Helleborus

di _Joanna_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


1.1
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Helleborus


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Era una fredda mattinata di dicembre.

Come ogni giorno, Merope si era alzata di buon’ora, aveva indossato uno dei suoi semplici abiti scuri e si era subito messa a preparare la colazione per suo padre e per suo fratello.
La stanza che fungeva sia da salotto che da cucina era gelida. Merope aveva acceso il fuoco, ma quello sembrava generare più fumo che calore: il locale, infatti, si stava già riempiendo di una sottile nebbiolina grigiastra. Avrebbe dovuto spalancare una delle sudice finestre, pensò, ma così la stanza non si sarebbe mai scaldata per tempo.
Presa dal panico urtò una delle tazze, che cadde a terra frantumandosi. Si affrettò a raccoglierne i cocci, incurante dei tagli che si procurava raccattando febbrilmente i pezzi di ceramica dai bordi frastagliati.
Poi udì un cigolio e un rumore di passi. Con il cuore in gola, incapace di muovere un muscolo, rimase inginocchiata sul lurido pavimento di pietra.
«Che stai combinando, stupida creatura?» si annunciò suo padre. Era basso e tarchiato, con spalle larghe e braccia lunghe.
«Mi è caduta» si giustificò Merope in un soffio: la bocca le era diventata improvvisamente asciutta e non era sicura che suo padre l’avesse sentita.
«Questo perché sei una piccola, sudicia Maganò» sbraitò suo padre, tastandosi il vecchio pigiama logoro alla ricerca della sua bacchetta.
Merope schizzò sotto il tavolo, in un patetico tentativo di sfuggire all’ira di suo padre, che però tardava ad arrivare: aveva lasciato la bacchetta nell’altra stanza.
«Che cosa fa?»
Era la voce di suo fratello Morfin. Merope poteva vedere le gambe dei due uomini avvicinarsi e fermarsi a pochi centimetri da lei. Le ginocchia di suo fratello si piegarono e la sua mano si allungò verso di lei, artigliandole il braccio, trascinandola via dal suo misero rifugio.
«Ti rendi conto di che ore sono?» le ringhiò in faccia Morfin.
«Sai benissimo che non ci devi svegliare» aggiunse suo padre in un sibilo rauco «Si può sapere che pensavi di fare?»
Merope non riusciva ad articolare nessuna parola. Aprì la bocca, poi la richiuse. Era stato un incidente, un piccolo, banale incidente, non l’aveva fatto apposta, non voleva svegliarli.
«Io lo so» ghignò Morfin, con un occhio che guizzava famelico da lei a suo padre, mentre l’altro volgeva uno sguardo impazzito per tutta la stanza invasa dal fumo «Oggi è un giorno speciale padre, non ricordi? Oggi è compleanno della nostra Merope»
Per un attimo nessuno fiatò.
«Ma certo, come ho fatto a dimenticarmene!» esclamò suo padre con voce pericolosamente acuta.
Suo fratello l’aveva lasciata andare, ma Merope non osava muoversi, sapeva che farlo avrebbe solo peggiorato le cose.
«Allora è arrivato il momento di consegnare alla mia dolce bambina il dono per la sua maggiore età» aggiunse suo padre, allontanandosi da lei e raggiungendo il vecchio mobile accanto alla porta. Rovistò un po' nei cassetti, finché non trovò quello che stava cercando.
«Ecco,» esclamò infine «Il Medaglione di Salazar Serpeverde».
Merope osservò ammirata il ciondolo dorato, finemente intagliato, e sentì le lacrime inumidirle gli occhi, mentre suo padre metteva amorevolmente al collo il prezioso cimelio: era il primo regalo che avesse mai ricevuto in tutta la sua misera vita.
Non si trattava esattamente di un dono spontaneo: come da tradizione della sua famiglia, infatti, i primogeniti di casa Gaunt ereditavano l’anello dei Peverell, le femmine l’antico medaglione del leggendario fondatore di Hogwarts.
«Sempre che tu ne sia degna» aggiunse suo padre. Aveva abbandonato il tono stridulo e ora parlava con voce bassa e strisciante, sinistra e minacciosa  «Vorresti tutte quelle cianfrusaglie Babbane, non è vero? Rispondimi!» urlò.
Merope era incapace di muoversi, di parlare. Restò in silenzio, terrorizzata, senza sapere in che cosa sperare. Non aveva senso, pensava spesso, vivere in quel modo.
«Ti ho fatto una domanda, piccola ingrata, schifosa Maganò» sbraitò di nuovo suo padre, afferrando la fredda catena del Medaglione, strattonandola. Piccoli solchi rossi si formarono ai lati del suo pallido collo, mentre leggere goccioline di sangue caldo le scivolavano lungo la gola, macchiando il colletto del vestito.
«N-no» balbettò alla fine e, dopo qualche istante, suo padre la lasciò finalmente andare.
Merope inspirò avidamente l’aria resa pesante dal fumo del camino, incurante del fatto che le bruciasse la gola.
Finì di raccogliere i cocci della tazza e li portò fuori, nel gelido cortile incolto.
Il sole pallido era velato da nubi bianche e pesanti: presto avrebbe nevicato.
La strada principale del paese correva proprio davanti all’umile e diroccata dimora dei Gaunt.
Un debole rumore di zoccoli, attutito dalle foglie umide sparse sull’acciottolato, annunciò l’arrivo di una carrozza.
Merope, come ogni giorno, si nascose dietro la rozza staccionata che delimitava la proprietà dei Gaunt.
Pochi attimi dopo, una bella carrozza scura risalì il lento pendio. Il tettuccio era stato tirato su, ma le tendine erano aperte e il profilo di un giovane dai lucidi capelli neri fece capolino.
Merope, estasiata dalla sua bellezza, lo guardò passare, beandosi di quei lineamenti precisi ed eleganti, di quegli occhi grigi e profondi che mai si erano posati su di lei.
“Un giorno” pensò Merope “Un giorno gli andrò a parlare”.
Ma, quando ancora lo scalpiccio dei cavalli era udibile in lontananza, Merope già sapeva che non l’avrebbe mai fatto.
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Angolino dell'Autrice

