Armonia e Caos

di FlyingBird_3
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Eccola che arrivava. La sentiva. La percepiva strisciare accanto a lei. La sensazione della paura, della morte, della fine.
Era la sua fine.
C’era già stata in quel posto, era familiare… ma quella sensazione che vibrava nell’aria era strana, diversa.
Era li, la stava per prendere. Voleva alzarsi ma non poteva. Voleva urlare e chiedere aiuto, ma non poteva.
Era tutto relegato nella sua testa.
Un peso che non riusciva a scorgere calò dall’alto senza preavviso, stringendo il suo corpo senza possibilità di liberarsene.
No! Non ancora!
Il fiato le mancò, respirare non le era più possibile; si dimenava da un lato all’altro, la vista ormai completamente annebbiata. Percepiva il suo torace alzarsi ed abbassarsi a ritmi velocissimi. Un fischio sonoro le impediva di sentire qualsiasi suono nella stanza, eccetto il suo annaspare.
No!! Non voglio morire così! Aiuto… aiu..
 
Gli occhi mi si aprirono di scatto, la sensazione di cadere mi fece fare un balzo sul letto.
Stavo ancora annaspando, il respiro più veloce di una macchina da corsa. Misi a fuoco per quanto mi fosse possibile al buio, e riconobbi dei tratti familiari intorno a me.
Ah… camera mia. Un altro di quegl’incubi.
Erano così spaventosi che ogni volta mi ci volevano parecchi minuti per riprendermi.
Feci un respiro profondo, mi girai su un fianco; presi il telefono e vidi che non c’era nessun messaggio.
Erano le quattro di notte e sapevo non mi sarei riaddormentata facilmente… che potevo fare?
“Già sveglia?”
Il respiro mi si mozzò in gola.
“Non pensavo ci saremmo rivisti così presto oggi”
Decisi di ignorare quella voce, mi alzai e andai in bagno.
“Non c’è da stupirsi se fai sogni del genere. Quella con cui era ieri sera era davvero una bella ragazza. E pure simpatica”
Digrignai i denti, sentendo un brivido di fastidio percorrermi lo stomaco.
Era solo un’amica.
“Quale uomo sarebbe solo amico di una del genere?”
Aprii il rubinetto e feci scorrere l’acqua, bagnandomi il viso per riacquistare un po’ di chiarezza.
“Insomma dai… hai visto che sorriso… che denti, che corpo? Puoi competere tu con una così? Tu, timida, insicura, che sogna ancora ad occhi aperti come un adolescente…”
Io ho altri pregi. Basta.
“Oh certo, ma non è con quelli che si va avanti ormai. Non è con la dolcezza e con l’arte che riuscirai a tenere un uomo a te. Tu non sei sicura di te, non sei sexy e non sei abbastanza alla moda”
Io non sono così. Non lo sono stata e non lo sarò mai.
Sentii un bruciore al petto; aprii lo sportello vicino alla doccia e presi una boccetta.
“Non è prendendo quelle gocce che cambierai la situazione. Lui non ti vuole, punto. Sei stata lasciata di nuovo, fattene una ragione. Non sei stata abbastanza nemmeno stavolta”
Mandai giù un sorso, stringendo gli occhi per non far scendere le lacrime.
“Non ti vuole. Forse non ti ha mai voluta, e di certo se non ti sta cercando vuol dire che sta meglio senza di te”
Basta.
“Ma è la verità. Lui vive benissimo senza di te, ma tu non senza di lui. Sei tu il problema, capisci?”
 Basta ti ho detto.
“Non sei abbastanza…”
BASTA!!!!
Lanciai la bottiglietta contro il muro di fronte a me, e andò a finire in mille pezzi.
Rimasi accoccolata a terra, piangendo con la testa tra le gambe per non so quanto tempo… e alla fine mi addormentai.
Era una fortuna essere a casa da sola.
Non so se sarei mai riuscita a superare la storia con Giò. Da quando se n’era andato mi aveva lasciato in un mare di tristezza: vivevo in mezzo agli squali… e quegli squali erano i miei mostri.
Erano la mia insicurezza, la mia solitudine, la mia paura.
Erano sempre li a ricordarmi il passato, a far affiorare il mio panico.
Vivevano con me, respiravano con me.
Venivano a terrorizzarmi in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo.
E fu così che imparai a riconoscerli… e cercai di fare quello che mi riusciva meglio con loro. Li dipinsi.
 
