HOPE

di Monijoy1990
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** UN ULTIMO DESIDERIO ***
Capitolo 2: *** UN ADDIO BAGNATO DAI RIMORSI? ***
Capitolo 3: *** DUE GIORNI PRIMA (PARTE 1) ***
Capitolo 4: *** DUE GIORNI PRIMA (PARTE 2) ***
Capitolo 5: *** UN GIORNO PRIMA ***
Capitolo 6: *** UN NUOVO INIZIO ***
Capitolo 7: *** AMORE O FALSE ILLUSIONI? ***
Capitolo 8: *** UNA POSSIBILITA' PER CAMBIARE ***
Capitolo 9: *** SI VA IN SCENA ***
Capitolo 10: *** L'ARRIVO DELLA TEMPESTA ***
Capitolo 11: *** PER UN SOGNO PERSO DUE SOGNI RITROVATI ***
Capitolo 12: *** RESET ***
Capitolo 13: *** AMORE E MUSICA, UN BINOMIO IMPOSSIBILE? ***
Capitolo 14: *** UNO SCONTRO FRONTALE ***
Capitolo 15: *** UNA COLLABORAZIONE INSOLITA ***
Capitolo 16: *** UNA FATICOSA SALITA ***
Capitolo 17: *** NUOVI INCONTRI ***
Capitolo 18: *** UN'INGIUSTA CONDANNA ***
Capitolo 19: *** BISCOTTI AMARI, AMARI RICORDI ***
Capitolo 20: *** LA FUGA ***
Capitolo 21: *** PER UNO STRANO CASO DEL DESTINO... SCOPRIRSI ***
Capitolo 22: *** SENSAZIONI CHE CAMBIANO ***
Capitolo 23: *** TUTTI PER UNO E UNO PER TUTTI ***
Capitolo 24: *** UN COMPLEANNO A SORPRESA, UN NUOVO INIZIO ***
Capitolo 25: *** COME UN ROBOT ***
Capitolo 26: *** RIVINCITE ***
Capitolo 27: *** CADERE E RIALZARSI O RIALZARSI E CADERE? ***
Capitolo 28: *** COINCIDENZE ***
Capitolo 29: *** RIMPIANTI E RIMORSI ***
Capitolo 30: *** DUE MESI DOPO ***
Capitolo 31: *** UN CINEMA A SORPRESA ***
Capitolo 32: *** COME IL MIELE ***
Capitolo 33: *** INCOMPRENSIONI ***
Capitolo 34: *** LA FESTA DI BENVENUTO ***
Capitolo 35: *** UN DISPERATO TENTATIVO ***
Capitolo 36: *** DIRSELO GUARDANDOSI NEGLI OCCHI ***
Capitolo 37: *** PERDERSI LUNGO IL PERCORSO ***
Capitolo 38: *** UNA RIVELAZIONE SORPRENDERNTE ***
Capitolo 39: *** FINALMENTE LA VERITA' ***
Capitolo 40: *** NULLA È MAI PERSO DAVVERO ***
Capitolo 41: *** SCOPPIA LA BOMBA ***
Capitolo 42: *** L'AMULETO ***



Capitolo 1
*** UN ULTIMO DESIDERIO ***


Questa storia è scritta senza scopo di lucro. I miei personaggi sono ispirati a personalità note nella scena Kpop, ma questa storia non ha nulla a che vedere con la loro vita reale. 
Essi compariranno nel mio racconto alla stregua di figuranti, non mostrandosi mai nelle loro vesti più note ne con i loro nomi specifici,  Quindi, prendo in prestito solo i loro volti e le loro relative personalità sottolineando, ancora una volta, che le vicende narrate non sono mai realmente accadute. Le scene  descritte sono frutto della mia completa immaginazione,. Di  conseguenza, non avendo mai vissuto in prima persona i momenti trattati, preciso che non è mia intenzione offendere, ferire o ledere la sensibilità o la dignità di nessuno. Grazie per l' attenzione, e vi auguro una buona lettura! 


HOPE



 

 CAPITOLO I 

UN ULTIMO DESIDERIO

 
ITALIA: 
 
Mancavano dieci minuti alla fine dell'ultima ora di matematica. Roberto, con il gomito destro sul banco, reggeva annoiato a palmo aperto il suo mento sottile, mentre con la mano sinistra giocherellava con una Bic facendola roteare tra le dita. Disinteressato volgeva il suo sguardo oltre la finestra appena socchiusa della classe. L'aria che leggera penetrava da quella impercettibile fessura smuoveva i suoi capelli neri e lucenti;  era fresca e portava con sé il tipico profumo dei primi boccioli primaverili. Ancora pochi mesi e avrebbe concluso il liceo. Ancora pochi strappi di spensierata gioventù e avrebbe detto addio ai suoi sogni adolescenziali. Un rumore improvviso catturò la sua attenzione. Il professor Falco, un uomo burbero, di corporatura robusta, con una notevole stempiatura ai lati della fronte e dei baffetti sottili che seguivano diligenti il labbro superiore, aveva appena scaraventato il proprio libro di testo sul pavimento. Quel giorno la vittima sacrificale della sua noia e della sua frustrazione da ingegnere mancato era Matteo, il classico ragazzino timido e insicuro, nel costante mirino del bulletto di turno.
Oggi ahimè, era finito anche tra le grinfie del diabolico professore di matematica.
«Ragazzo, non prendiamoci in giro, non hai studiato. Se quest'anno non verrai ammesso agli esami di stato, dovrai incolpare  solo il tuo completo disimpegno. Ora torna al tuo posto», gli ordinò perentorio prima di recuperare il libro dal pavimento. Tornatosi a sedere e riposizionate le lenti sottili e rettangolari sul naso tondo al centro del suo viso paffuto, riprese a scorrere la lista dei nomi sul registro di classe. A vederlo al di fuori di quel contesto sarebbe potuto sembrare anche un tipo abbastanza simpatico o perlomeno alcuni dettagli del suo aspetto trasmettevano questa sensazione, ma tutto era al di fuori di quello.
Il ragazzo dalla rossastra e riccioluta capigliatura, sconfitto e a capo chino, ritornò al suo posto. Una volta seduto si volse verso l’amico con gli occhi a mandorla che sedeva al suo fianco.  Roberto lo rinfrancò con un’amichevole pacca sulla spalla. Nonostante mancassero solo pochi minuti alla fine delle sei ore di tortura scolastica, il professore non sembrava aver alcuna intenzione di interrompere quel massacro. Roberto odiava quella routine scolastica. Ma più di tutti odiava il professor Falco. Il labbro dell’uomo si sollevò in un sogghigno diabolico, aveva finalmente scelto la sua ultima vittima.  Il suo dito era ancora fermo a metà del foglio.
«Alla lavagna Kitam…»
La campanella venne a interromperlo. Tutti sospirarono sollevati correndo a riporre i propri libri nelle loro cartelle. Dopo aver salutato il professore con fare reverenziale, uscirono di corsa da quella stanza di tortura chiamata 5° B.
 
Roberto era sempre l’ultimo. In verità non aveva molta fretta di tornare a casa. Lì ad attenderlo avrebbe trovato le solite ramanzine di suo padre. Inseriti gli ultimi libri nella  cartella, e posizionata la stessa su una delle due spalle sciattamente, si avviò verso l’uscita. Superati  i primi banchi ormai vuoti, passò accanto alla cattedra dove con premura il docente stava riportando gli ultimi dati relativi alla lezione. Due colpi di tosse ben assestati lo costrinsero ad arrestarsi.
 
«Roberto, oggi ti sei salvato per il rotto della cuffia, ma la prossima volta non mi scappi mica» lo ammonì l'uomo paffuto provocandolo. Nei suoi occhi Roberto lesse chiara e limpida una luce bramosa e carica di astio, tipica di chi ha molti conti in sospeso. Lui d'altro canto era un ragazzo intelligente e sveglio, capace di eccellere in tutti i campi. Era primo in tutte le materie. Spesso i professori si divertivano sfidandolo su argomenti anche fuori programma per verificare il suo livello di conoscenze. Fino a quel giorno nessuno era riuscito a metterlo in difficoltà. Con il passare del tempo si era abituato a quelle provocazioni, tanto da non preoccuparsene più. Il labbro si sollevò di lato in un sorriso arrogante e insolente.
«Lo sa, sono sempre pronto. Non è nella mia natura scappare. Chi non mi sembra pronto a un confronto è lei. Cos'ha? Perché aspetta sempre gli ultimi minuti prima della campanella per pronunciare il mio nome? Non mi dica che ha paura di essere umiliato pubblicamente un seconda volta? O forse la verità è che preferisce accanirsi contro chi non ha armi per difendersi, piuttosto che sfidare chi, come me, ha la capacità di tenerle testa?
L’uomo aggrottò la fronte irritato, sciogliendo il sorriso impavido e prepotente ostentato fino a quel momento. Era passata quasi una settimana da quella congelante umiliazione. Non avrebbe potuto rimuoverla dalla sua mente neanche volendolo. Aveva posto a Roberto un quesito matematico di livello universitario, a cui lui stesso aveva dedicato più di un mese e mezzo di tempo. Era sicuro che dopo quello il ragazzo avrebbe ammesso i suoi limiti, ma contro ogni sua previsione Roberto, sullo scadere dell’ultima ora di lezione, posizionò il foglio con la soluzione sulla cattedra, tornando calmo al suo posto. Il professor Falco in ansia, con il sudore che gli scendeva copioso dalla fronte e con le mani che gli tremavano, recuperò quel foglio ritornatogli, dopo neanche mezz'ora, tra le mani. Con sua meraviglia notò che il risultato non era quello giusto. Vittorioso e gonfio di soddisfazione sorrise, sventolando il foglio per aria.
«Come immaginavo non sei ancora pronto per cose di questo tipo. Io stesso ho impiegato un mese e mezzo per risolverlo e tu pensavi davvero di trovare la soluzione esatta solo in 30 minuti?» lo sbeffeggiò eccitato al pensiero di aver messo in difficoltà il giovane Kitamura.
«Credo non abbia notato l’altra faccia del foglio professore» lo corresse il ragazzo sollevando un sopracciglio scettico. L’uomo paffuto si ricompose immediatamente e, rigirato il foglio tra le sue mani tozze, sgranò gli occhi dallo stupore. Non solo la soluzione sul retro era quella esatta, ma anche la traccia del problema era stata riscritta nel modo giusto. Senza accorgersene aveva trascritto un dato errato. Roberto non solo aveva trovato la soluzione, ma era riuscito anche a capire che qualcosa nella traccia non funzionava.  Era stato corretto e umiliato da uno studente appena diciannovenne.
No, non avrebbe potuto rimuovere quella macchia sul suo orgoglio neanche dopo cent’anni.
 
Dopo quel giorno il carattere dell'indispettito professore era nettamente peggiorato. Aveva iniziato a sfogare la sua rabbia repressa sul resto della classe. Per risanare il suo orgoglio ferito da quell'umiliazione si sfogava su chi, come Matteo, non aveva la possibilità di difendersi. 
«Non ti conviene provocarmi ragazzino» completò l’uomo dietro la scrivania calando le lenti rettangoli dagli occhi e chiudendo il registro di classe.
«E lei dovrebbe smetterla di prendersela con i suoi studenti. Adesso se non le dispiace devo andare.»
«Roberto, la professoressa Fanelli mi ha chiesto di passarti questi libri, credo siano per il test di accesso a medicina…» concluse  risentito porgendoglieli con noncuranza. Il ragazzo li recuperò dalle mani del docente.
«Grazie» concluse grave prima di volagli le spalle.
«Dovresti provare con ingegneria, anche se non sono convinto ne saresti all’altezza…» proseguì l’uomo altero.
«Vedremo…» concluse uscendo finalmente dall’aula.
“Sono così stanco. Perché tutti pretendono di decidere per me il mio futuro? Per la Fanelli sarei un bravo medico, per il prof di italiano potrei diventare un ottimo giornalista e adesso ci si mette anche questo pazzo patentato a dirmi che potrei essere  un mediocre ingegnere. Nessuno che mi incoraggi a fare quello che desidero veramente…” pensava muovendosi per i corridoi. Un suono catturò la sua attenzione. Proveniva dall’aula di musica. La porta era aperta. Si affacciò appena, tanto quanto bastava per scoprire chi stesse suonando. Era la professoressa Sforza di musica una donna elegante dai modi raffinati e gentili. Stava accordando gli strumenti musicali. Non che fosse una materia vera e propria nel liceo. Era lì per un laboratorio di musico-terapia. Era l’unica persona che gli ispirasse simpatia in quel liceo fatto di docenti frustrati.
«Roberto sei tu?» chiese voltandosi verso la porta.
«Mi scusi non volevo interromperla», la donna con i capelli grigi cortissimi e il naso con una punta leggermente cascante gli fece segno di entrare.
«Sai che non mi disturbi mai, averti qui è sempre un piacere. Stavo giusto sistemando gli strumenti per la seduta di domani. Spero ci sarai anche tu.» I suoi occhi celesti caddero sui libri che Roberto stringeva tra le braccia.
«Ma cosa dico, sicuramente avrai cose più importanti a cui pensare…» si corresse posizionando la chitarra sul suo apposito sostegno.
«Posso farle una domanda?» le chiese Roberto sedendosi su uno sgabello a meno di un metro dalla donna.
«Certo» lo incoraggiò lei.
«Quando ha capito che la sua strada era quella della musica?», la donna gli sorrise comprensiva.
«Beh, non c’è stato un momento, semplicemente l’ho sempre saputo…»
Con una mano Roberto prese a scompigliarsi i capelli neri esasperato, «io non so cosa fare… vorrei davvero capire quale strada è la più giusta per me…»
«Essere bravi in tutto immagino non aiuti molto… » costatò la donna strizzandogli l'occhio complice.
«Sa, in realtà c’è una strada che seguirei più di molte altre, ma quella è l’unica che nessuno mi incoraggerebbe a perseguire. Mi vorrebbero dottore, medico e perché no anche avvocato ma non…» si interruppe distogliendo lo sguardo angosciato.
«Roberto nessuno ha il diritto di scegliere per te… al contrario tu hai il dovere di impedire che altri scelgano della tua vita» lo consolò poggiando rassicurante le sue mani fini e sottili sulle spalle di lui.
«Anche se il mio sogno è cantare?» le chiese con occhi disperati.
«Anche se il tuo sogno fosse battere il record di numero di salti fatti in un minuto, nessuno dovrebbe mai impedirti di inseguirlo. Nella vita non si dovrebbe mai lasciare nulla d’intentato alle spalle.»
«Non è così semplice…» la donna senza aggiungere altro andò alla sua borsa. Vi trafugò dentro un bel po’ prima di uscirvi un piccolo sacchettino in velluto blu.
Ritornò al suo posto di fronte a Roberto.
«Ho notato che la  professoressa Fanelli ti ha dato i libri per il test di medicina… Io ahimè, non ho testi da darti. Ne voglio importi una direzione, quello che sento di darti è più che altro una bussola che ti aiuterà se ti sentirai perso e smarrito. La strada più giusta da seguire dovrai scegliertela da solo» gli porse il sacchettino.
Roberto lo aprì. All’interno c’era un plettro blu con una scritta dorata: Hope.
«Hope?»
«Significa speranza. Un giorno, una persona mi regalò quell’oggetto sostenendo che mi avrebbe fatto da lanterna nei momenti di smarrimento. Roberto, infondo è tutto lì…»
«Cosa è tutto lì?» chiese scettico il ragazzo con gli occhi sottili, e le labbra rosse e carnose, rigirandosi curioso l’oggetto tra le dita.
«è tutto lì quello che ci serve per realizzare i nostri sogni. Se non demordi e mantieni costante la speranza nulla può diventare impossibile»
«Lei è davvero un diamante grezzo in questa scuola fatta solo di fondi di bottiglia senza valore. In molti mi avrebbero detto che non ho speranze e che il mio sogno è infantile, ribadendomi ancora una volta che con le mie potenzialità potrei fare ben altro. Invece lei non  ha giudicato il mio sogno neanche per un momento. Me lo faccia dire, è sprecata in questa scuola.»
«E tu saresti sprecato come avvocato…» gli sorrise la donna.
«Roberto?» una voce sottile e dolce come il miele lo richiamò dall’uscio della porta.
Lui si voltò verso di essa. Una ragazza alta e slanciata, con dei lunghi e lisci capelli color grano che le incorniciavano un viso tondo e pieno di lentiggini, lo fissava con due occhi verdi vivaci e brillanti.
«Oddio Marika,» sobbalzò come se si fosse appena ricordato qualcosa che non avrebbe mai dovuto dimenticare. «Mi scusi professoressa, devo proprio andare adesso».
«Va pure, spero di vederti domani». Roberto acconsentì sorridente prima di aggiustarsi lo zaino sulla spalla e correre verso l’amica salutando la professoressa con una mano «a domani Prof e grazie ancora».
La donna vide i due ragazzi allontanarsi insieme.
Sospirò prima di ritornare ad accordare gli strumenti nell’aula.
“Eichi, mi ucciderà.” pensò mentre sfiorava la cassa armonica della sua chitarra. Erano stati colleghi al conservatorio per quasi sei anni, lei lo conosceva molto bene. Vedeva molto di lui nel figlio.  “Come può essere così ceco da non accorgersi che tutto quello che vuole Roberto è una sua parola d’incoraggiamento?”
 
 
I ragazzi erano finalmente fuori dalle mura scolastiche.
«Quante volte devo ripetertelo che mi dispiace?» tentò esasperato Roberto.
«fino a quando la mia rabbia non sarà nutrita e saziata come si deve presumo» concluse Marika incrociando le braccia all’altezza dello stomaco.
«Ho capito. Mi perdoni se ti faccio un regalo speciale oggi?»
Le orecchie piccole della ragazza si fecero attente e curiose.
«Di che regalo si tratta?» gli chiese con un viso interessato anche se ancora largamente offeso.
«prendi questo e andiamo», le porse un casco blu notte.
«sappi che dovrai stupirmi davvero. È la seconda volta che mi fai aspettare fuori dalla tua classe per più di mezz’ora come una scema…» ribadì posizionando il casco sulla testa e prendendo posto sulla moto blu di Roberto. Night dopo anni non aveva ancora perso il suo splendore e la sua affidabilità. Era stato il regalo di suo padre per i  diciotto anni del figlio.
«Vedrai, questa volta ti stupirò davvero» concluse prima di mettere in moto e partire in accelerata, sfrecciando tra i ragazzi ancora  all’uscita in attesa dei  mezzi pubblici.  
Marika e Roberto erano amici sin da quando erano piccoli. Nella scuola erano i ragazzi più popolari. Roberto lo era sia per il suo bell'aspetto sia per la sua intelligenza fuori dal normale, Marika invece oltre che per la sua indiscussa bellezza, era nota come la figlia di una delle più note stiliste del paese. Nonostante questo, i due conducevano la loro vita modestamente, cercando di passere il più  inosservato possibile. Entrambi erano considerati le prede più succulente di tutto l’istituto. Marika riceveva ogni giorno dalle dieci alle quindici dichiarazioni d’amore, mentre Roberto era costretto ad aspettare che la maggior parte delle ragazzine prendessero i propri mezzo di trasporto per uscire senza rischiare un assalto di massa. 
Erano finalmente arrivati. Il grande centro commerciale si ergeva maestoso e scintillante davanti ai loro occhi.
«cosa facciamo qui?» le chiese Marika preoccupata, assalita dal terrore di incontrare i suoi genitori. Si era inventata una scusa per non tornare a casa per pranzo. Quel giorno era speciale. Avrebbe dichiarato i suoi veri sentimenti a Roberto.
«Devo recuperare una cosa dai miei nonni e dopo avrai il tuo regalo» detto questo prese l’amica per mano trascinandola all’interno del magazzino di famiglia.
Superate le scale mobili, rintracciarono il negozio che gli interessava.
Alla cassa una ragazza dagli occhi verdi e i capelli corti a caschetto aveva appena finito di servire due ragazzi.
«Grazie di aver scelto Acustica ½ . Per qualsiasi problema tornate pure da noi» disse sorridendo ai due ragazzi che ricambiarono la cortesia congedandosi da lei con in mano due belle chitarre elettriche. I due passarono accanto a Roberto e Marika che erano appena giunti di fronte il negozio.
«Certo che ci torno, ma l’hai vista che sventola. Le asiatiche sono ragazze facili. Vedrai che la prossima volta la convinco ad uscire e me la faccio». Roberto non riuscì a contenersi. Prese quello dei due che aveva appena rivolto quelle parole offensive nei confronti di sua sorella e lo sollevò prendendolo dal collo della maglietta.
«Non osare avvicinarti a questo negozio una seconda volta. Non abbiamo bisogno dei soldi di gente squallida e ignorante come te. Mi hai sentito?»
«Ehi, cinesino cosa cazzo ti prende? Vedi di farti un giro mi hai capito?»
«Non sono cinese…» completò grave prima di mollare un cazzotto dritto nello stomaco del ragazzo.
Lo stesso, dopo il colpo, si strinse sul pavimento dolorante mentre l’altro, adagiata la chitarra  appena acquistata sul pavimento, caricò contro Roberto un cazzotto che si bloccò a mezz’aria. Clara con un tempismo impeccabile, corse immediatamente intromettendosi tra i due.
«Ti prego fermati! Mi dispiace per quello che è successo al tuo amico. Deve esserci stato un malinteso» lo implorò supplichevole nascondendo dietro il suo corpo piccolo e minuto quello più alto e virtuoso di suo fratello in una mossa difensiva disperata.
«Vi prego accettate le mie più sentite scuse. Mio fratello deve aver frainteso. Prendete pure queste custodie. Sono un omaggio.» disse porgendole a quello dei due ancora in piedi. Dopo aver fissato indignato, per un tempo indefinito, i due ragazzi ancora indeciso sul da farsi, aiutò l’amico a sollevarsi.
«Andiamo» completò alla fine prendendo la sua chitarra dal pavimento. Recuperate le custodie in malo modo dalle mani della ragazza si allontanarono senza aggiungere altro. Una volta che i due furono lontani Clara non si risparmiò.
«Ma sei un cretino o cosa?» rimproverò suo fratello mollandogli uno scappellotto dietro la nuca e tornando verso il negozio.
Roberto e Marika la seguivano.
«Guarda che l’ho fatto per difenderti, quei due avevano appena detto che tu…» provò a giustificarsi una volta ritornati dentro il negozio.
«Non importa cosa hanno detto. Sono nostri clienti e tu non dovevi assolutamente agire in quel modo. Lo sai che gli affari qui vanno male e tu che fai? Ti metti addirittura a picchiare gli unici clienti ancora fedeli che abbiamo?»
«quelli non sono fedeli al negozio… sono fedeli ad altro…»
«Non importa quale sia l’oggetto della loro fedeltà, ciò che conta è che ritornino da noi…»
«Ma è mai possibile che voi due litighiate sempre?» uscì dal retrobottega Salvatore.
«Nonno aspetta, ti do una mano» si propose Clara correndo in suo soccorso.
«Grazie» l’uomo lasciò tra le mani della nipote una pila di spartiti nuovi di zecca.
«Tu piuttosto» disse a suo fratello «invece di scatenare delle risse inutili dovresti impegnarti nello studio. Anche tu nonno, mi avevi promesso che saresti rimasto fermo e buono. Sai che non devi affaticarti. Cosa devo fare con voi due?» sospirò prima di tornare al bancone.
«Lo sai che non riesco proprio a star fermo…» completò rammaricato Salvatore, ammiccando subito dopo al secondo dei suoi pronipoti divertito. Roberto gli sorrise complice.
«Piuttosto Roby, cosa sei venuto a fare qui?» chiese la ragazza con gli occhi sottili color smeraldo a suo fratello. Roberto stava per rispondere, ma suo nonno lo anticipò.
«Clara ti dispiacerebbe andare a comprarmi quelle caramelle che mi fanno tanto bene alla gola?» tossì cercando di convincerla di essere afflitto da un mal di gola in realtà inesistente. Clara squadrò entrambi con occhi sottili come fessure. Sapeva che stavano tramando qualcosa. Rassegnata prese i soldi dalla cassa e uscì.
«Dov’è nonno?» chiese Roberto a suo nonno avvicinandosi con fare circospetto.
«È arrivata proprio stamattina. L’ho nascosta nel retrobottega proprio pochi minuti fa, và pure a prenderla è in una custodia blu. Non puoi sbagliare»
«Grazie nonno» Roberto si allontanò sotto lo sguardo vigile dell’anziana figura barbuta ferma sull’uscio. Doveva controllare che sua pronipote non arrivasse proprio nel momento sbagliato.
Salvatore era l’unico vero sostenitore del talento musicale di Roberto. Credeva molto nel potenziale del pronipote. Nonostante gli avvertimenti di tutti, continuava a sostenere le sue capacità. Anche se per molti rappresentavano solo un perditempo  lui era convinto che le sue doti fossero tutto tranne che un inutile passatempo. Roberto avrebbe fatto grandi cose con il suo talento. Di questo era più che sicuro. Il resto della famiglia era all'oscuro del loro accordo. Di nascosto gli aveva impartito sin da piccolo quelle lezioni di chitarra che ahimè non aveva potuto dare a Eichi. Aveva avuto la sua rivincita se non come nonno perlomeno come bisnonno se non altro. Ancora non riusciva a capire perché Eichi non incoraggiasse Roberto. Proprio lui si era rifiutato di insegnargli a suonare scegliendo per lui la strada dello studio. Con le sue capacità in molti avevano già scelto per lui la strada migliore e più sicura, capace di garantirgli un futuro stabile e sicuro. Medico, avvocato, ingegnere e giornalista per loro avrebbe potuto fare di tutto ma non di certo quello che amava al di sopra di ogni altra cosa, e solo perché farlo avrebbe significato sprecare la sua intelligenza. Che sciocchezza.
Così in incognito sosteneva  quella passione che altri  al contrario avevano provato a reprime in tutti i modi. Per questo il loro rapporto era carico e ricco di complicità.
Dopo una decina di minuti Roberto emerse dal retrobottega con una custodia blu tra le mani.
«Ora ti conviene scappare prima che la veda tua sorella…» lo incitò l’uomo con una barba candida e morbida come un batuffolo di ovatta.
«Grazie ancora nonno».
«Andate, su» lo incitò con una certa fretta. I ragazzi lo salutarono frettolosamente prima di uscire tenendosi per mano imboccando rapidi le scale mobili.
«Nonno, lo hai fatto di nuovo…» lo rimproverò Clara arrivandogli alle spalle improvvisamente.
«Clara non dire nulla ai tuoi. Se lo sapessero sicuramente gliela sequestrerebbero»
«Siete proprio due testoni voi due» sospirò porgendo la scatola delle caramelle al miele a suo nonno.
Clara era un anno più grande di suo fratello e appena finita la scuola aveva scelto di lavorare al negozio dei nonni rinunciando al suo sogno di diventare una scrittrice. Non aveva rimpianti, alla fine aiutare Salvatore al negozio non le dispiaceva, stare con il suo bisnonno era la parte più piacevole nel suo lavoro. Dopo la morte della bisnonna avevano passato un brutto periodo. Forse anche per questo aveva deciso di andare lì. Per non farlo sentire solo.
Lavorando al negozio era giunta a conoscenza delle lezioni segrete che lui impartiva da anni a Roberto. Seppure in quei momenti fosse felice di vedere il sorriso emergere sul volto anziano e stanco del suo bisnonno, dall’altro non voleva che suo fratello si facesse cullare da un sogno inconcreto come quello di diventare un cantante. Non poteva lasciare che sprecasse le sue capacità per inseguire una meta irraggiungibile come quella. Aveva un’intelligenza straordinaria e con quella avrebbe potuto fare di tutto e invece continuava a insistere con il voler diventare un cantante.  Non poteva lasciare che anche lui finisse a fare un lavoro poco gratificante come lei. Era fermamente convinta che suo fratello potesse ambire a qualcosa di più. Per questo non poteva assolutamente sostenerlo come faceva Salvatore.
«Clara promettimi una cosa» le chiese lo stesso avvicinandosi al bancone dove diligentemente la ragazza riordinava gli spartiti.
«dimmi nonno» lo spronò lei trafugando tra i fogli carichi di note e pentagrammi.
«promettimi che sosterrai in ogni momento tuo fratello, qualsiasi cosa sceglierà di fare nella vita», Clara si interruppe con i fogli tra le mani ancora sospese a mezz’aria.
«Nonno non puoi chiedermi questo. Sai come la penso. Dovreste guardare in faccia la realtà. Che futuro avrebbe come cantante?»
«Ti prego Clara, quando non ci sarò più Roberto non avrà più nessuno che lo sosterrà e allora so che crollerà…»
«tanto meglio allora. Sarà la volta buona che si renderà conto che è quasi un uomo e che dovrebbe iniziare a prendere più seriamente il proprio futuro.»
«Clara ti prego non dire così. Dov’è finita quella ragazzina che si perdeva nei racconti fantastici che scriveva? Dov’è finita quella bambina che credeva nel lieto fine e nei sogni? Lascia che tuo fratello scriva da solo la sua storia, che scelga egli stesso il proprio finale.»
Salvatore sapeva proprio dove colpirla per farle più male. Clara abbassò lo sguardo sconfitta.
«Così non vale nonno…»
«Lo so che nel profondo hai dovuto rinunciare ai tuoi sogni per colpa di un povero vecchio come me…»
«ma…»
«non cercare di proteggermi con scuse inutili so che è cosi. Non posso permettere che anche tuo fratello paghi un prezzo così alto» la interruppe bruscamente.
Una lacrima si staccò lenta dal viso di Clara cadendo sullo spartito ancora fermo sul bancone.
«Nonno… io… », l’uomo le accarezzò dolcemente la testa stringendola poi tra le sue braccia deboli.
«Povera la mia bambina, ti sto chiedendo così tanto, lo so. È proprio vero che con la vecchiaia si diventa più egoisti.» le carezzò comprensivo la schiena.
«Cosa vuoi che faccia?» completò ormai senza più speranza di sfuggire da quella supplica disperata.
«Aiutami a salvare almeno tuo fratello… Fallo come l’ultimo desiderio di un uomo ormai giunto al traguardo della sua vita»,
«Nonno non dire così, hai ancora del tempo…»
«Clara, non ho paura della morte. Se mi prometti che starai accanto a tuo fratello e che lo sosterrai sempre allora sarò più sollevato quando la morte mi accoglierà tra le sue braccia».
«Se è solo questo quello che mi chiedi allora lo farò, puoi contare sui di me» lo rassicurò asciugandosi le lacrime prima di allontanarsi da lui. Salvatore la squadrò fiero e orgoglioso. Una lacrima stava per scendere anche dai suoi occhi ma la trattenne rivolgendo la sua attenzione altrove.
«Ma tu guarda che ora si è fatta. Se i miei occhi non mi tradiscono sono quasi le due e mezza.» Clara diede un’occhiata anche lei all’orologio vicino la cassa.
«Corri a casa. Tuo padre sarà già arrivato da un pezzo».
«Ma devo chiudere ancora la cassa e sistemare gli spartiti.»
«Non preoccuparti per quello, ci penserò io. È il minimo che posso fare» la rassicurò amorevolmente.
«Sicuro di farcela da solo?»
«Certo, devo solo girare una chiave. Cosa vuoi che ci sia di complicato?»
«Va bene. Tornerò tra due ore. Ci vediamo più tardi nonno.»
«Certo, adesso và…» la incitò sventolando la mano nell’aria. Lei gli sorrise e dopo averlo abbracciato un'altra volta, prese la sua borsa e corse verso le scale mobili.
 
Salvatore vide sua nipote allontanarsi di gran fretta. Era davvero fiero di lei. Chiuse la cassa come faceva ormai da quasi cinquant’anni e dopo uscì fuori chiudendo la porta del negozio. La sua mano tremante si mosse lentamente verso la serratura, era ormai livida e piena di rughe.  Una fitta al torace seguita da un mancamento d’aria improvviso e tutto divenne buio all'istante. Salvatore cadde al suolo con le chiavi ancora strette nella mano destra. Il tempo era stato propizio e la morte generosa. Entrambi gli avevano concesso un ultimo e prezioso desiderio.  




 

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Capitolo 2
*** UN ADDIO BAGNATO DAI RIMORSI? ***


CAPITOLO 2

Un addio bagnato dai rimorsi?

































Roberto e Marika erano seduti sotto la grande quercia che con la sua maestosa chioma li proteggeva dai caldi raggi solari. Quel giorno Roberto aveva promesso all’amica un regalo speciale e di certo non si sarebbe tirato indietro proprio in quel momento. Nel giorno del suo diciannovesimo compleanno le avrebbe regalato la sua prima confessione d'amore. 
«Beh, dov'è il mio regalo?» chiese lei impaziente spostandosi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio. Roberto le sorrise divertito tirando fuori dalla custodia blu la sua chitarra nuova di zecca. Poggiato al fusto di quell'albero secolare, iniziò ad accordarla con cura. Dopo aver terminato quell'inevitabile operazione, prese il plettro blu dalla tasca dei suoi jeans e iniziò a suonare.
Una melodia nostalgica, ma allo stesso tempo straordinariamente coinvolgente, li avvolse. Era come un lamento flebile e leggero, simile a una supplica silenziosa capace di giungere senza scorciatoie dritta all'anima. C'era così tanta sofferenza e amarezza in quella musica, che avrebbe toccato anche il cuore più avverso. Non vi era traccia di quella tristezza che distrugge, ma al contrario era piena di quella che risana e consola. La stessa che proprio quando le cose vanno male, ci aiuta a lottare e a non abbandonare il campo di battaglia. Il cuore di Marika si riempì di quel dolore così profondamente da non poter impedire che lo stesso straripasse dai suoi occhi. Roberto s'interruppe immediatamente, avvicinandosi all'amica.«Tutto bene?» le chiese in apprensione trascinandole via con una carezza leggera le lacrime dal viso teso e preoccupato.
Marika ammutolita continuava a fissarlo, impreparata ad accogliere quel gesto inatteso. Era la prima volta che Roberto suonava davanti a qualcuno che non fosse Salvatore. Il fatto che avesse deciso di esibirsi per la prima volta proprio davanti a lei doveva rappresentare molto per lui. Nel profondo, Marika sapeva il perché di quel gesto. Il suo migliore amico, nonché l'unico ragazzo che avesse amato fino a quel momento, voleva lasciarle un ricordo speciale prima di sparire dalla sua vita. Seppure fosse onorata di essere la sua prima spettatrice, dall'altro quel dono portava con sé anche l'amarezza di un addio inevitabile. Quanto tempo restava ancora? Due, tre, forse, nella migliore delle ipotesi, quattro mesi, poi avrebbe dovuto dirgli addio a testa alta senza piangere, senza cedere. Avrebbe dovuto rinunciare a lui perché lui potesse realizzare il suo sogno. Un giorno entrata nella sua camera aveva scoperto quel dannato passaporto sotto il suo cuscino. Da quel momento, ogni notte, non aveva chiuso occhio ripensando al momento in cui Roberto lo avrebbe usato per andare via da lei. Seppure non le avesse confermato nulla, era sicura che sarebbe partito dopo il diploma.
Guardarlo negli occhi ogni giorno, conoscendo quella disarmante verità  e non avere la possibilità di fermarlo era davvero straziante. Fingere di non saperne nulla era la parte più difficile.
Quella mano che adesso le asciugava dolcemente il viso non sarebbe più stata lì per lei. Più avvertiva la preoccupazione dietro quel gesto e più quel contatto le diventava insopportabile. Distolse lo sguardo nella speranza che lui non vi leggesse alcuna debolezza. Non era abituata a piangere, aveva un carattere forte e sicuro. Quei momenti di fragilità  non erano da lei. Ma al contrario dei suoi gli occhi di Roberto non cedettero neanche per un secondo, ma continuarono a fissarla senza perderla di vista.
Nel silenzio dei loro pensieri, entrambi erano consapevoli che momenti come quello non sarebbero durati ancora per molto.
Roberto non riuscì a frenarsi oltre. Non poteva sopportare di vederla piangere per colpa sua. Quell'addio imminente era davvero troppo doloroso per entrambi. La tirò a sè disperatamente come si fa con un sogno a cui non si vuole rinunciare.
La loro immagine non era altro che questo, un bellissimo sogno destinato a scomparire con le prime luci del mattino. Per quanto avesse lottato cercando di trovare il modo di vivere tra quel sogno e la realtà , il momento di aprire gli occhi era arrivato. Se voleva realizzare il suo sogno avrebbe dovuto rinunciare a Marika. Tutto ha un prezzo e il suo sarebbe stato quell'amore. Ma prima le avrebbe confessato i suoi sentimenti.
«Roberto...» gli sussurrò lei con una voce sommessa e insicura provando ad allontanarsi. Roberto però la trattenne ancora tra le sue braccia, questa volta con più forza. Non voleva rinunciare a quei momenti, al profumo della sua pelle candida, al dolce aroma di vaniglia dei suoi capelli colore del grano e ai suoi occhi profondi e fieri. Marika sarebbe stata l'unico amaro rimpianto che avrebbe portato con sé in Giappone. Dopo averci pensato per mesi, aveva preso la sua decisione. Sarebbe andato a vivere a Tokyo da suo nonno paterno. L'atmosfera che si respirava in casa sua era diventata troppo opprimente e lui era stanco di lottare contro le continue imposizioni di suo padre.
In passato aveva spesso preso in considerazione l'ipotesi di partire per il Giappone, ma la stessa, fino a quel momento, era rimasta solo una possibilità remota chiusa e sigillata in un cassetto. Adesso invece, che la situazione era degenerata, quell'ipotesi era divenuta la sua unica via di salvezza. Ciononostante l'idea di dover dire addio per sempre a Marika era davvero troppo dolorosa. Forse anche per questo non aveva trovato  il coraggio di confessarle le sue intenzioni. Con la tristezza nel cuore era arrivato alla conclusione che se voleva realizzare i suoi sogni non gli restava altra scelta che andare via di casa. Dolcemente l'allontanò esaminandola una seconda volta intensamente, cercando di trarre da quel momento tutte le forze necessarie per essere sincero con lei.
Era arrivato il momento di tirar fuori quella verità che per anni aveva taciuto per paura di ledere la loro amicizia.
«Marika devo confessati una cosa. Ho deciso di partire per il Giappone. Non nell'immediato, ma subito dopo gli esami. Non credere sia una decisione operata con leggerezza, in realtà  mi sono torturato giorno e notte prima di decidere. Alla fine sono arrivato alla conclusione che non c'è futuro per me in questo paese. Oggi ho voluto suonare per l'unica ragazza che non vorrei mai deludere. L'unica a cui tengo veramente. Se dobbiamo vivere al meglio questi ultimi mesi che ci restano prima della mia partenza, devo confessarti tutto quello sento, o almeno devo farlo prima che il nostro tempo finisca e prima che mi venga a mancare il coraggio di farlo. Non voglio andare via pentendomi di aver taciuto come un codardo».
Alla ragazza venne a mancare il respiro mentre gli occhi si spalancavano per quella dichiarazione improvvisa.
“Che anche Roberto provi i miei stessi sentimenti?" pensava la ragazza con le lentiggini incredula stringendo una mano all'altezza del petto. Era arrivato finalmente quel momento. Ma era davvero pronta a trasformare la loro amicizia in qualcosa di più? Era preparata a gestire l'idea che la loro storia non sarebbe potuta durare per sempre? Era tutto troppo surreale, troppo improvviso, non aveva avuto neanche il tempo per razionalizzarlo. Gli occhi sottili di Roberto che la guardavano in modo dolce e premuroso e le sue labbra morbide che pronunciavano quelle parole con un filo d'incertezza, erano tutto quello che aveva sempre desiderato. Possibile che fosse la realtà? Stava davvero succedendo o era solo il frutto di un'allucinazione?
No, non poteva esserlo, percepiva troppo chiaramente l'erba sotto le sue mani, la leggera brezza sulla sua pelle e il battito incessante del suo cuore.
Entrambi erano consapevoli, che finite le scuole superiori, le loro vite si sarebbero inevitabilmente mosse su binari differenti. Lui sarebbe partito per il Giappone mentre lei sarebbe volata a Parigi verso l'atelier della One-Million: la casa di moda nata dal duro lavoro di sua madre. 
Ora che la fine era arrivata, entrambi si rendevano conto di quanto tempo avessero sprecato rimanendo amici, quando avrebbero potuto sfruttarlo meglio amandosi come avrebbero sempre voluto fare. Il coraggio, ecco cosa era mancato loro. La paura di rovinare tutto li aveva portati a rinunciare a tanto tempo prezioso. 
Roberto prese tra le sue le mani dell'amica. I suoi occhi non mostravano incertezze, arrivato a quel punto non poteva più permettersele.«Marika, io...»
Una musichetta davvero fuori luogo echeggiò in quell'ambiente idilliaco, incolume dalla fremente rivoluzione tecnologica che imperava nel resto del mondo. 
Era il suo cellulare. Roberto lo tirò fuori dalla tasca dei pantaloni. Guardò lo schermo e intravide il nome di sua sorella lampeggiare insistentemente. "Come al solito Clara ha un tempismo a dir poco perfetto". Seccato, rispose.
«Cos'è successo adesso? Guarda che avevo già  avvertito papà  che non sarei tornato per pranzo.» Dall'altra parte del ricevitore telefonico la voce incrinata della sorella non riusciva a completare le parole. Sembrava stesse piangendo in preda a uno strano attacco d'ansia. Qualcosa la stava agitando. Ma cosa?
«Clara, calmati. Se mi parli balbettando non ci capisco nulla» provò a ravvederla, senza risultato.
Marika osservava silenziosa le espressioni sul viso di Roberto cambiare a tempo di record. Confusione, disorientamento, ansia e preoccupazione. Provò a decifrarle  singolarmente, nella speranza di capire cosa stesse succedendo, ma ovviamente non ci riuscì. Fu solo quando vide le lacrime scendere dagli occhi vitrei di Roberto e il suo avambraccio, sollevato con il telefonino stretto nella mano, cedergli inerme verso il basso, che razionalizzò quanto grave fosse la situazione.

Il funerale si tenne il giorno seguente. Non ci furono band rock o metal ad accompagnare l'uscita di scena di Salvatore. Cosa che sicuramente l'ex musicista avrebbe gradito molto. A riecheggiare al contrario, in quella chiesa romanica semivuota, fu solo il suono deprimente di un organo impolverato. Roberto e Clara che normalmente non facevano che prendersi per capelli, quel giorno si tennero saldamente per mano come facevano quando erano piccoli. Salvatore era stato una figura molto importante sia per Clara sia per Roberto. Tra le continue mostre di Mary all'estero, il lavoro impegnativo di Eichi, i frequenti viaggi di Luigi per il Giappone e gli zii Andrea e Yuki lontani da loro, non erano rimasti che i bisnonni a tenere loro compagnia. Erano cresciuti con loro e adesso che la morte li aveva strappati via dalle loro vite, non restava che quella ferita e quel vuoto tremendo e incolmabile a ricordare loro quanto importanti fossero stati.
Eichi seduto a testa alta tratteneva le lacrime con dignità . Accanto a lui una sedia vuota. Sua moglie era fuori per una mostra. Li avrebbe raggiunti solo verso sera. Aveva provato a cercare un volo disponibile per quella mattina, in modo da raggiungerli in tempo per il funerale, ma non ne aveva trovato nemmeno uno che da Parigi la conducesse in Italia in tempo utile.
Dopo le inevitabili formalità  del momento, la famiglia ritornò a casa più vuota e triste che mai. Eichi aveva il viso ormai non più giovane e pieno di vita, distrutto dal dolore. Accanto a lui Clara gli stringeva saldamente una mano, sperando di poterlo confortare se non con le parole, perlomeno con quel contatto amorevole. Allo stesso modo Roberto se ne stava zitto e taciturno occupando la terza sedia intorno a quel tavolo nella cucina, dove i tre avevano preso posto in silenzio senza dirsi neanche una parola. Un rumore di chiavi nella serratura e la porta principale di Villa Rosa si aprì. Mary entrò trascinandosi dietro un'enorme valigia. Lentamente si mosse verso suo marito, che granitico la osservava avanzare nella sua direzione.
Non ci fu bisogno di parole. Mary abbandonò il suo bagaglio a mano sul pavimento e abbracciò suo marito cercando di trasmettergli tutto il suo affetto. Lo stesso ricambiò.  Proprio in quel momento Roberto scattò in piedi trascinando rumorosamente la sedia sul pavimento. Era chiaro che volesse attirare l'attenzione su di sé. I tre si voltarono sorpresi nella sua direzione.
«Non è possibile che, neanche in momenti come questo, la nostra famiglia riesca a stare unita» disse iracondo rivolgendosi a sua madre, che a meno di un metro di distanza, lo fissava con occhi colpevoli.
«Ho provato a venire prima Roberto, ma non mi è stato possibile»tentò di giustificarsi lei, muovendo un passo nella sua direzione.
«Non avvicinarti!» le ordinò il ragazzo, fissandola con rimprovero.
Poi spostando i suoi occhi neri e profondi, carichi di risentimento, verso ognuno dei presenti, riprese il suo discorso.
«Ditemi, cosa siamo noi? Per caso credete che l'assenteismo sia una componente giustificabile in una famiglia?».
«Roberto adesso finiscila, non è giusto che sfoghi il tuo dolore su di noi» lo rimproverò Eichi ancora seduto tra sua figlia e sua moglie.
«Proprio tu parli di giustizia? Nessuno qui dentro si è preoccupato per me come ha invece fatto il bisnonno. Nessuno! La vera ingiustizia è che lui se ne sia andato mentre persone come te sono ancora qui...» Eichi non poté reggere oltre quell'affronto. Si sollevò furibondo dalla sedia avvicinandosi minaccioso verso suo figlio. Mary provò a trattenerlo per un braccio, ma lo stesso si divincolò dalla sua stretta allontanandola violentemente. Arrivato di fronte a suo figlio, gli mollò uno schiaffo così forte da fargli ruotare la testa di novanta gradi. Roberto non si scompose e rimase fermo a sfidare con occhi sottili come fessure e privi di rimorso, quelli furibondi e irritati di suo padre.
«Dici che solo lui si è preoccupato per te, e noi invece cosa credi abbiamo fatto per tutti questi anni? Abbiamo lavorato sodo per garantirvi un'istruzione adeguata, per assicurarvi un futuro stabile. La verità è che il tuo bisnonno ti ha riempito la testa d'inutili sciocchezze. Noi invece ti abbiamo sempre incoraggiato a sfruttare al meglio le tue capacità. E alla fine di tutti questi sacrifici, cosa abbiamo ottenuto? Un figlio insolente e maleducato. Sei convinto che io e tua madre non ci siamo mai preoccupati abbastanza di te, e questo solo perché non ti abbiamo incoraggiato a buttare al vento la tua intelligenza per inseguire un sogno senza speranza? Solo perché vogliamo il meglio per te ci etichetti come cattivi genitori. Se questo è ciò che pensi di noi, allora butta pure al vento la tua vita. A me non interessa più nulla». Eichi fece dietrofront, tornando da sua moglie. Roberto strinse i pugni, per contenere la rabbia.
«Come se ti sia mai importato davvero di quello che voglio. Tu non hai mai provato a capirmi. Neanche una volta mi hai chiesto cosa volessi fare davvero. Mi hai solo imposto tante strade tutte uguali eppure tutte così diverse da quelle che avrei voluto. Neanche una volta mi hai lasciato decidere della mia vita. Solo perché la musica non ti ha dato le soddisfazioni che avresti voluto, non vuol dire che la stessa non possa essere più generosa con me. Seguirò la mia strada e nessuno di voi potrà impedirmelo» completò Roberto uscendo di scena raggiungendo la sua stanza e chiudendosi la porta alle spalle.
Clara silenziosamente, abbandonò i due genitori distrutti e amareggiati nella cucina e corse da suo fratello. Litigi come quello ce ne erano stati spesso in casa loro, ma mai suo padre era arrivato ad alzare le mani contro Roberto. Questa volta suo fratello aveva esagerato. Non importava quanto stesse soffrendo, non aveva il diritto di giudicare i suoi genitori in quel modo.
Bussò un paio di volte, giusto per informare il fratello della sua entrata, poi aprì la porta. Roberto aveva una valigia aperta sul letto.
«Che cosa stai facendo?» gli chiese stupita.
«Non lo vedi da sola? Preparo la valigia...» le spiegò sintetico tirando fuori dall'armadio un paio di camicie.
«E dove vorresti andare?» le chiese lei preoccupata seguendo i movimenti veloci del fratello che, senza degnarla neanche di uno sguardo, si muoveva rapido da un armadio all'altro.
«Ovunque tranne che qui» completò gettando una maglietta in malo modo nella valigia.
«Non puoi farlo...» tentò disperata Clara frapponendosi tra suo fratello e la valigia aperta sul suo letto. Roberto la squadrò irritato. «Certo che posso e lo farò. Se sono rimasto fino a questo momento è stato solo per il bisnonno, ma adesso non ho più alcun motivo per rimanere» le spiegò infine spingendola di lato con la mano ancora libera.
“Clara calmati, starà  sicuramente bleffando. Non può andarsene veramente”. Provò ad autoconvincersi.
Era stato tutto troppo veloce, troppo imprevedibile. E così alla fine, dopo neanche ventiquattro ore, avrebbe visto un’altra persona importante nella sua vita voltarle le spalle e andare via. Avrebbe dovuto pronunciare la parola “addio” ancora una volta quel giorno. Strinse i pugni e trattenne le lacrime. Roberto, chiuse la valigia e poi si voltò verso sua sorella. Se andava via era anche perché rimanendo avrebbe fatto soffrire troppe persone. Prima fra tutte sua sorella, che non centrava assolutamente nulla e che suo malgrado si ritrovava a fare da mediatrice tra i loro continui litigi con suo padre. Non avrebbe potuto permettere che la prossima persona a pagare a causa del suo pessimo carattere fosse lei.
«Clara, cerca di capire. Se continuassi a rimanere qui, so che finirei con lo sfogare la mia frustrazione su di voi e forse, più di tutti, su di te. Hai visto cos'è successo poco fa. Continuando a rimanere bloccato tra queste mura soffocanti finirei con lo trascinare anche voi nella mia autodistruzione. E non voglio che accada. Anche per questo devo andare via. Devo farlo per il nonno, in modo che le sue speranze e i suoi sogni per me non vadano sprecati. Glielo devo. Voglio che anche da lassù possa essere fiero di me. Se restassi qui, so che finirei con l’arrendermi e non voglio che accada. Devo lottare perché tutto quello che mi ha dato in questi anni non vada sprecato» provò a convincere sua sorella mostrandole un viso carico di rammarico che la supplicava comprensione 
«Roby non fare cosi. Cerca di ragionare, non hai soldi e non sai dove andare. In più devi finire il liceo…»
«Del liceo non mi importa più nulla…»
«Ma cosa dici? Se lo stai facendo per dispetto a papà, sappi che l’unico a cui farai del male è te stesso».
«Non è per lui, ma proprio per me che lo sto facendo»
«Roby, non devi avercela con lui. Papà vuole per te, anzi per noi, un futuro migliore. Lui non vuole che questo. Ed io sono d'accordo con lui, non devi buttare al vento le tue capacità. Hai la fortuna di avere un futuro brillante davanti. I tuoi voti sono sopra la media, forse tra più alti della tua scuola. Se solo volessi potresti diventare un medico o un avvocato. Potresti vivere una vita soddisfacente senza problemi. Papà desidera per te, solo un futuro diverso dal suo...» 
Roberto voltando le spalle a Clara chiuse la valigia.
«Diverso non vuol dire necessariamente migliore. Di avvocati, medici chirurghi il mondo è pieno, ma di persone capaci di toccare il cuore della gente senza bisogno di un bisturi tra le mani, ne è davvero povera. Io voglio essere una persona capace di raggiungere il cuore della gente grazie alla mia musica. Perché non riesce ad avere fiducia in me? Cosa c'’è di così sbagliato nel sognare di poter fare la differenza tra tanti?». Clara, sapeva cosa provava suo fratello. Cosa significasse voler saziare quella fame di realizzazione che ti divora dentro. Conosceva bene quel desiderio impulsivo di seguire le proprie passioni. Le stesse a cui lei aveva rinunciato un anno prima.
Lentamente si mise una mano nella tasca posteriore dei suoi jeans.
«So, che tentare di convincerti sarebbe comunque inutile in ogni caso. Se non posso spingerti a cambiare idea allora non mi resta altra scelta che aiutarti.».
Roberto si voltò verso la sorella squadrandola stupefatto.
Clara gli prese la mano girandola in modo che il palmo si bagnasse della luce giallastra dei faretti alti sul soffitto.
«So, che non sono molti. Ma potranno sempre servirti un po’ di soldi in più» disse infine riponendo una busta sulla mano del fratello. Roberto non disse nulla. Quello era l’ultimo stipendio che il bisnonno le aveva dato.
«Se avrai bisogno di me, ti basterà  chiamare e correrò da te. Tu però promettimi che non cederai, che anche quando ti sembrerà  di non avere più motivi per continuare non rinuncerai. Quello che sto facendo in questo momento è  un investimento a lungo termine. Non tornare indietro prima di aver realizzato i tuoi sogni. Non te lo perdonerei mai» lo ammonì con occhi lucidi.
Roberto scattò stringendo tra le sue braccia Clara. Quasi sollevandola dal pavimento. «Non temere. Ti restituirò il doppio di questa somma. Ti restituirò il sogno che mi stai regalando...»
“Oh, Roberto se solo tu potessi farlo veramente. Ti prego combatti. Fallo in modo che io possa non pentirmene un giorno”.
«Dove pensi di andare stasera?» gli chiese sciogliendo quell'abbraccio imbarazzante.
«Non lo so. Ho un po’ di soldi. Il bisnonno, tempo fa mi disse che avrei potuto attingere ai suoi risparmi una volta che avessi raggiunto la maggiore età . In realtà  non ho mai voluto farlo. Non volevo assolutamente che si privasse anche di quei risparmi accumulati in anni di fatica. Ora però che non è più qui con noi penso non gli dispiacerebbe se li usassi per realizzare i miei sogni. Con gli stessi ho intenzione di comprare un biglietto solo andata per il Giappone. Ho già  contattato il nonno. In realtà  è da parecchio che ci teniamo in contatto».
«Con il nonno Aoki? Ma come è possibile? Papà non ci ha mai voluto dire nulla di lui…»
«Diciamo che ho avuto le informazioni che mi servivano da altre fonti…» le rivelò con un aria fiera e orgogliosa.
«Roberto non dovresti andare dal nonno. Se papà  lo scoprisse.. »
«Non accadrà. E poi se andassi dalla nonna Lucia, lui sicuramente verrebbe a scoprire dove mi trovo nell'arco di pochi giorni e senza dubbio la mia avventura finirebbe ancor prima di incominciare».
«Capisco. Ma toglimi una curiosità, quando dici che hai attinto ad altre fonti a chi ti riferisci? »
«Ci sono altri che come me sognano di scappare da una vita che non gli appartiene...» si mantenne sul vago.
«Di chi stai parlando?»
«Se tutto andrà secondo i miei piani, forse un giorno potresti scoprirlo da sola». Detto questo prese una maglietta blu con un quadrato stilizzato disegnato sopra e se la mise dopo essersi sfilato la camicia nera del funerale. Fuori aveva fatto buio. Le stelle che ornavano come trapunte minuziose il cielo limpido e privo di nuvole erano lì ad attenderlo. Sarebbe uscito appena i suoi genitori fossero andati a letto. Non poteva aspettare oltre.
«Roberto, Marika lo sa?» Il ragazzo si chiuse a riccio affondando le mani nelle tasche anteriori dei pantaloni e reclinando il capo colpevole evitando gli occhi severi della sorella.
«Sa che avevo intenzione di partire…» Clara spalancò gli occhi e storse il muso, incrociando le braccia al petto. «Non dirmi che hai intenzione di partire senza dirglielo?».
«Che importanza ha? Dopotutto è meglio così. Non dovrà  fingere che le va bene e non sarà costretta a reprimere le lacrime. Andrò via furtivo come un'ombra davanti a una luce splendente. Dopotutto lei è sempre stata un sole troppo lontano per un povero Icaro come me. Meglio evitarci anche questa tortura».
«Lo fai perché seriamente ti stai preoccupando per lei o perché l’unico che vuoi proteggere è te stesso?»
«Clara non pensare neanche lontanamente di potermi psicanalizzare. Sai che con me non funziona» la ragazza sbuffò rassegnata alla cocciutaggine del fratello.
«La vita è la tua. Ma sei davvero sicuro che non te ne pentirai?» tentò un’ultima volta prima di abbandonare quella postura accusatoria.
«Dici che sono abbastanza intelligente per diventare un medico e poi mi accusi di non essere abbastanza raziocinante per prendere una decisione come questa. Non credi di essere un po’ troppo contraddittoria? Adesso finiamola però». La invitò sedendosi sul letto. Clara acconsentì arrendendosi con un movimento della testa.
«Come pensi di fare con papà  e mamma? Se sparirai di punto in bianco si preoccuperanno»
«Per questo ho bisogno della tua collaborazione».
La fronte di Clara si aggrottò. «Non vorrai mica che menta a mamma e a papà»
«Ti prego, sei la mia unica speranza. E poi si tratterebbe di mentire per una, massimo due settimane»
«E cosa pensi che potrei inventarmi per coprirti?» gli chiese scettica.
«domani mattina andranno via entrambi. Mamma deve tornare alla sua mostra a Parigi mentre papà deve partire per quella gita con la sua classe. Per una settimana non dovresti avere problemi».
«Va bene, ma dopo che saranno tornati cosa mi invento?» continuò preoccupata.
«Se tutto va bene, entro una settimana il mio piano dovrebbe essere già  a buon punto. Anche scoprendo che sono in Giappone non potrà fare più nulla per costringermi a tornare»
«Cosa hai in mente?» le chiese riducendo gli occhi a due sottili fessure. Roberto le sorrise malizioso «Fidati di me. Lo sai che sono abbastanza in gamba. Vedrai che tutto si risolverà  in meno di due settimane»
«E se così non fosse?»
«Puoi sempre inventarti che sono andato una settimana a casa del mio compagno di classe Matteo. Lui penserà a coprirmi. Ha un debito nei miei confronti. Gli ho salvato il fondoschiena un paio di volte nell'ultimo anno»
«Possiamo fidarci?»
«Si, non devi preoccuparti. Nelle peggiore delle ipotesi potrai dire a papà  che ho mentito anche a te e che tu non sapevi nulla. Puoi darmi la colpa di tutto, io mi assumerò le mie responsabilità in ogni caso».
Clara sedette accanto al fratello su quel materasso morbido. La pressione del suo corpo fece oscillare leggermente Roberto.
«Partirai stanotte?» gli chiese con sguardo malinconico
«Se tutto va bene raggiungerò l’aeroporto e prenderò l’ultimo volo di questa notte. Se non ricordo male l’ultimo parte a mezzanotte. Non voglio correre il rischio di essere scoperto da pap . Metterò un finto fantoccio nel letto. Tu devi solo assicurarti che non si avvicini e che non scopra nulla».
«Ma non puoi aspettare che partano entrambi domani? »
«Rischierei di incrociarli all'aeroporto. No, è meglio così. Dopotutto mi sono già messo in contatto con qualcuno che mi attenderà all’ aeroporto di Tokyo domani. Non posso rischiare di farlo aspettare. Ne tanto meno io posso permettermi il lusso di sprecare un giorno inutilmente»
«Di chi si tratta?» lo interruppe cercando di estorcere qualche informazione al fratello.
«meno sai e meno dovrai mentire a mamma e papà» Clara sospirando ancora una volta si arrese a suo fratello.
«E va bene non insisto»
«Grazie. Ora è meglio che tu vada nella tua camera» la spronò amorevole con una pacca dietro la schiena.
«Roberto promettimi che ti prenderai cura di te!», lo raccomandò in ansia.
«Non preoccuparti, so perfettamente cosa fare. In questi due giorni sono riuscito a progettare tutto nei minimi dettagli. Puoi stare tranquilla»
«Teniamoci in contatto per e-mail».
«D’accordo» le strizzò un occhio.
Clara abbracciò suo fratello un’ultima volta prima di sollevarsi dalla seduta soffice del letto e tornare in camera sua.
Roberto era finalmente solo.
Con i gomiti sulle sue cosce sorreggeva la sua testa. A capo chino rifletteva.
“È l’unica maniera. Devo scappare via il prima possibile. Non abbiamo molto tempo.  Per quante persone deluderò tante saranno fiere di me”. Più convinto si sollevò e dopo aver sistemato il letto, spense la luce e si affacciò oltre la porta della sua stanza. In giro non sembrava esserci nessuno. Lentamente trascinò la sua valigia fuori. Un ultimo sguardo alla camera da letto dei suoi genitori e poi a quella di sua sorella e dopo un grosso sospiro si trascinò via da quella vita che non riconosceva più come sua. La porta si richiuse lentamente mentre nella casa regnava un silenzio freddo e indifferente.
Con cura Roberto caricò la valigia sulla moto bloccandola alla meglio. Era lì pronto a mettere il suo casco blu quando un paio di fari lo accecarono. La vista tardò a ritornare anche dopo che questi furono spenti. Una sagoma indefinita avanzò nella sua direzione. Ancora pochi battiti di ciglia e l’avrebbe riconosciuta. Ma non fu la sua vista a chiarirgli i dubbi bensì il suo udito.
«Tu… tu… brutto stronzo… Stavi davvero andando via senza dirmi nulla?» Era Marika con una camicia da notte addosso e delle infradito rosa ai piedi. Finalmente la vista gli era ritornata. La sua amica però stava alzando un po’ troppo la voce per i suoi gusti. Preoccupato che i suoi potessero svegliarsi le coprì la bocca con una mano sollevandola  e trascinandola via di lì mentre lei provava a divincolarsi da quella stretta forzata in tutti i modi. Erano vicini al pontile sul quale avevano spesso giocato da bambini. Dopo aver verificato che la distanza fosse sufficiente perché le loro voci non disturbassero il sonno di nessuno, lasciò la presa su di lei recuperando le distanze.
Marika muta con uno sguardo carico di odio continuava a fissarlo come posseduta da un rancore e da una rabbia incontenibile, come una bomba pronta ad esplodere. «Marika…» tentò Roberto impreparato, ma lei fu più rapida. Iniziò a inveire sul suo petto scolpito a pugni stretti.«Sei uno stronzo… ecco cosa sei… uno stronzo bugiardo» Roberto la lasciò continuare accogliendo quei colpi con rassegnazione. In fondo se li meritava. «io… io… Ti…». A quelle parole non riuscì a trattenersi, afferrò i polsi della ragazza con entrambe le mani e tenendola bloccata in quella posizione, senza lasciarle via di scampo, la baciò. Come un giocattolo a cui vengono rimosse le pile così la furia di Marika si placò.  
Quel bacio cercava il riscatto che il tempo non aveva voluto concedergli. Lentamente i pugni di lei si sciolsero mentre la stretta di Roberto si fece più leggera. Le mani di lui abbandonarono i polsi di lei scendendo dolcemente sui suoi fianchi. Con un movimento lento l’avvicinò al proprio corpo. Marika, continuava a pensare a quanto morbide e calde fossero le sue labbra. A quanto dolce e delicato fosse il suo tocco sotto il quale rabbrividiva. Non c’era modo di fermare quel contatto, ne tanto meno possibilità di renderlo eterno. Lentamente le sue mani si insinuarono sotto la maglia di Roberto. Con un movimento sicuro gliela sfilarono. Roberto era a petto nudo. Allo stesso modo fece lui con la camicia da notte di lei. Poi fu il turno dei pantaloni. Erano nudi con solo il loro intimo addosso. Roberto la prese per mano.
«Sei sicura?» le chiese premuroso accarezzandole il viso, facendo scendere dolcemente la sua mano prima sulla sua guancia, poi sul suo collo sottile e poi sulla sporgenza morbida della clavicola. Marika non si smosse. Immobile lasciava che toccasse il suo corpo tremante. Senza dargli una vera e propria risposta, tenendolo ancora per mano, lo guidò verso la riva del lago. Lentamente si immersero nelle acque scure e profonde. Non ci furono parole inutili. Quello che avvenne in quel fredde acque avrebbe cambiato inevitabilmente il loro destino. Ma ancora nessuno dei due poteva sapere quanto quel momento avrebbe inciso nelle loro vite. 

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Capitolo 3
*** DUE GIORNI PRIMA (PARTE 1) ***


CAPITOLO 3

DUE GIORNI PRIMA
(PARTE 1)





 
America - Los Angeles
 
Jona aprì con noncuranza la porta della sua monumentale casa a Beverly Hills. Distrutto se la  richiuse alle spalle.
«Sono tornato…» esordì distrattamente, gettando a un lato dell’ingresso la sua cartella.
“Ma chi pretendo mi risponda?” pensò trascinandosi fino a un divano bianco. Nonostante cercasse di nasconderlo in tutti i modi, continuava a sperare che qualcuno un giorno gli avrebbe risposto, ma anche quella mattina non fu così.  Scompostamente si gettò sul divano di pelle aggiustandosi un cuscino dietro la nuca. Un ciuffo di capelli biondi prese a solleticargli la fronte, così lo mandò indietro con un soffio forte e preciso. Era un tic che si portava dietro ormai da tempo. Con i medi e gli indici uniti di entrambe le mani, iniziò a massaggiarsi le tempie, mentre le palpebre calavano dolcemente oscurando la sua vista. Era veramente stanco. Dopo aver recuperato le forze riaprì i suoi occhi scuri e brillanti. Gli bastò una sola occhiata in giro per capire che si trovava ancora in quella tremenda e desolante prigione. Alle pareti, come occhi vigili e invadenti, erano affisse una moltitudine di locandine cinematografiche in cui, il soggetto principale, era quasi sempre una bellissima donna dai lineamenti orientali. Le immagini erano state riposte, con cura maniacale, all'interno di rigide cornici, alternate da altrettanti dischi d’oro. Non era facile essere il figlio di un’attrice e di un compositore ormai famosi in tutto il mondo. Sin da piccolo Jona aveva dovuto convivere con quella sconfortante realtà. C’erano state diverse tate e diverse baby-sitter, ma mai un padre o una madre pronti a soccorrerlo quando si svegliava in piena notte per un brutto incubo, o a consolarlo quando prendeva un brutto voto a scuola. Avrebbe sempre voluto avere almeno un fratello con cui condividere i momenti belli e importanti della vita: il primo giorno di scuola, le vacanze estive, il primo bacio, la prima ragazza.  Avere il privilegio di ricevere consigli e l’onore di poterli dare a sua volta. Ma ahimè, sua madre a causa del suo lavoro, non poteva permettersi una seconda gravidanza e così il tempo aveva congelato ogni sua speranza. Insistere era inutile. Anche volendo provare a convincerli, i momenti per farlo erano diventati anno dopo anno, sempre più rari. Prima ci furono i colloqui mancati a scuola, poi le partite a football saltate e per completare i compleanni dimenticati. I giorni, col tempo, divennero settimane e poi mesi. Così la solitudine era divenuta, , la sua unica e inevitabile coinquilina. Hiro e Misako avevano una vita impegnata. Eppure Jona, per quanto si torturasse, non riusciva proprio a capire come, quando e perché lui avesse smesso improvvisamente di farne parte. Come se non fosse mai esistito, come se non avessero mai voluto averlo. Ogni mese i suoi genitori super impegnati,  versavano grandi quantità di denaro sul suo conto, sperando forse di mettere a tacere i loro sensi di colpa. Ma la loro costante assenza non era qualcosa che i soldi avrebbero potuto colmare. Jona, a soli diciassette anni, aveva imparato cosa significasse crescere senza alcun tipo di affetto.  Fingere indifferenza quando dentro soffriva. Simulare gioia davanti alle chiamate sporadiche di sua madre e alle visite rare di suo padre. La sua indifferenza davanti al dolore e il suo sorriso falso nei confronti del mondo li aveva pagati a caro prezzo. Ma a breve la sua vita sarebbe cambiata. Sarebbe scappato da quella solitudine esasperante. Nella tasca dei suoi pantaloni il telefono vibrò. Lo tirò fuori. Sullo schermo un messaggio da una delle sue tante ragazze di passaggio.
 
Sono fuori. Che fai? mi apri la porta?
 
Il ragazzo biondo e asiatico sorrise malizioso. Si sollevò e andò ad aprire la porta. Una ragazza bruna e alta gli saltò addosso baciandolo con eccitazione. Finirono, perdendo a uno a uno gli abiti che indossavano, fin sù nella sua stanza. Lì si consumò l’ennesimo rapporto privo d’affetto, l’ennesimo disperato tentativo di Jona di provare un po’ di calore umano nella sua vita.
 
 
 









Giappone - Tokyo
 
Era ormai notte inoltrata, e nell’ orfanotrofio regnava un silenzio e una calma surreale. Quel luogo era finito con il diventare la casa di JJ e dei suoi due figli. Yuki si dedicava al suo lavoro in quell'istituto ventiquattro ore su ventiquattro; mettendoci lo stesso amore e la stessa dedizione che ci avrebbe messo Akiko. Dopotutto doveva farlo per non dimenticarla. A capo chino sulla scrivania, registrava le adozioni avvenute in giornata. La piccola Haru e il capriccioso Ghinta erano stati adottati proprio quella mattina. Vedere i loro volti carichi di fiducia e pieni di gioia inattesa, addolcivano sempre un po’ quel momento amaro. Per lui erano tutti come figli suoi. Vederli andare via gli procurava ogni volta un’enorme e opprimente fitta al cuore. Guardò l’orologio sulla sua scrivania. Erano le dieci passate.
“Sicuramente Kei e Shin saranno già andati a letto”, pensò sollevato. Lanciò uno sguardo alla lunga pila di scartoffie ancora da compilare sulla sua scrivanie e sospirò.
“Diamine anche stanotte farò tardi”. Rassegnato riprese il suo lavoro.
Al piano di sopra, nella loro camera, i suoi due figli in silenzio aspettavano che Morfeo venisse a fare loro visita.
Ma qualcosa tormentava il più piccolo dei due. Shin con i suoi capelli lisci e scuri, il suo naso piccolo e tondo e le sue orecchie a sventola, si rigirava irrequieto nel letto, disturbando Kei che invece immobile cercava di ignorare quei rumori incessanti.
Dopo essersi rigirato un paio di volte, rimanendo così attorcigliato inevitabilmente tra le bianche lenzuola, Shin si arrese. Liberandosi da quell'opprimente copertura, si mise seduto con i piedi a penzoloni sul letto, rassegnato all’idea che anche quella notte non avrebbe trovato sonno facilmente. Irrequieto prese a fissare suo fratello con sguardo implorante. L’altro nonostante avesse intuito i suoi intenti fece finta di nulla, simulando un sonno inesistente. Steso con le mani incrociate all’altezza dello stomaco, continuava a ignorare i disperati tentativi di Shin di attirare la sua attenzione.
 «Kei, stai dormendo?» tentò il ragazzo con le orecchie a sventola, richiamando il fratello più grande che lo ignorava trattenendo ostinato quella posizione supina innaturale.
«Uffa non riesco a dormire…» sbuffò scendendo dal letto a piedi nudi e gettandosi scompostamente sul letto dell’altro. «Posso dormire qui con te?» gli chiese sollevando prepotentemente le coperte.
A quel punto Kei, che era di quattro anni più grande, aprì i suoi occhi scuri e severi. «Shin finiscila e torna nel tuo letto» lo strattonò facendolo quasi rotolare sul pavimento. Il povero Shin si ancorò appena in tempo al materasso evitando una caduta rovinosa.
«Giuro che è l’ultima volta…» lo supplicò.
Kei sospirò spostandosi e facendo spazio all’altro. Shin sorrise soddisfatto alzando le coperte, infilandosi, in brodo di giuggiole subito sotto di esse prima che suo fratello cambiasse idea.
«Adesso però dormi» concluse seccato Kei mettendosi su un fianco e voltandogli ostinatamente le spalle. Ma quella richiesta non sembrava soddisfare appieno le intenzioni del fratello.
«Kei, secondo te la mamma se ne è pentita?» gli chiese inaspettatamente lui, fissando il soffitto con sguardo inquieto. Il ragazzo con la frangia, che gli copriva quasi un occhio, strinse a pugno la mano sotto il suo cuscino. Era così dura fare i conti con quelle domande. I due non erano veri e propri fratelli. Kei aveva 20 anni e Shin 16. Quei miseri quattro anni erano la cosa che Shin invidiava più di suo fratello. Chiunque penserebbe che quattro anni non possano fare poi questa grande differenza nella vita di una persona, ma per Shin non era così.
«Shin, finiscila con queste domande…» gli rispose seccato sollevando le lenzuola fin sopra la testa, come cercando un riparo sicuro da quei dannati ricordi.
«Non ci riesco. Continuo a pensare che se non fosse stato per me la mamma adesso sarebbe ancora qui…» proseguì lui ingenuamente incrociando le mani al petto come per darsi conforto.
Kei rassegnato uscì allo scoperto girandosi nella sua direzione. Quel movimento brusco fece traballare Shin, che impassibile continuava a fissare il soffitto.
Shin era proprio la fotocopia sputata di JJ, ma nel profondo aveva l’anima dolce e fragile di sua madre. Kei, Akiko la ricordava bene. Era stata la madre che il destino non aveva voluto concedergli. Aveva conosciuto l’amore, la comprensione e la dolcezza attraverso i suoi gesti. Per lui, che era cresciuto  in un orfanotrofio, l’aver incontrato una persona speciale come Akiko nella sua vita, aveva rappresentato una vera e propria fortuna. Grazie ad Akiko e a JJ, aveva trascorso i suoi primi quattro anni di vita tra le braccia accoglienti di una madre e conoscendo la forte complicità di un padre. Non avrebbe potuto mai rimuovere quei preziosi ricordi dal suo cuore. Akiko gli aveva insegnato ad apprezzare con riconoscenza ogni aspetto della vita, sia quelli più tristi e ingiusti sia quelli più felici e preziosi. Per quanto la vita fosse stata ingiusta con lui dall’altro aveva saputo riscattarsi donandogli l’amore di una madre come Akiko e di un padre come JJ. Per questo le sarebbe stato comunque riconoscente.
Grazie ad Akiko aveva imparato  ad apprezzare il suono accogliente e confortante del pianoforte. Spesso quando di notte non riusciva a chiudere occhio lei per calmarlo gli suonava quelle dolci melodie e subito il suo cuore cedeva a un sonno sereno e privo di incubi.  
JJ era sempre stato un punto di riferimento fermo per Kei. Non si perdeva una sua esibizione televisiva. Seguiva con entusiasmo ogni sua performance. Così con il tempo aveva preso a cantare in rima proprio come lui, emulandolo, quasi con rispetto reverenziale.  Fu proprio da JJ che apprese forse la lezione più difficile e triste della sua vita. Quel ragazzo impulsivo e irascibile gli aveva insegnato a non cedere al dolore e allo sconforto e a trarre forza dallo stesso per difendere chi si amava dall’amarezza di una vita incompleta. Proprio come aveva fatto dopo la scomparsa prematura di Akiko così avrebbe fatto lui con Shin. JJ, aveva messo da parte il suo dolore per amore dei suoi figli. Così Kei, era cresciuto maturando negli anni, e grazie a quell'insegnamento, il suo carattere forte, risoluto e tenace, lo stesso che gli aveva dato la forza di affrontare, a testa alta, l’ennesimo abbandono nella sua vita.   Il tempo trascorso al fianco di Akiko lo avrebbe ricordato come il più felice di tutta la sua vita.  Fino a quel maledetto giorno in cui tutto cambiò inevitabilmente. Akiko stava per dare alla luce, in un giorno caldo del mese di luglio, Shin. JJ la portò d’urgenza in ospedale. Il medico aveva consigliato ad Akiko di non avere figli, almeno per il momento, ma Shin era arrivato senza preavviso come la pioggia in estate. Akiko si rifiutò di abortire e decise che avrebbe avuto il suo bambino nonostante il medico l’avesse avvertita che probabilmente il suo cuore non avrebbe retto.
Kei aveva appena quattro anni quando JJ venne a prenderlo per portarlo in ospedale. All’epoca era solo un bambino piccolo e impaurito, che si guardava in giro con ansia e preoccupazione. Quando giunsero in quella stanza bianca e sterile, i suoi occhi si riempirono di gioia. Akiko stava bene, aveva superato il parto, o almeno così sembrava. Kei ancora non sapeva che quello sarebbe stato l'ultimo giorno in cui avrebbe visto il viso dolce e radioso di Akiko sorridergli amorevolmente. Euforico corse verso l'enorme lettone dove era sdraiata Akiko, e sollevandosi sulle punte dei piedi l'abbracciò, affondando il suo viso bagnato dalle lacrime sul caldo ventre materno di lei.  Akiko gli sorrise accarezzandogli  dolcemente la testa. Fu proprio in quel momento che Kei notò qualcosa di piccolo muoversi sotto una coperta bianca. Dolcemente Akiko sollevò quel drappo lasciando che un viso piccolo e paffuto, con due occhi sottili ancora chiusi, emergesse.
«Kei lui è Shin», gli chiarì mostrandosi l’infante tra le sue braccia. Bastò quel leggero movimento a ridestare il sonno del più piccolo. Kei lo vide contorcesi aprendo gli occhi, allungando quella sua manina piccina nella sua direzione. In quel momento indietreggiò sorpreso e impreparato a quella situazione. Cosa ne sarebbe stato di lui?  Adesso che avevano avuto Shin, lo avrebbero messo da parte. Nel profondo provò una tale rabbia e una così profonda invidia per quel moccioso.  Non poteva evitare di sentire crescere nel suo cuore la paura che quel bambino gli avrebbe portato via l’unica madre e l’unico padre che avesse mai conosciuto nella sua vita. Provò un odio troppo profondo per poterlo descrivere. Eppure, più retrocedeva e più quel bambino allungava ostinato la mano nella sua direzione. Più provava a respingendo e più lui  gli supplicava un contatto. JJ si avvicinò a Kei, piegandosi quasi in ginocchio e raggiungendo cosi la sua altezza minuta, in modo da poterlo guardare negli occhi.
 «Kei, perché non vai a salutare il tuo fratellino? Sai, non vedeva l’ora di conoscerti…» lo spronò mentre Akiko gli faceva segno di avvicinarsi.
Anche se ancora angosciato da quei pensieri, Kei si avvicinò a quell’enorme lettone bianco. Con i suoi lunghi capelli color inchiostro e il viso pallido e stanco, Akiko fece segno a Kei di prendere tra le sue braccia il piccolo Shin. JJ lo aiutò. Cosi si ritrovò, senza sapere come, tra le sue braccia quella creatura così piccola e fragile. Come avrebbe potuto un esserino come quello costituire una minaccia?  Non era capace neanche di muoversi in autonomia. Rincuorato da quell'osservazione, abbandonò l’espressione tesa e preoccupata esibita fino a quel momento, riconquistando la sua serenità. Proprio mentre lo teneva stretto, la manina piccola di Shin gli sfiorò il viso. Per un attimo ebbe addirittura l’impressione che gli avesse sorriso.
«Kei, te la sentiresti di occuparti di Shin da bravo fratello maggiore?» lui acconsentì con una fermezza che avrebbe fatto invidia a qualsiasi adulto. Akiko sorrise sollevata e felice.
«Mi prometti che ti prenderai cura di lui qualsiasi cosa succeda?». In quel momento Kei non poteva sapere cosa si nascondesse dietro quella richiesta di Akiko. Acconsentì senza esitazione prima di tornare a fissare il volto piccolo e tondo di Shin, tranquillo e sereno tra le sue braccia. Da quel momento sarebbe stato responsabile per quel bambino. Da quel momento sarebbe stato il fratello maggiore di qualcuno e avrebbe avuto un fratello minore di cui occuparsi. Ritornò a confrontarsi con lo sguardo di JJ e Akiko che lo contemplavano fieri e orgogliosi. Non avrebbe mai tradito la loro fiducia, per niente al mondo. Avrebbe difeso quella piccola creatura tra le sue braccia per tutta la sua vita, qualsiasi cosa fosse successa.
 
«Shin, sai qual è il vantaggio di avere un fratello maggiore?»
«quello di avere un letto in più dove andare quando non si riesce a dormire?»
«non solo..» gli sorrise divertito Kei,«un fratello maggiore ha la fortuna di raccogliere i ricordi che i loro fratelli più piccoli, con il tempo, rimuovono. Siamo i custodi della vostra memoria. Tu sei fortunato, perché posso raccontarti cose che diversamente tu non avresti mai potuto ricordare».
«Sarebbe bello se li potessi anche vedere questi ricordi di cui parli.  Non avere alcuna immagibe della mamma è davvero triste. La sua prima immagine, anche sforzandomi con tutto me stesso, non riuscirei mai a ricordarla, mentre tu l'hai chiara e nitida nei tuoi ricordi. Neanche le sue carezze e i suoi sorrisi hanno lasciato tracce significative su di me. È come se non fosse mai esistita».
«Shin, fidati, non è assolutamente così. Tu hai davvero molto di Akiko. Le assomigli più di quanto pensi. Se potessi farti rivivere con i miei occhi il momento in cui ti teneva tra le sue braccia te ne renderesti conto da solo, ma purtroppo non posso. L’unica cosa che mi è concesso fare è raccontarteli…»
«Kei, mi descrivi ancora una volta il giorno in cui sono nato? Dimmi, la mamma era felice?»
«Hai presente il sole?», «si», «beh, lei era ancora più radiosa di lui quel giorno. Quando ho visto il modo in cui ti guardava mentre ti teneva tra le sue braccia, ho provato una tale invidia per te...»
«E come mi guardava?» gli domandò eccitato all’idea che suo fratello avesse provato gelosia nei suoi confronti. Da quanto ricordasse era sempre stato lui a invidiarlo.
«Ti guardava come il dono più prezioso che la vita le avesse regalato. Io ti osservavo e vedevo solo un mostriciattolo dalle orecchie a sventola, con nasino tondo e piccolo al centro del viso, ma lei invece vedeva la cosa più bella e preziosa della sua vita.»
«descrivimi ancora una volta come era fatta…» lo incitò vivace come al suo solito.
«Aveva i capelli neri e lucenti, proprio come i tuoi e degli occhi dolci e amorevoli ma anche profondi e scuri. Il tocco della sua mano era leggero e avvolgente come un velo sottile sulla pelle. I suoi baci erano accoglienti come un caldo abbraccio che riempie il cuore. La sua voce era leggera e fresca come la primavera o meglio come la brezza che soffia leggera sul mare. E il suo sorriso, oh si il suo sorriso… ti riempiva dentro.»
Kei si voltò a osservare Shin al suo fianco. Aveva chiuso gli occhi e respirava profondamente.
Si era addormentato.
“Cosa devo fare con te?” sorrise rimboccandogli le lenzuola.
Proprio in quel momento gli sentì bofonchiare qualcosa.
«Grazie… Kei…»
Lui gli accarezzò il viso scostandogli un ciuffo di capelli dalla fronte.
“Non dovresti ringraziarmi Shin, dopotutto ho rubato quei ricordi che sarebbero dovuti essere tuoi per diritto di nascita..  Ancora oggi mi sento in colpa per questo. Se ripenso a quanto ti invidiavo all'epoca ... Solo adesso mi rendo conto della fortuna che ho avuto e che a te è mancata. La vita mi ha concesso il lusso di conoscere l’amore di una madre che non era la mia, mentre tu, pur avendo avuto una madre, non hai mai potuto conoscere il suo amore. Perdonami fratellino se non ho il potere di trasmetterti il suo amore come vorresti”.

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Capitolo 4
*** DUE GIORNI PRIMA (PARTE 2) ***


CAPITOLO 4
DUE GIORNI PRIMA (PARTE 2)




Giappone – Tokyo
 
Erano le undici passate quando Nami avvertì un rumore provenire da una delle tante sale prova della Kings Record, la casa discografica di cui suo padre era direttore. Aggirandosi incerta tra i lunghi corridoi, notò una porta socchiusa. Era da lì che proveniva quella musica assordante. Con cautela si affacciò all’interno della stessa. Era completamente buia.
“Ma chi sano di mente si allenerebbe in una stanza buia come questa?”, pensò avanzando verso lo stereo acceso. Senza pensarci troppo lo spense. Proprio in quel momento due braccia forti l’avvolsero alle spalle. Provò a urlare e a divincolarsi, ma non servì a molto: subito il suo strillo disperato fu bloccato da una mano sulla sua bocca e i suoi movimenti, frenati da una stretta immobilizzante. Così bloccata, si sentì trascinare indietro fino all’uscita. Poi tutto fu bagnato da una luce bianca e accecante. Recuperata la vista, si rese conto di essere stata ricondotta ancora una volta nei corridoi. Una voce sommessa nel suo orecchio destro la fece rabbrividire.
«mh… ma che ragazza carina che abbiamo qui…» proferì divertito il ragazzo che ancora alle sue spalle la teneva bloccata in quella scomoda posizione.
«Come cavolo ti permetti... lasciami immediatamente… non hai la minima idea di chi io sia… quando mio padre lo scoprirà …» tentò divincolandosi trattenendo le lacrime e soffocando il panico. La persona dietro di lei sogghignò.
«Credimi, so benissimo chi sei. Sono 18 anni che seguo i tuoi movimenti. Come potrei non conoscerti dopo tutto questo tempo?» fu in quel momento che la ragazza dai lunghi capelli castani, rabbrividì.
“Adesso cosa faccio? Questo sembra un maniaco”
Poi improvvisamente avvertì la stretta sul suo corpo cedere. Il ragazzo alle sue spalle, inaspettatamente, l'aveva l'aveva lasciata libera in modo che potesse girarsi e guardarlo finalmente in faccia. Una volta voltatasi nella sua direzione i suoi occhi si spalancarono per la sorpresa.
«Toshi, ma sei cretino?» esordì, allontanando con una spinta decisa suo fratello gemello, che nel frattempo se la rideva di gusto.
«Sorellina avresti dovuto vedere la tua faccia! Sei proprio ingenua. Sai, non dovresti aggirarti per i corridoi tutta sola a quest’ora di notte. Se a prenderti alla sprovvista non fossi stato io, ma un vero maniaco, cosa avresti fatto? Non posso proprio perderti d’occhio, nemmeno per un secondo…» completò sogghignando mentre si sistemava i pantaloni che aveva arrotolato fino alle ginocchia.
«Adesso sarei io quella a creare delle preoccupazioni? Sono ore che ti cerco, ma tu, come al solito, non rispondi mai al cellulare. E poi chi con un minimo di coscienza si allenerebbe a luci spente? Sei davvero strano lo sai?».
«Il buio mi piace, che ci posso fare? E poi  se lo faccio è anche un pò per colpa tua che ogni giorno mi accechi con la tua luce abbagliante» l’adulò, prendendo tra indice e pollice il mento della sorella, con lo scopo di addolcire il suo sguardo burbero e ancora largamente offeso. Alla fine tra loro andava sempre così: Toshi la punzecchiava, ma bastavano poche parole e riusciva a far tornare il sorriso sul volto di Nami. .
«Andiamo a casa insieme?» gli domandò lei sospirando e sorridendogli  dolcemente come sempre.
«Come potrei mai lasciare un simile splendore andare in giro per Tokyo senza una guardia del corpo al suo fianco?» la rassicurò prendendola per mano.
Così uniti, imboccarono il lungo corridoio della Kings Record. Uniti come sempre e come sempre fiduciosi che nulla li avrebbe mai separati.
Nami e Toshi pur essendo gemelli avevano davvero poco in comune. Lei era una ragazza vivace, solare, caparbia, testarda, capricciosa, e costantemente con la testa tra le nuvole, mentre Toshi si era sempre distinto per il suo carattere responsabile, il suo senso di giustizia e la sua straordinaria maturità, doti ereditate da suo padre.  Ma purtroppo quel senso di responsabilità spesso finiva con l’impedirgli di esternare i suoi veri sentimenti, gli stessi che teneva segretamente rinchiusi in un angolo del suo cuore.  A differenza di sua sorella, non aveva mai conosciuto la spensieratezza e la leggerezza di vivere una vita priva di oneri invalicabili.  Difendere sua sorella e soddisfare le ambizioni dei suoi genitori era tutto quello che aveva sempre fatto nella sua vita. Mai una volta aveva pensato a se stesso. Nonostante provasse a mascherarlo dietro un’arroganza difensiva, il suo animo sensibile era sempre lì a soffrire in silenzio. Aveva accettato già da piccolo il suo inevitabile destino. Suo padre si aspettava grandi cose da lui e lui non avrebbe mai deluso le sue aspettative. Non poteva permetterselo. Così, ogni sera, fino a tardi, ripeteva i passi delle coreografie e ripassava i testi delle sue canzoni. A breve avrebbe fatto il suo debutto come cantante, mentre sua sorella avrebbe intrapreso la carriera di modella nonostante suo padre avesse sempre sognato per entrambi un futuro da duo musicale. Un futuro a cui Nami non voleva assolutamente sottomettersi. Il suo sogno era diventare una modella famosa.  In fondoToshi, aveva sempre invidiato a sua sorella la forza di reagire e di imporsi contro suo padre, forza che a lui era sempre mancata.
Con passo tranquillo erano arrivati alla moto nera. Premuroso come sempre Toshi aiutò Nami a posizionare il casco nero sulla sua testa. Lei gli sorrise dandogli un bacio sulla guancia. Era davvero fortunata ad averlo come fratello gemello.
Gli unici momenti in cui suo Toshi scioglieva quella maschera fiera e sicura di sé era davanti a lei. Non c’era mai stata per lui persona più importante di Nami. Non aveva mai avuto interesse per altre ragazze, la sua vita impegnata non glielo aveva permesso, ma forse presto le cose sarebbero cambiate.  
 
 
 
Il ticchettio incessante dell’orologio, era l’unico rumore in quella cucina occupata da un silenzio opprimente. Andrea e Daisuke in silenzio stringevano tra le loro mani due tazze fumanti di caffè, mentre seduti al tavolo attendevano impazienti il ritorno di qualcuno.
Un rumore di chiavi nella serratura e la porta d’ingresso fu aperta. Un ragazzo di corporatura esile, con dei capelli castano chiaro mossi e lunghi fino alle orecchie, fece il suo ingresso in punta di piedi, richiudendosi la porta alle spalle con la premura di non fare troppo rumore.
Daisuke fuori di sé dalla rabbia si alzò dalla sedia e corse a raggiungere il ragazzo ancora fermo sul lungo corridoio d’ingresso.
I suoi occhi irremovibili e fieri, non lasciarono alcuna speranza al ragazzo di cavarsela con una scusa ancora una volta. 
«Take, conosci quali sono i patti.» esordì puntando un indice accusatorio verso di lui.
«Zio, io…» tentò.
«Non mentirmi. So che sei andato di nuovo in quel locale. Take, sai cosa ne pensano i tuoi genitori. Sai cosa ho dovuto fare per riuscire a convincerli.  Ho promesso che ti saresti impegnato negli studi, in cambio nel fine settimana saresti potuto venire in accademia ad allenarti, mentre il resto della settimana lo avresti dedicato solo allo studio. E se i miei occhi non mi ingannano, non mi sembra tu stia tornando da una maratona di studio a casa di qualche tuo compagno di corso» detto questo si avvicinò al nipote, con una mano gli sollevò il collo della camicia che indossava fino al suo naso.
«puzzi di fumo e di alcol. Pensi forse di darcela a bere anche stasera?»
«E va bene. Si, ci sono andato. Sono mesi che mi chiedo cosa ci faccio ancora qui.  È come se non fossi mai andato via di casa. Cosa è cambiato da un anno fa? Nulla. Mi sto costruendo ancora un futuro che non voglio. Speravo che almeno tu zio, avresti capito. Amo ballare e cantare più di ogni altra cosa. Cosa posso farci? Questa è la mia natura. Io sono questo. Perché devo negarmi la gioia di esprimermi attraverso la musica solo perché la gente non riesce a capirmi? Sono davvero stanco… stanco di rimanere fermo allo stesso punto…» concluse il ragazzo allontanando seccato la mano di suo zio dalla camicia Andrea a quel punto, si affacciò anche lui su quel corridoio scarsamente illuminato. Dietro le forti spalle di Daisuke osservava la loro ennesima discussione senza prenderne parte.
«Vai subito in camera tua. Da domani non disturbarti a venire in accademia. Per due settimane puoi anche sognartela…»
«Non stai facendo sul serio…» lo provocò Take sfidandolo interdetto.
«Dici? Fidati, posso farlo eccome». Terminò incrociando le braccia al petto.
Take stringendo i pugni superò lo zio incollerito, correndo al piano superiore salendo a due a due i gradini delle scale.
«Non avrai esagerato?» commentò finalmente Andrea alle spalle di Daisuke.
«Esagerato? Quel ragazzo è veramente è veramente…»
«Come te?» completò l’altro sorridendogli malizioso.
«Eh, si. È proprio come me. Ma cosa posso farci? Se i suoi scoprissero che di notte esce per andare a ballare se lo riporterebbero a casa immediatamente. Non posso permetterlo. Perché non capisce che lo faccio per lui? Proprio perché credo nelle sue capacità non posso permettere che se lo riportino a Osaka. Ho impiegato un mese intero per convincere i suoi  genitori e adesso lui rischia di mandare all’aria tutto solo per una serata in discoteca…»
Take si era presentato un giorno alla porta di Daisuke e Andrea carico di speranze e di aspettative, con un sogno nella valigia e pochi soldi nelle tasche. Aveva preso la decisione di diventare un cantante. I suoi genitori non lo avevano capito, ma sperava che suo zio avrebbe compreso e incoraggiato le sue ambizioni. Ma non fu proprio così. Daisuke pur vedendo nel nipote delle grandi doti, non poteva andare contro sua sorella e suo cognato. Dopo una lunga trattativa erano arrivati a un compromesso. Ma arrivarci non fu per nulla facile. Take avrebbe portato avanti gli studi e in cambio si sarebbe potuto esercitare presso l’accademia artistico - musicale di suo zio, ma solo per due giorni a settimana.  Purtroppo per Take quella condizione, con il passare del tempo divenne sempre più inappagate, così iniziarono i primi problemi, le prime incomprensioni e i primi litigi. L’università non era cosa per lui. Si sentiva soffocare. La musica invece era come una valvola di sfogo era la sua droga: più ne prendeva e più ne voleva. Quei due miseri giorni finirono con il non bastargli più. Così di notte, quando i suoi zii andavano a letto, lui usciva di nascosto per andare al Blue Night, un locale in cui spesso i ragazzi dell’accademia organizzavano gare di canto e di ballo. Era l’unico modo per evadere e per continuare a credere in quel sogno. Spesso dei talent-scout facevano un giro per il locale. Forse la verità era che continuava ad andare li perchè sperava che un giorno sarebbe stato notato anche lui. Eppure le possibilità che ciò accadesse diminuivano con il passare del tempo. Spesso venivano scelti i ragazzi più giovani, ormai aveva già superato i vent'anni. Quella di ballare per locali era l’ultima disperata carta che gli era rimasta da giocarsi. In fondo, anche senza il supporto della sua famiglia, avrebbe trovato il modo di farcela.  Se aveva ancora intenzione di realizzare il suo sogno se la sarebbe dovuta cavare da solo. Non poteva aspettare oltre.
Mentre Andrea e Daisuke discutevano al piano di sotto, Take in camera sua sprofondava il viso nel cuscino soffice e accogliente del suo letto.  Non poteva continuare così. Doveva trovare una soluzione. Il suo tempo era ormai agli sgoccioli. Quante altre occasioni gli sarebbero rimaste per farsi notare? In quel preciso momento il cellulare nella tasca dei suoi pantaloni vibrò. Lo prese tra le mani. Era un messaggio da Jona. Era passato un anno dall’ultima volta che lo aveva incontrato. Aprì incuriosito quel messaggio, del tutto impreparato a quello che il suo amico gli avrebbe proposto. I suoi occhi spiazzati ritornarono fiduciosi e carichi di iniziativa ed eccitazione come un anno prima, come quando aveva lasciato la casa dei suoi genitori. Forse c’era ancora una speranza…

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Capitolo 5
*** UN GIORNO PRIMA ***


CAPITOLO 5

UN GIORNO PRIMA


 
 Italia
 
Roberto era seduto alla scrivania della sua stanza a Villa Rosa. Era ormai sera. Sulla stessa erano accatastati una pila di libri e opuscoli illustrativi dei diversi corsi universitari consigliati dai suoi genitori, dai docenti e da sua sorella. Con un movimento deciso li fece scivolare dalla scrivania direttamente nel cestino dei rifiuti. Era stanco. La vita era la sua e non avrebbe permesso a nessuno di decidere per lui. Non più ormai.
Con la schermata ancora bianca del suo computer, attendeva impaziente il caricamento della pagina internet. Doveva controllare se Jona avesse risposto alla sua e-mail. Doveva scappare via da quella casa. Doveva farlo per il suo sogno e per quella sete di realizzazione che, se non saziata, avrebbe sicuramente reso arido il suo cuore e consumato il suo entusiasmo. Doveva farlo per suo nonno che proprio quella mattina li aveva lasciati improvvisamente come scompare un'orma sulla spiaggia calda del tramonto: troppo velocemente per avere il tempo di farsene una ragione, troppo rapidamente da non avere neanche la possibilità  di voltarsi e guardarla per l'ultima volta. Così era andato via Salvatore, lasciando tutti senza la preparazione giusta per accettarlo. Per Roberto, se non nella realtà , perlomeno nei suoi ricordi sfocati, il suo bisnonno avrebbe continuato a esistere.
Con una mano tra i capelli color inchiostro, Roberto rifletteva su quella perdita improvissa e sugli ultimi momenti trascorsi con Salvatore. Era sorprendente come la memoria avesse la capacità  beffarda di richiamare alla coscienza determinati ricordi, gli stessi che il tempo silenzioso spesso sotterra. Ricordi, che fanno male, ma che aiutano anche a cogliere quali sono le cose veramente importanti nella vita. Il più delle volte si tratta di momenti dati per scontato, di sensazioni considerate banali o pensieri fugaci a cui non si era data la giusta importanza. Frasi dette per caso e gesti che senza consapevolezza avevano lasciato segni invisibili. Si, la memoria ironicamente, si diverte a trascriverli con inchiostro simpatico nelle nostre vite, per lasciarle riapparire quando fanno più male.
Con un movimento brusco colpì il piano della scrivania. Basta, aveva preso la sua decisione. Avrebbe bruciato le tappe e sarebbe scappato via prima del tempo. Non poteva aspettare ancora. Ormai lì non era rimasto più nessuno ad incoraggiarlo e a credere in lui. Ancora due mesi e anche Marika sarebbe partita per Parigi. A quel punto non avrebbe avuto più nessuno a sostenerlo. No, doveva farlo per non arrendersi, soprattutto dopo quello che il bisnonno aveva fatto per lui. Doveva farlo per non deludere l'uomo che aveva sempre sognato di essere. Un uomo diverso da suo padre.
Finalmente sullo schermo si materializzò l'e-mail tanto attesa.
Con quella eccitazione e quell'ansia che ti fa tremare il corpo e che aumenta la salivazione, mosse il cursore.. Con un clic la sua vita sarebbe cambiata.
Piùdeciso l'aprì.
C'erano poche parole, ma erano le sole che lui avesse atteso con ansia e agitazione per tutto il pomeriggio. Era stato troppo improvviso e non sapeva come gli altri ragazzi avrebbero preso la sua idea. Erano anni che non si vedevano, alcuni di loro neanche li aveva mai conosciuti. Jona era il solo ad aver istaurato dei rapporti stretti con tutti. Considerando questo, non poteva di certo aspettarsi che l'avrebbero seguito senza alcuna garanzia di successo.
In silenzio e con i polmoni in apnea iniziò a leggere.
 
Da: Jona_black@gmail.it
 
Roberto, ho parlato agli altri della tua idea. Ho mandato una e-mail a Toshi e a Take. Sembrano essere molto interessati e hanno detto che vogliono aiutarci. Ho già  comprato il biglietto e stasera partirò per Tokyo. Ti aspetterò lì. Mi auguro che le informazioni che ti ho dato, ti siano servite e che tu sia riuscito a contattare tuo nonno. Appena possibile fammi sapere per che ora atterrerai a Tokyo.  Ci si vede in Giappone.
So che non dovrei illudermi, ma come hai detto tu, non ci basta sperare che le cose vadano bene, perché possano andare in questo modo occorre lottare fino all'ultimo e forse, finalmente, stiamo per dare una svolta alla nostra vita.
Non sarà facile, ma insieme sono sicuro che riusciremo a realizzare i nostri sogni. 

Buona fortuna Roberto. Ci vediamo sul campo di battaglia. Da adesso iniziano i giochi.

 
Roberto dopo aver ridato aria ai polmoni chiuse l'e-mail e si alzò. Presa una camicia di jeans uscì. Era sul pontile buio e scuro. Osservando quel panorama impenetrabile i suoi occhi si tinsero di una sicurezza nuova. Finalmente era arrivato quel momento. Finalmente avrebbe liberato il Roberto recluso in una prigione di ambizioni che non erano mai state sue. Era arrivato il momento di rendere quelle speranze nel suo cuore delle possibilità  tangibili. Tornò incamera sua e prese la valigia. Iniziò a sistemare le cose essenziali: il passaporto, i documenti e altre scartoffie. Mentre era li che raccoglieva oggetti vari, si ricordò di una cosa. Corse al suo armadio e recuperò una scatola rosa a pois verdi. L'aprì, dentro un vecchio cappello di lana fatto a mano. Ricordava il giorno in cui Marika glielo aveva regalato. Erano passati anni, ma ancora lo ricordava bene. Erano molto piccoli all'epoca. Con una morsa allo stomaco lo prese tra le sue mani. Era di una punta di blu brillante. Se lo rigirò un paio di volte tra le mani, poi con delicatezza lo adagiò nella valigia. Ovunque fosse andato avrebbe portato quel ricordo prezioso sempre con sé. Non l'avrebbe mai dimenticata. Un giorno sarebbe tornato da lei e se la sarebbe ripresa.

 
Marika era nella sua camera, sdraiata sul letto, che giocherellava con un paio di auricolari bianchi tra le mani. Spesso lei e Roberto li usavano per ascoltare la musica insieme. "Se solo gli stessi mi potessero permetterle di ascoltare anche il dolore nel suo cuore forse riuscirei anche a trovare le parole giuste o il modo più corretto per consolarlo", pensò Marika. Dopo aver saputo della notizia di Salvatore non era riuscita neanche a dirgli un semplice mi dispiace. Con un movimento brusco si sollevò, mettendosi a sedere e incrociando le gambe.
"Ok, Marika, finiscila! Devi finirla, mi hai capito? Domani ti basterà andare da lui e abbracciarlo, le parole alle volte non valgono quanto un gesto. Si, farò così. Ma forse dovrei chiamarlo o mandargli un messaggio? "recuperò il cellulare dal comodino, compose il numero, ma non ebbe il coraggio di far partire la chiamata.
Cosa mi viene in mente, magari non è neanche dell'umore adatto per parlare, meglio aspettare.
Lo spense e lo riposizionò sul comodino, poi scese dal letto e si avvicinò alla scrivania. Sulla stessa una foto attirò la sua attenzione. In primo piano due bambini sorridenti. Erano loro due da piccoli.
Quanto tempo abbiamo ancora noi due? Riusciremo ad ascoltare la nostra musica preferita attraverso questi auricolari ancora una volta? Riusciremo ad amarci? Prima che tutto finisca riusciro' a dirti che ti amo?
Accora demoralizzata da quei pensieri notò un ditale abbandonato accanto a quella foto.
Presto partirò per Parigi ma non so se sarò in grado di andare avanti senza di te. Perché abbiamo sprecato tanto tempo? Non voglio perdermi neanche un secondo. Da questo momento voglio costruire dei ricordi speciali per noi. Voglio ricordarti non come un rimpianto, ma come il sogno più bello della mia vita diventato realtà, anche se per pochi giorni.
Una lacrima scese solitaria sul suo viso.
Marika ancora non sapeva che il tempo a loro disposizione era quasi terminato.
La sera seguente avrebbe ricevuto un messaggio da Clara. Un messaggio che avrebbe avuto il potere di distruggere i suoi sogni e di strappare il suo cuore in mille pezzi.

Da Clara:
Roberto, ha deciso di scappare stanotte. Partirà per il Giappone. Vai da lui, prima che sia troppo tardi. Non voglio che quello stupido rimpianga per tutta la sua vita di non averti salutata. 



NOTA:
Scusate se non ho lasciato delle note in precedenza, comunque volevo ringraziare chi con entusiasmo continua a leggere e a recensire le mie storie. Purtroppo per il momento i capitoli saranno brevi in quanto il tempo libero nella mia vita è esso stesso molto breve, comuqnue mi auguro che la storia vi abbia colpito e appassionato. Aspettatevi grandi colpi di scena. Un saluto caloroso a tutti voi. Al prossimo capitolo.

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Capitolo 6
*** UN NUOVO INIZIO ***


 

CAPITOLO 6

UN NUOVO INIZIO

 

 
 
Tokyo
 
Roberto era appena atterrato dopo dodici ore di viaggio. Ritirata la sua valigia dal deposito bagagli, uscì nell’atrio dove ad attenderlo c’era Jona. Se non fosse stato per la sua capigliatura biondastra e il suo american style non lo avrebbe riconosciuto tra tutte quelle persone. Doveva ammetterlo, spiccava prepotentemente. Appena si accorse del suo arrivo gli corse incontro euforico.
«Roberto, giusto?» gli chiese per conferma
«Certo, sono io…» gli confermò sorridente l’altro adagiando al suolo la sua valigia.
«Cavolo, assomigli un sacco a tuo padre», quelle erano proprio le parole che Roberto non avrebbe mai voluto sentire. Decise che avrebbe immediatamente cambiato discorso.
«È da molto che aspetti?» gli chiese mentre recuperata la sua valigia si muovevano verso l’uscita.
«No, per niente, sono appena arrivato…», lo rassicurò il biondo tirando indietro un ciuffo dei suoi capelli con una mano.
«Meglio così. Jona senti, ma i tuoi come hanno preso la notizia?» Jona si arrestò improvvisamente. Per un attimo Roberto pensò che stesse per mollargli un cazzotto dritto in faccia e invece quell’insolito ragazzo biondastro scoppiò a ridere stringendosi lo stomaco e piegandosi in avanti con le lacrime agli occhi, «i miei genitori? Ma non mi dire… non credevo fossi così divertente Rob…»
Roberto rimase lì a osservarlo impietrito. Quella si, che era una reazione insolita e anche abbastanza esagerata. Per un attimo ebbe il terrore che Jona avesse perso qualche rotella strada facendo.  
Ricomponendosi l’amico lo raggiunse spronandolo con una pacca dietro la schiena a seguirlo verso la limousine nera con la quale aveva raggiunto l’aeroporto.
«Ma scherzi? Sei davvero venuto a prendermi con questa?» gli domandò Roberto sconcertato.
«Questo non è niente, dovresti vedere l’albergo in cui sto soggiornando. Extra lusso davvero.» gli rivelò aprendo la portiera e facendo segno all’altro di salire.
Roberto non ci pensò due volte e, dopo aver lasciato il suo bagaglio all'autista, entrò seguito da Jona.
«ma puoi permetterti tutto questo?» gli chiese dando un’occhiata al piccolo mini bar e alle poltrone in pelle interne.
«diciamo che offrono i miei genitori, vedila come se fosse il loro modo di contribuire al nostro successo.» concluse prendendo due bicchieri di Martini, porgendone uno a Roberto che lo prese ancora abbastanza perplesso.
«Brindiamo al nostro nuovo inizio» lo esortò Jona, facendo cozzare il suo bicchiere stracolmo a quello di Roberto, e  bevendone subito il contenuto con avidità. Roberto rimase lì immobile ad osservarlo con il bicchiere ancora sospeso a mezz’aria. Jona doveva essere abituato a quel tipo di vita, lui invece si sentiva estremamente fuori luogo. Eppure qualcosa non quadrava, era come se Jona stesse cercando di nascondergli qualcosa.
«Che fai? Non bevi?», lo incitò.
«Si, scusa.» lo seguì anche Roberto. Jona sorrise mentre si riempiva per la seconda volta il suo bicchiere.
«Sai, mi stavo chiedendo se fosse davvero necessario per te andare dai tuoi nonni. Ho una suite abbastanza grande. Potremmo starci in due comodamente»
Roberto ripose il bicchiere su un mini tavolino davanti a lui, mentre l’autista metteva in moto e partiva.
«Grazie Jona, ma non voglio approfittarmi di te. Dopotutto sono veramente curioso di incontrare mio nonno. Ho il presentimento che andremo molto d’accordo…»
«ah si? E cosa te lo fa credere? Fondamentalmente non lo hai mai conosciuto»
«abbiamo una cosa in comune…»
«ossia?» chiese interessato Jona avvicinandosi a Roberto.
«entrambi non abbiamo un buon rapporto con mio padre… mi sembra un buon punto di partenza…»
Jona reclinò il capo all’indietro gettandosi stanco sul sedile.
«Come vuoi, ma se qualcosa non dovesse andare, sappi che sono sempre pronto ad accogliere un amico. Le porte della mia suite saranno sempre aperte per te, ma prima avvisami. Potrei avere da fare con qualche bella ragazza. Non so se ci siamo capiti…» gli ammiccò malizioso.
Roberto acconsentì prima di tornare a un discorso più serio.
«Con gli altri hai detto di aver già parlato…» lasciò in sospeso la frase.
«Domani ci vedremo tutti. Non posso ancora crederci, l’ultima volta che ci siamo incontrati eravamo davvero piccoli e Shin non era ancora nato. Io avevo un anno e non posso ricordare un granché, è una fortuna che internet ci abbia permesso di ritrovarci. Il destino è davvero strano alle volte. Non lo pensi anche tu?»
«effettivamente…» concluse laconico Roberto.
«Siamo arrivati» annunciò l’autista attraverso un microfono.
«Bene, ci teniamo in contatto Roberto. Riposa, domani sarà una giornata davvero molto intensa per te. Prepara un buon discorso e in bocca al lupo per tuo nonno». Roberto acconsentì senza aggiungere altro e scese dalla limousine.  Appena mise un piede fuori dalla costosa vettura, si ritrovò catapultato davanti un’imponente villa in piena campagna. Aveva sentito suo nonno un paio di volte, ma non gli aveva raccontato di essere così ricco. Rimase sbigottito ad osservare quella facciata monumentale mentre l'autista tirava fuori i suoi bagagli, poi la voce di Jona lo riportò alla realtà.
«Non vorrai rimanere fermo qui per tutto il giorno» lo incitò ironico.
«hai ragione, adesso vado» detto questo lo salutò con una mano prima di chiudere lo sportello e avviarsi vero il cancello in ghisa. La limousine nera partì immediatamente alle sue spalle. Più convinto suonò. Dopo la terza volta, una voce maschile lo invitò ad entrare. Il cancello si aprì lentamente cigolando. Si avviò percorrendo un lungo viale verso l’ingresso principale. Bussò un paio di volte. Poi la porta fu aperta. 
«Benvenuto a Tokyo Roberto», non era stato suo nonno ad aprirgli la porta bensì una donna con dei capelli scuri come la pece impreziositi da qualche sporadico ciuffo argenteo, con delle orecchie a sventola e con dei tratti palesemente occidentali. Come non riconoscerla, quella era sua nonna Lucia.
 
I tre riuniti nel salotto sfarzoso della residenza, sorseggiavano taciturni i loro tè verdi.
L’uomo autoritario, seduto alla poltrona, osservava serio in viso suo nipote. Accanto a Roberto sua nonna sedeva in silenzio.
Roberto non se l’aspettava proprio quell’improvvisata. «Sei cresciuto molto…» diede il via al loro primo discorso l’uomo, poggiando sul tavolino che li divideva, la sua tazzina.
«Così sembrerebbe…» affermò Roberto adagiando anche lui la sua tazza sul tavolo.
«Immagino tu sappia che sono anni che tuo padre si rifiuta di parlare con noi…»
«Si, ma credo di averne appena intuito il motivo…» lo rimbeccò squadrando sua nonna di sottecchi. La stessa in imbarazzo evitò di ricambiare lo sguardo del nipote, limitandosi a fissare colpevole la tazzina tra le sue mani.
«È successo molto tempo fa, tu eri davvero molto piccolo.»
«Fatemi indovinare. Vi siete rimessi insieme e mio padre non lo ha accettato. Non è così?» lo interruppe bruscamente Roberto, incrociando le braccia al petto e abbandonandosi sul divano.
«In breve, si. Ma non voglio che tu ti faccia idee sbagliate su di noi. Il mio matrimonio era comunque sull’orlo del fallimento e devo ammettere che il crollo definitivo c’è stato subito dopo la morte di tua zia Akiko. Dopo quel giorno non ho passato un bel periodo. Io e la mia ex moglie ci siamo separati. Se tua nonna non mi fosse stata vicina, probabilmente oggi non saremmo qui a parlarne. Non mi aspetto che tu lo accetti e ci perdoni, ma perlomeno mi auguro tu possa capire che rimettendoci insieme non volevamo ferire nessuno…»
«Non temete, sono molto diverso da mio padre. Non potrei mai condannarvi solo perché vi amate ancora. Adesso però devo essere io a parlarvi e a chiedere la vostra comprensione», i due si zittirono facendosi interessati.
«Papà e mamma non sanno che sono qui in Giappone e devo chiedervi di non dirglielo per almeno due settimane.»
«Perché per due settimane?» gli domandò sua nonna curiosa.
«Ho un piano. Sono venuto qui perché voglio realizzare il mio sogno. Un sogno che mio padre ha sempre considerato solo un inutile perditempo.»
«Cosa vorresti fare?» gli chiese premuroso suo nonno sporgendosi oltre la poltrona e poggiando i gomiti sulle cosce.
«Voglio cantare.» i due si scambiarono delle occhiate perplesse.
«Tuo padre davvero ti ha detto che è un inutile perditempo?» si sorprese la donna con i capelli raccolti in una codina alta.
«Si, non ha fatto altro che dirmelo per tutta la vita» sbottò Roberto.
«Strano…» completò la donna strofinandosi il mento perplessa.
«Perché dici che è strano? Io lo capisco. Siccome non è riuscito ad affermarsi come musicista allora pensa che non ci riuscirei neanche io… ma si sbaglia, e ho intenzione di dimostraglielo »
«Aspetta un attimo… cosa sai esattamente di tuo padre?» le domandò la donna aggrottando le sopracciglia.
«Ha studiato qui a Tokyo musica, poi è venuto in Italia dove ha incontrato la mamma e si sono sposati.» La donna sbarrò gli occhi colta di sorpresa da quella rivelazione.
«Non posso crederci. Allora non vi hanno raccontato proprio nulla…»
«Cosa avrebbero dovuto raccontarci?» le domandò Roberto perplesso.
«Seguimi» lo spronò il signor Aoki sollevandosi dalla poltrona. Anche sua nonna lo incitò a seguirlo. Roberto allora si alzò e raggiunse suo nonno. Erano nel suo studio. L’uomo con i capelli ormai completamente grigi, fece segno a Roberto di avvicinarsi. Davanti ai suoi occhi c’erano, stipati all’interno di una credenza, una sfilza di CD, poster, riviste e cataloghi, tutti disposti in rigide file.
«All’epoca non potevo avvicinarmi a lui per colpa del mio matrimonio, così mi sono limitato a seguirlo da lontano, questo è il risultato. Ho raccolto per anni il frutto dei suoi successi. Non pensavo che un giorno sarebbe arrivato a rinnegarli...»
Roberto prese tra le mani un CD, sulla copertina un gruppo di 5 ragazzi e in alto una sigla BB5.
Improvvisamente lo riconobbe, in mezzo a quei ragazzi c’era suo padre.  In quel momento anche sua nonna li raggiunse facendo il suo ingresso nella stanza.
«Roberto, non so il perché tuo padre abbia voluto tenerti all’oscuro di tutto, ma devi credermi, lui era un grande artista qui in Giappone e anche molto amato. Non capisco proprio perché non te lo abbia voluto dire…» completò ferma  sull’uscio della porta.
“Non posso crederci, mi ha mentito per tutto questo tempo. Si è sempre preso gioco di me. È uno schifoso ipocrita. Questa non posso perdonargliela… è anche peggio di prima…”
«Nonno, posso prendere questo CD?» chiese improvvisamente Roberto al signor Aoki, indicando il disco tra le sue mani.
L’uomo acconsentì.
«Certo che puoi. Ci mancherebbe altro »
«Grazie.»
L'anziana figura con occhi stracolmi di rammaricato, poggiò un mano sulla spalla del nipote.
«Roberto, ho sbagliato una volta in passato. Ho abbandonato chi amavo quando aveva più bisogno di me, non voglio compiere lo stesso errore una seconda volta. .Adesso che il destino mi ha concesso una seconda possibilità, voglio vivere il successo che raggiungerai non in un angolo nascosto, ma alla luce del sole. Puoi contare pure su di me, per due settimane manterrò il tuo segreto.» Gli sorrise rassicurandolo.
Roberto istintivamente si voltò anche verso sua nonna. La stessa incrociando le braccia sospirò sollevando gli occhi al cielo.
«Ho per caso scelta?», chiese squadrando combattuta entrambi. Poi puntando il dito indice verso suo nipote, proseguì, «Roberto sappi che ti assecondo solo perché credo fermamente che i sogni non dovrebbero essere mai e poi mai soffocati, non l’ho fatto con tuo padre in passato e non ho intenzione di farlo con te adesso, ma promettimi che finite queste due settimane, contatterai i tuoi genitori…»
«Sarà fatto».
Detto questo i tre ritornarono in salotto. La loro avventura stava per incominciare.
 
 
Il giorno seguente Roberto si alzò presto. Jona lo aveva raccomandato di farsi trovare vicino la sede della Kings Record per le nove del mattino. Gli impegni degli altri avevano reso impossibile un orario più comodo. Così, senza esitare, Roberto era arrivato perfettamente in orario sul luogo dell’incontro. Era lì fermo davanti l’imponente ingresso della casa discografica, che rifletteva ancora su quella verità appresa appena un giorno prima.
“Quanto sono stato ingenuo, probabilmente sono l’unico dei ragazzi a non averne mai saputo nulla. Che rabbia, mi ha rimproverato dicendo che il mio sogno era un inutile spreco di tempo quando poi lui per tutta la vita non ha fatto altro che nascondermi di aver vissuto quel sogno che adesso è il mio… Ma perché non mi ha mai detto nulla?”
«Roberto?» lo richiamò una voce calda e profonda alle sue spalle. Un ragazzo bruno e più alto di lui con un orecchino all’orecchio destro lo fissava incuriosito dall’alto della sua statura.
«Si, sono io. Tu saresti?» chiese lui voltandosi nella sua direzione.
«Non mi riconosci?» gli chiese l’aitante giovane additandosi il viso sorpreso. Roberto provò a concentrarsi meglio sui suoi lineamenti: sulle sopracciglia, le labbra, gli occhi le mani. Finalmente lo riconobbe. Aveva gli occhi e le labbra di Yori ma il naso, i capelli e il portamento di Rio.
«Toshi? Sei davvero tu?»
«Sapevo che mi avresti riconosciuto. Tutti dicono che assomiglio molto a mio padre… immagino che questo valga anche per te».
«Beh, almeno questa somiglianza ci serve a qualcosa…» gli sorrise porgendogli una mano.
L’altro la strinse con decisione. Roberto si sorprese della forza di quel ragazzo alto e imponente.
«Assurdo, tra noi due dovrei essere io il più grande e invece accanto a te mi sento miserabilmente piccolo. Quanto cavolo sei alto?». Chiese Roberto squadrandolo dall’alto in basso.
«Un metro e ottanta centimetri.» gli rivelò sciogliendo la stretta ferma delle loro mani.
«Io dovrei avere due anni più di te ma non si direbbe proprio».
«In molti dicono che dimostro molti più anni di quelli che in realtà possiedo. Credo dipenda molto dall’altezza…»
«Beh, effettivamente». Proprio in quel momento un terzo elemento fece il suo ingresso sulla scena.
«Ehi ragazzi, spero non abbiate aspettato molto». Li raggiunsei Jona.
«Tranquillo, siamo appena arrivati» lo rassicurò Roberto.
«Hai sentito gli altri?» chiese Toshi all’amico americano con i capelli innaturalmente biondi.
«Si, stanno arrivando» lo rassicurò mentre si spostava un ciuffo di capelli dal viso.
Roberto li osservava in silenzio. Erano anni che non si vedevano. Gli ultimi ricordi che aveva di loro tre insieme risalivano a poco prima la morte di sua zia Akiko. Da quel momento i contatti si erano interrotti. Lui era molto piccolo all’epoca e con il passare del tempo aveva smesso di farci caso. Pensava che le cause del loro allontanamento fossero la distanza e gli impegni dei loro genitori, ma qualcosa adesso gli diceva che non era solo quello.
«Ragazzi, sono qui!!» urlò Take correndo nella loro direzione, con il fiatone, li raggiunse piegandosi in due per recuperare fiato. Ancora ansimando iniziò le presentazioni con Roberto.
«Tu devi essere il nipote di Andrea»,
«e tu devi essere il nipote di Daisuke» costatò a sua volta Roberto porgendogli la mano amichevolmente. Risollevandosi in posizione eretta Take completò le presentazioni stringendo quella mano sospesa a mezz’aria. Era il più grande del gruppo eppure a causa della sua esile corporatura e dei suoi modi informali non lo dava per nulla a vedere.
«E adesso siamo a meno due… » constatò divertito Toshi infilando distrattamente le mani nelle tasche anteriori dei suoi jeans neri.
«Meno due? » si ritrovò a ripetere sorpreso Roberto.
«Eh si, meno due. Mancano Shin e Kei».
«KEI?» avanzò Roberto perplesso.
«Non gli hai detto nulla di Kei?» costatò sbigottito Take rivolgendosi a Jona. L’altro sollevò i palmi delle mani al cielo roteando gli occhi e facendo spallucce.
«A dire il vero Shin non mi ha assicurato che sarebbe riuscito a trascinarlo qui stamattina.»
«ah… quel ragazzo…» sospirò Toshi portandosi una mano dietro la nuca.
«Cosa c’è che non va?» si intromise Roberto spostando il suo sguardo suo ognuno dei presenti, cercando nelle loro espressioni sfuggenti delle risposte.
Take si avvicinò a lui poggiando una mano sulla sua spalla sinistra « Roberto, credimi, Kei non è un ragazzo cattivo e solo che con lui non si può scendere a compromessi tanto facilmente. È un tipo abbastanza solitario. Vive solo per Shin, il resto del mondo per lui è feccia.  Non è una persona con cui si riesca ad andare molto d’accordo. Però è anche vero che ha un talento straordinario. Scrive dei pezzi rap che farebbero invidia ai più grandi musicisti contemporanei. Credimi, l’ho sentito esibirsi molte volte al Blue Night e devo ammettere che non ha perso una sola volta una battaglia. Ci serve anche per questo motivo. Speriamo che Shin riesca a trascinarlo qui.» concluse Take spostando il suo sguardo inquieto sul marciapiede pieno di gente, con la speranza nascosta di vederli sbucare entrambi da un momento all’altro. Toshi, sbuffò incrociando le braccia al petto.
«Ancora non riesco a capire cosa ci vediate di così fantastico in lui. Alle volte vorrei solo spaccargli quel muso che si ritrova. Uno sbruffone pieno di sé, ecco cos’è. Non si merita le attenzioni di Nami…».
«Non dire così Toshi, sai che non ha passato una bella infanzia. Dopotutto non lo si può biasimare se è diventato così cinico nei confronti del mondo… E poi devi ammetterlo, le ragazzine provano sempre un forte fascino per i cattivi ragazzi come lui» lo punzecchiò Take sfidandolo con occhi maliziosi. Toshi proprio non poteva sopportare l’idea che sua sorella perdesse il suo tempo dietro uno sbruffone come quello. Nami era la sua sorellina e non riusciva proprio immaginarsela vicina a un ragazzo che non fosse lui. Era molto geloso. Purtroppo l’interesse di Nami per Kei era un interesse a senso unico. E Toshi proprio non sopportava che sua sorella venisse tratta freddamente da Kei o più semplicemente lo turbava l’idea che sua sorella provasse interesse per altri ragazzi. L’idea di non essere più lui l’oggetto unico delle sue attenzioni era molto difficile d’accettare. Già solo l’idea lo faceva sentire miserabilmente solo, come se fosse rimasto indietro mentre sua sorella non faceva che andare avanti senza di lui.
«Sarà, ma non lo sopporto. Non posso farci nulla» completò Toshi non cedendo alle istigazioni dell’amico e recuperando il suo autocontrollo.
«Scusa Take, ma cosa intendi dicendo che non ha passato una bella infanzia?» domandò Roberto, intromettendosi nel loro discorso.
«Kei è il fratello adottivo di Shin. Fu abbandonato pochi mesi dopo la sua nascita. Non ha mai conosciuto i suoi genitori. JJ e Akiko si sono presi cura di lui in orfanotrofio. Non è mai stato preso in considerazione per le adozioni, il suo carattere era troppo esuberante perché durasse più di due giorni in una famiglia. La sua sola e vera casa è sempre stato l’orfanotrofio con Akiko e JJ. Dopo aver raggiunto la maggiore età ha scelto di sua volontà di far parte della famiglia. Così JJ lo ha accolto in casa sua. Ma dopo lo sfratto tutti e tre si sono trasferiti all’orfanotrofio».
«Lo sfratto?»
«Si, la casa che condivideva con Akiko era di proprietà della signora Aoki l’ex moglie di tuo nonno. Dopo la morte della figlia, aveva messo in vendita la casa. Ma JJ era riuscito a trovare un accordo, questo fino a pochi mesi fa, quando ha deciso di sbatterli fuori senza motivo. Penso che la signora Aoki, gli abbia sempre imputato la colpa della morte di sua figlia».
Roberto proprio non riusciva a capire perché suo padre non gli avesse mai detto nulla. Questi segreti erano davvero troppi per poter giustificare un silenzio così ostinato. Prima il divorzio di suo nonno, poi JJ che perde la casa, i suoi nonni che si rimettono insieme e per finire la sua carriera come leader di uno dei gruppi più noti nel panorama musicale giapponese.
«Eccoli!!! »esultò euforico Jona puntando il dito tra la folla. Roberto sollevò lo sguardo seguendo la direzione indicata dal suo amico americano.
In lontananza un ragazzino minuto con un nasino tondo e delle orecchie a sventola ne trascinava un altro con un ciuffo che gli copriva uno degli occhi, tirandolo prepotentemente per la manica della giacca.
«Non posso crederci, alla fine lo ha convinto… » constatò sconcertato Toshi, incrociando le braccia e storcendo il muso in un ghigno sprezzante.
«È inutile, se vuoi qualcosa da Kei, devi fare in modo che gliela chieda Shin. L’unico a cui dà ascolto è lui…» costatò Take al suo fianco.
I due finalmente raggiunsero il gruppo.
«Ciao ragazzi. Scusate il ritardo» salutò Shin tutto il gruppo riunito, «tu devi essere Roberto» costatò con occhi vivaci e ed eccitati, lasciando la manica del fratello, che infastidito se la risistemò volgendo il suo sguardo altrove.
«Si, sono io. È un piacere conoscerti Shin» protese la sua mano Roberto.
Inaspettatamente il ragazzino davanti a sé gli saltò al collo calorosamente, rischiando quasi di soffocarlo. Shin era fatto così. Emanava calore umano da tutti i pori, l’opposto del suo fratellastro che preferiva starsene in disparte senza concedere attenzioni e senza pretenderne a sua volta. Gli occhi di Kei erano glaciali. In silenzio analizzava Roberto e Shin stretti in quell'abbraccio caloroso. Roberto si sorprese di quanto freddo fosse lo sguardo di quel ragazzo. Era sorprendente come riuscisse a far sentire la gente a disagio solo fissandola da lontano. La medusa mitologica al confronto era nulla.  Era evidente per Roberto, che Kei sarebbe stato meno incline a gesti di saluto calorosi come quello. In silenzio i due, con Shin che li divideva, si studiavano come due tori pronti all’attacco. 
«Cugino, lui è mio fratello Kei» li presentò infine Shin sciogliendo quell’abbraccio e indicando con il palmo aperto suo fratello.
«Piacere di conoscerti Kei, io sono Roberto» iniziò lui porgendogli una mano aperta. Dall’altra parte Kei, in silenzio, esamiva quasi indignato quella mano sospesa a mezz’aria. Rimasero lì fermi in quella posizione per un tempo indefinito, finché Jona non si intromise tra loro.
«Ragazzi, cosa ne dite di spostaci in un posto più appartato? Non vorrei che Rio o Yori ci scoprissero proprio adesso».
Roberto abbassò la mano deluso, richiudendola in un pugno risentito. Kei doveva avercela con lui. Ma cosa gli aveva fatto? 
«Non hai tutti i torti Jona, sarebbe meglio spostarsi da qui. Non vorrei che ci beccasse anche Nami… a momenti dovrebbe arrivare per incontrare i miei genitori » lì sollecita anche Toshi guardandosi intorno con fare circospetto.
«Conosco un posto in cui possiamo parlare senza paura di avere occhi indiscreti su di noi. Seguitemi» li spronò Take. I sei ragazzi riuniti si spostarono silenziosi da quell’ingresso imponente e maestoso, che anni prima aveva visto uscire i BB5 pronti ad accogliere il loro imminente successo. Chissà se un giorno avrebbero superato anche loro quella soglia per lo stesso motivo dei loro genitori.
Nessuno dei sei in quel momento poteva sospettare che qualcuno si fosse nascosto dietro quelle stesse porte e che li avesse spiati per tutto il tempo.
 
Roberto cammiva in coda al gruppo, davanti a lui Shin e Kei. Non sapeva il perché, ma aveva un cattivo presentimento su quel ragazzo astioso.
«Non ti fare troppi problemi per Kei. È stato così un po’ con tutti all’inizio. Vedrai che appena la tensione si allenterà le cose si sistemeranno» lo rassicurò Jona arrivandogli inaspettatamente alle spalle e sussurrandogli quelle parole silenziose in un orecchio.
Roberto accennò un sorriso dubbioso prima di arrestarsi insieme al resto del gruppo. Erano arrivati.
«È questo cosa sarebbe?» domandò sorpreso Shin. Davanti a loro un enorme cancello arrugginito.
«Benvenuti nel mio rifugio segreto. Questo è il posto in cui mi alleno in settimana, non è un granché, ma l’affitto costa poco e quindi riesco a permettermelo» spiegò loro Take aprendo il lucchetto che teneva chiuse le porte di quel garage.
I sei entrarono dentro in fila indiana. Prima Roberto,Toshi, poi Shin, Kei, Jona, Take  e per completare un’insolita ragazza dai capelli lunghi e castani si infilò prima che Take potesse chiudere il garage.
«Nami, tu che ci fai qui?» le domandò stupito il ragazzo esile dai capelli mossi.
«Voi piuttosto, cosa combinate? Toshi, da quando in quando mi nascondi le cose?» rimproverò il fratello raggiungendolo furibonda, superando Take con le chiavi ancora tra le mani, sfilando davanti agli altri ragazzi sorpresi e impreparati al suo ingresso.
«Scusa Nami, te ne avrei parlato. Lo sai, che non riesco a nascondere nulla alla mia sorellina così attenta e intelligente» si apprestò a chiarirle scompigliandole i capelli amorevolmente.
«Eh no Toshi, questa volta non funziona mica. Ditemi immediatamente cosa state combinando…» lo incitò portando le mani ai fianchi furibonda. Proprio in quel momento Nami incrociò lo sguardo freddo e gelido di Kei. Subito si aggiustò i capelli ricomponendosi e addolcendo il tono della sua voce.
«Oh, Kei, ci sei anche tu…» improvvisò diventando rossa in viso. Lui non le rispose neanche, ignorandola si lanciò scompostamente su un divano vecchio e lacero messo in un angolo. Quel garage tutto sommato era  davvero accogliente.
Lei subito gli si sedette vicino avvinghiandosi a lui come una sanguisuga. Toshi digrignò i denti, trattenendo a stento i suoi impulsi omicidi. Proprio non sopportava il modo in cui Kei ignorava sua sorella. È vero, l’idea che Nami avrebbe avuto un ragazzo un giorno lo infastidiva, ma vederla soffrire per un ragazzo che non ricambiava il suo amore era anche peggio. 
«Ti sono piaciuti i miei biscotti allo zenzero? Ho impiegato una notte intera per realizzarli. Sono gli stessi che mia madre preparava sempre a mio padre». continuò appoggiandosi a lui con occhi carichi di aspettative e completamente persi d’amore.
«Non, so. Credo se li sia mangiati tutti JJ». La ragazza si allontanò di scatto.
«Cosa? ma li avevo fatti per te…»
«Dovresti sapere che ingrassare non rientra nelle mie priorità al momento… adesso, se non ti dispiace, potresti allontanarti? Mi stai soffocando» detto questo Nami allentò la presa sul suo braccio mentre a capo chino ripristinò uno spazio più dignitoso tra i loro due corpi. Toshi proprio non poteva reggerlo.
«Ehi, tu. Brutto idiota. Ti costava tanto dirle che ti erano piaciuti? Perché devi essere sempre così acido!»
«E per quale motivo dovrei mentirle?» lo sfidò con uno sguardo menefreghista e arrogante.
«Tu, brutto stronz… » Toshi stava per saltargli addosso quando Nami si frappose tra loro a braccia aperte.
«Finiscila Toshi, ha ragione, avrei dovuto pensarci bene prima di rifilargli quei biscotti supercalorici. La prossima volta ti preparerò qualcosa di più leggero. Va bene? » disse infine rivolgendosi a Kei.
«Fai, un po’ come ti pare... » aggiunse distrattamente lui, spostando il suo sguardo altrove.
Toshi esasperato tornò al suo posto, recuperando il contegno appena perso.
«Bene, se le cose si sono risolte direi che possiamo iniziare con la riunione, cosa ne pensate?» incitò gli altri Jona battendo le mani in modo da attirare l’attenzione su di lui.
«Sono d’accordo con lui» completò anche Take che aveva appena chiuso il garage e predisposto atre tre sedie vicino al divano. Tutti presero posto in cerchio. Take, Roberto e Jona sulle sedie; Toshi, Nami, Kei e Shin sul divano.
«Vai, Roberto inizia pure».
Roberto  si schiarì la voce un paio di volte, preparandosi per il suo discorso, ma proprio mentre stava per aprir bocca venne interrotto.
«Roberto? »lo fermò Nami sorpresa, come se nella sua testa si fosse appena accesa una lampadina luminosa.
«Si, ti ricordi di me per caso?» le domandò lui.
«Certo che mi ricordo. Sono passati anni dall’ultima volta. Caspita. Chi l’avrebbe detto che ci saremmo rivisti dopo tanto tempo».
«Beh, si. Anche tu sei cresciuta molto e sei diventata anche molto bella» l’adulò Roberto con lo scopo di far tornare il sorriso sul suo viso appena turbato dalle fredde parole di Kei.
Nami in imbarazzo si portò un ciuffo di capelli dietro l’orecchio arrossendo.
«Dici?»
Due colpi di tosse li interruppe. Era stato Kei.
«Scusate, non vorrei interrompere, ma non sono venuto qui per vedervi flirtare. Se non vi dispiace vorrei concludere il prima possibile questa pagliacciata».
Roberto, iniziava a comprendere l’odio di Toshi per Kei. Quel ragazzo era veramente insopportabile. Avrebbe davvero voluto mandarlo via a calci nel fondoschiena, ma se quello che Take aveva detto era vero, avevano davvero bisogno di lui.
«Hai ragione. Allora stavo dicendo…  Ah! Si! Ho chiesto a Jona di riunirci qui oggi perché voglio farvi una proposta… Io vorrei fondare un gruppo… Ma ovviamente non vorrei vincolare nessuno di voi. Inizialmente la mia intenzione era limitarmi a chiedere il vostro parere. So che ognuno di voi vive delle situazioni scomode al momento. Magari unendo le forze riusciremo ad aiutarci a vicenda… cosa ne pensate?».
«Cosa proponi?» gli domandò interessato Toshi portandosi avanti con i gomiti sulle cosce.
«So che tu Toshi al momento sei sul punto di debuttare come solista, quindi non vorrei mai condizionarti..».
«Fidati, il debuttare come solista non mi affascina per niente… l’idea di formare un gruppo, invece, mi sembra molto più allettante. E credo che un po’ tutti qui siano d’accordo con me. Take ormai ha superato l’età giusta per essere scelto dai talent scout e anche tu Kei devi ammetterlo che da solo, con il pessimo carattere che ti ritrovi, non andresti molto lontano. Dopotutto non hai una bella voce, sai solo rappare e per il mercato questa capacità non basta, non più ormai. Anche tu Jona non ce la faresti mai. L’unico modo per farcela credo sia unire le nostre forze».
«È quello che penso anche io» acconsentì più convinto Roberto.
«E sentiamo cosa avresti in mente straniero…» lo sfidò Kei con aria di superiorità.
«Ho un idea che ha le stesse possibilità di successo come di sconfitta…».
«Ovvero?» chiese interessato Shin grattandosi la testa.
«Avete mai pensato di organizzare una esibizione pubblica senza precedenti?»
«Cosa vuoi dire?» gli domandò perplesso Take.
«Se unissimo le nostre capacità potremmo riuscire a farci notare. Dobbiamo sfruttare i social network e tutte le piattaforme possibili. Montiamo uno show senza precedenti e se le cose andranno secondo i miei piani, saranno le case discografiche a cercarci e a supplicarci di incidere un album. Ma perché questo accada dobbiamo avere un ottimo pezzo che attiri subito l’attenzione, abbastanza efficace da attirare subito l’interesse del pubblico più giovane. Dobbiamo fare in modo che circoli sul web e su altre piattaforme senza tregua.»
«Per questo non preoccupatevi, ho io gli agganci giusti.» Li rassicurò Jona sorridendo. «Mia madre sulla sua agenda aveva il numero di molti giornalisti giapponesi e di molti reporter che sarebbero interessati a un evento del genere, soprattutto se a esordire è il figlio di una nota attrice e di un compositore famosi in tutto il mondo. La visibilità sui giornali e nelle televisioni è cosa mia. Lasciate fare a me. Molti di loro li ho conosciuti di persona. Non potranno dirmi di no».
Roberto acconsentì soddisfatto.  Toshi si strofinò il mento perplesso.
«Per quanto riguarda il brano, abbiamo davvero poco tempo per crearne uno nuovo, potremmo utilizzare quello del mio debutto. Bisognerà solo adattare una parte in rap per Kei. Se ci stai, potremmo montarla in studio alla Kings Record anche domani» gli propose diplomaticamente Toshi. Kei acconsentì con un impercettibile movimento della testa.
«Perfetto, adesso manca solo la coreografia. Per quella pensavo potessi darci una mano tu Take… » Proseguì Roberto supplicando con i suoi occhi neri e profondi l’amico al suo fianco. «Conta pure su di me.» lo rassicurò Take con un pollice verso.
«Io, potrei farvi da mascotte… cosa ne pensate? Potrei procurarvi gli abiti di scena e tutto quello che vi serve» si propose Shin.
«Ogni tipo di supporto ci sarà utile» lo incoraggiò Roberto sorridendogli.
Shin, era l’unico a non aver mai preso in considerazione l’idea di cantare, dopotutto non aveva mai provato a farlo nella sua vita. Preferiva mettersi in disparte e vedere suo fratello e i suoi amici farlo al suo posto. Li avrebbe aiutati, ma non avrebbe preso parte all’evento. Aveva fatto di tutto per convincere Kei a prendere parte all’incontro proprio perché credeva in lui e nel suo talento.
«Perfetto. Mi sembra che abbiamo raggiunto un accordo…» concluse Roberto distendendosi e allentando la tensione.
«Un accordo? Ma non prendermi in giro» lo interruppe Kei, «qui tutti hanno delle capacità. Toshi si è allenato per anni alla Kings Record, Take è un ballerino eccellente, Jona ha frequentato una delle scuole di arte e spettacolo più rinomate in America, io sono anni che mi preparo duramente per debuttare. Qui, tutti hanno alle spalle anni di allenamento, chi ci dice che tu disponga della nostra stessa preparazione. Da quanto mi ha riferito Shin, in Italia non hai avuto neanche l’approvazione di tuo padre, cosa ti fa credere che avrai invece la nostra qui in Giappone? Se neanche tuo padre che è stato uno dei più grandi leader musicali giapponesi ha creduto nelle tue capacità come potremmo farlo noi? Capirai bene che per me è veramente difficile fidarmi di te con queste premesse poco promettenti. Devi darci la possibilità di verificare le capacità di cui disponi».
Roberto spostò il suo sguardo da Kei a Shin, che imbarazzato reclinò il capo verso il pavimento.
Questa proprio non ci voleva. 
«Suvvia Kei, perché devi fare così? Dopotutto, se non fosse stato per lui, adesso non sareste qui a parlarne,no? Sicuramente, proprio perché è il figlio di Eichi, avrà ereditato anche la sua indiscussa bravura..» Intervenne in suo favore Nami. Per un attimo i cinque ragazzi lì riuniti si scambiarono delle occhiatacce perplesse. Era la prima volta che Nami rispondeva a Kei prendendo le difese di qualcun’altro, rispondendogli a tono. Il ragazzo con il ciuffo castano che gli copriva l’occhio sinistro, irritato e furioso per quell’improvviso voltafaccia, le lanciò uno sguardo contrito prima di tornare al suo discorso. 
«Se è così, allora non gli costerà nulla dimostrarcelo… » storse il muso in un ghigno provocatorio.
«Cosa vuoi che faccia…» lo spronò Roberto sfidandolo sicuro di sé sostenendo quello sguardo fiero e accusatorio.
«Esibisciti al Blue Night tra due giorni, vinci contro di me, e solo allora potrò accettare che tu faccia parte di questo gruppo.».
Roberto abbandonò quell’espressione tesa sorridendo pregustando la vittoria. Nel canto avrebbe battuto Kei sicuramente.
«Come vuoi… ».
«Ma non pensare che ti farò vincere così facilmente. Ci sfideremo in una gara di ballo. Da quel che so,  sei l’unico a non averlo mai praticato. Jona, io, Shin, Take e Toshi, abbiamo frequentato tutti dei corsi regolari, ma tu no… ».
“Maledizione, questa proprio non ci voleva. Magari potrei chiedere a Jona o a Take di aiutarmi. Non ho molte speranze di farcela da solo in soli due giorni”.
Come leggendo i suoi pensieri silenziosi Kei lo anticipò, «non pensare neanche lontanamente di chiedere l’aiuto di uno solo di noi. Devi farcela con le tue sole forze, come abbiamo sempre fatto noi. Se proverai a chiedere sostegno a uno solo di noi ragazzi potrai dirti fuori.».
Roberto digrignò i denti e strinse i pugni. Adesso sì che era nei guai. Nami al fianco destro di Kei si sollevò di scatto, squadrandolo delusa e furibonda dall’alto della sua nuova posizione, poi senza aggiungere altro prese Roberto per mano costringendolo a sollevarsi. A mento alto e sguardo fiero si rivolse a Kei seduto ancora sul divano, tra Toshi e Shin.
«Perfetto, Roberto lo aiuterò io allora. Ci vediamo tra due giorni. Non illuderti, non ti sarà facile batterlo».
Kei sorrise malizioso accogliendo divertito le micce poco convincenti di Nami.
«Come vuoi. Puoi anche aiutarlo, dopotutto non credo cambierà di molto il risultato finale».
«Lo vedremo…» detto questo Nami sotto gli occhi sorpresi degli altri trascinò Roberto fuori da quel garage tenendolo saldamente per mano.
 
 
 
Roberto e Nami si muovevano con passo sostenuto per le strade affollate di Tokyo. Dopo una decina di metri Roberto si arrestò, e con un contraccolpo improvviso fece arrestare anche Nami davanti a sé. La stessa, sorpresa, si voltò nella sua direzione. Le loro mani erano ancora strette l’una nell’altra. Colta da un imbarazzo improvviso, sciolse quel contatto un po’ troppo intimo.
«Non devi preoccuparti, so perfettamente come fare per vincere contro Kei».
Roberto la fissava contrito. «Chi ti ha detto che avevo bisogno di aiuto? »
«Io, credevo… » improvvisò impreparata a quella sfuriata di Roberto.
Gli occhi di lui continuavano a fissarla con rancore malcelato. Senza aggiungere altro prese posto su una panchina vicino la fermata di un bus. Nami lo raggiunse a capo chino.
«Mi dispiace, io volevo solo rendermi utile… »
«No, tu volevi solo infuriarti con Kei. Non è cosi?»
Nami lo fissava impietrita.
“Che abbia ragione? L’ho fatto solo perché volevo fargliela pagare?”
«Forse hai ragione, ma questo non esclude la possibilità che così facendo non mi possa rendere utile anche per te.»
«Lascia stare. Non posso credere che tu sia davvero così poco assennata. Hai pensato all’eventualità che lui possa fraintendere questo tuo interesse per altro?».
Nami si abbandonò sulla panchina reclinando il capo, fissando le punte dei palazzi sfidare il cielo azzurro e limpido.
«Che importanza ha? Tanto con lui non ho speranze. L’hai visto tu stesso, per Kei esiste solo Shin. Gli altri valgono meno di niente. Poi chissà, magari un po’ di gelosia potrebbe anche saltargli fuori dopotutto. Nel caso non accada, vorrà dire che non gli interesso e potrò finalmente mettermi l’anima in pace. In questa situazione abbiamo entrambi da guadagnarci. Cosa ne pensi?» concluse infine voltandosi verso Roberto.
Lui la squadrò titubante.
“Dice che può aiutarmi. Tanto vale lasciarla provare, infondo peggio di così le cose non potrebbero comunque andarmi. Se poi il fatto che lui la fraintenda non è un problema, tanto meglio. Vorrà dire che alla fine di questa storia, entrambi avremo qualcosa da guadagnare…”
Sostenendo gli occhi sottili e sicuri di lei Roberto accennò una risposta positiva con la mano aperta a mezz’aria.
«Accetto…» completò con la mano in sospensione. Nami la strinse con convinzione.
«…ma a una condizione.» puntò l’indice verso l’alto, «Entrambi alla fine dobbiamo guadagnarci qualcosa. Non voglio che questo sia un favore a senso unico, preferisco pensare che entrambi stiamo facendo qualcosa per l’altro».
Lei gli sorrise e sporgendosi oltre le loro mani strette baciò Roberto sulla guancia destra.
“Cosa diavolo sta facendo?” Roberto era rimasto fermo immobile ad accettare quel gesto senza avere il tempo di opporsi. Il suo viso in pochi secondi avvampò. Quel profumo di vaniglia gli fece girare la testa. Un vuoto allo stomaco e i brividi su tutto il corpo lo colsero di sorpresa. Cosa significava?
Lentamente Nami si allontanò da lui ammiccandogli complice.
«Tanto vale che inizi a sdebitarti con me allora…»
detto questo fece segno a Roberto di voltarsi oltre le loro spalle. Lì ad osservarli c’erano tutti gli altri del gruppo.
Kei aveva lo sguardo fisso sulle loro mani. I suoi occhi indifferenti sembravano esserci accesi per un flebile istante di una gelosia ceca e inarrestabile, ma i due ragazzi non fecero in tempo a coglierla, che subito lui strattonò Shin per un braccio allontanandosi indispettito dal gruppo.
Roberto squadrò gli altri in imbarazzo. Non sapeva proprio da dove avrebbe dovuto iniziare per spiegare loro la situazione.
Chi l’avrebbe mai detto che le cose si sarebbero evolute in quel modo?

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Capitolo 7
*** AMORE O FALSE ILLUSIONI? ***


CAPITOLO 7
 
AMORE O FALSE ILLUSIONI?
 

ITALIA
 
Eichi era appena rientrato in albergo. Nei giorni seguenti avrebbe partecipato a un concorso musicale con la sua classe del conservatorio.  Avevano appena terminato le prove del mattino.
Distrutto, si lasciò scivolare sul letto a due piazze della stanza. Con la mano sfiorò il materasso morbido sul lato libero e spazioso alla sua destra. Mary gli mancava incredibilmente. Non era facile per lui gestire le sue continue assenze. Per certi versi Eichi e Marco vivevano nella medesima situazione: entrambe le loro mogli erano sempre in giro per lavoro. Girandosi su un fianco, tirò dalla tasca sinistra dei suoi pantaloni un cellulare. Con incertezza se lo rivoltò tra le mani.
“Se la chiamo mi risponderà? Sarà troppo impegnata?” A malincuore rinunciò a quell’idea.
Tornando a pancia in su prese a osservare il soffitto bianco e vuoto. Un pensiero non aveva fatto altro che torturarlo per tutto il giorno. Sollevando la sua mano destra per aria la esaminò come farebbe un archeologo che ispeziona un reperto raro e indefinito.
“Come ho potuto schiaffeggiare Roberto in quel modo? Quando è iniziata questa battaglia? Quando abbiamo smesso di capirci? Più ci penso e più non riesco a venirne a capo. Mi manca incredibilmente il bambino ubbidiente con il caschetto nero che ascoltava tutti i miei consigli con occhi attenti e fiduciosi. Mi mancano i nostri momenti seduti sul pontile bagnato dal caldo sole del tramonto. Quando è cambiato tutto? Perché deve essere così difficile fare i genitori?”
Proprio in quel momento il telefono vibrò. Lo recuperò. Le sue labbra si distesero in un caldo sorriso. Si trattava di sua moglie. Era incredibile come Mary riuscisse a intuire, anche a chilometri di distanza, quando avesse più bisogno del suo caldo conforto. Più sollevato rispose.
 
 
 
Marika era seduta su quella fredda sedia, davanti a quel freddo banco. La campanella suonò. Ancora pochi giorni e sarebbero iniziati gli esami di stato. Aveva sempre immaginato la sua notte prima degli esami al fianco di Roberto, a studiare fino a tardi, magari con un termos di caffè nero e fumante sulla scrivania della sua stanzetta, ma ovviamente adesso non sarebbe stato così. Diede un’occhiata al cellulare mentre gli altri ragazzi recuperavano i libri dalle loro cartelle per l’ultima ora di lezione. Ancora nessuna risposta dal suo amico. Sconfortata ripose il telefono nella tasca e prese anche lei i libri di matematica. Ancora due ore e sarebbe potuta fuggire via da quella prigione che gli ricordava troppo l’assenza di Roberto,l’assenza del suo unico amore oltre che della persona più importante della sua vita. Tornare a casa senza di lui non era la stessa cosa. Ogni tanto si perdeva in quei momenti pieni e felici che avevano vissuto insieme. Erano passati solo due giorni, ma già gli mancava incredibilmente. Il professor Falco fece il suo ingresso, il chiacchiericcio all’interno dell’aula si interruppe immediatamente. La sua presenza era veramente ingombrante e non solo in senso letterale.  
Marika lo ignorò annoiata volgendo il suo sguardo oltre la finestra.
“Chissà cosa starà facendo Roberto? Starà bene? Cavolo, perché non risponde ai miei messaggi?”, due colpetti al fianco destro la riportarono alla realtà. Maria, la sua compagna di banco, l’aveva appena richiamata. Il professor Falco oggi avrebbe torturato lei, ma quello era l’ultimo dei suoi pensieri.  La sua più grande preoccupazione al momento era Roberto. Aveva un brutto presentimento. Come se non solo la distanza fisica, ma anche qualcos’altro, sarebbe arrivato presto o tardi ad allontanarli inevitabilmente l’uno dall’altra.
Si sollevò annoiata dalla sedia e, sfidando sicura il professore, avanzò verso la lavagna. A mento altro e sguardo fiero, osservava il docente. L’interrogazione stava per iniziare, ma Marika aveva nella testa e nel suo cuore solo Roberto.
 
GIAPPONE
 
Roberto era arrivato alla Kings Record, era ormai sera inoltrata proprio come gli aveva suggerito Nami. Dopo una decina di minuti, tre insolite sagome incappucciate avanzarono nella sua direzione. La più bassa delle tre si levò il cappuccio. Era Nami. Gli sorrise soddisfatta, sventolandogli sotto il naso un mazzo di chiavi.
«Toshi, mi ha dato queste. Potremo sfruttare la sala prova della casa discografica. Seguimi» lo spronò avviandosi verso l’enorme porta seguita dagli altri due ospiti ignoti.
«Scusa Nami, ma loro chi sarebbero?» gli chiese lui sussurrandole a un orecchio e indicando i due soggetti incappucciato oltre le sue spalle.
«Loro, sono i nostri ballerini. Non preoccuparti, appena saremo entrati ti spiegherò tutto» detto questo i quattro entrarono nel palazzo.
Erano finalmente nella sala prove in cui spesso Toshi ripeteva le coreografie.
Le due figure scure finalmente si sfilarono i loro cappucci neri. Erano due ragazzi, potevano avere la stessa età di Roberto.
«Loro sono i T&G. Ci aiuteranno con la coreografia. Nella gara di ballo ci si esibisce in gruppo e loro saranno le tue spalle durante l’esibizione. Stai tranquillo, puoi fidarti di loro. Sono veramente bravi. È stato Take a raccomandarmeli» lo rassicurò Nami avvicinandosi alla console e inserendo un CD. Roberto accennò un inchino verso ognuno dei ballerini che ricambiarono in silenzio quel saluto rispettoso. Senza parlare iniziarono il loro riscaldamento. Non sembravano una coppia molto loquace. Roberto aggrottò la fronte. Quei due non lo convincevano per niente. Nonostante le rassicurazioni di Nami era ancora abbastanza perplesso sulle sue reali possibilità di farcela.  Quei due tipi strani sarebbero davvero riusciti a prepararlo in tempo per la gara? È vero che imparava facilmente ma ci sarebbe riuscito anche questa volta?
Improvvisamente il suo sguardo si accese di curiosità. Se lui avrebbe ballato con T&G, Kei con chi si sarebbe esibito?
«Nami se loro balleranno con me, chi ballerà al fianco di Kei?» le chiese preoccupato.
«Immagino ballerà con Shin e Jona. Mio fratello si occuperà della musica, e Take sono sicura che rimarrà in disparte per non condizionare troppo l’esito della gara». Dopo aver spinto il tasto play la musica partì. Il ritmo era carico e coinvolgente.
«Questa te la manda mio fratello» gli spiegò Nami avviandosi nella sua direzione.
«Nonostante Kei abbia voluto mettersi contro di te, gli altri invece sembrano credere molto nelle tue capacità. Quindi non puoi assolutamente permetterti di deluderli. Mi hai capito? Sono tutti dalla tua parte e anche io lo sono» detto questo, la ragazza gli diede una pacca amichevole sulla schiena, andandosi a posizionare subito dopo, in un angolo isolato della stanza. Era arrivato il momento di darsi da fare. I due ragazzi si disposero ai lati di Roberto. Il tempo per rilassarsi era finito, adesso si doveva fare sul serio.
“Roberto, puoi farcela. Anzi, no. Devi farcela!” dopo aver lanciato un ultimo sguardo a Nami attraverso l’imponente specchio davanti a sé, iniziarono le prove.
 
Kei era con Jona e Shin nel garage di Take che ripassavano la coreografia già per la sesta volta.
«Kei, possiamo fare una pausa? Sono veramente distrutto» lo supplicò Shin buttandosi al suolo scompostamente e incrociando le gambe.
«Shin, non possiamo fermarci! Deve essere perfetta, non lo capisci? Alzati!» lo rimproverò Kei sollevandolo prepotentemente per un braccio e costringendolo a recuperare la sua posizione.  Jona lo osservava infastidito. Proprio non capiva il senso di quelle prove massacranti. La coreografia era perfetta. In realtà quello che capiva ancora meno era il senso di quell’inutile competizione. Proprio non voleva gareggiare contro Roberto. Ma non poteva neanche tirarsi indietro.
Doveva ammettere che allenarsi con Kei era massacrante per più di un motivo, inoltre quel suo caratteraccio era largamente peggiorato dopo che Shin aveva riferito loro di aver visto Roberto e Nami entrare alla Kings Record in compagnia di altre due persone.
Che non fosse più così tanto sicuro di farcela?
«Kei, siamo distrutti. Cosa ne dici di fare solo una piccola pausa?» gli propose Jona.
«Non so che tipo di abitudini abbiate in America, ma qui in Giappone non tolleriamo i pappamolle. Adesso finitela di lamentarvi e riprendete» detto questo fece ripartire la musica. Il suo sguardo irremovibile era fisso sugli altri due.  Attraverso lo specchio impolverato osservava attento ogni loro movimento.
Per lui era ancora molto difficile ammetterlo, ma vedere Nami così vicina a quello straniero, metà giapponese metà italiano, gli aveva acceso qualcosa dentro. Non era semplice gelosia… più che altro non poteva tollerare che un approfittatore come lui godesse già del favore di tutti. dopotutto era arrivato lì con la pretesa di sfruttare le loro abilità per raggiungere i suoi fini.
Questo proprio non poteva accettarlo. Tutti avevano delle capacità da condividere con il gruppo: Take era un ballerino e un cantante eccellente, Toshi oltre a essere un ballerino e un cantante, era anche un ottimo arrangiatore musicale. Jona dalla sua aveva anni di studio, una preparazione eccezionale in diversi campi compresa la recitazione e dei contatti influenti, mentre lui era un ottimo rapper, ma Roberto cosa aveva da offrire loro? Nulla, se non un idea anche molto rischiosa. Perché tutti avevano deciso di seguirlo senza riflettere prima sulla possibilità che si stesse solo approfittarsi di loro?
Questo proprio non poteva sopportarlo. L’ingenuità era qualcosa che non era contemplata nel suo vocabolario.
Avrebbe dimostrato le scarse capacità di Roberto. Non gli avrebbe permesso di ripararsi dietro la fama di suo padre. Non poteva permettere che la sua inesperienza costasse loro un fallimento.
Più convinto riprese gli allenamenti.
 
 
Roberto era appena uscito dagli spogliatoi. Aveva appena finito di fare una bella doccia rigenerante.
“Mi ci voleva proprio una bella rinfrescata! Cavolo le braccia e le gambe mi fanno un male atroce, sono completamente fuori gioco.”
Stremato raggiunse la sala prove mentre con un asciugamano si tamponava i capelli neri e lisci.
Dentro, ad attendere il suo ritorno, era rimasta solo Nami, gli atri due ragazzi erano andati via. Era sul pavimento con la schiena appoggiata alla parete opposta a quella dell’enorme vetrata. Con le gambe raccolte e le braccia appoggiate alle ginocchia reggeva il peso della sua testa. Stava dormendo. Intenerito Roberto la raggiunse, sedendole accanto silenziosamente. Con un tocco leggero le scostò dolcemente un ciuffo di capelli dal viso. Era la prima volta che accettava l’aiuto di qualcuno, o meglio era la prima volta che aveva bisogno dell’aiuto di qualcuno.  Ed era anche la prima volta che si trovava a fare i conti con qualcosa in cui non era abile. Tutto sommato era abbastanza divertente mettersi alla prova. Più fissava Nami e più provava tenerezza per lei.
“Come si può trattare freddamente una ragazza così? Kei è proprio un idiota. Lasciarsela sfuggire in questo modo è proprio da stupidi.”
Improvvisamente Roberto si ricordò di Marika.
“Ma chi sono io per giudicare? Dopotutto non ho trattato Marika nello stesso modo? Anzi peggio, io l’ho illusa per poi distruggerla. Più ci penso e più penso di aver sbagliato quella sera. Non avrei dovuto cedere. Forse sarebbe stato meglio per entrambi non superare quel limite.”
Dilaniato dal dubbio recuperò il telefono dalla tasca dei suoi pantaloni. In alto l’icona dei messaggi lampeggiava insistentemente.
Non aveva avuto nemmeno il coraggio di aprirlo e scoprire cosa lei gli avesse scritto. Aveva imparato a leggere tra le righe e Marika la conosceva più di quanto conoscesse se stesso. Sapeva che avrebbe finto di stare bene anche se dentro soffriva da cani. Quanta sofferenza avrebbe dovuto sopportare prima di arrendersi alla realtà? Era davvero giusto che soffrisse così per colpa del suo egoismo? Non meritava il suo amore, non avrebbe mai dovuto cedere alle sue labbra peccaminose e a quel desiderio insano. Era stato egoista fino all’ultimo. Quella sera si lasciarono con una promessa avida e irrazionale. Bagnati dalla pallida luce della luna e immersi nelle fredde acque del lago, si erano scambiati delle promesse irreali. Lui le aveva promesso che sarebbe tornato da lei un giorno, ma nel momento stesso in cui quelle parole uscirono dalla sua bocca si pentì di avergliele dette. E se lui non fosse riuscito più a tornare? Forse non avrebbe dovuto lasciarle quella speranza così labile. Forse la soluzione migliore adesso era lasciarla libera, anche se questo avrebbe significato rinunciare a lei. Ma era davvero pronto a lasciarla andare? Con tensione malcelata, aprì il messaggio.
 
Da Marika:
 
Ciao Roberto. Come va in Giappone? Qui la scuola è una vera noia. È ironico, adesso che non devo più aspettarti fuori dalla tua classe, mi ritrovo a passarci davanti continuamente. Non so, forse lo faccio perché infondo mi aspetto di vederti uscire da quella porta con la tua solita faccia da cane bastonato. Mi viene quasi da ridere se ripenso a quante volte mi hai implorato di perdonarti per i tuoi continui ritardi.  Scusami, forse non dovrei scrivere queste cose deprimenti. Dimentica tutto e lavora sodo. Io credo in te. Ti aspetterò, ma più di tutto aspetterò il tuo successo. Dai il meglio di te. Fighting !!!  
 
Roberto stava per risponderle quando avvertì qualcosa solleticargli il collo. Si girò alla sua destra scoprendo Nami a pochissimi centimetri dal suo viso che leggeva quel messaggio con occhi curiosi.
Roberto, spense lo schermo e nascose il telefono nella tasca dei pantaloni.
«Tranquillo, l’italiano non lo capisco. Visto il modo e la fretta con cui lo hai tirato via suppongo si tratti di qualcuno di speciale. È la tua ragazza?» gli domandò con interesse.
Roberto si sollevò di scatto, recuperando l’asciugamano e la sua bottiglietta di acqua.
«Non sono fatti che ti riguardano.» le rispose infastidito.
«Non deve esserle stato facile…»
a quelle parole Roberto si arrestò immediatamente ormai vicino la porta con la mano sulla maniglia«Cosa?».
«lasciarti andare. Questa ragazza deve essere o molto coraggiosa o molto stupida. Devo ancora capire se lasciare andare chi si ama sia un atto poco intelligente o al contrario quasi eroico».
«Non credo ti riguardi, quindi ti prego di non ficcanasare. E comunque non ci siamo detti addio, un giorno tornerò. Gliel’ho promesso».
«Promesso? Ma stai scherzando? Cosa hai intenzione di fare se non riuscirai, se la vita non te lo permettesse? La lascerai davvero lì a torturasi nell’attesa di un tuo ritorno? Sei sicuro che rimarrà lì ad aspettarti in eterno? Forse dovresti semplicemente farla finita, prima che diventi troppo difficile farlo».
«Cosa ne sai tu! Pensi sia così semplice? ».
«Rinunciare a chi si ama non è mai facile, io lo so benissimo, ma …»
«Si è fatto tardi, sarebbe meglio andare», la interruppe Roberto prima di spalancare la porta e uscire. Nami lo rincorse per i corridoi. In silenzio erano finalmente fuori dall’imponente palazzo. Roberto non poteva sopportare le parole di quella ragazzina invadente. Non poteva tollerarle perché infondo sapeva che rappresentavano la verità.
«Roberto, mi dispiace. Non avrei dovuto intromettermi. Dopotutto una ragazza così stupida come me, che continua a insistere con un amore a senso unico, che diritto ha di giudicare gli altri… » si rammaricò chinando il capo e fissando la punta delle sue ballerine. Roberto la ignorò mentre ostinatamente fissava la gente che, sul marciapiede opposto sfilava frettolosa da entrambi i lati.
“Forse ho esagerato..” per un flebile istante si pentì di aver alzato la voce in quel modo. Si voltò appena in tempo per incontrare un insolito sorriso tirato di Nami, la stessa dopo aver incrociato il suo sguardo si aggiustò un ciuffo di capelli dietro l’orecchio spostando lo sguardo altrove.
«Comunque, perché tu lo sappia, oggi non te la sei cavata male. Ci vediamo domani» detto questo Nami fermò un taxi salendoci dentro in gran fretta.
Roberto rimase lì fermo mentre la vettura bianca gli sfilava davanti. Era sicuro di aver visto una lacrima scendere sul suo viso candido. Forse aveva esagerato davvero. Era proprio destino, le ragazze era solo bravo a farle soffrire.
Strinse i pugni.
“Forse Nami ha ragione, dovrei farla finita prima che Marika sprechi la sua vita aspettandomi inutilmente. Quella promessa potrei non mantenerla mai… Non voglio che soffra per colpa mia”.
Preso il cellulare dalla tasca aprì quel messaggio e coraggiosamente scrisse la sua risposta.
 
Da Roberto.
Marika, scusami, non ho avuto il coraggio di scriverti prima. La verità è che sono un codardo e un bugiardo. Avevi ragione quella sera, non sono altro che questo. Non credo sarebbe giusto per entrambi vivere condizionati da una promessa irragionevole come quella che ti ho fatto l’ultima volta. Non voglio che tu sprechi la tua vita aspettando un ragazzo che forse non potrà più tornare da te. Non voglio privarti della libertà di vivere una vita piena solo per colpa di una speranza inconsistente. Ti amo, ma non voglio condizionare la tua vita.
 
 
Spinse invio. Ripose il telefonino nella tasca dei pantaloni. Dopo due minuti ricevette una risposta.
 
Da Marika:
Non essere ridicolo, ti ho aspettato per 18 anni, non mollerò di certo adesso. Se davvero mi ami non smettere di credere in noi. Perché finché avrò vita io non lo farò. Non cancellarmi dalla tua vita credendo di farlo per il mio bene, non importa quanto dovrò aspettare, io rimarrò qui ad attendere il tuo ritorno. Ti aspetterò come ho sempre fatto, così a scuola così nella vita. Non potrei vivere senza di te.  Abbi fiducia in noi. Ti amo.
 
Roberto stringeva il telefono nella sua mano destra.
“Cosa dovrei fare? Andrà davvero bene così?”
 
Da Roberto:
Tornerò.
 
Il bus si fermò a pochi metri da lui, più sicuro delle sue intenzioni si incamminò verso di esso. Aveva deciso, non si sarebbe lasciato scoraggiare da niente e da nessuno. Non si sarebbe mai dimenticato di lei. Avrebbero superato anche questo ostacolo insieme. Non voleva e non poteva ancora rinunciare al suo amore. Un amore che non avevano ancora trovato il tempo di vivere appieno.
 
 
ITALIA

Clara aveva appena fatto cassa a una coppia di ragazzi. Con una mano si asciugò la fronte. Era davvero stanca e poi faceva davvero caldo. Diede un’occhiata all’orario dal suo orologio da polso. Ancora venti minuti e avrebbe chiuso il negozio.
Impaziente osservava la lancetta dei secondi avanzare. Una voce sommessa ma anche virile la richiamò. Sollevò i suoi occhi verdi e incrociò il viso di un ragazzo alto e molto affascinate, con dei capelli biondi e lucenti come il sole, lunghi fino alle spalle tenuti stretti in un codino e degli occhi grandi e azzurri come il cielo. Aveva un completo elegante e un portamento regale. Non doveva avere più di trent’anni.
«Prendo questo» le indicò uno spartito. Clara lo recuperò impacciata dalle sue mani. Le dita di quel ragazzo erano davvero molto lunghe e sottili mentre i suoi occhi erano inaspettatamente limpidi e gentili, l’opposto della sua corporatura alta e imponente. Per un attimo i fogli, che aveva appena recuperato, gli scivolarono dalle mani. Subito il ragazzo elegante corse in suo aiuto. Per pochi istanti le loro mani si sfiorarono. Clara diventò rossa come un peperone, e impreparata a quel contatto indietreggiò a disagio.
«P… p… prende solo q… q… questo?» improvvisò balbettando come una idiota.
L’uomo le sorrise divertito. Doveva essere abituato a suscitare quel tipo di reazione nelle ragazze.
«Si, per il momento» aggiunse cortese.
«Sono dieci euro» completò lei deglutendo vistosamente. L’uomo recuperò il suo portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni. Clara approfittando di quel momento di distrazione si osservò sulla superficie specchiata del bancone. Si aggiustò i capelli alla meglio e squadrò il suo trucco ormai inesistente. Tutto questo nell’arco di pochissimi secondi.
«Ecco, tenga pure il resto» la richiamò cogliendola di sorpresa. Clara spostò il suo sguardo sorpreso dal  viso angelico del ragazzo al bancone, appena in tempo per notare una banconota da cinquanta euro abbandonata a pochi centimetri dal punto in cui si era appena specchiata.
«Non posso accettare, è davvero troppo.» provò a convincerlo riconsegnandogliela cortesemente. L’uomo le sorrise divertito.
«Allora, li consideri come un versamento per acquisti futuri. Tornerò presto in questo negozio. C’è qualcosa di davvero interessante che devo assolutamente tornare a prendermi» completò salutandola cortesemente inchinando leggermente il capo in avanti, poi recuperato il suo acquisto uscì lasciando Clara con un’espressione da ebete sul viso.
“Ha detto che tornerà…  c’è ancora qualcosa che gli interessa qui… ” con una mano si tastò il petto. Il suo cuore era in subbuglio per la prima volta nella sua vita.
 
