Quello che rimane

di hey_youngblood
(/viewuser.php?uid=236193)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Rimpianto ***
Capitolo 2: *** II - Rimorso ***
Capitolo 3: *** III - Alaska ***



Capitolo 1
*** I - Rimpianto ***


I

Rimpianto
 
“Rimpianto s.m. ricordo  nostalgico o dolente di
 persone e cose perdute, o di occasioni mancate”
(Treccani)

Miles “Ciccio” Halter
 
Non dicemmo: “Non guidare. Hai bevuto”
Non dicemmo: “Guai a te se provi a metterti in macchina in questo stato.”
Non dicemmo: “Veniamo con te e poche storie.”
Non dicemmo: “Questa cosa può aspettare fino a domani. Non c’è niente che non possa aspettare fino a domani.”*
Non dicemmo niente di tutto ciò, non dicemmo niente e basta. Del resto, Alaska non ci stava chiedendo il consenso, ma aiuto.
Né a me né al Colonnello, quindi, venne la minima idea di fermarla nel caos che era quel momento, con lei che si agitava per la stanza gridando e piangendo, generando l’ansia più atroce. Ci limitammo a fare come ci aveva chiesto, ossia distrarre l’Aquila in modo che lei riuscisse ad evadere dall’istituto. E Dio solo sa se avremmo fatto meglio a non aiutarla, quella notte.
Si, solo Dio lo sa, perché conoscevo Alaska Young e, se si era veramente messa in testa di uscire, quella notte, non ci sarebbe stato niente e nessuno in grado di fermarla. L’universo avrebbe potuto vorticare su se stesso tre volte e nulla sarebbe cambiato; il Sole avrebbe potuto spegnersi per sempre, e la luna smettere di brillare, e nulla sarebbe cambiato; la Terra avrebbe potuto smettere di girare, come un uragano avrebbe potuto abbattersi sulla scuola e nulla sarebbe cambiato. Niente avrebbe mai potuto far cambiare idea ad Alaska se si era ficcata in testa di dover uscire dal campus, figuriamoci trattenerla dal fare quella che si è poi rivelata, a mente lucida, la più grande idiozia di sempre.
Ero disteso al buio, a mio avviso, da molto tempo e non potevo fare a meno di rigirarmi ogni due minuti in cerca di una posizione in cui non avrei sofferto il grande caldo che, da pochi giorni a quella parte, si era abbattuto sul luogo.
Io e il Colonnello eravamo andati a letto presto, perché in quei giorni eravamo impegnati a studiare per i nostri esami. Dopo la commemorazione dovevamo trovare un modo per impiegare il tempo, finendo per constatare –tristemente- che lo studio era il metodo più proficuo.
Quella notte, non appena ci fummo coricati nei nostri letti, una miriade di pensieri si formarono nella mia mente. Era consuetudine, ormai, che, prima che Morfeo mi accogliesse tra le sue braccia, dovessi riportare alla mente qualcosa di Alaska, qualcosa a cui aggrapparmi nei sogni per non permettere alla mia mente di ricordare una persona diversa da quella che era.
C’erano state notti in cui l’avevo raffigurata accanto a me, su quel materasso scomodo e troppo piccolo, mentre si rannicchiava al mio fianco, troppo vicina perché potessi mantenere un ritmo cardiaco normale. Avevo immaginato di racchiuderla nel mio abbraccio un po’ imbranato e di sfiorarle i capelli, cosicché il suo odore –vaniglia e sigarette –, che ormai mi era così familiare, potesse inebriarmi e diventare l’unica aria di cui avessi bisogno. 
Altre volte, invece, ci concepivo nel granaio con qualche bottiglia di Strawberry Hill vuota e qualcun’altra ancora piena, mentre fumavamo una sigaretta dopo l’altra seduti scomodi su dei mucchietti di paglia. In questi sogni ridevamo e scherzavamo fino a piangere dalle risate e lasciarci cadere sulla paglia, incuranti dei fili che si incastravano tra i capelli. Ed io, gentilmente, glieli toglievo uno per uno da quei capelli rossi, fermandomi ad osservare la linea dolce delle labbra e del naso. Lei voltava leggermente il viso verso la mia parte, incastonava quegli occhi smeraldini nei miei e accennava quel suo sorriso, magari un po’ meno triste del solito –C’è una cosa che devi sapere di me. Ed è che sono una persona profondamente infelice** –, mentre con un sussurro mi domandava: mi ami?
