La fatica dei sogni

di Kimmy_90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** 1. Dei neri bianchi, dei bianchi neri ***
Capitolo 3: *** 2. Lento il passo, greve il grido ***
Capitolo 4: *** 3. Caos calmo ***
Capitolo 5: *** 4. Anima e Tomba ***
Capitolo 6: *** 5. Post Mortem ***
Capitolo 7: *** 6. Tempora, Actio: Seditio, Contraria Vis. Fuga, Timor, Dubium. Repetere. ***
Capitolo 8: *** 7. Gli occhi ***
Capitolo 9: *** 8. Figlie del Fuoco ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


oneshot minato






Nera s’appoggiava la notte sulla linea dell’orizzonte, definibile a stento nel buio limpido e freddo. Lì, in fondo, s’ergeva un’interruzione violenta del confine fra la terra oscura ed il cielo stellato, come il tronco tranciato d’un enorme albero oramai morto da tempo.

Passo lento e perplesso, sguardo azzurro e vigile, capelli biondi sotto la luce della luna ridotta a falce: un bambino camminava lungo una delle infinite strade di Konoha, guardandosi attorno, costringendosi a non esser spaurito.

Non una luce, per strada: solo quella che pareva scivolare fuori dalle abitazioni, dalle fenditure dei palazzi sigillati, dalle porte sprangate nella prima ora dopo il tramonto.

Lui non aveva paura, si ripeteva.

Non fino a quando non lo afferrarono per la collottola, trascinandolo oltre una porta e lanciandolo violentemente su un pavimento di legno.



***



Non fece nemmeno in tempo a gridare, l’urlo gli morì in gola. Chiuse gli occhi, si sentì volare, si sentì atterrare e rotolò, raccolto.

"Dico, ma sei fuori di testa?"

Quello, malamente seduto per terra ed intontito, non rispose. La donna, con due occhi verdi che parevano poter prender fuoco da un momento all’altro, gli si fletteva addosso minacciosa – pugni ai fianchi e l’ira affossata in ogni singola, piccola, ruga.

Il bambino si limitò a fare di no con la testa.

"Hai idea di cosa poteva succederti?" continuò quella, levando ulteriormente il tono.

Il bambino fece di sì.

"E quindi?"

"Matre, ero solo andato a controllare..." - non fece in tempo a finire la frase, iniziata con mogia calma, che quella sovrastò la sua voce tenue ed ovattata, concludendo per lui: "I bianchi, eh?"

Il bambino annuì, rimessosi, nel mentre, in piedi.

"Sasori sta male."

La donna fletté le labbra verso il basso in una smorfia di disperazione rassegnata e furibonda: aprì le labbra per urlare, ma non lasciò un solo sibilo attraversarle le corde vocali. Continuò a guardare il bambino, a lungo, attonita, iraconda e terrorizzata al contempo.

Proprio dai bianchi vai a cacciarti, cretino - avrebbe voluto urlargli. Non solo di notte, non solo da solo, dai bianchi, vai, tu.

Non mi interessano le tue motivazioni, gli avrebbe strillato, dopo che quello avrebbe preso a spiegarle perché, sì, proprio dai bianchi, proprio da Sasori, proprio di notte, era andato.

Non mi interessa quello che dice la Politeia, dannazione - avrebbe insistito, dopo che lui avrebbe preso a citare il primo articolo, sezione tre, dell’Alma Politeia che tenevano appesa sopra il letto di ognuno.

Mi interessa che tu torni a casa vivo, avrebbe specificato, dopo che lui, inamovibile, gli avrebbe chiesto ‘e cosa ti interessa, allora’?

"Matre."

La voce del bambino la distolse dai suoi dialoghi mentali. Dialoghi che aveva già visto, già sentito dal vivo: battaglie già fatte, parzialmente perse, giorno dopo giorno, col figlio, da mesi. A memoria, ormai: la stessa identica conversazione.

Aveva rinunciato a perpetuarla, perché odiava, odiava terribilmente il momento finale di quella specie di litigio, che, sempre ed inevitabilmente, si ripeteva.

"Vai in camera tua." Tagliò corto lei, acida.

Il bambino non se lo fece ripetere due volte, ma non andò affatto via mortificato - anzi. Annuì ubbidiente e prese a salire le scale con l’orgoglio di chi ha perso una battaglia combattuta in modo egregio.

Onore, ecco.

Una battaglia persa con onore. Totale, supremo, giusto onore.




- Matre, ma Sasori sta male, e a me interessa che lui rimanga vivo come a te interessa che rimanga vivo io.

- Non è la stessa cosa, Minato! Hai otto anni, si può sapere dove vuoi andare di notte a otto anni di questi tempi, eh? A farti ammazzare dai secessionisti? Sai benissimo che la casa di Sasori è a rischio continuo, e pure di notte, ci vai! Stai cercando di suicidarti, eh? Dimmelo, almeno così sarai sincero!

- Ma io... ma no, Matre, ma Sasori...

- Di notte! Buio pesto! C’è un motivo se ci chiudiamo tutti in casa, ti verrà forse in mente - eh?

- Sì, certo, lo so, ma...

- Basta "ma"! Vai in camera tua, stupido figlio suicida!

Allora Minato taceva, la guardava, annuiva - e prendeva, fiero e meditabondo, a salire le scale.







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Alma Politeia



La Politeia è base di tutte le leggi. La Politeia è un modo di vivere. La Politeia è l’insieme dei nostri ideali e sogni, nati in una mattina di rivoluzione, scritti in anni di dura ricostruzione.


La Politeia è insindacabile.

Il cammino per cambiare la Politeia è descritto nella Politeia stessa, ed esso è tortuoso, poiché tortuoso fu generarla.


Scriviamo la Politeia sperando di costruire un mondo migliore per ogni singolo essere umano che lo popola.

Speriamo che chi, mai, oserà stracciare la Politeia, lo farà solo perché noi abbiamo fallito, ed egli ha un’idea più funzionale e meritevole della nostra.


Ci rimettiamo, umilmente, al giudizio del tempo.


[I costituenti]






UNO


1. Tu, essere umano, sei cittadino, chiunque tu sia.


2. Tu, cittadino, sei padrone e timoniere della tua vita. Tu e tu solo decidi, entro i limiti del libero arbitrio altrui, cosa fare della tua esistenza. Non saranno la razza, il sesso, l’età, le menomazioni, il pensiero, le particolarità genetiche a fermare il tuo incedere, perché la Politeia farà in modo che nulla, in alcun modo, sia d’ostacolo alla tua volontà. Nel dirigere la tua vita, cittadino, spesso fallirai; ma mai e poi mai ti sarà negato di ritentare.


3. Tu, cittadino, difenderai gli altri con lo stesso ardore con cui difendi te stesso e chi ti è caro. Per questo non porrai fine alla vita di un altro cittadino se non sia espressamente lui a domandartelo, per questo assisterai qualunque cittadino in difficoltà, per questo aborrerai la violenza, imparandone gli orrori solo per saperla odiare a dovere, e mai per far danno se non per necessaria difesa.


4. Gli stessi diritti e gli stessi doveri saranno riconosciuti a tutti i cittadini: nessun privilegio, economico o legislativo, sarà riconosciuto ad alcun genere di casta sociale, elitaria, razziale, sessuale, d’etade o di pensiero o peculiarità genetica, mai.


5. Tu, cittadino, sei figlio del passato e padre del futuro. Apprendi e insegna, non dimenticare mai. Vivi il presente costruendo dalle macerie del passato: ciò che fai appartiene ai tuoi figli, ciò che sei lo devi ai tuoi avi. Sii un buon figlio, sii un buon avo.


6. Contribuisci al benessere generale, cittadino, e difendi la tua libertà e quella di qualunque altro cittadino, sempre.





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[Cristallo di Sale]

MINATO - La fatica dei sogni





Nei giorni in cui il cielo era terso poteva scorgere l’altipiano del Ludus dal tetto della sua casa, a patto di sporgersi un po’ per vedere oltre il palazzo di fronte. Dicevano, sia i vecchi che i giovani, che il Ludus era visibile praticamente da qualsiasi punto della regione del fuoco, ed anche da parte di quella del vento. Il Ludus sorgeva, così la vedeva lui: sorgeva dal terreno e cercava di avventurarsi verso il cielo - ma il suo moto era stato tranciato, violentato, bloccato da qualcosa di inumanamente potente. E così si era fermato, quel monte tranciato in due che, ciò nonostante, ancora rimaneva a scrutare il cielo - ed ancora, in segreto, tendeva ad ascendervi invano.

A Minato certo la fantasia non mancava. Di storie ne aveva sentite, ma le sensazioni che lui per primo provava di fronte a certe visioni le superavano di gran lunga.

Si sedette sul letto, ancora intento ad assorbire il litigio di poco prima - se così lo si poteva chiamare.

Sua madre, a volte, sembrava una creatura sconsideratamente ottusa: possibile che riuscisse a dar di matto per lui, e non si curasse mai troppo di Sasori e gli altri? Tutta Konoha era avvolta dal terrore dei guerriglieri secessionisti, ed i bianchi, in città, erano i primi a pagare lo scotto. Talmente a rischio da non riuscire ad andare agli uffici d’igiene quando stavano male, perché era più probabile morire entro il tragitto che per la malattia - era comprensibile, per loro; ma altrettanto comprensibile era che Minato cercasse di portargli l’ASA. Che ci andasse di notte era pura questione di strategia - era più difficile essere notato. Credeva lui.

E poi cosa poteva mai fare un secessionista ad un bambino? Non aveva nulla da guadagnarci ad ucciderlo, se non l’ira della popolazione del quartiere.

Minato ragionava con logica, sua madre non poteva negarlo: purtroppo, però, ad otto anni non aveva ancora tutti gli elementi per poter completare il ragionamento - così gli diceva - e quindi c’erano sempre dei ma e dei però che al bambino sfuggivano.

Si tolse i vestiti, infilandosi sotto le coperte.

Eppure, in fondo, era facile.

Bastava seguire la Politeia, non serviva mettersi a fare i se, i ma e i però.

Si rigirò, sbuffando.

Oh, lo sapeva lui per primo che erano i se, i ma e i però il problema fondamentale, per tutti. La Politeia era una guida, continuamente ricontrollata, mai corretta ma sempre messa in discussione.

Lo aveva fatto lui per primo, a scuola.

Come possiamo migliorare la Politeia?

Idee su idee di bambini allevati dopo l’anno zero, dopo la morte di Naruto Uzumaki, avevano rigirato la Politeia in tutti i modi possibili. La Politeia non era mai sbagliata, perché c’era sempre qualche altro bambino che faceva notare delle incongruenze nelle proposte di modifica altrui.

Alla fine non la toccava nessuno.


E intanto i secessionisti davano fuoco ai granai, alle case dei bianchi, ai campi. La notte era loro, dei guerriglieri, che andavano in giro a distruggere cose, saccheggiare empori, negozi, picchiare persone ed ogni tanto ucciderne. A suon di botte rabbiose, a ‘scopo dimostrativo’, dicevano poi, rivendicando - dimostrativo di cosa?

Erano passati gli anni in cui la popolazione e l’arma aveva la forza di contrastarli.

Loro insistevano. E insistevano.

Così aveva giustificato sua madre le serrate notturne, l’abbandono.

Insistevano. Non si fermavano.

Comparivano i ma. Iniziavano i però.

Era meglio stare chiusi in casa che vedere dieci militari al giorno morire.

Ma.

Però.

Però.

Ma.


Ma prima, diceva la bisnonna, era peggio.

E il suo volto rugoso, su cui ancora si intravedevano le sei vecchie cicatrici dei rivoluzionari, sorrideva.



- Anche se prima era peggio, adesso non è "bene".

- No, bambino mio. Lo so.


- Ma...

- Dimmi, bambino mio.

- Ma è mai stato "bene"?

- Importa se è stato o se sarà?

- Beh...

- Il passato è andato. Il futuro è tuo.

- Lo so.

- Fai in modo che sia bene.

- Ma se non ci siete riusciti voi..?

- Ci sono istanti in cui è stato bene, Minato. Ci sono sempre. Sono i momenti in cui pensi che possa andare bene, ed inizi a rimboccarti le maniche. Allora va bene, stai bene. Tutto funziona.

- E dopo?

- E dopo dipende da te.



"Minato! Muoviti!"

Si levò a sedere mogio, assonnato, infreddolito - la coperta era finita in fondo al letto, relegata lì durante un sonno agitato. Si avvicinò alla finestra, dalle cui imposte sigillate fluivano piccole lame di luce. Fece per aprirle, ma sua madre fu più tempestiva dei suoi movimenti lenti ed addormentati:

"Scendi!"

Si grattò la nuca, cercando di non rotolare per le scale.

C’era un sole abbagliante, i cui raggi bollenti si sentivano immediatamente sulla pelle. Si stropicciò gli occhi, trovando con sorpresa la colazione pronta. Sua madre, corrucciata, lo fissava dal lato opposto del tavolo.

"Buon giorno, Mater." mormorò il bambino.

"Muoviti. Inizi le lezioni fra meno di mezz’ora."

"Grazie per la colazione, Mater."

"Mh." grugnì quella.

Era un modo per scusarsi del litigio.

Minato lo sapeva: le sorrise, sedendosi.

Silenzio.

Prese a mangiare prima di rendersi conto della mancanza di rumore di fondo: il cucchiaio in mano, levò lo sguardo sulla donna, perplesso. "Non ascolti la radio?"

"No."

Minato corrugò la fronte.

"Come mai?"

"Vuoi sentire la radio? Basta dirlo."

Si strinse fra le spalle. "Posso anche fare a meno."

Il silenzio tornò, come una nebbia, ad impregnare l’aria della casa.


"Ciao."

"Stai attento, Minato."

"Sì, Matre."









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Ciao a tutti.

Hem.

Non so cosa succederà di questa storia, sinceramente. Metto da subito scritto "incompiuta", perchè la vedo dura.

Questo dovrebbe essere un’idea di prefazione del terzo "volume" della serie cristallo di sale. Mi diverte fare le cose al contrario, se si nota.

Mi spinge ad abbozzare qualche capitolo, principalmente, la situazione politica ed economica attuale, mondiale. Da Utoya a Londra, pensando anche al Senegal, al giappone, al sudamerica, a miliardi di cose.

Prendetelo come uno sfogo, al momento. Forse .

Vedremo.

Boh.








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Capitolo 2
*** 1. Dei neri bianchi, dei bianchi neri ***


1bis






(1) – [ Dei neri bianchi, dei bianchi neri ]






Controlla sempre che le tue scarpe siano intere, prima di uscire, e usa solo calzature comode, con cui puoi fuggire senza rischiare d’inciampare.

Non uscire mai con un bagaglio più pesante di quello che puoi trasportare in corsa, e se proprio devi differenzia il carico, in modo da poterti liberare di una parte di esso per non essere impedito nei movimenti.

Appena uscito, annusa l’aria: se c’è un incendio, si sente. Controlla il vento, osserva la corrente dei passanti, scegli il tuo percorso cercando di evitare le zone di rischio.

Cammina sempre in mezzo alla gente, ma non andare mai dove ci sono masse troppo dense.

Evita come la peste i vicoli ciechi, controlla sempre con gli occhi dove sono le strade laterali, quanto è lungo il quartiere che stai attraversando, identificando sempre almeno due vie di fuga.

Guai a dimenticarsi la piastrina d’identificazione, o all’ufficio di igene, quando ti farai male, avranno difficoltà ad aiutarti.

E quando cammini, oltre a guardare bene dove vai, osserva gli occhi della gente. Gli occhi, dice sempre l’Anziano Kankuro, sono lo specchio dell’anima: studiali, ed imparerai a riconoscere un guerrigliero senza averne mai visto uno.

Non abbassare mai la guardia. Sii vigile.

E se hai anche il minimo sospetto, allontanati.




Minato si sporse dalla porta di casa ed iniziò il suo piccolo rituale di preparazione: anzitutto si flesse, passando le mani sugli stivaletti di cuoio e tela verificando che fossero tutte intere - ok, c’era un buchino all’altezza della caviglia, ma non era affatto un problema, si convinse. Inspirò, rialzandosi in piedi.

Non aver ascoltato la radio lo faceva sentire indifeso: di solito quello era il primo modo per sapere se era successo qualcosa di importante - così, invece, non ne aveva idea. D’altronde, se sua madre aveva spento la radio probabilmente non era successo niente – passavano decine e decine di giorni senza che succedesse niente.

Guardò a destra e a sinistra, nella strada polverosa, scrutando le espressioni delle persone che vi camminavano: taluni assorti, altri distratti. Le parole che l’Anziano Kankuro predicava in continuazione gli erano ben piantate in testa: gli occhi sono lo specchio dell’anima - eppure Minato non era affatto convinto di saper vedere negli occhi della gente. Si limitava ad osservare e basta, cercando di capire dall’eventuale cruccio sul volto degli adulti e dei bambini se arrivavano da una zona disastrata o qualcosa del genere - ma la verità era che non riusciva assolutamente a distinguere il cruccio generico, mattutino, della vita, da quello di chi aveva appena assistito ad un incendio o, addirittura, un pestaggio a cielo aperto.

Dilatò le narici, sperando che almeno l’odore dell’aria gli potesse portar consiglio.

Sapeva di terra. Era un buon odore, odore di pulito e di vita che freme.

Di ordine disordinato, come quello dei boschi - ma i boschi hanno tutt’altro odore, si ripeteva il bambino. Eppure...

Sistemandosi i legacci della piccola sacca che portava in schiena, prese a camminare, infilandosi in una zona di vuoto che s’era creato fra i passanti.


Konoha, città sede del governo della Magna Regio in cui erano confluite Ignis Regio e Ventii Regio solo sei anni dopo l’anno zero, era un ammasso di costruzioni nuove e vecchie che si ergevano su strade delle più svariate dimensioni: dagli immensi viali che portavano ai palazzi del governo sino alle stradine strette fra due case del secolo precedente - anfratti in cui si rischiava di restare incastrati, letteralmente. Era un posto affollato, nelle cui vie si riversavano persone di ogni genere, età e provenienza. Per quanto enorme, non era affatto una città sporca: aveva un discreto sistema fognario magistralmente occultato, acqua corrente alle fontanelle, ai bagni pubblici e agli istituti d’igiene. Dove le cose dovevano essere pulite, erano immacolate, disinfettate in continuazione: per il resto, c’era ancora l’antica cultura contadina, dell’una e dell’altra Regio, a far sì che la popolazione prestasse massima attenzione alla pulizia minima, al vago ordine, alla disciplina necessaria ad evitare epidemie dovute al lerciume o al riunirsi sconsiderato attorno ai malati. I continui incendi e devastazioni dei secessionisti non riuscivano a renderla sporca: semmai disordinata. La solerzia inarrestabile dei cittadini faceva sì che le zone colpite venissero risanate a tempi record, dato che ognuno collaborava a renderle ripresentabili: ciò nonostante, nell’incedere, era bene verificare che per terra non ci fossero vetri, frammenti, legni, pezzi d’assi bruciati.

L’aria, così, o sapeva di terra, o sapeva di pioggia, o sapeva di fuoco.


Minato avanzava in mezzo alla gente, attenta, tutta, a non creare calca ove non fosse necessario: almeno un metro e mezzo fra ognuno, se non di più. Era un traffico possente, attento, coordinato, di persone: ogni tanto compariva un carretto al traino, ma mai nulla di più pesante di un centinaio di chili. Negli ultimi vent’anni avevano fatto la loro comparsa oggetti come le biciclette e i motocicli, sino ai quadricicli: erano però, tutti, stati confinati alle zone periferiche, e venivano usati per gli spostamenti nella campagna, negli spazi aperti, al pari di cavalli o carri – oggetti troppo pericolosi, dalle città erano stati banditi prima ancora che qualcuno osasse usarli.

Perché in fondo, il popolo del vento e il popolo del fuoco erano abituati da sempre muoversi a piedi.

Minato si guardava attorno, cercando con lo sguardo l’edificio della Scuola a cui era stato assegnato in quei giorni - H04A: rosso acceso, come un faro in mezzo alle costruzioni bianche e beige. Difficile da non notare, come tutti gli altri, del medesimo colore.

L’idea arrivava dalla cultura del deserto, dei bianchi, del vento: gli edifici scolastici erano rossi per essere riconosciuti subito dai bambini, che dovevano arrivarci anche da zone lontane. Nel sistema della Magna Regio, la ragione era doppia: i bambini cambiavano in continuazione edificio, anche nello stesso giorno, rigorosamente da soli: avere un colore di riferimento li aiutava a non perdersi.

Minato iniziò a deviare.


***


Il rappresentante dei bianchi si passò la mano sotto il naso, scuotendo lentamente il capo.

Era un ragazzo grosso, alto, forse troppo giovane, pensò Sakura.

L’anziana si sistemò sulla sua poltrona, disposta, assieme alle altre, in cerchio. Il ragazzo era in mezzo.

Accanto a lei, due poltrone più in là, c’era Kankuro: levando gli occhi su di lui, in tralice, poteva vederne il volto stanco ed assorto, basso, meditabondo. Sakura scostò lo sguardo, senza nemmeno più cercare di intuire i pensieri sfuggenti del vecchio, che conosceva sin troppo bene.

Tutto il consiglio sembrava arrendevolmente atterrito. Sconsolato, gli uomini e le donne che lo componevano si scambiavano occhiate perplesse, domandandosi la stessa cosa.

Era quello lo scotto?

O era solo l’inizio?

"Siediti, amico mio. Ora ne discuteremo." mormorò una donna: il rappresentante annuì, avviandosi greve al suo posto.

A vederlo da dentro, il consiglio sembrava un’opera di alta civiltà. Così credevano loro e così avevano pensato quando avevano gli avevano dato vita, assieme agli altri organi di governo e rappresentanza: nella sala circolare si riunivano un centinaio fra uomini e donne, distribuiti fra figli del vento e figli del fuoco, fra giovani e anziani, chiamati a prendere le decisioni più importanti per la Magna Regio.

