Alcibiade o 'l'Albero della Vita'

di Ancient_Mariner
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Immortalità ***
Capitolo 2: *** II - Qualche Breve Considerazione ***
Capitolo 3: *** III - Un Piccolo Viaggio ***
Capitolo 4: *** IV - Primo Nodo Lunare ***
Capitolo 5: *** V - Aphrodite Pandemos ***
Capitolo 6: *** VI - Le Chevalier de Coupes ***
Capitolo 7: *** VII - Et Clamavit Leo ***



Capitolo 1
*** I - Immortalità ***



I

IMMORTALITÀ

 
"Sed contra accipies (...)
Quid suavius elegantiusve est:
Nam unguentum dabo".


(Catullo, Carme 13)

Sentire è una parola per i saggi
E’ la voce di chi interpreta le stelle.
Il mondo vive di flebile luce,
Di caleidoscopica illusione,
Di inconsapevolezza puerile,
E di ordinato spaesamento.
Canta, soave,
La pioggia del mattino
In exitu Israel de Aegypto;
E vibra il cupo fogliame,
Mormora il fiume
Dove brilla luce di vetro.
Ricordi? Un tempo la nostra dimora
Era qui, tra i giunchi.
Con le violette e le orchidee rosse,
Che le fanciulle chiamano dita di morto,
Intrecciavi ghirlande di sospiri
Mentre un albero ondeggiava, laggiù,
Irreale
Ma è solo il vento
E non ci possono far nulla le foglie,
Il turbinio confuso che fanno le foglie
Quando soffia il vento di Ares
Cadendo nella brina, nel ghiaccio.
Non v’è che ghiaccio
Sulla lama delle spade.
Questa macabra danza
E’ nebbia, foschia luminosa,
E come pioggia d'autunno
Lava via ogni nostra speranza.
La tua voce scomparve d’un tratto
In un tintinnio di sonagli d’argento:
Il vento tra i papaveri;
L’ultimo battito di ali
Di una farfalla che esaurì
Il tempo che le fu dato.
Quando nel campo tornò il silenzio
Un velo squarciato si posò sulle acque;
E non più vi fu alcun canto,
E non più vi spirò il vento.


 
Angolo dell'autore
Benvenuta/o, grazie per essere giunta/o fin qui. 
Chiaramente non darò alcuna interpretazione univoca di questa e delle prossime poesie, ma solo delle linee guida sulle immagini che hanno guidato la composizione, di modo che chi mi legge possa avere una visione più chiara della simbologia utilizzata. Immortalità fa un po' da proemio all'intera raccolta e fa riferimento alla caduta da una sorta di paradiso terrestre in cui l'uomo si trovava ad essere autosufficiente e felice. Contiene suggestioni derivanti non solo dal ciclo di morte e rinascita, inevitabilmente connesso a quello della vegetazione, ma anche relative ai rituali ellenistici del culto di Iside e Osiride.

In Exitu è l'incipit del Salmo 113, che anticamente si cantava nel trasportare il corpo di un defunto nel luogo sacro, a indicare, allegoricamente, il mistico viaggio del cristiano, prefigurato dagli Ebrei, verso la Gerusalemme celeste.
Per quanto riguarda i vv. 34-36, relativi all'immagine della farfalla, mi ispiro ad un sogno fatto la notte tra il 13 e il 14 dicembre 2014. In greco la farfalla (Ψυχή) si esprime con la stessa parola con cui ci si riferisce all’anima, specie in Omero. E’ l’ennesimo simbolo di morte nel componimento.
Sulle emozioni si posa il velo di Maya, per Schopenhauer simbolo dell’illusione umana. Vi è un altro riferimento al Vangelo di Matteo, relativo alla morte di Cristo (Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo).
Ci vediamo alla prossima poesia,  se vorrai lasciare un commento sarò ben felice di contraccambiare.

