L'ultimo pezzo del puzzle

di Gagiord
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I Capitolo ***
Capitolo 3: *** II Capitolo ***
Capitolo 4: *** III Capitolo ***
Capitolo 5: *** IV Capitolo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo





«Questo va qui.»
E come prese il pezzo di cartone, una dolce melodia, accompagnata dall’immagine di un ragazzino seduto davanti ad un pianoforte a coda, si diffuse nella sua testa. Il volto del ragazzino era contornato da capelli neri, sbarazzini, e le mani piccole, piccolissime, si muovevano rapide sui tasti bianchi e neri.
La Gioia di Amare, di Kreisler, era suonata con morbidezza, e la luce abbagliante non riuscì a contenersi e si riversò nella stanza bianca e spoglia, dove stavano solo il ragazzo dagli occhi color dell’ambra e il suo puzzle.
Il ragazzo s’illuminò, vedendo che mancava solo un pezzo, quello al centro; presto, però, l’espressione gioiosa tramutò in un cipiglio indispettito: l’ultimo pezzo non combaciava. E allora cosa avrebbe dovuto fare?


Tokyo, 14 novembre 2015, 15:33

 

Un corvo gracchiò, mentre Shouyou correva, sorridente e pieno di adrenalina come non mai.
«Aspettami, Shou-chan!» gridò il suo amico dietro di lui, ma dopotutto non lo si poteva biasimare: la custodia del violino
e il violino stesso dentro, naturalmente in spalla gli rendeva più difficile di quanto già fosse stare al suo passo.
Il quindicenne s’imbronciò e si voltò. «Arriveremo in ritardo se non ci sbrighiamo!» Riprese a correre, e Izumi ebbe l’impressione che fosse ancora più veloce di prima.
Lanciò un’occhiata fugace all’orologio da polso azzurro che portava: erano le 15:35, e la gara sarebbe iniziata alle 17:00. «Siamo in anticipo di un sacco!»
Shouyou continuò a correre e a lasciarlo indietro.

 

 

 

Sendai, 21 dicembre 2008, 20:54


«Su, su, Tobio-chan! Non ti vergognare, la mamma lo sa che sei bravissimo!» esclamò, sorridendogli dolcemente.
Quelle parole, tuttavia, sortirono l’effetto opposto
e la donna ne fu felice, perché l’espressione del figlio ogni volta che riceveva complimenti era insostituibile: le guance rosse d’imbarazzo, le labbra corrugate, nell’indecisione di ringraziare o ammutolirsi.
L’amica di sua madre davanti a lui ridacchiò senza malizia e si abbassò alla sua altezza, gravando sulle punte dei piedi. I suoi occhi scuri erano davvero belli, notò Tobio, ma non lo disse. «Tu non ti preoccupare» lo rassicurò, arruffandogli i capelli nerissimi, «suona e basta.»

 

Tokyo, 14 novembre 2015, 17:09

 

Seduto a terra con le spalle contro il muro bianco sporco e il volto affondato tra le ginocchia, non si accorse che il numero tre era appena salito sul palco, e che lui, numero quattro, si sarebbe dovuto preparare dietro le quinte.
«Kageyama-san, Kindaichi-san, potete entrare!» Fu, però, un uomo sulla trentina, vestito di tutto punto, a ricordarglielo. Doveva essere un assistente o qualcosa del genere, a Tobio non interessava granché.
Si alzò con flemma, afferrando il violino e l’archetto, e si diresse verso l’ingresso per il palco senza nemmeno guardare se il suo accompagnatore fosse lì. Se fosse stato per lui, avrebbe anche potuto suonare da solo; il problema era che il concorso richiedeva obbligatoriamente l’accompagnamento del piano.
Kindaichi lo affiancò qualche secondo dopo, contrariato dal suo comportamento. «Quanto rispetto» mormorò, una nota sarcastica nella sua voce.
Tobio udì
comunque quel commento, e contrasse la mascella per l’irritazione; decise, però, di non ribattere.
Passò qualche minuto in cui stettero zitti, respirando rumorosamente, il cuore che batteva follemente dentro al petto di entrambi.
Tobio, poco prima che il numero tre gli passasse accanto, prese il violino nella mano destra e cominciò a riscaldare le dita di quella sinistra. Poi, quando nella sala in cui si apprestavano ad entrare calò il silenzio, mosse appena due passi avanti e si arrestò. «Sta’ al mio passo» intimò a Kindaichi, il tono piatto.
L’accompagnatore fece schioccare la lingua contro il palato e pensò subito a qualche insulto da rivolgergli; non aveva compreso, tuttavia, che quello era il modo di Tobio di dargli la possibilità di stare al suo stesso livello.

 

 

   — Note d’autrice:

Salve a tutti! Rieccomi qui, ma stavolta con una long/mini-long (non so nemmeno io quanto verrà lunga, oddio…)! L’idea mi frullava in testa già da qualche settimana, ma dato che io ho problemi con le long (non ce n’è una che abbia finito :’D) ero un po’ restia a metterla giù. Però, con il supporto di qualche personcina carina e dopo aver visto Shigatsu wa Kimi no Uso (che, in effetti, mi sta aiutando molto, soprattutto con i brani e con le cose più “tecniche”), che si avvicina un po’ alla trama iniziale di questa storia, mi sono convinta. E ora, here I am! :3
Allora… il prologo è piccolino, lo so, ma spero che vi incuriosisca almeno un po’! Hinata, come sempre, ha energia
‒ e anche tanta felicità <3 ‒ da vendere! Kageyama, invece, almeno “ da grande”, è tutto tranne che energico (sob), mentre da piccolo era un proprio un cinnamon roll (che poi lo è anche ora, ma va be’). <3 Invece, il puzzle... Cosa ne pensate?
Per ora non dico nient’altro, o rischio di fare spoiler. :’) Comunque, ringrazio immensamente _ A r i a per aver betato il prologo! ~
Allora alla prossima! :3

Baci
Shizuha

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Capitolo 2
*** I Capitolo ***


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I Capitolo




Tokyo, 14 novembre 2015, 17:13

Shouyou non sapeva perché solo lui e Izumi fossero davanti allo schermo che mostrava le performance degli altri concorrenti.
“È di cattivo augurio” gli aveva spiegato Izumi, paziente. Quel ragazzo ne aveva davvero tanta, di pazienza; se così non fosse stato, probabilmente non si sarebbe ritrovato lì, con un violino che a malapena sapeva tenere tra la spalla e il mento. Era Shouyou il più bravo fra i due, in quanto a musica, ma quella era una competizione di violinisti. Ironico, no?
Ad ogni modo, dopo le imperterrite suppliche dell’amico qualche mese prima ‒ lo aveva letteralmente ricoperto di volantini sul concorso che si sarebbe svolto a metà novembre ‒, Izumi aveva preso tra le mani violino e archetto e si era allenato con Shouyou nel poco tempo che aveva a disposizione.
Ora, assistendo ‒ seppur tramite uno schermo ‒ alla performance del numero quattro, quasi si pentì di essersi fatto trascinare fin lì. Non importava delle chiacchiere che vedevano Kageyama Tobio come l’indiscusso vincitore di quell’evento; tutti, in quel posto, erano di tutt’altro livello. Non c’era la minima possibilità di gareggiare con gli altri concorrenti.
Izumi sospirò e osservò il suo accompagnatore ‒ o forse era lui l’accompagnatore di Shouyou ‒, completamente rapito dalla melodia che veniva fuori dalle casse del televisore. Non poteva dargli torto.
Era la Sonata N.9 Kreutzer di Beethoven quella che Tobio stava suonando. Un’esecuzione perfetta, sia da parte del violinista che del pianista ‒ che, però, stava evidentemente arrancando per non andare fuori tempo.
Shouyou, in ogni caso, non era poi così sorpreso; non piacevolmente, almeno. Era amareggiato da quella melodia così bella in cui, però, s’insediavano emozioni talmente negative da stringergli il cuore. La conosceva, lui, sapeva che non era triste; al contrario, era vivace, frizzante, sebbene estremamente difficile. Quel violinista, invece… Tobio stava divenendo il possessore di quella sonata, sì, ma il quindicenne non avrebbe mai creduto che la musica di un suo coetaneo potesse essere così intensa. Percepiva solo astio ‒ quasi odio ‒, confusione, e tanta, troppa angoscia per essere portata sulle spalle da un ragazzo talmente giovane.
Rimase comunque lì, ad ascoltare il dolore del suo avversario, finché il pezzo non fu concluso e il pianista si alzò dallo sgabello e Tobio abbassò il violino con un’eleganza che colpì non poco Izumi. Poi si precipitò, senza alcun preavviso, fuori dalla stanza, con la testa bassa e i capelli ribelli color tramonto che gli coprivano gli occhi dalle stesse sfumature.
Izumi fece una smorfia scoraggiata e sospirò, seguendolo. «Aspettami, Shou-chan!» E con quella, forse erano dieci le volte che gli aveva ripetuto la stessa, identica frase.
Shouyou non lo sentì nemmeno.
Il violinista fece giusto in tempo a raggiungere l’amico, poiché quest’ultimo fissava con determinazione ‒ Izumi decise che non gli piaceva affatto ‒ Kageyama Tobio, che stava dinanzi a loro, a fianco di un ragazzo che doveva essere stato il suo accompagnatore ‒ in realtà, non si era fatto notare per nulla. Guardò ora Shouyou, ora il suo suo avversario, e si sorprese quando realizzò che il primo non stava tremando come una foglia, neppure di fronte ad altezza simile ‒ lo sapeva, Izumi, che il pianista non si sentiva a suo agio con persone molto più alte di lui.
Tobio, però, non lo degnò nemmeno di uno sguardo. Passò semplicemente di lato, continuando a ignorare tutti, perfino Kindaichi, il quale indossava, senza preoccuparsi di nasconderlo, un cipiglio a dir poco infuriato.
Shouyou non distolse gli occhi neanche per un attimo. «Ehi!» lo chiamò, le braccia lungo i fianchi e i pugni stretti; Tobio si fermò, ma non si volse. «Perché hai suonato così?»
E solo allora, il violinista si girò e gli indirizzò un’occhiata: notò subito che aveva degli occhi grandi e che era molto più basso di lui. «Eh?» fece, corrugando la fronte e assottigliando lo sguardo.
Il pianista annuì e mosse un passo avanti. «Hai suonato male!» In realtà non lo pensava. Tobio aveva fatto tutto tranne che dare un brutto spettacolo; solo non sapeva come dirlo.
Sentì le orecchie fischiargli, e dovette stringere il violino e l’archetto il più forte possibile per evitare di spaccarli in faccia a quell’idiota. Tutto, ormai, gli era indifferente; ma la musica no. La musica, forse, era l’unica porzione di lui che ancora si potesse definire viva. Era grato che quella porzione fosse relativamente grande. Non tollerava, perciò, che qualcuno gli dicesse che aveva suonato male. Lui non suonava mai male. Lui era il “metronomo umano”, era il “bambino prodigio”, era colui che, nella sua breve carriera, non aveva mai perso in una competizione. E finché avrebbe vinto, finché si sarebbe esibito al massimo, non avrebbe accettato un commento simile.
«E-ehi...» Per fortuna, fu Izumi a spezzare la tensione che si era creata fra i due. «Non ha suonato per niente male, Shou-chan, lo sai…» Poi si sporse verso di lui e gli sussurrò: «Chiedi scusa, non vogliamo finire nei pasticci!»
Shouyou, tuttavia, continuò a tenere lo sguardo fisso sullo sfidante. «La musica è felicità
«La musica è emozioni» lo corresse, i lineamenti del volto induriti e gli occhi scuri severi. «Esistono sia emozioni positive che negative, ma non mi aspetto che tu lo sappia.» Detto ciò, si girò un’ultima volta e ricominciò a camminare a grandi falcate.
Le sue labbra si schiusero, già pronte a far uscire le sue esclamazioni di protesta, ma la mano di Izumi sulla sua spalla gli suggerì che sarebbe stato meglio incassare il colpo e non dire null’altro.
In effetti, non erano nella posizione per poter controbattere.
E Shouyou, ancora una volta, andrò contro corrente. «Lo faremo ricredere!»

Tokyo, 14 novembre 2015, 17:39

«Uh, essere penultimi mette un bel po’ di ansia...» commentò, muovendo le dita in aria come se stesse premendo le corde del violino.
Un brivido di eccitazione attraversò la schiena di Shouyou, lui annuì e gli occhi gli brillarono.
«Yukitaka-san, Hinata-san, tra poco è il vostro turno!» li avvertì un assistente. «Potete entrare.»
I due compagni si scambiarono un’occhiata e Izumi accennò un sorriso, mentre Shouyou rimase con la stessa espressione euforica che ormai aveva da qualche minuto.
Il ramato era estremamente nervoso, ma era anche felice per il suo amico, dato che quella sarebbe stata la sua prima competizione. Purtroppo, non aveva potuto far altro che assecondarlo in quella pazzia: sapeva quanto Shouyou amasse la musica, e in particolare il pianoforte, e il fatto che la sua condizione economica gli impedisse di partecipare ad un concorso con quello strumento lo aveva sempre un po’ avvilito. Quando, però, si era presentato da lui con quei volantini, urlando ai quattro venti che “È gratis, mi serve solo un violinista!” ‒ e poi, in teoria, era lui a servire ad un violinista, ma questo Izumi aveva preferito non sottolinearlo ‒, non aveva saputo dirgli di no.
Camminarono fianco a fianco fino all’ingresso del retroscena, presero entrambi un profondo respiro e, finalmente, misero piede sul palco oscurato, giungendo poi sin davanti alla folla.
Izumi guardò Shouyou di sottecchi: gli tremavano le mani, e ora la sua bocca, non più sorridente, era diventata una linea sottile. Poi tornò a guardare tutte le persone davanti a loro, qualche mormorio che si levava dalle file centrali. Non c’erano poi così tante persone, in realtà. «Fa’ del tuo meglio» sussurrò pianissimo, ma abbastanza forte affinché l’amico potesse sentirlo.
Shouyou volse il capo di colpo, leggermente sorpreso; e di nuovo quella fermezza tornò ad albergare nel suo viso. «Mh!» fece, convinto, e solo l’istante successivo si accorse che forse l’aveva fatto a voce troppo alta. Non se ne preoccupò troppo, comunque; andò a sedersi sullo sgabello ricoperto di pelle nera, il violinista si posizionò alla sua destra, a qualche metro da lui.
Giusto il tempo di mettere il violino sulla spalla e poggiarvi il mento, e un altro sguardo volò fra i due.
Shouyou iniziò con il do centrale con la mano destra e quello di un’ottava più bassa con la sinistra.
Altri mormorii si alzarono dalla folla quando fu chiaro che il brano non era altro che la versione semplificata di Ah, vous dirai-je maman di Mozart.
«Ma saranno seri?»
«Non posso nemmeno pensare di competere con una canzoncina come quella...»
«Anche se non facessero nessun errore… sarebbe impossibile vincere!»
Ed ecco che la pressione aumentava: Izumi lo sapeva. Li avrebbero criticati tutti, una volta lì, non solo i giudici. Sbagliò una nota, e si rese conto che le dita della sinistra gli tremolavano eccessivamente. Sentì il panico salirgli in gola. I suoi occhi marroni cercarono istintivamente la figura di Shouyou. Non si sarebbe mai aspettato di vederlo in quello stato.
Aveva le labbra appena socchiuse, il capo buttato indietro, gli occhi serrati, le mani parevano volare sui tasti. Sembrava non aver nemmeno udito l’errore dell’amico: continuò, infatti, a suonare, mentre il ritmo si stabilizzava e il suono del pianoforte diveniva sempre più vivo.
In qualche modo, Shouyou stava riuscendo a coprire i suoi errori, aumentando di poco la dinamica e allentando il tono subito dopo.
Izumi si sentì in colpa, incastrato tra tutta quella gente polemica e il suo migliore amico. Non si era mai accorto di quanto si fosse impegnato, tanto da poter subito riconoscere uno sbaglio e nasconderlo dietro quella che gli altri potevano chiamare follia. Perché, effettivamente, quella lo era: si stava allontanando piano piano ‒ ma sempre di più ‒ dallo spartito, cominciava a lanciarsi in un mondo che, almeno da quello che aveva visto Izumi, era sconosciuto.
Il capo di giuria storse la bocca. Se lui si trovava lì, seduto su quella poltrona, c’era sicuramente un motivo. «Ormai è il piano che sta accompagnando il violino.»
Una sedia di velluto rosso, qualche posto accanto, era vuota, nonostante un nome spiccasse su di essa.
«Il ragazzino dai capelli strani, però, ha talento.» Qualche fila dietro, un giudice incredibilmente giovane se ne stava con le spalle ricurve, i gomiti appoggiati ai lati delle cosce, una biro nera nella mano destra e un paio di occhiali sulla punta del naso. Lasciò andare un piccolo sospiro e fece girare la penna tra le dita, per poi annotare qualcosa sul pezzo di carta tenuto fermo dal reggifogli. «Peccato che questo non sia un concorso per pianisti.»

Tokyo, 14 novembre 2015, 17:43

Tobio, per quel che ne sapeva, era sempre stato l’unico a popolare quella stanza illuminata da una fastidiosa luce fredda. Quel pomeriggio, però, due ragazzini a cui non avrebbe dato più di dodici anni si erano intrufolati, e per la prima volta non era stato il solo ad assistere a tutti i suoi avversari. Poi, si era ritrovato uno di loro davanti a sé, subito dopo la sua esibizione, a dirgli che lui aveva suonato male.
In pochi si permettevano di farlo, in realtà. Tobio non era abituato alla presunzione ingiustificata; tutti i suoi accompagnatori non erano male, non poteva negarlo, d’altra parte però non erano neanche chissà che.
Ma quel ragazzo… Quel ragazzo gli aveva tanto fatto la predica, eppure non aveva portato niente di speciale, eclatante. Una canzoncina tanto allegra quanto semplice, non qualcosa che, solo dal nome conosciuto, sapeva farti venire la pelle d’oca, l’impaziente voglia di ascoltare quel pezzo e l’inconscia paura che, a suonarlo, sarebbe stato un musicista magari non particolarmente bravo.
Ad ogni modo, non poteva nemmeno dire che facesse assolutamente schifo: il violinista era mediocre, e probabilmente ne era perfettamente consapevole. Lo vedeva dal modo in cui suonava, senza cercare di superarsi; lo vedeva dal modo in cui stava sbagliando e stava andando velocemente nel pallone. Se fosse stato sul palco qualche volta in più, avrebbe indubbiamente cercato di pensare velocemente a come riprendersi.
O almeno, questo era quello che credeva Tobio.
Non lo aveva analizzato troppo, a dir la verità; la sua attenzione era più che altro sul ragazzino dai capelli rossi. Possedeva talento, ma aveva di gran lunga sopravvalutato l’effetto che la sua musica aveva sulle persone. Stava nascondendo discretamente tutti gli errori del ramato, ma non era niente di che. Qualcuno da poter dimenticare, insomma.
“Lo faremo ricredere!”… Ah!
Il violinista sbagliò di nuovo. Stavolta, però, il pianista coprì fin troppo magistralmente.
Gli occhi di Tobio si spalancarono, un’espressione sorpresa e leggermente innervosita che si faceva strada sul suo volto. Le braccia fasciate dalla stoffa nera del suo smoking ‒ cozzava in modo quasi esilarante con i suoi atteggiamenti lievemente impacciati ‒ gli caddero inermi accanto ai fianchi, mentre il piede destro muoveva impulsivamente un passo indietro, quasi anche il suo corpo volesse esternare la sua incredulità.
Quel ragazzino dai capelli ribelli e gli occhi del colore del tramonto si era completamente distaccato dallo spartito.

Tokyo, 14 novembre 2015, 17:44

Non c’erano più di cinquanta persone, in quella sala. Potevano anche non essere veterani, ma tutti si erano accorti che, su quel palco, si stava svolgendo qualsiasi cosa tranne che una performance regolare.
Izumi non se lo aspettava. Conosceva tutte le versioni del brano che avevano portato, ma non avrebbe mai immaginato che Shouyou si fosse esercitato con più di una di esse, né che, di punto in bianco, ne avrebbe suonata una completamente differente da quella che avevano scelto.
Se quella di prima era stata una follia, Izumi non trovava un termine per descrivere ciò che stava accedendo in quel momento. Però ne era felice.
Probabilmente, in quella stanza non c’era nessuno che non stesse assaporando, anche se poco, la felicità. Come chiusi in una bolla di colori e luce, assistevano al saltellare vivace delle note su un prato come bambini sorridenti che giocano a salta campana sui marciapiedi, e al centro c’era lui, con la sua leggerezza e, allo stesso tempo, insistenza. Sì, era insistente, perché la sua musica voleva entrare nelle teste della gente e restare lì, per sempre.
Il mormorio che era durato qualche minuto si spense, quasi avessero premuto un interruttore.
Ma il capo di giuria non si trovava d’accordo con quella scelta. «È… inammissibile» mormorò, con gli occhi sgranati fissi sul pianista. Non ci credeva neanche lui.
«Oh!» fece l’uomo qualche fila prima, gli occhi scuri che brillavano. «Mi piaci, piccoletto...» Si ricompose subito, facendo una smorfia rassegnata. «… ma lo sai: non è un concorso per pianisti.»
Shouyou non avrebbe potuto sentire in ogni caso quei commenti, anche se avesse voluto. Non avrebbe potuto nemmeno dire che la sua mente, in quel momento, fosse svuotata da qualsiasi pensiero; il suo, però, non era poi così ingombrante. Lo attraversava ogni secondo, ogni qualvolta le sue dita sfioravano i tasti bianchi e neri.
Non voglio essere dimenticato.

Tobio non avrebbe negato che in quella melodia c’era felicità pura.
Ciò non significava, comunque, che tutti la potessero provare. Lui l’aveva semplicemente notata, nulla di più: la musica di quel ragazzino non era riuscita a raggiungerlo. Sapeva che non era colpa del pianista, e, se proprio si doveva attribuire la colpa a qualcuno, non era altri che sua. Se lui scappava così disperatamente da qualunque emozione positiva era colpa sua.
Era sprofondato sempre di più, così da non essere in grado di vedere la luce. E allora perché lui, quella, la vedeva, e anche piuttosto chiaramente?
Era irritante. Doveva cercare di prenderla, di smettere di negarsi ciò che l’avrebbe sicuramente fatto stare bene, oppure doveva stare a guardare mentre gli scivolava dalle mani senza che lui opponesse un minimo di resistenza?
Tobio non esitò un attimo. Tanto, lo sapeva, sarebbe crollato di nuovo.

Tokyo, 14 novembre 2015, 17:46


Shouyou congiunse le mani davanti a sé e si piegò in avanti tanto violentemente che per poco non finì con la faccia sul parquet sporco.
Il violinista si voltò a guardarlo, qualche passo avanti a lui, con un’espressione interrogativa.
«Scusami, Izumi!» esclamò, anche troppo forte. Si rimise dritto e gli rivolse uno sguardo veramente colpevole. «Non riuscivo a fermarmi… Era come se non stessi suonando io!» Lo affiancò, gesticolando e guardando le mani come se non fossero sue. «Cioè, sì, stavo suonando io, ma le dita mi si muovevano da sole! Credo… Cioè...»
La risata gentile di Izumi lo interruppe, mentre riprendeva a camminare verso il corridoio. «Va bene così, davvero. Tu ci tenevi molto più di me, dopotutto» lo rassicurò, per poi sorridergli affabilmente. «Sei stato bravissimo, delle persone di spicco ti avranno notato sicuramente!»
Shouyou ricambiò il sorriso e lo raggiunse, varcando la soglia del corridoio. «Speriamo» disse, e puntò gli occhi a terra.
Izumi gli indirizzò un’occhiata di sottecchi, lievemente preoccupato. Shouyou non diceva mai parole come “speriamo”: sono segno di incertezza con una sfumatura di negatività. E lui negativo non lo era mai stato. Forse incerto, qualche volta, ma era l’unica cosa che tentava di non dare a vedere – che non ci riuscisse, poi, era un’altra storia. Si augurò che ne avrebbe parlato anche solo un po’; perché, ormai era sicuro, non c’era possibilità che si fossero classificati. Sospirò e chiuse gli occhi.
Quando, qualche istante dopo, li riaprì, vide un ragazzo che fissava il suo amico; non sapeva cosa volesse, ma si arrestò subito.
Shouyou non ebbe la stessa accortezza. Sotto i loro sguardi, andò a sbattere contro il petto del violinista dai capelli corvini, facendosi sfuggire un’esclamazione sorpresa.
Tobio Kageyama non ebbe la reazione che Izumi si era immaginato; anzi, restò per un paio di secondi immobile, a realizzare ciò che era appena accaduto. Poi, come Shouyou sollevò lo sguardo smarrito su di lui, parlò. «Sta’ attento a dove vai, idiota!»
Il violinista sbarrò gli occhi, così come il suo accompagnatore. Spostò lo sguardo dal loro avversario a lui.
«Sei tu che eri sulla mia strada e non ti sei mosso!» replicò, seppur non troppo prontamente.
«Infatti non mi volevo muovere!»
«Eh?» Shouyou sbatté le palpebre qualche volta.
Tobio assottigliò lo sguardo. «Mi dici che la mia musica non andava bene e poi suoni così?» chiese, il tono aspro.
Quella, per Shouyou, fu come una pugnalata. Nessuno gli aveva mai detto esplicitamente che non era bravo al piano, e sentirlo da un’altra persona non era paragonabile ad un’insicurezza fuggevole.
Abbassò lo sguardo, i lineamenti del viso contratti in una smorfia amareggiata. «Non pensavo di aver fatto così male...» farfugliò, ma i due giovani lo sentirono comunque.
Izumi non sapeva come agire. La sua indole pacata ed educata era sempre andata contro le liti o qualsiasi tipo di insulto, e, in ogni modo, raramente vi si era ritrovato. In quel momento, non riusciva a far altro che guardare il destino che si metteva in moto e che lo lasciava fuori dai suoi giochi.
«Non ho detto che hai fatto male» ribatté con voce piatta e il volto leggermente più disteso. «Ciò non implica nemmeno che tu abbia suonato in modo eccelso, che sia chiaro. Però...» Aggrottò nuovamente la fronte. «… era qualcosa di dimenticabile. Che diamine hai fatto in questi anni?»
Izumi non credeva che il suo stato d’impotenza fosse cambiato; semplicemente, ora non era l’ansia a regnare nel suo corpo. Nessuno aveva il diritto di domandargli una cosa simile, non a lui; non a Shouyou, che sin da quando aveva iniziato le medie non aveva fatto altro che esercitarsi in aula musica fino alla chiusura della scuola.
Il corpo di Shouyou ebbe un fremito, come quello di una marionetta a cui si tagliano i fili ma che, forse per inerzia o per fortuna, resta in piedi. Calò il capo e non ribatté.
Tobio se ne andò senza dire nient’altro, come se tutto ciò che dovesse fare era vendicarsi di un ragazzo con cui aveva a malapena parlato. Il problema era che veniva sempre frainteso: magari, con un po’ di tempo, quel pianista sarebbe diventato un degno avversario.
«Shou-chan?» lo chiamò con un sussurro Izumi dopo circa un minuto di totale silenzio. «Andiamo a cambiarci, vieni.» Gli prese il polso e lo trascinò quasi di peso fino agli spogliatoi.


