Meant to be

di Chipped Cup
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Un posto in cui tornare a casa ***
Capitolo 3: *** 2. Un incontro da dimenticare ***
Capitolo 4: *** 3. L'anniversario (parte1) ***
Capitolo 5: *** 3. L'anniversario (parte 2) ***
Capitolo 6: *** 4. L'amico di sempre ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo



Belle si rigirava il solitario tra le dita, senza sosta, sembrava quasi essersi incantata. Non che si rendesse veramente conto di quello che stava facendo, benché meno faceva caso a ciò che succedeva intorno a lei, troppo impegnata a scrutare con i suoi grandi e penetranti occhi blu lo schermo del suo laptop.
Si dava della stupida da sola per quello che l'angosciava, ovvero mandare o meno una richiesta d'amicizia. Ecco, sembrava sciocco solamente dirlo e lei lo sapeva benissimo, era la prima ad ammetterlo! Odiava tutta quella tecnologia, quei social... com'era l'altra parola? Ah già, network. Belle reputava stupido chiunque preferisse passare delle ore a farsi i fatti degli altri alla lettura di un buon libro.
Perché si era creata un account? Non ricordava neanche come fosse successo, in effetti, era in compagnia di Ruby, poco ma sicuro, la sua amica più fidata. Doveva essere stata la ragazza ad insistere tanto, non c'era altra spiegazione, anzi, ora che ci pensava meglio, ricordava quanto Ruby volesse che fosse al passo con i tempi e, soprattutto, che non si comportasse come una vecchia zia zitella. Le aveva detto proprio così: vecchia – zia – zitella.
Chinò appena il capo verso destra, le ciglia sbattevano con intervalli regolari mentre, per l'ennesima volta, leggeva il profilo di Emma Swan. C'era poco da leggere, a dire la verità.
Donna, ventotto anni, residente a Boston, luogo di nascita sconosciuto.
Un sorriso amaro si dipinse sulla faccia della dolce ragazza, soprattutto mentre partì a sfogliare le foto della giovane. Neal compariva ovunque, sembravano inseparabili e felici ad ogni scatto. L'ultimo che li ritraeva insieme risaliva a sei mesi prima: Emma sorrideva felice tra le braccia del suo promesso sposo. L'immagine del profilo, invece, era un misero selfie della donna, che lasciava trasparire solamente un immenso vuoto e un'incredibile tristezza. Data di cinque mesi prima.
Belle sospirò. Aveva parlato con Emma Swan e le era sempre parsa una ragazza forte e con la testa sulle spalle, era contenta che il suo figlioccio, Neal, avesse deciso di chiederle di sposarlo, sembravano fatti per stare insieme. Lei e Robert, il suo compagno e padre del ragazzo, non avevano potuto partecipare all'evento per impegni di lavoro, non che si fossero persi chissà quale grande e spettacolare cerimonia, comunque.
Neal, infatti, si era presentato a casa del genitore solo una settimana prima ed era rimasto per quattro giorni in quella che era la città dove era cresciuto. Era solo, nessuna fede al dito, poche spiegazioni: aveva lasciato Emma poco prima di entrare in chiesa. Non era pronto a compiere il grande passo, diceva.
Ed era per questo che Belle si era sentita in dovere di fare qualcosa, per quella ragazza. Voleva contattarla, chiederle se stesse bene, scusarsi per una faccenda che non la riguardava e per una colpa che a conti fatti non aveva. Ma, soprattutto, Belle voleva aiutarla. Sentiva come Emma avesse seriamente bisogno del suo aiuto.
Per questo motivo smise di tormentarsi, mosse appena il mouse, cliccò due volte e inviò la richiesta, non avendo altri modi per contattarla.
Con un pensiero in meno per la testa, volse le sue attenzioni al piccolo Roland, piazzato davanti la tv a vedere
Il libro della giungla, del resto il Signor Locksley la pagava per fare da baby sitter al bambino, non per svagarsi su internet!

Proprio in quell'istante, a Boston, il telefono di Emma Swan prese a vibrare rumorosamente e fastidiosamente sulla superficie dura del tavolino sul quale era poggiato.
La giovane donna, sdraiata sul vecchio divano di pelle marrone chiaro, sobbalzò improvvisamente, portandosi una mano al cuore non appena avvertì il battito accelerato per colpa del risveglio forzato. Controllò che ore fossero prima che lo schermo del cellulare si oscurasse, poi si strofinò gli occhi verdi con la mano sinistra, lentamente, provando a fare mente locale.
Si era addormentata? Beh, sembrava proprio che fosse così, di certo non stava controllando la morbidezza (poca) del suo divano. Con tutte le cose che doveva fare doveva proprio concedersi un attimo di relax? Soprattutto quando una parte di lei sapeva che sarebbe andata a finire così? Che sarebbe crollata in pochi secondi? No Emma, sicuramente non era stata una buona idea.
Poggiò i piedi, che sarebbero stati completamente scalzi se non fosse stato per dei calzini di colore giallo acceso che indossava da quella mattina, a terra, pronta ad alzarsi. Lo scialle rosso che aveva usato a mo' di coperta cadde a terra nel momento esatto in cui si ritrovò in piedi. Si girò ad osservarlo ma non si prese la briga di raccoglierlo, lo avrebbe fatto sicuramente più tardi.
Si avvicinò alla dispensa della cucina, colta da un improvviso senso di vuoto nello stomaco, la sua pancia reclamava cibo da quando aveva aperto gli occhi poco prima. Si rendeva conto che erano appena le sei del pomeriggio, ma decise che avrebbe cenato presto, prima di morire di fame visto che neanche aveva pranzato.
Cominciò ad aprire vari sportelli, ma non vi trovò letteralmente niente, niente di niente. Nel frigo regnava la desolazione totale. La spesa era una delle tante cose che doveva fare quella giornata, se solo non si fosse addormentata!
Sbuffò prendendo il latte, controllò la data di scadenza – era in anticipo di un solo giorno, la vita aveva cominciato finalmente a sorriderle – e richiuse il frigo con un calcetto leggero. Afferrò la scatola dei cereali che era rimasta sul tavolo da... la mattina precedente?!, una ciotola pulita e un cucchiaio. Si sarebbe fatta andare bene quella, come cena.
Poggiò tutto sul tavolo, prese il telecomando e accese la tv, scoprendo uno stupidissimo reality show. Si sedette su una sedia con una gamba incrociata e cominciò a “prepararsi” da mangiare.
«Complimenti Emma, Masterchef ti fa un baffo!» Si disse fra sé, mentre mangiava la prima cucchiaiata di cereali.
Lanciò uno sguardo alle lettere accumulate sul tavolo, bollette da pagare, per la maggior parte, aveva perso anche il conto di quanto doveva sborsare, sperava di cavarsela con meno di 200$ visto che era tutto quello che aveva al momento. In realtà non sapeva neanche lei per quale motivo non le avevano ancora staccato la corrente elettrica.
No, non se la passava per niente bene, Emma Swan, o almeno questo era quello che si poteva pensare in un primo momento. La verità era che ormai si era abituata a quella vita, la ferita nel suo cuore non faceva più male da un po'. Per un periodo si era sentita naufragare, ma come Robinson Crusoe si era rimessa in piedi e aveva affrontato ogni difficoltà a testa alta.
Ehi, le piaceva quel paragone: Robinson Crusoe! Non aveva mai letto il libro, ma già credeva di avere molte cose in comunque con quell'uomo. Tanto per cominciare entrambi non erano del tutto soli, ma potevano contare sulla presenza di un amico. Certo, Venerdì c'era sempre per Robinson, mentre August era perennemente fuori città per motivi di lavoro. E poi c'era il fatto di aver imparato a sopravvivere, era quello che sapeva fare meglio, Emma.
Era fermamente convinta che lei non stesse vivendo, ma sopravvivendo, e la differenza era abissale. E, pensandoci, era anche una cosa molto triste.
Okay, continua pure a prendere in giro te stessa, signorina Swan, anche se sai benissimo che la tua vita fa altamente schifo. Schifo come i piatti abbandonati nel lavandino da tre giorni, o come la spazzatura accumulata fuori, sul piccolo balcone, da una settimana buona.
«Come potete non eliminare quell'oca di Charlotte!» Esclamò indignata, spalancando d'un tratto la bocca e muovendo così freneticamente il cucchiaio che aveva in mano che cominciò a schizzare tutto di latte, rivolta alla tv e ai giudici di quella stupida competizione fra modelle, che adesso piangevano falsamente per l'eliminazione di una rossa, dalle labbra, naso, zigomi e probabilmente anche seno, rifatti.
Dio, si faceva pena da sola.
Finì di mangiare e si alzò quasi nello stesso istante, di scatto, neanche avesse ricevuto una scossa da sotto il sedere. Prese la ciotola osservando di sfuggita, appena schifata, quella sottospecie di pappetta che si era venuta a creare per via dell'ultimo sorso di latte e le piccole briciole mollicce dei cereali. Non finiva mai di bere il suo latte se vi aveva immerso dentro qualcosa, qualsiasi cosa, cereali, biscotti, brioche. Odiava immensamente il sapore che assumevano quelle briciole umidicce.
Posò tutto nel lavandino, fece per allontanarsi ma poi si bloccò, guardò ancora una volta la pila di piatti sporchi ed esitò per qualche istante. La parte responsabile le intimava di pulire tutto e di mettere in ordine, quella vocina non smetteva mai di darle della sciatta e a lei tutte quelle accuse davano fastidio, ma l'altra parte proprio non aveva voglia. Si disse che lei, in tutta la sua vita, non aveva mai seguito la vocina saggia e con i piedi per terra del suo cervello, quindi diede le spalle al lavandino e se ne andò in bagno, per farsi una doccia.
Prima però accese la radio, le note dell'ultimo successo radiofonico riempirono il suo piccolo appartamento facendole storcere il naso. Non amava la musica commerciale, non amava gli artisti musicali che andavano ultimamente, quelli che facevano uscire un videoclip ogni settimana, un singolo ogni venti giorni e un album di inediti all'anno.
Decise di mettere un cd e scegliere quale non fu per niente difficile: The Dark Side Of The Moon, Pink Floyd, era già pronto, doveva solo premere play, non lo riponeva mai nella sua custodia perché non sarebbe mai stata stanca di ascoltarlo, lo sapeva, lo sentiva nelle vene. A detta sua era il miglior album della storia musicale, anche se sapeva di essere ignorante in materia e di saperne veramente poco. Ricordava la prima volta che aveva ascoltato quella musica, il suo quinto padre adottivo aveva un antico vinile di cui andava molto fiero e che custodiva gelosamente, tanto che Emma doveva aspettare che questo andasse a lavoro per poterlo ascoltare, la sua madre adottiva la assecondava, ovviamente, e teneva nascosto tutto al marito.
Sorrise a quei ricordi, la sensazione di essere voluta per la prima volta, a più o meno dodici anni, di essere amata da dei genitori, due persone che le avrebbero dato anche la luna se solo lo avesse chiesto. Poi il padre aveva perso il lavoro e, come se non bastasse, poco tempo dopo, quello che lei aveva imparato a chiamare “nonno” si trasferì da loro, in seguito ad un ictus. I soldi scarseggiavano, sua madre faceva turni impossibili per mandare avanti la famiglia, il padre badava al suo vecchio ed Emma tornò a sentirsi sola. Ora, a quasi trent'anni, poteva affermare con tranquillità di averli perdonati, di aver capito che se l'avevano riportata in orfanotrofio era solo ed esclusivamente per il suo bene, che non avrebbero mai voluto separarsi da lei se avessero avuto una scelta.
Calpestò i vestiti che si era appena tolta e che aveva buttato vicino la doccia così da non scivolare una volta fuori, con tanto di piedi bagnati, si legò i lunghi capelli biondi in una specie di chignon alto e disordinato, ed andò a mettersi sotto il getto caldo dell'acqua.
«Breathe // breathe in the air // don't be afraid to care», si ritrovò a cantare senza rendersene conto, la mano sulla faccia a mandare via l'acqua dagli occhi, i capelli che, nonostante tutte le attenzioni, cominciavano a bagnarsi, come al solito del resto. Prese a insaponarsi, respirò lentamente, calma, la mente svuotata da tutto, da qualsiasi preoccupazione. Era il momento della giornata che preferiva proprio per questo, il calore sembrava dissolvere ogni problema, l'acqua sciacquava e mandava via tutto.
«And all you touch and all you see // is all your life will ever be». Aprì gli occhi di scattò e si poggiò contro la parete bagnata. I capelli erano ormai fradici, perciò li sciolse, passandoci poi una mano lentamente. Restò in quella posizione per un po', lo sguardo perso nel vuoto, tanti, troppi pensieri per la testa. Sapeva che sarebbe andata a finire così, succedeva ogni volta con quella canzone.
Alla fine fu distratta dal suono del campanello. Uscì dalla doccia sbuffando, prese un asciugamano e se lo legò intorno al corpo, tanto sapeva già chi poteva essere alla porta. Difatti, poco dopo rientrò dentro casa imprecando sottovoce contro la vicina di casa che si lamentava del volume della musica. Un classico.
Indossò il pigiama e tornò a sdraiarsi sul divano. Solo in quel momento parve ricordarsi della notifica che l'aveva bruscamente svegliata, ormai ore prima. Afferrò il telefono, abbandonato a se stesso già da un po', ed entrò su Facebook, evento più unico che raro. Con sorpresa notò la richiesta di amicizia, non era una cosa che succedeva spesso, non accadeva mai in verità, così vi cliccò alla svelta, curiosa.
Leggendo il nome corrugò la fronte, assorta e, allo stesso tempo, stupita.
Belle French.
Neal.
Un coltello la attraversò da parte a parte, il cuore cominciò a sanguinare. La mano sinistra che reggeva il telefono cominciò a tremare, gli occhi si inumidirono nel giro di pochi istanti. Neal Neal Neal Neal Neal Neal. La sua mente non pensava ad altro, solo quel nome, quegli occhi, quel sorriso, quell'ultima volta che le aveva spezzato il cuore. Il vestito bianco, strappato. Neal.
Aveva ingannato se stessa in quegli ultimi cinque mesi, a tal punto che aveva seriamente cominciato a credere che lui non significasse più niente. Pensava che le fosse passata, non era il primo abbandono che affrontava, si era detta, aveva imparato ad affrontarli e a superarli. E invece eccola ancora lì, la stessa sofferenza provata prima di uscire dal loro appartamento, prima di salire sulla macchina che l'avrebbe portata all'altare. “Ti amo, Emma”, la sua voce si insinuò prepotentemente nei suoi pensieri “ma non posso compiere questo passo”. Un bacio veloce lasciato sulla fronte di lei, come se bastasse a farle sciogliere quel nodo alla gola, questo era l'ultimo ricordo che aveva del suo primo grande amore.
Cercando di accantonare quell'immagine, cominciò a domandarsi il motivo che aveva spinto quella donna a cercarla. Aveva conosciuto Belle, forse, solo un anno prima, e da all'ora si erano parlate solamente un'altra volta, quando le aveva portato la partecipazione in vista delle nozze. La ricordava come una ragazza dolce e mite, una persona che vedeva solamente il buono che regnava nel cuore di chi le stava intorno e che incantava tutti con i suoi grandi occhioni blu e il suo viso delicato che pareva fatto di porcellana. Era molto giovane, forse di una decina d'anni più grande di lei, ma sicuramente più giovane del signor Gold, il padre di Neal.
Belle aveva sempre mostrato dei modi gentili nei confronti di Emma, aveva provato in continuazione a farla sentire parte integrante della famiglia, ma la giovane Swan non era mai riuscita a provare quella sensazione.
La bionda sbatté le ciglia un paio di volte, non sapendo cosa fare. Magari quella richiesta di amicizia non significava nulla, come tutte le altre che riceveva e che ignorava. Doveva ignorare anche quella? O doveva accettarla?
Era bastato davvero poco a far tornare quella sofferenza contro cui aveva lottato per troppo tempo. Non era pronta a riaffrontare tutto, non voleva leggere il nome di Neal nella sua bacheca, non voleva che la donna le parlasse di lui scrivendole in privato. Ma, d'altro canto, non voleva voltare le spalle a quella persona dall'animo nobile e gentile, che magari non si sarebbe mai preso il disturbo di contattarla.
Accettò l'amicizia, alla fine, poi il suo cellulare morì per colpa della batteria.



Angolo dell'autrice: 

1. Sì, sono viva e vegeta!
2. Non so perché sto postando questa storia. Davvero non ne ho idea. L'ultimo capitolo di Hello I Love you(...) è in fabbricazione, lo giuro, e non credo manchi molto a finirlo. Ho scritto tanto e dovrò scrivere ancora un pochino, ma farò di tutto per aggiornare entro la settimana. Ho perso tempo perché non sapevo ancora come strutturarlo (capirete poi e spiegherò tutto lì lol), dopo quasi un mese ho avuto l'illuminazione e ho preso a scrivere. Solo che nel frattempo stava passando davvero troppo tempo e mi dispiaceva lasciarvi all'asciutto (?) Pensavo di dedicarmi a questa storia una volta finita l'altra, ma tanto valeva postarvi il prologo per non farvi sentire troppo la mia mancanza (?) visto che tanto è pronto da settimane e settimane.
3. Non so se si può definire un vero e proprio prologo. E' più un'introduzione al personaggio di Emma e alla situazione che comincia a crearsi. Si è spiegato un po' quello che è il passato della nostra Swan e quello che non è accaduto (matrimonio) e che le ha spezzato il cuore.
4. Come avrete intuito e già letto nell'introduzione, questa storia sarà completamente AU, quindi non aspettatevi strani poteri o fagioli magici o galline dalle uova d'oro. Vorrei però, e spero davvero di riuscire a trasmettervelo nel corso dei capitoli, mantenere quell'aura di mistero/magia (legata principalmente al destino che lega i due protagonisti fra loro) che aleggiava su Storybrooke nella prima stagione.
5. Ho intenzione di strutturare i capitoli alla OUAT/Lost, ovvero alternare frammenti di presente a pezzi del passato. Mi sembrava un'idea carina, soprattutto perché essendo un AU le storie dei personaggi sono state completamente reinventate da me (pur mantenendo piccoli dettagli della serie) e penso sia il modo migliore per scoprire dettagli importanti della loro vita. Non so se riuscirò a inserire flashback in ogni capitolo, io ci proverò in ogni caso ma non assicuro nulla, non so dirlo con certezza. Voi, nel frattempo, fatemi sapere cosa pensate dell'idea :)

Okay, ho finito con le precisazioni ^^ Qualcuno della sezione già mi “conoscerà” o avrà letto il mio nome in altre storie, per chi non mi conoscesse: Ehilà, salve, io sono Sà :) Per chi mi ha seguita nell'altra storia: TRANQUILLE, questa volta non mi concentrerò solo sull'angst e sul #mainagioia, ve lo prometto lol Questo è il mio primissimo AU e devo dire che ci tengo particolarmente, fatemi sapere cosa ne pensate, perché se non vi incuriosisce nemmeno un minimo lascio perdere :'D
Btw, cosa ne pensate di questa incasinata vita della nostra cara Swan? E Belle? Vuole aiutare Emma, ma cosa avrà in mente? Vi dico subito che Killian comparirà nel 2° capitolo, abbiate un po' di pazienza.
Con questo è tutto, le note sono LUNGHISSIME quindi grazie se avete letto fino in fondo :') Aspetto le vostre recensioni ragasssse, a presto!

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Capitolo 2
*** 1. Un posto in cui tornare a casa ***



1. Un posto in cui tornare a casa




Boston; Aprile 2016


Alla fine dimenticò di metterlo a caricare, il cellulare. Emma interruppe il suo sonno, svegliata dal cinguettio delle rondini che da un paio d'anni avevano deciso di abitare proprio sopra la finestra della sua camera. Girandosi sul fianco destro, dalla parte opposta alla luce del sole, si domandò ancora una volta perché, tra i quattro appartamenti situati all'ultimo piano del condominio, quegli animali dovessero nidificare proprio lì, in quel punto. Non che la infastidissero, preferiva decisamente il loro canto al suono infernale della sveglia. Aveva anche combattuto con ogni sua energia contro gli altri condomini affinché lasciassero il nido lì dov'era: volevano abbatterlo per degli stupidi capricci e interrompendo così il normale svolgimento della natura, ma lei non lo aveva permesso e l'aveva avuta vinta. Doveva aver ereditato quel suo lato dai suoi genitori, attivisti di Greenpeace o qualcosa del genere, come aveva scoperto anni prima durante le sue ricerche.
Si fece forza e tornò a girarsi dall'altro lato, portandosi una mano sopra gli occhi per evitare l'impatto con i raggi. Si tirò su con il gomito sinistro, leggermente, socchiuse appena le palpebre e con la mano destra prese a tastare il comodino affianco al suo letto, alla ricerca dell'orologio da polso che si era tolta la sera prima. Fu costretta ad allungarsi appena con il braccio e con il corpo, ma perché lo aveva poggiato in un punto così lontano?! Lo afferrò e lo avvicinò alla faccia, prima di strizzare appena gli occhi notando come le lancette le apparissero tanto sfocate. Ci vollero all'incirca cinque, o forse sei secondi, prima di mettere a fuoco quei piccoli numeri che segnavano le 8:15.
8:15?! 8:15. Merda.
Scattò subito in piedi, scalciando via le coperte con un rapido movimento delle gambe, correndo poi da una parte all'altra della casa senza però concludere un bel niente. Isaac, il suo capo, le aveva chiesto di aprire il bar, quella mattina, e questo comportava il doversi presentare a lavoro alle 8:30 spaccate. Ed Emma, l'unica cosa che aveva spaccato, era la lente dei suoi occhiali da lettura che aveva, sbadatamente, lasciato sopra il letto e che aveva fatto cadere a terra insieme alle lenzuola.
Cominciò a saltellare per il corridoio, fra le camere, mentre provava ad indossare un paio di jeans chiari e stretti, i primi che aveva trovato in mezzo al mucchio di vestiti che avrebbe dovuto stirare da... quattro, cinque giorni, se la memoria non la ingannava. Si levò la canottiera bianca, restando in reggiseno, gettandola poi via, in direzione del letto che mancò, neanche a dirlo, clamorosamente e cadde a terra. Non aveva tempo di raccoglierla, maledizione, sarebbe rimasta lì un bel po'. Corse in bagno e aprì il rubinetto del lavandino di ceramica situato sotto il grande specchio che rifletteva la sua immagine stravolta, stanca, assonnata e isterica, quasi. Unì le mani e cominciò a darsi una sciacquata veloce al viso, cominciando ad imprecare sottovoce per via del dentifricio che non aveva la minima intenzione di uscire fuori dal tubetto, arrotolato completamente su se stesso e praticamente vuoto. Riuscì comunque a recuperarne un po' e a metterlo sul suo spazzolino arancione. Dio, quanto odiava quel colore.
Prese a lavarsi i denti velocemente, spostando il peso del corpo da una gamba all'altra, di continuo, non riuscendo a stare ferma. Lanciava un'occhiata al suo orologio all'incirca ogni dieci secondi, neanche avesse paura che le lancette potessero muoversi d'un tratto più veloci. Spostò il volto, poi, verso la finestra aperta e non poté non beccare Jefferson, un tizio che abitava nell'appartamento di fronte al suo e che non perdeva mai occasione di farle delle avance più o meno spinte. Per lo più spinte. Solamente spinte.
Emma si incupì improvvisamente e prese a lanciargli sguardi glaciali che avrebbero fatto rabbrividire chiunque, mentre l'altro se la rideva soddisfatto. Corse vicino alla finestra e posò una mano sul vetro gelido di primo mattino. «Pervertito!» Gridò, con tutta la voce che aveva in corpo e forse anche di più, sbattendo poi la finestra con un gesto secco e forte. Quel tipo era folle, completamente matto. Ed aveva anche una bambina di otto anni. O forse nove. Comunque sia, povera piccola. La giovane Swan storse appena le labbra a quel pensiero, prima di sputare nel lavandino e sciacquarsi la bocca. Jefferson non era un cattivo padre, anzi, aveva avuto modo di constatarlo più volte lei stessa, era solo una figura un po' troppo eccentrica per i suoi gusti. Anche se, pensandoci bene, era uno dei pochi, o forse l'unico, a starle simpatico, in tutto il suo quartiere.
Tornò in camera di corsa ed aprì un'anta del suo armadio, la mano sinistra percorreva rapida ogni stampella alla ricerca di qualcosa da mettere. Alla fine le sue dita si fermarono su una maglia leggera color grigio pallido, la indossò e poi si abbassò a raccogliere i suoi stivali scuri, che si infilò una volta essersi seduta meglio – non aveva mai avuto un buon equilibrio. Prese la sua giacca di pelle marroncino chiaro, borsa sotto spalla e prese a correre per le scale, saltando gli scalini, per colpa dell'ascensore perennemente rotto, mentre si allacciava, come meglio poteva, i lunghi capelli in una coda non troppo alta.
Arrivò al suo maggiolino giallo che quasi non si reggeva in piedi. Entrò dentro cercando di controllare il fiatone, mise in moto dando un'altra occhiata all'orario: le 8:26. Non ce l'avrebbe mai fatta, lo sapeva. Sperava solo che Isaac se la prendesse comoda, visto che per una volta non era costretto ad arrivare per primo nel locale.


