Il blocco H3T4-L14

di Estethell
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Arrivo nel campo di concentramento prussiano ***
Capitolo 2: *** Il dormitorio ***
Capitolo 3: *** Sentimenti mai provati ***
Capitolo 4: *** La fabbrica ***
Capitolo 5: *** Desidero vederti felice ***
Capitolo 6: *** Bacio di pronta guarigione ***
Capitolo 7: *** Gli Alleati ***
Capitolo 8: *** La lettera ***
Capitolo 9: *** Il crollo ***
Capitolo 10: *** L'inizio della fine ***
Capitolo 11: *** Un nuovo inizio ***



Capitolo 1
*** Arrivo nel campo di concentramento prussiano ***


La via di selciato si riempì di polvere quando una macchina nera lucida e nuova di zecca sfrecciò in direzione del campo di concentramento. Al suo interno Ludwig Beilschmidt leggeva per l’ennesima volta una lettera ormai consumata. Il ragazzo in divisa militare di pelle nera fece scorrere il suo sguardo sulle righe scritte in bella grafia sulla carta, accentuando sempre di più la sua smorfia di disgusto.

 

Caro Ludwig,
sono molto fiero di te per la promozione che hai da poco ottenuto dal nostro adorato governo, sono sicuro che riuscirai a svolgere i tuoi doveri con diligenza come hai sempre fatto, esattamente come tuo fratello.
Porta alto il nome dei Beilschmidt e continua a renderci fiero.

Vostro padre

 

Ludwig strinse le mani stropicciando i bordi della lettera leggendo la firma di suo padre, ma si calmò velocemente e ripiegò con cura il foglio infilandolo in una piccola cartellina poggiata al suo fianco sul sedile.
Non poteva agire in modo impulsivo, non quando gli era stato conferito un compito così importante, anche se lo aveva odiato fin dai primi istanti.
Con un sospiro il ragazzo si tolse il cappello tirandosi i capelli indietro con una mano guantata. No, doveva essere impeccabile, l’immagine della perfezione, perché lui era Ludwig Beilschmidt, figlio della prestigiosa dinastia Beilschmidt, rappresentazione vivente della perfetta razza ariana tedesca, nonché nuovo collaboratore dell’amministratore del campo di concentramento del territorio prussiano.

Quel pensiero fecero ribollire il sangue del ragazzo mentre cercava di calmarsi osservando il paesaggio che sfrecciava fuori il finestrino. In realtà, anche se era nato in una famiglia prestigiosa e altolocata, ma soprattutto grande sostenitrice del nazionalismo tedesco, Ludwig non condivideva gli ideali dei suoi famigliari. Egli era una persona diligente e disciplinata, con una solida morale che in molti avevano tentato di scardinare indottrinandolo al credo nazista, ma lui aveva sempre rifiutato quegli ideali ritenendoli sbagliati e ripugnanti. Purtroppo però i suoi genitori non la pensavano allo stesso modo e per amor della sua famiglia era stato costretto non solo ad aderire al partito nazista ma anche ad operare come suo membro attivo, riuscendo a fare carriera e a ottenere una brillante promozione. Carriera che secondo il punto di vista di Ludwig si era basata principalmente sui cadaveri dei poveri innocenti che il nazismo stava perseguitando. Quel pensiero lo disgustava così tanto da non permettergli di guardarsi allo specchio la mattina.

Mentre la sua mente vagava cercando di trovare un senso a tutto quello che aveva compiuto nella sua vita da quando era arrivato il nazismo nella nazione, la macchina rallentò fino a fermarsi davanti un grosso cancello che racchiudeva un perimetro di edifici fatiscenti e mostruosi da far venir la pelle d’oca. Grossi altiforni fumavano senza sosta alla fine dei capannoni e mentre Ludwig si apprestava ad aprire la portiera e scendere dalla macchina pregò con tutte le sue forze che fossero elementi indispensabili delle fabbriche metallurgiche che il campo ospitava, e niente più.

Vicino all’enorme cancello di ferro battuto lo aspettavano due figure, una di loro troppo famigliare quanto sgradita che nel vederlo allungò un tagliente sorriso sul volto.

“Fratellino, da quanto tempo! Sono così contento di vederti.”

“Ciao Gilbert, si è davvero tanto tempo” Rispose Ludwig senza sbilanciarsi troppo.

Gilbert Beilschmidt era suo fratello maggiore, anche se lui non avrebbe voluto. Arrogante, presuntuoso, invadente ed esagitato, era l’incarnazione del credo nazista sotto forma di un albino dagli occhi rossi come il demonio. Sinceramente Ludwig non capiva come Gilbert si fosse sottratto alle persecuzioni naziste a causa del suo aspetto dato che sapeva di gente che era finita nei campi di concentramento o era stata ammazzata per molto meno.

Il ragazzo albino allargò le braccia per salutarlo con affetto, non ricevendone molto in cambio.

“Tutto d’un pezzo come sempre, vero piccolo Lud? Avanti vieni con me, ci sono molte cose che devi sapere e che devo mostrarti prima di iniziare questo lavoro. Che l’amministrazione Beilschmidt inizi! Vedrai, sotto la nostra guida questo campo di concentramento diventerà il migliore in tutto il mondo!”

Senza aspettare nessuna risposta, Gilbert cominciò a ridere con quella sua risata isterica quanto irritante per Ludwig, mentre fece cenno all’altra persona che era rimasta in disparte per tutto quel tempo vicino al cancello.

“Ehi tu, miserabile pezzente, prendi la valigia del mio adorato fratellino e portala nei nostri alloggi. Niente scherzi altrimenti…” Il gesto che seguì non promise nulla di buono.

Ludwig seguì con lo sguardo la povera persona vestita di cenci che con passo malfermo recuperava la sua valigia e la trascinava all’interno, poi fu distolto dalla voce acuta di suo fratello che iniziava il tour dell’orrore tra i fabbricati del campo.

 

Quando il portellone del vagone si aprì Feliciano Vargas si sentì accecare dalla luce improvvisa proveniente dall’esterno. Lui, insieme a molti altri disperati nella sua stessa condizione, era stato caricato su un vagone per il bestiame in una stazione improvvisata vicino a un centro di detenzione in Italia, vicino il confine con l’Austria, e da allora non aveva più visto la luce del sole né respirato dell’aria pulita.

Il viaggio era durato alcuni giorni, non sapeva dire quanti, ed era stata l’esperienza più terrificante che avesse mai provato. I nazisti avevano avuto la sadica idea di stipare centinaia di persone in un piccolo vagone da trasporto, pressando quei poveri corpi l’uno sull’altro senza dargli nemmeno la possibilità di potersi sdraiare a terra, ma solo accovacciare. Feliciano era stato spinto contro un angolo del vagone e contrariamente a quello che pensava non era rimasto schiacciato dalla calca, anzi aveva un ritaglio di spazio anche superiore a quello degli altri. Ma la fortuna finiva lì.
Ben presto la fame, la sete e i bisogni divennero il problema principale di quelle persone. L’aria si impregnò subito di odori nauseabondi e Feliciano era sicuro che da qualche parte nel vagone qualcuno era morto a causa delle precarie condizioni in cui stavano viaggiando. O almeno, sperava solo qualcuno.

La notte nel vagone era gelida e si riusciva a malapena a prendere sonno accasciandosi gli uni sugli altri cercando di riscaldarsi come meglio si poteva. Feliciano si stringeva tra le sue braccia pensando al fratello gemello che in quel momento si trovava nelle mani degli americani, perché era stato più fortunato di lui ed era riuscito a scappare dalla retata dei nazisti nella loro casa, lasciandolo indietro. No, no, non lasciandolo indietro, perdendolo nella fuga rocambolesca che ne seguì. Si, Feliciano era sicuro che suo fratello era scappato non riuscendo a portarlo con sé soltanto perché non poteva fare altro, ma gli incubi che da quel giorno lo tormentavano non sembravano essere d’accordo con la sua speranza.

Appena i suoi occhi si abituarono alla luce, il ragazzo dai capelli castani vide che alcune guardie con un accento strano spronavano in malo modo le persone a scendere dal vagone percuotendole con dei manganelli, spingendole e prendendole a pugni. Feliciano cercò di essere il più veloce possibile a scendere, ma questo non gli risparmiò una bastonata sulla schiena che lo mandò in ginocchio. Le altre persone intorno a lui lo aiutarono ad alzarsi mentre le guardie si schierarono di fronte a loro con fare intimidatorio.

Rialzandosi, Feliciano notò che il treno da cui era sceso non era l’unico presente in quel vasto terreno pieno zeppo di rotaie e che altri stavano arrivando, mentre alcuni erano già stati svuotati. Persone di varie etnie, religioni e nazionalità si mescolarono e raggrupparono davanti i soldati nazisti che si erano disposti in fila.
Uno di loro, un uomo con un’incredibile carnagione pallida, occhi rossi e capelli bianchi, fece un passo verso di loro allargando un sorriso poco rassicurante sul suo volto.

“Signori, signore, benvenuti al campo di concentramento prussiano!” Esclamò con un fortissimo accento tedesco.

Gli altri soldati rimasero in silenzio ad osservare la folla disordinata. Feliciano li guardò uno per uno cercando di celare un certo timore. Con le loro divise nere lucide di pelle, quei soldati erano piuttosto intimidatori. Il ragazzo italiano vide un uomo distinto con un paio di occhiali e i capelli bruni guardare in modo sprezzante verso di loro, poi il suo sguardo si fermò sull’altro soldato.

Era davvero la reincarnazione della perfezione.

Alto, biondo, occhi azzurri come il cielo, un fisico sportivo invidiabile, quel soldato poteva mozzare il fiato a chiunque, e Feliciano non riuscì a resistergli. Rimase a fissarlo inebriato per alcuni istanti ignorando completamente il discorso del ragazzo albino finché una gomitata su un fianco non lo riportò alla realtà.

“Tu, si, tu, proprio tu! Cosa diavolo stavi guardando? Ti annoia così tanto il mio impressionante discorso?” Chiese il soldato albino puntando i suoi occhi rosso fuoco direttamente su Feliciano che si trovava quasi in prima fila.

Feliciano si guardò intorno cercando di capire se il nazista stava parlando proprio con lui, e quando notò che si era formato una sorta di cerchio intorno a sé comprese che era in qualche sorta di guaio.

“I-io… ecco… v-ve…” Balbettò cercando di trovare qualcosa da dire ma invano.

“Va bene, ho capito, è inutile essere gentili con la feccia, soprattutto con voi italiani traditori”

L’Albino si avvicinò velocemente all’italiano impugnando un manganello che portava appeso alla cintura. Subito intorno a Feliciano si creò un vuoto lasciandolo solo di fronte all’incombente minaccia.

“Che sia d’esempio per tutti voi! Qui comandiamo noi, voi non valete nulla, siamo noi che decidiamo della vostra vita e voi dovete obbedirci ciecamente se ci tenete alla pelle” E detto questo calò il manganello con forza sul ragazzo.

Feliciano cercò di schivare il colpo ma il suo fisico provato dal viaggio disumano sul vagone del treno si mosse troppo lentamente, tradendolo. La bastonata colpì con forza la spalla sinistra del ragazzo facendolo cadere in ginocchio. Gilbert non si fece impietosire e con un sorriso sadico sul volto continuò a infierire sul corpo del giovane che cercava invano di proteggersi il volto con le braccia urlando di dolore. Gli altri prigionieri distolsero lo sguardo impotenti e terrorizzati, alcuni addirittura piangendo silenziosamente impressionati dalla violenza del soldato.

Gilbert rideva come un indemoniato riempendo l’aria con i suoi striduli “kesesese” finché alzando il manganello per la settima volta una mano non lo bloccò proprio quando stava per infierire nuovamente sul giovane ormai mezzo svenuto a terra. Subito l’albino trafisse con lo sguardo colui che si era permesso di intromettersi in quella situazione, per poi addolcirlo incredulo.

“Lud…?”

“Io credo che tu ti sia divertito abbastanza, Gilbert” Disse con uno sguardo serio Ludwig mentre strappava il manganello di mano al fratello “Ricordati inoltre che queste persone ci servono per il lavoro in fabbrica. Se li invalidi subito non saranno buoni a niente!”

In realtà Ludwig non pensava minimamente alle fabbriche del campo. Il suo unico scopo era quello di salvare quel povero giovane dal sadismo di suo fratello. Sapeva che trasferendosi in quel luogo avrebbe assistito a scene di violenza gratuita e senza senso e aveva cercato di prepararsi psicologicamente a tutto ciò, ma in quel momento capì che i suoi sforzi erano stati vani e che per nessuna ragione al mondo avrebbe mai accettato tali avvenimenti. Finché lui sarebbe rimasto in quel luogo avrebbe fatto di tutto per salvare quelle povere persone dalla violenza di suo fratello e degli altri.

Gilbert rimase a fissarlo con uno sguardo indecifrabile per alcuni istanti, poi si ricompose allontanandosi dal fratello.

“Va bene lo spettacolo è finito. Roderich, raduna le altre guardie e scortate i prigionieri al fabbricato delle docce. Seguite la solita procedura di divisione dei prigionieri e mi raccomando bruciate tutti i loro vestiti, averi e numerateli”

Il soldato annuì leggermente mentre si aggiustava gli occhiali e passava in rassegna con uno sguardo schifato la moltitudine di prigionieri davanti a lui.

“E per quanto riguarda quell’italiano sordo, portatelo o trascinatelo al lavaggio non m’interessa. Se riesce a sopravvivere scortatelo in infermeria da quella cagna di Francis, vedrà lui cosa farne. È tutto”

 

Nell’infermeria del campo di concentramento prussiano Francis Bonnefoy, prigioniero di guerra ed ex soldato volontario francese, si stava dedicando alla fasciatura di una bruciatura da metallo incandescente con delle bende piuttosto rozze e sporche quando la porta dello stabile si aprì di scatto seguita da un lamento e un grido dal forte accento tedesco.

“Oui, sono subito da voi!” Rispose con la sua voce zuccherina francese.

Finì frettolosamente di fissare le bende sul povero malcapitato e si precipitò alla porta dove trovò un soldato tedesco mai visto prima che sosteneva con un braccio un giovane messo piuttosto male.

“Mon dieu, che cos’è successo a questo poverino?”

Francis lì scortò fino a un letto vuoto e piuttosto malridotto dove il tedesco appoggiò l’italiano con cura.

“Si è distratto durante il discorso di Gilbert appena sceso dal treno. Tu sei Francis vero? Vedi cosa puoi fare per lui, non è messo molto bene”

Francis diede una lunga occhiata al tedesco apprezzandone la bellezza, poi si interessò al giovane italiano che si lamentava debolmente sul letto.

“Oui, c’est moi, ma non sono io il medico, io sono solo un infermiere. Il medico dovrebbe tornare a breve, lo farò visitare appena sarà possibile”

Vedendo che il ragazzo biondo dallo sguardo di ghiaccio non accennava ad andarsene, Francis prese alcune boccette contenenti uno strano liquido e ne versò qualche goccia del contenuto su delle bende di cotone.

“Signore non può rimanere qui, molti di questi malati hanno malattie infettive facilmente trasmissibili, non è salutare per lei rimanere a contatto con loro. Non vorrei che vi si sciupasse il bell’aspetto che ha!”

L’infermiere gli lanciò un occhiolino mentre cominciò a tamponare le parti colpite e lacerate dell’italiano con la benda. Il giovane mugugnò un po’ forte ma si tranquillizzò poco dopo.
Ludwig rimase a fissare incredulo il biondo infermiere. Aveva sentito parlare di Francis Bonnefoy da suo fratello durante il tour nel campo. Un uomo biondo, francese, raffinato, molto seducente e incredibilmente libertino. Molte guardie del campo avevano dubbi circa il suo sesso e altri erano convinti che fosse moralmente scorretto (un modo articolato per dire omosessuale, pratica vietata nel campo), ma tutti concordavano sul fatto che probabilmente si intratteneva in atteggiamenti intimi e immorali con altri detenuti del capo. Non vi erano prove a riguardo ma tutti lo sospettavano e nonostante lo sapesse Francis non faceva assolutamente nulla per discolparsi.
Ludwig arrivò alla conclusione che probabilmente l’unico motivo per cui il francese era ancora vivo era per via della sua utilità nell’infermeria ma soprattutto per le sue doti culinarie, che spesso venivano sfruttate dalla mensa del campo quando gli chef non avevano voglia di lavorare.

Con un grugnito Ludwig lasciò l’infermeria fermandosi qualche istante sulla porta per dare un’ultima occhiata al ragazzo steso sul letto, per poi andarsene.
Una volta rimasto solo Francis si passò una mano tra i lunghi capelli biondi fissando pensieroso la porta da cui era appena uscito il soldato.

“Quell’uomo non l’ho mai visto prima, sicuramente è la guardia su cui hanno tanto spettegolato gli chef nelle cucine… il fratello minore di Gilbert! Ma contrariamente a quella carogna lui sembra molto più umano” Pensò.

Spostò il suo sguardo sul giovane sdraiato sul letto che intanto aveva aperto gli occhi e si stava guardando intorno.

“D-dove… sono?” Sbiascicò con la bocca impastata.

“Oh là là, ma tu sei italiano! Sono Francis Bonnefoy e ora ti trovi in infermeria pieno di lividi sul corpo, devi averla fatta grossa ragazzo! È davvero un peccato che ti abbiano rovinato un così bel faccino, ma sono sicuro che con le mie premure guarirai presto” Il francese gli fece l’occhiolino mentre gli mandò un bacio con le labbra “Come ti chiami?”

“Feliciano… ve, ho fatto arrabbiare una guardia perché mi sono distratto durante un suo discorso, sembrava indemoniato. Non voglio stare in questo posto…ve, ho paura!”

Feliciano cominciò a piagnucolare mentre si grattava vicino al polso con insistenza. Francis gli bloccò subito la mano tirandola dal polso.

“Non farlo, è ancora fresco, potrebbe prendere infezione”

“Ve ma… ma cos’è?” Chiese mentre guardava un numero che sembrava scritto direttamente nella sua pelle.

“È il tuo numero di identificazione, una sorta di marchio per riconoscerci ovunque noi andiamo. Guarda questo è il numero che equivale al tuo nome… e questo è il codice del dormitorio in cui alloggerai d’ora in poi. Oh, sei capitato nel mio dormitorio, che fortuna!”

Ma feliciano non si sentiva fortunato, anzi si sentiva alla stregua di un capo di bestiame appena marchiato a fuoco. Si fece via via più piccolo mentre gli occhi si riempivano di grosse lacrime che velocemente gli rigarono le guance mentre le sue braccia si stringevano a lui.
Un incubo, era soltanto un incubo quello, esattamente come gli incubi su suo fratello Romano che lo tormentavano di notte. Era stato stipato in un vagone per il bestiame, malmenato brutalmente appena arrivato al campo, gli avevano bruciato ogni suo avere e lo avevano marchiato come una bestia… si, quello era senz’altro solo un brutto incubo.

L’espressione di Francis si fece dolce e triste allo stesso tempo mentre abbracciava stretto il ragazzo in lacrime.

“Oh pauvre garçon, anch’io quando sono arrivato circa un anno fa ero spaventato come te. Devi essere forte e cercare di andare avanti in ogni modo possibile. Fallo per te, e soprattutto fallo per quelle persone a cui vuoi bene che vorresti rivedere e che probabilmente ti stanno aspettando a casa”

E mentre diceva queste parole per consolare il ragazzo, nella mente di Francis comparve un bellissimo paio di occhi verde smeraldo sormontato da sopracciglia foltissime.

Note dell'Autore:
Ed ecco il primo capitolo di questa ff, spero vi sia piaciuto! Perdonatemi il personaggio di Gilbert che qui è piuttosto sadico, prometto che a lungo andare ritornerà cone il nostro Gilbert di sempre.
Perdonate se ci sono errori di scrittura/vari, o se la storia sembra inconcludente, in fondo è la mia prima ff ><
La storia presenta scene di violenza ma è soprattutto incentrata sui sentimenti dei personaggi, lui legami che stringeranno e sull'amore che proveranno (perché io sono un'inguaribile romanticona).
La ff non sarà aggiornata regolarmente, ciò significa che potrei aggiornare molto in poco tempo oppure poco in molto tempo, dipende dagli impegni nel real che avrò! Ma sicuramente sarà lunga e soprattutto avrà una fine. Spero che possiate amarla tanto la sto amando io nello scriverla :)
Grazie mille!!

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Capitolo 2
*** Il dormitorio ***


Il dormitorio che si trovava nel blocco H3T4 era poco distante al fabbricato metallurgico L14 a lui associato, e piuttosto vicino al perimetro recintato ed elettrificato del campo. Nell’entrare nello stabile Toris Laurinaitis rimase a bocca aperta per lo sgomento. Al suo interno file interminabili di cuccette di legno erano appoggiate sui due lati dell’edificio, riducendo lo spazio del già piccolo stabile ad un lungo corridoio. Tutte le cuccette erano riempite di paglia dall’odore ripugnante e dal colore innaturale e alcune erano occupate dai malcapitati che prima di lui erano arrivati in quel girone infernale mentre altre in quel momento stavano conoscendo i loro nuovi inquilini. Tutte le cuccette erano larghe in modo tale da farci entrare comodamente una persona sdraiata, peccato che quei sadici dei suoi secondini avevano avuto la brillante idea di stiparne due per letto.

Toris era stato assegnato alla cuccetta T3 e mentre la cercava sperava con tutta la sua anime che fosse vuota, ma soprattutto che avesse della paglia meno marcia delle altre. Con sua grande delusione, la cuccetta era già occupata da un ragazzo dai capelli lunghi e biondi e dall’aria nervosa che sembrava avere all’incirca la sua stessa età.

“Scusami, è questa la cuccetta T3? Sono stato assegnato ad essa poco fa”

Il ragazzo biondo gli lanciò uno sguardo timido e annuì velocemente facendogli spazio nel letto. Nel salire sulla cuccetta Toris notò con un certo disappunto che la paglia era esattamente uguale a quella degli altri letti, se non peggiore. Sospirando sconfitto si sedette vicino al suo nuovo coinquilino e dopo qualche istante di esitazione cercò di avviare un qualche tipo di discorso.

“Ehm… dunque io sono Toris Laurinaitis, sono lituano e sono arrivato qui soltanto da qualche ora, tu chi sei?”

“Mi chiamo Feliks Lukasiewicz” Rispose timidamente.

“Hai un accento molto forte, sei per caso russo?” Chiese bonariamente il ragazzo bruno.

A quelle parole lo sguardo di Feliks mutò in un cipiglio arrabbiato mentre il suo atteggiamento divenne più sicuro di sé e sfrontato.

“Cosa diavolo stai dicendo, novellino? Io sono polacco, non russo, non paragonarmi a quella gentaglia che cerca da secoli di conquistare il mio amatissimo paese. Non vedi che sono totalmente differente da loro? Che cosa ti ha fatto pensare a una cosa simile?”

Toris fu letteralmente investito da una fiumana di parole, esclamazioni, insulti e domande che velocemente si discostarono dall’argomento iniziale della discussione. In poco tempo Feliks raccontò in modo dettagliato la sua vita e le sue passioni a Toris che rimase basito ad ascoltare le chiacchiere inutili del compagno. Così Toris scoprì che Feliks era nato e vissuto a Varsaviain una famiglia ricca, che con lo scoppio della guerra e l’invasione tedesca aveva cercato di aiutare le persone di religione diversa da quella cristiana a fuggire, per poi essere catturato e deportato in quel campo di concentramento circa un anno prima. Toris scoprì inoltre che il suo colore preferito era il rosa e che aveva un pony che adorava alla follia e che lo aspettava a nella sua villa a Varsavia.

Dopo ben cinque minuti di chiacchiere varie, Feliks si fermò e sorridendo al ragazzo lituano fece segno con la mano verso la cuccetta.

“Tu mi piaci sai? È dato che mi piaci ti permetto di avere un quarto della mia cuccetta. Ovviamente il resto dello spazio è il mio e lo pretenderò quando andremo a dormire, ma proprio perché mi sei simpatico ti offro un po’ di spazio in più di quello che generalmente concedo” E senza dire altro (per fortuna) o domandare qualcosa a Toris, gli girò le spalle interessandosi alle persone che entravano nello stabile.

Toris voleva piangere.
Da quando nell’operazione congiunta con la Lettonia e l’Estonia di qualche mese prima era stato catturato e incriminato per dissidenza politica e sostegno alla politica filo-russa la sua vita era diventata un calvario. Era stato prima imprigionato con i suoi compagni di operazione Eduard e Raivis in una prigione lituana filo-tedesca, poi successivamente diviso dai suoi compagni e deportato nel campo di concentramento prussiano. Toris era seriamente preoccupato per i suoi compagni e soprattutto per l’esito dell’operazione, che altro non era che un sabotaggio ai danni del governo tedesco in Lituania e un possibile appiglio per una penetrazione russa nel territorio, e sperava con tutto sé stesso che le altre squadre impegnate nell’operazione avessero concluso con successo il loro compito.

Sospirando cercò di rilassarsi sistemando le poche cose che gli avevano consegnato dopo essere passato nel lavaggio comune e aver visto tutti i suoi averi essere bruciati: una coperta rattoppata e leggera come una maglietta di cotone e una gavetta ammaccata di latta con due posate storte. Dalle storie che aveva sentito dire in giro doveva cercare di tenersi stretto quelle poche cose che aveva perché potevano essere facilmente rubate e di certo le guardie non glie ne avrebbero date altre.
Il ragazzo decise di avvolgere la coperta intorno alla gavetta e di mettere il sacco così formatosi sotto la paglia lercia, cercando di occultarne l’esistenza e sperando che il suo compagno di cuccetta non si appropriasse anche di quello.

Mentre cercava di raggruppare la paglia sopra il fagotto una voce flebile cercò di richiamare la sua attenzione, fallendo miseramente. Al quarto tentativo la vocina riuscì a farsi sentire da Toris.

“Mi scusi! Potrebbe gentilmente dirmi dove posso trovare la cuccetta C2? Io non riesco a vedere bene i numeri”

Lo sguardo di Toris si abbassò sulla figura alta, esile e molto graziosa di un ragazzo biondo con grandi occhi violetti. La sua voce bassa e i suoi atteggiamenti timidi lo presentavano come un ragazzo estremamente gentile, innocente e molto sensibile. Il suo sguardo supplichevole rimase fisso sul lituano finché quest’ultimo non gli sorrise e scese dalla sua cuccetta.

“Certo, con molto piacere. Sono Toris Laurinaitis, tu come ti chiami?”

“S-sono Matthew Williams” Rispose arrossendo leggermente “Purtroppo nel lavaggio mi hanno portato via tutto compreso gli occhiali e non riesco a vederci bene. Ho tentato di dirgli che erano essenziali per me, ma non mi hanno ascoltato!”

Toris non aveva dubbi a riguardo. Matthew sembrava la tipica persona che poteva passare inosservata anche in una stanza completamente priva di ostacoli visivi. La sensazione che lui fosse in realtà una spia di qualche esercito si insinuò in lui velocemente, spinta da un’incredibile curiosità per quel ragazzo così fuori luogo.

“Sei per caso una spia?” Chiese improvvisamente mentre arrivavano alla cuccetta C2.

“Si! C-come hai fatto a capirlo? Ho operato nella divisione canadese dell’esercito inglese, mio fratello invece opera nell’esercito americano come aviatore. Spero di rivederlo un giorno”

Lo sguardo del canadese si oscurò al pensiero del fratello ormai chissà dove e Toris provò una certa pietà per lui. Si fermò davanti una cuccetta vuota e la indicò con la mano.

“Questa è la tua cuccetta. Sei stato molto fortunato, sembra vuota al momento”

“Ti ringrazio dell’aiuto che mi hai dato, Toris. Quardo riusciremo ad uscire da qui ti inviterò senz’altro a mangiare pancakes con sciroppo d’acero a casa mia!”

Matthew sembrava davvero convinto di quello che diceva come se fosse certo che prima o poi sarebbero usciti tutti sani e salvi da quel luogo mostruoso. Toris lo osservò senza parole mentre saliva con difficoltà le scalette per arrivare alla sua cuccetta per poi lanciargli un sorriso e salutarlo con la mano mentre sistemava i suoi averi sul letto.
Matthew era troppo gentile e ingenuo per quel luogo e Toris sapeva che sarebbe stato mangiato vivo, e che sicuramente non sarebbe sopravvissuto a lungo.

 

“Su, un ultimo sforzo, siamo quasi arrivati… così, da bravo… oui, ci siamo! Eccoci al blocco H3T4. Ora dobbiamo cercare soltanto il tuo nuovo letto”

Feliciano annuì e sorrise al gentile ragazzo francese che si era preso cura di lui da quando era arrivato in infermeria e lo aveva accompagnato fino al blocco dove si trovava il suo dormitorio. Era molto grato a quell’uomo che lo aveva aiutato così premurosamente, anche se gli aveva palpeggiato il fondoschiena varie volte.
Il treno che lo aveva deportato dall’Italia fino al campo era arrivato nel tardo pomeriggio e ormai era già sera inoltrata quando Feliciano vide per la prima volta lo squallido dormitorio che sarebbe diventato la sua nuova casa per chissà quanto tempo. Feliciano sperava per poco, ma vista la situazione in cui si trovava dubitava fortemente di quella speranza.

Si sentiva tutto indolenzito a causa delle bastonate che aveva ricevuto diverse ore prima e che gli avevano lasciato sulla pelle enormi lividi scuri, mentre sul volto Francis aveva coperto le varie escoriazioni con delle bende di cotone. Ma nonostante ciò, Feliciano provava una specie di calore nel petto nell’aver saputo dall’infermiere francese che uno delle guardie del campo si era preoccupato di assisterlo nel lavaggio e di accompagnarlo nell’infermeria assicurandosi che ricevesse le cure adatte. Certo, questo non significava nulla, magari quell’uomo aveva agito solamente per non perdere un paio di braccia destinate al lavoro in fabbrica, ma il pensiero che anche tra le guardie disumane che lo avevano ridotto così ci fosse qualcuno dotato di bontà gli riempiva il cuore di felicità.

Entrando nello stabile Francis si guardò in giro sforzando la vista nella penombra e sorrise ai nuovi arrivati che avevano occupato le cuccette.

“O là là, il dormitorio si è ripopolato! Non è una bella cosa, Feliks?” Chiese sorridendo a un ragazzo biondo che intanto chiacchierava con il suo coinquilino dall’aspetto piuttosto stanco.

Feliks guardò Francis con sospetto ma non rispose, preferendo tornare a tormentare il povero ragazzo bruno con le sue chiacchiere.
Francis rise e cominciò a camminare nel corridoio tra le cuccette presentandosi a tutto, lanciando occhiolini e bacetti dappertutto e sorridendo finché non si fermò davanti una cuccetta coperta di paglia putrida.

“Ecco la cuccetta numero P4, la tua cuccetta. Inoltre è anche vicino alla mia, non sei contento?”

Feliciano in effetti era contento di avere qualcuno vicino durante la notte. Era stato abituato fin da piccolo a dormire nello stesso letto abbracciato a suo fratello e le prime notti passate senza stare al suo fianco erano state quelle dentro il vagone, per questo l’avere qualcuno a fianco, anche sconosciuto, lo avrebbe certamente tranquillizzato.

Salito sulla sua cuccetta, l’italiano iniziò a sistemare la coperta e la sua gavetta in modo tale da non dargli fastidio durante il sonno, quando nel dormitorio entrarono all’improvviso due uomini vestiti di pelle nera. Uno di loro aveva in mano una grossa torcia con cui illuminava direttamente i volti dei prigionieri, accecandoli.

“Bene bene, signori, vedo che vi siete accomodati nei vostri bei lettini!” Esclamò una voce urlando con il suo forte accento tedesco.

Feliciano riconobbe subito quella voce attribuendola all’albino che diverse ore prima lo aveva picchiato senza pietà. D’istinto si ritirò nella cuccetta cercando di non farsi vedere, ma il fascio di luce lo individuò e puntò dritto sul suo volto costringendolo a chiudere gli occhi e chinare la testa.

“Ah ma tu sei l’italiano sordo di prima! Vedo che sei riuscito a cavartela, allora gli italiani hanno anche la pelle dura, non solo la testa! Dovresti ringraziare il mio fratellino se hai ancora tutti i denti per poter masticare il pane, sporco maccherone, altrimenti ti avrei davvero ridotto in una purea di patate, kesesese!”

Il fascio di luce si allontanò dal volto dell’italiano che si nascose sotto la coperta tremante dalla paura.

“Tornando a noi, io e mio fratello Ludwig siamo qui per informarvi che saremo i vostri nuovi responsabili. Vi controlleremo per tutto e qualsiasi cosa voi vogliate fare, anche andare a pisciare, dovrete chiedere il permesso a noi, sia chiaro? Ogni atto di disobbedienza sarà severamente punito” Il fascio di luce illuminò un cumolo tremante nascosto sotto una coperta logora “Bene, detto questo, buonanotte stronzetti. Cercate di riposare bene perché domani inizierà l’inferno per voi”

Una risata isterica riecheggiò nello stabile mentre i due soldati si allontanavano a grandi passi lasciando i prigionieri al buio in un silenzio tombale.

Nota dell'autore

Ed ecco un altro capitolo finalmente!! La stesura sta andando bene quindi spero di pubblicare spesso in breve tempo :D
Come al solito perdonate errori di vario tipo ><

Bene, cosa dire? Innanzitutto povero Lituania nelle mani di Polonia x'D In effetti io non amo molto Polonia perciò scusatemi se l'ho caratterizzato un po' male!
I personaggi usati in questa ff non sono presi a caso, ho cercato di prendere tutti i paesi che bene o male sono stati invasi dalla Germania nell WW2. Certo ne mancano alcuni ma non volevo usare troppi personaggi per non appesantire la storia.

Canada fatti valere che qui ti mangeranno vivo DX

Al prossimo capitolo ;) Se avete qualche consiglio da darmi o per commentare la storia sono a vostra completa disposizione!!

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Capitolo 3
*** Sentimenti mai provati ***


Gilbert trascinò per un braccio Ludwig fuori dal dormitorio per qualche metro, poi lo lasciò andare guardandolo confuso.

“Fratellino, sei ancora tra noi? Il mio spettacolare discorso ti ha impressionato così tanto da stordirti?”

Ludwig, che era sovrappensiero, riportò la sua attenzione al fratello con uno sguardo stupito.

“Scusami Gilbert, ero sovrappensiero. No, il tuo discorso è stato… buono. Ora andiamo nelle nostre stanze, sono piuttosto stanco per il viaggio e domani voglio essere in forma per poter svolgere il mio lavoro al meglio!”

“Sempre diligente come al solito, vero fratello?” Ludwig ricevette una forte pacca sulla schiena muscolosa “Va bene, andiamo, i dormitori per le guardie sono di là. Io mi fermo qualche minuto per scrivere il resoconto della giornata da inviare ai superiori e poi ti raggiungo”

Con un cenno della testa Ludwig si divise da suo fratello e si avviò verso l’edificio che ospitava il personale del campo di concentramento. Quando non sentì più gli occhi rossi del fratello forargli la nuca girò improvvisamente un angolo e si appoggiò di peso al muro dell’edificio. Tremante si portò una mano alla bocca mentre il suo sguardo era sgranato e perso nel vuoto, il suo volto violentemente rosso.

Era totalmente sconvolto, confuso e spaventato, e tutto questo lo doveva solo a una persona: l’italiano.

Fin dal momento in cui lo aveva visto semi svenuto a terra a causa della violenza del fratello aveva sentito una sorta di affetto per quel ragazzo, un sentimento che non aveva provano mai nemmeno per i suoi amatissimi genitori. Inizialmente lo aveva attribuito a uno slancio di pietà per la sua condizione, ma in poco tempo si era reso conto che era qualcosa di più. Nelle docce soprattutto, quando ordinò a degli altri prigionieri di spogliarlo e lavarlo, Ludwig aveva provato dei sentimenti del tutto nuovi e sconosciuti.
Aveva visto molte volte i corpi nudi maschili dei ragazzi e degli uomini, soprattutto quando aveva frequentato la gioventù hitleriana e poi l’addestramento dell’esercito dove le docce erano comuni e tutti si lavavano senza vergogna nudi l’uno di fronte all’altro, ma non aveva mai avuto nessun tipo di problema. Aveva guardato le altre persone nude, loro avevano guardato lui, tutti avevano fatto scherzi e battute varie e tutto finiva lì. Ma dal momento in cui Ludwig aveva visto quel prigioniero italiano privo di vestiti sotto la doccia qualcosa era cambiato, irrimediabilmente cambiato.

Il corpo di quel ragazzo era perfetto, snello, la pelle di una tonalità più scura della sua, morbida al tatto, di una bellezza così femminea che sembrava una musa uscita da qualche quadro di un’artista italiano. Ludwig avrebbe giurato di non aver mai visto qualcosa di più bello in vita sua.

Questi nuovi e sconosciuti sentimenti lo avevano sopraffatto anche nell’infermeria quando aveva visto il ragazzo bruno sofferente sul quel letto malridotto. Non voleva lasciarlo per nessuna ragione, soprattutto in presenza di quel francese su cui aveva sentito tante storie strane e poco rassicuranti.
Poteva per caso essere un segno di… gelosia?
Ludwig scosse la testa con forza.
Assolutamente no! Perché mai doveva essere geloso di un ragazzo appena conosciuto, un prigioniero straniero, che era sicuramente destinato a morire di fatica o di stenti in quel posto dimenticato da Dio?

Eppure ora il ragazzo tedesco ne era sicuro, provava qualche sorta di sentimento per quell’italiano. La conferma l’aveva avuta quando qualche minuto prima lo aveva visto nel dormitorio con quella grossa benda sulla testa, visibilmente spaventato ma dall’aspetto migliore di quando lo aveva lasciato nell’infermeria. Nel vederlo Ludwig aveva provato sollievo, e quando Gilbert lo aveva spaventato costringendolo a rifugiarsi sotto le coperte tremante come un bambino lui aveva provato il forte desiderio di andarlo a consolare.

Ludwig era confuso e non capiva cosa fare, ma di una cosa era sicuro: non riusciva a togliersi dalla testa quel ragazzo, il suo corpo nudo, il suo volto dai lineamenti dolci, la sua voce melodica con quel particolare accento italiano che sembrava un canto continuo.
Aveva letto qualcosa a proposito di questi sentimenti strani durante i suoi studi, e i libri di testo li attribuiva all’essere innamorato di qualcuno.
Che Ludwig fosse…?

No, no, NO! Lui non poteva essere innamorato di un prigioniero, soprattutto di un uomo, giusto? Eppure il ricordo del suo corpo nudo lo destabilizzava e causava scompiglio anche sotto la cintura dei suoi pantaloni.
Ancora piuttosto confuso e rosso in volto, Ludwig attribuì questo strano comportamento alla stanchezza del viaggio e al disgusto che aveva provato nel vedere il campo e cosa succedeva al suo interno. Si allontanò a grandi passi dall’edificio su cui era stato appoggiato e si avviò verso la sua stanza il più velocemente possibile sperando di non incrociare nessun’altra guardia.
Aveva un problema fisico da risolvere urgentemente.

 

Feliks fu svegliato bruscamente da delle urla dal forte accento tedesco che riecheggiarono per tutto il dormitorio. Si alzò di scatto come ormai si era abituato a fare e si tolse la coperta di dosso pronto a mettersi le scarpe semi distrutte che aveva e correre fuori in nemmeno due minuti come volevano le guardie, quando si ricordò di condividere la cuccetta con un altro prigioniero.

Toris, così si chiamava il simpatico ragazzo lituano con cui condivideva il letto, stava rannicchiato su un fianco al bordo della cuccetta e ancora dormiva profondamente. Feliks sapeva di doverlo svegliare altrimenti avrebbe sicuramente preso una punizione per il suo ritardo dai loro secondini.

Feliks, insieme a Francis e pochi altri prigionieri, era uno dei pochi superstiti del terribile blocco HETALIA, un acronimo derivante dalla fusione in lettere delle numerazioni del dormitorio H3T4 e della fabbrica L14. HETALIA era il luogo peggiore in cui i prigionieri che arrivavano nel campo di concentramento prussiano potevano finire: supervisionato dal feroce Gilbert in persona, i prigionieri di quel blocco erano costretti a lavorare senza sosta nella fabbrica metallurgica che vantava il primato in tutto il campo di morti sul lavoro.

Ogni anno Gilbert mieteva vittime con il suo regime crudele, che si dipanavano tra morti sul lavoro, morti di fame e stenti, suicidi. Feliks e Francis avevano visto i loro compagni di sventura morire come mosche in pochissimo tempo e avevano deciso insieme di occuparsi di tutti quelli che sarebbero arrivati dopo di loro per poterli proteggere e cercare di farli sopravvivere. Finora l’idea non aveva funzionato molto bene e se Feliks ormai stava perdendo le speranze, Francis sembrava sicuro di sé più che mai.

Scosse violentemente il ragazzo da una spalla, che si svegliò di soprassalto.

“Svegliati pigrone!” Cantilenò “Dobbiamo muoverci se non vuoi ritrovarti con qualche osso rotto!”

Toris rimase a guardarlo per qualche istante con uno sguardo confuso sicuramente non ricordando dove si trovava, poi si alzò di scatto e iniziò a sistemare le sue cose ringraziando il suo compagno.
Feliks osservò il resto del dormitorio mentre si allacciava le scarpe ormai a brandelli.
La maggior parte delle persone si era alzata e stava uscendo dal dormitorio sfilando timidamente davanti i due tedeschi che controllavano la situazione, mentre il ragazzo canadese e Francis cercavano inutilmente di svegliare l’italiano.
Feliks scosse la testa mentre si avviava verso l’uscita. Quell’italiano era spacciato.


Nota dell'Autore

Felicianooooooo, cosa combini?? Sei sempre fonte di guai T-T
Speriamo che vada tutto bene e che soprattutto Gilbert non si accorga della sua pigrizia!
E così Ludwig ha scoperto cosa vuol dire avere dei sentimenti per qualcuno dimostrando che non è un automa! E bravo il potato bastard x'D
Il prossimo capitolo arriverà presto!!

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Capitolo 4
*** La fabbrica ***


Francis cercò per l’ennesima volta di svegliare Feliciano scuotendolo violentemente, senza alcun successo. Il ragazzo dormiva beatamente perso in chissà quale sogno mentre un po’ di saliva gli colava dalla bocca. Inutile era urlargli nell’orecchio e colpirlo, sembrava quasi morto. Nemmeno l’intervento di Matthew riuscì a cambiare la situazione, non che Francis si aspettasse chissà che cosa, il grazioso canadese non sembrava proprio il tipo da riuscire a farsi valere.

Gli schiamazzi attirarono l’attenzione dei due fratelli tedeschi che iniziarono ad osservare insistentemente la scena.

“E’ di nuovo quello sporco maccherone a creare problemi! Questa volta glie ne darò così tante da lasciarlo davvero morto a terra!” Esclamò Gilbert agguantando il suo manganello, ma fu prontamente fermato dal fratello.

“Occupati degli altri, questa sciocchezza la risolvo io. Credo debba iniziare a guadagnarmi il rispetto e il timore dei prigionieri”

Gilbert sorrise e annuì alle parole del fratello per poi uscire per abbaiare altri ordini ai detenuti sparpagliati nello spiazzale antistante al dormitorio. Ludwig lo guardò per qualche istante, poi si diresse verso la fonte di tutto quel chiasso. Nella sua mente il tedesco si complimentò con sé stesso per aver salvato nuovamente quel ragazzo da morte certa.

“Deve avere qualche santo lassù che lo protegge in continuazione” Pensò mentre si avvicinava alla sua cuccetta.

Francis e un timido ragazzo biondo sbiancarono quando lo videro e aumentarono i suoi sforzi per svegliare l’italiano ma non ci riuscirono nuovamente. Ludwig li guardò dritto negli occhi con uno sguardo di ghiaccio, poi spostò il suo sguardo sulla figura stesa sulla paglia.
Con un cenno fece capire ai due ragazzi di lasciarlo solo con l’italiano. Francis cercò di protestare ma uno sguardo agghiacciante lo fece desistere e, preso per il gomito l’altro ragazzo, uscirono frettolosamente fuori guardando più volte nella loro direzione.

Una volta rimasti soli Ludwig si concentrò sul ragazzo che ancora dormiva beatamente. Il suo sguardo si soffermò sul groviglio di capelli castani che cadevano morbidi sulla paglia e sul volto, e sul bizzarro ciuffetto arricciato che si allungava su un lato della testa. Quel ricciolo sembrava così morbido da tentare Ludwig di toccarlo e tirarlo.
Lo sguardo poi si spostò sulle sue labbra rosee e morbide. Ludwig non riusciva a capire perché ma si sentì fortemente tentato di accarezzarle con un dito per sentire la loro morbidezza al tatto.
Infine il tedesco fissò la figura del corpo seminascosto sotto la sottile coperta. Subito il ricordo della notte precedente e soprattutto di quello che aveva fatto si insinuò nella sua mente facendolo arrossire violentemente.

Distolse velocemente lo sguardo e si tolse il cappello lisciandosi i capelli impomatati con una mano guantata cercando di calmarsi.
Doveva agire in fretta altrimenti suo fratello si sarebbe insospettito. Essendo fervente cristiano e nazista, non avrebbe minimamente accettato anche solo di ascoltare i problemi che Ludwig stava affrontando in quel momento. Lo avrebbe sicuramente bollato come persona moralmente scorretta e deviata e lo avrebbe rispedito a casa supplicando il padre di farlo visitare da un medico e di mantenere il segreto per non gettare l’intera famiglia nella vergogna più totale… perché dopo la scorsa sera Ludwig aveva capito di provare una sorta di sentimento omosessuale nei confronti di quel ragazzo.

Ma non era questo il momento di pensarci. Rimettendosi il cappello, Ludwig afferrò una spalla del ragazzo e lo scosse violentemente come avevano fatto prima Francis e l’altro detenuto. L’italiano fu sballottato duramente, ma nemmeno questo riuscì a svegliarlo. Temendo che arrivasse Gilbert e di non poter difendere più il ragazzo dalla sua violenza, il tedesco afferrò con entrambe le mani un braccio dell’italiano e lo tirò fuori dalla cuccetta con violenza facendolo cadere a terra.

Il colpo fece svegliare di soprassalto il ragazzo che si guardò in giro con uno sguardo assonnato e confuso, finché non vide il giovane tedesco. Subito il ragazzo bruno si alzò da terra e si appiattì al muro tra le cuccette spaventato a morte.

“Ve… v-ve…” Balbettò in preda al panico.

“Come ti chiami?”

“…”

Feliciano non riusciva a risponde per il terrore. Era sempre stato molto pigro nello svegliarsi, una brutta abitudine che condivideva con il fratello e che spesso creava problemi nel gruppo partigiano in cui operavano, ma in quel luogo poteva realmente rischiare la pelle per il suo stupido vizio.

Ludwig fece un passo in avanti terrorizzando a morte il ragazzo. Voleva assolutamente sapere il suo nome, voleva conoscere tutto di lui, voleva potergli parlare per tutto il tempo, ma doveva fare un passo alla volta. Un soldato nazista non doveva fraternizzare con un prigioniero.

“Il tuo nome!” Scandì con voce forte marcando il suo accento tedesco.

Feliciano per poco non si bagnò i pantaloni per la paura. Il suo cuore batteva a mille e pensava seriamente che quell’adone paradisiaco sarebbe stato l’ultima cosa che avrebbe visto in vita sua.
Balbettando riuscì a tirare fuori dalla sua gola il suo nome e gli sembrò che il tedesco lo pronunciasse più volte sottovoce come se lo stesse masticando con la bocca per renderlo un suono familiare.

Delle grida da fuori l’edificio destarono il tedesco dal suo torpore e, dopo aver risposto ad esse, fece cenno a Feliciano di uscire fuori. Il ragazzo afferrò le scarpe che si trovavano ai piedi della cuccetta e corse velocemente fuori, rivelandosi un ottimo scattista.

Ludwig rimase a fissarlo mentre percorreva in pochi istanti il corridoio del dormitorio per poi scomparire nello spiazzale illuminato confondendosi con gli altri detenuti.
Il tedesco sentiva una sorta di calore nel petto, un’altra sensazione strana e sconosciuta, ma si decise ad ignorarla mentre raggiungeva gli altri all’aperto.

 

L’edificio che ospitava la fabbrica L14 era piuttosto alto e malridotto, saturo di odore di metallo fuso e con il pavimento di terra battuta sporco di trucioli di metallo. I macchinari che servivano per la fonditura e la lavorazione della materia prima si trovavano esattamente nel centro dello stabile. Il calore in quel luogo era tale da fare impallidire l’inferno stesso.

Quando Feliciano entrò nello stabile Gilbert aveva costretto a suon di calci e manganellate gli altri detenuti a iniziare il lavoro quotidiano. Un gruppo di persone erano addette al recupero della materia prima da un grosso cumulo di detriti posto all’esterno dello stabile e al trasporto fino alla fornace dove un altro gruppo, senza alcuna protezione addosso, si occupava della fonditura. Il metallo sciolto colava poi in alcuni stampi che venivano calati in acqua da un terzo gruppo di uomini che avevano il compito di raffreddare il metallo che ormai aveva assunto la forma di un ingranaggio e di trasportarlo in un angolo dell’edificio dove venivano accatastati.

A prima vista quei grossi ingranaggi sembravano del tutto inutili, ma da quando il campo aveva aperto le sue porte ogni fabbrica del blocco produceva ingranaggi di varie grandezze che venivano poi inviati direttamente nelle fabbriche di assemblaggio di veicoli bellici a Berlino.

L’unica persona che mancava nei vari gruppi era Francis che era stato spedito da Gilbert con un forte calcio sul fondoschiena nelle cucine con il compito di preparare il rancio del giorno al dormitorio intero.
Nel campo di concentramento prussiano ai prigionieri veniva concesso un pasto al giorno qualora avessero svolto bene il loro lavoro, che spesso consisteva in una zuppa acquosa e poco consistente che li lasciava più affamati che mai accompagnata a un tozzo piuttosto duro di pane. Le guardie invece avevano diritto a un lauto pranzo consumato nella loro mensa personale, seguito da un’abbondante cena serale.

Nel vedere l’italiano correre nello stabile senza scarpe Gilbert lo raggiunse con poche falcate e lo colpì con il suo manganello.

“Cosa diavolo stai facendo, pezzente? Mettiti subito le scarpe e vai a trasportare le pietre alla fornace, sporco maccherone!”

Feliciano piagnucolò qualcosa mentre si metteva le scarpe tutte bucherellate, poi scappò vicino il ragazzo polacco che stava uscendo in quel momento per andare a prendere le pietre da trasportare alla fornace.
Tutto doveva essere perfetto per Gilbert, soprattutto pulito e ordinato, e funzionante. Tutti gli uomini che controllava dovevano lavorare sodo per produrre ingranaggi e tenere alto il nome del campo nelle parti alte del governo tedesco.
Gilbert ci teneva così tanto da accettare di sacrificare dei poveri innocenti pur di risultare perfetto.
Nella fabbrica lo raggiunse anche Ludwig che sembrava perso nei suoi pensieri come la sera prima.

“Guarda fratellino, guarda quant’è perfetta e impressionante la nostra organizzazione. Questi miserabili hanno trovato uno scopo nella loro vita finalmente!”

Gilbert sembrava veramente convinto di quello che diceva, ed era così preso dalla sua perfezione da non accorgersi che il fratello non aveva sentito nemmeno una parola del suo discorso. Era impegnato invece a ripetere in modo quasi impercettibile e insistentemente una parola che rotolava tra i denti come se stesse recitando un rosario.

La perfezione tanto amata di Gilbert fu rovinata improvvisamente da un rumore sordo e da un flebile lamento. Gli occhi rosso fuoco dell’albino subito guizzarono verso la parte sinistra dell’edificio, dove gli ingranaggi appena completati venivano accatastati pronti per essere spediti. Il suo sguardo si fermò su un ragazzo gracilino nonostante l’altezza che accucciato vicino a un ingranaggio posato a terra cercava inutilmente di sollevarlo, bloccando e deviando la fila di lavoro che si era formata.

Con grosse falcate, mentre il suo volto diventava rosso per la rabbia, Gilbert si diresse verso il ragazzo biondo, quasi investendolo.

“Cosa cazzo stai facendo, piccolo merdoso stronzo?! Muoviti a raccogliere quell’ingranaggio e a tornare a lavorare!”

Le sue grida si sparsero per tutto l’edificio bloccando all’istante tutti i lavoratori che si girarono a guardare nella sua direzione curiosi e impauriti.
Matthew cercò inutilmente di alzare l’ingranaggio ma l’oggetto non si mosse di un millimetro da terra.

“Io… io non ci riesco… è troppo pesante per me!” Piagnucolò nello sforzo.