Tokyo, 14 novembre 2015, 18:19


Da quanto stava correndo? Venti minuti? Eppure sembravano passati appena dieci secondi, nonostante i polpacci gli dolessero sotto la stoffa di jeans e la gola bruciasse in un disperato bisogno di aria e acqua.
Si era cambiato in pochi minuti e poi era uscito nel cortile esterno come un razzo, sotto gli occhi sorpresi e confusi di Izumi.
Lo aveva lasciato andare con un sospiro, perché sapeva come era fatto Shouyou: se non si sfogava parlando, lo faceva muovendosi. Forse non era proprio la cosa migliore, dato che comunque non era una corsa lenta, ma dopotutto non sarebbe riuscito a fermarlo nemmeno con tutta la sua volontà.
Così, Izumi si era fatto un giro di quell’edificio enorme e modernissimo e dopo un quarto d’ora era tornato nel salone principale gremito di ragazzini, alcuni con le proprie famiglie e altri con gli insegnanti che comunicavano loro cosa avessero sbagliato.
Loro non l’avevano, un insegnante. Il solo pensiero di prendere lezioni non aveva attraversato né la mente di Shouyou né la sua: il pianista non se lo poteva permettere, mentre lui aveva poco interesse e tempo per seguire delle lezioni regolari. Non l’aveva neppure detto ai suoi genitori, figurarsi.
Si era seduto su una delle poltroncine di pelle nera che si appiccicava fastidiosamente alle sue mani sudate di nervosismo e aveva atteso. Finché, finalmente, i risultati furono comparsi sui quattro schermi in mezzo alla sala. Izumi aveva deciso di vederli insieme a Shouyou; non aveva poi chissà quali dubbi sulla loro posizione, ma stare accanto a quel ragazzo gli aveva insegnato a pensare sempre e comunque positivo.
L’aveva cercato per tutto il perimetro della struttura e, dopo un intero giro che l’aveva sfinito ‒ come aveva fatto Shouyou a correre per tutto quel tempo? ‒, se l’era trovato davanti di qualche metro che si precipitava ad una velocità impensabile verso il prossimo angolo.
Allora Izumi aveva ricercato le sue energie relegate in qualche angolo del suo corpo e aveva fatto lo scatto più rapido di cui fosse capace.
Il quindicenne dai capelli rossicci si era bloccato di colpo sentendo uno “Shou-chan!” da dietro. Si era voltato e poi si era piegato sulle ginocchia, il fiato corto e affannoso e l’aria che gli bruciava le pareti della gola.
«Hanno messo i risultati» lo aveva informato Izumi, ansante insieme a lui.
A Shouyou si erano illuminati gli occhi ed era ripartito verso l’entrata principale, come se non si fosse appena fermato da una corsa sfiancante.
E ora erano lì, quasi sotto agli enormi schermi che mostravano la classifica.
Izumi notò che Shouyou cominciò a leggere dal primo posto ‒ non si accorse neanche del nome “Tobio Kageyama” scritto a caratteri cubitali ‒ in giù; lo comprendeva, era un gesto inconsciamente pregno di speranza.
Una speranza che, man mano che scendeva e non trovava i loro nomi, andava sfumando in delusione.
Un palmo si posò sulla sua spalla prima che potesse venire a sapere in che posizione fosse finito, ma volle ignorarlo.
Ne fu in grado fino alla vista del penultimo classificato.

10. IZUMI YUKITAKA – SHOUYOU HINATA
NON QUALIFICATI

Così recitava la dicitura.
Le dita di Izumi strinsero un po’ la stoffa azzurra della sua felpa, ma Shouyou le sentì come artigli di un’aquila fiondatasi su di lui.
«Shou-chan...»
Sapeva che non poteva aspettarsi altro dal suo primo concorso, allora perché faceva comunque male? Erano le aspettative che si era costruito?
C’erano un altro paio di ragazzini al massimo che guardavano i tabelloni; probabilmente tutti avevano visto i risultati e se n’erano andati.
Quel pensiero nella testa di Izumi venne smentito da un violinista che si stava avvicinando, dietro un ragazzo più alto che il ramato ricordava come il suo accompagnatore. Quest’ultimo tirò dritto e nemmeno salutò il violinista. Lui, invece, stette fermo qualche passo prima di Shouyou e alzò lo sguardo sullo schermo. Le sue guance si imporporarono appena e la bocca gli tremò un po’.
Fece per andarsene, ma Shouyou si volse di scatto e lui si arrestò, sorpreso.
«Io ti batterò!» esclamò, gli occhi d’ambra velati di lacrime e il viso già paonazzo dallo sforzo precedente. «Raggiungerò prima di te i cuori delle persone e ti batterò!»
L’espressione di Tobio non mutò di una virgola. «Allenati ogni giorno e diventa più bravo. Poi accetterò le tue parole» disse con serietà. Non lo stava guardando dall’alto al basso.
Shouyou annuì e basta, le lacrime che scendevano copiose e si allargavano sulla moquette tortora come gocce d’olio, e Tobio se ne andò.
Ci fu un momento d’immobilità, in cui Izumi realizzò ciò che era successo. Erano stati quanti, venti secondi? Venti secondi in cui non si era nemmeno capacitato che Shouyou stava parlando con qualcuno.
Poi si girò e rivolse al violinista uno dei sorrisi più luminosi che avesse visto ‒ era un po’ esilarante, visti gli occhi e il viso arrossati. «Grazie, Izumi!»
Lui non poté far altro che ricambiare il sorriso, mentre le guance si coloravano di un vivace rosa.

Tokyo, 7 aprile 2016, 12:42

Shouyou aveva scelto di andare a scuola in bici sin dall’inverno precedente: avrebbe fatto prima e avrebbe avuto la possibilità di sgusciare dentro l’aula di musica e suonare un poco prima delle lezioni.
Certo, se solo in quei due giorni non avesse piovuto. Il primo era stato occupato dalla cerimonia di benvenuto ai nuovi ragazzi, mentre al successivo era arrivato puntuale per un pelo.
Stava entrando nell’aula di musica solo ora per la prima volta, ma una melodia lo fece fermare. Era la pausa pranzo, e in ogni caso sapeva che il club di musica si fosse sciolto da un bel po’ di anni; chi poteva essere, quindi?
Un po’ correndo e un po’ saltellando nei corridoi, cercando qualunque indicazione, alla fine arrivò davanti alla porta di legno verniciato di beige; da lì la musica si sentiva ancora di più e istintivamente vi riconobbe qualcosa di familiare.
Si avvicinò e abbassò la maniglia con un po’ di esitazione. La melodia non s’interruppe. Socchiuse la porta e fece capolino con la testa quanto più furtivamente possibile. Chi stava suonando parve non sentirlo, ma Shouyou si accorse subito che qualcosa non andava: quel ragazzo non avrebbe dovuto essere lì.
Lanciò un urlo soffocato, che fece sobbalzare il violinista e quasi gli fece cadere l’archetto. «T-tu… perché sei qui?»
Il moro aggrottò la fronte e si voltò verso Shouyou. «Eh?»

Shouyou ricordava bene che l’ultimo tassello non combaciava con gli altri in nessun lato. Uno, tuttavia, stava lentamente cambiando… ma ancora non lo poteva sapere.



― Note d’autrice:
Salve a tutti! Per prima cosa, scusatemi per il ritardo, ma chi mi segue su Twitter sa che ho avuto qualche problema con questo capitolo. :’) Ma comunque! Vorrei ringraziare chi ha già messo la storia tra le preferite, seguite e ricordate e chi ha recensito, non avete idea di quanto mi faccia felice!
Allora, il capitolo… Anche questo è introduttivo, diciamo. :’) Tutti i parallelismi con la serie, comunque, sono voluti, ma andranno via via scemando!
Già si può intuire che Tobio non sprizza esattamente felicità, e, sì, piange il cuore anche a me.
… Sì, mi fa male il cuore anche a vedere Shouyou che piange, ma don’t worry, lui ha moooolto meno angst. ;’D *continuano a picchiarla*
Comunque, ringrazio centomila volte _ A r i a, che si è presa l’onere di betare il capitolo – in pochissimo tempo, tra l’altro! <3
Mmh, non penso di dover dire altro… Naturalmente, le vostre opinioni sono sempre ben accette! 〜
Alla prossima! :3

Baci
Shizuha

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Capitolo 3
*** II Capitolo ***


II Capitolo




Tokyo, 7 aprile 2016, 12:56



Tobio si trovava lì giusto da un paio di minuti. Era nella terza classe, che stava al primo piano, e per sua fortuna l’aula di musica stava tre classi dopo la sua, perciò nemmeno venti metri e poteva avere davanti a sé la porta che avrebbe sicuramente aperto milioni di volte.

Aveva suonato per una mezz’ora buona anche prima delle lezioni: sapeva che il club di musica, in quella scuola, non esisteva più da anni e l’aveva scelta esattamente per quello.

Aveva il violino sotto il mento e le dita affusolate sulle corde anche in quel momento, quando la porta si aprì e non per sua volontà.

Sobbalzò nel sentire una voce acuta giungergli alle orecchie; quella stanza non era completamente insonorizzata, ma un minuscolo effetto doveva pur farlo, per cui qualcuno doveva essere entrato per forza qualcuno.

«T-tu… perché sei qui?»

Tobio abbassò l’archetto e il violino e si voltò verso la persona che aveva interrotto la sua tranquillità.

La prima cosa che vide furono dei capelli di un colore che sembrava impossibile: non era esattamente rosso, tendeva più verso l’arancione. I ciuffi sbarazzini ricadevano sugli occhi color nocciola. Ed era terribilmente, estremamente basso agli occhi di Tobio.

Corrugò le sopracciglia. «Eh?» fece con aria vagamente confusa.

«Kageyama Tobio...» Shouyou si raddrizzò e lo guardò come se, in realtà, fosse un intruso in un luogo sacro. «Perché sei qui?» esclamò scandendo bene le parole di quella che sembrava più un’affermazione che una domanda.

Tobio, come lo squadrò meglio, sgranò gli occhi scuri. «Sei quello dell’anno scorso...» osservò senza nessuna particolare intonazione. «Non ricordo il tuo nome.»

«Sono Hinata Shouyou!» Fece una smorfia infastidita. «E mettitelo bene in testa: anche io userò l’aula musica, che tu lo voglia o meno!»

Tobio ricordava bene la sfacciataggine di quel ragazzo. Ricordava anche la zazzera di capelli ribelli, i suoi occhi pieni di luce e vitalità. Tuttavia, ricordava ancora meglio il suo inimmaginabile talento al pianoforte, la capacità di fare un brano suo e suo soltanto.

«Sei un idiota» sbottò, e lo fece come se fosse un dato di fatto e non un insulto. La linea delle sue labbra, però, era dura.

Shouyou schiuse le labbra e rimase a fissarlo come se avesse appena visto un fantasma per più tempo di quanto gli fosse conveniente. Quando si riprese dallo sbigottimento ‒ chi ha il coraggio di dire: “Sei un idiota” a qualcuno che non conosce? ‒, si fece avanti con capo chino. «Io… ho perso l’anno scorso, è vero!» Sollevò lo sguardo ardente di sfida sull’altro. «Ma ho intenzione di stracciarti, ora! Mi sono allenato un sacco in questi mesi e sono venuto qui proprio per poter continuare a farlo!»

«Anche io.»

Shouyou non comprese subito a cosa si riferisse: se al fatto di poter suonare o di volerlo battere. L’aveva già fatto una volta, dopotutto.

«Anche io sono venuto qui per lo stesso motivo» chiarì Tobio, gli occhi blu ridotti a due fessure. «Proprio perché sapevo che sarei stato solo.»

Il pianista si raddrizzò e lo guardò con autentica curiosità. «Pensavo che uno come te sarebbe andato in un liceo musicale. Sai, no,» fece vagare un po’ lo sguardo per la stanza, «di quelli con l’orchestra enorme, che si esibisce sempre nei teatri più grandi del Giappone...»

La fronte di Tobio si increspò come un foglio di carta. «Non mi hanno preso.»

Shouyou si trattenne a stento dal ridergli in faccia e, anzi, si impose di rimanere composto nei limiti del possibile. «Ma tu sei il “metronomo umano”, il prodigio di cui tutti parlano!» esclamò gesticolando. «Com’è che non ti hanno preso?»

«Non sono affari tuoi.» Così, si girò e si allontanò di qualche passo. Alzò il violino, ma, prima che potesse poggiarvi il mento, lanciò un’occhiata gelida al ragazzo dai capelli rossicci. «E per poter vincere contro di me dovresti diventare un violinista.» Riprese a suonare come se non fosse successo nulla.

«Ah, sì?» Arricciò le labbra, e con passi leggeri raggiunse lo sgabello davanti all’elegante pianoforte verticale, posizionato esattamente alla destra di Tobio. Non era di pelle come quello della sua vecchia scuola, ma il colore che spiccava era sempre il nero, esattamente come quello del piano.

Era vero, non si esercitava per bene da circa un mese. Tuttavia, alcuni bar con dei pianoforti al loro interno distavano al massimo un paio di chilometri da casa sua, e ogni giorno lui era disposto a percorrere qualsiasi strada pur di suonare anche solo per trenta minuti. Ai clienti, di solito, non dispiaceva, e ormai l’anziano e scorbutico proprietario di uno dei locali si era abituato alla sua presenza. Shouyou, per ringraziarlo di quella possibilità che gli era stata offerta, prendeva spesso qualche dolcetto, o anche soltanto una bibita.

Spostò lo sgabello provando a creare meno rumore possibile, mentre ancora Tobio suonava, e si sedette.

Non era un semplice pizzicare di corde. Il violinista stava eseguendo un vero e proprio brano, nonostante non si fosse ancora riscaldato per bene: la Danza Macabra di Camille Saint-Saëns. Aveva già scordato la corda del Mi in Mi bemolle, perciò quella era stata la prima opzione a sfiorargli il pensiero. Richiedeva anche una certa abilità, e questo Tobio lo sapeva bene. La sfida a Shouyou, però, l’aveva lanciata lui, e non poteva permettersi di perdere.

Shouyou non conosceva quel pezzo. O per meglio dire, lo aveva udito più volte nei video che, quando non suonava, vedeva e rivedeva come se ne andasse della sua vita. Non sapeva il suo nome, ma ormai la melodia era impressa a fuoco nella sua mente.

Il pianoforte era vecchio e poco utilizzato, si vedeva; i tasti colmi di polvere e un po’ ingialliti, comunque, non intimidirono il pianista nemmeno un po’.

Aspettò qualche secondo per poter prendere il tempo giusto. Poi, come una reazione a catena, le sue dita premettero i tasti e i martelletti colpirono le corde. Il suono venne fuori, perfetto ed armonioso contro la musica di Tobio.

Nessuno dei due si fermò. La melodia si fece sempre più intensa, come se fosse una gara per decretare il migliore e stessero cercando di superarsi ogni secondo che passava. Il cuore batteva come dopo una maratona interminabile.

A Shouyou tremarono appena le mani. Non suonava da due giorni, e tra l’altro stava andando puramente ad orecchio. Le sue mani erano agili, certo, ma lo sforzo fisico era immane e se riusciva ancora a stare dietro al moro il merito andava attribuito per la maggior parte alla fortuna e alla voglia di vincere quella tacita sfida. La fortuna sapeva tradire e lo spirito combattivo, da solo, non sarebbe mai bastato.

E lo dimostrò la nota successiva, e quella dopo ancora: aveva esitato troppo nel ricordare una nota e un attimo dopo si era trovato rovinosamente fuori tempo.

Non si diede per vinto e Tobio continuò a suonare, sebbene si fosse accorto sicuramente di quell’errore. Con sorpresa di quest’ultimo, Shouyou recuperò in modo quasi inumano.

Non aveva mai sentito né visto nessuno stargli dietro così tenacemente. Il solo fatto di suonare ad orecchio un brano così complicato come quello era ammirevole, ma il violinista aveva saputo di avere la vittoria in pugno sin da quella nota saltata, dopo appena quindici secondi di un testa a testa.

La sua abilità al piano era indubbiamente incrementata, questo il violinista l’aveva notato subito. Ma così pochi mesi non sarebbero bastati a colmare la differenza che li separava.

Aumentò ancora di più la dinamica e, seppur questo volesse dire non seguire più lo spartito ‒ tanto quella sfida vi era già andata oltre ‒, velocizzò di poco il tempo. Le dita cominciarono subito a dolergli, ma non se ne dovette preoccupare per più di tre secondi.

Shouyou perse quel duello. Era andato completamente fuori tempo e il suono del violino aveva sopraffatto quello del pianoforte.

Un pesante silenzio calò nell’aula per qualche attimo.

Tobio fu il primo a muoversi: si girò a guardare le spalle del rosso ancora ricurve sulla tastiera. «Come vedi, non sei l’unico ad essersi esercitato.»

Contrasse le labbra fino a farle diventare una linea sottile. Quel ragazzo aveva vinto contro di lui ancora una volta, e lui non poteva far nulla per la sua carenza di esperienza e tecnica. Tutti quei mesi passati a scuola fino al tramonto erano davvero serviti a qualcosa?

Shouyou si voltò d’improvviso. «Ancora una volta!» disse, gli occhi color nocciola splendenti di determinazione.

Certo che erano serviti a qualcosa. Altrimenti non si sarebbe trovato lì, in quel momento.

Il violinista sbarrò le palpebre, stupefatto, per poi accigliarsi. «Non potresti comunque» obiettò con fare infastidito. «Non hai lo spartito.»

«Mi puoi dare il tuo.» Scrollò le spalle, come se fosse ovvio.

Tobio fece una smorfia e fece due passi avanti. «Quello è per il violino, idiota!»

Shouyou gonfiò le guance come un bambino che fa i capricci, continuando a fissarlo con quei suoi occhi enormi e profondi che sembravano sempre chiedere qualcosa. Stette un po’ in silenzio, ma poi, con voce squillante, aggiunse: «Non possiamo fare come prima? Io ho suonato senza spartito!»

«E infatti», accennò un ghigno, «hai perso dopo nemmeno un minuto.»

Il ragazzo lasciò nuovamente che un cipiglio mostrasse la sua stizza. «Ma ti ho tenuto testa per quei pochi secondi.»

Tobio incatenò i suoi occhi seri a quelli dell’altro. «Poco importa» decise, ma Shouyou non percepì alcuna nota di scherno. «Solo chi suona fino all’ultima nota vince. E solo uno può vincere.»

Il suono della campana che segnava la fine della prima metà della pausa e il brontolio dei loro stomaci lasciarono albergare quella convinzione assoluta nella testa di Tobio.

Ma si sa: ogni persona cambia, e con lei le sue idee.


Tokyo, 7 aprile 2015, 15:00


Shouyou aveva già buttato tutto nello zaino prima della conclusione ufficiale delle lezioni, ma nessuno aveva avuto da ridire. Era solo il secondo giorno di scuola, con insegnanti e compagni estranei, e le novità erano troppe perché avessero già iniziato il programma.

Si era dondolato per cinque minuti buoni sulla sedia, fremendo per uscire e andare in aula musica ‒ preferibilmente prima di quell’antipatico di Tobio. Non sapeva in che classe si trovasse ‒ se fosse stata la quarta o la quinta, che stavano al piano di sopra, lui avrebbe sicuramente avuto un grande vantaggio ‒, ma ciò non lo avrebbe frenato di certo.

Quando la campanella suonò, non esitò un attimo. Afferrò la cartella con una mano e salutò frettolosamente tutti, per poi sfrecciare nel corridoio per raggiungere la porta senza alcuna indicazione sopra di essa.

Peccato non avesse notato una figura che gli venne quasi addosso.

Toccarono la maniglia nello stesso momento e nello stesso momento sollevarono gli occhi sui rispettivi visi. Sembrava quasi una scena di un film, detta così, ma in quegli sguardi non ci fu niente di romantico né tantomeno sentimentale: da disorientati e confusi, i due ragazzi passarono a guardarsi in cagnesco.

«Ma ora non puoi andare a suonare a casa?» chiese Shouyou con tono indispettito, aprendo la porta ma non smettendo di giocare a quella sfida di sguardi.

«Perché invece non ci vai tu?» abbaiò. Tobio non si tirò indietro a quell’ennesima competizione. Fece per entrare nell’aula di musica prima di lui, ma gli occhi d’ambra che si abbassarono lentamente lo fecero ricredere.

«Perché non potrei farlo.» Si morse il labbro e, con lo sguardo ancora rivolto a terra, non si accorse di quello limpido e curioso del violinista. Non prolungò, però, la sua perdita ulteriormente: riprese a guardarlo, ma senza nessuna intenzione provocatoria. «Suonare, intendo.»

La sua espressione aveva parlato ancora prima della sua voce. Tobio la conosceva benissimo: era contrita, quasi angosciata. Alcune immagini di sua madre in atteggiamenti naturali come cucinare o accennare qualcosa al piano gli attraversarono la mente. Non era la prima volta che accadeva. Non volle approfondire, non erano cose che gli sarebbero dovute interessare.

Annuì una volta sola, col volto disteso e non con quel solito cipiglio ad aggrottargli le sopracciglia. Poi si voltò sotto gli occhi perplessi di Shouyou e prese a camminare.

«Ma dobbiamo metterci d’accordo sulla pausa!» gli urlò dietro il pianista.

Tutto ciò che fece Tobio fu annuire nuovamente e proseguire.



Un lato era cambiato.

Ricordava benissimo quel pezzo, lo aveva rigirato tra le dita decine e decine di volte.

Lo toccò con malcelata titubanza, sperando che fosse finalmente diventato come tutti gli altri. Tutti gli altri erano letteralmente un trionfo di emozioni, di immagini e di passioni che, in un modo o nell’altro, facevano parte della sua vita.

Ma quella parte era sempre stata vuota come un guscio che deve ancora essere abitato. Era avvilente, stancante, perché svuotava anche lui di tutta la sua euforia.

Quando, però, il viso di Tobio gli si parò davanti agli occhi, pensò con un broncio che quello doveva il pezzo degli antipatici.


Tokyo, 8 aprile 2016, 7:35


Contrariamente a ciò che si poteva pensare vedendolo, a Tobio non piacevano solo le melodie cupe e ostiche. Anche il solo pizzicare le corde e il suono frammentato che questo generava lo rilassavano. E persino il solfeggio non dispiaceva a uno come lui, che non sopportava stare fermo.

Tutto ciò che la musica implicava era quasi sacro, per Tobio, che fosse l’esibirsi davanti a un pubblico o lo studiare uno spartito, ripetere le sue note fino alla nausea, conoscerlo così bene da poterlo fare proprio.

Per questo, chiunque non si impegnasse suscitava uno strano fastidio che strisciava sotto pelle, come se fosse un serpente intento a osservare la preda e pronto ad aggredirla appena avesse fatto un passo falso. Non aveva nulla contro chi, al contrario, era ancora alle prime armi e poteva ‒ ma soprattutto voleva ‒ ancora migliorarsi.

La voglia di migliorarsi e di vincere ‒ e non per qualcosa che non fosse la vittoria in sé ‒ l’aveva notata eccome, in Shouyou. Eppure quel ragazzo lo irritava oltre ogni limite e non era ancora riuscito a capirne il motivo.

Non che ci avesse pensato troppo, certo. Shouyou Hinata lo irritava e basta.

E la porta che si spalancò di scatto mentre lui si allenava lo confermò.

Il sole si era alzato da dietro l’orizzonte già da un paio d’ore, i suoi raggi ancora deboli inondavano dolcemente la stanza di luce. Tobio non ebbe problemi a riconoscere prima la sua voce e poi la sua figura esile.

«Di nuovo tu?» si lagnò il più basso, mettendo piede nell’aula.

Shouyou si guardò attorno solo in quel momento. Non c’era poi molto da guardare, in realtà: l’area era abbastanza grande, intorno ai venticinque metri quadrati, e il fatto che fosse quasi totalmente spoglia non faceva altro che renderla più immensa all’occhio esterno. Il bianco sporco delle mattonelle in granito del pavimento contribuiva ancor di più; a Shouyou ricordavano tanto quelle degli ospedali. Dalla parte del muro più corta, a destra dell’entrata e lontano dai raggi solari, si stagliava un pianoforte verticale, ancora non spolverato, mentre agli angoli erano ammassati banchi, sedie e leggii.

Ma una cosa gli piaceva più di tutte, e si notava subito, appena entrati: le finestre. Erano due, larghe e alte, occupavano circa metà della parete opposta alla porta, e davano sul cortile posteriore della scuola; di mattina il sole non si poteva vedere perché erano posizionate ad ovest, ma il tramonto era uno spettacolo senza prezzo.

Shouyou odiava il tramonto. L’aveva sempre visto come il colpevole della fine dei suoi allenamenti, che, se fosse dipeso da lui, si sarebbero potuti protrarre all’infinito. Il giorno prima, quando aveva visto quella sfera di fuoco tingere di mille sfumature di rosso il cielo di Tokyo, aveva pensato che forse da quel momento in poi non sarebbe stato così sgradevole.

«Voglio dire,» ciancicò poi, risentito, «perché non poteva esserci qualche persona più simpatica a suonare di prima mattina?»

Le guance di Tobio si colorarono lievemente di rosso, ma l’altro non fu capace di spiegarsi la causa. Poi avanzò, passando il violino nella mano in cui teneva l’archetto, e prendendolo per il colletto lo strattonò. «Che vorresti dire?» strillò, ancora imbarazzato.

Shouyou, se avesse potuto, sarebbe andato in bagno per la paura. Non trovava il motivo di prendersela tanto per un commento del genere; dopotutto, lui l’aveva insultato più e più volte!

Lo lasciò andare quasi subito senza nemmeno provare a sfiorarlo, per poi allontanarsi e dargli le spalle. «Si può sapere che diamine vuoi?»

«Suonare, ovvio!» Il pianista accennò un sorriso e, con passo deciso, giunse davanti allo strumento.

Tobio si voltò di nuovo, frustrato. «Ma non puoi farlo a casa?»

Shouyou storse la bocca come se avesse appena sentito qualcosa che conosceva a memoria. «Ti ho già detto di no!» Gli indirizzò un’occhiataccia da sopra la spalla.

Sbuffò tutta l’aria che aveva nei polmoni il più rumorosamente possibile. «Ma perché?» s’informò, moderando appena i toni.

«Perché non ho un pianoforte.»

Tobio, per un attimo, prima che l’altro gli desse di nuovo le spalle, rivide la stessa espressione del giorno precedente. Quella quasi addolorata, come se gli mancasse qualcosa. Ora sapeva cosa, ma lui, in ogni caso, cosa poteva fare? Provò ad immaginare casa sua senza il violino, il leggio e i mille libri di musica sparsi dappertutto; per poco non gli vennero i brividi. Sarebbe stata un corpo senza anima.

Gli rivolse uno sguardo grave, e così fu la sua voce. «Suoni da tre anni, no?»

Shouyou fece sì col capo, ma insisté a non guardarlo. Le piccole labbra rosee si erano ridotte a una linea finissima, gli occhi inchiodati in un punto a caso del muro sporco di muffa e polvere.

Tobio tentennò un poco prima di porgli un’altra domanda. Forse non era la persona più simpatica e affettuosa del mondo, tuttavia era in grado di fermarsi quando stava per urtare la sensibilità di qualcun altro. L’aveva imparato a sue spese. Inoltre, lui non aveva nessun diritto né di chiedere né di sapere: si conoscevano a malapena e i loro pochi incontri non erano stati troppo amichevoli.

Poi esalò un sospiro rassegnato. «Senti...» Shouyou si voltò di scatto, segno che lo stava ascoltando. «Non avrebbe senso ritornare a casa a quest’ora», il suo sguardo vagò per la stanza fino a riconoscere un orologio analogico a muro giallo limone, «perciò dobbiamo trovare un accordo.»

Il rosso si stupì: non sembrava il ragazzo da cercare accordi. Piuttosto, si aspettava che l’avrebbe buttato fuori a calci. «Va bene» esclamò, annuendo vigorosamente.

Tobio arricciò il naso: l’aria pensierosa che lo aveva circondato qualche attimo prima pareva magicamente svanita. Si mosse verso l’estremità sinistra dell’aula, sollevando un reggispartito di acciaio laccato in nero, un po’ rotto, e posizionandolo al centro, a qualche metro dal piano. «Quindi?» fece dopo aver sostenuto un gioco di sguardi con l’altro per dieci secondi, un sopracciglio alzato. «Qualche idea?»

Shouyou si sedette sullo sgabello, alzando le spalle. «Possiamo suonare insieme» propose con il tono di chi lo conosceva da anni.

Il violinista si accigliò, ma poggiò ugualmente lo strumento sulla spalla. «Non sei nemmeno lontanamente vicino al mio livello» replicò lui freddo, austero. «E poi chi te lo dice che abbiamo gli spartiti degli stessi brani?»