Massima e continua istruzione, massimo sforzo richiesto nel condurre il proprio ruolo: vicinissimi alle figure dei Philosophi e dei consiglieri del vento, eppure così lontani.

A Sakura bastava vedere i volti di tutti gli altri per sentire, nel profondo del suo cuore, che nulla il consiglio aveva a che fare con il fu Summus Globus.

Un Philosophus non avrebbe mai dedicato il minimo sconforto per l’assassinio di tre persone qualsiasi.

Un Philosophus non si sarebbe mai trovato ad affrontare situazioni del genere, sia per interesse, sia per realtà dei fatti: il secessionismo era cosa nuova.

L’anziana intravide con la coda dell’occhio Kankuro levarsi lentamente e faticosamente in piedi, per prendere parola.

Il consiglio tacque.

"Amici."

Kankuro aveva scavalcato i cent’anni.

Aveva una voce greve e potente. A stento si reggeva in piedi, poggiato al manico della sua poltrona, ma quando parlava, pareva tuonare con il fiato di un uomo senza età. E Kankuro parlava, in continuazione. Non si sarebbe mai zittito. Nessuno doveva zittirsi, sosteneva.

"Ormai siamo in pochi a ricordare la quantità di vittime che l’insana guerra fra il vento ed il fuoco mieteva senza motivo alcuno."

Sakura socchiuse gli occhi, le labbra sottili e rugose strette fra loro.

"Non è questo un buon motivo per pensare che qualche bianco morto ogni tanto sia trascurabile." continuò l’anziano. "La vita dei bianchi emigrati a Konoha sta diventando insostenibile, rischiosa addirittura per il resto della popolazione, dato che molti di loro rinunciano a recarsi negli uffici di igene, ed iniziano a mancare i Medicus disposti ad andare casa per casa, rischiando a loro volta. La produzione inizia a subire le perdite dovute agli anni di moderata ma inarrestabile distruzione ‘dimostrativa’. Non abbiamo il confronto con i neri emigrati a Suna per il semplice fatto che il deserto non è di semplice abitazione, e quindi ha attirato pochi di loro – ma oramai è sicuro che i fronti secessionisti sono sia bianchi che neri. Non importa chi ha iniziato, le pressioni aumenteranno. Abbiamo trattato. Abbiamo provato. Abbiamo smesso di combatterli per evitare perdite inutili, ma non sta funzionando. Giorno dopo giorno sfioriamo il limite della Politelia, perdendo di vista ogni singolo comandamento istituito. La gente ha paura. La paura genera mostri."

Come Gaara.

"La Politeia sta diventando carta straccia. Siamo in stallo. Ed io per primo non so più che fare."

Nessuno sapeva, nemmeno lontanamente, cosa fare.

"Quindi, Amici, con il cuore che urla amara sconfitta, vi pongo un triste quesito: cosa potrebbe succedere se chiamassimo l’Esodo?"

L’Esodo.

Sakura riaprì gli occhi, privata del fiato da quella parola.

"E’ esso veramente una soluzione? Potrebbe diventarlo? O sarà l’ennesimo tampone?"

L’anziana si alzò in piedi, lenta.

"Da un lato ne vedo un modo per proteggere i cittadini, dall’altro temo gli effetti. Ma non ho più idee, amici – devo averle finite, oramai. Siamo a un limite, prima che la pressione dei secessionisti diventi esplosione, dobbiamo fare qualcosa."

Sakura inspirò, attendendo.

"Ho finito." concluse Kankuro.

Lei espirò lentamente, e in un sibilo tagliente dichiarò, solenne: "L’Esodo, Mai."





***



Dodici bambini in fila si flessero in un piccolo inchino, rivolto ad un uomo che aveva tutta l’aria di essere un insegnante. La palestra dell’H04A era piccolina, forse un centinaio di metri quadri riservati al ciclo d’istruzione inferiore, l’A, che comprendeva bambini fra i sette ed i nove anni. Le ore di allenamento, soprattutto, li vedevano mescolati completamente senza alcuna distinzione d’età: spesso, poi, bambini e ragazzini del ciclo A e B si ritrovavano insieme. Ci si mescolava e rimescolava, nello stesso giorno, ogni dieci giorni, nei mesi.

Cambiare era il diktat.

Cambiare aula, insegnante, materia, compagni, edificio, istituto: tre volte al giorno, con rotazioni mensili, con laboratori a latere: cambiare. Mai abituarsi allo statismo.

Mai.

"Buon giorno."

"Buon giorno." risposero i dodici in coro.

"Presentiamoci."

Minato si fece avanti, in testa: era arrivato per primo. Arrivava sempre per primo. Non lo faceva nemmeno intenzionalmente, anche quando era convinto di essere a rischio di ritardo, scopriva di essere arrivato per primo.

"Il mio nome è Minato Namikaze. Ho otto anni e tre mesi. Sono portato per le mutazioni, ma non ho ancora sviluppato alcun potere."

E a ruota gli altri.


***


Sakura aveva novantotto anni. Era più debole di Kankuro: la sua voce era un soffio, dolce e fragile, che raramente trovava parola in consiglio. Aveva già dato, pensava: toccava agli altri. Alle nuove generazioni. Dobbiamo lasciarli fare, noi abbiamo fatto moltissimo.

Erano almeno tre anni che Sakura non prendeva parola.

"Non faremo vincere i secessionisti. Non faremo vincere che vuole tornare al passato, chi divide. Non ci divideremo. Non lo posso permettere, Amici."

Kankuro parlava con l’amaro tono della sconfitta.

Sakura mormorava con lo sconforto del guerriero ferito.

"Pensate a dove siamo arrivati, a cosa abbiamo fatto. Abbiamo ancora molto, troppo da fare: la verità è che il secessionismo è il primo grande ostacolo che abbiamo incontrato dall’anno zero. Ma non il più grande in assoluto. Oggi sappiamo affrontare i problemi coscienti della loro esistenza, e questo ci è di grande aiuto. Amici, quasi ottant’anni fa distruggevamo un sistema malato che era durato nei secoli, ora abbiamo solo piccoli focolai di 'guerriglieri' che invocano una recessione, prima ancora di una secessione. Possiamo affrontarli. Se vi state chiedendo se magari non sia più giusta la divisione dei bianchi dai neri, ricordatevi questo: sino a dieci anni fa i bambini iniziavano a dimenticare il significato di questa distinzione, e ben ricordo che c’era un periodo in cui era persino difficile spiegarla loro. Oggi tutti la conoscono benissimo, solo per causa di questi movimenti e dei loro assassinii. E’ chiaramente ed evidentemente un ostacolo, Amici, che dobbiamo scavalcare."

Il rappresentante dei bianchi scuoteva lentamente la testa, coprendosi gli occhi con la mano destra. Sakura ne notò il movimento con la coda dell’occhio, e gli si rivolse, materna: "Ragazzo, non ti svilire. Se si svilisce il consiglio, la Regio è finita."

Quello, levandosi in piedi, attese di poter prendere parola. L’anziana gliela cedette con un cenno del capo.

"Anziana Sakura, da che sono nato ho visto le cose solo andar peggio, questa è la triste realtà della mia gioventù. Ho studiato il risorgimento che voi avete costruito, e l’ho visto crollare davanti ai miei occhi. Io sono della generazione che da piccolo non conosceva la distinzione fra i bianchi ed i neri, io sono della generazione che l’ha tristemente dovuta imparare e si è trovato, a Konoha, a rinsaldare quei vecchi legami per causa del pericolo, del sangue, del fuoco e dei morti. Io per primo non tollero chi si macchia di questi atti, ma, non trovando soluzione alcuna, vedendo le cose crollare in questo modo, mi domando: non vivrei forse più serenamente a Suna? Non vivremmo più serenamente nella terra che ha dato origine alla nostra gente, piuttosto che qua? Che male c’è, in fondo?" Espirò, tornando a sedere. "Ho finito."

"Ragazzo, ci sono bambini e tuoi coetanei che non sono né figli del vento né figli del fuoco, ma solo della Magna Regio, la progenie mista. I tuoi antenati sono venuti qua spinti dal clima migliore, e come potremmo biasimarli? E’ stato grazie all’unione che abbiamo concluso la guerra, condividendo la terra e giacimenti. Tu potrai anche essere pronto a tornare a Suna, ma lo sono, gli altri? E non avrebbero forse diritto di adirarsi, loro? E dalla violenza dei secessionisti non troveremmo forse la violenza di chi viene diviso? E gli amici, e i parenti? No, ragazzo. Non può funzionare. Non è giusto."

La gola le faceva male.

Esausta, ritornò a sedere, levando la mano per far intendere che aveva finito.

Kankuro la osservò muoversi, esausta.


Come erano arrivati fin là?

Perché non riuscivano a uscire da quella situazione?

I giorni e gli anni erano passati, i giorni e gli anni passavano. Presto avrebbero lasciato la Regio, ma l’avrebbero lasciata in condizioni che non li confortavano nemmeno un po’: lo spetto della guerra alitava su di loro, la realtà di quel terrorismo infame si parava davanti ai loro occhi.

E tutto, purtroppo, dava la pessima idea che avrebbe potuto degenerare da un momento all’altro.



***


Corsero: in testa il professore, e loro, dodici, dietro – in fila indiana.

Dovevano essere quindici, di regola, ma i figli dei bianchi si facevano vedere sempre più di rado: continuamente bersagliati dai secessionisti, i genitori non avevano tanto paura di far metter loro piede nelle scuole, quanto piuttosto di doverli lasciare liberi di camminare per città da una lezione all’altra, lasciandoli alla mercé dei secessionisti.

Tre bambini erano rimasti feriti, e due uccisi, nell’ultimo anno.

Minato osservò i compagni, notando, con svilito disappunto, che di bianchi non c’era traccia alcuna. Era prevedibile - anzi, ormai era assodato - ma spesso ci sperava.

La paura generata dai secessionisti ormai vinceva sul diritto e dovere all’istruzione.


Strano, pensava spesso, che neri fossero in realtà coloro che avevano la carnagione lattea, mentre i bianchi, invece, avevano il volto scuro, color mattone, o addirittura ebano, tendenti al nero. Chissà se anche gli altri ci facevano caso, o lui solo passava il tempo a far pensieri del genere.

Passava la vita ad apparire pensoso, sempre intento a srotolare qualche ragionamento che non riusciva a chiudere completamente.











________________________________________________



[NDA]

Dunque. Sottolineo che è pienamente voluta la discronia delle generazioni - adesso abbiamo minato, sasori e compagnia, mentre i vecchi sono sakura e kankuro. Anzi, non ho scelto Minato come personaggio principale per caso.

Fra l’altro nei FdO avevo detto che dovevano essere tre titoli con naruto-sasuke-sakura. Sakura qui è importantissima, ma ho deciso di dedicarmi a Minato, che era cosa più giusta... vabè.


Ho sistemato un po’ note ed avvertimenti:

• OOC per onestà, anche se l’intenzione è mantenere i caratteri loro, purtroppo qui la storia è talmente diversa che non possiamo permetterci nemmeno una lontana simmetria con il manga. Anzi, di stravolgimenti ce ne sono a bizzeffe. Vorrei specificare, però, che cerco comunque di mantenere fede ai CARATTERI intrinsechi dei personaggi.

• "nuovo personaggio" fra i pg segnalati per il semplice fatto che sto finendo le comparse / i pg, quindi potrebbero comparire estranei. Mi spiace.

• otherverse: diciamo che l’ho messa per tre giorni e poi l’ho tolta quando ho capito cosa volesse dire xD però rimarco un AU violentissimo.


@wari: grazie per la recensione :) tranquilla per Ipotesi Gaia xD ahah xD minato è un pg che mi piace molto, ora che un po’ si è capito che personaggio era.

putroppo sta tendendo, molto, allo storiografico - mi rincuora vedere che secondo te i pensieri di Minato sono ben inseriti, io non dico di far fatica, ma ‘sento’ che la narrazione va lenta a causa di questa descrizione della società, molto difficile da fare. Mi piacerebbe soffermarmi sui cambiamenti - qui ho dato un abbozzo di sistema scolastico, ma non riuscirò a far vedere tutto quello che vorrei.... cercherò di farcela.


Devo ammettere che scrivo un po’ con il cuore in mano. Forse questa volta i riferimenti non sono affatto difficili da trovare con il ‘mondo reale’, anzi. Mi ci sono buttata a pesce. Perchè quando un sistema così alienante viene a cadere, iniziano a insorgere problemi di altro genere - problemi più simili ai nostri. E loro, ad esempio, il terrorismo non se lo sono mai sognati. Addirittura avevano vincolantissimi patti su come andava condotta la guerra, figurarsi se qualcuno si sognava di dar battaglie interne.

Adesso cambia.


Gente, sono confusa.

rimarco la natura di sfogo di questa storia.

allaprossima.



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Capitolo 3
*** 2. Lento il passo, greve il grido ***


2




(2) – [ Lento il passo, greve il grido ]



La bambina davanti a lui aveva portato le mani nei capelli, prima di esibirsi in uno sbuffo estenuato. Avrà avuto al massimo un anno più di lui: scuoteva la testa, levava il mento, si girava di qua e di là – non aveva ancora scritto niente sul foglio di carta del test mensile.
Minato, dal canto suo, aveva già ben che finito.
Per questo osservava l’altra, perplesso, domandandosi se forse non fosse il caso di...
ma no, Minato. Per cortesia.
Aiutarla?
E a che pro?
Se lei aveva bisogno di ripetere alcune lezioni, ne aveva bisogno. Punto.
A suggerirle avrebbe fatto solo che un danno – a lei e a lui.
Il bambino si morse il labbro, sprofondando nella sedia di legno. Levò gli occhi, meditabondo. Che fare?
Era un test a tempo indeterminato, alcuni folli si concedevano il lusso di perderci sopra giorni interi. A scapito delle nuove lezioni, ovviamente – stava a loro.
Lui, però, avrebbe potuto consegnare molto tempo prima.
Ma come ogni volta, finito di rispondere ad ogni singola domanda proposta, si lasciava assalire dal dubbio: risposte, sì – ma di che qualità?
E se aveva sbagliato qualcosa?
Così, fra un’insicurezza e l’altra, lo sguardo gli era stato inevitabilmente catturato dal muoversi inquieto di quella bambina seduta davanti a lui, chiaramente sull’orlo della disperazione.

Cosa te ne fai del tempo, se non sai?
Cosa te ne fai di sapere, se non hai tempo?

Queste erano le domande, poste in cima ai due tipi di test che i bambini della Magna Regio si trovavano ad affrontare – l’uno a tempo indeterminato, l’altro brevissimo, non più di cinque minuti.
La prima cosa che si faceva era rispondere a queste due domande – prima ancora di scrivere il proprio nome.
Le calligrafie infantili, più o meno storte, riportavano sempre le stesse scritte.

Se non sai, ragioni.
Se non hai tempo, scegli.

La bambina davanti a lui, ad ogni modo, pareva troppo occupata a studiare le macchie del soffitto per mettersi effettivamente a ragionare.

In fondo al foglio c’erano altre due linee da riempire – sempre le stesse frasi, in questo caso, indipendentemente dal tipo di test.

Se hai un dubbio, chiedi.
In ogni caso, provi.

Minato sbuffò.
Perché quella bambina non seguiva nemmeno uno dei fondamentali?

Che stupida - si lasciò sfuggire, come pensiero.

***



Le due donne si fissavano negli occhi, immobili, sedute l’una di fronte all’altra. Ambedue poggiavano le mani su due tazze di coccio, riempite di un infuso d’erbe ancora fumante. Attendendo che la bevanda si raffreddasse, si scrutavano vicendevolmente, in silenzio.
La calma inquieta del quartiere le avvolgeva: rumori d’attività umana, lenti ed ovattati, ma continui.
Un clima surrealmente normale, nella frenesia tipica di Konoha.
Vuoi del miele, nonna?” domandò la donna più giovane.
La vecchia fece lentamente di no con il capo.
Dalla finestra socchiusa si fece spazio il rumore di una sega elettrica.
La donna più giovane sbuffò, infastidita da quel suono, alzandosi dalla sedia per andare a chiudere le imposte.
Hai sentito la radio, questa mattina?” domandò la vecchia, non appena l’altra le aveva dato le spalle.
La sua voce era leggerissima, a stento si riusciva a sentire: vagamente roca, spesso portava con sé la stanchezza degli anni, degli eventi, del mondo intero.
Sì.” rispose l’altra, sporgendosi dalla finestra per guardare di sotto – quattro piani più in giù, nel giardino comune, uno dei vicini di casa si era messo a fare lavori.
Questa città è sempre all’opera, pensò la donna.
Ed ebbe tutto il tempo per fare questo pensiero, rimandare un’ultima occhiata all’uomo impegnato a segare una trave, sospirare, socchiudere le imposte nel tentativo di lasciar filtrare l’aria e non i rumori, e dunque tornare al tavolo.
Solo quando si fu seduta, la vecchia continuò la sua domanda: “E Minato?”
L’altra sospirò, scuotendo la testa ed andando a riprendere la sua tazza di coccio, dopo essersi seduta.
E non gli hai detto niente.” continuò la vecchia, rinunciando al punto interrogativo. Non ce n’era bisogno.
Glielo dirò stasera. Volevo che andasse a fare il test mensile senza pensieri.”
Mebuki*...” sfiatò la vecchia, senza avere la forza per andare avanti. Tanto bastava, alla nipote.
Nonna, senti – glielo dirò. Non so nemmeno se Sasori e la sua famiglia erano in casa o meno, considerato che il bambino stava male... forse erano andati all’ufficio di igene. Non è detto che siano rimasti coinvolti nell’incendio. Non è giusto che Minato si preoccupi riguardo cose su cui non ha alcun potere – ora per lui è importante studiare.”
Mebuki si sistemò la frangetta bionda, al centro della fronte, la quale andava pericolosamente scomponendosi. Riprese fiato, per poi continuare: “Si da già troppi problemi da solo. Ci manca solo che si svegli e venga travolto dall’idea che forse il suo migliore amico è morto in un incendio – se solo penso che ieri sera voleva andare a trovarlo...” raggelò, inspirando con un vaghissimo tremito.
L’anziana Sakura, dopo aver ascoltato la nipote, bagnò le labbra nell’infuso caldo, per poi ritornare ad appoggiare la tazza sul tavolo.
Quel bambino, un giorno, inizierà ad odiarti.” mormorò, non troppo convinta di quanto aveva appena detto. Sì, Minato era un bambino determinato, decisamente troppo determinato per la sua età. D’altronde, era Minato.
Spesso la sua determinazione cozzava con il buonsenso di Mebuki, e gli effetti si vedevano.
Ma nonostante queste divergenze, e per quanto sembrasse naturale che ad un certo punto un po’ di astio potesse nascere, Minato sembrava proprio non essere il tipo capace di provare un odio degno di chiamarsi tale. Al massimo, si poteva infastidire leggermente – ma ogni volta che ciò succedeva, scacciava da solo il suo fastidio mettendosi a rimuginare profondamente su quanto accaduto e su chi, effettivamente, potesse avere ragione – se una ragione c’era.
Quel bambino pensa troppo, semplicemente. Io cerco solo di riportarlo a terra quando inizia a galleggiare in mondi troppo ideali, o quando si perde troppo nei suoi pensieri. Mi spiace per Sasori, ma così va il mondo in questo periodo, nonna. E lui, per ora, non può farci niente – è solo un bambino. Io devo far sì che lui sopravviva in questa realtà, non in un’altra. Poi, quando avrà i mezzi, potrà osare tutto quello che gli salta in testa. Ma non ora.” Mebuki trasse un respiro “Così va il mondo.” si ripeté, non senza un certo sconforto – quasi dovesse, tristemente, convincersene anch’ella.
Così va il mondo...” sussurrò la vecchia, fra sé e sé.

Era da almeno un anno che Minato aveva iniziato ad andare da lei, Sakura, a chiedere ‘un terzo parere’ su eventuali litigi che si scatenavano in casa. Minato era così legato alla Politeia che spesso la prendeva troppo alla lettera, o si perdeva in piccoli buchi logici dove razionalità e ragionamento si perdevano, fornendo risposte diverse alla stessa domanda, e mandandolo spesso in confusione.
Ma bisnonna – ’ iniziava, il foglio di carta con i primi sei articoli della Politeia – che gli era stato consegnato al primo giorno di scuola – in mano. 'Se io devo difendere gli altri con lo stesso ardore con cui devo difendere chi mi è caro, devo difendere anche i secessionisti?' Questo le aveva chiesto, la prima volta in cui aveva osato farle una domanda. Aveva sei anni. Sapeva già leggere da due.
Sakura aveva sospirato, guardandolo con un’apprensione infinita.
Quali erano le prime cose che ti hanno detto alla scuola, Minato?’
Ragiona, se serve scegli, se hai dubbi chiedi, in ogni caso provi.’
Ragiona, Minato’ la voce le si era fatta più forte. Da allora la conservava per provare a rispondere ai dubbi di Minato.
Da quel giorno, Minato aveva iniziato a ragionare: continuamente, quasi con foga, all’infinito. Dopo aver a lungo fissato il foglio con la prima parte della Politeia, aveva rialzato lo sguardo, palesemente stanco per lo sforzo fatto: ‘Non so se li posso difendere’ aveva mugugnato, sconfortato. ‘Loro ci fanno del male.’
Sakura aveva sospirato.
Però non gli farei comunque del male...’ continuò il bambino, mangiandosi le parole nell’indecisione sul pronunciarle o meno.
Ma Sakura lo aveva sentito, e capiva.
Il mondo non è bianco o nero, Minato. Non fare l’errore dei secessionisti.’
Il bambino aveva levato le sopracciglia bionde: sul volto si coglieva l’intuizione, ma non aveva capito del tutto la metafora.
D’altronde, si disse Sakura, aveva solo sei anni.
Sei anni.
E aveva più inquietudini di quelle che quelli della sua generazione, e quelli prima di loro, avevano mai avuto sino ai giorni prima della rivoluzione.