Mi mancava così tanto!
Sospirai. Quella sera ci dev’essere stato un componente diverso nell’aria, perché i pensieri sulla ragazza dagli occhi verdi mi tennero sveglio più del solito.
Alaska Young era per me, già prima della sua prematura morte, il mistero più grande che si fosse presentato sulla mia strada. Ne ero così affascinato che, nelle settimane dopo la sua morte, ne ero diventato ossessionato. Non riuscivo a concepire la mia esistenza con quel punto interrogativo che era Alaska Young, perché Alaska non poteva essere un punto interrogativo per me. Lo era stato per tutta la sua esistenza, quel poco che avevamo passato insieme, e mi ero stancato di non poter mettere un punto alla sua vita, com’era già riuscita a fare lei stessa, prima di tutti noi, morendo.
Ero consapevole di non poter riuscire a vivere la mia vita, se prima non dimostravo la fine della sua, perché dentro di me ero cosciente che sarei sempre stato innamorato di Alaska Young, e questo mio desiderio di averla ancora tra le braccia, di poterla toccare e baciare di nuovo, come era successo quell’ultima sera che avevamo passato insieme –Ciccio, dire, fare o baciare? Fare. Fammi l’amore*** –, non mi permetteva a tratti di respirare, di dormire, di andare avanti. Per me Alaska era ancora viva, perché il suo ricordo continuava a vivere dentro di me.
Da quando avevo conosciuto quella ragazza dai folti capelli ricci, la passione per il verde e gli scaffali pieni di libri che ancora non aveva letto o che aveva solamente iniziato, qualcosa era concretamente accaduto.
Ammetto che dalla sua entrata sul palcoscenico della mia vita, l’intero copione era cambiato ed ora mi ritrovavo senza niente: gli attori che non sapevano più le battute, gli addetti alle luci che rischiaravano la scena di fredda luce bianca –non sapendo più su chi puntare il riflettore-, il fondale che era diventato una macchia indistinta di colori. Tutto aveva parvenza di vita, ma la vera vita se l’era portata con sé Alaska, quando aveva deciso di salire su quell’auto.
E adesso dovevo trovare un modo per ridare senso all’intera opera, trovando come unica soluzione quella di dare un senso alla morte di chi me l’aveva portato via, prima.   La morte di Alaska era il mio punto d’inizio, l’inizio della mia vita senza di lei, e, si sa, non si è capaci di sapere dove si vuole andare se non si sa da dove si è venuti.
Erano passati ormai centoquattordici giorni da quando Alaska se n’era andata, ed io e il Colonnello arrivammo, dopo ricerche e studi approfonditi, ad un paio di conclusioni: un’ipotesi di suicidio e un errore di calcoli della mente umana.
La prima ipotesi, quella del suicidio, era quella che più mi faceva male, perché avrebbe significato che io, come il Colonnello, Takumi e Lara, non significavamo niente per Alaska ed il mio cuore, così instabilmente incrinato, non avrebbe retto a quella consapevolezza. Mi rifiutavo di comprendere come si possa tanto amare qualcuno senza che l’altro provi il minimo affetto nei nostri confronti. Semplicemente non sarei riuscito a sopravvivere ad una constatazione del genere.