Gilbert non ci vide più dalla rabbia. La sua adorata e tanto sofferta perfezione stava per essere irrimediabilmente rovinata da quel miserabile individuo dal disgustoso accento inglese che continuava ad esistere soltanto per un suo capriccio. Senza pensarci due volte l’albino afferrò per il collo il povero ragazzo e sfoggiando una forza fuori dal comune, dovuta agli anni di allenamento per rendere perfetti i suoi muscoli, glielo strinse soffocandolo.

Matthew cominciò ad annaspare mentre con le mani cercava di divincolarsi dalla presa del tedesco, ma non vedendo bene a causa degli occhiali che gli erano stati tolti il giorno prima, non riuscì a colpirlo né tantomeno ad appendersi al suo corpo.

“Kesesese, ma a chi stai mirando, eh fallito?” Schernì Gilbert ridendo di gusto mentre stringeva la presa sul pallido collo del ragazzo.

“Uc… Oc… Occhi-ali…” Riuscì a sputare Matthew mentre si aggrappava con tutte le sue forze alle braccia di Gilbert cercando di respirare un po’ d’aria.

“Occhiali? A che ti servono gli occhiali se stai per morire?”

Detto questo Gilbert mollò la presa con una mano e la sollevò a pugno pronto per calarla con forza sul povero malcapitato.
Nell’edificio era calato un silenzio quasi sacro. Gli altri detenuti rimasero a guardare sconvolti sentendosi disgustati e impotenti allo stesso tempo. Il volto di Feliks assunse una smorfia di disperazione nel vedere che un altro detenuto del suo dormitorio stava per morire per un motivo futile e assurdo. Al suo fianco Feliciano tremava come una foglia e singhiozzava in silenzio mentre le lacrime gli bagnavano il volto.
Dalla fornace Toris guardava paralizzato la scena. Nemmeno il giorno prima aveva concluso che il canadese non sarebbe sopravvissuto a lungo, ma non avrebbe mai pensato di vederlo morire così presto e per un motivo così stupido.
Semplicemente non era pronto per vedere morire nessuno.

Alle urla disumane Ludwig uscì dalla sua trance notando finalmente cosa stava succedendo a pochi metri di distanza da sé. Vedere il fratello piegato sul ragazzo indifeso pronto a massacrarlo di pugni lo lasciò con un fortissimo senso di nausea mentre l’adrenalina montava. Doveva salvare quel ragazzo dalla violenza del fratello, esattamente come aveva fatto poco tempo prima con Feliciano, doveva assolutamente farlo. Pensando a ciò fece uno scatto in direzione del fratello per poi fermarsi qualche istante dopo, sconvolto.
Non aveva fatto in tempo.

 


Gilbert rideva come in indemoniato mentre guardava il volto del ragazzo rosso e sofferente. Con la sua morte la sua perfezione sarebbe stata salva. Gilbert era pronto a sacrificare chiunque pur di preservarla. Avrebbe colpito così forte quella feccia da renderlo irriconoscibile anche a sua madre, non importa se avrebbe tolto forza lavoro nella fabbrica, un individuo tanto inutile era solo un peso per essa.

Stava per avventarsi sul ragazzo con foga quando il suo braccio si fermò a metà strada, come se una mano invisibile lo avesse trattenuto con forza.
Gilbert rimane impietrito a guardare il volto del canadese ormai allo stremo.
Matthew era diventato completamente rosso, quasi viola, per la mancanza d’aria e dalla sua bocca colava un rivolo di saliva che cadeva sulla mano dell’albino che gli stringeva il collo. Ma quello che più di tutto pietrificò il tedesco fu il suo sguardo. Gli occhi del ragazzo, grandi e d’un incredibile violetto, lo fissavano socchiusi per lo sforzo e colmi di lacrime che scendevano sulle sue guance. Nel suo sguardo Gilbert non leggeva né odio né rancore né nessun altro sentimento negativo nei suoi confronti ma solo tanta disperazione e tristezza.

L’albino cercò di dire qualcosa ma lo sguardo ipnotico del ragazzo ormai quasi svenuto gli risucchiava l’intera facoltà del pensiero, e forse quasi l’anima. Raccogliendo tutta la sua forza di volontà Gilbert riuscì a deviare il suo sguardo da quello del ragazzo. Ancora scioccato da quello che aveva provato, gettò il ragazzo a terra lasciando la presa sul suo collo e alzandosi. Subito Matthew si portò le mani al collo respirando rumorosamente a pieni polmoni, tossendo insistentemente. Gilbert lo osservò per qualche istante rimanendo in piedi di fronte a lui, poi si guardò intorno. L’intera fabbrica aveva puntati i suoi occhi su di lui. I prigionieri erano rimasti a bocca aperta a fissarlo increduli mentre Ludwig lo guardava come se indossasse un vestito da donna.

Cercando di scrollarsi di dosso l’immenso disagio che lo stava assalendo, abbaiò ai prigionieri di rimettersi a lavoro, poi si rivolse al canadese intimandolo di cambiare posto con qualcuno della fornace. Infine, rosso in volto più per altro che per la rabbia, girò i tacchi su sé stesso e quasi corse fuori dall’edificio senza nemmeno girarsi verso il fratello che lo seguiva con lo sguardo.

 

“Cosa cazzo è successo?”

Questo fu il primo pensiero di Gilbert quando, uscito dalla fabbrica, si rifugiò dentro l’edificio dove si trovavano le docce comuni, a quell’ora deserto.
Appena entrato, subito si appoggiò con le mani a una parete, fissando sconvolto a terra. In nemmeno un minuto era successo l’incredibile, ma cosa ancora più incredibile era che non era riuscito a picchiare quel ragazzo.
No, era più corretto dire “non aveva voluto”!

Gilbert scosse la testa e tornò a guardare a terra con gli occhi sgranati. Mai nella sua carriera di amministratore del campo gli era successa una cosa simile. Non si era mai fatto scrupoli a picchiare, vessare, torturare, ferire o in casi estremi mutilare i prigionieri qualora ne avesse avuto bisogno o voglia, ma questa volta semplicemente non vi era riuscito.

Probabilmente il motivo era il canadese stesso. Gilbert non aveva mai preso in simpatia nessun prigioniero da quanto lavorava lì, ma riconosceva quando qualcuno lavorava sodo e bene o quando qualcuno era oggettivamente di bell’aspetto. Quel canadese, se non fosse stato inglese, sarebbe potuto essere un perfetto ariano in quanto rispettava la maggior parte dei canoni dell’ideologia tedesca.

Il problema però era soltanto uno: la sua bellezza non era oggettiva per Gilbert.
L’albino infatti non era stato particolarmente colpito dal bell’aspetto del ragazzo quanto dal suo volto e soprattutto dai suoi occhi e dalle sensazioni che aveva provato nel guardarli. Occhi grandi, d’un colore mai visto prima, innocenti e allo stesso tempo saggi e profondi, carichi di pazienza e dolcezza. Uno sguardo che per la prima volta nella vita di Gilbert non lo guardava con odio, disprezzo e disgusto.

Gilbert sapeva bene di essere diverso da tutti gli altri, e soprattutto di essere estremamente fortunato. La sua caratteristica principale, l’albinismo, lo aveva costretto a una vita di forti sofferenze a livello sociale dove tutti, adulti, bambini, parenti, insegnanti, semplici passanti che lo incrociavano per strada, lo fissavano come se fosse un mostro, lo additavano come diverso e lo isolavano. Gilbert aveva dovuto combattere contro la solitudine e contro il disprezzo per tutta la sua vita, rimboccandosi le maniche nel cercare di farsi riconoscere almeno i propri sforzi, cercando di essere il migliore in tutto per essere finalmente visto come una persona normale e di valore. E accidenti ci era riuscito, era diventato davvero impressionante, ma nonostante ciò la gente lo guardava ancora con disprezzo, disgusto e ora anche con invidia.
Gilbert era consapevole anche che la maggior parte della sua fortuna derivava dalla sua famiglia altolocata ed era questo il principale motivo per cui non si trovava in quel campo come prigioniero al posto di amministratore.
Lui si divertiva a rendere la vita dei prigionieri un inferno per cercare di esorcizzare la sua sofferenza facendo del male agli altri, soprattutto a quelli che lo odiavano più di qualsiasi altra cosa.
Non era colpa sua se era nato in quel modo, non era colpa sua se era diverso da tutti gli altri, non voleva esserlo e avrebbe fatto di tutto per proteggere tutto quello che aveva faticosamente conquistato fino al quel momento.

Ma quello sguardo… quello sguardo privo di negatività, privo di odio e rancore, carico solo di tristezza, disperazione e quasi compassione lo aveva destabilizzato nel profondo. Quel ragazzo non lo odiava, non pensava fosse diverso o che fosse un mostro, aveva anzi quasi pietà della sua condizione, e soprattutto non lo giudicava. Guardandolo, per la prima volta nella sua vita Gilbert si sentì visto per ciò che era e non per ciò che appariva, per un ragazzo che usava la violenza per nascondere la sua grandissima sofferenza interiore e per cercare di alleviarla, non per uno scherzo della natura feroce e senza scrupoli.

Ed era proprio questo che creava in Gilbert tanta confusione, il fatto che appena visto quello sguardo il suo io interiore si era rifiutato categoricamente di far del male a quel ragazzo, di distruggere a suon di pugni la sua innocenza e compassione.
Con un’epifania degna dei personaggi dei romanzi di Joyce, Gilbert realizzò che non voleva per nessuna ragione al mondo essere odiato da quel canadese, ma anzi voleva assolutamente continuare a essere guardato in quel modo tutto il tempo, proteggerlo da ogni minaccia che poteva ledere la sua innocenza, tenerlo stretto a per sé in modo quasi possessivo, nutrendosi della sua presenza e della sua semplicità come se potessero curare in modo definitivo le profonde cicatrici del suo cuore.

Con orrore si allontanò dalla parete passandosi la mano sul volto sudato mentre fissava insistentemente la porta dell’edificio. Un conto era pensare che una persona fosse di bell’aspetto in modo oggettivo, un altro era pensare che quella persona non solo fosse bella ma essere anche interessato al suo aspetto interiore. Gilbert deglutì a fatica.
Aveva appena capito di avere degli interessi particolari per un ragazzo, una persona del suo stesso sesso, interessi che non aveva mai avuto prima di allora e che disprezzava con ogni fibra del suo corpo.

“Impossibile! Io… io non posso essere interessato a un uomo! Io….”

Le relazioni tra uomini erano severamente vietate e punite dall’ideologia nazista e lui era cresciuto facendo proprio questo valore. Era impossibile che avesse interessi per altri uomini, anche perché ne aveva visti tanti in ogni modo possibile e non avevano avuto nessun effetto su di lui, e poi in gioventù aveva avuto diverse cotte per delle ragazze.

“Devo essermi rincretinito tutt’un tratto! Probabilmente è colpa della stanchezza” Ridacchiò tra sé per cercare di sdrammatizzare il tutto, ma nel profondo della sua anima sentiva una vocina che urlava “bugiardo”.

Senza indugiare oltre uscì dall’edificio e si diresse verso i dormitori delle guardie deciso a impiegare tutto il tempo che serviva in preghiera davanti il crocifisso che aveva appeso nella sua stanza per cercare di trovare una risposta ai suoi problemi.


Note dell'Autore
Ed ecco finalmente un nuovo capitolo. Mi hanno fatto notare che i capitoli precedenti erano un tantino corti, perciò iniziando da questo pubblicherò capitoli più lunghi :D
Lo so, lo so, ho trattato malissimo Canada e me ne pento, ma da adesso in poi andrà meglio, giuro. 
Inoltre abbiamo scoperto anche un lato nascosto di Gilbert che inizierà ad emergere sempre più!!
Canada è così tenero, piace a tutti :3

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Capitolo 5
*** Desidero vederti felice ***


Ludwig osservava i prigionieri lavorare con uno sguardo confuso mentre la sua mente era affollata da dubbi. Cos’era successo poco tempo prima? Cos’aveva portato Gilbert, il suo fratello crudele e sadico, a non picchiare quel ragazzo, ma anzi a lasciarlo andare e correre fuori dalla fabbrica?
Ludwig proprio non riusciva a trovare risposta.

Osservava in silenzio tutta quella gente mantenendo la sua impeccabile posa militare con la schiena dritta e il petto all’infuori per incutere timore e rispetto.
Spesso gettava un’occhiata verso la fornace dove il ragazzo canadese aveva preso il posto di un altro prigioniero. Quella povera anima piangeva in silenzio mentre gettava le pietre nella fornace e incanalava il metallo fuso negli stampi. Sul suo collo si era formato il grosso segno di una mano rossa che circondava tutta la pelle appena sotto il mento. Finito il lavoro, Ludwig lo avrebbe mandato in infermeria per un controllo.

Altrettanto spesso il suo sguardo di ghiaccio si posava sul piccolo italiano che curvo sotto i sacchi cercava di svolgere il suo lavoro, riuscendoci molto male. Era molto fragile di costituzione perciò non riusciva a portare bene il peso dei sacchi e piagnucolava ogni due passi di essere stanco, di avere dolori alla schiena e di avere fame. Gli altri detenuti cercavano di spronarlo con incoraggiamenti e con spinte ma il ragazzo non sembrava proprio adatto al lavoro manuale.

Ludwig sorrise dolcemente nel vederlo in quello stato un po’ patetico. Trovava quel Feliciano adorabile nonostante il suo comportamento infantile, e poi il suo nome sembrava pura poesia. Il tedesco aveva impiegato diverso tempo per riuscire a pronunciarlo correttamente senza imbruttirlo con il suo forte accento tedesco. Desiderava poter pronunciare il suo nome dolcemente come lo pronunciava lui con il suo incantevole accento italiano.
Inoltre aveva gettato l’occhio anche sul fondoschiena del ragazzo quando gli dava le spalle per uscire dall’edificio, vergognandosi internamente di ciò che stava facendo ma non riuscendo a smettere. Dio, aveva un culo celestiale, così piccolo e sodo, probabilmente perfetto per essere preso tra le sue mani…

I suoi pensieri peccaminosi furono interrotti da un uomo che entrò improvvisamente nella fabbrica chiamandolo a gran voce. Ludwig, rosso in faccia, si girò di scatto vedendo Roderich accorciare le distanze tra di loro con la sua camminata lenta e aggraziata, davvero fuori luogo in un posto simile.

“Ludwig, volevo informarti che il pranzo è quasi pronto, il francesino ha cucinato sia per questi pezzenti che per noi. Spero davvero per lui che sia all’altezza della sua fama” Disse con il suo accento sofisticato aggiustandosi gli occhiali.

“Bene, grazie. Sai per caso dov’è Gilbert?”

“Si è rinchiuso nella sua stanza a pregare non so per quale motivo, ma ha detto che sicuramente presenzierà al pranzo”

Il tedesco biondo annuì incerto, poi si guardò attorno osservando i prigionieri lavorare.

“Io… io credo che mangerò con i prigionieri”

A quelle parole Roderich sgranò gli occhi e rimase a guardarlo scioccato e allo stesso tempo inorridito.

“Stai scherzando, vero?” Chiese dopo qualche istante di silenzio.

“No, io non scherzo mai, dovresti saperlo”

“Non puoi essere serio, Ludwig! Come ti salta in mente di condividere il pasto con questa…” Con un gesto ampio indicò tutti i prigionieri “…gente…” Concluse con una smorfia.

Ludwig rimase a fissarlo per qualche istante. Roderich era il rampollo di una ricchissima famiglia austriaca che, per salvare il proprio patrimonio e il proprio prestigio, con l’annessione dell’Austria alla Germania aveva deciso di appoggiare la dittatura nazista senza alcuna remora. Grazie all’influenza della sua famiglia, Roderich era stato subito assegnato al campo di concentramento senza nemmeno passare per l’allenamento in esercito, per questo aveva conservato il suo atteggiamento aristocratico. Egli abbracciava perfettamente l’ideologia nazista della razza e della divisione in classi sociali guardando dall’alto in basso praticamente tutti quelli che gli si avvicinavano. Ludwig non sopportava il suo atteggiamento spocchioso, e soprattutto il suo menefreghismo per quasi tutto quello che succedeva in quel luogo.
A Roderich interessava soltanto la musica, i soldi, una vita agiata, essere servito e riverito, e i dolci. Il resto non lo toccava minimamente.

“Qualcuno dovrà pur controllarli no?” Rispose in modo diplomatico. In realtà non voleva rivelare di sentirsi più a suo agio con quella gente piuttosto con i secondini del campo di concentramento.

Roderich lo fissò con diffidenza per qualche istante, poi sbuffò sconfitto e annuì.

“Hai ragione, fai come meglio credi. Vado ad avvertire Gilbert allora e a dire al biondino in calore di sbrigarsi con il pranzo. Intanto fai concludere i lavori e porta questa feccia nel cortile davanti il dormitorio per la distribuzione del pranzo”

Girando i tacchi, lentamente ed elegantemente com’era arrivato se ne andò.
Ludwig scosse la testa e rivolse la sua attenzione ai lavoratori iniziando ad urlare ordini con il suo forte accento tedesco.

 

Francis rimase sconvolto nel sentire il racconto di Feliciano. In una mattinata erano successi ben due miracoli, avvenimenti più unici che rari. Non solo Feliciano era incredibilmente uscito incolume dal confronto con la guardia circa la sua pigrizia mattutina, ma Matthew era sopravvissuto alla violenza senza senso di Gilbert con solo un grosso livido sul collo.
Francis continuò a mangiare la sua minestra scioccato mentre ascoltava la fine del racconto di Feliciano.

“E così Gilbert ha urlato contro tutti noi di continuare a lavorare e poi è uscito dalla fabbrica e non si è più visto! Ve, è strano vero? Però è stata una fortuna per Matthew, ve! Vero Matthew?”

Il ragazzo biondo mangiava lentamente la sua minestra in silenzio guardando a terra. I suoi occhi erano scavati da profondi segni rossi dovuti al pianto e le guance ancora portavano i segni delle linee lasciate dalle lacrime. Aveva un aspetto pietoso e Francis ebbe compassione per lui.
Posando il suo piatto di minestra a terra affianco a lui, Francis si alzò e affiancò il canadese che sembrava non essersi accorto della sua presenza. Con un dolce sorriso, il francese lo strinse in un abbraccio poggiando la sua testa sul petto e accarezzando lentamente i suoi capelli arruffati.

“Oh petit trésor, ti sei spaventato, non è vero? Ti ha fatto tanto male? Avanti non preoccuparti, è tutto finito, ci siamo noi adesso qui”

Matthew posò a terra il suo piatto ormai quasi vuoto mentre i suoi occhi si gonfiavano nuovamente di lacrime. Con un singhiozzo ricambiò l’abbraccio di Francis nascondendo il volto nel suo petto.

“Io… sigh… io non voglio stare qui! Ho paura! Sob! Voglio mio fratello, dov’è mio fratello? Dov’è Alfred?? Sigh!”

Anche feliciano posò il suo piatto vuoto a terra e si aggiunse all’abbraccio.

“Non preoccuparti, amico mio, le cose si sistemeranno presto, ve! Sono sicuro che i nostri cari staranno facendo tutto il possibile per trovarci e salvarci!”

Feliciano sembrava davvero ottimista e convinto di ciò che diceva. La sua genuinità riuscì a calmare un po’ Matthew e lentamente si allontanò dall’abbraccio e ringraziò i suoi amici.

“Avanti petit, finisci il tuo pranzo e riposa un po', tra qualche minuto ricominceremo a lavorare e non avremo più tempo per riposare!”

Matthew annuì e riprese il suo piatto, mentre Francis ritornò al suo.
Da lontano Ludwig osservò con interesse la scena. Era curioso vedere come si era formato del cameratismo in così poco tempo tra i prigionieri, soprattutto tra il polacco e il lituano e tra Feliciano, Francis e il ragazzo canadese, e scoprì che la cosa non gli dispiaceva. Rimase ad osservarli per qualche altro istante, finché una voce alle sue spalle non lo prese di sorpresa.

“Che scena commovente, non è vero?”

Con il suo tipico sorriso tagliente e brillante Gilbert era magicamente apparso dietro le spalle del ragazzo, come se sbucasse dal nulla. Ludwig non fu particolarmente felice di vederlo, non dopo quello che aveva fatto al canadese.

“Sei finalmente riuscito ad uscire dalla tua stanza! Il nostro Dio ti ha nuovamente parlato?” Chiese con una forte punta di ironia nella voce.

“Non sei spiritoso!” Rispose l’albino con poca convinzione.

Ludwig girò la testa per guardarlo sospettoso. Si aspettava come risposta la solita filippica sulla fede e sull’autenticità dei colloqui che Gilbert aveva con l’onnipotente, ma trovò invece suo fratello fissare in silenzio in direzione del gruppetto di prigionieri che si godeva un po’ di riposo. Ludwig non ne era sicuro ma sospettava che stesse guardando proprio il ragazzo canadese che poche ore prima stava per picchiare a morte. I suoi dubbi trovarono conferma pochi istanti dopo.

“Francis! Smettila di perdere tempo come un idiota e porta quel fallito inglese in infermeria. Non mi piace vedere i lavori lasciati a metà!”

“S-sono canadese…” Sussurrò Matthew, ma nessuno sembrò sentirlo.

Senza rispondere, Francis si alzò e aiutò con la mano il ragazzo ad alzarsi a sua volta.

“Vieni, andiamo a controllare quel brutto livido sul collo, oui? Sicuramente dopo ti sentirai molto meglio”

“Muovetevi maledizione! E voi altri alzate il culo e tornate a lavoro! Veloci!”

Ludwig rimase in silenzio a guardare fisso davanti a lui. Che Gilbert non amasse lasciare i lavori a metà o incompiuti era vero, ma questo significava che avrebbe dovuto scagliarsi di nuovo su quella povera anima invece che mandarlo in infermeria a curarlo, cosa che tra l’altro avrebbe fatto lui a breve. Rimase a rimuginare su ciò mentre guardava l’italiano accodarsi al lituano e al polacco ed entrare in fabbrica. Non si accorse che Gilbert aveva seguito con lo sguardo i due ragazzi biondi che si avviavano verso l’infermeria, distogliendolo solo quando furono nascosti dalle pareti degli altri edifici.

 

I prigionieri passarono tutto il pomeriggio a lavorare senza alcuna sosta finché il lavoro non fu ostacolato dal buio che non permise più di vedere a un palmo dal proprio naso. Nonostante tutto l’orrore e il degrado di quel posto, la notte regalava ai detenuti del campo uno splendido cielo stellato difficilmente visibile dalle città europee inquinate dalla luce corrente. Tutti, dal primo all’ultimo prigioniero, erano sfiniti e si trascinavano come meglio potevano al dormitorio.

Toris si costringeva a trascinare i piedi pensando solo al suo angolino di letto umido e sporco dove si sarebbe accucciato e dove avrebbe rilassato le sue membra stanche e sforzate. Sperava con tutto il suo essere che quella sera il suo compagno di letto non lo avrebbe disturbato con i suoi stupidi discorsi perché aveva ardente bisogno di riposare. Se tutte le giornate fossero state in quel modo Toris pensava seriamente che non sarebbe sopravvissuto a lungo.

Sistemandosi sul letto accanto a Feliks che sembrava stanco e desideroso di riposo esattamente come lui, Toris vide passare con passo lento il ragazzo canadese. Il suo sguardo si addolcì un po’ nel vedere il grosso segno che il secondino gli aveva lasciato sul collo, un segno violaceo che avrebbe impiegato diversi giorni per abbandonare la pelle candida del ragazzo. A Toris si strinse il cuore nel pensare che c’era qualcuno in condizioni peggiori di lui, soprattutto se quel qualcuno era Matthew, un ragazzo dolcissimo e innocente che davvero non doveva trovarsi in quel posto.

Cercando di pensare ad altro, Toris si accoccolò chiudendo gli occhi e assaporando il sollievo di sentire il suo corpo rilassarsi contro la paglia, quando una vocina lontana gli giunse all’orecchio:

“ Maple! Non posso crederci!”

Subito il ragazzo lituano si alzò di scatto guardando nella direzione del canadese, notando che il ragazzo, forse per la prima volta da quando erano arrivati lì, aveva parlato così ad alta voce da attirare l’attenzione di tutti. Francis e Feliciano, che erano quelli più vicini al letto di Matthew, già si erano già alzati e si stavano avvicinando al ragazzo che sembrava particolarmente agitato.
Toris rimase un istante confuso e indeciso sul da farsi ma fu Feliks che tirandolo per una manica tutto entusiasta lo convinse a scendere dalla cuccetta e avvicinarsi agli altri.
Povere le sue membra doloranti.

Matthew era arrossito visibilmente mentre guardava i suoi amici avvicinarsi preoccupati, ma non perché improvvisamente si trovava al centro dell’attenzione di tutti, ma per quello che aveva trovato sulla sua cuccetta. All’inizio non l’aveva visto e lo aveva letteralmente schiacciato sotto la sua schiena, ma uno scricchiolio sinistro e un pizzico proprio dietro la scapola portarono il ragazzo a scoprire della sua esistenza.

Quando gli altri ragazzi arrivarono lo stupore fu generale.
Francis rimase a fissare l’oggetto con un’espressione dubbiosa, rimasto senza parole (cosa rara per lui), mentre Toris e Feliks guardarono con stupore e confusione prima il ragazzo poi il letto, poi ancora il ragazzo come se cercassero una spiegazione proprio da lui.
Fu Feliciano il primo a riuscire a dire qualcosa in merito rompendo la tensione che si era creata.

“Ve, sono occhiali! E’ un paio di occhiali!” Esclamò con gioia.

“Oh mon dieu, è vero, è proprio un paio di occhiali! Ma da dove arrivano?”

Matthew scosse la tessa negativamente mentre li prendeva in mano come se fossero un oggetto antico e fragile. Erano un paio di lenti tonde e grandi montate su una struttura di legno d’ebano decorato con degli intagli, con dei cuscinetti di pelle che proteggevano i punti in cui gli occhiali poggiavano sul setto nasale. Matthew li rigirò varie volte tra le mani cercando di vederne tutti i dettagli nonostante la sua miopia.

“S-sono bellissimi, ma non sono miei. Non so da dove vengono!”

“Che t’importa? E’ chiaramente un regalo di qualcuno, e poi a te serve un paio di occhiali no? Io non farei domande a riguardo, anche se secondo me è stato quel tedesco biondino, è piuttosto gentile con noi!” Esclamò Feliks con gli occhi brillanti mentre lo sguardo di Feliciano si rattristò un pochino.

“Prova a metterli Matthew” Incitò Toris, spalleggiato dagli altri.

Matthew si infilò gli occhiali lentamente come se avesse paura di rovinarli, poi guardò singolarmente gli altri negli occhi mentre un sorriso di genuina felicità si allargava sul volto.

“Sono perfetti!” Esclamò con gioia mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime “Riesco finalmente a vedervi tutti, io non posso crederci, finalmente posso vederci bene!”

Francis lo abbracciò con affetto mentre gli altri ragazzi commentavano e ridevano sull’accaduto. Matthew rispose all’abbraccio con trasporto mentre le lacrime scendevano sulle sue guance.
Lacrime di gioia questa volta.

Da una finestrella situata sulla parete in fondo al dormitorio una sagoma nascosta nell’oscurità osservava con il suo sguardo cinabro la situazione.

 

“Io non riesco a capire, Gilbert. Perché improvvisamente hai fatto una cosa simile? Non è da te!”

Roderich, con il suo immancabile accento da aristocratico sofisticato, girò energicamente il cucchiaio nella tazzina di caffè fumante che aveva appena preparato, aggiungendo di tanto in tanto una zolletta di zucchero.

“Insomma, sono soltanto detenuti, povere anime dannate dal regime e tramutate in forza lavoro per le sue fabbriche, e ad essere sinceri anche molto scadente. Spiegami per favore”

Roderich smise di girare il caffè e fissò con insistenza il ragazzo albino. Gilbert, che sedeva in modo volgare su una sedia, distolse lo sguardo non riuscendo a sostenerlo, fissando invece il paesaggio fuori la finestra.

“Non c’è nulla da spiegare, accidenti”

“Non dire stupidaggini. Mi hai costretto a cederti uno dei miei amatissimi paia di occhiali fatti a mano, per poi cosa? Scoprire che lo hai regalato a un detenuto qualsiasi. Vorrei cortesemente una spiegazione, quegli occhiali sono stati costruiti su ordinazione in Svizzera, sono molto costosi e pregiati. E’ un vero spreco averli gettati nelle mani luride di quei pezzenti” Con sdegno soffiò sulla tazzina bollente per poi sorseggiarne il contenuto.

Gilbert arrossì violentemente a quelle parole, ringraziando di trovarsi nella penombra altrimenti avrebbe dovuto spiegare anche quella reazione. Maledetto aristocratico austriaco dalla parlata femminea. Cercando di essere più spontaneo possibile, rise energicamente sbattendo la mano sul tavolo.

“Ripeto, non c’è niente da spiegare Roderich. Quel pusillanime aveva bisogno di un paio di occhiali per poter lavorare bene e io me ne sono procurato uno dove ho potuto” Fece una pausa ad effetto “Se aspettavo di fare richiesta nella lista dei rifornimenti mensili avrei dovuto aspettare molto tempo, lo sai no? E nel frattempo cosa dovevo fare? Sparare a quel disgraziato perché non poteva lavorare bene? Tu lo sai che un paio di braccia in più sono sempre comode no?”

Si rimise improvvisamente composto e guardò dritto negli occhi del suo interlocutore “Inoltre la colpa è soltanto tua. Come ti è saltato in mente di bruciare anche gli occhiali di uno che non ci vede senza? Eri tu che stavi supervisionando le docce insieme al mio fratellino ieri, no? Ed escludendo che sia stato lui, perché non è così stupido, rimani solo tu!”

Roderich rimase a guardarlo a bocca aperta scioccato. Gilbert gli lanciò uno dei suoi sorrisi affilati mentre si alzava spostando rumorosamente all’indietro la sedia. Era così appagante riuscire ad azzittire quello spocchioso damerino una volta ogni tanto, doveva rincarare la dose per poter gustare al meglio quel momento.

“Perciò perdere un paio di occhiali per riparare la tua grave mancanza di cervello è un piccolissimo prezzo da pagare, inoltre imparerai la lezione per la prossima volta, no?”

Detto questo rise di gusto e lasciò la stanza e l’austriaco a dir poco indignato salutandolo con un gesto della mano. Appena uscito dalla vista dell’austriaco, Gilbert si morse le unghia di una mano in preda all’agitazione.

“L’ho scampata bella! Per fortuna sono così eccezionalmente intelligente da essere riuscito ad azzittirlo, ma a momenti mi metteva con le spalle al muro. L’ho fatto solo perché quell’idiota non lavora bene senza occhiali… Si, è per quello!” Pensò mentre percorreva il corridoio che portava alla sua stanza, ma in cuor suo sapeva che quella era soltanto una scusa, una debole bugia che cercava di nascondere una prepotente verità che mal accettava.

“Una nottata di preghiera e di riflessioni mi schiarirà le idee!”



Nota dell'autore
Finalmente il capitolo!! Mi scuso per il ritardo ma purtroppo ho avuto molti impegni di tipo universitario che mi hanno fatto tardare la pubblicazione, maledetto studio -_-
Oh-OH Gilbert, ti piace fare i regali di nascosto eh?
Povero Feliciano, l'idea di non essere il preferito di Ludwig lo rattrista molto, ma tu non sai la verità!! Ludwig ha occhi solo per te ><
Spero di aver caratterizzato bene Roderich, mi piace molto enfatizzare il suo lato altolocato e snob, inoltre mi è parso dall'anime che né Germania né Prussia sopportano molto il suo comportamento da aristocratico x'D
Francia è sempre il fratellone :3
Mi scuso per errori di qualsiasi genere e se avete domande o volete parlare della FF sono a completa disposizione, non siate timidi ;)
Al prossimo capitolo!

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Capitolo 6
*** Bacio di pronta guarigione ***


Erano passati diversi giorni da quando Feliciano era arrivato al campo, forse qualche settimana, l’italiano non sapeva dirlo con certezza. I detenuti non riuscivano a portare il conteggio dei giorni, figurarsi le settimane e i mesi, l’unica cosa che riuscivano a capire era il trascorrere del giorno con l’arrivo della notte e il passaggio da una stagione all’altra, niente più. Feliciano però sentiva di aver trascorso quasi una vita intera in quel posto.

Da quando erano arrivati tutti avevano subito dei cambiamenti a livello fisico.
Feliciano aveva perso diversi chili, ed essendo già di costituzione piccola iniziava ad essere piuttosto esile e smunto. Matthew aveva acquisito un pallore quasi cadaverico mentre i suoi occhi che inizialmente erano di bel violetto brillante ora erano spenti e infossati dietro le lenti. Toris invece aveva cominciato a perdere più capelli del solito, rimanendo con intere ciocche tra le dita quando passava la mano tra la capigliatura un tempo folta. Francis e Feliks avevano cercato di rassicurare i ragazzi dicendogli che era normale e che anche loro avevano perso molto peso e il loro aspetto sano, ma ciò non riuscì a tranquillizzarli del tutto.

Toris soprattutto soffriva molto di incubi la notte che lo portavano a gemere, urlare e tremare in modo incontrollato. Feliks spesso veniva svegliato nel cuore della notte dagli spasmi del compagno, e per uno slancio di pietà aveva cominciato a prendere l’abitudine di dormire abbracciato a lui per cercare di tranquillizzarlo. Per questo motivo il ragazzo lituano era sempre molto stanco e sfibrato il giorno, una condizione che preoccupava non poco i suoi compagni di sventura.
Feliciano invece si era accorto che Francis aveva l’abitudine di sussurrare alcune frasi in francese misto a qualche parola inglese la sera prima di addormentarsi, come se mormorasse una buonanotte rivolta a chissà chi o una favola per conciliare il sonno. Feliciano non sapeva perché ma ogni volta che ascoltava quella litania veniva colto da una forte sensazione di tristezza.

In tutta questa negatività però qualcosa di positivo c’era.
Entrambi i fratelli tedeschi che sorvegliavano i detenuti del dormitorio H3T4 avevano ammorbidito il loro comportamento. Ludwig si era rivelato sin dall’inizio di buon cuore e quasi privo di crudeltà, mentre colui che destò più stupore fu proprio Gilbert. Dopo l’episodio che lo aveva quasi portato a uccidere Matthew il suo atteggiamento si era progressivamente ingentilito. Certo, lui era ancora freddo e autoritario con i prigionieri, li picchiava spesso e li insultava pesantemente, ma loro non sentivano più ila propria vita costantemente in pericolo.

In questi giorni il dormitorio era stato costretto a lavorare sia nella fabbrica L14 sia in altri luoghi del campo di concentramento, a volte in altre fabbriche, altre invece al di fuori della recinsione nei campi coltivati intorno al complesso.
Quando si trovavano all’esterno di solito erano costretti a lavorare la terra per raccogliere alimenti che i prigionieri non avrebbero mai visto nei loro piatti. Nonostante gli sforzi di Francis il loro rancio era a dir poco immangiabile e ipocalorico, un pasto che riusciva a malapena a tenerli in vita.

In tutto questo tempo Feliciano aveva cominciato a prendere l’abitudine di lanciare occhiate furtive e fissare insistentemente nei momenti morti la guardia bionda. Non sapeva dire il perché ma quel Ludwig gli ricordava tanto un ragazzino che aveva conosciuto nell’infanzia e che aveva sempre amato, e che non aveva più rivisto dopo l’ascesa del Fascismo in Italia.

Fin dall’inizio Feliciano aveva avuto un debole per lui che da semplice attrazione si stava evolvendo in qualcosa di più, alimentata anche dal comportamento gentile del soldato stesso. Spesso la mattina, quando Feliciano non riusciva a svegliarsi in orario, era Ludwig che lo svegliava e lo aiutava a sistemarsi per poter andare a lavorare, mentre il giorno Feliciano sorprendeva sempre il ragazzo a fissarlo insistentemente.
Anche Francis si era accorto della situazione, come se avesse un fiuto particolare per le tensioni sessuali, ma aveva preso in considerazione anche la possibilità che Ludwig fissasse l’italiano per controllare che non bighellonasse sul lavoro, deludendo non poco il ragazzo.

Feliciano si ostinava ad osservare il tedesco anche per un altro motivo: voleva ardentemente sapere se era stato lui a regalare il paio di occhiali a Matthew.
Dalla sera in cui li aveva ricevuti il giovane canadese non aveva smesso di cercare chi gli aveva fatto quel regalo per poterlo ringraziare. Inizialmente aveva sospettato di qualche guardia del campo, ma aveva subito scartato l’idea in favore di qualcuno all’interno del dormitorio che magari aveva chiesto quella concessione a una guardia o li aveva direttamente rubati.
Francis era più propenso per l’idea di qualche guardia invece, idea che era sostenuta anche da Toris e Feliks. Feliciano temeva che potesse essere stato Ludwig stesso in uno slancio di pietà maggiore di quelli che aveva già avuto.
Quell’idea infastidiva inspiegabilmente Feliciano, che voleva vederci chiaro in tutta quella situazione. Lui non aveva ricevuto nessun tipo di regalo nonostante avesse iniziato a controllare ogni centimetro della sua cuccetta tutte le notti prima di dormire e il pensiero che Ludwig, il suo Ludwig, avesse un qualche tipo di interesse per un’altra persona lo rendeva ansioso e disperato.
L’idea che Ludwig non avesse quel tipo di tendenze non lo fiorava minimamente.

Erano giorni che Feliciano era tormentato da una singola quanto difficile domanda: come fare per farsi notare da Ludwig?
Quello era un campo di concentramento, lui era un partigiano prigioniero vivo non sapeva grazie quale santo e Ludwig un soldato nazista e il suo secondino.
Erano incompatibili.
Sembrava la trama di uno di quei romanzi rosa dalle storie d’amore epiche e impossibili che suo fratello nascondeva nel doppiofondo dello zaino. Feliciano sperava solo che anche la sua storia si sarebbe conclusa con un lieto fine come in quei romanzi.

Il giorno in cui si bruciò l’interno della mano Feliciano era preso per l’ennesima volta a fantasticare in rosa sulla sua bella guardia nazista. Quel pomeriggio, dopo una mattina passata a gelarsi zappando un campo di verdure, era stato mandato a lavorare nella fabbrica L14 dove lo avevano costretto a trasportare gli ingranaggi conclusi dallo stampo al catasto in fondo allo stabile.
Preso dai suoi pensieri, l’italiano non si era accorto che un ingranaggio appena uscito dallo stampo non si era ancora raffreddato del tutto.
Il suo urlo seguito da piagnucolii vari riecheggiò per tutta la struttura.

Feliks fu il primo a raggiungere l’italiano che aveva iniziato a rotolarsi a terra urlando dal dolore mentre si teneva la mano bruciata tra le gambe. Subito gli furono affianco Ludwig e Gilbert.

“Cos’ha combinato ancora quest’idiota?” Fu il primo commento dell’albino, ma nel vedere le escoriazioni della mano del ragazzo quando il polacco la prese tra le sue si azzittì all’istante.

“Feliciano, oh Feliciano come hai fatto?” Chiese preoccupato Feliks, poi guardò negli occhi le due guardie “Dev’essere portato subito in infermeria, deve provare un dolore atroce, sembra una scottatura molto seria!”

“Alzati Feliciano, ti accompagno io”

Nonostante il dolore gli annebbiasse la mente, Feliciano perse un battito quando sentì quelle parole essere pronunciate da Ludwig. Malgrado ciò non riusciva a smettere di piangere e gemere e le sue gambe non volevano rispondere ai suoi comandi.

“Avanti, alzati!” Ordinò Gilbert scandendo le parole con un forte accento, ma non ebbe alcun successo.

Feliciano iniziò a tremare violentemente mentre si mordeva con forza il labbro inferiore per cercare di resistere al dolore.

 

Ludwig sentì il cuore essere stretto in una tenaglia mentre l’ansia formava un blocco nella sua gola. Feliciano si era infortunato, si era seriamente ustionato una mano, e se non avrebbe potuto più lavorare? Che cosa gli sarebbe successo? E se la sua mano non sarebbe più guarita? E se… e se avrebbero dovuta amputargliela?
Ludwig scosse la testa con forza. Che pensiero stupido! Non sarebbe accaduto di certo, ma aveva un bisogno urgente di andare in infermeria.

Prendendo l’iniziativa, Ludwig afferrò l’italiano per un braccio e se lo poggiò addosso in modo tale da poterlo sostenere mentre camminavano.

“Lo porto in infermeria, tu continua a controllare gli altri!”

“O-ok” Rispose stupito Gilbert.

Ludwig sentì gli occhi vermigli del fratello bucargli la schiena per buona parte del tragitto ma non gli importava. L’importante adesso era portare Feliciano in infermeria da Francis dove avrebbe medicato l’ustione e cercato di alleviare il dolore del povero ragazzo. Le spiegazioni per il suo gesto poco professionale potevano aspettare.

Quando aprì la porta con un calcio trovò l’infermeria completamente vuota. Nessun paziente né Francis si vedevano in giro e un silenzio quasi mortale regnava nella piccola stanza sporca.

“Probabilmente lo hanno chiamato nelle cucine” Pensò Ludwig mentre entrava e chiudeva la porta dietro Feliciano.

Per fortuna nell’addestramento militare dedicavano molto tempo all’insegnamento delle procedure di primo soccorso sia con attrezzi adeguati sia con quelli di fortuna, ma in quel posto Ludwig pensava di avere tutto l’occorrente per una medicazione basilare.
Fece sedere il ragazzo ancora agonizzante su un letto lurido e si spostò di fronte a lui su una sedia traballante.

“Ora cerca di aprire il palmo della mano lentamente e fammi vedere la bruciatura” Disse con voce bassa e calma per rassicurare il ragazzo.

Feliciano piagnucolò un pochino ma riuscì a mostrare l’ustione al tedesco. Nel vederla Ludwig tirò un sospiro di sollievo, per fortuna non era un’ustione di terzo grado, una di quelle bruciature che compromettevano irrimediabilmente la pelle e tutti i tessuti sottostanti della zona colpita.

“Va bene non è grave, guarirà molto presto, dobbiamo solo medicarla. Ora cerca di non muoverti troppo e sii paziente”

Feliciano annuì poco convinto. Rimase in silenzio ad osservare la guardia prendere tutto l’occorrente per la medicazione. Ludwig non sembrò farci particolarmente caso e iniziò a imbevere una benda di cotone non più bianca di un liquido trasparente ma dal forte odore pungente.

“Ora dammi la mano e cerca di sopportare il dolore e non urlare”

Ovviamente furono parole al vento. Appena la benda bagnata iniziò a tamponare la pelle ustionata dell’italiano quest’ultimo iniziò a gemere e piangere cercando di soffocare le urla con l’altra mano mentre tentava di sottrarsi alle attenzioni poco gradite del tedesco.

“Cerca di stare fermo se non vuoi che peggiori le cose!” Sibilò frustato Ludwig quando cercò per l’ennesima volta di pulire una rientranza della mano senza successo.

“Ve… mi s-scusi signore…. Fa così tanto male…” Si giustificò il bruno tra un singhiozzo e l’altro.

“Ludwig”

“C-come scusi?”

“Ludwig, non signore. Il mio nome è Ludwig” Rispose il tedesco senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro, sentendo le proprie orecchie bruciare dall’imbarazzo.

Anche Feliciano arrossì a quelle parole. Naturalmente Ludwig sapeva che il ragazzo conosceva il suo nome, tutti i prigionieri conoscevano i nomi dei loro aguzzini, ma il presentarsi così spontaneamente e quasi intimamente come se fossero due estranei che si incontravano per la prima volta e che volevano conoscersi gli diede la sensazione di creare una sorta di legame con lui.
Rimase ad attendere un qualche tipo di risposta da parte del prigioniero mentre puliva l’ustione per alcuni interminabili istanti, poi deluso e soprattutto imbarazzato alzò lo sguardo carico d’ansia incontrando il suo. Subito Feliciano deviò lo sguardo in altre direzioni che non fossero il suo volto cercando di trovare delle parole da dire.

“Oh… ah… è davvero un bel nome”

Feliciano sfoggiò un largo sorriso che però risultò un po’ incerto, ma bastò come risposta alla guardia. Lo sguardo di Ludwig brillò più intensamente per un istante come se una scintilla di felicità e di affetto lo avesse illuminato per un attimo, poi fu riportato velocemente sulla mano e sulla benda che stava tamponando tutta la sua superficie

“Grazie” Mormorò Ludwig a denti stretti mentre le sue orecchie diventavano ancora più rosse.

Il ragazzo italiano aprì la bocca per dire qualcosa ma non uscì nient’altro che un urlo strozzato quando la benda imbevuta toccò un punto particolarmente delicato della mano.
Ludwig mormorò varie volte che aveva quasi finito, poi finalmente posò la benda ormai lurida e ne prese altre quasi pulite da un piccolo scaffale mentre Feliciano si asciugava le lacrime di dolore con il dorso della mano sana.

“Ora benderò la bruciatura. Non devi né levarla, né sporcarla o bagnarla altrimenti non guarirà presto l’ustione. E se non guarirà, allora tu…” Ludwig lasciò la frase mentre il suo volto si oscurava.

Feliciano tremò a quell’allusione e improvvisamente si portò la mano ustionata alla bocca per baciare delicatamente la scottatura.

 “Cosa stai facendo?” Chiese Ludwig sorpreso dal gesto improvviso del ragazzo.

“Sto cercando di far passare il dolore e augurare la buona guarigione alla mia mano! Da me in Italia quando qualcuno si fa male di solito una persona che gli vuole bene bacia la sua ferita per fargli passare il dolore e augurargli la guarigione. Di solito quando mi faccio male c’è sempre mio fratello Romano a baciarmi le ferite, ma ora… ve… ora non c’è perciò faccio da solo…”

Accadde tutto improvvisamente.
Prima che Ludwig potesse anche solo pensare a qualcosa una sua mano aveva già afferrato il polso di Feliciano e le sue labbra baciavano già delicatamente l’ustione del ragazzo. Quando il tedesco si accorse   cosa stava facendo era già troppo tardi. Feliciano rimase a bocca aperta scioccato dall’azione improvvisa della guardia. I suoi occhi nocciola erano spalancati e fissi su di lui come se stessero venendo una qualche creatura folclorica.

Ludwig allontanò subito la mano del ragazzo arrossendo violentemente in volto.
Cosa diavolo stava pensando? Era impazzito tutt’un tratto?
Non potendo dare una spiegazione logica all’accaduto e sentendosi addosso lo sguardo scomodo di Feliciano, Ludwig si alzò di scatto e si allontanò di qualche passo dal lettino dandogli le spalle.

“Perdonami, io… ecco…” Tentò di dire, ma la sua mente era un tale caos che non riusciva a formulare una frase coerente. Ma cos’era che voleva dire?
Ludwig fu tentato di dire la verità, di rivelare finalmente alla persona che era al centro della sua mente da quando era arrivato lì che provava dei forti sentimenti per lei, che teneva alla sua incolumità, che voleva renderla felice in ogni modo, che se ne fregava dell’ideologia nazista e del perché era stata imprigionata, che aveva reazioni fisiche ogni qual volta pensava a lei.
La tentazione fu così soverchiante che Ludwig fece appello a tutto il suo coraggio di uomo e di soldato e si voltò pronto ad affrontare il ragazzo faccia a faccia, ma fu colto lo stesso di sorpresa quando vide Feliciano alzarsi velocemente e raggiungerlo con fare nervoso mentre il suo volto prendeva colorito.

“Sei stato tu a regalare quel paio di occhiali a Matthew?” Chiese d’un fiato guardandolo dritto negli occhi con uno sguardo speranzoso e lacrimevole.
Preso alla sprovvista, Ludwig rispose senza pensare.

“Cosa? No, io non…”

Le parole gli morirono in gola quando vide il volto del ragazzo bruno illuminarsi quasi di luce propria mentre un sorriso genuino si schiuse sulle sue labbra.
Era così bello che Ludwig avrebbe potuto morire.
Era sul punto di abbandonare la sua compostezza, di cedere alle sue pulsioni e di abbracciare il ragazzo quando la porta dell’infermeria si aprì all’improvviso rivelando un Francis sorridente e spensierato come sempre sulla soglia.

“Oh là là, abbiamo ospiti! Ho interrotto qualcosa?”

Ludwig stava per rispondergli in modo brusco che si aveva rovinato tutto con la sua fastidiosa presenza, ma non fece in tempo perché Feliciano corse verso di lui abbracciandolo e sorridendo.

“Francis! Ve! Francis sei qui! Oh Francis, devo dirti una cosa importantissima!”

“Che mi ami, mio petit trésor? Ma è normale, tutti amano Francis” Rispose con sarcasmo ricambiando l’abbraccio e scompigliando i capelli del ragazzo con una mano.
Ludwig sentì montare la rabbia mista a disgusto dentro di sé.

“Piuttosto cosa ci fai qui, petit?”

“Si è infortunato sul lavoro e l’ho portato in infermeria dove tu non c’eri per potergli medicare la mano” Ludwig si accertò di sottolineare con il suo forte accento tedesco il fatto che l’infermeria era vuota al momento del loro arrivo.

Francis sembrò ignorare la frecciatina si avvicinò alla sedia dove poco tempo prima sedeva la guardia. Con un sorriso indicò a Feliciano il lettino, poi si rivolse a Ludwig.

“Grazie, ora mi prenderò cura io di Feliciano”

Ludwig colse il suggerimento di lasciare l’infermeria e si congedò con qualche saluto. Mentre usciva si sentiva lo sguardo di Feliciano addosso mentre Francis gli parlava di qualcosa relativo alla cucina. Nonostante la gentilezza quasi libertina del francese Ludwig ebbe la sensazione di essere stato cacciato per la seconda volta dall’infermeria.

Ma un’altra sensazione ben più forte e importante sconvolgeva l’animo del tedesco.
Ludwig aveva notato già da diverso tempo come i prigionieri del dormitorio H3T4 avessero stretto forti legami tra di loro, soprattutto i nuovi arrivati con il ragazzo polacco e con Francis. Se inizialmente Ludwig aveva visto di buon occhio la cosa rallegrandosi del fatto che potevano sostenersi a vicenda quando lui era impossibilitato ad aiutarli, ora non riusciva più a cogliere la cosa positivamente.
Feliciano stava stringendo forti legami con gli altri prigionieri, legami che non riusciva più a identificare bene. Soprattutto il rapporto che l’italiano aveva con Francis stava diventando piuttosto ambiguo.
Ludwig non ricordava una sola volta in cui aveva visto Feliciano lontano da Francis, oppure non cercare la sua attenzione o non parlare con lui.
Insomma, Feliciano cercava in continuazione Francis, mentre ignorava completamente la sua persona, anzi quando si avvicinava lui cercava sempre di allontanarsi spaventato dalla sua posizione come guardia del campo.

Incamminandosi verso la fabbrica dove Gilbert era rimasto a sorvegliare gli altri detenuti, Ludwig cercò di scacciare quei pensieri negativi dalla sua mente, e soprattutto di non pensare al fatto che aveva lasciato Feliciano solo per l’ennesima volta con Francis.
Cercò di non pensare al fatto che era geloso.

 

Quella sera nel dormitorio H3T4 il gruppo di amici multietnico si era dato appuntamento dopo l’inizio del coprifuoco serale sul fondo dello stabile per discutere di qualcosa.
Tutti i partecipanti si erano seduti a terra più o meno in cerchio nella debole luce lunare che filtrava da un’enorme finestra sulla parete dell’edificio e ascoltava ammaliato il racconto eccitato di Feliciano. Il ragazzo italiano sussurrava gesticolando con la mano sana e quella fasciata ciò che era accaduto poche ore prima nell’infermeria non nascondendo l’immensa felicità che stava provando.

“E così…. Ve, non posso crederci…. E così ha risposto di no! Sembrava sorpreso di quella domanda, ma io dovevo fargliela, io…” Non riuscì a concludere la frase perché Francis gli scompigliò con forza i capelli.

“E bravo il nostro Feliciano. Lo sapevo che c’era qualche tipo di interesse da parte di quel biondino dallo sguardo di ghiaccio, il vecchio Francis non sbaglia mai in questioni d’amore!”

“Sono contento per te Feliciano. Ora sappiamo che non è stato lui a darmi questi” Sussurrò più piano del solito Matthew mentre sistemava gli occhiali sul naso.

“Una guardia di un campo di concentramento che dimostra di avere interesse per un prigioniero? Ho davvero visto tutto nella vita, non vedo l’ora di raccontarlo al mio adorato pony a Varsavia!”

“Siamo sicuri che intendesse proprio quello? Magari stava cercando di farti guarire la ferita soltanto perché così non avrebbe perso forza lavoro” Azzardò Lituania, ma gli altri lo azzittirono subito.

