Il blocco H3T4-L14 di Estethell (/viewuser.php?uid=895303)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Arrivo nel campo di concentramento prussiano ***
Capitolo 2: *** Il dormitorio ***
Capitolo 3: *** Sentimenti mai provati ***
Capitolo 4: *** La fabbrica ***
Capitolo 5: *** Desidero vederti felice ***
Capitolo 6: *** Bacio di pronta guarigione ***
Capitolo 7: *** Gli Alleati ***
Capitolo 8: *** La lettera ***
Capitolo 9: *** Il crollo ***
Capitolo 10: *** L'inizio della fine ***
Capitolo 11: *** Un nuovo inizio ***
Capitolo 1 *** Arrivo nel campo di concentramento prussiano ***
La via di selciato si
riempì di polvere quando una macchina
nera lucida e nuova di zecca sfrecciò in direzione del campo
di concentramento.
Al suo interno Ludwig Beilschmidt leggeva per l’ennesima
volta una lettera
ormai consumata. Il ragazzo in divisa militare di pelle nera fece
scorrere il
suo sguardo sulle righe scritte in bella grafia sulla carta,
accentuando sempre
di più la sua smorfia di disgusto.
Caro Ludwig,
sono molto fiero di te per la promozione che hai da poco ottenuto dal
nostro
adorato governo, sono sicuro che riuscirai a svolgere i tuoi doveri con
diligenza come hai sempre fatto, esattamente come tuo fratello.
Porta alto il nome dei Beilschmidt e continua a renderci fiero.
Vostro padre
Ludwig strinse le mani stropicciando
i bordi della lettera
leggendo la firma di suo padre, ma si calmò velocemente e
ripiegò con cura il
foglio infilandolo in una piccola cartellina poggiata al suo fianco sul
sedile.
Non poteva agire in modo impulsivo, non quando gli era stato conferito
un
compito così importante, anche se lo aveva odiato fin dai
primi istanti.
Con un sospiro il ragazzo si tolse il cappello tirandosi i capelli
indietro con
una mano guantata. No, doveva essere impeccabile, l’immagine
della perfezione,
perché lui era Ludwig Beilschmidt, figlio della prestigiosa
dinastia
Beilschmidt, rappresentazione vivente della perfetta razza ariana
tedesca, nonché
nuovo collaboratore dell’amministratore del campo di
concentramento del
territorio prussiano.
Quel pensiero fecero ribollire il
sangue del ragazzo mentre
cercava di calmarsi osservando il paesaggio che sfrecciava fuori il
finestrino.
In realtà, anche se era nato in una famiglia prestigiosa e
altolocata, ma
soprattutto grande sostenitrice del nazionalismo tedesco, Ludwig non
condivideva
gli ideali dei suoi famigliari. Egli era una persona diligente e
disciplinata,
con una solida morale che in molti avevano tentato di scardinare
indottrinandolo al credo nazista, ma lui aveva sempre rifiutato quegli
ideali
ritenendoli sbagliati e ripugnanti. Purtroppo però i suoi
genitori non la
pensavano allo stesso modo e per amor della sua famiglia era stato
costretto non
solo ad aderire al partito nazista ma anche ad operare come suo membro
attivo,
riuscendo a fare carriera e a ottenere una brillante promozione.
Carriera che
secondo il punto di vista di Ludwig si era basata principalmente sui
cadaveri
dei poveri innocenti che il nazismo stava perseguitando. Quel pensiero
lo
disgustava così tanto da non permettergli di guardarsi allo
specchio la
mattina.
Mentre la sua mente vagava cercando
di trovare un senso a
tutto quello che aveva compiuto nella sua vita da quando era arrivato
il
nazismo nella nazione, la macchina rallentò fino a fermarsi
davanti un grosso
cancello che racchiudeva un perimetro di edifici fatiscenti e mostruosi
da far
venir la pelle d’oca. Grossi altiforni fumavano senza sosta
alla fine dei
capannoni e mentre Ludwig si apprestava ad aprire la portiera e
scendere dalla
macchina pregò con tutte le sue forze che fossero elementi
indispensabili delle
fabbriche metallurgiche che il campo ospitava, e niente più.
Vicino all’enorme cancello
di ferro battuto lo aspettavano
due figure, una di loro troppo famigliare quanto sgradita che nel
vederlo
allungò un tagliente sorriso sul volto.
“Fratellino, da quanto
tempo! Sono così contento di
vederti.”
“Ciao Gilbert, si
è davvero tanto tempo” Rispose Ludwig
senza sbilanciarsi troppo.
Gilbert Beilschmidt era suo fratello
maggiore, anche se lui
non avrebbe voluto. Arrogante, presuntuoso, invadente ed esagitato, era
l’incarnazione del credo nazista sotto forma di un albino
dagli occhi rossi
come il demonio. Sinceramente Ludwig non capiva come Gilbert si fosse
sottratto
alle persecuzioni naziste a causa del suo aspetto dato che sapeva di
gente che
era finita nei campi di concentramento o era stata ammazzata per molto
meno.
Il ragazzo albino allargò
le braccia per salutarlo con affetto,
non ricevendone molto in cambio.
“Tutto d’un pezzo
come sempre, vero piccolo Lud? Avanti
vieni con me, ci sono molte cose che devi sapere e che devo mostrarti
prima di
iniziare questo lavoro. Che l’amministrazione Beilschmidt
inizi! Vedrai, sotto
la nostra guida questo campo di concentramento diventerà il
migliore in tutto
il mondo!”
Senza aspettare nessuna risposta,
Gilbert cominciò a ridere
con quella sua risata isterica quanto irritante per Ludwig, mentre fece
cenno
all’altra persona che era rimasta in disparte per tutto quel
tempo vicino al
cancello.
“Ehi tu, miserabile
pezzente, prendi la valigia del mio
adorato fratellino e portala nei nostri alloggi. Niente scherzi
altrimenti…” Il
gesto che seguì non promise nulla di buono.
Ludwig seguì con lo
sguardo la povera persona vestita di
cenci che con passo malfermo recuperava la sua valigia e la trascinava
all’interno, poi fu distolto dalla voce acuta di suo fratello
che iniziava il
tour dell’orrore tra i fabbricati del campo.
Quando il portellone del vagone si
aprì Feliciano Vargas si
sentì accecare dalla luce improvvisa proveniente
dall’esterno. Lui, insieme a
molti altri disperati nella sua stessa condizione, era stato caricato
su un
vagone per il bestiame in una stazione improvvisata vicino a un centro
di
detenzione in Italia, vicino il confine con l’Austria, e da
allora non aveva
più visto la luce del sole né respirato
dell’aria pulita.
Il viaggio era durato alcuni giorni,
non sapeva dire quanti,
ed era stata l’esperienza più terrificante che
avesse mai provato. I nazisti
avevano avuto la sadica idea di stipare centinaia di persone in un
piccolo
vagone da trasporto, pressando quei poveri corpi l’uno
sull’altro senza dargli
nemmeno la possibilità di potersi sdraiare a terra, ma solo
accovacciare. Feliciano
era stato spinto contro un angolo del vagone e contrariamente a quello
che
pensava non era rimasto schiacciato dalla calca, anzi aveva un ritaglio
di
spazio anche superiore a quello degli altri. Ma la fortuna finiva
lì.
Ben presto la fame, la sete e i bisogni divennero il problema
principale di
quelle persone. L’aria si impregnò subito di odori
nauseabondi e Feliciano era
sicuro che da qualche parte nel vagone qualcuno era morto a causa delle
precarie condizioni in cui stavano viaggiando. O almeno, sperava solo
qualcuno.
La notte nel vagone era gelida e si
riusciva a malapena a
prendere sonno accasciandosi gli uni sugli altri cercando di
riscaldarsi come
meglio si poteva. Feliciano si stringeva tra le sue braccia pensando al
fratello gemello che in quel momento si trovava nelle mani degli
americani,
perché era stato più fortunato di lui ed era
riuscito a scappare dalla retata
dei nazisti nella loro casa, lasciandolo indietro. No, no, non
lasciandolo
indietro, perdendolo nella fuga rocambolesca che ne seguì.
Si, Feliciano era
sicuro che suo fratello era scappato non riuscendo a portarlo con
sé soltanto
perché non poteva fare altro, ma gli incubi che da quel
giorno lo tormentavano
non sembravano essere d’accordo con la sua speranza.
Appena i suoi occhi si abituarono
alla luce, il ragazzo dai
capelli castani vide che alcune guardie con un accento strano
spronavano in
malo modo le persone a scendere dal vagone percuotendole con dei
manganelli,
spingendole e prendendole a pugni. Feliciano cercò di essere
il più veloce
possibile a scendere, ma questo non gli risparmiò una
bastonata sulla schiena
che lo mandò in ginocchio. Le altre persone intorno a lui lo
aiutarono ad
alzarsi mentre le guardie si schierarono di fronte a loro con fare
intimidatorio.
Rialzandosi, Feliciano
notò che il treno da cui era sceso
non era l’unico presente in quel vasto terreno pieno zeppo di
rotaie e che
altri stavano arrivando, mentre alcuni erano già stati
svuotati. Persone di
varie etnie, religioni e nazionalità si mescolarono e
raggrupparono davanti i
soldati nazisti che si erano disposti in fila.
Uno di loro, un uomo con un’incredibile carnagione pallida,
occhi rossi e
capelli bianchi, fece un passo verso di loro allargando un sorriso poco
rassicurante sul suo volto.
“Signori, signore,
benvenuti al campo di concentramento
prussiano!” Esclamò con un fortissimo accento
tedesco.
Gli altri soldati rimasero in
silenzio ad osservare la folla
disordinata. Feliciano li guardò uno per uno cercando di
celare un certo
timore. Con le loro divise nere lucide di pelle, quei soldati erano
piuttosto
intimidatori. Il ragazzo italiano vide un uomo distinto con un paio di
occhiali
e i capelli bruni guardare in modo sprezzante verso di loro, poi il suo
sguardo
si fermò sull’altro soldato.
Era davvero la reincarnazione della
perfezione.
Alto, biondo, occhi azzurri come il
cielo, un fisico sportivo
invidiabile, quel soldato poteva mozzare il fiato a chiunque, e
Feliciano non
riuscì a resistergli. Rimase a fissarlo inebriato per alcuni
istanti ignorando
completamente il discorso del ragazzo albino finché una
gomitata su un fianco
non lo riportò alla realtà.
“Tu, si, tu, proprio tu!
Cosa diavolo stavi guardando? Ti
annoia così tanto il mio impressionante discorso?”
Chiese il soldato albino
puntando i suoi occhi rosso fuoco direttamente su Feliciano che si
trovava
quasi in prima fila.
Feliciano si guardò
intorno cercando di capire se il nazista
stava parlando proprio con lui, e quando notò che si era
formato una sorta di
cerchio intorno a sé comprese che era in qualche sorta di
guaio.
“I-io…
ecco… v-ve…” Balbettò
cercando di trovare qualcosa da
dire ma invano.
“Va bene, ho capito,
è inutile essere gentili con la feccia,
soprattutto con voi italiani traditori”
L’Albino si
avvicinò velocemente all’italiano impugnando un
manganello che portava appeso alla cintura. Subito intorno a Feliciano
si creò
un vuoto lasciandolo solo di fronte all’incombente minaccia.
“Che sia
d’esempio per tutti voi! Qui comandiamo noi, voi
non valete nulla, siamo noi che decidiamo della vostra vita e voi
dovete
obbedirci ciecamente se ci tenete alla pelle” E detto questo
calò il manganello
con forza sul ragazzo.
Feliciano cercò di
schivare il colpo ma il suo fisico
provato dal viaggio disumano sul vagone del treno si mosse troppo
lentamente,
tradendolo. La bastonata colpì con forza la spalla sinistra
del ragazzo
facendolo cadere in ginocchio. Gilbert non si fece impietosire e con un
sorriso
sadico sul volto continuò a infierire sul corpo del giovane
che cercava invano
di proteggersi il volto con le braccia urlando di dolore. Gli altri
prigionieri
distolsero lo sguardo impotenti e terrorizzati, alcuni addirittura
piangendo
silenziosamente impressionati dalla violenza del soldato.
Gilbert rideva come un indemoniato
riempendo l’aria con i
suoi striduli “kesesese” finché alzando
il manganello per la settima volta una
mano non lo bloccò proprio quando stava per infierire
nuovamente sul giovane
ormai mezzo svenuto a terra. Subito l’albino trafisse con lo
sguardo colui che
si era permesso di intromettersi in quella situazione, per poi
addolcirlo incredulo.
“Lud…?”
“Io credo che tu ti sia
divertito abbastanza, Gilbert” Disse
con uno sguardo serio Ludwig mentre strappava il manganello di mano al
fratello
“Ricordati inoltre che queste persone ci servono per il
lavoro in fabbrica. Se
li invalidi subito non saranno buoni a niente!”
In realtà Ludwig non
pensava minimamente alle fabbriche del
campo. Il suo unico scopo era quello di salvare quel povero giovane dal
sadismo
di suo fratello. Sapeva che trasferendosi in quel luogo avrebbe
assistito a
scene di violenza gratuita e senza senso e aveva cercato di prepararsi
psicologicamente a tutto ciò, ma in quel momento
capì che i suoi sforzi erano
stati vani e che per nessuna ragione al mondo avrebbe mai accettato
tali
avvenimenti. Finché lui sarebbe rimasto in quel luogo
avrebbe fatto di tutto
per salvare quelle povere persone dalla violenza di suo fratello e
degli altri.
Gilbert rimase a fissarlo con uno
sguardo indecifrabile per
alcuni istanti, poi si ricompose allontanandosi dal fratello.
“Va bene lo spettacolo
è finito. Roderich, raduna le altre
guardie e scortate i prigionieri al fabbricato delle docce. Seguite la
solita
procedura di divisione dei prigionieri e mi raccomando bruciate tutti i
loro
vestiti, averi e numerateli”
Il soldato annuì
leggermente mentre si aggiustava gli
occhiali e passava in rassegna con uno sguardo schifato la moltitudine
di
prigionieri davanti a lui.
“E per quanto riguarda
quell’italiano sordo, portatelo o
trascinatelo al lavaggio non m’interessa. Se riesce a
sopravvivere scortatelo
in infermeria da quella cagna di Francis, vedrà lui cosa
farne. È tutto”
Nell’infermeria del campo
di concentramento prussiano
Francis Bonnefoy, prigioniero di guerra ed ex soldato volontario
francese, si
stava dedicando alla fasciatura di una bruciatura da metallo
incandescente con
delle bende piuttosto rozze e sporche quando la porta dello stabile si
aprì di
scatto seguita da un lamento e un grido dal forte accento tedesco.
“Oui, sono subito da
voi!” Rispose con la sua voce
zuccherina francese.
Finì frettolosamente di
fissare le bende sul povero
malcapitato e si precipitò alla porta dove trovò
un soldato tedesco mai visto
prima che sosteneva con un braccio un giovane messo piuttosto male.
“Mon dieu, che
cos’è successo a questo poverino?”
Francis lì
scortò fino a un letto vuoto e piuttosto
malridotto dove il tedesco appoggiò l’italiano con
cura.
“Si è distratto
durante il discorso di Gilbert appena sceso
dal treno. Tu sei Francis vero? Vedi cosa puoi fare per lui, non
è messo molto
bene”
Francis diede una lunga occhiata al
tedesco apprezzandone la
bellezza, poi si interessò al giovane italiano che si
lamentava debolmente sul
letto.
“Oui, c’est moi,
ma non sono io il medico, io sono solo un
infermiere. Il medico dovrebbe tornare a breve, lo farò
visitare appena sarà
possibile”
Vedendo che il ragazzo biondo dallo
sguardo di ghiaccio non
accennava ad andarsene, Francis prese alcune boccette contenenti uno
strano
liquido e ne versò qualche goccia del contenuto su delle
bende di cotone.
“Signore non può
rimanere qui, molti di questi malati hanno
malattie infettive facilmente trasmissibili, non è salutare
per lei rimanere a
contatto con loro. Non vorrei che vi si sciupasse il
bell’aspetto che ha!”
L’infermiere gli
lanciò un occhiolino mentre cominciò a
tamponare le parti colpite e lacerate dell’italiano con la
benda. Il giovane
mugugnò un po’ forte ma si
tranquillizzò poco dopo.
Ludwig rimase a fissare incredulo il biondo infermiere. Aveva sentito
parlare
di Francis Bonnefoy da suo fratello durante il tour nel campo. Un uomo
biondo,
francese, raffinato, molto seducente e incredibilmente libertino. Molte
guardie
del campo avevano dubbi circa il suo sesso e altri erano convinti che
fosse
moralmente scorretto (un modo articolato per dire omosessuale, pratica
vietata
nel campo), ma tutti concordavano sul fatto che probabilmente si
intratteneva
in atteggiamenti intimi e immorali con altri detenuti del capo. Non vi
erano
prove a riguardo ma tutti lo sospettavano e nonostante lo sapesse
Francis non
faceva assolutamente nulla per discolparsi.
Ludwig arrivò alla conclusione che probabilmente
l’unico motivo per cui il
francese era ancora vivo era per via della sua utilità
nell’infermeria ma
soprattutto per le sue doti culinarie, che spesso venivano sfruttate
dalla
mensa del campo quando gli chef non avevano voglia di lavorare.