Fort Kent, Maine; Ottobre 2004


Camminava lentamente, la mano sinistra sulla pancia, lo sguardo basso attenta a mettere un piede davanti l'altro e a non creare casini andando a sbattere contro qualche scaffale. Passò davanti una porta frigo contenente surgelati di ogni tipo e vi si soffermò qualche secondo, giusto il tempo di catturare la sua immagine riflessa. Si mise di fianco e girò il capo per osservare bene ogni dettaglio, poi si volse dall'altro lato per essere certa che non le sfuggisse niente. La camicetta bianca usciva appena da sotto il giacchetto di jeans chiaro che indossava ormai da anni e che cominciava ad andarle stretto, ma non era quello che stava controllando, no di certo, non si era mai preoccupata di come apparissero i suoi vestiti e di certo non avrebbe cominciato in quel momento. Era concentrata sulla pancia, ben attenta a scovare anche il minimo rigonfiamento che l'avrebbe messa senz'altro dei guai, e non sarebbe stata la prima volta.
Era entrata nel supermercato più grande della città, Emma, circa dieci minuti prima e dopo essere sgattaiolata via senza permesso dall'orfanotrofio. Non era una novellina in quel fatto, anzi, ormai non veniva neanche rimproverata dato che ci avevano fatto tutti l'abitudine, una volta capito (e ci erano volute, più o meno, una quindicina di fughe tutte a distanza di tempo ravvicinate) che quel suo temperamento non sarebbe cambiato neanche con dieci strigliate al giorno. Dopotutto frequentava le lezioni del professor Hopper senza mai saltarne una, studiava e dava sempre una mano per pulire i dormitori e, qualche volta, la mensa. Quella era l'unica cosa che contava, per i tutori. In più, tornava sempre dopo le sue brevi fughe giornaliere, quindi perché avrebbero dovuto perdere tempo a preoccuparsi per quella ragazzina quando ne avevano altri trenta o più a cui badare?
Quando fu fuori dal negoziò cominciò a cercare un luogo sicuro e isolato per tirare fuori il bottino, esaminare la situazione e pensare a dove e come tenerlo nascosto dalle tutrici, o dalle ragazze con cui condivideva la stanza.
Percorse un centinaio di metri, girò a destra e poi a sinistra. Sapeva bene dove si stava dirigendo: poco oltre il parco vi era una panchina isolata vicino a un piccolo laghetto artificiale. Era il suo posto, fin da quando lo aveva trovato per caso, tre anni prima, durante una delle sue vere fughe, una di quelle serie dove riusciva a non farsi trovare per settimane intere. Quella panchina era comparsa quasi magicamente; ricordava ancora il sollievo che aveva provato sedendovisi sopra, dopo aver corso, forse, per cinque chilometri o qualcosa di più, a detta sua, senza mai fermarsi. Nessuno era venuto a disturbarla, anche se ogni tanto capitava di veder spuntare qualche passante, ma pareva quasi che non riuscissero a scorgerla, o più probabilmente nessuno dava molta importanza a una ragazzina che se ne stava lì, seduta, a riflettere. E rifletteva davvero su tutto, ma più che altro su i più svariati piani di fuga. Programmava ogni cosa, nel minimo dettaglio. Poi veniva beccata e riportata in orfanotrofio, non era importante quanto si allontanasse (una volta l'avevano scovata anche fuori dal Maine), sembrava che il suo destino volesse impedirle di fuggire lontano e la rispedisse sempre in quel posto che mai e poi mai sarebbe riuscita a definire come “casa”.
Si sedette sulla panchina di legno mentre, dopo essersi guardata intorno, per sicurezza, tirava giù la zip del suo giacchetto, rivelando una bottiglia di spumante di seconda categoria. Non si era mai azzardata a rubare cose di valore, un po' per paura di finire doppiamente nei guai in caso l'avessero beccata, un po' perché si sentiva in colpa. Non le piaceva rubare e non ne andava certo fiera, ma quello era il solo modo che conosceva per mettere qualcosa di decente sotto ai denti.
Alle sue spalle, un ragazzino non l'aveva persa di vista neanche per un istante, mentre la bionda se ne stava lì, calma, a guardare prima la bottiglia tra le mani e poi l'acqua cristallina del lago. Un sorrisetto furbo si disegnò sul suo volto, prima di cominciare a muoversi di soppiatto, avvicinandosi a lei. Piede destro in avanti, sinistro, destro, sinistro, destro. Piano, piano. Così. La sua intenzione era quella di prenderla di sorpresa, saltando fuori all'improvviso e gridando un “BU!” con tutto il fiato che aveva in corpo. Ma Emma si era già accorta di ogni cosa e sorrideva divertita, pregustandosi il momento in cui gli avrebbe rovinato la festa. Lo aveva sentito avvicinarsi, per quanto provasse a non far rumore, riteneva che il suo amico avesse un passo fin troppo pesante per poter credere di farla fessa. Aspettò ancora un secondo, parve avvertire la sua presenza proprio dietro di lei.
«Ciao, forestiero», esclamò trattenendo forzatamente le risa, gli occhi non si erano staccati neanche per un secondo da una paperella che pareva giocare con l'acqua, immergendosi e riemergendo poco dopo, come se fosse una danza. Il ragazzino rimase di sasso, imbambolato sulla figura della ragazza, con la bocca aperta colto sul fatto. Alla fine si riscosse, schiena dritta. Si sistemò appena la giacca di pelle, prima di prendere posto accanto all'amica, alla sua sinistra.
«Quella bottiglia?» Domandò subito, l'indice destro proteso verso di essa per indicarla meglio. Sapeva da sé da dove provenisse, non era la prima volta che trovava Emma con un qualche bottino proveniente dal supermercato, e immaginava anche quale occasione l'avesse spinta a tanto. In altre parole, la sua era una stupida domanda, dettata più che altro dalla curiosità e dalla voglia di vedere fondata quella sua idea.
«Lo sai», mormorò, difatti, lei, veloce. I suoi occhi si abbassarono appena per scorgerla ancora una volta, se la rigirò tra le mani e con la mente camminava tra i corridoi dell'orfanotrofio, passava accanto le donne dall'occhio lungo con fare innocente e noncurante, arrivava nel suo dormitorio e... e lì si fermava. Continuava a non trovare il luogo adatto dove nasconderla: il letto era fuori discussione, l'armadio era in comune e più di una volta aveva avuto l'impressione che qualcuno avesse curiosato nel suo cassetto personale. «E' per stasera», si ritrovò a rispondere poi, sovrappensiero, tanto per confermare i sospetti del ragazzo e non lasciare la domanda troppo in sospeso «ci vediamo stasera, vero?»
Lo chiese così teneramente che il ragazzo non poté non sorridere leggermente. Emma era ancora una ragazzina, ma aveva già sofferto tanto nella sua vita, lui sapeva bene la sua storia, buona parte l'aveva vissuta in prima persona, prima di essere adottato, oramai, quasi tre anni prima. Per questo si era ripromesso che avrebbe fatto di tutto, anche l'impossibile, per poter sgattaiolare via, quella sera, e raggiungerla in quel posto che lei amava tanto. Annuì, quindi «Sai che non mi perderei il tuo compleanno per nulla al mondo. Soprattutto dopo aver visto questa bottiglia di spumante», scherzò con leggerezza per stemperare la tensione «ma l'ultima volta che sono uscito di casa senza permesso ho rischiato di essere beccato, se non mi vedessi arrivare...»
«August», lo interruppe subito Emma, imponendosi anche con lo sguardo duro e determinato «non me ne vado senza salutarti, lo sai», sentenziò guardandolo dritto negli occhi, per fargli capire quanto fosse irremovibile su quel fatto, anche se non credeva che ce ne fosse particolarmente bisogno.
«Sei proprio decisa a partire, quindi?» Fece lui, per tutta risposta. Aveva visto Emma tentare la fuga un'infinità di volte, ma non si era mai preoccupato perché era certo che in qualche modo sarebbe tornata, di sua spontanea volontà o meno. Eppure c'era qualcosa di diverso, quella volta, era come se, attraverso i suoi occhi, riuscisse a scorgere il suo futuro e, in esso, non c'erano altre giornate da passare a Fort Kent. Deglutì scoraggiato, non sapeva come dire addio anche alla sua migliore amica. Emma, alla fine annuì, silenziosa. Riteneva che non ci fossero altre parole da aggiungere. Il giovane Booth sospirò, abbassò lo sguardo e scorse la bottiglia di vetro ancora tra le braccia della ragazza. «Questa penso che sia meglio che la tenga io», affermò togliendogliela dalle mani prima che potesse accorgersene «non riusciresti a fare neanche tre passi senza fartela requisire, e non vorrei mai che la cara Mulan si ritrovasse a festeggiare al posto nostro.»
Quelle parole fecero, finalmente, sorridere Emma. Mulan, o meglio la Signorina Sun, era una delle loro tutrici. Non era una cattiva persona, ma era incredibilmente severa e non ammetteva nessuna trasgressione del regolamento. Era una tale bacchettona, ma conoscendola meglio non si poteva non volerle bene. «Ci vediamo questa sera, allora», sentenziò infine la ragazzina, alzandosi di scatto dalla panchina e voltandosi appena a guardare l'amico di sempre «non fare tardi.»

Boston; Aprile 2016


Esausta. Non c'erano altre parole per descriverla in quel momento. Si chiuse la porta del suo appartamento alle spalle velocemente, neanche fosse inseguita da un branco di cani feroci. Si voltò appena, facendo scivolare delicatamente i piedi sul pavimento, serrò l'occhio sinistro e osservò dallo spioncino, prima a sinistra, in direzione della rampa di scale, poi a destra, per accertarsi di non trovare nessuno. Alla fine sospirò, si tolse la giacca di pelle e la lanciò sul divano poco lontano dall'ingresso, dopo essersi passata una mano veloce fra i capelli per sistemarli come meglio poteva. Se li sentiva elettrici, ed era una cosa che odiava.
Uscita dal lavoro era andata subito a pagare le bollette più urgenti che aveva, per non rischiare di rimanere senza acqua calda o elettricità, ed era rimasta con la notevole somma di 25 bigliettoni. Non di più e non di meno. Si era rintanata scoraggiata nel suo maggiolino giallo che aveva senza dubbio bisogno di una revisione anche lui – la spia del motore era praticamente accesa da anni, si chiedeva quando l'avrebbe abbandonata definitivamente. Una volta parcheggiata l'auto nel posto a lei riservato proprio davanti al palazzo dove abitava, si rese conto di essere ancora indietro con l'affitto e che, quindi, doveva fare ben attenzione a non incontrare i proprietari. Solitamente a quell'ora la Signora Ashley portava la piccola Alexandra a fare una passeggiata, molte volte Emma si era chiesta se quello fosse solamente un fortuito caso o se, cosa di cui ormai era quasi certa, la donna non lo facesse apposta per chiederle, tra le righe e comunque in modo gentile, quando sarebbero arrivati i soldi dell'affitto. Ma non era di Ashley che si preoccupava, ma del Signor Herman, il marito. Era anche lui una persona tranquilla, ma riusciva a farle pressione e più di una volta le aveva detto che non potevano aspettare le rate arretrate ancora per molto.
Così Emma era costretta a sgattaiolare lungo la rampa di scale, scarpe o stivali in mano per evitare anche il minimo suono, calze che più volte la facevano quasi scivolare giù se non fosse stata per la mano ferma sulla ringhiera. Entrava in casa più veloce della luce e, la maggior parte delle volte poteva giurare di sentire, proprio in quel momento, una porta aprirsi nel piano inferiore al suo, quello dove vi era il modesto appartamento dei signori Herman.
Aspettò ancora qualche istante, fino a quando non udì una porta chiudersi, fino a quando non poté affermare a se stessa di averla scampata ancora una volta. Espirò appena, posò gli stivali che ancora le erano rimasti in mano a terra, poi si piazzò sul divano ed accese distratta la tv. Neanche aveva intenzione di guardarla, era solamente un gesto automatico che faceva ogni volta che tornava a casa.
L'ennesima dichiarazione d'amore del Dottor Stranamore, alias Derek Shepherd riempì la casa vuota e silenziosa. Gli occhi di Meredith Grey parvero sorridere di gioia, quelli di Emma Swan rotearono, invece, verso l'alto, provata da tutto quel miele che le faceva solamente venire la nausea.
«Ma lui non era morto, poi?!» Domandò a voce alta, rivolta verso il televisore. Davvero, non capiva. Per giorni si era sorbita l'ultimo dei tanti traumi della Dottoressa Grey, la morte del suo grande amore, ed ora eccolo lì, vivo e vegeto. No, non stava davvero capendo. Prese il telecomando e curiosò tra le informazioni. Ah, era un episodio del 2012, ora aveva capito. Spense la televisione quasi subito, aspettò prima che mandassero la pubblicità, senza un particolare motivo.
Afferrò poi il cellulare, alla ricerca di qualcosa per passare il tempo. Pigiò sul tasto rotondo in basso allo schermo, pronta a “scorrere per sbloccare” con il pollice destro, come da indicazione. Si domandò se ci fosse davvero qualcuno così stupido da non capire al volo cosa bisognava fare per sbloccare il proprio telefono, ma non si interrogò ancora per molto, impegnata com'era a continuare a spingere quel piccolo tasto, visto che la prima volta non era successo niente. Ma lo schermo continuava a restare nero. Okay Emma, non farti prendere dal panico. Panico, sì, era proprio la parola più azzeccata per descrivere il suo stato d'animo; cominciò a sudare freddo mentre partiva ad eseguire dei respiri profondi per non dare di matto. Era completamente al verde, non poteva permettersi un nuovo cellulare, neanche uno dei più economici! Tentò ancora, pigiando il tasto in alto, quello di blocco, tenendolo anche premuto qualche secondo dicendosi che magari lo aveva spento e non se ne ricordava. Okay, non funzionava neanche in quel modo. Calmati Emma, rifletti, non c'è niente che ti sei dimenticata di provare? La batteria! Si alzò di scatto, e un po' goffamente, dal divano e corse in camera sua, non senza rischiare di cadere rovinosamente a terra per ben due volte. Collegò immediatamente il cellulare al caricatore e, din din din din din, bingo!
Sospirò sollevata e si lasciò cadere sopra il letto, il telefono che si accendeva lentamente ancora in mano. Quando tornò con lo sguardo sullo schermo notò subito le diverse notifiche segnalate in rosso, tutte provenienti da Facebook. Rimase impalata per un po', la fronte aggrottata e pensierosa. Sapeva che tra i soliti, numerosi e fastidiosi inviti a giocare a Candy Crush e Farm Ville, ci fosse anche Belle. Cosa voleva quella donna da lei? L'aveva cercata e adesso la contattava per quale motivo? Era successo qualcosa a Neal? No, l'avrebbe saputo. Riguardava, lo stesso, lui? Si domandò se lei e il Signor Gold fossero a conoscenza di quanto accaduto, del resto i rapporti tra Neal e suo padre erano sempre stati difficili, sapeva che potevano arrivare a non rivolgersi la parola per anni (ed era già successo), ma addirittura non sapere che suo figlio non si era più sposato? No, era una cosa impensabile. Ma non del tutto impossibile.
Maledisse Belle, maledisse Neal e maledisse anche se stessa per aver incessantemente pensato a lui in quelle ultime 24 ore. Doveva smetterla, darsi una calmata e riprendere il suo solito contegno. Si alzò dal letto diretta verso il bagno, lasciò scorrere l'acqua fredda per una manciata di secondi, dopodiché si bagnò il volto, dandosi una rinfrescata. Quando tornò in camera, pronta ad affrontare Belle, si sentì al sicuro protetta dalla sua fedele armatura.
- Ciao, Emma. Come stai? :)

La bionda fissò a lungo quello smile, esterrefatta. La futura matrigna del suo ex fidanzato le chiedeva come stava e, soprattutto, aggiungeva anche uno stupido smile. Ma c'era ancora gente che li usava, poi? Lasciò perde e pensò a come rispondere. Cosa si faceva in quei casi? Si mentiva o si diceva la verità? Si poteva scrivere qualcosa come “Il tuo figlioccio mi ha spezzato il cuore, lavoro in una topaia, sono al verde e fra poco mi cacceranno anche di casa. Ma per il resto va alla grande”?
- Salve Belle. Tutto bene, grazie.

Si ritrovò a inviare, alla fine, sbrigandosi subito ad aggiungere:
- Tu?

Si sentiva una stupida senza sapere bene il motivo. Tra l'altro, non aveva visto che la donna fosse online, quindi la sua tempestiva risposta la sorprese e allarmò non poco. Alla fine, comunque, Emma si tranquillizzò sempre più e prese a rispondere alle sue domande eliminando qualsiasi monosillabo dal suo vocabolario. Belle le chiese quasi ogni cosa, se vivesse ancora a Boston, che lavoro facesse, se si trovasse bene e cose del genere. Emma rispondeva cortesemente e con un filo di curiosità che la spingeva a continuare quell'inaspettata conversazione. Alla fine, Miss French sputò il rospo, rivelandole il vero motivo di quell'avvicinamento.
- Sono davvero felice che tu ti sia sistemata, Emma. Nonostante questo, però, vorrei comunque offrirti un lavoro, qui, nell'ormai storica libreria di Fort Kent. Come ben ricorderai, sono l'attuale titolare e unica commessa, ma con i preparativi del matrimonio fatico ad andare dietro a tutto (molte volte la libreria è rimasta chiusa per intere giornate!). Ho davvero bisogno di un aiuto, di una persona valida e di cui potermi fidare. Ho pensato subito a te. Insieme al posto di lavoro, sarà tuo anche l'appartamento sopra il negozio, non è molto grande ma è accogliente. Allora, cosa ne pensi?

Cosa ne pensava? Aveva passato tutta la sua infanzia a cercare di fuggire da quel posto e ora doveva ritornarci con la coda tra le gambe? No, grazie. Certo, il lavoro le faceva gola. Era sicuramente ben retribuito e sarebbe stata più che felice di lasciare sia quello schifo di locale, sia la clientela e sia il Signor Heller, che reputava un uomo viscido come pochi. Ma no, non era così disperata. Non credeva di esserlo almeno e, soprattutto, non se la sentiva ad accettare l'aiuto della futura Signora Gold, le sembrava di cadere più in basso. Sapeva che Belle era una persona buona e generosa, ma non le andava di sentirsi in debito con quella famiglia.
Per queste e molte altre ragioni, alla fine, rifiutò il posto e salutò Belle.


Fort Kent, Maine; Ottobre 2004


Cominciava a non sentirsi più le dita, il naso, le labbra, le orecchie, la faccia. Le auto che le passavano davanti a tutta velocità, facendo così alzare il vento, non l'aiutavano per niente a riscaldarsi, sperava solo che l'autobus non ci mettesse ancora molto, speranzosa di trovare un minimo calore al suo interno. Aveva aspettato August per ore, in quello che era il loro posto, il suo posto al riparo dalla realtà che le girava intorno. Aveva guardato l'acqua calma del laghetto per due ore buone, o almeno pensava, il conto del tempo era andato a farsi fottere dopo poco, quando il gelo della notte autunnale più fredda era calato su di lei. Si era alzata, dicendo che muoversi le avrebbe fatto bene, e anche sicura che ormai non l'avrebbe più raggiunta.
Ora sedeva amareggiata davanti la fermata del bus, le mani nelle tasche del giubbotto grigio, la destra stringeva i pochi bigliettoni che era riuscita a raccattare, curiosando in giro per il dormitorio. Non ne andava fiera, ma sapeva che a quelle ragazze non sarebbero mai veramente serviti, mentre a lei procuravano un bel biglietto di sola andata per un qualsiasi altro posto che non fosse il Maine. Le ginocchia si muovevano velocemente, la faccia guardava a sinistra ogni cinque secondi, speranzosa di vedere i fari gialli del suo tappeto volante. Più che altro cercava di non pensare.
Non vedeva l'ora di lasciarsi quella stupida cittadina alle spalle, non le importava di nessuno, sapeva che non le sarebbe mancata nessuna delle facce che aveva visto in tutti quegli anni. Le ragazze dell'orfanotrofio, le tutrici, quelli che l'avevano fatta sentire fuori posto e quelli che, invece, l'avevano trattata dolcemente e con tutte le cure. Sapeva che si sarebbe dimenticata presto tutti i loro nomi. August era l'eccezione, e le aveva appena spezzato il cuore.
Si erano conosciuti all'orfanotrofio, con Lily formavano un trio piuttosto combina guai, avevano fatto venire i capelli bianchi a parecchia gente. Poi Lily se n'era andata ed erano rimasti da soli; si erano avvicinati tanto e non si erano mai separati, neanche dopo che August venne adottato dai Booth, erano sempre riusciti a incontrarsi in un modo o nell'altro. Sapeva di avergli detto che non sarebbe riuscita a partire senza averlo salutato, ma anche di non poter mantenere quella promessa. Non poteva più aspettare, sperava che lui avrebbe capito. Invece di essere arrabbiata, si preoccupava affinché non se la prendesse, si dava della ridicola da sola.
Due piccole luci si mostrarono a qualche centinaio di metri di distanza: finalmente l'autobus arrivava, e insieme a lui August, che correva a perdifiato dalla parte opposta, gridando come un pazzo incurante dell'orario notturno.
«Emma!» La ragazza si pietrificò, una volta essersi alzata dalla panca pronta ad accogliere il bus «Emma, ti prego aspettami!» Mise su l'espressione più dura che potesse avere e si voltò di scatto, decisa più che mai a tenergli il muso, a farsi ricordare per sempre così, come una che non dimentica il minimo torto subito. Aveva sofferto, aspettandolo su quella panchina per due ore, con solo la consapevolezza che non avrebbe mai più festeggiato il compleanno col suo migliore amico. La consapevolezza che non avrebbe mai più rivisto quell'amico.
Ma poi lo vide, la sciarpa svolazzante al collo, le gambe che correvano veloci, disperate e colpevoli di non essere arrivate prima, il viso contratto per la fatica e, forse anche per il dolore per quell'imminente addio. Quando ormai le fu davanti non poté non sciogliersi. Gli occhi le si inumidirono ma riuscì a trattenere le lacrime. Gli si getto al collo, lo abbracciò forte e così fece lui. «Mi dispiace», affermò il ragazzo «Marc... mio padre mi teneva sorvegliato a vista. Mi ha anche requisito lo spumante, mi dispiace. Mi dispiace», non smetteva di ripeterlo. Emma annuì appena, la testa contro la sua spalla, mentre l'autobus si fermava davanti a loro.
«Devo andare», si limitò a mormorare la biondina, staccandosi dall'abbraccio e poggiando un piede sopra il primo scalino. L'altro, però, la fermò prendendole il braccio destro. La ragazza si girò e notò subito il cellulare che August le stava porgendo «Non capisco.»
«Regalo di compleanno», rispose semplicemente «il mio numero è già salvato. Non voglio perdere anche te, Emma». No, non lo avrebbero fatto, non si sarebbero mai persi di vista, Emma cominciò a capirlo. Prese il cellulare, prima di stringergli la mano per qualche secondo. Entrambi sorridevano, nessuno dei due si vergognava di farsi vedere commosso.
L'autista tossicchiò, aveva fretta di andarsene. Emma gli lasciò andare la mano e salì di un altro scalino. Le porte si chiusero, gli occhi dei due ragazzi non riuscirono a staccarsi dall'altro. August con le mani in tasca, Emma con il cellulare stretto al petto, l'ultimo contatto che gli rimaneva con quel mondo che stava, finalmente, abbandonando. Quando il mezzo prese a muoversi, la bionda corse agli ultimi posti, si sedette con le ginocchia su uno dei sedili in modo da guardare fuori. Continuarono a fissarsi finché poterono, entrambi alzarono la mano sinistra in segno di saluto, prima di vedere l'altro scomparire.
Emma aspettò ancora un po' prima di tornare composta, osservava Fort Kent senza un minimo di nostalgia ma con un nuovo senso di liberazione che cresceva sempre più. Non sarebbe più tornata in quella città, avrebbe trovato la sua casa altrove.