“Ve! Sono così felice che il mio cuore potrebbe scoppiare da un momento all’altro! Mi viene voglia di cantare dalla felicità!”

“Oh si fallo, le canzoni italiane sono davvero belle!” Feliks si avvicinò al ragazzo per sentire meglio.

Con un sorriso Feliciano annuì e iniziò a cantare a bassa voce una bella canzone melodiosa e vivace. Tutti i ragazzi rimasero in silenzio ad ascoltare estasiati la voce pulita e acuta del ragazzo finché la melodia non finì.

“Bellissima, davvero bellissima! Di cosa parlava?”

“E’ una filastrocca sui giorni della settimana che mio fratello mi ha insegnato quando ero più piccolo. Mi disse che la cantava spesso la mamma. Io però non l’ho conosciuta purtroppo”

“Anch’io conosco una bella filastrocca in polacco, ma sono molto stonato perciò non credo la canterò” Disse Feliks rifiutando qualsiasi incitamento da parte degli altri.

“P-potrei cantarne una io! Non è una filastrocca ma una ninna nanna inglese, ma è molto carina” Si propose Matthew e tutti annuirono interessati.

Matthew si rivelò un cantante provetto. La sua voce era morbida e melodiosa e riusciva a raggiungere note molto acute. La ninna nanna era molto lenta e dolce e sembrava un canto d’amore più che un canto per conciliare il sonno.
Francis chiuse gli occhi godendosi la canzone. La melodia non gli era nuova e gli sembrava di averla già ascoltata da qualche parte, ma non ricordava di preciso dove.

Ad una strofa particolarmente melodica Francis ricordò.

Un sorriso dalle labbra rosee.

Una voce dolce con un curioso accento.

Occhi grandi e verdi come gli immensi prati britannici.

Sopracciglia folte e perennemente crucciate.

Francis si sentì mancare.
Si alzò di scatto mentre Matthew iniziava un’altra strofa, interrompendo la performance, e si affrettò ad uscire dall’edificio.
Una volta fuori, si accasciò contro la parete sedendosi a terra e si coprì il volto con le mani mentre le lacrime cominciavano a cadere abbondanti dagli occhi.

Aveva dimenticato la ninna nanna che Arthur cantava sempre quando curava il suo giardino, e quasi aveva dimenticato lui stesso.
Ricordare quella melodia cantata dal suo amato aprì una dolorosissima ferita nel petto di Francis che quasi gli fece mancare l’aria nonostante il freddo invernale lo avvolgesse tutto e lo facesse tremare come una foglia.
Arthur, il suo amato Arthur, che aveva salutato anni prima quando era partito per andare sul fronte a combattere per difendere la sua amata patria dall’invasione tedesca.
Arthur che lo stava aspettando da quasi due anni in Inghilterra.
Forse.
Francis non voleva nemmeno pensare alla possibilità che Arthur avesse trovato un’altra persona da amare credendo che lui fosse morto in Francia.
Era una possibilità più che valida che respingeva con tutto sé stesso.

Le lacrime non accennavano a fermarsi mentre la sua mente continuava a ripensare all’inglese e a tutti i bei momenti passati con lui finché una mano delicata non si poggiò sulla spalla del francese.

“Francis… è successo qualcosa? Ho forse detto qualcosa di sbagliato?”

Matthew lo guardava con seria preoccupazione mentre i suoi occhiali si appannavano a causa delle nuvolette di vapore caldo del suo respiro.
Francis si asciugò subito le lacrime e cercò di mettere su un sorriso, che risultò storto e falso.

“Non, non, non è colpa tua petit. Ho solo ricordato una cosa molto dolorosa”

Matthew si accovacciò accanto a lui e gli sorrise dolcemente. Alle sue spalle gli altri ragazzi guardavano la scena da lontano con volti preoccupati.

“Sono qui se vuoi parlarne, così anche loro se hai bisogno di aiuto”

“Grazie Matthew, ma non me la sento…” Francis volse lo sguardo al cielo stellato mentre un’altra lacrima percorreva tutta la sua guancia “…Però potresti…” Lasciò la frase in sospeso.

“Cosa? Chiedimi qualsiasi cosa Francis!”

Francis sorrise mentre altre lacrime scendevano sul viso, poi si volse ad abbracciare il ragazzo nascondendo il volto nella sua spalla.

“… Potresti cantare ancora quella ninna nanna? Solo una volta, s’il vous plaît?”

Matthew cantò nuovamente la melodia appoggiando la testa su quella di Francis mentre guardava il cielo stellato. Francis tremava e singhiozzava di tanto in tanto cercando di non fare rumore per non coprire la voce debole del canadese.
Feliks, Toris e Feliciano rimasero vicino la porta in silenzio ad ascoltare la melodia.
La ninna nanna però non sembrava più un dolce canto per conciliare il sonno, ma una triste melodia di sofferenza.


Angolo dell'autore
Perdonatemiiiiii T_T
Ho tardato così tanto perché sono stata in vacanza, poi sono stata male e non ho potuto scrivere nulla e infine ho dovuto riscrivere parte del capitolo perché non mi piaceva come stava uscendo. Mi spiace così tanto di avervi fatto aspettare, spero che però ne sia valsa la pena!
Come sempre perdonatemi anche errori di distrazioni o di altri generi!
Vi anticipo che il prossimo capitolo sarà molto bello e pieno di feels (è da quando ho iniziato la ff che aspetto di poter scrivere questo capitolo x'D)

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Capitolo 7
*** Gli Alleati ***


Decima stazione Bletchley Park, Inghilterra

 Arthur si svegliò lentamente e dolorosamente con la testa poggiata sulla scrivania come se la sua coscienza si stesse liberando da una grossa ragnatela che cercava di trattenerla con i suoi fili appiccicosi ed elastici. Lentamente si mise dritto a sedere cercando di abituare lo sguardo alla penombra della stanza, ma un mal di testa lancinante esplose nella sua testa doloroso come una pugnalata improvvisa. Gemendo e tenendosi la testa con una mano, con l’altra si asciugò la bava dalla bocca per poi scoprire che era rigurgito e che in buona parte si trovava anche sulla scrivania.
Fantastico, ecco spiegato perché aveva un sapore orribile in bocca.

Cercò di pulire alla meglio lo schifo che aveva combinato mentre dormiva e forse anche prima con il suo fazzoletto di stoffa ricamato, per poi gettarlo in un angolo della stanza nella speranza di lavarlo in un futuro non troppo remoto. Sulla scrivania oltre ai fogli macchiati di chissà quale porcheria (aveva avuto la brillante idea di addormentarsi sui documenti che stava compilando), c’erano una radio con cuffie e microfono, varie matite, un bicchiere vuoto rovesciato su un fianco e una bottiglia vuota di rum.
Ecco cos’era quella porcheria, rum.
Il buon vecchio rum.
Qualcuno che non ti avrebbe mai abbandonato nel momento del bisogno…

Scuotendo forte la testa, Arthur cercò di distrarsi per non ricominciare con quei pensieri, ma la sua mente proprio non voleva liberarsene.
Appena aveva un attimo di pace subito il suo pensiero andava a lui.

“Alcool, ci vuole l’alcool. Dov’è il rum?” Mormorò a denti stretti mentre prendeva la bottiglia di rum vuota per controllarla.
Come aveva intuito inizialmente, la bottiglia era stata scolata alla perfezione, perciò la gettò nel cestino che si trovava accanto alla scrivania e si mise a cercarne un’altra.

Aprì i diversi cassetti della scrivania sperando di scovare la piccola boccetta d’alcool che di solito teneva di scorta quando i suoi subalterni non lo rifornivano in tempo, ma da quanto poteva vedere la scrivania gli offriva solo documenti e scartoffie relative al lavoro.
Sempre più fantastico.

Infine senza accorgersene aprì l’ultimo cassetto all’angolo e la vide.
Il suo cuore iniziò a battere velocemente mentre il suo corpo iniziò a sudare freddo. Un fortissimo senso di nausea lo colse allo stomaco e chiudendo velocemente il cassetto fece in tempo a girarsi per poi vomitare nel cestino dove pochi istanti prima aveva gettato la bottiglia vuota.
Tossendo e cercando di riprendersi si accasciò sulla sedia e strinse gli occhi fino a farsi male.

Avrebbe dovuto gettare quella maledetta lettera il giorno in cui l’aveva ricevuta. O meglio avrebbe dovuto dargli fuoco e guardare come le fiamme mangiavano e sgretolavano in tanti fragilissimi frammenti la carta e soprattutto le parole che riportava. Ma era stato un debole, così come lo era ora, e aveva conservato la lettera rileggendola ogni volta che poteva, accartocciandola e lanciandola a terra o contro le pareti, tentando di stracciarla molte volte senza riuscirci, ma infine sempre riprendendola e riponendola nel cassetto della scrivania.
Ogni volta che la vedeva si sentiva male.

La lettera riportava con pochissime frasi battute a macchina della scomparsa sul campo di battaglia di Francis Bonnefoy, disperso in chissà quale vigneto devastato dai conflitti in Francia, oppure catturato dal nemico e deportato in un luogo sconosciuto. La lettera era indirizzata alla famiglia Kirkland in quanto Francis non aveva parenti prossimi a cui inviare il comunicato.

Fin dall’inizio Arthur si era aggrappato per disperazione alla seconda opzione, sperando con ogni fibra del suo corpo che il suo amato fosse stato catturato dal nemico e imprigionato da qualche parte, ma ancora vivo. Rifiutava a pelle l’idea che fosse morto da qualche parte e fosse stato lasciato lì come un rifiuto a marcire sotto il sole gentile della Francia.
La sua speranza alimentata dalla fortissima disperazione lo aveva spinto ad arruolarsi nell’esercito inglese e a intraprendere la carriera di crittoanalista, e dopo due anni di servizio era diventato uno dei migliori elementi dell’esercito britannico.
Ma il suo lavoro non era mosso da un sincero spirito patriottico ma dal forte desiderio di scoprire dove i tedeschi detenevano i prigionieri di guerra.

Arthur sentiva che nessuno all’infuori di lui poteva riuscire a trovare quelle informazioni, o meglio che nessuno si sarebbe interessato così tanto da dedicargli la sua vita come stava facendo lui. Perché in fondo la vita non gli aveva lasciato più nulla perciò poteva sacrificarla per questa giusta causa.

Riaprendo gli occhi, Arthur rimase qualche istante ad osservare la stanza girare e fluttuare su sé stessa finché gli occhi non si abituarono nuovamente alla penombra e allo sforzo.
Si accarezzò una guancia con la mano per cercare di riprendersi per poi scoprire che il guanto di pelle era imbrattato del rigurgito che poco tempo prima aveva ripulito.
Sospirando prese un altro fazzolettino di stoffa da un cassetto e ripulì la sua divisa militare come meglio poté.

Da quanto tempo viveva in questo stato pietoso? Da quanto tempo beveva come una spugna anche sul lavoro e vomitava sui suoi stessi vestiti? E da quanto tempo non curava la sua igiene e il suo aspetto fisico?
Arthur calcolò più o meno da quando aveva ricevuto quella fottuta lettera.
Il ricordo di quel giorno e dei mesi successivi era ancora così forte da fargli torcere lo stomaco per il dolore.
Lo sguardo del postino vitreo e quasi morto, il tipico sguardo di qualcuno che aveva dovuto vedere tanta sofferenza in poco tempo, la sofferenza di tutti i famigliari a cui consegnava quelle maledette lettere.
Mani tremanti, le sue, che aprivano la lettera e la accartocciavano pochi minuti dopo.
Le urla, le crisi di pianto, oggetti che venivano lanciati ovunque, e poi il silenzio, il digiuno, i giorni passati a letto nel buio della propria stanza, il non riuscire a distinguere più il giorno e la notte.

Arthur aveva provato a reagire, e soprattutto a dimenticare. Aveva provato ad assimilare il lutto e a rifarsi una nuova vita conoscendo nuove persone e cercando altra compagnia. Non poteva ostentare la propria sessualità in quanto in Inghilterra l’omosessualità era perseguitata, ma aveva provato a stringere legami con coetanei e altri esponenti dell’alta classe Londinese che facevano parte della sua cerchia. Tutto tempo sprecato.

Nonostante dopo due anni di lontananza i suoi ricordi si stavano irrimediabilmente affievolendo non riuscendo a ricordare più molti dettagli del volto del suo amato, il sentimento che Arthur provava per Francis era ancora forte e duro a morire. Non si sarebbe placato fin quando c’era la speranza di ritrovare Francis vivo.

Gettando il fazzoletto sporco nell’angolo vicino al primo, Arthur decise di aprire le finestre della stanza per far entrare la luce e per cambiare l’aria ristagnante. La luce del sole gli ferì gli occhi e penetrò nella stanza buia come una lama affilata, rivelando agli occhi la pessima condizione igienica in cui si trovava quel luogo. Arthur si sentì mortificato nel vedere ciò, lui che era sempre stato molto pignolo nelle pulizie.

“Se solo Francis fosse qui, mi sgriderebbe con il suo bel accento francese di essere un cavernicolo e mi costringerebbe a risistemare tutto, per poi premiarmi con qualche gesto affettuoso e qualche dolcetto appena cucinato” Pensò Arthur con tristezza mentre tornava a sedersi sulla sedia.

“Ma lui non è qui, se Dio vuole è imprigionato in chissà quale luogo nazista. Non devo perdere altro tempo, ogni secondo è prezioso! In questo momento potrebbe essere sotto tortura, oppure a patire la fame… non posso permetterlo, devo trovarlo a tutti i costi!”

Questo pensiero diede al giovane inglese la forza per riprendersi da una fortissima sbronza e per ricominciare a perseguire la propria missione.
Prendendo l’orologio da tasca notò con piacere che era mattino inoltrato e che non aveva dormito praticamente tutto il giorno come spesso accadeva. Probabilmente l’esercito non lo buttava fuori con disonore soltanto perché era particolarmente bravo nel suo lavoro, ed era anche per questo che aveva una stanza adibita ad ufficio tutta sua invece di trovarsi nello scantinato in una di quelle scrivanie ammassate l’una sull’altra insieme a tutti gli altri crittoanalisti.

Risistemando tutti i documenti sulla sua scrivania, stava per mettersi le cuffie e accendere la radio per captare qualche messaggio cifrato tedesco quando qualcuno bussò alla porta.
Il suo umore si guastò immediatamente.
Tutti in quel palazzo sapevano che non dovevano disturbare Arthur Kirkland quando si trovava nella sua stanza. Aveva dato chiaramente disposizioni che ogni ordine scritto, lettera o qualunque cosa fosse su carta doveva essere lasciata sotto la porta in modo tale che l’avrebbe presa e letta quando avrebbe avuto tempo. Per ogni altra comunicazione dovevano contattarlo via radio oppure raggiungerlo nei momenti in cui lasciava la stanza per il tè pomeridiano o altri motivi.
Nessuno doveva vedere com’era combinata la sua stanza, nessuno!

Ignorò il bussare insistente della porta facendo finta che la stanza fosse vuota, ma dopo il terzo toc toc la porta si aprì lentamente. I capelli di Arthur si rizzarono in testa.

“Chi ti ha dato il permesso di entrare? Esci immediatamente!” Urlò alla persona che stava cercando di entrare. Il soldato però non si fece intimidire e infilò la testa nella stanza con un certo timore.

“Sir ho una comunicazione urgentissima da consegnarle, ordini dei superiori”

“Sono io il tuo superiore, e se non esci immediatamente dalla stanza ti declasso a lava cessi o ti mando direttamente al fronte, idiota!”

Ma il soldato non demorse, anzi aprì ancor più la porta ed entrò completamente nella stanza. Arthur era fuori di sé per la rabbia. Quale impertinenza da parte di un semplice soldato di bassa classe sociale nei suoi confronti, nei confronti di Arthur Kirkland, unico discendente della famiglia nobile dei Kirkland e capo crittoanalista dell’esercito britannico di Sua Maestà. Aveva fegato quello sbarbatello, Arthur glielo riconobbe mentre chiudeva la porta e si piazzava davanti la sua scrivania tremante come una foglia ma imperterrito. Arthur lo fucilò con il suo sguardo di smeraldo.

“S-Sir, ho una comunicazione urgente da consegnarle!” Balbettò mentre sfilava dalla tasca della sua divisa un foglio ripiegato e glielo porgeva.

Arthur glie lo sfilò di mano con violenza e lo lesse velocemente. Era un codice crittografico non ancora decifrato trascritto da qualcuno in modo frettoloso. Sotto il testo vi era una nota in bella grafia di qualche ufficiale che ordinava ad Arthur di decriptare il testo che conteneva delle informazioni di importanza vitale e segrete derivanti dall’esercito russo sul fronte orientale.
Arthur ripiegò con cura il foglio e lo mise da parte sulla sua scrivania, poi guardò nuovamente il soldato con il suo sguardo perforante.

“Torniamo a noi, hai disobbedito a un ordine del tuo superiore introducendoti senza permesso nella mia stanza-“

“Ma Sir, stavo solo eseguendo gli ordini dei miei superiori!”

“… e hai anche il brutto vizio di interrompere i tuoi superiori quando parlano!” Prese casualmente un foglio bianco e una penna “Ora scriverò una lettera ai tuoi superiori lamentando la tua indisciplina e suggerendo un provvedimento adeguato. Qual è il tuo nome, soldato?”

“… Allistor Scott, Sir”

La penna che stava scrivendo sul foglio si bloccò all’istante nel sentire quel nome. Arthur alzò lo sguardo dal foglio al soldato lentamente.
Allistor Scott, il soldato scozzese che tutti conoscevano nel dipartimento, arruolatosi nell’esercito come volontario per combattere i tedeschi. Il soldato scozzese che aveva sposato una londinese diversi anni prima e che aveva perso la maggior parte dei suoi famigliari nei bombardamenti del ’40. Il soldato scozzese che aveva perso la moglie, suicidatasi a causa di un peggioramento della sua salute mentale dovuto agli orrori che aveva dovuto vivere a causa della guerra.
Allistor Scott, un uomo solo e disperato che aveva immolato la sua vita all’esercito in memoria della sua amata moglie.
Un uomo come lui.

I suoi occhi tornarono al foglio e velocemente scrisse qualche parola in bella grafia, poi lo ripiegò e lo porse al soldato.

“Sei pregato, una volta uscito di qui, di leggere questo foglio e di riflettere sui tuoi errori. È tutto!”

Lo congedò con un cenno della mano, poi riprese in mano il foglio con il testo criptato e non prestò più attenzione al soldato.
Il testo era criptato con una variante complessa di un codice che aveva inventato lui stesso con altri crittoanalisti per rendere sicura o almeno di difficile decriptazione lo scarsissimo scambio di informazioni che gli alleati tenevano con l’esercito russo che stava avanzando dall’oriente verso la Germania, furioso per l’aggressione improvvisa e traditrice di quest’ultima nei suoi territori. Avrebbe impiegato qualche ora a decriptarlo, ma non era qualcosa di così complicato. Ovviamente i suoi superiori avevano ragione, soltanto lui poteva decifrare un testo simile.

Velocemente lo scozzese si congedò e una volta uscito dalla stanza imprecò per la sua sfortuna e contro il suo superiore dal carattere impossibile.
Girato l’angolo prese il foglio e lo aprì.

Il foglio recava soltanto una frase:
Ottimo lavoro soldato.

 

Diverse ore dopo Arthur si trovava ancora nella sua stanza chino su diversi fogli impegnato a scrivere frettolosamente la traduzione del testo codificato che aveva ricevuto tempo prima. Per riuscire a decriptarlo il prima possibile aveva saltato il pranzo e ora stava saltando anche l’ora del tè, ma a lui non importava perché tutto poteva aspettare di fronte le notizie contenute da quel messaggio.

Era rimasto chino nella stessa posizione per così tanto tempo che la schiena, il collo e le spalle gli dolevano come l’inferno e aveva scritto così tanto che i tendini della mano si rifiutavano di lavorare ancora, ma lui non accennò a fermarsi. Continuò a leggere e confrontare i simboli con la sua legenda, ad appuntarne il significato, a costruire la frase in russo per poi tradurla con un apposito vocabolario cercando di darle un senso logico nella propria lingua. Spesso sbagliava l’impostazione della frase o le traduzioni delle parole costringendolo a riformulare la frase diverse volte, ma il gioco valeva la candela, valeva tutta quella benedetta candela.

Quando finalmente finì si alzò in piedi di scatto tenendo il foglio della traduzione tra me mani e leggendolo con impazienza.
Il governo russo comunicava che il suo esercito era penetrato nel territorio nemico e stava avanzando con l’obbiettivo di raggiungere Berlino, ma soprattutto comunicava che gli esploratori avevano effettivamente avvistato dei complessi di edifici recintati che ricordavano molto dei campi di prigionia nelle coordinate che l’Impero Britannico gli aveva fornito.

Le mani di Arthur tremavano in modo incontrollato mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime.
Ce l’aveva fatta.
Dopo due anni di sforzi e di sofferenze atroci era riuscito a trovare quelle maledette prigioni dove rinchiudevano i prigionieri di guerra.
Arthur cominciò singhiozzare violentemente mentre piangeva come un bambino.
Non c’era alcuna certezza che Francis potesse essere in uno di quei luoghi mostruosi, ma Arthur sentiva di aver finalmente raggiunto il suo scopo e di essere a un passo da poter riabbracciare il suo amato. Non sapeva spiegarsi come ma sentiva nel profondo della sua anima che Francis era lì, rinchiuso insieme a molti altri malcapitati, vivo e soprattutto in attesa di essere salvato.

Arthur si sedette di peso sulla sedia e cominciò a gemere mentre cercava di pulirsi il volto e il naso con le maniche della sua divisa.
Quelle non erano lacrime di dolore, erano lacrime di felicità. Erano tutta la sua disperazione che scivolava via per lasciare posto alla speranza, ora più forte che mai.
 Doveva ricomporsi il prima possibile per poter consegnare il testo alla squadra di crittoanalisi che lo avrebbe poi riconvertito in un altro codice e inviato via piccione viaggiatore verso l’Italia dove gli alleati americani stavano riconquistando i territori occupati dai tedeschi. Ad Arthur gli americani non piacevano particolarmente, soprattutto quell’idiota di un aviatore che avevano assegnato come messaggero tra i due fronti a Bletchley Park.

Ricompostosi meglio che poteva, il ragazzo biondo ripiegò con cura il foglio e uscì quasi correndo dalla sua stanza imboccando i corridoi e le scale che portavano al seminterrato dove operava il resto della divisione di crittoanalisi britannica.

“Ti salverò Francis, ovunque tu sia. Lo so che non sei morto, resisti! Resisti stupido idiota di una rana, RESISTI!”

 

 

Linea Gotica (conosciuta anche come Linea Verde), Italia

Romano Vargas si aggirava inquieto e di pessimo umore tra le tende dell’accampamento militare americano cercando di evitare come meglio poteva i tiranti delle tende che si allungavano per almeno mezzo metro a terra.
Il partigiano italiano aveva fame e non riusciva a trovare la tenda cambusa dove ogni giorno andava a chiedere (gli americani dicevano elemosinare, ma lui si rifiutava di vederla così) un po’ di cibo per sé e per gli altri suoi compagni partigiani che erano costretti a restare nell’accampamento sotto sorveglianza. Beh, in realtà nessuno li costringeva, anzi spesso i soldati americani cercavano di convincerli a seguirli al fronte o a operare sabotaggi contro l’esercito tedesco, ma né lui né i suoi compagni volevano saperne della guerra. L’unica loro preoccupazione era recuperare cibo e sopravvivere.
Romano sapeva perfettamente che il suo gruppetto di codardi macchiava l’onore di tutta la resistenza partigiana italiana che in quel momento stava combattendo contro i tedeschi per liberare la propria patria dal regime fascista, ma lui non poteva farci nulla. Era debole e codardo, lo era stato fin da piccolo, e soprattutto lo era stato quella notte, a caro prezzo. Dopo quella notte non voleva sapere più niente né della resistenza né della guerra.

Il partigiano italiano girò intorno a una tenda e finalmente trovò la cambusa, una grossa tenda quadrata dal quale proveniva un profumino invitante. Romano sentì il proprio stomaco brontolare mentre si formava l’acquolina in bocca. Era quasi l’ora di pranzo e non toccava cibo dal pranzo del giorno prima.
Velocemente si avvicinò all’apertura della tenda e spiò al suo interno. Qualche volta, quando la tenda era incustodita, aveva rubato il cibo senza chiedere nulla a nessuno, riuscendo a recuperare anche quelle buonissime barrette di cioccolato di cui lui e i suoi compagni andavano molto ghiotti.

Oggi però la tenda era piuttosto affollata. Romano rimase sulla soglia della tenda indeciso se entrare e chiedere un po’ di cibo mostrando la miglior faccia pietosa che potesse sfoggiare oppure aspettare di trovare la tenda nuovamente incustodita per rubare tutto il cibo che voleva.
Mentre era assorto in quella decisione qualcuno lo affiancò.

“Hello dude, anche oggi a chiedere cibo non meritato?”

Romano saltò dalla paura nel sentire all’improvviso quella voce stridula e fastidiosissima che ben conosceva. Si girò piuttosto irritato e fissò l’americano con uno sguardo storto.
Alfred F. Jones lo sovrastava di quasi una testa piena ed era di costituzione molto più forte della sua nonostante fosse più piccolo d’età. Era diventato famoso nell’accampamento militare per essere invincibile nelle sfide di braccio di ferro e per essere uno dei più bravi e spericolati aviatori che l’esercito americano avesse mai avuto.
Il ragazzo però non era perfetto. Oltre ad avere un’incredibile quanto incontrollabile parlantina e una risata fastidiosissima, Alfred aveva il brutto vizio di dire tutto quello che pensava esattamente quando lo pensava, diventando piuttosto scomodo nella maggior parte dei casi.
Romano non sopportava molto quell’egocentrico ed esaltato americano ma aveva bisogno di più agganci possibili nell’accampamento a cui chiedere favori, inoltre aveva molta fifa di quel gigante d’oltreoceano.

 Alfred rise di gusto nel vedere la reazione contrita dell’italiano e gli diede diverse pacche sulla spalla. Romano sopportò quell’abuso del suo spazio personale con molto sforzo.

“Su su, piccolo italiano, I was joking! Stavo scherzando! Vieni con me, ieri sera hanno smistato gli ultimi rifornimenti che ci sono arrivati dall’America, ho qualche cosa di buono anche per te!”

Gli occhi di Romano si illuminarono nel sentire quelle parole! Alfred aveva qualcosa di buono da mangiare e lo voleva condividere con lui. Forse doveva rivalutare quel ragazzino dal fisico troppo cresciuto e dal cervello palesemente infantile. Si accodò docilmente al ragazzo che si era nel frattempo allontanato già pregustando le barrette di cioccolata americane, quando Alfred si fermò bruscamente e si girò verso di lui.

“In cambio, mi presteresti uno dei tuoi libri? I romanzi italiani sono i migliori. Credo di sapere l’italiano abbastanza per leggerne uno!” Sfoderò un sorriso abbagliante.

Romano divenne rosso in volto dall’imbarazzo e dalla rabbia. Come faceva quel bastardo a sapere dei suoi romanzi? Lo aveva per caso visto leggerne uno? Impossibile, era sempre molto attento a non farsi beccare. Oppure aveva frugato nella sua roba in quella tenda bucherellata che gli avevano concesso dopo tante suppliche?
Romano cercò di dire qualcosa ma il miscuglio di sentimenti glielo impedì. Alfred rise di gusto nel vedere il ragazzo in difficoltà, poi ricominciò a camminare dritto verso la sua tenda.
Romano rimase in silenzio per tutto il tragitto cercando di capire come quell’americano avesse scoperto dei suoi libri. In realtà aveva solo due romanzi che aveva letto così tante volte che ormai conosceva a memoria. Entrambi parlavano di una storia d’amore ambientata in Spagna in periodi storici diversi dove i protagonisti venivano divisi da molte avversità ma infine si ricongiungevano in un lieto fine. Romano aveva sognato molte volte di trovarsi al posto della donna e di vivere quelle splendide avventure con un affascinante cavaliere spagnolo, ma purtroppo gli unici uomini interessati a lui che aveva visto finora erano i tedeschi per fargli la pelle e gli americani che volevano mandarlo al fronte.

Dopo poco tempo Alfred si avvicinò a una tenda e si chinò per entrare, per poi uscirne poco dopo con in mano una borsa.

“Troviamo un buon posto per gustarci queste squisitezze!”

Il pensiero di Romano andò ai suoi compagni che stavano aspettando il suo ritorno con qualcosa da mangiare.
“Scusate ragazzi, oggi dovrete vedervela da soli!” Pensò mentre annuiva all’americano e lo seguiva fuori dall’accampamento.

Si avvicinarono a una piccola macchia boschiva non troppo distante dalle tende e si sistemarono su una grande roccia. Alfred svuotò la sua borsa sulla pietra rivelando barrette di cioccolata, pacchetti di gomme da masticare, pacchettini di biscotti, zollette di zucchero rotte, caffè e limonata solubile, scatolette di cibo varie e un pacchetto di sigarette.
Romano guardò inorridito le scatolette di qualche cibo non identificato. Quello doveva essere cibo? Un italiano non poteva mangiare quelle schifezze, lui conosceva la vera cucina e non poteva accettare di ingurgitare roba simile. Un brontolio dello stomaco però gli fece cambiare subito idea e afferrò senza tante parole una scatoletta di quella che sembrava carne e l’aprì tirando la linguetta.
Alfred rimase qualche secondo a scegliere cosa mangiare poi afferrò un’altra scatoletta di metallo e iniziò a pranzare.

Romano mangiava con una tale fame addosso da non masticare bene i bocconi pur di mangiarne il più possibile velocemente. Alfred lo guardò sconvolto mentre si gustava il suo pranzo.

“Ehi dude, calma, il tuo cibo non va da nessuna parte!”

“Sta… gnam… zitto bastardo… mhn… non mangio da ieri…!

“Lo vedo…”

Romano finì la sua scatoletta pulendone ogni briciola possibile con le dita. Sapeva perfettamente di aver sacrificato la sua dignità di buongustaio italiano da molto tempo perciò non fu turbato dalle parole dell’americano. Posata la scatoletta sulla pietra afferrò una barretta di cioccolata, scartandola velocemente e infilandola in bocca.

“Perché stai condividendo queste cose con me? Non sei idiota a dare via metà della tua razione così?” Chiese dopo un momento di silenzio.

Alfred rise di gusto a quelle parole perforando i timpani dell’italiano, poi si mise a masticare una cicca guardando il cielo.

“Non c’è un motivo preciso, mi stai simpatico. In realtà sei l’unico con cui posso parlare liberamente. Gli altri non mi sopportano molto, forse perché li ho battuti tutti a braccio di ferro. Comunque questa non è la mia razione, quella l’ho già mangiata stamattina, sono tutte cose che ho vinto nelle varie sfide!”

Romano lo guardò senza parole. Era incredibile come quel ragazzo riusciva ad essere serio e perspicace e contemporaneamente così stupido e ingenuo nello stesso momento. E comunque aveva ragione, nessuno lo sopportava, nemmeno lui, ma non lo dava a vedere. Guardò per qualche istante tutto il cibo accumulato accanto a loro.

“Ci credo che ti odiano, li hai lasciati a mani vuote!” Pensò finendo di mangiare la barretta di cioccolato.

Alfred fece due o tre palloncini con la gomma da masticare assorto in chissà quale pensiero, poi si girò nuovamente verso l’italiano con uno sguardo serio.

“Stamattina ho sentito dire dagli ufficiali con cui stavo gareggiando cosa è successo quella notte in cui il vostro accampamento è stato scoperto e attaccato dai tedeschi. È per questo che non vuoi tornare al fronte?”

“B-bastardo! Che cosa ne vuoi sapere tu di cosa è successo quella sera?”

“Dude, sono sbarcato in Sicilia e sono risalito fin qui, ne ho visti di scontri e di morti, so cosa si prova e cosa comporta la guerra. Solo che non sopporto proprio questi atti di codardia nei confronti della propria patria!”

Romano era incredulo. Cosa diavolo voleva da lui quel bastardo così all’improvviso? Lo accusava di codardia senza nemmeno sapere cos’era realmente successo quella sera e i giorni seguenti, di quello che tutti i partigiani del suo gruppo avevano dovuto patire e di quello che stavano soffrendo ancora. Ma soprattutto, che ne sapeva lui di guerre e sofferenze di vario genere? Era sicuramente un damerino dell’alta società americana che si era arruolato per gioco, che aveva svolazzato sull’Italia bombardando qua e là mentre mangiava le sue barrette di cioccolato americane e che piantava tende dove più gli conveniva facendosi bello di fronte alla popolazione italiana stremata dalla fame e dalla guerra.
Lui non sapeva proprio un cazzo di niente!

“Vaffanculo stronzo, tu non sai proprio niente!” Gridò furioso mentre si alzava e scendeva dalla roccia.
Ecco, quello stronzo era riuscito ad inimicarsi anche lui, l’unico imbecille del campo che gli dava ancora retta.

“È per via di tuo fratello, vero?”

Romano si fermò nel sentire quelle parole.
Questo era troppo.
Tornò indietro con grandi falcate, risalì la roccia velocemente e afferrò per il colletto lo stupido americano che ancora lo guardava con quello sguardo azzurro innocente dietro le lenti, iniziando a scuoterlo violentemente.

“Tu non sai proprio un cazzo di niente, brutto stronzo!!”

Era vero.
Da quella maledettissima notte in cui il loro accampamento era stato assaltato da una pattuglia tedesca Romano non era riuscito più a condurre una vita “normale” a causa dei rimorsi. Per colpa della sua codardia aveva abbandonato il campo ormai pullulante di tedeschi senza nemmeno guardarsi indietro, abbandonando tutto e tutti, perfino il suo adorato fratellino che ancora dormiva profondamente. Aveva assistito impotente alla cattura di Feliciano da sopra un albero su una collinetta. Le urla che disperate lo chiamavano e gemevano gli risuonavano ancora nelle orecchie nitide e impossibili da dimenticare. Non aveva fatto nulla per salvare lui e quei pochi malcapitati che non erano riusciti a fuggire, e quando era riuscito a riunirsi con i superstiti aveva giurato chiudere per sempre con la resistenza e con la guerra stessa. Voleva solo condurre una vita tranquilla cercando di mitigare il dolore per aver perso suo fratello per colpa sua.

Alfred sorrise e Romano s’infuriò ancora di più. Stava davvero prendendo in considerazione l’idea di iniziare una rissa con quel gigante con una bella testata, quando Alfred gli prese le mani e stringendole quasi da rompergliele se le staccò di dosso. Romano gemette dal dolore e cercò di liberarsi inutilmente.

“Invece capisco benissimo, yeah!” Rispose con uno sguardo serio “Ho un fratello anch’io sai?”

“È che cazzo dovrebbe fregarmi, sentiamo?”

“Anche lui è disperso in guerra”

A queste parole Romano si calmò improvvisamente. Vide come gli occhi brillanti e vivaci di Alfred iniziarono a colmarsi di dolore mentre lasciava lentamente le sue mani. Romano iniziò a sfregarsele per calmare il dolore mentre continuava a fissare il ragazzo con una curiosità sempre crescente.

“Fratellastro, in realtà!” Continuò Alfred rimettendosi a guardare il cielo.
Romano si sedette nuovamente affianco a lui e rimase in silenzio aspettando che l’americano continuasse, ma Alfred non accennava a parlare e continuava a gonfiare palloncini con la gomma che stava masticando.
Spazientito Romano decise di fare la prima mossa.

“Fratellastro?”

“Yeah, io e Matthew non siamo fratelli. Stesso padre ma madre diversa, per questo abbiamo anche dei cognomi diversi”

“In America non si usa portare il cognome del proprio padre?”

“O yeah, yeah, certo, se tuo padre ti riconosce! Il mio però non l’ha fatto nonostante mi abbia voluto molto bene perciò ho preso il cognome di mia madre. Sai, mio padre era un canadese che approfittando del proibizionismo americano di Roosevelt cominciò a contrabbandare alcool in America, dove ha conosciuto mia madre. Purtroppo però lui aveva già una famiglia in Canada… si esatto, Matthew è il fratello maggiore!”
Alfred si fermò per qualche istante per fare un altro palloncino con la gomma che scoppiò con un sonoro POP!
“La madre di Matthew non ha mai accettato l’esistenza di noi e ha costretto mio padre a non riconoscermi e Matthew a non avere nessun tipo di contatto con me. Nonostante tutto mio padre ha voluto bene ad entrambi i suoi figli e ha sostenuto anche economicamente mia madre. Quando avevo sette anni però nostro padre, insieme alla madre di Matthew, è morto a causa di un incidente ferroviario. Matthew non aveva parenti prossimi in Canada perciò mia madre lo adottò permettendoci finalmente di crescere insieme. Quando è scoppiata la guerra però Matthew è stato richiamato dal governo canadese per arruolarsi in guerra. Io ho sempre desiderato essere un eroe della patria perciò mi arruolai volontariamente”
Un’altra pausa, ma quando continuò a raccontare Romano si accorse che gli tremava la voce.
“Io divenni un aviatore dell’esercito americano, lui una spia del distaccamento canadese dell’esercito britannico di Sua Maestà. Era bravo in quello che faceva e i suoi sforzi venivano lodati dai suoi superiori, però… circa un anno fa ha intrapreso una missione di spionaggio nel territorio francese occupato dai tedeschi, e non è più tornato. Tutti i contatti con lui si sono interrotti bruscamente, nemmeno dopo la liberazione della Francia abbiamo saputo niente, non sappiamo che fine abbia fatto… se è morto o vivo…”

Alfred sputò la gomma e agguantò la prima cosa che gli capitò a tiro. Aprì frettolosamente il pacchettino di biscotti e si infilò tutto il contenuto in bocca in una sola volta.
Romano rimase in silenzio ad elaborare tutto quello che aveva ascoltato finora mentre osservava l’americano mangiare con nervosismo i biscotti.
Nonostante cercasse di trovare un senso a tutto quello che era successo da quando aveva seguito l’americano alla sua tenda, proprio non ci riusciva. Non capiva perché Alfred era stato così gentile ad offrirgli del cibo volendo in cambio una sciocchezza come un romanzo rosa, non capiva perché improvvisamente lo aveva provocato per poi raccontagli la sua vita. Davvero non riusciva a capire quel ragazzone infantile e spensierato che improvvisamente diventava serio e perspicace, per poi tornare poco tempo dopo di nuovo idiota come sempre.

Finiti i biscotti, l’americano si alzò e scese dalla roccia lanciando un sorriso contenuto al ragazzo bruno.

“Ieri pomeriggio è arrivata una comunicazione tramite piccione viaggiatore dall’Inghilterra. L’esercito di Sua Maestà ci informava che i russi stanno penetrando nel territorio degli stati satelliti tedeschi, ma soprattutto che stanno trovando in alcune coordinate fornitegli dagli inglesi degli agglomerati di edifici recintati e pesantemente sorvegliati. Sembrerebbero delle prigioni”

“Perché mi stai dicendo questo, stupido americano? Io non voglio avere niente a che fare con tutto ciò!”

“Pensaci bene, i nostri cari sono dispersi, catturati dai soldati tedeschi e mai più tornati. O sono morti, oppure sono…” Fece un gesto eloquente.

Romano sgranò gli occhi a quella rivelazione. Feliciano poteva essere ancora vivo. In realtà Romano dava ormai per scontato che il suo amato fratellino fosse stato fucilato da qualche parte tra le montagne italiane, e l’idea che fosse rinchiuso in qualche sporca prigione di quei crucchi bastardi lo sconvolse.
Scese anche lui dalla roccia e afferrò le spalle dell’americano stringendole disperato.

“È così? Non mi stai dicendo una cazzata, vero? Giura che è così! Giuramelo!!”

“Non posso dirtelo con precisione, non sappiamo se davvero quelle sono prigioni e se davvero loro sono finiti in una di quelle, ma il crittografo che ha scritto il comunicato era molto fiducioso” Fu il turno di Alfred di afferrare le spalle di Romano e stringerle “Romano! Noi dobbiamo vincere questa guerra e liberare i nostri fratelli dai tedeschi, come farebbero dei veri eroi! Io sto per partire per combattere i tedeschi oltre la linea Gotica, dovete combattere anche voi. Dobbiamo vincere, lo capisci? Tuo fratello e il mio possono essere ancora salvati!”

A Romano gli mancò l’aria. Alfred sorrise e lo lasciò andare incamminandosi verso le tende dell’accampamento. Dopo pochi passi si fermò e si voltò indietro.

“Il resto del nostro spuntino te lo regalo, dividilo con i tuoi compagni!”

Detto questo l’americano si allontanò velocemente per poi sparire tra le tende. Romano rimase a fissare un punto indefinito dell’accampamento per diverso tempo cercando di elaborare la notizia appena ricevuta. Dopo alcuni minuti che per lui sembrarono ore ritornò in sé e recuperando tutto il cibo sulla roccia si affrettò a raggiungere i suoi compagni.
Doveva assolutamente convincerli a ritornare ad operare nella resistenza, dovevano fare anche loro la loro parte per poter vincere quella guerra, lui doveva agire in prima linea, solo così avrebbe potuto salvare il suo fratellino ed eliminare una volta per tutte il suo dolore.

 

Quella stessa notte Alfred si avvicinò a passo svelto al suo amatissimo P-51 Mustang che riposava sulla pista di atterraggio che gli americani avevano costruito velocemente appena si erano stanziati in quel posto. Alfred poggiò un piede sul bordo di un’ala dell’aereo per allacciarsi per bene gli anfibi, poi si sistemò con cura il tipico cappello d’aviatore in testa. Indossava la divisa militare completa dell’aviazione statunitense, e con al fianco una tracolla contenente del cibo e altri accessori indispensabili per il volo era pronto ad affrontare quella nuova missione che gli avevano affidato. Un ufficiale si avvicinò a lui, scambiò alcune parole ricordandogli gli obbiettivi della missione, poi si allontanò. Alfred salì con agilità sul suo aereo e iniziò ad accendere il motore mentre un soldato si piazzava sulla pista di atterraggio con delle torce per guidarlo nella partenza.
Mentre il motore si riscaldava e l’elica girava sempre più velocemente Alfred accarezzò un piccolo orsetto di pezza bianco che aveva fissato vicino al cruscotto delle spie e manopole del motore con uno spago. Gli accarezzò la testa, poi gli premette il naso, infine girò una zampa rivelando il nome “Matthew” scritto a doppio filo colorato sul bordo della cucitura.

“Spero che quell’isterico nanerottolo della crittoanalisi britannica abbia davvero ragione”

Il soldato sulla pista diede il segnale agitando le torce freneticamente e Alfred premette sull’acceleratore.

 

 

Luogo non precisato, Polonia

La neve cadeva lentamente mentre il grosso dell’esercito si fermava in un campo incolto organizzandosi per allestire un accampamento in cui passare la notte. Non smetteva di nevicare da giorni, ma quell’esercito era abituato a ben di peggio.
I campi circostanti erano tutti incolti e coperti di quasi venti centimetri di neve. Le casupole che si ergevano ai confini dei campi semi diroccate sembravano abbandonate ormai da tempo.
Tutti fuggivano difronte all’avanzata dell’Armata Rossa.

Appena tutti i fanti arrivarono nel campo furono divisi dai superiori in più squadre di piccola dimensione. Una fu incaricata di perlustrare la zona nel caso in cui ci fosse la presenza del nemico nascosta, un’altra fu incaricata di controllare le casupole circostanti per cercare qualsiasi cosa potesse rivelarsi utile per l’avanzata dell’esercito russo in terra polacca (soprattutto cibo e vestiti), un’altra ancora fu mandata in un piccolo boschetto lì vicino a cercare della cacciagione. I restanti gruppi furono impiegati per montare le tende e allestire il campo.

Dopo poco tempo arrivarono anche i carri armati che in fila circondarono il campo in allestimento lasciando enormi solchi nella neve. Velocemente i portelloni dei vari carri si aprirono e gli equipaggi sciamarono fuori, tutti desiderosi di sgranchirsi le gambe e di prendere una boccata d’aria.
Ivan Braginsky fu l’ultimo dell’equipaggio ad uscire da quella gabbia di ferro. Appena mise la testa fuori dal portellone i fiocchi di neve si posarono sul suo colbacco mentre il freddo lo morse con prepotenza, ma non era forte e crudele come il freddo invernale russo, perciò Ivan prese una rigenerante boccata d’aria fresca e uscì atterrando con un suono ovattato sulla neve soffice.

Ivan era il quarto dell’equipaggio ed era il servente che aiutava il cannoniere a inserire i proiettili nella lunga canna della torretta centrale. Il suo ruolo era tanto importante quanto difficile e stancante e ogni volta che si accampavano per la notte si sentiva sempre esausto.
Affondando i lunghi stivali nella spessa coltre di neve, Ivan cercò di dileguarsi subito per non essere fermato da qualche ufficiale e messo ad allestire il campo insieme agli altri. Non era un fannullone, ma diavolo, ogni giorno condivideva pochi metri quadrati con altre tre persone, voleva qualche momento per sé ogni tanto.

A passo svelto raggiunse il piccolo boschetto accanto ai campi incolti e si accoccolò sotto un grosso albero sempreverde, dove la neve veniva intercettata dalla folta chioma e non toccava terra. Lì Ivan si sfilò dalla spalla il grosso fucile in dotazione e lo poggiò al tronco affianco a sé, poi si rilassò allungando le gambe.
Purtroppo era di costituzione molto robusta (non grassa come dicevano gli altri), perciò doveva rannicchiarsi parecchio per riuscire a stare bene nei pochi metri quadrati del suo carro.

Chiudendo gli occhi e appoggiando la testa al tronco, Ivan si rilassò. Finalmente aveva un po’ di tempo per sé in totale silenzio da godersi finché non veniva scoperto o richiamato da qualche suo compagno. Non che Ivan rifiutasse i rapporti sociali, anzi li apprezzava e cercava sempre di inserirsi nei gruppi che si formavano tra i vari commilitoni, ma i temi che spesso finivano a discutere non gli interessavano. L’argomento principale dei soldati che bivaccavano o degli equipaggi nei carri armati era le donne; donne belle, formose, provocanti, donne che avevano accontentato i vari soldati, fidanzate di cui si sentiva la mancanza, donne desiderate ma mai ottenute, ecc.
A Ivan non interessavano questi discorsi perciò si limitava a sorridere e ad ascoltare con finto interesse.

Più che i discorsi a Ivan non interessavano le donne. Si era accorto di questo “difetto” nell’età adolescenziale, quando gli altri ragazzini del villaggio cominciavano a provare interessi per le femmine, soprattutto le sue sorelle, ma Ivan non condivideva i loro gusti. Inspiegabilmente era attratto più da loro che dalle loro sorelle o cugine.
Crescendo cominciò a capire cos’era quell’inspiegabile tendenza e a nasconderla a tutti, perfino alle sue adorate sorelline.

Ivan sospirò pensando a loro. Aveva dovuto lasciare il suo villaggio natale per arruolarsi nell’esercito qualche anno prima quando il governo aveva ordinato a tutti i maschi in buona salute della sua regione di prestare servizio per la patria. Sua sorella maggiore aveva pianto per giorni mentre recuperava e metteva tutta la sua roba in una borsa da viaggio, mentre sua sorella minore era stata letteralmente incollata a lui finché non era partito.
Le aveva lasciate sotto la custodi del vicino, il vecchio Generale Inverno, chiamato così perché era stato un generale (così diceva lui) nella Prima Guerra Mondiale e perché era freddo e burbero proprio come l’inverno russo. Ivan non aveva mai conosciuto il suo vero nome, ma dopo la morte dei suoi genitori in tenera età era stato aiutato molto da quell’uomo, perciò si fidava ciecamente di lui.

Alcuni rumori provenienti dal boschetto lo misero in allerta. Velocemente afferrò il suo fucile e si buttò a terra pronto a sparare. I rumori continuarono ad avvicinarsi e Ivan iniziò a sudare per la tensione. Quella situazione gli riportò alla mente i spiacevoli ricordi di Stalingrado dove aveva dovuto combattere contro i tedeschi per fermare l’avanzata nazista nel territorio russo. In quella situazione aveva visto e fatto così tante atrocità e azioni immorali da segnarlo per sempre. Sentiva che dopo l’assedio e la battaglia di Stalingrado aveva perso una parte importante di sé, come se la sua sanità mentale fosse stata irrimediabilmente corrotta.
Sarebbe stato perseguitato a vita dai loro ricordi.

I rumori divennero ben presto passi ovattati nella neve accompagnati da risate e grida in russo. Ivan si rilassò sentendo un’ondata di sollievo e si rimise appoggiato al tronco cercando di calmare il battito incontrollato del suo cuore e il fiato corto. Dopo pochi istanti vide passare tra gli alberi un gruppo di soldati russi che parlottava allegro mentre alcuni di loro stringevano tra le mani guantate della cacciagione.
Ivan sentì lo stomaco brontolare e l’acquolina formarsi in bocca.
Non ricordava l’ultima volta che aveva mangiato un pasto decente.

Ivan aveva sempre sofferto la fame, sia in gioventù quando essendo l’unico uomo di casa lavorava come bracciante nei campi altrui riuscendo a portare a casa quel poco e non più per far sopravvivere la famiglia, sia da adulto nell’esercito quando combatté a Stalingrado.
Ricordare ancora quel campo di battaglia gli fece torcere le viscere. Aveva visto in prima persona cosa la guerra poteva fare alla popolazione. Aveva visto persone così magre e smunte da essere quasi dei cadaveri ambulanti, morti in putrefazione ad ogni angolo della strada, donne che si prostituivano per cercare di dar da mangiare ai figli denutriti, soldati che requisivano il poco cibo che le famiglie affamate riuscivano a procurarsi, persone arrestate o fucilate per cannibalismo.

Sinceramente non sapeva se anche tra i soldati vi erano stati atti così disumani, e non sapeva davvero dire cos’era quello che a volte i loro superiori gli davano da mangiare. Aveva imparato da tempo a non fare domande, perciò anche in quella situazione non aveva domandato e a occhi chiusi aveva ingoiato tutto quello che gli avevano dato.
Ma il dubbio rimaneva e questo lo rendeva folle.

Il disgusto fu così forte che il ragazzo si strinse il ventre cercando di calmarsi. Nello stringere sentì scricchiolare un oggetto ripiegato nella tasca della sua divisa militare.

“Oh da, me ne ero dimenticato!”

Dalla tasca sfilò una foto dai bordi logorati e dal nero sbiadito che raffigurava un ragazzo dal sorriso timido e dai capelli lunghi che guardava dritto al suo osservatore. Ivan rimase a fissarlo a lungo osservando ogni singolo dettaglio del suo volto e del suo mezzo busto.
Erano stati due prigionieri che avevano liberato quando avevano cacciato i tedeschi dal territorio dei Paesi Baltici dargli questa foto. Piangendo il più piccolo dei due lo aveva pregato di prenderla e di cercare un certo Toris Laurinaitis tra i prigionieri tedeschi perché era un loro amico e compagno che era stato catturato molto tempo prima e deportato chissà dove dai tedeschi. Ivan aveva accettato senza dare molto importanza alla cosa perché probabilmente quel ragazzo era morto da tempo ormai, ma con la notizia da parte degli esploratori russi della scoperta di alcuni complessi di edifici recintati nel territorio tedesco forse c’era una possibilità di ritrovare quel tipo vivo.

Ivan continuò a osservare la foto a cui non aveva mai prestato molta attenzione. Convenne che quel Toris era davvero un bel ragazzo e che forse valeva la pena di cercarlo e salvarlo ovunque lui si trovasse. Ivan immaginò il ragazzo provato e in lacrime abbracciarlo con disperazione mentre lo ringraziava di averlo salvato, per poi dargli un bacio come premio.
Si, sembrava una di quelle fiabe europee che sua sorella maggiore gli raccontava sempre da piccolo prima di andare a dormire, dove un principe affrontava un’avventura pericolosa per poter salvare una bella principessa dalle grinfie di un drago cattivo, per poi sposarla e vivere felici e contenti.

Ivan sorrise alla sua fantasia strampalata. Ovviamente lui era gay ma questo non significava che anche gli altri lo fossero, soprattutto quel Toris, perciò la sua sarebbe rimasta una fantasia da uomo represso che sognava una vita romantica.
Eppure ora che guardava bene quella foto si sentiva incredibilmente attratto da quel ragazzo. Voleva trovarlo e salvarlo, non perché quei due prigionieri glielo avevano chiesto, ma perché sentiva di voler salvare quel ragazzo e vederlo felice.

Una voce lo distolse dai suoi pensieri romantici. Un suo compagno di carro lo chiamò a gran voce dicendogli che avevano montato la tenda e che stavano consegnando le razioni da mangiare. Ivan rispose di rimando, poi ripose con cura la foto nella tasca e recuperato il fucile, si avviò verso le tende.