 
 
TOKYO
 
Kei aveva appena raggiunto l’edificio della Kings Record. Erano appena le otto di sera. Non sapeva neanche perché era finito lì davanti.
“Cosa diamine ci faccio qui? Non dovrei preoccuparmi. Quel pivellino non ce la farà mai a vincere contro di me. Eppure sono qui. Allora cosa mi preoccupa tanto?” Kei osservava, nascosto dietro un palo, l’ingresso della Casa discografica.
Due colpetti innocenti e improvvisi alla spalla destra, lo fecero sobbalzare.
«Cosa ci fai qui?» era Nami.
I suoi occhi si fecero freddi e indifferenti per mascherare invece la sorpresa di essersela ritrovata improvvisamente alle spalle.
«Quello che faccio non sono affari che ti riguardano» le rispose scontroso come al solito.
Nami arricciò il muso indispettita.
«meglio così, anche volendo non avrei avuto il tempo di discuterne con te. Io e Rob abbiamo cose più importanti da fare» detto questo lo superò con aria indifferente.
“Rob? Da quando in quando lo chiama così? Dopo neanche due giorni si è presa così tanta confidenza con quel tipo?”
Kei, non poteva sopportare il fatto che avesse improvvisamente deciso di ignorarlo, o forse più semplicemente lo infastidiva che le sue attenzioni adesso fossero rivolte verso qualcun’altro. La bloccò per un braccio prima che lei potesse attraversare la strada.
«Cosa vuoi adesso?» lo riprese lei con uno sguardo sorpreso e contrito che colpì Kei dritto al cuore. La sua mano tremò incerta.
“Perché diavolo l’ho bloccata?”
Qualcuno inaspettatamente si intromise tra loro, allontanando in malo modo la mano forte di Kei dal braccio esile di Nami.
«Tutto bene?» chiese Roberto alla ragazza, accarezzandole il viso premuroso. Lei gli acconsentì con un sorriso timido e imbarazzato.
Kei strinse i pugni. Da quando in quando, Roberto era diventato il principe azzurro e lui l’antagonista spietato?
Era davvero assurdo. Non poteva credere che dopo tutte le sue moine da ragazzina innamorata, Nami lo avesse messo da parte così facilmente. Stava per voltarsi e allontanarsi quando Roberto lo fermò.
«Volevi qualcosa da NOI, Kei?» gli chiese mettendo l’accento sul termine NOI e stringendo a sé Nami.
Il ragazzo con il ciuffo sull’occhio sinistro si fermò appena in tempo sorridendogli beffardo. Non gli avrebbe concesso il lusso di vederlo perdere la pazienza. Era quello che voleva, lo aveva capito.
«Ero venuto per invitarvi alla nostra esibizione di questa sera al Blue Night. Ho pensato che sarebbe stato istruttivo per te vedere dei veri professionisti all’opera. Magari, se sarai attento, riuscirai ad imparare anche qualcosa. Non che tu abbia molto tempo ormai per apprendere i rudimenti, figuriamoci per perfezionarti…»
«Non preoccuparti troppo per me, ancora non mi conosci. Sono un tipo che impara para molto in fretta, sai? .»
«Lo vedremo…» detto questo si allontanò dai due ragazzi con la sua solita aria di superiorità, con le mani nelle tasche anteriore e a passo spedito.
«Credimi Nami, non so davvero cosa ci vedi in lui» proseguì Roberto riportando la sua attenzione sull’amica. La stessa aveva stretto con la mano destra il punto in cui l’aveva bloccata Kei poco prima. I suoi occhi erano increduli e vivaci allo stesso tempo.
«È la prima volta che mi blocca in questa maniera. Non posso crederci…» proseguì incredula.
«Sei un caso patologico, lo sai?»
«Beh, non credo di essere la sola, arrivata a questo punto… » Roberto le sorrise scompigliandole i capelli da bravo fratello maggiore.
«Andiamo» la spronò prendendola per un polso.
«Dove mi stai portando? Guarda che l’ingresso è da quella parte… ».
«Sono proprio curioso di vederli esibirsi. Penso che su una cosa Kei avesse ragione, sarà davvero molto istruttivo».
  
Dietro le quinte della pista da ballo i tre ragazzi aspettavano impazienti il loro turno. Jona e Kei sedevano su un divano rosso mentre Shin ansioso si muoveva da una parte all’altra sfilando davanti gli altri due seduti. Kei, seppure dovesse concentrare tutte le sue attenzioni sulla loro esibizione di quella sera, non riusciva ancora a rimuovere quell’immagine dalla testa. Nella sua mente il pensiero di Roberto e Nami così intimi, continuava a turbarlo e infastidirlo.
“Quella ragazzina… perché dovrei preoccuparmi per lei adesso? Dopotutto ho rinunciato tanto tempo fa a questo genere di cose… no, devo smetterla. Che lui si approfitti pure di lei. Non sono fatti che mi riguardano. E poi io ho cose più importanti a cui pensare per il momento”
Shin notando l’espressione afflitta del fratello cercò di richiamare la sua attenzione.
«Kei, avevi ragione. Testare la coreografia un giorno prima è stata proprio una bella idea. Potremmo vedere se funziona. Nel caso contrario perfezioneremo quello che non va. Sono così eccitato…» completò saltellando elettrizzato. Kei accennò un leggero sorriso. Shin si emozionava davvero per poco.
«Shin calmati, se continui a saltellare così mi farai venire il mal di testa. Se continui potresti farti male e non ho proprio il tempo di cercare un sostituto in questo momento».
Shin si immobilizzò all’istante, reclinando il capo sconfitto e portando in avanti il labbro inferiore in un’espressione tenera da bambino imbronciato.
«E va bene, ma dopo andremo a mangiare ramen? Me lo hai promesso…» completò prendendo posto tra i due. Kei gli sorrise scompigliandogli i capelli neri e corti.
«Certo che ci andremo, ho intenzione di vincere e guadagnare un bel gruzzoletto con le scommesse».
Shin acconsentì in brodo di giuggiole. Per lui Kei era come l’eroe dei fumetti per un bambino. Era un punto di riferimento fermo, era la persona che cercava di emulare al disopra di tutti.  Lo stimava ed era fiero di lui. 
Mentre Kei e Shin scherzavano tra di loro. Jona in silenzio controllava il suo cellulare. La sua casella di posta e il registro delle chiamate era tristemente vuoto. I suoi genitori non dovevano esserci accorti ancora della sua assenza.
Tutto questo era davvero sconfortante.
Dopo poco una ragazza li chiamò. Era arrivato il loro turno.
 
 
Roberto e Nami erano tra la folla concitata. Il giovane intruso italiano si sentiva letteralmente su un altro pianeta. Era tutto così strano. Mentre esaminava ogni dettaglio, dal palco alle luci, notò su un piano rialzato Toshi che inseriva le tracce audio. Nami gli aveva spiegato che spesso sostituiva il Dj. Amava molto mixare le tracce e fondere gli stili e i generi musicali. A parer suo aveva un ottimo orecchio musicale. Accanto a lui Take aveva appena finito la sua esibizione e osservava con interesse i gruppi successivi.   Nami improvvisamente si avvicinò a Roberto sfiorandogli l’orecchio sinistro con le sue labbra vellutate.
«adesso si esibiranno loro… non ti lasciare condizionare da quello che saranno in grado di fare. Tu li straccerai domani» detto questo gli ammiccò complice prima di ritornare al suo posto.
Proprio in quel momento, accompagnati da urla esultanti, fecero il loro ingresso Kei, Jona e Shin. Proprio accanto a Roberto un paio di ragazze iniziarono a acclamare il nome di Kei ad alta voce.
“Deve essere abbastanza famoso da queste parti”, constatò stupito. Dal canto suo Nami aveva uno sguardo carco di astio. Se solo avesse avuto il potere di farlo, le avrebbe sicuramente incenerite all'istante. Roberto trattenne a stento una risata. Nami era davvero unica, la sua espressione era troppo buffa.
La traccia partì e i tre si predisposero per la coreografia. I loro movimenti erano ben calcolati e perfettamente a tempo. La sincronia era una delle componenti principali in quel genere di esibizione. Doveva ammetterlo, erano veramente favolosi. Nami accanto a lui esaminava attenta i passi della coreografia. Dalla sua faccia era evidente che qualcosa la preoccupasse. Prima che l’esibizione finisse prese Roberto per un polso e lo strattonò fuori dal locale. L’aria fresca si riversò rapida su di loro entrando prepotente nei loro polmoni. Quel locale era davvero troppo affollato.
«Che ti prende?» le domandò Roberto.
«Non possiamo perdere tempo, dobbiamo prepararci» gli spiegò frettolosamente.
«Hai ragione, ma non possiamo finire di vedere l’esibizione prima?»
«Non abbiamo tempo. Dobbiamo apportare una modifica alla coreografia. Con la nostra attualmente non vinceremmo mai»
«Cosa vuoi fare?»
«Voglio inserire un salto o una mezza acrobazia. Kei non ne proporrà mai una…»
«Ma io non so se sarò capace di farla. Questo genere di cose non rientra proprio nelle mie corde»
«Non temere ti aiuterò io» detto questo i due si mossero verso la Kings Record.
 
Erano le tre di notte ormai entrambi i ragazzi erano distrutti. Nami aveva imparato molti passi da suo fratello. Così ebbe modo di insegnarli a sua volta a Roberto. Stremati dopo quattro ore di allenamento erano stesi sul parquet della sala prove a pancia in su.
«Nami ci sei?» le domandò Roberto.
«Certo che ci sono, anche se sono mezza morta, quindi diciamo che chi ti parla è il mio zombie» gli rispose recuperando l’aria a grandi boccate.
«Grazie» le disse Roberto a bruciapelo, mettendosi su un fianco e reggendo la sua testa con un gomito sul pavimento. Nami ruotò appena la testa nella sua direzione. Erano davvero molto vicini.
«Non dovresti ringraziarmi, dopotutto non lo sto facendo solo per te. Ricordi? Ci stiamo facendo un favore a vicenda»
Roberto le sorrise dolcemente. Nami più osservava il volto di quel ragazzo più gli sembrava riempirsi di una luce nuova.
“Quando sorride è davvero molto carino” pensò scorrendo rapida ogni dettaglio del suo volto. Dagli occhi scuri al naso piccolo alle labbra carnose. Roberto era molto bello.
«Non ti stavo ringraziando per questo, ma per quello che mi hai detto l’altra sera» Nami si mise anche lei su un fianco.
«Intendi quello che ho detto sulla tua ragazza…» completò interessata.
«Si, ci ho pensato e dopo quello che mi hai detto ho capito che non posso e non voglio rinunciare a lei. Non posso e non voglio dimenticarla. Devo fare di tutto per mantenere quella promessa.»
Nami si mise seduta sciogliendosi la codina alta e lasciando che i suoi capelli tornassero a incorniciarle il viso tondo.
«Amare qualcuno ed essere amati allo stesso modo deve essere meraviglioso. Spero davvero che tu riesca a mantenere la tua promessa» dopo un sorriso amaro e con fare malinconico si rimise in piedi. Avvicinatasi a Roberto gli porse una mano. Lui l’accettò volentieri tirandosi su a sua volta. Il movimento però fu troppo brusco o forse semplicemente le braccia di Nami non erano ancora pronte a sostenere un altro sforzo. Entrambi si ritrovarono stesi l’uno sull’altra sul pavimento. Roberto percepiva chiaramente il corpo di Nami premere sul suo. Avvertiva i seni di lei fare pressione sul suo petto e quei capelli neri e lucenti accarezzargli il volto. Nami a sua volta percepiva il caldo respiro di Roberto sul suo volto. Era la prima volta che si ritrovava a una distanza così poco raccomandabile con un ragazzo. I loro visi erano a pochissimi centimetri l’uno dall’altro. Se non avesse avuto i riflessi pronti probabilmente sarebbero finiti per baciarsi lì e a causa di una stupida caduta come quella. Invece grazie al cielo era riuscita ad attutire il colpo con le sue braccia. I loro occhi si incontrarono intensamente per qualche secondo, poi Roberto la scostò dolcemente da sé, recuperando una distanza più che raccomandabile. Entrambi erano visibilmente in imbarazzo. Nami di sottecchi analizzava l’espressione agitata di Roberto. Che situazione era mai quella? Lei era innamorata di Kei, eppure perché il suo cuore stava battendo così forte per un altro ragazzo?
Roberto provò inutilmente a ignorare lo sguardo di Nami, ma non ci riuscì. Con una mano si tastò il petto. Il suo cuore stava battendo così forte ma per quale motivo? Non poteva essere che lui… No, per Roberto esisteva solo Marika. Superato l’imbarazzo si sollevò recuperando il proprio borsone e porgendo una mano a Nami. Lei l’accettò ancora rossa in viso.
«Siamo proprio due imbranati, scene di questo tipo dovremmo riservarcele per quando c’è Kei nei paraggi» esordì con quella frase che efficacemente fece ritornare il sorriso sul volto di Nami e cancellò l’imbarazzo di quel momento.
«Hai proprio ragione» entrambi uscirono spegnendo la luce.
Erano fuori dalla Kings Record. Come sempre Roberto attendeva fermo sotto la capannina il suo autobus mentre Nami aspettava il primo taxi. In silenzio indugiavano in attesa dei loro mezzi di trasporto.
«Roberto, questo allora è il nostro ultimo allenamento. Caspita come è passato rapido il tempo. Riposa, domani sarà un grande giorno» completò sorridendogli prima di richiamare con una mano un taxi bianco a una certa distanza. Roberto si mosse spinto da un desiderio irrazionale. La raggiunse e tirandola a sé l’abbracciò.           Prima che lei potesse fare un passo verso il taxi bianco ormai fermo a meno di un metro, si ritrovò avvolta tra quelle calde braccia.
«Grazie di tutto Nami. Sono felice che tu mi abbia aiutato» lei rimase immobile ad accettare quell’abbraccio. Era la prima volta che un ragazzo la ringraziava. Kei non si era mai sprecato neanche a fare quello per lei. Poteva una semplice parola come quella rendere così tanto felice una persona? Dolcemente Roberto allontanò Nami da sé sorridendogli come sempre.
                                                                                                                                                   
Nami non sapeva più cosa pensare, voleva solo sdebitarsi con lui per quel dono prezioso e inatteso. Sollevandosi sulle punte dei piedi e tendo stretto il volto di Roberto tra le sue mani sottili, lo baciò.
“Cosa cavolo sta facendo?” gli occhi di lui si spalancarono all’istante per la sorpresa. Nella sua testa un solo pensiero: Marika. Aveva appena accettato il bacio di un’altra ragazza?
Perché non riusciva a muovere un solo muscolo per allontanare Nami da se?
Lentamente lei distanziò le sue labbra morbide da quelle calde di Roberto.
«Adesso, devo andare» improvvisò imbarazzata dirigendosi verso il taxi.
«Si, certo…» proseguì Roberto ancora stordito da quel contatto inatteso. Lei lo salutò e aperto lo sportello della vettura salì. La stessa partì poco dopo. Con la mano destra Roberto si sfiorò le labbra.
“Cosa diavolo significa? Non aveva detto che gli piaceva Kei? Diamine questa non ci voleva…”
 Non ebbe il tempo di tornare sotto la capannina che qualcuno alle sue spalle lo costrinse a voltarsi. Il colpo fu preciso e diretto privo di esitazione e carico di rabbia.  Talmente forte da fargli perdere l’equilibrio e farlo cadere di schiena sul freddo asfalto. Il dolore fu allucinante.          A denti stretti e occhi chiusi cercò di contenerlo. Lentamente riaprì gli occhi mettendosi seduto e asciugandosi un rivolo di sangue dalla bocca. A incombere su di lui, Kei lo fissava furibondo. Senza consumare parole inutili, lo sollevò prepotentemente dal collo della maglietta. Roberto fu di nuovo in piedi.
Gli occhi di Kei erano infuocati. Non c’era pietà ma solo odio, rancore e fervente gelosia.
«…non devi toccarla. Mi hai capito?» detto questo, ancora combattuto se colpirlo una seconda volta o meno, mollò la presa spingendolo in malo modo.
Roberto non poteva rimanere lì fermo ad accettare quelle provocazioni senza far nulla. Dopotutto con quel ragazzo aveva ancora un conto in sospeso. Non gli avrebbe mai perdonato il modo in cui aveva messo in discussione la sua posizione nel gruppo e soprattutto non poteva perdonarlo di aver tirato in ballo anche suo padre.
«Non è un mio problema se maltratti chi ti sta vicino. Non dirmi che davvero credevi che ti starebbe stata vicino per sempre.  Dovevi immaginartelo che primo o poi avrebbe capito che c’è di meglio in giro.»
«Brutto stronzo. Come ti permetti?»
«Cos’è? non sai accettare la verità? Più che prendertela con me è te stesso che dovresti rimproverare. Se l’hai persa è solo colpa tua che non hai saputo tenertela vicino e apprezzarla come avresti dovuto. L’hai mai davvero apprezzata come merita? Hai mai notato le facce buffe che fa quando è gelosa delle altre ragazze? Ti sei mai soffermato ad ammirare il suo sorriso? Immagino tu non lo abbia mai fatto altrimenti adesso non starebbe al mio fianco ma al tuo. Ora se non ti dispiace vado, l’autobus è appena arrivato. Ci si vede», detto questo Roberto si lasciò Kei alle spalle per salire sul bus. La sua vera vendetta l’avrebbe avuta domani, quando lo avrebbe stracciato davanti a tutti.
Il ragazzo fermo ancora sul marciapiede osservava immobile quell’imponente vettura allontanarsi mentre le sue mani si richiudevano in due pugni indignati.
“Non può essere vero. Davvero a Nami non interesso più? Cosa diamine mi prende, perché sto permettendo a una ragazza come lei di farmi questo? Quell’idiota dice che è colpa mia, ma lui cosa ne sa. Io non posso permettermi il lusso di amare qualcuno. Ho troppe responsabilità e non voglio deludere chi mi sta vicino. Voglio diventare un cantante famoso a tutti i costi. Anche volendo ammettere di aver provato qualcosa per lei come potevo accettare il suo amore sapendo che un giorno l’avrei dovuto distruggere con le mie stesse mani? A che scopo incoraggiare una relazione che non avrebbe comunque futuro?   Dopo tutto quello che è successo ai miei genitori è chiaro che l’amore costruito su false speranze non può che portare al dolore.  A che scopo amare se il risultato è questo? Primo o poi entrambi ci saremmo pentiti di averlo fatto, lo so. Questo è vero eppure adesso sono qui con un dolore alla mano destra e con una fitta ancora più dolorosa al cuore. Il suo primo bacio, diceva che lo avrebbe dato a me e invece… Perché fino a due giorni fa riuscivo a controllarmi mentre adesso non riesco più a gestire questa dannata morsa allo stomaco? Cosa è cambiato? Perché adesso non sopporto l’idea di perderla… perché? che mi prende? Mi sarò davvero rammollito? Ho sempre creduto che frasi scontate come “le cose più importanti le noti solo dopo averle perse”, fossero delle scuse belle e buone inventate da gente poco coraggiosa, ma adesso che mi trovo in questa situazione mi sembrano così vere. Questo vuol dire forse che, fino ad oggi, sono stato solo un altro codardo su questo pianeta?”
Kei camminando a capo chino era finalmente giunto dinnanzi l’orfanotrofio. Quella camminata gli aveva fatto bene, gli era servita per mettere un po’ di ordine nella sua testa. Sollevando il capo, si perse nella volta celeste stracolma di stelle. Un giorno avrebbe costruito un futuro luminoso, per lui e per le persone che amava. Ecco qual’era il suo sogno. Ricambiare la fiducia che JJ e Shin avevano riposto in lui. Con il suo sudore e con il suo sacrificio avrebbe guadagnato abbastanza soldi per ricomprare la loro casa. La stessa casa in cui era ancora viva la presenza di Akiko. Ci sarebbe riuscito a tutti i costi.  Li avrebbe resi orgogliosi di lui, anche se questo avrebbe significato rinunciare all’amore, lo avrebbe fatto. Riconquistata la propria sicurezza s’incamminò verso l’ingresso dell’orfanotrofio. Facendo meno rumori possibili aprì la porta. Tutto taceva all’interno. Con movimenti lenti e misurati salì le scale che conducevano al piano superiore. Aprì la porta e dopo essersela richiusa raggiunse il letto di Shin. Suo fratello stava dormendo tranquillo. Dopo aver mangiato tutto quel ramen era più che logico che fosse sprofondato in un sonno profondo come quello. Facendo molta attenzione sollevò le coperte e adagiandosi sul materasso morbido accanto a Shin le richiuse. Aveva davvero bisogno di lui quella sera. Si sentiva cos’ solo. Lentamente i suoi occhi si chiusero trovando il conforto tanto desiderato nel respiro profondo e sereno di suo fratello. Come una dolce carezza una brezza leggera dello stesso odore dell’oceano entrò dalla finestra aperta accarezzando la fronte dei due ragazzi. Per un attimo Kei aprì gli occhi, sicuro di aver sentito il tocco leggero di Akiko sfiorargli il viso. Quella brezza si acquietò improvvisamente. Doveva essersi sbagliato. Dolcemente richiuse i suoi occhi mentre, con la testa appoggiata alla spalla di Shin, cedeva anche lui a un sogno sereno e privo di incubi. 

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Capitolo 8
*** UNA POSSIBILITA' PER CAMBIARE ***


 

CAPITOLO 8

 

UNA POSSIBILITA’ PER CAMBIARE

 
 
 
 
 
Tokyo
 
Il giorno della competizione era finalmente arrivato. Roberto nella sua camera, seduto sul letto, stringeva nervosamente tra le mani un cappello blu come il freddo cielo invernale.
“Cosa diamine mi è preso? Come ho potuto permettere a un’altra ragazza di baciarmi? Probabilmente si è trattato di un momento di debolezza, nient’altro. Entrambi ci trovavamo in una situazione complicata e credo sia normale perdere il controllo.” Distendendosi sul materasso e portando il cappello al petto, Roberto sospirò vistosamente.
“Devo chiarire con lei prima che si ripresentino altri fraintendimenti. Mi basta avere Kei come nemico non vorrei inimicarmi anche Toshi.” Più tranquillo si risollevò, ripose il cappello sulla scrivania e uscì dalla casa dei suoi nonni. Prima della gara avrebbe chiarito con Nami.
 
Kei era con gli altri del gruppo nel garage di Take. Stavano riprendendo la coreografia mentre da bravi spettatori Toshi e Take li osservavano in silenzio. Kei continuava a modificare passi e a inserire elementi nuovi. Era insoddisfatto e abbastanza nervoso. Ovviamente nessuno dei presenti era a conoscenza del vero motivo della sua agitazione. Kei, voleva a tutti i costi rimuovere quella dannata immagine dalla testa. Voleva diventasse presto solo un brutto ricordo, e comportandosi in quel modo sperava di poterci riuscire. Voleva scrollarsi dal cuore quei sentimenti ingombranti che adesso gli pesavano troppo sulla coscienza. La cosa più importante per lui era vincere quella dannata competizione. Solo così si sarebbe liberato di Roberto una volta per tutte.
Un flashback improvviso lo riportò indietro a quel bacio tra Roberto e Nami, e a quel senso di tradimento e frustrazione che aveva provato. Eppure quell'inaspettato contatto, non era la sola cosa che aveva scoperto quella dannata sera. Dopo essere uscito a festeggiare con gli altri, aveva pensato di fare due passi per schiarirsi i pensieri. Cosi, senza una meta precisa, si era ritrovato ancora una volta davanti quel dannato palazzo alla Kings Record. Entrando di soppiatto nell’edificio aveva spiato Roberto e Nami allenarsi. Così, senza volerlo, aveva scoperto con quale arma Nami aveva intenzione di colpirlo per far vincere Roberto. Avrebbero usato dei salti nella coreografia. Lui non li aveva mai perfezionati, purtroppo, per quanto non volesse ammetterlo, le sue braccia erano state sempre troppo deboli per compiere quei volteggi complicati. Non pensava che Nami sarebbe arrivata a sfruttare le sue debolezze in quel modo e soprattutto per aiutare il primo arrivato della situazione.
«Kei, non dovremmo modificare la coreografia. Ieri ha funzionato bene…»  tentò di convincerlo Jona.
«Non dire sciocchezze, non vinceremo mai così…» gli rispose scostandolo in malo modo e facendosi spazio al centro della pista, tentando per l’ennesima volta di portare a buon fine un Powermove: una mossa che prevede una rotazione sull’asse centrale del corpo. Ma il carico sulle sue braccia questa volta non fu trattenuto tanto da permettergli di completare l'evoluzione così Kei si ritrovò a terra. Nella caduta il suo braccio urtò violentemente sul pavimento freddo, causandogli una fitta allucinante.  Shin corse subito verso suo fratello, seguito dagli altri tre.
«Kei, tutto bene? Ti sei fatto male?» chiese il più piccolo aiutando il fratello a sollevarsi mettendosi seduto. Kei aveva gli occhi stretti per il dolore.
“Maledizione, non adesso. Non oggi. Porca miseria…”
«Ragazzi, fatemi passare… » si fece largo attraverso gli altri Take, con sguardo clinico osservò il braccio di Kei. Provò a sfiorarglielo appena e solo a quel tocco leggero, Kei esplose in una smorfia di dolore per nulla rassicurante. La situazione non sembrava essere delle migliori.
«Penso ci sia qualcosa di rotto, dobbiamo andare in ospedale immediatamente» concluse allontanando la sua mano dal braccio dell’amico.
«Non posso. Prima dobbiamo esibirci…» obbiettò Kei sollevandosi dal pavimento e imponendosi sugli altri con arroganza.
«Non essere ridicolo, ballando in queste condizioni cosa speri di ottenere? Primo peggioreresti le cose e secondo ti garantisco che non riusciresti a stare al passo con loro» cercò di convincerlo il più grande indicando Shin e Jona alla sua destra.
“Maledizione… ha ragione” Kei reclinò il capo sconfitto e strinse i denti. Shin gli si avvicinò e con una mano sulla sua spalla  cercò di rassicurarlo.
«Non devi preoccuparti, anche se siamo solo in due riusciremo a batterlo. Puoi contare su di noi. Adesso però fatti accompagnare in ospedale» cercò di convincerlo.
Kei, suo malgrado, acconsentì. A quegli occhi imploranti e preoccupati non era capace di dire no.
 
Nami era davanti al locale. Aspettava nervosamente l’arrivo di Roberto. Dopo quel bacio di ringraziamento non sapeva come comportarsi. In realtà non sapeva neanche perché lo avesse fatto. Lui era fidanzato, come aveva potuto essere così sconsiderata? Doveva chiedergli scusa.
Proprio in quel momento Roberto la raggiunse. Avanzava a testa alta e sguardo fiero, non c’era imbarazzo o incertezza nei suoi occhi, e questo le diede la forza di affrontarlo più sicura di quello che gli avrebbe detto.
«Roberto, senti, per quello che è successo ieri… » improvvisò, ma lui la interruppe prima che potesse proseguire.
«Cancelliamolo, abbiamo solo avuto una piccola sbandata. Non ricapiterà più quindi adesso non pensiamoci troppo e entriamo. Abbiamo una gara da vincere.. » concluse superandola e entrando nel locale. Nami un po’ delusa da quelle fredde parole lo seguì.
Erano dietro le quinte. Roberto non faceva altro che giocare con il labbro inferiore, sfiorandoselo con il pollice, fu in quel momento che Nami notò quella ferita.
«Cosa ti è successo al labbro? » gli chiese avvicinandosi e scostandogli dolcemente la mano dal viso. Quel contatto mise Roberto a disagio ancora una volta, tanto che fu costretto a volgere il suo sguardo altrove per non farglielo notare. .
«Nulla, non preoccuparti».
«Come può essere nulla? Qualcuno ti ha picchiato ieri notte? » gli domandò preoccupata avvicinandosi sempre di più.
«Davvero, non è importante..» la scostò infastidito.
«Non sarà stato mica Kei… » gli chiese con occhi sottili come fessure. Roberto tornò a guardarla in viso.
«Non devi preoccupartene adesso» Nami strinse i pugni e corrucciò le sopracciglia infuriata come non mai.
«E no, questa me la paga cara. Certi modi dovrebbe conservarseli per chi se li merita, che diritto aveva di colpirti?» Roberto esitò perplesso. Dopotutto quel cazzotto, per certi versi, se lo meritava.
«Lascia stare… » cercò di convincerla appoggiandosi a una parete e facendo spallucce, ma Nami non era pronta a lasciar correre la cosa. Senza aggiungere altro si allontanò da Roberto. Doveva parlare con Kei. Per quanto non sopportasse la presenza di Roberto, che diritto aveva di picchiarlo?
 
Kei era appena arrivato con gli altri. Toschi e Take si erano allontanati per primi, a fargli compagnia erano rimasti solo Shin e Jona. Sedendosi sciattamente sul divano rosso il ragazzo con il ciuffo scuro sul volto incrociò le braccia all’altezza dello stomaco. Su una delle due c’era una bella ingessatura. Grazie al cielo il danno non era grave. Tempo una settimana e si sarebbe potuto liberare di quell’opprimente blocco bianco al braccio sinistro.
«Kei, noi andiamo a prendere da bere. Hai voglia di qualcosa? » gli chiese premuroso suo fratello.
«Non ho voglia di niente» replicò scontroso l’altro ruotando la testa altrove. Shin lanciò uno sguardo perplesso verso Jona che fece spallucce anticipandolo e muovendosi in direzione del bancone.
«Arriviamo subito» lo rassicurò un ultima volta Shin prima di seguire l’amico biondo.
Kei li vide allontanarsi insieme. Odiava il loro atteggiamento apprensivo, era veramente soffocante.
“Diamine non ci voleva proprio…” pensava mentre con la mano destra si tastava la candida ingessatura.
Nami avanzava a passo spedito tra i ragazzi ammucchiati dietro le quinte in attesa del loro turno. Finalmente, tra tanta confusione, scorse in lontananza Kei seduto sul divano rosso con una espressione frustrata sul volto. Avanzò decisa nella sua direzione, quando a pochi metri si arrestò. In quel momento, si accorse che Kei aveva un braccio ingessato.
«cosa ti è successo?» esordì con aria sorpresa.
«non dirmi che adesso sei tornata a preoccuparti per me? Davvero ti importa cosa mi è successo? Ma non essere ridicola, più che angosciarti per me  faresti meglio a concentrarti sul tuo nuovo fidanzato» completò  storcendo il muso indispettito. In quel momento Nami si ricordò del motivo che l’aveva portata fin lì.
«Perfetto, visto che ci siamo allora, ti chiedo di non azzardarti più a infastidirlo. Mi delude sapere che l’unico modo di competere che conosci sia attraverso la violenza. Sono stata proprio una stupida. Per tutto questo tempo ho creduto che fossi diverso, ma a quanto pare mi sbagliavo. Quando capirai che dubitando degli altri in questo modo l’unico a cui farai del male è te stesso…? perché non concedi mai una possibilità a chi ti sta vicino? Perché devi sempre dubitare degli altri? Non tutti sono nati per ferirti… »
«fiducia? possibilità? Proprio tu mi parli di queste cose…? sai benissimo che non posso fare determinati passi e hai deciso di usare questa mia debolezza per sconfiggermi. Hai appena dimostrato a entrambi che, fino ad oggi, ho fatto bene a non fidarmi degli altri e soprattutto di te. Della gente che ti addolcisce con bei gesti e belle parole non ci si dovrebbe mai fidare, perché sarà proprio quella gente a feriti alle spalle appena ne avrà l'occasione.  Alla fine ti sei dimostrata  falsa e ipocrita proprio come tutti gli altri…»
«Sei stato tu ad aver iniziato questa storia. Che bisogno avevi di mettere in discussione le capacità di Roberto? Quello a non aver mostrato fiducia, fin dall’inizio negli altri, sei stato tu. Adesso non dare a me la colpa delle tua cocciutaggine. Ah, quasi dimenticavo, da questo momento dimenticati della Nami che ti seguiva come un cagnolino per tutto il tempo. Non accadrà più. Grazie per avermi aperto gli occhi. Adesso so che posso meritare di meglio. Di un ragazzo diffidente, ostinato, orgoglioso e egoista come te non so più che farmene…» detto questo Nami si voltò allontanandosi tra la folla. Voleva solo scappare prima che lui potesse notare le sue lacrime. Non voleva dirgli quelle parole, ma nel profondo quello era proprio ciò che pensava. Era stanca di inseguire una persona che non sarebbe mai riuscita a ricambiare quello che provava. Che senso aveva continuare in quel modo?
Kei non riuscì a trattenersi questa volta, non poteva rimanere fermo lì a guardarla mentre gli voltava le spalle per la terza volta. Prima nel garage di Take mano nella mano con Roberto, poi la sera prima davanti la Kings Record e adesso anche al Blue Night.  Si alzò senza dar ragione al suo orgoglio ferito e la inseguì fino all’uscita del locale. Erano nel parcheggio esterno quando la fermò trattenendola per un polso. Lei si voltò colta di sorpresa da quella presa improvvisa. I suoi occhi erano lucidi e carichi di rancore, non disse nulla ma bastarono il dolore e la sofferenza che ci si poteva leggere dentro a disorientare Kei.
Lentamente la presa sul braccio sottile di lei si fece più debole, approfittando di quel momento di incertezza Nami si divincolò e con convinzione si voltò ancora una volta allontanandosi da quell’amore folle e insano che gi aveva procurato solo ferite.
“Che senso ha amare un freddo blocco di ghiaccio? Per quanto calore potrei dargli alla fine sarei io l’unica a morire congelata. Un blocco di ghiaccio non può abbracciarti non può riscaldarti il cuore e io sono stanca di credere che un giorno questo possa accadere. Kei non cambierà mai, non lo ha fatto fino ad oggi e non lo farà mai, non di certo per me… ”. Con una mano Nami si asciugò una lacrima mentre si muoveva rapida verso l’uscita del parcheggio. Non sapeva dove stava andando ma voleva solo allontanarsi da lui.
Kei rimase fermo ad osservare l’unica ragazza che lo avesse amato allontanarsi per sempre da lui. Quante possibilità le aveva concesso Nami? Tante, ma lui non era mai stato capace di coglierle, e adesso era troppo tardi.  A causa di quegli occhi non era stato capace di dirle quello che veramente provava. Probabilmente quella era stata la sua ultima occasione per farlo ma come un codardo, come un egoista l’aveva lasciata andare via ancora una volta; forse perché era più facile sopportare l’idea che fosse stato lui a lasciarla andare e non che lei lo avesse abbandonato dicendogli addio per sempre.
“Perdonami se quello che ho saputo darti è stato solo un amore velenoso. Spero davvero, che lui possa restituirti la felicità che non sono mai stato capace di darti io.”Sconfitto ritornò all’interno del locale.         
Nami fece ancora pochi metri prima di fermarsi. Si voltò appena in tempo, per notare  Kei allontanarsi in direzione del locale.
“Avrò fatto davvero la cosa giusta? Sarò davvero, capace di dirgli addio?” con una mano si tastò il petto.
“Si, sono stanca di amare senza essere amata. Adesso voglio un ragazzo che mi coccoli che si preoccupi per me che mi difenda… Sono stanca di essere solo io a fare questo genere di cose”. Improvvisamente un pensiero si intromise prepotentemente nelle sue riflessioni auto-motivanti.
“Maledizione la gara!” rapida si mosse verso il locale.
 
 
Shin e Jona si stavano riscaldando. Ancora due gruppi e dopo sarebbe stato il loro turno.
Kei li raggiunse trascinandosi a spalle basse con uno sguardo perso e vuoto tipico di chi ha perso ogni motivazione. Shin lo raggiunse.
«Fratellino, tra un po’ sarà il nostro turno… » lo aggiornò eccitato.  Kei incontrò gli occhi vivaci del fratello, avrebbe voluto davvero incoraggiarlo con un bel sorriso ma in quel momento i muscoli del suo viso erano letteralmente paralizzati.
«In bocca al lupo, io vi aspetterò direttamente fuori, vicino la consolle» completò assente lui, superandoli con le mani nelle tasche anteriori e chiuso a riccio su se stesso. Era come se quell’ossessivo interesse per la vittoria avesse improvvisamente smesso d’importargli.
Jona si avvicinò a Shin, «cosa gli prende?» gli chiese sollevando un sopracciglio scettico. L'altro fece spallucce prima di spronare l’amico a seguirlo verso il palco. L’esibizione stava per iniziare. La musica partì, Shin e Jona provavano a portare avanti la coreografia ma in due era davvero dura, soprattutto a causa dello sguardo insoddisfatto della gente radunata lì che si aspettava anche la presenza di Kei sul palco, come la sera precedente. Molte ragazze erano visibilmente deluse da quell'assenza. Dopo non pochi problemi i due ballerini in scena, terminata la loro esibizione, raggiunsero frustrati Kei vicino la consolle dove Toshi diligentemente remixava le tracce audio. Dopo il loro ci sarebbe stato anche il momento di Roberto.
Nami arrivò appena in tempo. Avanzando tra la folla delusa per la precedente esibizione, raggiunse la prima fila. In ansia cercò qualcuno sulla pista. Aveva paura di essere arriva troppo tardi e che Roberto si fosse già esibito, ma soprattutto era preoccupata che quelle voci scontente fossero per lui. Era terrorizzata all’idea che qualcosa, durante l’esibizione, non fosse andata come avrebbe dovuto.
Proprio nel momento in cui Nami sbucò dalla folla accalcata intorno al palco, anche Roberto fece il suo ingresso in pista. Con un sorriso complice ammiccò a Nami che più sollevata lo ricambiò. Kei aveva notato i loro sguardi incontrarsi ma cercò di ignorarli. La musica partì.  Con entusiasmo Nami iniziò a saltellare euforica portando il braccio in aria e scuotendolo a tempo di musica. L’esibizione iniziò sotto gli occhi scettici del pubblico, per loro Roberto era una vera novità. Un ragazzo apparso dal nulla senza una storia e con delle capacità ancora da dimostrare.
Le note si susseguirono trascinando e guidando i passi di Roberto e degli altri ballerini al suo seguito. Non ci furono sbavature, ogni passo veniva portato a termine con precisione. Toshi, sorpreso e preoccupato dalla reazione dell’amico, si voltò verso Kei. Lo stesso aveva lo sguardo freddo e impassibile come una statua di pietra mentre analizzava con scrupolo il nuovo protagonista della pista. Kei, nel profondo non sapeva se odiare Roberto perché gli aveva portato via l’unica ragazza che gli avesse dimostrato amore o più semplicemente, perché gli aveva appena distrutto la reputazione.
Per quanto detestasse ammetterlo a differenza sua, Roberto si era dimostrato un ottimo avversario. Aveva sbagliato a colpirlo così bassamente soprattutto con la storia di suo padre.
In quel momento l’esibizione si concluse e dalle urla entusiaste del pubblico fu facile intuire chi fosse il vincitore. Subito Nami corse verso Roberto, ce l’avevano fatta. Lui l’abbracciò felice sollevandola dal pavimento. Avevano appena vinto. Nessuno dei due poteva crederci. A modo loro avevano avuto la loro rivincita quella sera.
Con una mano stretta sull’ingessatura, Kei si allontanò afflitto e di cattivo umore, non indugiando oltre su quella scena che gli faceva terribilmente male al cuore. Shin aveva la bocca spalancata mentre fissava Roberto e Nami festeggiare per la vittoria, non poteva credere che qualcuno avesse appena sconfitto suo fratello.
Girandosi, notò che Kei si era appena dileguato, Jona al suo fianco gli fece segno di seguirlo. Entrambi raggiunsero Kei di spalle a pochi metri dall’ingresso delle quinte, con una mano sulla fredda parete bianca, che a capo chino fissava il pavimento.
 
Era lì a torturarsi all’idea che Nami gli avesse appena dato a vedere che chi aveva sbagliato tutto era lui. Era tutta colpa del suo ego e della sua diffidenza se si ritrovava con un braccio rotto, con una reputazione distrutta e con la donna che amava tra le braccia di un altro. Era stato troppo prevenuto ancora una volta verso gli altri e a pagarne le conseguenze era stato,  ancora una volta, solo lui.
“Forse ha ragione Nami, sarà arrivato il momento di cambiare?” Shin raggiunse suo fratello.
«Kei, l’hai visto? Come può vincere in una gara non alla pari come quella? Non preoccuparti ci rifaremo. Quel tipo ha avuto solo fortuna, se tu ti fossi esibito con noi non avrebbe vinto.»
«Shin finiscila, ha vinto lealmente. Anche se ci fossimo esibiti in tre ci avrebbe battuto nello stesso modo. La sua coreografia era migliore della nostra, anzi, della mia… Ora sono veramente stanco. Che abbia pure la sua occasione… » detto questo il più grande si dileguò lasciando gli altri due spiazzati a guardarlo andare via sconfitto per la prima volta nella loro vita. Entrambi anche senza dirselo condividevano il medesimo pensiero: a Kei doveva essere successo qualcosa già molto prima dell’esibizione, ma che cosa?
 
Il giorno seguente i ragazzi si riunirono alla buon’ora per organizzare i compiti per il loro debutto.
 
«Ragazzi io direi di dividerci i compiti. Toshi e Kei, voi vi occuperete di arrangiare la traccia audio per cinque voci, mentre io e Roberto ci occuperemo della coreografia. Per quanto riguarda te, Shin, mi chiedevo se potessi cercare cinque giacche adatte per l’esibizione, che siano comode e originali. Posso fidarmi di te?» il più piccolo con i suoi capelli nero inchiostro acconsentì a Take eccitato e inorgoglito da quell’incarico di responsabilità.
«Bene, per quanto riguarda te Jona, ho bisogno che tu ti metta in contatto con più giornalisti possibili e che diffonda la notizia sul web...» Roberto si intromise interrompendo Take.
«Jona, cerca di non essere troppo esplicito, si sa che la curiosità cresce di più se le notizie rimangono velate… dobbiamo incuriosire il pubblico…»
Jona si spostò il ciuffo dei suoi capelli dalla fronte con un sbuffo d’aria dalla bocca, poi sporgendosi oltre il suo corpo poggiando i gomiti sulle sue ginocchia, sorrise malizioso all’amico.
«Puoi fidarti di me, so come si conquista l’interesse del pubblico… »
«Perfetto» concluse a sua volta Take. I cinque ragazzi erano pronti a collaborare per la riuscita del loro piano.
 
 
 
 
 
Italia. (Quattro giorni dopo)
 
Clara era nel negozio che osservava impaziente l’ingresso, come calcolando in ansia il momento in cui quel sofisticato principe azzurro avrebbe rifatto la sua comparsa.
Purtroppo a farle visita quella mattina non fu l’affascinante ragazzo di cinque giorni prima ma Marika, la sua vecchia amica d’infanzia. Tra le braccia, poco sotto i suoi seni acerbi, teneva stretto un vocabolario di italiano.
Appena incrociò lo sguardo deluso dell’amica le sorrise maliziosa avvicinandosi al bancone e poggiando in malo modo il libro voluminoso su di esso. 
«Aspettavi qualcun'altro?» le chiese con malizia. Clara le aveva già raccontato di quel ragazzo affascinante e misterioso comparso qualche giorno prima e dopo sparito per sempre.
«Che senso ha aspettarlo? Tanto non tornerà mai…» completò delusa Clara, sospirando inquieta.  Marika prese uno sgabello e si sedette senza neanche chiedere il permesso all’amica. Ormai era un gesto abituale. Dopo la partenza di Roberto, aveva preso l’abitudine di raggiungere Clara dopo la scuola. Facevano la strada di ritorno a casa insieme. Era un modo come un altro per sentire meno l’assenza di Roberto, o più semplicemente era il pretesto per estorcerle qualche informazione su di lui da sua sorella. Dopo quel messaggio laconico non era più riuscita a contattarlo. 
«Come è andata la prima prova scritta?» le chiese Clara chiudendo la cassa e mettendo in ordine qui e lì.
«Bene, piuttosto hai sentito Roberto? È un po’ che non mi risponde ai messaggi… sono preoccupata» Clara tornò con i suoi occhi sull’amica. Con una mano le sfiorò la spalla.
«Sarà impegnato, dopotutto sta dando il meglio in questi giorni, deve portare a termine il suo piano, qualsiasi esso sia, entro questa settimana… Vedrai che dopo si metterà subito in contatto con te… non devi preoccuparti… » cercò di confortarla.
«Hai ragione mi sto facendo tanti pensieri per nulla…»
«So quello che Roberto prova per te, non devi preoccuparti è un ragazzo con la testa sulle spalle. Quando fa una promessa la mantiene, costi quel che costi…»
«Lo so » le accennò un sorriso malinconico prima di sollevarsi dallo sgabello e aiutarla a sistemare le ultime cose prima di chiudere il negozio.
Erano ormai fuori quando qualcuno improvvisante arrivò alle loro spalle. Era un ragazzo alto e affascinante, con dei capelli biondi e due grandi occhi chiari. Con il suo solito portamento sofisticato da uomo vissuto, salutò le due ragazze. Clara rimase ferma incredula, con le chiavi a mezz’aria ancora vicine alla serratura.
«Immagino di essere arrivato troppo tardi…» concluse rammaricato lui, portandosi una mano dietro la nuca.
Clara diventò rossa dal mento alla cima dei capelli.
«No, se vuoi posso ancora aprire la cassa…» Marika squadrò perplessa l’amica. Non era da lei essere così accondiscendente con i clienti ritardatari. Poi improvvisamente tutto divenne chiaro.
“Questo deve essere il ragazzo del mistero” constatò con interesse investigativo ammirando ogni suo dettaglio. Vedendo il modo con cui l’amica arrancava risposte imprecise, soppresse un sorriso. Era davvero divertente vederla alle prese con quell’imbarazzante sentimento chiamato amore.
«Non mi riferivo al negozio, parlavo di te. Vedo che sei in compagnia, quindi immagino sia inopportuno oltre che inutile chiederti di prendere un caffè insieme» Clara spalancò la bocca e per poco le chiavi non le caddero dalle mani. Non sapeva cosa rispondergli era completamente impreparata a una proposta di quel tipo.
«A dire il vero Clara, mi sono appena ricordata di avere un impegno. Ci sentiamo più tardi va bene?» le ammiccò complice Marika.
«Sicura? Non avrai problemi a tornare da sola a casa?» provò a trattenerla Clara agitata al pensiero di rimanere sola con quel ragazzo attraente.
«Non preoccuparti» la rassicurò l’amica, prima di salutare il ragazzo davanti a se e imboccare le scale mobili.
Clara in imbarazzo chiuse il negozio evitando in soggezione lo sguardo del ragazzo alle sue spalle.
“Cosa diavolo mi prende? Perché non riesco a guardarlo negli occhi? Clara devi calmarti. Altrimenti ti scambierà per una ragazzina imbranata…” con non poca difficoltà recuperò il suo autocontrollo voltandosi.
«Credo di non essermi ancora presentato. Io sono Luca Corda. È un piacere fare la tua conoscenza Clara»
«Conosci il mio nome?» gli domandò stupita lei.
«L’ho appena sentito dalla tua amica» le spiegò con un caldo sorriso sul viso. Clara arrossì per la brutta figura.
“È ovvio che non conoscesse il mio nome. Ma quanto sono cretina?”
«Che dici, andiamo?» le fece segno di anticiparlo da galantuomo.
«Certo» acconsentì lei prima di muoversi al suo fianco. Erano in un bar, davanti a loro si trovavano due fumanti tazze di caffè nero con una leggera schiumetta color ocra.
«Sono felice che la tua amica si sia inventata quella scusa per lasciarci soli. Avevo davvero bisogno di parlare con te.» iniziò prendendo a sorseggiare il suo caffè.
«Ah, si? E di cosa volevi parlarmi?» gli domandò lei esitante, reggendo ostentando con sicurezza il tono di quella conversazione, mentre sorreggeva tremante la tazzina bianca di caffè nella sua mano destra.
«Sei molto più carina del solito oggi, non so, penso che il caffè ti renda più bella…» notò lui poggiando la sua tazzina nell’apposito piattino sul tavolino del bar.
Clara arrossì ancora una volta deglutendo vistosamente.
«Non credo di essere così bella…» improvvisò portandosi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio. I suoi capelli corti e lucenti non supervano la curva sottile della mandibola.
«Ti sottovaluti… » la interruppe lui sporgendosi oltre il tavolo e sfiorandole la commessura del labbro superiore, rimuovendole la rimanenza di schiuma ocra dal viso. Clara rimase immobile mentre quel ragazzo la sfiorava. Ci fosse stato Roberto lì si sarebbe sicuramente scagliato su di lui allontanandolo, ma adesso suo fratello non c’era e non vi era possibilità alcuna che qualcuno interrompesse quel momento. Il cuore nel suo petto batteva così forte che Clara aveva paura che da un momento all’altro potesse uscirle fuori dal petto. Sorridendole divertito Luca tornò al suo posto.
«Inizialmente ero interessato a te solo per questioni di lavoro ma adesso devo ammettere che mi diverte stare in tua compagnia. È una vera fortuna che il tuo bisn…». Proprio in quel momento il cellulare nella tasca di Clara squillò interrompendoli. Clara come ridestata da un bellissimo sogno lo recuperò dalla tasca dei suoi pantaloni. Era suo padre. Fissò il ragazzo seduto davanti a sé chiedendogli con lo sguardo il permesso di rispondere. Lui acconsentì e con un movimento elegante della mano la invitò a rispondere alla chiamata. Senza esitare Clara aprì la conversazione.
«Pronto. Dimmi papà… Roberto? È da un amico. Ma tu non dovevi tornare tra due giorni?» Clara spostava nervosamente il suo sguardo intorno a sé agitata.
«Al negozio? Si ti raggiungo subito…  non muoverti» detto questo chiuse la chiamata.
«Immagino che dovremo rimandare a un’altra occasione questa chiacchierata» concluse deluso il ragazzo.
«Mi dispiace, ma devo andare. È molto importante e non posso proprio rimandare»
«Non devi preoccuparti. Questo è il mio numero di telefono. Quando avrai tempo contattami.» Clara prese tra le sue mani il bigliettino da visita di quell’uomo e distrattamente se lo mise in borsa. Aveva davvero fretta di chiamare Roberto. Quel cambiamento improvviso non ci voleva. Doveva avvisarlo del ritorno anticipato di loro padre. Non gli restava molto tempo. Quella menzogna non sarebbe durata ancora per molto.
«Grazie, questi sono per il caffè » provò a lasciargli degli spiccioli sul tavolo, ma lui glie ridiede porgendoglieli bloccandole la mano e voltandola con il palmo verso l’alto.  
«Non dire sciocchezze, questo giro lo offro io. Vai pure»
Clara arrossì ancora una volta «Mi dispiace davvero, sarà per una prossima volta» concluse amareggiata prima di allontanarsi di gran fretta.
Il ragazzo rimase lì seduto ad osservarla mentre andava via in gran fretta.
“Si, questa ragazzina è davvero un tipo interessante… non aveva tutti i torti Salvatore…”
Mentre correva verso il negozio Clara scriveva una e-mail a suo fratello.
 
A Roberto.
Papà è tornato in anticipo. Sbrigati, non so per quanto ancora riuscirò a reggerti il gioco.
 
 
 
 
Tokyo
 
Toshi e Kei erano alle prese con il testo della canzone. Nello studio della Kings Record componevano le diverse varianti per cinque voci compresa la parte in rap di Kei. Avevano quasi finito il pezzo, ma c’era ancora qualcosa che non andava.
«Kei non sembra anche a te che manchi qualcosa?»
«Cosa intendi?»
«Non so, credo ci manchi una voce che dia potenza. Il pezzo per come lo abbiamo provato scorre abbastanza bene, ma ci manca qualcuno che spezzi con la monotonia d'impianto. Ci serve una voce che sappia fare degli acuti mozzafiato».
«Si, ma dove la troviamo adesso?»
Proprio in quel momento Shin fece il suo ingresso con due enormi scatoloni.
«Ragazzi ho trovato le felpe. Guardate, cosa ve ne pare?» chiese riponendo gli scatoloni sul pavimento, aprendoli e mostrandone il contenuto agli altri due.
«Sono perfette. Hai fatto davvero un buon lavoro» si congratulò Kei scompigliandogli i capelli.
«Woow ma sono firmati… avrete speso un bel po’… »
«Non ne abbiamo pagato neanche uno. Dicendo che le avrebbe indossate Jona ce li hanno praticamente regalati.»
«Piuttosto dov’è Jona? » gli domandò Toshi.
«Credo stia per salire» concluse richiudendo le scatole.
«Eccomi… » esordì il quarto componente con un gattino tra le braccia. Appena Shin si accorse di quell’ospite inatteso scoppiò in un grido così acuto da stonare chiunque si fosse trovato nell’arco di dieci metri.
«Portalo via… portalo via…» si nascose dietro Kei. Jona e Toshi rimasero lì fermi in silenzio e anche abbastanza perplessi ad osservarlo.
«Da piccolo un gatto gli è saltato addosso e da quel momento ha sempre avuto la fobia dei gatti» spiegò loro Kei.
«scusami Shin, ti dispiacerebbe gridare come hai fatto poco fa?» gli chiese Toshi sporgendosi interessato verso l’amico impaurito.
«Cosa?» lo riprese Shin con le lacrime agli occhi mentre fissava intimorito da dietro la sagoma di suo fratello, il gattino tra le braccia di Jona.  
Lo stesso sollecitato da uno sguardo di Toshi depose il gatto sul pavimento. Lo stesso avanzò ondeggiando e miagolando verso Shin, che tempestoso riprese a gridare. Kei irritato dalla mancanza di tatto dei suoi compagni allontanò con un piede dolcemente il gatto dai pantaloni di Shin, squadrando i due infuriato come non mai.
«Mi spiegate cosa della frase, Shin ha la fobia dei gatti, non avete capito?»
Toshi e Jona sorrisero soddisfatti.
«Penso di aver appena trovato la voce che mi mancava…» completò Toshi sfiorandosi il mento soddisfatto.
 
Take e Roberto avevano appena concluso gli ultimi passi. La coreografia progettata da entrambi aveva tenuto conto del recente infortunio di Kei, così i passi in cui erano interessati l’uso delle braccia erano stati ridotti al minimo. Altri due giorni e avrebbero messo in atto il loro piano. Jona aveva garantito loro anche l’attrezzatura necessaria per l’esibizione, con la collaborazione di Toshi li avrebbero recuperati dalla Kings Record. Adesso dovevano solo provare il pezzo e la coreografia.
«Roberto credo ti stia vibrando qualcosa» constatò Take vicino il tavolino dove avevano mollato i loro telefoni. Roberto corse ad aprire la posta elettronica. Era un messaggio da sua sorella. I suoi occhi si spalancarono per la sorpresa mentre la mano che teneva stretto il telefonino crollava inerme verso il basso.
«Maledizione, questa  non ci voleva. Ho meno tempo di quello che credevo…» disse più parlando a se stesso.
«Cosa succede?» gli chiese Take asciugandosi con un movimento rapido le labbra dopo averle staccate dalla bottiglia di plastica adesso nella sua mano destra.
«Mio padre. È appena rientrato. Forse nella migliore delle ipotesi ho a malapena tre giorni prima che si accorga della mia assenza».
«Cavolo, penso che dovremo anticipare i tempi allora. Mando un messaggio agli altri ragazzi. Stanotte si prova e non voglio sentire obbiezioni. Se tutto va bene vedremo l’alba ballando e cantando» detto questo recuperò anche il suo di telefono digitando rapido un messaggio nella chat di gruppo.
 
Da Take:
Ragazzi, in via del tutto eccezionale inizieremo prima le prove.
Preparatevi a passare la notte nel mio garage. Portate tutto il necessario.
 
Da Toshi:
Ma, come mai questo cambio di programma improvviso?
 
Da Take:
Il padre di Roberto è tornato prima del previsto è c’è il rischio che salti tutto per colpa di un suo arrivo in Giappone. Dobbiamo agire prima che ciò possa accadere.
 
Da Kei:
Ok, io e Shin vi raggiungeremo sul tardi. Dobbiamo aspettare che JJ vada a dormire e solo allora potremo sgattaiolare via.
 
Da Jona:
Maledizione oggi avevo un appuntamento con un modella strafiga, non potete dirmi queste cose proprio adesso. Maledizione. Questa me la pagate. Comunque alle cose da bere ci penso io. Devo pur consolarmi con qualcosa. Ci vediamo tra un po’. :-p
 
Da Take:
A dopo ragazzi.
 
Da Toshi:
Ok, a dopo.
 
 
 
Erano le nove di sera e ognuno dei ragazzi a modo suo si preparava all’idea che quella sera avrebbero passato la notte in bianco. Shin e Kei aspettavano impazienti che JJ spegnesse la luce nel suo studio e andasse a dormire. Jona aveva appena finito di fare la scorta di super alcolici al supermercato. Take, aveva quasi concluso l'ennesima dose di rimprovero da parte di Andrea e Daisuke.
Toshi invece era ancora a tavola con i suoi genitori e sua sorella. In silenzio il ragazzone del gruppo rifletteva sull’arrangiamento della canzone.
“Chissà se andrà bene? Il fuori scena di Shin è stato proprio un miracolo capitato con un tempismo a dir poco perfetto”.
«Toshi, come vanno le prove?» lo richiamò Rio a capotavola con i capelli grigi e degli occhi sottili e severi nascosti dietro delle spesse lenti incorniciate da una montatura di osso nera, portandosi alla bocca un cucchiaio di zuppa di asparagi.
«Bene, bene » mentì Toshi evitando lo sguardo intransigente del padre.
«Ancora due settimane e potremo organizzare al meglio il debutto» concluse pieno di orgoglio.
«Rio, perché non lo lasci in pace almeno quando mangia?» si intromise Yori al suo fianco. Il suo viso fresco con il tempo si era riempito di poche rughe ma nonostante questo era ancora splendida.
Toshi le sorrise grato. Al fianco di Toshi Nami in silenzio fissava irrequieta suo padre. Gettato in malo modo il cucchiaio nel piatto si sollevò in piedi trascinando la sedia sul pavimento.
«Quando penserai anche al mio di debutto? Anche io non vedo l’ora di iniziare la mia carriera di modella e attrice. Eppure non fai altro che rimandare…»
«Nami calmati » la esortò sua madre.
«Uno dei motivi è proprio questo, non sei abbastanza paziente. Hai lo stesso temperamento impulsivo di tua madre, mi dispiace Nami ma devi ancora crescere. Quando sarai diventata abbastanza matura allora ne riparleremo, per il momento sognatelo. Perché non prendi esempio da tuo fratello. Si è allenato per anni senza sollevare mai obbiezioni.»
«Se pensi che lui sia così mirabile allora perché non gli chiedi cosa lui e i suoi amici stanno combinando in questi giorni?» proprio in quel momento Nami si portò le mani alla bocca. Come aveva potuto dire quelle cose? Toshi si immobilizzò all’istante squadrando nero in viso sua sorella gemella.
«Cosa significa Toshi?» gli chiese preoccupato Rio.
“Maledizione e adesso cosa mi invento”.
«La verità papà è che ultimamente ho messo un po’ da parte la preparazione per il debutto. Sai in città è arrivato Jona e noi ragazzi ci siamo un po’ lasciati andare. Ma non temere già da questa notte riprenderò gli allenamenti per recuperare. Anzi se non è un problema per voi andrei alla Kings Record per allenarmi» Rio squadrò perplesso suo figlio per pochi secondi ancora prima di rilassarsi affondando il cucchiaio nella zuppa.
«Come immaginavo tuo fratello ha davvero un elevato senso del dovere. Dovresti prendere esempio da lui Nami». Detto questo Toshi si sollevò dalla sedia salutando i suoi genitori e rivolgendo uno sguardo contrito verso sua sorella. Senza aggiungere altro uscì. Nami lo rincorse fermandolo appena in tempo per strada.
«Toshi, fermati. Dobbiamo parlare…»
«Ok, parliamo. Cosa c’è che non va in te? Perché hai detto quelle cose? Se non puoi essere felice tu allora non posso esserlo io? È questo quello che pensi? Ho finalmente trovato il coraggio di fare qualcosa solo per me stesso e tu arrivi e per poco non rovini tutto. Dove hai la testa?»
Nami tratteneva a stento le lacrime.
«Io non volevo. È solo che sono stanca di non andare mai bene per nessuno. Qualsiasi cosa faccia è sempre quella sbagliata. Non posso essere la ragazza che Kei vorrebbe ne la figlia perfetta che papà ha sempre sognato. Sono inutile. Tu a differenza mia sei sempre stato il preferito di papà mentre io ai suoi occhi valgo meno di niente. Lo so che ho sbagliato ma volevo che per una volta papà guardasse entrambi nello stesso modo. Perché deve farmi sentire sempre così piccola e inadatta ispetto a te? Perché deve ricordarmi ogni dannata volta che tu sei il figlio perfetto mentre io la figlia scapestrata? Perché, se entrambi alla fine vogliamo la stessa cosa devo essere solo io ad essere etichettata come la pecora nera?» dai suoi occhi scesero senza ritegno delle amare lacrime di rimorso, con le sue mani delicate Nami si coprì il viso.
Toshi comprensivo avvolse con le sue braccia forti il corpo esile della sorella.
«Adesso finiscila di piangere. Non sei inutile o almeno non lo sei per me» la spronò asciugandole con una mano le lacrime dal viso, mentre lei lo fissava colpevole.
 Come sempre Toshi le scompigliò i capelli amorevolmente.
«Sai, anche se non te lo ho mai detto, ti ho sempre invidiato, essere il preferito non è così piacevole come sembra. Anche io mi sono sentito intrappolato, e ho desiderato con tutto me stesso che qualcuno mi salvasse. Proprio perché ero il preferito mi sentivo costantemente in dovere di accontentare le ambizioni di nostro padre, mettendo da parte ciò che realmente volevo. Tu almeno sei sempre stata onesta sbandierando agli altri con sincerità quello che pensavi e quello che volevi. Io invece non sono mai stato capace di farlo. Ho sempre ammirato la tua determinazione. Spero che alla fine di questa storia riuscirò a dimostrarmi all’altezza dell’unica persona che stimo di più al mondo…»
«e chi sarebbe?» chiese Nami sciogliendo la stretta del fratello. Toshi con l’indice le colpì il nasino tondo e piccino.
«chi altri se non tu, sciocchina…» Nami recuperò rapida il suo sorriso.
«Adesso vado. Coprimi se papà decide di fare un salto alla Kings Record, d’accordo?»
«conta pure su di me » acconsentì con convinzione prima di salutare il fratello e rientrare nel portone del palazzo.
“Mi dispiace Nami. Hai un fratello davvero inutile. Perché non mi sono mai reso conto di quanto stessi soffrendo? Questa è la mia possibilità per cambiare non posso e non voglio più rinunciare a quello che voglio e questo sei stata tu a insegnarmelo”. Pensando questo si incamminò verso la fermata del bus. 
NOTE:
Scusate il ritardo, ma in questi giorni sono davvero stata con l'acqua alla gola. Comunque spero che questo capitolo possa avervi entusiasmato. Per farmi perdonare ho qualche fotina per voi. Sono i sei ragazzi al confronto con i loro genitori- zii. Eccoli qui. Un saluto caloroso alla prossima.
P.s. 
Perdonate qualche errore ma per non farvi aspettare oltre non ho riletto il capitolo. 



 
 

 

 

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Capitolo 9
*** SI VA IN SCENA ***


CAPITOLO 9
SI VA IN SCENA


 
Tokyo
 https://www.youtube.com/watch?v=LOFvi6TJsyQ&feature=youtu.be
 
I ragazzi erano tutti riuniti nel garage di Take. L’orologio tondo appeso a una delle pareti segnava le tre. Al di fuori di quello spazio chiuso, la notte aveva portato con sé un silenzio opprimente e una desolazione straziante. Qualche gatto randagio faceva la sua ronda notturna in cerca di cibo, mentre una lattina abbandonata rotolava trascinata dal vento leggero, in quella desolazione i pochi temerari lavoratori notturni che quasi nessuno ricorda, stazionavano come statue di cera in quel museo urbano surreale e inaccessibile ai più cari sognatori.  Eppure tra quelle quattro mura, mentre quella parte di mondo dormiva cullata dalla notte, sei ragazzi lottavano per realizzare il loro sogno. Le rivalità, i cattivi umori, le insicurezze e le ansie erano state accantonate. Dopo cinque ore di prove l’unica cosa a contare era il pensiero di dare il massimo per superare la prova del giorno dopo.  I sei ormai, con la muscolatura indolenzita, si erano accasciati al suolo stremati.
Jona approfittando del momento corse a prendere il rum e del buon succo alla pera, iniziava il giro dei cicchetti.
«In America abbiamo un gioco che si chiama shorty-scooop» esordì tornando a prendere posto tra gli amici riuniti in cerchio seduti sul pavimento. Toshi scettico chiuse la bottiglietta d’acqua dalla quale aveva appena finito di bere, e squadrò divertito l’amico.
«Chissà perché sento si tratterà di un gioco molto stupido»
«Non essere così negativo. Magari sarà divertente» aggiunse Take sfilandosi la bandana scura dalla fronte imperlata di sudore.
«Io non capisco come facciate ad avere la testa a dei giochetti stupidi proprio in questo momento» sospirò Kei strofinandosi la nuca con un asciugamano.
«Facciamolo almeno parlare… » si intromise Roberto dando manforte all’amico americano che gli sorrise grato.
«Si anche io sono molto curioso» completò Shin sotto un’occhiataccia gelida di suo fratello.
«Va bene, allora vi spiego di cosa si tratta. Ognuno di noi dovrà mettere in tavola due affermazioni su se stesso e gli altri dovranno indovinare quale delle due è vera e quale sarà invece falsa di conseguenza. Se nessuno di noi indovinerà allora gli sarà concesso un sorsettino di Rum». Spiegò loro mentre apriva la bottiglia piena di quel liquido brunastro.
«Che gioco idiota…» osservò Kei e gettandosi indietro, portando le braccia alla nuca, si distese sul freddo pavimento.
«Giocateci voi io nel frattempo faccio qualcosa di più intelligente: mi riposo» concluse.
«Io credo sia un ottimo modo per conoscersi invece . Dopotutto sappiamo davvero poco di noi. Io ci sto» proseguì Roberto cercando di spronare anche gli altri.
«Contate pure su di me» acconsentì convinto Toshi seguito da Take che fece spallucce sollevando le mani con il palmo verso l’alto rassegnato.
«Anche io voglio giocare, e poi non ho mai bevuto del rum… » osservò anche il più piccolo del gruppo. Kei si sollevò di scatto dal pavimento.
«Non permettetevi a dargli quella robaccia. Per lui solo succo di pera » intervenne  Kei squadrando gli altri con occhi minacciosi. Dopo aver avuto conferma che il messaggio era stato reperito, si accasciò al suolo girandosi su un fianco e voltando le spalle al gruppo.
Jona gli lanciò una linguaccia dispettosa, che di conseguenza fece spuntare un sorriso sul volto degli altri ragazzi.
«Mi dispiace Shin, ma il grande capo indiano Lupo Solitario ha appena detto che per te ci sarà solo del triste succo di frutta» proseguì rammaricato.
«E va bene…» sospirò Shin.
«Iniziamo?» li incoraggiò Take.
«Bene chi vuole essere il primo?»
«Visto che il gioco l’ho proposto io, credo sia giusto darvi una piccola dimostrazione di come si vince.» iniziò Jona.
«Ah, si? Allora inizia pure… » lo invitò Toshi sorreggendo il capo con il mento sul palmo della mano destra, mentre il gomito affondava su una delle sue cosce.
«Allora, mi sono portato a letto circa 50 ragazze e non ho mai passato un natale da solo. Quale delle due affermazioni è vera e quale no?»
«Facile! Sicuramente la prima è falsa. Come avresti potuto portarti a letto 50 ragazze a soli 17 anni? Mentre la seconda deve essere sicuramente vera. Chi rimarrebbe da solo la notte di Natale?» esordì Toshi sicuro della sua risposta.
«Voi cosa dite?» chiese agli altri ragazzi. Tutti seguirono la risposta di Toshi.
Jona sorrise soddisfatto.
«Bene, allora mi riempio il primo bicchierino di rum».
«Vuoi dire che ti sei fatto più di 50 ragazze?» esplose Toshi a bocca aperta non contenendo il suo stupore.
«Beh, si.  Modestamente ho un certo fascino » completò portandosi alla bocca il cicchetto di rum e inghiottendolo come fosse nulla.
«Davvero i tuoi genitori ti hanno lasciato solo la notte di Natale?» gli chiese dispiaciuto Shin con due occhioni grandi e tristi.
Jona sorrise amaramente portandosi il ciuffo di capelli indietro con una mano.
«La loro carriera è sempre stata più importante di me. Sapete, non si sono accorti ancora della mia assenza. Ma ci sono abituato. Ho sempre vissuto da solo. I miei genitori sono state delle ombre sfuggenti nella mia vita inoltre è come se non bastasse grazie a loro non ho mai conosciuto la gioia di avere dei fratelli, o almeno non la conoscevo fino a questo momento. Sono felice di essere qui con voi, con tutti voi. Non importa cosa succederà domani, perché per me l’aver trascorso questi pochi gironi in vostra compagnia rappresenta davvero tanto.»
Roberto vedeva finalmente Jona per il ragazzo sensibile che era. Adesso era tutto più chiaro. La sua era una maschera. Dentro doveva soffrire molto. Doveva essersi sentito solo molte volte. Con una mano gli diede una pacca amichevole sulla schiena.
«Anche noi siamo felici che tu sia qui con noi», Jona squadrò prima l'amico italiano poi gli altri lì riuniti che gli sorridevano amichevoli. Si, loro sarebbero stati la sua nuova famiglia.  
Gli avrebbe dato fiducia perché infondo sentiva che loro potevano meritarla.
«Succeda quel che succeda da domani le nostre vite cambieranno, ma qualsiasi cosa accada dobbiamo prometterci che nulla muterà ciò che ci sta tenendo uniti in questo momento». Si intromise Take.
«Hai ragione. Domani molte cose cambieranno, ma dobbiamo ricordarci che nulla dovrà trasformare quello che c’è tra di noi in questo momento, sia se finiremo catapultati nel mondo scintillante dello spettacolo sia se verremo rigettati nella fanghiglia dell’anonimato» gli diede manforte Toshi.
«E così sarà…» concluse sicuro Roberto.
«Mia madre è morta per colpa mia, se quel giorno avesse deciso di non avermi adesso Kei non dovrebbe preoccuparsi di un fratello sbadato e ingombrante come me» li freddò Shin lasciandoli impreparati a gestire quella sua rivelazione a sorpresa.
Kei si sollevò immediatamente dal pavimento.
«Cosa ti salta in testa? Perché parli di queste cose adesso e proprio davanti a loro?»
Shin aveva gli occhi gonfi di lacrime.
«Non mi sembrava giusto che solo Jona condividesse i suoi dolori, anche io volevo dire la mia». Roberto portò le ginocchia al petto raccogliendole con le braccia, poggiando il suo mento sottile sulle stesse. Il suo sguardo si tinse di malinconia.
«Mio padre non ha mai creduto in me. Neanche una volta mi ha incoraggiato a credere nella mia passione per la musica. L’unico a spronarmi a non mollare è stato il mio bisnonno che è morto poco prima che io decidessi di venire qui in Giappone. Devo tutto a lui. Sono qui proprio per non rendere vano il prezioso tempo che mi ha concesso, insegnandomi tutto quello che so e infondendomi coraggio anche quando io avevo smesso di credere in me stesso. Voglio che sia fiero di me anche da lassù.  So di non essere perfetto. Non posso vantare la vostra stessa preparazione, ma la mia forza di volontà e la mia tenacia sopperiranno  a questa mancanza» Toshi si abbandonò reclinando leggermente il corpo indietro e reggendolo con le sue braccia il peso del suo busto sbilanciato.
«Per la prima volta domani deluderò le ambizioni di mio padre, ma sarà anche il giorno più bello della mia vita perché per la prima volta non sarò solo. Non farò tutto questo per riempire di orgoglio lui, ma per far sentire meglio me stesso. Canterò per la mia gioia e non per il dovere di farlo».  Take sorrise amaramente stringendo tra le sue mani una bandana, la stessa che si era sfilata dopo la fine delle prove.
«So di non meritare questa possibilità perché per la mia età sarei già da rottamare. Ma volevo dirvi grazie per aver creduto in me e per avermi accettato nel gruppo. Farò del mio meglio per non deludervi»
Tutti si voltarono verso Kei aspettando che anche lui condividesse qualcosa con loro ma il ragazzo sollevatosi dal pavimento raggiunse lo stereo.
«Se avete finito, credo potremmo riprendere le prove» chiuso il discorso riaccese la radio.
«Aspettate un attimo. Ma non abbiamo ancora scelto il nome del nostro gruppo» constatò Jona costringendo Kei ad abbassare il volume.
«Che ne pensate di HOPE? Una persona tempo fa mi disse che alla fine è tutto lì quello che ci serve per realizzare i nostri sogni. Se non demordi e mantieni costante la speranza nulla può diventare impossibile» lanciò lì Roberto.
«HOPE? Speranza, mh.. Si, mi piace» confermò Toshi strofinandosi il mento compiaciuto.
«Gli HOPEBOYS mi piace una cifra» lo appoggiò anche Jona.
«Mi piace l’idea della speranza. Non so, è incoraggiante e motivante. Tu cosa ne pensi Kei?» chiese Take. Il ragazzo indifferente vicino lo stereo incrociò le braccia remissivo.
«Non mi convince per niente, ma se per voi va bene…» Shin si sollevò dal pavimento con un sorriso che andava da orecchio a orecchio, correndo verso il fratello saltellando. Con un salto improvviso si appese al corpo di Kei prendendolo alle spalle e avvolgendo le sue braccia esili intorno al suo collo.
«Che bello!! Non è fantastico? da domani saremo una famiglia!»
Tutti a eccezione di Kei, che quasi soffocava a causa di quella presa inaspettata, sorrisero entusiasti.
«Cinque contro uno non è poi un brutta media… vada per gli HOPE» completò Toshi sollevandosi seguito dagli altri ragazzi.  Le prove sarebbero durate fino alle prime luci dell’alba, poi ci sarebbe stata la loro esibizione pubblica con la quale si sarebbero giocati il tutto per tutto.
 
 
Il giorno tanto demandato dell’esibizione dei sei ragazzi era finalmente giunto. Tutto era stato coordinato con la massima attenzione. Non erano ammessi errori. Avrebbero avuto una sola possibilità per farsi notare e se qualcosa fosse andata male avrebbero dovuto dire addio al loro sogno di diventare famosi. Era un piano che offriva ottime possibilità di riuscita ma era anche vero che in caso di fallimento il prezzo da pagare  sarebbe stato molto alto. Se avessero sbagliato qualcosa sarebbero diventati lo zimbello del web.
Jona aveva avvertito le maggiori testate giornalistiche interessate a nuovi gruppi musicali o a scandali succulenti, Toshi aveva portato via con l’aiuto di Kei e Shin microfoni, amplificatori e mixer dalla Kings Record, mentre Take e Roberto attendevano impazienti l’arrivo degli altri membri del gruppo.
Finalmente il ragazzo biondastro, i due fratelli e l’erede della Kings Record raggiunsero gli altri due in ansia ad attenderli. 
«Finalmente! pensavamo vi foste persi!» esclamò Take andando in contro agli amici e recuperando uno scatolone stracolmo dalle mani di Kei.
«Senti chi parla… Io mi sono tolto il gesso da poco più di un giorno eppure mi ritrovo a fare sforzi che non dovrei mentre voi state qui ad aspettare il nostro arrivo senza concludere nulla»
«Non è esattamente così. Mentre voi eravate via abbiamo distribuito volantini e fatto gli occhi dolci a molte ragazze. Ci sarà un pubblico molto numeroso dopo questo. Puoi starne certo» lo rassicurò Take sorridendogli con malizia. Kei roteò gli occhi al cielo esasperato.
«Tutto qui quello che avete fatto mentre noi facevamo gli 007 per non farci beccare da Rio?»
«Fossi in te non dubiterei così tanto del nostro fascino. Anzi, se devo essere sincero, senza Roberto non sarebbe stata la stessa cosa. Ha un certo ascendente sulle ragazze» ammise sorpreso mentre tutti e cinque si muovevano sul posto dell’esibizione. Kei al suo fianco, ormai a mani vuote esaminava indispettito quel ragazzo italiano.
«Si, su questo ti do ragione, ha un vero ascendente sulle ragazze» sottolineò con una nota di rimprovero che non passò inosservata al giovane italiano di nascita.
“Maledizione, deve avercela ancora con me per quel bacio con Nami. Forse dovrei dirgli la verità…” pensò Roberto muovendosi a capo chino tra i ragazzi, con i pollici di entrambe le mani nelle tasche anteriori dei jeans.
«che fortuna, vi ho trovati» apparve improvvisamente Nami sbarrando loro la strada.
«Tu cosa ci fai qui? Non ti avevo chiesto di aspettarci sul posto dell’esibizione?» la rimproverò suo fratello .
«Toshi, come facciamo? sono già tutti li! Non abbiamo neanche lo spazio per montare l’attrezzatura. L’effetto sorpresa è completamente saltato. Dobbiamo trovare un posto diverso».
«Ho trovato! Il parco è a soli due isolati dal posto che avevamo scelto. Monteremo tutto lì e al momento giusto riveleremo sul web la nuova location dell’evento. Cavolo non mi aspettavo che ci sarebbe stata un’affluenza così anticipata. Dobbiamo sbrigarci!» spronò gli altri Toshi. Tutti acconsentirono seguendolo senza sollevare obbiezioni.
Finalmente era tutto pronto. I microfoni, le casse e anche Nami vicino la consolle era pronta a far partire la traccia audio proprio come le aveva spiegato suo fratello. I sei ragazzi si riunirono in cerchio Toshi sormontava il gruppo non solo per la sua altezza ma anche per la risolutezza e per il tono sicuro e profondo della sua voce.
«Ragazzi, sia che ci riusciremo si che falliremo nella nostra impresa, la strada che percorreremo da oggi sarà complicata. Io conosco bene il mondo dello show-business. Dovremo fare delle rinunce pesanti e non sarà facile reggere le pressioni dei giornali e delle televisioni. Siete pronti a sacrificare la vostra anima per amore della musica? Se non vi sentite pronti, rinunciate adesso perché dopo non ci sarà modo di tornare indietro. Il successo è una madre gelosa e molto volubile una volta che ci avrà trovato non ci lascerà andare, ma allo stesso tempo se compiremo un solo misero sbaglio sarà la prima a gettarci via come niente fosse. Dobbiamo essere consapevoli di questo. Ma cosa più importante, dobbiamo essere completamente sinceri li uni con gli altri.» detto questo squadrò ognuno dei presenti cercando nei loro occhi segni d’incertezza, ma non ce ne furono.
«Se avete qualcosa da dire fatelo adesso o un giorno potremmo pentircene». Tutti si scambiarono delle occhiate sospette, come cercando negli altri l’incertezza di una verità nascosta. Dopo aver dato tempo a tutti di riflettere Toshi portò una mano al centro del cerchio.
«Qui HOPE!» li esortò, «da adesso saremo una squadra, un corpo unico, un unico cuore. Saremo una chitarra con sei corde diverse, saremo un’unica grancassa che farà tremare il pavimento e un unico e intenso suono di tromba che riecheggerà prima tra le strade di questa città e poi nel resto del mondo, ma prima di tutto saremo una famiglia. Non dimenticatevelo. Qualsiasi cosa accada dobbiamo rimanere uniti, ognuno di noi è importante e dobbiamo aiutarci l’un l’altro sempre. Sarà questa la nostra forza. Fatevelo dire da una persona che ha convissuto con la solitudine e la responsabilità: da soli non si possono condividere le gioie, i dolori e le soddisfazioni, da soli non si arriva da nessuna parte. Il giorno in cui qualcosa arriverà a dividerci allora sarà la fine degli HOPE». Tutti, uno dopo l’altro, portarono la loro mano al centro del cerchio senza mostrare il minimo segno di esitazione, senza cedimento alcuno. In quel momento Toshi, Take, Jona, Kei, Shin e Roberto stavano sottoscrivendo un contratto, non sulla carta bianca e fredda e non con una penna, ma sulla loro pelle e con la loro consapevolezza. Gli HOPE erano finalmente pronti al loro debutto.
 
Tutte le radio nazionali divulgavano efficienti come vulcani in eruzioni notizie in diretta sull’evento tanto atteso di quella mattina. Le maggiori testate giornalistiche erano intervenute sul luogo. Le reti televisive erano pronte a trasmettere in diretta l’esibizione dei sei ragazzi. Era tutto pronto ma ancora nessuno era presente al centro dello spazio indicato come luogo dell’esibizione. Improvvisamente un cambiamento dell’ultimo minuto costrinse le reti televisive gli operatori, i giornalisti a spostarsi di due isolati. Nel parco erano pronti gli HOPE a fare il loro debutto. La musica partì. I sei ragazzi erano in perfetta armonia ma cosa più perfetta era che amavano quello che facevano e si vedeva. Era questo ad emergere sopra ogni cosa, si divertivano. Non c’erano sbavature e imperfezioni. Le ragazze entusiaste battevano le mani e osservavano estasiate quei sei bellissimi ragazzi muoversi e cantare a tempo di musica. Erano proprio come aveva detto loro Toshi, un corpo unico, un’unica voce e un unico cuore.
https://www.youtube.com/watch?v=znZKJRKwfK8
 
Rio era nel suo studio che esaminava la registrazione di una delle nuove promesse della casa discografica quando la porta fu aperta con prepotenza. Daisuke e Andrea fecero il loro ingresso preoccupati avanzando verso la scrivania. Il primo dei due con una leggera cresta sulla testa, chiuse con un movimento brusco il computer portatile dell’amico più grande con i capelli brizzolati seduto dietro la scrivania.  
«Ehi! Vi sembrano modi questi?» lì fulminò con lo sguardo Rio aggrottando la fronte.
«Accendi quella dannata televisione!» lo incitò Daisuke in ansia con il fiatone e il viso imperlato di sudore. Entrambi dovevano aver corso parecchio osservò Rio e senza aggiungere altro fece come gli fu detto dall’amico. Recuperò il telecomando e accese l’enorme monitor alla sua sinistra. Proprio come fece il signor Otzuki molti anni prima davanti a Yori. La storia si stava forse ripetendo per uno strano scherzo del destino?
Sullo schermo comparvero rapide le immagini di un gruppo di sei ragazzi, ma quello che lo colpì più di tutto era la musica sulla quale stavano cantando e ballando.
“Ma questa è la canzone del debutto di Toshi. Cosa cavolo significa?” come per chiarire i suoi dubbi silenziosi l’inviato speciale con uno strano riporto sulla testa e degli spessi occhiali incorniciati da una montatura verdone comparve sullo schermo trattenendo con le sue domande i sei ragazzi artefici di quell’esibizione che aveva richiamato così tanta attenzione da parte dei media.
«Ragazzi, solo qualche domanda!» li richiamò disperatamente portando avanti il suo microfono. Fu in quel momento che Rio riconobbe quegli occhi, quelle labbra e quei capelli. Quello accanto a quel giornalista inguardabile, era suo figlio. Con una mano lentamente calò le sue lenti mentre gli occhi si riducevano a due sottili fessure.
«Prego» lo esortò Toshi portandosi avanti agli altri. Di certo del gruppo lui era quello più preparato a gestire la pressione dei giornalisti e dei riflettori. Dopotutto ci aveva convissuto per anni grazie al lavoro e alla lunga preparazione di suo padre.
«Vorrei farvi giusto qualche domanda…».
«Siamo qui per questo» lo spronò sorridendo calmo mentre gli altri dietro di lui si scambiavano degli sguardi spaesati. Era evidente che si sentissero accerchiati e soffocati dai flash delle macchine fotografiche e dalle urla estasiate, delle ragazze e dalla pressione degli altri giornalisti.
«Prima di tutto volevo chiedervi se dietro di voi ci sia già una casa discografica. Non sarebbe la prima volta che eventi del genere vengano utilizzati per sponsorizzare artisti emergenti…»
«So cosa vuole insinuare, ma dietro tutto questo non c’è lo zampino di mio padre. In realtà credo che al momento si trovi impreparato tanto quanto voi a questo evento. Già immagino la sua faccia mentre guarda questa intervista in diretta» sorrise voltandosi verso la telecamera.
Rio strinse i pugni e digrignò i denti.
“Ha addirittura il coraggio di prendersi burla di me? Questo ragazzo non ha capito proprio nulla”
«C’erano voci in giro pronte a confermare che presto avrebbe debuttato come solista. Come mai ha cambiato idea?»
«Ci sono volte in cui insegui un obbiettivo, ma poi per strada smarrisci i tuoi intenti originari. Così ti ritrovi a vagare senza una ragione chiara e solo perché sono altri ad importelo. Questo è ciò che mi è successo, non ero più convinto del motivo per cui volevo fare musica. Poi grazie a loro ho capito che quello che volevo non potevo raggiungerlo camminando in solitudine. Ciò che ho sempre voluto fare era creare bella musica ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a trovare la perfezione che cercavo. Poi un giorno ho incontrato questi cinque ragazzi alle mie spalle e ho scoperto che seppure ognuno di noi ha le proprie sbavature a modo nostro e stando insieme siamo capaci di dar vita a quella perfezione che ho cercato di creare per tanti anni da solo. Seppure imperfetti insieme sappiamo essere perfetti a modo nostro.»
«Capisco, ti andrebbe di presentarci gli altri membri?»
«Certo, loro sono: Shin la nostra mascotte e la nostra voce di potenza, lui è Kei il nostro rapper, poi ci sono Take il nostro primo ballerino è stato lui a perfezionare la coreografia con l’aiuto di Roberto e poi infine c’è Jona ma immagino che lui già lo conosciate come il figlio della famosa attrice Misako Sasaki e del noto compositore Hiro.»
Il giornalista accennò un sorriso bramoso di notizie.
«I suoi genitori saranno fieri di lei Jona» si rivolse al ragazzo biondo alle spalle di Toshi.
«Se lo dice lei…» affermò facendo spallucce.
«So che al momento i suoi genitori sono in Cina per registrare delle scene di un nuovo film di sua madre. La colonna sonora sarà invece curata da suo padre. Cosa ne pensano loro di questa sua scelta di venire in Giappone?»
«Immagino saranno molto sorpresi quando lo scopriranno».
«Cosa intende con quando lo scopriranno? Non sanno nulla neanche loro?» si sorprese il giornalista riposizionandosi le spesse lenti sul naso.
«No, i nostri genitori sono stati all’oscuro di tutto sin dall’inizio… Ci auguriamo che scoperte le nostre intenzioni possano incoraggiarci… Adesso, se non le dispiace, andremmo. Se qualcuno dovesse essere interessato e volesse contattarci abbiamo appena aperto un sito ufficiale dove tutti coloro che vorranno potranno seguirci. Adesso dobbiamo andare a ringraziare le persone sopraggiunte a questa performance» si congedò educatamente Toshi.
«Prego andate pure e grazie ancora dell’intervista», Toshi accennò un inchino prima di superare l’intervistatore seguito dagli altri ragazzi e raggiungere le ragazze in attesa di incontrarli. Alcuni inesperti altri con nonchalance rilasciarono autografi e fotografie mentre il giornalista concludeva il servizio.
«Bene, da Tokyo è tutto a voi in studio la linea».
Rio spense la televisione incrociando le braccia sulla scrivania meditabondo.
«Cosa facciamo? Quell’incosciente di Take! Maledizione siamo rovinati. Mia sorella non ce la farà passare liscia. Diranno sicuramente che è tutta colpa della mia cattiva influenza» si mise una mano tra i capelli Daisuke.
«E io cosa dovrei dire? Ci scommetto che ne Eichi e ne Mary sanno nulla di tutta questa storia… Chissà cosa succederà una volta che glielo diremo… Cosa facciamo?»
«Ecco cosa intendeva dirmi Nami ieri sera… » li interrupe sovrappensiero Rio strofinandosi il mento parlando a se stesso e ignorando completamente le osservazioni dei suoi amici.
«Rio mi stai ascoltando?» gli domandò Andrea sventolandogli una mano davanti agli occhi per richiamare la sua attenzione.
«Si, ti ho sentito!» lo riprese a voce alta l’altro sollevandosi dalla poltrona dietro la scrivania di quello studio asettico.
«Come hai intenzione di gestire la cosa? Sai benissimo che hanno talento. Presto o tardi qualche casa discografica se li vorrà accaparrare. Vuoi davvero che altri curino i loro interessi dopo che hai passato anni ad aspettare il giorno in cui il talento di Toshi sarebbe stato riconosciuto? Vuoi davvero che qualcun’altro si prenda i meriti del tuo e del duro lavoro di tuo figlio?» gli chiese Andrea preoccupato.
«È quello che ha voluto lui. Che facciano a modo loro. Per il momento sono troppo deluso e frustrato per accettarli in questa casa discografica. Soprattutto sono amareggiato per l’atteggiamento irresponsabile di Toshi, non posso lasciargliela passare liscia in questo modo. Quella canzone aveva un copyright non aveva alcun diritto di farla uscire in questo modo. Adesso dovrò occuparmi di risarcire anche i danni al compositore.»
«E allora cosa hai intenzione di fare? Li lascerai allo sbaraglio?»
«Se così capiranno la lezione allora si! Dopotutto Toshi sembra aver finalmente trovato la perfezione che cercava, che si affidi a quella per andare avanti. Per il momento mi rifiuto categoricamente di prenderli sotto la mia ala»affermò categorico affondando il suo sguardo nel paesaggio oltre l’enorme vetrata.
«Per quanto riguarda Roberto. Chi glielo dirà a Eichi?» i tre si scambiarono delle occhiate perplesse.
Poi in sincrono pronunciarono quel nome.
«Yuki».
 
Yuki aveva ormai quarant’anni e il viso spento e preoccupato di chi non sa come gestire l’ennesimo tornando nella sua vita.
Con la cornetta sul suo orecchio destro e lo sguardo perso nel vuoto del suo studio all’orfanotrofio ascoltava le novità riguardanti Kei e Shin direttamente dalla voce grave e profonda di Rio.
«Non ho scelta JJ non posso prenderli sotto il marchio della Kings Record in questo momento. Sembrerebbe una cosa studiata apposta per lanciare il loro successo. E poi io non me la sento ancora di perdonare Toshi.»
«Rio, hai già dimenticato i guai che causasti al signor Otzuki dopo quel fuori onda con Yori? Non essere troppo severo con tuo figlio dopotutto avete commesso lo stesso errore giovanile. Un attimo di disobbedienza dopo anni di fedeltà assoluta non può essere così imperdonabile. Ragiona, tu meglio di me sai quanto crudele sia il mondo dello spettacolo oggi, molto più che ai nostri tempi. Vuoi lasciare davvero che qualcuno consumi il talento di tuo figlio ma anche quello dei figli dei tuoi amici, fino a vederli senza più motivazione andare avanti come automi privi di personalità? Era questo il futuro che volevi per tuo figlio? Ti prego, se non per Toshi fallo almeno in nome dell’amicizia che ci lega. Se solo avessi avuto Akiko al mio fianco avrei avuto molta più dignità di adesso, ma non essendoci più lei al mio fianco, ti supplico in ginocchio di occuparti di Shin e Kei ma anche degli altri ragazzi. Fallo in ricordo dei vecchi tempi».
«Vedrò cosa posso fare…»
«Grazie Rio. Non temere, appena saranno a casa, farò a entrambi una bella ramanzina. Ma tu per favore occupati di loro…»
«Lo farò ma a una sola condizione…»
«Quale?» chiese perplesso Shin dall’altro capo del telefono.
«Glielo dici tu a Eichi di Roberto…»
«… »
«JJ, ci sei?»
«…lo sai quello che è successo tra me e Eichi. Come puoi chiedermi una cosa simile?»
«Sei stato tu a dirmi che perdonare è la cosa più giusta. Forse è il momento che anche tu inizi a perdonare te stesso per quella notte. Dovresti chiamarlo. Sono anni che io e gli altri non facciamo altro che dirtelo. Finalmente hai l’occasione giusta per farlo».
«Eichi mi chiuderà il telefono in faccia. Come potete chiedermi una cosa del genere? Lo so che dietro questa minaccia ci sono anche Andrea e Daisuke. Quando la smetterete di assillarmi con questa storia?»
«JJ siete fratelli, e sono troppi anni che vi portate rancore per motivi che non vi appartengono. È arrivato il momento di mettere da parte i vostri malumori per amore dei vostri figli. Dopotutto sei stato proprio tu a dirmi di farlo con Toshi e allora io ti sto chiedendo la stessa cosa…»
«…vi odio. A tutti e tre. Va bene, lo chiamerò, ma tu devi promettermi che ti prenderai cura dei ragazzi».
«Una promessa è una promessa, ma sappi che arriverà il momento in cui dovrò chiederti un altro favore».
«Ah! Perché questo non basta?»
«Vuoi che mi occupi del futuro di Kei e Shin giusto? Beh, queste sono le condizioni. Dillo subito se vuoi tirarti indietro»
«E va bene. Adesso chiudiamola qui».
«Perfetto. Vado a trovare quei mascalzoni. Ci sentiamo appena avrai aggiornato Eichi, noi ci occuperemo di Hiro e Misako».
«Ok, a dopo».
 
Yuki stringeva ancora la cornetta nella sua mano destra.
“Con che faccia lo richiamo dopo le cose orribili che gli ho detto quella notte?”
Yuki ricordava benissimo il momento in cui aveva preso le difese del Signor Aoki e di sua madre. Dopotutto non provava lo stesso rancore di Eichi per quell’uomo con il quale aveva, invece, un grosso debito morale. Il signor Aoki infondo gli aveva affidato una figlia che lui stesso aveva portato alla morte con così tanta sconsideratezza. Era passato meno di un anno dall’ultimo giorno di vita di Akiko e Shin era ancora piccolo e indifeso tra le sue mani. Fu per caso che scoprì la relazione tra sua madre e il signor Aoki. All’epoca entrambi gli chiesero di mantenere il segreto e per Yuki che non aveva mai avuto segreti per suo fratello fu davvero dura.
Poi arrivò quel giorno maledetto. Eichi arrivò in Giappone e scoprì tutta la verità.
« Ti sei dimenticata di quello che ti ha fatto quell’uomo?» urlò verso sua madre. «Hai già dimenticato tutto? Roberto, me e quello che lui non è mai stato? Come puoi essere così priva di dignità? Adesso che quella donna ha deciso di divorziare da lui ecco che ritorna da te! Non ti sembra un po’ troppo vigliacca come mossa?». Fu in quel momento che Yuki disse quelle parole che segnarono una rottura inevitabile tra i loro due mondi. «Adesso stai esagerando Eichi. Tuo padre è una persona diversa da quello che credi.
«Tu non parlarmi! Come hai potuto tenermi nascosta una cosa del genere?»
«Quell’uomo che tanto degradi mi è stato più vicino di quanto non mi sia stato tu. Dove eri quando Akiko è morta? Dove eri quando ho dovuto lottare per non mollare. Eravamo fratelli, ma dopo che sei partito per l’Italia io ho smesso di riconoscerti come tale. Tu non sai nulla di quello che tuo padre e io abbiamo provato in quest’ultimo periodo. È una fortuna che lui abbia avuto la mamma vicino a differenza mia, che non ho potuto avere neanche l’abbraccio di un fratello a confortarmi in quel momento. Come credi mi sia sentito quel giorno? Solo… miserabilmente solo! E tu dov’eri? Non rimproverare a tuo padre le mancanze che tu stesso hai fatto provare agli altri. Fratelli per me aveva un significato profondo ma a quanto pare per te ci sono altre priorità adesso».
«Come puoi dirmi questo? Lo sai che ho fatto l’impossibile per raggiungerti… »
«Non hai fatto abbastanza… non eri lì quel giorno e ne il giorno dopo. Che diritto hai di avanzare pretese dopo che sei andato via? Tu non hai la più pallida idea di cosa significhi perdere la persona che ami più al mondo. Non conosci la desolazione e il vuoto che si prova. È un bene che la mamma e il signor Aoki abbiano avuto una seconda possibilità per amarsi. La vita è troppo breve per rimproverarsi colpe del passato. Adesso se hai finito, puoi anche tornartene in Italia da tua moglie e dai tuoi figli… sparisci dalle nostre vite se l’unica cosa che sai fare è condannarle!»
Quelle parole uscirono senza che Yuki potesse frenarle. Non le pensava veramente ma la ferita per la perdita di Akiko era ancora aperta e sanguinava rovinosamente dal suo cuore. Non pensava quello che aveva detto a Eichi, a parlare era stato l’odio per se stesso, per il marito imperfetto che era stato. Un marito incapace di occuparsi di sua moglie, di salvarla. Era la gelosia per suo fratello che aveva ancora la donna che amava tra le sue braccia ogni notte mentre a lui non era rimasto altro che un letto vuoto con cui fare i conti ogni dannata sera. Aveva esagerato e lo sapeva, ma in quel momento non riuscì a rimangiarsi quelle parole. Fu l’ultima volta che lo vide.
 
 
 
I ragazzi erano finalmente rientrati al garage di Take. Roberto tirò fuori da una borsa dietro il divano il suo computer. Lo accese e entrò sul sito a cui aveva lavorato per più di una settimana. Il gusto estetico lo aveva ereditato da sua madre. L’impianto generico era molto accattivante. C’erano già più di 10.000.000 di visualizzazioni.
«Ragazzi, guardate qui. Ci sono stati già più di dieci milioni di visitatori. È incredibile» tutti si accalcarono intorno a Roberto con il PC sulle gambe.
«Guarda c’è un messaggio, in fretta aprilo» lo incoraggiò Jona eccitato.
«Sembra una e-mail di una casa discografica».
«Music Station. La conosco è molto rinomata» li appoggiò Toshi con convinzione.
«Leggiamo cosa vogliono…» proseguì interessato Roberto.
 
Egregi HOPE, la nostra casa discografica vorrebbe offrirvi sei mesi di formazione e un contratto. Ci farebbe piacere incontrarvi anche nel primo pomeriggio di questa stessa giornata per chiarire gli ultimissimi particolari.
Cordiali Saluti
Music Station
 
«Ragazzi è fatta! Non posso crederci!»esultò euforico Jona.
«Aspettate a gioire, prima dobbiamo verificare tutte le clausole del contratto» spense ogni entusiasmo Kei.
«Beh, per lo meno abbiamo già una prima proposta. Credo dovremmo andare a parlarci oggi stesso. Cosa ne dite?» chiese agli altri Toshi.
«Per me va bene!» acconsentì Take e con lui anche Jona, Roberto e Shin furono d’accordo. Kei al contrario, era ancora abbastanza perplesso. Aveva un brutto presentimento. Quell’offerta era arrivata troppo precocemente.
 
 
 
Nella sua casa una donna con un sogghigno maligno sorseggiava il suo vino rosso, pregustando il momento in cui avrebbe avuto la sua vendetta. Avrebbe distrutto la carriera di Roberto. Non gli avrebbe permesso di arrivare al successo come suo padre, quel figlio illegittimo che lei aveva sempre odiato al pari di quella sgualdrina di sua madre. Con un sorriso diabolico spense il computer. Aveva fatto proprio bene a investire il suo denaro per comprare tutte le azioni della Music Station adesso era lei ad avere il vero potere in quella società. Se quei ragazzi entravano nella sua casa discografica, allora avere la sua vendette sarebbe stato molto più facile.
 
https://www.youtube.com/watch?v=7q6PYRon5oU&feature=youtu.be

NOTA:
Salve a tutti, vorrei scusarmi per la lunga attesa. Come ho avuto modo di chiarire già nel precedente capito questo è un periodo turbolento. Spero di aggiornare la storia almeno una volta a settimana, ma se non dovessi riuscirci perdonatemi in anticipo. Purtroppo internet va un pò lento quindi controllate il capitolo perchè inserirò alla fine e all'inizio due video. Spero che i video accenderanno la vostra curiosità. Se vi fa piacere lasciate anche delle recensioni. Sono molto curiosa di sapere la vostra opinione su quello che secondo voi succederà ai nostri sei amati personaggi o avere un parere sulla storia e su come si sia sviluppata fino a questo momento. Un abbraccio e a presto. 

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Capitolo 10
*** L'ARRIVO DELLA TEMPESTA ***


CAPITOLO 10
L'ARRIVO DELLA TEMPESTA

 

Italia
 
Marika aveva appena varcato il cancello del liceo. Finalmente respirava aria di libertà. Anche l’ultima prova orale era finita. Guardò il suo orologio da polso. Le lancette segnavano le 12:30. Era veramente tardi. Se faceva di corsa forse riusciva a raggiungere Clara al negozio. Doveva assolutamente arrivare prima che chiudesse. In un messaggio l’amica le aveva accennato qualcosa riguardante un video molto importante.
Con la cartella ancora pesante sulle spalle, la ragazza dai lunghi capelli color del grano, si avviò verso la fermata dell’autobus.
 
Clara stringeva incredula il telefono tra le sue mani.
“Adesso si che sono fottuta. Maledizione Roby, potevi anche dirmelo che il tuo piano prevedeva un’esibizione pubblica di questo livello. Sicuramente entro ventiquattro ore papà sarà già informato di tutto. Cosa mi invento adesso?”
Proprio mentre rifletteva sulle conseguenze di quel piano, qualcuno entrò nel negozio ansimando e premendo sul petto con la mano destra nella speranza di decelerare i battiti del suo cuore. Era Marika. Senza dire nulla raggiunse l’amica dietro il bancone con il telefono tra le mani.
«Cosa volevi farmi vedere? Riguarda Roberto non è vero?» chiese preoccupata squadrando l’amica con i suoi grandi occhi verdi.
«Si, riguarda Roberto. Mi ha mandato solo un messaggio con questo link. Tieni, forse è meglio che gli dai un’occhiata. Quell’incosciente mi ha proprio messo nei casini. Cosa mi invento adesso per proteggerlo?» detto questo passò il telefono nelle mani dell’amica. Marika fece partire il video. Erano sei ragazzi che ballavano e cantavano in una parco, tra loro c’era anche Roberto.
«Cosa significa?» chiese preoccupata a Clara dopo averle restituito il cellulare.
«Credo abbiano voluto tentare il tutto per tutto con questa esibizione. Sicuramente contano di attirare l’attenzione di qualche casa discografica. Sai Marika, sono molto preoccupata. Spero che  questa situazione giochi solo a loro favore. Non vorrei si cacciassero nei guai».
Marika stava per rincuorare l’amica quando improvvisamente un conato di vomito la interrupe. Clara corse a mantenerle la fronte.
La ragazza però si riprese subito deglutendo vistosamente.
«Marika tutto bene?» le chiese Clara, tirandole indietro un ciuffo di capelli dal viso pallido.
«Credo di avere lo stomaco sottosopra a causa di questi dannati esami».
«Sei davvero pallidissima. Dovresti farti visitare da un medico» tentò di convincerla controllandole la temperatura. Marika allontanò dolcemente la mano dell’amica dalla sua fronte.
«Non dire sciocchezze, sto benissimo. Deve essere stata la corsa che ho fatto per venire qui. Non devi preoccuparti».
«Sei più magra del solito e la cosa non mi piace» proseguì puntando su di lei uno sguardo scettico.
«Fidati, non ho nulla. Adesso piuttosto, occupiamoci di trovare una scusa plausibile per proteggerti da tuo padre»,
«Non penso ce ne siano. Immagino che dovrò assumermi tutta la responsabilità» concluse Clara reclinando il capo. Una volta chiusa la cassa entrambe si avviarono verso la porta. Marika la seguiva tenendosi stretta lo stomaco.
“Diamine perché mi sento così debole?”
«Oddio, non ci voleva proprio!» esclamò Clara mentre chiudeva il negozio.
«Cosa c’è?»
«Marika non avresti un tu sai cosa…? » disse indicando con lo sguardo le parti basse.
«Un assorbente? »
«SH!!! Non gridarlo ad alta voce!» si avvicinò all’amica con fare circospetto.
«Certo, eccolo qui!» lo tirò fuori dalla borsa come farebbe un bravo spacciatore.
«Grazie mille, ti dispiace aspettarmi qui? vado in bagno e torno! Ci mancava anche questa adesso!» sbuffando superò l’amica entrando nei bagni pubblici.
Marika a capo chino e con il corpo appoggiato alla parete, rifletteva.
“L’ultima volta che ho avuto il ciclo è stato più di un mese fa. Doveva essermi già arrivato da un pezzo. Che sia colpa degli esami? Dicono che lo stress non aiuti molto. Forse per questo mi sento così scombussolata…”
«Eccomi qua! Possiamo andare» la raggiunse Clara.
«Si certo, andiamo pure» la rassicurò con un caldo sorriso.
 


Tokyo
 
I sei ragazzi erano nella sala d’attesa nell’imponente edificio della Music Station. Dopo un’attesa interminabile, una donna slanciata con un caschetto nero e degli improponibili occhiali rosa li invitò a seguirli. Uno ad uno e in fila indiana si incamminarono percorrendo un lungo corridoio che conduceva a un grande ascensore. Tutti avanzarono sicuri all’interno. In sette si stava davvero strettini. Finalmente il numero 8 sopra le loro teste, si illuminò. Erano arrivati. Le porte si spalancarono rapidamente. Da bravo gentiluomo Toshi fece avanzare la donna secca e rigida con il mento all’insù che li aveva scortati fino a quel punto.
Senza aggiungere nulla la stessa, lasciò i ragazzi ad attendere dietro una porta bianca e massiccia. Dopo qualche momento una voce maschile li invitò ad entrare.
Toshi, portandosi rapidamente avanti al gruppo e con un movimento deciso, spinse verso il basso la maniglia. Così gli Hope avanzarono all’interno di quella stanza.
Un ragazzo di neanche trent’anni sedeva dietro una scrivania di cristallo. I capelli neri meticolosamente tirati da un lato erano spartiti da una riga laterale estremamente artificiosa. Sul naso due occhialini tondi e ai lati del suo viso tondo e sbarbato due orecchie a sventola niente male completavano l’identikit di quel giovane atipico. Sembrava la versione adulta del detective Conan l’eroico personaggio nato dalla penna di uno dei più famosi mangaka giapponesi.
L’uomo fece segno ai sei ragazzi di accomodarsi. Infatti, a pochi metri dalla sua scrivania erano state predisposte sei sedie, chiaro segno che il loro arrivo non era dunque inatteso.
«Prego, accomodatevi pure». Tutti in silenzio presero posto. Al centro Toshi alla sua destra, in ordine, Roberto e Take alla sua sinistra Kei, Shin e Jona.
«Sono molto felice di fare la vostra conoscenza» esordì intrecciando le dita delle sue mani ossute e poggiandole su una pila di fogli accatastati sulla scrivania davanti a lui.
«Il piacere è nostro. Grazie per il vostro invito» completò Toshi rispondendo anche per gli altri.
«Immagino abbiate intuito chi sia la persona che vi sta parlando in questo momento…»
«Lei è il Direttore Mashimoto. Mio padre ci ha già presentati un paio di anni fa.» affermò Toshi sicuro di sé.
«Vedo che hai un’ottima memoria ragazzo» costatò divertito l’altro sorridendo furbamente.
«Sono abituato a ricordare solo le cose veramente importanti»
«Allora dovrei sentirmi onorato di essere rimasto così impresso nella tua memoria». Toshi gli sorrise complice.
«Bene, direi che a questo punto le presentazioni siano escludibili in quanto voi conoscete me e io già conosco tutti voi.» affermò squadrando ognuno dei sei ragazzi seduti al suo cospetto.
«Il motivo per cui vi ho convocato in realtà non è propriamente dipeso da una mia decisione, seppure devo ammettere abbiate catturato il mio interesse. Nonostante questo, è stato qualcun’altro a chiedermi di seguirvi e prendervi sotto la mia ala. Si tratta di una persona molto importante per questa società. Non dirò il suo nome ma posso garantirvi che qualcuno nella alte sfere tiene molto al che diventiate famosi. Queste non sono fortune che capitano spesso. Spero ne siate consapevoli. Chiarito questo, parliamo invece del contratto. Ho provveduto a fare sei copie identiche una per ognuno di voi. Potete leggere e decidere di firmarle anche in questo momento se le condizioni vi aggradano. Per qualsiasi chiarimento potete chiedere a me».
detto questo consegnò a ognuno dei presenti una copia del contratto.
«Le dispiace darci qualche minuto per consultarci?» chiese Kei aprendo la bocca per la prima volta da quando avevano messo piede nell’edificio.
«Certo, fate pure. Io uscirò a fare il mio solito giro di controllo. Per il mio ritorno mi auguro sarete già in grado di darmi una risposta».
Detto questo il ragazzo si sollevò dalla sua imponente poltrona di pelle nera e raggiunta la porta l’aprì uscendo e richiudendosela nuovamente alle spalle.
«Cosa ne pensate?» chiese Toshi parlando a tutto il gruppo.
«A me questa storia non convince per niente» sottolineò ancora una volta Kei.
«Mi costa ammetterlo ma sono d’accordo con lui» proseguì Roberto mentre scorreva rapido le clausole del contratto.
«Cosa c’è che non vi convince? Per una volta non potrebbe essere che il vento si sia voltato a nostro favore? Perché dovete vedere sempre tutto nero?» tentò Take, disperato come un uomo perso nel deserto che intravede un’oasi dopo giorni e giorni di siccità. Toshi arrotolò il contratto tra le mani combattuto, comprendeva la frustrazione dell’amico. «Non fraintenderci Take, anche noi siamo felici che qualcuno ci abbia notato, ma allo stesso tempo anche io penso che dovremmo consultarci con qualche avvocato prima di decidere. Sai, mio padre mi ha sempre detto che in quest’ambito nessuno ti da niente per niente. Forse dovemmo prendere questa decisione con calma senza lasciarci trasportare dalla fretta…»
«Parlate bene voi, io non ho tutto questo tempo da perdere. Quanto ancora devo aspettare prima di vedere riconosciuto il mio talento? Non voglio diventare vecchio prima che accada».
«Take calmati. Non abbiamo detto di no, ma solo che ci serve qualche giorno in più per analizzare meglio le carte» provò a convincerlo Roberto al suo fianco. Il ragazzo con i lunghi capelli mossi non era ancora pienamente convinto.
«Take, hanno ragione loro. Prendiamo qualche giorno per rifletterci. Ne va del nostro futuro» aggiunse Shin.
«Ho capito, fate come volete. Continuiamo pure a perdere tempo inutilmente…» concluse grave il più grande del gruppo incrociando le braccia allo stomaco.
 
Rio, Daisuke e Andrea erano appena giunti nell’edificio della Music Station.
Il più alto dei tre con la sua andatura impostata avanzò diretto alla reception.
«Devo parlare immediatamente con il Direttore Mashimoto» affermò in tono autoritario rivolgendosi alla donna con il caschetto nero che poco prima aveva accompagnato i sei ragazzi all'ottavo piano.
«Mi dispiace ma al momento il direttore non può ricevere nessuno» affermò aggiustandosi le lenti sul naso e tornando alle sue mansioni ignorandoli con strafottenza.
«Forse non ci siamo capiti. Non era una richiesta, ma un’imposizione. Lei non ha capito con chi sta parlando».
Una voce giovane alle spalle dei tre uomini si intromise improvvisamente.
«Naoki, cosa sta succedendo qui?» le domandò stupito.
Subito la donna si sollevò dalla sua sedia irrigidendosi come uno stoccafisso.
«Salve direttore, pensavo fosse in riunione con i ragazzi per questo io…»
«Non è il modo questo di accogliere degli ospiti. Prego seguitemi» fece segno ai tre di accomodarsi in una stanzetta situata poco dopo la sala d’attesa. I tre uomini lo seguirono. Una volta dentro, si accomodarono intorno a un insolito tavolo ovale.
«Volevate parlare con me?» gli chiese il ragazzo appena trentenne con la capigliatura tirata e artificiosa.
«Direttore Mashimoto siamo venuti qui per parlare dei ragazzi che lei ha convocato presso la sua casa discografica.»
«Ma guarda come volano le notizie. Cosa volete esattamente?»
«Vogliamo che rinunci a loro.»
L’uomo sogghignò, «diamoci anche del tu. Ormai è parecchio che ci conosciamo noi due. Rio, sai benissimo che in questo campo non esistono favori. Se vuoi che rinunci a loro devi darmi qualcosa di altrettanto allettante. Altrimenti non se ne fa niente»
Rio si strofinò il mento pensando a cosa fare. Per quanto ne sapeva quei sei potevano aver già firmato il contratto. Bastava che anche solo uno di loro avesse firmato per costringere gli altri a seguirlo. Anche se Jona e Shin non erano maggiorenni il fatto che gli altri avessero firmato li avrebbe costretti a entrare nella casa discografica perché parte di un gruppo dichiarato.
«Stavo per far debuttare una giovane cantante molto promettente. Si chiama Yukino. Ti do lei in cambio di sei ragazzi inesperti, ancora da formare e poco preparati allo show-business.»
«Non saprei, questa Yukino neanche la conosco. Potrebbe non convincermi del tutto»
Rio sostenendo con autorità il tono di quella conversazione tirò fuori da una ventiquattrore una cartellina nera. Poggiata sul tavolo con una spinta decisa la fece scivolare fino a raggiungere il giovane direttore della Music Station all’estremità opposta. Lo stesso l’aprì tirandone fuori un fascicolo e un cd.
Con un sorriso divertito il ragazzo si avvicinò a uno stereo e inserì il CD. Fece partire la traccia audio mentre scorreva le pagine del fascicolo. In prima pagina una bellissima ragazza dai capelli ì biondi e artificiosi con un rossetto rosso e sfrontato sulle labbra carnose. Improvvisamente il telefono nella sua tasca vibrò. Spento lo stereo si accinse a rispondere.
«Pronto. Si signora, capisco. Provvedo immediatamente». Chiusa quella conversazione tornò a sedersi al tavolo.
«Va bene. Prenderò questa ragazza al posto degli Hope.» Concluse abbandonando il suo sorriso insolente e tornando serio e autoritario.
«Qui ho una copia del contratto» aggiunse Rio facendola scivolare come aveva fato pocanzi con la cartellina nera. Il giovane direttore Mashimoto serio in viso firmò seguito da Rio. Dopo una stretta di mano i quattro si congedarono uscendo dalla stanza. Proprio in quel momento Rio, Daisuke e Andrea incrociarono i sei ragazzi nei corridoi avanzare verso l’uscita.
Il direttore Mashimoto si avvicinò loro con aria vincente.
«Immagino abbiate molto di cui parlare in questo momento.» affermò squadrato Toshi e poi Rio, prima di superare il gruppo. Ma poco prima di allontanarsi dai sei ragazzi si avvicinò a Take, prendendolo per un braccio e avvicinandosi al suo orecchio sinistro sussurrandogli poche parole, sorridendo malizioso.
«Per te questa porta sarà sempre aperta. Se qualcosa non dovesse andare vieni pure da noi. Noi non sottovalutiamo i nostri artisti per uno stupido cavillo come l’età» detto questo gli lasciò un bigliettino da visita. Ovviamente nessuno dei presenti si accorse di nulla, in quanto ormai presi sottotorchio dalle ramanzine di Rio e degli altri due. L’unico ad accorgersi del movimento fu Roberto che era al fianco dell’amico.
«Adesso seguitemi. Andremo alla Kings Record!» li richiamò Rio squadrando i sei ragazzi dall’alto della sua posizione. Era arrivato appena in tempo.
 
Il giovane Direttore della casa discografica raggiunse il suo studio dove ad attenderlo c’era una donna il cui viso pieno di rughe non lasciava trasparire incertezze sulla sua vera età.
«Signora, perché mi avete chiesto di rinunciare ai ragazzi?»
«Non abbiamo rinunciato, semplicemente ho pensato che sarebbe stato molto più divertente distruggere non solo il futuro degli HOPE ma anche la credibilità della Kings Record. Penso che questa ragazzina potrà esserci molto utile. Potrà servirci per corrompere uno di loro. Immagina che scoop sarebbe se uno degli Hope abbandonasse il gruppo per una carriera da solista nella nostra casa discografica? Ho un paio di carte che voglio utilizzare... farò un favore a entrambi in questo modo… tu eliminerai la concorrenza e io avrò la mia vendetta».
«Signora Aoki…»
«Non usare più quel nome. Da oggi sono la Signora Yoshida» lo rimproverò.
«Mi scusi Signora Yoshida. Non capiterà più».
«Me lo auguro».
 
 
 
Italia
 
In Giappone erano le 22:30 mentre in Italia erano appena le 6:00 del mattino. Eichi era pronto per iniziare un’altra delle sue giornate lavorative. Presa la sua cartellina e bevuta la sua solita tazzina di caffè, aprì la porta di Villa Rosa e uscì. Raggiunta la sua vettura, vi entrò. Stava per mettere in moto e partire quando il suo telefono squillò improvvisamente. Sorpreso lo tirò fuori dalla sua ventiquattrore. Quel numero lo conosceva bene.
“Yuki?”
L’ultima volta che aveva ricevuto una chiamata da quel numero telefonico era stata la notte della morte di Akiko. Un sesto senso gli suggeriva silenzioso che anche questa volta il motivo non sarebbe stato dei più belli. Il pensiero istintivamente corse a sua madre. Che le fosse successo qualcosa? Mettendo da parte i dissapori, rispose.
«Pronto?»
«Eichi…» dall’altra parte della cornetta la voce incerta di suo fratello non suggeriva nulla di buono.
«Cosa è successo?» si apprestò a chiedergli in ansia.
«Roberto, è qui» gli rivelò tutto di botto.
Per un attimo Eichi scosse il cappo interdetto.
«Roberto cosa?»
«Hai capito bene. Tuo figlio è qui in Giappone»
Eichi si abbandonò sul sedile dell’auto portando una mano tra i capelli brizzolati.
«È impossibile. In questi giorni si stava preparando per gli esami a casa di un suo compagno di classe. Non può essere che…»
«Eichi, credimi, Roberto è proprio qui. Se puoi, raggiungimi qui immediatamente. Per il momento si sta occupando di tutto Rio, ma credo tu debba chiarire un po’ di cose con tuo figlio prima che inizino il tirocinio».
«Il tirocinio?»
«Ti spiegherò tutto appena sarai qui»
«Capisco. Vedrò si arrivare il prima possibile…»
«…»
Per pochi secondi tra loro calò un silenzio carico di parole non dette e scuse celate dietro uno spesso muro di orgoglio.
«Yuki…»
«Si…?»
«Graz…» si fermò appena in tempo.
«Cosa?»
«Niente..»
«Ci vediamo in aeroporto. Ti vengo a prendere io. Avvisami appena sarai arrivato».
«D’accordo». Detto questo la conversazione fu chiusa.
 
 
Tokyo
 
I sei ragazzi erano riuniti nella studio di Rio. Erano ormai le undici passate.
L’uomo con la montatura nera sul naso, con occhi severi e autoritari, li osservava in silenzio cercando il modo migliore per iniziare il suo discorso.
«Avete la più pallida idea di quanto mi sia costato questo vostro scherzetto?»
Toshi stava per aprir bocca ma Rio lo anticipò congelandolo con uno sguardo iracondo.
«Non occorre che rispondiate, vi basti sapere che auspico sarete in grado di restituirmi la somma persa. Per salvarvi il culo ho dovuto perdere una delle tirocinanti più promettenti che avevo, Yukino era già pronta al debutto mentre adesso mi tocca preparare sei ragazzi ribelli testardi e inaffidabili come voi. Continuo ancora a chiedermi se ho fatto davvero la cosa giusta. Forse dovevo solo lasciarvi affogare nella vostra stessa melma. Comunque ormai siamo qui e non mi restate che voi: un investimento incerto, sul quale non faccio il ben che minimo affidamento».
Detto questo porse sulla scrivania una pila di fascicoli. In ognuno di essi era contenuto un contratto nominale per ciascuno dei ragazzi.
«Avanti, che aspettate? Non accetterò un no come risposta».
I sei ragazzi messi con le spalle al muro firmarono. Dopotutto cos’altro potevano fare? Daisuke e Andrea recuperarono quei fascicoli dalle loro mani consegnandoli all’amico dietro la scrivania.
«Adesso prenderò questi contratti come garanzia del risarcimento che mi dovete. Una volte che avrete fatto rientrare le perdite ricadute per colpa della vostra incoscienza sulla casa discografica allora sarete liberi di andarvene, ma per il momento avete un conto aperto con il sottoscritto. Ma come vi è venuto in mente di usare quella traccia? Quel brano non sarebbe mai dovuto uscire prima della data prestabilita. Per recuperare il copyright sulla canzone ho dovuto pagare profumatamente il compositore. Potevate essere accusarti di plagio. Potevate finire nei guai se non fossi intervenuto io. Ma vi rendete conto che stavate rischiando grosso?».
I sei ragazzi si scambiarono degli sguardi amareggiati.
«Papà io…» tentò Toshi.
«Nessun papà, da oggi tu non sei il figlio di nessuno, ma solo un altro tra i tanti tirocinanti di questa casa discografica. Scordatevi trattamenti di favore perché non ce ne saranno. Da oggi inizierà il vostro inferno. Dimenticate la vita che facevate prima perché da oggi non sarà più la stessa. Adesso recuperate le vostre cose e andate al dormitorio. Domani inizierà la vostra formazione. Abbiamo davvero pochissimo tempo. Grazie alla vostra trovata il pubblico non farà che torturarci in ansia per il vostro debutto. Farli aspettare troppo rischierebbe di congelare l’entusiasmo del momento, per questo concentrerete anni e anni di addestramento in soli cinque mesi. Domani organizzerò una conferenza stampa in cui annunceremo il vostro ingresso nel mondo musicale sotto il nome della Kings Record. Adesso andate, nei prossimi giorni chiariremo meglio gli ultimi dettagli. Daisuke vi accompagnerà al vostro nuovo appartamento, mentre Andrea da domani si occuperà dei vostri impegni: sarà la vostra ombra e il vostro contatto più diretto con gli sponsor e con chiunque voglia organizzare eventi con voi. In altre parole sarà il vostro manager. Adesso andate».
Concluso il suo discorso Rio invitò con un movimento della mano i sei ragazzi ad uscire dalla stanza scortati dall’uomo con una leggera cresta sul capo mentre lui riprendeva i suoi doveri d’ufficio.
Toshi, prima di uscire superando Daisuke che teneva aperta la porta, si voltò un’ultima volta verso suo padre che continuava a ignorarlo compilando scartoffie varie. Daisuke con una leggera spinta sulla sua spalla lo invitò a rinunciare a quel contatto visivo che non sarebbe mai stato ricambiato. A capo chino il più alto degli Hope uscì seguito dal loro nuovo tutor.
 
Rio una volta chiusa la porta sollevò lo sguardo dalla scrivania.
“Mi dispiace Toshi, ma non riesco ancora a trovare il coraggio di perdonarti”.
 
 
I ragazzi erano finalmente arrivati al loro dormitorio. Un appartamento con tre stanze da letto, una cucina e un bagno. Nulla di troppo grandioso. I sei ragazzi avanzarono incerti in quell’ambiente impolverato e poco accogliente. Mentre gli altri curiosavano intorno, Daisuke e Andrea trattennero Roberto e Take fuori da esso.
«Voi due, venite un attimo con noi» li richiamò il nuovo manager del gruppo. I due tornarono nel corridoio esterno insieme con i loro zii.
«Si può sapere cosa vi è saltato in testa? Roberto, ma ti rendi conto di cosa combinerà tuo padre una volta che lo verrà a sapere?»
«Che diritto hai di dirmi queste cose zio? Per tutti questi anni mi avete raccontato solo menzogne. Perché nessuno ha avuto il coraggio di dirmi che anche mio padre era un cantante? Avevate paura che una volta saputo non avreste avuto più scuse per fermarmi? Alla fine siete solo degli ipocriti. Se siamo arrivati a questo punto è solo colpa vostra.»
«Ehi ragazzino, non dovresti giudicarci così duramente. Non ti passa per la testa che possiamo averlo fatto per il vostro bene? » si intromise Daisuke.
«Per il nostro bene? Ma non essere ridicolo zio! Per colpa vostra abbiamo sprecato solo tanto tempo utile. Per tutto questo tempo ci avete illuso e preso in giro. Siete solo degli egoisti! Hiro e Misako hanno trascurato Jona, tu zio mi hai solo illuso accendendo e spegnendo a tuo piacimento ogni mio entusiasmo, Toshi non è mai stato libero di scegliere della sua vita e una volta che riesce a farlo glielo si viene fatto pesare. Tutti volete decidere il nostro destino. Perché è così difficile lasciarci vivere la nostra vita, quella che abbiamo sempre sognato? Cosa c’è di così sbagliato in tutto questo?» gli rispose Take reggendo furioso lo sguardo di rimprovero di suo zio .
«Non c’è nulla di sbagliato» lo interruppe JJ raggiungendo il gruppo fermo vicino la porta dell’appartamento.
«Zio…» esclamò Roberto impreparato al suo arrivo. I suoi occhi era spenti e rassegnati alla vita, non vi era più nulla del carattere combattivo e vivace che Roberto ricordava.
«La verità è che noi genitori abbiamo sempre troppa paura che i nostri figli finiscano con il compiere i nostri stessi errori.»
I due ragazzi ingoiarono le ultime parole di rimprovero reclinando il capo, abbattuti dall’onestà di quelle parole che lasciavano aperte troppe possibilità inesplorate. Forse JJ non aveva tutti i torti.
«Kei e Shin sono dentro?» chiese infine rivolgendosi ai suoi due vecchi amici.
«Si, sono dentro» lo rassicurò Andrea.
«Allora vado a parlare con loro». Detto questo superò i due ragazzi entrando e raggiungendo i suoi due figli.
 
«Per il momento potete andare. Domani arriveranno Hiro e Eichi e metteremo in chiaro questa situazione» concluso il discorso i due ragazzi senza aggiungere nulla raggiunsero i loro compagni nell’appartamento. Jona e Toshi erano seduti al tavolo della cucina raccolti in un silenzio riflessivo.
Notati i due ragazzi avanzare nella loro direzione Toshi indicò loro, con un movimento della testa, l’unica camera con la porta chiusa dell’intero appartamento.
«JJ è con Kei e Shin…» chiarì Jona con una mano che affondava nei suoi capelli biondi mentre con il gomito sul tavolo sorreggeva il peso della sua testa. «Domani, credo toccherà a me…»
Roberto e Take presero posto intorno a quel tavolo rettangolare.
 
JJ era seduto su uno dei due letti della stanza, sull’altro l’uno accanto all’altro sedevano i suoi due figli. Con un grosso respiro aprì il suo discorso
«è questo quello che volete?»
«Papà non prendertela con Kei, lui non centra nulla. Sono stato io a spingerlo a…»l’uomo su quel letto sorrise inaspettatamente, creando spaesamento tra i due ragazzi.  
«Che ironia, avevo promesso a Rio che vi avrei fatto una bella ramanzina, ma a dire la verità non vedo proprio nulla per cui rimproverarvi. Io conosco bene il desiderio di esprimere se stessi con la musica, so cosa sentite, perché prima di voi anche io ho provato questa sensazione. Sono venuto per dirvi che vi sosterrò. Dopotutto immagino che vostra madre mi avrebbe chiesto di farlo. Non posso negare che avrei preferito un futuro diverso per voi, ma se questo è ciò che volete fare allora io non mi sento di negarvelo. Vi voglio solo dare un avvertimento. Tenetelo bene a mente. Le persone sanno essere meschine bugiarde e infami, arriverà il momento in cui dovrete scegliere tra l’essere chi siete in realtà o fingere di essere una persona diversa da quella che siete. Falsi sorrisi, frasi e atteggiamenti programmati saranno routine, ma tra di voi dovete sempre essere onesti. Non dovete mai e poi mai dimenticarvi di essere fratelli. Proteggetevi l’un l’altro come avete sempre fatto. Non abbiate paura di chiedere scusa quando sbaglierete e non dimenticatevi di ringraziarvi per ogni singolo giorno che trascorrerete insieme. Ricordate, solo voi conoscerete la vera natura del vostro cuore e se sarete fortunati una parte di quello che siete riuscirà a raggiungere il vostro pubblico. Non arrendetevi mai e lottate per quello che credete, ci saranno momenti in cui il successo proverà a corrompere il vostro animo in quel momento ricordatevi di questo momento e delle persone che siete oggi. Bene, quello che dovevo dirvi l’ho detto. Adesso uscirò e voi metterete un broncio di quelli mai visti. Ufficialmente vi ho appena fatto una ramanzina. Che rimanga un segreto tra noi però» dopo un occhiolino complice si sollevò dal materasso. Shin andò verso suo padre e lo strinse forte tra le sue braccia.
«Grazie papà…»con la mano destra JJ sfiorò i capelli scuri di suo figlio. Con l’altra richiamò a sé Kei ancora seduto sul letto a una piazza. Lo stesso trascinandosi a capo chino raggiunse, JJ che lo strinse forte a se. Così uniti avrebbero potuto sfidare il mondo intero.
Una persona preziosa nei loro cuori, sorrideva  nel cielo splendente, fiera di loro, della meravigliosa famigliare che erano diventati. 

NOTA:
Grazie a tutti voi per la fiducia che mi date continuando a seguire questa storia. Ammetto di non essere una grande scrittrice e quindi mi scuso in anticipo per la forma non sempre perfetta, inoltre vi ringrazio per la costanza con la quale leggete i miei capitoli. Ok, adesso la finisco. Un saluto e al prossimo capitolo.

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Capitolo 11
*** PER UN SOGNO PERSO DUE SOGNI RITROVATI ***


PER UN SOGNO PERSO DUE SOGNI RITROVATI


Italia
 
Clara aveva appena recuperato la sua borsa, ed era pronta per uscire e iniziare l' ennesima giornata lavorativa al negozio dei suoi bisnonni, quando suo padre aprì prepotentemente la porta senza chiederle il benché minimo permesso.
Quell’irruzione improvvisa interruppe all’istante ogni suo movimento.
Gli occhi di Eichi scrutavano senza pietà quelli di sua figlia. Clara capì immediatamente che il momento tanto temuto era alla finalmente arrivato .
“Lo ha saputo! Si, è più che evidente. Lo sa.”
Prima o poi il momento di quella confessione sarebbe arrivato e la ragazza con il caschetto e gli occhi a mandorla verde smeraldo era pronta.
«Da quanto va avanti questo giochetto? Per quanto hai coperto tuo fratello?» le chiese in tono grave suo padre, mantenendo la porta aperta facendo pressione con la sua mano, ancora fermo sull’uscio.
«Dalla morte del bisnonno.» Gli rivelò Clara senza mostrare  la minima incertezza. Eichi si portò una mano tra i capelli.
“Sono stato preso in giro da entrambi per così tanto tempo? Assurdo…”
«Papà, prima che tu dica altro, voglio solo sottolineare che non ho intenzione di rinnegare la mia responsabilità per quello che è successo. Se vuoi prendertela con qualcuno prenditela pure con me. Avrei potuto fermarlo ma non l’ho fatto. Conosco troppo bene il desiderio di realizzazione che Roberto ha represso per tutti questi anni.  Sin dall’inizio ho accettato di essere l’unica a sacrificare i propri sogni soffocandoli in amari rimpianti, non potevo permettere che anche lui lo facesse, soprattutto dopo le parole del bisnonno. So di averti deluso, ma in quel momento volevo solo la felicità di mio fratello. Se c’è qualcuno che ha sbagliato sono io… Ti prego, non rovinare il sogno di Roberto. Lascialo almeno provare» tentò con sicurezza, sostenendo lo sguardo severo di suo padre.
“Cosa devo fare con voi due?” sospirando Eichi chiuse la porta della stanza e lentamente si incamminò verso sua figlia. Presa sotto braccio la spronò dolcemente a prendere posto sul letto posizionandosi subito dopo al suo fianco.
«So che lo hai fatto per il suo bene e infondo dare solo a te la colpa di tutto, anche se più facile, sarebbe però molto disonesto. La verità è che ho chiesto a entrambi e specialmente a te, troppi sacrifici. Lo so e non mi resta che ammetterlo. Però, sia ben chiaro, questo non significa che passerò sopra quello che è successo. Sono ancora contrario a questa scelta di Roberto e ho intenzione di raggiungerlo in Giappone e chiarire la mia posizione al riguardo. Clara, non fraintendermi non è che io non riconosca le capacità di tuo fratello, semplicemente conosco forse troppo bene il mondo dello spettacolo. Anche se non ve l’ho mai confessato prima, in passato anche io sono stato un cantante abbastanza famoso in Giappone. Conosco i sacrifici che bisogna fare per rimanere in quel mondo e la facilità con cui può portarti via tutto. Forse avevo solo paura che ciò che ha ferito me in passato avrebbe potuto ferire anche lui. Non volevo per nessuno dei due una vita fatta di rinunce, ma alla fine quello che vi ha portato a rinunciare a ciò che amavate di più sono stato io. Adesso ho finalmente capito che tenere entrambi sotto una campana di vetro non è servito a nulla. Roberto è proprio come me da ragazzo testardo e caparbio e tu hai lo stesso spirito di sacrificio di tua madre.  Mi dispiace che tu abbia dovuto rinunciare ai tuoi sogni e ai tuoi obbiettivi per colpa di un padre troppo egoista e cieco come me. Ma rimedierò... .»
Clara sbatté le palpebre un paio di volte incredula. Suo padre un cantante famoso? Che cosa intendeva dicendo che avrebbe rimediato? Aveva per caso bevuto? Non era da lui quel modo di fare.
L’uomo al suo fianco le sorrise con sguardo fiducioso.
«Per prima cosa, prepara le valigie. Tra tre ore si parte per il Giappone» detto questo, dando due innocui colpetti sulla coscia di sua figlia, si rimise in piedi lamentandosi sommessamente per i dolori alla schiena.
«Dove andiamo?» gli domandò Clara ancora sotto shock.
«Ho detto che andiamo in Giappone. Anzi, quasi dimenticavo, porta tutto il necessario per rimanere lì un bel po' di tempo. »
Clara continuava a fissare suo padre con lo sguardo perso e disorientato di chi non può credere alle sue orecchie.
«Cosa c’è? Ho detto che avrei rimediato ai miei errori, ebbene questo è il primo passo. Considerati libera anche tu di inseguire i tuoi sogni. Non penso sia giusto concedere questo privilegio solo a tuo fratello. Anche tu ti sei guadagnata il diritto di credere nelle tue passioni. Per quanto riguarda le bugie che mi avete rifilato non posso di certo farvela passare liscia. Per quanto riguarda tuo fratello credo che prima o poi avrà la sua punizione dalla strada che ha scelto di percorrere. Mentre a te l’unica condizione che impongo e quella di trasferirti in Giappone in modo da stare vicino a tuo fratello e controllarlo. So che arriverà il momento in cui avrà bisogno di te e credo che un fratello o una sorella dovrebbe essere sempre presente in momenti come quello. Poi il cambiare aria potrebbe anche aiutarti a trovare l’ispirazione per una delle tue storie.»
«Ma… io…»
«Non era una suggerimento Clara, ma un’imposizione. Non accetterò un no come risposta. Questa è la punizione per avermi mentito e tenuto all'oscuro di tutto, ma anche il premio per essere stata vicino a tuo fratello quando neanche io sono stato capace di farlo. Ho solo bisogno che tu continui a farlo perché so che tu sarai l’unica di cui si fiderà in futuro. Adesso prendi tutto quello che puoi. Tra poche ore partirà il nostro aereo.» Detto questo sorrise a Clara uscendo e chiudendo la porta.
“Non posso crederci. Ho davvero la possibilità di realizzare i miei sogni? Posso davvero tornare a scrivere?”
Due lacrime scesero lente sul suo viso candido e liscio come una ceramica pregiata. Un sorriso lento emerse su quel volto tinto dalle lacrime calde. “Grazie papà, grazie nonno. ”
 
 
 
Tokyo
 
 
I sei ragazzi erano ancora stesi nei loro letti, quando un rumore assordante irruppe nei loro sogni sereni. Andrea con una padella e un mestolo girava per le stanze facendo cozzare insistentemente i due utensili da cucina l’uno contro l’altro.
«Sveglia!! Sveglia pigroni! La pacchia è finita! Sù, in piedi!».
Uno a d’uno provarono a ignorarlo improvvisando l’inverosimile. Roberto provò a sotterrare la testa sotto il cuscino, mentre Jona con il quale divideva la stanza, si sollevava le lenzuola fino alla testa. Anche Kei e Shin tentarono in tutti i modi di coprire quel rumore assordante.
Il più grande dei due agguantò al volo delle cuffione blu che aveva sul pavimento e se le infilò rapido, sperando di poter ovattare così quel ridondante rumore metallico. Shin tentò più di una volta di chiudere quei suoni fuori dalla loro stanza trascinandosi fino alla punta del letto, senza mai abbandonare il morbido materasso, allungandosi il più possibile fino a raggiungere la porta, ma puntualmente ogni volta che i suoi sforzi producevano un risultato positivo, , Andrea ritornava rincarando la dose. Gli unici ad aver rinunciato a quella lotta senza possibilità di vittoria erano stati Toshi e Take che attendevano rassegnati, con due grandi occhiaie sul viso, gli altri quattro amici, mentre con il gomito sul tavolo rettangolare della cucina reggevano il peso delle loro teste assonnate.
Dopo venti minuti di quel caos estenuante tutti e sei ragazzi si erano finalmente radunati.
«Bene. Finalmente siete tutti svegli! Cavolo ma quanto vi ci vuole per aprire gli occhi?» li rimproverò Andrea riponendo finalmente la padella e il mestolo sul tavolo.
«Che uooora è?» domandò sbadigliando Shin ad occhi semichiusi nel suo pigiamino a strisce verde e blu, mentre Kei al suo fianco aveva rinunciato a prestare la minima attenzione al gruppo. Con il viso appoggiato sulle braccia conserte sul tavolo, lo stesso tentava di approfittare di quel momento di calma per recuperare qualche minuto di sonno. Un sonno rubatogli ingiustamente e nel modo più brutale possibile.
«Sono le cinque» gli rivelò il loro nuovo manager con aria di trionfo.
«Le cinque? Ma voi siete matti? Io me ne ritorno a letto…» affermò Kei sollevandosi dalla sedia, ma Daisuke fu più rapido e gli sbarro la strada.
«Non se ne parla. Avete voluto la bicicletta e adesso pedalate!» detto questo invitò con un movimento deciso e poco accomodante Kei a riprendere posto al tavolo. Senza controbattere il più ribelle, scorbutico e testardo del gruppo riprese posto accanto ai suoi compagni messo alle strette per la prima volta nella sua vita.
«Avete venti minuti per fare colazione, lavarvi e vestirvi. Chi non rispetterà questo orario, rimarrà a piedi e senza cena».
«Ma che significa tutto questo? Non siamo mica dei prigionieri…» obbiettò risentito Toshi che nei suoi tanti anni di tirocinio non aveva mai dovuto patire una tortura simile.
«Mi dispiace Toshi, ma questi sono ordini che vengono direttamente da tuo padre. Credo faresti meglio a rispettarli dopo il casino che hai, e avete combinato» chiuso il discorso Andrea puntando il suo sguardo di rimprovero su ognuno dei ragazzi, aprì la porta mentre Daisuke lo raggiungeva con le mani sui fianchi sottili.
«Vi aspetteremo giù in macchina, chi tarderà anche di un solo secondo sarà lasciato a terra. Quindi spicciatevi…» detto questo chiusero la porta uscendo.
I sei ragazzi si scambiarono delle occhiatacce abbastanza perplesse. Quello non era proprio l’idea che si erano fatti del loro progetto di diventare dei cantanti famosi.
«Ragazzi, io direi che avendo un solo bagno occorre che ci dividiamo i compiti altrimenti non ce la faremo mai. Io e Jona prepareremo la colazione e laveremo i piatti, Shin e Kei voi potete occuparvi dei letti, mentre Toshi e Take recupereranno i borsoni per l’allenamento. Ogni giorno faremo a turno. Tutto chiaro?» affermò con decisione Roberto. Nessuno ebbe le forze di apporre obbiezioni. Trascinandosi ancora assonnati, ognuno di loro portò a termine il proprio compito. Nell’arco di tempo in cui due completavano il loro compito altri due usufruivano del bagno. Era un ottimo modo per ottimizzare il tempo. Completata la colazione e presi i borsoni, scesero al piano terra in perfetto orario. Andrea e Daisuke li attendevano all’interno di un furgoncino nero tirato a lucido. I sei nuovi tirocinanti della Kings Record erano pronti al loro primo giorno di tirocinio.
 
 
 
Italia
 
Marika era in bagno tra le mani un test di gravidanza in attesa del fatidico giudizio. Non sapeva se si era lasciata solo prendere dal terrore, ma sentiva che era tutto troppo strano. Nel dubbio aveva deciso di farlo ugualmente. Non che ci fossero rischi. La sera in cui lei e Roberto avevano avuto il loro incontro sotto i raggi lunari, lei aveva preso la pillola.
“Marika, lo stai facendo solo per toglierti ogni dubbio. Sicuramente sarà negativo.”
Seduta sulla tavoletta del bagno Marika stringeva tra le sue mani tremanti lo stick bianco, asettico e anonimo.
“Una… Una… deve essere per forza una linea rossa”.
Dopo tre minuti il risultato era finalmente comparso.
“ma… cosa… non può essere…”
La mano che teneva stretto il test di gravidanza crollò inerme verso il pavimento. Il viso di Marika sbiancò improvvisamente.
Sullo stick due linee rosse non lasciavano più alcun dubbio.
“Sono incinta”.
 
 
Clara aveva appena finito le valige. Proprio mentre ripiegava l’ultimo paio di jeans si accorse di qualcosa di rigido nella tasca dei suoi pantaloni. Lo tirò fuori. Era il bigliettino da visita di quell’insolito ragazzo biondo e affascinante con il quale aveva ancora un caffè in sospeso.
Lo prese tra le mani.
“Forse dovrei avvertirlo che sto per partire, potrebbe tornare a cercarmi al negozio…”
Senza alcuna esitazione tirò fuori il suo telefonino e compose un messaggio.
 
A numero sconosciuto:
Ciao Luca. Sono Clara la ragazza del negozio Acustica. Volevo solo avvisarti che tra due ore partirò per il Giappone. In realtà non so quando tornerò, credevo fosse giusto avvisarti. Spero di avere modo un giorno di fare quella chiacchierata. Ora vado. Grazie di tutto. Spero di vederti presto.
 
Dopo averlo riletto un paio di volte spinse invio. Inutilmente attese per qualche minuto una risposta che non arrivò. Dopo averci rinunciato recuperò la sua valigia e raggiunse suo padre fuori, da Villa Rosa.
Erano pronti a partire. Era la prima volta che avrebbe visitato il Giappone.
Dopo quindici minuti raggiunsero l’aeroporto.
«Clara, io mi allontano un attimo. Tu mettiti in coda per il check-in» le disse Eichi prima di allontanarsi.
Clara nell’attesa, ricontrollò per la quindicesima volta il suo cellulare. Ancora nessuna risposta da quel giovane affascinante che le aveva stregato il cuore.
«Clara… sei qui! Grazie al cielo! », una voce profonda e avvolgente la richiamò a pochi centimetri di distanza. Clara si voltò con il cuore che le arrivava in gola. Era lui.
«Cosa ci fai qui?» gli domandò incredula guardandosi circospetta in giro. Ci mancava solo che adesso tornava suo padre. Chissà quante domande le avrebbe fatto se li avesse visti parlare. Voleva proprio evitarselo il terzo grado da padre apprensivo e geloso.
«Non potevo lasciarti andare via così…» senza aggiungere nulla si avvicinò cingendole con le sue mani sottili entrambe le braccia, bloccandola. Lentamente avvicinò il suo viso candido e le sue labbra soffici alla fronte di lei. Dolcemente le lasciò un’impronta indelebile e profonda scandita dal tocco leggero delle sue labbra.
«Fai attenzione in Giappone. Avvisami quando sarai pronta a tornare qui in Italia. Io aspetterò con ansia il nostro prossimo incontro. Dobbiamo ancora finire con calma quel discorso.». Detto questo sciolse la presa e salutandola con un movimento della mano fece pochi passi retrocedendo mentre continuava a fissarla con i suoi occhi azzurro cielo, prima di voltarsi e allontanarsi elegantemente dalla scena come un’ombra spinta in lontananza da una luce intensa.
Clara si sfiorò la fronte sorridendo come un’ebete. Suo padre la raggiunse poco dopo.
«Si può sapere che hai? Hai una faccia strana. Successo qualcosa mentre ero via?» le chiese divertito. Clara si domandava segretamente se suo padre avesse visto qualcosa, ma d’altra parte quello era l’ultimo dei suoi pensieri.
“Ha davvero detto che mi aspetterà! Mi ha addirittura dato un bacio” proprio in quel momento un pensiero la colpì come un fulmine a ciel sereno.
“Marika!”
Nella confusione del momento aveva dimenticato di avvisare l’amica degli ultimi avvenimenti.
Preso il telefono mentre attendevano il loro turno per il check-in mandò un messaggio rapido all’amica.
 
A: Marika
 
Marika, perdonami se non ti ho avvisata prima. Ora sto partendo per il Giappone con mio padre. Finalmente mio padre sembra aver accettato l’idea che Roberto coroni il suo sogno e forse anche io riuscirò a realizzare il mio. Sono così felice, adesso niente e nessuno potrà fermarci. Appena sarò lì ti chiamerò. Perdonami se non ho potuto salutarti di persona.
 
 
 
Marika era nella sua stanza e nel suo letto rannicchiata in posizione fetale con le gambe che premevano con forza contro lo stomaco ancora piatto. Le sue braccia, strette e disperate come se stessero proteggendo un tesoro prezioso, trattenevano cocciutamente quella posizione. Accanto al suo cuscino un telefonino e su di esso un messaggio aperto che aveva appena finito di leggere.
“Adesso cosa faccio? I miei mi uccideranno. Maledizione. Forse potrei dirlo almeno a Clara. Ma cosa dico? Come potrei rovinare i loro  piani proprio in questo momento? Però ho così tanta paura. Paura di compiere la scelta sbagliata, paura di fare l’ennesimo errore nella mia vita. Tra pochi giorni partirò per Parigi con la mamma. Come riuscirò a nasconderglielo a quel punto? Forse dovrei solo andare in ospedale e farla finita… No, non ce la faccio. Non voglio! Anche se questo vorrà dire rinunciare a tutto quello che ho sempre sognato, non potrei mai vivere con il peso di aver sacrificato una creatura innocente per colpa della mio egoismo e della mia codardia. Perché dovrebbe pagare qualcun’altro  per un errore che ho commesso io? È solo colpa mia…”
Due lacrime come rugiada di prima mattina le scivolarono piano sulle guance.
“Non posso neanche dirlo a Roberto, maledizione! Così distruggerei tutto quello per cui ha sempre lottato. Basta che uno solo di noi rinunci ai suoi obbiettivi. Non voglio coinvolgerlo, non sarebbe giusto. È vero, non sarò mai una modella famosa, non finirò mai su una rivista di moda eppure sento che non posso fare altrimenti. Che strano, solo adesso mi rendo conto di non aver mai avuto un piano B.  Vorrei tanto ci fosse Clara qui con me, ma adesso anche lei è in volo per il Giappone. Cosa faccio? Sono sola e per la prima volta non posso affidarmi a nessuno. Non ho più ne il ragazzo che amo ne la mia migliore amica qui a confortarmi e a incoraggiarmi come hanno sempre fatto. Maledizione! Non voglio perdere questo bambino. Sento di doverlo proteggere. Sento che è la cosa giusta. Forse tra tante cose sbagliate nella mia vita, questa sarà l’unica cosa giusta che farò. Non ho mai avuto molto coraggio, sono stata brava solo a lasciar andare via le persone che amavo senza far nulla per tenermele vicine, non farò la stessa cosa anche con questo bambino… Ma se decido di tenerlo dovrò sacrificare tutto, compreso Roberto. Lui non dovrà mai scoprire nulla di tutto questo. Se la notizia lo raggiungesse sono sicura rinuncerebbe a tutto e ritornerebbe in Italia per starmi vicino, e non posso permetterglielo. Devo fare in modo che mi cancelli dalla sua vita. Devo farlo per il suo bene. Questa storia potrebbe compromettere la sua carriera e non posso permetterlo, devo sparire perché in ogni caso, restandogli vicino, rischierei di ferirlo: sia tacendo tutto, sia confessandogli ogni cosa. Non posso farlo, non voglio essere io l’ennesimo ostacolo nella sua vita, sopratutto ora che può realizzare il suo sogno.  Anche se ogni giorno rimpiangerò questo momento, il momento in cui ho detto addio all’unica persona che amo, anche se la sera mi mancherà il conforto delle sue braccia e le cade carezze delle sue mani sul mio viso, anche se mi dispererò vedendolo lontano e sempre più distante, vivrò perlomeno con il conforto di averlo amato nel modo più sincero e vero possibile. Ovvero in silenzio come la luna che vigila dall’alto, come il vento che soffia leggero nell’aria. Nn voglio essere come quelle odiose nuvole di passaggio che oscurano il Sole, non voglio distruggere il suo sogno. Desidero davvero, che almeno lui splenda davanti agli occhi del mondo, anche se non più solo per me. Al crepuscolo, nel momento in cui l’acqua si tingerà di arancione e il cielo diventerà profondo e impenetrabile come le acque profonde dell’oceano, mi ricorderò di noi e in quel momento quella flebile rassicurazione mi aiuterà ad asciugare le lacrime che già so verserò senza contegno. Perché mi mancherà da morire e dovrò fare per la prima volta, forza solo su me stessa. Perché non potrò più aspettarlo, non avrò più lui al mio fianco. Non cammineremo più insieme tenendoci per mano. Tutto morirà lentamente come l’autunno che spegne ogni colore. Così morirà la nostra storia che non ha avuto neanche il tempo divedere il mattino. Basta, ho deciso. Non ho altra scelta. Ma come posso portare avanti questa gravidanza senza che i miei genitori lo scoprano? So che succederebbe il finimondo a quel punto e Roberto sarebbe costretto a ritornare qui e a rinunciare a ciò che ama di più.”
Come colta da un’illuminazione improvvisa Marika, si sollevò mettendosi seduta e incrociando le gambe nella posizione dell’indiano, asciugandosi con movimenti svelti e poco curati,il viso umido.
“Forse ho trovato. Potrei andare a Londra, alla terza sede dislocata della One Million. Da lì i miei non potranno accorgersi di nulla. Papà sarà qui, bloccato dall’ipermercato, mentre la mamma sarà impegnata a Parigi per la nuova colezione. Come potrebbero scoprire qualcosa? Si, non ho altra scelta. Ho deciso che porterò avanti questa gravidanza, costi quel che costi e che questo non comprometterà la carriera e la vita di Roberto. Nessuno potrà impedirmelo. Questo piccolo esserino sarà l’unico che non mi vedrà mai rinunciare. No, non ti lascerò andare, come ho fatto con il tuo papà, no come ho fatto in passato più di una volta. Ti terrò stretto e non ti lascerò volare via da me. Adesso voglio essere più forte e dimostrare a me stessa che posso farcela. Si, devo farcela”.



NOTE:
Perdonate l'assenza ma non sono stata in Italia spero che questo capitolo accenda la vostra curiosità. Un abbraccio.

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Capitolo 12
*** RESET ***


RESET

 
 
Tokyo
 
L’enorme stanza asettica, piena di manifesti e locandine cinematografiche, era stranamente silenziosa. Rio seduto dietro la scrivania, riportava meticolosamente tutti i dati sui ragazzi trascritti nel contratto. Stava progettando il modo migliore per presentarli al pubblico. Dovevano essere un esempio impeccabile e, a parte suo figlio, non conosceva molto del passato degli altri ragazzi. Quelli a preoccuparlo maggiormente, erano Roberto e Kei. Jona aveva una reputazione di ferro grazie alla fama dei suoi genitori, così come Take che essendo nipote di Daisuke aveva un passato garantito alle spalle, e così anche Shin. Ma gli altri due erano il vero problema. Il primo perché aveva vissuto in un paese lontano dal Giappone per tutta la sua vita, il secondo perché privo di un passato attendibile. Poteva saltare qualcosa di compromettente da un momento all’altro sul passato di entrambi, proprio come era accaduto con JJ tanti anni prima. Non poteva e non doveva correre rischi. Erano l’unico investimento della casa discografica al momento e non poteva rischiare un fallimento dopo la perdite registrate nell’ultimo periodo.
Doveva tenere aperti gli occhi e non rischiare scandali che avrebbero potuto compromettere il loro esordio.
Mentre richiudeva i documenti, due colpi alla porta interruppero quel silenzio opprimente.
«Avanti» affermò convinto riponendo sulla scrivani la sua Montblanc.
Lentamente la porta si aprì emettendo un cigolio inquietante. A fare da ciceroni ai sei ragazzi erano ancora una volta Andrea e Daisuke. I sei tirocinanti avanzarono dietro i due apri fila, stremati e ancora indolenziti dall’allenamento a cui li aveva sottoposti Daisuke.
«Vedo che li hai fatti lavorare parecchio» constatò il direttore della casa discografica rivolgendosi all’amico che, nonostante i quarant’anni suonati, continuava a ostentare quella capigliatura eccentrica e bzizzarra. 
«Mi hai detto di sottoporli ad un allenamento serrato e così ho fatto. Comunque, perché ci hai chiamati?» gli domandò Daisuke seccato da quell'interruzione improvvisa.
«Avevo bisogno di parlare con i ragazzi» concluse serio e autoritario Rio aggiustandosi le lenti sul naso con le sue dita sottili.
«Prego, fai pure» lo invitò l’amico con la cresta.
«SOLO con i ragazzi» precisò l’altro scambiando con entrambi i suoi amici uno sguardo d’intesa abbastanza esplicito.
«Davvero non puoi parlane davanti a noi?» gli domandò Andrea sorpreso.
«Mi dispiace, ma questo è un discorso tra me e i ragazzi. Ricordi Daisuke? Ce ne fece uno simile anche il signor Otzuki tanti anni fa…» provò a convincere l’ex membro dei BB5.
Daisuke acconsentì comprensivo, spronando Andrea a seguirlo fuori dalla stanza.
La porta fu chiusa con lo stesso cigolio.
Rio tornò a confrontarsi con lo sguardo perplesso dei sei ragazzi.
«Bene, cercherò di essere il più sintetico possibile. Non vorrei farvi rinunciare alle vostre preziose ore di lezione.»
Tutti, con il loro silenzio, lasciarono intendere che avevano ben poca voglia di tornare a quegli allenamenti sfibranti.
«Allora, incominciamo. Questa mattina ho tenuto la conferenza stampa davanti alle maggiori testate giornalistiche e le più note reti televisive. Ho chiarito che la vostra esibizione non era stata progettata dalla nostra casa discografica e che il motivo per cui ho voluto prendervi sotto il nostro marchio è per il vostro talento, che ho precisato, essere ancora molto acerbo. Ho annunciato che per quattro mesi vi allenerete e che dopo questo tempo farete il vostro debutto. Prima che i giornali inizino a fare ricerche su di voi, ho bisogno di sapere tutta la verità sulle vostre vite fino ad oggi. Se avete scheletri nell’armadio questo è il momento giusto per tirarli fuori. Sarebbe meglio fare uscire adesso qualsiasi cosa possa compromettere il futuro del gruppo o la vostra reputazione. Non temete, quello che mi direte rimarrà tra queste quattro mura, ma ho bisogno di saperle per potervi difendere nel caso salti fuori qualcosa».
I ragazzi si guardarono tra loro poco convinti.
«Nessuno ha da dirmi nulla?» insistette Rio, ma tutti tacquero.
«Perfetto. Se davvero non avete nulla da dirmi, allora possiamo resettare le vostre vite».
«Resettare?» domandò Toshi portandosi davanti al gruppo.
«Per sicurezza elimineremo ogni traccia del vostro passato. Ogni legame con le persone che avete conosciuto fino ad oggi sarà interrotto, sia per proteggere voi che loro. Questa è la soluzione migliore. Mi auguro possiate capirlo».
Roberto strinse i pugni. Cosa significava? Avrebbe dovuto cancellare Marika? Come avrebbe potuto farlo?
«Da oggi il mio personale marketing e i vostri consulenti d’immagine si occuperanno di darvi una nuova vita, sarete delle persone nuove. Per questo il mio staff si occuperà di rimuovere i vostri attuali account da qualsiasi social network. Anche il sito che avete creato sarà gestito dalla nostra casa discografica. I vostri numeri di telefono saranno sostituiti e i vostri contatti rimossi definitivamente dalla rubrica. Non potrete avere foto o messaggi compromettenti nei vostri smartphone. Non possiamo rischiare che in caso di smarrimento qualcuno possa usare le informazioni contenute per scavare nel vostro passato e creare scandali. Da oggi le vostre vite saranno costantemente monitorate. Quindi non pensate neanche lontanamente di fare qualche sciocchezza».
«Con che diritto può farci questo?» lo interrupe Roberto con occhi disperati. Veramente avevano intenzione di distruggere tutto in quel modo? Come se quelle persone non fossero mai esistite?
Rio si sollevò avvicinandosi lentamente al ragazzo dai capelli lisci color inchiostro. Giuntogli vicinissimo prese a osservarlo a mento alto, ostentando la sua posizione di superiorità.
«Cosa ti aspettavi ragazzo? Che sarebbe stata una passeggiata? Ve lo avevo detto che avreste dovuto dimenticare le vostre vite passate. Beh, questo è solo l’inizio di quello che vi aspetta. Nel momento in cui avete firmato quel contratto avete ceduto ogni diritto sulle vostre vite al sottoscritto. I vostri corpi adesso appartengono a questa casa discografica. Credo che il termine privato fareste bene a eliminarlo dal vostro vocabolario. Tra pochi mesi sarete dei personaggi pubblici. Questo è solo una misera parte di quello che vi toccherà sopportare se volete diventare dei cantanti famosi. Non ditemi che la vostra tenacia e la vostra forza di volontà si ferma a questo!?»
Roberto strinse i pugni digrignando i denti. Rio gli sorrise beffardo tornando vittorioso  verso la scrivania e con aria divertita batté un paio di volte, con l’indice, su di essa .
«Bene, lasciate pure i vostri cellulari sul tavolo. Domani li riavrete insieme alle vostre nuove vite. Adesso tornate pure ai vostri allenamenti». I sei ragazzi a malincuore depositarono i loro dispositivi sulla scrivania. Stavano per uscire quando Rio li trattenne ancora una volta.
«Un attimo. Da domani inizierete le vostre lezioni teoriche. Ognuno di voi dovrà apprendere minimo tre lingue e padroneggiarle al meglio. Inizierete le lezioni di canto e composizione. Infine farete tutti una visita medica obbligatoria. Preparatevi, perché quello che avete passato oggi è solo un millesimo di quello che vi attendera. Anzi, quasi dimenticavo, Jona, i tuoi genitori hanno avuto un contrattempo, mi hanno dato la delega, sarò io ad autorizzare il tuo contratto come tutore temporaneo. Per quanto riguarda te Roberto, tuo padre invece sta arrivando. Preparati». Detto questo tornò a sedersi dietro la sua enorme scrivania, riprendendo le sue mansioni e, ignorando volutamente le espressioni di rassegnazione sui volti dei due ragazzi.
 
Roberto era nel furgone nero mentre, in silenzio e in compagnia degli altri cinque ragazzi, faceva ritorno al dormitorio. I suoi occhi erano persi oltre il finestrino che aveva incorniciato, prima il traffico ordinato della città e poi la stradina di periferia che dritta conduceva alla loro nuova casa. Il cielo era di una punta di blu calma e rassicurante. Proprio come lo era quella notte in riva al lago con Marika.
“Maledizione. Non ho potuto nemmeno spiegarle la situazione. Come farò adesso a mettermi in contatto con lei?”
«Tutto bene?» gli domandò Jona al suo fianco.
«Si, stavo pensando a mio padre» mentì.
«Sai, da un lato me lo sentivo che i miei non sarebbero venuti. Ormai ci ho fatto l’abitudine…»
«Mi dispiace Jona». Il ragazzo dai capelli biondi sorrise all’amico come faceva quando voleva nascondere la tristezza e l’amarezza della sua vita priva di attenzioni.
«Ma che dispiacersi. Meglio no? Almeno io mi salterò la ramanzina!!»
«Volete fare un po’ di silenzio lì dietro? Qui c’è qualcuno che vorrebbe riposare!» l’interruppe Kei che sedeva avanti tra Take e a Shin a braccia incrociate, capo reclinato all’indietro e occhi chiusi.
«Ci scusi sua maestà se abbiamo disturbato il suo sonno» lo rimbeccò Toshi sarcastico, seduto accanto a Jona, che sogghignò.
Kei stava per rispondergli in malo modo, quando Daisuke frenò di colpo, interrompendo l’ennesima lite tra i due.  
«Siamo arrivati» esordì l’uomo con la semi-cresta alla guida di quella vettura nero pece. Senza aggiungere nulla gli Hope scesero dal furgone. Immediatamente una mandria di ragazze festanti con striscioni, macchine fotografiche e regali, li accerchiarono urlando entusiaste.
I ragazzi erano visivamente disorientati.
«Sono arrivati!!! Sono arrivati!!!» strillarono eccitate.
«Roberto un autografo…» lo supplicò una ragazzina con la frangia e i capelli neri tenuti stretti in una codina alta, portando avanti il suo block-notes.
Roberto lo prese e mentre cercava, tra uno strattone e l’altro, di apporre la sua firma, altre sei lo circondarono con doni e lettere. Ne raccolse quante più poté, ringraziando. Poi, spronato da Andrea e Daisuke, entrò nel portone seguito dagli altri componenti. Tutti avevano tra le mani doni e lettere delle loro fan.
Erano tutti storditi da quell’attacco di massa inatteso.
«Come diamine avranno fatto a scoprirlo…?» si domandò sovrappensiero Daisuke.
«Avrei dovuto prevederlo. Oggi Rio ha rilasciato quell’intervista. Ovviamente avranno fatto due più due. I dormitori della Kings Record sono questi, dove altro potevano stare? Avremmo dovuto essere più prudenti» ammise Andrea con una nota di rimprovero.
«Beh, ormai è andata. Adesso salite e riposatevi domani ci vedremo allo stesso orario. In frigo abbiamo messo un po’ di spesa per voi. Mi auguro che qualcuno di voi se la cavi ai fornelli» detto questo Andrea seguito da Daisuke si dileguò lasciando i ragazzi davanti l’ascensore.
I sei salirono all'undicesimo piano. Lì dove era i loro appartamento. Nel palazzo però non erano i soli tirocinanti, e lo scoprirono proprio quella sera. Erano davanti la porta del loro appartamento, mentre Toshi si accingeva ad aprirla, quando una ragazzina vivace e tutta pepe, li raggiunse correndo per i corridoi.
«Toshi! Toshi!»
I sei si voltarono nella sua direzione attirati da quel frastuono indecoroso. Era Nami.
«Cosa ci fai qui?» le domandò sorpreso suo fratello gemello.
«Non dirmi che non ti è mancata la tua sorellina!!»
«Certo che mi sei mancata, ma continuo ancora a non capire cosa ci faccia tu qui»
La ragazza tagliò il gruppo a metà avvicinandosi a suo fratello che aveva ancora le mani vicino la serratura.
Sollevandosi sulle punte gli sussurrò qualcosa nell’orecchio. Sul viso di Toshi emerse gradualmente un enorme sorriso.
«Non posso crederci!» completò infine dopo che la sorella si fu allontanata.
«A quanto pare papà ce l’ha così a morte con te, che per ripicca ha deciso di farmi iniziare il tirocinio, pur di farti uno sfregio. A quel che ha detto tra due mesi ha intenzione di farmi partecipare a un piccolo film. Per il momento inizierò la preparazione e porterò avanti una carriera da modella».
«Per lo meno questa tortura che stiamo passando è servita a qualcosa» le sorrise Toshi «sono davvero felice per te!»
«Grazie!» ricambiò lei con occhi lucidi e commossi.
«Quindi da oggi anche tu verrai a vivere qui?» si intromise Roberto.
«Si da oggi vivremo sotto lo stesso tetto! Non ho resistito, mio padre non voleva ma io ho fatto pressioni. Non potevo stare lontana dal mio fratellino per quattro interi mesi.» Detto questo Toshi le scompigliò i capelli «anche tu mi saresti mancata piccola pazza».
Due colpi di tosse ben assestati interruppero quello scambio di diabetico affetto.
«Se avete finito, potremmo anche entrare. Non so voi ma io sto morendo di fame» affermò Kei volgendo lo sguardo altrove infastidito. Essere completamente ignorato da Nami lo seccava terribilmente.
La ragazza gli rivolse un’occhiataccia contrita prima di prendere sotto braccio Roberto.
«Se volete potrei cucinarvi io qualcosa. Roberto, ti farò vedere quanto sono brava ai fornelli» continuò con fare da gatta morta.
«Mi sembra un’ottima idea. Io sono così stanco che non riuscirei ad alzare nemmeno un dito. Figuriamoci cucinare» subentrò Jona, poggiandosi con un braccio sulla spalla dell’amico italiano.
«Bene, è deciso. Andiamo dentro. Oggi si cena tutti insieme. Dopotutto non abbiamo ancora festeggiato.» li incoraggiò Toshi
«E cosa ci sarebbe da festeggiare?» gli rispose scettico Kei «a me questa più che una vittoria sembra una tortura bella e buona».
«Comunque tra quattro mesi debutteremo. Credo che dovremmo festeggiare almeno per questo motivo».
«Si! Festeggiamo! Sono così eccitato. Solo quattro mesi e saremo su un palcoscenico. Speriamo solo che Daisuke non ci faccia schiattare prima» osservò Shin ironico, scatenando l’ilarità generale.
«Speriamo…» gli diede manforte Take sorridendo. Detto questo i sei ragazzi con Nami al seguito, entrarono nell'appartamento.
 