Boston; Aprile 2016


Interminabili attimi di assoluto silenzio. Il locale non era poi così pieno, niente passava inosservato, quindi. Nessuno fiatava, nessuno si muoveva. Nessuno osava mangiare o bere, nessuno girava il cucchiaino nella sua tazzina di caffè o giocava con la cannuccia del suo aperitivo. Emma trattenne il fiato mentre tutti, come un unico corpo, si giravano verso di lei e stavano semplicemente a guardare. La bocca aperta e incredula, il palmo della mano destra ancora aperto e fermo a mezz'aria, il cuore che le martellava neanche avesse corso la maratona.
Lo aveva colpito, aveva davvero alzato le mani contro un cliente. L'uomo si era subito portato la mano sulla guancia colpita, ma Emma era riuscita a vedere il segno rosso che gli aveva lasciato. Provò a parlare, ma le parole le morirono in gola. Le bastò un attimo prima di riscuotersi del tutto; le bastò vedere Isaac correre verso di lei furioso a farla tornare in sé e a fulminarlo con lo sguardo. Alla fine quel tipo se l'era cercata, non era dispiaciuta, affatto, anzi, lo avrebbe rifatto ancora se ce ne fosse stata la possibilità.
«Lei è pazza, Miss Swan,» prese a inveire il proprietario del pub, mentre partiva a gesticolare come un pazzo, dopo aver dato un'occhiata rapida al cliente abituale che ora minacciava di denunciare sia la cameriera che il locale «pazza!» Ribadì il concetto a voce più forte, come a volersi assicurare che quella parola non sfuggisse a nessun orecchio. Si girò verso l'altro uomo cominciando a blaterale scuse su scuse; Emma osservò la scena allibita e schifata, spalancando la bocca prima di scuotere la testa in modo contrariato.
«Mi stava molestando», esclamò adirata, indicandolo con la mano sinistra come se quel gesto fosse della minima utilità. Erano giorni che continuava a importunarla con battutine a sfondo sessuale, all'inizio era leggere e simpatiche ma poi erano diventate pesanti, e quando le aveva palpato il sedere non ci aveva visto più, la mano si era semplicemente mossa verso la sua guancia da sola. «Signor Heller!» Lo richiamò ancora più scocciata, dato che questi pareva non averla minimamente sentita.
Isaac Heller si voltò ad osservarla di controvoglia, serrò i denti e ridusse gli occhi a due fessure dopo che l'affezionato cliente si era detto innocente dall'accusa della giovane, non che lei si aspettasse il contrario. «Si consideri licenziata. Da questo istante. Si tolga pure quel grembiule, posi quello stupido vassoio, prenda le sue cose e se ne vada», la bionda rimase inorridita. Ferma sul posto prese a studiare l'espressione del suo capo, o forse avrebbe dovuto dire ex capo?, per capire se fosse serio o stesse solo facendo scena, ma alla fine scrollò le spalle, posò il vassoio sul bancone e portò le mani dietro la schiena per slacciarsi il grembiule.
«Bene», affermò anche se i lacci non si decidevano a venir via «sono restata in questa topaia fin troppo a lungo», finalmente riuscì a sciogliere il nodo che teneva stretto da quella mattina, abbassò il capo per far passare gli altri sopra il collo e oltre la testa, dopodiché posò anche il grembiule sul bancone, tornando a fissare Isaac con occhi di fuoco e un mezzo sorriso sulle labbra «sa cosa le dico, Signor Heller? Grazie, questa sì che è una liberazione.»
Mezz'ora dopo, appoggiata contro la porta d'ingresso del suo appartamento, non era dello stesso parere. Affatto. Quel lavoro era pessimo, la paga era minima, i colleghi scorbutici, il capo un coglione e la clientela fin troppo maniaca. Ma almeno era un lavoro, le portava dei soldi e così il modo di andare avanti, mentre adesso? Lei era al verde e i tempi per trovare un altro lavoro decisamente pessimi. Cosa avrebbe fatto?
Scoraggiata tirò fuori il suo cellulare dalla borsa, entrò su facebook e selezionò la chat con la futura signora Gold. Non salutò nemmeno, digitando quelle poche parole che decretavano, interiormente, la sua sconfitta.
- L'offerta di lavoro è ancora valida?

Nella sua vita non era mai stata ferma nello stesso posto per troppo tempo. Mai, neanche nel periodo di convivenza con Neal, avevano sempre cambiato città o casa, fino a quando, dopo la proposta di matrimonio, non si erano fermati a Boston, nel vecchio appartamento del Signor Gold. E lì Emma era rimasta anche per i cinque mesi dopo la loro rottura, anche se quelle mura le sembravano sempre più strette, perché non sapeva dove altro andare. Per questo le fece strano consegnare le chiavi ad Ashley, insieme alla promessa che le avrebbe pagato presto tutti gli arretrati. La donna si era fidata e le aveva augurato ogni bene.
Aveva caricato tutte le sue cose in macchina, sorprendendosi del fatto che era riuscita a far entrare tutto in quel suo vecchio maggiolino giallo. Non che avesse molto, due valigie e qualche scatolone con le cose alle quali era più affezionata. Jefferson le aveva dato una mano a portare quelli più pesanti. Non gli aveva chiesto niente, neanche aveva avuto occasione di dirgli che stava andando via, l'uomo l'aveva colta sul fatto, con due scatoloni tra le braccia, mentre usciva per andare a lavoro e subito si era offerto di aiutarla. Le sarebbe mancato, quel tipo, lo realizzò dopo aver abbracciato la figlioletta ed essere salita in macchina. Li aveva osservati dallo specchietto retrovisore per un po', sembravano davvero dispiaciuti di vederla andare via.
Viaggiò per qualche oretta, si fermò un paio di volte per mangiare e per fare pipì, le due cose in due fermate ben distinte ovviamente, giusto per farle perdere tempo. Prese in pieno un dosso troppo alto per i suoi gusti che era scappato dalla sua vista e sobbalzò appena, portandosi d'istinto una mano sulle tette. Ringraziò anche di non essere una tettona, una volta tanto. Cominciò a rallentare quando, anche se lontano, vide il cartello che indicava Fort Kent. Man mano che si avvicinava, in lei cresceva la consapevolezza che quel posto non era cambiato minimamente e questo le fece girare lo stomaco. Non era agitata, non proprio almeno.
Il cartello assumeva la forma di una casa, con tanto di caminetto sulla punta. Era fatto di legno, proprio come lo ricordava. La scritta di benvenuto era piccola rispetto a quella enorme e tutta in maiuscolo che segnava il nome della città, colorata di uno strano e inusuale verde acqua su una striscia con lo sfondo giallo, a sua volta circondata da una striscia colorata di verde. Quello che catturò l'attenzione di Emma, comunque, era la scritta bianca posta proprio sotto al nome della cittadina: “Un posto in cui tornare a Casa!” Casa? Le sembrava difficile che l'avrebbe trovata veramente lì, ma quel pensiero era meglio tenerselo per sé.
Sapeva che sarebbe restata poco, giusto il tempo di mettere qualcosa da parte e trovare un nuovo lavoro in qualche altra cittadina. Ecco, non era ancora arrivata e già pensava a fare i bagagli. Si accorse di essersi fermata proprio davanti la linea di confine, quando era successo? E da quanto tempo era ferma? Scosse la testa per riprendersi, mise la marcia e premette sull'acceleratore.
Un po' di pace, questo chiedeva. Qualche attimo di tranquillità prima di ripartire verso, magari, una metropoli più casinista.
Non le sembrava di chiedere poi molto.


Angolo dell'autrice:
Come promesso eccomi qui! Avrei voluto postare prima di partire (lo scorso weekend), ma avevo il terrore che il capitolo andasse perso visto i problemi del sito, così ho rimandato di una settimana ma alla fine ce l'ho fatta!
Mi è piaciuto DA MATTI scrivere il flashback di Emma. Mi piace inventare le loro storie, anche se, almeno per lei, qualcosa è rimasta la stessa. L'idea di questo trio formato da lei, August e Lily mi ha intrigato e alla fine ho deciso di inserirlo. L'amicizia tra lei e August è andata avanti anche dopo l'adozione di lui ed è cresciuta con loro, anche quando Emma se n'è andata sono comunque rimasti in contatto. Per il resto, ora comincia il divertimento VERO. Non vedo l'ora, sono emozionata. Nel prossimo capitolo verrà FINALMENTE presentato Killian, come la immaginate la sua vita? :P
Spero di aggiornare presto, giusto il tempo di organizzare le idee. Intanto, per chi non ci avesse fatto caso, vi informo che Hello, I love you [...] è ufficialmente conclusa, quindi avrò mooolto più tempo da dedicare a questa storia.
Fra pochi giorni, tra l'altro, ricomincia la nuova stagione. Siete emozionati? Io personalmente non ho molta ansia, ma non vedo l'ora di vedere la trama incentrata finalmente su Storybrooke.
Come sempre vi invito a farmi sapere i vostri pareri, sono davvero curiosa visto che si tratta di un AU :)
Un bacio e a presto :*

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Capitolo 3
*** 2. Un incontro da dimenticare ***



2. Un incontro da dimenticare




Una birra. Una bellissima, rinfrescante e rigenerante birra. Era tutto quello che desiderava dal momento in cui la sveglia aveva suonato di primo mattino, sbattendolo giù dal letto di controvoglia. Probabilmente aveva anche sognato di berla, magari in uno di quegli iconici boccali che aveva trovato in diversi irish pub che aveva frequentato durante la sua giovinezza, i suoi anni migliori. La schiuma che puntualmente andava a finire sulla sua barba, il sapore amaro che gli scendeva in gola. Si stava facendo del male da solo, con tutte quelle immagini. Già non aveva pensato ad altro per tutto il giorno: sognava il momento in cui sarebbe rientrato a casa, avrebbe scalciato via le sue Converse nere e bianche consumate sulle punte, si sarebbe buttato sul divano di casa e si sarebbe goduto quella benedetta birra. O magari poteva anticipare i tempi e fare un salto al Rabbit Hole, proprio in quel momento, bere qualcosa prima di andare a prendere Henry. Quanto tempo aveva prima che il ragazzino uscisse da scuola? Guardò il polso sinistro, la lancetta dei secondi continuava a ticchettare avanti e indietro. Ah già, orologio rotto. Comunque gli rimanevano una manciata di minuti, ad occhio e croce, quindi l'idea della birra era da accantonare e rimandare a quella sera. Alzò gli occhi blu verso il semaforo che non si decideva a scattare, l'indice destro picchiettava contro il volante della sua Ford, spazientito. Non gli andava di far tardi, non voleva che suo figlio fosse costretto adaspettarlo fuori la scuola, da solo.
Voltò il capo alla sua sinistra, non sapendo come trascorrere quei secondi interminabili e si accorse di uno strambo catorcio di colore giallo, decisamente molto vecchio e malandato, decisamente appariscente. Si domandò come avesse fatto a non vederlo prima e soprattutto da quanto tempo fosse lì. Guardò, incuriosito, l'interno della vettura, potendo solamente notare una chioma bionda chinata verso il sedile del passeggero, probabilmente alla ricerca di qualcosa. Sembrava stesse mettendo a soqquadro quel piccolo spazietto e questo lo fece sorridere divertito sotto i baffi, tanto che si dimenticò di essere fermo nel bel mezzo di una strada, si dimenticò del semaforo, che nel frattempo era diventato verde, e delle altre auto che aveva dietro. Anche la bionda, evidentemente, si era dimenticata dove si trovasse, tant'è che gli altri automobilisti cominciarono a suonare i loro clacson per ridestarli dal loro stato di trance. Killian mise in moto, non prima di aver lanciato un'ultima occhiata alla donna, che adesso si era sporta dal finestrino e mostrava un bel medio contro le altre vetture. Che tipa! Poi lei proseguì diritta, verso la città, mentre lui svoltò a destra, in direzione della scuola elementare di Fort Kent.


Fort Kent, Maine; Luglio 2013


Acqua fredda, quasi ghiacciata, scorreva dal lavandino della cucina, e rinfrescava le mani che, pazientemente, lavavano i pochi piatti e le poche posate utilizzate da Killian e da suo figlio per la cena. Qualche altro uomo single avrebbe sicuramente utilizzato piatti, bicchieri e forchette di carta, il tutto per evitare di lavare più cose possibili una volta terminato il pasto, ma lui no. Killian, in qualche modo, adorava quel momento, lo trovava rilassante. Sapeva di essere pazzo, non era una cosa normale amare quell'azione quotidiana quale era il lavare i piatti, eppure in quegli istanti si ritrovava a sgombrare completamente la mente, aiutato forse dallo scorrere dell'acqua. Era come se il sapone sciacquasse via anche i suoi pensieri. Arrivava poi il momento, tra un coltello e una pentola, in cui, con la coda dell'occhio, osservava, o per meglio dire controllava, Henry che giocava in giardino. Erano in piena estate, le giornate erano più lunghe, e il bambino approfittava veramente di ogni istante libero per correre dalla sua personalissima altalena, alla macchinina elettrica che gli aveva regalato suo padre lo scorso Natale. Una volta assicuratosi che stesse bene e che non avesse bisogno di niente, Killian chiudeva il rubinetto e cominciava ad asciugare tutto.
Si asciugò, infine, le mani su uno strofinaccio, mentre vedeva Henry spegnere e uscire dalla sua piccola auto giocattolo blu, e correre a perdifiato verso qualcosa. Killian non poté impedirsi di affrettarsi a vedere cosa avesse attirato l'attenzione del bambino, pronto ovviamente a fermarlo se fosse stato necessario, ma poi notò la Berlina nera parcheggiata nel vialetto e si tranquillizzò. Un'occhiata rapida all'orologio, giusto per domandarsi il motivo di quella visita così improvvisa.
Uscì fuori anche lui, restando appoggiato con la schiena allo stipite della porta, mano sinistra nella tasca dei suoi jeans. Henry era corso fino alla portiera e adesso saltellava prima su un piede e poi sull'altro, entusiasta di vedere la sua zia preferita e, magari, anche speranzoso che gli avesse portato qualcosa, un nuovo giocattolo sarebbe stato perfetto ma anche qualche ottimo dolce al cioccolato poteva andare bene.
La donna dai corti capelli neri uscì dall'auto e subito si abbassò per abbracciare il bambino, che si lasciò anche baciare la guancia sinistra procurandosi un bel segno rosso causato dal rossetto. Vide la mora prendere la sua borsa, infilarci una mano dentro e cacciare fuori una vaschetta dalla quale si intravedeva una fetta di torta al cioccolato e panna montata. Henry batté le mani su di giri, le abbracciò la vita velocemente, le tolse la vaschetta dalle mani e corse verso casa. Notando il padre, però, si fermò.
«Posso papà?» Aveva cancellato l'ampio sorriso dalla faccia, nascondendo in quel modo il piccolo spazio che aveva lasciato la caduta di un canino superiore da latte che tanto faceva sorridere Killian, e messo sopra uno sguardo da cucciolo arrendevole. L'aveva preso sicuramente da lui, Killian ne era certo, quante volte aveva usato quello sguardo? Occhi penetranti che non sbattevano ciglio, piccola smorfia con l'angolo della bocca, capo appena appena chinato verso destra... nessuna donna era mai riuscita a dire di no a quella faccia, e lui proprio non riusciva a dire di no al figlioletto. Per cui sospirò sconfitto, gli scompigliò i capelli e gli disse di lasciargliene almeno un pezzettino.
«Però poi ti lavi i denti, ragazzino, e fili a letto, intesi?» Henry parve accettare quel compromesso e non provò a negoziare l'orario delle nanne come avrebbe fatto in qualsiasi altra sera. Quando rientrò in casa, Killian si voltò verso la donna che ormai lo aveva raggiunto e lo guardava con aria colpevole. «Che ti avevo detto sul non viziarlo troppo, Regina?» Quella non rispose, si limitò solamente ad alzare gli occhi verso l'alto per esprimere il suo disaccordo, strinse la mano intorno alla borsa ed entrò in casa. Quel comportamento insospettì l'uomo: non era assolutamente da Regina perdere la minima occasioni di bacchettarlo esprimendo il suo parere, perciò la raggiunse accennando una piccola preoccupazione. «E' successo qualcosa?»
«E' finita», pronunciò flebile mentre si sedeva sul divano e, una volta essersi tolta i tacchi a spillo e averli poggiati sul pavimento ben diritti, allungava le gambe poggiando la schiena su un cuscino. Killian, normalmente, le avrebbe detto senz'altro qualcosa, magari le avrebbe fatto notare che anche lui voleva mettersi comodo sul suo divano oppure le avrebbe chiesto gentilmente di scansare i suoi regal piedini, ma lasciò perdere, per quella volta. Si poggiò su uno dei due braccioli, ruotando scomodamente la schiena e il collo così da poterla guardare in volto. Aprì la bocca deciso a mettere insieme qualche parola ma lei lo bloccò sul nascere. «Non ti azzardare, non voglio sentire nessun “mi dispiace” o robaccia varia, sai che li detesto.»
«Lo so bene», annuì con il capo ed incrociò le braccia, notando che lei non osava guardarlo in volto, forse, si disse, per mantenere il solito tono freddo e distaccato e non farsi leggere negli occhi, quei tristi occhi che si riempivano, ogni tanto, di lacrime. Quando succedeva, Regina prendeva un respiro profondo, deglutiva, chiudeva le palpebre e aspettava che le lacrime andassero via, poi concentrava la sua attenzione su tutto quello che aveva intorno, ma non su Killian. Mai far trasparire pienamente la propria debolezza, era la prima regola. «Però è così», continuò l'uomo, alludendo al fatto che, volente o nolente, a lui dispiaceva davvero per la loro rottura «Robin mi è sempre sembrato un brav'uomo, quello giusto; cos'è andato storto?» Sapeva che nell'ultimo periodo le cose tra i due, che avevano anche cominciato a convivere, non stavano andando bene nonostante il forte sentimento che li legava, ma nessuno si era mai preso la briga di entrare nei dettagli.
«Diciamo che è difficile mandare avanti un rapporto quando ti senti in obbligo verso la tua ex moglie», sospirò, osservando i cuscini del divano davanti a lei «alla fine hanno deciso di riprovarci, per Roland». Killian aveva conosciuto Robin a lavoro circa un anno prima, appena divorziato dalla moglie – neanche ricordava il nome della donna – e con un figlio di poco più di un anno che viveva con lei nella Grande Mela. Non aveva combinato nessun incontro con Regina, era capitato e basta e ricordava quanto la donna era rimasta colpita dai modi gentili dell'uomo. L'amore era sbocciato nel giro di poco, li trovava fatti l'uno per l'altra, ma poi Marian – ah già, ecco come si chiamava! – era ricomparsa. Robin era un uomo d'onore, forse anche troppo secondo Killian, e quella notizia ne era la prova.
«Sapevo a cosa andavo incontro, Jones, non fare quella faccia da imbecille», lo rimbeccò la Mills, che aveva tolto le gambe dal divano ed ora sedeva composta «mi preparo a questo momento da quando Marian è tornata in città, non sono sconvolta come pensi», su questo Killian aveva da ridire, ma alla fine accontentò la donna e lasciò cadere il discorso. Non nominarono più Robin per tutta la sera, non osò nemmeno chiederle se fosse già andato via di casa o se, per evitare di vederlo, avrebbe preferito dormire lì, per quella notte, nella stanza degli ospiti che praticamente usava solo lei. Tirò fuori del vino rosso, ne versò due bicchieri e accese la tv. Dopo circa un'ora e mezza di silenzio, interrotto di tanto in tanto da commenti rivolti allo show che stavano guardando, fu di nuovo Regina a prendere la parola «Da quanto tempo non esci di casa?» Killian si voltò verso di lei con il sopracciglio sinistro alzato, guardandola interrogativo. «Intendo dire uscire, conoscere gente, svagarti un po'. Non puoi lasciare queste mura solo per andare a lavoro o a fare la spesa!»
«Regina, nel caso non te lo ricordassi, ho un figlio di sei anni», rispose pacato lui, togliendole il bicchiere vuoto dalla mano mentre si alzava con l'intenzione di posarli, entrambi, nel lavandino; lei lo seguì, si riprese il suo bicchiere e tornò a versarsi un altro po' di vino «mi sentirei un mostro a lasciarlo da solo. E per cosa poi? Conoscere qualcuna? Non credo che lui sia pronto a vedere un'altra donna nella mia vita», commentò risoluto, guardando d'istinto verso la porta chiusa della camera di Henry che era andato a dormire poco prima.
«Non ti ho detto mica di trovarti moglie, Killian», replicò ancora l'altra, apparentemente decisa a smuoverlo da quell'assurda decisione che sembrava aver preso ormai da tempo «Sono passati quasi due anni, devi ricominciare a vivere. Ti dico solo di prenderti delle serate per te, magari esci con qualche collega. Ci sono io qui con Henry, se è questo che ti preoccupa. Ma torna a vivere.»


Fort Kent, Maine; Aprile 2016


La prima cosa che si trovò davanti fu la cucina. O forse avrebbe dovuto dire sala da pranzo? O magari era il salotto? Era confusa, le due stanze non erano separate neanche da un piccolo muro, come avrebbe dovuto chiamarle adesso? Be', il soggiorno si rivelò più grande di quello che aveva immaginato: subito alla sua destra vi trovò un vecchio divano coperto da un telo color panna molto vecchio stile – il suo primo pensiero fu quello di sbarazzarsene quanto prima –, sembrava comodo ma rimandò quel test a più tardi; ancora alla destra del divano, a sfiorare l'altra parete, vi era un mobile non troppo grande con sopra una una piccola tv che sembrava piuttosto datata; sopra di essa, sul muro, vi erano le tracce di due mensole perciò si disse che avrebbe fatto meglio a procurarsele anche lei. Dalla parte opposta della stanza vi era un frigo di metallo, grigio, che si rivelò piuttosto graffiato; due banconi e un semplice angolo cucina; un tavolo e sei sedie chiudevano quel quadretto. Era piuttosto spoglio, si disse Emma, avrebbe pensato a come riempire gli spazi vuoti più avanti. O magari no, tanto era intenzionata a restare in quel posto per il minor tempo possibile, giusto?
Percorse il piccolo corridoio che separava l'ingresso dalla camera da letto, spinta da un briciolo di curiosità di scoprire quella nuova casa. Alla sua destra trovò un piccolo bagno e una cameretta – praticamente vuota, tolta una piccola libreria senza nessun volume –, ma non vi ci soffermò troppo. La camera da letto era, per sua fortuna, la più arredata con tanto di comò in legno vecchio stile, letto matrimoniale, due comodini ovviamente in legno, un grande armadio e uno specchio subito affianco. Si buttò sul letto, senza un reale motivo, e si sentì affondare in quel materasso davvero troppo morbido per i suoi gusti. Cercò di non pensarci e prese a fissare il soffitto battendo le ciglia di tanto in tanto. Era tutto vero, aveva lasciato Boston per tornare nella cittadina della sua infanzia, Fort Kent. In quel momento si trovava nel vecchio appartamento di Belle French, che le aveva già fatto fare il tour completo della libreria proprio al piano di sotto. Le aveva dato le chiavi di casa e l'aveva lasciata salire, a scoprire quello che racchiudevano quelle piccole mura. Probabilmente era ancora in libreria ad aspettarla, sorriso soddisfatto e gentile sul volto, in attesa di sapere un suo parere. Un parere su cosa? Sulla casa? Sul lavoro? Sulla città? Sulla sua nuova vita?
Sospirò, Emma, socchiudendo appena gli occhi per poi riaprirli dopo qualche secondo, come a volersi assicurare che non si trattasse di un sogno. Un sogno bello o brutto? Non sapeva neanche come definirlo, non riusciva a capire cosa fosse quella strana sensazione che le si era messa addosso fin dal primo momento in cui aveva attraversato il confine della cittadina. Non era emozionata, quello no. Non era benché meno spaventata. Ma qualcosa era, qualcosa cercava di farle arrivare un messaggio attraverso quella sensazione alla quale non sapeva dare un nome, ma sapeva anche che non l'avrebbe scoperto così su due piedi.
Avrebbe voluto che August fosse stato lì, a casa dei suoi genitori, e non in giro per gli USA a cercare storie interessanti per i suoi servizi. Avrebbe potuto aiutarla con le valigie e gli scatoloni, maledizione certi erano davvero troppo pesanti. Arricciò le labbra a quel pensiero, dicendosi che avrebbe portato sopra solamente le cose più leggere e che avrebbe aspettato lui per prendere il resto.
Dopo circa cinque minuti si tirò su, si alzò in piedi e, dopo aver osservato la sagoma che aveva lasciato sulle lenzuola bianche, decise di scendere al piano di sotto e congedare Belle.