*
 
Un’altra serata di merda era appena finita. Per quale cazzo di motivo il Jack (Daniels) lo faceva stare così bene non lo sapeva nemmeno lui.
Ora però si sentiva uno schifo.
Accostò la macchina al marciapiede, e senza curarsi se qualcuno lo vedeva, aprì lo sportello e vomitò al di fuori.
Bello schifo. Bella vita di merda.
Sarebbe dovuto tornare in quel buco di appartamento da solo pure stasera. E domani. E dopodomani.
Per non dimenticarsi che dopo qualche ora avrebbe avuto il turno mattutino al lavoro.
Luca si sfregò il volto con le mani, assaporando uno strano gusto metallico sulla punta della lingua.
Tutto sembrava andare storto, e per ogni cosa bella ne accadevano dieci di brutte.
Alzati, si ripeteva, fallo per te. Tu sei diverso da tutta questa merda.
Accese la radio, e subito le note della sua canzone preferita lo fecero tornare coi piedi sul sentiero positivo.
Sarebbe tornato a casa e avrebbe scritto. Si, avrebbe fatto così.
Doveva buttare quelle emozioni da qualche parte, e avrebbe infilato parole come lame tra le barre quella notte.
Era il suo unico sfogo, la sua unica via d’uscita. I libri, lo scrivere… lo avevano sempre riportato a casa. E per casa non intendeva dov’era la sua famiglia, no quella non l’aveva più da anni, ma dov’era il suo cuore.
Un posto piccolo, raccolto e confortevole dove solo poche persone potevano entrare; si poteva dire che questo luogo fosse rinchiuso in un’alta montagna circondata da ghiaccio. E chi oserebbe oltrepassare un posto del genere?
Luca riprese a guidare, le strade deserte e poco illuminate sfrecciavano davanti ai suoi occhi; non si incrociava nessuno in quel quartiere a quell’ora, se non vagabondi e ubriachi stanchi della vita.
Trovò parcheggio vicino casa e si trascinò su per le scale dando una spallata alla porta; tirò fuori le chiavi dalla tasca e dio solo sa quante testate dette prima di indovinare il buco della serratura.
Dall’altra parte del pianerottolo uno spioncino si aprì, e un occhio curioso sondò la situazione; appena la luce a tempo del palazzo si spense, così fece anche l’impiccione.
Aprì la porta e si lasciò cadere sulla sedia della cucina, sospirando profondamente; un altro sforzo e ce l’avrebbe fatta ad accendere quelle dannatissime candele.
Frugò nella tasca destra dei jeans e vi trovò l’accendino; solo dopo numerosi tentativi riuscì ad accendere due piccole candele quasi consumate che riposavano sul tavolo. Ed ecco che in men che non si dica l’atmosfera era pronta: due piccole fiammelle danzavano davanti ai suoi occhi, facendo da cornice ad un foglio scarabocchiato ed una penna che non aspettavano altro che il loro padrone venisse a prenderli.
Era tutto lì quello che gli serviva. Un foglio, una penna ed il suo cuore.
Luca iniziò a scrivere, la biro che sembrava danzare sotto la sua mano, fermandosi di tanto in tanto per correggere qualcosa o per pensare.
Andò avanti per così tanto tempo che la luce dell’alba prese il posto di quella fioca delle candele; quando se ne rese conto digerì il fatto che quel giorno non avrebbe chiuso occhio.
Si alzò e si preparò un caffè, ma dentro di lui sapeva che era solo il primo di una lunga serie; nonostante la brutta serata si sentiva euforico, svuotato di una qualsiasi emozione negativa.
Una doccia calda lo aspettava, e lui era carico per affrontare quella giornata: nessuno si sarebbe però aspettato che quello sarebbe stato il giorno in cui la sua vita non sarebbe stata più la stessa.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