 
 

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Capitolo 2
*** II - Qualche Breve Considerazione ***





II


QUALCHE BREVE CONSIDERAZIONE
Kακόν με καρδίαν τι περιπίτνει κρύος *

Chiunque ragioni un po’ meglio di me
Afferma che dalle ceneri
Non possa esservi redenzione;
Io dico invece
Che bruciare sia fonte di salvezza;
E che non sia vero affatto,
Come vorrebbero le donnette di paese,
Che all’Inferno ci va
Chi non s’impegna in nulla
.
D’altronde, chi tra noi
Può dirsi davvero sapiente?
I dottori? I sacerdoti?
I maestri? Le puttane?
O quei mediocri politicanti
Che gridano in piazza
Insidiose oscenità?
Ma fino a qui
È tutto ben chiaro:
Qui immolat bovem
Est qui interficiat virum;

Ed il piacevole lamento del grammofono
Lascia questa stanza in penombra
Così silenziosa,
Così misticamente ebbra di Nulla.
Veni, veni, o Oriens,
Perché il mio canto non è finito;
Veni, veni, Adonai,
Perché il mio canto
Non è accolto né amato.
I petali dei fiori
Germogliano, bruciando, dai morti
Mentre un cuore squarciato
Si macchia d’inchiostro
E bruciando si spegnerà,
Con un po’ di pazienza
Bruciando
Bruciando
O Signore, Tu mi cogli
Signore, Tu cogli
Bruciando


 
* "Il dolore stringe il mio cuore in una morsa di ghiaccio", coro de I Sette Contro Tebe (Eschilo), v. 833.

Angolo dell'autore
Il tono di questa poesia è molto diverso da quello della precedente. Dal "paradiso perduto" di Immortalità mi sposto in una dimensione più infernale: un fuoco che però prefigura una specie di purificazione interiore. Attendiamo tutti una rinascita che trasformi quel rogo in amore bruciante di carità. I primi versi si ispirano ad sogno fatto nella notte tra 26 e 27 marzo 2015, dove il senso, nel contesto onirico, era il seguente: il Cristianesimo afferma che solo chi è sepolto con il corpo potrà risorgere, durante il Giudizio Universale, ma i malfattori, senza un corpo, non potranno più peggiorare la loro condizione. In realtà è un'immagine che si presta a riflessioni diverse tra loro, e sono state più queste che il messaggio del sogno in sé ad avermi fatto ricorrere a questa metafora.
Ai vv. 7-8 c'è di nuovo una frase tratta da un sogno, fatto la notte tra il 16 e il 17 dicembre 2014, sempre dai risvolti infernali.
La prima frase in latino significa Uno che sacrifica un bue poi è lo stesso che uccide un uomo, ed è un versetto reinterpretato da Isaia, 66,3. Le altre sono tratte da Veni veni Emmanuel, un canto del periodo di Avvento risalente all’VIII secolo, in cui si chiede l’arrivo di un Salvatore che possa liberare dalla schiavitù il popolo di Israele. La frase riportata significa “vieni, vieni, Oriente”. La frase latina che segue contiene quello che in ebraico è una possibile interpretazione nella pronuncia del tetragramma divino.
Gli ultimi versi provengono da T.S. Eliot, The Waste Land, "The Fire Sermon".

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Capitolo 3
*** III - Un Piccolo Viaggio ***


III

UN PICCOLO VIAGGIO

 
"Nessuna voce parla più all’uomo, venendo da pietre,
Piante o animali; né l’uomo si rivolge a essi
Convinto che possano udire".
(Carl Gustav Jung)

Mi trovavo, qualche tempo fa
In una città sconsacrata,
O, per meglio dire, poco accogliente;
Ed entravo con te in un modesto esercizio,
Niente di che,
Per di più in una squallida periferia.
Ma un tempo,
Un tempo
Era dimora di un famoso profeta.
C’era una donna, al bancone
E vendeva, su polverosi scaffali,
Inutili oggettini,
Scatolette di tonno
Graffette arrugginite
Pettini sdentati
Molle di ferro
Coltelli spuntati
Libri privi di alcune pagine
Pezzettini di spago
Mine da disegno
Pentole senza manico
Bicchieri scheggiati sul bordo
Camicie sdrucite
Massimo due o tre fiammiferi
Bottiglie di plastica vuote
Qualche coccio di terracotta
Batterie scariche
Uno specchio crepato
E poi un calendario,
Vecchio di almeno sei o sette anni.
Proprio il tempo peggiore dell’anno
Per un viaggio, per un lungo viaggio come questo:

Per un piccolo, semplice viaggio,
E, tutto sommato, privo di piacere.
Ma nel cuore si innalzano
Le necropoli dell’anima,
Come alberi arsi all’alba
Da vive fiamme azzurre,
La cui fioca luce
È per chi li ascolta crepitare. 


