Non ho idea di che razza di creatura io sia

di LaFormicaElettrica
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Caldo insopportabile ***
Capitolo 2: *** La verità.docx ***
Capitolo 3: *** Una macchia appiccicosa sull'asfalto ***



Capitolo 1
*** Caldo insopportabile ***


If I put on a disguise

will you think everything's alright?

 

The XX - Performance

 

 

 

 

 

C'è un caldo insopportabile qua sotto.

Sento il mio sudore, denso e vischioso, sgorgare fuori dalle branchie sulle mie tempie, e scivolare in grosse gocce lungo le guance, verso il collo e il buco della bocca.

Ho paura che se arrivasse a filtrare attraverso i punti in cui la mia maschera è attaccata al viso potrebbe iniziare a scollarla.

Ho bisogno di andare in bagno. Potrei chiudermi dentro e sfilare la maschera per qualche minuto, asciugarmi la faccia con un fazzoletto e mettere un altro po' di colla sulle giunture.

Il fatto è che la sola idea di dover passare accanto a tutte queste persone, col rischio che potrebbero magari tirare una gomitata distratta sulla mia pelle sottile, magari romplendola, mi angoscia terribilmente.

Meglio che me ne resti ancora un po' qui ad aspettare, in questo angolo in penombra accanto alla libreria, avvolto nel mio impermeabile nero.

Guardo di nuovo il telefono. Magari ha vibrato mentre era nella tasca e non me ne sono accorto. Sblocco lo schermo, ma niente, ancora nessun messaggio. Sarà la ventesima volta che controllo.

Mi ha scritto che sarebbe arrivata entro dieci minuti ormai mezz'ora fa. Inizio a preoccuparmi. Lei è l'unica che potrebbe tirarmi fuori da questa situazione. Mi porterebbe nella sua stanza, io potrei togliermi il cappotto, gli occhiali da sole e il cappello e potremmo passare il resto della serata a scriverci e guardarci, seduti sul letto l'uno accanto all'altra, finché tutta questa gente non si sarà stancata di starsene qui a ridere e bere e se ne tornerà a casa, lasciando sfumare ai margini della loro mente l'immagine di questa figura inquietante e solitaria seduta in un angolo della stanza.

-non bevi niente?

Alzo lo sguardo verso la voce che mi parla. In piedi accanto a me c'è questo ragazzo, alto, con la mascella e le spalle larghe e un sorriso rilassato che gli si distende sulle guance rasate. Riconosco la sua voce. È tutta la sera che, emergendo attraverso il brusio e le risate degli invitati, la sento farsi spazio ora qui e ora lì, a più riprese. È una voce profonda e piena, quando esce dalla sua bocca sembra prendere spazio tra le persone, comporsi in una forma solida e bella, una scultura di parole chiare, ben dosate, necessarie.

Gli faccio cenno di no con la testa, per rispondere alla sua domanda.

-Astemio?

Sempre con un movimento della testa gli dico di si. Non è falso, del resto quando il solo contatto con l'alcol corrode la tua pelle credo che si possa parlare di una forma grave di astemia.

-Capito

Posa su di me uno sguardo benevolo. Mi sento accolto. È come se le pareti della stanza fossero parte di lui, e lui le usasse come braccia, per circoscrivermi in un ambiente che ora sembra essersi fatto improvvisamente più sereno.

Per un attimo la mia angoscia svanisce. Nello sguardo di questo ragazzo mi sento di aver trovato un motivo per essere qui. Ho un posto tra tutti questi giovani universitari ubriachi, ed è il mio posto, come loro hanno il loro, come i pezzi si dispongono su una scacchiera, tutti di diverso valore ma tutti indispensabili.

È un attimo però. Mi ci vuole poco a rendermi conto che le buone maniere del giovane, probabilmente studiate e sempre uguali per qualsiasi persona si trovi davanti, non stanno bene su di me. Se solo sapesse chi sono, cosa sono, si allontanerebbe subito da qui.

Per ora, probabilmente, nella sua testa sono nient'altro che una persona molto timida, un po' scontrosa, magari con qualche problema mentale. Le mie maniere brusche non lo tengono lontano come tengono lontano gli altri, niente del genere può scuotere il piedistallo così solido della sua persona, come un alito di vento non può abbattere un grattacielo.