Si era imbronciato un secondo alle parole del più piccolo, ma alla domanda rispose con un sorriso smagliante. «Suono ad orecchio!» confessò con orgoglio. Sapeva che non era per niente facile e, nonostante tutto, seppur con melodie semplici, lui ci riusciva. Di certo sbagliava ‒ e neppure troppo raramente ‒, però era normale, no?

Il suo mento per poco non toccò il pavimento. Ecco, si disse, perché l’anno precedente l’aveva sentito allontanarsi dalla partitura: non l’aveva seguita dapprincipio. Si chiese ingenuamente perché, dato che almeno lì, durante l’esibizione, la aveva praticamente spiaccicata in faccia. Magari era questione di abitudine… ma ciò non rese meno seccante la notizia.

Poi un’idea molesta gli trillò in testa come una campanella. Si chinò sulla sua borsa, frugò un po’ e ne tirò fuori un mattone vecchio, con su scritto: “Rachmaninoff”.

Shouyou non riuscì a leggerlo, mentre allungava il collo per capire cosa l’altro volesse fare.

Poi lo aprì sul leggio. «Forza, suoniamo» ghignò. Alzò l’archetto fino a che esso non toccò le corde, sfiorando col mento la mentoniera.

Shouyou strabuzzò gli occhi e li sbatté un paio di volte prima di metabolizzare bene l’invito a quell’ennesima sfida. «Aspetta!» Si alzò di scatto. «Non conosco mica tutti i brani del mondo!» pigolò gesticolando.

«Vediamo se conosci questo, allora.» Prese posizione e, con lo sguardo fisso sullo spartito, iniziò.

Era indubbiamente in vantaggio, Tobio lo sapeva. Ma la vittoria non sarebbe stata soddisfacente se ne avesse scelto difficile; insomma, già il rosso doveva ascoltare bene le note, adattarsi al tempo e suonare. E, naturalmente, doveva anche averne la piena conoscenza.

Lui, contro ogni aspettativa del violinista, ghignò a sua volta. Fece il giro della sedia, lentamente, e si mise a sedere con un’eleganza che dimostrava di rado.

La decisione che Tobio aveva fatto non poteva essere migliore. Il moro ovviamente non poteva prevedere che l’amore dell’altro per tutte le composizioni di Rachmaninoff era spropositato.

Shouyou ricordava di aver sentito lo stomaco attorcigliarsi, il rumore del sangue pompato nelle orecchie e un groppo in gola, la prima volta. Al tempo non aveva potuto immaginare che avrebbe provato quelle sensazioni ogni qualvolta avesse udito i pezzi di quell’autore. Era grazie al suo arrangiamento de La Gioia di Amare di Kreisler se era entrato in quell’enorme e affascinante universo.

Non c’era un solo suo brano che non conoscesse; senza dubbio non li sapeva tutti a memoria, ma Tobio lo aveva aiutato non poco, forse inconsapevolmente. Il Preludio in fa diesis minore Op.23 n.1 l’aveva suonato centinaia di volte, principalmente perché era semplice abbastanza per il suo livello e perché con ogni probabilità era l’unico in cui riusciva a premere cinque tasti di fila senza andare nel pallone.

Le prime volte aveva provato solo con gli accordi della mano destra, che si erano dimostrati più difficili e veloci di quanto avesse immaginato. Poi, dopo un po’ di pratica e la consapevolezza di essere migliorato, era passato a quelli della mano sinistra, che servivano ad accompagnare. In questo caso aveva impiegato molto meno tempo; quando, però, si era deciso a suonare finalmente con entrambe le mani, la testa gli si era fusa come ghiaccio al sole. Piano piano, con una caparbietà che faceva in tutto e per tutto parte della sua persona, aveva imparato a premere i tasti con più disinvoltura, senza il bisogno di guardare il suo cellulare ogni dieci secondi per vedere se quello che stava suonando fosse quello giusto. Non senza errori, vero, ma esserci riuscito era appagante ed elettrizzante come poche cose. Anche ora vi dedicava almeno un quarto d’ora al giorno: era magico anche solo sapere di eseguire un pezzo di Rachmaninoff.

Di quello, sì, lo poteva dire: era a conoscenza di ogni sfaccettatura, di quando doveva aumentare o diminuire la dinamica, di come fare pressione sulla tastiera e sui pedali.

Sorrise e agì allo stesso modo di qualche mese prima, come se stesse rivivendo quei momenti di totale immersione nella musica. Esordì con la melodia principale, la mano destra che già volava.

Tobio gli lanciò una fugace occhiata sorpresa. Era partito senza alcuna esitazione e praticamente subito. Comprese altrettanto rapidamente che non stava accompagnando proprio nessuno: quella era la versione originale, da solista.

Come biasimarlo, d’altronde? Era abituato da sempre a suonare solo, senza neanche un insegnante, e l’unica volta in cui aveva cercato di accompagnare qualcuno non era finita meravigliosamente.

Ma questo Tobio non lo sapeva. Con lo sguardo fisso sulle pagine colme di note, spostò le dita sulle corde e l’archetto tra le mani. Non avrebbe potuto smettere comunque: quella era una sfida.

Gli attimi passavano velocemente, ma entrambi avrebbero saputo descrivere ogni emozione, per filo e per segno.

Shouyou, dopo venti secondi, era già sull’orlo delle lacrime: non ci poteva fare nulla, suonare quel pezzo lo emozionava sempre. Sentiva il cuore in gola e il suo rumore irregolare scuoterlo troppo spesso, esattamente come era successo il giorno prima. Quella volta, però, batteva all’impazzata a causa della perenne paura di sbagliare di nuovo e che Tobio gli dicesse di interrompersi; ora invece provava qualcosa di più grande, più tranquillo, come se si trovasse davanti a una tigre che non mangia da giorni e che, ciononostante, gli andasse bene così, perché sarebbe stato capace di domarla.

Tobio preferì non farsi domande, non mentre suonava. Lo avrebbero solo distratto.

Ancora qualche secondo e Shouyou mise in moto anche la mano sinistra, spostandola decisamente meno freneticamente e facendole compiere movimenti più dolci.

Il moro aggrottò le sopracciglia e si permise di guardare di nuovo il ragazzo. Era vero, non se l’aspettava: non aveva mai dimostrato queste capacità, dopotutto. Ma lui non aveva di certo intenzione di perdere.


Erano passati più di tre minuti da quando avevano cominciato. Il sudore di Shouyou si confondeva con le lacrime, tuttavia lui non si scompose nemmeno leggermente. Stava suonando al massimo e non poteva chiedere di meglio.

Se non fosse stato per il suo incrollabile orgoglio e la sua spaventosa concentrazione, Tobio sarebbe stato già boccheggiante, sia per la fatica emotiva sia per quella fisica. Quella situazione stava divenendo sfiancante, ma non di certo per la composizione: era la competizione con il rosso e con se stesso che lo spingeva a superare ogni suo limite. Pensò che sarebbe stato bellissimo e al tempo soffocante se quei pochi minuti si fossero prolungati nell’eternità.

A qualche secondo dal termine si accorsero che, in teoria, nessuno dei due aveva ancora vinto. E benché fossero talmente delicate da risultare a malapena udibili, nelle ultime note abbandonarono se stessi e ad entrambi si strinse il cuore. Fu come conoscersi da una vita e voler scoprire ancora di più.

Il silenzio non era pesante, né imbarazzante o fastidioso. Non era nemmeno assoluto: Shouyou poteva sentire i respiri di Tobio anche a quella distanza e viceversa.

«È un pareggio» soffiò il pianista, ancora con le mani sulla tastiera e gli occhi arrossati dalle lacrime.

Tobio lo osservò, il violino sulla sua spalla, e solo dopo mormorò un «Sì» incredulo. «Lo conoscevi bene» aggiunse, sospirando appena.

«Era Rachmaninoff.» Lo disse come se fosse una spiegazione scontata.

«Sì» ripeté in un sussurro.

Seguì un’elettrica staticità: sembrava che volessero riprendere a suonare e contemporaneamente urlarsi contro.


Tokyo, 8 aprile 2016, 12:46


Si scorsero nello stesso momento. E, per quanto pericoloso fosse tra i corridoi colmi di studenti, non riuscirono a evitare di notare anche la combattuta porta beige e di correre verso di essa con tutte le proprie forze. La distanza era su per giù la stessa da entrambe le parti: nessuno dei due poteva dire di essere partito in vantaggio.

Certo, a parte Shouyou, che si era avviato un secondo prima ‒ un secondo che faceva la differenza ‒ e che, quindi, si appoggiò per primo allo stipite per un pelo.

Sul suo viso sbocciò un arrogante sorrisetto vittorioso. «Ho vinto io!»

Tobio gli ringhiò contro e lo guardò in cagnesco, il cuore che batteva un po’ più velocemente del normale. Poi spalancò l’ingresso con veemenza, la custodia del violino in spalla, e si intrufolò impettito.

Era tutto come l’avevano lasciato quella mattina: un leggio al centro della stanza, una sedia circa un metro più in là, lo sgabello storto lontano dal pianoforte, le finestre aperte da cui entrava una piacevole frescura. Non si erano detti nulla, dopo quel breve scambio di battute. Erano stati immobili per un quarto d’ora, fino al suono della campana, e lanciandosi appena un’occhiata erano schizzati fuori dall’aula. Peccato che Tobio avesse dimenticato la borsa sulla sedia e fosse dovuto tornare indietro.

«Ehi, Kageyama!» lo chiamò Shouyou con un gran sorriso, mentre entrava e si dirigeva al piano. Lui si girò ma non disse nulla. «In che classe vai?»

«Che t’interessa?» masticò a mezza bocca, voltandosi di nuovo e aprendo la custodia.

Il rosso sbuffò e brontolò qualcosa, poi si lasciò cadere sul tessuto nera della sedia a gambe incrociate. «Io sono nella prima!» Si dondolò un po’. «Ci sono un sacco di ragazzi simpaticissimi! Dovresti conoscerli, magari ti toglierebbero quel broncio spaventoso dalla faccia...» Un’occhiata bieca di Tobio bastò a farlo zittire.

«Che diamine vuoi e perché sei qui?» Prese la colofonia e iniziò a passarla sui crini dell’archetto, tentando in tutti i modi di non lanciarla in faccia al quindicenne.

«Ma sei sordo?» disse Shouyou ironico, per poi alzarsi nuovamente e avvicinarsi al ragazzo più alto, guadagnandosi un altro sguardo torvo. «Ti ho detto che voglio suonare!»

Il violinista storse la bocca. «Per forza quando lo faccio io?»

«Guarda che sei l’unico che si sta facendo problemi.» Sbirciò da sopra la sua spalla per vedere cosa stesse facendo, socchiudendo la bocca lievemente meravigliato. «Comunque» riprese con tono offeso «l’aula musica è solo una, io posso suonare solo qui e tu non puoi andare a casa durante la pausa.»

Tobio lo squadrò per qualche attimo, volgendo solo la testa. «Dobbiamo trovare un accordo» concluse, decidendo di aver finito con la colofonia e riposandola.

«Io te l’ho detto: per me possiamo anche suonare insieme. Tanto non sono più di venti minuti e tu hai suonato un sacco di volte con degli accompagnatori.» Fece una pausa. «Chissà quanti ne avrai cambiati con la tua antipatia...» parlottò, prendendo a camminare un’altra volta verso il piano.

Se fosse dipeso da Tobio, in realtà, avrebbe suonato da solo per sempre. Ma la sua vecchia scuola non si era trovata d’accordo: il club di musica era uno dei migliori delle scuole medie di Tokyo. E seppure fosse già stato appurato che fosse un prodigio, dopo diverse esibizioni non gli era stato più permesso di suonare nell’orchestra della scuola. Uno degli insegnanti lo aveva allenato in disparte, con altri ragazzi che avevano scelto la strada da solista. Allora si era ripromesso che, una volta giunti i diciannove anni e la possibilità di suonare nella classe senior, avrebbe suonato da solo, senza neppure l’accompagnamento.

«Sei una palla al piede» lo aggredì, facendo una smorfia ed estraendo il violino e un libro ingiallito.

Con Shouyou era diverso. Era insopportabile, su questo non aveva dubbi, però… con lui, la voglia di suonare aumentava e basta. L’ultima volta aveva eseguito il brano decentemente. Non quanto lui, certo, ma gli errori di tempo e di dinamica erano stati impercettibili, e a differenza del giorno precedente non aveva sbagliato nessuna nota ‒ non gli avrebbe fatto nessun complimento, naturalmente. Tuttavia, più di tutte le sue discutibili abilità, lo aveva colpito la totale fiducia che aveva nella musica e nel pianoforte. Infondeva tutti i suoi sentimenti in ciò che suonava; Tobio poteva quasi sentire tutto il suo spirito combattivo urlare ed essere rumoroso esattamente come lui.

«Ci riesci a stare qualche secondo senza insultarmi?» rispose Shouyou a tono, indignato. Si sedette e stavolta diede anche lui le spalle al moro.

«Non è colpa mia se sei uno stupido.» Pose il libro sul leggio e fissò una pagina, poi sollevò il violino e lo adagiò sulla clavicola.

«E magari ti aspetti anche che ti dia ragione!» Sbuffò, ma tornò di buon umore appena vide la tastiera sotto di lui. «Allora, che suoniamo?» fece concitato, girandosi per guardarlo. «Hai qualcos’altro di Rachmaninoff?»

«Ho più di dieci libri di Rachmaninoff, a casa.» L’altro s’imbronciò. «E in ogni caso prima si fanno le scale, idiota» puntualizzò.

«Scale?» chiese il pianista come se non ne avesse mai sentito parlare. «Non servivano solo ad imparare le note e ad accordare gli strumenti?»

Tobio sgranò gli occhi, scandalizzato. Ebbe, per l’ennesima volta, l’irrefrenabile voglia di buttargli addosso qualsiasi oggetto contundente avesse a portata di mano. «Ma sei deficiente?» tuonò, puntandogli l’archetto contro. «Le scale sono le basi della musica! Sono fondamentali, ti preparano a movimenti più difficili e rendono le dita diecimila volte più agili!»

Shouyou parve colpito da quello scoppio improvviso. «Ma sono noiose...»

Scelse una di quelle più semplici, che si imparano giusto dopo qualche mese: quella in Sol maggiore. Ci era abituato, la faceva ogni giorno da quasi un decennio. Finì in pochissimo tempo per quanto rapidamente la eseguì, dando a malapena il tempo a Shouyou di spalancare le labbra.

«Dato che sono così noiose, perché non ci provi anche tu?»

Il rosso si concesse un risolino nervoso. «Saranno diverse per pianoforte, come gli spartiti...»

Tobio depositò con garbo il violino e l’archetto nella borsa di spugna rossa ancora aperta. Poi, con poche e grandi falcate, raggiunse l’altro alla sua sinistra e si abbassò abbastanza per toccare i tasti.

«Che stai facendo?» Notò che il suo fianco gli sfiorava la spalla, così scivolò a destra, sgabello compreso.

«Sta’ un po’ zitto!»

Optò ancora una volta per quella in Sol maggiore. Dovette farla di un’ottava più bassa per impedirsi di spiaccicarsi addosso al ragazzo. La fece a due mani e terminò quasi con la stessa velocità con cui l’aveva suonata col violino, le dita lunghe che si muovevano come se fosse la cosa più semplice e naturale del mondo. Ancora una volta Shouyou non riuscì a non restare attonito da tanta maestria.

Il violinista si raddrizzò e le sue labbra si piegarono in un ghigno sfacciato. «Su, provaci tu» incalzò con l’aria di chi sa di avere già vinto.

«Suoni anche il piano?» Shouyou, però, non lo stette a sentire.

Tobio scrollò le spalle con nonchalance. «Ovvio.»

«Mica tanto» brontolò arricciando il naso e tenendo gli occhi bassi sui pedali. Poi lo guardò di sottecchi. «In pratica sarebbe ovvio se io suonassi il violino, allora...»

«No,» disse tornando al centro dell’aula, «perché sei un idiota.»

Il pianista gonfiò le guance indispettito. «E tu sei insopportabile!»

«Come te!»

Shouyou fissò i tasti con stizza. Provò a mettere il pollice sul Sol centrale ma, dopo averlo pigiato e aver continuato con le altre quattro dita, si bloccò: non sapeva più come continuare. Tobio gliel’aveva mostrato, ma aveva a malapena visto i suoi polpastrelli toccare la tastiera. Era stato troppo rapido perché lui imparasse anche solo con gli occhi.

«Idiota...» Tobio non lo aveva visto, tuttavia si aspettava un errore del genere. Riprese in mano il suo strumento. «Ascolta bene di nuovo e prova a rifarla. Non hai sette dita, perciò vedi di trovare una soluzione!»

Strinse le labbra: il giovane aveva ragione, ma non gli avrebbe mai dato una soddisfazione del genere. Guardò le sue dita per un istante, poi, come sentì la melodia allegra, tornò con lo sguardo sul violinista. Accadde di nuovo tanto velocemente che registrò appena le note. L’unica fortuna era che, dopotutto, si trattava comunque di una scala: andava dal Sol al Sol, e di certo non si dovevano fare salti mortali.

Il moro lo affiancò di nuovo mentre Shouyou fece nuovamente aderire il pollice al tasto.

Sentiva un po’ di pressione ad essere osservato e giudicato in quel modo, non lo poteva negare. Era abituato a suonare da solo o al massimo con Izumi o qualche altro suo amico attorno, ma loro non se ne intendevano e si complimentavano indipendentemente da cosa faceva.

Sino al Re eseguì la scala con le cinque dita; poi, non trovando alternative, spostò la mano e concluse col medio. Nemmeno un secondo dopo qualcosa di duro gli colpì la nuca. «Ahi!» strepitò, portandosi le mani alla parte interessata e reclinando la testa indietro per vedere degli occhi blu che lo scrutavano con fastidio e sufficienza. «Perché l’hai fatto?»

«Perché, oltre ad essere un idiota, sei anche impedito!» gridò a sua volta Tobio, picchiettando un dito sulla sua fronte. «Ti ho detto di trovare una soluzione, non di rallentarti ancora di più!»

«Ma io che ci posso fare?» gemette Shouyou, storcendo la bocca. «Non sono mica nato riuscendo a suonare, che so, Mozart! Non ho mai fatto le scale, quindi non lo posso sapere!»

Il moro sbuffò e, mormorando un «Ma ti si deve insegnare tutto?», si chinò, ripetendo la stessa azione di qualche minuto fa ma più lentamente. Shouyou notò che le prime tre note le suonava con il pollice, l’indice e il medio, per poi ricominciare col pollice e tornare indietro.

Pollice, indice, medio, pollice, indice, medio, anulare, mignolo. Se lo disse e ridisse come se fosse una nenia.

Appoggiò il polpastrello al tasto, le sopracciglia corrugate per la concentrazione. Con molta più lentezza, ma se la cavò ‒ o almeno così credette. Finché non avvertì un altro scappellotto in testa. Si girò con impeto e gli indirizzò un’occhiataccia rabbiosa, tirando pugni a vuoto, poiché Tobio si era già spostato e le sue braccia erano troppo corte. «La vuoi finire?» esclamò esasperato.

«Ma se tu non mi ascolti!» ribatté il violinista a voce altrettanto alta. «Te l’ho anche fatta vedere, idiota! Suoni ad orecchio e non sai distinguere il Fa dal Fa diesis

Il viso di Shouyou si tinse di una decina di smorfie incomprensibili: ancora una volta, Tobio aveva ragione. Si era concentrato troppo sul movimento delle dita e si era affidato come sempre al suo udito per la natura delle note. Buttò fuori un «Uffa!», ma subito ci riprovò. Soffermandosi sul cambio del pollice e del medio e raggiungendo a fatica il tasto nero per era appena stato rimproverato, ci riuscì. Non importava quanto poco svelto fosse stato, ci era riuscito e tanto bastava a fargli gettare un urlo eccitato.

Si voltò verso il ragazzo dietro solo per trovarlo a ridere sotto i baffi. «E ora che hai da ridere?»

Tobio lo guardò con scherno. «Hai le dita piccolissime! A stento arrivi ai diesis e bemolle!»

Shouyou arrossì, colpito nell’orgoglio. «Non è colpa mia se sono nato così!» balbettò, cercando nuovamente di mollare qualche pugno nella pancia dell’altro, sbilanciandosi però troppo e rischiando di cadere.

«No, almeno questo no» gli concesse coi lineamenti più addolciti. «Però di solito i pianisti hanno le dita lunghe… Magari avresti più successo con la batteria.» Ci pensò un attimo e l’aria altezzosa riapparve. «Ma faresti schifo anche con quella, figuriamoci!»

«Cosa c’entra adesso?» sbottò Shouyou con il tono di chi sta per scoppiare. «Le mie dita saranno piccole, ma sono veloci!»

Non poteva dargli del tutto torto: aveva suonato un pezzo, seppur uno dei più semplici, di Rachmaninoff, e per giunta senza la partitura davanti. «Resti un incapace» disse comunque.

Il pianista ringhiò, frustrato. «Tra poco quel violino te lo sbatto in testa!» Non si accorse del lampo di orrore negli occhi di Tobio. «E poi» proseguì, il tono più pacato ma pieno di fierezza, «mi stai insegnando le scale! Significa che vedi del talento in me.» Fece un sorrisetto gongolante e alzò il mento.

Tobio sbarrò le palpebre, ma si costrinse a non farlo almeno con la bocca, già dimentico di ciò che aveva detto prima il quindicenne. Era vero? Riconosceva del talento in lui? Certo, pensò, ma non pensava fosse così lampante. In realtà, non sapeva nemmeno lui perché gli stava mostrando le scale come se fosse una questione di vita o di morte.

Perché ha detto un mucchio di cazzate, si rispose istintivamente.

Qualche istante dopo si riebbe dal momentaneo smarrimento. «In te vedo solo idiozia! E io non ti sto insegnando un bel niente, ti sto facendo capire che le scale sono molto più importanti di quanto pensi!» Shouyou schivò per poco un altro pugno. «Se proprio avessi voluto insegnartele, sarei partito da quella del Do, imbecille.»

S’indispettì, ma non replicò al colpo dell’altro. «Ma prima hai suonato con me e ti ho tenuto testa!» Incrociando le braccia al petto, si rese conto che la persona con cui stava parlando non era una qualunque: l’anno scorso aveva gareggiato fino ai regionali del torneo e, per di più, non aveva mai perso un concorso. Sorrise. «E abbiamo pareggiato! Quindi non sono poi così tanto più scarso di te.»

Tobio lo fissò con ira e, al tempo stesso, determinazione. «Fino a prova contraria, ho vinto io sia l’anno scorso che ieri.» Si voltò e camminò fino al centro della stanza. «Quella di ieri pomeriggio sarà stata solo fortuna!» sibilò mentre sistemava il violino e l’archetto dentro la borsa.

Shouyou inclinò la testa da un lato, curioso. «E adesso che fai?»

«Me ne vado a suonare sul serio! Qui perdo solo tempo.»

«Ti hanno mai detto che sei odioso?» sbraitò alzandosi improvvisamente e stringendo i pugni. «Qualunque accompagnatore riesca a sopportarti è un santo!»

Tobio chiuse la zip della custodia nera con uno scatto violento, riversando tutta la rabbia nei suoi gesti. Le ultime parole del pianista lo inquietarono e innervosirono ancora di più. «Suono da solo, non ho bisogno di nessun accompagnatore!»

«Perciò non parteciperai al torneo di quest’anno.» Shouyou contrasse le labbra: meglio star zitto che dire qualcosa di cui avrebbe potuto pentirsi. Quelle poche volte in cui perdeva le staffe ne diceva sempre, di cose del genere.

«Perché, tu sì?» Sogghignò a denti stretti, quasi gli facesse pena, e si mise la borsa in spalla. «Ti ricordo che è per violinisti e per pianisti.»

Il rosso lo guardò come se avesse detto una cosa e poi fatta una totalmente diversa. «Dovresti ricordartelo anche tu! Oppure farai concorsi a pagamento? Ah, ecco perché vinci sempre!»

Voilà: era successo. Fu anche più velenoso di quanto si aspettava. Non sembrava nemmeno averle dette lui, quelle parole: non era un ragazzo che si arrabbiava spesso, o almeno non seriamente. Era gentile e dolce con tutti, e a stento riusciva a dimostrarsi sarcastico, figurarsi acido o rancoroso. Non si sarebbe mai sognato di parlare in questo modo a qualcuno.

Nonostante se ne fosse pentito subito dopo averle sentite scivolare sulla lingua, la collera e l’orgoglio erano troppi affinché si scusasse.

Lo sguardo di ghiaccio di Tobio divenne mare in tempesta. Fece appena tre passi per raggiungerlo e lo prese per il colletto, ma non alzò l’altra mano per colpirlo. Incatenò gli occhi a quelli d’ambra dell’alto, che al contrario sembravano fuoco divampante. «Io vinco sempre e in ogni caso

Benché fosse in una posizione scomoda e sconveniente, non osò abbassare lo sguardo. Non ribatté: lo osservò lasciarlo e andarsene, sbattendo la porta con impeto.

Il suono della campana fece sgusciare via tutta la rabbia che aveva in corpo e lo lasciò con un tremendo senso di vuoto allo stomaco.


Tokyo, 9 aprile 2016, 12:47


Ora si trovavano faccia a faccia.

Sia il pomeriggio precedente sia quella mattina aveva potuto suonare liberamente, con l’aula tutta per sé. Naturalmente, Tobio non gli avrebbe ceduto anche la pausa pranzo, dal momento che non aveva materialmente tempo di tornare a casa.

Erano di nuovo da soli nell’aula e Tobio era appena entrato, molto più calmo dell’ultima volta.

Shouyou si morse il labbro e abbassò lo sguardo: doveva mettere da parte l’orgoglio. «Scusami per ieri...» scattò con voce acuta e lo osservò: aveva un’espressione vagamente sorpresa. «Ho detto delle cose cattive solo perché ero arrabbiato…»

Sbatté le ciglia un paio di volte, spaesato. Non era abituato a ricevere scuse così esplicite, soprattutto quando lui non si era comportato tanto meglio dell’altra persona. Annuì lentamente, con il volto più rilassato del solito.

Il pianista gli indirizzò un’occhiata piena di qualcosa molto simile all’aspettativa, ma appena due attimi dopo s’immusonì e sospirò pesantemente. Non si poteva aspettare che Tobio facesse lo stesso: a quanto pareva non era tipo da aver mille e più relazioni sociali.

«Dobbiamo trovare un accordo, eh?»

Il moro annuì di nuovo. «Potremmo dividerci l’aula» suggerì, facendo di tutto pur di non fissare gli occhi del ragazzo. Si sentiva a disagio. «Intendo, un giorno io e un giorno tu. Va… bene?»

Shouyou gli sorrise come se non avessero battibeccato in continuazione da quando si erano conosciuti. Non si sarebbe mai sottratto alla musica, certo, ma si sentì quasi in dovere di cedergli la stanza per primo.

Si voltò con una piroetta, per poi uscire saltellando ed esclamando: «Domani tocca a me, Kageyama! Ci vediamo!»

Domani sarebbe stato una domenica, ma non fece in tempo a dirglielo.

Era una tregua.


Tokyo, 12 maggio 2016, 12:53


Era una tregua a metà, a dirla tutta.

Eseguì la scala con naturalezza e velocità, poi rilasciò il fiato trattenuto. Aveva finito col riscaldamento e poteva finalmente esercitarsi su ciò che più gli premeva in questo momento: il brano per il concorso. Era vero, non aveva nessun accompagnatore, ma aveva tempo fino ad agosto ‒ sarebbe stato meglio almeno qualche settimana prima, dato che non poteva raccattare qualcuno e mettergli sotto il naso uno spartito che avrebbe dovuto imparare perfettamente in pochi giorni.

Cacciò fuori il libro per violino di Bach, lo posizionò sul leggio e appoggiò il mento alla mentoniera.

Ma la porta si aprì.

O meglio, venne aperta.

Già pronto ad urlare contro a colui che aveva interrotto il suo allenamento, si girò verso l’ingresso. La voce gli si fermò in gola come riconobbe uno dei tanti custodi della scuola.