 
Eichi e Clara erano appena atterrati. Ritirati i loro bagagli, erano finalmente fuori dall’aeroporto.
Yuki era fermo fuori ad attenderli da circa venti minuti.
«Zio! Zio!»lo richiamò la ragazza con il caschetto nero e gli occhi verdi correndogli in contro trascinandosi dietro una valigia niente male.
Yuki la riconobbe immediatamente. I suoi occhi si illuminarono. A braccia aperte attendeva l’arrivo di sua nipote.
Pochi minuti e i due si strinsero in un caldo abbraccio.
Clara aveva un caro ricordo di suo zio. Da piccoli lei e Roberto si divertivano un sacco con lui. Era sempre ricco di vitalità, era un po’ come loro. Un bambino mai cresciuto e per questo con lui era facile divertirsi.
«Come sei diventata grande. Cavolo mi hai quasi superato…»
«Non che ci voglia molto zio» lo canzonò Clara sorridendo.
«Ehi, mi vedi dopo tanti anni è la prima cosa che fai è ridicolizzarmi in questo modo?» si finse offeso JJ.
«Dai zietto lo sai che mi piaci anche se sei bassino!»
«Ehi! Tu brutta furfante, se ti prendo…». Clara si scansò giusto per aprire la visuale di Yuki al secondo ospite di quella sera.
Eichi li aveva appena raggiunti. I loro sguardi si incontrarono. C’erano così tante cose che avrebbero voluto dirsi ma entrambi tacquero messi a disagio dalle memorie del passato.
«Ti trovo bene, Yuki» ruppe quel freddo glaciale Eichi, mantenendo un tono risoluto e distaccato. A differenza dell’incontro caloroso avuto con Clara quello con suo fratello fu come una bufera dopo un’afosa giornata estiva.
L’altro recuperando il contegno perso poco prima con sua nipote riprese i toni seri della situazione.
«Anche io ti trovo bene…». Dopo un paio di minuti di silenzio imbarazzante, i tre si incamminarono verso una vettura nera.
«Prego salite.» Li invitò Yuki, chiudendosi in un insolito e cupo malumore.
Clara, non riusciva proprio a capire a cosa dovesse quel cambiamento improvviso. Che fosse successo qualcosa tra suo padre e suo zio?
Il viaggio, fu abbastanza rapido. In meno di quindici minuti i tre raggiunsero uno strano edificio nella periferia di Tokyo.
«Seguitemi.»Li spronò JJ dopo aver recuperato le valige dal portabagagli e averle riconsegnate ai legittimi proprietari.
«Zio, dove ci troviamo?» gli domandò Clara tirandosi dietro la sua enorme valigia rossa.
«Questo qui è l’orfanotrofio che io e tua zia avevamo preso in gestione. Adesso sono rimasto solo io a occuparmene. È finita con il diventare la mia casa», Il ricordo di Akiko colpì Eichi dritto nella sua coscienza macchiata. Senza mostrare alcuna malinconia Yuki sorrise a sua nipote, forse cercando di mascherare il dolore che ancora lo dilaniava ogni notte. Con movimenti quasi meccanici aprì la porta e fece segno ai due di entrare. «Siete fortunati, si è appena liberata una camera al piano di sopra. Era la stanza di Shin e Kei. Per il momento potete stare li. Ormai è tardi, per stasera è meglio che recuperiate le forze. Domani vi porterò da Roberto».
«Grazie… non avresti dovuto. Potevamo benissimo andare in albergo»
Eichi si sentiva doppiamente colpevole e immeritevole di quella genuina generosità. Per quanto cercasse di nasconderlo, la ferita era ancora aperta. Non era mai riuscito a perdonarsi di non aver potuto far nulla per suo fratello. E adesso era tornato inevitabilmente a rifare i conti con quei sensi di colpa e con quel passato carico di dolori e rimpianti.
«Ma non dire sciocchezze. Adesso venite di là. Vi preparo qualcosa da mangiare. Sarete affamati!»
«Si, zio! Io sto morendo di fame!» affermò Clara mantenendosi lo stomaco che brontolò rumorosamente.
«Lasciami pure la valigia. Io e tuo padre andremo sopra a lasciarle e poi ti raggiungeremo. Tu vai pure nella sala mensa.
È la seconda porta a destra».
«Va bene, ma non fatemi aspettare. Sono davvero affamata!» Sorrise lasciando la valigia a suo zio.
«Tranquilla faremo il prima possibile».
Rassicurata Clara, i due in silenzio salirono le scale. Era proprio come tanti anni prima.
«Come vanno le cose qui?» gli chiese a bruciapelo Eichi, notando le macchie di umidità e l’intonaco che in certe parti era crepato.
«potrebbe andare meglio, ma non mi lamento».
«Yuki, come mai non vivi più nella tua vecchia casa?» Eichi conosceva bene JJ, sapeva quando voleva provare a tenerlo all’oscuro di qualcosa.
«Questa è una vecchia storia. Credimi, non vale la pena neanche raccontarla» detto questo spalancò la porta facendo leva con la mano libera sulla maniglia. Entrambi furono dentro. La finestra era aperta, dalla stessa la volta celeste era limpida e brillante. Eichi si avvicinò dopo aver lasciato la sua valigia ai piedi di uno dei due letti della stanza.
«Mi è mancato il cielo di Tokyo»
«Per quanto ti tratterrai?»
Eichi era ancora di spalle a suo fratello mentre i suoi occhi si bagnavano dei freddi colori della notte.
«Non posso stare molto tempo. Ho il mio lavoro e il negozio di cui occuparmi.»
«Capisco» concluse Shin con una nota di delusione.
Eichi si voltò verso suo fratello. Erano entrambi invecchiati parecchio. Erano cambiati. Le loro vite avevano scavato nelle loro anime.
«Yuki, so che non ho alcun diritto di chiederti questo ma non sò a chi altro rivolgermi. Clara è così legata a te…»
«Cosa c’è?» gli domandò l’altro sinceramente interessato.
«Domani incontrerò Roberto e so già cosa mi attenderà. Conosco le mie colpe e conosco troppo bene anche mio figlio. Non mi perdonerà, o almeno non lo farà per il momento. Che ironia, speravo di essere un padre migliore, ma alla fine ho deluso tutti… Ho deluso mio figlio proprio come deluse me mio padre tanti anni fa. Avevi ragione quel giorno, adesso lo riconosco. Ho proprio fallito come padre» JJ si avvicinò al fratello ancora vicino la finestra. Con le mani sulle sue spalle lo squadrò con occhi comprensivi.
«Non essere troppo severo con te stesso. Nessuno è perfetto. Tutti commettiamo degli errori. Anche io ho esagerato a dirti quelle parole tanti anni fa. Ero solo geloso della tua vita e così ti ho condannato troppo duramente. Mi dispiace davvero.»
«Siamo proprio due idioti… portarci rancore per così tanti anni. Credi sia possibile ricominciare tutto da capo?»
«In realtà devo pensarci. Scherzo! Ovvio che possiamo ricominciare!»
Eichi porse la sua mano aspettando che Yuki la stringesse, ma l’altro cogliendolo alla sprovvista, lo abbracciò forte.
«Mi sei mancato fratello!»
«Anche tu mi sei mancato Yuki!» per un attimo il tempo sembrò essere tornato indietro di anni.
«Cosa volevi chiedermi?» gli domandò JJ sciogliendo quell’abbraccio.
«Puoi occuparti di Clara? So che è l’unica persona di cui si fida Roberto e vorrei avesse qualcuno qui con lui, visto che io e sua madre saremo lontani per un po’…»
«Non preoccuparti mi occuperò di lei come se fosse figlia mia…»
«Grazie Yuki».
 
Clara era giù in mensa. Tirò fuori il suo cellulare. Doveva inviare un messaggio a Marika.
Scrisse l’indispensabile. Ma non ricevette risposta.
“Chissà cosa starà combinando! Perché non mi risponde?”. Guardò l’orario dal suo orologio e calcolando il fuso orario in Italia dovevano essere le otto di mattina.
“Forse sta ancora dormendo. Vorrà dire che riproverò più tardi”.
Rassegnata ripose il telefono nella tasca dei suoi jeans.
Suo padre e suo zio la raggiunsero poco dopo, e insieme consumarono il loro spuntino notturno.
Ovviamente Clara non poteva minimamente immaginare cosa stesse passando la sua amica.
 
 
 
 
Italia
 
Marika era in cucina a tavola con i suoi genitori.
In silenzio i tre consumavano il primo pasto della giornata. La ragazza con le lentiggini osservava taciturna suo padre e sua madre, cercando il momento giusto per parlare. Su madre si alzò e dopo ave abbandonato la sua tazza nel lavandino recuperò la sua borsa pronta a iniziare la sua giornata lavorativa.
“O adesso o mai più”. Cogliendo entrambi alla sprovvista Marika si sollevò con un movimento brusco dalla sedia trascinandola rumorosamente sul pavimento.
Marco, sollevò i suoi occhi verdi dal giornale che come ogni mattina leggeva, mentre sua madre si immobilizzò sul posto.
Dopo aver catturato la loro attenzione non le restava che iniziare il suo discorso.
«Voglio andare a Londra»
Angela con i suoi capelli corti e ordinati e il suo tailleur nero rimase spiazzata dalla dichiarazione della figlia.
«Cosa significa che vuoi andare a Londra?»
«Ho bisogno di sentirmi indipendente. Voglio fare peso solo sulle mie gambe. Se venissi con te a Parigi non farei che muovermi sotto la tua ombra e non voglio. Voglio provare a cavarmela da sola.»
«Non se ne parla! Tu verrai con me a Parigi. La discussione è chiusa».
«Mamma, ti prego! Lasciami provare.»
«Come puoi chiederci una cosa simile? Tu da sola a Londra per un anno, non posso neanche immaginarlo! Non se ne parla punto e basta!»
«Non è giusto. Perché si fa solo come volete voi? Sono stanca, stanca di essere la figlia di una stilista famosa. Stanca di avere trattamenti speciali solo per questo motivo. Voglio essere trattata alla pari delle altre apprendiste nella tua azienda in modo da poter dimostrare quanto valgo a prescindere dal nome che porto».
Marco che ormai cinquantenne ostentava un’incolta e voluminosa barba poggiò finalmente il giornale sul tavolo, accarezzandosi la barba meditabondo.
«Così sia. Lasciala andare. Se tra un anno non avrà concluso nulla allora ritornerà immediatamente qui.»
«Caro, ma cosa dici? Sei impazzito?»
«Probabilmente si… ma conosco troppo bene il desiderio di dimostrare il proprio valore. È giusto che Marika inizi questo cammino senza di noi. Ormai è una giovane donna ed è giusto che si guadagni un po’ di sana indipendenza».
«Voi mi farete uscire matta! Signorina la discussione non è chiusa, stasera quando torno ne riparliamo».
 
Detto questo la donna uscì di casa sbattendo la porta.
«Papà…»
«Non dire nulla, lo faccio solo perché in te vedo molto di me. Anche io volevo dimostrare a mio padre quello che valevo ed è giusto che anche tu abbia la possibilità di farlo. Ma mi aspetto un comportamento da donna matura. Mi auguro agirai con la massima responsabilità una volta arrivata lì. Non farci preoccupare e chiamaci appena ti sarà possibile. Per il resto non preoccuparti, anche se fa la scorbutica alla fine tua madre cederà».
«Speriamo» proseguì malinconica Marika abbassando il capo e osservando la tazza di latte davanti a se, con i cereali ormai tutti ammollati all’interno.
L’uomo sollevandosi dalla sedia si avvicinò alla figlia.
«Marika sicura che è quello che vuoi? Sai che una volta convinta tua madre non potrai tornare indietro»
«Si papà» gli confermò sicura perdendosi negli occhi verde smeraldo di suo padre.
«Va bene. Mi mancherai ma cercherò di farlo notare il meno possibile.»
«Lo so papà»
«Adesso vado. Ci vediamo stasera».
Detto questo diede una leggera carezza sul capo di sua figlia e uscì.
                                                                                        
“Mi dispiace papà. Non voglio ferirvi e deludervi. Credetemi è l’ultima cosa che vorrei fare. Per questo devo andarmene. Perdonatemi.”

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Capitolo 13
*** AMORE E MUSICA, UN BINOMIO IMPOSSIBILE? ***



CAPITOLO 13

AMORE E MUSICA, UN BINOMIO IMPOSSIBILE?



Tokyo

Nell'appartamento condiviso dai sei nuovi tirocinanti della Kings Record, tutti o quasi dormivano con lo stomaco pieno della deliziosa cena preparata da Nami. Shin era sul divano della cucina sdraiato con le gambe a penzoloni sul bracciolo e la testa sulle cosce di Jona. Il biondo con il capo reclinato, russava profondamente.
Toshi e Take, con le poche forze rimaste, avevano raggiunto i loro letti, mentre Kei a braccia conserte sul tavolo e a occhi chiusi, respirava profondamente raccolto in un sonno calmo e rappacificatore.
Nami era vicino il lavandino che dava una ripulita alle ultime stoviglie.
Il rumore leggero dello scarico nel bagno e il cigolio di una porta, anticiparono l'ingresso in cucina di Roberto.
«Scusami, adesso sono tutto tuo. Dove ero rimasto?» chiese rimboccandosi le maniche della maglia.
Nami le indicò un paio di scodelle accatastate sul piano destro, accanto al lavandino. «Stavi asciugando quelle».
«Certo.» In silenzio ripresero, Nami a lavare e Roberto ad asciugare.
La ragazza aveva notato che l'amico italiano era stato distratto per tutta la sera.
Finalmente finirono quelle mansioni obbligate.
«Bene, adesso è arrivato proprio il momento che torni nel mio appartamento» affermò Nami, asciugandosi le mani ad uno straccio.
«Ti posso accompagnare. Muoversi a quest'ora di notte da sola, non credo sia molto raccomandabile».
«Chissà  perché mi sembra di aver appena vissuto un dejavù?»
«Cosa?» le domandò interrogativo Roberto.
«Di solito è mio fratello a farmi questo genere di raccomandazioni» gli rivelò divertita Nami raccogliendo la sua borsa da un attaccapanni e la giacca dalla poltrona.
«Capisco, anche io avevo l'abitudine di dirlo a Marika!» affermò l'altro sovrappensiero.
«Marika? È il nome della tua ragazza?». Roberto si riprese immediatamente.
"Come ho fatto a farmelo sfuggire", nervosamente si morse il labbro inferiore.
«Adesso andiamo. Altrimenti sveglieremo gli altri» asserì nella speranza di cambiare discorso.
Detto questo aprì la porta facendo attenzione che il meccanismo di apertura facesse meno rumore possibile.
Con una mano aperta in direzione del corridoio esterno fece segno a Nami di anticiparlo.
La ragazza uscì posizionandosi la tracolla su una spalla.
La porta si richiuse lentamente, sotto il controllo di Roberto. Quel rumore impercettibile ridestò però il sonno pacifico di Kei, che aprì gli occhi proprio come un bulldog accucciato ridestato da un rumore improvviso.

I due erano fuori. Nami si appoggiò alla parete di fronte la porta dell'appartamento da cui erano appena usciti.
«Che fai? Andiamo!» la esortò Roberto.
«Cos'hai?» gli domandò lei a bruciapelo, incrociando le braccia poco sott psottoi suoi seni e mettendo su uno sguardo investigativo.
«Cosa intendi?» affermò Roberto girando di lato la testa poggiandosi sulla parete opposta.
«Per tutta la sera sei stato completamente assente. Deve esserti successo qualcosa. Lo si capisce lontano un miglio»
Roberto si accasciò al pavimento portando le ginocchia al petto.
Nami lo imitò mettendosi al suo fianco sinistro.
«Puoi parlarnene» lo spronò fissandolo con due occhioni preoccupati.
Roberto a quel punto non riuscì più a trattenersi.
«È per Marika. Mi preoccupa il fatto di non poterla più sentire.»
Nami reclinò il capo all’indietro toccando la parete alle loro spalle.
«Anche a voi mio padre ha sequestrato i cellulari a quanto pare…» proseguì sempre con lo sguardo puntato al soffitto bianco del corridoio.
«Si…»
«Capisco…»
«Sai, non so se in questo modo sarebbe giusto continuare. Stare insieme a un fantasma che non puoi vedere, toccare e adesso neanche sentire, non so per quanto potrebbe sopportarlo. In più non ho avuto neanche il tempo per spiegarle questa situazione. Pensavo che avrei avuto la possibilità di farlo appena le cose si fossero tranquillizzate e invece adesso...»
«Ho un’idea!» esordì Nami come se si fossero accese mille lampadine nella sua testa.
«Ossia?»
«Mio padre ha preso i telefoni per controllarci e in un certo senso i numeri delle ragazze per voi e quello dei ragazzi per me, saranno la prima cosa che terrà  sotto controllo. Ma il fatto che io abbia un’amica occidentale che sospetto dovrebbe mai creargli? Se ricordi il suo numero potrei farti messaggiare con lei dal mio telefonino»
«Davvero faresti questo per me?»
«Scherzi? È una sciocchezza a dire la verità ...» affermò arrossendo nelle gote.
«Grazie Nami!», colto da una gioia improvvisa Roberto strinse forte a sé la ragazza. Nessuno dei due poteva sospettare che una terza persona avesse origliato il loro discorso da dietro la porta dell'appartamento.
Nami si abbandonò a quel caldo abbraccio. Era la seconda volta che Roberto la ringraziava. Iniziava a piacergli l’idea che qualcuno le riconoscesse un po’ di gratitudine. Improvvisamente la porta accanto ai due ragazzi venne spalancata. Kei uscì gettandosi nel corridoio in modo abbastanza brusco. La sua entrata in scena lasciò perplessi i due ragazzi ancora stretti in quel l'abbraccio innocente. Kei squadrò indignato prima Roberto, poi presa Nami per un polso, la costrinse a seguirlo. Avevano appena svoltato l’angolo del lungo corridoio, quando il ragazzo con il ciuffo sull’occhio sinistro bloccò la ragazza ancora sconvolta alla parete, impedendole la fuga con le sue braccia.
«Sei cretina o cosa?»
Nami evitò indispettita il suo sguardo mentre si massaggiava il polso indolenzito.
«Questi non sono affari che ti riguardano...»
«Invece ti sbagli, mi riguardano eccome...»
«Lasciami andare...» provò a divincolarsi ancora una volta, ma Kei la trattenne mantenendola attaccata alla parete con le sue mani forti sulle sue spalle esili.
«Hai davvero intenzione di andargli dietro sapendo che ha la testa per un’altra persona? Pensavo volessi farla finita con i ragazzi incapaci di ricambiare i tuoi sentimenti e invece adesso ti stai comportando come uno zerbino per la seconda volta! Te ne rendi conto?Hai davvero intenzione di farti usare in questo modo? Credimi, primo o poi arriverà il momento in cui non gli servirai più e allora ti butterà  via...»
«Con che diritto mi dici questo? Proprio tu che non hai fatto altro che trattarmi come uno zerbino per tutto il tempo! »
«Non è la stessa cosa!»
«Ah, si? E cosa c’è di diverso adesso?»
«Io, non mi sono mai approfittato della tua ingenuità. Non posso sopportare che qualcuno lo faccia...»
Nami sogghignò «Non dirmi che adesso fai il geloso...» Kei spalancò gli occhi.
«Geloso io? Ma figuriamoci. È solo che non mi sembra giusto. Tutto qui. Non voglio che qualcuno ti ferisca...»
«Vorrai dire, che qualcun’altro escluso te mi ferisca... Cavolo, Kei, non pensavo fossi così egoista»
«Stai fraintendendo...»
«Comunque non preoccuparti, ho imparato a badare a me stessa. Non ho alcuna intenzione di perdere la testa per un ragazzo con il cuore di pietra per la seconda volta. Per questo dovrei ringraziarti. Se non fosse stato per te non avrei potuto apprezzare un ragazzo come Roberto. L’unico ad aver ricambiato i miei gesti con un po’ di sana gratitudine. È per questo motivo che lo faccio. Perché il mio aiuto lui se lo è meritato. Tu cosa hai fatto invece in tutti questi anni? Nulla! mi hai solo ignorato. Sono stanca di andare dietro a persone irriconoscenti, fredde e aride come te. Roberto è diverso. Lo so e non saranno le tue vane allusioni a farmi cambiare idea su di lui. Adesso se non ti dispiace...»
“Maledizione Kei! Perché l’hai sempre trattata in quel modo? Adesso è logico che le tue parole risultino poco credibili...”
«Ragazzi...» li interruppe Roberto. Kei allontanò le sue mani dalle spalle di Nami, abbandonandole sui fianchi. La ragazza era di nuovo libera.
«Non volevo provocare tutto questo. NAMI, ci ho pensato e credo abbia ragione Kei. Non posso approfittarmi di te in questo modo. Non sarebbe giusto. Potrei cacciarti nei guai e non voglio. Troverò una soluzione, stai tranquilla...»
«Non devi ascoltare questo idiota, per me non c’è alcun problema davvero!»
«Mi dispiace ma non credo sia la soluzione più giusta. Adesso torno dagli altri. Kei l’accompagni tu Nami?»
Il ragazzo acconsentì con un impercettibile movimento della testa.
“Cosa diavolo prende a questo ragazzo?” pensò incerto Kei.
«Roberto…» lo richiamò un’ultima volta Nami, afflitta e preoccupata da quegli occhi scuri e spenti. Il ragazzo le si avvicinò lentamente con un dolce sorriso sul volto. Con premura le cinse il capo con le sue mani restituendole un bacio sulla fronte. Kei rimase lì fermo, immobile e impotente.
«Ti sono immensamente grato, ma non posso accettare. Adesso sono veramente stanco. Ci vediamo domani. Kei te l’affido», il ragazzo incredulo storse il muso.
“Chi affida chi a chi? Ma sta davvero vantando qualche diritto su di lei? Mi auguro stia scherzando...” pensò il ragazzo con il ciuffo sull'occhio sinistro irrigidendosi.
Dall'altra parte Nami arrossì addolcendo il suo sguardo e acconsentendo tornando buona e mansueta come un barboncino.
Kei stava per intervenire ma Roberto si rifilò prima che lui potesse farlo.
«Non sentirti obbligato ad accompagnarmi. La strada posso farla anche da me…» gli rispose in tono seccato Nami voltandosi dall’altra parte.
«Meglio così, l’idea di accompagnarti non mi era nemmeno passata di mente...»
«Bene. Allora io vado...»
“Kei, perché fai così? Dopotutto, non è accompagnandola che potrebbe succedere qualcosa di compromettente. Dopotutto ha già scelto da che parte stare. Visto che adesso non c’é più rischio che ti corra dietro puoi anche trattarla meglio.”
«Aspetta...» Nami si arrestò.
«Vengo con te, se tornassi adesso Roberto mi farebbe una paranoia. E non mi va di sentirmelo a quest'ora di notte.»
«Fai un po’ come vuoi...»
Camminando in silenzio i due ragazzi raggiunsero l’appartamento di Nami.
«Beh, io entro. Notte!» Nami stava per chiudere la porta ma Kei la bloccò con un piede.
«Cosa c’é adesso?» gli chiese lei sorpresa.
«Visto che sono venuto fino qui, voglio almeno vedere com’è il tuo appartamento rispetto al nostro...»
Senza chiederle il minimo permesso spalancò la porta ed entrò prepotentemente nel suo appartamento. In men che non si dica iniziò a gironzolare per le stanze, mentre Nami lo rincorreva disperata, raccogliendo la roba lasciata in mezzo. Nella sua raccolta disperata, agguantò un reggiseno, un paio di pantaloni e una maglietta lasciati sul pavimento.
«Si può sapere che modi sono questi?» senza sapere come, finirono in cucina.
Nami distrutta, dopo avergli corso dietro per tutto il tempo, adagiò la sua roba sul  tavolo.
«Porca miseria. Ma il tuo appartamento è più grande e spazioso del nostro. Che razza di ingiustizia è mia questa?»
«Che vuoi farci. Questa è la vita, c’é a chi dà  e a chi toglie. Adesso però dovresti andare...»
Kei al contrario, spostò una sedia e si ci sedette prepotentemente. «Non me lo offri un té?»
«Cosa? Spero tu stia scherzando!»
«Che scortesia. Non sai che è maleducazione non offrire nulla al primo ospite della casa?» Nami sospirò rassegnata.
«E va bene. Ma dopo, devi promettermi che te ne andrai.»
«Va bene, se il tuo té sfiorerà la decenza andrò via» sospirando per una seconda volta la giovane recuperò una teiera e mise l’acqua sul fuoco.
Incuriosita da quella situazione osservava in silenzio Kei seduto vicino a lei. Era la prima volta che accettava qualcosa da parte sua.
In silenzio i due aspettavano che l’acqua giungesse a temperatura. C’era un silenzio surreale. Poi finalmente la teiera fischiò. Nami, forse colpa del sonno, forse per la fretta di far andar via quell’ospite indesiderato, l’agguantò a mani nude scottandosi e facendola cadere al suolo rovinosamente.
Kei corse subito in suo aiuto. Le prese la mano e la mise subito sotto l’acqua corrente.
Poi con uno straccio iniziò a tamponarla.
«Ti fa ancora male?» Nami con le lacrime agli occhi scosse il capo come per dire di no.
«Ma si può sapere dove hai la testa?Ti piace proprio farmi preoccupare?»
«Guarda che è tutta colpa tua, se non mi avessi chiesto di farti quel dannato té adesso non sarei qui con un ustione alla mano…»
“Aspetta un attimo… ha appena detto che si preoccupa per me?”
Nami era totalmente disorientata da quelle parole. In silenzio fissava Kei, che con attenzione scrupolosa continuava a esaminare il palmo della sua mano. Il suo tocco era così fresco e anche incredibilmente delicato.
«Non essere ridicola e finiscila di piangere, alla fine non ti sei fatta nulla...»
Senza aggiungere altro Kei, avvicinò la mano arrossata di Nami al suo viso, poi alle sue labbra, dolcemente la baciò. La ragazza rabbrividì.
“Cosa significa adesso tutto questo?”
Dopo quel contatto imprevisto, Kei tornò a fissarla negli occhi, profondamente, come non aveva mai fatto prima. Fino a quel momento Nami non era riuscita a catturare la sua attenzione nemmeno mettendoci tutto l’impegno possibile. Kei era sempre stato un muro di roccia difficile da scalfire e invece adesso era così diverso.  Per la prima volta i loro occhi si incontravano con interesse.
Ecco, stava per succedere qualcosa. Nami lo sentiva. Era come vedere una leggera crepa in quel muro per la prima volta.
La mano libera di Kei si infilò tra i capelli lunghi e scuri di lei, fino alla nuca. Lentamente l’avvicinò al suo volto proprio come aveva fatto con quella mano che ancora stringeva saldamente nella sua.
“Nami, fai qualcosa! Maledizione perché non lo allontani? tu non provi più niente per lui! Più niente!” ma lei era completamente ipnotizzata da quegli occhi scuri e per quanto la sua mente la implorasse di reagire il suo corpo aveva smesso di prestarle attenzione. Era immobile e completamente assoggettata al fascino prorompente di Kei.
Forse nel profondo aveva aspettato quel momento per così tanto tempo, che voleva almeno vedere come sarebbe stato.
Ingenuamente si lasciò travolgere da quel desiderio mai saziato.
Con placata rassegnazione chiuse gli occhi. Avvertì il respiro di Kei sfiorarle il viso, il suo naso accarezzarle la guancia e poi le labbra di lui abbracciare le sue. Prima dolcemente, poi con più foga, assettate e impazienti.
Nami non aveva più controllo, era di Kei. L’aveva intrappolata ancora una volta nella sua rete. Era completamente presa dai suoi movimenti, dal suo profumo, dai suoi modi bruschi e imprevedibili.
Lui d’altro canto pur non riuscendo a far tacere quella voce nel profondo che gli gridava di fermarsi, continuava a baciarla avidamente. Come per lasciarle un’impronta invisibile e indelebile.
“Perdonami Nami. Non ti ho mai meritata, ma non voglio perderti. Sono egoista, lo so. Ma credo di non essere pronto a lasciare che qualcun'altro ti ferisca… a lasciare che qualcun'altro ti faccia innamorare di lui fino a quel punto.“
Con movimenti misurati, la guidò verso il divano, adagiandola poi sullo stesso, le fu subito sopra.
Nami non poteva dare ragione al suo cuore e alla sua mente di quello che stava succedendo. “Non può essere vero. Sto solo sognando. Kei… “ poi un ricordo irruppe improvviso nella sua mente. Era un’immagine, un sorriso caldo e luminoso. Un sorriso che le aveva aperto il cuore per la prima volta. Poi la sensazione di quel bacio imbarazzante e timido. Diverso da quello che si stavano scambiando loro in quel momento. Era il ricordo di Roberto a tormentarla.
Con un movimento brusco distanziò Kei. Se quel bacio Kei glielo avesse dato molto tempo prima magari le cose sarebbero andate diversamente.
Ma purtroppo adesso qualcosa era cambiato inevitabilmente in lei. Il suo cuore era incerto. Possibile che ci fosse qualcun'altro nel suo cuore adesso?
E poi cosa significava quel bacio per Kei? Che la stesse prendendo solo in giro? Che intenzioni aveva?
Il ragazzo rimase bloccato ad osservarla, aspettandosi una spiegazione che arrivò dopo un lungo e angosciante silenzio.
«Non posso» esordì lei, fissandolo con occhi carichi di rammarico.
«cosa non puoi?» gli domandò Kei spiazzato,
«stare con te in questo modo. Tu non hai potuto darmi quello che volevo in passato e non potrai darmelo adesso, lo so. Per te non sono così importante. Nella tua vita ci saranno persone che verranno sempre prima di me. Non credo di poterlo sopportare ancora. A che scopo continuare. Finiremo solo facendoci del male. Lo sai anche tu. Ho rinunciato ad essere un ostacolo nella tua vita quel giorno al Blue Night quindi finiamola di prenderci in giro. Non posso stare con una persona che non mi considera una priorità  nella sua vita, non voglio vivere questo genere di rapporto...  e poi adesso, c’é qualcuno che voglio aspettare.»
Kei non poteva crederci. Era la seconda volta che Nami lo scaricava. E adesso era anche peggio. Adesso aveva finalmente capito quanto male facesse un rifiuto. Aveva ragione, lei era importante ma non quanto il suo obbiettivo. Aveva messo l’amore da parte così tante volte ma adesso era davvero dura farlo.
“Aspetta un attimo… vuole aspettare qualcuno? Non starà  parlando di...”
«Non dirmi che la persona che hai intenzione di aspettare è…»
«Questo non credo ti riguardi...»
Con un movimento brusco Kei si sollevò dal divano. Dall’altro prese a fissare Nami con occhi stracolmi di risentimento.
«Il giorno in cui ti userà  e ti butterà  via non venire a piangere da me, perché io non asciugherò nessuna delle tue lacrime...»
«Lo so...»
«Perfetto, allora aspettalo. Immagino tu sappia cosa significa. Aspettare lui vuol dire chiudere con me per sempre.»
«Lo so...»
«Perfetto. Allora rimuoviamo quello che è successo stasera. Torniamo a comportarci come due semplici estranei. Spero per te che Roberto sia il ragazzo onesto e sincero che credi, perché se così non fosse, rimpiangerai amaramente questo momento. Addio e buona fortuna».
Nami non disse nulla, semplicemente rimase ferma mentre Kei le voltava le spalle e usciva sbattendo la porta in malo modo.
Gradualmente avvertì un vuoto allo stomaco farsi spazio fino ai polmoni accelerandole i respiri, convertendosi poi in singhiozzi ed esplodendo infine in un fiume di lacrime.
Kei era fuori su quel freddo e anonimo corridoio.
“Alla fine le donne sono veramente tutte così stupide!Vi piace davvero così tanto farvi del male?  cosi come quella sciocca di mia madre così anche tu… Essere così ingenue a cosa potrà  mai portarvi? Delusione, amarezza e dolore ecco a cosa porta la speranza e l’estenuante attesa che quella persona riconosca il vostro amore e lo ricambi. Mi auguro che Roberto possa amarti davvero come desideri, che si accorga di te prima che sia troppo tardi. Non come ho fatto io. Spero che almeno per te la storia sia diversa. Che l’amore di Roberto sia diverso da quello che ha ricevuto la mia vera madre, diverso da quello che mi ha dato la vita”.
Kei si strofinò il viso per soffocare le lacrime. Poi riprese a camminare verso il suo appartamento. Non avrebbe fatto più nulla per tenerla stretta a lui. L’aveva fatta soffrire anche troppo.
Nami si rannicchiò sul divano. Per tutta la notte quel divano fu l’unico a consolarla. Aveva detto addio al suo primo amore, alla persona a cui aveva giurato amore nel profondo del suo cuore così tante volte. Per l'ennesima volta lo aveva allontanato.
Cosa poteva fare dopotutto? Quello che poteva dargli adesso Kei, non era l’amore che voleva. Aveva troppi conti in sospeso nella sua vita e troppe persone a cui badare. Lei non lo biasimava, all’inizio era stato proprio questo suo aspetto a farla innamorare, ma era anche vero che era stanca di aspettarlo. Forse con Roberto sarebbe stato diverso… forse avrebbe rinunciato a Marika e si sarebbe accorto di lei un giorno. 
 
 
 
Londra
 
 
Marika era appena atterrata. Alla mano il suo passaporto era in fila per i controlli di routine. Un ragazzo scarno con gli occhi verdi e stanchi aveva appena preso i suoi documenti tra le mani. Dopo averli controllati con aria disinteressata glieli restituì.
«Benvenuta a Londra» le diede il benvenuto nella sua lingua.
«Grazie!» gli rispose cordiale Marika. Superato quell’ultimo ostacolo e recuperata la sua valigia fu fuori.
Erano le sei del pomeriggio. Il suo volo era durato meno del previsto. Stranamente quel giorno a Londra non cadeva una goccia di pioggia e il cielo era libero e senza nuvole opprimenti. Prese un profondo respiro e  indecorosamente si sgranchì le articolazioni.
“Allora vediamo un po’. Mamma ha detto che qualcuno sarebbe passato a prendermi.” Pensando questo iniziò a perlustrare in giro. Fu in quel momento che notò un’anziana figura, con due precisi baffetti bianchi sul labbro superiore avanzare nella sua direzione con un cartello tra le mani.
“Miss. Mastro”
Quello era chiaramente il suo cognome, sollevata corse verso quella figura salvifica.
L’uomo dopo averla riconosciuta le sorrise cortese.
«Buongiorno signorina. Ha fatto un buon viaggio?» le domandò prendendo la sua valigia e facendole segno di seguirla fino a una macchina nera lussuosissima tirata a lucido.
«Si, grazie. Ma non mi chiami signorina. Mi mette terribilmente a disagio. Mi chiami pure Marika».
«Io veramente, non so se posso permettermi...»
«Il permesso glielo sto dando io. Non si preoccupi. Piuttosto sarebbe meno imbarazzante se anche lei mi dicesse il suo nome»
«Ambrogio, mi chiamo Ambrogio».
Marika, sorrise trattenendosi la pancia.
«Che per caso avrebbe un Ferrero Rocher?»
«Cosa scusi?»
«Nulla, nulla..» si asciugò una lacrima. L’uomo fece spallucce.
«Adesso la porterò al suo appartamento, come mi ha chiesto sua madre. Dopo la scorterò in azienda da Thomas»
Marika si ricompose, «grazie mille Ambrogio!»
«Si figuri. È il mio dovere!»
Fu così che Marika sperimentò per la prima volta, la sgradevole sensazione data dalla guida a destra londinese. A ogni curva era come se le macchine le venissero letteralmente contro. Era davvero sorprendente. Londra era una città  piena di colori e molto stimolante. I taxi neri sfrecciavano rapidi per le strade, alternati dai caratteristici bus a due piani. Per Marika era come mettere piede su un altro pianeta, dove tutto era diverso da quello a cui era stata abituata fino a quel momento. Per alcuni quella realtà  così diversa avrebbe fatto paura, ma per Marika era invece molto eccitante.
“Chissà  se anche per Roberto è stato così emozionante il primo giorno a Tokyo.”
Prese il cellulare tra le mani. Aveva scritto prima di partire quel messaggio ma non aveva avuto ancora il coraggio di inviarlo.
L’auto fece una frenata così brusca, che le fece cadere il cellulare sotto il sedile. Senza penarci due volte iniziò a perlustrare il fondo della vettura piegandosi in due.
Ambrogio scese dall’auto. Sorpreso notò il Giovane Responsabile della One Million, Thomas uscire dall’imponente palazzo in stile vittoriano. Incrociando lo sguardo del suo superiore reclinò il capo rispettoso. L’altro gli sorrise accomodante. Era un ragazzo alto e biondo con un leggero pizzetto e degli occhi piccoli tra il verde e il marrone, con intorno all’iride una linea giallastra sottilissima.
«Signore...»
«Ambrogio, come mai da queste parti?»
«Sono venuto ad accompagnare la figlia della Signora Mastro al suo appartamento».
«Ah, si? Abiterà qui?»
«Si, la Signora dice di aver preso in affitto un appartamento nel suo stesso palazzo per l’intero anno».
«Capisco…» il ragazzo sulla ventina prese a fissare lo sportello posteriore con il vetro oscurato ancora ostinatamente chiuso.
«Perché non scende? È davvero così timida?»
L’autista, corse immediatamente ad aprire lo sportello alla giovane.
«Signorina, prego può scendere» esordì facendo leva sulla maniglia e spalancando lo sportello, mettendosi da parte a mento alto e fiero. Non sentendo alcuna risposta e non vedendo nessuno uscire dall’auto si preoccupò ma a preoccuparlo ancora di più fu l’espressione sorpresa e a tratti indignata del ragazzo alla sua destra. Così si affacciò all’interno della vettura.
La prima cosa a saltargli all’occhio fu il fondoschiena di Marika. I suoi jeans aderenti, lasciavano poco all’immaginazione, immediatamente l’ uomo arrossìarrossì. Marika che aveva la testa e metà del suo busto completamente sotterrati come uno struzzo sotto il sedile, non si era ancora resa conto della situazione e cercava disperatamente il suo cellulare.
Due colpi di tosse si intromisero cercando di attirare la sua attenzione. Era stato Ambrogio, messo in imbarazzo da quella situazione abbastanza equivoca.
«Trovato!» esultò Marika tornando seduta e stringendo il suo cellulare tra le mani.
«Pensavamo non ne sarebbe più venuta fuori...» affermò divertito il ragazzo. Marika lo squadrò infastidita e senza farlo aspettare oltre scese dall’auto nera.
«Se sapevo che avrei visto la sua faccia sarei rimasta lì ancora per molto e molto tempo ancora...»
“Ma chi diavolo è questo tipo?”
«Signorina...» gli occhi incorniciati da un fitto intreccio di rughe dell’autista, la scrutavano con espressione di rimprovero «non dovrebbe...»
«Cosa non dovrei? Non dirmi che qui gli inglesi sono davvero tutti così arroganti e impertinenti? È vero quello che si dice in giro di voi. Avete tutti la puzza sotto il naso...» continuò puntando l’indice contro il giovane ragazzo sofisticato con abiti firmati e preziosi.
«È vero anche quello che si dice di voi italiani: avete sempre la testa per aria, o forse dovrei dire il fondoschiena…» il più anziano del trio trattenne una risata che non passò inosservata a Marika che lo fulminò con lo sguardo.
«Comunque, mi sembra che nessuno le abbia chiesto un parere!» detto questo Marika si avvicinò al portabagagli e con non pochi sforzi e risultando anche abbastanza buffa, lo aprì sotto gli occhi divertiti di quel ragazzo altezzoso.
Con un movimento brusco tirò fuori la valigia, ma il gesto fu così rapido, dettato anche dalla rabbia, che perse l’equilibrio. Sentì tutto il suo corpo pendere pericolosamente all’indietro, stava cadendo, ma al posto del freddo asfalto un petto caldo e morbido accolse la sua schiena. Lentamente si voltò. Era stato quell’odioso lord inglese a soccorrerla e adesso la guardava anche con occhi trionfanti.
«Oltre ad essere permalosa e arrogante, è anche enormemente imbranata… mi chiedo se potrà davvero essere utile in qualche modo...»
«Nessuno ha chiesto il suo aiuto. E poi mi scusi, si può sapere chi è lei?»
Ambrogio in quel momento si avvicinò ai due ragazzi che si stavano letteralmente sfidando con occhi di fuoco.
«Signorina, lui è…», il ragazzo però gli fece segno di tacere.
«Un suo vicino. Beh, credo di averla trattenuta anche troppo. Le auguro una buona permanenza. E comunque, perché  lo sappia, il suo accento è veramente pessimo…» detto questo si dileguò entrando in un taxi nero.
Marika stava per saltargli addosso e dargliele di santa ragione, e lo avrebbe fatto, se solo Ambrogio non si fosse messo in mezzo, incitandola disperato a seguirlo all’interno del palazzo a tre piani.
”Che ragazzo odioso, spero di incontrarlo il meno possibile...”
 
Tokyo
 
I ragazzi erano nella sala prove. Avevano appena portato a termine la prima lezione di lingue straniere, durante la quale Roberto aveva dato sfoggio delle sue elevate capacità linguistiche e intellettuali, sotto l’evidente sorpresa degli altri ragazzi.
Adesso erano con la loro insegnante di canto. Una donna intransigente con un portamento di classe ma con uno sguardo accomodante che non metteva affatto in soggezione. I capelli rossi erano portati di lato in una codina alta e le labbra carnose erano simili a due boccioli di rose. Aveva una quarantina d'anni ma li portava splendidamente.
«Bravo Roberto e anche tu Toshi hai mantenuto bene il ritmo ma per gli altri, non ci siamo. Non riuscite proprio a essere più armonici? Credo mi toccherà fare qualche lezione individuale. Alcuni di voi hanno davvero delle grosse carenze o non sembrano esserci con la testa oggi...» affermò guardando Kei di sbieco.
«Mamma, è che siamo troppo stanchi. È da stamattina che non facciamo un minuto di pausa..» cercò di correre in difesa degli amici il più alto del gruppo.
La donna sospirò sollevandosi dal pianoforte e avvicinandosi a suo figlio.
«Toshi, non avete scelta. Dovete approfittare di tutto il tempo che vi resta. Quattro mesi non sono poi tantissimi, quindi dovete dare il meglio adesso. Quando tuo padre aveva la tua età lavorava sempre fino a tardi nello studio di registrazione e non c’è stato un giorno in cui si sia lamentato. Quindi, se davvero volete diventare dei cantanti famosi, dovete sognarvi pause e lamentele inutili. »
«Lo so, io sono abituato a tutto questo ma loro...»
«Loro si abitueranno… Bene, potete andare. La lezione credo sia meglio concluderla qui per il momento. Potete andare».
Tutti a capo chino si ritirarono verso la porta raccogliendo la loro roba.
«Kei, con te vorrei trattenermi ancora un po’...» il ragazzo senza muovere ciglio ritornò vicino al pianoforte, mentre gli altri si dileguavano.
Una volta che la porta fu chiusa, la donna prese a scrutarlo con i suoi occhi scuri e intelligenti.
«Kei cosa c’é?» gli domandò tornando a sedersi al pianoforte.
«Non c’è nulla...» mentì l’altro evitando il suo sguardo.
«Dì la verità, hai qualcosa che ti turba. Oggi non ne hai azzeccata una. Hai la testa altrove, non mentirmi.»
«Forse...» confessò messo alle strette.
«Te la sentiresti di parlarne con me?»
Kei spalancò gli occhi.
“Parlare con lei? Come potrei parlare di quello che c’è stato con Nami proprio con sua madre… sarebbe troppo strano...”
«Non posso...»
«È colpa di una ragazza, dico bene?»
Kei sbiancò.
“Che abbia capito già  che si tratta di Nami? Cavolo ma che ha? È forse telepatica?”
«L’ottanta percento delle volte il problema è una ragazza. Non preoccuparti, con me puoi parlarne. Prometto che non dirò nulla a Rio. Su questo aspetto abbiamo idee completamente opposte. Non credo sia giusto impedirvi di avere delle storie. Quindi se vuoi confidarti con me puoi farlo. Sai, sono una madre abbastanza aperta da questo punto di vista...»
“Una madre?” Il termine madre fece emergere in lui un crescente senso di inquietudine.
«No, davvero, è solo un problema passeggero. Domani andrà meglio.»
«Mi ricordi tanto una persona...»
«Chi?» chiese Kei interessato.
«Ho notato che tra te e Roberto non scorre buon sangue...»
«Devo dire di non nutrire una grandissima simpatia per lui...»
«Come immaginavo, mi ricorda una situazione che ho già  vissuto tanto tempo fa…»
«Di chi sta parlando?»
«Ti rivelerò un segreto, nessuno sa il perché i BB5 abbiano avuto un periodo di pausa così lungo prima dell’ultimo tour...»
L’altro continuava a fissarla con curiosità.
«Una ragazza, questo era stato il motivo. Eichi e Hiro si contendevano l’amore della stessa donna. Tu mi ricordi molto l’Hiro di quegli anni. Sai, anche lui come te faceva il duro ma dentro aveva solo voglia di essere amato. Ma quella persona aveva occhi solo per Eichi. Così, segretamente, continuò a proteggerla sperando che lei un giorno potesse accorgersi di lui… del suo amore…»
«Che assurdità . Perché perdere tempo se una persona chiaramente non prova niente per te?»
«Perché quando ami rinunciare è la cosa più difficile da fare. Per quanto dirai a te stesso che è la fine, nel profondo continuerai a nutrire quella speranza. Perché quando ami non puoi smettere di lottare, e io ne so qualcosa...»
«Non capisco dove vuole arrivare, cosa centriamo io e Roberto in tutto questo?»
«Voi due mi ricordate molto Eichi e Hiro. Mi auguro che riuscirete a trovare un punto d’accordo un giorno. Soprattutto mi auguro che tu ti tolga questa enorme armatura di dosso».
«Lei non sa proprio niente di me...»
«Kei...»
«Adesso vado, questa conversazione sta prendendo ogni interesse. Pensavo volesse discutere dei miei problemi nel canto e invece qui si parla di stupidaggini...» affermò allontanandosi da Yori, arrivando fino alla porta.
«Kei, aspetta! Ricordati quello che ti sto dicendo ora: non esiste musica senza sentimenti. Se rifiuterai l’amore non potrai mai cantare di esso. Ecco qual è la vera differenza tra te e Roberto. Lui quando canta ci mette il cuore, tu invece ci metti solo tecnica e tanta testa. Non pensare che l’amore sia un inutile perditempo, un intralcio. Un cantante ha bisogno di provare dei sentimenti per poterli condividere con il suo pubblico. Non pensare che l’amore sia una debolezza. Mi hai capito? Non rinunciarci per colpa della musica. Un giorno potresti pentirtene...»
«Stia tranquilla. Sarà  qualcun’altro a pentirsene, non di certo io».
«Cosa vuoi dire?». 
«Che farebbe meglio a conservare questi consigli per sua figlia. Sono convinto ne avrà più bisogno di me...» detto questo Kei fece leva sulla maniglia della porta e uscì.
 
JJ ed Eichi erano appena arrivati alla Kings Record. Clara per il momento era rimasta all’orfanotrofio per badare ai bambini.
«Eichi, non essere troppo duro con Roberto.»
«Ci proverò...»
Erano ancora una volta davanti a quell’ingresso maestoso. Eichi, provò uno strano senso di vuoto. Le gambe gli tremavano. Quello davanti a sé era il mondo a cui aveva detto addio, un mondo che per certi versi stava per inghiottirlo e adesso quel mondo aveva ammaliato anche suo figlio. L’unica consolazione era Rio. Il suo amico era l’unica magra consolazione che gli era rimasta. Nel profondo sperava davvero che almeno per suo figlio non ci sarebbe stato lo stesso travaglio fatto di rinunce e rimorsi.
«Andiamo?» lo spronò JJ qualche passo più avanti.
«Certo!».
Con riconquistata sicurezza, entrambi avanzarono all’interno dell’edificio. Adesso iniziava la vera lotta con suo figlio, con se stesso e con quella verità  che aveva taciuto per troppo tempo.

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Capitolo 14
*** UNO SCONTRO FRONTALE ***


 
CAPITOLO 14
UNO SCONTRO FRONTALE

 
Roberto seguito a ruota da Toshi, Take, Jona e Shin aveva raggiunto la sala per la terza lezione della giornata. Con noncuranza aveva aperto la porta entrandovi con una certa rassegnazione sul viso seguito dagli altri. Ma all’interno ad attenderli, non c’era solo Daisuke, ma anche due inattesi ospiti.
«Finalmente siete qui!» affermò l’uomo con i capelli argentei raggiungendo l’insolito gruppetto ancora fermo sull’uscio.
«Nonno, ma cosa ci fate voi due qui?» esordì Roberto squadrando spaesato e in evidente imbarazzo i suoi nonni.
«Eravamo curiosi di vedere i vostri progressi e poi a dire il vero tua nonna ha insistito perché venissimo. Le mancavi molto, e mancavi molto anche a me. Non capisco perché debbano dormire tutti in quel dormitorio così squallido. Ce lo avete strappato via troppo presto caspiterina…» affermò tra il serio e il divertito il signor Aoki rivolgendosi a Daisuke, che lo ricambiò a sua volta con un smorfia complice.
«Mi dispiace, ma sono direttive che vengono direttamente da su» sottolineò facendo spallucce.
«Eh, lo so con Rio non si discute…»
«Nonno cosa sono quelle…?» chiese Roberto indicando tre enormi borse termiche in un angolo della stanza. Lucia con le sue orecchie a sventola e il suo sguardo dolce e materno si avvicinò ai ragazzi fermi sull’ingresso.
«Ho pensato che fosse già troppo difficile per voi sopportare un allenamento intensivo di quattro mesi, per costringervi anche a cucinarvi da soli. Così vi ho preparato un po’ di roba. Con quella dovreste stare bene per una settimana abbondante.»
Roberto addolcì il suo sguardo. Era la prima volta che qualcuno si comportava in modo così premuroso con lui. Sua madre era sempre fuori casa e alla fine lui e Clara avevano imparato a cavarsela da soli, forse anche troppo presto. Quel genere di premure gli erano mancate molto soprattutto dalla morte dei bisnonni.
Sorrise felice a sua nonna che ricambiò.
«Veramente è tutta roba da mangiare?» affermò con la bava alla bocca Shin.
«Certo, spero vi possa piacere quello che ho preparato…»
«Sicuramente sarà meglio di quella melma indefinita che prepara Jona…»
«Ehi! Non è colpa mia se a casa non cucinavo mai!» lo riprese l’altro colpito nell'orgoglio, incrociando indispettito le braccia allo stomaco.
«Ehi voi due, finitela, vi sembra il caso di bisticciare proprio adesso?» intervenne Toshi.
«Comunque grazie davvero, sono sicuro sarà tutto buonissimo» proseguì Take, raggiungendo Roberto più avanti rispetto agli altri.
«Non ho fatto poi un granché» affermò la donna sorridendo dolcemente ai ragazzi.
 
 
 
 
Nel frattempo nello studio di Rio si discuteva.
«Non puoi dire sul serio» l’uomo a quella scrivania osserva incredulo e impotente il migliore compositore della sua casa discografica rivolgergli quelle parole fredde e irrazionali. Non poteva credere che avesse davvero deciso di lasciare la casa discografica. Era sicuro che non avrebbe trovato un altro bravo quanto lui.
«Mi dispiace Rio, ma non posso fare diversamente…»
«Se è per la questione della canzone, pensavo avessimo risolto…»
«Non è solo per la canzone.. è una questione di fiducia… spero tu possa capire» l’uomo magro e bassino, posizionò la sua lettera di dimissioni sulla scrivania del direttore, senza aggiungere nulla si voltò e uscì lasciando Rio alle prese con l’ennesimo problema da risolvere.
“Questa proprio non ci voleva!” con un movimento brusco fece cadere la lettera sul pavimento.
 
L’ex compositore della Kings Record aveva appena chiuso la porta alle sue spalle quando il cellulare nella sua tasca squillò. Con non curanza lo tirò fuori e rispose.  Nello stesso momento Yori uscì dall’ascensore, notandolo, con uno dei suoi soliti sorrisi, gli andò incontro.  Con convinzione lo raggiunse, ma il suo collega non sembrava averla notata e voltandole le spalle, prese a parlare al telefono.  
«Pronto? Salve, Direttore Mashimoto» a quel nome Yori si arrestò all’istante. Con molta attenzione face marcia indietro, in modo che lui non potesse vederla. Si nascose dietro un pilastro, trattenendo il respiro e aprendo bene le orecchie.
«Si, ho il contratto qui con me. L’ho già firmato, oggi pomeriggio glielo porterò. Grazie ancora per avermi contattato. Sono molto felice di lavorare per voi. A oggi pomeriggio» detto questo chiuse la chiamata e riposizionando il telefono nella tasca dei pantaloni neri chiamò l’ascensore con un inquietante sorriso sulla faccia.  Le porte si aprirono quasi all’istante, entrando a passo sicuro sparì sotto lo sguardo perplesso di Yori.
“Takashi, lavorerà per la concorrenza? Cosa significa?”
Lentamente si avviò verso la stanza che ospitava lo studio di Rio, davanti a quella stessa porta chiusa poco prima dal suo collega. Con due lievi colpi, rese nota la sua presenza a Rio. Nessuno le rispose dall’interno della stanza. La cosa iniziava a preoccuparla.
Con decisione l’ insegnate di canto aprì la porta. Suo marito, seduto dietro quella fredda scrivania, con i gomiti sulla stessa si manteneva la testa, le sue lunghe dita era completamente immerse nel groviglio brizzolato dei suoi capelli. Con sguardo vuoto e perso osservava la scrivania sgombra, era proprio in uno stato catatonico.
Senza aggiungere nulla raggiunse preoccupata la scrivania, mentre avanzava un rumore catturò la sua attenzione. Abbassò la testa e, sotto uno dei suoi piedi, notò una lettera. La raccolse.
“Una lettera di dimissioni?” Improvvisamente tutto iniziava ad avere un senso.
«Rio… questa…»
«Takashi, ha appena deciso di abbandonarci e tutto per colpa di tuo figlio…»
La donna corrucciando le sopracciglia raggiunse finalmente la scrivania poggiando in modo brusco la lettera sulla stessa. «Non credo sia solo questo il motivo. L’ho appena sentito parlare al telefono con il direttore Mashimoto, sembra gli abbia fatto una buona offerta talmente buona da non competere con quello che prendeva da noi.» Yori, indicò la lettera di dimissioni adesso sul tavolo, « prima di lasciarti questa, aveva già firmato il contratto con lui.»
L’uomo prese finalmente a guardare sua moglie con occhi disperati.
«Come faremo adesso? Non ci voleva proprio… Chi scriverà le canzoni per i ragazzi. Abbiamo solo quattro mesi di tempo…»
«Vedrai che troveremo una soluzione, dopotutto lo abbiamo sempre fatto…» detto questo avvolse suo marito con le sue braccia stringendolo forte a se. L’uomo si lasciò cullare da quel contatto rassicurante.
«Non so se riusciremo a risollevarci anche questa volta, abbiamo perso l’artista più promettente che avevamo e adesso anche il nostro compositore migliore, in più la società è piena di debiti… come faremo?»
«Non perdere la speranza ci sono ancora i ragazzi…»
«Si, certo…  sei ragazzi inesperti e difficili da gestire, con un passato indefinito e un futuro ancora più incerto …»
«Eppure loro sono l’unica speranza per la Kings Record. Rio, non essere così negativo. Oggi ho avuto modo di ascoltarli e devo dire che, anche se ancora poco coordinati, hanno delle ottime possibilità di successo»
Rio lentamente sciolse quell’abbraccio e prese a fissare sua moglie, cercando il coraggio e la forza di affrontare l’ennesimo ostacolo nella sua vita.
«Tu sei convinta di riuscire a prepararli in quattro mesi?»
«Si, possono farcela. Credo molto in loro e dovresti incominciare a crederci anche tu…»
«Ci proverò…»
«Credi in tuo figlio. Hai sentito quello che ha detto nell’intervista. Se non avesse visto in loro qualcosa per cui lottare non avrebbe rinunciato a  una carriera da solista per sostenere il loro progetto. Prova a fidarti di lui come facevi prima.»
«Ora mi stai chiedendo troppo…» si riprese Rio riconquistando il suo tono freddo e distaccato.
«È inutile, dopo tutti questi anni sei ancora testardo e orgoglioso. Se non vuoi farlo tu, allora lo farò io…»
«Come sono andate le prove? La loro preparazione di base è davvero così buona come sostieni?» provò a cambiare discorso Rio. Yori sospirò allontanandosi da suo marito.
«Si, le loro capacità sono veramente ottime, la cosa a preoccuparmi in realtà è il rapporto tra alcuni di loro…»
«Cosa intendi?» gli chiese incuriosito Rio.
«Sento dell’attrito tra Roberto e Kei…»
L’uomo si sollevò dalla scrivania e a mani raccolte dietro la schiena raggiunse l’enorme vetrata, fino a poco prima dietro le sue spalle.
“Gli stessi che mi preoccupavano sin dall’inizio…”
«Cosa intendi con dell’attrito…?»
«Non penso vadano molto d’accordo. Credo sia necessario intervenire prima che le cose si ingigantiscano. L’ultima cosa che ci serve è un gruppo che si separa per una incomprensione tra due dei suoi componenti…»
«Capisco e cosa proponi?» domandò a Yori continuando a fissare quel panorama splendente fatto di grattacieli lucenti che riflettevano il cielo chiaro e limpido del mattino.
«Ricordi cosa fece il signor Otzuki con Hiro e Eichi?»
L’uomo tornò su sua moglie con occhi perplessi.
«Vuoi che li faccia lavorare insieme?»
«Perché no? Hanno entrambi delle ottime capacità nella composizione, Kei è bravo con le parole mentre Roberto potrebbe occuparsi della musica. Chissà, il loro rapporto potrebbe anche uscirne migliorato alla fine, potrebbero imparare a conoscersi meglio. Sai, dalla conoscenza può nascere anche la stima e non c’è nulla di meglio per rafforzare la fiducia e la complicità di un po’ di sana ammirazione, e poi adesso sei anche a corto di compositori, non ti costa nulla lasciarli provare. In un modo o nell’altro avresti solo da guadagnarci. In più ho notato che sono entrambi demotivati, ora non so quale sia il motivo del loro stato d’animo, ma lavorare insieme potrebbe aiutarli a riconquistare un po’ di entusiasmo.»
Rio si strofinò il mento raggiungendo la scrivania.
“L’idea non è poi così pessima, magari potrebbe anche uscire qualcosa di buono…”
«E va bene, voglio metterli alla prova. Sono proprio curioso di scoprire di che pasta sono fatti. Lavoreranno insieme e entro un mese e mezzo dovranno portarmi almeno tre canzoni. Se sfioreranno la decenza, potremo anche usarle per il loro CD di esordio.»
Yori strinse le mani al petto euforica e gioiosa come una bambina.
«Sono sicura che non te ne pentirai. Vado ad avvisare i ragazzi…»
«Yori…»
«Si?» si voltò prima di uscire
«Grazie.»
Lei gli sorrise prima di chiudere la porta.
 
Nella sala prove i cinque ragazzi erano ancora alle prese con le raccomandazioni dei nonni di Roberto.
«Per qualsiasi problema contattateci. Noi siamo a vostra disposizione» completò il signor Aoki.
«Sarà fatto. Grazie davvero di tutto» acconsentì Toshi.
«Mi dispiace interrompervi, ma abbiamo una lezione da portare a termine… Anzi, ora che ci penso, dov’è Kei?» li interruppe Daisuke.
«Lo abbiamo lasciato con Yori al piano di sopra. Gli ha chiesto di trattenersi un attimo con lei» gli spiegò Jona.
«Visto, che Kei non è ancora tornato, posso accompagnare i miei nonni all’uscita. Sarò di ritorno quanto prima. Promesso » lo supplicò Roberto.
Daisuke sospirò incrociando le braccia, « va bene, puoi andare, ma torna al più presto». L’altro acconsentì guidando i nonni verso l’uscita. Erano per i corridoi.
«Ho chiesto a Daisuke di accompagnarvi perché in realtà, da quando è iniziata questa storia, non abbiamo avuto molto tempo per parlare»,  entrambe le figure al suo fianco acconsentirono, con sguardo attento.
«Quello che volevo dirvi è solo un semplice ma sincero GRAZIE, se non mi aveste concesso questa possibilità probabilmente non sarei riuscito ad arrivare fin qui. Spero di non deludere la vostra fiducia. Farò l’impossibile per rendere orgogliose tutte le persone che hanno creduto in me.»
Lucia si arrestò costringendo anche gli altri due ad arrestarsi al suo fianco. Dolcemente avvolse il viso di Roberto tra le sue calde e soffici mani.
«Roberto, non ringraziarci per questo. Se sei arrivato sin qui è semplicemente merito tuo. Mio padre deve averci visto qualcosa di davvero speciale in te. Dopotutto ha sempre avuto occhio. Ha sempre riconosciuto quali band avrebbero fatto carriera e quali no anche solo ascoltando una canzone. Era davvero capace di riconoscere il vero talento quando lo vedeva. Sono felice che tu possa dargli la soddisfazione che una figlia degenerata come me non gli ha mai potuto dare.»
«Nonna…»
«Roberto, qualsiasi cosa succeda noi saremo sempre qui. Non ti lasceremo più solo. Dopotutto è quello che fanno tutte le famiglie e sarà quello che faremo anche noi per te. Perché tu sei la nostra famiglia. Sappiamo di non essere stati dei nonni molto presenti nella tua e nella vita di tua sorella…»
«Non è stata colpa vostra…»
«È invece lo è stata. Ciò che conta adesso è che da oggi in poi, non ti libererai così facilmente di noi. Ci hai insegnato cosa significa lottare per ciò che si ama e lotteremo per stare al tuo fianco, costi quel che costi…»
«Tua nonna ha ragione. Qualsiasi cosa succeda puoi fare affidamento su di noi».
Roberto, con il volto ancora tra le mani di sua nonna, osservava le due anziane figure davanti ai suoi occhi.
“Cos’è questa sensazione che sento crescermi nel cuore? È come se mi fossi finalmente ripreso qualcosa che mi spettava per diritto e che invece mi è stata strappata via, senza motivo, prima del tempo. Ecco cos’è,, mi è stato restituito il loro affetto. È vero, i bisnonni mi sono stati vicini e ancora adesso devo quello che sono al loro amore e al loro incoraggiamento, ma nel profondo era come se fossi incompleto. Sono così felice. È passato così tanto tempo da quando qualcuno mi ha preso il volto in questo modo. È come sentirsi avvolti da una nuvola calda e morbida, come un giaciglio soffice sul quale poter riposare quando si è stanchi. Mi è mancato tutto questo…”
Con uno scatto fulmineo Roberto strinse a sé sua nonna, come se da un momento all’altro potesse sparire per sempre.
Dolcemente assaporò il suo profumo e la morbidezza del suo corpo accogliente. Due lacrime scesero ma con le mani le asciugò prima che potessero segnargli il volto.
«Il mio piccolo Roberto.»
«Grazie, di essere qui per me… »
«Noi saremo sempre qui per te» gli ribadì il signor Aoki sfiorandogli dolcemente la spalla mentre la donna accarezzava dolcemente la testa del nipote.
Nessuno dei tre si rese conto dei due ignari spettatori che avevano appena svoltato l’angolo.
Eichi era immobile con JJ al suo fianco destro mentre osservava quella scena imprevista.
Una sensazione di gelosia mista a rabbia e frustrazione si fece largo nel suo cuore dilaniato dalle menzogne e da quella sensazione di delusione opprimente, simile al tradimento.
“Cosa ci fanno loro qui? Perché si sono avvicinati a Roberto in questo modo? Avevo chiesto a entrambi di stare lontani dalla mia famiglia e invece…”
I suoi occhi si tinsero di vecchi rancori e senza esitare oltre si avvicinò loro, sempre più intenzionato a interrompere quel contatto che gli bruciava dentro.
Con una presa decisa sul braccio, Eichi tirò a sé suo figlio strappandolo dalle accoglienti braccia di Lucia.
Sorpreso e impreparato Roberto, si ritrovò vicino a suo padre. La mano con la quale lo teneva bloccato, era così stretta da fargli male. Ora che ricordava, il loro ultimo incontro era iniziato con un litigio e si era concluso con uno schiaffo.
Roberto avvertì la guancia colpita quella dannata sera, riaccendesi come se stesse prendendo fuoco, come se quel gesto fosse rimasto impresso nella sua pelle al pari di un marchio a fuoco o peggio ancora, come una ferita di guerra.
Eichi era immobile con il braccio di suo figlio stretto nella mano destra mentre misurava con rancore malcelato, i volti sorpresi e impreparati dei suoi genitori.
«Come vi permettete di avvicinarvi a mio figlio…»
“Mio figlio? Chi sarebbe il figlio di chi?”
A quelle parole Roberto non riuscì a trattenersi oltre. Ancora una volta suo padre era tornato per privarlo di qualcosa di bello. Così come era successo con la musica, adesso voleva privarlo anche dell’affetto dei suoi nonni e per giunta per una seconda volta. Non poteva permetterlo.
Con un movimento brusco si distaccò dalla sua presa, mente Yuki li raggiungeva preoccupato.
«Figlio? Tze! Come osi vantare diritti su di me, io ho smesso di essere tuo figlio già da tempo. Essere il figlio di un estraneo non è nelle mie intenzioni. Eichi Kitamura leader dei BB5, se è questo quello che sei, un ipocrita bugiardo, insoddisfatto della sua vita tanto da condannare anche quella di suo figlio, allora preferisco essere orfano di padre…»
Gli occhi di Eichi si spensero come se fossero stati bagnati da una gettata d’acqua fredda.
«Roberto, posso spiegarti…»
«Non c’è proprio nulla da spiegarmi. I fatti dicono tutto. Mi hai mentito. Hai sempre ostacolato il mio sogno. Hai sempre detto che era una perdita di tempo. Per tutto questo tempo mi hai preso in giro dicendomi queste cose. Hai la minima idea di quanto mi sia pesato tutto questo? Per un attimo ho anche pensato avessi ragione. Ho addirittura considerato l’idea di rinunciare a tutto! Ringrazio il cielo di non averlo fatto! Mi fidavo di te, ma tutto quello che hai fatto in questi anni è stato mentirmi. Le persone che hai qui davanti sono state le uniche ad essere state sincere con me… Loro sono la mia famiglia e non ti permetterò di separarmi da loro per una seconda volta solo per colpa del tuo stupido orgoglio ferito. Se non sei capace di perdonarli non è un mio problema.»
«Tu non sai cosa significa, se ho fatto quello che ho fatto è stato solo per proteggerti»
«Proteggermi da cosa? Dal mio stesso sogno? Dallo stesso sogno che hai avuto tu prima di me?»
«Non è questo, quello che intendevo dire è che questo mondo non è così splendente come sembra. Non credere che tutto questo non abbia un costo. Ti sei mai chiesto il perché io abbia rinunciato?» Roberto con occhi irremovibili continuava a sostenere quelli di suo padre disperato, « Se ho rinunciato è stato perché il prezzo da pagare era diventato troppo alto. Il vero problema non è quello che questo mondo può fare a te, ma quello che potrà fare alle persone che ti stanno intorno. Non volevo vivessi una vita fatta di rinunce, perché è a questo che stai condannando te stesso…»
«Questo potrà essere successo a te, ma con me sarà diverso…»
«Roberto sei così testardo… Spero davvero che sia come dici tu!»
«Lo sarà. Adesso vado…» detto questo rivolse un ultimo sguardo ai suoi nonni e a suo zio prima di superare il gruppo incollerito e raggiungere la sala prove. Proprio in quel momento Kei stava facendo ritorno dai suoi compagni quando vide tutta la scena.
“Roberto non sapeva nulla del passato di suo padre?”
In silenzio al riparo dai loro occhi aveva ascoltato il litigio tra i due.
 Eichi era rimasto fermo ad osservare suo figlio voltagli le spalle e andarsene via per la seconda volta. Ormai ogni volta che aprivano bocca finivano con il litigare, era veramente stancante. Lentamente Lucia gli si avvicinò.  Con premura posizionò la sua mano sulla spalla del figlio.
«Non essere troppo severo con lui. Ama la musica proprio come te. Non ci vedo nulla di male…» esordì incrociando il volto colpevole di suo figlio ormai segnato da alcune rughe leggere.
«Non ci vedi nulla di male? Ma che vi prende? Sapevate tutto e non mi avete detto nulla. Non so chi sia più sconsiderato tra lui e voi. Secondo te non dovrei neanche rimproverarlo per essere scappato di casa, essere venuto in Giappone e avermi mentito?»
«Cosa ti aspettavi che facesse, visto come ti sei comportato nei suoi confronti» esordì il signor Aoki, intervenendo in favore di suo nipote. Gli occhi si Eichi sembrava volessero incenerirlo.
«Non mi aspetto di certo dei consigli sul come fare il genitore, da parte tua. Hai perso l’occasione di fare il padre tanti anni fa. Non pensare di poter recuperare tramite mio figlio.»
«Non era mia intenzione farlo, conosco benissimo le mie colpe, l’unica cosa che desidero fare è stargli vicino come nonno. Non chiedo altro…»
«Perfetto, allora fate i nonni…»
 
Senza aggiungere altro Eichi si voltò verso Yuki.
«Andiamo, Rio ci aspetta» l’altro acconsentì seguendolo. Prima di superare sua madre Yuki le rivolse un occhiata rammaricata, lei comprensiva gli sorrise rassicurandolo. 
 
Quello scontro frontale si era appena concluso e entrambe le parti si erano ritirate in trincea.
Il corriodio fu nuovamente libero.
Kei lentamente emerse dal suo nascondiglio. Meditando su quanto aveva appena appreso raggiunse il gruppo in sala con Daisuke. Senza aggiungere nulla iniziarono l’allenamento. Di tanto in tanto osservava Roberto, era attento e concentrato sulla coreografia come se nulla fosse successo.
“È davvero incredibile. Come fa a gestire la tensione in questo modo? Sembra un cubo di ghiaccio. A guardarlo non sembra per niente scosso. Che sia davvero così bravo a fingere? Ora che ci penso c’è anche la storia di quella ragazza. Perché non ci ha detto nulla di lei? su quante altre cose starà mentendo?”
 
 
Eichi era appena salito al piano che ospitava lo studio di Rio, lo stesso studio che quasi vent’anni prima era stato del signor Otzuki.
Con una certa malinconia mista a nostalgia, bussò. Per un attimo quasi sperò di aprire e rivedere dentro il vecchio direttore della casa discografica, ma contro ogni sua nostalgica aspettativa ad attendere il suo arrivo c’era solo il suo vecchio compagno di sventure. Rio sedeva concentrato dietro la scrivania al centro della stanza. Quando vide Eichi sbucare da dietro la figura di Yuri, si sollevò immediatamente dalla seduta comoda e con eccitazione raggiunse l’amico abbracciandolo con entusiasmo. Terminato con Eichi, salutò anche Yuki.
«Che bello rivedervi insieme. Quanti anni saranno passati Eichi? Ma prego sedetevi» proseguì indicando un divano rosso al lato dell’ingresso. Eichi prese posto accanto a suo fratello mentre Rio ancora in piedi li sormontava.
«Penso parecchio tempo.»
«Vi va di bere qualcosa?»
«No, grazie. Credo dovremmo parlare dei ragazzi prima» lo freddò Eichi con aria preoccupata.
Tornando serio Rio recuperò una sedia e si sedette davanti ai suoi amici.
«Immagino che Yuki ti abbia già raccontato tutto.»
Eichi acconsentì con un movimento della testa.
«Ti ringrazio Rio, non sarei stato così tranquillo se a seguirli fosse stato qualcun’altro.»
«Per il momento sono riuscito a tenerli sotto il mio controllo grazie a un piccolo ricatto.»
«So che per colpa loro e per colpa anche di mio figlio hai avuto molte perdite…»
«Non devi preoccuparti per questo. Recupererò ciò che è stato perso con gli interessi o almeno questo è ciò che spero»
«Per qualsiasi cosa, puoi chiedere anche a me»
«Ci sarebbe una cosa, ma non credo tu possa accontentarmi…»
«Di cosa si tratta?»
«Ho appena perso il migliore dei miei compositori e mi chiedevo se ti andasse di ricominciare a scrivere canzoni…»
«Rio, ho chiuso tanto tempo fa con queste cose, e poi ho un lavoro in Italia e anche un negozio da portare avanti, lo sai…»
«Lo immaginavo…» affermò deluso l’altro poi lentamente i suoi occhi si posarono su Yuki.
«Non pensarci neanche per sogno…» lo spiazzò l’altro prima ancora che aprisse bocca.
«Yuki, ricordati che mi sei debitore ancora di un favore… ».
L’altro storse il muso.
«Sei un vero disonesto. Sai che da quando Akiko…» improvvisamente quel ricordo incupì il suo viso zittendolo all’istante, deglutendo vistosamente riprese il discorso, «beh, sai che è da tanto tempo che non scrivo più canzoni…».
«Sarebbe un bel modo per ricominciare…» lo incoraggiò anche Eichi.
«Si, certo, ma come faccio? ho l’orfanotrofio di cui occuparmi…» provò a insistere JJ messo con le spalle al muro.
«Beh, adesso avrai Clara, potresti chiedere a lei di occuparsene per mezza giornata. Sai è molto brava con i bambini».
«Ma io…»
«Perfetto è deciso! Ricomincerai a scrivere per la Kings Record» sottolineò convinto Rio sollevandosi dalla sedia e recuperando una bottiglia dal frigobar. Lentamente, inclinando ad uno ad uno i bicchieri sulla sua scrivania, li riempì di uno spumante frizzantino chiaro e dorato. Le bollicine salendo lente in superficie scoppiettavano vivaci. Ne porse uno ad ognuno dei suoi amici prima di sollevare il suo per aria.
«Brindiamo al futuro dei nostri figli. Che sia luminoso e ricco di soddisfazioni.»
Yuki non ancora molto convinto alzò insieme ai suoi amici il calice al cielo.
«Ai nostri figli!»
«Agli HOPE!» concluse euforico Rio.
 
 
 
Clara era all’orfanotrofio alle prese con i pannolini da cambiare e con le pappe da preparare. Era con Kotoko la donna tutto fare dell’istituto. Aveva chiesto alla stessa se poteva darle una mano e da quel momento era stata l’inizio della sua tortura. Erano più di tre ore che suo padre e suo zio erano usciti di casa. Di loro ancora nessuna traccia. Finalmente era arrivato l’orario del pisolino pomeridiano.
Tutti i bimbi erano nelle loro stanze.
Finalmente Clara poteva riposarsi. Tornata nella sua camera tirò fuori dalla borsa il suo quaderno e una penna. Lentamente lo aprì sulla scrivania. Poggiò la punta sulla prima riga ma niente. Era quasi un anno che non scriveva ed era completamente bloccata. Guardò fuori dalla finestra una ramo a pochi metri di distanza ospitava un nido e due piccoli passeri facevano la ronda per controllare i loro piccoli.
“Chissà se papà avrà incontrato Roberto. Spero non sia stato troppo duro con lui. Dopotutto se ha fatto tutto questo è stato solo perché non aveva altra scelta. Io lo capisco, mi auguro lo capisca anche papà.”
Un bussare leggero interruppe i suoi pensieri.
«Avanti».
Suo zio fece ingresso nella stanza.
«Siete tornati» esordì Clara alla sua vista, repentinamente si sollevò dalla sedia correndo verso suo zio, «dov’è papà?»
«È ripartito in Italia pochi minuti fa.»
«Ma come? Senza neanche salutarmi» affermò delusa la ragazza prendendo posto sul letto. Yuki entrò chiudendosi la porta alle spalle. Lentamente prese posto accanto alla nipote.
«Mi dispiace, mi ha solo chiesto di riferirti di prenderti cura di te e di tuo fratello».
«Capisco…»
«Clara, tuo padre è davvero preoccupato per voi. Siete il suo tesoro più prezioso. Lo so, perché per proteggere voi ha rinunciato alla musica per sempre…»
«Ha rinunciato alla musica per noi?»
«Si, dopo aver raggiunto tua madre in Italia e dopo averla sposata il signor Otzuki era tornato da lui per proporgli di tornare a cantare anche come solista… »
«E lui?»
«Inizialmente aveva accettato. In realtà era stata tua madre a insistere. Così lui e Mary erano tornati in Giappone, tu eri davvero molto piccola e Roberto aveva appena qualche mese. La pressione mediatica però fu troppo forte e la vita sia per lui che per tua madre era diventata ingestibile. Erano costantemente seguiti dai paparazzi e un giorno per seminarne uno tuo padre aveva rischiato di finire fuori strada. In macchina c’eravate anche voi. Da quel giorno prese la decisione di rinunciare a tutto per proteggervi. Ecco perché non voleva che Roberto percorresse le sue stesse orme. Non voleva facesse i conti con un mondo così crudele e insensibile, bramoso di potere e avido di compassione…»
Clara non poteva credere alle sue orecchie. Adesso tutto aveva un senso.
“Povero papà, quanto deve aver sofferto per questo?”
«Spero tu possa capire…»
«Mio fratello è al corrente di tutto questo?»
«Oggi tuo padre ha provato a farglielo capire ma Roberto è così testardo. Se ti ho raccontato tutto questo è solo perché spero tu riesca a metterlo in guardia. Devi stargli vicino Clara. Sei l’unica persona a cui probabilmente darà ascolto» la ragazza acconsentì.
«Se vuoi stasera potrai andare a fargli visita. Questo è l’indirizzo» gli porse un pezzo di carta ripiegato in quattro, «purtroppo non posso accompagnarti, devo recuperare un po’ di lavoro arretrato…»
«Grazie zio, non devi preoccuparti, prenderò un taxi e arriverò lì sana e salva».
«Per qualsiasi cosa chiamami».
«Certo!»
Detto questo Yuki si sollevò dal letto e raggiunse la porta sorridendo alla nipote prima di richiuderla e lasciare Clara ancora una volta sola.
La ragazza si distese sul morbido materasso crollando su un fianco. Tra le mani ancora quel foglietto ripiegato. Avrebbe fatto visita a suo fratello quella sera stessa. 

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Capitolo 15
*** UNA COLLABORAZIONE INSOLITA ***


UNA COLLABORAZIONE INSOLITA.

 
 
 
Tokyo
 
 
La giovane, con la sua minigonna di jeans, sedeva a gambe accavallate sulla sedia al centro della stanza. Quella posizione provocatoria lasciava volutamente scoperte le sue cosce lisce e vellutate, mentre un top succinto metteva in evidenza la sua siluette a dir poco perfetta. Con uno sguardo fisso e carico di rancore, circoscritto da un trucco forte e deciso, sfidava le due persone dietro la scrivania al centro della stanza .
«Signorina Yukino, noi capiamo bene cosa sta provando in questo momento, e proprio per questo pensiamo che non dovrebbe rinunciare…»
«Cosa potete saperne voi?»
La donna altera, alla destra del ragazzo dalla capigliatura tirata, prese subito in mano la situazione.
«Quello che il Direttore Mashimoto cercava di dire è che sappiamo bene cosa ha dovuto sopportare alla Kings Record in questi anni. Essere considerata la seconda, sempre e comunque, non deve essere stato facile da sopportare.»
La giovane strinse i pugni mentre sosteneva a testa alta quella conversazione.
«Toshi è sempre venuto prima non è così? E solo perché il figlio di Rio. Credo sia un comportamento opinabile da parte di un direttore discografico.»
«e lei come lo sa?»
«Takashi, ha appena deciso di lavorare per la nostra casa discografica e ci ha raccontato tutto»
La ragazza non poteva credere alle sue orecchie.
«Takashi lavora qui? Ma com’è possibile?»
«Deve essersi reso conto anche lui della precaria serietà della King's Record come casa discografica. Dopo quello che hanno fatto al suo brano quei sei ragazzini credo sia più che plausibile decidere di andare via. Quello che non riusciamo a concepire invece è come abbia potuto Rio metterla al secondo posto anche adesso, e per di più per proteggere proprio quel ragazzo viziato, soprattutto dopo tutto quello che ha fatto sia a lei che al signor Takeuchi. Immaginiamo bene il vostro rancore. Questo è stato uno dei motivi per cui abbiamo deciso di accettare la sua offerta di prendere lei al posto degli HOPE. Crediamo che Rio abbia commesso un grave errore sacrificando l’artista più promettente che aveva. Noi, a differenza sua, abbiamo visto un grande talento in lei e non abbiamo intenzione di lasciarle rinunciare al successo che merita in questo modo. Al posto di quei sei ragazzi abbiamo preferito lei. A differenza di Rio, che non ha aspettato due secondi a svenderla, noi crediamo molto nel suo talento e non vogliamo vederla rinunciare.»
«Come fa a sapere cosa si prova a sentirsi sempre inadatta? Cosa si prova a non veder riconosciuto mai il proprio talento?» le domandò sconcertata la ragazza dai capelli corti e ossigenati.
«Sa, io conosco bene cosa si prova a essere messa al secondo posto. Conosco quel rancore e quella rabbia che ti divora dentro. So bene cosa sta provando più di quanto crede. Per questo voglio darle una possibilità per vendicarsi…»
La ragazza si fece più interessata.
«Cosa intende?»
«Mettiamola così, entrambe abbiamo un conto in sospeso con la Kings Record ed entrambe abbiamo bisogno l’una dell’aiuto dell’altra per ottenere la nostra piccola vendetta personale o forse sarebbe meglio dire il nostro personale riscatto nei confronti di chi ci ha messo da parte così crudelmente. Proprio perché conosco bene quello che sta passando, voglio aiutarla».
«E lei cosa ci guadagnerebbe con il mio successo?» le domandò sicura la ragazza.
«Voglio distruggere il successo di quei ragazzi a favore del suo per la soddisfazione di veder crollare la credibilità della Kings Record. Devo a tutti i costi impedire che quei ragazzi diventino famosi, soprattutto uno di loro».
«Perché allora ha rinunciato a prenderli sotto la sua ala? A quel punto avrebbe potuto rovinarli come meglio credeva.»
«Si, è vero, ma come ho appena detto, crediamo molto in lei. Per questo vogliamo dimostrare a Rio quale errore ha fatto a lasciarla a noi. Inoltre rovinarli mentre erano sotto il marchio della Music Station avrebbe potuto compromettere l’immagine della nostra stessa azienda e non avrebbe procurato abbastanza danno alla Kings Record. Quello che vogliamo è aspettare che raggiungano il successo per poi distruggerli. Cadere dal cielo fa ancora più male sa…»
«Capisco…»
«Per il momento le chiediamo di fidarsi di noi. Al momento giusto le spiegheremo cosa dovrà fare. Dopotutto mi sembra uno scambio più che equo. Noi le permetteremo di avere la sua vendetta e lei ci aiuterà ad ottenere la nostra. Per adesso l’unica cosa che le chiediamo è di impegnarsi per il suo debutto. Al resto ci penseremo in un secondo momento…»
La ragazza continuava a fissare i due soppesando bene le parole di quella donna austera.
“Avevo intenzione di rinunciare, mi ero ripromessa che se non fosse stato con la Kings Record non avrei debuttato con nessun’altra casa discografica, ma facendo così l’unica a perderci sarei io. Ha ragione quella donna, sono veramente arrabbiata, dopo tutti questi anni in cui mi sono impegnata, e ho sudato sangue per veder riconosciuto il mio talento, questa è la ricompensa che ho ottenuto: essere usata come merce di scambio per salvare il culo di quel figlio di papà! Ha ragione, sono arrabbiata e voglio la mia vendetta. Distruggerò Rio, quel ragazzino e la Kings Record. Voglio che rimpianga di non aver creduto in me…”
«D’accordo. Ci sto».
 
 
 
 
Clara era appena scesa dal taxi giallo, dopo aver pagato l’autista con i soldi che gli aveva dato suo zio.
Si guardò intorno. Un enorme palazzo ostruiva imponente la visuale ergendosi maestoso davanti ai suoi occhi.
“Il palazzo deve essere questo”. Pensò avvicinandosi al cancello.
Due omaccioni vestiti di nero le sbarrarono la strada.
«Signorina, dove pensa di andare?»
Clara si fermò all’istante retrocedendo di qualche passo,«devo incontrare mio fratello». Tentò di spiegare ai due uomini che si scambiarono delle occhiate divertite.
«Si, certo, come no!» la sbeffeggiò il più alto dei due con aria di strafottenza.
Clara corrucciò le sopracciglia.
«Sono Clara Kitamura, la sorella di Roberto e devo incontrare mio fratello. Fatemi passare!» affermò sicura cercando di avanzare oltre i due energumeni.
Il secondo però, la bloccò per le spalle, allontanandola in malo modo. Clara, a causa della spinta stava per cadere ma qualcuno l’afferrò appena in tempo.
«Ragazzi, ma che modi sono questi?» intervenne il ragazzo che l’aveva appena soccorsa. Clara sotto la spinta del suo salvatore tornò in posizione eretta.  Ancora interdetta si voltò verso di lui. Era incredibilmente alto, più della media dei Giapponesi in circolazione, ma non abbastanza per imporsi contro quei due agenti della sicurezza.
«Ci scusi signorino. Forse abbiamo esagerato», gli rispose  uno dei due uomini in tono servile, rammaricandosene.  La ragazza era a dir poco sorpresa.
“Chi diavolo è questo ragazzo? Possibile che gli siano bastate quelle poche parole per intimorire quell’uomo?”.
«Mh, da quel che vedo siete nuovi…» notò avvicinandosi ai due Toshi ancora nella sua tuta sportiva. Era appena rientrato dai suoi allenamenti notturni alla Kings Record.
«Si, abbiamo iniziato stasera.»
«Capisco. Quindi non sapete nulla dell’accordo preso con i vostri precedenti colleghi…»
«Che accordo?» domandò scettico il più basso dei due scambiando un’occhiata con l’amico e collega alla sua destra.
Toshi sorrise beffardo avvicinandosi a entrambi e sussurrando a bassa voce nelle loro orecchie in modo che Clara non potesse sentire.
«Beh, anche se mio padre ha deciso di recluderci in questa specie di prigione, abbiamo comunque dei bisogni come uomini. Non so se ci capiamo...» entrambi gli sorrisero maliziosi fissando Clara dalla testa ai piedi.
“Perché diavolo mi fissano in quel modo?” pensò Clara a disagio, girandosi di lato. Era come se le stessero facendo una radiografia.
Toshi notando i loro sguardi lascivi, li richiamò tirandoli entrambi a sé.
«Per evitare che le nostre “visitatrici” vengano scambiate per comune fans, abbiamo pensato di farle spacciare per nostre sorelle. Ora capite cosa cercava di dire questa ragazza?»
Mentre entrambi gli addetti alla sicurezza si ricomponevano, Toshi riprese posto accanto a Clara che non aveva smesso, nemmeno per un secondo, di squadrarlo con sospetto. Uno dei due, il più minuto, si schiarì la voce un paio di volte combattuto.
«Capisco signorino, ma vostro padre ci ha severamente vietato di far entrare persone estranee nel palazzo. Soprattutto dopo l’ultima volta…»
«Beh, pensate che questi possano bastare per passare sopra la cosa solo per una notte?» gli propose sventolandogli dieci banconote sotto il naso. L’uomo spalancò gli occhi, mentre l’altro collega osservava bramoso quella lauta ricompensa.
Fissando Toshi dritto negli occhi il più basso dei due agguantò quel ventaglio di soldi al volo, riponendoselo rapido sotto la giacca nera del suo completo. Osservando prudente lo spazio circostante, riprese la parola.
«Per questa sera credo potremmo passarci sopra…» concluse infine ammiccando al ragazzo e sorridendo al suo collega.
«Perfetto. Non vorrete farci rimanere qui fuori in eterno, sapete che i paparazzi sono sempre in agguato…» detto questo si sfilò la felpa nera che indossava gettandola in malo modo sulla testa di Clara.
«Ehi! Che modi sono questi?»
«Sh.. e assecondami…» le sussurrò in un orecchio.
Clarà per un attimo rabbrividì al contatto caldo dell’alito di quel ragazzo sulla sua pelle.
«Certo…» si fece da parte il più basso mentre l’altro apriva il cancello.
Tenendo Clara stretta a sé avvolgendola con il suo braccio destro, la spronò a superare i due uomini. Quando furono finalmente all’interno del palazzo Toshi le sfilò la felpa.
Clara fu inondata da una luce gialla accecante e solo qualche secondo dopo riuscì a focalizzare il volto del suo salvatore. Era un ragazzino. Era indubbio che avesse qualcosa di famigliare. Ma dove lo aveva già visto prima? E poi perché quei due gli avevano parlato in tono così reverenziale. Non sapeva il perché, ma tutta quella storia non la convinceva per niente.
Toshi le sorrise soddisfatto avviandosi all’ascensore e chiamandolo spingendo l’apposito tasto.
«Si, può sapere chi sei? Perché mi hai aiutata? Da quello che sai potrei essere una pazza, eppure mi hai fatto entrare. Perché lo hai fatto? Ti rendi conto di quanto sei stato sconsiderato?»
Toshi spalancò gli occhi sorpreso puntando il dito sul proprio viso «Clara, non dirmi che non mi hai riconosciuto… »
«perché ci conosciamo noi due?» gli domandò scettica lei soppesando i suoi tratti fisiognomici con maggiore attenzione. Prima i suoi capelli neri e lucidi poi i suoi occhi neri e profondi poi le labbra carnose. A osservarlo bene non doveva essere più grande di lei. C’era qualcosa di famigliare, ma perché non riusciva a ricordarsi di lui?
Toshi si portò una mano trai capelli neri.
«Assurdo e hai anche il coraggio di dirmi che sono io l’irresponsabile! Cavolo Clara, ero convinto avessi capito chi ero. Ora che ci penso, cosa ti sarebbe successo se invece di un bravo ragazzo come me avessi incontrato un maniaco?» affermò avvicinandosi a lei, bloccandola alla parete con le sue braccia.
Clara mantenne la calma mentre i suoi occhi affogavano letteralmente in quelli di Toshi. Per un attimo rimasero immobili ad osservarsi.
“Ma cosa sto facendo? Come posso permettere ad un ragazzino come questo di mettermi in un angolo?”
 Con un movimento netto lo allontanò, infastidita da quella provocazione.
«Adesso sarei io l’irresponsabile? Ragazzino, nessuno ti ha chiesto di aiutarmi! Adesso puoi anche tornare dal tuo papino, io ho cose più importanti da fare che stare a discutere con te…» detto questo superò Toshi entrando di prepotenza nell’ascensore che nel frattempo aveva raggiunto il piano terra.
“Questo ragazzino…” 
Finalmente era dentro, si voltò verso la tabella con i bottoni dei diversi piani.
“Maledizione a che piano sarà l’appartamento di Roberto?”
«Non dirmi che non sai neanche a che piano si trova l’appartamento di tuo fratello..» la punzecchiò Toshi affacciandosi nella cabina dell’ascensore.
“Non lo sopporto proprio sto tizio!”
«Non sono affari tuoi…» detto questo spinse un tasto a caso, senza prestarvi troppa attenzione. Le porte stavano quasi per chiudersi quando Toshi le bloccò con una mano.
«Che maleducazione. Ti ho aiutata e adesso ti rifiuti di condividere con me persino l’ascensore…?».
Clara sospirò incrociando le braccia spazientita.
«Prego accomodati pure…»
 
Toshi, compiaciuto, le sorrise ancora una volta entrando e mettendosi accanto a lei. Le porte si richiusero. Lanciando un’occhiata al tabellone dei piani notò che il piano spinto da Clara era l’ottavo.  Tre piani sotto il loro.
«Io scenderò a un altro piano. Se non ti dispiace» le fece segno di spostarsi in modo da dargli la possibilità di spingere il tasto. Clara si spostò infastidta.
«Lo sai che sei davvero carina quando ti arrabbi?» la punzecchiò Toshi notando il suo sguardo offeso.
Improvvisamente Clara si rese conto che non sapeva cosa avesse detto quel ragazzino ai due uomini lì fuori per convincerli a lasciarla entrare così facilmente. Continuava a pensare a quel loro sguardo malizioso che non le era piaciuto per niente.
«Cosa hai detto a quei tipi per convincerli?» gli chiese continuando a fissare le porte chiuse dell’ascensore a braccia conserte.
«Vuoi davvero saperlo?»
«Cero che voglio saperlo!» gli urlò contro Clara sciogliendo la  sua posizione sostenuta. Nel frattempo l’ascensore aveva raggiunto il sesto piano.
Sorridendo Toshi si avvicinò al suo orecchio.
«che stasera mi avresti fatto divertire…»
Il viso di Clara diventò rosso all’istante.
«Come cavolo ti sei permesso? Chi diavolo sei per permetterti di alludere a certe cose?»
«Beh è stata la prima cosa che mi è venuta in mente. Di certo la tua motivazione non era più credibile della mia…»
«Ma io sono davvero la sorella di Roberto! Anzi, ora che ci penso, chi diavolo sei tu?». Finalmente le porte dell’ascensore si aprirono. Erano arrivati all’ottavo piano.
«Io sono arrivato. I tuo piano è il prossimo» detto questo si congedò dall’altra senza aggiungere nulla sulla questione. Clara avrebbe voluto ribattere ancora sull’argomento, ma Toshi scomparve prima che avesse il tempo di farlo.
«I ragazzini di oggi non sanno davvero cosa sia il rispetto per le persone più grandi» detto questo ad alta voce, diede un’occhiata alla tastiera alla sua sinistra.
“Che strano, non ricordo di aver spinto l’undicesimo piano… Bah, può essere che mi sia confusa”
Le porte si aprirono ritirandosi nelle due direzioni opposte. Incerta Clara si affacciò sul lungo corridoio pieno di porte tutte uguali e prive di nomi. Su ognuna c’era un solo misero numero.
“Adesso da dove inizio? Non sono sicura che sia neanche il piano giusto! Aspetta, bussando a caso potrei addirittura beccare la casa di quel bambino maleducato! Aspetta. A che piano è sceso? Se non sbaglio era l’ottavo. Ok, sarà l’ultimo che perlustrerò”.
In quel momento una ragazza dai capelli castani lunghi fin sotto le spalle avanzò nella sua direzione con due enormi buste piene di ortaggi, frutta e spesa varia.
“Forse potrei chiedere a lei…”
Con passo sicuro si mosse verso quella ragazzina.
«Scusami. Stavo cercando Roberto Kitamura. Per caso sai qual è il suo appartamento?» Nami si bloccò all’istante.
“Chi diavolo è questa tipa? Come ha fatto ad entrare? Ma cosa peggiore, perché cerca Roberto? Non sarà mica la famosa Marika…”
Notando lo sguardo preoccupato della giovane Clara si apprestò ad aggiungere dell’altro, «perdonami, non mi sono presentata. Sono Clara, la sorella di Roberto».
“Clara?” Bastarono quelle poche parole a far emergere un enorme sorriso sul volto della giovane, che mollata la spesa al suolo, abbracciò l’altra felice per due motivi: primo perché rivedeva Clara dopo tanti anni e secondo motivo perché non era la ragazza che aveva paura di incontrare più di chiunque altra al mondo.
«Che bello rivederti! Sono passati anni!»
Clara rimase immobile intrappolata da quella stretta inattesa.
«Ci conosciamo?» chiese infine allontanandola leggermente.
Nami si puntò un dito sul viso stupita.
«Davvero non mi riconosci?»
“Chissà perché mi sembra di vivere un deja vù? Dove ho già visto qualcuno fare la stessa cosa?”.
Clara continuava a fissarla disorientata.
«Scusami, ma proprio non ricordo dove ci siamo incontrate prima di oggi..»
«Sono Nami. La figlia di Rio e Yori» le chiarì infine.
«Nami? Oddio perdonami, sono passati tanti anni dall’ultima volta»
«Direi anche troppi» osservò rammaricata.
«L’importante è essersi ritrovate. Sei diventata proprio una bella ragazza, Nami»
«Ma cosa dici? Tu sei molto più bella di me sorellona»
Clara sorrise in imbarazzo. In realtà non si era mai sentita bella.  
«Quanti anni sono passati dall’ultima volta che mi hai chiamata in questo modo?»
«Sorellona? Beh, penso siano passati almeno una decina d’anni».
«Caspita come corre il tempo».
«Eh si! Ma dimmi, come mai sei qui? E come hai fatto ad entrare? Da quando le ragazze hanno iniziato ad appostarsi qui fuori, mio padre ha rafforzato la sicurezza. Adesso nessuno può entrare o uscire senza il suo permesso».
«Un ragazzino davvero strano mi ha aiutata ad entrare. Era veramente un cretino patentato, però grazie al suo aiuto sono riuscita ad entrare. Almeno è servito a qualcosa.»
«Un ragazzino dici?» le chiese interessata Nami strofinandosi il mento.
«Si, era abbastanza alto, ma ti garantisco che, a dispetto della statura del suo corpo, il suo cervello era veramente piccolo quasi quanto una noce. Spero di non doverlo incontrare nuovamente, era così arrogante e immaturo…»
«Beh, te lo auguro, se era così tremendo come sostieni».
«Piuttosto, parliamo d'altro. Toshi dov’è? Da piccoli eravate così inseparabili!»
«Beh, lo siamo tutt’ora, anche se ultimamente a causa delle prove è sempre impegnato e ci vediamo raramente, in più a breve esordirò come attrice, quindi anche io mi sto allenando duramente».
«Ma è meraviglioso!» si complimentò Clara prendendo, tra le sue, le mani dell’altra.
«Grazie, tu invece? Continui a scrivere quelle storie meravigliose che ci leggevi quando eravamo piccoli?»
L’entusiasmo di Clara si spense leggermente. Per quanto avesse provato a riprendere con la scrittura non era riuscita a trovare la giusta ispirazione.
«In realtà spero di ricominciare presto a scrivere. Per diversi motivi avevo rinunciato alla scrittura, ma adesso penso potrò riprendere finalmente».
«Che bello, un giorno di questi, devi farmi leggere qualcosa di tuo»
«Ma certo!» la rassicurò la ragazza più grande raccogliendo una delle buste dal pavimento, «dove stavi andando? Se vuoi ti do una mano».
Nami sorrise raccogliendo la seconda busta rimasta sul pavimento, «veramente stavo andando proprio da Roberto e dagli altri!».
«Dagli altri?» chiese incerta Clara seguendo l’altra per i corridoi.
«Si, vivono tutti insieme da quando hanno iniziato il tirocinio», improvvisamente Nami si arrestò con lo sguardo fisso dinanzi a sé e un sorriso che andava da orecchio a orecchio.
«Finalmente sei arrivato Toshi. Ma insomma, perché non rispondi mai al tuo cellulare?» Clara istintivamente seguì lo sguardo dell’amica fino a incontrare quel ragazzo arrogante infantile incrociato poco prima. La busta le cadde quasi dalle mani, mentre l’altro la osservava divertito avanzando nella loro direzione.
«Scusami, ma ho dimenticato di rimettere la suoneria. Tanto lo so che la mia sorellina mi perdona sempre. Dico bene?» proferì infine raggiungendo Nami e scompigliandole dolcemente i capelli, mentre fissava di sbieco Clara ancora sotto shock.
«E va bene ti perdono, ma solo perché oggi abbiamo un’ospite speciale…»
«Ah si?»
Nami prese sotto braccio Clara, trascinandola verso suo fratello« hai visto chi è? Sono sicura che non indovinerai mai!»
Toshi osservava Clara mentre tratteneva a stento una smorfia divertita.
«Credo di sapere chi è!»
“Oddio, se le rivela che è lui il ragazzo di poco fa sono fritta. Davanti a sua sorella non sono stata poi così prodiga di complimenti nei suoi confronti. Cavolo che figura!”
«Chi sarebbe sentiamo?» lo incoraggiò Nami mentre Clara rossa come un pomodoro desiderava solo scappare via da quella situazione.
«Sei la ragazza delle pulizie!»
“La ragazza delle pulizie?” Clara non poteva credere alle sue orecchie. Perché aveva fatto finta di non riconoscerla?
«Ma cosa ti viene in mente? È Clara, la sorella maggiore di Roberto. Sono anni che non ci vediamo, quindi è normale che tu non l’abbia riconosciuta, ma addirittura scambiarla per la donna delle pulizie è esagerato!»
«Beh, l’ho vista con le buste della spesa e ho pensato che fosse la signora che si occupa del tuo appartamento»
“Signora? Da quando sono così vecchia?” Clara strinse i pugni.
«Ma cosa dici! Clara non starlo a sentire alle volte mio fratello dice cose molto stupide o forse dovrei dire che si comporta da idiota solo per il gusto di farlo»
“Si comporta soltanto? Secondo me lo è proprio!” Avrebbe voluto dirlo ad alta voce, ma Clara si trattenne, “Calmati Clara, non ne vale la pena..” Sorridendo a Nami prese la parola.
«Non preoccuparti, dopotutto ha ragione. Sono più grande di voi è normale che mi veda come una persona a cui portare RISPETTO!» affermò ricalcando l’ultima parola, come per farla pesare a Toshi.
«Comunque, per quanto mi riguarda, non dimostri proprio gli anni che hai. A dire il vero mi sento più gemella a te che a questo ritardatario patentato. Anzi, a proposito. Toshi, di là ti stanno aspettando tutti. Guarda qui, ho anche fatto la spesa al posto tuo per recuperare tempo».
«Lo sai sorellina, nessuno ti obbliga a cucinare per noi. Dopotutto Lucia ci ha caricato di così tanta roba».
«Sei proprio un ingrato, lo sai che la mia cucina è insuperabile.»
«Come vuoi!»
«Ora che ci penso, come mai hai preso le scale?» gli domandò Nami sorpresa dall’entrata in scena di suo fratello venuto fuori dalla rampa di scale invece che dall’ascensore.
«Era occupato così per evitare di fare ulteriore ritardo ho deciso di salire le scale».
«Hai fatto otto piani a piedi per evitare di fare ritardo?» Nami non poteva credere alle sue orecchie, a dire il vero quella scusa le sembrava un po’ insolita.
«Dici che sono un ritardatario e allora ho cercato di rimediare», Nami poco convinta sospirò «beh, poco male. Perlomeno puoi darci una mano con la spesa, dico bene?».
«Lo sai che sono sempre disposto ad aiutare due donzelle in difficoltà!» detto questo prese la busta dalle mani di sua sorella sorridendole amorevolmente mentre l’altra sollevandosi in punta di piedi  gli schioccò un bacio di gratitudine sulla guancia.
«Beh, muoviamoci, mi attende un duro lavoro…» detto questo superò entrambi di qualche passo.
«Mi dai anche la tua?» chiese infine rivolgendosi a Clara.
«Posso portarla anche da sola».
«Non sia mai, la gente di una certa età non dovrebbe stancarsi…»
«Gente di una certa età?»
«Sai cosa voglio dire…»
«Ehi, tu! Brutto ragazzino….»
«arrogante e immaturo? Era questo che hai detto poco fa, e se non sbaglio c’era anche  dell’altro. Ah, si! Se non erro hai detto che ho il cervello piccolo quanto una noce. So che speravi di non dovermi incontrare nuovamente ma, mi dispiace deludere le tue aspettative, credo dovrai sopportarmi per un bel po’ di tempo… Sorellona»
Clara era completamente sbiancata in viso. Senza che potesse aggiungere nulla Toshi le sfilò la busta dalla mano e raggiunse Nami.
“Ma si può essere più sfigate?”
 
 
 
 
 
 
Londra
 
Marika era nel suo nuovo appartamento. Ambrogio, le aveva da poco riferito che l’incontro con il direttore inglese della One Million era stato rimandato a domani mattina. Da quello che aveva detto, era dovuto scappare per firmare un contratto di collaborazione con una società straniera per investire nella diffusione del marchio all’estero in Asia.
Girava ormai senza scopo da circa mezz’ora. Ormai aveva disfatto tutte le valigie da un pezzo. Non è che avesse molto da fare.
Ormai esausta Marika accese la tv, più che altro per non avvertire il senso angosciante e opprimente della solitudine.
Sul monitor una vecchia serie televisiva. Seduta sul divano dell’ampio soggiorno osservava annoiata la puntata.
Lentamente prese tra le mani il cellulare che per un attimo aveva creduto di aver perso sotto i sedili dell’auto.
Entrò nel registro dei messaggi non inviati.
“Eccolo qui!”
Era il messaggio che aveva scritto ma che non aveva avuto il coraggio di inviare a Roberto.
 
Ciao Roberto. Alla fine non credo di essere una brava persona sai? Sono tremenda. Dopo quello che leggerai avrai tutto il diritto di odiarmi, detestarmi e maledirmi. Ma io non ce la faccio a continuare in questo modo. Vorrei poter credere che un giorno noi riusciremo a stare insieme come quella notte ma a che serve continuare a sperarlo se questo mi distrugge dentro? Da oggi ho intenzione di ricominciare a vivere, voglio riscoprire una nuova me, voglio essere motivo di orgoglio per i miei genitori. Ma per diventare una persona migliore devo pagare un prezzo. Ti sto dicendo addio, perché prima o poi questa situazione sarebbe comunque arrivata a fare del male a entrambi. So, di essere stata io a chiederti di non mollare e di credere in noi, ma mi rendo conto di aver chiesto troppo a entrambi. Avevi ragione, credevo che non dovessimo mai dirci addio, ma la vita non funziona proprio così. Ora voglio impegnarmi al massimo, voglio lavorare sodo per realizzare il mio sogno, proprio come te. Sai adesso ho un nuovo sogno e ho intenzione di proteggerlo a qualsiasi costo, ma per riuscirci credo di dover mettere da parte i miei sentimenti e credo sia lo stesso per te. Lo dico perché so che presto questa situazione verrebbe a tormentarci. Amare vuol dire saper dire addio per amore dell’altro, io voglio dirlo per entrambi. Diciamoci addio e buona fortuna adesso che abbiamo la forza di farlo. Il mio cuore si ricorderà sempre di te e di quello che c’è stato ma la mia mente ha bisogno di dimenticarti. Perdonami Roberto. Vivi bene.
 
Marika si sfiorò il ventre piatto mentre una lacrima le scendeva lenta.
“Marika o adesso o mai più”.
Era pronta a spingere quel tasto. Dopo, tutto sarebbe finito.
Una chiamata la interruppe improvvisamente. Sullo schermo un nome: MAMMA.
«Mamma?»
«Ovvio! Chi credevi che fossi?»
«Scusa è che sono un po’ stanca!»
«Sei stanca anche se non hai fatto ancora nulla?»
«E tu come lo sai?»
«So che il Direttore è fuori e che inizierai a lavorare da domani, per questo ti ho chiamata. Come ti trovi nel nuovo appartamento?»
«Mamma, ti avevo chiesto nulla di troppo sfarzoso e invece mi ritrovo in un appartamento extralusso e con un autista personale anche».
«Cosa ti aspettavi? Che ti avrei lasciata vivere sotto un ponte?»
«No, però io…»
In sottofondo Marika avvertì la voce di suo padre.
«Angela passami mia figlia»
«Non ho ancora finito con lei! Ehi, aspetta un secondo…»
«Tesoro? Ci sei?»
«Si, papà.»
«Perdona tua madre, lo sai com’è. Se quell’appartamento non va bene possiamo anche trovarne un altro».
«Ma non dire sciocchezze! Ripassami immediatamente Marika!» esordi sua madre dall’altra parte della cornetta. Marika sorrise al pensiero dei suoi genitori che litigavano per la cornetta del telefono.
«Non ti preoccupare papà, ormai ho già sistemato tutte le robe e poi è vicinissimo alla sede della Kings Record così non dovrò disturbare Ambrogio e potrò andarci anche in bicicletta o a piedi».
«Capisco. Beh, se è così, allora riguardati. Adesso chiudo. Ci sentiamo domani.»
«Va bene papà a domani».
Detto questo fu chiusa la conversazione.
Marika si sollevò dal divano e raggiunse il balcone. Fuori aveva fatto buio. Guardò il suo orologio. Erano già le nove di sera. Affacciata oltre la ringhiera osservava i passanti. Tra le mani ancora il suo cellulare. Ritornò a quel messaggio non inviato.
“Forza Marika puoi farlo…”
«Ehi, ragazzina!». Colta di sorpresa il cellulare le scivolò dalle mani, cadendo giù. Il suo viso era letteralmente sbiancato!
“Oh no! Il cellulare”
Istintivamente si voltò alla sua destra, da dove aveva avvertito la voce richiamarla facendole quasi venire un colpo.
Il suo viso si infiammo! «Ancora tu? Ti rendi conto di cosa hai combinato?» esordì dopo aver notato sul balcone accanto il ragazzo di quella stessa mattina.
«Non è colpa mia se hai le mani di ricotta…»
«Grr… non ho mai conosciuto un ragazzo più insopportabile di te!Prega che almeno la sim sia salva!» detto questo si dileguò ritirandosi nell’appartamento.
Il ragazzo si affacciò oltre per osservare meglio il punto in cui era caduto il cellulare. Proprio in quel momento lo vide illuminarsi e spegnersi, prima che un bus ci passasse sopra distruggendolo in mille pezzi.
“Questa non me la perdonerà”.
 
 
Tokyo
 
Rio era nel suo ufficio, sulla sua scrivania i telefoni di Kei e di Roberto. Erano gli ultimi.  A breve avrebbe dovuto restituirli anche a loro con le rispettive nuove schede. Erano stati gli ultimi ad essere ultimati. Proprio mentre stava per spegnere il cellulare di Roberto per sostituire la scheda, lo stesso si illuminò. Era appena arrivato un messaggio. Senza pensarci troppo lo aprì.
“Chi diavolo è questa Marika? Che avesse una ragazza in Italia? Perché non ha detto nulla? Poco male da quel che vedo lo sta lasciando. Alla fine non doveva essere una cosa molto importante…”
Stava per cancellarlo, ma si fermò. A che scopo cancellarlo, tanto avrebbe rimosso quella scheda comunque. Spense il cellulare estraendo la scheda.
“Non credo serva farglielo leggere. Se non me ne ha parlato sarà perché ha già iniziato a dimenticarla o perché per lui non doveva essere così importante…” subito dopo prese tra le mani anche il cellulare di Kei. Le vecchie schede le avrebbe conservate. Dentro erano salvati tutti i dati delle loro vecchie vite, le stesse che avrebbero dovuto cancellare per diventare dei personaggi famosi. Raccolte tutte e messe in una busta si avvicinò alla sua cassaforte inserito il codice e aperto lo sportello le posizionò all’interno. Più sicuro la richiuse. 

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Capitolo 16
*** UNA FATICOSA SALITA ***


 
CAPITOLO 16
UNA FATICOSA SALITA

 
Londra
 
Erano le sei del mattino. La luce azzurrina penetrava furtivamente dalle chiare tende della camera da letto, rimasuglio di una lunga e fredda notte. Al centro della stanza, troneggiava un enorme letto matrimoniale occupato solo per metà. Un lenzuolo di una punta di rosso vivo, sfrontato e passionale, accarezzava la candida pelle di Marika. I capelli chiari e lucenti spiccavano luminosi, come il riflesso del sole su un mare rosso rubino. Gli occhi della ragazza, si muovevano irrequieti al di sotto delle palpebre. Era ancora immersa nei rassicuranti sogni di Morfeo. Sembrava quasi che il benevolo dio del sonno, avesse voluto premiarla per il suo incredibile atto di coraggio.
Almeno in quel mondo irreale la sua vita era come in realtà l’aveva sempre sognata.
Marika era in una casetta di campagna. Il suo pancione era cresciuto di parecchio e pesava sulla sua esile schiena. Da una finestra spalancata osservava il prato verde e vibrante di vita, oscillare mosso dal venticello estivo. Il sole era caldo e amico. Era piacevole sentirlo sulla pelle. Il panorama era quello della sua terra, l'Italia. Improvvisamente qualcosa avvolse il suo corpo cogliendone alle spalle impreparata. Due braccia forti l’abbracciarono improvvisamente.
 «Marika hai pensato al nome che daremo alla nostra carotina?»
Quella voce e quelle braccia erano inconfondibili.«Roberto? Ti ho detto di finirla di chiamarla in questo modo. Non sappiamo neanche di che sesso sarà e chiamarla carotina, non ti sembra un po’ prematuro? E se invece di una lei fosse un lui…?» gli fece notare, in realtà divertita da quella presa di posizione. .
«Impossibile! Deve essere un femminuccia a tutti i costi!» protestò l'altro. Marika si voltò per guardarlo negli occhi.
Erano faccia a faccia. Il ragazzo con gli occhi a mandorla la sovrastava di poco, perché più alto di lei mentre la guardava con una faccia tra l’offeso e il divertito, davvero insolita per lui.
Marika accennò un sorriso spontaneo, nascondendolo prontamente con il dorso della mano, per non offenderlo. Vederlo indispettito come un bambino capriccioso, alleggerì di molto le sue mille preoccupazioni.
«Ok, mettiamo che tu abbia ragione e sia una bambina, vuoi davvero chiamarla carotina per il resto della sua vita?».
Roberto sollevò gli occhi al cielo, soppesando con serietà quell’eventualità improponibile, poi, poggiatosi cautamente a uno dei suoi ginocchi, sfiorò il ventre di Marika come cercando un punto in particolare, una volta trovato vi avvicinò l' orecchio destro. Rimase fermo in quella posizione solo per pochi secondi. Una volta terminato il suo ascolto, con un sorriso che andava da orecchio a orecchio e che faceva apparire quasi socchiusi i suoi occhi sottili, ritornò in piedi.
«Dice che le piace il nome carotina… potremmo davvero chiamarla così». Marika sorrise di gusto questa volta senza trattenersi.
«Ma non essere ridicolo, immagina a scuola! Poverina non voglio nemmeno pensarci…»
Roberto si portò una mano sotto il mento con espressione meditativa, «forse non hai tutti i torti…» ammise sospirando vistosamente e facendo cedere le spalle verso il basso.
«Come volevasi dimostrare ho sempre ragione io!» convenne vittoriosa Marika.
«Ora non esageriamo…», la riprese scettico Roberto, lei di tutta risposta incrociò le braccia sopra il pancione, offesa. Stava per voltarsi e allontanarsi quando lo stesso la trattenne bloccandole il viso tra le mani. I suoi occhi erano, così felici ed emozionati e le sue mani così calde e accoglienti. Marika ne rimase folgorata. Guidando gradualmente il volto di Marika al suo,  Roberto avvicinò le sue labbra carnose e appena socchiuse a quelle di lei. Erano sempre più vicine... .
 
DRIN DRIN DRIN!!
 
Marika, sobbalzò improvvisamente dal letto.
“Cosa diavolo è stato?” istintivamente recuperò il suo cellulare dal comodino, o meglio quello che ne restava. Ovviamente quel suono snervante non proveniva da lì.
 
DRIIIIIN DRIIIIIN DRIIIIIN!
 
«Ho capito, adesso vengo», “come ho fatto a pensare che il mio cellulare avesse ripreso a funzionare? Con rassegnazione, scaraventò quell’ammasso di rottami inutilizzabile sul materasso e scese controvoglia dal letto. Infilate le ciabattine bianche e candide come la sua camicia da notte, raggiunse il citofono. Con i capelli ancora tutti arruffati e il trucco colato sugli occhi rispose.
«Chi diavolo è a quest’ora?» urlò seccata.
«Signorina sono Ambrogio. Sono venuto a prenderla!»
«A prendermi?» istintivamente Marika si allontanò dal citofono per dare un’occhiata all’orologio della cucina. Erano quasi le otto.
«Maledizione!» imprecò ad alta voce quasi senza accorgersene. Alle otto doveva essere in ufficio e mancavano solo venti minuti. Non poteva iniziare in ritardo il primo giorno di lavoro, chissà cosa avrebbe pensato di lei il responsabile della One  Million.  Sicuramente non si sarebbe risparmiato di dirlo a sua madre, il che rendeva la cosa ancora più spaventosa. Un solo piccolo errore e sarebbe dovuta tornare in Italia. No! Non poteva assolutamente arrivare in ritardo.
Tornò al citofono «scendo subito». Detto questo non rimase ad attendere la risposta dell’autista, ma si catapultò in gran fretta  in camera sua. Recuperato un pantalone nero, una camicia bianca, una giacca grigio perla e infilato il tutto in un tempo da record, scappò in bagno dove si aggiustò i capelli alla meglio con una mano mentre con l’altra si lavava i denti. Finito, uscì di casa infilandosi, zoppicando, a una a una le sue decolté nere. Chiamò l'ascensore, che arriverò prontamente. Entrata osservò, nello specchio all’interno, quello spettacolo che sfiorava la decenza. Era lì che vagliava ancora il suo aspetto, quando al terzo piano salì una signora sulla cinquantina, con un cappello improponibile, pieno di piume bianche e nere, il suo corpo tozzo e paffuto era messo ancor più in evidenza da una pelliccia scura come il cappello che indossava. A completamento, di quell'abbigliamento non proprio “sobrio”, un trucco che avrebbe fatto invidia a Moira Orfei.
“Ma come fa certa gente a uscire di casa? Marika, finiscila, chi vuoi metterti a giudicare, guarda qui che occhiaie! Sembri un panda con la parrucca bionda... ” notò rassegnata nello specchio, tirando la pelle vicino gli occhi.
“Devo assolutamente fare qualcosa!”. Mentre provava a ignorare la donna-struzzo, alle sue spalle che sospirava indignata lanciandole delle occhiatacce, recuperò una matita e un eye-liner dalla sua borsetta provando a ritoccare quegli occhi informi che si ritrovava.
“Ma che diavolo ha da guardare? Non ho avuto il tempo di truccarmi in bagno come tutte le persone normali, è vero! Ma che bisogno ha di farmelo pesare? Se non fosse stato per quell’idiota, il mio telefono non avrebbe fatto quel volo e la mia sveglia sarebbe suonata come sempre, se lo vedo giuro che…” fortunatamente le porte si aprirono prima che potesse completare quel pensiero. La donna a mento alto e sguardo fiero, anticipò Marika avanzando con aria di superiorità sventolando come un pavone il suo ricco piumaggio.
“Certa gente non la capirò mai!”
Sospirando Marika raggiunse Ambrogio in attesa già da una decina di minuti.
«Si muova signorina» la incitò l’autista mentre manteneva lo sportello posteriore dell’auto aperto per lei.
Senza aggiungere nulla la ragazza si fiondò all’interno.
La macchina partì poco dopo.
 
 
Tokyo
 
Clara era in compagnia di Nami e di quel ragazzino irrispettoso che aveva scoperto essere Toshi. La ragazzina tutta pepe bussò un paio di volte. Ad aprire loro la porta fu Shin. Aveva un pigiamino davvero molto infantile, con tanto di orsetti e caramelle stampati sopra. Era il bambinone del gruppo, su questo non c’erano più dubbi.
«Già in pigiama?» si prese beffe di lui Toshi avanzando all’interno del loro modesto appartament. Alle mani due enormi buste della spesa. Shin strofinandosi gli occhi si fece da parte sbadigliando senza contegno.
«Avevo rinunciato ad aspettarti. Sai che ore suooono?» chiese prima di notare Clara seguire Toshi e Nami all’interno dell’appartamento.
«Tu chi saresti?» le chiese incuriosito, piegando leggermente la testa di lato, dopo aver chiuso la porta.
«Lei è Clara, tua cugina. La sorella di Roberto. Immagino non vi siate mai conosciuti» subentrò Toshi, una volta posate le buste sul tavolo al centro della stanza.
Shin sfoderò uno dei suoi sorrisi migliori saltando in modo, forse troppo brusco, addosso a Clara. Le sue braccia avvolsero il collo della ragazza così improvvisamente e in modo così energico da farla rimanere quasi senza fiato.
“Cavolo, non credevo sarei morta a causa di un abbraccio…”
Pensò Clara in apnea. In quel momento, con la coda dell’occhio, notò Toshi, che preso posto sul divano, si godeva divertito lo spettacolo. Clara non sapeva spiegarselo ma sembrava provasse gusto a vederla in difficoltà. Era completamente diverso dal bambino che lei ricordava, timido e ubbidiente.
Abbandonando il contatto visivo con Clara, il più grande dei due gemelli, , tirò da una tasca dei suoi pantaloni un cellulare, gicandoci indisturbato. «Piccoletto, finiscila, così finirai per soffocarla…» riprese Shin senza degnarlo di uno sguardo. Dando ascolto alle parole dell’amico il ragazzino riprese le distanze da Clara, che tossì un paio di volte massaggiandosi la gola.
«Scusa Clara, ma sono anni che aspettavo di conoscerti. Papà mi ha sempre parlato di te e di Roberto. Che bello adesso avremo una mamma!!»
«Una cosa?» espose sbigottita Clara con una voce rauca e indefinita.
«Si, Toshi e Nami mi hanno sempre raccontato delle tue storie e di come ti occupavi di loro al pari di una vera mamma… sarebbe bello se continuassi a farlo…» le propose, reclinando verso il basso la testa e sollevando i suoi occhioni da gattino difeso verso Clara.
“Maledizione! Una mamma? Potevo capire una sorellona, ma una mamma no! Non sono poi così vecchia!”
«Ti prego, puoi farlo?» ritentò rincarando la dose di quello sguardo languido e portando in fuori il labro inferiore.
“Come faccio a dirgli di no?”
«Shin finiscila!» si intromise in tono severo, un ragazzo con una frangia che gli copriva parte della fronte e dell’occhio sinistro. La sua aurea era così gelida da far venire i brividi. Senza degnarsi di nessuno dei presenti, raggiunse il frigorifero, lo aprì e tirò fuori l’acqua, bevendo, senza alcuna premura, direttamente dalla bottiglia. Tutti rimasero in silenzio ad osservarlo con lo stesso sguardo perplesso con cui si osserverebbe uno struzzo in un museo. Spostando la sua attenzione dal ragazzo di ghiaccio alla sua amica d’infanzia Clara notò qualcosa di veramente insolito.
Subito dopo il suo ingresso, Nami si era chiusa in un silenzio ostinato. Mentre sistemava la spesa sul tavolo, deglutiva a disagio come se avesse inghiottito un rospo che le era andato per giunta di traverso.
«Bonjour, ma chérie» Clara, sobbalzò presa alla sprovvista. Qualcuno le aveva appena afferrato la mano destra, baciandola da bravo casanova. Era un ragazzino molto avvenente, dai capelli straordinariamente biondi e con uno sguardo ammaliatore.
«Non dirmi che adesso parli anche francese…» notò Kei sollevando un sopracciglio scettico, mentre prendeva posto accanto a Toshi sul divano.
«Quando ragazze così belle vengono a farci visita, devo esibire tutte le mie carte migliori. Dopotutto Rio ha detto che dobbiamo far pratica con le lingue no?» sottolineò Jona, facendo un occhiolino complice a Clara.
«So io con che lingue vorresti fare pratica, ma credimi, hai sbagliato completamente bersaglio… » si immischiò Toshi, ancora intento a giocare al suo cellulare.
Clara, gli lanciò un’occhiataccia, che lui ovviamente non vide.
“E con questo cosa vuole insinuare?”
Con modi gentili la nuova arrivata allontanò la sua mano dalle grinfie del biondo. Proprio non capiva in quale covo di matti si fosse cacciata. Tra il baby killer con la presa da lottatore di wrestling, il principe dallo sguardo di ghiaccio, il latin lover dal francese pessimo, e Nami che ormai si era isolata dal gruppo, non sapeva più cos’altro aspettarsi.
“Ma dove cavolo sono finita?”
Due colpi di tosse interruppero quel momento. Clara si voltò istintivamente verso il lungo corridoio che conduceva alle tre camere dei ragazzi, nella speranza che qualcuno con un minimo di giudizio arrivasse a salvarla. Finalmente il suo stato d’animo si risollevò, accanto a un ragazzo dai capelli mossi e di corporatura esile, c’ era la figura rassicurante di suo fratello. Come se avesse visto un’oasi di salvezza in pieno deserto, corse verso di lui, sfuggendo alle grinfie di quei quattro pazzi scatenati.
Roberto le sorrise aprendo le sue braccia per accoglierla. Finalmente si riabbracciarono.
Jona a bocca aperta spostava il suo sguardo stupito da Roberto a Clara, non comprendendo bene la situazione.
«Co..co.. cosa significa?» balbettò rivolgendosi agli altri due seduti sul divano.
«Ti avevo avvertito che non era una preda alla tua portata…» gli rispose Toshi sorridendo e riposizionando il telefono nei pantaloni della tuta.
«Scusa?» chiese ulteriormente Jona, non comprendendo bene i riferimenti allusivi di Toshi.
Divertito dall’espressione quasi sottoshock del suo amico americano, Roberto prese sua sorella per mano avanzando verso il gruppo adesso al completo.
«Jona, questa è Clara mia sorella maggiore». La ragazza più sollevata fece un leggero inchino verso i presenti.
«Sei tu allora la famosa Clara!» affermò felicemente sorpreso Take accanto a Roberto. La ragazza acconsentì sorridendogli.
«È un vero piacere conoscerti. Il mio nome è Take» le porse la mano aperta.
“Finalmente una persona normale in questa gabbia di matti”
«Il piacere è tutto mio Take.» e strinse quella mano sospesa.
«Clara lui è il nipote di Daisuke, mentre loro sono Shin e Kei i figli di JJ, Jona il figlio di Hiro e Misako, Toshi e Nami i gemelli di Yori e Rio…» le spiegò Roberto, ripresentando meglio tutti i membri del gruppo.
La stessa fece un oneroso inchino prima di sollevarsi portando dietro le sue orecchie minute le corte ciocche dei suoi capelli.
«Grazie! Purtroppo non ho avuto modo di dirlo prima, ma sono felice di aver rivisto dopo anni alcuni di voi e aver fatto inoltre la conoscenza di altri che in passato non ho avuto modo di incontrare. Vorrei ringraziarvi per esservi presi cura di mio fratello per tutto questo tempo e...».
«La mamma resterà qui stanotte?» la interruppe Shin con occhi carichi di speranza, spiazzando un po’ tutti i presenti.
«La mamma?» si voltò incuriosito Roberto squadrando perplesso sua sorella. La stessa gli accennò un sorriso imbarazzato.
Kei si sollevò dal divano incavolato come non mai. «Shin ti ho detto di finirla!», «ma io…» balbettò l’altro, «Basta! Ti rendi conto di cosa stai dicendo? come puoi solo pensare di chiamare madre  qualcuno che nemmeno conosci.». Tutti si zittirono congelati dal suo tono autoritario.
«Io credevo sarebbe stato carino…» affermò intimidito Shin.
«Carino un corno!»gli urlò contro suo fratello.  Shin trattenne coraggiosamente le lacrime, mentre suo fratello si solleva dal divano.
«Mi è passata la fame, vado a dormire…» concluse risentito mentre, avviandosi alla sua stanza, passò prepotentemente tra Roberto e Clara strattonandoli con modi non molto gentili. Subito dopo il gruppo radunato in cucina, avvertì il rumore assordante di una porta chiusa violentemente.  
Tutti rimasero in silenzio per qualche secondo ancora spiazzati dalla scenata di Kei. Shin, reclinato il capo, lasciò finalmente libere le sue lacrime. Amorevolmente Clara si mosse verso di lui, presa la manica della sua maglia gli tamponò le guance arrossate.
«Non piangere Shin, sicuramente oggi non deve essere stata una buona giornata per tuo fratello. Sono sicura che quelle cose neanche le pensava…» detto questo gli rivolse un caldo e rassicurante sorriso,  Shin acconsentì tirando su con il naso.
«Lo so, ma io davvero volevo vedere cosa si provava ad avere una mamma…» tutti si rattristarono al ricordo di Akiko. Alle volte la sincerità di Shin lasciava un po’ l’amaro nel cuore.
«Se per te va bene, potrei…» tentò Clara.
«Davvero lo faresti?» prese la palla al balzo Shin stringendo eccitato le mani di Clara tra le sue.
«Si, ma credo sarebbe meglio non chiamarmi più mamma, o almeno non davanti a Kei…»
«Si, certo, va benissimo!!! Sono così felice che potrei mangiarmi dieci porzioni di ramen senza sentirmi sazio».
Toshi ridacchiò,«certo Shin che hai un’idea tutta tua del sentirsi felici…» affermò, sollevandosi per aiutare Nami con le portate.
La serata trascorse serenamente, tra un piatto e l’altro, tutti risero di gusto. Clara incominciava ad abituarsi a quell’atmosfera frizzante. Rispetto a casa loro, che era quasi sempre vuota, quella era ricca e piena di vita.
Nonostante tutti sorridessero felici mangiando e bevendo, Clara notò Nami più di una volta persa con lo sguardo verso il lungo corridoio buio.
Che ci fosse qualcosa tra quello strano ragazzo dal temperamento impulsivo e la piccola e vivace Nami?
 
Kei, rimase per tutta la sera rinchiuso nella sua stanza, seduto alla scrivania che lui e Shin dividevano. Benché non avesse la minima ispirazione, prese un taccuino e iniziò a lavorare al testo di una canzone, più che altro per allontanare i cattivi pensieri.
Nonostante questo tentativo, dalla sua stanza poteva chiaramente percepire le voci degli altri divertirsi senza di lui. Le pareti troppo sottili non gli erano di grande aiuto.
“Che nervi! Non possono fare più silenzio?” Innervosito dalle risate dei suoi compagni, rigettò il taccuino sulla scrivania, buttandosi, subito dopo, sul letto a pancia in su, coprendosi entrambi gli occhi con l’avambraccio destro.
Anche se per lui era difficile ammetterlo, si sentiva messo da parte da tutti. Prima da Nami, per colpa di Roberto e adesso da quella ragazzina che Shin voleva come madre.
“Ma cosa diavolo hanno addosso? Il miele? Come fanno a conquistare la fiducia di tutti in questo modo?”
Per lui fidarsi della gente e concedere il lusso della sua fiducia era qualcosa di impensabile. Gli unici verso cui era riuscito ad aprirsi erano JJ, Shin e ovviamente Akiko. A nessun’altro aveva aperto il suo cuore…
“Nami…”
Risollevandosi in posizione seduta si tastò il petto. “Perché adesso mi viene in mente proprio lei…? Cosa mi prende? Quel bacio... Perché l'ho fatto? ”. Scosse il capo per allontanare quell’immagine.
“Maledizione, devo finirla. Non ho tempo da perdere in inutili fantasie. Prima devo pensare alla mia carriera… Se riuscirò a guadagnare abbastanza potrò riprendermi la nostra casa.”
In quello stesso momento le parole di Yori riecheggiarono nei suoi pensieri.
“Quando ami, rinunciare è la cosa più difficile da fare. Per quanto dirai a te stesso che è la fine, nel profondo continuerai a nutrire quella speranza. Perché quando ami non puoi smettere di lottare...”
Scompigliandosi i capelli si rigettò sul letto.
“Perché diavolo mi ha detto quelle cose, maledizione!”
Rigirandosi su un lato prese a fissare senza scopo la sveglia sul suo comodino. Erano ormai l’una. Nel suo petto si fece largo un’opprimente sensazione di vuoto. Dopo quella sera nell’appartamento di Nami, qualcosa era cambiato, continuava a dire che non gli importava ma quando la vedeva, ignorarla era diventato più difficile che in passato. Eppure non poteva fare altro, Nami gli aveva detto che nel suo cuore adesso non c’era più spazio per lui, e per quanto avesse desiderato sentirselo dire in passato, adesso quelle parole gli pesavano come un macigno sul cuore.
L’amava, era chiaro, ma non poteva fare nulla. Ne tenerla, ne allontanarla. Perché nel primo caso avrebbe ferito lei e nel secondo avrebbe ucciso se stesso.
“Se avessi saputo prima che le cose si sarebbero complicate in questo modo, non l’avrei mai baciata!
E tanto per cambiare ci volevano anche le stupide allusioni di Shin su quella ragazza con gli occhi verdi e il caschetto. Ma dico io, si può essere così sciocchi ed ingenui?”.
Non sapeva se fosse per un riflesso incondizionato o perché sorella di Roberto, ma quella lì non poteva proprio digerirla. Non bastava Nami, quell’idiota di Roberto con sua sorella voleva portargli via anche l'affetto di Shin. Chi gli sarebbe rimasto a quel punto?
 
  
 
 
 
Londra
 
Marika era ferma immobile. Dinanzi a lei una porta semitrasparente in vetro opaco con il logo della one million la separava dal suo nuovo datore di lavoro. In attesa aspettava impaziente che qualcuno all’interno la invitasse ad entrare.
“Chissà come sarà questo fantomatico Thomas…” rifletteva .
All'istante, una voce all’interno, richiamò la sua attenzione. «Avanti!»
 Senza farselo ripetere due volte, si aggiustò la giacca e aprì la porta. Al centro di quell’ufficio bianco e freddo come un ghiacciaio, si ergeva una enorme scrivania fatta di un vetro pallido e semitrasparente, come la porta da cui era entrata. Dietro di questa una prestigiosa poltrona in pelle nera ostinata le voltava prepotentemente le spalle, così da impedirle di sanare i suoi dubbi sull’aspetto del rinomato responsabile della One Million di Londra, Thomas.
«Signorina, è in ritardo.»
“Questa voce… perché ha qualcosa di famigliare?”
«Mi perdoni, non ricapiterà mai più. È solo che ieri sera un idiota mi ha rotto il telefono e non avevo un’altra sveglia per casa quindi…»
“Ma che diavolo sto farneticando? Figuriamoci, anche se lo supplicassi in ginocchio non ci crederebbe mai…”
mordendosi le labbra a disagio prese a fissare la punta delle sue décolleté.
In quello stesso momento la poltrona ruotò nella sua direzione. Marika sollevò lo sguardo preparata alla più che giustificata strigliata da parte di un ultra quarantenne, ma a dispetto delle sue aspettative l’uomo dietro quella scrivania non doveva avere più 25 anni.
«Ma tu.. tu…» lo additò balbettando come un'impedita.
«Si, sono l’idiota in questione.»
“Non ci posso credere…”
«Io non volevo…»
«No, si fidi voleva eccome»
“Maledizione”
«Comunque mi auguro che da domani arriverà in perfetto orario.»
Marika acconsentì seppure infastidita dall’arroganza di quel ragazzo. Se era arrivata in ritardo era dopotutto colpa sua che gli aveva fatto cadere il cellulare. Che bisogno aveva di fare il finto tonto?
«Per quanto riguarda i suoi compiti in questa azienda sarò abbastanza chiaro» proseguì in tono serio e risoluto, «non ho alcuna intenzione di trattarla in modo diverso solo perché è la figlia della Signora Mastro. Da quello che ho potuto notare, è imbranata, irrispettosa e per giunta ritardataria, se assegnassi un ruolo importante a una persona incompetente come lei, che figura ci farei? Per questo avevo pensato a un lavoro che farebbe proprio al caso suo…»
“Incompetente a chi? Ok, Marika, calamati. Non devi perdere le staffe con questo tipo altrimenti ti toccherà riprendere l’aereo e tornartene in Italia”.
fatto un respiro profondo e rigettata giù negli abissi la sua rabbia e frustrazione, prese in mano il discorso, «pensavo avrei iniziato a lavorare nel reparto sartoriale»
«… credo lei abbia visto più in là di quanto avrebbe dovuto. Non farà nulla di tutto questo…» lanciando una rapida occhiata al suo abbigliamento, il ragazzo si schiarì la voce sorridendo in modo perfido.
“Perché mi fissa in questo modo?”
«Se fossi in lei, la prossima volta mi vestirei più comoda…»
“Cosa vorrà dire?” Marika non riusciva a capire.
«La mia segretaria l'accompagnerà al magazzino»
“Al magazzino?”
Notando gli occhi di Marika guardarlo sorpresi e la sua bocca aprirsi leggermente, il ragazzo la riprese immediatamente. «Cosa c’è? Non è d’accordo con le mie decisioni? Se non le va bene puoi pure tornarsene da dove è venuta.»
Marika strinse i pugni, soffocando la sua rabbia che aveva già raggiunto il limite massimo.
Il ragazzo raccolse una penna dalla scrivania ignorando la sua espressione risentita, e iniziò ad appuntare qualcosa su un foglio. «Sa, non ho mai potuto sopportare i figli di papà che hanno tutto senza conoscere la fatica di doverselo guadagnare. Per sua sfortuna non concepisco i favoritismi. Deve sapere che ho persone più competenti di lei che si trovano ancora al livello più basso di questa azienda. Per arrivare in alto bisogna dimostrare di valere qualcosa, occorre meritarselo e i legami di parentela ai miei occhi valgono meno di niente, se non addirittura come un punto di svantaggio».
Riprendendo a fissare la nuova arrivata con i suoi occhi ghiaccio freddi e irremovibili proseguì puntando la penna nella sua direzione, «sia ben chiaro, per me il fatto che lei sia qui, rappresenta solo un enorme fastidio. Meno la vedrò è meglio sarà. Per quanto mi riguarda lei è come una fastidiosa mosca, niente di più. Odio i perditempo e gli imprevisti, ma più di tutto odio chi non rispetta le regole e crea disordini. Quindi mi ascolti attentamente: non crei casini e faccia il suo lavoro senza lamentele e io non renderò il suo soggiorno a Londra un inferno.» detto questo prese il foglio e lo porse a Marika. La ragazza fremente di rabbia, lo prese dalle sue mani, trattenendo le mille e più imprecazioni che gli avrebbe voluto gridare contro. In quanto a caratterino aveva preso da sua madre e rimanere in silenzio quando qualcuno metteva in dubbio le sue intenzione era qualcosa che le riusciva davvero difficile fare. Soffocando i suoi malumori, indietreggiò di pochi passi dalla scrivania.
“Marika calma… non ti conosce e quello che dice non ha importanza…”
Notandola ancora in silenzio e immobile davanti alla sua scrivania, il ragazzo proseguì, «lì è segnato il nome del responsabile del magazzino. Chieda alla mia segretaria di accompagnarla. Adesso, vada. »
Marika rimase ferma con quel foglio tra le mani per qualche secondo ancora. Avrebbe voluto cantagliene quattro, ma subito ci ripensò. Non poteva rischiare di tornare in Italia per colpa del suo pessimo carattere. Adesso non poteva pensare più solo a se stessa, nella sua pancia c’era una vita che stava crescendo, e lei era intenzionata a proteggerla a tutti i costi. Anche se questo avrebbe significato accettare le umiliazioni di quell’odioso lord inglese a testa bassa.
«Grazie… tolgo il disturbo» le usci alla fine andando contro il suo orgoglio ferito. Congedandosi rispettosamente, uscì. Doveva andare via, prima che lui si accorgesse della vena che le pulsava sulla tempia.
Il ragazzo rimase a osservarla finché non si richiuse la porta.
“Che strano, pensavo me ne avrebbe cantate di santa ragione considerando il bel caratterino che si ritrova. Non credevo avrebbe accettato la cosa senza muovere ciglio. Dev'essere proprio intenzionata a lavorare qui… Beh, meglio così. Quello che ho detto lo penso davvero. Eppure c’è qualcosa di strano. Non so perché, ma sento che quella ragazzina sta nascondendo qualcosa…”

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Capitolo 17
*** NUOVI INCONTRI ***


 

Salve a tutti. Inizio chiedendovi umilmente scusa per la lunga attesa, ma questa storia sta nascendo molto lentamente per colpa della mia vita troppo impegnata. Oggi, che è San Valentino, volevo regalarvi a tutti i costi un capitolo, anche per chiedervi scusa. Spero mi perdonerete. Vi auguro una buona lettura e spero di leggere altre vostre recensioni. 


CAPITOLO 17

 

NUOVI INCONTRI 


Tokyo
 
Erano le due ormai e tutti o quasi si erano ritirati nelle loro reciproche stanze, fatta eccezione per Shin addormentato sul divano con la testa sulle cosce di Clara.
«Credi dovremmo svegliarlo?» chiese incerta la ragazza a suo fratello, seduto su una delle sei sedie intorno al tavolo della cucina. Lo stesso diede una fugace occhiata al suo orologio.
«Penso di sì, Kei sarà andato a letto già da un pezzo ormai. Dubito sia ancora sveglio…».
Shin si era rifiutato di tornare in camera per paura che suo fratello potesse aizzarsi contro di lui una seconda volta, per questo aveva preferito intrattenersi in cucina con Clara e Roberto.
La ragazza dagli occhi smeraldo, scostò malinconica i capelli dalla fronte del più piccolo.
«Non deve essere stato facile per lui… intendo crescere senza una madre …» Roberto si sollevò dalla sedia avvicinandosi loro. 
«Per quanto dura sia stata la sua vita penso che Shin sia molto fortunato…» affermò chinandosi vicino al divano, per osservare più da vicino il piccolo del gruppo accucciato come un tenero cagnolino.
«E cosa te lo fa pensare?» gli domandò scettica sua sorella.
«Perché ha la fortuna di avere un fratello al suo fianco che lo proteggerà e che crederà sempre in lui qualsiasi cosa accada…»
Clara corrucciò le sopracciglia.
«Non starai parlando di Kei?»
«Si, nonostante tutto trovo sia un ottimo fratello per Shin»
«Non posso credere alle mie orecchie. Quell’esaltato tu lo definisci un bravo fratello? Ma hai visto cosa gli ha fatto poco fa o eri momentaneamente assente?»
Roberto portò in alto la commessura destra delle sue labbra carnose in un sorriso sprezzante.
«Per un attimo mi ha riportato alla mente i nostri litigi. Ricordi quante volte abbiamo litigato per colpa del mio rifiuto nei confronti dello studio? Sai, anche io, all’inizio non riuscivo a capirlo. Kei è scostante, poco amichevole e la maggior parte delle volte assume quell’atteggiamento schivo che allontana più che avvicinare. Ma infondo, credo abbia solo paura di legarsi alle persone. Come se i rapporti umani fossero per lui un limite, quasi come delle debolezze. Ma con Shin è diverso. So per certo che lo difenderebbe a costo della sua stessa vita.»
«E questa convinzione da dove ti viene?»
«Perché è quello che farei io per te e quello che tu faresti per me. In definitiva è quello che qualunque fratello farebbe.»
Clara addolcì il suo sguardo.
«Roberto…»
«Clara, grazie!» la interruppe Roberto, «se non fosse stato per te adesso non sarei qui. So che le tue ambizioni per me erano più alte, ma suonare e cantare al momento rappresenta la mia unica ragione di vita.»
La ragazza distolse il suo sguardo da quello di suo fratello, fissando a disagio il pavimento.
«E Marika… ?»
Roberto si sollevò tornando vicino al tavolo. Era di spalle a sua sorella. Non riusciva a trovare il coraggio di guardarla negli occhi.
«Pensi io sia una persona orribile non è cosi?»
Clara tacque.
«Perché non ti sei fatto sentire per tutto questo tempo con lei?»
«Pensavo che tergiversando sarei riuscito a trovare una soluzione al problema. Che ingenuo, ero convinto che la soluzione mi sarebbe piovuta dal cielo come niente. Ma non è stato così. Ero convinto che avrei avuto il tempo di spiegarle tutto… e invece…»
«Spiegarle cosa?»
«Rio ha deciso di resettare le nostre vite…»
«Questo vuol dire…»
«Cancellare i rapporti con chiunque sia venuto in contatto con noi fino ad oggi…»,
Clara stava per sbattere innervosita il pugno sinistro sul bracciolo del divano ma fu bloccata da un gemito infastidito di Shin. Il più piccolo si mise su un lato, turbato dal volume troppo alto delle loro voci.
Notando i suoi strani gemiti, Clara, rinunciando a quel gesto d'impeto, riprese a parlare, questa volta a bassa voce, «con che diritto può farlo? E per quale motivo poi?»
«Clara, da un lato posso anche capirlo ma dall’altro non riesco ancora a concepire perché occorra arrivare a tanto.»
Roberto si voltò verso sua sorella, questa volta con occhi tristi e rassegnati.
«Credimi, avrei voluto davvero spiegarle che il mio essere sparito non è dipeso da una mia scelta...»
«Cosa hai intenzione di fare? La lascerai andare…»
«Cos’altro potrei fare? Per quanto lo stare con un fantasma potrebbe andarle bene?»
«È per lei o per te che stai parlando?»
«Per entrambi suppongo. Clara ho sbagliato tutto… perché amare deve essere così difficile?»
«Non è l’amore ad essere difficile, il più delle volte sono le persone a renderlo complicato.»
«Ormai, non posso più nemmeno contattarla. Rio ha preso in custodia le nostre schede e i nostri telefoni. Inoltre anche recuperando il numero, dubito che Marika sia ancora disposta ad ascoltare le mie scuse. Ho perso ogni possibilità di venie in contatto con lei. Tutti i miei account sono stati rimossi e…»
«Roberto, io avrei il mio telefonino… se vuoi puoi provare a chiamarla da lì» lo interruppe Clara incerta.
«Ma certo! Come ho fatto a non pensarci prima?» affermò esultante Roberto. Il suo entusiasmo haimè, ridestò il più piccolo dai suoi sogni.
«uaaooh… A cuooosa non hai pensato prima?» si intromise Shin stiracchiandosi e sollevandosi dalle morbide e confortevoli cosce di Clara.
«Niente di troppo importante Shin. Ma tu guarda che ora si è fatta, penso che dovresti andare nella tua camera adesso…» lo spronò amorevolmente Clara. Shin stropicciandosi gli occhi assonnati, acconsentì sollevandosi dal divano, e percorrendo lentamente come un carcerato durante l’ora d’aria il lungo corridoio a piedi nudi, barcollando mezzo addormentato giunse nella sua stanza. Una volta sentito la serratura scattare, Clara sospirò.
«Aspetta un attimo, dovrei averlo in tasca. Eccolo qui!» glielo porse dopo aver frugato nella tasca dei suoi pantaloni.
Roberto non se lo fece ripetere due volte prese quell’unico mezzo di speranza e lo strinse forte tra le sue mani, come fosse un tesoro prezioso e inestimabile. Forse non era tutto perso. Forse spiegandole quello che era successo, lei lo avrebbe capito. Ma cosa avrebbe fatto poi? Le avrebbe chiesto di aspettarlo o l’avrebbe supplicata di dimenticarlo? Seduto sul divano accanto a sua sorella stringeva quel cellulare tra le mani indeciso su quello che le avrebbe detto.
«Roberto, non ti ho detto una cosa però…» gli rivelò sua sorella, intromettendosi nella sua indecisione.
«Cosa?» le chiese distrattamente Roberto, ancora immerso nei suoi pensieri.
«Da quando sono partita per venire qui in Giappone ho provato a contattare Marika un paio di volte, ma non ha mai risposto alle mie chiamate ne ai miei messaggi. Non so se sia solo una coincidenza, ma non vorrei abbia deciso di allontanare entrambi. Dopotutto non potrei biasimarla, io sono scappata via senza preavviso e senza nemmeno salutarla, mentre tu l’hai messa da parte senza concederle una motivazione plausibile… Beh, in definitiva non so se ti risponderà. In ogni caso cosa pensi di fare? Rinuncerai?».
«Come potrei rinunciare a lei? Anche se le chiederò di dimenticare, io continuerò a credere che un giorno il destino ci farà rincontrare e che tutto ritornerà come prima. Non voglio smettere di crederlo. Perché per me lei è molto importante, lo è sempre stata. Ogni mia canzone ci sarà una parte di noi, in ogni momento di questa avventura lei sarà proprio qui nel mio cuore. Spero riesca ad andare avanti nella sua vita, seppure una parte di me si augura  non si dimentichi mai completamente di noi… »
Con maggiore sicurezza andò sul contatto di Marika e fece partire la chiamata. Dopo una breve attesa una voce meccanica e preregistrata gli rispose.
«Il numero da lei chiamato è inesistente… »
Roberto, diede un’occhiataccia allo schermo con aria perplessa..
“Cosa significa che è inesistente?”
«Cosa succede?» le chiese preoccupata sua sorella sporgendosi per dare un’occhiata al suo telefonino.
«Dice che il numero è inesistente…»
Clara si lasciò scivolare, reclinando il capo all’indietro affondandolo sul morbido divano. 
«Assurdo, allora è davvero troppo tardi…»
Roberto non poteva crederci. Davvero era arrivato troppo tardi?
«Mi dispiace Roberto, ma questa credo sia la prova definitiva che Marika ha scelto di cambiare numero di telefono, per tagliare i ponti con entrambi… Deve odiarci davvero molto per arrivare a tanto…»
«No, non può essere…»
«Mi dispiace Roberto ma non c’è altra spiegazione…»
«Come è potuto succedere? Non sono riuscito nemmeno a dirle addio… » Clara strinse a se il braccio sinistro di suo fratello poggiando la sua testa sulla sua spalla, come per dare conforto a entrambi. Roberto si abbandonò a quel gesto scosso dall’idea di aver perso per colpa del suo pessimo tempismo la persona che amava di più al mondo.
Con un movimento lento e misurato,, Clara si sollevò dal divano e recuperate la sua borsa e la giacca si avvicinò alla porta, seguita da suo fratello che in silenzio seguiva i suoi movimenti. Per un attimo la ragazza con il caschetto esitò  dinanzi la porta dell’appartamento con la mano sulla maniglia. Con occhi lucidi e un sorriso tirato, si voltò verso suo fratello.
«Roberto, se ci rifletti da un lato è meglio così, se odiare entrambi l’aiuterà ad andare avanti allora così sia. Che pensi pure ad entrambi come due persone senza coscienza che hanno voluto abbandonarla…». Roberto acconsentì ricambiando quel sorriso forzato.  Eppure per lui non poteva davvero finire in quel modo.
Sua sorella lo abbracciò forte, le sue braccia delimitavano il busto scolpito di Roberto. Rimasero così per un po’ prima che entrambi trovassero la forza di lasciare andare quel momento di conforto reciproco.  In silenzio, Clara uscì dal nuovo appartamento degli HOPE.
Roberto, dopo aver chiuso la porta a chiave e aver spento la luce in cucina, tornò nella sua camera, lì su uno dei due letti riposava sereno come un angelo Jona. Ora che ci faceva caso, adesso che lo vedeva dormire, il suo amico sembrava  uno di quei cherubini dipinti sulle volte barocche ottocentesche. Sorrise tra sé rimboccandogli le lenzuola, poi, tolti i suoi abiti e infilata una maglietta e un pantalone, sollevò le lenzuola e su di un fianco, con una mano sotto il cuscino, si coricò nel letto.
“Clara, io non posso arrendermi. Voglio continuare a credere che questa sia solo una pausa e che un giorno riuscirò a tornare da lei…”
 
Roberto non riusciva a trovare rassegnazione a quella situazione senza uscita. Fermo come un orologio rotto che non può andare avanti e ne indietro, ecco come si sentiva. Fino a quel momento aveva creduto che, nonostante tutto, Marika sarebbe rimasta ad aspettarlo.
Qualsiasi cosa fosse successa, lei non avrebbe mai ceduto, ma a quanto pare non era così. Tutte le persone su questo mondo sono fragili, e anche lui non faceva eccezione. 
 Aveva detto a sua sorella che avrebbe chiamato Marika per dirle addio per il suo bene. Ma chissà se ci sarebbe riuscito davvero! Nel profondo non sapeva cosa le avrebbe detto se avesse risposto a quella telefonata. Forse, aveva ragione sua sorella, quella voce preregistrata era stata davvero la cosa migliore che potesse capitare.  Era un codardo, lo sapeva. In fondo lo era sempre stato. Aveva deciso di confessarsi quando il suo tempo era ormai agli sgoccioli perché nel profondo aveva avuto paura; e adesso la storia si ripeteva, solo che questa volta non avrebbe ricevuto una risposta. Avrebbe dovuto convivere con un punto interrogativo fino al loro prossimo incontro. E chissà quanto tempo sarebbe trascorso fino a quel momento.  
 
“Ti ho fatto aspettare troppe volte, perdonami, anche adesso non sono riuscito a raggiungerti in tempo. E alla fine tu ti sei stanca di aspettarmi… Perdonami amore mio!”
 
Londra
 
L’odore di stoffe nuove e imballaggi di plastica era davvero molto forte. In giro si avvertiva anche l’inatteso aroma di caffè misto a vaniglia. Il magazzino era come una sorta di grande armadio in cui ogni cosa era stipata in modo meticoloso e accurato. Clair la segretaria di Thomas, accompagnava Marika, passando tra scaffalature alte tre metri. La luce a neon pallida e artificiale, rendeva quello spazio  atemporale. Se Marika non avesse avuto il suo orologio da polso, avrebbe finito con il perdere rapidamente la cognizione del tempo. Adesso che ci pensava, doveva portarsi anche una mappa, era così grande che ci si poteva perdere con molta facilità. Quindi per evitare figuracce iniziò a fermare nella mente diversi punti di riferimento, in modo da non avere difficoltà a ritrovare quella strada una seconda volta. Era come trovarsi in un enorme labirinto. Per un attimo si sentì come Alice, mentre seguiva il bianconiglio della fiaba di Lewis Carrol .  Dopo aver svoltato ancora un paio di volte, prima a destra dello scaffale dedicato alla seta e poi a quello dei pizzi, raggiunsero quello che sembrava più un avamposto militare che un vero ufficio. In un angolo dell’intero magazzino erano state tirate su delle pareti prefabbricate in modo da ricavarne uno spazio privato. All’esterno un paio di sedie di legno e fuori, appesa alla porta una targhetta con su riportato il nome del responsabile o di quello che Marika pensò sarebbe stato il responsabile del Magazzino. Dopo aver dato un’occhiata fugace al bigliettino che le aveva lasciato Thomas ne ebbe la conferma. Era Carl, l’uomo a cui avrebbe dovuto far riferimento per qualsiasi cosa competesse il suo nuovo lavoro. La donna alta e slanciata con uno chignon ordinato, si sistemò le lenti a goccia con le punte allungate verso l’alto, prima di bussare con aria abbastanza indignata a quella porta precostituita.
Senza far attendere troppo le due donne, un uomo sulla cinquantina, tondo e barbuto, con una maglia gialla a mezze maniche e un jeans largo, aprì loro la porta. Aveva l’aria di un operaio edile, gli mancava solo il caschetto giallo. Con aria seccata squadrò prima Clair e poi Marika dietro di lei.
«Cosa c’è adesso? Ho già spiegato su che quelle stoffe erano già macchiate quando ci sono arrivate e che non è colpa nostra. Possibile che quel ragazzino viziato debba prendersela con noi ogni santa volta… »
Marika trattenne una risatina. Quel’uomo si era appena guadagnato la sua totale ammirazione. Finalmente qualcuno che diceva le cose com’erano. In quell’azienda tutti trattavano Thomas in modo troppo reverenziale per i suoi gusti. Era ora che qualcuno prendesse una posizione diversa al riguardo.
«Non sono venuto per questo motivo Carl…» proseguì la donna riposizionandosi le lenti sul naso, «questa è la nuova ragazza che lavorerà al magazzino. Thomas mi ha chiesto di affidartela».
L’uomo senza muovere ciglio si avvicinò a Marika ispezionandola facendole un mezzo giro intorno. Con un  movimento poco delicato le sollevò un braccio e tastò il suo bicipite. Marika lo ritirò immediatamente infastidita. L’uomo scatarrò deglutendo in modo poco raffinato i propri muchi, tornando davanti alla giovane segretaria.  
«E cosa dovrei farci con lei? Non ha un minimo di forza nelle braccia. Avevo chiesto espressamente di un ragazzo con una robusta corporatura. Qui non lavoriamo a maglia o giochiamo a fare i modelli di alta moda, qui solleviamo chili e chili di materiale. »
«Non importa, Thomas mi ha detto di affidartela ed è quello che farò…»
«E da quando pensi mi importi ciò che dice quel ragazzino viziato e arrogante? Iio di questa qui non so che farmene. Puoi anche riprendertela, non ho bisogno di altri perditempo qui dentro!»
Marika non riuscì a resistere oltre, aveva accumulato così tanta rabbia che adesso non riusciva più a contenerla.
«Finitela tutti di giudicarmi prima ancora di avermi lasciato provare.  È vero, non sarò forzuta, ma ho un cervello che funziona e voglia di lavorare da vendere. Quindi fatemi provare prima di dire cosa sono o non sono e cosa sono capace e non capace di fare!» la sua voce era stata così alta da far eco in tutto il magazzino. L’uomo rimase impietrito da quell’uscita inaspettata della giovane.
«Capo cosa succede?» intervenne un ragazzo alto e muscoloso, con i capelli rossi come carote e tante lentiggini sparse su tutto il corpo. Marika si voltò verso di lui, ansimava come se avesse appena sollevato una camion di 10 tonnellate. Il ragazzo con un mento pronunciato, indossava una canotta e un jeans attillato. Il suo corpo era un bagno di sudore.
Carl, squadrò indeciso prima il ragazzo rossastro e poi Marika, come se stesse soppesandol’idea di accettarla con molto più interesse di prima.
Poi, puntandole il suo indice tozzo contro, concluse.
«Mi piace la tua determinazione ragazzina, ma non dimenticarti che qui comando io e che non accetto di essere trattato in questo modo da un mio sottoposto. Siamo intesi?».
Marika annuì, rossa per la vergogna di aver dato spettacolo.
«Adam, accompagnala a conoscere gli altri. Da oggi ragazzina, farai parte di un gruppo di elite. In questa azienda, noi siamo il meglio del meglio, non potevi capitare in un posto migliore di questo! Fidati, lì sopra ci sono solo lupi famelici mentre qui siamo una vera famiglia…» concluse lanciando un’occhiataccia a Clair, che roteò gli occhi sospirando, «ma quanta ipocrisia Carl, tu più di altri hai desiderato stare ai piani alti come noi e sai benissimo che se quella volta non avessi commesso errori, adesso ci saresti tu in quell’ufficio e non quel ragazzino che definisci “viziato”… ».  L’uomo incupì il suo sguardo senza concedere alcuna risposta alla giovane segretaria, che con altezzosità sorrise vittoriosa, prima di voltare i tacchi e avvicinarsi a Marika. Con le sue labbra sottili le sussurrò un paio di parole all’orecchio sinistro prima di allontanarsi.
«Buona fortuna ragazzina ne avrai bisogno in questa gabbia di matti!», l’ultima parola la disse volutamente ad alta voce.
«EHI, TU! BRUTTA OCA GIULIVA!» scattò adirato il rosso.
«Calmati Adam, non ne vale la pena…» lo frenò appena in tempo l’uomo panciuto e barbuto.
La donna gli sorrise beffarda un’ultima volta prima di andare via ondeggiando i suoi fianchi sottili sotto il suo tubino nero.
 
 
 
 
Tokyo
 
Yori era nella sala prove. Tra le mani due telefonini.
“Perché devo essere proprio io a ridarglieli?” ,sospirò accavallando le sue gambe sottili seduta sullo sgabello dietro il pianoforte.
La porta alla sua destra, in quel momento, fu spalancata. Kei e Roberto entrarono ognuno evitando un po’ per vari motivi lo sguardo dell’altro. Kei, per via della sua solita diffidenza nei confronti del ragazzo italo - giapponese, e Roberto perché ancora risentito dal modo brusco con cui Kei aveva lasciato il gruppo la sera prima.
La loro insegnante di canto, fece segno a entrambi di avvicinarsi al pianoforte. I due ragazzi la raggiunsero senza spiaccicare una parola.
«Finalmente siete arrivati! Prendete…» li accolse lei sorridendo ad entrambi e porgendo loro i due cellulari.
Kei, fu il primo ad allungare la sua mano per riprenderselo. Roberto rimase fermo ancora qualche secondo prima di imitarlo. Per lui quel cellulare non aveva più alcun valore. Era vuoto proprio come il suo cuore, un cuore ormai carico solo di tante domande che non avrebbero mai trovato risposta.
«Ragazzi, oggi devo parlarvi di una questione molto seria. Perciò prendete due sgabelli e sedetevi qui vicino». Senza obbiezioni seguirono le sue indicazioni.
Una volta preso posto davanti a lei, Yori si preparò al suo discorso. Doveva risultare a tutti i costi convincente. Non sarebbe stato facile indurli a collaborare.
«Roberto, Kei, da oggi ho un compito per entrambi. Non so se siete già starti informati della recente dimissione di Takashi. Era uno dei nostri migliori compositori.»
«Si, ne abbiamo sentito parlare da Andrea… ma cosa centriamo noi?» le chiese Roberto.
«È già una settimana che studio i vostri progressi e ormai conosco le capacità di entrambi molto bene. Arriverò subito al succo, vogliamo che lavoriate insieme.»
«State scherzando?» la riprese Kei scioccato, sobbalzando quasi dalla sedia, i suoi bulbi oculari sembrava tessero per esplodergli fuori dalle orbite.
Yori incorciò le braccia al petto con aria determinata, «per niente, sono serissima. Ne ho già parlato con Rio, secondo lui non sarete mai in grado di collaborare, e finché non gli dimostrerete che si sbaglia, lui non farà debuttare gli Hope.»
“Non può farlo… noi gli serviamo… Yori sta bleffando…” Roberto era troppo intelligente per bersi una scusa come quella.
La donna spostò incerta il suo sguardo su i due ragazzi, non sapeva se se la sarebbero bevuta davvero, ma non aveva altro modo per convincerli.
“Non mi resta che spingere sul loro senso di colpa…” pensava dalla sua.
«E sentiamo cosa dovremmo fare per dimostrargli che si sbaglia?» gli domandò a bruciapelo Roberto, interessato. Kei gli rivolse un’occhiataccia buttando aria dal naso indignato come un dragone pronto a far uscir fiamme.
“Se pensa seriamente, che collaborerò con lui si sbaglia di grosso…” meditò guardandolo in cagnesco.
«Dovete comporre tre canzoni prima della fine del mese. Se le reputerà abbastanza buone vi farà esordire, viceversa tutto il gruppo non potrà debuttare. Adesso sta a voi scegliere cosa fare…»
“Bleffa… non ci sono dubbi, ma se vuole davvero metterci alla prova così sia. Sono davvero curioso di scoprire cosa rende Kei, un ragazzo così ostico.”
«Ci sto!» affermò convinto Roberto. Kei al suo fianco lo squadrò sorpreso prima di sollevarsi contrariato dallo sgabello.
«Non se ne parla! Io le mie canzoni le ho sempre scritte da solo, non ho bisogno dell’aiuto di nessuno, ancora meno del suo…» concluse additando, mentre Roberto impassibile non mosse ciglio. Dopotutto si aspettava una reazione di quel tipo dal suo compagno.
 «È qui che ti sbagli Kei» lo riprese Yori in tono amorevole, «ricorda quello che ci siamo detti l’ultima volta. I punti di forza di uno sono la debolezza dell’altro e viceversa. Dovete collaborare o il destino degli Hope si fermerà prima ancora di avere inizio e solo per colpa del vostro stupido orgoglio personale. Riflettici, ne vale davvero la pena rischiare tutto per colpa del proprio ego?» Detto questo, Yori si sollevò dallo sgabello richiudendo il pianoforte con un movimento deciso.
Kei strinse i pugni. Non aveva altra scelta dopotutto.
«Cosa vuoi fare?» lo spronò per la seconda volta Yori dopo avergli dato il tempo di riflettere.
«Ho scelta per caso? Va bene, ci sto, ma sappia che questo non cambierà nulla… »
«Lo vedremo…» detto questo Yori sorrise a entrambi «avete solo un mese per dare forma a tre canzoni degne di questo nome. Quest’aula sarà a vostra disposizione per tutto il giorno e per tutti i giorni. Io vi consiglio di mettervi subito all’opera. Fossi in voi non perderei altro tempo… lì c’è una chitarra e degli spartiti vuoti. Buon lavoro ragazzi!» detto questo Yori uscì lasciando Roberto e Kei soli per la prima volta da quando si erano conosciuti.
Il silenzio era opprimente e carico di malumori. Roberto, non aveva esitato, e anzi, carico di entusiasmo aveva raccolto una chitarra classica e aveva preso ad accordarla. Kei al contrario aveva lo sguardo annoiato rivolto verso il soffitto.
«Hai sentito cosa ha detto Yori? Ci conviene metterci all’opera»
«Cosa ti fa credere che non stia lavorando? Se non ti piace il mio modo di comporre non avresti mai dovuto accettare… » sogghignò  provocatorio Kei. Voleva portare il compagno italiano allo snervamento, e lui lo sapeva.
«Fidati, l’ho fatto solo perché ero curioso di scoprire quali fossero le grandi qualità di cui Shin mi ha sempre parlato.»
«qualità? Cosa centra Shin?»
Roberto sapeva che doveva giocarsi la carta del fratello maggiore.
«Non dirmi che non sai che tuo fratello e anche tutti gli altri hanno una grande stima del tuo lavoro? Per questo ho accettato di collaborare al tuo fianco, non di certo perché mi sei simpatico, più che altro per interesse investigativo. A dire il vero ci sono molte cose del tuo modo di fare che non concepisco. L’unico motivo che mi ha spinto ad accettare è stata la curiosità di scoprire quale fosse il tuo modo di lavorare… Ma se è tutto qui quello che fai, allora devo ammettere di esserne rimasto un po’ deluso. Credevo prendessi più seriamente la musica».
«Non mi interessa quale sia il tuo motivo, io non ho alcuna voglia di dividere il merito con nessuno…»
«Strano da sentire da parte di uno che ha deciso di fare parte di un gruppo. Se arriveremo da qualche parte lo dovremmo solo al nostro lavoro di squadra. Pensavo l’avessi capito…»
«So dove vuoi arrivare, io posso ballare e cantare con voi, ma le canzoni che scrivo sono una cosa completamente diversa… è qualcosa di personale…»
«Una cosa personale che però dovrai per forza di cose condividere con il resto del mondo prima o poi…»
Kei spazientito si allontanò da Roberto, disturbato da quella verità scomoda, raggiunse la porta. Improvvisamente una musica arrestò i suoi passi.
L’altro aveva iniziato a strimpellare alla chitarra un motivetto.  Kei rimase immobilizzato come se le sue scarpe fossero rimaste incollate al pavimento. Quella musica lo aveva colto di sorpresa. Non credeva che Roberto fosse così bravo.
Una volta terminata la sua performance, lo stesso raggiunse Kei ancora fermo di spalle.
«Mettiamo da parte i dissapori solo per questo mese e lavoriamo per gli HOPE. Chissà, magari potrebbe rivelarsi divertente scoprire che faccia farà Rio, quando i nostri tre pezzi domineranno tutte le classifiche musicali…»
Kei si voltò verso Roberto, era evidentemente combattuto.
«Kei sei con me o contro di me?» gli chiese Roberto mostrandogli la mano aperta. La scena sembrava la stessa di un mese prima quando li presentarono per la prima volta. Proprio come quella volta Kei osservava la mano di Roberto con aria di disapprovazione.
«So che non nutri una grande simpatia per me ma pensala così, prima finiremo e prima potrai tornare a comporre la tua musica in solitudine» concluse Roberto.
Andando contro il suo orgoglio, Kei strinse la mano del ragazzo che più detestava al mondo, del suo nemico giurato, ma anche del suo nuovo compagno di lavoro. Chissà dove li avrebbe condotti questa nuova collaborazione.

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Capitolo 18
*** UN'INGIUSTA CONDANNA ***


 

CAPITOLO 18 
UN’INGIUSTA CONDANNA

 
Londra
 
 
Marika osserva incerta i due personaggi davanti a sé. Alla sua sinistra c'era Adam, il ragazzo rosso, con le lentiggini e la notevole muscolatura che l’aveva scortata fino a quella macchinetta del caffè in un angolo del magazzino.
Gli altri due come ebbe modo di constatare lei stessa, erano fermi a sorseggiare la loro bevanda calda, godendosi quel momento di pausa meritato. La più piccina era una ragazza con i capelli cortissimi di un eccentrico colore blu notte. L’altro era un ragazzo gracilino con un visino squadrato e delle spesse lenti da quattrocchi sul naso. La sua schiena ricurva in avanti gli conferiva quell'aria da classico topo di biblioteca chino sui libri da mattina a sera. Con le sue dita lunghe e sottili teneva saldamente stretto, con entrambe le mani, il bicchiere di plastica dal quale fumeggiava il caffè nero. Sembrava si fossero invertite le loro personalità lui sembrava avere il temperamento insicuro e impacciato di una ragazza e lei la sicurezza e l’arroganza di un ragazzo, se marika avesse potuto associare loro l’immagine di due animali quel ragazzo sarebbe stato un perfetto topolino di campagna mentre lei con l’eleganza  e la forza che manifestava sarebbe potuta essere una perfetta pantera.
«Ragazzi vorrei presentarvi la nuova arrivata» esordì avvicinandosi loro Adam. Fu in quel momento che Marika notò il suo modo insolito di camminare, era come se sotto le scarpe avesse delle molle invisibili.
La ragazza maschiaccio con gli anfibi neri e dei piercing sulle orecchie piccole e tonde, si spostò il ciuffo blu della frangia all’indietro sollevando il sopracciglio sinistro, il suo sguardo felino indugiò con interesse indagatore sul corpo di Marika. Era dotata di un incredibile carisma questo era chiaro anche a Marika. Era quasi impossibile non rimanerne affascinati.
«Sarebbe quello lo scricciolo che dovrebbe aiutarci in magazzino?» chiese all’amico muscoloso, gettato il bicchiere del caffè nel cesto della spazzatura in modo rude e poco femminile.
«Si, è lei…» le rispose rassegnato Adam con un mezzo sospiro.
«Capisco» concluse freddamente la giovane pantera avvicinandosi a Marika con le mani nelle tasche anteriori. Una volta raggiunta, dopo essersi strofinata la mano destra sui suoi jeans laceri, la protese verso di lei.
«Io sono Katie ma tutti mi chiamano Kat.» Si presentò in modo diretto, lasciando un po’ spiazzata Marika.
«Piacere io mi chiamo Marika». La ragazza con i capelli color della notte portò il pollice oltre la sua spalla destra indicando qualcuno dietro di lei.
«Quel criceto con gli occhiali è Timothy.» Le presentò anche l’amico ancora vicino la macchinetta. Il ragazzo messo in soggezione, si limitò a farle un cenno con la testa, prima di tornare con lo sguardo fisso sul bicchiere di caffè tra le sue mani, con lo scopo di nascondere il suo viso ormai paonazzo per la vergogna.
“Che insolito trio!” si limitò a constatare Marika. Dopo aver sorriso a entrambi la stessa proseguì, «il piacere è tutto mio. Spero lavoreremo bene insieme» affermò infine, con un leggero sorriso mentre scioglieva la presa dalla mano della ragazza-maschiaccio.
A quel punto il grande capo raggiunse il gruppo. Carl era un uomo con una prestanza da camionista e una schiettezza che avrebbe fatto invidia a chiunque. Era indubbio che fosse un tipo diretto, che dice quello che pensa senza troppi giri di parole e per quanto le fosse sembrato burbero all’inizio, Marika non poteva negare di aver nutrito una leggera ammirazione per lui. Le ispirava fiducia, chissà se si sarebbe ricreduta in seguito. Quanto le aveva detto sull’essere una famiglia l’aveva rincuorata non poco. Chissà se sarebbe davvero riuscita a sentirsi parte di una famiglia, considerando il gruppo eterogeneo appena conosciuto?
«Adam» lo richiamò il capo, il ragazzo si avvicinò per sentire meglio, «hai già presentato Timothy e Kat?» il ragazzo acconsentì.
«Perfetto, per oggi ragazzina, lavorerai al fianco di Kat. Lei si occupa della catalogazione del materiale. Le darai una mano a riorganizzare gli scarichi che ci sono arrivati stamattina. Quando avrete finito consegnate il rapporto a Timothy.»
Rivolgendosi al quattrocchi ricurvo vicino la macchinetta, l’uomo proseguì con autorevolezza «Thimoty, nella fattura hanno segnato il reso per la merce danneggiata dell’ordine precedente?» Il ragazzo si aggiustò tentennando in agitazione, gli occhiali sul naso. Marika notò in quel momento le sue mani fremere. Balbettando incerto una risposta di assenso prese da un tavolino lì vicino una cartellina gialla.
“Mi fa quasi tenerezza. Sarà nuovo anche lui?” si chiese la ragazza italiana, notando il modo incerto e impacciato con il quale illustrava a Carl quelle scartoffie piene di numeri.
«Perfetto. Quando avrete finito consegnatemi tutto in ufficio» concluso il suo discorso si dileguò dal gruppo.
Kat fece segno a Marika di seguirla, iniziava il suo primo giorno di lavoro.
 