Con un grugnito Ludwig
lasciò l’infermeria fermandosi
qualche istante sulla porta per dare un’ultima occhiata al
ragazzo steso sul
letto, per poi andarsene.
Una volta rimasto solo Francis si passò una mano tra i
lunghi capelli biondi
fissando pensieroso la porta da cui era appena uscito il soldato.
“Quell’uomo non
l’ho mai visto prima, sicuramente è la guardia
su cui hanno tanto spettegolato gli chef nelle cucine… il
fratello minore di
Gilbert! Ma contrariamente a quella carogna lui sembra molto
più umano” Pensò.
Spostò il suo sguardo sul
giovane sdraiato sul letto che
intanto aveva aperto gli occhi e si stava guardando intorno.
“D-dove…
sono?” Sbiascicò con la bocca impastata.
“Oh là
là, ma tu sei italiano! Sono Francis Bonnefoy e ora
ti trovi in infermeria pieno di lividi sul corpo, devi averla fatta
grossa
ragazzo! È davvero un peccato che ti abbiano rovinato un
così bel faccino, ma
sono sicuro che con le mie premure guarirai presto” Il
francese gli fece
l’occhiolino mentre gli mandò un bacio con le
labbra “Come ti chiami?”
“Feliciano… ve,
ho fatto arrabbiare una guardia perché mi
sono distratto durante un suo discorso, sembrava indemoniato. Non
voglio stare
in questo posto…ve, ho paura!”
Feliciano cominciò a
piagnucolare mentre si grattava vicino
al polso con insistenza. Francis gli bloccò subito la mano
tirandola dal polso.
“Non farlo, è
ancora fresco, potrebbe prendere infezione”
“Ve ma… ma
cos’è?” Chiese mentre guardava un numero
che
sembrava scritto direttamente nella sua pelle.
“È il tuo numero
di identificazione, una sorta di marchio
per riconoscerci ovunque noi andiamo. Guarda questo è il
numero che equivale al
tuo nome… e questo è il codice del dormitorio in
cui alloggerai d’ora in poi.
Oh, sei capitato nel mio dormitorio, che fortuna!”
Ma feliciano non si sentiva
fortunato, anzi si sentiva alla
stregua di un capo di bestiame appena marchiato a fuoco. Si fece via
via più
piccolo mentre gli occhi si riempivano di grosse lacrime che
velocemente gli
rigarono le guance mentre le sue braccia si stringevano a lui.
Un incubo, era soltanto un incubo quello, esattamente come gli incubi
su suo
fratello Romano che lo tormentavano di notte. Era stato stipato in un
vagone
per il bestiame, malmenato brutalmente appena arrivato al campo, gli
avevano
bruciato ogni suo avere e lo avevano marchiato come una
bestia… si, quello era
senz’altro solo un brutto incubo.
L’espressione di Francis si
fece dolce e triste allo stesso
tempo mentre abbracciava stretto il ragazzo in lacrime.
“Oh pauvre
garçon, anch’io quando sono arrivato circa un
anno fa ero spaventato come te. Devi essere forte e cercare di andare
avanti in
ogni modo possibile. Fallo per te, e soprattutto fallo per quelle
persone a cui
vuoi bene che vorresti rivedere e che probabilmente ti stanno
aspettando a
casa”
E mentre diceva queste parole per
consolare il ragazzo,
nella mente di Francis comparve un bellissimo paio di occhi verde
smeraldo
sormontato da sopracciglia foltissime.
Note
dell'Autore:
Ed ecco il primo capitolo di questa ff, spero vi sia piaciuto!
Perdonatemi il personaggio di Gilbert che qui è piuttosto
sadico, prometto che a lungo andare ritornerà cone il nostro
Gilbert di sempre.
Perdonate se ci sono errori di scrittura/vari, o se la storia sembra
inconcludente, in fondo è la mia prima ff ><
La storia presenta scene di violenza ma è soprattutto
incentrata sui sentimenti dei personaggi, lui legami che stringeranno e
sull'amore che proveranno (perché io sono un'inguaribile
romanticona).
La ff non sarà aggiornata regolarmente, ciò
significa che potrei aggiornare molto in poco tempo oppure poco in
molto tempo, dipende dagli impegni nel real che avrò! Ma
sicuramente sarà lunga e soprattutto avrà una
fine. Spero che possiate amarla tanto la sto amando io nello scriverla
:)
Grazie mille!!
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Capitolo 2 *** Il dormitorio ***
Il dormitorio che si trovava nel
blocco H3T4 era poco
distante al fabbricato metallurgico L14 a lui associato, e piuttosto
vicino al
perimetro recintato ed elettrificato del campo. Nell’entrare
nello stabile
Toris Laurinaitis rimase a bocca aperta per lo sgomento. Al suo interno
file
interminabili di cuccette di legno erano appoggiate sui due lati
dell’edificio,
riducendo lo spazio del già piccolo stabile ad un lungo
corridoio. Tutte le
cuccette erano riempite di paglia dall’odore ripugnante e dal
colore innaturale
e alcune erano occupate dai malcapitati che prima di lui erano arrivati
in quel
girone infernale mentre altre in quel momento stavano conoscendo i loro
nuovi
inquilini. Tutte le cuccette erano larghe in modo tale da farci entrare
comodamente una persona sdraiata, peccato che quei sadici dei suoi
secondini
avevano avuto la brillante idea di stiparne due per letto.
Toris era stato assegnato alla
cuccetta T3 e mentre la
cercava sperava con tutta la sua anime che fosse vuota, ma soprattutto
che
avesse della paglia meno marcia delle altre. Con sua grande delusione,
la
cuccetta era già occupata da un ragazzo dai capelli lunghi e
biondi e dall’aria
nervosa che sembrava avere all’incirca la sua stessa
età.
“Scusami, è
questa la cuccetta T3? Sono stato assegnato ad
essa poco fa”
Il ragazzo biondo gli
lanciò uno sguardo timido e annuì
velocemente facendogli spazio nel letto. Nel salire sulla cuccetta
Toris notò
con un certo disappunto che la paglia era esattamente uguale a quella
degli
altri letti, se non peggiore. Sospirando sconfitto si sedette vicino al
suo
nuovo coinquilino e dopo qualche istante di esitazione cercò
di avviare un
qualche tipo di discorso.
“Ehm… dunque io
sono Toris Laurinaitis, sono lituano e sono
arrivato qui soltanto da qualche ora, tu chi sei?”
“Mi chiamo Feliks
Lukasiewicz” Rispose timidamente.
“Hai un accento molto
forte, sei per caso russo?” Chiese
bonariamente il ragazzo bruno.
A quelle parole lo sguardo di Feliks
mutò in un cipiglio
arrabbiato mentre il suo atteggiamento divenne più sicuro di
sé e sfrontato.
“Cosa diavolo stai dicendo,
novellino? Io sono polacco, non
russo, non paragonarmi a quella gentaglia che cerca da secoli di
conquistare il
mio amatissimo paese. Non vedi che sono totalmente differente da loro?
Che cosa
ti ha fatto pensare a una cosa simile?”
Toris fu letteralmente investito da
una fiumana di parole,
esclamazioni, insulti e domande che velocemente si discostarono
dall’argomento
iniziale della discussione. In poco tempo Feliks raccontò in
modo dettagliato
la sua vita e le sue passioni a Toris che rimase basito ad ascoltare le
chiacchiere inutili del compagno. Così Toris
scoprì che Feliks era nato e
vissuto a Varsaviain una famiglia ricca, che con lo scoppio della
guerra e
l’invasione tedesca aveva cercato di aiutare le persone di
religione diversa da
quella cristiana a fuggire, per poi essere catturato e deportato in
quel campo
di concentramento circa un anno prima. Toris scoprì inoltre
che il suo colore
preferito era il rosa e che aveva un pony che adorava alla follia e che
lo
aspettava a nella sua villa a Varsavia.
Dopo ben cinque minuti di chiacchiere
varie, Feliks si fermò
e sorridendo al ragazzo lituano fece segno con la mano verso la
cuccetta.
“Tu mi piaci sai?
È dato che mi piaci ti permetto di avere
un quarto della mia cuccetta. Ovviamente il resto dello spazio
è il mio e lo
pretenderò quando andremo a dormire, ma proprio
perché mi sei simpatico ti
offro un po’ di spazio in più di quello che
generalmente concedo” E senza dire
altro (per fortuna) o domandare qualcosa a Toris, gli girò
le spalle
interessandosi alle persone che entravano nello stabile.
Toris voleva piangere.
Da quando nell’operazione congiunta con la Lettonia e
l’Estonia di qualche mese
prima era stato catturato e incriminato per dissidenza politica e
sostegno alla
politica filo-russa la sua vita era diventata un calvario. Era stato
prima
imprigionato con i suoi compagni di operazione Eduard e Raivis in una
prigione
lituana filo-tedesca, poi successivamente diviso dai suoi compagni e
deportato
nel campo di concentramento prussiano. Toris era seriamente preoccupato
per i
suoi compagni e soprattutto per l’esito
dell’operazione, che altro non era che
un sabotaggio ai danni del governo tedesco in Lituania e un possibile
appiglio
per una penetrazione russa nel territorio, e sperava con tutto
sé stesso che le
altre squadre impegnate nell’operazione avessero concluso con
successo il loro
compito.
Sospirando cercò di
rilassarsi sistemando le poche cose che
gli avevano consegnato dopo essere passato nel lavaggio comune e aver
visto
tutti i suoi averi essere bruciati: una coperta rattoppata e leggera
come una
maglietta di cotone e una gavetta ammaccata di latta con due posate
storte.
Dalle storie che aveva sentito dire in giro doveva cercare di tenersi
stretto quelle
poche cose che aveva perché potevano essere facilmente
rubate e di certo le
guardie non glie ne avrebbero date altre.
Il ragazzo decise di avvolgere la coperta intorno alla gavetta e di
mettere il
sacco così formatosi sotto la paglia lercia, cercando di
occultarne l’esistenza
e sperando che il suo compagno di cuccetta non si appropriasse anche di
quello.
Mentre cercava di raggruppare la
paglia sopra il fagotto una
voce flebile cercò di richiamare la sua attenzione, fallendo
miseramente. Al
quarto tentativo la vocina riuscì a farsi sentire da Toris.
“Mi scusi! Potrebbe
gentilmente dirmi dove posso trovare la
cuccetta C2? Io non riesco a vedere bene i numeri”
Lo sguardo di Toris si
abbassò sulla figura alta, esile e
molto graziosa di un ragazzo biondo con grandi occhi violetti. La sua
voce
bassa e i suoi atteggiamenti timidi lo presentavano come un ragazzo
estremamente gentile, innocente e molto sensibile. Il suo sguardo
supplichevole
rimase fisso sul lituano finché quest’ultimo non
gli sorrise e scese dalla sua
cuccetta.
“Certo, con molto piacere.
Sono Toris Laurinaitis, tu come
ti chiami?”
“S-sono Matthew
Williams” Rispose arrossendo leggermente
“Purtroppo nel lavaggio mi hanno portato via tutto compreso
gli occhiali e non
riesco a vederci bene. Ho tentato di dirgli che erano essenziali per
me, ma non
mi hanno ascoltato!”
Toris non aveva dubbi a riguardo.
Matthew sembrava la tipica
persona che poteva passare inosservata anche in una stanza
completamente priva
di ostacoli visivi. La sensazione che lui fosse in realtà
una spia di qualche
esercito si insinuò in lui velocemente, spinta da
un’incredibile curiosità per
quel ragazzo così fuori luogo.
“Sei per caso una
spia?” Chiese improvvisamente mentre
arrivavano alla cuccetta C2.
“Si! C-come hai fatto a
capirlo? Ho operato nella divisione
canadese dell’esercito inglese, mio fratello invece opera
nell’esercito
americano come aviatore. Spero di rivederlo un giorno”
Lo sguardo del canadese si
oscurò al pensiero del fratello
ormai chissà dove e Toris provò una certa
pietà per lui. Si fermò davanti una
cuccetta vuota e la indicò con la mano.
“Questa è la tua
cuccetta. Sei stato molto fortunato, sembra
vuota al momento”
“Ti ringrazio
dell’aiuto che mi hai dato, Toris. Quardo
riusciremo ad uscire da qui ti inviterò senz’altro
a mangiare pancakes con
sciroppo d’acero a casa mia!”
Matthew sembrava davvero convinto di
quello che diceva come
se fosse certo che prima o poi sarebbero usciti tutti sani e salvi da
quel
luogo mostruoso. Toris lo osservò senza parole mentre saliva
con difficoltà le
scalette per arrivare alla sua cuccetta per poi lanciargli un sorriso e
salutarlo con la mano mentre sistemava i suoi averi sul letto.
Matthew era troppo gentile e ingenuo per quel luogo e Toris sapeva che
sarebbe
stato mangiato vivo, e che sicuramente non sarebbe sopravvissuto a
lungo.
“Su, un ultimo sforzo,
siamo quasi arrivati… così, da bravo…
oui, ci siamo! Eccoci al blocco H3T4. Ora dobbiamo cercare soltanto il
tuo
nuovo letto”
Feliciano annuì e sorrise
al gentile ragazzo francese che si
era preso cura di lui da quando era arrivato in infermeria e lo aveva
accompagnato fino al blocco dove si trovava il suo dormitorio. Era
molto grato
a quell’uomo che lo aveva aiutato così
premurosamente, anche se gli aveva
palpeggiato il fondoschiena varie volte.
Il treno che lo aveva deportato dall’Italia fino al campo era
arrivato nel
tardo pomeriggio e ormai era già sera inoltrata quando
Feliciano vide per la
prima volta lo squallido dormitorio che sarebbe diventato la sua nuova
casa per
chissà quanto tempo. Feliciano sperava per poco, ma vista la
situazione in cui
si trovava dubitava fortemente di quella speranza.
Si sentiva tutto indolenzito a causa
delle bastonate che
aveva ricevuto diverse ore prima e che gli avevano lasciato sulla pelle
enormi
lividi scuri, mentre sul volto Francis aveva coperto le varie
escoriazioni con
delle bende di cotone. Ma nonostante ciò, Feliciano provava
una specie di calore
nel petto nell’aver saputo dall’infermiere francese
che uno delle guardie del
campo si era preoccupato di assisterlo nel lavaggio e di accompagnarlo
nell’infermeria assicurandosi che ricevesse le cure adatte.
Certo, questo non
significava nulla, magari quell’uomo aveva agito solamente
per non perdere un
paio di braccia destinate al lavoro in fabbrica, ma il pensiero che
anche tra
le guardie disumane che lo avevano ridotto così ci fosse
qualcuno dotato di
bontà gli riempiva il cuore di felicità.
Entrando nello stabile Francis si
guardò in giro sforzando
la vista nella penombra e sorrise ai nuovi arrivati che avevano
occupato le
cuccette.
“O là
là, il dormitorio si è ripopolato! Non
è una bella
cosa, Feliks?” Chiese sorridendo a un ragazzo biondo che
intanto chiacchierava
con il suo coinquilino dall’aspetto piuttosto stanco.
Feliks guardò Francis con
sospetto ma non rispose,
preferendo tornare a tormentare il povero ragazzo bruno con le sue
chiacchiere.
Francis rise e cominciò a camminare nel corridoio tra le
cuccette presentandosi
a tutto, lanciando occhiolini e bacetti dappertutto e sorridendo
finché non si
fermò davanti una cuccetta coperta di paglia putrida.
“Ecco la cuccetta numero
P4, la tua cuccetta. Inoltre è
anche vicino alla mia, non sei contento?”
Feliciano in effetti era contento di
avere qualcuno vicino
durante la notte. Era stato abituato fin da piccolo a dormire nello
stesso
letto abbracciato a suo fratello e le prime notti passate senza stare
al suo
fianco erano state quelle dentro il vagone, per questo
l’avere qualcuno a
fianco, anche sconosciuto, lo avrebbe certamente tranquillizzato.
Salito sulla sua cuccetta,
l’italiano iniziò a sistemare la
coperta e la sua gavetta in modo tale da non dargli fastidio durante il
sonno,
quando nel dormitorio entrarono all’improvviso due uomini
vestiti di pelle
nera. Uno di loro aveva in mano una grossa torcia con cui illuminava
direttamente i volti dei prigionieri, accecandoli.
“Bene bene, signori, vedo
che vi siete accomodati nei vostri
bei lettini!” Esclamò una voce urlando con il suo
forte accento tedesco.
Feliciano riconobbe subito quella
voce attribuendola
all’albino che diverse ore prima lo aveva picchiato senza
pietà. D’istinto si
ritirò nella cuccetta cercando di non farsi vedere, ma il
fascio di luce lo
individuò e puntò dritto sul suo volto
costringendolo a chiudere gli occhi e
chinare la testa.
“Ah ma tu sei
l’italiano sordo di prima! Vedo che sei
riuscito a cavartela, allora gli italiani hanno anche la pelle dura,
non solo
la testa! Dovresti ringraziare il mio fratellino se hai ancora tutti i
denti
per poter masticare il pane, sporco maccherone, altrimenti ti avrei
davvero
ridotto in una purea di patate, kesesese!”
Il fascio di luce si
allontanò dal volto dell’italiano che
si nascose sotto la coperta tremante dalla paura.