Salve a tutti! :)
Spero che la mia breve One shot vi sia piaciuta (almeno un pochettino dai)!
Avrei davvero bisogno di conoscere il vostro parere perchè, in effetti, c'è un'ideuzza che mi frulla in testa da un po'... Mi piacerebbe scrivere di Merope (e magari poi anche del bel Tom, chissà) perciò vorrei sapere se la cosa può interessare e trasformare così questa One nel primo capitolo di una long dedicata a Merope.

Quindi, siate gentili e fatemi sapere che cosa che ne pensate, nell'attesa vi abbraccio tutti! (sì, proprio tutti e se recensite vi dò anche un bel biscotto, quindi vedete di mandarmi in rovina, please!)

A presto,

_Jo

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


1
Capitolo II




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Merope Gaunt non era quella che si poteva definire una bellezza.
Aveva lunghi capelli lisci e sottili, di un colore cinereo e spento. Gli occhi erano di un'anonima sfumatura marrone e guardavano in direzioni diverse. Aveva ereditato l'ossatura rigida e la mascella pronunciata del padre, e il naso sottile e spigoloso della madre. Era magra e gracile, non molto alta, ma proporzionata, e avrebbe potuto avere un aspetto quasi slanciato se non fosse stato per le sofferenze subite. Nella sua breve vita, infatti, aveva sopportato ogni genere di sopruso: era stata umiliata e insultata, terrorizzata dal padre, vessata dal fratello, ed era ormai completamente assoggettata ai loro capricci. Troppo debole per riuscire a fare altro che sopravvivere in quella casa, troppo spaventata dal mondo esterno per fuggire, la sua misera esistenza si riduceva a un lento, doloroso appassire. Tutte queste fatiche, sia fisiche che mentali, l'avevano provata, schiacciandola con il loro peso invisibile, donandole una postura ingobbita e un'aria sconfitta.
Ma c'era qualcosa, nel suo aspetto, che a Merope piaceva. Le sue mani, nonostante i continui lavori pesanti, erano morbide e lisce, le dita lunghe e affusolate.
Meccanicamente, portò le belle mani al petto, stringendo con le sue perfette dita l'unico oggetto a lei caro: il medaglione di sua madre, Mira. In verità, non era esattamente appartenuto a lei: si trattava di un cimelio di famiglia, tramandato di generazione in generazione.
Merope non ricordava molto di sua madre.
Sapeva che era stata una strega brillante e avrebbe potuto fare carriera al Ministero: alcuni alti funzionari le avevano proposto un impiego non appena era diventata maggiorenne, ma il padre glielo aveva impedito. I Gaunt erano i discendenti del nobile Salazar Serpeverde e non si sarebbero mai abbassati al livello di Mezzosangue e Sanguemarcio, non avrebbero mai preso ordini da nessuno e non avrebbero mai mischiato il loro purissimo sangue con "gli inferiori".
Come da tradizione, dunque, Mira Gaunt, aveva dunque sposato suo cugino Marvolo e gli aveva dato degli eredi, così che la gloriosa stirpe di Serpeverde potesse proseguire.
Era morta quando Merope aveva solo cinque anni e suo padre amava ricordarle che la colpa era stata sua: la sua scarsa attitudine alla magia, già evidente a quella tenera età, aveva provocato un dolore e un'umiliazione insopportabili per sua madre, uccidendola.
Forse, nel profondo del suo cuore, Merope sapeva che quello che diceva suo padre non poteva essere vero, ma ci credeva comunque.
Finì di strappare alcune erbacce, più per avere qualcosa da fare che per un reale necessità: il cortile di fronte alla casa, infatti, era completamente incolto, invaso dalle ortiche e dalle bardane; il vialetto era sporco, le pietre irregolari, rotte e consunte. La casa poi, era malmessa e sudicia, mancavano parecchie tegole del tetto e alcune finestre erano state riparate alla bella e meglio con delle assi di legno marcio e muffito.
«Merope, sbrigati stupida creatura!» sibilò suo padre dall'interno.
Merope sollevò lo sguardo al cielo, per gran parte coperto dalla profonda macchia alberata che strangolava la casa, e si maledisse per essere stata tanto sbadata: era quasi ora di pranzo e lei non aveva ancora preparato nulla; suo padre gliel'avrebbe fatta pagare.
Fece cadere a terra le erbacce che aveva raccolto e rientrò in casa, affrettandosi subito ai fornelli.
Suo fratello Morfin entrò in cucina proprio in quel momento, ma non si trattenne: salutò suo padre, seduto sulla vecchia poltrona davanti al camino, e uscì in cortile, a godersi la bella giornata estiva.