Il primo giorno come libraia si stava rivelando incredibilmente noioso, il tempo stava trascorrendo davvero lentamente, tanto che cominciò a chiedersi se Belle non se la fosse svignata di proposito. La città era piccola, gli abitanti pochi, e nessuno di loro sembrava intenzionato a perdere tempo dietro ai libri. La stessa Emma non era una donna amante della lettura, anzi, i suoi libri si contavano sulla punta delle dita. Per questo ebbe non poche difficoltà a scegliere cosa leggere per passare il tempo nel negozio; la libreria era davvero molto fornita, i volumi divisi nei più svariati generi, tanto che lei non sapeva da dove cominciare. Passò subito oltre i romanzi rosa, lasciò perdere la narrativa e la letteratura classica, giudicò la fantascienza un po' troppo impegnativa per lei, così alla fine ripiegò su uno degli ultimi thriller usciti – nonché il suo primo thriller in assoluto.
Abbassava gli occhi continuamente per verificare quante pagine aveva letto in quell'arco di tempo che lei reputava infinito; le sembrava di star leggendo da ore, ma la pagina 27 le assicurava il contrario. La campanella piazzata sopra la porta accorse in suo aiuto offrendole una scusa per chiudere, finalmente, quel libro. Si alzò dalla sua postazione dietro il bancone e osservò la ragazza appena entrata, che chiudeva la porta alle sue spalle.
«'Giorno Belle, finalmente avete riap-», si bloccò non appena la vide, dopo essersi girata a fronteggiarla. Mise su un'espressione più che confusa, addirittura si volse quasi ad assicurarsi di essere nel posto giusto: doveva essere una cliente abituale, ma non così tanto da essere a conoscenza del cambio del personale. «Tu non sei Belle», osservò la ragazza facendo scappare una risatina ad Emma, che subito tolse la mano destra dalla tasca posteriore dei suoi jeans per porgergliela.
«No, infatti», cominciò con ancora il sorrisetto divertito sulle labbra «sono Emma, la nuova... libraia», si presentò, facendo ancora un po' di fatica ad accettare quel grande cambiamento che stava affrontando. La ragazza le strinse la mano gentilmente, Emma la osservò attentamente mentre mostrava un sorriso di scuse e si portava una ciocca, sfuggita dalla sua lunga treccia laterale, dietro l'orecchio sinistro.
«E' un piacere, Emma. Io sono Elsa», era molto... bionda, notò Emma, sicuramente molto più di lei; era alta e snella, aveva dei lineamenti molto delicati, occhi grandi e bocca carnosa. Avrebbe potuto fare la modella, giudicò la giovane Swan, ma la vedeva troppo introversa e immaginò che lavorasse in tutt'altro settore. «Sei nuova in città, vero?» Le domandò subito, portando entrambe la mani sulla sua borsa a mo' di protezione – Emma era brava a studiare le persone e si divertiva a definire il loro carattere.
«Diciamo di sì», rispose, chinando appena il capo. Aveva imparato a conoscere Fort Kent come le sue tasche, ma in qualche modo era pur sempre l'ultima arrivata e di certo non aveva intenzione di annoiare l'altra con la storia della sua vita. Era troppo lunga, tra l'altro, ci sarebbero volute delle ore. «Allora, in cosa posso esserti utile?» Improvvisamente si ricordò in cosa consistesse il suo lavoro e quasi rimpianse il tempo passato nella lettura. Avrebbe dovuto consigliarla? Sperava fortemente di no, non aveva avuto materialmente il tempo per accrescere la sua conoscenza; Belle aveva imparato a conoscere i suoi clienti e, sicuramente, sapeva a memoria le trame della maggior parte dei libri presenti in negozio, mentre lei brancolava nel buio totale.
«Ho ordinato un libro qualche settimana fa,» la informò l'altra, mentre Emma si tranquillizzava, Elsa la vide rilassare anche le spalle, abbassandole, ma non disse niente al riguardo e nascose il sorrisetto con la mano destra, fingendo di grattarsi la punta del naso «speravo fosse arrivato, altrimenti ripasserò fra qualche giorno». La giovane Swan si mise subito a trafficare col computer, guardando tra i nuovi arrivi alla ricerca del romanzo storico tanto atteso dalla ragazza. Alla fine lo trovò e non le fu neanche difficile rintracciarlo tra gli scaffali. Domandò ad Elsa se fosse un regalo per impacchettarlo, ma l'altra scosse la testa, porgendole i soldi. «Grazie mille, Emma», si avvicinò verso l'uscita ma poi tornò indietro, verso il bancone, tirando fuori un foglio di carta e una penna dalla sua borsa «Questo è il mio numero», affermò scribacchiando qualche cifra sopra il pezzo di carta «so cosa vuol dire essere la nuova arrivata in città, immagino che non conoscerai ancora nessuno del posto». Emma la ringraziò, senza preoccuparsi di nascondere la sua faccia più che sorpresa da quell'azione, e la salutò con la mano quando la vide girarsi dall'altra parte della vetrina. Non sapeva bene come fosse successo, ma aveva appena trovato un'amica.


Fort Kent, Maine; Novembre 2013


Non passò molto tempo prima che Regina cominciò a pentirsi del consiglio dato a Killian Jones. Sapeva come fosse da ragazzo, sempre in mezzo ai guai, sempre ubriaco con i suoi amichetti e sempre in cerca di qualche ragazza da portarsi a letto. Avrebbe dovuto pensarci meglio, prima di lanciarlo nuovamente nella mischia come un cane sciolto. L'amore, per sua moglie e per Henry, aveva in qualche modo calmato quel lato del suo carattere. Forse lui stesso aveva creduto di essere riuscito a soffocare quella parte di sé, e invece era bastato davvero poco a farla riemergere.
Le cose ormai andavano così: Henry passava, ogni due settimane, la notte a casa di Regina. Il bambino era sempre contentissimo di dormire a casa della sua zietta preferita che lo riempiva di dolci e giochi nuovi e Regina era felice di passare del tempo col bambino che tanto amava come fosse un figlio. Killian ogni tanto usciva con Robin – Regina gli aveva detto che le andava bene – o con altri conoscenti; si chiudeva in qualche locale, beveva una birra o si concedeva un qualche alcolico; solitamente l'altro gli faceva da spalla, anche se la maggior parte delle donne cadeva ai suoi piedi già all'accenno di un suo sorriso. Scambiava il suo numero con le più carine, o le più formose, o, anzi soprattutto, con quelle che non cercavano niente di serio. Regina gli aveva detto che non doveva cercarsi una moglie e, beh, lui l'aveva presa assolutamente sulla parola.
Regina era uscita, una sera di metà novembre, insieme a una sua vecchia amica, Kathryn Nolan. La classe di Henry era in gita scolastica, perciò la donna dubitava che Killian se ne sarebbe rimasto chiuso in casa. Con quell'idea in testa, entrò in uno dei suoi vestiti migliori, rosso fuoco, corto fino al ginocchio (si premurò di indossare delle calze nere per non rischiare di ritrovarsi due ghiaccioli al posto delle gambe) e con una scollatura importante che metteva più che in evidenza il seno: non sapeva se l'uomo fosse uscito insieme a Robin o se ci fosse stata anche solo una piccola possibilità di incontrarli, in ogni caso lei era determinata di farsi trovare in forma smagliante. Ebbe solamente un ripensamento, mentre agguantava la borsa nera e passava davanti allo specchio nell'ingresso. Si domandò cosa stesse facendo e cosa voleva ottenere nel farsi vedere in quel modo dal suo ex compagno; girò anche i tacchi, decisa a cambiarsi, e l'avrebbe fatto se non fosse stato per il tempestivo arrivo di Kathryn.
Le due donne non si vedevano da qualche settimana, cenarono insieme mentre Regina si impegnava con tutta se stessa di non parlare di lavoro, cosa che era diventata un po' la sua ossessione e il suo argomento preferito negli ultimi mesi, perciò non fu per niente facile. Entrando, poi, in un locale e sedendosi in uno dei pochi tavoli liberi, cominciò a chiedersi quanto tempo fosse passato dalla sua ultima serata 'tra donne'. Non riusciva a venirle in mente una data precisa, questo significava che era passato davvero molto, molto tempo.
«Regina!» L'inconfondibile voce di Killian Jones interruppe il noioso monologo di Kathryn sulla sua volontà di cambiare taglio di capelli; la mora ringraziò, mentalmente, il cielo per quell'interruzione, anche se poi si ritrovò a roteare gli occhi notando le occhiate accattivanti che l'uomo aveva preso a lanciare alla bionda. «Non ricordo neanche quand'è stata l'ultima volta che sei uscita di casa fuori dall'orario di lavoro, siamo già a Natale per caso?» Scherzò lui, poggiandosi col gomito sinistro sopra all'alto tavolo, guardando di sfuggita Regina per poi tornare a concentrarsi sull'altra donna. Non si era mai tolto il sorriso sornione dalla faccia, e alla Mills cominciò a dare fastidio quel suo atteggiamento.
«Killian», lo salutò schioccando la lingua, decidendo di ignorare la sua battutina e anche la risata sciocca della sua amica. Davvero l'aveva trovato divertente? Preferì non sapere la risposta, lasciando correre. «Ti ho mai presentato la mia amica?» Domandò retoricamente, notando come i due continuassero a lanciarsi occhiatine. Diede una bottarella alla gamba della bionda, sperando che si ricomponesse: il suo matrimonio non stava andando molto bene, negli ultimi tempi, ma diamine, un po' di contegno! «Kathryn Nolan, Killian Jones», li presentò, infine.
Killian afferrò delicatamente la mano destra della donna e la sfiorò con la bocca, restando con gli occhi blu incollati nei suoi per tutto il tempo «Incantato», mormorò, ignorando quasi completamente Regina che non perse tempo e lo colpì con un pugno sulla spalla alla prima occasione. L'uomo si girò non capendo cosa avesse fatto per meritarlo, trovandola con uno sguardo di fuoco che gli procurò altre domande. Regina indicò, con la coda dell'occhio, la mano sinistra di Kathryn e Killian non si fece troppi problemi nell'abbassare lo sguardo in modo da scoprire, e osservare, la fede che portava all'anulare. «Mi stavo solo presentando!» Affermò, alzando le mani, in tono innocente ma divertito. Lei, allora, decise di non ribattere, tanto sarebbe stato completamente inutile, e lo guardò aspettandosi di vederlo andare via nel più breve tempo possibile. Quello, invece, afferrò uno sgabello vuoto dal tavolo alle loro spalle e lo piazzò in mezzo alle due donne. Regina, allarmata, spalancò la bocca e voltò la testa da una parte all'altra, immaginando di vedere Robin comparire da un momento all'altro. Calma Regina, calma, ti stai comportando come un'adolescente in crisi ormonale. «Sono solo, tranquilla», le sussurrò lui, piegandosi appena verso di lei così da avvicinarsi al suo orecchio, una volta notato quel suo attimo di panico.
«Cosa diamine stai combinando?!» Lo rimbeccò lei, parlando, sì a voce bassa, ma duramente. Aveva lanciato un'occhiata alla sua amica che, o davvero non si stava accorgendo – o magari non gli stava dando semplicemente importanza – del loro scambio di battute, o era troppo imbarazzata da mettersi a ribattere, stava di fatto che aveva preso, per la terza volta quella sera, il menù degli alcolici e stava scorrendo la lista con l'indice destro.
Killian alzò il capo e allargò le braccia, sorridendo allegramente a entrambe, «Vi offro da bere!» Esclamò a voce alta, in modo da farsi sentire forte e chiaro dalla bionda che adesso aveva alzato gli occhi verso di lui e sorrideva incantata. Regina era disgustata dal comportamento di entrambi, tanto che dopo poco tempo si alzò, scusandosi, e dicendo di aver bisogno di una boccata d'aria. Fuori, però, trovo un paio di fumatori impegnati in un'accesa discussione. Il vento freddo trasportava il fumo delle sigarette e lo sbatteva tutto in faccia alla mora che cominciò a scacciarlo via con la mano sinistra. Fu tutto inutile e nel giro di mezzo minuto girò i tacchi infastidita. Tornando al tavolo trovò Killian solo, intento a finire il suo Martini. Si tolse la giacca nera, mentre lui intercettò il suo sguardo smarrito. «Kathryn è andata un istante in bagno», la informò con semplicità. Regina neanche si sedette che lo colpì, per la seconda volta quella sera e decisamente più forte, sulla spalla sinistra con un pugno. «Ahi! E questo per cos'era?!»
«Lei è sposata, razza di imbecille!» Lo rimproverò impegnandosi con tutta se stessa nel mantenere un tono basso per non attirare l'attenzione della gente, ma le risultò molto, molto, complicato. Era tanto adirata perché voleva bene ad entrambi, si diceva, ed odiava vedere lui provarci con lei come se fosse una delle tante, facendo finta di non aver notato la fede nuziale, tanto quanto odiava vedere lei fargli gli occhi dolci incurante di avere un marito premuroso a casa che voleva tentarle tutte per salvare il matrimonio.
«Questo lascialo decidere a lei», scherzò lui incurvando gli angoli della bocca verso l'alto. Non aveva intenzione di rubare la moglie di nessuno, non gli avrebbe fatto onore. Certo, se era lei la prima a volerlo le cose erano ben diverse; alla fine Killian aveva semplicemente flirtato un po', per come la vedeva lui, Regina stava leggermente gonfiando le cose.
«Lei... lei è incinta!» Si ritrovò a esclamare la mora, prendendo alla sprovvista l'amico e, soprattutto, se stessa. L'aveva sparata grossa, e soprattutto, perché si era lasciata sfuggire una cosa del genere? Soprattutto quando Kathryn le aveva semplicemente confessato di essere un tantino preoccupata per un ritardo, non c'era niente di certo e sicuramente la bionda avrebbe potuto strozzarla con le sue mani se lo avesse scoperto, se ne avesse avuto sia il coraggio che la forza ovviamente.
«Lei è... cosa?» Ripeté Killian, sollevando le sopracciglia e sbarrando gli occhi sorpreso e, appena appena, sconcertato «Stai dicendo sul serio?» Si beccò lo sguardo di fuoco di Regina e decise che non era il momento più adatto di mettere in dubbio le parole della Mills. Abbassò il capo, grattandosi appena il lobo sinistro, si sentiva un verme per i pensieri che aveva avuto solo qualche attimo prima «Va bene, va bene», affermò a un tratto alzandosi e poggiando delle banconote sopra al tavolo «sarà meglio che vada allora, saluta Kathryn da parte mia e dille che è stato un piacere conoscerla», mormorò posando il portafogli nella tasca posteriore dei suoi pantaloni, prima di infilarsi la sua amata giacca di pelle. «A proposito, Regina», la richiamò prima di andare via «dovresti metterlo più spesso questo vestito, mette in luce la tua parte migliore», non si vergognò minimamente ad osservare, con piacere, il davanzale dell'altra, sorridendo sghembo e scappando via prima che potesse ucciderlo.
Regina abbassò lo sguardo all'istante e notò subito come la scollatura si fosse abbassata e mostrasse più del necessario. Sentì le guance arrossarsi, forse per la terza volta in tutta la sua vita, e si sbrigò a tirare su il vestito. Alzò la testa, poi, per affrontarlo, ma lui era già lontano.


Fort Kent, Maine; Aprile 2016


Aveva preso lo stipendio il giorno prima, così non aveva perso tempo per pagare le bollette e riempire il frigo e la dispensa. Aveva dimenticato solamente di comprare una torta gelato per quella sera, ricordando, solo una volta a casa, di essere stato invitato, insieme a Henry, da Regina a cena. Era uscito di nuovo, quindi, lasciando l'auto in centro e incamminandosi a piedi verso il supermercato. Dopo circa un centinaio di metri, la sua attenzione fu rapita dall'insolito maggiolino giallo, che aveva visto, quando? Due, forse tre giorni prima?, parcheggiato davanti la Chipped Library. Non se lo ripeté due volte e si precipitò dentro al negozio, curioso di conoscere la sua proprietaria: se l'immaginava altrettanto stramba e unica nel suo genere.
«Salve!» Salutò, lasciando che la porta si richiudesse da sola alle sue spalle e cercando la donna con lo sguardo. Sapeva soltanto che fosse bionda, nient'altro, non era riuscito a vederla bene. Aspettò che Miss French gli venisse incontro ad accoglierlo e quando non successe decise di dare un'occhiata in giro. La libreria era formata da due stanze: le novità e i più venduti erano sistemati in quella d'ingresso, quelli invece più datati, o i grandi classici, si trovavano nell'altra. Non trovando nessuno nella prima, non perse tempo e si avviò verso la seconda. Non fu difficile notare la donna bionda dalle gambe lunghe, impegnata ad ordinare i libri da una scala non troppo alta. Lo sguardo di Killian non poté non soffermarsi sul fondoschiena della giovane, sodo e messo in risalto dai jeans stretti. «Ma che bel panorama», sentenziò sorridendo sotto i baffi, immaginandosi una qualche reazione che però non arrivò; fu allora che, guardandola meglio, notò gli auricolari nelle orecchie e gli fu tutto chiaro.
Si morse il labbro inferiore, con le braccia incrociate al petto, godendosi la scena il più a lungo possibile. Quando capì che quella ne aveva ancora per molto, si avvicinò lentamente alla scala e le diede un piccolo colpetto con il piede. La scala traballò, la giovane si spaventò colta alla sprovvista e perse così l'equilibrio. Killian l'afferrò al volo senza troppi problemi, specchiandosi subito negli occhi verdi della bionda che gli era appena caduta tra le braccia e che, adesso, lo guardava con un mix di spavento e sollievo. L'aveva immaginata in tanti modi, nella sua testa, mentre aspettava che suo figlio uscisse da scuola, qualche giorno prima, ma non era andato mai lontanamente vicino a quella disarmante bellezza che si trovava davanti. Le lunghe ciglia si muovevano piano, la mano sinistra si era posata istintivamente sulla spalla dell'uomo e Killian sorrise nel ritrovarsi quelle sottili e dall'apparenza morbide labbra a pochi centimetri dal suo viso. La giovane fece per aprire bocca, probabilmente per ringraziarlo o elogiare i suoi pronti riflessi, ma l'altro spostò, quasi senza accorgersene, la mano sinistra di pochi centimetri dal corpo della donna, andando a posarla proprio sul suo sedere, e lì vi rimase il tempo necessario per far andare la giovane Swan su tutte le furie.
«Mi tolga le mani di dosso!» Scattò Emma, tirandosi via dalla presa e dimenticando subito le buone maniere «E' pazzo? Come si permette?» Esclamò fuori di sé, cominciando a colpire l'uomo con il libro, dalla copertina flessibile e dalle poche pagine che le era rimasto in mano per tutto il tempo, un paio di volte sulla spalla destra, mentre lui alzava il braccio per coprirsi, o forse per nascondere il ghigno divertito che aveva messo su.
«Ehy, calma! Calma! Non l'ho fatto apposta», esclamò sulla difensiva, non convincendo neanche se stesso. In compenso, la bionda posò il libro, forse temendo una possibile denuncia per aggressione che per altro, e lo guardò in attesa di sentire le sue scuse. Killian si ricompose, si sistemò la giacca ed allungò la mano verso di lei «Killian Jones», si presentò «è davvero un piacere.» Emma lo guardò inorridita e accigliata, incrociò le braccia e continuò ad aspettare delle scuse. «Tu sei?», domandò alla fine lui, ignorando qualsiasi formalità e dandole subito del tu.
«Stanca», mormorò lei a denti stretti, guardandolo torva. Okay, doveva mantenere il sangue freddo e comportarsi in modo superiore, doveva reprimere l'istinto che aveva di urlargli contro fino a farlo scappare via, così come doveva resistere dal saltargli addosso. Per pestarlo. Calma Emma, sei nuova in città, nessuno ti conosce e ti faresti solamente tanti nemici. Per quanto poteva saperne, si trovava davanti un brav'uomo che, per davvero, accidentalmente le aveva tastato il sedere, soffermandovicisi a lungo con un mal celato piacere. Sì, certo, e lei era la Fata Turchina. Tra l'altro c'era la faccenda della scala, era stato sicuramente lui a procurare quell'incidente, non poteva di certo traballare improvvisamente da sola, no? Si trovava davanti un pazzo bello e buono, a suo parere, ma doveva comunque rimanere calma e non scendere alle provocazioni o Belle l'avrebbe cacciata su due piedi; se invece quello avrebbe continuato a darle fastidio, o avesse anche solo provato a provocarla in qualche modo, sarebbe tornata alla carica «Senta, se non è qui per acquistare dei libri, può anche andarsene. Ho del lavoro da sbrigare», concluse, senza smettere di fissarlo dritto negli occhi neanche per un istante. Non guardò neanche la sua mano destra, tesa e in attesa di stringere la sua, non le balzò per la testa l'idea di accontentarlo e di presentarsi. Non ne aveva la minima intenzione e soprattutto aveva altro da fare invece di perdere tempo con una persona del genere.
Killian arricciò le labbra e alzò le mani in segno di resa «Va bene, ho recepito il messaggio», affermò, comunque divertito da quella situazione e soprattutto da quella donna. Passò accanto al bancone e lanciò un'occhiata veloce ad uno dei fogli sparsi accanto alla cassa, riuscì a leggere un nome, non ebbe tempo di fare altro perché lei prese a seguirlo fino alla porta, per assicurarsi di vederlo andare via. «E' stato comunque un piacere», affermò lui, improvvisando un mezzo inchino «Miss Swan», si tirò su e andò via, riuscendo, però, a notare l'ultima occhiataccia sorpresa e scocciata della nuova arrivata in città.
Emma lo osservò allontanarsi, la strana sensazione di qualche giorno prima, tornò a farle compagnia.


Angolo dell'autrice:
Okay, è stato un PARTO. Scusate il ritardo, per mesi mi sono detta 'sarà sicuramente più facile scrivere l'AU, sicuramente non ci metterò troppo tempo ad aggiornare' e poi eccomi qui, IN RITARDO. Vi dirò, scrivere questa storia si sta rivelando sicuramente più facile dell'altra (come avevo previsto), e il ritardo è dovuto principalmente a due cose: 1) non avevo ben chiaro come strutturare i flashback, l'ispirazione è venuta scrivendo praticamente, e 2) .... sapete quando cominciate una nuova serietv senza troppe aspettative, ma poi questa serie vi prende a tal punto che DOVETE finirla, al costo di non dormire/bere/mangiare per giorni? Ecco, sono io con Doctor Who. In più il risultato neanche mi soddisfa pienamente, anzi secondo me il capitolo fa abbastanza schifino, ma vabbè, scusate.
Scuse a parte, mi sono divertita a mettere tanta carne sul fuoco in questo capitolo, e tante cose non erano neanche premeditate. Il primo incontro non poteva non essere disastroso, così come lo è stato nella serie. Speravo di rendere meglio l'idea che avevo in testa, ma alla fine è venuto fuori questo :/ ma isomma, finalmente il nostro Jones è arrivato. Pareri? lol Il primo flashback ce lo mostra calmo e gentile, ma già dal secondo è più sfacciato e pieno di sé (quanto mi manca Hook ç.ç)
Ah, spero di riuscire a mantenere i caratteri dei personaggi, soprattutto con Killian spero di essere riuscita a trasmettervi e a mantenere il suo lato pirata stravolto in una chiave più moderna. Fatemi sapere se ci sto riuscendo o se sto completamente sbagliando strada perché ci tengo!
Oltre a Killian, ho introdotto Regina (su tutti), e qui vi chiedo... quale sarà il rapporto tra i due? Cosa li ha legati e come si saranno evolute le cose nel corso degli anni tra loro? Abbiamo poi visto Elsa (non potevo non inserirla, mi manca davvero tanto), e... Kathryn NOLAN? Incinta? Sì, sto ridendo da sola immaginando le vostre reazioni. Chi saranno i prossimi a comparire nella storia? Vi dico subito che ho già cominciato a scrivere il terzo capitolo, e, se non cambio idea, dovrebbero comparire ben QUATTRO personaggi dello show. Secondo voi chi sono? :P E la madre di Henry? E' Milah o qualcun altra? E che fine ha fatto? Davvero non vedo l'ora di farvi leggere il prossimo capitolo ragazze!
Questo angolo è lunghissimo, per cui vi saluto e vi ringrazio per continuare a seguirmi :)
Un bacio a tutte, a presto :*

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Capitolo 4
*** 3. L'anniversario (parte1) ***