 
Tokyo
 
Roberto e Kei si trovavano ancora nell’aula di musica. Erano passate ormai due ore da quando Yori li aveva lasciati da soli a lavorare. Dopo un primo inizio turbolento la loro collaborazione aveva iniziato a funzionare.
«Credo dovresti cambiare l’accordo in quel punto…» puntualizzò Kei rivolgendosi a Roberto.
«ok, adesso ci provo…» tentò l’altro accettando umilmente il suggerimento dell’amico.
«Si così direi che funziona meglio di prima…» sentenziò soddisfatto Roberto seduto sullo sgabello con la chitarra sulle gambe. «Per il ritornello cosa ne pensi di utilizzare qualche parola in lingua inglese?» domandò all’altro chino sul suo block notes mentre lavorava al testo della canzone.
«Non ci avevo pensato. Cosa proponi?»
«Visto che il testo parla di una notte insonne perché non sottolineare un orario? Penso che “midnight” suoni bene…»
«Midnight? Potrebbe funzionare. Prova a suonare un attimo il ritornello…» Roberto riprese a strimpellare con le sue dita sulle sei corde mentre Kei ci canticchiava su le poche righe buttate giù in quelle due ore.
«Si, può andare…» concluse infine il ragazzo in tono fiero, spostandosi il ciuffo dall’occhio sinistro.
Improvvisamente un applauso venne a interromperli.
Entrambi si voltarono stupiti alle loro spalle. Vicino la porta d’ingresso Yori li osservava con quell’espressione soddisfatta che sembrava gridare loro che aveva avuto ragione sin dall'inizio e che tutto procedeva come aveva previsto.
«Lo sapevo che era una buona idea mettervi insieme a lavorare…»
 
 
Kei sbuffò innervosito, odiava l’idea che Yori potesse avere di loro. Lui e Roberto non sarebbero mai stati amici. Non come speravano loro perlomeno. Riposizionato il block notes nero nel suo zaino si sollevò dallo sgabello.  «Direi di andare adesso. Gli altri avranno già iniziato da un pezzo gli allenamenti con Daisuke…» concluse grave.
«Perdonatemi, non volevo interrompersi è solo che non ho saputo resistere. Beh, visto che sono di troppo tolgo subito il disturbo» affermò Yori, notando di aver innervosito con le sue parole il giovane rap, sorridendo soddisfatta si richiuse la porta alle spalle rifilandosi per la seconda volta. Roberto sospirò.
«Cavolo mi sembra di essere tornato a scuola durante il compito in classe, quando la professoressa Fanelli entrava e usciva dall’aula per controllare a che punto fossimo. Ora che ci penso Yori e Nami si assomigliano molto, non credi? Hanno lo stesso sorriso»
affermò Roberto riponendo la chitarra classica nella fodera mentre Kei l’osservava dilaniato da un terribile dubbio. Nervosamente si morse il labbro inferiore tormentato dal desiderio di mettere in chiaro la situazione prima che fosse troppo tardi.
«Roberto…» il ragazzo con i capelli tinti d’inchiostro si voltò verso di lui.
«Non giocare con lei… Se c’è già qualcuna non dovresti illuderla».
Roberto aveva capito perfettamente di chi stava parlando, e per la prima volta gli sembrò che Kei si stesse scoprendo, come se una parte di lui stesse uscendo allo scoperto. Era la prima volta che Kei gli concedeva il lusso di ammirare i suoi occhi tristi e preoccupati.
«Devi aver frainteso, tra me e Nami non c’è nulla. Lei voleva solo…»
«Non importa cosa voleva. Quello che conta è ciò che vuole in questo momento e sono convinto che tu non potrai mai darle quello di cui ha bisogno… come non ho potuto darglielo io…» concluse l’ultima frase in un sussurro fissando il pavimento divorato dal rimorso. Roberto l’osserva perplesso, da quel tono sembrava che Kei stesse soffrendo molto.
“Che provi qualcosa per lei?”
«Kei, posso farti una domanda?» il ragazzo tacque tornando a fissarlo, «cosa ti impedisce di ricambiare i suoi sentimenti?».
Kei accennò un sorriso nervoso, «Anche se provassi a spiegartelo non riusciresti mai a capirlo e comunque questo non deve preoccuparti… tra di noi non potrà mai esserci nulla. Finalmente, dopo tanto sembra averlo capito anche lei.
Sia io che tu,  abbiamo il primo podio occupato. Occupato da qualcuno più importante di lei. Quindi tieni a mente quello che ti sto dicendo in questo momento: ci sono molte cose che detesto a questo mondo, ma più di tutto detesto chi ferisce la gente per puro egoismo, chi si fa beffa dei sentimenti altrui e chi considera l’amore come un gioco. Roberto, non illuderla che sia al primo posto se non è realmente così. Non farle vivere un sogno che non può diventare realtà. Se lo farai non rimarrò fermo a guardare.» Roberto acconsentì.
«È per questo che sei sempre scostante nei suoi confronti? per non accrescere le sue illusioni? Ammettilo, provi qualcosa per lei ma non hai il coraggio di fare i conti con la responsabilità di amare qualcuno…»
“Cosa pretende di saperne questo? Per me amare una persona vuol dire dedicarsi anima e corpo per lei, ma come potrei adesso essere questo per lei? Per quanto lo voglia con tutto il cuore non posso, non adesso per lo meno.”
«Chi ti ha detto che provo qualcosa di simile per lei? La mia è solo una preoccupazione da fratello…»
«Capisco. Comunque non potrei mai farle del male nel modo in cui pensi. Nel mio cuore ho riservato un posto solo per una persona e quella persona non è Nami. Quindi puoi stare tranquillo.»
«Mi auguro sia davvero come dici. Se la illudi e poi la ferisci giuro che non me ne starò da parte…» Roberto acconsentì.
 
 
 
Londra
 
Erano ormai sei ore che catalogavano e stimavano la quantità di tessuti e materiali vari all’interno del magazzino.
Lavorare con Kat si rivelò per la giovane new entry molto istruttivo. Conosceva molto bene ogni tipo di stoffa, le qualità, gli abbinamenti, le situazioni e i contesti in cui utilizzarli per valorizzarli al meglio. Per Marika, Kat era come un’enciclopedia vivente. Finalmente anche l’ultimo scatolone era stato registrato, adesso dovevano solo consegnare il resoconto al timido e impacciato quattrocchi e il loro lavoro per quella giornata si sarebbe concluso.
Avanzando con sicurezza Kat fece da cicerone a Marika fino alla porta del piccolo sgabuzzino utilizzato dal topo di campagna. Lì tra pile di fogli pericolanti, circondato da scatoloni di campionatura varia, si celava la sagoma gobbuta e scarna del giovane Timothy intento a controllare con minuziosa attenzione varie fatture. Chino sulla sua scrivania fino a sfiorare quasi la punta della penna stilografica con la quale contrassegnava le schede di pagamento, non si rese conto dell’arrivo delle due giovani.
Con poca delicatezza Kat, per rendere nota la loro presenza, sbatté i fogli sulla scrivania facendo sussultare il povero Timothy che per lo spavento quasi perdeva i suoi fondi di bottiglia dal naso.
La ragazza masticando a bocca aperta la sua gomma, si sedette sulla scrivania piegandosi in avanti sui fogli che il ragazzo stava diligentemente ricontrollando.
«Criceto non hai ancora finito con questa roba?» gli domandò accavallando le sue gambe sensualmente. Aveva un fascino del tutto originale.
Il ragazzo deglutì vistosamente tornando ai suoi fogli e facendo molta attenzione a non concentrale il suo sguardo sulle curve provocatorie della ragazza.
«De.. de..devo ultimare solo questi e.. e… e.. poi ho..ho…ho… finito» le rispose balbettando come al suo solito, mentre nascondeva dietro i fogli della scrivania il suo volto paonazzo.
Sciogliendo quella posizione provocatoria Kat scese con un salto giù dalla scrivania del povero contabile.
«Allora ti aspettiamo fuori. Oggi dobbiamo festeggiare. Quindi muoviti e non fare il solito guastafeste. Sarebbe da maleducati far attendere la nostra new entry».
Sistemandosi le spesse lenti Timothy acconsentì intimidito dalla prepotenza della giovane.
Sorridendo soddisfatta Kat prese sotto braccio Marika portandola fuori di lì. Erano ormai le sei passate, e il gruppo si era finalmente riunito all’esterno della One Million.
C’era Adam, Thimothy, Kat e Marika ad attendere il passaggio di un taxi nero. Dopo essere saliti e aver indicato la via all’autista, raggiunsero un locale in pieno centro. Guidati dalla ragazzaccia punk presero posto, ogni metro veniva bloccata da qualcuno che la salutava, Marika pensò che fosse molto popolare in quel posto.
«Cosa prendiamo?» chiese Adam stringendo tra le mani forzute il menù del locale.
«Io prenderò un hamburger e una bottiglia d’acqua» affermò con convinzione Marika.
«Ma quale acqua e acqua oggi si festeggia!!!» la riprese Kat con aria di sconcerto.
“Perfetto cosa mi invento adesso? Non posso di certo dirle che sono incinta….”
«Mi dispiace ma non reggo molto bene l’alcool» improvvisò facendo spallucce.
La ragazza si lasciò scivolare sulla sedia.
«Non dirmi che anche tu sei astemia come questo criceto» affermò puntando con il mento il ragazzo alla sua destra.
«Mi dispiace» si rammaricò per la seconda volta la giovane.
«E va bene! Vorrà dire che ci ubriacheremo solo noi due Adam!» affermò sorridendo soddisfatta sventolando per aria la sua mano piena di anelli. Un cameriere notanto il suo segnale non proprio discreto, raggiunse il gruppo con un taqquino in mano.
«Cosa vi porto ragazzi?»
I quattro fecero la loro ordinazione. In attesa della loro ordinazione il ragazzo pel di carota, prese in mano le redini della conversazione.
«Marika, dicci un po’, cosa ti porta qui a Londra? Sai tutti noi abbiamo una storia e un motivo per cui abbiamo scelto di fare un lavoro così degradante, ma per quanto mi sforzi non riesco proprio a concepire come quel ragazzo vizziato abbia potuto assumerti per un lavoro da uomo. Davvero, per quanto mi sia cervellato non sono riuscito a capirlo. Ad essere onesti, a quel lavoro noi siamo stati condannati, nessuno ha scelto di farlo di propria volontà. È come se fosse come lo sconto di una pena per noi, ma tu potevi scegliere. Perché hai accettato un lavoro del genere. E non dirmi per la paga, perché ci sono lavori meno faticosi che ti renderebbero lo stesso guadagno».
“Adam dice che potevo scegliere, ma non è proprio così che sono andate le cose, in realtà non ho avuto altra scelta che scappare dopotutto…”
Marika, si riempì il bicchiere d’acqua bevendone un sorso prima di rispondergli «In realtà ho accettato perché volevo mettere alla prova me stessa. Niente di più. Sono stata sempre circondata da persone che mi proteggevano, e dopo essere rimasta sola ho capito che avevo fatto troppo affidamento su quelle persone e che non andava bene. Voglio dimostrare a me stessa di potercela fare da sola».
«Capisco…» affermò non molto soddisfatto della risposta il rosso.
«Per quanto riguarda voi invece, perché dici che siete stati costretti a fare quel lavoro?»
Gli altri tre seduti a quel tavolo si scambiarono degli sguardi afflitti, persino lo sguardo da dura di Kat si affievolì per un istante.
«La storia è un po’ complicata…» le rispose la giovane punk. «Tutti noi siamo entrati alla one million aspirando a diventare tutt’altro di quello che ci siamo ritrovati a fare…  speravamo di crescere, o almeno questo è ciò che ci avevano promesso, ma dopo tre anni la situazione non si è smossa di un millimetro….»,
Comprensiva Marika proseguì, «se è per questo anche io ero entrata con lo scopo di studiare nel reparto sartoriale e magari un giorno affermarmi come stilista. Le vostre ambizioni quali erano invece?»
Adam poggiò il suo calice di birra dopo averne bevuto un bel sorso asciugandosi la bocca con il dorso della mano. «Io ho studiato quasi cinque anni per diventare leisure manager, l’organizzare sfilate, eventi e manifestazioni fieristiche è sempre stato il mio sogno. Timothy dopo essersi laureato in giurisprudenza ha fatto domanda per un lavoro come industrial property manger, in definitiva il legale dell’azienda e invece adesso si ritrova a fare l’addetto contabile del magazzino.»
«E tu Kat?» le chiese Marika. La giovane prese a giocherellare con uno dei suoi anelli, «io ho studiato per diventare una ricercatrice di materiali e designer di accessori, ma ironia della sorte sono diventata la semplice catalogatrice del magazzino…»
«Mi dispiace così tanto ragazzi…» affermò sinceramente mortificata Marika.
«Non dispiacerti per noi, forse quello ad aver subito la delusione maggiore è il povero vecchio, Carl.»
Le orecchie di Marika si fecero molto più attente. «Cosa vuoi dire?»
«Prometti che quello che ti dirò non uscirà mai dalla tua bocca? » le domandò la ragazza dai capelli blu, puntandole contro l’indice della sua mano destra, adornato con un insolito anello metallico.
«Lo giuro!» promise Marika, non potendo proprio rinunciare alla possibilità di chiarsi qualche dubbio rimastole in sospeso dopo le frasi allusive di quell’acida segretaria.
La giovane pantera rassicurata, proseguì, «Carl non è sempre stato il responsabile del magazzino, in origine è stato un ottimo cool hunter. Ha sempre avuto un ottimo fiuto per le tendenze del momento. Ha seguito la signora Mastro in molti dei suoi spostamenti, ma è bastata una intuizione sbagliata per soffocare la sua promozione a direttore, e mettere quel pivellino a gestire tutto. Durante la ricerca per una collaborazione straniera l’idea della nuova linea deve essergli stata soffiata sotto il naso perché prima che i modelli fossero finiti un altro competitor aveva divulgato le stesse idee innovative di Carl. L’intera produzione fu considerata nulla. Ci fu un’enorme perdita di denaro e alla fine persero il cliente. La signora Mastro lo accusò di aver rubato le idee di altri, e non volle credergli. Gli offrì un’unica soluzione…. »
«diventare responsabile del magazzino» completò Marika interrompendo l’amica sovrappensiero, la stessa annuì.
“Non posso crederci, mamma ha fatto davvero questo? Perché non ha voluto concedergli una seconda possibilità?”
Il rosso diede il cambio all'amica e continuò a raccontare, «dopo tre mesi Thomas divenne il nuovo direttore. Ora non voglio dire che non abbia le competenze, da quel che so si è laureato con il massimo dei voti ed ha una lunga lista di master a suo nome, ma secondo noi non potrà mai raggiungere l’esperienza di Carl. Per non escludere che è colpa sua se lavoriamo ancora nel magazzino. Ci ha chiuso lì dentro senza darci neanche la possibilità di dimostrare quello che siamo capaci di fare. In più come se questo non bastasse la Signora Mastro non fa altro che assecondare ogni sua decisione, in definitiva si fida cecamente di lui» affermò con una nota di risentimento nella voce profonda che aceva.
«De..de..devi ammettere che da qua…qua..quando c’è lui le collaborazioni con l’estero so..so..sono aumentate.» si intromise incerto anche Timothy.
«Non mi importa, giuro che se la vedo gliene dico quattro a quella donna insensibile!Come ha potuto dimenticarsi quello che Carl ha fatto per lei in tutti questi anni e sostituirlo con il primo che capitava!» sbottò Kat sollevandosi dalla sedia sbattendo violentemente entrambi i palmi delle sue mani sul tavolo.
«Adesso calmati Kat» cercò di ravvederla Adam, di fronte a lei.
Sospirando, la pantera blu tornò a sedersi sulla sedia ancora in evidente stato di agitazione.
Marika ancora non poteva credere che sua madre fosse stata plagiata da quel damerino da quattro soldi. Come aveva potuto condannare Carl per un solo misero errore?
«La cosa che mi ha lasciato sempre molto perplesso è il fatto che Carl non abbia mai mosso ciglio, sembra quasi si sia rassegnato e che abbia smesso di lottare…»tutti tacquero, soppesando afflitti quell’eventualità. La serata proseguì fino a notte inoltrata.
I tre ragazzi usciti dal locale ripresero il taxi nero per tornare alle reciproche abitazioni. Marika aveva insistito affinché fosse l’ultima a completare la corsa. Mostrare il posto in cui viveva avrebbe alimentato dei sospetti su di lei e notando l’odio represso che il trio nutriva per sua madre non le sembrava l’idea migliore sbandierare i suoi legami di sangue. Finalmente giunse a casa. Pagato il taxi e aperta la porta di quel palazzo vittoriano, chiamò l’ascensore. Una volta imboccato il lungo corridoio che conduceva al suo appartamento, si sfilò le decolté nere. I piedi erano gonfi e le facevano un male cane, grazie al cielo la moquette del corridoio ammortizzò i suoi dolori. Giunta dinanzi la porta notò un pacco ai suoi piedi. Sopra un biglietto.
Lo raccolse e lo lesse.
 
Così non avrai più scuse per fare tardi.
 
Firmato
Thomas
 
Gli occhi di Marika si tinsero di rosso rabbia. Senza esitare suonò insistentemente al campanello dell’appartamento accanto. Non le importava dell’ora tarda. Nessuno sembrava intenzionato ad aprirle così, come se non bastasse prese anche a bussare con gran foga. Improvvisamente la porta fu aperta facendole continuareproseguire un colpo a vuoto che affondò inutilmente nell’aria, fendendola. Thomas in pigiama la osserva incuriosito sull’uscio. I suoi occhi si focalizzarono sui piedi di lei rossi e gonfi. Gli scappò un sorriso di scherno dopo il quale Marika non riuscì più a trattenersi.
«Cosa significa questo?» gli lanciò il bigliettino addosso.
«Che mi auguro non dovrai inventarti altre scuse inutili per giustificare i tuoi ritardi…» affermò lui con aria di superiorità. Marika tornò vicino la porta del suo appartamento e raccolto il pacco si ripresentò davanti a Thomas. In malo modo glielo lanciò addosso.
«Non ho bisogno della carità, ancor meno della tua.»
«Fa un po’ come vuoi» concluse lui con superficialità richiudendo la porta. Marika proprio non riusciva a reggerlo. Digrignando i denti e stringendo i pugni tornò al suo appartamento, aperta la porta e raccolte le sue decolté dalla moquette, vi entrò distrutta e frastornata da tutte le novità apprese oltre che infastidita dai modi antipatici di quel lord inglese da quattro soldi. Non sarebbe stato facile realizzare il suo sogno, soprattutto se a capo di tutto c’era quell’essere abominevole. Sospirando si avvolse nelle lenzuola cremisi. Gli occhi le si chiusero poco dopo.
 
 
Thomas era nel suo letto, sul comodino alla sua sinistra quel pacco che le era stato buttato addosso senza alcuna gratitudine.
“Come volevasi dimostrare ha veramente un bel caratterino. Chissà per quanto reggerà?” Sorridendo tornò a dormire.
 
Erano le tre di notte, quando un urlo sovraumano venne a ridestarlo dai suoi quieti sogni. Thomas si sollevò di soprassalto, sembrano le grida di una donna strangolata, provenivano dall’appartamento accanto. Senza esitare saltò giù da letto, a piedi nudi raggiunse la porta dell’appartamento accanto. Bussò un paio di volte ma nessuno venne ad aprire. Ritentò una seconda volta ma niente. Fu al terzo tentativo che la porta fu aperta.
Marika era in pigiama, con il volto coperto di lacrime che singhiozzava come una bambina.
«Si può sapere cosa ti succede a quest’ora? Sei forse impazzita?»
«c’è un topo…» concluse asciugandosi le lacrime con il dorso della mano.
Thomas sospirò.
«fammi passare» disse facendo pressione sulla porta ed entrando nell’appartamento. Marika non fece obbiezioni. Seguendolo incollato alle sue spalle iniziarono a perlustrare l’appartamento.
«dove lo hai visto?» gli chiese il ragazzo analizzando come un predatore lo spazio circostante.
«Me lo sono ritrovato sul letto…»
«quindi è in camera tua.» concluse lui«aspettami nel mio appartamento, se mi stai attaccata come una sanguisuga non riuscirò mai a prenderlo». Senza obbiettare Marika fece come le fu detto. Per quanto detestasse chiede l’aiuto di quel ragazzo, la paura per i roditori era di gran lunga superiore all’odio che provava per lui. A piedi nudi e in camicia da notte entrò nell’appartamento del giovane e rispettabile direttore della One Million. Nell’attesa del suo ritorno iniziò a gironzolare nell’appartamento, senza una meta un po’ come se fosse in un museo di arte contemporanea. Ogni cosa era di un design essenziale e moderno, molti degli oggetti all’interno erano così insoliti che difficilmente riusciva a capire se fossero semplici sculture o se avessero una reale portata funzionale. Perdendosi tra le varie stanze si ritrovò nella camera da letto. La finestra che si affacciava sul balcone era aperta e la tenda si gonfiava sospinta dalla brezza notturna. Marika si strinse nella sua camicia da notte infreddolita.
“Come fa a dormire così? si gela!”
Dirigendosi a passo spedito giunse vicino la finestra e facendo attenzione alla tenda la chiuse. In quel momento notò sul comò una cornice e dentro una foto. La raccolse e l’analizzò. Nell’immagine un uomo altro e massiccio con una folta barba scura e un bambino biondo con degli intensi occhi azzurri sedevano in uno studio. Non sapeva spiegarsi il perché ma quell’uomo barbuto gli ricordava Carl.
«Cosa stai facendo qui dentro?» esordì una voce alle sue spalle. Marika trasalì, rapidamente rimise al suo posto la foto voltandosi verso Thomas.
«Scusami stavo dando un’occhiata alla casa…» improvvisò in imbarazzo.
«esci immediatamente da qui!» le ordinò lui fuori di sé. Marika fece come le fu ordinato. Per un attimo Thomas le aveva messo addosso una paura mai provata prima.
Marika era in cucina, dopo qualche minuto anche il ragazzo biondo con il pizzetto la raggiunse.
«Il tuo topo, altro non era che il porcellino d’india della bambina del piano di sopra. Francamente non so come ci sia finito nel tuo letto. Comunque è tutto risolto. Adesso è con la sua padrona. Puoi tornare nel tuo appartamento» affermò avvicinandosi alla porta e aprendola, facendo segno a Marika di uscire. La ragazza a capo chino per la vergogna la raggiunse. Tentennò prima di uscire.
«Grazie…» .
Il ragazzo corrugò la fronte sollevando le chiare sopracciglia.
«Non credevo mi avresti mai ringraziato. Da quel che avevo intuito non ti serviva il mio aiuto o sbaglio?»
Marika strinse i pugni, avrebbe voluto rispondergli a tono, ma non poteva. Dopotutto aveva ragione.
Senza aggiungere altro lo superò uscendo dall’appartamento.
Senza voltarsi raggiunse la sua porta che era rimasta aperta, prima di entrare fece per voltarsi una seconda volta. Thomas era ancora vicino la porta e la osservava con quel sorrisetto divertito e arrogante che Marika detestava.
«Non temere questa sarà la prima e l’ultima volta che chiederò il tuo aiuto. Non ricapiterà!».
Salutandola con una mano Thomas rientrò nell’appartamento.
Marika non poteva credere che fosse così arrogante e presuntuoso.
 
 
 
 
Tokyo
Roberto e gli altri ragazzi avevano da poco terminato le loro lezioni. Tutti erano finalmente di ritorno nel loro appartamento. Kei chiudeva la fila immerso nei suoi intricati pensieri. Prima di tornare alla lezione di Daisuke aveva discusso a lungo con Roberto sulla questione di rivelare agli altri della loro collaborazione. Shin lo raggiunse preoccupato.
«Kei, sei ancora arrabbiato per le cose che ho detto ieri?» tentò con un faccino colpevole.
L’altro gli scompigliò i capelli sorridendogli affettuosamente.
«Non essere ridicolo!» Shin gli sorrise a sua volta sollevato.
Toshi aprì la porta e tutti entrarono disperdendosi nell’appartamento. Jona da bravo vichingo si era stravaccato sul divano occupandolo interamente, Take entrato nella sua camera ne uscì con un accappatoio tra le braccia, mentre Toshi di testa nel frigorifero rovistava in cerca di cibo. Shin e Kei dal canto loro, avevano preso posto intorno al tavolo, il più piccolo prese a torturare Kei sulla sua idea riguardo le lezioni pesanti di Daisuke. Al contrario dell’espressione raggiante di Shin, Roberto in agitazione, aveva iniziato a lavare i piatti della mattina nervosamente.
“Chissà se Yori stava dicendo la verità. Se non debutteremo adesso quando potremo farlo? Non voglio deludere gli altri.”
Dopo che tutti si furono riuniti per consumare il pasto serale, Roberto aprì il suo discorso.
«Ragazzi, non so se dovremmo dirvelo ma oggi Yori ha affidato a me e a Kei il compito di lavorare a tre canzoni…» detto questo il ragazzo italo-giapponese lanciò un’occhiata complice a Kei. Lo stesso la ricambiò impassibile. Entrambi avevano deciso di non rivelare agli altri il dettaglio riguardante l’eventuale rimando del loro debutto.
«Ma è fantastico! Come mai non ci hanno detto nulla?» domando Toshi perplesso.
«Penso vogliano metterci alla prova. Non credo desiderino che qualcun altro ci dia una mano, quindi…» concluse amareggiato Roberto.
“La verità è che non vogliono che siate messi al corrente della verità: se non dovessimo farcela dovremo rimandare il debutto degli HOPE…”
«Ma che sciocchezza è mai questa? Siamo una squadra dovremmo lavorare insieme!» affermò sconcertato Toshi.
«Lo so però…»
«Io non capisco…»lo interruppe Take con occhi sottili, «perché proprio voi due?».
Roberto non sapeva che rispondergli. In quel momento intervenne Kei.
«Semplicemente perché non andiamo d’accordo, non ci sono altri motivi. Take, non pensare ci abbiano scelto perché ci considerano i migliori qui in mezzo…» lo freddò capendo il pensiero dell’altro, «più che un premio questa è una punizione bella e buona credimi…» concluse Kei tirandosi indietro sulla sedia e incrociando le braccia allo stomaco.
«Beh, io sono felice che siate voi a scrivere le nostre canzoni!» subentrò Jona con uno dei suoi soliti sorrisi. «Sono sicuro che farete un ottimo lavoro.»
«Lo penso anche io, e non tiratevi indietro, se avrete bisogno di qualche consiglio sull’arrangiamento chiedete pure» gli diede manforte Toshi prima di prendere le bacchette tra le dita «che ne dite mangiamo?» propose al gruppo.
«Si non vedevo l’ora di sentirlo dire da qualcuno. Senza offesa, ma il mio stomaco chiama cibo da quando siamo arrivati» affermò Shin tenendosi lo stomaco con una mano.
«Sei sempre il solito» lo riprese suo fratello. Tutti scoppiarono a ridere a eccezione di Take. Nella sua mente troppe cose non quadravano e le sue insicurezze si sommavano a degli interrogativi irrisolti. Sentiva che quei due stavano omettendo qualcosa. Che stessero facendo il doppio gioco per tenerli lontani e prendersi tutta la gloria? Era stanco di essere messo da parte, e non essere mai preso in considerazione.

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Capitolo 19
*** BISCOTTI AMARI, AMARI RICORDI ***


 
 
CAPITOLO 19
BISCOTTI AMARI, AMARI RICORDI

 
Tokyo
 
I sei tirocinanti avevano appena concluso le lezioni del mattino, essendo sabato avevano la mezza giornata libera, purtroppo a differenza degli altri che potevano godersi quella pausa meritata, a Roberto e Kei toccava proseguire con il lavoro in studio di registrazione. Il tempo a loro disposizione si era nettamente ridotto ed erano solo a due terzi del lavoro. Per un motivo ignoto a Kei, Roberto era stato convocato da Rio nel suo studio subito dopo la fine della lezione di Daisuke. Così il più scorbutico degli Hope era rimasto chiuso nello studio di registrazione in paziente attesa del suo ritorno. Per rendere meno noiosa l’attesa aveva preso a perlustrare le supertecnologiche attrezzature con la stessa timorosa precauzione di un bambino che ha paura di far danno, ma che non riesce a trattenersi dal guardare senza toccare.
Proprio mentre era chino sui mixer avvertì uno spostamento d’aria solleticargli la nuca e il cigolio della porta che si apriva, qualcuno era appena entrato nella stanza. Nami era sulla soglia ferma, con una busta trasparente tra le mani, all’interno una decina di biscotti. Kei la squadrò perplesso per un paio di minuti. Poi i suoi occhi indugiarono sul sacchetto tra le sue mani e si indurirono.
Nami non sembrava preparata a incontrarlo in quel posto e proprio in quel momento. Il suo sorriso pieno di entusiasmo si ritirò immediatamente. 
«Scusa, non volevo disturbarti, sono venuta solo a lasciare questi biscotti…» improvvisò a disagio. Dopo quella sera le cose tra loro si erano nettamente raffreddate. Nami si sentiva ancora in colpa per non essere riuscita a ricambiare quel bacio che mesi prima le avrebbe fatto sobbalzare il cuore ma che invece quella sera le riportò alla mente le labbra di un altro. Per quanto avesse voluto, non era riuscita a ricambiarlo a causa dei sentimenti che adesso provava per Roberto. Da quel giorno si era sentita colpevole come non mai nei confronti di Kei che quella sera aveva ricambiato i suoi sentimenti per la prima volta da quando si erano conosciuti.
Kei sorrise maligno incrociando le braccia al petto poggiandosi alla console.
 “Se pensa di recuperare punti solo grazie a una busta di biscotti si sbaglia di grosso!”
«Sai benissimo che i tuoi biscotti mi hanno sempre fatto schifo! Puoi anche riportarteli indietro!» la smorzò prima di tornare a trafugare con l’attrezzatura.
Nami strinse la busta tra le sue mani con rabbia.
«Lo so fin troppo bene quello che hai sempre pensato dei miei biscotti… ma questi non sono per te…» gli rivelò furibonda.
Kei si immobilizzò all’istante spalancando gli occhi. Contenendo la rabbia che dentro infuriava come una tempesta si voltò verso Nami per la seconda volta. Gli occhi della ragazza erano freddi e irremovibili mentre lo guardavano.
“Se quei biscotti non sono per me allora vuol dire che sono per….”
Perdendo ogni controllo sul suo corpo Kei si mosse verso Nami bloccandole entrambi i polsi con le sue mani forti. La busta con i biscotti cadde sul pavimento. Nami rimase ferma persa in quegli occhi neri e profondi. 
«Sei proprio una stupida! Speri di riuscire a conquistare davvero l’amore di qualcuno in questo modo? Sei proprio un'illusa! Non ci sei riuscita con me e non ci riuscirai neanche con Roberto! Sai benissimo che ha già una ragazza, perché continui a umiliarti in questo modo? Non hai nemmeno un po’ di dignità?»
Nami trattenne le lacrime audacemente, non gli avrebbe concesso il lusso di vederla soffrire per le sue parole fredde ancora una volta. Quel tocco le riportò alla mente la sera in cui si erano baciati e le sue mani che la sfioravano con delicatezza e preoccupazione. Ora che faceva mente locale aveva appena detto di non provare nulla per lei. Se quello che aveva appena detto era la verità, allora quella sera era stato tutto  un gioco per lui?
“Che stupida e io che mi preoccupavo di aver ferito i suoi sentimenti… ma di quali sentimenti sto parlando? Lui non ha mai provato niente per me. Alla fine si è comportato proprio come un bambino capriccioso a cui è stato portato via il giocattolo preferito sotto il naso… Ecco cosa sono stata per lui: solo un misero giocattolo senza valore con cui pensa di divertirsi quando ne ha voglia e buttare via quando non gli serve più! E io che pensavo mi avesse baciato perché provava qualcosa per me, che illusa! È solo uno sporco egoista! Lo odio… odio davvero tutto di lui… e questa non posso perdonargliela ”.
Con un movimento brusco si liberò da quella presa nervosa sui suoi polsi.
«Il giorno in cui riuscirai ad amare davvero qualcuno allora prenderò in considerazione i tuoi consigli, ma per il momento faresti meglio a startene zitto, non dovresti parlare di cose che non conosci.  Che ne sai tu di cosa significa amare qualcuno!?» lo rimproverò lei con gli occhi rossi e lucidi. Kei rimase impietrito. Da che ricordasse non aveva mai litigato così spesso con Nami fino a quel momento, di solito la trattava con indifferenza e ogni volta che lui l’allontanava lei tornava con la coda tra le gambe come un cagnolino, ma ultimamente non era più così, per questo non facevano altro che litigare. Era già la quarta volta che si trovava a fare i conti con quel suo carattere ribelle.  La prima volta alla riunione del gruppo nel piccolo box di Take, quando aveva preso le difese di Roberto, la seconda volta al Blue Night, la terza volta nel corridoio del dormitorio e adesso era già la quarta volta che discutevano animatamente. La cosa iniziava a farlo sentire una pezza. 
Nami in silenzio attendeva una risposta in ansia. Nel profondo sapeva di aver lanciato quella provocazione con la speranza nascosta, che Kei  smentisse le sue parole rivelandole che almeno quella sera aveva provato qualcosa per lei, che non si era sentita in colpa inutilmente per tutto quel tempo e che non era stata raggirata per l’ennesima volta da lui, ma Kei rimase in silenzio. Un silenzio che peggio di un coltello le squarciò il cuore.
“Di qualcosa per l’amor di Dio, dimmi che almeno per il tempo di quel bacio mi hai amata… non farmi sentire così ancora una volta!”
Nami non poteva sapere quali fossero i veri sentimenti di Keii, per lei in quel momento Kei la stava solo trattando con indifferenza per l’ennesima volta.  Ma la verità era ben diversa dall’evidenza dei fatti: nonostante l’amasse Kei non si sentiva all’altezza del suo amore.
“Oh Nami, so fin troppo bene cosa vuol dire amare… e proprio perché non posso amarti come vorrei che adesso non negherò quanto hai detto…”
Kei sostenendo lo sguardo disperato della ragazza che amava inghiottì quelle parole non dette nel profondo del suo cuore.
Reclinando il viso e stringendo i pugni Nami proseguì «allora è proprio vero, quella sera non ha contato nulla per te…» gli domandò con un filo di voce.
Kei non si smosse e con uno sguardo freddo e indifferente sogghignò. «Ovvio, che ti aspettavi!»
Proprio in quel momento qualcuno entrò.
«Ehi! Cosa succede qui?» esordì Roberto notando Nami con la testa reclinata verso il basso. Non fece in tempo a raccogliere il sacchetto con i biscotti vicino alla ragazza che la stessa se la dette a gambe levate. Nami con rapidità si voltò e uscì passandogli accanto. Stava piangendo. Roberto senza mollarla con lo sguardo ne seguì la sagoma con i lunghi capelli che svolazzavano ribelli nell’aria, una volta andata via, senza esitare oltre si avvicinò a Kei.
«Cosa le hai detto?» gli domandò in tono accusatorio.
«Nulla! Le ho semplicemente detto che i suoi biscotti mi fanno schifo…» gli rivelò con superficialità Kei tornando a trafugare con i fogli e il mixer, evitando il suo sguardo. Kei non poteva davvero sperare di fargliela bere in quel modo, per Roberto era fin troppo chiaro che lo stesse evitando proprio perché si sentiva in colpa.
«Dovresti andare da lei…» tenrò in tono più indulgente.
«e perché dovrei? » lo rimbeccò con la sua solita arroganza lui, come se la cosa non lo riguardasse minimamente.
Roberto indurì il suo sguardo.
«Kei adesso finiscila! So che ci tieni a Nami, per questo dovresti essere tu ad andare da lei! Ma se non ti muovi, non mi lascerai altra scelta. Sai benissimo che se non sarai tu a rincorrerla dovrò farlo io! Ti va davvero bene che lo faccia? Capisci quello che ti sto dicendo? Ti sto chiedendo di darmi un buon motivo per non farlo. Se non mi fermi adesso in futuro non potrai rimproverarmi nulla, mi hai capito? » Kei in silenzio, ancora di spalle all’amico, non poteva mostrargli quello che veramente provava, non adesso almeno.
I suoi pugni erano stretti sulla console.
«Non è colpa mia se non sa accettare le critiche…» improvvisò incerto.
«È questa la tua risposta?» gli chiese irremovibile Roberto ancora una volta. Kei tacque.
«Come vuoi! Sappi che se la perderai sarà solo colpa tua!» lo ammonì prima di uscire di corsa dalla stanza.
Kei ormai solo nello studio di registrazione, con il capo chino verso la strumentazione, teneva stretti i pugni, le nocche erano ormai bianche per quanto aveva stretto, in quel momento due lacrime si staccarono lente dal suo viso. Erano le sue prime lacrime versate dalla morte di Akiko più di quindici anni prima, ma cosa ancora più eccezionale erano le prime lacrime versate per una ragazza. Non avrebbe mai potuto dimenticarle.  
 
 
Nami era seduta con le ginocchia al petto, nella tromba delle scale di emergenza della Kings Record, di sicuro il luogo più isolato dell’intera casa discografica. Con le mani sulla sua faccia cercava di mascherare il suo dolore.
Non sapeva se si sentiva così frustrata perché per la seconda volta era stata abbindolata da Kei o perché più semplicemente il suo cuore soffriva ancora una volta per colpa sua e della sua terribile freddezza.
Una mano si posò sulla sua spalla sinistra ridestandola dai suoi pensieri solitari.
Nami sollevò lo sguardo oltre le sue spalle e a sormontare la sua figura rannicchiata sulle scale trovò Roberto con un sorriso caldo e confortante.  A differenza di Kei che era come un inferno ostile Roberto era un paradiso calmo e rassicurante. L’amico italiano dopo aver girato per una quindicina di muniti l’aveva finalmente trovata e adesso le sedeva vicino con la busta dei biscotti ormai in mille pezzi tra le mani. Senza dire una parola l’aprì e ne tirò fuori un mezzo biscotto portandoselo alla bocca… Nami però glielo sfilò via prima che raggiungesse le sue labbra carnose, agguantando al volo anche la busta stretta nell’altra mano.
«No, non mangiarli. Saranno bruttissimi e poi sono anche inguardabili adesso…» affermò in imbarazzo stringendo al petto la busta.
Roberto prese con la sua la mano di Nami che stringeva la busta.
«Mio nonno diceva di non giudicare mai le cose dall’apparenza» affermò continuando a sorridergli.
«Lì rifarò…» tentò per la seconda volta Nami disperata. Roberto però le bloccò il polso della mano con la metà del biscotto. A differenza della presa arrogante di Kei quella mano sul suo polso era più delicata e meno opprimente. Lentamente la guidò verso le sue labbra carnose. Nami rimase immobile ad osservare la sua mano muoversi verso il viso di Roberto, quando le sue dita sfiorarono le labbra di lui, il suo viso avvampò. Senza esitare Roberto tirò il morso prima che lei potesse ritrarsi da quella presa.
«Sono davvero buonissimi» affermò compiaciuto dopo aver masticato per bene, mentre Nami l’osservava in ansia.
«Davvero?» lo squadrò perplessa, non era molto sicura che le stesse dicendo la verità.
«Prova tu stessa!» la spronò ad addentare l’altra metà del biscotto rimasta nella sua mano.
Nami squadrò perplessa quel mezzo biscotto.
“Sarà come darsi un bacio indiretto…” un po’ in imbarazzo ma senza esitare lo portò alla bocca.
Roberto aveva ragione non erano niente male. Lentamente emerse un leggero sorriso.
«Te lo avevo detto di non giudicare le cose dall’apparenza no?» ricambiò quel sorriso a sua volta. 
Nami era completamente conquistata dai suoi modi gentili, dai suoi occhi scuri e dal suo sorriso luminoso. Si, da quel momento avrebbe fatto di tutto per dimenticare Kei, non gli avrebbe più permesso di farle del male.
«Grazie» affermò dopo aver finito di masticare il biscotto nella sua bocca.
«Non dire sciocchezze! A cosa servono gli amici? E poi avevamo un accordo, ti avevo detto che avrei accettato il tuo aiuto solo se mi avresti permesso di aiutarti a mia volta. Quindi non devi ringraziarmi! Capito?». Roberto dolcemente portò via le ultime lacrime dal viso di Nami con una mano mentre la fissava con sguardo dolce e amorevole, sembrava quasi che con quel gesto avesse asportato ogni dolore dal cuore di Nami. La stessa sentì il suo cuore sussultare sotto il suo tocco, senza esitare oltre affondò il suo viso su petto di Roberto avvolgendo il busto di lui con le sue braccia esili e disperate. Roberto ricambiò accarezzandole i lunghi capelli neri e lucidi. Quel profumo di vaniglia inebriò ancora una volta le sue narici. Con il mento sulla testa di lei la teneva stretta tra le sue braccia. In un certo senso in quel momento entrambi si diedero conforto reciproco. Rimasero così per qualche minuto poi Nami sollevò il suo viso. Erano vicinissimi. Colto da un imbarazzo improvviso Roberto la distanziò tossendo in imbarazzo.
«Nami, sono sicuro che Kei non volesse dirti quelle parole. Penso che si senta proprio come quei biscotti in questo momento. Non giudicarlo troppo duramente, Anche se non lo da a vedere sono sicuro che tenga molto a te…»
Nami si sollevò dalla scale, senza dare una risposta a Roberto. Parlare di Kei era proprio l’ultima cosa che voleva fare.
Lui la seguì, adesso erano l’uno di fronte all’altro.
«Roberto, veramente credo sia arrivata la fine voglio arrendermi… »
Lui le cinse le spalle con le sue mani.
«Non smettere di crederci. Sono sicuro che presto le cose miglioreranno. Non smettere di lottare» Nami l’osservava disorientata, non sapeva se stesse dicendo quelle cose per incoraggiare lei o se stesso, ma la verità era che ci credeva fermamente. Anche lui non avrebbe smesso di lottare per Marika glielo si poteva leggere in faccia.
Vigliaccamente Nami, forse per non deluderlo o per non arrenderci all’evidenza dei fatti, acconsentì.
Rassicurato Roberto la salutò prima di uscire e raggiungere Kei.
Nami sapeva che quello non era il momento giusto per confessare a Roberto che era lui il ragazzo che amava. Se lo avesse fatto avrebbe corso il rischio di allontanarlo.
 
 
Londra
 
Erano passati due mesi, Marika si era ormai abituata al suo nuovo lavoro e i suoi compagni nel magazzino si erano rivelate dele persone davvero molto vivaci e allegre, compreso Carl che non si risparmiava qualche battutina a fine giornata. Grazie al cielo Marika ebbe raramente modo di scontrarsi con la figura arrogante e presuntuosa di Thomas. Il giovane direttore della sede londinese si vedeva sporadicamente nel magazzino. Le era capitato di incontrarlo una decine di volte mentre usciva per andare al lavoro. Avevano anche preso l’ascensore insieme,ma stranamente non le aveva mai rivolto nemmeno una parola. Sembrava impensierito da qualcosa. Come se i suoi pensieri fossero interessati da problemi così urgenti da impedirgli di salutare una dipendente in ascensore. Per uno strano motivo il modo ostinato con cui aveva preso a ignorarla la turbava non poco. Quel giorno avevano finito prima e così Carl aveva dato loro il permesso di tornare prima alle loro abitazioni. La cosa andava bene per Marika, quel pomeriggio aveva una visita medica. Doveva controllare lo stato del suo bambino o bambina questo ancora non le era lecito saperlo.
Era con Ambrogio che per quell’occasione si era messo a sua disposizione. Ovviamente gli aveva mentito dicendo che avrebbe dovuto fare una visita medica per altri motivi e impensierito si era proposto di accompagnarla.
Era nella sala d’attesa quando finalmente una bella infermiera bruna con degli occhi azzurri la invitò a entrare. Dopo i consueti esami di routine il ginecologo si risedette dietro la sua scrivania.
«Signorina Mastro, posso chiederle che lavoro fa?» Marika esitò per un attimo, spaventata che qualcosa non andasse al bambino.
«Lavoro in un magazzino, sposto scatoloni di stoffe e cose simili. Perché?» affermò in imbarazzo.
«Capisco, mi stupisco che non sia successo ancora niente alla bambina…»
«Bambina?» affermò sorpresa Marika. “Allora carotina è davvero una femminuccia?”
«Si signorina, ma non è questo il punto. Non deve fare più sforzi o farà un danno alla piccola. Mi ha capito? Adesso le sottoscrivo un certificato di gravidanza a rischio. Deve prendersi più cura della creatura che porta in grembo» lo ammonì guardandola oltre le sue lenti rettangolari. Marika acconsentì mentre affogava nella vergogna più totale.
L’uomo le porse il foglio.
Marika lo prese.
«Mi auguro che la prossima volta si presenterà anche il suo ragazzo…» affermò in una nota di rimprovero.
«io veramente…» improvvisò, ma l’infermiera venne a interromperli entrando con prepotenza nella stanza.
«Dottore abbiamo una paziente di là, è urgente, sembra sia in travaglio» affermò agitata.
Il medico senza esitazione saltò su dalla sedia e corse fuori. Marika sospirò e uscì.
Era nella limousine di Ambrogio che rifletteva. Tra le mani il certificato e l’ecografia della sua carotina. Cosa doveva fare? Non poteva di certo chiedere a Thomas di mentire a sua madre, anche perché era sicura non lo avrebbe mai fatto. Non poteva fare altro che continuare a lavorare. Non c’erano altre soluzione. Almeno per un altro mese, poi avrebbe trovato una soluzione. Anche perché la pancia iniziava a vedersi. Per quanto avrebbe potuto andare avanti nascondendolo? Le maglie larghe per quanto l’avrebbero ancora protetta?
«Signorina tutto bene?» le domandò Ambrogio osservandola dallo specchietto retrovisore della lunga auto elegante.
«Si, va tutto bene…» lo rassicurò con un sorriso tirato.
L’uomo storse il muso non proprio convinto della sua risposta.
«Signorina le dispiace se passiamo a prendere il signorino Thomas? Oggi mi ero proprio dimenticato che aveva una riunione di lavoro all’Hilton Hotel»
“Perfetto ci voleva solo questa! Vabbè non posso di certo fare la difficile dopotutto Ambrogio è stato così disponibile nell’accompagnarmi fin lì”.
«Non ci sono problemi» affermò sorridendogli.
«Perfetto allora faccio una piccola deviazione. Sa non me la sentivo di far aspettare il signorino oggi. È stato un mese molto duro per lui.»
“Si certo come no… al confronto la mia vita è una barzelletta… ma per favore…”
«Se non concluderà questo contratto, l’azienda perderà una buona visibilità anche nei paesi asiatici speriamo sia andata bene…». Dopo aver girato per una quindicina di minuti la macchina aveva appena fermato la sua corsa dinanzi il palazzo dell’Hilton Hotel.
Dopo qualche minuto qualcuno aprì lo sportello ed entrò in macchina sciogliendosi distrutto il nodo della cravatta. Era Thomas. Non si era reso conto di Marika dall’altro lato del sedile posteriore. Dalla sua faccia sembrava davvero distrutto.
Proprio mentre stava per riporre le carte nella sua ventiquattrore si accorse di lei.
«E tu cosa ci fa qui?» domandò sorpreso e impreparato. Fu Ambrogio a spiegare la situazione.
«Capisco» concluse laconico Thomas, tornado a riposizionare le carte nella sua borsa da lavoro, in quel frangete Marika intravide un nome che catturò subito la sua attenzione.
«Ehi, ma quello non è il nome di una nota casa discografica Giapponese?» gli domandò con interesse.
Il ragazzo sogghignò con orgoglio malcelato.
«Si è la Kings Record…»
«Giusto signorino, quasi dimenticavo, come è andata? È riuscito a conquistarsi questa commessa?»
«Non è stato facile ma ci sono riuscito!»
«Di che commessa si tratta?» domandò interessata Marika dando voce ai suoi pensieri.
«Nulla che possa riguardare voi del magazzino». Marika si trattenne ancora una volta dallo sputargli in uno degli occhi. Aveva capito che con le buone maniere si otteneva tutto quindi si trattenne per l’ennesima volta.
«A proposito di questo, non ti sembra di essere stato un po’ troppo ingiusto con i ragazzi del magazzino? Avevi promesso loro che gli avresti concesso una possibilità per dimostrati il loro valore e invece fino ad ora non lo hai ancora fatto. Immaginavo fossi un uomo corretto e di parola a cui non piace essere preso in giro o illudere gli altri, ma a quanto pare mi sbagliavo».
«Non sono pronti ecco tutto…» affermò colpito da quelle parole. Lui era tutto ma non un uomo che non mantenevala parola data. Era diverso da suo padre che non era riuscito a mantenere neanche una promessa fatta a suo figlio in lacrime.
«Perché non li metti alla prova?» provò ad insistere Marika.
Thomas rimase in silenzio soppesando quella possibilità. Dopotutto erano passati due anni e gli avevano già largamente dimostrato di essere veramente intenzionati a lavorare in quell’azienda, perché non lasciarli provare?
«Così sia…  ma come potrei giustificare questa scelta?» si domandò tra sé
«Potresti indire un bando di concorso aperto a tutti i dipendenti. Lasciando alla committenza la possibilità di scegliere tra i modelli, in questo modo non ci saranno imbrogli di alcun tipo, la committenza avrà una più ampia scelta e tanto per non guastare la responsabilità della scelta non ricadrà su nessuno se non sui committenti. Sarai rispettato per la tua benevolenza e ti conquisterai il loro rispetto, in più darai a loro uno stimolo maggiore a credere in quello che fanno. Per quanto può sembrarti difficile crederlo non mi fido ancora della tua parola per questo non scenderò da questa macchina finché non avrai sottoscritto un accordo tra di noi dove ti impegni ad indire il concorso… cosa ne pensi ti sembra un buon compromesso?» affermò con una mano sospesa.
Il ragazzo sorrise prima di stringere la mano della ragazza, in quel momento notò le carte e le ecografie sulle sue gambe.
«Ma quelle… cosa sono?» disse indicandole. Marika le ritirò immediatamente infilandosele in borsa.
«Nulla che possa interessare a un direttore di una Casa di Moda» affermò con la sua solita sfrontatezza.
Senza sollevare ulteriori domande Thomas recuperò un foglio e stilò un breve contratto, entrambi firmarono e Ambrogio fece loro da testimone adesso non si sarebbe più potuto tirare indietro.
Adesso finalmente sia lei, che Kat, Adam, Timothy e Carl avrebbero avuto una possibilità per dimostrare il loro valore a quel presuntuoso pallone gonfiato. Era arrivata la resa dei conti.
Thomas osservava quel contratto tra le mani, era proprio curioso di scoprire cosa avrebbe fatto suo padre a quel punto. Si sarebbe tirato indietro come quella volta quando era stato nominato Direttore o avrebbe reagito. Dopotutto era sempre stato solo un codardo in fuga dalle responsabilità capace di distruggere la fiducia delle persone che lo amavano con la stessa facilità con cui si soffia su una candela accesa per spegnerla. Aveva abbandonato lui e sua madre quella volta da vero vigliacco e non glielo avrebbe mai perdonato. Mai.

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Capitolo 20
*** LA FUGA ***


CAPITOLO 20
LA FUGA
 

 
 
Tokyo
 
Lo studio di registrazione era ancora illuminato a tarda notte. Al suo interno Kei e Roberto sedevano chini sui loro bloc-notes al lavoro sul testo della terza canzone. Questa volta però, la complicità conquistata nell’ultimo mese sembrava essere divenuta un vago ricordo del passato. Era evidente che lo scontro verbale avvenuto a causa di Nami quel pomeriggio aveva compromesso inevitabilmente il loro rapporto già labile. Il risultato? Un pezzo incoerente fatto di desideri e sentimenti contrastanti. Roberto e Kei non facevano altro che scontrarsi per la scelta delle parole. Entrambi avevano un’idea completamente diversa del tema di quella canzone. Per Roberto il brano doveva incoraggiare chi lo ascoltava a credere nell'amore fino in fondo, così da ottenere quello che si vuole, ricordando a chi lo avrebbe ascoltato che l’orgoglio non è nulla paragonato al dolore di perdere qualcuno di importante. Per Kei invece, quel brano doveva mettere in luce una visione più disillusa e diretta dell’amore. “Se lei non ti vuole non ti merita” sembrava gridare nel suo brano, ma tra le righe di quella canzone si leggeva chiaramente che non ne era pienamente convinto.   Se il più speranzoso dei due chiedeva alla ragazza di aspettarlo, l’altro orgoglioso l’allontanava come se non avesse bisogno di lei. Forse in una mossa difensiva, entrambi cercavano di proteggere se stessi dalla paura dell’abbandono. Se l’uno nutriva il bisognoso di ancorarsi disperato ad esso per non sentirsi abbandonato, l’altro l’allontanava orgogliasamente certo di poterne fare a meno, convinto che il tempo avrebbe lenito qualsiasi dolore.   Così, se da un lato Kei allontanava l’oggetto del suo amore, Roberto si ancorava ad esso disperatamente. Se il primo affermava che presto avrebbe dimenticato i suoi sentimenti, il secondo sosteneva che nulla li avrebbe mai cancellati dal suo cuore. Se l’uno era pronto a dimenticare, l’altro manteneva una posizione irremovibile. Quel brano rischiava di diventare un tira e molla inesauribile tra l’amare e il fingere di non amare, tra il soccombere ad esso disperatamente e il respingerlo per orgoglio. Un pensiero a dir poco contorto e controverso.
Era ovvio che prima o poi le loro personalità si sarebbero scontrate anche in campo musicale ma, a pochi giorni dalla data di consegna, quelle incomprensioni proprio non ci volevano.
Entrambi combattevano con tenacia per affermare la propria versione della canzone sull'altra.  Come se così facendo potessero conquistarsi la ragione assoluta. Un’assurdità bella e buona paragonata alla realtà dei fatti. Ma nessuno dei due sembrava rendersene conto.
Era pur vero che entrambi vivevano una situazione complicata, fatta di rinunce difficili d’accettare, in cui era facile commettere errori.  Roberto per colpa del suo amore per Marika, e Kei per i sentimenti che aveva scoperto di nutrire per Nami. La verità era che i due stavano affrontando lo stesso problema in modo diverso perché diversa era la loro visione del problema. Entrambi avevano dei vincoli, per Roberto il dover tenere fede a una promessa fatta al suo bisnonno e per Kei la promessa fatta ad Akiko che avrebbe sempre protetto Shin. Ognuno dei due aveva un buon motivo per perseguire con decisione la propria strada. Così, se Roberto era intenzionato a non rinunciare e a non arrendersi perchè in modo egoistico non poteva accettare che la storia d'amore con Marika fosse finita proprio per colpa sua, Kei aveva deciso di rinunciare a Nami perché consapevole di non poterle offrirle in quel momento l'amore che meritava, e avrebbe finito sicuramente con il farla soffrire, un dettaglio a cui Roberto, nella sua storia con Marika, non aveva dato molta importanza.
Nonostante i buoni propositi, entrambi avevano ceduto alla tentazione di vivere quell’amore proibito almeno per una notte, un errore che adesso pesava sulla coscienza di entrambi. Seppure reagissero in modo diverso, a torturarli erano però gli stessi problemi.
Se Roberto disperato inseguiva quella speranza con tenacia Kei sembrava essersi ormai arreso ad essa.
 
Dopo tre ore, non erano ancora giunti a un compromesso soddisfacente. Questo finché qualcuno non entrò nella stanza.
«Allora siete voi! Mi chiedevo chi altro malato di testa fosse rimasto a provare qui fino a tardi!» esordì il figlio del direttore.
«Toshi che ci fai qui a quest’ora? Sono le dieci passate!» constatò sorpreso Roberto. Il ragazzo in tuta entrò nello studio prendendo una sedia e occupando lo spazio vuoto tra i suoi due amici sorridendo.
«A che punto siete?» chiese con eccitazione spostando lo sguardo da Kei a Roberto, senza in realtà dare troppo peso all’osservazione dell’amico italiano.
«A un vicolo ceco…» affermò esasperato il più scorbutico dei tre lanciando in modo brusco il bloc-notes sul piano della console, poi sbuffando e spallandosi sulla sedia girevole su cui era seduto, stiracchiò le articolazioni delle braccia brontolando come al suo solito.
Toshi recuperò il quadernetto di Kei e lo confrontò con quello tra le mani di Roberto.
«Perché lavorate alla stessa canzone su due taccuini diversi?» affermò perplesso sollevando un sopracciglio.
«Cosa ti fa pensare che sia la stessa canzone?» gli chiese Kei avvicinandosi all’amico incuriosito. Nessuno dei due aveva ancora trovato un titolo soddisfacente che avrebbe potuto far sorgere certi pensieri in Toshi.
«I sentimenti mi sembrano gli stessi, ci vedo molta paura e disperazione, ma anche la speranza nascosta che quel qualcosa non finisca davvero. Avete pensato di unirli con strofe alterne? Mi piace l’idea di un animo tormentato. In amore non sempre si ha quello che si vuole, ne si fa quello che si vorrebbe fare o si dice quello che si vorrebbe dire e mi sembra che questa canzone esprima al meglio questo concetto… singolarmente non renderebbero, ma uniti funzionano alla grande…»
I due ragazzi ai lati di Toshi si scambiarono delle occhiatacce incerte. Nessuno dei due sembrava pronto a cedere a quel compromesso, però era pur vero che il tempo stringeva e che non potevano fermarsi proprio adesso. Occorreva mettere da parte l’orgoglio e convivere pacificamente per il bene del gruppo.
«Beh, effettivamente…» affermò Roberto in una nota amara distogliendo il suo sguardo orgogliosamente.
L'altro a sua volta sospirò rumorosamente,«sono così stanco che qualsiasi soluzione ormai mi va più che bene, l’importante è che questa tortura finisca il prima possibile…» lo seguì Kei tornando a spallarsi sulla sedia incrociando le braccia sullo stomaco.
«Perfetto! Allora se vi va, potrei ascoltare la traccia strumentale? Già che sono qui, mi piacerebbe aiutarvi con l’arrangiamento!» affermò il loro alto amico, eccitato all’idea di collaborare con loro.
«Come vuoi, ma sappi che qui ce né di lavoro da fare…» sottolineò Roberto recuperando un file audio e facendolo partire.
«Il duro lavoro non mi ha mai spaventato è lo stare fermo in attesa a stancarmi di più» lo spronò Toshi. Roberto sorrise all’amico mentre Kei roteava gli occhi esasperato verso il soffitto.
I tre finirono il lavoro che era già spuntato il sole tiepido del mattino.
La domenica era arrivata anche per i nostri tre instancabili lavoratori e con essa il tanto meritato riposo. Il loro periodo di formazione stava per terminare. Ancora cinque giorni e si sarebbero preparati al loro debutto. Sembrava solo ieri che avevano dato inizio a quella spericolata avventura esibendosi per strada al cospetto di quel pubblico che ancora adesso li seguiva con affetto.  
I tre uscirono dal palazzo respirando l’aria fresca e rigenerante del mattino. Gli alberi sul lungo viale avevano ormai perso tutte le loro foglie. Roberto sollevò la sua testa salutando il cielo sopra le loro teste, lo stesso che aveva accompagnato paziente la loro crescita e che adesso avrebbe finalmente visto gli Hope pronti a far conoscere il loro talento al mondo. Chissà se il mondo era pronto ad accoglierli paziente come quel cielo che aveva vegliato su di loro per tutto quel tempo! I tre sollevarono il loro volti bagnati dalla luce pallida del mattino verso l'alto.
“Nonno preparati presto brillerò così tanto che anche dal cielo riuscirai a vedermi. Aspettami, questa è una promessa!”
“Papà presto sarai orgoglioso di me. Non importa quanto tempo dovrà passare, ma io riconquisterò la tua fiducia facendo quello che amo!”
“Non temere Akiko presto riavremo la nostra casa. A qualsiasi costo riporterò Shin lì da te. Ti ho fatto una promessa e ho intenzione di mantenerla!”
 
Cinque giorni dopo…
 
Le giornate passarono rapide e finalmente il giorno della vigilia della consegna dei brani era arrivato. Erano le otto di sera e i ragazzi si trovavano nel loro appartamento nel dormitorio della Kings Record. Ognuno di loro sembrava completamente immerso nelle proprie attività. C’era chi leggeva un manga, chi ascoltava musica, chi giocava a mahjong  e poi c’era Jona terribilmente annoiato da quella monotona routine da tamburellare irrequieto con un piede sul pavimento.
«Ragazzi, che ne dite di fare qualcosa di spericolato?» propose con occhi supplichevoli.
«Cosa intendi per spericolato?» gli chiese Kei convinto che qualsiasi cosa avesse in mente l’amico avrebbe assicurato loro una punizione esemplare da parte di Andrea e Daisuke. Jona si sfregò le mani eccitato.
«Che ne dite di sgattaiolare fuori di qui? Sono mesi che viviamo da reclusi. Ormai gli unici posti che frequentiamo sono il dormitorio e la Kings Record. Che ne dite di scappare solo per una sera? Dopotutto è la nostra ultima notte di libertà. Da domani le nostre storie si riscrivono. Dopo che Kei e Roberto avranno consegnato le canzoni a Rio inizieremo la preparazione al debutto. Quindi perché non festeggiare?»
«Forse sarebbe meglio aspettare. Non è detto che debutteremo subito… » affermò Roberto attanagliato dal dubbio che il giorno a venire Rio decidesse di rimandare il debutto per colpa delle loro canzoni.
«Perché non dovremmo? I due mesi sono passati no?» gli chiese perplesso Take squadrando Roberto con occhi sottili. Era sicuro che i due stessero nascondendo qualcosa a lui e al resto del gruppo.
«Se non per il debutto potremmo festeggiare la fine dei due mesi di tortura…» si aggiunse Toshi.
«Adesso ti ci metti anche tu a dare manforte a questo ossigenato senza cervello?» replicò Kei sollevandosi dalla poltrona per raggiungere il frigorifero.
«Dai Kei, anche io voglio uscire di qui» provò a convincerlo Shin con due occhioni da cucciolo.
«Ok, ho deciso, si fa per alzata di mano. Chi è a favore di questa fuga alzi la mano» affermò il biondo alzando il braccio verso l’alto. Solo Shin, Toshi e Jona sollevarono le loro braccia al cielo, gli altri tre rimasero impassibili.
«Cavolo, e adesso che si fa? 3 contro 3 è un pareggio…» osservò Shin abbassando deluso la sua mano.
«Semplice, si rimane qui senza ficcarsi in casini inutili» gli rispose suo fratello dopo aver chiuso il frigo aprendo la sua lattina di birra e ritornando a sedersi sul divano.
In quel momento qualcuno bussò alla loro porta, Jona spostandosi un ciuffo dei suoi capelli biondi dal viso andò ad aprire. Un’enorme sorriso emerse sul suo volto liscio e candido. Davanti a sé si era appena materializzata una via di salvezza.
Erano Clara e Nami.
«Disturbiamo?» chiese incerta la più grande delle due.
«Ma quale disturbo… ci mancavano proprio due braccia in più…»
«Due cosa?» chiese Nami entrando nell’appartamento seguita da Clara.
«Stiamo organizzando una fuga…» gli spiegò suo fratello quando furono in cucina.
«Ah si?» chiese eccitata lei.
«Si, ma non tutti sono d’accordo… » affermò Toshi lanciando un’occhiataccia a Kei.
L’altro lo ignorò continuando a sorseggiare indifferente la sua bevanda alcolica.
«Abbiamo deciso di decidere per alzata di mano, ma la storia si è conclusa con un pareggio inconcludente» le spiegò Jona.
«Ma adesso che vi siete aggiunte voi c’è ancora speranza. Anche tu Nami sei una Tirocinante e puoi votare, sempre se l’idea ti interessa….»
Nami soppesò quella eventualità con crescente interesse. Dopotutto quella fuga era un modo come un altro per svagarsi. Con tutti gli impegni che aveva, tra le prove e i servizi fotografici, le ci voleva un momento per staccare la spina e ritornare a vivere come faceva un tempo.
«Io voto a favore» affermò sollevando la sua mano verso il soffitto.
Jona esplose di gioia.
«Yahoo!! Finalmente si esce!!!» esultò saltellando euforico per la stanza.
«Ok , ma come pensate di uscire di qui senza farvi notare?» si intromise Clara.
Toshi sorrise beffardo sollevandosi e allontanando le tessere del mahjong al centro del tavolo.
«Semplice, come ho sempre fatto, con la cartamoneta. Li ho corrotti una volta posso farlo anche adesso» affermò facendole un occhiolino d’intesa. Clara avvertì le gote avvampare per la rabbia e la vergogna. Come poteva dimenticarsi della storia che Toshi si era inventato per farla entrare quasi due mesi prima. Quegli sguardi lascivi se li sentiva ancora sulla pelle.
«Perfetto ragazzi! Allora è deciso, si esce!» sentenziò Jona.
Kei, Roberto e Take dovettero soccombere all’insistenza dei loro amici.
 
 
Per la felicità dei sei ragazzi e delle due infiltrate di quella sera, in giro a quell’ora tarda non c’era nessuno. Nessuna traccia del solito gruppetto di ragazzine euforiche, affamate di foto e autografi che ogni giorno si appostava all’ingresso in attesa del loro arrivo. 
«Perfetto! Li ho corrotti perché ci lascino liberi un paio d’ore. Ho detto loro che andiamo alla Kings Record per recuperare del materiale. Quegli idioti se la sono bevuta davvero»esordì Toshi raggiungendo il gruppo e sorridendo fiero. A quel punto sua sorella gemella tirò fuori dalla borsa sei paia di occhiali da sole porgendone uno ad ognuno dei membri degli Hope. Ovviamente lei e Clara non correvano il rischio di attirare troppo l’attenzione della gente, quindi per loro quel camuffamento non era necessario.
«Che idea! Di certo con questi non attireremo l’attenzione di nessuno. Chi vuoi che faccia caso a sei ragazzi incappucciati che di notte si aggirano con degli occhiali da sole sul naso…» constatò sarcastico Kei, mentre con una smorfia si infilava il cappuccio sulla testa.
Nami soffocò la propria rabbia in un respiro profondo.
«Se vuoi puoi anche non metterli, non è affar mio se qualcuno ti riconosce… Anzi, ora che ci penso, sarebbe davvero divertente vederti inseguito da un gruppo di ragazzine isteriche! Già me le vedo mentre cercano di strapparti via la felpa di dosso, o ancora mentre ti tirano per capelli strattonandoti come un pupazzo! Si, sarebbe una scena davvero esilarante!» gli rispose Nami incrociando divertita le braccia al petto. Kei stava per rispondere alle sue istigazioni quando la ragazza con il caschetto e gli occhi verdi venne a interromperlo.
«Ragazzi non è il momento questo di fare polemiche, direi invece, che sarebbe più opportuno allontanarsi di qui prima che qualcuno scopra il nostro imbroglio…» affermò guardandosi circospetta.
«Ha ragione Clara, forse è meglio stabilire una meta» le diede manforte suo fratello con i capelli neri e lucidi.
«Conosco un locale davvero molto carino in centro a Tokyo! È una discoteca, potremmo infiltrarci lì senza correre il rischio di essere riconosciuti. Le luci basse e la confusione ci aiuteranno a mischiarci tra la gente e poi mi mancano le mie baby, lì ci sono un paio di ragazze che mi aspettano. E magari anche voi troverete qualcuna con cui divertirvi stasera. Il 70% delle ragazze lì dentro non distinguerebbero un pastore tedesco da un pinguino…» disse l’ultima frase bisbigliando alle orecchie dei suoi amici. Ma Clara colse subito il doppio senso di quell’osservazione.
«Jona, sai di essere davvero viscido alle volte?» lo riprese disgustata.
Jona fece spallucce sorridendo sornione, «mi dispiace, sono fatto così. Non riesco a vivere senza ragazze!» le sorrise ammiccandole con nonchalance.
Nami incrociò le braccia allo stomaco indispettita, «scusami tanto ma noi cosa saremmo? dei vegetali? Non siamo ragazze anche noi?»
Il biondo si spostò il suo ciuffo dal viso con aria di superiorità, «perdonatemi non era quello che intendevo, è solo che ai miei occhi voi due siete come due suore. Le sorelle dei miei amici sono dei tabù. È una regola che mi sono imposto dopo che in America un mio amico mi ha quasi spaccato il naso perché mi stavo facendo sua sorella nel letto dei suoi».
Shin sorrise coprendosi la bocca con entrambe le mani. Kei gli diede uno scappellotto dietro la nuca squadrandolo con rimprovero.
«Beh, ragazze esclusi i dettagli disdicevoli, mi sembra il luogo migliore in cui andare per non essere riconosciuti», affermò Roberto cercando di calmare le acque. Nessuno oppose resistenza, così si mossero finalmente compatti verso la loro nuova meta di quella sera. Il treno arrestò la sua corsa, dopo quindici minuti erano finalmente giunti alla loro fermata. Jona, i due gemelli, Clara, Roberto, Shin, Kei e Take erano scesi in fila indiana da quel mezzo di ultima generazione.
«Venite. Vi faccio strada io» li esortò il biondo facendo segno agli altri di seguirlo.
Dopo aver camminato per altri quindici minuti giunsero dinanzi un enorme capannone. Roberto ne analizzò l’architettura industriale, sicuramente in passato veniva utilizzato come deposito. Adesso quell’ambiente un tempo inadatto ad ospitare delle persone, era stato ristrutturato in modo da poter accogliere una mole enorme di ragazzini esuberanti inclini a divertirsi senza freni fino all’alba.
Incappucciati e con i loro occhiali scuri sul naso, i sei avanzarono scortati dal Jona verso la struttura. Davanti a loro, sulla sinistra si trovava una lunga fila di gente accalcata in attesa di entrare, mentre sull'altro lato una corsia preferenziale completamente vuota. Jona senza esitazione la percorse sotto le occhiatacce indispettite degli altri giovani in attesa alla loro sinistra. Gli altri HOPE e le due ragazse a capo chino lo seguirono incerti. Come avevano immaginato, all’ingresso nessuno li fermò, erano bastate poche parole del biondo per lasciare loro spianata la strada.
“Jona ha davvero molte conoscenze a Tokyo”, si sorprese a pensare Roberto.
Finalmente nel mezzo di quel mare indefinito di corpi sudati che si dimenavano a suono di musica elettronica, sotto delle luci psichedeliche tra un di drink alcolico e l’altro, Jona riconobbe le sue “amiche”e senza esitare, bramoso di consumare i suoi istinti repressi, si allontanò dal gruppo.
Roberto non fece in tempo a trattenerlo per la maglietta.
“Maledizione, non dobbiamo dividerci!” pesò inquieto notando l’amico biondo disperdersi nella folla agitata accecato dal desiderio di saziare i propri appetiti sessuali.
«Secondo me le tinte gli hanno fatto male…» affermò Kei sospirando con gli stessi occhi preoccupati di Roberto. Che avesse avuto il suo stesso pensiero?
«Fratellone andiamo a prendere da bere?» gli chiese supplichevole Shin, Kei sogghignò avvolgendo con un braccio il collo del più piccolo, come per gioco.
«Siiii, ceeeerto, come no! Ti do un consiglio fratellino: dovresti prima aspettare che io sia completamente ubriaco per chiedermi di lasciarti bere con il mio consenso»
Shin rivolse gli occhi al pavimento deluso per l’ennesima volta dai divieti soffocanti di suo fratello maggiore.
Clara osservò la scena con stupore e approvazione. Dopotutto Roberto aveva ragione, anche se era freddo e incostante, Kei ci teneva davvero a suo fratello.
Tutti si lanciarono un po’ impacciati tra la folla. Roberto prese sua sorella per un polso spingendola al centro della pista, ballarono per  un tempo indefinito, poi a loro si aggiunsero anche Nami,Toshi e Take seguiti da Shin e Kei. Di Jona ancora nessuna traccia. Roberto, Kei e Toshi erano davvero preoccupati. Spesso i loro sguardi si incrociavano attanagliati dalla medesima preoccupazione.
Dopo una mezz’oretta i sette tornarono al bancone. Ognuno ordinò da bere e ovviamente Shin fu l’unico a optare per una bibita analcolica.
Toshi prendendo in disparte Kei e Roberto si allontanò dagli altri quattro ancora seduti vicino al bancone.
«dove diavolo si è cacciato Jona? » si interrogò il più alto dei tre.
«Possibile che non sia ancora con quelle due ragazze?» soppesò a sua volta Roberto preoccupato.
«Io direi di andarlo a cercare…» concluse Kei.
«Non penso sia una buona idea dividerci…» affermò Roberto.
Kei, indurì il suo sguardo gelido, «mancano solo venti minuti e poi dovremo andarcene di qui. Non abbiamo molto tempo per trovarlo. Dividerci è l’unica soluzione. Andremo solo noi tre. Gli altri ci aspetteranno qui. Se ci sparpagliassimo tutti sarebbe un problema»
Toshi acconsentì, e suo malgrado anche Roberto gli diede ragione. Così, senza esitare oltre, si allontanarono dal gruppo.
Prima di andare via però Roberto si avvicinò a Clara per spiegarle la situazione e raccomandarle di tenere d’occhio Shin e Nami durante la loro assenza. Take invece fu avvicinato da Toshi, il quale gli spiegò che era meglio lasciare qualcuno con le ragazze finché loro erano via. Ovviamente Take sapeva come muoversi nei locali ed era più sicuro che rimanesse lui con Shin e le ragazze se ci fosse stato bisogno di allontanarsi da lì velocemente. Una volta completate le raccomandazioni i tre ragazzi si divisero.
Roberto andò verso i bagni, Toshi andò a vedere nel privè poco distante da loro e Kei iniziò cercando tra la folla in pista e negli angoli sui divanetti.
Quando Roberto raggiunse il bagno trovò una folla accalcata di ragazzine con i telefonini tra le mani.
In attesa che qualcuno uscisse di lì. Subito in Roberto si fece largo un presentimento disarmante.
“Che qualcuno abbia riconosciuto Jona?”
In quello stesso momento il cellulare nella sua tasca vibrò era il suo amico scomparso. Allontanandosi indietreggiando con attenzione, in modo che nessuna delle ragazze lo notasse, rispose al cellulare.
«Dove diavolo ti sei cacciato?» gli urlò dall’altro capo del telefono.
«Rob sono nei casini. Quelle due sceme mi stavano aspettando con una bella sorpresa. Maledizione, cosa diavolo potevo saperne io che erano così avide di denaro.»
«Spiegati meglio» lo incitò Roberto ritornando calmo.
«Si sono fatte pagare per portare delle ragazze da me e farmi firmare autografi foto e Dio solo sa cos’altro hanno in mente quelle lì fuori. Adesso sono bloccato in bagno. Non posso uscire. Ti prego fa qualcosa! Non ti dico che odoraccio c’è qui dentro…»
«Aspetta lì, mi inventerò qualcosa». Detto questo riagganciò. Bisognava pensare in fretta prima che quella folla dietro il bagno aumentasse in modo esponenziale.
“Roberto, pensa… devi trovare una soluzione…” in quel momento qualcuno lo raggiunse alle spalle.
«Lo hai trovato?» era Nami.
«Tu cosa ci fai qui? Avevo detto a Clara di tenerti sott’occhio!»
«Clara non è mica la mia balia, io sono libera di andare dove mi pare e piace!» gli gridò contro indispettita. Una delle ragazze alla fine della lunga folla stava per voltarsi nella loro direzione attirata dal frastuono della giovane, quando Roberto senza esitare, chiuse la bocca di Nami con la sua mano trascinandola dietro una parete.
«Sei impazzita? Se urli in questo modo scopriranno anche noi!» affermò bloccandola con le spalle al muro. I loro corpi erano vicini.
L’aria calda che fuoriusciva dalle narici di Nami solleticò il palmo di Roberto che rabbrividì. Il ragazzo italiano era ancora fermo con la sua mano sulle calde labbra di lei. A disagio, si ritrasse, liberandola da quel placcaggio improvviso.
Nami era rimasta immobile a osservare gli occhi di Roberto indugiare sui suoi lineamenti come se qualche desiderio impuro avesse per un attimo attraversato i suoi pensieri. Vederlo in imbarazzo a causa di un contatto come quello le diede la flebile speranza che lui potesse nutrire dell’interessamento, se non altro fisico nei suoi confronti.
«Che succede qui?» subentrò Kei intromettendosi in quel momento intimo tra i due.
Roberto troncò immediatamente il contatto visivo con Nami, tornando a confrontarsi con la realtà critica del momento. Dovevano trovare una soluzione.
Kei squadrò carico di una riscoperta gelosia prima Roberto poi Nami.
«Jona è bloccato in bagno. Lo hanno riconosciuto. Dobbiamo trovare un diversivo per allontanare le ragazze e liberarlo. È a un vicolo ceco, dobbiamo creargli una via di fuga».
Kei puntò i suoi occhi furibondi su Nami.
«Lei cosa ci fai qui? Non doveva rimanere con Shin, Clara e Take?». La ragazza rimase in silenzio abbassando gli occhi al suolo, sapeva di aver sbagliato ad allontanarsi in quel modo, ma aveva così tanta voglia di raggiungere Roberto e stare da sola con lui che non si era resa conto delle conseguenze.
«Questo non ha importanza. Adesso dobbiamo trovare una soluzione…» affermò sicuro Roberto cercando di calmare i cocenti rimproveri dell’amico. Kei, spostano il suo sguardo spazientito da Nami all’amico italiano, proseguì «va bene… cosa proponi?»
«Non so ci vorrebbe un diversivo che distolga la loro attenzione…» i tre rimasero in silenzio.
Poi a Roberto si illuminò il viso.
«Ho trovato! Kei prendi Nami, e al momento giusto raggiungete Jona, aprite la porta fatelo uscire. Avete capito?»
«Cosa hai in mente?» gli chiese scettico l’altro.
«voglio distrarle e l’unico modo è uscire allo scoperto. Avvisate gli altri di andare via di qui, presto si scatenerà il putiferio!».
Nami si avvicinò a Roberto.
«Non vorrai mica…»
«Non preoccuparti per me, io me la caverò benissimo. Piuttosto tu vai via con Kei. Ci vediamo al dormitorio e non staccarti da lui per nessun motivo, se ti succedesse qualcosa non potrei perdonarmelo, mi hai capito?» la pregò accarezzandole il viso con occhi premurosi. Nami acconsentì sorridendogli. Kei strinse i pugni ingoiando l’ennesimo boccone amaro.
“Perché con lui è così mansueta mentre con me si comporta come un cane rabbioso?”
«Kei, allora io vado…»
il ragazzo con il ciuffo sull’occhio sinistro lo bloccò per un braccio.
«Come faremo a capire quando intervenire?»
«Non temere lo capirete…» detto questo Roberto si allontanò dai suoi amici, recuperando il cellulare e allontanandosi tra la folla.
Toshi era tornato dagli altri vicini al bancone.
«Dov’è mia sorella?» chiese squadrando i tre con aria preoccupata.
«Mi dispiace, l’abbiamo persa di vista» tentò di giustificarsi Clara.
«Maledizione! Questa non ci voleva!» affermò in ansia perlustrando sulle punte la pista in cerca di sua sorella. Poi il suo telefono insieme a quello degli altri vibrò. Tutti lo estrassero dalle loro tasche.
Roberto aveva mandato un messaggio a tutti.
 
Da Roberto:
 
Ragazzi Jona è in bagno, lo hanno riconosciuto e adesso è bloccato da una moltitudine di ragazzine fameliche. Non temete, ho una soluzione.
Per il momento vi chiedo di allontanarvi di qui il più in fretta possibile e raggiungere il dormitorio.  Dovete andare via di qui a qualsiasi costo. Non preoccupatevi, al resto ci penserò io.
Ps.
Toshi non stare in ansia per Nami, è con Kei, presto vi raggiungeranno con Jona al dormitorio. Ci vediamo lì. Adesso andate!
 
Tutti si scambiarono delle occhiate preoccupate e senza sollevare obbiezioni si fecero strada tra la gente che entrava nel locale. Take che conosceva le vie di uscita alternative a quella principale conduceva il gruppo, mentre Shin si teneva aggrappato alla felpa nera dell’amico, dietro di loro Clara e Toshi chiudevano la fila.
Proprio mentre Stavano per uscire Clara urtò inavvertitamente qualcuno, il contraccolpo fu così forte che cadde al suolo. Era un ragazzo tutto muscoli e niente cervello con al suo fianco una ragazza procace con un vestitino succinto e un trucco da pin-up.
«Ehi, guarda dove metti i piedi brutta scema che non sei altro!» la canzonò il ragazzo troneggiando su di lei. Toshi che aveva assistito alla scena intervenne aiutandola a rimettersi in piedi.
«Non dovresti scusarti invece di dire sciocchezze? o il testosterone ti ha distrutto anche quei pochi neuroni che ti ritrovavi?». Clara non poteva credere alle sue orecchie. Toshi l’aveva appena difesa da quel bullo?
«Ehi, cosa cazzo ti metti in mezzo tu!» affermò prendendo Toshi per il collo della felpa sollevandolo dal pavimento sbattendolo violentemente vicino al muro, in quel momento gli occhiali scuri di Nami gli scivolarono via dal naso, smascherandolo. La ragazza super truccata accanto al palestrato, strillò come indemoniata.
«Oddio è Toshi! È proprio lui!» .
Il giovane muscoloso squadrò perplesso prima la sua ragazza e poi Toshi ancora tra le sue mani. Cogliendo al volo quel momento di smarrimento il più alto degli Hope gli smollò un calcio nelle parti basse liberandosi. Presa per mano Clara la portò via da lì facendosi spazio a spintoni tra la gente che li additava.
Shin e Take erano già fuori. Di Toshi e Clara nessuna traccia, senza esitare oltre, il più grande dei due chiamò un taxi.
«Andiamo!» esortò il più piccolo.
«Non aspettiamo gli altri?» lo supplicò preoccupato Shin.
«Hai sentito cosa ha detto Roberto, dobbiamo andarcene di qui prima che si scateni il finimondo!»
A malincuore il più piccolo entrò nell’auto che immediatamente partì.
Proprio in quel momento Clara e Toshi sbucarono fuori dalla discoteca ansimando e correndo ancora mano nella mano.
«Dove diavolo sono Shin e Take?» si domandò sovrappensiero il più alto spostando il suo sguardo sullo spiazzale davanti la discoteca.
«Avranno preso un taxi» affermò Clara.
«Ottimo! Dobbiamo trovare anche noi un modo per andare via di qui…» proprio in quel momento una decina di ragazze sbucarono alle loro spalle.
Senza esitare Toshi tirò Clara a sè nascondendosi dietro un bidone della spazzatura. Erano rannicchiati al suolo, mentre lui la teneva stretta a sé. Clara non oppose resistenza. Il profumo di quel ragazzino che la teneva saldamente tra le sue braccia era così buono che per un attimo di dimenticò di tutto. In quel momento Toshi le sembrò un uomo maturo e sicuro di sé diverso dal bambino che aveva conosciuto un mese prima. Le sue gote arrossirono a quel pensiero. Dall’altra parte lui rimase vigile e attento pronto a scappare al primo accenno di pericolo.
Per loro fortuna le fans scatenate superarono il bidone senza accorgersi di loro. Toshi le vide deluse fare marcia indietro e tornare in discoteca.
L’avevano scampata per pochissimo.
Sospirando il ragazzo alto e imponente si sollevò recuperando le distanze da Clara.  La giovane si aggiustò un ciuffo dei capelli dietro l’orecchio.
«Cosa facciamo adesso?» improvvisò recuperando la propria posizione da ragazza matura.
«Chiamiamo un taxi» detto questo il ragazzo perlustrò nella tasca dei suoi pantaloni.
«Maledizione ho perso il portafoglio» esordì.
«Mi dispiace io non ho abbastanza soldi per pagare un taxi. Ma potremmo prendere la metropolitana» propose Clara. Toshi acconsentì.
Senza esitazione si spostarono a piedi verso la stazione.
Kei e Nami erano rimasti dietro il muretto in attesa che quel gruppo di ragazzine esaltate si allontanasse.
“Maledizione se Roberto non si sbriga, andarsene da qui sarà veramente impossibile!” pensava Kei in ansia.
Poi come per dare risposta ai suoi pensieri una voce attirò la sua attenzione e quella di Nami al suo fianco. Era Roberto.
«Salve ragazzi. Immagino che molti di voi mi conoscano.» le ragazze in fila dietro il bagno si voltarono colte di sorpresa verso la console del dj da dove Roberto aveva iniziato il suo discorso, senza esitare raggiunsero la pista liberando l’accesso ai bagni.
Approfittando di quella generosa occasione Kei e Nami corsero da Jona e dopo essersi fatti riconoscere, si fecero aprire la porta.  Una volta fuori, Jona spronò i suoi amici a seguirlo. Conosceva un’altra via d’uscita.
Con fermezza Kei prese la mano di Nami trascinandola via di lì. La stessa aveva ancora lo sguardo rivolto verso il palco su cui Roberto stava mettendo in scena il suo spettacolo, quando Kei la costrinse a seguirlo.
“Ti prego Roberto fa attenzione!”

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Capitolo 21
*** PER UNO STRANO CASO DEL DESTINO... SCOPRIRSI ***


 
CAPITOLO 20

 PER UNO STRANO CASO DEL DESTINO... SCOPRIRSI

 
 
L’asfalto risplendeva lucente sotto le chiare illuminarie urbane. I lampioni in quella strada deserta e buia spiccavano vivaci come lucciole notturne. La leggera umidità della notte aveva provveduto a distendere un sottile strato di acqua sulla distesa di nero catrame sotto i piedi dei due ragazzi. Toshi camminava accanto a Clara a capo chino e con sguardo serio e impensierito proseguiva sicuro per la strada di periferia. Per tutto il tempo, dall’inizio del loro viaggio in metropolitana al loro arrivo in quella strada desolata, i due ragazzi erano rimasti cocciutamente chiusi in un silenzio carico di preoccupazioni. Entrambi da bravi fratelli erano in ansia per la sorte di Nami e Roberto.
«Ti avevo detto che non c’era bisogno che mi accompagnassi fin qui» lo rimproverò Clara. Odiava che quel ragazzo insensibile vedesse il suo animo inquieto.
Ma nonostante avesse provato a insistere Toshi era stato irremovibile. Vista l’ora tarda e le poco raccomandabili strade di periferia, aveva insistito per scortarla fino all'orfanotrofio, non gli era sembrato il caso di lasciarla andare fin lì da sola. Lui avrebbe preso la metro successiva.  Senza voltarsi con il viso rivolto verso quella strada scarsamente illuminata le rispose, «non dire sciocchezze. Roberto avrebbe fatto lo stesso per Nami, quindi non farti troppi problemi Sorellona» concluse il discorso con un sorriso tirato.
Clara arricciò il naso, quel nomignolo la irritava terribilmente soprattutto se a pronunciarlo era quell’antipatico ragazzino viziato e lui lo sapeva benissimo. Con intenzione aveva continuato a usarlo per irritarla in modo da non farle dimenticare il loro primo incontro-scontro.
«Guarda che sono abbastanza grande per cavarmela da sola, non ho bisogno che tu mi faccia da scorta. Ti ricordo che sono più grande di te! E poi così finisco con il diventare io la vera irresponsabile tra i due. Se ti lasciassi tornare indietro tutto solo mi sentirei un adulto senza coscienza… Ho trovato! Appena saremo arrivati all'orfanotrofio chiameremo un taxi. Che razza di adulto manderebbe un ragazzino come te tutto solo in giro di notte!» affermò con convinzione.
Toshi la squadrò divertito senza ribattere.
«Che hai da ridere?» lo riprese lei seccata notandolo con la coda dell’occhio. Si stava prendendo gioco di lei ancora una volta, proprio non lo sopportava quando si comportava in quel modo.
«Sei davvero vecchia lo sai?»
“Cosa? Adesso sarei io la vecchia?” Clara non le reggeva più le sue istigazioni infantili. Per un attimo aveva visto un lato di Toshi maturo e affascinante in quella discoteca, ma adesso era tornato il ragazzino acido e immaturo incontrato un mese prima in ascensore, sempre pronto a canzonarla. Senza esitazione gli puntò un dito sull’alto petto.
«Ehi, sia ben chiaro, qui il problema non è che io sono troppo vecchia ma che tu ti comporti proprio come un bambino…». Toshi, prendendola per le spalle, la immobilizzò vicino a un muretto di recinzione. Il suo viso era vicinissimo, Clara impacciata tratteneva il respiro rossa in viso per l’imbarazzo.
«Se sono un bambino allora non dovrei riuscire neanche a immobilizzarti in questo modo o sbaglio?» gli ammiccò sorridendole sornione.
Clara congedò. Quel tono, quello sguardo e quella voce non erano di un ragazzino ma di un uomo…
Senza esitare lo allontanò, infastidita dall’imbarazzante sensazione di disagio provata.
«Finiscila di prendermi in giro Toshi. Dovresti portare rispetto per chi è più grande di te…» lo sgridò stirandosi la maglia alla meglio.
«Cavolo Clara, non pensavo fossi così vecchia d’aver dimenticato come si scherza?» la schernì riprendendo a camminare, lasciandosela dietro di qualche metro. Clara strinse i pugni.
«E questo lo chiami scherzare? Prendersi gioco degli altri non è divertente per niente…» gli gridò contro con tutta la forza che aveva nei polmoni. Toshi avanzò indifferente senza voltarsi. Clara diede una fugace occhiata alle sue spalle prima di aumentare il passo per raggiungerlo. Quella strada era veramente spaventosa di notte.
Con un po’ di fiatone era riuscita a raggiungerlo, ora era al suo affianco. Toshi aveva davvero un bel profilo.
«Posso farti una domanda?» la colse impreparata il ragazzo alto accanto a lei.
Clara sospirò, «dimmi…»
«Perché sei venuta qui in Giappone? Per te o per Roberto?»
Clara si arrestò costringendo anche Toshi a fermasi.
“Bella domanda, perché sono venuta? Per mio fratello ovvio, ma forse anche per me stessa… eppure…”
«Che hai? Dalla faccia si direbbe che non sai rispondere…»
«Non essere ridicolo, certo che so rispondere…» affermò contrariata.
Toshi spostò la commensurate delle labbra in un ghigno di sfida  « eppure non mi hai ancora risposto…»
«Adesso che mi ci fai pensare, non credo di essere venuta fin qui solo per Roberto, ma anche per me stessa… Eppure da quando sono arrivata in Giappone non ho fatto altro che pensare a lui trascurando la scrittura…»
«Allora scrivi ancora quelle storie?» si sorprese.
La ragazza acconsentì con convinzione, «la verità è che sono venuta qui in cerca di un’ispirazione. Ma per quanto mi sia sforzata non sono ancora riuscita a scrivere una sola frase. È davvero frustrante.»
“Ma perché ne sto parlando con lui? Come potrebbe mai capirmi?” si sorprese a pensare spiandolo con la coda dell’occhio pronta a incassare una delle sue solite battutine sarcastiche. Ma al contrario delle sue aspettative Toshi continuò a camminarle accanto senza dire una parola.
«Che sciocca, forse dovrei rinunciarci, dopotutto penso di aver perso il mio tocco…».
Toshi si arrestò sbarrandogli la strada con occhi carichi di una energia nuova e prorompente.
«Clara, è ora che tu inizi a pensare di più a te stessa e meno agli altri. Roberto è grande ed è capace di cavarsela da solo. Se non sei riuscita a scrivere fino ad oggi può essere dovuto al fatto che  i tuoi pensieri sono stati votati unicamente a tuo fratello. Ma anche tu hai il sacrosanto diritto di realizzare i tuoi sogni!» il tono che stava usando Toshi era così combattivo che per un attimo Clara ebbe il dubbio stesse parlando anche per se stesso. Che anche lui avesse provato quel senso del dovere che l’affliggeva notte e giorno?
«Toshi, non credo sia solo questo, forse mi sono arrugginita dopotutto…» proseguì cercando di aggirarlo a capo basso.
Ma lui la bloccò per la seconda volta parandosi davanti a lei, «non dire sciocchezze… le capacità innate non spariscono come niente, bisogna solo continuare a credere in esse come in passato. Non lasciare che il senso del dovere intralci le tue passioni. Non farlo, perché finiresti con l’odiare te stessa per questo motivo.»
Clara non credeva possibile che quel ragazzino immaturo le avesse appena dispensato un consiglio così prezioso.
«Ci proverò, grazie Toshi». Gli occhi di Clara si illuminarono per la prima volta quella sera e Toshi ne rimase folgorato, c’era qualcosa di così stranamente magico e insolito in quel momento che non avrebbe voluto interromperlo.Eppure gli bastarono due semplici colpi di tosse per troncare quel delicato coinvolgimento di emozioni.
«Direi di sbrigarci, si sta facendo molto tardi e Yuki sarà in pensiero per te…»Clara acconsentì riprendendo a camminare al suo fianco.
Toshi più la osservava e più si rendeva conto di quanto fossero uguali. Entrambi avevano rinunciato per troppo tempo ai loro sogni per sostenere le aspirazioni e i desideri delle persone amate. Entrambi avevano sentito quel senso del dovere premere egoisticamente sulle loro esili spalle. Entrambi dovevano essersi sentiti soli, abbandonati e incompresi almeno una volta nella loro vita. Toshi era sempre stato affascinato dal modo con cui Clara si prendeva cura di Roberto, sin da quando erano piccoli. L’aveva ammirata e presa ad esempio. Per quanto le avesse insegnato lei in passato era arrivato forse finalmente il momento per lui di ricambiarle il favore?
Guardandola illuminata dalle fredde luci artificiali sopra le loro teste, Clara le sembrò insolitamente fragile e lontana, così misteriosa e affascinante. Era veramente bella. C’era qualcosa che lo spingeva a voler sapere di più su di lei ma quello a spingerlo non era semplice curiosità ma sincero interesse. Improvvisamente, quella ragazza più grande e lontana ma allo stesso tempo vicina e amica aveva iniziato a interessargli come donna….
«Clara posso farti un’altra domanda?»
«Certo» acconsentì lei fissando distrattamente il suo cellulare nella speranza di ricevere un messaggio da suo fratello.
«Non hai alcun rimpianto per essere andata via dall’Italia così improvvisamente? Non hai dovuto lasciarti nessuno di importante alle spalle?», Clara ebbe una fitta allo stomaco, perché le domande di Toshi erano così dirette? Era come se sapesse dove andare a colpire per farle più male. Come se volessero metterla di fronte alle sue paure e alle sue insicurezze più grandi… La cosa iniziò a spaventarla.
“Certo che ho tanti rimpianti, rimpiango di non aver potuto salutare la mia migliore amica e poi c’è anche quel ragazzo… Luca… Chissà se mi aspetterà come ha detto…”
«Tutto bene?» le chiese preoccupato Toshi notando la sua faccia triste.
«Si, si…» affermò con fermezza Clara portando un ciuffo dei suoi corti capelli dietro l’orecchio.
Proprio in quel momento il cellulare di Toshi squillò. Era un messaggio d Take, in cui l’amico gli riferiva che lui e il piccolo Shin era appena arrivati al dormitorio.
«Chi è?» chiese in apprensione Clara sporgendosi su di lui per sbirciare sullo schermo del suo cellulare, con la speranza che si trattasse di notizie riguardanti suo fratello. Toshi per un attimo avvertì il profumo di Clara farsi più intenso e inondargli le narici. Era così dolce e rassicurante, come un vecchio profumo che ti riporta alla mente i momenti felici del passato. Recuperando qualche centimetro le rispose, «Take e Shin sono appena arrivati al dormitorio» affermò in una nota amara riponendo il cellulare nella tasca dei suoi jeans. Clara lo vide abbassare gli occhi al suolo. Dal suo viso affranto e deluso era chiaro come il sole che anche lui fosse in pensiero per sua sorella.
Proprio in quel momento il suo cellulare squillò una seconda volta. Questa volta era Nami.
Senza esitare si accinse ad aprire il messaggio proprio come aveva fatto con quello di Take.
 
Da: Nami
Fratellone stai tranquillo sono con Kei e sto tornando al dormitorio.
 
Toshi emise un sospiro di sollievo. Clara non ebbe bisogno di chiedergli il perché stesse sospirando. Sicuramente quello che aveva appena letto era un messaggio da parte di Nami. Con amarezza tirò fuori anche il suo cellulare. Ancora nessun messaggio per lei da suo fratello.
Una leggera pressione sulla spalla destra la fece trasalire. Era stato Toshi.
«Vedrai che se la caverà.» la rassicurò con una mano sulla sua spalla. Clara annuì senza pronunciare una parola, se fosse stato un altro a dirgli quelle parole probabilmente non avrebbero avuto lo stesso effetto rassicurante. Toshi sapeva cosa significava essere responsabile di qualcuno proprio come lo era lei. Erano uguali dopotutto. Nonostante l’età qualcosa aveva iniziato ad unirli.
 
 
 
La discoteca aveva perso tutte le sue luci psichedeliche. Un blackout improvviso aveva interrotto la performance di Roberto che cogliendo quell'occasione con furbizia si era disperso tra la gente confusa nella sala. Doveva uscire di lì.
Il suo piano aveva funzionato alla perfezione. Dopo aver analizzato con attenzione quella struttura aveva localizzato la cabina di regolazione dell’impianto elettrico.
Dopo aver lasciato Kei e Nami vicino i bagni, si era buttato a capofitto nella folla per raggiungerla. Era stato proprio un ragazzo della sua stessa età con una sigaretta in mano a suggerirgli quell’idea miracolosa. Dopo avergli chiesto in prestito una delle sue sigarette, era corso alla cabina e, senza dare troppo nell’occhio, aveva infilato all’interno della stessa la sigaretta accesa, appena sequestrata, sotto una decina di fazzolettini di carta. Se tutto andava secondo i suoi calcoli, prima che la corrente saltasse, avrebbe avuto il tempo di fare la sua apparizione, attirare le ragazze che erano vicino i bagni e fare in modo che Kei,Nami e Jona si allontanassero di li senza attirare troppo l’attenzione.
Grazie al cielo quel piano improvvisato aveva funzionato.
Dopo essersi fatto avanti a spintoni tra la folla infinita di ragazzini agitati e disorientati che cercavano una via d’uscita, Roberto era finalmente uscito fuori dal locale. Tagliando l’aria con un braccio, fermò il primo taxi in circolazione davanti al locale. Senza esitazione lo prese per tornare al dormitorio. Finalmente poteva rilassarsi. Tirato dalla tasca il suo telefonino si decise a mandare un messaggio a sua sorella e agli altri.
In quel momento qualcosa turbò i suoi pensieri. Chissà se anche i suoi amici avevano trovato un modo per raggiungere il dormitorio.
 
 
Kei e Nami camminavano per strada in cerca del loro amico ossigenato disperso per la seconda volta. Lo avevano perso di vista subito dopo quel blackout improvviso che, se da un lato aveva concesso loro una preziosa via di fuga dall’altro aveva malauguratamente creato anche una confusione ingestibile. Purtroppo per loro la gente si era dimenata in modo così burrascoso da costringerli a seguire la corrente umana senza poter fare molto per opporvisi. Così nel caos creatosi all’interno della discoteca Nami e Kei stretti per mano, avevano inevitabilmente perso d’occhio Jona ancora una volta. Adesso erano per le strade di Tokyo in cerca del loro amico biondo.
«Se solo tu non  avessi dato ragione a quel testone ossigenato tutto questo non sarebbe successo! Immagino ne sarai soddisfatta adesso!» affermò contrito Kei, rivolgendosi a Nami.
«Cosa centro io in tutto questo?» lo riprese lei.
«Lasciamo perdere…» sospirò esasperato dalla cocciutaggine della ragazza.
«No, non lasciamo perdere!!! Non è colpa mia se Jona non sa contenere i propri appetiti sessuali! Ma che ne discuto a fare con te, questi non sono di certo problemi che tu potresti capire. A differenza sua, tu non hai sicuramente bisogno di questo tipo di distrazioni, giusto? Per te le ragazze sono d’intralcio, dico bene?»
Kei si arrestò, fissando Nami con degli occhi che se solo avessero avuto il potere di farlo l’avrebbero incenerita.
Stranamente questa volta Nami non si fece sopraffare da quello sguardo che in passato avrebbe avuto il potere di metterla al tappeto, al contrario questa volta sollevò il proprio mento con orgoglio, snobbandolo e proseguendo con sicurezza per la sua strada.
Kei la raggiunse bloccandola per un polso, costringendola a prestargli attenzione.
«Tu pensi di avermi capito, ma non sai un bel nulla di me!» le gridò contro infervorato dalle sue provocazioni.
Nami si divincolò infastidita liberandosi «hai ragione, pensavo di conoscerti, ma non è così. Pensavo tu fossi un ragazzo onesto e corretto, protettivo e amorevole, che sotto quell’armatura nascondeva un animo gentile, ma alla fine mi sono sbagliata. Sei semplicemente spregevole! Tranquillo, ormai ti ho capito e se non fosse stato per te non sarei stata capace di vedere più in là del mio naso. Se non mi avessi respinta per tutto questo tempo probabilmente non avrei notato..».
«Roberto?» Nami si zittì interrotta da Kei. Il ragazzo prese un respiro profondo spegnendo gradualmente la sua ira.
«Senti Nami, so che mi odi e che probabilmente quello che ti dirò ti scivolerà addosso come acqua, ma stai attenta. Lo sto dicendo non con arroganza o presunzione ma come amico. Lui, ti farà soffrire, lo so. Dovresti rinunciarci prima che sia troppo tardi.»
«Si può sapere cosa ti ho fatto? Perché non fai altro che ripetermi questo! Se non sei tu non può essere nessun’altro? È questo che mi stai dicendo? » Nami esplose non contenendo più le lacrime e la frustrazione.
Kei la prese per le spalle fissandola con indulgenza, quegli occhi tinti di compassione ferirono Nami più della sua solita e crudele indifferenza.
«No, non è quello che intendevo. Tu meriti qualcuno migliore di me e di Roberto. Tu meriti qualcuno che ti metta al primo posto nella sua vita. Ho visto troppe persone soffrire per questo motivo e non voglio vedere soffrire anche te…» Nami si acquietò, la sua rabbia sfumò lentamente lasciando spazio alla consapevolezza. Kei aveva ragione, al momento Roberto aveva nel cuore qualcun’altra ma prima o poi le cose sarebbero cambiate. Con Roberto sarebbe stato diverso, questa volta non voleva perdere.  A disagio dalla sincerità delle parole di Kei, la ragazza dai lunghi capelli castani reclinò il capo fissando la punta dei suoi piedi.
«Nami» la richiamò lui scuotendola con delicatezza, lei tornò a rispecchiarsi nei suoi occhi scuri, «non voglio più litigare con te. È davvero troppo stancante per i miei gusti, quindi questa sarà l’ultima volta che ti dirò di rinunciare a Roberto. Dopotutto la vita è la tua io non posso impedirti di seguire il tuo cuore, ma sappi che se ti farà soffrire potrai venire da me. Magari potresti scoprire che infondo non sono poi così spregevole come pensi…»
Nami non poteva credere alle sue orecchie? Kei gli stava davvero offrendo la sua amicizia? Quel ragazzo arrogante, indifferente e prepotente le stava davvero proponendo di starle vicino come amico?
«Non fraintendere, non ho altri fini…» puntualizzò notando lo sguardo sconcertato della ragazza.
«Io… io…» Nami non sapeva cosa rispondergli. Fino a quel momento aveva visto Kei in diversi modi, ma mai nelle vesti di amico.
C’era qualcosa di diverso nei suoi modi, nei suoi occhi e nelle sue parole. Sembrava essere sinceramente preoccupato per lei. Il cuore nel suo petto gioì egoisticamente per quell’interessamento inaspettato e forse proprio per questo motivo si sentiva impreparata a dargli una risposta. Proprio ora che il suo cuore aveva finalmente iniziato ad accettare la sua assenza, il ragazzo che aveva amato al di sopra di se stessa per tutti quegli anni e che l’aveva sempre respinta, le aveva appena proposto di essere suo amico.
“Cosa faccio? Possiamo davvero essere amici noi due?”
Kei, con un movimento lento e misurato le asciugò una lacrima dal viso, sorridendole con dolcezza. Nami vide quel sorriso emergere per la prima volta sul quel viso duro e indifferente e non poteva ancora credere che Kei le stesse concedendo un lusso simile. Aveva cercato quel sorriso per anni e adesso che aveva smesso di cercarlo era arrivato a confortarla.
Senza aspettarsi una risposta Kei prese Nami per mano spronandola a proseguirlo per la strada del ritorno.
«Andiamo, se tuo fratello ci vede arrivare tardi se la prenderà con me…».
Nami ancora stordita non gli rispose, si lasciò semplicemente trascinare da Kei. La testa sul suo collo era stranamente leggera e ogni cosa intorno a sé aveva perso consistenza. Nel suo cuore il terrore che quell’amicizia non avrebbe mai funzionato… perché forse il suo cuore era ancora troppo confuso o perché forse a essere ancora troppo confuso era il loro rapporto.
 
 
Jona era per le strade di Tokyo, aveva il fiatone e delle fitte allucinanti al fianco destro. Camminando zoppicando per le strade deserte cercava disperato un posto in cui trovare riparo.
«Eccolo lì!» affermò alle sue amiche una ragazza con il trucco appariscente una minigonna e dei tacchi ai piedi di almeno 12 centimetri.
“Maledizione! Come fanno a correre così velocemente con quelle dannate scarpe ai piedi?” aumentando il proprio passo, Jona si ritrovò catapultato in un vicolo ceco.
“Maledizione e adesso?” Era spacciato. “Questa è la fine.” pensò disperato portandosi una mano al fianco e raggiungendo la parete di fondo in affanno. Appiattendosi contro di essa si maledì per quella serata catastrofica che lui aveva contribuito a plasmare.
Quando le luci nella discoteca erano saltate, aveva perso di vista Nami e Kei e tanto per non farsi mancare nulla, una volta messo piede fuori dalla struttura, quattro ragazzine riconoscendolo nelle sue vesti più famose avevano iniziato a inseguirlo come possedute. Per quanto avesse provato a seminarle alla fine quelle erano riuscite a raggiungerlo. I suoi pensieri furono richiamati alla realtà disarmante di quel momento da delle voci acute e femminili che si avvicinavano.
Fu in quel momento che una porta secondaria che si affacciava nel vicolo ceco, si aprì. Un uomo alto e magro con i capelli brizzolati e un camice da barista gli fece segno di entrare. In controluce Jona non poté distinguere al meglio i suoi lineamenti ne intuire dalle espressioni del suo volto quali fossero le sue intenzioni, ma dopotutto che altra scelta aveva? O quell’uomo ambiguo o quelle quattro  ragazze esaltate.
«Presto ragazzo!» lo esortò l’uomo porgendogli una mano. Jona senza esitare oltre l’agguantò e subito si sentì trascinare all’interno del locale. Una volta metabolizzato lo shock si rese conto di essere nel retro di un bar.
L’uomo che lo aveva soccorso aveva un viso affabile e gentile. Con occhi preoccupati lo ammonì di aspettarlo lì. Jona si accasciò al suolo cercando di recuperare le forze perse fino a quel momento stringendosi su se stesso per il dolore.
Dopo una decina di minuti lo raggiunse porgendogli la sua mano per la seconda volta. Lui la strinse lasciandosi aiutare a rimettersi in piedi.
«Non sembri avere una bella cera ragazzo! Vieni, ti offro qualcosa da bere» lo invitò sorridendogli e dandogli una pacca dietro la schiena.
«Grazie, ma non ho soldi con cui poterla ripagare. Ho perso il mio portafoglio mentre correvo…»
«Non preoccuparti Jona, offre la casa» gli ammiccò complice.
«Lei… lei…» Jona era terrorizzato, quell’uomo allora lo aveva riconosciuto.
«Tranquillo, non dirò a nessuno che sei qui…» lo rassicurò. Jona finalmente tirò un sospiro di sollievo.
Parlando i due raggiunsero finalmente l’atrio del bar. Era deserto. Jona diede un’occhiata al suo orologio da polso, le lancette segnavano quasi l’una. Effettivamente a quell’ora tarda era davvero difficile avere clienti. Fu in quel momento che il ragazzo notò una ragazza con gli occhiali da sole addormentata con la testa sulle braccia conserte sull’ultimo tavolo vicino la vetrata. In agitazione retrocedette di qualche passo. L’uomo però lo rassicurò.
«Tranquillo, non ti riconoscerà… Vai pure a sederti di fronte a lei. Se c’è una cosa che ho imparato grazie alla mia professione è che non bisognerebbe mai bere da soli. I piaceri della vita bisognerebbe sempre condividerli con qualcuno». Jona abbastanza perplesso fece come gli fu detto. Cercando di fare meno rumori possibili prese posto davanti alla giovane dai capelli neri, con delle labbra rosse e carnose, addormentata come Biancaneve in attesa che il suo principe azzurro la risvegliasse.
Guardandola in quella posizione Jona si sorprese a riflettere su quale potesse essere stato il motivo ad aver spinto quella ragazza a indossare degli occhiali da sole e ad addormentarsi in quel bar a quell’ora tarda.
 “Non sarà anche lei un personaggio famoso in fuga? Questo spiegherebbe almeno i suoi occhiali da sole…” si interrogò perplesso. Possibile che Biancaneve si trovasse lì per il suo stesso motivo?
A interrompere il flusso dei suoi pensieri fu l’uomo alto intracciandogli la visuale con una tazza di té caldo e fumante, che prontamente depose sul tavolino davanti a lui. Quell’impercettibile suono ridestò la giovane dal suo quieto sognare.
Jona la osservò stiracchiarsi contorcendosi in mille smorfie curiose.
«Grazie per il tè…» affermò prendendolo e tirandoselo a sé.
Jona storse il muso, Quella bevanda era per lui.
«Scusami, ma quella tazza sarebbe per me…» la riproverò indispettito. La giovane si fermò con la tazzina a mezz’aria. Poi riportandola sul pattino si sporse leggermente in avanti.
«E tu chi saresti?»
Jona non poteva crederci. Davvero quella ragazza non lo aveva riconosciuto?
«Suvvia ragazzi non litigate. Adesso te ne preparo subito un’altra ragazzo…» cercò di intervenire l’uomo tornando dietro il bancone.
La giovane gettando aria dal naso recuperò la tazzina davanti a sé bevendone il contenuto con arroganza. Jona la squadrava perplesso.
“Esistono davvero persone così strafottenti nella realtà?”
«Cosa hai da guardare?»
Jona incrociò le braccia sul tavolo.
«Niente…» affermò indispettito evitandola con lo sguardo.
L’uomo dietro il bancone sorrideva divertito e Jona si chiedeva cosa avesse tanto da ridere.
Subito la tazza di tè arrivò anche per lui.
«Ecco ragazzo…» esordì l’uomo alto e brizzolato porgendogliela come prima.
Jona la bevve in silenzio.
«Fammi indovinare, non sarai mica un altro di quei ragazzi in fuga da una ragazza che hanno appena scaricato?»
Jona quasi sputò fuori dalla bocca il suo tè. Era di lui che stava parlando quella ragazzina?
«Dal tuo silenzio immagino di aver azzeccato. Devi essere appena uscito da una discoteca, puzzi di fumo e alcolici, sicuramente avrai abbordato qualche ragazzina di passaggio e non sapendo come scaricarla devi esserti rifugiato qui dentro… Banale… Non li reggo proprio i ragazzi immaturi e vigliacchi come te…»
«Senti un po’, non dovresti giudicare le persone dalle apparenze. E comunque non è come sembra…» cercò di difendersi.
«E come sarebbe sentiamo!»
Jona si morse il labbro inferiore. Non poteva di certo rivelarle la verità, che lui era una star inseguita da un gruppo di ragazze affamate di foto e autografi.
«Lasciamo perdere, non capisco perché dovrei giustificarmi con una perfetta sconosciuta come te» concluse seccato, riprendendo a bere il suo tè.
«Come immaginavo è proprio così… che tristezza…»
«STi ho già detto che non è come pensi e comunque se la metti cosi potrei dire la stessa cosa di te. Con quegli occhiali da sole sembra tu ti stia nascondendo da qualcuno O SBAGLIO? Non sarai in fuga anche tu come me?»
La ragazza sorrise amaramente.
«Può darsi… Anche se a differenza tua, non sono io a volermi nascondere al mondo ma il mondo a giocare a nascondino con me. Ma cosa può capirne un ragazzino superficiale, immaturo e vigliacco come te. Non vale nemmeno la pena di sprecare il mio prezioso fiato per spiegartelo.» Sporgendosi oltre il tavolino che li divideva la ragazza con la pelle candida e le labbra rosse tastò la maglia di Jona come per valutarne la qualità del tessuto.
«EHI! Cosa fai?» la allontanò infastidito Jona.
«È molto costosa. Come immaginavo…» concluse tornando a sedersi. Jona non capiva.
«Cosa intendi?»
«Due sono le ipotesi :o quella maglia è un caso o sei il classico figlio di papà che non si è mai guadagnato nulla con il suo sudore. Eppure, considerando il modo in cui hai reagito quando ho preso la tua tazzina di tè, desumo che tu non sia una persona abituata a condividere con gli altri… il tuo carattere prepotente non fa che avvalere la seconda opzione. Dimmi non ti pesa vivere alle spalle dei tuoi genitori? Aspetta, non dirmelo… non sarai il classico figlio unico che si rifà con il sesso consolatore per soffocare la mancanza di affetto da parte dei suoi genitori…»
Jona era immobile e paralizzato dalle parole di quella ragazza. Come aveva capito tutto questo solo da un indumento.
“Cosa pretende di sapere questa qui su di me?”
Sbattendo prepotentemente i palmi sul tavolo si sollevò sfidando la giovane con occhi carichi di risentimento.
«Sai cosa ho capito di te invece? Che hai dentro così tanto odio che non perdi occasione per scaricarlo su chi ti passa vicino! Sei solo una stronza che pensa di conoscere gli altri ma che in realtà non conosce neanche se stessa! Ecco cosa sei!» detto questo Jona si allontanò dal tavolo, salutando l’uomo dietro il bancone e uscendo dal locale.
Quando la porta fu chiusa il barista si sedette al posto che poco prima era stato di Jona.
«Hana, come al solito hai esagerato. Possibile che tu non riesca mai a farti degli amici?»
«Non è colpa mia! Non ho bisogno di gente che non sa accettare la realtà per quella che è! I codardi e i vigliacchi non fanno per me dovresti saperlo papà. Adesso aiutami ad alzarmi. Non ho neanche il mio bastone».
L’uomo sospirando aiutò la figlia ad alzarsi. Arrancando l’aiutò a raggiungere la scala di servizio che conduceva al piano superiore, dove era il loro appartamento. 
«Mi dispiace Hana, sono un padre inutile…»
La ragazza si arrestò prima di imboccare la scalinata. Prese tra le sue mani il volto del padre. Anche se non poteva vedere il suo viso, conosceva così bene le pieghe del suo volto da capire solo sfiorandole che era triste e sconfortato.
«Papà, non è così e lo sai.»
Accogliendo quel gesto amorevole l’uomo sorrise, sfiorando con le sue le mani fredde della figlia, ancora sul suo volto.
«Un giorno troverò i soldi per l’operazione e allora tornerai a vedere come un anno fa. Te lo prometto!»
«Lo so papà. Adesso però sono stanca.» L’uomo lasciò libera la figlia di sciogliere quel contatto rinfrancante dal suo viso.
«Buonanotte papà!»
«Buonanotte piccola mia!». Sorridendo dietro quelle lenti oscurate Hana salì i 34 gradini che conducevano all’appartamento sovrastante il bar. Come ormai faceva da un anno, nella totale oscurità della sua cecità trovò la porta della sua stanza, poi contando i 10 passi e mezzo giunse al suo letto. Dopo essersi seduta, diede tre giri e mezzo alla sua sveglia sul comodino. Dopo aver messo il pigiama che era sempre sotto il suo cuscino si coricò. Un altro giorno senza sole ne stelle era passato, un altro giorno senza luce ne colori era trascorso senza che lei potesse vederlo. Eppure in quel giorno uguale a molti altri qualcuno le aveva scosso la coscienza... Forse quel ragazzo aveva ragione. Era davvero piena di odio... odio per se stessa.


NOTE:
Scusate l'assenza, sono imperdonabile. Spero che questo nuovo capitolo possa piacervi. A dire il vero ero molto incerta sull'evoluzion della storia, per questo ho aspettato un pò a publicarlo. Spero che ne sia valsa la pena di attenderlo cosi a lungo.  Se vi fa piacere, fatemelo sapere in una recensione. Grazie^^.

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Capitolo 22
*** SENSAZIONI CHE CAMBIANO ***


CAPITOLO 21
SENSAZIONI CHE CAMBIANO

 
 
 
 
Londra
 
 
Marika era con il suo nuovo e male assortito gruppo di lavoro, mentre discuteva davanti alla macchinetta del caffè della serie di dodici abiti per il concorso interno alla One Million indetto da Thomas. Ovviamente Adam, Kat e Timothy che collaboravano al suo fianco, erano all’oscuro della sua opera di convincimento nella limousine del giovane direttore. Nessuno di loro aveva nutrito il minimo sospetto neanche quando Marika si era presentata, tre giorni prima del rilascio ufficiale del concorso, con una soffiata tra le sue mani. In quel momento nessuno dei tre si era posto domande inutili, ma al contrario si erano messi subito  all’opera.
A differenza loro, Carl nascosto dietro la sua solita espressione scettica e schietta, rimase in disparte, senza opporsi ma anche senza dare loro il benché minimo aiuto.
Così erano passati velocemente i giorni e la data di consegna del progetto si era avvicinata con fin troppa rapidità. Ad ogni ora che passava i quattro collaboratori avvertivano la pressione snervante della scadenza premere sul loro già labile autocontrollo.
Marika era l’unica capace di coordinare il gruppo sostenendolo con una implacabile fermezza. Era determinata a dimostrare a quel ragazzo diffidente di che pasta erano fatte le persone che lui con così tanta facilità aveva sottovalutato e rilegato in quello squallido magazzino.
«Marika che ne pensi? Io e il criceto stavamo optando per questo tessuto sintetico. Ha un’ottima resa, cangiante se vengono usate le luci giuste per illuminarlo e in più è anche abbastanza economico, farà un ottimo effetto con il minimo costo. Cavolo, perché dovevano mettere anche il cavillo del budget?» affermò la punk del gruppo mostrando il tessuto su uno dei cataloghi che aveva analizzato per tutta la notte precedente.
«Non preoccuparti Kat, riusciremo a far rientrare tutte le spese. Giusto Timothy?», il ragazzo con gli occhiali spessi sul naso piccolo acconsentì con una sicurezza che Marika non gli aveva mai visto prima. Tutti si stavano impegnando al massimo.
Lei aveva disegnato i modelli, Kat stava provvedendo a realizzare con le sue mani gli accessori da abbinare ai vestiti, e mentre Timothy si occupava di tenere sottocontrollo il budget Adam organizzava l’ordine di uscita dei modelli, le luci, le acconciature e il trucco delle modelle. Era un vero e proprio lavoro di squadra.
Ovviamente il magazzino per colpa del loro progetto era stato trascurato e questo aveva iniziato a spazientire Carl che inizialmente aveva concesso loro di usarlo dopo l’orario di lavoro per lavorare ai modelli ma che adesso si vedeva sopraffatto da carte modello stoffe e gingilli di varia forma e misura. 
«Ma si può sapere cosa state facendo ancora qui? Kat, Marika, è appena arrivato il carico. Sbrigatevi!». La rimproverò l’uomo squadrando risentito un po’ tutto il gruppo lì riunito. Adam si portò davanti alle due ragazze.
«Capo, scusaci, hai ragione, ma capisci bene che questa è la prima occasione per noi di farci notare ai piani alti. Da quando lavoriamo qui dentro non abbiamo visto una chance migliore di questa». Cercò di ammorbidirlo il rosso super palestrato intervenendo per giustificare la piccola pantera e l’impacciata new antry.
L’uomo sbuffò incrociando le braccia spazientito.
«Quindi, dopo tutto quello che ho fatto per voi è questo il modo con cui mi ripagate? Facendomi sentire in colpa solo perché vi chiedo di non fantasticare e di tornare al vostro lavoro? Veloci scansafatiche all’opera! altrimenti giuro che vi rimando per strada!» tutti a capo chino tornarono alle loro mansioni. Ma presto insieme avrebbe conosciuto il dolce sapore della rivincita.
 
 
 
Tokyo
 
 
Shin e Take erano in cucina che attendevano seduti intorno al tavolo il ritorno degli altri ragazzi. Dopo all’incirca un’ora la porta fu spalancata da Roberto che avanzò verso la cucina stremato.
Discostando una delle sei sedie del tavolo taciturno, si ci sedette sopra. Con aria impensierita squadrò entrambi i suoi amici.
«Gli altri non sono ancora tornati non è così?»
Shin, a sua volta preoccupato per la sorte di suo fratello, acconsentì con la testa.
«Dove diavolo si saranno cacciati? Possibile che ci voglia tanto tempo per tornare ai dormitori?» affermò in una nota amara Roberto.
Per quanto detestasse ammetterlo, era in pensiero per una persona in particolare.
“Nami, starà davvero bene con Kei?”
Per quanto avesse combattuto con la decisione di lasciarla andare via con quel ragazzo acido e impulsivo, alla fine aveva dovuto cedere all’inevitabilità della situazione.  E così l’aveva lasciata andare via con Kei.
“Ma perché mi preoccupo, dopotutto Kei non permetterà mai che le accada qualcosa di brutto… ma forse è proprio questo a preoccuparmi…”
Proprio in quel momento Kei e Nami avevano raggiunto l’appartamento della ragazza all’interno del dormitorio.
«Bene, allora entro…» affermò lei aprendo la porta.
«Nami…» la richiamò il ragazzo con la frangia sull’occhio sinistro.
«Che c’è?» lo riprese distrattamente lei.
«Dammi il tuo telefono….»
«Cosa?» gli chiese lei sorpresa, “cosa vuole farci con il mio telefono adesso?”
«Non ribattere ogni volta che ti chiedo di fare qualcosa. Falla e basta!» affermò seccato Kei portando in avanti il palmo della sua mano in attesa che Nami le consegnasse l’oggetto in questione.
La stessa senza obbiettare oltre glielo porse. Dopo averglielo consegnato vide Kei comporre un numero e far partire una chiamata. Bastarono pochi secondi e un suono simile al ronzio di un moscone riecheggiò a pochi passi da lei.
«Perfetto, adesso hai il mio numero e io ho il tuo, se ne avessi bisogno sai dove trovarmi» detto questo le voltò le spalle percorrendo il lungo corridoio con le mani nelle tasche anteriori dei suoi jeans attillati e un enorme sorriso sul volto. Nami scettica osservava quel cellulare tra le sue mani.
“Tutto questo non dovrebbe rendermi felice, giusto? Eppure… eppure… perché adesso mi sento così?” Pensando questo la ragazza entrò nel suo appartamento.
Kei incontrò Jona poco dopo, l’artefice di quella serata disastrosa era sbucato fuori dall’ascensore come una furia tagliandogli nettamente la strada. Kei era lì pronto a fargli una bella ramanzina quando notò i suoi occhi furibondi. Le parole gli morirono letteralmente in gola.
“Cosa gli sarà successo?”
Senza degnarsi di lui il biondo si diresse verso il loro appartamento. Uscite le chiavi dalla tasca dei suoi jeans aprì la porta entrandovi all’interno senza badare minimamente all’amico alle sue spalle.
Kei era rimasto sconcertato dall’atteggiamento indifferente dell’amico. Era la prima volta che vedeva Jona con uno sguardo così duro sul suo volto candido e delicato. Doveva essergli successo qualcosa di molto grave per abbattere il suo solito e irritante sorriso.
Quando Kei entrò, notò Roberto, Shin, Take e Toshi intorno al tavolo.
Roberto, intuendo dal suo volto interrogativo la domanda sottointesa, si sollevò dalla sedia avvicinandosi a lui.
«Jona è di là. Non sembra essere di buon umore. Non credo sia il momento giusto per fargli una ramanzina Kei. Non temere, più tardi gli parlerò io!» lo rassicurò prima di lanciarsi sul divano.
In quel momento Kei dovette ingoiarsi tutte le parole di rimprovero che avrebbe voluto riversare sul ragazzo biondo e immaturo che li aveva cacciati in quella serata disastrosa, e rassegnato prese posto anche lui intorno al tavolo. Toshi strisciando la sedia sul pavimento gli si avvicinò.
«Come sta Nami?»
Kei gli sorrise, i suoi occhi erano luminosi, la cosa attirò subito l’attenzione di Roberto.
«È sana e salva. L’ho accompagnata al suo appartamento prima di tornare da voi…» affermò sollevando la commessura in un leggero sorriso. Roberto fu il solo a farci caso.
«Capisco… pensavo sarebbe passata da qui prima di ritirarsi… comunque meglio così. Hai fatto un buon lavoro Kei, grazie per esserti preso cura di mia sorella».
Roberto distolse lo sguardo dal gruppo fissando la porta d’ingresso. Sinceramente anche lui sperava di poterla vedere per essere sicuro che stesse bene. Il fatto che lei non fosse passata non aveva deluso solo Toshi ma anche lui. Per un attimo provò gelosia nei confronti di Kei che aveva potuto scortarla fino al suo appartamento. Almeno lui si era potuto rassicurare che stesse veramente bene. Quel pensiero non lo fece dormire per tutta la notte.
 
Clara si era appena svegliata, dopo aver fatto una doccia ed essersi vestita, uscì dalla sua stanza per fare colazione. Erano passati quasi due mesi da quando era partita. Come un orologio svizzero suo padre le mandava puntuale una e-mail ogni mattina per chiedergli della situazione in Giappone. Anche sua madre l’aveva contattata un paio di volte promettendole che presto li avrebbe raggiunti. Dopo aver risposto alla mail di suo padre dal suo cellulare, uscì per raggiungere la cucina e fare colazione. Mentre scendeva gli scalini uno dopo l’altro, notò la porta dello studio di suo zio appena socchiusa. Incuriosita vi si avvicinò.
Vi sbirciò all’interno. Yuki era seppellito sotto una montagna di fogli appallottolati e sparsi un pò sul pavimento e un po’ sulla scrivania. Con le mani incrociate dietro la nuca osserva il soffitto meditabondo, come ispezionando un cielo nuvoloso, nella speranza che arrivasse il bel tempo.
Una volta ritornato con lo sguardo dinanzi a sé notò la sagoma di Clara dietro la porta.
«Entra pure…» la invitò strofinandosi gli occhi gonfi e arrossati.
Clara non se lo fece ripetere due volte. Incuriosita entrò occupando una delle due sedie davanti la scrivania che di solito ospitavano i neo genitori pronti a compilare le carte per le adozioni.
«Cosa stai facendo zio?» gli domandò interessata.
«Qualcosa che mi ero ripromesso di non fare mai più in vita mia…» affermò sospirando e raccogliendo le ultime forze per sorridere a sua nipote. Dalla sua faccia sembrava non avesse chiuso occhio per tutta la notte.
Clara prese una di quelle palle di carta dalla forma indefinita e l’aprì per sbirciarne il contenuto. Era il testo di una canzone.
«Zio hai ripreso a scrivere canzoni?» gli chiese sconcertata sua nipote. Lui di rimando acconsentì silenzioso senza aggiungere altro.
«Ma è meraviglioso!» affermò euforica.
«Lo sarebbe se ci riuscissi…» asserì JJ sollevandosi dalla sua poltrona e raccogliendo le palle di carta dal pimento.
«Zio, non devi arrenderti, so per certo che la zia non vorrebbe vederti rinunciare» cercò di rinfrancarlo rammentandogli la figura amorevole di sua moglie. Lui sollevando la testa dal pavimento le sorrise amorevole.
«Sai Clara, sono anni che non scrivo più canzoni e credo di essermi un po’ arrugginito. Forse non ho più le capacità di un tempo!» concluse affranto gettando le palle raccolte nel cestino sotto la scrivania.
Clara sollevandosi dalla sedia raggiunse suo zio ancora in piedi prendendo tra le sue le mani di lui. «Non dire sciocchezze zio! Hai solo bisogno di crederci! Devi credere che puoi farcela, mi hai capito? Tu sei Yuki Kitamura ex-membro dei BB5, sei e sarai sempre un grande compositore… le capacità innate non mutano nel tempo bisogna solo continuare a credere in esse come in passato!»
«E da dove ti viene tutta questa saggezza?» le chiese divertito Yuki.
«Anche se detesto ammetterlo, non è tutta farina del mio sacco… qualcuno ha usato con me queste stesse parole non molto tempo fa…»
«Deve tenerci molto a te se ti ha detto questo…» costatò guardando con malizia sua nipote.  Lei arrossì al ricordo di quel momento con Toshi.
«Non ci vedo proprio nulla da ridere zio!» JJ tornò serio.
«Ieri sei tornata molto tardi o sbaglio?» gli domandò riprendendo posto dietro la scrivania.
Clara ammutolì. Sapeva che prima o poi sarebbe arrivata quella ramanzina.
«Si zio, ieri ho tardato…»
«Da quello che ho visto però Toshi ti ha accompagnata a casa…» affermò scaltro come per cercare nella nipote quel pizzico d’incertezza che confermasse la sue supposizioni.
Clara diventò paonazza per la vergogna.
“Cavolo, allora ieri lo zio ci ha visti! Eppure pensavo di aver fatto tutto in silenzio”.
Quando lei e Toshi la sera prima giunsero all’orfanotrofio, Clara lo invitò ad entrare. Dovevano chiamare un taxi. Una volta preso posto in cucina, Clara compose il numero dnu servizio taxi. Dopo quello seguirono almeno per lei i quindici minuti più imbarazzanti della sua vita.
Toshi cogliendola impreparata le aveva rivolto le due parole che mai si sarebbe aspettata di udire uscire proprio dalle sue labbra.
«Mi piaci» le aveva rivelato di botto.
A quelle seguirono due minuti di imbarazzante silenzio durante i quali si studiarono meticolosamente, prima che Clara prendesse in mano la situazione. «Sei proprio simpatico Toshi. Va bene scherzare ma a tutto c’è un limite! E poi sei troppo giovane per i miei gusti a me piacciono gli uomini maturi» affermò cercando di restituirgli una risposta adatta al sua solita impudenza. Dopotutto quello era un modo come un altro di prendersi gioco di lei. Toshi si incupì per un attimo prima di tornare a sorriderle sprezzante come al tuo solito.
«Sai sorellona si dice in giro che le cose retrò siano tornate di moda… » prese a canzonarla. Clara tornò paonazza.
“Sta insinuando che sono troppo vecchia ancora una volta?” senza contendersi questa volta Clara immobilizzò Toshi con il braccio intorno al suo collo facendolo piegare in avanti. Era una mossa che aveva imparato a utilizzare contro suo fratello quando litigavano.
«Ehi, chi sarebbe retrò?» Toshi cercando di risultare convincente cercò di giustificarsi in modo che Clara lo liberasse. Fu in quel momento che i loro occhi si incontrarono. Intensamente. Toshi stava per aprir bocca, quando un clacson li interruppe. Era arrivato il taxi.
Così venne a concludersi quella serata tragica e piena di inevitabili risvolti.
Clara era convinta che nessuno lì, avesse notato il loro battibecco in cucina e proprio non ci voleva che suo zio fraintendesse qualcosa che in realtà non aveva ragione di essere.
«Zio, non fraintendere, Toshi mi stava solo ridicolizzando. Ormai sembra sia diventato il suo hobby preferito prendersi gioco di me… Alle volte essere più grandi non serve a niente. La gente non ti rispetta comunque».
«Si, certo... » affermò scettico Yuki tornando a lavorare alla sua canzone «Clara, non creare delle barriere inutili, sai è proprio quando ci si innamora che determinate differenze ci saltano ancora di più agli occhi, ma alla fine siamo solo noi a far in modo che diventino degli ostacoli invalicabili…».
«Zio, non è come pensi. A me non piace Toshi, ho qualcun’altro nel mio cuore…» le rivelò colta dall’istinto di difendersi da quel l'accusa sottile.
JJ sollevò il viso verso sua nipote sconcertato ancora una volta.
«Ah, si? Beh, se è così che stanno le cose, allora devo aver proprio frainteso… »
«Si, infatti, hai frainteso alla grande. Adesso torno in camera, sarei un’ipocrita se dopo averti convinto a insistere, demordessi io…»
Yuki acconsentì.
«Va pure e se dovessi avere bisogno di qualcosa fammelo sapere».
Clara acconsentì prima di uscire chiudendosi la porta alle spalle. Poggiandosi ad essa continuò a riflettere sulle parole di suo zio.
“Non è assolutamente come dice lui. Io e Toshi? Ma figuriamoci, fare la babysitter non rappresenta di certo la mia massima ambizione nella vita di coppia. E poi c’è Luca. Lui si che è un uomo tutto d’un pezzo. Chissà, magari dovrei mandargli un messaggio. Ma cosa dico? Sicuramente gli sembrerei troppo sfacciata, e poi cosa potrei scrivergli? Non ho concluso quasi nulla in questo periodo. Ho deciso! Gli scriverò solo quando avrò terminato il primo capitolo della mia storia. Così almeno avrò un motivo per scrivere!! Si, così sarò più motivata!!!” Con ritrovata convinzione Clara riprese le scale e ritornò nella sua camera a stomaco vuoto ma piena di una nuova motivazione. Voleva dimostrare a Luca di non essere una semplice ragazzina venuta in Giappone per badare a suo fratello voleva scrivergli dei suoi successi e dei suoi traguardi. Voleva renderlo fiero di lei e conquistarsi la sua stima. Voleva provare a essere sicura e matura come lui. Voleva essere alla sua altezza quando sarebbe tornata in Italia.
Voleva essere una donna di cui lui sarebbe stato fiero.
 
 
 
Londra
Thomas aveva appena messo da parte il catalogo dei tessuti. Stava verificando la disponibilità di un tipo di pizzo francese. Diede uno sguardo all’orologio sulla scrivania. Erano le dieci passate. In giro ormai non ci doveva essere più nessuno. Anche la sua ossuta segretaria era andata via meno di un’ora prima. Stiracchiandosi si sollevò dalla sua poltrona di pelle e presa la sua ventiquattrore uscì dallo studio.
Al piano terra il capo della vigilanza lo salutò cortesemente, fu in quel momento che Thomas notò la porta del magazzino aperta.
«C’è ancora qualcuno lì dentro?» gli domandò con sguardo perplesso.
L’uomo impacciato blaterò una risposta di diniego. Ovviamente a nessun dipendete era permesso trattenersi oltre l’orario di chiusura, ma Carl era stato abbastanza convincente e così aveva corrotto il capo della vigilanza a chiudere un occhio in modo che i ragazzi potessero lavorare lì fino al giorno di consegna dei progetti.
«…Veramente, signore… »
Il ragazzo biondo non gli diede il tempo di proseguire, ma ignorando le sue scuse pietose si diresse verso il magazzino. Spalancata la porta d’ingresso scese le scale giungendo finalmente tra gli alti e imponenti scaffali. Gli bastò proseguire per pochi metri per imbattersi in un vero e proprio laboratorio sartoriale. Tra carte modelli, stoffe e accessori intravide una sagoma femminile addormentata su un piano da lavoro improvvisato, con la testa sulle braccia conserte vicino ad una macchina da cucire. L’ambiente era immerso in un'opprimente penombra fatta eccezione per quel tavolino rischiarato dalla tenue luce di una lampada. Una volta raggiunta, Thomas notò gli abiti accatastati in un angolo e le minuziose cuciture apposte su di esse, poi il suo interesse fu catturato ancora una volta dalla sagoma rannicchiata della giovane. Il suo corpo si muoveva sospinto dal suo calmo respirare. Adesso che le era più vicino la riconobbe, era Marika. Con un movimento misurato le scostò un ciuffo biondo dal viso. Era davvero bellissima. Qualcosa nel suo petto di pietra si smosse. Era il battito del suo cuore che gli rammentava la sua natura umana e il suo sacrosanto diritto all’amore. Dopotutto anche lui poteva provare sentimenti. Colto di sorpresa dalla reazione improvvisa del suo corpo indietreggiò agitato, incespicando su un rotolo di stoffa e ritrovandosi di sedere sul pavimento. Marika si sollevò di scatto sorpresa da quel rumore improvviso.
«Chi c’è ?» chiese brandendo un catalogo tra le sue esili mani.
Poco dopo notò, sporgendosi oltre il tavolino, Thomas seduto sul pavimento. Senza nascondere il suo divertimento, si apprestò ad aiutarlo. Prendendolo sotto braccio lo aiutò a rimettersi in piedi.
«Cosa ci facevi sul pavimento? Non dirmi che la vista di una giovane fanciulla come me ti ha spaventato! Questa di certo batte la mia fobia per i topi!». Thomas la scostò infastidito, strofinandosi i pantaloni nei punti in cui erano venuti a contatto con il freddo pavimento del magazzino.
«In ogni caso non dovresti trovarti qui!» la rimproverò recuperando la valigetta dal pavimento.
«Questo è vero, ma capiscici non abbiamo uno spazio in cui poter lavorare e questa è l’unica soluzione possibile per noi. Ti supplico non toglierci anche questo…» lo supplicò disperata Marika. Il ragazzo distolse il suo sguardo da quello della ragazza.
“Cosa mi stai facendo?”
«Non era quello che intendevo. Quello che volevo dire è che non dovresti lavorare fino a quest’ora….» si corresse portandosi una mano dietro la nuca in imbarazzo.
Marika rimase in silenzio, sorpresa da quel suo strano interessamento.
«Avevo comunque intenzione di andar via a breve, non devi preoccuparti. Puoi anche andare» lo spronò in tono ingentilito  Marika.
«Come tornerai a casa?»
«Prenderò un taxi» lo rassicurò.
«Se è così allora io vado». Detto questo Thomas le voltò le spalle.
«Thomas! Grazie».
Il ragazzo biondo sorrise senza voltarsi e la salutò prima di andare via, sollevando la sua mano destra.
Marika nel profondo iniziava a ricredersi su di lui. Dopotutto non doveva essere una brutta persona. O almeno non quanto credevano gli altri nel magazzino. Sorridendo tornò vicino al tavolino, stava per rimettersi al lavoro quando un dolore all’addome e un giramento improvviso la fecero crollare al suolo.
L’ultima cosa che ricordava era una voce che la chiamava insistentemente e la sensazione di essere sollevata e trasportata via. Dopo di che il vuoto.
Thomas era seduto su una di quelle fredde sedie nella sala di attesa dell’ospedale, mentre si torturava in ansia per il destino di un’altra persona ancora una volta. Quel luogo non gli piaceva per niente, soprattutto perché gli riportava alla mente ricordi che avrebbe voluto buttarsi alle spalle per sempre.
Poco dopo un uomo in camice lo raggiunse.
«È lei il tutore della ragazza?» gli chiese in tono autoritario.
«Si, sono io… come sta? cosa le è successo? Tutto quel sangue…»
«Stia calmo» lo rassicurò il medico, «la bambina sta bene…»
Thomas, scosse la testa incredulo.
“Di che bambina sta parlando?”
«Cosa?»
Il medico corrugò la fronte sorpreso a sua volta, «sto parlando della bambina nel grembo della sua ragazza. È salva quasi per miracolo. Se non l’avesse portata in tempo in ospedale non avremmo potuto fare nulla. Adesso abbiamo riportato la paziente in camera. Dovrà trattenersi qui almeno una notte sotto osservazione. Ovviamente, da questo momento non potrà compiere grandi sforzi e dovrà stare a riposo».
Thomas ammutolito acconsentì reclinando il capo e tornando a sedersi.
“Marika… incinta…”
In quel momento tutto nella mente del giovane Direttore fu chiaro, e chiaro fu anche quello che di li in poi avrebbe dovuto fare.
 
Marika si risvegliò in una stanza bianca, tra fredde e candide lenzuola. Nell’aria, l’odore di alcool le pizzicò il naso. Con la vista ancora annebbiata provò a ispezionare l’ambiente intorno a lei. Si trovava nella stanza di un ospedale. Girata la testa di lato scorse una figura paffuta con una maglia gialla occupare la sedia vicino al suo letto.
«Finalmente ti sei svegliata!» l’accolse l’uomo barbuto con un sorriso rassicurante.
«Cosa è successo? Perché mi trovo in ospedale?» gli chiese Marika provando a sollevarsi, Carl l’aiutò a sedersi.
«Hai avuto un calo di zuccheri… o almeno questo è quello che diremo agli altri in magazzino….» affermò facendogli un occhiolino.
Marika d’istinto strinse le braccia intorno al suo ventre.
“Allora, adesso Carl lo sa”
«Non temere, rimarrà un segreto Marika. Sai ti ho riconosciuta subito… hai lo stesso temperamento e gli stessi lineamenti di tua madre. Non riconoscerti per me sarebbe stato impossibile. In altre parole ti ho vista crescere».
Marika non poteva credere alle sue orecchie.
«Mi dispiace tanto. Soprattutto per quello che ti ha fatto mia madre in passato»
«Perché dovresti scusarti. Tua madre ha fatto davvero molto per me e per la mia famiglia se non fosse stato per lei adesso non sarei qui… Ma parliamo di altro. Da quello che hanno detto i medici porti qualcuno dentro di te. È per questo che sei venuta a Londra, perché i tuoi non lo scoprissero?»
Marika spostò il suo sguardo da Carl al suo ventre leggermente rotondeggiante.
«Si, loro non mi avrebbero mai permesso di tenerla e io non voglio abbandonarla. Io voglio lottare per lei e starle vicino, voglio credere che ce la faremo insieme».
L’uomo barbuto si incupì.
«Mi ricordi tanto una persona. Anche lui mi disse queste stesse parole tanto tempo fa. Disse che avrebbe fatto di tutto per proteggerla e che non l’avrebbe mai abbandonata come avevo fatto io…»
“Di chi starà parlando?”
Marika, era veramente curiosa di scoprirlo.
«Carl hai abbandonato qualcuno?»
«Pensavo che avrei vinto sul tempo e invece, alla fine, il tempo ha vinto su di me. L’egoismo è una brutta malattia Marika, e sai perché? Perché  non colpisce solo te rendendoti sol, ma colpisce anche chi ti sta intorno. All’epoca avevo così tanta sete di successo, che per realizzarmi ho trascurato mia moglie e mio figlio. Nonostante mio figlio mi avesse supplicato di rimanere io puntualmente andavo via. Non potevo immaginare quello che stava succedendo. Mia moglie aveva iniziato ad ammalarsi, ma siccome mi amava in modo stupido e sconsiderato, non ha mai voluto dirmelo. Così io che ero sempre in viaggio per lavoro non sono riuscito ad accorgemene in tempo, neanche dopo i tanti avvertimenti di mio figlio. Fu lui a dirmi che non l’avrebbe mai abbandonata come stavo facendo io. Le tue parole mi ricordano molto le sue. Adesso non voglio trovare delle giustificazioni ma in quel periodo non stavo vivendo una situazione facile al lavoro, ero stato derubato di un’idea e per questo stavo subendo molte pressioni. All’epoca tua madre mi concesse del tempo per tornare dalla mia famiglia comprendendo la situazione in cui si trovavano a causa della mia assenza, ma declinai l’offerta perché volevo a tutti i costi dimostrarle che ero nel giusto e che ero una vittima e non un ladro. Così rimasi in azienda per indagare. Quando alla fine tornai a casa era già troppo tardi. Mia moglie era morta e da quel momento mio figlio non volle più riconoscermi come padre. Non potrò mai dimenticare quegli occhi e quelle parole che mi bruciano ancora oggi nel profondo. Non ho lottato per chi amavo ma solo per me stesso. Sono stato un vile codardo, sono scappato dalle difficoltà perché avevo paura di affrontarle… Per questo ti ammiro, tu non hai avuto paura e vuoi lottare per te e per quella creatura e io voglio aiutarti. Puoi contare su di me. Manterrò il segreto, ma a una condizione…»
Marika puntò le sue orecchie interessata. «Ossia?»
 «…da oggi ti impedisco di rimettere piede nel magazzino.»
Marika spalancò occhi e bocca.
«No, io ho bisogno di lavorare. Non posso…»
Cogliendola di sorpresa Carl le porse una busta da raccomandata.
Marika l’aprì.
Dentro un contratto.
«Ma questo è un contratto di lavoro nel reparto sartoriale….» si sorprese.
«Lì il lavoro sarà meno pesante e così potrai lavorare senza correre troppi rischi per il bambino, anzi la bambina. Ci mancherai ma questa promozione sembra arrivare al momento giusto no?» le spiegò con un groppo alla gola.
«Ma com’è possibile?» Marika non riusciva a capire.
«Diciamo semplicemente che qualcuno ha notato quello che sei capace di fare scendendo nel magazzino e ha deciso di darti una possibilità». Le spiegò Carl mantenendosi sul vago.
“Thomas? È stato davvero lui? Non può essere vero….”
«Carl ma io…»
«Non preoccuparti per gli altri ho già detto loro che a causa di un calo di pressione rimarrai in ospedale qualche giorno. Adesso però riposati.»
«Ma ci sono ancora delle cose da perfezionare per il concorso…»
«Non temere, da adesso coordinerò io il lavoro del gruppo giù nel magazzino, tu pensa solo a riprenderti. Quando sarai uscita di qui sarà tutto pronto per la sfilata».
Detto questo l’uomo la salutò uscendo fuori dalla stanza. Alla fine del lungo corridoio un ragazzo alto e biondo lo attendeva a braccia incrociate sul suo petto fiero.
«Cosa ha detto?» domandò il direttore della One Million rivolgendosi all’uomo barbuto davanti a sé.
«Penso accetterà.»
Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo.
«Non è colpa tua. Non potevi sapere che aspettava un bambino» lo confortò l’uomo. Thomas indurì il suo sguardo.
«Non ho bisogno del tuo conforto adesso… come non ne ho avuto bisogno quella sera».
«Thomas io volevo solo….»
«Tu non hai da fare più niente per me. Quello che dovevi fare avresti dovuto farlo tanto tempo fa. Se solo fossi tornato in tempo la mamma si sarebbe potuta salvare… è colpa tua se è morta. Niente cambierà questo, quindi smettila di voler fare il padre adesso… » detto questo si voltò per andare via, ma le parole di Carl lo costrinsero a fermarsi ancora una volta.
«Thomas, sono felice che tu sia diventato un uomo migliore di me… Volevo solo dirti questo.»
Senza degnarlo di una risposta il ragazzo si mosse verso l’uscita lasciandosi una parte del suo doloroso passato alle spalle come aveva imparato a fare ormai da tempo. 

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Capitolo 23
*** TUTTI PER UNO E UNO PER TUTTI ***


 
 

 
CAPITOLO 23
 TUTTI PER UNO E UNO PER TUTTI

Tokyo
 
Era un martedì come molti altri per la gente nella metropoli giapponese, ma per i sei tirocinanti, quello era un giorno speciale. Alla fine era arrivato anche per loro il momento di confrontarsi con il giudizio inopinabile di Rio sull’esito del loro periodo di formazione alla Kings Record e sui brani che Kei e Roberto avevano inciso e registrato nell’ultimo mese con l’aiuto di Toshi.
L’intransigente direttore della Kings Record dietro la sua scrivania lucida, aveva affianco a sé sua moglie, mentre in piedi al suo cospetto  i sei ragazzi attendevano impazienti la fine di quell’ascolto attento e meticoloso. Con gli occhi chiusi rifletteva immerso nell’ascolto dei tre brani realizzati da Roberto e Kei.  Nessuno dei sei ragazzi osò interrompere quell’attimo di raccoglimento, neanche quando la musica smise di riecheggiare tra le quattro mura bianche di quello studio freddo e asettico, che avevano visitato molte volte nell’arco del loro periodo di formazione.
Finalmente, cogliendoli di sorpresa, Rio riaprì i suoi occhi scuri dietro la montatura spessa e nera delle sue lenti. Fissando Roberto e Kei, avanti rispetto al resto del gruppo, con un movimento sicuro si sfilò le lenti poggiandole remissivo sulla scrivania cristallina. Poggiati i gomiti sulla stessa si sporse verso i due ragazzi, che sotto consiglio di sua moglie aveva deciso di mettere alla prova. Il suo sopracciglio si sollevò e le commessure delle sue labbra si allargarono in un dignitoso sorriso.
«Raramente sbaglio nel giudicare la gente al primo colpo, ma nel vostro caso devo ammettere di avervi sottovalutato. Avete fatto un ottimo lavoro tutti e soprattutto voi due», continuò rivolgendosi a Roberto e Kei, «avete lavorato meglio di quello che credevo. Sinceramene non nutrivo la benché minima speranza che la vostra collaborazione riuscisse a produrre qualcosa di decente, e invece mi tocca ricredermi. Avete lavorato veramente bene, soprattutto in questo brano», aggiunse indicando il testo dell’ultima canzone che avevano realizzato con il supporto di Toshi. «Mi piace sia l’arrangiamento che l’idea di mettere in evidenza un pensiero combattuto. Sembra che, seppure abbiate idee diverse, siate riusciti a trovare un compromesso tra di voi. Ed era proprio quello che speravo faceste. Si, ho deciso, inizieremo da questo brano. Il vostro primo MV lo registreremo su questa canzone». Sul viso di Toshi emerse un sorriso che andava da orecchio a orecchio. Suo padre inconsapevolmente aveva premiato insieme alla bravura compositiva dei suoi due amici anche il suo intuito e il suo lavoro nell’arrangiamento. Tornando a riposizionarsi le lenti sul naso, Rio proseguì.
«Per quanto riguarda il resto dell’album immagino vi farà piacere sapere che Yuki si occuperà delle altre canzoni, infatti mi ha inviato proprio oggi altri due brani scritti per voi. Oggi inizierete a incidere con lui in studio di registrazione». I ragazzi si scambiarono delle occhiate sorprese ma entusiaste. Soddisfatto della reazione dei ragazzi, Rio diede una fugace occhiata al suo orologio da polso.
«In verità dovrebbe essere già giù ad attendervi. Come potete immaginare, non ci resta più molto tempo, per questo, nel pomeriggio dopo aver inciso, lavorerete alla coreografia per il video con Daisuke, in modo che entro la fine di questa settimana sarà tutto pronto per le riprese».
Roberto sospirò alleggerito all’idea che i brani avessero accontentato i gusti esigenti di Rio mentre, allo stesso tempo, Kei, al suo fianco, sorrideva soddisfatto per avercela fatta e felicemente sorpreso di scoprire che il resto dell’album l’avrebbe curato il suo padre adottivo. Era veramente sollevato all’idea che Yuki avesse ripreso a comporre dopo la morte di Akiko. Anche gli altri, alle loro spalle, esultarono gioiosi e in fibrillazione, fatta eccezione per Take a cui ancora non quadrava bene quella strana preferenza di Rio per Roberto e Kei.
«Stabilito questo, dopo la realizzazione del vostro MV di esordio, credo sia giusto concedervi un weekend di riposo. Non voglio che arriviate sfiniti e con delle grosse occhiaie alla conferenza stampa che si terrà dopo il rilascio del video che inizieremo a registrare già da Lunedì. Quindi se lavorerete sodo questa settimana  potrete godervi due giorni di relax ovunque vorrete. Consideratela come una vacanza pre-debutto».
Tutti acconsentirono entusiasti prima di uscire di lì scortati dalla loro insegnate di canto. Il ragazzo italiano era l’ultimo dopo Kei a chiudere la fila.
«Roberto con te vorrei fare due chiacchiere se non ti dispiace», lo richiamò Rio prima che uscisse con gli altri fuori dallo studio.
«Certo» acconsentì l’altro avvicinandosi alla scrivania.
Rio aspettò che la porta venisse chiusa da Kei prima di proseguire.
Ovviamente i ragazzi incuriositi aspettarono che Yori andasse via prima di accalcarsi contro la porta dello studio, per cogliere qualcosa di quello che  Rio avrebbe detto a Roberto.
Spintonandosi l’un l’altro, si ammucchiarono cercando di spiare anche attraverso la serratura della porta il dialogo tra i due.
Dentro la stanza Rio lanciò una rivista scandalistica sulla scrivania immacolata facendo segno a Roberto di prenderla tra le sue mani.
Roberto la raccolse. Sulla copertina una foto lo catturava sul palco di una discoteca mentre dava spettacolo.
«Vi avevo vietato di uscire dal dormitorio di sera proprio per evitare situazioni imbarazzanti come questa. Ovviamente ho già provveduto a mettere a tacere le voci sulla tua presenza in quel posto poco raccomandabile, ma capisci bene che non posso intervenire per pararvi il fondo schiena ogni dannata volta. E capisci bene che non sarebbe giusto nei confronti degli altri sorvolare su questa tua infrazione al regolamento. Roberto, voglio essere chiaro. Non ho bisogno di gente sconsiderata che pensa di essere qui solo per gioco. Quindi voglio darti un avvertimento: fallo un’altra volta e giuro che non ci penserò due volte prima di sbatterti fuori dal gruppo con un biglietto di sola andata per l’Italia. Non mi serve un ragazzo capace ma senza coscienza. Non importa quanto talento tu abbia, se non rifletti con consapevolezza sulle tue azioni prima di agire non mi servi. È finito il tempo in cui pensavi solo a te stesso, adesso fai parte di un gruppo. Quello che colpisce te colpisce loro. Spero sia chiaro che non ho bisogno di un ragazzino incapace di comprendere un meccanismo elementare come questo. Ci siamo capiti?».
Roberto strinse la presa sulla rivista arrotolata tra le sue mani, rigettandosi dentro tutto quello che avrebbe voluto dire a Rio per giustificare le sue azioni. Il rischio che aveva corso quella sera lo aveva corso proprio per difendere gli altri in fuga da quella discoteca. Nonostante quello che credeva Rio, lui comprendeva fin troppo bene quello che gli stava dicendo e proprio perché lo comprendeva che si era comportato in modo così avventato quella sera. Roberto stava per andarsene quando Rio riprese il suo discorso.
«Non ti ho dato ancora il permesso di andare via. Prima devi dirmi un’altra cosa» il ragazzo si arrestò ancora una volta in attesa.
«C’era qualcun’altro con te quella sera? Ho bisogno di saperlo…» gli chiese grave l’uomo.
Roberto sostenendo quello sguardo indagatore riposizionò con fermezza la rivista sulla scrivania, «no, ero solo».
Tutti dietro la porta spalancarono gli occhi e la bocca sorpresi.
«Perché gli sta mentendo?» diede voce ai pensieri di tutti Shin.
«Per proteggerci, per quale altro motivo se no?» gli rispose contrariato Kei allontanandosi dalla porta inquieto.
“Cosa gli è saltato in testa a quel cretino? A cosa gli serve fare l’eroe proprio adesso?”.
Anche se non riusciva ad ammetterlo Kei era in pensiero per Roberto.
Dentro lo studio Rio sospirò prima di prendere la rivista e gettarla nel cestino della spazzatura sotto la scrivania.
«Perfetto, questo vorrà dire che sarai l’unico a rimanere nel dormitorio e a continuare a esercitarti il prossimo weekend, mentre gli altri andranno fuori a divertirsi.»
«Perfetto. Se questo è quello che merito lo accetto».
Concluso il discorso, Roberto girò i tacchi muovendosi verso la porta.
Sentendo i passi del loro amico avvicinarsi i cinque si ricomposero, allontanandosi dalla porta e cercando di non destare nel loro amico italiano alcun sospetto. Lo stesso aprì la porta poco dopo uscendo e scontrandosi con i loro volti preoccupati.
Jona gli si avvicinò come un cagnolino con le orecchie basse e la coda tra le gambe.   
«Cosa voleva Rio da te?» gli domandò fingendo di non sapere nulla. Ovviamente Roberto cercò di mascherare la verità ai propri amici sorridendo loro sereno.  
«Nulla, ha notato che le mie capacità non sono migliorate di molto rispetto alle vostre e che secondo Daisuke devo perfezionarmi ancora nel ballo. Perciò mi ha consigliato di trattenermi per esercitarmi anche il prossimo weekend» improvvisò Roberto per non destare inutili sospetti nei suoi compagni, che aimè conoscevano già la verità.
«Quindi non verrai con noi in vacanza quei due giorni» sottolineò affranto Shin.
Roberto gli scompigliò i capelli premurosamente, «mi dispiace Shin non credo sia giusto venire, ma non preoccupatevi, sfrutterò al massimo quei due giorni per migliorare ed essere alla vostra altezza». Detto questo sorridendo, si incamminò percorrendo il lungo corridoio che conduceva all’ascensore. Kei accelerò il passo raggiungendolo mentre gli altri li seguivano a una distanza meno ravvicinata, malinconici scambiandosi delle considerazioni sottovoce. Tutti conoscevano la verità ma rimasero in silenzio per rispettare la decisione di Roberto. Tutti ovviamente, tranne Kei.  
«Sei davvero pessimo quando si tratta di mentire, lo sai?»
Roberto lo squadrò sorridendo.
«Beh, non posso essere bravo in tutto, no?»
«Ma a cosa stavi pensando? Avresti dovuto dire a Rio tutta la verità. Perché ti sei preso la colpa per tutti?»
«Perché siamo un gruppo e dobbiamo difenderci l’un l’altro. E poi penso sia giusto così. Sono stato io a voler correre quel rischio quindi è giusto che sia io il solo a pagarne le conseguenze. Adesso però non parliamone più. L’importante è che tra poche settimane debutteremo e che le nostre canzoni passeranno finalmente per radio.» Kei puntò i piedi arrestandosi.
«Proprio perché siamo un gruppo non è giusto che uno solo di noi si prenda la colpa per tutti»
Roberto si arrestò anche lui davanti le porte dell’ascensore osservando divertito l’amico al suo fianco.
«Non dirmi che adesso hai capito cosa significa fare parte di un gruppo?»
«Senti, lasciamo perdere…», improvvisò messo in imbarazzo dalle allusioni di Roberto. Il ragazzo italiano poggiò la mano sulla spalla del ragazzo burbero mentre le porte si aprivano «Sai Kei, nonostante tutto, mi ha fatto davvero piacere collaborare con te, è come se ci fossimo aperti un po’ di più l’uno l’altro», detto questo gli mostrò la sua mano aperta, questa volta Kei non esitò e gliela strinse.
«Roberto, forse non ti capirò mai, ma nonostante questo non sembri essere poi una cattiva persona… Sappi però che non sono un tipo che abbassa facilmente la guardia, ti terrò d’occhio comunque». Una volta al completo i sei ragazzi entrarono nell’ascensore.
Da quel momento iniziava la loro preparazione al debutto.
 
 
Nami era per i corridoi della casa discografica quando ricevette una chiamata da suo padre.
Senza esitare lo raggiunse nel suo studio.
Aperta la porta entrò.
«Mi stavi cercando?» gli chiese aggiustandosi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio.
«Si, siediti. Devo parlare con te».
Nami non se lo fece ripetere due volte e prese posto sul divano accanto alla porta.
«Bene, sai che ho deciso di far debuttare i ragazzi tra un paio di settimane e mi è sembrato giusto che anche tu come loro avessi il tuo momento di gloria. Per questo mi è venuta in mente questa idea: perché non far coincidere il loro momento di gloria con il tuo? So che sei impegnata con i servizi fotografici per il tuo book da modella e con il tuo corso di recitazione, ma prima di diffondere la tua immagine pubblicamente mi piacerebbe che prendessi parte al video dei ragazzi. Inoltre in questi giorni sto lavorando con una casa di moda a Londra che vorrebbe espandersi anche nel nostro paese. In altre parole sono riuscito a ottenere un contratto di esclusiva. Sarai la loro modella per il nuovo catalogo e per i cataloghi successivi per i prossimi due anni. Mi avevano richiesto un volto nuovo e fresco da associare al loro marchio qui nel nostro paese e ho pensato che tu fossi perfetta, così ti ho proposta. Comparirai nel video dei ragazzi e dopo aver raccolto una visibilità alta grazie a questo, organizzeremo il tuo esordio come modella con questa casa di moda. L’MV dei ragazzi lo useremo come trampolino di lancio. Alla loro conferenza stampa annunceremo anche il tuo progetto con la One Million.  Sto già provvedendo all’organizzazione del video promozionale per la diffusione del marchio, e stavo pensando che sarebbe bello se la musica di base venisse curata dai ragazzi. Due volti giovani della nostra agenzia che fornirebbero una cornice ideale per questo marchio fresco e nuovo nel nostro paese. L’idea è piaciuta, per questo dopo il tuo compleanno partiremo per Londra. Il presidente ci ha chiesto di essere presenti alla scelta dei modelli.  Perciò prepara le valige perché tra due settimane partiremo per Londra».
Nami non poteva credere alle sue orecchie. Alla fine aspettare tutto quel tempo era servito a qualcosa. Sollevatasi dal divano corse verso suo padre, saltandogli al collo felice.
«Grazie papà, vedrai che questa volta non ti deluderò!» Rio sorrise accarezzando i capelli lunghi di sua figlia.
“Nami tu non mi hai mai delusa…”
 
 
 
 
 
I ragazzi erano tornati distrutti nel dormitorio dopo una giornata stressante. Roberto si era buttato sul suo letto stremato. Recuperato il cappello blu di Marika dalla scatola sotto il suo letto, lo analizzò alla luce soffusa della scrivania.
Jona entrò poco dopo chiudendo la porta e sedendosi sullo stesso letto di Roberto.
«Roberto, è la verità quella che ci hai detto oggi? Non sarai stato ripreso da Rio per colpa di quell’uscita clandestina?»
Roberto si sollevò mettendosi seduto incrociando le gambe sul materasso.
«Jona anche se fosse, non devi preoccuparti. Rimanere e continuare ad allenarmi mi servirà comunque, non devi sentirti in colpa.»
«Mi dispiace per come si è evoluta quella serata. Non doveva finire così. Per non parlare di quella stronza in cui mi sono imbattuto dopo in quel bar…»
«Chi?» domandò Roberto perplesso. Era insolito sentir Jona parlare così male di una ragazza.
«Una che ho incontrato mentre mi mettevo al riparo da delle nostre fan.»
«E sentiamo cosa avrebbe fatto questa ragazza per meritarsi questo così elevato appellativo?» ci scherzò su Roberto.
«Primo non mi ha riconosciuto il che è già di per se gravissimo e imperdonabile e secondo ha detto cose che non avrebbe dovuto neanche pensare su di me  visto che non mi conosce per niente. Ha insinuato che sono un figlio di papà che usa il sesso consolatore per sentirsi meno solo e non è assolutamente così IN Più MI HA DATO DEL SUPERFICIALE E IMMATURO… Ma ti rendi conto?».
Roberto trattenne un sorrisetto ironico.
«Direi che questa ragazza ha avuto un bel fegato a dirti certe cose. Però Jona, devo ammettere e forse dovresti farlo anche tu, che se la cosa ti ha colpito in questo modo un fondo di verità deve avercela pure avuta o no? Forse  questa ragazza ti interessa davvero? Dopotutto sembra importanti quello che pensa di te o sbaglio?» lo stuzzicò divertito l’altro. Jona si sollevò prendendo posto sul suo letto sfilandosi la maglia e i pantaloni.
«Non insinuare altro ti prego…»
«Beh, dal tuo atteggiamento sembra proprio che ti interessi quello che pensa…»
«Forse… Comunque quella sera sono andato via senza poter pagare il proprietario del bar e penso che un giorno di questi dovrò  tornare per risarcirlo…»
«Non vorrai tornarci per rivederla?» lo prese al volo Roberto tornato a stendersi sul letto, mentre su un fianco osservava l’amico preparare l’occorrente per la doccia.
«No, è solo per sanare il mio debito non di certo per vedere quella pazza…»
«Se ne sei convinto tu… » si rassegnò alla sua cocciutaggine Roberto, tornando a fissare il suo cappello blu.
Jona combattuto tornò a sedersi sul letto dell’amico.
«Roberto e se avesse ragione? Sai, è la prima persona che mi dice queste cose. Non so, ma mi ha fatto male sentirle e forse so il perchè; credo sia la verità nascosta in esse a spaventarmi. Sto pensando davvero di smetterla con la mia vita sregolata, soprattutto dopo quello che è successo a voi per causa mia. Non voglio si ripeta mai più una cosa simile».
«Jona, sai, quella ragazza non ci ha preso poi su tutto quello che ha detto. Tu non sei un ragazzo superficiale e immaturo. La verità è che sei rimasto solo per troppo tempo.»
Jona sorrise amaramente a Roberto. Avere finalmente qualcuno capace di consolarlo e capirlo in quel modo gli era mancato nella sua vita, se ci fosse stato Roberto in passato magari non sarebbe diventato la persona che adesso disprezzava.
«Grazie. Almeno questa è una magra consolazione…» Jona stava per alzarsi e andar via quando notò il cappello che Roberto non aveva smesso di osservare per tutto il tempo di quella conversazione.
«Rob, si può sapere che ci fai con quel cappello tra le mani?»
«Cerco i ricordi… mi manca la persona che lo ha realizzato. È ancora molto importante per me, seppure dubito di avere ancora la stessa importanza io per questa persona… »
«Parli di una ragazza giusto?»
Roberto sorrise sollevandosi e rimettendo al suo posto quel cappello.
«Se fosse un ragazzo la cosa ti disturberebbe?»
Jona a disagio perché solo in slip, recuperò rapido una maglia e se la portò al petto cercando di coprire la sua parziale nudità.
«No, cosa dici?»
Roberto scoppiò a ridere.
«Comunque, si, parlavo di una ragazza… la più importante ancora oggi nel mio cuore…»
«Roberto non sarò un genio in amore, ma se c’è una cosa che ho imparato è che nulla dura per sempre. Alle volte bisogna buttarsi il passato alle spalle e ricominciare…»
Roberto prese un asciugamano e lo lanciò a Jona, «sai che a consolare sei veramente una schiappa? Prendi questo e corri in bagno prima che qualcuno ti freghi il posto». L’amico acconsentì prima di uscire.
Roberto in solitudine si lasciò avvolgere ancora una volta dagli accoglienti ricordi del passato. Un passato che sentiva sfuggirgli dalle mani giorno dopo giorno. 