“Tornando a noi, io e mio
fratello Ludwig siamo qui per
informarvi che saremo i vostri nuovi responsabili. Vi controlleremo per
tutto e
qualsiasi cosa voi vogliate fare, anche andare a pisciare, dovrete
chiedere il
permesso a noi, sia chiaro? Ogni atto di disobbedienza sarà
severamente punito”
Il fascio di luce illuminò un cumolo tremante nascosto sotto
una coperta logora
“Bene, detto questo, buonanotte stronzetti. Cercate di
riposare bene perché
domani inizierà l’inferno per voi”
Una risata isterica
riecheggiò nello stabile mentre i due
soldati si allontanavano a grandi passi lasciando i prigionieri al buio
in un
silenzio tombale.
Nota
dell'autore
Ed ecco un
altro capitolo finalmente!! La stesura sta andando bene quindi spero di
pubblicare spesso in breve tempo :D
Come al solito perdonate errori di vario tipo ><
Bene, cosa dire? Innanzitutto povero Lituania nelle mani di Polonia x'D
In effetti io non amo molto Polonia perciò scusatemi se l'ho
caratterizzato un po' male!
I personaggi usati in questa ff non sono presi a caso, ho cercato di
prendere tutti i paesi che bene o male sono stati invasi dalla Germania
nell WW2. Certo ne mancano alcuni ma non volevo usare troppi personaggi
per non appesantire la storia.
Canada fatti valere che qui ti mangeranno vivo DX
Al prossimo capitolo ;) Se avete qualche consiglio da darmi o per
commentare la storia sono a vostra completa disposizione!!
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Capitolo 3 *** Sentimenti mai provati ***
Gilbert trascinò per un
braccio Ludwig fuori dal dormitorio
per qualche metro, poi lo lasciò andare guardandolo confuso.
“Fratellino, sei ancora tra
noi? Il mio spettacolare
discorso ti ha impressionato così tanto da
stordirti?”
Ludwig, che era sovrappensiero,
riportò la sua attenzione al
fratello con uno sguardo stupito.
“Scusami Gilbert, ero
sovrappensiero. No, il tuo discorso è
stato… buono. Ora andiamo nelle nostre stanze, sono
piuttosto stanco per il
viaggio e domani voglio essere in forma per poter svolgere il mio
lavoro al
meglio!”
“Sempre diligente come al
solito, vero fratello?” Ludwig
ricevette una forte pacca sulla schiena muscolosa “Va bene,
andiamo, i
dormitori per le guardie sono di là. Io mi fermo qualche
minuto per scrivere il
resoconto della giornata da inviare ai superiori e poi ti
raggiungo”
Con un cenno della testa Ludwig si
divise da suo fratello e
si avviò verso l’edificio che ospitava il
personale del campo di
concentramento. Quando non sentì più gli occhi
rossi del fratello forargli la
nuca girò improvvisamente un angolo e si appoggiò
di peso al muro
dell’edificio. Tremante si portò una mano alla
bocca mentre il suo sguardo era
sgranato e perso nel vuoto, il suo volto violentemente rosso.
Era totalmente sconvolto, confuso e
spaventato, e tutto
questo lo doveva solo a una persona: l’italiano.
Fin dal momento in cui lo aveva visto
semi svenuto a terra a
causa della violenza del fratello aveva sentito una sorta di affetto
per quel
ragazzo, un sentimento che non aveva provano mai nemmeno per i suoi
amatissimi
genitori. Inizialmente lo aveva attribuito a uno slancio di
pietà per la sua
condizione, ma in poco tempo si era reso conto che era qualcosa di
più. Nelle
docce soprattutto, quando ordinò a degli altri prigionieri
di spogliarlo e
lavarlo, Ludwig aveva provato dei sentimenti del tutto nuovi e
sconosciuti.
Aveva visto molte volte i corpi nudi maschili dei ragazzi e degli
uomini,
soprattutto quando aveva frequentato la gioventù hitleriana
e poi
l’addestramento dell’esercito dove le docce erano
comuni e tutti si lavavano
senza vergogna nudi l’uno di fronte all’altro, ma
non aveva mai avuto nessun
tipo di problema. Aveva guardato le altre persone nude, loro avevano
guardato
lui, tutti avevano fatto scherzi e battute varie e tutto finiva
lì. Ma dal
momento in cui Ludwig aveva visto quel prigioniero italiano privo di
vestiti
sotto la doccia qualcosa era cambiato, irrimediabilmente cambiato.
Il corpo di quel ragazzo era
perfetto, snello, la pelle di
una tonalità più scura della sua, morbida al
tatto, di una bellezza così
femminea che sembrava una musa uscita da qualche quadro di
un’artista italiano.
Ludwig avrebbe giurato di non aver mai visto qualcosa di più
bello in vita sua.
Questi nuovi e sconosciuti sentimenti
lo avevano sopraffatto
anche nell’infermeria quando aveva visto il ragazzo bruno
sofferente sul quel
letto malridotto. Non voleva lasciarlo per nessuna ragione, soprattutto
in
presenza di quel francese su cui aveva sentito tante storie strane e
poco
rassicuranti.
Poteva per caso essere un segno di… gelosia?
Ludwig scosse la testa con forza.
Assolutamente no! Perché mai doveva essere geloso di un
ragazzo appena
conosciuto, un prigioniero straniero, che era sicuramente destinato a
morire di
fatica o di stenti in quel posto dimenticato da Dio?
Eppure ora il ragazzo tedesco ne era
sicuro, provava qualche
sorta di sentimento per quell’italiano. La conferma
l’aveva avuta quando
qualche minuto prima lo aveva visto nel dormitorio con quella grossa
benda
sulla testa, visibilmente spaventato ma dall’aspetto migliore
di quando lo
aveva lasciato nell’infermeria. Nel vederlo Ludwig aveva
provato sollievo, e
quando Gilbert lo aveva spaventato costringendolo a rifugiarsi sotto le
coperte
tremante come un bambino lui aveva provato il forte desiderio di
andarlo a
consolare.
Ludwig era confuso e non capiva cosa
fare, ma di una cosa
era sicuro: non riusciva a togliersi dalla testa quel ragazzo, il suo
corpo
nudo, il suo volto dai lineamenti dolci, la sua voce melodica con quel
particolare accento italiano che sembrava un canto continuo.
Aveva letto qualcosa a proposito di questi sentimenti strani durante i
suoi
studi, e i libri di testo li attribuiva all’essere innamorato
di qualcuno.
Che Ludwig fosse…?
No, no, NO! Lui non poteva essere
innamorato di un
prigioniero, soprattutto di un uomo, giusto? Eppure il ricordo del suo
corpo
nudo lo destabilizzava e causava scompiglio anche sotto la cintura dei
suoi
pantaloni.
Ancora piuttosto confuso e rosso in volto, Ludwig attribuì
questo strano
comportamento alla stanchezza del viaggio e al disgusto che aveva
provato nel
vedere il campo e cosa succedeva al suo interno. Si
allontanò a grandi passi
dall’edificio su cui era stato appoggiato e si
avviò verso la sua stanza il più
velocemente possibile sperando di non incrociare nessun’altra
guardia.
Aveva un problema fisico da risolvere urgentemente.
Feliks fu svegliato bruscamente da
delle urla dal forte
accento tedesco che riecheggiarono per tutto il dormitorio. Si
alzò di scatto
come ormai si era abituato a fare e si tolse la coperta di dosso pronto
a
mettersi le scarpe semi distrutte che aveva e correre fuori in nemmeno
due
minuti come volevano le guardie, quando si ricordò di
condividere la cuccetta
con un altro prigioniero.
Toris, così si chiamava il
simpatico ragazzo lituano con cui
condivideva il letto, stava rannicchiato su un fianco al bordo della
cuccetta e
ancora dormiva profondamente. Feliks sapeva di doverlo svegliare
altrimenti
avrebbe sicuramente preso una punizione per il suo ritardo dai loro
secondini.
Feliks, insieme a Francis e pochi
altri prigionieri, era uno
dei pochi superstiti del terribile blocco HETALIA, un acronimo
derivante dalla
fusione in lettere delle numerazioni del dormitorio H3T4 e della
fabbrica L14.
HETALIA era il luogo peggiore in cui i prigionieri che arrivavano nel
campo di
concentramento prussiano potevano finire: supervisionato dal feroce
Gilbert in
persona, i prigionieri di quel blocco erano costretti a lavorare senza
sosta
nella fabbrica metallurgica che vantava il primato in tutto il campo di
morti
sul lavoro.
Ogni anno Gilbert mieteva vittime con
il suo regime crudele,
che si dipanavano tra morti sul lavoro, morti di fame e stenti,
suicidi. Feliks
e Francis avevano visto i loro compagni di sventura morire come mosche
in
pochissimo tempo e avevano deciso insieme di occuparsi di tutti quelli
che sarebbero
arrivati dopo di loro per poterli proteggere e cercare di farli
sopravvivere.
Finora l’idea non aveva funzionato molto bene e se Feliks
ormai stava perdendo
le speranze, Francis sembrava sicuro di sé più
che mai.
Scosse violentemente il ragazzo da
una spalla, che si
svegliò di soprassalto.
“Svegliati
pigrone!” Cantilenò “Dobbiamo muoverci
se non
vuoi ritrovarti con qualche osso rotto!”
Toris rimase a guardarlo per qualche
istante con uno sguardo
confuso sicuramente non ricordando dove si trovava, poi si
alzò di scatto e iniziò
a sistemare le sue cose ringraziando il suo compagno.
Feliks osservò il resto del dormitorio mentre si allacciava
le scarpe ormai a
brandelli.
La maggior parte delle persone si era alzata e stava uscendo dal
dormitorio
sfilando timidamente davanti i due tedeschi che controllavano la
situazione,
mentre il ragazzo canadese e Francis cercavano inutilmente di svegliare
l’italiano.
Feliks scosse la testa mentre si avviava verso l’uscita.
Quell’italiano era
spacciato.
Nota
dell'Autore
Felicianooooooo,
cosa combini?? Sei sempre fonte di guai T-T
Speriamo che vada tutto bene e che soprattutto Gilbert non si accorga
della sua pigrizia!
E così Ludwig ha scoperto cosa vuol dire avere dei
sentimenti per qualcuno dimostrando che non è un automa! E
bravo il potato bastard x'D
Il prossimo capitolo arriverà presto!!
|
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Capitolo 4 *** La fabbrica ***
Francis cercò per
l’ennesima volta di svegliare Feliciano scuotendolo
violentemente, senza alcun successo. Il ragazzo dormiva beatamente
perso in
chissà quale sogno mentre un po’ di saliva gli
colava dalla bocca. Inutile era
urlargli nell’orecchio e colpirlo, sembrava quasi morto.
Nemmeno l’intervento
di Matthew riuscì a cambiare la situazione, non che Francis
si aspettasse
chissà che cosa, il grazioso canadese non sembrava proprio
il tipo da riuscire
a farsi valere.
Gli schiamazzi attirarono
l’attenzione dei due fratelli
tedeschi che iniziarono ad osservare insistentemente la scena.
“E’ di nuovo
quello sporco maccherone a creare problemi!
Questa volta glie ne darò così tante da lasciarlo
davvero morto a terra!”
Esclamò Gilbert agguantando il suo manganello, ma fu
prontamente fermato dal
fratello.
“Occupati degli altri,
questa sciocchezza la risolvo io.
Credo debba iniziare a guadagnarmi il rispetto e il timore dei
prigionieri”
Gilbert sorrise e annuì
alle parole del fratello per poi
uscire per abbaiare altri ordini ai detenuti sparpagliati nello
spiazzale
antistante al dormitorio. Ludwig lo guardò per qualche
istante, poi si diresse
verso la fonte di tutto quel chiasso. Nella sua mente il tedesco si
complimentò
con sé stesso per aver salvato nuovamente quel ragazzo da
morte certa.
“Deve avere qualche santo
lassù che lo protegge in
continuazione” Pensò mentre si avvicinava alla sua
cuccetta.
Francis e un timido ragazzo biondo
sbiancarono quando lo
videro e aumentarono i suoi sforzi per svegliare l’italiano
ma non ci
riuscirono nuovamente. Ludwig li guardò dritto negli occhi
con uno sguardo di
ghiaccio, poi spostò il suo sguardo sulla figura stesa sulla
paglia.
Con un cenno fece capire ai due ragazzi di lasciarlo solo con
l’italiano.
Francis cercò di protestare ma uno sguardo agghiacciante lo
fece desistere e,
preso per il gomito l’altro ragazzo, uscirono frettolosamente
fuori guardando
più volte nella loro direzione.
Una volta rimasti soli Ludwig si
concentrò sul ragazzo che
ancora dormiva beatamente. Il suo sguardo si soffermò sul
groviglio di capelli
castani che cadevano morbidi sulla paglia e sul volto, e sul bizzarro
ciuffetto
arricciato che si allungava su un lato della testa. Quel ricciolo
sembrava così
morbido da tentare Ludwig di toccarlo e tirarlo.
Lo sguardo poi si spostò sulle sue labbra rosee e morbide.
Ludwig non riusciva
a capire perché ma si sentì fortemente tentato di
accarezzarle con un dito per
sentire la loro morbidezza al tatto.
Infine il tedesco fissò la figura del corpo seminascosto
sotto la sottile
coperta. Subito il ricordo della notte precedente e soprattutto di
quello che
aveva fatto si insinuò nella sua mente facendolo arrossire
violentemente.
Distolse velocemente lo sguardo e si
tolse il cappello
lisciandosi i capelli impomatati con una mano guantata cercando di
calmarsi.
Doveva agire in fretta altrimenti suo fratello si sarebbe insospettito.
Essendo
fervente cristiano e nazista, non avrebbe minimamente accettato anche
solo di
ascoltare i problemi che Ludwig stava affrontando in quel momento. Lo
avrebbe
sicuramente bollato come persona moralmente scorretta e deviata e lo
avrebbe
rispedito a casa supplicando il padre di farlo visitare da un medico e
di
mantenere il segreto per non gettare l’intera famiglia nella
vergogna più
totale… perché dopo la scorsa sera Ludwig aveva
capito di provare una sorta di
sentimento omosessuale nei confronti di quel ragazzo.
Ma non era questo il momento di
pensarci. Rimettendosi il
cappello, Ludwig afferrò una spalla del ragazzo e lo scosse
violentemente come
avevano fatto prima Francis e l’altro detenuto.
L’italiano fu sballottato
duramente, ma nemmeno questo riuscì a svegliarlo. Temendo
che arrivasse Gilbert
e di non poter difendere più il ragazzo dalla sua violenza,
il tedesco afferrò
con entrambe le mani un braccio dell’italiano e lo
tirò fuori dalla cuccetta
con violenza facendolo cadere a terra.
Il colpo fece svegliare di
soprassalto il ragazzo che si
guardò in giro con uno sguardo assonnato e confuso,
finché non vide il giovane
tedesco. Subito il ragazzo bruno si alzò da terra e si
appiattì al muro tra le
cuccette spaventato a morte.
“Ve…
v-ve…” Balbettò in preda al panico.
“Come ti chiami?”
“…”
Feliciano non riusciva a risponde per
il terrore. Era sempre
stato molto pigro nello svegliarsi, una brutta abitudine che
condivideva con il
fratello e che spesso creava problemi nel gruppo partigiano in cui
operavano,
ma in quel luogo poteva realmente rischiare la pelle per il suo stupido
vizio.
Ludwig fece un passo in avanti
terrorizzando a morte il
ragazzo. Voleva assolutamente sapere il suo nome, voleva conoscere
tutto di
lui, voleva potergli parlare per tutto il tempo, ma doveva fare un
passo alla
volta. Un soldato nazista non doveva fraternizzare con un prigioniero.
“Il tuo nome!”
Scandì con voce forte marcando il suo accento
tedesco.
Feliciano per poco non si
bagnò i pantaloni per la paura. Il
suo cuore batteva a mille e pensava seriamente che
quell’adone paradisiaco
sarebbe stato l’ultima cosa che avrebbe visto in vita sua.
Balbettando riuscì a tirare fuori dalla sua gola il suo nome
e gli sembrò che
il tedesco lo pronunciasse più volte sottovoce come se lo
stesse masticando con
la bocca per renderlo un suono familiare.
Delle grida da fuori
l’edificio destarono il tedesco dal suo
torpore e, dopo aver risposto ad esse, fece cenno a Feliciano di uscire
fuori.
Il ragazzo afferrò le scarpe che si trovavano ai piedi della
cuccetta e corse
velocemente fuori, rivelandosi un ottimo scattista.
Ludwig rimase a fissarlo mentre
percorreva in pochi istanti
il corridoio del dormitorio per poi scomparire nello spiazzale
illuminato
confondendosi con gli altri detenuti.
Il tedesco sentiva una sorta di calore nel petto, un’altra
sensazione strana e
sconosciuta, ma si decise ad ignorarla mentre raggiungeva gli altri
all’aperto.
L’edificio che ospitava la
fabbrica L14 era piuttosto alto e
malridotto, saturo di odore di metallo fuso e con il pavimento di terra
battuta
sporco di trucioli di metallo. I macchinari che servivano per la
fonditura e la
lavorazione della materia prima si trovavano esattamente nel centro
dello
stabile. Il calore in quel luogo era tale da fare impallidire
l’inferno stesso.