Ma se mi vedesse per quello che sono? Se svelassi le mie forme gelatinose e trasparenti ai suoi occhi?

L'angoscia torna a dipingere il mio mondo di ombre e minacce.

Non mi toglie gli occhi di dosso. Forse, attraverso il riflesso scuro dei miei occhiali, è riuscito a scorgere il vuoto nelle mie orbite, forse la maschera si è staccata dal collo e ora riesce a intravedere un lembo della mia pelle.

Prendo di nuovo il telefono, controllo l'ora, faccio qualcosa, qualsiasi cosa per fargli capire che voglio restare da solo.

-sei un amico di Sara?

Gli rispondo di si. Non è vero, in realtà conosco solo la sua coinquilina, ma spiegare una cosa del genere non è facile quando non hai una voce, poi magari questa risposta può servire a placare la sua curiosità, a raffreddare i suoi dubbi più pericolosi.

-ah! Piacere di conoscerti! Io sono Pietro, il ragazzo di Sara!

Mi porge una mano. La guardo. È grande, percorsa da grosse vene, pronta a stritolare con decisione quella flaccida creatura piena di tentacolini che se ne sta chiusa in un guanto alla fine del mio braccio. Sventolo la flaccida creatura avanti e indietro per l'aria, come a volerlo salutare da lontano.

Lui ride e imita il mio gesto.

-vabbè, mi sa che te ne vuoi stare un po' per conto tuo è? Io vado a farmi una birra, se ti serve qualcosa chiedi a me o a Sara!

Finalmente mi da le spalle e si allontana, perdendosi di nuovo tra la folla degli invitati.

Mi sento sollevato. L'angoscia allenta leggermente la presa intorno al mio torace. La conversazione mi ha fatto sudare tantissimo. Una sacca piena di liquido si è riempita tra le mie guance e la maschera, e un po' me ne entra nel buco del naso.

Sento il mio telefono vibrare un paio di volte nel palmo della mano sinistra.

Oh! Finalmente! Oh! Cristo Santo finalmente!

Sblocco lo schermo e premo sul logo di Whatsapp. È proprio lei, Caterina.

-Scusami per il ritardo, c'è un sacco di traffico :( altri dieci minuti e sono lì!

Oh, grazie a Dio.

Stringo forte tutte le mie speranze intorno all'immagine mentale di lei. Attingo dalla tavolozza della memoria i tratti del suo viso, le guance magre e lentigginose, le labbra sottili, quasi della stessa sfumatura di colore delle lentiggini, e gli occhi scuri su cui cala, come una tendina, una frangia di capelli rossi e mossi. Continuo a smussare gli angoli, a sfumare i colori, torno continuamente sui tratti per perfezionarli, per renderli più simili al modo in cui mi apparirà il suo volto dal vivo, o forse per renderli ancora più belli di come saranno in realtà. Sgombero la mia mente da tutto il male che la assedia e la trasformo in questo atelier di ossessioni, la stessa cosa che faccio quando non riesco a prendere sonno la notte. Poi, insoddisfatto di lavorare solo sulle immagini, impossibilitato a lavorare anche sulla materia, come farei nel mio rifugio, inizio a tessere, per la milionesima volta, tutta la storia passata tra me e Caterina.

 

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Capitolo 2
*** La verità.docx ***


Ci siamo conosciuti per caso tramite Facebook. Io le ho inviato la richiesta di amicizia, come del resto l'ho inviata a tanti altri volti e nomi sconosciuti in quel periodo, lei l'ha accettata e dopo qualche giorno mi ha scritto.

Le nostre prime conversazioni erano banali e stereotipate, andavano avanti per inerzia, sfumavano quasi nella noia. Io ero ben attento a rispettare i confini del personaggio che mi ero inventato. Uno studente di scienze delle comunicazioni di ventun'anni, amante del cinema e della musica metal. Lei, per quanto il suo personaggio non fosse completamente immaginario, seguiva un copione abbastanza simile. Diciannove anni, al primo anno di giurisprudenza, studentessa fuorisede.