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Capitolo 24
*** UN COMPLEANNO A SORPRESA, UN NUOVO INIZIO ***


CAPITOLO 24
UN COMPLEANNO A SORPRESA, UN NUOVO INIZIO
 

 
Tokyo
 
 
 
Il giorno della registrazione del video era arrivato. I sei ragazzi, dietro le quinte della scenografia, attendevano impazienti che le adddette al make-up completassero il trucco sui loro visi esasperati da tutte quelle attenzioni eccessive.  Fu proprio mentre una di loro si prodigava mettendo della cipria sul volto di Jona, che Nami fece il suo ingresso in un vestito rosso attillato. Tutti si votarono scioccati nella sua direzione. Kei la squadrò a occhi spalancati. Quelle curve delicate e quelle labbra rosse risvegliarono in lui pensieri e desideri che era convinto di essere riuscito a mettere da parte.
«Sorellina vestita così sembri quasi una donna, lo sai?» la canzonò divertito Toshi avvicinandosi scompigliandole affettuosamente i capelli neri e lisci. Nami arrossì dalla vergogna mentre allontanava esasperata la mano di suo fratello dalla testa.
«Quando la finirai di prendermi in giro?» gli domandò tirandosi verso le ginocchia il vestito succinto che indossava. Toshi esibì uno dei suoi soliti sorrisi affabili, «penso mai» completò con sicurezza stringendola a sé, sorridendo di gusto.
Roberto era seduto accanto a Jona, che per girare quel video era dovuto tornato bruno. Per un attimo l’entrata in scena di Nami lo aveva stordito, come se un forte e intenso profumo avesse improvvisamente inebriato l’aria intorno a lui.  Nella sua testa nuove sensazioni gli annebbiarono i pensieri. Non l’aveva mai vista in abiti così sensuali. Se non avesse conosciuto la sua vera età l’avrebbe sicuramente scambiata per una sua coetanea se non per una ragazza più grande di lui.
Per pochi secondi i suoi occhi scuri e sottili indugiarono sulla sua siluette sottile e armoniosa con pensieri nuovi. Nami avvertì atupita quello sguardo sfiorarle la pelle sensualmente, e con un brivido di eccitazione alla schiena si voltò verso Roberto. Ovviamente tra tutti i presenti era il suo sguardo quello che stava cercando. I loro occhi si incontrarono per la prima volta in quel momento e per il tempo di quell’incontro il cuore nel petto di Nami gioì al pensiero di essere riuscita a fare colpo su di lui. Dopotutto la partita contro la fantomatica Marika non era ancora chiusa. Non aveva ancora giocato tutte le sue carte. Non avrebbe rinunciato a Roberto, il primo ragazzo ad essere riuscito a lavare via dal suo cuore l’amarezza per l’amore non corrisposto di Kei.
Il battito del cuore nel suo petto era incontrollabile e ogni tentativo di mascherarlo risultava vano. Più provava a non farlo notare più le si leggeva in faccia uno strano senso di agitazione.
“Può un semplice sguardo farmi sentire leggera come una piuma? Cosa mi succede? Quasi non mi sembra di sentire il pavimento sotto i piedi…” Nami aveva il cuore che batteva all’impazzata mentre osservava incredula il volto acceso d’interesse del ragazzo che amava. Fu quando lo vide sollevarsi dalla sedia e muoversi nella sua direzione che ogni battito nel suo cuore le sembrò si fosse improvvisamente arrestato. Erano vicini come spesso erano stati eppure c’era qualcosa di diverso in quel momento. I loro corpi si muovevano come fossero due calamite che si attraggono.   Roberto era a meno di un metro da Nami, quando il regista richiamò l'intero gruppo a riunirsi sulla scena per iniziare la registrazione. 
«Allora ragazzi, Rio mi ha detto che questo brano è stato scritto da voi due» iniziò il discorso l’uomo scarno e alto con il berretto da baseball, indicando Roberto e Kei.   «Si, lo abbiamo scritto noi»  gli confermò con orgoglio il ragazzo con il ciuffo.
«Mi piacerebbe rendere voi due i veri protagonisti del video. Credo ve lo siate meritati dopotutto».
«Non penso sarebbe giusto nei confronti degli altri… alla fin fine abbiamo fatto solo quello che dovevamo, nient’altro» sottolineò modestamente Roberto.
«Infatti… » completò sottovoce Take incrociando le braccia risentito.
Perché troppo concentrati sul discorso del regista nessuno aveva avuto modo di notare quella freccia velenosa di Take, a eccezione di Kei.
«Mi dispiace, ma in realtà la cosa è già stata decisa, perciò non credo ci sia modo per voi due di farmi cambiare idea. Vi spiegherò in breve cosa ho intenzione di fare. Tu, Kei, aprirai il brano. Nami ti risveglierà poggiando una mascherina sul tuo volto. Lei che rappresenterà la ragazza che nel brano tu dici di voler allontanare, farà questo in modo che alla fine Roberto possa a sua volta salvarla come lei farà con te all’inizio del video. Utilizzeremo questo escamotage tecnico in modo che funzioni da metafora per dire al pubblico che nulla finisce mai davvero. C’è sempre la speranza di ricominciare e trovare la persona giusta.
Sia che lo si aspetti, sia che si smetta di aspettarlo, l’amore è qualcosa che non può esaurirsi proprio come il respiro, anche per questo immagino abbiate deciso di intitolare questa canzone “Breath” . Dopotutto non possiamo vivere senza respirare come non possiamo vivere senza amore. Dico bene? In questo modo il respiro diverrà metafora d’amore così nella vostra canzone, così anche nel video che registreremo»
«Sembra aver capito meglio di noi il significato questo brano» lo adulò Roberto, piacevolmente sorpreso.
“Anche troppo per i miei gusti”. pensò dall’altro lato Kei, lanciando un’occhiata sofferente verso Nami, prima di tornare a confrontarsi con il viso scarnito del regista.
Era ironico che dopotutto avrebbero inscenato la realtà dei fatti più che una semplice finzione. Proprio come in quel video, anche nella realtà lui aveva allontanato Nami per orgoglio e così facendo aveva concesso a Roberto la possibilità di salvarla, sostituendo al suo atteggiamento freddo e schivo i suoi modi caldi e gentili.
«Bene ragazzi. Disponetevi, iniziamo con la scena di Kei. Nami sai già cosa fare…». Nami acconsentì con fermezza.
Senza esitare tutti si misero in postazione.
Kei era sdraiato tra rovine e macerie. Non sapeva spiegarsi il perché, ma sentiva che l’addio in quel video non sarebbe stato solo un addio tinto di finzione. Aveva più volte detto a se stesso che non gli importava, che dopotutto poteva fare a meno di Nami e del suo amore, eppure adesso che quella verità stava per essere messa sotto gli occhi del mondo, quella sua convinzione inziava a vacillare.
«Tutti ai propri posti! Pronti? Azione!».
Nami fece come le fu consigliato dal regista, una volta avvicinatasi al corpo di Kei, si sporse verso di lui adagiandogli delicatamente una mascherina al viso. Kei avvertì la mano di Nami sfiorargli la guancia sinistra e quella sensazione gli fece venire i brividi.
«Stop!» urlò il regista ponendo termine a quel contatto forse troppo compromettente per Kei. Il ragazzo si sollevò incrociando il viso di Nami al suo fianco sinistro, era radiosa. La osservò ipnotizzato dal suo splendente sorriso. Non si era mai reso conto di quanto fosse bella quando sorrideva e di come fossero graziose le sue fossette al lato del viso. Lei per un attimo incrociò il suo sguardo come sbigottito mentre si rimetteva in piedi. Kei orgogliosamente distolse lo sguardo sollevandosi a sua volta e raggiungendo il gruppo a capo chino, con una mano sul petto che gli sembrava oppresso da un peso insopportabile.
 «Va bene. Adesso completiamo con la scena finale in cui sarà Roberto a poggiare la mascherina sul viso di Nami. Tutti in posizione».
La scenografia predisposta per la scena finale era diversa, priva di rovine, immersa in un paesaggio paradisiaco e soprafatto da fumi bianchi. Nami era stesa al suolo. Dopo il via del regista Roberto, come stabilito, uscì dal retro della scenografia avvicinandosi lentamente al corpo di Nami. Il suo sguardo percorse ogni curva del corpo di lei, indugiando come sotto ipnosi sulle sue labbra e su quelle ciglia lunghe e sensuali ricoperte di mascara.  Ne rimase completamente stregato. Era la seconda volta che la osservava mentre dormiva. La prima volta era stato nella sala prove della Kings Record, quando si era prodigata per aiutarlo. Anche se era solo una finzione e lei non stava veramente dormendo come quel giorno,  il vederla lì stesa e indifesa intenerì il suo cuore. Ormai fuori dal suo personaggio Roberto si chinò su di lei. Tutti rimasero con il fiato sospeso, sembrava che Roberto volesse baciarla, ma proprio pochi centimetri prima di raggiungere il suo viso, tornò in sé afferrando la mascherina dal pavimento. Una volta raccolta la porse  delicatamente sul viso candido di lei. Nami fuori da ogni copione sollevò la sua mano sfiorando sensualmente quella di Roberto. Kei rimase impotente ad osservare quella sconfitta bruciante corrodergli l’anima.
“Non può essere. Roberto ama un’altra… Eppure sembrava che volesse... Cosa aveva intenzione di fare?”
«Stop!!» urlò il regista raggiungendo i ragazzi sulla scena, «perfetti!!!! Avete reso l’idea perfettamente!» Nami si sollevò aiutata da Roberto i due si scambiarono un sorriso imbarazzato prima che il regista li raggiungesse sulla scena.
«Anche se è perfetta credo che quell’attimo di esitazione non sarebbe molto funzionale per l’esito del video, per questo lo taglieremo ma lasceremo invariati i primi piani. Erano molto espressivi. Ragazzo sembravi davvero innamorato… »
Nami che non aveva potuto osservare la scena perché era a occhi chiusi, squadrò incuriosita Roberto, lo stesso si portò una mano dietro la nuca massaggiandosela imbarazzato, «sarò semplicemente entrato nella parte» si giustificò. Ma per Nami quella non era solo questione di improvvisazione, aveva notato lo sguardo di Roberto quando era arrivata e sentiva che forse qualcosa stava cambiando e tra i ragazzi anche qualcun’altro aveva notato quel cambiamento.
 
Dopo il girono delle riprese, il meritato weekend era arrivato e finalmente i ragazzi si sarebbero potuti godere quei giorni di pausa meritati. Tutti, a eccezione di Roberto costretto a esercitarsi presso la Kings Record.
Quella mattina la sveglia suonò per tutti alle sei, con l’unica differenza che Roberto quella mattina, avrebbe percorso una strada diversa da quella dei suoi cinque amici.
«Rob, mi dispiace che non potrai venire con noi alle terme…», si rammaricò Jona mentre chiudeva la sua valigia firmata.
«Non preoccuparti, me la caverò benissimo» lo rassicurò Roberto mentre sistemava il cambio nel suo borsone per gli allenamenti.
Poco dopo Shin spalancò la porta entrando di prepotenza nella stanza.
«Jona, muoviti! Siamo tutti pronti e Andrea è già giù che ci aspetta».
Jona sospirò portando indietro un ciuffo dei suoi capelli ormai inesorabilmente bruni.
«Capito, adesso arrivo». Rassicurato il più piccolo che uscì dalla stanza salutando rapidamente Roberto, Jona posizionò la sua valigia sul pavimento.
«Ci vediamo tra due giorni» affermò salutando l’amico italiano con un abbraccio.
«Divertitevi anche per me».
«Contaci». Salutato Roberto, l’ex-biondo raggiunse gli altri ragazzi già nella macchina di Andrea.
Roberto si caricò il borsone sulla spalla destra e dopo aver dato un’occhiata all’appartamento vuoto, chiuse la porta pronto a iniziare l’ennesima giornata di allenamento.
I cinque giunsero alle terme dopo quattro ore di viaggio. Fu proprio dopo pranzo mentre disfacevano i bagagli nella stanza in comune, che Toshi imprecò ad alta voce.
«Maledizione! Come ho fatto a dimenticarmene? Idiota… idiota…» disse prendendo posto sul proprio letto, portandosi le mani alle tempie disperato.
«Cosa è successo?» gli chiese Take preoccupato.
«Sono un vero idiota…» continuò afflitto Toshi.
«Questo lo abbiamo capito, non c’è bisogno che lo ripeti in continuazione…» lo riprese Kei annoiato gettandosi sul letto e portando le braccia sotto la nuca con indifferenza.
Toshi gli lanciò un’occhiataccia mentre il resto del gruppo si riuniva intorno a lui.
Shin si chinò poggiando una mano sulla spalla del più grande. «Toshi, dicci cosa è successo. Magari possiamo trovare una soluzione».
Il ragazzo ammorbidì il suo sguardo contrito e sospirò. «Oggi è il nostro compleanno e io me ne sono completamente dimenticato. Le avevo promesso che quest’anno l’avrei portata fuori. Sono anni che si occupa lei dei festeggiamenti. Io sono stato sempre troppo impegnato con gli allenamenti per organizzare qualcosa, ed ogni volta era lei a presentarsi nella sala prove con una torta che ci smezzavamo. Questa non me la perdonerà mai».
Kei si sollevò di scatto mettendosi seduto sul letto, nei suoi occhi la stessa espressione preoccupata di Toshi. Anche lui si era completamente dimenticato che quel giorno era il compleanno di Nami.
«Cosa possiamo fare? Non mi va che passi il suo compleanno da sola… » osservò triste Toshi.
«Roberto. Possiamo chiedere a lui di fare qualcosa per lei, di distrarla almeno fino al nostro ritorno… Se partiamo subito arriveremo sicuramente verso sera» intervenne Jona.
«Non esiste… » lo fulminò Kei intromettendosi sotto lo scetticismo generale.
«Perché dici di no? A me sembra una buona idea!» affermò perplesso Jona, mentre gli altri tre lo fissavano con espressione interrogativa.
Il ragazzo con il ciuffo sull’occhio sinistro con le spalle al muro si sollevò dal materasso. Non poteva di certo rivelare agli altri che l’idea di lasciare quei due soli per tutto quel tempo lo infastidiva terribilmente.
Tossendo un paio di volte per guadagnare tempo, Kei analizzò la situazione alla ricerca diuna motivazione plausibile che giustificasse il suo diniego.
«Quello che volevo dire è che prima di partire dovremmo comprarle dei regali. Non possiamo di certo presentarci a mani vuote, no?» improvvisò per rendere più ragionevole la sua opposizione.
Take e Jona si scambiarono degli sguardi perplessi mentre Toshi sorrise soddisfatto.
«Giusto! Un regalo! Vedi che alle volte non sei così inutile come sembra!»
«Ehi! Non esagerare! Non ho detto che siccome è il tuo compleanno puoi dire e fare quello che vuoi» lo rimproverò Kei.
«Dai ragazzi non litigate. Non credo sia il momento ideale questo» si intromise Shin placando l’ennesimo litigio tra i due.
Così, mentre i ragazzi si organizzavano per il ritorno, alla Kings Record Roberto riposava dopo quattro ore di allenamento. Seduto sul pavimento in parquet della sala prove recuperava le energie bevendo avidamente da una bottiglietta di plastica.
Dalla tasca della sua giacca recuperò un cellulare e due biglietti del cinema. Quella mattina muoversi per le strade di Tokyo era stato a dir poco illuminante. Da quando avevano iniziato il tirocinio Roberto aveva avuto pochi momenti per rimanere da solo e riflettere. Quando erano alla Kings Record il tempo per riprendere fiato tra una lezione e l’altra era quasi inesistente e in aggiunta, la sera, quando tornavano distrutti al dormitorio, Jona era sempre lì che lo tormentava con le sue considerazioni sulla giornata. Aveva scoperto che l’amico americano aveva davvero una grande voglia di confessarsi oltre a una incredibile resistenza fisica.
Così, quei venti minuti di tragitto, quella mattina gli erano sembrati un’ottima opportunità per riflettere con calma sul come la sua vita e anche quella dei suoi amici, a breve sarebbe cambiata. Era certo che dopo la conferenza e il rilascio dell’album, la loro vita da personaggi pubblici li avrebbe completamente risucchiati. Da un lato il tenersi occupato con gli allenamenti e le lezioni, gli aveva dato modo di tollerare quella colpa latente che lo stava divorando. Forse essere preso dallo spettacolo sarebbe stato un ulteriore aiuto per fuggire da quel pensiero tremendo che ancora di notte non lo lasciava dormire.
“È colpa mia se l’ho persa. Ero convinto mi avrebbe aspettato e invece alla fine è andata via. L’unica cosa che posso fare adesso è essere io quello ad aspettare pazientemente che ritorni? Ma ci riuscirò davvero?  Spero che quando il destino ci farà rincontrare lei mi perdoni e mi dia una possibilità per recuperare… quello che ci stiamo perdendo adesso spero riusciremo a recuperarlo un giorno… spero non si dimentichi di me… ”
Mentre era li che rifletteva con sguardo perso due ragazze fuori da un cinema lo avevano fermato per sponsorizzare un nuovo film sentimentale che usciva proprio quel pomeriggio. Così Roberto si era ritrovato ad essere uno dei pochi fortunati a ricevere due biglietti in omaggio.
 
“Cosa me ne faccio di due biglietti del cinema? E poi con chi potrei mai andarci? E cosa più importante da qui non uscirò prima di sera inoltrata… ”
Fu in quel momento che il suo cellulare vibrò. Era un messaggio da parte di Toshi, stava per aprirlo quando Rio entrò nella sala.
«Sei ancora qui?»
Roberto ripose il cellulare e i biglietti nella tasca dei pantaloni, rimettendosi in piedi in modo da accogliere rispettosamente il Direttore della casa discografica.
«Sono in punizione per due giorni no?»
Rio gli sorrise  raggiungendolo e poggiandosi alla parete dalla quale si era da poco sollevato il ragazzo italiano.
«Ho visto il video che avete registrato».
Roberto tacque aspettando che l’uomo proseguisse.
«Ti deve piacere molto mia figlia…»
Roberto impallidì.
«Ehi che faccia. Stavo scherzando… »
Roberto riprese a respirare come al solito.
“Si certo… bello scherzo…”
«Comunque sono venuto qui per dirti che puoi anche interrompere i tuoi allenamenti. Dopotutto penso che la lezione tu l’abbia appresa.  Da adesso potrai investire il tuo tempo per questi due giorni come meglio vorrai…»
Roberto lo osservava scettico.
«Cosa le ha fatto cambiare idea?»non riusciva a capire.
«So che non eri solo quella sera. Ti ho fatto quella domanda per capire se eri disposto a sacrificarti per il gruppo e credo tu ti sia rivelato all’altezza della prova, quindi per me puoi andare…»
Roberto non poteva credere alle sue orecchie.
«Deve essere davvero divertente prendersi gioco della gente in questo modo…», Rio stava per ribattere, ma spazientito Roberto recuperò la giacca e la bottiglietta dal pavimento muovendosi verso l’uscita. In quel momento i biglietti omaggio gli scivolarono fuori dalla tasca, cadendo sul parquet della sala prove. Rio li raccolse e sorridendo richiamò Roberto quasi vicino alla porta.
«Non stai dimenticando questi?»
Roberto si voltò sforzandosi di capire di cosa Rio stesse parlando, quando vide i biglietti sbuffò infastidito.
«Può anche tenerseli se desidera…»
Rio li osservò con più interesse a quel punto. Quella data gli riportò alla mente il motivo per cui quello non era un giorno come gli altri, quel giorno 18 anni fa lui diventava padre di due splendidi gemelli.
«Come ho potuto dimenticarlo… Tu, piuttosto sei sicuro che questi non fossero un regalo per Nami?».
Roberto strizzò gli occhi, cercando di capire a cosa Rio stesse alludendo. Perché avrebbe dovuto fare un regalo a Nami?
Il suo sguardo lo tradì immediatamente, Rio portò le mani ai fianchi disperato, «non dirmi che anche tu non sapevi che oggi è il compleanno di Toshi e Nami? Maledizione, se non avessi notato la data su questi biglietti me ne sarei dimenticato anche io. Nami non me lo avrebbe mai perdonato. Come ho potuto lasciare che mi passasse di mente? Non avrei mai dovuto mandare fuori Toshi, quei due hanno sempre festeggiato insieme il loro compleanno.…».
“Oggi è il loro compleanno?” Roberto non poteva crederci.
Senza pensarci due volte, recuperò i biglietti dalle mani di Rio, aveva appena pianificato il suo primo pomeriggio libero.
«Ragazzo… prendi queste!» affermò Rio lanciandogli un mazzo di chiavi.
Roberto fissò prima le chiavi tra le sue mani poi Rio stranito.
«Prendi la mia macchina. Non arriverete mai in tempo allo spettacolo».
 
 
 
Nami era appena arriva nella casa discografica di suo padre, sua madre voleva vederla.
Quella giornata non era iniziata nei migliori dei modi. Era affranta e demoralizzata. Avrebbe passato il compleanno più triste e solo della sua vita e tutto per colpa di suo padre e della sua ambizione per suo fratello.
Bussò un paio di volte alla porta dell’aula in cui Yori teneva le sue lezioni, finché la stessa non la invitò ad entrare.
«Mamma, mi volevi?» chiese entrando esitante, richiudendosi la porta alle spalle.
Yori era seduta vicino al pianoforte. «Ho una cosa per te…» disse sollevandosi e avvicinandosi ad un attaccapanni per recuperare da una borsa rossa un pacchettino.
Nami sorpresa accettò quel regalo dalle mani di sua madre.
«Mamma non dovevi…»
La donna le sorrise amorevolmente.
«Aprilo su…» la incoraggiò.
Nami non se lo fece ripetere due volte. Sciolto il fiocco aprì la scatola. All’interno un fermaglio per capelli.
Era meraviglioso, un fiore decorato con pietre preziose, sembrava antico.
«Era della tua bisnonna, me lo diede tanti anni fa e adesso io lo dono a te come lei fece con me quando avevo la tua età. Mi disse che con questo tra i miei capelli  non avrei trascorso un solo giorno camminando a testa bassa. E non per il suo valore ma perché rappresenta l’orgoglio delle nostre origini. Non devi mai dimenticare chi sei stata in passato, anche se la vita ti spingerà a cambiare tu non devi mai dimenticare, perché solo così potrai diventare una persona migliore di quella che eri e splendente come questo bellissimo fiore. Chissà, magari, anche tu un giorno riuscirai a darlo a tua figlia.»
Nami abbracciò con impeto sua madre. Era un regalo meraviglioso il più bello che potesse mai desiderare.
Con i suoi modi curati, Yori allontanò Nami dal suo petto materno facendole segno di girarsi, dopo aver preso dalle mani della figlia quel cimelio di famiglia, delicatamente raccolse due ciocche scure dei suoi capelli portandoglieli dietro la nuca, per poi bloccarli con quel fiore luccicante.
Era bellissima.
«Sei una donna adesso, ancora non ci credo. Ora ricordo che io e tuo padre ci davamo il cambio per farvi dormire di notte e adesso siete già cresciuti così tanto…»
Nami reclinò il capo rabbuiandosi in viso. Quella considerazione di sua madre le aveva appena ricordato che quello sarebbe stato il primo compleanno senza suo fratello.
Dolcemente sua madre le sollevò il viso facendo leva con il suo indice sotto il suo mento.
«Cosa ho appena detto? Se indossi questo fiore non puoi abbassare la testa. Non puoi appassire proprio mentre la vita ti sta trasformando in un fiore meraviglioso…»
«si, ma…»
«Nami, lo so che è difficile, ma capiscilo, tuo fratello ha avuto un periodo molto frenetico. Puoi avere un po’ di pazienza? domani vi rivedrete e festeggeremo tutti insieme».
Nami a malincuore acconsentì per non creare dispiaceri a sua madre. Stava sorridendo forzatamente, quando la porta fu spalancata bruscamente. Entrambe le donne si voltarono verso di essa.  Sull’uscio, con il fiatone e le labbra rosse e carnose c’era Roberto.
«Allora sei qui!» esordì guardando verso le due donne.
Le stesse si scambiarono delle occhiate esitanti, «a chi ti stai riferendo?» gli domandò Yori perplessa.
«Mi dispiace non posso spiegarle adesso il perché, ma ho bisogno di sua figlia. Le dispiace se gliela rubo solo per due ore?» le chiese stringendo con la sua mano sinistra il polso di Nami.
“Ma che gli prende adesso?”
Pensava Nami sorpresa da quella richiesta di Roberto. Troppe cose non le erano chiare. Primo non riusciva a capire cosa ci facesse Roberto lì alla Kings Record, anche lui sarebbe dovuto partire con gli altri e cosa ancora peggiore non capiva cosa aveva intenzione di fare con lei nelle successive due ore?
«Per me va bene ma….» Yori non completò la frase che Roberto trascinò via Nami da quella stanza.
Erano per i corridoi e correvano con il fiatone.
«Si può sapere dove stiamo andando?» gli chiese Nami una volta entrati nell’ascensore.
«Se non ci sbrighiamo perderemo lo spettacolo del pomeriggio».
«Ma che spettacolo?»
«Ti fidi di me?»
«SI…»
In quel preciso momento le porte dell’ascensore si aprirono sull’atrio della casa discografica.
«Perfetto allora seguimi…» detto questo Roberto la prese per mano e così uniti uscirono dalla Kings Record.
 
I ragazzi stavano tornando a Tokyo. Dopo aver convinto Andrea e Daisuke a fare marcia indietro erano in macchina per la strada del ritorno. Ognuno dei ragazzi era uscito a far spese e ognuno si era ritirato in albergo con un regalo per Nami. Tutti a eccezione di Kei che era rimasto in camera per tutto il tempo. Quando Toshi gli aveva chiesto perché non fosse uscito con loro, la sua risposta era stata: “quale miglior regalo della mia presenza potrei mai farle?”.
Una risposta, che a dirla tutta, Toshi anche si aspettava, ma quello che il più alto del gruppo non avrebbe mai potuto sospettare era che in realtà Kei era rimasto in albergo a lavorare al suo personale regalo per Nami.
Mentre gli altri erano fuori in cerca di doni, lui era rimasto chino a scrivere sul suo block notes ascoltando e riascoltando una vecchia traccia musicale che aveva composto ma a cui non era mai riuscito a trovare le parole. Dopo neanche un’ora aveva finito il testo.
Quella era la prima canzone di Kei per qualcuno. Prima d’allora non aveva mai scritto una canzone per un’altra persona.
Era davvero orgoglioso di sé e curioso di scoprire la faccia che avrebbe fatto Nami.
 
 
Roberto, con il suo berretto e i suoi occhiali scuri, era seduto accanto a Nami nel cinema. L’atmosfera era abbastanza imbarazzante. Tutti avrebbero preso quell’uscita per un appuntamento, eppure Nami era conscia che Roberto amava un’altra ragazza. Sicuramente c’era un altro motivo dietro quell'invito, ma quale?
«Spero ti piaccia. Dicono che i film romantici siano come miele per le ragazze, e avendo avuto questi due biglietti in omaggio mi sembrava uno spreco venire da solo a vederlo. Spero non ti dispiaccia se ti ho rapita in quel modo…»
Adesso era tutto più chiaro, per un attimo nel suo cuore si era fatta largo la possibilità che quello fosse un regalo che Roberto voleva farle per il suo compleanno e invece, in quel momento ogni dubbio sulle sue reali intenzioni, le era stato chiarito. Quella era una semplice uscita tra amici eppure c’era qualcosa in quel momento che non la faceva sembrare così agli occhi di Nami.
Le luci in sala affievolirono e sullo schermo comparvero alcuni spot prima dell’inizio della proiezione vera e propria.
Nami sentiva chiaramente il braccio di Roberto sfiorare il suo, avrebbe voluto girarsi e spiarlo per leggere qualche sua espressione, ma aveva troppa paura che la scoprisse. Rimase immobile con lo sguardo fisso sullo schermo finchè Roberto non le portò sotto il naso una confezione di popcorn. Sorridendogli accettò l’offerta. Durante il film risero, si emozionarono sospirarono e si rattristarono insieme. In quel frangente qualcosa li stava avvicinando.
Prima che le luci si accendessero e partissero i titoli di coda Roberto uscì lasciando Nami da sola sulla poltrona.
Dopo venti minuti Roberto non era ancora tornato e lei impaziente lo attendeva all’uscita della sala, quando lo vide arrivare con il fiatone e rosso in viso come se avesse corso per tutta la città come un pazzo il suo sguardo preoccupato cedette il posto a un’espressione iraconda.
«Si può sapere dove ti eri cacciato? Mi hai letteralmente abbandonata in sala…»
«Scusa, dovevo ritirare una cosa… puoi perdonarmi?» le chiese con due occhioni colpevoli.
«Dipende…» affermò Nami incrociando le braccia e trattenendo con difficoltà quell’atteggiamento risoluto.
In quel momento Roberto ebbe un flashback quel momento gliene riportò alla memoria un altro.
Nami notò quello sguardo pensieroso e stava per fare qualcosa, quando Roberto la prese nuovamente per il polso trascinandola via dal cinema, come se avesse messo da parte qualcosa per concentrarsi solo su quello che doveva fare in quel momento.
Erano in macchina. Fuori era già calata la notte.
«Si può sapere dove mi stai portando?»
Roberto era rimasto in silenzio per tutto il viaggio. Poi improvvisamente, dopo l’ennesima richiesta di Nami accostò la macchina.
Scese dalla stessa, raggiunse lo sportello di lei e dopo averglielo aperto e averla aiutata a scendere, fece segno a Nami di girarsi. Prese una benda e avvolse la stessa introno al suo capo per coprirle gli occhi.
«Ok, adesso mi stai facendo preoccupare. Spero bene, che non te ne scapperai via lasciandomi qui tutta sola ….».
Roberto però preferì non risponderle. Quell’attesa iniziava a snervare la povera Nami che ormai temeva per il peggio.
Fu quando avvertì il rumore del portabagagli che sia apriva e poi si chiudeva insieme a uno strano spostamento d’aria alle su spalle, che due mani forti la trattennero bloccandole le braccia al corpo, spronandola a spostarsi di qualche passo più in là. Quando la benda sui suoi occhi fu sciolta, due lacrime le caddero dagli occhi come rugiada dagli alberi, perché quello che aveva dinanzi a sé aveva dell’incredibile.
“Allora lo sapeva… dall’inizio lui lo sapeva… almeno una persona non si è dimenticata di me…”
«Auguri!» le sussurrò in un orecchio Roberto ancora alle sue spalle.
Il regalo più bello era appena arrivato… 

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Capitolo 25
*** COME UN ROBOT ***


 
CAPITOLO 25
COME UN ROBOT


 
Quando la benda le scivolò via dagli occhi liberandola da quell’opprimente oscurità, Nami non riuscì più a trattenere le lacrime.
Sul cofano della macchina era adagiata una torta con tante candeline accese.
“Ha davvero fatto tutto questo per me? Quindi ha sempre saputo che era il mio compleanno”
Con gli occhi lucidi Nami spostò lo sguardo incredulo dalla torta a Roberto che adesso era al suo fianco.
«Ma questa torta, quando l’hai presa?» gli chiese tamponandosi il viso.
«Ti sembra il momento di farmi certe domande? Sbrigati ed esprimi un desiderio invece, e fai in modo che sia un desiderio che valga una corsa come quella che ho fatto per prenderti questa torta! Non accetterò un desiderio modesto e privo di coraggio, pretendo un desiderio pomposo e grandioso, di quelli che non ti sogneresti mai di esprimere. Devi sapere che queste candeline sono speciali. Realizzeranno qualsiasi tuo desiderio. Quindi non sprecare questa occasione!»
«Ah, si?»
«Certamente! Se non ci credi prova! Esprimi un desiderio grandioso e vedrai che diverrà realtà!»
Nami gli sorrise chiudendo gli occhi in modo da concentrarsi sul suo desiderio, aveva le mani strette al petto.
“Mi chiedi un desiderio grandioso, uno che una persona non si sognerebbe mai di chiedere… ebbene, eccolo qui: desidero l’amore di un uomo che forse non mi amerà mai. Desidero il bacio che forse non potrò mai avere. Desidero avere te che forse non mi vorrai mai. Voglio avere la possibilità di amarti e di essere amata da te… nient’altro. Voglio sentirmi amata per una volta nella mia vita. Solo questo.”
Dopo aver preso fiato soffiò sulle candeline spegnendole tutte in una sola volta.
Roberto a quel punto l’abbracciò forte tra le sue braccia ormai più forti e muscolose di prima. I duri allenamenti di quei quattro mesi avevano scolpito il suo corpo esile e minuto.
Nami ricambiò felice quel gesto. I due rimasero così stretti finché il cellulare nella tasca di Roberto suonò riportandoli alla realtà.
Senza esitare il ragazze rispose. Con tutto quel trambusto si era completamente dimenticato di leggere e rispondere al messaggio dell’amico.
«Pronto?» rispose esitante.
«Dove siete finiti?» gli chiese Toshi agitato.
«In che senso dove siamo finiti?»
«Non dirmi che non hai nemmeno letto il mio messaggio?»
L’amico dall’altro capo del telefono sembrava fuori di sé dall’agitazione.
«Si, scusa… me ne sono completamente dimenticato» ammise mortificato.
«Capisco, non importa. Devi farmi un favore piuttosto: prendi Nami e portala al dormitorio. Noi siamo nell’appartamento, abbiamo organizzato una festa a sorpresa, ovviamente non farle capire nulla, siamo intesi?»
«Si, d’accordo. Allora divertitevi alle terme!» concluse per sviare il discorso, poi chiuse la conversazione.
«Chi era al telefono?» gli chiese interessata la ragazza con il capelli neri impreziositi da quella spilla luccicante.
«Jona mi ha chiamato per chiedermi di recuperare una cosa per lui dalla Kings Record, vuole trovarla a casa quando tornerà dalle terme. Sembra essere molto importante per lui». Improvvisò per giustificare le sue risposte alla chiamata di Toshi.
«Capisco, quindi dobbiamo tornare alla Kings Record».
Con rammarico Roberto le fece segno di tornare in macchina.
Nami comunque soddisfatta e felice per quel prezioso momento, cercò di non far pesare la cosa a Roberto. Dopotutto aveva fatto tanto per lei quella sera.
«Ok, allora andiamo» lo incoraggiò sorridendogli. Rimessa la torta nella scatola i due ripartirono alla volta della casa discografica ma non potevano immaginare che qualcun’altro era lì e che presto quella persona avrebbe fatto i conti con una realtà capace di stringergli il cuore. Delusione, sofferenza e rimpianto presto non sarebbero state più semplici parole trascritte su un block notes ma prima del previsto quelle verità, che aveva già vissuto nella sua vita, sarebbero tornate a ferirlo e tormentarlo. 
Kei con una scusa aveva fatto ritorno alla casa discografica per incidere la canzone per Nami. Agli altri aveva detto di dover andare a recuperare le candele per la torta che Andrea e Daisuke erano andati a comprare. Aveva appena superato le porte girevoli della Kings Record, quando incrociò Yori e Rio che si stavano ritirando. Non avendo un mezzo con cui tornare a casa, Rio fu costretto a rinunciare alle sue ore piccole per quella sera e fare ritorno con sua moglie prima del solito.
«E tu cosa ci fai qui?» gli chiese perplessa Yori notandolo entrare dall’ingresso principale.
«Non sono il solo ad essere ritornato. Sono tutti al dormitorio in attesa che Roberto e Nami ritornino, se volete raggiungerli, Toshi sta organizzando una festa a sorpresa per lui e per Nami. Presto dovrebbero arrivare anche Yuki e Clara» comunicò loro.
«Quel ragazzo non si smentirà mai…» sospirò scuotendo la testa Rio.
«Bene ci vediamo al dormitorio…» affermò Kei, prima di superarli.
«Se vuoi ti aspettiamo.» gli propose Yori.
«Devo fare una cosa, non so quanto tempo ci vorrà».
«Non preoccuparti, ti aspettiamo qui nella sala di attesa».
«Come volete».
Detto questo Kei corse verso lo studio di registrazione. Grazie al cielo la traccia strumentale era già pronta. Doveva solo registrare la sua voce e mixarle. Grazie ai consigli di Take, in quei quattro mesi, si era impratichito molto con la strumentazione.
Non posso crederci… sto davvero facendo tutto questo per una ragazza… ma perché? Qual è il mio scopo? Forse farle sapere che mi dispiace e che l’amo nonostante tutto? Forse si, voglio che smetta di vedermi come una persona insensibile incapace di ricambiare i suoi sentimenti. Voglio che sappia che non l’ho mai presa in giro e che tutto quello che ho fatto, l’ho fatto perché l’amo. Ma a quel punto cosa succederebbe? Comunque non potrei amarla come vuole. Devo occuparmi di una faccenda più importante, forse dopo… ma dopo non sarà troppo tardi?”
In quel momento il computer espulse il CD con all’interno quella traccia musicale. Kei aveva composto quel brano con sentimenti che conosceva e per una persona che amava, ed era la prima volta che succedeva. Aveva ragione Yori, scrivere conoscendo quei sentimenti attribuisce alla musica il giusto motivo per cui è stata creata: comunicare emozioni vere, e lui lo aveva appena fatto.
 https://www.youtube.com/watch?v=4iajjpKk0Fs
Nami e Roberto avevano appena fatto ritorno nella  casa discografica, con una scusa Roberto era tornato negli spogliatoi. Per fortuna aveva lasciato lì il suo borsone.  Era uguale a quello di Jona, e questo gli permise di inventarsi una scusa plausibile, ovvero che era quello l’oggetto dimenticato dall’amico. Quando però uscì dallo stesso con il borsone nella mano destra, non trovò più Nami ad aspettarlo.  Così, dopo aver girato le varie sale per cercarla, raggiunse l'aula studio in cui faceva lezione Yori. Fu lì che la trovò, seduta al pianoforte mentre giocherellava con i tasti componendo un’insolita ninnananna. Aveva sul viso una espressione triste e malinconica. Roberto senza esitare entrò poggiando all’ingresso il borsone, catturato da quella melodia non si rese conto che la tracolla era rimasta incastrata nella porta lasciando aperto un sottile spiraglio.
La raggiunse, e a quel punto Nami si ricompone, interrompendo la sua esecuzione e sollevandosi dalla seduta vicino il pianoforte.
«Scusa se sono scomparsa, ero venuta qui per cercare mia madre, ma poi mi è venuta voglia di suonare e…»
«Suoni bene…» notò Roberto prendendo il suo posto vicino al pianoforte.
«Mio padre ha sempre voluto che io e mio fratello formassimo un duo, ma io avevo altri sogni nel cassetto. Così ha preteso che fin da piccoli imparassimo a ballare, a suonare e a cantare, che conoscessimo i giusti modi e le giuste parole da utilizzare dinanzi ai giornalisti. Inoltre conosciamo ben quattro lingue… insomma la mia infanzia è stata immersa dai doveri anche se, a dire il vero, io appena potevo me la davo a gambe levate. Toshi invece ha sempre voluto soddisfare le aspettative esigenti di nostro padre, cosa che io, pur volendo, non sono riuscita a fare. Non credo di essere un grande motivo di orgoglio per lui. Sicuramente si è dimenticato anche del mio compleanno… »
sospirò inquieta.
«Sono sicuro che tuo padre non disprezzi quello che sei diventata, dopotutto un bravo padre deve essere capace di accettare che il proprio figlio compia scelte diverse da quelle che vorrebbe, che sbagli e impari sulla propria pelle la lezione prima di poter dire di aver avuto ragione, e credo che Rio sia un bravo padre e che apprezzi davvero la ragazza che sei diventata. Anche se non lo dimostra apertamente, sono sicuro che lo pensa.»
«Questo forse potrebbe valere anche per tuo padre…» tentò lei. Raramente Nami toccava l’argomento EICHI con Roberto perché sapeva quanto detestasse parlare del rapporto controverso con suo padre, ma in quel momento non riuscì a trattenere dentro sé  quell’osservazione che le uscì spontaneamente dalla bocca.
Roberto posizionò le sue dita sottili sui tasti bianchi e neri del pianoforte, ostentando la sua solita armatura fatta di indifferenza. Seppure dentro soffrisse molto per la mancanza di fiducia da parte di suo padre e per le sue bugie, non voleva mostrare questo suo lato debole a Nami. Bastava averla torturata con Marika non voleva sovraccaricarla di malumori.  Sorridendole come se nulla fosse proseguì.
«Ho un altro regalo per te…» cambiò immediatamente discorso.
Nami sapeva che quella era solo una scusa per sviare l’argomento. Ogni volta che si parlava di Eichi Roberto si chiudeva a riccio.
«Veramente?» gli chiese abbandonando ogni tentativo di estorcergli una qualsiasi confessione. Così, sporgendosi sulla cassa del pianoforte, recuperò un'espressione più rilassata.
«Si, voglio suonare per te… anche se mio padre non mi apprezzerà mai come cantante, sapere che almeno qualcuno apprezza quello che faccio è la consolazione più grande che mi resta. Sapere che, nonostante lui, c’è chi stima i miei sforzi e i miei risultati e che mi sostiene in quello che faccio è la forza più grande che ho. Ecco perché voglio suonare per te. Mi sei stata vicino in questo momento difficile, quando mi sentivo scivolare nella disperazione tu ti presentavi con la soluzione giusta ad ogni problema. Voglio ringraziarti per quel giorno nel garage di Take, per quella sera quando ti ho parlato di Marika e per essermi stata vicino per tutto questo tempo.  Oggi al cinema ho sorriso per la prima volta dopo tanto tempo e devo ringraziare solo te. È ironico, non credi? A questo punto non so chi abbia fatto davvero il proprio regalo all’altro.»
«Roberto…»
Senza proseguire con le parole il ragazzo prese invece a suonare la sua melodia per Nami.
https://www.youtube.com/watch?v=fxKaRDgAEM0

C’era trasporto e sentimento, desiderio e attrazione fatale così in quella canzone come tra i loro sguardi. Sembrava così perfetto ma la realtà era un’altra. Avevano bisogno l’uno della forza dell’altro e bastava davvero poco perché quell’attrazione si trasformasse in contatto.
Quello che neanche Nami poteva sapere però, era che in quel momento Roberto le stava suonando una canzone dedicandogliela quando i suoi pensieri erano rivolti ad un’altra persona. Nel cinema, quando lei lo aveva ripreso per il suo ritardo, Roberto si era ricordato di quell’ultimo pomeriggio in compagnia di Marika, era il suo compleanno, proprio come quel giorno era quello di Nami e anche in quella occasione aveva suonato una canzone per lei. Non riusciva a spiegarsi il perché ma l’aver organizzato la torta e il cinema per Nami lo faceva sentire in colpa nei confronti della ragazza che amava e che al momento era lontana da lui.
Era felice di aver fatto sorridere Nami ma dall’altro si sentiva in colpa per non essere riuscito a fare lo stesso per Marika. I suoi occhi erano rivolti verso quella ragazza dai capelli scuri e gli occhi a mandorla ma quello che vedevano in realtà erano una ragazza con i capelli castano chiaro mossi a incorniciare un viso ovale con degli intensi occhi verdi.
 
Kei era uscito dalla sala di registrazione e soddisfatto del risultato ottenuto, si stava recando al piano terra per raggiungere Yori e Rio che avevano deciso di attenderlo con pazienza. Era stato più veloce del previsto, aveva registrato e masterizzato il disco in  meno di venti minuti.  Fischiettando percorreva il corridoio. Non era da lui sentirsi così eccitato per un compleanno.
Mentre era vicino all’ascensore avvertì una strana musica echeggiare per il corridoio isolato. Diede uno sguardo al suo cellulare e sullo schermo un orologio digitale le indicava le otto di sera. Era insolito sentire qualcuno esercitarsi a quell’ora tarda. Incuriosito seguì il suono di quel pianoforte fino a giungere davanti alla sala studio di Yori. La porta era appena socchiusa, gli bastò scostarla di pochissimo per scorgere all’interno della stanza, Nami appoggiata al pianoforte e Roberto seduto vicino lo stesso, mentre le suonava e cantava una canzone. Sembravano proprio una coppia felice, Nami guardava Roberto catturata e Roberto ricambiava quello sguardo sorridendole. Per Kei fu come vedere un film che aveva già girato nella sua mente molte volte quel pomeriggio, ma quelli che aveva davanti non erano i protagonisti che si era immaginato. Nel suo immaginario doveva essere lui quello vicino a Nami a ricambiare quel suo sguardo felice ed emozionato. Qualcosa dentro di lui scattò improvvisamente.
“Ma cosa mi ero sognato? È Roberto quello che lei desidera adesso… Maledizione che rabbia… Già so che lui la farà solo soffrire...”
La mano destra si strinse con forza sul CD che aveva appena finito di realizzare. Quella visione gli straziò l’anima.
 
Roberto aveva appena concluso il brano.
«Nami, grazie per tutto questo tempo. Grazie per avermi aiutato anche quando non avevo chiesto il tuo aiuto e grazie per aver creduto in me quando neanche i miei genitori sono riusciti a farlo…»
Sollevandosi dalla seduta Roberto chiuse il pianoforte a capo chino. Nami gli si avvicinò con gli occhi lucidi e prese il suo volto tra le sue mani, facendo peso sulle punte dei suoi piedi si sollevò di pochi centimetri gli stessi centimetri che la separavano dal suo desiderio più grande.
Roberto accolse sorpreso quelle labbra e quel calore inatteso nel suo petto si propagò in tutto il suo corpo come una fiamma. Questa volta non si trattava di un bacio di ringraziamento fugace, questa volta c’era trasporto, lo stesso trasporto che aveva provato quella sera in riva al lago a Villa Rosa.
Le sue mani si mossero verso i fianchi di Nami si adagiarono su di essi e con una leggera pressione avvicinò il bacino di lei al suo. Qualcosa in quel momento lo spinse a ricambiare quel bacio, un’illusione che presto si sarebbe spezzata. La mano destra percorse la siluette di Nami fino a raggiungere la sua nuca e quel bacio incerto si fece più intenso.
Kei era immobile con quel CD nella mano destra e un cuore in frantumi nell’altra.
Fino a quel momento aveva nutrito incoscientemente la sicurezza che Roberto non avrebbe mai ricambiato i sentimenti di Nami perché innamorato di un’altra persona e invece, adesso, quella sicurezza era andata in mille pezzi. Non riuscì a rimirare oltre quella visione, con impeto fece retromarcia, chiamò l’ascensore e vi entrò. Nelle sua mente l’immagine di quel bacio pieno di trasporto gli fece bruciare gli occhi. Stava per piangere… ma si trattenne.
“Basta. Basta! Per Nami io non resterò altro che un semplice amico nient’altro. Basta sperare in qualcosa di diverso.  Adesso mi concentrerò solo sul mio obiettivo. Fino ad ora ho solo perso il mio tempo. Le uniche certezze che mi servono per andare avanti sono, Shin, Yuki e il mio obbiettivo” con disprezzo guardò il CD tra le sue mani, come si guarderebbe un insetto viscido e disgustoso tra le mani, ecco come si sentiva: un insetto vile e insignificante e tutta per colpa dei suoi stupidi sentimenti. Le porte dell’ascensore  si ritirarono e lui con riconquistata fermezza ne uscì fuori a testa alta e con una nuova consapevolezza nel cuore. Prima di raggiungere Yori e Rio, prese quello che era rimasto dei suoi inutili sentimenti e li buttò in un cesto della spazzatura insieme a quel CD. Da quel momento avrebbe rinunciato a Nami come ragazzo e le sarebbe stato vicino solo come un amico fedele. Le avrebbe nascosto quei sentimenti pericolosi. Rigettandoli nel profondo della sua anima con la speranza nascosta che un giorno sarebbe riuscito a dimenticarsi di averli mai provati.
Dopotutto le rinunce erano sempre state presenti nella sua vita…  aveva già rinunciato una volta ai suoi sentimenti, farlo per la seconda volta non poteva che rafforzare la sua determinazione.
“Amare porta solo dolore e rimpianto, meglio essere un robot freddo e insensibile piuttosto che soffrire in questo modo”.
Da una certa distanza Yori notò il gesto di Kei, quando il ragazzo li raggiunse aveva gli occhi lucidi e lo sguardo glaciale, sembrava un iceberg.
«Andiamo!» esordì con impudenza, superandoli. Rio corrucciò indispettito la fronte, ma Yori fece segno al marito di andare avanti e di non dare troppo peso a quell’atteggiamento sfrontato. Sapeva che qualcosa doveva essere successa per stravolgere Kei in quel modo. Mentre i due si allontanavano, lei tornò verso il cestino della spazzatura all’uscita dell’ascensore e recuperò il CD.
 
Roberto e Nami erano ancora coinvolti in quel bacio passionale, quando Roberto riaprì i suoi occhi scuri.
“Marika…   Nami? Ma… Questa… Non può essere! Cosa sto facendo?” Con un movimento deciso l’allontanò da sé. Ritirandosi in uno sguardo colpevole e confuso recuperò le distanze da quell’errore.
«Perdonami. Non so cosa mi sia preso. Non avremmo mai dovuto farlo.»
Nami per un attimo si era illusa di aver vinto contro Marika, ma a quanto pare aveva fallito ancora una volta.
«No, scusami tu, neanche io so cosa mi è preso…» disse cercando di rimediare a quella situazione imbarazzante.
«Direi che è arrivata l’ora di andare». Concluso il discorso Roberto recuperò il suo borsone dal pavimento e uscì seguito da Nami.
“Maledizione, ho rovinato tutto… e se adesso Roberto non volesse più essere mio amico?”
Nami osservava la sagoma del ragazzo italiano davanti a sé e nel profondo sentiva di aver commesso un grande sbaglio. Fu proprio quando arrivarono al piano terra e stavano appena uscendo dall’edificio che Roberto si arrestò voltandosi nella sua direzione.
«Nami, mi dispiace, non so cosa sia successo in quella stanza, ma non voglio perderti come amica. Ti andrebbe di far finta che non sia mai successo nulla? Ci tengo davvero molto a te e non voglio perderti. »
Poter continuare a essere sua amica in quel momento sembrò a Nami quasi una benedizione, per quel frangente di tempo aveva creduto di aver perso Roberto per sempre.  Quella soluzione le sembrò come scialuppa di salvataggio in pieno oceano. Avrebbe fatto di tutto per non perdere Roberto, anche scegliere di essergli solo amica. “Si, questo mi basta. Per il momento…”
Nami, gli sorrise porgendogli il palmo aperto della sua mano, Roberto lo strinse e più sollevati dalle loro coscienze uscirono dalla Kings Record. Nessuno dei due poteva sospettare in quel momento che altri occhi avevano visto quella scena e altre orecchie oltre le loro avevano sentito le loro parole.
Yori, avvertito il suono dell’ascensore che si apriva, era corsa a nascondersi dietro una grande pianta grassa vicino l’ingresso. Voleva vederci chiaro, e dopo quello che aveva sentito tutto nella sua mente le era ritornsto alla perfezione.
Kei amava Nami ma sua figlia era persa di Roberto… ma Roberto perché allora non voleva ricambiare i sentimenti di sa figlia? Che ci fosse un’altra persona nella sua vita?
 
 
Nell’appartamento degli Hope era quasi tutto pronto.
Mentre Take e Toshi disponevano le candeline sulla torta, Jona e Shin completavano le ultime decorazioni sistemando un enorme striscione sulla parete dietro il divano vicino l’ingresso.
Non vedendo Kei tornare, i due ragazzi vicino al tavolo della cucina, avevano preferito sistemare le candele portate da Clara e Yuki, nel caso Kei non avesse fatto in tempo.
Anche zio e nipote, a modo loro stavano fornendo un contributo a quell’allestimento improvvisato, impartendo indicazioni a Jona e Shin.
«Dovete abbassare l’angolo di sinistra» disse loro Yuki.
«No, zio è già dritto così!» lo riprese Clara.
«Dobbiamo abbassarlo o no?» gli chiese spazientito Jona con le braccia che gli tremavano per lo sforzo.
Un paio di colpi alla porta però  li fece trasalire.
«Svelti attaccatelo così com’è! Non abbiamo più tempo. Sono arrivati…» li esortò Toshi correndo a spegnere le luci.
Quando Clara andò ad aprire la porta però si ritrovò davanti ai suoi occhi Rio e Yori.
«Ciao Clara. Da quanto tempo!» l’avvolse in un caloroso abbraccio la donna mentre Rio si limitò a sorriderle cortesemente.
«Falso allarme ragazzi, sono solo la Prof e il Direttore» spiegò agli altri Take affacciandosi sull’ingresso.
Le luci vennero riaccese e i due ospiti inattesi fecero capolino nella cucina, subito dopo di loro fece il suo ingresso anche Kei.
In silenzio, si diresse in camera sua chiudendo la porta con un colpo deciso. Tutti si scambiarono delle occhiatacce perplesse tranne Yori che conosceva il motivo di quella sua reazione.
«Non fateci caso» li esortò, poi interessandosi alla torta sul tavolo, proseguì «ti sei veramente superato Toshi. Tua sorella ne sarà felicissima!» si complimentò stringendolo tra le sue braccia materne. In quel momento Toshi incrociò lo sguardo intenerito e divertito allo stesso tempo di Clara e cercò di recuperare quel po’ di mascolinità che gli rimaneva allontanando sua madre, schiarendosi la voce e portando il mento all'insù.
«Quando faccio una promessa io la mantengo. Dopotutto è così che si comporta un uomo, no?» disse gonfiando il petto a mento alto e atteggiamento fiero  lanciando uno sguardo di sfida verso Clara che roteò gli occhi al cielo sospirando.
“È proprio un bambino”.
«Comunque Roberto e Nami stanno arrivando. Erano proprio dietro la nostra macchina». Li ravvisò Rio. In quel momento anche Andrea e Daisuke giunsero in cucina con sei pacchi regalo tra le mani. A loro era spettato il compito di impacchettare i regali.
«Ance voi due da queste parti?» chiesero alla coppia appena entrata.
«Si, Kei ci ha avvisato della festa e quindi adesso siamo qui!» spiegò loro Yori.
Fu mentre Daisuke posizionava gli ultimi pacchi sul pavimento che i presenti udirono il rumore di chiavi nella serratura. Tutti si immobilizzarono ammutolendo prima correre a posizionarsi dietro il tavolo della cucina nell’attesa che i due ragazzi entrassero.  
«Scusa devo lasciare solo questo borsone», le spiegò Roberto cercando di attirare Nami all’interno dell’appartamento.
Per tutto il tempo di quel tragitto Nami si era chiesta se andava davvero bene essere sua amica e se avrebbe davvero funzionato. In quel momento estrasse il cellulare dalla tasca, appena fosse tornata nel suo appartamento avrebbe mandato un messaggio a Kei. Aveva bisogno del suo consiglio. Dopotutto era stato lui a darle il suo numero. Se non altro era l’unica persona con cui avrebbe potuto parlare di quello che era successo.
 «Che fai, non entri?» la esortò Roberto ormai dentro l’appartamento. Nami non se lo fece ripetere due volte e lo seguì rimettendo il cellulare nella tasca dei jeans. Improvvisamente le luci si accesero accecandola.
«Tanti auguri!!!!» esplose un coro di voci festanti. Nami era in piedi al centro della cucina e davanti ai suoi occhi c’erano tutti: sua madre, suo padre, Yuki, Clara, Andrea, Daisuke, Jona, Take, Shin e suo fratello Toshi. Ma all’appello mancava ancora una persona.
Suo fratello si avvicinò stringendola forte tra le sue braccia.
«Auguri sorellina!» Nami in quel momento non riuscì a reprimere oltre le lacrime, e si abbandonò a un pianto liberatorio che oltre alla gioia del momento nascondeva l’amarezza dell’ennesimo rifiuto di Roberto.
«Ehi! Che fai? Non ho fatto tutto questo per vederti piangere…» l’allontanò notandola singhiozzare.
Finalmente aveva trovato una scusa per piangere senza che Roberto sospettasse che quelle lacrime versate fossero per lui.
Fu proprio mentre si tamponava il viso che Nami notò Kei uscire dal corridoio e entrare in cucina. Aveva un viso serio e uno sguardo glaciale. In quella stanza probabilmente erano le uniche due persone a non avere un viso felice e sereno.
C’era un sottile e intimo dialogo tra i due, come se Kei solo guardandola negli occhi avesse intuito le vere ragioni dietro il suo pianto.
Nami non sapeva spiegarselo ma quel suo sguardo gelido l’acquietò immediatamente.
Ristabilito la calma e il sorriso sul viso di Nami i festeggiamenti proseguirono, fino a tarda notte.
Dopo lo scambio dei regali la situazione sembrò essersi abbastanza rilassata e i sei Hope esortati da Yuki si esibirono una performance fuori programma.
Toshi sotto la spinta dei suoi amici d’avventura, aveva tirato fuori lo spartito e la chitarra. Finalmente avrebbe fatto capire a suo padre di che pasta era fatto suo figlio. Distese quel foglio per bene prima di prendere ad accordare la chitarra, aveva scritto quel brano mentre Kei e Roberto lavoravano ai loro di pezzi. E adesso aveva finalmente l'occasione di mostrare il frutto del suo duro lavoro a suo padre. I ragazzi lo accompagnarono con le loro voci a cappella, senza esitazione. La canzone parlava della loro avventura e di quella promessa che si erano fatti tempo prima e che non avrebbero mai dimenticato.
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Dopo quell’esibizione Rio si sollevò e con autorità proferì solo quattro misere parole prima di esortare sua moglie ad alzarsi per andare via dall’appartamento.
«Domani non fate tardi…»
Toshi, non poteva crederci. Tutto qui quello che suo padre aveva da dire sulla sua canzone?
Quando Rio e Yori furono fuori la donna lo riprese amaramente.
«Perché non hai detto niente su quella canzone? Era molto bella e ben fatta».
«Domani annuncerò qualcosa di meglio che un semplice “ottimo lavoro figliolo”».
«Cosa intendi dire?»
«Domani segui in tv la conferenza stampa e capirai». Concluse superando sua moglie entrando nell’ascensore prima di lei.
Yori aveva stampato sulla faccia un grande punto interrogativo.
Non aveva proprio la minima idea di quello che aveva intenzione di fare Rio l’indomani mattina.
Toshi con aria afflitta era tornato in camera sua per rimettere al suo posto la chitarra quando qualcuno d’insolito entrò sorprendendolo alle spalle.
«E quindi sarebbe questa la tua stanza?» esordì Clara perlustrando la zona con interesse. Toshi però non aveva l’umore giusto per badare anche a lei.
Senza chiedergli il permesso la ragazza con gli occhi verdi e il caschetto prese posto sul letto alla sua destra.
«Non era male…»,
«Cosa?» gli domandò distrattamente Toshi riposizionando la chitarra nella sua fodera nera.
«La canzone… »
«Non abbastanza a quanto pare…» completò deluso sedendosi sul letto accanto a Clara. La ragazza gli prese una mano e la strinse tra le sue.
«Non rinunciare e combatti. Primo o poi anche tuo padre dovrà notare i tuoi sforzi e il tuo impegno… mi scoccia dirlo ma ci sai fare con le parole. Nel caso mi dovesse servire saprò a chi chiedere consiglio per la mia storia…»
detto questo Clara allentò la presa sulla mano di Toshi, sollevandosi dal materasso. Il ragazzo alto però la trattenne per un polso mentre era ancora seduto. La tirò a sé affondando il suo viso nel caldo e rassicurante ventre di lei.
«Grazie… ». Clara gli accarezzò il capo come farebbe una brava mamma insinuando le sue lunghe dita affusolate nel cespuglio nero e indefinito dei suoi capelli, smuovendoli delicatamente. Clara avvertì qualcosa di estremamente affascinante in quei capelli luci e morbidi tra le sue dita.
Dopo poco Toshi sciolse quel contatto piacevole. Clara in quel momento notò i suoi occhi lucidi.
Con una mano esitante gli sfiorò il viso, poi qualcuno entrò nella stanza interrompendoli.
«Clara, dobbiamo andare. Ops! Ho interrotto qualcosa?» domandò imbarazzato JJ retrocedendo di qualche passo.
Clara subito rimosse quella mano ancora sospesa dal viso di Toshi.
«No, anzi. Stavo giusto per salutare e andare...» improvvisò a disagio.
«Capisco, allora ti aspetto di là» detto questo anche Yuki si ritirò.
«Adesso devo andare» completò Clara.
«Aspetta, devo darti una cosa!»
Lei si arrestò seguendo i movimenti di Toshi con curiosità. Da sotto il letto il ragazzo tirò fuori una scatola rigida.
«Oggi, mentre cercavo un regalo per mia sorella mi sono imbattuto in questa e mi sono ricordato che da piccola sognavi di poterne avere una simile…» detto questo la porse a Clara.
Quella era la prima volta che Toshi sovrapponeva al pensiero per sua sorella quello per un’altra ragazza. Clara stava diventando qualcosa di più di una semplice amica.
Con scetticismo la ragazza accolse il suo regalo tra le braccia. Era pesante.
«Aprilo quando sarai a casa. Adesso ti conviene andare, altrimenti Yuki si arrabbierà con me perche ti ho trattenuta».
«Va bene, vado. Grazie Toshi».
Detto questo Clara uscì.
Jona era in camera con Roberto. Shin era già nel letto mentre Kei si era offerto insolitamente di accompagnare Nami. Così mentre Clara e Yuki aspettavano l’ascensore gli altri due si dirigevano verso l’appartamento della giovane modella della Kings Record.
Quando furono abbastanza lontani Nami aprì il discorso.
«L’ho baciato. Ma… lui mi ha respinto…»
Kei strinse i pugni. Ascoltare quello che lui aveva visto con i suoi occhi lo straziò per la seconda volta. Ma aveva fatto una promessa a Nami e non poteva tirarsi indietro. Gli aveva offerto la sua spalla su cui piangere e quello era ciò che le avrebbe dato quella sera.
«…ti avevo avvertita. Lui ha ancora quella ragazza nel suo cuore. Non puoi pretendere che… » stava per completare quel rimprovero quando voltandosi verso di lei la vide piangere.
Si fermò e combattendo contro il suo orgoglio l’abbracciò.
«Non piangere… » cercò di consolarla.
“Lui non merita le tue lacrime….”
«lo so che non dovrei piangere… ma per un attimo ho creduto che ci fossimo davvero avvicinati.. ma a quanto pare mi sono costruita questo film solo nella mia testa.»
Kei strinse con più forza il corpo di Nami.
“Perché non posso essere io? Perché non ho la possibilità di amarti? Perché vederti piangere mi fa stare così male?”
Allontanandosi Nami riconquistò uno spazio più decoroso tra i loro due corpi.
Kei le sciugò con la manica della sua maglia le ultime lacrime dal viso.
«Questa non è la Nami che conosco. Lei non rinuncerebbe mai e combatterebbe senza cedimenti. Fino alla fine.»
«Grazie Kei.»
“Non ringraziarmi… ”
Senza aggiungere altro il ragazzo con la frangia sull’occhio sinistro spronò la ragazza a proseguire verso il suo appartamento.
Una volta salutati e chiusa la porta Kei recuperò la consapevolezza di quello che aveva appena fatto.
“L’ho davvero incoraggiata a non mollare? Sono diventato pazzo… ” con le mani nelle tasche anteriori dei jeans tornò verso il suo appartamento.
 
«Jona, dove stai andando? Sai che è quasi l’una di notte?» gli chiese Roberto notando l’amico americano prepararsi per uscire.
«Domani tante cose cambieranno. Forse non avrò più il tempo di tornare lì, e io devo tornarci!»
«Di cosa stai parando?» gli chiese Roberto mettendosi seduto sul letto e facendosi più attento alle parole dell’amico.
«Devo ripagare il mio debito con quell’uomo… » proferì aggiustandosi i capelli bruni allo specchio interno all’armadio.
«Hai intenzione di andare in quel bar proprio adesso?» gli domandò il compagno italiano.
«Cosa succederebbe se dopo non avessi più la possibilità di farci ritorno?» gli chiarì infine, chiudendo lo sportello dell’armadio .
Roberto non riusciva proprio a capire tutta quella urgenza.
«Come vuoi… »acconsentì senza insistere oltre, tornando a stendersi sul materasso.
«Tornerò presto» lo rassicurò Jona, poi raccolto un giacchettino di jeans al volo, uscì chiudendo la porta e lasciando Roberto solo con i suoi pensieri.
Andato via l’ex biondo, Roberto steso su quel materasso prese a rimirare, alla luce tenue della lampada accesa sulla scrivania, il soffitto vuoto della stanza.
Ripensava a quel bacio con Nami e a quella sensazione di piacere seguita subito dopo a un opprimente rimorso.
“Cosa mi sta succedendo? Possibile che il mio cuore sia già pronto a sostituirla? Come ho potuto ricambiare quel bacio?” con un dito si ripassò la sporgenza morbida delle sue labbra, incredulo.
“Non posso lasciare che succeda ancora… non posso permetterle di avvicinarsi così un'altra volta perché a quel punto non so cosa potrei fare.”
Malinconico Roberto riprese quel cappello blu dalla scatola a pois verdi sotto il suo letto. L’indomani mattina avrebbe messo quel cappello alla conferenza e chissà, magari, Marika vedendolo si sarebbe ricordata di quello che c’era stato tra loro e lo avrebbe contattato.
 
Jona era per le strade semi deserte di Tokyo. Quel giorno arrivò a quel bar quasi per caso, mentre adesso ogni suo muscolo si muoveva con l’intenzione di condurlo in quel posto.
A pochi metri, dall’altro lato della strada, scorse quell’insegna luminosa e quella vetrina ancora illuminata a tarda notte. Era arrivato, senza esitare oltre, attraversò la strada.
 
«Papà saranno già l’una passate. Possibile che dobbiamo rimanere aperti fino a quest’ora? Non c’è bisogno che ti sacrifichi in questo modo. Anche se arrivasse qualche cliente adesso, che differenza pensi che farebbe sull’incasso complessivo? Preferisco che tu ti riposi piuttosto che ridurti a lavorare fino a quest’ora! » Hana era seduta su uno degli alti sgabelli vicino il lungo bancone che suo padre, con cura, stava pulendo con uno straccio umido.
«Lo sai che anche poco per noi è meglio di niente. Abbiamo bisogno di soldi per la tua operazione.» Detto questo l’uomo prese a fissare il vuoto pensieroso mentre asciugava un bicchiere.
«Pensi che tornerà?»
«A chi ti riferisci?» gli chiese annoiata lei poggiandosi con i gomiti sul bancone e mantenendo il peso della sua testa tra le sue mani aperte a formare un fiore.
«Quel ragazzo biondino dell’altra volta!»
Hana scoccò il labro sotto il palato, esasperata dall’ingenuità di suo padre.
«Figuriamoci se tornerà! Chiunque, dopo aver scroccato un tè gratis non si farebbe vivo, figuriamoci quel ragazzino biondastro e viziato».
«Non dovresti essere così diffidente. Chissà, potrebbe decidere di tornare. Io non lo condannerei così duramente. E poi quella sera anche tu hai esagerato».
Hana sbuffò aggiustandosi gli occhiali scuri sul naso storcendo la faccia in mille smorfie curiose.
Fu proprio mentre ne parlavano che Jona entrò nel locale.
«Buonasera, scusate l’ora.»
Hana riconobbe immediatamente quella voce irritante la stessa che l’ultima volta gli aveva rivolto quelle parole così vere eppure cosi amare.
«Salve ragazzo! Quale buon vento ti porta da queste parti», lo accolse l’uomo dietro il bancone, mentre la ragazza lo ignorava intenzionalmente.
«Sono venuto per riscattare il mio debito. Vorrei davvero ringraziarti per quella sera…» con la coda degli occhi Jona non poteva evitare di lanciare occhiate verso la giovane Biancaneve di quella sera.
«Anche tu, da queste parti?» le domandò in modo acido per attirare la sua attenzione.
«e tu sei ancora in fuga da qualche ragazza di passaggio?». Jona represse il proprio istinto a risponderle in modo sgarbato inghiottendo l’ennesimo commento acido della ragazza. Non era andato fin lì per litigare.
L’uomo con lo strofinaccio e il bicchiere tra le mani fece segno a Jona di accomodarsi.
«Ragazzo non c’era bisogno che ritornassi. Aiutarti quella sera è stato un piacere. Non sentirti in debito per questo. In alcun modo. D’accordo?» Jona acconsentì, prima di accomodarsi sullo sgabello vicino a quello della ragazza bruna dalle labbra rosse come il sangue vivo.
L’ex biondo notò sorpreso che lei portava ancora quelle enormi lenti scure.
«Che fai? Adesso anche tu vizi questo finto biondo!» disse rimproverando il padre.
Jona prima di cedere alla rabbia riesaminò con incertezza l’ultima parola pronunciata dalla ragazza.
“Biondo? Ma se sono bruno!” gli bastò spostare lo sguardo verso l’uomo dietro il bancone per capire che qualcosa non andava.
Fu proprio lui con uno sguardo sorpreso e impacciato a implorargli a gesti di non far caso alle parole della ragazza.
«Che c’è! A un tratto vi siete ammutoliti? »
Jona ancora non capiva bene la situazione, poi notò un bastone al lato dello sgabello della ragazza e subito gli fu facile intuire la situazione. Adesso le parole dette quella sera avevano molto più senso. Hana portava gli occhiali non per nascondersi al mondo come faceva lui ma perché il resto del mondo si nascondeva a lei.
Hana era ceca.
«No, ma cosa dici!» cercò d’intervenire l’uomo dietro il bancone cercando di risultare il più convincente possibile.
«Ragazzo gradisci qualcosa da bere?» si rivolse a Jona, la sua voce era leggermente incrinata, sembrava sudare freddo.
Lo stesso non se la sentì di intralciarlo in quel tentativo disperato di mascherare la verità, così lo assecondò facendo finta di nulla.
«Una birra. Grazie» queste furono le uniche parole che uscirono dalla sua bocca. In quel momento Jona era completamente divorato dai rimorsi e dal senso di colpa. Come aveva potuto rivolgerle quelle parole dure quella sera. Adesso si sentiva estremamente in colpa per quello che le aveva detto.
Insieme con il bicchiere l’uomo gli passò anche un pezzo di carta.
Sullo stesso c’era scritto un messaggio per lui.
 
Fai finta di andare via e torna tra dieci minuti. Ti devo parlare.
 
Jona dopo averlo letto, bevve in silenzio la sua birra, mentre Hana continuava a parlare lamentandosi di tutto: del freddo, delle sedie scomode e del tè troppo caldo. Quando la birra fini, Jona fece come era riportato su quel foglio e uscì dal negozio, posizionandosi fuori, vicino alla vetrina in paziente attesa. Con interesse osservò quello che succedeva all’interno del bar, aspettando un segnale qualsiasi dall’uomo all’interno.
Vide l’uomo aiutare la ragazza a recuperare il suo bastone e a salire le scale, dopo una decina di minuti ridiscese le stesse, e dopo essersi assicurato che Hana non fosse più sulle stesse fece segno a Jona di entrare.
Il ragazzo tornò a sedersi sullo stesso sgabello di prima. Il suo sguardo era fortemente perplesso.
«Ragazzo, grazie. Mi dispiace non avertelo detto prima…»
«è ceca, non è così?»
L’uomo deglutì come se avesse nghiottito un boccone amaro. I suoi occhi si fecero lucidi e gonfi di pianto, ma non una sola lacrima scese dagli stessi sul suo volto. A capo chino riprese con le sue incombenze.
«Hana, è una ragazza fiera e orgogliosa, immagino tu l’abbia notato. Odia la compassione della gente. Per questo cerca di farlo notare il meno possibile. Mi dispiace averti coinvolto.»
Jona scosse il capo.
«Non dica sciocchezze.»
“Nonostante tutto non siamo poi tanto diversi. Anche lei, come me, cerca di nascondere la verità”.
«Ma come è successo?» domandò all’uomo con sguardo triste.
«Quattro mesi fa… a causa di un incidente, ha perso la vista. Quel giorno dovevo andare a prenderla da scuola, era un giorno importante per lei, ma io ho fatto tardi e quando sono arrivato lei era già andata via con il suo ragazzo, almeno così mi avevano detto i suoi amici. All’epoca non sapevo neanche avesse un ragazzo. Cercai di raggiungerla, ma quando arrivai all’incrocio di casa, la trovai dall’altro lato della strada che piangeva da sola. Ancora adesso mi è ognoto cose le fosse successo. Cercai di suonare dalla macchina per farmi notare, ma lei non si accorse di me come non si accorse neanche del semaforo rosso, attraversò e il seguito puoi anche immaginarlo da solo.»
Jona si portò una mano tra i capelli scuri. Amareggiato per quella brutta vicenda.
«Mi dispiace. Se posso esserle di aiuto in qualche modo…» all’uomo gli si illuminarono gli occhi.
«In realtà c’è qualcosa che potresti fare…»
Jona si sporse sul bancone. Dopotutto era davvero grato a quell’uomo per averlo aiutato quella sera, quella era l'occasione per sdebitarsi con lui.
«Diventeresti suo amico?» Jona scosse il capo sconcertato.
L’uomo abbassò il capo imbarazzato da quella richiesta.
«Da quando è successo l’incidente Hana è rimasta rinchiusa in questo negozio e ha allontanato tutti compreso i suoi amici di scuola. Odia la compassione degli altri, e credo li abbia allontanati proprio per non dover fare i conti anche con la loro. Ma tu sei diverso. Le ha detto quello che pensavi senza troppi problemi e credo che abbia bisogno di un amico come te. Dopotutto non ha nessuno… e il vederla sempre rinchiusa qui mi strazia. La vita non è finita solo perché si perde la vista, ci sono ancora tante cose che può fare ma lei non sembra volerlo capire è una ragazza molto cocciuta e io non so come fare per farglielo capire. Purtroppo, adesso, sono troppo impegnato con ilbar. Subito dopo l'incidente, ho deciso di rimanere aperto di notte in modo da guadagnare abbastanza per pagare l’operazione che potrebbe ridarle la vista. So che forse non riesco a dedicarle il tempo che meriterebbe, ma sto cercando di fare l’impossibile per rivederla felice come un tempo. Pensavo, che se ne avessi voglia, potresti farti vivo di tanto in tanto e tenerle compagnia. Questo mi farebbe davvero piacere. So che non è un tipo facile, ma credimi, quella è solo una maschera, in verità è una ragazza dotata di una grande sensibilità. Se le starai vicino potresti scoprirlo tu stesso. Te la sentiresti di farmi questo favore? So che potrei sembranti sfrontato a chiederti una cosa del genere… ma con lei non dovrai avere alcun problema a nascondere la tua identità. Non dovrai portare quegli occhiali perché tanto lei non ti vedrà mai come Jona membro degli Hope ma come Jona, il ragazzo che viene di tanto in tanto in questo locale. Cosa ne pensi?» gli occhi dell’uomo lo supplicavano disperati.
«Cercherò di venire qui il più possibile. Può starne tranquillo!» L’uomo gli sorrise più sollevato.
«Grazie ragazzo! Non sai quanto sia importante questo per un povero padre come me che vorrebbe rendere felice sua figlia e che invece si sente di deluderla giorno dopo giorno…»
«Lei sta facendo quello che può non deve biasimarsi. L’importante è essere presenti per i propri figli, il resto non conta…» negli occhi di Jona l’uomo lesse una leggera amarezza. I pensieri del ragazzo corsero ai suoi genitori. Quell’uomo non aveva la più pallida idea di quanto avesse pregato per avere quel genere di attenzioni dai suoi genitori, piuttosto che dei freddi soldi su un conto corrente privo di amore.
Hana era davvero fortunata ad avere un padre così premuroso.
Mosso da questi pensieri si convinse che avrebbe fatto di tutto per aiutare un padre così devoto.
Un padre che anche lui avrebbe voluto avere.


NOTE:
Salve a tutti. Perdonate la lunga attesa ,ma questi sono stati giorni di inferno. Domani si sposerà mia sorella e la confusione che ha regnato in casa mia fino a questo momento è stata tale da impedirmi di scrivere e pubblicare. Spero che questo capitolo vi piaccia e che non rinunciate a seguire questa storia a causa dei lunghi tempi di attesa tra un capitolo e l'altro. Per il resto, spero di leggere presto delle vostre recensioni per sapere cosa ne pensate di questa evoluzione nella trama. A presto.

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Capitolo 26
*** RIVINCITE ***


CAPITOLO 26
RIVINCITE

 
 
Tokyo
 
Roberto, con indosso un giubbino nero di pelle, dei jeans aderenti e il cappello blu di Marika tra le sue mani era appena giunto, in compagnia degli altri Hope, presso la Kings Record. Li ad attenderli era presente tutto lo staff di truccatori insieme agli addetti alla costumeria pronti a vagliare scrupolosi ogni loro minima imperfezione. Nulla doveva essere lasciato al caso. Quello era il giorno ufficiale del loro debutto, e per questo dovevano essere impeccabili. Dopotutto erano l’ultima speranza rimasta alla casa discografica di risollevarsi dopo un duro periodo di recessione.
 
«Ragazzi, ma ci credete che tra pochi minuti diventeremo dei personaggi famosi?» fece notare loro Shin girandosi verso i suoi compagni, prima di essere ripreso amaramente dalla truccatrice che aveva bisogno della sua totale immobilità per completare l’opera. Gli altri cinque, più diligentemente, preferirono non rispondere all’amico, perciò, seduti come lui sulle poltrone girevoli delle loro postazioni, gli rivolsero solo una fugace occhiata di assenso permettendo almeno agli altri truccatori di completare indisturbati il loro lavoro.
Dopo una decina di minuti il trucco sui loro visi tesi, era completo. Matita nera, eyeliner nero,  cipria e fondotinta. Nessuno di loro aveva mai dovuto fare ricorso a quel genere di roba fino a quel momento. Shin si sentiva il viso impastato e prese a fare delle strane smorfie davanti allo specchio. Tutti, notandolo, alleggerirono per un attimo i loro volti tesi e preoccupati, prima di tornare al confronto con quegli specchi, che come giudici implacabili imponevano loro quella nuova immagine. Un’immagine che Rio, Daisuke, Andrea e quel mondo alle loro spalle aveva contribuito a creare per loro. Un parziale artificio che, secondo loro, avrebbe contribuito a renderli famosi.  Tutti nel profondo, erano consapevoli che presto o tardi, quella sarebbe diventata la maschera dietro cui si sarebbero nascosti, lo scudo dietro cui avrebbero trovato riparo, ma anche la loro più grande e temibile debolezza. Un’arma a doppio taglio che avrebbe potuto erigerli a immagine di perfezione così come affondarli nel freddo giudizio popolare.
 
Tutti presero a rimirare la loro immagine riflessa; animati da nuovi e incontrollabili pensieri, in essi vi erano: preoccupazione, ansia, eccitazione, speranza e anche una punta di sana e coraggiosa ambizione.
 
Jona:
“Riuscirò a mantenere la promessa fatta a quell’uomo? Ma che domanda è? Certo che ci riuscirò! Io sono diverso da loro. Devo riuscirci! Non abbandonerò chi si fida di me, non li deluderò. Succeda quel che succeda io ci sarò per loro. Non lascerò che lo spettacolo mi corrompa l’animo come è successo con i miei genitori. Non lascerò indietro chi si fida di me!”
Roberto:
“Riuscirò a fare del mio meglio come cantante e a ritornare in tempo da Marika? Sento che sarà difficile, ma voglio provarci…. Non voglio rinunciare… egoisticamente non voglio abbandonare nessuna delle due cose. Dimostrerò a mio padre che nella vita certe rinunce non sono inevitabili e che se si lotta davvero si ottiene sempre quello che si vuole…”
Toshi:
“Papà ti dimostrerò quel che valgo e un giorno saremo entrambi fieri dell’uomo che sarò. È una promessa!”
Take:
“Il pubblico mi accetterà davvero, nonostante l’età? È se non dovessi piacergli? No, andrà tutto bene, ne sono sicuro …”
Kei:
“Akiko, aspetta e guarda, manterrò la mia promessa e diventato famoso, riconquisterò la nostra casa! Te lo giuro, costi quel che costi riporterò quello che è di Shin a Shin… gli riporterò le tue parole, quelle che io non potrei mai scrivere per descrivergli il tuo amore… gli riporterò indietro una parte del passato, una parte di te…”
Shin:
“Mamma, non so se puoi sentirmi. Ti prego, proteggici e fa in modo che nulla vada storto e che Kei realizzi il suo sogno! Non ti chiedo altro! Rendi a tutti la felicità che meritano!”
 
Fu proprio mentre le costumiste rifinivano i dettagli sui loro vestiti, che un operatore fece segno ai sei ragazzi di avanzare nella sua direzione. Era arrivato il momento di entrare in scena. Al fianco destro di quell'uomo alto semicalvo, Nami li aspettava in un vestito azzurro con maniche a palloncino e una scollatura a V, stretto in vita da un nastro rosa che scendeva morbido sui fianchi. Era meravigliosa, come sempre.  Era lì che sorrideva e tutto della sua presenza trasmetteva calma e serenità. Come loro avrebbe preso parte alla conferenza, così aveva insistito per essere con loro quando i sei ragazzi fossero giunti nella sala conferenze. Tutti erano pronti, e in fila indiana seguirono l’operatore. Per primo Kei, poi Shin, Jona, Take, Toshi e Roberto, l’ultimo a chiudere la fila seguito solo da Nami. Il ragazzo italiano era pronto. Prese quel cappello blu che aveva tenuto stretto nervosamente tra le sue mani per tutto quel tempo e dopo un attimo di indecisione se lo infilò sulla testa. Stava per uscire e salire anche lui come i suoi amici su quella pedana che li avrebbe introdotti al mondo dello spettacolo, aveva il piede sul primo gradino, quando una delle costumiste gli strappò via il cappello dalla testa con la forza.
«Da dove diamine è uscito fuori questo obbrobrio! Ringraziando il cielo ti ho fermato in tempo. Adesso muovetevi» disse la donna sulla quarantina spingendo di forza i due ragazzi sul palco rialzato sul quale, dietro un lungo tavolo bianco, avevano già preso posto i membri degli Hope, Rio e Andrea. Roberto non ebbe il tempo ne di obbiettare, ne di riprendersi il cappello, e così, per pochi secondi rimase lì immobile e impotente su quel piano rialzato a osservare paralizzato quella donna con il cappello blu di Marika tra le sue mani. Qualcosa gli suggerì che la profezia di suo padre si sarebbe avverata e che il successo alla fine gli avrebbe strappato via qualcosa d’importante, proprio come quella donna gli aveva tirato via di forza quel cappello blu dalla testa. In un solo istante tutta la sua sicurezza sfumò lasciando il posto alla preoccupazione che dopo quel giorno tutto sarebbe cambiato.
Un presentimento, quasi una certezza lo assalì distruggendolo: e se quello, altro non fosse ,che un modo da parte di quel mondo chiamato spettacolo di ravvederlo sul quanto poco saggio fosse sfidare il suo potere tirannico?
“Sarà davvero così? Il successo arriverà prima o poi a riscuotere il suo pedaggio e io sarò veramente costretto a pagarlo alla fine?”.
Una leggera pressione sulla schiena e Roberto ritornò alla realtà, ormai era sul palco e non gli restava altra soluzione che rinunciare a quel vecchio ma prezioso indumento. Così, sollecitato da Nami alle sue spalle, entrambi presero posto dietro il tavolo. Una volta che tutti furono finalmente al loro posto la conferenza poté avere inizio. Per giorni i Tutor avevano preparato gli Hope a quello che si sarebbero dovuti aspettare durante le conferenze stampa, ma mai Roberto avrebbe immaginato un assalto di quelle dimensioni. C’erano almeno una settantina di giornalisti pronti a fare domande e a insinuare ipotesi premature sulle loro possibilità di successo, frementi come tori dietro un recinto prima di entrare nell’arena per sfidare il torero.  
«Iniziamo!»
Bastò quella semplice parola di Rio e ad uno ad uno i giornalisti si sollevarono in piedi facendo domande sull’esordio degli Hope.
Roberto era in uno stato di completo shock. I flash delle fotocamere prima e le voci antisonanti dei giornalisti amplificate dai microfoni dopo, lo stordirono, disorientandolo e facendogli perdere ogni cognizione sulla realtà circostante. Ormai l’avvertiva sfumare davanti ai suoi occhi come un qualcosa di estraneo. Poi, improvvisamente, avvertì qualcosa premere sulla sua mano. Istintivamente abbassò lo sguardo in basso verso la sua coscia destra.  Sulla propria mano era adagiata quella di Nami. Eccezionalmente quel semplice contatto bastò a fargli recuperare la lucidità persa. Impulsivamente sollevò la testa voltandosi verso la sua amica, ma la stessa aveva lo sguardo rivolto verso le telecamere e i giornalisti.  Così Roberto capì immediatamente che avrebbe dovuto imitarla per non alimentare fraintendimenti di alcun tipo. Strinse la mano di Nami sotto il tavolo e carico di una ritrovata sicurezza, riprese a fissare quei tori con block notes e microfoni davanti a sé.
Quella sarebbe stata la sua vita e il prezzo da pagare per il successo. Ma fortunatamente al suo fianco c’era Nami e quella certezza, almeno per il momento, bastò a rincuorarlo.
 
La donna seduta dietro la scrivania osservava divertita quella conferenza stampa in diretta streaming. Saranno stati i geni, ma riconobbe subito Eichi negli occhi di quel ragazzo bruno accanto a Nami. Aveva molto di suo padre e questo non fece che alimentare l'odio che provava nei suoi confronti. Lo avrebbe distrutto. Non gli importava quanto alto sarebbe stato il prezzo da pagare, ne quali e quante persone sarebbero state sacrificate per quello scopo, ma non avrebbe concesso quella soddisfazione al suo ex marito.
«Signora quando ha intenzione di mettere in azione il suo piano?» gli chiese il ragazzo trentenne con i capelli ordinati e spartiti in una rigida linea laterale, riposizionandosi le lenti tonde sul naso.
«Direttore Mashimoto, sa benissimo che la vendetta è un piatto che va servito freddo, ma nel nostro caso lo porteremo al tavolo totalmente congelato. Facciamogli conoscere il successo e poi distruggiamoli. Piuttosto che parlare di questo, come procede il disco di Yukino? È ancora alto nelle classifiche musicali, dico bene?».
Il ragazzo controllò rapido qualcosa sul suo tablet prima di sorridere soddisfatto.
«È ancora prima in classifica.»
«Perfetto», se ne compiacque la Signora Yoshida sorridendo con malignità dietro la sua scrivania.
«Chiamala. È ora che inizi a ricambiare la nostra gentilezza».
Il ragazzo fece un leggero inchino prima di uscire.
 
 
I ragazzi erano provati da quelle domande infinite, ancora pochi minuti e quella tortura sarebbe finita.
«Scusi, un ultima domanda Direttore», si intromise una giovane giornalista con un provocante rossetto rosso sulle labbra, sollevando in alto la sua Bic blu. Rio gli fece segno con una mano di proseguire, lei reclinò il capo in segno di gratitudine.
«Quella che ci ha mostrato fino ad ora è solo una cornice di un progetto molto più ampio, ma credo che tutti qui siano interessati a sapere a chi ha deciso di affidare il ruolo di leader.» Nessuno dei ragazzi si era mai interrogato sulla questione e presero a fissare incuriositi la reazione del cinquantenne Direttore al centro del tavolo.
Rio bevve un sorso d’acqua prima di sporgersi verso il microfono da tavolo dinanzi a lui.
«Devo ammettere di non aver creduto in questi ragazzi neanche per un minuto. Sin dalla loro prima esibizione mi sono sembrati presuntuosi, immaturi e poco promettenti, tuttavia , mi tocca ammetterlo, se non fosse stato per le suppliche insistenti di un vecchio amico e per la loro tenacia, forse non avrei mai preso neanche in considerazione l’idea di investire il mio tempo e il mio denaro in un progetto che credevo senza futuro come il loro.  Tuttavia, a differenza mia, qualcuno ha capito prima di me quanto grandi fossero le loro potenzialità. Ci ha creduto scegliendo a una strada più facile e sicura una più rischiosa e tortuosa. Ha rinunciato a una carriera che sono sicuro lo avrebbe gratificato, ma che ho capito solo adesso non sarebbe mai riuscita ad appagarlo completamente.»
«Sta parlando di suo figlio, dico bene?» lo interruppe la giornalista.
Il ragazzo spalancò gli occhi. Non poteva davvero essere quello il momento della sua rivincita. Suo padre gli aveva davvero concesso un merito dopo tanto tempo di assoluta sottomissione? Finalmente gli aveva riconosciuto un merito fuori dalle sue continue e opprimenti imposizioni?
«Si, sto parlando di Toshi. Non fraintendete, non lo sto facendo come dono di un padre a suo figlio, ma come giusto riconoscimento al suo intuito e al suo sacrificio. Mi auguro che tutti i ragazzi siano d’accordo con questa mia scelta», disse rivolgendosi agli altri sei Hope.
Tutti acconsentirono felici. In fondo Toshi era stato l’unico ad aver messo a rischio molto in quel tentativo disperato nel parco, un tentativo che non avrebbe comportato enormi perdite per gli altri, ma che nel suo caso sarebbe stato decisivo. Tutti i ragazzi non potettero fare altro che riconoscere come giuste e vere le parole di Rio. Perciò acconsentirono soddisfatti di quella decisione.
«Detto questo, mi piacerebbe mettere da parte per un attimo il loro debutto e soffermarmi sugli altri progetti che stiamo portando avanti in questo periodo. Come avrete notato qui abbiamo anche mia figlia Nami, che è stata appunto selezionata da una nota azienda straniera per presentare per la prima volta il loro marchio qui in Giappone. Presto sentirete parlare anche di lei e di nuovi progetti che coinvolgeranno la nostra Casa discografica. Abbiate pazienza. Una nuova aria di cambiamento sta per giungere dal mare…».
Concluso il suo discorso Rio si sollevò dalla seduta dietro quel lungo tavolo bianco e fece segno ai ragazzi di seguirlo. La prima a uscire fu Nami seguita dal resto del gruppo. Quel pomeriggio sarebbe stato rilasciato il loro album e il loro primo video ufficiale, ma Nami e Rio non sarebbero stati presenti all’evento. Per loro era previsto un lungo viaggio verso l’Inghilterra.
«Andrea, te li affido. Oggi parteciperanno al loro esordio live. Fa che tutto fili alla perfezione. Contattami in ogni momento e per qualsiasi evenienza». Disse Rio rivolgendosi al suo vecchio e fidato amico.
Lo stesso acconsentì con sicurezza. Poi l’uomo alto con la montatura spessa sugli occhi, fece segno a Toshi di avvicinarsi e prendendolo per un braccio lo allontanò dal gruppo, mettendosi in disparte.
«Toshi, quello che ti ho appena affidato è un ruolo di grande responsabilità. Più che un premio e un grande onere quello di cui ti ho appena investito. Devi essere una sentinella, un cane vigile e attento, una luce sempre accesa e una volpe astuta e silenziosa. Loro si fideranno di te e se sarai un bravo leader ti seguiranno qualsiasi cosa accadrà. Dovrai fare di tutto per mantenere l’armonia e l’equilibrio nel gruppo. Devi essere l’ago della bilancia e mediare il rapporto tra i ragazzi. Devi essere il pilastro portante e non una semplice trave di legno. Loro devono sapere di potersi fidare di te. Da oggi non ti sono concessi errori, devi essere l’esempio che loro dovranno seguire.  Detto questo, tu sei mio figlio, e come tale so che hai tutte le capacità per essere un ottimo leader. Sono sicuro che non mi deluderai. Sii prudente e come ti ho sempre insegnato ama con tutto te stesso, credi a pochi ma più di tutto, non odiare nessuno… »
«Shakespeare… » completò Toshi. Rio gli sorrise fiero e, dandogli due pacche dietro la schiena, lo sollecitò a seguirlo verso il gruppo.
«Bene ragazzi, da oggi Toshi sarà il vostro leader seguitelo e fidatevi di lui, fate quello che vi dirà il vostro manager e vedrete che andrà tutto per il meglio. Congratulazioni Hope da oggi farete finalmente parte della storia musicale di questo paese.» Concluso il discorso l’austero Direttore, fece segno a sua figlia di seguirlo. Avevano un volo per Londra che non potevano assolutamente perdere. La ragazza sorrise ai ragazzi, «in bocca al lupo! Ci vediamo prestissimo!» disse prima di allontanarsi abbracciando rapidamente suo fratello seguendo Rio verso i camerini. Il suo ultimo sguardo, però, fu per Roberto che lo ricambiò carico di gratitudine. Forse non meritava di appoggiarsi a quel sorriso e a quelle spalle cosi deboli ma non gli restava che lei, il ricordo di Marika stava sbiadendo e con esso anche la sua determinazione iniziava a vacillare.
Nami era dietro le quinte per recuperare la sua roba, mentre suo padre era andato a chiamare una limousine per loro, quando notò la costumista che aveva sfilato il cappello blu di Roberto, rovistare tra i costumi in cerca di qualcosa.
«Mi scusi…» le si avvicinò discretamente.
«Dimmi cara…» la spronò interrompendo la sua ricerca.
«Sa dirmi dove ha messo quel cappello blu?» Nami, aveva intuito dalla reazione di Roberto che quello doveva essere un indumento molto importante per lui e pensò che se glielo avesse recuperato e restituito magari lui le sarebbe stato grato e probabilmente sarebbe riuscita anche ad avvicinarsi a lui ancora una volta. Era determinata. Non avrebbe rinunciato, soprattutto dopo le parole di incoraggiamento di Kei.
«Credo di averlo buttato. Perché? Era importante?» Nami spalancò gli occhi preoccupata.
«Dove lo ha buttato?» le domandò agitata.
«Credo nella cesta della spazzatura lì dietro, ma penso siano da poco passati a svuotarla» la ravvisò con sguardo dispiaciuto, indicandole con la mano un bidone poco distante da dove si trovavano. «Grazie», concluse Nami e, senza perdere ulteriore tempo, imboccò un corridoio che conduceva sul retro del palazzo, li dove venivano depositati i sacchi della spazzatura. Era cresciuta in quel palazzo e grazie al cielo ne conosceva ogni singolo angolo. In affanno spalancò la porta, i sacchi erano ancora lì, tirò un sospiro di sollievo, non aveva molto tempo. Mesi prima neanche sotto tortura avrebbe fatto una cosa simile, ma adesso qualcosa era cambiato, lei era cambiata. Da quando aveva conosciuto Roberto aveva imparato a mettere da parte il suo lato vanitoso e immaturo. Così prendendo un grosso respiro, per darsi forza, iniziò ad aprire i sacchi senza curarsi delle precarie condizioni igieniche. Doveva recuperare a tutti i costi quel cappello blu. Finalmente, infondo alla quarta busta aperta, intravide qualcosa di blu. Tuffandosi di testa nella stessa recuperò dal fondo l’indumento tanto ricercato, prima che il cellulare nella sua tasca squillasse. Con i capelli sconvolti, il suo vestito ormai insudiciato, e quel cappello blu tra le mani rispose al cellulare.
«Si papà sto arrivando! Ma prima di partire passiamo da casa. Ho bisogno di una doccia! » Detto questo corse a raggiungere suo padre stringendo al petto quell’oggetto prezioso.  La sua determinazione, come sempre le avrebbe fatto ottenere quello che voleva e forse proprio come aveva recuperato quel cappello così sarebbe riuscita a conquistare, un giorno, anche le attenzioni di Roberto.
 
Finalmente i sei ragazzi avevano un’ora di riposo, prima di spostarsi verso gli studi televisivi, per la loro prima esibizione dal vivo in uno dei programmi musicali più noti e famosi dell’isola giapponese.
Approfittando del momento, Roberto tornò dietro le quinte in cerca del cappello blu di Marika.
Ma della costumista che glielo aveva sfilato via dalla testa nessuna traccia. Dopo aver cercato in ogni angolo accessibile a occhio umano, decise di arrendersi.
“Maledizione, non avrei dovuto indossarlo…”
«Tutto bene?» gli chiese Kei alle sue spalle raggiungendolo mentre era ancora chino a curiosare tra i costumi di scena.
«Si stavo cercando un cappello blu. Non è che tu lo hai visto?» gli chiese risollevandosi con aria afflitta.
«Un cappello blu?» gli domandò interrogativo l’altro sollevando un sopracciglio scettico, «e a cosa ti serve un cappello blu adesso?».
«Niente. Lascia stare…», Roberto non se la sentì in quel momento di raccontare la storia di quel cappello a Kei, quindi facendogli segno di seguirlo, rinunciò a quell’inutile ricerca, per ritornare dagli altri.
“L’ho perso proprio come ho perso Marika… senza che potessi fare nulla per impedirlo…”
 
 
Londra
 
Marika aveva appena firmato il foglio delle sue dimissioni. Alla fine il medico aveva insistito con il trattenerla qualche giorno in più. Cosi finalmente, dopo quattro e infiniti giorni, quella reclusione forzata era giunta al termine, e Marika poteva respirare nuovamente  fuori da quelle opprimenti mura ospedaliere. Quella giornata, insolitamente solare nella cittadina londinese, era carica e piena di aspettative non solo per lei ma anche per Timothy, Adam e Kat. Quel giorno sarebbe stato il giorno della loro rivincita.
Con una mano accarezzò il suo ventre mascherato da quelle maglie larghe e comode, che aveva iniziato a utilizzare da un mese per mascherare la sua gravidanza.
“Carotina, oggi la mamma dovrà lavorare un po’. Ti prego abbi pazienza. Solo per oggi sopportalo. Da domani prometto che mi prenderò molta più cura di Noi”.
All’uscita dell’ospedale Marika incrociò il viso rassicurante di Ambrogio che l’attendeva mantenendole lo sportello della lunga limousine aperto.
Sorridendogli a sua volta la giovane salì all’interno della scura e lucida vettura.
Quello era un giorno importante e non se lo sarebbe perso per niente al mondo.
 
 
Nami era nella sua stanza d’albergo pronta per raggiungere suo padre. A Londra faceva freschetto ma previdente, si era attrezzata al meglio per combattere quella freddura di inizio inverno. Indossato un cappottino color cappuccino, e messi ai piedi degli stivaletti neri alti con un leggero tacco, uscì chiudendosi dietro la porta. Appena giunta in albergo, Nami aveva chiesto a una delle inservienti di portare il cappello in lavanderia. Una volta tornata a Tokyo, aveva intenzione di restituirlo a Roberto e non voleva di certo riconsegnarglielo lercio e puzzolente. Solo il pensiero della sua faccia sorpresa la elettrizzava.
Stava per muoversi verso l’ascensore per raggiungere suo padre nella hall dell’albergo, quando una donna le riconsegnò il cappello perfettamente pulito.
«Grazie» le disse prendendolo tra le mani, la donna le sorrise prima di allontanarsi. Nami lo prese e senza indugio lo inserì nella borsa a tracolla che indossava. Poi entrò nell’ascensore e raggiunse suo padre.
Dopo essere giunti presso la sede londinese della One Million, padre e figlia erano finalmente pronti a fare la conoscenza del giovane Direttore Thomas.
Dopo un’attesa di quindici minuti, un giovane alto e molto affascinante, biondo con degli occhi chiari e un sorriso affabile sul volto andò loro in contro. Una volta raggiunti, protese la sua mano in direzione di Rio. Lo stesso senza indugio la strinse.   
«Salve, io sono Thomas. È un piacere fare finalmente la sua conoscenza. Lei deve essere la nostra modella, suppongo» disse rivolgendosi a Nami, che imbarazzata avvampò in viso diventando rossa come un pomodoro. Quel Direttore era molto più carino di quanto si aspettasse.
«Si, lei è mia figlia Nami» la presentò Rio.
«È un piacere conoscerti» si presentò a lei Thomas.
«Il piacere è mio» ricambiò lei.
«Se volete seguirmi, vi mostrerò la nostra azienda e poi parleremo privatamente nel mio studio dei nostri progetti.»
Rio acconsentì ed entrambi, lui e sua figlia, si incamminarono dietro il giovane direttore come fossero la sua ombra. Visitarono il reparto sartoriale, il laboratorio di marketing e molte altre sale. Dopo quel piccolo tour obbligato, i tre presero posto nell’ufficio di Thomas.
Rio e Nami si accomodarono davanti alla lunga scrivania con il logo della One Million e Thomas prese posto, poco dopo di loro, dietro di essa. Spingendo un tasto del telefono chiamò la sua segretaria fuori dal suo ufficio.
«Clair, porta tre tazze di tea.»
«Subito signore».
Detto questo la sua attenzione ritornò sui suoi due ospiti giapponesi.
«Bene, finalmente possiamo parlare di affari», iniziò il ragazzo biondo con il pizzetto sul mento incrociando le dita sulla scrivania.
Rio acconsentì accavallando le sue gambe lunghe e abbandonandosi sulla sedia su cui aveva appena preso posto.
«Non aspettavo altro. Poco fa mi aveva parlato di un concorso indetto nella sua azienda e che noi saremmo dovuti essere i giudici. Può spiegarci meglio?»
Thomas si schiarì la voce prima di proseguire.
«La nostra collaborazione è un qualcosa a cui io tengo molto. Espanderci in oriente è sempre stato un sogno per me. Ci tengo a offrire al vostro paese non solo un prodotto di qualità ma anche un prodotto capace di accontentare la richiesta del vostro paese. Mi piacerebbe che voi,  da controparte, esprimeste un parere sullo stile che a parer vostro funzionerebbe meglio nel vostro paese, anche perché ritengo sia cruciale che esso risulti affine anche alla futura immagine di sua figlia. Per fornirvi una più ampia scelta abbiamo indetto un concorso interno. Voi sarete invitati a esprimere un indice di gradimento sui modelli che visionerete. Tutto qui. I modelli selezionati passeranno e saranno pubblicizzati da Nami in Giappone, come modelli campione della nostra futura linea giapponese».
«Che responsabilità!» sottolineò divertito ma soddisfatto Rio.
«Le garantisco che vi divertirete e che sarà meno impegnativo di quanto possiate immaginare».
«Beh, se ce lo garantisce lei non ci resta che andare a visionare questi modelli» lo sollecitò Rio elettrizzato.
«Perfetto, era proprio la reazione che speravo. Nami, tu ti senti pronta a darmi un giudizio sincero?»
Nami acconsentì eccitata all’idea di ricoprire un ruolo decisionale in quella contrattazione commerciale.
«Non vedo l’ora a dire il vero» affermò senza riserve.
Thomas le sorrise. Gli piaceva quel suo entusiasmo. Poi due colpi di decisi e la porta fu aperta da Clair. Tra le mani un vassoio e su di esso tre tazze di tea fumante.
Una volta lasciate sulla scrivania le tre tazze si dileguò, mentre i tre presero a sorseggiare quella bevanda calda.
«È buonissimo!» constatò Nami, scatenando un sorriso spontaneo sul volto del giovane dietro la scrivania.
«Il tea qui a Londra è una tradizione a cui non riusciamo a rinunciare.»
«Anche da noi in Giappone quello del tea è un rituale molto importante. Noto con piacere che abbiamo tradizioni molto affini seppure ci troviamo lontani geograficamente.» constatò Rio compiaciuto.
«Direttore mi permetta di dire che la cosa rende anche me enormemente felice. Mi auguro che questa coincidenza si riveli di buon auspicio per quella che spero si trasformi in una lunga e proficua collaborazione» e, sollevando in alto e in avanti la tazza di tea, Thomas invitò l’uomo dai lineamenti orientali a bere insieme a lui quella bevanda che aveva il sapore di una fruttuosa collaborazione professionale.
 
Tutto era stato allestito per rendere gradevole la fruizione dei modelli ai due ospiti della One Million. Il giorno della sfilata era finalmente arrivato. Tutti i team di lavoro avrebbero sottoposto al giudizio insindacabile di Thomas e dei due personaggi stranieri i propri lavori in totale anonimato. I ragazzi capitanati ormai da Carl, dopo il ricovero di Marika, stavano giustapponendo gli ultimi ritocchi alle loro modelle, sotto le occhiate perplesse degli altri concorrenti.
Loro erano infatti gli unici a partecipare senza ricoprire una carica di rilievo all’interno dell’azienda e, come un gruppo di pecore nere all’interno di un gregge bianco e candido, spiccavano prepotentemente.  Carl li raggiunse appena in tempo. Ancora pochi minuti e la sfilata sarebbe iniziata.
«Come procede con gli accessori?» chiese a Kat.
«Bene, questo è l’ultimo», lo rassicurò allacciando una collana al collo di una modella.
«Perfetto…».
«Capo, abbiamo un problema», lo raggiunse Timothy rosso e sudato per l’agitazione.
«Cosa succede adesso criceto?» lo riprese esasperata la giovane punk portandosi le mani sui fianchi. Il ragazzo occhialuto, nell’ultima ora, non aveva fatto altro che entrare nel panico per ogni piccola cosa e Kat era davvero esausta dei suoi continui e inutili allarmismi.
«Il vestito si è strappato…»pronunciò alla fine.
«Cosa?» lo ripresero all’unisono l’uomo barbuto e la giovane catalogatrice del magazzino, scambiandosi delle occhiate preoccupate.
«Io avevo detto alla modella di fare attenzione perché il tessuto era molto delicato, ma non mi ha dato retta e adesso si è lacerato sulla spalla sinistra… il pizzo è andato completamente distrutto…».
Adesso erano nei guai tra di loro solo Marika era capace di cucire. Senza di lei rimettere in piedi quel vestito era una missione impossibile e senza il dodicesimo modello non avrebbero potuto concorrere per il concorso. Senza esitare i tre raggiunsero la modella con il vestito lacerato insieme ad Adam.
Carl, fece segno al rosso di spostarsi, poi esaminò come un bravo chirurgo l’abito rosa antico, indeciso sul da farsi.
«Passami l’ago e filo Kat, proviamo a recuperarlo…» esortò la più giovane, ma la stessa non fece in tempo a passaglieli che alle loro spalle una voce famigliare intervenne interrompendo i loro movimenti.
«Mi dispiace, ma non esiste che qualcuno a parte la sottoscritta metta mani su questi modelli».
I tre si voltarono stupiti alle loro spalle. E li, in una lunga maglia gialla a mezze maniche, trovarono Marika.
«Tu cosa ci fai qui? Il medico aveva detto che dovevi rimanere a riposo dopo il ricovero!» l’ammonì l’uomo tozzo e barbuto vicino la modella.
La ragazza, sorridendo, gli si avvicinò recuperando l’ago e il filo dalle mani dell’amica. Poi senza curarsi dei suoi rimproveri si rivolse alla stessa.
«Quanto tempo abbiamo Kat?», ma al posto suo fu Timothy a rispondere per lei, «venti minuti, ma essendo i penultimi a uscire, diciamo che abbiamo quarantacinque minuti complessivi», precisò posizionandosi gli occhiali sul naso. Non sapeva spiegarsi il perché, ma l’arrivo di Marika aveva profuso all’impacciato contabile una nuova sicurezza, adesso che c’era lei era certo che tutto sarebbe andato per il meglio.
«Perfetto, abbiamo tempo allora. Kat, ho bisogno che crei un accessorio che abbia la forma di un fiore delicato, non so, un fiore che ci rappresenti. Perché no, un fiore di loto! Anche noi come questo fiore prendiamo forma emergendo dal fondo melmoso di questa azienda e anche noi come questo fiore superando tante difficoltà, riusciremo ad emergere da tutta questa acqua sporca e a germogliare agli occhi del mondo.» gridò facendo in modo che anche le altre persone li presenti potessero sentirla. Era stanca di tutta quella arroganza. Finalmente avrebbe dato a tutta quella gente la lezione che meritava, e avrebbe fatto notare a Thomas quello che valevano gli emarginati di quell’azienda.
Carl, Kat, Timothy e Adam si scambiarono degli sguardi pieni di una crescente ambizione. Gli incoraggiamenti di quella ragazzina gli erano proprio mancati.
Spettò purtroppo alla giovane punk il dovere di riportare l’intero gruppo con i piedi per terra.
«Si, certo, e come faccio?» sospirò inquieta. Non avevano di certo stoffe con cui creare i petali lì. E non avevano abbastanza tempo per tornare nel magazzino a recuperare dell’altro materiale. Senza esitare Marika le strappò con non molta delicatezza il gilet di pelle di dosso.
«Si può sapere cosa stai facendo?» le chiese perplessa l’altra mentre la osservava rigirarselo interessata tra le mani.
«Si, è perfetto!» sentenziò alla fine, avvicinandolo al vestito rosa antico della modella,  poi senza esitare fece segno a Timothy di passargli un paio di forbici adagiate su un tavolino lì vicino.
«Marika, non pensarci neanche per sogno! Hai idea di quanto mi sia costato?»
«Mi dispiace, ma se vogliamo partecipare a questa sfilata non abbiamo altra scelta. Questo è il tessuto più rigido che abbiamo a disposizione e se saprai sfruttarlo potrai ricavarne dei petali perfetti e qualche altro accessorio. Mi dispiace, ma non abbiamo altra scelta»,
Kat a malincuore sospirò.
«E va bene, ma sappi che mi devi un gilet nuovo di zecca!» asserì alla fine incrociando le braccia indispettita.
«Va bene, te ne creerò uno che varrà dieci volte più di questo, credimi.»
 
 
Tutto era pronto, la passerella era stata allestita così come le postazioni per i giudici.
Thomas, Rio e Nami presero posto, in attesa dell’inizio della sfilata. Ognuno di loro aveva un foglio su cui dichiarare la propria preferenza.
Ovviamente il parere di Rio e Nami sarebbe stato l’unico veramente decisivo.
Improvvisamente la giovane e promettente modella della Kings Record prese a dondolarsi sulla sedia.
“Maledizione proprio in questo momento doveva scapparmi la pipì!”
«Tutto bene?» le domandò Thomas che le sedeva vicino.
«Veramente, dovrei andare in bagno». Gli rivelò ormai agli sgoccioli del suo autocontrollo.
«La toilette è da quella parte» e le indicò una porta secondaria.
«Grazie mille» e dopo un inchino la giovane si ritirò in quella direzione.  Era seduta sulla tavoletta del bagno, quando avvertì qualcuno tossire come se si stesse strozzando. Senza esitare scaricò e uscì. Ma fuori non c’era nessuno, senza farsi troppe domande, si avvicinò al rubinetto e si sciacquò le mani. Ma proprio mentre stava per andar via, avvertì ancora una volta qualcuno tossire. Fu così che si rese conto che quei suoni provenivano da una delle cabine interne del bagno. Senza rifletterci troppo, spalancò a una ad una, tutte le porte fino a ritrovarsi, in una di queste, una giovane dai lunghi capelli color del grano piegata in avanti sulla tavoletta del bagno mentre si manteneva i capelli bianca in viso dallo sforzo. Stava ansimando.
«Tutto bene?» le chiese sporgendosi.
«Si, grazie. Ormai dovrei abituarmi a questo…» concluse tirando lo scarico e sciogliendo la presa sui suoi capelli. Fu in quel momento che Nami notò quanto fossero lunghi.
Senza esitare le offrì un fazzolettino tirandolo fuori dalla sua borsa firmata. «Tieni, asciugati con questo!». L’altra accolse quel gesto con estrema gratitudine. Escluso Carl nessun'altra sapeva della sua situazione.
«Sei molto gentile.» Sottolineò Marika, sorpresa di incontrare qualcuno dei piani alti così cortese nei suoi confronti.
«A quanti mesi sei?» le chiese diretta la ragazza con gli occhi a mandorla.
«Quasi quattro…» ammise avvicinandosi al lavandino per sciacquarsi la bocca.
«Quindi sai già il sesso del bambino? Oddio, scusami, forse non dovrei farti certe domande. Mio fratello non fa che dirmelo che alle volte mi rivelo troppo invadente…» affermò mortificata Nami, ma Marika le sorrise divertita dai suoi modi buffi.
«Non preoccuparti, mi fa piacere parlarne con qualcuno…», la rassicurò allontanandosi dal lavandino. Era la prima volta che discuteva così apertamente della sua gravidanza e il farlo con quella ragazza orientale, la rese inaspettatamente molto felice. Adesso che ne parlava con lei, il fatto che fosse incinta non le sembrò più un segreto così opprimente, ma finalmente riuscì a gioirne liberamente come qualsiasi altra donna nella sua condizione, senza dover avvertire il peso di quella menzogna premere sui suoi sensi di colpa.
«Comunque, è una femminuccia!». A Nami le si illuminarono gli occhi.
«Che bello! Una femminuccia! Hai già deciso il nome?» le chiese ecitata saltellando come una bambina, prendendo tra le sue le mani di Marika.
«Carotina… » ammise sorpresa dall'entusiasmo della giovane.
«Cosa?» si arrestò l'altra perplessa, con le mani di Marika ancora strette nelle sue.
«Si, per il momento la chiamo così, in realtà non ho ancora deciso quale sarà il suo vero nome…» ammise facendo spallucce, in imbarazzo.
«Mi piace il nome Carotina,è insolito e originale! E io amo le cose insolite e originali! » la rassicurò Nami ammiccandole complice. Non sapeva spiegarsi il perché, ma Marika trovò parlare con quella ragazza molto piacevole. Era come se si conoscessero da una vita.
«Maledizione, la sfilata!» proferì improvvisamente Nami con i lunghi capelli color inchiostro tenuti da un fermaglio a forma di loto, trasalendo dopo aver notato l’ora dal suo orologio, «scusami adesso devo proprio andare ,ma prima, mi piacerebbe presentarmi: il mio nome è Nami, il tuo?»
Marika stava per aprir bocca quando Kat spalancò la porta della toilette delle donne, fuori di sé dall’agitazione.
«Si può sapere che fine hai fatto?» rimproverò l’amica agguantandola per un polso, « ho appena distrutto il mio gilet preferito e tu ti metti a fare chiacchiere in bagno? Ho finito il fiore è meglio che lo sistemi sull’abito prima che la sfilata finisca!» detto questo trascinò Marika via dai bagni senza lasciarle il tempo di presentarsi a quella ragazza affascinante e gentile dagli intensi occhi a mandorla.
Nami, dopo aver visto le due allontanarsi di gran fretta, uscì dal bagno, e tornò a prendere posto tra suo padre e Thomas. Proprio in quel momento Clair, la segretaria di Thomas, salì sul palco per presentare quella sfilata ai due insigni ospiti.
Dopo una breve introduzione, la sfilata ebbe inizio. Sfilarono i primi dodici modelli e poi ancora gli altri dodici. Thomas senza esporsi indagò i modelli, uno ad uno, alla ricerca di quell’abito che aveva visto la sera che Marika era crollata al suolo senza sensi nel magazzino. Si ricordava che era di un rosa antico ma rammentava poco del resto. C’era davvero poca luce quella sera.
Fu mentre si era arreso che vide avanzare sulla passerella una modella con un abito rosa antico con delle rifiniture in pizzo, ripreso sulle spalline da dei laccetti di pelle nera, e in vita una cinta sottile. su una delle due spalline era stato cucito un fiore di loto di pelle nera rifinito con riprese di pizzo rosa. Era una meraviglia, un incrocio tra un pugno e una carezza, tra forza e delicatezza. Al carattere suggerito dalla pelle nera, si sommava la delicatezza e il romanticismo della stoffa e del pizzo rosa. A Nami le si illuminarono gli occhi non solo per la bellezza del modello ma soprattutto per quel fiore sulla spallina, uguale a quello della spilla regalatele da sua madre, una coincidenza che per lei fu come un segno propiziatorio.
Seguirono altri undici modelli, uno più interessante e originale dell’altro. Invece di seguire una stessa linea Carl aveva suggerito loro di proporre modelli diversi tra loro e con colori vivaci e prorompenti. Dopotutto dovevano attirare l’attenzione e colpire per l’originalità ma anche per la praticità dei tessuti e l’originalità degli accessori a cui era stata prestata molta cura. Un’attenzione che Rio apprezzò molto.
Thomas notò immediatamente lo sguardo compiaciuto di Rio e di sua figlia e sorpreso a sua volta scosse il capo sorridendo sotto i baffi.
“E alla fine ce l’hai fatta piccola testarda….”
 
Rio e Nami, alla fine della sfilata, furono esortati da Clair a consegnare i fogli con i loro pareri sui modelli. Dietro le quinte i diversi team attendevano in fibrillazione l’esito di quella competizione. Adam, Timothy, Kat, Marika e Carl erano seduti in un angolo in disparte rispetto agli altri concorrenti, che non avevano fatto altro che fissarli con superiorità per tutto il tempo; i cinque compagni di avventure erano afflitti a causa di quel ritocco apposto all’ultimo minuto e che avevano paura avrebbe condizionato l’esito della gara. Tenendosi per mano attendevano ormai impazienti le parole di Clair su quel palco. Le stesse non tardarono troppo a raggiungerli dal dietro le quinte.
 
«Bene, ho appena ricevuto i fogli dalle mani dei nostri insigni ospiti. Il gruppo vincitore è….»
Marika avvertì la mano dell’amica punk stringersi con più forza alla sua e l’espressione sul volto di Carl farsi più scura. Anche Adam indurì teso i suoi lineamenti marcati, mentre Timothy iniziò a grondare sudore dalla fronte. Quello era un momento molto importante e nessuna delle persone presenti al di fuori di loro avrebbe potuto capirlo.
 
«Il gruppo è il numero 10… prego si faccia avanti».
 
I cinque non potevano credere alle loro orecchie. Quelli che erano stati appena chiamati sulla passerella erano loro!
Nel frangente di pochi secondi successe l’inverosimile, Kat prese tra le sue mani il volto di Timothy e lo baciò, Adam per poco non stritolava Carl nella sua presa forzuta. Marika in quel momento, prese a osservare quel gruppo festante incredula, per un attimo si meravigliò di avercela fatta. Non pensava che ci sarebbero davvero riusciti e invece alla fine avevano vinto contro ogni pregiudizio e alla fine erano stati apprezzati per le loro capacità. Kat le saltò al collo dopo aver lasciato la presa sul viso del povero contabile ancora sotto shock per quel bacio inatteso. E così alla punk, si unirono, uno dopo l’altro, anche il rosso, il contabile e lo scorbutico responsabile del magazzino. Dopo aver sciolto quell’abbraccio si decisero a uscire sulla passerella. Al centro Marika alla sua destra Kat e Timothy e alla sua sinistra Adam e Carl, a seguirli gli sguardi di disapprovazione delle altre squadre dietro le quinte, ma in quel momento nulla avrebbe potuto più farli sentire inferiori, avevano appena dimostrato di che pasta erano fatti, avendo finalmente la loro rivincita.
Solo a pochi metri dalla fine della passerella, Marika riconobbe il volto della giovane ragazza con gli occhi a mandorla che l’aveva soccorsa in bagno poco prima.
Entrambe sembravano sorprese di ritrovarsi in quella situazione.
Thomas, Rio e Nami erano ancora seduti, quando i cinque li raggiunsero alla fine della passerella.
«Complimenti!» si congratulò il ragazzo biondo sollevandosi dalla seduta, seguito anche dagli altri due ospiti di quell’occasione.
«Grazie» parlò Marika a nome di tutti.
«Mi piacerebbe parlare con voi nel mio ufficio. Seguitemi» disse Thomas.
Marika acconsentì con una luce di fiera vittoria negli occhi sfidandolo piena di orgoglio, c’era riuscita. Gli aveva dimostrato che si sbagliava e che loro valevano più di quanto pensava. I cinque spronati da Marika scesero in fila indiana. Una volta allo stesso livello del giovane direttore della One Million e dei due ospiti giapponesi, fecero un inchino verso ognuno di loro. Cogliendo quel momento, Nami si sporse verso Marika sorridendole.
«Sentivo che ci saremmo rincontrate prima o poi… Sono felice che sia stata tu a creare quei modelli, sentivo un certo feeling tra noi due, e come volevasi dimostrare, raramente sbaglio.»
Marika ricambio il dolce sorriso di quella bellissima ragazza orientale. Poi seguirono i tre verso la stanza di Thomas.
Una volta all’interno il ragazzo biondo, in giacca e cravatta, fece segno ai suoi ospiti di accomodarsi vicino alla scrivania. Poi recuperata una cartellina, consegnò un foglio a Marika prima di prendere posto sulla poltrona dietro di essa.
«Una volta firmata quella liberatoria cederai i modelli al sottoscritto. In questo modo potremo iniziare i servizi fotografici e il lavoro di produzione e sponsorizzazione della One Million.»
Marika aveva quel foglio tra le mani ma non sapeva se firmare.
«Posso farti una domanda?» gli chiese in modo indiretto e informale provocando una reazione di sorpresa nel volto di Rio e di Nami.
“Allora c’è qualche tipo di rapporto tra questi due… non sarà che quel bambino sia del Direttore…?” pensò Nami spostando il suo sguardo dall’uno all’altra con interesse investigativo.
Thomas, indurì l’espressione del suo viso, risentito per quella mancanza di rispetto.
«Cosa vuoi?»
«Quando avrò firmato, cosa accadrà a loro? Quando ero in ospedale ho ricevuto da Carl un contratto per lavorare in sartoria, ma non credo di meritarlo. Quello che avete premiato stasera non è il lavoro di una singola persona ma la collaborazione tra menti e corpi diversi. Se si deve andare avanti, nessuno deve rimanere indietro. Voglio la tua parola che premierai anche il loro talento e che gli riconoscerai i loro meriti proprio come hai fatto con me. Altrimenti non avrò altra scelta che rinunciare al lavoro nel reparto sartoriale».
«Ma cosa stai dicendo?» si intromise Carl, nel tentativo di farla ragionare.
«Non puoi rinunciare…» scambiò con la stessa uno sguardo d’intesa abbastanza esplicito.
«Ha ragione Marika, non sarebbe giusto!». cercò di esortarla anche Kat.
«Credo di avere io un’idea», si intromise Rio, «mi piace molto il modo di ragionare di questa ragazza, e il loro lavoro di squadra non può che essere un esempio da premiare, non lo pensa anche lei direttore?» chiese rivolgendosi a Thomas.
«Beh, indubbiamente… ma adesso non ho la possibilità di inserire nuovo personale all’interno dell’azienda…» ammise con rammarico.
«Ho un’idea che metterebbe tutti d’accordo. Avevo già intenzione di stringere un rapporto di collaborazione duraturo con la sua casa di moda, ma dopo aver visto la passione con cui lavorano questi ragazzi, penso che crearla sia diventata a questo punto una necessità inevitabile. Come le ho già detto, ho appena avviato un gruppo emergente e mi piacerebbero che questi ragazzi curassero i loro outfit. Ovviamente non sarà necessario che si trasferiscano in Giappone, potranno venire solo in casi eccezionali e curare l’abbigliamento anche da qui. Lavorando per conto della mia casa discografica, sarò io stesso a pensare alla loro retribuzione, non dovranno pesare sulla One Million, sarò io stesso a occuparmi di loro.»
Thomas si strofinò il mento indeciso. Dopotutto, non era niente male come offerta. L’idea di Rio poteva essere un’ottima occasione per lui di garantire alla casa di moda ulteriore visibilità.
«Cosa ne pensa signorina?» domandò l’uomo orientale dall’aria sofisticata a Marika.
«Chiede a me?» prese a indicarsi il viso sorpresa.
«Certamente! Pensa possa andare bene questa soluzione per lei e i suoi amici?», Marika cercò lo sguardo dei suoi compagni leggendoci dentro solo tanta euforia ed eccitazione. A quel punto non le restava altra soluzione che acconsentire, seppure fosse ancora disorientata da quel risvolto imprevisto.
«Perfetto!». Concluse Rio sollevandosi dalla seduta, stringendo soddisfatto la mano di Thomas.
«Al prima possibile le farò ricevere tutta la documentazione. Nami, adesso andiamo. Domani sarà una lunga giornata.» Congedandosi anche dagli altri davanti alla porta i due si rifilarono.
Nami era davvero felice che sarebbe stata quella ragazza a curare i suoi outfit e quelli di suo fratello e degli altri membri degli Hope.
Una volta soli Thomas riprese a fissare i cinque personaggi ancora in piedi davanti alla sua scrivania.
«Perfetto, adesso che hai ottenuto quello che volevi puoi firmare la liberatoria. Domani avrò bisogno di tutti voi sul set fotografico.» Concluse porgendo la sua penna a Marika che soddisfatta appose la sua firma sul contratto.
Il giorno dopo sarebbe stato l’inizio della loro nuova carriera.
I cinque in fila indiana uscirono ad uno ad uno fuori, fu proprio mentre Marika stava per raggiungere l’uscita che Thomas la fermò.
«Marika, un attimo solo». La ragazza fece qualche passo indietro voltandosi verso di lui.
«Dimmi».
«Come ti senti?» le domandò con sguardo sincero e preoccupato.
La stessa si sorprese per quella domanda, era sicura che l’avrebbe ripresa per il tono insolente avuto poco prima e invece non fu così.
«Meglio. Grazie». Concluse.
«D’accordo, se fosse troppo faticoso per te, domani potrai allontanarti dal set quando ne avrai bisogno, siamo intesi? Non voglio che si dica in giro che non mi prendo cura dei miei dipendenti».
Marika sospirò esasperata.
“E io che credevo che si stesse preoccupando della mia salute. Che ingenua è della sua reputazione che si sta preoccupando!”
«Non credo ce ne sarà bisogno!»
detto questo si rifilò lasciando Thomas solo in quella stanza.
“Andrà davvero bene questo lavoro per te? Non sarà troppo carico di responsabilità? Una donna nelle tue condizioni non dovrebbe affaticarsi troppo maledizione… Ma perchè mi preoccupo così per lei?”

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Capitolo 27
*** CADERE E RIALZARSI O RIALZARSI E CADERE? ***


 

 
CAPITOLO 27
CADERE E RIALZARSI O RIALZARSI E CADERE?

 
TOKYO  
Clara, seduta vicino la scrivania della sua stanza, osservava incredula il regalo che Toshi le aveva dato. Era una macchina da scrivere dal colore azzurro fresco e vivace. Sui tasti, inaspettatamente, non erano riportati gli ideogrammi giapponesi ma i caratteri alfanumerici occidentali. Sembrava fosse stata realizzata su misura per lei, piccola e graziosa com'era. Le sue dita fremevano dalla voglia di premere quei tasti circolari sopraelevati. Eppure il terrore di poterla rovinare in qualche modo la trattenne dal farlo. Sapeva che quell'atteggiamento era insensato soprattutto considerando che quella macchina da scrivere non era poi nuovissima. Toshi doveva averla trovata in un negozio di antiquariato o almeno così aveva intuito Clara notando la pessima condizione in cui si trovava la scatola rigida che la conteneva. "Suvvia Clara, se Toshi te l'ha regalata è perché tu la usassi, non perché la contemplassi in ammirazione per tutto il santo giorno! ". Nonostante provasse a convincere se stessa, quel senso ingiustificato di prudenza non voleva saperne di abbandonarla. Così, ormai a sera inoltrata, il suo corpo ancora non voleva saperne di muoversi. Arresasi alla sua mancanza di coraggio, si preparò a rimetterla nella scatola, stava per riporla al suo interno quando dal fondo della stessa si staccò una lettera cadendole sulle cosce serrate. Clara la raccolse e l'aprì divorata dalla curiosità. “Che sia da parte di Toshi?” pensò animata da un nuovo e inaspettato senso di eccitazione. A quel pensiero tutto il suo corpo fremette. "Chissà cosa mi avrà scritto. Non credevo fosse un tipo da lettere". Clara incuriosita aprì la busta tra le sue mani e al suo interno vi trovò una lettera scritta in lingua inglese. Recuperato un piccolo vocabolario da uno dei cassetti sotto la scrivania, provò a tradurla. Le lingue straniere erano da sempre state la sua passione e l'inglese non faceva eccezione. In poco tempo il suo contenuto le fu svelato. Era una lettera d'amore e confrontando i caratteri, doveva essere stata scritta proprio con quella macchina da scrivere. La carta era ingiallita e in alto recava una data sbiadita : 15 luglio 1946.
Cara Ayumi, vivere senza di te non sarà facile. Mi mancherà il tuo sorriso, le tue dolci guance di pesco e i tuoi polsi sottili che si muovevano nell'aria con infinita grazia roteando armoniosi quei ventagli coloratissimi. Sei e rimarrai sempre la più bella opera d'arte in movimento che i miei occhi abbiano mai visto. Il ricordo del nostro amore sarà così profondo da rimanere impresso per sempre nella mia mente e nel mio cuore fino al momento del nostro secondo incontro. Mio amore dagli occhi sottili come fessure impenetrabili, tornerò da te, perché la distanza non può annullare l'amore quando è vero. Racconterò di quanto ci siamo amati al mondo e di quanto ingiusta e sconsiderata sia una guerra come quella che i nostri due popoli hanno dovuto combattere. Un ideale che crea cicatrici e che porta solo dolore non dovrebbe essere perseguito. Mio fiore di pesco tornerò per riprendermi il tuo cuore, quello che tu hai concesso come privilegio indegno ad un uomo impuro come me. Tornerò a riprendermi la Ayumi che mi ha soccorso, la geisha che mi ha affascinato e la donna che mi ha rapito il cuore. Tornerò da te anima mia. Questa è una promessa. Aspettami e non ti scordar di me. Il tuo Jonathan.
"Ma... ma... è meravigliosa. Chissà quale incredibile storia d'amore si nasconde dietro queste parole. Sarebbe meraviglioso poter conoscere l'artefice di questa lettera... Magari consegnandogliela indietro… potrebbe raccontarmi cosa è successo a questo amore. Chissà se sarà disposto a parlarmi di questa storia...". Clara con sguardo commosso e sognante ripiegò la lettera su se stessa riponendola con cura nella busta. Proprio mentre stava per adagiarla nella scatola, insieme alla macchina da scrivere, suo zio JJ irruppe nella camera con una mano sul petto boccheggiando come un pesce fuor d'acqua.
« Sono... in... televisione. Corri!», la ravvisò con il fiato mozzato per la corsa fatta, poi con un gesto della mano la invitò a seguirlo verso la sala comune. Clara non se lo fece ripetere due volte. Entrambi si catapultarono giù per le scale e, in men che non si dica, raggiunsero l'unica stanza di tutto l'orfanotrofio dotata di un piccolo e poco pretenzioso televisore. Tutti i bambini dell'Istituto avevano già occupato più della metà del pavimento. I loro menti erano alti e i loro occhi riflettevano lo schermo multicolor del televisore sopra le loro teste. Sembravano ipnotizzati proprio come i topini della nota favola, assoggettati com’erano a quel pifferaio magico chiamato televisore. Clara con passo felpato avanzò tra di loro, facendo attenzione a non disturbarli ne calpestabili. Come se si trovasse in un campo minato, li scansò uno ad uno con attenzione. Era in cerca di un buco libero dove sistemarsi, quando finalmente ne trovò uno abbastanza grande per accogliere sia lei che suo zio, così, sedendosi incrociando le gambe a mò di indiano, fece segno a lui di raggiungerla. Poco dopo anche Yuki prese posso al suo fianco.
Le due ragazze su quel monitor avevano appena finito di presentare l'ultimo gruppo ad esibirsi. E Clara come tutti li presenti era in attesa della loro entrata in scena. Pochi secondi dopo fecero il loro ingresso sul palco in diretta televisiva gli Hope. Vedendoli, tutti i bambini esultarono festanti sollevandosi e battendo ripetutamente le mani l'una contro l'altra. Clara diede una fugace occhiata alle sue spalle e poi intorno a sé: tutti i bambini si erano sollevati in piedi.«Sono gli Onissan!!»urlò eccitato uno di loro indicando Kei e Shin in primo piano nello schermo. «Forza fratelloni!» lo seguirono anche gli altri bambini. Clara guardandoli così entusiasti sorrise compiaciuta. Esaltarsi in quel modo per la sorte dei loro "Fratelli maggiori" era davvero commovente. Sorridendo per l'entusiasmo ingenuo dei bambini, tornò con gli occhi sullo schermo televisivo, lì dove aveva appena preso posto, l'immagine a tutto schermo del leader del gruppo Toshi. Clara abbandonò il suo sorriso e qualcosa nel suo petto si smosse causandole un senso indescrivibile di disagio, una sensazione di confusione e smarrimento che le risultò stranamente piacevole. Il Toshi in quel monitor era ai suoi occhi più affascinante e interessante del solito, Clara non seppe se attribuire quel cambiamento ai recenti e premurosi gesti nei suoi confronti o al cambiamento drastico nel suo look, fatto sta che in quel momento Toshi le sembrò estremamente affascinante. Scuotendo il capo provò a rimuovere quei pensieri imbarazzanti dalla testa. "Cosa sto facendo? Perché adesso mi metto a fare certi pensieri su di lui? Potrei essere sua sorella maggiore e una sorella maggiore non dovrebbe avere certi pensieri". Clara si portò le mani sul viso sentendo le gote infiammarsi dalla vergogna. Sullo schermo nel frattempo, ad uno ad uno, tutti i membri del gruppo vennero inquadrati, compreso suo fratello Roberto. Solo in quel momento Clara si rasserenò abbandonando quei pensieri confusi. Alla fine suo fratello era riuscito a realizzare il suo sogno, lo stesso sogno che era stato anche del loro bisnonno Salvatore. Quella rivelazione fece sentire la ragazza stranamente molto più sollevata di prima. Alla fine era riuscita a mantenere la parola data al suo bisnonno. Mentre meditava, immersa nei ricordi degli ultimi momenti trascorsi con Salvatore, gli HOPE nello schermo televisivo presero posto al centro della scena, pronti a iniziare la loro esibizione.
https://www.youtube.com/watch?v=4K5cXqQQNFA
La traccia partì proprio mentre i sei ragazzi si muovevano con disinvoltura sul palco. Il loro look era stato curato alla perfezione, avevano un aspetto diverso, lontano dalla prima impressione che Clara aveva avuto di loro. Più che strani e impacciati quei sei sembravano affascinanti e sicuri delle loro possibilità. Anche Shin, il bambinone del gruppo, aveva un che di virile abbigliato e conciato in quel modo. Prima che potesse accorgersene anche Clara, come i bambini intorno a lei, aveva iniziato a dondolare il proprio corpo a ritmo di musica. Dopo la prima traccia ne seguì una seconda dai toni più pacati. A Clara bastò ascoltarne le prime parole per capire che quello era uno dei due pezzi scritti da suo zio Yuki.
https://www.youtube.com/watch?v=cjEsjdmKfsk
Le parole sparse a casaccio sul foglio accartocciato che aveva raccolto dalla scrivania di suo zio non molto tempo prima, alla fine erano diventate davvero il testo di una canzone. Istintivamente lo cercò con lo sguardo. Quando si scontrò con il suo viso, il cuore nel suo petto le sembrò sopraffatto da un'ondata di tristezza senza eguali. Come uno tsunami, essa ebbe il potere di distruggere all’istante tutta la gioia e l'eccitazione del momento. Suo zio fissava commosso lo schermo televisivo, sorrideva versando lacrime amare dagli occhi. Non ci fu bisogno per lei di chiedergli il perché stesse piangendo in un momento di gioia come quello. Clara aveva capito perfettamente che se quel sorriso era per i suoi due figli, le lacrime invece erano per sua moglie Akiko. Quella canzone era per lei, come per lei era stato tutto quello che aveva fatto fino a quel momento. Clara, osservandolo, ebbe l'impressione che suo zio si fosse appena liberato di un grosso peso. Un peso fatto di colpe e rimorsi. Un peso che quella canzone attraverso le voci dei suoi due figli e di quella degli altri ragazzi aveva appena alleggerito dal suo cuore stanco. Fu in quel momento che Clara comprese per la prima volta le parole che Roberto le aveva rivolto la sera prima di partire nella sua stanza:"Di medici che curano la gente c'è ne sono anche troppi in circolazione, io voglio essere una di quelle persone capaci di curare il cuore delle persone senza dover ricorrere all'aiuto di un bisturi ma solo contando sul potere della mia musica. Che c'è di male nel voler fare la differenza tra tanti". Ora capiva davvero cosa intendeva Roberto con quelle parole. Oltre le ferite fisiche ci sono ferite invisibili che nessuna medicina è capace di curare, proprio come quelle di suo zio Yuki. Ebbene la musica era arrivata li dove nessuna scienza medica sarebbe mai potuta giungere. Consapevole e grata adesso del grande e rispettabile potere della musica, Clara si mosse con discrezione verso suo zio poggiando la testa sulla sua spalla. Come un'onda invisibile, quello stato d'animo di pace e serenità investì anche tutti i bambini lì presenti. Anche loro acquietarono il loro spirito ribelle e passo dopo passo si ricomposero intorno a Clara e suo zio Yuki. Molti si avvicinarono abbracciandolo per confortarlo, mentre altri si adagiarono sulle cosce di Clara cercando quello stesso conforto da lei. A poco a poco il caldo focolare di quella casa si ricompose. Ecco cos'era quell'orfanotrofio, una casa piena di amore proprio come Akiko aveva sempre sognato che fosse.
 
Roberto era dietro le quinte dello show televisivo. Il suo cuore batteva all'impazzata per l'emozione appena provata, non poteva credere di essere riuscito a esibirsi in diretta televisiva. Agli occhi del mondo era appena diventato un cantante, ma questo non bastava a saziare il suo orgoglio, doveva dimostrare a suo padre che quel mondo che gli aveva dipinto come ingiusto e crudele era invece ricco e carico di possibilità. Al suo fianco Kei, da uno spiraglio dietro le quinte, rimirava assorto il palco su cui si erano da poco esibiti. Anche il ragazzo con il ciuffo sull'occhio sinistro sembrava riflettere su quanto fosse appena successo. Nei suoi occhi fieri Roberto lesse un forte desiderio di realizzazione. Un desiderio superiore per certi versi al suo. Kei doveva desiderare molto il successo se era arrivato a sacrificare i suoi sentimenti per Nami. In quel momento i pensieri di Roberto volarono alla sua amica in viaggio per Londra. Una parte di lui già ne avvertiva la mancanza, chissà se anche Kei nutriva quelle sue stesse emozioni. Una pacca leggera sulla sua spalla lo fece trasalire. Era stato Toshi, il nuovo leader del gruppo, a ridestarlo dai suoi pensieri. Roberto notò con stupore che uno sguardo preoccupato aveva appena sostituito l'enorme sorriso che fino a pochi minuti prima il suo alto amico aveva avuto stampato sul viso. Anche Toshi quel giorno aveva ricevuto una parziale vittoria su suo padre.
«Ragazzi avete visto Take?», chiese rivolgendosi a suoi due amici.
«Credo sia andato da quella parte...» gli rispose disinteressato Shin spuntandogli alle spalle, indicando un corridoio laterale poco distante da dove si trovavano. Toshi sospirò.
«A breve daranno i risultati della classifica. Perché diavolo si è allontanato?» concluse esasperato il leader mentre, con una mano dietro la nuca, si massaggiava il collo teso.
 
Take era nei bagni che rimirava la sua immagine riflessa allo specchio. Adesso era un personaggio pubblico. Una persona che tutti avrebbero ammirato e rispettato.
"Ecco, ci sono riuscito. Finalmente potrò dimostrare ai miei genitori quello che valgo. Finalmente il mio talento verrà riconosciuto e apprezzato ".
Aveva appena finito di lavarsi le mani, quando uscendo si imbatté in una giovane ragazza dai capelli biondo platino e le labbra carnose rosso fuoco. I loro sguardi si incontrarono e gli occhi felini di quella giovane affascinante, lo ipnotizzarono come pochi erano stati capaci di fare prima di lei, quelle linee sottili circondate di eyeliner sembravano avergli graffiato l'anima con unghie invisibili. Take non era mai stato un tipo interessato al genere femminile, più che altro i suoi impegni fino a quel momento lo avevano allontanato da quel tipo di distrazioni. La sua carriera da cantante era sempre venuta prima di qualsiasi altro desiderio, ma adesso che era riuscito nel suo intento, pensò che fosse giunto il momento anche per lui di godersi qualche piccolo piacere nella vita. La ragazza in minigonna e t-shirt bianca gli sorrise maliziosamente sfilandogli a pochi centimetri di distanza, il suo profumo intenso penetrò le narici di Take stordendolo. Quel corridoio era abbastanza stretto e per un attimo i seni prosperosi di lei sfiorarono il petto schiacciato di lui. Il suo corpo morbido, il suo profumo agrodolce e quelle labbra peccaminose catturarono l'interesse di Take all'istante. Era bellissima eppure così lontana, pericolosa eppure attraente quanto una fiamma ardente: così bella da rimanerne scottati. Il suo fascino travolgente fu come un fulmine a ciel sereno.
«Scusami, ti dispiacerebbe farmi passare?», gli domandò in tono cortese lei portando una mano sul suo petto prosperoso. Take sbatté le palpebre un paio di volte come per recuperare la propria lucidità, con uno scatto fulmineo, si appiattì contro la parete del corridoio. La ragazza gli sfidò davanti sorridendo smuovendo con un gesto strafottente della mano i suoi lisci capelli dorati. Doveva essere abituata a far sentire gli uomini spaesati per colpa del suo sexapell. Prima di superarlo del tutto, però, la giovane si arrestò retrocedono di qualche passo. Avvicinandosi al volto teso e imbarazzato del ragazzo che ormai grondava di eccitazione, gli sfiorò il viso con il dito indice percorrendone la sagoma ovale. Per un breve istante indugiò sulle sue labbra sottili.
«Comunque, complimenti per l'esibizione. Considerando che si è trattata della vostra prima apparizione su un palco televisivo siete stati abbastanza bravi. Soprattutto tu!» aggiunse infine dando un leggero colpetto sulla punta del suo naso. Poi ammiccandogli si allontanò facendo sfiorare i loro corpi con maliziosa intenzione ancora una volta. Ondeggiando i suoi fianchi sottili in modo ipnotico la giovane si dileguò entrando nella toilette delle donne e lasciando Take nel corridoio con una espressione da ebete sul volto. Il ragazzo stordito dal suono di quella voce ammaliatrice, e da quel corpo sensuale fatto di curve armoniose, raggiunse gli altri dietro la scenografia. Nessuno però fece caso al suo arrivo, ormai intenti a osservare in apprensione l'avanzare dei nomi sulla classifica. Gli HOPE erano stati gli ultimi ad esibirsi perché arrivati tardi sulla scena, colpa dei giornalisti. Per questo non avevano avuto modo di assistere alle performance degli altri gruppi prima di loro. Questo aveva acceso l'attesa per quel verdetto di uno straziante senso di incertezza. Non potevano fare previsioni e questo era straziante. In ansia i sei ragazzi attendevano l'esito della classifica. Take raggiunse i suoi compagni appena in tempo. Le presentatrici, due bellissime e longilinee ragazze, stavano per rivelare il primo e secondo posto. In classifica mancavano solo gli ultimi due nominativi. Shin strinse nella sua la mano di suo fratello, mentre gli altri con riservatezza contenevano l'agitazione in attesa del verdetto. O primi o secondi. Quello sarebbe stato il verdetto che avrebbe dato giustizia alla loro costanza, perseveranza, oltre che alla fiducia che Rio, Andrea e Daisuke avevano riposto in loro.
Il momento era arrivato: le luci si accesero e sullo schermo comparve il nome del primo classificato. Le facce dei ragazzi rimasero immobili e inespressive. Quello a brillare in alto sullo schermo non era il nome HOPE, ma quello di un'altra artista. Poco dopo sul palco conquistò il suo meritato posto una giovane dai capelli platino e il rossetto rosso fuoco. Take la riconobbe immediatamente. Era la ragazza che poco prima aveva incontrato vicino ai bagni. Con l'indice della mano destra l'additò sorpreso.
«Ma quella... quella....» blaterò in stato confusionale.
«cosa ti prende Take? » gli domandò perplesso Toshi al suo fianco.
«Quella ragazza l'ho appena incontrata per i corridoi... Non sapevo fosse una cantante!» gli confessò impreparato, «tu la conosci?» chiese al nuovo leader.
« Certo che la conosco, anche troppo per i miei gusti.. Quella è Yukino, stava per debuttare sotto la nostra stessa casa discografica... ».
«E poi? Cosa è successo?», gli domandò interessato.
«Mio padre l'ha ceduta alla Music Station in cambio di noi. Ricordi quando ci ammonì dicendo che aveva dovuto sacrificare un'artista promettente per salvarci il fondo schiena? Ebbene, quell'artista promette era lei e a quanto pare mio padre aveva ragione. Stavo pregando davvero non arrivasse prima, ma alla fine le mie preghiere non sono state esaudite. Con questo mio padre si è appena guadagnato il diritto di dirci che ci aveva visto bene. A quanto pare non siamo stati davvero un buon investimento per la Kings Record. Quella ragazza si è rivelata davvero più brava e promettente di noi... ». Take più che ammettere l'evidenza dei fatti non poté fare. Senza porsi ulteriori domande i sei, amareggiati di non aver ottenuto una vittoria schiacciante, salirono in fila indiana sul palco per ritirare l'applauso meritato per il loro secondo posto. A nome del gruppo fu Toshi a ringraziare il presentatore e a congratularsi con Yukino. Dopo l'inevitabile stretta di mano i due ragazzi presero a osservarsi di sbieco, con aria rancorosa. Fin dall'inizio del loro training presso la Kings Record, Toshi e Yukino non erano mai andati d'accordo. Al ragazzo non era mai piaciuto l’atteggiamento di sfida che lei aveva nei suoi confronti, e cosa che gli piaceva ancor meno era il rapporto che aveva stretto con suo padre. Per un breve istante i loro occhi si incontrarono. Yukino sollevò il labbro superiore in un ghigno provocatorio che fece ribollire di rabbia Toshi.
Dopo tutto quello che aveva passato, Yukino aveva avuto la sua rivincita. Aveva appena dimostrato a Rio quale grande errore avesse fatto a sacrificarla per quei sei inutili ragazzi. Toshi strinse le sue mani in due pugni risentiti intuendo i pensieri di vittoria della giovane. Il nuovo leader degli Hope, aveva appena trovato un nuovo obbiettivo nella sua vita, battere quella ragazza biondo platino e dimostrare a suo padre che in quello scambio mesi prima non ci aveva perso ma guadagnato. Quella sarebbe stata la prima e ultima volta che quella ragazza sarebbe arrivata prima contro di loro.
Gli HOPE tornarono amareggiati al dormitorio. Scortati da Andrea e Daisuke, giunsero nel loro appartamento. Erano tutti afflitti per non essere riusciti a raggiungere il primo posto. Quella doveva essere l'occasione giusta per dimostrare quello che valevano a tutti quelli che non avevano creduto nelle loro possibilità.
Daisuke e Andrea furono gli ultimi ad entrare e chiusa la porta raggiunsero i sei ragazzi seduti intorno al tavolo.
«Si può sapere cosa vi prende? Cavolo, dovreste essere al settimo cielo e invece guarda che musi lunghi che avete!» notò Daisuke portandosi le mani ai fianchi.
«Saremmo dovuti arrivare primi e invece abbiamo ricevuto solo un misero secondo posto contro quella bionda ossigenata...» sottolineò insoddisfatto Toshi. Andrea prese posto sul divano, distrutto per la faticosa giornata. «Cosa vi aspettavate? Siete appena approdati in questo mondo e già volevate conquistarlo? Il successo più lentamente lo si conquista e più a lungo durerà... » li riprese gettando all’indietro la testa sul divano.
«Si certo, come no…» completò con sarcasmo Jona scivolando sul tavolo con il mento sulle sue braccia conserte.
Tutti volevano dimostrare qualcosa a qualcuno. Jona ai suoi genitori, Roberto a suo padre come Toshi a Rio e così Take alla sua famiglia.
«Ragazzi, voglio mostravi una cosa.. » cercò di catturare la loro attenzione Daisuke tirando fuori un cellulare dalla tasca dei suoi pantaloni e portandolo sotto il naso dei sei ragazzi.
Poco dopo fece partire un video che aveva conservato come monito per molti anni aspettando il momento giusto in cui gli sarebbe tornato utile.
Tutti lo accerchiarono incuriositi.
Sullo schermo i BB5 al loro esordio.
«Ma questi...» iniziò Toshi che aveva già visto quel video in passato.
«Si, questi siamo noi al nostro esordio tanti anni fa. Guardate un po' a che punto della classifica ci posizionammo».
Tutti interessati si sporsero per poter vedere meglio.
«Non è possibile... » si di staccò sorpreso Shin portandosi le mani alla bocca in un modo simile a quello dei bambini quando rompono qualcosa di prezioso senza intenzione.
«Non ci classificammo nemmeno tra i primi dieci...», rivelò loro Daisuke sorridendo soddisfatto, «eppure questo non ci ha impedito di diventare uno dei gruppi più famosi del Giappone».
Tutti rinfrancati da quella notizia alleggerirono di molto il carico delle loro insicurezze. Daisuke ripose il cellulare nuovamente nella tasca dei suoi pantaloni. «Ragazzi, ricordate quello che vi sto dicendo in questo momento: la gara più bella non è quella dove arrivi in alto sul podio, ma quella in cui lotti insieme per un obiettivo comune. Un argento allora può brillare quanto un oro». Tutti in silenzio presero coscienza di quelle parole e solo in quel momento si resero conto che Daisuke aveva ragione. Quella sera trascorse in tranquillità ma presto qualcosa avrebbe distrutto quell'equilibrio che con fatica i sei ragazzi avevano conquistato.
La signora Aoki, sedeva su una poltrona rossa, vicino a un tavolino in legno di cedro, un pezzo raro e molto pregiato nella sua collezione di mobili antichi. Poco più in là era collocato un pianoforte a parete, nero e lucente, che rifletteva il color seppia rigato della carta da parati. La donna con un ghigno malefico, rigirava il vino rosso tra le sue mani nodose osservando in televisione la vittoria schiacciante di Yukino contro gli HOPE. Nonostante quella umiliazione, la sua sete di vendetta non era ancora sazia. In realtà era solo all'inizio del suo piano. Presto avrebbe tirato fuori il suo asso nella manica. Bevendo il vino rosso a piccoli sorsi si sollevò dalla poltrona avvicinandosi al pianoforte che anni prima era stato di Akiko. Spesso anche da sposata sua figlia adottiva era tornata a farle visita e a suonare per lei. Akiko era stata la sua più grande sconfitta e il suo più amaro rimpianto. Sentiva che non avrebbe mai dovuto affidarla a quel ragazzino incosciente. In più di un'occasione aveva provato a dissuaderla dal portare avanti quella gravidanza, ma lei era stata irremovibile. Anche se aveva in tutti i modi cercato di ravvederla, alla fine Akiko aveva scelto di sposare e avere un figlio da Yuki, pagando quella scelta a caro prezzo. Alla fine, per colpa del suo ex marito e di quel ragazzino senza coscienza, aveva perso l'unica persona veramente importante nella sua vita. Se solo Eichi fosse sparito dalla vita di suo marito tutto questo non sarebbe successo. In tutti quegli anni aveva maturato dentro di sé un tale odio per Eichi, per suo Marito e per JJ da non riuscire a nutrire neanche per suo nipote più piccolo un senso di pietà. Ai suoi occhi anche Shin era colpevole della morte di sua figlia tanto quanto gli altri. Inizialmente aveva tentato di seppellire quei malumori nel suo cuore tanto che aveva permesso a JJ di vivere con Shin e Kei nella casa che aveva dato in dono ad Akiko per il suo matrimonio. Ma dopo aver scoperto della tresca di suo marito con la madre di Eichi tutto era cambiato. I vecchi rancori erano riaffiorati con una carica distruttiva superiore a qualsiasi altra avesse mai provato. Così, senza preavviso, strappò via a JJ e ai suoi nipoti l'ultimo e unico luogo che potesse far sentire loro la presenza di Akiko. In questo modo quei ricordi sarebbero stati solo suoi. Non avrebbe più diviso Akiko con nessun'altro. Grazie a questo sua figlia era tornata ad essere solo sua, proprio come quella casa in cui adesso si trovava e che non avrebbe condiviso più con nessuno. Due colpi alla porta e la donna ritornò a sedersi sulla poltrona. Una cameriera entrò e dopo un inchino oneroso presentò l'ospite che la signora Aoki stava aspettando.
«Signora, la signorina Yukino è appena arrivata» le annunciò ferma sull’uscio della porta.
«falla entrare» le ordinò l’altra versandosi dell'altro vino nel suo calice. Senza esitare oltre la ragazza con il caschetto biondo a mento alto entrò e, portandosi a meno di un metro dalla donna, si sfilò le lenti scure dagli occhi in attesa che la signora Aoki, seduta alla poltrona, le prestasse attenzione. «Sei arrivata finalmente». L'accolse sfoderando un falso sorriso d'apprezzamento.
«Si»
«Come ci si sente dopo aver gustato il sapore della vendetta?» le domandò sorseggiando il vino rosso nel calice. Yukino le sorrise complice.
«Avida. È stato così bello che non desidero altro se non rivedere la faccia sconfitta e delusa di quel figlio di papà ...> aggiunse euforica.
«È proprio vero, il sapore della vendetta ti corrompe l'animo... Beh, la cosa non può che farmi piacere, dopotutto anche io voglio vedere fallire quei sei... Anzi, quasi dimenticavo, hai fatto quello che ti ho chiesto?». La ragazza acconsentì con un movimento impercettibile della testa. «Si, ho fatto quello che mi ha chiesto, eppure non capisco a cosa dovrebbe servirle...». La donna sorrise malvagiamente riponendo il calice mezzo vuoto sul tavolino alla sua destra. Poi si sollevò e come una tigre pronta a scagliarsi sulla sua preda, raggiunse Yukino. Le due donne erano in piedi l'una difronte all'altra. La più anziana si avvicinò all'altra sussurandole qualcosa all'orecchio sinistro. Il suo fiato che dava di vino le solleticò il collo in modo inquietante. «Yukino, dovresti sapere meglio di me che un uomo difficilmente riesce a mantenere salda la ragione davanti a un bel corpo come il tuo... Dico bene?».
Yukino rabbrividì. A cosa stava alludendo quella donna? Che cosa aveva intenzione di farle fare? Che conoscesse qualcosa del suo passato. Non sapeva spiegarsi il perché ma quelle parole le risuonarono quasi minacciose.
«Cosa ha in mente?» le chiese con voce esitante.
«Ho bisogno che trascini quel ragazzo dalla nostra parte. Non importa quali mezzi userai per riuscirci. Tutto quello che dovrai fare sarà corromperlo con qualche falso complimento e magari sedurlo con il tuo corpo. Dopotutto non è una cosa nuova per te ammaliare gli uomini in questo modo, dico bene? Devi diventare l'unica persona di cui penserà di fidarsi e sulla quale crederà di poter fare affidamento. In quel momento coglieremo l'occasione per portarlo via alla Kings Record». Yukino, non poteva credere a quello che stava sentendo. Vendere il suo corpo così gratuitamente era una cosa che si era ripromessa di non fare mai più. Non voleva ricominciare proprio adesso che era riuscita a mettere da parte il suo passato. Adesso che finalmente era riuscita a respirare una vita libera e gratificante, la signora Aoki voleva farla tornare indietro a quella vita soffocante che aveva deciso di buttarsi alle spalle. Si era ripromessa, dopo quella esperienza, che avrebbe concesso il proprio corpo solo per amore. Quella proposta andava contro tutto quello per cui aveva e stava lottando. In quel preciso istante si sentì come se le avessero gettato addosso una montagna di fango. Si sentiva sporca e lercia nonostante avesse fatto di tutto per lavare via dal suo corpo quel senso di umiliazioni e di impotenza provato già tanti anni prina. Nonostante avesse fatto di tutto per dimenticare il suo passato alla fine quella donna era riuscita a farla sentire misera e insignificante come un tempo.
«La prego non mi faccia questo», la supplicò con un filo di voce portandosi le braccia intorno al corpo in una mossa difensiva per nascondere il suo corpo quasi fosse completamente nuda. Dopotutto quella donna conosceva la verità e aveva tra le mani il potere di distruggerla. La signora Aoki rise di gusto questa volta, senza trattenersi. Voltandosi tornò a sedersi sulla sua poltrona.
«Mi dispiace carina, ma arrivata a questo punto, non credo tu abbia molta scelta... Ricordi? Ti avvertii che ci sarebbe stato un momento in cui avresti dovuto ricambiare la mia gentilezza. Ebbene eccolo qui. Se non farai quello che ti ho chiesto, ti distruggerò con la stessa facilità con cui ti ho portato al successo. Renderò pubblico il tuo passato e a quel punto non ci sarà modo per te di tornare indietro. Perderai tutto quello che hai conquistato e tornerai a fare la puttana per le strade di Tokyo. È davvero questo quello che vuoi?».
Yukino era con le spalle al muro. Quella donna era davvero pericolosa e lei doveva stare molto attenta. Non poteva lasciare che uscissero notizie sul suo passato. Almeno per il momento decise di accontentarla. Non aveva altra scelta dopotutto.
«Va bene. Lo farò... », concluse sconfitta. La signora Aoki sorrise soddisfatta.
«Hai fatto la scelta giusta. Adesso vai pure. Presto ti verranno comunicate nuove istruzioni. Per il momento pensa a goderti il successo…>. Yukino con le mani che gli tremavano si riposizionò le lenti scure sugli occhi e, dopo un inchino oneroso, uscì dalla stanza. Alla fine il suo destino non era quello di riscattarsi da un passato fatto di sfruttamento e sottomissione. Vivere liberamente era un lusso che non si sarebbe mai potuta permettere. Rio gli aveva fatto credere che per lei esisteva ancora una possibilità di riscatto a questo mondo, ma alla fine non era vero. Certe colpe ti segnano la vita per sempre. Alla fine tutti quegli anni trascorsi a credere nell'illusione di una vita perfetta, erano stati inutili. La verità era che non avrebbe mai conosciuto la spensieratezza e la libertà di vivere una vita gratificante come quella che gli aveva promesso Rio. Il suo passato macchiato dalla vergogna non glielo avrebbe mai concesso. Piangendo dietro le lenti scure, Yukino raggiunse la limousine che era fuori ad attenderla. La vecchia Yukino, stava tornando e adesso non ci sarebbe stato più nessuno lì pronto ad aiutarla. Rio non sarebbe mai tornato da lei per soccorrerla come tanti anni prima.
 
Londra
Lo studio fotografico all’interno della One Million era pronto per l'inizio del servizio fotografico programmato per il rilancio,giapponese delle One Million. I dodici abiti della sfilata erano stati sistemati con scrupolosa attenzione nel camerino di Nami. Tutti gli addetti alla costumeria, gli operatori sul set e i responsabili del trucco e parrucco, aspettavano sull’attenti il suo arrivo e quello del Direttore della Kings Record.
Marika ancora non riusciva a credere che Rio le avesse fatto quella proposta così generosa. Finalmente aveva dimostrato non solo a Thomas, ma soprattutto a se stessa di che pasta era fatta. All'inizio di quella sua avventura non confidava minimamente nella sua possibilità di farcela da sola, tenendo conto che non avrebbe potuto contare sul supporto delle persone che amava: dei suoi genitori, della sua migliore amica e del ragazzo che amava al di sopra di se stessa. Eppure, contro ogni sua pessima previsione, era riuscita ad affermare la giustizia li dove sembrava essere diventata solo un'utopia irraggiungibile e a difendere chi amava con tenacia proprio grazie a quel pessimo caratterino ereditato da sua madre. Proprio come era riuscita a difendere il suo onore e quello dei suoi nuovi amici,forse in un futuro sarebbe riuscita a difendere anche la sua Carotina.
Marika era ferma al distributore automatico nel corridoio esterno al set indecisa su quale snack selezionare. Ormai gli attacchi di fame erano diventati frequenti tanto quanto le nausee mattutine. Dopo aver digitato il codice e dopo aver ritirato una brioche dall’apposita fessura, Marika si stava dirigendo verso il camerino di Nami quando avvertì qualcosa premere dietro la sua schiena. Voltandosi si imbatté in due occhi a mandorla profondi e sottili come la linea di orizzonte tra il cielo e il mare, in due labbra rosse e lucide come pomodori maturi, il tutto raccolto in un viso tondo e delicato come una ceramica pregiata. Era Nami quella a sorriderle dolcemente dopo averle sfiorato la schiena. Il suo volto era solare e leggero, proprio come il giorno in cui si erano incontrate nella toilette delle donne.
«Ciao! Che bello rivederti! Ho appena saputo che sarai tu ad aiutarmi in camerino. Sono così felice! Non pensi anche tu che sia stato un segno del destino che ci fossimo incontrate prima della sfilata?»
«Perché no? Potrebbe anche essere. Chissà, il destino è sempre così imprevedibile. Comunque sono contenta che la notizia di avere me come aiuto in camerino sia di tuo gradimento! Anche per me è un vero piacere».
«Suvvia, non essere così formale! Ci siamo già presentate una volta, no? Anzi, ora che ci penso, non mi hai ancora detto il tuo nome!» le fece notare Nami.
«Mi chiamo Marika» le rivelò sciogliendo quell'atteggiamento strutturato dovuto alle circostanze. La giovane responsabile del team trovò che mantenere un distacco professionale con quella ragazzina esuberante era a dir poco impossibile, il suo carattere affabile e solare scioglieva qualsiasi distanza opponibile tra di loro.
Gli occhi di Nami per un attimo fremettero al suono di quel nome che le riportò immediatamente alla mente quello della sua più acerrima nemica. Quell’ombra senza volto che la seguiva distruggendo ogni suo tentativo di conquistare il cuore del ragazzo che amava. Era ironico che avesse appena conosciuto una ragazza con quello stesso nome.
«Che ne dici se ti chiamo Mari? Mi piace di più!» le propose pensando che in quel modo avrebbe allontanato quel pensiero dalla mente.
«Se ti fa piacere». Acconsentì Marika senza farsi troppe domande sul perché di quella richiesta. Poi spronando la giovane modella, entrambe si mossero verso il camerino.
Marika recuperò il vestito rosa antico e con premura ne aprì la zip laterale, mentre Nami dietro un separé si sfilava i suoi abiti.
«Come sta Carotina?» le chiese la modella giapponese da dietro i pannelli oscurati gettando roba a casaccio sopra di essi.
«Diciamo che ultimamente è diventata più affamata del solito. Ormai è bene che mi rassegni all'idea che presto diventerò una balenottera per colpa sua…» disse sfiorandosi la pancia.
Un braccio fine e candido fuoriuscì dal pannello laterale, Marika subito ne capì il motivo, prontamente le passò l’abito.
«Credo sia normale. A una mia cugina vennero delle voglie assurde. Fece uscire il marito a comprarle un’anguria nel bel mezzo della notte! E da noi la frutta costa parecchio!»
Marika soffocò una risata.
«Poverino!»
«Si, infatti! Il bello è che quando è tornato a casa lei dormiva profondamente… tutta fatica inutile!» disse uscendo da dietro il pannello. Marika ricompose il suo sorriso, colta da una considerazione inaspettata.
“E se venissero anche a me quel genere di voglie? Speriamo di no, altrimenti sarei nei casini… a chi potrei mai chiedere di accontentarle? Non ho nessuno qui che conosca il mio segreto a eccezione di Carl…”
Mettendosi di lato Nami fece capire a Marika che aveva bisogno di una mano per chiudere la cerniera laterale, senza esitare l'altra l’aiutò. Quel vestito sembrava esserle stato cucito addosso.
Vedendo quel corpo fine ed elegante, avvertì una strana sensazione di gelosia. Il suo corpo presto avrebbe perso quelle curve sottili per altre molto più ampie. Dopodiché si sarebbe solo sognata di poter indossare dei vestiti aderenti come quello.
«Tutto bene?» le chiese Nami, notando il suo sguardo malinconico.
«Nami, devo chiederti un favore».
La ragazza acconsentì senza esitare. Marika ne fu rincuorata, quella fermezza la rassicurò. Sentiva che poteva fidarsi di quella ragazza anche se la conosceva da soli due giorni.
«Nessuno qui è a conoscenza della mia situazione. Mi farebbe piacere che la cosa rimanesse tra di noi».
Nami stranita da quella richiesta corrucciò le sopracciglia pensierosa.
"Perché mai Marika dovrebbe volerlo tenere segreto? Non sarà che carotina sia la figlia del Direttore Thomas? Si, deve essere sicuramente questo il motivo, si capisce subito che tra loro deve esserci stato qualcosa... ".
Nami era troppo curiosa di scoprire se quell'idea nella sua testa avesse qualche attinenza con la realtà. Prontamente strinse tra le sue le mani tremanti e incerte di Marika. «Va bene, manterrò il tuo segreto. Ma perché non vuoi che si sappia in giro?». Marika si incupì distogliendo i suoi occhi da quelli della modella giapponese.
«C'è una persona che voglio proteggere. Lui vive in un mondo diverso dal mio e del quale non potrò mai fare parte, soprattutto con una figlia al seguito. È giusto che questo non rovini la sua vita, io non voglio essere un impedimento per lui. Voglio che raggiunga il successo che merita e in più non posso permettere che la sua reputazione venga distrutta per causa mia». Le rivelò affranta.
Nami aveva quasi le lacrime agli occhi per la commozione, quella situazione era così triste. In quel momento capì che le supposizioni che aveva avuto erano esatte. Marika stava parlando di Thomas e di chi altro se non di lui? Sapere che la situazione in cui si trovava la sua nuova amica era questa la faceva sentire impotente e triste allo stesso tempo. Avrebbe voluto fare qualcosa per lei, ma cosa?
«Perché non ne parli con lui? Penso sarebbe giusto che lo sappia, presto diventerà padre di una bellissima bambina... è giusto che divida la responsabilità della situazione con te. Non è giusto che tu ti faccia carico da sola di quello che avete creato insieme... ». Marika si asciugò una lacrima fugace.
«È stata una mia decisione quella di tenere la bambina e poi so che se gli dicessi che sono incinta lui lascerebbe tutto quello per cui ha lottato e correrebbe qui da me, per stare al mio fianco e non voglio che accada. Perché non voglio che accada che ho deciso di prendere le distanze da lui. Lo amo troppo per fargli questo proprio adesso che sta facendo di tutto per avere successo in Giappone... Non voglio rovinare i suoi piani...».
La ragazza nel lungo vestito rosa antico strinse Marika tra le sue braccia delicate.
«Chi ha bisogno degli uomini!!! Se avrai bisogno di qualcuno conta pure su di me, sarò una brava zietta per Carotina. Anzi, ora che ci penso, ti ho portato una cosina...», disse nel tentativo di cambiare discorso. Dalla sua borsa estrasse un fiocchettino per capelli con un'applicazione a forma di carota. «L'ho vista l'altro giorno passando per il centro e ho pensato a voi due. Tieni, prendilo». Marika prese dalle mani di Nami quel fermacapelli come fosse un dono prezioso di inestimabile valore. Quello era il primo regalo che riceveva per carota. Stranamente quel gesto rese più lieto il suo umore adesso il pensiero che presto sarebbe diventata mamma non le sembrava più così spaventoso e sbagliato. Ma le sembrò per la prima volta un evento d'attendere con gioia e di felicità. Alla fine Carotina avrebbe avuto tante persone a volerle bene, sarebbe stata felice anche così. Sorridendo a Nami ripose quel dono prezioso nella tasca dei pantaloni. «Grazie, è bellissimo. Anche Carotina te ne è molto grata. Sai, questo è il primo regalo che riceve e sono felice che sia arrivato da una bella persona come te. Spero che un giorno lei diventi generosa e solare come sei tu. Adesso però dobbiamo muoverci, di là ti staranno aspettando tutti per il servizio fotografico». Nami, si senti fiera e soddisfatta di aver riportato il sorriso sul viso di quella giovane stilista dai lunghi capelli mossi color del grano.
«Giusto mi ero quasi dimenticata che ero venuta per il sevizio fotografico. Comunque mi piacerebbe venirti a trovare ogni tanto qui a Londra e vedere come va a te e a carotina. Ti dispiacerebbe se lo facessi?».
«Scherzi? Ne sarei felicissima!».
La porta si apri in quel momento, Adam era venuto a chiamare Nami per la prova trucco. Così, prosegui la giornata, tra un cambio d'abito e l'altro le due ragazze divennero sempre più vicine confidandosi sogni, desideri e passioni. Dopo due ore era finalmente finito il servizio fotografico e Marika stava riponendo i 12 abiti realizzati dal suo gruppo nelle apposite custodie trasparenti, quando Nami sbucò per l'ultima volta nel camerino per salutarla. Dopo il servizio fotografico lei è suo padre sarebbero tornati a Tokyo e voleva passare da lei prima di partire.
«Disturbo?» chiese sporgendosi oltre la porta già aperta. Addosso aveva il suo cappotto blu e i suoi stivaletti neri con un leggero tacchetto. «Ma quale disturbo? Non dirmi che stai già andando via?» le chiese afflitta Marika.
«Mi dispiace ma abbiamo un aereo che parte tra poche ore».
«Cavolo, non ho neanche la possibilità di offrirti qualcosa al bar?».
«Dal bar non credo, ma se vuoi possiamo prendere una brioche dalle macchinette. Quella che avevi stamattina tra le mani sembrava davvero molto invitante» la incoraggiò la ragazza dai capelli neri e lisci come spaghetti di liquirizia.
«Ok, allora andiamo!», affermò euforica Marika abbandonando l'ultimo degli abiti da sistemare sulla sedia. Le due ragazze, così riunite camminavano per il corridoio, il suono dei tacchi di Nami faceva eco in quello spazio vuoto.
«Marika, posso chiederti una cosa?», l'altra acconsentì. «C'è un ragazzo che mi piace. Lui però ama ancora una ragazza che però lo ha lasciato senza dargli una motivazione e si strugge al pensiero che la colpa sia solo sua. Penso che sia questo il vero motivo per cui non riesce a farsene una ragione e a guardare avanti. Sai, ho provato a fargli capre quello che provo, ma lui o finge di non capirlo oppure è solo molto tonto. Io però ho paura di confessarmi apertamente, e se poi lo perdessi come amico? Tu pensi che dovrei arrendermi? Forse, dopotutto, dovrei rinunciare e condannare i miei sentimenti all'oblio ancora una volta... ». Marika si arrestò e bloccando Nami per le spalle la voltò in modo che fossero faccia a faccia. I suoi occhi erano irremovibili. «Nami, non fare il mio stesso errore, anche io ho amato qualcuno e per paura che le cose tra noi cambiassero ho sprecato solo tanto tempo prezioso rinunciando a dichiararmi a lui. Alla fine, quando era ormai troppo tardi, gli ho confessato quello che provavo e solo allora mi sono resa conto che quello che ci era mancato era stato quel misero passo in più, quel coraggio di rischiare e amare che adesso mi porterò con me come una delle miei più grandi colpe. Nami, in amore ci si deve buttare, e se cadrai allora vorrà dire che dovrai rialzarti e ricominciare. Può essere che quel ragazzo abbia solo bisogno di guardare oltre quello che ha in primo piano per scorrere la bellezza del paesaggio. Devi solo fare in modo che lui ti noti e vedrai che dimenticherà il passato per incontrare con te un nuovo futuro. Non rinnegare i tuoi sentimenti per colpa di essere rifiutata o perché lo sei già stata. Alle volte gli uomini ci mettono più di noi donne a capire cosa vuole il loro cuore. E il più delle volte sta a noi batterli sul tempo, prima che finisca. Non arrenderti se lo ami davvero... Non cancellare i tuoi sentimenti solo per paura, ma combatti per quelli... Io non ho più paura di restare sola e adesso voglio combattere per amore di Carotina, anche tu non avere paura di essere respinta e combatti per amore di quel ragazzo... ». Nami le sorrise motivata da quelle parole. Marika aveva ragione, avrebbe lottato e non si sarebbe fatta scoraggiare una vola a Tokyo avrebbe rivelato i suoi sentimenti a Roberto senza più incomprensioni.
«Grazie Marika, farò come mi hai detto!»
Le due ragazze recuperate le loro merendine raggiunsero, mangiandole, l'uscita della One Million. Fuori c'era la lunga limousine nera ad attendere Nami. Il tempo era grigio e le nuvole facevano intendere che presto avrebbe piovuto. «Bene, io vado, grazie per il prezioso consiglio. Combatterò!» Marika acconsentì soddisfatta. Sperava davvero che almeno per una di loro due l'amore sarebbe stato generoso. Dopotutto Nami era una brava ragazza e meritava di essere felice. «Anche io combatterò! Ricorda, io e Carotina saremo qui ad aspettarti.» Nami abbracciò Marika, poi, recuperata la distanza tra di loro, diede un'occhiata al tempo fuori dall'edificio. La porta vetrata non le mostrava un tempo molto promettente.
 
«Dovresti coprirti. Fuori farà freschetto», l'esortò Marika preoccupata. Nami perlustrò per un po' nella sua borsa, poi con aria sollevata tirò fuori un cappello azzurro fatto a mano. Marika non ci fece troppo caso finché non lo vide sulla testa dell’amica. Sono in quel momento lo riconobbe. "Ma quello è il mio cappello... ". Nami salutò Marika sventolando la mano per aria un'ultima volta prima di allontanarsi. Marika rimase immobile a osservarla mentre si muovevano verso l'uscita. Non poteva lasciarla andare così, doveva sapere. Così corse verso l'amica raggiungendola e trattenendola per un polso la costrinse a voltarsi. «Nami qual'è il nome del ragazzo di cui ti sei innamorata?» le chiese con un terrore ceco negli occhi. «Roberto. Perché?». Marika per un attimo sentì venire meno la terra sotto i suoi piedi. Era bastato quel nome a farla sprofondare nel panico più totale. «Tutto bene? », la richiamò Nami. «Si, si, benissimo. Scusa se te l'ho chiesto, ero solo curiosa» cercò di arrancare una motivazione plausibile. Nami le ammiccò complice. «Il nome del tuo non serve che te lo chieda. L'ho capito da come vi guardavate. Il padre di Carotina è Thomas dico bene?». Marika era nel panico più totale, non sapeva cosa inventarsi, non poteva far capire che era Roberto il vero padre di Carotina. Se Nami era convinta fosse Thomas tanto meglio fargli credere che fosse così. Non poteva rischiare che la verità venisse a galla proprio in quel momento e proprio in quel modo. «Si capisce tanto?», prosegui con voce impacciata. «Ai miei occhi non sfugge niente. Ora vado però altrimenti rischio di perdere l’aereo. A presto Marika e a presto Carotina». Detto questo la giovane modella della Kings Record si dileguò dalla vista di Marika dapprima sotto la pioggia e dopo e in modo definitivo entrando dentro quella limousine nera e Lucia. Marika solo in quel momento crollò in ginocchio sul pavimento. Proprio quando pensava di aver trovato una persona con cui poter essere sincera ecco che il destino si metteva di mezzo ancora una volta. Adesso Nami sarebbe stata solo l’ennesima persona a cui avrebbe continuato a mentire. "Cosa ho fatto? Non posso credere di aver appena buttato tra le braccia di Roberto quella ragazza. Adesso si che mi sento uno schifo... " 

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Capitolo 28
*** COINCIDENZE ***


CAPITOLO 28

COINCIDENZE

 

Marika era nel suo appartamento, seduta vicino la piccola scrivania della camera da letto, mentre osservava lo schermo del suo PC. Nello stesso la barra di inserimento testo del motore di ricerca riportava silente due tacite parole: Kings Record.