Dopo qualche minuto, Merope udì chiaramente Morfin sibilare «Non sei il benvenuto».
Tese le orecchie e vide suo padre fare lo stesso; la risposta dello sconosciuto, non si fece attendere
«Ehm… buongiorno. Sono del Ministero della Magia…»
Merope si bloccò nell'atto di tagliare a metà una carota, terrorizzata; sapeva che cosa voleva quell'uomo da suo fratello.
Intanto, la conversazione di fuori proseguiva, anche se Merope non riusciva a distinguerne le parole, finché non si udì un rumore sordo, seguito da un gemito.
Suo padre, che aveva deciso di intervenire, richiamò Morfin.
«Il Ministero?» lo sentì chiedere, non senza una chiara nota di disgusto nella voce.
Merope si costrinse a tornare al suo lavoro, benché sprazzi di quella conversazione le giungessero di quando in quando alle orecchie.
«Dovevi segnalare la tua presenza!» ruggì aggressivo suo padre a un certo punto, aggiungendo poco dopo «Ficcanaso. Intrusi. Babbani e feccia».
Poco dopo, suo fratello rientrò in casa, sbattendosi la porta alle spalle ed escludendo così del tutto le parole che suo padre e il funzionario del Ministero si stavano scambiando all'esterno.
Si sedette pesantemente sulla poltrona vicino al fuoco ed estrasse dal pastrano un lunga vipera, cominciando a cantare una delle sue filastrocche preferite: “Soffia, soffia, serpentello, striscia, striscia e va', fa' il bravino con zio Morfin o sulla porta t'inchioderà”.
A Merope, quella canzoncina faceva venire i brividi, così si mise a trafficare con alcune padelle, sforzandosi di non ascoltare e sperando che lo sconosciuto di fuori se ne andasse in fretta.
Ovviamente, non accadde.
La porta di ingresso si aprì di nuovo e suo padre entrò in cucina insieme a un ometto basso e grassoccio con occhiali molto spessi; indossava una redingote e delle ghette, sopra un costume da bagno intero a righe. L'uomo le rivolse uno sguardo interrogativo, quasi apprensivo. Suo padre lo notò e disse «Merope, mia figlia»
«Buongiorno» la salutò lo sconosciuto, ma Merope lo ignorò, tornando a occuparsi delle sue faccende.
«Bene, signor Gaunt» cominciò l'uomo «per arrivare subito al punto, abbiamo ragione di credere che suo figlio Morfin abbia eseguito una magia davanti a un Babbano ieri notte».
Merope sentì il sangue gelarsi nelle vene. Agitata, con le mani prese da un tremito incontrollabile, fece cadere una pentola.
«Raccoglila!» le ordinò suo padre, aggiungendo «Te ne stai lì a pulire per terra come una sporca Babbana, a che cosa ti serve la bacchetta, inutile sacco di sterco?»
«Signor Gaunt, la prego!» intervenne l'uomo, indignato, mentre Merope sentiva le guance imporporarsi. Nessuno aveva mai preso le sue difese, né tanto meno aveva mai osato contraddire suo padre.
Fece per raccogliere la pentola, ma quella le scivolò di mano. Merope estrasse la bacchetta di tasca con mano tremante, la puntò e borbottò un incantesimo: la pentola sfrecciò sul pavimento, colpì la parete di fronte e si spaccò in due.
Morfin si abbandonò a una risata folle, mentre suo padre strillava «Aggiustala, inutile melma, aggiustala!»
Merope avanzò, barcollante, ma prima che potesse alzare la bacchetta, il funzionario aveva già levato la sua, ordinando «Reparo»: la pentola si aggiustò all’istante.
«Per fortuna c’è qui questo simpaticone del Ministero!» esclamò suo padre, con un evidente tono sarcastico «Forse mi libererà di te, forse non gli darà fastidio una fetida Maganò…».
Merope prese la pentola e la ripose tremando sulla mensola, restando poi ferma, la schiena contro la parete tra la finestra sudicia e il fornello.
Se ne fosse stata capace, se solo fosse stata davvero una strega e non un'inutile Maganò, sarebbe sprofondata nella pietra e sarebbe sparita.
«Signor Gaunt,» ricominciò l'uomo «come ho già detto, la ragione della mia visita…»
«Ti ho già sentito!» sbottò suo padre «E allora? Morfin ha dato a un Babbano quello che si meritava… e allora?»
«Morfin ha infranto la legge magica» ribattè l'altro severo.
«Morfin ha infranto la legge magica» lo scimmiottò suo padre, in tono pomposo e cantilenante. Morfin ridacchiò di nuovo.
«Ha dato a uno schifoso Babbano una bella lezione, è illegale adesso?» chiese poi, ritrovando il suo usuale tono sprezzante.
«Sì, temo di sì» disse l'altro, estraendo da una tasca interna un piccolo rotolo di pergamena.
