggiungerlo e lo prese per il colletto, ma non
alzò l’altra mano per colpirlo.
Incatenò gli occhi a quelli d’ambra
dell’alto, che al contrario sembravano fuoco divampante.
«Io vinco sempre
e in ogni caso.»
Benché
fosse in una posizione scomoda e sconveniente, non osò
abbassare lo sguardo. Non ribatté: lo osservò
lasciarlo e andarsene, sbattendo la porta con impeto.
Il
suono della campana fece sgusciare via tutta la rabbia che aveva in
corpo e lo lasciò con un tremendo senso di vuoto allo
stomaco.
Tokyo,
9 aprile 2016, 12:47
Ora
si trovavano faccia a faccia.
Sia
il pomeriggio precedente sia quella mattina aveva potuto suonare
liberamente, con l’aula tutta per sé.
Naturalmente, Tobio non gli avrebbe ceduto anche la pausa pranzo, dal
momento che non aveva materialmente tempo di tornare a casa.
Erano
di nuovo da soli nell’aula e Tobio era appena entrato, molto
più calmo dell’ultima volta.
Shouyou
si morse il labbro e abbassò lo sguardo: doveva mettere da
parte l’orgoglio. «Scusami per ieri...»
scattò con voce acuta e lo osservò: aveva
un’espressione vagamente sorpresa. «Ho detto delle
cose cattive solo perché ero
arrabbiato…»
Sbatté
le ciglia un paio di volte, spaesato. Non era abituato a ricevere scuse
così esplicite, soprattutto quando lui non si era comportato
tanto meglio dell’altra persona. Annuì lentamente,
con il volto più rilassato del solito.
Il
pianista gli indirizzò un’occhiata piena di
qualcosa molto simile all’aspettativa, ma appena due attimi
dopo s’immusonì e sospirò pesantemente.
Non si poteva aspettare che Tobio facesse lo stesso: a quanto pareva
non era tipo da aver mille e più relazioni sociali.
«Dobbiamo
trovare un accordo, eh?»
Il
moro annuì di nuovo. «Potremmo dividerci
l’aula» suggerì, facendo di tutto pur di
non fissare gli occhi del ragazzo. Si sentiva a disagio.
«Intendo, un giorno io e un giorno tu. Va…
bene?»
Shouyou
gli sorrise come se non avessero battibeccato in continuazione da
quando si erano conosciuti. Non si sarebbe mai sottratto alla musica,
certo, ma si sentì quasi in dovere di cedergli la stanza per
primo.
Si
voltò con una piroetta, per poi uscire saltellando ed
esclamando: «Domani tocca a me, Kageyama! Ci
vediamo!»
Domani
sarebbe
stato una domenica, ma non fece in tempo a dirglielo.
Era
una tregua.
Tokyo,
12 maggio 2016, 12:53
Era
una tregua a metà, a dirla tutta.
Eseguì
la scala con naturalezza e velocità, poi rilasciò
il fiato trattenuto. Aveva finito col riscaldamento e poteva finalmente
esercitarsi su ciò che più gli premeva in questo
momento: il brano per il concorso. Era vero, non aveva nessun
accompagnatore, ma aveva tempo fino ad agosto ‒ sarebbe stato meglio
almeno qualche settimana prima, dato che non poteva raccattare qualcuno
e mettergli sotto il naso uno spartito che avrebbe dovuto imparare
perfettamente in pochi giorni.
Cacciò
fuori il libro per violino di Bach, lo posizionò sul leggio
e appoggiò il mento alla mentoniera.
Ma
la porta si aprì.
O
meglio, venne aperta.
Già
pronto ad urlare contro a colui che aveva interrotto il suo
allenamento, si girò verso l’ingresso. La voce gli
si fermò in gola come riconobbe uno dei tanti custodi della
scuola.
«Ehi,
ragazzo!» lo chiamò, come se ci fosse qualcun
altro nell’aula, la voce gracchiante e un accento che Tobio
non seppe identificare.
Calò
il violino e l’archetto e lo stette a sentire con un viso
imperturbabile.
L’uomo
grassoccio si accostò a lui. «Allora, ti devo
parlare. E poi lo devi dire anche all’altro ragazzino che
suona qui, il tappetto. Hai capito?»
Il
violinista comprese subito a chi si riferiva: di tappetti
che
suonavano lì ne conosceva solo uno. Fece sì
col capo.
«Questa
stanza verrà usata per le attività di un club che
si formerà l’anno prossimo, quindi dopo le vacanze
estive toglieranno tutte ‘ste cose.»
Indicò con il capo il pianoforte e tutte le cianfrusaglie
ammassate agli angoli. «Tu potrai ancora suonare fino ad
aprile, ma il tappetto no. Ci tiene tanto, vero? Resta qui fino a tardo
pomeriggio ogni giorno» si rispose da solo senza aspettare
una parola dal ragazzo davanti a sé, «ma oggi non
l’ho manco visto una volta.»
Nemmeno
Tobio lo aveva notato da qualche parte quella mattina. Di solito lo
incontrava per caso nel corridoio ‒ era normale, d’altronde
stavano sullo stesso piano ‒ e si lanciavano occhiatacce che avrebbero
incenerito una casa, se solo avessero potuto. Certe volte, senza una
vera e propria ragione, correvano senza una meta ben precisa e alla
fine venivano beccati da qualche professore.
Quella
era la metà di tregua che era andata a farsi friggere.
Per
il resto, il loro accordo non aveva subìto cambiamenti e
loro non ne avevano più parlato.
«Diglielo
tu, che magari lo vedi più di me. Hai capito?»
ripeté con quel suo tono basso che faceva capire le frasi
che pronunciava solo per intuito.
Il
quindicenne annuì un’altra volta, per poi
acconsentire: «Va bene».
L’uomo
sorrise compiaciuto, i pochi denti giallastri e macchiati, ed
uscì.
Tobio
fece vagare lo sguardo fino a trovare l’orologio a muro
giallo: mancavano pochissimi minuti all’una e lui non aveva
ancora provato il pezzo. Poi guardò la custodia, il libro
sul reggispartito e infine il violino.
Il
suo istinto decise che, quel pomeriggio, sarebbe andato a casa un poco
più tardi.
Tokyo,
12 maggio 2016, 15:02
Si
era preso lui la briga di spolverarlo e di pulirlo. Lo faceva
abbastanza frequentemente e si portava tutto il materiale necessario da
casa. C’era bisogno di una delicatezza che lui solitamente
non possedeva, ma per evitare di rovinarlo era attento anche alle
più piccole inezie.
Non
gli dispiaceva nemmeno troppo, anzi: era come se quel pianoforte fosse
suo, e lui se ne prendesse regolarmente cura, come una madre con il
proprio bambino.
Posò
lo zaino a terra, e si sedette con un sospiro di sollievo.
Aprì il coperchio con accortezza, lentamente, e
scrutò innamorato la fila di tasti bianchi e neri.
Mosse
un po’ le dita in aria, poi posò il pollice della
mano destra sul Do
centrale
e il mignolo della sinistra su quello di un’ottava
più bassa.
Da
quando Tobio gli aveva fatto vedere la scala in Sol
maggiore aveva
cominciato a fare ricerche e, diversamente da come aveva sempre
pensato, si divertiva tantissimo a fare avanti e indietro con le mani,
a giocare con le sue dita sulla tastiera. E il violinista aveva
ragione: era un riscaldamento perfetto. Gliene era profondamente grato,
ma si sarebbe morso la lingua pur di non ringraziarlo ‒ anche
perché gli avrebbe certamente risposto con un muso lungo e
un “Ma che vuoi?”.
Premette
i polpastrelli sulla plastica e le sue labbra si piegarono in un
sorriso leggero.
Ma
la porta si aprì. Di nuovo.
Si
bloccò subito e girò il collo di scatto, con gli
occhi stralunati dallo sgomento. Appena capì chi era, non si
fece problemi a guardarlo male. «Non è che
potresti entrare con più gentilezza?»
abbaiò, incrociando le braccia al petto e dandogli di nuovo
le spalle.
«Entro
come voglio!» replicò Tobio a tono, avvicinandosi
al ragazzo. Tornò serio quando notò che aveva
già cominciato ad allenarsi: non gli piaceva per niente
dargli quella notizia. «Hinata...»
Shouyou
non esitò a voltarsi ancora una volta: forse quella era la
prima volta che lo chiamava per il suo cognome senza accompagnarlo a
nessun insulto. Puntò i suoi occhi in quelli di Tobio per
fargli capire che lo stava ascoltando.
«Tra
un po’ il pianoforte verrà tolto.»
Per
Shouyou fu come una pugnalata. Il moro prevedeva già grida
da tutte le parti, che non poteva essere possibile, che non poteva
accadere a lui, e invece schiuse la bocca e basta.
Si
ritrovò quasi ad ansare come se stesse soffocando: il groppo
era già là, nella sua gola. «Tra
poco… quanto?» sussurrò. Non guardava
più nulla in particolare, solo il vuoto.
La
reazione del pianista sorprese Tobio nuovamente. Si stava palesemente
arrendendo a quella decisione. D’altronde non avrebbe potuto
far altro: la scuola così aveva preferito e loro
così dovevano fare. Ciò non significava,
tuttavia, che fosse normale.
Mosse
due passi avanti, fino ad arrivare a qualche centimetro da lui, e lo
sollevò dal colletto della camicia bianca della divisa.
«Che ti prende?» sbottò scuotendolo.
«Perché non reagisci, imbecille? Ti stanno
portando via la musica!»
Shouyou
lo fissò con quanta più fermezza e rabbia gelida
potesse possedere. «Che dovrei fare, eh?»
grugnì amaramente, senza liberarsi della stretta.
«A casa non ho un piano, e a quanto pare lo toglieranno anche
qui. Ho sempre trovato una soluzione, e lo farò anche ora!
Anche perché non posso mica oppormi alla scuola, stupido!
Che dovrei dire? Che un ragazzo vuole continuare a suonare qui e che
quindi non dovrebbero levare un bel niente? E secondo te lo farebbero
davvero?»
Non
lo aveva mai visto arrabbiato e ragionevole allo stesso tempo ‒ non che
si vedessero così spesso.
Lo
lasciò e lui cadde di nuovo a sedere sullo sgabello.
«Lo hai capito subito» osservò atono.
Shouyou
non commentò. «Quindi quando? Quando lo
toglieranno?» ribadì invece, lo sguardo di nuovo
vacuo.
Tobio
aggrottò le sopracciglia e sentì un sapore
amarognolo in fondo alla bocca, ma lo ignorò.
«Dopo le vacanze estive cominceranno a sgombrare tutta la
stanza. Di preciso non lo so.»
Strinse
le labbra e abbassò il capo. Si graffiò
l’anulare: si stava torturando le dita da quando gli aveva
dato quell’annuncio.
Non
seppe la ragione, ma quella visione gli fece sconquassare lo stomaco e
venire la pelle d’oca. Lo odiò e si
odiò per essersi immedesimato in lui, perché
quello che disse dopo, a mezza bocca, fu:
«Appena
lo sapremo verrai da me. Ho un pianoforte.»
Shouyou
lo guardò come se stesse diventando pazzo proprio in quel
momento, dinanzi a lui.
«Ma
se alle tre precise non ti trovo fuori dalla classe te ne puoi restare
qui.» Si innervosì ancora di più come
scorse un sorriso ad illuminargli il viso. «Non ti
aspetterò manco morto, sappilo.»
―
Nota d’autrice:
No,
non sono morta! Secondo voi mi faccio uccidere così
facilmente?
Sì
ok la finisco
Finalmente
ci sono riuscita! *i cori cantano Alleluja
in
lontananza* Per compensare alla mia immensa lentezza, il capitolo
è lunghetto! In teoria dovevano succedere altre diecimila
cose, ma ho deciso di tagliarlo subito prima che la faccenda mi
sfuggisse di mano, perché avevo paura che diventasse troppo
pesante per voi (e di aggiornare nel duemilamai).
Pensate
che sia stata cattiva a togliere il piano a quel povero
disgraziato di
Hinata? Ovviamente no, perché alla fine
c’è Kageyama che salva la situazione! Ma vedremo,
vedremo. BD *scoppia in una risatina malvagia*
E
no, mi dispiace, ma ancora al secondo capitolo non si sono innamorati.
Ok
giuro che la pianto
Ma
comunque, passiamo a cose più serie. So che di fatto
è successo poco in questo capitolo, ma
c’è il primo incontro tra questi due idioti e ho
provato a svilupparlo il meglio possibile. Non è
perché sono assurdamente prolissa ed è venuto
tutto il doppio di quanto avessi calcolato, assolutamente!
Ora,
vorrei ringraziare _Lady
di inchiostro_,
Maiko_Chan
e
shatiaslove
per
aver recensito (e per ascoltare i miei scleri su twitter)!
Ringrazio inoltre tutti coloro che hanno messo la storia tra le
seguite, ricordate e preferite. Non sapete quanto mi aiutiate e mi
facciate felice, grazie davvero! <3
E
sì, insomma, nonostante ora come ora non ne sia troppo
soddisfatta, spero che a voi sia piaciuto! ~
Al
prossimo capitolo (sperando che venga fuori un po’ prima)! :3
Baci
Shizuha
|
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Capitolo 4 *** III Capitolo ***
III
Capitolo
Tokyo,
12 maggio 2016, 19:39
Si
buttò sul letto a peso morto, le braccia aperte. Nel buio
fissò insistentemente il soffitto, come se potesse dargli le
risposte che stava cercando in tutti i cassetti confusionari del suo
cervello.
Si
portò una mano alla fronte, emettendo un verso di
frustrazione e chiudendo gli occhi. Aveva ancora il viso imperlato di
sudore per le tre ore di allenamento e non vedeva l’ora di
entrare nel box doccia, anche perché le giornate si andavano
facendo sempre più calde.
Non
si capacitò del tempo che stette in quella posizione,
immobile tranne per il petto che si abbassava e alzava come una giostra.
Alla
fine decise che l’avrebbe fatto. Solo per se stesso e per
nessun altro.
Tokyo,
13 maggio 2016, 12:48
Il
groppo in gola risalì come lo vide. Tobio gli aveva
garantito un posto per continuare ad esercitarsi, vero ‒ in
realtà si domandava ancora se non lo avesse sognato ‒, ma si
era già affezionato a quello strumento. Succedeva con ogni
pianoforte che toccava, eppure non se ne era dovuto separare mai
così presto.
Lo
consolava soltanto il fatto che avesse più di un mese per
continuare a sentirlo,
provarlo
sotto le dita.
Camminò
con passo lieve fino allo sgabello; appena udì un lento
cigolio, però, si voltò di scatto.
Il
ragazzo si infilò silenziosamente ma senza esitazione, fino
a richiudere la porta alle sue spalle. Gli lanciò appena
un’occhiata, poi si diresse verso gli arnesi accatastati alla
sinistra e, come sempre, prese una sedia e un leggio.
«Ohi,
Kageyama!» Shouyou lo guardò, per il secondo
giorno di fila, come se stesse diventando folle. Notò che
aveva la borsa del violino sulla schiena. «Ti sei scordato
che oggi è il mio turno?»
Tobio
non lo degnò di attenzione neppure stavolta.
«Conosci Bach?» cambiò discorso come se
non lo avesse sentito.
«Certo
che lo conosco» rispose il pianista perplesso, la testa
inclinata di lato. «Perché me lo chiedi?»
«Perché
da oggi ti allenerai con me.»
«Che?»
urlò, mentre l’altro sistemava la borsa sul legno
chiaro e l’apriva con una certa premura. Lo raggiunse e gli
si mise accanto.
«E
abbassa quella cazzo di voce!» masticò, estraendo
un libro che odorava di carta vecchia e aprendolo sul reggispartito.
Shouyou
vide da sotto che era dell’autore che aveva appena
menzionato. Poi tornò con gli occhi d’ambra
confusi sul moro. «Kageyama,» fece con tono
allarmato e gli posò il dorso di una mano sul volto,
«tutto bene? Stamattina hai mangiato? È successo
qualcosa?»
Tobio
gli gettò uno sguardo storto e tanto bastò a
fargli ritrarre il braccio. Afferrò anche il violino e
l’archetto e si raddrizzò, lasciando la custodia
aperta.
Il
quindicenne dai capelli rossicci arricciò le labbra in un
broncio. «E non mi guardare così! Stai facendo
tutto tu, io non ci capisco niente!»
«Ma
sei davvero così stupido? Ti ho detto che suonerai con me,
che ci vuole a capirlo?»
«Suonare
con te cosa? Come? Quando? E perché?»
Il
violinista alzò gli occhi al cielo e sbuffò
annoiato. Fece girare Shouyou e lo spinse poco gentilmente verso il
piano. «Per il torneo di agosto, idiota. Nessuno dei due
può partecipare se non troviamo qualcuno, e io mi sono
stufato di stare a cercare.» Incrociò le braccia
al petto e guardò il profilo smarrito e scandalizzato del
rosso con fare altezzoso. «Perciò vedi di metterti
a lavoro e imparare questo brano al più presto
possibile.»
Shouyou
si sedette sullo sgabello nero, ma non gli diede le spalle.
«Si può sapere che cosa significa?»
domandò con la voce più calma che gli uscisse in
quel momento.
Tobio
dovette appellarsi a tutto il suo autocontrollo per non far uscire
nessuna imprecazione dalla bocca. «Significa»
scandì, frugando di nuovo nella borsa, «che tu
imparerai questo brano» e dicendolo estrasse un libro diverso
da quello di prima ma con le stesse lettere scritte sopra,
«lo suonerai insieme a me, parteciperemo al torneo e andremo
ai nazionali. Ora
hai
capito, testa vuota?»
Tobio
non era per nulla sicuro di quella scelta. Ma ci credeva. Credeva in
Shouyou, credeva nelle sue abilità e credeva nella sua
assurda tenacia. Che avesse talento lo aveva compreso subito, ma si era
reso conto che avrebbe potuto tenergli testa solo durante il pezzo di
Rachmaninoff, più di un mese prima. L’unico
problema era che non aveva la testa e i mezzi per dimostrarlo. Se,
invece, qualcuno lo avesse seguito, di certo sarebbe stato capace di
diventare un mostro.
Lui
voleva vincere contro quel mostro
e, per questo, avrebbe anche aiutato quello stupido a tirarlo fuori.
«In
realtà no» replicò più serio
che mai. «Cos’è questa storia? Me ne hai
parlato e me lo sono dimenticato?»
Per
poco non si sbatté il tomo in faccia. «Te ne sto
parlando ora! Leggi questo cavolo di spartito», dopo qualche
passo glielo schiaffò sulle cosce, «e
suona!»
«Aspetta
un attimo! Io non ho mai detto niente! E poi chi te lo dice che non
abbia già qualcuno che suona insieme a me?»
Il
moro lo guardò come se avesse detto una delle sue solite
sciocchezze. «Perché avreste già
cominciato a farlo sul serio. E tu ti alleni da solo.»