Parlavamo dei nostri hobby, dei nostri film preferiti, dei viaggi che avevamo fatto e via discorrendo.

Poi, gradualmente, in modo spontaneo, la nostra relazione ha iniziato a trasformarsi. Ho iniziato a parlarle di certe mie angosce, di certe mie paure, della mia disperazione. L'ho presa alla larga, inizialmente circumnavigando il nocciolo dei miei discorsi con un linguaggio quanto più possibile astratto, filosofico, parlando della condizione esistenziale dell'essere umano, e sciocchezze simili. Poi mi sono messo ad inventare storie sul mio passato, su come fossi stato adottato da una famiglia che non mi voleva bene, su quanto i traumi del passato mi rendessero difficile avvicinarmi alle altre persone. Le prime volte riassumevo queste storie in poche righe di chat, poi, non ricordo neanche più con quale pretesto, ho cominciato a dargli una forma narrativa, a stenderle su Word inviandogliele poi come allegato. Ho cambiato nel tempo i contorni del mio personaggio, abbattendo delle pareti, aggiungendo delle stanze, creando labirinti, inventando trame che a volte arrivavano anche a contraddirsi tra di loro.

Anche lei, reagendo ai miei discorsi, iniziò a cambiare.

Tanto più irruento di faceva il modo in cui riversavo contro di lei le mie angosce, tanto più lei allargava lo spazio in cui riusciva a contenerle. Diceva di capirmi, che non ero solo, che anche lei a volte si sentiva così, che andava bene sfogarsi, che con lei lo potevo fare ogni volta che volevo, ogni volta che mi serviva. Io ero un mare agitato e violento, lei la scogliera che, dopo essere stata scavata per secoli dalle onde, si trasforma in una caletta accogliente.

Infine, una notte, decisi di dirle tutta la verità. Ero stanco di incartare il mio tormento interiore in quei brutti involucri di patetismo, stanco di proporle quelle insulse trame da soap opera, che lei assorbiva con una pazienza che io non avrei mai avuto nei confronti di spazzatura simile.

Così stesi il mio racconto. Lo scrissi di getto nel giro di una mezz'ora, senza neanche il bisogno di pensare a ciò che scrivevo, come se le lettere sgorgassero fuori l'una dopo l'altra da una vescica in cui le avevo trattenute per fin troppo tempo.

Quando ebbi finito glielo inviai. Non le scrissi niente, non le spiegai il significato di quel file aggiungendo qualche riga di introduzione, non la salutai neanche, non volli neanche sapere se l'avrebbe letto subito o l'indomani.

Semplicemente inviai il file, gettai la mia verità, nuda e assurda, contro di lei, sperando che anche stavolta lei aprisse le braccia e il cuore per raccoglierla al volo.

 

 

Qualsiasi informazione che ti ho dato su di me è falsa. Le foto del profilo le ho rubate da altri account, e anche il mio nome è inventato. È inventato perché me lo sono dato io, non è scritto su nessun documento di nascita, perché quando sono nato non c'era nessun altro a darmene uno. Sono nato quattro mesi fa, circa un mese prima di conoscerti.

La prima cosa di cui ho preso coscienza, nascendo, è stato il dolore delle mie gambe incastrate dentro la tazza del cesso. È da lì che sono venuto fuori. Me ne stavo lì con le cosce strette dentro l'anello della tavoletta e il busto ripiegato su queste, rannicchiato. Strabordavo fuori come un enorme escremento biancastro. Con le mani mi sono spinto oltre il bordo della tazza , ricadendo sul pavimento e trascinandomi fuori. Ricordo l'angoscia crescere e articolarsi dentro di me insieme ai miei sensi e i miei organi, come fosse un organo anch'essa. La mia pelle, sottile morbida e semitrasparente, dello stesso colore e consistenza della testa di una medusa, si stracciava in lembi che restavano appiccicati alle maioliche del bagno, man mano che mi trascinavo avanti poggiando sugli avambracci. Mi sono poi aggrappato allo stipite della porta, riuscendo a tirarmi in piedi con fatica.