Si sentiva come il principe che doveva salvare la sua bella principessa nel castello dalle grinfie del cattivo drago.

 

 

Ex proprietà della famiglia Lukasiewicz, periferia di Varsavia

I cavalli correvano spensierati nel grande recinto innevato della proprietà dei Lukasiewicz, ex proprietà dei Lukasiewicz.
Dopo la cattura di tutta la famiglia e la sua deportazione, la villa con tutti i terreni annessi alla proprietà, domestici, cavalli, ecc. furono concesse ad un ufficiale tedesco in pensione che vantava forti agganci con il governo tedesco.

Uno dei domestici che era rimasto al servizio del nuovo proprietario osservava con tristezza i cavalli che correvano e giocavano tra di loro. L’erede della famiglia Lukasiewicz, il rampollo Feliks, amava moltissimo i cavalli e aveva fatto costruire quel recinto e la stalla proprio per tenere tutti i cavalli che riusciva a comprare nelle varie fiere.
Il suo preferito era un pony castano dalla lunga criniera morbida che sgambettava dietro gli altri cercando di mantenere il passo nonostante le sue corte zampe non glielo permettessero.

Il domestico fu improvvisamente affiancato da un grasso uomo altezzoso con indosso una divisa militare pluridecorata con medaglie di vario tipo. Prendendo una boccata dalla sua pipa, l’uomo osservò per qualche istante i cavalli, poi si rivolse al domestico.

“Sono stati scelti i cavalli che devono essere venduti all’esercito tedesco?”

“Si signore. I tre stalloni e quel magnifico esemplare arabo. Passeranno in giornata a prenderli, l’offerta è molto buona, signore”

“Certo che è buona, ho parlato direttamente con le alte sfere tedesche, abbiamo trovato un accordo sul prezzo quasi subito”

L’uomo fece un cenno a degli altri domestici che si precipitarono nel recinto per recuperare i cavalli dalle briglie e portarli nelle stalle dove poi sarebbero stati presi dall’esercito. Il domestico guardò con dispiacere quelle povere bestie che sarebbero andate presto al fronte.
L’uomo grasso osservò ancora qualche istante i cavalli, poi fece per andarsene.

“Signore! Cosa ne facciamo degli altri cavalli?”

“Non sono abbastanza forti per l’esercito e a me non servono. Io odio i cavalli. Portali al macello e poi vendine le carni ai macellai della città. Ringrazieranno!”

Il domestico sentì i capelli rizzarsi sulla testa.

“S-signore, anche il pony? Il pony è in buonissima salute, potrebbe essere utile per-“

“Il pony?” Interruppe l’uomo girandosi e guardando sgomento il domestico “Quello non si può nemmeno definire un cavallo! Al macello anche lui. E muoviti! Stasera voglio cenare con carne di cavallo!”

Il domestico rimase senza parole. Seguì con lo sguardo l’uomo rientrare in casa, poi guardò il recinto dove il pony correva con i restanti cavalli agitando la criniera, cercando di liberarsi dai fiocchi di neve.

“Mi dispiace signorino Feliks…. Mi dispiace….”







Note dell'autore:
Salve, eccoci con un nuovo, corposissimo capitolo. 
Oggi c'è davvero molto da dire x'D
Innanzitutto questo capitolo è incredibilmente lungo per i miei standard. Inizialmente volevo dividerlo in due capitoli, ma così facendo avrebbe perso molto, perciò ho deciso di tenerlo unito. Spero che questo non vi crei disagio ><
Per questo capitolo mi sono documentata molto circa i fatti storici citati, e anche non citati ma che riguardano comunque quello che ho scritto. In realtà non ho trovato alcune notizie che mi avrebbero fatto molto comodo, perciò mi scuso se ci sono eventuali incongruenze di tipo storico o la ff non fila bene, ho cercato di mediare il più possibile.
Quando ho ideato tutta la trama di questa ff ho subito pensato a questo capitolo come uno dei capitoli più toccanti e belli, uno che avrei voluto davvero scrivere subito e riempirlo di feels allucinanti. Spero che almeno in parte ci sia riuscita, ho cercato di calarmi molto nelle loro menti (purtroppo non sono molto brava in questo x'D). Per scriverlo ho ascoltato tantissimo due canzoni, Castle of glass dei Linkin Park e Est ce que tu m'aimes? di Gims Maitre. Mi hanno aiutato molto a immaginare le condizioni psicologiche dei personaggi di questo capitolo.
Mi scuso per eventuali errori grammaticali ecc. Sono un po' nabba, si sa x'D
Se volete commentare il capitolo sono disponibilissima *-* Però non odiatemi per avervi fatto soffrire così tanto con questo capitolo (nel bene e nel male) x'D
Vi do un anticipo: il prossimo capitolo sarà importantissimo ai fini della storia, perciò spero di completarlo il prima possibile!
A presto!

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Capitolo 8
*** La lettera ***


Era una fredda e uggiosa mattina di gennaio.
Nel campo di concentramento prussiano si era depositata al suolo così tanta neve da potervici affondare interamente un piede fino alla caviglia.
Roderich camminava a passo svelto nel corridoio freddo e umido nell’edificio del personale del campo. Il suo umore era pessimo ed era tale da molti giorni ormai: i rifornimenti tardavano ad arrivare bloccati dalla neve, dalla guerra e da chissà quale altra scusa, e le scorte del suo amatissimo surrogato di caffè, chiamato comunemente orzo, erano esaurite già molto tempo prima di Natale.

Roderich non viveva senza il suo orzo. Certo, preferiva di gran lunga il vero caffè, quello che veniva importato dall’America e che aveva un aroma unico, ma la guerra aveva bloccato ogni tipo di commercio con il Nuovo Mondo costringendo gli appassionati come lui ad accontentarsi di questo nuovo composto creato dalla Germania stessa.
Solo che adesso era finito e non aveva a disposizione altro da molto, troppo tempo.
L’umore del nobile austriaco peggiorava incredibilmente quando non assumeva regolarmente la sua bevanda preferita, rendendolo molto irascibile e nevrotico, davvero intrattabile per chiunque.

Quella mattina era particolarmente ingestibile anche per un altro motivo.
Nel trasferirsi nel campo di concentramento, Gilbert aveva chiesto e ottenuto il permesso di portare con sé il suo amatissimo canarino, un pennuto grasso e dal carattere difficile, che cantava perennemente a squarciagola e beccava chiunque si avvicinasse alla sua gabbietta che non fosse il suo padrone, lasciando grossi segni sulle dita.
Roderich odiava quel canarino demoniaco, era il ritratto sotto forma di uccello del suo fastidioso padrone. E odiava soprattutto quando Gilbert gli ordinava di dargli da mangiare al suo posto perché tornava sempre con grossi segni rossi e dolorosi sulle sue delicatissime mani da musicista.

Entrando spedito in una stanza illuminata dallo scarso sole che filtrava dalle nuvole invernali, Roderich si chiuse violentemente la porta alle spalle e guardò dritto vicino la finestra dove un piedistallo di marmo sorreggeva una grossa gabbietta in ferro battuto. Un piccolo e paffuto canarino iniziò a cinguettare verso di lui agitando le ali come per salutarlo.

“Risparmia le moine per il tuo padrone, stupido uccello” Esclamò con sdegno mentre prendeva un piccolo sacchettino con del mangime dentro da sopra un tavolo pieno di scartoffie.

Il canarino sembrò non capire il disprezzo dell’austriaco e continuò a cinguettare allegramente seguendo ogni movimento del sacchettino tra le mani.
Cautamente Roderich aprì uno sportellino della gabbietta e prese la ciotolina del mangime, chiudendolo velocemente dopo averlo tirato fuori. Quel piccolo e paffuto canarino poteva sembrare simpatico e adorabile a prima vista, ma era un mostro e l’austriaco voleva preservare il più possibile le sue dita dal suo becco.

Velocemente riempì la ciotolina fino all’orlo, poi aprì nuovamente lo sportellino infilando con una mano la ciotolina all’interno.
Il canarino non attendeva altro.
Scuotendo violentemente le ali piccole rispetto al suo corpo, il pennuto si avventò sulle dita del ragazzo beccandone una e stringendo la presa sulla carne rosea.
Roderich lanciò un urlo di dolore misto a sorpresa e tirò velocemente la mano fuori dalla gabbietta, scuotendola violentemente per liberarsi dalla presa di quella bestia.

Dopo vari tentativi il canarino mollò la presa cadendo e rimbalzando sul pavimento dove cominciò a scuotere le ali e a pigolare insistentemente cercando di prendere il volo, ma le sue piccole ali non riuscivano a dargli lo slancio che gli serviva per alzarsi da terra.
Roderich si portò la parte ferita alla bocca guardando con odio puro il pennuto da dietro le lenti degli occhiali. Pur essendo un piccolo canarino, quella bestia malefica aveva una forza spropositata e per poco non gli staccava la carne dal dito.

L’austriaco dovette reprimere con forza l’impulso di schiacciare quell’ammasso di piume sotto i suoi scarponi dalla suola chiodata facendo appello a tutta la sua forza di volontà.
Invece tirò un sospiro esasperato:

“Sei il diavolo sotto forma di uccello, tu. Sei proprio il canarino di Gilbert! Ora da bravo fatti prendere così ti rimetto nella gabbietta e nessuno si farà di nuovo male!”

Il canarino si fece prendere facilmente arruffando le piume intorno al collo. Roderich sperò per un secondo di poter mettere quella bestia nella sua gabbietta senza ulteriori problemi, ma le sue speranze si infransero quando il canarino beccò nuovamente la sua mano appendendosi a un lembo di pelle e procurandogli un dolore atroce.

Accecato dalla rabbia e dal dolore, Roderich afferrò il canarino con l’intero palmo stringendogli il corpo e staccandolo con forza dalla sua mano. La vista del sangue che usciva dal taglio che si era procurato lo fece uscire fuori di testa. Con uno scatto girò su sé stesso e lanciò con forza il canarino fuori dalla finestra verso alcuni edifici lungo il perimetro di recinzione.

Dopo alcuni istanti in cui la sua rabbia era sbollita del tutto e il suo cuore ritornava al battito normale, l’austriaco si appoggiò al davanzale della finestra sui i gomiti con la testa sulle mani ammirando il panorama innevato del campo di concentramento e dei campi incolti limitrofi.
Del pennuto nessuna traccia.

Roderich sorrise.
“Sono nella merda”

 

Matthew camminava lentamente sulla neve lasciando grosse impronte dietro di sé. Le sue scarpe semi distrutte affondavano interamente nella neve e quest’ultima penetrava in qualunque foro, strappo o scollatura di esse. Matthew aveva i piedi, le mani e il naso completamente ghiacciati. Essendo canadese era abituato al freddo quasi polare, ma adesso il suo corpo stremato dalla fame e dalla fatica non riusciva a reggere quelle temperature.
Il ragazzo non sentiva più le estremità periferiche degli arti e cercava inutilmente di riscaldarsi le mani muovendole insistentemente e alitandoci sopra.
I vestiti che indossava erano stracci consumati e troppo leggeri per quella stagione. Molti prigionieri si erano ammalati di febbre e altre malattie che Matthew non aveva mai visto prima finendo all’infermeria. Alcuni erano tornati dopo pochi giorni bene o male guariti o in via di guarigione, altri non si erano più visti.

Continuando ad affondare nella neve il canadese raggiunse una fossa nauseabonda che fungeva da pozzo nero del campo dove i vari dormitori buttavano gli escrementi che erano costretti a fare in un secchio. Ogni dormitorio aveva un solo secchio che quando si riempiva doveva essere svuotato, qualunque ora fosse.
Fin dall’inizio Matthew era stato incredibilmente sfortunato riguardo il secchio. Ogni volta che doveva fare dei bisogni lo trovava pieno ed era costretto dalle guardie di turno a fare buoni 50 metri nella neve per svuotarlo nel pozzo.
Anche quella mattina gli era toccato quel simpatico viaggetto.

Dalla fossa uscivano rivoli di vapore e odori indescrivibili. Mentre svuotava il secchio Matthew cercò di non guardare il suo contenuto né quello che c’era nel pozzo. Si concentrò invece nel fissare altri poveri sciagurati di altri dormitori che come lui erano stati costretti a fare quel servizio.
Matthew li trovò magrissimi e denutriti, curvi su sé stessi e pallidi con gli occhi infossati e le membra così stanche che quasi sembravano sciogliersi staccandosi dalle ossa. Il ragazzo si allontanò velocemente da quel posto chiedendosi se anche lui avesse quell’aspetto così disumano, come se non fosse più un uomo ma un mostro uscito da un incubo di un bambino.

Cercando di camminare nelle proprie orme per non riempire le scarpe di altra neve, il ragazzo biondo si affrettò a raggiungere il suo dormitorio dove avrebbe potuto togliere le scarpe e scaldare i piedi sotto la coperta di cotone per qualche minuto prima di iniziare il lavoro.
All’improvviso qualcosa di duro e pesante, grande quanto un pugno, lo colpì alla schiena facendolo sobbalzare e facendogli cadere il secchio dalle mani.
Matthew si voltò sorpreso e spaventato cercando chi lo avesse colpito con quella che sembrava una palla di neve, poi vide qualcosa a terra.
Incredulo si tolse gli occhiali e alitò sopra le lenti per poi pulirle con un lembo della maglia convinto di avere gli occhiali sporchi, ma quando li rimise i suoi occhi si allargarono ancor più per lo stupore.
Si accucciò su sé stesso mentre un sorriso si diffondeva sul suo volto.

 

Gilbert era furibondo.
Non sapeva per quale motivo non aveva picchiato a sangue quell’inutile damerino che aveva avuto il coraggio di lanciare fuori dalla finestra il suo amatissimo canarino. Le mani gli tremavano ancora per la voglia animalesca di deturpare quel bel faccino curato dell’austriaco, ma si era limitato soltanto ad urlargli contro blasfemie di ogni sorta e a spedirlo con una spinta a sorvegliare una fabbrica del campo.
Non poteva sbilanciarsi troppo con lui, era pur sempre il figlio di un’importante famiglia austriaca legata alle alte sfere del governo tedesco.

La rabbia però non accennava a diminuire mentre usciva dall’edificio e iniziava a cercare tra la neve sperando di ritrovare il suo amato uccellino giallo.
Gilbird, così si chiamava il suo incredibile canarino, era stato l’ultimo regalo di compleanno del nonno prima di morire, l’unica persona che aveva davvero amato Gilbert nonostante il suo aspetto e comportamento.
Gilbird si era sempre comportato in modo protettivo nei suoi confronti: tutti odiavano Gilbert e Gilbird odiava tutti.

L’albino non conosceva una sola persona che non fosse stata beccata dal suo canarino, o bersagliata dai suoi escrementi. Persino Ludwig non era tollerato nonostante Gilbert lo amasse quasi come sé stesso.
Gilbert amava così tanto il suo canarino da aver chiesto il permesso di portarlo con sé nel campo di concentramento, un permesso accordatogli grazie alle influenze del padre che non vedeva l’ora di liberarsi del canto continuo di quell’animale.

La neve era soffice al tatto mentre Gilbert la spostava con gli stivali e le mani guantate, frugando qua è là vicino gli edifici, davanti la finestra, controllando i muri degli edifici di fronte sperando di non trovare nessuna prova che potesse indicare che il canarino era finito contro il muro.
Tutti sforzi inutili.

Disperato, Gilbert cominciò ad allargare l’area di ricerca intorno la finestra. Dopo una decina di minuti era entrato quasi nel panico. Di Gilbird non c’era nessuna traccia e non era possibile perché era un canarino allevato in cattività che non conosceva il mondo esterno, inoltre era grasso e tozzo e non volava molto bene.
L’albino ebbe il timore che qualche prigioniero, trovandolo lì indifeso, lo avesse preso per vendetta o peggio ancora per mangiarselo, affamati com’erano (quel pensiero gli fece venire i brividi) oppure che fosse morto di freddo caduto in mezzo alla neve.

Mentre si guardava per l’ennesima volta intorno sperando di vedere una macchiolina gialla tra il bianco candido della neve, Gilbert notò un passaggio formato dagli angoli di due dormitori largo più o meno mezzo metro proprio davanti la finestra.

“Impossibile… Roderich non può avere una mira così buona…” Pensò incredulo, ma ormai il dubbio si era insinuato nella sua mente, e poi aveva cercato ovunque senza successo, quel passaggio era l’ultima speranza a cui aggrapparsi.

Velocemente affondò i suoi stivali impermeabili di pelle nera nella neve e si infilò nel passaggio percorrendolo tutto. Era incredibilmente in perfetta linea d’aria con la finestra, un buon lancio lo avrebbe percorso tutto fino alla fine dove sboccava sul percorso affianco al perimetro di recinsione.
Raggiunta l’uscita, Gilbert si fermò con la bocca aperta dalla meraviglia.

A pochi passi da lui c’era il prigioniero inglese che gli aveva provocato tanti disturbi emotivi che girava su sé stesso ridendo in modo spensierato. Ai suoi piedi, tra le tante orme che stava lasciando con i suoi volteggi, c’era uno di quei luridi secchi che il campo dava in dotazione ai dormitori come gabinetto.
Ma quello che aveva paralizzato l’albino non era il prigioniero in sé ma piuttosto quel piccolo batuffolo giallo che svolazzava goffamente sulla sua testa.

Gilbird cinguettava allegramente mentre si poggiava sulla testa bionda del ragazzo aggrappandosi con le sue piccole zampette ai capelli arruffati, poi con uno slancio ricominciava a volteggiare mentre il ragazzo ridendo lo seguiva con lo sguardo tenendo le braccia aperte.
Sembravano entrambi felici.
Ma soprattutto Gilbird non stava mordendo, pizzicando, graffiando o sporcando il ragazzo in nessun modo. Sembrava anzi contento della sua presenza esattamente come lo era quando vedeva il suo padrone.
Gilbert era sconcertato e confuso.

Il prigioniero non sembrò accorgersi della sua presenza e continuò a giocare con il canarino. Nuvolette di vapore salivano in aria insieme al suono delle risate formando dei strani disegni in aria. Era una strana immagine da vedere in un campo di concentramento e Gilbert immaginò per un istante di non trovarsi più lì come sorvegliante di un luogo di detenzione, morte e lavoro forzato, ma su un lago ghiacciato dove il ragazzo volteggiava pattinando sul ghiaccio, avvolto in un cappotto e una bella sciarpa colorata, ridendo e chiamandolo con la sua melodica voce.

“Che pensiero stupido!” Esclamò tra sé appena si accorse di avere la testa tra le nuvole.

Era indeciso se andarsene senza farsi notare e di recuperare il suo canarino in un secondo momento o di rovinare quel momento idilliaco e finire ciò che aveva iniziato.
Questa indecisione lo fece accigliare: il vecchio Gilbert non avrebbe mai avuto un dubbio simile, avrebbe messo fine a quello svago immediatamente, punito severamente il detenuto con sadico divertimento e poi lo avrebbe costretto a fare uno dei lavori più pesanti del campo. Da quando era diventato così compassionevole con quella gentaglia?

 Eppure non riusciva a staccare gli occhi di dosso da quel ragazzo. Dalla prima volta che lo aveva notato, quando stava per finirlo nella fabbrica, quella povera anima aveva perso almeno un terzo del suo peso diventando magrissimo. I suoi capelli si erano sfibrati e avevano acquisito un colorito spento mentre la pelle mal coperta dai vestiti troppo leggeri e troppo larghi per la sua corporatura era diventata screpolata e bruciata dal freddo in più punti. Eppure i suoi occhi, pur avendo perso la loro brillantezza e il loro colorito vivace, non erano spenti come quelli di tutti gli altri detenuti, ma anzi erano ancora gonfi di vitalità e di dolcezza.
Gilbert si sentiva ancora incredibilmente attratto da quegli occhi e da quel ragazzo e vederlo in quello stato pietoso aveva alimentato ancor di più il desiderio di prendersi cura di lui. Contemporaneamente vederlo giocare in quel modo con Gilbird lo rendeva incredibilmente sereno.

Dopo uno slancio particolarmente energico, Gilbird non riuscì a tenere il suo corpo in volo e con un forte cinguettio cadde sulla testa del ragazzo dove rimbalzò senza riuscire ad aggrapparsi ai capelli. Gilbert, che aveva assistito a tutta la scena, fece per correre in avanti per afferrare il povero animale che altrimenti sarebbe sprofondato nella neve, quando le mani delicate e screpolare del ragazzo biondo lo anticiparono raccogliendo il pennuto in una morbida coppa.

Il ragazzo sembrava sorpreso da quella presa e preoccupato si portò il canarino davanti al volto, così vicino che se Gilbird avesse voluto avrebbe potuto facilmente beccare il naso o una guancia.
Gilbert rimase con il fiato sospeso.

“Ti sei fatto male piccolino? Devi stare attento, la neve non è un bel posto per cadere per un animale così piccolo come te, sai?” Sussurrò dolcemente. Gilbert ebbe difficoltà a sentire quelle parole per quanto piano parlava.

Il canarino rimase un istante in silenzio a fissare il detenuto, poi iniziò a trillare allegramente arruffando le piume e scuotendo le ali.
Il ragazzo biondo lanciò un gridolino di apprezzamento e strofinò una guancia sull’uccellino ridendo dolcemente mentre quest’ultimo ricambiava il gesto d’affetto con altrettanta dolcezza.

Quella scena trafisse il petto di Gilbert come una lancia.
In tutta la sua vita non aveva mai visto qualcosa di più bello e più dolce come questa scena. Quell’inglesino sembrava davvero un angelo caduto dal cielo con le ali spezzate. Il fatto che Gilbird ricambiasse con così tanto entusiasmo il suo affetto era innegabilmente la prova che quel ragazzo era speciale.
L’albino sentì una fortissima ondata di calore nel petto.
Si, che Dio potesse perdonarlo, si era innamorato… di un uomo!

Dopo qualche istante di affetto reciproco Gilbird girò casualmente la testa e vide il suo padrone. Subito iniziò a cinguettare e trillare animatamente nella sua direzione portando anche il prigioniero a girarsi. Appena lo vide, il ragazzo quasi fece cadere il pennuto dalle mani per quanto fu forte la reazione di spavento che ebbe. Immediatamente si ricompose allontanandosi di qualche passo dall’avvallamento che si era formato a causa di tutte le impronte che aveva lasciato ballando e rimase immobile a fissare il ragazzo albino tremando per il freddo e per la paura. Sulle sue mani tremanti Gilbird sembrava un budino per come veniva scosso ritmicamente.

Gilbert non sapeva come comportarsi. La magia si era interrotta, la sua presenza era stata scoperta e il momento quasi divino era stato rovinato. Ora l’oggetto di quasi tutti i suoi pensieri da vari mesi a quella parte se ne stava immobile davanti a sé impaurito come un topo in trappola.
Dopo qualche istante in cui la sua mente vagliò una decina di possibilità e in cui si fissarono reciprocamente in silenzio, Gilbert concluse che qualsiasi cosa avesse fatto avrebbe sicuramente spaventato a morte il ragazzo, perciò optò per comportarsi in modo spontaneo.

Posizionando la lingua dietro i denti Gilbert fece un fischio acuto. Gilbird subito rispose con uno strano verso e lanciandosi dalle mani del biondino svolazzò verso il suo padrone. Il prigioniero non riuscì a distogliere lo sguardo dal suo carceriere tant’era la paura, ma quando Gilbird si appollaiò tra i capelli argentei del tedesco l’inglese non riuscì a trattenere uno sbuffo e un sorriso che subito coprì con le mani lanciando uno sguardo colpevole.
Gilbert sorrise a sua volta sentendo la tensione generale allentarsi, sperando di non aver sfoggiato uno dei suoi soliti sorrisi da lupo affamato.

“Tu sei quel tizio che ho quasi ammazzato in fabbrica qualche mese fa, vero?”
Nemmeno il tempo di finire la frase e già Gilbert avrebbe voluto darsi un pugno in faccia. Di tutte le cose che poteva dire in quel momento aveva scelto la peggiore… ma che cazzo stava pensando in quella testolina bacata che si ritrovava?

Ovviamente il prigioniero rimase a bocca aperta diviso tra l’incredulità e il terrore puro. Sembrava una bandieruola al vento per come tremava.
Gilbert cercò di recuperare subito l’errore che aveva commesso.

“Tu sei… ehm, non ricordo il tuo nome… ma sei inglese vero?

“M-Matthew Williams… e-e sono canadese” Rispose con un filo di voce incrinato dal tremito.

Gilbert alzò entrambe le sopracciglia annuendo in segno di comprensione. Sulla sua testa Gilbird agirò le ali per tenersi in equilibrio.

“Ah canadese eh? Credevo inglese… sai, l’accento… M-ma a quanto pare hai fatto amicizia con il mio fantastico canarino!” Esclamò indicando il pennuto sulla sua testa.

Matthew sorrise a quelle parole guardando il canarino pulirsi alcune penne.
“O-oh si, è davvero così carino e simpatico! L’ho trovato mentre tornavo dal pozzo nero e non mi ha più lasciato”

“E’ un tipo con un caratterino molto particolare, ma non è abituato ad stare per troppo tempo fuori dalla sua gabbietta, sai? Probabilmente, se tu non lo avessi trovato, sarebbe morto nel giro di qualche minuto tra la neve che si è accumulata qui!”

Il canadese arrossì vistosamente a quelle parole che sembravano quasi un ringraziamento. Imbarazzato e rosso in volto, si inchinò velocemente all’albino e prese il secchio che ormai era diventato gelido al tatto e fece per andarsene.
Gilbert si allarmò, non voleva che se ne andasse, non voleva sprecare quest’occasione d’oro di poter stare in sua compagnia senza che occhi indiscreti lo fissassero e vedessero quanto poco professionale ed etico fosse.

“A-aspetta!” Ordinò con un tono più duro di quanto avesse voluto.

Matthew si fermò all’istante e si girò confuso.
Gilbert cercò di trovare qualche sciocchezza da dire senza che sembrasse davvero un pretesto per tenerlo lì ma non ne trovò nessuna che fosse vagamente intelligente. Il ragazzo biondo rimase a fissarlo in silenzio spostando il suo sguardo dal suo volto a Gilbird accoccolato tra i capelli.
Gilbert ebbe un’idea.

“S-sai, si chiama Gilbird!”
Va bene, forse era stata un’idea stupida, ma inaspettatamente Matthew reagì in modo positivo a quelle parole. Prese il secchio con entrambe le mani e si avvicinò nuovamente al tedesco oscillando.

“Un nome non molto fantasioso. Sembra ancora un pulcino, quanti anni ha?”

Gilbert sorrise. Matthew era diventato più audace e stava chiacchierando con lui con più spontaneità.
Ridendo con il suo tipico suono “kesesese” gli mise una mano sulla spalla e iniziò a parlare di quanto fosse impressionante la storia del suo canarino.

 

Rimasero a parlare di Gilbird e di altro per quelle che sembrarono ore intere, ma in realtà furono solo pochi minuti. Grazie a quei pochi minuti però Gilbert sentiva di aver creato una sorta di legame intimo con quel canadese. Gli aveva raccontato di come Gilbird era entrato nella sua vita, di come odiasse tutti gli altri umani tranne lui e di come era sorpreso che avesse accettato di così buon grado Matthew. Non sapeva nemmeno perché gli stesse raccontando tutte quelle cose ma era felice di farlo. Aveva scoperto in quei pochi mesi che trovava piacevole la compagnia del canadese anche se non aveva mai realmente scambiato parole con lui e sentiva che in sua presenza poteva essere sé stesso senza alcun timore di sentirsi sbagliato o disprezzato.
Da parte sua Matthew gli aveva raccontato di quella volta che voleva a tutti i costi adottare come animale domestico un orso polare visto allo zoo e la madre gli aveva regalato un orsetto di pezza per farlo contento. Aveva amato quel pupazzo come fosse davvero un essere vivente o un secondo fratello. Mentre raccontava quell’intimo aneddoto il suo volto era rosso dall’imbarazzo e Gilbert lo trovò davvero adorabile.

La loro conversazione fu interrotta da qualcuno che chiamava a gran voce Gilbert con un forte accento tedesco. L’albino riconobbe la voce del suo adorato fratellino Ludwig e subito rispose urlando qualcosa in tedesco.
Guardando il suo orologio da tasca e notando l’ora Gilbert lanciò un sorriso di scuse al canadese.

“È arrivata l’ora di andare, il mio fratellino mi cerca e tu devi iniziare a lavorare nella fabbrica. È stato un piacere chiacchierare con te, e so che lo è stato anche per te perché io sono fantastico!”

Ridendo iniziò ad allontanarsi verso dove aveva sentito il fratello chiamarlo. Era sicuro che Matthew lo stesse osservando con quel suo bel sorriso stampato sul volto, ma non si aspettò di sentire il ragazzo chiamarlo.

“A-ancora una cosa!” Esclamò sforzandosi come se stesse urlando quando in realtà stava parlando con un tono normale.
Gilbert lo guardò girando la testa curioso di sapere cosa lo spingesse ad avere così tanto coraggio.
Matthew sembrò prendere fiato varie volte, anche se sembrava più che stesse raccogliendo il coraggio, poi guardando i piedi di Gilbert senza avere il coraggio di incrociare il suo sguardo disse velocemente:

“Sei stato tu a lasciarmi gli occhiali nel letto?”

Gilbert rimase a fissarlo con uno sguardo indecifrabile, poi sbuffò e sorrise. Riprese a camminare verso il passaggio da cui era venuto senza dire una parola ma facendo un ampio gesto con la mano che non lasciava alcun dubbio.
Matthew sgranò gli occhi mentre sul suo volto si formava un ampio sorriso. Quando non vide più la figura pallida del tedesco si girò verso il dormitorio H3T4 e iniziò a correre a perdifiato ridendo come uno sciocco e cercando di scaricare tutta l’adrenalina che sentiva in corpo

 

Quella sera Gilbert sedeva alla scrivania del suo ufficio ripensando agli eventi della giornata. Dopo aver avuto quel momento intimo con Matthew aveva incontrato il fratello e avevano dovuto coordinare lo scarico dei rifornimenti che finalmente dopo quasi un mese di ritardo erano arrivati. Nonostante l’iniziale arrabbiatura che aveva provato nei suoi confronti, Gilbert aveva deciso di accordare a Roderich una quantità extra di orzo per ringraziarlo segretamente per avergli permesso, grazie al suo disgustoso gesto, di passare qualche momento da solo con Matthew. Roderich non aveva fatto domande e aveva accettato con entusiasmo l’orzo extra correndo subito nelle cucine per gustarsi una buona tazza di quella brodaglia.
Oltre ai rifornimenti erano arrivati sia diversi dispacci dai superiori dell’amministrazione del campo a cui Gilbert rispondeva sia alcune lettere personali dirette alle varie altre guardie. Gilbert aveva lasciato l’oneroso compito di leggere e rispondere ai dispacci per la sera, desideroso di non guastarsi la giornata che era iniziata in modo incantevole con le stronzate che pretendevano i suoi superiori: incremento della produttività, meno richieste di rifornimenti.
Ogni volta era la stessa storia.

Quella sera però non aveva in mente solo di rispondere per le rime ai superiori sottolineando quanto fossero fantasiose e irrealizzabili le loro richieste anche per un campo di concentramento. Gilbert stava pensando a Matthew.
L’incontro di quella mattina aveva spalancato una porta su un mondo del tutto nuovo e sconosciuto per Gilbert.
L’albino aveva passato tutto il giorno a fissare insistentemente il ragazzo, quasi a mangiarlo con gli occhi, notando con piacere che Matthew gli lanciava occhiate furtive e sorrisi quanto poteva. Ogni volta che il canadese notava di essere fissato arrossiva vistosamente e diventava più goffo del normale. Semplicemente adorabile.
Gilbert non si preoccupava di poter essere visto dal fratello. Aveva notato da tempo che Ludwig aveva occhi solo per l’italiano. Che avesse anche lui quel determinato tipo di interesse per quel ragazzo?
A quell’idea Gilbert aveva riso di gusto. Era impossibile che Ludwig potesse provare qualcosa del genere per qualcuno; Ludwig era tutto d’un pezzo, un uomo d’acciaio, sempre controllato e rigido, il perfetto ariano che nemmeno una bomba avrebbe smosso dalla sua posizione. Tutto il contrario di Gilbert che era sanguigno ed emotivo.

Quello che stava occupando la sua mente per tutto il giorno era un’idea tanto assurda quanto stupenda. Ormai era iniziato il nuovo anno, il 1945, ed era certo che la Seconda Guerra Mondiale era agli sgoccioli. Gilbert non sapeva di per certo se sarebbe finita con la vittoria della Germania e del Giappone contro tutto il mondo dopo la bruciante sconfitta che avevano ricevuto in Russia e dopo i territori persi in Italia, ma qualora avessero vinto aveva già in mente cosa chiedere come pagamento per i suoi servigi alla causa nazista.
La sua idea era quella di chiedere il permesso di avere la custodia di Matthew per poterlo rieducare secondo il modello ideologico ariano avendo lui caratteristiche idonee per la riqualificazione razziale. Era una scusa bella e buona per permettere di tirare fuori il ragazzo dall’aspirale senza fondo del lavoro forzato e dell’inferiorità razziale che lo avrebbe costretto a una vita di stenti, di soprusi e di dolore. Ma soprattutto era un modo per permettere a Gilbert di poter rimanere al fianco di Matthew, di poter convivere sotto lo stesso tetto, di avere una relazione che dall’esterno non sembrasse compromettente nonostante segretamente lo fosse. Gilbert avrebbe fatto di tutto per realizzare questo sogno, di tutto!

Ancora fantasticando su quanto sarebbe stata bella la loro vita insieme, Gilbert prese i dispacci e iniziò a ad aprire una per una le lettere e a leggerle attentamente.
La maggior parte erano lettere delle varie fabbriche di Berlino che confermavano che i prodotti del campo erano stati consegnati ai loro stabilimenti, roba poco importante, mentre due lettere erano firmate dall’amministrazione centrale del governo tedesco.

Gilbert si accigliò mentre apriva la prima frettolosamente con il suo tagliacarte, per poi rilassarsi quando vide che era una lettera di suo padre che era stata inviata tramite le sue conoscenze per accertarsi che fosse recapitata. La lettera era datata quasi alla fine di novembre e chiedeva come procedeva la gestione del campo, chiedeva se Ludwig si fosse ambientato bene, lodava entrambi i fratelli e informava che tra non molti mesi sarebbero arrivati altri treni merci carichi di nuova manodopera e spronava a liberarsi di quella vecchia e ormai poco produttiva.
Se tempo addietro questi discorsi lo esaltavano molto, ora come ora con il pensiero costantemente su Matthew l’idea di trattare i prigionieri come feccia, come meri oggetti da utilizzare e di cui disfarsi quando non erano più buoni iniziava ad essergli ripugnante.

“Accidenti, quasi non mi riconosco più!” Sussurrò tra sé mentre metteva da parte la lettera del padre per prendere l’altra.

Questa lettera, scritta con una grafia più elegante e ricercata, era firmata direttamente dai collaboratori del Fuhrer stesso. Gilbert intuì che doveva trattarsi di qualche comunicazione importante che era stata diramata a tutta la nazione e l’aprì con estrema delicatezza come se quei fogli di carta emanassero un’autorità propria.

In realtà era solo una pagina che diversamente dalla lettera era stampata a macchina e riportava poche righe. Gilbert si mise comodo sulla sua sedia di velluto e iniziò a leggere.

Dopo poche parole la sua bocca divenne completamente asciutta mentre le sue pupille si assottigliavano diventando piccole come teste di spillo e i suoi occhi si aprivano quasi uscendo dalle orbite. Lentamente la sua bocca si aprì dall’incredulità e le sue mani iniziarono a tremare violentemente.
Quando il suo sguardo alterato arrivò all’ultima parola la mano che reggeva il foglio ebbe uno spasmo improvviso facendolo cadere.
Volteggiando, il pezzo di carta finì sotto la scrivania.
Gilbert non si preoccupò di raccoglierlo tant’era sconvolto. Si portò una mano alla bocca mentre fissava il vuoto con uno sguardo che nemmeno un posseduto che stava per essere sottoposto ad esorcismo avrebbe potuto avere.

No, no, no ,no, no, no!

Gilbert sentì una fitta nel petto. Il suo cuore batteva in modo incontrollato facendogli quasi male e creandogli una sorta di blocco alla gola. O forse quello era colpa dell’ansia, non sapeva dire.
Non credeva a quello che aveva letto, era semplicemente impossibile. Sentì all’improvviso una violenta ondata di sudore freddo mentre la stanza iniziava a ballare davanti i suoi occhi a causa delle vertigini.
Era semplicemente impossibile.

No, no, no, no, no, NO!

Gilbert piantò con forza le mani sulla scrivania e si alzò di scatto rimanendo con lo sguardo fisso sulla superficie lucida del mobile. La sedia fu spinta violentemente indietro e cadde con un sonoro tondo a gambe all’aria, giacendo inerme sul freddo pavimento di pietra.
Aveva bisogno d’una boccata d’aria fredda, cazzo aveva bisogno di una fottutissima boccata d’aria fredda!

NO, NO, NO, NO, NO, NO!

Barcollando si avvicinò alla porta dell’ufficio dove si appoggiò allo stipite cercando di riprendersi. Era solo un incubo quello, era solo un fottutissimo incubo. Non poteva essere vero, non ora che aveva trovato un senso alla sua vita, non ora che aveva realizzato sé stesso, non ora che aveva trovato Matthew.
Lanciò uno sguardo storto verso la scrivania e lo vide, vide quel maledetto foglio di carta con quelle poche righe battute a macchina e firmate da uno scarabocchio in inchiostro nero.

Gilbert fu colto dalla nausea. Premendosi una mano sulla bocca iniziò a correre più veloce che poté nei corridoi dell’edificio. Si scontrò con Ludwig davanti la libreria facendolo quasi cadere. Probabilmente gli urlò qualcosa dietro ma Gilbert era così sconvolto da non prestare attenzione a nulla. Uscì fuori dal dormitorio e cominciò a correre senza meta nella neve con solo indosso la camicia e il pantalone della divisa e un paio di pantofole.

 

Nell’ufficio ormai vuoto, affianco alla sedia accasciata su un fianco e abbandonata a sé stessa giaceva ancora il comunicato del governo che era arrivato quella stessa mattina:

 

Comunicato di massima priorità.
Si comunica a suddetto campo di concentramento collocato in territorio prussiano sottoposto all’amministrazione e gestione di Gilbert Beilschmidt dell’avvistamento dell’Armata Rossa in territorio polacco dirigersi verso i territori tedeschi. Pertanto viene ordinato dall’onorevole Fuhrer a suddetto campo di concentramento collocato sulla traiettoria perseguita dal nemico di occultare ogni documento sensibile riguardo il governo e i progetti di produzione bellica, di procedere con la pulizia etnica eliminando ogni testimone e di abbandonare la postazione ripiegando nella capitale.
        

                                                                                                                                            Data:

                                                                                                                                   13 dicembre 1944






Note dell'autore:
Salve a tutti :D
Eccomi qui a scusarmi nuovamente del ritardo della pubblicazione -_-' 
Purtroppo ho avuto importanti impegni nel real che mi hanno portato a non poter scrivere con frequenza questo capitolo che insieme a quello precedente sugli alleati ritengo chiave in questa ff.
Infatti possiamo ritenere il capitolo degli alleati come uno spartiacque tra i primi capitoli che sono di presentazione dei personaggi, del luogo, delle relazioni ecc. e il blocco di capitoli che inizia con questo dove si affrontano temi più seri e importanti nella storia. Spero che questo cambiamento non vi dispiaccia perché... effettivamente questo è un campo di concentramento non una colonia estiva x'D E per citare un film recensito da Yotobi "E' finito il tempo delle mele P*****a!"
Le date non sono messe a caso ma sono calcolare, non preoccupatevi, non ci sono errori cronologici x'D
Inoltre in questo capitolo c'è una fortissima citazione a una fonte su cui mi sto basando moltissimo e che ritendo bellissima, spero che riusciate ad individuarla!
Detto ciò... a presto :D E spero che questa volta sia davvero presto x'D

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Capitolo 9
*** Il crollo ***


Ludwig fu avvolto dall’aria gelida carica di fiocchi di neve appena aprì la porta dell’edificio. Sulla neve erano rimaste le impronte che il fratello aveva lasciato correndo fuori senza alcun apparente motivo.
Ludwig si strofinò il braccio dove Gilbert lo aveva urtato violentemente e fatto quasi perdere l’equilibrio; non si era scusato né si era fermato ad aiutarlo, aveva semplicemente continuato a correre come un pazzo. Il ragazzo biondo non sapeva davvero cosa pensare, ma una cosa era certa, non aveva mai visto suo fratello in quello stato di agitazione.
Questo lo preoccupava.

Alzò il bavero del cappotto con le mani guantate mentre seguiva le orme del fratello tra i fiocchi di neve che cadevano incessantemente. In realtà Gilbert non si era allontanato molto e Ludwig lo trovò appoggiato contro un muro dietro un edificio vuoto.
Era davvero in pessime condizioni.

L’albino aveva smosso tutta la neve intorno a sé come se fosse caduto nel punto in cui Ludwig lo aveva trovato e si poggiava al muro con le mani mentre vomitava.
Ludwig distolse lo sguardo disgustato per non vedere la cena che avevano assaporato qualche ora prima rigettata tra la neve e si schiarì la voce per farsi notare dal fratello.

“Hai… hai mangiato qualcosa che ti ha fatto male?” Chiese prudentemente.

Gilbert ebbe un altro conato di vomito, poi tossì pesantemente e cercò di raddrizzarsi pulendosi la bocca con una manica. Il gesto disgustò ancor di più il ragazzo che sentì il suo stomaco rivoltarsi.

“No, no… non è stato il cibo… non è stato lui…”

Lo sguardo del ragazzo dai capelli argentei era sgranato e lucido.
Ludwig riusciva a distinguere soltanto gli occhi e i capelli del volto del fratello in quanto si confondeva alla neve tant’era pallido.
Gilbert sosteneva che non era stato il cibo, ma allora cosa aveva potuto ridurre così un uomo dal carattere forte, arrogante ed esuberante come il suo?

Ludwig rimuginò sulla questione mentre guardava dubbioso il fratello cercare di ricomporsi e fare qualche passo. Gilbert però non si era ancora del tutto ripreso dallo shock e barcollò pesantemente sulle proprie gambe finendo in ginocchio nella neve. Subito il fratello gli fu vicino ad assisterlo.
L’amministratore del campo tremava come una foglia al freddo invernale e le sue labbra cominciavano a perdere colore. Ludwig cercò di rimetterlo in piedi ed aiutarlo a camminare fino alla sua stanza.

“Cos’è successo Gilbert? Non ti ho mai visto così prima d’ora!” Disse cercando di camuffare il tono preoccupato della sua voce senza riuscirci bene. Era vero che non lo sopportava, ma era pur sempre suo fratello maggiore, era stato cresciuto da lui e gli era stato accanto nel bene e nel male. Ludwig non poteva dire di provare soltanto sentimenti negativi nei suoi confronti.

“Una catastrofe…” Rispose con voce alterata l’albino.

I piedi sprofondavano nella neve ormai alta quasi trenta centimetri come coltelli nel burro. Ludwig era rimasto senza parole nel sentire la risposta del fratello e sentì la sua preoccupazione aumentare. Rimase in silenzio per tutto il tragitto finché non arrivarono alla porta dell’edificio delle guardie. Una volta entrati il suo sguardo si posò sulla libreria nel corridoio dove Gilbert lo aveva mandato quasi a gambe all’aria e gli venne un’intuizione.
Le lettere.
Deglutì nervosamente iniziando a temere la notizia che aveva ridotto suo fratello così.

Lentamente la tensione nel corpo di Gilbert lasciò il posto alla debolezza e al languore. Cercò di camminare da solo e non appoggiarsi a suo fratello ma le sue gambe non rispondevano bene ai suoi comandi.
Quando Ludwig stava per imboccare le scale che portavano alle camere private delle varie guardie Gilbert lo fermò e gli indicò invece la porta del suo studio.
Ludwig capì al volo che la questione era così urgente da dover essere discussa immediatamente.

Una volta dentro l’ufficio Ludwig rimase interdetto dal disordine. In realtà non era una stanza disordinata ma semplicemente non sembrava l’ufficio del perfetto Gilbert che aveva la mania di ordinare e pulire ogni singolo centimetro quadrato. La sedia della scrivania giaceva dimenticata su un fianco sul pavimento mentre la stufa a legna che riscaldava la stanza era ormai quasi spenta. Sulla scrivania diverse lettere erano accatastate in un angolo mentre un foglio spiegazzato e la sua busta da lettere occupavano il centro del mobile.
Alla vista della lettera sulla scrivania Gilbert aggrottò le sopracciglia, ma non disse nulla.

Velocemente il ragazzo si staccò dal fratello e andò alla scrivania dove prese il foglio abusato.
Anche se la tensione era svanita lasciando il posto alla debolezza fisica la mente di Gilbert era un caos totale. Non riusciva a pensare a qualcosa di coerente, non riusciva a trovare una soluzione o almeno a far chiarezza sulla vicenda per cercare di organizzare un piano alternativo.
L’unica cosa che riusciva a pensare era che volevano ammazzare Matthew.

“Questa è una lettera arrivata direttamente dal governo tedesco” Disse con voce tremante. Ludwig si avvicinò alla scrivania concentrandosi sul fratello e sulla lettera.

Gilbert si prese qualche istante per cercare di riordinare le idee. Ludwig doveva assolutamente sapere di quell’ordine, in realtà tutti dovevano saperlo per poter organizzare in modo rapido la ritirata nel territorio sicuro. Ludwig inoltre sarebbe stato d’accordo con lui sul non abbandonare i prigionieri e fare in modo di salvarli in qualunque modo anche se questo avrebbe significato disobbedire a un ordine diretto dei loro superiori. Ma come avrebbe spiegato a suo fratello questo improvviso interesse per persone che pochi mesi prima reputava oggetti di scarso valore con cui poter giocare liberamente?
Gilbert non si sentiva ancora pronto ad ammettere il suo interesse nei confronti di Matthew a qualcuno, soprattutto se quel qualcuno era suo fratello, una persona rigida che quasi non provava sentimenti.

Lo sguardo di ghiaccio del fratello gli stava perforando il corpo mettendogli ansia e facendolo sentire sotto pressione. Infine iniziò a parlare senza riflettere.

“Il governo ci informa che i russi stanno penetrando nel territorio tedesco e che dobbiamo abbandonare il campo di concentramento immediatamente”

“Cosa? I russi? Non è possibile, loro… No, non posso crederci…”” Esclamò Ludwig perdendo la sua tipica compostezza.
Quella era una notizia sconvolgente. Nessuno si sarebbe aspettato un contrattacco dei russi nel cuore del territorio tedesco. Questo significava che avevano i minuti contati, che dovevano lasciare immediatamente quei luoghi perché se fossero stati trovati dall’Armata Rossa sarebbero stati con ogni probabilità fucilati a vista.
Ma questo significava anche altri moltissimi problemi collaterali.
Ludwig sentì una scossa di puro terrore percorrergli tutta la colonna vertebrale.

“E i prigionieri? Cosa ne facciamo dei prigionieri?”

Gilbert si aspettava quella domanda ma non aveva una risposta da dare. Non sapeva davvero cosa fare, era una situazione molto delicata, molto ostica e così improvvisa...
Inoltre in quel momento non poteva certo definirsi lucido.

“Loro non possono rimanere qui, loro… loro verranno sicuramente uccisi. I russi non hanno pietà di nessuno”

Gilbert notò con stupore che suo fratello si stava agitando. L’uomo dall’aspetto puramente ariano che aveva sempre controllato in modo impeccabile le sue emozioni si stava sgretolando velocemente davanti i suoi occhi lasciando il posto all’incertezza e alla paura.
Gilbert non sapeva spiegarselo. Forse Ludwig aveva paura dell’arrivo dell’Armata Rossa e di tutto quello che ne sarebbe conseguito, forse non voleva rischiare di essere ucciso o di diventare prigioniero dei russi. Quest’idea però era del tutto sbagliata perché Ludwig non aveva mai mostrato di temere il fronte o qualsiasi scontro con il nemico, di qualunque genere.
Allora cos’era che stava spaventando così tanto suo fratello?

L’albino guardò il fratello negli occhi. Il suo sguardo era sgranato e terrorizzato, con un alone di ansia e apprensione che offuscava quel bel azzurro ghiaccio. A Gilbert ricordò il suo sguardo quando lo intravide nel riflesso del legno della sua scrivania nel momento in cui aveva appena letto la lettera.
Un’intuizione lo colpì come un fulmine e quasi lo lasciò senza fiato.
L’italiano.
Non poteva crederci. Era semplicemente ridicolo. Tutta quella faccenda era ridicola.

“Dobbiamo fare qualcosa Gilbert, non possiamo abbandonarli qui. Li condanneremo a morte certa! Loro devono essere aiutati, non ce la faranno da soli, non hanno cibo a sufficienza, non sanno nemmeno dove andare e sono fisicamente deboli. Lo so che sono soltanto dei prigionieri, però io non posso abbandonarlo…!”

Ludwig interruppe di colpo la sua filippica sconvolto. Rimase a bocca aperta a fissare suo fratello con uno sguardo colpevole.
Gilbert rimase in silenzio per un istante a squadrare il volto del fratello. Non aveva mai visto Ludwig appassionarsi così tanto per qualcosa, in realtà non aveva mai visto il fratello esprimere alcun tipo di sentimento che non fosse rabbia o fastidio. Eppure quel lapsus aveva confermato le sue ipotesi e smascherato i suoi veri sentimenti.
L’albino sentì un forte sentimento di simpatia diffondersi nel petto. Ludwig era il suo fratellino e il compito di ogni fratello maggiore era quello di proteggere il proprio fratellino e renderlo felice. Inoltre sembrava che entrambi tenessero a determinate persone che volevano assolutamente proteggere.

Piegando il foglio su sé stesso Gilbert riacquistò in parte la sua tipica sicurezza sfrontata e guardò il fratello dritto negli occhi con uno sguardo serio.

“Loro verranno con noi. L’ordine è di sgomberare il campo di tutti i documenti compromettenti e di tutti i prigionieri prima che arrivino i russi. Non so che fine faranno i prigionieri una volta arrivati in Germania, ma comunque non verranno abbandonati qui”

Ecco, era fatta.
Insubordinazione e alto tradimento.
Era nei guai fino al collo.
Ma vedere il volto di suo fratello rilassarsi dal sollievo valeva tutto questo.

Secondo la più grande menzogna che avesse mai detto nella sua vita i prigionieri avrebbero lasciato il campo con loro. Questo significava organizzare una grande deportazione di massa dal campo prussiano, dove si trovavano, ai territori tedeschi cercando di risparmiare tempo, di trovare le vettovaglie per la maggior parte di loro e di sperare che i fisici debilitati di quelle povere anime reggessero lo sforzo di quell’esodo.
Sembrava impossibile ma dovevano farlo, solo così si sarebbero potuti salvare tutti.

Ludwig, ormai ritornato il ragazzo stoico di sempre, annuì con uno sguardo serio.
“Come ci organizzeremo? Stando alla lettera non sappiamo dove sono i russi ed è possibile che abbiamo poco tempo ormai”

Gilbert annuì a sua volta pensieroso.
“Domani raduneremo tutte le guardie del campo e prepareremo le squadre d’azione per organizzare la partenza sia di guardie che di prigionieri. Dobbiamo assolutamente recuperare più cibo possibile e dobbiamo eliminare tutte le prove della permanenza dei prigionieri qui”

Piegò ulteriormente la lettera, poi si girò a sistemare la sedia e le lettere che erano state ignorate fino a quel momento.

“La lettera mi ha colto davvero di sorpresa, sto ancora cercando di elaborare il suo contenuto”
In effetti era vero, ancora non si capacitava che una cosa simile stesse accadendo proprio in quel momento e proprio a lui.
Ludwig non rispose e per alcuni istanti l’unico rumore nella stanza era il vento carico di neve che ululava fuori dalla finestra chiusa.
Gilbert era assorto nel riordinare le carte già ordinate della sua scrivania. Non sapeva più cosa dire al fratello per non cadere in trappola e smascherare la sua bugia e stava sperando con tutto il suo cuore che lo lasciasse solo.
Infine Ludwig sospirò e si passò la mano tra i capelli biondi.

“Dicono che la notte porti consiglio. Credo che il riposo ci aiuterà a trovare delle soluzioni a questo problema. Buonanotte Gilbert” E senza aggiungere altro o aspettare la risposta del fratello lasciò la stanza chiudendosi alle spalle la porta.