3. L'anniversario (parte1)




Fort Kent, Maine; Maggio 2016


Entrò nel Rabbit Hole guardandosi subito intorno nella speranza di trovare Elsa, nel caso fosse già arrivata. Avrebbe dovuto memorizzare il suo numero in rubrica, stupida Swan. L'interno del locale era più piccolo di quello che si aspettava, le luci erano basse, la musica era mandata da due casse poste in due angoli opposti della sala, il volume permetteva di godersi qualsiasi canzone e allo stesso tempo di chiacchierare con il proprio vicino. Notò anche degli strumenti e una specie di palchetto, immaginò che venissero organizzate anche delle serate a tema in cui suonava qualche band o qualcosa del genere. I tavoli erano quasi tutti pieni ma non riusciva a vedere bene tutte le persone sedute, osservò meglio il bancone notando subito due baristi che servivano le poche persone che avevano scelto di passare la serata su quegli sgabelli così scomodi.
Emma smise subito di ispezionare quel posto con lo sguardo, interrotta da un'esuberante brunetta che le si parò davanti così all'improvviso che quasi non se ne accorse. «Buonasera e benvenuta al Rabbit Hole! Sei nuova in città, vero? Hai ordinato un tavolo?» Quasi non prese fiato. Emma la guardò con gli occhi aperti senza nascondere un'espressione smarrita. Pensò che indossasse dei pattini al posto delle scarpe, facevano molto stile anni 50 era vero, ma era stata così veloce che concluse fosse l'unica spiegazione. Abbassò velocemente gli occhi, addirittura, tanto per accertarsene ma, no, la ragazza era stata semplicemente molto rapida a venirle incontro.
«Come l'hai capito?» Le domandò come prima cosa, incrociando le braccia davanti al petto con fare indagatore. Era una posa e un modo di fare che si portava dietro dall'infanzia, difficile separarsene o anche solo controllarlo. «Comunque no, non credo almeno», non credo? Ma che cavolo di risposta era? «ho un appuntamento con una...», persona conosciuta solo qualche giorno fa e con la quale avrò scambiato neanche sette battute? «amica, mi ha detto che mi avrebbe aspettato dentro».
La bruna si aprì in un sorriso smagliante, così da mostrare una dentatura da far invidia a qualsiasi modella che si vedeva nelle pubblicità dei dentifrici. Sembrava quasi divertita. «Questa è una piccola cittadina», rise lei per tutta risposta «lavorando nel suo locale più importante, per anni, finisci di conoscere più o meno tutti i suoi abitanti. Dimmi, come si chiama questa tua amica? Ho accolto io tutto i clienti, questa sera, se è già arrivata l'avrò sicuramente già vista.» Sembrava sinceramente cortese e pronta ad aiutare, mentre passava il piccolo vassoio nero dal braccio destro a quello sinistro, posando quindi la mano libera sul medesimo fianco.
«Elsa,» rispose la bionda, speranzosa «Elsa Sleety *». Il sorriso dell'altra si ingrandì maggiormente, cosa che Emma non credeva minimamente possibile e annuì con il capo, prima di girarsi veloce verso la sua sinistra, facendo svolazzare così i lunghi capelli, dai quali risaltava un nastro di colore rosso acceso.
«Ma certo, Elsa! Andavo in classe con sua sorella Anna, sai? E' una brava ragazza, tutte e due lo sono, anche se è un po' chiusa e solitaria... Elsa, dico, non Anna, Anna è completamente l'opposto: esuberante e chiacchierona», come qualcun altro, qui, si ritrovò a pensare la giovane Swan, accennando appena un sorriso. «E' arrivata pochi minuti fa, comunque. Solito tavolo, in fondo a destra», mi indicò il tavolo – anche se la ragazza continuava a rimanere nascosta dagli altri clienti – neanche le avesse chiesto un indicazione stradale, prima di tornare a guardarla e a rivolgerle l'ennesimo sorriso «a proposito, io sono Ruby, benvenuta a Fort Kent, miss...?»
«Swan, Emma», le due ragazze si strinsero cordialmente la mano, prima che la nuova arrivata la lasciasse ai suoi clienti, diretta dalla sua nuova conoscenza «grazie mille, Ruby.» Dopo soli pochi passi, fu già più semplice trovare Elsa, che stava digitando qualcosa sul suo telefono, probabilmente un messaggio, con la testa poggiata tranquilla sul dorso della sua mano. Aveva i capelli raccolti in uno chignon basso e appena spettinato, indossava un top blu monospalla e dei pantaloni neri, nessuno strappo come ormai andava di moda tra le ragazze – ed Emma apprezzò immensamente quella mancanza.
«Ciao Elsa!» La salutò subito Emma, posando la borsa sopra una delle tre sedie vuote e sedendosi sopra un'altra, quella situata davanti la ragazza «Perdona il ritardo», mormorò dopo, guardandosi intorno in cerca di Ruby, o di un altro cameriere così da ordinare da bere. Qualcosa di fresco magari, visto che nel locale si moriva di caldo.
Elsa aveva già incurvato gli angoli della bocca verso l'alto, vedendola arrivare, e si era affrettata a chiudere la conversazione con sua sorella, Emma non aveva intenzione di curiosare nei suoi affari, ma era riuscita a leggere il nome sullo schermo, prima che l'altra chiudesse la finestra dei messaggi. «Oh no, Emma, tranquilla», esclamò questa, riponendo il cellulare nella borsa, color argento che sicuramente non passava inosservata, che teneva attaccata allo schienale della sua sedia «sono arrivata da poco anche io, non preoccuparti. E' stato difficile trovare il posto?» Scosse appena la testa, posando i gomiti sul tavolo.
Parlarono per una buona oretta e mezza, senza interruzioni o pause imbarazzanti. Elsa sapeva fare le giuste domande, soddisfacendo la propria curiosità ma senza essere inopportuna o entrare troppo nella vita privata di Emma. L'altra rispondeva spontaneamente, ricambiando le sue domande o facendone di nuove. Elsa, scoprì, era nata nel Maine, ma aveva poi passato la sua adolescenza in Canada, nel Québec, per motivi di lavoro dei genitori. Le raccontò del freddo, davvero pungente una volta arrivata, quando aveva solo tredici anni, e che poi aveva imparato ad amare e ad apprezzare. Emma rise tra sé, trovando buffo l'accostamento tra il suo cognome e il clima che tanto amava. Una volta grande, aveva ottenuto una borsa di studio dalla prestigiosa università di
Princeton, era quindi tornata negli USA e lì vi era rimasta. Si era laureata in economia e, adesso, viveva a Fort Kent, lavorando come assistente del sindaco. Sua madre e sua sorella erano rimaste in Canada e le vedeva raramente.
Emma aveva ascoltato la ragazza sinceramente interessata, fino a quando un tono di voce piuttosto brusco non interruppe il clima di ilarità di gran parte della sala, e fece sobbalzare i presenti più vicini al suo proprietario. «Cerchi rogne, amico?» Anche Emma e Elsa si voltarono, quasi in sincronia, per vedere cosa stava succedendo. Alle spalle di quest'ultima, a qualche metro di distanza, si trovavano una ragazza piuttosto minuta, di lei potevano notare solamente i capelli, rosso fiamma, perché era girata dall'altra parte, ma non era, comunque, l'attrazione principale della scena. Un uomo basso e robusto, calvo, dagli occhi scavati che trasudavano di stanchezza e da una barba piuttosto folta, più grigia che nera, e punteggiata da un po' di bianco qua e là, fronteggiava una delle ultime conoscenze della giovane Swan.

Killian Jones, il nome dell'uomo le scattò in automatico nella mente, le sembrò piuttosto alticcio e visibilmente infastidito. Era stato lui a inveire, poco prima, l'altro sembrava tranquillo, rosso in viso ma tranquillo, forse provava a trattenersi. «Ehy, fratello, rilassati. Ti ho solo detto di spostare l'auto, intralcia l'ingresso», ribatté quello, stringendo appena i pugni. Elsa volse la testa verso Emma e la guardò preoccupata, ma l'altra non la notò, impegnata com'era a seguire la discussione, non per farsi gli affari loro, ma per intervenire se necessario.

«E io ti ho già detto di andare al diavolo!» Esclamò Jones, prendendolo in giro con un'espressione irriverente sul volto «E poi sei dentro, no? Se avesse ostruito l'ingresso non saresti riuscito ad entrare», allargò le braccia con fare ovvio e un sorriso sfacciato, in seguito gli diede completamente le spalle e, seppur rivolgendosi ancora lui, tornò a guardare la ragazza profondamente «stavo conversando con questa splendida creatura, se non te ne fossi accorto.»
«No, me ne stavo andando via», affermò lei risoluta, passò davanti ad entrambi e si avviò verso l'uscita. Emma non riusciva a staccare gli occhi di dosso da quei tre, Elsa aveva capito che non sarebbe riuscita a distrarla per nessun motivo al mondo, così anche lei tornò ad osservarli, lanciando poi delle veloci occhiate alla sua nuova amica.
«Ecco, vedi Leroy? Sei riuscito a infastidire anche lei!» Così dicendo, Killian Jones prese ad incamminarsi verso la rossa, barcollando a vista d'occhio. Vedendo che Leroy non aveva la minima intenzione di impicciarsi oltre, Emma scattò in piedi, pronta a raggiungere i due che avevano quasi raggiunto l'uscita. Ormai nessuno prestava loro molta attenzione.
Elsa, invece, afferrò di scatto il polso destro della bionda con entrambe le mani, mormorandole un soffocato «Emma, no!». Emma non la guardò nemmeno, sentiva guai nell'aria, quell'uomo non le era piaciuto da sobrio, figuriamoci se le sarebbe piaciuto da ubriaco! I clienti erano tornati a farsi gli affari propri e a lei questa cosa non andava giù, odiava l'indifferenza della gente. Scrollò appena il polso, Elsa lasciò la presa scoraggiata e sospirò. Emma raggiunse i due quel tanto che bastava ad ascoltare ciò che si dicevano, ma non intervenne subito. Elsa, alla fine, si alzò anche lei e raggiunse la donna, restando qualche passo più indietro.
«Andiamo Sirenetta, l'altra volta ti era piaciuto», sentirono l'uomo, che con fare sornione si era avvicinando alla ragazza, credendo di risultare affascinante «casa mia è qui vicino, ma questo lo sai già», sorrise divertito, prima di inumidirsi le labbra e avvicinarsi maggiormente alla ragazza. Questa volse appena il capo, simulando un'espressione disgustata, probabilmente per via dell'alito del suo interlocutore.
«L'altra volta non eri ubriaco, Jones», ribatté questa, con una calma che Emma le invidiò. Sembrava sapere quello che facesse, sembrava conoscerlo e, a dirla tutta, sembrava anche attratta da quell'uomo, ma era sempre risoluta a non accontentarlo, quella volta, non con lui in quelle condizioni. Non sembrava avercela con lui, la Swan si domandò che problemi avesse quella ragazza, lei avrebbe già dato di matto, si disse. «Non ho intenzione di venire a casa tua.»
L'uomo rise, visibilmente divertito da quello che era appena stato affermato «Oh», partì, pronto a colpire in pieno la sua compagna «ma l'altra volta lo hai fatto eccome. E più volte, devo dire», concluse allusivo e con una sfacciataggine tale da disgustare completamente Emma, come se già il loro primo incontro non fosse stato abbastanza. Elsa, invece, alle sue spalle, restava impassibile e silenziosa, l'altra neanche si era accorta della sua presenza.
Anche la rossa apparve disgustata da quella affermazione, anzi, infastidita più che altro. Roteò gli occhi verso l'alto e girò i tacchi, decisa a lasciarlo lì senza nemmeno concedergli una replica. Killian, però, le prese la mano di getto, neanche si accorse di quello che aveva fatto o, comunque, neanche ebbe il tempo di accorgersene, dato che Emma non ci aveva visto più, gli aveva messo una mano sulla spalla e con un «Ehy» lo aveva richiamato affinché lui si girasse. Non appena, questi, ebbe girato completamente il capo nella sua direzione, mossa da una sorta di solidarietà femminile, o forse dall'immensa voglia che aveva di colpirlo fin da quando l'aveva palpata qualche giorno prima, gli tirò un pugno in pieno volto. Elsa strillò, la rossa trattenne il respiro, Jones aveva ancora addosso un'espressione più che confusa, che presto si tramutò in una stordita. Cadde a terra svenuto, le tre donne lo osservarono neanche fosse la scena al rallenty di un film. «Wow, non credevo di averlo colpito tanto forte da spedirlo al tappeto», commentò la bionda, la mano ancora ferma a mezz'aria, aperta però, il viso contratto in uno sguardo sorpreso.
«Colpa dell'alcol», commentò la ragazza dai capelli rossi, che nel frattempo si era chinata verso Jones «sarebbe crollato da un momento all'altro», aggiunse poco dopo, prima di voltarsi, seguita da Emma e Elsa, verso Ruby e altri due camerieri che erano subito accorsi a vedere cosa stava succedendo.
«Non l'ho mai visto così ubriaco», commentò a bassa voce Ruby, mentre gli altri provavano a svegliare l'uomo, invano tra l'altro. «E' inutile ragazzi, ne avrà per un bel po'», fece poi, mordendosi un labbro forse non sapendo come risolvere la questione o cosa farne di lui, visto che non le sembrava fosse entrato accompagnato nel locale. Decise allora di spostarlo da lì e di portarlo nell'ufficio del loro capo che, fortunatamente, non si trovava in sede per una volta tanto. Invitò i clienti a tornare a gustarsi la loro serata, scusandosi per quanto accaduto, dopo di che si allontanò in direzione dell'ufficio. Emma li seguì, dopotutto era in parte responsabile, ed Elsa le andò dietro, non potendo sopportare un secondo di più gli sguardi curiosi della gente che parlottava tra loro. «Solitamente se ne occupa David...», sembrava stesse solamente riflettendo ad alta voce, ma Emma non poté fare a meno di ascoltarla e chiederle curiosa «David?»
Ruby si voltò a guardarla con occhi aperti e sopracciglia alzate, quasi si fosse appena accorta della presenza delle due donne. «Sì, David Nolan, un suo amico. Solitamente vengono insieme, David è astemio, a quanto ne so, e non beve. E' lui a riportarlo a casa ogni volta così da non farlo guidare. Se non è qui stasera, probabilmente è di turno in ospedale... magari può assentarsi per qualche minuto, giusto il tempo di riportarlo a casa...», provò a ipotizzare ancora la ragazza, col dito sul mento.
«E' un'idea sì,» annuì Emma, incrociando le braccia «potete contattarlo?» Si affrettò a domandare, non sapendo bene perché sentiva che sarebbe rimasta fregata in qualche modo. Proprio non poteva farsi gli affari suoi e rimanersene seduta al suo posto come Elsa le aveva, tra l'altro, intimato di fare? Doveva proprio mettersi in mezzo e improvvisarsi paladina, difendendo una ragazza che, forse, neanche ne aveva tutto questo bisogno visto che era andata via più che tranquilla?
«No, non ho il suo numero e immagino che il telefono di Killian abbia un codice di sblocco...», uno degli uomini riuscì a trovare il telefono, accese lo schermo e mostrò la tastiera bloccata «appunto. Penso proprio che non rimanga altro da fare se non portarlo noi stessi da David.»
Emma prese ad annuire silenziosamente, gli occhi puntati su Jones che, ormai bello comodo su una vecchia poltrona, aveva cominciato a russare, quasi a voler farsi beffe di tutto quel casino che aveva creato. O che aveva creato Emma. Oh no, decise di declinare quella responsabilità cominciando a togliersi l'aria colpevole dalla faccia; alla fine se lui non le avesse scocciato tanto qualche settimana prima, lei non sarebbe mai partita con un tale pregiudizio e non avrebbe mai reagito in quel modo. Smise di annuire nel momento in cui percepì gli occhi di ogni persona nella stanza fissi su di sé, si voltò a guardare Ruby e notò il suo sguardo implorante e ammagliatore, le lunghe ciglia che sbattevano piano. «Cosa?» Domandò istintivamente la bionda, che però aveva già capito tutto «Volete che ce lo porti io?»
«Se non ti crea disturbo», tentò l'altra, mentre incurvava le labbra in un piccolo sorriso che forse voleva mostrare gratitudine «è sabato sera e noi siamo di turno fino a domani mattina, non possiamo allontanarci», si morse il labbro guardandola supplichevole, incrociò le mani a mo' di preghiera e molleggiò lievemente sulle ginocchia. Ad Emma ricordò tanto una bambina che chiedeva una bambola nuova. «Per favore, l'ospedale non è molto lontano da qui», provò ancora ma Emma alzò gli occhi al cielo, provando in tutti i modi di non sbuffare e soprattutto ad uscire da quella situazione «se lo farai tutti noi chiuderemo un occhio su quanto accaduto. Alla fine si è trattato pur sempre di un'aggressione, lo hai colpito davanti parecchi testimoni e potresti aver macchiato il buon nome del locale. Gli affari caleranno e saremmo costretti a chiudere, e poi...»
«D'accordo, d'accordo», sbottò la bionda, sbrigandosi a chiudere quel soliloquio così melodrammatico che la brunetta aveva messo su. La paura di beccarsi una qualche denuncia per aggressione le saltò per la mente e decise di abbassarsi ad accompagnare quel tale che proprio non riusciva a digerire. Perfino vederlo dormire le scatenava della rabbia dentro di sé. «Elsa, tu sei venuta a piedi vero? Ti do un passaggio in macchina.»

Si era scusata con Elsa un'infinità di volte mentre la riaccompagnava a casa. Non si sentiva in colpa per aver colpito Jones, che non smetteva di russare disteso malamente nei sedili posteriori del maggiolino giallo, quanto piuttosto di aver rovinato una piacevole serata e aver messo anche l'altra donna in imbarazzo. Ad Emma non importava molto di quello che le persone pensavano di lei, ma Elsa se ne era rimasta in disparte visibilmente a disagio per tutto il tempo, e di questo se ne dispiaceva, e molto. L'altra l'aveva rassicurata e le aveva detto di non preoccuparsi, prima di scendere dall'auto le aveva anche detto che sarebbe passata a trovarla in libreria così da organizzare un'altra uscita. Emma si domandò quanto di quelle parole fosse vero, immaginando che una persona normale non avrebbe più voluto avere niente a che fare con lei dopo una serata tanto disastrosa.
Non le risultò difficile trovare l'ospedale, Elsa le aveva spiegato dettagliatamente la strada. Parcheggiò vicino l'entrata principale e corse dentro, non prima di aver lanciato una rapida occhiata al suo passeggero, l'ultima cosa che voleva era che se ne andasse in giro chissà dove e da solo, ubriaco fradicio. Domandò di David Nolan e un infermiere fu tanto gentile da andarlo a chiamare personalmente; Emma gli disse, prima di andare, che lo avrebbe aspettato fuori, vicino la macchina. E così la trovò David, circa 5 minuti dopo, mentre se ne stava appoggiata col sedere sul cofano, le gambe allungate in avanti e le mani infilate nelle tasche della giacca.
Emma lo aveva notato subito mentre si precipitava di corsa fuori dall'ospedale, il camice bianco che svolazzava all'indietro, gli occhi chiari preoccupati per le condizioni del suo amico. Quando le fu abbastanza vicino si disse che quell'uomo poteva benissimo passare per un suo famigliare, per non dire suo fratello, con quei capelli biondi e quella carnagione così chiara come la sua. «Sei David?» Domandò tanto per essere sicura. Quello annuì, così scivolò rapida e andò ad aprire lo sportello del passeggero, tirando in avanti il sedile così da mostrare Jones «Eccolo qui, dorme da parecchio ormai».
«Si è preso una bella sbornia, eh», commentò, lui, abbassandosi in modo da poter controllare Killian, una mano appoggiata sul sedile e l'altra sul tettino dell'auto. Emma non poté trattenersi troppo e gli domandò se fosse una cosa che accadeva spesso, David si voltò a guardarla, alzandosi, e scosse la testa «No, solitamente beve qualche drink, sono anni che non si spinge così oltre, a quanto ne so.» Chiuse lo sportello della macchina, guadagnandosi un'occhiataccia smarrita da parte della Swan. «Deve essere colpa dell'anniversario di domani...», pensò a voce alta, prima di guardare la bionda ed essersi reso conto di non aver tenuto quei pensieri per sé «oh, beh», cominciò imbarazzato «lunga storia.»
«Non mi interessa», affermò Emma sincera, anche se la parola 'anniversario' aveva acceso non poca curiosità dentro di lei. Jones era sposato? Era a quello che si riferiva David? O magari era divorziato e quel turbamento nasceva proprio da questo? Al diavolo, non doveva importarle niente che riguardasse quell'uomo. «Puoi riportarlo a casa?» Notò l'espressione accigliata del dottore, dal camice che indossava doveva essere un chirurgo e immaginò che chiedergli di allontanarsi dall'ospedale, durante un turno di notte addirittura, non era una cosa possibile. «O magari puoi farlo stare qui... non so, come paziente o cose del genere», tentò lei, ma l'altro aveva già cominciato a scuotere il capo.
«No, mi dispiace Emma, non si può fare. Se cominciamo a ricoverare gente per una semplice sbronza si creerebbe il caos, no. Ascolta...», Emma era già pronta a ribattere ma, insieme a David, si bloccò sentendo una sorta di
bip, provenire da una delle tasche dell'uomo. Lui tirò fuori un piccolo aggeggio che doveva essere un cerca persone, ora che ci pensava Emma non ne aveva mai visto davvero uno, quella era la prima volta «Maledizione!» Esclamò quello, voltandosi di getto verso l'ospedale, pronto a tornarsene dentro «Ho un'emergenza, mi dispiace. Ascolta», ripeté tirando fuori, dall'altra tasca, un blocchetto e una penna dove vi scribacchiò sopra qualcosa «questo è il suo indirizzo, è qui vicino, non saranno neanche 400 metri. Prosegui dritta fino all'incrocio, poi gira a destra. Le chiavi di casa le tiene nella tasca interna della giacca, se non dovessi trovarle sono dietro a un vaso vicino la porta. Okay? Grazie mille, ti devo un favore!»
Furono le ultime parole che le disse, poi corse via non lasciandole neanche il tempo di dire di no, o accettare il fatto che non ci fossero altre alternative. La giovane Swan rimase lì, con la bocca aperta e gli occhi spalancati, il cervello in moto che cercava di metabolizzare quegli ultimi avvenimenti. Alla fine salì in macchina e chiuse lo sportello con violenza, facendo sussultare anche Jones che però non si svegliò. Maledisse il giorno in cui quell'uomo era entrato in libreria e mise in moto, dopo aver dato un'occhiata all'indirizzo scarabocchiato di fretta dal dottor Nolan.
Proprio in quell'istante, in ospedale, mentre imboccava per la sala operatoria, David si rese conto di aver dimenticato qualcosa, qualcosa di importante, da dire a quella donna, ma ben presto quello divenne l'ultimo dei suoi pensieri.


Rockford, Illinois; Gennaio 2001


Sapeva che il giorno dopo, al suo risveglio, sarebbe stato costretto a fare i conti con un tremendo mal di testa. Liam gli avrebbe rotto le palle in tutti i modi, sapeva anche quello, disturbandolo con ogni mezzo a disposizione così da fargli rimpiangere di aver bevuto tanto. A volte suo fratello si dimostrava una vera piaga, così rigido con le sue buone maniere e il suo continuo disprezzo per ogni forma di divertimento. Era sempre stato così, anche da bambino, Killian amava sporcarsi nel fango mentre lui se ne rimaneva per tutto il tempo chiuso in casa a leggere libri. Molto spesso lo aveva apostrofato col nome di “femminuccia”, abitudine che aveva perso col tempo, con la crescita. Ma non con la maturità, come diceva Liam, la maturità non era ancora giunta per il suo fratellino e spesso era costretto a tirarlo fuori dai guai. Come quella sera, si era raccomandato così tante volte di non lasciarsi trasportare dai suoi amici e di controllarsi con l'alcol che quasi gli aveva fatto venire la nausea. “Non mischiare gli alcolici, Killian. Non fumare, Killian. Divertiti, ma con il cervello, Killian. Non commettere casini, Killian”. Poteva benissimo dirgli di non vivere, sarebbe stato uguale.
E, comunque, si trovava ad un addio al celibato, cosa pretendeva suo fratello? Non poteva mica restarsene in disparte a bere acqua per tutta la sera. Non poteva mica rifiutare quello spinello che i suoi amici, più grandi di pochi anni, gli avevano passato. Non poteva mica non fingersi lo sposo per incitare la spogliarellista a mettere su uno spettacolino nel privè solo per lui. Beh, quest'ultimo punto forse non avrebbe dovuto farlo per davvero, ma poco male, Will si era subito messo in mezzo, scansandolo via, sfregandosi poi le mani nell'attesa che la ragazza cominciasse a mettersi all'opera. Come se Anastasia non lo soddisfacesse già troppo, pensò Killian mentre si faceva versare dell'altro rum – Dio, quanto amava il rum –, o almeno così amava vantarsi Scarlet da quando l'aveva conosciuta. Killian lo invidiava parecchio, su questo fronte, solitamente tutte le sue ragazze dopo un paio di mesi cominciavano a stufarlo, perfino il sesso dopo un po' lo stancava. Invidiava Will, e non per il matrimonio, per quello mai lo avrebbe fatto. Lo invidiava perché era riuscito a trovare una persona come Anastasia, una ragazza bella, divertente, sexy, intelligente, sexy, alla mano, incredibilmente sexy... aveva detto sexy troppe volte, vero?
La torta esplose, un'altra ragazza dal top crop nero, rosso e dannatamente scollato, e dal perizoma in pizzo dei medesimi colori, ne uscì fuori con le braccia rivolte verso l'alto, urlando a squarciagola. Pezzetti di torta colpirono i ragazzi, la maggior parte di loro prese ad esultare, gli altri si limitarono ad abbracciarsi a gruppi di due o di tre e a godersi lo spettacolo, a Killian, invece, quell'odore di crema, panna, cioccolato e pan di Spagna mischiati all'alcol gli diede la nausea. Cominciò a sentire muoversi qualcosa dentro di lui e sapeva che per una volta tanto non era dovuto all'eccitazione. Quando percepì tutto il liquido che aveva ingerito in quelle poche ore, risalirgli su per la gola, si precipitò fuori dal pub in fretta e furia, una mano sulla pancia e una sulla bocca, come se sperasse di trattenersi in quel modo.
In seguito Liam gli domandò perché non fosse andato semplicemente in bagno, lui stesso si diede del coglione dopo quella domanda, ma in quel momento era fin troppo brillo per poter decidere lucidamente. Arrivò sullo spiazzale, si avvicinò ad una fontana di marmo, con una grossa palla proprio nel centro che illuminava i due piani inferiori pieni d'acqua, e vomitò tutto quello che aveva in corpo, le mani, adesso, sulle ginocchia piegate.
La prima cosa che vide di lei furono i suoi tacchi a spillo neri, quasi non sentì il suono che fecero mentre lo raggiungeva a passo lento ma deciso, senza nessuna fretta, gustandosi quasi lo spettacolo. Si fermò esattamente davanti alla sua faccia, Killian se ne rimaneva immobile col fiato corto ancora per qualche secondo, poi si pulì la bocca sulla manica sinistra della sua camicia (bianca, tra l'altro, buttata il giorno dopo) e alzò lo sguardo piano piano, salendo con gli occhi per quelle gambe lunghe coperte da calze nere e trasparenti, arrivando alla minigonna nera che quasi gli fece mancare il respiro di nuovo, le mani poggiate sui fianchi con fare minaccioso, unghie laccate di un inusuale viola e una giacca nera con la zip abbassata fino a metà, che lasciava intravedere un maglioncino a girocollo color panna. Lunghi capelli mori incorniciavano il suo viso duro, dal quale risaltavano sicuramente gli occhi verde chiaro.
Davanti a sé si trovava la donna più bella che aveva mai visto.
«Era la mia giornata libera», esordì scandendo ogni parola, con la voce scocciata, rivolta più che altro a se stessa «mi sembrava strano che non fosse successo ancora niente», continuò alzando gli occhi al cielo prima di puntarli di nuovo su Killian che, nel frattempo, si era rizzato in piedi e la fissava incantato. Ma sembrava che lei non ci stesse facendo caso. «Dovevi per forza farlo sotto ai miei occhi? Aspettare cinque minuti ti costava troppo?» Cominciò a trafficare nella borsetta alla ricerca di qualcosa, Killian non pareva farsi troppe domande anzi, era più che divertito di vederla inveirgli contro come una matta «Ovviamente dovrò multarti, adesso», finalmente quelle parole fecero scattare qualcosa nel cervello del ragazzo, che adesso notava il blocchetto in mano alla mora.
«Cosa?» Fece lui, allargando le braccia «Mi sono sentito male, dovrei essere multato per questo?» Domandò retoricamente, omettendo la parte in cui si era ubriacato fino a rimettere tutto quello che aveva ingerito nelle ultime ore. Si avvicinò maggiormente alla donna, doveva avere non più di 25 anni, al massimo 26, aprendo le labbra in un sorriso, nella speranza di incantarla tanto da convincerla a lasciar perdere. «Infondo è la sua serata libera, no? E nessuno ha assistito alla scena, chiuda un occhio... resterà il nostro piccolo segreto.»
La poliziotta si allontanò di mezzo passo non appena lui le fu più vicino, non riuscì a resistere a quel mix di vomito e alcol che si portava dietro e probabilmente la sua espressione schifata non si premurò di nasconderlo. «Non è la prima volta in cui ho a che fare con una sbornia di voi ragazzi», “voi ragazzi”? Ma si sentiva? Sembrava un'anziana signora che rimproverava degli adolescenti «uscite a fare i vostri comodi addosso a statue o ancora meglio dentro delle fontane», continuò a dire, mentre nel frattempo aveva preso a riempire il foglietto di scritte «e poi ci guardate con la coda tra le gambe e gli occhi da cucciolo impaurito, nella speranza di impietosirci tanto da lasciarvi andare, ma no, questa storia non attacca la maggior parte delle volte. Carta d'identità?»
«Ho gli occhi da cucciolo?» Chiese divertito, senza nascondere un sorriso soddisfatto all'occhiataccia che ne seguì. «E' rimasta nella mia giacca, dentro al locale», rispose poi serio, vedendo che la donna proprio non aveva intenzione di smuoversi «immagino che non mi lascerà andare dentro a prenderla, vero?» Domanda retorica, quella già aveva scosso piano la testa con un sorrisetto ironico sulla faccia «Può venire dentro con me, le offro anche da bere. Del rum, o forse lei è più un tipo da cocktail... un sex on the bitch, magari», suggerì con tono furbo, rimarcando con forza la parola “sex”.
La poliziotta non poteva dirsi più scandalizzata «Ma ce l'hai l'età per bere, perlomeno?» Chiese retoricamente, colpendo Killian nell'orgoglio che subito si offese. Aveva quasi 19 anni, sembrava ancora un ragazzino? No, tutti i suoi conoscenti gli dicevano il contrario, evidentemente quella donna vaneggiava. «Ti pregherei di non peggiorare la tua situazione, comunque. Ora, dammi i tuoi dati così da risolvere questa faccenda e tornarcene entrambi alle nostre serate. E senza allusioni sessuali, magari, o sarò costretta a sbatterti in cella per questa notte.»
«Oh», si illuminò il ragazzo, che proprio non riuscì a trattenersi o a darsi una calmata (magari a mente lucida avrebbe saputo darsi un freno, stupido Jones, dovevi proprio bere così tanto?) «Allora è così? Vorrebbe sbattermi?» Si pentì subito di aver parlato, vedendo lo sguardo di fuoco che gli arrivò e le manette che spuntavano fuori dal nulla, così parve a lui almeno, che un secondo dopo si ritrovò ai polsi, braccia dietro la schiena.
Stupido, stupido Jones. Non poteva proprio controllarsi? E stupido Liam e le sue raccomandazioni, chi lo avrebbe sentito d'ora in avanti? E stupido Will col suo addio al celibato, era costretto a passare la notte al fresco per colpa sua. E stupida poliziotta. Stupida e sexy poliziotta. Bellissima poliziotta. Anche se, pensandoci, quale sano di mente se ne andava in giro con delle manette nella borsetta?