Optai, quindi, di credere alla seconda ipotesi, la quale considerava la morte di Alaska un semplice incidente dettato da un errore di calcoli, prodotto da una mente poco lucida. Logicamente parlando, la possibilità di poter superare il camion sarebbe potuta venire in mente a chiunque, nelle condizioni in cui era Alaska quella sera. Insomma, era di fretta, ubriaca, emotivamente instabile e impaurita dall’ipotesi di poter essere fermata dalla polizia. Come tutti noi avremmo fatto, aveva optato per l’opzione che riteneva più sicura ed efficace, capace di portarla da sua mamma il prima possibile. Tale scelta si era rivelata, purtroppo, fatale per lei.
Credere a tale ipotesi  significava credere che, se non fosse morta, Alaska sarebbe tornata da noi il giorno seguente e che, magari, teneva realmente alla nostra amicizia. D’altra parte, non conosco le ultime parole che Alaska Young aveva pronunciato prima di morire, ma so quelle che aveva rivolto a me prima che impazzisse completamente: E’ veramente una favola, ma ho tanto sonno. Alla prossima puntata****? No, Alaska Young sarebbe tornata da noi, lo sapevo con certezza. Non avrebbe lasciato qualcosa di così grande a metà. Non avrebbe lasciato me a metà.
Il reale problema sovvenne quando il mio cervello, non riuscendo a mettere la parola fine alla storia di Alaska, tornò in quella fase ossessiva che mi aveva preso nelle settimane seguenti la morte della ragazza che amavo.
La mia mente aveva, dopo poco tempo, alienato l’ipotesi che Alaska fosse morta a causa di un banale incidente. Non riuscivo a credere che un’esistenza come la sua –tormentata, allegra, poliedrica – potesse essere finita in un modo così elementare. Alaska si meritava una morte migliore di quella, qualcosa di sensato e incredibile, magari grandioso o affascinante, come era stata lei durante tutto il corso della sua vita.
Non era stato un incidente. Era l’unica consapevolezza che avevo.
Accesi la lampada che stava sul comodino accanto al letto e dovetti socchiudere gli occhi per abituarmi al fascio di luce che emanava. L’intera stanza era rischiarata, permettendomi di scorgere perfettamente l’ubicazione e i contorni degli oggetti presenti nell’abitacolo. Aspettai immobile per qualche secondo, constatando che, nonostante la forte luce, il Colonnello dormiva ancora come un sasso. Mi sfregai le mani sul viso, cercando di svegliarmi un po’, mentre scansavo le lenzuola e mi tiravo a sedere sul materasso.
Cominciai a fare una revisione mentale dettagliata degli eventi avvenuti dopo la morte di Alaska: la polizia che non ci aveva permesso di vedere il cadavere, il padre che aveva rifiutato un funerale a bara aperta. Pezzo dopo pezzo, il puzzle si completò davanti a me.
Come avevo fatto a non pensarci prima?
Dovevo dirlo agli altri. Dovevo avvertirli che, magari, non c’era soluzione all’interrogativo sulla morte di Alaska perché probabilmente non c’era stata nessuna morte.
Era stata tutta una farsa: la polizia e il padre si erano messi d’accordo per convincere tutti, in modo da poter mandare Alaska in una comunità per riabilitarsi e cominciare una nuova vita lontano da tutti quelli che le ricordavano il proprio dolore, da tutte le persone a cui voleva bene, da sua madre. Magari sotto al telo vi era un’altra persona, oppure un manichino, tutti, ma non lei. Per non parlare del padre, che aveva sepolto una bara vuota mentre osservava tutti piangere su una menzogna.  E Alaska? Come faceva ad essere d’accordo con tutto questo, quando lei stessa aveva deciso di venire al Culver Creek solo per stare lontana da casa e da chi l’abitava? Oppure, per una volta, Alaska Young era stata solo una vittima degli eventi?
Non mi soffermai nemmeno troppo su quanto fosse crudele un piano del genere, soprattutto nei confronti di tutte quelle persone che  avevano voluto davvero bene ad Alaska, perché ero distratto dalla stessa ipotesi che avrebbe reso tutte queste mie considerazioni e questi miei interrogativi reali: magari Alaska Young era ancora viva.
 