Quando Feliciano entrò
nello stabile Gilbert aveva costretto
a suon di calci e manganellate gli altri detenuti a iniziare il lavoro
quotidiano. Un gruppo di persone erano addette al recupero della
materia prima
da un grosso cumulo di detriti posto all’esterno dello
stabile e al trasporto
fino alla fornace dove un altro gruppo, senza alcuna protezione
addosso, si
occupava della fonditura. Il metallo sciolto colava poi in alcuni
stampi che
venivano calati in acqua da un terzo gruppo di uomini che avevano il
compito di
raffreddare il metallo che ormai aveva assunto la forma di un
ingranaggio e di
trasportarlo in un angolo dell’edificio dove venivano
accatastati.
A prima vista quei grossi ingranaggi
sembravano del tutto
inutili, ma da quando il campo aveva aperto le sue porte ogni fabbrica
del
blocco produceva ingranaggi di varie grandezze che venivano poi inviati
direttamente nelle fabbriche di assemblaggio di veicoli bellici a
Berlino.
L’unica persona che mancava
nei vari gruppi era Francis che
era stato spedito da Gilbert con un forte calcio sul fondoschiena nelle
cucine
con il compito di preparare il rancio del giorno al dormitorio intero.
Nel campo di concentramento prussiano ai prigionieri veniva concesso un
pasto
al giorno qualora avessero svolto bene il loro lavoro, che spesso
consisteva in
una zuppa acquosa e poco consistente che li lasciava più
affamati che mai
accompagnata a un tozzo piuttosto duro di pane. Le guardie invece
avevano
diritto a un lauto pranzo consumato nella loro mensa personale, seguito
da un’abbondante
cena serale.
Nel vedere l’italiano
correre nello stabile senza scarpe
Gilbert lo raggiunse con poche falcate e lo colpì con il suo
manganello.
“Cosa diavolo stai facendo,
pezzente? Mettiti subito le
scarpe e vai a trasportare le pietre alla fornace, sporco
maccherone!”
Feliciano piagnucolò
qualcosa mentre si metteva le scarpe
tutte bucherellate, poi scappò vicino il ragazzo polacco che
stava uscendo in
quel momento per andare a prendere le pietre da trasportare alla
fornace.
Tutto doveva essere perfetto per Gilbert, soprattutto pulito e
ordinato, e
funzionante. Tutti gli uomini che controllava dovevano lavorare sodo
per
produrre ingranaggi e tenere alto il nome del campo nelle parti alte
del
governo tedesco.
Gilbert ci teneva così tanto da accettare di sacrificare dei
poveri innocenti
pur di risultare perfetto.
Nella fabbrica lo raggiunse anche Ludwig che sembrava perso nei suoi
pensieri
come la sera prima.
“Guarda fratellino, guarda
quant’è perfetta e impressionante
la nostra organizzazione. Questi miserabili hanno trovato uno scopo
nella loro
vita finalmente!”
Gilbert sembrava veramente convinto
di quello che diceva, ed
era così preso dalla sua perfezione da non accorgersi che il
fratello non aveva
sentito nemmeno una parola del suo discorso. Era impegnato invece a
ripetere in
modo quasi impercettibile e insistentemente una parola che rotolava tra
i denti
come se stesse recitando un rosario.
La perfezione tanto amata di Gilbert
fu rovinata
improvvisamente da un rumore sordo e da un flebile lamento. Gli occhi
rosso
fuoco dell’albino subito guizzarono verso la parte sinistra
dell’edificio, dove
gli ingranaggi appena completati venivano accatastati pronti per essere
spediti. Il suo sguardo si fermò su un ragazzo gracilino
nonostante l’altezza che
accucciato vicino a un ingranaggio posato a terra cercava inutilmente
di
sollevarlo, bloccando e deviando la fila di lavoro che si era formata.
Con grosse falcate, mentre il suo
volto diventava rosso per
la rabbia, Gilbert si diresse verso il ragazzo biondo, quasi
investendolo.
“Cosa cazzo stai facendo,
piccolo merdoso stronzo?! Muoviti
a raccogliere quell’ingranaggio e a tornare a
lavorare!”
Le sue grida si sparsero per tutto
l’edificio bloccando
all’istante tutti i lavoratori che si girarono a guardare
nella sua direzione
curiosi e impauriti.
Matthew cercò inutilmente di alzare l’ingranaggio
ma l’oggetto non si mosse di
un millimetro da terra.
“Io… io non ci
riesco… è troppo pesante per me!”
Piagnucolò
nello sforzo.
Gilbert non ci vide più
dalla rabbia. La sua adorata e tanto
sofferta perfezione stava per essere irrimediabilmente rovinata da quel
miserabile individuo dal disgustoso accento inglese che continuava ad
esistere
soltanto per un suo capriccio. Senza pensarci due volte
l’albino afferrò per il
collo il povero ragazzo e sfoggiando una forza fuori dal comune, dovuta
agli
anni di allenamento per rendere perfetti i suoi muscoli, glielo strinse
soffocandolo.
Matthew cominciò ad
annaspare mentre con le mani cercava di
divincolarsi dalla presa del tedesco, ma non vedendo bene a causa degli
occhiali che gli erano stati tolti il giorno prima, non
riuscì a colpirlo né
tantomeno ad appendersi al suo corpo.
“Kesesese, ma a chi stai
mirando, eh fallito?” Schernì
Gilbert ridendo di gusto mentre stringeva la presa sul pallido collo
del
ragazzo.
“Uc…
Oc… Occhi-ali…” Riuscì a
sputare Matthew mentre si
aggrappava con tutte le sue forze alle braccia di Gilbert cercando di
respirare
un po’ d’aria.
“Occhiali? A che ti servono
gli occhiali se stai per
morire?”
Detto questo Gilbert mollò
la presa con una mano e la
sollevò a pugno pronto per calarla con forza sul povero
malcapitato.
Nell’edificio era calato un silenzio quasi sacro. Gli altri
detenuti rimasero a
guardare sconvolti sentendosi disgustati e impotenti allo stesso tempo.
Il
volto di Feliks assunse una smorfia di disperazione nel vedere che un
altro
detenuto del suo dormitorio stava per morire per un motivo futile e
assurdo. Al
suo fianco Feliciano tremava come una foglia e singhiozzava in silenzio
mentre
le lacrime gli bagnavano il volto.
Dalla fornace Toris guardava paralizzato la scena. Nemmeno il giorno
prima
aveva concluso che il canadese non sarebbe sopravvissuto a lungo, ma
non
avrebbe mai pensato di vederlo morire così presto e per un
motivo così stupido.
Semplicemente non era pronto per vedere morire nessuno.
Alle urla disumane Ludwig
uscì dalla sua trance notando
finalmente cosa stava succedendo a pochi metri di distanza da
sé. Vedere il
fratello piegato sul ragazzo indifeso pronto a massacrarlo di pugni lo
lasciò
con un fortissimo senso di nausea mentre l’adrenalina
montava. Doveva salvare
quel ragazzo dalla violenza del fratello, esattamente come aveva fatto
poco tempo
prima con Feliciano, doveva assolutamente farlo. Pensando a
ciò fece uno scatto
in direzione del fratello per poi fermarsi qualche istante dopo,
sconvolto.
Non aveva fatto in tempo.
Gilbert rideva come in indemoniato mentre guardava il volto del ragazzo
rosso e
sofferente. Con la sua morte la sua perfezione sarebbe stata salva.
Gilbert era
pronto a sacrificare chiunque pur di preservarla. Avrebbe colpito
così forte
quella feccia da renderlo irriconoscibile anche a sua madre, non
importa se
avrebbe tolto forza lavoro nella fabbrica, un individuo tanto inutile
era solo
un peso per essa.
Stava per avventarsi sul ragazzo con
foga quando il suo
braccio si fermò a metà strada, come se una mano
invisibile lo avesse
trattenuto con forza.
Gilbert rimane impietrito a guardare il volto del canadese ormai allo
stremo.
Matthew era diventato completamente rosso, quasi viola, per la mancanza
d’aria
e dalla sua bocca colava un rivolo di saliva che cadeva sulla mano
dell’albino
che gli stringeva il collo. Ma quello che più di tutto
pietrificò il tedesco fu
il suo sguardo. Gli occhi del ragazzo, grandi e d’un
incredibile violetto, lo
fissavano socchiusi per lo sforzo e colmi di lacrime che scendevano
sulle sue
guance. Nel suo sguardo Gilbert non leggeva né odio
né rancore né nessun altro
sentimento negativo nei suoi confronti ma solo tanta disperazione e
tristezza.
L’albino cercò
di dire qualcosa ma lo sguardo ipnotico del
ragazzo ormai quasi svenuto gli risucchiava l’intera
facoltà del pensiero, e
forse quasi l’anima. Raccogliendo tutta la sua forza di
volontà Gilbert riuscì
a deviare il suo sguardo da quello del ragazzo. Ancora scioccato da
quello che
aveva provato, gettò il ragazzo a terra lasciando la presa
sul suo collo e
alzandosi. Subito Matthew si portò le mani al collo
respirando rumorosamente a
pieni polmoni, tossendo insistentemente. Gilbert lo osservò
per qualche istante
rimanendo in piedi di fronte a lui, poi si guardò intorno.
L’intera fabbrica
aveva puntati i suoi occhi su di lui. I prigionieri erano rimasti a
bocca
aperta a fissarlo increduli mentre Ludwig lo guardava come se
indossasse un
vestito da donna.
Cercando di scrollarsi di dosso
l’immenso disagio che lo
stava assalendo, abbaiò ai prigionieri di rimettersi a
lavoro, poi si rivolse
al canadese intimandolo di cambiare posto con qualcuno della fornace.
Infine,
rosso in volto più per altro che per la rabbia,
girò i tacchi su sé stesso e
quasi corse fuori dall’edificio senza nemmeno girarsi verso
il fratello che lo
seguiva con lo sguardo.
“Cosa cazzo è
successo?”
Questo fu il primo pensiero di
Gilbert quando, uscito dalla
fabbrica, si rifugiò dentro l’edificio dove si
trovavano le docce comuni, a
quell’ora deserto.
Appena entrato, subito si appoggiò con le mani a una parete,
fissando sconvolto
a terra. In nemmeno un minuto era successo l’incredibile, ma
cosa ancora più
incredibile era che non era riuscito a picchiare quel ragazzo.
No, era più corretto dire “non aveva
voluto”!
Gilbert scosse la testa e
tornò a guardare a terra con gli
occhi sgranati. Mai nella sua carriera di amministratore del campo gli
era
successa una cosa simile. Non si era mai fatto scrupoli a picchiare,
vessare,
torturare, ferire o in casi estremi mutilare i prigionieri qualora ne
avesse
avuto bisogno o voglia, ma questa volta semplicemente non vi era
riuscito.
Probabilmente il motivo era il
canadese stesso. Gilbert non
aveva mai preso in simpatia nessun prigioniero da quanto lavorava
lì, ma
riconosceva quando qualcuno lavorava sodo e bene o quando qualcuno era
oggettivamente di bell’aspetto. Quel canadese, se non fosse
stato inglese, sarebbe
potuto essere un perfetto ariano in quanto rispettava la maggior parte
dei
canoni dell’ideologia tedesca.
Il problema però era
soltanto uno: la sua bellezza non era
oggettiva per Gilbert.
L’albino infatti non era stato particolarmente colpito dal
bell’aspetto del
ragazzo quanto dal suo volto e soprattutto dai suoi occhi e dalle
sensazioni
che aveva provato nel guardarli. Occhi grandi, d’un colore
mai visto prima,
innocenti e allo stesso tempo saggi e profondi, carichi di pazienza e
dolcezza.
Uno sguardo che per la prima volta nella vita di Gilbert non lo
guardava con
odio, disprezzo e disgusto.
Gilbert sapeva bene di essere diverso
da tutti gli altri, e
soprattutto di essere estremamente fortunato. La sua caratteristica
principale,
l’albinismo, lo aveva costretto a una vita di forti
sofferenze a livello
sociale dove tutti, adulti, bambini, parenti, insegnanti, semplici
passanti che
lo incrociavano per strada, lo fissavano come se fosse un mostro, lo
additavano
come diverso e lo isolavano. Gilbert aveva dovuto combattere contro la
solitudine e contro il disprezzo per tutta la sua vita, rimboccandosi
le
maniche nel cercare di farsi riconoscere almeno i propri sforzi,
cercando di
essere il migliore in tutto per essere finalmente visto come una
persona
normale e di valore. E accidenti ci era riuscito, era diventato davvero
impressionante, ma nonostante ciò la gente lo guardava
ancora con disprezzo,
disgusto e ora anche con invidia.
Gilbert era consapevole anche che la maggior parte della sua fortuna
derivava
dalla sua famiglia altolocata ed era questo il principale motivo per
cui non si
trovava in quel campo come prigioniero al posto di amministratore.
Lui si divertiva a rendere la vita dei prigionieri un inferno per
cercare di
esorcizzare la sua sofferenza facendo del male agli altri, soprattutto
a quelli
che lo odiavano più di qualsiasi altra cosa.
Non era colpa sua se era nato in quel modo, non era colpa sua se era
diverso da
tutti gli altri, non voleva esserlo e avrebbe fatto di tutto per
proteggere
tutto quello che aveva faticosamente conquistato fino al quel momento.
Ma quello sguardo… quello
sguardo privo di negatività, privo
di odio e rancore, carico solo di tristezza, disperazione e quasi
compassione
lo aveva destabilizzato nel profondo. Quel ragazzo non lo odiava, non
pensava
fosse diverso o che fosse un mostro, aveva anzi quasi pietà
della sua
condizione, e soprattutto non lo giudicava. Guardandolo, per la prima
volta
nella sua vita Gilbert si sentì visto per ciò che
era e non per ciò che
appariva, per un ragazzo che usava la violenza per nascondere la sua
grandissima sofferenza interiore e per cercare di alleviarla, non per
uno
scherzo della natura feroce e senza scrupoli.
Ed era proprio questo che creava in
Gilbert tanta
confusione, il fatto che appena visto quello sguardo il suo io
interiore si era
rifiutato categoricamente di far del male a quel ragazzo, di
distruggere a suon
di pugni la sua innocenza e compassione.
Con un’epifania degna dei personaggi dei romanzi di Joyce,
Gilbert realizzò che
non voleva per nessuna ragione al mondo essere odiato da quel canadese,
ma anzi
voleva assolutamente continuare a essere guardato in quel modo tutto il
tempo,
proteggerlo da ogni minaccia che poteva ledere la sua innocenza,
tenerlo
stretto a per sé in modo quasi possessivo, nutrendosi della
sua presenza e
della sua semplicità come se potessero curare in modo
definitivo le profonde
cicatrici del suo cuore.
Con orrore si allontanò
dalla parete passandosi la mano sul
volto sudato mentre fissava insistentemente la porta
dell’edificio. Un conto
era pensare che una persona fosse di bell’aspetto in modo
oggettivo, un altro
era pensare che quella persona non solo fosse bella ma essere anche
interessato
al suo aspetto interiore. Gilbert deglutì a fatica.
Aveva appena capito di avere degli interessi particolari per un
ragazzo, una
persona del suo stesso sesso, interessi che non aveva mai avuto prima
di allora
e che disprezzava con ogni fibra del suo corpo.
“Impossibile!
Io… io non posso essere interessato a un uomo!
Io….”
Le relazioni tra uomini erano
severamente vietate e punite
dall’ideologia nazista e lui era cresciuto facendo proprio
questo valore. Era
impossibile che avesse interessi per altri uomini, anche
perché ne aveva visti
tanti in ogni modo possibile e non avevano avuto nessun effetto su di
lui, e
poi in gioventù aveva avuto diverse cotte per delle ragazze.
“Devo essermi rincretinito
tutt’un tratto! Probabilmente è
colpa della stanchezza” Ridacchiò tra
sé per cercare di sdrammatizzare il
tutto, ma nel profondo della sua anima sentiva una vocina che urlava
“bugiardo”.
Senza indugiare oltre uscì
dall’edificio e si diresse verso
i dormitori delle guardie deciso a impiegare tutto il tempo che serviva
in
preghiera davanti il crocifisso che aveva appeso nella sua stanza per
cercare
di trovare una risposta ai suoi problemi.
Note
dell'Autore
Ed ecco finalmente un
nuovo capitolo. Mi hanno fatto notare che i capitoli precedenti erano
un tantino corti, perciò iniziando da questo
pubblicherò capitoli più lunghi :D
Lo so, lo so, ho trattato malissimo Canada e me ne pento, ma da adesso
in poi andrà meglio, giuro.
Inoltre abbiamo scoperto anche un lato nascosto di Gilbert che
inizierà ad emergere sempre più!!
Canada è così tenero, piace a tutti :3
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Capitolo 5 *** Desidero vederti felice ***
Ludwig osservava i prigionieri
lavorare con uno sguardo
confuso mentre la sua mente era affollata da dubbi. Cos’era
successo poco tempo
prima? Cos’aveva portato Gilbert, il suo fratello crudele e
sadico, a non
picchiare quel ragazzo, ma anzi a lasciarlo andare e correre fuori
dalla
fabbrica?