Mebuki aveva visto lo sguardo di Sakura come appannarsi, gli occhi sottili stretti fra le miriadi di rughe persi in pensieri troppo intensi da lasciar posto alla percezione del mondo reale. Quando faceva così, bisognava aver la pazienza di lasciarla finire il suo processo mentale – d’altronde, ormai aveva quasi cent’anni. La vecchia ragionava ancora con la lucidità di quando era rappresentante dell’Ignis Regio in consiglio e ruggiva alla platea con un ardore infinito, ma aveva bisogno dei suoi tempi.
La vide levare lentamente la mandritta verso il volto, in quello che era un suo gesto classico: si tastava le cicatrici, posando i polpastrelli sulle gote sformate, come se si chiedesse se erano ancora lì, se mai c’erano state, se tutto era ancora vero – o forse per prendere forza dalla sé stessa dei tempi andati.
La vecchia non fece in tempo a concludere il movimento: il pavimento tremò, accompagnato dal fragore violento di un’espolosione.
Le due sussultarono.


***


Minato si ritrovò sotto il tavolo senza nemmeno pensarci: a furia di far esercitazioni, certe cose gli venivano naturali.
La bambina ‘stupida’, come gli era scappato di soprannominarla, era bloccata sulla sedia: il rumore dell’esplosione doveva averla paralizzata. Non appena il bambino la notò, si sporse leggermente verso di lei, nel tentativo di afferrarle la casacca: “Cosa fai lì?! Vieni giù!”
Quella ci mise qualche altro secondo prima di lanciarsi, più che tardivamente, sotto il suo tavolino. Dai rumori che sentì, accompagnati da qualche altro movimento nell’aula, intuì che lei non era stata la sola ad irrigidirsi e non reagire.
Accucciato sotto il banco, Minato scrutava gli altri – chi aveva reagito prima e chi aveva reagito dopo, ora erano più o meno tutti al riparo.
Se così si potesse chiamare.
Ah, e non avevano ancora ben chiaro da cosa si stessero riparando.
Dopo i primi momenti di scombussolamento, immobili sul pavimento, rimasero in silenzio. Non più un rumore.
Tutto pareva immobile.
Ogni tanto due sguardi, terrorizzati, si incrociavano: la domanda non cambiava.
E adesso?
Gli alunni, in un modo o nell’altro, cercavano di intravedere la figura del professore.
All’uomo ci volle almeno mezzo minuto per analizzare la situazione e le possibilità.
Quando ve lo dico, uscite in fila indiana, veloci e ordinati, nell’ordine inverso rispetto al quale siete entrati.” dichiarò infine. In questo modo non avrebbero dovuto ammassarsi, dato che si erano seduti in funzione dell’ordine d’arrivo.
Sì, era fatto apposta. Era quello che diceva ad ogni esercitazione.
Ma, no: sinceramente non aveva mai sperimentato la cosa dal vivo.
Il sudore freddo, nelle simulazioni, non era mai incluso. Per l’uomo era quasi una novità.


Quando uscirono c’era ancora polvere nell’aria: la visuale, relativamente limitata, non sembrava però offrire nessuna spiegazione dell’accaduto.
L’accaduto, poi.
Cosa era successo?
I bambini rimasero zitti, immobili, in fila, guardandosi attorno in attesa di istruzioni.
Polvere, solo polvere.
Qualche altra persona, dagli edifici vicini, era scesa in strada. Il flusso continuo di gente pareva essersi dissolto nel nulla: c’era solo silenzio stupito, sgomento.
Quella era un’esplosione.” dichiarò, attonito, un ragazzo di forse vent’anni.
Le persone che gli stavano attorno iniziarono a mormorare fra di loro: lui lo aveva detto, ma in fondo tutti lo avevano pensato.
Minato, man mano che continuava a setacciare il paesaggio che lo circondava, filtrato dalla polvere che iniziava a far tossire qualcuno, iniziò a notare una qualche differenza. Concentrandosi, cercò di capire di cosa si trattasse.
Fece per schiudere le labbra, incredulo di quanto aveva appena scoperto, mentre il cuore gli pareva sul punto di contrarsi sino allo spasmo per lo sconforto. Ma lo anticiparono:
E’ l’H06A!” urlò una voce di donna, additando qualcosa verso l’alto.
Minato sgranò le palpebre: per quanto lo avesse notato, fintanto che la donna non l’aveva detto, non ci aveva realmente creduto. La paura che gli era sorta era stata di pura proiezione, una paura dovuta alla sola idea che...
L’H06A?
L’hanno fatto saltare! Stanno trasmettendo dalla frequenza d’emergenza –”
... alla sola idea che no, quell’edificio, aveva ragione, quell’edificio rosso, come un faro fra le costruzioni bianche, torreggiante di un paio di piani in più rispetto alla media, non c’era più. Dove una volta si intravedeva l’Ho6A, il vuoto. Il punto verso cui la donna aveva puntato il dito era vuoto.
E non doveva esserlo.
Doveva esserci una parete rossa, una scritta grande, un edificio della Scuola.
Non c’era più.
Da loro arrivava la polvere.
Bastardi di secessionisti!” fu un urlo ricolmo di odio, e, con sua enorme sorpresa, Minato si rese conto che quella era la voce del suo professore. “Pezzi di merda! Un edificio della Scuola! Durante il test! Hanno ammazzato dei ragazzini!”
L’uomo era sconvolto.
Gli altri pure.
Minato non riusciva a collegare.
Sì. A livello logico collegava, a dire il vero. I secessionisti, questa volta, si erano spinti ben oltre al solito. Avevano fatto esplodere un intero palazzo.
No.
Un edificio della Scuola.
Del ciclo A.
Con bambini.
Dentro poteva esserci lui, realizzò.
O Sasori.
No, scosse il capo, mentre il respiro gli si faceva sempre più rapido e singhiozzato.
Dei bambini, indifferentemente chi, dei suoi coetanei, erano lì dentro.
Erano morti?
Tutti?
Hanno ammazzato dei ragazzini’, aveva urlato il professore.
Erano già morti dei ragazzini, si disse Minato.
Ma questo era peggio.
No, non peggio.
Di più.
No, non di più.
In effetti era diverso.
I secessionisti avevano veramente mosso un attacco del genere?
Avevano ucciso bambini, Bianchi e Neri.
No, si disse Minato,
Non c’è solo Bianco o Nero, a questo mondo.
Non fare l’errore dei secessionisti.
Ma i secessionisti, che quell’errore lo facevano da sempre?
Possibile? Rischiare di uccidere dei bambini che ritenevano essere dei loro?
No.
No.
No.
Era evidente.
Lo aveva notato quella mattina, come molte altre delle mattine precedenti: non c’erano quasi più bianchi, a lezione.
Affannato, sentiva attorno a sé la rabbia degli adulti, che si esprimeva in insulti sempre più violenti, sempre più forti.
Quei figli di puttana! ”
Basta! Non è possibile! ”
Brulicava, fremeva, un qualcosa di viscerale e collettivo. Camminavano, correvano – gli adulti sembravano andati fuori di testa. Il ragazzo di forse vent'anni, che poco prima aveva dichiarato l'ineluttabilità dei fatti ad alta voce, ricomparve dalla porta di una casa con un enorme coltello in mano. Minato lo fussò negli occhi, lui, nascosto nella bolgia generale, mentre avanzava tenendo l'oggetto da cucina impugnato come un'arma, alta, svettante sugli altri – simbolo delle sue intenzioni.
A stento il bamino riusciva più a formular pensiero, circondato com'era dal fermento adirato generale. Persino il professore sembrava stare cercando qualcosa di possibilmente contundente. Erano impazziti, si diceva Minato – era ormai l'unica cosa che riusciva a pensare. Perché, si ripeteva, perché è così semplice che l'odio generi odio?
Schiuse le labbra, gli occhi umidi per la polvere e l'emozione: forse si sarebbe messo a gridare, o più semplicemente a piangere. Ma, qualunque cosa fosse sul punto di fare, non gli riuscì: dietro le sue spalle il mondo esplose.
Di nuovo.
Esplose in un boato greve ed acuto, lo prese per le spalle, lo lanciò lontano – mentre i frammenti delle macerie lo investivano, assieme all'aria bollente.
Fischio.
Buio.
Terra.
Rotolare.
Fischio che scema.
Altra polvere.
Urla.
Ferite.
Tosse.
Urla.
Male.
Tosse.
Male.
Buio.
Urla.
Buio.
Silenzio.


















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(*) Mebuki è il nome che hanno dato alla madre di Sakura nel film di Naruto “Naruto Movie Road to Ninja” – era tanto per darle un nome che facesse finta di appartenere alla serie.
Altra “inversione generazionale” – le sto facendo un po’ “alla va la che la va ben”, non mi riescono proprio bene benissimo, ma si fa quel che si può, i personaggi disponibili sono relativamente pochi – relativamente...



[NDA]
Sapete, ero in autobus.
Stavo per caso ripensando a questa storia. Ogni tanto ci torno sopra per vedere se mi ricordo almeno di cosa stavo scrivendo e perchè e – toh, mi esplosa la trama in testa. Così, di colpo.
Sarà forse perchè sto tipo scrivendo due tesi contemporaneamente, studiando per gli esami che mi mancano, dando ripetizioni, facendo millemila cose, mi servirebbe una giornata di 48 ore e, giustamente, esattamente quando si ha meno tempo per scrivere l’ispirazione compare a bussare alla tua porta e non ti molla finché non la acconenti?

Mi domando poi se qualcuno si ricordi di questa serie / storia xD

Vabè.

Fra l’altro, il lato malinconico – sconvolto del mondo con cui mi sono messa a scrivere questa fic in particolare, rimane. E penso che si veda.
Adesso so quasi pure come fare a farla finire.
Non che questo significhi che io riesca a finirla.

Ebòn.
Saluti a tutti.

Ciao!

Kimmy.





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Capitolo 4
*** 3. Caos calmo ***


3





(3) – [ Caos calmo ]




"Bisogna aumentare la sorveglianza interna, queste cose non possono accadere –"

"E come, eh? Abbiamo già imposto il coprifuoco, quante altre vuoi dargliene vinte?"

"Dargliene vinte? Che diavolo stai dicendo, io li voglio combattere, non farli vincere!"

"Ma non capisci che è esattamente quello che vogliono? Cosa vorresti fare, mettere posti di blocco, controlli, mettere nell’ansia tutta la popolazione sospettando di tutto e di tutti?!"

"E tu cosa intendi fare, eh?" si intromise una terza voce "Aspettare? Piangere i morti mentre loro si fanno gli affaracci propri?"

"Non possiamo permettergli di andare avanti così, questo è il limite!" soggiunge una quarta. "Più di venti bambini sono morti! Venti!"

"Ah, bhe – " s’inserì la quinta, astiosa "perché quando morivano i figli dei bianchi non era importante, ma adesso che muoiono i figli dei neri,oh, allora adesso panico, vero?"

"COME OSI!" gridò il terzo – o forse era il primo? "Mi stai forse dando del secessionista?"

"Bisognerebbe essere ciechi per non notare come il vedere i vostri bambini morire sotto le macerie abbia suscitato ben più panico del sentire di intere famiglie dei bianchi divorate dalle fiamme! Bene! Abbiamo i secessionisti in consiglio, fantastico!"

"Tu non capisci – è stata attaccata una Scuola, le scuole sono dei bianchi, dei neri e della progenie mista – di tutti! Il fatto che non ci fossero bianchi è dovuto solo alle tensioni dei secessionisti!"

"Solo?" questa voce era la sesta. Era inaspettatamente giovane, e più che parlare ad un volume elevato come gli altri, pareva proprio aver urlato. "Solo?!" ripeté la ragazza, incredula "Mi spieghi dove sta l’uguaglianza in una nazione che non garantisce nemmeno la scuola a tutti? Eh? Solo perchè quattro idioti se ne vanno in giro a seminare il panico, a predicare la secessione, urlando e sfasciando tutto ciò che appartiene ai bianchi? Era troppo poco per fare qualcosa prima? Avreste dovuto farvi in quattro per evitare che i bianchi smettessero di frequentare la Scuola, di recarsi agli istituti d’igene, di vivere in pace la loro vita – ma evidentemente non era poi così importante."

"Ma se sono anni che in consiglio non si parla d’altro!" proruppe il settimo, dal vocione basso e potente, il quale parve letteralmente esplodere nella sala del consiglio, scuotendo tutto.

La ragazza, però, sembrava del tutto disinteressata a quell’effetto: non lo calcolava, non sembrava calcolare niente. Fosse stato anche Jiraiya in persona a parlare, con quella sua voce di tuono, imperante e lapidaria, non se ne sarebbe assolutamente resa conto. Rispose con rapidità, quasi senza lasciare finire all’altro la frase: "Si parla! E cosa si fa, eh? Cosa?"

Sakura non aveva mai assistito ad una discussione del genere, in consiglio.

Sì, aveva sentito discussioni accese. Nella sua vita, aveva partecipato a molte di esse. A volte, seppur raramente, il consiglio andava richiamato all’ordine.

Le voci si addossavano, l’un l’altra. Si urlava.

Si iniziava a non rispondere più a nessun ordine, a nessuna precedenza. Uno iniziava la frase, e a metà altri tre già gli davano contro.

Succedeva – raramente, ma succedeva.

V’era però qualcosa di peggio, quel giorno – quei giorni. C’era un’immensa paura, c’era lo sconforto, e il panico, e l’odio che iniziava a crescere anche dove non avrebbe dovuto, per motivi che non avrebbero dovuto alimentarlo – e, peggio di tutto, veniva rivolto verso le persone sbagliate.

E poi c’era quell’atteggiamento, già vagamente presente, ma adesso esploso: Noi e Voi.

Una cosa era avere dei rappresentanti. Sarebbe stato stupido non riconoscere che erano comunque due popoli originariamente diversi, che arrivavano da culture diverse.

Era naturale che ognuno avanzasse le proprie necessità e desideri.

Ma non era mai stato Noi e Voi.

O meglio, non era mai stato Noi contro Voi.

Non era colpa Vostra, causa Vostra, problema Nostro. Non sino ad allora.

Nel consiglio iniziavano a ridelinearsi due fazioni – Noi e Voi.

Noi abbiamo fatto così, Voi avete reagito colì.

Quando nessuno dei presenti, non uno, aveva realmente fatto niente.

Non avevano appiccato gli incendi.

Non avevano piazzato le bombe.

Non avevano devastato le case, i negozi.

Quello lo facevano i secessionisti.

Loro, in consiglio, cosa avevano fatto?

Forse, al più, reagito in modo sbagliato.

Ma qual era il modo giusto per reagire, allora?

Noi e Voi.

O Noi, O Voi.

Mentre Loro, i secessionisti veri, i violenti, i creatori di tutto, lentamente, uscivano dalla discussione del consiglio. Loro erano un’entità a sé stante, quasi una calamità naturale.

Che fossero della fazione dei bianchi o dei neri non aveva importanza.

Ora era Noi e Voi.

Stava per ridiventare Noi contro Voi.

Bisognava fare qualcosa, prima che si degenerasse troppo. O forse, la degenerazione era già avvenuta.

Sakura non riusciva a capirlo.

Si alzò lentamente, incamminandosi verso l’uscita della sala. Attorno a lei, ormai, c’erano solo urla che non riusciva a seguire. C’era solo ira.

Parole che rotolano le une sulle altre.

Qualcuno saltava, nell’atto di alzarsi per prender parola.

" – com’è possibile che i Mutanti non vedano mai niente, eh? Dove sono? Eh? I signori Rinnegan e i signori Byakugan?"

A metà strada fra il suo seggio e l’uscita, catturata da quelle frasi, l’anziana Sakura si fermò: lentamente, volse lo sguardo verso i giovani, i vecchi, gli adulti intenti a scannarsi.

Era una delle rare volte in cui veniva chiamato in causa chi aveva una mutazione. ‘Mutanti’ non era esattamente un termine gentile per parlare di loro.

La vecchia ebbe il tempo di far scivolare gli occhi sulla schiena di Kankuro, immobile e statuario nella bolgia del consiglio, prima di notare che proprio quelle affermazioni, quelle sui ‘mutanti’, avevano zittito i presenti.

Ritornò a guardare verso quelli, intenti evidentemente a riordinare le idee per il brusco cambiamento di soggetto che aveva avuto la discussione.

"Allora?" incalzò chi aveva introdotto l’argomento.

Nessuno rispose. Sguardi sconcertati balzavano dall’una all’altra parte della sala, accompagnati da qualche stanco sospiro od infastidito schiocco di lingua.

"Coloro che tu chiami mutanti – " scandì, senza nemmeno alzarsi, l’anziano Kankuro – le braccia incrociate al petto, lo sguardo basso, forse addirittura gli occhi chiusi " – servono quando e come possibile la Magna Regio. Molti attacchi sono stati prevenuti da loro – ad ogni modo, nessuno si sarebbe aspettato un attacco ad un edificio della Scuola, e questo è il motivo per cui nessuno ha controllato."

Quella discussione avrebbe potuto andare avanti all’infinito.

E, chiamando ora in causa anche le mutazioni – che solo i neri o l’eventuale progenie mista poteva possedere – si arrischiava a divenire ancora più complessa.

Non che fosse stata semplice, sino ad ora.

Non che il mondo, di per sé, fosse semplice.

"Invece" continuò Kankuro, dopo che dal silenzio non si era levata obiezione alcuna "non è da escludere che tra i secessionisti neri ci siano persone con una mutazione. E questo sarebbe un enorme problema."

Dapprima apparentemente sedato, il consiglio sembrava essere stato riportato sul piano della realtà.

A partire dalla coerente distinzione tra secessionisti attivi e non.

Qualcuno parlò, ma parlò a voce bassa, forse con il vicino di posto.

Poi il parlottio aumentò.

L’anziana Sakura riprese a camminare, scuotendo vagamente la testa.




***


Erano passati dodici giorni dall’attentato agli edifici della Scuola.

I secessionisti ne avevano fatti saltare sei, fortunatamente in modo non sincronizzato, per cui solo il primo crollò addosso agli studenti: i successivi erano già stati evacuati una volta che si era vista la prima esplosione. Anche il fatto che gli edifici abbattuti fossero relativamente vicini l’un l’altro aveva aiutato, dato che nelle zone più lontane di Konoha non si era subito capito che vi fossero state delle esplosioni. Quella città, dopotutto, era enorme.

Oramai i più erano convinti che questo attentato fosse stato mosso dai secessionisti bianchi – in un qualche modo, sembrava la risposta agli anni di sevizie che aveva patito quella parte della popolazione. Certo, di per sé suonava incoerente – tanto valeva lasciare la città e tornare a Suna, nel deserto; ma probabilmente i sentimenti di vendetta avevano avuto la meglio sulla logica.

C’era chi, pur non giustificandoli, ammetteva di capire un tale gesto.

C’era anche chi il gesto lo giustificava pure, e questo sembrava essere l’ennesimo sintomo della degenerazione cui si stava andando incontro.

Ventisei bambini erano morti, di cui tre sotto i ferri. Altri tre ancora lottavano, ed una trentina, invece, era più o meno gravemente ferita, anche se non in pericolo di vita. Di questi ultimi, i più erano bambini che si trovavano in edifici fatti saltare successivamente il primo, per cui erano risultati meno coinvolti dai crolli.

Fra loro v’era anche Minato.

Sakura faceva su e giù dal consiglio all’ospedale per assicurarsi che il pronipote stesse bene, controllandolo ogni tanto lei stessa, che, nonostante i suoi quasi cent’anni, non aveva certo perso tutte le nozioni mediche che aveva imparato e sfruttato nella sua vita.

Quando l’anziana entrò nella camera di Minato, il bambino pareva dormire. Mebuki si alzò per salutarla, sospirando. Ma prima ancora di dirle ‘ciao’, iniziò con la sua solita ramanzina:

"Nonna, devi smetterla di muoverti così tanto da sola, fatti almeno assistere da una scorta – "

Sakura non parlò, avvicinandosi al bambino per studiarlo attentamente. Aveva una fasciatura in testa, dove lo avevano operato per risolvergli il trauma cranico e rimuovergli l’emorragia cerebrale. Poco ci mancava che dovessero fargli una craniotomia completa.

Sakura aveva avuto paura, una paura viscerale e profonda che non ricordava di aver mai provato. Sentiva che era un sentimento anomalo, variegato di sfumature dal sentore bagliato, errato, incoerente – o forse troppo coerente. Aveva difficoltà a gestirla. E l’aveva riportata violentemente a dover considerare il rapporto che esisteva tra lei e il bambino.

Sospirò, sedendosi accanto a Mebuki.

"Ciao." sfiatò poi, solo un pochino di fiato a uscirle dalle labbra.

"Lo devono svegliare fra un po’ per il controllo, ma non sono sicura che stia dormendo, ora come ora. Minato?"

Minato non rispose.

"Mebuki, dovremmo parlare." mormorò Sakura, dopo aver fissato a lungo Minato, che palesemente dormiva.

La donna sospirò, scuotendo il capo.

"Per favore."

Inutile specificare che i ‘per favore’ dell’anziana Sakura andavano intesi come ordini insindacabili.

"Sì, ma non qui."

Le due si alzarono, lasciando il bambino intento a dormire.





Quando Mebuki rimise piede nella stanza di Minato, guardava in basso con espressione assorta e meditabonda. Era talmente concentrata sui suoi pensieri che arrivò ai piedi del letto del figlio senza mai sollevare lo sguardo. Ma non appena fu abbastanza vicina, vide entrare nel suo campo visivo un piccolo camice bianco: con uno scatto ed un guizzo di sopracciglia scostò gli occhi, passando dal pavimento alla figurina che gli sostava accanto, convinta che fosse Minato.

Era pronta a fargli una ramanzina infinita – non doveva assolutamente alzarsi –, ma fece appena in tempo a schiudere le labbra per realizzare che il bambino in camice da ricoverato davanti a lei non era decisamente suo figlio.