*citazione dall’originale di John Green, pag. 194, ed. Rizzoli, Maggio 2014
** citazione, pag. 182
*** altra citazione, pag. 191
**** altra citazione dal libro, pag. 192 
___________________________________________________________________
Ehilà! 
Premettendo che sono di fretta perchè sono già venti minuti che sono seduta in questo ristorante solo per scroccargli la wi-fi, volevo farvi questo saluto lampo prima di rivederci effettivamente a Settembre. 
Partecipante al contest "Memorie impresse su specchi rotti" indetto sul forum di EFP da AriaBlack e Marina Swift, la storia vuole mettere a confronto le definizioni di rimpianto e di rimorso per far decidere al lettore quale "sia meglio avere", diciamo così.
Spero in tante opinioni e commenti e di rivedere tutti presto.
Un bacio,

Carlotta.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II - Rimorso ***


II
Rimorso
 
“Rimorso s.m. il rimordere della coscienza, la
consapevolezza tormentosa di aver fatto del male”
(Treccani)
 

Chip “il Colonnello” Martin
Stavolta Ciccio aveva davvero esagerato.
Durante il suo primo crollo gli ero stato vicino, avevo ricacciato indietro le lacrime e avevo cercato di assecondare quello che era diventato in poco tempo uno dei miei amici più stretti. Avevo finto indifferenza ogni volta che ne ricordava gli ultimi attimi passati insieme, ogni volta che si domandava di Alaska o che tirava fuori l’argomento. Non ce l’avevo con lui per questo, non ce l’avevo con lui perché non lasciava riposare Alaska neanche un giorno della sua morte, ma perché, egoisticamente, ne parlava come se fosse stato l’unico a volerle bene, ad amarla.
Dopo che fummo arrivati a quelle due ipotesi conclusive, credevo che Alaska sarebbe scomparsa dalla nostra vita per sempre, che ci avrebbe permesso di dimenticarci lentamente di lei, ma, a quanto pare, ci aveva dannato entrambi. Ciccio, che non riusciva a dimenticarla e ogni giorno finiva per nominarla in qualche modo, ed io, che sentendola nominare così spesso, non potevo far altro che sentirmi sempre peggio.
Ciccio ce l’avrebbe fatta ad andare avanti, dopotutto lui la voleva solamente indietro, riabbracciarla e baciarla di nuovo, perché questo era il lascito di Alaska per lui. Non sapeva quanto fosse fortunato ad avere qualcosa da tenere stretto, a non sentirsi così costantemente in colpa. Io le ero stato vicino per anni, da quando era arrivata a Culver Creek, e avrei voluto che mi dimostrasse, in tutto quel tempo che avevamo passato insieme, qualcosa a cui avrei potuto aggrapparmi in futuro, come aveva fatto con Miles quell’ultima sera, ma a quanto pare non mi riteneva degno di un simile dono.
Non capivo perché Ciccio non si sentisse in colpa per non averla fermata quella notte, magari l’aveva conosciuta meglio di me, magari aveva percepito qualche dettaglio, gesto, luce che io avevo ignorato e per cui ora mi rimproveravo severamente, o magari aveva avuto solo un ruolo diverso dal mio nella vita di quell’uragano dagli occhi verdi.
Sta di fatto, che io e Alaska eravamo sempre stati una squadra: lei era l’ideatrice di follie ed io quello che le metteva in atto. I piani che le avevo progettato erano sempre andati a buon fine e, nonostante vi fossero alcune piccole pecche, riuscivano sempre ad uscirne illesi. Avrebbe dovuto fidarsi di me abbastanza da rivelarmi dove sarebbe andata quella notte. Sapeva che non avrei fatto storie, avrei pianificato un piano con i fiocchi per evadere dal campus e portarla doveva voleva andare, e tutto sarebbe filato liscio. Perché non mi aveva chiesto aiuto?