Ludwig proprio non riusciva a trovare risposta.
Osservava in silenzio tutta quella
gente mantenendo la sua
impeccabile posa militare con la schiena dritta e il petto
all’infuori per
incutere timore e rispetto.
Spesso gettava un’occhiata verso la fornace dove il ragazzo
canadese aveva
preso il posto di un altro prigioniero. Quella povera anima piangeva in
silenzio mentre gettava le pietre nella fornace e incanalava il metallo
fuso
negli stampi. Sul suo collo si era formato il grosso segno di una mano
rossa
che circondava tutta la pelle appena sotto il mento. Finito il lavoro,
Ludwig lo
avrebbe mandato in infermeria per un controllo.
Altrettanto spesso il suo sguardo di
ghiaccio si posava sul
piccolo italiano che curvo sotto i sacchi cercava di svolgere il suo
lavoro,
riuscendoci molto male. Era molto fragile di costituzione
perciò non riusciva a
portare bene il peso dei sacchi e piagnucolava ogni due passi di essere
stanco,
di avere dolori alla schiena e di avere fame. Gli altri detenuti
cercavano di
spronarlo con incoraggiamenti e con spinte ma il ragazzo non sembrava
proprio
adatto al lavoro manuale.
Ludwig sorrise dolcemente nel vederlo
in quello stato un po’
patetico. Trovava quel Feliciano adorabile nonostante il suo
comportamento
infantile, e poi il suo nome sembrava pura poesia. Il tedesco aveva
impiegato
diverso tempo per riuscire a pronunciarlo correttamente senza
imbruttirlo con
il suo forte accento tedesco. Desiderava poter pronunciare il suo nome
dolcemente come lo pronunciava lui con il suo incantevole accento
italiano.
Inoltre aveva gettato l’occhio anche sul fondoschiena del
ragazzo quando gli
dava le spalle per uscire dall’edificio, vergognandosi
internamente di ciò che
stava facendo ma non riuscendo a smettere. Dio, aveva un culo
celestiale, così
piccolo e sodo, probabilmente perfetto per essere preso tra le sue
mani…
I suoi pensieri peccaminosi furono
interrotti da un uomo che
entrò improvvisamente nella fabbrica chiamandolo a gran
voce. Ludwig, rosso in
faccia, si girò di scatto vedendo Roderich accorciare le
distanze tra di loro
con la sua camminata lenta e aggraziata, davvero fuori luogo in un
posto
simile.
“Ludwig, volevo informarti
che il pranzo è quasi pronto, il
francesino ha cucinato sia per questi pezzenti che per noi. Spero
davvero per
lui che sia all’altezza della sua fama” Disse con
il suo accento sofisticato
aggiustandosi gli occhiali.
“Bene, grazie. Sai per caso
dov’è Gilbert?”
“Si è rinchiuso
nella sua stanza a pregare non so per quale
motivo, ma ha detto che sicuramente presenzierà al
pranzo”
Il tedesco biondo annuì
incerto, poi si guardò attorno
osservando i prigionieri lavorare.
“Io… io credo
che mangerò con i prigionieri”
A quelle parole Roderich
sgranò gli occhi e rimase a
guardarlo scioccato e allo stesso tempo inorridito.
“Stai scherzando,
vero?” Chiese dopo qualche istante di
silenzio.
“No, io non scherzo mai,
dovresti saperlo”
“Non puoi essere serio,
Ludwig! Come ti salta in mente di
condividere il pasto con questa…” Con un gesto
ampio indicò tutti i prigionieri
“…gente…” Concluse con una
smorfia.
Ludwig rimase a fissarlo per qualche
istante. Roderich era
il rampollo di una ricchissima famiglia austriaca che, per salvare il
proprio
patrimonio e il proprio prestigio, con l’annessione
dell’Austria alla Germania
aveva deciso di appoggiare la dittatura nazista senza alcuna remora.
Grazie all’influenza
della sua famiglia, Roderich era stato subito assegnato al campo di
concentramento senza nemmeno passare per l’allenamento in
esercito, per questo
aveva conservato il suo atteggiamento aristocratico. Egli abbracciava
perfettamente l’ideologia nazista della razza e della
divisione in classi
sociali guardando dall’alto in basso praticamente tutti
quelli che gli si
avvicinavano. Ludwig non sopportava il suo atteggiamento spocchioso, e
soprattutto
il suo menefreghismo per quasi tutto quello che succedeva in quel
luogo.
A Roderich interessava soltanto la musica, i soldi, una vita agiata,
essere
servito e riverito, e i dolci. Il resto non lo toccava minimamente.
“Qualcuno dovrà
pur controllarli no?” Rispose in modo
diplomatico. In realtà non voleva rivelare di sentirsi
più a suo agio con
quella gente piuttosto con i secondini del campo di concentramento.
Roderich lo fissò con
diffidenza per qualche istante, poi
sbuffò sconfitto e annuì.
“Hai ragione, fai come
meglio credi. Vado ad avvertire
Gilbert allora e a dire al biondino in calore di sbrigarsi con il
pranzo.
Intanto fai concludere i lavori e porta questa feccia nel cortile
davanti il
dormitorio per la distribuzione del pranzo”
Girando i tacchi, lentamente ed
elegantemente com’era
arrivato se ne andò.
Ludwig scosse la testa e rivolse la sua attenzione ai lavoratori
iniziando ad
urlare ordini con il suo forte accento tedesco.
Francis rimase sconvolto nel sentire
il racconto di
Feliciano. In una mattinata erano successi ben due miracoli,
avvenimenti più
unici che rari. Non solo Feliciano era incredibilmente uscito incolume
dal
confronto con la guardia circa la sua pigrizia mattutina, ma Matthew
era
sopravvissuto alla violenza senza senso di Gilbert con solo un grosso
livido
sul collo.
Francis continuò a mangiare la sua minestra scioccato mentre
ascoltava la fine
del racconto di Feliciano.
“E così Gilbert
ha urlato contro tutti noi di continuare a
lavorare e poi è uscito dalla fabbrica e non si è
più visto! Ve, è strano vero?
Però è stata una fortuna per Matthew, ve! Vero
Matthew?”
Il ragazzo biondo mangiava lentamente
la sua minestra in
silenzio guardando a terra. I suoi occhi erano scavati da profondi
segni rossi
dovuti al pianto e le guance ancora portavano i segni delle linee
lasciate
dalle lacrime. Aveva un aspetto pietoso e Francis ebbe compassione per
lui.
Posando il suo piatto di minestra a terra affianco a lui, Francis si
alzò e
affiancò il canadese che sembrava non essersi accorto della
sua presenza. Con
un dolce sorriso, il francese lo strinse in un abbraccio poggiando la
sua testa
sul petto e accarezzando lentamente i suoi capelli arruffati.
“Oh petit
trésor, ti sei spaventato, non è vero? Ti ha
fatto
tanto male? Avanti non preoccuparti, è tutto finito, ci
siamo noi adesso qui”
Matthew posò a terra il
suo piatto ormai quasi vuoto mentre
i suoi occhi si gonfiavano nuovamente di lacrime. Con un singhiozzo
ricambiò
l’abbraccio di Francis nascondendo il volto nel suo petto.
“Io…
sigh… io non voglio stare qui! Ho paura! Sob! Voglio
mio fratello, dov’è mio fratello?
Dov’è Alfred?? Sigh!”
Anche feliciano posò il
suo piatto vuoto a terra e si
aggiunse all’abbraccio.
“Non preoccuparti, amico
mio, le cose si sistemeranno presto,
ve! Sono sicuro che i nostri cari staranno facendo tutto il possibile
per
trovarci e salvarci!”
Feliciano sembrava davvero ottimista
e convinto di ciò che
diceva. La sua genuinità riuscì a calmare un
po’ Matthew e lentamente si
allontanò dall’abbraccio e ringraziò i
suoi amici.
“Avanti petit, finisci il
tuo pranzo e riposa un po', tra
qualche minuto ricominceremo a lavorare e non avremo più
tempo per riposare!”
Matthew annuì e riprese il
suo piatto, mentre Francis
ritornò al suo.
Da lontano Ludwig osservò con interesse la scena. Era
curioso vedere come si
era formato del cameratismo in così poco tempo tra i
prigionieri, soprattutto
tra il polacco e il lituano e tra Feliciano, Francis e il ragazzo
canadese, e
scoprì che la cosa non gli dispiaceva. Rimase ad osservarli
per qualche altro
istante, finché una voce alle sue spalle non lo prese di
sorpresa.
“Che scena commovente, non
è vero?”
Con il suo tipico sorriso tagliente e
brillante Gilbert era
magicamente apparso dietro le spalle del ragazzo, come se sbucasse dal
nulla.
Ludwig non fu particolarmente felice di vederlo, non dopo quello che
aveva
fatto al canadese.
“Sei finalmente riuscito ad
uscire dalla tua stanza! Il
nostro Dio ti ha nuovamente parlato?” Chiese con una forte punta
di ironia nella
voce.
“Non sei
spiritoso!” Rispose l’albino con poca convinzione.
Ludwig girò la testa per
guardarlo sospettoso. Si aspettava
come risposta la solita filippica sulla fede e
sull’autenticità dei colloqui
che Gilbert aveva con l’onnipotente, ma trovò
invece suo fratello fissare in
silenzio in direzione del gruppetto di prigionieri che si godeva un
po’ di
riposo. Ludwig non ne era sicuro ma sospettava che stesse guardando
proprio il
ragazzo canadese che poche ore prima stava per picchiare a morte. I
suoi dubbi
trovarono conferma pochi istanti dopo.
“Francis! Smettila di
perdere tempo come un idiota e porta
quel fallito inglese in infermeria. Non mi piace vedere i lavori
lasciati a
metà!”
“S-sono
canadese…” Sussurrò Matthew, ma nessuno
sembrò
sentirlo.
Senza rispondere, Francis si
alzò e aiutò con la mano il
ragazzo ad alzarsi a sua volta.
“Vieni, andiamo a
controllare quel brutto livido sul collo,
oui? Sicuramente dopo ti sentirai molto meglio”
“Muovetevi maledizione! E
voi altri alzate il culo e tornate
a lavoro! Veloci!”
Ludwig rimase in silenzio a guardare
fisso davanti a lui.
Che Gilbert non amasse lasciare i lavori a metà o incompiuti
era vero, ma
questo significava che avrebbe dovuto scagliarsi di nuovo su quella
povera
anima invece che mandarlo in infermeria a curarlo, cosa che tra
l’altro avrebbe
fatto lui a breve. Rimase a rimuginare su ciò mentre
guardava l’italiano
accodarsi al lituano e al polacco ed entrare in fabbrica. Non si
accorse che
Gilbert aveva seguito con lo sguardo i due ragazzi biondi che si
avviavano
verso l’infermeria, distogliendolo solo quando furono
nascosti dalle pareti
degli altri edifici.
I prigionieri passarono tutto il
pomeriggio a lavorare senza
alcuna sosta finché il lavoro non fu ostacolato dal buio che
non permise più di
vedere a un palmo dal proprio naso. Nonostante tutto l’orrore
e il degrado di
quel posto, la notte regalava ai detenuti del campo uno splendido cielo
stellato difficilmente visibile dalle città europee
inquinate dalla luce
corrente. Tutti, dal primo all’ultimo prigioniero, erano
sfiniti e si
trascinavano come meglio potevano al dormitorio.
Toris si costringeva a trascinare i
piedi pensando solo al
suo angolino di letto umido e sporco dove si sarebbe accucciato e dove
avrebbe
rilassato le sue membra stanche e sforzate. Sperava con tutto il suo
essere che
quella sera il suo compagno di letto non lo avrebbe disturbato con i
suoi
stupidi discorsi perché aveva ardente bisogno di riposare.
Se tutte le giornate
fossero state in quel modo Toris pensava seriamente che non sarebbe
sopravvissuto a lungo.
Sistemandosi sul letto accanto a
Feliks che sembrava stanco
e desideroso di riposo esattamente come lui, Toris vide passare con
passo lento
il ragazzo canadese. Il suo sguardo si addolcì un
po’ nel vedere il grosso
segno che il secondino gli aveva lasciato sul collo, un segno violaceo
che
avrebbe impiegato diversi giorni per abbandonare la pelle candida del
ragazzo.
A Toris si strinse il cuore nel pensare che c’era qualcuno in
condizioni
peggiori di lui, soprattutto se quel qualcuno era Matthew, un ragazzo
dolcissimo e innocente che davvero non doveva trovarsi in quel posto.
Cercando di pensare ad altro, Toris
si accoccolò chiudendo
gli occhi e assaporando il sollievo di sentire il suo corpo rilassarsi
contro
la paglia, quando una vocina lontana gli giunse all’orecchio:
“ Maple! Non posso
crederci!”
Subito il ragazzo lituano si
alzò di scatto guardando nella
direzione del canadese, notando che il ragazzo, forse per la prima
volta da
quando erano arrivati lì, aveva parlato così ad
alta voce da attirare
l’attenzione di tutti. Francis e Feliciano, che erano quelli
più vicini al
letto di Matthew, già si erano già alzati e si
stavano avvicinando al ragazzo
che sembrava particolarmente agitato.
Toris rimase un istante confuso e indeciso sul da farsi ma fu Feliks
che
tirandolo per una manica tutto entusiasta lo convinse a scendere dalla
cuccetta
e avvicinarsi agli altri.
Povere le sue membra doloranti.
Matthew era arrossito visibilmente
mentre guardava i suoi
amici avvicinarsi preoccupati, ma non perché improvvisamente
si trovava al centro
dell’attenzione di tutti, ma per quello che aveva trovato
sulla sua cuccetta.
All’inizio non l’aveva visto e lo aveva
letteralmente schiacciato sotto la sua
schiena, ma uno scricchiolio sinistro e un pizzico proprio dietro la
scapola
portarono il ragazzo a scoprire della sua esistenza.
Quando gli altri ragazzi arrivarono
lo stupore fu generale.
Francis rimase a fissare l’oggetto con
un’espressione dubbiosa, rimasto senza
parole (cosa rara per lui), mentre Toris e Feliks guardarono con
stupore e
confusione prima il ragazzo poi il letto, poi ancora il ragazzo come se
cercassero una spiegazione proprio da lui.
Fu Feliciano il primo a riuscire a dire qualcosa in merito rompendo la
tensione
che si era creata.
“Ve, sono occhiali!
E’ un paio di occhiali!” Esclamò con
gioia.
“Oh mon dieu, è
vero, è proprio un paio di occhiali! Ma da
dove arrivano?”
Matthew scosse la tessa negativamente
mentre li prendeva in
mano come se fossero un oggetto antico e fragile. Erano un paio di
lenti tonde
e grandi montate su una struttura di legno d’ebano decorato
con degli intagli,
con dei cuscinetti di pelle che proteggevano i punti in cui gli
occhiali
poggiavano sul setto nasale. Matthew li rigirò varie volte
tra le mani cercando
di vederne tutti i dettagli nonostante la sua miopia.
“S-sono bellissimi, ma non
sono miei. Non so da dove
vengono!”
“Che t’importa?
E’ chiaramente un regalo di qualcuno, e poi
a te serve un paio di occhiali no? Io non farei domande a riguardo,
anche se
secondo me è stato quel tedesco biondino, è
piuttosto gentile con noi!” Esclamò
Feliks con gli occhi brillanti mentre lo sguardo di Feliciano si
rattristò un
pochino.
“Prova a metterli
Matthew” Incitò Toris, spalleggiato dagli
altri.
Matthew si infilò gli
occhiali lentamente come se avesse
paura di rovinarli, poi guardò singolarmente gli altri negli
occhi mentre un
sorriso di genuina felicità si allargava sul volto.
“Sono perfetti!”
Esclamò con gioia mentre gli occhi gli si
riempivano di lacrime “Riesco finalmente a vedervi tutti, io
non posso crederci,
finalmente posso vederci bene!”
Francis lo abbracciò con
affetto mentre gli altri ragazzi
commentavano e ridevano sull’accaduto. Matthew rispose
all’abbraccio con
trasporto mentre le lacrime scendevano sulle sue guance.
Lacrime di gioia questa volta.
Da una finestrella situata sulla
parete in fondo al
dormitorio una sagoma nascosta nell’oscurità
osservava con il suo sguardo
cinabro la situazione.
“Io non riesco a capire,
Gilbert. Perché improvvisamente hai
fatto una cosa simile? Non è da te!”
Roderich, con il suo immancabile
accento da aristocratico
sofisticato, girò energicamente il cucchiaio nella tazzina
di caffè fumante che
aveva appena preparato, aggiungendo di tanto in tanto una zolletta di
zucchero.
“Insomma, sono soltanto
detenuti, povere anime dannate dal
regime e tramutate in forza lavoro per le sue fabbriche, e ad essere
sinceri
anche molto scadente. Spiegami per favore”
Roderich smise di girare il
caffè e fissò con insistenza il
ragazzo albino. Gilbert, che sedeva in modo volgare su una sedia,
distolse lo
sguardo non riuscendo a sostenerlo, fissando invece il paesaggio fuori
la
finestra.