«Che cos’è quella, allora, la sua condanna?» chiese suo padre. La sua voce adesso era rabbiosa e Merope si accorse di stare tremando con ancora più violenza
«È un mandato di comparizione al Ministero per un’udienza…» cominciò il funzionario, srotolando la pergamena.
«Un’udienza? Un’udienza? Chi ti credi di essere, a convocare mio figlio da qualche parte?»
lo interruppe suo padre, furioso.
«Sono Bob Ogden, Capo della Squadra Speciale Magica» ribatté l'altro.
«E credi che noi siamo feccia, vero?» urlò suo padre, avanzando verso quello che si era appena identificato come il capo della Squadra Speciale Magica e puntandogli l'indice contro il petto «Feccia che corre quando il Ministero glielo ordina? Ma lo sai con chi stai parlando, tu, schifoso piccolo Mezzobabbano, eh?»
«Ero convinto di parlare col signor Gaunt» rispose quello, cauto ma determinato
«Giusto!» ruggì suo padre, sventolandogli davanti l'anello dei Peverell, l'altro cimelio di famiglia. «Lo vedi questo? Lo vedi questo? Lo sai cos’è? Lo sai da dove viene? Sono secoli che è in famiglia, ecco quanto passato abbiamo, e siamo sempre stati Purosangue! Lo sai quanto mi hanno offerto per questo, col blasone dei Peverell inciso sulla pietra?» sbraitò suo padre, paonazzo in volto.
«Non ne ho proprio idea» rispose l'altro, per nulla impressionato «ed è del tutto irrilevante, signor Gaunt. Suo figlio ha commesso…»
Ma suo padre non lo stava ascoltando; con un ululato di rabbia, era infatti corso verso di lei, ancora schiacciata contro il freddo e sudicio muro di pietra. Merope rimase immobile mentre suo padre la afferrava per la catena del medaglione, trascinandola fino al funzionario del Ministero, al centro della stanza.
«Lo vedi questo?» strillò, agitando verso di lui il pesante medaglione d’oro, incurante dei gemiti strozzati di Merope. Il signor Ogden invece, sembrò notarli e si affrettò a rispondere «Lo vedo, lo vedo!»
«È di Serpeverde!» continuò suo padre «Di Salazar Serpeverde! Noi siamo i suoi ultimi discendenti ancora in vita, che cos’hai da dire, eh?»
«Signor Gaunt, sua figlia!» fece Ogden allarmato.
Suo padre la lasciò finalmente andare e Merope barcollò all'indietro, massaggiandosi il collo e cercando di ritrovare il respiro.
«Allora!» riprese suo padre «Non osare parlarci come se fossimo polvere sulle tue scarpe! Generazioni di Purosangue, tutti maghi… è più di quanto tu possa dire di te, non ne dubito!»  concluse, sputando per terra, ai piedi del funzionario. Morfin, sulla sua poltrona, si stava divertendo un mondo.
«Signor Gaunt» insistette l'uomo «Temo che né i suoi antenati né i miei abbiano nulla a che fare con la questione. Sono qui a causa di Morfin. Di Morfin e del Babbano che ha avvicinato ieri notte. Siamo a conoscenza» e diede un’occhiata alla pergamena, «del fatto che Morfin ha eseguito una fattura o una stregoneria sul detto Babbano, provocandogli un’eruzione di assai dolorosa orticaria».
Morfin ridacchiò più forte, mentre Merope continuò a tacere, il volto tra le mani, terrorizzata.
«Taci, ragazzo» sibilò suo padre e suo fratello obbedì.
«E allora? Immagino che tu abbia ripulito la faccia sporca del Babbano e anche la sua memoria».
«Non è questo il punto, signor Gaunt. È stato un attacco privo di movente su un indifeso…».
«Già, ho capito che eri un leccababbani dal momento che ti ho visto» lo interruppe suo padre beffardo, sputando di nuovo per terra.
«Questa discussione non ci porta da nessuna parte» ribadì Ogden deciso. «È chiaro dall’atteggiamento di suo figlio che non prova alcun rimorso per le proprie azioni. Morfin si presenterà a un’udienza il quattordici settembre per rispondere dell’accusa di aver usato la magia davanti a un Babbano e di aver provocato dolore e disagio allo stesso Babba…»  stava continuando, ma si interruppe.
Un tintinnio e un rumore di zoccoli di cavalli e alte voci ridenti entrarono dalla finestra aperta.
Suo padre rimase immobile, in ascolto, gli occhi spalancati.
Morfin sibilò e rivolse il viso ai suoni con aria avida.
Merope alzò la testa, totalmente nel panico.
«Mio Dio, che orrore!» esclamò una voce di ragazza «Tuo padre non potrebbe far radere al suolo quella baracca, Tom?».
Merope percepì un moto di vergogna a quelle parole. Sapeva perfettamente chi era la ragazza e a chi si stava rivolgendo.
«Non è nostra» rispose la giovane voce maschile che Merope tanto amava ascoltare.