Shouyou
aggrottò le sopracciglia in un cipiglio quasi indignato.
«Che fai, mi stalkeri?»
«Ovviamente
no, imbecille!» strillò Tobio, le orecchie rosse
come pomodori e la linea delle labbra sottile come un filo. Si
girò e camminò fino al leggio col busto rigido e
dritto come un palo. «Ma quando ho il turno di pulizie il
pomeriggio non sento nulla.»
Il
pianista si morse il labbro, colto in contropiede. «Continuo
a non capire perché proprio io. Cioè, mi
consideri una schiappa» rifletté mentre
tamburellava distrattamente le dita sulla copertina.
«Tu
sei
una
schiappa, è diverso.»
Gonfiò
le guance e sporse le labbra come un bambino a cui è stato
appena tolto il proprio giocattolo preferito.
«Comunque» aprì una pagina a caso e vi
buttò uno sguardo, «come mai tu non ne hai ancora
uno? Di accompagnatore, dico.»
Naturalmente
Tobio non gli avrebbe mai rivelato che era perché lui era
l’unico pianista con cui parlava ‒ o, più
generalmente, l’unica persona. Fece spallucce, come se non
fosse niente d’importante o degno di nota, e diede
un’occhiata in giro pur di non guardarlo.
Tornò
a fissarlo con occhi curiosi, ma, dato che non aveva
nessun’altra domanda da porgli, lasciò cadere
l’argomento. «Allora, qual è questo
brano che dobbiamo suonare?»
Il
ragazzo dai capelli corvini sgranò le palpebre e
rinforzò la presa sul violino, più per credere di
aver sentito bene e di vivere ancora nella realtà che per
altro. «Sei serio? Stai davvero accettando?»
«Di
cosa ti stupisci, se me lo hai chiesto tu?»
borbottò Shouyou. Poi storse la bocca, trovandosi in
difficoltà. «E poi….»
Abbassò lo sguardo. «La tua idea non è
così male. Me lo potevi chiedere come le persone normali,
però, stupido!»
«Senti,
io te l’ho detto e basta, quindi non lamentarti!»
Gli diede le spalle, come se stessero gareggiando per decretare chi
fosse più sdegnato.
«Mi
lamento eccome!» esclamò con il tono di chi sa di
avere ragione, ma cambiò discorso: «Non mi hai
ancora risposto, comunque».
Tobiòlo
squadrò per qualche attimo, poi capì a cosa
alludeva. «È la Gavotte
en Rondeau della
terza Partita. Se non sbaglio là è verso la
metà» lo informò, indicando il volume
con il mento.
Il
rosso lo sfogliò un po’ mentre blaterava qualcosa
come: “Fai davvero schifo in francese”, sperando
che il violinista non lo sentisse.
Gli
mostrò quello che pensava fosse lo spartito giusto, mettendo
il dito sopra la carta. «Questo qui?»
Annuì.
«Sono gli accordi per il piano. Vedi di studiarteli per
bene.»
«Perché
hai un libro per piano? Non pensavo che lo suonassi così
spesso.» Shouyou lesse un po’ le varie note e le
indicazioni di tempo, socchiudendo la bocca. «Oddio, devo
premere il pedale così tante volte…»
brontolò con la testa già fusa.
«Non
lo suono quasi mai» rispose vagamente Tobio, ignorando
l’ultima frase. Adagiò il violino sulla clavicola
e sollevò l’archetto. «Ora ascoltami. Ti
faccio un segno quando devi iniziare, o non lo capirai nemmeno tra un
millennio.»
Gli
gettò un’occhiataccia. «Ehi!»
Il
violinista rispose all’occhiata torva, ma appena
toccò la mentoniera iniziò a suonare.
Per
quanto fosse una melodia allegra, Tobio era in grado di impregnarla di
dolore. Non era cambiato dall’anno precedente: non
c’era dubbio che fosse migliorato, tuttavia il suo stile era
rimasto lo stesso.
Shouyou
arricciò il naso, irritato. Aveva l’impellente
voglia di prenderlo a schiaffi, ma non lo fece. Se ne restò
lì, seduto e fermo, mentre il cuore gli si stringeva in una
morsa amara e avvertiva il familiare groppo risalirgli in gola.
Di
solito gli piacevano tutte quelle emozioni, anche a costo di piangere,
poiché erano sempre positive e lo facevano sentire
più vivo che mai. Con la musica di Tobio era diverso: tutto
quello che provava era un’angoscia che non era sicuro di
poter reggere. Eppure l’altro la reggeva da anni, sempre
ammesso che suonasse così da quando aveva cominciato, e
intanto era davanti a lui, che eseguiva il pezzo da portare a un
concorso.
Dopo
circa un minuto Shouyou sentì i peli delle braccia e delle
gambe rizzarsi, e fu scosso da un brivido che partì dal
petto. Avrebbe voluto urlargli di smetterla, ma non poteva.
Non poteva perché Tobio aveva tutto il diritto di esprimere
i propri sentimenti almeno attraverso le note, di sbatterglieli in
faccia, dal momento che lui, dopotutto, aveva acconsentito a quella
proposta ‒ o comando, per il moro non sembrava cambiare molto.
Si
costrinse a non piangere, e come dopo un altro minuto si accorse di
avere le guance bagnate, se le strofinò violentemente,
nonostante la possibilità che l’altro si girasse e
lo vedesse fosse davvero minima. Non pensò che, in effetti,
essere scoperto con gli occhi rossi non lasciava troppe opzioni da
scegliere.
Ascoltò
fino alla fine, stringendo i pugni, conficcandosi le unghie nella pelle
e torturandosi il labbro inferiore.
L’archetto
non si trovava sulle corde già da qualche momento e Tobio lo
stava scrutando con un’espressione che Shouyou non seppe
decifrare. Nessuno dei due aveva ancora detto nulla.
«Hai
capito quando devi partire?» chiese poi, ritrovandosi con il
tono più basso e rauco del normale. Era impossibile non
realizzare che Shouyou aveva pianto.
Scosse
la testa, con un’aria che era tutto meno che sicura.
«Idiota!»
gridò, lanciandogli il tappo di una bottiglia che
chissà doveva aveva trovato, ma l’altro
continuò a rimanere sconvolto e non reagì.
«Ohi! Ma mi ascolti? Dove ce l’hai la testa,
stupido?»
Il
pianista sbatté le palpebre un paio di volte e si rese conto
che il pezzo si era concluso veramente. «Che
c’è?» fece con voce stridula dopo aver
visto lo sguardo poco rassicurante dell’altro.
Tobio
comprese solo allora che quello strano comportamento doveva essere
stato causato dal modo in cui aveva suonato. Quell’intuizione
gli fece esplodere nello stomaco un senso di soddisfazione e si
trattenne a stento dal sorridere, anche se in modo accennato.
Sbuffò,
ma non fu troppo convincente, e si rimise sulla spalla il violino.
«Stavolta ascolta davvero, imbecille, non ho intenzione di
farlo altre mille volte solo perché non usi il
cervello!»
«Imbecille
ci sarai tu, imbecille!» Shouyou si accorse subito dopo che
quell’insulto probabilmente era esilarante e basta.
E
infatti Tobio fece una smorfia derisoria, come a dire: Ma
che problemi hai?
Poi lo disse anche a voce.
«Parla
per te!» replicò imbronciato.
«Aspetta… Ma lo stai suonando di nuovo tutto?»
«Ovvio
che no» chiarì piccato, guardandolo
dall’alto al basso. «Non mi va di andare a
prenderti rotoli infiniti di carta igienica.»
Divenne
rosso almeno quanto i suoi capelli. «Dai, sbrigati, stai
perdendo tempo!» se ne uscì distogliendo lo
sguardo ed incrociando e la braccia al petto. Sperò che
l’imbarazzo non fosse così evidente.
Tobio
sogghignò beffardo, ma non aspettò a compiere
ciò che doveva ‒ e ovviamente non perché
gliel’aveva detto Shouyou.
Tokyo,
23 maggio 2016, 15:02
Non
stava andando troppo male, pensava. Da più di una settimana
si allenavano incessantemente sulle scale e sulla composizione di Bach,
e nonostante imparasse tanto velocemente quanto un bradipo morto,
doveva ammettere che ce la stava mettendo tutta.
Tuttavia
qualcosa gli stava sfuggendo, e ogni volta che si concentrava per
ricordarla quella sembrava scappare, come un animaletto spaventato.
Nella
custodia del violino non c’era il libro, si
ricordò. Durante la pausa pranzo, Shouyou si era presentato
nella sua classe e, dopo aver preso senza permesso il suo bentou, aveva
approfittato dell’effetto sorpresa e, sorridente come sempre,
l’aveva trascinato di peso nel cortile esterno pieno di
ragazzi. Avevano mangiato insieme a un gruppetto di compagni del
pianista, ma Tobio aveva a malapena aperto bocca. Non che si fossero
fatte chissà quali discussioni: si era parlato del
più e del meno, come vedeva fare spesso ai suoi coetanei.
Alla
fine dell’intervallo gli aveva mollato uno scappellotto sulla
nuca e lo aveva rimproverato, perché anziché
migliorarsi al piano aveva pensato a qualcosa di inutile.
Shouyou
lo aveva guardato male. Successivamente, però, aveva
contestato, serissimo: «La musica esprime te stesso. Se non
fai esperienze e resti vuoto, cosa dovrebbe esprimere?»
Era
rientrato in classe come al solito, non prima di ricordargli il loro
allenamento in aula musica.
Tobio
aveva avuto paura di quelle parole, e ne aveva ancora. Non traspariva
nulla dalle sue note? Magari era sempre la stessa, identica cosa da
anni: dolore.
Cinque
minuti di riflessione e aveva scacciato quei pensieri come fossero
stati dei mostri. Lui affondava se stesso nella musica,
perciò era impossibile che non trasmettesse nessuna
emozione. Che fosse tristezza o qualcos’altro non gli
interessava: amava la musica e gli bastava.
Frugò
nello zaino, ma non adocchiò ciò che cercava.
Sgranò gli occhi, il qualcosa
che
gli era sfuggito ora impresso a caratteri cubitali nella sua mente.
«Il
solfeggio!»
«Il
solche?»
Tobio
gli rivolse l’occhiata scandalizzata di chi è
appena stato offeso. «Il solfeggio!»
ripeté, agitando un tomo enorme sotto gli occhi del
pianista. «Non mi dire che non hai mai fatto
solfeggio!»
Shouyou
fissò la copertina ingiallita, accovacciato accanto a lui
davanti alla cartella. «Non so proprio cosa sia, in
realtà» confessò, come se fosse la cosa
più ovvia del mondo.
Rispose
con un colpo di libro sul capo e
l’«Idiota!» che ormai gli usciva naturale.
«Sei
tu che ti scordi sempre che io non ho mai avuto insegnanti!»
Si massaggiò la parte lesa. «E poi dovresti
seriamente dare un taglio a questi istinti violenti»
sbuffò.
«Il
solfeggio per i pianisti è come l’olio per i
cuochi: non puoi non conoscerlo!»
Shouyou,
invece di annuire e dargli ragione, gli scoppiò a ridere in
faccia. «Ma da quando fai queste metafore? Sembri una
nonna!» Continuò a ridere come se
l’altro non lo avesse appena fulminato con uno sguardo
assassino.
A
Tobio fu sufficiente una debole spintarella per farlo cadere sulla
schiena. Si mise in piedi, si diresse al davanzale della finestra
impolverato e sporco di scritte colorate e vi poggiò il
volume sopra.
Si
voltò a guardarlo, i lineamenti deformati da una smorfia
irritata. «Se non smuovi il culo entro tre secondi, ti sbatto
fuori, deficiente.»
Il
rosso sbuffò, ma aveva ancora un sorriso leggero.
«Che ci fai lì?» gli domandò
curioso, mentre si alzava e si spolverava i pantaloni verdi della
divisa.
«Oggi
facciamo solfeggio» decretò, spostando
l’attenzione al libro che cominciò a sfogliare
freneticamente.
Lo
affiancò con qualche passo, sbirciando gli spartiti che
venivano sostituiti rapidamente da altri. «Quindi che
cos’è questo solgeffo?»
«Solfeggio»
lo corresse, lanciandogli l’ennesima occhiata torva.
«Ora sta’ zitto, ascoltami e leggi le
note.»
Shouyou
si chiese cosa dovesse ascoltare, dato che nessuno dei due aveva
strumenti in mano. «È così difficile
spiegarmelo a voce?» si lagnò, appoggiando i
gomiti sul marmo riscaldato dal sole.
«No»
fece Tobio, fermandosi su una pagina senza alcun titolo. «Il
problema è che il tuo cervello ci arriverebbe tra qualche
mese e noi non abbiamo tutto questo tempo.»
«Sei
insopportabile» mugugnò tenendo il muso lungo.
Gli
arrivò un calcio allo stinco che non gli fece nemmeno troppo
male ‒ da quando ci andava così piano? ‒, ma subito dopo il
violinista esordì.
Shouyou
strabuzzò gli occhi color nocciola, e finalmente
capì cosa dovesse ascoltare.
Stava
cantando.
O
meglio, stava solfeggiando.
Diceva
il nome delle note, ne riproduceva il suono, rispettava il tempo e le
pause.
Non
si sarebbe mai aspettato di pensare che Tobio avesse una bella voce. Si
maledisse mentalmente, perché lui invece era stonato come
una campana e non voleva perdere contro l’altro.
Il
conflitto interiore non durò tanto. Si accorse ‒ non senza
imbarazzo ‒ che stava apprezzando
quel momento. Non gli sarebbe dispiaciuto ascoltarlo per sempre, mentre
intonava quella melodia. La sua voce era sempre bassa, cupa, ma mutava
del tutto rispetto a quella che usava quando lo insultava: era
cristallina. Non c’era nessuna rabbia contro il mondo a
contaminarla, era la voce di Tobio e basta.
Solo
quando arrivò a metà dello spartito prese a
leggere anche lui le note. Desiderò con tutto il cuore che
il moro non lo avesse notato mentre lo fissava con sguardo meravigliato.
Finalmente
lo spartito s’interruppe e per poco non tirò un
sospiro di sollievo.
«Ora
hai capito cos’è il solfeggio?»
Shouyou
annuì senza troppa sicurezza.
Cambiò
pagina e premette il palmo sul libro per tenerlo aperto. «Su,
prova tu. Poi lo faremo anche al piano.»
Il
pianista alzò lo sguardo su di lui, che invece lo lo faceva
vagare per lo spartito. «Che significa?»
«Prima
devi imparare a riconoscere subito le note e le pause, a cantarle, e
dopo lo farai mentre le suoni.» Lo guardò di
sottecchi, come ad avvertirlo. «Quindi vedi di concentrarti
per bene, ché dobbiamo riprendere anche Bach.»
Fece
sì col capo un’altra volta, allungò il
collo verso il libro per vedere meglio e Tobio glielo
avvicinò un po’.
Shouyou,
quel giorno, scoprì che anche la voce poteva essere uno
strumento.
Tokyo,
7 giugno 2016, 16:17
Avrebbe
voluto prendere a schiaffi lui e se stesso.
Stavano
passando un pomeriggio a non fare niente e gli dava un fastidio immenso.
Gli
dava un fastidio immenso che Shouyou si comportasse con lui come con
tutti gli altri. I suoi erano gesti naturali che di naturale, per
Tobio, non avevano nulla.
Gli
dava ancora più fastidio che lo spingesse a fare lo stesso,
non come con tutti gli altri.
Era
un fiume costantemente in piena, che, persino senza volerlo, riusciva a
trascinare chiunque nel suo corso, ed era impossibile imporsi.
Parlavano
un sacco.
Più
che altro era il più grande a riempire i momenti di
silenzio, anche quando non ce n’era bisogno. Gli raccontava
un sacco di cose: come aveva passato le lezioni, quanto gli facesse
antipatia il professore di economia domestica, cosa gli metteva sua
madre nel bentou. Tobio rispondeva con insulti, prese in giro, ma solo
da poco si era scoperto a concordare con lui su alcune cose, anche
banalissime.
«Davvero,
Nacchan è dolcissima! È impossibile non volerle
bene. E secondo me ti toglierebbe quella cosa
dalla faccia!»
Il
violinista arricciò le labbra in una smorfia sdegnata.
«Ma quale cosa?»
«Tutte
quelle rughe che hai lì!» Shouyou lo
indicò, seduto al contrario su una sedia di legno chiaro e
plastica, le braccia appoggiate allo schienale e le gambe divaricate ai
lati. «Però effettivamente potresti farle
paura...»
Gli
buttò addosso la bottiglietta da cui stava bevendo, offeso e
stizzito. «Ci sono nato con questa faccia, idiota!»
Prese
la bottiglia al volo e gli sorrise. «Nah, non ci
credo.» La posò a terra sporgendosi in avanti.
«Non potevi essere così imbronciato pure da
bambino!»
«Non
puoi saperlo.» Tobio sbuffò, chiuse violentemente
il libro di letteratura e lo tirò da qualche parte, non
curandosi di sapere dove fosse. Si sollevò dalla sedia
vicina a quella di Shouyou, si rannicchiò davanti allo zaino
e si mise alla ricerca di qualcosa.
Il
rosso stette in silenzio a fissarlo per qualche attimo, stupito, ma non
si mosse. «Kageyama, non abbiamo finito!»
«Studiare
insieme è stata la più grande stronzata che tu
abbia mai pensato, anche se quella di giapponese è la
stessa, stupido!» Trovò quello che cercava e lo
cacciò fuori. «Parli in continuazione e mi
distrai. E fai schifo!»
Shouyou
gli fece la linguaccia. «Parla per te, idiota!»
rispose a tono, poi si esibì in un ghignetto. «Se
sei una schiappa in letteratura moderna non è colpa
mia.»
«Sì,
e nel frattempo tu sei una schiappa anche nel solfeggio, quindi datti
una mossa e siediti su quel dannato sgabello!» Si
alzò e, dopo avergli schiaffato il libro sulla nuca,
trascinò la sedia su cui stava davanti al pianoforte.
«Ahi!»
Non si mise in piedi né si girò.
«Ohi!
Sbrigati» lo esortò, aprendo il libro e
poggiandolo sul supporto.
Non
lo fece. «Kageyama...» bisbigliò, lo
sguardo inchiodato al muro e le braccia ancora incrociate sullo
schienale. «È passata anche da te oggi?»
«Cosa?»
grugnì Tobio con aria annoiata.
Sapeva
cosa gli stava chiedendo. In realtà, aveva sperato con tutto
il cuore che non l’avrebbe fatto, e invece ora eccolo
lì: con un’assurda voglia di piangere, di
imprecare contro a tutti meno che Shouyou, per la prima volta da quando
lo conosceva.
Strinse
le labbra, per impedirsi di far uscire imbarazzanti singhiozzi, e gli
occhi, per impedirsi di far uscire altrettanto imbarazzanti lacrime.
«Lo sai.»