“Non
c’è nulla da spiegare, accidenti”
“Non dire stupidaggini. Mi
hai costretto a cederti uno dei
miei amatissimi paia di occhiali fatti a mano, per poi cosa? Scoprire
che lo
hai regalato a un detenuto qualsiasi. Vorrei cortesemente una
spiegazione,
quegli occhiali sono stati costruiti su ordinazione in Svizzera, sono
molto
costosi e pregiati. E’ un vero spreco averli gettati nelle
mani luride di quei
pezzenti” Con sdegno soffiò sulla tazzina bollente
per poi sorseggiarne il
contenuto.
Gilbert arrossì
violentemente a quelle parole, ringraziando
di trovarsi nella penombra altrimenti avrebbe dovuto spiegare anche
quella
reazione. Maledetto aristocratico austriaco dalla parlata femminea.
Cercando di
essere più spontaneo possibile, rise energicamente sbattendo
la mano sul
tavolo.
“Ripeto, non
c’è niente da spiegare Roderich. Quel
pusillanime aveva bisogno di un paio di occhiali per poter lavorare
bene e io
me ne sono procurato uno dove ho potuto” Fece una pausa ad
effetto “Se
aspettavo di fare richiesta nella lista dei rifornimenti mensili avrei
dovuto
aspettare molto tempo, lo sai no? E nel frattempo cosa dovevo fare?
Sparare a
quel disgraziato perché non poteva lavorare bene? Tu lo sai
che un paio di
braccia in più sono sempre comode no?”
Si rimise improvvisamente composto e
guardò dritto negli
occhi del suo interlocutore “Inoltre la colpa è
soltanto tua. Come ti è saltato
in mente di bruciare anche gli occhiali di uno che non ci vede senza?
Eri tu
che stavi supervisionando le docce insieme al mio fratellino ieri, no?
Ed
escludendo che sia stato lui, perché non è
così stupido, rimani solo tu!”
Roderich rimase a guardarlo a bocca
aperta scioccato.
Gilbert gli lanciò uno dei suoi sorrisi affilati mentre si
alzava spostando
rumorosamente all’indietro la sedia. Era così
appagante riuscire ad azzittire
quello spocchioso damerino una volta ogni tanto, doveva rincarare la
dose per
poter gustare al meglio quel momento.
“Perciò perdere
un paio di occhiali per riparare la tua
grave mancanza di cervello è un piccolissimo prezzo da
pagare, inoltre
imparerai la lezione per la prossima volta, no?”
Detto questo rise di gusto e
lasciò la stanza e l’austriaco
a dir poco indignato salutandolo con un gesto della mano. Appena uscito
dalla
vista dell’austriaco, Gilbert si morse le unghia di una mano
in preda
all’agitazione.
“L’ho scampata
bella! Per fortuna sono così eccezionalmente
intelligente da essere riuscito ad azzittirlo, ma a momenti mi metteva
con le
spalle al muro. L’ho fatto solo perché
quell’idiota non lavora bene senza
occhiali… Si, è per quello!”
Pensò mentre percorreva il corridoio che portava
alla sua stanza, ma in cuor suo sapeva che quella era soltanto una
scusa, una
debole bugia che cercava di nascondere una prepotente verità
che mal accettava.
“Una nottata di preghiera e
di riflessioni mi schiarirà le
idee!”
Nota dell'autore
Finalmente
il capitolo!! Mi scuso per il ritardo ma purtroppo ho avuto molti
impegni di tipo universitario che mi hanno fatto tardare la
pubblicazione, maledetto studio -_-
Oh-OH Gilbert, ti piace fare i regali di nascosto eh?
Povero Feliciano, l'idea di non essere il preferito di Ludwig lo
rattrista molto, ma tu non sai la verità!! Ludwig ha occhi
solo per te ><
Spero di aver caratterizzato bene Roderich, mi piace molto enfatizzare
il suo lato altolocato e snob, inoltre mi è parso dall'anime
che né Germania né Prussia sopportano molto il
suo comportamento da aristocratico x'D
Francia è sempre il fratellone :3
Mi scuso per errori di qualsiasi genere e se avete domande o volete
parlare della FF sono a completa disposizione, non siate timidi ;)
Al prossimo capitolo!
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Capitolo 6 *** Bacio di pronta guarigione ***
Erano passati diversi giorni da
quando Feliciano era
arrivato al campo, forse qualche settimana, l’italiano non
sapeva dirlo con
certezza. I detenuti non riuscivano a portare il conteggio dei giorni,
figurarsi le settimane e i mesi, l’unica cosa che riuscivano
a capire era il
trascorrere del giorno con l’arrivo della notte e il
passaggio da una stagione
all’altra, niente più. Feliciano però
sentiva di aver trascorso quasi una vita
intera in quel posto.
Da quando erano arrivati tutti
avevano subito dei
cambiamenti a livello fisico.
Feliciano aveva perso diversi chili, ed essendo già di
costituzione piccola
iniziava ad essere piuttosto esile e smunto. Matthew aveva acquisito un
pallore
quasi cadaverico mentre i suoi occhi che inizialmente erano di bel
violetto
brillante ora erano spenti e infossati dietro le lenti. Toris invece
aveva
cominciato a perdere più capelli del solito, rimanendo con
intere ciocche tra
le dita quando passava la mano tra la capigliatura un tempo folta.
Francis e
Feliks avevano cercato di rassicurare i ragazzi dicendogli che era
normale e
che anche loro avevano perso molto peso e il loro aspetto sano, ma
ciò non
riuscì a tranquillizzarli del tutto.
Toris soprattutto soffriva molto di
incubi la notte che lo
portavano a gemere, urlare e tremare in modo incontrollato. Feliks
spesso
veniva svegliato nel cuore della notte dagli spasmi del compagno, e per
uno
slancio di pietà aveva cominciato a prendere
l’abitudine di dormire abbracciato
a lui per cercare di tranquillizzarlo. Per questo motivo il ragazzo
lituano era
sempre molto stanco e sfibrato il giorno, una condizione che
preoccupava non
poco i suoi compagni di sventura.
Feliciano invece si era accorto che Francis aveva l’abitudine
di sussurrare
alcune frasi in francese misto a qualche parola inglese la sera prima
di
addormentarsi, come se mormorasse una buonanotte rivolta a
chissà chi o una favola
per conciliare il sonno. Feliciano non sapeva perché ma ogni
volta che
ascoltava quella litania veniva colto da una forte sensazione di
tristezza.
In tutta questa negatività
però qualcosa di positivo c’era.
Entrambi i fratelli tedeschi che sorvegliavano i detenuti del
dormitorio H3T4
avevano ammorbidito il loro comportamento. Ludwig si era rivelato sin
dall’inizio di buon cuore e quasi privo di
crudeltà, mentre colui che destò più
stupore fu proprio Gilbert. Dopo l’episodio che lo aveva
quasi portato a
uccidere Matthew il suo atteggiamento si era progressivamente
ingentilito.
Certo, lui era ancora freddo e autoritario con i prigionieri, li
picchiava
spesso e li insultava pesantemente, ma loro non sentivano
più ila propria vita
costantemente in pericolo.
In questi giorni il dormitorio era
stato costretto a
lavorare sia nella fabbrica L14 sia in altri luoghi del campo di
concentramento, a volte in altre fabbriche, altre invece al di fuori
della
recinsione nei campi coltivati intorno al complesso.
Quando si trovavano all’esterno di solito erano costretti a
lavorare la terra
per raccogliere alimenti che i prigionieri non avrebbero mai visto nei
loro
piatti. Nonostante gli sforzi di Francis il loro rancio era a dir poco
immangiabile e ipocalorico, un pasto che riusciva a malapena a tenerli
in vita.
In tutto questo tempo Feliciano aveva
cominciato a prendere
l’abitudine di lanciare occhiate furtive e fissare
insistentemente nei momenti
morti la guardia bionda. Non sapeva dire il perché ma quel
Ludwig gli ricordava
tanto un ragazzino che aveva conosciuto nell’infanzia e che
aveva sempre amato,
e che non aveva più rivisto dopo l’ascesa del
Fascismo in Italia.
Fin dall’inizio Feliciano
aveva avuto un debole per lui che
da semplice attrazione si stava evolvendo in qualcosa di
più, alimentata anche
dal comportamento gentile del soldato stesso. Spesso la mattina, quando
Feliciano non riusciva a svegliarsi in orario, era Ludwig che lo
svegliava e lo
aiutava a sistemarsi per poter andare a lavorare, mentre il giorno
Feliciano
sorprendeva sempre il ragazzo a fissarlo insistentemente.
Anche Francis si era accorto della situazione, come se avesse un fiuto
particolare per le tensioni sessuali, ma aveva preso in considerazione
anche la
possibilità che Ludwig fissasse l’italiano per
controllare che non
bighellonasse sul lavoro, deludendo non poco il ragazzo.
Feliciano si ostinava ad osservare il
tedesco anche per un
altro motivo: voleva ardentemente sapere se era stato lui a regalare il
paio di
occhiali a Matthew.
Dalla sera in cui li aveva ricevuti il giovane canadese non aveva
smesso di
cercare chi gli aveva fatto quel regalo per poterlo ringraziare.
Inizialmente
aveva sospettato di qualche guardia del campo, ma aveva subito scartato
l’idea
in favore di qualcuno all’interno del dormitorio che magari
aveva chiesto
quella concessione a una guardia o li aveva direttamente rubati.
Francis era più propenso per l’idea di qualche
guardia invece, idea che era
sostenuta anche da Toris e Feliks. Feliciano temeva che potesse essere
stato
Ludwig stesso in uno slancio di pietà maggiore di quelli che
aveva già avuto.
Quell’idea infastidiva inspiegabilmente Feliciano, che voleva
vederci chiaro in
tutta quella situazione. Lui non aveva ricevuto nessun tipo di regalo
nonostante avesse iniziato a controllare ogni centimetro della sua
cuccetta
tutte le notti prima di dormire e il pensiero che Ludwig, il suo
Ludwig, avesse
un qualche tipo di interesse per un’altra persona lo rendeva
ansioso e
disperato.
L’idea che Ludwig non avesse quel tipo di tendenze non lo
fiorava minimamente.
Erano giorni che Feliciano era
tormentato da una singola
quanto difficile domanda: come fare per farsi notare da Ludwig?
Quello era un campo di concentramento, lui era un partigiano
prigioniero vivo
non sapeva grazie quale santo e Ludwig un soldato nazista e il suo
secondino.
Erano incompatibili.
Sembrava la trama di uno di quei romanzi rosa dalle storie
d’amore epiche e
impossibili che suo fratello nascondeva nel doppiofondo dello zaino.
Feliciano
sperava solo che anche la sua storia si sarebbe conclusa con un lieto
fine come
in quei romanzi.
Il giorno in cui si bruciò
l’interno della mano Feliciano
era preso per l’ennesima volta a fantasticare in rosa sulla
sua bella guardia
nazista. Quel pomeriggio, dopo una mattina passata a gelarsi zappando
un campo
di verdure, era stato mandato a lavorare nella fabbrica L14 dove lo
avevano
costretto a trasportare gli ingranaggi conclusi dallo stampo al catasto
in
fondo allo stabile.
Preso dai suoi pensieri, l’italiano non si era accorto che un
ingranaggio
appena uscito dallo stampo non si era ancora raffreddato del tutto.
Il suo urlo seguito da piagnucolii vari riecheggiò per tutta
la struttura.
Feliks fu il primo a raggiungere
l’italiano che aveva
iniziato a rotolarsi a terra urlando dal dolore mentre si teneva la
mano
bruciata tra le gambe. Subito gli furono affianco Ludwig e Gilbert.
“Cos’ha combinato
ancora quest’idiota?” Fu il primo commento
dell’albino, ma nel vedere le escoriazioni della mano del
ragazzo quando il
polacco la prese tra le sue si azzittì all’istante.
“Feliciano, oh Feliciano
come hai fatto?” Chiese preoccupato
Feliks, poi guardò negli occhi le due guardie
“Dev’essere portato subito in
infermeria, deve provare un dolore atroce, sembra una scottatura molto
seria!”
“Alzati Feliciano, ti
accompagno io”
Nonostante il dolore gli annebbiasse
la mente, Feliciano
perse un battito quando sentì quelle parole essere
pronunciate da Ludwig. Malgrado
ciò non riusciva a smettere di piangere e gemere e le sue
gambe non volevano
rispondere ai suoi comandi.
“Avanti, alzati!”
Ordinò Gilbert scandendo le parole con un
forte accento, ma non ebbe alcun successo.
Feliciano iniziò a tremare
violentemente mentre si mordeva
con forza il labbro inferiore per cercare di resistere al dolore.
Ludwig sentì il cuore
essere stretto in una tenaglia mentre
l’ansia formava un blocco nella sua gola. Feliciano si era
infortunato, si era
seriamente ustionato una mano, e se non avrebbe potuto più
lavorare? Che cosa
gli sarebbe successo? E se la sua mano non sarebbe più
guarita? E se… e se
avrebbero dovuta amputargliela?
Ludwig scosse la testa con forza. Che pensiero stupido! Non sarebbe
accaduto di
certo, ma aveva un bisogno urgente di andare in infermeria.
Prendendo l’iniziativa,
Ludwig afferrò l’italiano per un
braccio e se lo poggiò addosso in modo tale da poterlo
sostenere mentre
camminavano.
“Lo porto in infermeria, tu
continua a controllare gli
altri!”
“O-ok” Rispose
stupito Gilbert.
Ludwig sentì gli occhi
vermigli del fratello bucargli la
schiena per buona parte del tragitto ma non gli importava.
L’importante adesso
era portare Feliciano in infermeria da Francis dove avrebbe medicato
l’ustione
e cercato di alleviare il dolore del povero ragazzo. Le spiegazioni per
il suo
gesto poco professionale potevano aspettare.
Quando aprì la porta con
un calcio trovò l’infermeria
completamente vuota. Nessun paziente né Francis si vedevano
in giro e un
silenzio quasi mortale regnava nella piccola stanza sporca.
“Probabilmente lo hanno
chiamato nelle cucine” Pensò Ludwig
mentre entrava e chiudeva la porta dietro Feliciano.
Per fortuna
nell’addestramento militare dedicavano molto
tempo all’insegnamento delle procedure di primo soccorso sia
con attrezzi
adeguati sia con quelli di fortuna, ma in quel posto Ludwig pensava di
avere
tutto l’occorrente per una medicazione basilare.
Fece sedere il ragazzo ancora agonizzante su un letto lurido e si
spostò di fronte
a lui su una sedia traballante.
“Ora cerca di aprire il
palmo della mano lentamente e fammi
vedere la bruciatura” Disse con voce bassa e calma per
rassicurare il ragazzo.
Feliciano piagnucolò un
pochino ma riuscì a mostrare
l’ustione al tedesco. Nel vederla Ludwig tirò un
sospiro di sollievo, per
fortuna non era un’ustione di terzo grado, una di quelle
bruciature che
compromettevano irrimediabilmente la pelle e tutti i tessuti
sottostanti della
zona colpita.
“Va bene non è
grave, guarirà molto presto, dobbiamo solo
medicarla. Ora cerca di non muoverti troppo e sii paziente”
Feliciano annuì poco
convinto. Rimase in silenzio ad
osservare la guardia prendere tutto l’occorrente per la
medicazione. Ludwig non
sembrò farci particolarmente caso e iniziò a
imbevere una benda di cotone non
più bianca di un liquido trasparente ma dal forte odore
pungente.
“Ora dammi la mano e cerca
di sopportare il dolore e non
urlare”
Ovviamente furono parole al vento.
Appena la benda bagnata
iniziò a tamponare la pelle ustionata
dell’italiano quest’ultimo iniziò a
gemere e piangere cercando di soffocare le urla con l’altra
mano mentre tentava
di sottrarsi alle attenzioni poco gradite del tedesco.
“Cerca di stare fermo se
non vuoi che peggiori le cose!”
Sibilò frustato Ludwig quando cercò per
l’ennesima volta di pulire una
rientranza della mano senza successo.
“Ve… mi s-scusi
signore…. Fa così tanto
male…” Si giustificò
il bruno tra un singhiozzo e l’altro.
“Ludwig”
“C-come scusi?”
“Ludwig, non signore. Il
mio nome è Ludwig” Rispose il
tedesco senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro, sentendo le
proprie
orecchie bruciare dall’imbarazzo.
Anche Feliciano arrossì a
quelle parole. Naturalmente Ludwig
sapeva che il ragazzo conosceva il suo nome, tutti i prigionieri
conoscevano i
nomi dei loro aguzzini, ma il presentarsi così
spontaneamente e quasi
intimamente come se fossero due estranei che si incontravano per la
prima volta
e che volevano conoscersi gli diede la sensazione di creare una sorta
di legame
con lui.
Rimase ad attendere un qualche tipo di risposta da parte del
prigioniero mentre
puliva l’ustione per alcuni interminabili istanti, poi deluso
e soprattutto
imbarazzato alzò lo sguardo carico d’ansia
incontrando il suo. Subito Feliciano
deviò lo sguardo in altre direzioni che non fossero il suo
volto cercando di
trovare delle parole da dire.
“Oh…
ah… è davvero un bel nome”
Feliciano sfoggiò un largo
sorriso che però risultò un po’
incerto, ma bastò come risposta alla guardia. Lo sguardo di
Ludwig brillò più
intensamente per un istante come se una scintilla di
felicità e di affetto lo
avesse illuminato per un attimo, poi fu riportato velocemente sulla
mano e
sulla benda che stava tamponando tutta la sua superficie
“Grazie”
Mormorò Ludwig a denti stretti mentre le sue
orecchie diventavano ancora più rosse.