"Oh – " fece la donna, espellendo in tono più che sorpreso il fiato che aveva accumulato ai fini della predica – "Sasori!"

Lei se n’era totalmente dimenticata, di Sasori: dovette ammetterlo.

Dunque era vivo.

Ma questo non lo disse.

Voltò il capo verso il letto di Minato, allegra, cercando il figlio – sarà felicissimo di rivedere il suo amico, pensò.

Si ritrovò davanti il volto più serio che avesse mai visto in tutta la sua vita. L’anziano Kankuro era meno serio. Neji – si ricordava di Neji, lo aveva conosciuto da bambina – era stato molto meno serio in tutta la sua vita di quanto non lo fosse stato Minato in quell’istante.

"Bhé?" domandò, perplessa, vedendo il bambino con quell’espressione più che inadatta alla sua età ed alla situazione.

Minato, seduto sul letto con le braccia e le gambe incrociate, si limitava a guardarla fisso, muto, un sasso con espressione umana – o viceversa.

"Che succede?" domandò avanti Mebuki, guardando Sasori interrogativa. Il bambino, che le era apparso dapprima sereno, ora le restituiva uno sguardo a sua volta perplesso: fece spallucce, arricciando le labbra.

La donna corrugò la fronte, tornando sul figlio. Accanto a lei comparve anche Sakura, a cui Minato dedicò una rapidissima occhiata serena, per poi tornare a fare il sin troppo serio fissando sua madre.

"Ciao, Sasori" fece l’anziana, posando una mano sul capo del bambino. "Come stai?"

"Benone!" rispose quello, sollevandosi sulle punte dei piedi. "Guarda!" si girò, di fianco, la spalla sinistra verso di lei. Rimase immobile, apparentemente concentrato per qualche istante, finché non alzò, di colpo, il braccio. "Woh!" fece, resosi conto della rapidità con cui aveva effettuato il gesto. "Accidenti, non mi era mai successo di tirarlo così tanto su! Wow!"

Sakura e Mebuki rimasero ad osservare il braccio del bambino, la prima con occhio clinico, attento, la seconda più che sorpresa.

"Ma che bella protesi." disse poi Sakura, posando la mano sulle dita metalliche del finto braccio. Le articolazioni rotonde rilucevano, cromate, ed ogni tanto qualche tendine sintetico scattava. Più che un braccio, sembrava un osso smembrato – ma che differenza faceva? L’importante era che Sasori riuscisse ad utilizzarlo.

"Manca qualche ritocco, ma prima devo imparare ad usarlo" disse il bambino, prendendosi la protesi con il braccio sano e dunque rimettendola al suo posto, a riposo lungo il fianco.

"Matre."

La voce di Minato richiamò Mebuki, che si volse verso il figlio.

L’espressione del bambino non era cambiata.

"Che hai, Minato?" domandò la donna, fra la preoccupazione e la scocciatura per quell’atteggiamento.

"Tu, quel giorno, non mi avevi fatto ascoltare la radio."

Mebuki ci mise un po’ a collegare – e sì che quello che aveva avuto un trauma cranico era Minato, e non lei. Quando capì di cosa stesse parlando, intuendo dove stesse per andare a parare il discorso, fece prima un’espressione sorpresa, per poi passare ad una vaga colpevolezza e preoccupazione.

"Minato..."

"Mi hai mentito."

Il bambino si sforzò di rimanere serio ed impassibile, ma la cosa non gli riuscì molto bene. Le labbra, i cui estremi si andavano sempre più affossando, erano sempre più sottili. Gli occhi, lucidi, avevano assunto la tipica espressione di chi sta cercando con tutte le sue forze di non far uscire le lacrime.

"Oh, Minato..."

"Bugiarda!" esplose quello, adirato e sconfortato "Non mi hai detto niente! Bugiarda! Bugiarda! Io sono uscito di casa senza sapere niente! Sasori ha rischiato la vita e io non sapevo niente!" continuò, mentre qualche lacrima sfuggiva al suo controllo. Sasori lo guardava preoccupato, senza ben sapere cosa fare.

"Oh, bambino mio..." intervenne Sakura, avvicinandosi a lui nel tentativo di calmarlo.

Minato sentì la mano della bisnonna, rugosa, carezzargli una guancia. In realtà quel poco di contatto umano lo tranquillizzò, in parte, anche se lui rimaneva del tutto intenzionato a dirigere il suo odio verso la madre.

"Mi spiace, Minato, io non volevo che ti preoccupassi..." cercava Mebuki di giustificarsi, colta in flagrante, incapace, in quel momento, di porre la cosa su un piano sufficientemente logico.

Minato tacque, intento a trattenere le lacrime, odio e delusione ad alternarglisi sul volto infantile.

"Calmati, bambino mio..." gli sussurrava Sakura, con il suo solito filo di voce"L’ha fatto per te, te l’avrebbe detto al momento giusto... Non si sapeva niente..." Ma, per quanto fosse solo un filo, quella voce riusciva a rassicurare il bambino. Almeno un po’.

Continuò a stare zitto, come se stesse comprimendo le emozioni che aveva fatto esplodere poco prima: capace che, entro breve, tornasse a lasciarle fluire, tutte, in un colpo solo.

Sakura si odiava nel doversi dare ragione: Minato era giunto ad odiare la madre.

Il bambino tirò su con il naso.

"Io.." mormorò, in un mugugno che lasciava intendere quale enorme nodo in gola esso avesse "Io..."

"Mi spiace, Minato, io... non volevo mentirti, volevo essere sicura di cosa è successo.. vedi che Sasori sta bene..."

"Non sta bene!" sbottò di nuovo Minato "Ha perso un braccio! E i suoi genitori sono in coma! Sasori non sta affatto bene!"

Sasori corrugò la fronte, iniziandosi a sentire leggermente fuori posto.

"Oh, insomma –" Mebuki parve aver ripreso carica, infastidita da quelle parole, ritornata sul suo solito piano pragmatico " – piantala di preoccuparti così tanto per gli altri, sei eccessivo! Guarda come sei ridotto tu! Pensa io che male che ci sono stata, hai rischiato di morire, lo sai?"

"Certo che lo so!" ma perché un bambino di otto anni si ostinava così tanto a dar testa alla madre? si domandava Mebuki, sull’orlo dell’ennesima crisi di nervi dovuta ai litigi con il figlioletto – che diavolo sarebbe successo quando sarebbe entrato nell’adolescenza? Un cataclisma?

"E allora piantala! Siete vivi tutti e due, e questo è quello che ora importa! Non puoi metterti a rimuginare così tanto! Ti fa male!"

Minato tornò a serrare le labbra, i denti palesemente stretti dietro di esse.

Tacque.

Sakura sospirò, carezzandogli il capo, ben attenta a non toccare i punti in cui vi erano le fasciature.

E poi, di colpo, Minato si mise a singhiozzare, a piangere disperato, a perdere il respiro.

Sasori guardava ora Sakura, ora Mebuki, ora l’amico scosso dai singulti del pianto.

Sì, era decisamente nel posto sbagliato al momento sbagliato.

"E io non ho sentito niente!" sfiatò Minato, fra un singhiozzo e l’altro, allungando l’ultima vocale nel pianto che continuava a dominarlo. "Nienteehe! – L’odore del fuoco, della cenere – niente – niente! Perché? Niente – Perché?"

Mebuki scosse la testa, scrutando Sakura, la quale le restituì lo sguardo: come si era previsto, in fondo. Minato si era arrabbiato ferocemente per la bugia della madre, ma non al punto di odiarla. Semmai odiava se stesso, per la sua incapacità di notare che in quella notte c’era stato un incendio.

Sempre così, Minato.

Mentre la madre lo andava ad abbracciare, quello si sciolse definitivamente, tornando a mostrarsi il bambino ferito e sconvolto che era. Com’era giusto che fosse.

Sakura si volse verso Sasori, palesemente imbarazzato e perplesso.

"Sasori, c’è tua nonna qui?"

Il bambino annuì.

"Vieni, ti porto da lei. Lasciamo questi due da soli."




***



Non appena uscito sulla terrazza del palazzo del consiglio, l’uomo si stiracchiò, concludendo il gesto con un enorme sbuffo.

"Che palle!"

"Shikaku, ti pare il modo di commentare una seduta?" lo rimproverò una voce maschile.

I due si guardarono, senza sapere se tornare tutti e due sospirare profondamente o lasciarsi svicolare in una lunga risata.

Dopo un vago abbozzo di sorriso, optarono per la prima opzione.

"La vuoi una sigaretta, Obito?" fece il primo, tirando fuori un pacchetto di tabacco.

"No, grazie. Quella roba mi pare sia solo che fonte di male."

"Sì, questo è indubbio." fece Shikaku, iniziando a rollare "ma dopo sedute del consiglio come questa, è l’unico modo per sopravvivere."

Obito scosse il capo, passandosi una mano fra i capelli corvini e disordinati. "Sembri tuo nonno, quando parli così."

"Possibile."

"Soprattutto sui tuoi commenti riguardo le sedute."

Shikaku ridacchiò, accendendosi poi la sigaretta. "Mio nonno era meno scurrile."

"Pura questione generazionale."

Sospirarono, per l’ennesima volta. Mentre l’uno aspirava il fumo, l’altro, a pieni polmoni, aspirava l’aria, il vento, l’odore di aperto. Muovendo qualche passo lungo la terrazza, finirono per appoggiarsi alla balaustra, intenti, ambedue, a fissare il panorama. Da dove si trovavano loro si riusciva a vedere una buona fetta di Konoha, nonostante il palazzo non fosse particolarmente alto. Allungando un po’ lo sguardo, si riuscivano a distinguere le macerie dell’H09A, uno degli edifici della scuola fatti saltare dai secessionisti qualche giorno prima.

Obito, rimasto a fissare quella specie di buco nel panorama abituale, scosse leggermente il capo. "Che palle." mormorò poi.

"Ah, bene." fece Shikaku, ridacchiando. "Allora ti sto contagiando."

Obito sbuffò. "Guarda –" indicò con un cenno del capo nella direzione delle macerie "– ormai sto iniziando ad abituarmi a non vederlo più. Non mi fa nemmeno più impressione."

"... già. Nemmeno a me." rispose l’altro. Inspirò, tirando, e dunque espirò fumo.

"Non ti pare surreale? Sembra quasi che non sia cambiato niente."

Shikaku annuì minimamente. "Non facciamo altro che fare sedute del consiglio, ma qui la gente continua a svegliarsi e ad andare a lavorare, ogni mattina, come se non fosse successo niente. E noi ce ne stiamo chiusi a far discussioni inconcludenti."

"Dovrebbe essere un caos, dopo un colpo del genere – e invece no."

"Il fatto, Obito" fece Shikaku, staccandosi dalla ringhiera "è che la vita va avanti lo stesso. Secessionisti, incendi, esplosioni. E’ un casino, ma nel casino si va avanti lo stesso. Sempre e comunque."

"Uno si aspetta urla, paura, una città congelata dal terrore e dallo sconforto..."

"E cosa bisognerebbe fare?" domandò l’altro, voltandosi verso di lui "Rimanere immobili finché non succede qualcosa? E cosa dovrebbe succedere?"

Obito si strinse nelle spalle, apparentemente rassegnato. "Non lo so. Ma sembra tutto così... assurdo. Ventisei bambini sono morti."

"Già. Ed altra gente morirà ancora."

"E noi staremo chiusi, giorni e notti, nella sala del consiglio."

"A non concludere niente." Shikaku lasciò cadere il mozzicone di sigaretta a terra, spegnendolo con la suola dello scarpone.

"No" mormorò Obito, gli occhi nuovamente fissi sulle macerie dell’H09A. "Se va avanti così, riusciremo a far scatenare una guerra civile."

"Ci vuole impegno a far scatenare una guerra civile, eh. Non è mica roba da due giorni."

L’altro roteò gli occhi, lontanamente infastidito dal commento sarcastico di Shikaku. "Già." rispose, leggermente acido. "Ci vuole un intero consiglio per far scatenare una guerra civile come si deve."

L’altro, notando che Obito andava deprimendosi sempre più, gli piazzò una potente pacca sulla spalla nel tentativo di rinsavirlo. "Forza. Bisogna tornare a discutere dei massimi sistemi mentre il resto della vita va avanti."

... "Che palle."




***


Quando Sakura, con il suo solito passo lento, traballante ma deciso, rimise piede nella stanza dove era ricoverato Minato, trovò madre e figlio riappacificati. Il bambino, ogni tanto, si passava le mani sugli occhi, nel tentativo di mandar via le ultime lacrime – ma il volto, ormai, era ridiventato sereno.

"Ciao, bisnonna Sakura" mormorò Minato, resosi conto di non averla salutata a dovere, ed arrossendo leggermente per quella piccola scortesia.

"Stai meglio?" gli domandò l’anziana, mentre copriva gli ultimi metri che la dividevano dal letto del bambino.

Quello annuì leggermente, mordicchiandosi le labbra con una vaga aria colpevole.

"Gli fa male la testa" intervenne Mebuki, preoccupata.

"Mmh..." finalmente, l’anziana Sakura poté sedersi. "Minato, devi stare attento, sei convalescente... e con quel colpo che hai preso in testa ... non è il caso di sforzarla troppo, per ora – mi spiego?"

Il bambino annuì, mogio.

Ad ogni modo era calmo, e questo importava.

"Dov’è Sasori?" domandò poi, resosi conto che il suo amico era sparito. Era stato troppo preso dalle emozioni per capire cosa gli stava succedendo attorno.

"Da sua nonna" rispose Mebuki per Sakura, con l’intento di non farla sforzare troppo. "In mani sicure, vedrai."

"Quando staremo meglio, potrò andare a trovarlo?"chiese il bambino, ridimostrando, finalmente, l’ingenuità dei suoi anni.

Le due donne tacquero, cercando una risposta sensata da dargli.

Il fatto era che nessuno sapeva cosa sarebbe successo, di lì in avanti. Loro per prime.

Sarebbe stato chiamato l’Esodo?

Avrebbero creato uno stato di sicurezza estrema? Con coprifuochi insindacabili e controlli serrati ad ogni angolo della città?

I secessionisti bianchi – se, in fondo, tali realmente erano gli autori di quell’attentato, perché nessuno ancora sapeva nulla né rivendicava nulla – avrebbero continuato su quella linea? I secessionisti neri avrebbero risposto?

Tutto lasciava presagire scenari distopici – ma realtà era che, sino ad ora, non era successo assolutamente niente.

La gente continuava a camminare per le strade, magari con rinnovata attenzione, i bianchi a gruppetti si spostavano di casa in casa, alcuni decidendo di tornare in patria, e la vita scorreva. Tutti attendevano reazioni, ma la realtà era che nessuno reagiva.

Non succedeva niente.

Tanta paura, tanto sconforto, ma in dodici giorni, niente.

Addirittura non v’era stata nessuna scorreria dei secessionisti neri.

Che si stessero preparando a qualcosa di grosso?

Non c’era modo di saperlo. In genere erano gruppi disorganizzati – ragion per cui era molto difficile fare un lavoro spionistico – che si muovevano caoticamente per lo stesso fine, ovvero la secessione. Gli ultimi attentati erano di tutt’altra natura.

E forse matrice.

Chissà.

"Vedremo." fece Mebuki, ricordandosi, nel silenzio, di dover rispondere alla domanda di Minato.

Minato storse le labbra, non certo entusiasta di una risposta del genere.

"Dipende da come si mettono le cose."

Il bambino fece un grande respiro rassegnato.

Ormai anche lui si rendeva conto che c’erano dei limiti alle azioni possibili – dei limiti non considerati dalla Politeia.

Alla madre parve quasi di vedere un cambio d’espressione, come se, alla fine, fosse riuscito a digerire quell’ardua lezione: il mondo non è come vorremmo. E peggio ancora, non è come ce lo descrivono. Ma questo, probabilmente, sarebbe venuto più avanti.

"Minato."

Il bambino volse lo sguardo verso la bisnonna, che lo aveva richiamato per ottenerne l’attenzione.

"Appena ti dimettono, io e tua mamma abbiamo deciso di portarti in un posto speciale."

La bisnonna appariva allegra, nell’intento di proporgli quella che doveva essere una sorpresa, un qualcosa di felicemente inaspettato.

"Ah, sì? Dove? Dove andiamo?"

Mebuki sorrise, passandogli la mano fra i capelli.

"Andiamo all’altipiano del Ludus."

Le labbra del bambino si schiusero, esterrefatte.

"Sul serio?"



______________________________________________




[NdA]


Obito e Shikaku.

Che a occhio dovrebbero avere al massimo dieci anni di differenza. Non si saran mai visti in tutta la loro vita, nel manga.

Ma mi serviva un po’ di gente per rimpinguare le generazioni ‘nuove’, continuando sulla discronia. Io spero che questa ‘confusione’ con i personaggi non dia troppo fastidio.

Ah, ed eccovi il caro Sasorino =3 con tanto di protesi, sto cercando, almeno lui, di dargli qualche similitudine all’edizione del manga. Forse per il momento è troppo allegro, ma è pur sempre un bambino.



 Vivi e sentiti ringraziamenti a chi mi continua a seguire e per le magnifiche recensioni. Spero che il proseguimento non vi deluda. Specie LaGren*, mi stupisce xD attendo qualcosa su cui tu abbia da ridire, come ai vecchi tempi. =P


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Capitolo 5
*** 4. Anima e Tomba ***


4






(4) – [ Anima e tomba ]



Era usanza più che comune portare i bambini a visitare il cimitero e, in particolare, il Ludus. Anche chi non aveva figli, almeno una volta ogni tre anni, andava a farvi visita. Un pellegrinaggio continuo, un continuo via vai, discreto e solenne.

La maggior parte dei compagni di classe di Minato c’era già stato almeno una volta, e lui voleva assolutamente vederlo. Dopotutto, era lì che la sua bisnonna si era inferta le sue famose cicatrici, era lì che la rivoluzione aveva avuto inizio – era lì che Naruto Uzumaki era morto.

Tutto partiva dal Ludus.

Visitare l’altipiano, andando a rendere onore ai morti anonimi ivi seppelliti, era oramai tradizione talmente consolidata nella cultura della Magna Regio che si usava organizzare spedizioni di alunni della Scuola: in questo modo i professori potevano ben spiegare loro cosa era successo, come, quando, perché.

La maggior parte dei ragazzini era affascinata dallo stile di vita che si conduceva in quel posto: se da un certo punto di vista suonava rigido ed inquietante, dall’altro nascondeva un potenziale che essi per primi intuivano, rendendosi conto di quanta efficienza vi fosse in tal sistema, di quanto fosse selezionata l’elite, di che incredibile gradino – forse rappresentato dall’altipiano stesso – separava Philosophi e Custodes dal resto del mondo.

Un gradino da cui in molti, continuamente, cadevano.

Era compito dei professori – e dei genitori, e comunque della società tutta – fare in modo che i ragazzini non si facessero strane idee, mitizzando un passato che con tanta fatica era stato cambiato.

Ad ogni modo, le due volte in cui sarebbe toccato a Minato visitare il Ludus con la Scuola, non c’era riuscito: era sempre rimasto incastrato in visite mediche dovute alla sua propensione alle mutazioni. Ne faceva in continuazione, di queste visite: essere il pronipote di Sakura Haruno rendeva la cosa ancora più pedissequa, in quanto lei era la massima autorità in merito. E, ovviamente, si preoccupava per il pronipote.

Inutile dire che tutte le due volte in cui mancò la visita al Ludus il bambino ci rimase particolarmente male. La prima volta, a sei anni, aveva passato una settimana a chiedere ‘per favore, per favore, per favore’ – mentre sua mamma gli ripeteva che prima o poi nella sua vita ci sarebbe stato, al Ludus, doveva solo aver pazienza. La seconda volta, a sette anni e mezzo – pochi mesi prima degli attentati bombaroli – a stento aveva trattenuto un pianto infinito, concedendosi di scoppiare in lacrime solo una volta giunto in camera sua, da solo.

D’altronde, si ripeteva Mebuki, era logico che il bambino si sentisse leggermente sfortunato e tagliato fuori dalla sua fettina di società – aveva un che di alienante essere l’unico a non aver ancora visto il Ludus. Per non parlare del fatto che lui, a queste cose, ci teneva. Aveva avanzato richiesta di visitare l’altipiano del Ludus prima ancora di sapere esattamente cosa fosse, e che fosse meta comune di brevi pellegrinaggi: a quattro anni aveva puntato il dito verso la mezza montagna, chiedendo cosa fosse, e se poteva vederla.


Quattro anni dopo, finalmente, Minato poteva vedere i piedi del Ludus dalle pareti trasparenti dell’Effluxum – il siluro ad acqua che, nei tempi andati, scorreva come un fiume dal Ludus attraversando tutta la regio, collegando i Custodes con il resto del mondo.

Man mano che si avvicinava all’altipiano, questo cresceva sempre più: aveva facilmente intuito che era enorme, a guardarlo dalla sua finestra di Konoha, ma non era mai riuscito a quantificare bene la cosa.

Il termine ‘colossale’ iniziava a perdere di forza di fronte a quello.

"Ma com’è fatto, sopra?"

Obito sospirò per l’ennesima volta, tentando di non farsi sentire.

"Esattamente come te lo avevo descritto ieri." rispose al ragazzino, con calma.

"Sì, ma ci sono strade di cemento?"

"Ti ho detto di sì. Il piazzale è di cemento."

"Ma fuori?"

"Fuori dove?"

"Fuori dal piazzale."

"Cemento, terra, alberi."

Mebuki continuava a guardare fuori, assorta, ignorando lo scambio di battute tra i due cugini.

"Ma che alberi?"

"E che ne so?"

"Pini?"

"Ti ho detto che non lo so."

"Fichi?"

"Perché proprio fichi?" domandò Obito, sinceramente perplesso da tal domanda.