La mattina mi risvegliai un po’ stordita, stesa ancora sul pavimento del bagno e la sveglia della camera come sottofondo; la testa mi pulsava fastidiosamente, e avevo male alle gambe forse per aver dormito a terra.
Agganciai le mani al lavabo e mi tirai su, osando guardarmi allo specchio: la faccia non sembrava particolarmente sofferente, ma avevo dei terribili cerchi neri intorno agli occhi. Va bene, pensavo peggio… niente che con un po’ di trucco non possa essere sistemato.
Mi preparai, feci colazione e uscii di casa, tutto nella più normale tranquillità. Com’era stato possibile quell’episodio la notte prima?
Con i Sex Pistols nelle orecchie andai verso la fermata dell’autobus di buona lena, ed arrivai all’accademia puntuale come ogni giorno.
Quello era un giorno speciale per alcuni di noi: la scuola era stata incaricata di un lavoro speciale da parte di un ricco proprietario romano.
L’appuntamento era per le otto nel giardino di fronte all’entrata; erano stati selezionati solo alcuni alunni, e tutti eravamo all’oscuro sui motivi per i quali erano state scelte determinate persone a dispetto di altre. Molta gente con un estro artistico pazzesco era stata lasciata fuori, nello stupore generale; l’unica spiegazione a cui ero arrivata era che i professori volessero dare una possibilità a quelli meno “navigati”.
Il lavoro stava nel decorare l’interno di un nuovo hotel della capitale, ed era una di quelle occasioni che se ti capita devi fare di tutto per prenderla.
Per conto mio, non avevo fatto nessuna ricerca sul posto, ne mi ero informata sul tema dell’hotel. Non avevo fatto letteralmente niente per allargare i miei orizzonti inspiratori, ma contavo sul fatto che mi sarebbe venuta qualche idea una volta arrivata là. O almeno ci speravo.
Mentre aspettavo l’arrivo dei mancanti davanti a me c’era Anna, la cocca di tutti i professori, che stava snocciolando le ultime notizie sul fidanzato alle sue amiche; quanto la odiavo. Guardai i suoi occhioni azzurri che guizzavano qua e là, circondati come sempre da ciglia chilometriche.
Per quanto mi sforzassi non riuscivo a trovare un lato positivo in quella ragazza: piena di sé, orgogliosa, egocentrica, bella e fastidiosamente brava nel disegno.
Dio, ma perché non sei stato generoso con tutti quella volta?
“Oh dovevate vederla! Era bellissima, una terrazza sopra il colle, affittata solo per noi due… poi mi ha fatto trovare questo pacchettino sopra il tavolo con l’anello Tiffany dentro. Ma quanto dolce è?! È solo il terzo anello che mi regala! Quasi mi ci sto abituando!”
Alzai gli occhi al cielo, pensando fottuti ricconi. Tirai fuori una sigaretta e me la fumai, spostando la mia attenzione sui fili d’erba che si piegavano al vento: di certo più interessante dei discorsi di quella gallina.
“Ragazzi ci siete tutti? Ci incontriamo al punto stabilito tra mezz’ora. Mostrate il cartellino al portiere appena entrate, lui vi porterà nella sala in questione”
La voce ridondante della prof. Cassino mi riportò a terra, quando la mia testa stava già iniziando a prendere il volo: la vidi farsi strada tra gli studenti, sempre elegante e giovanile nonostante l’età.
Ci dirigemmo verso i mezzi pubblici, ognuno scegliendo quello che più gli conveniva; io seguii la massa, testa bassa, seconda sigaretta alla mano.
Giò dove sei ora?
 
*
 
Appena arrivai rimasi stupita dall’aspetto dell’hotel: sembrava uno di quegl’edifici anni venti, a metà tra il futuristico e il bizzarro; le finestre sembravano delle onde del mare, ed il tutto mi ricordava le opere di Gaudí.
Quando entrai dentro l’aspetto invece era particolarmente nella norma.
Eravamo tutti ammucchiati nella hall, un’enorme spazio con volte a crociera ed elegantissime colonne in granito rosa, ognuno con il suo taccuino e annessa penna alla mano; nonostante nessuno di noi sembrasse particolarmente rapito dai bianchi muri spogli, in realtà c’era un’atmosfera di competizione che poteva essere tastata con mano.
Dopo qualche minuto d’attesa ecco arrivare un uomo basso e grassottello, dalla pelata lucida e dai piccoli occhi scuri: era vestito elegante, talmente elegante che stonava in modo fastidioso nell’entrata spoglia dell’hotel.
“Buongiorno ragazzi. Benvenuti nel mio hotel. Come vi avranno spiegato, è stato riaperto da poco, e i segni del recente restauro sono evidenti. Non voglio dilungarmi molto. Prego seguitemi”
L’uomo ci fece segno di seguirlo, e notai che il suo sguardo si posò un secondo di più sulle curve della prof Cassino. Uomini.
Ci fece entrare in una sala che aveva l’aspetto di una da ballo, non molto diversa dall’entrata; una cosa che mi saltò all’occhio, era che quel posto era davvero spoglio.
“Ecco ragazzi, tutte queste pareti sono a vostra disposizione. Vorrei vederle prendere vita, come se avessero delle storie da raccontare. Ora vi lascio al vostro lavoro, ed io ritorno al mio”
L’ometto uscì e noi potemmo iniziare il nostro compito: ci sedemmo per terra, sparpagliati per la sala. Era un po’ scomodo, ma non c’era altra soluzione.
Presi in mano la matita e abbozzai degli angioletti che cadevano dal soffitto. No, troppo scontato.
Girai il foglio e provai con delle ghirlande di fiori: troppo scontate. Cosa dovrebbero raccontare delle ghirlande di fiori?
Provai, provai e riprovai, ma il risultato era sempre lo stesso.
Per quanto mi sforzassi sembrava non uscirmi niente dalla matita: solo stupidi schizzi, anonimi e vuoti come la persona che stavo diventando. Già, che stavo diventando?
Ripensai a Giò. Perché mi aveva lasciato? Perché se n’era andato senza una spiegazione?
 