Ricordo che l'unica luce che illuminava la stanza era quella della luna, che entrava da una finestra senza vetri né persiane. Gli altri mobili del bagno erano stati portati via, lasciando buchi nel muro e contorni di muffa intorno alla parete da cui erano stati staccati. Neanche la porta c'era. Il primo pensiero di senso logico che sono riuscito a intrecciare, ripescando memorie e conoscenze arrivate da chissà dove, era che quel posto dovesse essere abbandonato. L'udito però, uscendo fuori in tutta la sua capacità in quel momento, come esplodendo fuori da una bolla nell'orecchio, mi suggeriva una cosa diversa.

Sentivo dei rumori arrivare dall'altra stanza.

Voci e risa echeggiavano nello spazio ampio e vuoto di quella che una volta doveva essere stata una sala da pranzo. Al centro della stanza, come raccolte davanti a un fuoco pallido e bianco che gli illuminava il volto, c'erano queste tre figure, questi tre ragazzi seduti a terra davanti a un monitor. Ho fatto qualche passo in avanti, barcollando sulle mie gambe flaccide e cedevoli. Man mano che con la mia debole vista riuscivo a metterli meglio a fuoco mi rendevo conto di sempre più dettagli della scena. Guardavano un film, fumavano e bevevano da delle lattine di birra. Gli sono arrivato così vicino da riuscire a distinguere il profilo dei loro volti, mentre loro, nel buio quasi completo in cui me ne stavo, ancora non erano riusciti a vedermi.

Volevo parlargli. Volevo fargli domande. Non chiedergli chi fossero, non chiedergli perché fossero lì, ma chiedergli chi IO fossi, come IO mi fossi ritrovato in quel posto.

Ho preso un po' di fiato, cercando di spingere qualche parola fuori dalla gola, di salutarli, di avvertirli che ero lì. Quella roba che ha cominciato a colarmi fuori dalla bocca però non aveva niente a che fare con le parole. Era una sostanza densa, calda e vischiosa. È sgorgata fuori da me insieme a un brutto rantolo, simile a un lamento di dolore, e si è riversata sul pavimento con un suono simile a uno schiaffo.

A quel punto i ragazzi si sono girati di scatto verso di me, imprecando sottovoce. Ho visto una torcia puntarmi dritto negli occhi, poi ho sentito delle urla, delle bestemmie, l'impatto di qualcosa di doloroso e fino che mi colpiva in mezzo alla fronte e una tempesta di passi veloci che si moltiplicava echeggiando nella stanza, svanendo poi pochi secondi dopo.

Sono fuggiti, e nella fuga hanno lasciato lì tutte le loro cose.

Sulla mia testa si era aperta una ferita, lo sentivo, come sentivo chiaramente che da quel taglio doloroso colava fuori qualcosa, qualcosa di molto simile a ciò che mi era uscito dalla bocca un attimo prima.

A terra davanti a me, nella luce del monitor del computer ancora acceso, ho distino la forma nera e rettangolare di uno smartphone. Mi sono chinato e l'ho raccolto, rendendomi conto nello stesso istante in cui lo prendevo tra le dita che sapevo perfettamente come usarlo.

La app torcia era ancora accesa. Era quella che mi avevano puntato contro ed era quello stesso telefono che mi avevano scagliato addosso. Ho spento la torcia e ho attivato la telecamera, poi ho premuto un'icona sopra allo schermo per cambiare la camera esterna con quella interna e attivato il flash.

Ecco il mio volto apparire nello schermo rettangolare. In un primo istante non sono neanche riuscito a realizzare che quella forma orribile fosse il mio stesso riflesso. Quando me ne sono reso conto ho sentito questa vertigine attraversarmi, scuotermi come fronde di un albero nel vento, e il telefono mi è quasi scivolato tra le dita. Mi sono dovuto fare forza per continuare a guardare, per costringermi a incollare l'idea di quella faccia sul mio stesso viso, per costringermi a sopportarla tutta appiccicata e ben stretta intorno alla mia mente lucida e terrorizzata.

La pelle era della stessa consistenza e colore di quella sul resto del mio corpo, e dentro la faccia non c'erano né occhi, ne labbra, né palpebre, né naso e né orecchie. Al loro posto soltanto dei buchi, e dentro ai buchi soltanto oscurità. Ai lati della fronte dei tagli puliti e paralleli, come delle branchie, e, in mezzo alla fronte stessa, quell'altro taglio che invece era stato tracciato dall'urto del telefono.