"Marika finiscila! Ti sei ripromessa di dimenticarlo. Perché proprio adesso vuoi farti del male? Dimentica quello che ha detto Nami. Anche se quel ragazzo fosse proprio il tuo Roberto non potresti farci un bel nulla! È giusto che ricominci a vivere anche senza di te. Dopotutto hai perso il diritto di stargli vicino quasi tre mesi fa".

Marika cercava in tutti i modi di resistere alla tentazione di indagare oltre sulle strane coincidenze che accomunavano Roberto e Nami, ma proprio non ci riusciva. Nonostante si fosse rassegnata all'idea di sparire dalla sua vita, non riusciva proprio a smettere di preoccuparsi per lui. Prima di partire la sua nuova amica giapponese le aveva detto che quel ragazzo di nome Roberto, non era ancora riuscito a cancellare dal suo cuore la sua ex ragazza. Il pensiero che quel ragazzo fosse davvero il suo Roberto le aveva acceso dentro un considerevole dubbio. E se fosse lei quella ragazza di cui Roberto non riesciva a dimenticarsi? L’idea non aveva smesso di torturarla per tutto il giorno. Troppe coincidenze a partire dal cappello blu che Nami aveva indossato poco prima di sparire sotto la pioggia. Marika era sicura di non averci visto male, quello era proprio il cappello che aveva regalato al suo amico d'infanzia quando erano piccoli. "Come mai lo aveva lei? E se fosse stato proprio Roberto a darglielo? Possibile che se ne sia voluto disfare? No, non è possibile, Nami ha detto che i suoi sentimenti sono ancora gli stessi... Ma allora come si spiega che lo avesse lei? Miseriaccia, ero certa che dopo quel messaggio mi avrebbe rimosso dalla sua vita per sempre e invece continua ancora a pensarmi. Perché? Dannazione! Così non va bene, è stato davvero molto difficile scrivere quel messaggio e alla fine quelle parole così dure non sono neanche servite a qualcosa... Se non riesce a dimenticarmi lui, come potrò riuscirci io? Mi sento davvero uno schifo se ripenso che ho dovuto nascondere la verità a NAMI in quel modo. Come ho potuto mentirle anche sulla mia relazione con Thomas? Perché tra tutte doveva essere proprio lei la ragazza a innamorarsi di Roberto? Perché?". L'idea che Nami sarebbe tornata un giorno per raccontarle che la sua storia con Roberto era andata a buon fine, le mise su una tremenda malinconia. “Chissà se anche in quel caso riuscirò a fingere che non ci sia stato nulla tra me e lui?”

Pensando questo Marika accartocciò la carta delle patatine che aveva appena finito di trangugiare.

Per soffocare i malumori di quella giornata infinita, Marika aveva preso a mangiare l'inverosimile. Subito dopo la partenza di Nami si era buttata a capofitto sulle merendine e su quegli snack ipercalorici che in passato aveva scansato quasi fossero veleno. Non è che ormai le importasse molto mantenere la linea. Tra poco meno di un paio di mesi il suo pancione sarebbe aumentato in ogni caso, che lei lo avesse voluto o meno quello era ormai il suo destino.

Nei suoi 19 anni di vita non aveva mai dovuto fare i conti con gli effetti della fame nervosa se non fino a quel momento. Mentre era al lavoro aveva saccheggiato l'intero distributore, e ora, ogni volta che scriveva "Kings Record" su quel dannato motore di ricerca, il senso di inquietudine e agitazione la faceva tornare davanti al frigorifero in cerca di qualcosa di commestibile da buttare giù.

Dopo la quarta volta che lo scriveva ebbe finalmente il coraggio di accartocciare quella carta, rimanere seduta sulla sedia e premere il tasto invio. Puntuale, davanti ai suoi occhi verdi, si materializzò la lista dei siti internet. Tra i primi in ordine di priorità, si trovava proprio il sito ufficiale della casa discografica. Senza esitare vi cliccò sopra. Proprio tra le NEWS in primo piano notò riportata la notizia dell'esordio di una nuova boy-band maschile, il loro nome era HOPE. “Dove ho letto prima quella parola? Ma certo! Era riportata sul plettro che Roberto aveva usato il giorno del mio compleanno per esibirsi con la sua chitarra nuova di zecca. Possibile che anche questa sia solo un’altra coincidenza?”.

Poco sotto l’articolo era riportata una foto dei membri ad una conferenza stampa. Marika scorrendo rapida i presenti, riconobbe li fra tutti Rio, l’uomo austero al centro della scena e poco più in là sua figlia Nami. Accanto a lei sedeva Roberto. Il cuore nel suo petto sussultò.

"Non è possibile, allora non è solo una coincidenza".

Poco sotto la foto, un Link collegava il sito ai video della loro prima esibizione Live e del loro primo MV. Marika incuriosita li fece partire.

Quella musica la riconobbe quasi immediatamente erano le note della canzone che le aveva fatto ascoltare quel giorno. Ma a dispetto di quelle note che si susseguivano famigliari richiamando a Marika i piacevoli ricordi del passato, il Roberto in quel video era completamente diverso dal ragazzo che ricordava. Quello su quel palco era un ragazzo incredibilmente affascinante e sicuro di sé e delle sue possibilità, i suoi capelli e il suo fisico erano perfetti e scolpiti. Aveva addirittura imparato a ballare e cantare sul palco. La timidezza e l'insicurezza, che aveva mostrato la prima volta che si era esibito per lei al parco, erano completamente spariti. La cosa la disorientò. Era come se l'immagine su quel monitor le avesse appena dato conferma di quanto distanti l'uno dall'altro li stessero conducendo le strade che avevano deciso di seguire. Quella a separarli non si stava rivelando più una distanza fisica, quanto una distanza oscura e spaventosa una distanza che non sarebbe stata mai colmata semplicemente prendendo un aereo e rincontrandosi. Si stavano perdendo l’uno dalla presa salda dell’altro. Che lo avessero voluto o meno avrebbero presto abbandonato il porto sicuro che avevano condiviso per tanti anni trovando inevitabilmente altri appigli nelle loro vite.

Perdere qualcuno durante il percorso è il prezzo da pagare per crescere.

Marika riprese a guardare il ragazzo su quello schermo. In Roberto notò qualcosa di diverso che non si seppe spiegare. Effettivamente, se ci pensava, anche lei era cambiata molto, era diventata meno irrequieta e impulsiva, aveva calmato di molto le sue acque agitate. Thomas in questo si era dimostrato un’ottima palestra per fare esercizio sui suoi nervi sensibili.

Più ci pensava e più si convinceva che dopotutto era normale, era il processo inevitabile della crescita a condurre al cambiamento. Il tempo non può fermarsi solo perché lo desideriamo e le persone non possono rimanere le stesse in eterno. Non si ci può aspettare che accada.

Rimanere ancorati ai ricordi del passato per tutta la vita è una cosa così stupida! Non posso permettermi di rimanere indietro mentre lui va avanti così splendidamente, devo trovare la forza di proseguire per la mia strada senza esitazione, senza votarmi. Se non per me, devo almeno provarci per la bambina che porto in grembo. Carotina, perdonami se ho ceduto alla tentazione di guardarmi indietro ancora una volta. Non accadrà mai più. Quello è un passato che ho smesso di meritare tempo fa”. Con delicatezza si accarezzò il ventre rigonfio.

Gli applausi del pubblico catturarono l’attenzione di Marika ancora una volta. Sul quel monitor la performance musicale si era appena conclusa e Roberto sorrideva in primo piano. Sembrava felice. Quel pensiero rincuorò Marika. Per il momento di quel sorriso caldo, in Roberto le sembrò di aver rivisto il ragazzo che amava. “Ma chi voglio prendere in giro? Non sarà mai più come prima. Non possiamo tornare indietro a quel tempo. Io e lui siamo proprio come due lancette che guardano in direzioni diverse”.

Con aria malinconica Marika chiuse lo schermo del suo computer mettendo in sospensione il sistema. Con addosso il pigiamino di lana rosa con le pecorelle bianche che le aveva regalato suo padre, agguantò al volo un cappottino rosso come le lenzuola sul suo letto vuoto, e si preparò ad uscire. Ormai il frigo era deserto come il suo cuore e a lei era venuta voglia di colmare entrambi con qualcosa di commestibile. Chissà, almeno la cioccolata sarebbe riuscita a metterle su un po' di buon'umore. Imbacuccata alla meglio in modo da prevenire il gelido clima invernale di Londra, aprì la porta sicura di passare inossrvata a quell’ora. Erano le undici passate ed era altamente improbabile incontrare qualcuno aggirarsi per i corridoi, inoltre il Market era proprio lì vicino e non avrebbe fatto molta strada prima di arrivarci. Era davvero troppo depressa per trovare la forza di svestirsi e rivestirsi. Così si arrese alla sua depressiva pigrizia e uscì sicura che nessuno avrebbe fatto troppo caso al suo abbigliamento. Aperta la porta però si ritrovò, a pochi metri di distanza, una bellissima ragazza dai lunghi capelli rubino e dagli occhi azzurro cielo, con un corpo formoso raccolto in un tubino nero succinto. Ai piedi scarpe bianche con tacchi a spillo alti almeno 14 centimetri e sulle spalle una giacca di pelliccia bianca. Una volta notata Marika in pigiama con addosso il suo cappotto rosso, prese a osservarla con aria di disapprovazione. L’altra impallidì. Al confronto di quella ragazza più simile a una fata delle nevi che a una donna, lei sembrava un troll di montagna. Ormai rossa dalla vergogna provò a retrocedere di qualche passo, quando qualcuno emerse dalle spalle della giovane in pelliccia. Era Thomas, anche lui in un completo elegante di alta moda. Entrambi dovevano essere di ritorno da qualche festa snob. Marika gli sorrise in modo impacciato mentre lui si limitò a ricambiare il suo saluto sollevando il mento con sufficienza. Solo a quel punto, la Jessica Rabbit accanto a lui gli si avvicinò sussurandogli divertita qualcosa a un orecchio.

«Conosci per caso quella sottospecie di peluche vivente?» gli domandò esilarata, senza curarsi che Marika si trovasse a pochi passi da dove erano loro e che riuscisse perfettamente a sentire quello che si stavano dicendo.

«Figuriamoci, è solo una vicina di casa, nulla di più, adesso entriamo». Thomas aprì la porta del suo appartamento facendo segno alla ragazza di accomodarsi all'interno. Marika strinse i pugni con espressione risentita. "Solo una vicina di casa? Peluche vivente? come osano? Questi vogliono proprio essere presi a pugni!". Proprio mentre stava scattando nella loro direzione Marika fu colta da una fitta allucinante al basso ventre, tanto forte da farla piegare in avanti dal dolore. Thomas senza esitare le andò in contro preoccupato che potesse trattarsi ancora una volta della bambina. L'idea di dover tornare in ospedale non lo entusiasmava per niente, ma se Marika ne avesse avuto bisogno bisogno l'avrebbe portata lì senza esitazione. La ragazza sofisticata dentro l'appartamento, vedendo Thomas attardarsi tornò ad affacciarsi sul corridoio. Una volta sullo stesso, si sorprese di trovarvi il suo accompagnatore che soccorreva quella insolita ragazza in pigiama piegata in due per i dolori.

«Tutto bene?» le chiese lui preoccupato. Marika annuì soltanto con la testa mentre il ragazzo biondo in smoking cercava di sorreggerla. Prima che la stessa potesse rispondergli, Thomas le agguantò il viso tra le sue mani sollevandolo nella sua direzione. Voleva accertarsi che non gli stesse mentendo. Fu in quel momento che notò le guance di Marika gonfie come due mongolfiere. Thomas purtroppo comprese troppo tardi quello che da lì a poco sarebbe successo. Così prima che potesse evitarlo Marika gli rovesciò addosso tutto il cibo spazzatura ingerito in quella giornata. Thomas pietrificato rimase immobile mentre Marika le vomitava addosso l’inverosimile.

La rossa alle loro spalle si portò due dita al naso disgustata. Thomas impotente, fissava impietrito la ragazza bionda in quel cappotto rosso che gli aveva appena rovinato  l'abito nuovo di zecca che aveva messo quella sera per la prima ma anche ultima volta.

"Non può essere successo davvero. Perché proprio a me? Questa ragazzina vuole per caso morire?". Marika ansimando si tamponò la bocca con la manica del cappotto. Colpevole prese a fissare Thomas ormai al limite della sua pazienza.

«Mi dispiace... » avanzò in un sussurro mentre, con la coda tra le gambe, retrocedeva intimorita di qualche passo da lui.

Al suono di quelle parole gli occhi di Thomas si fecero di fuoco.

«Ti dispiace?? Questo è tutto quello che sai dire? Ti rendi conto di quanto vale questo completo? ».

Prima che Marika potesse replicare, la ragazza alle loro spalle intervenne intromettendosi nella loro discussione.

«Scusatemi, credo di dover proprio andare a questo punto... », asserì cercando di richiamarli con aria disgustata. Il ragazzo biondo, sporgendosi nella sua direzione tentò di trattenenrla. Non poteva mandare all'aria il lavoro di un'intera serata in quel modo.

«Aspetta, non puoi andartene così!».

«Mi dispiace, non credo sia il caso di rimanere oltre... », proseguì sicura la giovane squadrando entrambi prima di allontanandosi dai due muovendo i suoi fianchi formosi.

Thomas tornò con lo sguardo su Marika stretta nel suo cappottino.

«Immagino sarai soddisfatta! Per colpa tua la mia serata è andata completamente a rotoli!». Marika si portò una mano sul petto.

«Pensi davvero che lo abbia fatto con intenzione? Sei incredibile! Comunque, ben ti sta! Te la sei cercata».

Incrociò le braccia allo stomaco offesa.

«Ah.. adesso sarebbe anche colpa mia?!» la riprese Thomas, con gli occhi che gli uscivano quasi fuori dalle orbite.

«Ovvio! Perché le hai detto che sono solo una tua vicina?».

Thomas, corrucciò la fronte.

Perché mi fa questa domanda? Che sia gelosa?”, con aria soddisfatta le rispose gonfiando il suo petto arrogante.

«E cosa avrei dovuto dirle, sentiamo…».

«Magari che sono una tua dipendente, tanto per iniziare!».

«Si, certo, e che figura ci avrei fatto a presentare come mia dipendente una che si veste in un modo simile? Ti ricordo che sono il Direttore di una casa di moda prestigiosa io…», ribadì squadrandola da capo a piedi. Marika in imbarazzo cercò di nascondere quanto meglio poteva il pigiamino osceno che indossava con il suo soprabito. Ma per quanto provasse a nasconderlo, ormai l'ennesima figuraccia era stata fatta. Rassegnata sospirò allentando la presa su di esso.

«Beh, comunque sia, mi dispiace per il tuo abito. Il minimo che possa fare penso sia offrirmi di portarlo in lavanderia. Se vuoi puoi entrare e darti una sciacquata. Io nel frattempo darò una ripulita qui fuori e cercherò una lavanderia nelle vicinanze dal mio PC».

Thomas non se la sentì proprio di rifiutare quell'offerta così generosa da parte Marika così, senza esitare, acconsentì. Riconquistata la calma, entrambi entrarono nell'appartamento della ragazza. Era la prima volta che Thomas entrava nella casa di una donna, il più delle volte era lui a portare delle donne a casa sua.

«Il bagno è di là, nell'armadietto sotto il lavandino troverai degli asciugamani puliti. Lascia pure le robe sporche nella vasca, a quelle ci penserò io domani mattina» lo sollecitò Marika dopo avergli indicato una porta. Poi prese a trafugare in una specie di baule. Dopo non molto, uscì dallo stesso una maglia e un pantalone porgendoli al direttore della One Million.

«Questi dovrebbero andarti. Sono i prototipi che ho realizzato per il gruppo di Rio. Dovrebbero essere della tua misura». Thomas li prese dalle sue mani ispezionandoli con curiosità. Non erano nulla di che: un pantalone nero e una camicia bianca con il collo alla coreana.

«Certo che non hai perso tempo». Notò sorpreso l'altro.

«Beh, sempre meglio portarsi avanti con il lavoro. Non voglio far trovare gli altri in difficoltà ancora una volta per colpa mia. Durante la sfilata si sono ritrovati a fare anche il mio lavoro perché ero rimasta bloccata in ospedale e non voglio riaccada. Tutto qui». Adesso va! Lo sollecitò muovendo nell'aria la sua mano prima di chiudere il baule.

Che sciocca, si preoccupa sempre degli altri, quando invece dovrebbero essere gli altri a preoccuparsi per lei”.

Thomas teneva stretti tra le mani i vestiti che Marika gli aveva dato, con ammirazione prese a rimirarli. Doveva ammetterlo, quella ragazza aveva un profondo senso del dovere. Almeno questo doveva riconoscierglielo. Sorrise compiaciuto di indossare quegli abiti. In un certo senso sarebbe stato come guidare in anteprima una macchina che deve ancora uscire sul mercato, o ascoltare prima di tutti una canzone che deve ancora essere trasmessa per radio. Era strano, ma l'idea di essere il primo a indossare quei vesti gli mise su un inaspettato senso di ecitazione.

Marika notandolo fermo con le sue robe tra le mani, sospirò roteando gli occhi al cielo portandosi le mani ai fianchi esasperata.

«Si può sapere che ci fai ancora qui? Perché diavolo hai quella faccia compiaciuta? Sai che vederti sorridere in quel modo è quasi inquietante?»

Thomas ignorando le sue acide istigazione, avanzanò verso di lei serio. Marika impreparata a quell'avanzata retrocedette. Ad ogni passo in più che lui faceva nella sua direzione, ne seguiva uno di lei che si allontanava. Andarono avanti così finché Marika non finì contro la parete di fondo dell’ingresso.

"Cosa diavolo gli prende adesso?"

Vedendo il viso di Thomas farsi sempre più vicino al suo, Marika chiuse istintivamente gli occhi. Dopo un tempo indefinito li riaprì ritrovandosi il ragazzo biondo con il pizzetto a un palmo dal suo naso che le sorrideva beffardo.

«Non avrai creduto davvero che volessi baciarti! Non so se lo hai notato, ma hai un alito pestilenziale. Stavo proprio cercando di capire da dove provenisse questo terribile odore di topo morto. A quanto pare, a parte il sottoscritto, qualcun'altro qui dentro emana un terribile odore pestilenziale, dovresti andarti a sciacquare anche tu prima che tutta l’aria qui dentro venga contaminata!».

Marika si portò le mani alla bocca per trattenervi all’interno il suo alito pestilenziale. Era incredibile come quel ragazzo riuscisse a metterla sempre in imbarazzo. Senza rivolgergli la parola, lo superò entrando per prima nel bagno e chiudendosi la porta alle spalle rumorosamente. Thomas era finalmente solo. Con un grosso respiro si portò una mano al petto. Il cuore sembrava essergli arrivato in gola.

"Ma cosa mi è saltato in mente, stavo davvero per baciarla? ". Pensò rivolgendo il suo sguardo verso la porta del bagno. Scuotendo il capo allontanò quei pensieri nuovi e confusi dalla mente. Era veramente stanco, aveva passato l’intera serata a quel party noioso solo per poter parlare con quella modella. Era tra le più ricercate del momento, e doveva assolutamente rappresentare la One Million nel prossimo catalogo primaverile e invece adesso, grazie a quella combina guai, il suo piano era saltato. Strofinandosi il viso con una mano prese posto vicino a una scrivania. La casa di Marika era openspace e gli ambienti comunicavano tra loro. Alle sue spalle c'era un enorme letto matrimoniale e davanti a lui sulla scrivania un computer acceso. Senza pensarci troppo lo aprì facendo riprendere il sistema rimasto in sospesione. Sullo schermo si materializzò un sito, era quello della Kings Record e su di esso comparve un articolo. "Il debutto degli Hope: nuova aria di cambiamento per la Kings Record". Senza darci troppo peso iniziò a leggere l'articolo. Quello a colpirlo fu il nome di uno dei componenti. "Roberto… non è un nome italiano? Che strana coincidenza, anche tra di loro c'è un ragazzo straniero. Ora che ci penso questo sarà il gruppo di cui dovrà occuparsi Marika. Le aspetta un bel lavoraccio hanno fisici così diversi... Bah, poco importa... ". Con noncuranza Thomas abbassò la finestra di internet che tornò prontamente al suo posto sulla barra delle applicazioni in basso. Fu in quel momento che qualcosa di davvero inaspettato occupò la sua visuale. Sullo sfondo del suo PC Marika aveva una foto. Al centro c'era lei e alla sua sinistra il ragazzo dagli occhi a mandorla che Thomas aveva notato poco prima nella foto della conferenza stampa.

"E questo cosa significa? " prima che completasse quel pensiero sentì la porta del bagno aprirsi. D'istinto chiuse il PC rimettendolo dove lo aveva trovato.

"Ok, adesso che il mio alito è tornato fresco e pulito tocca a te darti una ripulita...". Senza sollevare obiezioni Thomas, con gli abiti che Marika gli aveva dato tra le mani, si incamminò verso il bagno. Nella sua mente l'immagine di quei due insieme era ancora saldamente impressa.

Tokyo

Rio era nel suo studio. Non aveva avuto molto tempo per riposare. Nonostante il volo fosse stato lungo e faticoso, era dovuto tornare quasi subito ai suoi doveri d’ufficio.

Sulla scrivania il telefono fisso suonò. Spinto un tasto Rio fece partire il vivavoce. Era una chiamata interna della reception.

«Direttore, qui c’è la signora Sasaki. Che faccio? Le dico di salire o la faccio accomodare nella sala d’attesa?» a quel nome Rio recuperò subito tutte le sue forze. Erano anni che non vedeva Misako. Senza esitare diede la sua risposta alla segretaria.

«Ma cosa dice! La faccia salire immediatamente».

Dopo una decina di minuti qualcuno bussò alla sua porta.

«Avanti!» Rio rimase in attesa che la porta si aprisse.

A quel punto la nuova ospite fece il suo ingresso.

Misako entrò nell’ufficio, indossava un tubino blu scuro lungo fino alle ginocchia e sul naso delle grossi lenti da sole scuse. Il viso era pallido e scarno, i capelli di un biondo platino chiarissimo, tendevano quasi al bianco.

«Ciao Rio, so che ti avrei dovuto avvisare prima, immagino avrai dovuto interrompere qualcosa di importante per colpa mia» esordì richiudendo la porta.

«Ma cosa dici!? Il tempo per gli amici un uomo d’affari dovrebbe sempre trovarlo». Senza esitazione l’uomo si sollevò dalla sua poltrona e raggiunse l’amica al centro della stanza.

«Sono anni che non ci vediamo», l’accolse con un abbraccio caloroso, Misako lo ricambiò con un sorriso tirato.

«Mi dispiace non essere venuta prima Rio…» proseguì ristabilendo le distanze tra loro.

Senza esitare l’uomo spronò l'altra a prendere posto insieme a lui, sul divano al lato dell’ingresso. Aveva intuito dal tono di voce della sua amica che qualcosa non andava.

«Misako, si può cosa succede? Aspettavo te e Hiro più di una settimana fa…».

«Rio, io… io…» da dietro le lenti scure di Misako, Rio vide scivolare fugaci due lacrime sporche di nero trucco. Le stesse caddero via dal suo volto con fin troppa rapidità, segnandolo indissolubilmente.

«Cosa sta succedendo?» gli domandò nel panico Rio. Misako era una donna forte, non avrebbe mai pianto davanti a lui in quel modo.

«Hiro…»

«Cosa centra Hiro adesso?» gli domandò preso dall’agitazione. Solo a quel punto la donna si sfilò le lenti scure. I suoi occhi erano scavati dal dolore.

«Rio… Hiro sta male… molto male. Pensavo di essere forte ma non credo di esserlo abbastanza per sopportare tutto questo da sola. Mi manca Jona… mi manca mio figlio… Ma Hiro è così orgoglioso… »

«Raccontami tutto» la spronò l’altro senza esitazione.

Finalmente per i ragazzi era arrivato il giorno di riposo. Dopo le varie conferenze, i servizi fotografici e le performance televisive era arrivato anche per loro il momento di rilassarsi.

Jona, Toshi, Take e Roberto erano seduti a tavola mentre consumavano in pieno relax la loro colazione mattutina. Erano ancora in pigiama, per quella mattina potevano prendersela con calma. Jona stava per alzarsi e riporre il suo piatto nel lavandino quando Kei e Shin sbucarono fuori dalla loro stanza vestiti e pronti per uscire.

«Ehi, dove ve ne andate?» chiese loro l’ex-biondo.

«A prenderci degli applausi, gli unici che contino davvero per noi», gli rispose Kei posizionandosi le lenti scure sugli occhi.

«Andate all’orfanotrofio?» si intromise Roberto, riponendo le bacchette sul tavolo.

«Si, è tanto che non torniamo a casa…» proseguì malinconico Shin.

«Beh, se l’interrogatorio è finito, noi andremmo. Forza Shin!» lo sollecitò Kei.

«Aspettate un attimo…» li trattenne Roberto, «vi dispiace se mi aggiungo a voi? Vorrei andare a trovare Clara. È tanto che non la vedo…». Shin senza esitare nemmeno per un secondo sorrise all’amico «certo che puoi venire con noi!», Roberto squadrò anche Kei in attesa anche del suo consenso. L’altro roteò gli occhi al cielo sospirando, «va bene, puoi venire…» asserì incrociando le braccia allo stomaco.

«Grazie! Allora vado a prepararmi» disse sollevandosi dalla sedia.

«E voi ragazzi, volete aggiungervi?» domandò loro Shin. Jona iniziò a lavare le ciotole nel lavandino. «Io ho un impegno stamattina, mi dispiace…», «E tu Take?» domandò il più piccolo al maggiore del gruppo, «vorrei venire ma stamattina ho prenotato la sala prove. Voglio cogliere l’occasione per esercitarmi un po' su qualche vecchia coreografia…», Shin dispiaciuto reclinò il capo.

«Se non sono di impiccio mi aggiungerei io» proseguì il leader Toshi.

«E perché mai vorresti venire con noi?» gli domandò con occhi sottili Kei.

«Beh, è che non mi va di rimanermene da solo qui in casa a non fare nulla», mentì. In realtà il motivo per cui voleva andare con loro era lo stesso di Roberto. Rivedere Clara. Voleva ringraziarla per le parole di conforto che le aveva rivolto qualche giorno prima.

I quattro erano pronti. Senza perdere tempo raggiunsero l’orfanotrofio.

«Siamo arrivati!» urlò Shin portandosi alla bocca le mani a paletta in modo da amplificare il volume della sua voce. Non ci volle molto che ad accogliere i quattro ragazzi si precipitassero una miriade di ragazzini festanti.

«Sono i fratelloni! Sono arrivati!» urlò uno di loro richiamando gli altri bambini ancora nella stanza.

«Ehi, calma. Così ci farete cadere!» cercò di calmarli Kei, mentre veniva letteralmente assalito da una decina di loro. Anche gli altri vennero sopraffatti da quella calda accoglienza.

«Ehi, ma da dove escono tutti questi bambini?» si meravigliò Toshi mentre cercava di staccarsene uno che si era letteralmente attaccato alla sua gamba.

«Ehi piccoletto, se mi stai cosi attaccato non riuscirò a camminare…» lo rimproverò cercando di allontanarselo di dosso.

«Colla! Finiscila!» subentrò una voce femminile dalla rampa delle scale davanti a loro.

Era Clara. Sentendo tutto quel caos si era precipitata al piano di sotto. Aveva un vestitino verde lungo fin sopra le ginocchia e un viso felice e raggiante. Toshi rimase lì impalato a osservarla scendere le scale. Era più bella del solito. Era come illuminata di una luce nuova.

Una volta raggiunto il gruppo si avvicinò a Toshi che continuava a fissarla a bocca spalancata. Prima che potesse farci caso, il bambino che gli stava attaccata alla gamba si allontanò da lui per cercare riparo tra le calde braccia materne di Clara.

«Colla, quante volte ti devo ripetere di non fare così quando viene gente» lo rimproverò amorevolmente. A quel punto tornò con lo sguardo verso i quattro componenti degli Hope.

«Quale buon vento vi porta da queste parti?», asserì con in braccio il bambino.

«Oggi è la nostra giornata libera e allora abbiamo deciso di venire qui» ammise Kei.

«Capisco…».

«Mammina che bello rivederti!» l’abbracciò Shin.

«Anche per me è un piacere rivederti Shin» disse ricambiando la stretta dell’altro.

Ehi, come si permette quel piccoletto!” senza esitare Toshi prese per il collo della maglietta Shin allontanandolo da Clara.

«Adesso finiscila Shin, più fai così e più sembri un bambino… lo sai?»

«E che male ci sarebbe! Essere bambini è meraviglioso!» lo riprese Roberto sorridendo a sua sorella che ricambiò felice il caldo sorriso di suo fratello.

«Wendy, Wendy! È l’ora della storia!» la richiamò una bambina con dei colpetti insistenti al suo vestito verde.

«Wendy?» le domandò interessato suo fratello.

«Si, per loro ormai sono Wendy di Peter Pan. Ogni giorno non faccio che raccontare loro storie e così hanno finito con il chiamarmi in questo modo. Che posso farci. Alla fine vincono sempre loro!» ammise sconfitta Clara.

«Andiamo!!! Andiamo! Così anche i fratelloni potranno sentirla!!» la sollecitò un’altra bambina prendendola per la mano libera.

Colla dalla sua si avvinghiò a lei con maggiore insistenza.

«Non voglio scendere, io voglio stare in braccio a Wendy». Clara sospirò. «Va bene Colla, resterai con me finché non finirò la storia, ma poi dovrai scendere e camminare con i tuoi piedi proprio come tutti i tuoi fratellini. OK?» Il bambino acconsentì stropicciandosi gli occhi lucidi.

«Bene, se volete seguirmi… » spronò anche gli altri quattro.

Detto questo l’intero gruppo raggiunse la sala comune, dove i bambini di solito giocavano.

Toshi, Roberto, Kei e Shin presero posto sul pavimento in mezzo agli altri bambini, mentre Clara si accomodò su una sedia a dondolo sistemata al centro della stanza. Poi posizionato Colla sulle sue ginocchia proseguì.

«Bene, che storia volete sentire oggi?» chiese ai bambini lì riuniti.

«La storia dei due re, la storia dei due re!» urlarono i bambini quasi all’unisono.

«E la storia dei due re sia!» detto questo tutti i bambini si misero in posizione d’ascolto. Anche i quattro membri degli Hope si fecero attenti.

Clara si schiarì la voce prima di iniziare.

«C’era una volta, in un paese molto lontano, due regni vicini sempre in lotta tra loro. Il primo era chiamato il Regno dell’EST e l’altro era il Regno dell'OVEST. Se nel primo di notte la gente dormiva e di giorno riprendeva le proprie attività, nell'altro avveniva l’opposto. Li la gente dormiva di giorno e lavorava di notte. Per questo nel primo regno tutti avevano un bel colorito dorato mentre nell’altro il corpo della gente risplendeva in un pallore etereo simile a quello del chiar di luna.

Nel primo giorno di Marzo di un freddo e arido anno, nacquero a entrambi i sovrani i loro primogeniti. Entrambi maschi ed entrambi in buona salute. I due regni videro quell'evento come di buon auspicio. Così scesero in piazza a festeggiare. Entrambi i re organizzarono delle feste nel proprio regno per celebrare la nuova nascita. Nessuno dei due sovrani poteva sospettare quanto però sarebbe successo durante quei festeggiamenti a corte. Al loro cospetto si presentò un'anziana signora in un mantello grigio color della cenere, che con una voce rauca predisse il futuro dei loro due figli.

Al re del Regno del Sole nascente, l'anziana veggente predisse un futuro carico di successi. Il giovane principe sarebbe cresciuto forte, bello e in salute con una vita costellata di vittorie grandiose forte e lucente come il Sole possente. Per questo come regalo la donna disse che lo avrebbe fatto guidare dal possente spirito delle ombre, che lo avrebbe aiutato qualora si fosse perso nelle tenebre, ma lo ammonì dicendogli di essere prudente. Se lo spirito delle ombre fosse riuscito a sopraffarlo allora la rabbia e il rancore avrebbero avuto la meglio distruggendo lui e tutto ciò che aveva costruito. Se questo fosse accaduto il principe non avrebbe avuto più scampo e sarebbe morto inghiottito dall’oblio.

Quando l’anziana giunse al castello del re del Regno del sole dormiente predisse anche a lui il futuro del giovane principe dicendogli che anche suo figlio sarebbe cresciuto bello e in buona salute, ma che, al contrario del principe dell'Est avrebbe avuto un carattere timido e introverso, poco pretenzioso e riservato come la Luna notturna, a causa del quale non si sarebbe mai permesso di desiderare qualcosa di più di ciò che non gli fosse spettato di diritto. Per questo, come suo regalo, lei lo avrebbe affidato allo spirito della luce, vivace e allegro che gli avrebbe dato forza e coraggio. Ma anche lui avrebbe dovuto prestare attenzione, perché se lo spirito avesse avuto il sopravvento su di lui, lo avrebbe condotto a una fine inevitabile condannandolo all’isolamento per il resto della vita.

Per finire, l’anziana signora annunciò a entrambi i regnanti che se non avessero preservato la pace tra i loro due regni la vita di entrambi i loro primogeniti sarebbe stata in pericolo.

Dopo quel giorno gli anni si susseguirono con rapidità. I due bambini crebbero, divenendo amici. Entrambi si incontravano ogni giorno al tramonto, quando il regno di uno trovava riparo tra le lenzuola e il regno dell'altro invece ne usciva per iniziare una nuova giornata.

Nel giorno del loro sedicesimo compleanno i due ragazzi si incontrarono, come sempre, vicino la grande quercia che separava i loro due regni. Ma li, raccolta nella lettura di un libro, videro una bellissima ragazza dai capelli rosso fuoco. Entrambi si innamorarono della giovane. Ma nessuno dei due sapeva che la giovane era la promessa sposa del Principe del EST.

Quella fu l’unica volta in cui il principe della notte desideri possedere qualcosa oltre ogni suo diritto. Contro i suoi sani principi decise di corteggiare la giovane. I due si innamorarono e decisero che un giorno si sarebbero sposati. Purtroppo il principe dell'Est non riuscì ad accettare di aver perso la sua sposa. Così, gonfio di rabbia, commissionò al migliore dei suoi cacciatori il compito di uccidere la giovane. Poi nella sua stanza convocò lo spirito delle ombre. Avrebbe avuto la sua vendetta. Animato dall’ira chiese allo spirito di punire il suo amico. In cambio avrebbe fatto tutto quello che lo spirito avrebbe voluto. Lo spirito accettò e lanciò una maledizione al principe dell'Ovest .

Il ragazzo fu condannato alla bruttezza per l'eternità, nessuno più avrebbe avuto il coraggio di amarlo.

La ragazza morì e così il giovane principe ebbe la sua rivincita una rivincita macchiata dal sangue. Ormai soprafatto dal potere delle ombre, sul regno calò una scura maledizione, la carestia si abbatté su di esso e la gente iniziò ad ammalarsi mentre il loro giovane sovrano aumentava la sua sete di potere portando avanti senza sosta guerre con i territori vicini.

Nell'regno dell'Ovest, in un’alta torre, il suo vecchi amico, il principe del Sole dormiente, trovò riparo per il resto della sua vita servito da cechi servitori per nascose agli occhi del mondo quale era stato il prezzo che aveva dovuto pagare per aver desiderato più di quanto avrebbe dovuto.»

Clara fece una pausa.

«Non può finire così… è troppo triste. Perché amare qualcuno dovrebbe portare tanta tristezza?» si intromise Shin.

«Beh, in effetti hai ragione… amare non porta solo tristezza, ma alle volte provare tristezza per un amore finito può guidarci verso una nuova felicità… » aggiunse Clara squadrando suo fratello.

«Si, il principe dell’Ovest non dovrebbe arrendersi e chiudersi in una torre. Dovrebbe reagire!» si intromise una bambina seduta proprio vicino a Roberto. Lo stesso continuava a squadrare sua sorella cercando di capire dove volesse andare a parare.

«Beh, allora dovrebbe trovare un modo per lottare dite?» chiese massaggiandosi il mento pensierosa.

«Ragazzi è pronto a tavola» li interruppe la cuoca dell’istituto. Senza che potesse rendersene conto era già arrivata l’ora di pranzo.

«Bene bambini, avete sentito? È pronto in tavola, continueremo dopo la nostra storia» concluse facendo scendere dalle sue ginocchia il piccolo Colla e avvicinandosi ai quattro ragazzi.

«Ragazzi, vi dispiace se parlo con mio fratello per qualche minuto? Vi raggiungeremo alla mensa appena avremo finito» nessuno smosse ciglio.

«Roberto, scusami, devo parlarti. Riguarda Marika». Disse la giovane quando furono completamente soli, «sai, ci ho pensato molto in questi giorni, anche a me manca ma penso dovresti superare la cosa. Ho ascoltato i testi delle tue canzoni e parlano quasi tutti di lei. Non puoi chiuderti in una torre per l’eternità solo perché ti senti colpevole di averla trascurata. È stata comunque lei a decidere di sparire dalla tua vita in quel modo. Devi andare avanti e fartene una ragione, lei non tornerà. Vederti in pena per lei non mi piace per niente». Roberto distolse il suo sguardo da quello di sua sorella. Quelle erano proprio le parole che non voleva sentirsi dire.

«Non è una cosa che possa decidere da me… semplicemente non posso dimenticarla… tutto qui!» disse superandola, ma Clara lo prese per un braccio, «Roberto perché non vuoi darti una possibilità con qualcun’altra?»

«Cosa?»

«Roby, non fare il finto tonto. Ho visto come ti guarda Nami. Non dirmi che non ti sei accorto che è innamorata persa di te…» .

«Non dire sciocchezze, lei è innamorata di Kei. Noi due siamo solo amici… ».

«Gli amici non si baciano…»

«E tu come fai a saperlo?» la riprese ad occhi spalancati.

«Ho visto come eravate distanti il giorno del suo compleanno e ho dedotto che qualcosa fosse successa tra di voi e se mi fai quella faccia, devo dedurre che sia andata proprio così!».

Roberto era stato messo con le spalle al muro da sua sorella.

«Clara, lasciami stare… » ribadì provando a svincolarsi dalla sua presa.

«Roberto come puoi chiedermi di lasciarti stare. Ti vedo soffrire e leggo la sofferenza nelle tue canzoni, come puoi chiedermi di rimanere zitta a guardare, sono pur sempre tua sorella maggiore!».

«Ti ho detto che questi non sono affari che ti riguardano!!!» le urlò contro divincolandosi dalla sua presa con decisione. Poi senza aggiungere altro uscì dall'orfanotrofio prendendo al volo il suo giubbino di pelle e sbattendo nervosamente la porta d’ingresso.

Quella ramanzina proprio non ci voleva. Roberto era per le strade nel suo chiodo di pelle nero sotto il quale indossava una felpa scura con cappuccio. Era così dura sentire quelle parole. Se non era con Marika che avrebbe condiviso la sua vita futura, come poteva essere con qualcun’altra. Più cercava  nella sua mente i ricordi del passato e più gli sembravano essere divenuti spenti e indefiniti. Si fermò fissando le sue mani vuote, lì dove aveva stretto ogni notte quel cappello blu che adesso aveva perso per sempre. Forse aveva ragione sua sorella. Doveva dimenticarsi di Marika e andare avanti. Per quanto ancora le sue canzoni avrebbero suonato alle orecchie di chi lo conosceva come un lamento straziante?

Non voleva che i suoi testi parlassero solo di un amore perso… Voleva parlassero anche di quell’amore che sboccia improvvisamente, proprio come il pallido sole invernale che sbuca fuori dalle nuvole opprimenti nei giorni uggiosi, facendoci sospirare felicemente. Quel tipo di amore che ti fa sentire rinato. Ecco di che voleva cantare.

Camminando a capo chino e mani nelle tasche anteriori dei jeans si recò al dormitorio.

Clara era rimasta ferma attonita a osservare la porta chiusa dell’orfanotrofio, la stessa da cui si era appena rifilato suo fratello minore. Una mano sulla sua spalla la fece trasalire. Si girò e trovò Toshi che le sorrideva.

«Non preoccuparti, gli passera» la rassicurò. Lei acconsentì.

«Andrà tutto bene. Adesso andiamo però . Di là il tuo piatto si sta facendo freddo», cercò di spronarla. Clara acconsentì. Toshi era l’unico capace di confortarla in quel modo.

Stavano per entrare nella sala mensa quando Clara puntò i piedi arrestandosi improvvisamente.

«Toshi, quasi dimenticavo la lettera!»

«Che lettera?»

«Ricordi la macchina da scrivere che mi hai regalato? All’interno c’era questa lettera», disse tirando fuori dal cassetto di un mobiletto lì vicino una busta ingiallita.

«E di chi sarebbe?» le chiese lui prendendola dalle mani della ragazza.

«Non so, era quello che volevo sapere da te. Ricordi da dove hai preso quella macchina da scrivere?» le domandò lei in ansia.

Toshi si strofinò il mento soppesando la cosa nei suoi ricordi.

«Era un negozio vicino le terme se non ricordo male. Perché?»

«Ti dispiacerebbe portarmi lì? Voglio risolvere questo mistero… questa lettera non mi ha fatto chiudere occhio per tutta la notte».

Io e lei, insieme per un intero pomeriggio… l’idea mi piace. L’ultima volta non ha preso sul serio quello che le ho detto. Magari questa volta riuscirò ad essere più convincente”.

«D’accordo, ma dovremmo andarci questo pomeriggio, non so quando mi ricapiterà un’altra giornata libera come questa». Ammise il ragazzo. Clara acconsentì senza esitare.

«Perfetto, dopo pranzo ci muoveremo» le comunicò prima di entrare nella sala mensa. Clara lo seguì con ritrovata felicità.

Rio era con Misako nel suo studio che si tamponava il viso bagnato di lacrime con il fazzoletto di stoffa che lui le aveva galantemente offerto.

«Misako, raccontami cosa sta succedendo».

La donna deglutì vistosamente prima di proseguire.

«Quasi dieci anni fa a Hiro hanno riscontrato un tumore al cervello. Ovviamente non dicemmo nulla a Jona per non allarmarlo, così, con la scusa del mio lavoro, Hiro ha portato avanti il ciclo di chemio lontano da Jona. È stato un periodo molto duro per entrambi. Conosci Hiro, preferirebbe rimanere da solo piuttosto che mostrare il suo lato debole agli altri. A causa delle chemio si era deperito e quasi non lo si riconosceva più. Abbiamo passato un periodo molto difficile soprattutto perché per evitare questa sofferenza a Jona abbiamo dovuto trascurare i momenti più importanti nella vita di un genitore. Ma ci ripetevamo che era per il suo bene e così siamo riusciti ad andare avanti. Dopo tre anni di chemio i medici ci avevano assicurato che il pericolo era scampato. Così Hiro si è gradualmente ripreso. Ma proprio cinque mesi fa i medici hanno riscontrato nell’ultima tac che il tumore è tornato e questa volta è più forte e distruttivo di prima. Dicono che perderà presto le funzioni motorie e che a poco a poco tutti i suoi ricordi sbiadirano,presto si dimenticherà anche di me, del gruppo e di Jona… ci dimenticherà tutti. Mi hanno detto di prepararmi al peggio, ma io non penso di farcela da sola. Hiro mi ha supplicato di non rivelare la cosa a nessuno, non vuole essere ricordato come un vegetale, soprattutto da suo figlio. Cosa dovrei fare? Devo davvero continuare a far credere a Jona che i suoi genitori sono troppo impegnati con le loro carriere per badare a lui, quando in realtà non è così? Devo davvero continuare a mentire per proteggerlo? Io non so più quale sia la cosa giusta da fare. Mi manca mio figlio e mi manca l’uomo che amo. Hiro è così cambiato. Ogni giorno quando lo guardo negli occhi lo vedo allontanarsi sempre più da me. Sto per crollare… non sono forte come lui io… non riesco a reggere la cosa da sola, non ce la faccio più» scoppiò portandosi le mani al viso. Rio la strinse tra le sue braccia.

Voleva prendersi una parte di quel dolore ma ovviamente non era possibile.

«Misako, non so quale sia la cosa giusta da fare. Da padre forse avrei preso la stessa decisione di Hiro, ma se ripenso al signor Marini e al fatto che ci abbia tenuto nascosta la sua malattia fino all’ultimo, non riesco a smettere di pensare che da figlio avrei preferito saperlo prima, in modo da non sprecare neanche un minuto del tempo prezioso a disposizione. Non sarebbe giusto rubare a Jona gli ultimi istanti con suo padre solo perché lui è cosi orgoglioso da non volergli mostrare la sua debolezza. Questo sarebbe troppo crudele… Adesso, però, tocca a te decidere se dirgli o meno la verità… se rispettare o meno la promessa che hai fatto a Hiro». La donna si staccò dalle braccia confortevoli dell’amico.

«Rio, non ho altra scelta. Sai dove si trova Jona? Ho bisogno di vederlo!».

Roberto era da poco ritornato al dormitorio.

Stava per aprire la porta del loro appartamento quando qualcuno alle sue spalle picchiettò sulla sua spalla sinistra richiamando la sua attenzione. Roberto si girò e vide Nami sorriderle in un cappottino blu notte e un vestito rosa antico.

«Sono tornata!» gli rivelò sorridente come al suo solito. Roberto sentì il peso nel suo petto alleggerirsi all’istante. Tutti i pensieri tristi riguardanti Marika scomparvero alla vista del suo sorriso. Vedere il viso raggiante di Nami, riusciva sempre a tranquillizzarlo.

«Com’è andata a Londra?» le chiese lui aprendo la porta e invitando l’altra ad entrare. Nami una volta entrata, si accomodò sul divano senza pensarci due volte.

«Benissimo! Mi sono divertita parecchio! Ho portato un pensierino per tutti voi! Ma dove sono finiti gli altri?» domandò a Roberto ispezionando con lo sguardo l’appartamento deserto.

«Jona è uscito, credo sia tornato a quel bar. Take è alla Kings Record che si esercita, mentre Shin, Toshi e Kei sono andati all’orfanotrofio».

«Come mai tu non sei con loro?» gli domandò a bruciapelo la ragazza.

«Ero con loro ma sono tornato prima» ammise prendendo posto sul divano accanto a lei.

«È successo qualcosa non è così?» le domandò l’altra facendosi più vicina.

«Beh, ho litigato con Clara. Non volevo farlo, ma diciamo che è successo. Dice che dovrei andare avanti e dimenticare Marika… »

Nami si irrigidì.

«Ah… davvero?»

«Non è colpa mia se non riesco a dimenticarla. Lei è stata molto importante… non posso rimuoverla come niente fosse dal mio cuore. Non ci riesco…».

«Capisco…» completò di rimando Nami.

«In più in questi giorni non faccio altro che torturarmi per aver perso quel cappello blu…».

Giusto il cappello!”, Si riprese Nami. Stava per prenderlo dalla sua borsa e darlo a Roberto quando quest’ultimo proseguì malinconico.

«Forse è un segno del destino che io lo abbia perso. Quello è stato il primo regalo che Marika mi ha fatto. Eravamo molto piccoli all'epoca. Forse alla fine dovrei davvero arrendermi…»

Nami, lasciò lentamente la presa su di esso, sfilando la mano via dalla sua borsa.

E così questo era un regalo di Marika. Che faccio? Cosa succederebbe se glielo ridassi? Forse non dovrei farlo ”.

«Comunque non credo tu sia venuta qui solo per ascoltare i miei deprimenti pensieri. Hai detto di avere dei regali per noi. Posso avere il mio prima degli altri?» le domandò Roberto mostrandole i palmi delle sue mani aperti.

Brava Nami, il tuo regalo doveva essere il cappello, e adesso cosa gli darai?”.

«Chiudi gli occhi» lo spronò lei.

Roberto fece come gli fu detto.

Nami, calmati devi trovare una soluzione…” stava meditando sulla situazione, quando voltandosi verso Roberto lo vide immobile con gli occhi serrati e le labbra carnose appena socchiuse aspettare qualcosa da lei.

Era così bello.

Nami non ci pensò due volte. Era rischioso, lo sapeva, ma la sua amica londinese le aveva detto di non arrendersi. Di rischiare anche se sarebbe stata rifiutata per una seconda volta.

Roberto aveva ancora gli occhi chiusi quando avvertì qualcosa di morbido toccare le sue labbra. Aprì gli occhi e vide Nami vicina al suo viso ancora una volta.

Questa volta però Roberto non mosse un muscolo. La sua mente gli gridava di allontanarsi, mentre il suo corpo lo supplicava di lasciarsi andare.

Nami si allontanò da Roberto riaprendo i suoi occhi. Il ragazzo era rimasto immobile, come uno stoccafisso. Nami iniziava a credere di aver sbagliato.

Ecco, lo sapevo. Era meglio che gli davo quel maledetto cappello!!”gli occhi le divennero lucidi. Alla fine anche quella volta Roberto la stava rifiutando, la sua immobilità e il suo silenzio attonito non facevano che suggerirle questo.

In imbarazzo, raccolse la sua borsa e si alzò, era quasi vicino la porta quando Roberto la fermò obbligandola a girarsi verso di lui. Preso il suo volto tra le mani, la baciò.

Nami non poteva crederci. Roberto la stava davvero baciando. Di sua iniziativa l'aveva fermata e baciata. La mano di Roberto si portò dritta dietro la nuca di lei mentre le sue labbra carnose cercavano bramose quelle di Nami. Il bacio era passionale e carico di ecitazione. Nami si lasciò guidare dalla sua presa senza porre resistenza.

Poi quel momento di intenso trasporto si concluse e lentamente Roberto recuperò la distanza dal suo viso.

«Mi sei mancata… » le disse infine poggiando la sua fronte a quella di lei e guardandola fisso negli occhi. Nami arrossì.

«Anche tu… ».

«Nami voglio essere sincero. Non ho dimenticato Marika e non so se riuscirò mai a farlo un giorno. Ma ho bisogno di te, come mai avrei pensato. So di essere egoista…»

«Non importa… sii egoista, fin tanto che posso starti vicina in questo modo, lo accetterò… ».

Roberto strinse a sé Nami. In quel preciso momento qualcuno bussò alla porta dell’appartamento. Roberto andò ad aprire.

Davanti agli occhi stupiti dei due giovani si ergeva la figura austera del direttore della Kings Record mentre a pochi passi da lui si trovava una donna bionda con delle spesse lenti scure sul viso.

«Roberto, c’è Jona?» chiese l'uomo al ragazzo davanti a sé. Roberto solo in quel momento riconobbe la donna alle spalle di Rio. Quella era Misako la madre di Jona.

 

Jona era appena arrivato al bar. Con un berretto sulla testa e i suoi soliti occhiali scuri sugli occhi, salutò l’uomo dietro il bancone che gli ammiccò complice.

«Salve, come vanno gli affari oggi?» esordì il più giovane prendendo posto vicino al bancone, lì dove era seduta anche Hana.

La giovane rimase immobile mentre rigirava la cannuccia nel suo the freddo.

«Potrebbero andare meglio». Ammise l’uomo riponendo l’ultimo bicchiere asciutto sullo scaffale.

«È da un po’ che non ti fai vedere biondino…» si inserì la ragazza con i capelli scuri e lisci portandosi la cannuccia alle labbra.

«Sai, a differenza tua ho una vita impegnata io…»

«Non pensavo che i figli di papà avessero un gran da fare a dire il vero. Non vi basta muovere una campanella in aria, per avere tutto quello che desiderate?» lo canzonò lei riprendendo a mescolare la bevanda torbida con la cannuccia.

Jona cercò di contenere la rabbia.

«Mi dispiace contraddirti, ma non ho alcun tipo di campanella tra le mie mani… e poi sono sicuro che se anche l’avessi, pur suonandola nessuno verrebbe mai da me». Hana mollò la presa sulla cannuccia voltandosi verso di lui sbigottita.

E questo tono malinconico da dove esce fuori?”

«Hana!!! Ma sei proprio tu! Da quanto tempo!» la ragazza riconobbe immediatamente quella voce stridula alle sue spalle. Era una sua vecchia compagna di scuola. Una tipa odiosa in verità. La classica bella senza cervello che quando andava a scuola non perdeva occasione per ridicolizzarla. Per un motivo o per l’altro era sempre al centro del suo mirino.

Maledizione! Non ci voleva proprio!”

Quella era l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare in quel momento. Tutti quelli della sua classe sapevano dell’incidente e della sua cecità. Dopo tanto tempo, aveva trovato finalmente qualcuno che non provasse pietà per lei e aveva paura che anche quel ragazzo scoprendo la verità su di lei cambiasse il suo atteggiamento.

Maledizione. Non voglio che per colpa di quest’oca anche lui scopra che sono ceca. Non sopporto la pietà della gente e non sopporterei neanche la sua.”

Facendo finta di nulla Hana si voltò verso l’amica. Dalla direzione della sua voce irritante intuì si trovasse alle sue spalle.

«Ciao Naoki, come va?» la salutò con un falso sorriso.

«Bene, ma chi è il giovane insieme a te?» le domandò famelica l’altra, in perfetto stile gattamorta. Jona calò il cappello sul suo viso. Essere riconosciuto in quel momento non era proprio il massimo.

«Ma chi? Questo biondino accanto a me?» le domandò Hana indicando Jona alla sua sinistra.

L’amica si concentrò su Jona.

«Biondino? Ma se è bruno!». A quelle parole Jona si irrigidì seduta stante, proprio come l’uomo dietro il bancone. Per evitare di metterla a disagio entrambi avevano evitato di farle notare che era tornato bruno, perché in quel caso avrebbe dovuto rivelarle di aver capito che era ceca. Hana impallidì.

Che significa che è bruno… per tutto questo tempo l’ho chiamato biondino e lui non mi ha ripreso nemmeno una volta… questo vuol dire che…”

«Scusami Naoki, ma devo andare adesso…» Hana scese dallo sgabello e senza aggiungere nulla si incamminò arrancando per tornare al suo appartamento. A causa della sua cecità le capitò spesso di scontrarsi contro qualche ignaro cliente del bar. Voleva solo andarsene via. Si sentiva una vera stupida.

JONA però le corse dietro afferrandola per un braccio in modo da bloccarla.

«Dove stai andando?»

Hana si divincolò infastidita.

«Lasciami andare…» lo supplicò con un tono di voce incrinato dal pianto e sopraffatto dalla rabbia.

«No che non ti lascio andare» la riprese l’altro.

A quel punto lei si voltò nella sua direzione, «dimmi la verità perché hai continuato a venire al locale?» le urlò infervorato, «sei tornato solo perché ti facevo pena. Non è così?».

«Ti sbagli, se sono tornato non è perché provavo pena per te ma per colpa delle tue parole. Avevi ragione quella sera. Quando ci siamo incontrati la prima volta ero il classico figlio di papà che non si era mai guadagnato nulla con le sue sole forze, e che usava il sesso consolatore per soffocare la mancanza di affetto. Ma adesso sono cambiato, non sono più quel tipo di ragazzo. Sono tornato per dimostrartelo...»

«E ci sei riuscito, mi ha appena dimostrato di non essere solo un arrogante figlio di papà che pensa di poter prendersi gioco della gente a sua piacimento ma anche un bugiardo senza coscienza. Tu non sei un ragazzo come tutti gli altri, tu sei il peggiore tra tutti. Sparisci, non voglio più vederti».

Jona senza esitare prese Hana e se la caricò sulle spalle.

«Ehi, brutto pazzo cosa ti salta in mente!!» gli urlò lei dimenandosi.

«Adesso vieni con me!» le ordinò senza in realtà lasciarle scelta. Con la ragazza sulle spalle si diresse fuori dal bar.

Hana era letteralmente nel pallone, da quando era diventata ceca non era mai uscita dal negozio, senza suo padre al seguito.

«Ti ho detto di lasciarmi!!!» Jona la ignorava continuando a camminare. Giunto a una ventina di metri si fermò rimettendola giù.

«Si può sapere cosa diavolo ti è saltato in mente? Sei forse impazzito». Affermò Hana urlandogli contro.

E adesso come torno indietro?” pensava in ansia.

«Cosa succede? Adesso che non sei più in quel bar non ti senti più tanto sicura di te?».

«Finiscila. Che ne sai tu di come mi sento io!»

«Hai ragione, non lo so e non ti giudico, ma anche tu non sai nulla di me e dovresti smetterla di giudicarmi basandoti solo su quello che sembra.»

Proprio mentre la ragazza stava per rimbeccare, qualcuno si avvicinò ai due ragazzi.

«Jona. Sei proprio tu?» quella voce era inequivocabile.

«Mamma…» si sorprese il ragazzo girandosi alle sue spalle.

«Oh Jona sei davvero tu!» esordì la donna bionda abbracciando suo figlio.

«Figlio mio quanto mi sei mancato!». Jona rimase impietrito ad accettare quell’abbraccio surreale.

Poi come risvegliandosi da un sogno ad occhi aperti allontanò di scatto sua madre.

La stessa lo osservò sbigottita.

«Figlio mio? Chi sarebbe il figlio di chi?». Hana non poteva credere alle sue orecchie. Cosa stava succedendo? Se solo avesse avuto la possibilità sarebbe andata via di li molto volentieri. Ma nelle sue condizioni muoversi era pericoloso. Così rimase lì immobile ad ascoltare Jona infuriarsi con qualcuno che da quanto aveva potuto intuire doveva essere sua madre.

«Jona, aspetta ti prego, fammi spiegare». Proseguì la donna.

«Vi definite genitori ma almeno sapete cosa significa esserlo?».

«Jona ti prego non fare così…» cercò di ammorbidirlo la donna.

«Basta! Finiscila! Non voglio sentire altro! Tu non hai la minima idea di ciò che ho passato in questo periodo. Non sai un bel nulla! Non sai cosa significa controllare ogni minuto il cellulare nella speranza che i tuoi genitori si degnino di chiamarti, perché magari, chissà, sentono la tua mancanza. Non sai cosa significa vedere gli altri circondati da persone che gli vogliono bene mentre tu sei solo come un cane. Tu non sai cosa significa tormentarsi di notte al pensiero di essere stato abbandonato proprio da quelle persone che non avrebbero ma è poi mai dovuto farlo. Ogni giorno mi sento di vivere da orfano pur avendo una famiglia alle spalle. Sai cosa significa questo? Sai quanto sono stato male per causa vostra? Fare i genitori non vuol dire ricordarsi di esserlo solo quando si vuole. Essere genitori significa esserci sempre in un modo o nell'altro per i propri figli. Non è qualcosa che si fa a piacimento o a convenienza. Prima di concepirmi avreste dovuto pensarci. Forse per voi sarebbe stato meglio se non fossi mai venuto al mondo».

La donna senza controllarsi schiaffeggiò Jona nel bel mezzo della strada. Il colpo fu così forte che gli occhiali scuri di lui caddero dritti sul marciapiede.

Hana dopo il tonfo netto di quello schiaffo, avvertì il rumore di qualcosa che cadeva al suolo. Disorientata arretrò di qualche passo. Odiava trovarsi in quella situazione e non poter capire cosa stesse succedendo. Dall’altra parte Jona non mostrò cenni di debolezza ma come nulla fosse successo raccolse gli occhiali con i vetri scheggiati dal marciapiede e se li rimise sul naso.

«Bene, adesso che mi hai visto puoi anche andartene, la tua coscienza è tornata più leggera adesso immagino. Dopotutto questa è la cosa che vi riesce meglio. Intendo sparire. Non preoccuparti, me la caverò benissimo anche senza di voi.» Detto questo Jona, prese per mano Hana trascinando entrambi via da lì.

Mentre si allontanavano Jona, non si trattenne ma pianse, pianse così tanto che le lenti sul suo naso si appannarono. Dopo una trentina di metri si arrestò.

«Indicami un posto, uno in cui andresti se ti sentisti cosi triste da non volere più far parte di questo mondo. Un posto in cui possa nascondermi e piangere senza queste odiose lenti sul viso». Hana ci pensò per un po’.

«Prendiamo il pullman numero 612. Scendiamo alla settima fermata. Da li ti guiderò io.»

Jona non fece domande, ma si limitò ad aspettare sotto quella capannina l’arrivo di quel bus in compagnia di quella ragazza che aveva appena conosciuto quel lato che Jona odiava di più se stesso e che con tenacia aveva tenuto segreto, per anni, al resto del mondo.

Thomas era nel bagno che rimirava la sua immagine riflessa allo specchio. “Vecchio mio, cosa ti sta succedendo? Perché non riesci a pensare ad altro?” abbottonandosi la camicia rifletteva su quella foto.

E se fosse lui il padre della bambina? No, ma cosa mi metto a pensare? Magari sono amici e questa è solo una strana e buffa coincidenza. Sicuramente sarà così”. Con convinzione Thomas, ripulito da quello sgradevole odore di vomito, uscì dal bagno. Una volta fuori notò Marika addormentata sulle rosse lenzuola di quel letto matrimoniale vuoto per metà. Con cautela le si avvicinò. Facendo attenzione a non ridestarla gli si sedette vicino. Con un movimento misurato della mano le scostò un ciuffo di capelli dorati dal viso.

Perché ai miei occhi sembri così bella? Perché stai iniziando a piacermi in questo modo? Perché?” .

Marika infastidita da quello spostamento improvviso dei suoi capelli, mugugnò presa dal delirio del sonno.

«Mmh… perché non mi dimentichi? Voglio dimenticarti anche io… Ro… be…rto…» a quel nome Thomas si irrigidì.

Che sia proprio quel ragazzo?”

«Io… ti… amo…». dopo quelle tre parole dagli occhi di Marika scesero due lacrime. Thomas non poteva e non voleva credere ai suoi occhi. Era la prima volta che la vedeva piangere e l’idea che stesse piangendo per colpa di quel ragazza gli mise su una rabbia incontenibile.

Allora è lui il padre della bambina. Non ci sono altre spiegazioni. È solo uno stronzo vigliacco. Come ha potuto abbandonarla in questo modo? E solo per raggiungere il successo poi… non merita queste lacrime”.

In quel momento in Thomas riaffiorarono sentimenti di un passato che aveva già vissuto. In Marika vide qualcosa di sua madre, qualcosa di quel doloroso passato che aveva fatto fatica a digerire.

Non può accadere anche a lei… non posso permettere che anche lei soffra in quel modo. Non posso e non voglio permetterlo”.

Anche suo padre come Roberto aveva messo da parte sua madre per mantenere alta la sua reputazione, e stando a come sembravano i fatti anche quel ragazzo mezzo italiano doveva aver fatto la stessa cosa.

Non preoccuparti, ci sono io…” pensò accarezzandole il viso.

Quelle parole erano le stesse che aveva ripetuto a sua madre ogni santo giorno fino alla fine. Fino a quando il corpo di lei non si arrese alla malattia. No, non avrebbe perso anche con Marika. Il suo orgoglio non poteva permetterlo una seconda volta.

Con dolcezza asciugò il viso della ragazza con i capelli dorati. Poi lentamente le si avvicinò.

La ragazza in quel momento avvertì qualcosa di morbido poggiarsi sulle sue labbra. Per pochi secondi le sembrò di essere ancora immersa nei suoi sogni, o almeno lo pensò finché i suoi occhi non si aprirono del tutto. Solo in quel momento capì quanto reale e assurda fosse quella situazione. Thomas era su di lei e la stava baciando. Una parte della ragazza che era stata avrebbe voluto scaraventarlo lontano, ma l’altra, la Marika nuova, ebbe la meglio su di lei costringendola a rimanere immobile.

Quando Thomas si distanziò da lei, Marika aveva già gli occhi spalancati per l’incredulità.

Lui si limitò a sorriderle prima di alzarsi dal letto, ma questa volta non le rivolse uno di quei soliti sorrisi arroganti. Quello che riempì il suo viso era un sorriso dolce e amorevole. Lo stesso sorriso che una madre rivolgerebbe ai suoi figli dopo aver rimboccato loro le coperte prima di dare la buonanotte.

Marika si sollevò di scatto.

«Co.. cosa significa?» gli chiese tamponandosi le labbra. Thomas si girò verso di lei.

«Secondo te cosa significa?»

«Perché ti prendi gioco di me in questo modo? È davvero così divertente farlo?» le chiese lei reclinando gli occhi in imbarazzo.

Thomas tornò a sedersi vicino a lei sul letto. Prese tra le sue mani quelle di Marika.

«Non mi sto prendendo gioco di te…» le rivelò con occhi che a Marika parvero fin troppo sinceri. Quella sincerità la spaventò più della sua solita freddezza.

«Tu mi piaci, non so come, non so quando ma ai iniziato a piacermi e adesso è troppo tardi ormai. Devi prendertene la responsabilità!»

«Tu sei fuori di testa!Pensi davvero di convincermi dicendo queste cose? Sono sicura che avrai detto queste stesse parole anche a quella modella! Non vorrai farmi credere che è davvero così limitato il tuo repertorio quando si tratta di rimorchiare le ragazze…».

Thomas corrucciò infastidito le sue sopracciglia.

«Marika… finiscila adesso!». La ragazza stupita dal tono furioso di Thomas abbandonò il suo scetticismo incominciando a preoccuparsi che lui le stesse dicendo la verità.

«Non sai cosa stai dicendo. Io non sono una ragazza che tu possa gestire. Sono problematica. Sarebbe meglio chiudere l’argomento e fare finta che non sia successo nulla…»

«È perché sei incinta?» Marika sbiancò.

E lui come lo sa?”

«Non fare quella faccia stupita, chiunque con un po’ di sale in zucca lo avrebbe capito. Non fai che mangiare come un maiale e correre in bagno a vomitare, poi quel giorno nella limousine immagino fossero delle ecografie quelle che hai cercato di nascondermi. Dico bene?».

Marika strinse i pugni.

«E se anche fosse, cosa hai intenzione di fare? Mi licenzierai e dirai tutto a mia madre?

«Marika smettila! Non ho mai detto di volerlo fare. Ti sto chiedendo solo di lasciarmi stare al tuo fianco, permettimi di aiutarti. Voglio prendermi cura di te. Non mi interessa di sapere chi sia il padre, non importa, voglio solo che tu sia felice, e voglio essere io l’uomo a renderti tale. Il resto per me non ha importanza!».

Marika scese dal letto recuperando le distanze da Thomas, non riusciva a guardarlo negli occhi si sentiva nuda e vulnerabile. Quelle parole le sembrarono così belle. Non poteva credere che qualcuno gliele stesse dicendo. Soprattutto che gliele stesse dicendo quell'antipatico pallone gonfiato. Scosse il capo per riprendersi dai suoi sogni ad occhi aperti.

Marika finiscila! Non hai voluto rovinare la vita di Roberto per via di Carotina e adesso pensi invece di avere il diritto di rovinare quella di Thomas? E questo solo per alleviare il tuo senso di solitudine? Non essere così egoista!”

«Tu non sai cosa stai dicendo! Come può non importarti una cosa simile?» gli urlò contro lei.

Thomas la raggiunse e prendendola per le spalle la costrinse a voltarsi nella sua direzione.

«Dimmi, allora, come pensi di fare? Tra pochi mesi la tua pancia crescerà come pensi di riuscire a nasconderlo a tua madre? Sai che prima o poi verrà qui a farti visita!».

Marika reclinò il capo sconfitta. Thomas aveva ragione. Come avrebbe potuto nasconderlo a quel punto?

«Marika lascia che me ne prenda io la responsabilità… ».

La ragazza sollevò i suoi occhi verdi verso Thomas.

«Non posso lasciartelo fare… non sarebbe giusto… »

«Parli così perché lo ami ancora»

Marika trattenne le lacrime. Ancora una volta aveva ragione. Lei lo amava e l’idea di usare i sentimenti di Thomas in quel modo non le piaceva per niente.

«Si…»

«Se riesco a farti innamorare di me, me lo lascerai fare?» gli chiese lui.

«Io… veramente… »

«Concedimi almeno questa possibilità e se entro un mese non riuscirò a farti innamorare di me allora rinuncerò… e ti lascerò in pace…».

Marika tacque.

«Ti supplico…» la scongiurò lui. Marika tornò sugli occhi azzurri di lui e a quel punto non seppe trovare altri motivi per dirgli ancora di no.

«Va bene. Prova a farmi innamorare di te… ma non sarà facile come credi…»

Thomas esplose in un enorme sorriso e prendendo Marika alla sprovvista la strinse tra le sue braccia. Poi abbassando il suo viso provò a baciarla ancora una volta. Ma lei lo fermò poggiando sulle labbra di lui la sua mano destra.

«Mi dispiace ma i baci in questo periodo di prova sono soppressi…». Thomas roteò gli occhi al cielo, «e va bene… ma non sai cosa ti stai perdendo…». Marika con un movimento deciso a quel punto lo allontanò da sé.

«Guarda, non ne dubito» lo riprese con ironico scetticismo.

Thomas le sorrise.

Non posso perdere contro un fantasma. Vedrai, alla fine riuscirò a renderti mia…”

Clara e Thomas in sella alla moto nera di lui, erano finalmente giunti a quel negozio di antiquariato. Dopo aver riposto i loro caschi scuri nello scomparto sotto il sedile si diressero al negozio. Quando aprirono la porta una campanella sulle loro teste annunciò il loro ingresso alla proprietaria: una anziana donna dai tratti profondi e scavati dal tempo.

«Salve. Posso esservi d’aiuto» accolse i due ragazzi.

Poi squadrandoli meglio riconobbe Toshi.

«Di te mi ricordo, come è andato il regalo per la tua ragazza?»Toshi si fece paonazzo, mentre Clara sbigottita prese a fissarlo sorpresa.

«Chi sarebbe la tua ragazza?» gli chiese in un sussurro.

«Non fraintendere ha fatto tutto lei. Io non ho mai detto che quel regalo fosse per la mia ragazza…»precisò messo in imbarazzo.

Clara sospirò, tornando a concentrarsi sul suo obiettivo: scoprire cosa era successo ai protagonisti di quella lettera.

«In verità siamo venuti proprio per quel regalo», ammise tirando fuori dalla tasca quella lettera ingiallita. «All’interno abbiamo trovato questa busta. Dentro c’era una lettera… speravamo potesse dirci qualcosa al riguardo». La donna incupì i suoi occhi già stanchi e spenti.

Senza neanche degnarla di uno sguardo si accomodò su una sedia. Sembrava aver riconosciuto immediatamente quella lettera ingiallita.

«Speravo che una volta data via quella macchina da scrivere, quella storia non sarebbe più tornata a tormentarmi. Ma, a quanto pare, non è così.»

Toshi e Clara si avvicinarono alla donna ormai seduta con la testa china verso il pavimento.

«È lei la geisha di quella lettera?» le domandò Clara.

«Sedetevi. La storia sarà un po’ lunga» li invitò la donna indicando altri due sgabelli davanti a lei. Toshi e Clara presero posto su di essi. Solo a quel punto la donna proseguì.

«Si, quella geisha ero io. Ormai ho perso la cognizione del tempo. Sono passati molti anni da quando essere una geisha era considerato misterioso e affascinante. Era un’arte che adesso i giovani non apprezzerebbero. Ma voi cosa volete sapere?» chiese la donna ai due ragazzi.

«Cosa è successo tra lei e l’uomo che le ha scritto questa lettera? Dalle sue parole sembrava essere molto innamorato di lei!» asserì Clara con eccitazione.

«Sai ragazzina, mi ricordi proprio lui. Anche il mio Jonathan era un ragazzo molto curioso. Sai, prima che la guerra iniziasse era un giornalista affermato nel suo paese. Poi fu arruolato e venne qui come reporter di guerra. Quando la guerra si concluse e noi geishe tornammo a rendere spensierate le vite degli uomini, lui tornò da me più volte con la scusa di scoprire di più sulla vita di noi artiste itineranti. Non lo nego, mi innamorai da subito del suo entusiasmo e della sua curiosità. Diventammo amici. La sera prima che partisse mi lasciò quella macchina da scrivere e quella lettera davanti all’okiya in cui vivevo. In quel momento compresi troppo chiaramente quali fossero i miei sentimenti per lui, e decisi che l’indomani mattina lo avrei raggiunto per confessargli quello che provavo e scappare con lui. Ma a una geisha non è permesso innamorarsi. La mia “oka-san” lo scoprì e per impedirmi di raggiungerlo organizzò proprio per la mattina seguente un impegno che non mi avrebbe più permesso di arrivare da lui e che avrebbe rovinato la mia vita da geisha per sempre.» Sollevandosi di poco il vestito, mostrò ai due giovani un tutore alla gamba sinistra.

«Vorrei evitare di raccontarvi cosa accadde a quell’incontro. L’unica cosa che posso assicurarvi è che provai a scappare ma quell’uomo era più forte di quanto lo fossi io all’epoca. Cosi, alla fine, non riuscii a raggiungerlo. Quella vita che avevo scelto di vivere non mi aveva concesso l’enorme privilegio di amare. Un privilegio che gente come me non ha il diritto nemmeno di cercare nei propri sogni».

Clara si rattristò, avrebbe desiderato scoprire che dietro quella storia ci fosse un lieto fine. Ma a quanto pare non era così. La realtà era una cosa diversa rispetto alle favole che raccontava ai bambini dell’orfanotrofio.

«Ma Jonathan non è più tornato da lei?» le domandò nella speranza che almeno in quel modo il loro amore potesse avere avuto un riscatto.

«Mi piacerebbe poterti dire che lui è tornato da me e che abbiamo trascorso insieme una vita piena d’amore ma purtroppo non è stato così. Non lo ho più rivisto». Clara reclinò il capo amareggiata.

«Ci spiace tanto.» ammise con sincerità.

La donna le sorrise poggiando la sua mano grinzosa su quella liscia e vellutata dell’altra.

«Non dispiacerti, cara. Questa è la vita, non sempre ti concede quello che desideri».

Toshi diede un’occhiata al suo orologio.

«Adesso dovremmo andare» cercò di richiamare Clara.

«Ho capito. Adesso andiamo» lo assecondò comprensiva.

«Ci dispiace averla afflitta con queste domande. Spero di non averle arrecato troppo disturbo».

«No, ma quale disturbo. Piuttosto quando volete, passate anche a trovarmi. Mi fa piacere vedere coppie felici che si amano».

«No, veramente.. noi…»

«Verremo a trovarla un giorno di questi, non si preoccupi. Adesso andiamo, si sta facendo buio». La interruppe Toshi. Clara decise che non avrebbe ribattuto e lo anticipò fuori da quel locale.

Toshi stava per uscire anche lui quando l’anziana signora lo trattenne con le sue parole.

«A quanto pare lei non sa che l’ami». Toshi si voltò verso di lei.

«Ragazzo non compiere il mio stesso errore, non lasciarla andar via senza che lei conosca i tuoi sentimenti. Perché a quel punto potrebbe essere troppo tardi».

Toshi reclinò il capo rispettosamente.

Quella donna aveva ragione. Presto Clara sarebbe tornata in Italia e lui non poteva correre il rischio di vederla andar via senza averla prima messa al corrente dei suoi sentimenti.

Jona seduto sulla sedia rigida all’interno di quell’autobus pieno solo per metà rimirava assente il panorama che mutava attraverso quelle vetrate impolverate.

«La prossima dovrebbe essere la nostra fermata», gli fece notare la ragazza bruna al suo fianco.

Jona si sollevò passandole davanti e disponendosi già per scendere. Quando l’autobus frenò e aprì le porte i due ragazzi scesero mano nella mano in quel modo Jona aiutò Hana ad evitare che potesse cadere. Una volta scesi la ragazza analizzò l’aria circostante come un cane da tartufo.

Poi finalmente colse qualcosa provenire alla sua sinistra.

«Signora, grazie. Venga pure a servirsi da noi la prossima volta», disse un giovane fruttivendolo congedando una sua anziana cliente.

«Portami da quel ragazzo» disse con fermezza a Jona. Lui senza pensarci le porse il suo braccio e Hana vi si avvinghiò.

Così uniti si avvicinarono a quella bancarella.

Una volta che furono arrivati il ragazzo in grembiule verde strizzò un paio di volte gli occhi incredulo.

«Hana, sei veramente tu?»

La ragazza gli sorrise, come Jona non le aveva mai visto fare prima.

«Ehi Vichingo, come va? Hai ancora quella cosa che ti diedi tanto tempo fa?».

Il ragazzo acconsentì sollevato, «ovvio, sapevo che saresti tornata prima o poi… » senza aggiungere altro corse all’interno del negozio.

«Si può sapere cosa ci facciamo da un fruttivendolo?», Hana ritirò il suo sorriso tornando seria.

«Hai detto di voler stare in un posto tranquillo ebbene ti sto concedendo in prestito il mio. Ma è solo per oggi, non farti strane idee», gli spiegò mantenendosi sul vago. Il giovane fruttivendolo che non doveva avere più di una ventina d’anni tornò dai due ragazzi con un mazzo di chiavi tra le mani.

«Ecco, le tue chiavi…» disse porgendole ad Hana. La ragazza con una gomitata fece capire a Jona di prenderle per lei.

«Grazie. Vichingo, posso chiederti un altro favore?» il ragazzo acconsentì.

«Certo dimmi pure» la spronò.

«Ti dispiace farci strada… il mio amico non conosce il luogo e io… beh, sai… non saprei come guidarlo… è un anno che manco e non so se le cose qui sono cambiate o meno…» il ragazzo si slacciò il grembiule richiamando un altro uomo più anziano e robusto di lui che si trovava dentro il negozio.

«Papà stacco un attimo. Torno subito!» disse facendo segno a Jona di seguirlo. I tre si inserirono in un vicolo piccolo e scarsamente illuminato.

«Come sta tuo padre?» chiese il fruttivendolo alla ragazza.

«Bene, tira avanti, e come puoi immaginare con una figlia ceca al carico non è una cosa che gli riesca molto bene…» ammise Hana.

«Capisco. Lui chi sarebbe» chiese riferendosi a Jona.

«Un mio amico…» concluse sintetica.

Jona la squadrò sorpreso e così fece d’istinto anche il fruttivendolo.

«Che delusione, adesso non potrò più vantarmi di essere io il tuo unico amico…» scherzò fermandosi davanti a una scalinata. Come lui anche Jona e di conseguenza pure Hana si arrestarono.

«Io sono il Vichingo non pensare male è un soprannome che ormai è diventato più indicativo del mio vero nome. Tutti qui mi conoscono così e devo ringraziare questa ragazzina» ammise presentandosi a Jona.

«Io sono Jona, piacere» gli strinse la sua mano l’ex-biondo.

«Devi perdonare questa ragazzina, anche se sembra un po’ rude all’inizio la verità è che è solo un’eterna romantica.»

Hana mollò un buffetto nell’aria sperando di colpirlo e così fu.

«Non dire sciocchezze! Piuttosto facci strada».

«In realtà siamo già arrivati. Jona esci le chiavi » e gli passò le chiavi del locale che si trovava alla fine di quella scalinata. «Quando arrivi su fai attenzione, la serratura è un po’ vecchia e alle volte da qualche problema. È un po’ che non viene aperta. Se non sbaglio con oggi è trascorso quasi un anno preciso dall'ultima volta. Bene, adesso torno al negozio. Se avrete bisogno non fatevi problemi e venitemi a chiamare» detto questo indicò a Jona quale fosse la chiave della statua e salutati i due ragazzi scompigliando i capelli neri di Hana li superarò tornando al suo lavoro.

Jona con Hana avvinghiata al suo braccio salì i gradini uno alla volta, senza fretta, aspettando che Hana lo raggiungesse ad ogni alzata che superava. Una volta raggiunta la porta inserì la chiave e dopo non pochi sforzi fece scattare la serratura. La porta subito dopo si aprì e i due ragazzi entrarono all’interno.

Quello in cui si trovarono era un monolocale buio e macabro, sparsi sul pavimento c’erano fogli e pezzi di cartoni. Jona cercò un interruttore ma non ne trovò.

«È inutile che cerchi gli interruttori. Qui c’era una camera oscura un tempo… », gli rivelò la ragazza percorrendo il corridoio tenendo come punto di riferimento la parete alla sua destra. Con la sua mano ne sfiorava la superficie ruvida, avanzando con sicurezza in quello spazio scuro e invaso di ragnatele. Jona pensò che Hana dovesse conoscere molto bene quel posto per muoversi con così tanta disinvoltura, neanche nel bar si aggirava con così tanta sicurezza. Dopo una ventina di passi si arrestò.

«Da queste parti dovrebbe trovarsi una piccola torcia» disse indicando a Jona lo spazio circostante. Il ragazzo prontamente iniziò a cercare. I suoi occhi si erano abituati all’oscurità con molta più facilità di quanto avesse pensato, così divenne più facile per lui distinguere al buio i componenti d’arredo. Proprio mentre cercava su una libreria notò qualcosa simile a una torcia. L’agguantò e provò ad accenderla. Per sua fortuna le pile all’interno erano ancora cariche.

«Trovata» comunicò ad Hana iniziando a ispezionare lo spazio circostante. Appese su fili improvvisati erano attaccate con delle mollette delle fotografie. Stava per agguantarne una quando Hana lo richiamò prontamente.

«Non toccare nulla…» gli disse come intuendo i suoi gesti dietro quelle spesse lenti scure. Jona senza ribattere, fece come le fu detto.

«Andiamo avanti. Dovrebbero esserci un paio di poltrone da qualche parte qui intorno» gli rivelò avanzando muovendo le mani nel vuoto.

Se fa così si farà male”. Prontamente Jona ne afferrò una stringendola nella sua.

«Ehi!» lo riprese sorpresa la ragazza.

«Potresti farti male» senza obiettare Hana continuò a muoversi in quello spazio. Prima che potesse accorgersene Hana inciampò in qualcosa. Non seppe nemmeno lei come, ma si ritrovò stesa su qualcosa di morbido e caldo.

Quello in cui era inciampata era proprio una delle due poltrone, ma per evitare che si potesse far male Jona l’aveva tirata a sé perdendo l’equilibrio e ritrovandosi sul pavimento impolverato con la ragazza stesa su di lui.

Il viso di Hana era a pochi centimetri da quello di Jona, che in silenzio ne avvertiva il caldo fiato solleticargli il viso.

Tutto il suo corpo si contrasse. Era rigido come uno stoccafisso. I seni della ragazza erano morbidi e invitanti adagiati sul suo petto.

Poi quelle labbra rosse erano così tentatrici.

Cosa ti prende? Contieniti!”

«Cosa è successo?» chiese Hana provando a sollevarsi.

Jona l’aiutò facendola rotolare di lato. Entrambi erano seduti sul pavimento.

«Scusa è tutta colpa mia. Eri inciampata su una poltrona e per evitare che ti facessi male ti ho tirata verso di me ma alla fine sei caduta comunque. Sono proprio un disastro, non ne faccio nemmeno una buona… Anzi ora che ci penso, mi dispiace per prima. Forse sarebbe stato meglio non farti assistere a quel litigio con mia madre…» Hana, avvertita una parete dietro la sua schiena vi si adagiò portandosi le ginocchia al petto.

«Non preoccuparti. E poi non sei un disastro… anche se siamo caduti mi hai protetto comunque. Dopotutto non credo che un ragazzo viziato al posto tuo lo avrebbe fatto…»

«Non posso crederci! Hai appena insinuato che non sono un ragazzino viziato, o sbaglio ?» notò divertito Jona raggiungendola vicino alla parete.

«Beh, diciamo che sto prendendo in considerazione l’ipotesi che tu non lo sia» ammise Hana sorridendogli.

«Grazie per avermi portato qui… Mi piace questo posto… già stando qui mi sento molto meglio».

Hana a quel punto poggiò il mento sulle ginocchia «questo era il mio studio. Non ci ho mai portato nessuno. Tu sei il primo» gli confessò.

Jona recuperò la torcia dal pavimento ispezionando l’ambiente con maggiore curiosità. «Quindi ti piaceva la fotografia…» constatò con ammirazione notando le foto appese alle pareti.

«Piaceva, eh si certo… come potresti capire. Dici che mi piaceva la fotografia, ma a me non piaceva soltanto, la fotografia era la mia vita. In ogni foto c’è un po’ di me. La fotografia era la cornice che rendeva speciale la mia vita fino al giorno dell'incidente.Oh beh, spiegartelo a parole sarebbe troppo difficile e alla fine non saprei neanche se riuscirei a rendere bene l’idea».

Jona si sollevò dal pavimento. Con maggiore interesse prese a ispezionare le foto lì appese. Erano pressa più paesaggi, vicoli di città abbandonati e tramonti.

«Ti deve piacere molto la natura… ma non vedo foto di ritratti… non ti piace farli?»

«No, sono le persone a non piacermi» confessò lei senza riserve.

«Perché non ti piace la gente?» le domandò Jona continuando a guardarsi in giro.

«Le persone feriscono, le persone cambiano, le persone sono crudeli e insensibili. A differenza della natura anche se tu le ami alla fine loro ti feriranno. La natura invece se la tratti con rispetto ti rispetterà».

Jona stava per ribattere, quando in un cestino della spazzatura notò una foto accartocciata. La recuperò.

Stirandola notò qualcosa che lo lasciò sorpreso.

Era la foto di un bel ragazzo che leggeva un libro su una panchina all’ombra di un albero.

«E lui chi sarebbe? A quanto pare non hai fotografato solo tramonti per tutto il tempo» notò Jona. Hana sollevò la testa dalle ginocchia.

«Ridammela immediatamente!» disse sollevandosi dal pavimento avanzando a tentoni verso di lui.

«Non te la do se prima non mi racconti per quale motivo hai fatto questa foto» Hana a quel punto si arrese.

«Se proprio ci tieni, quella è stata l’unica volta che mi sono fidata della gente, ovviamente sbagliando…», Hana reclino la testa verso il pavimento asciugandosi due lacrime dal viso.

Jona a quel punto posizionò la foto su una mensola e corse da lei

«Ehi, dai, smettila non volevo farti piangere».

«Io piangere, figuriamoci! Credo mi sia andata solo un po’ di polvere negli occhi» disse tirandosi via le lenti dal viso e stropicciandoseli.

«Fammi vedere» la spronò lui prendendole il mento e sollevandolo verso l’alto in modo da poterla vedere meglio.

Ma... Ma... Ma sono bellissimi!”

Hana aveva gli occhi più belli che Jona avesse mai visto in vita sua, grigi e luminosi com’erano. Per un attimo esitò sopraffatto dalla loro bellezza. Anche se alla luce tenue di quella torcia riusciva a distinguerli perfettamente, ai suoi occhi sembravano brillare di luce propria.

«Tutto bene?» gli domandò Hana.

«Si, non hai nulla» ammise recuperando le distanze mentre il suo cuore batteva all’impazzata. Aveva avuto a che fare con tante ragazze nella sua vita, ma mai il suo cuore aveva reagito in quella maniera.

«Jona, posso farti una domanda?»

«Certo» la spronò Jona aiutandola a prendere posto sulla poltrona sollevando prima il lenzuolo bianco che la copriva poi allo stesso modo fece lui con l’altra.

«Oggi al bar hai detto che seppure avessi una campanella a tua disposizione e la suonassi nessuno verrebbe da te… perché dici questo se alla fine tua madre è venuta a cercarti?»

«Avrai notato che non c’è proprio un rapporto idilliaco tra me e i miei genitori. Loro diciamo che sono stati assenti per la maggior parte della mia vita. La loro carriera è sempre venuta prima del loro unico figlio. Non pensare a mia madre come a una sorta di figura premurosa che ti rimbocca le coperte con un bacio prima di andare a dormire. Lei non lo ha mai fatto. Non avere compassione per lei a causa di quello che le ho detto oggi. Ogni singola parola che è uscita dalla mia bocca era più che lecita e meritata».

Hana sollevò i suoi piedi poggiandoli sulla seduta della poltrona.

«Alla fine sei proprio un ragazzino viziato ed egocentrico come avevo immaginato. Non hai mai pensato che magari anche per tua madre non sia stato facile starti lontano. Che anche a lei tu sia mancato? Io penso che ci sia un motivo valido per il quale ha dovuto prendere le distanze da te. Mio padre dice sempre che un genitore non abbandonerebbe mai i propri figli se non per proteggerli. Magari è quello che hanno voluto fare per te i tuoi genitori. Chissà.».

«Dici che non ti piace fidarti della gente e adesso invece vuoi farmi credere di nutrire fiducia nelle parole di una perfetta sconosciuta? ».

«Beh, forse, qualcuno mi ha fatto appena capire che concedere delle seconde possibilità alle persone non è poi tanto sbagliato…» ammise Hana.

«Quindi vuoi dirmi che sono riuscito a farti cambiare idea su di me?»

«Non ho detto questo, ma solo che l’idea di scoprire chi di noi due avrà ragione alla fine, mi diverte »

Jona doveva ammettere che quella ragazza era davvero brava a rigirarla sempre a suo favore.

«Touché».

I due rimasero chiusi in quella stanza per molto tempo ancora, parlando e scoprendosi a poco a poco.

 

 

Shin e Kei avevano da poco lasciato l’orfanotrofio. Insieme si stavano dirigendo verso il loro taxi, quando Kei ricevette un messaggio dal suo cellulare.

Prima di salire sulla vettura lo aprì era un messaggio da Nami. Il cuore nel suo petto gioì silenzioso. Durante quei tre giorni a Londra ogni sera si erano sentiti. Ormai Nami aveva aperto il suo cuore a Kei da buon amico era diventato bravo ad ascoltarla e sostenerla.

Da Nami:

Kei, sono tornata. Ho bisogno di parlarti. Vediamoci alla terrazza del ponte Tsukuda-ohashi tra venti minuti.

 

Kei ripose il cellulare nella tasca.

«Shin, va pure avanti senza di me. Ci vediamo al dormitorio più tardi».

Quella era la prima volta che Kei lasciava suo fratello per correre da Nami. In passato non sarebbe mai successo. Ma quella volta Kei sentiva che doveva farlo. Che la sua nuova amica doveva dirle qualcosa d’importante e una parte di lui sperava che fosse per i sentimenti che magari lei ancora provava per lui.

«D’accordo ci vediamo lì!» lo rassicurò Shin chiudendo lo sportello e dicendo all’autista di partire.

In breve tempo Kei raggiunse il luogo dell’incontro, quando arrivò erano già le otto passate e il fiume Sumida davanti a lui rifletteva le vivaci luci iridescenti di Tokyo. Appoggiato alla ringhiera aspettava l’arrivo di Nami.

E se si dichiarasse ancora una volta? Dovrei rifiutarla? Che pensieri mi faccio! Come potrei fare diversamente… però…”

«Kei», lo richiamò una voce leggera alle sue spalle.

Il ragazzo con il ciuffo sull’occhio sinistro si voltò, ritrovandosi una splendida ragazza con un cappotto blu e un evestito rosa antico. I capelli neri erano stati raccolti in una treccia laterale improvvisata.

«Ti ho fatto aspettare molto?» gli chiese.

«No, sono appena arrivato» confessò in imbarazzo. Nami era bellissima. I tre giorni a Londra l’avevano resa ancora più bella o almeno così sembrava agli occhi di Kei.

«Meglio così. Ti va se camminiamo?» Kei acconsentì.

L’uno accanto all’altro si muovevano lungo quel percorso che costeggiava uno dei più noti fiumi della città.

«Cosa volevi dirmi di così importante?» le chiese Kei.

«Volevo ringraziarti.»

«E per cosa?»

«Per essere diventato mio amico».

«Ti avevo detto che sono un tipo affidabile dopotutto... Sai che puoi contare su di me per qualsiasi cosa…»

«A proposito di questo… volevo raccontare questa cosa a qualcuno e sono convinta che se non lo faccio potrei scoppiare» Kei si arrestò preoccupato.

«È successo qualcosa a Londra?»

«In realtà la cosa è successa qui in Giappone poche ore fa. Io e Roberto… stiamo uscendo insieme. Ancora non posso crederci!» asserì con una luce nuova negli occhi.

Non è possibile… com’è potuto succedere? Roberto aveva quella ragazza, perché ha deciso di uscire con Nami?”

Kei non riusciva a muovere un solo muscolo. Tutto il suo corpo era impassibile agli impulsi nervosi della sua testa, gli stessi che lo supplicavano di reagire, di dire qualcosa e non fare la figura dell’ebete.

Nami notò subito che qualcosa nel suo nuovo amico non andava.

«Tutto bene?»

Kei a quelle due parole si riprese.

«Certo… va tutto benissimo. Questo vuol dire che non dovrò più preoccuparmi per te…» affermò in modo poco convincente riprendendo a muoversi al fianco di Nami.

«Esatto! Sono venuta per alleggerire il fardello delle tue responsabilità». Kei strinse i pugni.

Ma quale fardello? Quello era l'unico modo che avevo per starti vicino. Adesso, con Roberto al tuo fianco, con quale scusa potrò accorciare ancora le nostre distanze? Non può essere la fine questa…”

«Kei ho una cosa per te. L’ho presa da Londra» disse porgendogli un sacchettino.

Kei lo prese e sedendosi su una scalinata lo aprì.

«Ma questo è un blocco per appunti» notò mentre l’altra le si sedeva vicino.

«Si, ho pensato che te ne servisse uno nuovo. Da questo momento in poi dovrai scrivere tante canzoni meravigliose, ci siamo intesi? Devi diventare famoso e amato dal pubblico ad ogni costo!Anzi, quasi dimenticavo, dovresti sorridere più spesso, alle ragazze non piacciono i tipi musoni come te!» gli sorrise. Kei non dando più ascolto alla sua mente scattò lasciando cadere il blocchetto sull’insensibile asfalto e prendendo il volto di Nami tra le sue mani, con un movimento deciso lo avvicinò al suo e la baciò.

Cosa sta facendo adesso? È impazzito?”.

Dopo quel bacio Kei allontanò Nami da sé.

«Co.. cosa significa? Cos’era quello?» gli chiese Nami balbettando, mentre con una mano sulle sue labbra si trascinava lontano da lui.

Bravo! Cosa cavolo ti è preso Kei? E adesso?”

«Un bacio di buona fortuna. Tutto qui! Cosa pensavi che fosse» improvvisò confuso Kei.

«Giusto un bacio di buona fortuna, cos'altro doveva essere…» si riprese anche Nami sorridendo nervosamente.

«Bene, adesso vado… si è fatto tardi. Ci vediamo al dormitorio ok?» disse scappando via da Kei. Il ragazzo non fece in tempo a trattenerla che la stessa si dileguò tra la gente di passaggio.

Cosa mi è saltato in mente?” scosse il capo amareggiato. Poco distante dai suoi piedi giaceva la busta rossa e il block notes che Nami gli aveva regalato. Lo raccolse ripulendolo alla meglio.

Sono proprio un idiota! Ancora una volta non ho saputo resisterle. Perché anche adesso non sono stato capace di dirle che l'amo? Perché deve apparire così meravigliosa e splendente ai miei occhi anche quando dice di essere felice grazie a qualcuno che non sono e non potrò mai essere io? Come sono arrivato a ridurmi così? Cosa mi ha fatto? Tutta questa situazione mi sta distruggendo. Perché la sua dolcezza adesso non mi lascia più indifferente come in passato? Maledizione, se solo fosse come ai vecchi tempi tutta questa situazione non mi farebbe così male… ”.

 

 

Take era distrutto il sudore ormai gli gocciolava giù da ogni parte del corpo. Quando le cose non andavano come sperava, sfogarsi nel ballo era la soluzione migliore per lui. Riprendendo fiato si accasciò vicino la parete di fondo della sala prove, bevendo da una bottiglietta d’acqua riprese quella rivista dal pavimento in parquet della sala.

“Stupidi idioti… come hanno potuto scrivere una cosa simile… ” con un movimento di impeto gettò la rivista davanti a lui. Le pagine si rigirarono irrequiete nell’aria fino a cadere aprendosi proprio su quell’articolo.

Take era arrivato quella mattina alla Kings Record con i migliori propositi, felice di avere la possibilità di dimostrare quello che valeva al mondo, ma quella dannata recensione aveva rovinato tutto.

 

… che qquesto nuovo gruppo di ragazzi si stia facendo spazio con fin troppa facilità in questo mondo non è qualcosa di cui ci si dovrebbe sorprendere. Seppure le personalità degli elementi siano di base molto  buone è in realtà la presenza di tre componenti a fare la differenza sul palco. Primo fra tutti Toshi, il leader ha un impeccabile ascendente sul gruppo. Come figlio del Direttore Rio non ci si dovrebbe meravigliare che sia stato scelto lui per rappresentare gli Hope. Se Toshi è una più che affermata garanzia di successo,  la grande e vera novità invece è rappresentata da due ragazzi. Roberto e Kei, sono gli artefici di quattro delle canzoni inserite all’interno dell’album. Hanno mostrato talento e grinta da vendere. Grazie al loro primo singolo BREAT gli Hope sono arrivati secondi in classifica già  alla loro prima uscita. Dalla loro collaborazione non potremo che aspettarci successi grandiosi destinati a rimanere nel tempo. Al momento come icone sexy del gruppo i due sembrano completarsi alla perfezione, quasi fossero due facce della stessa medaglia.  Oltre ad avere un fascino indiscusso che ha catturato già dalla loro prima esibizione il cuore di milioni di ragazzine, si sono rivelati in sintonia anche su un palco difficile come quello del Music Show, dando sfoggio della loro alta competenza e professionalità. Tra le stelle affermate del firmamento musicale, in questo ammasso grappolo di giovani stelle che si confonde nel bagliore della galassia, Kei, Roberto e Toshi rappresentano senza dubbio le stelle portanti del gruppo, mirabili come le tre stelle della cintura di Orione, sono loro a reggere il gruppo, seppure ugualmente mirabile si sia rivelata l’estensione vocale del più piccolo Shin, una vera rivelazione. Eppure non ci sarebbe da stupirsi visto il legame di parentela con Kei. Insieme al più piccolo anche il  giovane figlio della nota artista Sasaki, Jona, si è rivelato dotato di un carisma e una bravura inopinabile. Purtroppo, ahimè,  come spesso accade, anche nel firmamento ci sono stelle che sembrano brillare di luce propria quando invece altro non sono che il riflesso di altre molto più luminose di loro, esse sono inevitabilmente destinate a spegnersi prima del tempo. È questo il caso del più anziano del gruppo Take. La sua presenza negli Hope sembra più dovuta a semplice carità che a una vera necessità di completare il gruppo con qualche sua dote. Dote che per giunta ci sembra davvero ben nascosta. È più che evidente che la sua età lo stia mettendo in una condizione di svantaggio rispetto agli altri e questo lo si nota subito. Rispetto agli altri si nota subito quanto sia per lui difficile mantenere il passo soprattutto nel ballo. A causa di Roberto l’ormai indiscusso  ballerino del gruppo, la differenza salta immediatamente all'occhio. Se si considera per giunta che la sua preparazione è iniziata solo da pochi mesi, il fatto che sia arrivato a livelli così alti ha dello straordinario. Take, a differenza degli altri membri non ha mostrato alcuna caratteristica predominante così nel ballo come nel canto. Secondo un recente sondaggio, molte lo reputano inadeguato, una presenza superflua, irrilevante in un gruppo già perfettamente completo anche senza la sua presenza. A ben pensare, proprio come il loro nome Hope suggerisce, c’è proprio speranza per tutti di diventare famosi in questo mondo, anche per chi lo merita meno di molti altri. Per sua sfortuna non sembra gli sia bastato il suo legame di parentela con il noto Daisuke, per integrarlo nel  gruppo musicale di Rio, che per legami di parentela e caratteristiche, si rivela il perfetto remake di uno dei band storiche del passato: i vecchi e famosissimi BB5. Ovviamente auguriamo loro un futuro diverso e più la duraturo di quello dei loro genitori. Con ansia aspetteremo l’uscita del loro prossimo MV. Nella speranza che si riveli carico di novità. Auguri HOPE benvenuti nel mondo dello spettacolo. Sarà una salita dura fino alla vetta ma questo non significa che non ci arriverete, dopotutto la “speranza” è sempre l’ultima a morire.

Take si sollevò dal pavimento e uscì dall’aula percorrendo il lungo corridoio fino allo spogliatoio comune della casa discografica. Proprio prima di entrare notò una ragazza superarlo.

“Questo profumo…” pensò voltandosi mentre ormai di spalle percorreva il lungo corridoio in compagnia di un uomo. Quando i due si rifilarono in uno dei tanti corridoi secondari anche Take abbandonò il corridoio principale per entrare nello spogliatoio. Doveva farsi una doccia e cercare di lavare via l’amarezza di quelle parole. Era difficile essere contento per le critiche positive dei suoi compagni quando quelle verso di lui erano così pessime.

Rio era nel suo studio. La sua amica era appena andata via, purtroppo l’incontro con suo figlio non era andato proprio come si era immaginata. Così afflitta aveva chiesto al suo vecchio amico di mantenere il segreto con Jona. Secondo lei era meglio così. “Quella sciocca ha davvero intenzione di continuare e andare avanti da sola in questo modo? Entrambi stanno veramente  sbagliando. Il ragazzo ha il diritto di sapere” pensava Rio mentre sfogliava le riviste musicali che ogni pomeriggio si faceva recapitare dalla sua segretaria. Preferiva controllare di persona gli articoli di critica. Ringraziando il cielo non erano molto negativi, molti si lamentavano dell’anonimato dello stile dei ragazzi ma presto avrebbe ovviato a quel problema grazie alla collaborazione con la One Million. Quando però recuperò il terzo volume l’espressione sul suo viso si fece più cupa.

“E questo articolo? Da dove esce fuori?” , agitato iniziò a recuperare anche le altre riviste sottostanti. Dicevano tutte pressappoco le medesime cose.

“Perché si accaniscono proprio su Take in questo modo? Durante l’esibizione ha dato il meglio proprio come tutti gli altri…”

Poco dopo la sua segretaria lo interruppe con una chiamata in terna. Rio rispose tenendo stretta ancora tra le mani la rivista con quell’articolo così cattivo.

«Signore, sono appena arrivati il direttore delle Music Station e la signorina Yukino. Cosa devo fare?» chiese.

Rio strinse la rivista nella sua mano. Rivedere Yukino, dopo quello che le aveva fatto era una cosa che non si augurava sarebbe successa così presto. Sospirando rispose alla sua segretaria occhialuta al piano terra dell’edificio.

«Li faccia salire pure» disse chiudendo la conversazione.

I due salirono da Rio e bussarono un paio di volte prima che l’uomo all’interno li invitasse ad entrare.

Nella stanza austera si fece avanti prima il Direttore Mashimoto e subito dopo di lui entrò anche Yukino. Al posto dei suoi capelli biondi aveva una parrucca scura e lunga, ma questo non disorientò affatto Rio. La conosceva così bene che l’avrebbe riconosciuta in ogni caso.

«cosa vi porta da queste parti?» li accolse l’uomo dietro la scrivania con le lenti dalla montatura nera sul naso fine.

«siamo venuti qui per parlare di affari» gli confessò il giovane e trentenne direttore della Music Station avanzando verso la scrivania di Rio e prendendo posto su una delle due poltrone davanti la stessa. Allo stesso modo fece Yukino. Rio notò negli occhi della giovane una luce diversa.

“Perché quell’espressione?”. Dal canto suo Yukino continuava a fissarlo con una luce di sfida e di malcelato rancore negli occhi.

“Immaginavo mi avresti odiato. Hai ragione a farlo. Ti ho abbandonato nel modo più basso e vile possibile…”

«Volevo proporti un’offerta…» lo richiamò il direttore Mashimoto.

Rio tornò con lo sguardo su di lui, a Yukino avrebbe pensato in un secondo momento.

«Come mai?»

L’atro accavallò le gambe rilassandosi sulla poltrona. «Immaginando la tua diligenza sono sicuro tu abbia letto le recensioni al tuo nuovo gruppo». Rio acconsentì. Detestava l’atteggiamento di presuntuosa arroganza di quel ragazzo.

«Si, l’ho fatto».

«Beh, considerando che quei ragazzi avrebbero esordito sotto il mio marchio se tu non avessi fatto di tutto per riprenderteli, direi che sono in debito con te. Grazie alle capacità di Yukino siamo primi in classifica già da due mesi.»

«Dove vuole arrivare?» lo zittì Rio spazientito. Non gli andava proprio di sentire quel ragazzino gonfiarsi di vanto in quel modo.

«La nostra Yukino è stata colpita dal talento di uno dei tuoi sei ragazzi e vorrebbe collaborare con lui. Per tua fortuna questa collaborazione gioverà a entrambi, noi avremo una nuova collaborazione nel prossimo album di Yukino che metterà finalmente a tacere le voci che circolano ultimamente sul fatto che tra lei e la vostra casa discografica ci siano in circolo ancora rancori e dall’altro voi avrete la possibilità di migliorare di molto l’immagine di questo ragazzo.»

«Di chi state parlando?»

«TAKE» si inserì la giovane sfidando Rio a mento alto.

«Devi ammettere che la mia è un’offerta molto più conveniente a voi che a noi. Devo ammettere che non ero molto spinto a venire qui, ma Yukino ha insistito così tanto che non me la sono proprio sentita di dirle di no».

Rio non si fidava per niente delle parole di quel giovane e furbo direttore.

“Qui la storia mi puzza…”

«Signor Mashimoto ci lascerebbe due minuti soli?» gli chiese la giovane con la parrucca bruna.

Il direttore senza sollevare obiezioni si dileguò. Adesso Rio e Yukino erano finalmente soli.

«Yukino… io…» iniziò esitante Rio. I sensi di colpa li sentiva ogni giorno premere sulle sue esili e stanche spalle. Aveva fatto a Yukino una promessa che alla fine non era riuscito più a mantenere.

«So quello che stai per dire, ma non occorre che tu mi chieda scusa. Non provo alcun rancore per quello che è successo. Dopotutto quale padre abbandonerebbe il proprio figlio per una promessa fatta a una perfetta estranea? E poi devo ammettere che alla Music Station mi hanno accolto benissimo. La mia vita scorre proprio come avevo sempre sognato. Ho il successo, l’approvazione della gente e vivo una vita che adesso è solo mia facendo quello che ho sempre sognato fare: cantare. Rio lo dico per te, non cercare il marcio in questa offerta perché non ne troverai. Ho fatto tanto per convincere il Direttore. Dopo tanto tempo ho finalmente trovato come ringraziarti per avermi tirato fuori da quel guaio tanti anni fa e avermi concesso una seconda  possibilità, perciò accetta. Sai benissimo che Take ha bisogno di prendere le distanze dal gruppo in qualche modo. Deve dimostrare di valere anche lontano da loro altrimenti la critica non cambierà mai idea su di lui. Accetta, permettimi di ricambiare il gesto. Dammi la possibilità di aiutarti come tu hai fatto con me …» cercò di convincerlo Yukino. Rio sciolse la sua armatura fatta di diffidenza e pregiudizio,Yukino si era appena guadagnata la sua fiducia.

«D’accordo…  dopotutto non mi lasci altra possibilità. Grazie Yukino».

Da dietro la porta il direttore Mashimoto sorrise soddisfatto. Il piano stava procedendo proprio come avevano programmato. Rio era proprio un vecchio sentimentale. I sensi di colpa possono rendere un uomo perfettamente lucido come Rio, capace di compiere errori elementari come quello. Si strofinò le mani soddisfatto. Corrompere quei giornalisti era stata un'idea geniale. Presto gli Hope sarebbero crollati e con essi anche la Kings Record avrebbe abbandonato per sempre il campo musicale.

 

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Capitolo 29
*** RIMPIANTI E RIMORSI ***


 

CAPITOLO 29

RIMPIANTI E RIMORSI

 

 

Tokyo

Kei si era appena richiuso la porta dell’appartamento del dormitorio alle spalle. Con trascinata rassegnazione aveva raggiunto il corridoio che conduceva alla sua stanza. In giro per l’appartamento non c’era nessuno dei suoi compagni. Per un momento esitò dinanzi la porta chiusa della stanza di Roberto.

“Sarà vero? Sei davvero riuscito a mettere da parte quella ragazza? Se è così, posso accettarlo… ma se non lo fosse, giuro che  ti distruggerò prima che tu distrugga lei…”. Stringendo le mani a pugno proseguì per il corridoio. Una volta arrivato davanti alla sua stanza ne aprì la porta. Dentro, sul suo letto, c’era Shin che lo aspettava seduto con le gambe incrociate. In lui Kei notò uno strano sguardo nostalgico. Kei conosceva bene quell'espressione, era la stessa che suo fratello metteva su quando ripensata ad Akiko.

Con premura, dopo aver chiuso la porta, gli si sedette vicino.

«Tutto bene?» gli domandò.

«Si, stavo pensando a Clara. Sarebbe stato bello avere lei all’orfanotrofio quando eravamo piccoli. Mi sarebbe piaciuto ascoltare le sue storie a quell’età. Anche la mamma le raccontava?» gli chiese con malinconia.

«Qualche volta lo faceva… ma più che altro suonava. Le piaceva molto il pianoforte. Quando era in tua attesa ogni pomeriggio si sedeva vicino il suo pianoforte a casa e componeva. Diceva che stava scrivendo la tua ninnananna e che te l’avrebbe suonata ogni sera prima della buonanotte».

«Davvero?» si sorprese Shin con gli occhi illuminati d'entusiasmo.

«Si, qualche volta si esercitava anche all’orfanotrofio».

«E ti ricordi come faceva quella melodia?» gli chiese il più piccolo con interessamento.

«A dire il vero ero molto piccolo all’epoca e non ricordo molto…»

“Oh, Shin. Giuro che farò l’impossibile per recuperare quello spartito. Sono certo si trovi ancora in quel pianoforte nero a parete di casa nostra.”

«Che peccato, speravo te ne ricordassi almeno un pezzettino. Sarebbe stato bello».

Kei scompigliò i capelli neri del più piccolo.

«Non temere, un giorno ritroverò quelle note… lo sai che al tuo Onisan nulla è impossibile!».

«Grazie Kei».

 

Toshi aveva appena inchiodando davanti all’orfanotrofio, Clara dietro di lui scese slacciandosi la cinghia del suo casco nero  mentre l’altro metteva il cavalletto alla moto e la imitava tirando via anche lui il casco nero dalla testa.

«Beh, grazie per avermi portata fin lì. Devo ammettere che non sei niente male ragazzino…» detto questo Clara si sporse verso Toshi scompigliandogli i capelli neri come aveva sempre fatto con suo fratello Roberto. Kei le bloccò la mano.

«Clara, devo dirti una cosa… » la interruppe serio in viso. Clara dopo un primo momento di incertezza gli sorrise.

«Anche io avrei da dirti una cosa a dire il vero. Volevo fossi il primo a saperlo. Dopotutto è grazie anche a te se sono tornata a credere nelle mie capacità», Toshi allentò la presa sul polso della ragazza.

«Non vorrai dirmi che…» la spronò.

«Si, ho ricominciato a scrivere una nuova storia ed è tutto merito tuo. Se non mi avessi detto quelle cose quella sera forse non avrei avuto la stessa fiducia in me stessa che ho in questo momento. Grazie!».

«Non ho poi fatto un granché . Sai, è ironico, anche io volevo ringraziarti. Quella sera in stanza mia, beh, grazie di aver creduto in me…» la riprese titubante l’altro. Clara gli sorrise con uno di quei sorrisi teneri che rivolgeva spesso ai piccoli dell’orfanotrofio.

«Sono felice che le cose si stiano sistemando per entrambi. Presto conto di tornare in Italia per proporre il mio romanzo a qualche casa editrice. Sono a buon punto ormai. Penso che entro un mesetto, se mi metto di impegno, riuscirò a completarlo. Spero di avere fortuna e magari, a quel punto, riuscire a rincontrarlo…» pensò tra sé.

«Rincontrarlo?» gli domandò l’altro perplesso.

«Si, Luca. Ma questo non è un argomento che possa interessare a un ragazzino come te! Sono cose da grandi queste!!» detto ciò Clara salutò Toshi con un movimento della mano incamminandosi verso il cancelletto esterno.

“Ha un ragazzo? Perché non me ne ha mai parlato? Maledizione se non faccio qualcosa, non mi vedrà mai come un uomo… e presto partirà” .

«Clara!» la richiamò in un ultimo disperato tentativo, la stessa si voltò verso di lui, Toshi corse da lei e la baciò.

“Cosa…? perché mi sta baciando… ?”

«Non sono un ragazzino» disse una volta riprese le distanze da lei. Senza aggiungere altro si infilò il suo casco nero e ritornato sulla sua moto nera ripartì, lasciando Clara impietrita davanti a quel cancelletto semi aperto e a quel bacio che aveva appena sconvolto tutti i suoi piani.

Con una mano al petto si inginocchiò al suolo prendendo a grandi boccate l’aria fresca intorno a lei. Lì, proprio sullo sterno avvertiva pulsare qualcosa in modo incontrollabile. Era il suo cuore, ma come poteva battere in quel modo per un ragazzino più piccolo di lei che si comportava sempre in modo così arrogante pensando di poter fare sempre ciò che vuole? Eppure, senza preavviso, Toshi era riuscito a far breccia nel suo cuore con una facilità sorprendente.

“No Clara, questo non va bene.  È pericoloso, troppo pericoloso. Tu devi tornare in Italia e non puoi permetterti legami di questo tipo soprattutto perché in Italia c'è Luca che ti aspetta… Si, ma perché adesso l'idea di partire mi fa sentire così triste?”. Con due dita si sfiorò le labbra. “Mi sta trasformando in una ragazzina sconsiderata come lui… ”.

 

 

Londra

La camicetta verde di seta le scendeva morbida sulle spalle accarezzandole dolcemente il corpo candido. I capelli color del grano erano stati raccolti in una codina e appena sopra il suo bacino una gonna ampia completava il suo look. Marika si trovava in una situazione insolita. Era la prima volta che si preparava per un appuntamento. In verità con Roberto non ne aveva mai avuto uno e anche se lo avesse avuto forse non si sarebbe messa così di impegno per vestirsi. Loro si conoscevano da una vita e lui l’aveva vista in ogni veste: sia in pigiama che in costume da bagno. Con Roberto non aveva mai provato l’inibizione e l’imbarazzo perché erano cresciuti insieme sin da piccolissimi. Insomma lui conosceva tutto di lei e Marika sapeva che l’accettava per quello che era, ma con Thomas era diverso. Davanti ai suoi occhi intransigenti si sentiva sempre inadeguata e sotto pressione.

“Andrà davvero bene?” , si domandava dopo aver fatto un mezzo giro su se stessa davanti allo specchio lungo del bagno.

Era domenica pomeriggio e Thomas l’aveva invitata a un appuntamento con lui. L’idea di assecondare quel suo tentativo disperato di farle cambiare idea la faceva sentire un po’ in colpa. Marika non aveva intenzione di illuderlo, lei nel suo cuore aveva ancora Roberto, eppure qualcosa nelle parole di quel ragazzo l’avevano spinta a tentate.

Dopo aver sistemato anche la questione delle scarpe, Marika era pronta. Infilato il suo cappottino rosso era pronta a uscire. Due colpi alla porta del suo appartamento bastarono a farle capire che il loro primo appuntamento stava per avere inizio.

Data un’ultima occhiata al suo makeup dal piccolo specchio tondo dell’ingesso, si precipitò ad aprire.

Davanti ai suoi occhi c’era Thomas in un golfino blu e pantalone nero, ai piedi un paio di scarpe da tennis. Non aveva nulla dell’aspetto sofisticato che esibiva di solito con arroganza e vanto. Questo la fece sentire un tantino inadeguata.

 “Ecco sapevo che non mi sarei dovuta mettere in tiro…”

Thomas le sorrise porgendole la mano.

«Sei bellissima…».

Marika sentì le gotte infiammarsi.

«Grazie, anche tu non sei male» affermò mettendo la sua mano in quella del ragazzo. Dopo che fu fuori sul lungo corridoio del loro piano, Thomas la prese sottobraccio spronandola a entrare nell’ascensore. Dopo essere usciti anche da questo, entrambi si avvicinarono verso la macchina bianca di Thomas, una Triumph Spitfire del 69’.

Di solito veniva scortato da Ambrogio, vederlo alla guida di una vettura rendeva quell’appuntamento ancora più insolito del previsto.

«Dove mi stai portando?» chiese Marika.

«Fidati di me» proseguì Thomas inserendo la prima e partendo.

In quel giorno invernale il sole alto sulle loro teste splendeva intensamente.

Dopo aver parcheggiato, Thomas, da perfetto gentiluomo, aprì lo sportello di Marika invitandola a scendere.

Erano in pieno centro. «Cosa ci facciamo qui?» chiese lei.

«Immagino che in tutti questi mesi tu non abbia ancora fatto un giro della città. Ti ho portato in uno dei miei posti preferiti. Qui ci lavora un mio amico gli ho chiesto un piccolo favore».

«Sarebbe?»

«Ora lo vedrai…».

Erano nei pressi della London eye, ed ecco che tra il Ponte di Westminster e lo Hungerford Bridge si ergeva quell’imponente struttura di metallo. Marika arretrò terrorizzata.

Aveva solo le vertigini a guardarla, figuriamoci a salirci sopra.

Thomas notandola si fermò voltandosi verso di lei con sguardo divertito.

«Ehi, non dirmi che soffri di vertigini!» la canzonò nel suo solito modo acido.

«Io, soffrire di vertigini? Ma figuriamoci!» lo superò a mento alto lei, esibendo una sicurezza che in realtà non possedeva minimamente. Thomas sorridendo divertito dal suo atteggiamento fiero e orgoglioso, la raggiunse.

Entrambi si mossero verso la London eye, lì accalcati in rigide file c’era una folla in attesa.

“Oddio, così non ci sbrigheremo nemmeno per domani mattina…” pensò Marika che già avvertiva il peso di quei tacchi vertiginosi che aveva indossato.

«Vieni con me. Noi non abbiamo bisogno di fare code…» gli rivelò lasciandola di stucco. Poi senza che potesse impedirglielo Marika venne trascinata da Thomas fino all’ingresso delle cabine. Nessuno li aveva fermati, anzi, ogni volta che arrivavano davanti a un posto di blocco i diversi operatori si facevano da parte per farli passare. Solo alla fine di quella corsa un uomo calvo fece segno a entrambi di salire in una cabina che era stata riservata solo per loro.

Thomas spronò Marika a salirci su anche se a lei la cosa non andava a genio per niente.

«Thomas non è stato per niente carino! Hai visto quanta gente era in coda ad aspettare? Non dicevi di odiare i favoritismi? Beh, e questo come lo definiresti?».

Thomas prese posto vicino alla vetrata di quella cabina trasparente, alle sue spalle il London Bridge.

«Beh, io la definirei una questione di lavoro…»

Clara storse il muso.

«Cosa intendi?» gli chiese sospettosa.

«Il prossimo spot vogliamo registrarlo qui e allora ho chiesto ai proprietari di farmi fare un giro di prova per avere conferma dell’orario migliore per le riprese. Si, a quest’ora la luce è perfetta. Se avessimo aspettato non avrei potuto verificarlo.»

«Quindi vuoi dirmi che mi hai portato qui solo per verificare le condizioni luminose per il nuovo spot della One Million?»

«Sarei potuto venirci da solo, ma volevo che anche tu vedessi questo» muovendosi verso Marika Thomas gli si portò alle spalle cincendole il capo con le sue mani e spronandola a guardare il panorama dinanzi a loro.

Era uno spettacolo pieno di colori, il tramonto aveva tinto d’arancio le acque del Tamigi sfumando verso l’alto in toni sempre più freddi. Il tramonto era sempre stato il momento che Marika preferiva della giornata e probabilmente non lo era solo per lei.

«Sai a mia madre piaceva molto vedere il Tamigi da qui… lei era una donna forte proprio come te. Pretendeva di non aver bisogno di nessuno ma la verità è che tutti abbiamo bisogno di qualcuno…»

«Era?» gli domandò Marika allontanando le mani di Thomas dalla sua testa, voltandosi verso di lui.

«Si, mia madre era malata ed è morta un po' di anni fa…».

«Mi dispiace…»

«Sai alle volte penso di non essere riuscito a fare abbastanza per lei…»

«Sono convinta che tu abbia fatto tutto quello che potevi per lei…»

«Probabilmente tutto quello che potevo non è stato abbastanza. Il mio amore non è bastato a farla guarire dopotutto» le sorrise amaramente. Marika prese tra le sue mani il volto di Thomas.

«Spesso pensiamo con arroganza di essere gli esseri più forti a questo pianeta, ma la verità è che siamo così deboli: costruiamo palazzi per sentirci al sicuro, ponti per sentirci in grado di sfidare la natura e armi per sentirci più forti ma la verità è che siamo gli esseri più fragili, impotenti e indifesi su questo pianeta e ci basta davvero un attimo per sentirci insignificanti, e sono quelli i momenti in cui ci rendiamo conto che tutto quello che abbiamo costruito fa parte di una grande e immensa illusione. Alle volte bisogna riconoscere i propri limiti. Tu hai fatto tutto quello che potevi per lei non devi fartene una colpa. Sono sicura che tua madre lo sa…»

Thomas l’abbracciò forte tra le sue braccia. Erano anni che aspettava quelle parole e finalmente erano arrivate. «Grazie…» Marika lasciò che Thomas l’abbracciasse. In quel momento capiva bene quello che aveva potuto provare la madre di Thomas. Vedere suo figlio soffrire per lei doveva esserle sembrato più difficile che reggere il peso della malattia o almeno questo era quello che pensava lei da futura madre.

«Se solo mio padre fosse tornato da noi lei sarebbe stata meglio… Non ha smesso di sperare che tornasse … » disse ritirandosi da quella stretta, «ma sai Marika, ho capito una cosa: ad aspettare gli altri si finisce sempre con il restare i soli a rimanere indietro». La ragazza con la codina color del grano reclinò per un attimo il capo sconfitta da quella verità che le faceva troppo male al cuore.

“Forse Thomas ha ragione”.

Nella sua vita anche Marika come la madre di Thomas aveva solo aspettato e come risultato adesso era rimasta sola. Con una mano Thomas gli accarezzò il viso triste e sofferente sollevandolo verso l’alto. Marika era completamente travolta dai suoi gesti dai suoi modi gentili. Lui dal canto suo continuava a fissarla intensamente con i suoi occhi azzurri e cristallini, in quello specchio azzurro e limpido, finalmente Marika riuscì a scorgere un lato di Thomas diverso, più umano e che probabilmente non mostrava a chiunque, così lontano dall’immagine di lui che di solito dava a vedere. Si, Thomas si stava aprendo e forse anche lei iniziava a nutrire il desiderio di aprirsi un po’ di più a lui.

Marika  pensò che fosse davvero una strana coincidenza. Entrambi avevano passato la loro vita ad aspettare qualcuno che adesso era così lontano da loro.

Thomas suo padre e Marika Roberto.

«Thomas pensi sia davvero così inutile continuare a sperare se questo è l’unico motivo capace di farci andare avanti?»

«Cosa vuoi dire?»

«Sai, per quanto ci abbia provato, continuo a sperare nel profondo che quella persona non si dimentichi di me, seppure dubito torneremo a stare insieme come un tempo…».

«Quell’idiota non ti merita. Perché continui a pensarlo? Ti ha abbandonata… tu dovresti odiarlo…»

 

«Odiarlo? No, come potrei odiarlo. Tu non lo conosci e non puoi capire. Ma lui ha sacrificato davvero molto per arrivare dov’è e adesso io non voglio divenire la causa dei suoi rimpianti, non potrei sopportarlo. Thomas, forse,  la verità è che ormai l’ho perso, non mi resta che accettarlo. È arrivato troppo in alto perché io possa raggiungerlo. Se il prezzo da pagare per stare con lui è rovinargli la vita allora preferisco lasciarlo andare».

Thomas strinse i suoi pugni. Odiava l’idea che stesse soffrendo per colpa di quel ragazzo, lei non lo meritava.

Avrebbe fatto di tutto per farla sorridere, non avrebbe permesso a quel ragazzo di nuocerle al cuore ancora una volta.

«Marika, io non ti farei mai soffrire… mai in questo modo. Tu sei l’unica persona che penso potrei aspettare… Io sono qui per te. Non vado da nessuna parte. Sono qui e puoi appoggiarti a me. Anzi potete appoggiarvi a me.» disse indicandole con gli occhi il caldo ventre.

Marika sentiva il cuore riempirsi di una gioia nuova, forse poteva davvero affidarsi a quelle parole e a quella persona. Forse sarebbero potuti davvero essere una famiglia. Ingenuamente l’idea alleggerì le sue ansie.

Un passo dopo l’altro raggiunse il ragazzo biondo e con le sue braccia esili ne cinse il busto affondando il viso nel suo caldo petto. Voleva davvero smetterla di sentirsi così sola. Affrontare tutto facendo leva unicamente sulle sue forze la stava sfibrando.

«Possiamo rimanere così per un po’?» gli chiese.

Thomas ricambiò quella stretta.

«Possiamo rimanere così tutto il tempo che vuoi. Ti ho già detto che non ho intenzione di andarmene da nessuna parte… »

Marika si lasciò cullare da quelle parole così rassicuranti. Si, forse poteva concedergli un possibilità, dopotutto cosa aveva da perdere?

 

 

 

 

Tokyo

 

«Nami ci sei? Posso entrare?» chiese Yori dopo aver bussato alla porta dell’appartamento di sua figlia. Nessuno le rispose, preoccupata tirò fuori il doppione delle chiavi. Sua figlia doveva essere rientrata da un pezzo. Aveva conservato quel CD aspettando il suo ritorno. Era giusto che conoscesse i sentimenti di Kei. Senza esitare aprì la porta. Una volta nell’appartamento iniziò a girovagare tra le varie stanze in cerca di sua figlia.

“Visto che non è qui, vorrà dire che le lascerò un bigliettino insieme a questo CD. Dove terrà le penne?” cercando in girò finì davanti alla scrivania di sua figlia nella sua camera da letto.

“Ecco qui!” stava trafugando in cerca di un bigliettino bianco quando qualcosa attirò la sua attenzione. Sembrava una lettera stropicciata. La recuperò aprendola.

“E questa cosa sarebbe?”

 

 

Vi prego abbiate pietà di mio figlio. Lui non ha colpa. So di non essere una madre meritevole di questo nome, perciò vi supplico, trovate una famiglia che lo ami. Una famiglia che non potrei mai dargli io. Queste probabilmente saranno le ultime parole che scriverò. Non chiedo il perdono, non chiedo neanche di essere ricordata, vi chiedo solo di amarlo come non sono stata capace di fare io. Vi supplico, non rivelategli mai la verità su questa madre immeritevole. Vi scriverò qui la mia storia solo nel caso dovessero sorgere problemi per lui in un futuro. Ero una donna ingenua che lavorava come segretaria per un uomo avido e potente. Sopraffatta dal suo fascino ho ceduto all’illusione di un amore peccaminoso. Non pensavo che sarebbe giunto il giorno in cui avrei rimpianto la mia scelta. Quando mi sono resa conto che quell’amore era a senso unico era ormai troppo tardi. Non vi scriverò il suo nome perché quell’uomo non riconoscerà mai il mio bambino come suo. Ha una famiglia e un’immagine da mantenere me lo ha rinfacciato proprio questa mattina. Lui non ha colpa, l’illusa ad aver frainteso sono stata io credendo nelle sue promesse, nei suoi baci e nelle sue carezze. Vi prego abbiate cura del mio Kei. Io non riesco a vivere ancora in questo modo, ho provato a crescerlo, ma ogni volta che vedo il suo viso ritrovo il volto di suo padre e la cosa mi fa troppo male…  Abbiate cura di lui. Oggi lascerò questo mondo, perché sono troppo debole e troppo stanca per vivere senza di lui. L’ho amato davvero e il prezzo del mio amore lo sto per pagare con la mia vita, una vita che non voglio più se non può essere al suo fianco. Mi spiace Kei, spero tu possa avere una vita meravigliosa. Una vita in cui l’amore dato ti venga ricambiato.

 

 

«Ma, perché questa lettera si trova qui?» si domandò Yori rigirandosela tra le mani confusa. Il rumore di una porta che si apriva e la stessa ripiegò quella lettera mettendola nella tasca dei suoi pantaloni.

«Mamma, cosa ci fai qui?» chiese Nami notando Yori uscire dalla sua stanza. Sua madre aveva una faccia a dir poco sconvolta.

«Sono venuta a trovare mia figlia.  Perché?  C’è qualcosa di male in questo?» chiese arrancando.

Nami decise di non far troppo caso a quell’atteggiamento titubante di sua madre. Era troppo felice che la sua storia con Roberto fosse andata a buon fine che aveva solo voglia di condividere la cosa con sua madre. Per questo mise su un’espressione raggiante sul viso e corse verso di lei abbracciandola.

«Ma cosa dici? Lo sai che mi fa sempre piacere vederti!» Yori adagiò il suo mento sulla testa della figlia.

“Come può una madre rinunciare al suo unico figlio in questo modo? Povero Kei… convivere con una colpa simile…  Ora capisco perché prende sempre le distanze da tutti. Per lui legarsi a una persona include anche il dolore che quest'ultima l'abbandoni proprio come ha fatto sua madre. Deve essere davvero dura per lui credere nelle persone. Quell’abbandono deve pesare ancora molto sul suo cuore. Eppure quel CD è la testimonianza che nonostante tutto è riuscito a provare fiducia per qualcuno… che sia riuscito ad aprire il suo cuore per amore di Nami? Questo significa che deve essere davvero innamorato di lei…”.

Nami si distaccò da sua madre, squadrandola perplessa. Aveva qualcosa di strano.

«Tutto bene? Sembri assente!» le chiese.

«Si, tutto bene. Tu piuttosto, dove sei stata?» le chiese spronandola a prendere posto con lei sul divano dell’ingresso.

«Mamma, credo di essermi innamorata.»

«Davvero? E chi sarebbe il fortunato?»

«Roberto! Ma non dire nulla a papà, lo sai che è contrario che i ragazzi abbiano una relazione durante il loro primo anno di carriera…».

«Roberto?» Yori era a dir poco sconvolta. Ricordava perfettamente quanto sua figlia avesse provato a conquistare Kei e invece adesso spuntava fuori Roberto. In quel momento si rammentò di quella scena vista alla Kings Record e tutto le sembrò chiarissimo.

«Nami, sicura che Roberto sia il ragazzo giusto?» le domandò premurosa.

«Si, mamma io lo amo e lui…» si fermò rimangiandosi le ultime parole.

“ si è vero, lui non mi ama… o almeno non ancora…”

Yori, sentiva che sua figlia le stava nascondendo qualcosa.

«Nami, c’è qualcosa che devi dirmi?»

«No, nulla, abbiamo appena iniziato a uscire insieme. Sono così eccitata!» nascose la preoccupazione in un enorme sorriso.

«E con Kei hai chiuso per sempre?» le domandò Yori perplessa. Nami si irrigidì al pensiero di quel bacio avvenuto con Kei qualche minuto prima, «si… siamo amici adesso…» le rivelò in tono incerto.

«Sicura che lui sia solo un amico? Il primo amore è sempre così difficile da cancellare. Sai Nami, tu e Kei mi ricordate un po' com'eravamo io e tuo padre. Sai, all’epoca tuo padre  non era un tipo a cui piacevano le battute e che si lasciava andare facilmente al divertimento, non sapeva esternare quello che provava e il più delle volte era brusco e imprevedibile, eppure a modo suo mi amava. E me lo ha dimostrato non dandomi ciò che volevo e credevo fosse giusto desiderare per me stessa, ma ciò di cui avevo davvero bisogno. Ha pensato a me andando contro se stesso... Forse è quello che sta facendo Kei...»

«Ti sbagli, noi non siamo come te e papà. Io e Kei siamo e rimarremo sempre e solo amici. Dopotutto, è stato lui a respingermi per tutto il tempo. Il motivo per cui lo ha fatto ormai non mi interessa più. Sono stanca di tutto, stanca di sentirmi presa in giro da lui, stanca di aspettarlo.  Alla fine ho capito che continuare a credere che le cose tra noi possano cambiare è un inutile spreco di tempo. Per lui non sono e non sarò mai nulla di più di un’amica. Lui non amerà mai nessuno all'infuori di Shin, JJ e Akiko...».

Yori, strinse quel CD nella sua tasca.

«Cambierebbe qualcosa se ti dessi la prova che Kei invece sente qualcosa anche per te?»

Nami spalancò gli occhi.

«Cosa?».

Yori tirò fuori dalla tasca il CD.

«Ricordi il giorno del tuo compleanno? Tu e Roberto siete tornati alla Kings Record per recuperare qualcosa, dico bene?» Nami acconsentì.

«Quel giorno non eravate i soli ad essere tornati lì. Anche Kei era andato allo studio di registrazione. Non so cosa abbia visto, so solo che prima di salire sembrava eccitato e felice. Quando è sceso però il suo umore era cambiato. Sembrava essere molto turbato come se avesse visto qualcosa che non avrebbe mai voluto vedere. Io che ero giù all’ingresso, l’ho visto buttare qualcosa nel cestino dei rifiuti e uscire. Ecco cosa ha buttato», detto questo tirò fuori il CD porgendolo a sua figlia. Sullo stesso c’era una scritta.

“PER NAMI”

«Credo abbia visto qualcosa tale da fargli venir voglia di buttare i suoi sentimenti nel cestino della spazzatura».

Nami continuava a fissare quel CD adesso tra le sue mani.

“Cosa significa? Non sarà che Kei abbia visto me e Roberto che ci baciavamo? Aspetta… non sarà questo il motivo dell’espressione severa di quella sera? Quindi già lo sapeva?”

«Nami, forse dovresti esaminare i tuoi sentimenti e capire chi dei due ami davvero e chi dei due ama veramente te… Se stai rinunciando a Kei perché pensi che lui non ti ami, beh, allora ascolta quella canzone e poi prendi una decisione prima che uno dei due ne soffra. Penso tu conosca bene Kei. Ho trovato questa lettera sulla tua scrivania. Come avrai notato leggendola, non ha un passato facile alle spalle. Anzi ora che ci penso, perché ce l’hai tu?»

Nami reclinò il capo.

«È successo quasi due anni fa. Ho visto Kei uscire dall’orfanotrofio, sembrava fuori di sé, così l’ho seguito. Era diretto agli uffici di una multinazionale. Ovviamente non ho potuto seguirlo all’interno. So solo che quando ne è uscito era in lacrime. Non posso dimenticarlo, quella è stata la prima volta che l’ho visto piangere. Ero davvero in ansia, così l’ho seguito fino al parco, lì l’ho visto tirare fuori quella lettera dalla tasca della sua giacca e buttarla in un cesto della spazzatura. Quell’idiota deve essere abituato a buttare via i suoi sentimenti in questo modo… » con le sue mani Nami si coprì il viso. Aveva amato Kei con tutta se stessa. Avrebbe davvero voluto essere lei la donna capace di guarire le sue ferite. Per tutto quel tempo Kei le aveva fatto credere di non significare nulla e alla fine si era rassegnata all’idea che fosse davvero così, ma allora quel CD cosa significava? Che gli aveva mentito per tutto quel tempo? Che lui invece l’aveva sempre amata? Questo metteva tutto in discussione. Che anche quel bacio nel suo appartamento avesse avuto un valore? E anche quello di poco fa allora cosa significava?

“Se anche adesso scoprissi che fosse così cosa potrei fare? Adesso al mio fianco c’è un altro ragazzo, un ragazzo che ha bisogno di me e a cui ho promesso di esserci sempre. Non posso abbandonare Roberto in questo momento”.

Nami continuava a piangere, avrebbe voluto fermarsi ma proprio non ci riusciva.

Yori strinse a sé sua figlia.

«Nami, calma. Devi solo pensare con il tuo cuore. Se Roberto è il ragazzo giusto per te sarà lui a dirtelo.  Però ho reputato fosse  giusto che  conoscessi quali sono i veri sentimenti di Kei. I fraintendimenti portano al rimpianto e il rimpianto porta al rimorso e non voglio che sia così anche per voi due… ». Detto questo Yori lasciò sua figlia sola con quel CD tra le sue mani.

Una volta che sua madre se ne fu andata, Nami lo inserì nello stereo e lo fece partire. Quelle parole, quelle note erano per lei.

“Perché non mi hai mai detto nulla? Perché hai finto in questo modo? Idiota! Sei solo un idiota!!! Adesso dimmi, cosa posso fare per recuperare le cose? Adesso non posso ne lasciare Roberto ne continuare ad essere tua amica!”.

Nami pianse, pianse così tanto da farle bruciare gli occhi. Pianse per tutta la notte, ma alla fine prese la sua decisione. Avrebbe messo da parte quei sentimenti per il bene di entrambi. 

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Capitolo 30
*** DUE MESI DOPO ***


CAPITOLO 30 
DUE MESI DOPO…


 
Kei e Roberto erano nello studio di registrazione e con loro anche Nami assisteva alla nascita della terza canzone del loro secondo album. Ormai erano tre mesi che lei e Roberto facevano coppia fissa e le cose tra loro non  potevano andare meglio di così. Kei, dal canto suo, digeriva con misurato autocontrollo quella situazione che gli faceva troppo male al cuore. Quando proprio non riusciva a sopportarla prendeva un grosso respiro ripetendosi che se Nami era felice anche lui doveva esserlo per lei. Nonostante questi buoni propositi, riuscirci diventava sempre più difficile. Il secondo nuovo singolo degli Hope era uscito da poco più di una settimana e si era già posizionato ai vertici della classifica musicale.
Ormai il loro fan club era aumentato in modo esponenziale, e con fatica gli Hope si erano dovuti adeguare alle conseguenze dettate dalla notorietà raggiunta. Nel frattempo anche la carriera di Nami proseguiva a vele spiegate. Con entusiasmo anche lei si stava preparando alla collaborazione con la One Million.
In altre parole la sua carriera come quella degli Hope non poteva andare meglio di così.
«Si può sapere perché ci hai fatto correre qui con così tanta fretta?» gli chiese Roberto spazientito prendendo posto su una delle sedie dell’aula prove. Nami gli si sedette vicino.
Kei a quel punto tirò fuori dalla sua borsa un PC portatile.
«Aspetta e vedrai…» disse, poi porse uno spartito ad ognuno dei suoi compagni, sullo stesso erano già state inserite le parole.
«Hai già scritto il testo?» si meravigliò Nami.
«Ovvio!  Dopotutto qualcuno ha tanto insisto perché scrivessi dei testi nuovi, così non mi sono trattenuto…» ammise sorridendole complice, un sorriso che Nami felice ricambiò.
Roberto, doveva ammettere che la complicità che si era creata tra i due alle volte lo infastidiva.
«Bene, sentiamo questo capolavoro allora…» lo spronò Roberto intromettendosi tra di loro.
Senza far attendere oltre i suoi amici, Kei iniziò a far partire la base improvvisata quasi per intero in quel momento. Con un gesto della testa invitò Nami a inserirsi accompagnandolo nel canto mentre Roberto strimpellava con le sue dita su un basso che era stato adagiato proprio lì vicino.
Il ragazzo italiano doveva ammettere che quella canzone non era niente male. Il brano funzionava bene e la melodia era anche molto coinvolgente. In quei tre mesi il suo amico si era messo al lavoro giorno e notte senza tregua, quasi volesse soffocare con il lavoro qualche cattivo pensiero.
https://www.youtube.com/watch?v=UqdUTdp5Cr0

Nessuno dei tre coinvolti in quella performance improvvisata notò una quarta presenza nascosta dietro la porta.
“Con questa la rottura è assicurata…” pensò Yukino sorridendo malignamente mentre metteva fine alla registrazione dal suo cellulare. Con fare vendicativo, inoltrò la traccia a Takashi, dopotutto anche lui aveva un conto in sospeso con quei ragazzini e finalmente avrebbe avuto la possibilità di ripagarli con la stessa moneta.
Soddisfatta si allontanò riprendendo il cammino verso lo studio di Rio. A breve sarebbe iniziata la sua collaborazione con Take. Era proprio per questo motivo che si era recata alla Kings Record quella mattina.
Riposto il cellulare nella sua borsetta firmata, si diresse al piano superiore verso lo studio di Rio. Lì, in silente attesa, il direttore della Kings Record e il membro più anziano degli Hope attendevano impazienti il suo arrivo.
“Adesso si inizia… ” pensò la giovane promessa della Music Station.
Dopo aver bussato un paio di volte, Rio all’interno la invitò ad entrare, la giovane, con la sua parrucca bruna in testa, non esitò e aperta la porta si fece avanti nella stanza ondeggiando i suoi fianchi sinuosi. Take e Rio la stavano aspettando in piedi davanti la scrivania.
«Sei arrivata finalmente!» se ne compiacque Rio sorridendole.
«Scusate il ritardo, ma i fotografi non volevano proprio saperne di lasciarmi andare» ammise raggiungendo i due.
«Comunque Yukino, vorrei presentarti Take» iniziò Rio indicando il giovane alla sua sinistra convinto che i due non si fossero incontrati prima.
«Ma noi ci siamo già conosciuti…», lo freddò Yukino avvicinandosi al ragazzo. Sporgendosi verso di lui gli restituì un bacio su una guancia che lo fece rabbrividire. Quell’atteggiamento non era da Yukino e anche Rio come Take ne rimase sorpreso.
Dal canto suo, Take era completamente stregato dai modi sensuali e diretti di quella ragazza. Era bellissima proprio come il giorno del loro primo incontro. Così bella da bloccargli la salivazione e da fargli tremare tutto il corpo. Neanche dopo ore di allenamento estenuante si era sentito le gambe vacillare in quella maniera. Quella ragazza era capace con un solo sguardo di fargli perdere ogni controllo.
«Sai, ti ho subito notato quel giorno…» gli rivelò la ragazza recuperando le distanze. Take divenne rosso in viso al ricordo di quel momento nello stretto corridoio.
«Ah, si?»
«Certo, io riconosco subito quando la gente ha del talento…»
A quel punto Rio si intromise tra i due.
«Bene ragazzi, io e il direttore Mashimoto abbiamo concordato che le prove per la vostra canzone si terranno alla Music Station. Per te va bene Take? So che in questo periodo tu e gli altri ragazzi vi state preparando al vostro primo concerto quindi immagino sarà un po’ stressante fare avanti e indietro tra le due strutture…»
«Non ci sono problemi…»lo interruppe il ragazzo dalla capigliatura mossa. Di stare con gli altri proprio non gli andava, dopo l‘ultimo litigio che avevano avuto le cose tra di loro si erano un tantino raffreddate. Tutta colpa di quei dannati giornalisti, sempre pronti a osannare tutti tranne che lui. Un giorno Take non ce la fece più ed esplose. Tutti avevano provato a nascondergli un articolo tremendo, il più cattivo che avessero mai letto, e quella si rivelò essere la fatidica goccia capace di far traboccare il vaso.
«Cos’è? Adesso mi nascondete addirittura le cose? Vi faccio davvero così pena o vi diverte a riderne alle mie spalle?» gli aveva gridato contro Take fuori di sé dalla rabbia. Kei era stato il primo a intervenire in difesa del gruppo. «Idiota, non è per pena che lo abbiamo fatto, è perché ci preoccupiamo per te!».
 «Preoccuparvi per me, tshè! Certo, come no. Ma se ormai non fate altro che pensare a voi stessi. Ditemi, come ci si sente ad essere considerati delle promesse della discografia quando in realtà siete arrivati fin qui solo grazie alla fama dei vostri genitori?»
«Take adesso finiscila» si era intromesso Toshi.
«Ah, giusto, dimenticavo il nostro grande leader…  un ruolo che ti è stato assegnato in modo del tutto casuale e meritevole dico bene?». Take era cambiato così tanto che ormai instaurare un dialogo con lui era diventato impossibile. Così con il passare del tempo il rapporto con il resto del gruppo si era fatto sempre più freddo. Per Take, quella collaborazione con Yukino era arrivata proprio al momento giusto.
«Bene, allora da domani potete anche iniziare a vedervi per esercitarvi. Yukino, il direttore Mashimoto mi ha detto che della musica ve ne occuperete voi…»
«Si, ci sta pensando Takashi» gli rivelò la giovane .
Rio si schiarì la voce prima di proseguire. Il pensiero che Takashi lo avesse abbandonato per la Music Station non gli era ancora andato giù.
«Beh, non mi resta che augurarvi un buon lavoro dunque». Detto questo l’uomo congedò i due giovani che uscirono insieme da quella stanza.
«Yukino, posso farti una domanda?» le chiese a bruciapelo Take mentre camminavano verso l’ascensore. La ragazza acconsentì «certo».
«Perché tra tutti proprio io? Avrai letto quello che hanno scritto i giornali su di me. Non hai paura che la tua reputazione possa essere lesa per colpa di quello che dicono?» La ragazza si fermò «io non bado a quello che dicono i giornali, non ho bisogno di sentire le opinioni degli altri per farmene delle mie. Ti ho visto ballare e cantare e mi piace quello che ho visto, ragion per cui ho chiesto a Rio il permesso di collaborare con te e poi sono sicura che ci divertiremo noi due insieme» detto questo ammiccò complice al ragazzo anticipandolo nell’ascensore. Erano soli in quella cabina quando Yukino riprese la parola.
«Take, hai la ragazza?» lui si irrigidì. «No…».
«Capisco, quindi non ci saranno problemi se ti confesso una cosa…» Yukino si avvicinò all’orecchio del ragazzo. Il suo fiato caldo  fece venire a Take uno strano solletico dietro la nuca. «Sai, da quel giorno non ho desiderato altro che farti mio… e quando voglio qualcosa io la ottengo, sempre…» a quell’ultima parola le porte dell’ascensore si aprirono. Yukino uscì di lì prima che Take potesse aggiungere dell'altro. Ondeggiando i suoi fianchi Yukino si allontanò dal ragazzo ammutolito e paralizzato dentro quella cabina.
 
 
 
 
Londra
 
«Non occorreva che venissi anche tu…» disse Marika a Thomas mentre attendevano impazienti il loro turno nella sala d’attesa del ginecologo per la visita di routine. Il suo pancione era ormai cresciuto parecchio e mantenere il segreto anche agli altri era diventato impossibile così alla fine era stata costretta a rivelare loro tutta la verità anche sulla sua reale identità e presto avrebbe dovuto dire tutto anche ai suoi genitori. Marika era sicura che a differenza dei suoi amici che si erano rivelati carini e premurosi, alla notizia i suoi genitori avrebbero reagito in modo molto diverso. Per quanto avrebbero potuto dirle, lei però non aveva alcuna intenzione di rinunciare a Carotina e poi, adesso, aveva così tante persone dalla sua parte. Se ripensava alle parole della sua amica il cuore le si riempiva di felicità. Era stata proprio la giovane punk a rimproverarla per non averli messi al corrente prima della sua condizione, se lo avessero saputo in tempo avrebbero cercato di aiutarla senza farla stancare inutilmente. « Siamo una famiglia e in una famiglia certi segreti non si mantengono», l’aveva ammonita,  «e poi come avremmo potuto accollarti gli errori di tua madre soprattutto dopo tutto quello che hai fatto per noi in questo periodo».
Si, nonostante Marika non fosse stata onesta con loro alla fine i suoi nuovi amici londinesi le erano stati tutti così vicini, compreso Thomas, che con il tempo aveva guadagnato anche la loro stima. Erano tutti felici che si stesse prendendo cura di lei in quel modo. Considerando gli ultimi avvenimenti lo avevano rivalutato parecchio e anche Marika doveva ammettere di essergli molto grata. Spesso il giovane Direttore della One Million, quando tornava dai suoi viaggi in Giappone, si intratteneva a casa sua per farle compagnia e qualche altra volta le preparava anche la cena. Era molto premuroso con lei e Carotina. Tanto che alla fine la cocciuta ragazza italiana aveva ceduto.
«Quando ha detto che arriverà tua madre?» le chiese lui con sguardo inquieto.
«Questa settimana… sei sicuro di voler andare avanti? Posso anche affrontarli da sola…» gli chiese premurosa Marika, Thomas le sorrise rassicurante prendendole la mano e stringendola forte nella sua.
«Non sono mai stato più sicuro di così. Tu piuttosto,  sei davvero sicura che non te ne pentirai un giorno?».
Marika gli sorrise accarezzandogli il viso.
«Come potrei pentirmene? Sei la persona migliore che potessi desiderare per la mia Carotina. Sono grata al destino per averci fatto incontrare. Senza di te probabilmente non avrei mai trovato tutta questa forza. Sei arrivato proprio quando la mia fermezza iniziava a vacillare. Non posso che esserti grata per tutto questo… per non avermi fatto esitare…» gli rivelò con occhi lucidi e commossi.
“Oh, Thomas. Perdonami, non posso dire di amarti… ma posso prometterti che non ti farò mai pesare questa verità in futuro… Hai fatto così tanto per me. Come potrei?”
«Signorina Mastro… » la richiamò l’infermiera. Marika, mantenendosi i reni, si sollevò dalla sedia aiutata da Thomas. Entrambi entrarono nella stanza delle visite. Il ginecologo accolse la giovane con un grande sorriso.
«Noto che oggi è venuto anche il padre» se ne compiacque. Thomas si presentò all’uomo come se quella fosse la verità anche se entrambi sapevano che non era così.
«Mi spiace non essere potuto venire prima. Sa, il lavoro ci obbliga sempre a mettere da parte le cose più belle…» esordì stringendo sorridente la mano tesa del medico.
«Non si preoccupi, è venuto comunque in tempo per vedere la sua bambina, prego signorina, si accomodi» concluse l’altro facendo segno a Marika di accomodarsi. La stessa distendendosi sul lettino medico, scambiò con Thomas uno sguardo di gratitudine che l’altro fu felice di ricambiare.
«Vediamo, come se la passa la nostra Carotina» aggiunse l'uomo in camice bianco mettendo il gel sul ventre rigonfio di Marika. Thomas si accostò ai due vicini a quello strano marchingegno per la morfologica con un insolito interesse. In silenzio fissava lo schermo in attesa.
«Eccola qui! Ma guardatela, scoppia di salute la piccolina!» annunciò felice il medico. «Bene futuro papà, le presento la sua bellissima bambina. Vede quella lì? È la testolina, questo è il suo profilo!» proprio in quel momento la piccola scalciò cogliendo di sorpresa il medico, che sussultò colto alla sprovvista.
«Ma tu guarda, sembra la stia salutando anche lei» notò divertito rivolgendosi a Thomas che aveva lo sguardo perso su quel monitor bicolore. Era la prima volta che vedere un uomo in camice lo rendeva così felice. Sopraffatto dalla situazione si avvicinò allo schermo, mentre con sguardo incredulo ne sondava la fredda e liscia superficie.
«Ciao Carotina.» affermò commosso. Marika sorrise intenerita. Thomas aveva un’espressione così dolce.
Si, sarebbe stato uno splendido padre per Carotina, ne era più che sicura e poi anche la sua bimba sembrava approvare. Presto sarebbero diventati una famiglia.
Quando tornarono a casa Thomas accompagnò Marika fino al suo letto aiutandola a distendersi. Il medico era stato molto chiaro. Era ormai arrivata al sesto mese e doveva evitare ogni genere di sforzo. Le stava rimboccando le coperte quando lei lo trattenne prendendolo per un braccio.
«Thomas, grazie… », lui le sorrise sedendosi sul letto accanto a lei.
«Sai, penso sia arrivato il momento di trovarle un nome, non credi?» le propose.
«Si, hai ragione…».
«Idee?».
«Vorrei chiamarla Hope… sempre se a te non dispiace». Thomas le sorrise comprensivo.
«Lo stesso nome del gruppo di Rio! Dopotutto non mi dispiace. È un bellissimo nome…» Marika non aveva detto tutta la verità a Thomas sull’identità del padre di Carotina. Ovviamente non poteva immaginare che lui già lo avesse scoperto da tempo.
«Sicuro vada bene? Sai, pensavo che le starebbe proprio a pennello. Una volta sentì una nostra insegnante al liceo dire a un mio amico che è tutto lì quello che ci serve per realizzare i nostri sogni. Se non demordi e mantieni costante la speranza nulla può diventare impossibile. Mi piace che mia figlia cresca pensando che nulla sia impossibile. Con un nome simile, come potrebbe mai dimenticarsene in futuro, dico bene?». Thomas si sporse dandole un bacio sulla fronte.
«Si, e se non dovesse bastare il nome, noi da bravi genitori la sosterremo con amore e dedizione. Adesso riposa, non devi sforzarti. Agli abiti nuovi per Rio ci penserò io. Chiederò a Kat di impacchettarli e spedirli. Dovrebbero arrivare in tempo per il concerto».
«Grazie» aggiunse alla fine Marika mentre l’altro si sollevava dal letto e raggiungeva la porta.
«Non preoccuparti e riposa».
Detto questo Thomas uscì richiudendosi la porta alle spalle. A quel punto, dalla tasca dei suoi pantaloni tirò fuori quell’invito.
 
Con la presente è mia intenzione invitare ufficialmente lei e la sua futura moglie al primo concerto degli Hope. Mi auguro sarete presenti entrambi in modo che possiate ricevere gli elogi che meritate per il vostro duro lavoro. Inoltre in quell’occasione i ragazzi sarebbero lieti di farvi ascoltare la canzone di loro composizione per il lancio del vostro marchio qui in Giappone. Ci hanno lavorato su molto seriamente. Immagino sarebbero felicissimi di farvela ascoltare dal vivo. Se veniste ci farebbe molto piacere. Anche Nami è ansiosa di rivedervi e congratularsi con voi per le vostre imminenti nozze. 
Cordiali Saluti
Rio
“Dovrei dirglielo? Dovrebbe venire anche lei? E se così facendo rivedesse quel Roberto cosa succederebbe? Per quanto provi a nascondermelo la verità è che non lo ha ancora dimenticato, lo so. È così evidente. E se cambiasse idea sul matrimonio? Non voglio perderla e non voglio che quel ragazzino la faccia soffrire ancora…”. Ripiegando quel pezzo di carta lo ripose nella sua tasca.
 
 
Il giorno della visita tanto attesa era arrivata. Marika si mordicchiava le unghie nervosamente. L’idea di rivedere i suoi genitori dopo quasi sei mesi di lontananza la rendeva sia felice che nervosa. L’idea di doverli mettere al corrente della sua gravidanza non la faceva stare tranquilla.
«Se continui così finirai con il farti venire il sangue alle mani» la rimproverò Thomas allontanandole le dita dalla bocca. Lei lo fissò con occhi tesi e preoccupati.
«Andrà tutto bene… fai parlare me». Marika acconsentì. Fu in quel momento che il telefono sulla scrivania del giovane direttore squillò. Senza esitare andò a rispondere lasciando Marika ferma in piedi al centro della stanza.
«Si, Clair. Capisco. Falli salire» concluse in tono grave prima di riagganciare.
«Stanno arrivando!» annunciò.
 
Tokyo
Roberto era con Kei e gli altri ragazzi nello studio di registrazione. Rio aveva affidato ai due neo compositori del gruppo l’incarico di lavorare a una canzone per il lancio della collaborazione con una nuova casa di moda inglese di cui i ragazzi ancora non conoscevano il nome.
«Ragazzi vogliamo un parere sincero. Poi, ovviamente, dovrai aiutarci con la base Toshi».
Il leader acconsentì. Poi Kei fece partire l’audio. Tutti al termine di quell’ascolto assentirono entusiasti.
«È bellissima!» esplose per primo Shin con euforia.
«Si, mi piace molto e poi se aumentiamo il ritmo sono convinto che il risultato sarà perfetto. Fidatevi di me, ho orecchio per le buone canzoni» la promosse a sua volta Toshi.
Jona abbracciò alle spalle entrambi i suoi amici ancora fermi davanti alla loro postazione di lavoro.
«Ragazzi, sono proprio fiero di voi!» disse facendo finta di commuoversi. Kei se lo allontanò di dosso seccato per quel contatto forse un po' troppo ravvicinato per i suoi gusti. «Va bene Jona, abbiamo capito il concetto» concluse stirandosi la maglia sulla spalla. Proprio in quel momento Take fece il suo ingresso nello studio di registrazione.
L’atmosfera si fece subito più fredda. Senza salutare nessuno prese posto su una sedia lasciata in un angolo ignorando gli altri ragazzi vicino la consolle mentre giocherellava con il suo cellulare. Se stava li era solo per evitare che Rio sospettasse che qualcosa nel gruppo si fosse rotta.
«Take, ti andrebbe di ascoltare la nuova canzone a cui stanno lavorando Kei e Roberto?» gli propose Toshi, che da bravo leader cercava sempre di lenire quella ferita nascosta che li divideva.
«A che scopo? Tanto sarà Rio a decidere, e sappiamo già come andrà a finire… ».
Kei scattò dalla sedia pronto ad aizzarsi contro di lui. Proprio non sopportava quelle allusioni di Take. Non faceva altro che insinuare che se erano li era grazie a dei favoritismi. Nulla di quello che facevano e ottenevano era perché lo meritavano. Fu Roberto a frenarlo bloccandolo per un braccio.
«Non ne vale la pena…» gli sussurrò per convincerlo a trattenersi. Il ragazzo con il ciuffo sull’occhio sinistro si divincolò dalla presa salda dell’amico uscendo dallo studio di registrazione sbattendo violentemente la porta. All’inizio di quell’avventura nessuno si sarebbe mai immaginato che proprio Take avrebbe creato problemi nel gruppo. Roberto era stato sempre convinto che sarebbe stato Kei il guastafeste della situazione. Invece, alla fine, quel ragazzo scostante e irascibile si era rivelato un instancabile lavoratore, maturo e capace di gestire bene lo stress e la pressione mediatica; diversamente da Take che era diventato sempre più irascibile e scostante da quando la stampa si era accanita su di lui.
 
Kei era per i corridoi che cercava di soffocare la sua rabbia.
“Cosa crede? Che nessuno si sia dato da fare quanto lui per arrivare fin qui? Che ne sa di quello che ho passato io e delle mie rinunce! Crede davvero di essere l’unico a soffrire in questo momento?” sovrappensiero Kei non notò Nami che avanza verso di lui, prima che potesse accorgersene si scontrò con lei.
«Ahia! Ma si può sapere dove hai la testa?»lo rimproverò Nami pulendosi le scarpe nuove di zecca che Kei le aveva appena calpestato per sbaglio.
«Scusami, non volevo…» concluse proseguendo a capo chino per la sua strada.
“Cosa gli prende adesso? È strano che non mi abbia risposto nel suo solito modo acido”. Senza esitare Nami lo raggiunse.
«Tutto bene?» gli domandò premurosa una volta al suo fianco sinistro.
«Diciamo…» quando Nami lo guardava con quegli occhi preoccupati Kei proprio non riusciva a mentirle. Era diventata una persona preziosa alla fine, più di quanto si sarebbe mai potuto immaginare.
«Ti va di parlarne?» gli propose lei.
«Sicura? Non eri venuta per fare altro?»
«Tutto il resto può aspettare se un amico ha bisogno di me…» gli rivelò sorridendogli. Kei rimase a fissarla immobile mentre il cuore nel suo petto batteva all’impazzata. Nami era diventata giorno dopo giorno sempre più bella e irraggiungibile.
Camminando vicini raggiunsero quella rampa di scale in cui spesso Nami si rifugiava per riflettere e dove si era già incontrata con Roberto una volta. In quell’occasione era stata lei a ricevere supporto mentre adesso era lei a donarlo.
«Cosa succede?» gli chiese prendendo posto sedendosi sulle scale. Kei si sedette al suo fianco.
«Take, non è più lo stesso. Quello che la stampa dice di lui lo sta cambiando. Ho il presentimento che presto qualcosa si romperà in modo definitivo… Dopo tutto quello che ho dovuto sacrificare non posso permettere che accada. Quello stupido pensa davvero di essere l’unico ad essersi impegnato per arrivare fin qui?» ammise fuori di sé dalla rabbia.
«È buffo sentirtelo dire. A quanto pare non è solo Take ad essere cambiato in questi sei mesi. Anche tu sembri diverso. Tempo fa eri stato proprio tu a dubitare degli altri mentre adesso sembri pronto a difendere il gruppo contro chi, come Take, diffida di loro. Mi piace questo nuovo te. Sono felice che tu abbia finalmente imparato a fidarti degli altri. Per quanto riguarda Take è solo sottopressione, vedrai che presto le cose miglioreranno. Forse la collaborazione con Yukino gli gioverà e magari tornerà il ragazzo di sempre».
Nami aveva ragione, Kei era cambiato molto in quel periodo. Ma se era cambiato era proprio grazie a lei. Forse c’era qualche possibilità che anche Take cambiasse grazie a Yukino.
«È a causa tua se sono cambiato…» avanzò Keiarrossendo in modo impercettibile. Nami si irrigidì. Conosceva i suoi sentimenti e questo alle volte la metteva in difficoltà.
Volgendo lo sguardo al pavimento si portò un ciuffo di capelli dietro l’orecchio arrossendo imbarazzata. Kei si sorprese a guardarla in modo diverso dal solito. Finalmente capiva cosa intendesse dirgli Roberto quel giorno di quasi sei mesi prima alla fermata dell’autobus.
… Più che prendertela con me è te stesso che dovresti rimproverare. Se l’hai persa è solo colpa tua che non hai saputo tenertela vicino e apprezzarla come avresti dovuto. L’hai mai davvero amata come merita? Hai mai notato le facce buffe che fa quando è gelosa delle altre ragazze? Ti sei mai soffermato ad ammirare il suo sorriso? Immagino tu non lo abbia mai fatto altrimenti adesso non starebbe al mio fianco ma al tuo…
Odiava che lui già all’epoca avesse avuto ragione. Era vero, non aveva mai realmente notato quanto bella fosse Nami o più semplicemente aveva cercato in tutti i modi di ignorarlo.
Stava per avvicinarsi a lei quando qualcuno aprì la porta alle loro spalle interrompendoli.
«Eccovi qui!» esordì Roberto alle loro spalle. Nami si sollevò rapida andandogli vicino. Quello era un giorno importante. Era il loro mesiversarsio. Aveva comprato i biglietti per il cinema e organizzato il loro pomeriggio. Era da tanto che non uscivano loro due soli, purtroppo tra le prove per il concerto, quella nuova canzone che gli aveva commissionato Rio, Roberto aveva davvero poco tempo da dedicare a Nami. Euforica lo raggiunse.
«Roberto ho comprato i biglietti per il cinema. Stasera ci andiamo insieme?» gli propose. Roberto si scurì in viso mettendo su un’aria colpevole.
«Nami, veramente oggi devo rimanere qui con Toshi per lavorare alla base della canzone… mi dispiace».
Nami reclinò il capo stringendo la mano su quei due inutili biglietti.
“Maledizione Nami, non fare così… smettila di essere triste altrimenti potrei…” Kei si sollevò raggiungendoli.
«Con Toshi posso rimanerci io» gli propose rilegando nel profondo quella vocina che gli gridava di stare fermo. Senza orgoglio rigettò quei sentimenti ancora una volta dentro di sé. Nami si voltò verso di lui con sguardo sorpreso.
“Perché lo sta facendo? Per me?”
«No Kei, ho promesso a Toshi che avremmo lavorato insieme alla melodia. Dopotutto l’ho composta io e preferisco essere presente se ci saranno dei cambiamenti. Ormai siamo agli sgoccioli. Tra meno di una settimana quelli della casa di moda verranno ad ascoltarla, ma grazie per l’interessamento. Adesso è meglio che ci raggiungi, Shin è in pensiero per te» lo spronò Roberto con una pacca amichevole dietro la schiena, prima di uscire dalla zona riservata alle scale di sicurezza.
Prima che Kei lo seguisse Nami lo trattenne per un polso.
«Non avresti dovuto! Perché lo hai fatto?»
«Perché non sopporto di vederti triste… ecco tutto» detto questo uscì lasciando Nami sola con quei biglietti tra le mani.
“Perché adesso mi sembra che Kei mi capisca più di Roberto?”
 