 
Angolo dell'autore
L'ispirazione mi deriva dal sogno tra la notte tra il 22 e il 23 aprile 2015. Mi trovavo a casa del grande Carl Gustav Jung, lo psicoanalista che in un certo senso segna il mio modo di pensare e di scrivere; a torto si dice sia stato allievo di Freud, quando ha solo condiviso con lui una collaborazione in un determinato momento della sua vita - la loro formazione era agli antipodi. Jung teorizzava che non esistesse solo un inconscio personale (sede di traumi, desideri inespressi...) ma anche un inconscio collettivo, appartentente all'umanità intera, contenente gli Archetipi, paradigmi universali comuni a tutte le culture (la Madre, il Vecchio Saggio, Anima e Animus...). Forse qualcuno conoscerà il suo lavoro per i più famosi Tipi Psicologici. Nel sogno però lui non c'era, ma solo una delle sue figlie, che appunto stava ad un bancone di un negozio e vendeva cose inutili.
I vv. 31-32 sono d
a T.S. Eliot, Journey of the Magi.
Vorrei ringraziare chi mi sta leggendo e mi sta facendo sapere che ne pensa di questa raccolta (la prima che pubblico in EFP, tra l'altro).
Auguro a tutti voi tante belle cose.

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Capitolo 4
*** IV - Primo Nodo Lunare ***


IV

PRIMO NODO LUNARE
Δι. αὐτος ἐξέσωσ' ἐμαυτον ῥαιδίως ἄνευ πόνου.
Χο. οὐδέ σου συνῆψε χεῖρας δεσμίοισιν ἐν βρόχοις;*
 
Non che abbia nulla contro
Le vostre belle passeggiate
Ma camminare e camminare
Costruendo con pazienza,
Neanche fossero castelli,
Entimemi e sillogismi
Che se A quindi B
Dunque C e D necesse est
-Tertium non datur-

Ha qualche beneficio circolatorio?
Preferisco starmene a testa ingiù
Sognando universi
Che attraversare mille giardini
Di rose profumatissime
E destinate a marcire nel fango.
Voi fate così:
(Così mi insegnano il verso sciolto)
Salite milioni e milioni di scale,
E arrivati, trafelati, alla cima
Aprite la porta di un salone
Pieno di malati terminali.
Amate un Dio che vi siete creati da voi.
Non che abbia nulla contro
Le vostre belle passeggiate,
Ma possa morire lontano dai vostri Licabetti!
 
* Da Euripide, Baccanti. 
DIONISO: "Mi sono liberato da solo, senza fatica: è stato facile".
CORO: "Ma non ti aveva stretto, legato le mani?"
(Traduzione di D. Susanetti)
 
Angolo dell'autore
Una poesia un po' caustica, lo ammetto. Il titolo, Primo Nodo Lunare, è un riferimento astrologico. Nell'astrologia karmica, i nodi lunari sono due punti dell'oroscopo che segnano ciò che ci portiamo come bagaglio da una vita precedente e quello che ci porteremo avanti nella vita successiva. L'immagine del corpo a testa ingiù proviene dal sogno della notte tra il 4 e il 5 agosto 2014, ma la stessa idea è contenuta anche in una carta del Tarot di Marsiglia, Le Pendu. Quella della sala con i malati terminati proviene invece d
al sogno fatto la notte tra il 22 e il 23 dello stesso mese e dello stesso anno.
Il Licabetto era il monte vicino ad Atene dove sorgeva il Liceo (Λυκαβηττός). Il nome significa “collina dei lupi”. Secondo la mitologia, venne creato da Atena, quando lasciò cadere una montagna che stava trasportando da Pallene una volta accortasi che la cesta che conteneva Erittonio era stata aperta.