«Tutto ciò che si trova dall’altra parte della valle appartiene a noi, ma quella casa è di un vecchio vagabondo chiamato Gaunt e dei suoi figli. Il maschio è pazzo, dovresti sentire le storie che raccontano al villaggio…»
La ragazza rise, mentre il tintinnio e il tonfo degli zoccoli si facevano sempre più sonori. Morfin fece per alzarsi dalla poltrona.
«Stai seduto» sibilò suo padre minaccioso.
«Tom» disse ancora la ragazza «Forse mi sbaglio… ma qualcuno ha inchiodato un serpente a quella porta?»
«Santo cielo, hai ragione!» esclamò Tom Riddle. «Sarà stato il figlio, te l’ho detto che non è a posto. Non guardarlo, Cecilia, tesoro».
«Tesoro» sussurrò suo fratello, lanciandole un'occhiata velenosa «L’ha chiamata “tesoro”, quindi non ti vorrebbe comunque».
«Che cosa?» chiese suo padre brusco, lo sguardo prima su Morfin, poi su di lei «Che cos’hai detto, Morfin?»
«Lo sai, a lei piace guardare quel Babbano» rispose suo fratello con espressione malvagia,  continuando a fissarla. «Sta sempre in giardino quando lui passa, lo spia attraverso la siepe, non è vero? E ieri sera…»
Merope scosse il capo a scatti, supplichevole, ma suo fratello continuò, spietato: «Si è spenzolata dalla finestra aspettando che lui tornasse a casa a cavallo!».
«Si spenzolava dalla finestra per guardare un Babbano?» ripeté suo padre piano.
«È vero?» chiese suo padre, muovendo qualche passo verso di lei «Di nuovo? Credevo di avertelo detto,» proseguì, continuando ad avanzare «Che mai avrei tollerato, mai ti avrei permesso di infangare il buon nome della famiglia! Mia figlia, discendente Purosangue di Salazar Serpeverde, che si spenzola davanti a un sudicio Babbano con le vene sporche! In che modo potrei mai accettarlo?».
Merope scosse freneticamente la testa, schiacciandosi contro la parete, incapace di emettere alcun suono.
«Ma io l’ho preso, padre!» ridacchiò Morfin. «L’ho beccato mentre passava, e non era più così carino con tutte le bolle dell’orticaria, vero Merope?»
«Tu, disgustosa piccola Maganò, sudicia traditrice del tuo sangue!» ruggì suo padre, avventandosi su di lei e stringendole le mani al collo.
«No!» urlò il funzionario del Ministero, prima di alzare la bacchetta e gridare  «Relascio!»
Suo padre fu scagliato all’indietro, lontano da lei.
Con un ruggito di rabbia, Morfin balzò su dalla poltrona e corse verso Ogden, brandendo il pugnale insanguinato e sparando maledizioni con la bacchetta.
L'uomo scappò via, mentre Merope ritrovò la voce e cominciò a urlare terrorizzata.
«Sta' zitta, patetica creatura, taci!» sibilò suo padre, rialzandosi «È solo colpa tua, questa volta la pagherai cara» la minacciò.
Suo fratello ridacchiava istericamente.
«CRUCIO!» ruggì suo padre.
Mille e mille spilli acuminati si conficcarono nella sua pelle, tra le ossa e i muscoli, straziando il suo copro già provato.
Merope gridò, di dolore, di disperazione.
Urlò e si dimenò, mentre l'inconfondibile sapore del sangue le invadeva la bocca e la gola.
Quell'agonia parve durare ore ed ebbe fine solo quando la porta d'ingresso venne abbattuta con fragore.
Ogden e dieci o più altri maghi, altri funzionari ministeriali, irruppero nella casa e trascinarono via a forza Morfin e suo padre.
Merope tentò di rialzarsi, ma le gambe e le braccia sembravano non appartenerle più. Era debole e dolorante, scossa da tremiti incontrollabili e aveva il viso e le mani sporchi di sangue, terra e polvere. La catena del medaglione aveva scavato un profondo solco sul suo petto, là dove il peso del suo gracile corpo l'aveva schiacciata contro la pelle.
«Figliola,» sentì mormorare al suo orecchio. Bob Ogden era chino su di lei e aveva il viso contratto in un'espressione preoccupata, quasi paterna.
«Vieni cara, andiamo al San Mungo» continuò, ma Merope lo interruppe subito, scuotendo il capo e bisbigliando, con voce incerta «Sto bene, non mi serve aiuto».
L'uomo rimase a guardarla per qualche secondo, quindi annuì e si alzò in piedi, affrettandosi a seguire il resto della sua squadra.
Merope si sollevò a fatica da terra, ancora tremante.
Il silenzio cadde su di lei e Merope si rese conto di essere sola.
Per la prima volta, in quella casa buia e tetra, c'era solo lei.
Per la prima volta in tutta la sua patetica esistenza, non c'era nessuno a darle ordini, nessuno a umiliarla.
Per la prima volta, Merope era libera.
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Angolo Autrice