* dopo aver passato vari minuti a pensare a un cognome adeguato per Elsa (escludendo subito Frozen perché... beh, perché no e basta) ho cercato un po' di parole su internet e mi divertiva l'idea di accostarla alla parola Nevischio, per l'appunto sleet/sleety in inglese


Note dell'autrice:
Hola people! Speravo di metterci di meno ma ormai siete abituati ai miei tempi di aggiornamento eh ^^'' Ho preferito dividere il capitolo in due parti arrivata alle 10 pagine di word, tante cose devo ancora raccontare, compreso un secondo flashback sul passato di Killian, tante scene Captain Swan da scrivere, e non potevo di certo postarvi un capitolo di 20 pagine, no? Così eccovi qui la prima parte, nella speranza di non metterci troppo con la seconda.
Abbiamo conosciuto parecchia gente e visto il primo incontro tra Killian e Milah. Cosa ve n'è parso? E cosa ve n'è parso del secondo, disastroso, incontro tra lui ed Emma? 
Fatemi sapere quello che ne pensate perché, momento serio, ultimamente mi sembra di andare da tutt'altra parte rispetto a dove vorrei. Scrivo, scrivo parecchio, poi rileggo e tutto quello che vedo mi fa abbastanza schifino. Non so, forse è un periodo mio, forse sto facendo veramente schifo e la storia ne risente. Ditemi voi cosa ne pensate, soprattutto se è il caso di continuare visto che i capitoli sono lunghi e mi portano via parecchio tempo, se la storia non piace, per un motivo o per un altro, perché portarla avanti? :') Davvero, fatemi sapere i vostri pareri, anche consigli o critiche, magari riesco a tornare sulla carreggiata giusta.
Grazie mille a chi ha letto fino a qui, un bacio a tutti!

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Capitolo 5
*** 3. L'anniversario (parte 2) ***



3. L'anniversario (parte2)




Sabato sera, pochi minuti dopo la mezzanotte, e in quella strada non c'era anima viva. Emma era abituata alla vita di Boston, non che uscisse poi molto, pensandoci, ma era sicura che fosse decisamente più frenetica di quella di Fort Kent. Sicuramente le strade non apparivano così deserte a quell'ora nel weekend, neanche nei quartieri più isolati. C'era decisamente troppo silenzio, poteva sentire tutti i piccoli rumori sospetti del suo vecchio motore che tanto provava a ignorare. Sempre meglio del russare di Jones, comunque, che diventava più forte di secondo in secondo. Le sembrava di trasportare un trapano in funzione, una trivella, un martello pneumatico, sui sedili posteriori. Il fastidio che le stava causando era il medesimo.
«Jones», provò a chiamarlo, dopo aver svoltato a destra e imboccato la via di casa sua; controllò un'altra volta il fogliettino scarabocchiato dal dottor Nolan, poggiato sul sedile del passeggero e rivolto verso di lei, tanto per essere sicura. «Jones, siamo arrivati», lo informò, o almeno tentò di informarlo visto che l'uomo prese a russare ancora più forte, quasi a voler farle capire che non aveva la minima intenzione di svegliarsi.
Ma Emma non aveva la minima intenzione di mollare, perciò afferrò rapida il bigliettino di David, lo accartocciò appallottolandolo nella sua mano destra e glielo lanciò dritto in faccia, controllando dallo specchietto di beccarlo per bene. Il tiro andò a segno, Jones sussultò ma non si svegliò, si grattò appena il naso e tornò a ronfare. Nessuno dei due voleva darla vinta all'altro, a quanto pareva. La giovane Swan individuò il numero civico che cercava, i fari del suo maggiolino scoprirono un vialetto con un piccolo giardino ben curato e un parcheggio per l'auto vuoto - la macchina di Jones era ancora ferma al Rabbit Hole, dopotutto.
Imboccò, accelerando debolmente prima di frenare di colpo. Fu tirata indietro dalla cinta, le mani ben ancorate sul volante, ma la stessa cosa non si poteva dire di Jones che rotolò rovinosamente sul tappetino. «Ma che diavolo-», esclamò, la voce impastata dall'alcol o dal sonno, oppure da tutte e due.
Emma voltò appena la schiena e lo guardò divertita, più che divertita, avrebbe osato dire appagata «Siamo arrivati», ripeté con un sorrisetto e un'aria da sufficienza, indicando con le dita della mano la dimora dell'uomo. Questo la guardò, una volta essersi tirato su con le braccia, confuso; strizzò appena gli occhi e si passò una mano su di essi per essere sicuro di non avere un'allucinazione. Ma quanto aveva bevuto? L'ultimo ricordo che aveva di quella donna, di quella folle donna, era il pugno in faccia che gli aveva dato nel locale. E ora lo aveva accompagnato, dove? Guardò fuori dal finestrino e notò di trovarsi nel vialetto di casa sua. Sì, aveva decisamente perso qualche pezzo per strada. «Non ho tutta la notte», sbottò di punto in bianco lei, «ti sbrighi a scendere o hai bisogno di una mano?»
Killian imprecò sottovoce mentre si sedeva sul sedile posteriore ed apriva lo sportello, mosse appena la mano in sua direzione, un invito a lasciar perdere, di non aver voglia (e la forza) di continuare quella stupida discussione e scese dall'auto. Emma mise in moto non appena ebbe richiuso lo sportello, ma aspettò ancora qualche istante prima di partire. Non perdeva di vista Jones neanche per un istante, lo osservava senza sbattere ciglia mentre inciampava sui suoi stessi piedi e barcollava verso la porta d'ingresso. Inciampò di nuovo e cadde subito sul primo scalino della veranda. Emma sbuffò alzando gli occhi al cielo, spense la macchina, tolse cinta e chiave, afferrò la sua borsa e scese anche lei, raggiungendolo in pochi passi. Gli fece passare il braccio destro intorno alle sue spalle, lo afferrò per la vita e lo tirò su, non senza poca fatica considerando la differenza delle loro stazze.
«Non riesco a credere che io lo stia davvero facendo», mormorò a bassa voce, parlottando tra sé, mentre saliva trascinandosi dietro l'uomo per un gradino alla volta. Lui le mugugnò qualcosa nelle orecchie, qualcosa di incomprensibile e che non riuscì neanche a capire, per tutta risposta. La puzza di alcol le arrivò alle narici, strinse i denti e storse il naso, più scocciata di quanto non fosse solo un minuto prima. Sentì le dita di Killian aggrapparsi al colletto della sua giacca di pelle blu scura poco prima di arrivare davanti la porta d'ingresso.
Emma individuò subito il vaso di cui le aveva parlato David, ma non si arrischiò a mollare Jones così da potersi chinare e trovare la chiave di scorta, terrorizzata che potesse cadere e trascinarsi lei dietro, aggrappato com'era. Così gli aprì la giacca e cominciò a cercare la tasca giusta, cercando di ignorare il sorrisetto soddisfatto che si era appena disegnato sul volto dell'uomo. Da ubriaco le sembrava ancora più irritante. Trovò la chiave e la infilò nella serratura, girò due volte e riuscì finalmente ad aprire.
Non fece in tempo a mettere un solo piede oltre la porta che qualcosa le saltò addosso, facendole scappare un urlo per la sorpresa. La cosa parve allontanarsi, andar via, Emma entrò in casa e subito ascoltò i passetti veloci di un quattro zampe di media taglia. Quattro zampe che le fu di nuovo addosso nel giro di un secondo.
Jones si allontanò dalla sua presa e con fare sicuro allungò la mano verso la parete vicina, così da accendere le luci dell'intero soggiorno. «Buono Pongo, buono», mormorò rivolto al cane, un bellissimo esemplare di dalmata che non smetteva più di scodinzolargli intorno e poggiare le zampe anteriori sulle sue gambe. Emma, dopo aver richiuso la porta alle sue spalle, pensò che lo avrebbe fatto barcollare e cadere nel giro di poco, mentre guardava quella scena. E come se avesse captato i suoi pensieri, il cane, Pongo, si fermò dal fare le feste al padrone e girò la testa verso di lei, guardandola con sospetto e avvicinandosi per annusarla. «Lei è un'amica, bello», affermò dopo Jones, guadagnandosi un'occhiataccia, che però non notò, da parte della bionda.
Emma lo lasciò andare, lo osservò con le mani nelle tasche posteriori dei jeans, sperava di vederlo camminare con più equilibrio, quel tanto che bastava per arrivare alla sua camera almeno, ma pochi passi dopo lo vide inciampare sui suoi stessi piedi e, quasi meccanicamente, corse ad aiutarlo.
«Non ce la fai proprio a lasciarmi, eh?» Rise lui mentre tornava ad aggrapparsi a lei come poco prima. Emma alzò gli occhi al cielo, combattendo l'istinto di lasciarlo lì a cavarsela da solo. Ma perché si trovava ancora lì e perché lo stava aiutando, poi? Il dottor Nolan le aveva chiesto - o era meglio dire imposto? - di riportarlo a casa e lei lo aveva fatto, il suo compito finiva lì. Però lo guardava e non riusciva ad andarsene come se niente fosse: poteva anche essere un coglione, in quel momento aveva bisogno di aiuto e lei era l'unica nei paraggi. Lo vide portarsi la mano libera sulla bocca e cominciò ad andare in panico: un conto era aiutarlo a raggiungere il suo letto, un altro era ripulire il suo vomito e, no, non aveva la minima intenzione di farlo.
«No, no, no, no. Ti porto in bagno, trattieni. Resisti. Resisti», cominciò a dire a raffica mentre lo trascinava lungo il corridoio. Sperava ardentemente che il bagno non fosse al piano di sopra, non avrebbe avuto il tempo o la forza di farlo salire altre scale. Aprì una porta a caso - delle quattro che si trovò davanti - che si rivelò essere solamente uno studio, a giudicare dalla grande libreria e dalla disordinata scrivania che riuscì a intravedere in quella frazione di secondo. Non si scoraggiò e aprì quella subito alla sua destra che, per sua fortuna, si rivelò quella esatta.
Lo lasciò andare e gli diede le spalle mentre l'uomo si inginocchiava ai piedi del water. Sospirò tra sé dopo avergli acceso la luce, ripetendosi che doveva trattarsi sicuramente di un incubo perché mai in tutta la sua vita si era ritrovata in una situazione del genere. E forse proprio per questo accettò il fatto che fosse tutto vero, neanche nella sua più fervida immaginazione poteva creare una catena di eventi così angosciante per lei.
«Hai finito?» Gli domandò quando non sentì più il minimo suono, dopo essersi tolta le mani dalle orecchie; poteva benissimo essersi addormentato sulla ceramica per quanto poteva saperne. Anzi, no, perché avrebbe cominciato a russare e l'intero quartiere lo avrebbe sentito. E non riusciva proprio a girarsi per controllare lei stessa perché il vomito la schifava. Tuttavia, quando non arrivò nessuna risposta, girò lievemente la testa verso destra, il poco che le permetteva di lanciargli un'occhiata con la coda dell'occhio. Riuscì a vederlo, ancora seduto sulle sue ginocchia, appoggiato al water col braccio destro.
«Non lo so», borbottò lui alle sue spalle, respirando piano. Ottimo, davvero, davvero ottimo. Ma non poteva semplicemente lasciarlo lì, seduto sul pavimento, a cavarsela da solo? Doveva per forza sentire quel dannatissimo senso di colpa opprimerla nel petto? E perché quella vocina nella sua testa che le intimava di fare la cosa giusta non poteva starsene zitta e farsi gli affaricci suoi?
«Andiamo, ti metto a let-», fece per voltarsi ma Jones fu più veloce di lei e tornò a piegarsi ancora una volta sul water. La bionda cominciò a sentire lo stomaco sottosopra e si portò istintivamente una mano alla bocca, stanca, stremata e schifata. «Fottiti, Jones!» Imprecò tra sé mentre si allontanava dal bagno e prendeva a camminare per il lungo corridoio, cercando di passare il tempo e non pensare a quello che aveva appena visto. Maledetto, stupido Jones. «Dovevi proprio bere così tanto, eh?» Gli urlò ad un certo punto, le mani sui fianchi, la testa bassa. Lui non rispose e lei non aggiunse altro. Sentì dei movimenti, ad un tratto, ed alzò la testa verso il bagno appena in tempo per vederlo in piedi, una mano sulla porta e l'altra sulla parete, strascinava i piedi e la guardava imbarazzato. «Tutto bene?» Gli domandò, tanto per accertarsi di non correre altri pericoli. Lui annuì silenziosamente e lei sospirò sollevata prima di avvicinarsi così che lui potesse appoggiarsi nuovamente a lei. «Ti porto a letto e non fare battute», sibilò non appena l'uomo fece per aprire bocca.
Piano piano lo accompagnò fino in camera, lui riuscì ad indicarle la porta giusta. Emma riusciva a percepire la presenza di Pongo, il dalmata, subito alle sue spalle; l'aveva seguita, anzi li aveva seguiti, per tutto il tempo, restandosene comunque buono e a qualche manciata di passi di distanza a limitarsi a scodinzolare. Il suo padrone gli aveva intimato di fare il bravo e lui aveva ubbidito subito, la bionda ne era molto sorpresa, più che altro perché non aveva mai avuto a che fare con un animale domestico in tutta la sua vita.
Jones si sedette subito sulle coperte, occupando il lato destro del letto matrimoniale situato nel centro della stanza; Emma non accese nessuna luce perciò non riuscì a distinguere bene le altre cose che la componevano, anche se le interessavano ben poco, non vedeva l'ora di andarsene a dirla tutta. Killian si levò la scarpa sinistra col piede destro, scalciandola via, ripeté lo stesso gesto anche con la scarpa destra. Tirò giù le coperte e fece per infilarvisi sotto, ma Emma lo fermò con un «Aspetta!», gli afferrò la giacca che ancora teneva addosso e lasciò che scivolasse lungo le sue braccia. Ignorò il sorrisetto che gli si dipinse sul volto e alzò gli occhi al cielo capendo al volo la battuta volgare che riuscì, però, a trattenere.
Si rese conto solo in quel momento di aver lasciato la sua borsa nel salotto, chissà quando. Tornò indietro, mentre l'uomo si stendeva finalmente nelle lenzuola pulite a pancia in giù, posò la sua giacca nell'attaccapanni vicino la porta d'ingresso e recuperò la sua borsa, cominciando a mettere tutto all'aria alla ricerca delle pasticche che portava sempre con sé in caso di emergenza. Non appena le trovò ne cacciò fuori una e, con una strana sicurezza, si diresse in cucina a recuperare un bicchiere. Lo riempì d'acqua e tornò in camera di Killian Jones, che aprì leggermente l'occhio sinistro - la faccia completamente schiacciata sul cuscino - quando la sentì arrivare. Emma posò tutto sul suo comodino e sospirò, finalmente quell'incubo era finito.
Fece per andarsene, ma Jones le afferrò di scatto il polso destro. «Dove vai?» Domandò, la voce impastata, l'occhio che faceva fatica a restare aperto, con la palpebra che sbatteva rapida. Emma lo guardò stranita, guardò la sua mano sinistra intorno al suo polso per qualche secondo, incapace di formulare qualsiasi parola. L'uomo era lì disteso, ancora ubriaco e mezzo addormentato, eppure la sua presa riusciva ad essere davvero forte, pur senza stringerla troppo per farle male.
«Vado a casa», riuscì, alla fine, a dire, aggrottando appena la fronte pensierosa. Cosa c'era di sbagliato in quelle parole? Cos'altro doveva fare, arrivata a quel punto? Non era più di nessun aiuto, ora Jones non doveva fare altro che farsi una bella dormita, nient'altro.
«Emma...», cominciò a dire l'altro, incerto, lasciando che il nome della donna andasse perso in un profondo respiro. Le lasciò andare debolmente il polso, il sonno si stava via via impadronendo di lui e la sua mano scivolò via da quella della bionda senza che potesse rendersene conto. Emma restava in attesa, aspettando che le parlasse, che le spiegasse perché stesse continuando a trattenerla. Voleva che restasse lì per tutta la notte per vegliarlo? In quel caso poteva scordarselo, non aveva voglia di restare a vegliare quello che, a conti fatti, era un completo sconosciuto che si era ridotto in quel modo di sua spontanea volontà. «Mi... Dispfiave», mugugnò, la bocca contro il cuscino.
«Cosa?» Domandò in modo spontaneo la donna, che davvero non aveva in alcun modo capito una sola parola di quello che le aveva detto Jones. Una parte di lei si chiese se l'uomo stesse davvero cercando di dirle qualcosa, o se stesse solamente pronunciando parole a caso, in preda ai fumi dell'alcol e colto dal sonno. In realtà poteva benissimo essere così, ma decise comunque di rimanere in attesa per qualche altro secondo.
«Mi-dis-pia-ce», ripeté il moro, alzando di poco la testa dal cuscino e scandendo bene ogni sillaba, sperando che Emma, quella seconda volta, lo capisse. Lei, dal canto suo, aveva capito perfettamente e proprio per questo non riuscì ad affermare nulla, non una parola di senso compiuto. Gli dispiaceva, per cosa? Per il disturbo, per come si era comportato quella sera, per essersi ubriacato o per come l'aveva trattata in libreria? Restò in silenzio, cercando qualcosa da dire, e Killian intuì, in quel silenzio, un'esortazione a spiegarsi meglio. «Solitamente non mi comporto così», mormorò, prima di crollare nuovamente con la testa sul cuscino. Si era spiegato, certo, ma non per questo Emma aveva la situazione ben chiara in testa.
«Non... Non preoccuparti?» Affermò incerta, guardandolo pensierosa. Le parole dell'uomo potevano riferirsi a tante cose, ma si rese conto che non sarebbero arrivate ulteriori spiegazioni: Killian Jones era ormai crollato tra le braccia di Morfeo e adesso dormiva pesantemente. Si domandò, tra le altre cose, se fossero scuse sentite o se parlasse solamente attraverso l'alcol. Quei bicchieri di troppo lo avevano reso più sincero? O stava veramente sparando parole a caso, senza rendersene conto?
Emma si disse che fosse inutile continuare ad interrogarsi a riguardo, alla fine neanche le importava così tanto saperlo. Uscì dalla camera senza premurarsi di far poco rumore, certa che il moro non sarebbe stato svegliato neanche da un'esplosione nucleare. Afferrò la sua borsa, lasciata nell'ingresso, Pongo la osservava curioso mentre lei riponeva dentro tutto il contenuto poggiato di fretta, poco prima, sopra al primo mobile che aveva trovato.
Aprì la porta, pronta ad andarsene, ma si sentì, nuovamente, chiamare. «Swan?» Sobbalzò sorpresa, ma rimase ferma dove stava, convinta che Jones stesse solamente parlando tra il sonno e che non la stesse effettivamente chiamando. Aspettò, nuovamente, tanto per esserne certa e non avere pesi sulla coscienza. Un secondo, due secondi, tre secondi, cinque, otto, undici. Poteva andarsene, pensò. «Eri maledettamente bella, stasera». Silenzio. Emma non fiatò. Pongo se ne tornò nella sua cuccia. Killian, dopo pochi istanti, russò. Emma tornò a casa.