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Capitolo 5
*** V - Aphrodite Pandemos ***


V


APHRODITE PANDEMOS
« Improbe amor, quid non mortalia pectora cogis! »
(Virgilio, Eneide, IV 412)

Comincerò questo canto
Da una grande regina:
Comincerò da te, potente,
Invincibile Ellissa.
Ardet amans Dido
Traxitque per ossa furorem;

Eccoti, danzi come una cerbiatta
In preda ai deliri dell’Obliquo
Volteggi come una ballerina
A piedi nudi su vetri in frantumi
Uritur infelix Dido,
Totaque vagatur urbe furens;

Stremata, cade sul ferro lucente
Del figlio di Venere e Anchise.
Oh, sposa fedele di Acerbas!
Gli astri ti sono contrari
Ma non dar la colpa alla dea
Se tu stessa invochi i tuoi mali;
Sventurata, maledetta!
Quale passione infernale ti ha divorata!
Sventurata, maledetta!
E nessuna parola fu spesa per te,
Nessuna per tua bella città,
Oggi crollata. Macerie fumanti,
Palazzi in rovina,
Cessano solo ora gli ultimi roghi
Nel silenzio
Nel pianto
(Qualcuno la vede ancora, lì,
Piangere la sorte sua e dei sudditi).
 Nessuno levò grida acute nemmeno
Pour le petit Guinefort
Certo non vi fu un gran compianto,
Una cerimonia funebre in grande stile
Con le candele, la bara,
La processione, et cetera
Ma nessuno piangerebbe
Per un dannato cane bastardo!
Lance sul nefasto levriero,
E che se ne vada all’inferno!

Lui, che salvò l’infante tra le fasce
Dalle spire del nero serpente,
Lui, santo, che protesse il neonato
Da morte per veleno, e per questo
Ebbe in odio sua vita.

È su questi fiumi di sangue
Che siedo, e che ripenso a me e a te.


 
Angolo dell'autore
Eccomi da voi. La poesia di oggi non contiene riferimenti a sogni ma a due leggende.
La prima, più famosa, è quella di Ellissa/Didone, narrata da Virgilio nell'Eneide (i due passi latini sono proprio tratti dal IV libro: il primo significa "Arde Didone, amando, e ha tratto il furore nelle ossa", il secondo "Brucia Didone infelice, e vaga delirando per tutta la città"). Regina e fondatrice di Cartagine, Didone accolse Enea in una delle sue tante peregrinazioni verso l'Italia. I due si innamorarono ma quando Enea fu chiamato a ripartire, la sua amante si uccise dal dolore.
L'altro mito è cristiano ed è legato alla leggenda di un cane fatto santo durante il XIII secolo. Secondo la leggenda, il cane era di guardia in un castello dove il cavaliere suo padrone viveva col figlio, di pochi mesi. Tornando un giorno dalla caccia, il cavaliere vide che la stanza del figlio era stata messa a soqquadro, con la culla rovesciata, mentre il cane aveva le zanne insanguinate. Del bambino, ancora in fasce, non v'era traccia. Credendo che il cane lo avesse sbranato, egli lo uccise immediatamente con la sua spada; tuttavia, poco dopo sentì il bambino piangere e lo trovò illeso sotto la culla, assieme a una vipera uccisa dal cane. Esso, dunque, era stato protagonista di una lotta non per fare male al bambino, ma per salvargli la vita.


 

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Capitolo 6
*** VI - Le Chevalier de Coupes ***



VI
 

LE CHEVALIER DE COUPES



È giunto il tempo
Che questi miei versi,
Ebbri di sogni e di profezie,
Si accartoccino un poco:
Perché, se le figlie di Memoria
Mi cingessero di corona,
 Non avrei più di che dire,
O forse non sarei disposto a dirlo.
Com’è inopportuno
Quel torrido vento d’autunno
Che spira da sud:
Sparge sabbia sui balconi.
Ti cerco tra gli ailanti e i melograni,
Tra i salici che dicono piangenti
- Forse in ricordo della perduta Sion -
Cui appendemmo citharas nostras
(Una gelida brezza sulle mie lanterne
Ne estingue la debole fiamma).
Chissà chi ti diede il privilegio
Di toccare il mio corpo
Tempestandolo di desiderio,
E di vedermi così spesso tra le lacrime.
Quis mihi det te fratrem meum,
ut inveniam te foris et deosculer te,
et iam me nemo despiciat!

E com’è triste la sera che si passa
 Con l’album delle fotografie!
Mi raccontavi dei rovi del mare 
Dove muore, precipitando nell’indaco,
L’uccellino, l’ultimo canto
Alcyone, alato Alcyone
Nelle rosse sere di febbraio.
L’inverno non è mai arrivato
Tanto presto.