Non è che Obito non sopportasse i bambini, era solo che un po’ lo esasperavano. O forse lo esasperava Minato. Non gli voleva del male, anzi, semmai il contrario, e per questo cercava sempre di mantenere la calma, con lui, e di essere gentile. Solo che ogni tanto non ce la faceva più.

E sì che l’idea di fuggire dal consiglio per qualche tempo gli era parsa buona. Un’ottima occasione da sfruttare, quella di dover accompagnare Minato e Mebuki al Ludus - l’anziana Sakura non aveva nemmeno dovuto dare una spiegazione per fargli una richiesta del genere, lui aveva accettato senza guardarsi indietro: delle discussioni inconcludenti del consiglio non ne poteva veramente più. Doveva staccare.

"Perché sto cercando di indovinare." spiegò Minato, continuando a fissare l’altipiano. "Peri?" continuò.

"Di sicuro ci sono ciliegi – " si lasciò sfuggire Obito.

"Ahsì?" Minato si voltò di scatto verso di lui: "E cos’altro?"

Bene, adesso che si era lasciato sfuggire un’informazione, il bambino non lo avrebbe mollato più. Sapendo che sapeva, gli avrebbe estratto ogni singola nozione in merito, senza possibilità di scampo.

Chissà su cosa stavano litigando, ora, in consiglio.

"Non lo so."

"Querce?"

"Tu ho detto che non lo so, Minato..."

"Ma come non lo sai?"

"Non mi ricordo!" si lasciò sfuggire, con un minimo di esasperazione. Scosse il capo, sentendosi colpevole di tal scatto.

Minato corrugò la fronte, tornando poi a guardare fuori.

"Secondo me è pieno di querce."

"Perché?"

"Perché sì."

Toccò ad Obito corrugare la fronte, questa volta.

"Ma perché ti interessa?" domandò poi.

"Perché sì."

"... alla faccia dell’argomentazione..."


Due mesi erano passati. Due – non uno: due.

Due lunghi, interminabili mesi in cui ormai Obito non sapeva più distinguere l’ordine dei giorni, i quali si susseguivano uno identico all’altro nelle infinite discussioni del consiglio. Nessuna evoluzione. Nessun cambiamento. Rassettare le macerie, riorganizzare i turni agli edifici scolastici, fare un bel respiro ed andare avanti.

Senza che nessuno lo chiamasse, il tanto nominato Esodo stava avvenendo in modo, se si può dire, naturale: famiglie su famiglie di bianchi tornavano nel deserto, diretti prevalentemente verso la città di Suna, alla ricerca di tranquillità.

Quello che più gli logorava i nervi era il fatto che da allora, da due mesi, nessun attacco secessionista, nessuna scorribanda, nessun’altra bomba, nessun pestaggio od incendio era avvenuto. Era tutto dannatamente immobile, congelato agli istanti successivi alle esplosioni di quel giorno ormai lontano.

Ciò nonostante, la vita andava avanti.

Minato era praticamente guarito, ed ora se ne andava tutto contento a visitare il Ludus.

Sakura aveva guardato Obito dritto negli occhi, a lungo, e non a caso: gli aveva detto di fare attenzione. Di usarli, quegli occhi.

Lui aveva annuito, serio, ma non per questo non perplesso da una richiesta così specifica: in fondo, non v’era nulla di pericoloso, al Ludus.

Di particolare, sì. Insolito, magari. Qualsiasi mutato, indipendentemente dalla mutazione, percepiva la sacralità di quel posto grazie al suo dono – probabilmente dovuto alla densità degli eventi che si erano svolti in quel luogo. Cosa o perché rimanevano tendenzialmente misteri – come ancora tutte da studiare e capire a fondo erano le mutazioni; ma comunque la morale del ragionamento era che per quanto ci fosse da vedere, da sentire, da odorare, nessuno aveva mai subito danno, da quell’atmosfera pregna e satura che aleggiava sulle macerie del vecchio sistema.


In lontananza iniziava a vedersi l’imboccatura della galleria, intenta ad inabissarsi nell’altipiano. Minato storse la testa cercando di vedere meglio, dalla vetrata laterale, quello che accadeva in testa: dopo aver spiaccicato la guancia ed il naso contro il vetro nelle più svariate posizioni possibili, vi si staccò, scendendo dal sedile per mettersi in piedi.

"Matre, posso andare a vedere davanti?" domandò, i piedi che gli bruciavano dalla voglia di percorrere i pochi metri che lo separavano dal muso affusolato del convoglio.

"Non si vede niente, Minato."

"Per favore!"

Mebuki storse la bocca, scuotendo il capo.

"Non si vede niente davvero, Minato –" rincarò Obito, nel tentativo di dissuaderlo.

Minato non sembrava molto intenzionato a credere ai due. Rimase lì, in piedi, zitto, aspettando una risposta che fosse diversa da un ‘no’.

Gli sembrava una tattica intelligente – non troppo infantile, ma non per questo più remissiva.

Obito lo fissava perplesso, mentre Mebuki era già tornata a fissare fuori – senza risparmiarsi di scuotere il capo due volte in più.

Il bambino fece scivolare lo sguardo dal cugino alla madre, il cui atteggiamento appariva sin troppo stanco, per il suo solito. Era così da quando era stato ricoverato – anzi, a ben pensarci, dalla sfuriata che le aveva fatto riguardo la radio e Sasori.

Anche se rimaneva zitta, comunque, non stava certo dicendogli che poteva fare quello che voleva: Minato era testardo, ma non molto disubbidiente – salvo quando andava contro i suoi principii, sosteneva lui.

Alla fine il buio li avvolse: di colpo, la luce solare scomparve, e solo le lampade interne rimanevano ad illuminare il vagone. Avvenne così rapidamente che Minato fu più traumatizzato dall’insorgere di tanto buio che dal realizzare d’aver appena perso la possibilità di vedere le pendici del Ludus dalla testa dell’Effluxum.

Obito lo osservò, quasi divertito, guardarsi attorno disorientato non prima di aver compiuto un piccolo sussulto per tutto quel buio inaspettato: Minato non doveva ancora aver ben realizzato qual era la prodigiosa velocità a cui si muoveva quel siluro.

Dopo un po’, il bambino si risedette, mugugnando un ‘uffa’ alquanto deluso.



***


E’ un battito dopo l’altro.

Uno dopo l’altro.


Non ha lo stesso odore, ma non ha importanza.

Non è l’odore che conta.


Un battito dopo l’altro, un battito ancora.


Era nato per caso, quel corpo così piccolo e fragile.

Solo istinto.

Solo dato di fatto.

Era lì, e basta.


Un battito dopo l’altro, il concetto di umano si era rifatto oggetto. Lentamente.

Corpo. Carne. Mente.

E la più incredibile debolezza dell’universo intero.


Un battito dopo l’altro, ed uno ancora per abitudine.


Fame, bisogno, bisogno e fame. Non erano quelle le giuste parole. Le parole non dovevano far parte del suo mondo, assai superiore a questo.


Non importava.


Un battito dopo l’altro, avrebbe aspettato. Ancora ed ancora.



Due occhi si schiudono, svegli. Rossi.

La pupilla allungata, nera ed infinita nella sua profondità.

I polmoni respirano. Inspirano.

E fanno male.


Quale immensa magia, questo mondo.

Quale immensa gioia, di colpo.



***


Obito non ricordava di essere stato così dannatamente euforico quando aveva visitato il Ludus per la prima volta.

Anzi.

Appena aveva buttato un’occhiata in giro con lo Sharingan - cosa che usava fare sin da quando gli si era manifestata la mutazione ereditaria - si era trovato di fronte a quell’atmosfera opprimente che tutti i mutati raccontavano esserci, sua madre in primis – suo nonno pure. Non preoccuparti, gli aveva detto. E’ sempre così, qua. E’ normale.

Se lo diceva nonno Sasuke, si era ripetuto Obito allora, non c’era nulla di cui valeva la pena preoccuparsi.

Non che questo gli avessi impedito di lasciarsi scappare la sua solita lacrimuccia impaurita.

Che fastidio.

A lui visitare il Ludus non era mai realmente piaciuto.

Minato invece saltellava in giro come un capretto, fermandosi ogni tanto ad osservare ora lo scheletro metallico della Sphaera, ora le palazzine bianche e candide della zona ospedaliera – in tal caso rimaneva immobile, per lunghi minuti, le labbra schiuse e gli occhi azzurri incollati sull’oggetto cui rivolgeva tanta ammirazione. Ogni tanto sembrava si dimenticasse pure di respirare.

Il fatto che avessero già visto sia il piazzale del Ludus che il così detto ‘regno di Tsunade’ stava a significare che di strada ne avevano fatta abbastanza. Erano almeno due ore che camminavano, Obito e Mebuki intenti a seguire il bambino che più che in un reliquiario e cimitero sembrava essere entrato in un negozio di dolciumi.

Per quanto riguardava lui, Minato, non appena aveva messo piede nella stazione della SubSphaera era rimasto allibito, attonito, sconvolto – e si era esaltato. In un istante solo, appena aveva levato gli occhi verso l’alto, verso il soffitto infinito ed oscuro da cui solo pochissime lampadine diffondevano una luce tenue in tutto l’enorme stanzone, si era reso conto di dove era veramente.

Di cosa era successo su quel cemento, sopra e sotto, per centinaia d’anni, o in un giorno solo.

La SubSphaera era nota per essere scarscamente illuminata: già così Minato non vedeva niente – in realtà, gli aveva spiegato Obito, una volta di luce ce n’era ancora di meno.

Serviva per abituare i Custos a vedere al buio – aveva aggiunto Mebuki.

Lì si erano allenate generazioni di ignari, elitari e praticamente perfetti guerrieri.

Al buio.

"Sembra un controsenso." aveva detto, Minato, fra sé e sé.

"Io non direi – " gli aveva risposto Obito, facendo spallucce. " – nelle notti del deserto riuscire a vederci qualcosa non è mica particolarmente semplice."

"Sì, ma – loro imparavano a vedere al buio, ma in realtà stavano in un buio molto più profondo."

Obito aveva corrugato la fronte, a tratti sgomento – Mebuki invece ci aveva fatto l’abitudine, a queste sue uscite: ciò nonostante, si lasciò sfuggire un sospiro.

"La prossima volta ti ci mando a te, in consiglio, al posto mio." aveva concluso il cugino, scuotendo la testa divertito.


Di lì a poco sarebbe iniziata la zona del cimitero: fra le fronde degli alberi la luce del sole filtrava in minuscoli fasci, che proiettavano chiazze rotonde sul sentiero sterrato. Ogni tanto, nel cammino, si incontrava qualche altro visitatore: a parte un piccolo cenno di saluto con il capo, poco ci si diceva. La gente tendeva a guardare in silenzio – ed il silenzio, ivi, regnava. Niente a che vedere con il perenne rumore di fondo dell’attiva, vigile e instancabile – per quanto turbata – Konoha. Alla lunga quel silenzio iniziava addirittura a fare male alle orecchie: i suoni del bosco, ormai impossessatosi delle strutture umane, era così diverso dal suono della città che, nel paradosso, sembrava loro innaturale.

Con tacito accordo, che solo dopo trent’anni era diventato legge, nessuno, da dopo il giorno della rivoluzione, aveva toccato nulla: né per demolire, né per conservare. Solo il cimitero continuava a riempirsi delle sue tombe volutamente anonime; per il resto, si aspettava che il tempo, la natura, la vita, facessero il loro lavoro sugli edifici: le radici degli alberi avevano dissestato con persistente calma il cemento, l’edera si era arrampicata sulle travi metalliche e nude della Sphaera, gli animali si erano impossessati delle zone chiuse, l’acqua aveva corroso, i vetri si erano rotti, il legno aveva iniziato a marcire e ad ospitare tarli, funghi ed uccelli.

Prima o poi tutto sarebbe scomparso: forse, si dicevano i più anziani, solo allora ogni traccia sarà svanita anche dal cuore di questa umanità, così impaurita da cosa si era fatta, così terrorizzata da cosa si vedeva, ora, fare.

"Mater..." iniziò Minato, non appena il terreno ordinato e curato del cimitero iniziò a comparire all’orizzonte, insieme ai suoi piccoli paletti anonimi.

Attese, con calma, che quella gli dicesse qualcosa.

"Sì."

"Ma tu sai dov’è sepolto Pater?"

Mebuki fece un respiro profondo, maledicendosi per non essersi resa conto che quella domanda sarebbe arrivata, lì – era ovvio, dopotutto. Le era come sfuggito di mente, impegnata ad elaborare su altri problemi: e sì che, più o meno, era la stessa cosa.

Dopo aver ammesso a se stessa d’aver peccato d’attenzione, s’aggrappò con tutte le sue forze alla risposta più ovvia, sana e corretta che poteva dare a Minato:

"Minato, lo sai che non ci sono i nomi, sulle tombe. E’ fatto apposta."

"Ma magari, avendolo sepolto..."

"Siamo tutti uguali, nella morte. Non penso proprio che saprei riconoscere il punto esatto – e sinceramente, mi spiace, ma nemmeno vorrei poterlo fare."

Obito si fermò di colpo.

"E Naruto? Naruto è stato il primo ad essere sepolto, no? Quindi sarà facile da trovare."

"Non è un gioco, Minato. Stai perdendo di vista il punto focale." Mebuki sembrava leggermente infastidita, ma non lo lasciava troppo a vedere. In realtà, lei stessa aveva pensato, le prime volte, di poter trovare la sepoltura esatta dei cari e dei grandi – suo nonno Itachi prima di tutti.

Ovviamente non c’era riuscita.

E solo una volta diventata più grande aveva capito quando fosse insensata quella ricerca.

Madre e figlio continuavano a camminare, senza essersi resi conto che il cugine s’era fermato.

Obito, dalla sua posizione, strinse gli occhi, nell’intento di mettere meglio a fuoco quello che gli era parso un lampo, un guizzo, come il pulsare istantaneo, rapidamente dissolto. Dopo aver atteso per qualche istante che questo si ripresentasse, rinunciò: riprese a camminare, il passo veloce per raggiungere gli altri due.









______________________________________________




[NDA]


Chissà se vi ho incuriosito abbastanza,o ho spoilerato troppo, o mi sono buttata su classici troppo sospetti xD Sono molto indecisa.

Però mi sento una faigah per il titolo di ‘sto capitolo, mi piace da impazzire.


Saluti e ringraziamenti per le letture. Spero gradiate leggere quanto io gradisco scrivere.


Kimmy






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Capitolo 6
*** 5. Post Mortem ***


5






(5) – [ Post Mortem ]




Il cimitero era una distesa verde e piatta, ordinata nei suoi paletti disposti regolarmente: sulle ultime tombe l’erba non aveva ancora fatto in tempo a ricrescere. Di fatto, il cimitero del Ludus era riservato ai neri: da una parte perché aveva un forte significato solo per loro, dall’altra perché i bianchi erano già attrezzati da secoli per la sepoltura, ed erano stati i neri ad aver deciso di acquisire da loro quell’usanza. Come luogo di pellegrinaggio, ad ogni modo, era comune – perché il Ludus in sé era la meta reale di tali viaggi.

Minato osservava i paletti, silente, rendendosi ben conto che in quel luogo non era assolutamente il caso di andarsene in giro saltellando. Si era accorto molto presto di quanto fosse inutile provare a cercare una tomba specifica: il cimitero era una distesa infinita, compatta, che cresceva in ogni direzione.

A che pro, poi? Che senso avrebbe avuto trovare il punto in cui un corpo, privo di vita, era stato seppellito? Per poi solo decomporsi, e null’altro?

Siamo tutti uguali, nella morte.

Puoi fare una statua a chi ha vissuto grandemente, ma da morto ben poco può fare – di azioni non ne compirà più. E di lui resterà, entro breve, ben poco.

Lo stesso trattamento di naturale decomposizione dei corpi sembrava starsi applicando alle strutture del vecchio Ludus.

Prima o poi, scomparirà del tutto.

Minato non rusciva a non sentire un controsenso in quei ragionamenti, un’illogica di fondo da cui sembrava impossibile scappare: se da un lato dovevi ricordare, ed era giusto farlo, dall’altro dovevi anche lasciare andare. Cosa che i secessionisti fallivano nel fare, ostinandosi a rimarcare la differenza fra i due popoli.

Era così strano, galleggiare in quel mondo di idee sottili e insicure.

La gente camminava attraverso la distesa verde senza fiatare, osservando ora il terreno, ora i paletti. Ovviamente nessuno si fermava da nessuna parte: era come se attraversare quel campo di morti desse un leggero senso in più alla tua vita: fai ora, che dopo non è che avrai molto da fare.

La cultura dei bianchi prevedeva una seconda vita – fortunatamente scorrelata dalla prima, per cui non si scontrava con il concetto di "nulla" tipico della cultura dell’Ignis Regio, vecchia o nuova che fosse. Minato si ricordava che la prima volta che Kakashi aveva seppellito Naruto – secondo le usanze bianche – e gli aveva lasciato una pistola nella tomba nell’idea del ‘non si sa mai’, Kankuro s’era quasi offeso. L’anziano Kankuro raccontava spesso quella storia, specialmente quando si trattava di parlare del rapporto delle due culture con i cimiteri; ma, alla fine, il concetto era uguale.

Qualunque cosa accadesse dopo, non aveva niente a che fare con questo mondo. Quindi, ora come ora, era irrilevante.

I tre continuavano a camminare senza scambiarsi una singola occhiata. Obito, lo Sharingan attivato, osservava la sua realtà aumentata seguendo le istruzioni di Sakura: guardava e riguardava, con somma attenzione. Del guizzo di prima nessuna traccia, qualunque cosa fosse stata, in qualunque modo si fosse sviluppato – chissà, anche solo nella sua mente. La cappa tipica del Ludus rimaneva, apparentemente inamovibile.

Dopo quasi mezz’ora passata nel rispettoso silenzio, Minato parve cedere, mettendosi a tirare il lembo della casacca di Obito nel tentativo di richiamare la sua attenzione.

"Obito!" sussurrò, sperando che sua madre non lo sentisse.

L’altro abbassò lo sguardo, le sopracciglia levate. Non rispose: rimasero a guardarsi negli occhi, continuando a camminare.

Dopo aver capito che il cugino non sembrava intenzionato a rispondergli – ma la sua attenzione ce l’aveva tutta – Minato continuò: "A quanti anni ti è venuto lo Sharingan?"

Obito si strinse nelle spalle, scuotendo il capo. "Dodici" sussurrò a sua volta "Ma non farmi qui domande a cui posso risponderti dopo, Minato!"

"Ma tu cosa vedi di più?" continuò il bambino.

Obito strinse le labbra, scuotendo nuovamente il capo, e tornando a guardarsi attorno: era più che intenzionato a non rispondergli.

"Ma qualcuno vede oltre le tombe?" insisté quello, continuando a sussurrare. Mebuki faceva finta di non sentirlo, continuando ad avanzare.

Obito taceva.

"Qualche altra mutazione, dico." continuò il bambino, come se quel silenzio fosse dovuto al fatto che s’era espresso male.

Obito sospirò, esausto. "No, Minato." sillabò. "I morti sono morti, non è che vedi i morti."

"Ma forse chi ha una mutazione di tipo animale..."

Lo sguardo di Obito fu abbastanza eloquente: le labbra strettissime – no, non avrebbe parlato oltre –, le sopracciglia talmente convergenti da corrugare la fronte - no, Minato, non si può.

Minato, avendo afferrato il concetto, tornò a guardarsi attorno, sempre più raccolto nei suoi pensieri.

Dopo neanche due minuti, tornò a strattonare la casacca di Obito – il quale, rassegnato, tornò a fissare il bambino per capire cosa volesse adesso.

Minato, con insistenti cenni del capo, indicava in una determinata direzione: il cugino allungò lo sguardo, cercando di capire a cosa diamine alludesse. Poco più in là, una figurina rossa sostava immobile in mezzo alle tombe – comportamento, in effetti, alquanto insolito. Ma non poi così scandalizzante, in fondo. Man mano che camminavano, i due continuavano a guardare nella stessa direzione: Obito iniziava finalmente a capire le ultime domande di Minato – e perché avesse avuto tanta impellenza di porgliele.

Che ragione aveva qualcuno di inchiodarsi a fissare una tomba, una qualsiasi? Il bambino aveva ragionevolmente pensato che, in qualche modo, doveva averci visto dentro – altrimenti, non v’era senso alcuno.

"Sembrerebbe una bambina della tua età."

"Tu dici?" Minato sembrava stare iniziando a dimenticarsi che doveva sussurrare, alzando progressivamente il tono della voce. Obito lo zittì mimando uno ‘ssshst’ , per poi tornare ad osservare la figurina rossa. "Secondo me sì. Vai a vedere."

Il bambino parve sussultare: "Scherzi? Sarebbe decisamente scortese!"

Obito tornò a fargli ‘ssshst’. "Scortese è parlare al cimitero –"

"Appunto – che faccio, vado lì, la guardo e torno indietro?"

Quello fece spallucce. Ancora intenti a fissarsi, inciamparono in Mebuki – che, infastidita, si era fermata a guardarli male. Dopo aver quasi rischiato di andarle addosso, i due si fermarono, osservando la donna leggermente inacidita.

Il suo sguardo parlava da solo.

Ripresero a camminare, zitti. Lo sguardo azzurro di Minato, ogni tanto, tornava verso la figurina rossa – che, man mano che avanzavano, iniziava ad allontanarsi.



***


La bambina, accovacciata sopra a una tomba, intenta a fissare per terra, non si mosse.

Continuava a stare lì, assorta, apparentemente non del tutto presente: gli occhi, vaghi, parevano stare guardando in un altro mondo, osservando eventi che nulla avevano a che vedere con quanto la circondava.

Eppure, qualcosa nell’ambiente era cambiato. Lo aveva sentito, per quanto avesse ancora le idee poco chiare su cosa fosse veramente sentire: viveva di riflesso, dell’immagine filtrata da un’entità che si faceva via via sempre più distante.

Se sotto certi aspetti le idee le aveva chiare, per altri si sentiva confusa. Più si sentiva confusa, più la confusione aumentava: era un circolo vizioso.