Elsa era passata in libreria, verso le undici di mattina, a salutarla e a portarle una fetta di crostata d'albicocca. Emma rimase sorpresa da quel gesto: alla fine era stata lei a rovinare la loro serata immischiandosi in una situazione che non la riguardava minimamente, stava a lei cercare la donna per scusarsi e rimediare in qualche modo. Ma evidentemente quello era il modo che Elsa aveva per farle sapere che andava tutto bene, che non ce l'aveva con lei e che, incidente con Jones a parte, si era divertita. Emma mangiò la crostata lodando le doti culinarie di quella sua nuova e gentile amica, decidendo di non rivelare che a lei l'albicocca faceva in realtà abbastanza ribrezzo. Magari più avanti ci avrebbero riso sopra entrambe, davanti a un bel dolce al cioccolato, ma per il momento era preferibile non darle quell'informazione così da non rovinare tutto.
Elsa poi la salutò, dovendo ritornare a lavoro. Emma si ritrovò di nuovo sola, Belle ormai aveva piena fiducia nei suoi confronti e non passava più a controllarla o ad aiutarla, anche perché il matrimonio era ormai alle porte e lei era sempre più impegnata. Ad Emma mancavano, un po', le incursione di Belle nel negozio, in quanto, perlomeno, aveva la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno: gli affari della libreria non andavano poi tanto male, ma capitavano, ogni tanto, interi pomeriggi passati senza il minimo accenno di un cliente e, quindi, in perfetta solitudine. Gli abitanti della cittadina, tra l'altro, non le chiedevano quasi mai una mano per scegliere i libri, andavano dritti alla meta e si presentavano da lei, al bancone, già con i soldi in mano. Non c'era modo di scambiare troppe parole, non c'era modo di fare nulla. La donna odiava davvero restare tutta la giornata nello stesso posto, senza concludere niente, ma era comunque un buon lavoro, aveva un tetto sopra la testa e, almeno per il momento, la cosa le bastava.
Almeno stava scoprendo di avere una passione per i romanzi gialli. In quelle poche settimane di lavoro aveva già concluso due libri da 429 e 351 pagine, e ora si apprestava a finirne un terzo. Il caso era interessante, il protagonista stava quasi per arrivare alla soluzione, ma Emma proprio non riusciva a concentrarsi, la mente da tutt'altra parte. Da quando aveva visto Elsa, non riusciva a non pensare alla serata precedente, non riusciva a togliersi dalla testa Jones e il modo in cui lo aveva lasciato.
Pensava di sapere che razza di uomo fosse, ovvero uno che non perdeva l'occasione di provarci con qualsiasi individuo di sesso femminile, consapevole di essere (oggettivamente parlando, neanche Emma poteva in alcun modo negarlo) attraente e forse abituato ad avere costantemente donne che cadevano ai suoi piedi. Emma odiava questo tipo d'uomo. Eppure le sue scuse continuano a risuonarle nel cervello, seguite dalle parole “solitamente non mi comporto così”. Faticava a crederci, ad essere onesti, ma qualcosa, dentro di lei, le diceva che Jones, in quel momento, fosse sincero e, in qualche modo, lucido, e difficilmente quel suo super potere di riconoscere sempre le verità dalle menzogne faceva cilecca. In più pensava al dottor Nolan, che sembrava senz'altro una brava persona che teneva a Jones, e una brava persona non perdeva il proprio tempo con cattivi soggetti, no? Perciò Emma si domandava cosa avesse spinto un brav'uomo a distruggersi in quel modo.
Una parte di lei si sentiva in colpa ad averlo lasciato, la sera prima, ma un'altra le ribadiva che non doveva esserlo in alcun modo. Con ogni probabilità, Jones aveva dormito fino a tarda mattinata, svegliandosi di sicuro con un forte mal di testa, questo era tutto. Forse doveva controllare che stesse bene? No, per quale motivo avrebbe dovuto farlo? Non era una sua parente, non era sua amica. Eppure continuava a sentirsi tremendamente in colpa e cominciava ad odiare quella sensazione.
Nessuno aveva intenzione di mettere piede in libreria, così la Swan decise di chiudere con un'ora e mezza d'anticipo, dicendosi che avrebbe fatto uno straordinario il giorno seguente. Entrò nel suo maggiolino giallo, posò entrambe le mani sul volante e guardò fisso oltre il vetro, sentendosi stupida. Stava veramente andando a casa di Jones per vedere se aveva bisogno di qualcosa? Come minimo le avrebbe rifilato una battuta a sfondo sessuale, tanto per non smentirsi, e si sarebbe guadagnato un altro pugno in faccia. Sospirò, infilò la chiave e mise in moto. Stupida, stupida, stupida. Ripercorse la stessa strada fatta neanche 24 ore prima, passò davanti al Rabbit Hole, poi all'ospedale e infine si fermò allo stesso semaforo rosso. Stupida, stupida, stupida. Girò a destra all'incrocio e imboccò la via di casa Jones. Cosa diamine stava facendo? E, soprattutto, perché? Stupida. Il vialetto era vuoto, non c'era nessuna macchina e questo le faceva pensare che non fosse minimamente uscito di casa per tutto il giorno, lasciando la vettura ancora davanti al locale.
Emma parcheggiò al suo posto e scese dalla macchina dandosi, per l'ultima volta, della stupida. Continuando a non sapere per quale motivo si trovasse lì, bussò un paio di volte alla porta, prima di decidersi a suonare il campanello. Nessuno le rispose. Suonò ancora ma la situazione non cambiò, non percepì il minimo rumore dall'altra parte della parete. Nessuno era in casa, quindi, e lei aveva fatto tanta strada per niente, ma soprattutto aveva avuto tanti sensi di colpa per niente, visto che, a quanto pareva, Jones stava più che bene per andarsene in giro. In qualche modo si sentì sollevata, non era più costretta a pensarci.
Sulla via del ritorno a casa, però, incrociò una faccia conosciuta. Il dottor Nolan camminava lungo il marciapiede alla sua sinistra, carico di buste della spesa. Emma cominciò ad accostare, prima di suonare il clacson un paio di volte per attirare la sua attenzione. Questi si voltò e lei gli si fermò davanti, rivolgendogli un sorriso incerto. «Salve, dottor Nolan», lo salutò mente il biondo, per tutta risposta, strizzava appena gli occhi e aggrottava la fronte, come se stesse cercando di capire dove l'avesse già vista. Alla fine la sua espressione si illuminò, mettendola finalmente a fuoco.
«Oh... oh!, ma certo, sì, salve, ehm, miss...» «Swan, Emma», si presentò lei, il gomito poggiato sulla portiera, dopo aver abbassato completamente il finestrino così da poter parlare con l'uomo. Si era appena resa conto di non essersi neanche presentata la sera prima, ma d'altronde entrambi andavano piuttosto di fretta: lei non vedeva l'ora di sbarazzarsi di Jones e lui doveva tornare dai suoi pazienti. «Vuole... vuole un passaggio?» Domandò incerta, non sapendo bene se il dottore abitasse nelle vicinanze così da potersi permettere di trascinare tante buste, a piedi, fino a casa, o se stesse solamente andando verso la propria auto, parcheggiata da qualche parte. Le sembrava, comunque, opportuno chiederglielo, soprattutto dopo averlo fermato per salutarlo. Non sapeva neanche lei perché lo avesse fatto, tra l'altro.
«Oh», esclamò il dottor Nolan, sorpreso da quella domanda, prima di aprirsi in un radioso sorriso, «oh, magari, te ne sarei eternamente grato!» Disse infine, facendo ridacchiare la bionda, che gli indicò di salire a bordo del suo maggiolino.
«Dove abita?» Domandò, una volta che fu salito. A guardarlo meglio, appariva piuttosto provato e accaldato; Emma era piuttosto pratica di quella zona e sapeva che il supermercato più vicino distava più o meno un chilometro, in più il caldo sole di maggio picchiava piuttosto forte quel giorno e il biondo, così carico di buste, non era neanche riuscito a togliersi la giacca che, per quanto leggera fosse, doveva infastidirlo molto. Emma si premurò di accendere l'aria condizionata, tenendola comunque bassa per non fargli venire un colpo.
«Ti prego, dammi del tu. Chiamami David», affermò mostrandosi divertito da tutte quelle formalità. In effetti dovevano avere la stessa età, anno più o anno meno, tante cerimonie apparivano piuttosto sceme, pensò la bionda. David le indicò la strada da percorrere come se non fosse del luogo, ignorando che Emma aveva trascorso in quel posto tutta la sua infanzia e che, probabilmente, quelle strade erano più note a lei che a lui. «Allora, sei in città da poco, vero?» Le domandò infine, voltandosi a guardarla con un sorriso che, ne era certa, non aveva mai abbandonato la sua faccia.
«Qualche settimana», rispose lei, volgendo appena appena la testa verso destra, in modo da guardarlo velocemente, arricciando il naso. Non era la prima persona ad avergli fatto quella domanda: c'era stata Ruby la sera prima e poi la maggior parte dei clienti della libreria. Cominciava a chiedersi se qualcuno non le avesse attaccato un foglio con su scritto nuova arrivata dietro la schiena. Ma in quel caso se ne sarebbe accorta, forse. «Davvero, è una cosa così ovvia?» Si ritrovò a chiedere, senza staccare gli occhi dalla strada, piuttosto incuriosita dalla risposta. «Continuano tutti a chiedermelo: “Sei nuova in città?” “Non sei di queste parti, vero?” “Come ti trovi?” “Nuova arrivata, eh?” Sul serio, come fate a capirlo?» David, per tutta risposta, si mise a ridere. «Non devi prenderla sul personale, davvero. È una piccola cittadina, siamo tutti cresciuti insieme, ci conosciamo più o meno tutti di vista». Spiegò lui, senza smettere di mostrarsi divertito. Emma lo guardò sospettosa: quella era la risposta più gettonata alla sua domanda, ma continuava a ritenere impossible che tutti conoscessero tutti. «E poi, non prenderla male, ma si vede dalla tua espressione». Emma si voltò, questa volta, per guardarlo in faccia. «La mia espressione?» Ripeté incredula, spalancando leggermente la bocca con fare sciocco, non capendo seriamente il nesso che potesse esserci tra le due cose.
«È...», David parve prendersi un momento per pensare al termine corretto, forse per non offenderla o infastidirla, «diffidente», affermò alla fine. Emma non rispose, non poteva e non sapeva come ribattere. Era diffidente, era vero, lo era stata per tutta la sua vita, in special modo a Fort Kent. Quel posto non le riportava alla memoria bellissimi momenti, era ovvio che non potesse mostrarsi entusiasta di essere tornata. O appena arrivata, come pensavano i suoi abitanti. L'uomo notò i suoi occhi freddi e decise di alleggerire la situazione. «In realtà, questo è il ragionamento che fanno le persone normali. Io posso leggere nella mente, sai, ho questo super potere!» Emma si rilassò, concedendosi una piccola risata, scuotendo il capo scettica mentre svoltava a sinistra. «È la verità!» Rimbeccò David, fingendosi offeso. «Te lo dimostrerò: lavori nella libreria di Belle, vero?»
Emma frenò, ritrovandosi davanti ad un semaforo rosso scattato all'ultimo istante, prima di voltarsi verso l'altro. «Come diavolo fai a saperlo?!» Esclamò sconvolta, accettava di passare facilmente come nuova arrivata, ma quello era troppo, soprattutto quando lei non era mai stata un libro aperto, per nessuno, nemmeno per Neal.
«Te l'avevo detto, io. Sono un indovino!» Ribatté, mettendosi in una posa plastica da supereroe. Scoppiò poi a ridere. «Stesso discorso, città piccola, le voci corrono. Nuova arrivata, nuova libraia. E poi Killian mi ha parlato del vostro incontro». Emma aveva appena rimesso in moto l'auto, ma quasi non tornò a frenare di colpo dopo quella secchiata d'acqua gelida; David lo notò «Non mi ha detto poi molto, solo che eri “maledettamente bella”, parole sue», ancora quelle parole, pensò la bionda, «dalla tua reazione devo immaginare che non si sia comportato proprio a modo, ti chiedo scusa da parte sua. Killian è... una brava persona, davvero, solo che alle volte tende ad esagerare».
Emma non disse niente e prese a rimuginare su quelle parole. Era ferma nella decisione di non voler cambiare opinione su Killian Jones, ma d'altra parte era curiosa di vederlo con gli occhi di David perché sembrava una versione totalmente differente da quella che aveva conosciuto. «Ieri sera», cominciò a dire, mentre parcheggiava davanti casa Nolan, «mi hai detto che solitamente non si ubriaca in quel modo; prima sono passata a casa sua e non c'era nessuno. Non credi che sia...»
«No, non è tornato ad ubriacarsi, potrei metterci la mano sul fuoco», affermò, scurendosi un poco in volto, «probabilmente sarà andato al cimitero».

Fort Kent, Maine; Maggio 2011


Killian non riusciva nemmeno a ricordare come fosse la sua vita prima dell'arrivo di Milah; spesso cercava di pensare a come fosse, dieci anni prima, a cosa facesse, chi frequentasse, ma tutto appariva come sbiadito, nella sua mente, grigio, come se non avesse più la minima importanza. Gli sembrava di averla sempre avuta al suo fianco, in ogni ricordo, in ogni occasione importante, o anche brutta, lei era presente, non lo aveva mai abbandonato. Non era stato semplice entrare nelle sue grazie, soprattutto per colpa del suo vecchio carattere libertino e della loro differenza d'età - quasi 7 anni -, ma alla fine era riuscito a conquistarla e da allora non si erano più lasciati. La osservava con la coda dell'occhio e un sorriso radioso, mentre passava un piccolo cono gelato a un Henry in trepidante attesa. Cosa aveva fatto per essere così fortunato? Ordinarono altri due gelati per loro, Killian pagò e, dopo aver preso il bimbo per mano, uscirono dalla gelateria.
Non si erano ancora veramente abituati a quella nuova vita a Fort Kent, sicuramente Henry con i suoi quattro anni e mezzo d'età l'aveva presa meglio di loro, ma infondo erano arrivati in città solamente da qualche mese. I primi tempi erano stati piuttosto frenetici, lui e Milah, per colpa dei rispettivi lavori, si vedevano poco e niente, Henry era costantemente con una babysitter e Killian si domandava se avessero fatto bene a trasferirsi. Ma ben presto, Milah decise di prendersi un anno sabbatico per il bene del bambino e questo parve funzionare.
«Henry, attento!» Esclamò ad un tratto il moro, chinandosi verso il bambino e tirando subito fuori un fazzoletto «Ti sta colando tutto il cioccolato», lo avvertì, cogliendo l'occasione per pulirgli anche la bocca, completamente sporca di gelato. Il bimbo rise e riprese a mangiare; Killian si alzò, riprendendo a camminare, consapevole che nel giro di pochi minuti avrebbe dovuto compiere di nuovo quell'operazione.
«Perché non andiamo a mangiare da Marco, stasera?» Propose Milah improvvisamente, voltandosi a guardarlo con un sorriso, una volta che ebbe mangiato l'ultimo pezzo del suo cono. Marco era un vecchio ristoratore conosciuto da tutti in città; avevano mangiato da lui qualche volta, aveva sempre offerto loro il dolce e raccontato qualche vecchia storiella per divertire Henry. Era davvero un brav'uomo.
«Non dovevamo ordinare cibo d'asporto e passare tutta la serata sul divano?» Domandò retoricamente l'altro, ricordandole quello che lei stessa aveva suggerito solo poche ore prima, mentre leggeva a Henry un libro che parlava di una buffa scimmietta il cui unico scopo della vita pareva quello di mangiare banane.
«Sì, beh... cambio di programma», alzò le spalle e arricciò il naso, divertita. Killian le mise una mano dietro la schiena e la avvicinò a sé, stampandole quindi un bacio sulla guancia. Prese poi il cono - privato completamente del suo gelato - di Henry, e la manina del piccolo con l'altra mano, anche se un secondo dopo fu costretto a prenderlo in braccio, visto che aveva cominciato a fare i capricci per un motivo o per un altro.
Proprio in quel momento una donna, alle loro spalle, gridò; non fece in tempo a voltarsi per controllare che fosse tutto okay, che fu urtato violentemente da qualcuno, non riuscì neanche a vederlo in faccia per quanto corresse veloce. Una piccola folla aveva circondato la giovane donna che aveva urlato poco prima, riuscì solamente a catturare le parole “furto” e “borsa”, prima di girarsi confuso verso Milah. Ebbe appena il tempo di lanciarle un'ultima occhiata, che quella partì all'inseguimento del ladro senza pensarci sopra due volte. Killian le urlò contro, per fermarla, ma lei non lo ascoltò e girò l'angolo prima ancora che potesse accorgersene.
Killian fece per andarle dietro, Henry aggrappato alla sua giacca sembrava non capire nulla di quello che stava accadendo, non che il padre stesse riuscendo a tenere il filo degli ultimi avvenimenti meglio di lui. Il tempo di fare un passo, che il suono, il rumore, di uno sparo gli gelò il sangue.
Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, Henry scoppiò a piangere quasi nello stesso momento.

Fort Kent, Maine; Maggio 2016


Aveva salutato David da poco e adesso si ritrovava a gironzolare intorno al cimitero. Non sapeva neanche lei perché si trovava lì, anzi in realtà la sua intenzione era quella di tornare a casa. Si era distratta un attimo, poi, davanti a un semaforo rosso che pareva infinito, si era persa nei suoi pensieri e un secondo dopo si era ritrovata in quel posto. Il maggiolino giallo parcheggiato accanto a una Ford nera, vecchia di qualche anno, che proprio non riusciva a smettere di fissare, la mente da tutt'altra parte. Doveva scendere dall'auto e andarlo a cercare o doveva mettere in moto e tornarsene a casa come aveva programmato all'inizio? E poi, andarlo a cercare per dirgli cosa, esattamente?
Swan, hai completamente perso il cervello. Non erano assolutamente affari che la riguardavano in prima persona. Non era affar suo sapere cosa passasse per la testa di Jones, la sua storia non era affar suo, la sua vita non era affar suo. Killian Jones non era affar suo. E non voleva che lo diventasse, tra l'altro. Quindi afferrò furiosamente le chiavi, ma non le girò. Ispirò profondamente e rilasciò fuori l'aria qualche istante dopo.
Si odiava come non mai. Uscì ben presto dall'auto ed entrò nel cimitero. Il sole cominciava a tramontare e il posto pareva deserto, per questo non le fu difficile individuare una figura nera, in piedi davanti ad una lapide non troppo lontana da lei. Gli si avvicinò lentamente, fermandosi alle sue spalle. Cosa doveva fare? Consolarlo? Chiuse gli occhi per farsi coraggio prima di distruggere la distanza che li separava, posizionandosi al suo fianco, senza dire una parola. Killian Jones si accorse della sua presenza, volse leggermente lo sguardo nella sua direzione, poi lo riportò verso la tomba.
Emma lesse “Milah Jones, 1976 - 2011”. Si rese conto solo in quel momento di non aver chiesto a David la minima informazione sull'argomento; non sapeva neanche chi fosse quella Milah, una sorella? La sua compagna? A giudicare dall'età e dagli occhi vuoti di Jones, Emma scelse mentalmente la seconda opzione. Pensò al modo in cui si era ridotto la sera prima. Erano passati 5 anni ed ancora il solo pensiero lo portava a di struggersi completamente. Si sentì in colpa per averlo definito una persona disgustosa, solo qualche giorno prima. Pensiero che cancellò subito dalla sua mente. Era dispiaciuta per lui, ma la sua opinione non era mutata.
Nonostante tutto, restò lì, al suo fianco. Decise di non andare da nessuna parte, decise di non muoversi e decise di non parlare. Non c'era niente che potesse dire capace di farlo sentire meglio, non aveva bisogno sicuramente delle parole di una sconosciuta. Restarono lì per una buona mezz'ora, senza emettere un singolo fiato, senza guardarsi né toccarsi. Il sole, ormai, completamente tramontato li nascondeva dal resto del mondo.




Note dell'autrice:
Miss me? : )
... davvero, non so come scusarmi per questo tremendo ritardo! Ho avuto problemi con internet sul pc, cioè in realtà li ho ancora, infatti sto postando via cellulare. Mentirei se vi dicessi che il capitolo è pronto da mesi, in realtà a novembre/dicembre ho scritto pochissimo, colpa dell'ansia pre-quarta stagione di Sherlock (vi giuro che non ho pensato ad altro per un mese intero se non di più, non sto esagerando), poi il pc ha smesso di funzionare e non l'ho toccato per settimane (dal 25 dicembre) e solo qualche giorno fa mi sono rimessa a scrivere il capitolo (che era rimasto fermo a pagina 4, tipo). Well, storia lunga, l'importante è che stia riuscendo finalmente a postare! Ehm, per dire, ho dovuto ricopiare 11 pagine piene di word sulle note del telefono, un trauma!!
Btw, spero che abbiate apprezzato il capitolo, tanti momenti captain swan finalmente, con una piccola incursione di David e, sì, anche di Milah, ma è morta ormai, non preoccupiamocene più lol
Piccolo annuncio che non centra con la storia: mi farò perdonare per questi mesi di assenza con 2 one shot belle belle (spero almeno) che ho già iniziato a scrivere ma non so quanto posterò. Ovviamente sui captainswan! Ah, visto che ci sono mi faccio anche un po' di pubblicità, se qualcuno è interessato a Sherlock (seriamente, se ancora non lo guardate RIMEDIATE SUBITO) e/o alla Johnlock, nel weekend o al massimo lunedì posterò una one shot anche su di loro (e se vi va, ne ho altre due pubblicate, se volete farci un salto), perciò tenete d'occhio il mio profilo ;) e magari fatemi sapere che ve ne pare.
Ah, avete visto la nuova versione di Hook in questo nuovo universo parallelo? Aiuto.
Grazie a chiunque abbia letto fino a qui, un bacione :)


Ps. Perdonate gli errori di battitura, sono colpa del telefono. Correggerò tutto con calma non appena avrò un po' di tempo

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Capitolo 6
*** 4. L'amico di sempre ***


4. L'amico di sempre




Knock, knock, knock

Emma mugugnò qualcosa nel sonno, lievemente infastidita da quel rumore che aveva cominciato ad insidiarsi tra i suoi sogni, mentre volgeva la testa dall'altra parte.

Knock, knock, knock

Il rumore cominciava a risuonare più forte, seppur le appariva lo stesso abbastanza ovattato da non farle capire se fosse solamente l'ennesimo frutto della sua immaginazione o se stesse accadendo nella realtà. Il mal di testa provocato da un bicchierino di troppo prima di mettersi a letto, la sera prima, non l'aiutava decisamente a capire.

Knock, knock, knock

Era sveglia, adesso. Strinse forte gli occhi e arricciò il naso; era certa di aver messo la sveglia: alcolici o meno, la teneva impostata sempre sulla stessa ora da settimane e il fatto che non fosse ancora suonata la mandava su tutte le furie. Odiava essere svegliata prima del dovuto. Strinse forte il cuscino tra le mani, prima di sollevarlo così da potervi infilare la testa sotto, sperando di lasciare qualsiasi tipo di rumore fuori.

Knock, knock, knock, knock, knock

Questa volta quel continuo battere divenne più veloce e più violento. Emma lanciò via il cuscino, scocciata. Si tirò su nello stesso istante, i capelli biondi le ricaddero sul volto, se li scostò portandoli all'indietro senza aspettare troppo con un rapido gesto della mano. Sbatté un paio di volte le ciglia, afferrò il cellulare e osservò l'ora: erano le 6:47. Chi era il folle che si presentava a casa di una persona prima delle 7 di mattina? Pensò che dovesse trattarsi di un'emergenza e andò nel panico per qualche secondo. Realizzò presto, però, che davvero in pochi erano a conoscenza del suo indirizzo e che tutti loro avevano il suo numero, ergo se fosse successo davvero qualcosa di grave l'avrebbero senz'altra chiamata, prima di presentarsi a casa sua.

Doveva trattarsi di qualcuno il cui unico scopo era quello di farla irritare, decisamente.

«Un momento!» Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, prevenendo un'altra ondata di quell'odioso battere alla sua porta. Afferrò al volo la vestaglia nera abbandonata su una sedia e la indossò, escludendo qualsiasi possibilità di andare ad accogliere chiunque vestita soltanto con una canottiera e delle mutande. Passò a piedi nudi davanti lo specchio, si osservò al volo notando il mascara leggermente sbavato sotto l'occhio destro e i capelli scompigliati. Vi passò una mano sopra, cercando di sistemarli come poteva, spostandoli tutti sulla spalla sinistra – non che apparissero più ordinati. Arrivò davanti alla porta pronta ad aggredire con numerose parolacce chiunque l'avesse disturbata così di prima mattina, privandola addirittura della sua ultima ora di sonno. Le si mozzò il fiato, comunque, una volta aver sbirciato dallo spioncino; con il cuore in gola si affretto ad aprire. «August!»

L'uomo rimase ad osservarla per qualche istante, senza dire una parola né muovere un solo passo, con un sorrisetto divertito dipinto sul volto. I loro occhi correvano rapidi da una parte all'altra, si studiavano a vicenda quasi volessero individuare al primo colpo tutte le differenze che quell'anno e mezzo di lontananza aveva messo in piedi. Emma si disse di non averlo mai visto così abbronzato in tutta la sua vita: indossava una camicia rosso porpora, i primi due bottini lasciati aperti, infilata ordinatamente dentro un paio di jeans scuri; sopra l'immancabile giacca di pelle dalla quale non si separava mai, faceva parte del suo abbigliamento da quando era bambino, Emma molte volte pensava che se la sarebbe portata perfino sull'altare – se mai si fosse sposato, ovvio. I tratti del viso erano sempre gli stessi, gli occhi curiosi e arroganti che l'avevano osservata e messa in soggezione parecchie volte non la lasciavano andare neanche per un istante; poté giurare di intravedere delle piccole rughe sulla fronte, ma per il resto appariva più che rilassato e, soprattutto, felice. Aveva in mano un vassoio con due tazze di caffè da asporto, più una busta contenente probabilmente il resto della colazione nell'altra.

«Sorpresa!» Esclamò, infine, dopo un secondo di silenzio che appariva come un'eternità. Distese la bocca in un sorriso più grande, contento di rivederla dopo tutto quel tempo, e aprì le braccia invitandola a farsi stringere. La bionda non se lo fece ripetere due volte e, seppure ancora visibilmente scossa, mosse quei pochi passi che li separavano, mettendogli le braccia intorno al collo. Riuscì a catturare l'odore del solito dopobarba, mentre si rendeva conto della massa muscolosa che aveva messo su il suo amico. O forse era lei che non ricordava più come fosse la sensazione del suo corpo contro il suo, non sapeva dirlo. Lo lasciò andare subito, le mani sulle spalle, l'espressione ebete in pieno volto che non riusciva proprio ad abbandonarla. «Non te l'aspettavi, eh?» Mormorò lui, sempre più divertito.

«Quando sei tornato?» Domandò lei per tutta risposta, rendendosi improvvisamente conto di avere la bocca completamente spalancata oramai da vari secondi. Sicuramente il suo migliore amico era l'ultima persona che si aspettava di trovarsi davanti, e lui lo sapeva benissimo a giudicare dalle occhiate soddisfatte che le lanciava. Si fece da parte per lasciarlo entrare, chiuse poi la porta alle sue spalle e cominciò a correre da una parte all'altra del suo appartamento, recuperando cartacce sparse e bicchieri sporchi: l'ordine non era mai stato il suo forte.