Il
ragazzo dai capelli corvini sospirò stancamente.
«Sì.»
Shouyou
non era più riuscito a seguire le lezioni, ascoltato
l’insegnante che pronunciava ad alta voce la circolare
riguardante le vacanze estive.
Tutti
avevano esultato, sebbene fossero a conoscenza degli esami che le
precedevano.
Lui
no. Aveva sbattuto la testa contro il banco ed era restato
così per tutta l’ora, alzandosi con flemma solo
alla fine.
Appena
entrato nell’aula di musica si era sentito il pianto
pungergli gli occhi. Tobio era già dentro e, come lo aveva
visto, aveva cominciato a parlare a macchinetta. Forse, aveva pensato
Shouyou, per distrarlo, e, nonostante avesse fallito, gliene era grato.
Il
violinista, invece, si era accorto solo dopo di come stava agendo. Si
era per caso inconsciamente preoccupato per lui? No, impossibile. Non
gli voleva bene, non erano amici: suonavano insieme, punto. Certe
volte, voleva urlare contro a quella vocina nella sua mente che gli
rammentava che suonare
insieme da
un mese era straordinario, e che la musica, spesso, poteva unire due
persone meglio di gesti o parole.
«Hai
cambiato idea, no?»
Tobio
aggrottò la fronte. «Su cosa?» Questa
volta non comprese veramente.
Shouyou
lo guardò da sopra la spalla, come a chiedergli: Sul
serio?
«Andare
a casa tua per allenarci, tutte quelle cose… Voglio dire,
magari i...»
«Ma
tu stai male!» lo interruppe, il tono stridulo e urtato.
«Un mese a sopportarti e secondo te lo mando a quel
paese?» Spostò lo sgabello indietro con il piede
con tanto impeto che quasi si rovesciò. «Ora vieni
qua. È l’ultima volta che te lo dico, alla
prossima ti porto su ‘sto coso
a forza di calci in culo!»
Il
pianista sbatté le palpebre, sorpreso. «Come sei
volgare, Kageyama-kun!» esclamò infine, dopo aver
aperto e chiuso la bocca circa tre volte.
Poi
sorrise.
Tokyo,
21 giugno 2016, 7:29
Chi
se ne importava se il giorno successivo ci sarebbero stati gli esami?
«Kageyama!»
Spalancò la porta praticamente buttandocisi sopra, ma dentro
non vide nessuno.
Adocchiò
l’orologio a muro: strano che ancora non fosse arrivato. Poi
fece qualche piroetta nella stanza illuminata dalla luce tenue del sole
del mattino, ma non si rischiò a guardare il pianoforte. Non
quel giorno. Non era ancora pronto.
Quando
gettò un’occhiata fugace all’ingresso,
si rese conto di non essere più solo. Un sorriso radioso gli
ravvivò il viso.
«Ti
avranno sentito anche alla segreteria, idiota» lo
rimproverò con la voce roca e assonnata di chi si
è appena alzato dal letto, una spalla appoggiata allo
stipite di legno e le braccia incrociate al petto. Si
raddrizzò e prese a camminare verso l’angolo
sinistro.
«Kageyama»
allungò le vocali, buttando lo zaino a terra. «Ma
non sai che giorno è oggi?»
Il
violinista si voltò a osservarlo come se fosse completamente
rincitrullito. «Martedì…?»
«No!»
Arricciò il naso, offeso. «Cioè, anche.
Ma è un giorno molto più importante del
martedì!»
«Quello
in cui mi irriti così tanto da ritrovarti senza
ossa?» replicò, già stizzito da tutta
quella vitalità di prima mattina.
«No!»
ripeté Shouyou ancora più impermalito.
«Quello in cui mi fai un regalo!»
Ok,
è pazzo,
si disse. «Da quando consideri la morte un regalo?»
Trasportò una sedia al centro dell’aula e vi
adagiò la custodia del violino, mentre la cartella
scolastica andò a finire sul pavimento.
«Kageyama!»
protestò il rosso con i pugni chiusi, avvicinandosi a lui.
«Te lo avevo anche detto.»
«E
secondo te mi ricordo tutte le stupidate che mi dici?»
Aprì la zip della borsa.
Lui
gli diede un pugno sul braccio, per tutta risposta. «Oggi
è il mio compleanno!»
Tobio,
d’istinto, come se fosse qualcosa che faceva abitualmente,
tese una mano e la chiuse sulla zazzera rossiccia, stingendola.
«Non me ne potrebbe fregar di meno.»
In
realtà doveva ancora deciderlo. O meglio, doveva deciderlo
il suo cervello appena lo avrebbe ritenuto più opportuno, e
da solo, perché lui non si sarebbe mai chiesto se gli
interessasse qualcosa di quel piccolo scocciatore. Mai.
«Ahi!»
piagnucolò dimenandosi il più possibile.
«Sei antipatico!»
«Ora
vai a sederti, prima che il regalo ti arrivi subito!» Non
provò nemmeno con le buone: lo fece voltare e lo sospinse
con poca gentilezza verso lo sgabello.
Si
massaggiò la cute dolorante, andando verso il piano con le
spalle curve e borbottando lamentele.
Era
combattuto. Shouyou migliorava sempre di più, vero, tuttavia
non aveva ancora raggiunto neanche un livello prefetturale. Poi si
chiese cosa facevano di solito in quei quindici minuti mattutini.
Solfeggio e, se avanzava tempo, un paio di scale o esercizi per la
mobilità delle dita.
La
sua mente vagò fino al giorno del suo ultimo compleanno,
ovviamente passato da solo, in una casa buia e riscaldata dai
termosifoni. Aveva suonato il suo pezzo preferito per tutta la sera,
dopo essersi concesso una porzione di maiale al curry e una fetta di
torta alle mele, la sua preferita. Aveva dedicato ogni giorno un
piccolo spiraglio di tempo a quel brano di Bach, e alla fine aveva
potuto definirsi soddisfatto.
Forse
Shouyou aveva organizzato una festa con i suoi amici, o con la sua
famiglia; eppure, lo aveva detto a lui, gli aveva chiesto espressamente
un regalo.
Magari
Shouyou teneva anche al suo, di regalo. Magari una persona gli voleva
bene, nonostante
lui
fosse Tobio Kageyama.
Il
moro sbuffò rumorosamente, chiuse il libro che aveva appena
preso e lo ripose dentro la custodia, scambiandolo con un altro. Non
sapeva neppure perché lì c’era un libro
di Rachmaninoff, dato che ormai suonavano le stesse cose da
più di un mese.
Giunse
al fianco del ragazzo ora sedicenne, che stava premendo qualche tasto a
caso, sventolandogli sotto il naso quell’immenso mattone. Si
mise a sedere sulla sedia di plastica e legno che aveva messo in quella
posizione settimane fa e che ancora non era stata rimossa.
Posò
su di lui lo sguardo sorpreso e di nuovo vivace.
«Rachmaninoff?»
Tobio
rimase incantato da quell’ambra fusa, luminosa come le
stelle. Si riscosse dopo nemmeno un instante e, mentre annuiva, volse
il capo, ancora più irritato di prima.
«Vedi
di sbrigarti, ché me ne sto già
pentendo!»
Di
credere a tutte quelle sciocchezze. Non doveva illudersi: era
impossibile che qualcuno tenesse a lui.
Tuttavia,
non si fece sfuggire il sorriso smagliante di quel pianista che stava
riponendo tutti i suoi sogni in lui.
All’inizio
non vi aveva dato troppa considerazione: aveva creduto che fosse un
normalissimo gesto gentile. Poi, ripensando a tutte le vicende della
giornata come faceva ogni sera, disteso sul futon, realizzò
che quel normalissimo
gesto gentile
lo aveva fatto Tobio per lui.
Anche
se un po’ in ritardo, Shouyou accettò il suo
regalo con un sorriso spensierato.
Tokyo,
22 giugno 2016, 7:48
Quella
mattina si sarebbero tenuti gli esami.
Fallirli
significava usare tempo prezioso per qualcosa che non fosse suonare, ed
entrambi lo sapevano bene. Se fino a un mese fa iniziavano a
esercitarsi subito, appena finite le lezioni, adesso passavano la prima
ora del pomeriggio a studiare ‒ in un modo tutto loro, certo ‒ e gli
ultimi quindici minuti della mattina a farsi domande per verificare se
quello che avevano imparato il giorno prima fosse ancora impresso ‒
anche questo in un modo tutto loro.
«Dai,
scrivi qui tutti i kanji di ieri!»
«Ti
ho detto che me li ricordo! Dovrei fartele io le domande, sei tu
l’idiota.» Gli strappò malamente il
libro e il quaderno fucsia di mano.
Shouyou,
seduto accanto a lui, gli pestò un piede. «Io non
posso sapere se te li ricordi, stupido. Se poi fai schifo ai test io
che dovrei fare?»
La
fece passare come se fosse la mancanza del violino in sé a
pesargli, e non sapeva se sperare che Tobio cogliesse anche
l’altra sfumatura. Gli sarebbe mancato anche lui, ovvio.
Nonostante ogni giorno non vedesse l’ora di urlargli contro,
di vincere contro di lui in qualunque cosa, di rispondere a qualche
scappellotto del giorno precedente, gli sarebbe sicuramente mancato.
Ormai era diventata una routine abituale ma mai noiosa, quella di
suonare insieme di mattina, durante la pausa pranzo e di pomeriggio.
Magari si era affezionato più a lui che ai suoi compagni,
che paradossalmente erano circa mille volte più simpatici e
divertenti di lui.
Il
fatto era che non aveva mai avuto qualcuno con cui parlare di musica e
che ne sapesse più di lui. Gli altri ascoltavano il suo
fiume infinito di parole, ma solo per dargli corda, poiché
naturalmente non sapevano quanto fosse complesso usare la sordina a
tempo mentre faceva il cambio degli accordi e andava avanti con la
melodia principale.
Lui
lo capiva, invece. Sarebbero potuti restare giorni interi a parlare
solo di musica ‒ e anche questo, come in tutte le cose che facevano
insieme, in un modo tutto loro.
Ma
non glielo avrebbe detto, non adesso.
Tobio
scrollò le spalle, come se non passare gli esami, per lui,
fosse meno grave che per l’altro. «Ti alleni da
solo, dato che sono nettamente superiore a te.»
«E
sei anche molto più antipatico» si
lagnò il rosso. Si riprese il libro e in cambio gli
ficcò una penna tra le dita e diede una manata alla pagina
bianca e a righe del quaderno. «E ora scrivi questi kanji, o
stamattina non riuscirai manco a scrivere
“Ciao”!»
Lui
accettò di malavoglia. «Non è normale
non riuscire a scrivere “Ciao”,
imbecille» non si fece problemi a ribattere.
«Come
se tu fossi normale» bofonchiò.
«E
ora sta’ zitto, per la miseria!» tuonò,
prendendo a pressare violentemente la penna sulla carta.
Shouyou
continuò a brontolare qualcosa, mentre Tobio, con le
sopracciglia aggrottate e le labbra contratte, ricordava tutti i kanji
da scrivere.
«Qua,
ho finito» lo avvisò il violinista dopo appena tre
minuti, allungandogli il quaderno per fargli vedere la trentina di
ideogrammi messi in colonna uno sotto l’altro.
Sbarrò
le palpebre di scatto, come uscito dal suo mondo. «Di
già?» fece con tono sorpreso.
«Chissà che casino hai combinato...»
Ghignò
con sicurezza. «Vedremo.»
Un
paio di minuti dopo, il pianista dovette arrendersi. Tutti e trentadue
i kanji erano giusti, fin nei minimi particolari. Decise che, con tutti
quegli sforzi compiuti per l’inglese, non avrebbe
assolutamente perso.
«Tieni.»
Sbuffò, chiudendo il quaderno e porgendoglielo.
«Nessun errore. Quindi vedi di non confonderti,
oggi!»
Tobio
lo freddò con un’occhiata e afferrò il
quaderno fucsia con forza, come se fosse una specie di tesoro.
«Lo dovrei dire io a te, imbecille.»
Lui
sorrise, gonfiando il petto. «Vedremo» lo
imitò, chinandosi sullo zaino e tirandone fuori un libro,
che poi diede al moro. «Forza, scegli tu gli esercizi, tanto
ormai sono come un madrelingua!» Si batté una mano
sul petto con orgoglio.
Lo
guardò come se fosse un fenomeno da baraccone nel bel mezzo
del suo spettacolo. «Ma se non sai manco cosa sono, i
madrelingua.» Aprì il testo di inglese e lo
sfogliò con poco interesse.
Shouyou
si limitò a fargli una linguaccia con tanto di verso.
«Se
non finisci entro cinque minuti puoi già considerarti
fuori.» Con una mano ferma a tenere la pagina, gli
indicò uno di quegli esercizi verifica che si trovano alla
fine delle unità.
Annuì
e iniziò, la matita mordicchiata impugnata tra pollice,
indice e medio.
Tobio
spostava lo sguardo dal pianista all’orologio e
dall’orologio al pianista, aspettando impazientemente che lui
terminasse.
«E
sbrigati, tra poco cominciano!» lo avvertì quando
la lancetta dei minuti arrivò al numero undici.
Il
rosso scrisse più velocemente e, alla fine,
lasciò che la schiena urtasse contro lo schienale con un
sospiro stanco. Osservò l’altro agguantare il
volume dalle sue gambe e controllarlo attentamente, cambiando pagina di
tanto in tanto ‒ probabilmente perché molte cose non le
ricordava nemmeno lui.
Avevano
scelto di studiare insieme soprattutto per quel motivo. Aiutandosi
l’un l’altro sulle lacune maggiori, si finiva per
ripassare un po’ tutto, e così limitavano il lasso
di tempo speso a studiare.
«Quanto
ci ho messo?»
«Più
di cinque minuti.» Richiuse il testo senza correggerlo
neppure una volta, segno che non aveva fatto errori.
«E
quanto, allora?» Lo infilò dentro la cartella, in
cui c’erano sì e no altri due libri e solo un
quaderno.
Lo
sguardo del violinista su di lui fu indecifrabile; poi disse annoiato:
«Cinque minuti e qualche secondo, credo».
S’immusonì,
mentre serrava la cerniera grigia e si portava lo zaino azzurro sulla
spalla, alzandosi. «Sei pure pignolo, ora!» lo
accusò dandogli le spalle.
Il
suo volto si deformò in una smorfia infastidita.
«Ho detto solo la verità» si
giustificò, rimettendosi in piedi a sua volta.
Il
sedicenne seguitò a scimmiottarlo sottovoce; la campana,
però, lo troncò e paralizzò davanti
alla porta.
Tobio
lo affiancò e abbassò la maniglia. Poco prima di
voltarsi e proseguire verso la sua classe, gli lanciò uno
sguardo penetrante, ma non freddo. Forse aveva anche le labbra curvate
in su.
A
Shouyou piacque interpretarlo come un augurio di buona fortuna.
Perciò si sentì in dovere di rispondere a tono
anche stavolta, anche se non c’era più niente e
nessuno, se non i brusii provenienti dai corridoi.
«In
bocca al lupo, Kageyama.»
Tokyo,
27 giugno 2016, 12:02
Si
guardarono nello stesso istante, annuirono e si sollevarono dalla sedia
all’improvviso. Tesero il braccio verso la cattedra, posando
i fascicoli sulla pila di quelli di letteratura e di inglese.
Si
potevano ritenere soddisfatti, dopotutto: avevano fatto un buco
nell’acqua solo in due materie, Tobio nella prima e Shouyou
nella seconda. Soddisfatti fino a un certo punto, certo: il test di
letteratura si era focalizzato sulla comprensione del testo e non sulla
memorizzazione degli ideogrammi; in quello di inglese, invece, Shouyou
aveva inserito le risposte giuste nelle caselle sbagliate. Tobio glielo
aveva rinfacciato per tutta la giornata.
Schizzarono
fuori dalla stanza sotto l’espressione stralunata della
professoressa, fiondandosi al piano di sotto, dove stava
l’aula di musica.
Il
pianista provò a spingere, ma la porta non volle aprirsi.
Ritentò con una spallata ‒ che, prendendo in considerazione
la sua stazza, non avrebbe fatto molto comunque ‒, e anche stavolta la
serratura la bloccò.
«Piantala,
deficiente!» Lo allontanò rozzamente con un
braccio, e si appoggiò sullo stipite a braccia conserte.
«La scuola è finita, in teoria, quindi
l’avranno già chiusa»
ipotizzò, guardando la smorfia arrabbiata
dell’altro divenire sempre più angosciata.
«L’hanno
portato via…?» sussurrò, la voce
strozzata e dei fastidiosi brividi che gli correvano su per gli arti.
Strinse
le labbra e strizzò la stoffa della sua maglietta.
«No, non credo. Non ancora...»
Shouyou
puntò gli occhi a terra, imponendosi in qualsiasi modo
possibile di non piangere. Poi si voltò muovendo appena un
passo avanti, non degnandolo di uno sguardo. «Allora ci
vediamo in giro, Kageyama… Spero che l’esame di
recupero ti sia andato bene.»
Fece
per camminare ancora, il capo piegato in giù, ma una mano
che gli tirava le ciocche rossicce glielo impedì.
«Ma
che cazzo hai, l’Alzheimer?» esclamò
dentro al suo orecchio, rischiando probabilmente di rompergli il
timpano. «Tu vieni a casa mia e ci alleniamo là,
idiota!»
Il
più basso si girò, e solo dopo un paio di attimi
si riprese. «Ah, vero!» Le iridi color ambra
brillarono per pochissimo; poi s’incurvò di nuovo
come se lo avessero appena bastonato.
Poteva
sembrare stupido, ma lui l’aveva salutato. Aveva salutato il
pianoforte. Quando, alle sette, Tobio se ne era andato, si era messo a
spolverarlo con una delicatezza che non aveva avuto nemmeno prima, e
mentre lo fissava aveva pianto per dieci minuti buoni. Alla fine, si
era presentato a casa alle nove.
Non
ne aveva parlato con nessuno, ma non perché se ne
vergognasse. Provava un sentimento più vicino alla gelosia,
perché quel pianoforte ormai era suo.
E glielo stavano portando via.
Si
sentì in pieno diritto di farsi scappare un singhiozzo.
Tobio
si ritrasse quasi spaventato. «Ohi, stupido, guai a te se mi
piangi davanti!»
Shouyou
lo guardò con quei suoi occhi enormi e ora lucidi e gli
sfuggì un altro singulto. Tirò su col naso e
finalmente una lacrima solcò la sua guancia, fresca e
brillante come rugiada.
Voleva
dire qualcosa, qualunque cosa, però non ci
riuscì: restò quindi con la bocca aperta a
boccheggiare come un pesce appena pescato. «N-no»
si ritrovò a balbettare. «Ti ho detto di
no!»
Il
ragazzo dai capelli rossi non fece nulla se non continuare a piangere,
ma gli fece il favore di abbassare lo sguardo.