«Ehi, ragazzo!» lo chiamò, come se ci fosse qualcun altro nell’aula, la voce gracchiante e un accento che Tobio non seppe identificare.

Calò il violino e l’archetto e lo stette a sentire con un viso imperturbabile.

L’uomo grassoccio si accostò a lui. «Allora, ti devo parlare. E poi lo devi dire anche all’altro ragazzino che suona qui, il tappetto. Hai capito?»

Il violinista comprese subito a chi si riferiva: di tappetti che suonavano lì ne conosceva solo uno. Fece sì col capo.

«Questa stanza verrà usata per le attività di un club che si formerà l’anno prossimo, quindi dopo le vacanze estive toglieranno tutte ‘ste cose.» Indicò con il capo il pianoforte e tutte le cianfrusaglie ammassate agli angoli. «Tu potrai ancora suonare fino ad aprile, ma il tappetto no. Ci tiene tanto, vero? Resta qui fino a tardo pomeriggio ogni giorno» si rispose da solo senza aspettare una parola dal ragazzo davanti a sé, «ma oggi non l’ho manco visto una volta.»

Nemmeno Tobio lo aveva notato da qualche parte quella mattina. Di solito lo incontrava per caso nel corridoio ‒ era normale, d’altronde stavano sullo stesso piano ‒ e si lanciavano occhiatacce che avrebbero incenerito una casa, se solo avessero potuto. Certe volte, senza una vera e propria ragione, correvano senza una meta ben precisa e alla fine venivano beccati da qualche professore.

Quella era la metà di tregua che era andata a farsi friggere.

Per il resto, il loro accordo non aveva subìto cambiamenti e loro non ne avevano più parlato.

«Diglielo tu, che magari lo vedi più di me. Hai capito?» ripeté con quel suo tono basso che faceva capire le frasi che pronunciava solo per intuito.

Il quindicenne annuì un’altra volta, per poi acconsentire: «Va bene».

L’uomo sorrise compiaciuto, i pochi denti giallastri e macchiati, ed uscì.

Tobio fece vagare lo sguardo fino a trovare l’orologio a muro giallo: mancavano pochissimi minuti all’una e lui non aveva ancora provato il pezzo. Poi guardò la custodia, il libro sul reggispartito e infine il violino.

Il suo istinto decise che, quel pomeriggio, sarebbe andato a casa un poco più tardi.


Tokyo, 12 maggio 2016, 15:02


Si era preso lui la briga di spolverarlo e di pulirlo. Lo faceva abbastanza frequentemente e si portava tutto il materiale necessario da casa. C’era bisogno di una delicatezza che lui solitamente non possedeva, ma per evitare di rovinarlo era attento anche alle più piccole inezie.

Non gli dispiaceva nemmeno troppo, anzi: era come se quel pianoforte fosse suo, e lui se ne prendesse regolarmente cura, come una madre con il proprio bambino.

Posò lo zaino a terra, e si sedette con un sospiro di sollievo. Aprì il coperchio con accortezza, lentamente, e scrutò innamorato la fila di tasti bianchi e neri.

Mosse un po’ le dita in aria, poi posò il pollice della mano destra sul Do centrale e il mignolo della sinistra su quello di un’ottava più bassa.

Da quando Tobio gli aveva fatto vedere la scala in Sol maggiore aveva cominciato a fare ricerche e, diversamente da come aveva sempre pensato, si divertiva tantissimo a fare avanti e indietro con le mani, a giocare con le sue dita sulla tastiera. E il violinista aveva ragione: era un riscaldamento perfetto. Gliene era profondamente grato, ma si sarebbe morso la lingua pur di non ringraziarlo ‒ anche perché gli avrebbe certamente risposto con un muso lungo e un “Ma che vuoi?”.

Premette i polpastrelli sulla plastica e le sue labbra si piegarono in un sorriso leggero.

Ma la porta si aprì. Di nuovo.

Si bloccò subito e girò il collo di scatto, con gli occhi stralunati dallo sgomento. Appena capì chi era, non si fece problemi a guardarlo male. «Non è che potresti entrare con più gentilezza?» abbaiò, incrociando le braccia al petto e dandogli di nuovo le spalle.

«Entro come voglio!» replicò Tobio a tono, avvicinandosi al ragazzo. Tornò serio quando notò che aveva già cominciato ad allenarsi: non gli piaceva per niente dargli quella notizia. «Hinata...»

Shouyou non esitò a voltarsi ancora una volta: forse quella era la prima volta che lo chiamava per il suo cognome senza accompagnarlo a nessun insulto. Puntò i suoi occhi in quelli di Tobio per fargli capire che lo stava ascoltando.

«Tra un po’ il pianoforte verrà tolto.»

Per Shouyou fu come una pugnalata. Il moro prevedeva già grida da tutte le parti, che non poteva essere possibile, che non poteva accadere a lui, e invece schiuse la bocca e basta.

Si ritrovò quasi ad ansare come se stesse soffocando: il groppo era già là, nella sua gola. «Tra poco… quanto?» sussurrò. Non guardava più nulla in particolare, solo il vuoto.

La reazione del pianista sorprese Tobio nuovamente. Si stava palesemente arrendendo a quella decisione. D’altronde non avrebbe potuto far altro: la scuola così aveva preferito e loro così dovevano fare. Ciò non significava, tuttavia, che fosse normale.

Mosse due passi avanti, fino ad arrivare a qualche centimetro da lui, e lo sollevò dal colletto della camicia bianca della divisa. «Che ti prende?» sbottò scuotendolo. «Perché non reagisci, imbecille? Ti stanno portando via la musica!»

Shouyou lo fissò con quanta più fermezza e rabbia gelida potesse possedere. «Che dovrei fare, eh?» grugnì amaramente, senza liberarsi della stretta. «A casa non ho un piano, e a quanto pare lo toglieranno anche qui. Ho sempre trovato una soluzione, e lo farò anche ora! Anche perché non posso mica oppormi alla scuola, stupido! Che dovrei dire? Che un ragazzo vuole continuare a suonare qui e che quindi non dovrebbero levare un bel niente? E secondo te lo farebbero davvero?»

Non lo aveva mai visto arrabbiato e ragionevole allo stesso tempo ‒ non che si vedessero così spesso.

Lo lasciò e lui cadde di nuovo a sedere sullo sgabello. «Lo hai capito subito» osservò atono.

Shouyou non commentò. «Quindi quando? Quando lo toglieranno?» ribadì invece, lo sguardo di nuovo vacuo.

Tobio aggrottò le sopracciglia e sentì un sapore amarognolo in fondo alla bocca, ma lo ignorò. «Dopo le vacanze estive cominceranno a sgombrare tutta la stanza. Di preciso non lo so.»

Strinse le labbra e abbassò il capo. Si graffiò l’anulare: si stava torturando le dita da quando gli aveva dato quell’annuncio.

Non seppe la ragione, ma quella visione gli fece sconquassare lo stomaco e venire la pelle d’oca. Lo odiò e si odiò per essersi immedesimato in lui, perché quello che disse dopo, a mezza bocca, fu:

«Appena lo sapremo verrai da me. Ho un pianoforte.»

Shouyou lo guardò come se stesse diventando pazzo proprio in quel momento, dinanzi a lui.

«Ma se alle tre precise non ti trovo fuori dalla classe te ne puoi restare qui.» Si innervosì ancora di più come scorse un sorriso ad illuminargli il viso. «Non ti aspetterò manco morto, sappilo.»




― Nota d’autrice:

No, non sono morta! Secondo voi mi faccio uccidere così facilmente?

Sì ok la finisco

Finalmente ci sono riuscita! *i cori cantano Alleluja in lontananza* Per compensare alla mia immensa lentezza, il capitolo è lunghetto! In teoria dovevano succedere altre diecimila cose, ma ho deciso di tagliarlo subito prima che la faccenda mi sfuggisse di mano, perché avevo paura che diventasse troppo pesante per voi (e di aggiornare nel duemilamai).

Pensate che sia stata cattiva a togliere il piano a quel povero disgraziato di Hinata? Ovviamente no, perché alla fine c’è Kageyama che salva la situazione! Ma vedremo, vedremo. BD *scoppia in una risatina malvagia* E no, mi dispiace, ma ancora al secondo capitolo non si sono innamorati.

Ok giuro che la pianto

Ma comunque, passiamo a cose più serie. So che di fatto è successo poco in questo capitolo, ma c’è il primo incontro tra questi due idioti e ho provato a svilupparlo il meglio possibile. Non è perché sono assurdamente prolissa ed è venuto tutto il doppio di quanto avessi calcolato, assolutamente!

Ora, vorrei ringraziare _Lady di inchiostro_, Maiko_Chan e shatiaslove per aver recensito (e per ascoltare i miei scleri su twitter)! Ringrazio inoltre tutti coloro che hanno messo la storia tra le seguite, ricordate e preferite. Non sapete quanto mi aiutiate e mi facciate felice, grazie davvero! <3

E sì, insomma, nonostante ora come ora non ne sia troppo soddisfatta, spero che a voi sia piaciuto! ~

Al prossimo capitolo (sperando che venga fuori un po’ prima)! :3


Baci

Shizuha





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Capitolo 4
*** III Capitolo ***


III Capitolo



Tokyo, 12 maggio 2016, 19:39


Si buttò sul letto a peso morto, le braccia aperte. Nel buio fissò insistentemente il soffitto, come se potesse dargli le risposte che stava cercando in tutti i cassetti confusionari del suo cervello.

Si portò una mano alla fronte, emettendo un verso di frustrazione e chiudendo gli occhi. Aveva ancora il viso imperlato di sudore per le tre ore di allenamento e non vedeva l’ora di entrare nel box doccia, anche perché le giornate si andavano facendo sempre più calde.

Non si capacitò del tempo che stette in quella posizione, immobile tranne per il petto che si abbassava e alzava come una giostra.

Alla fine decise che l’avrebbe fatto. Solo per se stesso e per nessun altro.


Tokyo, 13 maggio 2016, 12:48


Il groppo in gola risalì come lo vide. Tobio gli aveva garantito un posto per continuare ad esercitarsi, vero ‒ in realtà si domandava ancora se non lo avesse sognato ‒, ma si era già affezionato a quello strumento. Succedeva con ogni pianoforte che toccava, eppure non se ne era dovuto separare mai così presto.

Lo consolava soltanto il fatto che avesse più di un mese per continuare a sentirlo, provarlo sotto le dita.

Camminò con passo lieve fino allo sgabello; appena udì un lento cigolio, però, si voltò di scatto.

Il ragazzo si infilò silenziosamente ma senza esitazione, fino a richiudere la porta alle sue spalle. Gli lanciò appena un’occhiata, poi si diresse verso gli arnesi accatastati alla sinistra e, come sempre, prese una sedia e un leggio.

«Ohi, Kageyama!» Shouyou lo guardò, per il secondo giorno di fila, come se stesse diventando folle. Notò che aveva la borsa del violino sulla schiena. «Ti sei scordato che oggi è il mio turno?»

Tobio non lo degnò di attenzione neppure stavolta. «Conosci Bach?» cambiò discorso come se non lo avesse sentito.

«Certo che lo conosco» rispose il pianista perplesso, la testa inclinata di lato. «Perché me lo chiedi?»

«Perché da oggi ti allenerai con me.»

«Che?» urlò, mentre l’altro sistemava la borsa sul legno chiaro e l’apriva con una certa premura. Lo raggiunse e gli si mise accanto.

«E abbassa quella cazzo di voce!» masticò, estraendo un libro che odorava di carta vecchia e aprendolo sul reggispartito.

Shouyou vide da sotto che era dell’autore che aveva appena menzionato. Poi tornò con gli occhi d’ambra confusi sul moro. «Kageyama,» fece con tono allarmato e gli posò il dorso di una mano sul volto, «tutto bene? Stamattina hai mangiato? È successo qualcosa?»

Tobio gli gettò uno sguardo storto e tanto bastò a fargli ritrarre il braccio. Afferrò anche il violino e l’archetto e si raddrizzò, lasciando la custodia aperta.

Il quindicenne dai capelli rossicci arricciò le labbra in un broncio. «E non mi guardare così! Stai facendo tutto tu, io non ci capisco niente!»

«Ma sei davvero così stupido? Ti ho detto che suonerai con me, che ci vuole a capirlo?»

«Suonare con te cosa? Come? Quando? E perché?»

Il violinista alzò gli occhi al cielo e sbuffò annoiato. Fece girare Shouyou e lo spinse poco gentilmente verso il piano. «Per il torneo di agosto, idiota. Nessuno dei due può partecipare se non troviamo qualcuno, e io mi sono stufato di stare a cercare.» Incrociò le braccia al petto e guardò il profilo smarrito e scandalizzato del rosso con fare altezzoso. «Perciò vedi di metterti a lavoro e imparare questo brano al più presto possibile.»

Shouyou si sedette sullo sgabello nero, ma non gli diede le spalle. «Si può sapere che cosa significa?» domandò con la voce più calma che gli uscisse in quel momento.

Tobio dovette appellarsi a tutto il suo autocontrollo per non far uscire nessuna imprecazione dalla bocca. «Significa» scandì, frugando di nuovo nella borsa, «che tu imparerai questo brano» e dicendolo estrasse un libro diverso da quello di prima ma con le stesse lettere scritte sopra, «lo suonerai insieme a me, parteciperemo al torneo e andremo ai nazionali. Ora hai capito, testa vuota?»

Tobio non era per nulla sicuro di quella scelta. Ma ci credeva. Credeva in Shouyou, credeva nelle sue abilità e credeva nella sua assurda tenacia. Che avesse talento lo aveva compreso subito, ma si era reso conto che avrebbe potuto tenergli testa solo durante il pezzo di Rachmaninoff, più di un mese prima. L’unico problema era che non aveva la testa e i mezzi per dimostrarlo. Se, invece, qualcuno lo avesse seguito, di certo sarebbe stato capace di diventare un mostro.

Lui voleva vincere contro quel mostro e, per questo, avrebbe anche aiutato quello stupido a tirarlo fuori.

«In realtà no» replicò più serio che mai. «Cos’è questa storia? Me ne hai parlato e me lo sono dimenticato?»

Per poco non si sbatté il tomo in faccia. «Te ne sto parlando ora! Leggi questo cavolo di spartito», dopo qualche passo glielo schiaffò sulle cosce, «e suona!»

«Aspetta un attimo! Io non ho mai detto niente! E poi chi te lo dice che non abbia già qualcuno che suona insieme a me?»

Il moro lo guardò come se avesse detto una delle sue solite sciocchezze. «Perché avreste già cominciato a farlo sul serio. E tu ti alleni da solo.»

Shouyou aggrottò le sopracciglia in un cipiglio quasi indignato. «Che fai, mi stalkeri?»

«Ovviamente no, imbecille!» strillò Tobio, le orecchie rosse come pomodori e la linea delle labbra sottile come un filo. Si girò e camminò fino al leggio col busto rigido e dritto come un palo. «Ma quando ho il turno di pulizie il pomeriggio non sento nulla.»

Il pianista si morse il labbro, colto in contropiede. «Continuo a non capire perché proprio io. Cioè, mi consideri una schiappa» rifletté mentre tamburellava distrattamente le dita sulla copertina.

«Tu sei una schiappa, è diverso.»

Gonfiò le guance e sporse le labbra come un bambino a cui è stato appena tolto il proprio giocattolo preferito. «Comunque» aprì una pagina a caso e vi buttò uno sguardo, «come mai tu non ne hai ancora uno? Di accompagnatore, dico.»

Naturalmente Tobio non gli avrebbe mai rivelato che era perché lui era l’unico pianista con cui parlava ‒ o, più generalmente, l’unica persona. Fece spallucce, come se non fosse niente d’importante o degno di nota, e diede un’occhiata in giro pur di non guardarlo.

Tornò a fissarlo con occhi curiosi, ma, dato che non aveva nessun’altra domanda da porgli, lasciò cadere l’argomento. «Allora, qual è questo brano che dobbiamo suonare?»

Il ragazzo dai capelli corvini sgranò le palpebre e rinforzò la presa sul violino, più per credere di aver sentito bene e di vivere ancora nella realtà che per altro. «Sei serio? Stai davvero accettando?»

«Di cosa ti stupisci, se me lo hai chiesto tu?» borbottò Shouyou. Poi storse la bocca, trovandosi in difficoltà. «E poi….» Abbassò lo sguardo. «La tua idea non è così male. Me lo potevi chiedere come le persone normali, però, stupido!»

«Senti, io te l’ho detto e basta, quindi non lamentarti!» Gli diede le spalle, come se stessero gareggiando per decretare chi fosse più sdegnato.

«Mi lamento eccome!» esclamò con il tono di chi sa di avere ragione, ma cambiò discorso: «Non mi hai ancora risposto, comunque».

Tobiòlo squadrò per qualche attimo, poi capì a cosa alludeva. «È la Gavotte en Rondeau della terza Partita. Se non sbaglio là è verso la metà» lo informò, indicando il volume con il mento.

Il rosso lo sfogliò un po’ mentre blaterava qualcosa come: “Fai davvero schifo in francese”, sperando che il violinista non lo sentisse.

Gli mostrò quello che pensava fosse lo spartito giusto, mettendo il dito sopra la carta. «Questo qui?»

Annuì. «Sono gli accordi per il piano. Vedi di studiarteli per bene.»

«Perché hai un libro per piano? Non pensavo che lo suonassi così spesso.» Shouyou lesse un po’ le varie note e le indicazioni di tempo, socchiudendo la bocca. «Oddio, devo premere il pedale così tante volte…» brontolò con la testa già fusa.

«Non lo suono quasi mai» rispose vagamente Tobio, ignorando l’ultima frase. Adagiò il violino sulla clavicola e sollevò l’archetto. «Ora ascoltami. Ti faccio un segno quando devi iniziare, o non lo capirai nemmeno tra un millennio.»

Gli gettò un’occhiataccia. «Ehi!»

Il violinista rispose all’occhiata torva, ma appena toccò la mentoniera iniziò a suonare.

Per quanto fosse una melodia allegra, Tobio era in grado di impregnarla di dolore. Non era cambiato dall’anno precedente: non c’era dubbio che fosse migliorato, tuttavia il suo stile era rimasto lo stesso.

Shouyou arricciò il naso, irritato. Aveva l’impellente voglia di prenderlo a schiaffi, ma non lo fece. Se ne restò lì, seduto e fermo, mentre il cuore gli si stringeva in una morsa amara e avvertiva il familiare groppo risalirgli in gola.

Di solito gli piacevano tutte quelle emozioni, anche a costo di piangere, poiché erano sempre positive e lo facevano sentire più vivo che mai. Con la musica di Tobio era diverso: tutto quello che provava era un’angoscia che non era sicuro di poter reggere. Eppure l’altro la reggeva da anni, sempre ammesso che suonasse così da quando aveva cominciato, e intanto era davanti a lui, che eseguiva il pezzo da portare a un concorso.

Dopo circa un minuto Shouyou sentì i peli delle braccia e delle gambe rizzarsi, e fu scosso da un brivido che partì dal petto. Avrebbe voluto urlargli di smetterla, ma non poteva. Non poteva perché Tobio aveva tutto il diritto di esprimere i propri sentimenti almeno attraverso le note, di sbatterglieli in faccia, dal momento che lui, dopotutto, aveva acconsentito a quella proposta ‒ o comando, per il moro non sembrava cambiare molto.

Si costrinse a non piangere, e come dopo un altro minuto si accorse di avere le guance bagnate, se le strofinò violentemente, nonostante la possibilità che l’altro si girasse e lo vedesse fosse davvero minima. Non pensò che, in effetti, essere scoperto con gli occhi rossi non lasciava troppe opzioni da scegliere.

Ascoltò fino alla fine, stringendo i pugni, conficcandosi le unghie nella pelle e torturandosi il labbro inferiore.

L’archetto non si trovava sulle corde già da qualche momento e Tobio lo stava scrutando con un’espressione che Shouyou non seppe decifrare. Nessuno dei due aveva ancora detto nulla.

«Hai capito quando devi partire?» chiese poi, ritrovandosi con il tono più basso e rauco del normale. Era impossibile non realizzare che Shouyou aveva pianto.

Scosse la testa, con un’aria che era tutto meno che sicura.

«Idiota!» gridò, lanciandogli il tappo di una bottiglia che chissà doveva aveva trovato, ma l’altro continuò a rimanere sconvolto e non reagì. «Ohi! Ma mi ascolti? Dove ce l’hai la testa, stupido?»

Il pianista sbatté le palpebre un paio di volte e si rese conto che il pezzo si era concluso veramente. «Che c’è?» fece con voce stridula dopo aver visto lo sguardo poco rassicurante dell’altro.

Tobio comprese solo allora che quello strano comportamento doveva essere stato causato dal modo in cui aveva suonato. Quell’intuizione gli fece esplodere nello stomaco un senso di soddisfazione e si trattenne a stento dal sorridere, anche se in modo accennato.

Sbuffò, ma non fu troppo convincente, e si rimise sulla spalla il violino. «Stavolta ascolta davvero, imbecille, non ho intenzione di farlo altre mille volte solo perché non usi il cervello!»

«Imbecille ci sarai tu, imbecille!» Shouyou si accorse subito dopo che quell’insulto probabilmente era esilarante e basta.

E infatti Tobio fece una smorfia derisoria, come a dire: Ma che problemi hai? Poi lo disse anche a voce.

«Parla per te!» replicò imbronciato. «Aspetta… Ma lo stai suonando di nuovo tutto

«Ovvio che no» chiarì piccato, guardandolo dall’alto al basso. «Non mi va di andare a prenderti rotoli infiniti di carta igienica.»

Divenne rosso almeno quanto i suoi capelli. «Dai, sbrigati, stai perdendo tempo!» se ne uscì distogliendo lo sguardo ed incrociando e la braccia al petto. Sperò che l’imbarazzo non fosse così evidente.

Tobio sogghignò beffardo, ma non aspettò a compiere ciò che doveva ‒ e ovviamente non perché gliel’aveva detto Shouyou.


Tokyo, 23 maggio 2016, 15:02


Non stava andando troppo male, pensava. Da più di una settimana si allenavano incessantemente sulle scale e sulla composizione di Bach, e nonostante imparasse tanto velocemente quanto un bradipo morto, doveva ammettere che ce la stava mettendo tutta.

Tuttavia qualcosa gli stava sfuggendo, e ogni volta che si concentrava per ricordarla quella sembrava scappare, come un animaletto spaventato.

Nella custodia del violino non c’era il libro, si ricordò. Durante la pausa pranzo, Shouyou si era presentato nella sua classe e, dopo aver preso senza permesso il suo bentou, aveva approfittato dell’effetto sorpresa e, sorridente come sempre, l’aveva trascinato di peso nel cortile esterno pieno di ragazzi. Avevano mangiato insieme a un gruppetto di compagni del pianista, ma Tobio aveva a malapena aperto bocca. Non che si fossero fatte chissà quali discussioni: si era parlato del più e del meno, come vedeva fare spesso ai suoi coetanei.

Alla fine dell’intervallo gli aveva mollato uno scappellotto sulla nuca e lo aveva rimproverato, perché anziché migliorarsi al piano aveva pensato a qualcosa di inutile.

Shouyou lo aveva guardato male. Successivamente, però, aveva contestato, serissimo: «La musica esprime te stesso. Se non fai esperienze e resti vuoto, cosa dovrebbe esprimere?»

Era rientrato in classe come al solito, non prima di ricordargli il loro allenamento in aula musica.

Tobio aveva avuto paura di quelle parole, e ne aveva ancora. Non traspariva nulla dalle sue note? Magari era sempre la stessa, identica cosa da anni: dolore.

Cinque minuti di riflessione e aveva scacciato quei pensieri come fossero stati dei mostri. Lui affondava se stesso nella musica, perciò era impossibile che non trasmettesse nessuna emozione. Che fosse tristezza o qualcos’altro non gli interessava: amava la musica e gli bastava.

Frugò nello zaino, ma non adocchiò ciò che cercava. Sgranò gli occhi, il qualcosa che gli era sfuggito ora impresso a caratteri cubitali nella sua mente.

«Il solfeggio!»

«Il solche

Tobio gli rivolse l’occhiata scandalizzata di chi è appena stato offeso. «Il solfeggio!» ripeté, agitando un tomo enorme sotto gli occhi del pianista. «Non mi dire che non hai mai fatto solfeggio!»

Shouyou fissò la copertina ingiallita, accovacciato accanto a lui davanti alla cartella. «Non so proprio cosa sia, in realtà» confessò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Rispose con un colpo di libro sul capo e l’«Idiota!» che ormai gli usciva naturale.

«Sei tu che ti scordi sempre che io non ho mai avuto insegnanti!» Si massaggiò la parte lesa. «E poi dovresti seriamente dare un taglio a questi istinti violenti» sbuffò.

«Il solfeggio per i pianisti è come l’olio per i cuochi: non puoi non conoscerlo!»

Shouyou, invece di annuire e dargli ragione, gli scoppiò a ridere in faccia. «Ma da quando fai queste metafore? Sembri una nonna!» Continuò a ridere come se l’altro non lo avesse appena fulminato con uno sguardo assassino.

A Tobio fu sufficiente una debole spintarella per farlo cadere sulla schiena. Si mise in piedi, si diresse al davanzale della finestra impolverato e sporco di scritte colorate e vi poggiò il volume sopra.

Si voltò a guardarlo, i lineamenti deformati da una smorfia irritata. «Se non smuovi il culo entro tre secondi, ti sbatto fuori, deficiente.»

Il rosso sbuffò, ma aveva ancora un sorriso leggero. «Che ci fai lì?» gli domandò curioso, mentre si alzava e si spolverava i pantaloni verdi della divisa.

«Oggi facciamo solfeggio» decretò, spostando l’attenzione al libro che cominciò a sfogliare freneticamente.

Lo affiancò con qualche passo, sbirciando gli spartiti che venivano sostituiti rapidamente da altri. «Quindi che cos’è questo solgeffo

«Solfeggio» lo corresse, lanciandogli l’ennesima occhiata torva. «Ora sta’ zitto, ascoltami e leggi le note.»

Shouyou si chiese cosa dovesse ascoltare, dato che nessuno dei due aveva strumenti in mano. «È così difficile spiegarmelo a voce?» si lagnò, appoggiando i gomiti sul marmo riscaldato dal sole.

«No» fece Tobio, fermandosi su una pagina senza alcun titolo. «Il problema è che il tuo cervello ci arriverebbe tra qualche mese e noi non abbiamo tutto questo tempo.»

«Sei insopportabile» mugugnò tenendo il muso lungo.

Gli arrivò un calcio allo stinco che non gli fece nemmeno troppo male ‒ da quando ci andava così piano? ‒, ma subito dopo il violinista esordì.

Shouyou strabuzzò gli occhi color nocciola, e finalmente capì cosa dovesse ascoltare.

Stava cantando.

O meglio, stava solfeggiando.

Diceva il nome delle note, ne riproduceva il suono, rispettava il tempo e le pause.

Non si sarebbe mai aspettato di pensare che Tobio avesse una bella voce. Si maledisse mentalmente, perché lui invece era stonato come una campana e non voleva perdere contro l’altro.

Il conflitto interiore non durò tanto. Si accorse ‒ non senza imbarazzo ‒ che stava apprezzando quel momento. Non gli sarebbe dispiaciuto ascoltarlo per sempre, mentre intonava quella melodia. La sua voce era sempre bassa, cupa, ma mutava del tutto rispetto a quella che usava quando lo insultava: era cristallina. Non c’era nessuna rabbia contro il mondo a contaminarla, era la voce di Tobio e basta.

Solo quando arrivò a metà dello spartito prese a leggere anche lui le note. Desiderò con tutto il cuore che il moro non lo avesse notato mentre lo fissava con sguardo meravigliato.

Finalmente lo spartito s’interruppe e per poco non tirò un sospiro di sollievo.

«Ora hai capito cos’è il solfeggio?»

Shouyou annuì senza troppa sicurezza.

Cambiò pagina e premette il palmo sul libro per tenerlo aperto. «Su, prova tu. Poi lo faremo anche al piano.»

Il pianista alzò lo sguardo su di lui, che invece lo lo faceva vagare per lo spartito. «Che significa?»