Se a Ciccio non pesava il fatto di non averla fermata, a me, dall’altra parte, pesava infinitamente. Perché io ero il suo compagno di scherzi e so con certezza che avrei dovuto accompagnarla quella notte, sarei dovuto essere in macchina con lei, al posto del guidatore, con il controllo della vettura. Avevo bevuto molto meno di lei, sarei stato in grado di fare i calcoli giusti e non mi sarebbe venuta in mente l’idea folle di poter schivare quel camion.
 Alaska sarebbe ancora qui con noi, o probabilmente no, magari saremmo morti entrambi in quell’auto, come due veri compagni di vita e di avventure, mentre chi era rimasto organizzava due funerali al posto di uno. Quell’alternativa non sarebbe stata peggiore della realtà in cui mi trovavo.
Perché non l’avevo fermata?
Dio, era il mio compito! Avrei dovuto prenderla per le spalle, scuoterla e farla rinsanire un po’, in modo che i suoi occhi, offuscati dalle lacrime, guardassero dentro i miei.
“Tu non ti muovi da qui, hai capito?” le avrei detto con tono risoluto, un po’ severo, e lei mi avrebbe ascoltato, perché non mi ero mai mostrato a lei in quel modo e lei avrebbe pensato di non conoscermi affatto, che le facevo un po’ paura. “Tu non ti muovi da qui finché non sarai lucida e calma, finché non avrò strutturato un bel piano per evadere e tornare senza che nessuno se ne accorga. Tutto chiaro?”  Avrebbe annuito in silenzio e sarebbe scoppiata di nuovo a piangere, ma andava bene, perché la avrei tenuta tra le braccia e l’avrei stretta così forte da farle passare tutto il dolore che provava. Avremmo superato la cosa insieme.
Perché non l’avevo fermata?
Ora Ciccio se ne veniva fuori con un’idea nuova, qualcosa a cui non avevamo minimamente pensato fino a quel momento. Un’idea folle, assurda e autodistruttiva, che odiavo nel profondo solamente perché accendeva dentro di me per la prima volta, dopo la morte di Alaska, la speranza, la possibilità di redenzione, qualcosa che mi permetteva di essere perdonato da ciò che non ero stato in grado di fare quella notte del 10 Gennaio.
Perché non l’avevo fermata?
Folle, perché Ciccio non poteva sapere cosa avrebbe causato agli altri, ipotizzando un tale concetto. Gli era inconcepibile che altri, oltre a lui, soffrissero per la morte della ragazza dai capelli rossi, nonostante lui, fra tutti, fosse quello ad averla vissuta di meno. Non poteva sapere che in quel modo avrebbe fatto ricominciare a sanguinare una ferita ancora dolorosamente aperta. Non poteva sapere quanto male avrebbe fatto agli altri quel barlume di speranza che a lui, invece, faceva tornare il sorriso.
Perché non l’avevo fermata?
Assurda, perché non aveva le prove. Neanche uno straccio d’indizio della sua supposizione. Aveva risvegliato gli animi di chi voleva bene ad Alaska per un’insinuazione senza fondamento, e lo odiavo per questo, perché aveva agito pensando solo a sé stesso. Perché non sapeva a cosa aggrapparsi per supportare la propria tesi, ma ormai il danno era già stato fatto ed il tarlo si ormai insinuato nella mente di Chip, impossibilitandogli una via di fuga. Perché Alaska avrebbe lasciato che suo padre la portasse via da tutte le persone che le volevano bene –che l’amavano sinceramente – senza ottenere da parte sua che rassegnazione? Quella non era Alaska che avevo conosciuto, solo l’idea stralunata di una mente sofferente.