Appena rimasto solo Gilbert agguantò con forza il pezzo di carta piegato e alzandosi si avvicinò alla stufa quasi spenta. Doveva assolutamente disfarsi di quella lettera, non poteva rischiare di essere scoperto dalle altre guardie, lo avrebbero additato come traditore e ucciso sul momento. Prendendo un attizzatoio dal gancio, aprì lo sportello della stufa e attizzando i carboni ormai quasi morti buttò la lettera tra di loro.

Osservò il fuoco mangiare la carta fino a quando non ne rimase che cenere. Gilbert non sapeva spiegarsi il perché ma sentiva che il fuoco non aveva bruciato soltanto quel maledetto pezzo di carta ma anche una parte di sé stesso.
Imputò quella sciocca sensazione alla stanchezza.

 

La mattina dopo Ludwig si trovava affianco a suo fratello davanti la schiera di guardie ordinata in file perfette. Lui e Gilbert erano saliti su un piccolo palchetto che si trovava nello spiazzale principale del campo dove di solito venivano comunicate le notizie più importanti, come in quel giorno.
Ludwig si sentì tutti gli occhi puntati addosso finché il fratello non cominciò a parlare a gran voce al pubblico.

“Signori, stamattina vi ho convocato qui prima dei lavori quotidiani per una comunicazione urgente e di vitale importanza” Fece una pausa d’effetto lasciando che il suo sguardo vagasse su tutti i soldati che in silenzio ascoltavano le sue parole “Con l’ultimo approvvigionamento è arrivata una comunicazione firmata dal portavoce del Fuhrer”

Si alzò un leggero mormorio. I soldati cominciarono a scambiarsi parole a bassa voce guardandosi gli uni con gli altri con apprensione. Le comunicazioni che arrivavano direttamente dal portavoce del Fuhrer non erano mai un buon segno e spesso non portavano buone notizie.
Ludwig guardò Gilbert che con un gesto azzittì il mormorio. Era sempre stato una persona carismatica, che riusciva ad essere al centro dell’attenzione con grande abilità e non voleva perdersi la possibilità di poterlo osservare da vicino. Non lo avrebbe mai ammesso, ma ammirava alcuni aspetti di suo fratello.

“La lettera comunica l’avvistamento dell’armata russa in territorio polacco” Si levò un forte brusio che Gilbert tentò di calmare con un altro gesto “Silenzio! L’armata russa sta marciando verso di noi. Non possiamo più rimanere qui, dobbiamo sgomberare il campo immediatamente!”

Il brusio divenne in poco tempo un vociare confuso. Le guardie persero la loro disciplina e iniziarono a esclamare, parlare, urlare tutte insieme verso Gilbert e verso gli altri.
Gilbert si aspettava una reazione simile, lui stesso ne aveva avuta una ancora più forte. Forse anche tra di loro c’era qualcuno che si era affezionato a qualche prigioniero e non voleva accettare questa situazione, ma Gilbert era contento di poterlo rassicurare con lei sue prossime parole.
Prese un profondo respiro che attirò l’attenzione di Ludwig, che nel mentre si era girato ad osservare la confusione generale delle guardie, e prendendo coraggio per quello che avrebbe dovuto dire, continuò il discorso.

“Silenzio! Abbiamo poco tempo e non possiamo sprecarlo così! Abbiamo l’ordine di eliminare ogni prova di produzione bellica e di presenza sia nostra sia dei prigionieri. Ogni documento e oggetto dev’essere distrutto. Inoltre ci è stato chiesto di trasferire i prigionieri nel territorio tedesco in vista di un nuovo smistamento nei campi di concentramento”

Ecco, era fatta.
Le guardie cercarono di ricomporsi e di ascoltare tutti i dettagli dell’organizzazione dei giorni rimanenti prima della partenza. Ludwig aveva avuto ragione, la notte aveva portato consiglio.
Le guardie furono assegnate a dei gruppi di lavoro composti dai prigionieri di ogni dormitorio. Il loro compito era di sorvegliarli e guidarli nei vari lavori che gli sarebbero stati affidati. Un gruppo di lavoro avrebbe procurato le vettovaglie sia dalle rimanenze in cucina sia dai campi circostanti; un altro avrebbe smantellato tutti i dormitori bruciando tutti i loro contenuti; un altro ancora si sarebbe occupato delle fabbriche mentre un quarto avrebbe cercato di recuperare tutti i mezzi di trasporto disponibili nel campo cercando di aggiustare quelli fuori uso (quasi impossibile ma bisognava provare).
Il medico del campo aveva il compito di rendere i malati in grado di affrontare il viaggio sui veicoli e sulle barelle. Nessun prigioniero sarebbe stato ucciso o lasciato indietro.

Quella notizia portò non poca confusione tra le guardie.
In tutto il trambusto che si era creato con quel discorso soltanto Roderich non aveva dato alcun segno di stupore o di panico. Si limitò ad osservare insistentemente Gilbert in silenzio e con un’espressione indecifrabile.

Dopo aver smistato le varie guardie ai loro nuovi gruppi Gilbert annunciò la fine della riunione e inviò le guardie a lavoro. Scendendo dal palco, Ludwig vide dei piccoli fiocchi di neve scendere dal cielo nuvoloso.

“Ancora neve? Accidenti quest’anno ha nevicato più del solito!” Esclamò l’albino affondando gli stivali nella neve.
Ludwig guardò i tetti degli edifici carichi della soffice sostanza bianca con preoccupazione.

“Spero solo che non diventi un problema per la nostra partenza” Pensò mentre seguiva il fratello.

 

Feliks si svegliò di scatto con il cuore in gola. Non aveva sentito nessun urlo in tedesco e questo lo preoccupava. Temendo di essere rimasto addormentato nonostante la sveglia delle guardie, si precipitò fuori la cuccetta per mettersi le scarpe temendo una punizione da Gilbert, svegliando in malo modo il suo compagno di cuccetta. Solo dopo essersi messo le scarpe si accorse che i prigionieri erano ancora tutti nelle loro cuccette, alcuni svegli a guardarsi intorno con uno sguardo confuso come il suo, altri come Feliciano che dormivano ancora beatamente.

Feliks si avvicinò alla cuccetta di Francis che intanto si era messo a sedere.

“Cosa succede?”

“Non saprei dirtelo, oggi i nostri secondini sono in ritardo!”

“Forse oggi non si lavora?” Chiese Toris raggiungendoli.

“Ma non dire stupidaggini, Toris! Però non è normale che non sono ancora venuti a svegliarci” Rispose Feliks pensieroso.

Mentre discutevano a bassa voce di quanto fosse strana quella situazione improvvisamente la porta del dormitorio fu aperta lasciando entrare un forte vento carico di fiocchi di neve che fece rabbrividire tutti.

“Fuori feccia maledetta!”

Feliks e Francis si scambiarono uno sguardo confuso. Le guardie erano infine arrivate a chiamarli per il lavoro, ma non erano né Ludwig né quel demonio di Gilbert. Era invece una guardia quasi sconosciuta che avevano visto sporadicamente in giro o durante le grandi riunioni del campo.
Molto strano.

Velocemente i prigionieri si sistemarono e uscirono nel freddo invernale. Molti si stringevano le braccia al corpo per cercare di scaldarsi senza molto risultato. Francis rimase indietro come sempre per cercare di svegliare Feliciano, che incredibilmente quel giorno si alzò quasi subito.

Una volta fuori la guardia li fece mettere in fila e iniziò a parlare. Gli fu spiegato che da lì a poco avrebbero dovuto lasciare il campo senza alcuna motivazione valida e che i dormitori erano stati assegnati a nuovi lavori speciali. Il dormitorio H3T4 era stato assegnato alla raccolta di tutto ciò che era commestibile nei campi adiacenti al perimetro del campo di concentramento.

A quelle parole Feliks ebbe un brivido lungo tutta la schiena e sbiancò visibilmente. Aveva sentito molte storie riguardo i finti viaggi che i prigionieri erano costretti a fare. Viaggi che in realtà erano soltanto biglietti diretti per le camere a gas.
Quei bastardi volevano farli tutti fuori.

Si girò cercando con lo sguardo Francis, uno dei pochi che poteva sapere una cosa del genere essendo un veterano come lui. Anche il francese era sbiancato visibilmente ma cercava di camuffare il suo panico con un atteggiamento più spontaneo possibile. Feliks invidiò il suo sangue freddo, lui se la stava facendo letteralmente sotto.

Dopo aver finito il suo sermone la guardia, armata di manganello, li costrinse a marciare verso l’uscita secondaria del perimetro recintato per raggiungere i campi ormai sepolti dalla neve e dal ghiaccio.
Feliks sospirò sconsolato. Non gli avevano dato nemmeno una zappa, un forcone o un bastone per smuovere la neve e la terra, avrebbero dovuto scavare a mani nude per fare un buco nell’acqua.
Cosa poteva mai crescere sotto trenta centimetri di neve?

 

Ludwig alitò sulle mani sfregandole velocemente. Quella notte era veramente gelida e il soldato biondo non vedeva l’ora di entrare nella sua stanza dove una stufa scoppiettante lo stava aspettando per riscaldarlo. Si rimise in fretta i guanti neri della divisa cercando di non disperdere tutto il calore.
Maledetto posto dimenticato da Dio.

Ludwig camminava a grandi falciate nella coltre di neve altissima. Nell’organizzazione dei nuovi gruppi di lavoro era stato assegnato al gruppo che si occupava del recupero dei veicoli e aveva passato tutto il giorno a controllare e a volte anche aiutare i prigionieri di un dormitorio a smontare e rimontare vecchie ferraglie a quattro ruote. Ludwig si sentiva ancora l’odore nauseabondo addosso di grasso e olio per macchina.

“Spero davvero che ci sia ancora dell’acqua calda per farsi una doccia”

Piccoli fiocchi di neve si posavano sulle spalle e sul cappello del ragazzo mentre cercava di proteggersi dal fortissimo vento che gli bruciava la pelle e gli occhi. Intorno agli edifici era buio pesto e c’erano pochissime luci che sporgendo dai muri illuminavano oscillando pericolosamente al vento piccole sezioni di strada.
Nell’aria c’era un’atmosfera quasi lugubre e Ludwig sentì nascere dentro di sé un’ondata di ansia.

Lasciò la strada principale del campo per raggiungere gli alloggi delle guardie, ma appena imboccò il vicolo si fermò sul posto. Vicino la recinzione, sotto una lampada che ondeggiava al vento c’era una figura nera immobile.
A Ludwig vennero in mente tutti quei racconti paurosi che il suo stupido fratello gli raccontava da piccolo quelle sere in cui i genitori non c’erano per spaventarlo e costringerlo a notti insonni e a chiedere di dormire con lui. Sentì un brivido lungo il corpo e l’adrenalina aumentare spaventosamente.
Chi era? Cosa stava facendo lì a quell’ora della sera?

Poi improvvisamente sentì una voce melodiosa che a tratti arrivava alle sue orecchie trasportata dal vento. Quella voce cantava una melodia molto lenta che suscitava tristezza e angoscia.
Ludwig percepì soltanto due o tre parole, ma non ebbe dubbi a riguardo.
Una canzone italiana.

Si avvicinò lentamente al ragazzo cercando di essere più discreto possibile ma la neve scricchiolava rumorosamente sotto i suoi stivali di pelle. Quando si avvicinò abbastanza per distinguere i dettagli della figura Feliciano smise di cantare, ma non si girò per guardarlo. Se ne stava immobile a guardare l’oscurità oltre la recinsione aspettando che il ragazzo lo raggiungesse.

“Cosa ci fai qui?” Chiese Ludwig più dolcemente possibile, ma le sue parole uscirono così dure che nemmeno il vento riuscì a smorzare.

Feliciano non rispose subito. Nuvolette calde volavano via dal suo volto e Ludwig notò con dispiacere che il suo corpo magro e provato tremava come una foglia per il freddo.

“Ve, s-sto cantando…”

“Ho sentito, una bella canzone. Però non dovresti essere qui a quest’ora, c’è il coprifuoco. E poi fa freddo, potresti ammalarti seriamente se rimani qui fuori con solo quei panni addosso” Ludwig arrossì leggermente “Vieni con me, ti accompagno al tuo dormitorio”

“Aspetta… volevo almeno finire la canzone”

Ludwig rimase interdetto a quelle parole. Feliciano stava seriamente rischiando di prendere una polmonite o qualcosa di peggio soltanto per cantare all’aperto?
Il ragazzo bruno tirò su con il naso, poi finalmente si girò a guardarlo.

“Sto dicendo addio a mio fratello” Disse mentre le lacrime gli rigavano il volto bruciato dal freddo.

Ludwig rimase a bocca aperta tant’era sconvolto. Gli occhi di Feliciano erano rossi e gonfi di lacrime e le sue labbra di un colore bluastro. Il suo naso era rosso e colava mentre le sue guance erano graffiate dal vento. Ludwig non sapeva cosa fare, Feliciano stava piangendo davanti a lui.

L’italiano tirò nuovamente su con il naso e si asciugò le guance bagnate con il dorso della mano.
“Stamattina… ci hanno detto che dobbiamo fare un viaggio, non si sa dove… ve, ma noi sappiamo dove… tutti lo sanno…”

Ludwig non riusciva a capire di cosa stesse parlando. Quella mattina Gilbert era stato così chiaro riguardo all’ordinanza, nessuno sarebbe stato lasciato indietro oppure ucciso. Ma allora perché Feliciano stava piangendo e agendo in modo così strano?

“Ve, voi… voi volete mandarci nelle camere a gas, vero? E’ per questo che ci sono tutti questi preparativi, volete ucciderci”

“C-cosa?” Riuscì a dire la guardia sgomenta. Cosa diavolo stava farneticando quell’italiano così tutt’un tratto?
Ludwig stentava quasi a riconoscerlo. Feliciano era stato sempre una persona molto allegra e spensierata, sbadata e anche piagnucolona, si, ma non aveva mai mostrato quell’atteggiamento prima d’ora.

“Voglio dare a mio fratello, ovunque egli sia, il mio ultimo saluto… perché lo so, in un modo o nell’altro non uscirò vivo da qui!”
Feliciano mantenne il suo sguardo fisso in quello del biondo nonostante i suoi occhi si riempivano nuovamente di lacrime e il suo corpo veniva scosso dai singhiozzi.

Ludwig scosse la testa a quelle parole. Si rifiutò di accettare la visione di Feliciano sconvolto dal pianto.
Questo era troppo.
Con pochi passi accorciò la distanza che li separavano e avvolse il fragile corpo del prigioniero in uno stretto abbraccio. Feliciano sgranò gli occhi per la sorpresa mentre il suo volto affondava nella spalla del soldato.
Ludwig lo strinse forte a sé senza dire nulla per alcuni interminabili istanti in cui il suo cuore minacciava di uscire dal suo petto, poi sospirò lentamente e strinse ancor di più il ragazzo a sé.

“Non dire stronzate, Feliciano. Non permetterò che ti uccidano, non permetterò nemmeno che ti tocchino. Farò tutto il possibile per proteggerti. Tu rivedrai tuo fratello” E velocemente gli spiegò dell’ordinanza ricevuta la sera prima.

Nella sua mente un crogiolo di voci urlavano contemporaneamente. Alcune lo accusavano di essere diventato pazzo, di agire senza pensare, di compiere la più grande sciocchezza che potesse mai fare, altre invece urlavano disperate temendo le conseguenze di quel gesto. Una su tutte però faceva valere il suo suono riuscendo a coprire tutte le altre.
Era la voce che urlava il sentimento che provava per Feliciano.

L’italiano non rispose. Rimase immobile nelle braccia ben allenate del biondo per alcuni istanti, poi fece per allontanarsi quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi. I suoi occhi erano ancora grandi, acquosi e rossi per il pianto, ma i suoi lineamenti si erano ammorbiditi e un piccolo sorriso iniziava a nascere sul suo volto. Ludwig rimase incantato da quello sguardo così dolce, notando anche come le guance cotte dal freddo iniziavano a colorirsi per altri motivi.
Infine l’italiano sorrise:

“Ve… sei così caldo”

Ludwig si chinò verso il ragazzo. Le sue labbra incontrarono quelle fredde e livide del ragazzo e per pochi istanti che sembrarono un’eternità i due si scambiarono un casto bacio.
Quando Ludwig si allontanò l’imbarazzo fu così grande che distolse lo sguardo arrossendo vistosamente.

“S-scusami, io non volevo, io…”

“Ve! Non scusarti, in realtà… mi piaci dalla prima volta che ti ho visto alla stazione”

Ludwig tornò a guardare Feliciano incredulo. L’italiano aveva un sorriso genuino sul volto e lo guardava dolcemente. Ludwig era sconcertato dalla schiettezza del ragazzo. Aveva sentito parlare della totale assenza di pudore e di vergogna degli italiani, ma non credeva che ciò arrivasse a tanto. Nonostante ciò non poté fare a meno di sorridere.

“Una guardia e un prigioniero che si innamorano… non ti sembra comica come cosa?

“Si, si lo è” Rispose Ludwig sorridendo amaramente.

“Mi basta sapere i tuoi sentimenti. Sapevo fin dall’inizio che era impossibile come cosa, ma… ve, mi basta sapere che i miei sentimenti sono corrisposti!”

Ludwig appoggiò la fronte su quella di Feliciano.

“Si, lo sono… ma non possiamo…”

“Ve, so anche questo, non sono stupido-“

Improvvisamente Feliciano starnutì violentemente. Il suo corpo tremava come una foglia tra le braccia del biondo. Ludwig scompigliò i suoi capelli bruni con la sua mano guantata.

“Avanti, andiamo al tuo dormitorio prima che ti ammali sul serio”

“No aspetta!” Feliciano tirò la mano di Ludwig quando questo fece per allontanarsi “Posso… posso avere altri di quei baci?”

“Adesso?”

“Anche domani, o il giorno dopo. Ve, io vorrei poterti stare sempre vicino, e ora che so quello che provi lo vorrei ancora di più!”

Ludwig rimase a pensare per qualche istante, poi sorrise al ragazzo bruno.

“Vediamoci domani sera in questo stesso posto. Cerca di non farti vedere da nessuno. Va bene?”

Feliciano lo raggiunse e, in punta di piedi, gli diede un piccolo bacio sulle labbra.
“Si”

Ludwig si sentiva agitatissimo. Aveva appena baciato e confessato i suoi sentimenti a un prigioniero e invece di sentirsi sbagliato si sentiva incredibilmente bene. Sperava davvero di poter iniziare una relazione con Feliciano, anche se clandestina, e segretamente sperava anche di imparare presto a baciare e a fare altre cose che aveva letto in alcuni libri ormai censurati. Ma soprattutto sperava di poter riscattare la libertà di Feliciano una volta che avrebbero raggiunto la Germania.
Ma per ora doveva riportarlo al suo dormitorio.

 

Quella notte Toris si svegliò di soprassalto in preda ai sudori freddi. Cercando di calmare il battito accelerato del suo cuore si sedette e iniziò a respirare lentamente cercando di non pensare all’ennesimo incubo che aveva appena sognato. La storia delle camere a gas lo aveva turbato moltissimo, ma si sentiva più tranquillo dopo aver parlato con Feliciano. Il ragazzo sembrava incredibilmente sicuro che i loro secondini non stessero tramando per la loro morte.

La luce della luna penetrava debolmente dalle finestre ostacolata dalle nuvole sospinte dal forte vento invernale, lasciando l’interno dell’edificio quasi al buio totale.
Da fuori arrivava il parlottare di due persone. A Toris sembrarono la voce dal forte accento tedesco della guardia di turno e la soave voce francese di Francis.
Affianco a sé sentì il corpo di Feliks agitarsi.

“Toris! Toris, stai bene?” Sussurrò il polacco.

“Si… scusami se ti ho svegliato… di nuovo”

Feliks si girò sulla schiena e poco dopo si mise a sedere lanciando un sorriso al suo compagno di cuccetta.

“Non preoccuparti, in realtà non riuscivo a dormire nemmeno io. Sono preoccupato per questa storia della partenza. Le chiacchiere di Feliciano non mi hanno convinto!”

Feliks iniziò a parlare senza sosta delle sue sensazioni e dei suoi pensieri riguardo la notizia che avevano ricevuto quella mattinata e riguardo la fatica che aveva provato nel lavorare nei campi innevati, lamentandosi per le mani rovinate dal freddo e per il poco cibo che avevano trovato. Toris ascoltò pazientemente la sua filippica abbozzando un tenero sorriso, poi quando Feliks finalmente finì sorrise dolcemente.

“Grazie Feliks”

“Di niente! Ma per che cosa?”

“Grazie a te ho dimenticato l’incubo che mi ha svegliato. Sono contento che siamo compagni di cuccetta!”

Feliks rimase senza parole. Abbozzò un sorriso al suo compagno, poi lo abbracciò.

“Sai, ho sempre voluto avere un fratello, invece sono figlio unico. Quando penso a un ipotetico fratello però lo immagino sempre uguale a te!”

Toris ricambiò l’abbraccio con forza mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime.

“Grazie Feliks, grazie di starmi vicino. Senza di te probabilmente sarei già morto!”

“E’ probabile. Non preoccuparti Toris, noi sopravvivremo”

Toris stava per rispondere che si, sarebbero sopravvissuti e che quando sarebbero tornati a casa avrebbe invitato Feliks a cena da lui quando un forte rumore rimbombò in tutto il dormitorio seguito dal buio più totale.
L’ultima cosa che Toris percepì fu le urla terrorizzate dei prigionieri nelle altre cuccette.

 

Gilbert si alzò di scatto nel letto svegliato da un rumore assordante e dalle urla varie che ne seguirono. Quella mattina aveva deciso di formare dei gruppi di sentinelle che sarebbero stati di guardia sulle torri del perimetro del campo e lui aveva finito da poche ore il suo turno. Era completamente stremato e assonnato, ma nonostante ciò le urla continuarono confermandogli che non si era trattato della sua immaginazione. Uscendo lentamente da sotto le sue amatissime coperte e dal letto si avvicinò strusciando i piedi a terra alla finestra per vedere cosa diavolo stava succedendo nel cuore della notte nel suo campo di concentramento.
Appena vide l’enorme colonna di fumo che si alzava da dietro i tetti dei dormitori il suo cuore perse un battito e la sua mente si svegliò immediatamente perdendo tutto il suo torpore.

Velocemente si mise addosso dei vestiti pesanti e corse fuori dalla sua stanza e dal dormitorio delle guardie. Mentre correva vide che altre guardie e prigionieri si stavano accalcando nella stessa direzione. Facendosi largo tra tutta quella gente finalmente Gilbert riuscì ad arrivare al punto di origine del fumo.
Si pentì amaramente di averlo fatto.

Il dormitorio H3T4 non esisteva più.

Al suo posto vi era un cumulo di macerie e di neve. Gilbert si sentiva come se la sua mente fosse stata divisa dal suo corpo in quanto aveva perso completamente la facoltà di muoversi.

Era umanamente impossibile.
Dopo aver patito così tanto per colpa della lettera, dopo aver mentito spudoratamente sia a suo fratello sia a tutte le guardie del campo, questo.
Era morto, era sicuramente morto. Tutti quelli che stavano in quel capannone erano sicuramente morti.

Mentre era afflitto da quella bruciante verità il cerchio di curiosi si divise per far passare Ludwig. Appena vide il disastro il tedesco biondo lanciò un urlo disperato e corse verso le macerie iniziando a scavare a mani nude tra la neve e a spostare travi e mattoni vari.
Gilbert sentì un blocco formarsi nella gola nel vedere quant’era disperato suo fratello.
Poco dopo fu affiancato da Francis che, buttando il secchio dei bisogni lontano e urlando nella sua lingua madre, si mise anche lui a smuovere la neve e le macerie.

Fu tentato anche lui di affiancarli nello scavo quando Roderich lo fermò afferrandolo per un braccio.

“Gilbert dobbiamo iniziare la procedura d’emergenza”

Non era una richiesta ma un ordine. In una situazione normale Gilbert avrebbe subito sgridato la maleducazione di quello snob austriaco e punito con qualche lavoro extra, ma quella non era una situazione normale. Un dormitorio era letteralmente scomparso, crollato su sé stesso per qualche oscuro motivo, forse il suo amato canadese morto schiacciato dalle macerie insieme a tutti gli altri prigionieri, tra cui quell’idiota italiano tanto caro a suo fratellino.

“Si… la… la procedura…” Balbettò guardandolo in modo confuso.

Sentiva il cuore martellargli nelle orecchie. Due eventi orribili in così poco tempo, Gilbert sentiva che stava per morire di crepacuore.
No, in quel momento lui non aveva la mente lucida per poter prendere decisioni tant’era sconvolto e inebetito dal dolore, ma sembrava che Roderich la avesse.

Senza aspettare alcun consenso si girò verso le guardie che si erano mischiate tra i prigionieri nella folla di curiosi e iniziò a urlare.

“Adottare la procedura d’emergenza, grado A, muovetevi!!! Primo gruppo radunate i prigionieri e fate rimuovere tutte le macerie. Gruppo 2 occupatevi dei sopravvissuti, ordinate in file i cadaveri nello spiazzale. Gruppo 3 sulle torri di guardia! Potrebbe essere stato un attacco dei russi!”

A quelle parole Gilbert si scosse profondamente.
I russi!
Se i russi erano già arrivati significava che non avevano via di scampo.
Scuotendo la testa incredulo, Gilbert fece per correre verso le macerie ma la presa di Roderich si strinse ancor di più fermandolo.

“Gilbert, conviene che vai sulle torri di guardia. Se veramente sono arrivati i russi dovremo prendere decisioni velocemente. Devi sapere in tempo reale cosa sta succedendo per decidere come muoverci”

Gilbert rimase scioccato dalla fredda lucidità della mente di Roderich nonostante la catastrofe che si era appena consumata, e forse nonostante la catastrofe che stava per arrivare. Guardò velocemente il cumulo di macerie ormai circondato dai prigionieri che spostavano pietre e travi per cercare dei sopravvissuti, o dei corpi. Vide delle guardie avvicinarsi a Ludwig e portarlo via con la forza.
Si girò nuovamente verso Roderich e si liberò dalla sua presa.

“Hai ragione” Si limitò a dire, poi si avviò correndo verso la torre di guardia situata a est del campo.

Lo sguardo di Roderich lo accompagnò finché non si rifugiò dietro un muro. Una volta nascostosi rallentò la sua andatura e cercò di riprendere fiato e di recuperare la sua lucidità mentale, per quanto era possibile.

“Dio ti supplico, fa che non sia morto” Pensò mentre i suoi occhi diventavano lucidi.

Note dell'autore:

Ed ecco il nuovo capitolo.
Purtroppo non ho potuto pubblicare prima perché ho avuto e ho ancora molti impegni, anche e soprattutto universitari, che mi stanno dannando l'anima. 
Ma non preoccupatevi perché la storia è tutta decisa, dev'essere soltanto resa su carta x'D
Sono consapevole che questo capitolo non è il massimo ma non potevo fare di meglio a causa del poco tempo frazionato anche piuttosto male (notare quando a che ora sono costretta a pubblicare xD), ma nonostante ciò spero che vi piaccia comunque :)
Sono successe molte cose in questo capitolo e gli altri non saranno da meno!!
Detto questo, a presto e Buone Feste :D

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Capitolo 10
*** L'inizio della fine ***


15 morti e 7 feriti, di cui due lievi.

Era questo il bilancio che fu riferito a Gilbert diverse ore dopo il collo del dormitorio.
L’albino aveva passato tutto quel tempo cercando di nascondere la forte angoscia, che lo stava divorando dall’interno, scrutando senza risultato l’orizzonte insieme alle altre guardie di vedetta.
Nessun movimento sospetto, nessun avvistamento.
Niente che potesse far supporre la presenza dell’Armata Rossa.

Gilbert però non si illuse e continuò a controllare i confini con le altre guardie, finché un prigioniero con il fiato grosso per la corsa non lo informò del numero dei morti e dei feriti e della causa del crollo.
Gilbert rise incredulo quando seppe che il tetto della costruzione, ormai fatiscente da anni, aveva ceduto sotto il peso della neve che si era accumulata sui tetti per giorni interi, tirando giù anche i muri dalle travi marcie.
Era incredibile quanto poteva essere maledettamente beffardo a volte il destino!

Compreso ormai che i russi non erano la causa della tragedia, Gilbert lasciò pochi poveri malcapitati di guardia mentre congedò le altre, lui stesso si dileguò appena gli fu possibile.
Doveva assolutamente controllare tra i cadaveri allineati davanti le macerie se lui era tra quelli. Gilbert pregò varie volte Dio di non dover provare lo strazio di doverlo vedere sotto uno di quei stracci che coprivano i vari corpi, non sapeva davvero come avrebbe potuto reagire alla vista del suo bellissimo viso tumefatto dal crollo, o alla vista del suo corpo straziato.
Erano pensieri orribili che gli fecero sentire un morso allo stomaco.

Arrivato nello spiazzale si fermò qualche istante a osservare il luogo del crollo. I prigionieri, guidati dalle guardie, avevano fatto tutto sommato un buon lavoro. Le macerie erano state per la maggior parte accantonate affianco alla struttura distrutta, di cui rimanevano soltanto qualche pezzo di muro intatto e qualche trave spezzata. I detriti più grandi erano rimasti lì come una carcassa d’animale spolpata della carne. La scena che si presentava era meno impressionante del momento del crollo, ma Gilbert ammise che fu una fortuna che erano riusciti bene o male a trovare e disseppellire tutti i prigionieri rimasti là sotto.
Più morti che vivi purtroppo.

Questo lo riportò al motivo principale per cui era qui.
Davanti le macerie erano stati allineati quindici corpi su due file parallele. I cadaveri erano stati coperti alla meglio con degli stracci, alcuni riuscivano a coprire soltanto il volto del malcapitato lasciando vedere perfettamente lo stato pietoso del resto del suo corpo, spesso sporco di sangue.
Gilbert sentì l’impulso di vomitare, ma cercò di controllarsi e mantenere un certo decoro davanti le guardie che stavano ancora controllando i prigionieri, che lavoravano sui detriti.

Velocemente si avvicinò a una guarda che stava vicino ai cadaveri e appuntava su un taccuino:

“Ehi tu!”

“S-signore!! Si, signore?” Rispose la guardia tremando visibilmente. La maggior parte delle guardie aveva timore di Gilbert e del suo famigerato sadismo.

“Sono venuto a controllare lo stato dei lavori. Avete riconosciuto e appuntato i nomi dei morti?”

“N-no, signore, stavo per cominciare”

“Bene, allora non ti dispiacerà se assisterò, vero?” Con un sorriso porse la mano alla guardia e fece un gesto eloquente.
La guardia guardò prima l’albino, poi i cadaveri a terra e infine il taccuino. Realizzando cosa il suo superiore gli stava gentilmente suggerito, si lasciò sfuggire un gemito e consegnò il taccuino a Gilbert mentre lui iniziò a scoprire i volti dei cadaveri per il riconoscimento.

Gilbert era compiaciuto dal fatto di aver trovato una buona scusa per controllare i cadaveri senza destare sospetto.
Velocemente la sfortunata guardia scoprì il volto di ogni vittima pronunciandone il nome e cognome e il codice cucito sull’avambraccio. Per quei corpi con il volto così tumefatto da essere impossibile da riconoscere, il povero malcapitato gemeva il numero di riconoscimento respirando forte dalla bocca per non sentirsi male.

Più il tempo passava, più corpi riconoscevano, più le speranze di Gilbert aumentavano. Finora non aveva fatto la tanto sofferta scoperta né del canadese né dell’italiano, anche se conosceva la maggior parte di quei prigionieri.
Con il cuore in gola finì di appuntare i numeri del penultimo cadavere e lentamente si avvicinò all’ultimo corpo coperto a terra.
Gilbert sentì la gola stretta mentre si accorse che la statura di quel corpo era simile a quella di Matthew. La guardia aspettò che il suo superiore si avvicinasse abbastanza, poi afferrò il lembo di stoffa che lo copriva fino ai ginocchi.
Gilbert trattenne il fiato mentre il cuore gli pulsava nelle orecchie tant’era forte l’agitazione e l’ansia che stava provando in quel momento.

Infine la guardia sfilò la stoffa con un gesto rapido, rivelando il volto del malcapitato.
Gilbert tremò.

 

Francis si passò una mano tra i capelli sciolti mentre cambiava posizione sulla sedia mezza rotta dell’infermeria. Stava ancora cercando di riprendersi dalla tragedia successa ore prima.
Nella sfortuna si sentiva incredibilmente fortunato: l’edificio era crollato proprio nel momento in cui lui era stato costretto dalla guardia di turno a svuotare il secchio dei bisogni.
Se questo era un segno del destino Francis lo aveva recepito benissimo. Erano già due anni che si trovava in quell’inferno, era uno dei più longevi prigionieri di tutto il campo, ed era scampato a morte certa sotto le macerie del proprio dormitorio…

“Mon dieu, sono proprio un miracolato. Forse posso davvero cominciare a sperare di rivedere Arthur!”

Ma quei pensieri provocavano più dolore che gioia, quindi Francis cercò subito di distrarsi da loro, concentrandosi invece sul lettino logoro dove dormiva profondamente Feliciano. Lui era stato uno dei pochissimi a salvarsi dal crollo.
Più o meno.
Era ancora vivo, questo era certo ed era anche molto, ma aveva riportato brutte ferite dal crollo. La sua gamba era rotta in più punti ed era stata steccata con due pezzi di legno. Aveva qualche costola inclinata a detta del medico del campo, ma sentendo le urla di dolore del povero italiano ogni qual volta faceva un movimento anche minimo, Francis sospettava che fossero rotte. La testa era stata fasciata, ma il francese non sapeva esattamente perché.
Tutto sommato era fortunato, ad altri era andata molto peggio.

Francis avrebbe tanto voluto aiutare la squadra addetta alla rimozione dei detriti per cercare in ogni modo possibile di salvare quelle povere anime sotto le macerie, ma era stato violentemente scacciato in favore dell’infermeria. Quando arrivarono i primi feriti Francis cominciò ad avere una speranza. Più gente arrivava più la sua speranza cresceva.
Essa si fermò al numero sette.

Fortunatamente tutti quelli che erano riusciti ad arrivare in infermeria non erano in pericolo di vita. Feliks e Toris avevano riportato delle forti contusioni ma erano stati classificati come feriti lievi. Anche loro, come Francis, erano increduli di quanta fortuna avessero avuto.
Francis sospirò e strinse i pugni sul favolino nel pensare a quelli che invece non ce l’avevano fatta. Erano tutte brave persone, alcune con un cuore d’oro, tutte che speravano in un futuro migliore, magari tornare a casa dalla propria famiglia, chi invece emigrare in America per fare fortuna.
Quelle povere vite innocenti erano state spezzate così bruscamente in un posto simile e probabilmente sarebbero state gettate in fosse comuni come dei normali rifiuti.

Un gemito lo distolse da questi pensieri facendolo girare verso i lettini. Feliciano si era mosso nel sonno e il dolore era stato così forte da farlo gemere anche mentre dormiva. Il ragazzo castano cominciò a mormorare strane parole mentre si spostava ancora, parole che Francis riconobbe come italiane, tutte seguite da un piccolo sussurro: Lud.

Francis sorrise mentre addolciva lo sguardo rivolto all’italiano, che con un ultimo spostamento ricominciò a dormire pesantemente. Dopo poche ore dal disastro, quando il medico del campo ebbe finito di visitare tutti i pazienti lasciandoli in mano a Francis, nell’infermeria era entrato Ludwig.
Francis avrebbe voluto salutare quel gran bel pezzo di tedesco con una delle sue battute ammiccanti e provocatorie, ma le parole gli morirono in gola quando vide lo stato pietoso di quel povero figliolo.
Apparentemente sembrava avere il suo solito aspetto, i capelli ben ordinati, la divisa pulita e ben stirata, ma se si provava a guardare il suo volto era impossibile non notare il suo pallore quasi cadaverico che metteva in risalto lo spesso rossore che cerchiava i suoi occhi chiari.

L’uomo non disse nulla mentre si chiudeva la porta alle spalle. Si avvicinò lentamente a Francis e guardò per un attimo verso i lettini, poi spostò il suo sguardo implorante e bagnato sul francese.
Francis sorrise e andò a sedersi sulla sedia dov’era rimasto, apparentemente concentrandosi su alcuni fogli appuntati, praticamente tenendo un occhio e un orecchio sulla stanza dei lettini.

Ludwig rimase per molto tempo al capezzale dell’italiano. Dapprima Feliciano non era cosciente, così Ludwig si limitò ad accarezzargli il volto e a tenergli la mano, poi quando riprese conoscenza i due parlarono per molto tempo. Francis lì colse molte volte a scambiarsi un bacio fugace quando pensavano di non essere visti da nessuno.
Era sinceramente felice per quel giovane italiano, ma era anche stupefatto di sapere che un prigioniero amava una guardia ed era ricambiato.

All’improvviso la porta fu aperta violentemente e la figura terrificante di Gilbert entrò nell’infermeria, distogliendo il francese dai suoi pensieri. Francis balzò subito in piedi spaventato mentre l’uomo chiudeva sgraziatamente la porta e si avvicinava a lui con pochi passi.

“Fuori” Sibilò con uno sguardo furioso.
Francis sentì le gambe sciogliersi al pensiero di dover fronteggiare quel pazzo, ma non poteva lasciare i malati incustoditi, anche se era Gilbert in persona a chiederglielo.

“J-je ne peux pas… i malati… non posso lasciarli soli…” Rispose con un filo di voce.

“Allora nell’ufficio del medico”

“M-ma, io non…”

Senza battere ciglio, Gilbert estrasse velocemente la pistola in dotazione a ogni guardia del campo. Francis impallidì vistosamente.
Esattamente come Gilbert, anche quella pistola era leggendaria tra i prigionieri. Si diceva che avesse ammazzato più lei che tutti i fucili e le pistole usati in questa inutile guerra.
Gilbert sorrise godendosi la reazione del biondino.

“Vedo che la conosci. Sai anche che non ho problemi ad usarla. Nell’ufficio. ORA!”

Francis corse tra i lettini fino a raggiungere una porta sul fondo dello stanzone, chiudendosela rumorosamente dietro una volta entrato. Gilbert lo seguì con lo sguardo annuendo e rinfoderando la sua pistola.
 Il trambusto e le urla disturbarono alcuni malati che si svegliarono insonnoliti. Quasi tutti si riaddormentarono velocemente, tutti tranne uno.
Gilbert lo individuò subito appena mise piede nella stanza.
Su secondo lettino a sinistra c’era Matthew.

Era vivo, sia lodato il Signore, era vivo.
Gilbert voleva quasi piangere dalla gioia, ma le lacrime si sarebbero trasformate ben presto in lacrime di dolore quando diede un’occhiata più attenta al ragazzo.
Matthew aveva un braccio fasciato e stretto al petto mentre le fasciature sul capo gli coprivano anche l’occhio sinistro. Il suo volto era tutto graffiato e abraso. Il paio di occhiali che Gilbert gli aveva regalato tempo prima giaceva su una sedia che fungeva da comodino. Una lente era scheggiata mentre la montatura il legno irrimediabilmente rotta.

Il ragazzo girò lentamente la testa cercando di guardarsi attorno con l’occhio sano, ma Gilbert sapeva che in realtà era cieco come una talpa e non riusciva a vedere oltre il suo naso.
Spaventato dal trambusto e dal fatto che non riuscisse a vedere nulla, Matthew si mise a sedere sul letto mentre spostava il suo sguardo sulla sagoma vicino la porta della stanza.

“Francis? Francis cosa succede?” Sussurrò con la sua voce delicata.

A Gilbert gli si strinse il cuore, e contemporaneamente gli si spense il cervello.
Con pochi lunghi passi fu vicino il lettino e in un attimo le sue braccia strinsero il corpo debole e sofferente del prigioniero. Gilbert nascose la testa nella spalla del ragazzo mentre si stringeva sempre più al suo corpo, cercando di non danneggiarlo in nessun modo. Matthew guaì dalla sorpresa per l’inaspettato contatto fisico e cercò debolmente di divincolarsi ma senza successo. Le braccia di Gilbert erano gentili ma salde intorno a sé.

L’occhio sano di Matthew stava per gonfiarsi di lacrime mentre cercava con un filo di voce di chiedere chi fosse quell’estraneo che lo stava molestando così all’improvviso, quando l’uomo si separò da lui guardandolo in volto e accarezzandogli la faccia con le mani guantate. Matthew poté vedere nella luce fioca della stanza che l’uomo aveva i capelli corti e di un colore che il canadese non riusciva a identificare.
Dopo pochi istanti riuscì a riconoscerlo e il suo volto assunse un’espressione stupita.
Gilbert pensò che fosse irresistibile.

“Gil…?!”

Matthew non fece in tempo a finire di parlare. Le labbra di Gilbert premettero sulle sue con forza mentre le mani della guardia lasciavano le sue guance per il fianco e una spalla, stringendolo più vicino. L’occhio miope del biondo si spalancò per la sorpresa e fissò incredulo gli occhi chiusi dell’altro, che intanto assaporava le sue labbra.
Nonostante ciò non oppose resistenza.

Gilbert cercò subito di approfondire il bacio leccando le labbra morbide e screpolate del canadese con la sua lingua. Il ragazzo aprì timidamente la bocca e Gilbert iniziò subito ad esplorarla.
Aveva un pessimo sapore ma Gilbert non vi fece caso, tutto ciò che importava era che Matthew era vivo e che Gilbert poteva finalmente averlo per sé.

La lingua di Matthew rimase inizialmente ferma e ciò fece sospettare al tedesco che il ragazzo non avesse mai baciato prima di allora, poi timidamente iniziò a muoversi imitando l’altra.
Dopo pochi istanti Gilbert ruppe il bacio e posò la sua fronte delicatamente su quella fasciata del canadese, prendendogli di nuovo il volto tra le mani.
Matthew sembrava sul punto di piangere e di urlare contemporaneamente. Il suo occhio buono era lucido e gonfio e la sua bocca si apriva e chiudeva incerta come un pesce che boccheggiava.
Gilbert decise di prendere nuovamente l’iniziativa e parlò per primo.

“Ho avuto paura. Pensavo di non poterti più rivedere. Io… io….” Le parole gli morirono in gola. Per quando fosse sceso a patti con la propria coscienza sulla sua appena scoperta sessualità, gli risultava ancora difficile ammetterlo ad alta voce. Forse non sarebbe mai riuscito a farlo.

Matthew chiuse immediatamente la bocca mentre le sue labbra iniziarono a tremare e la sua guancia si rigò di lacrime. Strinse l’uomo a sé e affondò il volto nella sua spalla piangendo disperatamente. Gilbert cercò di tranquillizzarlo accarezzandogli ripetutamente la schiena con una mano e sussurrandogli parole dolci nell’orecchio.

Gilbert rimase nell’infermeria (con Francis bloccato nell’ufficio del medico) diverso tempo in cui consolò, parlò e coccolò Matthew.
Era incredibile come quel povero ragazzo, al quale qualche mese prima stava per togliere la vita, avesse accettato così di buon grado i suoi sentimenti, anzi sembrava anche ricambiarli.
Gilbert pensò per un breve momento se potesse essere un tranello per ingannarlo e per rabbonirsi l’amministratore del campo per ricevere qualche favore, ma l’idea sfumò velocemente com’era arrivata. Matthew era troppo dolce e puro per poter tramare qualcosa di simile, e soprattutto era l’unico che non l’avesse mai giudicato, perciò Gilbert sentiva di potersi fidare ciecamente.

Quando infine decise di andare, salutò Matthew con un bacio sulle bende che coprivano la fronte e con la richiesta di mantenere segreto cos’era successo e soprattutto il loro rapporto, poi urlò qualche insulto a Francis dicendogli di poter tornare al suo posto e si affrettò ad uscire dall’infermeria e ad allontanarsi nella luce del mattino.
Non si accorse di essere osservato.

 

Quel giorno le attività delle squadre continuarono i lavori assegnati come se non fosse successo nulla. La squadra assegnata alla raccolta di viveri però era stata dimezzata dalla tragedia e faticava a trovare cibo per la partenza.
Feliks e Toris guardarono la colonna umana sfilare davanti i capannoni diretta verso l’esterno del campo con la speranza di trovare qualcosa di commestibile.
I due superstiti del dormitorio H3T4 erano stati esonerati dai loro compiti a causa delle ferite ed erano stati assegnati a mansioni più semplici e meno impegnative come l’infermeria o la cucina.
Ora capivano quant’era stato fortunato Francis ad essere assegnato in modo fisso a quei lavori.

Entrambi avevano riportato ferite leggere dal crollo. Erano stati dissotterrati abbracciati l’uno con l’altro e sconvolti, ma quasi illesi. Toris era ancora turbato a tutta la situazione, mentre Feliks sembrava non pensarci più, come se non fosse mai successo nulla. Il ragazzo polacco era più interessato a discutere con l’italiano su delle informazioni riguardo la partenza.

“Io non ci credo. Non è possibile che le guardie facciano tutti questi sforzi per poterci spostare e salvare la vita!”

“Ma Ludwig mi ha detto che…”

“Ah Ludwig! E’ già difficile credere che abbiate una sorta di relazione, figuriamoci credere all’idea che ci vogliano salvare dalle grinfie dei russi! Quelli ci portano nelle camere a gas, ve lo dico io!”

“Ve…. Ma non è vero…”

Toris si avvicinò ai lettini interessato. Da quando il giorno prima Feliciano era tornato al dormitorio urlando dalla felicità, erano successe così tante cose assurde che ormai il ragazzo bruno non sapeva più a cosa credere o meno. Quante probabilità c’erano che un prigioniero potesse iniziare una relazione sentimentale con una guardia?
Ma poi, quante probabilità c’erano che il dormitorio crollasse proprio quella notte? E che uscissero vivi? Perciò non poteva essere poi così incredibile l’idea che le guardie stessero trovando un qualsiasi modo per salvarli tutti… no?

Feliks però era seriamente convinto di ciò che diceva, mentre Feliciano non riusciva a controbattere e perdeva terreno e fiducia. Francis era impegnato a medicare un ferito qualche lettino più in là, cercando con parole dolci di convincere il pover’uomo a farsi cambiare le bende ormai incrostate alle ferite senza troppi capricci, perciò non partecipava alla discussione.
Matthew invece rimase in silenzio ad ascoltare i due discutere senza intervenire, ma Toris sapeva che se anche se lo avesse fatto, sarebbe rimasto ignorato e non sarebbe cambiato nulla.

“Io anche non mi fido dei tedeschi” Esordì attirando l’attenzione stupita di entrambi i ragazzi “Ma ho lavorato molto a contatto con il governo russo. Mi fido di loro, potrebbero davvero salvarci” Fissò i due ragazzi con uno sguardo serio.

Feliciano rimase a bocca aperta incredulo mentre Feliks non ci mise molto ad esplodere com’era il suo solito:

“Ma cosa dici Toris?? Il crollo ti ha danneggiato il cervello? Tu davvero ci stai suggerendo di consegnarci nelle mani dei russi? Quei sadici che portano soltanto dolore e miseria ovunque vadano!”

Toris notò che Feliks non era semplicemente sconvolto dalla sua affermazione come Feliciano. A differenza di quest’ultimo, il polacco sembrava più terrorizzato che incredulo. Toris ricordò la prima volta che incontrò Feliks nel dormitorio e di come, scambiandolo per russo, lo fece arrabbiare subendosi per quasi tutta la serata le sue filippiche. I polacchi non erano in buoni rapporti con i russi, questo era certo, ma Toris era anche certo che i russi avrebbero davvero potuto sconfiggere i tedeschi e salvarli tutti quanti.
Con un movimento improvviso afferrò le mani di Feliks e le strinse mentre fermava il suo sguardo in quello del polacco.

“Feliks fidati di me. I russi possono davvero salvarci, loro vogliono vedere la Germania capitolare tanto quanto noi. Ho lavorato per loro nella resistenza dei Paesi Baltici contro il giogo tedesco, loro vogliono liberarci da quei farabutti!”

Feliks rimase qualche istante a fissare lo sguardo risoluto di Toris a bocca aperta, non aveva mai visto il bruno così deciso e forte. Era una rivelazione che lo confuse e affascinò al tempo stesso. Riprendendosi, cercò di controbattere con la sua solita esuberanza.

“Liberarci? Toris, sono russi! Quelli non lo fanno per liberarci ma per assoggettarci a loro! Non vogliono aiutarci, vogliono conquistarci, loro vo-…”

“Che lo facciano allora! Meglio loro che i tedeschi! Con loro almeno non verremo trattati come degli schiavi senza dignità, con loro avremo un futuro!”

Toris lasciò le mani di Feliks e abbassò lo sguardo a terra, chinando leggermente la testa. Feliks pensò che Toris avesse capito che stava dicendo soltanto un mucchio di sciocchezze, ma dalle sue parole comprese che quello non era un segno di resa, anzi.

“Loro non sono dei mostri come pensi tu, Feliks. Sono i tedeschi i mostri! Loro ci stanno facendo questo! Io… io voglio essere trovato dai russi!”

Feliks rimase in silenzio non sapendo cosa dire, forse per la prima volta in tutta la sua vita. Si limitò a fissare l’amico con uno sguardo infelice sul volto. Feliciano, che per tutto il tempo era rimasto spettatore, cercò di dire la sua con poca convinzione:

“Ma… Ma Ludwig…. Ve…”

“Questi discorsi sono inutili!”

Tutti si girarono verso Francis che, lasciato il ferito, li raggiunse con pochi passi e uno sguardo piuttosto serio.

“È inutile discutere su chi sia migliore, su chi salverà chi o quale piano hanno in mente i tedeschi, tanto non lo sapremo mai. E inoltre a questo mondo nessuno fa nulla per niente, ricordatelo tesoro!” Toris abbassò lo sguardo irritato “Il nostro unico obbiettivo ora è cercare di sopravvivere, con chi non lo sapremo finché non sarà il momento. Tedeschi, russi, chiunque andrà bene, l’importante è continuare a vivere… e tornare a casa prima o poi!”

Poi appoggiò le mani sulle spalle dei ragazzi e sorrise.

 

Era quasi il tramonto quando Gilbert salì sul palchetto nella piazza del campo insieme a suo fratello. Sotto di loro le guardie li fissavano con gli occhi che riflettevano luce fioca del sole invernale.
Gilbert aveva in mano i rapporti stilati delle varie squadre stilati da quando avevano iniziato a lavorare per il trasferimento.
Non erano per niente promettenti, il malcontento era dilagante anche tra le guardie stesse.

Schiarendosi la gola, Gilbert iniziò a parlare al pubblico riguardo i rapporti che stringeva nella mano. Mentre parlava il suo sguardo vagava su tutta la folla cogliendo i segni di disagio, irritazione, ansia e rabbia delle guardie. Man mano che continuava, anche la sua preoccupazione aumentava in modo esponenziale.

Gilbert aveva notato che per tutto il giorno gruppi di guardie si riunivano a parlottare vicino i muri degli edifici con fare concitato, per poi azzittirsi o disperdersi nel momento in cui passava o si avvicinava. Tutti però lo fissavano insistentemente, senza che l’albino capisse il perché.
La pressione dell’arrivo imminente ed improvviso del nemico, il lavoro a cui erano stati sottoposti, la nottata passata in bianco a causa del crollo e l’evidente inadeguatezza dei mezzi di cui disponevano per sostenere una marcia forzata di varie settimane, aveva reso irrequiete le guardie.

Gilbert anche era piuttosto agitato. Dopo aver subito il duro colpo della lettera, esser quasi morto di dolore per il crollo del dormitorio e  aver passato la notte sveglio a controllare confini vuoti, l’albino cominciava a mostrare segni di cedimento. Il suo volto era provato e teso, il suo corpo affaticato e la sua voce non più squillante come al solito. Del vecchio Gilbert energico ed esuberante, restava soltanto una sorta di guscio vuoto, un’ombra debole e vacua.
Ludwig invece sembrava non mostrare segni di affaticamento o di ansia, anzi agli occhi di Gilbert il fratello perfetto sembrava anche più rilassato del solito. Si scoprì ad invidiarlo per questo.

 “Siccome i viveri non sono abbastanza per sostenere un viaggio simile, razioneremo il nostro cibo esattamente come quello dei prigionieri. Così facendo, a conti fatti, dovremmo riusci-“

“Cosa? Sei forse impazzito?”

Gilbert alzò lo sguardo dal foglio, incredulo. Chi era quell’idiota che aveva il coraggio di interromperlo e rispondergli in quel modo?
Ma la voce non si fermò nonostante Gilbert fissasse la folla con uno sguardo omicida, e ben presto la voce di protesta fu accompagnata da altre urla e gesti di disapprovazione. Gilbert rimase confuso e incredulo per quello che stava vedendo, e anche Ludwig anche perse la sua compostezza rivelando confusione nel suo sguardo.
Le guardie che per anni erano state sotto il suo diretto comando rispettando una ferrea disciplina si stavano improvvisamente ribellando.

“SILENZIO! È un ordine!”