 
Angolo dell'autore
Qualche nota sui riferimenti e sulle immagini utilizzate. Il titolo significa "Il Cavaliere di Coppe", carta appartenente al gioco del Tarot di Marsiglia connessa all'emozione e alla leggenda di Parsifal in cerca del Graal. Le figlie di Memoria sono ovviamente le nove Muse, figlie di Mnemosine e di Zeus, preposte all’arte e all’ispirazione poetica. L'immagine della sabbia sul balcone mi deriva da un sogno fatto durante la notte tra il 29 e il 30 novembre 2014, e non tanto dal sogno in sé, in cui nuotavo in una piscina con della sabbia nel fondo, quanto dalla curiosa coincidenza legata al mattino successivo, quando ho trovato della sabbia portata dal vento ("di scirocco", a quanto vedo nel diario onirico) sul terrazzo di casa.  Gli ailanti sono detti anche “alberi del paradiso” e hanno provenienza orientale. Assieme ai melograni e ai salici, hanno un significato mortifero. Le citharas nostras provengono dal Salmo 137: "Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre", che descrive il lamento dell'esiliato a Babilonia dopo la caduta di Gerusalemme nel 587 a.C. Per la parte sul desiderio, vi rimando alla mia poesia Generazione, non di questa raccolta, ma ugualmente pubblicata su EFP (la trovate qui, se siete curiosi: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3681354&i=1). La persona citata, a cui penso andrà l'Alcibiade, compare spesso in sogni  in cui io piango sia di gioia che di dolore (paradigmatico il sogno tra 24 e 25 agosto 2014, ma anche di recente mi succede). La frase in latino viene dal Cantico dei Cantici, cap. 8: “Come vorrei che tu fossi mio/a fratello/sorella (…)! Incontrandoti per strada ti potrei baciare senza che altri mi disprezzi”. Il riferimento ad Alcione è da Ifigenia in Tauride, Euripide. Il mito tragico degli amori infelici di Alcione è stato ripreso in molte occasioni (da poeti molto più degni di me).

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Capitolo 7
*** VII - Et Clamavit Leo ***


VII

ET CLAMAVIT LEO

 
Et clamavit leo:
“Super speculam Domini ego sum” *

Se davvero hai un potere divino,
Perché non evochi un leone?

Perché non vorrei mai portarti
Quello che scavò la tomba
Di Maria Egiziaca,
Perché inizi a scavare la tua.
Perché non vorrei estirpare
La pianta che con fatica ho seminato
Con queste mani, e che ho cresciuto
Sul Nilo dell’anima.
Perché ho visto Iside,
L’ho toccata, ma ancora
Non sono certo che esista.

E la nostra è una nave
Che va a fondo
Dove si accendono,
Una ad una,
Gelide luci di emergenza.

 
E gridò il leone: "Io sto sulla torre di vedetta del Signore".
 
Angolo dell'Autore
Ciao! Da molto non aggiorno la raccolta, non perché non abbia più la volontà di concluderla ma perché l'ispirazione a volte manca. Questa settima poesia è di matrice egizia, dove il simbolo principale è il leone. La prima citazione è tratta da Isaia, 21, 8, ed è un'errata traduzione del testo ebraico. Infatti sulla vedetta non c'è davvero un leone, ma una guardia che è come un leone. E' stata però creduta la versione corretta nella Vulgata per molti secoli ed è proprio questo errore che mi ha ispirato la poesia: perché è un errore anche ciò che mi si chiede al primo verso, di "far comparire" quel leone. La forza e il potere psichico sono fatti interiori e non necessitano di manifestazioni fisiche o concrete. 
Sull'immagine dell'animale si gioca anche un contrasto tra la voce poetante e ciò che le è richiesto, le è strappato con la forza. Si veda anche l'immagine dell'Arcano XI - La Force, del Tarot marsigliese.
Maria Egiziaca è una santa egizia che, dapprima prostituta, si converte e fa propria la fede cristiana. Viaggia per l'Egitto con un leone, che alla fine le scaverà la tomba, che diventerà anche monumento sacro.
L'immagine della nave che affonda mi deriva sempre da esperienze oniriche.
 

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