Perché sei sparito così amore mio? Il mio affetto per te non bastava?
Le mie carezze non calmavano la tua sete di mondo? Nei miei occhi non ci vedevi il calore e la tranquillità di casa?
 
Improvvisamente, nel silenzio della sala interrotto dallo strisciare delle matite, sentii distintamente il battito del mio cuore riecheggiare nel vuoto.
 
Non è mai stato interessato a te, altrimenti una spiegazione te l’avrebbe data; si è semplicemente divertito finché gli ha fatto piacere. E poi ti ha buttata come carta straccia, come se non valessi niente.
 
Ancora quella voce.
Mi guardai intorno nervosa, impaurita dal fatto che qualcuno la potesse sentire a sua volta; passai lo sguardo tra la gente ma nessuno sembrava dare segni di essere con i piedi per terra.
Ma che mi stava succedendo?
 
Una persona così interessante non potrà mai volerti al suo fianco. Non sei abbastanza per lui. Non sei abbastanza in niente.
 
Iniziai a sentire il sudore freddo imperlarmi la fronte, brividi scendermi lungo la schiena; non riuscivo a stare ferma, le gambe tremavano furiosamente. Dovevo andarmene da li.
Cercai di alzarmi senza dare troppo nell’occhio, ma ogni gesto che compivo sembrava il passo di un elefante in un negozio di cristalli.
Inspirai silenziosamente cercando di mantenere la calma ma inciampai nel giubbotto di un ragazzo; mi caddero alcune matite sulla sua testa, e lui si girò con aria minacciosa.
Gli feci cenno per scusarmi e notai con orrore che le mani mi tremavano leggermente. Ripresi il mio cammino, ormai incurante del fatto che mi vedevano correre; girai l’angolo e trovai altri corridoi. Girai un altro angolo e trovai un altro corridoio; dove cazzo finiva quel maledetto posto? La vista mi si appannava a tratti, nelle orecchie ancora quel fastidioso fischio.
Quando girai l’ultimo angolo andai a sbattere contro  una sagoma nera: arretrai di qualche passo, un rumore indistinto vicino a me. Mi girai per vedere cos’era, e l’unica cosa che ricordo era un volto incorniciato da due occhi scuri.
“Ehi aspetta…”
Ripresi la mia corsa e trovai una porta aperta: mi ci infilai dentro e la richiusi.
Scivolai a terra ansimante, le lacrime mi sgorgavano a frotte; che cosa stavo diventando? In che mostro mi stavo trasformando?
Non avevo le gocce con me, quindi avrei dovuto trovare un modo per calmarmi da sola.
Maledetta me, maledetto il fatto che mi ero innamorata di quel ragazzo. Avrei dovuto rimanere da sola, sola, sola con i miei demoni…
 
 
Luca rimase perplesso. Si guardò intorno, cercando di capire che cosa era successo, ma non vide la ragazza da nessuna parte.
Le avrebbe lanciato volentieri addosso quello stupido quaderno con cui l’aveva quasi falciato; lo raccolse da terra con stizza e lo osservò. Aveva una copertina blu con dei piccoli puntini bianchi, a imitazione di un cielo stellato. All’interno della prima pagina c’era quello che doveva essere il nome della ragazza, scritto in piccolo in un angolo, e al centro una frase scritta in bella calligrafia:
 
Cammina leggero, perché stai camminando sopra i miei sogni

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