Qualcosa stava accadendo, dentro di lei – o fuori. Dipendeva dai punti di vista.

Forse dentro e fuori.

Il respiro calmo, il cuore quasi troppo lento.

Lei aspettava, non faceva altro. Per ora non sapeva fare altro.


Ma aveva la sensazione di aver perso qualcosa.



***


Si sedettero sotto a un albero – un ciliegio, per la precisione – a riposare. Il sole iniziava la sua discesa, ed anche la fame faceva la sua comparsa.

Minato, però – oppure ovviamente – non sentiva né stanchezza né fame. Ancora in piedi, osservava la madre ed il cugino intenti a rilassarsi e distendersi.

"Lo vuoi un po’ di pane, Minato?" gli domandò Mebuki, perlustrando la sua sacca da viaggio.

Il bambino fece di no con la testa, mentre, assolutamente non intenzionato a sedersi, passava irrequieto il peso da un piede all’altro. La madre, dal basso, lo scrutò di sottecchi.

"Che hai." chiese, omettendo stancamente il punto interrogativo.

"Vorrei..."

Silenzio.

La richiesta sembrava assurda anche a lui. Ma la curiosità di Minato era cosa più che conosciuta, a quegli altri, che avevano perfettamente capito cosa gli frullava in testa.

"Vai."

Minato levò le sopracciglia, sconcertato.

"Sul serio?" domandò, tastando insicuro il terreno.

"Tanto sei tu quello che fa brutta figura se si mette a chiacchierare nel bel mezzo del cimitero. Il bracciale ce l’hai, no?"

Minato levò il polso, mostrando il piccolo oggetto che gli avvolgeva parte dell’avambraccio. C’era un dispositivo radio, lì dentro, capace di trasmettere, ricevere e triangolare. E qualche altra amenità – quegli aggeggi erano un’eredità diretta dei Custodes: dopotutto è sciocco rinunciare a tecnologie così potenti e pratiche. Potevano rimanere facilmente in contatto, in questo modo – e se si fosse perso, Mebuki lo avrebbe potuto trovare. Funzionava con una carica solare e, se le batterie si esaurivano, poteva mantenersi in tensione sfruttando il calore del corpo umano.

"Ecco. Tanto è il Ludus, mica una foresta selvaggia."

Minato non sembrava ancora del tutto convinto. Volse lo sguardo, interrogativo, verso Obito: quello, stanco morto da tanto camminare, gli fece cenno insistente di andare – non prima d’essersi stretto nelle spalle, a voler dire ‘perchè lo chiedi a me, poi?’.

Minato tergiversò qualche altro minuto, valutando e rivalutando la situazione.

"Non parlerò ad alta voce." disse poi, quasi volesse sottolineare che la maleducazione non era sua prerogativa. "Voglio solo capire perché sta lì."

"Beh – " fece Obito " – parlare devi, evidentemente."

"Sì, ma..."

"I suoi genitori dovranno essere da qualche parte -" aggiunse sua madre "– forse a quest’ora è già andata via."

Il bambino storse la bocca, ammettendo di non aver preso in considerazione la cosa.

"Provo solo a vedere se c’è ancora. Cos’avrà di particolare quella tomba?"

"Niente" lo liquidò il cugino "come ti ho già detto, non c’è modo di distinguere un morto dall’altro, a meno che tu non voglia scavare. Mutazioni o non mutazioni."

"Sì, ma..."

"Magari si è fermata per caso su di una tomba a caso. A riposare. O forse è rimasta lì perché si è persa, e non si muove in attesa che i suoi genitori tornino sui loro passi."

"In tal caso posso aiutarla!" realizzò Minato ad alta voce, raggiante, il volto illuminato.

Mebuki ed Obito lo osservarono straniti, per poi vederlo voltar loro le spalle ed allontanarsi di corsa, verso il cimitero.

Dopo che il bambino scomparve dalla loro vista, Mebuki sospirò, scartando il suo pezzo di pane: "Sarà meglio che ci mettiamo subito sulla sua frequenza, non si sa mai."



***


Quell’alito, quella bava, quello strascico di idea continuava a turbarla: aveva perso qualcosa.

Se ne rese conto con la dovuta calma, ma una volta che la cosa le fu chiara, non riuscì a distogliere la mente da quel pensiero: qualcosa, qualcosa di molto importante, le era sfuggito. Passato, presumibilmente perso.

Ma cosa?

Corrugò la fronte, lo sguardo che, dal nulla che fissava prima, sembrava stare cercare di focalizzare su qualcosa.

Ma, ancora: cosa?

Non ne aveva la più pallida idea.

Allora chiuse gli occhi, pensando che fosse una trovata furba. Il nero la cullò, l’assenza di percezione le era molto più congeniale: ecco, a quello era abituata. Il suo mondo era così: nero, vuoto, inesistente.

Respirando lentamente, iniziò a sentirsi bene. Minuto dopo minuto, la sua tensione scompariva, assieme allo sconforto e a quella strana sensazione che l’aveva turbata: non aveva perso niente, si ripeteva. C’era tutto.

Era lì.

Non avrebbe dovuto fare più nulla.

Nemmeno aspettare, realizzò.


Minato sostava in piedi accanto alla bambina. Le si era avvicinato a passo lento, dopo aver corso sin là: il respiro gli si era regolarizzato in quegli ultimi passi, per quanto ancora, in parte, prendesse boccate d’aria abbastanza profonde.

Quanto tempo era passato, da quando l’aveva vista? Mezz’ora?

Sembrava che per quel tempo, lei non avesse nemmeno cambiato posizione. Come faceva a stare così accovacciata senza che le si informicolassero le gambe?

Cercando di non far troppo rumore, rimase lì, a forse un metro da lei. Non sapeva bene cosa fare, se aspettare che quella si accorgesse della sua presenza o se attirare la sua attenzione. A ben guardare, teneva gli occhi chiusi in modo costante, quindi forse stava meditando. O qualcosa del genere.

Non pareva intenzionata a guardarsi attorno.

Il bambino fece per muovere un braccio, ma il suo corpo non rispose: no, non poteva – non avrebbe fatto altro che infastidirla. Lasciò passare ancora un po’ di tempo, indeciso, sperando che nel mentre succedesse qualcosa.

Non accadde granché.

La bambina rimaneva immobile, accovacciata davanti al paletto di quella tomba: i lunghissimi capelli rossi sfioravano il terreno, nascondendole parte del viso rotondo. Per il resto, portava una semplice casacca rosata, abbastanza lunga, ed un paio di sandali a più fibbie.

Minato attese un altro minuto, poi si fece coraggio – o forse, lasciò che la curiosità l’avesse vinta.

Cosa ci faceva lì, da sola, così accovacciata su di una tomba?

Perchè quella, e non un’altra?

Schiuse le labbra, pronto a parlare.


Il senso di pace che la avvolgeva diventava sempre meno intenso, ma non perché scemasse: si stava abituando. Man mano che prendeva coscienza di tale sensazione, capiva anche come quella serenità non venisse da dentro di lei, ma da fuori.

Certo, ora aveva senso. Aveva smesso di attendere perché ciò che attendeva era arrivato: per quello il suo stato di tenue ansia si era sciolto.

Non sapeva cosa aspettava – sapeva solo che, ora, era lì. Aveva ben poche indicazioni, in merito: poteva essere un oggetto, un evento, o semplicemente un istante preciso nello scorrere del tempo.

Dopo aver passato la sua esistenza ad aspettare, quella sensazione di libertà le piacque. Le piacque tantissimo.

Un respiro si intromise fra i suoni che era abituata a sentire: lo ignorò per qualche istante, finché non percepì meglio quel ritmo, finché, finalmente, non capì quel rumore.

Schiuse gli occhi, facendo scivolare una mano dalle ginocchia al terreno.


Non un suono uscì dalla bocca di Minato, che bloccò il fiato non appena vide la bambina muoversi: dopo aver riaperto gli occhi, aveva appoggiato il palmo della mano sul terreno, rimanendo un isto in quella posizione: sembrava carezzare l’erba, i ciuffi verdi che si infilavano fra un dito e l’altro – o forse sembrava che stesse ascoltando la terra. Poi, lentamente, si alzò in piedi, guardandolo.


Era come respirare. Non per la prima volta, no, né un respiro normale: era riempire i polmoni dopo aver trattenuto il fiato per tempi inenarrabili, assaporando ogni singola molecola d’ossigeno che assimilava. Mentre si alzava piedi la figura di un bambino si fece largo sulla sua retina, richiamando ancora ed ancora quell’idea di pace, di correttezza, di conclusione ed inizio che aveva sperimentato poco prima. Fece scivolare le pupille sugli occhi cerulei dei bambino, e non appena ebbe del tutto il contatto visivo con lui, capì.

Era giusto.

Era perfetto.

Era tutto al suo posto.

Glielo aveva promesso, in fondo.

Ecco cos’era, quel bambino, quegli occhi, e quell’infinità di altre cose che i cinque sensi umani non bastavano ad identificare: era lui.

Solo lui.

La promessa era stata rispettata. Lei non gli aveva mentito.


Quale gioia, solo in questo mondo.





Lo sguardo di quella bambina sembrava lo sguardo di chi ritrova sua madre dopo giorni che non la rivede.

No, di più.

Era assurdo.

Con quegli occhi spalancati, lo guardava come se si trovasse di fronte al miracolo più portentoso dell’universo tutto, a qualcosa di tanto inspiegabile quanto meraviglioso. Sembrava una persona illuminata, che in un sol sguardo aveva inteso il significato più profondo della vita.

Minato si era irrigidito, sconcertato, improvvisamente caricato di qualcosa che non comprendeva: che faceva, lo guardava?

Che aveva?

Cosa aveva fatto?

La bambina, ora in piedi davanti a lui, rimaneva immobile a scrutarlo, a impiantagli le pupille nelle sue: il biondino era talmente a disagio e stravolto dalla situazione che non riusciva nemmeno a pensare di interrompere quel contatto visivo. A dire il vero non pensava a niente in generale, e basta.

I due si fissavano.

Quella schiuse le labbra rosee, forse per stupore, o forse per parlare: la lingua sul palato, fece per emettere un suono mentre la staccava, ed allargava le labbra in una vocale.

Minato aveva le orecchie tesissime, attendendo di sentire quello che stava per dire la bambina.

Ma poi quella urlò.


La testa le sembrava le fosse stata presa e strizzata come una spugna. Ognuna di quelle infinite, belle sensazioni che l’avevano avvolta sino ad adesso, crescendo nel suo cuore, scomparve.

Così, di colpo.

Si portò le mani alle orecchie, ulando per il dolore che le aveva preso le tempie: fu una cosa talmente improvvisa che perse l’equilibrio e cadde, in ginocchio, urlando.


Minato fece un salto – assieme a qualche altra persona, seppur lontana, che aveva sentito l’urlo. Preso più che alla sprovvista, si guardò attorno, terrorizzato, mentre quella continuava ad urlare disperata.

"Ma che..?! Cos’hai? Ehi!"

La bambina gli rispose svenendo.




***



"Ti giuro che non le ho fatto niente! Niente!"

Minato era disperato. Obito cercava di tranquillizzarlo, mentre Mebuki porgeva un pezzettino di formaggio ed una borraccia d’acqua alla bambina, ancora rintronata: pareva si fosse svegliata nel bel mezzo della notte, probabilmente da un incubo.

"Mi dispiace, scusa!" continuò Minato, verso quella. La bambina lo guardò, dapprima perplessa, poi lontanamente divertita. Il biondino era il volto della disperazione. "Non volevo!" continuò quello.

"Minato, piantala!" tagliò corto sua madre, ormai estenuata dal sentire le infinite scuse del bambino. "Non hai fatto niente, sono cose che succedono."

"Tua mamma ha ragione." fece eco la bambina, che pareva starsi svegliando "Non è mica colpa tua se a me viene il mal di testa." per quanto apparisse leggermente intontita, parlava in modo decisamente chiaro e lucido. Più che altro, sembrava stanca.

Minato rimaneva interdetto, angosciato, odiandosi. Se non fosse andato lì a darle fastidio, ne era certo, non sarebbe successo nulla.

Chissà, si domandava ogni tanto, fra un’agitazione e l’altra: magari sarebbe ancora stata lì, immobile, accovacciata su quella tomba. Nonostante gli eventi lo avessero trascinato nel panico, non riusciva a non continuare a domandarsi cosa faceva quella bambina, lì, in quel modo, da sola. Ma, ora come ora, non si sentiva proprio nella posizione di poter indagare: la colpevolezza aveva la meglio.

"Allora, com’è che ti chiami?" domandò Obito alla bambina, con un sorriso tranquillizzante sulle labbra.

"Kushina." fece quella, e poi riprese a bere dalla borraccia.

"Dove sono i tuoi genitori, Kushina?" domandò dunque Mebuki, intenta a trafficare con il suo bracciale.

Kushina guardò Mebuki, senza dire niente: poi fece spallucce.

Obito corrugò la fronte, guardandola interrogativo. "Sei qui con uno dei viaggi della Scuola?"

"Cosa?" domandò quella, di rimando.

"Sei col professore?"

Kushina levò le sopracciglia, osservando Obito come se le stesse parlando in arabo. "Scusa, ma di che stai parlando?"

Mebuki levò il capo, portando lo sguardo, ora preoccupato, verso la bambina. Sembrava essersi rimessa subito in sesto, dopo l’episodio descritto da Minato: era pure vivace, e pareva ormai lucida. Eppure certe loro domande non le riusciva a comprendere.

"Kushina, cosa fai qui all’altipiano del Ludus?" le domandò.

Quella li scrutò a lungo, perseverando in quell’espressione da ‘ma che razza di domande assurde mi state facendo?’. "Perché, è vietato stare qui?" domandò poi, con un filo di sarcasmo.

Obito e Mebuki si guardarono, attoniti.

Beh, no che non era vietato.

Ma di sicuro non era normale che lì ci fosse, sola, una bambina di ... quanti, poi?

"Quanti anni hai, Kushina?"

"Otto." fece quella, tranquilla. "Quest’acqua è molto buona. Da dove l’avete portata?"

"... é l’acqua di Konoha..." le rispose Obito, mormorando meditabondo.

"Konoha?"

"Sì, Konoha."

"E dov’è?" chiese Kushina, sinceramente incuriosita.

Minato assisteva da spettatore esterno a quegli scambi di battute tra i due adulti e la bambina: di sicuro, a giudicare dal primo sguardo che le aveva rivolto, non si sarebbe mai e poi mai aspettato che fosse stata così... frizzante.

Ad ogni modo, davvero, sembrava stessero parlando con una persona che non apparteneva, come minimo, alla Magna Regio. Considerata la posizione del Ludus e che i contatti con altre popolazioni, al momento, praticamente non c’erano – non si sapeva nemmeno se ce n’erano, di altre popolazioni, visto che per cercarle bisognava attraversare la foresta dei Demoni - considerato questo, si diceva, Kushina sembrava un’aliena.

O forse, più semplicemente, affetta da amnesia.

Non poteva esserci altra spiegazione, si convinse Minato.

Che situazione assurda, si disse, continuando a guardarla.





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Ringraziamente a Killu per la "costanza recensiva" e a reds che ha violato la sua "costanza irrecensiva" per questa storia/serie.

=)


OK, al solito spero gradiate e spero non si stia scendendo troppo nello scontato. Chissà se avete capito cosa sto architettando. A dire il vero non vorrei che lo aveste capito, se no non c’è gusto xD ma mi piacerebbe anche aver smosso qualcosa.


Al solito, come ho già sperimentato nei Frutti dell’Oblio, più vado avanti nei capitoli più mi si generano in mente particolari e dettagli che poi si rivelano portanti: e così la quantità dei capitoli stimata cresce esponenzialmente.

C’è una buona notizia, in tutto ciò: non ho mai stimato i capitoli di questa storia. XD meglio così.


Va bene, un saluto. Spero fra l’altro di non aver fatto troppi errori di battitura, l’altra volta ne ho scovati parecchi.. <_<‘’






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Capitolo 7
*** 6. Tempora, Actio: Seditio, Contraria Vis. Fuga, Timor, Dubium. Repetere. ***


6





(6) – [ Tempora, Actio: Seditio, Contraria Vis. Fuga, Timor, Dubium. Repetere. ]




"Senti, Kushina..."

Mebuki le si inginocchiò di fronte, guardandola negli occhi azzurrognoli: la bambina ricambiò lo sguardo, sostenendolo senza fare una piega, un vago sorriso disteso sul volto. Attese, placida, che la donna continuasse il suo discorso.

Obito, arretrato di qualche metro, stava trafficando con il suo bracciale da viaggio: esplorava le frequenze una per una, cercando di mettersi in contatto con tutti colore che si trovavano nei pressi del Ludus.

"Hai detto che sei qui da sola?" domandò Mebuki alla bambina, mantenendo un tono estremamente materno.

Kushina annuì.

"E come mai?" continuò la donna, che non riusciva assolutamente a farsene una ragione.

Kushina fece spallucce, come già aveva fatto altre volte.

Mebuki corrugò la fronte, meditabonda; scostò un isto lo sguardo da quello della piccola, che per qualche strano motivo le pareva la stesse studiando più di quanto non la stesse studiando lei. Eppure, Kushina era il volto dell’innocenza.

"Qual è il problema?" chiese la bambina - come se, una volta spiegatale per bene la situazione, lei avrebbe potuto risolverla.

Mebuki sospirò: era il caso di prendere il problema di petto.

"Senti, Kushina, qual è il tuo cognomen?"

La bambina ritrasse la testa, perplessa da tale domanda. "Il cognomen?" domandò, quasi incredula.

"Massì, Kushina, il tuo cognomen. Io mi chiamo Mebuki Uchiha, per esempio. Tu?"

"Kushina." rispose quella, retorica.

"Kushina è i tuo nomen. Qual è il tuo cognomen?"

Lei aggrottò le sopracciglia, più perplessa di prima. "Ma... che importanza ha la mia Gens?"

Obito, che sino ad allora era rimasto concentrato sulle frequenze radio, drizzò improvvisamente le orecchie, levando il capo. Scrutò la bambina, vigile, le labbra schiuse. Mebuki rimase immobile, raggelata.

Ma Obito pareva avere le idee piuttosto chiare, invece: "Kushina." la richiamò quello.

La bambina posò lo sguardo sul ragazzo, poco più che ventenne, ritrovandosi a guardare dritta dentro i due occhi neri. Il volto di Obito si era fatto serio, una sfumatura espressiva che tutto sommato non usava volentieri fuori dal Consiglio.

"Kushina, dimmi: chi è tua madre?"





Dapprima non realizzò cosa aveva provocato quel rumore, secco e leggermente acuto.

Chi è tua madre?, aveva chiesto Obito.

Kushina si era drizzata tutta, prendendo un paio di centimetri nella sola estensione della colonna vertebrale. Aveva levato il mento e aveva risposto con inaudita sicurezza: "Io non ho madre".

Minato aveva sentito un moto di comprensione per l’altra, la quale, a quanto pareva, come lui era orfana di un genitore.

Ma poi Obito era andato avanti, mantenendo una voce insolitamente salda: "Chi è tuo padre?"

E lei: "Io non ho padre."

Minato aveva osservato la bambina gonfiarsi, impettirsi, senza riuscire a capire il perché di tale atteggiamento.

Obito, allora, era rimasto in silenzio. Aveva cercato Mebuki con lo sguardo, ma quella rimaneva intenta a fissare per terra, ancora inginocchiata di fronte a Kushina.

Il ragazzo aveva fatto un profondo respiro, socchiudendo le palpebre. Da seduto quale era, si era messo in piedi, le labbra serrate.

Minato, spettatore, aveva continuato a distribuire lo sguardo tra il cugino e la bambina, cercando di cogliere un qualsiasi significato dai loro gesti e movimenti.

"E i tuoi fratelli, Kushina?" aveva chiesto poi il ragazzo.

"Loro sono i miei fratelli." aveva risposto la bambina: Minato aveva aggrottato le sopracciglia, guardandosi maldestramente attorno. Già lì qualcosa gli era sfuggito.

Obito si era concesso un secondo respiro profondo per poi portarsi un pugno al petto: aveva battuto sulla cassa toracica, senza interrompere il contatto visivo con la bambina, e poi, a palmo aperto, aveva battuto una seconda volta:

"Ignis Regionibus." aveva detto poi, quasi mormorando, attonito.


E lei, ruggendo: "PATRIAE FRATRES! FATI FR -"


Lì era arrivato quel suono.


Secco.

Improvviso.


Capace di zittire la bambina, la quale sembrava stare mostrando un’innata determinazione nel pronunciare quelle parole, ignote a Minato.

Lo capì dalla forma rossa che andava dipingendosi pian piano sul volto di Kushina: cinque dita sottili e ben definite.

Uno schiaffo.

Era stato uno schiaffo.

Kushina era rimasta immobile, paralizzata, incapace di respirare non dopo un sussulto sgomento a quell’evento del tutto inaspettato: Mebuki, davanti a lei, ancora teneva per aria la mano con cui l’aveva colpita.

L’ira rabbiosa dipinta nel volto della madre pareva tanto feroce da non essere neanche comparabile alla peggiore delle occhiate che aveva dedicato a lui.

E Kushina, intanto, tremava: dritta, in piedi, rigida nella sua posizione, salda sul terreno ma tremante come una foglia, il fiato bloccatolesi nei polmoni, incapace di uscire come di entrare, gli occhi che dimenticavano di sbattere le palpebre, sbarrati, le pupille fisse sulla donna: l’espressione, nel complesso, vuota e sconvolta.

Dopo quei tre secondi che gli ci vollero per capire cos’era accaduto, Minato si lanciò a frapporsi fra le due, imbestialito.

"Ma che fai!?" Urlò alla madre, parandosi davanti a Kushina. Quella, solo a vedere la figura del bambino irrompere nel suo campo visivo interamente concentrato su Mebuki, parve risvegliarsi e, nel farlo, perse l’equilibrio cadendo sull’erba.