E dopo mesi eccomi di nuovo qui. ad aggiornare questa storia che era nata come una one shot e che invece (rullo di tamburi) ha un seguito!
Come i lettori più attenti avranno notato, gran parte dei dialoghi e degli inframmezzi sono presi direttamente dal libro, qui lo dico, non appartengono a me ma a J. K. Rowling, genio indiscusso.
Si tratta di un capitolo di transizione e ovviamente la scena del pensatoio era un passaggio obbligato. Dal prossimo capitolo leggerete solo cose scritte da me medesima, quindi la qualità scenderà inevitabilmente XD

E niente, direi che per ora è tutto e vi aspetto numerosi nelle recensioni!!

A presto,

_Jo

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


3.3
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Capitolo III



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Erano passate due settimane dall'arresto di Marvolo e Morfin Gaunt e Merope, come ripresasi da una brutta malattia, era tornata a vivere.
Della buia catapecchia non vi era più traccia e al suo posto, immersa nel verde ombroso delle fronde alberate, sorgeva una piccola casupola squadrata dalle mura bianche. Il giardino, ben curato, era un tripudio di colori e dalle finestre aperte usciva un intenso aroma speziato, ogni giorno diverso e sempre invitante.
Merope, ora libera dall'oppressione della sua famiglia, era andata incontro a una drastica e felice metamorfosi. Lo strabismo e i lineamenti duri non le conferivano più quell'aspetto strano e quasi grottesco; pur non potendosi definire bella, per la prima volta Merope dava un impressione di sicurezza e maturità, a suo modo, affascinante.
Se qualcuno si fosse affacciato a quel davanzale, ora pulito e ornato di vivaci vasi di fiori profumati, avrebbe visto una giovane donna allegra e spensierata, intenta ad esercitarsi in magie e incantesimi. Era davvero incredibile, ma da quando era sola, Merope aveva scoperto non solo di non essere una Maganò, come le ripeteva di continuo suo padre, ma di essere anche molto versata nella arti magiche, in particolare nella preparazione di filtri e pozioni.
Questa scoperta, insieme alla passione bruciante che minacciava di arderla dall'interno, l'aveva convinta a mettere a punto un piano che certamente il Ministero non avrebbe considerato legale o ammissibile: rovistando tra i polverosi volumi di incantesimi che suo padre teneva nascosti sotto un'asse del pavimento, Merope aveva trovato la ricetta di un potente filtro d'amore.
Recuperati tutti gli ingredienti, aveva seguito le istruzioni alla lettera e adesso, dopo aver lasciato l'intruglio a riposo per un giorno e notte, si apprestava ad aggiungere il tocco finale, un elemento di sua invenzione, che, ne era ormai certa, avrebbe reso il sogno non solo possibile, ma anche infallibile.
Un rumore di zoccoli giunse da fuori proprio mentre Merope dava l'ultima rimestata alla pozione. Afferrò un calice e mormorò la formula “Aguamenti”: l'acqua, fresca e cristallina, scintillò chiara nella penombra. Aggiunse alcune gocce del filtro appena ultimato, quindi si affrettò ad uscire, proprio quando un cavaliere, alto e splendente come i principi delle fiabe, attraversava al piccolo trotto il vialetto di fronte alla casa.
«Buongiorno signore» salutò Merope.
L'uomo, il bel giovane per cui Merope tanto sospirava, con fredda cortesia, rispose al saluto.
«Oggi fa molto caldo, non crede?» continuò Merope, apparentemente cieca davanti all'espressione infastidita dell'uomo a cavallo.
«Prenda un po' d'acqua, la salita fino al colle è lunga e il sole è ancora alto nel cielo» lo esortò, allungando il calice in direzione del giovane, che, sempre irritato, lo prese.
Forse, per un attimo, il pensiero che accettare dell'acqua, per quanto apparentemente innocua, da un altrettanto apparentemente innocua sconosciuta, non fosse una buona idea attraversò la mente del giovane Tom Riddle. Ma, forse per la buona educazione impartitagli dal suo precettore, o forse, per una reale necessità di inumidire la sua gola improvvisamente diventata arida, accettò.
Non appena liquido cristallino bagnò le sue labbra, una sensazione di piacere mai provato prima lo invase completamente: quell'acqua, da dovunque provenisse, era decisamente la più buona che avesse mai assaggiato.
Con due, avidi sorsi, svuotò il calice, sentendosi più rinfrancato e più assetato allo stesso tempo. Tuttavia, non volendo abusare della gentilezza della donna, si limitò a ringraziare, riprendendo la sua strada, mentre un unico desiderio cresceva nella sua mente e sembrava galoppare più veloce di qualsiasi cavallo: doveva tornare in quella casa, da quella fanciulla, chiunque ella fosse.