Alla
fine agì d’istinto: lo aggrappò per un
braccio e prese a trascinarlo lungo il pavimento di granito.
«Andiamo!» Non ebbe la volontà di
voltarsi. «Chiama i tuoi di’ che sei da me, e
subito, imbecille!»
Tokyo,
27 giugno 2016, 12:36
La
casa di Tobio era grande, mastodontica, rispetto alla sua che aveva
giusto due vani oltre alla cucina e al bagno. Non solo: era in stile
occidentale, come tutte le villette del residence che la circondavano.
Era piuttosto sobria, almeno all’esterno: le pareti di un
celeste chiarissimo, quasi bianco, poche finestre e un tetto spiovente
con mattoni di un rosso caldo, tendente al marrone.
Tobio
cacciò fuori un mazzetto di chiavi che parevano tutte
uguali, non contraddistinte neanche da una targhetta. Ne
infilò una nella serratura della porta massiccia, di
scurissimo legno lucido. Con un tac,
la porta si aprì e lui la spinse con un piede, entrando.
«Permesso...»
La stanza era completamente avvolta nell’oscurità,
tanto che Shouyou non riuscì più a vedere dove
stava mettendo i piedi. «Alzare le serrande no? Si muore pure
di caldo!»
«Puoi
resistere fino al primo piano.»
Quindi
c’erano addirittura due piani. Più che plausibile,
dato che l’abitazione, oltre ad essere larga, era anche alta
almeno la metà della palazzina dove stava.
«Ma
i tuoi la tengono così?»
Il
quindicenne non rispose, lasciando che quella domanda, che in alcuni
casi poteva risultare inopportuna, echeggiasse tra le pareti di quella
che sembrava una casa fantasma.
Qualche
secondo dopo si sentì un fruscio e un tonfo, seguito da
un’esclamazione di dolore.
Si
voltò lentamente, fulminando con lo sguardo qualsiasi cosa,
poiché non poteva vederlo e allora tanto valeva guardare
male anche i mobili. «Che. Cazzo. Hai. Fatto?»
scandì, con una specie di rabbia gelida a incupirgli la voce.
«Ahi»
continuò comunque a lamentarsi il rosso. «Ma che
diamine era?» Si mise carponi, gattonando e tastando quello
che gli capitava sotto le mani.
«Ohi!
Rispondimi, cretino.» Frugò nelle tasche,
tirò fuori il cellulare e fece luce davanti a sé.
Il
raggio artificiale lo accecò per un attimo, ma rivolgendo di
nuovo gli occhi a terra, scorse un libro aperto che dava la copertina.
Era di musica.
Sollevò
lo sguardo sul violinista, appoggiandosi ai talloni. «Mi vuoi
spiegare perché sono inciampato su un libro buttato a
terra?»
«Perché
sei demente, magari?» rispose, sarcastico. «E ora
alzati: abbiamo da fare!»
«E
allora degnati di accendere la luce, idiota!» Fece comunque
come gli aveva detto, dal momento che restare sul pavimento freddo ‒
era marmo? ‒ non era la migliore delle possibilità.
Tobio
si girò, ma non spense la torcia del cellulare, e
proseguì. «Non ce n’è
bisogno.»
«Ma
che ti costa?» sbuffò, mentre arrancava dietro di
lui, saltando e zigzagando in mezzo ai mille tomi e quaderni, gettati
lì in mezzo senza alcun ritegno.
Provò
anche a guardarsi attorno per pura curiosità; la luce
bianca, però, arrivava giusto a qualche centimetro dai suoi
piedi, e poi era nuovamente totale oscurità.
Raggiunsero
i gradini ‒ Shouyou tutto integro ‒, anch’essi costellati di
volumi enormi e libriccini di nemmeno cento pagine.
«Non
voglio nessun cadavere sulla mia scala, quindi fa’
attenzione.» Cominciò a salire, velocemente, come
se per lui fosse normale effettuare quella corsa ad ostacoli. Tuttavia,
non sentì alcun passo prima di lui. «E
spiccia...»
«Aspetta,
Kageyama!» lo interruppe, sotto di lui. «Ma non
dovremmo salutare i tuoi? Non è educato...»
«I
miei» lo disse con un’inflessione che lo fece quasi
rabbrividire, «non sono a casa» lo
informò, secco e distaccato.
«Ah...»
Mentre
andava su per gli scalini, avvertì un senso di disagio
strano, come se non fosse adeguato a quel luogo. Sembrava che
là ci avesse sempre messo piede solo Tobio, e che ora
l’appartamento rispecchiasse la sua mente: caotica, buia e
inaccessibile praticamente a tutti.
Shouyou,
tuttavia, aveva bussato a suon di capocciate ‒ come faceva sempre ‒ e
alla fine Tobio aveva ceduto.
A
questo punto si sarebbe meritato anche un giro turistico, no?
«Che
lavoro fanno?» ruppe il ghiaccio, ormai arrivati al corridoio
di sopra finalmente illuminato.
Non
avrebbe mai fatto quella domanda a qualcun altro: per lui stesso la
famiglia e il lavoro erano un nervo scoperto. Ogni volta che glielo
chiedevano si rabbuiava di colpo; dopo un po’, si era detto
che non era mica colpa degli altri, perché non potevano
sapere. Non era neppure colpa sua, perché non era tenuto a
comunicarlo a tutti: non era colpa di nessuno. Lui, però,
aveva deciso di essere più sensibile su
quell’argomento.
Il
problema era che non trovava più un argomento di cui
parlare, e per lui era a dir poco soffocante. Gli sembrava che Tobio si
fosse allontanato anni luce con quell’ultima risposta.
Sobbalzò,
ma volle augurarsi che l’altro non l’avesse notato,
dato che era avanti a lui di qualche metro. «Mio padre ha un
ruolo importante nell’UNESCO, ma non ricordo come si
chiama,» esitò, mandando giù un
fastidioso groppo in gola, «e mia madre è una
pianista.»
Era
stato inopportuno, sì, ma c’era abituato. Alle
medie glielo avevano chiesto compagni di classe, professori, insegnanti
di musica e accompagnatori. La metà di questi sapeva chi era
sua madre e che oramai non suonava più.
Sgranò
gli occhi color nocciola e corse accanto a lui. «Tua madre
è una pianista? Davvero? È stata lei ad
insegnarti a suonare il piano? E il violino?»
Il
moro non ebbe la voglia di irritarsi per tutto quell’inutile
fomento. Doveva occuparsi del suo cuore impazzito e del formicolio che
gli stava invadendo le braccia. Soprattutto, doveva far cadere
quell’argomento al più presto, ma se fosse stato
zitto o lo avesse insultato in qualche modo, probabilmente, sarebbe
risultato sospetto e Shouyou si sarebbe incuriosito ancora di
più.
Con
la vista un po’ annebbiata, scorse la sua stanza e
accelerò il passo. «Ho imparato
ascoltandola.»
Anche
la bocca si spalancò. «Ascoltandola?»
esclamò, stupito.
Fece
sì col capo. «Mi piaceva nascondermi sotto il
piano e ascoltarla ogni volta che si sedeva per suonare»
ricordò accennando un sorriso, così sincero e
triste al tempo stesso.
Il
pianista non capì per cosa si meravigliò di
più: che Tobio stesse sorridendo, o che avesse imparato solo
grazie all’udito. Anche a lui servivano gli spartiti se
voleva fare qualcosa per bene.
Ringraziò
qualunque divinità ci fosse in cielo per essere giunti
all’ingresso della sua camera. La porta era socchiusa e
usciva un piccolo spiraglio di luce, dunque almeno lì dentro
Shouyou non avrebbe rischiato di inciampare.
Entrò
per primo, facendo volare lo zaino fino al letto con poca grazia, e
lasciò posto all’altro.
La
stanza era molto più grande della sua, che condivideva con
sua sorella, come d’altronde tutta la casa. Una parete,
quella alla destra dell’entrata, era di un blu elettrico,
mentre le altre erano completamente bianche, con due calendari ‒ uno
del 2015 e l’altro del 2016 ‒ e qualche poster di violinisti
e musicisti appesi a dei chiodi storti. Dalla parte opposta era
posizionato un letto a una piazza e mezza, coperto da un lenzuolo blu e
giallo, a cui era affiancata una scrivania di legno chiaro solo con
cose riguardanti la musica sopra. C’era un mobile, alla
sinistra, che ne era altrettanto pieno: libri, quaderni, trofei,
piccoli strumenti come la fisarmonica o miniature di altri
più grandi.
A
Shouyou non sarebbe dispiaciuta una camera del genere.
Se
non fosse stato per i vestiti e i volumi aperti sul marmo lucido. Solo
un piccolo cerchietto al centro era lasciato libero da quel
guazzabuglio, sicuramente perché potesse suonare in piedi,
davanti a uno spartito, senza dover stare attento a non muoversi di un
millimetro.
Fece
una smorfia disgustata, ma entrò comunque. Si accorse del
pianoforte verticale soltanto allora, poiché nella posizione
in cui stava prima la concavità dovuta alla costruzione
della porta gli aveva ostruito la visuale in quel punto del vano.
L’abete spiccava sotto l’accurata lucidatura, rosso
come terracotta. Shouyou si innamorò per
l’ennesima volta.
«Wow»
esalò a bassa voce, accarezzando delicatamente la cassa
armonica, liscia e pulitissima.
Davanti
allo strumento si trovava lo sgabello. La parte imbottita era di pelle,
come quasi tutti quelli di ultima generazione, ma di un marrone scuro,
non del nero lucido che aveva sempre trovato.
Il
violinista si trattenne dal sospirare per il sollievo: era riuscito a
distrarlo. Poi, immobile al centro, le braccia incrociate al petto,
scrutò il sedicenne girare intorno al pianoforte, totalmente
rapito.
«Dai,
stupido, posa lo zaino e siediti. Sembra che tu non ne abbia mai visto
uno.»
Lui
si girò con un sorriso a trentadue denti. «Ma
è bello!»
«Sono
tutti belli» asserì, fece spallucce e
saltellò tra tutti gli oggetti a terra, trovandosi davanti
agli scaffali colmi di libri ed estraendone uno.
«Stavolta
sono d’accordo» commentò, accentuando il
sorriso, e avanzò verso la portafinestra, tentando di non
pestare nulla. La aprì con forza, lasciando che un colpo di
vento gli colpisse la faccia e chiudendo gli occhi. «Ah! Si
moriva di caldo.» Poi mise piede sull’ampio
balcone, che affacciava sul gran cortile del residence, spoglio come un
albero d’inverno.
«Ohi!
Piantala di fare come se fossi a casa tua!» gli
gridò Tobio da dentro.
Il
ragazzo si imbronciò e, suo malgrado, tornò
all’interno della stanza. «Di solito è
la prima cosa che si dice ad un ospite» brontolò,
polemico.
«Tu
non sei un ospite e non sei neanche a casa tua, perciò
muoviti e siediti!» Sistemò il tomo sul
reggispartito del piano, accomodandosi successivamente sulla sedia di
legno che aveva posto accanto allo sgabello.
«Manco
il tempo di vederla...» Sbuffò ma, quando si
ritrovò davanti al piano, sorrise.
«In
questo brano inizi prima con la sinistra e poi con la destra,
capito?» Posò l’indice vicino alla
chiave di violino all’inizio dello spartito. «Anche
questo è in diesis, come la Gavotte.»
Shouyou
sbatté le palpebre un paio di volte. «No,
aspetta» fece brusco, mettendo le mani avanti. «Che
è questa cosa?»
Il
quindicenne alzò gli occhi al soffitto, come se fosse ovvio.
«Il brano per i prefetturali. Il primo concorso è
solo per i ragazzi dei ventitré quartieri di Tokyo,
idiota.»
«Ti
devi togliere questo vizio di non dirmi mai niente.» Ancora
offeso, passò gli occhi alle pagine piene di note.
«Paga… nini?»
«Non
dirmi che non conosci Paganini.»
«Certo
che lo conosco! Però non avevo mai sentito parlare di questo
Cantabile...»
Tobio
non parve sorpreso. «Perché sei pure
ignorante» decise con una scrollata di spalle.
«Come
se tu conoscessi i brani di tutti i musicisti!»
Sospirò sonoramente; poi cominciò a leggere la
partitura. «Cavolo, è difficile...»
Sorrise: si sarebbe dovuto allenare ancora più duramente.
«Per
questo te lo sto facendo imparare ora» chiarì.
«I prefetturali sono solo due settimane dopo quello di Tokyo,
e siccome noi lo passeremo, dobbiamo prepararci sin da ora.»
Se
c’era qualcosa su cui non erano quasi mai in disaccordo,
quella era la musica. E la vittoria. Soprattutto la vittoria: nessuno
era in grado di privarli dello spaventoso spirito combattivo che
possedevano.
Il
rosso gli regalò il suo solito sorriso smagliante, annuendo
vigorosamente. «Ti posso chiedere una cosa?»
«Mh.»
Nel frattempo, si raddrizzò e andò a cercare un
altro libro, stavolta per violino.
«Dopo
i prefetturali ci sono i regionali, e poi i nazionali,
giusto?» Vide la testa corvina, che schizzava tra una mensola
e l’altra, assentire. «Tu ci sei mai
andato?»
Si
morse il labbro inferiore più forte che poté, le
spalle si irrigidirono. «No.»
Il
pianista fece una smorfia incredula. Un prodigio come lui non aveva mai
suonato su un palco nazionale? «Uh… Come
mai?»
Gli
indirizzò un’occhiataccia da sopra la spalla e,
afferrato ciò che voleva, si voltò.
«Che motivo può non farti andare ai nazionali,
secondo te?»
Di
sicuro, Shouyou non poteva immaginare quello che aveva impossibilitato
Tobio.
«Che
ne so io se ti sei qualificato o meno» farfugliò,
sporgendo le labbra in un broncio.
«Io
mi qualifico sempre» ribatté il violinista,
piccato e risoluto.
«Sì,
sì, blablabla.
Non ci sei andato comunque» lo sbeffeggiò
divertito.
Il
ragazzo si sedette di nuovo, stringendo un po’ troppo la
carta tra le mani, e lo guardò minaccioso.
«Un’altra parola e ‘sto libro
sarà spaccato in due sulla tua testa»
sibilò.
Shouyou,
che ormai sapeva che gli unici colpi che gli rifilava non facevano
nemmeno così male, ridacchiò. «E
prendila sul ridere, scemo!»
Grugnì
qualcosa, ma anziché rispondere per le rime si mise alla
ricerca di una pagina precisa.
«Ah,
Kageyama!»Si volse di scatto verso di lui, alla sinistra.
Il
suddetto sollevò la testa lentamente. «Che
vuoi?»
«Posso
scegliere io il brano per i regionali? Finora li hai scelti sempre
tu!» Lanciò un’occhiata allo spartito un
po’ sbiadito della Cantabile
di Paganini, ancora in bella vista. «Non è che
questi non mi piacciano, ma ce n’è uno che vorrei
tanto fare...»
Per
la prima volta nel giro di circa tre quarti d’ora, Tobio non
gli diede uno sguardo torvo. «In realtà ho
già scelto e imparato anche quello per i regionali, ma lo
inizieremo tra qualche settimana, o il tuo cervello troppo piccolo
potrebbe scoppiare.»
«Uffa!»
«Però
a quello per i nazionali non ci ho ancora pensato, in
effetti» gli concesse, appoggiando un gomito a un ginocchio e
sostenendo il mento con il pugno chiuso.
«Sono
a metà settembre, vero?» Una luce vivissima si
accese nelle sue iridi e non poté fare a meno di un sorriso.
«Ci sarebbe la Gioia
di Amare,
di Kreisler...»
«Assolutamente
no» lo bloccò, mentre un brivido gli faceva venire
la pelle d’oca sulle braccia scoperte.
«È troppo difficile e il tempo è troppo
poco.»
«Ma
sono tre mesi!» protestò, sporgendosi in avanti.
«Non
basterebbero comunque. Non va bene.»
Shouyou
sgranò gli occhi, interdetto e anche leggermente deluso.
«Fa strano sentirti dire che non riusciresti a suonare
qualcosa per il poco tempo...»
«Io
ci riuscirei, qua il problema sei tu!» Occhieggiò
la sua sveglia nera accanto al letto, che segnava l’una, e il
suo stomaco infierì brontolando. «Senti: ne
riparliamo un altro giorno. Ora mangiamo, suoniamo e tu te ne fili a
casa, perché mi hai già rotto
abbastanza.»
Dovette
acconsentire: anche il suo, di stomaco, non stava mancando di farsi
sentire. «E comunque, ti ho rotto con cose che riguardano
anche te» rimarcò, raggiungendo lo zaino azzurro
che aveva abbandonato sul letto, accanto a quello nero di Tobio, per
prendere il bentou che aveva portato da casa.
«Sta’
zitto e scendi.»
«Aspettami,
Kageyama!»
Tokyo,
11 luglio 2016, 11:30
Alla
fine, ci era riuscito. Dopo due mesi di allenamento ‒ circa quattro ore
ogni giorno ‒, fu finalmente capace di suonare tutta la Gavotte
en Rondeau di
Bach.
Ora
il problema stava nel coordinarsi. Per le due specie di competizioni in
cui si erano lanciati all’inizio era uscito tutto naturale,
come se suonassero insieme da anni e fossero destinati a continuare
così.
E
poiché era circa la trentesima volta che provavano le prime
note della Gavotte
en Rondeau
e
la coordinazione pareva essere un concetto inesistente, era
decisamente un grosso problema. Nell’arrangiamento di August
Wilhelmj, in due mezzi, la mano destra al piano aveva una pausa di un
quarto esattamente all’inizio, mentre il violino eseguiva il
primo bicordo e la mano sinistra la prima nota: al primo accordo della
destra, però, Shouyou arrivava sempre in anticipo o in
ritardo.
Tobio
fu tentato piuttosto spesso di gettarlo fuori a calci e andare a
elemosinare un qualsiasi altro pianista per strada.
Alla
trentatreesima volta, ripose un attimo il violino e
l’archetto sul letto ancora sfatto, e si diresse alla parte
opposta della stanza.
«Hinata,»
esordì, forzandolo a girarsi con una mano sui suoi capelli morbidissimi,
«devi solo contare. Un,
due.
Al due
cominci,
punto.»
«Con
il violino mi confondo!» controbatté il ragazzo
più basso, con le dita sulla tastiera. «Mi serve
solo un po’ di pratica… Ce la posso
fare!»
«No
che non ce la puoi fare, se continui così.» Si
sedette velocemente sulla sedia di legno, che era sempre rimasta
davanti allo strumento, e si protese in avanti. Gli avambracci poggiati
sulle cosce, l’espressione più seria che mai.
«Tu non conti. Se lo facessi, andresti a tempo.»
«Io
conto!
Solo non al tuo stesso modo...» Si mordicchiò il
labbro e abbassò per un secondo lo sguardo: quel piccolo
fattore era capace di cambiare completamente la situazione.