Perché non l’avevo fermata?
Autodistruttiva, perché quella speranza non avrebbe fatto bene a nessuno.  Non vi era vittoria nel credere in una cosa del genere, perché se tale tesi si fosse rivelata inconcludente –come lui stesso credeva – avrebbe solamente fatto riaffiorare un dolore che non aveva ancora finito di far male, mentre, al contrario, se si fosse rivelata veritiera –seppur non ci fosse la benché minima prova di questo –, avrebbe portato alla luce un’Alaska debole, diversa, condiscendente, umana, ma Alaska non era così. Alaska era un ciclone, distruttiva, vivace, lunatica, selvaggia,egoista, sofferente, passionale, straordinaria. Non sarebbe stato in grado di affrontare una versione stabile e patetica di Alaska, perché avrebbe perso la propria essenza. Non sarebbe più stata Alaska, ma un fantasma di ciò che era stata e che non era più, un alone di sé stessa.
Perché non l’avevo fermata?
No, non potevo crederci. Dovevo denigrare quell’idea, smontarla pezzo per pezzo e frantumarla, calpestarla con tutta la forza che possedevo, allontanarla dalla mente in modo tale da non permetterle di avvicinarsi mai più, uccidere quel barlume che sfarfallava in un angolo oscuro del mio cervello. Dovevo farlo per me stesso, per la mia sanità mentale, e per Alaska, per permettere al suo ricordo di perdurare* chi era stata in vita, ossia la cosa più bella che potesse mai capitarmi.
Dato che gli esami si avvicinavano, io e Ciccio avevamo deciso, poco tempo addietro, di impiegare il nostro tempo in qualcosa di produttivo, e così finimmo a metterci sotto con lo studio. Ciccio non aspirava a fare una gran figura, ma solamente a finire l’anno decentemente. Io, d’altra parte, avrei dovuto impegnarmi parecchio, perché dovevo dimostrare di meritare la borsa di studio con cui mi avevano accettato.
 L’estate era vicina e né io né Ciccio volevamo pensare a come sarebbe stato non avere niente da fare, perché significava che, ad un certo punto, qualche ricordo della ragazza più sexy del mondo sarebbe tornato violentemente alla memoria, mettendoci nella condizione precaria di doverli affrontare da solo. In un attimo di pausa, mi persi ad osservare il soffitto, chiusi gli occhi e risentii la voce di Alaska che, in lontananza, raccontava una delle sue storie estive. Mi mancava così tanto!
Era stato in quel momento, mentre scrocchiavo il collo sulla spalliera del divano, che Ciccio aprì bocca e mi sconvolse.
“Ti dico che credo che Alaska sia ancora viva!”
“No!” scuotevo la testa, non volevo ascoltare una parola in più sull’argomento, facevano troppo male quelle che si era già azzardato a pronunciare. Tentava di dirmi qualcosa, ma in un impeto di rabbia e dolore uscii dalla stanza sbattendo la porta dietro di me, e arrivai a grandi falcate fino a quello che una volta era il nascondiglio mio e di Alaska, allargato poi a tutta la cricca di amici, e crollai a terra.
Dopo mesi che tenevo tutto dentro, quel giorno, lì, sull’erba secca, piansi l’anima, perché la mia migliore amica era morta, perché non l’avevo fermata nonostante avessi il potere ed il dovere di farlo, perché l’amavo. Pensavo ancora di avere il possesso della mia essenza, scoprii solamente più tardi che se l’era presa Alaska, di prepotenza, portandola con sé nella tomba.
 