   E, infatti, il giorno dopo Tom Riddle fece ritorno. Merope gli offrì ancora la sua acqua e l'uomo indugiò quanto poté prima di riprendere il cammino.
Il giorno dopo ancora, giunto nei pressi della casa, smontò da cavallo, e rimase per ore a parlare con la magnifica creatura che lo ingozzava di squisita acqua e dolci parole.
Il terzo giorno, nonostante non avesse affari da sbrigare giù in città, raggiunse la casupola immersa nel bosco e, accettato l'invito a entrare, passò lì l'intera giornata, beandosi della bellezza e della delicata semplicità che quella ragazza, Merope, emanava ad ogni gesto, irradiandolo di felicità.
Il quarto giorno, ormai completamente invaghito di lei, preso da un impeto irrazionale eppure perfettamente logico e sensato, attese paziente che la sua bella si affacciasse alla finestra, dove lui l'aspettava, colmo di desiderio e di amore, inginocchiato, l'anello di sua madre rovente tra le sue mani nervose.
«Merope, mia dolcissima Merope, vorresti farmi lo straordinario onore di diventare di mia moglie?» chiese, o meglio, declamò, da tanto aveva ripetuto quelle parole e riprovato quei gesti.
Lei, la sua musa, la sua dea, con un sorriso delizioso che le si allargava sul viso leggermente arrossato per l'emozione, accettò.

   E così, in gran fretta per la troppa passione, all'insaputa di tutti, Merope divenne la signora Riddle.

   La vita non era mai stata tanto perfetta.
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* * *
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Capitolo 4
*** Epilogo ***


4.4


Epilogo






Il tiepido sole, ancorché tenue e pallido, era già alto nel cielo quando Merope si svegliò. Accanto a lei, ancora profondamente addormentato, c'era suo marito, il suo Tom. Nel guardarlo, le labbra di Merope si incresparono in un timido sorriso, subito sostituito da un'espressione più dura, risoluta.
Quella notte, infatti, mentre si rigirava tra le lenzuola, dolcemente cullata dal respiro di lui, aveva preso una decisione.

   Da qualche settimana Merope si sentiva strana: nausee, stanchezza e altri sintomi l'avevano indotta a temere di essersi ammalata, così, il giorno prima, nel pomeriggio, si era recata dal medico Babbano del paese.
Il dottor Jones era un uomo buffo, tarchiato e quasi calvo, nonostante non potesse avere più di trent'anni. Quando l'aveva fatta distendere sul lettino e aveva cominciato a farle molte domande, Merope era un fascio di nervi.
“Non si preoccupi, signora Riddle” aveva sentenziato il dottore al termine della visita. “Lei non è affatto malata” aveva aggiunto con un ampio sorriso “Aspetta un bambino, direi da due mesi, dieci settimane al massimo”.
Un bambino.
Dopo neanche un anno di matrimonio, Merope era incinta del suo Tom.
Tornata a casa, aveva dato la bella notizia a suo marito, che, pazzo di gioia, l'aveva presa tra le braccia, tempestando il suo piccolo corpo di baci e carezze, travolgendola con il suo amore e la sua intensa, irrefrenabile passione.
Si era addormentato, esausto, solo dopo averle reso onore per ore, benedicendo il suo ventre e la nuova vita che, di lì a qualche mese, sarebbe venuta al mondo.
Ed era stato allora che Merope aveva deciso.
Non voleva più soggiogare a quel modo la volontà di suo marito: avrebbe smesso di somministrare a Tom il suo potente filtro d'amore.
“Ora basta” aveva detto quella notte alle tenebre “Lui mi ama, avremo un bambino, un figlio nostro, lui mi ama” si era ripetuta.
Sì, lui l'amava davvero adesso, ne era certa.
Certo, se non fosse stato per la pozione, Tom non l'avrebbe mai notata, ma adesso, dopo mesi passati insieme, dopo che Merope aveva dato tutta se stessa per lui, ricoprendolo di attenzioni e di affetto, adesso che nel suo ventre stava crescendo suo figlio, il simbolo del  loro amore, Tom non avrebbe potuto non amarla.
“Lui mi ama” ripeté di nuovo a se stessa, prima di cacciare via le coperte e alzarsi.
Tom si rigirò nel sonno, ma non si svegliò.
Merope indossò la vestaglia e scese in cucina, per preparare la colazione.
Il filtro, che teneva nascosto in alcune boccette di vetro, scintillò tenue alla luce del sole.
«Lui mi ama» disse di nuovo, ad alta voce questa volta.
Prese le fiale e, una per una, ne rovesciò il contenuto nel lavandino.
«Lui ci ama» disse una volta terminato, accarezzandosi il ventre.