Obito sembrava incredulo: dopo essersi guardato a lungo la mano con cui si era battuto sul petto, dovette ritornare ad osservare la bambina, seduta malamente dietro a Minato.

"Mi prendi in giro?" strillò, di colpo, Mebuki - sempre rivolta a Kushina. La donna fece per mettersi in piedi, ma il figlio, non appena la vide muoversi, allargò i piedi sull’erba e spalancò le braccia, più che deciso a fare da barriera fa le due.

"Mebuki, calmati!" la intimò Obito, muovendo qualche passo verso di lei. "E’ solo una bambina!"

Minato rimaneva lì, senza riuscire a capire cosa sconvolgesse tanto i due parenti, ma più che deciso a proteggere Kushina: come aveva detto Obito, era solo una bambina – come si era permessa sua madre di schiaffeggiare una figlia non sua? Le labbra strette per la determinazione, il biondino non si muoveva, se non per un vago tremore dovuto alla tensione del momento.

"Chi ti ha insegnato queste cose, eh?" continuò Mebuki, urlando a denti stretti. "Chi!?"

Kushina rimase muta, gli occhi sbarrati, sconvolta. Degulitì, stringendo leggermente un ciuffetto d’erba tra le dita.

"Mamma, lasciala in pace!"

La donna abbassò lo sguardo sul figlio – pareva che, nella foga, non si fosse nemmeno resa conto che l’ostacolo che s’era frapposto fra lei e Kushina era proprio suo figlio – e non un altra cosa.

"Minato! Togliti di là!"

Quello fece di no con la testa.

"Minato! Non sono affari tuoi!"

"Non puoi picchiare i bambini degli altri!" fu la risposta del ragazzino. "Vigliacca!"

"Taci, Minato!"

Con queste parole Mebuki fece per avanzare, pronta a prendere il figlio di forza e rimuoverlo quale intralcio per la comunicazione fra lei e la bambina. Prima che riuscisse a compiere mezzo passo, Obito la afferrò, cingendole la vita, per fermarla.

"Calmati, Mebuki. Calmati!"

Minato, vista la condizione di sicurezza in cui lo aveva messo il cugino, arretrò, per poi andare ad accovacciarsi accanto a Kushina.

"Stai bene?" le chiese - rendendosi conto, man mano che pronunciava tale frase, di stare dicendo una cosa fortemente stupida. No che non stava bene – era abbastanza ovvio. Ma Kushina, dal canto suo, annuì – per quanto lo fece mantenendo la sua espressione stranita e disorientata, lo sguardo incollato, sin da prima, sulla madre di Minato.

"Respira. Calma."

Mebuki cercò di seguire per qualche istante i consigli di Obito, ma non appena smise di ansimare rabbiosa, le lacrime iniziarono ad inondarla.

"No, Mebuki, dai – forza." ecco, questa era una di quelle cose che mettevano il ragazzo a disagio, decisamente a disagio.

Lasciò andare la donna, la quale, per fortuna, si riprese entro breve, ritrovando una parvenza di calma.

Obito sospirò, avvicinandosi a Kushina e Minato.

"Kushina, ehi."

La bambina volse meccanicamente gli occhi verso di lui, apparentemente incapace di muovere ogni altro muscolo.

"Con calma, eh?" fece il ragazzo, sentendosi lui per primo poco credibile. Nell’ ‘eh’ gli si era inacuita la voce, rendendolo decisamente non molto rassicurante.

Ma Kushina annuì.

"Allora, Kushina." Guardò prima lei, poi Mebuki – che stava in piedi dietro di lui, sciupata – e nuovamente la bambina. "Dimmi, dove le hai imparate queste frasi?"

Quella rimase immobile, come se fosse incapace di comprendere la domanda. Zitta, muta, lo guardava interrogativa e impaurita.

"Va bene..." Obito si inginocchiò, non prima di aver ricontrollato le condizioni di Mebuki. "Ricominciamo. Chi ti ha insegnato quelle frasi? Dove le hai sentite?"

Kushina continuava a non parlare.






"Per chi combatti, Kushina?"

Lei fece per schiudere le labbra, ma poi si trattenne. E non disse niente, nonostante fosse palese che volesse rispondere.

"Dove vai, Kushina?"

La bambina deglutì saliva, per l’ennesima volta.

"Chi sei, Kushina?"

Sembrava non farcela più - gli occhi ricolmi di lacrime, le sopracciglia inarcate verso il basso, sulla fronte giovane riuscivano ad apparire complesse rughe. Rossa in volto, il fiato grosso ed ancora malamente seduta per terra, si lasciò sfuggire in un soffio: "Nessuno."







Obito si caricò la bambina sulle spalle, la quale, una volta terminata quella specie di interrogatorio, si era calmata tanto da addormentarsi. Era evidente, più che evidente, che fosse esausta. Mebuki non riusciva ad incrociare lo sguardo né del cugino né del figlio, vergognandosi di quello che aveva fatto: tirare uno schiaffo a una figlia non sua, ad una bambina, guidata unicamente dalla rabbia. Era stato un atto, prima che scortese nei confronti della piccola e dei suoi genitori, fortemente immaturo. Accecata da un odio che pensava di non dover più provare, aveva perso il controllo e si era avventata su quella che, comunque stessero le cose, altro non era che un’innocente.

Rimasero, avvolti nel silenzio, fino a tardi. Aspettarono e cercarono, sulle frequenze e chiedendo agli altri visitatori, chi fosse alla ricerca di una bambina di otto anni, dai lunghissimi capelli rossi.

Ma nessuno arrivò.

Quando oramai il sole era più che sceso oltre la linea dell’orizzonte, e la temperatura iniziava a farsi veramente bassa, si avviarono verso la stazione dell’effluxum.

"Domani la porteremo agli edifici per l’infanzia." proruppe Obito, una volta sedutosi sulle poltrone del vagone. Ruppe così un silenzio che durava da ore, pesando su di lui per primo.

Minato, che sino ad allora era rimasto nel silenzio dell’ignorante, del fuori posto, dello sciocco che si rende conto d’errare, si voltò rapidamente verso di lui: "Obito..." osò. Poi, dopo la goccia, il fiume in piena seguì la rottura degli argini: "Obito, che cosa erano quelle frasi? Che ha detto di male?"

Al solito, Minato non si capacitava di non capire, di non sapere – doveva sapere, assolutamente, o non si sarebbe dato pace. Tornò a guardare Kushina, addormentata sul sedile accanto a lui, e poi nuovamente Obito.

Mebuki, allora, parve ridestarsi dalla sua trance. Levò lentamente il mento, sistemandosi la frangetta che le s’era sparsa sul volto nella sua posizione abituale, in centro alla fronte. La donna cercò lo sguardo del cugino, da cui forse voleva trarre forza: ma Obito, sprofondato nel sedile a braccia incrociate, fissava Kushina. Dopo un lungo respiro, Mebuki cercò di spiegare, ricacciando il suo astio e la sua rabbia nel meandri della sua anima da dove le erano guizzati fuori.

"Vedi, Minato." fece una pausa, socchiudendo gli occhi e levando il volto verso l’alto. "Vedi, quelle frasi che diceva Kushina, quella formula che le stava facendo fare Obito –"

"Che formula?" domandò il bambino, che non riusciva del tutto a collegare parole ed eventi.

"... il saluto."

Minato corrugò la fronte, continuando a guardare fisso sua madre mentre cercava di richiamare alla mente quanto era accaduto.

"Questo." fece Obito, portando il pugno al petto, battendo, e poi battendo di nuovo con il palmo aperto. "Questo, Minato, è il saluto che facevano i Custodes e gli studenti del Ludus."

Quello schiuse le labbra, incredulo.

Mai sentito nulla del genere.

"Quelle formule che hai sentito, quegli scambi di battute fra me e Kushina – quelle erano frasi rituali, inculcate nella testa dei bambini del Ludus sin dal loro primo giorno di studi. Dovevano rispondere automaticamente, talmente tanto da far sì che la risposta non venisse dalla mente, ma dall’anima. Quelle non erano cose che loro sapevano, Minato. Quelle erano cose di cui loro erano convinti."

Il bambino ci mise un po’ ad assimilare e far sue quelle parole. Ripercorrendo quando era successo, si ricordava dei movimenti di Kushina, del suo tono di voce, e di come, dopo aver ricevuto lo schiaffo di sua madre, ancora a fatica si tratteneva dal rispondere, secondo la formula, alle domande di Obito.

"E perché io queste formule non le so, ma lei sì?"

Mebuki sfiatò. "Non tutti possono sapere tutto: i dettagli sugli usi e costumi del Ludus , delle vecchie Scholae ed il resto si studiano quando si è molto più grandi, verso i diciotto anni. Se si vuole. Non è necessario sapere come funzionavano le cose, ed è meglio evitare che questo tipo di ‘formule magiche’ girino fra i bambini, neanche fossero filastrocche. Come hai visto, possono essere molto potenti."

"Ma sono davvero formule magiche?" domandò il bambino, in un attimo di esaltazione.

"No, Minato. Sono trucchi psicologici. Per questo chi non sa gestirli non dovrebbe conoscerli."

A Minato quell’ultima frase non piacque particolarmente. Lui era più che convinto di non essere il tipo che si fa imbrogliare facilmente.

"Tanto per essere chiari - " fece Obito " - solo chi studia per diventare consigliere ha modo di conoscere i vecchi rituali. A meno che non faccia esplicita e ben motivata richiesta al consiglio e ai collegi. E’ come un’arma, Minato, non puoi dare una pistola in mano a chiunque, o il primo che spara per sbaglio scatena una guerra."

Il bambino rimase in silenzio qualche altro secondo, pensando intensamente.

L’esempio calzava.

Ma continuava a non essere del tutto soddisfatto.

"E perché lei queste formule le conosce?" perché, alla fine, era quello il punto.

Mebuki abbassò lo sguardo.

"Non è semplice cambiare."







"Una rivoluzione si può anche fare in un giorno. Un cambiamento no. Per anni, dopo l’anno 0, si è andati avanti a combattere: rivoluzionari da una parte, reazionari dall’altra. Ognuno dei due gruppi continuava a cercare di tirare acqua al suo mulino, e prima ancora che una questione di violenza fisica, era un problema di dottrina. Quanti saranno, i fondo, capaci realmente di lasciare una società ben consolidata per l’ignoto?"

Non era semplice, no. Minato scostò gli occhi sulla bambina, accanto a lei, ancora addormentata.

"Ci sono voluti anni, decenni, per riuscire a far passare le idee di rinnovamento, per riuscire a convincere la maggioranza che era il tempo di cambiare, e che un tale cambiamento si sarebbe potuto fare tramite un organo come il Consiglio ed il rinnovo radicale del sistema d’istruzione. Ma fino alla fine, fino alla fine, i reazionari hanno insistito. Allevavano i loro bambini come fossero studenti del Ludus, applicando con estrema solerzia le tecniche di una volta. Ed anche quando erano ridotti a poco più di un centinaio di persone, hanno continuato a tentare colpi di stato, più o meno violenti."

Minato conosceva quella storia di sfuggita. Molto di sfuggita.

L’aveva rubata, catturata dalle discussioni degli adulti, fra sua madre e i suoi zii, i suoi cugini, con l’anziana Sakura e l’anziano Kankuro, quando capitava.

Hai solo otto anni, gli diceva una voce. Una voce insistente, che cercava di fermarlo dal demoralizzarsi troppo ogni qual volta che una novità, una singola novità nel suo piccolo mondo sorgeva, come una luce che gli faceva vedere tutti gli spigoli su cui aveva sino ad allora scioccamente cozzato, ignorandone la posizione.

Quanto i movimenti secessionisti fossero collegati a quelli reazionari, non era dato sapere. Ma, considerato che i bianchi ed i neri si erano trovati insieme nel tentativo di cambiare le loro regio, e che insieme i gruppi di rivoluzionari avevano stretto un patto di alleanza per contrastare i rigurgiti dei vecchi imperi morenti, i due tipi di opposizione, per quanto scorrelati, avrebbero potuto benissimo essere connessi. Avrebbero potuto essere i reazionari che, nelle idee secessioniste, avevano trovato nuova energia per perseguire il proprio scopo.

Oppure potevano non centrare nulla l’uno con l’altro.

Una sola cosa era certa: da almeno otto anni non c’era stata più traccia di alcun reazionario.

"Sapevano essere più violenti dei secessionisti - " continuò Obito, sostituendo Mebuki - "ma loro non attaccavano mai coloro che consideravano innocenti: nei loro colpi di stato, si avventavano sempre sul Consiglio e sui consiglieri. L’ultimo tentativo ci fu otto anni fa, con una serie di esplosioni al palazzo del consiglio."

"Così è morto il tuo Pater, Minato."

Bombe e reazionari.

Era chiaro che sua madre fosse rimasta sconvolta sia dagli attacchi alle Scholae in cui era rimasto coinvolto Minato, sia dal dire di Kushina, così saldo e sicuro.

Mebuki non aveva schiaffeggiato Kushina, ma quello che la bambina, in quel momento e a pieni polmoni, rappresentava agli occhi della donna.

"A questo punto Kushina deve essere nata in una qualche famiglia di reazionari che si sono distaccati dalla nostra civiltà. Si capisce anche perché si trovasse al Ludus, in tal caso. Per salire e per scendere non v’è solo l’effluxum, esistono anche dei sentieri secondari risalenti a tempi antichi. E’ possibile che si trovino nei dintorni, ma di sicuro non possiedono bracciali o qualsiasi dispositivo che aiuti a localizzarli."

Tornò il silenzio, ovattato dai respiri dei quattro.

A notte più che inoltrata, nessuna figura era distinguibile al di fuori del tubo dell’efflluxum: Minato non si era nemmeno accorto di essere uscito dal tunnel, e di stare percorrendo la pianura della regio.

Non è sempre stato facile, Minato – gli aveva detto la sua bisnonna.

Lui non aveva ancora ben capito, in fondo. Da qualche parte, nella sua mente, s’era impiantata l’immagine idilliaca di una Regio che funzionasse seguendo alla perfezione la Politeia. E lui, quest’immagine, non riusciva a rimuoverla.

Non riusciva ad immaginare che, alla fine, dopo quasi cent’anni dalla rivoluzione, non vi fosse stato un solo, singolo istante in cui la Politeia era stata la rappresentazione su carta dei principi che muovevano ogni singola azione di ogni essere umano della Magna Regio.

Ciò nonostante, con un pizzico di ragione, intuiva anche che era sciocco pensare una cosa del genere. Era ingenuo convincersi che fosse possibile che le cose andassero bene.

"Però Kushina non ha colpe." mormorò il bambino, rinsaccandosi nel sedile. "E noi la stiamo portando via dalla sua famiglia. Non è giusto."

Mebuki sospirò.

"E’ giusto, Minato."

"No. E non è nemmeno giusto che lei sia stata cresciuta così. Niente è giusto."

Obito scoccò un’occhiata tra il perplesso ed il divertito a Mebuki. Era inutile, la profondità di pensiero di Minato lasciava sempre tutti loro attoniti: era da quando aveva iniziato a parlare che, da questo punto di vista, era parso ingestibile.

Solo l’Anziana Sakura riusciva a dialogare con lui.

Era come confrontarsi con tutti i dubbi e tutte le incertezze che ogni persona, a partire dai Consiglieri, aveva dentro di sé, e che per mantenere una certa salute mentale aveva messo a tacere.

Minato non taceva. Era molto complicato zittirlo.

"Hai ragione, Minato. Niente è giusto. Benvenuto nel mondo degli adulti. "














_________________________________________________________



Mi sa che vi state suicidando dalla noia xD

Capitolo sei..?

*ahahhaha*

se per caso troverà la parola fine, ‘sta storia mi sa se la batterà con i Frutti dell’Oblio – solo che sarà taaaanto più un cugno. mi scuso, ma ora come ora mi sento di scrivere di queste cose, ed in questo modo.


Nota:

ho appena scoperto che la mia ignoranza latinesca si è fatta sentire per TUUUUTTA la vecchia storia (i frutti dell’oblio), in quanto ho alquanto tardivamente realizzato che il plurale di frate è fratRes e non frates.

eeeeevvvaiiii quattro anni di stesura ignorante! xD dovrò correggere, che vergogna.


*sigh*


saluti

Kimmy/Pandi/quelchevoipreferite












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Capitolo 8
*** 7. Gli occhi ***


7



(7) – [ Gli occhi ]




Minato stava disteso sul letto, gli occhi più aperti e vigili che mai. Non ricordava, in vita sua, d’essere mai stato sveglio a quell’ora profonda della notte. C’era da domandarsi quanto tempo mancasse all’alba.

Sua mamma l’aveva spedito in camera prima ancora di aver varcato l’uscio: probabilmente si aspettava che, stanco com’era, si sarebbe addormentato non appena steso.

Ovviamente non fu così.

Quando erano arrivati davanti casa, le luci erano accese. Aperta la porta, la prima figura che videro fu la grossa massa dell’Anziano Kankuro, che, nonostante l’età e l’ora, li stava aspettando, lì, in piedi sulle proprie gambe. Guardò Minato un secondo, poi Mebuki, ed infine lo sguardo assorto si posò sulla bambina sulle spalle di Obito.

Minato attraversò la sala come un estraneo: altre tre persone, fra cui riconosceva solo Shikaku, li avevano attesi sino ad allora, seduti attorno al tavolo. Fece le scale lentamente, abbastanza da riuscire a vedere sua madre ed Obito scambiarsi qualche saluto di circostanza con gli altri, per poi posare Kushina su di un giaciglio appositamente preparato. Suo malgrado, il bambino dovette infilarsi in camera sua, togliersi i vestiti da viaggio, infilarsi la casacca che usava per dormire la notte e, finalmente, distendersi sul letto.

Da sotto, gli adulti già avevano iniziato a parlare, il tono basso, con il chiaro intento di non farsi sentire né da lui, né dalla bambina assopita.

Passi sulle scale, un ritmo inconfondibile, dichiararono che sua madre stava salendo. Mebuki fece capolino dalla porta, cercando il figlio con lo sguardo. Minato, disteso, la guardò: i due si fissarono, muti, cercando ognuno d’intendere i pensieri dell’altro.

"Dormi, mi raccomando." fece infine la donna.

Minato annuì.

"Domani mattina puoi restare a letto, come nei giorni scorsi."

Minato annuì di nuovo. La sua convalescenza non era ancora del tutto finita. Certo, fosse stato per lui, e fosse stata una situazione normale, avrebbe fatto storie per riuscire a non perdere una singola ora di lezione. Ma era diverso: cosa volesse fare, ora, non era chiaro nemmeno a lui. Cosa potesse fare, invece, sì: nulla. Assolutamente nulla.



"Con tutta la confusione che hanno fatto i secessionisti, eravamo quasi riusciti a pensare che i movimenti reazionari fossero cessati..."

"O per lo meno che fossero stati assorbiti da loro."

Obito rimaneva in silenzio, osservando la figurina dai lunghi capelli rossi dormire beatamente.

"Dobbiamo capire dove sono i genitori." insisteva Mebuki. "E’ una fonte di informazioni preziosa, non possiamo ignorarla."

"Se è stata effettivamente cresciuta dai reazionari, Mebuki –" sfiatò Shikaku "– sai perfettamente che non sarà cosa facile."

"Ma non è impossibile."

"Shikaku –" mormorò allora Obito, incrociando il suo sguardo dopo un lugo momento di distacco "– tu avevi assistito a un interrogatorio dei reazionari, da ragazzino – vero?"

Il ragazzo storse la bocca. "Sì. Al tirocinio. Ma ero piccolo e stupido – non ricordo granché."

"Io ricordo che me ne parlasti, però."

"E..?"

Gli altri, silenti, osservavano il ragazzo meditare in modo quasi rumoroso. Non accadeva spesso, ma quelle erano le volte in cui Kankuro ricordava i silenzi insistenti e densi di Sasuke, e il modo in cu poi scaturivano in discorsi o azioni netti e precisi. Uchiha.

I figli del fuoco – soprattuttio i discendenti dei Custodes – ancora facevano fatica a capire il significato della propria Gens: eppure, era così palese. Così netta.

Uchiha, come lo era stato Sasuke, come lo era stato Itachi.

"E qualcosa non mi torna."

Uchiha.

Come, in fondo, lo era Minato.

"E cosa?"

Uchiha.

"Qualcosa." ripetè, irritato, Obito.

Non è solo questione di sangue. E’ questione di chi ti circonda, giorno dopo giorno, e ti guida.

"Se sapessi cos’è non me ne starei qui a cazzeggiare." rimarcò il ragazzo, osservando scocciato il suo amico.

"Linguaggio..." lo ammonì Mebuki.

Ma è anche questione di sangue.

"Via, non siamo mica al consiglio!"

La donna portò gli occhi verso l’alto, osservando il soffitto sopra il quale c’era la camera di Minato.

"Per adesso –" interruppe l’anziano Kanukro, alzandosi lentamente "– lasceremo la bambina in custodia a Mebuki. Domani, alla prima seduta del consiglio, riuniremo una comissione per decidere cosa farne."

Mebuki non sembrava entusiasta all’idea.

"Ci siamo solo distratti, ma sappiamo gestire molto meglio i reazionari dei secessionisti."

"Non voglio che Minato parli con la bambina." fece, lapidaria, la donna. "Sai bene com’è fatto. Non puoi scaricarmela qua."

"Io penso, invece, che Minato farebbe molto bene a questa bambina, come presenza."

"Poi rispondi tu alle sue domande?" incalzò la donna. "Hai idea di quante sia capace di farne? Hai presente i Custodes e i bambini del Ludus che non chiedevano nulla, mai, per nessun motivo? L’esatto contrario – questo è Minato. E tu me lo vuoi far stare nella stessa stanza con una bambina reazionaria?"

Il vecchio si strinse nelle spalle. "Per l’appunto."

Sembrava che il mondo non volesse lasciare Mebuki in pace.