Dalla ferita, come avevo sospettato, fluiva lenta quella stessa sostanza che continuava a bagnarmi il mento colando dal buco tondo della bocca.

Ho acceso di nuovo la torcia e l'ho fatta scorrere sul mio corpo, dalle gambe in su. Attraverso i punti in cui la mia pelle si era rotta e strappata per l'attrito col pavimento riuscivo a vedere le mie ossa, simili a tubi di silicone seccato.

Mentre la verità di quell'essere immondo che ero si solidificava nella mia coscienza, delle lacrime iniziavano a scendermi dai buchi degli occhi. Puoi immaginare con facilità di quale sostanza fossero fatte, quelle lacrime.

 

Da quel momento ho iniziato a vivere questa mia assurda vita.

Vivo i questa villetta abbandonata, in mezzo alle campagne, a una decina di chilometri dalla città.

Per bere vado ad un ruscello che scorre a qualche centinaio di metri da questo casale di campagna abbandonato. Mangio insetti, mi basta qualche scarafaggio al giorno per sentirmi sazio, e qui dentro ne è pieno. Ogni notte prendo il portatile e il telefono e vado a un campo da calcio che sta proprio qua vicino. Negli spogliatoi del campo ci sono delle prese della corrente, che uso per ricaricare le batterie. Ogni tanto riesco anche a portarmi nel rifugio qualche indumento che i calciatori scordano qui quando si cambiano.

Ho scoperto che la mia strana pelle si può rigenerare da sola, infatti dopo un paio di settimane da che ero nato le mie gambe, il mio torace e la mia fronte erano come nuove. Inoltre, questa sostanza che il mio corpo getta fuori da tutti gli orifizi, dopo qualche giorno inizia a solidificarsi, e se la si prende nel giusto periodo di tempo la si può modellare come argilla, prima che diventi compatta e gommosa. Il tempo che non passo a stare su internet con il wi-fi del campo da calcio lo impiego per fare sculture con questa mia roba.

Sono diventato piuttosto bravo. Il mio soggetto preferito sei tu, Caterina.

 

Non ho idea di che razza di creatura io sia. So bene come funziona il mondo in cui vivete voi altri, ma non vi appartengo. Forse sono un fantasma, un fantasma di un ragazzo morto qui dentro tempo fa, di cui però non conservo nessuna memoria affettiva, solo memorie pratiche su come funzionano le cose. O forse sono un tipo di animale molto raro, che l'uomo non ha ancora scoperto, un animale senziente. O forse ancora una specie di semi dio, un angelo caduto, o un demone emerso dal sottosuolo, o dalle fogne.

Non lo so. Non so cosa sono.

Ma eccomi qui, su queste pagine.

Guardami.

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Capitolo 3
*** Una macchia appiccicosa sull'asfalto ***


Non mi aspettavo una risposta del genere.

Avrei preferito se avesse deciso di non rispondermi, di troncare i contatti con me, o almeno di arrabbiarsi, di chiedermi se la stessi prendendo in giro.

Non mi sarei mai aspettato da lei quel modo di fare ambiguo, opaco.

Quando le chiesi se mi credeva lei mi rispose che capiva la mia disperazione, che le dispiaceva che stavo così male. “ma credi alla mia storia”? Ribattevo, e lei mi proponeva un timido si, per poi subito tornare a parlare delle mie emozioni, e di come avrebbe voluto guarire la mia sofferenza. “Mi accetti per come sono?” “io ti capisco”. Le mandavo delle foto del mio volto orribile, e lei due volte su tre faceva finta di non averli ricevuti, oppure mi rispondeva semplicemente con un “ciao”, come se il mio fosse stato un modo come un altro per aprire la conversazione, come se quella foto non ci fosse proprio.

Si era ritirata lontano da me. I miei tentativi di raggiungerla si appiattivano contro lo schermo dello smartphone e restavano lì, parole e foto che restavano schiacciate su quel vetro luminoso, mentre lei se ne nascondeva dietro, lontana, continuando a vivere la sua vita, invisibile a me.