     Nei giorni seguenti, Tom si comportò in modo strano: era insofferente, quasi scontroso, e molto sospettoso.
Occhi imparziali avrebbero detto che l'amore tra i due era finito, che della tenerezza e della premura che facevano di quell'uomo il marito perfetto non era rimasta traccia.
Ma gli occhi di Merope non erano imparziali, al contrario, la ragazza era rimasta vittima del suo stesso incantesimo.
Merope non aveva mai nascosto le sue particolari abilità al marito e lui ne era sempre rimasto affascinato.
Ma ora, quando lei agitava la bacchetta e le fiamme del camino si accendevano, calde e vivaci, non c'era ammirazione sul volto di Tom, bensì disprezzo e disgusto.
Merope non lo vedeva, non voleva vederlo e la dura realtà, la tremenda verità, la colse di sorpresa un mattino, appena una settimana più tardi.
Si svegliò quando il giorno era già iniziato da un pezzo. Aveva dormito profondamente, eppure si sentiva stanchissima. La testa le doleva terribilmente e un senso di angoscia le opprimeva il petto.
Accanto a lei, il letto era freddo.
Sopra il cuscino, scritto nell'elegante calligrafia di Tom, c'era un biglietto.

Non ho più alcuna intenzione di sopportare questa situazione, non posso più vivere con un mostro e non posso fare da padre alla tua creatura che, certamente, sarà ugualmente strana e mostruosa come te.

Addio.

Tre righe.
Qualche misera decina di parole.
Tanto bastò a Merope per sprofondare nella tristezza infinita da cui era risorta solo qualche mese prima.
La bella casa, il paradiso che aveva accolto Merope e il suo sogno impossibile era stata pagata con i soldi di Tom e così e lei fu costretta ad andarsene.
In quel minuscolo paesino, poco fuori Londra, tutti la evitavano adesso.
In realtà, lo facevano anche prima, solo che, ancora una volta, Merope non aveva voluto vedere.
Sola, senza denaro e con una vita che cresceva inesorabile dentro di lei, Merope si trascinò per le strade e i vicoli malsani della grande metropoli inglese.
Qualche volta riusciva a rimediare un pasto nelle mense per i poveri, poche in confronto alle tante bocche affamate della città; altre volte riusciva a rubare un pezzo di pane a un fornaio distratto; spesso digiunava.
L'estate fu sopportabile, ma quando arrivò l'autunno e le giornate presero a farsi sempre più fredde e le notti sempre più lunghe, fu allora che Merope capì che le restava una sola possibilità.
Il medaglione di Salazar Serpeverde, il solo oggetto di valore che avesse mai posseduto, pesava come un macigno appeso al suo collo troppo esile.
Per salvaguardare la vita del suo bambino, prese l'unica decisione possibile, anche se sapeva che suo padre, ovunque fosse in quel momento, l'avrebbe uccisa con le proprie mani piuttosto che permetterle di compiere quel sacrilegio.
Raggiunse Diagon Alley, la via dei maghi, e da lì si incamminò per lo stretto vicolo denominato Nocturn Alley.
Le vetrine sporche e opache di Magie Sinister, la sua destinazione, brillavano come fari accecanti in quella notte di dicembre.
Nevicava forte.
Con mani tremanti, consumata dalla vergogna, ma ancora di più dal freddo e dalla fame, consegnò nella mani ruvide e avide del proprietario, il signor Burke, il prezioso medaglione.
Dieci galeoni le fruttò quel gesto disonorevole.
Dieci galeoni che le permisero di sopravvivere quel tanto che bastava per trascinarsi fino all'Orfanotrofio Wool, dove, stremata, diede alla luce il suo bambino.
«Tom» disse, quando le venne chiesto se voleva dare un nome alla creatura appena nata «Come suo padre, Tom Riddle, che possa essere bello come suo lui» disse, e aggiunse «Marvolo, come mio padre. Tom Marvolo Riddle».
Il volto del suo Tom, del suo unico amore, ammiccò debolmente nella sua mente offuscata, mentre suo figlio, straordinariamente tranquillo, le veniva posto tra le braccia.
«Ricordati che ti amo» sussurrò debolmente, accarezzando il volto perfetto del suo bambino; quindi, con l'animo straziato, ma appagato, mentre le campane della chiesa vicina battevano gli ultimi rintocchi dell'anno, chiuse gli occhi per sempre.










N.A.

Mi sono resa conto solo ora che avevo lasciato questa ff incompiuta e dunque, eccomi qui a completarla XD

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