«Prima devi imparare a riconoscere subito le note e le pause, a cantarle, e dopo lo farai mentre le suoni.» Lo guardò di sottecchi, come ad avvertirlo. «Quindi vedi di concentrarti per bene, ché dobbiamo riprendere anche Bach.»

Fece sì col capo un’altra volta, allungò il collo verso il libro per vedere meglio e Tobio glielo avvicinò un po’.

Shouyou, quel giorno, scoprì che anche la voce poteva essere uno strumento.


Tokyo, 7 giugno 2016, 16:17


Avrebbe voluto prendere a schiaffi lui e se stesso.

Stavano passando un pomeriggio a non fare niente e gli dava un fastidio immenso.

Gli dava un fastidio immenso che Shouyou si comportasse con lui come con tutti gli altri. I suoi erano gesti naturali che di naturale, per Tobio, non avevano nulla.

Gli dava ancora più fastidio che lo spingesse a fare lo stesso, non come con tutti gli altri.

Era un fiume costantemente in piena, che, persino senza volerlo, riusciva a trascinare chiunque nel suo corso, ed era impossibile imporsi.

Parlavano un sacco.

Più che altro era il più grande a riempire i momenti di silenzio, anche quando non ce n’era bisogno. Gli raccontava un sacco di cose: come aveva passato le lezioni, quanto gli facesse antipatia il professore di economia domestica, cosa gli metteva sua madre nel bentou. Tobio rispondeva con insulti, prese in giro, ma solo da poco si era scoperto a concordare con lui su alcune cose, anche banalissime.

«Davvero, Nacchan è dolcissima! È impossibile non volerle bene. E secondo me ti toglierebbe quella cosa dalla faccia!»

Il violinista arricciò le labbra in una smorfia sdegnata. «Ma quale cosa

«Tutte quelle rughe che hai lì!» Shouyou lo indicò, seduto al contrario su una sedia di legno chiaro e plastica, le braccia appoggiate allo schienale e le gambe divaricate ai lati. «Però effettivamente potresti farle paura...»

Gli buttò addosso la bottiglietta da cui stava bevendo, offeso e stizzito. «Ci sono nato con questa faccia, idiota!»

Prese la bottiglia al volo e gli sorrise. «Nah, non ci credo.» La posò a terra sporgendosi in avanti. «Non potevi essere così imbronciato pure da bambino!»

«Non puoi saperlo.» Tobio sbuffò, chiuse violentemente il libro di letteratura e lo tirò da qualche parte, non curandosi di sapere dove fosse. Si sollevò dalla sedia vicina a quella di Shouyou, si rannicchiò davanti allo zaino e si mise alla ricerca di qualcosa.

Il rosso stette in silenzio a fissarlo per qualche attimo, stupito, ma non si mosse. «Kageyama, non abbiamo finito!»

«Studiare insieme è stata la più grande stronzata che tu abbia mai pensato, anche se quella di giapponese è la stessa, stupido!» Trovò quello che cercava e lo cacciò fuori. «Parli in continuazione e mi distrai. E fai schifo!»

Shouyou gli fece la linguaccia. «Parla per te, idiota!» rispose a tono, poi si esibì in un ghignetto. «Se sei una schiappa in letteratura moderna non è colpa mia.»

«Sì, e nel frattempo tu sei una schiappa anche nel solfeggio, quindi datti una mossa e siediti su quel dannato sgabello!» Si alzò e, dopo avergli schiaffato il libro sulla nuca, trascinò la sedia su cui stava davanti al pianoforte.

«Ahi!» Non si mise in piedi né si girò.

«Ohi! Sbrigati» lo esortò, aprendo il libro e poggiandolo sul supporto.

Non lo fece. «Kageyama...» bisbigliò, lo sguardo inchiodato al muro e le braccia ancora incrociate sullo schienale. «È passata anche da te oggi?»

«Cosa?» grugnì Tobio con aria annoiata.

Sapeva cosa gli stava chiedendo. In realtà, aveva sperato con tutto il cuore che non l’avrebbe fatto, e invece ora eccolo lì: con un’assurda voglia di piangere, di imprecare contro a tutti meno che Shouyou, per la prima volta da quando lo conosceva.

Strinse le labbra, per impedirsi di far uscire imbarazzanti singhiozzi, e gli occhi, per impedirsi di far uscire altrettanto imbarazzanti lacrime. «Lo sai.»

Il ragazzo dai capelli corvini sospirò stancamente. «Sì.»

Shouyou non era più riuscito a seguire le lezioni, ascoltato l’insegnante che pronunciava ad alta voce la circolare riguardante le vacanze estive.

Tutti avevano esultato, sebbene fossero a conoscenza degli esami che le precedevano.

Lui no. Aveva sbattuto la testa contro il banco ed era restato così per tutta l’ora, alzandosi con flemma solo alla fine.

Appena entrato nell’aula di musica si era sentito il pianto pungergli gli occhi. Tobio era già dentro e, come lo aveva visto, aveva cominciato a parlare a macchinetta. Forse, aveva pensato Shouyou, per distrarlo, e, nonostante avesse fallito, gliene era grato.

Il violinista, invece, si era accorto solo dopo di come stava agendo. Si era per caso inconsciamente preoccupato per lui? No, impossibile. Non gli voleva bene, non erano amici: suonavano insieme, punto. Certe volte, voleva urlare contro a quella vocina nella sua mente che gli rammentava che suonare insieme da un mese era straordinario, e che la musica, spesso, poteva unire due persone meglio di gesti o parole.

«Hai cambiato idea, no?»

Tobio aggrottò la fronte. «Su cosa?» Questa volta non comprese veramente.

Shouyou lo guardò da sopra la spalla, come a chiedergli: Sul serio?

«Andare a casa tua per allenarci, tutte quelle cose… Voglio dire, magari i...»

«Ma tu stai male!» lo interruppe, il tono stridulo e urtato. «Un mese a sopportarti e secondo te lo mando a quel paese?» Spostò lo sgabello indietro con il piede con tanto impeto che quasi si rovesciò. «Ora vieni qua. È l’ultima volta che te lo dico, alla prossima ti porto su ‘sto coso a forza di calci in culo!»

Il pianista sbatté le palpebre, sorpreso. «Come sei volgare, Kageyama-kun!» esclamò infine, dopo aver aperto e chiuso la bocca circa tre volte.

Poi sorrise.


Tokyo, 21 giugno 2016, 7:29


Chi se ne importava se il giorno successivo ci sarebbero stati gli esami?

«Kageyama!» Spalancò la porta praticamente buttandocisi sopra, ma dentro non vide nessuno.

Adocchiò l’orologio a muro: strano che ancora non fosse arrivato. Poi fece qualche piroetta nella stanza illuminata dalla luce tenue del sole del mattino, ma non si rischiò a guardare il pianoforte. Non quel giorno. Non era ancora pronto.

Quando gettò un’occhiata fugace all’ingresso, si rese conto di non essere più solo. Un sorriso radioso gli ravvivò il viso.

«Ti avranno sentito anche alla segreteria, idiota» lo rimproverò con la voce roca e assonnata di chi si è appena alzato dal letto, una spalla appoggiata allo stipite di legno e le braccia incrociate al petto. Si raddrizzò e prese a camminare verso l’angolo sinistro.

«Kageyama» allungò le vocali, buttando lo zaino a terra. «Ma non sai che giorno è oggi?»

Il violinista si voltò a osservarlo come se fosse completamente rincitrullito. «Martedì…?»

«No!» Arricciò il naso, offeso. «Cioè, anche. Ma è un giorno molto più importante del martedì!»

«Quello in cui mi irriti così tanto da ritrovarti senza ossa?» replicò, già stizzito da tutta quella vitalità di prima mattina.

«No!» ripeté Shouyou ancora più impermalito. «Quello in cui mi fai un regalo!»

Ok, è pazzo, si disse. «Da quando consideri la morte un regalo?» Trasportò una sedia al centro dell’aula e vi adagiò la custodia del violino, mentre la cartella scolastica andò a finire sul pavimento.

«Kageyama!» protestò il rosso con i pugni chiusi, avvicinandosi a lui. «Te lo avevo anche detto.»

«E secondo te mi ricordo tutte le stupidate che mi dici?» Aprì la zip della borsa.

Lui gli diede un pugno sul braccio, per tutta risposta. «Oggi è il mio compleanno!»

Tobio, d’istinto, come se fosse qualcosa che faceva abitualmente, tese una mano e la chiuse sulla zazzera rossiccia, stingendola. «Non me ne potrebbe fregar di meno.»

In realtà doveva ancora deciderlo. O meglio, doveva deciderlo il suo cervello appena lo avrebbe ritenuto più opportuno, e da solo, perché lui non si sarebbe mai chiesto se gli interessasse qualcosa di quel piccolo scocciatore. Mai.

«Ahi!» piagnucolò dimenandosi il più possibile. «Sei antipatico!»

«Ora vai a sederti, prima che il regalo ti arrivi subito!» Non provò nemmeno con le buone: lo fece voltare e lo sospinse con poca gentilezza verso lo sgabello.

Si massaggiò la cute dolorante, andando verso il piano con le spalle curve e borbottando lamentele.

Era combattuto. Shouyou migliorava sempre di più, vero, tuttavia non aveva ancora raggiunto neanche un livello prefetturale. Poi si chiese cosa facevano di solito in quei quindici minuti mattutini. Solfeggio e, se avanzava tempo, un paio di scale o esercizi per la mobilità delle dita.

La sua mente vagò fino al giorno del suo ultimo compleanno, ovviamente passato da solo, in una casa buia e riscaldata dai termosifoni. Aveva suonato il suo pezzo preferito per tutta la sera, dopo essersi concesso una porzione di maiale al curry e una fetta di torta alle mele, la sua preferita. Aveva dedicato ogni giorno un piccolo spiraglio di tempo a quel brano di Bach, e alla fine aveva potuto definirsi soddisfatto.

Forse Shouyou aveva organizzato una festa con i suoi amici, o con la sua famiglia; eppure, lo aveva detto a lui, gli aveva chiesto espressamente un regalo.

Magari Shouyou teneva anche al suo, di regalo. Magari una persona gli voleva bene, nonostante lui fosse Tobio Kageyama.

Il moro sbuffò rumorosamente, chiuse il libro che aveva appena preso e lo ripose dentro la custodia, scambiandolo con un altro. Non sapeva neppure perché lì c’era un libro di Rachmaninoff, dato che ormai suonavano le stesse cose da più di un mese.

Giunse al fianco del ragazzo ora sedicenne, che stava premendo qualche tasto a caso, sventolandogli sotto il naso quell’immenso mattone. Si mise a sedere sulla sedia di plastica e legno che aveva messo in quella posizione settimane fa e che ancora non era stata rimossa.

Posò su di lui lo sguardo sorpreso e di nuovo vivace. «Rachmaninoff?»

Tobio rimase incantato da quell’ambra fusa, luminosa come le stelle. Si riscosse dopo nemmeno un instante e, mentre annuiva, volse il capo, ancora più irritato di prima.

«Vedi di sbrigarti, ché me ne sto già pentendo!»

Di credere a tutte quelle sciocchezze. Non doveva illudersi: era impossibile che qualcuno tenesse a lui.

Tuttavia, non si fece sfuggire il sorriso smagliante di quel pianista che stava riponendo tutti i suoi sogni in lui.


All’inizio non vi aveva dato troppa considerazione: aveva creduto che fosse un normalissimo gesto gentile. Poi, ripensando a tutte le vicende della giornata come faceva ogni sera, disteso sul futon, realizzò che quel normalissimo gesto gentile lo aveva fatto Tobio per lui.

Anche se un po’ in ritardo, Shouyou accettò il suo regalo con un sorriso spensierato.


Tokyo, 22 giugno 2016, 7:48


Quella mattina si sarebbero tenuti gli esami.

Fallirli significava usare tempo prezioso per qualcosa che non fosse suonare, ed entrambi lo sapevano bene. Se fino a un mese fa iniziavano a esercitarsi subito, appena finite le lezioni, adesso passavano la prima ora del pomeriggio a studiare ‒ in un modo tutto loro, certo ‒ e gli ultimi quindici minuti della mattina a farsi domande per verificare se quello che avevano imparato il giorno prima fosse ancora impresso ‒ anche questo in un modo tutto loro.

«Dai, scrivi qui tutti i kanji di ieri!»

«Ti ho detto che me li ricordo! Dovrei fartele io le domande, sei tu l’idiota.» Gli strappò malamente il libro e il quaderno fucsia di mano.

Shouyou, seduto accanto a lui, gli pestò un piede. «Io non posso sapere se te li ricordi, stupido. Se poi fai schifo ai test io che dovrei fare?»

La fece passare come se fosse la mancanza del violino in sé a pesargli, e non sapeva se sperare che Tobio cogliesse anche l’altra sfumatura. Gli sarebbe mancato anche lui, ovvio. Nonostante ogni giorno non vedesse l’ora di urlargli contro, di vincere contro di lui in qualunque cosa, di rispondere a qualche scappellotto del giorno precedente, gli sarebbe sicuramente mancato. Ormai era diventata una routine abituale ma mai noiosa, quella di suonare insieme di mattina, durante la pausa pranzo e di pomeriggio. Magari si era affezionato più a lui che ai suoi compagni, che paradossalmente erano circa mille volte più simpatici e divertenti di lui.

Il fatto era che non aveva mai avuto qualcuno con cui parlare di musica e che ne sapesse più di lui. Gli altri ascoltavano il suo fiume infinito di parole, ma solo per dargli corda, poiché naturalmente non sapevano quanto fosse complesso usare la sordina a tempo mentre faceva il cambio degli accordi e andava avanti con la melodia principale.

Lui lo capiva, invece. Sarebbero potuti restare giorni interi a parlare solo di musica ‒ e anche questo, come in tutte le cose che facevano insieme, in un modo tutto loro.

Ma non glielo avrebbe detto, non adesso.

Tobio scrollò le spalle, come se non passare gli esami, per lui, fosse meno grave che per l’altro. «Ti alleni da solo, dato che sono nettamente superiore a te.»

«E sei anche molto più antipatico» si lagnò il rosso. Si riprese il libro e in cambio gli ficcò una penna tra le dita e diede una manata alla pagina bianca e a righe del quaderno. «E ora scrivi questi kanji, o stamattina non riuscirai manco a scrivere “Ciao”!»

Lui accettò di malavoglia. «Non è normale non riuscire a scrivere “Ciao”, imbecille» non si fece problemi a ribattere.

«Come se tu fossi normale» bofonchiò.

«E ora sta’ zitto, per la miseria!» tuonò, prendendo a pressare violentemente la penna sulla carta.

Shouyou continuò a brontolare qualcosa, mentre Tobio, con le sopracciglia aggrottate e le labbra contratte, ricordava tutti i kanji da scrivere.

«Qua, ho finito» lo avvisò il violinista dopo appena tre minuti, allungandogli il quaderno per fargli vedere la trentina di ideogrammi messi in colonna uno sotto l’altro.

Sbarrò le palpebre di scatto, come uscito dal suo mondo. «Di già?» fece con tono sorpreso. «Chissà che casino hai combinato...»

Ghignò con sicurezza. «Vedremo.»

Un paio di minuti dopo, il pianista dovette arrendersi. Tutti e trentadue i kanji erano giusti, fin nei minimi particolari. Decise che, con tutti quegli sforzi compiuti per l’inglese, non avrebbe assolutamente perso.

«Tieni.» Sbuffò, chiudendo il quaderno e porgendoglielo. «Nessun errore. Quindi vedi di non confonderti, oggi!»

Tobio lo freddò con un’occhiata e afferrò il quaderno fucsia con forza, come se fosse una specie di tesoro. «Lo dovrei dire io a te, imbecille.»

Lui sorrise, gonfiando il petto. «Vedremo» lo imitò, chinandosi sullo zaino e tirandone fuori un libro, che poi diede al moro. «Forza, scegli tu gli esercizi, tanto ormai sono come un madrelingua!» Si batté una mano sul petto con orgoglio.

Lo guardò come se fosse un fenomeno da baraccone nel bel mezzo del suo spettacolo. «Ma se non sai manco cosa sono, i madrelingua.» Aprì il testo di inglese e lo sfogliò con poco interesse.

Shouyou si limitò a fargli una linguaccia con tanto di verso.

«Se non finisci entro cinque minuti puoi già considerarti fuori.» Con una mano ferma a tenere la pagina, gli indicò uno di quegli esercizi verifica che si trovano alla fine delle unità.

Annuì e iniziò, la matita mordicchiata impugnata tra pollice, indice e medio.

Tobio spostava lo sguardo dal pianista all’orologio e dall’orologio al pianista, aspettando impazientemente che lui terminasse.

«E sbrigati, tra poco cominciano!» lo avvertì quando la lancetta dei minuti arrivò al numero undici.

Il rosso scrisse più velocemente e, alla fine, lasciò che la schiena urtasse contro lo schienale con un sospiro stanco. Osservò l’altro agguantare il volume dalle sue gambe e controllarlo attentamente, cambiando pagina di tanto in tanto ‒ probabilmente perché molte cose non le ricordava nemmeno lui.

Avevano scelto di studiare insieme soprattutto per quel motivo. Aiutandosi l’un l’altro sulle lacune maggiori, si finiva per ripassare un po’ tutto, e così limitavano il lasso di tempo speso a studiare.

«Quanto ci ho messo?»

«Più di cinque minuti.» Richiuse il testo senza correggerlo neppure una volta, segno che non aveva fatto errori.

«E quanto, allora?» Lo infilò dentro la cartella, in cui c’erano sì e no altri due libri e solo un quaderno.

Lo sguardo del violinista su di lui fu indecifrabile; poi disse annoiato: «Cinque minuti e qualche secondo, credo».

S’immusonì, mentre serrava la cerniera grigia e si portava lo zaino azzurro sulla spalla, alzandosi. «Sei pure pignolo, ora!» lo accusò dandogli le spalle.

Il suo volto si deformò in una smorfia infastidita. «Ho detto solo la verità» si giustificò, rimettendosi in piedi a sua volta.

Il sedicenne seguitò a scimmiottarlo sottovoce; la campana, però, lo troncò e paralizzò davanti alla porta.

Tobio lo affiancò e abbassò la maniglia. Poco prima di voltarsi e proseguire verso la sua classe, gli lanciò uno sguardo penetrante, ma non freddo. Forse aveva anche le labbra curvate in su.

A Shouyou piacque interpretarlo come un augurio di buona fortuna. Perciò si sentì in dovere di rispondere a tono anche stavolta, anche se non c’era più niente e nessuno, se non i brusii provenienti dai corridoi.

«In bocca al lupo, Kageyama.»


Tokyo, 27 giugno 2016, 12:02


Si guardarono nello stesso istante, annuirono e si sollevarono dalla sedia all’improvviso. Tesero il braccio verso la cattedra, posando i fascicoli sulla pila di quelli di letteratura e di inglese.

Si potevano ritenere soddisfatti, dopotutto: avevano fatto un buco nell’acqua solo in due materie, Tobio nella prima e Shouyou nella seconda. Soddisfatti fino a un certo punto, certo: il test di letteratura si era focalizzato sulla comprensione del testo e non sulla memorizzazione degli ideogrammi; in quello di inglese, invece, Shouyou aveva inserito le risposte giuste nelle caselle sbagliate. Tobio glielo aveva rinfacciato per tutta la giornata.

Schizzarono fuori dalla stanza sotto l’espressione stralunata della professoressa, fiondandosi al piano di sotto, dove stava l’aula di musica.

Il pianista provò a spingere, ma la porta non volle aprirsi. Ritentò con una spallata ‒ che, prendendo in considerazione la sua stazza, non avrebbe fatto molto comunque ‒, e anche stavolta la serratura la bloccò.

«Piantala, deficiente!» Lo allontanò rozzamente con un braccio, e si appoggiò sullo stipite a braccia conserte. «La scuola è finita, in teoria, quindi l’avranno già chiusa» ipotizzò, guardando la smorfia arrabbiata dell’altro divenire sempre più angosciata.

«L’hanno portato via…?» sussurrò, la voce strozzata e dei fastidiosi brividi che gli correvano su per gli arti.

Strinse le labbra e strizzò la stoffa della sua maglietta. «No, non credo. Non ancora...»

Shouyou puntò gli occhi a terra, imponendosi in qualsiasi modo possibile di non piangere. Poi si voltò muovendo appena un passo avanti, non degnandolo di uno sguardo. «Allora ci vediamo in giro, Kageyama… Spero che l’esame di recupero ti sia andato bene.»

Fece per camminare ancora, il capo piegato in giù, ma una mano che gli tirava le ciocche rossicce glielo impedì.

«Ma che cazzo hai, l’Alzheimer?» esclamò dentro al suo orecchio, rischiando probabilmente di rompergli il timpano. «Tu vieni a casa mia e ci alleniamo là, idiota!»

Il più basso si girò, e solo dopo un paio di attimi si riprese. «Ah, vero!» Le iridi color ambra brillarono per pochissimo; poi s’incurvò di nuovo come se lo avessero appena bastonato.

Poteva sembrare stupido, ma lui l’aveva salutato. Aveva salutato il pianoforte. Quando, alle sette, Tobio se ne era andato, si era messo a spolverarlo con una delicatezza che non aveva avuto nemmeno prima, e mentre lo fissava aveva pianto per dieci minuti buoni. Alla fine, si era presentato a casa alle nove.

Non ne aveva parlato con nessuno, ma non perché se ne vergognasse. Provava un sentimento più vicino alla gelosia, perché quel pianoforte ormai era suo. E glielo stavano portando via.

Si sentì in pieno diritto di farsi scappare un singhiozzo.

Tobio si ritrasse quasi spaventato. «Ohi, stupido, guai a te se mi piangi davanti!»

Shouyou lo guardò con quei suoi occhi enormi e ora lucidi e gli sfuggì un altro singulto. Tirò su col naso e finalmente una lacrima solcò la sua guancia, fresca e brillante come rugiada.

Voleva dire qualcosa, qualunque cosa, però non ci riuscì: restò quindi con la bocca aperta a boccheggiare come un pesce appena pescato. «N-no» si ritrovò a balbettare. «Ti ho detto di no!»

Il ragazzo dai capelli rossi non fece nulla se non continuare a piangere, ma gli fece il favore di abbassare lo sguardo.

Alla fine agì d’istinto: lo aggrappò per un braccio e prese a trascinarlo lungo il pavimento di granito. «Andiamo!» Non ebbe la volontà di voltarsi. «Chiama i tuoi di’ che sei da me, e subito, imbecille!»


Tokyo, 27 giugno 2016, 12:36


La casa di Tobio era grande, mastodontica, rispetto alla sua che aveva giusto due vani oltre alla cucina e al bagno. Non solo: era in stile occidentale, come tutte le villette del residence che la circondavano. Era piuttosto sobria, almeno all’esterno: le pareti di un celeste chiarissimo, quasi bianco, poche finestre e un tetto spiovente con mattoni di un rosso caldo, tendente al marrone.

Tobio cacciò fuori un mazzetto di chiavi che parevano tutte uguali, non contraddistinte neanche da una targhetta. Ne infilò una nella serratura della porta massiccia, di scurissimo legno lucido. Con un tac, la porta si aprì e lui la spinse con un piede, entrando.

«Permesso...» La stanza era completamente avvolta nell’oscurità, tanto che Shouyou non riuscì più a vedere dove stava mettendo i piedi. «Alzare le serrande no? Si muore pure di caldo!»

«Puoi resistere fino al primo piano.»

Quindi c’erano addirittura due piani. Più che plausibile, dato che l’abitazione, oltre ad essere larga, era anche alta almeno la metà della palazzina dove stava.

«Ma i tuoi la tengono così?»

Il quindicenne non rispose, lasciando che quella domanda, che in alcuni casi poteva risultare inopportuna, echeggiasse tra le pareti di quella che sembrava una casa fantasma.

Qualche secondo dopo si sentì un fruscio e un tonfo, seguito da un’esclamazione di dolore.

Si voltò lentamente, fulminando con lo sguardo qualsiasi cosa, poiché non poteva vederlo e allora tanto valeva guardare male anche i mobili. «Che. Cazzo. Hai. Fatto?» scandì, con una specie di rabbia gelida a incupirgli la voce.

«Ahi» continuò comunque a lamentarsi il rosso. «Ma che diamine era?» Si mise carponi, gattonando e tastando quello che gli capitava sotto le mani.

«Ohi! Rispondimi, cretino.» Frugò nelle tasche, tirò fuori il cellulare e fece luce davanti a sé.

Il raggio artificiale lo accecò per un attimo, ma rivolgendo di nuovo gli occhi a terra, scorse un libro aperto che dava la copertina. Era di musica.

Sollevò lo sguardo sul violinista, appoggiandosi ai talloni. «Mi vuoi spiegare perché sono inciampato su un libro buttato a terra?»

«Perché sei demente, magari?» rispose, sarcastico. «E ora alzati: abbiamo da fare!»

«E allora degnati di accendere la luce, idiota!» Fece comunque come gli aveva detto, dal momento che restare sul pavimento freddo ‒ era marmo? ‒ non era la migliore delle possibilità.

Tobio si girò, ma non spense la torcia del cellulare, e proseguì. «Non ce n’è bisogno.»

«Ma che ti costa?» sbuffò, mentre arrancava dietro di lui, saltando e zigzagando in mezzo ai mille tomi e quaderni, gettati lì in mezzo senza alcun ritegno.

Provò anche a guardarsi attorno per pura curiosità; la luce bianca, però, arrivava giusto a qualche centimetro dai suoi piedi, e poi era nuovamente totale oscurità.

Raggiunsero i gradini ‒ Shouyou tutto integro ‒, anch’essi costellati di volumi enormi e libriccini di nemmeno cento pagine.

«Non voglio nessun cadavere sulla mia scala, quindi fa’ attenzione.» Cominciò a salire, velocemente, come se per lui fosse normale effettuare quella corsa ad ostacoli. Tuttavia, non sentì alcun passo prima di lui. «E spiccia...»

«Aspetta, Kageyama!» lo interruppe, sotto di lui. «Ma non dovremmo salutare i tuoi? Non è educato...»

«I miei» lo disse con un’inflessione che lo fece quasi rabbrividire, «non sono a casa» lo informò, secco e distaccato.

«Ah...»

Mentre andava su per gli scalini, avvertì un senso di disagio strano, come se non fosse adeguato a quel luogo. Sembrava che là ci avesse sempre messo piede solo Tobio, e che ora l’appartamento rispecchiasse la sua mente: caotica, buia e inaccessibile praticamente a tutti.

Shouyou, tuttavia, aveva bussato a suon di capocciate ‒ come faceva sempre ‒ e alla fine Tobio aveva ceduto.

A questo punto si sarebbe meritato anche un giro turistico, no?

«Che lavoro fanno?» ruppe il ghiaccio, ormai arrivati al corridoio di sopra finalmente illuminato.

Non avrebbe mai fatto quella domanda a qualcun altro: per lui stesso la famiglia e il lavoro erano un nervo scoperto. Ogni volta che glielo chiedevano si rabbuiava di colpo; dopo un po’, si era detto che non era mica colpa degli altri, perché non potevano sapere. Non era neppure colpa sua, perché non era tenuto a comunicarlo a tutti: non era colpa di nessuno. Lui, però, aveva deciso di essere più sensibile su quell’argomento.

Il problema era che non trovava più un argomento di cui parlare, e per lui era a dir poco soffocante. Gli sembrava che Tobio si fosse allontanato anni luce con quell’ultima risposta.

Sobbalzò, ma volle augurarsi che l’altro non l’avesse notato, dato che era avanti a lui di qualche metro. «Mio padre ha un ruolo importante nell’UNESCO, ma non ricordo come si chiama,» esitò, mandando giù un fastidioso groppo in gola, «e mia madre è una pianista.»

Era stato inopportuno, sì, ma c’era abituato. Alle medie glielo avevano chiesto compagni di classe, professori, insegnanti di musica e accompagnatori. La metà di questi sapeva chi era sua madre e che oramai non suonava più.