Dovette
stringere i pugni per evitare di staccargli il collo. «Conta
ad alta voce» gli intimò. «Sin dalla
pausa, anche da prima. Basta che mi dici quando inizi.»
Notando che Shouyou lo fissava con un’espressione perplessa,
gli diede un calcio sullo stinco. «E sbrigati,
idiota!»
Si
lasciò sfuggire un’esclamazione di dolore, ma non
si smosse. «Ora? Tu non suoni?»
«Ti
ho appena detto che devo sapere quando inizi a contare! Ce le hai le
orecchie, usale.»
Sospirò
rassegnato; rivolse comunque la sua attenzione al pianoforte, chiuse
gli occhi dopo aver guardato un’ultima volta il viso
corrucciato del più alto, e disse: «Un, due,
tre...»
Li
riaprì nello stesso momento in cui suonò la prima
nota con la sinistra e arrivò al quattro.
«Un,» e suonò il primo accordo con la
destra, mentre con la sinistra fece una pausa di un quarto,
«due.» Di nuovo nota con la sinistra e pausa con la
destra.
Tuttavia,
Tobio gli impedì di andare avanti con un pugno in testa.
«Sei un idiota! Non puoi iniziare al quarto tempo, e un
quarto tempo non dovrebbe nemmeno esistere! È una misura
binaria!»
«Smettila
di urlarmi nell’orecchio» urlò a sua
volta, una goccia di sudore che gli scendeva lungo la tempia.
«Che c’è di male? Ci riesco, quindi va
bene!»
«Ma
non esisti solo tu. Ti ricordo che suono anche io insieme a
te!»
Solo
un attimo dopo si accorse che quelle parole, dette da lui, apparivano stonate.
Lui, che aveva sempre voluto suonare da solo e che non si era mai
curato di agevolare l’accompagnamento, stava rimproverando un
pianista al riguardo. Sentì l’improvviso impulso
di sorridere, ma lo represse perché era troppo irato, al
momento. Si sarebbe preoccupato più tardi di cosa
esattamente
quel pel di carota stava suscitando in lui.
Shouyou
fece per dire qualcosa, ma chiuse immediatamente le labbra,
stringendole e mordendone l’interno.
«Che
devo fare?» sussurrò, trascorso un minuto in
silenzio ‒ che di certo non riguardava anche i loro occhi: sembravano
voler sputare fuoco da un momento all’altro.
Il
violinista lo guardò con soddisfazione e tese le mani sui
tasti. «Questo.»
«Un,»
la sinistra, «due» la destra. E così
un’altra battuta, per poi proseguire con entrambe.
Squadrò
i suoi movimenti per dieci secondi, la fronte aggrottata e le mani
congiunte in grembo. «Va bene, ho capito»
sentenziò, prendendogli gli avambracci e spingendoli
giù.
Tobio
aveva eseguito tutto magistralmente in quei pochi secondi, non aveva
battuto ciglio. La sua voce era andata a tempo con le sue dita, che
quasi non pressavano sull’avorio bianco per quanto erano
leggere. I pedali, la diminuzione e l’aumento della dinamica,
persino l’emotività: c’erano stati
tutti, in un modo così naturale che avevano l’aria
di essere le cose più facili del mondo.
Shouyou,
invece, si era esercitato per mesi che, a quanto pareva, non bastavano.
Non
osò posare il suo sguardo sul suo viso, una maschera di
agitazione e disappunto. «Lascia fare a me.»
Tokyo,
11 luglio 2016, 12:49
Espirò
dal naso, stanco e sudato. Ci avrebbe riprovato un milione di volte, se
necessario, pur di non darsi per vinto.
Mentre
il polpastrello stava per aderire al tasto, intervenne con tono grave:
«Basta così, Hinata. È meglio se torni
al metodo di prima: così perdiamo solo tempo».
Era
inzuppato di sudore anche lui, nonostante non stesse suonando:
quell’afa era estenuante e, molto probabilmente, stava
friggendo il cervello ad entrambi. A Tobio in primis, dato che temeva
di starsi preoccupando per quello stupido.
«No»
contestò, il fuoco nelle sue iridi immensamente
più ardente di quel clima. «Ti ho detto di
lasciarmi fare.» Trattenne il respiro e inchiodò
gli occhi sul marmo grigio. «Se ci sei riuscito tu, ci devo
riuscire anche io: tu suoni il violino, io
il
piano.»
Il
quindicenne scattò in piedi, spazientito. «Peccato
che ci rimanga un mese, tu faccia schifo negli altri due brani e quello
per i nazionali lo dobbiamo ancora scegliere!» Gli premette
l’indice sulla fronte con forza. «Non abbiamo tempo
per stare dietro ai tuoi capricci, stupido!»
Per
quanto l’altro stesse spingendo, non si mosse di un
centimetro. «Allora dimmi cosa dovremmo fare.»
«Conta
di nuovo come prima.»
Tobio
molto probabilmente aveva ragione: se si fosse dovuto tenere occupato
con quel brano ancora per un mese, non avrebbero avuto il tempo
materiale per praticare gli altri. Ciò non significava che
gli piacesse lasciar risolvere la questione al violinista. Poteva
essere solamente un accompagnatore, ma era lui che decideva di muovere
quelle dita, che rendeva quel pezzo com’era stato trascritto.
Shouyou
scrollò appena le spalle, eppure la determinazione che aveva
dipinta in volto non si cancellò.
«Un,
due, tre» alzò il polso,
«quattro» e lo fletté. «Un,
due» seguitò, muovendo le dita sul bianco e sul
nero.
«Va
bene» affermò dopo qualche secondo.
«Ripeti quattro tempi a vuoto, e poi conta di nuovo
così.»
Si
girò e sollevò il capo, gli occhi lievemente
più grandi del solito. «Che vuoi fare?»
«Tu
fa’ come ti ho detto!» Incrociò le
braccia al petto e restò a studiarlo dall’alto.
Il
suo sguardo si trattenne ancora un po’
sull’espressione indecifrabile del moro, cercando qualche
segno che gli facesse capire dove voleva andare a parare. Infine
annuì con vigore, mostrando un sorriso sicuro.
Chiuse
le palpebre e adagiò le mani sul piano. «Un, due,
tre, quattro» scandì a ritmo. «Un, due,
tre, quattro.»
Il tasto scese e risalì, rapido come un battito
d’ali.
Le
labbra di Tobio si piegarono in un ghigno inquietante, scatenato, che
faceva presagire solo azioni altrettanto scatenate.
«Prima
di tutto mi devi guardare.»
«E
tu spiegami» ribatté immusonito, guardandolo
comunque.
Gli
gettò un’occhiataccia innervosita. «Lo
sto facendo, imbecille!»
Si
trovava dentro al cerchietto libero di tutti gli oggetti sparsi a
terra, con il violino in una mano e l’archetto
nell’altra. Non era del tutto certo di ciò che
stava facendo: lui doveva fidarsi di Shouyou e Shouyou doveva fidarsi
di lui. Anche se, seppure non se ne fosse mai reso conto, non era la
prima volta.
«Quando
poggio il violino sul mento, tu comincia con i primi quattro
tempi» gli illustrò con voce ferma e perentoria.
«Conta ad alta voce, come se io non ci fossi. Vai con
l’altra battuta da quattro e suona. Hai capito?»
Il
sedicenne, accigliato, arricciò le labbra.
«Diciamo...»
«Allora
facciamolo» ghignò, come l’altro avesse
detto: “Sì”.
Sospirò,
ma non si sottrasse a quella che, per loro, era anche una sfida. Si
voltò, ma con la coda dell’occhio non smise di
monitorarlo.
Lo
vide sollevare lo strumento fino a fargli raggiungere la propria
clavicola, e la sua mente scattò, automatica:
«Un».
E
in quell’istante le sentì di nuovo: quelle strane
emozioni di quando suonava con Tobio. Le aveva provate solo due volte,
tempo fa, e gli mancavano come una droga potentissima che non si assume
da troppe ore.
Sembrava
che degli elefanti stessero organizzando una festa di compleanno nel
suo stomaco, che si divertissero a ostruirgli la gola ad intermittenza,
che facessero marciare un esercito di formiche sulle sue braccia e
sulle sue gambe, ma non si fermò. Non si fermò
perché, nonostante tutto, amava quella sensazione di essere
con le spalle al muro, in cui poteva suonare o suonare.
Perché
cazzo non sta contando?,
era stata la prima frase che gli aveva attraversato la mente. Lo aveva
guardato male sebbene sapesse che non potesse notarlo mentre era tanto
concentrato: era difficile che tenessero il conto in modo identico,
anche se era la stessa composizione. Era necessario che lo ascoltasse
mentre anche lui prendeva il ritmo, o non sarebbero stati capaci di
sincronizzarsi.
Solo
in seguito aveva realizzato che non avevano sbagliato. Che, invece, era
venuto spontaneo che eseguissero la prima nota nello stesso momento,
come fossero una persona sola. Dunque, potevano continuare a suonare insieme.
La
sveglia sul comodino vicino al letto segnava anche la temperatura: quel
giorno si superavano i 35 gradi.
Effettivamente,
se fosse stato gennaio, non avrebbero di certo avuto il retro della
t-shirt e l’attaccatura dei capelli completamente bagnate.
Tuttavia, quello era l’ultimo dei loro pensieri.
«Abbiamo
finito?» boccheggiò Shouyou, scrutando una mano
come se non fosse sua.
Poiché
la mano sinistra gli tremava, passò il violino nella destra.
«Secondo te?» replicò con voce
strozzata, come se le parole non volessero uscire.
Si
tamponò la fronte umida con un braccio, e la pelle
d’oca gli fece il solletico. «Ah.»
Per
diversi minuti parve che la stanza fosse rinchiusa in una bolla di
tranquillità e immobilità assoluta, meno che per
i loro respiri pesanti.
Tobio
era stato sull’orlo delle lacrime. Era fermamente convinto
che fosse solamente per l’amore per la musica, per la
soddisfazione di aver messo in pratica qualcosa di così
complesso e di averlo fatto bene. Al fatto che potesse trattarsi di
Shouyou non aveva neppure pensato. Non aveva pensato che Shouyou gli
era stato accanto per due mesi, ogni giorno, anche con il suo
caratteraccio, e di sua spontanea volontà, non
perché un insegnante glielo aveva ordinato.
Quando
si riscosse, però, non si fece problemi a riprendere a
criticarlo.
«Perché
cazzo non hai contato?» esclamò, ancora con il
battito accelerato, ma di nuovo irritato.
«Ho
contato nella mia testa.» Non gli diede neanche uno sguardo.
Lui
indietreggiò fino a cadere sul letto, sfinito ‒ di solito un
singolo brano non lo stancava così tanto. «E io ti
avevo detto di farlo ad alta voce, deficie...»
«Mi
avevi detto di non farlo come se tu non ci fossi!» lo
interruppe, alzando i toni, stringendo i pugni, e calò il
capo. «Non rimproverarmi per una cosa che fai anche
tu!»
Il
violinista contrasse le labbra ed evitò con tutto se stesso
di guardare il profilo del ragazzo, parzialmente coperto dai capelli
rossicci. Per quanto gli avesse dato tempo di rispondere, non lo fece.
«Non
posso contare ad alta voce...» Volse lentamente la testa.
«Perché» gli rivolse un sorriso leggero,
piccolo, «tu ci sei,
Kageyama.»
―
Nota
d’autrice:
Sì,
finalmente ho finito anche questo! Ci ho messo tanto anche stavolta
perché, da come potete vedere, non è esattamente
un capitolo breve… Il bello è che mi ero anche
prefissata di arrivare più in là. :’)
mi sa che questo è l’effetto della
KageHina
AHAHAHAH
Allora,
passiamo alle note tecniche. Questo è un capitolo di
passaggio? Sì e no. Sì perché, ai fini
della trama vera e propria non succede nulla di particolare (se non la
finale riuscita del brano); no perché, di fatto, il rapporto
tra Hinata e Kageyama si evolve enormemente, per i piccoli accenni alla
famiglia di Kags (!!warning: alto contenuto di angst!!) e
perché ci sono dei concetti a cui tengo. Inoltre, questa
è un’AU, il che significa che i personaggi non
possono essere uguali a quelli del canon per vari fattori che li hanno
influenzati e che continuano a influenzarli. Perciò, ho provato
a
caratterizzarli al meglio, oltre a far vedere la loro ‒ parziale, per
ora ‒ evoluzione anche come personaggi in sé per
sé; ovviamente, siete voi a dovermi dire se ci sono
riuscita. >.<
Qui,
tra l’altro, vi lascio i link che spiegano le varie
“regole” (chiamiamole così, ma a dir la
verità io ho fatto solo pochi mesi di piano e la maggior
parte delle cose che so è grazie a internet) sparse per il
testo.
–
Misure,
batutte, tempo (le ultime, insomma):
https://it.wikipedia.org/wiki/Misura_(musica)
–
Lo
spartito di alcune parti della Partita
n.3
per
violino, tra cui la Gavotte
en Rondeau (basta
scegliere “Arrangements and Trascriptions”,
scendere un po’ cliccare “view” su
“For Violin and Piano (Wilhelmj)”):
http://imslp.org/wiki/Violin_Partita_No.3_in_E_major,_BWV_1006_(Bach,_Johann_Sebastian)
–
Solfeggio
(che in questa storia è cantato per motivi di KageHina
sottotrama):
https://it.wikipedia.org/wiki/Solfeggio
Infine
ringrazio tanto Maiko_Chan
e
_Lady
di Inchiostro_ per
supportarmi sia qui su EFP che su twitter. <3
Bene,
ora mi dileguo! Spero di poter aggiornare al più presto. :3
Baci
Shizuha
|
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Capitolo 5 *** IV Capitolo ***
Questo
capitolo è dedicato alla Lady,
che mi supporta sempre in qualsiasi cosa, ma stavolta per un motivo
particolare.
Spero
che ti piaccia <3
Ⅳ Capitolo
Tokyo,
20 luglio 2016, 13:56
La
luce del salone era sempre e comunque spenta, a differenza di quella
della cucine, che si trovava anche al piano terra. Ormai aveva imparato
a non porre più domande e a muoversi in quella sala immensa.
Shouyou
si asciugò le mani su un panno di spugna rosso stinto,
sospirando. «Kageyama, ho finito!» gridò
tentando di farsi sentire dall’altro, che invece suonava al
piano di sopra.
La
musica del violino cessò come venne sovrastata dalla quella
vocetta acuta.
«E
allora sali, idiota!»
Sorrise
e si slacciò il grembiule dietro il collo.
«Arrivo!»
Non
portava più il bentou da casa da quando, circa una settimana
prima, lo aveva dimenticato. Tobio, di malavoglia, si era trovato
costretto a cucinare anche per lui; peccato che fosse un totale
disastro e Shouyou non si era fatto problemi a farglielo notare.
Lo
aveva dimenticato anche il giorno successivo, e anche il giorno
successivo ancora; allora il violinista gli aveva detto che poteva
preparare ciò che voleva anche a casa sua. In un primo
momento, aveva pensato che avesse voluto avvelenare gli ingredienti ‒
il che, dopotutto, non era troppo lontano dal suo modo di fare.
Tobio
si era reso conto solo dopo di ciò che aveva compiuto, come
sempre. Aveva sbattuto la testa al muro, quella sera: era colpa di
quello stupido cervello che aveva mandato l’ordine alla sua
bocca di parlare. Era per caso colpa di quello stupido cervello se si
stava preoccupando per Shouyou? Non lo sapeva e non era sicuro di
volerlo sapere. Perché sì, dopo il permesso di
fare come se fosse stato a casa sua era risultato ovvio persino a lui
che si stava preoccupando.
D’altronde,
non era così poco intelligente. Aveva largamente compreso
che Shouyou aveva problemi familiari: l’unico argomento su
cui non aveva mai raccontato nulla era proprio la sua famiglia, al di
fuori di sua sorella. Per non parlare della storia del pianoforte.
Costava indubbiamente tanto, non lo poteva negare, ma dei genitori
avrebbero fatto di tutto pur di accontentare il proprio figlio in una
pratica così bella. Anche tutto,
però, aveva dei limiti.
Lo
spaventava più che altro il fatto che avesse tenuto in
considerazione quella questione e che avesse ‒ inconsapevolmente ‒
cercato di alleggerire Shouyou di un peso che, lo sapeva, era in grado
far cadere più volte.
Lo
spaventava ancor più la possibilità di starsi
affezionando a qualcuno. E se prima era relativamente facile smettere
di pensarci ‒ tanto ci era abituato, cosa cambiava? ‒, ora non
c’era una singola cosa che non gli ricordasse lo strambo
ragazzo. Da quando mangiava riso con l’uovo, quello con cui
l’altro voleva sempre pranzare, a quando suonava.
L’unica
soluzione efficace era rimuginare su qualcosa che gli premeva di
più, anche se faceva male.
Saltò
un libro che stava davanti alla porta della camera di Tobio e
spalancò la porta. «Eccomi!»
«Sei
lento» non mancò di osservare il quindicenne che
gli dava la schiena, chinato sul letto.
«Come
mai prima stavi suonando Bach?» Saltellò un
po’ per la stanza, evitando gli oggetti per terra come ormai
era solito fare, per vedere cosa stesse combinando.
Chiuse
la cerniera della custodia. «Prendi le tue cose. Andiamo a
suonare fuori.»
Shouyou
sgranò gli occhi, attonito, e si accigliò.
«Scusa?»
«Sbrigati!
Il taxi dovrebbe essere già giù.» Si
mise la borsa in spalla e s’incamminò verso il
corridoio.
Fece
vagare lo sguardo per tutta l’area con atteggiamento
concitato, fino a scorgere il suo cellulare che spiccava sulla
scrivania chiara. Lo afferrò al volo e, sebbene non fosse a
conoscenza delle sue intenzioni, lo seguì comunque.
«Kageyama!»
esclamò mentre provava a non cadere per le scale.
«Dove diamine stiamo andando?»
«All’aeroporto
Haneda, dato che lì c’è un pianoforte e
anche un bel po’ di gente» rispose annoiato,
cercando nella tasca posteriore dei bermuda il mazzetto di chiavi.
Il
rosso frenò improvvisamente proprio agli ultimi gradini,
letteralmente impietrito. «E tu me lo dici
così?» s’infuriò, la nocche
sbiancate sul corrimano di legno. «Dovremmo suonare in mezzo
a uno degli aeroporti più popolati del mondo?»
Tobio
si strinse nelle spalle allo stesso modo di chi lo frequenta per hobby,
per poi addentrarsi nell’oscurità del salone.
«Ma
poi perché?» riprese a lamentarsi, raggiungendolo.
«Perché
devi abituarti a suonare in pubblico, o ai concorsi andrai nel panico
esattamente come ora.»
«Non
sono nel panico, sono solo sorpreso!»
«Ne
riparleremo quando ti riprenderai dalla sorpresa.»