Non bastava un bambino complicato come Minato. Non bastavano gli attacchi alle Scholae. Ancora, e ancora.

E ancora.

Sospirò, rassegnata. In fondo, doveva aspettarselo.

"Fai venire qui la nonna, almeno. Te lo chiedo per favore. Per aiuto."

Kankuro annuì. "Sì. Dopo la seduta, se lo vorrà, la invierò qui."

Il resto degli astanti fece per alzarsi in piedi, iniziando a congedarsi.

"Buona notte a tutti."

"Buona notte."





"So che sei lì."

Minato non reagì alla voce di sua madre, che sperava di averlo colto in fallo. No, niente. Minato non si faceva cogliere in fallo: sapeva che lei sapeva.

Appostato in cima alle scale dall’alba, semi nascosto, il bambino scrutava il fagotto di coperte sulla brandina nella sala principale della casa. Degli altri adulti nessuna traccia: erano rimasto solo loro due – e Kushina.

Minato non si muoveva, e oramai era chiaro che il suo intento non era tanto quell di nascondersi da Mebuki, quanto di non farsi vedere da Kushina: ma quella dormiva.

"Scendi a fare colazione." lo incalzò la donna, imponendosi di alzare di molto la sua soglia di sopportazione per la giornata: sarebbe stata lunga e difficile.

"Ma dorme ancora?" domandò lui, sussurrando e senza accennare a voler scendere le scale.

"Sì, le abbiamo dato degli ansiolitici."

"Perché?"

Ecco, si disse Mebuki. Si comincia.

"Per evitare che si svegli urlando in casa di estranei – hai presente?"

"Se non la portavate in casa di estr..."

"Ipse dixit." tagliò corto Mebuki.

Minato sgranò gli occhi: "Chi?"

"L’anziano Kankuro. Scendi a mangiare, forza – che poi arriva la nonna."

Minato prese una grande boccata d’aria, e, rasseganto, scese. In punta di piedi attraverò la sala, quasi trattenendo il respiro quando passò accanto alla bambina. Quella non si mosse: la superò, lanciandosi di corsa nel cucinino. Muto, si avvicinò alla tazza di latte e iniziò a bere.

Dopo qualche istante di silenziò, volse gli occhi verso la madre: "La radio è spenta perché non vuoi che si svegli?" chiese.

Quella annuì.

"O è successo qualcosa di brutto?"

"No, Minato. Se vuoi ti dò le cuffie, così puoi ascoltare in silenzio."

Minato la fissò ancora un po’. "No." concluse. "Va bene."

Nonostante tutto, ancora, si fidava di lei.


Kushina continuò a dormire per il resto della mattina: Minato decise di rimanere in cucina, prima a lavare le stoviglie, poi a pulire il pavimento, infine, senza altre scuse a disposizione, chiedendo di fare esercizi di conto. Mebuki non mollò il forte per un attimo: si sarebbe presa tutta la giornata e anche quelle seguenti, se fosse stato necessario – lasciare da solo Minato in casa era una cosa, lasciare una reazionaria con lui tutt’altro. Inventava calcoli algebrici per il figlio, attendendo la comparsa dell’Anziana Sakura.

Minato resistette quasi per tutta la mattina senza fare domande: sapeva quanto sua mamma ne sarebbe stata infastidita. E sapeva anche che la bisnonna Sakura avrebbe saputo rispondere molto meglio – quindi, anche lui, attendeva. E attendeva.

Ma alla fine non ce la fece più.

Finita l’ennesima divisione, alzò gli occhi dalla pila di fogli stropicciati e chiese: "Ma la farete dormire per tutto il tempo?"

"No."

"E quando si sveglierà?"

Mebuki sospirò. "Non lo so, ma non dovrebbe dormire ancora a lungo, a quanto ha detto il medico."

"Quindi uno di quelli che c’erano ieri sera era un medico?"

"Sì, Minato."

"E gli altri?"

"Non è affar tuo, Minato."

Quello sbuffò, visivamente scocciato. "Perché?"

E ancora, e ancora. "Perché hai otto anni."

Sempre quella stupida cosa dell’età, si diceva Minato. Come fosse una colpa non esser nato prima.

Lui cosa c’entrava? Non lo aveva certo scelto, di avere otto anni.

Dalla sala venne un piccolo mugugno. Minato si drizzò sulla sedia, cercando di vedere se la bambina si fosse mossa.

"Non ti muovere."



***


Ci aveva messo tutta la mattina per recuperare le registrazioni – ma adesso, finalmente, era solo davanti allo schermo. Sul piano illuminato compariva l’immagine di un ragazzetto di una decina d’anni: era uno dei reazionari più giovani che, all’epoca, erano riusciti a portare a colloquio. Venti anni prima.

Dai registri risultava che, dopo una manciata di anni di recupero, si era inserito nella società della Regio come mercante di tessuti.

Obito aveva scoperto molto tempo prima che i suoi occhi non erano capaci di indagare nelle registrazioni: la cosa gli sarebbe stata molto utile, al momento. Poter sfruttare lo Sharingan per capire cosa provava quel ragazzino lo avrebbe aiutato, ma dovette rassegnarsi.

Anche senza il potere della sua mutazione, era in grado di capire le differenze fra quel ragazzino e la bambina del Ludus – Kushina.

Gli occhi, si ripeteva. Lo ripeteva l’anziano Kankuro, e prima di lui lo aveva ripetuto Kakashi. Lo aveva ripetuto piano, perché non aveva voluto intromettersi nella ricostruzione delle nuove generazioni – ma Obito lo aveva sentito. Una vecchia registrazione dei primi anni della ricostruzione, in cui tutti erano giovani, alcuni ancora ragazini: quando Kakashi diceva una cosa, non era facile scordarla. Ecco perchè Kankuro ripeteva insistentemente quello che, lo capiva adesso, era il credo di Kakashi. Di un Custos.

Guardate gli occhi.

Gli occhi dicono tutto.

E gli occhi del ragazzino, figlio di reazionari, che stava guardando nello schermo non erano gli stessi occhi di Kushina.

No.

Affatto.

Cosa c’era in quegli occhi? Cosa c’era, nel racconto di Shikaku, anni prima, del suo tirocinio – cosa c’era di diverso da quel che era successo sull’altipiano del Ludus?

Guarda gli occhi, si era ripetuto, si ripeteva, insisteva.

"Ah."

Certo.

Ecco cos’era.

Ah.


L’Odio.


Obito, per un istante, si dimenticò di respirare.

Ecco perché i reazionari non avevano vinto la loro stupida battaglia. Ecco perché erano scomparsi. Ecco.

Perché loro Odiavano.

Ecco cosa non c’era negli occhi di Kushina.

Odio.

Ecco.


I Custodes e i Philosophi non sapevano odiare. Aveva senso: potevano provare molte forme di disgusto e sentirsi superiori, potevano passare anni a seviziare e venire seviziati – ma non c’era traccia di odio nelle loro azioni. Era tutto parte di un grande gioco e di un grande meccanismo dove ognuno è al posto che gli spetta e non deve fare altro che la sua parte – sia questa dare o ricevere frustate, poco importa.

Aveva studiato a fondo quel che succedeva al Ludus: i bambini più grandi se la prendevano con i più piccoli, insegnando così loro le dure regole del Ludus. Così come era stato fatto a loro, così come loro avevano imparato, replicavano.

I più grossi contro i più magri, che per compensare dovevano farsi scaltri: e appena ne avevano l’occasione, ripagavano – così che i più grossi non si crogiolassero nella loro prestanza fisica.

Tutto questo non aveva nulla a che vedere con l’Odio. C’era la ferrea, limpida – a tratti ingenua – idea di essere nel giusto.

Che rubare oggetti non custoditi faceva bene al bambino sciocco che li aveva dimenticati in giro.

Che dare un paio di pugni sul naso al bambino che si atteggia lo avrebbe rimesso in riga, sempre per il suo bene. Che era meglio prendersi due sberle da un bambino di qualche anno in più, che farsi frustare dai Magistri. Che le frustate dei Magistri fossero giuste, e che fosse giusto che loro se le prendessero.

E i nemici erano solo nemici. Avversari da sconfiggere, per guadagnare terreno, una Regio nemica di cui nulla si sapeva se non che andava combattuta. Fine.

Non c’era spazio per un sentimento viscerale come l’Odio, al Ludus. Fra i Custodes. Nell’Ignis Regio, l’Odio era cosa da Agricolae.


Ecco.

E l’Odio non c’era stato, nemmeno, sul volto di Kushina. Nel suo tono di voce convinto, nei suoi gesti – puri. Così... puri.

Come fai a definire puro qualcosa che è parte intrinseca della vecchia, ignobile, sconsiderata cultura?

Sullo schermo il ragazzino si batteva il petto con foga: "Patriae Fratres", diceva.

Era diverso. Quel ragazzino lo stava dicendo a loro.

Kushina lo aveva detto a sé stessa.

Il ragazzino lo aveva sputato.

Kushina si era gonfiata.

Il ragazzino li guardava con odio.

Kushina era stata fiera, statuaria, inamovibile.

Pura.

Obito si rese conto che, per la prima e forse unica volta, si era trovato davanti a una vera figlia del fuoco. Davanti a quello che era realmente stato il Ludus, e quello che era stata l’Ignis Regio allora.


Inspirò a fondo. Inavvertitamente, il suo cuore aveva preso a pulsare con più insistenza del normale.


Kushina non poteva essere figlia di una famiglia reazionaria.

I reazionari odiavano.

Non potevano non odiare: erano rimasti soli, a combattere una guerra ormai persa, a ricordare con melanconia tempi che non sarebbero tornati – privati della forza dell’Ignis Regio, abbandonati a loro stessi, e consci solo del fatto che tutti, fuori, erano contro di loro.

O Kushina era stata allevata in modo ineccepibile, in una comunità solida e abbastanza grande da replicare le dinamiche del Ludus, oppure non c’era verso che non potesse essere a conoscenza di ciò che la Regio era diventata, né, di fatto, che il mondo oramai era popolato da persone che si opponevano a tutto ciò in cui lei credeva. Non poteva non provare l’odio che Obito aveva visto serpeggiare in tutte le registrazioni degli interrogatori ai reazionari, adulti, anziani o bambini che fossero.

Invece Kushina sembrava essere appena uscita dal Ludus.

Non era possibile.


Spense gli apparecchi, deciso ad avviarsi verso la casa i Mebuki: doveva parlare con Sakura.

E solo adesso si rendeva conto di quanto preziosi sarebbero stati gli ultimi giorni, mesi, anni – chissà – che ancora aveva a disposizione insieme a lei.




____


Non voglio indagare sui meccanismi reconditi che mi hanno riportata a questa storia.

C’erano Sakura e Kushina che mi chiamavano, tutto qua.

Con orrore scopro che sono passati 5 anni dall’ultima volta che ho aggiornato. Ops.

Ma ho ben chiara in testa ancora la trama. Nema problema.

Solo che nel frattempo naruto è giunto al termine e, niente: Obito è OOC violentemente qua. Amen.

Ma dubito ripasserà qualcuno a dare una scorsa a questa storia, quindi me ne frego allegramente.









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Capitolo 9
*** 8. Figlie del Fuoco ***


 

 

(8) – [ Figlie del fuoco ]

 

 

Kushina si guardava attorno con vaga curiosità. Seduta sulla branda, con il volto ancora assonnato, sembrava intenta a perlustrare con gli occhi la sala in cui si trovava.

Non sembrava intenzionata a reagire in alcun modo: forse, si disse Mebuki, avevano ecceduto con le benzodiazepine. Meglio così. 

Sbuffò, un po’ delusa dai suoi pensieri che di giorno in giorno si facevano più egoisti e cinici. Minato sbirciava dal cucinino, in attesa. 

 

Lei si sentiva ancora addormentata.

Non le era ben chiaro dove si trovasse, ma la cosa non sembrava turbarla – e così non si turbò. Lasciò che il tempo passasse, che i suoi sensi riprendessero a funzionare, anche se aveva la continua sensazione di essere cieca, sorda, priva di olfatto e di tatto. Eppure, le informazioni arrivavano: odori, colori, il calore del sole che filtrava dalla finestra.

Osservò la donna: vestiva in modo strano, non con la toga dei Philosophi, non con le vesti dei Custodes, ma nemmeno sembrava una mercante – ed era troppo curata per essere Agricola.

“Come stai?”

Parlava la lingua, e lei la capiva. Che sapesse rispondere era un altro discoso.

Tacque.

Eppure stava bene.

Continuava a guardarsi attorno, finché non incrociò lo sguardo con un paio di occhi azzurri come lo era stato, il giorno prima, il cielo.

 

La bambina dai capelli rossi si bloccò a guardarlo.

Dapprima Minato tentò di non reagire, impaurito all’idea di farla svenire una seconda volta: perché era collassata, poi? Forse era esausta?

Poi iniziò a sentirsi a disagio.

Che voleva?

 

Anche Mebuki era a disagio.

L’idea che quei due si avvicinassero anche solo di un centimetro in più la faceva angosciare. Kankuro, però, avrebbe voluto così.

Fece uno sforzo. Tacque, e non si mosse. E si costrinse a non muoversi se non strettamente necessario.

 

Poi, come al solito, Minato cedette. Di nuovo, e ancora – sembrava che cedere fosse ciò che gli riusciva meglio.

“Ciao.”

“Ciao.”

Il bambino si scostò dallo stipite della porta, e si fece vedere nella sua intera figura, con la sua sciatta casacca e i capelli biondi disordinati. Kushina arricciò le labbra, come interdetta, ma non smise di fissarlo.

“Come stai?” chiese lui, senza più sapere se e come proseguire.

“Bene.”

 

Perché adesso parlava?

 

“Io mi chiamo Minato.”

Quella lo guardò, muta.

“... tu ti chiami Kushina, vero?”

“Kushina è il mio Nomen.”

Mebuki deglutì.

“Il mio è Minato.” rincarò quello.

Lei sembrava non reagire a quella notizia. Minato guardò la madre, guardò la bambina, decise di fare un passo avanti. Mebuki deglutì di nuovo, ma l’effetto fu inaspettato: Kushina mise i piedi scalzi a terra, e si issò in piedi.

 

Era molto strano. Continuava a guardare e continuava a non vedere. 

Mancava qualcosa, mancava qualcosa, mancava qualcosa...

questo risuonava nella testa di Kushina.

 

Bussarono.

 

“Nonna!” Mebuki parve avere cinque anni, in quell’affermazione: finalmente – finalmnete! Sua nonna – Sakura , un aiuto, anzi: L’aiuto!

“Sono Obito.”

La donna rimase interdetta: volle mangiarsi la lingua per il tono con cui aveva squittito poco prima, davanti al cugino, sperando – cos’era, una bambina? – di incontrare sua nonna.

Il ragazzo, varcata la soglia, si guardò attorno: eccola, la rossa. Ed ecco anche Minato.

“Immagino che l’anziana Sakura non sia ancora arrivata. Ciao, Kushina.”

La bambina si volse verso l’uscio – e, in automatico, si batté il petto con il pugno destro.

Niente da fare, ancora insisteva. Mebuki cercò di contenere la rabbia: “Kushina, noi non...” iniziò a dire, il più tranquillamente possibile.

Ma Obito le parlò sopra: “Ignis Regionibus. proruppe, pacato e saldo.

“Patriae Fratres. Fati Fratres.” rispose la bambina, pacata e salda a sua volta, rivolgendogli lo sguardo.

“Devo farti delle domande.”

Quella annuì.

“Che fascia sei?” domandò.

“Blu.”

“E quante stelle hai?”

“Due.”

“E dove si trova tutto ciò?”

“Sulla sopravveste.”

“Che non hai. Perché non hai la sopravveste, Kushina?”

Kushina parve tentennare un attimo. Abbassò gli occhi su di sé e sulla casacca che portava indosso, sbattè gli occhi, e disse: “Me l’avete tolta voi.”

“No.”

“L’ho lasciata nella stanza, allora.” Concluse. Dopodiché, fece spallucce.

Obito scrutò la bambina perplesso da quel tocco vagamente irriverente nel discorso, dopo le serrate battute che si erano scambiati.

“Quale stanza?” insistette lui.

“La mia stanza.”

Mebuki si avvicinò al cugino – pregandolo, all’orecchio, di smettere.

Ma Minato non si sarebbe lasciato sfuggire quel momento di loquacità della rossa: si infilò nel discorso in quello che entrambi gli adulti ritennero il peggiore dei modi: “Tu vivi al Ludus?”

Quella annuì senza scomporsi.

“Ma non c’è nessuno, al Ludus.” insistette Minato.

Obito mimava un violento ‘shhhhhht!’ a denti stretti nella sua direzione, sperando che quel gesto bastasse a dissuadere il bambino dal continuare: no, macché – non lo vedeva nemmeno. Gli occhi di Minato erano tutti per Kushina. Avido, insisteva: “Vivi da sola?”

“No, vivo con gli altri del Ludus.” Tirò sul col naso. “… Dove sei vissuto, Agricola? O sei Agricola per davvero?”

Eccolo – si disse Obito.

Il disprezzo, ma non l’Odio.

La supponenza, ma non l’Odio.

La tracotanza. Ma non l’Odio.

Minato rispose con straniante limpidezza: “No, io vado a Scuola.”

Di nuovo, bussarono.

I due bambini si zittirono, osservandosi l’un l’altro con viva perplessità.

“Ah – nonna, meno male!”

 

I grandi occhi violacei di Kushina incontrarono le fessure stanche e sottili delle palpebre di Sakura. Poi scivolarono sulle guance raggrinzite, sulle rughe, sul naso, sulle labbra, e scorsero infine le sei cicatrici che la vecchia portava sul volto. La bambina arricciò le labbra, indietreggiando con il capo, e poi ritornò a fissare gli occhi della donna.

Sakura la vide allargare la narici.

Poi socchiudere gli occhi, come non ci vedesse bene.

Poi indietreggiare di nuovo.

Portare la mano al petto, e, ancora una volta, attendere di poter salutare la Medicus.

Sakura avanzò lentamente nella stanza, la schiena che pareva volersi raddrizzare nonostante le impossibilità dettate dal suo scheletro.

Obito, nuovamente, sentì quel senso di rispetto che aveva provato davanti alla purezza di Kushina. Nuovamente, per quanto nascosta dietro moltitudini di decine di anni, scorgeva la forza del Ludus materializzarsi in una persona.

A Kushina non era servito fare né domande né osservare le vesti – come avrebbe dovuto fare, o per lo meno così pensava il ragazzo: le era bastato vedere la donna per capire che davanti a lei c’era un Philosophus. L’ultima, dei Philosophi.

Per l’ennesima volta Obito si ripeté che no, questo, un reazionario, non lo avrebbe mai potuto fare.

“Dunque il tuo Nomen è Kushina.” sussurrò l’anziana Sakura.

Quella annuì, senza spostare il pugno dal petto.

Gli altri tre non fiatavano, scrutando le due.

“Dimmi, Kushina.” Il tono dell’anziana Sakura era leggerissimo, ma greve. Non lo aveva mi usato con lui – pensò Minato. Beh, lui non era mai stato un reazionario, se era per quello. “Dimmi, sai dove ti trovi?”

“No.” Rispose la bambina, dritta, immobile. “Forse alle palazzine mediche.” Osò.

Aveva senso, si disse Obito. Se fosse stata un’allieva del Ludus – si corresse.

“Non ci troviamo alle palazzine mediche, Kushina. Siamo lontani da dove credi di trovarti.”

La bambina accettò liberamente la notizia.

“Lo sai perché ti trovi qui?”

“No.” Rispose nuovamente la bambina. “So che non sono stata bene.”

“Non sei al Ludus.”

Kushina annuì, senza mai interrompere il contatto visivo con la donna.

Minato, sconcertato, la fissava con tanta intensità da aver scordato di sbattere le palpebre. Cercò prima la madre, e poi Obito, con gli occhi ancora fissi, e d’un tratto decise di sgattaiolare verso il cugino.

Fece solo qualche passo silenzioso: Kushina gli lanciò una rapida ma folgorante occhiataccia.

Cosa. Stai. Facendo.

Minato si paralizzò: come faceva ad averlo visto, se fissava la bisnonna dritto negli occhi?

“Sei a Folii Pagus.” Continuò l’anziana Sakura, dopo una debita e ben calibrata pausa. “Ma il nome che ha non è questo, adesso.”

Kushina corrugò la fronte.

“Kushina.” la richiamò, ottenendo nuovamente tutta la sua attenzione: la mente della bambina, si era visto, aveva vagato per un istante nel comprendere il significato di quell’affermazione – ma non appena la Philosophus aveva pronunciato il suo nome, si era bloccata. Ed era tornata, quieta, ad ascoltare le sue parole – avida. Avida di sapere, ma non tanto Agricola da chiederlo esplicitamente.

“Non tornerai all’altipiano del Ludus per un po’. Resterai qui, fra i Mercanti, gli Agricola, e tutti coloro che non sono Custodes o Philosophi. Così è.”

Kushina, sotto lo sguardo sconvolto di Minato, annuì. “Sì.”

“Lei è Mebuki, ora sei sotto la sua tutela. Lui è Obito – in assenza di Mebuki, sarà il tuo riferimento. Non fare nulla contro il loro consenso.”

“Sì.”

“Questo ti permetterà di rimettere piede al Ludus nel modo più giusto.”

“Sì.”

“E questa sarà l’ultima volta – fino a nuovo ordine – in cui eseguirai il saluto dei Custodes. Qui, di Custodes, non ce ne sono. Non c’è nessun altro, oltre a me, da salutare – a me, di saluto, ne basterà uno per sempre.”

E prima che Kushina potesse realizzare che invece, qualcuno, in quella stanza – più volte, sino ad allora – il Saluto lo aveva usato, Sakura sfiatò: “Ignis Regionibus.

“Patriae Frates! Fati Fratres!”

 

 

 

____

 

NDA

(ma la commozione di vedere gente che ancora legge, dopo anni e anni – non so descriverla. Grazie çOç )

Kimmy

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