I miei modi si fecero col tempo più violenti. La contattavo spesso, anche sei, sette, otto volte al giorno. Le mandavo dei video terrificanti, nei quali mi riprendevo mentre piangevo o vomitavo la mia roba, e di solito glieli inviavo in dei momenti precisi, quando sapevo che era a lezione all'università o fuori con gli amici. Volevo rovinare i momenti più felici della sua vita, contagiare la realtà che la avvolgeva e rassicurava con l'orrore della mia esistenza, far marcire il suo mondo e le sue certezze.

Qualsiasi cosa facessi, però, lei non smise mai di rispondermi. I suoi modi si fecero sempre più formali, le sue parole svuotate e ripulite da tutto quell'affetto fatto di emoticon e punti esclamativi che le aveva colorate fino qualche settimana prima, il suo linguaggio ridotto a formule di compassione che mi concedeva oni volta, come lanciando degli spiccioli a un mendicante molesto, per potersene liberare e proseguire sulla propria strada. Mai una volta, però, mi negò quegli spiccioli, né mai io smisi di cercare la sua compassione.

 

Del resto è proprio per questo che ora sono qui. Non ho mai perso la speranza che lei possa tornare a scaldarmi con le sue parole, a comprendermi come faceva all'inizio. Questa speranza è l'unica cosa che mi permette di sopravvivere qui dentro.

Appena ieri, scorrendo per l'ennesima volta durante la mattinata sul suo profilo facebook, ho letto che la sua coinquilina avrebbe dato una festa per il suo compleanno l'indomani. Così ho scritto a Caterina, le ho detto che sarei passato anch'io alla festa perché avevo un paio di amici tra gli invitati. Lei, con la sua cordialità formale, mi ha risposto che le andava bene, solo che lei sarebbe arrivata un po' più tardi alla festa perché era da un'amica a studiare fino a cena.

Quindi oggi, verso le sei, mi sono incamminato a piedi. Ho percorso circa dodici chilometri, prendendo vie secondarie, addentrandomi tra i vicoli, cambiando marciapiede se vedevo qualcuno avvicinarsi nella mia direzione, facendo di tutto per restare il più possibile anonimo e distante dagli altri. Ho coperto quanta più pelle ho potuto con tutti i vestiti raccolti dagli spogliatoi del campo da calcio e ho indossato questa maschera che avevo creato tempo addietro con la mia roba, per gioco, modellandola sui tratti del ragazzo a cui ho rubato le foto da internet per usarle sul mio facebook. La pelle della maschera è un po' troppo chiara, e si fa quasi trasparente se viene esposta ad una luce troppo forte, ma per il resto i tratti del viso e la sua consistenza sono molto realistici.

Questo è il mio ultimo tentativo. Quando arriverà le chiederò di restare un po' da soli io e lei, magari entreremo nella sua camera, e quando sarò lì mi toglierò la maschera. Si ritroverà la mia verità davanti agli occhi, e non potrà far altro che iniziare daccapo ad accettarla o rifiutarla del tutto, e cacciarmi via. In ogni caso vedrò una sua reazione, vedrò i lineamenti del suo volto distorcersi per la paura, o per la tristezza, comunque cambiare. Riuscirò finalmente a toccarla di nuovo, a provocare qualcosa di vero in lei.

 

-Sei un'amica di Sara?

Di nuovo la voce di Pietro. Lo cerco con lo sguardo nella stanza. Eccolo lì, in piedi, con una bottiglia di birra in mano e lo sguardo abbassato sul divano davanti a lui. Il divano è di spalle rispetto a me, e dell'interlocutrice di Pietro non vedo che la parte superiore della testa, coperta da una folta chioma di capelli neri, spuntare da oltre la spalliera.

Un gruppo di ragazzi, seduti intorno al tavolo da pranzo nell'angolo cottura, iniziano ora a suonare la chitarra e cantare, riempendo col loro rumore tutta la stanza. Gli altri ospiti, radunati intorno al tavolo del buffett o appoggiati ai muri e sui braccioli del divano, cominciano a parlare gesticolando e scandendo le parole con esagerati movimenti della bocca, per farsi capire nel fracasso della musica. Anche la voce di Pietro viene sovrastata, e neanche sforzandomi di leggere il suo labiale riesco a capire di cosa stia parlando.