Italia
Angela e Marco non potevano credere ai loro occhi.
«Se è uno scherzo, sappiate che è di pessimo gusto» esordì la donna portandosi le mani ai fianchi sbigottita.
«Signori Mastro, davvero, volevamo dirvelo prima, ma abbiamo aspettato perché preferivamo farlo di persona», stringendo Marika a sé Thomas proseguì, «non dovete preoccuparvi, abbiamo intenzione di sposarci subito dopo la nascita della bambina».
Marika per tutto il tempo di quell’assurda discussione tra sua madre e Thomas, era rimasta con lo sguardo fisso su suo padre, che ostinato continuava a volgere lo sguardo altrove. La stava evitando. Era deluso, Marika glielo poteva leggere chiaro in faccia. Su sua madre non aveva alcun dubbio, ma sperava che almeno suo padre non la giudicasse in modo così duro.
«Pensavo fossi un ragazzo coscienzioso Thomas, mi hai deluso profondamente. Ma è anche vero che ormai il danno è fatto. Non mi interessa quello che pensate, voi due vi sposerete tra un mese… non accetto obiezioni».
«Ma mamma…» si inserì Marika.
«Ma mamma un corno! Hai voluto fare di testa tua ed ecco il risultato! Adesso si fa come dico io e non accetto obiezioni da nessuno dei due». Detto questo la donna girò i tacchi facendo segno al marito di seguirla e uscire dallo stanza studio di Thomas.
«Papà, aspetta!» tentò di frenarlo Marika, ma Marco era troppo stanco per reggere oltre quella visione, si voltò solo un attimo verso sua figlia prima di seguire sua moglie fuori chiudendosi la porta alle spalle.
 Marika solo a quel punto crollò, lasciando libere le lacrime mentre cercava conforto tra le braccia di Thomas.
«Li ho delusi… non vorranno più guardarmi in faccia…».
Lui le accarezzò i capelli con una mano.
«Rimani qui, torno subito!» le disse prima di sciogliere quell’abbraccio.
«Dove stai andando?» gli chiese lei trattenendolo per un polso.
«I tuoi devono sapere con quanta tenacia hai combattuto. Devono conoscere la Marika di cui io sono così tanto fiero…» detto questo uscì lasciandola indietro ad attenderlo.
Raggiunse i signori Mastro che erano ancora fermi in attesa dell’ascensore.
«Aspettate vi prego…» disse una volta che li ebbe raggiunti.
«Cos’altro vuoi tu? Non avrei mai dovuto dare retta a tuo padre. Alla fine quello stupido ha sacrificato il suo posto per un figlio incosciente che non riesce a tenere a freno i propri appetiti sessuali. Non avrei mai dovuto affidare a un’irresponsabile come te un incarico importante come questo.»
«Mio padre cosa?» Thomas non poteva credere alle sue orecchie, suo padre aveva sacrificato il suo posto per lui?
 “Quindi alla fine non sono stato assunto per il mio merito, ma solo perché è stato lui a chiederlo?”.
La signora Mastro stava per voltarsi ed entrare nell'ascensore, ma Marco non poteva lasciarla andare via così. «Aspetti! Ha ragione. Sono un irresponsabile. Ho commesso un errore, ma alle volte anche da un errore possono nascere cose meravigliose. Lei non era qui quando sua figlia lottava per affermarsi. Fino a poco fa nessuno qui conosceva la sua identità e senza il suo nome alle spalle ha lottato con tutte le forze per affermare le proprie capacità. È stato il suo talento a permetterle di essere notata. Non le ha dato nemmeno la possibilità di raccontarle dei suoi successi. È appena stata assunta da una casa discografica giapponese per curare l’outfit dei suoi cantanti. Questo è indice delle notevoli capacità di sua figlia, della sua forza, della sua tenacia e del suo coraggio. Ha lavorato sodo senza cedere nemmeno una volta alla tentazione di venire da voi e confessarvi che era incinta. Vi garantisco che non è stato facile per lei portare avanti la gravidanza e lavorare sodo senza poter raccontare nulla di tutto questo neanche a voi che siete la sua famiglia. Io so quanto difficile sia andare avanti contando solo sulle proprie forze. Pensi a questo prima di voltarle le spalle. Perché una volta preso questa strada tornare indietro sarà veramente difficile. Vi prego non siate troppo duri con lei… se volete incolpare qualcuno incolpate me». Marco a quel punto abbandonò il fianco rassicurante di sua moglie e si avvicinò a Thomas. Chiuse la mano in un pugno che raggiunse rapido il viso del ragazzo.
Thomas crollò al suolo mentre Marika lo raggiungeva.
«Papà cosa stai facendo?» gli domandò lei mentre china sul pavimento aiutava Thomas a rimettersi in piedi.
«Non ho bisogno che un ragazzino mi dica come fare il genitore. Adesso se non vi dispiace…» detto questo entrò nell’ascensore seguito da Angela, sua moglie. Le porte dello stesso si chiusero, ponendo fine alla discussione.
«Mi dispiace, speravo di riuscire a persuaderli e invece…» Marika una volta che Thomas fu di nuovo in piedi gli accarezzò il viso lì dove aveva ricevuto il pugno chiuso di suo padre.
«Grazie, per tutto, ma la prossima volta non voglio che ti assuma colpe che non ti appartengono. Siamo intesi?» detto questo Thomas mise la sua mano su quella di Marika ancora vicina al suo viso.
«Va bene, te lo prometto».
Marco e sua moglie erano appena arrivati al piano terra.
«Maledizione, penso di aver dimenticato la giacca nello studio di Thomas. Tu inizia ad andare alla macchina io ti raggiungo subito». Detto questo riprese l’ascensore e raggiunse ancora una volta quel corridoio in cui poco prima aveva colpito il giovane direttore dell One Million londinese. Quella della giacca in realtà era solo una scusa. Doveva parlare con sua figlia. Quando finalmente le porte dell’ascensore si aprirono notò Marika e Thomas ancora fermi nel corridoio. Quando la giovane vide suo padre avanzare nella loro direzione, trascinò Thomas dietro di sè in una mossa difensiva. Quando Marco fu ancora una volta  davanti ai due giovani il suo viso duro e incollerito sfumò rivelando un caldo e inatteso sorriso.
«Mi dispiace ragazzo. Non volevo colpirti, ma se non avessi fatto qualcosa mia moglie me l’avrebbe pagare cara. Credimi ha un pessimo caratterino». Entrambi i ragazzi strizzarono gli occhi increduli un paio di volte.
«Papà tutto bene?» gli domandò Marika perplessa.
«Si, benissimo. Sono salito perché volevo dirvi una cosa… » entrambi rimasero in attesa che Marco proseguisse.
«Prima però ho bisogno di parlare con entrambi singolarmente…» detto questo spronò i due a raggiungere lo studio.
Il primo fu Thomas. Marika rimase fuori in attesa.
«Ragazzo, volevo ringraziarti per esserti preso cura di mia figlia e poi per esserti assunto la responsabilità di quello che è successo. Quello che hai detto prima lo pensi davvero?»
«Certamente. Marika è una ragazza speciale, una persona unica, capace di far emergere il meglio della gente e anche da me. È la donna che amo e che voglio rendere felice per il resto della vita.»
«Sembri sincero. Voglio fidarmi delle tue parole e concederti mia figlia. Sento che tu sarai in grado di renderla felice nonostante tutto…».
«La ringrazio. Farò del mio meglio!» concluse Thomas.
Concluso il suo discorso con lui, Marco tornò fuori da sua figlia in attesa.
«Ti andrebbe di scortarmi fino all’ascensore?» le propose con occhi amorevoli. Marika acconsentì.
Erano l’uno accanto all’altro.
«Marika, sono fiero di te. Non pensare che tua madre non lo sia. Sappiamo tutto dei tuoi progressi. Entrambi siamo così orgogliosi della donna che stai diventando: forte, tenace e generosa. Perdonala e cerca di capirla, per tua madre è stato uno shock scoprirlo…»Marika a quel punto si immobilizzò
«Cosa vuoi dire che per lei è stato uno shock? tu non eri sorpreso?» Marco a quel punto si arrestò.
«Io so che Thomas non è il padre della bambina…»
Marika si irrigidì.
«Cosa?»
«Ammetto che non avrei dovuto farlo. Ma un giorno sono entrato nella tua camera prima che partissi e ho trovato la scatola di un test di gravidanza in uno dei tuoi cassetti e se la logica non mi inganna, Thomas lo hai conosciuto solo dopo essere venuta qui a Londra. Già prima di partire sapevi di essere incinta, non è così?»
Marika era impallidita seduta stante. Suo padre allora sapeva già tutto?
«Papà, io…»
«Non voglio chiederti chi sia il padre perché nel profondo penso già di saperlo. Ecco, se mi permetti un consiglio, credo sia giusto che il padre della bambina sia informato» detto questo estrasse da una tasca del cappotto un mazzo di lettere doppio almeno cinque centimetri.
«Queste sono arrivate periodicamente fino a due mesi fa. Poi non è arrivato più nulla, solo due giorni fa è arrivata l’ultima. Sono di Roberto… credo tu sappia cosa sia giusto fare. Ricorda che scappare nella vita diventa con il passare del tempo sempre più faticoso…».
Marika raccolse quelle lettere dalle mani di suo padre.
“Ha continuato a cercarmi per tutto questo tempo? Due mesi fa a smesso di scrivere? Come mai ha deciso di scrivermi ancora dopo due mesi?”
La ragazza ripose quelle lettere nella tasca del suo cappotto lasciandosi in mano solo l’ultima arrivata.
«Lo so, ma cosa posso farci? Io non posso rovinargli la vita proprio adesso» detto questo reclinò il viso verso il pavimento.
«Mi dispiace che tu abbia dovuto affrontare tutto questo da sola… » proseguì con rammarico Marco stringendo a sé la sua bambina, «non preoccuparti figlia mia, d’ora in avanti le cose miglioreranno…»
«Mi sei mancato papà»
«Anche tu mi sei mancata».
 
Thomas era ancora nello studio, seduto dietro la sua scrivania che rifletteva su quanto gli aveva da poco riferito la signora Mastro. Se quelle parole erano vere, allora tutto quello che aveva fatto per arrivare fin li era stato inutile. Era per vendetta che si era proposto per  il ruolo che sarebbe dovuto essere di suo padre, un ruolo per il quale quell'uomo  aveva sacrificato sua moglie e il suo unico figlio. Lo aveva fatto per rivalsa. Per non concedergli il lusso di guadagnarci qualcosa da quel momento evento, ma alla fine non erano stati i suoi meriti a farlo giungere lì dietro quella scrivania, ma quella stessa persona su cui sperava di vendicarsi. Con un movimento deciso si sollevò dalla seduta comoda della poltrona girevole per uscire e raggiungere suo padre nel magazzino. La storia non poteva e non doveva concludersi così. Prima di tornare con Marika a casa, doveva parlare con lui.
Quando giunse nel magazzino, Carl era fermo con un block-notes tra le mani che controllava le merci in arrivo. Dopo che Timothy, Kat e Adam erano stati promossi, toccava a lui controllare che i nuovi assunti non compiessero errori.  Quando Thomas finalmente lo raggiunse lui aveva già completato la sua opera di controllo.
«Cosa ci fai qui?» esordì sorpreso. Il giovane Direttore della One Million non era mai sceso nel magazzino negli orari di lavoro, perché sapeva che ci avrebbe trovato suo padre. Il fatto che fosse lì in quel momento era davvero insolito. I suoi occhi erano rossi e furibondi.
«Perché lo hai fatto? COME DIAVOLO TI È VENUTO IN MENTE!» gli urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, rimanendo senza più aria nei polmoni. L'uomo barbuto rimase immobile e impassibile dinanzi a quell'uscita di suo figlio.
«Di che stai parlando...?» proseguì ignorandolo mentre con gli occhi bassi ricontrollava la lista degli scarichi tra le sue mani. Thomas con un movimento brusco gli tirò via dalle mani quella cartellina buttandogliela a terra.
«Si può sapere perché mi hai fatto questo? Alla fine mi hai ridotto a uno dei tanti raccomandati di questo mondo. Quello che volevo non era che tu mi cedessi il tuo posto, io volevo strappartelo via con le mie stesse mani... Volevo provassi rimorso e  pentimento per quello che hai fatto alla mamma e a me. Volevo soffrissi! Volevo strapparti via quello che amavi di più proprio come hai fatto tu strappandomi via la mamma!». Carl con impeto colpì con uno schiaffo il viso di suo figlio.
«Pensi non abbia sofferto anche io? Pensi che non abbia provato, dolore, rimorso per quello che vi ho fatto? Non c'è giorno che passi senza che io ripensi ai miei errori. Non credi basti questa come punizione? O per te non è abbastanza? Se preferisci che muoia anche io, dimmelo subito! Tanto ormai la mia vita non ha più senso...  dici che volevi privarmi di ciò che amavo di più come io ho fatto con te, beh, mi dispiace deluderti, ma ci sei riuscito e non parlo di questo lavoro, parlo dell'amore di mio figlio. Si, hai avuto la tua vendetta nonostante tutto, questo dovrebbe renderti felice, no? E perché tu lo sappia, se ti ho ceduto il posto non è per favoritismo, ne per senso di colpa, ma solo perché ti meritavi di gestire questa sede più di me. Tu sai cosa significa mettere da parte se stessi per gli altri, io non l'ho mai imparato, è un dono che ti ha lasciato tua madre e che io ho voluto solo crescesse e desse i suoi frutti. Adesso dimmi, cosa vuoi che faccia!? Vuoi che muoia anche io? Vuoi che la faccia finita? Se mi dici di farlo, lo farò... ». Thomas, immobile osservava suo padre, senza dargli alcuna risposta si girò e uscì dal magazzino.  Non aveva altro da dirgli, voleva solo andarsene via. 

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Capitolo 31
*** UN CINEMA A SORPRESA ***


 CAPITOLO 31
 UN CINEMA A SORPRESA

 
Tokyo
Roberto era con Toshi che lavorava alla traccia strumentale mentre ormai il resto del gruppo si era dileguato. Jona era scappato via con la scusa di un impegno, Shin era andato al dormitorio con Kei, mentre Take era volato via subito dopo quella discussione senza comunicare a nessuno dove era diretto, così alla fine erano rimasti solo il ragazzo italiano e il figlio del direttore a lavorare nello studio di registrazione. Per quanto fosse stata difficile, alla fine il leader aveva dovuto accettare la relazione tra Roberto e sua sorella gemella. In un certo senso si sentiva in debito con lui e non riusciva a condannarlo completamente. Dopotutto aveva avvicinato Clara per lo stesso motivo, solo che a differenza del suo amico italiano non gli era andata ugualmente bene. Dopo quel bacio davanti all’orfanotrofio non aveva avuto modo di rivedere Clara. Sapeva che stava lavorando al suo racconto e forse per questo motivo aveva rinunciato ad andare all’orfanotrofio per cercarla. Sperava si sarebbe fatta viva lei prima o poi e invece in due mesi, a causa di impegni vari da entrambe le parti, non c’era stata occasione per loro di rivedersi.
Mentre i due lavoravano alla canzone, Kei era fuori che attendeva con Shin il loro autista per tornare al dormitorio.
Fu proprio mentre erano lì fermi che Kei notò Nami seduta su una panchina, ferma in attesa di qualcosa o qualcuno. Tra le mani aveva ancora quei biglietti del cinema.
“Non è possibile, lo sta ancora aspettando?” dando un’occhiata dal suo telefonino, si rese conto che erano ancora le sei di pomeriggio.
“Quei due ce ne avranno ancora per molto… ha davvero intenzione di rimanere lì ad aspettare che finiscano?”
 
«Perché non la raggiungi?» lo spronò a bruciapelo Shin come intuendo i suoi pensieri nascosti.
«Cosa? E perché dovrei?» cercò di riprendersi Kei.
«Te lo si legge in faccia che vuoi raggiungerla…» gli fece notare divertito Shin.
«Non dire sciocchezze. Perché dovrei? Non sono mica il suo ragazzo io…»
«Lo so, ma sei suo amico e penso che Nami abbia bisogno di te in questo momento. Sembra così triste…» notò il più piccolo.
«E tu?»
«Io andrò al dormitorio per primo. Non preoccuparti per me. Pensa a Nami» lo sollecitò con un sorriso che andava da orecchio a orecchio.
Scompigliandogli i capelli Kei ricambiò il sorriso del fratello.
«Va bene, se proprio insisti vado. Mandami un messaggio appena sarai arrivato al dormitorio, siamo intesi?» lo ammonì puntandogli il dito indice contro.
«Certo! Tranquillo! Adesso va!» lo spinse l’altro facendolo quasi cadere dal marciapiede. Kei lo salutò prima di correre sulle strisce pedonali verso Nami.
“Kei, alle volte penso di essere diventato un peso per te… e la cosa mi rende triste…”
La macchina bianca apparve e Shin vi salì dentro mentre Kei raggiungeva Nami.
«Ehi? Che ci fai qui?» le domandò aggiustandosi le lenti scure sugli occhi.
«nulla… aspetto…» detto questo Nami reclinò il viso verso quei biglietti che teneva stretti tra le sue mani.
Inaspettatamente Kei glieli strappò via ispezionandoli con curiosità.
«Ehi! Ridammeli!!!» cercò di riprenderli Nami sollevandosi sulle punte per raggiungere le mani di Kei.
«Tra dieci minuti inizia lo spettacolo… »
«Lo so…» ammise afflitta l’altra.
«Che coincidenza… avevo giusto intenzione di andare a vedere questo film. Non mi venderesti i biglietti?»
«Cosa?»
«Si, hai capito bene, mi vendi i biglietti?»
«Ma non riuscirai mai ad arrivare in tempo…»
«Per questo non dovresti farmi perdere tempo. Che fai, me li vendi o no?»
Nami era davvero perplessa. “Tanto non riuscirei comunque ad andarci con Roberto”
«Come vuoi…». Detto questo Kei tirò fuori i soldi e li diede a Nami.
«Perfetto adesso devo trovare solo qualcuno con cui andarci. Cavolo, Shin è appena andato via e non troverò mai nessuno che voglia venirci con me in tempo…»
A Nami scappò un sorriso poco contenuto. Kei aveva davvero un modo tutto suo di farla sorridere.
«Trovato!» esordì alla fine battendo la mano destra chiusa a pugno sul palmo della sinistra rivolto verso l’alto, «perché non ci vieni con me? Sei l’unica persona libera nelle imminenti vicinanze e mi faresti un grande favore… non ho proprio il tempo di cercare qualcun’altro adesso, tra sette minuti inizierà il film».
«Io veramente… non saprei… avevo intenzione di aspettare Roberto…»
Kei la prese per un polso.
«Ti prometto che torneremo in tempo per quando avranno finito!».
“Che faccio?” Nami era veramente combattuta. Aveva preso quel giorno libero per uscire con Roberto, chissà quando i suoi impegni le avrebbero concesso un’altra occasione come quella. Era davvero stremata, tra la scuola di recitazione, gli spot e le interviste non vedeva l’ora di trascorrere un pomeriggio senza pensieri.
«Allora?» insistette Kei.
«Va bene… ma giusto il tempo del film. Poi torniamo qui. D’accordo?» Kei le sorrise e spronandola, la trascinò via da lì verso il cinema.
 
Roberto era finalmente solo, Toshi era uscito un attimo per comprare ad entrambi qualcosa da bere. Con le mani dietro la nuca e il viso rivolto al soffitto, rifletteva.
“Chissà se avrò fatto davvero bene a mandarle quella lettera? So che adesso ho Nami qui al mio fianco, ma il mio cuore non riesce a smettere di pensare a Marika. Eppure continuo a chiedermi: chissà se deciderà di venire in Giappone una volta saputo del concerto? Ma chi voglio prendere in giro, per quattro mesi le ho inviato lettere senza mai avere una risposta. Cosa mi fa credere che con questa sarà diverso? Devo smetterla… Marika non verrà mai…”
 
Londra
Il biglietto tra le sue mani riportava un nome a caratteri cubitali. HOPE.
“Non può essere… questo è il biglietto per il suo concerto… ma come faccio ad andarci? Forse… ma cosa dico? Non posso. Assolutamente no! Eppure perché le parole di papà continuano a martellarmi nella testa? Maledizione, forse dovrei andarci se non per dirgli la verità per lo meno per dargli un motivo per smetterla di pensarmi. Se mi vedrà, magari, riuscirà a farsene una ragione… e forse, dopotutto, ci riuscirò anche io… ” lo sguardo di Marika cadde su quella pila di lettere accatastate sulla sua scrivania.
Aveva troppa paura di aprirle e leggerle. Paura che le parole che ci avrebbe trovato all’interno, avrebbero avuto il potere di farla cedere ancora una volta.
DRIIIN DRIIIN…
Il citofono venne a interrompere i suoi pensieri. Senza pensarci troppo andò a rispondere.
«Marika siamo noi! Ci apri?» la ragazza con il pancione aprì ai suoi due amici.
Dopo poco Kat e Timothy entrarono nell’appartamento.
«Come vi sentite?» le domandò la giovane punk accarezzandole il pancione come per salutare anche Carotina.
«Bene. Voi piuttosto, cosa mi raccontate? Come procede li alla One Million?». Thomas era stato irremovibile aveva insistito perché Marika lavorasse da casa. Aveva paura che la bambina potesse risentirne. Cosi Marika non vedeva più i suoi amici come una volta.
«Tutto bene, anche se devo ammettere che la tua mancanza si sente eccome. Carl non è per niente come te!»
«Suvvia, non dite così, mi farete sentire ancora più in colpa di quanto già non mi senta. Ma venite, non rimanete in piedi» asserì guidando i suoi amici vicino al piccolo tavolo della cucina. Kat e Timothy si accomodarono intorno allo stesso.
«Co..co..co..me è andata con… con… con i tuoi genitori?» gli domandò il ragazzo gracile e occhialuto sistemandosi le lenti sul naso adunco.
«Diciamo che è andata. Tra un mese io e Thomas ci sposeremo… mia madre non vuole aspettare e da un lato, anche io credo sia meglio così… meglio togliersi il dente subito no?» Kat prese nella sua la mano di Marika.
«Non devi farlo per forza, lo sai vero?»,
«lo so, ma Thomas ha fatto così tanto per me e poi non voglio che la mia HOPE cresca senza un padre… non voglio essere egoista fino a questo punto…»
«Hope?» ripeté Timothy senza balbettare come al suo solito.
«Hai deciso il nome della bambina?» le chiese per conferma anche la punk saltando su dalla sedia con un largo sorriso sul suo viso solitamente inespressivo.
«Si, si chiamerà Hope. Anche Thomas è d’accordo con me». Fu in quel momento che la ragazza italiana si rabbuiò ripensando a quel biglietto e a quelle lettere adesso nel cassetto della sua scrivania.
«Come sono felice! Chissà che faccia faranno in Giappone quando scopriranno che la tua bambina si chiamerà proprio come il gruppo per il quale stiamo creando gli outfit. Non vedo l’ora di partire. Tu verrai, non è così?»
Marika scosse il capo interdetta.
«Venire dove?» chiese all’amica.
«In.. in.. Giappone. Rio ci ci ci ha invitati alla pri..pri..prima del co… co…concerto» le chiarì Timothy ancora seduto al tavolo.
«Thomas non ti ha detto nulla?» le domandò Kat riprendendo posto sulla sedia vicino al tavolo. Anche Marika la imitò fissando l’altra indecisa sul cosa risponderle.
«Ma certo, si. Mi ha detto del viaggio. Che sciocca, ma dove ho la testa?» improvvisò per non lasciare emergere che in realtà era la prima volta che ne sentiva parlare.
«Bene, speravamo davvero venissi anche tu. Senza di te già immagino che disastro potremmo combinare. Quindi? come è andata la visita di routine? hai chiesto già al tuo ginecologo se sei in grado di affrontare il viaggio nel tuo stato?»
Marika si irrigidì. “Bene e adesso, che le racconto?”
«Dice che posso viaggiare e che non ci sono problemi» le mentì.
La punk esultò gioiosa.
«Meglio così, sono sicura che Nami sarà molto contenta di rivederti!» detto questo Kat si sollevò facendo segno a Timothy di imitarla. A sua volta anche Marika si sollevò mantenendosi i reni.
«Bene, adesso dobbiamo andare. Lo conosci Carl è un tipo molto fiscale e non tollera i ritardi. Anzi, quasi dimenticavo, hai finito i modelli per il nuovo album?» Marika acconsentì avvicinandosi alla scrivania.
Aprendo il cassetto, sotto le lettere di Roberto scorse una cartellina con delle bozze, l’agguantò tornando subito dopo dai suoi amici.
«Eccole qui, chiedete a Carl cosa ne pensa. Se mi darà la sua approvazione allora le porteremo con noi in Giappone…».
«Agli ordini capo!» la riprese Kat ammiccandole complice. Poi preso per un braccio il povero contabile e uscì trascinando anche l’altro via dall’appartamento di Marika. Una volta che i due furono fuori Marika prese posto vicino la scrivania.
“Perché Thomas non mi ha detto nulla di tutta questa storia?”
Meditabonda la ragazza con il pancione tirò fuori dal cassetto quel biglietto analizzandolo irrequieta.
 
Tokyo
Kei e Nami erano appena entrati nel cinema. Erano l’uno accanto all’alta, davanti a loro una lunga fila di gente. Mentre Kei faceva la coda per entrare in sala, Nami era rimasta ferma vicino una di quella macchinette con il gancio piene di peluche coloratissimi. A quel punto Kei la raggiunse.
«Cosa guardi di così interessante?»
«Ti ricordi Pinky? Era un personaggio dei cartoni animati. Io e Toshi ogni mattina lo guardavamo insieme prima di andare a scuola. Non credevo ne producessero ancora il peluche?» constatò indicandolo tra i tanti animaletti di pezza dietro quel vetro trasparente.
Kei si schiarì la voce.
«Sei davvero un bambina. Sbrighiamoci o perderemo il film…» spronando Nami Kei riprese posto nella lunga fila. Stavano per prendere posto in sala, quando Kei si portò una mano alla fronte.
«Maledizione! I popcorn! Aspettami qui, torno subito» detto questo Kei si rifilò ritornando nell'atrio nella zona ristoro. Mentre era in fila per i popcorn con la coda dell’occhio fissava quella dannata macchinetta. Proprio mentre stava per voltarsi notò una giovane coppia avvicinarsi alla stessa.
«Amore voglio quel coniglio! Ti prego, prendilo!»
«Ok, adesso ci provo!».
Il ragazzo della coppia prese una monetina da una delle sue tasche.
“No Kei, non pensarci neanche per sogno. Uno non ti riguarda e secondo, perché mai dovresti farlo? Queste sono cose che i ragazzi fanno per le proprie ragazze. Io sono solo un suo amico, niente di più…”
La voce altisonante della giovane vicino la macchinetta richiamò la sua attenzione ancora una volta.
«Dai, ci sei quasi… prendilo, prendilo….ti prego».
“Ok, se non lo afferra quel tipo ci proverò, ma se dovesse riuscirci lo prenderò come un segno del destino”.
Proprio in quel momento la giovane esultò euforica saltellando infervorata.
«Lo hai preso! lo hai preso! Ehi, aspetta un attimo… ma io volevo il coniglio… non questa specie di rana… »
«Mi dispiace, ma non lo avevo capito» se ne rammaricò il ragazzo a capo chino e con la coda tra le gambe.
«Sei proprio un buono a nulla » detto questo la tipa uscì dal cinema sbuffando indispettita.
«Tesoro aspettami… ci riprovo…» la inseguì l’altro.
Avvicinandosi quatto quatto alla macchinetta Kei uscì la monetina.
“Ma tu guarda cosa mi tocca fare. E va bene, prendiamo questo dannato coniglio”.
Nami era nella sala che aspettava l’arrivo di Kei.
“Ma insomma quanto ci vuole per comprare due popcorn?” la verità era che non voleva rimanere da sola in quella sala piena di coppie felici. Quel giorno avrebbe voluto passarlo con Roberto e invece i suoi piani erano stati stravolti ancora una volta.
«Eccomi, mi dispiace, avevano finito i popcorn. In compenso ho comprato due pacchi di patatine al formaggio...» concluse rammaricato porgendole uno dei due.
«Non importa andranno bene lo stesso» addolcì il suo sguardo Nami, era contenta che ci fosse Kei lì con lei. Il film iniziò. Era una commedia romantica, Kei aveva smesso di prestare attenzione a quella proiezione già dopo i primi dieci minuti. Era completamente assorto da Nami e da quel sorriso luminoso che aveva dipinto sul viso. Vederla sorridere gli sembrò la cosa più bella che i suoi occhi potessero ammirare in quel momento. Per quasi tutto il film continuò a guardarla. Quando finì la proiezione entrambi uscirono dal cinema con il cuore più leggero.
«Devo ammettere che anche senza popcorn non è stata una brutta idea venire al cinema con te», lo stuzzicò con ironia Nami mentre camminavano verso la Kings Record.
«Alla fine lo ammetti che non è stata una brutta idea allontanarci per un paio d'ore!»
«Beh, è tutto merito del film se mi sono divertita mica tua!» lo canzonò.
«Ah, si? Beh, allora questo non te lo do più...» detto ciò Kei tirò fuori Pinky dondolandoglielo davanti agli occhi.
Nami spalancò la bocca sorpresa, «lo hai preso per me».
Per un breve istante nei suoi occhi Kei lesse una strana luce mista ad amarezza, come se Nami avesse visto in quel suo gesto più di quanto avrebbe dovuto.
«Non farti strane idee... prendilo prima che decida di regalarlo alla prima ragazza di passaggio!» Nami senza esitare lo prese dalle sue mani sorridendo. Era felice. Quel giorno la sua felicità era tutta merito di Kei. Le era immensamente grata per questo. Se non ci fosse stato lui, probabilmente, avrebbe trascorso quelle due ore a deprimersi su quella panchina. Camminando parlando del più e del meno i due raggiunsero la Kings Record, fuori ad attenderli c'erano Toshi e Roberto, avevano due espressioni preoccupate sul volto. Quando li videro farsi avanti nella loro direzione i due ragazzi si avvicinarono loro furibondi.
«Sono due ore che provo a chiamarti, si può sapere che fine hai fatto?» la riprese Roberto. In quel momento Nami squadrò Kei, indecisa sulla risposta da dare.
«È colpa mia, le ho chiesto di accompagnarmi in un posto perchè non volevo andarci da solo...» Roberto fulminò Kei prima  di  prendere Nami e allontanarla da lui con uno scatto fulmineo. «Kei, immagino di non aver bisogno di ricordarti che Nami è la mia ragazza adesso. Giusto?» Kei strinse i pugni delle sue mani. A quel punto arrivò Toshi a calmare quelle acque turbolente.
«Ragazzi, finitela adesso. Sono convinto si tratti solo di un malinteso... dico bene?»
«Malinteso un corno!! Vuoi sapere la verità brutto idiota!» esplose Kei rivolgendosi a Roberto, «Nami era triste per colpa tua e io ho solo fatto da amico quello che avresti dovuto fare tu come suo ragazzo... Anche se non sono ancora pienamente convinto che tu lo sia davvero. Ti ho visto l'altro giorno mentre imbucavi quella lettera... era per lei non è così?».
Roberto si irrigidì. Nami a quel punto si voltò sorpresa verso di lui.«Roberto, le hai scritto ancora?» gli chiese con un filo di voce. Le aveva promesso che non l'avrebbe più contattata, e per tutti i due mesi successivi a quella promessa era stato così, aveva rinunciato a scrivere quelle lettere, ma con l'avvicinarsi del concerto qualcosa dentro di lui si era riaccesa. Forse una speranza nascosta e disperata e così aveva inviato quella lettere con il biglietto per il concerto a Marika. Non pensava che Kei lo avesse visto mentre la imbucava. Non voleva ferire Nami, ma la verità era che non aveva ancora dimenticato il suo primo amore.
«Cosa dici! Ho solo scritto una lettera ai miei genitori. Cos'è? anche questo è vietato adesso?» cercò di convincerli, ostentando con fermezza quella bugia che gli pesava sulla coscienza. Non voleva ferire Nami, ne farla preoccupare inutilmente. Dopotutto era sicuro che Marika non sarebbe mai venuta, soprattutto considerando il fatto che per tutto quel tempo non aveva risposto nemmeno a una delle sue lettere. 
«Ragazzi non so di che state parlando, ma credo sia meglio chiuderla qui, c'è gente che ci guarda» asserì Toshi parandosi tra i due. A quel punto Kei si allontanò adirato dal trio. Toshi rassicurato dalla ritirata di Kei, sospirò dando una fugace occhiata all'orologio da polso. «Immagino che voi due ne abbiate di cose da dirvi. Io adesso vado. Ci vediamo ai dormitori». Nami a quel punto prese la mano di Roberto nella sua e sorridendo a suo fratello, in modo da rassicurarlo, lo salutò, allo stesso modo fece l'altro. Poco dopo Nami spronò Roberto a rientrare nella Kings Record. Dovevano parlare. 

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Capitolo 32
*** COME IL MIELE ***


 CAPITOLO 32
COME IL MIELE

Londra
Marika era appena uscita dallo studio del suo ginecologo. Tra le mani stringeva il certificato medico che attestava che poteva viaggiare. Ovviamente ottenerlo non era stato facile, a causa dei suoi precedenti, per lei viaggiare era rischioso, ma aveva cercato di convincere il medico che doveva recarsi in Giappone a tutti i costi. Ed era vero, doveva mostrarsi a Roberto con il pancione al fianco di Thomas cosicché lui si potesse dimenticare di lei e anche lei potesse andare avanti a sua volta con il matrimonio. Doveva farlo per entrambi e doveva farlo prima che Hope nascesse. A quel punto come avrebbe potuto nascondere la verità? Se la piccola avesse preso i tratti di Roberto Marika non avrebbe più potuto nascondergli che era sua figlia e non poteva permettere che lui e altri lo scoprissero. Doveva agire prima che la verità esplodesse distruggendo ogni possibilità di chiudere la loro storia definitivamente. Se avesse giocato bene le sue carte, alla fine l'avrebbe odiata a tal punto da non volerla più vedere, ed era proprio quello che voleva. Grazie ad Ambrogio, Marika raggiunse la sede della One Million. Doveva parlare con Thomas. Non le era ancora completamente chiaro il perché non le avesse detto nulla dell'invito di Rio.
Appena dopo essere entrata si imbatté in Clair, la sua segretaria.
«Clair, sai dove si trova il Direttore in questo momento? Ho bisogno di parlargli». Asserì trascinandosi dietro il suo bel pancione. L'altra reclinate le lenti rettangolari sul naso le lanciò uno sguardo di disapprovazione mentre indugiava sul suo ventre rigonfio, poi con aria di superiorità, sollevò il suo mento appuntito e riposizionate le lenti sottili al centro del suo viso, le rispose.
«Il Direttore al momento è impegnato per il servizio fotografico che uscirà in primavera».
«Quindi è nello studio fotografico?» le domandò speranzosa Marika.
«Si, ma non può essere disturbato».
Marika non aveva tempo da perdere, doveva parlare con lui. Senza prestare attenzione alle parole dell'altezzosa segretaria, la superò avviandosi verso lo studio fotografico, lo stesso studio nel quale avevano realizzato il servizio di Nami quasi due mesi prima.
«Dove pensa di andare?» asserì l'altra rincorrendola cercando di arrestare invano la sua avanzata.
«Da Thomas, devo parlargli» le spiegò proseguendo mantenendosi i reni con il pancione sparato in avanti. Ansimando esauste entrambe giunsero a destinazione, la porta dello studio fotografico era proprio davanti a loro.
«Signorina, adesso la smetta. Il Direttore è impegnato, non può riceverla!» cercò di ravvederla l'altra, ma Marika era decisa ad ottenere dei chiarimenti. Senza esitare oltre, bussò e senza aspettare una risposta aprì la porta catapultandosi all’interno con prepotenza. Thomas era concentrato sugli scatti fatti quella mattina tanto da non accorgersi che qualcuno aveva bussato. Marika per un attimo rallentò la sua avanzata e si guardò intorno sognante. Lo studio non sembrava neanche più lo stesso invaso com'era da una miriade di fiori coloratissimi. Con suo stupore notò che in giro non c'erano modelle, il servizio fotografico doveva essersi concluso già da un po'.
Avvertito il rumore di passi alle sue spalle, Thomas si voltò notando la sua futura moglie avanzare verso di lui. Sembrava arrabbiata.
«Cosa ci fai qui?» le chiese perplesso. «Dobbiamo parlare» gli rispose categorica lei.
«Direttore ho cercato di fermarla, ma non voleva proprio saperne» si giustificò Clair portandosi al fianco sinistro di Marika.
«Non importa Clair, vai pure. Anzi, sarebbe possibile lasciarci soli un attimo?» supplicò alla fine anche tutti i membri dello staff che stavano finendo di rimuovere gli oggetti di scena sparsi sul set. Tutti senza obiettare uscirono dalla stanza lasciando i due ragazzi soli.
«Thomas, dobbiamo parlare...» ribadì prendendo posto su una sedia li vicino.
«Ok, prima però mi lasci fare una cosa?»
Marika non riusciva a capire cosa volesse fare Thomas. Sul viso aveva uno strano sorrisetto.
Prendendola per mano la invitò a prendere posto in piedi davanti a un pannello bianco intorno a lei tre faretti si accesero improvvisamente accecandola.
«Si può sapere cosa vuoi fare?» gli domandò perplessa.
«Sarebbe un peccato non sfruttare questo bel set» detto ciò il ragazzo biondo con il pizzetto recuperò uno sgabello e fece accomodare Marika su di esso. Poi prese una splendida orchidea e gliela sistemò tra i capelli dorati, vicino l'orecchio sinistro. Infine recuperò la macchina fotografica usata per gli scatti e si posizionò davanti a lei.
«Si può sapere che stai facendo?» insistette Marika.
Thomas a quel punto distaccò la macchina fotografica dal viso sorridendole, «oggi, mentre assistevo al servizio fotografico, pensavo insistentemente a una cosa».
«A cosa?»
«Che non abbiamo ancora fatto una foto di te incinta di Hope. Sarebbe bello fargliene vedere almeno una quando crescerà. È un momento importante e noi lo stiamo trascurando».
Marika, a quelle parole vide sfumare tutta la rabbia provata fino a quel momento. Avrebbe voluto chiedergli in tono risoluto perché le avesse omesso la verità riguardo l'invito di Rio, ma erano bastate quelle misere parole a farle abbandonare tutte le sue prime intenzioni.
«Non puoi scattarmi una foto in questo momento! Sono orrenda! Non mi sono neanche truccata e sono tutta scompigliata per colpa della corsa che ho fatto per venire fin qui...» proseguì lei in imbarazzo aggiustandosi alla meglio.
Thomas le si avvicinò ancora una volta e con l'indice della sua mano destra le sollevò il viso facendo pressione sotto il suo mento.
«Non dire sciocchezze, sei bellissima e io sono innamorato di te».
Marika si irrigidì. Thomas si chinò lentamente raggiungendo il suo viso. Dopo quella prima volta nel suo appartamento Marika non gli aveva dato più modo di accorciare ancora le loro distanze. Thomas aveva infatti preso molto seriamente il suo avvertimento. Così, dopo quella prima volta, le loro labbra non si erano più incontrate.
Marika rimase immobile mentre lo vedeva farsi sempre più vicino. Istintivamente trattenne il respiro come se fosse in apnea. Poi Thomas si arrestò a pochi centimetri dalle sue labbra con un sorriso furbo e divertito.
«Se non vuoi posso fermarmi... ». Marika tacque.
“Cosa devo fare?”
Rimase in silenzio un silenzio che sorprese Thomas.
«Caspita, non credevo sarei mai riuscito ad ammutolirti... » allontanandosi senza baciarla, si inginocchiò e posizionando la macchina fotografica sul pavimento estrasse una scatoletta blu di velluto dalla giacca.
«Beh, a questo punto credo sia arrivato il momento. Marika Mastro, vuoi diventare mia moglie?» le chiese aprendola e rivelando al suo interno un anello luccicante, di quelli che si vedono solo nei film. L'anello scintillò luminoso sotto gli occhi increduli di Marika.
«Thomas, non avresti dovuto, sembra molto, anzi troppo prezioso...» protestò lei a disagio.
«Mai prezioso quanto te. Marika, voglio essere sincero, non ho mai incontrato una ragazza testarda, cocciuta, caparbia, temeraria, precipitosa, impacciata e combina guai come te. Una ragazza capace di farmi sorridere con tanta semplicità, che sia una sfida costante, che non mi annoi mai, capace di regalarmi tanta inaspettata felicità, una felicità che pensavo di non meritare più. Per questo adesso ti sto chiedendo di sposarmi. Perché sono un uomo e come tutti gli uomini sono un pò egoista e voglio che tu riempia di gioia solo il mio cuore... Adesso sta a te la scelta: vuoi lasciare che un ragazzo egoista, sfacciato, orgoglioso e testardo, ma determinato e innamorato riempia di gioia la tua vita? Dimmi di si e farò l'impossibile per renderti felice... ».
Marika trattenne le lacrime. Era una dichiarazione toccante, ma lei non provava i suoi stessi sentimenti. Nonostante questo aveva accettato il suo destino già da tempo e non c'era più nulla che potesse fare per arrestare il corso degli eventi. Doveva cancellare Roberto e andare avanti con Thomas. Non c'erano altre soluzioni. Il suo destino non era al fianco dell'uomo che amava, ma di un uomo che l'avrebbe amata nonostante questo.
«Si, lo voglio...» asset ì con convinzione. Thomas a quel punto si sollevò dal freddo pavimento e inseritele l'anello al dito, le si avvicinò, questa volta senza cedimenti e incertezze diretto senza più la paura che Marika l'avrebbe respinto. Si baciarono, un bacio che presto avrebbe tinto di rimpianto le loro vite.
Tokyo
Nami era con Roberto nello studio di registrazione.
«Roberto, dobbiamo parlare» esordì avvicinandosi alla strumentazione mostrandogli le spalle. In quel momento i bei momenti trascorsi al fianco di Kei quel pomeriggio le sembrarono solo un vago e indefinito ricordo.
«Nami, per quello che ha detto Kei... »
«Le hai davvero inviato i biglietti del concerto?» gli chiese ancora di spalle trattenendo le lacrime per non farsi vedere da lui.
Roberto, non se la sentì di mentirle ancora una volta, ma allo stesso tempo ammettere la verità era davvero difficile. Non voleva farle più male di quanto non le avesse già fatto.
Improvvisamente Nami si voltò verso di lui con un sorriso tirato.
«Non devi mentirmi, va bene anche se lo hai fatto. Dopotutto ho accettato questa condizione sin dall'inizio... quello che mi preoccupa di più sei tu. Non voglio vederti soffrire per causa sua, tutto qui... Per quanto riguarda Kei. Mi dispiace di essere sparita, ma visto che avevo quei biglietti e tu eri impegnato in studio con Toshi, Kei si è proposto di accompagnarmi. Se non ho risposto è stato perché avevo tolto la suoneria. Non fraintendere, ti prego, Kei lo ha fatto solo per tirarmi su di morale... »
«Capisco... mi dispiace... Davvero... per tutto...» concluse colpevole Roberto reclinando di poco il capo.
«Va bene così, adesso vado. Ho un forte mal di testa» improvvisò Nami uscendo dallo studio di registrazione.
“Nami perdonami. Kei aveva ragione, forse anche per questo motivo mi sono accanito in quel modo contro di lui. Anche se voglio renderti felice, una parte di me sa di non poterlo fare perché Marika è ancora nel mio cuore...”.
Jona in compagnia di Hana, aveva finalmente raggiunto il monolocale alla periferia di Tokyo, quello spazio angusto di pochi metri quadri era diventato ormai il loro rifugio segreto, la loro casa sugli alberi. Spesso rimanevano ore a parlare o ad ascoltare musica. Qualche volta Jona si era offerto di leggerle anche qualche libro. Il loro legame si era rafforzato, e per la prima volta Jona era felice di condividere il suo tempo con una ragazza senza necessariamente trovarsi con lei sotto le lenzuola a consumare uno spicciolo contatto fisico. Quello che stava condividendo con lei era qualcosa di molto più prezioso.
«Hai sentito i tuoi genitori?» gli chiese Hana quando lui chiuse il libro.
«Sono spariti. Come sempre...» sospirò l'ex biondo riposizionando il libro su una mensola.
«Perché non provi a chiamarli?»
«Non ci penso proprio!» protestò l'altro, recuperando un pacco di patatine, aprendole e rigettandosi su una delle due poltrone della stanza.
Hana seduta accanto al noto cantante, si sporse nella sua direzione e con entrambe le mani ne tastò il braccio destro salendo fino alle spalle seguendo il collo per giungere alla testa. Jona rinase immobile mentre lei lo toccava con poca delicatezza. Per un attimo il giovane cantante si sorprese a pensare che quel contatto iniziava a piacergli, poi senza esitazione Hana gli mollò uno scappellotto dritto alla nuca.
«Ahio! Ma sei impazzita?» la riprese Jona risentito.
«No, il vero pazzo sei tu! Se ti mancano tanto, perché non fai il primo passo e li cerchi?»
Jona portò il suo sguardo al pavimento massaggiandosi la nuca indolenzita.
«Perché dovrei?»
«Perché sono i tuoi genitori e tu hai bisogno di loro e una parte di me, mi dice che anche loro hanno bisogno di te... Alle volte i genitori decidono di sacrificarsi per i propri figli senza prendersi la premura di chiedere loro il permesso di farlo...»
«Hana, mia madre non è come tuo padre... non provare a paragonarli...»
«Hai mai chiesto ai tuoi genitori perché sono sempre così scostanti?»
«Ovvio, per la carriera, per quale altro motivo se no?»
«Non glielo hai mai chiesto vero?» quella domanda ingenua ebbe il potere di insediare in Jona il dubbio che ci fosse davvero dell'altro oltre al successo a tenerli distanti da lui. Che stesse succedendo qualcosa che non volevano fargli sapere?
“Ma, no. Cosa mi metto a pensare?”.
«Per me hai visto troppi film» proseguì con superficialità riprendendo a trangugiare le patatine.
«Sei così ottuso! Alla fine sei proprio un ragazzino viziato! Pensi davvero che la vita ruoti solo intorno a te?».
«Se andassi da loro e ti dimostrassi che non è come pensi la finiresti di chiamarmi ragazzino viziato?»
«Si!» asserì senza esitazione.
Jona sospirò.
«E va bene, il prossimo week-end andrò a trovarli. Dovrebbero essere ancora in Cina».
«Hai preso la decisione giusta» si congratulò Hana con un viso raggiante. Jona sorrise, alla fine quel sacrificio valeva tutto il sorriso che stava guardando in quel momento. Hana diventava giorno dopo giorno sempre più bella e indispensabile al suo buonumore. Vederla faceva sfumare via tutto lo stress, la stanchezza e le fatiche del successo. Ancora non sospettava nulla della sua vera identità e per il momento pensò fosse meglio così. Jona stuzzicandola riprese a mangiare le patatine parlando con lei del più e del meno trascorsero insieme la serata. In quel periodo aveva scoperto così tante cose. Ad Hana piacevano i film horror, la musica rock, il colore celeste, il numero due e il primo desiderio espresso guardando una stella cadente era stato avere una macchina fotografica tutta sua. Si, iniziava a piacergli Hana, per quello che era dentro e per quello che il suo cuore sapeva trasmettergli. Più il tempo avanzava e più quel sentimento nel suo cuore cresceva e con esso purtroppo cresceva anche la paura del momento in cui avrebbe dovuto dirle la verità.
Kei era arrivato al loro appartamento nel dormitorio. Gettandosi sul letto estrasse il cellulare dalla tasca dei suoi pantaloni. Rigirandoselo tra le mani irrequieto.
“Maledizione. Non avrò esagerato? Non avranno litigato per colpa mia? Forse non avrei dovuto dire a Nami di quella lettera. Chissà se starà bene?”
Kei era tormentato dal desiderio di mandarle un messaggio, quando il telefono tra le sue mani vibrò richiamando la sua attenzione. Senza esitare, dopo aver letto il nome del mittente, aprì il messaggio. Era da parte di Nami.
Nami:
Che fai?
Kei:
Sono sul letto. Tu?
Nami:
Su un'altalena. Non so neanche perché sono finita qui. Penso sia stata la nostalgia a riportarmi in questo posto. Ricordi quel giorno in cui mia madre e JJ ci portarono al parco? C'erano anche Shin e Toshi con noi. Eravamo molto piccoli, non dovevamo avere più di dieci anni.
Kei:
Certo. Eri così appiccicosa all'epoca...
Nami:
Si, lo ero. E ogni volta che cercavo di abbracciarti puntualmente mi respingevi. Ricordo quanto ho pianto quando mi facesti cadere...
Kei:
Fu colpa tua, ti avvertì di starmi lontano...
Nami:
Si, è vero. Ero appiccicosa...
Kei:
Beh, se è per questo lo sei ancora... sei appiccicosa peggio del miele.
Nami:
Si, può essere! ^^ Sai, a quel tempo avrei voluto davvero che mi abbracciassi...
Kei:
OK, lo ammetto.. forse ero un po' troppo rude all’epoca ma eravamo bambini dopotutto.
Nami:
Pensi ci sia la possibilità di recuperare quel momento?
Kei:
Perché me lo chiedi? È successo qualcosa?
Nami:
Kei sembrerei troppo sfacciata se ti chiedessi adesso quell'abbraccio?
Kei:
Non muoverti di lì.
Senza perdere tempo, Kei saltò giù dal letto, non fece in tempo nemmeno a prendere il proprio cappotto ma uscì con solo la sua felpa addosso. Correndo disperato verso la porta, si fermò solo per infilarsi le scarpe. In quel momento Roberto aprì la stessa. Erano faccia a faccia, quello dei due con la frangia sull'occhio sinistro evitò lo sguardo per primo facendosi strada verso l'uscita. Roberto lo frenò prendendolo per un polso.
«Mi dispiace...» disse.
Kei, non riuscì a capire per cosa Roberto si stesse dispiacendo: se per la litigata avuta fuori alla Kings Record o se fosse per qualche altro motivo, ciò che era prioritario per lui in quel momento era raggiungere Nami. Senza esitare si divincolò dalla sua stretta, andando via chiudendo violentemente la porta.
Senza perdere tempo imboccò la rampa di scale scendendo a due a due gli scalini.
Quando fu fuori, corse, corse a più non posso. La Security provò a trattenerlo ma lui si divincolò con modi bruschi dalla loro presa serrata.
Quando arrivò a quel parco, aveva il fiatone e i capelli ormai inzuppati di sudore.
La frangia si era appiccicata in modo irregolare sulla sua fronte. Kei ansimava mentre con lo sguardo preoccupato ispezionava l'ambiente circostante. Poi finalmente la vide. Nami era ferma, immobile seduta su quell'altalena, che fissava i suoi piedi mentre teneva stretto il pupazzo a forma di coniglio tra le mani.
La raggiunse. Dalla bocca di entrambi il caldo alito si convertiva in un fumo bianco indefinito che si disperdeva rapido nell'aria fredda di dicembre.
Kei non disse nulla, semplicemente le si parò davanti aspettando pazientemente che lei lo notasse. Nami vide improvvisamente materializzarsi sotto i suoi occhi un paio di scarpe da ginnastica nere, non molto distanti dalle sue ballerine di vernice, d'istinto sollevò i suoi occhi a mandorla rossi e gonfi di pianto.
Kei era lì a pochi passi da lei. Con uno scatto fulmineo gli saltò al collo abbracciandolo, e lasciando scorrere le sue lacrime liberamente. Questa volta Kei non la respinse come quando erano piccoli. Rimasero stretti in quell'abbraccio finché i primi fiocchi di neve invernali scesero dal celo accarezzando i loro corpi.
Kei non chiese a Nami cosa fosse successo, nè lei ebbe bisogno di spiegargli qualcosa, dopo quel momento entrambi recuperarono le distanze ritornando taciturni verso il dormitorio. Quella sera Kei, pensando a Nami avrebbe scritto un'altra canzone in quel blocchetto che ormai era pieno solo dei suoi sentimenti per lei. Quei sentimenti che ancora una volta avrebbe rilegato nel profondo del suo cuore.
Toshi dopo aver lasciato Roberto e Nami davanti la Kings Record raggiunse l'orfanotrofio. Doveva vedere Clara. Doveva conoscere quali erano i suoi sentimenti. Non poteva resistere oltre. Con riconquistato coraggio bussò alla porta. Guardandosi intorno con aria circospetta attendese paziente che qualcuno venisse ad aprirgli. Dopo poco JJ spalancò la porta. L'uomo lo osservò ad occhi aperti, sorpreso di trovarselo lì a quell'ora di sera e per giunta da solo, poi con un caldo sorriso lo spronò ad accomodarsi.
«Mi dispiace, ma se stai cercando Clara non la troverai, è appena uscita. Però se vuoi puoi aspettarla qui...» gli propose chiudendo la porta.
«Si, grazie, penso che l'aspetterò qui...» accettò Toshi raggiungendo la sala comune. Lì, ovviamente, erano radunati ancora tutti i bambini. L'orologio a prendolo dell'ingresso segnava appena le otto quando Toshi si fece avanti verso di loro che attendevano impazienti il ritorno di Wendy per la favola della buonanotte.
«Ehi, guardate! È venuto a trovarci il fratellone!» esordì uno dei bambini notandolo fermo sull'uscio della porta con JJ affianco. Senza che potesse impedirlo, Toshi si ritrovò travolto da una ventina di bambini festanti. Colla, com'era già avvenuto in precedenza, si appiccò stile ventosa alla sua gamba, senza lasciarlo andare. Trascinandoselo dietro il leader degli HOPE si portò al centro della stanza.
«Fratellone ci canti una canzone? Ti prego, ti prego!» chiese una delle bambine portando le mani congiunte vicino al viso, supplicandolo con due occhioni languidi.
«Io, veramente... »
«Dai Toshi, canta per loro...» lo spronò JJ sorridendo divertito incrociando le braccia.
«Che canzone volete che vi canti?» chiese rassegnato il ragazzo mentre tentava di scrollarsi il piccolo colla dalla gamba.
«La canzone della Rana e del Cane?», Toshi squadrò perplesso i bambini.
“E che canzone sarebbe questa?” Istintivamente rivolse uno sguardo da S.O.S a JJ, supplicandolo di correre in suo aiuto, ma l'altro divertito si dileguò prima che Toshi lo coinvolgesse in quell'esibizione improvvisata.
«Io devo andare, Toshi ti occupi tu dei bambini?».
Il ragazzo impacciato provò a fermare JJ ma i bambini lo trattennero strattonandolo per la maglia e i pantaloni.
«Ehi, dove vai? Non puoi andare via così!» JJ si affacciò un'ultima volta nella sala comune.
«A dopo..» concluse salutando Toshi come farebbe la regina d'Inghilterra nella sua macchina di lusso in sfilata tra i sudditi.
Toshi, maledì se stesso per aver avuto l'idea malsana di trattenersi lì.
Ormai rassegnato si decise a iniziare la sua esibizione. Uno dei bambini gli portò un cd, mentre un'altro gli indicò uno stereo in un angolo della stanza.
«Ok è qui dentro la canzone?» chiese loro Toshi. Tutti acconsentirono. La base partì, Toshi cercava di seguire le parole ma i bambini non sembravano per niente soddisfatti.
«No, fratellone, devi anche ballare altrimenti non funziona...»
Sospirando Toshi decise di accontentare tutte le richieste dei bambini, il problema era che qualsiasi passo o mossa facesse per loro era sempre sbagliata. I bambini non facevano che riprenderlo.
“Cavolo questi sono peggio di Daisuke, non credevo avrei mai trovato qualcuno più pignolo di lui!”
Toshi stava arrancando con passi improvvisati nell'insoddisfazione generale, quando Clara fece il suo ingresso nella sala. Avvolta nel suo cappotto marrone stringeva nella mano destra una busta bianca di quelle usate per trasportare la spesa. Vedendo Toshi muoversi rigido come uno spaventapasseri a comando, scoppiò in una risata poco contenuta. Toshi a quel punto si immobilizzò.
«Sorellina, per fortuna che sei arrivata... il fratellone è proprio un incapace» la raggiunse la bambina che poco prima aveva supplicato Toshi di cantare per loro.
«Naoki non devi essere così dura con lui. Il fratellone probabilmente non conosce i passi. Perché non gli mostrate voi come si fa?».
«Ci abbiamo provato, ma lui è così imbranato», completò indispettita la piccola incrociando le braccia allo stomaco.
Clara a quel punto tornò a guardare Toshi, messo alle strette da quelle piccole pesti.
«Ti prego aiutami...» lo supplicò con il labiale lo stesso. Lei acconsentì.
«Che ne dite se vi racconto una storia?»
«No, non vogliamo la storia! Vogliamo che il fratellone canti!» urlarono all'unisono i bambini.
Toshi non ce la faceva più.
«Suvvia, non vi sembra di averlo già fatto stancare abbastanza?» cercò di convincerli Clara.
«Potresti cantare tu allora!» asserì Naoki.
«Cosa?» si irrigidì lei.
«Si! Si! Wendy canterà! Wendy canterà!» gridarono saltellando i bambini.
«Ehi, aspettate un attimo...» Clara cercò di evitare quella bella figuraccia ma ormai i più piccoli avevano deciso e per lei non c'erano più vie di scampo.
«Che ne dite se io e Wendy ballassimo insieme? Potrebbe andare bene?» propose Toshi, sorridendole complice, cercando di togliere Clara dall'imbarazzo di doversi esibire da sola.
Tutti i bimbi acconsentirono soddisfatti. Toshi e Clara ballarono e cantarono per loro, con il sorriso sulle labbra divertendosi forse più dei bambini stessi. Anche se non erano coordinatissimi, riuscirono a soddisfare quel pubblico esigente. Dopo l'esibizione i piccoli furono accompagnati nelle loro rispettive camere e Clara e Toshi ritornarono al piano di sotto. Clara si avvicinò a uno degli sportelli della cucina e in punta di piedi cercò di rimettere al loro posto i piatti della cena che erano stati lavati e lasciati ad asciugare. Uno di questi però le scivolò dalle mani. Stava per caderle addosso quando Toshi intervenne tempestivamente prendendolo al volo. I suoi riflessi però, oltre a portarlo a recuperare quel piatto che altrimenti sarebbe rovinosamente caduto, lo condussero anche pericolosamente vicino a Clara. I due si fissarono, poi, memore dell'ultimo incontro sfociato in un bacio inatteso Clara recuperò le distanze. Anche se non voleva ammetterlo quel bacio aveva aperto un grande punto interrogativo nel suo cuore.
«Stai bene?» le chiese Toshi.
«Si, sto bene» completò l'altra chiudendosi a riccio assumendo un atteggiamento distaccato.
«Clara, se sono venuto qui stasera è perché volevo parlare di quello che è successo l'altra sera..» iniziò Toshi.
«Tra pochi giorni partirò per l'Italia... » lo freddò lei non lasciandogli nemmeno il tempo di proseguire. Con quelle parole Clara aveva intenzionalmente interrotto Tosgi. Come se considerata quella premessa, qualsiasi cosa avesse voluto dirle in quel momento non avrebbe avuto la minima possibilità di cambiare la sua decisione.
«Tornerai?» gli chiese amareggiato lui.
«Non so...»
«Capisco...»
«Toshi... io...» il ragazzo bruno, cogliendola alla sprovvista, portò in avanti la sua mano in attesa che l'altra la stringesse.
«Beh, buona fortuna allora. Ti auguro di avere successo... E di essere felice» Clara la strinse, dopo di che Toshi uscì dalla cucina senza salutarla e senza rivelarle quali erano i suoi veri sentimenti.
Clara dalla sua non fece niente per fermarlo. Dopotutto aveva preso la sua decisione. Sarebbe tornata in Italia da Luca.
Nami e Kei tornarono ai dormitori ormai fradici. La neve aveva inumidito i loro abiti. Tra i due Kei era quello ridotto peggio. Anche se provava a contenersi Nami aveva notato che stava tremando.
«Se vieni nel mio appartamento potrai asciugarti un po’, mi sento così in colpa. Se prenderai un raffreddore sarà tutta colpa mia».
Kei piegandosi su se stesso abbracciando il proprio busto coperto ancora da quella misera felpa pensa completamente fradicia sorrise a Nami.
«Non ce né bisogno, posso anche tornare al nostro appartamento e cambiarmi. Non occorre che venga da te».
«Insisto. Ti devo ancora una tazza di tè dopotutto...» cercò di convincerlo con un sorriso dolcissimo sul viso. Kei a quel punto non riuscì a dirle di no per una seconda volta.
«E va bene».
I due si diressero così verso l’appartamento di Nami. Kei la seguiva a breve distanza stringendosi su se stesso, un paio di volte aveva starnutito.
Una volta all’interno Nami recuperò un asciugamano portandolo a Kei.
«Se vuoi farti una doccia… »
Kei prese l’asciugamano con la mano destra. «guarda che anche i tuoi capelli sono umidi, preferisco che vada prima tu. Io nel frattempo mi asciugherò i capelli con questo» disse indicandole l’asciugamano.
Nami storse il muso insoddisfatta.
«Non sarebbe meglio che andassi tu? Hai i capelli completamente fradici!» asserì sfiorandogli un ciuffo dei capelli. Il ragazzo allontanò quella mano dalle dita sottili e delicate dalla sua testa.
«Non preoccupati per me. Vai prima tu!» la sprona con dolcezza. Nami senza discutere oltre acconsentì. Recuperato il cambio corse in bagno mentre Kei si sedeva sul divano tamponandosi la testa con l’asciugamano che le aveva dato. Quando Nami chiuse a chiave la porta del bagno, Kei si rilassò affondando la testa sul morbido divano coprendosi il il viso rivolto al soffitto con l’asciugamano.
“Ma cosa diavolo ci faccio qui?”
L’ultima volta che era stato nell'appartamento di Nami era finito baciando proprio lì dove si era seduto. Con una mano si tirò via l’asciugamano dal viso voltandosi verso la porta del bagno.
“Eppure ti avevo avvertita che quello stupido ti avrebbe ferito… ma tu sei così testarda… Vederti così mi fa stare davvero uno schifo... So che non dovrei essere qui, eppure come posso lasciarti andare se stai per cadere a pezzi davanti ai miei occhi? ”.
Sospirando Kei si abbandonò per la seconda volta sul divano portando al’indietro la testa e coprendosi ancora una volta con l’asciugamano il viso afflitto. Dopo una ventina di minuti Nami uscì dal bagno strofinandosi i suoi lunghi capelli castani.
Con addosso il suo pigiama rosa, prese posto accanto a Kei sul divano. L'amico aveva il viso coperto dall’asciugamano bianco che gli aveva dato.
In colpa la ragazza prese a tormentarsi le mani. Conosceva quello che Kei provava per lei e sapeva che per il suo bene avrebbe dovuto allontanarlo, ma proprio non riusciva a fare a meno di lui. Kei era il solo con il quale riuscisse a confidarsi. Il modo in cui l’ascoltava e confortava era diverso da quello di chiunque altro, diverso addirittura da quello di suo fratello e di sua madre. Tra loro bastava uno sguardo, una parola, un gesto perché si capissero. Era felice che lui non l’avesse allontanata. Probabilmente se non l'avesse raggiunta al parco lei avrebbe continuato a piangere sotto la neve fino a ridursi a una statua di ghiaccio.
«Kei, so di non avertelo detto prima, comunque grazie per essere venuto da me stasera… » esordì reclinando il viso verso il pavimento.
Pazientò qualche secondo in attesa di una qualsiasi reazione da parte del ragazzo che le sedeva accanto, ma ahimè non ricevette alcuna risposta.
«Guarda che ti sto ringraziando, il minimo che tu possa fare è guardarmi in faccia!»
Indispettita gli tirò via l’asciugamano dalla faccia, ma a dispetto di quello che credeva Kei non la stava ignorando, semplicemente dormiva.
“Come fa ad essersi addormentato in così poco tempo?”
Per sincerarsene si sporse su di lui. Respirava profondamente, il suo fiato caldo le solleticò il viso. La ragazza sorrise scostandogli un ciuffo scuro dei suoi capelli dalla fronte. Era così tenero. Quella era la prima volta che lo vedeva dormire. Rimase lì in contemplazione finché anche lei crollò. Quando Kei riaprì gli occhi si ritrovò Nami addormentata con il capo appoggiato sulla sua spalla destra.
“E questo che significa?”
Ruotando la testa si inclinò verso di lei. Le loro labbra erano vicine ancora una volta. Kei era così tentato. Chiuse gli occhi e la baciò.
Ma poco prima che lei riprendesse coscienza lo stesso si ritirò, ricomponendosi. Nami sbadigliò strofinandosi gli occhi. Non si era accorta di nulla.
«Scusami, devo essermi appisolata» asserì stiracchiandosi mentre Kei rosso in viso le strappava via dalle mani il suo asciugamano.
«Vado a fare la doccia, tu prepara il tè » concluse sintetico alzandosi dal divano, correndo rapido verso il bagno.
Nami lo osservò stranita.
“Ma che gli prende adesso?”
Kei chiusa la porta del bagno, con una mano al petto si appoggiò alla stessa.
“Ma cosa mi sono messo in testa di fare? Nami ha già Roberto, e non gli serve un’altra persona che gli dia problemi… a questo basta già quell’idiota…” scuotendo la testa iniziò a spogliarsi. Se non poteva essere lui a renderla felice allora avrebbe fatto di tutto perché la persona che lei amava ricambiasse i suoi sentimenti.
Nami sorridendo con l’animo più leggero si sollevò dal divano per preparare il tè. Quello era il minimo che potesse fare per lui. Kei dopotutto era diventato un amico prezioso e anche se non era molto onesto ignorare così spudoratamente i suoi sentimenti, non riusciva ancora a fare a meno di lui.
Quando Kei tornò al dormitorio, non ci pensò due volte ma si fiondò nella camera di Roberto. Senza curarsi di chiedergli il permesso, aprì la porta ed entrò. Il ragazzo italiano era solo. Con molta probabilità, Jona era andato in bagno a cambiarsi. “Tanto meglio così”, pensò Kei.
Roberto era seduto sul letto mentre fissava una scatola vuota tra le mani.
«Ciao Kei. Dimmi, cosa ti porta da queste parti?» gli domandò riponendo la stessa sul letto.
«Cosa voglio io? Piuttosto si può sapere cosa cavolo stai combinando tu!? Perché ti rimetti a pensare a quella tipa adesso che hai Nami? Non ti rendi conto che la stai distruggendo? » gli domandò iracondo il ragazzo con il ciuffo sull'occhio sinistro.
«Lasciami stare Kei, cosa puoi capirne tu...» asserì Roberto con l'aria pacata di chi non ha la forza, ne la volontà, di aprire una discussione in quel momento.
«Cosa posso capirne io? Io, per lo meno ho sempre pensato al male che avrei potuto farle. Tu invece, ti sei mai almeno fermato a riflettere sul male che le stai facendo?»
«Kei, davvero, l'ultima cosa che voglio è ferire Nami. So che non lo merita. Quando ho perso quel cappello blu ho davvero creduto di poter mettere da parte i miei sentimenti, ma non credo di riuscirci così velocemente come pensavo. Forse ho anticipato i tempi...».
Kei scattò prendendo Roberto per il collo della maglietta.
«Non mi importa niente se hai anticipato i tempi o se hai perso quel dannato cappello. Tu adesso renderai felice Nami altrimenti giuro che ti prenderò a cazzotti fino a farti tornare il buon senso. Ci siamo intesi? Non ho lasciato che ti venisse dietro perché tu la ferissi! Quindi torna in te e dimentica quella ragazza. Nami vale cento volte di più. Affronta la realtà una volta per tutte. Quella ragazza ti ha abbandonato. Non tornerà più. Quindi smettila di pensarla e prenditi più cura di Nami in modo che non sia altra gente a doversi prendere cura di lei al posto tuo. Siamo intesi?»
“Se spingerti tra le sue braccia è l'unico modo perché non la veda più soffrire allora lo farò. Anche se la cosa mi sta facendo ribollire il sangue nelle vene!”.
Roberto allontanò remissivo le mani dell'amico dalla sua maglia.
«Se mi dici questo devo intuire che provi ancora qualcosa per lei, o forse mi sbaglio?». Kei si irrigidì. Roberto sollevò la commessura destra delle sue labbra in un sorriso sprezzante. Aveva colpito nel segno.
«Che ironia, penso che tu, meglio di chiunque altro, possa capirmi in questo momento. Sono sicuro che anche per te non deve essere facile lasciare andare Nami, non è forse così?», Kei non poteva credere a quello che stava uscendo dalla bocca di quel ragazzino. Come poteva paragonarsi a lui? Una parte di sé avrebbe voluto reagire, ma l'altra ebbe il sopravvento costringendolo a rimanere immobile ad ascoltare. Roberto abbandonò quel sorriso sprezzante tornando serio.
«Kei ho visto come la guardi. Anche un ceco si renderebbe conto di quello che provi. Alla fine devi riconoscerlo, ci troviamo nella medesima situazione: entrambi non riusciamo a rinnegare quello che proviamo. Credimi, apprezzo che tu sia venuto qui a parlarmi e so che in fondo lo stai facendo per il bene di Nami, ma credo tu capisca, meglio di chiunque altro, che ho bisogno di tempo per lasciarmi alle spalle Marika. E sai benissimo che questa operazione non può essere dettata di certo da una minaccia ipocrita come la tua. Se davvero volevi renderla felice, forse avresti dovuto ricambiare i suoi sentimenti quando ne avesti la possibilità. Ti avvertii che un giorno avresti rimpianto il momento in cui mi lasciasti libero di seguirla fuori dallo studio. In quel momento hai perso qualsiasi diritto di condannarmi. Quindi adesso gradirei che uscissi dalla mia stanza e soprattutto che non ti immischiassi in faccende che non ti riguardano, perché almeno io ho provato e sto provando a renderla felice e lo sto facendo cercando di superare il passato per lei. Tu puoi dire di aver fatto la stessa cosa?» Kei stava per obiettare ma Jona irruppe nella stanza interrompendoli.
«Ehi Kei, che ci fai qui dentro?» chiese mentre si passava un asciugamano tra i capelli umidi e nuovamente biondi.
Kei di tutta risposta lo ignorò uscendo dalla stanza senza rispondergli con un'espressione truce sul volto.
Jona, sospirando chiuse la porta, mentre Roberto rimetteva sotto il suo letto quella scatola vuota.
 

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Capitolo 33
*** INCOMPRENSIONI ***


CAPITOLO 33
 INCOMPRENSIONI 

Giappone, Tokyo

Le luci della sala prove della Music Station erano accese. Yukino e Take erano impegnati a ripassare i passi della coreografia. Il brano del loro duetto glielo aveva portato Takashi quella stessa mattina così, dopo quello scontro avvenuto con gli altri del gruppo, Take era corso da Yukino per studiare i passi per il video promozionale. Valeva scaricare la tensione.
I due dopo tre ore di allenamento erano sfiniti ma nonostante questo continuavano a provare. I loro corpi erano caldi e sudati. Nel bel mezzo delle prove Yukino corse allo stereo spegnendolo. Finalmente un silenzio e una calma surreale riempirono la stanza in cui si trovavano. Mancava davvero poco al loro debutto. Ondeggiando i fianchi Yukino raggiunse Take fermo al centro della stanza che riprendeva fiato, aspirando profondamente aria dai polmoni.
Giuntogli vicinissimo lo prese per mano trascinandolo fino agli spogliatoi. Era tardi e ormai nella casa discografica non c'era più nessuno. Con sguardo malizioso lo spinse nello spogliatoio degli uomini. Una volta dentro chiuse la porta.
«Cosa stai facendo?» le domandò sconvolto.
Lei di tutta risposta gli serrò le labbra con il dito indice e poi iniziò a spogliarsi. Prima la maglia poi i pantaloncini. Era nuda con solo il suo intimo addosso. Take a quel punto avvicinò le proprie labbra alle sue, ma lei lo frenò con un dito sulle stesse.
«Niente baci...»
«Cosa?» le chiese stranito il ragazzo.
«È solo che non voglio... » ammise Yukino con una luce strana negli occhi.
“Posso darti tutto il mio corpo, ma le mie labbra non posso concederle a chiunque, devo proteggere qualcosa di me stessa... per non impazzire, per non odiarmi completamente...”. A quel punto Take riprese le distanze dalla ragazza, raccogliendole la maglia e i pantaloncini dal pavimento glieli porse.
«Rivestiti... questo non è quello che voglio...» poi girando la chiave aprì la porta dello spogliatoio. Una volta che Yukino si fu rivestita le fece segno di uscire. Prima di rientrare Take si sporse su di lei afferrandole il capo con le mani e baciandola sulla fronte dolcemente. Yukino, non capiva. Era la prima volta che veniva rifiutata in quel modo.
Una volta riprese le distanze Take, soddisfatto dello stato di smarrimento in cui si trovava Yukino le sorrise chiudendo la porta  per andare a farsi una doccia.
La ragazza bionda ossigenata avvertì una strana sensazione, un profondo senso di colpa invaderle il corpo. Si vergognò incredibilmente di se stessa e di quello che stava facendo a entrambi. Ma che altra soluzione aveva? 
 
 
 
Londra

Marika era con Thomas nel suo appartamento. Non aveva ancora avuto modo di chiedergli dei chiarimenti sull'invito di Rio, dopotutto non le andava di rovinare l'atmosfera romantica che si era creata. Eppure una parte di lei era troppo curiosa di conoscere la verità.  Prendendo un profondo respiro iniziò.
«L'altro giorno Timothy e Kat sono venuti a trovarmi... » avanzò, mentre Thomas preparava loro la cena e lei seduta alla sedia vicino il tavolo della cucina lo osservava.
 A quell'inizio di conversazione Thomas si irrigidì bloccando i suoi movimenti vicino i fornelli. Voltandosi verso di lei, mise su uno sguardo scuro e penetrante.
«Cosa vuoi chiedermi Marika?» le domandò diretto, già intuendo a cosa li avrebbe condotti quella conversazione.
«Perché non mi hai detto che Rio ci ha invitato a Tokyo?», frustrato Thomas tornò a trafugare con le padelle e gli attrezzi da cucina.
“Maledizione, non doveva venire a conoscenza di questa cosa...”
«Non volevo che ti sentissi in obbligo. Non puoi muoverti e lo sai benissimo. Il ginecologo è stato chiaro, non puoi fare sforzi...»
Marika indurì il suo sguardo.
«Thomas non sei tu che dovresti avere l’ultima parola su questo, ma io...  e io voglio venire con voi a Tokyo...»
Thomas scaraventò nervosamente il mestolo nel lavandino voltandosi verso Marika con due occhi furenti.
«Non essere ridicola! Vuoi che succeda qualcosa alla nostra Hope!»
«Lei è la mia Hope e questa è la mia vita. Sono io a decidere cosa farne, non tu!» gli gridò contro Marika sollevandosi dalla sedia sbattendo i palmi delle sue mani sul tavolo in un gesto d'impeto.
«È per rivederlo, non è così?» Avanzò Thomas con due occhi sottili come fessure.
Marika si immobilizzò ritirando la sua espressione rabbiosa in uno sguardo disorientato.
«Cosa stai dicendo? Chi dovrei rivedere?» tentò non sicura di aver capito il vero significato di quella domanda.
«Finiscila, so tutto. So chi è il padre di Hope. È Roberto, non è così? Il cantante del gruppo di Rio...»
“E lui come fa a saperlo?” spalancò gli occhi Marika sorpresa.
«Se anche fosse questo il motivo per cui ho deciso di partire non riguarda comunque te, ma me. Non avresti dovuto nascondermelo...»
Thomas la raggiunse trattenendola per le spalle con le sue mani forti.
«Non partire. Non capisci che se ho mentito è stato solo per evitare che soffrissi per lui. Non voglio che accada qualcosa alla bambina. Quello che ti ho detto oggi è vero. Ti amo e amo la bambina che porti in grembo... voglio che nessuna delle due si faccia del male. Io voglio proteggervi...». Marika a quel punto placò la sua rabbia. Dopotutto Thomas sembrava sincero. Quella era una omissione fatta a fin di bene proprio come quella che lei aveva fatto con i suoi genitori. Chi era lei per giudicarlo?
Allontanando le mani forti di lui dalle sue esili spalle Marika prese a fissarlo intensamente nei suoi occhi azzurri.
«Permettimi di venire con voi. Ho bisogno di chiudere con lui. Devo farlo se voglio vivere felicemente con te per il resto della mia vita. Ho bisogno di farlo prima che nasca Hope.  Thomas ho bisogno che tu ti fidi di me...».
Thomas a quel punto non poté obiettare oltre. Da lì a una settimana sarebbero partiti per Tokyo insieme, anche se l'idea non lo entusiasmava per niente.
 

Giappone, Tokyo

Rio era nel suo studio, davanti ai suoi occhi c'erano gli Hope in piedi in attesa che rivelasse loro il motivo di quella convocazione improvvisa. 
«Ragazzi, sapete che domani arriveranno i responsabili della casa di moda con cui intendiamo costruire una proficua collaborazione. Mi chiedevo a che punto foste con la musica del video promozionale».
Roberto avanzò verso la scrivania di Rio depositando davanti a lui un CD.
«Eccola qui! L'altro giorno io e Toshi abbiamo finito di arrangiarla. Il testo è di Kei. Speriamo vada bene...» concluse ritornando al suo posto, in fila accanto agli altri Hope.
Rio recuperò il CD sorridendo soddisfatto, «perfetto! Per quanto riguarda te Take ho saputo che domani pomeriggio uscirà il video del tuo singolo con Yukino, dico bene?», il ragazzo acconsentì.
«Perfetto, non vedo l'ora di seguire la tua performance».
«Si, domani ci esibiremo al Music Show.»
«Capisco. Sono davvero curioso di scoprire su che genere di musica vi esibirete, immagino che anche i tuoi amici qui in questa stanza faranno il tifo per te. Dico bene?» tutti in modo strano distolsero il loro sguardo. Rio non fu il solo ad accorgersene, anche Take si era reso conto della loro reazione.
“E questi lui li chiama amici… Sono sicuro che stanno sperando che la mia collaborazione con Yukino sia un flop.”.
In verità ormai il rapporto di Take con gli altri del gruppo si era incrinato di parecchio in quel periodo. Non si fidava più dei suoi vecchi amici, sopratutto dopo che gli avevano nascosto quell'articolo.
Rio incurante dei loro sguardi, ripose il CD  che aveva stretto tra le mani in uno dei cassetti della scrivania.
A quel punto Jona sollevò il suo braccio per aria. Notandolo Rio gli diede il permesso di parlare.
«Dimmi pure Jona...» il ragazzo fece qualche passo in avanti, verso la scrivania di Rio, «mi chiedevo se fosse possibile per me prendermi due giorni di pausa questo weekend. Vorrei andare a trovare i miei genitori in Cina...» avanzò con sguardo supplichevole.
Rio tacque riflettendo. Di certo non poteva impedirglielo. Erano mesi che non si prendevano un giorno di pausa. Tra le diverse esibizioni, la presentazione del loro primo album, la preparazione al concerto e i vari fan-meeting  era stato un periodo intenso. Negarglielo sarebbe stato troppo crudele. Ciononostante Rio era consapevole di quanto fosse azzardata una decisione di quel tipo. Se lo avesse lasciato andare, Jona avrebbe scoperto la verità su i suoi genitori. E quell'eventualità era molto rischiosa anche per la buona riuscita del concerto. Non voleva mettere Jona nello stato d'animo inadatto a reggere la pressione per il loro primo live.
“Cosa devo fare?”. In quel momento si rammentò di quella volta in cui Andrea aveva lasciato andare via Eichi per raggiungere Mary. Quella volta il suo amico tornò. Pensò che anche Jona avrebbe fatto lo stesso. Dopotutto era un bravo ragazzo e non avrebbe mai abbandonato i suoi amici. Si, meritava una possibilità ma soprattutto meritava di conoscere la verità su suo padre. Nonostante questo buoni propositi, un sesto senso lo metteva in guardia, sentiva che qualcosa di spiacevole sarebbe presto accaduta. 
«Va bene. Puoi andare. Partirai domani dopo la festa della Kings Record, ma dovrai tornare in tempo per sostenere la preparazione al concerto lunedì mattina. Siamo intesi? Ti sono concessi due giorni non un’ora di più» Jona acconsentì con fermezza. 
«Bene, chiarito anche questo punto, per quanto riguarda il giorno dell'arrivo dei nostri ospiti, che sarà appunto domani, pensavo di organizzare una festa di benvenuto. In realtà il loro arrivo coinciderà comunque con la nostra festa aziendale e quindi perché non sfruttare l’occasione per mostrare di che pasta sono fatti gli artisti della Kings Record? Ovviamente parteciperete anche voi all'evento visto che ormai vi siete guadagnati il diritto di appartenere a questa casa discografica». Rio aveva notato che qualcosa nel gruppo non stava andando come avrebbe dovuto, ma preferiva risolvere la questione con discrezione. Quella festa sarebbe stata l'occasione giusta perché si mettesse nuovamente in gioco chi purtroppo era stato messo un po' da parte nel’ultimo periodo. Da quando era iniziato il debutto del gruppo Take, Jona e Shin erano stati un po' esclusi  dalla fase creativa e produttiva musicale, mentre al contrario il sodalizio tra Toshi, Roberto e Kei si era fatto sempre più forte. Ormai erano loro a produrre la maggior parte delle canzoni degli Hope. Stando alle cose,  Rio pensava non fosse una brutta idea coinvolgere anche gli altri tre nell'opera di composizione, in questo modo si sarebbero riavvicinati al gruppo. Non voleva che gli altri tre si sentissero esclusi per questo motivo. Il lavorare in coppie li avrebbe aiutati a sentirsi più partecipi. Toshi si fece avanti.
«Questo vuol dire che dovremo esibirci?» chiese al padre. Toshi a differenza degli altri aveva preso parte in più di un’occasione a quella festa  che ogni anno suo padre organizzava alle porte del Natale per congratularsi con tutti i suoi dipendenti. Era un evento a cui ogni lavoratore della casa discografica poteva prendere parte. L'unica clausola era esibirsi. Chi partecipava doveva montare un piccolo show. Era un modo divertente per sciogliere le differenze, in modo che ogni grado o ruolo gerarchico venisse abolito almeno per una sera e tutti potessero divertirsi liberamente.
«Che domanda è? Ovvio che dovrete esibirvi! Perché non lavorate in coppie? Si, l’idea mia piace. Roberto e Take, Shin e Kei e tu e Jona creerete tre canzoni e quel giorno vi esibirete». Detto questo Rio fece segno ai sei ragazzi di dileguarsi. Tutti seguirono quell'ordine a differenza di Take che rimase nella stanza. Quando Shin chiuse la porta l’uomo con la spessa montatura nera dietro la scrivania si rivolse al ragazzo dalla capigliatura mossa davanti a lui.
«Cosa succede ragazzo?Qualcosa non va? L'idea della collaborazione non ti soddisfa?» domandò Rio notandolo fermo davanti alla scrivania.
«No, non è questo. In verità volevo farle qualche domanda su Yukino...» aprì il discorso prendendo posto su una delle due poltrone vicino la scrivania.
«Cosa vuoi sapere?» gli chiese Rio.
«Sa se ha vissuto situazioni particolari in passato?» gli chiese in una nota amara. Quel giorno negli spogliatoi Take aveva visto in quella ragazza sicura e sexy un momento di strana incertezza. Ogni giorno quando provavano, guardandola si domandava se le fosse successo qualcosa in passato tale da averla portata a non accettare neanche dei baci come segno d'affetto. Era insolito, in genere le ragazze detestano i ragazzi che arrivano subito al dunque e trascurano l'importanza di un bacio. In questo senso lei si comportava in modo molto insolito. E questo aveva fatto sorgere un dubbio in Take. Per questo quel giorno nello spogliatoio aveva preferito fermarsi. Non voleva approfittarsi della situazione. Voleva capire davvero cosa stesse spingendo quella ragazza a comportarsi in quel  modo.
«Cosa te lo fa pensare?» gli domandò Rio corrugando la fronte.
“Che Take abbia qualche sospetto sulla vecchia vita di Yukino?
«È una sensazione.»
L'uomo depose la penna con la quale stava rivedendo dei documenti, incrociando le dita delle sue mani sulla scrivania.
«Take, Yukino può sembrare una persona molto forte, ma in realtà è una ragazza piena di ferite e insicurezze. Forse non  dovrei raccontati la sua storia.... ».
«La prego. Yukino mi ha dato la possibilità di dimostrare a quei giornalisti quello che valgo e adesso voglio essere io ad aiutarla...»
Rio sospirò abbandonandosi sulla poltrona.
«Tempo fa conobbi Yukino per caso, quando ci incontrammo era già orfana e viveva con i suoi zii,  questi erano proprietari di un night club. Una sera capitai lì per sbaglio. Avevo finito il carburante e la batteria del mio cellulare si era esaurita. Entrai dentro alla ricerca di un telefono, quando sentì qualcuno piangere dietro il bancone. Era Yukino, con una delle sue mani teneva vicino al viso un fazzoletto con del ghiaccio. Il suo corpo era pieno di lividi. Dopo non poco la convinsi a raccontarmi cosa le era successo. Mi raccontò che suo zio la picchiava se si rifiutava di accontentare i clienti che richiedevano “trattamenti speciali”. Cercai di aiutarla, le proposi di venire alla Kings Record. Riuscì anche a convincere i suoi zii a lasciarla andare, soprattutto grazie alla paga che avevo promesso di darle. Proprio mentre lavorava qui scoprì che aveva delle doti canore mirabili. Purtroppo però la sua famiglia iniziò a minacciarmi che avrebbe rivelato alla stampa false notizie su una nostra relazione se non avessi dato loro altri soldi... »
«E lei cosa ha fatto?»
«Cosa potevo fare? Ho pagato loro la somma che volevano. Dopo quel giorno sono spariti senza lasciare alcuna traccia e da un lato credo sia stato un bene per Yukino che siano spariti dalla sua vita. Quella non era definibile una famiglia. Le avevo promesso che un giorno, grazie alla musica, avrebbe avuto il suo riscatto su quella vita miserabile in cui l'avevano trascinata. Nonostante questi buoni propositi, alla fine... anche io ho dovuto abbandonarla come hanno fatto loro per salvare voi e Toshi. Così ho dovuto cederla alla Music Station. Per lo meno, ha avuto comunque la possibilità di riscattarsi e adesso è un artista apprezzata. Devo ammettere che seppure una parte di me si senta più sollevata l’altra si sente ancora in colpa per averla abbandonata...»
Take adesso capiva.
“Devo andare da lei... ” pensava.  Con una ritrovata sicurezza il ragazzo si sollevò dalla poltrona. Ringraziò Rio prima di voltarsi e incamminarsi verso la porta. Rio però lo trattenne un’ultima volta prima di lasciarlo andare.
«Take, ti supplico, non raccontarle che ho dovuto pagare i suoi zii. Non voglio che si senta più in debito di quanto giù non lo sia. Ah! Un'altra cosa, prenditi cura di lei. Per me è come una figlia».
Il ragazzo acconsentì con fermezza prima di uscire e lasciare solo il direttore della Kings Record. Voleva raggiungere quella ragazza che aveva scosso la sua vita, che aveva catturato la sua anima  e che aveva conquistato il suo cuore.  Voleva starle vicino, adesso che conosceva la sua triste storia aveva trovato un motivo in più per volerla renderla felice e proteggerla. Lo voleva perché Yukino le piaceva davvero e conoscere cosa le era successo gli aveva messo addosso solo una voglia pazza di andare da lei e stringerla forte tra le sue braccia e dirle che con lui era diverso, lui non l’avrebbe mai abbandonarla.
Una volta che anche l'ultimo degli Hope fu uscito, Rio riprese il suo lavoro, solo, immerso nei suoi pensieri.
“Avrò fatto davvero bene a raccontargli tutto?”
 
Take raggiunse gli altri del gruppo nello studio di registrazione. Quando entrò le coppie erano già formate e discutevano del loro lavoro, dopotutto avevano a malapena ventiquattrore per completare i loro tre inediti. Per fortuna a lui toccava stare con Roberto, sarebbe stato facile scrollarsi quell’onere di dosso.
«Cosa ne dici di questa melodia? L'ho scritta qualche giorno fa», gli annunciò il ragazzo italiano porgendogli uno dei suoi auricolari. Tutti si concentrarono su di loro, in attesa di scoprire quale sarebbe stata la reazione di Take.
Il ragazzo come  tutti già si aspettavano ignorò Roberto e raccolto il suo cappotto dall’attaccapanni tornò vicino la porta.
«Mi dispiace Roberto, ho un debutto domani, non penso di riuscire a darti una mano questa volta. Ma tu sei così bravo che sono convinto riuscirai a fare un buon lavoro anche senza di me. Dico bene?» asserì in tono fin troppo canzonatorio.
Roberto non poteva credere alle sue orecchie.
«Ehi! Chi ti credi di essere? Le troppe curve e il rossetto rosso di quella gallina ti hanno dato per caso alla testa? Qui dobbiamo darci una mano a vicenda non puoi pretendere che altri facciano anche il tuo lavoro!» insorse Kei prendendo le difese di Roberto.
«Chi sei tu per dirmi questo?»  lo riprese l’altro.
«Ragazzi adesso calmatevi» si inserì Toshi tra i due.
«E sentiamo, perché mai dovrei darvi una mano? Chi siete per meritarvela? Nessuno di voi ha fatto qualcosa per me quando i giornalisti hanno iniziato a buttarmi fango addosso! Nessuno! Yukino è stata l'unica a fare qualcosa per aiutarmi! Lei è l’unica che si merita il mio aiuto…» detto questo il ragazzo uscì dalla stanza sbattendo violentemente la porta. Kei fuori di sé si sollevò dalla sedia, avanzando verso l’uscita per raggiungerlo quando Roberto lo trattenne per un polso.
«Lascialo andare. Alla canzone posso pensarci anche da solo, non ci serve un litigio in questo momento. Tra meno di un mese ci sarà il nostro concerto. Meglio evitare di accrescere inutili tensioni...»
«Come potete dargliela sempre a vincere in questo modo? Quell'idiota si sta solo approfittando della nostra pazienza. E io odio gli approfittatori, ma più di tutto odio la vostra ingenuità!» detto questo si ritirò dalla stretta dell'altro. Shin lo raggiunse  prendendo nella sua la mano di suo fratello.
«Ti prego Kei, torniamo a lavorare alla canzone» lo spronò con dolcezza, solo a quel punto il più burbero del gruppo riprese posto vicino la consolle.
“Maledizione, sento che quell'idiota prima o poi ne combinerà una delle sue...”
 
Take raggiunse l'appartamento di Yukino che si trovava in un alto grattacielo nel centro di Tokyo.
“Certo che a differenza della Kings Record la Music Station tratta con maggior riguardo i proprio cantanti.” Osservò Take mentre usciva dall'ascensore.  
Quando la ragazza con il caschetto biondo gli aprì la porta, a dispetto del loro misero appartamento Take si ritrovò davanti un locale open-space di gran lusso.
«Che succede?» le domandò la ragazza sorpresa facendosi di lato  per farlo entrare. Take, senza esitare, si fece avanti entrando nell'appartamento fuori di sé dalla rabbia.
«Non ce la faccio più!» esordì frustrato portandosi una mano tra i capelli.
«Raccontami cosa è successo...» lo incitò Yukino spronandolo a prendere posto sul divano bianco del suo appartamento.
«Non capisco perché si stiano comportando in questo modo! Finché si è trattato di loro e di quelle tre maledette canzoni, potevano saltare le lezioni e fare quello che volevano senza problemi. Adesso che tocca a me non mi è concesso?»
«Spiegati meglio...» lo spronò l'altra amorevolmente sfiorandogli con una delle sue mani la coscia sinistra.
Take prese un grosso respiro e le spiegò quello che era successo nello studio di registrazione poco prima.
«Non mi sembra di aver chiesto molto dopotutto! Il minimo che possano fare visto che non hanno fatto nulla per aiutarmi in tutto questo tempo è quello di sostenermi. Quando è stato il loro turno, io sono stato comprensivo. Quando stavano lavorando a quelle tre canzoni per l'album, non mi sono mica lamentato perché Roberto, Kei e Toshi arrivavano tardi alle lezioni di Daisuke o saltavano le lezioni di Yori. Io, Jona e Shin, rimanevamo gli unici a provare fino a tardi mentre loro si divertivano con i mixer. Per una volta che ho la possibilità io di dimostrare quello che valgo loro me lo devono far pesare. Sembra si vogliano tenere il successo tutto per loro... è davvero frustrante! E poi dicono anche che sono cambiato! Sono loro ad essere cambiati e non se ne rendono nemmeno conto!»
Yukino lo abbracciò appoggiando il capo sul suo petto.
«Non ci pensare. Sono solo gelosi. Adesso che finalmente hai la possibilità di mostrare che vali più di loro si sentono minacciati. Ti ho sempre detto che li in mezzo sei quello che vale di più. Secondo te, perché non hanno fatto nulla per migliorare la tua situazione con la stampa? Perché in fondo gli andava bene così. Se si comportano in questo modo è solo perché sono invidiosi di te. Presto non dovrai più  preoccuparti di loro. Domani finalmente dimostrerai quello che vali».
Take strinse a sé Yukino, «si e se lo potrò fare è solo merito tuo e della Music Station. Se solo potessi li lascerei per venire da voi. Ormai non mi sento più parte del gruppo...»
«Perché no?» si sollevò di scatto Yukino sorridendo come se le si fosse illuminata una lampadina.
«Puoi sempre venire dalla nostra parte!», le cose stavano andando proprio come aveva progettato il direttore Mashimoto.
Take per un attimo assecondò l'entusiasmo della giovane eccitato all'idea di trasferirsi in un ambiente amico, ma subito dopo il suo viso si rattristò.
«Finché non avrò saldato il mio debito non posso lasciare la Kings Record...»
«Che debito?» gli domandò Yukino interessata.
«Rio, ha dovuto pagare Takashi per quella storia della canzone... insomma una volta rientrata quella somma non ci saranno più vincoli che ci tratterranno...».
«Capisco, beh allora dobbiamo sperare che la vendita del concerto abbia fortuna. Dico bene?» concluse ammiccandogli complice. Take le sorrise come se tutti i problemi e i malumori fossero sfumati via nascondendosi in un posto lontano.
Potersi confidare con Yukino era così piacevole. Bastava un suo sorriso per rassicurarlo. Sentiva che quella ragazza riusciva a comprenderlo davvero, più di chiunque altro fino a quel momento. Forse anche lei conosceva la sensazione straziante di non essere messa mai allo stesso livello degli altri. Era come se quella sensazione lei la conoscesse bene quasi quanto lui. La sensazione di essere messi da parte e di sentirsi sottovalutati sempre e comunque. Proprio come lui anche lei doveva averlo provato.
Sorridendole a sua volta Take le cinse il capo con le sue mani, dandole un bacio sulla fronte. Quello era tutto quello che voleva da lei. Starle vicino in quel modo gli bastava, non voleva altro che quello. Yukino gli sorrise con uno sguardo luminoso e grato. Quei gesti lievi e amorevoli erano così nuovi e preziosi per lei. 
«Grazie, non so che farei se non avessi te!» lo abbracciò ancora una volta.
Si, dopotutto, Yukino iniziava a credere che non fosse poi un male riuscire a portare dalla parte della Music Station Take. Stando insieme credeva che finalmente nessuno dei due si sarebbe sentito più solo e incompreso. Entrambi avrebbero avuto finalmente qualcuno pronto a schierarsi dalla loro parte. Come era successo a lei, anche Take era stato trascurato per colpa dei favoritismi di Rio. Inconsciamente Yukino iniziò ad odiare gli altri Hope al pari di quanto odiava Rio che l’aveva abbandonata alla Music Station. In modo inconscio iniziava ad appoggiare più di prima il piano di distruzione della signora Yoshida. Alla fine dei conti, quella stava diventando anche una lotta per aiutare una persona a cui teneva. Proprio come lei, anche Take stava provando sulla propria pelle la sensazione di essere abbandonati e lei non voleva che anche con lui la storia si ripetesse. Dopo quel giorno negli spogliatoi aveva capito che Take era un bravo ragazzo. Gli era grata  per averla bloccata prima che si facesse del male ancora una volta. Con quel gesto le aveva fatto riscoprire cosa significava provare rispetto per se stessa. Si, Take era un bravo ragazzo e non meritava quello che gli altri Hope e Rio gli stavano facendo. Se poteva aiutarlo in qualche modo lo avrebbe fatto e non solo per assecondare il piano della signora Yoshida, ma perché sentiva che aiutarlo in quel momento era la cosa giusta da fare. Senza che se ne rendesse conto stava iniziando ad affezionarsi a quel ragazzo più di quanto il piano le richiedesse. Era pericoloso, ma ormai Yukino aveva iniziato ad abbassare la guardia.
 
Clara era pronta. L'indomani sera sarebbe partita. Le valige erano pronte. Sul suo letto solo una scatola era rimasta isolata dal gruppo di valige pronte per prendere il volo con lei. Quella era la macchina da scrivere che Toshi le aveva lasciato. Nel profondo non riusciva a credere che presto sarebbe tornata in Italia e che probabilmente non avrebbe più avuto possibilità di rivederlo.
“Finiscila Clara. Lo dimenticherai... dimenticherai tutto di quel bacio... tutto... ”. Seduta sul letto tirò fuori il suo cellulare.  Aveva inviato un messaggio a Luca. Dopotutto aveva promesso di aggiornalo sul quando sarebbe tornata in Italia. Senza accorgersene la vista le si appannò. Lo schermo sfumò in una sagoma indefinita.
“No, perché, sto piangendo adesso? Io non provo nulla! Un bel nulla!”. Aveva deciso che il mattino seguente sarebbe passata a salutare Roberto e gli altri Hope alla Kings Record prima di partire. Mentre si preparava a mettere da parte i suoi nuovi sentimenti per Toshi e tornare in Italia da Luca, qualcuno entrò nella stanza. Erano Colla mano nella mano con Naoki.
Clara rapidamente si trascinò via le lacrime dal viso.
«Ehi, che ci fate voi due qui?» li riprese riponendo il cellulare nella tasca avvicinandosi loro. Colla subito si staccò dalla presa dell'altra bambina correndo verso Clara che aprì le sue braccia pronta ad accoglierlo come sempre nella sua stretta materna. Una volta in braccio il più piccolo affondò il viso sulla spalla della stessa singhiozzando senza controllo. Naoki a quel punto avanzò prendendo posto sul letto di Clara incrociando le braccia indispettita sullo stomaco.
«Non faceva altro che piangere, e allora l'ho portato qui». Clara con occhi comprensivi raggiunse Naoki seduta sul morbido materasso.
«Capisco. Ehi, Colla,» richiamò l'altro tra le sue braccia «perché stai piangendo?» gli chiese cercando di staccarselo di dosso per  poterlo vedere in viso. Ma Colla era irremovibile. Forse non voleva farsi vedere da lei mente piangeva.
«È perché domani andrai via...» le chiarì infine Naoki con occhi di rimprovero.
«Capisco...» completò colpita dritto al cuore dalla sincerità di quei due piccoletti.
«Adesso non ci sarà più nessuno che ci leggerà le fiabe!» aggiunse Naoki, contenendo le lacrime dai suoi occhi fieri.
Colla a quel punto si distaccò da Clara.
«Io non voglio che Wendy vada via!» asserì con il viso bagnato di lacrime. Clara le asciugò dal suo viso dolcemente una ad'una, come assaporando ogni secondo di quel momento prezioso. Avrebbe voluto confortarli in qualche modo, ma proprio non sapeva cosa dire per giustificare il fatto che li stesse abbandonando e stesse tornando in Italia. Da quando si era trasferita all'orfanotrofio molte cose erano cambiate. Lei era cambiata, aveva scoperto un lato di sé più leggero e giocoso. Si era abituata a quel posto chiassoso e pieno di gioia, l'idea di tornare alla sua fredda casa in Italia, le mise su un'incredibile malinconia. Prima che potesse controllarlo le lacrime le sfuggirono via dagli occhi. Naoki a quel punto le si avvicinò preoccupata.
«Sorellona perché stai piangendo anche tu adesso?», Clara si asciugò le lacrime ancora una volta frettolosamente, sorpresa di aver ceduto al suo lato sensibile proprio davanti a loro. Avrebbe dovuto essere lei a consolarli e non lei a ricevere da loro il conforto per quello che stava facendo. Ma in quell'orfanotrofio aveva imparato che non c'era chi si prendeva più di tutti cura degli altri, ma tutti a modo loro facevano quello che potevano per aiutarsi reciprocamente. Ci si aiutava senza il bisogno di chiedersi aiuto e questo era uno dei più grandi insegnamenti che Clara si sarebbe portata con sé in Italia.  Riconquistato un certo contegno, sorrise ai due piccoli seduti vicino a lei.
«Perché mi mancherete tanto».
«Ti mancheranno anche gli altri bambini? E zio Yuki?» le chiese Colla.
Clara acconsentì, «certo, mi mancheranno anche loro».
«E ti mancheranno anche i fratelloni Kei, Shin, Take, Roberto, Jona e Toshi?» per un attimo quell'ultimo nome le vece sobbalzare il cuore. Si, Toshi le sarebbe mancato moltissimo. In quel periodo lo aveva rivalutato. Si era dimostrato un vero gentiluomo un ragazzo intelligente e disponibile. Se non fosse stato per i suoi incoraggiamenti non avrebbe mai avuto il coraggio di riprendere in mano le redini della sua vita e riprendere a scrivere.«Certo. Mi mancheranno tutti!» concluse infine rigettandosi le lacrime per Toshi nel profondo, cercando di sorridere loro ancora una volta. Naoki a quel punto la prese per mano.
«Sorellona, non devi piangere! Anche se parti non vuol dire che ti dimenticheremo. Quindi non essere triste. Ok?».
Clara rimase a dir poco sorpresa dalle parole di conforto di Naoki. Con un sorriso più sincero le accarezzò la testa, baciando prima la sua fronte e poi quella di Colla.
«Anche io non vi dimenticherò mai, sarete sempre nel mio cuore». Detto questo i due bambini rincuorati scesero dal letto e prendendosi per mano uscirono dalla stanza di Clara, salutandola.
Clara rimase ancora qualche minuto in contemplazione di quella scena. Si, quel luogo le aveva insegnato tanto e presto avrebbe dovuto dirgli addio. Mentre Clara, chiusa nella sua stanza nella periferia di Tokyo, si preparava a custodire preziosamente quei momenti nel suo cuore, dall'altra parte del mondo c'era chi invece si preparava ad approdare in Giappone per cancellare i ricordi dolorosi della suo passato definitivamente dal suo cuore. 

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Capitolo 34
*** LA FESTA DI BENVENUTO ***


CAPITOLO 34
IL GIORNO DOPO:
LA FESTA DI BENVENUTO

 
 
Londra
Tutti erano pronti per partire, all’appello mancavano solo Marika e Thomas.
Timothy si mordicchiava le unghie della mano destra irrequieto.
«Ehi, criceto! Vuoi finirla?» lo riprese Kat, allontanandogliela con un movimento brusco dalla bocca.
«E se decidesse di non partire? Come faremo a Tokyo senza di lei? I vestiti sono ultimati, ma se ci fosse da apportare delle modifiche come faremo?» gli domandò in ansia il giovane contabile aggiustandosi le lenti sul naso.
«Calmati Timothy, vedrai che ce la faremo anche se Marika decidesse di non venire…» cercò di rincuorarlo il rosso palestrato. I tre quasi all’unisono alleggerirono i loro sguardi pensierosi quando videro Thomas e Mary muoversi nella loro direzione. Alla fine la loro amica aveva deciso di partire. 
«Grazie al cielo, sei venuta!» esordì la giovane punk con il ciuffo blu sull’occhio. accogliendo l’amica bionda
«Scusate il ritardo» si scusò con il gruppo Thomas.
«Nessun problema, adesso che ci siamo tutti possiamo partire…» asserì serio Adam portandosi alla testa del gruppo.
Marika prese un grosso respiro e tirandosi dietro il suo trolley nuovo di zecca, seguì gli altri pronta a superare in volo l’oceano per andare incontro al suo destino. 
 
 
Tokyo
I ragazzi avevano da poco concluso le prove per il concerto. Era appena mezzogiorno quando Nami li raggiunse con il fiatone. La sera prima Roberto, andando contro il proprio orgoglio, aveva lasciato a Take il testo e la musica per l’esibizione di quella sera. Quello non era il momento migliore per litigare. A breve ci sarebbe stato il loro primo concerto e Roberto non voleva che si svolgesse tra dissapori e rancori.
Nami corse senza fermarsi. Doveva avvisarli. Aperta la porta della sala prove la stessa li raggiunse che si stavano riposando, chi bevendo, chi tergendosi il sudore con gli asciugamani. La ragazza si fermò ansimando per qualche secondo al centro della stanza prima di raccontare loro quello che aveva sentito e visto.
« … Kei… la tua canzone…. » disse infine rivolgendosi al ragazzo con la frangia sull’occhio sinistro mentre, con una mano al petto, riprendeva fiato.
«La mia canzone cosa?» le domandò con espressione interrogativa l’altro, raggiungendola.
«Yukino e Take… non so come sia successo… ma loro…»
«Nami, sii più chiara» la spronò anche suo fratello gemello poggiando una mano rassicurante su una delle sue spalle.
«Hanno rubato la canzone….  proprio ora la stanno cantando in diretta al Music Show» completò con aria dispiaciuta la ragazza fissando dritta negli occhi Kei. A quel punto senza esitare oltre, lo stesso corse nell’unica aula della Kings Record dotata di un televisore a quel piano. Per sua fortuna all’interno non c’era nessuno, così senza impedimenti recuperò il telecomando e iniziò a zigzagare senza freni da un canale all’altro. Aveva appena trovato quello che stava cercando quando anche gli altri lo raggiunsero posizionandosi in silenzio dietro di lui. Su quello schermo Take e Yukino ballavano e cantavano proprio sulle note della sua canzone. Il telecomando gli scivolò lentamente dalle mani, cadendo sul freddo pavimento. Non poteva credere a quello che stava sentendo. Quella era proprio la canzone che aveva fatto sentire qualche giorno prima a Roberto e Nami.
Nessuno proferì parola. Le parole avevano ceduto il posto a un solo sentimento: la delusione.
https://www.youtube.com/watch?v=7J31M19OC0E
 
Kei aspettò che la performance fosse finita, poi si voltò e aprendosi un varco tra i suoi amici uscì fuori dalla stanza. Nami lo raggiunse appena in tempo.
«Kei fermati. Ci deve essere una spiegazione logica…» disse frenandolo per un polso. A quel punto lui si voltò verso di lei con occhi di fuoco. A quella vista Nami esitò allentando la presa. Quegli occhi le fecero davvero paura.
«Mi dispiace, ma non la passerà liscia anche questa volta!» detto Ciò Kei si liberò dalla sua stretta allontanandosi da Nami dirigendosi fuori di sé verso lo studio di Rio.
Purtroppo per lui Rio era andato ad accogliere l’arrivo all’aeroporto del Direttore della casa di moda e del suo staff che sarebbe atterrato a breve in Giappone. Deluso tornò verso l’aula in cui si allenavano con Daisuke. Ormai l’orario delle lezioni si era concluso da un pezzo e sperò di trovarla vuota.  Lì però vi scoprì gli altri Hope e Nami ad attenderlo inquieti e taciturni.
«Cosa ha detto Rio?» gli chiese Shin.
«Non è qui.» rispose Kei frustrato prendendo posto tra loro.
Proprio in quel momento la porta dell’aula fu aperta. Sotto i loro occhi sorpresi fecero il loro ingresso Take e Yukino con una bottiglia di spumante e due calici tra le mani.
La ragazza notando il gruppo si portò una mano alla bocca divertita.
«Ops, mi sa che abbiamo scelto proprio l’unica aula ancora piena per festeggiare» disse rivolgendosi a Take al suo fianco sorridendogli come un’oca.
«Beh, poco importa festeggeremo anche con loro il nostro primo posto in classifica…». Detto questo Take riempì uno dei calici sollevandolo verso gli altri Hope sorridendo con aria di vittoria. A quel punto Kei non ce la fece più, a passo spedito lo raggiunse e diversamente da un giorno prima, nessuno si prodigò per fermarlo.
Era a pochissimi passi da quei due che se la ridevano come pazzi. La ragazza sorrise beffarda, soddisfatta che il suo piano stesse funzionando alla perfezione.Aveva notato Kei muoversi verso quella stanza per questo aveva trascinato Take al suo interno con una scusa.
«Take, perché non gli offri un bicchiere, sembra che il tuo amico voglia festeggiare con noi…» lo spronò Yukino sorridendo con malignità. Toshi alle spalle del trio strinse i pugni contenendo la voglia matta che aveva di cancellarle quel sorriso sfrontato dalla faccia. Qualcosa nel profondo gli suggeriva  che quanto era successo fosse opera di quella ragazza ossigenata.
Senza esitare Take riempì il secondo calice porgendolo a Kei.
Lui dalla sua rimase immobile mentre l’altro glielo porgeva quasi sotto il naso. 
«Che fai? Non festeggi alla mia vittoria?» lo provocò il ragazzo con i capelli ormai non più ricci.
Tutti in ansia attendevano una reazione di Kei. Lo stesso contro ogni previsione accettò il bicchiere dalle mani dell’amico. Lo sollevò in aria e poi con un gesto lento e misurato glielo rovesciò sulla testa.
Take e gli altri presenti non potevano credere a quello che stava succedendo.
Il liquido chiaro e pieno di bollicine, cadde prima sui capelli castani di Take inondandogli il volto e poi sulla giacca rossa e costosa che indossava.  Kei, solo a quel punto, conquistò per sé il sorriso sprezzante che poco prima era stato dell’amico e della sua compagna.
«Cosa ti fa credere che festeggerei mai questa vittoria? Non ti basta avermi rubato il brano? Pretendi addirittura che festeggi con te un successo che non meriti?».
Take strinse i pugni leccandosi le labbra umide di spumante.
«Giusto, perché mai dovreste festeggiare per il mio successo! Avreste preferito di gran lunga se fossi arrivato ultimo, non è così? Mi fate davvero pietà. Adesso che non potete combattere contro l’evidenza dei fatti vi umiliate prendendovi il merito di qualcun’altro…. Kei non pensavo saresti sceso fino a questo punto, prenderti il merito di un brano che non ti appartiene pur di non ammettere la sconfitta».
Kei scattò prendendo per il colletto della camicia Take, sollevandolo e sbattendolo contro la parete.
Gli era vicinissimo e i suoi occhi erano carboni roventi.
«Non ti azzardare a dire una parola di più, schifoso vigliacco. Altrimenti giuro che…»
«Giuri cosa? Vuoi colpirmi? Prego, accomodati pure, questo non cambierà il fatto che presto vi farò pentire di avermi trattato da schifo per tutto il tempo…».
 
«Cosa succede qui?» chiese Rio entrando nell’aula. Alle sue spalle c’era il giovane direttore Thomas e tutto il suo staff.
Kei a malincuore dovette rimettere a terra Take.
«Cosa devono vedere i miei occhi? E io che volevo mostrare la dedizione e l’impegno dei nostri artisti. Che figura mi fate fare?». Kei reclinò il capo, sconfitto e umiliato raggiunse il gruppo.
In quel momento Roberto si concentrò meglio sulle altre persone dietro il direttore. I suoi occhi non potevano credere a quello che vedevano. In un piccolo spiraglio tra quello che sembrava essere un giovane uomo d'affari ben vestito e il direttore della Kings Record intravede il volto di qualcuno familiare, troppo familiare.
“Marika…”
Quello sguardo, quei capelli color del grano, quel viso a cuore e quelle leggere lentiggini sul suo viso.
Non c’erano dubbi, era lei. Non poteva essere un’allucinazione. Quella era proprio Marika.La sua Marika. Ma cosa ci faceva lì?
Dal canto suo la ragazza dietro Thomas e Rio, strinse i pugni cercando di mantenere la calma e rallentare i battiti del suo cuore. Roberto la stava fissando, i suoi occhi le stavano supplicando disperati un contatto. Reggerli non era facile come pensava sarebbe stato.
A un certo punto sentì la mano di Thomas stringere la sua. 
Non doveva cedere. Anche se il vederlo aveva riacceso quei sentimenti assopiti nel suo cuore, doveva mantenere il controllo sulle sue emozioni. Doveva farlo per lui. 
«Ringraziate che stasera si terrà la festa di benvenuto per i nostri ospiti della One Million, altrimenti vi avrei già messo tutti in punizione. Adesso raccogliete le vostre cose e andate a cambiarvi. Tra due ore vi voglio nel mio studio». Detto questo il Direttore si rifilò facendo segno anche agli altri suoi ospiti di allontanarsi.
Roberto stava per alzarsi e raggiungerli quando Nami lo precedette tagliandogli la strada correndo verso suo padre. Toshi lo fermò prendendolo per un braccio.
«Roberto è inutile. Quando mio padre è infuriato non c’è nulla che possa fargli cambiare umore!».
Roberto si voltò verso il leader confuso. Non era per chiedere scusa a Rio che voleva raggiungerli, ma per assicurarsi che i suoi occhi non gli avessero giocato un brutto scherzo. Rassegnato decise di assecondare l’amico e attendere l’inizio della festa per rivederla.
Yukino, a quel punto prese un fazzolettino dalla sua borsa e tamponò dolcemente la testa di Take.
«Vieni, andiamo a casa mia, devi toglierti questi vestiti bagnati di dosso» detto questo prese per mano il ragazzo ormai fradicio spronandolo a uscire dalla stanza. Prima però rivolse un ultimo sguardo verso il gruppo e verso Toshi.
Kei e il giovane leader del gruppo strinsero i loro pugni quasi simultaneamente. Questa non potevano lasciargliela passare liscia.
 
Nami raggiunse suo padre. Era nello studio con i suoi ospiti. Bussò un paio di volte prima di farsi aprire.
Quando entrò il suo viso si riempì di un caldo sorriso. Con euforia corse verso Marika.
«Mari, sei venuta! Sono così felice di rivederti» disse eccitata, abbracciandola. La stessa ricambiò la sua stretta.
«Anche io sono felice di rivederti Nami!».
Poi con occhi sottili si rivolse a Thomas accanto all’amica, «direttore, alla fine ti sei deciso a sposarla, eh? Ti avverto! Prova a ripensarci e scinderò il mio contratto di esclusiva. Siamo intesi?» lo minacciò puntandogli contro il dito indice.
Thomas le sorrise.
«Come potrei mai tirarmi indietro dopo una minaccia simile!» la rassicurò mantenendo il tono allegro e scherzoso della conversazione. Rassicurata Nami sorrise sollevata portandosi le mani al petto.
«Sono davvero felice per voi! A quando le nozze?» chiese a entrambi con occhi sognanti.
Rio a quel punto tossì un paio di volte per riportare l’attenzione su di lui.
«Nami, non ti sembra scortese non aver rivolto i tuoi saluti anche agli altri membri dello staff?» la riprese suo padre in tono severo.
«Scusate, che sbadata che sono. È un piacere rivedere anche voi. Come state?»
«Be… be… bene, grazie signorina Na…Na… Nami. Dall’ultima volta che l’abbiamo vista è diventata ancora più… più… più bella», rispose per primo Timothy.
«Grazie Timothy sei molto gentile. Anche tu sei migliorato parecchio. Hai cambiato montatura degli occhiali?».
«Beh, si a dire il vero».
 L’occhialuto contabile si aggiustò le lenti nuove sul naso arrossendo vistosamente.  Purtroppo per lui quella lusinga innocente gli costò una gomitata da parte della giovane punk.
«Ehi, che… che… ho fatto?» gli domandò sorpreso. La stessa si limitò a sbuffare distogliendo lo sguardo orgogliosamente.
Nami, si portò una mano alla bocca sorridendo divertita.
«Nami, adesso noi dovremmo discutere di affari. Ti dispiacerebbe lasciarci un attimo?» le chiese Rio.
«Papà, veramente sono venuta per spiegarti il motivo di quello che è successo poco fa. Non devi avercela con Kei. Questa volta posso assicurarti che non centra niente…»
Rio con un movimento di sufficienza della mano invitò la figlia a tacere.
«Nami, non è il momento adatto questo per discutere di certi argomenti. Dopo la festa ne riparleremo…»
«Ma…»
«Adesso vai a prepararti. Non vorrai far tardi alla festa in onore dei nostri ospiti?».
Rassegnata la giovane modella, acconsentì uscendo dallo studio del padre con sguardo triste.
 
Take e Yukino erano nel bagno del suo appartamento. Per fortuna non distava molto dalla sede della Kings Record.  La giovane ancora con la parrucca bruna asciugava diligentemente i capelli dell’altro con un asciugamano.
«Grazie…» disse Take.
«Per così poco…».
Take bloccò i movimenti di Yukino stringendole con la mano destra il polso sottile.
«Grazie, non solo per questo, ma per tutto…» disse poggiando la testa sul suo ventre, «sei l’unica che crede in me. Se non ci fossi stata tu probabilmente sarei crollato già molto tempo fa…» Yukino lo allontanò piegandosi e avvicinando i loro due visi.
«Take sappi che non smetterò mai di credere in te…»
«E io non ti darò mai motivo per  farlo… Yukino anche io credo in te… in noi».
Gli occhi di quel ragazzo erano così profondi e intensi che Yukino per un attimo se ne sentì trafitta. In soggezione recuperò le distanze, ma lo stesso le prese il viso tra le mani avvicinandolo al suo.
«Yukino… posso baciarti? Posso stare al tuo fianco non solo come membro di un gruppo ma come tuo ragazzo?» la stessa rimase in silenzio sorpresa da quella richiesta.
«Non devi avere paura, io non ho alcuna intenzione di lasciarti… per starti vicino sacrificherei tutto quello che ho. Se non mi credi stasera dichiarerò davanti a tutti che ho intenzione di recidere il contratto con la Kings Record. E lo farò solo per dimostrarti che ti amo».
Yukino guardava spaesata gli occhi sicuri e fieri di Take. Era sincero, l’amava davvero.
Lì la situazione si stava complicando. Un semplice e frivolo coinvolgimento fisico andava anche bene, ma non poteva e non voleva ferirlo sul piano sentimentale. Non poteva e non voleva ingannarlo in quel modo. Dopotutto Take era il primo ragazzo dopo Rio ad averla trattata con rispetto e non voleva soffrisse.
Nonostante questo nella sua mente risuonavano incessanti le parole della Signora Yoshida, le stesse che le rammentavano il suo compito è quanto alto sarebbe stato il prezzo che avrebbe pagato se non l'avesse portato a termine. Take doveva fidarsi di lei. Poi in un flashback le tornò alla mente anche il momento nel bagno degli uomini.
“Cosa dovrei fare?” 
«Non essere ridicolo, non vorrai inimicarti tutti li dentro! Per quanto riguarda il voler essere il mio ragazzo... perché più che essere una coppia non pensiamo a divertirci? A me le storie impegnative non piacciono. Si rischia di rimanere feriti... meglio evitare...»
«Forse non sono stato chiaro. Non voglio con te una storia di una notte e via. Io voglio stare al tuo fianco. Lascia che ti stia vicino come nessuno ha mai fatto. Fidati di me...»
“Sei tu che non dovresti fidarti di me...”
Yukino si sollevò adesso entrambi in piedi si scrutavano in silenzio.
«Adesso dovremmo andare, altrimenti farai tardi alla festa…» Take la trattenne per un braccio.
«Yukino, voglio davvero scoprire cosa si prova a condividere i momenti belli e brutti con qualcuno che si ama e voglio che quella persona sia tu... Qualsiasi cosa tu dica o faccia, non cambierà quello che provo. Puoi fidarti, non ti abbandonerò, non lo farò mai». Detto questo si avvicinò a Yukino che sentiva il cuore batterle come mai prima di allora.
Gli occhi di quel ragazzo erano sinceri, molto più dei suoi, che lo avevano conquistato con l’inganno.
“Non merito il tuo amore …”
«Yukino, conterò fino a tre e poi ti bacerò, ma se non vorrai ti basterà allontanarti…».
“Perfetto e adesso cosa faccio?” Nella sua mente Yukino combatteva una guerra contro se stessa, una guerra tra la verità è la menzogna che aveva costruito con le sue stesse mani. Se lo avesse baciato, lo avrebbe fatto perché lo amava o per la riuscita del piano?
«1…» il viso di Take era sempre più vicino.
“No, Yukino. Non puoi farlo…”
«2…» adesso Take era così vicino che il suo fiato solleticava le guance di Yukino.
“Yukino, questo bacio lo hai difeso con le unghie e con i denti per tutti questi anni… sei sicura che lui non andrà via come tutti gli altri?” chiuse gli occhi.
«3…».
Take prese per sé quel bacio che con cura Yukino aveva custodito per tutti quegli anni.
Yukino con fiducia si lasciò andare al tocco delicato di quel ragazzo che senza sapere come  aveva superato le barriere nel suo cuore.
Dopo quel bacio innocente Take si allontanò da lei sorridendole raggiante.
«Mi sa che siamo appena diventati un duo e non solo musicale» asserì lui entusiasta. Yukino sorrise a sua volta, intenerita dalla sua ingenua eccitazione.
«Eh, si. Mi sa che lo siamo appena diventati» proseguì fissandolo dritto negli occhi. Take era un bravo ragazzo. Forse non meritava di essere ingannato in quel modo. Ma lei lo stava davvero ingannando? O più semplicemente stava ingannando se stessa?
«Yukino... sicura che ti vada davvero bene che noi due diventiamo un duo anche nella vita vera?», la ragazza con un dito sulle labbra del ragazzo, ne fermò le parole, non sapeva più cosa pensare. Quello che Take le aveva detto aveva avuto il potere di distruggere le sue ultime difese e far svanire tutte le sue sicurezze. Sembrava sincero, troppo sincero, e per la prima volta nella vita di Yukino quella sincerità ebbe il potere di renderla triste e felice allo stesso tempo. In punta di piedi si sporse verso di lui e stringendosi al suo collo con le sue braccia, a sua volta lo baciò. Un bacio, che non era frutto di uno squallido ricatto ma che era invece spinto da un altro sentimento più forte e potente che Yukino grazie a Take aveva scoperto per la prima volta nella sua vita: l'amore.
Gli Hope erano pronti. Jona aveva preparato le valige. Alla fine della festa avrebbe preso l’ultimo volo per la Cina e avrebbe raggiunto i suoi genitori. Tra le tante cose decise che sarebbe passato dal bar per salutare Hana prima della partenza. Proprio pochi istanti prima di chiudere la valigia, aveva ricominciato a cercare in modo frenetico qualcosa in giro per la stanza del dormitorio sotto l’occhio vigile di Roberto. «Si può sapere cosa stai cercando?» gli chiese l’amico perplesso. Era rimasto a fargli compagnia mentre gli altri avevano già raggiunto la Kings Record. «Cerco un libro» gli spiegò sintetico l’altro come se fosse una cosa ovvia. «Tu che cerchi un libro… questo si che è strano…» constatò sorpreso l’altro. «Si, è per una persona» «Non dirmi che è per quella ragazza…» «Si... Ho deciso cosa farò appena salderemo il debito con Rio e avremo il nostro primo stipendio. Lo darò a lei per l'operazione». «Perché non gli dai quelli che hai già sul conto dei tuoi genitori?» «Perché non li ho guadagnati con il mio sudore e lei non li accetterebbe mai... ». «Ma dopo che avrà recuperato la vista non hai paura di come reagirà quando scoprirà chi sei in realtà?», a quelle parole Jona si immobilizzò. «Si, ci ho pensato. Per il suo bene lascerò andare la mia volpe». Trovato il libro Jona con una stana malinconia interiore lo ripose nella sua valigia. Sullo stesso un nome francese e sulla copertina l’immagine di un ragazzino biondo e di una volpe. Chissà se quello sarebbe stato l’ultimo libro che avrebbero letto insieme. Dentro di lui si dipinse silenzioso quel presentimento. Conclusi i preparativi per la partenza i due ragazzi raggiunsero gli altri nella hall della Kings Record. Clara aveva detto che sarebbe passata per salutarli prima della partenza. Nonostante fossero tutti lì riuniti in attesa dell’arrivo di Wandy, i pensieri di Roberto erano rivolti ad un’unica persona: Marika.
Come un po' tutto il gruppo anche Toshi era stramente taciturno mentre Kei, seduto al divano, contemplava riflessivo il pavimento. Avevano tutti un’espressione turbata e irrequieta. Gli unici due a mostrare impazienza per l’arrivo di Clara erano Shin e Nami.
«Non sarà partita senza salutarci?» Si domandava in pensiero la giovane e bellissima modella sfilando avanti e indietro davanti al divano su cui erano seduti i quattro membri degli Hope. Toshi era l’unico in piedi appoggiato a uno dei pilastri dell'atrio a braccia incrociate. Una parte di lui avrebbe preferito non rivederla prima della partenza. Diede un’occhiata al suo orologio da polso, erano le quattro di pomeriggio.  Alle sei sarebbe iniziata la festa. Non avevano più molto tempo.
A quel punto Toshi non ce la fece più.
«Scusatemi io vado un attimo su. Penso di aver dimenticato una cosa in sala prove». Detto questo il leader si dileguò sotto l'occhio accusatorio di sua sorella gemella. Nami aveva capito che suo fratello provava qualcosa per Clara e non poteva permettergli di comportarsi da codardo. Il leader era appena entrato nell'ascensore quando alla sede della Kings Record entrò Clara con un cappottino color panna e un trolley da viaggio rosso.
Al suo ingresso tutti sollevatore i loro sguardi tristi e spenti. Roberto aveva raccomandato ai ragazzi di non raccontare nulla degli ultimi avvenimenti a Clara perché era sicuro che una volta scoperto cosa stava succedendo lei avrebbe rinunciato a partire.
«Sei arrivata sorellona!» l'accolse calorosamente Nami raggiungendola a braccia aperte. Anche Shin si fiondò su di lei. «Sei arrivata!  Pensavamo non saresti passata più». Clara accarezzò commossa la testa del più piccolo del gruppo mentre ispezionava i presenti. All'appello mancava Toshi. Non che lei si aspettasse di trovarselo li in realtà. Era convinta ce l'avesse con lei per quello che gli aveva detto l'ultima volta.
Roberto, portandosi davanti agli altri che l'accerchiavano, le sorrise con occhi lucidi. Shin e Nami si allontanarono in modo da concedere ai due un momento di intimità fraterna. Clara guardava suo fratello commossa. Alla fine aveva realizzato il sogno del bisnonno e anche lei era felice di aver assecondato il suo volere  se poteva vedere suo fratello felice.
«Ti avevo promesso un giorno di ripagarti per avermi sostenuto quella volta. Tieni, questo è per te... » disse Roberto porgendole la busta con lo stipendio del bisnonno che quella sera Clara gli aveva donato.
«Non serviva che me li restituissi... » lo riprese sua sorella.
«Era il minimo. Comunque guarda bene, dentro c'è qualcosa per te da parte di tutti noi».
Dentro quella busta Clara trovò un amuleto portafortuna.
Lo tirò fuori analizzandolo con interesse.
«Speriamo ti porti fortuna...  Non è un granché ma è un pensiero da parte di tutti noi per ringraziarti del tuo sostegno... e anche per l'aiuto che hai dato all'orfanotrofio» le rivelò Kei con aria sostenuta cercando di contenere le emozioni.
«Grazie, lo apprezzo  molto » asserì con un nodo alla gola Clara. Non voleva piangere, ma cercare di trattenere le lacrime era davvero difficile.
«Madame è  stato un vero piacere fare la sua conoscenza. Le auguro buon voiage!» si intromise Jona sorridendole con il suo solito fare da latin lover. Tutti sorrisero alleggeriti grazie alle parole dell’amico. Clara lo ringraziò tra sé per quel momento di ilarità che aveva permesso alle sue lacrime di non cadere.
«Merci monsieur ». Aggiunse sorridendogli complice. Poi fu il turno di Nami. Clara le si avvicinò.
«Ti affido il mio Robi prenditi cura di lui. E tu, comportati da galantuomo con la mia sorellina. Non voglio venire a sapere che piange a causa tua. Siamo intesi? ».
«Ci proverò» le rispose suo fratello prendendo Nami per mano. A quel punto fu il turno del ragazzo con il ciuffo sull'occhio sinistro.
«Kei, sono fiera di averti conosciuto. A differenza dell’idea che mi ero fatta di te, devo ammettere che sei un bravo ragazzo e un fratello meraviglioso. Ti auguro di riuscire a raggiungere la felicità che meriti». Kei acconsentì con un lieve movimento della testa. Clara spostò i suoi occhi sul piccolo del gruppo con le orecchie a sventola e quel naso a patatina. Con una mano gli accarezzò il viso sussurranfogli qualcosa nell'orecchio sinistro.
«Shin prenditi cura di Kei. Alle volte noi fratelli maggiori pensiamo di avere sulle nostre spalle la responsabilità di tutto, ma la verità è che anche noi abbiamo bisogno che qualcuno  si occupi di noi. D'accordo?» il più piccolo acconsentì con fermezza.
«Bene, allora vado. Ragazzi in bocca al lupo. Appena possibile vi darò mie notizie.» prima di andarsene Clara lanciò un ultimo sguardo oltre i suoi amici, ma purtroppo per lei dal corridoio alle loro spalle non vide arrivare la persona che aspettava.
«Toshi è  salito su nella stanza degli allenamenti. Se vuoi scappo a chiamarlo... » si intromise Nami intuendo i pensieri silenziosi dell'amica. 
«No, non occorre. Gli rivolgerete voi i miei saluti».
Rassegnata Clara prese il suo trolley e lasciò il palazzo. A quel punto Nami corse verso l’ascensore. Una volta entrata nello stesso attese di arrivare al piano in cui si trovava la sala prove di Daisuke.
Toshi, seduto sul pavimento freddo rifletteva. Nella sua mente le parole di quell’anziana signora. Quella vicenda per certi versi gli sembrò molto vicina a quella che stava vivendo lui. Clara era lo scrittore americano, e lui la geisha giapponese e anche lui come lei tanti anni prima stava lasciando andare via la persona che amava senza averle confessato prima quello che provava.
Prese un grosso respiro reclinando la testa fino a toccare la parete alle sue spalle.
Tutto era buio. Aveva sempre amato rimanere solo e immerso nelle tenebre. Era un rassicurante limbo atemporale. Uno spazio in cui poteva riflettere in solitudine.
“Probabilmente sarà già andata via… Non importa, meglio così per entrambi…”.
Stava per sollevarsi quando qualcuno aprì la porta entrando con prepotenza in quell'oscurità che Toshi aveva spesso costruito per se stesso.
Era Nami. Anche al buio l’avrebbe riconosciuta.
«Vigliacco, so che sei qui dentro!» disse spostandosi in cerca di un interruttore.
«Che vuoi da me Nami?»
«Voglio che mio fratello mantenga la promessa che mi fece. Ricordi quello che mi dicesti quella volta che per poco non vi feci scoprire da papà? Mi dicesti che di me ammiravi il fatto che fossi sempre onesta, sbandierando con  sincerità quello che pensavo, cosa che tu invece non eri  capace di fare. Ammiravi la mia determinazione e mi dicesti che alla fine mi avresti dimostrato di essere alla mia altezza. Ebbene ne hai l’occasione in questo momento. Puoi ancora raggiungerla e…  »
«e cosa? Dirle che l’amo? Pensi che deciderebbe di non partire se lo facessi? Ti rispondo io…  Partirebbe lo stesso. Non cambierebbe un bel niente…  »
«Come puoi dire che non cambierebbe nulla?»
«È così. Se le dicessi quello che provo, con molta probabilità, gli farei solo compassione. Lei ha già un’altra persona ad aspettarla in Italia. Io per lei sono solo un moccioso. Che diritto ho di raggiungerla e rivelarle quello che provo…? Le mie parole creerebbero solo inutile imbarazzo e confusione… meglio lasciare le cose come stanno…. dopotutto io non sono nulla per lei…»
«Come fai ad esserne così sicuro? Cosa ti da la certezza che lei non provi nulla per te? Non ti passa per la testa che forse anche lei prova i tuoi stessi sentimenti?»
«Non è come pensi! Lei ha già qualcun'altro!»
«Anche Roberto aveva qualcuno nel suo cuore, ma io non ho rinunciato a confessargli quello che provavo… Se non rischi nella vita non otterrai mai quello che vuoi. Se non avessi rischiato con i ragazzi quel giorno al parco adesso non saresti un leader, e sono convinta che l’umiliazione di un rifiuto vale più del rimpianto di non aver avuto il coraggio di correre quel rischio… Toshi dimostrami che quel giorno le tue non erano solo parole. Vai da lei, prima che sia troppo tardi».
All'improvviso la luce tornò in quella stanza buia. Nami riconobbe la figura imponente di suo fratello sormontarla a pochi centimetri di distanza. Aveva la mano sull’interruttore della luce e la fissava con un tenue sorriso sul viso.
«Quello che ho detto quel giorno era la verità. Oggi non mi comporterò da vigliacco. Come potrei farlo quando la mia sorellina mi guarda con due occhi simili!» Detto questo Nami sorridendogli retrocedette di qualche passo e con decisione aprì la porta facendo segno a suo fratello di uscire. Lui recuperò il suo cappotto e correndo si catapultò nell’ascensore.
Gli altri Hope radunati alla ingresso lo videro sfrecciare fuori dall’edificio come un fulmine.
Shin si portò le mani ai fianchi soddisfatto. «Alla fine, sembra che il nostro Peter Pan voglia raggiungere Wandy prima che voli via dall’isola che non c,è!».
«Per me Shin hai visto troppi cartoni animati….» lo riprese scettico suo fratello, ma anche lui come gli altri faceva il tifo per Toshi.
 
 
Clara aveva consegnato ormai i bagagli per il checkin. Dato un ultimo sguardo al biglietto che stringeva tra le mani si mosse verso il suo nuovo destino.
Toshi, raggiunse l'aeroporto che aveva il fiatone. Diede un ultimo sguardo all'orologio da polso che indossava, erano le cinque. Il volo di Clara partiva alle sei.
Agitato si muoveva tra le persone in arrivo e in partenza. Pensava di essere arrivato troppo tardi quando all'improvviso la vide di spalle incamminarsi verso la zona d’imbarco.
«Clara!» disse gridando a più non posso.
La stessa si arrestò. Al suono di quella voce il cuore le era salito in gola.
“Non riesco a girarmi… e se mi dovesse chiedere di rimanere … cosa dovrei fare?”
Toshi, riprendeva fiato in attesa che lei si girasse verso di lui. Dopo un profondo respiro la ragazza con il caschetto e gli occhi verdi smeraldo si voltò verso di lui.
A piccoli passi lo raggiunse. Erano l’uno di fronte all’altro.
«Clara… non di voglio più vivere di rimpianti. Non posso più tenere solo per me queste tre parole.... Prma che tu parta ho bisogno di dirtele almeno una volta... Clara, io.. ti amo…»
Clara nel profondo un po' se lo aspettava, e una parte di lei si era preparata a quella eventualità. La mano le si mosse quasi autonomamente. Sollevandosi si portò in avanti in una sorta di mossa difensiva. Così immobile Clara aspettava che l’altro la stringesse. Inconsciamente sperò che con quel gesto improvviso e un po' fuoriluogo potesse sistemare le cose. Come il cancellino di una lavagna, sperava così di eliminare quelle parole pericolose che Toshi aveva tirato fuori. Non era sua intenzione lasciargli false speranze, ne illudere se stessa. Toshi, osservò impacciato quella mano sospesa. Gli occhi di Clara parlavano chiaro. Erano lucidi. Toshi sapeva che se aveva preferito tacere era stato per non ferirlo. Come aveva immaginato, nel suo cuore non c’era spazio per lui. Rassegnato, ma felice di essere stato coraggioso e aver confessato i suoi sentimenti, la strinse. Rimasero così qualche secondo in silenzio, poi proprio mentre Clara stava per sciogliere quel contatto, lui la strattonò tirandola da quella stessa mano nella sua direzione e l'abbracciò forte tra le sue braccia. Una parte di lui, la più irrazionale, non voleva lasciarla andare. Bastò quel semplice contatto per far riemergere nella mente di Clara tutti i ricordi dei momenti trascorsi con Toshi: dal primo incontro fuori dai dormitori, al giorno in discoteca quando l’aveva difesa da quel energumero palestrato, ai momenti trascorsi all'orfanotrofio con i bambini, a quel bacio vicino il cancello dello stesso, a quel regalo inatteso e a quell’incoraggiamento prezioso. Chiuse gli occhi abbandonandosi alla sua stretta.
Non pianse. Riuscì a trattenersi dal farlo mentre le sue mani disperate si stringevano ancora, ardentemente alla sua giacca.
Lasciarlo era dura, ma doveva farlo. Facendosi forza a un certo punto sciolse la presa dal cappotto di Toshi recuperando le distanze da lui. Sollevando il viso teso gli sorrise un’ultima volta con occhi carichi di un pianto trattenuto.
«Grazie…» fu l'unica e ultima parola che disse prima di voltargli le spalle per uscire dalla sua vita come un bel ricordo. Come uno di quei momenti di felicità che passano lasciando una leggera sensazione di vertigine nel cuore. Questo Clara sarebbe stata per Toshi.
Presto l’avrebbe dimenticata, ne era convinta.
Dalla sua parte Toshi la vide allontanarsi silenziosamente. Aveva sentito le sue mani stringere nervosamente il suo soprabito. Per un attimo aveva davvero ceduto alla speranza che lei avesse deciso di non partire. Quella mano che poco prima lo aveva salutato freddamente subito dopo si era avvinghiata a lui disperatamente. Nonostante questo, alla fine, Clara aveva lasciato quella presa.  Aveva preso la sua decisione e la sua confessione non aveva cambiato nulla, proprio come aveva immaginato. Lei sarebbe comunque partita. Una lacrima scese segnandogli il viso. Mentre la vedeva allontanarsi, Toshi continuava a chiedersi se alla fine Clara sarebbe stata solo un ricordo passeggero nel suo cuore e se sarebbe riuscito a dimenticarla un giorno. Nonostante questi pensieri di una cosa era sicuro, lei sarebbe stata per sempre il suo primo “ti amo”.
 

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Capitolo 35
*** UN DISPERATO TENTATIVO ***


CAPITOLO 35

UN DISPERATO TENTATIVO


Rio era nel suo studio in attesa che i ragazzi lo raggiungessero. Tirò fuori la scheda di Roberto dalla cassaforte. Aveva finalmente riconosciuto  quella ragazza bionda. Era la figlia di Angela e Marco i due amici di Mary. Ora improvvisamente quel messaggio che aveva tenuto nascosto a Roberto aveva un senso. Era da parte sua. Come aveva potuto non collegarlo prima. Quindi quei due sicuramente stavano insieme in Italia e adesso lei stava per sposare un altro. Chissà come Roberto l’avrebbe presa. Stava rigirandosi quella scheda tra le mani quando sua figlia Nami entrò nello studio.
«Papà scusami se ti interrompo, ma devo parlarti. È davvero urgente…». L’uomo ripose la scheda sulla scrivania.
«Dimmi…».
«Riguarda quello che è successo prima tra Kei e Take».
«So tutto. Non c’è bisogno che tu prenda le difese di Kei».
«Se sai tutto perché non hai convocato Take? Non può passarla liscia in questo modo».
«Nami, sono convinto che Take non sapesse che quella canzone fosse di Kei. Dietro questa storia ci deve essere lo zampino del direttore Mashimoto e di Takashi. Deve essere stato il suo modo di punirmi per aver permesso a quei ragazzini di utilizzare la sua canzone quella volta. Sono certo che Take non tradirebbe mai il gruppo. È un bravo ragazzo , sta solo passando un momento difficile.»
«Quindi non farai nulla per punirlo?»
«Al momento ho le mani legate… non posso rischiare di perderlo… altrimenti gli Hope ne risentirebbero a livello d’immagine… e sarebbe una vera catastrofe… Non possiamo permettercelo»
«Capisco… Non penso che Kei  rimarrà fermo in disparte questa volta…»
«Questo è da vedere. Sono proprio curioso di scoprire come gestirà la cosa tuo fratello. Gli ho affidato il ruolo di leader perché dopotutto mi fido di lui,vedrò presto se la mia fiducia è stata ben riposta come spero».
Nami si morse il labbro in pensiero per l’esito di quella situazione.
«Nami» la richiamò suo padre,  lei tornò con lo sguardo pensieroso su di lui.
«dimmi…»
«credo spetti a te decidere se mostrare a Roberto l’ultimo messaggio che ha ricevuto…» disse mostrandole una scheda telefonica straniera.
«Cosa? E perché proprio io?»
«Non fare la finta tonta. So che vi state frequentando. Proprio per questo motivo sono preoccupato. Quel giorno a Londra non l’avevo riconosciuta, ma oggi mi sono ricordato di lei…»
«Spiegati meglio…»lo spronò sua figlia prendendo posto su una delle due poltrone vicino la scrivania.
«Quella Mari, è la figlia di un’amica di Mary. La madre di Roberto. Credo che i due abbiano avuto una storia in passato… anzi ne ho appena avuto la conferma attraverso questo messaggio. »
Nami si sollevò di scatto arretrando di qualche passo incredula, i suoi occhi erano spalancati non poteva credere a quello che suo padre le stava raccontando.
“No, non può essere lei… Com’è possibile? Mari è la Marika di Roberto? Aspetta un attimo, ecco perché quel giorno rimase sorpresa nel vedere quel cappello… Allora è davvero lei! L’ho avuta così vicina per tutto questo tempo e non me ne sono resa conto. Se è davvero lei la Marika che tanto temevo allora Roberto starà aspettando il momento giusto per poterle parlare. Non posso permettere che accada… Se scoprisse che sta per sposare un altro non so cosa potrebbe fare”
«Ciò significa che…»
«Si, lei è la ragazza che Roberto si è lasciato alle spalle prima di venire in Giappone. Quando tolsi loro le schede, arrivò quel messaggio. All’epoca non gli diedi molto peso. Ma adesso credo sia giusto che lui lo legga. Sono sicuro avrà creduto che fosse sparita senza una ragione forse anche a causa sua. Deve essere rimasto ancorato alla speranza che si facesse viva per tutto questo tempo. È giusto che sappia che lei gli ha lasciato un ultimo messaggio prima di lasciarlo.».
Nami raggiunse suo padre.
«Dammi quella scheda, non posso permettere che lo ferisca ancora. Ci rimarrebbe troppo male.  Devo proteggerlo!  Non posso Lasciarlo arrivare da lei impreparato... » disse mostrando al padre il palmo aperto della sua mano destra.
Aveva un tale odio per quella ragazza. E pensare che mentre Roberto non si dava pace per colpa sua lei se la spassava con il direttore delle One Million. Non poteva proprio perdonarla.


I ragazzi erano pronti. Si erano cambiati ed erano all’esterno dello studio del Direttore della Kings Record in attesa di essere ricevuti. Toshi era fuori dallo studio di suo padre. Prima di bussare si rivolse al gruppo quasi al completo.
«Ragazzi, so di chiedervi molto in questo momento, e so di chiederlo soprattutto a te Kei, ma vi imploro di non aizzarvi contro Take. Sono sicuro che quello che è successo stasera non sia opera sua ma di Yukino. Conosco troppo bene quel suo sguardo di vittoria per fraintenderlo e sono più che convinto che lui fosse allo scuro di tutto. Kei, Take non avrebbe mai usato un tuo brano per avere successo, ci ha sempre rimproverato di avercela fatta grazie all'aiuto dei nostri genitori, figuriamoci se si sarebbe comportato da ipocrita rubando la tua canzone per arrivare al successo…»
Tutti soppesarono con rinnovato interesse quell’ipotesi del leader in carica.
«Tu, pensi che Yukino lo abbia fatto con l’intento di farci litigare?» gli chiese Jona, con aria investigativa.
«Al momento le mie sono solo ipotesi. Per questo motivo vi sto chiedendo di mettere da parte il rancore e il risentimento per quello che è accaduto. Non posso e non voglio concederle la soddisfazione di essere riuscita a manipolarci come dei burattini. Non posso permetterle di distruggere gli Hope in questo modo».
Kei rimase in silenzio a riflettere sulle parole dell’amico. Il suo sguardo penetrante era fisso sul pavimento. Toshi lo fissava con la speranza che quelle sue ipotesi lo avessero convinto a rinunciare alla vendetta.
«Kei, so che ci tieni molto ai brani che scrivi, ma per questa volta ti chiedo di mettere da parte il tuo orgoglio da cantautore per il bene del gruppo. Pensi di poterlo fare? Ti chiedo solo un po’ di tempo per indagare sulla faccenda…».
Il ragazzo bruno con la frangia sull’occhio sinistro sollevò rassegnato il capo per rivolgerlo verso l’amico.
«D’accordo. Ma questa è l’ultima volta…»
«Grazie». Gli disse l’altro alleggerendo la sua espressione tesa. «Vi prometto che troverò una soluzione a questa situazione. Non voglio e non posso permettere che la Music Station ci porti via Take… » ammise Toshi.
Shin si fece avanti portando la sua mano sospesa al centro del gruppo riunito.
«Qui HOPE!» li esortò fissando Toshi sorridendo, «io mi fido del nostro leader e sono sicuro che ritorneremo a essere una squadra proprio come agli inizi. Non dimenticatevi quello che ci promettemmo quel giorno al parco: noi siamo gli HOPE, siamo un corpo unico, un unico cuore. Siamo una chitarra con sei corde diverse, e un'unica grande e possente voce. Qualsiasi cosa accada dobbiamo rimanere uniti, ognuno di noi è importante e dobbiamo aiutarci l’un l’altro sempre. Sarà questa la nostra forza». Tutti guardarono il più piccolo con ammirazione e uno dopo l’altro portarono la loro mano al centro del cerchio. Purtroppo mancava ancora uno di loro all’appello, ma Shin era sicuro che presto le sei corde avrebbero suonato insieme in armonia come nel giorno della loro prima esibizione. Kei scompigliò i capelli del più piccolo sorridendo commosso. Shin era speciale. Vedeva molto dell’animo dolce e quieto di Akiko in lui. Se non fosse stato per il suo cuore fiducioso e sincero probabilmente gli HOPE avrebbero presto dimenticato il motivo grazie al quale erano arrivati fin lì. Erano lì grazie alla fiducia riposta in quella promessa. Per questo si sarebbero fidarti di Toshi. Se davvero c’era Yukino dietro quello che era successo non gliel’avrebbero fatta passare liscia.

Marika era con Thomas nella stanza d’albergo che Rio aveva prenotato per loro. Con calma sistemava i suo bagagli. Quando ebbe finito tirò fuori un vestito azzurro cielo, adagiandolo sul letto matrimoniale.
In quel momento fissò le sue mani. Le tremavano ancora.
“Perché deve essere così difficile? I suoi occhi… mi fissavano in quel modo. Spero davvero di riuscire a risultare convincente… ”
«A che punto sei?» le chiese Thomas entrando nella stanza, senza bussare.
«Thomas, io…» disse con gli occhi lucidi portandosi le mani al petto. Lui la raggiunse stringendola in suo abbraccio.
«Per questo non volevo venissi… Sei ancora in tempo. Ci penserò io a chiarire le cose con lui. Non devi per forza venire alla festa. Mi inventerò una scusa con Rio». Lei recuperò le distanze tirando su con il naso e rigettandosi le lacrime dentro.
«No, devo essere io. Non può essere nessun’altro. Se voglio che la finisca di seguirmi devo ferirlo… e per farlo devo essere io a dirgli di noi».
Lui le accarezzò il viso.
«Io ti sarò vicino quindi non esitare… ti avviso, se lo farai  dovrò intervenire io che tu lo voglia o meno. Chiaro? Non voglio più vederti piangere per lui. Ti ho già detto che voglio cancellare i tuoi ricordi dolorosi e costruirne altri più felici per te e per Hope».
Lei gli sorrise grata.
«Grazie Thomas…»
Lui le sollevò il mento con un dito e avvicinandosi a lei la baciò con dolcezza.
«Sarà l’ultima volta che ti permetterò di soffrire per colpa sua…».
Nami aveva appena preso la scheda dalle mani di suo padre, quando i sei Hope al completo avevano bussato allo studio di Rio. Alla fine anche Take li aveva raggiunti. I sei entrarono mentre Nami usciva con un’espressione truce sul suo viso. Roberto la notò e fu tentato di seguirla per chiederle cosa le fosse successo, ma le parole di Rio lo trattennero dal seguirla. Anche Kei la notò con la coda dell’occhio.
«Scusate arrivo subito» disse quest’ultimo  uscendo seguendola mentre Roberto impassibile rimase a guardarlo sfrecciargli davanti agli occhi. Stava per seguirlo anche lui ma Rio lo trattenne.
«Roberto, aspetta un attimo, devo dirvi una cosa.. Avrai modo di parlare con Nami dopo alla festa».  Il ragazzo acconsentì.
«Bene, volevo dirvelo prima che avessero inizio i festeggiamenti.» Detto questo Rio fece segno ai ragazzi di farsi più vicini. Poi ad ognuno di essi porse un assegno.
«Eccovi il primo stipendio. Grazie alla vendita dei biglietti il vostro debito è stato completamente saldato e questo è ciò che ne è rimasto. Mi auguro ne facciate buon uso. Inoltre da questo momento non sarete più costretti a rimanere nel vostro appartamentino al dormitorio della Kings Record, ma potrete vivere dove meglio vi aggrada. Se per voi va bene, il mio staff provvederà ha scegliere per voi delle abitazioni adeguate».
Shin reclinò il capo dispiaciuto «questo significa che non dormiremo più sotto lo stesso tetto?» chiese tirando su con il naso. Toshi gli si avvicinò scompigliandogli i capelli neri e lisci.
«Non preoccuparti Shin, questo non significa che ci allontaneremo. Potremo vederci sempre.» Il più piccolo sollevò il viso passandosi un dito sotto le narici.
«D’accordo…» concluse rassegnato.
Rio era fiero di suo figlio, aveva davvero imparato a gestire i membri del gruppo. Con due colpi di tosse il Direttore riportò nuovamente l’attenzione del gruppo su di sé.
«Per quanto riguarda il contratto, ovviamente, il precedente è da considerare nullo visto il raggiungimento della quota richiesta per risarcire i danni. Per questo ne ho preparato un secondo. Dopo la festa vi aspetto nel mio ufficio in modo da poterlo firmare. Siamo tutti d’accordo?» tutti acconsentirono a eccezione di Take che in silenzio meditava su quella via d’uscita che sembrava essere arrivata proprio al momento opportuno.
“O adesso o mai più.” pensò tra sé.

Rio osservava i ragazzi vagliando le loro espressioni. Tutti sembravano soddisfatti dei risultati ottenuti, tutti a eccezione di Take che aveva una strana espressione sul volto. Il Direttore della Kings Record sapeva quanto rischiosa fosse quella mossa in un momento di incertezza come quello, ma allo stesso tempo voleva metterli alla prova e scoprire cosa avrebbero fatto se gli si fosse mostrata davanti agli occhi una via di fuga allettante come quella. Per il momento tutti erano liberi di scappare via come di rimanere, come di rinunciare o di proseguire per quella strada rischiosa e tortuosa che avevano scelto. Chissà se Take avrebbe scelto di rinunciare al gruppo, se Jona avrebbe deciso di rimanere con suo padre in Cina e Roberto avrebbe scelto alla fine di tornare da Marika.
Rio voleva verificare se la fiducia che Toshi aveva riposto nel gruppo fosse stata ben riposta.
«Shin, questo è l’assegno di Kei. Prendilo» il più piccolo fece come gli fu detto. «Bene, detto questo, siete liberi di andare. Ci vediamo alla festa», concluso il discorso l’uomo austero dietro la scrivania congedò i cinque ragazzi che uscirono dal suo studio ognuno chiuso nei propri pensieri. Roberto aveva quell’assegno tra le mani mentre a capo chino si muoveva per ultimo dietro i suoi compagni.
“Se il contratto è nullo questo vuol dire che tutti siamo liberi di abbandonare il gruppo… non ci sono più vincoli… ma con il concerto alle porte questo significherebbe mettere ancora una volta nei guai Rio e cosa peggiore deludere tutte le persone che ci hanno sostenuto fino ad oggi… E se qualcuno di noi decidesse di non presentarsi alla fine della festa?” Istintivamente Roberto guardò verso Take. Aveva uno strano presentimento.

Kei aveva raggiunto Nami.
«Si può sapere che ti prende?» l’ammonì parandosi davanti a lei con sguardo truce.
«È lei! Quella ragazza è qui!»
«Quella ragazza?»
«La ex di Roberto!» Kei non poteva credere alle sue orecchie.
«E tu come fai a sapere che è qui?»
«Mio padre me lo ha appena detto. Non posso crederci. L’ho avuta vicina per tutto questo tempo e non me ne sono nemmeno accorta.»
«Roberto lo sa?»
«Certo che lo sa! Era la ragazza bionda vicina al direttore della One Million era dietro a mio padre quando ha interrotto il tuo litigio con Take. Lei sarà la mia e la vostra stilista. È assurdo, ancora non posso crederci!».
Kei cercò di fare mente locale. Aveva notato un ragazza bionda dietro Rio nella sala prove, ma non avrebbe mai potuto immaginare che quella fosse la fantomatica Marika. Il fantasma che per tutto quel tempo aveva perseguitato Nami si era appena materializzato davanti ai loro occhi. Stretta Nami per le spalle con le sue mani, la fissò con il suo solito sguardo fermo e deciso. La ragazza davanti ai suoi occhi era in uno stato di ansia e agitazione e lui doveva trovare il modo di farla ragionare.
«Adesso calmati Nami. Ragiona. Cosa pensi di fare?»
Nami fissò Kei negli occhi. Aveva così tanta paura di perdere Roberto, in quei mesi si era legata molto a lui. Era diventata una presenza preziosa nella sua vita. L’aveva aiutata e sostenuta per tutto quel tempo e alla fine quel senso di gratitudine era mutato in un sentimento più profondo. Nami non riusciva a sopportare l’idea che quella persona così speciale soffrisse ancora una volta per colpa di un amore non ricambiato.
«Gli farò del male io prima che glielo faccia lei… non ho altra scelta. Deve sapere come stanno le cose. Deve sapere che tipo di ragazza ha aspettato per tutto questo tempo! Deve sapere che quella che si troverà davanti non sarà la ragazza che spera sia ancora innamorata di lui…»
Kei stava per avvicinarsi e abbracciarla quando Roberto arrivò costringendo Kei a fermarsi.
«Interrompo qualcosa per caso?» domandò squadrando i due.
«Roberto dobbiamo parlare…» iniziò la giovane senza aspettare che Kei si allontanasse per lasciarli soli. In realtà Nami sperava che il suo amico non andasse via in quel momento, la sua sola presenza le infondeva coraggio.
Roberto guardò l’orologio al suo polso. Era tardissimo. Doveva incontrare Marika prima dell’inizio della festa.
«Non possiamo parlarne più tardi?» le chiese cercando di superarla, ma Nami gli sbarrò la strada a braccia aperte.
«Non ti lascerò andare da lei…» Roberto spalancò gli occhi.
«Lei?»
“Che abbia scoperto che Marika è qui?”
«So che è qui».
«E tu come lo sai?»
«Mi dispiace ma non posso lasciarti andare da lei. Se la raggiungerai quello che ti dirà ti ucciderà e io non voglio che tu soffra ancora per colpa sua»
«Cosa vuoi dire?»
Nami con occhi lucidi si avvicinò a Roberto.
«Lo so, sei convinto che sarà felice di rivederti, ma ti sbagli. So già cosa ti dirà e credimi quelle parole non ti piaceranno per niente».
«Nami finiscila! La tua gelosia è davvero insensata!»
Nami fece un passo indietro interdetta!
«Gelosia? Pensi sia davvero solo questo? »
Roberto rimase in silenzio mentre osservava gli occhi di Nami farsi piccoli e lucidi. Senza esitare oltre la stessa gli prese la mano destra e girandola ne depose sul palmo la scheda che poco prima suo padre gli aveva lasciato.
« Bene, se non vuoi credere alle mie parole, forse crederai alle sue! »
 Roberto guardò prima la sua mano poi la ragazza che gliela stringeva.
«Sappi che non è colpa tua se lei è sparita. La verità è che ti ha lasciato perché non ti amava abbastanza. Ha preferito i suoi sogni a te».
Roberto non riusciva a capire. Quella era la sua vecchia scheda. Cosa intendeva Nami dicendogli che Marika aveva preferito i suoi sogni a lui? Nella sua mente c'era stato solo un unico pensiero a torturarlo, quello che proprio a causa del suo sogno di diventare un cantante se alla fine si erano allontanati . L’idea di averla messa da parte egoisticamente per il suo sogno l’aveva tormentato per tutto quel tempo. Il senso di colpa lo aveva macchiato insolubilmente, tanto che non era riuscito a dimenticarla e a ricambiare i gesti di affetto di Nami come avrebbe voluto. E invece adesso Nami sosteneva che era stata Marika ad averlo messo da parte per realizzare i suoi di sogni. “Tutto questo non ha senso!”
La ragazza lasciò la mano di Roberto mentre le lacrime scendevano dai suoi occhi segnandole il viso.
«Non so, forse sono proprio una sciocca ma continuo a sperare che prima o poi mi metterai al primo posto. Anche adesso voglio darti una possibilità. Resta al mio fianco e non andare da lei. Non merita il tuo amore… Fai la tua scelta.  Sappi però che questa volta non rimarrò qui ad aspettarti. Adesso devi scegliere: o me o lei». Nami puntava fiera il suo sguardo fiero verso quello confuso e indeciso di Roberto. 
A quel punto il ragazzo italiano strinse la mano a pugno su quella scheda.
«Mi dispiace Nami, ma io devo sapere… se è davvero come dici allora ho bisogno che sia lei a dirmelo…»
“Alla fine hai scelto lei… ”.
Con le lacrime agli occhi Nami si voltò correndo nel suo vestito lungo verso l’ascensore.
Kei a quel punto si voltò verso Roberto.
«Che fai? Hai intenzione di rimanertene lì impalato?».
«Mi dispiace Kei…» il ragazzo con il ciuffo indurì il suo sguardo glaciale.
«Spero non ti pentirai quanto me di averla lasciata andare via…  ».
Detto questo  Kei si allontanò lasciando Roberto solo con i suoi pensieri.
Quando Nami raggiunse il piano terra dell’edificio incrociò Marika e Thomas che entravano mano nella mano. Con il viso bagnato di lacrime si avvicinò loro.
«Marika devo parlarti » le comunicò sintetica.
Forse non era tutto perso. Se non poteva convincere Roberto, se non altro era ancora in tempo per convincere Marika.
La ragazza acconsentì pensando che fosse successo qualcosa alla sua amica.
«Thomas, vai pure avanti. Ti raggiungo subito!» rincuorato il direttore della One Million, lo stesso con il resto dello Staff proseguì verso la sala grande dove si sarebbe tenuta la festa.
Nami fece segno a Marika di spostarsi in un angolo più appartato dell’ingresso, dove orecchie indiscrete non potessero ascoltare quello che si sarebbero dette.
«Marika devo chiederti un favore. Ti prego, va via. Non farti trovare da lui».
«Di cosa stai parlando?» le domandò spaesata la giovane.
«Sto parlando di Roberto. Ho scoperto chi sei e non voglio che lui soffra ancora per colpa tua».
«Mi dispiace Nami, ma non posso».
«Non capisci? Lui non ha mai letto il tuo ultimo messaggio. Sai cosa significa? Significa che ti ha aspettata per tutto questo tempo! Lui spera di poter tornare da te!».
Marika reclinò il capo colpita nel cuore.
«Non dire sciocchezze, se addirittura state insieme... ».
«È vero, io e Roberto stiamo insieme, ma sai a quale condizione? A condizione che io ricopra un misero secondo posto. Lui non ti ha messa da parte. Tutto quello che ha fatto fino ad oggi lo ha fatto pensando a te. Ogni nota, ogni parola di ogni sua canzone era per un'unica persona: tu. Hai idea di quanto mi abbia fatto soffrire questa situazione? Ti supplico Marika non posso sopportare di vederlo a pezzi».
«Nami, finiscila adesso…» detto questo Marika si voltò per allontanarsi, quando Nami la trattenne per un polso, costringendola a girarsi.
 «Come pensi reagirà quando scoprirà che in soli sei mesi la persona che amava e credeva lo amasse allo stesso modo, ha incontrato un altro uomo, è incinta di lui e ha deciso di sposarlo? Vuoi che rovini la sua carriera proprio adesso che sta per iniziare? È vero, forse non posso amarlo ma per lo meno posso proteggerlo da te!».
Marika avvertì quelle parole colpirla al petto come tante coltellate. Nami, purtroppo, non conosceva la verità, non poteva immaginare che era proprio per colpa di quella verità che Marika non poteva andare via come lei le stava chiedendo in quel momento. Cogliendola di sorpresa la giovane modella afferrò le sue mani, i suoi occhi erano pieni di paura e disperazione.
«Ti prego Marika tornatene a Londra non ferirlo ancora» la supplicò mettendosi in ginocchio. Marika indurì il suo sguardo.
«Nami adesso finiscila! Non ti rendi conto di quello che stai dicendo? Se quello che mi hai appena detto è la verità, sei sicura ti andrà bene se andrò via? Sei consapevole che se non gli dirò la verità lui non mi cancellerà mai dal suo cuore? Sicura sia quello che vuoi? Non sei stanca di sentirti messa al secondo posto?», ma Nami trascinandosi sul freddo marmo era quasi giunta a prostrarsi ai suoi piedi. A un certo punto sollevò il suo viso verso Marika. Il trucco era completamente colato e i suoi occhi sembravano due laghi pieni di amarezza dai quali straripavano cascate di sconforto.
«Ti supplico se deve soffrire perché mi ami preferisco che le cose rimangano così come sono. Non è un problema, riuscirò a convivere con un  secondo posto anche questa volta. Ho imparato ad essere meno avara ed egoista, non posso sperare che tutto mi sia dovuto. Alle volte bisogna accontentarsi di quello che si ha, di quel minimo che possa rendere felice chi si ama… ».
Marika in quel momento razionalizzò quanto sinceramente Nami amasse Roberto. Una parte di lei ebbe compassione per lei, mentre l’altra si ritrovò ad ammirarla. Se  avesse dovuto scegliere una persona che stesse al fianco di Roberto avrebbe scelto cento volte Nami. Proprio come la ragazza giapponese in ginocchio ai suoi piedi, anche lei sapeva cosa significava accontentarsi sempre del minimo, ma in amore il minimo non è mai abbastanza. Non si può vivere solo di speranze. E lei era arrivata fin li proprio per mettere fine alle sue inutili speranze e ai suoi sogni inconsistenti per sempre. Non poteva continuare a credere in una favola intangibile come quella che avevano vissuto lei e Roberto, adesso aveva un’altra creatura di cui prendersi cura. Non poteva vivere solo di speranze, aveva bisogno di certezze e Thomas era la sua unica certezza al momento.  Porgendo una mano all’amica l’aiutò a sollevarsi dal freddo pavimento.
«Mi dispiace Nami, non andrò via. Roberto ha il diritto di conoscere la verità ed è giusto che sia io a dirgliela!» detto questo Marika si allontanò da Nami che la osservava disperata. Passo dopo passo la stessa osservava la giovane stilista della One Million allontanarsi e con lei anche la speranza di evitare l’ennesimo dolore a Roberto sfumava sotto il suo sguardo affranto. Marika a mento alto proseguiva sicura.Nonostante avrebbe voluto voltarsi e verificare che la sua amica avesse smesso di piangere sapeva che se lo avesse fatto avrebbe vacillato. Capiva perfettamente le buone intenzioni dell’amica ed era proprio per quelle calorose intenzioni che non poteva mollare. Anche lei come Nami voleva che Roberto realizzasse i suoi sogni ed era proprio per quello che non si sarebbe voltata. Mentre si allontanava sfilò accanto a Kei che stava raggiungendo Nami. Per un attimo i loro sguardi si incrociarono poi entrambi proseguirono per le loro strade. Marika stava per entrare nell’ascensore quando sentì quel ragazzo consolare la sua amica. Per un secondo l’idea che almeno lei potesse appoggiarsi a qualcuno in quel momento la rincuorò. Fare del male a Nami era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare.
 