Ma i suoi sottoposti continuarono a protestare, parlottando tra di loro e urlando. Gilbert stava perdendo velocemente il controllo della situazione, qualcosa che non era mai successo da quando era diventato amministratore del campo.
Cosa stava succedendo? Perché all’improvviso i suoi sottoposti, che avevano sempre dimostrato rispetto per lui, all’improvviso non avevano più timore?
Forse ai loro occhi il fiero e feroce Gilbert ormai era diventato solo uno spaurito coniglio bianco?
Guardò incredulo il fratello che ricambiò lo sguardo stupito, per poi spostarlo nuovamente sulla folla. Nel caos che si stava creando, notò che soltanto Roderich non partecipava alla confusione generale ma anzi rimaneva in silenzio a fissarlo con quel suo sguardo irritante dietro le lenti.

I nervi di Gilbert non ci misero molto a saltare. La stanchezza, la paura, la preoccupazione e la rabbia che aveva accumulato in quegli ultimi giorni esplosero insieme rendendolo furioso.
Con lo sguardo iniettato di sangue e i denti scoperti in un ringhio feroce, l’albino estrasse velocemente la sua pistola e sparò un colpo in aria, per poi spostare subito la mira sulla folla.
Immediatamente tutte le guardie sotto il palchetto si azzittirono stupiti e impauriti.

“Silenzio maledetti bastardi! Non osate più disobbedirmi altrimenti vi mando al creatore all’istante!” Urlò a squarciagola spostando la pistola ovunque sulla folla.

Anche Ludwig era scioccato dalla reazione improvvisa del fratello e lo fissava con la bocca aperta, pallido come un lenzuolo, senza avere il coraggio di parlare.
Gilbert lanciò un lungo sguardo furioso alla folla, poi si mise a ridere in modo sguaiato mentre giocherellava con la pistola, puntando sempre alle guardie.

“Ke se se se. Bene, ora che ho ottenuto nuovamente la vostra attenzione, come stavo dicendo, razioneremo anche noi il cibo come i prigionieri… Se qualcuno non è d’accordo lo dica subito così gli sparo e non se ne parla più, ok? Non mi servono dei traditori nel mio campo!”

“Allora… se la metti così…”

La canna della pistola mirò alla persona che aveva appena avuto il coraggio di parlare prima che Gilbert lo guardasse direttamente. Con sua grande sorpresa e irritazione Roderich si fece largo tra le altre guardie e arrivò fin sotto il palchetto. Gilbert mirò esattamente al centro della fronte di quel pomposo aristocratico.

“Cosa cazzo stai facendo, Roderich? Non posso perdere tempo con te per le tue stronzate da aristocratico viziato! Torna al tuo posto!”
Ma Roderich non si mosse, anzi sostenne il suo sguardo con orgoglio e superbia. Gilbert avrebbe tanto voluto sparargli in quel momento per toglierselo dai piedi una volta per tutte, ma sapeva di non poterlo fare perché era protetto dal governo. Piuttosto sentì avvicinarsi al suo fianco Ludwig avvicinarsi agitato mentre notava che alcune guardie affiancavano Roderich con lo stesso sguardo di sfida.

“Dici che non ti servono dei traditori nel campo, quando sei tu il primo traditore in mezzo a noi”

Gilbert ebbe un sussulto.
La sua mano tremò per un secondo prima che la presa sul manico della pistola si irrigidisse e la canna si allineasse perfettamente alla fronte dell’austriaco. Stava per fare fuori quello stronzo, Gilbert stava davvero per sparargli in fronte, quando un urlo secco di Ludwig lo distrasse. Il ragazzo biondo lo afferrò per una spalla scuotendolo violentemente.

“No Gilbert! Sei impazzito?”

Gilbert non fece in tempo a guardare suo fratello negli occhi, Lo strofinio di qualcosa e molti click lo riportarono immediatamente a guardare oltre il palchetto. Le guardie che avevano affiancato Roderich avevano tutte estratto le loro pistole e le puntavano contro Gilbert e Ludwig nello stupore e nella confusione generale delle altre guardie.
Gilbert guardò tutte quelle canne vuote contro di lui e iniziò a sudare freddo. La presa sulla sua pistola vacillò.
Roderich sospirò e incrociò le braccia sul petto, più annoiato che altro.

“Ascoltami Gilbert, abbiamo giocato abbastanza, è ora che la verità venga a galla”

“Quale verità? Cosa cazzo stai dicendo?” Rispose d’impulso il giovane, ma l’avvicinarsi delle guardie con le pistole puntate su di lui gli fecero passare la voglia di parlare. Solo un po’.

“Sto dicendo che so tutto della lettera e dell’infermeria, Gilbert Beilschmidt, o meglio sappiamo tutto”

La gola di Gilbert si seccò istantaneamente mentre una vampata di sudore freddo gli percorse tutto il corpo. Cercò di deglutire mentre fissava in silenzio l’austriaco. Roderich notò il panico che si stava impadronendo di lui e continuò a parlare.

“Ho letto la lettera la sera in cui è arrivata. Ero stato disturbato da tutto il chiasso che avevate fatto ed ero venuto a rimproverarvi quando ho trovato l’ufficio vuoto e in uno stato pietoso. Aspettando il vostro ritorno per mettervi al corrente della mia irritazione, ho trovato la lettera sotto la scrivania. In realtà non sono stato molto sorpreso da quel comunicato, in fin dei conti me lo aspettavo. Quello che mi ha sorpreso invece è stato il tuo discorso il giorno dopo!”

Fece una pausa scuotendo la testa in segno di disprezzo. Le altre guardie si erano calmate e anche loro si erano avvicinate per capire cosa stesse succedendo. Gilbert notò che alcune di loro poggiavano la mano sulla fondina della pistola mentre pendevano dalle labbra di Roderich.
Il silenzio era quasi assoluto mentre gli ultimi raggi del pallido sole d’inverno illuminavano il campo innevato. Gilbert riusciva a sentire soltanto il pesante respiro del fratello, che come le altre guardie ora ascoltava concentrato l’austriaco.

“Abbandonare il campo portandosi dietro i prigionieri… Davvero Gilbert, cosa diavolo ti è passato per la testa? Perché vedete, la lettera ordinava di eliminare ogni prova del nostro operato qui; Perciò documenti… dormitori… fabbriche… prigionieri… tutto!

Un brusio si levò all’istante, le guardie cominciarono nuovamente a commentare tra di loro, ma questa volta la maggior parte estrasse la pistola e la puntò contro gli amministratori sul palchetto. Gilbert sentì il mondo crollargli addosso nel preciso istante in cui Roderich finì di parlare.
Era stato scoperto, e cosa peggiore era stato scoperto dai suoi sottoposti che lo stavano letteralmente processando su due piedi.
L’albino avrebbe voluto dire qualcosa per difendersi ma le parole non uscirono dalla gola riarsa. Tutto quello che riuscì a fare fu restare perfettamente immobile con gli occhi strabuzzati fissi sull’austriaco mentre il sudore gli colava sulla fronte cadaverica e sulle tempie fino al collo.
Ludwig anche non disse nulla e non si mosse, ma Gilbert sentì che la presa sulla spalla si strinse con forza.

“Inizialmente ho fatto finta di niente perché non avevo alcun interesse se salvavi o no quella feccia ambulante, ma non riuscivo a capire cosa ti avesse spinto a disobbedire a degli ordini diretti. Ma preferii farmi gli affari miei, inoltre non lo sapeva nessuno. Certo, potevo smascherarti fin da subito e farti uccidere sul posto, ma avrei guadagnato soltanto un’intera ritirata da organizzare. Davvero poco conveniente. Ma caro il mio scherzo della natura, ti sei tradito da solo quando dopo il turno di guardia sei andato a intrufolarti di nascosto nell’infermeria!
Forse credevi di essere solo, ma ti sbagliavi. Io e le altre guardie qui presenti ti abbiamo visto lasciare l’infermeria agitato. Perciò…” Anche lui estrasse la pistola puntandola al petto dell’albino “Da quando te la fai con quella sgualdrina di un francese? È per questo che hai tradito noi e il governo? È per questo che stai mettendo a rischio tutte le nostre vite con una fuga disperata mentre i russi potrebbero attaccare da un momento all’altro? Per salvare quello schifoso? Il perfetto Gilbert
Beilschmidt, così perfetto che crede di poter sfidare tutta l’ideologia nazista e farsela con un altro uomo sotto il nostro naso… Tu…”

Il volto di Roderich assunse un’espressione di rabbia e irritazione raccapricciante. Tutto il disgusto e disprezzo che provava in quel momento presero forma sul suo volto, per poi sparirono velocemente come erano arrivate. Il ragazzo bruno si rilassò e sorrise con fare superbo.

“L’amministrazione Beilschmidt finisce qui. Sei stato appena processato e dichiarato colpevole di alto tradimento ai danni del governo nazista e di sodomia dall’unanimità delle guardie che mi hanno eletto nuovo amministratore del campo. Perciò ora verrai giustiziato con disonore, feccia che non sei altro! Giustizieremo anche tuo fratello per complicità. Voi altri iniziate a prepararvi per la partenza, cercate di prendere tutto quello che trovate, soprattutto cibo e vetture. Per i prigionieri fate quello che vi pare, uccideteli pure, non m’interessa”

 

Gli istanti immediatamente successivi alle parole dell’austriaco furono percepiti da Gilbert in modo confuso, come se la sua vista fosse sdoppiata e al rallentatore, le sue orecchie percepivano i suoni in modo ovattato come sott’acqua.
Vide le restanti guardie puntare le pistole contro il palchetto mentre altre urlavano con forza parole che Gilbert non riusciva a comprendere.
Il suo corpo era rigido e immobile come un albero, non riusciva a muovere nessun muscolo mentre il sudore gli imperlava il volto. Gli occhi erano fissi e sgranati sulla folla mentre la mente era vuota e leggera.
Al suo fianco Ludwig mosse qualche passo in avanti. Di sfuggita vide che urlava qualcosa di rimando che però arrivò alle sue orecchie come un urlo lontano, come quasi un’eco urlato tra le montagne.
L’unica cosa che riusciva a sentire era il rumore del suo respiro, incerto e tremolante.
Questo era quello che si provava quando si stava per morire?

La distorsione del tempo finì quando Ludwig lo prese improvvisamente per un braccio e lo tirò con forza giù dal palchetto mentre alcuni colpi di pistola fendettero l’aria vicino al punto in cui si erano trovati pochi istanti prima.
I due ragazzi rovinarono sulla neve rotolando. Ludwig sentì un forte dolore sordo alla spalla sinistra, ma non vi prestò molta attenzione mentre si rialzava e rimetteva in piedi suo fratello strattonandolo per la giacca.
Da dietro il palchetto le guardie urlarono inferocite e iniziarono a sparpagliarsi.

“Prendete quei due bastardi traditori!”

“Abbiamo accatastato le provviste in quel magazzino! Le auto sono nel capannone affianco”

“Ho una tremenda voglia di ammazzare quei cani nei dormitori!”

Ludwig tirò Gilbert mentre iniziava a correre senza una precisa meta, ma con l’unico scopo di allontanarsi dalle guardie e di non essere sparato a vista. L’albino sembrava estremamente confuso ma corse a perdifiato seguendo il fratello in silenzio.
Dopo poco tempo Ludwig sentì dei passi dietro di loro correre affondando nella neve. Alcune guardie li stavano seguendo, e a giudicare dal rumore dei passi e del fiato corto, avevano proprio intenzione di raggiungerli.
Alcune grida e altre pallottole sibilarono nell’aria. Ludwig chinò la testa e corse più accovacciato possibile, sempre tirando il fratello per la giacca, che lo imitò.

Alcune pallottole fischiarono dietro di loro, mentre qualcuna si avvicinò pericolosamente alle orecchie del biondo. Spaventato, Ludwig si guardò intorno freneticamente in cerca di un nascondiglio e infine spinse bruscamente il fratello in un piccolo passaggio tra due edifici. Una volta dentro il vicolo, corsero ancora per qualche metro e raggiunsero una porta marrone scrostata, che per fortuna era aperta.
Con un gesto veloce Ludwig la aprì e vi spinse dentro l’albino, per poi entrare e richiuderla qualche istante prima che le altre guardie imboccassero il vicolo.
Chiudendo le sicure della vecchia porta, fece segno di fare silenzio all’altro e rimase in attesa ad ascoltare i rumori fuori.
La neve sul terreno era fresca e soffice e non era difficile lasciare impronte quando si camminava in giro, infatti nella loro corsa avevano lasciato molte impronte che finivano davanti quella porta. Una persona con un minimo di cervello si sarebbe sicuramente accorto che i due fuggiaschi erano entrati nella porta sul retro dell’edificio.
Ludwig sperò con tutto sé stesso che i loro inseguitori non fossero così acuti.

Il rumore dei passi in corsa si avvicinò in pochi istanti, che per Ludwig sembrarono un’eternità. Quando furono in prossimità della porta, il ragazzo trattenne il respiro mentre il suo cuore accelerava il battito per la paura.
Il rumore, accompagnato dal fiato grosso e da imprecazioni varie, non accennò a fermarsi e lentamente si allontanò così com’era arrivato. Ludwig lasciò andare il respiro trattenuto con un tremito, cercando di rilassare i suoi nervi.

Ora che avevano seminato i loro aggressori per qualche tempo potevano allentare un po’ la tensione, anche se non potevano abbassare la guardia.
Sospirando nuovamente, Ludwig si girò ad affrontare suo fratello. Gilbert sembrava un lenzuolo sgualcito: la sua carnagione era diventata tutt’un colore con i suoi capelli, sul suo volto si potevano distinguere soltanto le pupille rosse dei suoi strani occhi.
Probabilmente Ludwig non aveva mai visto suo fratello ridotto in quello stato.

Lo sguardo dell’albino era perso nel vuoto e le sue labbra tremavano, così come il resto del suo corpo. Era il ritratto perfetto del terrore. Ludwig avrebbe voluto aiutarlo dicendogli di non preoccuparsi, di rassicurarlo e consolarlo come spesso il fratello aveva fatto con lui quando era piccolo, ma la rabbia, lo sconcerto e le mille domande che si affollavano nella sua mente presero il sopravvento.
Afferrò il colletto della giacca di Gilbert e lo spinse contro il muro con forza. L’albino gemette stringendogli le braccia nel vano tentativo di fermarlo.

“Che cazzo significa tutto questo?” Ludwig avrebbe tanto voluto urlargli in faccia con tutta la sua forza, ma si limitò a parlare con una voce bassa e potente.
Gilbert lo guardò impaurito e boccheggiante. In effetti era la prima volta che Ludwig lo aggrediva in quel modo.

“Parla!” Tirandolo un pochino a sé, lo sbatté di nuovo con forza contro il muro facendolo gemere “Cos’è questa storia della lettera? Roderich dice il vero, hai davvero mentito?”

“S-si… si è vero, ho mentito…”

Ludwig digrignò i denti in un ringhio rabbioso. Una mano lasciò velocemente il colletto della giacca per dare un pugno ben assestato al volto dell’albino. Gilbert si accasciò da un lato mentre il suo labbro si spaccò e iniziò a sanguinare, ma la presa ferrea di Ludwig lo rimise in piedi contro al muro come prima.

“Bastardo… Io mi fidavo di te! Lurido traditore, ci hai quasi fatto ammazzare, e siamo condannati per sempre! Ti rendi conto di che cosa hai fatto?” Gli occhi ghiaccio erano iniettati di sangue “Perché non mi hai detto niente?”

“Io volevo tenderti fuori, volevo proteggerti…”

“E’ così che mi proteggi?” Quasi urlò il ragazzo biondo sbattendo nuovamente il fratello contro il muro “Non dicendomi nulla e facendomi quasi ammazzare come un criminale qualunque? E cos’è questa storia dell’infermeria? Da quand’è che te la fai con quel francese?”

A quelle parole Gilbert abbassò la testa in silenzio. I capelli chiari e canditi gli coprivano gran parte del viso, il sangue gli rigava il mento dal taglio sul labbro dove era stato colpito. Dopo qualche istante Gilbert sospirò scuotendo la testa e abbassò le spalle in un chiaro segno di sconfitta.

“No, non Francis… Matthew…”

Ludwig lasciò la presa sul colletto del fratello, sconvolto.
Tutto ciò era assurdo. Già il solo pensiero che Gilbert, fervente religioso e fanatico dell’ideologia nazista, fosse implicato in una relazione omosessuale era incredibile, figurarsi con il fragile e sensibile canadese che pochi mesi prima aveva tentato di uccidere.
Ludwig fece qualche passo indietro fissando il fratello con sgomento, portandosi una mano sulla bocca aperta.

“Assurdo…”

L’albino alzò la testa di scatto guardando il fratello dritto negli occhi. Aveva lo sguardo di una persona completamente distrutta, schiacciata da un peso troppo grande per lui, sconfitto e rassegnato. Del Gilbert arrogante e prepotente che conosceva e che aveva visto in tutto il suo splendore quando era appena arrivato al campo non era rimasto nulla se non l’aspetto.
Ludwig provò una forte pietà nei suoi confronti.

“In tutta la mia vita non c’è stata una sola persona che non mi abbia disprezzato e mi abbia amato per quello che sono, e non per quello che sono diventato. Nemmeno tu, che sei mio fratello minore e che ho amato quasi come ho amato me stesso. Eppure Matthew, che ho mortificato e seviziato in vari modi e che ho cercato di uccidere, non ha provato odio e disprezzo nei miei confronti, ma solo compassione”

 Ludwig rimase senza parole ad ascoltare il monologo del fratello. In tutta la sua vita Gilbert non si era mai confidato con lui con il cuore in mano come stava facendo in questo momento. Agli suoi occhi e a quelli di tutti gli altri Gilbert era una testa calda, violento e sadico, che riusciva a conquistare tutti gli obbiettivi che si prefiggeva e che affrontava gli ostacoli a testa alta, superandoli con pochi sforzi.
Ludwig non aveva mai pensato una singola volta che suo fratello potesse avere dei problemi e potesse soffrire per qualcosa.
Si vergognò di sé stesso e della sua stupidità.

“Quando ho letto quell’ordine del governo, ho avuto paura. Ho avuto paura di perdere l’unica persona al mondo che mi avesse capito e accettato per quello che sono… e ho avuto paura anche per te. Per questo ho deciso di mentire a tutti e di non uccidere i prigionieri… Io semplicemente non potevo”

Gilbert vide l’evidente domanda non pronunciata sul volto di Ludwig e sospirò.

“Non volevo che tu perdessi l’italiano”

Il volto di Ludwig sbiancò a quelle parole. Un’ondata di agitazione e di pensieri convulsi lo travolse mentre fissava stordito il fratello. Come aveva fatto capirlo? Aveva cercato di nascondere il suo interesse in tutti i modi possibili anche se ammetteva che le scuse per esser stato sotto la doccia più del dovuto erano piuttosto deboli.
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma fu subito fermato dal fratello.

“Non provare a negare, è piuttosto palese. Ti conosco bene, sei mio fratello dopotutto, e posso dire con certezza di non averti mai visto così felice come adesso. Io non volevo farti soffrire, non volevo che tu tornassi il serio e imperscrutabile Ludwig d’acciaio senza un minimo di emozioni!”

Ludwig era senza parole.
Suo fratello aveva fatto tutto questo anche per proteggere lui e la sua felicità, aveva sfidato le autorità e tutto ciò in cui credeva anche per lui, lui che lo aveva ritenuto sempre un sadico nazista senza cuore, che aveva disprezzato ed evitato, e che ora aveva anche colpito e insultato.
Ludwig si sentì una carogna.

“Gilbert, io…”

Dall’esterno si sentirono alcune urla e dei colpi di pistola. Ludwig lasciò la frase a mezz’aria guardando la porta scrostata mentre i rumori venivano rimpiazzati da altre grida e colpi d’arma da fuoco.

“Stanno sparando sui prigionieri! Maledetti!” Esclamò il ragazzo biondo con rabbia.

“Dobbiamo trovare Matthew e il tuo amico prima che lo facciano loro” Rispose con urgenza Gilbert “Dov’erano l’ultima volta che gli hai visti?”

“All’infermeria, Feliciano non può ancora camminare”

“Dobbiamo raggiungerli subito, prima che lor-“

La sua frase fu completamente coperta dal fortissimo suono di una sirena che si diffuse in tutto il campo. Gilbert sgranò gli occhi mentre i suoi capelli si drizzarono sulla testa.
Ludwig non comprese bene il significato di quel suono e iniziò a guardarsi intorno mentre i rumori esterni furono completamente sopraffatti.
Infine guardò Gilbert con uno sguardo interrogativo.

“I russi… sono arrivati i russi”

 

Feliks e Toris si trovavano nelle cucine del campo quando il sole tramontò oltre l’orizzonte innevato, lasciando il posto alla notte gelida. I due erano stati mandati da Francis a prendere la cena per i malati dell’infermeria. Il campo aveva escogitato un modo astuto per fingere di curare quei poveri malcapitati: dividere l’unico pasto dei prigionieri in due volte per dare l’illusione di nutrire al meglio i malati. In realtà la quantità di cibo era la stessa dei prigionieri sani, ma era divisa in pranzo e cena. Feliks sorrise amaramente quando Francis lo informò della cosa, il campo era davvero un posto crudele.

I due amici entrarono nelle cucine dalla porta laterale sapendo che se avessero usato quella principale il cuoco e le altre guardie li avrebbero sgridati e puniti. Loro erano esseri inferiori, non umani, e pertanto dovevano strisciare nei vicoli e usare la porta di servizio, mentre tutti gli altri usavano quella principale. Francis aveva raccontato che alcune volte invece di passargli il cibo glielo avevano gettato addosso o per terra e poi costretto a ripulire tutto. Ovviamente i pavimenti erano luridi e nonostante ciò i loro secondini e il cuoco lo avevano costretto a servire quel cibo ugualmente. A Feliks rivoltava lo stomaco ogni qual volta vi pensava.

Le cucine erano stranamente vuote, un ambiente silenzioso e sinistro inghiottito dall’oscurità più totale. Feliks guardò Toris preoccupato e il ragazzo ricambiò il suo sguardo, per poi fare un passo avanti dentro la stanza.

“C’è… c’è qualcuno?” Chiese a gran voce, ma la stanza gli riportò il suo eco senza nessuna risposta.

Toris ritornò vicino all’amico con fare agitato.

“Non sembra ci sia qualcuno, cosa facciamo? Forse il cibo per i malati è stato appoggiato da qualche parte e dobbiamo soltanto prenderlo”

“Non ne sono sicuro, Toris. Non voglio mettere le mani da nessuna parte, non so se ci è permesso entrare e prendere il cibo. Non ho bisogno di una punizione”

“Torniamo da Francis, saprà cosa fare… magari possiamo stare noi con i malati mentre lui viene a prendere da mangiare”

L’idea piacque molto a Feliks, che sorrise all’amico. I due si chiusero la porta dietro di sé mentre il freddo della notte cominciava a farsi sentire con leggere folate di vento, e si avviarono verso l’infermeria. Per fortuna aveva smesso di nevicare da un po’, Feliks non voleva ritrovarsi sotto o anche vicino a un altro edificio sul punto di crollare.
La neve però era soffice e alta sul terreno e i due osservarono come le loro scarpe semi distrutte affondavano fino alla caviglia in quella coltre bianca.

“Sai, questo mi ricorda molto la Polonia. Io abitavo nella periferia di Varsavia, l’inverno era sempre molto innevato”

“Feliks ti ricordo che io sono lituano, la neve da me cade il doppio di quella in Polonia!”

“Non è vero!” Rispose mettendo il broncio.

Continuarono a discutere sulla quantità della neve nei loro rispettivi paesi finché non sentirono degli spari seguiti da una moltitudine di urla. Il sangue di Feliks si gelò all’istante, mentre Toris trattenne il respiro, sconvolto.
Erano arrivati quasi alla fine del vicolo che dava sul cortile davanti l’infermeria, quando un gruppo di persone corse velocemente davanti l’apertura della stradina. Feliks riuscì a vedere di sfuggita che i colori dei vestiti del gruppo erano uguali ai loro. Dopo pochi istanti un altro gruppo di guardie corse nello spiazzo, alcune inseguendo i malcapitati, altre fermandosi e prendendo la mira con le loro pistole.

Con delle urla agghiaccianti le guardie fecero fuoco. Due, tre, cinque, otto colpi furono sparati dalle varie pistole. Feliks rimase immobile, con il cuore che minacciava di uscirgli dal petto per il terrore, mentre le urla doloranti e agonizzanti del gruppo che fuggiva gli riempivano le orecchie. Le guardie davanti a loro ridevano e si asciugavano la fronte sudata mentre alcune di loro imprecavano e lanciavano insulti vari.

Toris era terrorizzato più di Feliks, ma non ebbe il suo stesso sangue freddo. Fece qualche passo indietro mentre si copriva la bocca lanciando un grido soffocato. Avevano appena ucciso un gruppo di prigionieri senza batter ciglio, e ridevano come indemoniati. Le sue più grandi paure si stavano trasformando in realtà; le guardie stavano uccidendo i prigionieri, erano spacciati.

Feliks tentò di fermare il ragazzo prima che potesse tradirli con qualsiasi tipo di rumore, ma non fece in tempo. Afferrò il suo braccio nel momento in cui una guardia si voltò a guardare nel vicolo, attirato dai rumori di Toris, notandoli e indicandoli con un sorriso sadico.

“Lì ce ne sono altri due!” Esclamò attirando l’attenzione delle altre guardie “Quelli sono miei, li ho visti prima io!”

Le altre guardie risero e parlottarono ma lasciarono che quella che li aveva notati per primo si avvicinasse al vicolo e alzasse la pistola contro di loro.
Feliks sentì una scarica d’adrenalina in tutto il corpo quando vide la canna ancora fumante della pistola puntargli contro.

“Corri… CORRI!” Urlò a Toris mentre si girava e lo trascinava con sé correndo verso il fondo del vicolo, accompagnato dalle risate della guardia.

Il suo cuore pulsava nelle orecchie, tutto intorno a lui si curvò ai bordi della sua visuale diventando scuro, eppure continuò a correre e a trascinare con sé l’amico che incespicava nella neve.

La guardia puntò Feliks alla nuca. Stava per premere il grilletto quando l’altoparlante, che si trovava esattamente sulla sua testa attaccato al muro, improvvisamente iniziò a suonare con un allarme fortissimo. La guardia fu spaventata dall’improvviso suono e sbagliò mira.

Feliks sentì il proiettile volargli sopra la testa nonostante il suono assordante della sirena e cercò di correre più velocemente, svoltando a destra oltre il vicolo e continuando senza una meta a correre, trascinandosi dietro il lituano.
Erano entrati in una delle strade principali del campo. La strada era larga abbastanza da far passare contemporaneamente due carri armati affiancati ed era fiancheggiata dagli edifici nella sua totale lunghezza, da dove spuntavano dei lampioni che illuminavano tutto il percorso. All’estremità della strada si poteva vedere il cancello d’entrata del campo, illuminato da grossi fari, e i campi sterminati fin oltre l’orizzonte.

Toris cercò di liberarsi dalla presa dell’amico tirando in senso contrario, completamente terrorizzato dall’esser usciti in un posto così ampio e completamente privo di ripari.

“Feliks! Feliks dobbiamo nasconderci!” Urlò a squarciagola, ma il ragazzo non lo ascoltò mentre correva in mezzo alla strada cercando di dar fondo a tutte le sue energie.

Improvvisamente il polacco si fermò strattonando Toris per i vestiti e facendolo slittare sulla neve e cadere sul fondoschiena. Confuso, Toris guardò prima il suo amico, che sembrava sul punto di svenire, poi davanti a sé.
L’ultima parte di strada che li divideva dal cancello principale era disseminata di corpi esanimi accasciati in larghe pozze di sangue che coloravano in modo macabro la neve. Toris si portò una mano alla bocca e cercò di reprimere il fortissimo senso di vomito che lo stava assalendo.

“S-sono… loro sono… le guardie li hanno uccisi tutti…!” Balbettò in evidente stato di shock.

Ma quello che stava guardando Feliks con puro terrore non erano i morti a terra, bensì lo schieramento di persone dall’altra parte del cancello, seguite sullo sfondo da enormi veicoli dai lunghi cannoni. Alzò una mano tremante e indicò nella loro direzione.

“Sono arrivati…. Non abbiamo via di scampo…”

Finalmente Toris levò lo sguardo dai cadaveri in favore dell’esercito russo che si affollava davanti il cancello. I soldati, tutti avvolti in lunghi cappotti e strani elmetti, si stavano allontanando per lasciar passare uno dei carri armati che seguivano il loro schieramento. Con dei suoni secchi di ingranaggi, il carro armato abbassò il cannone fino a metà altezza del cancello, esplodendo un colpo.
Il boato fu fortissimo. Feliks e Toris videro il cancello sventrarsi a causa del colpo e pezzi di ferro volare ovunque e cadere tra i corpi a terra.
Immediatamente i soldati russi circondarono il carro armato e superarono il cancello appena violato sciamando nel campo come delle formiche impazzite.

La paura in Feliks ebbe il sopravvento e riuscì a sbloccare il corpo del povero ragazzo. Velocemente alzò l’amico tirandolo dalla presa che non aveva mai lasciato, e iniziò a correre verso un vicolo laterale alla strada tra due fabbriche.

“Cosa stai facendo? Feliks fermati! I russi sono arrivati, i russi possono salvarci!”

“Io non voglio morire!”

Era evidente che il polacco aveva perso il suo sangue freddo e si trovava nel panico totale, non riuscendo più a ragionare a mente lucida. Imboccarono il vicolo e Toris ne approfittò per liberarsi dalla sua presa. Con una mano afferrò l’angolo del muro dell’edificio e tirò con tutte le forze che gli erano rimaste. Il tessuto lurido scivolò dalla mano di Feliks che sorpreso si fermò e si girò a fronteggiare il compagno.

“Toris, sei impazzito?” Urlò con gli occhi che quasi uscivano fuori dalle orbite. Aveva il fiato corto e i suoi capelli erano un completo disastro, mentre le guance emaciate erano rosse dallo sforzo.
Il cuore di Toris divenne pesante nel guardarlo.

“No, tu sei impazzito. I russi sono venuti a salvarci e tu vuoi scappare con il rischio di essere ucciso dai tedesch-“

“Trovati!”

La guardia che avevano seminato pochi istanti prima spinse violentemente Toris nel vicolo facendolo cadere su Feliks. I due rotolarono nella neve, ma cercarono di rialzarsi guardando con paura la guardia, che intanto entrava lentamente nel vicolo.

“No, no, restate lì fermi. Quei bastardi comunisti sono arrivati alla fine, non c’è più tempo, ma non me ne vado senza prima aver ucciso qualcuno di voi animali”

La canna della pistola fu nuovamente puntata verso di loro, ma questa volta mirava alla fronte di Toris.

“Tu sarai il primo” Disse con una smorfia che alterava il suo volto in modo orribile. Sembrava completamente impazzito.

Toris non riusciva a distogliere lo sguardo dall’arma nella sua mano che rifletteva la luce dell’unico lampione del vicolo. Sentì Feliks aggrapparsi a lui e stringere la presa nel disperato tentativo di trovare conforto, ma Toris sapeva che ormai non ci sarebbe stato più conforto per loro, solo un gelido vicolo pieno di neve dove i loro corpi sarebbero marciti per sempre.
Sentì le lacrime bagnargli gli occhi e minacciare di cadere sulle sue guance. Di tutti i modi possibili di morire che aveva immaginato, questo era di sicuro uno dei più atroci. Si diceva che guardando la morte in faccia si poteva vedere velocemente tutta la propria vita scorrere davanti agli occhi, ma l’unica cosa che Toris riusciva a vedere in quel momento era la guardia che, con una smorfia disumana sul volto, premeva il grilletto.

Il suono dello sparo aggredì le sue orecchie mentre sentiva improvvisamente un forte dolore bruciante sulla sua spalla. Si portò una mano sulla ferita a bruciapelo mentre vide, senza capire il perché, la guardia tedesca inginocchiarsi di peso sulla neve e poi crollare a terra, la sua pistola scivolare vicino i due prigionieri. In pochi istanti sotto il corpo dell’uomo si formò un piccolo rigagnolo di sangue fumante.

Dietro di lui alcuni uomini dai lunghi giubbotti puntavano il fucile contro di loro e urlavano frasi in russo. Toris conosceva bene il russo, e sospettava che anche Feliks lo conoscesse, ma quegli uomini parlavano con uno strano accento e con parole mai sentite prima, probabilmente in un dialetto sconosciuto ai più.
I soldati russi fecero qualche passo verso di loro e incitarono i prigionieri con i loro fucili a rispondere, ma i due non riuscirono a capire nulla e rimasero immobili a fissarli terrorizzati.
Il sollievo di Toris per esser stato salvato dall’imminente morte fu offuscato dal vedere quei soldati inferociti che sbraitavano contro di loro e li minacciavano con i fucili. Stava cominciando a perdere le speranze di essere salvato quando i soldati si fermarono improvvisamente, probabilmente realizzando di non essere capiti, e si misero a parlottare tra di loro abbassando i fucili.

Feliks mantenne il suo volto terrorizzato e la sua posa immobile, ma Toris sentì le sue prese allentarsi sul suo corpo.
Dopo qualche istante a parlottare, alcuni soldati uscirono dal vicolo mentre altri si interessarono al cadavere della guardia, girandolo sulla schiena con lo stivale e frugando tra i suoi vestiti. Nel frattempo, uno di loro si avvicinò lentamente ai due ragazzi con un mezzo sorriso sul volto severo.

“Non abbiate paura, siamo venuti a salvarvi” Disse con un russo comprensibile.

Toris lasciò sfuggirsi un gemito mentre Feliks iniziò a piangere poggiando il volto sulla spalla del ragazzo.

Davanti al vicolo apparve un grosso carro armato che si fermò esattamente davanti l’entrata. Toris lo guardò da sopra la spalla del soldato russo, sgomento. Aveva visto molti carri armati durante le sue operazioni nei Paesi Baltici, ma nessuno era grande e impressionante come quello.
Il rumore fece girare i soldati incuriositi verso il veicolo, alcuni di loro lo salutarono esultanti per aver ucciso un altro nazista.
Il portellone superiore del carro armato si aprì con un forte rumore e dalle sue viscere comparve la testa e il busto di un ragazzo dal naso incredibilmente grande e dai capelli chiari, coperti quasi totalmente da un colbacco. Il ragazzo uscì quasi del tutto dal portellone, poi si sistemò un’estremità della sciarpa che si era srotolata dal suo collo e mise una mano nella tasca mentre guardava direttamente ai due prigionieri.
La luce del lampione creava uno strano gioco di ombre sul volto del ragazzo, ma questo non fermò Toris dal pensare che quel russo era forse la cosa più bella che avesse visto da quando era stato internato in quell’orribile posto.
Sperava che non fosse l’ultima.

Il russo guardò il pezzo di carta e poi i prigionieri, poi si sporse leggermente mentre urlava con il suo forte accento.

“Sei tu Toris Laurinaitis?”

La sua voce era dolce ma decisa, ricordava vagamente quella di Matthew, ma il suo tono era monotono, come se avesse dovuto ripetere quella frase molte volte.
Le guance di Toris si rigarono di lacrime mentre la presa di Feliks si stringeva su di lui.
Era salvo, anzi erano salvi.
Il ragazzo bruno chinò la testa gemendo forte e abbracciando il compagno mentre il russo scendeva dal carro armato e si faceva largo tra i compagni con un sorriso sul volto.

Ivan si fermò davanti i prigionieri e si inginocchiò poggiando una mano sulla testa di Toris e accarezzandogli i capelli con dolcezza.

“Due ragazzi della resistenza baltica mi hanno chiesto di trovarti. Ha davvero dei buoni amici, дорогой (caro)!”

E così il principe russo, sul suo bel cavallo armato, riuscì a salvare la principessa lituana, rinchiusa nel castello di concentramento, dalle grinfie del drago nazista.

 

Dopo aver sentito la sirena dare l’allarme, Ludwig si era diviso da Gilbert per precipitarsi all’infermeria e portare in salvo il maggior numero di persone, primo tra tutti Feliciano. Avrebbe tanto voluto che Gilbert lo seguisse per non perderlo di vista in un momento tanto critico, ma Gilbert aveva insistito di dover prendere alcune cose importanti nel suo ufficio, tra cui uno zaino pieno di vettovaglie e Gilbird. Il ragionamento dell’albino non era sbagliato, era impossibile sopravvivere tra la neve nel paesaggio prussiano senza il necessario, ma Ludwig temeva di non rivederlo mai più.
Dopo il confronto di pochi attimi prima, il tedesco biondo aveva improvvisamente rivalutato suo fratello. Certo, tutte le cose malvagie che aveva commesso non potevano esser cancellate in un attimo con qualche parola ben pesata, ma Ludwig sentì che dopo aver scoperto il piano di Gilbert i suoi sentimenti verso i lui erano cambiati.
Insomma, non lo riteneva più un bastardo senz’anima, e aveva cominciato ad accettare nuovamente i sentimenti d’amore fraterno che per molto tempo aveva represso.

Fortunatamente, nel seminare i loro inseguitori, i due fratelli erano entrati nella porta sul retro del dormitorio dell’amministrazione del campo. Facendo molta attenzione, Gilbert sarebbe riuscito facilmente a passare inosservato e a raggiungere il suo ufficio in poco tempo. Lo stesso non si poteva dire di Ludwig, che dovette appiattirsi ai muri e guardarsi intorno continuamente con la pistola in mano mentre percorreva i vicoli e gli spiazzali per raggiungere l’infermeria. Purtroppo, aveva visto molti prigionieri a terra morti sotto i colpi delle guardie, alcuni erano stati addirittura calciati o trascinati in giro per gioco.
Quello scempio fece montare una forte rabbia in Ludwig.

Quando arrivò all’infermeria scoprì con orrore che la porta era stata sfondata con un calcio. Lentamente entrò dentro puntando la pistola davanti a sé pronto a far fuoco al minimo cenno di pericolo.
L’infermeria era vuota e tetra, non una luce illuminava le stanze silenziose. Qualcosa filtrava dalla finestra che dava sulla stanza dei malati, ma invece di aiutare la vista dava un aspetto lugubre e malsano al luogo. Dopo una rapida occhiata in giro, Ludwig raggiunse i lettini dei malati, facendo una macabra quanto orribile scoperta: sui lettini lerci dell’infermeria i malati giacevano inermi con evidenti ferite d’arma da fuoco sul corpo. Il sangue di alcuni di loro aveva macchiato non solo i letti ma perfino il pavimento.

Ludwig si portò una mano alla bocca mentre represse un coniato di vomito, ma la sua forza di volontà non fu abbastanza forte. Si accasciò a terra mentre svuotava lo stomaco e riversava il suo contenuto a terra. Quella scena avrebbe potuto impressionare chiunque.

Cercando di riprendersi dallo shock e dal dolore, il ragazzo biondo si rialzò e controllò i lettini. Erano tutti morti di recente, i loro corpi erano ancora caldi. Ma ciò che interessava Ludwig era vedere se tra le vittime c’erano Feliciano e Matthew.

Con suo grande sollievo, non trovò né loro né Francis. Probabilmente erano riusciti a scappare prima dell’arrivo dei soldati, anche se non capiva come, soprattutto perché Feliciano aveva una gamba rotta e non poteva camminare.
Si guardò ancora qualche secondo attorno a sé per cercare di capire come quei tre erano riusciti a salvarsi, quando vide la porta della stanza del medico aperta, e all’interno la finestra spalancata.
Ecco come.

Ludwig raggiunse la finestra e guardò fuori. Da quel punto riusciva a vedere il perimetro del campo che si estendeva oltre gli edifici, ma soprattutto riusciva a vedere delle impronte sulla neve. In tutto erano quattro, due leggere mentre altre due molto profonde.

“Qualcuno sta portando sulla schiena Feliciano. Devo trovarli immediatamente, sono un bersaglio troppo facile da colpire!” Pensò il tedesco mentre si lanciava fuori dalla finestra e iniziava a correre seguendo le impronte.

La sua deduzione si rivelò giusta, infatti non dovette correre molto per trovare i tre ragazzi cercare di scappare seguendo il perimetro per raggiungere una delle uscite che dava sui campi. In un altro contesto Ludwig avrebbe ammesso che quella visione era davvero comica, con Francis che cercava di correre barcollando pericolosamente a causa del peso di Feliciano che portava sulle spalle, e che evidentemente il suo corpo stremato mal sopportava, mentre teneva per mano un Matthew ancora senza occhiali e cieco come una talpa.
Sarebbe stato davvero divertente da vedere in un circo, ma lì in mezzo alla neve, tra gli edifici di un campo di concentramento e con delle guardie che sparavano a chiunque gli capitasse sotto tiro, quello spettacolo feriva l’anima.

Francis si girò di scatto sentendo i suoi passi sulla neve, rischiando di cadere all’indietro trasportato dal peso dell’italiano.

“Ludwig!” Esclamò Feliciano in lacrime “Ve… cosa sta succedendo?”

“Abbiamo sentito la sirena suonare e improvvisamente le guardie hanno iniziato a inseguire i prigionieri ovunque e a sparargli contro. Siamo riusciti a scappare dalla stanza del medico prima che aprissero la porta a calci… Mon dieu!”

“Tutti quei poverini che sono rimasti lì… loro sono tutti…”

Ludwig provò pietà per il povero canadese che si asciugava l’occhio sano, gonfio e arrossato, dalle lacrime di dolore.

“Non potevate salvarli, è già una fortuna che siete ancora vivi. Aspetta Francis, ti aiuto a trasportare Feliciano”

Il francese non accennò a fermarsi mentre avvistava la porta laterale del perimetro.

“Non abbiamo tempo, non preoccuparti. Se proprio vuoi aiutarmi, prendi Matthew”

Francis lasciò la mano del canadese e si sistemò meglio l’amico sulla schiena tenendogli le gambe con entrambe le mani. Dopo un attimo di esitazione, Ludwig prese la mano di Matthew e continuò a camminare a passo svelto al fianco ai prigionieri.

“Ludwig” Disse d’un tratto Francis con un’evidente segno di sforzo nella voce “La sirena… sono arrivati, vero?”

Non ricevendo una risposta da parte del tedesco, Francis imprecò in francese e non fece altre domande. Al suo posto invece parlò Feliciano.

“Ve, perché le guardie ci vogliono uccidere? Forse Feliks aveva ragione. Chissà dove sono, se sono riusciti a scappare… ve…”

Ludwig stava per rispondergli con una spiegazione vaga, almeno per rassicurarlo quanto bastava per non vederlo in quello stato, quando dei passi e delle urla provenienti da un vicolo alla loro destra attirarono la loro attenzione.
Subito Ludwig estrasse la pistola e la puntò contro l’uomo che correva verso di loro, per poi abbassarla qualche istante dopo accorgendosi, con una buona dose di sollievo, che si trattava di suo fratello Gilbert.
L’albino correva a perdifiato con un grosso zaino sulle spalle, tenendo la pistola in una mano e con l’altra reggendo il povero, grasso Gilbird sulla testa. I suoi vestiti e il volto erano macchiati di sangue.

“Vi ho trovati! Matthew, stai bene?” Chiese rivolgendo subito la sua attenzione al canadese, quasi ignorando gli altri.

Matthew arrossì e annuì con un timido sorriso. Francis sorrise a sua volta distogliendo lo sguardo per far finta di non sapere nulla mentre Feliciano aggrottò la fronte nella confusione più totale. Ludwig invece non riusciva a distogliere lo sguardo dalle macchie di sangue.

“Sei ferito?”

“No, hanno cercato di fermarmi… ma non ci sono riusciti perché sono troppo furbo. Nessuno può fermarmi!” Ammiccò verso Matthew mentre sorrideva come un bambino davanti un vassoio di dolcetti.

Ludwig però non sorrise come gli altri, con lui quella recita non funzionava. Poteva vedere perfettamente l’ansia e la paura nello sguardo del fratello, il volto pallido e tirato, le mani che tremavano in modo incontrollato, il sudore che ammantava il collo e le tempie rendendo appiccicosi i suoi capelli.

Continuarono a muoversi insieme, anche se Francis e Feliciano rallentavano tutto il gruppo. Ad un certo punto, Gilbert si mise dietro di loro e iniziò a spingerli premendo sul fondoschiena di Feliciano, nella speranza di velocizzare la loro corsa. Ludwig sentì una scintilla di gelosia, ma dovette resistere perché era per il loro bene, inoltre non gli era sfuggito lo sguardo velenoso che Gilbert gli aveva lanciato nel vedere la sua mano stringere quella di Matthew.

La porta ormai era a un centinaio di metri, Francis poteva vedere che era ancora chiusa e in perfette condizioni. Sperava vivamente che Gilbert avesse con sé le chiavi del lucchetto che bloccava la sua apertura, altrimenti da loro salvezza quella porta si sarebbe trasformata in rovina.
Il francese già pregustava la libertà. Avrebbero dovuto soffrire il freddo e la fame nel paesaggio spoglio e inospitale prussiano, ma una volta raggiunto il primo centro abitato, Francis si sarebbe dileguato per non essere catturato nuovamente. Rispetto a Feliciano e Matthew, che potevano godere della protezione di quei due tedeschi, Francis era scoperto e non poteva permettersi di essere catturato e internato nuovamente, non dopo aver sofferto tanto per tornare libero.
Lui doveva tornare in Inghilterra.

Le sue speranze morirono alla vista dei giubbotti lunghi e dei fucili dei soldati russi, che si raggrupparono velocemente davanti la porta cercando di aprirla strattonandola con forza nella speranza che il lucchetto cedesse per il freddo.  
Si fermarono bruscamente a quella vista, Matthew che non capiva il perché di quel brusco arresto poiché non riusciva a vedere nulla a quella distanza.
Ludwig cercò lo sguardo di Gilbert nel panico più totale, se quel gruppo di soldati li avesse visti non avrebbero esitato a fucilarli un solo istante. L’albino ricambiò il suo sguardo con altrettanta preoccupazione mentre lasciava la presa su Feliciano, poi annuì leggermente. Immediatamente Ludwig tirò la mano di Matthew e cominciò a correre sulle loro stesse orme verso l’infermeria da dove erano venuti, mentre Gilbert tirava Francis per farlo girare e muovere, e ricominciava a spingere su Feliciano con più forza.

Non ci volle molto tempo prima che dei soldati russi, attirati dai rumori di passi sulla neve, li notassero e cominciassero a urlare e corrergli dietro. Feliciano, che non doveva stare attento a dove mettere i piedi, si girò per dare una sbirciatina alle sue spalle, cominciando a piangere quando vide i soldati russi alle loro calcagna imbracciare il fucile.

“Vi prego, non sparate, non voglio morire!!” Urlò in preda al panico, aggrappandosi alla testa di Francis con forza e chinandosi il più possibile nel vano tentativo di rendersi meno visibile.

Il rumore del calpestio sulla neve e le urla in russo riempirono le orecchie di Ludwig che, in preda al panico, correva al massimo delle sue capacità con gli occhi sgranati, tirandosi dietro il canadese che cercava disperatamente di stargli dietro, distanziando gradualmente gli altri.
Alcuni colpi di fucile fendettero l’aria facendo urlare dal panico l’italiano e dando un incentivo in più agli altri per correre.
Nella sua mente Gilbert ripeteva come un mantra tutte le preghiere che conosceva.

Improvvisamente sia le urla sia il rumore dei passi cessarono all’unisono, lasciando che tornasse il silenzio. I fuggitivi si voltarono varie volte per cercare di capire cos’era successo senza rallentare la loro andatura.
Ludwig vide Feliciano guardare oltre le sue spalle e allentare la presa sulla testa di Francis, mentre dietro di loro due soldati si staccavano dal gruppo e alzavano i fucili contro di loro.
A quella vista, il suo corpo divenne improvvisamente leggero e la sua mente si svuotò completamente, mentre la consapevolezza della sua fine occupava tutto il suo pensiero.

Uno dei fucili fu puntato su di lui, mentre l’altro fu puntato su Gilbert, che intanto si era fermato e allontanato di qualche passo dai due prigionieri, alzando le mani in segno di resa.
Il cuore di Ludwig affondò nel vederlo arrendersi, significava che era davvero tutto finito, che non avevano più scampo e che dovevano sperare nella pietà del nemico. Ma quei fucili puntati su di loro davvero non avevano nulla di pietoso.
Comunque, la speranza era l’ultima a morire, perciò Ludwig emulò suo fratello e, lasciando la mano di Matthew e facendo qualche passo lontano da lui, alzò le mani sulla testa.

Un uomo si fece largo dal gruppo di soldati, affiancando quei due che imbracciavano il fucile. Il suo volto era bruciato dal freddo e severo, gli occhi chiari che potevano scrutare direttamente dentro l’anima, mentre una mascella forte delineava il viso che sfoggiava un naso rotto.
Il soldato urlò qualcosa con voce tonante, poi fece un gesto inequivocabile.

Ludwig sentì il proiettile passare con un sibilo a pochi centimetri dal suo braccio sinistro, andando a conficcarsi nel muro di un edificio a centinaia di metri di distanza dietro di lui.
Gilbert invece non fu così fortunato.
Senza nemmeno emettere un suono, l’albino fu scaraventato all’indietro dalla forza del proiettile, finendo di schiena sulla neve. Gilbird rotolò nella neve a pochi passi dalla sua testa.

La vista di Ludwig si macchiò di giallo e di nero mentre il suo corpo era scosso da una vampata di sudore freddo. La sua testa girava vorticosamente, gli mancava il fiato, le orecchie erano piene delle urla stridule di Feliciano e di quelle concitate di Francis, seguite dall’urlo disumano e ben udibile di Matthew.
Corse e si inginocchiò di peso accanto al corpo del fratello, guardandolo come se fosse la prima volta nella sua vita, mentre Francis cercava di spingere Matthew nel lato opposto per continuare a scappare nonostante il rifiuto categorico del ragazzo di lasciare Gilbert in quello stato, e i russi che li raggiungevano esultanti.

Quando si avvicinò, Gilbert era ancora cosciente. Il suo sguardo spento e stanco si posò lentamente su di lui mentre si sforzava di sorridere nonostante il dolore. Dalla sua spalla usciva una grande quantità di sangue che ben presto macchiò i vestiti e la neve sottostante. Il foro di entrata del proiettile era grande quanto una moneta da un marco e così profondo che Ludwig poteva quasi vedere l’osso e le articolazioni.
Gli occhi di Ludwig si riempirono di lacrime.

Gilbert prese una boccata d’aria, che gli costò una sofferenza atroce:

“Piangi come… una femminuccia? Non… ti si addice… sai?”

“Gilbert” Ludwig cercò di trattenere le lacrime nei suoi occhi azzurri “Per favore, cerca di resistere, l’infermeria non è lontana, posso…”

Ludwig fu interrotto dalla risata di Gilbert che si trasformò in un rantolo.

“Non dire cazzate… piuttosto… prenditi cura di te… di Matthew… Gilbird…”

Le lacrime cominciarono a scivolare dagli occhi di Ludwig, rigandogli le guance e cadendo dal mento e dal naso sui vestiti di suo fratello. Gilbert abbozzò un sorriso tremante e sofferto mentre alzava con sforzo la mano per raggiungere il volto di Ludwig, non riuscendovi a causa delle forze che lo stavano lasciando. Prontamente, il fratello la prese tra le sue e se la portò al volto, baciandogli le dita.
Intanto i russi li avevano circondati e puntavano i fucili contro di loro, pronti a sparare a qualunque movimento brusco, ma notando i gradi delle divise dei due tedeschi e capendo che potevano essere prigionieri molto utili, rispettarono il momento sforzandosi di tacere. Alcuni di loro invece si avvicinarono a Gilbird, che intanto pigolava tra la neve. Dopo un breve parlottare sommesso, uno di loro lo raccolse per un’ala e lo infilò in un tascone del suo giubbotto.

Ludwig gemette piano mentre piangeva come non aveva fatto mai nella sua vita. La sua vista era completamente offuscata dalle lacrime, ma cercò in ogni modo di focalizzare l’immagine del volto di suo fratello. Tirò su col naso un paio di volte mentre il respiro di Gilbert diventava sempre più lento e interrotto da rantoli e gemiti.

Un detto popolare diceva che si riusciva ad apprezzare qualcosa soltanto quando la si perdeva, Ludwig conosceva bene quel proverbio, ma non aveva mai capito fino in fondo cosa si potesse provare nel perdere qualcosa e capirne il valore soltanto a tragedia compiuta.
Ora purtroppo era in grado di capirlo.
Con il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, con lo sviluppare dei propri gusti, dei propri pensieri e ragionamenti, Ludwig era finito da amare il fratello a odiarlo con tutto sé stesso. Non aveva mai sopportato il suo comportamento, il suo agire, perfino il suo aspetto. Aveva sempre cercato di non essere quello che invece lui era, allontanandosi da lui e disprezzando qualunque cosa gli fosse collegata. I sentimenti d’amore verso suo fratello erano stati brutalmente soffocati a favore di quelli di odio e disprezzo.
Ludwig credeva di averli eliminati per sempre, invece esistevano ancora e in quel momento erano più forti che mai, e chiedevano di essere espressi a gran voce.