Sgranò gli occhi color nocciola e corse accanto a lui. «Tua madre è una pianista? Davvero? È stata lei ad insegnarti a suonare il piano? E il violino?»

Il moro non ebbe la voglia di irritarsi per tutto quell’inutile fomento. Doveva occuparsi del suo cuore impazzito e del formicolio che gli stava invadendo le braccia. Soprattutto, doveva far cadere quell’argomento al più presto, ma se fosse stato zitto o lo avesse insultato in qualche modo, probabilmente, sarebbe risultato sospetto e Shouyou si sarebbe incuriosito ancora di più.

Con la vista un po’ annebbiata, scorse la sua stanza e accelerò il passo. «Ho imparato ascoltandola.»

Anche la bocca si spalancò. «Ascoltandola?» esclamò, stupito.

Fece sì col capo. «Mi piaceva nascondermi sotto il piano e ascoltarla ogni volta che si sedeva per suonare» ricordò accennando un sorriso, così sincero e triste al tempo stesso.

Il pianista non capì per cosa si meravigliò di più: che Tobio stesse sorridendo, o che avesse imparato solo grazie all’udito. Anche a lui servivano gli spartiti se voleva fare qualcosa per bene.

Ringraziò qualunque divinità ci fosse in cielo per essere giunti all’ingresso della sua camera. La porta era socchiusa e usciva un piccolo spiraglio di luce, dunque almeno lì dentro Shouyou non avrebbe rischiato di inciampare.

Entrò per primo, facendo volare lo zaino fino al letto con poca grazia, e lasciò posto all’altro.

La stanza era molto più grande della sua, che condivideva con sua sorella, come d’altronde tutta la casa. Una parete, quella alla destra dell’entrata, era di un blu elettrico, mentre le altre erano completamente bianche, con due calendari ‒ uno del 2015 e l’altro del 2016 ‒ e qualche poster di violinisti e musicisti appesi a dei chiodi storti. Dalla parte opposta era posizionato un letto a una piazza e mezza, coperto da un lenzuolo blu e giallo, a cui era affiancata una scrivania di legno chiaro solo con cose riguardanti la musica sopra. C’era un mobile, alla sinistra, che ne era altrettanto pieno: libri, quaderni, trofei, piccoli strumenti come la fisarmonica o miniature di altri più grandi.

A Shouyou non sarebbe dispiaciuta una camera del genere.

Se non fosse stato per i vestiti e i volumi aperti sul marmo lucido. Solo un piccolo cerchietto al centro era lasciato libero da quel guazzabuglio, sicuramente perché potesse suonare in piedi, davanti a uno spartito, senza dover stare attento a non muoversi di un millimetro.

Fece una smorfia disgustata, ma entrò comunque. Si accorse del pianoforte verticale soltanto allora, poiché nella posizione in cui stava prima la concavità dovuta alla costruzione della porta gli aveva ostruito la visuale in quel punto del vano. L’abete spiccava sotto l’accurata lucidatura, rosso come terracotta. Shouyou si innamorò per l’ennesima volta.

«Wow» esalò a bassa voce, accarezzando delicatamente la cassa armonica, liscia e pulitissima.

Davanti allo strumento si trovava lo sgabello. La parte imbottita era di pelle, come quasi tutti quelli di ultima generazione, ma di un marrone scuro, non del nero lucido che aveva sempre trovato.

Il violinista si trattenne dal sospirare per il sollievo: era riuscito a distrarlo. Poi, immobile al centro, le braccia incrociate al petto, scrutò il sedicenne girare intorno al pianoforte, totalmente rapito.

«Dai, stupido, posa lo zaino e siediti. Sembra che tu non ne abbia mai visto uno.»

Lui si girò con un sorriso a trentadue denti. «Ma è bello!»

«Sono tutti belli» asserì, fece spallucce e saltellò tra tutti gli oggetti a terra, trovandosi davanti agli scaffali colmi di libri ed estraendone uno.

«Stavolta sono d’accordo» commentò, accentuando il sorriso, e avanzò verso la portafinestra, tentando di non pestare nulla. La aprì con forza, lasciando che un colpo di vento gli colpisse la faccia e chiudendo gli occhi. «Ah! Si moriva di caldo.» Poi mise piede sull’ampio balcone, che affacciava sul gran cortile del residence, spoglio come un albero d’inverno.

«Ohi! Piantala di fare come se fossi a casa tua!» gli gridò Tobio da dentro.

Il ragazzo si imbronciò e, suo malgrado, tornò all’interno della stanza. «Di solito è la prima cosa che si dice ad un ospite» brontolò, polemico.

«Tu non sei un ospite e non sei neanche a casa tua, perciò muoviti e siediti!» Sistemò il tomo sul reggispartito del piano, accomodandosi successivamente sulla sedia di legno che aveva posto accanto allo sgabello.

«Manco il tempo di vederla...» Sbuffò ma, quando si ritrovò davanti al piano, sorrise.

«In questo brano inizi prima con la sinistra e poi con la destra, capito?» Posò l’indice vicino alla chiave di violino all’inizio dello spartito. «Anche questo è in diesis, come la Gavotte

Shouyou sbatté le palpebre un paio di volte. «No, aspetta» fece brusco, mettendo le mani avanti. «Che è questa cosa?»

Il quindicenne alzò gli occhi al soffitto, come se fosse ovvio. «Il brano per i prefetturali. Il primo concorso è solo per i ragazzi dei ventitré quartieri di Tokyo, idiota.»

«Ti devi togliere questo vizio di non dirmi mai niente.» Ancora offeso, passò gli occhi alle pagine piene di note. «Paga… nini?»

«Non dirmi che non conosci Paganini.»

«Certo che lo conosco! Però non avevo mai sentito parlare di questo Cantabile...»

Tobio non parve sorpreso. «Perché sei pure ignorante» decise con una scrollata di spalle.

«Come se tu conoscessi i brani di tutti i musicisti!» Sospirò sonoramente; poi cominciò a leggere la partitura. «Cavolo, è difficile...» Sorrise: si sarebbe dovuto allenare ancora più duramente.

«Per questo te lo sto facendo imparare ora» chiarì. «I prefetturali sono solo due settimane dopo quello di Tokyo, e siccome noi lo passeremo, dobbiamo prepararci sin da ora.»

Se c’era qualcosa su cui non erano quasi mai in disaccordo, quella era la musica. E la vittoria. Soprattutto la vittoria: nessuno era in grado di privarli dello spaventoso spirito combattivo che possedevano.

Il rosso gli regalò il suo solito sorriso smagliante, annuendo vigorosamente. «Ti posso chiedere una cosa?»

«Mh.» Nel frattempo, si raddrizzò e andò a cercare un altro libro, stavolta per violino.

«Dopo i prefetturali ci sono i regionali, e poi i nazionali, giusto?» Vide la testa corvina, che schizzava tra una mensola e l’altra, assentire. «Tu ci sei mai andato?»

Si morse il labbro inferiore più forte che poté, le spalle si irrigidirono. «No.»

Il pianista fece una smorfia incredula. Un prodigio come lui non aveva mai suonato su un palco nazionale? «Uh… Come mai?»

Gli indirizzò un’occhiataccia da sopra la spalla e, afferrato ciò che voleva, si voltò. «Che motivo può non farti andare ai nazionali, secondo te?»

Di sicuro, Shouyou non poteva immaginare quello che aveva impossibilitato Tobio.

«Che ne so io se ti sei qualificato o meno» farfugliò, sporgendo le labbra in un broncio.

«Io mi qualifico sempre» ribatté il violinista, piccato e risoluto.

«Sì, sì, blablabla. Non ci sei andato comunque» lo sbeffeggiò divertito.

Il ragazzo si sedette di nuovo, stringendo un po’ troppo la carta tra le mani, e lo guardò minaccioso. «Un’altra parola e ‘sto libro sarà spaccato in due sulla tua testa» sibilò.

Shouyou, che ormai sapeva che gli unici colpi che gli rifilava non facevano nemmeno così male, ridacchiò. «E prendila sul ridere, scemo!»

Grugnì qualcosa, ma anziché rispondere per le rime si mise alla ricerca di una pagina precisa.

«Ah, Kageyama!»Si volse di scatto verso di lui, alla sinistra.

Il suddetto sollevò la testa lentamente. «Che vuoi?»

«Posso scegliere io il brano per i regionali? Finora li hai scelti sempre tu!» Lanciò un’occhiata allo spartito un po’ sbiadito della Cantabile di Paganini, ancora in bella vista. «Non è che questi non mi piacciano, ma ce n’è uno che vorrei tanto fare...»

Per la prima volta nel giro di circa tre quarti d’ora, Tobio non gli diede uno sguardo torvo. «In realtà ho già scelto e imparato anche quello per i regionali, ma lo inizieremo tra qualche settimana, o il tuo cervello troppo piccolo potrebbe scoppiare.»

«Uffa!»

«Però a quello per i nazionali non ci ho ancora pensato, in effetti» gli concesse, appoggiando un gomito a un ginocchio e sostenendo il mento con il pugno chiuso.

«Sono a metà settembre, vero?» Una luce vivissima si accese nelle sue iridi e non poté fare a meno di un sorriso. «Ci sarebbe la Gioia di Amare, di Kreisler...»

«Assolutamente no» lo bloccò, mentre un brivido gli faceva venire la pelle d’oca sulle braccia scoperte. «È troppo difficile e il tempo è troppo poco.»

«Ma sono tre mesi!» protestò, sporgendosi in avanti.

«Non basterebbero comunque. Non va bene.»

Shouyou sgranò gli occhi, interdetto e anche leggermente deluso. «Fa strano sentirti dire che non riusciresti a suonare qualcosa per il poco tempo...»

«Io ci riuscirei, qua il problema sei tu!» Occhieggiò la sua sveglia nera accanto al letto, che segnava l’una, e il suo stomaco infierì brontolando. «Senti: ne riparliamo un altro giorno. Ora mangiamo, suoniamo e tu te ne fili a casa, perché mi hai già rotto abbastanza.»

Dovette acconsentire: anche il suo, di stomaco, non stava mancando di farsi sentire. «E comunque, ti ho rotto con cose che riguardano anche te» rimarcò, raggiungendo lo zaino azzurro che aveva abbandonato sul letto, accanto a quello nero di Tobio, per prendere il bentou che aveva portato da casa.

«Sta’ zitto e scendi.»

«Aspettami, Kageyama!»

Tokyo, 11 luglio 2016, 11:30


Alla fine, ci era riuscito. Dopo due mesi di allenamento ‒ circa quattro ore ogni giorno ‒, fu finalmente capace di suonare tutta la Gavotte en Rondeau di Bach.

Ora il problema stava nel coordinarsi. Per le due specie di competizioni in cui si erano lanciati all’inizio era uscito tutto naturale, come se suonassero insieme da anni e fossero destinati a continuare così.

E poiché era circa la trentesima volta che provavano le prime note della Gavotte en Rondeau e la coordinazione pareva essere un concetto inesistente, era decisamente un grosso problema. Nell’arrangiamento di August Wilhelmj, in due mezzi, la mano destra al piano aveva una pausa di un quarto esattamente all’inizio, mentre il violino eseguiva il primo bicordo e la mano sinistra la prima nota: al primo accordo della destra, però, Shouyou arrivava sempre in anticipo o in ritardo.

Tobio fu tentato piuttosto spesso di gettarlo fuori a calci e andare a elemosinare un qualsiasi altro pianista per strada.

Alla trentatreesima volta, ripose un attimo il violino e l’archetto sul letto ancora sfatto, e si diresse alla parte opposta della stanza.

«Hinata,» esordì, forzandolo a girarsi con una mano sui suoi capelli morbidissimi, «devi solo contare. Un, due. Al due cominci, punto.»

«Con il violino mi confondo!» controbatté il ragazzo più basso, con le dita sulla tastiera. «Mi serve solo un po’ di pratica… Ce la posso fare!»

«No che non ce la puoi fare, se continui così.» Si sedette velocemente sulla sedia di legno, che era sempre rimasta davanti allo strumento, e si protese in avanti. Gli avambracci poggiati sulle cosce, l’espressione più seria che mai. «Tu non conti. Se lo facessi, andresti a tempo.»

«Io conto! Solo non al tuo stesso modo...» Si mordicchiò il labbro e abbassò per un secondo lo sguardo: quel piccolo fattore era capace di cambiare completamente la situazione.

Dovette stringere i pugni per evitare di staccargli il collo. «Conta ad alta voce» gli intimò. «Sin dalla pausa, anche da prima. Basta che mi dici quando inizi.» Notando che Shouyou lo fissava con un’espressione perplessa, gli diede un calcio sullo stinco. «E sbrigati, idiota!»

Si lasciò sfuggire un’esclamazione di dolore, ma non si smosse. «Ora? Tu non suoni?»

«Ti ho appena detto che devo sapere quando inizi a contare! Ce le hai le orecchie, usale.»

Sospirò rassegnato; rivolse comunque la sua attenzione al pianoforte, chiuse gli occhi dopo aver guardato un’ultima volta il viso corrucciato del più alto, e disse: «Un, due, tre...»

Li riaprì nello stesso momento in cui suonò la prima nota con la sinistra e arrivò al quattro. «Un,» e suonò il primo accordo con la destra, mentre con la sinistra fece una pausa di un quarto, «due.» Di nuovo nota con la sinistra e pausa con la destra.

Tuttavia, Tobio gli impedì di andare avanti con un pugno in testa. «Sei un idiota! Non puoi iniziare al quarto tempo, e un quarto tempo non dovrebbe nemmeno esistere! È una misura binaria!»

«Smettila di urlarmi nell’orecchio» urlò a sua volta, una goccia di sudore che gli scendeva lungo la tempia. «Che c’è di male? Ci riesco, quindi va bene!»

«Ma non esisti solo tu. Ti ricordo che suono anche io insieme a te!»

Solo un attimo dopo si accorse che quelle parole, dette da lui, apparivano stonate. Lui, che aveva sempre voluto suonare da solo e che non si era mai curato di agevolare l’accompagnamento, stava rimproverando un pianista al riguardo. Sentì l’improvviso impulso di sorridere, ma lo represse perché era troppo irato, al momento. Si sarebbe preoccupato più tardi di cosa esattamente quel pel di carota stava suscitando in lui.

Shouyou fece per dire qualcosa, ma chiuse immediatamente le labbra, stringendole e mordendone l’interno.

«Che devo fare?» sussurrò, trascorso un minuto in silenzio ‒ che di certo non riguardava anche i loro occhi: sembravano voler sputare fuoco da un momento all’altro.

Il violinista lo guardò con soddisfazione e tese le mani sui tasti. «Questo.»

«Un,» la sinistra, «due» la destra. E così un’altra battuta, per poi proseguire con entrambe.

Squadrò i suoi movimenti per dieci secondi, la fronte aggrottata e le mani congiunte in grembo. «Va bene, ho capito» sentenziò, prendendogli gli avambracci e spingendoli giù.

Tobio aveva eseguito tutto magistralmente in quei pochi secondi, non aveva battuto ciglio. La sua voce era andata a tempo con le sue dita, che quasi non pressavano sull’avorio bianco per quanto erano leggere. I pedali, la diminuzione e l’aumento della dinamica, persino l’emotività: c’erano stati tutti, in un modo così naturale che avevano l’aria di essere le cose più facili del mondo.

Shouyou, invece, si era esercitato per mesi che, a quanto pareva, non bastavano.

Non osò posare il suo sguardo sul suo viso, una maschera di agitazione e disappunto. «Lascia fare a me.»


Tokyo, 11 luglio 2016, 12:49


Espirò dal naso, stanco e sudato. Ci avrebbe riprovato un milione di volte, se necessario, pur di non darsi per vinto.

Mentre il polpastrello stava per aderire al tasto, intervenne con tono grave: «Basta così, Hinata. È meglio se torni al metodo di prima: così perdiamo solo tempo».

Era inzuppato di sudore anche lui, nonostante non stesse suonando: quell’afa era estenuante e, molto probabilmente, stava friggendo il cervello ad entrambi. A Tobio in primis, dato che temeva di starsi preoccupando per quello stupido.

«No» contestò, il fuoco nelle sue iridi immensamente più ardente di quel clima. «Ti ho detto di lasciarmi fare.» Trattenne il respiro e inchiodò gli occhi sul marmo grigio. «Se ci sei riuscito tu, ci devo riuscire anche io: tu suoni il violino, io il piano.»

Il quindicenne scattò in piedi, spazientito. «Peccato che ci rimanga un mese, tu faccia schifo negli altri due brani e quello per i nazionali lo dobbiamo ancora scegliere!» Gli premette l’indice sulla fronte con forza. «Non abbiamo tempo per stare dietro ai tuoi capricci, stupido!»

Per quanto l’altro stesse spingendo, non si mosse di un centimetro. «Allora dimmi cosa dovremmo fare.»

«Conta di nuovo come prima.»

Tobio molto probabilmente aveva ragione: se si fosse dovuto tenere occupato con quel brano ancora per un mese, non avrebbero avuto il tempo materiale per praticare gli altri. Ciò non significava che gli piacesse lasciar risolvere la questione al violinista. Poteva essere solamente un accompagnatore, ma era lui che decideva di muovere quelle dita, che rendeva quel pezzo com’era stato trascritto.

Shouyou scrollò appena le spalle, eppure la determinazione che aveva dipinta in volto non si cancellò.

«Un, due, tre» alzò il polso, «quattro» e lo fletté. «Un, due» seguitò, muovendo le dita sul bianco e sul nero.

«Va bene» affermò dopo qualche secondo. «Ripeti quattro tempi a vuoto, e poi conta di nuovo così.»

Si girò e sollevò il capo, gli occhi lievemente più grandi del solito. «Che vuoi fare?»

«Tu fa’ come ti ho detto!» Incrociò le braccia al petto e restò a studiarlo dall’alto.

Il suo sguardo si trattenne ancora un po’ sull’espressione indecifrabile del moro, cercando qualche segno che gli facesse capire dove voleva andare a parare. Infine annuì con vigore, mostrando un sorriso sicuro.

Chiuse le palpebre e adagiò le mani sul piano. «Un, due, tre, quattro» scandì a ritmo. «Un, due, tre, quattro.» Il tasto scese e risalì, rapido come un battito d’ali.

Le labbra di Tobio si piegarono in un ghigno inquietante, scatenato, che faceva presagire solo azioni altrettanto scatenate.


«Prima di tutto mi devi guardare.»

«E tu spiegami» ribatté immusonito, guardandolo comunque.

Gli gettò un’occhiataccia innervosita. «Lo sto facendo, imbecille!»

Si trovava dentro al cerchietto libero di tutti gli oggetti sparsi a terra, con il violino in una mano e l’archetto nell’altra. Non era del tutto certo di ciò che stava facendo: lui doveva fidarsi di Shouyou e Shouyou doveva fidarsi di lui. Anche se, seppure non se ne fosse mai reso conto, non era la prima volta.

«Quando poggio il violino sul mento, tu comincia con i primi quattro tempi» gli illustrò con voce ferma e perentoria. «Conta ad alta voce, come se io non ci fossi. Vai con l’altra battuta da quattro e suona. Hai capito?»

Il sedicenne, accigliato, arricciò le labbra. «Diciamo...»

«Allora facciamolo» ghignò, come l’altro avesse detto: “Sì”.

Sospirò, ma non si sottrasse a quella che, per loro, era anche una sfida. Si voltò, ma con la coda dell’occhio non smise di monitorarlo.

Lo vide sollevare lo strumento fino a fargli raggiungere la propria clavicola, e la sua mente scattò, automatica: «Un».

E in quell’istante le sentì di nuovo: quelle strane emozioni di quando suonava con Tobio. Le aveva provate solo due volte, tempo fa, e gli mancavano come una droga potentissima che non si assume da troppe ore.

Sembrava che degli elefanti stessero organizzando una festa di compleanno nel suo stomaco, che si divertissero a ostruirgli la gola ad intermittenza, che facessero marciare un esercito di formiche sulle sue braccia e sulle sue gambe, ma non si fermò. Non si fermò perché, nonostante tutto, amava quella sensazione di essere con le spalle al muro, in cui poteva suonare o suonare.

Perché cazzo non sta contando?, era stata la prima frase che gli aveva attraversato la mente. Lo aveva guardato male sebbene sapesse che non potesse notarlo mentre era tanto concentrato: era difficile che tenessero il conto in modo identico, anche se era la stessa composizione. Era necessario che lo ascoltasse mentre anche lui prendeva il ritmo, o non sarebbero stati capaci di sincronizzarsi.

Solo in seguito aveva realizzato che non avevano sbagliato. Che, invece, era venuto spontaneo che eseguissero la prima nota nello stesso momento, come fossero una persona sola. Dunque, potevano continuare a suonare insieme.


La sveglia sul comodino vicino al letto segnava anche la temperatura: quel giorno si superavano i 35 gradi.

Effettivamente, se fosse stato gennaio, non avrebbero di certo avuto il retro della t-shirt e l’attaccatura dei capelli completamente bagnate. Tuttavia, quello era l’ultimo dei loro pensieri.

«Abbiamo finito?» boccheggiò Shouyou, scrutando una mano come se non fosse sua.

Poiché la mano sinistra gli tremava, passò il violino nella destra. «Secondo te?» replicò con voce strozzata, come se le parole non volessero uscire.

Si tamponò la fronte umida con un braccio, e la pelle d’oca gli fece il solletico. «Ah.»

Per diversi minuti parve che la stanza fosse rinchiusa in una bolla di tranquillità e immobilità assoluta, meno che per i loro respiri pesanti.

Tobio era stato sull’orlo delle lacrime. Era fermamente convinto che fosse solamente per l’amore per la musica, per la soddisfazione di aver messo in pratica qualcosa di così complesso e di averlo fatto bene. Al fatto che potesse trattarsi di Shouyou non aveva neppure pensato. Non aveva pensato che Shouyou gli era stato accanto per due mesi, ogni giorno, anche con il suo caratteraccio, e di sua spontanea volontà, non perché un insegnante glielo aveva ordinato.

Quando si riscosse, però, non si fece problemi a riprendere a criticarlo.

«Perché cazzo non hai contato?» esclamò, ancora con il battito accelerato, ma di nuovo irritato.

«Ho contato nella mia testa.» Non gli diede neanche uno sguardo.

Lui indietreggiò fino a cadere sul letto, sfinito ‒ di solito un singolo brano non lo stancava così tanto. «E io ti avevo detto di farlo ad alta voce, deficie...»

«Mi avevi detto di non farlo come se tu non ci fossi!» lo interruppe, alzando i toni, stringendo i pugni, e calò il capo. «Non rimproverarmi per una cosa che fai anche tu!»

Il violinista contrasse le labbra ed evitò con tutto se stesso di guardare il profilo del ragazzo, parzialmente coperto dai capelli rossicci. Per quanto gli avesse dato tempo di rispondere, non lo fece.

«Non posso contare ad alta voce...» Volse lentamente la testa. «Perché» gli rivolse un sorriso leggero, piccolo, «tu ci sei, Kageyama.»




Nota d’autrice:

Sì, finalmente ho finito anche questo! Ci ho messo tanto anche stavolta perché, da come potete vedere, non è esattamente un capitolo breve… Il bello è che mi ero anche prefissata di arrivare più in là. :’) mi sa che questo è l’effetto della KageHina AHAHAHAH

Allora, passiamo alle note tecniche. Questo è un capitolo di passaggio? Sì e no. Sì perché, ai fini della trama vera e propria non succede nulla di particolare (se non la finale riuscita del brano); no perché, di fatto, il rapporto tra Hinata e Kageyama si evolve enormemente, per i piccoli accenni alla famiglia di Kags (!!warning: alto contenuto di angst!!) e perché ci sono dei concetti a cui tengo. Inoltre, questa è un’AU, il che significa che i personaggi non possono essere uguali a quelli del canon per vari fattori che li hanno influenzati e che continuano a influenzarli. Perciò, ho provato a caratterizzarli al meglio, oltre a far vedere la loro ‒ parziale, per ora ‒ evoluzione anche come personaggi in sé per sé; ovviamente, siete voi a dovermi dire se ci sono riuscita. >.<

Qui, tra l’altro, vi lascio i link che spiegano le varie “regole” (chiamiamole così, ma a dir la verità io ho fatto solo pochi mesi di piano e la maggior parte delle cose che so è grazie a internet) sparse per il testo.

Misure, batutte, tempo (le ultime, insomma): https://it.wikipedia.org/wiki/Misura_(musica)

Lo spartito di alcune parti della Partita n.3 per violino, tra cui la Gavotte en Rondeau (basta scegliere “Arrangements and Trascriptions”, scendere un po’ cliccare “view” su “For Violin and Piano (Wilhelmj)”): http://imslp.org/wiki/Violin_Partita_No.3_in_E_major,_BWV_1006_(Bach,_Johann_Sebastian)

Solfeggio (che in questa storia è cantato per motivi di KageHina sottotrama): https://it.wikipedia.org/wiki/Solfeggio


Infine ringrazio tanto Maiko_Chan e _Lady di Inchiostro_ per supportarmi sia qui su EFP che su twitter. <3

Bene, ora mi dileguo! Spero di poter aggiornare al più presto. :3


Baci

Shizuha



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Capitolo 5
*** IV Capitolo ***


Questo capitolo è dedicato alla Lady, che mi supporta sempre in qualsiasi cosa, ma stavolta per un motivo particolare.

Spero che ti piaccia <3





Ⅳ Capitolo




Tokyo, 20 luglio 2016, 13:56


La luce del salone era sempre e comunque spenta, a differenza di quella della cucine, che si trovava anche al piano terra. Ormai aveva imparato a non porre più domande e a muoversi in quella sala immensa.

Shouyou si asciugò le mani su un panno di spugna rosso stinto, sospirando. «Kageyama, ho finito!» gridò tentando di farsi sentire dall’altro, che invece suonava al piano di sopra.

La musica del violino cessò come venne sovrastata dalla quella vocetta acuta.

«E allora sali, idiota!»

Sorrise e si slacciò il grembiule dietro il collo. «Arrivo!»

Non portava più il bentou da casa da quando, circa una settimana prima, lo aveva dimenticato. Tobio, di malavoglia, si era trovato costretto a cucinare anche per lui; peccato che fosse un totale disastro e Shouyou non si era fatto problemi a farglielo notare.

Lo aveva dimenticato anche il giorno successivo, e anche il giorno successivo ancora; allora il violinista gli aveva detto che poteva preparare ciò che voleva anche a casa sua. In un primo momento, aveva pensato che avesse voluto avvelenare gli ingredienti ‒ il che, dopotutto, non era troppo lontano dal suo modo di fare.

Tobio si era reso conto solo dopo di ciò che aveva compiuto, come sempre. Aveva sbattuto la testa al muro, quella sera: era colpa di quello stupido cervello che aveva mandato l’ordine alla sua bocca di parlare. Era per caso colpa di quello stupido cervello se si stava preoccupando per Shouyou? Non lo sapeva e non era sicuro di volerlo sapere. Perché sì, dopo il permesso di fare come se fosse stato a casa sua era risultato ovvio persino a lui che si stava preoccupando.

D’altronde, non era così poco intelligente. Aveva largamente compreso che Shouyou aveva problemi familiari: l’unico argomento su cui non aveva mai raccontato nulla era proprio la sua famiglia, al di fuori di sua sorella. Per non parlare della storia del pianoforte. Costava indubbiamente tanto, non lo poteva negare, ma dei genitori avrebbero fatto di tutto pur di accontentare il proprio figlio in una pratica così bella. Anche tutto, però, aveva dei limiti.

Lo spaventava più che altro il fatto che avesse tenuto in considerazione quella questione e che avesse ‒ inconsapevolmente ‒ cercato di alleggerire Shouyou di un peso che, lo sapeva, era in grado far cadere più volte.

Lo spaventava ancor più la possibilità di starsi affezionando a qualcuno. E se prima era relativamente facile smettere di pensarci ‒ tanto ci era abituato, cosa cambiava? ‒, ora non c’era una singola cosa che non gli ricordasse lo strambo ragazzo. Da quando mangiava riso con l’uovo, quello con cui l’altro voleva sempre pranzare, a quando suonava.

L’unica soluzione efficace era rimuginare su qualcosa che gli premeva di più, anche se faceva male.