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Capitolo 36
*** DIRSELO GUARDANDOSI NEGLI OCCHI ***


CAPITOLO 36
 DIRSELO GUARDANDOSI NEGLI OCCHI
 
 
 
Tutto il personale si era riunito nella Grande Sala una specie di gigante auditorium con tavoli tondi e luci soffuse. Al centro della parete di fondo era stato allestito un piccolo palco rialzato e ben illuminato.
Rio era già seduto al suo tavolo, accanto a lui sedevano i membri dello staff della One Million compreso Thomas e Mary.
Mentre alla Kings Record iniziava la festa, JJ giungeva all’aeroporto. Quel giorno insieme a Thomas e al suo staff, qualcun’altro era atterrato in Giappone.
«Sono qui!» gridò lui alla nuova arrivata sbandierando il suo braccio per aria dopo averla riconosciuta tra la massa indefinita di persone. Mary con a tracolla una custodia per chitarre grande quasi quanto lei raggiunse suo cognato.
«Scusa il ritardo» asserì mortificata. Lui le sfilò la chitarra e le prese la valigia. «No, quella posso portarla anche io» cercò di convincerlo lei.
«Non essere sciocca, come potrei farti portare tutta questa roba da sola. Adesso seguimi. Credo tu sia arrivata al momento giusto.»
«Clara è già partita?».
«Direi proprio di si» affermò mortificato JJ aprendo il portabagagli della sua vecchia station wagon depositando i bagagli di Mary all’interno della stessa.
«Capisco, non importa».
«Non preoccuparti troppo per lei perché è qualcun altro che presto avrà bisogno di te, ma adesso accomodati pure» le fece segno di salire sulla vettura.  Quando furono dentro Mary si allacciò la cintura di sicurezza mentre l’altro metteva in moto e partiva.
«Yuki, scusa per tutto il disturbo che ti sto procurando…»
«Ma quale disturbo? È il minimo che possa fare. Anzi era una vita che aspettavo l’occasione giusta per scusarmi  a causa di quello che ho detto quel giorno e per essermela presa con voi e avervi allontanato…»
La donna prese tra le sue la mano che JJ aveva sul cambio.
«Non rimproveriamoci per il passato. Se sono qui dopotutto è proprio per far in modo che quello che è successo non interferisca più nelle nostre vite e in quelle dei nostri figli. Anzi, quasi dimenticavo, come stanno andando le cose? Ho sentito il loro primo album e presto so che ci sarà anche il loro primo concerto».
«Ad essere onesto non so se arriveranno al concerto. Shin mi ha raccontato che all’interno del gruppo ha avvertito un po’ di strane tensioni. Inoltre Rio mi ha chiamato poco fa. Dice che Marika, la figlia di quella tua amica Angela, è qui in Giappone. È preoccupato per Roberto. Lei è incinta e presto sposerà il direttore della sede londinese della One Million con il quale Rio ha già firmato le carte per una proficua collaborazione. Ha paura di come potrebbe prenderla Roberto. Sai che sono Kei, Toshi e Roberto a creare i brani per il gruppo ormai e Rio non può rischiare che la collaborazione salti per colpa delle loro situazioni irrisolte. Non so se Eichi ti ha raccontato qualcosa, ma devi sapere che purtroppo Rio non si trova in una situazione felice. La Kings Record è sull’orlo del fallimento. Rio vorrebbe che tu parlassi a Roberto… »
«Capisco… non temere, ci penserò io. Sono venuta qui anche per questo motivo… Marco mi aveva già avvisato per tempo di questa storia».
Mentre i due si spostavano nel traffico di Tokyo, Roberto era dietro le quinte insieme ai suoi compagni che aspettava il turno della sua esibizione. Il cuore nel suo petto gli batteva in modo incontrollabile, avrebbe voluto scendere dal palco e raggiungere Marika per stringerla tra le sue braccia come ai vecchi tempi, ma per ovvie ragioni, in quel momento non era possibile per lui farlo. Erano i primi ad esibirsi e non c’era stato modo di incontrarla prima dell’inizio dell’esibizione e ormai erano lì pronti per iniziare lo spettacolo. Era proprio stata una sfortuna che quando erano andati al tavolo per presentarsi al Direttore Thomas e al suo staff, lei non era presente.  Una cosa lo aveva stranito in modo particolare, era stato lo sguardo del giovane Direttore nei suoi confronti. Sembrava pronto a far partire un duello.
Roberto scosse il capo. Non voleva pensarci in quel momento. Marika era l’unica cosa che contava per lui. Tra le mani teneva stretta la sua vecchia scheda telefonica. Le parole che Nami gli aveva rivolto poco prima di andar via gli avevano fatto sorgere una strana angoscia a causa della quale una parte di lui si era rifiutata di inserire quella scheda nel cellulare. Aveva paura che così facendo qualcosa si sarebbe rotto in modo inevitabile. E lui non era pronto a rinunciare a Marika.
Stava meditando sulla faccenda, fissando il palmo aperto della sua mano con al centro la scheda telefonica, quando qualcuno poggiò una mano rassicurante sulla sua spalla cogliendolo di sorpresa.
«Tutto bene?» era Toshi. Roberto ripose la scheda nella tasca dei suoi pantaloni.
«Si, tutto bene. Tu?». L’altro gli rivolse un  sorriso tirato «diciamo che potrebbe andare meglio…» gli confessò l’amico alto accanto a lui.
Roberto non riuscì proprio a trovare le parole di conforto utili a risollevare l’umore del suo amico, quindi preferì rimanere in silenzio. Si vedeva lontano un miglio che qualcosa nel Leader quella sera non andava e Roberto era sicuro che il suo stato d’animo fosse causato dalla partenza di sua sorella.
Proprio in quel momento sopraggiunse Kei. Aveva un’espressione dura sul viso, scambiò con Roberto un rapido sguardo contrito prima di raggiungere Shin.
Quando finalmente arrivò anche Take, Toshi invitò il gruppo a ricomporsi formando un cerchio.
«Bene ragazzi, voglio augurarvi buona fortuna. Kei, Roberto, state tranquilli, sono sicuro che il vostro brano piacerà da pazzi a quelli della One Million…» a quel nome Roberto sembrò come aver acuito la sua attenzione.
“ Ma certo, la One Million. Ecco perché Marika si trova qui. Allora non deve essere andata più da sua madre a Parigi. Deve aver scelto di svolgere il suo tirocinio alla sede londinese. Chissà come mai?”. I suoi pensieri furono interrotti dal leader che recuperato il proprio tono autoritario, ricacciandosi dentro tutto il dolore per la partenza di Clara, spronò infine il gruppo a portare la mano al centro del cerchio.
«Bene Hope, qui le mani». Tutti lo seguirono immediatamente a eccezione di Take che titubò per qualche istante.
Quella sera aveva preso la sua decisione: dopo la festa non si sarebbe presentato allo studio di Rio per firmare il contratto con la Kings Record. Proprio prima di raggiungere gli altri si era incontrato con il direttore Mashimoto. Era tutto deciso ormai. Avrebbe iniziato una carriera da solista nella loro casa discografica. Quella sarebbe stata la sua ultima esibizione come membro degli Hope. Dopo un primo momento di incertezza anche Take si unì loro.
Gli Hope a quel punto erano pronti. Fu proprio mentre scioglievano quella stretta d’incoraggiamento che sentirono partire la traccia composta da Kei e Roberto per il lancio della One Million in Giappone. https://www.youtube.com/watch?v=mzV329JZy1s
Da dietro le quinte i sei ragazzi osservavano interessati la faccia  incuriosita e attenta del Direttore inglese e del suo staff. Roberto notò con suo piacere che Marika aveva preso posto anche lei al tavolo accanto a quell’insolito ragazzo biondastro con il pizzetto.
Quando la traccia si concluse Toshi e Jona presero posto ognuno davanti al proprio pianoforte. Toshi aveva voluto che fosse Jona a scegliere la modalità di esecuzione del brano e l’idea di esibirsi con due pianoforti fu davvero molto interessante. Entrambi in quel modo riuscirono a mettere in luce una parte più matura e profonda di se stessi.
Dopo di loro fu il turno di Kei e Shin e infine arrivò anche il momento di Take e Roberto.
Roberto a malapena riusciva a distinguere i volti delle persone ai primi tavoli, le luci abbaglianti lo accecavano. Nonostante questo una parte di lui avvertiva la presenza di Marika lì tra il pubblico e fu quella a guidarlo con lo sguardo nella sua direzione.
https://www.youtube.com/watch?v=dwOuDiV1a10
TRADUZIONI:
https://www.youtube.com/watch?v=iOC33LVdtXE
https://www.youtube.com/watch?v=tYyAaH5Mlk8
https://www.youtube.com/watch?v=xblytOHmS0A
 
Marika lo studiava sognante come fosse una stella cadente nel cielo notturno. Thomas conteneva a stento la propria gelosia, mentre vedeva i sentimenti della sua ragazza diventare chiari e limpidi nei suoi occhi.  
Concluso anche quel duetto toccò al gruppo successivo.
I ragazzi si ricomposero dietro le quinte.
«Penso sia andata benissimo» si congratulò Toshi.
Finalmente i sei poterono accomodarsi al loro tavolo. Nella penombra i sei ragazzi presero posto, mentre un membro dello staff dei truccatori si esibiva in una performance a dir poco esilarante. Roberto di tanto in tanto lanciava delle occhiate al tavolo dove erano seduti Rio, il Direttore della One Million e il suo staff. Marika era di spalle. Era davvero tentato di raggiungerla e portarla via di lì. Aveva così tante cose da chiedergli. Prima tra tutte perché era scomparsa così all’improvviso…
In quel momento si ricordò della scheda nella tasca dei suoi pantaloni. Forse la risposta a quella domanda era proprio lì dentro. La tirò fuori e in modo discreto la inserì nel suo cellulare.
A quel punto lo accese, facendo in modo che nessuno dei suoi amici se ne accorgesse e fruttando la penombra la cosa non gli riuscì particolarmente difficile.
Kei che gli sedeva di fronte però se ne accorse.
Con discrezione contemplava la faccia dell’amico attento a leggere in lui qualche possibile reazione anomala. Nami, prima di andarsene, lo aveva supplicato di tenere Roberto sottocontrollo. Di stargli vicino. Quello che avrebbe letto in quel messaggio non gli sarebbe piaciuto per niente.
Roberto aveva la mano che tremava.
“E se mi avesse scritto che mi odia per essere sparito? Come potrò presentarmi davanti a lei come se niente fosse successo?”.
Dopo un tempo che Roberto reputò indefinito la cartella dei messaggi si aprì. Con stupore notò che c’era un messaggio di Marika tra gli ultimi ricevuti. Per paura di destare preoccupazioni e sospetti nei suoi compagni, con una scusa si rifilò dal gruppo, ormai indaffarato a mangiare.
«Scusate, devo andare un attimo in bagno…» mentì alzandosi dal tavolo.
Kei, lo seguì poco dopo.
Il più schivo degli Hope era appena arrivato nel corridoio quando vide Roberto accasciato al suolo vicino una parete con il cellulare nella mano destra che ormai pendeva abbandonata al suolo. Senza esitare lo raggiunse, aveva una strana espressione.
«Lo hai letto?» gli chiese a bruciapelo il ragazzo con il ciuffo sedendogli vicino. Roberto rimase in silenzio. Kei a quel punto gli sfilò il cellulare dalle mani. Roberto non oppose neppure resistenza.
Nel frattempo nell’auditorium Marika avendo notato che Roberto si era rifilato pensò che quella fosse l’occasione giusta per parlargli. Con una scusa si sollevò dal tavolo. Reggendosi i reni iniziò a incamminarsi verso l’uscita, ma poco prima di raggiungerla qualcuno irruppe dalla stessa.
Roberto era davanti ai suoi occhi. Entrambi si fissarono immobili.
“Non può essere”. Roberto non riusciva a credere a quello che stava  guardando. La ragazza che amava era incinta.  
Marika senza esitare si mosse verso di lui.
«Andiamo fuori, ho bisogno di parlarti» gli riferì sintetica. In quel momento Thomas notò che i due stavano uscendo insieme fuori dalla Grande Sala.
Kei dalla sua si fece da parte mentre i due gli sfilavano davanti.
“Maledizione! Adesso cosa faccio?”  si scompigliò i capelli esasperato.
Aveva fatto una promessa a Nami, non poteva rimangiarsela proprio ora ma interferire in quel momento non gli sembrava la cosa migliore da fare, così decise che avrebbe aspettato un po’ prima di raggiungerli.
Marika e Roberto erano fuori nel corridoio esterno.
Roberto si sentiva le gambe deboli. Quella visione aveva sconvolto tutti i suoi piani e poi che senso aveva quel messaggio che gli aveva mandato tempo prima? Era quello il suo sogno? Farsi mettere incinta dal primo di passaggio?
Roberto indugiò per un attimo sul ventre rigonfio di lei. Fu come vedere un sogno trasformarsi in un  incubo tremendo. Avrebbe voluto davvero svegliarsi e scoprire che quella non era la realtà. Che per loro c’era ancora una possibilità.
Marika a disagio interruppe il contatto visivo di Roberto verso il suo ventre accarezzandoselo con la mano destra.
«Il bambino…» avanzò Roberto attanagliato da un dubbio.
«Non è tuo. Puoi stare tranquillo. La tua carriera è salva…»
Roberto a quelle parole si sentì colpito nel suo orgoglio. La sua carriera era l’ultimo dei suoi pensieri in quel momento.
«Pensi davvero che mi stessi preoccupando della mia carriera? È per te che mi stavo preoccupando…»
«Beh, non farlo… presto mi sposerò…». Roberto strinse i pugni.
«Chi è il padre?»
«Una persona che ho conosciuto mentre lavoravo a Londra…» si mantenne sul vago Marika. Roberto scattò bloccandola per le spalle.
«Chi è questo stronzo che ti ha messo incinta?». Marika e Roberto erano vicinissimi. Marika vedeva così tanta rabbia e delusione negli occhi dell’amico. Ne rimase colpita, ma dovette contenere le proprie emozioni. Infastidita lo allontanò.
«Adesso finiscila. Non basta una sola persona per fare una cosa simile. È una cosa che si fa in due e io ero più che acconsenziente!»
«Come hai potuto permettere a questo tipo di distruggere i tuoi sogni?»
«Non ho distrutto i miei sogni, tutt’altro…»
«È tutta colpa mia…» concluse Roberto disperato con occhi rossi e lucidi.
 Non poteva credere che la loro storia fosse finita davvero.
«Se non ti avessi trascurata e ti avessi risposto con più regolarità probabilmente adesso tu… anzi noi…»
«Roberto, tra noi non avrebbe comunque funzionato… adesso è bene che tu te ne faccia una ragione…» detto questo Marika porse a Roberto una mazzetta di lettere.
Lui la prese dalle sue mani.
«Gradirei che non mi contattassi più, è seccante. Voglio rifarmi una vita e con te che non fai altro che scrivere lettere come queste non mi è possibile. La persona con cui sto adesso non gradirà ancora per molto questa situazione… e io non voglio perderla».
Roberto non riusciva a credere a quello che le sue orecchie stavano ascoltando e a quello che i suoi occhi stavano vedendo in quel momento. Le lettere tra le sue mani non erano state neanche aperte.
«Cosa stai cercando di dirmi ridandomi queste? Che non potremo essere nemmeno più amici…?»
«Mi dispiace Roberto… ma è finita… Lo ammetto, per un momento ho creduto davvero nella nostra storia, ma alla fine mi sono resa conto che questo non è l’amore che voglio. Non posso sopportare l’idea di un sentimento lontano e irraggiungibile, che non posso toccare. Inoltre mi conosci, non sono una persona capace di tenere per se le proprie emozioni, per questo odio non poterle condividere liberamente. Non voglio un amore che si nasconde nell’ombra… mi dispiace… semplicemente sembra che tra noi non sia stato destino sin dall’inizio…  quel giorno al lago è stato solo un grande e immenso errore».
Roberto strinse nella sua mano chiusa a pugno quelle lettere che ogni sera aveva scritto pensando a Marika e a quanto l’amasse. Se solo lei le avesse lette forse adesso non si troverebbero lì a rivolgersi quelle parole così fredde.
«Dimmi almeno il suo nome… chi è l’uomo che ti ha strappato a me, chi ti ha promesso un amore migliore del mio, chi?»
«Quell’uomo, credo di essere  io!» gli rispose con fierezza una terza voce alle sue spalle. Roberto con gli occhi rossi e lucidi di rabbia si voltò nella direzione di quella voce.
“Il direttore della One Million?”. Roberto era sbigottito.
Il ragazzo alto e biondastro, con la sua andatura impostata, raggiunse i due ragazzi. Senza esitare prese Marika per mano.
«Andiamo. Gli altri si stanno chiedendo che fine hai fatto!»
Adesso che la persona che aveva rovinato la sua storia con Marika aveva un volto e un nome la  rabbia e la frustrazione di Roberto avevano finalmente trovato un bersaglio su cui riversarsi.
Senza più freni, Roberto scattò per colpirlo in piena faccia, ma qualcuno lo trattenne.
«Non fare cose avventate…» gli suggerì ad un orecchio Kei immobilizzando il braccio del compagno a mezz’aria.
Il ragazzo sofisticato in giacca e cravatta con il suo biondo e rifinito pizzetto, sogghignò spavaldo.
«Ragazzo, non dirmi che avevi davvero intenzione di colpirmi?»
“Ragazzo? Come si permette di rivolgersi a me in quel modo? Non sono mica un ragazzino maledizione!”
Bruscamente  Roberto si liberò dalla presa dell’amico al suo fianco. Era tutta colpa di quel tipo se la vita di Marika e i suoi sogni erano andati distrutti. Come aveva potuto agire con così tanta sconsideratezza mettendola incinta?
«Lasciala stare, non ho ancora finito di parlare» lo minacciò osservandolo in cagnesco.
Thomas senza esitare sciolse la sua stretta dalla mano di Marika avvicinandosi a petto gonfio e sguardo fiero verso di lui.
«Ragazzo, ti do un consiglio, non dovresti riversare le tue colpe sugli altri. Dopotutto sembri un tipo abbastanza intelligente e non credo ci sia bisogno di dirti altro. Sai benissimo che se l’hai persa è unicamente colpa tua. Penso sia inutile dirti che prima di colpire qualcuno faresti meglio a farti un esame di coscienza». Senza prolungarsi oltre Thomas tornò da Marika e come prima, con le loro mani strette l’una nell’altra si incamminarono verso l’auditorium.
Nel corridoio ad assistere a quella scena senza senso rimasero solo Kei e Roberto.
Roberto avrebbe voluto dire e fare qualcosa, ma le sue mani, le sue labbra e così tutto il suo corpo rimasero vigliaccamente immobili. Mentre Marika mano nella mano andava via con il Direttore Thomas, un pensiero si fece spazio in lui. In quel momento si rammentò delle parole di Nami.  
“Sappi che non è colpa tua se lei è sparita. La verità è che ti ha lasciato perché non ti amava abbastanza. Ha preferito i suoi sogni a te”.
“Aspetta… non sarà che i sogni di cui Nami mi stava parlando comprendevano anche avere successo come stilista? No, non posso credere che Marika abbia sedotto Thomas per riuscirci, non sarebbe da lei… c’è qualcosa che non torna. Lei non avrebbe mai rinunciato alla nostra storia solo per realizzare i suoi sogni non è possibile! Lei è sempre stata migliore di me…”
Kei era con Roberto fermo in mezzo a quel corridoio deserto. Il giovane italiano era ancora una volta fermo immobile accasciato al freddo pavimento con la schiena poggiata a una delle bianche pareti laterali. Kei a quel punto gli si avvicinò. Piegandosi sulle ginocchia raggiunse la sua stessa altezza. Era davvero esasperato. Per quanto ancora sarebbero dovuto rimanere lì?
«Adesso Rob finiscila di autocommiserarti. Non serve a nulla. Gli altri ci stanno aspettando per l’ultima esibizione, ci conviene entrare prima che inizino a preoccuparsi». Roberto all'improvviso afferrò il braccio dell’amico. I suoi occhi erano disperati.
«Kei, non dire nulla di tutta questa storia agli altri…»
«Mi stai chiedendo di mentire per te? Perché dovrei farlo? Non siamo mica amici noi due!»
«Ti supplico… »
Messo visibilmente a disagio il ragazzo con il ciuffo sull'occhio sinistro si liberò dalla presa dell’altro.
«E va bene, ma che sia chiaro, questo non fa di me tuo amico. Se sono venuto qui è stato solo perché me lo ha chiesto Nami. Sai, nonostante tutto lei si preoccupa davvero per te e non riesco ancora a capire perché lo faccia, sono davvero curioso di scoprire cosa ci veda di così grandioso in un ragazzo egoista e immaturo come te. Avrai anche una buona testa, che funziona nello studio, ma nelle relazioni umane fai davvero schifo fattelo dire. Non sai neanche sceglierti le ragazze giuste da amare. Quella Marika è davvero pessima, dovresti dimenticarla e andare avanti… non ne vale la pena».
Roberto sollevò la commessura del labbro sinistro. Kei aveva davvero un modo tutto suo per confortare la gente.
«Non mi starai dando un consiglio d’amico, dico bene?»
Colto di sorpresa Kei si sollevò in piedi massaggiandosi le ginocchia.
«Ma quale consiglio! Figuriamoci! La mia era solo un’osservazione realistica».
Senza esitare Roberto si rimise in piedi portando in avanti la mano in attesa che l’altro la stringesse.
«In ogni caso, grazie». Kei impreparato osservava quella mano sospesa indeciso se stringerla o meno. Una volta schiarita la voce un paio di volte distolse il suo sguardo in imbarazzo.
«Non pensarci troppo».  Detto questo senza stringere la mano di Roberto fece segno all’altro di incamminarsi verso l’auditorium. Roberto, senza delusione depose la mano sospesa. Dopotutto si aspettava che Kei non gliel’avrebbe stretta, non ne era rimasto deluso come la prima volta. L’uno accanto all’altro ripresero a camminare per raggiungere gli altri del gruppo. Improvvisamente lo sguardo di Kei si fece spento, scuro e preoccupato.
«Ad ogni modo Roberto, ascoltami bene, ho rinunciato a Nami non perché tu la facessi soffrire. Ho rinunciato nella speranza che almeno tu riuscissi ad amarla come merita. Non farmi pentire della mia decisione».
Roberto prese a osservare l’amico mentre proseguiva al suo fianco. Kei era incredibilmente serio. Finalmente era arrivato il momento per lui di togliersi un dubbio che lo aveva attanagliato per molto tempo, sin da quella prima volta nella sala di registrazione quando Nami fece cadere i biscotti sul pavimento.  
«Kei, posso farti una domanda? Tu ami Nami, ma perché non pensi di essere capace di renderla felice? ».
Kei impassibile rispose a Roberto, «Roberto a te basta rimuovere quella ragazza dal cuore e considerando la situazione non deve essere ormai molto difficile. Quanto a me ho troppe responsabilità.»
«Ti riferisci a Shin, non è così? »
Kei acconsentì con un leggero movimento della testa.
« Prima che Akiko morisse le feci una promessa: mi sarei preso cura di Shin e avrei protetto la nostra famiglia. Ho un obbiettivo e Nami al momento è una distrazione che non posso permettermi» gli spiegò.
«Non hai mai pensato che invece lei possa aiutarti a mantenere quella promessa? Perché la vedi solo come un ostacolo?».
«Forse la verità è che ho avuto paura.. paura che si sarebbe stancata e mi avrebbe lasciato... Reggere responsabilità che non sono le proprie pesa.... Pesano proprio come è successo per mia madre...  Sono sicuro che anche lei si stancherebbe di me e prima o poi mi abbandonerebbe come fece lei... » senza rendersene conto Kei fece uscire quella verità dalle sue labbra forse perché infondo si sentiva in debito con Roberto per quello che aveva visto poco prima o forse perché non riusciva più a tenersela dentro. Fatto sta che prima che potesse impedirlo quelle parole avevano raggiunto le orecchie dell’amico.
Roberto, gli sorrise amaramente. «Kei conosci Nami. Sai benissimo che lei è più forte di quanto dia a vedere».
Kei involontariamente reclinò il capo affranto. «Se proprio devo ammetterlo credo sia diventata così a causa tua... ».
«È qui che ti sbagli, ho visto come ti guarda. Sai, se quel giorno fuori dalla Kings Record mi sono infuriato quando vi ho visto tornare insieme è stato perché ho avuto paura di perderla per causa tua. Lei è diventata una persona molto importante per me, dopotutto mi è stata vicina in questo periodo, seppure io non abbia mai meritato il suo aiuto. Kei, per quanto tu lo neghi credo che lei provi ancora qualcosa per te».
«Non dire stupidaggini… io ho perso molto tempo fa questa battaglia».
Prima che proseguissero Roberto lo fermò prendendolo per un braccio. I due si guardarono negli occhi.
«Da quel che vedo non si direbbe che tu ne sia poi così tanto convinto. Lo so che una parte di te continua a nutrire quella speranza… Ecco, quella è la stessa speranza a causa della quale non riesco a rinunciare a Marika… Non so se riuscirò a cancellarla anche adesso che so che sta per sposare un altro uomo e sta per avere un figlio da lui. Quella speranza sconsiderata si chiama amore e non è un qualcosa che si possa controllare… motivo per cui non so se riuscirò ad assecondare la tua richiesta. Mi dispiace».
Senza aggiungere altro Roberto si avviò verso la sala seguito da Kei.
Marika era con Thomas. Erano rientrati nell’auditorium. Se non fosse intervenuto lui probabilmente non sarebbe riuscita a gestire la cosa e alla fine le sarebbe sfuggita di mano. Era grata a Thomas per essersi intromesso dopotutto. Nella sua mente una persona in particolare continuava a ossessionarla.
“Quel ragazzo con la frangia deve essere molto amico sia di Nami che di Roberto, forse… potrei chiedere a lui… ”
I due ragazzi erano tornati appena in tempo per l’ultima esibizione del gruppo. Anche Roberto al fianco dei suoi compagni si esibiva come nulla fosse. La sua voce usciva naturalmente come sempre, ma qualcosa in lui era cambiata. Il suono di quelle parole adesso avevano un sapore diverso. Non sembrava esserci più speranza ma solo sconforto e rimpianto.
 
https://www.youtube.com/watch?v=EnKiuoVXFRQ

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Capitolo 37
*** PERDERSI LUNGO IL PERCORSO ***


CAPITOLO 37
PERDERSI LUNGO IL PERCORSO

 
Kei era con Roberto fermo in mezzo a quel corridoio deserto. Il giovane italiano si trovava ancora una volta immobile accasciato al freddo pavimento con la schiena poggiata a una delle bianche pareti laterali. Kei a quel punto gli si avvicinò. Piegandosi sulle ginocchia raggiunse la sua stessa altezza. Era davvero stanco di vederlo ridotto in quello stato. Gli faceva pena. Per quanto ancora sarebbe rimasto lì?
«Rob, adesso finiscila di autocommiserarti. Non serve a nulla. Gli altri ci stanno aspettando per l’ultima esibizione, ci conviene entrare prima che inizino a preoccuparsi». Roberto improvvisamente afferrò il braccio dell’amico. I suoi occhi erano disperati.
«Kei, non dirai nulla di tutta questa storia agli altri… vero?»
«Mi stai chiedendo di condividere un segreto con te? Perché mai dovrei farlo? Non siamo mica amici noi due!»
«Ti supplico… » proseguì stringendo ancor più il braccio dell'altro.
Visibilmente a disagio il ragazzo con il ciuffo sull’occhio sinistro si liberò dalla presa dell’altro.
«E va bene, ma che sia chiaro, questo non fa di me tuo amico. Se sono venuto qui è stato solo perché  avevo promesso a Nami di tenerti d’occhio, non perché mi interessi quello che fai. Non so davvero come possa, nonostante tutto, preoccuparsi ancora per te. Cosa ci veda di così grandioso in un tipo volubile come te ancora non riesco a capirlo. Sei solo un ragazzino egoista e immaturo. Avrai anche una buona testa, che funziona nello studio, ma nelle relazioni umane fai veramente schifo, fattelo dire. Non sai neanche sceglierti le ragazze giuste da amare. Quella Marika è davvero pessima, dovresti dimenticarla e andare avanti… di soffrire per una tipa così non ne vale proprio la pena».
Roberto sorrise sotto i baffi. Kei aveva davvero un modo tutto suo di confortare la gente.
«In questo momento non mi starai dando un consiglio d’amico, dico bene?»
Colto di sorpresa Kei si sollevò in piedi massaggiandosi le ginocchia.
«Ma quale consiglio! Figuriamoci! La mia era solo una costatazione».
Senza esitare Roberto si rimise anche lui in piedi come portando in avanti la sua mano.
«In ogni caso, grazie». Kei impreparato osservava quella mano sospesa indeciso se stringerla o meno. Una volta schiaritosi la voce distolse il suo sguardo.
«Non pensarci troppo».  Detto questo, senza stringere la mano di Roberto, fece segno all’altro di incamminarsi verso l’auditorium. Roberto,a quel punto la depose. Dopotutto sapeva che Kei non gliel’avrebbe mai stretta. Insieme ripresero a incamminarsi per raggiungere gli altri del gruppo. Fu proprio mentre camminavano fianco a fianco che improvvisamente lo sguardo di Kei si fece spento e preoccupato.
«Ad ogni buon conto Roberto, ascoltami bene, ho rinunciato a Nami non perché tu la facessi soffrire. Ho rinunciato nella speranza che almeno tu riuscissi ad amarla come merita. Non farmi pentire della mia decisione. Penso che, giunto a questo punto, tu debba dimenticarti una volta per tutte di quella Marika e iniziare a concentrarti seriamente su Nami. Lei ha bisogno di te.più di quanto riesca ad ammettere».
Roberto prese a osservare l’amico mentre proseguiva al suo fianco. Kei era incredibilmente serio. Finalmente, Roberto pensò fosse arrivato il momento giusto per togliersi quel dubbio che l'aveva attanagliato sin da quella prima volta nella sala di registrazione quando Nami era scappata via da Kei in lacrime.  
«Kei, posso farti una domanda? Tu ami Nami, ma perché non pensi di poterla rendere felice? ».
Kei senza esitare rispose, «Roberto a te basta rimuovere quella ragazza dal cuore e considerando la situazione non deve essere ormai molto difficile per te farlo. Quanto a me, ho troppe responsabilità.»
«Ti riferisci a Shin, non è così? »
Kei acconsentì con un leggero movimento della testa.
«Prima che Akiko morisse le feci una promessa: mi sarei preso cura di Shin e avrei protetto la nostra famiglia. Ho un obbiettivo e Nami al momento è una distrazione che non posso permettermi» gli spiegò.
«Non hai mai pensato che invece lei possa aiutarti a mantenere quella promessa? Perché pensi sarebbe solo un ostacolo?».
«Forse la verità è che ho paura.. paura che si stanchi e mi lasci... Reggere responsabilità che non sono le proprie pesa.... Pesa proprio come è successo per mia madre...  Sono sicuro che anche lei si stancherebbe di me e prima o poi mi abbandonerebbe come fece lei... dopotutto tutte le donne della mia vita mi hanno abbandonato, non penso di essere davvero destinato ad averne una al mio fianco… » senza rendersene conto Kei fece uscire quella verità dalle sue labbra forse perché infondo si sentiva in debito con Roberto per quello che aveva visto poco prima. Fatto sta che prima che potesse impedirlo quelle parole avevano raggiunto le orecchie dell’altro.
Il ragazzo, gli sorrise amaramente. «Kei conosci Nami. Sai benissimo che lei è più forte di quanto dia a vedere».
Kei involontariamente reclinò il capo affranto. «Se proprio devo ammetterlo credo sia diventata così a causa tua... ».
«È qui che ti sbagli, ho visto come ti guarda. Sai, se quel giorno fuori dalla Kings Record mi sono infuriato quando vi ho visto tornare insieme è stato perché ho avuto paura, paura di perderla per causa tua. Non so ma penso che Nami sia diventata una persona molto importante per me considerando che mi è stata vicina per tutto questo periodo. Seppure io non abbia mai meritato il suo aiuto lei me lo ha sempre concesso senza pretendere nulla in cambio. Kei, per quanto tu l continui a negarlo credo che Nami provi ancora qualcosa per te».
«Non dire stupidaggini… ho perso molto tempo fa questa battaglia tra noi due».
Prima che proseguissero Roberto lo fermò prendendolo per un braccio. I due si guardarono negli occhi.
«Dai tuoi occhi non si direbbe che tu ti sia davvero rassegnato alla cosa. Lo so che una parte di te continua a nutrire quella speranza… Ecco, quella è la stessa speranza a causa della quale non riesco a rinunciare a Marika… non so se riuscirò a cancellarla anche adesso che so che sta per sposare un altro uomo e sta per avere un figlio da lui. Quella speranza sconsiderata si chiama amore e non è un qualcosa che si possa controllare… motivo per cui non so se riuscirò ad assecondare la tua richiesta. Mi dispiace».
Senza aggiungere altro Roberto si avviò verso la sala seguito da Kei.
Marika era con Thomas. Erano rientrati nell’auditorium. Se non fosse intervenuto Thomas probabilmente Marika non sarebbe riuscita a gestire la situazione e alla fine la verità le sarebbe sfuggita di mano. Era grata al giovane Direttore della One Million per essersi intromesso dopotutto. Prendendo posto al tavolo Marika rifletteva su quanto era appena successo.
“Che strano, quel ragazzo con la frangia che si è intromesso deve essere molto amico sia di Nami che di Roberto, forse… potrei chiedere a lui… ”
 
Mentre il direttore della One Million prendeva posto insieme a Marika al loro tavolo i  due componenti mancanti degli Hope recuperavano il loro posto dietro le quinte, giusto in tempo per l’ultima esibizione del gruppo. Appena le luci si accesero i sei presero posto sul palco. Anche Roberto, al fianco dei suoi compagni, si esibiva come nulla fosse. La sua voce usciva naturalmente come sempre, ma qualcosa in lui era cambiata. Il suono di quelle parole adesso avevano un sapore diverso. Non sembrava esserci più speranza in esse, ma solo amaro rimpianto.

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La festa si concluse che erano le undici di notte e quello che rimaneva degli Hope si stava dirigendo presso lo studio di Rio per firmare il loro nuovo contratto. All’appello mancavano solo Jona, che era dovuto scappare via prima della fine della festa per prendere l’aereo che lo avrebbe condotto in Cina dai suoi genitori e Take, che dopo l’ultima esibizione era letteralmente sparito dalla circolazione. Ad attendere, dietro la porta di quello studio asettico le disposizioni di Rio, erano rimasti  solo Toshi, Roberto, Kei e Shin. L’ormai non più giovane direttore osservava le luci scintillanti di Tokyo dalle trasparenti finestre, quando due colpi alla porta lo riscossero dalle sue preoccupazioni. Ricomponendosi riprese posto dietro la scrivania.
“Chissà se ci saranno tutti...” pensò preoccupato.
Ad avanzare sicuro all'interno della stanza, aprendo la strada agli altri, fu il leader, seguito dal ragazzo italiano e dai due fratelli. Rio guardò oltre le loro spalle nella speranza che qualcun’altro si affacciasse. Ma nulla. Alla fine Take doveva aver preso la sua decisione.
«Bene a quanto pare le cose dovranno cambiare… come immaginavo non tutti eravate pronti a questo mondo…»
Toshi squadrò perplesso suo padre.
«Cosa intendi? Se ti stai riferendo a Take sono sicuro che arriverà a momenti…»
L’uomo rivolse a suo figlio un sorriso stanco.
«Toshi, non è colpa tua, in verità non è colpa di nessuno…».
Il leader strinse forte a pugno le sue mani. Non poteva credere che Take gli stesse facendo questo proprio alle porte del loro primo concerto senza neanche una spiegazione.
«Lo cercherò e lo riporterò qui, dovessi anche picchiarlo per riuscirci…» asserì fuori di sé Toshi.
«Figliolo, non c’è più niente da fare. A quanto pare la soffiata che mi era stata riferita poco prima della festa era vera.»
Toshi sbatté con impudenza le mani sulla scrivania di suo padre sporgendosi verso di lui.
«Di cosa diamine stai parlando?». L’uomo rassegnato decise di rivelare loro la verità. Dopotutto se la meritavano.
«Take ha firmato un contratto con la Music Station…».
Toshi incredulo retrocedette di qualche passo verso i suoi amici. Non poteva credere a quello che suo padre gli stava dicendo. Ormai non aveva più parole. A quel punto Roberto lo raggiunse.
«Cosa faremo adesso?» chiese a Rio poggiano una mano rassicurante sulla spalla dell’amico afflitto al suo fianco.
«Non abbiamo altra scelta, dovremo continuare anche senza di lui…»
Toshi aveva lo sguardo spento e vuoto rivoto verso il pavimento.
«Non doveva andare così… ci eravamo fatti una promessa maledizione» disse parlando più che altro a se stesso.
«Toshi, ormai è troppo tardi… lo abbiamo perso…» proseguì suo padre. A quel punto il leader sollevò il viso rivolto al pavimento e con sguardo deciso sfidò la completa rassegnazione di Rio.
«Non è mai troppo tardi… non posso permettere che quella vipera ce lo porti via così…» detto questo si svincolò dalla presa di Roberto uscendo dalla studio di Rio. Roberto stava per seguirlo, ma Rio lo frenò.
«Lascialo andare, immagino abbia bisogno di tempo per accettare la cosa. Conosco mio figlio, lui deve averci creduto molto e deve vedere questo come una sconfitta personale… Ad ogni modo questi sono i vostri contratti… ovviamente vi capirò se deciderete di cambiare agenzia. Da adesso sarà davvero dura combattere le calunnie dei giornalisti, quindi sentitevi liberi di andare via dalla Kings Record. Presto la stampa ci prenderà d’assalto per conoscere il motivo dell’allontanamento di Take dal gruppo e sicuramente la Music Station riverserà su di voi e su di me la colpa di tutto. Solo se andrete via anche voi dalla Kings Record nessuno potrà attaccarvi. Potrete seguire strade da solisti.  Sicuramente sarebbe più facile per voi andare avanti. Io mi assumerò tutte le colpe del caso».
Roberto avanzò verso la scrivania.
«Forse è vero questo sarebbe più facile per noi, ma non per la Kings Record… Dovrà risarcire i biglietti per il concerto e sappiamo che la Kings Record non se la passa molto bene in questo periodo».
«Non preoccupatevi di questo…».
Kei a quel punto raggiunse Roberto.
«Toshi non è stato l’unico a credere in noi. Anche io ci ho creduto e voglio continuare a crederci proprio come credo in questa casa discografica e nel suo direttore. Come disse Toshi quel giorno, noi siamo una famiglia e una famiglia non viene meno nel momento del bisogno, anzi è proprio in quei momenti che diventa più forte e unita…» senza esitare recuperò una penna stilografica dalla scrivania e senza esitare appose la sua firma sul contratto.
Rio rimase sbalordito a guardare la sicurezza con cui Kei firmava. Sapeva che in quel momento stava mettendo a rischio i suoi sogni, le sue aspirazioni e la sua voglia di recuperare la casa di famiglia. Gli era grato per quella fiducia. Subito dopo di lui anche Shin firmò.
«Non andrei da nessun’altra pare, perché nessun’altra parte sarebbe come questo posto. La Kings Record è la mia casa e voi siete la mia famiglia. Non ho bisogno di andare da nessun’altra parte.»
Rio acconsentì ancora una volta. A quel punto anche Roberto prese la penna e firmò.
«Se non fosse stato per lei adesso non saremmo arrivati qui. Io ho un obbiettivo, quello di dimostrare a mio padre che questo mondo può essere sfidato e vinto, per questo rimarrò al fianco dei miei amici senza abbandonare il campo di battaglia. Non sarò un coniglio codardo come lui… ».
Rio raccolse i contratti dei ragazzi.
«Vi ringrazio per la fiducia, vi prometto che non ve ne pentirete…».
Mentre i quattro nello studio discutevano Toshi aveva raggiunto l’appartamento di Yukino. Dopo aver bussato un paio di volte la ragazza in camicia da notte venne ad aprirgli. Sul viso aveva ancora il trucco deciso e sfrontato che esibiva di solito. Senza invito il leader degli Hope avanzò nell'appartamento della giovane.
«Lui dov’è?» chiese agitanto perlustrando tutte le stanze. La ragazza, senza preoccuparsi della cosa, prese posto sul divano accavallando le sue cosce lisce e vellutate l’una sull’altra attendendo divertita che Toshi completasse la sua inutile ricerca. Dopo aver controllato in tutte le stanze il leader la raggiunse. Lei in silenzio lo aveva atteso con un sorriso sprezzante sul viso.
«È preoccupante che il leader di un gruppo non sappia che fine abbiano fatto i propri membri…» disse canzonandolo. Toshi a stento reprimeva l’odio e la repulsione che provava per quella gattamorta che aveva sedotto il suo amico solo per distruggerli. Lui infondo era convinto che quello fosse l’unico motivo per cui Yukino si era avvicinata a Take.
«Non prendermi per stupido. Potrai abbindolare mio padre e Take, ma con me non funziona. Ti conosco. Ammetti che lo hai avvicinato solo per distruggerci. Era questo il tuo piano fin dall’inizio, non è così? Lo hai manipolato per mettercelo contro.»
La ragazza si sollevò dal divano e, sorridendo maliziosamente, raggiunse Toshi.
Con la mano destra le cui dita affusolate terminavano con lunghe e ben definite unghie rosse, accarezzò la guancia di Toshi.
«Non dovresti tormentarti con pensieri inutili come questo… così facendo il tuo bel faccino si riempirà di rughe…» senza contenersi oltre Toshi afferrò il polso di Yukino. La sua stretta era fortissima. Per un attimo negli occhi della ragazza si dipinse un’espressione di puro terrore e Toshi sembrava esserne compiaciuto.
«Sappi che io non sono una persona che rinuncia facilmente. Prima o poi Take tornerà da noi. Una volta scoperto il tuo inganno, pensi vorrebbe continuare a stare con una persona viscida e falsa come te?»
«E chi mai potrebbe rivelargli la verità? Ormai lui non vi crede più. L’unica persona di cui si fida sono io…»
«Nessuno è perfetto… prima o poi farai un errore e io attenderò pazientemente quel momento. Ormai non puoi sfuggirmi… forse prima non conoscevo il tuo vero fine, ma adesso che conosco il vero scopo delle tue azioni ti ho in pugno. Devo solo aspettare il momento giusto per incastrarti e non temere quel momento arriverà prima o poi… Puoi starne certa, la storia non finisce qui…».
Detto questo il leader uscì lasciando Yukino sola in quella stanza. Sola con i suoi sensi di colpa e con il terrore che quella profezia potesse avverarsi primo o poi. 

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Capitolo 38
*** UNA RIVELAZIONE SORPRENDERNTE ***


CAPITOLO 38
UNA RIVELAZIONE SORPRENDERNTE

 
Mentre Toshi tornava alla Kings Record e Kei, Shin e Roberto discutevano nello studio di Rio del loro futuro come gruppo, Jona si muoveva verso il solito bar nel centro di Tokyo, dove, vista l’ora tarda, era sicuro di trovare al lavoro il non più giovane proprietario e sua figlia.
Sceso dal taxi diede un ultimo sguardo al suo orologio da polso prima di chiedere gentilmente al tassista di attendere il suo ritorno. Nella tasca del suo soprabito aveva il suo carnet d’assegni. Finalmente, avuto il suo primo stipendio, avrebbe potuto sdebitarsi con quell’uomo che lo aveva salvato mesi prima. L’idea di poter finalmente ricambiare quella gentilezza lo fece sentire fiero di sé stesso seppure una parte di lui soffrisse all’idea che una volta firmato quell’assegno avrebbe dovuto dire loro addio. Tra le mani stringeva un libro abbastanza logoro. Doveva avere almeno la metà dei suoi anni. All’interno del bar, come ebbe modo di constatare dalla vetrina trasparente, c’era solo la figura di Otto, il padre di Hana, che ripuliva meticolosamente i bicchieri di vetro sul bancone riposizionandoli con cura nella credenza alle sue spalle. Jona, rincuorato dal fatto che Hana non fosse in giro a quell’ora, avanzò a passo spedito verso l’ingresso. Non aveva molto tempo. Il suo volo sarebbe partito a breve.
Come al solito le campanelle che introducevano i vari clienti all’interno del bar, riscossero l’attenzione dell’uomo dietro il bancone.
Lo stesso, non appena vide Jona avanzare nella sua direzione, sfoderò prontamente uno dei sui stanchi e goffi sorrisi.
«Ehi, ragazzo! Quale buon vento ti porta da queste parti?»lo salutò l'uomo. Jona prese posto su uno degli sgabelli.
«Passavo da queste parti…» si mantenne sul vago.
«Se cerchi Hana, è appena salita in camera sua. Oggi non si sentiva particolarmente bene…»
«No, a dire il vero era lei che stavo cercando» gli rivelò posizionando il libro logoro sul bancone tirato a lucido.
«Come mai proprio me?» gli chiese stupito l’uomo poggiando lo straccio umido sul piano davanti a lui.
Jona tirò fuori dalla tasca interna del suo soprabito il carnet d’assegni
«Sono venuto qui per sdebitarmi della sua gentilezza…»
L’uomo sembrava sull’orlo della disperazione.
«Non farlo, ti prego…» disse allontanando il carnet d’assegni di Jona, poi reclinò il capo per non farsi vedere in viso.
Il ragazzo rimase in silenzio con il carnet tra le mani. Non sapeva cosa fare. L’uomo davanti ai suoi occhi sembrava stesse per piangere.
«Jona non lasciarla …» proseguì il padre di Hana tornando a fissare il ragazzo dritto negli occhi. Jona poggiò la sua mano destra su una delle due mani dell’uomo chiuse a pugno sul bancone.
«Non ho scelta… entrambi sapevamo che sarebbe arrivato questo momento. Lei sa chi sono, ma Hana non deve saperlo per forza. Mi piacerebbe che almeno sua figlia mi ricordasse per il ragazzo che ha conosciuto e non per l’immagine che il mondo conosce di me…».
«Non tornerai più?».
Jona acconsentì con un movimento della testa.
«Hana è la prima persona ad avermi dato la consapevolezza di valere più di quello che credevo. Lei è stata l’unica capace di farmi vedere i miei difetti e di spingermi a cambiarli, e per questo le sarò immensamente grato … Adesso però è arrivato il momento di andare via dalla sua vita. Il mio aereo partirà tra meno di un’ora… Spero che abbia avuto ragione anche su quanto sto per fare».
«Intendi sui tuoi genitori?» gli domandò l’uomo.
«Si, su di loro. Nonostante tutto penso che sua figlia sia davvero fortunata, ha un padre che la ama così tanto da mettere da parte se stesso per lei… io non so se ho e avrò mai la stessa fortuna. Sa, Hana mi ha insegnato che prima di condannare gli altri bisogna considerare anche le proprie colpe. Fino ad oggi mi sono comportato come una vittima e non ho mai chiesto motivazioni ai miei sulle loro continue assenze. Adesso sono stanco di comportarmi da vigliacco. Li affronterò e dirò loro tutto quello che penso. E lo farò non per rabbia, o per rinfacciare loro quello che non sono mai stati per me, ma perché non voglio perderli. Dopotutto sono i miei genitori e nessun genitore abbandonerebbe il proprio figlio senza un motivo valido. Hana mi ha dato il coraggio di partire per scoprire questo motivo e magari provare a recuperare il loro rapporto. Ho bisogno dei miei genitori e una parte di me sente e spera che anche loro abbiano ancora bisogno di me. Proprio come lei ha bisogno del sorriso di sua figlia, anche io, per quanto lo abbia negato,  ho bisogno del sostegno dei miei genitori. Prima di conoscere Hana ero pieno d’odio, di presunzione e orgoglio personale, ma adesso credo di aver trasformato tutti questi sentimenti in umiltà, comprensione e coraggio. Da adesso non mi lamenterò o farò la vittima, questa volta voglio affrontare i miei mostri. Spero lo faccia anche Hana un giorno.» Con gli occhi lucidi Jona tirò fuori una penna e iniziò a compilare l’assegno. «Si prenda cura di lei e non trascuri neanche se stesso. Con questi non dovrebbe avere più bisogno di lavorare fino a tardi e potrà prendersi cura di sua figlia. Qui c’è il numero di un ottimo chirurgo. Andate pure a nome mio. Vi auguro buona fortuna e chissà, magari può essere che la prossima volta che ci incontreremo sarà a una mostra fotografica di Hana. Mi piacerebbe che accada in questo modo. La incoraggi a continuare anche da parte mia» adagiato l’assegno sul bancone e il foglio di carta con il nome del chirurgo, Jona si sollevò dallo sgabello muovendosi verso l’uscita.
«Jona…» lo trattenne l’uomo «se vuoi almeno andare a salutarla sappi che puoi farlo. Non avere paura, credo stia dormendo già da un pezzo ormai. Pensaci, almeno così potrai dirle addio…». Il ragazzo esitò davanti alla rampa di scale che portava all’appartamento sovrastante.
«Le lascerò solo questo e poi andrò via» si fece convincere alla fine mostrando all’uomo il libro logoro tra le sue mani. L’uomo acconsentì con un sorriso tirato. Jona salì quei gradini, uno alla volta, senza fretta, fino a raggiungere la stanza di Hana. Con delicatezza abbassò la maniglia aprendo la porta. Prima di entrare controllò che Hana fosse nel letto e dormisse. Proprio come gli aveva riferito Otto, Hana era nel suo letto che respirava profondamente.
La raggiunse. Vederla mentre dormiva gli faceva quasi venir voglia di non partire. Rimirarla tra quelle candide lenzuola che facevano contrasto con i suoi capelli neri e lucidi, gli trasmise uno strano senso di serenità.
Jona, notò che Hana aveva il viso leggermente imperlato di sudore. Stava sognando muovendosi irrequieta sotto le coperte. Con un fazzolettino gli tamponò il viso delicatamente. Non pensava che lasciare andare una persona sarebbe stato così difficile. Nonostante quel loro primo incontro burrascoso, Hana era diventata preziosa per lui. Ma che futuro avrebbe mai potuto scrivere per loro? Lui era una persona difficile da gestire, soprattutto considerando la sua vera identità, inoltre Hana aveva bisogno di qualcuno che potesse starle vicino sempre e senza complicazioni, ed era evidente che lui non sarebbe mai potuto essere quella persona. L’unica cosa che avrebbe potuto fare per lei era donarle la possibilità di ricostruirsi una vita, anche a costo di perdere la loro amicizia. Era strano, aveva conosciuto tante ragazze, ma lei era diversa. Aveva visto qualcosa in lui che nessun’altra era stata capace di notare.
 
 “Oh… Hana… Come ci sei riuscita? Nessuno mi aveva mai visto davvero seppure lo desiderassi con tutto me stesso. Eppure tu che non sei in grado di vedere mi hai visto e mi hai trovato quando io stesso credevo di essermi perso senza alcuna speranza. Mi hai visto quando per il resto del mondo ero invisibile. Hai visto quello che gli occhi non avrebbero potuto mai vedere. Il tuo cuore, ecco con cosa mi hai trovato. Non sottovalutarlo non tutti possono vantarsi di avere questo dono.  È proprio vero, L'essenziale è invisibile agli occhi”.
Prese il libro e lo adagiò sul comodino. Stava per voltarsi e andarsene quando si sentì trattenere dal cappotto. Si voltò e notò Hana che lo stringeva nella mano destra il suo soprabito.
«Jona…? sei tu?» chiese fissando nel vuoto con i suoi occhi grigi e profondi.
Jona tornò verso di lei.
«Dormi, sono venuto solo per salutarti prima di partire… ».
A quelle parole il viso di Hana si riempì di un tenue sorriso.
«Partirai allora?»
«Si, te l’ho promesso. Nonostante tutto penso tu abbia ragione… deve esserci un motivo se i miei mi hanno messo da parte, e voglio scoprirlo…», lei di risposta acconsentì soddisfatta della decisione presa dall’amico.
«Quando tornerai?».
Jona deglutì trattenendo le lacrime. Sapeva che trattenerle era una premura inutile visto che Hana non le avrebbe neanche viste cadere, ma quello sforzo serviva principalmente a lui per non perdere la determinazione.
«Presto, non temere…» mentì. Lei di tutta risposta mosse nell’aria la sua mano alla ricerca di qualcosa poi finalmente trovò quello che stava cercando. Prese nella sua la mano di Jona.
«Spero che tu risolva la situazione con i tuoi genitori…» Jona strinse a sua volta la mano di Hana nella sua. Lasciarla andare adesso era davvero difficile.
«Lo spero anche io…».
«Comunque, cosa mi hai lasciato sul comodino?» gli chiese lei.
«Un libro… »
«Me lo leggerai quando tornerai?»
Jona questa volta non riuscì a trattenere quell’unica lacrima che gli scivolò furtiva via dall’occhio sinistro.
«Certo che lo leggeremo insieme…».
Stava mentendo ma in quel momento non aveva la forza per dirle la verità.
«Di che libro si tratta?»
«Il Piccolo Principe. Mi fu regalato da mio padre quando ero molto piccolo. Me lo diede prima di partire per uno dei suoi tanti viaggi di lavoro».
«Non l'ho mai letto» gli rivelò Hana con stupore.
«Parla di una storia d’amicizia. Mio padre mi disse che quel principe mi assomigliava parecchio. Se vuoi te ne leggo un pezzo prima di andarmene…».
Hana acconsentì. Jona preso il volume gli si sedette accanto sul materasso e iniziò a leggerle la parte in cui il Piccolo Principe incontra la volpe. Completata la prima pagina chiuse il volume riponendolo sul comodino.
Hana a quel punto si mise seduta appoggiandosi allo schienale del letto.
Aveva sul viso una strana espressione interrogativa.
«Ma alla  fine il Piccolo Principe riesce ad addomesticare la volpe?»
Jona sorrise debolmente.
«Dovrai continuare a leggere per scoprirlo... »
«Vuoi dire che dovrò aspettare il tuo ritorno per scoprirlo? Ma è così ingiusto! Uffa! Beh, se ci penso però, considerando quello che diceva tuo padre, se quel Piccolo Principe ti assomiglia, allora ci sarà riuscito sicuramente».
«E cosa ti da tutta questa sicurezza?» gli domandò Jona interessato.
«Beh, se tu sei riuscito ad addomesticare me allora anche il Piccolo Principe sarà riuscito ad addomesticare la volpe»
«Sono riuscito ad addomesticarti?» le domandò sorpreso Jona.
 Hana si fece rossa in viso.
«Si,  forse... ». A quelle parole Jona si intenerì. Dopo aver dato un rapido sguardo all’orologio sul comodino si rese conto di essere in terribile ritardo.
«Hana adesso devo proprio andare, altrimenti perderò l’aereo». Stava per sollevarsi dal materasso quando la stessa si avvinghiò a lui disperatamente. Jona rimase immobile e impreparato mentre lei lo abbracciava.
«Jona,  non lascerai la tua volpe ad aspettarti in vano, vero?». Lui ricambiò quella stretta con forza.
«Hana…». A quel punto la ragazza riprese le distanze da lui e con le mani dolcemente tastò prima i capelli poi la fronte il naso le sopracciglia e poi le labbra di Jona.
«Non mi dimenticherò di questo volto, ho appena scattato la tua fotografia nel mio cuore… ». Jona prese le mani di Hana e le staccò dal proprio viso. Poi iniziò ad avvicinarsi a lei fino a far sfiorare i loro due nasi.
«Neanche io mi dimenticherò di te… » poi chiusi gli occhi Jona prese tra le sue le labbra di Hana. Hana percepì quel gesto come un addio silenzioso. Non c’erano parole di contorno ma lei sentiva che in quel momento Jona gli stava dicendo addio.
Le loro labbra si cercavano avide, avide come quel tempo che era stato tiranno. Una volta riprese le distanze Jona le cinse la testa con le mani e dopo averle dato un ultimo bacio sulla fronte si sollevò dal letto. Rimboccatole le coperte la salutò. Era finalmente pronto a uscire per sempre dalla sua vita.
Sceso al piano di sotto salutò Otto per l’ultima volta prima di avviarsi verso il taxi che lo aveva aspettato pazientemente per quasi mezz’ora.
Nel suo letto Hana pianse affondando il proprio viso nel cuscino del suo letto.
“Devi tornare…  devo ancora dirti quello che provo”.
Pensando questo, dopo aver pianto per parecchio tempo, Hana crollò addormentata con la sensazione di quelle labbra ancora impresse sulla sua fronte e nel suo cuore
 
 
 
 
 
 
 
Roberto, Shin, Toshi e Kei erano fuori dallo studio di Rio. Quella che sarebbe dovuta essere una serata positiva capace di decretare un nuovo inizio per il gruppo e per la Kings Record si era trasformata in un’inaspettata doccia fredda per tutti. Roberto aveva davanti ai suoi occhi due amare sconfitte: quella di Marika e quella di Take. Allo stesso modo anche Toshi in quella stessa giornata aveva dovuto dire addio al suo primo amore e adesso anche a uno dei suoi più cari amici. Aveva fallito come leader e come uomo visto che alla fine non era riuscito a tenere unito il gruppo ne a trattenere la donna che amava. Tra loro Kei e Shin reggevano l’amara atmosfera del momento senza dire una parola. I quattro giunsero in silenzio fino al piano terra. Uno dei responsabili della sicurezza  all’ingresso della casa discografica si avvicinò loro lasciando un biglietto a Kei.
«Una donna mi ha chiesto di consegnarglielo» gli disse sottovoce prima di tornare alla sua posizione.
Nessuno dei tre ci fece troppo caso. Avevano i pensieri rivolti altrove in quel momento. Kei lo prese aprendolo. Dentro c’era un messaggio per lui scritto in inglese.
Era da parte di Marika.
“Cosa vuole da me questa tipa?”
 
So che non ci conosciamo, ma ho bisogno di parlare con te. È importante. Raggiungimi il prima possibile al bar qui fuori. Io aspetterò.
Marika.                
 
Kei dopo aver raggiunto  i suoi amici, fuori dall’edificio, improvvisò una scusa plausibile per allontanarsi e raggiungere Marika al bar lì vicino. Senza muovere obiezioni tutti lasciarono che si allontanasse.
Kei raggiunse il bar che erano le nove di sera. Entrò e si guardò un po' intorno alla ricerca di una chioma biondastra. Finalmente, cinque tavoli più in là di dove si trovava, intravide la giovane stilista della One Million.  
Con sicurezza si mosse nella sua direzione. Sugli occhi delle lenti scure e in tesa un berretto sportivo Kei prese posto al tavolo senza rivolgerle la parola. Non nutriva una grande simpatia per lei. Dopotutto era colpa sua se la donna che amava stava soffrendo tanto, e inoltre non gli era piaciuta affatto la scena a cui aveva dovuto assistere poco prima nei corridoi della Kings Record. Non era stato carino quello che aveva detto a Roberto. La ragazza sembrava felice di vederlo.
«Quasi non ci speravo più…» ammise lei richiamando una cameriera muovendo la sua mano per aria. La cameriera non doveva avere più di sedici anni. Dopo aver agguantato due menù da un tavolo lì vicino li raggiunse.
«Avete bisogno dei menù o sapete già cosa ordinare?» chiese squadrando i due ragazzi con interesse. Kei si strinse su se stesso reclinando il berretto sul viso. Di essere riconosciuto in quel momento proprio non gli andava.
«Io prendo un succo alla mela, tu?» chiese Marika al ragazzo seduto di fronte a lei.
«Io una birra» concluse sintetico l’altro girando dall’altra parte la testa.
«Perfetto arrivo subito» concluse la giovane cameriera stringendosi allo stomaco i due menù.
Una volta andata via la sedicenne dal tavolo Marika prese in mano la conversazione.
«Non temere sarò breve».
«Me lo auguro, ho ben altro a cui pensare in questo momento, e non ho di certo molto tempo da perdere in cose inutili…». Kei infatti per tutta la sera non aveva fatto altro che pensare a Nami. Non vedeva l’ora di tornare al dormitorio per verificare che stesse bene.
Marika sorvolò sull’atteggiamento burbero del ragazzo. Era più che comprensibile che non si fosse costruita una bella immagine stando agli ultimi eventi. Incurante di questo proseguì.
«Ho notato che sei amico di Nami e poco dopo che hai raggiunto anche Roberto. Penso tu sia un buon amico di entrambi o sbaglio?», Kei storse il muso.
«Diciamo che potrei definirmi simile ad un amico per entrambi… ma non capisco cosa centri questo adesso…».
La cameriera si intromise ancora una volta portando a entrambi la loro ordinazione dileguandosi subito dopo sorridendo sorniona. Kei aveva il presentimento di essere stato scoperto.
«Beh, questo è in realtà il motivo per cui ti ho chiesto di venire» riprese Marika sorseggiando dal bicchiere trasparente tra le sue mani il succo verdognolo.
«Se devo dirti la verità ero intenzionato a non venire... Non lo dico per prendere le difese di Roberto, ma quello che hai fatto... ».
«Lasciami spiegare ti prego, se ti ho chiamato è per chiederti un favore». Kei bevve un sorso di birra prima di proseguire.
«Un favore?»
«Si, so che non mi conosci e che in fondo non ho alcun diritto di avanzare una richiesta simile, ma non lo farei se non fosse per il bene di Nami, di Roberto e del gruppo. Almeno per loro pensi di riuscire ad accontentarmi?» Kei finì tutto d’un sorso la birra nel bicchiere asciugandosi con la manica sinistra le labbra umide.
«Di cosa si tratta?»
«Ho bisogno che tu convinca Roberto a dimenticarmi».
Il ragazzo sorrise malignamente.
«A questo penso tu ci abbia pensato già da sola . Adesso se non ti dispiace... » concluse sollevandosi dalla sedia. Marika lo trattenne prendendolo per un polso.
«Non capisci. Non conosci Roberto, lui non si rassegnerà così facilmente».
Kei si liberò dalla presa della ragazza.
«Non vedo come questo centri con me…»
«Tu non capisci, c'è in ballo il futuro del gruppo... La sua e la vostra carriera. Se lui venisse a cercarmi a quel punto non saprei come nascondergli la verità».
Kei tornò a sedersi mentre il suo sguardo sotto le lenti oscurate si faceva più interessato.
«Di che verità stai parlando? Non sarà che... » in lui un vago sospetto iniziò a emergere latente. Con un dito indicò il ventre di Marika.
«Si, quella che aspetto è sua figlia».
Kei si tolse il berretto dalla testa stringendolo nervosamente tra le mani.
«Vuoi dirmi che Thomas... ». Marika lo interruppe.
«Lui sa tutto e ha accettato di sposarmi nonostante questo. Non fraintendere non è che io non voglia dirlo a Roberto, ma ho troppa paura che la notizia possa trapelare e creare dei problemi a tutti voi. Questo è stato un mio errore e nessuno a parte me deve pagare per questo. Ecco perché sono qui a chiederti questo favore».
Marika a quel punto tirò fuori  dalla sua borsa una lettera porgendola a Kei.
«Ho bisogno che tu la conservi e che la dia a Roberto solo quando avrete raggiunto un fase stabile della vostra carriera. Io non voglio essere un peso per lui né un intralcio per voi. Quindi questo è l'unico favore che ti chiedo. Custodisci questo segreto fino a quel giorno».
 Kei senza esitare prese la lettera.
«Tu starai bene?» le chiese in tono ammorbidito. In quel momento aveva rivalutato completamente Marika. Forse iniziava a capire per quale motivo Roberto l’amasse tanto e perché non riuscisse a rassegnarsi all’idea di perderla. Lei dalla sua gli sorrise dolcemente.
«Me la caverò, non preoccuparti. Sono felice che Nami e Roberto possano contare su un amico come te. Sono fortunati. Io dalla mia cercherò di essere una buona madre e farò l’impossibile per non far sentire alla mia carotina la mancanza di suo padre. Per lei farei di tutto».
«Anche fingere di essere felice accanto a una persona che non ami?» gli domandò a bruciapelo Kei. Marika rimase impreparata a una domanda simile. Seppure se lo fosse domandato tante volte nella sua testa, adesso sentire quella domanda uscire dalla bocca di un'altra persona le faceva uno strano effetto. Senza dargli una risposta gli sorrise dissolvendo quell’espressione preoccupata e triste dal viso. «Adesso vado. Ci si vede in giro Kei» detto questo si sollevò dalla sedia. Stava prendendo il suo portafoglio quando Kei intervenne.
«Lascia, questo giro lo offro io».
«Grazie». Richiusa la propria borsa Marika si avviò all’uscita.
Kei si voltò per guardarla mentre si muoveva barcollando con il suo pancione tra i tavoli fino a quando scomparve oltre la porta del locale.
In quel momento Marika le riportò alla memoria sua madre. Anche la donna che lo aveva abbandonato dopo averlo messo al mondo, doveva essersi sentita sola e impotente dopo aver rinunciato all’uomo che amava, ma a differenza sua, Marika doveva avere avuto più fortuna o più semplicemente doveva avere un carattere più forte. Per entrambe non doveva essere stato facile arrendersi alla realtà dei fatti. Solo che a differenza di sua madre quella ragazza che poco prima era stata seduta davanti a lui, aveva trovato da qualche parte la forza di andare avanti.  La bambina nel suo grembo, ecco l’origine della sua forza e della sua determinazione. Con forza Kei strinse i suoi pugni. Nonostante tutto lui non doveva essere riuscito ad essere quel motivo di vita per sua madre. Da un lato commiserava quella donna che lo aveva messo al mondo. Dopo tutti quegli anni non era rimasto più spazio nel suo cuore per l’odio ma solo tanta compassione.  Stava per alzarsi quando notò un uomo insolito sulla cinquantina che leggeva solitario un giornale due tavoli più in là del suo. Aveva un’aria sospetta. Kei non indugiò oltre e raggiunse la cassa. Pagò rapidamente uscendo dal bar. Per tutto il tragitto fino alla fermata del taxi ebbe la strana sensazione di essere seguito. Quella sensazione scomparve non appena salì sulla vettura bianca che sfrecciò rapida tra le vie di Tokyo. Tra le mani quella lettera. La storia si stava complicando. Non poteva rischiare che Roberto conoscesse quella storia, in tal caso era sicuro che avrebbe deciso di abbandonare il gruppo e, conoscendo i fatti, Kei non  avrebbe potuto biasimarlo. Inoltre il più scorbutico degli Hope non poteva assolutamente correre il rischio che qualcun'altro a parte lui scoprisse la verità. A quel punto gli Hope sarebbero stati distrutti completamente. Da figlio però non faceva che pensare alla creatura nel grembo di Marika e al fatto che pur senza colpe, sarebbe cresciuta lontana da suo padre. Un padre che a differenza del suo non sapeva nulla di lei e che sicuramente l’avrebbe amata con tutto il suo cuore. Quella gli sembrò una vera ingiustizia. 

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Capitolo 39
*** FINALMENTE LA VERITA' ***


CAPITOLO 39
FINALMENTE LA VERITA’

                                  
 
Cina
Jona era appena atterrato. Tra le mani il biglietto che Rio gli aveva dato. Non conosceva molto bene il cinese quindi in realtà non sapeva neanche cosa Rio avesse scritto. L’unica cosa certa era che lì segnato c’era il luogo in cui si trovava suo padre. Senza perder tempo recuperò il suo bagaglio a mano e raggiunse l’esterno dell’aeroporto, poi entrò in un taxi mostrando all’autista il foglietto tra le sue mani. In inglese gli chiese di condurlo in quel posto. Grazie al cielo Rio aveva provveduto al cambio valuta, quindi almeno per muoversi Jona non avrebbe avuto problemi. Dopo una decina di minuti l’uomo alla guida arrestò la sua corsa indicando a Jona il tassametro. Il ragazzo senza esitare pagò il conducente poi, preso il proprio bagaglio, scese dalla vettura.
Davanti ai suoi occhi si ergeva una imponente struttura ospedaliera dall’aspetto quasi futuristico. Preoccupato che lì non avrebbe scoperto nulla di buono iniziò a incamminarsi verso di essa.
All’ingresso due donne lo accolsero con un sorriso smagliante e anche abbastanza fuori luogo, considerando che quello non era proprio un posto di villeggiatura. Jona non perse tempo e chiese loro di poter far visita al compositore Hiro. Le due abbandonarono le loro espressioni raggianti e iniziarono a farfugliare qualcosa tra loro. Sembravano preoccupate o comunque non preparate a ricevere visite per quel paziente. Jona iniziava a nutrire il presentimento che presto avrebbe dovuto fare i conti con una realtà tremenda.
Una delle due gli chiese un documento di riconoscimento. Jona estrasse il passaporto e glielo porse. Dopo una rapida occhiata entrambe le ragazze ripresero a parlare tra loro. Quell'atteggiamento stava spazientendo Jona, tanto che ormai, persa la pazienza, stava per intervenire e interromperle. Ma fu una mano poggiata sulla sua spalla sinistra a trattenerlo dal farlo. Istintivamente si volse alle sue spalle e ad accoglierlo trovò sua madre. Aveva i capelli biondi raccolti in una coda arrangiata e gli occhi scavati e rossi di pianto. Non sembrava esserci più traccia della splendida attrice che era stata. Jona esitò come davanti a un estraneo. Quella per un attimo non le sembrò neanche più sua madre. Era dimagrita di molto e il suo colorito non dava a vedere nulla di buono. Sembrava più simile a un fantasma che ad un essere umano. Jona rimase immobile, quasi senza parole per qualche secondo impietrito da quella visione. 
«Rio mi ha chiamato pochi minuti fa… quell’uomo non è mai stato bravo a darmi retta. Non volevo vedessi questo Jona» esordì accogliendo con una voce sottile suo figlio.
«Mamma perché siamo qui? È successo qualcosa a papà?». La donna prese per mano suo figlio spronandolo a prendere posto su un divano nella sala d’attesa, poi fece segno alle due donne alla reception che era tutto ok.
«Jona, perdonami» esordì con le lacrime agli occhi, una volta accomodatasi accanto a suo figlio scosse la testa. Jona era sconcertato e preoccupato allo stesso tempo.
«Mamma raccontami cosa sta succedendo…». Misako prese tra le sue le mani di suo figlio. Rimase lì in silenzio a rimirarle per un tempo che Jona non riuscì a calcolare con precisione, poi riprese la parola.
«Jona sono anni che tuo padre combatte contro questo demone. Lo conosci, lui è un tipo orgoglioso, avrebbe preferito morire seduta stante che farsi vedere sofferente da te. Perdonaci se per mesi interi siamo spariti, ma se lo abbiamo fatto è stato per cercare di combattere e vincere questa battaglia e non volevamo che tu ne fossi coinvolto». Misako accarezzò il viso di Jona con sincero rammarico.
«Figlio mio per noi sei sempre stato il dono più prezioso che la vita ci avesse offerto, ma a causa della malattia di tuo padre siamo stati costretti a tenerti a distanza e a non essere i genitori che avresti e avremmo voluto essere. Ci siamo persi così tante cose… Forse anche sbagliando abbiamo cercato di proteggerti dalla sofferenza e dal dolore. Ormai, però, sei grande abbastanza per conoscere la verità. Ahimè non sei più un bambino. Adesso sei un uomo.» detto questo la donna si asciugò una lacrima dal viso tornando a confrontarsi con gli occhi scuri e profondi di suo figlio.
«Non condannare troppo duramente tuo padre. È stato lui a chiedermi di non dirti nulla della sua malattia. Non voleva che tu lo ricordassi in questo modo…» senza concludere la donna scoppiò a piangere tra le braccia di suo figlio.
«Mamma, calmati… vedrai che andrà tutto bene…» disse cercando di rincuorarla. Misako a stento tratteneva le lacrime.
«Perdonami, dovrei essere più forte ma non ci riesco…». Jona strinse a sé sua madre ancora una volta con maggior forza.
«Portami da lui..» Misako riprese le distanze da suo figlio.
«Jona, tuo padre non è più lo stesso. Andrà davvero bene per te vederlo in queste condizioni?» Jona acconsentì con fermezza.
«È mio padre dopotutto. E io sono suo figlio… mi sentirei peggio se scappassi come un vigliacco» Misako acconsentì. Preso sotto braccio suo figlio lo spronò a seguirlo. Erano appena arrivati al piano in cui si trovava la stanza di Hiro. Dopo aver abbandonato la sua valigia sul pavimento davanti la porta dietro cui si trovava suo padre, Jona sciolse la presa dal braccio rassicurante di sua madre.
«Jona, puoi ancora tirarti indietro… nessuno ti obbliga…». Jona senza sapere da dove stesse trovando quella forza, riuscì a sorridere a sua madre.
«Mamma perdonami, ho sempre creduto che foste dei pessimi genitori… vi ho sempre rimproverato tante cose… E invece adesso ho appena scoperto che non avrei potuto avere genitori migliori di voi. Grazie per avermi fatto vivere spensieratamente per tutti questi anni, grazie per esservi presi cura di me anche se non avevo capito che proprio standomi lontano voi lo stavate facendo. Grazie; ma adesso è arrivato il mio turno. Siete la mia famiglia e una famiglia non scappa nel momento del bisogno…» dopo aver sorriso un’ultima volta a sua madre Jona trovò la forza per aprire quella porta. Una volta spalancata la stessa, in quella stanza asettica in un letto bianco e sterile intravide suo padre. Jona rimase immobile. L’uomo su quel materasso si voltò verso di lui con sguardo vuoto e spento. Jona se ne sentì trapassare quasi come se fosse divenuto ai suoi occhi invisibile come un fantasma. Alle braccia Hiro aveva flebo sparse e grossi ematomi. I capelli neri e lunghi che un tempo gli incorniciavano il viso erano stati rasati e adesso intorno al capo era rimasta solo un’ampia e bianca fasciatura. Jona intuì che dovevano essere state le chemio a ridurre suo padre in quello stato.
Il viso era scavato e pallido.    Sua madre lo raggiunse alle spalle e con una mano sulla sua spalla lo spronò a muoversi verso quel letto al centro della stanza. Jona avvertì la mano di sua madre fare pressione sulle sue esili spalle, ma nonostante quel gesto premuroso il suo corpo non riuscì a spostarsi di un solo centimetro. Senza forzarlo oltre Misako lo lasciò all'ingresso, da solo, mentre raggiungeva suo marito che continuava a fissare nella direzione di Jona come sovrappensiero.
«Amore, vedi chi è venuto? Lo riconosci? È tuo figlio Jona» provò a spiegarli parlandogli premurosamente. Nonostante questo l’uomo rimase impassibile.
 Jona retrocedette di un passo.
“Cosa significa tutto questo? Non può essere… ”
In quel momento Jona si sentì catapultato in un’altra vita, una vita che non era la sua. Era come svegliarsi una mattina e ritrovarsi nel corpo di un altro. Fino a quel momento lui era stato il figlio viziato di una nota e bellissima attrice di fama mondiale e di un rispettabile e famoso compositore. Ma adesso chi erano quelle persone? Non c’era più nulla di rispettabile e fiero nell’uomo steso su quel letto, così come non c’era più nulla di invidiabile nel viso scarno e spento di sua madre.
La donna notando lo sguardo terrorizzato di suo figlio provò a chiamarlo.
«Jona…» ma a quel nome il ragazzo non ce la fece più, correndo scappò via da quella stanza. Pensava che sarebbe stato forte, che sarebbe riuscito a gestire qualsiasi situazione vi avrebbe trovato all’interno, ma qualcosa dentro di lui  in quella stanza e in quel momento era andata persa per sempre. Vedere la sua famiglia distrutta gli aveva dilaniato il cuore. Corse fino a raggiungere i bagni. Corse a chiudersi dentro uno degli spazi riservati ai water. Seduto su di esso iniziò a piangere disperatamente, tenendosi il viso tra le mani.
“Perché proprio lui? Signore, perché dovevi strapparmelo via in questo modo? Ho ancora così tante cose da dirgli, tanti consigli da chiedergli e tante domande da fargli! Perché lo hai ridotto in questo stato? Perché?”.
 
Tokyo
Kei era appena rientrato al dormitorio tra le mani una bottiglia di liquore. Per quella sera pensò di potersela permettere. La sua testa era piena di troppi pensieri e di troppi amari ricordi. Ricordi che avrebbe cancellato molto volentieri dalla sua mente. Accasciatosi al pavimento del corridoio vicino la porta dell’appartamento del gruppo, aprì la bottiglia ormai mezza vuota. Tutto d’un sorso buttò giù quello che ne rimaneva di quel liquido brunastro.
A dilaniarlo era un terribile dubbio. Nella tasca del suo cappotto quella lettera premeva incessantemente su i suoi sensi di colpa. Custodire quel segreto era davvero la cosa giusta da fare? Nonostante tutto quello che era successo alla fine Roberto era diventato una persona meritevole della sua onestà. Kei era convinto che da solo non sarebbe riuscito a mentirgli per molto tempo. Non era nella sua indole nascondere la verità, soprattutto se carica di ingiustizie come quella. Esasperato sospirò reclinando il capo all’indietro fissando il soffitto con la testa leggera e il cuore pesante.
Tra i tanti problemi da risolvere nella sua vita ci mancava solo quella lettera. Da figlio sentiva che la cosa giusta era dire tutta la verità a Roberto, ma allo stesso tempo rispettava Marika e la sua coraggiosa decisione. Inoltre c’era il gruppo da tutelare. Considerando quello che era successo con il ritiro di Take, non gli sembrava proprio il momento giusto per sganciare una bomba di quella portata. Inoltre anche lui si era messo in gioco completamente firmando quel contratto nello studio di Rio. Se il gruppo fosse scoppiato avrebbe sicuramente perso ogni possibilità di recuperare la casa che una volta era stata di Akiko, Yuki, Shin e anche la sua. No, non poteva permetterselo. Eppure nonostante tutti questi validi motivi una parte di lui non riusciva a ignorare il fatto che una bambina innocente sarebbe cresciuta lontano dal suo vero padre. Per lui che era cresciuto come un bambino abbandonato, sapere che qualcun altro avrebbe dovuto convivere con una colpa simile per causa sua lo faceva sentire un vero schifo. Più ci pensa e più non riusciva ad accettarlo soprattutto perché a differenza di suo padre Roberto avrebbe amato quella bambina con tutto se stesso. Di questo Kei era certo. E sottrarre a un uomo il diritto di essere padre e a una bambina il diritto di essere sua figlia non gli sembrava poi così giusto. 
E poi c’era Nami. Non sapeva se era gusto condividere con lei quello che aveva scoperto.  Prima o poi come aveva promesso a Marika avrebbe dato quella lettera a Roberto e a quel punto cosa ne sarebbe stato della sua amica? Kei non voleva che soffrisse ancora per colpa sua. Era già troppo quello che aveva dovuto subire fino a quel momento.
“Anche se Roberto alla fine di questa storia scegliesse Nami non sarebbe per amore. E se non una volta letta la verità in quella lettera dovesse decidere di lasciarla per tornare da Marika?” Kei scosse la testa. Non poteva accettare che accadesse una cosa simile. Non poteva permettere che la sua amica soffrisse ancora per un amore non ricambiato.
 
Nel suo appartamento la giovane modella della Kings Record aveva passato la serata a piangere ignara di quello che era successo agli Hope e a Roberto. Piangendo aveva finito con l’addormentarsi sul divano dell’ingresso.
Quella sera aveva preso la sua decisione. Era stanca di rincorrere amori impossibili. Roberto non sarebbe mai stato suo come non sarebbe mai stato suo Kei. Pensando questo alla fine era crollata.
Con la testa leggera e il cuore pesante Kei barcollò fino alla porta dell’appartamento di Nami. L’alcol in circolo nel suo corpo stava iniziando a fare il suo effetto. I pensieri che si affollavano nella sua mente iniziarono a diradarsi come una fitta nebbia che scopare gradualmente con il sorgere del sole. In quel momento gli sembrò tutto chiaro, come non lo era mai stato prima.
Perché dopo tutto quello che era successo si trovava ancora una volta davanti a quella porta? Perché tra tutte le persone era corso da lei?
La verità era che il forte e orgoglioso Kei stava cedendo. Finalmente stava capendo che nessuno può farcela da solo. Da soli non si arriva da nessuna parte e una parte di lui era stanca di andare avanti in quel modo. Aveva bisogno di qualcuno al suo fianco che gli dicesse che sarebbe andato tutto bene. Che il gruppo si sarebbe riunito. Che sarebbe riuscito a guadagnare abbastanza per ricomprare quella casa. Che sarebbe riuscito a recuperare quel diario dal pianoforte di Akiko in modo da ridare a Shin gli ultimi ricordi di sua madre. Che stare in silenzio e custodire quella lettera era la scelta più giusta. Questo avrebbe voluto sentirsi dire. Ma non da una persona qualunque ma da lei. Perché lei era l’unica donna che ancora non lo aveva abbandonato. Che nonostante tutto Kei sentiva ci sarebbe stata. L’unica di cui ancora riuscisse a fidarsi. L’unica che conoscesse il suo lato peggiore e che nonostante questo l’avesse amato.  L’unica che lui avrebbe protetto per sempre. 
Con la vista annebbiata Kei bussò un paio di volte senza successo. Dopo la quarta volta qualcuno andò ad aprirgli. Davanti alla sua vista annebbiata si materializzò Nami in un vestito lungo da sera tutto stropicciato. Lo stesso vestito con il quale poche ore prima era scappata via dalla Kings Record.
«Finalmente!» esordì barcollando. Nami corrucciò le sopracciglia. Poi avvicinandosi a Kei ne odorò l’alito.
«Ma sei ubriaco!» lo riprese portandosi due dita alle narici indignata.
«Si, sono ubriaco e allora?» proseguì Kei entrando di prepotenza nell’appartamento mentre stringeva ancora in una delle sue mani la bottiglia vuota di liquore.
Nami senza perderlo di vista chiuse la porta e lo raggiunse in cucina. Lì lo trovò appoggiato con la testa nel lavandino.
«Oh… no… non vomiterai li dentro caro mio…» disse cercando di tirarlo su. Ma Kei si sollevò e con uno scatto fulmineo immobilizzò Nami vicino la cucina. I loro due visi erano vicinissimi. Nami avvertiva chiaro e pungente l’odore di alcol uscire dalla bocca del suo amico.
«Si può sapere cosa ti è successo? Ti rendi conto che sono quasi le tre di notte?»
«Guardami bene» disse indicandole il proprio viso con l’indice della mano destra, «questo è l’uomo miserabile che sono diventato. Un uomo capace di nascondere la verità a un suo amico solo per interesse personale, che non è stato capace di ricambiare i sentimenti di chi lo amava e che non è capace di fare nulla per la sua famiglia… sono un vero perdente…». Disse con gli occhi lucidi. Nami sospirò addolcendo il tono della sua voce. Con una mano gli sfiorò il viso.
«Io non vedo un perdente. Io vedo solo un ragazzo che è dovuto diventare uomo troppo velocemente, che farebbe l’impossibile per la sua famiglia anche rinunciare ai suoi sentimenti. Che non abbandonerebbe mai i suoi amici. Vedo un ragazzo che semplicemente ha sempre pensato di essere abbastanza forte per poter reggere tutto da solo quando alla fine non è così». Kei chiuse i suoi occhi abbandonandosi a quel tocco leggero sul suo viso. Una lacrima gli scese in quel momento bagnando la mano che Nami gli teneva vicino la guancia sinistra. La stessa pensò che per quante volte Kei aveva asciugato le sue lacrime era arrivato finalmente il momento per lei di fare altrettanto. Non sapeva perché Kei stesse dicendo quelle cose ma sapeva che doveva stargli vicino. Kei reclinando il capo poggiò la fronte sulla spalla di Nami. Lei lo abbracciò e lui ricambiò.
«Nami… io… credo di aver bisogno di aiuto…  e non so a chi altro chiederlo se non a te».
Il ragazzo che non aveva mai chiesto l’aiuto di nessuno adesso aveva abbassato le sue difese.
Nami con dolcezza si staccò da Kei e, recuperata la bottiglia vuota dalle mani dell’amico, l’adagiò sul piano della cucina, poi lo prese per mano accompagnandolo fino alla sua camera da letto. Con cautela lo fece accomodare sul suo letto. Kei aveva la testa che gli girava e cosi il suo corpo si mosse in piena autonomia. Come un sasso crollò disteso sul letto di Nami. La stessa poco dopo gli sollevò i piedi e lo sistemò per bene sul proprio letto. Poi gli slacciò le scarpe, prese una coperta e gliela adagiò su rimboccandogliela.
“Povero Kei… deve essere successo qualcosa di grave… non è da lui ubriacarsi… anzi, ora che ci penso, è la prima volta che succede”.Stava per allontanarsi quando Kei la trattenne per un polso tirandola verso di sé. Nami perse l’equilibrio e finì sul letto tra le sue braccia.
«Dove credi di andare?»
«Vado a dormire sul divano…» gli rispose lei cercando di sollevarsi ma Kei la trattenne ancora una volta.
«Resta… non voglio rimanere solo…».
«Ma sei impazzito?».
«Ti prego».
Rassegnata Nami sospirò, «d’accordo resto, ma solo finché non ti addormenti» lo accontentò Nami. Il ragazzo con il ciuffo solo allora allentò la presa su di lei rasserenandosi.
In quel momento Kei pensò a suo fratello Shin. Aveva ragione: era una vera fortuna avere qualcuno pronto a condividere il letto con te quando il mondo ti fa paura.
I due si addormentarono stretti l’uno all’altro.
 
Il mattino dopo arrivò un po’ per tutti. Roberto era nel suo letto. Non aveva chiuso occhio. Non riusciva ancora a rassegnarsi all’idea di aver perso per sempre il suo primo amore. Il suo sguardo si volse all’altro letto vuoto della stanza. Avrebbe voluto avere qualcuno con cui parlare, ma Jona era partito per la Cina e sua sorella era ritornata in Italia e adesso non gli restavano più molte persone con cui parlare di quello che era successo. È vero, c’era Kei, ma per via di Nami Roberto pensò non fosse una buona cosa parlare con lui. Controvoglia si sollevò mettendosi seduto. Inaspettatamente avvertì un odore famigliare provenire dalla cucina. Trascinandosi di malavoglia prima fuori dal suo letto e dopo anche dalla sua stanza, raggiunse la cucina.
Di spalle vide qualcuno maneggiare vicino ai fornelli. Aveva un ché di famigliare. Poi finalmente quella sagoma indefinita ai suoi occhi stanchi si voltò con una caffettiera fumante nella mano destra e un sottopentola nella sinistra.
«Mamma?».
«Ero sicura che l’odore del mio caffè ti avrebbe tirato fuori dal letto» accolse suo figlio Mary in un grembiulino bianco e candido poggiando il sottopentola sul tavolo e subito dopo anche la caffettiera su di esso.
«Si può sapere cosa ci fai qui?» le chiese Roberto con aria perplessa avvicinandosi a lei.
«È questo il modo di accogliere qualcuno che si è fatto quasi dodici ore di volo per raggiungerti?». Roberto prese posto vicino al tavolo insieme a sua madre che versava il caffè in due tazzine bianche.
«Non era mia intenzione accoglierti in questo modo, ma vederti in questo posto pensavo sarebbe stata l’ultima cosa che sarebbe successa… immaginavo saresti stata impegnata con le tue mostre almeno fino a Natale».
«Beh, mi mancava mio figlio, quindi ho lasciato tutto e sono venuta prima. Ma se ti dispiace che sia qui posso anche andar via…» proseguì Mary provocando suo figlio.
«Non era quello che intendevo e tu lo sai…» la riprese Roberto messo alle strette. Dopo quello che era successo non sapeva come comportarsi con la donna che aveva davanti. L’ultima volta che si erano visti era stato il giorno del funerale di Salvatore e in quell’occasione lui le aveva rivolto delle parole molto dure. Anche se erano state dettate dal dolore del momento Roberto non riusciva ancora a perdonarsi per avergliele dette.
«Senti mamma… per quello che ti ho detto prima di partire…» Mary lo interruppe porgendogli una delle due tazzine di caffè.
«Non avevi tutti i torti quando mi hai rimproverato. Dopotutto sono consapevole di essere stata una mamma assente… Mi dispiace per questo…»
«Beh, adesso sei qui» le sorrise Roberto. Mary ricambiò grata quel sorriso di suo figlio.
«Se devo essere sincera non sono venuta solo per scusarmi di non essere stata una brava mamma… sono venuta perché ho saputo un po’ di cose da Marco ed ero in pensiero per te.»
Il viso di Roberto si rabbuiò nuovamente.
«Stai parlando di Marika…?» avanzò non molto contento di sollevare quell’argomento con sua madre.
Mary strinse nella sua la mano di suo figlio.
«Con me puoi parlarne…»
«Mamma… credo che papà avesse ragione… per entrare in questo mondo alla fine è davvero inevitabile pagare un prezzo…».
«Rob, non ascoltare tuo padre. Ognuno di noi parla sulla scorta delle proprie esperienze e tuo padre non ne ha vissute di molte felici in questo mondo, ma questo non vuol dire che con te sarà lo stesso. Il mondo dello spettacolo non è più quello di una volta e voi ragazzi avete un potere immenso tra le mani. Nei vostri occhi posso leggere un coraggio, una forza e una tenacia da vendere. E sono convinta che solo volendolo sareste capaci di cambiarlo».
«Ne ero convinto anche io all’inizio, ma adesso non ne sono più così sicuro…».
Mary staccò la sua mano da quella di suo figlio. Una volta in piedi raccolse una custodia nera dal pavimento. Poi gliela porse. Roberto capì subito quale ne fosse il contenuto.
«Questa te la manda tuo padre» gli spiegò alla fine. Roberto l’aprì. Era una chitarra classica.
«Cosa significa?»
«Tuo padre non è una persona capace di esprimere a parole tutto quello che pensa. Ha sempre preferito alle parole gesti eclatanti…» asserì Mary ripensando al passato.
«E cosa centra questa chitarra con quello che non mi ha mai detto papà?»
«Questa chitarra era la stessa che tua nonna Lucia usava per esercitarsi con il bisnonno Salvatore quando aveva più o meno la tua età. Tempo fa fu proprio lui a donarmela in modo che io potessi restituirla a tuo padre. È stato grazie a questa chitarra che tuo padre ha ritrovato i tuoi bisnonni e parte di quel passato che aveva perso durante il cammino. E fu proprio con questa chitarra che compose la canzone che mi riportò a lui quando sembrava essere arrivata la fine della nostra storia… Per molto tempo ha custodito gelosamente questo strumento. Poco prima che partissi per raggiungerti mi ha detto di dartela. Anche se tuo padre non lo ha mai detto apertamente è sempre stato fiero di te e di tua sorella. A trattenerlo da dirvelo è stata la paura. La paura di perdervi, la stessa paura che abbiamo vissuto quando eravate molto piccoli e che non ci ha mai abbandonato…»
Roberto adagiò la chitarra vicino la gamba del tavolo.
«Cosa è successo quando eravamo piccoli?» chiese a sua madre.
Mary si fece seria.
«Tuo padre e io abbiamo rischiato di perdere ciò che di più prezioso avevamo al mondo. Voi due. I nostri due bambini. All’epoca eravate molto piccoli. È normale che non ricordiate molto di quello che successe. Non te la porterò molto per le lunghe. Eravamo qui in Giappone, tuo padre aveva da poco ripreso la sua carriera da cantante e la cosa come puoi ben immaginare, accese subito la stampa di ceco interesse. Cosi un giorno eravamo in macchina tutti e quattro. Alla guida c’era tuo padre. Alcuni giornalisti iniziarono a seguirci perché volevano a tutti i costi una foto dei figli del famoso leader dei BB5. Tuo padre fece di tutto per seminarli ma questi non facevano che aumentare. Pioveva e nel tentativo di proteggervi prendemmo una strada secondaria. Insomma per poco non uscimmo fuori strada per colpa di uno di quei giornalisti che ci tagliò la strada. Fu un grosso spavento. Tuo padre da quel momento prese la decisione di rinunciare alla musica per proteggerci. Non credere sia stato facile per lui prendere quella decisione una seconda volta… ».
Roberto iniziava a capire finalmente le parole che suo padre gli aveva rivolto l’ultima volta che lo aveva visto.
«Seconda volta?» ribadì Roberto incuriosito.
«Si, la prima volta ha rinunciato alla musica per non perdere me e la seconda volta lo ha fatto per non perdere i suoi due figli… Roberto se tuo padre mi ha chiesto di darti questa chitarra è perché crede in te proprio come ci credo io. Entrambi siamo fieri di quello che stai facendo qui in Giappone e siamo convinti che tu abbia le capacità giuste per poter cambiare le cose. Non arrenderti».
«Mamma, Marika è incinta e sta per sposarsi… ormai è troppo tardi» aggiunse Roberto afflitto.
«Non è mai troppo tardi… » gli ammiccò complice sua madre.
«E con questa chitarra cosa dovrei farci?» chiese incerto Roberto rigirandosi la custodia tra le mani.
«Componi la tua canzone per lei…  Con me funzionò. Chissà, può essere che questa chitarra sia destinata a riunire le persone… tentare non costa nulla, giusto?»
«D’accordo, ci proverò» gli sorrise grato Roberto.
 
Italia
Clara era finalmente tornata a casa. Il silenzio che vi trovò all’interno la disorientò. Rispetto alle stanze caotiche e ricche di risate innocenti dell’orfanotrofio, quel luogo era silenzioso in modo quasi deprimente. Sospirando depose il trolley sul pavimento.
«C’è nessuno?» chiese per sicurezza dando un’occhiata rapida nelle imminenti vicinanze. Nessuno le rispose. Suo padre doveva essere andato al negozio. A quel punto recuperò una sedia. Una volta preso posto vicino al tavolo della cucina prese il proprio cellulare dalla tasca dei jeans. Per prima cosa avvisò sua madre e suo padre che era arrivata sana e salva in Italia e poi mandò un messaggio a Luca. Durante tutto il viaggio non aveva fatto altro che leggere e rileggere il finale del suo racconto e più lo leggeva e più non la convinceva. Non sapeva se la giovane principessa guerriera avrebbe scelto l’amico scudiero o l’affascinante e splendente cavaliere.
Per scoprirlo sentiva che doveva incontrare Luca. Solo dopo avrebbe potuto scoprire quale sarebbe stato il finale della sua storia.
Il messaggio di risposta arrivò all’istante.
 
Da Luca:
Ci vediamo tra un’ora al solito bar.
P.s.
Sono contento che tu sia tornata. Devo parlarti.
 
Clara depositati i bagagli nella sua stanza raccolse la borsa e uscì.
 
Eichi era al negozio che sistemava una chitarra accordandola alla meglio. Era lì che maneggiava con le cinque corde quando due mani lisce e delicate gli ostruirono la visuale.
«Indovina chi è tornata?»quella voce l’avrebbe riconosciuta tra mille.
«Clara!» concluse euforico girandosi alle sue spalle e abbracciando sua figlia sollevandola di colpo dal pavimento.
«Papà così mi stritoli». A quelle parole Eichi la riportò con i piedi sul pavimento.
«Perdonami se non sono potuto venire a prenderti dall’aeroporto ma ormai avendo lasciato il mio lavoro al conservatorio non ci resta che questo negozio e non posso proprio permettermi di chiudere un solo giorno….».
«Non preoccuparti papà» lo rassicurò Clara prendendo posto su uno sgabello vicino la cassa.
Eichi la raggiunse posizionandosi dietro il bancone.
«Beh, raccontami un po’. Come se la sta cavando tuo fratello? Rio mi ha detto di Take…».
«Cosa è successo a Take?» gli chiese sorpresa sua figlia.
«Non dirmi che non ti hanno detto nulla!» si sorprese Eichi.
«No, non so nulla…»
«Take a quanto pare ha deciso di lasciare il gruppo… »
Clara non poteva credere alle sue orecchie.
«Ma come ha potuto?»
«Purtroppo alle volte accade… spero solo che i ragazzi non si abbattano e reagiscano».
Clara prese a mordicchiarsi le unghie nervosamente.
“Toshi sarà fuori di sé in questo momento… probabilmente si starà dando la colpa di tutto… chissà se… ma perché sto pensando a lui? L’intero gruppo starà in piena crisi… perché mi preoccupo solo di lui? ”
Fu proprio sull’onda di quei pensieri che Eichi richiamò l’attenzione di sua figlia su un atro argomento.
«Comunque non preoccuparti, tua madre è andata da tuo fratello e vedrai che le cose si sistemeranno. Piuttosto parliamo di te. Hai scritto qualcosa di interessante mentre eri in Giappone?».
Clara si rabbuiò mentre tornava con gli occhi su suo padre.
«Si, ma non sono convinta del finale… ho scritto di getto senza pensare ai sentimenti dei personaggi e adesso un po’ me ne pento. Scrivevo pensando a quale sarebbe stato il finale che avrebbero gradito i lettori senza però pensare che quello non era un finale giusto per i miei personaggi…»
«Non so come funziona nei libri, ma nella realtà i finali alle volte si scrivono da soli… e spesso non vanno come speravamo sarebbero andati… Ciononostante ricorda, non si può vivere sempre accontentando le aspettative di chi ci sta intorno, certe volte bisogna trovare la forza di trasgredire per sentirsi realizzati e questa cosa me l’ha insegnata tuo fratello. Se pensi che il finale giusto sia un altro non farti influenzare da quello che potrebbero pensare i tuoi lettori. Scrivi il finale che desideri. Sono sicuro che andrà benissimo in ogni caso. L’importante non è come finisce una storia ma come si scrive quel finale e sono convinto che qualsiasi sarà la fine del tuo racconto sarai capace in ogni caso di renderla meravigliosa usando le tue capacità. In questo hai preso da me» asserì sorridendo a sua figlia.
Suo padre aveva ragione. Clara durante il volo non aveva fatto altro che ripensare a quel momento in aeroporto con Toshi. Era quello il finale giusto per lei? Sarebbe dovuta davvero finire così. Con lei che andava via da lui?
Con un raggiante sorriso abbracciò suo padre, «grazie papà! Credo di aver appena deciso quale sarà il finale della mia storia» concluse sciogliendo quel caldo contatto.
«Beh, allora, che cosa stai aspettando? Corri a scriverlo!» Clara saltò giù dallo sgabello.
«Hai ragione, sto proprio andando a riscriverlo in questo momento. Grazie papà.» Detto questo Clara corse al suo appuntamento con Luca. Aveva scelto il suo finale. Infondo il suo cuore già lo conosceva, aveva solo bisogno di una spinta in più per rendersene conto.
Luca era seduto allo stesso tavolino tondo dell’ultima volta. Come quel giorno sfoggiava un abbigliamento impeccabile. I capelli biondi gli raggiungevano ancora le spalle. Stava fumando una sigaretta nell’attesa che Clara lo raggiungesse, quando la stessa lo notò attraverso la vetrata del bar. Senza esitare entrò.
Quando lo raggiunse Luca si sollevò per salutarla, ma Clara gli fece segno di risedersi. Stranito decise di assecondarla.
«Prima che inizi,  ho bisogno di parlarti…» iniziò Clara senza permettere all’altro di aprir bocca.
«Come desideri…» l’assecondò il ragazzo seduto davanti a lei spegnendo il mozzicone di sigaretta nel portacenere.
«Luca devi sapere che mentre ero in Giappone sono successe molte cose. Ho ripreso a scrivere i miei racconti, e se ci sono riuscita devo tutto a una persona che adesso occupa un posto importante nel mio cuore. All’inizio non avevo capito i miei sentimenti, ma adesso so che è lui la persona che amo. Per questo io non credo di poter ricambiare i tuoi sentimenti. Mi dispiace.»
Luca le sorrise divertito.
“Perché sta ridendo?”
«Credo ci sia stato un equivoco…» la riprese sporgendosi nella sua direzione, «non è il tuo cuore che mi interessa, ma la tua abilità di scrittrice.»
«Cosa?» Clara non capiva cosa volesse dirgli.
«Non dirmi che non hai fatto caso al logo sul mio bigliettino da visita». Clara svelta lo tirò fuori dalla borsa. In alto era riportato il logo di una nota casa editrice.
«Cosa significa?» gli chiese perplessa.
Il ragazzo tornò a rilassarsi sulla sedia.
«Io e il tuo bisnonno ci conoscevamo da molto tempo, lui e mio padre erano molto amici. Un giorno mi raccontò di avere una nipote con un talento straordinario nella scrittura. Mi raccomandò di passare un giorno dal suo negozio per conoscerla. Voleva che leggessi qualcosa di tuo…»
Clara non poteva credere alle sue orecchie.
«Quindi quando alludevi al fatto che saresti tornato al negozio perché c’era qualcos’altro che ti interessava ti stavi riferendo ai miei manoscritti?».
Lui acconsentì con un movimento della testa. Clara non poteva credere di essersi immaginata tutto nella sua testa. No, non poteva essere stato solo frutto della sua immaginazione.
«Se ti interessavano solo quelli, perché all’aeroporto mi hai baciata sulla fronte?»
«Perdonami, credo sia stato solo un tiro mancino. Speravo che lasciandoti in quel modo ti avrei spinto a tornare il prima possibile in Italia. Alle volte mi capita di utilizzare il mio fascino nelle contrattazioni. Mi dispiace averti illusa, ma stando a quanto mi hai appena detto alla fine sembra non sia merito mio il tuo ritorno».
«Vuoi dirmi che è stata tutta una strategia per spingermi a tornare il prima possibile qui?»
«Si, mi dispiace…».
Clara era fuori di sé dalla rabbia. Luca non aveva fatto altro che prenderla in giro. A Clara non importava più che quel ragazzo fosse qualcuno di importante all’interno di una casa editrice famosa. Si era preso gioco di lei e questo non poteva perdonarglielo. Se solo pensava che a causa sua stava quasi per rinunciare a Toshi…
«Spero ti sia divertito a prenderti gioco di me…»
Senza esitare oltre Clara si sollevò dalla seduta vicino quel tavolino.
«Aspetta» la trattenne il ragazzo bloccandola per un polso.
Clara si divincolò furiosa.
«Cos’altro vuoi?»
«So che non abbiamo iniziato nel verso giusto, ma se ho fatto quello che ho fatto è stato solo per assecondare un desiderio di Salvatore. Lui voleva vederti realizzata come scrittrice e voglio provare ad accontentare questo suo ultimo desiderio. Alla fin fine ti ho aspettato per tutto questo tempo… concedimi almeno una possibilità per farmi perdonare…»
Clara esitò incerta.
«Perché mai dovrei?»
«Se non per me potresti farlo per il tuo bisnonno. Dopotutto lui si fidava di me potresti provare a farlo anche tu?»
Clara tornò a sedersi.
«Ebbene, per quanto detesti ammetterlo, se il mio bisnonno ha chiesto il tuo aiuto ci deve essere stato un motivo. Ma ci tengo a precisare che è del suo giudizio che mi sto fidando in questo momento, non di te.»
«Mi va bene anche così. In ogni caso, poco fa avevi detto di aver ripreso a scrivere… hai qualcosa da farmi leggere? Ovviamente sarò onesto. Se non mi piacerà quello che leggerò te lo dirò. Non ti pubblicherò solo per gentilezza. Ma se vorrai potrai accettare umilmente i miei consigli in ogni caso».
«Non preoccuparti, ci sono un milione di case editrici oltre la tua. Non mi fermerò di certo a te… ».
Il ragazzo acconsentì.
Senza esitare Clara tirò fuori il racconto che aveva scritto in Giappone.
«Ecco, appena lo avrai finito fammi sapere… non ho molto tempo da perdere… E non pensare di fare strani giochetti. Ho già depositato i diritti».
«Non temere mi farò sentire una volta completato».
Senza aggiungere altro Clara uscì dal bar.
Luca aveva tra le mani la busta sigillata con il manoscritto di Clara.
“Mi dispiace Clara, ho dovuto mentirti, la verità è che in amore non mi piace recitare la parte del perdente. Beh, poco male, se non potrò avere te, mi consolerò prendendo per me la tua storia…”.

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Capitolo 40
*** NULLA È MAI PERSO DAVVERO ***


CAPITOLO 40
NULLA È MAI PERSO DAVVERO


Giappone
 
Erano arrivate le otto di mattina quando Kei, avvolto da una calda coperta che gli solleticava il mento, provò ad aprire i suoi occhi. Si sentiva le palpebre pesantissime e la testa gli faceva un male atroce. L’alcool non lo aveva mai retto benissimo. Provò almeno a sollevarsi ma si rese conto di avere il braccio sinistro bloccato. Con uno sforzo sovraumano aprì i suoi occhi gonfi e stanchi e notò Nami che dormiva appoggiata a lui. Faceva dei respiri brevi e misurati, sul viso ancora qualche residuo del trucco della sera prima. Kei allora ritornò al suo posto il più delicatamente possibile in modo da muoverla il meno che poteva. Con la mano libera le scostò un ciuffo di capelli dal viso. Era bellissima. Si ritrovò a pensare che fino a quel momento, non aveva diviso il suo letto con nessun’altro se non che con Shin. Svegliarsi e scoprire Nami al suo fianco lo rese stranamente felice. Era così bello guardarla mentre dormiva tra le sue braccia che, quasi senza volerlo, Kei iniziò a sorridere. Poi come un fulmine a ciel sereno i ricordi legati alla sera precedente tornarono a tormentargli l’anima. Il suo sorriso si ritirò e al suo posto si fece spazio uno sguardo cupo e preoccupato. 
“Cosa dovrei fare? Dovrei davvero dire almeno a te la verità?”
Pensò osservando Nami al suo fianco.  Dopo poco, la stessa iniziò a stiracchiarsi facendo degli strani lamenti, e con il braccio sinistro avvolse il busto di Kei affondando il proprio viso nel suo petto. Il ragazzo rimase immobile mentre lei si avvinghiava a lui. Il profumo dolce di Nami gli penetrò le narici. Dopo un primo istante di imbarazzo anche Kei ricambiò la stretta della ragazza poggiando il mento sulla sua testa.
Era una sensazione completamente nuova per Kei. In quel momento gli sembrò di aver recuperato tutte le forze perse la sera prima. Si sentiva capace di sfidare il mondo intero. Si sentì rigenerato. Carico di una forza nuova e sconosciuta.  
Poi improvvisamente Nami aprì i suoi occhi scuri e penetranti, e con uno scatto fulmineo si allontanò da Kei rossa in viso dall’imbarazzo.
«Oddio… cosa diavolo stavamo facendo?» disse coprendosi con le braccia il corpo quasi come fosse nuda.
Kei si schiarì la voce un paio di volte.
«Guarda che hai fatto tutto da sola! Ti sei avvinghiata a me quasi fossi l’ultimo uomo rimasto su questo pianeta!».
«Impossibile… non mi avvinghierei a te nemmeno in quel caso!» proseguì mettendosi seduta sul letto.
«Beh, eppure è la verità, che tu lo creda o meno…».
Nami si sollevandosi repentina dal letto.
«Vado a preparare il caffè» concluse in imbarazzo uscendo dalla stanza.
Kei aveva uno strano sorriso stampato sul viso mentre la vedeva scappare via.
Nami stava preparando il caffè istantaneo quando scosse la testa indignata.
“Non posso averlo fatto. Oddio che vergogna… chissà che idea si sarà fatto di me Kei. Con l’ego che si ritrova penserà che si è trattato di un tentativo di avvicinamento mal riuscito…”.
Stava zuccherando il caffè rigirando il cucchiaino nella taza con eccessiva persistenza, quando qualcuno l’abbracciò improvvisamente alle spalle portando le proprie braccia intorno al suo ventre e il mento sulla sua spalla destra. A causa di quel contatto improvviso  Nami sobbalzò e per poco non rovesciò il caffè sul tavolo.
«Non affannarti troppo. Con questo siamo pari…» gli sussurrò ad un orecchio Kei.
A Nami vennero i brividi per tutto il corpo. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma le parole le rimasero bloccate in gola. Kei sorrise sotto i baffi contento di averla destabilizzata. Poi riprese le distanze.
«Hai davvero intenzione di rimescolare quel caffè in eterno?» le domandò infine strappandole di mano la tazza bianca e prendendo posto su uno sgabello vicino la penisola della cucina.
Nami si portò una mano al petto. Il suo cuore stava battendo in modo incontrollabile. Eppure più ci pensava e più non riusciva a capire cosa fosse cambiato in una sola notte. Possibile che stesse ricominciando a piacergli Kei?
Recuperando il proprio autocontrollo anche lei prese posto vicino la penisola di fronte al ragazzo con il ciuffo sull’occhio sinistro cercando di mascherare il più possibile il suo disagio.
Ma farlo era davvero difficile. Proprio non riusciva a guardarlo negli occhi.
Kei sogghignò vedendola in difficoltà. La cosa lo divertiva parecchio. Per un attimo gli sembrò di rivedere la vecchia Nami. La ragazza timida che pendeva dalle sue labbra.
«Non dirmelo… è la prima volta vero?»avanzò con fare canzonatorio mentre beveva a piccoli sorsi il caffè caldo tra le sue mani.
Nami si irrigidì. 
«Non capisco di cosa tu stia parlando…» provò a ignorarlo mentre prendeva a bere anche lei il suo caffè caldo.
«Sai benissimo di cosa sto parlando… dormire con un ragazzo… nello stesso letto…Ti si legge in faccia che è la prima volta che lo fai».
A Nami per poco non finiva il caffè di traverso. Tossì un paio di volte mentre fissava Kei furibonda. “Alle volte sa proprio come rendersi odioso”.
«Beh e se anche fosse? In ogni caso non sarebbero affari che ti riguardano…» cercò di ribattergli a tono. Kei depose la tazza vuota sul tavolo guardandola senza più ghigni provocatori.
«Per me è la prima volta…».
Nami a quelle parole vide sfumare tutta la rabbia e la frustrazione provate. A disagio spostò il suo sguardo da Kei alla tazzina tra le sue mani. Una parte di lei se lo sentiva, stava succedendo un’altra volta: stava per perdere nuovamente il controllo del suo cuore.
“Nami calmati… sicuramente adesso se ne uscirà con una delle sue solite battutine”.
Poi Kei prese nella sua, la mano di Nami, staccandogliela di forza dalla tazza ancora calda.
«Nami… io… devo dirti una cosa importante…».
Nami riversò i suoi occhi smarriti e preoccupati in quelli scuri e seri di Kei.
«Nami…»
TOCK! TOCK!
Qualcuno interruppe improvvisamente quel momento imbarazzante e Nami fu grata a quell’ignoto salvatore. Senza pensarci due volte sciolse la presa di Kei dalla sua mano e si catapultò alla porta lasciandolo solo con una frase incompiuta sulla labbra. Quando aprì la porta si ritrovò davanti Shin.
«Ciao Nami… scusami, per caso è qui mio fratello?» le chiese il piccolo del gruppo, la ragazza non fece in tempo a rispondergli che Shin sporgendosi oltre l'uscio della porta, notò Kei seduto vicino la penisola. Senza pensarci due volte si catapultò all’interno dell’appartamento raggiungendo su fratello in lacrime.
«Hai idea di quanto fossi preoccupato?» lo ammonì abbracciandolo singhiozzando.
«Mi dispiace Shin… ieri devo aver bevuto parecchio… scusami non volevo farti preoccupare» cercò di consolarlo tamponandogli il viso con la manica della maglia.
«Kei, ti prego non lasciarmi mai più così… per un attimo ho creduto davvero di averti perso come la mamma…» quelle parole irruppero come un terremoto nel cuore di Kei disarmandolo ancora una volta. Istintivamente lo stesso rivolse il proprio sguardo rammaricato verso Nami. Ecco, la sua vita era tornata ancora a quel dannato bivio: da una parte la sua famiglia e dall’altra la donna che amava.
Nami intuì immediatamente quali pensieri tormentassero il suo amico. Non era la prima volta che assisteva a quella scena e conosceva già quale ne sarebbe stato l'epilogo.
“Che ingenua… per un attimo ho quasi pensato che Kei stesse per scegliere me… ma chi voglio prendere in giro? Questo non accadrà mai!”. Nami chiuse la porta da cui era da poco entrato il piccolo del gruppo e reclinò amaramente il capo. Guardare il passato ripetersi come un dejavù la faceva sentire incredibilmente stupida. Dopo aver appreso la sera prima di aver occupato un misero secondo posto nel cuore di Roberto, dover rivivere quell’esperienza anche al mattino con Kei la faceva sentire insignificante. Avrebbe mai trovato qualcuno capace di metterla al primo posto?
Mentre lei rifletteva in un angolo, Kei continuava a fissarla, ma questa volta vederla afflitta per colpa del suo ruolo di fratello maggiore lo stava dilaniando. Per quante volte ancora avrebbe dovuto rivivere e farle rivivere quella scena?
Notandolo perso con lo sguardo verso Nami, Shin riscosse suo fratello, richiamandolo. «Fratellone gli altri ti stanno aspettando e sono tutti in pensiero per te!». Kei acconsentì sollevandosi a malincuore dallo sgabello. Al fianco di Shin raggiunse Nami vicino la porta. Lei continuava a evitare il loro sguardo. Kei al contrario non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Più la osservava e più ripensava a quel momento nel letto e a quella sensazione provata: all’esile corpo di lei avvolto tra le sue braccia, al caldo respiro sul suo petto a quel profumo di vaniglia dei suoi capelli che gli solleticavano le narici.
Senza pensarci si arrestò prima di aprire la porta.
«Shin, ti dispiacerebbe andare avanti senza di me? Prometto che ti raggiungerò subito…» propose a suo fratello. Nami sollevò il suo sguardo incredulo verso Kei. Shin non capiva perché suo fratello volesse rimanere ancora lì, ciò nonostante anche se insoddisfatto decise di assecondarlo e a capo chino abbandonò l’appartamento.
Quando la porta fu chiusa Kei ritornò verso Nami. Erano l’uno di fronte all’altra.
«Perché non sei andato con Shin?» gli chiese lei con gli occhi lucidi.
«Non potevo andare via così. Prima di uscire da quella porta dovevo dirtelo…»
«Dirmi cosa?»
Kei l’avvolse tra le sue braccia.
«… non sei un secondo posto… o almeno non voglio più che tu lo sia per me. Ovviamente sarei un ipocrita se ti dicessi che al primo posto ci sei solo tu, naturalmente  quello che intendo è che fino ad oggi c’è sempre stata la mia famiglia a ricoprire quel posto nel mio cuore, e questo non potrò cambiarlo, quello che spero cambi è il tuo posto nella mia vita. Voglio che da oggi tu diventi parte della mia famiglia… » Nami avvertì due lacrime scenderle dagli occhi.
«Kei… non scherzare. Ti prego… ».
Con sicurezza Kei le cinse le spalle con le sue mani e tornò a guardarla dritto negli occhi.
«Non voglio più perderti… e Dio solo sa quanto ho rimpianto quel momento. L’ho permesso una volta e non voglio rifare lo stesso errore».
«Non essere ridicolo, non mi avresti mai persa. Noi due siamo amici…»
«Nami, io non posso più essere tuo amico… In verità, se ci penso, non credo di esserlo mai stato veramente. È ironico che abbia aspettato tanto tempo per dirtelo, ma fino ad oggi ho davvero creduto mi andasse bene esserti solo amico. Potevo starti vicino, asciugare le tue lacrime, ascoltare i tuoi problemi. Potevo farti sorridere… ma adesso tutto questo non mi basta più. Io voglio potermi svegliare e trovarti al mio fianco, voglio sentire le tue braccia che mi cercano e il tuo calore sulla mia pelle, voglio essere la ragione dietro i tuoi sorrisi. Non voglio più vivere come un’ombra nella tua vita…».
«Kei, io… la mia testa è così confusa…».
Kei allentò la presa sulle sue spalle.
«Mi dispiace… »
«Per cosa?»
«Perché sto per confonderti ancora di più…» senza esitare Kei spinse Nami vicino il muro e poi la baciò. Era su di lei mentre con le sue mani le sfiorava i fianchi. Erano così sottili. Poi salì su seguendo con le sue mani l’onda inflessa della schiena di lei. Allo stesso modo Nami, portando allo stesso modo le sue sulla schiena di Kei, si avvinghiò alla sua maglia come se non volesse lasciarlo andare.
Baciandola Kei arrivò al collo, ma Nami lo fermò ansimante.
«Aspetta…» diventò rossa in viso.
Kei le sorrise.
«Non dirmi che non lo hai mai fatto prima…?» le chiese squadrandola divertito.
«Beh, e se anche fosse…?» gli rispose offesa lei. Kei le sfiorò con la mano il viso.
«Beh in quel caso sarebbe la prima volta per entrambi, in ogni caso credo sarebbe meglio fermarsi… non voglio che tu te ne penta… Ho già detto quello che volevo dirti, mi basta questo…».
Nami gli sorrise.
«Che ironia sembra tu sia destinato ad essere le mie prime volte…»
Kei corrucciò la fronte perplesso.
«Cosa vuoi dire?»
«Lo avevo già deciso quando ero piccola che saresti stato l’uomo delle mie prime volte e fino ad oggi è stato così».
«Ti stai sbagliando Roberto ti ha baciato prima di me… vi ho visto fuori dalla Kings Record quella sera…»
«Pensi davvero che quello fosse il mio primo bacio?»
«Non lo era?» le domandò stupito Kei.
«Pensavi davvero che avrei aspettato tutto questo tempo per il mio primo bacio?»
«E allora chi è stato il tuo primo bacio?»
Nami sorrise di gusto coprendosi la bocca con la mano.
«Davvero non lo ricordi?»
Kei continuava a non capire a cosa si stesse riferendo.
«No…»
«Eravamo piccoli ma io lo ricordo benissimo. Venni a trovarti all’orfanotrofio con Toshi perché non stavi molto bene. Toshi rimase con Shin giù nell’atrio perché JJ ci aveva avvertiti che eri contagioso. Io però quatta quatta salii in camera tua e ti vidi avvolto nelle coperte mentre tremavi come un cucciolo impaurito. Allora mi avvicinai e provai a sentirti la temperatura come faceva spesso la mamma. Poggiai le mie labbra sulla tua fronte e proprio in quel momento ti vidi chiudere gli occhi e ne approfittai.»
Kei le sorrise.
«Adesso ricordo. Ma pensavo si fosse trattato di un sogno.»
«E invece no. Era tutto vero… ma pensavo tu lo avessi capito».
Kei scosse la testa.
«Invece non avevo capito proprio niente… forse la febbre alta mi aveva confuso le idee all’epoca»
«Beh, adesso sai come sono andati i fatti…»
Kei l’abbracciò.
«Nami grazie… se non fosse stato per la tua testardaggine credo avrei vissuto per tutta la vita con il rimorso di non essere stato il tuo primo bacio… grazie di avermi amato così tanto… ».
Nami ricambiò felice quell’abbraccio. Finalmente il suo desiderio di essere amata si era realizzato. Sentiva che adesso nulla avrebbe potuto ledere il loro amore. Si erano persi, riavvicinati e alla fine si erano ritrovati. Improvvisamente per Nami le lacrime versate la sera prima per Roberto le sembrarono incredibilmente inutili. Aveva creduto di aver perso tutto in quel momento ma la verità era che in quel preciso istante aveva guadagnato  qualcosa di molto più importane: la possibilità di essere amata da Kei. Silenziosamente ringraziò Roberto per essere corso da Marika.
Dopo quell’abbraccio Kei si distanziò da Nami.
«Nami, se ho capito quanto fossi importante per me è merito degli errori di un amico e delle parole di una ragazza coraggiosa. Grazie a Roberto ho capito di essere stufo di vedere gli altri fallire miserabilmente nel tentativo di renderti felice. Più che dire loro cosa fare per portare gioia nel tuo cuore, ho capito che era arrivato il momento per me di fare qualcosa. Inoltre se non fosse stato per Marika non avrei mai realizzato che amare non è solo una ingenua forma di debolezza, ma anche un dono prezioso in grado di fornirci una forza che prima non pensavamo neanche di possedere. Grazie a loro due ho compreso finalmente che ho bisogno di te come mai nella mia vita. Per questo mi sento in debito con loro… Grazie a quei due ho capito che da soli non si arriva da nessuna parte. E io non voglio più andare avanti da solo. Non posso e non voglio più mettere da parte quello che provo per te. Non voglio perderti ancora».
Nami gli sorrise stringendogli la mano.
«Sai che sono qui. Puoi contare su di me. Non andrò da nessuna parte…».
«Grazie». Nami acconsentì. Kei le diede un ultimo bacio prima di allontanarsi da lei.
«Con Roberto ci parlerò io… dopotutto devo ringraziare quell’amico per i suoi errori» asserì prima di chiudere la porta ed uscire.
Nami sorrise felice dell’amore ritrovato. Ma una parte di lei non capiva cosa centrasse Marika con Kei. Che i due avessero parlato?
Quando Kei raggiunse l’appartamento degli Hope si ritrovò Toshi, Shin e Roberto seduti intorno al tavolo ad attenderlo. Non appena fece il suo ingresso il leader si sollevò dalla sedia furibondo come non mai e, sollevandolo per il collo della maglietta, lo schiacciò vicino una delle pareti della cucina.
«Cosa cavolo ci facevi nell’appartamento di mia sorella?» gli chiese a un palmo dal suo naso.
«Non le ho permesso di fare nulla di cui si sarebbe potuta pentire in futuro… quindi puoi stare tranquillo…».
Toshi aveva gli occhi rossi di rabbia. Dovette intervenire Roberto per calmare la situazione.
«Adesso finitela… Toshi lascialo, se ha detto di non aver fatto nulla a Nami allora dovresti credergli!» Toshi rivolse il suo sguardo contrito da Kei a Roberto.
«Come fai a rimanere impassibile quando la tua ragazza ha passato l’intera notte con un altro uomo?».
Roberto si avvicinò all’amico allontanandogli la mano dal colletto di Kei.
«Nami da ieri sera ha smesso di essere la mia ragazza… Scusa, so che avrei dovuto dirtelo subito… ma io e tua sorella abbiamo rotto ieri alla festa…»
Toshi non riusciva proprio a capirne il motivo.
«Questo cosa significa? Per quale motivo avete rotto voi due?»
Roberto tornò a sedersi mentre Kei si massaggiava il collo.
«Semplicemente ho capito che non sarebbe stato giusto continuare a mentire sia a lei che a me e a voi. Io amo un’altra ragazza. Mi dispiace Toshi… ho provato a renderla felice dandoci una possibilità ma ho fallito miserabilmente…». Il leader si avvicinò a Roberto.
«Per questo Nami non è venuta alla festa ieri sera? Perché hai rotto con lei?»
Roberto acconsentì suo malgrado. Toshi stava per gettarsi anche sull’amico italiano quando Kei lo trattenne bloccandolo dalle spalle. «Toshi, calmati. Non c’è bisogno di reagire in questo modo… Nami sta bene… devi credermi… è stata una rottura reciproca» cercò di placare l’altro. A quel punto Toshi si voltò verso di lui con due occhi sottili come fessure.
«E tu subito sei corso da lei, non è così? Bravo il nostro sammaritano. Sapete, proprio non vi capisco. Come potete giocare in modo tanto sconsiderato con i sentimenti di una persona? Tu prima la tratti male e poi gli curi le ferite… lui le fa credere di amarla quando invece ama un’altra. Ma si può sapere dove avete la testa?».
Kei puntò il suo sguardo glaciale su Toshi.
«Io non ho mai giocato con i sentimenti di Nami…  l’ho sempre amata e solo che forse avevo solo troppa paura di ammetterlo. Toshi, non mi importa che tu non mi creda, al tuo posto probabilmente farei lo stesso, ma ti prometto che qualsiasi cosa accada non farò più soffrire Nami. Potrai rempirmi la faccia di cazzotti… ma io non rinuncerò più a lei… »
«Tu cosa?»
«Si, io e Nami… adesso… stiamo insieme!».
Shin sgranò i suoi occhi sorpreso dalla notizia.
Roberto dalla sua sorrise soddisfatto. Finalmente il suo amico aveva trovato il coraggio di amare qualcuno. Era felice che almeno lui avesse avuto una seconda possibilità per farlo.
Toshi, svuotato di ogni forza, si sedette su una delle sedie vicino il tavolo.
«Ma si può sapere cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo?».
Kei scambiò con Roberto uno sguardo di riconoscenza lui lo ricambiò. Poi il ragazzo italiano si avvicinò al leader seduto vicino il tavolo, poggiando una mano rassicurante sulla sua spalla.
«Toshi, credo che Nami abbia trovato davvero un bravo ragazzo… dovresti dare una possibilità a Kei. Lui ci tiene davvero. E io so che non la farà soffrire…» provò a confortarlo Roberto. Il leader si arrese.
«Ok, va bene… non spetta a me scegliere con chi mia sorella desidera uscire… ma giuro quanto è vero Dio che se la farai soffrire ti verrò a cercare in capo al mondo e ti distruggerò con le mie stesse mani… » disse puntando il dito indice contro l’amico giapponese.
Kei acconsentì.
In quello stesso momento Shin si sollevò dalla sedia correndo verso la sua camera. Kei lo seguì. Una volta dentro lo trovò riversato sul letto a pancia in giù che piangeva.
«Shin… cos’hai?» gli chiese premuroso l’altro sedendogli vicino mentre gli accarezzava la schiena.
Il più piccolo sollevò il viso pieno di lacrime dal materasso singhiozzando «adesso le cose cambieranno… non è così?»
«Penso che qualcosa inevitabilmente cambierà. Sarei un bugiardo se ti dicessi il contrario… Ma sai, i cambiamenti non sempre sono negativi. Ci sono cose che possono cambiare in meglio. Se ci pensi, adesso non avrai più solo me su cui contare ma anche l’affetto di Nami. Potrai contare su entrambi in ogni momento. E poi tra tante cose che cambieranno c’è comunque una cosa che non cambierà mai…» proseguì asciugandogli le lacrime.
«Cosa?» chiese Shin tirando su con il naso.
«Il fatto che tu sia mio fratello. Ti vorrò un mondo di bene sempre… qualsiasi cosa accada…».
Shin gli sorrise.
«Sai Kei, in realtà non piangevo perché ero triste… ma perché sono felice. Credevo di essere un limite per te… e invece sono felice di scoprire che non è così… Sono contento per te e Nami. E comunque non sono più un bambino, anche tu puoi contare su di me…».
«Lo so». Detto questo i due si abbracciarono.
Dopo quel momento di turbolenza Kei e Shin tornarono in cucina dagli altri due.
«Ragazzi, in ogni caso ieri sera non abbiamo avuto modo di parlare del gruppo e di Take… » avanzò Toshi tornando a ricoprire i panni di leader.
«Cosa dovremo fare secondo te?» avanzò Kei.
«Penso che la strategia migliore sia aspettare… ieri sono andato da Yukino. Ho avuto finalmente conferma dei miei presentimenti… È stata lei a strapparci via Take e solo per vendicarsi di mio padre per averla ceduta alla Music Station… La cosa peggiore è che lei non prova nulla per lui…».
«Vuoi dire che lo ha fatto solo per allontanarlo da noi?» gli chiese conferma Shin.
«Si, ovviamente non ho ancora le prove di questo, ma lei me lo ha fatto capire molto esplicitamente…»
«Come faremo per il concerto? Dovremo farlo senza di lui? Mancano meno di tre  settimane…» gli chiese Roberto.
«Se tutto va secondo i miei piani al concerto saremo di nuovo tutti insieme… » gli rispose il leader.
«A proposito dello stare tutti insieme… Jona… qualcuno lo ha sentito?» chiese Shin preoccupato per l’amico.
«A dire il vero no… sarebbe già dovuto arrivare in Cina… è strano che non si sia fatto ancora sentire. Proverò a contattarlo più tardi…» disse Roberto cercando di rassicurare i suoi amici.
«Per quanto riguarda Take come hai intenzione di muoverti?» proseguì Kei. Toshi si massaggiò il collo esausto.
«Ieri notte ho lavorato a lungo… ho provato a risalire a qualcosa di interessante dal sito della Music station su Yukino… ma devo dire di essere davvero molto scarso come hacker».
«Se volete potrei fare un tentativo io…» si propose Roberto.
«Davvero saresti in grado di accedere ai database interni?» si sorprese Kei.
«Potrei provarci… ».
Senza esitare Toshi prese il suo pc e lo portò a Roberto.
«Ecco… se trovassimo qualcosa di utile potremmo ricattare Yukino e costringerla a confessare la verità a Take, in questo modo lui ritornerebbe dalla nostra parte… ».
Roberto non esitò e si mise subito all’opera. Non era la prima volta che infrangeva dei protocolli di protezione informatica… lo faceva più che altro per passatempo.
«Bene, mentre Roberto prova a entrare nel sito della Music Station… io andrò a chiedere informazioni su Jona da mio padre… Shin, Kei, ho bisogno che voi due seguiste Take, magari potreste scoprire qualcosa di interessante», concluse il leader.
I tre ragazzi acconsentirono, mettendosi subito all’opera. Adesso iniziava la loro operazione di recupero di Take. 

 
Cina
Jona era tornato davanti quella porta. Una porta che aveva avuto il potere di distruggere la sua vita.
Facendosi coraggio, nuovamente, la riaprì.
Dentro sorprendentemente non trovò sua madre, ma solo suo padre. Aveva gli occhi chiusi. Sembrava stesse riposando. Probabilmente  sua madre era uscita a cercarlo. Facendo attenzione a non fare troppi rumori, richiuse la porta e raggiunse suo padre occupando la sedia vuota vicino al suo letto.
«Papà, è ironico, per tutto questo tempo ho odiato te e la mamma. Ho pensato addirittura che per voi fosse stato un peso avermi avuto. Non avrei mai immaginato quello che stavate passando mentre io stupidamente mi lamentavo di voi. Mi sento così in colpa. E pensare che se non fosse stato per una ragazzina testarda adesso non sarei nemmeno qui» a Jona scappò un sorriso amaro ripensando ad Hana a cui aveva detto addio appena una sera prima. «Sai papà ti sarebbe piaciuta, intendo quella ragazza. Ha un bel caratterino proprio come la mamma. Sai prima di partire le ho letto un brano del Piccolo Principe. Ricordi? Me lo regalasti quando ero molto piccolo. Dicevi che ero proprio come lui. Ma la verità è che non lo sono… non sono coraggioso come quel principe. Sono un codardo e un egoista vanitoso… sembro più simile a quella rosa egocentrica. Papà non so se mi puoi sentire, ma tutto quello che voglio dirti è che mi dispiace, davvero. Forse dovrei mollare tutto, anche la musica è stato un egocentrico capriccio… e poi non posso lasciare mamma da sola» Hiro si mosse improvvisamente aprendo gli occhi e osservando suo figlio con uno sguardo che sembrava più lucido che mai.
Jona non se lo aspettava di certo. Poi l’uomo iniziò a balbettare qualcosa, muovendo le dita della mano sinistra verso Jona che le strinse subito tra le sue mani.
«Papà non c’è bisogno che ti sforzi… riposa», ma l’uomo non voleva saperne. Doveva assolutamente dire quella parola a suo figlio.
Jona allora si avvicinò e quasi in un sussurrò avverti la voce flebile di suo padre pronunciare quell’unica parola.
«suona…». Jona non capiva. Sembrava che suo padre volesse suggerirgli di non smettere. Poi crollò assopito proprio come lo aveva trovato appena entrato. A quel punto si sollevò dalla sedia e uscì dalla stanza. Lì nel corridoio incontrò sua madre.
«Allora eri qui» esordì Misako raggiungendo suo figlio. Jona era ancora sorpreso dalla reazione di suo padre.
«Mamma, ma papà sapeva del gruppo?»
Misako acconsentì con la testa.
«Jona, forse è meglio che andiamo a bere qualcosa…».
Senza esitare Jona seguì sua madre verso l’ascensore.
 
Tokyo
Hana riconosceva il mattino dal calore dei raggi solari che radenti penetravano furtivi dalla finestra della sua stanza baciandole il viso. Come ogni mattina anticipava la sua sveglia di cinque minuti. Seduta sul letto aspettò che la stessa suonasse prima di sollevarsi. Infilate le pantofole raggiunse il bagno. Aprì come ogni mattina il rubinetto aspettando che la caldaia facesse in modo che l’acqua diventasse calda poi iniziò la lavarsi.
Come sempre scese i gradini per raggiungere il piano di sotto. Erano le sette all’incirca e Hana sapeva che a quell’ora nel bar di suo padre c’era un gran via vai di gente, ma stranamente quella mattina non si percepiva un solo suono provenire dal piano terra. Quando finalmente raggiunse il bancone. Si rese conto che in giro non c’era nessuno. Poi improvvisamente la campanella che indicava l’ingresso dei client suonò alle sue spalle. Era la prima volta che suo padre la lasciava da sola senza neanche avvertirla sul dove fosse andato.
«Papà? Sei tu?» tentò presa dal panico.
«Si Hana sono io..» la rassicurò la voce di suo padre. Hana tirò un sospiro di sollievo.
«Ma si può sapere che fine avevi fatto? Mi sono preoccupata davvero…»
L’uomo raggiunse sua figlia stringendola forte tra le braccia.
Hana era spaesata davvero non riusciva a capire la reazione di suo padre.
«Papà così mi stritoli» lo ammonì.
«Hana, finalmente potrai tornare a vedere come un tempo». Hana non capiva a cosa alludesse suo padre
«Papà cosa stai dicendo?» era sconvolta.
«Ho appena parlato al telefono con il dottore che ti opererà, dice che ci sono buone possibilità di una ripresa totale nel tuo caso. Occorrerà aspettare il donatore giusto ma dice che con il trapianto della cornea potrai tornare a recuperare sicuramente l’novanta percento della vista. Non sei contenta?»
Hana era abbastanza sotto shock.
«Papà, ma dove troveremo i soldi per l’operazione?»
L’uomo si schiarì la voce.
«Di questo non devi preoccuparti».
In Hana sorse un dubbio.
«Papà, per caso Jona centra in qualche modo in questa storia?»
L’uomo era indeciso se confessare la verità a sua figlia oppure tacere. Sentiva che se le avesse detto la verità, per orgoglio sua figlia non si sarebbe fatta operare.
«Ma cosa dici? Non conosci proprio il tuo vecchio. Sai benissimo che sono un  gran risparmiatore. Ho messo da parte i soldi per la tua operazione e devo anche sentirmi dire che il merito è di un altro».
Hana sentiva dentro sé che qualcosa non quadrava, ma preferì ad ogni modo ignorare quella vocina scettica dentro di lei. Così sfoderò uno dei suoi più bei sorrisi.
«Vuoi dire che veramente tornerò a vedere papà?»
«Certamente!» gli confermò lui.
La ragazza dai capelli color inchiostro abbracciò suo padre.
«Papà grazie, di tutto. Finalmente potrò vedere il tuo volto e quello di Jona… non vedo l’ora che torni così potrò dirglielo di persona».
Otto deglutì vistosamente. Non se la sentì di distruggere i sogni di sua figlia così tacque.
Per Hana quella giornata iniziata come molte altra era divenuta speciale nel giro di pochi minuti. 

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Capitolo 41
*** SCOPPIA LA BOMBA ***


CAPITOLO 41
ESPLODE LA BOMBA

Giappone
 
Roberto era fermo mentre contemplava il monitor del computer portatile di Toshi. Purtroppo non era riuscito a fare breccia nel sistema. Aveva bisogno di entrare nel server principale della casa discografica e per farlo doveva avere accesso a uno dei computer all’interno della rete locale.
Sospirando si rivolse ai due al suo fianco.
«Ragazzi, per oggi lasciate stare Take, ho bisogno di voi. Dovete coprirmi le spalle mentre entro nella Music Station».
Kei sgranò gli occhi sconvolto.
«E come pensi di riuscirci?»
«Un modo lo troveremo, prendete i vostri cappotti e seguitemi», detto questo chiuse il computer e recuperato il proprio giubbotto di pelle fece strada a Kei e Shin ancora perplessi.
Toshi nel frattempo aveva raggiunto suo padre alla Kings Record. Era fuori dalla porta del suo studio indeciso se bussare o meno, quando la porta fu spalancata cogliendolo alla sprovvista. A uscire dalla stessa fu proprio Rio vestito come sempre di tutto punto.
«Toshi, cosa ci fai qui?» esordì sorpreso di vederlo.
«Papà volevo parlarti…» avanzò sicuro il leader, ma Rio quella mattina doveva evitare in ogni modo suo figlio perciò cercò di sbolognarselo con una scusa.
«Mi dispiace, qualunque cosa sia, ne riparleremo più tardi. Adesso ho da fare…».
Toshi riusciva sempre a capire quando suo padre mentiva, quando lo faceva puntualmente sollevava le sopracciglia aggrottando la fronte.
Così lo trattenne prima che potesse allontanarsi.
«Papà cosa sta succedendo? Perché mi stai evitando? Cosa non vuoi farmi sapere?»
Rio sospirò, alla fine con suo figlio andava a finire sempre così.
«Se proprio vuoi saperlo te lo dirò. Dopotutto adesso sei il leader…».
Arresosi agli occhi duri e intransigenti di suo figlio, Rio fece in modo che allentasse la presa sul suo braccio, poi lo spronò a seguirlo verso l’ascensore.
«Ho due brutte notizie da darti questa mattina figlio mio…».
«Di cosa si tratta?»
Erano davanti l’ascensore. Rio si guardò intorno con aria circospetta poi spinse il tasto a forma di triangolo che puntava verso il basso che si illuminò immediatamente. In seguito tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un pacco di sigarette nuovo di zecca. Ruppe l’imballaggio e ne uscì fuori una portandosela alla bocca. Erano anni che Toshi non vedeva suo padre fumare.
«Papà…» lo ammonì suo figlio.
«Tranquillo non ho intenzione di accenderla… anche se la tentazione è davvero molta, devo ammetterlo…»
Quando le porte si aprirono entrambi entrarono nell’ascensore. Una volta che queste si richiusero, Rio riprese il discorso interrotto.
«Toshi in questo momento ho davvero bisogno che tu sia forte, forse anche più di me…»
«Lo sarò!» Toshi lo disse con un tale impeto e con una tale sicurezza che a Rio quasi sfuggì un mezzo sorriso compiaciuto. Era fiero di suo figlio. Poi si tolse la sigaretta dalla bocca e guardò dritto negli occhi Toshi, lo stesso scorse un velo di amarezza mista a tristezza e rassegnazione negli occhi stanchi di suo padre.
«Toshi, Hiro sta morendo».
Rio lo disse in un modo così diretto che
Toshi pensò davvero che le sue orecchie avessero travisato le parole di suo padre.
«Papà, dimmi che ho capito male… ».
Rio a quel punto tirò fuori un paio di occhiali da sole indossandoli freddo come un iceberg .
«Hai sentito bene, purtoppo. Non chiedermi di ripeterlo. Te ne prego…»
Toshi non poteva crederci.
Subito i suoi pensieri volarono al suo amico in Cina. Jona era sparito per un valido motivo dopotutto.
«Papà ma allora dove stai andando?»
«Da una vecchia amica che ha bisogno di me…»
Toshi capì subito di chi stesse parlando suo padre.
«Papà vengo con te».
Le porte si riaprirono. Erano arrivati nella hall della casa discografica.
«Ho bisogno che tu resti qui, devi occuparti di una cosa per conto mio…»
 «Papà non puoi dirmi una cosa del genere e pretendere che io resti qui…» sbottò Toshi fuori di sé.
Rio arrestò la sua avanzata, girandosi verso suo figlio e sfilandosi le lenti scure dagli occhi.
«So benissimo che vorresti stare vicino a Jona in questo momento, ma non dimenticare il tuo ruolo. Sei un leader e Jona non è l’unico membro che adesso ha bisogno del tuo aiuto… In ogni caso sono sicuro che Jona non vorrà vedere nessuno di voi in questo momento. Lo so perché ci sono passato anche io molto tempo fa. Gli darete tutto il vostro supporto quando lo riporterò in Giappone. Misako mi ha chiamato per questo motivo…»
«Non ho altra scelta dico bene?»
«Mi dispiace figliolo. Non rendermi le cose più difficili…»
Toshi acconsentì suo malgrado.
«Ma gli altri dei BB5 lo sanno?»
Rio scosse la testa.
«Misako mi ha chiesto di mantenere il segreto con gli altri… gli unici a sapere la verità siamo io, tu, Misako e Jona…»,
«Capisco»completò deluso e dispiaciuto Toshi.
Rio prese per le spalle suo figlio, «Toshi è importante che tu non dica nulla di questa storia ad anima viva, mi odierei davvero se divenisse inchiostro su carta stampata. L’ultima cosa di cui Jona e Misako hanno bisogno in questo momento è il ficcanasare della stampa».
Toshi acconsentì.
«Sapevo avresti capito…» concluse Rio dando una pacca sulla spalla di suo figlio.
«Papà ad ogni modo, non avevi detto che le brutte notizie erano due? cosa vuoi che faccia qui?» lo riprese Toshi.
«Giusto. Tra poco più di un’ora la Music Station rilascerà una dichiarazione davanti la stampa nazionale. Ho bisogno che anche tu ne rilasci una prima di loro qui tra venti minuti. Bisogna attaccare prima che loro attacchino noi».
Toshi mise su uno sguardo contrariato.
«Papà sei sicuro che sia la mossa giusta?»
«Perché? Cosa non ti convince?»
«Credo sia meglio farli uscire allo scoperto, poi attaccheremo con le nostre armi. Se ci proteggessimo prima di un attacco sembrerebbe che abbiamo qualcosa da nascondere e sono sicuro che la cosa non giocherebbe a nostro favore…»
Rio si strofinò il mento.
«Forse non hai tutti i torti… Ma non abbiamo altra scelta…».
«Papà, fidati di me, aspetta a rilasciare qualsiasi intervista. Concedimi qualche ora».
Rio squadrò meglio suo figlio, indeciso sul da farsi, poi sospirò.
«D’accordo ti concedo qualche ora… poi dovremo comunque passare al contrattacco».
Toshi acconsentì, poi, salutato suo padre, corse a chiamare i ragazzi. Era arrivato il momento di portare allo scoperto la verità.
 
Roberto, Kei e Shin erano da poco arrivati alla Music Station quando ricevettero la chiamata di Toshi che gli comunicava il cambiamento di piano. Non potevano sperare in nulla di meglio. Primo perché quasi tutti nella casa discografica della Music Station sarebbero stati impegnati a gestire il via vai dei giornalisti per la diretta televisiva dando modo a loro di confondersi con la massa, secondo perché questo significava che sia il direttore Mashimoto che Take e Yukino sarebbero rimasti bloccati a discutere con i giornalisti per almeno una mezz’ora e questo avrebbe dato modo a loro tre di agire indisturbati ai piani alti senza rischio di interferenze. Roberto ricordava benissimo che nello studio del direttore Mashimoto c’era un pc. Era sicuro che li avrebbero trovato quello che stavano cercando.
Meditando sulla prima mossa da fare i tre erano in attesa nascosti dietro una macchina fuori dalla Music Station. Roberto stava riflettendo sul piano che avrebbero messo in azione, quando l'occasione si presentò ghiotta sotto i loro occhi troppo succulenta per non coglierla subito.
Il camioncino di una piccola emittente locale era stata raggiunta da tre individui. Due di mezz'età mentre il terzo sembrava un ragazzino alle prime armi  con indosso un berretto nero. Il più piccolo dei tre con il berretto era sicuramente il giovane apprendista costretto a trasportare l'attrezzatura, il secondo sulla quarantina era il cameramen e il terzo stando al suo abbigliamento sofisticato doveva trattarsi del giornalista. Roberto, Shin e Kei cercarono di avvicinarsi il più discretamente possibile alla vettura della mittente. Erano dall'altro lato del furgone mentre il giornalista si lamentava irrequieto dal lato opposto della vettura.
«Vado a prendere un caffè non ce la faccio più, la gente di spettacolo non ha proprio rispetto per il lavoro degli altri. È già dura aspettarli normalmente ma adesso dirci che ci sarà un'ora di ritardo è troppo.... potevano anche rimandarla porca miseria. Vado a sbollire voi due che fate?».
«Vengo anche io, tu chiudi il furgone e poi raggiungici» disse il cameramen lanciando le chiavi al ragazzo con il berretto.
«Mi raccomando metti tutta l'attrezzatura a posto e chiudi per bene». Detto questo i due si rifilarono lasciando il giovane e inesperto assistente a sistemare la telecamera i microfoni e due borsoni belli carichi di attrezzatura. Mentre questo sistemava la roba, Roberto approfittando dei rumori del ragazzo aprì leggermente lo sportello del lato passeggero poi rimase nascosto, schiacciato insieme agli altri due alla carrozzeria in paziente attesa che il ragazzo con il berretto chiudesse e andasse via. Ovviamente l'ignaro apprendista non aveva notato che uno degli sportelli era rimasto aperto. Una volta che si fu rifilato Kei si fiondò all'interno della vettura mentre Roberto gli copriva le spalle controllando che i tre non arrivassero proprio sul più bello. Per loro fortuna avevano lasciato all'interno i loro cartellini identificativi. Kei li agguantò, e insieme ad essi recuprò anche un paio di berretti della mittente che erano stati lasciati sul posto passeggero. In seguito li porse ai suoi due amici. I tre erano finalmente pronti a fare irruzione nella Music Station.
Cina
Jona era seduto difronte a sua madre mentre entrambi sorseggiavano in silenzio la propria tazza di thè caldo. Jona si guardò intorno. Nel bar di quella clinica privata c’era poca gente. Doveva essere per l’orario. Poi improvvisamente Misako interruppe quel silenzio.
«Jona, voglio che tu ritorni in Giappone…»
«Ma mamma…» lo riprese subito il ragazzo.
«Non contraddirmi Jona. Ho già contattato Rio. Ti riporterà indietro».
Jona si sollevò carico di ira dalla sedia sbattendo nervosamente le mani sul tavolo.
«Come puoi chiedermi di andare via mentre mio padre sta per lasciarci… Non credi sia troppo crudele?»
Misako depose la tazza di thè delicatamente su quel tavolino che la separava da suo figlio. Anche se sapeva che lui non avrebbe mai capito era la cosa migliore che potesse fare per lui.
«Jona, tuo padre quando ha saputo della tua fuga in Giappone non ha mosso ciglio. Anzi, era molto fiero di te, al contrario di me devo ammetterlo. Per certi versi credo vedesse in voi quello che un giorno fu il gruppo di cui faceva parte: i BB5. In quella occasione mi ha supplicato di incoraggiarti e spingerti a non mollare. Dovevi realizzare quel sogno che un tempo era stato anche il suo. Questo è stato il suo desiderio. Mi chiese di mantenere il segreto della sua condizione di salute con te anche nel caso in cui si fosse aggravata. Non voleva diventare un ostacolo sul tuo cammino. E io non posso permettere che le ultime volontà di tuo padre non vengano rispettate. Per questo adesso devi tornare con Rio in Giappone. Hai un concerto da preparare.»
Jona irritato dalle parole senza senso di sua madre distolse il suo sguardo. Per lui la priorità era stare vicino a suo padre. Senza aggiungere nulla uscì irritato dal bar lasciando sua madre da sola.

Giappone
 
Una volta camuffati alla meglio Roberto, Kei e Shin erano pronti a entrare in scena. Alla testa del gruppo c'era Kei. Aproffittando della confusione dei giornalisti e delle troup televisive, mostrò con molta rapidità il proprio cartellino identificativo alla sicurezza all'intenro della casa discografica. La stessa per la fretta non notò che la foto non combaciasse e li lasciò passare indisturbati.
 Una volta dentro i tre si diressero verso gli ascensori. Se non ricordavano male lo studio del Direttore Mashimoto era all'ottavo piano.
Una volta giunti a quel corridoio iniziarono a perlustrare l'ambiente alla ricerca di una targhettina che indicasse loro quale porta aprire.
Shin fu il primo a indicarla e fece segno agli altri due di seguirlo. Erano quasi arrivati quando una guardia di sicurezza sbucò improvvisamente nel corridoio. Roberto istintivamente prese i suoi due amici per le magliette e li tirò via all'interno di un corridoio secondario.
«Siamo in troppi qui, stando tutti insieme rischiamo di essere presi. L'ideale è dividersi. Kei, tu resta di guardia vicino l'ascensore. Ho appena visto una stanza che sembra uno sgabuzzino. Puoi controllare da lì se dovesse salire qualcuno e avvisarmi per tempo. Shin, tu invece è meglio che resti giù nella hall confondendoti tra gli altri giornalisti. Devi essere i nostri occhi ai piani bassi e avvisarci se vedi qualcosa di sospetto. Togliete le suonerie e mettete la vibrazione al minimo. Così dovrebbe andare bene...».
I due non ebbero nulla da aggiungere e si prepararono a raggiungere le loro postazioni. Roberto si sporse oltre il muro. il corridoio era ritornato deserto, la guardia doveva essersi allontanata. Era il momento giusto. Fece segno ai suoi amici di andare. I due non se lo fecero ripetere per la seconda volta.
Mentre Kei si nascondeva nel deposito di servizio di quel piano e Shin scendeva al piano terra, Roberto corse verso la porta dello studio del Direttore. Stava per aprire, quando si arrestò improvvisamente scosso da una considerazione non indifferente. E se dentro ci avesse trovato proprio il Direttore? Prima di proseguire allora si sporse per verificare che dall'interno non provenissero voci. Quando si avvicinò con l'orecchio alla porta notò che dall'interno non proveniva alcun brusio, così si fece coraggio e spalancò la porta dopotutto non aveva altra scelta. Per sua fortuna all'interno non c'era nessuno. Senza perdere tempo si infilò nella stanza chiudendo fulmineo la porta, poi si posizionò vicino il pc e senza perdere tempo si mise subito all'opera.
Allo stesso tempo Take si preparava con Yukino all'inizio di quella intervista che avrebbe completamente stravolto le carte in tavola. Era seduto sulla sedia della sua postazione trucco mentre si torturava le mani. Prese il telefono e iniziò a spulciare sulle varie notizie di internet per non pensare a quanto stava per fare. Poi la sua attenzione cadde su un video rimasto in memoria nella home del suo profilo you tube. Lo fece partire. Era il video dell'esibizione fatta al parco con gli altri ragazzi.
Dentro di sè continuava a chiedersi cosa fosse cambiato da quel giorno.
Ma proprio mentre i suoi occhi si stavano facendo lucidi e il suo animo nostalgico Yukino fece capolino alle sue spalle.
«Cosa guardi? Dallo specchio sembravi così triste che non ho resistito!».
Take nascose subito il cellulare nella tasca dei pantaloni.
«Nulla di importante ormai» le rivelò sforzandosi di sorridere.
Yukino allora prese posto sulle sue gambe sedendogli in braccio e abbracciandolo. Take ricambiò più sollevato quel gesto portando le proprie mani sui fianchi sinuosi di lei.
«Yukino pensi sia davvero la cosa giusta da fare? Io volevo uscire dal gruppo ma quello che mi sta chiedendo di fare il Direttore mi sembra troppo...»
Yukino si distaccò da Take spalancando i suoi occhi sconvolta.
«Ma cosa stai dicendo?! Ti sei forse dimenticato tutto quello che ti hanno fatto gli altri Hope? Non dirmi che proprio adesso che hai la possibilità di restituirgli tutto con gli interessi vuoi tirarti indietro?».
Take reclinò lo sguardo afflitto.
«Lo so, ma mentire non mi è mai piaciuto...»
Yukino con l'indice sollevò il mento dell'altro sfidandolo a guardarla dritto negli occhi.
«Anche se non ci piace alle volte la vita ci impone di mentire, anche se sappiamo che questo potrà ferire qualcuno purtroppo in certi casi è l'unica cosa che possiamo fare per salvare noi stessi. Non ti lascerò mollare proprio ora. Non faremo vincere quei cinque ragazzini viziati!».
Take acconsentì ancora poco convinto di quello che a breve avrebbe fatto.
Yukino gli accarezzò il viso poi gli diede un bacio sulla guancia.
«Adesso devo andare. Il direttore ha detto che vuole vedermi nel suo studio prima dell'intervista. Tu nel frattempo non farti venire strani ripensamenti. Chiaro? Non riesco a sopportare di vederti star male così per chi non lo merita.» Detto questo la giovane si alzò dalle gambe di Take e si diresse verso l'ascensore per raggiungere lo studio del direttore.
Kei, appostato con la porta socchiusa, controllava diligentemente l'ascensore che si apriva e si chiudeva. Ogni volta era un tuffo al cuore. La tensione era veramente alta. Non potevano rischiare di essere scoperti.
In quel momento le porte si aprirono ancora una volta ma a differenza delle volte precedenti non si trattava delle tante donne delle pulizie o personale con cartellino al collo, quella che stava uscendo da quell'ascensore era proprio Yukino affiancata dal direttore.
Senza perdere tempo Kei chiamò Roberto.
Il ragazzo italiano era alle prese con il sistema informatico interno. Era riuscito a entrare ma non a trovare qualcosa di davvero interessante. Tranne una cartella con uno strano sistema di sicurezza. Il tempo era veramente minimo perchè lui riuscisse a trovare il modo di aprirla in quel momento, così pensò di scaricare tutto il materiale possibile direttamente sul suo hard-disk una volta tornato al dormitorio avrebbe provato ad accedervi. Era arrivato al 98% del download quando una chiamata di Kei lo fece trasalire.
«Kei, dimmi tutto» rispose bisbigliando al telefono.
«Il Direttorere e Yukino sono appena arrivati. Nasconditi».
Roberto chiuse il portatile, spense forzatamente il pc nello studio e si nascose dietro una tenda a pannello dell'ufficio.
Fece quasi in tempo a nascondersi. Quando entrarono il Direttore e Yukino aveva appena richiuso la tenda. Il cuore gli batteva così forte che gli sembrava potesse esplodergli, da un momento all'altro,  fuori dalla cassa toracica. Nonostante questo fece un respiro profondo e recuperò la sua lucidità. 
Senza perdere tempo, recuperò il  telefonino dalla tasca e iniziò a registrare, pensò che il dialogo tra quei due gli sarebbe potuto tornare utile in un secondo momento.
Yukino, entrata subito dopo il direttore, si aggiustò un ciuffo di capelli dietro all'orecchio deglutendo vistosamente mentre chiudeva la porta della stanza. Si sentiva sempre a disagio quando era sola con il direttore.
«Yukino dimmi un pò come sta andando con Take?» intervenne il trentenne alto e con i capelli gelatinati ripartiti in quella rigida riga laterale mentre si aggiustava gli occhiali tondi sul naso.
La ragazza  sollevò il suo sguardo verso il giovane direttore Mashimoto appoggiato alla scrivania davanti a lei.
«Sta avendo qualche ripensamento. Non vuole mentire e buttare fango sugli altri Hope. Ciononostante, probabilmente, sono riuscita a convincerlo». Il Direttore si avvicinò con un sorriso maligno al viso di Yukino, le prese il mento con l'indice e il pollice e glielo sollevò in malo modo.
«Non c'è bisogno che ti ricordi cosa accadrà a te se non riuscirai a convincere Take a seguire il piano...»
Sul viso di Yukino si dipinse un'espressione di puro terrore.
Senza aggiungere una parola, la giovane acconsentì tremante.
«Bene», proseguì il direttore lasciando la presa sul suo mento.
Poi con occhi lascivi iniziò a perlustrare il corpo della giovane. Con l'indice le sfiorò il braccio destro scendendo giù lentamente «dopotutto hai le tue armi per convincerlo, dico bene?»
Yukino rabbrividì. Provò a retrocedere ma il direttore la trattenne bloccandola con le sue mani forti.
«La prego mi lasci...» provò a supplicarlo.
«L'avrai fatto così tante volte ormai dovresti essere abituata, dico bene?», detto questo il direttore la spinse vicino la scrivania e bloccandola alla stessa iniziò a baciarla su tutto il corpo provando a sollevarle il vestito.
«La prego mi lasci... non voglio...» il direttore le serrò però la bocca con una mano e si avvicinò all'orecchio della giovane.
«Non sempre possiamo fare  quello che vogliamo... »
Roberto sentiva che doveva intervenire...
Mandò un messaggio a Kei.
Poco dopo si sentìrono le grida di una guardia che urlava correndo per il corridoio. Il direttore allora si bloccò distaccandosi in malo modo da Yukino. Poco dopo qualcuno bussò alla porta.
«Avanti» ordinò perentorio il direttore Mashimoto mentre si ricomponeva. Un responsabile della sicurezza entrò.
«Signore credo ci siano degli intrusi su questo piano». Il direttore si sistemò alla meglio il nodo della cravatta e si richiuse la giacca.
«Meglio affrettarsi a rilasciare l'intervista prima che venga sabotata. Yukino ricomponiti e raggiungi Take al piano di sotto. Appena finisco qui vi raggiungerò per rilasciare l'intervista».
La ragazza ancora sconvolta vicino la scrivania si chiuse a riccio acconsentendo e reclinando il capo. La guardia la squadrò con fare divertito. Non sembrava neanche sconvolto per l'accaduto, chissà quante ragazze dovevano aver subito quel trattamento prima di lei.
Proprio mentre il direttore stava dicendo quelle cose la giovane nel tentativo di evitare il suo sguardo notò un paio di scarpe sbucare lievemente da una delle tende alle sue spalle. Ma rimase in silenzio.
Senza aggiungere altro il direttore si rifilò lasciando la giovane nella stanza.
Esitando la ragazza con il caschetto biondo platino si avvicinò alla finestra e con un gesto fulmineo scostò la tenda.
Dietro la stessa vi trovò Roberto con un pc tra le braccia e un telefono nella mano destra.
A quel punto fece qualche passo indietro sconvolta. Quella era l'ultima cosa che sarebbe dovuta accadere.
Roberto uscì dal suo nascondiglio e si avvicinò a Yukino.
«Se sapevi che ero qui perchè non hai detto nulla...».
«Ti prego va via» lo supplicò la giovane con le lacrime agli occhi stringendosi su se stessa ricoperta dalla vergogna.
«Yukino voglio aiutarti» proseguì Roberto cercando di avvicinarsi per consolarla ma la stessa si scostò infastidita.
«Non puoi farlo... Nessuno può farlo, non si può vincere contro di loro...»
«Hai ragione forse nessuno può riuscirci da solo ma con il tuo aiuto forse possiamo riuscire a tirare fuori da questa situazione te e Take»
«E perchè mai lo vorreste fare? Ormai dovreste avere tutto quello che vi serve in quel pc. Non avete bisogno di salvare me o Take. Avete la possibilità di salvarvi affondando noi. Dopotutto è quello che vi riesce meglio fare e, dopotutto, è l'unica scelta che avete».
Roberto le si avvicinò.
«Contrariamente a quanto pensi, tutti abbiamo una seconda scelta... In realtà il più delle voltese se non vediamo altre soluzioni è perché siamo noi in primis a non volerle vedere....»
Yukino distolse lo sguardo.
«Fidati di me» cercò di richiamarla a sè Roberto mettendo il cellulare nella tasca dei suoi jeans e porgendole la mano destra.
Yukino non sapeva davvero cosa fare, fissava quella mano sospesa indecisa se afferrarla o meno.
Prima che potesse prendere una decisione Roberto ricevette una chiamata. Senza esitare rispose. Era il piccolo del gruppo. Quelli dell'emittente televisiva si erano resi conto del furto e tutti nello stabile erano in cerca di loro. Dovevano muoversi ad uscire di lì. Roberto mandò un messaggio a Kei chiedendogli di raggiungerlo nello studio del direttore. Al momento era il posto più sicuro in cui stare: nessuno li avrebbe cercati lì dentro. Dovevano pensare a un piano per scappare. Kei spalancò poco dopo la porta, con il fianto mozzato per la corsa fatta si catapultò all’interno della stanza.
«E lei cosa ci fa qui?» esordì sorpreso di trovarci all'interno Yukino.
«È una lunga storia» gli rispose Roberto mentre l’altro lo fissava scettico.
«In ogni caso, si può sapere cosa diavolo ti è venuto in mente? Per quale stramaledetto motivo mi hai chiesto di uscire allo scoperto per creare un diversivo? L'idea non era forse quella di passare inosservati?»
Yukino squadrò sorpresa Roberto.
«Diciamo che dovevo interrompere qualcosa che non mi stava piacendo per niente... ad ogni modo questo non è importante, dobbiamo trovare il modo di uscire di qui prima che qualcuno ci scopra..»
Kei non riusciva a capire. Senza ribattere riprese in mano il discorso.
«Non sarà forse già troppo tardi?» asserì fissando di sbieco Yukino. Verso di lei nutriva ancora un intenso risentimento e la cosa era molto trasparente per tutti in quella stanza.
Yukino in quel momento sentì che in qualche modo era in debito con quei due e che doveva sdebitarsi in qualche modo con loro. Se non fossero intervenuti probabilmente per lei le cose con il direttore Mashimoto si sarebbero evolute per il peggio.
«Seguitemi... conosco un passaggio secondario» asserì avviandosi verso la porta.
«Perché mai dovremmo fidarci di te?» proseguì Kei squadrandola con scetticismo.
«Perchè ho appena fatto la mia scelta e ho scelto di aiutarvi, almeno per oggi..» affermò squadrando Roberto che acconsentì con un  leggero sorriso sul viso.
Kei scorse quello scambio di sguardi carico di sottintesi e leggendo la complicità negli occhi dei due decise di fidarsi del giudizio di Roberto e di seguire Yukino.
«Aspettate un attimo, abbiamo ancora un problema da risolvere, Shin è ancora giù nella hall».
Yukino si soffermò a riflettere.
«Ditegli di prendere le scale di emergenza e salire al terzo piano, ci incontreremo lì».
Kei senza perdere tempo fece come gli era stato suggerito da Yukino.
La stessa poi fece segno ai due ragazzi di aspettarla lì. Dopo una decina di minuti rientrò con tre giubbini della security per loro.
«E questi cosa sarebbero?» domandò Kei squadrandoli perplesso.
«Il vostro lasciapassare di oggi. Sarete le mie guardie del corpo... nessuno sospetterà mai di voi se mi starete vicino in queste vesti..».
Roberto senza perdere tempo si mise gli occhiali scuri e il giubbotto e così fece anche Kei.
I tre erano pronti ad uscire.
 Nel frattempo Shin era nella hall che cercava di passare inosservato. Ma la cosa era a dir poco difficile, tutti erano alla ricerca degli infiltrati. Così era rimasto nascosto dietro una strana pianta tropicale in attesa del momento giusto per raggiungere le scale antincendio a pochi metri da dove si trovava. Era lì in attesa quando il giovane assistente della rete televisiva a cui avevano derubato gli indumenti si accorse di lui e additandolo urlò «eccoti, ti ho trovato!» A quel punto Shin capì che momento o non momento, doveva correre. Corse mentre il giovane e snello assistente lo inseguiva facendosi spazio tra i vari giornalisti ammucchiati all'ingresso. Entrambi presero un corridoio secondario e poi una porta di emergenza che conduceva alle scale di emergenza di quel piano. Stava salendo le scale quando Shin si sentì strattonare dalla maglia, perse l'equilibrio e rotolò giù dalle scale ma qualcosa attutì la caduta. Senza perdere tempo si rimise in piedi notando l'assistente arrotolato sul pavimento. In un primo momento ebbe la tentazione di cogliere l'occasione e andare via, ma qualcosa attirò la sua attenzione. Il cappello del giovane si era scostato e da sotto lo stesso era uscita una folta chioma brunastra. Shin roteò il corpo inerme ai suoi piedi in modo da metterlo a pancia in su. La visione lo atterrì, quello steso sul freddo pavimento non era un ragazzo ma una ragazza. Si chinò per verificare che respirasse ancora.
Per fortuna sembrava aver perso solo conoscenza.
Shin non sapeva perché, ma sentiva che non poteva lasciarla lì. Se la caricò sulle spalle e iniziò a salire le scale.
Quando arrivò al terzo piano trovò Kei, Roberto e Yukino con i mano un giubbino della sicurezza lì ad aspettarlo .
«E lei chi sarebbe?» chiese Kei squadrando la ragazza che Shin portava sulle spalle.
«Dovremmo portarla in ospedale. Non possiamo lasciarla qui» gli rispose ansimante Shin.
Yukino acconsentì.
«Bene, non abbiamo molto tempo. Prendete queste, sono le chiavi della mia auto... andate.... nessuno vi fermerà vedendovi con i giubbini della security. Muovetevi, io proverò a creare un diversivo... ci vediamo in ospedale....» detto questo Yukino si rifilò correndo verso la sala conferenze. Roberto prese in mano le redini della situazione guidando i suoi amici verso il parcheggio sotterraneo.
Shin era sfinito. Una volta raggiunta la vettura scaricò esausto la ragazza sui sedili posteriori della decappottabile di Yukino. Una volta nella vettura i tre uscirono indisturbati dalla Music Station.
 
Hana era con suo padre all’aeroporto. Presto sarebbe tornata a vedere. La cosa aveva dell’incredibile. Erano in fila per il check-in quando un uomo dalla voce profonda accorgendosi della sua disabilità fece segno a Otto e a sua figlia di passare avanti.
«La ringrazio è molto gentile…» intervenne l’anziano barista.
«Si figuri…» insistette l’uomo con la spessa montatura nera che gli copriva lo sguardo.
«Non abbiamo bisogno della sua gentilezza, aspetteremo in fila come tutti gli altri» intervenne in tono offeso e risoluto Hana.
L’uomo in fila davanti a loro a quelle parole sorrise.
«Hai un bel caratterino ragazzina…» sottolineò divertito.
Otto si piegò in avanti, costringendo sua figlia a fare altrettanto spingendole leggermente giù la testa.
«La prego la scusi, crescerla da solo non è stato facile. Chiedi immediatamente scusa Hana…» spronò poi sua figlia in tono severo.
«Perché dovrei scusarmi per aver rifiutato una gentilezza che non ho richiesto!» Proseguì offesa la stessa sfuggendo alla presa forzata di suo padre sulla sua nuca.
«Lasci perdere… non occorrono delle scuse» proseguì l’uomo vestito di tutto punto
«anzi, mi scuso io se l’ho offesa in qualche modo signorina. Non era mia intenzione farlo…».
Hana sollevò il mento e con superbia altezzosità incrociò le braccia allo stomaco.
«Ora si che ragioniamo. Accetto le sue scuse».
L’uomo fece un leggero inchino e poi si rimise in fila sotto lo sguardo sconvolto di Otto.
Lo stesso si avvicinò quatto quatto a sua figlia.
« Una volta usciti dalla fila facciamo i conti noi due…».
«Si, certo. Come no…»
 
Una volta saliti sull’aereo Otto rimase sconvolto scoprendo che lui e sua figlia avevano i posti proprio accanto all’uomo incontrato poco prima al check-in.
«Salve, è un piacere rivederla» lo accolse lo stesso.
Otto fece un leggero inchino, si vergognava ancora per la magra figura che sua figlia gli aveva fatto fare.
«Il piacere è nostro. Hana siediti qui» indicò alla figlia il primo posto sul corridoio aiutandola ad accomodarsi. Poi anche lui prese posto tra quell’uomo gentile e sua figlia. Decise che la cosa migliore era mettersi tra quei due. Non voleva rischiare ulteriori figuracce.
Hana una volta seduta si infilò le cuffie alle orecchie isolandosi completamente.
Otto ringraziò il cielo. Almeno non correva il rischio che sua figlia potesse comportarsi come al suo solito.
«Ha un bel caratterino sua figlia» aprì il discorso l’uomo sofisticato accanto a lui sfilandosi le lenti scure dagli occhi. A quel punto Otto strizzò gli occhi un paio di volte, quell’uomo gli sembrava di averlo già visto molto tempo prima da qualche altra parte.
«Scusi se mi permetto, ma ci siamo mai incontrati prima di oggi? Non so perché ma il suo mi sembra un viso famigliare» gli chiese.
«Tutto può essere, ma mi dica, da quel che vedo anche voi siete diretti in Cina proprio come me, qual è lo scopo del vostro viaggio?» cercò di cambiare il discorso.
«In realtà un nostro amico ci ha dato il numero di questo chirurgo che potrebbe far recuperare la vista a mia figlia. Quindi stiamo andando in Cina perché ci sono buone probabilità che presto la opererino… ».
«Capisco. Che coincidenza anche io mi sto dirigendo in ospedale.  A quale ospedale siete diretti?».
«Al Xiehe Hospital» gli rivelò Otto.
«Che coincidenza, siamo diretti allo stesso ospedale…» si sorprese l’uomo alto con la voce profonda.
Non fecero in tempo a proseguire il discorso che la voce del capitano di bordo arrivò a interromperli. L’aereo stava per partire.

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Capitolo 42
*** L'AMULETO ***


CAPITOLO 42

L’AMULETO

 

Italia

Dietro quel bancone Clara si era ritrovata un sacco di volte, ma stare lì ferma in attesa del prossimo cliente della giornata l’annoiava adesso più che in passato. 

Riprese tra le mani il suo telefonino. 

Nessun messaggio ne dalla sua migliore amica, ne da suo fratello e neanche da Toshi. 

Non che si aspettasse un messaggio da quest’ultimo visto il modo in cui si erano lasciati. 

Avrebbe voluto scrivergli un messaggio, ma allo stesso tempo, quando ci provava si ritrovava sempre a corto di parole. Cosa davvero rara per lei. 

Ripensò a quella macchina da scrivere che aveva lasciato in Giappone, all’orfanotrofio, alla piccola Naoki e al piccolo Colla. Chissà se stavano facendo i capricci come al loro solito. 

“Ci sarà qualcuno che racconterà loro ancora delle storie? Ne dubito, lo zio sarà troppo indaffarato con la band per farlo… ” sospirò riponendo il telefono nella tasca dei suoi jeans neri attillati. 

Aveva ancora la testa tra le nuvole quando Eichi entrò nel negozio con due caffè fumanti.

«Ancora con la testa tra le nuvole?» esordì porgendone uno dei due a sua figlia. 

Clara sfoderò uno dei suoi sorrisi più dolci prendendo tra le mani, fredde per il freddo, quella calda bevanda. Era felice di aiutare suo padre, ma doveva ammettere che una parte del suo cuore era rimasta dall’altra parte del mondo. 

«Lo sai che sono fatta così….»

Eichi sollevò un sopracciglio scettico. Sua figlia era un libro aperto. 

«A cosa stavi pensando?» le chiese pur conoscendone la risposta. Aveva capito che a sua figlia mancava il Giappone o forse gli mancava qualcuno che aveva dovuto lasciare lì. 

Clara si rigirò il bicchiere di polistirolo caldo tra le mani…

«Pensavo che tra poco arriverà Natale e mi chiedevo se lo zio avrà il tempo di allestire l’albero per i bambini…».

Eichi le sorrise sporgendosi verso di lei sul bancone poggiandosi ad esso a braccia conserte. 

«E se quest’anno ci pensassimo noi?». Clara sgranò gli occhi. 

«Cosa vuoi dire papà?»

Eichi si risollevò alzando il mento con aria soddisfatta. 

«Stavo solo pensando che potremmo trascorrere il Natale a Tokyo. Sono anni che non vedo la mia città in quel periodo e poi faremmo una bella sorpresa anche a tua madre, a tuo zio e a tuo fra… » in quel momento Eichi si bloccò ricordandosi dell’ultimo incontro avuto con Roberto, un incontro che non era andato nel migliore dei modi. 

Clara si sporse oltre il bancone per sfiorare rassicurante il braccio di suo padre. 

«Sono sicura che gli sarà già passata papà e che anche lui sarà felice di vederti».

Eichi sospirò, «lo spero». 

Proprio in quel momento il telefono nella tasca dei jeans di Clara squillò, subito la ragazza si apprestò a rispondere. 

«Pronto? Ah… Luca, sei tu… dimmi» Eichi rimase in trepidante attesa. Fin quando vide sul viso di sua figlia dipingersi un brillante sorriso. Ma fu in seguito, quando la vide trattenere un urlo di esultanza, che afferrò la portata di quello che stava succedendo. Quella telefonata portava con sé il profumo di buone notizie. 

«Papà hanno deciso di pubblicare il mio libro!» esordì una volta chiusa la chiamata. 

Eichi era così fiero di sua figlia che per poco non scoppiava in lacrime per la contentezza. 

 

Giappone 

Mary era alla King Records in compagnia di Yori. Le due erano nella sala studio in cui gli Hope erano soliti fare lezione. 

«Yori, dimmi la verità, cosa succederà se Take dovesse decidere di rimanere alla Music Station?».

La stessa si prese qualche secondo per rispondere. 

«A dire la verità non saprei… Sicuramente la cosa potrebbe compromettere il concerto… I ragazzi si sono preparati così tanto… Questo sarebbe stato il loro primo concerto e l’inizio di molti altri ma se Take decidesse di rimanere alla Music Station occorrerà rimandarlo… Per darci il tempo di arrangiare nuovamente i pezzi, le coreografie e rifare tutti i gadget…»

«Tutto questo vi porterà a una intingente perdita dico bene?» Yori acconsentì con sguardo preoccupato. 

«Capisco..». Mentre le due parlavano, una delle segretarie di Rio entrò nella stanza. 

«Scusate, ma ho un messaggio da parte di Toshi dice di non aspettarli per la lezione del pomeriggio perché hanno avuto un imprevisto!». Yori sobbalzò dalla sedia indignata. 

«Come sarebbe un imprevisto?!»

«Non ha aggiunto altro… » si mortificò la segretaria. 

«Quei ragazzi!» sospirò Yori facendo segno alla giovane vicino la porta di andare via. 

Toshi nel frattempo aveva raggiunto i suoi amici all’ospedale vicino la Music Station. 

«Si può sapere cosa cavolo ci fate qui? Mia madre ci ammazzerà per colpa vostra…» non fece in tempo a finire la frase che notò la faccia preoccupata di Shin. 

Kei prese il leader per un braccio costringendolo ad allontanarsi dal più piccolo.

«Si può sapere cosa sta succedendo?»

«Mentre eravamo in fuga dalla Music Station una ragazza è rimasta ferita e allora ci siamo sentiti in dovere di accompagnarla in ospedale»

«Bene, avete agito nel modo giusto, ma adesso dovete venire via con me! Non vorrete che scoppi un altro scandalo proprio ora…»

Kei si strofinò la nuca amareggiato. 

«È quello che abbiamo detto anche a Shin, ma si è rifiutato categoricamente, dice che vuole aspettare finchè non si sarà ripresa per scusarsi con lei di persona»

«Ma è impazzito? » quasi urlò fuori di sé Toshi. Kei si portò l’indice alla bocca facendo segno all’altro di abbassare i toni. Toshi sospirò.

«In ogni caso come avete fatto a portarla qui?»

«A dire il vero… » Kei non fece in tempo a finire la frase che nel pronto soccorso sopraggiunse un altro codice rosso.

I due si fecero da parte e sulla barella si sorpresero di vedere Yukino.

«Credo ci convenga passare la notte qui… abbiamo molte cose di cui parlare credo… ».

 

Shin era seduto al capezzale di quel letto di ospedale. I lunghi capelli corvini della ragazza incorniciavano il suo viso bianco come la prima neve. 

Si sentiva mortificato. Era la prima volta che faceva del male a qualcuno e per di più a una ragazza. Era immerso in quei pensieri tinti di sensi di colpa, quando vide gli occhi della giovane vibrare debolmente. Si accostò a lei per essere certo di non aver visto male. Poi gli stessi si spalancarono improvvisamente. Entrambi i ragazzi rimasero immobili a guardarsi, poi la giovane distolse per un attimo lo sguardo da Shin sembrava avesse notato qualcosa o qualcuno alle spalle del più giovane membro della band. Così Shin si voltò d’istinto anche lui, ma alle sue spalle non c’era che la sua ombra proiettata sulla parete. 

«Va via, ti prego.» Furono le prime parole della giovane. Shin si voltò pensando che quelle parole fossero per lui, ma una volta giratosi verso di lei notò che la ragazza aveva ancora lo sguardo puntato nel vuoto. 

Shin pensò che forse aveva delle allucinazioni dovute al trauma cranico così stava per uscire e chiamare qualche infermiere, ma la ragazza lo trattenne per un polso. 

«Aspetta, non lasciarmi sola…». Shin allora si risedette al suo posto. 

Quella ragazza aveva uno sguardo stanco, triste e impaurito anche se cercava di mascherarlo, ma proprio Shin non capiva di cosa avesse così tanta paura. 

«Va tutto bene?» Le chiese. Finalmente la ragazza si voltò verso di lui sembrava tormentata dai pensieri come se fosse indecisa se dire o meno qualcosa. 

«Acqua. Mi porteresti dell’acqua?». Shin acconsentì uscendo di corsa dalla stanza.

Adesso Seiko era sola. 

O meglio non lo era ma era l’unica persona ancora viva in quella stanza. 

La sagoma fluttuante avvolta in un’aurea blu cobalto si avvicinò a lei. I suoi capelli castani fluttuavano nell’aria come se si trovasse immersa nelle fredde acque del fiume Kuma. 

Seiko cercava di calmare i battiti del suo cuore. Erano anni che non vedeva più spiriti. L’amuleto di sua nonna doveva aver svanito il suo effetto. Era un bracciale che teneva al polso. Provò a cercarlo tastandosi il braccio senza perdere con lo sguardo la sagoma che lenta si avvicinava, ma si accorse di non averlo più. Il panico iniziò a prendere il sopravvento. La sua vita senza di esso sarebbe ritornata ad essere un vero incubo senza giorno ne notte, senza riposo ne serenità. 

La sagoma fluttuante si fermò a pochi centimetri dal suo capezzale. 

Fu allora che parlò. 

«Mi spiace, ma non ho altro modo per avvertire i mie figli. Non voglio spaventarti ne tormentarti.»

Seiko tirò un sospiro di sollievo non sembrava uno spirito malvagio. 

«Tuo figlio è quel ragazzo che è appena uscito, dico bene?». 

La donna acconsentì. 

«E’ in pericolo.»

Seiko corrucciò le sopracciglia. 

«E io cosa dovrei fare?». A quel punto, senza darle risposta, la sagoma svanì. Proprio in quello stesso istante la porta si aprì ed entrò Shin con una bottiglietta di acqua nella mano destra. 

«Ecco, per te» disse porgendogliela. La ragazza senza ringraziarlo l’aprì continuando a guardarlo con aria circospetta come se cercasse qualche risposta nel viso di quel ragazzo gracile e preoccupato davanti ai sé. 

«Qualcosa non va?». Le chiese. 

«Perchè sei rimasto?» Gli chiese dopo aver bevuto un sorso misurato di acqua. 

Shin si massaggiò la nuca reclinando lo sguardo verso il pavimento, «volevo scusarmi. Non era mia intenzione farti del male, ne sono sinceramente dispiaciuto…».

Seiko finalmente si rilassò concedendosi un mezzo sorriso. 

«Non occorreva. Comunque dove ti ho già visto?».

Shin ritornò a guardarla negli occhi. 

«Mi chiamo Shin e sono un membro degli HOP…» non completò la frase che si coprì d’istinto la bocca, maledicendosi per essersi lasciato scappare quella informazione. Era comunque una dipendente al servizio di una rete televisiva. 

«Tranquillo, non creerò problemi ne a te ne agli HOPE. Dopotutto ti sei preso cura di me, avresti potuto lasciarmi lì e invece mi hai portato in ospedale, quindi si può dire che sono in debito con te Shin». Lo stesso sospirò sollevato. 

«Grazie».

La giovane gli sorrise porgendogli la mano destra «il mio nome è Seiko, piacere di conoscerti Shin». 

“Se voglio liberarmi di quello spirito dovrò starti vicino e proteggerti ragazzino… almeno finché non ritroverò quel bracciale”.

Shin ricambiò il gesto stringendole sollevato la mano.

«Il piacere è tutto mio, Seiko».

 

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