“Ti prego, non lasciarmi…. Ho ancora bisogno di te… Gil…”

Lo sguardo di Gilbert assunse un’espressione scioccata. I suoi occhi si inumidirono mentre i bordi delle labbra si alzavano in un sorriso dolce. Una singola lacrima scivolò via percorrendogli il volto pallido.

“Erano anni… che non… mi… chiamavi…. cos…ì…”

Le pesanti palpebre di Gilbert si chiusero mentre il braccio alzato cadeva senza forza nelle mani di Ludwig. Il ragazzo biondo lanciò un urlo disperato mentre si chinava sul corpo del fratello, piangendo e stringendolo con fare convulsivo.

 

Quando il corpo di Gilbert cadde a terra colpito dal proiettile, Francis non provò gioia e soddisfazione come aveva sempre pensato, ma tristezza. Dire che aveva immaginato le morti più atroci per quella guardia dall’animo nero era poco, ma in quel momento non riusciva davvero a provare odio nei suoi confronti, e davvero non sapeva il motivo. Forse aveva aiutato il fatto che negli ultimi mesi era stato meno bastardo e più umano nei loro confronti, o forse era il pensiero che quel farabutto era riuscito a cambiare in meglio grazie all’amore che provava per Matthew.
Qualsiasi fosse il motivo, Francis non ci mise molto a realizzare che la loro unica possibilità di uscire dal campo vivi era morta con lui.

Mentre Ludwig lanciava urla disperate e si gettava sul corpo del fratello e Feliciano gridava terrorizzato per lui, il suo unico pensiero fu di salvare la pelle. Cercò di sovrastare quella cacofonia di rumori con la sua voce, urlando ai suoi due compagni di scappare nella speranza di poter approfittare della distrazione dei soldati russi per svignarsela, ma l’urlo di Matthew lo azzittì e contemporaneamente lo fece rabbrividire.
Il giovane canadese era famoso per la sua voce dolce e delicata, così delicata da risultare quasi impossibile da udire, inoltre il suo stesso aspetto lo aiutava il più delle volte a passare inosservato. Era davvero perfetto per lo spionaggio sul campo, Francis lo aveva sempre pensato.
Ma quell’urlo gli ferì le orecchie con una forza tale che difficilmente avrebbe potuto dimenticarlo.

Non aveva idea di come Matthew fosse riuscito a vedere o a capire cosa stesse succedendo, ma dal suo comportamento Francis dedusse che Matthew sapeva che Gilbert era stato colpito, sapeva che il suo amato stava per morire. Il ragazzo cercò di raggiungere Gilbert, ma fu prontamente bloccato dal corpo di Francis, mentre Feliciano lo tirava per la maglia e per i capelli.
Nonostante ciò Matthew sembrava una furia, urlava e si dimenava come sotto tortura, l’occhio buono che piangeva ininterrottamente.

Francis dovette appellarsi a tutta la sua forza di volontà per raccogliere le forze e scontrarsi con il canadese. Matthew finì a terra di peso mentre Feliciano rimase con una sua ciocca di capelli biondi in mano.

“Smettila, stupide, non abbiamo tempo da perdere. Vuoi forse morire?”

Matthew si alzò lentamente, sconvolto dai singhiozzi. Guardò il volto di Francis rosso dalla rabbia e dal panico, poi lo spostò su Gilbert che intanto alzava una mano verso suo fratello. Doveva essere davvero una grandissima sofferenza dover perdere il proprio fratello in quel modo e vederlo morire sentendosi impotente. Quel pensiero gli riportò alla mente il sorriso smagliante di suo fratello Alfred, il giorno che lo aveva salutato prima di imbarcarsi per prendere parte all’operazione di spionaggio in Francia, non sapendo che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo avrebbe visto.
Voleva davvero rivedere il suo amato fratello.
Quel pensiero bastò per farlo rialzare, ma non sarebbe stato più lo stesso Matthew.

Lanciò un ultimo sguardo verso Ludwig e Gilbert, assistendo alla sofferenza del tedesco biondo nel vedere suo fratello morire, soffrendo lui stesso nel vedere la persona che aveva amato esalare l’ultimo respiro.
Si asciugò l’occhio con la manica sfibrata della maglia e diede la mano a Francis che iniziò ad allontanarsi velocemente da quel luogo.
Pochi istanti dopo tre soldati russi notarono i loro spostamenti e si precipitarono a sbarrargli la strada. I loro sguardi erano duri e freddi, ma non puntarono i fucili contro di loro, anzi se li misero sulle spalle e si avvicinarono di qualche passo.

Il cuore di Francis minacciava di esplodere.
Non avevano più speranze, non erano riusciti a scappare e ora erano in mano ai soldati russi. Francis voleva piangere, era così vicino alla libertà, invece ora dalla prigionia tedesca sarebbe passato a quella russa, più crudele.
Il suo pensiero andò al suo Arthur che era rimasto in Inghilterra solo e ad aspettarlo, ma con una fitta di dolore realizzò che non riusciva a ricordare più la maggior parte dei dettagli del suo volto.
Ormai non aveva più niente.

Preso dal panico, indietreggiò velocemente quando vide il soldato avvicinarsi, ma si sbilanciò e cadde all’indietro finendo su Feliciano che urlò di dolore tenendosi la gamba steccata tra le mani. Ben presto però l’italiano cercò di avvicinarsi il più possibile a lui, preda anch’egli del terrore. Matthew invece rimase fermo dov’era, non sapendo assolutamente cosa fare.

Il soldato, un ragazzo dai capelli scuri e dagli occhi chiari, disse alcune parole nella sua lingua offrendo una mano a Francis mentre si avvicinava. I tre prigionieri rimasero a fissarlo immobili e pieni di paura. Il ragazzo ripeté le parole più lentamente e scandendo ogni lettera, ma ebbe lo stesso risultato. Sospirando, ritrasse la mano e chiamò verso il gruppo di soldati che accerchiavano il corpo di Gilbert. Un altro soldato rispose alla sua chiamata e si staccò dai suoi compagni per raggiungerlo.
Dopo un breve scambio di parole, il soldato appena arrivato si girò verso di loro e con un inglese molto stentato disse:

“Noi salvare. Voi liberi”

Dopo un momento di stallo, Francis nascose il volto tra le mani e iniziò a singhiozzare. Matthew sentì le gambe deboli e cadde in ginocchio, il suo sguardo perso nel vuoto mentre l’occhio si inumidiva nuovamente.
Soltanto Feliciano, che non conosceva né il russo né l’inglese, non riuscì a capire cosa stesse succedendo. Si guardò intorno preso dal panico.

“Francis… cosa succede?” Infine, chiese sussurrando, senza perdere di vista i soldati russi davanti a loro.

“Finalmente… quest’incubo è finito!”

 

Ludwig strinse il corpo del fratello a sé come un polpo la sua preda.
Non voleva lasciarlo per nessun motivo, non voleva accettare il fatto che il suo tanto amato e odiato fratello fosse morto. I suoi gemiti di dolore riempirono l’aria, ma i soldati russi non furono disposti a concedergli altro tempo.
Uno dei soldati che lo stavano accerchiando, lo stesso con il naso rotto che prima aveva ordinato di sparare, disse alcune parole in russo e i soldati si mossero. Due di loro andarono dietro il tedesco e cercarono di afferrarlo per tirarlo via, ma lui resistette aggrappandosi al fratello e poggiando con forza la testa sul suo petto.

“NO! NO! Lasciatemi! Non voglio abbandonarlo!” Gridò a pieni polmoni anche se i russi non potevano capire una sola parola di quello che diceva.

Fu in quel momento che lo sentì.
Il cuore di Gilbert, anche se debolmente, batteva ancora, il che significava che suo fratello non era ancora morto.
Quella rivelazione sconvolse a tal punto il ragazzo che i soldati riuscirono finalmente ad agguantarlo per le braccia e tirarlo via per renderlo prigioniero. Ludwig si riprese subito e cercò di divincolarsi in ogni modo possibile, scalciando e puntando i piedi a terra, mentre urlava contro le guardie che intanto si accostavano al corpo dell’albino.

“E’ ancora vivo! Aiutatelo, vi prego! Lui… gnh… lui è ancora vivo!”

 

Nel 1945 si concluse la Seconda Guerra Mondiale con la resa della Germania, dopo la caduta di Berlino, e la resa del Giappone, dopo lo sgancio delle due bombe nucleari.  Nel novembre dello stesso anno si tennero i processi di Norimberga, volti a giudicare e condannare coloro che si erano macchiati di vari crimini contro l’umanità e la pace comune.

Per le atrocità compiute come amministratore del campo di concentramento nel territorio prussiano, Gilbert Beilschmidt venne condannato a 17 anni di reclusione.
Per aver compiuto gli stessi crimini ma in minore intensità, Ludwig Beilschmidt venne condannato a 10 anni di reclusione, da scontare in un carcere differente da quello del fratello.

Nel 1952 Berlino Est e Berlino Ovest, i due blocchi che nacquero dalla divisione della città da parte delle forze occidentali e della Russia, chiusero la frontiera non permettendo più ai tedeschi di poter circolare liberamente tra “le due città”.
Nel 1961 fu costruito il muro di Berlino, che di fatto divise fisicamente in due la città.

I due fratelli Beilschmidt non ebbero la possibilità di ricongiungersi.


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Note dell'Autore
Innanzitutto mi scuso per il fortissimo ritardo della pubblicazione, ho avuto problemi a livello universitario e a livello di salute che non mi hanno permesso di completare prima il capitolo.
Come avete potuto vedere, in questo capitolo accadono moltissime cose, non è stato molto semplice da scrivere per me che sono alle prime armi x'D
Comunque sia spero vi sia piaciuto nonostante la lunghezza esagerata e tutti gli errori che possono esserci (nonostante io controlli scrupolosamente ogni capitolo prima della pubblicazione, qualcosa mi sfugge sempre x'D).
Il prossimo capitolo sarà l'ultimo, siamo quasi arrivati alla fine del nostro percorso :)
Spero che questa ff vi sia piaciuta e vi abbia divertito, fatto soffrire, interessato come l'ho ha fatto con me ^^
E credo davvero che riceverò una bella denuncia per abusi e maltrattamenti dai legali di Prussia x'D
Come sempre, aspetto le recensioni *-*
A presto!

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Capitolo 11
*** Un nuovo inizio ***


Febbraio 1946, Londra

Quando aprì gli occhi, Francis si accorse immediatamente di due cose: la prima era che il sole filtrava prepotentemente tra le spesse pieghe della tenda che copriva la finestra, fendendo l’aria e cadendo esattamente dov’erano i suoi occhi, accecandolo; la seconda fu la voce soave di un uomo che cantava una lenta e dolce melodia dall’altra parte della casa, seguita dallo sgradevole odore di cibo bruciato che si insinuava in ogni anfratto dell’appartamento come un parassita.

Francis si passò una mano sugli occhi ancora pesanti dal sonno mentre si metteva lentamente seduto sul letto. I suoi capelli erano un disastro, come ogni mattina, e cadevano in ciocche arruffate sul volto e sulle spalle. Liberatosi finalmente dalla luce traditrice, il francese si stiracchiò allungando le braccia sulla testa e sbadigliando. La camicia da notte che portava cadde morbida dalle sue braccia scoprendole, rivelando anche l’avambraccio numerato.

Svegliarsi presto stava cominciando a diventare sempre più difficile con il passare del tempo, soprattutto se durante la sera e la notte era costretto a partecipare ad eventi di vita mondana con Arthur. Nonostante il suo odio spropositato per la movida inglese, Arthur era ancora l’ultimo erede della prestigiosa famiglia Kirkland, e aveva degli obblighi da rispettare.

Poggiando i piedi nudi sulla moquette morbida, Francis si alzò dal letto e, grattandosi la nuca ancora assonnato, si diresse verso la cucina, la fonte dell’odore disgustoso che appestava l’aria.
Come aveva immaginato, nella cucina c’era Arthur che canticchiava la sua adorata ninna nanna mentre cucinava, o torturava, qualcosa sui fornelli. Francis si fermò sulla soglia della porta ad osservare la scena, per poi appoggiarsi allo stipite con la spalla e la testa, sorridendo.
I suoi occhi vagarono su tutta la figura bassa e snella del britannico, sul suo collo roseo e scoperto, sulle spalle strette e gentili, sui fianchi che sostenevano i lacci legati del grembiule, sul suo fondoschiena piccolo e sodo, morbido, che combaciava perfettamente con le grosse mani del francese.

Arthur non si accorse della presenza del francese finché, abbassandosi per aprire il forno e prendere la teglia di scones carbonizzati, non si bruciò un dito nonostante le presine. Subito il ragazzo iniziò a imprecare nella sua lingua natia una serie incalcolabile di nomi, oggetti ed esclamazioni strane, finché la risata di Francis non lo fece girare verso la porta.

“Cosa diavolo ridi, stupida rana?” Urlò mentre il suo volto diventava rosso per l’imbarazzo.

Francis, che intanto aveva dato un’occhiata più approfondita al suo fondoschiena, continuò a ridere di gusto. Arthur era sempre stato negato per la cucina fin da quando si erano conosciuti anni addietro, quando Francis era soltanto un orfano affamato introdotto nella ricchissima famiglia Kirkland. Aveva più volte cercato di insegnargli almeno i concetti base di come usare i fornelli, ma era stato tutto inutile.
Spostandosi dallo stipite della porta, il francese si avvicinò lentamente ad Arthur e gli prese la mano baciando il dito scottato e facendogli l’occhiolino. Il britannico arrossì vistosamente e poi distolse lo sguardo con un leggero cipiglio e un borbottio incomprendibile.

“Devi stare più attento, mon ami!”

“T-taci! Non solo mi sono svegliato presto per cercare di cucinarti la colazione, devo essere anche preso in giro così!”

Francis sbatté varie volte le ciglia stupito: se Arthur diceva di essersi svegliato presto, e già di per sé si svegliava presto, ciò significava che quella teglia di biscotti deformi non era stata la prima aberrazione che era uscita da quel forno quella mattina. Un brivido lo scosse lungo tutta la schiena al pensiero di quanti ingredienti preziosi erano stati sacrificati nelle mani dell’inglese.

“Merci, mon ami, io apprezzo sempre quello che fai per me!” Canticchiò mentre spingeva l’altro verso una sedia del tavolo “Ma è mattina inoltrata e io ho fame. Ora da bravo rimani qui seduto e aspetta che cucini qualcosa di buono… o per lo meno commestibile…”

Arthur cercò di fare resistenza mentre la sua bocca sciorinava una serie di imprecazioni da vero londinese, infine si arrese e si sedette togliendosi il grembiule da cucina e lanciandolo contro Francis, che lo prese al volo.

“Su su, tesoro, non essere così arrabbiato! Piuttosto, cosa vorresti per colazione?”

Legandosi il grembiule dietro la schiena, Francis iniziò a recuperare tegami e altri strumenti da cucina. Sorrise quando vide il cestino, che di solito Arthur usava per fare la spesa, contenere uova, farina e latte fresco. In realtà il francese non aveva mai capito come il suo compagno riuscisse a procurarsi quei beni alimentari quasi di lusso mentre il resto della popolazione era affamata e per strada tra le macerie.
Un pensiero che per ora non era molto importante.

“I miei scones, per favore!” Rispose con veleno l’altro biondo da dietro le sue spalle.

Francis lanciò un’occhiata alla teglia ancora fumante con sopra i biscotti quasi carbonizzati. Scosse la testa in disapprovazione e iniziò a riunire degli ingredienti in una ciotola, amalgamandoli con una frusta.

“Mon dieu, non vorrai davvero mangiare quella roba tutta bruciacchiata? Non vorresti invece una bella crepe con un po’ di thè?”

Arthur rispose con un verso frustato, rimanendo il silenzio per il resto del tempo. Francis sorrise sotto i baffi, il suo amico era così orgoglioso da non voler ammettere che preferiva il cibo francese piuttosto che i suoi biscotti cotti male inglesi.
Fischiettando, il biondo mischiò per bene gli ingredienti nella ciotola roteando la frusta velocemente e con decisione, la manica della camicia da notte che rivelava i numeri sull’avambraccio a ogni colpo di frusta. Francis sentiva lo sguardo di Arthur forargli la schiena, ma non disse nulla.

Prendendo una padella e mettendola sul fuoco, in poco tempo riempì un piatto di fumanti e deliziose crepes dall’odore invitante. Mentre aspettava che l’ultimo crepe si cuocesse nella padella, prese la teglia ormai fredda e la svuotò in un sacchetto di carta. Da dietro le sue spalle Arthur esclamò la sua disapprovazione.

“Non voglio sprecarli, conosco molte persone che li apprezzeranno nonostante siano così bruciati”

“Ma io li ho fatti per te!”

“Lo so, mon ami, ma sai anche che non li mangerò!”

Non era per cattiveria, ma da quando era tornato in Inghilterra vari mesi prima, Francis aveva giurato a sé stesso di non mangiare più alcun cibo se non fosse stato della cucina francese e cucinato da lui. Gli dispiaceva offendere in quel modo il suo adorato compagno, ma purtroppo il suo fisico non si era ancora ripreso dagli abusi subiti durante la sua prigionia nonostante fosse trascorso più di un anno dalla sua liberazione, e intendeva mangiare in modo salutare per cercare di salvare il salvabile. I medici che lo avevano visitato gli avevano assicurato che si sarebbe rimesso in sesto presto, ma Francis sentiva il suo fisico, e soprattutto la sua mente, compromessi per sempre.
Un pugno sul tavolo lo riportò alla realtà.

“Stupida rana! Crepa! Sparisci dalla mia vista!”

Francis rise di gusto a quelle parole. Da quando era stato accolto nella casa della famiglia Kirkland, Arthur aveva sempre avuto il vizio di inveire contro di lui quando qualcosa non era di suo gradimento, o semplicemente quando era arrabbiato o nervoso. Di solito Francis portava il conto delle volte che Arthur gli diceva quella frase per il semplice gusto far infuriare maggiormente il suo compagno, che trovava semplicemente adorabile in quello stato. Questo era un gioco che facevano prima che lui partisse per il fronte, ma da quando era tornato Arthur non glie l’aveva ancora mai detta.

Con un rapido colpo di spatola, il francese girò la pastella sul fuoco e stava per rispondere ad Arthur iniziando il conto degli insulti, quando due braccia gli strinsero il busto da dietro. Arthur premette il petto contro la sua schiena, poggiando la fronte sulla spalla del ragazzo, che sorpreso da quel gesto posò la spatola sulla cucina.

“No…. Ti prego, non farlo…”

“A-Arthur?”

Il rumore di alcuni singhiozzi arrivò alle orecchie del francese. Dietro la sua schiena Arthur strofinava il suo volto sulla sua spalla, bagnandola di lacrime.

“Non voglio che tu… che tu muoia, o… o che te ne vada… Non voglio rimanere solo… di nuovo”

Francis strinse le labbra mentre i suoi occhi si inumidivano e il suo cuore si stringeva per il dolore. Se per lui quegli anni erano stati difficili, per Arthur, che non sapeva dove si trovasse e se fosse ancora vivo, lo erano stati altrettanto.
Girò su sé stesso senza rompere l’abbraccio e strinse il britannico al suo petto accarezzandogli con una mano la schiena mentre con l’altra i capelli.

“Tranquillo Arthur, tesoro… non vado da nessuna parte. Io non ti lascerò mai più, te lo prometto!”

A quelle parole Arthur strinse ancor più il corpo del francese e gemette nel pianto. Francis gli prese il mento con la mano e gli alzò il volto per guardarlo negli occhi. Lo sguardo di Arthur era bagnato e carico di dolore, i bordi degli occhi e le guance rossi mentre le lacrime scendevano copiose.
Francis rimase incantato dalla sua bellezza.

“Arthur” Sussurrò, poi chiuse le distanze tra di loro.
Le labbra di Arthur erano morbide e sottili, mentre quelle di Francis screpolate e carnose. Il francese diede un piccolo morso a quelle labbra così invitanti, poi approfondì il bacio chiedendo il permesso di poter esplorare la bocca dell’altro con la sua lingua, permesso subito accordato. Arthur si chinò leggermente all’indietro spinto dalla forza gentile ma decisa del bacio, mentre il suo corpo si spostò per combaciare perfettamente a quello del suo compagno e le braccia si strinsero attorno al suo collo.

La stanza si riempì velocemente dell’odore pungente di cibo bruciato, ma la coppia sembrò non farci caso tant’era concentrata nel baciarsi.
Francis non riuscì a resistere e fece scivolare le sue mani dalla vita dell’inglese fin sul fondoschiena che strinse forte, facendolo gemere per la sorpresa e rompendo il bacio.
Il francese sorrise e appoggiò la fronte sulla sua.

“Non esiste nulla al mondo che possa allontanarmi di nuovo da te! Soltanto la morte forse, e dovrà combattere molto… sono un osso duro, sai?” Fece l’occhiolino.

Arthur sorrise mentre un’ultima lacrima scivolava sulla guancia, poi annuì di rimando e si alzò in punta di piedi per iniziare un altro appassionato bacio.

 

Maggio 1950, San Pietroburgo

Toris si passò la manica del giubbotto sulla fronte mentre camminava per le strade trafficate della grande città russa. Il sole picchiava senza tregua sui palazzi e sulle strade illuminando e scaldando tutti i pedoni che frettolosamente camminavano ovunque intorno a lui, guardandolo con vivo stupore e con una punta di giudizio.
Il ragazzo lituano camminava a passo svelto coperto da un lungo cappotto e una sciarpa, decisamente troppo pesanti per quella stagione, madido di sudore e con un grosso sacchetto della spesa tra le braccia. Cercò di ignorare le lunghe occhiatacce che la gente gli lanciava mentre cercava di allargare la sciarpa quel tanto che bastava per non farla aderire alla pelle del collo e quindi farlo sudare ulteriormente. Almeno aveva avuto la decenza di legare i capelli con un nastro, anche se sulla fronte e vicino le orecchie erano tutti bagnati.

Schivando i vari veicoli che ronzavano ovunque con il loro rumore assordante, finalmente riuscì ad arrivare al portone del palazzo dove condivideva un appartamento con il suo compagno Ivan.
Dopo essere stato salvato dal campo di concentramento, Toris era stato oggetto di una corte quasi da romanzo rosa da parte del soldato russo che in quella fatidica notte era saltato fuori dal carro armato come una inaspettata quanto bellissima sorpresa. Inizialmente Toris non gli diede molto credito, guidato anche Feliks e i suoi amici che non vedevano di buon occhi Ivan, ma a lungo andare cedette al corteggiamento, trasferendosi in Russia con lui.

Girando la chiave nella grossa serratura del portone, Toris fu colpito da una folata d’aria fredda proveniente dalla tromba delle scale appena aprì l’anta. Girava sempre una piacevole aria fresca nel grande atrio del condominio, che d’estate rinfrescava e d’inverno invece scaldava quel tanto che bastava per ritrovare la sensibilità alle dita degli arti.
Il loro appartamento si trovava al terzo piano, dopo una scalinata degna di qualunque scalata su di una montagna. Dopo aver salito quelle rampe di scale Toris aveva sempre il fiato corto, soprattutto se portava altri pesi con sé come il sacchetto della spesa. Gli altri coinquilini russi, tra cui anche Ivan, non sembravano soffrire della cosa.

Arrivato sul pianerottolo davanti il portone, Toris esitò qualche istante prima di infilare la chiave nella serratura e girare la maniglia. Si diede quasi dello sciocco per quell’attimo di incertezza, cercando di reprimere un lieve senso di paura che stava crescendo dal suo interno.
La sua vita in Russia era tranquilla e appagante, Ivan gli voleva bene, non avevano problemi economici gravi.
Non aveva nulla da temere.

Eppure, quando l’odore pungente della vodka lo assalì dopo aver aperto la porta, Toris sentì lo stomaco chiudersi dal terrore e una sgradevole sensazione, che provava ogni volta che sentiva l’odore o alla vista della vodka, pesare sulla sua pelle.

“No, ti prego no… non di nuovo” Pensò mentre entrava lentamente e guardingo nella sala d’ingresso.

L’odore della vodka proveniva in cucina dove una radio suonava una melodia piuttosto ritmata russa, seguita dal rumore dello sfrigolare di una padella. Toris raggiunse la cucina stringendo forte il sacchetto tra le sue braccia e cercando di non fare alcun rumore nella speranza di non essere scoperto.

Ivan era seduto al tavolo intento a leggere un quotidiano russo mentre ascoltava rilassato la radio, sulla cucina qualcosa aromatizzato alla vodka cuoceva nella padella. Appena Toris vide Ivan leggere il giornale con il suo solito sorriso ingenuo sul volto tutta la sua tensione si sciolse all’istante, seguita dal nodo allo stomaco. Ritrovando una certa serenità, entrò nella cucina salutando allegramente il russo che intanto balzò sulla sedia spaventato dall’improvvisa voce.

“T-Toris! Non ti ho sentito arrivare!” Esclamò mentre il suo sorriso si allargava in volto, appoggiando il giornale aperto sul tavolo.

“Sono stato piuttosto bravo a non farmi sentire, vero? Potrei lavorare come spia!”

Il ragazzo bruno posò il sacchetto sul tavolo mentre Ivan rispondeva positivamente e si alzava per salutarlo con un bacio sulla guancia. Appena le sue labbra toccarono la pelle sudata, il russo si accorse dell’abbigliamento e dello stato del suo compagno.

“Toris, perché indossi ancora questi vestiti pesanti? Sei un bagno di sudore. Pensavo che ti fossi abituato ormai al clima russo e che riconoscessi il cambio delle stagioni” Cerco di afferrare la sciarpa per tirarla via ma Toris scostò la mano e con delle scuse si allontanò da lui.

“Non preoccuparti tesoro, avevo freddo stamattina quand’ero uscito e il cambiamento del tempo mi ha sorpreso, tutto qui. E poi anche tu porti una sciarpa, non dovresti criticarmi” Disse mentre si avviava verso il bagno inseguito dai borbottii di Ivan, che era stato preso in contropiede “Vado a farmi una doccia, potresti sistemare la spesa? Ho comprato tutto il necessario per cucinare i pirozhki!”

Un’esclamazione euforica e il frusciare della busta di carta furono le ultime cose che sentì prima di chiudere la porta del bagno.
Toris sospirò e iniziò a slegarsi i capelli e spogliarsi da quei pesanti vestiti impregnati di sudore. Mentre i panni scivolavano a terra la sua pelle rivelava il motivo per cui il ragazzo insisteva a coprirsi tanto anche se era iniziata la stagione calda: lividi ovunque, grandi, piccoli, lunghi e viola, oppure maturati e sbiaditi, accompagnati da tagli freschi, in via di guarigioni e cicatrici piccole e lunghe.
Soprattutto saltava all’occhio un grosso livido sul collo che aveva la forma di due paia di mani che si allargavano dalla base fino sotto il pomo d’Adamo, d’un viola molto acceso, ultimo ricordo di una nottata d’incubo.

Toris finì di spogliarsi e guardò la sua immagine riflessa nel piccolo specchio appeso sopra il lavandino. Con un dito toccò il grosso livido sul collo e seguì il contorno fino ad arrivare al muscolo trapezio, l’incavo tra il collo e la spalla, mentre la sua mente tornava indietro ad alcune notti precedenti e il suo sguardo si faceva triste.

Dopo essere stato liberato dalla prigionia, pur avendo affrontato un lungo periodo di convalescenza sia in Lituania sia in Russia con Ivan, Toris non era ancora riuscito a liberarsi del ricordo degli orrori del campo di concentramento, e soprattutto dei traumi che ne sono derivati.
Incubi notturni, panico nei luoghi affollati, la persistente sensazione di essere osservato e inseguito ovunque, la paura di essere catturato nuovamente e imprigionato in un altro di quei campi infernali, questi erano alcuni dei problemi che Toris doveva giornalmente affrontare.
Il ragazzo aveva cercato di nascondere i suoi traumi al suo compagno per non creargli problemi, ma era fermamente convinto che Ivan avesse intuito qualcosa e cercasse in modo discreto di aiutarlo. In effetti il ragazzo russo era sempre stato molto premuroso con lui e quando aveva qualsiasi tipo di problema era sempre al suo fianco per aiutarlo.

Purtroppo, anche Ivan soffriva di traumi dovuti alla guerra.
Si agitava quando sentiva rumori forti che potevano ricordare cannonate o lo scoppio di mine e granate; aveva un’ossessione nel accertarsi della provenienza della carne che acquistava, a volte pretendendo addirittura di vedere il macellaio all’opera sull’animale; spesso soffriva d’ansia che lo portava a vagare in casa come se attendesse qualche evento catastrofico da un momento all’altro; aveva sviluppato anche una mania compulsiva di accumulare il cibo in una vecchia valigia sotto il suo letto, nel caso dovesse succedere qualsiasi cosa, diceva.
Ma il trauma più grave di cui soffriva erano le allucinazioni.
Di giorno queste allucinazioni si limitavano ad essere soltanto sonore, dove Ivan sentiva i rumori di un combattimento in atto o le grida dei nemici morenti, mentre di notte esse diventavano più forti e aggressive, spesso accompagnate da visioni.

Nonostante Ivan fosse stato fin da subito sincero circa i suoi problemi con Toris, il russo non aveva mai accennato alle sue allucinazioni, sicuramente nel tentativo di proteggerlo e per non allarmarlo, ma dopo poco tempo il lituano lo venne a scoprire, e nel peggiore dei modi.
Per tentare di fermare le allucinazioni che lo facevano cadere in fortissimi stati depressivi, Ivan aveva cominciato a bere per cercare di stordire la sua mente. Spesso il metodo funzionava e Toris trovava il suo povero compagno accasciato sul tavolo mentre piangeva e mormorava parole incoerenti, la bottiglia di vodka vuota accanto a un bicchiere rovesciato su un fianco. In quelle situazioni Toris cercava di tranquillizzare il russo con carezze e paroline dolci, poi lo aiutava a raggiungere il letto, dove quest’ultimo cadeva in un sonno profondo.
Altre volte invece, Ivan non era così fortunato da placare le sue allucinazioni, anzi l’alcol le amplificava rendendolo violento.
In quelle situazioni Toris aveva due scelte: nascondersi e aspettare che il suo compagno cadesse incosciente, sperando che nel frattempo non cercasse di ferirsi o addirittura uccidersi; oppure affrontare Ivan nel tentativo di tranquillizzarlo.
Toris sceglieva sempre la seconda.

Di solito il tutto finiva nell’arco di una diecina di minuti da quando Toris andava da Ivan per cercare di placarlo, arco di tempo in cui Ivan rompeva qualsiasi cosa gli finisse sotto tiro, lanciava piatti e bottiglie urlando frasi ingiuriose contro Toris, che veniva visto come il nemico, cercando di colpirlo con calci e pugni.
Passati quei minuti infernali, l’adrenalina di Ivan finiva lasciando il posto alla fatica e l’enorme ragazzo russo si accasciava su sé stesso esausto, riacquistando gradualmente la sua lucidità.

Toris era particolarmente bravo a schivare i colpi del compagno e a sgusciare dalle sue prese, ottenendo a volte qualche ferita dovuta dalla ceramica o dai vetri rotti, oppure qualche livido qua e là sulle braccia e sul torace. Durante il periodo della resistenza contro l’occupazione tedesca era stato addestrato anche al combattimento corpo a corpo, così in quei particolari momenti poteva applicare le sue conoscenze sia per non farsi male sia per non fare male ad Ivan.

Sfortunatamente, due notti prima non era riuscito ad evitare un pugno allo stomaco e, mentre si accasciava per il dolore, Ivan gli aveva messo le mani al collo per cercare di strangolarlo. Toris ne era uscito con solo un grosso livido perché era riuscito a fermare il russo sferrandogli un forte colpo al pomo d’Adamo, soffocandolo momentaneamente e indebolendolo a tal punto da liberarsi. Quella fu la prima notte che scelse anche la prima possibilità, ovvero quella di nascondersi.

Incredibilmente, le mattine dopo quelle nottate d’inferno il russo non ricordava nulla. La sbronza non sembrava avere alcun effetto su di lui, che si svegliava di buonora, riposato e tranquillo. Toris cercava di nascondere ogni prova di quei momenti tragici, buttando i cocci rotti e pulendo tutto, attribuendo il caos generale ai ladri che in quegli anni frequentemente rubavano in casa e nascondendo i lividi e i tagli ai suoi occhi.
Ivan sembrava crederci ogni volta, dimostrando un’ingenuità quasi disarmate, e si comportava nuovamente in modo affettuoso come se non fosse mai successo nulla.

“Sono stato io a farteli, non è vero?”

Toris saltò sul posto nel sentire la voce di Ivan che proveniva dalla porta socchiusa. Immediatamente cercò di coprirsi non la virilità ma i lividi sul corpo, girandosi verso la fonte, spaventato.
La porta era stata aperta quel tanto che bastava per permettere a Ivan di guardare all’interno del bagno. Metà del suo volto era nascosto dal legno laccato di bianco, mentre l’altra metà presentava uno sguardo spento e addolorato, il suo sorriso era stato sostituito una smorfia triste.

Toris rimase a bocca aperta mentre sosteneva lo sguardo di Ivan, che intanto vagava su ogni segno non nascosto dalle braccia, fermandosi infine sul collo. Cercò di dire qualcosa ma un nodo in gola non gli permise di continuare.
Come faceva a sapere che quei lividi erano colpa sua?
Toris era certo di non aver rivelato nulla di tutto ciò e di aver nascosto bene le prove.

Vedendolo in difficoltà, Ivan sospirò e aprì la porta per entrare nel bagno. Toris non accennò a muoversi né ad indietreggiare mentre Ivan socchiudeva la porta e lo raggiungeva, non perché terrorizzato ma perché si fidava ciecamente del suo compagno.
Raggiunto il ragazzo lituano, Ivan cedette a un moto d’affetto e lo abbracciò stringendolo a sé mentre si curvava per premere il volto tra l’incavo del suo collo. Toris si ritrovò premuto contro il petto largo del suo compagno, che lo sovrastava di parecchi centimetri.

Ancora cercando di capire cosa stesse succedendo, un singhiozzo attirò la sua attenzione. Il corpo di Ivan iniziò a tremare mentre sentiva il suo naso tirare su un paio di volte.

“Ivan..?”

“E’… è arrivata una lettera da Feliks. Io, io l’ho letta. Ero curioso di sapere cosa… cosa vi dicevate, un po' geloso anche… e...” La voce gli morì in gola mentre veniva scosso da altri singhiozzi.

Toris ricambiò l’abbraccio poggiando la testa sul suo torace, stringendo i denti.
L’amicizia con Feliks era durata anche al di fuori del campo di concentramento tramite scambio epistolare, e occasionalmente Toris e Ivan passavano qualche settimana in vacanza nella tenuta
Lukasiewicz. Mentre con gli altri detenuti i rapporti erano stati interrotti dai contrasti sorti dopo la guerra circa la spartizione dei territori alle nazioni vincitrici, di fatto allontanando sempre più l’Europa dell’Est dal resto dell’Europa e dell’America, i rapporti con Feliks rimasero saldi e forti. I due sopravvissuti si consideravano quasi come fratelli, e Feliks si arrogava il diritto di trattare Toris come un fratello minore dandogli consigli e criticando o approvando le sue idee.
Spesso Feliks finiva le sue lunghe lettere, quasi interamente incentrate sui suoi cavalli, con una filippica che cercava di persuadere il lituano a lasciare Ivan e a trasferirsi da lui. Egli sapeva dei problemi di Ivan e delle violenze che compiva su Toris, lui glie ne aveva parlato, e cercava in ogni modo di proteggere il suo amico convincendolo a sottrarsi da quell’amore malato. Toris però non considerava il loro rapporto malato, anzi.

Mentre con una mano iniziava ad accarezzare la schiena, con l’altra scompigliava i capelli chiari del suo compagno, nel tentativo di tranquillizzarlo.

“Da quanto tempo?” Chiese Ivan quando riuscì a calmarsi quel tanto che bastava per poter ricominciare a parlare “Da quanto tempo va avanti questa storia?”

“Alcuni anni” Si limitò a rispondere Toris.

Ivan trattenne il respiro mentre la sua presa si stringeva ulteriormente sul corpo di fronte. Toris sentì il suo cuore stringersi potendo solo immaginare come stava soffrendo in quel momento il suo compagno.
Rimasero in quella posizione, abbracciati l’un l’altro, con Ivan che respirava forte per cercare di calmarsi e Toris che lo accarezzava per tranquillizzarlo, per diverso tempo, finché il russo non prese improvvisamente la parola.

“Sono un mostro…” Sussurrò “Tu meriti di meglio…”

Toris sgranò gli occhi mentre le parole del russo riecheggiavano nelle sue orecchie.
Non aveva davvero detto quelle parole, vero?
Sentì la presa su di sé lentamente sciogliersi e l’aria fredda del bagno insinuarsi sul suo torace ancora caldo dal contatto fisico con l’altro.
Ivan lo stava liberando dal suo abbraccio. Lui lo stava lasciando.

Toris alzò lo sguardo incredulo verso il volto dell’altro mentre la sua presa si stringeva con forza per non lasciarlo andare, ma il ragazzo dai capelli chiari cercò in ogni modo di non incrociare il suo sguardo, guardando ovunque tranne che verso di lui.

“Cosa stai dicendo?” Sussurrò incredulo.

Ivan abbassò lo sguardo a terra mordendosi un labbro mentre le sue braccia cadevano lungo i fianchi, inermi e stanche.
Non ci fu risposta, ma Toris non ne voleva alcuna.
Serrando le sue braccia intorno al corpo più grande, premette il volto contro il petto di Ivan e non accennò a lasciarlo andare.
Il russo sospirò e cercò gentilmente di allontanarlo spingendolo dalle spalle, ma la sua presa era così inaspettatamente forte che non cedette di un millimetro.

“Toris” Sbuffò infine “Io-“

“Se avessi voluto…” Lo interruppe il lituano con la sua voce ovattata dal suo maglione “Se avessi voluto lasciarti, l’avrei fatto molto tempo fa. L’avrei fatto la prima volta che sono stato testimone dei tuoi problemi, o la prima volta che i miei compagni d’arme mi incitarono a farlo, o quando Feliks mi chiedeva disperatamente di trasferirmi da lui”

Mentre parlava, la sua testa si sollevò dal petto del russo e lo sguardo cercò il suo incredulo e ancora addolorato.

“Ma io non l’ho fatto, semplicemente perché non volevo farlo, anche se ho avuto moltissime occasioni. Io volevo stare al tuo fianco e voglio starci ancora, qualsiasi cosa succeda, perché so che mi ami e so che quella persona violenta che mi procura tutti questi lividi non sei tu!”

Le sue mani si posarono sulle guance pallide del russo, accarezzandole affettuosamente. Ivan aveva socchiuso gli occhi gonfi nuovamente di lacrime, le labbra tremavano per l’emozione. Strinse di nuovo il corpo nudo a sé circondandolo alla vita e tirò su col naso nel vano tentativo di trattenere le lacrime.
 Toris ne asciugò qualcuna con il pollice, lanciando un timido sorriso al suo compagno.

“S-scusami….  avrei dovuto parlarti dei miei problemi…”

“Ivan, non devi scusarti. Anzi sono io a doverlo fare, non solo non ti ho parlato dei miei di problemi, ma non ho nemmeno provato ad aiutarti. Ma ti prometto che d’ora in avanti affronteremo tutto insieme, va bene?”

Ivan annuì un paio di volte mentre le lacrime gocciolavano sulla pelle esposta del lituano, che stava cominciando a reagire al freddo della stanza. Ivan diede un bacio sulla testa di Toris sussurrandogli innumerevoli volte grazie, poi accorgendosi della pelle raffreddata, iniziò a strofinarla con le mani per scaldarlo.

“Ma tu stai congelando! Ti lascio al tuo bagno allora, anche se non vorrei davvero farlo”

“Allora facciamolo insieme!” Propose Toris con un dolce sorriso.
Ivan rispose a sua volta con un sorrisetto e annuì mentre si allungava per chiudere la porta.

 

Qualche ora più tardi, quando il bagno e il pranzo erano state consumate e Ivan era andato a riposare per prepararsi al turno notturno del lavoro, Toris si sedette allo scrittoio nell’angolino della sala di lettura e aprì l’ultima lettera di Feliks.
Il biondo polacco aveva scritto a Toris circa una sua cavalla che partoriva, com’era nel suo solito, e del fatto che quell’invernata era stata molto gelida in Polonia, forse molto più che in Russia (Toris ne dubitava fortemente), inoltre si scusava per il ritardo delle sue prossime lettere perché il sistema postale polacco stava avendo dei problemi a causa di “non sapeva il perché” (tipico di Feliks non sapere nulla di ciò che non lo toccava direttamente).
La lettera finiva con la sua solita, lunga filippica sulla violenza di Ivan e sul come Toris doveva immediatamente lasciarlo per mettersi in sicurezza da lui o dai suoi amici (preferibilmente da lui).

Toris sorrise per quasi tutta la lettura sentendo un moto d’affetto e di nostalgia nei suoi confronti, ma il sorriso svanì quando lesse le ultime righe, come sempre quando leggeva quelle parole che erano frequenti nel loro scambio epistolare.
Prendendo un foglio dal cassetto e una penna, il ragazzo bruno cominciò a scrivere una lettera di risposta per il suo amico.
Raccontò quant’era stato duro l’inverno in Russia e quanta neve era caduta nelle strade, e come la cosa lo disturbò non poco ricordandogli il crollo del capannone. Gli raccontò anche un episodio buffo accaduto in un negozio qualche settimana prima, e come era scivolato in modo imbarazzante su una lastra di ghiaccio semi sciolto per una strada trafficata del centro.

Ebbe premura di non nominare mai Ivan, com’era il suo solito, per non scatenare le risposte seccanti dell’amico, scrivendo molti episodi che aveva vissuto con lui come se fosse stato solo in quei momenti. Quando arrivò alla terza pagina, decise di concludere la lettera con una risposta a tono alle premure malvolute dell’amico.
Brevemente, gli spiegò il perché delle sue scelte e il perché non avesse ancora lasciato Ivan, ripetendo tra l’altro ciò che aveva detto al suo compagno ore prima. Chiese gentilmente all’amico di non insistere, anche se sapeva che quella richiesta sarebbe stata totalmente ignorata, e concluse con un saluto di commiato, la data del giorno e la sua firma.

Rilesse nuovamente il foglio aggiustando qualche errore qua e là, poi prese una busta e un francobollo dal cassetto e preparò la lettera per essere spedita l’indomani.
Mentre scriveva l’indirizzo della villa di Feliks, ripensò agli eventi della mattina e alle parole di Feliks.
Certo, sia lui sia i suoi amici avevano ragione, Ivan diventava molto pericoloso quando era preda delle allucinazioni, soprattutto quando beveva, ma anche lui aveva dei problemi significativi e Ivan era stato sempre al suo fianco per aiutarlo in ogni modo possibile.

“Affronteremo insieme questi problemi e li supereremo” Pensò mentre posava la lettera sul mobile “Non sarà facile, ma insieme ci riusciremo. E poi nessuno è perfetto, no?”

 

Dicembre 1963, Berlino Ovest

La sirena riecheggiò in tutto l’edificio con un suono forte e pulito, annunciando la fine del turno. Ludwig sospirò mentre lasciava la sua postazione vicino alla fonderia per premere dei bottoni su un pannello e spegnere il macchinario per la stampa dei barattoli in latta. Gli altri operai, che come lui avevano appena finito il turno, sciamarono in silenzio verso l’uscita dell’edificio, diretti allo stanzone dove si trovavano i loro armadietti. Qualcuno provò a intavolare un discorso, ma la maggior parte di loro era stanca e desiderava soltanto tornare a casa, e la domanda o l’esclamazione volava via portata dal vento gelido, senza risposta.

Togliendosi le poche protezioni che aveva, Ludwig seguì il gruppo in silenzio, conformandosi all’umore generale.
Da quando era stato catturato nel campo di concentramento e processato a Norimberga, Ludwig aveva speso i successivi quindici anni della sua vita in un carcere di Berlino, divenuta nel frattempo Berlino Ovest. La sporcizia, il trattamento a dir poco disumano che le guardie riservavano ai detenuti, il cibo scadente e quasi assente, i criminali che lo circondavano, tutto in quel posto lo aveva fatto tremare fin dentro le ossa e tolto per molti notti il sonno.

Durante quei lunghissimi anni di prigionia era stato indirizzato in progetto lavorativo in ambito metallurgico, formandolo per un presunto lavoro in vista della sua scarcerazione. In effetti, poco tempo dopo essere tornato libero era riuscito a trovare lavoro presso la fabbrica di barattoli di latta dove si trovava ora.

La colonna di uomini silenziosi imboccò un piccolo corridoio che li portò nello stanzone degli armadietti. Velocemente, molti di loro afferrarono le loro cose e con pochi saluti si dileguarono. Ludwig sapeva bene del perché di quella fretta, di solito gli operai erano sempre molto lenti nel prendere i loro averi e andarsene, spesso si fermavano per brevi chiacchierate o per organizzare un gruppetto per andare al pub, ma quello era il giorno di paga e molti di loro avevano fretta di prendere i pochi soldi che gli spettavano.
Alcuni li avrebbero portati a casa per pagare i debiti e per comprare da mangiare alla famiglia, altri li avrebbe dilapidati in alcol o scommesse clandestine.

Ludwig non si affrettò anche se l’idea di avere finalmente la sua paga mensile era esaltante, non aveva nessuna voglia di andare al pub e non aveva nessuno ad aspettarlo a casa.
Nuovamente libero, Ludwig faticò non per trovare lavoro, bensì per trovare un’abitazione a causa degli affitti troppo alti. Si dovette accontentare di un bugigattolo di tre stanze che condivideva con un emigrato spagnolo sempre allegro e spensierato, che come lui lavorava nella fabbrica ma in un altro settore.

 Indossò il lungo e pesante cappotto rattoppato e, mettendosi la borsa sulle spalle, si avviò verso gli uffici dei dirigenti per riscuotere il frutto del suo lavoro. Mentre raggiungeva il gruppo di persone che si ammassava nervosa davanti gli uffici, fu raggiunto da Antonio, il suo coinquilino, che aveva appena terminato un turno di straordinari.
Ludwig lo salutò con poco slancio mentre il bruno gli lanciava un caloroso sorriso.

“Hola, amigo! Anche tu hai appena finito il turno?”

“Ja, stavo giusto andando a prendere la paga. Devi riceverla anche tu?”

“Oh, no, no, io l’ho presa a fine turno. Sono venuto qui soltanto per incontrarti, così andiamo a casa insieme”

Raggiunsero i restanti operai mentre dagli uffici usciva un amministratore che con un elenco cominciò a chiamare cognomi di varie nazionalità, spesso deformandoli.
Finalmente Ludwig si girò a guardare il suo amico per la prima volta da quando si erano incrociati.

“Non avevi un turno di straordinari?” Chiese accigliandosi mentre Antonio incominciava a ridere con una strana risata musicale.

“No, in realtà era un turno normale, solo che sono arrivati dei nuovi operai appena emigrati e mi hanno chiesto di fargli fare un giro della fabbrica e di spiegargli alcune cose”

Ludwig annuì sovrappensiero mentre tornava a guardare l’amministratore che girava il foglio accedendo a un’altra lista. Dopo poco tempo venne urlato il suo nome e il ragazzo biondo si affrettò a raggiungere l’uomo, intascare la piccola busta contenenti la sua paga, e tornare da Antonio. Nel mentre, Ludwig si sentì più di qualche sguardo puntato addosso.
Aveva cercato con ogni mezzo di nascondere la sua parentela con la famiglia caduta in rovina
dei Beilschmidt, arrivando perfino a negare una presunta parentela con suo padre, che con la caduta del regime si era suicidato insieme alla moglie come la maggior parte degli ufficiali di alto rango del Fuhrer. La quasi totalità degli operai gli aveva creduto, ma alcuni avevano ancora molti sospetti e lo fissavano senza pudore con uno sguardo diffidente, bollandolo nella loro mente come uno sporco nazista.

Antonio era rimasto nel posto dove lo aveva lasciato. Facendogli un cenno con la testa, i due cominciarono a camminare verso l’uscita della grande fabbrica, pronti ad affrontare una serata gelida e nevosa per tornare nella loro abitazione.

“Sai, quelli nuovi che sono arrivati sono molto simpatici, ci sono anche un gruppetto di spagnoli! E’ stato bello chiacchierare con loro nella nostra lingua, e non essendo delle mie parti ci siamo raccontati qualcosa del nostro territorio a vicenda”

“Sembra bello. Hai intenzione di cucinare tu stasera?”

“Uh? Ah si, magari una tortilla, tanto le patate non mancano mai, dovrei comprare soltanto le uova…”

“Allora mentre torniamo ci fermiamo dal droghiere” Rispose il tedesco mentre abbozzava un mezzo sorriso, pregustando la cucina spagnola di cui era segretamente ghiotto.

“Vale (Va bene)!” Rispose di rimando lo spagnolo, poi sorrise nuovamente “Di cosa parlavamo? Giusto, dei nuovi arrivati! Ci sono anche due francesi, sono davvero splendidi, con il loro accento così morbido…”

Antonio cominciò a raccontare di ogni singolo individuo che era stato assunto quel giorno nella fabbrica. Ludwig gradualmente smise di ascoltarlo e si concentrò su un piccolo gruppetto di persone che chiacchierava davanti la porta d’uscita. Antonio aveva il vizio di parlare troppo e Ludwig aveva capito di non possedere più la pazienza infinita di cui andava tanto fiero da giovane. Però, non volendo offendere il suo amico, il tedesco si limitava a fingere di ascoltare, annuendo qualche volta ed esclamando stupore.

Mentre si avvicinavano, dal gruppetto si staccò un ragazzo bruno che iniziò a strillare verso un corridoio con fare quasi animalesco. Ludwig si fermò all’istante per due motivi, attirando la curiosità dello spagnolo che smise con la sua filippica su quanto sono poco simpatici gli olandesi.
Il primo motivo fu il comportamento quasi osceno del ragazzo, che si era messo a urlare come se qualcuno lo stesse scorticando vivo.
Il secondo motivo era che aveva urlato qualcosa di incomprensibile in una lingua armoniosa, sembrava quasi stesse cantando a squarciagola.
Ma a uno sguardo più attento, Ludwig trovò un terzo motivo, di gran lunga superiore ai primi due: quel ragazzo era uguale a Feliciano.

Nei quindici anni che aveva passato in carcere, la mente di Ludwig era volata innumerevoli volte verso l’italiano, disperandosi di non poterlo più vedere e immaginando cosa stesse facendo in quello stesso momento. Inizialmente l’immagine di Feliciano era nitida nella sua mente, i capelli castani lisci che ondeggiavano al vento con lo strano ricciolo ribelle, il suo corpo mingherlino da proteggere, i suoi occhi vivaci e luminosi, il suo sorriso caldo e rassicurante.
Ma anche se la mente del tedesco era costantemente impegnata nel ricordo del suo amato, con i vari mesi l’immagine di Feliciano iniziò ad affievolirsi, a sfumare i contorni, a perdere i dettagli e i colori, finché non rimase che un forte senso di angoscia e di perdita che portò Ludwig a non pensarci più pur di non soffrire ulteriormente.
Una volta libero, Ludwig fu così sopraffatto dagli eventi circostanti da non pensare più al bell’italiano che gli aveva fatto girare la testa, ritrovandosi però un vuoto nell’animo così incolmabile che nemmeno le birre oppure solo l’idea di trovare qualcun altro potevano risolvere.

Ma in quel momento, la vista dei capelli bruni e lisci, la bassa statura e il corpo mingherlino, la voce forte che urlava parole in italiano…
Feliciano era lì, davanti a lui, finalmente poteva rivederlo.

Ludwig fu travolto da una forte ondata di gioia, che velocemente si tramutò in panico.
Con quale faccia poteva andare davanti all’italiano, ex prigioniero del campo di concentramento che gestiva con suo fratello, e restaurare un rapporto malato nato tra sofferenza e torture varie?
Feliciano avrebbe potuto provare sentimenti di odio e repulsione alla sua vista, ricordando quei momenti terribili, e avrebbe potuto scacciarlo in malo modo, infliggendogli una ferita quasi mortale.

Indeciso sul da farsi, rimase fermo a fissare l’italiano sbalordito, trattenendo il fiato. Antonio lo guardò dubbioso, poi notò il ragazzo bruno e sorrise allegramente.

“E’ vero, mi sono dimenticato di dirti che ci sono anche degli italiani! Davvero gente simpatica, ma un po’ maleducata. Si dice in giro che uno di loro ha il codice sul braccio!”