Saltò un libro che stava davanti alla porta della camera di Tobio e spalancò la porta. «Eccomi!»

«Sei lento» non mancò di osservare il quindicenne che gli dava la schiena, chinato sul letto.

«Come mai prima stavi suonando Bach?» Saltellò un po’ per la stanza, evitando gli oggetti per terra come ormai era solito fare, per vedere cosa stesse combinando.

Chiuse la cerniera della custodia. «Prendi le tue cose. Andiamo a suonare fuori.»

Shouyou sgranò gli occhi, attonito, e si accigliò. «Scusa?»

«Sbrigati! Il taxi dovrebbe essere già giù.» Si mise la borsa in spalla e s’incamminò verso il corridoio.

Fece vagare lo sguardo per tutta l’area con atteggiamento concitato, fino a scorgere il suo cellulare che spiccava sulla scrivania chiara. Lo afferrò al volo e, sebbene non fosse a conoscenza delle sue intenzioni, lo seguì comunque.

«Kageyama!» esclamò mentre provava a non cadere per le scale. «Dove diamine stiamo andando?»

«All’aeroporto Haneda, dato che lì c’è un pianoforte e anche un bel po’ di gente» rispose annoiato, cercando nella tasca posteriore dei bermuda il mazzetto di chiavi.

Il rosso frenò improvvisamente proprio agli ultimi gradini, letteralmente impietrito. «E tu me lo dici così?» s’infuriò, la nocche sbiancate sul corrimano di legno. «Dovremmo suonare in mezzo a uno degli aeroporti più popolati del mondo?»

Tobio si strinse nelle spalle allo stesso modo di chi lo frequenta per hobby, per poi addentrarsi nell’oscurità del salone.

«Ma poi perché?» riprese a lamentarsi, raggiungendolo.

«Perché devi abituarti a suonare in pubblico, o ai concorsi andrai nel panico esattamente come ora.»

«Non sono nel panico, sono solo sorpreso!»

«Ne riparleremo quando ti riprenderai dalla sorpresa.»

Shouyou sbuffò, ma dovette abbandonare l’argomento e concentrarsi per non inciampare da nessuna parte. Nonostante percorresse quei pochi metri spessissimo, gli era ancora necessario prestare attenzione a non pestare niente e a non sbattere contro nessun mobile.

Non passò neanche un minuto, ma loro lo vissero come una vita intera: al di fuori di quella casa, nessuno li conosceva. La porta grande e massiccia lli aveva sempre protetti e, al tempo stesso, privati delle critiche degli altri: era impossibile crescere da soli, senza che qualcuno comunicasse loro in che aspetto migliorare, in quale rivedere le proprie convinzioni assolute. E mentre questa visione loro la limitavano al mondo della musica, nulla impediva che si potesse estendere anche a quello della vita.


Aeroporto di Tokyo, 20 luglio 2016, 14:42


Dopo aver ringraziato e salutato l’autista, entrambi scesero dall’autovettura bianca.

Shouyou diede una lieve spinta alla portiera, che si chiuse a stento. Deglutì un groppo in gola che aveva sentito formarsi mentre avevano iniziato a muoversi, e avanzò a testa bassa fino ad affiancare l’altro ragazzo.

Tobio gli rivolse un’occhiata perplessa. «Ohi, non mi dire che te la stai facendo sotto.»

Il pianista strinse i denti per istinto. «C’era davvero bisogno di un taxi?»

«Dato che volevamo arrivare in poco tempo, sì» chiarì, spiazzato per l’assenza di proteste.

«Quanto hai pagato?» mormorò con lo sguardo puntato a terra.

Il taxi ripartì e loro restarono fermi in mezzo al parcheggio esterno.

Lo scrutò attentamente per qualche secondo, per capire che sentimenti stesse provando: rabbia, senso di colpa, vergogna? Non ci riuscì, perciò si avviò verso le porte scorrevoli dell’ingresso, dando per scontato che l’altro lo seguisse. Aveva capito, però, cosa aveva causato quelle emozioni.

«Rispondimi, Kageyama!» Voleva avere una voce sicura, e invece andò tremendamente vicina al tremolante. Tuttavia, non si mosse e alzò il capo per guardare direttamente il ragazzo.

Continuò a camminare e non si girò né lo degnò di un’occhiata. «Non ti preoccupare.»

Smarrito dal tono candido, quasi gentile, del corvino, tutto il disagio e l’imminente pianto gli scivolarono di dosso come acqua. Corse al suo fianco e si ostinò a tenere su di lui i suoi occhi, ancora incredulo.

Tobio odiava sentirsi osservato in quel modo, quasi gli stesse facendo una radiografia, e da quelle iridi che per i suoi gusti erano troppo grandi.

Shouyou non fece più domande. Si limitò a torturarsi l’interno delle guance e le pellicine sulle dita. Non smise mai di occhieggiare Tobio che, come lui, pareva star vivendo un dissidio interiore.

I motivi, ovviamente, non erano gli stessi.


Appena avvistò un enorme pianoforte a coda nero, lucidissimo, gli brillò lo sguardo e, nonostante ciò che era accaduto precedentemente, sorrise. Avvertì il petto gonfiarsi di meraviglia, poi si rivolse a Tobio: «Come facevi a sapere dov’era?»

Gli lanciò un’occhiata fuggevole, ma non era né di disprezzo né di irritazione. «Sono venuto tante volte in questo aeroporto» spiegò vago, alzando le spalle.

«Davvero? Hai mai preso un aereo?» chiese con stupore.

Il quindicenne sbatté le palpebre, non comprendendo tutta quella agitazione. «Sì…?» farfugliò, come se fosse ovvio.

«E com’è?»

«Tremendo» ammise con una smorfia. Gli venne in mente il volo che aveva preso insieme a suo padre, qualche anno prima, per l’Inghilterra, l’aria pesante, le orecchie perennemente tappate e le gambe che gli formicolavano per la posizione scomoda. Erano state dodici ore atroci.

Il volto del più basso si contrasse in un cipiglio deluso.

Tobio si bloccò e Shouyou, che stava dietro di lui, gli finì quasi addosso. A circa un metro da loro, il piano si estendeva nella sua elegante imponenza, strabiliando la gente anche più lontana.

«Dovremmo suonare qui?» sussurrò il pianista in seguito a un silenzio concorde. Girò attorno allo strumento, notando finalmente lo sgabello.

Quasi lo intimoriva. Si era sempre seduto davanti a pianoforti relativamente piccoli e si era illuso di poterli domare. Adesso, invece, provava l’ansia e l’adrenalina scorrergli nelle vene, allo stesso modo di un uomo rinchiuso in una gabbia insieme a un leone affamato.

«Sì.»

Tobio appariva così sicuro, stabile. Per un momento lo invidiò per il sangue freddo che stava ostentando: se anche era nervoso, lo celava perfettamente.

«Hinata,» proferì piano, artigliandolo per un braccio e avvicinandolo a sé, «sta’ calmo e non ti agitare. Fa’ come se fossimo a casa.»

Lo aveva detto con tono deciso ma non brusco; ancora lontano, tuttavia, dall’essere rassicurante.

Avrebbe voluto ribattere che non erano a casa, che tutte quelle persone li avrebbero ascoltati, studiati e criticati comunque, che non era possibile stare calmi. Il violinista, però, lo lasciò e si abbassò fino ad adagiare la borsa sul pavimento liscio, per poi procedere a schiudere la zip.

Shouyou si abbandonò sullo sgabello, il cuore che sembrava volergli sfondare lo sterno. Fissando insistentemente il colore scuro e lucente della cassa armonica, sollevò con lentezza e accortezza il coperchio. Espirò dal naso e chiuse gli occhi, tentando di raccogliere più concentrazione possibile. Percepiva già decine di sguardi confusi e basiti su di lui.

«Hinata» lo avvertì sommessamente, poiché la gente stava già iniziando ad adunarsi intorno a loro.

Gli gettò un’occhiata, scorgendolo alla sua destra e incontrando i suoi occhi: li avrebbe riconosciuti ovunque, soprattutto in quei momenti, in cui il ghiaccio si scioglieva per dar vita a un mare in tempesta. Lo vide portare il violino vicino al mento e, quando toccò la clavicola, cominciò a contare.

Un.

La prima volta era stata magica: sembrava davvero che ne fossero stati in grado grazie alla magia.

Due.

La seconda era stata un disastro e non erano nemmeno arrivati alla seconda pagina della partitura. Si erano arresi? Naturalmente no.

Tre.

Alla terza era stato palese che Shouyou fosse completamente fuso: aveva esordito con Cantabile, il brano di Paganini.

Quattro.

La quarta, qualche ora dopo, era stata mediocre: piena di errori di dinamica per la paura di scoordinarsi. Erano andati avanti a questo modo, come se la prima volta non fosse neppure esistita; se così fosse stato, però, loro non avrebbero saputo che potevano arrivarci, alla vetta. Dovevano solo fare più pratica.

Un.

Erano riusciti ad eliminare la maggior parte degli errori di dinamica soltanto dopo una settimana di lavoro portato quasi agli estremi. In quel momento, Shouyou aveva finalmente assistito alla parte più tenera, infantile di Tobio: aveva urlato, ma non contro qualcuno. Aveva urlato perché ne aveva sentito il bisogno, per dire a chiunque lo avesse udito che ce l’aveva fatta.

Due.

Non avevano potuto distinguere neanche col binocolo la stessa correttezza ed emotività per almeno le cento occasioni seguenti. C’era sempre qualcosa che non erano capaci di correggere, anche minima: il problema ‒ o la fortuna ‒ era che entrambi si imponevano di dare il meglio di sé, di ricercare la perfezione.

Tre.

Shouyou si era accorto piuttosto tardi che ciò che tentavano di fare da giorni consisteva in qualcosa di assurdamente complesso. Tobio era obbligato a volgere tutta la sua attenzione ai suoi stessi movimenti: appena il suo violino gli toccava la spalla, lui doveva iniziare a contare in una maniera a cui non era abituato. Inoltre, era fondamentale riporre in Shouyou tutta la sua fiducia; ma non era abituato neanche a questo. In generale, non era abituato a fidarsi di chiunque.

Se voleva vincere, però, doveva imparare.

Quattro.

Con tutta la forza di volontà che manifestavano arrivavano a fare quasi tutto, anche le cose che sarebbero potute apparire impossibili, e lo dimostrarono in quel momento.

Fu come la prima volta: magico.

D’un tratto, la pesantezza degli occhi della gente sparì, così come tutto ciò che li circondava: rimasero solo Shouyou e Tobio, il pianoforte e il violino.

Nemmeno gli annunci agli altoparlanti potevano distrarli: erano solo suoni robotici, distanti. A loro non interessavano, perché in quel momento esisteva la musica e basta, per quanto effimera e inafferabile fosse. Sembrava che stessero dentro a un castello costruito con delle carte, uno di quelli che i bambini si divertono a creare ma che poi è destinato a cedere, in un modo o nell’altro. Bastava un soffio, un dito a sfiorare una singola carta, e allora tutto cadeva sopra di loro. Forse era possibile rallentare il tempo, restare ancora un po’ così, nella propria immobilità serafica e talmente pericolosa da renderla ancora più elettrizzante. Forse era possibile resistere, sostenere il castello affinché non collassasse.

Il soffio, la mano sbadata arrivarono prima del previsto.

«Mamma, mamma! Cosa stanno suonando?»

E allora l’aria intorno a Shouyou tornò a farsi opprimente, con tutti gli sguardi e il dito puntato su di loro. Non sapeva se li stessero giudicando negativamente, ma era comunque una distrazione; e per lui, essere distratto era la peggiore delle possibilità che potessero presentarsi.

E se avesse sbagliato? Tobio lo avrebbe abbandonato perché non era stato in grado di suonare in pubblico? No, del resto era invischiato anche lui in quella faccenda e desiderava con tutto se stesso partecipare al torneo. Però mancava ancora tanto tempo ai nazionali, e loro non avevano scelto il brano… Magari a quel punto lo avrebbe sul serio lasciato per trovare un pianista più competente. E poi, era davvero concesso dalle regole?

Anche la troppa energia esercitata dall’interno avrebbe saputo rovesciare il loro castello: non sempre erano il soffio o il dito esterni a rovinare ciò che si era costruito in tanto tempo.

Sotto quelle carte stavano in due, benché lo spazio fosse troppo ridotto; dovevano avvicinarsi sempre di più, conoscersi in tutto e per tutto. Tuttavia, Shouyou non conosceva quasi nulla di Tobio e Tobio voleva credere che gliene importasse ancora poco di Shouyou.

La fiducia non in tutti i casi si rivelava sufficiente. In quel caso serviva da base, ma le mura non si potevano fabbricare da sole.

La mano gli tremò a tal punto da fargli saltare una nota di un accordo: fu allora che andò nel panico. Le mani tremolanti faticavano ad arrancare dietro al suono raffinato e prestante del violino. Strinse le labbra e, dai movimenti fluidi in cui si era trascinato finora, passò a una sgradevole rigidità.

Tobio lo guardò allarmato da sopra la spalla, ma non si arrestò.

Perché tutti i castelli di carte sono destinati a cedere, in un modo o nell’altro. Ciò, però, non impediva loro di ricostruirne un altro.


Aeroporto di Tokyo, 20 luglio 2016, 15:03


«Ora mi spieghi perché.»

Shouyou abbassò lo sguardo, sotto pressione: probabilmente non gli avrebbe più permesso di mettere piede in casa sua, né di suonare insieme a lui nel torneo.

«Quella bambina ti ha deconcentrato? Te la sei davvero fatta sotto davanti a tutta quella gente?» Mosse un altro passo, ritrovandosi il sedicenne giusto a qualche centimetro da sé.

Gli indirizzò un’occhiata, rendendosi conto che l’espressione di Tobio era, sì, irata, ma non sembrava sul punto di picchiarlo ‒ non sul serio, almeno. Era sincero riguardo al voler capire il perché di quell’impazzimento.

«Rispondimi, deficiente!» Gli picchiettò l’indice sulla fronte pallida. «Dobbiamo tornare a casa, non ho intenzione di stare tutto il giorno qua!»

In realtà non gli sarebbe dispiaciuto troppo stare lì per un poco: su quel terrazzo tirava un gradevole vento fresco che emanava un senso di pace e benessere. Per loro fortuna, quello era un giorno feriale e, nonostante le terrazze dell’aeroporto Haneda vantassero di grande fama e un esorbitante numero di visitatori, non era neppure troppo popolata. Si trovavano in un angolo colmo di vasi con fiori di tutti i colori e le finestre che davano sull’interno a qualche metro da loro.

Il rosso mostrò un cipiglio confuso e alzò lo gli occhi su quelli del violinista. «Suoneremo ancora insieme?» bisbigliò, più rivolto a se stesso che all’altro. «Non vuoi cercare un altro accompagnatore?»

I suoi lineamenti si deformarono in una smorfia indignata, quasi avesse appena attentato alla sua intelligenza. «Sei proprio duro, allora» sbuffò, afferrando la custodia del violino che aveva adagiato contro il muretto grigio dopo aver trascinato Shouyou in quel luogo. «Non ho speso tutto questo tempo per nulla e non posso dire al primo che passa di partecipare a un torneo con me.» Prese a passeggiare verso l’ingresso a passo rilassato.

Il pianista corse davanti a lui e camminò all’indietro, incurante di poter colpire qualcuno. «Ma ti ho fatto fare una figuraccia davanti a un sacco di persone!» esclamò gesticolando. «Ho rovinato tutta l’esibizione!»

La bocca di Tobio, se possibile, si storse ancora di più. «Sei tu che hai fatto schifo, non io» rettificò, facendolo curvare verso destra con poco garbo. «E suono con te anche sapendo che sei una schiappa.» Lo spinse più forte. «Quindi muoviti, ché se fai così anche al concorso ti uccido!»


Tokyo, 25 luglio 2016, 10:31


Il trillo del campanello giunse lievemente attutito in bagno.

«Ma che cazzo...»

Si tirò su i pantaloncini frettolosamente, e nel processo il portascopino si rovesciò, lasciando fluire fuori l’acqua.

«Merda!»

Ancora con la cerniera dei bermuda aperta, si precipitò nella veranda, dove teneva scope e stracci usurati. Dopo aver riempito il secchio di acqua e averci versato dentro del detersivo per pavimenti, vi inzuppò il panno e lo strizzò. Si affrettò nuovamente al bagno dalle mattonelle azzurre, brandendo il bastone come se fosse una lancia, con le gocce d’acqua che cadevano dietro di lui e segnavano il suo percorso.

Dopo aver rimesso a posto il portascopino, iniziò a pulire e si dimenticò totalmente di avere qualcuno ad aspettarlo alla porta. Almeno finché quel qualcuno glielo ricordò in modo assordante e fastidioso.

Finì di fretta in furia di pulire, borbottando imprecazioni, per poi riportare lo straccio in veranda e scendere per le scale.

Saltellando tra i libri di cui ormai conosceva esattamente la posizione ‒ non li spostava da mesi, dopotutto ‒, arrivò all’entrata e l’aprì con veemenza.

Poteva essere solo lui, ovvio.

«Ma perché ci sei stato così tanto, Kageyama?» allungò le vocali del suo nome come in una cantilena. S’introfulò di sua spontanea volontà, cominciando a vagare per il salone.

Tobio lo raggiunse e gli prese il capo con una mano, stringendolo. «È sempre colpa tua, imbecille.» Lo usò come appoggio e lo superò impettito.

«Che ho fatto ora?» Massaggiandosi la nuca, si mise al suo passo e salì sul primo gradino delle scale per il secondo piano.

«Sei venuto» bofonchiò il più alto.

«Mi hai detto tu di venire ogni giorno alle dieci e mezza!» protestò Shouyou offeso.

Lo freddò con un’occhiataccia. «Ma non mentre sono in bagno, idiota.»

«E io mica posso sapere quando sei in bagno o no...»

«E allora fai in in modo di saperlo prima di rompere!»

«Blablabla» lo scimmiottò, le labbra ancora arricciate. «Ci hai messo comunque un sacco e non è colpa mia.»

Scavalcò gli ultimi due scalini in un sol movimento e, dopo avergli lanciato uno sguardo eloquente, prese a correre verso la sua stanza.

Il sedicenne stette fermo per un secondo, disorientato, ma subito dopo lo seguì seppure fosse indietro.

Quando piombò nella camera, trovò Tobio che lo guardava dall’alto in basso con un ghigno beffardo. Si raddrizzò e, fatto qualche passo, si mise a sedere sullo sgabello davanti al pianoforte, leggermente ansante.

«Hai barato, non è giusto.» S’immusonì nuovamente.

«Ma perché ci sei stato così tanto, Hinata?» lo imitò, ancora con quel sorrisetto schernitore che Shouyou gli avrebbe voluto togliere con tutto se stesso.

Sbuffò, voltandosi. «Antipatico come sempre» si lamentò.

«Lento come sempre» rispose a tono, girandosi anche lui anche se per prendere il violino.

«Comunque» riprese circa un minuto dopo, con tono annoiato e apparentemente disinteressato, «da oggi ti metterò le chiavi sul davanzale della finestra, quella a destra della porta.»

Sbatté le palpebre un paio di volte. «E non ti spaventi?»

«Ovviamente le nascondo, stupido.» Pizzicò una corda con l’archetto per verificare che la quantità di colofonia che aveva usato fosse sufficiente. «E poi c’è sempre Hirashi-san a controllare chi entra nel residence.»

Il pianista lo guardò mentre armeggiava con il suo strumento. «Significa che potrò venire qua quando vorrò» rifletté, poggiando il gomito sulla coscia mentre si sosteneva il mento sul palmo.

Tobio lo fulminò con lo sguardo. «Guai a te se mi rompi alle due di notte solo perché non riesci a dormire o cose simili.»

Ridacchiò come se farlo davvero lo avrebbe divertito. «No, intendevo...» Fissò i suoi occhi d’ambra in quelli blu notte dell’altro e sorrise allo stesso modo di chi sorride nel vedere delle tenere sciocchezze compiute da un bambino. «Ti devi fidare tanto di me se mi dai la possibilità di entrare a mio piacimento.»

Sentì il cuore saltargli in gola e le guance riscaldarsi, e strinse la bocca nell’inutile tentativo di far cessare quello strano tepore che si stava espandendo nel petto. «Che cavolate...» Volse la testa di lato imbarazzato. «È che sei troppo stupido per fare qualcosa di cattivo» masticò stentatamente.

Allargò il sorriso, quasi non avesse udito l’ultimo insulto. Si mise in piedi e immediatamente si buttò di schiena sul letto, vicino alla custodia del violino. «Ormai ti conosco, Kageyama-kun!»


Tokyo, 28 luglio 2016, 17:16


Si passò una mano sulla fronte grondante, mentre con l’altra continuava a strofinare il panno bianco sulla cassa armonica del pianoforte. Lo aveva chiesto tempo fa a Tobio e lui, in seguito a una lunga occhiata, non aveva obiettato. Pulirlo lo faceva diventare un po’ più suo, lo aiutava a conoscere ogni dettaglio e a entrarvi in sintonia.

Sentì il cigolio delle doghe dietro di lui e si girò, ancora piegato sulla tastiera.

«Sei tornato...» osservò a bassa voce, tornando a spolverare e lucidare il piano. «Con chi parlavi?»

«Con mio zio.» Versò qualche goccia su un pezzo di stoffa blu e prese anche lui a sfregarlo sul suo strumento. «Domenica suoneremo per la sua scuola» aggiunse poi, calmissimo.

Shouyou trasalì e si voltò di scatto verso il corvino, strabuzzando gli occhi e mettendosi diritto. «La sua scuola?» s’informò stupito.

Il quindicenne annuì, non distogliendo l’attenzione dal violino. «È il fratello di mia madre. Porta avanti una scuola privata da un po’ di anni… Diciamo che dalla parte materna sono quasi tutti musicisti.» Parlò sempre con quel tono distaccato, freddo, come se non stesse raccontando della sua famiglia ma di qualche estraneo.

«E perché dovremmo andare a suonare noi in una scuola privata?» Storse le labbra, perplesso. «L’unica cosa buona è che non me l’hai detto all’ultimo minuto come sempre...»

Se doveva essere onesto, sì, avrebbe detto di avere decisamente qualcosa contro le istituzioni private ‒ a parte il liceo e le scuole medie, dato che nel loro paese era impossibile trovare una scuola pubblica vicino casa che impartisse una formazione decente. Durante i suoi primi anni alle elementari aveva desiderato come non mai seguire un qualsiasi corso, che fosse di sport o di musica. D’altronde, se i suoi compagni potevano seguirli, perché lui non poteva fare lo stesso?

Ora, invece, andava estremamente fiero del suo essere autodidatta, del sudore e dell’impegno che ci aveva buttato, poiché se ora si trovava lì lo doveva soltanto a se stesso ‒ e in parte a Tobio, ma non avrebbe ringraziato quell’antipatico più del dovuto.

Scrollò le spalle. «L’avevo chiamato ieri sera per chiedergli se ci fosse qualche possibilità di suonare in pubblico, e oggi mi ha detto che ha tenuto occupato un posto verso l’inizio dell’esibizione per gli ospiti.» Lo fissò intensamente, smettendo di dedicarsi al suo violino. «Non dobbiamo pagare nulla. Durerà pochi minuti, ce ne andremo subito dopo e non ci sarà nessuna premiazione, quindi non andare nel panico. Capito, stupido?»

Shouyou calò lo sguardo sul marmo riscaldato dal sole del pomeriggio. «Sarò nervoso...»

«È normale essere nervosi» ribatté Tobio con nonchalance, ponendo il panno blu e il detergente sul comodino accanto alla testiera del letto. «Se non lo sei vuol dire che non te ne frega niente.»

Il ragazzo dei capelli rossi lo osservò. Era tranquillo e lo era stato anche prima di intervenire nell’aeroporto. Strano: non si sforzava nemmeno per infuriarsi così spesso e a mostrarlo, tuttavia nel momento in cui sarebbe potuto apparire debole agli occhi degli altri, tratteneva tutto dentro. Preferiva risolvere i problemi da sé, non accogliendo il sostegno di nessuno.

Gli rivolse un sorriso dolce, come se gli avesse confessato una sua preoccupazione. «Facciamolo, Kageyama!» lo sfidò allungando un braccio verso di lui, il pugno serrato.

Il violinista batté le ciglia scure un paio di volte, sbigottito. Qualche istante dopo, tese anch’egli l’arto con esitazione e chiuse la mano.

Benché in modo inavvertibile, un sorriso sghembo era apparso a rilassargli i lineamenti.


Tokyo, 31 luglio 2016, 9:46


Espirò piano dalla bocca, appoggiando la testa al muro e calando le palpebre. Continuò a respirare in modo lento, quasi simulato, provando a placare il cuore che gli batteva impazzito nel petto.

«Tutto bene?»

Il timbro lo riconobbe subito, ma non era squillante come sempre. Gli parve più basso, un po’ tremolante. Aveva ragione: era teso.

Schiuse pigramente un occhio. «Lo faccio sempre prima di esibirmi.»

Shouyou gli sedette a fianco, alzandosi la giacca nera e gessata che gli stava lievemente lunga. «Perché?»

Il violinista lo richiuse. «Perché mi aiuta a calmarmi.»

Annuì debolmente, volgendo il capo verso il muro opposto del corridoio. Alla loro destra c’erano alcuni assistenti che chiamavano i partecipanti, mentre questi ultimi erano rinchiusi nei propri camerini.

Naturalmente, loro due non ne avevano: era solo due ospiti che in pochi, là fuori sugli spalti, conoscevano. Siccome era un saggio che determinava la sospensione dei corsi fino all’inizio dell’autunno, la maggior parte delle persone riunite erano parenti degli alunni stessi. Magari, chi faceva già parte del mondo della musica era a conoscenza del talento che Tobio incarnava, ma Shouyou era un completo sconosciuto a tutti.

Quella poteva essere anche una fortuna: non doveva soddisfare nessuna aspettativa. Essere un prodigio, forse, portava con sé un fardello non indifferente.

Ogni brano eseguito male rappresentava una sconfitta, anche in un evento privo di antagonismo. E loro non avevano alcuna intenzione di perdere.

«Tobio Kageyama-san» gli occhi dell’uomo guizzarono di nuovo sul foglio di carta che teneva in mano, «Shouyou Hinata-san, è il vostro turno.»

Il rosso lo guardò profondamente; ormai, tuttavia, non gli dava più troppo fastidio. Prese il violino appoggiato alle sue gambe piegate e, facendo poco gentilmente leva sulla spalla dell’altro, fu dritto sui piedi, per poi procedere in silenzio sino all’entrata del palco. Prima di addentrarsi nell’oscurità, però, si voltò: Shouyou stava salendo sull’ultimo scalino, a poco meno da un metro da lui.

Sollevò lo sguardo sul violinista. «Che vuoi?» borbottò ancora imbronciato per lo sfruttamento della sua spalla.

Tobio non rispose finché non mise piede sulle travi di legno scuro dell’impalcatura, emulato all’istante dal sedicenne.

Gli lanciò un’occhiata penetrante. «Fa’ del tuo meglio, idiota.»


Tokyo, 31 luglio 2016, 9:54


Abbassò il violino e la prima cosa che fece fu volgersi alla sua sinistra. Incontrò gli occhi del pianista, brillanti e lucidi come sempre quando suonava, e notò il suo smagliante sorriso. Assentì minimamente, per poi dare di nuovo la sua attenzione alla folla, da cui si levavano scroscianti applausi.

Shouyou si alzò dallo sgabello e raggiunse la sua destra con andatura quasi posata. Scrutò un’altra volta il ragazzo accanto a lui, per scorgere qualsiasi emozione che trasparisse dal suo volto: aveva le guance rosse ‒ poteva però essere anche lo sforzo ‒ e la bocca gli tremva lievemente, anche se non ne capì la ragione.

Gli diede una pacca sulla schiena, una specie di complimento, e allora quell’espressione che per lui era decisamente eccitata mutò in un cipiglio indispettito. Durò solo per un attimo, poi si piegò in un inchino per non darlo a vedere, e allora anche il pianista s’inchinò, grato a tutte quelle lodi.