Shouyou
sbuffò, ma dovette abbandonare l’argomento e
concentrarsi per non inciampare da nessuna parte. Nonostante
percorresse quei pochi metri spessissimo, gli era ancora necessario
prestare attenzione a non pestare niente e a non sbattere contro nessun
mobile.
Non
passò neanche un minuto, ma loro lo vissero come una vita
intera: al di fuori di quella casa, nessuno li conosceva. La porta
grande e massiccia lli aveva sempre protetti e, al tempo stesso,
privati delle critiche degli altri: era impossibile crescere da soli,
senza che qualcuno comunicasse loro in che aspetto migliorare, in quale
rivedere le proprie convinzioni assolute. E mentre questa visione loro
la limitavano al mondo della musica, nulla impediva che si potesse
estendere anche a quello della vita.
Aeroporto
di Tokyo, 20 luglio 2016, 14:42
Dopo
aver ringraziato e salutato l’autista, entrambi scesero
dall’autovettura bianca.
Shouyou
diede una lieve spinta alla portiera, che si chiuse a stento.
Deglutì un groppo in gola che aveva sentito formarsi mentre
avevano iniziato a muoversi, e avanzò a testa bassa fino ad
affiancare l’altro ragazzo.
Tobio
gli rivolse un’occhiata perplessa. «Ohi, non mi
dire che te la stai facendo sotto.»
Il
pianista strinse i denti per istinto. «C’era
davvero bisogno di un taxi?»
«Dato
che volevamo arrivare in poco tempo, sì»
chiarì, spiazzato per l’assenza di proteste.
«Quanto
hai pagato?» mormorò con lo sguardo puntato a
terra.
Il
taxi ripartì e loro restarono fermi in mezzo al parcheggio
esterno.
Lo
scrutò attentamente per qualche secondo, per capire che
sentimenti stesse provando: rabbia, senso di colpa, vergogna? Non ci
riuscì, perciò si avviò verso le porte
scorrevoli dell’ingresso, dando per scontato che
l’altro lo seguisse. Aveva capito, però, cosa
aveva causato quelle emozioni.
«Rispondimi,
Kageyama!» Voleva avere una voce sicura, e invece
andò tremendamente vicina al tremolante. Tuttavia, non si
mosse e alzò il capo per guardare direttamente il ragazzo.
Continuò
a camminare e non si girò né lo degnò
di un’occhiata. «Non ti preoccupare.»
Smarrito
dal tono candido, quasi gentile, del corvino, tutto il disagio e
l’imminente pianto gli scivolarono di dosso come acqua. Corse
al suo fianco e si ostinò a tenere su di lui i suoi occhi,
ancora incredulo.
Tobio
odiava sentirsi osservato in quel modo, quasi gli stesse facendo una
radiografia, e da quelle iridi che per i suoi gusti erano troppo grandi.
Shouyou
non fece più domande. Si limitò a torturarsi
l’interno delle guance e le pellicine sulle dita. Non smise
mai di occhieggiare Tobio che, come lui, pareva star vivendo un
dissidio interiore.
I
motivi, ovviamente, non erano gli stessi.
Appena
avvistò un enorme pianoforte a coda nero, lucidissimo, gli
brillò lo sguardo e, nonostante ciò che era
accaduto precedentemente, sorrise. Avvertì il petto
gonfiarsi di meraviglia, poi si rivolse a Tobio: «Come facevi
a sapere dov’era?»
Gli
lanciò un’occhiata fuggevole, ma non era
né di disprezzo né di irritazione.
«Sono venuto tante volte in questo aeroporto»
spiegò vago, alzando le spalle.
«Davvero?
Hai mai preso un aereo?» chiese con stupore.
Il
quindicenne sbatté le palpebre, non comprendendo tutta
quella agitazione. «Sì…?»
farfugliò, come se fosse ovvio.
«E
com’è?»
«Tremendo»
ammise con una smorfia. Gli venne in mente il volo che aveva preso
insieme a suo padre, qualche anno prima, per l’Inghilterra,
l’aria pesante, le orecchie perennemente tappate e le gambe
che gli formicolavano per la posizione scomoda. Erano state dodici ore
atroci.
Il
volto del più basso si contrasse in un cipiglio deluso.
Tobio
si bloccò e Shouyou, che stava dietro di lui, gli
finì quasi addosso. A circa un metro da loro, il piano si
estendeva nella sua elegante imponenza, strabiliando la gente anche
più lontana.
«Dovremmo
suonare qui?» sussurrò il pianista in seguito a un
silenzio concorde. Girò attorno allo strumento, notando
finalmente lo sgabello.
Quasi
lo intimoriva. Si era sempre seduto davanti a pianoforti relativamente
piccoli e si era illuso di poterli domare. Adesso, invece, provava
l’ansia e l’adrenalina scorrergli nelle vene, allo
stesso modo di un uomo rinchiuso in una gabbia insieme a un leone
affamato.
«Sì.»
Tobio
appariva così sicuro, stabile. Per un momento lo
invidiò per il sangue freddo che stava ostentando: se anche
era nervoso, lo celava perfettamente.
«Hinata,»
proferì piano, artigliandolo per un braccio e avvicinandolo
a sé, «sta’ calmo e non ti agitare.
Fa’ come se fossimo a casa.»
Lo
aveva detto con tono deciso ma non brusco; ancora lontano, tuttavia,
dall’essere rassicurante.
Avrebbe
voluto ribattere che non erano a casa, che tutte quelle persone li
avrebbero ascoltati, studiati e criticati comunque, che non era
possibile stare calmi. Il violinista, però, lo
lasciò e si abbassò fino ad adagiare la borsa sul
pavimento liscio, per poi procedere a schiudere la zip.
Shouyou
si abbandonò sullo sgabello, il cuore che sembrava volergli
sfondare lo sterno. Fissando insistentemente il colore scuro e lucente
della cassa armonica, sollevò con lentezza e accortezza il
coperchio. Espirò dal naso e chiuse gli occhi, tentando di
raccogliere più concentrazione possibile. Percepiva
già decine di sguardi confusi e basiti su di lui.
«Hinata»
lo avvertì sommessamente, poiché la gente stava
già iniziando ad adunarsi intorno a loro.
Gli
gettò un’occhiata, scorgendolo alla sua destra e
incontrando i suoi occhi: li avrebbe riconosciuti ovunque, soprattutto
in quei momenti, in cui il ghiaccio si scioglieva per dar vita a un
mare in tempesta. Lo vide portare il violino vicino al mento e, quando
toccò la clavicola, cominciò a contare.
Un.
La
prima volta era stata magica: sembrava davvero che ne fossero stati in
grado grazie alla magia.
Due.
La
seconda era stata un disastro e non erano nemmeno arrivati alla seconda
pagina della partitura. Si erano arresi? Naturalmente no.
Tre.
Alla
terza era stato palese che Shouyou fosse completamente fuso: aveva
esordito con Cantabile,
il brano di Paganini.
Quattro.
La
quarta, qualche ora dopo, era stata mediocre: piena di errori di
dinamica per la paura di scoordinarsi. Erano andati avanti a questo
modo, come se la prima volta non fosse neppure esistita; se
così fosse stato, però, loro non avrebbero saputo
che potevano arrivarci, alla vetta. Dovevano solo fare più
pratica.
Un.
Erano
riusciti ad eliminare la maggior parte degli errori di dinamica
soltanto dopo una settimana di lavoro portato quasi agli estremi. In
quel momento, Shouyou aveva finalmente assistito alla parte
più tenera, infantile di Tobio: aveva urlato, ma non contro
qualcuno. Aveva urlato perché ne aveva sentito il bisogno,
per dire a chiunque lo avesse udito che ce l’aveva fatta.
Due.
Non
avevano potuto distinguere neanche col binocolo la stessa correttezza
ed emotività per almeno le cento occasioni seguenti.
C’era sempre qualcosa che non erano capaci di correggere,
anche minima: il problema ‒ o la fortuna ‒ era che entrambi si
imponevano di dare il meglio di sé, di ricercare la
perfezione.
Tre.
Shouyou
si era accorto piuttosto tardi che ciò che tentavano di fare
da giorni consisteva in qualcosa di assurdamente complesso. Tobio era
obbligato a volgere tutta la sua attenzione ai suoi stessi movimenti:
appena il suo violino gli toccava la spalla, lui doveva iniziare a
contare in una maniera a cui non era abituato. Inoltre, era
fondamentale riporre in Shouyou tutta la sua fiducia; ma non era
abituato neanche a questo. In generale, non era abituato a fidarsi di
chiunque.
Se
voleva vincere, però, doveva imparare.
Quattro.
Con
tutta la forza di volontà che manifestavano arrivavano a
fare quasi tutto, anche le cose che sarebbero potute apparire
impossibili, e lo dimostrarono in quel momento.
Fu
come la prima volta: magico.
D’un
tratto, la pesantezza degli occhi della gente sparì,
così come tutto ciò che li circondava: rimasero
solo Shouyou e Tobio, il pianoforte e il violino.
Nemmeno
gli annunci agli altoparlanti potevano distrarli: erano solo suoni
robotici, distanti. A loro non interessavano, perché in quel
momento esisteva la musica e basta, per quanto effimera e inafferabile
fosse. Sembrava che stessero dentro a un castello costruito con delle
carte, uno di quelli che i bambini si divertono a creare ma che poi
è destinato a cedere, in un modo o nell’altro.
Bastava un soffio, un dito a sfiorare una singola carta, e allora tutto
cadeva sopra di loro. Forse era possibile rallentare il tempo, restare
ancora un po’ così, nella propria
immobilità serafica e talmente pericolosa da renderla ancora
più elettrizzante. Forse era possibile resistere, sostenere
il castello affinché non collassasse.
Il
soffio, la mano sbadata arrivarono prima del previsto.
«Mamma,
mamma! Cosa stanno suonando?»
E
allora l’aria intorno a Shouyou tornò a farsi
opprimente, con tutti gli sguardi e il dito puntato su di loro. Non
sapeva se li stessero giudicando negativamente, ma era comunque una
distrazione; e per lui, essere distratto era la peggiore delle
possibilità che potessero presentarsi.
E
se avesse sbagliato? Tobio lo avrebbe abbandonato perché non
era stato in grado di suonare in pubblico? No, del resto era
invischiato anche lui in quella faccenda e desiderava con tutto se
stesso partecipare al torneo. Però mancava ancora tanto
tempo ai nazionali, e loro non avevano scelto il brano…
Magari a quel punto lo avrebbe sul serio lasciato per trovare un
pianista più competente. E poi, era davvero concesso dalle
regole?
Anche
la troppa energia esercitata dall’interno avrebbe saputo
rovesciare il loro castello: non sempre erano il soffio o il dito
esterni a rovinare ciò che si era costruito in tanto tempo.
Sotto
quelle carte stavano in due, benché lo spazio fosse troppo
ridotto; dovevano avvicinarsi sempre di più, conoscersi in
tutto e per tutto. Tuttavia, Shouyou non conosceva quasi nulla di Tobio
e Tobio voleva credere che gliene importasse ancora poco di Shouyou.
La
fiducia non in tutti i casi si rivelava sufficiente. In quel caso
serviva da base, ma le mura non si potevano fabbricare da sole.
La
mano gli tremò a tal punto da fargli saltare una nota di un
accordo: fu allora che andò nel panico. Le mani tremolanti
faticavano ad arrancare dietro al suono raffinato e prestante del
violino. Strinse le labbra e, dai movimenti fluidi in cui si era
trascinato finora, passò a una sgradevole
rigidità.
Tobio
lo guardò allarmato da sopra la spalla, ma non si
arrestò.
Perché
tutti i castelli di carte sono destinati a cedere, in un modo o
nell’altro. Ciò, però, non impediva
loro di ricostruirne un altro.
Aeroporto
di Tokyo, 20 luglio 2016, 15:03
«Ora
mi spieghi perché.»
Shouyou
abbassò lo sguardo, sotto pressione: probabilmente non gli
avrebbe più permesso di mettere piede in casa sua,
né di suonare insieme a lui nel torneo.
«Quella
bambina ti ha deconcentrato? Te la sei davvero fatta sotto davanti a
tutta quella gente?» Mosse un altro passo, ritrovandosi il
sedicenne giusto a qualche centimetro da sé.
Gli
indirizzò un’occhiata, rendendosi conto che
l’espressione di Tobio era, sì, irata, ma non
sembrava sul punto di picchiarlo ‒ non sul serio, almeno. Era sincero
riguardo al voler capire il perché di
quell’impazzimento.
«Rispondimi,
deficiente!» Gli picchiettò l’indice
sulla fronte pallida. «Dobbiamo tornare a casa, non ho
intenzione di stare tutto il giorno qua!»
In
realtà non gli sarebbe dispiaciuto troppo stare
lì per un poco: su quel terrazzo tirava un gradevole vento
fresco che emanava un senso di pace e benessere. Per loro fortuna,
quello era un giorno feriale e, nonostante le terrazze
dell’aeroporto Haneda vantassero di grande fama e un
esorbitante numero di visitatori, non era neppure troppo popolata. Si
trovavano in un angolo colmo di vasi con fiori di tutti i colori e le
finestre che davano sull’interno a qualche metro da loro.
Il
rosso mostrò un cipiglio confuso e alzò lo gli
occhi su quelli del violinista. «Suoneremo ancora
insieme?» bisbigliò, più rivolto a se
stesso che all’altro. «Non vuoi cercare un altro
accompagnatore?»
I
suoi lineamenti si deformarono in una smorfia indignata, quasi avesse
appena attentato alla sua intelligenza. «Sei proprio duro,
allora» sbuffò, afferrando la custodia del violino
che aveva adagiato contro il muretto grigio dopo aver trascinato
Shouyou in quel luogo. «Non ho speso tutto questo tempo per
nulla e non posso dire al primo che passa di partecipare a un torneo
con me.» Prese a passeggiare verso l’ingresso a
passo rilassato.
Il
pianista corse davanti a lui e camminò
all’indietro, incurante di poter colpire qualcuno.
«Ma ti ho fatto fare una figuraccia davanti a un sacco di
persone!» esclamò gesticolando. «Ho
rovinato tutta l’esibizione!»
La
bocca di Tobio, se possibile, si storse ancora di più.
«Sei tu che hai fatto schifo, non io»
rettificò, facendolo curvare verso destra con poco garbo.
«E suono con te anche sapendo che sei una
schiappa.» Lo spinse più forte. «Quindi
muoviti, ché se fai così anche al concorso ti
uccido!»
Tokyo,
25 luglio 2016, 10:31
Il
trillo del campanello giunse lievemente attutito in bagno.
«Ma
che cazzo...»
Si
tirò su i pantaloncini frettolosamente, e nel processo il
portascopino si rovesciò, lasciando fluire fuori
l’acqua.
«Merda!»
Ancora
con la cerniera dei bermuda aperta, si precipitò nella
veranda, dove teneva scope e stracci usurati. Dopo aver riempito il
secchio di acqua e averci versato dentro del detersivo per pavimenti,
vi inzuppò il panno e lo strizzò. Si
affrettò nuovamente al bagno dalle mattonelle azzurre,
brandendo il bastone come se fosse una lancia, con le gocce
d’acqua che cadevano dietro di lui e segnavano il suo
percorso.
Dopo
aver rimesso a posto il portascopino, iniziò a pulire e si
dimenticò totalmente di avere qualcuno ad aspettarlo alla
porta. Almeno finché quel qualcuno glielo ricordò
in modo assordante e fastidioso.
Finì
di fretta in furia di pulire, borbottando imprecazioni, per poi
riportare lo straccio in veranda e scendere per le scale.
Saltellando
tra i libri di cui ormai conosceva esattamente la posizione ‒ non li
spostava da mesi, dopotutto ‒, arrivò all’entrata
e l’aprì con veemenza.
Poteva
essere solo lui, ovvio.
«Ma
perché ci sei stato così tanto,
Kageyama?» allungò le vocali del suo nome come in
una cantilena. S’introfulò di sua spontanea
volontà, cominciando a vagare per il salone.
Tobio
lo raggiunse e gli prese il capo con una mano, stringendolo.
«È sempre colpa tua, imbecille.» Lo
usò come appoggio e lo superò impettito.
«Che
ho fatto ora?» Massaggiandosi la nuca, si mise al suo passo e
salì sul primo gradino delle scale per il secondo piano.
«Sei
venuto» bofonchiò il più alto.
«Mi
hai detto tu di venire ogni giorno alle dieci e mezza!»
protestò Shouyou offeso.
Lo
freddò con un’occhiataccia. «Ma non
mentre sono in bagno, idiota.»
«E
io mica posso sapere quando sei in bagno o no...»
«E
allora fai in in modo di saperlo prima di rompere!»
«Blablabla»
lo scimmiottò, le labbra ancora arricciate. «Ci
hai messo comunque un sacco e non è colpa mia.»
Scavalcò
gli ultimi due scalini in un sol movimento e, dopo avergli lanciato uno
sguardo eloquente, prese a correre verso la sua stanza.
Il
sedicenne stette fermo per un secondo, disorientato, ma subito dopo lo
seguì seppure fosse indietro.
Quando
piombò nella camera, trovò Tobio che lo guardava
dall’alto in basso con un ghigno beffardo. Si
raddrizzò e, fatto qualche passo, si mise a sedere sullo
sgabello davanti al pianoforte, leggermente ansante.
«Hai
barato, non è giusto.»
S’immusonì nuovamente.
«Ma
perché ci sei stato così tanto,
Hinata?» lo imitò, ancora con quel sorrisetto
schernitore che Shouyou gli avrebbe voluto togliere con tutto se stesso.
Sbuffò,
voltandosi. «Antipatico come sempre» si
lamentò.
«Lento
come sempre» rispose a tono, girandosi anche lui anche se per
prendere il violino.
«Comunque»
riprese circa un minuto dopo, con tono annoiato e apparentemente
disinteressato, «da oggi ti metterò le chiavi sul
davanzale della finestra, quella a destra della porta.»
Sbatté
le palpebre un paio di volte. «E non ti spaventi?»
«Ovviamente
le nascondo, stupido.» Pizzicò una corda con
l’archetto per verificare che la quantità di
colofonia che aveva usato fosse sufficiente. «E poi
c’è sempre Hirashi-san a controllare chi entra nel
residence.»
Il
pianista lo guardò mentre armeggiava con il suo strumento.
«Significa che potrò venire qua quando
vorrò» rifletté, poggiando il gomito
sulla coscia mentre si sosteneva il mento sul palmo.
Tobio
lo fulminò con lo sguardo. «Guai a te se mi rompi
alle due di notte solo perché non riesci a dormire o cose
simili.»
Ridacchiò
come se farlo davvero lo avrebbe divertito. «No,
intendevo...» Fissò i suoi occhi d’ambra
in quelli blu notte dell’altro e sorrise allo stesso modo di
chi sorride nel vedere delle tenere sciocchezze compiute da un bambino.
«Ti devi fidare tanto di me se mi dai la
possibilità di entrare a mio piacimento.»