«Ieri sera», rispose lui seguendola in cucina e poggiando la colazione da asporto sul tavolo che Emma aveva appena liberato dalle più svariate cianfrusaglie. «A mezzanotte passata ero in città, ho mandato giù qualche boccone e, nel frattempo, papà mi ha detto che ti avrei trovata qui», le lanciò uno sguardo eloquente, Emma si sentì colpita in pieno ed abbassò gli occhi. «Puoi immaginare il mio stupore», continuò quello, «sarei corso qui se non fosse stato tanto tardi, al diavolo la stanchezza per il viaggio! Volevo verificare con i miei occhi che fosse tutto vero», Emma lo ascoltava in silenzio, sentendosi sempre più colpevole e mormorando un leggero “Mh mh” mentre prendeva ad aprire la bustina e rivelando due brioche alla crema. Ne afferrò subito una. «Non mi hai detto di essere tornata a Fort Kent.»

«E tu non mi hai detto che saresti tornato a giorni», ribadì lei, cercando di rigirare la frittata neanche avessero di nuovo 12 anni. Si sedette su una sedia, invitando August ad imitarla e diede un morso alla brioche – mh, soffice e profumata. «Comunque contavo sul fatto di trovare un altro impiego e un'altra sistemazione prima del tuo ritorno, così dal non dover sprecare fiato in queste inutili chiacchiere.»

August scosse la testa afferrando la sua tazza di caffè fortunatamente ancora caldo «Non sei cambiata per niente in questo ultimo anno», commentò, nascondendosi poi dietro la sua colazione notando l'occhiata funesta che la donna gli aveva appena rivolto; capì così che l'ultima cosa che doveva fare era quella di nominare quell'ultimo anno e, soprattutto, la sua lontananza. «Allora», cominciò poi, grattandosi appena la testa, imbarazzato «la libreria French. Appena mio padre me lo ha detto stavo quasi per strozzarmi: Emma Swan in una libreria, non è una cosa che si sente tutti i giorni.»

Emma alzò gli occhi al cielo, prima di bere un sorso di caffè, più rilassata. «Nessuno di noi due lo avrebbe mai predetto, te lo concedo. Non è il mio ambiente: non faccio altro che leggere per passare il tempo e i clienti non riescono a fidarsi di me, non chiedono mai un consiglio e mi rivolgono a stento la parola. E' una noia mortale, per questo non vedo l'ora di andarmene.»

«Aspetta... tu... che leggi dei libri?» Esclamò August mostrandosi sorpreso, con occhi sgranati e una voce teatrale. Emma accartocciò la busta di carta del bar e gliela tirò addosso, ridacchiando e insultandolo teneramente.

*

August gli aveva parlato della California senza riprendere fiato neanche per un secondo, Emma lo aveva lasciato fare, il sorriso sulle labbra e la bocca occupata a masticare la sua brioche. L'amico l'aveva presa in giro per dei minuti interi quando, dando l'ennesimo morso, si era fatta cadere della crema addosso, sporcandosi tutta come una bambina di pochi anni. Era andata a farsi una doccia, dopo mangiato, e a prepararsi per il lavoro, nel mentre aveva dato le chiavi del maggiolino ad August così che lui potesse recuperare gli ultimi scatoloni che erano rimasti nel bagagliaio – erano passati così tanti giorni dal suo trasloco che non ricordava neanche cosa contenessero, forse scarpe.

Quando uscì dal bagno lo ritrovò a mettere un po' d'ordine in cucina, la bottiglia di tequila vuota sopra il tavolo, dove prima non c'era. Appena lo raggiunse, l'uomo si voltò a guardarla, ammonendola con un'occhiata. La bionda alzò gli occhi al cielo, recuperando la bottiglia per gettarla via. Aveva bevuto solamente due, o tre bicchieri, prima di andare a letto: era una delle sue serate no, non riusciva a dormire e tutto perché, tornando a casa dopo quello strambo momento in compagnia di Killian Jones, al cimitero, era passata davanti ad un negozio di abiti da sposa ed aveva pensato che il modello in vetrina fosse simile a quello che aveva comprato lei, neanche un anno prima. Aveva pensato a Neal, a quella che poteva essere la sua vita se si fossero sposati, a quello che invece avevano perso. Pensò a tutte queste cose, mentre si versava un bicchiere, e poi un altro. Non era un'abitudine che aveva, era raro che si attaccasse alla bottiglia, non aveva un problema e August non doveva preoccuparsi.

Era quello che provò a fargli capire, assottigliando lo sguardo per invitarlo a non proseguire il discorso, se non volevano finire poi con il litigare. August ricevette il messaggio, si asciugò le mani bagnate con un pezzo di carta e la seguì al piano di sotto. Non aveva dei programmi per la giornata, era tornato a Fort Kent per un periodo di vacanza e aveva intenzione di godersi quei giorni per il meglio, quella mattinata però voleva dedicarla ad Emma: non essendosi visti per più di un anno pensava avessero molte cose da dirsi e troppo tempo da recuperare. E poi era curioso di vederla alle prese con una libreria, sapendo che non era affatto il suo ambiente.

E infatti non aveva perso tempo e aveva cominciato a lanciarle sorrisetti divertiti ogni volta che entrava un cliente e a ricevere sguardi di fuoco come risposta; alla fine aveva afferrato un libro ed era andato a sedersi su una poltroncina lontana dalla cassa, prima che la donna potesse strangolarlo. E poi non è che potesse fare molto, avrebbe voluto essere utile ma Emma non sapeva cosa fargli fare, così fu costretto a rintanarsi in quel suo angolino per leggere. Fu in tarda mattinata che le cose cominciarono a farsi interessanti.

La porta della libreria si aprì, August alzò lo sguardo dal suo libro – Dan Brown, ed Emma fece lo stesso, volgendo gli occhi verso la porta per poi rimanere di sasso vedendo entrare Killian Jones. Indossava dei pantaloni neri, una camicia bianca e una giacca di pelle sopra, si domandò come facesse a non sentire caldo. Aveva un paio di Ray Ban a coprirgli gli occhi, che si tolse subito ponendoseli tra i capelli. Nella mano destra, invece, aveva una tazza di caffè di plastica, tazza che un secondo dopo era poggiata sul bancone dietro cui si trovava Emma.

«Buongiorno, Swan», la salutò con un sorriso sornione dipinto sulla faccia. La bionda continuava, invece, a guardarlo interdetta, non riuscendo ad immaginare che cosa volesse. Perché era chiaro che non si fosse ritrovato lì per caso, no? Era arrivato addirittura con del caffè, dubitava che la sua intenzione principale fosse quella di comprare un libro.

«Jones», replicò lei, entrambe le mani sul banco, gli occhi fissi in quelli dell'uomo. Era completamente l'opposto del giorno precedente: appariva sereno, rilassato, tranquillo, quasi sulla cima del mondo, mentre neanche 24 ore prima era scuro, silenzioso e triste. Pensò che aveva incontrato quell'uomo quattro volte e si era trovata davanti quattro sfumature diverse di Killian Jones. Non sapeva dire quale fosse quella vera, forse tutte e quattro, forse neanche una. «Posso esserti utile?»

«Passavo di qua e ho pensato di portarti un caffè», fece quello, subito, mettendo su un'aria innocente; August, alle loro spalle, cercava di capire cosa stesse succedendo, chi fosse quell'uomo e cosa si fosse perso mentre era via. Emma arricciò le labbra, per tutta risposta, e alzò le sopracciglia come a dirgli un sarcastico “davvero? Non lo avevo notato!”, alla fine però cedette, prese la tazza, tolse il coperchio e ne bevve un sorso. «E poi, avevo intenzione di chiederti di uscire: questa sera, a cena, tu ed io.»

Ad Emma quasi non andò la bevanda calda per traverso, cominciò a tossicchiare e a darsi piccoli colpetti sul petto con la mano libera, prima di rivolgergli un'occhiata disgustata, sapeva che non avrebbe dovuto abbassare la guardia e fidarsi. «Cosa ti fa presumere che io abbia voglia di uscire con te?» Gli chiese forse con troppo impeto. Un'espressione realmente stupita fece breccia sul volto di Killian Jones, la bionda non poteva credere che quell'uomo si fosse costruito dei castelli in aria, tutto per una singola buona azione che aveva fatto. «Stammi a sentire, Jones», cominciò a dire con foga, guardandolo dritto negli occhi con fermezza, «l'episodio di ieri non significa niente, non ho cambiato idea su di te. Cercavo soltanto di essere gentile, nient'altro», concluse abbassando leggermente i toni ricordando il giorno prima. Lo aveva raggiunto al cimitero ed era rimasta al suo fianco per non farlo sentire solo, non si erano rivolti parola ed erano restati fermi e immobili per parecchio tempo, fino a quando l'uomo non si era girato per dirle qualcosa e lei aveva voltato la schiena ed era tornata a casa.

Non aveva significato niente, però. Quell'uomo continuava a non andarle a genio e il modo in cui si era presentato da lei, quella mattina, sicuro di poterle strappare un appuntamento, altro non fece che confermarle l'idea che aveva di lui.

«Non potrai mai cambiare opinione su di me se non mi dai una possibilità», affermò lui, ferito forse, riuscì a non darlo comunque a vedere, magari per orgoglio o per non dargliela veramente vinta.

«Magari non sono interessata, né a te né a cambiare opinione», rincarò lei, incrociando le braccia al petto. Lanciò un'occhiata ad August, dietro le spalle di Jones, quello capì che era arrivato il momento di entrare in scena o quantomeno di far notare la sua presenza.

«Ti dà noie?» Esordì tranquillo, raggiungendo Emma dietro al bancone, le mani nelle tasche dei pantaloni e l'andatura lenta. Guardò per un secondo la bionda, divertito, poi si rivolse direttamente a Jones, rimasto visibilmente sorpreso della piega che stava prendendo quella situazione.

«E tu saresti?» Si ritrovò a chiedere come uno sciocco. Si domandò se in realtà non fosse il suo fidanzato o qualcosa del genere, gli era capitato di incontrare Emma solamente tre volte, erano stati tutti incontri rapidi e lei era sempre stata sola. Fredda, distaccata e sulle sue, ma sola. L'ipotesi che fosse già occupata non gli era mai balzata per la testa, e vedere quell'uomo, lì, al suo fianco, come un complice, lo fece rimanere di sasso. «E' il tuo ragazzo?»

«August Booth», rispose quello, con un sorrisetto ironico sulle labbra, «potrei esserlo.» Emma alzò gli occhi al cielo e gli diede un calcetto, nascosta dal bancone.

«Comunque», affermò, quindi, dopo aver guardato l'amico di sfuggita, «non sono affari tuoi, Jones». Killian serrò la mascella, la osservava dritto negli occhi per cercare di capire quanto di quella storia fosse vero, ma la bionda ricambiava quell'occhiata decisa, non volendo assolutamente dargliela vinta.

«Beh, puoi avere di meglio», sentenziò l'uomo, alla fine, voltandosi a guardare August, adesso, sprezzante e arrogante. L'uomo gli ridacchiò in faccia, facendo andare Jones su tutte le furie. Gli avrebbe volentieri tirato un pugno, proprio lì su quel naso ingombrante che si ritrovava, così da cancellargli quel sorrisetto infantile dal volto. Ma si trattenne, per Emma.

Assottigliò lo sguardo, per circa mezzo secondo, rivolse un'occhiataccia ad August, si voltò poi verso la bionda salutandola con un cenno del capo prima di girare i tacchi e uscire dalla libreria.

*

I signori Booth l'avevano invitata a cena, quella sera stessa, ma lei aveva gentilmente declinato l'invito con la scusa di non sentirsi troppo bene, promettendo ad entrambi che ci sarebbe stata senz'altro una seconda occasione. La verità era (anche August ne era a conoscenza) che si era sempre sentita a disagio, nella loro famiglia, non che non le volessero realmente bene o che non fossero brave persone, anzi, Emma li adorava, soprattutto Marco, però li guardava, vedeva quella famiglia che il suo migliore amico era riuscito a trovare nell'adozione, la famiglia che, invece, lei non era mai stata in grado di tenersi stretta.

Si era riscaldata, quindi, della pasta ai quattro formaggi al microonde e aveva cenato in silenzio, nel suo appartamento vuoto, da sola, in compagnia unicamente delle immagini di un reality che stava mandando la televisione. August l'aveva raggiunta, comunque, poco più tardi, senza un motivo preciso in apparenza. In realtà, poi, il motivo saltò fuori: Killian Jones. Emma si era chiesta per quanto tempo avrebbe girato intorno all'argomento, tastando il terreno, all'inizio, per poi partire con il terzo grado. Lo immaginava, se lo aspettava, era preparata.

«Hai intenzione di parlarmi dell'uomo di stamattina?» Le chiese, quindi, mentre si buttava a peso morto sul suo divano. Emma gli lanciò un'occhiataccia, prendendo a muoversi da una parte all'altra della cucina, recuperando i piatti sporchi così da poterli lavare.

«Quale uomo?» Fece lei, puntando a rimanere sul vago, almeno in partenza. Sapeva di non poter imbrogliare August in quel modo, ma la verità era che non c'era proprio niente da dire su Killian Jones, era un uomo come tanti – più o meno, non c'era nessuna storia da raccontare.

«Alto, moro, occhi azzurri che hanno cercato di spogliarti per tutto il tempo...» continuò l'altro, ridacchiando appena sotto i baffi, come se la cosa fosse incredibilmente divertente. «Non sapevo che la donna di ghiaccio avesse un ammiratore, avevi intenzione di dirmelo?»

«Non è un ammiratore», sospirò lei, storcendo appena il naso, «Killian Jones è solamente un uomo che vuole aggiungermi alla sua lista di conquiste. Non c'è altro, davvero», ora gli dava le spalle, impegnata com'era a bagnarsi le mani con l'acqua del rubinetto che scorreva, il sapone sulla spugnetta e lo sporco dei piatti che veniva lavato via.

«Killian Jones», August fece da eco, mostrandosi pensieroso, «quindi non c'è stato niente tra di voi?» Emma sospirò ancora, più sonoramente, per fargli capire di voler chiudere l'argomento. Certe volte il suo amico riusciva ad essere peggio di una vecchia pettegola, soprattutto quando l'argomento erano lei e le sue questioni di cuore. Non che ce ne fossero state troppe, comunque, nel corso degli anni. «Non sembra il tuo tipo, in ogni caso.»

«Mh mh», mugugnò Emma, non volendo assecondarlo in quella sua follia, annuendo anche appena con il capo. Jones non era il suo tipo, no, non che lei ne avesse realmente uno, ma in ogni caso non erano affari che riguardavano August, soprattutto quando a lei di quell'uomo non importava un fico secco.

«Comunque non ti farebbe male uscire con qualcuno», affermò l'uomo all'improvviso, facendola raggelare; fortunatamente continuava a dargli le spalle, così che non riuscisse a vedere la sua espressione scossa in pieno viso: cominciava a stancarsi di quell'argomento, non aveva la minima intenzione di vedere qualcuno da quando il suo promesso sposo l'aveva piantata – quasi – sull'altare «magari non con lui, se quello che dici è vero, non voglio che tu soffra.» Emma si ritrovò a sbattere i piatti nel lavandino con forza, senza volerlo e senza riuscire a controllarsi. Chiuse l'acqua e strinse i pugni, non si premurò di controllare se qualcosa si fosse scheggiato o rotto, poco le importava. Si morse la lingua e prese a fare dei respiri profondi, non voleva litigare col suo migliore amico, era troppo stanca per farlo. August, però, non riuscì a interpretare quell'atteggiamento improvviso, si alzò dal divano con fare incerto, resto lì in piedi non osando avvicinarsi, prendendo a guardarla spaesato. «Cosa?»

La bionda alzò la mano sinistra a fargli cenno che fosse tutto okay, scuotendo appena il capo «Niente, August. Lascia stare», gli rispose, riscuotendosi. Asciugò i pochi piatti in silenzio, sentendo gli occhi dell'altro addosso per tutto il tempo: stava cercando di capire cosa l'avesse scossa, Emma, dal canto suo, preferiva non dover affrontare la discussione. «Allora», fece poi, cominciando a trovare quel lungo silenzio piuttosto scomodo, «non mi hai ancora parlato delle tue, di conquiste? A quante ragazze californiane hai spezzato il cuore?» August, per tutta risposta, incrociò le braccia.

«A meno di quante tu possa pensare. Ma non provare a cambiare argomento, Emma. Ho detto qualcosa che ti ha dato fastidio, cosa c'è?» Provò ancora, ma lei alzò gli occhi al cielo e cominciò a camminare per la stanza, posando i piatti nella credenza e togliendo delle briciole invisibile dal tavolo, giusto per far qualcosa.

«Non c'è niente», mormorò piano, «lascia stare.»

«No, invece», August era determinato a non lasciarla andare e a farla sfogare. Era sempre stato difficile far sfogare Emma Swan, la trovava un'impresa impossibile, ma alla fine riusciva sempre a convincerla ad aprirsi, prendendola forse per sfinimento. «Sai che puoi dirmelo. Riguarda Jones?»

Emma arricciò il naso, guardandolo sorpresa. «Perché pensi che c'entri qualcosa quel tipo?» Domandò piuttosto perplessa, voltandosi subito dopo. «Non riguarda lui, stai sereno. E, seriamente, lascia stare, non mi va di parlarne adesso.»

August si decise ad avvicinarla, le si parò davanti, la prese per le spalle e la costrinse a guardarlo. «Emma», cominciò deciso, «sai che puoi dirmi qualsiasi cosa. Non devi sentirti imbarazzata se–»

«Imbarazzata?» Ripeté lei, scocciata. «Non sono imbarazzata, August. Mi stupisce solamente sentirti dire determinate cose. Non vuoi che io soffra? Bene, sono commossa. Ma dov'eri quando Neal mi ha lasciata?»

L'uomo rimase a guardarla in silenzio per qualche istante. Abbassò entrambe le braccia per lasciarla libera di indietreggiare di qualche passo, e magari anche di schiaffeggiarlo e se lo sarebbe più che meritato. La verità era che non gli era passato neanche per l'anticamera del cervello che lei potesse ancora sentirsi ferita da quell'uomo che le aveva spezzato il cuore dal giorno alla notte, ed era vero che lui non aveva contribuito a farla stare meglio, in quei mesi. «Io... io non pensavo che...», Emma sorrise ironica e alzò gli occhi al cielo, facendo schioccare la lingua sul palato, sarcasticamente, «mi avevi detto più volte di stare bene!» Esclamò alla fine, sulla difensiva, sbagliando completamente.

«Come potevi credere che fosse la verità? Qualche parola mormorata dietro la cornetta di un telefono, non ti sei mai preso la libertà di venire a controllare con i tuoi occhi, comunque.»

«Sai che non potevo lasciare il lavoro così.»

«Ma certo, il lavoro. Prima la nuova famiglia, poi i nuovi amici, poi la nuova conquista, poi il nuovo lavoro. C'è sempre qualcosa che viene prima di me, non dire di no, sai che è così», lo ammonì con tanto di dito indice alzato, quando notò che stava per aprire bocca pronto a replicare. «Io sarei corsa in qualsiasi momento per te, se i ruoli fossero stati invertiti.»

L'uomo abbassò il capo, colpito e affondato. Non poteva fare altro, Emma aveva ragione, non poteva darle torto su nessun fronte. Non era mai stato il migliore amico che lei meritava, ne era consapevole lui stesso, eppure il loro legame era incredibilmente forte per poter essere distrutto in qualche modo. Non sapeva come replicare, si sentiva immensamente in colpa per non essere stato in grado di starle accanto in quei mesi e sapeva di non poter recuperare in alcun modo. Le si avvicinò piano e la prese semplicemente fra le braccia; Emma sgranò leggermente gli occhi, presa alla sprovvista, ma poggiò il capo sul suo petto e si lasciò stringere quel tanto che bastava. Non ricambiò l'abbraccio, i pugni ancora stretti e le braccia abbandonate lungo i fianchi. Chiuse appena gli occhi, per calmarsi e calmare i suoi pensieri: mesi di parole non dette che cominciavano ad uscire dalla sua bocca senza che potesse controllarsi. «Sai che ti voglio bene, vero? E sai che, qualunque cosa succeda, io tornerò sempre da te.»

Emma sorrise amaramente, staccandosi dall'uomo così da poterlo guardare in faccia, gli occhi lucidi. «Lo so, ma io non ho bisogno di qualcuno che torni, ho bisogno di qualcuno che resti.» Gli fece poi capire di voler essere lasciata sola, ed August, senza replicare, ubbidì, attraversando la stanza e richiudendosi la porta alle spalle.

Solo in quel momento Emma si lasciò cadere sulla sedia più vicina, stanca e spossata da quell'ultimo avvenimento. Non avrebbe mai voluto dire quelle cose, per quanto l'avessero fatta soffrire era sempre stata determinata a tenerle nascoste. In generale non le piaceva rinfacciare le cose, figuriamoci a farlo con il suo migliore amico! Non sapeva neanche cosa l'avesse sconvolta tanto; il parlare di uomini, di uscire con qualcuno, l'aveva innervosita. Era tornata a pensare a Neal – non che avesse mai davvero smesso, e questo l'aveva allarmata e infastidita. Si era ritrovata a pensare a quella che era la sua vecchia vita, con lui al suo fianco, e a quella che aveva adesso. Non avrebbe mai perdonato quell'uomo per averle inferto quella ferita così, senza nessun preavviso, ma era scomparso completamente dalla sua vita – e ne era grata, e lei non aveva nessuno da incolpare, nessuno su cui riversare la sua rabbia, il suo rancore. August si era ritrovato sul sentiero di guerra, vittima e colpevole al tempo stesso. Durante il periodo di preparazione al matrimonio, l'aveva avvertita che non sarebbe riuscito a liberarsi e che il lavoro lo avrebbe trattenuto; una volta saputo dell'accaduto l'aveva tempestata di chiamate, chiamate a cui lei rispondeva fingendosi tranquilla e distaccata. Forse per questo non era mai riuscita ad odiarlo, non si era mai messa in condizione di farsi aiutare. O di far capire di aver bisogno di aiuto.

Quando avesse cominciato a piangere neanche lo ricordava, ma adesso si ritrovava con il viso completamente bagnato di lacrime nascosto da delle mari macchiate ormai di mascara. Scossa dai singhiozzi, saltò leggermente quando sentì qualcuno bussare alla porta. Certa che fosse August fece finta di nulla, gli avrebbe mandato un messaggio più tardi, una volta tranquillizzata, chiedendogli di raggiungerla la mattina seguente in libreria. Ma il bussare continuava, imperterrito, anzi si faceva sempre più forte. Di nuovo scocciata per il fatto che avesse bellamente ignorato la sua richiesta e il suo desiderio di restare da sola, si alzò dal divano e aprì bruscamente la porta, pronta ad inveire contro l'amico. Quello che si trovò davanti, però, la lasciò come pietrificata.

Killian Jones la osservava, adesso, allarmato, la mano destra ancora alta pronta a picchiettare nuovamente sulla porta. La bocca spalancata e una rughetta preoccupata dipinta sulla fronte, un suono strano venne fuori dalla sua gola, il principio di una parola strozzata che non ebbe il coraggio di uscire fuori.

«Per l'amor del cielo, Jones. Lasciami in pace!» Urlò la bionda, spazientita, senza perdere altro tempo prezioso. Gli chiuse la porta in faccia senza neanche pensarci, cadendo poi a terra poggiata contro la sua superficie. Nascose la testa contro le ginocchia e continuò a sfogarsi, silenziosa. Anche Killian restò fermò, dietro la porta, come inebetito. Provava a metabolizzare quello che era appena successo, ciò che aveva appena visto: la bella, sicura e forte Emma Swan completamente indifesa lontana da ogni suo muro. Alzò di nuovo il pugno, ma abbandonò la mano a mezz'aria, capendo da solo come quell'idea fosse terribile. Non poteva sapere che soltanto una misera parete lo separava dalla donna, così come lei ignorava completamente la sua presenza, sicura del fatto che fosse ormai andato via. Invece l'uomo restò lì, seduto a terra anche lui, la testa contro la porta. Restò per mezz'ora, forse qualcosa di più, così come aveva fatto lei il giorno prima, determinato a non volerla lasciare da sola, anche se lei non poteva saperlo. Tornò a casa, alla fine, non appena la donna spense le luci dell'appartamento.

Angolo dell'autrice: Mi domando se qualcuno si ricorda ancora di questa storia o è ancora qui ad aspettare un aggiornamento. Non so davvero come scusarmi per questo immenso ritardo, ma voglio essere completamente onesta: non pensavo di aggiornare più. Non per le poche idee o per la poca voglia/tempo di scrivere, quanto per la mancanza di un riscontro positivo/negativo. Per farla bene mi sono fatta due domandine, della serie: questa storia sta piacendo? Mi sono risposta di no, quindi che motivo c'era di andare avanti? Però mi dispiaceva, mi dispiaceva abbandonare Emma e Killian e non sono riuscita a stare troppo tempo lontano da questa fanfiction. Se vedrò qualche commento/abbastanza letture non tarderò troppo ad aggiornare, promesso, altrimenti... non lo so,  non voglio lasciarla incompleta ma non voglio neanche perderci troppo tempo a scriverla, se nessuno la legge, ecco.
In ogni caso, ho deciso di abbandonare i flashback. Magari ogni tanto ne inserirò uno, ma sicuramente non compariranno in ogni capitolo. Spero che questo incredibile tempo di attesa sia valso a qualcosa e di non aver deluso aspettative; Emma e Killian cominceranno ad avvicinarsi presto, ve lo prometto! 
Fatemi sapere e a presto,

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