Dopo qualche secondo, si drizzarono e, apprezzati gli applausi ancora un po’, camminarono verso l’uscita.

Tobio riusciva a sentire il fiato corto dell’altro accanto a sé, che quasi sovrastava il rumore del battito del suo cuore ‒ lo sentiva martellare follemente, il sangue pompato rimbombare nelle orecchie. Ingoiò un grumo di saliva, scoprendosi con la bocca secca, e si alienò un attimo dal mondo.

Gli era piaciuto suonare con qualcun altro, su un palco davanti a un pubblico. Gli era piaciuto condividere i suoi sentimenti, per quanto negativi fossero, con la musica di qualcun altro. Pensò che probabilmente stava impazzendo anche lui, insieme al suo cuore.

Come Shouyou gli rivolse quel sorriso così irritante e accecante, si riscosse. Dietro le quinte, poco prima di scendere per la breve scalinata, rispose alla pacca sulle spalle precedente ‒ ma con molta più potenza.

Il sedicenne quasi cadde in avanti e, tossicchiando, esclamò un «Ahi!».

Il violinista proseguì impettito, contento di essersi prese la sua rivincita.

«Ma sei pazzo?» strillò, non preoccupandosi di moderare i toni nonostante fossero ancora sul palco.

Il moro si accigliò, girandosi appena e guardandolo torvo. «L’hai fatto anche tu, imbecille!»

Il cooperatore, vestito di tutto punto con un frac nero, lo osservò sconcertato sfilare davanti a sé proprio mentre insultava il pianista.

«La mia era amichevole!» si aggiunse quest’ultimo, contrariato, scendendo giù per le scale di corsa. «Qualcosa tipo: “bravo”!»

Tobio schiuse e richiuse le labbra innumerevoli volte, colto di sorpresa. Era un gesto comune tra loro ragazzi? Non lo sapeva, nessuno lo aveva mai fatto a lui e lui non lo aveva mai fatto a nessuno.

La prima che gli venne in mente la farfugliò goffamente: «Be’, la mia no!»

Il viso di Shouyou divenne una maschera di delusione e stizza. «Il solito insopportabile!» Saltò l’ultimo gradino sotto lo sguardo frastornato dell’assistente, che si fermava un momento su di lui un momento su Tobio.

A dir la verità, non poteva negare che avesse eseguito il tutto più che bene. Stavolta, aveva contribuito a costruire il loro castello di carte, sebbene alcune di esse non fossero posizionate perfettamente, e ne aveva avuto un valido controllo.

Ovviamente, avevano deciso nello stesso momento. Avevano imparato insieme che ogni castello di carte, prima o poi, deve collassare, affinché uno più bello e stabile venga realizzato. Allora tanto valeva scegliere quando, no?


Tokyo, 14 agosto 2016, 15:28


Come faceva ormai da settimane, si diresse alla finestra e, dietro un piatto con del cibo per gatti, scovò la chiave dell’appartamento. La afferrò frettolosamente e con la stessa agitazione spalancò l’ingresso dopo aver fatto scattare la serratura.

Uno spiraglio di luce strisciò lungo il pavimento del salone come un serpente, ma Shouyou serrò la porta dietro di lui appena entrato. Se Tobio voleva che quel posto restasse nell’oscurità, allora avrebbe rispettato la sua decisione, pur essendo terribilmente curioso.

«Kageyama, sbrigati!» strepitò più forte che poté, giocando con il portachiavi. Avvertì qualcosa tastare la sua testa e subito dopo attanagliarla.

«Sono qui, idiota, non c’è bisogno di spaccarmi i timpani» sibilò il quindicenne, ma levò la mano dai suoi capelli impossibili comunque.

Il ragazzo dagli occhi del colore del tramonto sorrise, elettrizzato. «Su, andiamo!» Lo sospinse con entrambe le mani sulla borsa del violino, mentre l’altro calava la maniglia d’ottone.

Fece una smorfia indignata e gli schiaffeggiò gli avambracci. «Tocca ancora la mia custodia e ti faccio cadere le mani, deficiente!»

Allora Shouyou lo spinse ancora, stavolta dalle spalle, rischiando di farlo cadere mentre andava giù per i gradini dell’uscita. Come il corvino emise un suono strozzato, scoppiò a ridere e lo superò, saltellando per il viottolo dell’abitazione.

Si raddrizzò, e dire che il suo sguardo sarebbe stato capace di incendiare un’intera città era un eufemismo. «Hinata, idiota!» urlò in una specie di dichiarazione di guerra.

L’appellato si voltò e sbarrò per un secondo gli occhi nel vedere l’espressione furente del violinista.

Tobio ebbe appena il tempo di notare un ghignetto furbo sul suo viso che l’altro prese a correre nella direzione opposta. «Torna qui!» gridò ancora, seguendolo a ruota.

Shouyou continuò a correre, ridente come non mai.


Tokyo, 14 agosto 2016, 17:32


«Dove vai?»

«A sedermi.»

Lo vide indugiare un po’ sul limite della stanza, come se volesse aspettarlo.

«Come la scorsa volta?» s’informò interessato. Il 31, seduti l’uno di fianco a l’altro, non avevano più proferito parola: Shouyou, però, non aveva provato il bisogno di rompere quel silenzio, il che rasentava l’insensato per lui.

Il moro annuì e si fermò definitivamente, ma non si voltò. «Resti qua?»

«Io...» esitò. Gli sarebbe piaciuto assistere alle tre esibizioni antecedenti alla loro, in quella piccola sala con qualche sedia e due schermi. Poi rammentò la sensazione piacevole che Tobio accanto a lui gli aveva procurato. «Arrivo.» Gli indirizzò un sorriso di scuse, quasi gli stesse facendo un torto. «Solo un attimo.»

Alzò un po’ le spalle, borbottando un «Va bene», e appena uscito chiuse a metà la porta scorrevole della stanza.

Il corridoio, tranne per qualche insegnante e dei concorrenti che parlottavano sommessamente tra di loro, era vuoto. Mosse qualche passo, virò a sinistra e, giunto in un punto impreciso che gli sembrava abbastanza lontano da quel gruppetto, si lasciò scivolare contro il muro bianco. Forse la giacca nera dello smoking si stava anche sporcando di intonaco, ma non ci pensò troppo.

Appoggiò con garbo il violino e l’archetto accanto alla sua spalla. Si portò le ginocchia al petto e, dopo averle abbracciate, ci affondò il volto.

Apprezzava particolarmente quella parte del suo riscaldamento: non era fisico, bensì psicologico. Lo aiutava a fare mente locale di tutte le esperienze più intense che aveva vissuto, perché tutto ciò che percepiva in quei momenti lo traduceva in musica. Lo psicologo che gli avevano rifilato anni fa gli aveva detto che i traumi o delle vicende cariche di sentimenti dannosi sono più facili da dimenticare, dopo tanto tempo. Il subconscio li elimina, li relega nel dimenticatoio del nostro cervello, affinché essi non facciano soffrire.

Però, tolti quelli, a lui cosa rimaneva?

Dato che vedeva nero a prescindere, compresse forte gli occhi.

Li riaprì, in seguito a dei pensieri che erano solo nocivi, come si accorse che qualcosa era vicino a lui. Volse fiaccamente il capo, ritrovandosi lo sguardo e i denti luminosi di Shouyou a circa un metro da lui. Tornò alla postura di prima, ma non riuscì più a rievocare tutti gli avvenimenti degli ultimi cinque anni.

Pensò a sua madre che suonava la Gioia di amare di Kreisler, mentre lui si nascondeva sotto il pianoforte orizzontale, per poi vagare in tutti quei brani della sua infanzia che aveva ascoltato, in mezzo a tanti anziani giudici e intenditori, grazie all’orchestra di cui faceva parte quella spettacolare pianista.

E riavvertì la pelle d’oca sulle braccia, l’amore per la musica ‒ e soprattutto per il violino ‒ che si allargava nel suo petto come una bolla di sapone.

Non sapeva cosa, ma qualche cosa sicuramente gli restava.


Appena sentì il suo nome, la sua testa scattò in alto. Non era stato distolto dalle sue stesse riflessioni, al contrario: era ancora più concentrato su ciò che doveva e voleva fare.

Guardò l’altro e fu soddisfatto di aver previsto correttamente: anche Shouyou era vigile. Si stava già rimettendo in piedi, ma la luce dei suoi occhi non sfuggì a Tobio. Era più scura, ma non per qesto meno viva.

Una volta dritto, gli offrì la mano, ma lui si girò dalla parte opposta e prese il suo strumento. Poi si ripresentò alla sua altezza naturale, in un atteggiamento tanto sicuro da risultare quasi imponente.

Il ragazzo dai capelli rossicci gli fece la linguaccia, risentito, ma attese che facesse il primo passo verso l’entrata con lui.

Si rivolsero uno sguardo serissimo, per sfidarsi a modo loro, quasi si sarebbero dovuti sorpassare a vicenda per vincere, solo quando si trovarono al varco per i loro sogni.


Tokyo, 14 agosto 2016, 17:59


«Mi raccomando: calmo.»

«Lo stai dicendo a te, Kageyama-kun?»

Sembravano dire quello le occhiate che si lanciarono poco prima che la spalla di Tobio sfiorasse il legno del violino.

Un, due, tre, quattro.

Eccole, le prime due carte, pronte a congiungersi. Senza di esse, sarebbe stato impossibile costruire tutto il castello. Necessitavano di concentrazione, tranquillità, o sarebbero cadute subito. Esisteva un solo tentativo: se fossero crollate la prima volta li avrebbero schiacciati come dei macigni.

Un, due, tre.

Mancava un millimetro. Uno solo, e allora avrebbero sicuramente continuato.

Quattro.

Un tasto si abbassò, pressato dalla mano sinistra di Shouyou; il bicordo del violino vibrò nell’aria statica, cristallino come acqua di un ruscello.

Le prime due carte erano lì, inclinate fino a toccarsi e a sorreggersi a vicenda, e loro erano sottodi esse: decisero entrambi che era troppo presto per distruggerlo. Un po’ più di carte, una struttura più sofisticata, più gente meravigliata da quella costruzione. Allora si sarebbero accorti anche dei suoi artefici e non li avrebbero più dimenticati.

Un.

Accorse anche la mano destra, mentre la sinistra si spostava già sul prossimo tasto; il Sol del violino, però, sovrastò tutto.

Tobio occhieggiò il ragazzo che era ormai ufficialmente diventato il suo accompagnatore, sorprendendosi di trovare gli occhi d’ambra indirizzati a lui. Era la prima volta che i loro sguardi si incontravano durante un’esecuzione.

Mentre proseguivano con il pezzo, una gara tutta loro ebbe inizio. Se non riuscivano ad oltreppassare i propri limiti, come avrebbero potuto vincere contro gli altri? Se desideravano competere a livello nazionale, era indispensabile superare se stessi, perché qualcuno migliore di loro ci sarebbe stato indubbiamente.

Dunque, avrebbero combattuto per spodestare quel qualcuno e persino le loro stesse persone, per ripresentarsi sempre più in alto, anche solo di un posto per volta.


Strinse le mani e il tappo della biro nera gli graffiò superficialmente un dito. «Che cosa assurda...»

Non stava neppure annotando i vari errori, che seppur pochi c’erano. Gli pareva di star assistendo a un’esibizione libera da ogni gara e che solo la deformazione professionale gli stesse impedendo di godersi appieno l’emotività riversata in quel brano.

L’assurdità stava nel totale contrasto tra le emozioni del violino e del pianoforte. Entrambi estremamente coinvolti, così concentrati nella loro impresa di trasmettere qualcosa che la musica appariva quasi palpabile e visibile. Forse lo era. Forse, chiudendo gli occhi, si poteva davvero osservare tutti quei sentimenti di ogni genere prendere vita insieme alla miriade di note. Non era neanche corretto parlare di miriade: le note sono sette, e considerando i semitoni dodici. La bravura di un compositore sta anche nel creare delle armonie mai sentite prima e che, contemporaneamente, siano orecchiabili; la bravura di coloro che le suonano sta anche nell’interpretarle, nell’imprimervi altre armonie: le proprie esperienze, pensieri e sensazioni.

E Shouyou e Tobio erano bravi: nonostante la discordanza, c’era un equilibrio. Come se stessero giocando al tiro alla fune in due, con la stessa forza ed intensità. Qualche volta, poi, il violinista tirava un po’ di più, e allora un treno di rabbia e angoscia investiva lo stomaco di tutti gli spettatori; quando era il pianista a trascinare la corda verso di sé, sembrava di andare al parco divertimenti con il proprio migliore amico dopo uno sfogo sfiancante.

Tuttavia, anche se raramente, Shouyou era certo di udire della gioia nella melodia, così come a Tobio sembrava che tutta quella felicità travolgente in certi punti si affievolisse.

Non si rendevano conto, però, del fatto che, tirando perennemente in direzioni opposte, si stavano avvicininando. Magari sarebbero arrivati in un punto d’incontro in cui sarebbero stati capaci di suonare tutta la lunghezza e le sfaccettature di quei sentimenti, di comprendere anche quelli dell’altro.

Ora, in ogni caso, un equilibrio esisteva. Se così non fosse stato, le bocche del pubblico sarebbero state aperte solo per parlare.


Tokyo, 14 agosto 2016, 18:03


Il nuovo silenzio della sala venne subito spezzato dagli applausi.

Shouyou si era asciugato le lacrime prima di alzarsi e affiancarsi al ragazzo che aveva già abbassato il violino e stava guardando l’uditorio con occhi sgranati e leggermente lucidi. Ma, quando la folla li acclamò con inaspettato vigore, altre lacrime corsero sul suo immenso sorriso. S’inchinò, nascondendole, immediatamente seguito da Tobio.

In quel momento, un altro paio di mani batterono, anche se solo tre volte. Sebbene loro non l’avessero notato, quell’applauso valeva almeno il triplo di quello del resto delle persone nel teatro.


Non se lo sarebbe mai aspettato: stava sorridendo. Lievemente, i denti non si vedevano neppure, ma non era né un ghigno derisorio né un sorriso inquietante: era sereno. Probabilmente era la prima volta che lo vedeva con un’espressione così tranquilla in volto.

«Tutto bene, Kageyama?» fece con voce allarmata, mentre si dirigevano agli spogliatoi.

Il piccolo sorriso scomparve come era arrivato. «Perché?»

Shouyou sbatté le ciglia un paio di volte, stringendosi nelle spalle. «Stavi sorridendo...»

A quelle parole, i suoi lineamenti s’indurirono nuovamente. «E allora?» grugnì e si bloccò, prendendogli il capo con una mano e stringendogli la ribelle zazzerra rossiccia.

«Lasciami!» si lagnò invece il pianista con voce strascicata, cercando invano di raggiungere il petto di Tobio e colpirlo.

Dopo aver stretto un altro po’, lo abbandonò sul posto e procedette verso i camerini. «Prima mi dici di sorridere e poi ti lamenti pure, idiota!»

«Ma non mi stavo lamentando!» protestò e lo accostò di nuovo. «Era una constatazione, dato che non sorridi mai, ma non ho mai detto che mi dispiace.» Stavolta fu lui a rivolgergli il suo sorriso gentile, uno di quelli che gli riservava solo quando non lo criticava brutalmente per la sua perfomance al piano ‒ ovvero quasi mai.

Il quindicenne storse le labbra, bofonchiando qualcosa di incomprensibile. Non gli poteva dare torto: la risata non faceva esattamente parte del suo repertorio di espressioni frequenti.

Tuttavia, qualcuno gli aveva detto che non gli dispiaceva. E non una persona qualsiasi: era il suo accompagnatore.


Tokyo, 14 agosto 2016, 19:17


«Smettila di dondolare quelle dannate gambe, Cristo!»

Era da più di mezz’ora ‒ da quando tutti i concorrenti si erano esibiti ‒ che si trovavano nella sala principale, dove sarebbero stati esposti i risultati. Avevano ascoltato e guardato tutte le esibizioni e in seguito avevano corso per dieci minuti nel cortile esterno, rientrando per l’afa insostenibile, completamente sudati.

Si erano messi a vagare per tutto il salone, ma, quando un impiegato dello staff li aveva richiamati, erano stati costretti a sedersi.

«Tu ti stai dondolando con tutto il corpo!» ribatté Shouyou, continuando a oscillare le gambe avanti e indietro, scomposto su una panca imbottita accanto all’altro.

«È diverso!» rettificò il violinista, ondeggiando con il busto come un orologio a pendolo. «Mi fai venire il mal di mare.»

S’immusonì, offeso, e voltò la testa di lato. «E allora non mi guardare, stupido!»

Tobio sbuffò con sdegno e si volse a sua volta dal lato opposto. «E chi ti guarda!»

Alcuni secondi dopo videro dei ragazzi, tutti sopra i quattordici anni, accorrere davanti ai quattro schermi che scendevano dal tetto, posti al centro.

Si girarono di scatto e, un’occhiata velocissima dopo, si ritrovavano già a correre verso tutti quei liceali. Alzarono lo sguardo sui risultati.

L’ansia li aveva corrosi per una lunga ora, a entrambi. Tobio era convinto di essere passato insieme al pianista, ma a lui non bastava. Credeva non bastasse nemmeno a Shouyou: erano troppo ambiziosi perché la semplice qualificazione andasse loro bene. Quasi certamente, anche posizionandosi secondi si sarebbero disperati, arrabbiati e avrebbero reclamato rivincita.

Però, almeno per quanto riguardava quel concorso, non sarebbero mai riusciti a reclamarla.

Avvertì un fremito in tutto il corpo, dal petto fino alle mani, che non cessarono di tremare neppure dopo. Guardò il suo compagno solo quando sentì un urlo provenire dalla sua sinistra.

Aveva un pugno chiuso e il gomito piegato in segno di vittoria, le guance arrossate e le labbra che formavano smorfie diverse ogni istante a causa dell’emozione.

Tutti si sbagliavano sul conto di Tobio; si era sbagliato anche lui, tempo addietro. All’inizio gli era apparso come un ragazzo freddo, cinico, insensibile e, in realtà, tremendamente saggio. Shouyou si era ricreduto su tutto. Forse poteva sembrare freddo per via del suo aspetto spaventoso, mentre probabilmente era l’unico di sua conoscenza la cui passione equiparava la sua. Non era né cinico né insensibile: al contrario, forse dentro di lui bruciavano troppe emozioni, nonostante avesse difficoltà a mostrarle.

Che fosse un genio della musica era indubbio, ma Shouyou avrebbe riso fino alla morte se gli avessero chiesto della sua maturità e saggezza. Le aspettative degli altri sulla sua persona erano troppo grandi, disumane. Tobio Kageyama era pur sempre un ragazzo di quindici anni, non un dio.

A lui, ad ogni modo, non sembravano neanche interessare. Si allenava comunque, nonostante tutte le voci che giravano sul suo conto nel mondo della musica. Lui diceva che lo faceva solo per sé, per nessun altro, ma realizzare qualcosa per una persona cara fa sempre sì che l’impegno e il risultato siano migliori, più sentiti. E Shouyou poteva giurare che, se proprio un qualcosa di Tobio era sentito, quel qualcosa era sicuramente la musica.

Sollevò le mani per farsi dare il batti cinque, ma inizialmente l’altro non comprese. Quando gliele premette praticamente in faccia, il violinista si decise ad alzare anche le sue e il ragazzo dagli occhi d’ambra gli diede il primo batti cinque della sua vita ‒ o almeno, quello che avrebbe sempre ricordato.

Come notò che aveva sorriso solo per un momento effimero, si allarmò. Lo prese per una spalla, trascinandolo di peso mentre lui gli gridava: «So camminare da solo, Kageyama!», poiché dalla folla di ragazzi si stava levando sempre più confusione.

«Che hai?» lo interrogò, con tono più stizzito che interessato, piantandolo vicino all’uscita.

Il pianista aggrottò lievemente la fronte e, dopo essere sfuggito al suo sguardo indagatore per un attimo, lo fissò. «Potremo suonare di nuovo?» disse infine, la voce incredula.

Il moro sbatté le palpebre un paio di volte. «Sì…?» Che c’era di strano?

Si erano classificati primi, dopotutto.

«Sempre qui? Ci saranno più partecipanti?»

Ci stette un po’ a replicare anche stavolta. Studiando il volto leggermente sconvolto del giovane, capì. «Sì» confermò sicuro. «E per questo non puoi permetterti di fare idiozie.»

Shouyou espirò lentamente dalla bocca, senza far rumore, e le sue spalle si rilassarono, come se fossero state tenute in alto da un burattinaio per tutto quel tempo. Sorrise come solo lui sapeva fare: raggiante, incontenibile, travolgente.

Doveva aspettarselo, ma prima d’ora non ci aveva mai fatto troppo caso. Quella era solamente la sua seconda gara, la sua prima vittoria e qualificazione. Era ovvio che non fosse neanche capace di credervi.

Quasi per inerzia, gli angoli della sua bocca si piegarono in su.

Poi si voltò: Tobio non sopportava quelle situazioni imbarazzanti. Non sapeva mai come reagire. Tuttavia, fu impossibilitato a fare un passo in più.

«Invece hai trovato proprio un bel pianista, Tobio-chan.»

Raggelò sul posto. Restò con gli occhi sgranati inchiodati in un punto indefinito, il suo corpo che si rifiutava di rivolgerli altrove.

Il sedicenne gli si avvicinò non troppo cautamente e, sulle punte, gli sussurrò di rispondere, o sarebbe parso un maleducato. In seguito si girò verso quell’uomo che stava davanti a loro, lontando dalla folla. Non gli avrebbe dato più di venticinque anni, ma appariva molto più maturo, grande e virile di lui.

«Scusi...» bisbigliò con una nota di curiosità a ravvivargli il timbro. «Lei chi è?»

L’uomo gli sorrise in un modo che sul suo viso calzava benissimo, ma che su qualcun altro sarebbe sembrato terribilmente simulato, quasi sgradevole. «Uno dei giudici di questo torneo.»

Shouyou aprì e richiuse le labbra più volte, stupefatto. Guardò ora il violinista ora il giudice, chiedendosi come potessero conoscersi. Gli pizzicò poi un fianco, incalzandolo impazientemente a intervenire e a non lasciarlo lì come un pesce lesso.

Tobio sussultò, riscuotendosi solo allora. Fu finalmente in grado di spostare lo sguardo sull’uomo dai capelli castani, più alto di lui di circa cinque centimetri, ma nessuna scintilla scattò in lui.

Il suo sorriso, invece, man mano che i secondi passavano, diveniva sempre più forzato, simile a una smorfia indignata. Alzò un sopracciglio, incitandolo a dire qualcosa.

Il corvino arricciò le labbra. «Non la ricordo...» Non era di certo per la persona in sé che era stravolto.

Il sorriso svanì completamente e la sua espressione perse ogni traccia di gentilezza per un singolo secondo, ma si corresse subito. «Conoscevo tua mamma e ti vedevo spesso quando eri piccolo» lo informò, riprendendo a ridere come prima. «E sono stato nella giuria ai tornei under fourteen degli ultimi due anni.»

Tobio aveva un vago ricordo di quel viso delicato e bello, così come della voce allegra e un po’ troppo acuta per i suoi gusti. Ma era, per l’appunto, vago: niente che fosse capace di rievocare. «Ah» fece soltanto.

Persino quel cipiglio annoiato appena affacciatosi stava bene su di lui. «Comunque» si mise le mani sui fianchi, rivolgendosi a Shouyou, «mi chiamo Oikawa Tooru. Piacere di conoscerti, piccoletto.» Sorrise e gli porse una mano.

Il rosso arricciò il naso, risentito, mentre gliela stringeva. «Non sono un piccoletto, ho sedici anni...» farfugliò con tono offeso ma comunque basso, tentando di non farsi sentire.

Tooru rise divertito. «Sì, sì, lo so» lo liquidò con una mano. «Piuttosto, ti volevo chiedere: partecipi a qualche corso?»

Tobio corrugò le sopracciglia, in contemporanea al suo accompagnatore, e lo guardò.

«No.» Stralunò appena gli occhi. «Perché?»

L’uomo parve sorpreso. «So riconoscere quando qualcuno migliora anche nelle basi, come battere il tempo o il solfeggio.» Si portò un dito al mento, come se stesse meditando. «L’anno scorso non contavi per niente e si vedeva, invece quest’anno sei molto più preciso.» Studiò entrambi con fare sornione, quasi gli stessero nascondendo qualche segreto; il che, dopotutto, non era falso, dal momento che non lo conoscevano. «Che è successo in questi mesi?»

Il viso di entrambi era una maschera di confusione. Il pianista consultò il compagno con lo sguardo, ma lui scosse la testa, smarrito almeno quanto lui.

Tooru aprì la bocca sottile per continuare a parlare, ma venne bloccato da un grido che non poteva essere altro che furioso. E conteneva il suo cognome. O almeno, una parte del suo cognome. Si pietrificò, gli occhi color nocciola sgranati e le spalle rigide.

Shittykawa.

Un altro uomo, poco più basso del giudice, comparve alle sue spalle, mentre gli sguardi dei due musicisti seguivano attenti e ancora attoniti la scena.

«Brutto idiota!» Con quell’esclamazione, lo prese per il retro del colletto della t-shirt azzurra. «È da mezz’ora che aspetto in quella merda di macchina e tu ti metti a molestare i ragazzini!»

All’ultima frase, se avessero potuto, le mascelle dei ragazzini avrebbero toccato il pavimento.

«Devo ancora chiudere il negozio per colpa tua!» sbraitò ancora, cominciando a trascinarlo verso l’uscio. «Ma secondo te che cazzo sono, un cameriere?»

«Ahia! Aspetta! Iwa-chan, mi fai male!» si lagnò Tooru con voce lamentosa e capricciosa.

Shouyou si voltò verso il moro, domandandogli silenziosamente se ciò che avevano appena visto fosse solo frutto della sua fantasia.

Poteva darsi: l’espressione di Tobio suggeriva che lui avesse vissuto tutt’un’altra esperienza.

Iwa-chan.

Iwa-chan lo ricordava. Era sempre accanto a Tooru, anche se probabilmente aveva assistito più alle sue sgridate nei confronti del castano che a delle discussioni con sua madre.

Si trovava quando era successo. E la sua attenzione, per una volta, si era distolta dal giudice ed era volata su di lui, che non aveva neppure dieci anni.

Tuttavia, non ricordava il motivo. Perché ‒ glielo aveva detto anche il suo psicologo ‒ i traumi o le vicende cariche di sentimenti dannosi sono più facili da dimenticare.




一 Salve a tutti! Stavolta il capitolo ve lo beccate prima della scorso. BD In realtà avrei voluto aggiornare già lunedì, ma purtroppo il tempo mi manca sempre, sigh. Ma comunque, finalmente ce l’ho fatta!

Allora, partiamo dalla fine: ve lo aspettavate? Spero di no. :’) Però almeno ora posso andare a mettere il tag IwaOi nella descrizione, perché volevo che fosse una sorpresa (anche se, se qualcuno la leggerà dopo, non la sarà più, ma vabb). Da qui in poi, questi altri due idioti si uniranno alla compagnia, dato che, come avrete ben capito, hanno un determinato ruolo in tutti i problemi di Tobio (non vi preoccupate, nemmeno a loro mancherà del buon angst :’D).

E niente, non ho tanto da dire, se non una cosa: ho scritto questo capitolo ascoltando S O L T A N T O questa canzone (House of Cards dei BTS) che, davvero, amo con tutto il mio cuore. L’ho trasportata in tutt’altro contesto, lo so, ma, dato che è molto calma e che le parole che volevo usare erano proprio quelle,  mi ha aiutato un sacco. Un giorno farò la playlist di tutte le canzoni che associo ai capitoli, prometto!

Infine, ringrazio come sempre Maiko_chan e _Lady di inchiostro_ per recensire (e sclerare insieme a me), siete davvero fantastiche. <3

E niente, ora mi dileguo, anche perché vado di fretta, sob. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e sappiate che un parere anche piccolissimo è sempre ben accetto! :3 Allora ci vediamo al prossimo capitolo! ~


Baci
Shizuha

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