 
*volevo sottolineare il significato di questa parola, perché riporta volontariamente al carattere di Alaska : perdurare
v. intr. [dal lat. perdurare, comp. di per-1 e durare: v. durare] (aus. avere). Riferito a persona, mantenersi con tenacia o ostinazione su certe posizioni.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III - Alaska ***


III
Alaska


“Alaska s.f. [der. di alyeska]
Ciò contro cui si infrange il mare.”
 

Erano passati alcuni giorni da quando Miles aveva tirato fuori l’intuizione della non-morte di Alaska. Quando aveva esposto l’idea al Colonnello, questo era andato su tutte le furie –non lo aveva mai visto comportarsi in quel modo – e si era rifiutato di ascoltare ciò che aveva da dire. Se n’era andato di tutta fretta dalla stanza, lasciando il suo studio a metà, ed era ritornato solamente qualche ora dopo, verso cena, per rimettere in ordine le sue cose e andare a dormire. 
Nei giorni seguenti Miles aveva evitato di tirare fuori l’argomento con l’amico, limitandosi a cercare prove che supportassero la propria tesi: qualche frase di cui non aveva appreso il reale senso oppure qualche dettaglio che gli era sfuggito durante le loro precedenti ricerche. Niente, l’unica cosa a cui poteva aggrapparsi era il proprio istinto, la convinzione che l’universo non potesse permettere un’ingiustizia come quella che era accaduta ad Alaska.
“Possiamo parlarne?” tentò, nel bel mezzo di un altro pomeriggio afoso, mentre erano intenti a studiare. Il Colonnello lo ignorò mentre finiva di leggere una pagina del libro di storia, prima di chiudere il libro infilando tra le pagine un foglietto di carta, in modo da ricominciare da dove aveva lasciato.
“Parliamone.” Rispose, lasciando cadere il libro chiuso sul posto vuoto del divano. Si tirò su a sedere e poggiò la schiena, poi osservò Miles, con un’espressione di attesa. “Che c’è?”
“Secondo me Alaska è ancora viva.” Disse l’altro, pronunciando le parole con lentezza, per evitare di ricevere la stessa reazione della volta precedente. L’atmosfera nell’aria era tesa e Miles tratteneva il fiato a causa del nervosismo.
“E quali prove hai?” Il Colonnello chiuse gli occhi mentre distendeva il collo sul poggiatesta del divano. Mentalmente si ripeteva che l’unico modo per farla finita con tutta quella storia era discuterne con calma con l’amico.
“Beh, tutta questa segretezza sul corpo di Alaska è un po’ sospetta, non credi?” Ciccio incrocio le gambette ossute sul materasso del letto dove sedeva, scostando le lenzuola ancora in disordine dalla notte prima – quella mattina non aveva rifatto il letto.
Il Colonnello sospirò mentre si massaggiava il collo. Ultimamente non dormiva bene e quell’insinuazione che Ciccio aveva fatto pochi giorni prima non aveva migliorato la situazione. Era un miracolo se riusciva a dormire un’intera notte senza avere incubi.
“Non è sospetto se ciò che l’ha uccisa le ha distrutto la testa!” esclamò seccato. “Vederla in quel modo avrebbe fatto soltanto soffrire di più le persone che le volevano bene.”
“Ma-” cercò di obbiettare l’altro, senza successo.
“Senti,” Lo interruppe il Colonnello “la decisione che ha preso il padre, quando ha deciso di fare un funerale a bara chiusa, è stata l’alternativa migliore. Non credo che abbia esultato nel vietare pure a se stesso la possibilità di dirle addio, ma sapeva che sarebbe stato meglio per tutti se non vedevamo il corpo di sua figlia. Avresti riconosciuto Alaska, senza magari un occhio, metà cranio e mezzo volto blu? Ti avrebbe fatto ribrezzo, ecco perché la bara era chiusa: tutti quelli che le volevano bene avevano avuto l’opportunità di ricordarla nei suoi momenti migliori –con gli occhi vivaci, i capelli brillanti e il sorriso triste – e, soprattutto, di poter perdurare quel ricordo come l’essenza stessa dell’Alaska che avevano conosciuto.” Disse tutto d’un fiato. “In più, glielo chiese la stessa Alaska di avere un funerale a bara chiusa, te lo ricordi?”
Ciccio immagazzinò quell’idea lentamente, come se la sua mente cercasse a tutti i costi di rinnegare la verità contenuta in tali parole. Quella consapevolezza lo avrebbe distrutto, come lo stesso avrebbe fatto con l’ipotesi che Alaska fosse ancora viva.
Ci fu un lungo silenzio tra i due ragazzi, ma nessuno dei due si azzardò a rimettersi a studiare, come per far intendere che la conversazione era finita lì.  “Dimmi Ciccio,” parlò Chip, l’altro alzò lo sguardo verso di lui “come ti avrebbe fatto sentire se l’ultimo ricordo della ragazza che amavi fosse stato il suo volto livido, cadaverico, senza più vita? Saresti riuscito a ricordare la parte bella di lei o quell’immagine avrebbe finito per diventare il mostro che non ti fa dormire la notte?”