Ludwig deglutì, tutto corrispondeva.
Vedendo che il suo amico non rispondeva, lo spagnolo si rivolse al ragazzo bruno chiamandolo e salutandolo a gran voce.
Ludwig non fece in tempo a fermarlo, e quando l’italiano si girò il suo cuore affondò nel petto con un dolore sordo.

Non era lui.
Quel ragazzo gli assomigliava moltissimo, ma non era Feliciano. Il colore dei capelli e la corporatura erano praticamente identici, anche se il taglio era leggermente diverso, ma il suo sguardo e il suo volto era totalmente differenti, più duri e ostili.
Ludwig respirò a pieni polmoni per cercare di calmarsi e di abbassare l’ondata d’adrenalina. Era stato un falso allarme, una speranza che era nata e morta in poco meno di trenta secondi, tutto stava tornando alla triste normalità.

Antonio si avvicinò allegramente al ragazzo, mentre quest’ultimo si accorse di lui e indietreggiò di qualche passo.

“Hola mi amigo!! Allora, ti è piaciuta la fabbrica? Dove lavorerai?”

“Cosa!!! Ancora tu? Cosa cazzo vuoi?”

“Suvvia, non essere così diffidente… ehm… come hai detto che ti chiami?”

“Non te l’ho detto, e non lo farò mai! E ora sparisci, mi metti i brividi! E tu idiota, muoviti che fa freddo!” Urlò l’italiano verso il corridoio da dove provenivano dei passi affrettati, non prestando più attenzione ad Antonio.

“Ve! Arrivo!”

Lo sguardo di Ludwig seguì la figura appena entrata nell’atrio, che correva verso l’italiano, vedendola a rallentatore, come se fossero tanti piccoli fotogrammi messi su un proiettore.
Il suo cuore perse qualche battito mentre il suo respiro si bloccava in gola.
Feliciano raggiunse l’altro ragazzo bruno, chinandosi un po’ su sé stesso per riprendere fiato, per poi salutare Antonio con il suo solito entusiasmo.

Tutti i suoi pensieri, tutti i sogni, i sentimenti, i desideri che aveva avuto su quella figura ormai quasi sbadita dal tempo e dalla memoria traditrice, vennero a galla prepotentemente, rinvigoriti dalla presenza del centro del suo mondo da ormai quindici anni, lì, proprio lì in Germania, a Berlino Ovest, in quella fabbrica.
Ludwig sentì la testa leggera e un forte senso di vertigine.

Feliciano continuò a parlare allegramente con Antonio, presentando l’altro italiano come suo fratello Romano, che intanto si rifiutava di guardare lo spagnolo interessandosi invece alla neve che cadeva visibile da una finestra.

“Piacere di conoscerti, Romano. In effetti sei stato un dei pochi che non si è presentato quando abbiamo finito il giro della fabbrica! Lasciate invece che vi presenti il mio amico e coinquilino Ludwig”

Di tutti e tre gli sguardi che si posarono sulla sua statura, Ludwig vide soltanto quello di Feliciano. L’italiano tardò a posare il suo sguardo su di lui, come se quel nome significasse che lui fosse effettivamente lì. Nessuno pensò a un caso di omonimia, appena pronunciati i loro nomi entrambi seppero che l’altro era lì, davanti a loro.

Gli occhi di Feliciano si spalancarono, seguiti da quelli di Romano. Evidentemente il fratello sapeva della sua esistenza, altrimenti non si spiegava il suo repentino cambiamento da arrabbiato a furioso.
Feliciano invece non si scompose, rimase a fissare il tedesco stupito e quasi inebetito mentre le sue labbra si dischiudevano lentamente per formare una piccola “o”.

Ludwig anche rimase immobile, con la testa vuota e il corpo pesante, incapace di pensare o muoversi. Il suo sguardo era fisso in quello dell’italiano, si guardavano l’un l’altro scrutandosi nell’animo senza presentare alcun cenno di voler fare il primo passo. Probabilmente Feliciano perché era incredulo dall’averlo trovato nella fabbrica in cui stava iniziando a lavorare, Ludwig perché sopraffatto e terrorizzato dai sentimenti e dai pensieri negativi che ad essi seguivano.
Probabilmente, se Antonio non fosse intervenuto per fendere l’aria pesante che si era creata con una risata e qualche parola, loro sarebbero potuti rimanere immobili a fissarsi per ore intere.

Romano invece era rosso in volto e tremava dalla rabbia che a stento tratteneva. Ludwig non seppe mai perché in quel momento il fratello dal carattere difficile dell’uomo che amava non aveva accorciato le loro distanze velocemente e non lo aveva colpito con forza in volto, un dubbio che preferì non chiarire mai.

“Fusososo, cos’è tutta questa timidezza, Ludwig? Vieni a conoscere i nostri nuovi compagni!”

“Tu…” Appellò Romano, ma fu subito azzittito da Feliciano che, facendo un passo incerto in avanti verso il ragazzo biondo, si leccò le labbra spaccate dal freddo.

“Ludwig…” Iniziò, ma non potette aggiungere nessun’altra parola.

Preso da una fortissima ondata di panico, appena visto che Feliciano stava facendo il primo passo verso di lui, il ragazzo tedesco ebbe paura e, voltandosi velocemente, scappò verso il lato opposto all’interno della fabbrica.
Molti fissarono la scena confusi, alcuni perfino sorridendo al gesto inaspettato di Ludwig, che era stato sempre una persona molto seria e composta, alcuni soltanto sorpresi dell’accaduto, come Antonio che non si aspettava una reazione simile dal suo amico “serio come la morte” (così lo chiamava scherzosamente).
Romano invece fu il primo ad uscire dal suo stato di stupore e ad esclamare qualcosa di volgare in italiano.

Feliciano osservò immobile con la bocca spalancata Ludwig correre nella direzione opposta, per poi svoltare l’angolo. Incerto su cosa fare, guardò suo fratello per un istante, ricevendo uno sguardo di incomprensione, e poi iniziò a correre anche lui.
Le urla di Romano che gli intimavano di tornare indietro riecheggiarono per tutto l’atrio, ma Feliciano non accennò a rallentare. Mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime, la sua mente era una mescolanza di pensieri.

Di tutte le cose che aveva immaginato quando aveva deciso di seguire il fratello in Germania per cercare lavoro, il ritrovare Ludwig, per di più nella stessa fabbrica dove era stato assunto, non era tra quelle.
Quei quindici anni di lontananza li aveva spesi ad aspettare un’occasione, un modo, oppure un miracolo, per poter ritrovare o anche solo vedere per un momento il giovane tedesco. Aveva passato giornate intere a sognare ad occhi aperti davanti una finestra, e speso le più lunghe e buie nottate a piangere con il volto premuto sul cuscino. Suo fratello lo aveva rimproverato non ricordava quante volte, maledicendolo e maledicendo quel demonio tedesco che gli aveva procurato così tanto dolore, e che lo stava facendo soffrire anche in quel momento.
Pian piano il suo dolore prese la sfumatura di sorda rassegnazione, finché Feliciano non divenne disilluso: soltanto un miracolo da un dio molto beffardo avrebbe potuto fargli rincontrare Ludwig, qualcosa che non avrebbe mai potuto ottenere.
Lentamente il suo comportamento tornò alla normalità, facendo tirare un sospiro di sollievo al fratello, una normalità che celava però una grande sofferenza.

Con la coda dell’occhio, mentre svoltava l’angolo, Ludwig vide Feliciano muoversi ed accelerò il passo. La consapevolezza di essere un codardo per essersela data a gambe in quel modo davanti tutti e senza una spiegazione, insieme alla paura e il timore di dover affrontare Feliciano e dovergli chiedere un perdono che non sarebbe venuto, gli pesavano sull’animo e sullo stomaco come un macigno.  

Correva come se da quel gesto dipendesse la sua vita, il lungo giubbotto che svolazzava intorno alle gambe ormai non più toniche come un tempo. Soltanto una volta nella sua intera vita aveva corso in quel modo, ed era stato in quel maledetto giorno in cui i russi avevano liberato il campo di concentramento.
La gente che incrociava per i grandi corridoi lo guardava stupita, alcuni si giravano per seguirlo con lo sguardo.
A Ludwig non importava, tutto ciò che voleva era nascondersi da Feliciano, colui che in quel momento stava cercando di raggiungerlo e urlava il suo nome disperato.
Ad ogni suo urlo, Ludwig sentiva aprirsi una lacerazione nel suo interno.

Correndo senza una meta precisa, il ragazzo biondo si infilò all’ultimo secondo in una porta attraverso cui si accedeva a un settore della fabbrica a lui sconosciuto. Macchinari giganteschi ed enormi tubature apparvero davanti i suoi occhi avvolte quasi del tutto dall’oscurità, con nastri trasportatori immobili che si snodavano per chissà quanti metri nel buio più totale.
Incerto sul da farsi, decise di nascondersi dietro un robusto tubo che dal macchinario si immetteva nel suolo con un’elegante curva, premendo la schiena contro l’acciaio gelato e coprendosi la bocca con una mano per celare la sua presenza.

Dopo pochi secondi, la porta fu violentemente aperta e dei passi affrettati, seguiti da un ansimare, riecheggiarono per tutto lo stanzone. Feliciano si guardò disperatamente attorno, cercando di intravedere il tedesco tra tutti i macchinari e il fitto buio in quella stanza. Non riuscendo a trovare nulla, iniziò a gemere e singhiozzare.

“Ludwig… Ludwig sei qui? Ti prego Ludwig… ti prego…”

Nessuna risposta.
Lentamente, Feliciano indietreggiò fino alla porta mentre piangeva in silenzio.

“Ve… non è qui…” Sussurrò a sé stesso, poi uscì dalla porta e ricominciò a correre.

Quando i suoi passi furono lontani, Ludwig si lasciò sfuggire un sospiro. Le sue gambe tremarono e si accovacciò con la schiena contro il grosso tubo, mentre le mani gli coprivano il volto rigato dalle lacrime.

 

I giorni seguenti a quell’incontro furono un totale inferno per Ludwig, costretto non solo a schivare le sempre più spinose domande del suo coinquilino e di calmare la sua fortissima agitazione dovuta ai vecchi sentimenti che erano riaffiorati tutt’insieme, ma anche a dover trovare un modo per entrare e uscire dalla fabbrica senza farsi vedere dal gruppo di italiani che circondava perennemente i due fratelli bruni.

Inoltre, come scoprì con stupore, Feliciano si rivelò un ragazzo piuttosto tenace: ogni giorno, e per almeno un paio di volte, gli operai che lavoravano nello stesso settore gestito da Ludwig gli riferivano che un italiano aveva chiesto di lui sperando in un colloquio, anche se breve. Ludwig non sapeva come aveva fatto a capire in quale settore della fabbrica lavorasse, ma sospettava ci fosse uno zampino spagnolo. Comunque sia, si era premurato fin dall’inizio di informare i suoi compagni di non permettere di far entrare nel settore altri operai non addetti, specialmente l’italiano che aveva dipinto, malvolentieri, come un piantagrane che lo aveva preso di mira. Non gli riuscì particolarmente difficile convincere gli altri operai in quanto gli italiani non avevano una buona nomea, o meglio erano famosi per essere malviventi, attaccabrighe e piuttosto seccanti quando prendevano di mira qualcuno.

I primi giorni Feliciano non accennò a desistere, ma con il passare delle settimane la sua resistenza vacillò passando da cercarlo ininterrottamente per più volte al giorno a cercarlo di meno, poi a giorni alterni, infine smettendo del tutto.
Ludwig non sapeva se la cosa doveva fargli piacere oppure renderlo triste, aveva dei sentimenti piuttosto confusi a riguardo: sollievo, ansia, tristezza, rimorso, rassegnazione.
In effetti, più pensava a tal proposito più concludeva che doveva esserne triste, ma che doveva comunque lasciar correre e andare avanti, anche se questo avrebbe significato una maggiore sofferenza.
Un loro riavvicinamento non avrebbe giovato per nessuno dei due.

Per cercare di non pensare troppo a quella situazione, Ludwig accettò di buon grado degli straordinari malpagati che lo costringevano a rimanere fino a notte fonda nel suo settore, in compagnia di metallo fuso e macchinari per stampa rumorosi e ormai obsoleti.
Molti dei suoi compagni accettarono gli straordinari come lui, cosicché a fine lavoro si formava un gruppo piuttosto folto di persone che, silenziosi e con andatura stanca, si trascinava fin fuori dalla fabbrica dove il vento gelido notturno li aggrediva senza pietà facendoli rabbrividire violentemente.
Con quegli straordinari, Ludwig era costretto in fabbrica per quindici ore, e quando tornava a casa trovava Antonio già addormentato da tempo, ma la cena fredda a base di pietanze spagnole pronta sul tavolo.

Gli straordinari sarebbero durati per tutto il mese, ma dopo una settimana Ludwig già si chiedeva come sarebbe riuscito a portarli a termine, esausto com’era per le troppe ore di lavoro e il poco sonno a disposizione.
Quella sera colui che gestiva il settore in cui lavorava si era ammalato improvvisamente, lasciando tutto il lavoro nelle sue mani, costringendolo a una doppia fatica. Quando finalmente il fischio sancì la fine dei turni di straordinario, Ludwig si piegò sulle gambe asciugandosi la fronte e sospirando per il sollievo. Gli altri operai iniziarono a sistemare i macchinari e a sciamare in gruppi verso la porta dello stabile, alcuni in vena di chiacchiere, altri semplicemente trascinandosi fuori, come sempre.
Il tedesco si rimise dritto e andò al pannello di controllo per spegnere tutti i macchinari, la corrente elettrica e altre cose che gli erano state spiegate qualche ora prima. Controllando scrupolosamente di aver sistemato tutto, si accertò di essere l’ultimo in quella stanza e uscì chiudendosi la grande porta alle spalle.

Nello stanzone degli armadietti, mentre recuperava le sue cose infilandosi il suo lungo e pesante cappotto nero, Ludwig sentì gli altri operai parlottare eccitati in vari gruppetti, qualche volta ridendo, altre invece esclamando per lo stupore. Incuriosito da quell’insolito scoppio di vitalità a quell’ora di notte e soprattutto dopo il lavoro, il ragazzo biondo cercò di tendere l’orecchio, senza molto successo. Il vociare era così sussurrato e fitto che era quasi impossibile distinguere qualche parola.

Senza perderci altro tempo, lasciò la stanza infilando il cappello sui capelli tirati all’indietro e seguì le altre persone che si incamminavano verso l’atrio della fabbrica. Mentre proseguiva sovrappensiero, immaginando già quale cena il suo amato coinquilino gli avesse preparato, un gruppetto davanti a lui si fermò all’improvviso esclamando a voce alta.
Ludwig quasi andò a sbattere contro uno di loro.

“Incredibile! Allora è vero!”

“Ve lo dicevo che quella gente è strana, meglio non avere niente a che fare con loro”

“Cosa succede?” Domandò Ludwig, ormai preso dalla curiosità.
Uno degli operai si girò a guardarlo e, dopo averlo squadrato per qualche ragione a lui sconosciuta, gli sorrise e gli spiegò la situazione.

“Dicono che dal fine turno regolare un uomo si è messo ad aspettare davanti il cancello della fabbrica, sotto il lampione, non si sa chi! E’ da oggi pomeriggio che sta lì impalato, e ha nevicato ben due volte. Pensavamo che fosse una di quelle storielle stupide inventate per passare il tempo mentre si lavora, ma a vedere tutta questa gente che fissa fuori dalle finestre, dev’essere vero!”

L’uomo indicò un folto gruppo di persone che si accalcavano davanti la porta dell’atrio cercando di guardare fuori dalle finestre. Un forte vocio riempiva tutta la stanza.
Ludwig si accarezzò il mento con fare dubbioso, la pelle dei guanti che strofinava dando una sensazione di morbidezza sull’accenno di ricrescita della barba sul suo volto.
Quella storia sapeva di assurdo, eppure il tedesco non credeva che all’improvviso tutti gli operai degli straordinari fossero impazziti all’unisono. Sentendo la sua curiosità crescere in modo esponenziale, ringraziò l’uomo per la spiegazione e si avvicinò al folto gruppo di persone che si accalcava nell’atrio per cercare di capire qualcosa in più, o almeno per cercare di uscire dalla fabbrica e tornare a casa.

Nella massa trovò alcuni suoi compagni di settore con cui aveva scambiato qualche parola ogni tanto e li raggiunse. Salutando in modo cortese, Ludwig fece capire di essere interessato alla storia che stava infuocando gli animi di tutta la fabbrica.

“Non hai sentito? Pare che un uomo sia rimasto da oggi pomeriggio fino ad adesso sotto quel palo della luce davanti al cancello senza muoversi mai! E’ incredibile vero? Ed ha pure nevicato molto oggi, ma non ha accennato ad andarsene. Secondo alcuni sta aspettando qualcuno o qualcosa, ma secondo me è soltanto un pazzo. Se ti affacci alla finestra puoi vederlo, il lampione lo illumina tutto”

Ludwig cercò di sfruttare la sua statura per affacciarsi a uno dei finestroni che fiancheggiavano l’uscita, quasi del tutto coperto dalle teste degli altri curiosi che sbirciavano fuori. Riuscì a intravedere, nel buio più totale della notte, il fascio di luce del lampione che veniva smorzato dai fiocchi di neve che cadevano velocemente portati dal vento, e in mezzo ad esso la sagoma di un’esile figura.

“Secondo me è morto in piedi, congelato dal freddo, ed è rimasto in quel modo” Commentò un altro compagno “E’ impossibile sopravvivere a tutto quel freddo con quei pochi stracci che ha addosso”

A uno sguardo dubbioso di Ludwig, annuì e spostò lo sguardo verso il finestrone.

“Si, sono stato uno dei primi degli straordinari a vederlo. E’ vestito come se fosse estate, quel disgraziato, starà patendo le pene dell’inferno. E pensare che il fratello ha cercato in tutti i modi di portarlo via”

A quelle parole Ludwig distolse lo sguardo dal panorama esterno per concentrarlo totalmente sul suo interlocutore.

“Fratello?” Chiese ansiosamente.

“Si, o così mi hanno detto. Pare abbiano messo su un bello spettacolino, con urla e percosse tanto forti che infine hanno dovuto portare via il fratello indiavolato in tre, altrimenti avrebbe davvero ammazzato quello scemo”

L’uomo continuò a parlare, ma Ludwig non prestò più attenzione alle sue parole. Aveva un bruttissimo presentimento riguardo colui che stava compiendo quel gesto quasi da suicida e voleva chiarire il dubbio. Cercò di farsi avanti spingendo da parte le altre persone e avanzando nella folla, senza staccare gli occhi dal finestrone e dalla sagoma che di tanto in tanto si muoveva cercando di scrollarsi di dosso la neve e il freddo.
Mentre avanzava, sentiva parti dei discorsi degli altri operai.

“Ma quello è pazzo-“

“Ehi, non spingere”

“State bloccando l’uscita, voglio andare a casa! Fate passare!”

“-cono che è vestito di stracci, forse è un barbone!”

“Si, il fratello gli urlava nella loro lingua come se lo stessero scorticando vivo. Giuro-“

“Sai come sono fatti questi italiani, no? Gente rozza, senza la minima educazione, io li rimanderei nella loro nazione-“

La mano guantata di Ludwig poggiò a palmo aperto sul ferro della porta, mentre l’altra girò con forza il pomello, quasi rompendolo. Una folata di vento e neve colpì la folla facendogli gonfiare i giubbotti mentre usciva di corsa fuori il cortile della fabbrica.
La neve copriva ogni cosa a perdita d’occhio, sia a terra dove le impronte degli operai erano state coperte da tempo, sia i muretti e i tetti delle case circostanti. Il buio era quasi totale, spezzato soltanto da qualche lampione qua e là e da qualche finestra lontana con la luce ancora accesa. Il silenzio era quasi sacro, rotto soltanto dalle folate di vento e da qualche starnuto che si sentiva da lontano, dalla sagoma che sotto il lampione aspettava con una compostezza quasi militare. Ludwig cercò di abituare gli occhi all’oscurità, mentre faceva qualche passo nella neve. Sentiva tutti gli occhi degli operai che da dietro i vetri della finestra gli bucavano la schiena, curiosi e avidi di storie assurde da poter raccontare il giorno dopo ai loro compagni, ma non gli importava.
Non gli importava di nulla se non della figura che sotto il lampione moriva dal freddo.

La sagoma non accennò a muoversi nonostante si avvicinasse sempre di più, e ad ogni passo riusciva a cogliere un dettaglio nuovo: la magrezza della figura, l’assenza di vestiti pesanti, gli sbuffi di respiro caldo portati via dal vento, i capelli castani scompigliati che volavano ovunque.
Ad ogni passo il suo cuore accelerava di un battito, minacciando di scoppiare tant’era forte. Poteva sentire la sua pressione in gola, le mani tremavano nei guanti di pelle mentre la testa iniziava a pulsare.

Infine, si fermò all’altezza del grosso cancello che segnava il confine della proprietà della fabbrica, lo sguardo fisso davanti a sé.
Dall’altra parte della strada, Feliciano ricambiava il suo sguardo tremando come una foglia sotto la luce del lampione, pallido come un cadavere e con il volto rosso e bruciato dal freddo. Non si mosse né cercò di attirare l’attenzione su di lui, semplicemente rimase rigido nella sua posizione a sostenere lo sguardo di colui che aveva aspettato per tutto quel tempo.

Il tedesco era completamente paralizzato, lo stupore non gli permise di pensare velocemente. Poi un ricordo si fece largo nella sua mente confusa come una lama affilata che affonda nel burro. Ai suoi occhi, Feliciano non vestiva più i leggeri panni colorati con cui cercava di proteggersi dal freddo, bensì gli stracci a strisce nere e bianche del campo di concentramento, il suo sguardo lo fissava da dietro una rete elettrificata mentre il suo corpo era consumato dalla fatica e dalla fame, sul volto i segni delle violenze subite dalle altre guardie.

Gli ci vollero pochi secondi di corsa per raggiungerlo, Feliciano che sorrideva felice mentre Ludwig si sfilava il lungo cappotto nero per coprirlo. Quando infine lo raggiunse, lo avvolse con il cappotto e lo strattonò violentemente.

“Stupido! Sei uno stupido! Le persone muoiono con questo freddo!”

“Ve… Ludwig, finalmente…” Rispose con voce debole, distorta dalla gola fredda e probabilmente ammalata.

Ludwig avrebbe voluto urlargli contro, schiaffeggiarlo e maledirlo per essere così sconsiderato e per aver messo in pericolo la sua vita, facendo inoltre preoccupare suo fratello, ma rinunciò quando vide il sorriso raggiante dell’italiano e il suo sguardo caldo e colmo d’affetto su di lui.
Con un sospiro di rassegnazione, rimboccò il pesante giubbotto sulle spalle di Feliciano. Il ragazzo si avvicinò velocemente a lui e lo abbracciò senza alcun preavviso.

“Ve… sei così caldo!”

“Si, me l’avevi già detto” Sussurrò lui mentre circondava affettuosamente il corpo del ragazzo con le sue braccia.

“Allora lo ricordi ancora!” Chiese con stupore l’italiano guardandolo direttamente negli occhi.

Un rumore metallico si diffuse per tutto il cortile fino all’esterno, seguito da alcuni passi ovattati nella neve. Evidentemente gli altri operai stavano uscendo fuori dalla fabbrica per tornare alle proprie case, o più probabilmente per assistere meglio al loro incontro.

“Si, ma non è questo il posto per parlare. Vieni, andiamo da questa parte”

Prendendo una mano gelata nella sua guantata, Ludwig portò velocemente via Feliciano da sotto quel lampione, spostandosi di qualche isolato e imboccando molte stradine secondarie per seminare quegli spioni che proprio non ne volevano sapere di tornare nelle loro case.

Dopo poco tempo, trovata una casa semidistrutta dai bombardamenti e non ricostruita, i due uomini si ripararono dalla nevicata sotto il tetto fatiscente della struttura. Feliciano era rimasto in silenzio per tutto il tempo, cosa piuttosto strana in quanto il tedesco lo ricordava piuttosto rumoroso, ma manteneva ancora il suo genuino sorriso sul volto. Per quanto riguardava Ludwig, temeva seriamente di poter morire da un momento all’altro per quanto fosse veloce e forte il suo battito cardiaco.

“Aspetteremo qui che la nevicata diminuisca o smetta del tutto. Dove abiti?” Chiese infine “Ti riporto a casa da tuo fratello, sicuramente sarà molto preoccupato”

“Io non voglio tornare a casa, non ora che finalmente ho avuto l’occasione di rincontrarti, di poterti parlare di nuovo” Eruppe l’italiano con lo sguardo che stava velocemente tendendo al lacrimevole “Ho aspettato così tanto tempo per questo!”

Ludwig ricordò le parole dei suoi compagni, di come Feliciano si era messo ad aspettare fuori dalla fabbrica alla fine del turno regolare. Ma erano più di otto ore, no?
Dubbioso su quanto effettivamente quella testa di rapa avesse aspettato, domandò di preciso quanto tempo era stato ad attendere.
Feliciano gli lanciò un sorriso con una forte sfumatura di tristezza.

“Quindici anni”

Qualcosa si ruppe in quel preciso istante in Ludwig.
Quel numero, quelle due parole dal semplice significato, gli fecero riaffiorare nella mente e nell’animo tutti i ricordi e le sensazioni provate dal momento in cui aveva messo piede nel campo di concentramento fino in quel momento: tutte lo sofferenze, le gioie, l’amore che aveva provato per lui, l’odio per il fratello e poi l’atroce sofferenza di perderlo per sempre, la paura e l’angoscia provata in carcere, la rassegnazione e la tristezza che provava ora…

Si ritrovò a piangere violentemente mentre abbracciava con forza l’italiano tirandoselo al suo petto.
Mentre piangeva si scusava con insistenza, chiedendo perdono per tutta la sofferenza che aveva dovuto patire per colpa sua, ma chiedendo perdono anche a sé stesso per aver negato il suo stesso essere.

Feliciano ricambiava l’abbraccio e l’affetto seguendo il compagno con grosse lacrime, sussurrandogli parole rassicuranti e accarezzando lentamente la schiena con il palmo della mano.
Quando entrambi si furono calmati, Feliciano prese il viso di Ludwig tra le mani e sorrise:

“Il destino vuole proprio farci stare insieme”

“Chi sono io per oppormi ad esso?”

Feliciano assunse un’espressione meravigliata a quelle parole, e Ludwig ne approfittò per avvicinarsi e lasciare un morbido bacio sulle sue labbra.
Ci fu un’improvvisa folata di vento, ma Ludwig non la sentì tant’era preso dal baciare Feliciano. Quando si divisero, l’italiano rise di felicità e si risistemò il giubbotto sulle spalle, che nel frattempo era scivolato minacciando di cadere e lasciarlo scoperto.

“Ha smesso di nevicare, ti riporto a casa”

“No! Non voglio che tutto questo finisca, come in quelle opere teatrali dove infine il protagonista si risveglia scoprendo di aver sognato tutto! Ve, non voglio!”

“Farò tutto ciò che è in mio potere per non farlo finire” Rispose il tedesco prendendogli la mano “Te lo prometto”

Feliciano rispose con un ampio sorriso mentre si incamminarono verso le case popolari dei sobborghi di Berlino Ovest.

 

Gennaio 1964, Berlino Est

Se non era la neve a congelare persino l’anima, era il vento sferzante e gelido che si incanalava nei vari vicoli diventando forte quasi quanto una burrasca. E se non il vento, ci pensavano la pioggia e la grandine a tormentare le povere persone di Berlino Est.
Ma se quelle più fortunate potevano contare su eleganti ombrelli, giubbotti lunghi e caldi e su posti rinomati per ripararsi come i Cafè, le persone che non possedevano nulla erano costrette a ripararsi come meglio potevano, nei posti più bui e sporchi della città, frugando nell’immondizia nella speranza di trovare qualcosa da mettersi addosso oppure qualcosa da mangiare.

Le giornate di Gilbert erano tutte più o meno uguali, tutte spese a guardare la gente passare concentrata sulla propria vita e completamente cieca al pezzente che, sbragato a ridosso di un muro, li fissava con uno sguardo vitreo nella speranza di ricevere qualche soldo o qualcosa da mangiare.
Le persone camminavano a passo svelto cercando di non scivolare sul ghiaccio che si era formato a terra, strette nei loro lunghi vestiti pesanti e caldi, a volte scavalcando le lunghe gambe dell’albino che si allungavano sul marciapiede.

Gilbert cercava di attirare la loro attenzione allungando verso di loro un cappello mal rattoppato e ormai inutilizzabile e sussurrando richieste di pietà, sperando in qualche elemosina. I dollari e i rubli erano il denaro più ambito perché di maggiore valore, ma si sarebbe accontentato anche solo di qualche marco per riuscire a comprare un tozzo di pane e placare quell’insaziabile fame che lo accompagnava da quando era tornato libero.

In prigione non se l’era cavata troppo male, era stato confinato con altri nazisti, formando un solido gruppo in cui si spalleggiavano a vicenda, ma una volta fuori dalla prigione Gilbert realizzò con amarezza che il mondo era cambiato, si era evoluto, e che si era dimenticato di lui.
Non c’era più posto per lui in quel mondo, un nazista povero di una famiglia decaduta che aveva speso gli ultimi diciassette anni in carcere, eppure continuava ad aggrapparsi alla vita con forza cercando di tirare avanti ogni singolo giorno come poteva.

Aveva cercato di trovare un lavoro discreto, o almeno che gli permettesse di comprare un po’ di cibo ogni giorno, ma velocemente scoprì che il regime sovietico non era stato così gentile con il suo paese, che l’economia era disastrosa e che nessuno in quelle condizioni gli avrebbe potuto offrire un lavoro, non con quella spalla lesionata che non gli permetteva di fare sforzi e nemmeno di alzare il braccio oltre l’altezza del mento.
Intorno a lui vi erano così tanti uomini in buona salute che cercavano lavoro, accettando anche pagamenti e condizioni disumane, che quando provava a farsi assumere il più delle volte i datori di lavoro gli ridevano in faccia, o lo additavano come un poveraccio e lo cacciavano via.
Alla fine era davvero diventato un pezzente.

I peggiori erano i russi, con i loro modi di fare rudi e senza il minimo scrupolo, trattavano la gente come se fosse inferiore, per non parlare di coloro che si trovavano nella condizione di Gilbert. Lui soprattutto era preso sempre di mira per il suo aspetto inusuale, spesso era costretto a scappare e nascondersi tra le macerie non ancora rimosse degli edifici per sfuggire a un linciaggio, uniche sue colpe essere un senzatetto ed essere albino.
Qualche volta non era stato così fortunato e portava ancora addosso le cicatrici delle coltellate che aveva ricevuto.
No, nessuno in quel mondo aveva pietà dei barboni.

Dopo aver passato ore a tendere il braccio in direzione dei passanti, Gilbert si arrese e posò il cappello a terra, rannicchiandosi il più possibile sui cartoni per difendersi dal freddo. Quel giorno era riuscito a recuperare pochi pfennig (centesimi di marco), insufficienti anche per un quarto di pane, e il freddo era più intenso che mai.

“Forse è arrivato il giorno in cui ci rimetterò finalmente le penne” Pensò mentre osservava la gente che, diminuita sensibilmente, si affrettava a tornare a casa dopo un estenuante turno di lavoro.

Alcuni volti non erano nuovi per l’albino, sedendo in quel punto del marciapiede da più di un anno ogni singolo giorno, ormai conosceva bene tutti quelli che passavano quotidianamente per quella strada:
un uomo con il giubbotto rattoppato e di pessima fattura che usciva dalla fabbrica e si andava a rintanare subito in un pub a bere birra; una donna ormai sulla cinquantina che si affrettava a tornare a casa con una busta piena di alimenti; un ragazzo che portava sulle spalle la lunga scopa da spazzacamino che si puliva insistentemente il volto dalla fuliggine, imbrattandolo ancora di più; un uno piuttosto alto dal lungo giaccone e incappucciato di cui non riusciva a vedere mai il volto tant’era stretto nei suoi abiti, con una lunga sciarpa bianca che gli cadeva fino alle gambe.

Mentre passava, l’uomo senza volto si girò a guardarlo per una frazione di secondo, lasciando cadere una singola moneta dalla manica del giubbotto che gli copriva le mani, per poi continuare il suo cammino come se niente fosse. Gilbert non riuscì a vedere il suo viso a causa dell’ombra del cappuccio, ma si avventò sulla moneta come un avvoltoio su una carcassa, urlando lodi e ringraziamenti mentre intascava la preziosissima moneta da un marco.
Grazie a quell’uomo, anche quel giorno avrebbe mangiato.

Gilbert lasciò la sua postazione di lavoro quando calò il sole. Subito si mise a piegare i suoi preziosi fogli di cartone, senza i quali non poteva difendersi in alcun modo dal freddo dell’inverno e dalla neve, e si precipitò nel negozio di alimentari nei sobborghi periferici della città, dove tutti coloro che non avevano di che vivere potevano riuscire a mettere le mani su un pezzo di pane per pochi soldi.

Mentre addentava freneticamente il cibo e gustava la sensazione della fame placata, l’albino ripensò all’uomo incappucciato che gli aveva donato la moneta. Non era la prima volta che incontrava quello strano individuo, e non era la prima volta che riceveva del denaro da lui. Anzi, a pensarci bene, quell’uomo era l’unico che ogni qual volta passasse davanti a lui, gli lasciava una moneta da un marco, qualche volta addirittura un rublo.
Ogni volta che Gilbert pensava a quell’uomo una sorta di calore si diffondeva nel suo petto, la sua compassione era quasi commovente. Spesso gli ricordava Matthew e il suo sguardo dolce, l’unica persona che non lo aveva giudicato ma accettato per quello che era, qualcuno che ormai non avrebbe mai più rivisto se non nella sua mente.

“Non è un russo, impossibile che sia un russo, nessuno di loro sarebbe così gentile con me!” Farfugliò a bocca piena, parlando tra sé e sé.

Se non russo allora era un tedesco di buon cuore, non c’era alcun dubbio, era rarissimo incontrare stranieri da quel lato del muro.
Gilbert finì in poco tempo il suo pasto e iniziò a vagare per la periferia della città cercando un posto adatto per passare la notte. Doveva essere prudente e meticoloso nella ricerca, sia perché di notte era più facile essere assaliti per un senzatetto, sia perché doveva trovare un posto coperto e asciutto per proteggersi dal freddo.
Ogni notte era come tentare la fortuna con i dati, poteva sbucare nel buio o da dietro un angolo un malvivente con l’intenzione di rubare quelle poche cose che possedeva, oppure un gruppetto di ricchi figli di papà con l’intento di passare la serata a torturare la gente povera e a lasciarla morire senza pietà.

Inoltrandosi nei fitti vicoli sporchi e maleodoranti della periferia, ad un certo punto Gilbert vide una sagoma passargli davanti a una distanza di una decina di passi. Subito si nascose dietro un cumulo di macerie nella speranza di non essere visto, fissando con paura davanti a sé. La sagoma continuò a camminare come se nulla fosse a passo svelto, la neve che scricchiolava sotto le sue scarpe. Quando passò sotto il piccolo lampione a gas che sporgeva da un muro illuminando l’incrocio di vicoli, Gilbert vide l’uomo incappucciato e dalla lunga sciarpa imboccare una di quelle stradine, silenzioso e veloce come un fantasma.

Che cosa ci faceva quell’uomo in un posto del genere a quell’ora di notte?
Forse era anche lui un senzatetto che cercava un posto per passare la notte, ma l’albino scartò subito l’idea ricordando quanti soldi gli aveva dato in elemosina per tutto questo tempo.

“Un uomo con tanti soldi come lui non può non avere una casa” Pensò mentre si alzava.

Improvvisamente il rumore di altri passi si fece largo tra i vicoli, costringendo Gilbert ad accucciarsi nuovamente dietro i detriti di pietra. Un gruppo di tre uomini dal volto poco rassicurante passò velocemente sotto il lampione, palesemente seguendo le orme che aveva lasciando l’altro pochi secondi prima. Qualcuno borbottò qualcosa aggiustandosi il colbacco sulla testa.
Gilbert non aveva dubbi, quelli erano russi e anche della peggiore specie.

Attese qualche altro secondo nascosto nella paura di incappare in un secondo gruppo di uomini, ma quando vide che non sarebbe arrivato nessun altro, si alzò e iniziò a camminare lentamente verso l’incrocio dove la moltitudine di impronte nella neve veniva illuminata dal lampione.

Forse era soltanto un caso che quell’uomo caritatevole fosse passato da quelle parti prima del gruppo di russi, ma l’albino aveva il fortissimo presentimento che non fosse così, e che anzi quell’uomo era in serio pericolo.

“Non sono affari tuoi” Gli sussurrò una vocina nella testa, forse la coscienza “Quell’uomo sicuramente si è messo in qualche guaio con i russi, e non è un tuo problema. Cercare un posto per dormire, è questo quello a cui devi pensare ora!”

Ma il ricordo dell’uomo che gli regalava una moneta mentre passava, guardandolo per qualche secondo come se stesse dicendo “io ti vedo, tu esisti”, si fece largo prepotentemente nella sua mente, spazzando via quella vocina fastidiosa ed egoista.
Seguendo le orme a terra, anche Gilbert imboccò il vicolo e con passo svelto cercò di raggiungere l’uomo incappucciato, o almeno il gruppo di russi, sperando di non arrivare troppo tardi.

Trovò entrambi in un piccolo spiazzale dietro una grossa chiesa abbandonata, l’uno di fronte agli altri a fissarsi mentre il vento soffiava violentemente tra i vicoli, i russi che davano le spalle alla stradina da cui Gilbert assisteva alla scena.
Uno dei tre fece un passo avanti e indicò l’altro uomo con una mano guantata.

“Finalmente ti abbiamo in pugno” Disse con il suo forte accento dell’est “E’ inutile che neghi, sappiamo chi sei e cosa fai, stronzo”

“Sei una schifosa spia americana, e a noi le spie non piacciono” Continuò un altro, il pelo del colbacco e svolazzava ovunque a causa del vento.

Gilbert non fu particolarmente colpito da quelle parole, infatti non molto tempo prima aveva sollevato i suoi dubbi riguardo quell’uomo, ma nonostante ciò il tono di quei russi gli mise i brividi. Sentì che l’uomo incappucciato era in guai seri e che quella situazione sarebbe precipitata in poco tempo.

L’uomo rimase in silenzio a fissare il gruppo ostile ancora per qualche secondo, le mani nascoste nelle grosse tasche del cappotto.
I tre russi si spazientirono in fretta del suo silenzio, due di loro cacciando delle pistole dalle tasche, mentre il terzo un coltello a serramanico.

“Cos’è, il gatto ti ha mangiato la lingua, maledetto americano? Ma sta tranquillo, in un modo o nell’altro faremo in modo che tu non possa più parlare per sempre! Il governo russo non ha bisogno di spie nemiche nel suo territorio!” Urlò infine.

Gilbert vide il metallo delle pistole luccicare alla luce dei lampioni dello spiazzale. Da quella posizione, era in grado di raggiungere con poche falcate gli uomini, mentre l’altro si trovava più lontano e soprattutto a portata di tiro. Dal suo comportamento tranquillo, Gilbert era sicuro che quell’uomo non si era accorto che i russi erano armati ed erano pronti a sparargli in qualsiasi momento. Doveva agire, altrimenti lo avrebbero ammazzato con pochi colpi di pistola, ma cosa poteva mai fare debole, invalido e disarmato com’era?

Infine, l’uomo solo rispose con una voce così leggera che il vento la portò via immediatamente, ma nonostante ciò arrivò comunque alle orecchie dei russi e di Gilbert.

“Sono canadese”

In quel momento, Gilbert sentì un’ondata fortissima di adrenalina corrergli per tutto il corpo. Sprofondando un piede nella neve, si diede lo slancio per uscire fuori dal vicolo e correre verso il gruppo dei russi, che presi alle spalle di sorpresa, non riuscirono a controbattere in tempo. Le pallottole sparate dalle pistole a casaccio guidate dalla paura fischiarono ovunque mentre Gilbert saltava su uno di loro, aggrappandosi con tutte le sue forze alla sua schiena con le braccia e le gambe, urlando all’uomo incappucciato di scappare.
Non si accorse che nel frattempo aveva estratto una pistola e stava sparando contro i russi, freddandoli con singoli colpi precisi.

Dopo quei pochi secondi di adrenalina pura dove la mente si ridusse a un insieme di immagini sfocate e urla ovattate, l’albino si ritrovò con la schiena sulla neve schiacciato dal corpo pesante e privo di vita del russo.
Improvvisamente tutto diventò silenzioso, soltanto il vento con il suo incessante ululato era ancora udibile, accompagnato dal calpestio della neve.

“Stai bene?” Infine, urlò l’uomo mentre si chinava su Gilbert e lo aiutava a spostare il corpo morto con un tono molto preoccupato.

Mentre liberava le gambe dal peso, finalmente Gilbert riuscì a vedere per la prima volta il volto dell’uomo, e quasi non svenne per l’emozione.

“T-tu…” Balbettò senza riuscire a continuare.

Matthew gli sorrise mentre gli porse la mano per aiutarlo ad alzarsi. Gilbert era così scioccato da quella scoperta che la testa gli girava vorticosamente, o forse era soltanto l’adrenalina che abbandonava il suo corpo. Comunque sia, non riuscì a distogliere gli occhi dal suo volto pallido e sorridente.
Era incredibile che Matthew fosse lì in quel preciso momento, forse Gilbert era morto nel tentativo di aiutare l’uomo caritatevole, e un angelo con le sembianze di Matthew era venuto a prenderlo per portarlo di fronte al giudizio divino.
Ma Matthew sembrava più tangibile e reale di un’illusione mistica e alata.

Non era cambiato di una virgola in tutti quegli anni.
I suoi occhi erano ancora brillanti e caldi, e lo guardavano con gioia e amore, il suo sorriso era così genuino da sembrare quasi finto, mentre i capelli biondi e vaporosi erano portati ancora semi lunghi. La cosa che attirò più di tutti l’attenzione dell’albino fu la montatura degli occhiali, di legno con sofisticati intagli, come quelli che gli aveva regalato nel campo di concentramento e che erano andati distrutti. Ma come diavolo…?

Matthew rimase in silenzio per tutto il tempo, dando al tedesco il tempo necessario elaborare quella nuova scoperta, aspettando pazientemente mentre si toglieva la sciarpa per arrotolarla intorno al suo collo scoperto.
Infine Gilbert riuscì a mettere insieme una frase coerente e ad articolarla in modo comprensibile.

“Cosa diavolo ci fai qui?”

“Gilbert, dovresti saperlo, sono una spia” Rispose piano Matthew dopo essersi guardato intorno “Ma non è sicuro parlare qui fuori, anche i muri potrebbero avere le orecchie. Vieni con me, ho un appartamento a pochi isolati da qui. Ti offro qualcosa di caldo se ti va”

A Gilbert andava ovviamente, ma lo stupore era così forte che si ricordò a malapena di annuire.
Per tutto il tragitto rimasero in silenzio, Gilbert con la mente piena di domande e Matthew guardingo e con il perenne presentimento di essere seguito. Infine, raggiunsero un piccolo edificio condominiale dove Matthew alloggiava, nella zona meno malfamata della periferia di Berlino Est.

L’appartamento tutto sommato era scadente e poco accogliente, con qualche mobile sporadico e spifferi ovunque, ma dopo aver vissuto più di un anno per strada, per Gilbert quel posto sembrava una villa. Matthew lo fece accomodare su un divano malmesso mentre si liberava del lungo soprabito invernale e iniziava a preparare del tè caldo.

“Riguardo alla tua domanda” disse all’improvviso facendo sobbalzare l’albino, che ormai si era abituato al silenzio “Sono in missione” Si limitò a dire.

“Missione?”

Nella stanza cadde nuovamente il silenzio. Il bollitore emanò un lungo fischio e Matthew lo tolse dal fuoco per versare l’acqua calda in due grosse tazze, aggiungendo l’infuso e qualche zolletta di zucchero. Quando offrì la tazza al suo compagno questo subito la prese e bevve avidamente qualche sorso scottandosi la lingua, ma la sete e il bisogno di calore era così forte che quasi non ci fece caso. Invece notò un grosso pupazzo di pezza bianco a forma di orso polare che sedeva rigidamente su un angolo del divano, una scritta blu si intravedeva sotto una zampa.
Dopo aver sorseggiato per un po’ il suo tè in silenzio, Matthew posò la tazza un piccolo tavolino e guardò l’albino direttamente negli occhi.

“Dopo che il campo di concentramento è stato liberato, sono stato riportato in patria e decorato con varie onorificenze. Sono rimasto in riabilitazione per molto tempo prima di poter ritornare a lavorare. In quel periodo, in cui ho incontrato nuovamente la mia famiglia, ho deciso di continuare a lavorare per l’esercito come spia. Ho accettato questo incarico appena ho potuto”

“Capisco…” Si limitò a rispondere Gilbert. Sorseggiò ancora per qualche momento il suo tè, poi quando lo finì se ne fece versare dell’altro e ricominciò a bere.
Sapere che il canadese era riuscito a ricrearsi una vita normale dopo la liberazione fece provare a Gilbert del sollievo, ma il ricordare qual era stata la causa dei suoi mali gli mise addosso un forte senso di angoscia.

“Perciò, l’uomo caritatevole eri tu” Esclamò d’un tratto “Tu mi permettevi di comprare da mangiare con l’elemosina, tu rimanevi a fissarmi per ore facendo finta di leggere il giornale appoggiato al muro, eri tu che…” Rimase con le parole a mezz’aria.

“La missione prevede di recuperare più informazioni possibili sul regime russo” Interruppe Matthew con la voce alterata “ma non l’ho accettata per questo. Io l’ho accettata per un altro motivo…”

Gilbert posò la sua tazza ancora semipiena sul tavolo, sbalordito. I suoi occhi si aprirono per lo stupore mentre le parole venivano assimilate nella sua mente.
Matthew era qui per lui?
Impossibile negare che per tutto quel tempo non aveva mai dimenticato il piccolo e fragile canadese, ma Gilbert aveva cercato con forza di metterci una pietra sopra, di rassegnarsi a non poterlo mai più rivedere, anzi a non averne il diritto dopo tutto quello che era successo, dopo quant’era stato disumano con lui e con gli altri prigionieri.
Gilbert si portava dietro delle colpe che difficilmente avrebbe potuto espiare, Dio abbia pietà di lui.

“Matthew…” Sussurrò.

Il canadese sorrise e abbassò lo sguardo, togliendosi gli occhiali e rigirandoseli tra le mani. Quel gesto pieno di significato quasi fece commuovere Gilbert, ma nonostante ciò non riuscì ad esprimere la moltitudine di sensazioni e sentimenti che imperversavano nel suo animo.
Era tutto così strano, così veloce e improbabile che Gilbert quasi temesse fosse un sogno.

“Io… non sono riuscito a dimenticare, Gilbert” Fu tutto ciò che disse.

L’albino rimase in silenzio per qualche istante, poi sorrise:
“E’ normale, io sono troppo fantastico per essere dimenticato”

Non diceva quella frase da tempo ormai, e dirla in quel preciso momento, vestito di stracci e smagrito difronte a colui che un tempo aveva perseguitato con ferocia, era davvero fuori luogo e lasciava un sapore piuttosto amaro in bocca, ma Matthew si limitò ad annuire con il sorriso.

“Si, è vero!”

Il ragazzo dai capelli argentei vide l’altro cercare di trattenere a stento le lacrime mentre il suo sorriso vacillava pericolosamente. Si alzò di scatto e abbracciò stretto quell’uomo che per tutto quel tempo non aveva smesso di cercarlo, nonostante lui si fosse rassegnato al destino.

“No, sei tu ad essere fantastico. Non ci sarà giorno in cui non lo ricorderò al mondo intero”

Matthew ricambiò l’abbraccio con forza, premendo il viso sulla sua spalla.
Da una delle maniche che posavano morbidamente sulle braccia si intravedevano i numeri cuciti sottopelle.

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Arthur e Francis convissero in un piccolo appartamento al centro di Londra per sette anni, finché Arthur non passò a miglior vita a causa di una cirrosi epatica malcurata. Rimasto solo, Francis continuò a coltivare le rose di Arthur deponendone una sulla sua tomba nella cappella di famiglia, ogni giorno. All’età di 53 anni si spense a causa di un infarto fulminante e fu tumulato nella stessa cappella accanto ad Arthur, permettendogli di poter stare insieme per l’eternità. La loro morte mise fine alla lunga discendenza della famiglia Kirkland. La proprietà di famiglia venne trasformata in un ricovero per i reduci di guerra, secondo le loro volontà testamentarie, con l’obbiettivo del loro reinserimento nella società.

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Ivan si impegnò a seguire una terapia riabilitativa per liberarsi definitivamente dei suoi problemi post traumatici, ma quando il regime iniziò a bollare le persone in terapia come malati mentali e a rinchiuderli nei manicomi, dovette smettere. Con il passare degli anni, gli attacchi divennero sempre più frequenti e violenti, finché una notte di inizio dicembre, quando si trovavano nella tenuta di Feliks in vacanza, Toris fu gravemente ferito da Ivan in preda a una forte crisi e ricoverato in ospedale.
Compresa la gravità della situazione, ormai non più sostenibile né risolvibile, Ivan affidò il compagno a Feliks, lasciando la villa la notte stessa. Fu trovato impiccato ad un albero alcuni giorni dopo in un terreno incolto non lontano dalla residenza.
Feliks non ebbe mai il coraggio di dire la verità a Toris, né quest’ultimo chiese mai nulla, semplicemente comprese e si rassegnò. Di tanto in tanto però Feliks poteva sentire di notte i lamenti del pianto dell’amico attraverso i muri delle camere.
Toris non tornò più in Russia e l’appartamento che condivideva con Ivan rimane ancora oggi chiuso e inutilizzato, tutti i loro averi all’interno, nel frigorifero gli ingredienti ormai liquefatti per la torta di compleanno di Ivan.
Vivono tuttora nella residenza Lukasiewicz.

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Chiariti i loro sentimenti, Ludwig e Feliciano iniziarono una relazione stabile e segreta mal accettata da Romano e supportata da Antonio. Dopo molti corteggiamenti da parte di quest’ultimo, alla fine Romano si arrese e iniziò a frequentare lo spagnolo, facilitando di molto lo scambio di inquilini che permise a Ludwig di vivere con Feliciano e a Romano di vivere con Antonio.
Nel 1975, a causa di un grave incidente sul lavoro, Feliciano rimase paralizzato dalla vita in giù senza alcuna possibilità di riabilitazione. Continua tuttora a godere dell’assistenza dei suoi famigliari e del suo compagno mentre si afferma definitivamente nel mondo dell’arte come pittore paesaggista.

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Abbandonata finalmente la strada, Gilbert iniziò a convivere con Matthew, cercando di non disturbare l’operato della spia. Insieme aderirono a un movimento clandestino dedito al rovesciamento del regime comunista e all’abbattimento del muro di Berlino. Durante il loro operato nella “resistenza”, entrambi si impegnarono per aiutare coloro che volevano superare il muro per ricongiungersi con i propri famigliari nella parte occidentale.
Oggigiorno vivono a Bonn in una piccola casa di campagna dove Gilbert alleva canarini.

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Alfred combatté sul fronte occidentale contro i tedeschi, successivamente prestò servizio sul fronte asiatico contro i giapponesi. Dopo un’epica disavventura, con il finire della guerra, rimase qualche anno in Giappone per poi ritornare in patria accompagnato dall’amico Kiku Honda, dove poté finalmente incontrare suo fratello e sua madre.
Divenuto addestratore di nuove reclute nell’esercito americano, attualmente si gode la pensione in un Ranch in Texas insieme al suo amante Kiku.

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Dopo la liberazione del campo di concentramento prussiano, di Roderich non si ebbero più notizie. Voci ufficiali affermano che sia morto durante la liberazione e che il suo corpo sia stato seppellito nelle fosse comuni insieme agli altri caduti, mentre voci di corridoio lo vorrebbero vivo e vegeto in Venezuela, dove riuscì a stabilirsi con altri ufficiali nazisti sfuggiti ai processi, e a formare una famiglia.
Non si seppe mai la verità.

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Il 9 novembre 1989 il muro di Berlino fu abbattuto, riunificando la città e il paese per sempre e mettendo fine alla guerra fredda tra USA e URSS.

All’età di 60 anni, i due fratelli Beilschmidt potettero finalmente riabbracciarsi.

 

 

Il Blocco H3T4-L14

Fine













Note dell'Autore
Scusate il terribile ritardo e la qualità del capitolo.
Grazie di avermi accompagnato lungo questa bellissima avventura.
Tornerò!!!

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