Sentì
il cuore saltargli in gola e le guance riscaldarsi, e strinse la bocca
nell’inutile tentativo di far cessare quello strano tepore
che si stava espandendo nel petto. «Che
cavolate...» Volse la testa di lato imbarazzato.
«È che sei troppo stupido per fare qualcosa di
cattivo» masticò stentatamente.
Allargò
il sorriso, quasi non avesse udito l’ultimo insulto. Si mise
in piedi e immediatamente si buttò di schiena sul letto,
vicino alla custodia del violino. «Ormai ti conosco,
Kageyama-kun!»
Tokyo,
28 luglio 2016, 17:16
Si
passò una mano sulla fronte grondante, mentre con
l’altra continuava a strofinare il panno bianco sulla cassa
armonica del pianoforte. Lo aveva chiesto tempo fa a Tobio e lui, in
seguito a una lunga occhiata, non aveva obiettato. Pulirlo lo faceva
diventare un po’ più suo, lo aiutava a conoscere
ogni dettaglio e a entrarvi in sintonia.
Sentì
il cigolio delle doghe dietro di lui e si girò, ancora
piegato sulla tastiera.
«Sei
tornato...» osservò a bassa voce, tornando a
spolverare e lucidare il piano. «Con chi parlavi?»
«Con
mio zio.» Versò qualche goccia su un pezzo di
stoffa blu e prese anche lui a sfregarlo sul suo strumento.
«Domenica suoneremo per la sua scuola» aggiunse
poi, calmissimo.
Shouyou
trasalì e si voltò di scatto verso il corvino,
strabuzzando gli occhi e mettendosi diritto. «La sua
scuola?» s’informò stupito.
Il
quindicenne annuì, non distogliendo l’attenzione
dal violino. «È il fratello di mia madre. Porta
avanti una scuola privata da un po’ di anni…
Diciamo che dalla parte materna sono quasi tutti musicisti.»
Parlò sempre con quel tono distaccato, freddo, come se non
stesse raccontando della sua famiglia ma di qualche estraneo.
«E
perché dovremmo andare a suonare noi in una scuola
privata?» Storse le labbra, perplesso.
«L’unica cosa buona è che non me
l’hai detto all’ultimo minuto come
sempre...»
Se
doveva essere onesto, sì, avrebbe detto di avere decisamente
qualcosa contro le istituzioni private ‒ a parte il liceo e le scuole
medie, dato che nel loro paese era impossibile trovare una scuola
pubblica vicino casa che impartisse una formazione decente. Durante i
suoi primi anni alle elementari aveva desiderato come non mai seguire
un qualsiasi corso, che fosse di sport o di musica.
D’altronde, se i suoi compagni potevano seguirli,
perché lui non poteva fare lo stesso?
Ora,
invece, andava estremamente fiero del suo essere autodidatta, del
sudore e dell’impegno che ci aveva buttato, poiché
se ora si trovava lì lo doveva soltanto a se stesso ‒ e in
parte a Tobio, ma non avrebbe ringraziato quell’antipatico
più del dovuto.
Scrollò
le spalle. «L’avevo chiamato ieri sera per
chiedergli se ci fosse qualche possibilità di suonare in
pubblico, e oggi mi ha detto che ha tenuto occupato un posto verso
l’inizio dell’esibizione per gli ospiti.»
Lo fissò intensamente, smettendo di dedicarsi al suo
violino. «Non dobbiamo pagare nulla. Durerà pochi
minuti, ce ne andremo subito dopo e non ci sarà nessuna
premiazione, quindi non andare nel panico. Capito, stupido?»
Shouyou
calò lo sguardo sul marmo riscaldato dal sole del
pomeriggio. «Sarò nervoso...»
«È
normale essere nervosi» ribatté Tobio con
nonchalance, ponendo il panno blu e il detergente sul comodino accanto
alla testiera del letto. «Se non lo sei vuol dire che non te
ne frega niente.»
Il
ragazzo dei capelli rossi lo osservò. Era tranquillo e lo
era stato anche prima di intervenire nell’aeroporto. Strano:
non si sforzava nemmeno per infuriarsi così spesso e a
mostrarlo, tuttavia nel momento in cui sarebbe potuto apparire debole
agli occhi degli altri, tratteneva tutto dentro. Preferiva risolvere i
problemi da sé, non accogliendo il sostegno di nessuno.
Gli
rivolse un sorriso dolce, come se gli avesse confessato una sua
preoccupazione. «Facciamolo, Kageyama!» lo
sfidò allungando un braccio verso di lui, il pugno serrato.
Il
violinista batté le ciglia scure un paio di volte,
sbigottito. Qualche istante dopo, tese anch’egli
l’arto con esitazione e chiuse la mano.
Benché
in modo inavvertibile, un sorriso sghembo era apparso a rilassargli i
lineamenti.
Tokyo,
31 luglio 2016, 9:46
Espirò
piano dalla bocca, appoggiando la testa al muro e calando le palpebre.
Continuò a respirare in modo lento, quasi simulato, provando
a placare il cuore che gli batteva impazzito nel petto.
«Tutto
bene?»
Il
timbro lo riconobbe subito, ma non era squillante come sempre. Gli
parve più basso, un po’ tremolante. Aveva ragione:
era teso.
Schiuse
pigramente un occhio. «Lo faccio sempre prima di
esibirmi.»
Shouyou
gli sedette a fianco, alzandosi la giacca nera e gessata che gli stava
lievemente lunga. «Perché?»
Il
violinista lo richiuse. «Perché mi aiuta a
calmarmi.»
Annuì
debolmente, volgendo il capo verso il muro opposto del corridoio. Alla
loro destra c’erano alcuni assistenti che chiamavano i
partecipanti, mentre questi ultimi erano rinchiusi nei propri camerini.
Naturalmente,
loro due non ne avevano: era solo due ospiti che in pochi,
là fuori sugli spalti, conoscevano. Siccome era un saggio
che determinava la sospensione dei corsi fino all’inizio
dell’autunno, la maggior parte delle persone riunite erano
parenti degli alunni stessi. Magari, chi faceva già parte
del mondo della musica era a conoscenza del talento che Tobio
incarnava, ma Shouyou era un completo sconosciuto a tutti.
Quella
poteva essere anche una fortuna: non doveva soddisfare nessuna
aspettativa. Essere un prodigio, forse, portava con sé un
fardello non indifferente.
Ogni
brano eseguito male rappresentava una sconfitta, anche in un evento
privo di antagonismo. E loro non avevano alcuna intenzione di perdere.
«Tobio
Kageyama-san» gli occhi dell’uomo guizzarono di
nuovo sul foglio di carta che teneva in mano, «Shouyou
Hinata-san, è il vostro turno.»
Il
rosso lo guardò profondamente; ormai, tuttavia, non gli dava
più troppo fastidio. Prese il violino appoggiato alle sue
gambe piegate e, facendo poco gentilmente leva sulla spalla
dell’altro, fu dritto sui piedi, per poi procedere in
silenzio sino all’entrata del palco. Prima di addentrarsi
nell’oscurità, però, si
voltò: Shouyou stava salendo sull’ultimo scalino,
a poco meno da un metro da lui.
Sollevò
lo sguardo sul violinista. «Che vuoi?»
borbottò ancora imbronciato per lo sfruttamento della sua
spalla.
Tobio
non rispose finché non mise piede sulle travi di legno scuro
dell’impalcatura, emulato all’istante dal sedicenne.
Gli
lanciò un’occhiata penetrante.
«Fa’ del tuo meglio, idiota.»
Tokyo,
31 luglio 2016, 9:54
Abbassò
il violino e la prima cosa che fece fu volgersi alla sua sinistra.
Incontrò gli occhi del pianista, brillanti e lucidi come
sempre quando suonava, e notò il suo smagliante sorriso.
Assentì minimamente, per poi dare di nuovo la sua attenzione
alla folla, da cui si levavano scroscianti applausi.
Shouyou
si alzò dallo sgabello e raggiunse la sua destra con
andatura quasi posata. Scrutò un’altra volta il
ragazzo accanto a lui, per scorgere qualsiasi emozione che trasparisse
dal suo volto: aveva le guance rosse ‒ poteva però essere
anche lo sforzo ‒ e la bocca gli tremva lievemente, anche se non ne
capì la ragione.
Gli
diede una pacca sulla schiena, una specie di complimento, e allora
quell’espressione che per lui era decisamente eccitata
mutò in un cipiglio indispettito. Durò solo per
un attimo, poi si piegò in un inchino per non darlo a
vedere, e allora anche il pianista s’inchinò,
grato a tutte quelle lodi.
Dopo
qualche secondo, si drizzarono e, apprezzati gli applausi ancora un
po’, camminarono verso l’uscita.
Tobio
riusciva a sentire il fiato corto dell’altro accanto a
sé, che quasi sovrastava il rumore del battito del suo cuore
‒ lo sentiva martellare follemente, il sangue pompato rimbombare nelle
orecchie. Ingoiò un grumo di saliva, scoprendosi con la
bocca secca, e si alienò un attimo dal mondo.
Gli
era piaciuto suonare con qualcun altro, su un palco davanti a un
pubblico. Gli era piaciuto condividere i suoi sentimenti, per quanto
negativi fossero, con la musica di qualcun altro. Pensò che
probabilmente stava impazzendo anche lui, insieme al suo cuore.
Come
Shouyou gli rivolse quel sorriso così irritante e accecante,
si riscosse. Dietro le quinte, poco prima di scendere per la breve
scalinata, rispose alla pacca sulle spalle precedente ‒ ma con molta
più potenza.
Il
sedicenne quasi cadde in avanti e, tossicchiando, esclamò un
«Ahi!».
Il
violinista proseguì impettito, contento di essersi prese la
sua rivincita.
«Ma
sei pazzo?» strillò, non preoccupandosi di
moderare i toni nonostante fossero ancora sul palco.
Il
moro si accigliò, girandosi appena e guardandolo torvo.
«L’hai fatto anche tu, imbecille!»
Il
cooperatore, vestito di tutto punto con un frac nero, lo
osservò sconcertato sfilare davanti a sé proprio
mentre insultava il pianista.
«La
mia era amichevole!» si aggiunse quest’ultimo,
contrariato, scendendo giù per le scale di corsa.
«Qualcosa tipo: “bravo”!»
Tobio
schiuse e richiuse le labbra innumerevoli volte, colto di sorpresa. Era
un gesto comune tra loro ragazzi? Non lo sapeva, nessuno lo aveva mai
fatto a lui e lui non lo aveva mai fatto a nessuno.
La
prima che gli venne in mente la farfugliò goffamente:
«Be’, la mia no!»
Il
viso di Shouyou divenne una maschera di delusione e stizza.
«Il solito insopportabile!» Saltò
l’ultimo gradino sotto lo sguardo frastornato
dell’assistente, che si fermava un momento su di lui un
momento su Tobio.
A
dir la verità, non poteva negare che avesse eseguito il
tutto più che bene. Stavolta, aveva contribuito a costruire
il loro castello di carte, sebbene alcune di esse non fossero
posizionate perfettamente, e ne aveva avuto un valido controllo.
Ovviamente,
avevano deciso nello stesso momento. Avevano imparato insieme che ogni
castello di carte, prima o poi, deve collassare, affinché
uno più bello e stabile venga realizzato. Allora tanto
valeva scegliere quando, no?
Tokyo,
14 agosto 2016, 15:28
Come
faceva ormai da settimane, si diresse alla finestra e, dietro un piatto
con del cibo per gatti, scovò la chiave
dell’appartamento. La afferrò frettolosamente e
con la stessa agitazione spalancò l’ingresso dopo
aver fatto scattare la serratura.
Uno
spiraglio di luce strisciò lungo il pavimento del salone
come un serpente, ma Shouyou serrò la porta dietro di lui
appena entrato. Se Tobio voleva che quel posto restasse
nell’oscurità, allora avrebbe rispettato la sua
decisione, pur essendo terribilmente curioso.
«Kageyama,
sbrigati!» strepitò più forte che
poté, giocando con il portachiavi. Avvertì
qualcosa tastare la sua testa e subito dopo attanagliarla.
«Sono
qui, idiota, non c’è bisogno di spaccarmi i
timpani» sibilò il quindicenne, ma levò
la mano dai suoi capelli impossibili comunque.
Il
ragazzo dagli occhi del colore del tramonto sorrise, elettrizzato.
«Su, andiamo!» Lo sospinse con entrambe le mani
sulla borsa del violino, mentre l’altro calava la maniglia
d’ottone.
Fece
una smorfia indignata e gli schiaffeggiò gli avambracci.
«Tocca ancora la mia custodia e ti faccio cadere le mani,
deficiente!»
Allora
Shouyou lo spinse ancora, stavolta dalle spalle, rischiando di farlo
cadere mentre andava giù per i gradini
dell’uscita. Come il corvino emise un suono strozzato,
scoppiò a ridere e lo superò, saltellando per il
viottolo dell’abitazione.
Si
raddrizzò, e dire che il suo sguardo sarebbe stato capace di
incendiare un’intera città era un eufemismo.
«Hinata, idiota!» urlò in una specie di
dichiarazione di guerra.
L’appellato
si voltò e sbarrò per un secondo gli occhi nel
vedere l’espressione furente del violinista.
Tobio
ebbe appena il tempo di notare un ghignetto furbo sul suo viso che
l’altro prese a correre nella direzione opposta.
«Torna qui!» gridò ancora, seguendolo a
ruota.
Shouyou
continuò a correre, ridente come non mai.
Tokyo,
14 agosto 2016, 17:32
«Dove
vai?»
«A
sedermi.»
Lo
vide indugiare un po’ sul limite della stanza, come se
volesse aspettarlo.
«Come
la scorsa volta?» s’informò interessato.
Il 31, seduti l’uno di fianco a l’altro, non
avevano più proferito parola: Shouyou, però, non
aveva provato il bisogno di rompere quel silenzio, il che rasentava
l’insensato per lui.
Il
moro annuì e si fermò definitivamente, ma non si
voltò. «Resti qua?»
«Io...»
esitò. Gli sarebbe piaciuto assistere alle tre esibizioni
antecedenti alla loro, in quella piccola sala con qualche sedia e due
schermi. Poi rammentò la sensazione piacevole che Tobio
accanto a lui gli aveva procurato. «Arrivo.» Gli
indirizzò un sorriso di scuse, quasi gli stesse facendo un
torto. «Solo un attimo.»
Alzò
un po’ le spalle, borbottando un «Va
bene», e appena uscito chiuse a metà la porta
scorrevole della stanza.
Il
corridoio, tranne per qualche insegnante e dei concorrenti che
parlottavano sommessamente tra di loro, era vuoto. Mosse qualche passo,
virò a sinistra e, giunto in un punto impreciso che gli
sembrava abbastanza lontano da quel gruppetto, si lasciò
scivolare contro il muro bianco. Forse la giacca nera dello smoking si
stava anche sporcando di intonaco, ma non ci pensò troppo.
Appoggiò
con garbo il violino e l’archetto accanto alla sua spalla. Si
portò le ginocchia al petto e, dopo averle abbracciate, ci
affondò il volto.
Apprezzava
particolarmente quella parte del suo riscaldamento: non era fisico,
bensì psicologico. Lo aiutava a fare mente locale di tutte
le esperienze più intense che aveva vissuto,
perché tutto ciò che percepiva in quei momenti lo
traduceva in musica. Lo psicologo che gli avevano rifilato anni fa gli
aveva detto che i traumi o delle vicende cariche di sentimenti dannosi
sono più facili da dimenticare, dopo tanto tempo. Il
subconscio li elimina, li relega nel dimenticatoio del nostro cervello,
affinché essi non facciano soffrire.
Però,
tolti quelli, a lui cosa rimaneva?
Dato
che vedeva nero a prescindere, compresse forte gli occhi.
Li
riaprì, in seguito a dei pensieri che erano solo nocivi,
come si accorse che qualcosa era vicino a lui. Volse fiaccamente il
capo, ritrovandosi lo sguardo e i denti luminosi di Shouyou a circa un
metro da lui. Tornò alla postura di prima, ma non
riuscì più a rievocare tutti gli avvenimenti
degli ultimi cinque anni.
Pensò
a sua madre che suonava la Gioia
di amare
di Kreisler, mentre lui si nascondeva sotto il pianoforte orizzontale,
per poi vagare in tutti quei brani della sua infanzia che aveva
ascoltato, in mezzo a tanti anziani giudici e intenditori, grazie
all’orchestra di cui faceva parte quella spettacolare
pianista.
E
riavvertì la pelle d’oca sulle braccia,
l’amore per la musica ‒ e soprattutto per il violino ‒ che si
allargava nel suo petto come una bolla di sapone.
Non
sapeva cosa,
ma qualche cosa sicuramente gli restava.
Appena
sentì il suo nome, la sua testa scattò in alto.
Non era stato distolto dalle sue stesse riflessioni, al contrario: era
ancora più concentrato su ciò che doveva e voleva
fare.
Guardò
l’altro e fu soddisfatto di aver previsto correttamente:
anche Shouyou era vigile. Si stava già rimettendo in piedi,
ma la luce dei suoi occhi non sfuggì a Tobio. Era
più scura, ma non per qesto meno viva.
Una
volta dritto, gli offrì la mano, ma lui si girò
dalla parte opposta e prese il suo strumento. Poi si
ripresentò alla sua altezza naturale, in un atteggiamento
tanto sicuro da risultare quasi imponente.
Il
ragazzo dai capelli rossicci gli fece la linguaccia, risentito, ma
attese che facesse il primo passo verso l’entrata con lui.
Si
rivolsero uno sguardo serissimo, per sfidarsi a modo loro, quasi si
sarebbero dovuti sorpassare a vicenda per vincere, solo quando si
trovarono al varco per i loro sogni.
Tokyo,
14 agosto 2016, 17:59
«Mi
raccomando: calmo.»
«Lo
stai dicendo a te, Kageyama-kun?»
Sembravano
dire quello le occhiate che si lanciarono poco prima che la spalla di
Tobio sfiorasse il legno del violino.
Un,
due, tre, quattro.
Eccole,
le prime due carte, pronte a congiungersi. Senza di esse, sarebbe stato
impossibile costruire tutto il castello. Necessitavano di
concentrazione, tranquillità, o sarebbero cadute subito.
Esisteva un solo tentativo: se fossero crollate la prima volta li
avrebbero schiacciati come dei macigni.
Un,
due, tre.
Mancava
un millimetro. Uno solo, e allora avrebbero sicuramente continuato.
Quattro.
Un
tasto si abbassò, pressato dalla mano sinistra di Shouyou;
il bicordo del violino vibrò nell’aria statica,
cristallino come acqua di un ruscello.
Le
prime due carte erano lì, inclinate fino a toccarsi e a
sorreggersi a vicenda, e loro erano sottodi esse: decisero entrambi che
era troppo presto per distruggerlo. Un po’ più di
carte, una struttura più sofisticata, più gente
meravigliata da quella costruzione. Allora si sarebbero accorti anche
dei suoi artefici e non li avrebbero più dimenticati.