“Ma io ti dico che Alaska è ancora viva!” sbottò l’altro. Ci fu un attimo di silenzio, nel quale Miles riprese il suo contegno, calmandosi un po’. “Alaska è ancora viva,” Ripeté, stavolta quasi in un sussurro. “perché era troppo complicata per morire in un modo così semplice.”
Il Colonnello scoppiò a ridere. “Alaska? Complicata?” Rise ancora. “No, Alaska era una delle persone più semplici che sia mai esistito e la sua morte ha solamente verificato ciò che già l’universo constatava.”
Miles lo guardò con espressione confusa, perché non riusciva a comprendere Chip potesse considerare quel ciclone che era la loro amica qualcosa di semplice, e anche un po’ contrariata, perché, per quanto si sforzasse, Alaska sarebbe sempre rimasto il più grande mistero che avesse mai incontrato.
“Sai, Ciccio, avremmo potuto perfettamente prevedere il casino che è successo quell’ultima notte, solo che nessuno di noi ha prestato particolarmente attenzione a ciò che Alaska ci diceva, al significato intrinseco in quelle parole e ai comportamenti scaturiti da ciò che cercava di sopportare ormai da tanto tempo.” Il Colonnello sospirò, come se gli provocasse un dolore atroce pronunciare quelle parole. “Alaska Young non era complicata, siamo noi che non siamo stati in grado di capirla. E’ per colpa della nostra negligenza, della nostra disattenzione, che è morta.”
E così anche l’ultimo appiglio di Miles cadde, facendolo crollare definitivamente. Tutto ciò aveva sperato, in quegli ultimi giorni, era svanito nel nulla. Tutti i sogni che continuava a fare, tutti momenti non vissuti nei quali Alaska era viva e vegeta e, soprattutto, era con lui, si infransero davanti ai suoi occhi. La speranza morì abbandonandolo da solo in un modo che sembrava buio e vuoto, adesso che la luce di quegli occhi verdi aveva smesso di brillare per sempre. Miles cominciò a piangere, all’improvviso, davanti a Chip, che, in silenzio, preferì lasciarlo fare, perché anche lui aveva avuto bisogno di sfogarsi, qualche giorno prima, e non era servito che a farlo stare un po’ meglio.
“Mi manca così tanto! Non posso vivere senza di lei!”
Il Colonnello ascoltava i lamenti dell’amico e dovette chiudere gli occhi per non farsi trasportare, di nuovo, in quella miriade di emozioni. Non poteva permetterselo perché, in quel momento, doveva essere la colonna a cui potersi appoggiare, se si fosse messo a piangere, sarebbe stata la fine. Chiuse gli occhi e immaginò davanti a sé la ragazza dai folti capelli ricci e i birichini occhi verdi che lo osservava con comprensione. Dovevo farlo, non potevo permettere che continuasse a cercarti. Se fosse andato avanti con le ricerche, ritrovandosi poi con il niente tra le mani, ne sarebbe uscito mille volte più distrutto di quanto lo può essere adesso. Perdonami, ti prego. Alaska annuì silenziosamente, sollevandogli un po’ d’angoscia dal cuore, poi si avvicinò a Miles e gli carezzò dolcemente la testa, mentre questo era scosso da tremiti e singhiozzi, in un ultimo addio. Quando se ne andò, Chip si decise a riaprire gli occhi. I respiri smorzati dell’amico riecheggiavano in quelle quattro mura, tormentandolo in un ritmo incostante.
Passò un tempo indefinito prima che Miles smettesse di piangere e Chip aspettò con calma che l’amico sfogasse tutto il dolore che lo aveva consumato durante gli ultimi mesi, esattamente come aveva consumato lui stesso.  Quando parlò, decise di farlo nel modo che gli sembrava più opportuno.
“Sai, Ciccio, perché noi non siamo morti con Alaska? Sai perché l’universo ha voluto che noi non salissimo nell’auto con lei, quella sera?” Chip guardò l’amico, il quale era intento nell’asciugarsi le lacrime con la manica della maglietta. Quando si sentì pronto, Miles scosse la testa. “Noi siamo ancora vivi perché dopo un ciclone c’è sempre qualcuno che, nonostante abbia perso tutto, nonostante il dolore insormontabile, alla fine ce la fa e sopravvive. Noi siamo ancora vivi perché siamo quello che rimane del ciclone Alaska. Siamo le macerie che si è lasciata dietro.”

_________________________________________________________________________________________________
Ehilà!
Questo è l'ultimo capitolo della ff su Cercando Alaska, so che ho scritto nel mio profilo che sono in pausa, e perciò ci tenevo a informarvi che questa minilong l'ho scritta quest'estate, la sto solo pubblicando ora per motivi vari.
So che il fandom non ha molto seguito, ma spero comunque che la ff vi sia piaciuta e che vogliate lasciarmi i vostri pareri riguardo questo piccolo progetto of mine.
Un bacio,
Carlotta.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3688963