Il ragazzo italiano aprì
la bocca per dire qualcosa ma non
uscì nient’altro che un urlo strozzato quando la
benda imbevuta toccò un punto
particolarmente delicato della mano.
Ludwig mormorò varie volte che aveva quasi finito, poi
finalmente posò la benda
ormai lurida e ne prese altre quasi pulite da un piccolo scaffale
mentre
Feliciano si asciugava le lacrime di dolore con il dorso della mano
sana.
“Ora benderò la
bruciatura. Non devi né levarla, né
sporcarla o bagnarla altrimenti non guarirà presto
l’ustione. E se non guarirà,
allora tu…” Ludwig lasciò la frase
mentre il suo volto si oscurava.
Feliciano tremò a
quell’allusione e improvvisamente si portò
la mano ustionata alla bocca per baciare delicatamente la scottatura.
“Cosa
stai facendo?”
Chiese Ludwig sorpreso dal gesto improvviso del ragazzo.
“Sto cercando di far
passare il dolore e augurare la buona
guarigione alla mia mano! Da me in Italia quando qualcuno si fa male di
solito
una persona che gli vuole bene bacia la sua ferita per fargli passare
il dolore
e augurargli la guarigione. Di solito quando mi faccio male
c’è sempre mio
fratello Romano a baciarmi le ferite, ma ora… ve…
ora non c’è perciò faccio da
solo…”
Accadde tutto improvvisamente.
Prima che Ludwig potesse anche solo pensare a qualcosa una sua mano
aveva già
afferrato il polso di Feliciano e le sue labbra baciavano
già delicatamente
l’ustione del ragazzo. Quando il tedesco si accorse cosa stava
facendo era già troppo tardi.
Feliciano rimase a bocca aperta scioccato dall’azione
improvvisa della guardia.
I suoi occhi nocciola erano spalancati e fissi su di lui come se
stessero
venendo una qualche creatura folclorica.
Ludwig allontanò subito la
mano del ragazzo arrossendo
violentemente in volto.
Cosa diavolo stava pensando? Era impazzito tutt’un tratto?
Non potendo dare una spiegazione logica all’accaduto e
sentendosi addosso lo
sguardo scomodo di Feliciano, Ludwig si alzò di scatto e si
allontanò di
qualche passo dal lettino dandogli le spalle.
“Perdonami, io…
ecco…” Tentò di dire, ma la sua mente
era un
tale caos che non riusciva a formulare una frase coerente. Ma
cos’era che
voleva dire?
Ludwig fu tentato di dire la verità, di rivelare finalmente
alla persona che
era al centro della sua mente da quando era arrivato lì che
provava dei forti
sentimenti per lei, che teneva alla sua incolumità, che
voleva renderla felice
in ogni modo, che se ne fregava dell’ideologia nazista e del
perché era stata
imprigionata, che aveva reazioni fisiche ogni qual volta pensava a lei.
La tentazione fu così soverchiante che Ludwig fece appello a
tutto il suo
coraggio di uomo e di soldato e si voltò pronto ad
affrontare il ragazzo faccia
a faccia, ma fu colto lo stesso di sorpresa quando vide Feliciano
alzarsi
velocemente e raggiungerlo con fare nervoso mentre il suo volto
prendeva
colorito.
“Sei stato tu a regalare
quel paio di occhiali a Matthew?”
Chiese d’un fiato guardandolo dritto negli occhi con uno
sguardo speranzoso e
lacrimevole.
Preso alla sprovvista, Ludwig rispose senza pensare.
“Cosa? No, io
non…”
Le parole gli morirono in gola quando
vide il volto del
ragazzo bruno illuminarsi quasi di luce propria mentre un sorriso
genuino si
schiuse sulle sue labbra.
Era così bello che Ludwig avrebbe potuto morire.
Era sul punto di abbandonare la sua compostezza, di cedere alle sue
pulsioni e
di abbracciare il ragazzo quando la porta dell’infermeria si
aprì
all’improvviso rivelando un Francis sorridente e spensierato
come sempre sulla
soglia.
“Oh là
là, abbiamo ospiti! Ho interrotto qualcosa?”
Ludwig stava per rispondergli in modo
brusco che si aveva
rovinato tutto con la sua fastidiosa presenza, ma non fece in tempo
perché
Feliciano corse verso di lui abbracciandolo e sorridendo.
“Francis! Ve! Francis sei
qui! Oh Francis, devo dirti una
cosa importantissima!”
“Che mi ami, mio petit
trésor? Ma è normale, tutti amano
Francis” Rispose con sarcasmo ricambiando
l’abbraccio e scompigliando i capelli
del ragazzo con una mano.
Ludwig sentì montare la rabbia mista a disgusto dentro di
sé.
“Piuttosto cosa ci fai qui,
petit?”
“Si è
infortunato sul lavoro e l’ho portato in infermeria dove
tu non c’eri per potergli medicare la mano” Ludwig
si accertò di sottolineare
con il suo forte accento tedesco il fatto che l’infermeria
era vuota al momento
del loro arrivo.
Francis sembrò ignorare la
frecciatina si avvicinò alla
sedia dove poco tempo prima sedeva la guardia. Con un sorriso
indicò a
Feliciano il lettino, poi si rivolse a Ludwig.
“Grazie, ora mi
prenderò cura io di Feliciano”
Ludwig colse il suggerimento di
lasciare l’infermeria e si
congedò con qualche saluto. Mentre usciva si sentiva lo
sguardo di Feliciano
addosso mentre Francis gli parlava di qualcosa relativo alla cucina.
Nonostante
la gentilezza quasi libertina del francese Ludwig ebbe la sensazione di
essere
stato cacciato per la seconda volta dall’infermeria.
Ma un’altra sensazione ben
più forte e importante
sconvolgeva l’animo del tedesco.
Ludwig aveva notato già da diverso tempo come i prigionieri
del dormitorio H3T4
avessero stretto forti legami tra di loro, soprattutto i nuovi arrivati
con il
ragazzo polacco e con Francis. Se inizialmente Ludwig aveva visto di
buon
occhio la cosa rallegrandosi del fatto che potevano sostenersi a
vicenda quando
lui era impossibilitato ad aiutarli, ora non riusciva più a
cogliere la cosa
positivamente.
Feliciano stava stringendo forti legami con gli altri prigionieri,
legami che
non riusciva più a identificare bene. Soprattutto il
rapporto che l’italiano
aveva con Francis stava diventando piuttosto ambiguo.
Ludwig non ricordava una sola volta in cui aveva visto Feliciano
lontano da
Francis, oppure non cercare la sua attenzione o non parlare con lui.
Insomma, Feliciano cercava in continuazione Francis, mentre ignorava
completamente la sua persona, anzi quando si avvicinava lui cercava
sempre di
allontanarsi spaventato dalla sua posizione come guardia del campo.
Incamminandosi verso la fabbrica dove
Gilbert era rimasto a
sorvegliare gli altri detenuti, Ludwig cercò di scacciare
quei pensieri
negativi dalla sua mente, e soprattutto di non pensare al fatto che
aveva
lasciato Feliciano solo per l’ennesima volta con Francis.
Cercò di non pensare al fatto che era geloso.
Quella sera nel dormitorio H3T4 il
gruppo di amici
multietnico si era dato appuntamento dopo l’inizio del
coprifuoco serale sul
fondo dello stabile per discutere di qualcosa.
Tutti i partecipanti si erano seduti a terra più o meno in
cerchio nella debole
luce lunare che filtrava da un’enorme finestra sulla parete
dell’edificio e
ascoltava ammaliato il racconto eccitato di Feliciano. Il ragazzo
italiano
sussurrava gesticolando con la mano sana e quella fasciata
ciò che era accaduto
poche ore prima nell’infermeria non nascondendo
l’immensa felicità che stava
provando.
“E
così…. Ve, non posso crederci…. E
così ha risposto di no!
Sembrava sorpreso di quella domanda, ma io dovevo fargliela,
io…” Non riuscì a
concludere la frase perché Francis gli scompigliò
con forza i capelli.
“E bravo il nostro
Feliciano. Lo sapevo che c’era qualche
tipo di interesse da parte di quel biondino dallo sguardo di ghiaccio,
il
vecchio Francis non sbaglia mai in questioni
d’amore!”
“Sono contento per te
Feliciano. Ora sappiamo che non è
stato lui a darmi questi” Sussurrò più
piano del solito Matthew mentre
sistemava gli occhiali sul naso.
“Una guardia di un campo di
concentramento che dimostra di
avere interesse per un prigioniero? Ho davvero visto tutto nella vita,
non vedo
l’ora di raccontarlo al mio adorato pony a
Varsavia!”
“Siamo sicuri che
intendesse proprio quello? Magari stava
cercando di farti guarire la ferita soltanto perché
così non avrebbe perso
forza lavoro” Azzardò Lituania, ma gli altri lo
azzittirono subito.
“Ve! Sono così
felice che il mio cuore potrebbe scoppiare da
un momento all’altro! Mi viene voglia di cantare dalla
felicità!”
“Oh si fallo, le canzoni
italiane sono davvero belle!”
Feliks si avvicinò al ragazzo per sentire meglio.
Con un sorriso Feliciano
annuì e iniziò a cantare a bassa
voce una bella canzone melodiosa e vivace. Tutti i ragazzi rimasero in
silenzio
ad ascoltare estasiati la voce pulita e acuta del ragazzo
finché la melodia non
finì.
“Bellissima, davvero
bellissima! Di cosa parlava?”
“E’ una
filastrocca sui giorni della settimana che mio
fratello mi ha insegnato quando ero più piccolo. Mi disse
che la cantava spesso
la mamma. Io però non l’ho conosciuta
purtroppo”
“Anch’io conosco
una bella filastrocca in polacco, ma sono
molto stonato perciò non credo la
canterò” Disse Feliks rifiutando qualsiasi
incitamento da parte degli altri.
“P-potrei cantarne una io!
Non è una filastrocca ma una
ninna nanna inglese, ma è molto carina” Si propose
Matthew e tutti annuirono
interessati.
Matthew si rivelò un
cantante provetto. La sua voce era
morbida e melodiosa e riusciva a raggiungere note molto acute. La ninna
nanna
era molto lenta e dolce e sembrava un canto d’amore
più che un canto per
conciliare il sonno.
Francis chiuse gli occhi godendosi la canzone. La melodia non gli era
nuova e
gli sembrava di averla già ascoltata da qualche parte, ma
non ricordava di
preciso dove.
Ad una strofa particolarmente
melodica Francis ricordò.
Un sorriso dalle labbra rosee.
Una voce dolce con un curioso accento.
Occhi grandi e verdi come gli immensi
prati britannici.
Sopracciglia folte e perennemente
crucciate.
Francis si sentì mancare.
Si alzò di scatto mentre Matthew iniziava un’altra
strofa, interrompendo la
performance, e si affrettò ad uscire
dall’edificio.
Una volta fuori, si accasciò contro la parete sedendosi a
terra e si coprì il
volto con le mani mentre le lacrime cominciavano a cadere abbondanti
dagli
occhi.
Aveva dimenticato la ninna nanna che
Arthur cantava sempre
quando curava il suo giardino, e quasi aveva dimenticato lui stesso.
Ricordare quella melodia cantata dal suo amato aprì una
dolorosissima ferita
nel petto di Francis che quasi gli fece mancare l’aria
nonostante il freddo
invernale lo avvolgesse tutto e lo facesse tremare come una foglia.
Arthur, il suo amato Arthur, che aveva salutato anni prima quando era
partito
per andare sul fronte a combattere per difendere la sua amata patria
dall’invasione tedesca.
Arthur che lo stava aspettando da quasi due anni in Inghilterra.
Forse.
Francis non voleva nemmeno pensare alla possibilità che
Arthur avesse trovato
un’altra persona da amare credendo che lui fosse morto in
Francia.
Era una possibilità più che valida che respingeva
con tutto sé stesso.
Le lacrime non accennavano a fermarsi
mentre la sua mente
continuava a ripensare all’inglese e a tutti i bei momenti
passati con lui
finché una mano delicata non si poggiò sulla
spalla del francese.
“Francis…
è successo qualcosa? Ho forse detto qualcosa di
sbagliato?”
Matthew lo guardava con seria
preoccupazione mentre i suoi
occhiali si appannavano a causa delle nuvolette di vapore caldo del suo
respiro.
Francis si asciugò subito le lacrime e cercò di
mettere su un sorriso, che
risultò storto e falso.
“Non, non, non è
colpa tua petit. Ho solo ricordato una cosa
molto dolorosa”
Matthew si accovacciò
accanto a lui e gli sorrise
dolcemente. Alle sue spalle gli altri ragazzi guardavano la scena da
lontano
con volti preoccupati.
“Sono qui se vuoi parlarne,
così anche loro se hai bisogno
di aiuto”
“Grazie Matthew, ma non me
la sento…” Francis volse lo
sguardo al cielo stellato mentre un’altra lacrima percorreva
tutta la sua
guancia “…Però
potresti…” Lasciò la frase in sospeso.
“Cosa? Chiedimi qualsiasi
cosa Francis!”
Francis sorrise mentre altre lacrime
scendevano sul viso,
poi si volse ad abbracciare il ragazzo nascondendo il volto nella sua
spalla.
“… Potresti
cantare ancora quella ninna nanna? Solo una
volta, s’il vous plaît?”
Matthew cantò nuovamente
la melodia appoggiando la testa su
quella di Francis mentre guardava il cielo stellato. Francis tremava e
singhiozzava di tanto in tanto cercando di non fare rumore per non
coprire la
voce debole del canadese.
Feliks, Toris e Feliciano rimasero vicino la porta in silenzio ad
ascoltare la
melodia.
La ninna nanna però non sembrava più un dolce
canto per conciliare il sonno, ma
una triste melodia di sofferenza.
Angolo
dell'autore
Perdonatemiiiiii T_T
Ho tardato così tanto perché sono stata in
vacanza, poi sono stata male e non ho potuto scrivere nulla e infine ho
dovuto riscrivere parte del capitolo perché non mi piaceva
come stava uscendo. Mi spiace così tanto di avervi fatto
aspettare, spero che però ne sia valsa la pena!
Come sempre perdonatemi anche errori di distrazioni o di altri generi!
Vi anticipo che il prossimo capitolo sarà molto bello e
pieno di feels (è da quando ho iniziato la ff che aspetto di
poter scrivere questo capitolo x'D)
|
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Capitolo 7 *** Gli Alleati ***
Decima stazione Bletchley Park,
Inghilterra
Arthur
si svegliò
lentamente e dolorosamente con la testa poggiata sulla scrivania come
se la sua
coscienza si stesse liberando da una grossa ragnatela che cercava di
trattenerla con i suoi fili appiccicosi ed elastici. Lentamente si mise
dritto
a sedere cercando di abituare lo sguardo alla penombra della stanza, ma
un mal
di testa lancinante esplose nella sua testa doloroso come una pugnalata
improvvisa. Gemendo e tenendosi la testa con una mano, con
l’altra si asciugò
la bava dalla bocca per poi scoprire che era rigurgito e che in buona
parte si
trovava anche sulla scrivania.
Fantastico, ecco spiegato perché aveva un sapore orribile in
bocca.
Cercò di pulire alla
meglio lo schifo che aveva combinato
mentre dormiva e forse anche prima con il suo fazzoletto di stoffa
ricamato,
per poi gettarlo in un angolo della stanza nella speranza di lavarlo in
un
futuro non troppo remoto. Sulla scrivania oltre ai fogli macchiati di
chissà
quale porcheria (aveva avuto la brillante idea di addormentarsi sui
documenti
che stava compilando), c’erano una radio con cuffie e
microfono, varie matite,
un bicchiere vuoto rovesciato su un fianco e una bottiglia vuota di rum.
Ecco cos’era quella porcheria, rum.
Il buon vecchio rum.
Qualcuno che non ti avrebbe mai abbandonato nel momento del
bisogno…
Scuotendo forte la testa, Arthur
cercò di distrarsi per non
ricominciare con quei pensieri, ma la sua mente proprio non voleva
liberarsene.
Appena aveva un attimo di pace subito il suo pensiero andava a lui.
“Alcool, ci vuole
l’alcool. Dov’è il rum?”
Mormorò a denti
stretti mentre prendeva la bottiglia di rum vuota per controllarla.
Come aveva intuito inizialmente, la bottiglia era stata scolata alla
perfezione, perciò la gettò nel cestino che si
trovava accanto alla scrivania e
si mise a cercarne un’altra.
Aprì i diversi cassetti
della scrivania sperando di scovare
la piccola boccetta d’alcool che di solito teneva di scorta
quando i suoi
subalterni non lo rifornivano in tempo, ma da quanto poteva vedere la
scrivania
gli offriva solo documenti e scartoffie relative al lavoro.
Sempre più fantastico.
Infine senza accorgersene
aprì l’ultimo cassetto all’angolo
e la vide.
Il suo cuore iniziò a battere velocemente mentre il suo
corpo iniziò a sudare
freddo. Un fortissimo senso di nausea lo colse allo stomaco e chiudendo
velocemente il cassetto fece in tempo a girarsi per poi vomitare nel
cestino
dove pochi istanti prima aveva gettato la bottiglia vuota.