Un.
Accorse
anche la mano destra, mentre la sinistra si spostava già sul
prossimo tasto; il Sol del violino, però,
sovrastò tutto.
Tobio
occhieggiò il ragazzo che era ormai ufficialmente diventato
il suo
accompagnatore,
sorprendendosi di trovare gli occhi d’ambra indirizzati a
lui. Era la prima volta che i loro sguardi si incontravano durante
un’esecuzione.
Mentre
proseguivano con il pezzo, una gara tutta loro ebbe inizio. Se non
riuscivano ad oltreppassare i propri limiti, come avrebbero potuto
vincere contro gli altri? Se desideravano competere a livello
nazionale, era indispensabile superare se stessi, perché
qualcuno migliore di loro ci sarebbe stato indubbiamente.
Dunque,
avrebbero combattuto per spodestare quel qualcuno e persino le loro
stesse persone, per ripresentarsi sempre più in alto, anche
solo di un posto per volta.
Strinse
le mani e il tappo della biro nera gli graffiò
superficialmente un dito. «Che cosa assurda...»
Non
stava neppure annotando i vari errori, che seppur pochi
c’erano. Gli pareva di star assistendo a
un’esibizione libera da ogni gara e che solo la deformazione
professionale gli stesse impedendo di godersi appieno
l’emotività riversata in quel brano.
L’assurdità
stava nel totale contrasto tra le emozioni del violino e del
pianoforte. Entrambi estremamente coinvolti, così
concentrati nella loro impresa di trasmettere qualcosa che la musica
appariva quasi palpabile e visibile. Forse lo era. Forse, chiudendo gli
occhi, si poteva davvero osservare tutti quei sentimenti di ogni genere
prendere vita insieme alla miriade di note. Non era neanche corretto
parlare di miriade: le note sono sette, e considerando i semitoni
dodici. La bravura di un compositore sta anche nel creare delle armonie
mai sentite prima e che, contemporaneamente, siano orecchiabili; la
bravura di coloro che le suonano sta anche
nell’interpretarle, nell’imprimervi altre armonie:
le proprie esperienze, pensieri e sensazioni.
E
Shouyou e Tobio erano bravi: nonostante la discordanza, c’era
un equilibrio. Come se stessero giocando al tiro alla fune in due, con
la stessa forza ed intensità. Qualche volta, poi, il
violinista tirava un po’ di più, e allora un treno
di rabbia e angoscia investiva lo stomaco di tutti gli spettatori;
quando era il pianista a trascinare la corda verso di sé,
sembrava di andare al parco divertimenti con il proprio migliore amico
dopo uno sfogo sfiancante.
Tuttavia,
anche se raramente, Shouyou era certo di udire della gioia nella
melodia, così come a Tobio sembrava che tutta quella
felicità travolgente in certi punti si affievolisse.
Non
si rendevano conto, però, del fatto che, tirando
perennemente in direzioni opposte, si stavano avvicininando. Magari
sarebbero arrivati in un punto d’incontro in cui sarebbero
stati capaci di suonare tutta la lunghezza e le sfaccettature di quei
sentimenti, di comprendere anche quelli dell’altro.
Ora,
in ogni caso, un equilibrio esisteva. Se così non fosse
stato, le bocche del pubblico sarebbero state aperte solo per parlare.
Tokyo,
14 agosto 2016, 18:03
Il
nuovo silenzio della sala venne subito spezzato dagli applausi.
Shouyou
si era asciugato le lacrime prima di alzarsi e affiancarsi al ragazzo
che aveva già abbassato il violino e stava guardando
l’uditorio con occhi sgranati e leggermente lucidi. Ma,
quando la folla li acclamò con inaspettato vigore, altre
lacrime corsero sul suo immenso sorriso.
S’inchinò, nascondendole, immediatamente seguito
da Tobio.
In
quel momento, un altro paio di mani batterono, anche se solo tre volte.
Sebbene loro non l’avessero notato, quell’applauso
valeva almeno il triplo di quello del resto delle persone nel teatro.
Non
se lo sarebbe mai aspettato: stava sorridendo. Lievemente, i denti non
si vedevano neppure, ma non era né un ghigno derisorio
né un sorriso inquietante: era sereno.
Probabilmente era la prima volta che lo vedeva con
un’espressione così tranquilla in volto.
«Tutto
bene, Kageyama?» fece con voce allarmata, mentre si
dirigevano agli spogliatoi.
Il
piccolo sorriso scomparve come era arrivato.
«Perché?»
Shouyou
sbatté le ciglia un paio di volte, stringendosi nelle
spalle. «Stavi sorridendo...»
A
quelle parole, i suoi lineamenti s’indurirono nuovamente.
«E allora?» grugnì e si
bloccò, prendendogli il capo con una mano e stringendogli la
ribelle zazzerra rossiccia.
«Lasciami!»
si lagnò invece il pianista con voce strascicata, cercando
invano di raggiungere il petto di Tobio e colpirlo.
Dopo
aver stretto un altro po’, lo abbandonò sul posto
e procedette verso i camerini. «Prima mi dici di sorridere e
poi ti lamenti pure, idiota!»
«Ma
non mi stavo lamentando!» protestò e lo
accostò di nuovo. «Era una constatazione, dato che
non sorridi mai, ma non ho mai detto che mi dispiace.»
Stavolta fu lui a rivolgergli il suo sorriso gentile, uno di quelli che
gli riservava solo quando non lo criticava brutalmente per la sua
perfomance al piano ‒ ovvero quasi mai.
Il
quindicenne storse le labbra, bofonchiando qualcosa di incomprensibile.
Non gli poteva dare torto: la risata non faceva esattamente parte del
suo repertorio di espressioni frequenti.
Tuttavia,
qualcuno gli aveva detto che non gli dispiaceva.
E non una persona qualsiasi: era il suo
accompagnatore.
Tokyo,
14 agosto 2016, 19:17
«Smettila
di dondolare quelle dannate gambe, Cristo!»
Era
da più di mezz’ora ‒ da quando tutti i concorrenti
si erano esibiti ‒ che si trovavano nella sala principale, dove
sarebbero stati esposti i risultati. Avevano ascoltato e guardato tutte
le esibizioni e in seguito avevano corso per dieci minuti nel cortile
esterno, rientrando per l’afa insostenibile, completamente
sudati.
Si
erano messi a vagare per tutto il salone, ma, quando un impiegato dello
staff li aveva richiamati, erano stati costretti a sedersi.
«Tu
ti stai dondolando con tutto il corpo!» ribatté
Shouyou, continuando a oscillare le gambe avanti e indietro, scomposto
su una panca imbottita accanto all’altro.
«È
diverso!» rettificò il violinista, ondeggiando con
il busto come un orologio a pendolo. «Mi fai venire il mal di
mare.»
S’immusonì,
offeso, e voltò la testa di lato. «E allora non mi
guardare, stupido!»
Tobio
sbuffò con sdegno e si volse a sua volta dal lato opposto.
«E chi ti guarda!»
Alcuni
secondi dopo videro dei ragazzi, tutti sopra i quattordici anni,
accorrere davanti ai quattro schermi che scendevano dal tetto, posti al
centro.
Si
girarono di scatto e, un’occhiata velocissima dopo, si
ritrovavano già a correre verso tutti quei liceali. Alzarono
lo sguardo sui risultati.
L’ansia
li aveva corrosi per una lunga ora, a entrambi. Tobio era convinto di
essere passato insieme al pianista, ma a lui non bastava. Credeva non
bastasse nemmeno a Shouyou: erano troppo ambiziosi perché la
semplice qualificazione andasse loro bene. Quasi certamente, anche
posizionandosi secondi si sarebbero disperati, arrabbiati e avrebbero
reclamato rivincita.
Però,
almeno per quanto riguardava quel concorso, non sarebbero mai riusciti
a reclamarla.
Avvertì
un fremito in tutto il corpo, dal petto fino alle mani, che non
cessarono di tremare neppure dopo. Guardò il suo compagno
solo quando sentì un urlo provenire dalla sua sinistra.
Aveva
un pugno chiuso e il gomito piegato in segno di vittoria, le guance
arrossate e le labbra che formavano smorfie diverse ogni istante a
causa dell’emozione.
Tutti
si sbagliavano sul conto di Tobio; si era sbagliato anche lui, tempo
addietro. All’inizio gli era apparso come un ragazzo freddo,
cinico, insensibile e, in realtà, tremendamente saggio.
Shouyou si era ricreduto su tutto. Forse poteva sembrare freddo per via
del suo aspetto spaventoso, mentre probabilmente era l’unico
di sua conoscenza la cui passione equiparava la sua. Non era
né cinico né insensibile: al contrario, forse
dentro di lui bruciavano troppe emozioni, nonostante avesse
difficoltà a mostrarle.
Che
fosse un genio della musica era indubbio, ma Shouyou avrebbe riso fino
alla morte se gli avessero chiesto della sua maturità e
saggezza. Le aspettative degli altri sulla sua persona erano troppo
grandi, disumane. Tobio Kageyama era pur sempre un ragazzo di quindici
anni, non un dio.
A
lui, ad ogni modo, non sembravano neanche interessare. Si allenava
comunque, nonostante tutte le voci che giravano sul suo conto nel mondo
della musica. Lui diceva che lo faceva solo per sé, per
nessun altro, ma realizzare qualcosa per una persona cara fa sempre
sì che l’impegno e il risultato siano migliori,
più sentiti.
E Shouyou poteva giurare che, se proprio un qualcosa di Tobio era
sentito, quel qualcosa era sicuramente la musica.
Sollevò
le mani per farsi dare il batti cinque, ma inizialmente
l’altro non comprese. Quando gliele premette praticamente in
faccia, il violinista si decise ad alzare anche le sue e il ragazzo
dagli occhi d’ambra gli diede il primo batti cinque della sua
vita ‒ o almeno, quello che avrebbe sempre ricordato.
Come
notò che aveva sorriso solo per un momento effimero, si
allarmò. Lo prese per una spalla, trascinandolo di peso
mentre lui gli gridava: «So camminare da solo,
Kageyama!», poiché dalla folla di ragazzi si stava
levando sempre più confusione.
«Che
hai?» lo interrogò, con tono più
stizzito che interessato, piantandolo vicino all’uscita.
Il
pianista aggrottò lievemente la fronte e, dopo essere
sfuggito al suo sguardo indagatore per un attimo, lo fissò.
«Potremo suonare di nuovo?» disse infine, la voce
incredula.
Il
moro sbatté le palpebre un paio di volte.
«Sì…?» Che c’era di
strano?
Si
erano classificati primi,
dopotutto.
«Sempre
qui? Ci saranno più partecipanti?»
Ci
stette un po’ a replicare anche stavolta. Studiando il volto
leggermente sconvolto del giovane, capì.
«Sì» confermò sicuro.
«E per questo non puoi permetterti di fare idiozie.»
Shouyou
espirò lentamente dalla bocca, senza far rumore, e le sue
spalle si rilassarono, come se fossero state tenute in alto da un
burattinaio per tutto quel tempo. Sorrise come solo lui sapeva fare:
raggiante, incontenibile, travolgente.
Doveva
aspettarselo, ma prima d’ora non ci aveva mai fatto troppo
caso. Quella era solamente la sua seconda gara, la sua prima vittoria e
qualificazione. Era ovvio che non fosse neanche capace di credervi.
Quasi
per inerzia, gli angoli della sua bocca si piegarono in su.
Poi
si voltò: Tobio non sopportava quelle situazioni
imbarazzanti. Non sapeva mai come reagire. Tuttavia, fu impossibilitato
a fare un passo in più.
«Invece
hai trovato proprio un bel pianista, Tobio-chan.»
Raggelò
sul posto. Restò con gli occhi sgranati inchiodati in un
punto indefinito, il suo corpo che si rifiutava di rivolgerli altrove.
Il
sedicenne gli si avvicinò non troppo cautamente e, sulle
punte, gli sussurrò di rispondere, o sarebbe parso un
maleducato. In seguito si girò verso quell’uomo
che stava davanti a loro, lontando dalla folla. Non gli avrebbe dato
più di venticinque anni, ma appariva molto più
maturo, grande e virile di lui.
«Scusi...»
bisbigliò con una nota di curiosità a ravvivargli
il timbro. «Lei chi è?»
L’uomo
gli sorrise in un modo che sul suo viso calzava benissimo, ma che su
qualcun altro sarebbe sembrato terribilmente simulato, quasi
sgradevole. «Uno dei giudici di questo torneo.»
Shouyou
aprì e richiuse le labbra più volte, stupefatto.
Guardò ora il violinista ora il giudice, chiedendosi come
potessero conoscersi. Gli pizzicò poi un fianco,
incalzandolo impazientemente a intervenire e a non lasciarlo
lì come un pesce lesso.
Tobio
sussultò, riscuotendosi solo allora. Fu finalmente in grado
di spostare lo sguardo sull’uomo dai capelli castani,
più alto di lui di circa cinque centimetri, ma nessuna
scintilla scattò in lui.
Il
suo sorriso, invece, man mano che i secondi passavano, diveniva sempre
più forzato, simile a una smorfia indignata. Alzò
un sopracciglio, incitandolo a dire qualcosa.
Il
corvino arricciò le labbra. «Non la
ricordo...» Non era di certo per la persona in sé
che era stravolto.
Il
sorriso svanì completamente e la sua espressione perse ogni
traccia di gentilezza per un singolo secondo, ma si corresse subito.
«Conoscevo tua mamma e ti vedevo spesso quando eri
piccolo» lo informò, riprendendo a ridere come
prima. «E sono stato nella giuria ai tornei under
fourteen degli
ultimi due anni.»
Tobio
aveva un vago ricordo di quel viso delicato e bello, così
come della voce allegra e un po’ troppo acuta per i suoi
gusti. Ma era, per l’appunto, vago: niente che fosse capace
di rievocare. «Ah» fece soltanto.
Persino
quel cipiglio annoiato appena affacciatosi stava bene su di lui.
«Comunque» si mise le mani sui fianchi,
rivolgendosi a Shouyou, «mi chiamo Oikawa Tooru. Piacere di
conoscerti, piccoletto.»
Sorrise e gli porse una mano.
Il
rosso arricciò il naso, risentito, mentre gliela stringeva.
«Non sono un piccoletto,
ho sedici anni...» farfugliò con tono offeso ma
comunque basso, tentando di non farsi sentire.
Tooru
rise divertito. «Sì, sì, lo
so» lo liquidò con una mano. «Piuttosto,
ti volevo chiedere: partecipi a qualche corso?»
Tobio
corrugò le sopracciglia, in contemporanea al suo
accompagnatore, e lo guardò.
«No.»
Stralunò appena gli occhi.
«Perché?»
L’uomo
parve sorpreso. «So riconoscere quando qualcuno migliora
anche nelle basi, come battere il tempo o il solfeggio.» Si
portò un dito al mento, come se stesse meditando.
«L’anno scorso non contavi per niente e si vedeva,
invece quest’anno sei molto più
preciso.» Studiò entrambi con fare sornione, quasi
gli stessero nascondendo qualche segreto; il che, dopotutto, non era
falso, dal momento che non lo conoscevano. «Che è
successo in questi mesi?»
Il
viso di entrambi era una maschera di confusione. Il pianista
consultò il compagno con lo sguardo, ma lui scosse la testa,
smarrito almeno quanto lui.
Tooru
aprì la bocca sottile per continuare a parlare, ma venne
bloccato da un grido che non poteva essere altro che furioso. E
conteneva il suo cognome. O almeno, una parte del suo cognome. Si
pietrificò, gli occhi color nocciola sgranati e le spalle
rigide.
Shittykawa.
Un
altro uomo, poco più basso del giudice, comparve alle sue
spalle, mentre gli sguardi dei due musicisti seguivano attenti e ancora
attoniti la scena.
«Brutto
idiota!» Con quell’esclamazione, lo prese per il
retro del colletto della t-shirt azzurra. «È da
mezz’ora che aspetto in quella merda di macchina e tu ti
metti a molestare i ragazzini!»
All’ultima
frase, se avessero potuto, le mascelle dei ragazzini
avrebbero toccato il pavimento.
«Devo
ancora chiudere il negozio per colpa tua!» sbraitò
ancora, cominciando a trascinarlo verso l’uscio.
«Ma secondo te che cazzo sono, un cameriere?»
«Ahia!
Aspetta! Iwa-chan,
mi fai male!» si lagnò Tooru con voce lamentosa e
capricciosa.
Shouyou
si voltò verso il moro, domandandogli silenziosamente se
ciò che avevano appena visto fosse solo frutto della sua
fantasia.
Poteva
darsi: l’espressione di Tobio suggeriva che lui avesse
vissuto tutt’un’altra esperienza.
Iwa-chan.
Iwa-chan
lo ricordava. Era sempre accanto a Tooru, anche se probabilmente aveva
assistito più alle sue sgridate nei confronti del castano
che a delle discussioni con sua madre.
Si
trovava là
quando era successo. E la sua attenzione, per una volta, si era
distolta dal giudice ed era volata su di lui, che non aveva neppure
dieci anni.
Tuttavia,
non ricordava il motivo. Perché ‒ glielo aveva detto anche
il suo psicologo ‒ i traumi o le vicende cariche di sentimenti dannosi
sono più facili da dimenticare.
一
Salve a tutti! Stavolta il capitolo ve lo beccate prima della scorso.
BD In realtà avrei voluto aggiornare già
lunedì, ma purtroppo il tempo mi manca sempre, sigh. Ma
comunque, finalmente ce l’ho fatta!
Allora, partiamo dalla fine: ve lo aspettavate? Spero di no.
:’) Però almeno ora posso andare a mettere il tag
IwaOi nella descrizione, perché volevo che fosse una
sorpresa (anche se, se qualcuno la leggerà dopo, non la
sarà più, ma vabb). Da qui in poi, questi altri
due idioti si uniranno alla compagnia, dato che, come avrete ben
capito, hanno un determinato ruolo in tutti i problemi di Tobio (non vi
preoccupate, nemmeno a loro mancherà del buon angst
:’D).
E
niente, non ho tanto da dire, se non una cosa: ho scritto questo
capitolo ascoltando S O L T A N T O questa
canzone
(House
of Cards
dei BTS) che, davvero, amo con tutto il mio cuore. L’ho
trasportata in tutt’altro contesto, lo so, ma, dato che
è molto calma e che le parole che volevo usare erano proprio
quelle, mi ha aiutato un sacco. Un giorno farò la
playlist di tutte le canzoni che associo ai capitoli, prometto!
Infine,
ringrazio come sempre Maiko_chan
e
_Lady di inchiostro_
per recensire (e sclerare insieme a me), siete davvero fantastiche.
<3
E
niente, ora mi dileguo, anche perché vado di fretta, sob.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e sappiate che un parere anche
piccolissimo è sempre ben accetto! :3 Allora ci vediamo al
prossimo capitolo! ~
Baci
Shizuha
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