Mi chiedo perché si comporti in quel modo. Se ne va in giro per la stanza a presentarsi con cordialità agli invitati, a chedergli se hanno bisogno di qualcosa, come fosse il proprietario di un ristorante di lusso con la responsabilità di far sentire a proprio agio i clienti.

 

Il telefono vibra. Lo prendo, lo sblocco.

-Ehi come va? La mia amica purtroppo si è sentita male, siamo tornate da lei, non credo che riuscirò più a venire :( spero che ti divertirai con i tuoi amici!

Resto qualche secondo a fissare lo schermo.

Non verrà.

Sento come un telo scivolare via dalla realtà, lasciarla nuda, spoglia da tutte le speranze.

Non ho più parole. Non riesco più a tessere discorsi intorno alle cose.

Non ho neanche più motivo di essere qui.

Ovviamente non ci sono mai stati quei due amici che ho usato come giustificazione per essere qui stasera. Se solo avesse dato un minimo di valore alla mia storia lo avrebbe capito, ma lei la mia storia non l'ha mai voluta accettare. La mia storia è uno di questi stracci che ora se ne sta ammucchiato per terra, caduto via dal mondo, insieme all'intera matassa dei miei pensieri, dei miei dubbi, delle mie emozioni. Non ho più niente.

Sento solo il caldo. C'è un caldo insopportabile qua sotto.

Mi alzo, mi tolgo il cappello, mi tolgo gli occhiali, mi tolgo i guanti, infilo le dita tra il collo e il tessuto gommoso e sfilo la maschera.

Non sento più la musica, non sento più il brusio dei discorsi tra gli invitati, non sento neanche la voce di Pietro.

Però continuo a sentire caldo, quindi lascio che anche l'impermeabile mi scivoli via dalle spalle.

Ora va molto meglio.

Alzo lo sguardo. Mi fissano tutti.

Hanno gli occhi sbarrati, le bocche semi aperte. Alcuni si guardano intorno con i palmi delle mani rivolti verso l'alto, come cercassero spiegazioni, mentre altri camminano indietreggiando oltre i mobili, con passi lenti e trattenendo il respiro.

Anche la ragazza con cui Pietro parlava fino a pochi secondi fa si è alzata, e ora il suo viso, piccolo e pallido dentro la cornice dei capelli, è contratto in un'espressione arrabbiata. Inizia a rivolgermi contro uno strano urlo scimmiesco

-Ooh!Ooooh!Oh!

È come se per lei la mia assurda presenza fosse un affronto diretto alla sua persona.

Guardo Pietro.

Se ne sta stretto nelle spalle e guarda i presenti con un'aria mortificata, mentre la sua bocca continua ad allargarsi e restringersi senza mai chiudersi del tutto, come cercasse di pronunciare una frase di scuse, ma ogni volta che ne pensasse una gli sembrasse ridicola rispetto alla situazione, una risposta idiota a una domanda troppo assurda.

Neanche lui, come del resto mi aspettavo, è stato in grado di accogliere una cosa del genere.

Sono una grumo di orrore depositato sulla superficie pulita della normalità. Lo sono in questa stanza, nei loro sguardi, come lo sono nel mondo.

Ora che ne ho la certezza mi sento molto più calmo. Mi sembra tutto così logico, vedo con chiarezza il problema e la soluzione matematicamente esatta che ne segue.

Non dovrei esistere, quindi non posso continuare ad esistere.

C'è una porta-finestra accanto al frigorifero. Oltre c'è un piccolo balcone affacciato su una strada secondaria e vuota.

Siamo al terzo piano, ad un'altezza sufficiente perché il mio corpo fragile, schiantandosi a terra cadendo da qui, faccia la stessa fine che farebbe un palloncino pieno d'acqua.

Mi spargerei in una macchia appiccicosa sull'asfalto. Di me non resterebbe nient'altro. E quando domattina passerà la nettezza urbana, a spruzzare un getto d'acqua contro i miei resti per farli colare giù nel tombino, anche l'ultima traccia della mia esistenza sarà pulita via dal mondo.

 

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