Tossendo e cercando di riprendersi si accasciò sulla sedia e
strinse gli occhi
fino a farsi male.
Avrebbe dovuto gettare quella
maledetta lettera il giorno in
cui l’aveva ricevuta. O meglio avrebbe dovuto dargli fuoco e
guardare come le
fiamme mangiavano e sgretolavano in tanti fragilissimi frammenti la
carta e
soprattutto le parole che riportava. Ma era stato un debole,
così come lo era
ora, e aveva conservato la lettera rileggendola ogni volta che poteva,
accartocciandola
e lanciandola a terra o contro le pareti, tentando di stracciarla molte
volte
senza riuscirci, ma infine sempre riprendendola e riponendola nel
cassetto
della scrivania.
Ogni volta che la vedeva si sentiva male.
La lettera riportava con pochissime
frasi battute a macchina
della scomparsa sul campo di battaglia di Francis Bonnefoy, disperso in
chissà
quale vigneto devastato dai conflitti in Francia, oppure catturato dal
nemico e
deportato in un luogo sconosciuto. La lettera era indirizzata alla
famiglia
Kirkland in quanto Francis non aveva parenti prossimi a cui inviare il
comunicato.
Fin dall’inizio Arthur si
era aggrappato per disperazione
alla seconda opzione, sperando con ogni fibra del suo corpo che il suo
amato
fosse stato catturato dal nemico e imprigionato da qualche parte, ma
ancora
vivo. Rifiutava a pelle l’idea che fosse morto da qualche
parte e fosse stato
lasciato lì come un rifiuto a marcire sotto il sole gentile
della Francia.
La sua speranza alimentata dalla fortissima disperazione lo aveva
spinto ad
arruolarsi nell’esercito inglese e a intraprendere la
carriera di
crittoanalista, e dopo due anni di servizio era diventato uno dei
migliori
elementi dell’esercito britannico.
Ma il suo lavoro non era mosso da un sincero spirito patriottico ma dal
forte
desiderio di scoprire dove i tedeschi detenevano i prigionieri di
guerra.
Arthur sentiva che nessuno
all’infuori di lui poteva
riuscire a trovare quelle informazioni, o meglio che nessuno si sarebbe
interessato così tanto da dedicargli la sua vita come stava
facendo lui. Perché
in fondo la vita non gli aveva lasciato più nulla
perciò poteva sacrificarla
per questa giusta causa.
Riaprendo gli occhi, Arthur rimase
qualche istante ad osservare
la stanza girare e fluttuare su sé stessa finché
gli occhi non si abituarono
nuovamente alla penombra e allo sforzo.
Si accarezzò una guancia con la mano per cercare di
riprendersi per poi
scoprire che il guanto di pelle era imbrattato del rigurgito che poco
tempo
prima aveva ripulito.
Sospirando prese un altro fazzolettino di stoffa da un cassetto e
ripulì la sua
divisa militare come meglio poté.
Da quanto tempo viveva in questo
stato pietoso? Da quanto
tempo beveva come una spugna anche sul lavoro e vomitava sui suoi
stessi
vestiti? E da quanto tempo non curava la sua igiene e il suo aspetto
fisico?
Arthur calcolò più o meno da quando aveva
ricevuto quella fottuta lettera.
Il ricordo di quel giorno e dei mesi successivi era ancora
così forte da fargli
torcere lo stomaco per il dolore.
Lo sguardo del postino vitreo e quasi morto, il tipico sguardo di
qualcuno che
aveva dovuto vedere tanta sofferenza in poco tempo, la sofferenza di
tutti i
famigliari a cui consegnava quelle maledette lettere.
Mani tremanti, le sue, che aprivano la lettera e la accartocciavano
pochi
minuti dopo.
Le urla, le crisi di pianto, oggetti che venivano lanciati ovunque, e
poi il
silenzio, il digiuno, i giorni passati a letto nel buio della propria
stanza,
il non riuscire a distinguere più il giorno e la notte.
Arthur aveva provato a reagire, e
soprattutto a dimenticare.
Aveva provato ad assimilare il lutto e a rifarsi una nuova vita
conoscendo
nuove persone e cercando altra compagnia. Non poteva ostentare la
propria
sessualità in quanto in Inghilterra
l’omosessualità era perseguitata, ma aveva
provato a stringere legami con coetanei e altri esponenti
dell’alta classe
Londinese che facevano parte della sua cerchia. Tutto tempo sprecato.
Nonostante dopo due anni di
lontananza i suoi ricordi si
stavano irrimediabilmente affievolendo non riuscendo a ricordare
più molti
dettagli del volto del suo amato, il sentimento che Arthur provava per
Francis
era ancora forte e duro a morire. Non si sarebbe placato fin quando
c’era la
speranza di ritrovare Francis vivo.
Gettando il fazzoletto sporco
nell’angolo vicino al primo,
Arthur decise di aprire le finestre della stanza per far entrare la
luce e per
cambiare l’aria ristagnante. La luce del sole gli
ferì gli occhi e penetrò
nella stanza buia come una lama affilata, rivelando agli occhi la
pessima
condizione igienica in cui si trovava quel luogo. Arthur si
sentì mortificato
nel vedere ciò, lui che era sempre stato molto pignolo nelle
pulizie.
“Se solo Francis fosse qui,
mi sgriderebbe con il suo bel
accento francese di essere un cavernicolo e mi costringerebbe a
risistemare
tutto, per poi premiarmi con qualche gesto affettuoso e qualche
dolcetto appena
cucinato” Pensò Arthur con tristezza mentre
tornava a sedersi sulla sedia.
“Ma lui non è
qui, se Dio vuole è imprigionato in chissà
quale luogo nazista. Non devo perdere altro tempo, ogni secondo
è prezioso! In
questo momento potrebbe essere sotto tortura, oppure a patire la
fame… non
posso permetterlo, devo trovarlo a tutti i costi!”
Questo pensiero diede al giovane
inglese la forza per
riprendersi da una fortissima sbronza e per ricominciare a perseguire
la
propria missione.
Prendendo l’orologio da tasca notò con piacere che
era mattino inoltrato e che
non aveva dormito praticamente tutto il giorno come spesso accadeva.
Probabilmente l’esercito non lo buttava fuori con disonore
soltanto perché era
particolarmente bravo nel suo lavoro, ed era anche per questo che aveva
una
stanza adibita ad ufficio tutta sua invece di trovarsi nello scantinato
in una
di quelle scrivanie ammassate l’una sull’altra
insieme a tutti gli altri
crittoanalisti.
Risistemando tutti i documenti sulla
sua scrivania, stava
per mettersi le cuffie e accendere la radio per captare qualche
messaggio
cifrato tedesco quando qualcuno bussò alla porta.
Il suo umore si guastò immediatamente.
Tutti in quel palazzo sapevano che non dovevano disturbare Arthur
Kirkland
quando si trovava nella sua stanza. Aveva dato chiaramente disposizioni
che
ogni ordine scritto, lettera o qualunque cosa fosse su carta doveva
essere
lasciata sotto la porta in modo tale che l’avrebbe presa e
letta quando avrebbe
avuto tempo. Per ogni altra comunicazione dovevano contattarlo via
radio oppure
raggiungerlo nei momenti in cui lasciava la stanza per il tè
pomeridiano o
altri motivi.
Nessuno doveva vedere com’era combinata la sua stanza,
nessuno!
Ignorò il bussare
insistente della porta facendo finta che
la stanza fosse vuota, ma dopo il terzo toc toc la porta si
aprì lentamente. I
capelli di Arthur si rizzarono in testa.
“Chi ti ha dato il permesso
di entrare? Esci
immediatamente!” Urlò alla persona che stava
cercando di entrare. Il soldato
però non si fece intimidire e infilò la testa
nella stanza con un certo timore.
“Sir ho una comunicazione
urgentissima da consegnarle,
ordini dei superiori”
“Sono io il tuo superiore,
e se non esci immediatamente
dalla stanza ti declasso a lava cessi o ti mando direttamente al
fronte, idiota!”
Ma il soldato non demorse, anzi
aprì ancor più la porta ed
entrò completamente nella stanza. Arthur era fuori di
sé per la rabbia. Quale
impertinenza da parte di un semplice soldato di bassa classe sociale
nei suoi
confronti, nei confronti di Arthur Kirkland, unico discendente della
famiglia
nobile dei Kirkland e capo crittoanalista dell’esercito
britannico di Sua
Maestà. Aveva fegato quello sbarbatello, Arthur glielo
riconobbe mentre
chiudeva la porta e si piazzava davanti la sua scrivania tremante come
una
foglia ma imperterrito. Arthur lo fucilò con il suo sguardo
di smeraldo.
“S-Sir, ho una
comunicazione urgente da consegnarle!”
Balbettò mentre sfilava dalla tasca della sua divisa un
foglio ripiegato e
glielo porgeva.
Arthur glie lo sfilò di
mano con violenza e lo lesse
velocemente. Era un codice crittografico non ancora decifrato
trascritto da
qualcuno in modo frettoloso. Sotto il testo vi era una nota in bella
grafia di
qualche ufficiale che ordinava ad Arthur di decriptare il testo che
conteneva
delle informazioni di importanza vitale e segrete derivanti
dall’esercito russo
sul fronte orientale.
Arthur ripiegò con cura il foglio e lo mise da parte sulla
sua scrivania, poi
guardò nuovamente il soldato con il suo sguardo perforante.
“Torniamo a noi, hai
disobbedito a un ordine del tuo
superiore introducendoti senza permesso nella mia stanza-“
“Ma Sir, stavo solo
eseguendo gli ordini dei miei
superiori!”
“… e hai anche
il brutto vizio di interrompere i tuoi
superiori quando parlano!” Prese casualmente un foglio bianco
e una penna “Ora
scriverò una lettera ai tuoi superiori lamentando la tua
indisciplina e
suggerendo un provvedimento adeguato. Qual è il tuo nome,
soldato?”
“… Allistor
Scott, Sir”
La penna che stava scrivendo sul
foglio si bloccò
all’istante nel sentire quel nome. Arthur alzò lo
sguardo dal foglio al soldato
lentamente.
Allistor Scott, il soldato scozzese che tutti conoscevano nel
dipartimento, arruolatosi
nell’esercito come volontario per combattere i tedeschi. Il
soldato scozzese
che aveva sposato una londinese diversi anni prima e che aveva perso la
maggior
parte dei suoi famigliari nei bombardamenti del ’40. Il
soldato scozzese che
aveva perso la moglie, suicidatasi a causa di un peggioramento della
sua salute
mentale dovuto agli orrori che aveva dovuto vivere a causa della guerra.
Allistor Scott, un uomo solo e disperato che aveva immolato la sua vita
all’esercito in memoria della sua amata moglie.
Un uomo come lui.
I suoi occhi tornarono al foglio e
velocemente scrisse
qualche parola in bella grafia, poi lo ripiegò e lo porse al
soldato.
“Sei pregato, una volta
uscito di qui, di leggere questo
foglio e di riflettere sui tuoi errori. È tutto!”
Lo congedò con un cenno
della mano, poi riprese in mano il
foglio con il testo criptato e non prestò più
attenzione al soldato.
Il testo era criptato con una variante complessa di un codice che aveva
inventato lui stesso con altri crittoanalisti per rendere sicura o
almeno di
difficile decriptazione lo scarsissimo scambio di informazioni che gli
alleati
tenevano con l’esercito russo che stava avanzando
dall’oriente verso la
Germania, furioso per l’aggressione improvvisa e traditrice
di quest’ultima nei
suoi territori. Avrebbe impiegato qualche ora a decriptarlo, ma non era
qualcosa di così complicato. Ovviamente i suoi superiori
avevano ragione,
soltanto lui poteva decifrare un testo simile.
Velocemente lo scozzese si
congedò e una volta uscito dalla
stanza imprecò per la sua sfortuna e contro il suo superiore
dal carattere
impossibile.
Girato l’angolo prese il foglio e lo aprì.
Il foglio recava soltanto una frase:
Ottimo lavoro soldato.
Diverse ore dopo Arthur si trovava
ancora nella sua stanza
chino su diversi fogli impegnato a scrivere frettolosamente la
traduzione del
testo codificato che aveva ricevuto tempo prima. Per riuscire a
decriptarlo il
prima possibile aveva saltato il pranzo e ora stava saltando anche
l’ora del
tè, ma a lui non importava perché tutto poteva
aspettare di fronte le notizie
contenute da quel messaggio.
Era rimasto chino nella stessa
posizione per così tanto
tempo che la schiena, il collo e le spalle gli dolevano come
l’inferno e aveva
scritto così tanto che i tendini della mano si rifiutavano
di lavorare ancora,
ma lui non accennò a fermarsi. Continuò a leggere
e confrontare i simboli con
la sua legenda, ad appuntarne il significato, a costruire la frase in
russo per
poi tradurla con un apposito vocabolario cercando di darle un senso
logico
nella propria lingua. Spesso sbagliava l’impostazione della
frase o le
traduzioni delle parole costringendolo a riformulare la frase diverse
volte, ma
il gioco valeva la candela, valeva tutta quella benedetta candela.
Quando finalmente finì si
alzò in piedi di scatto tenendo il
foglio della traduzione tra me mani e leggendolo con impazienza.
Il governo russo comunicava che il suo esercito era penetrato nel
territorio
nemico e stava avanzando con l’obbiettivo di raggiungere
Berlino, ma
soprattutto comunicava che gli esploratori avevano effettivamente
avvistato dei
complessi di edifici recintati che ricordavano molto dei campi di
prigionia
nelle coordinate che l’Impero Britannico gli aveva fornito.
Le mani di Arthur tremavano in modo
incontrollato mentre i
suoi occhi si riempivano di lacrime.
Ce l’aveva fatta.
Dopo due anni di sforzi e di sofferenze atroci era riuscito a trovare
quelle
maledette prigioni dove rinchiudevano i prigionieri di guerra.
Arthur cominciò singhiozzare violentemente mentre piangeva
come un bambino.
Non c’era alcuna certezza che Francis potesse essere in uno
di quei luoghi
mostruosi, ma Arthur sentiva di aver finalmente raggiunto il suo scopo
e di
essere a un passo da poter riabbracciare il suo amato. Non sapeva
spiegarsi
come ma sentiva nel profondo della sua anima che Francis era
lì, rinchiuso
insieme a molti altri malcapitati, vivo e soprattutto in attesa di
essere
salvato.
Arthur si sedette di peso sulla sedia
e cominciò a gemere
mentre cercava di pulirsi il volto e il naso con le maniche della sua
divisa.
Quelle non erano lacrime di dolore, erano lacrime di
felicità. Erano tutta la
sua disperazione che scivolava via per lasciare posto alla speranza,
ora più
forte che mai.
Doveva ricomporsi il
prima possibile per
poter consegnare il testo alla squadra di crittoanalisi che lo avrebbe
poi
riconvertito in un altro codice e inviato via piccione viaggiatore
verso
l’Italia dove gli alleati americani stavano riconquistando i
territori occupati
dai tedeschi. Ad Arthur gli americani non piacevano particolarmente,
soprattutto quell’idiota di un aviatore che avevano assegnato
come messaggero
tra i due fronti a Bletchley Park.
Ricompostosi meglio che poteva, il
ragazzo biondo ripiegò
con cura il foglio e uscì quasi correndo dalla sua stanza
imboccando i corridoi
e le scale che portavano al seminterrato dove operava il resto della
divisione
di crittoanalisi britannica.
“Ti salverò
Francis, ovunque tu sia. Lo so che non sei
morto, resisti! Resisti stupido idiota di una rana, RESISTI!”
Linea Gotica (conosciuta anche come
Linea Verde), Italia
Romano Vargas si aggirava inquieto e
di pessimo umore tra le
tende dell’accampamento militare americano cercando di
evitare come meglio
poteva i tiranti delle tende che si allungavano per almeno mezzo metro
a terra.
Il partigiano italiano aveva fame e non riusciva a trovare la tenda
cambusa
dove ogni giorno andava a chiedere (gli americani dicevano elemosinare,
ma lui
si rifiutava di vederla così) un po’ di cibo per
sé e per gli altri suoi
compagni partigiani che erano costretti a restare
nell’accampamento sotto
sorveglianza. Beh, in realtà nessuno li costringeva, anzi
spesso i soldati
americani cercavano di convincerli a seguirli al fronte o a operare
sabotaggi
contro l’esercito tedesco, ma né lui né
i suoi compagni volevano saperne della
guerra. L’unica loro preoccupazione era recuperare cibo e
sopravvivere.
Romano sapeva perfettamente che il suo gruppetto di codardi macchiava
l’onore
di tutta la resistenza partigiana italiana che in quel momento stava
combattendo contro i tedeschi per liberare la propria patria dal regime
fascista, ma lui non poteva farci nulla. Era debole e codardo, lo era
stato fin
da piccolo, e soprattutto lo era stato quella notte, a caro prezzo.
Dopo quella
notte non voleva sapere più niente né della
resistenza né della guerra.
Il partigiano italiano
girò intorno a una tenda e finalmente
trovò la cambusa, una grossa tenda quadrata dal quale
proveniva un profumino
invitante. Romano sentì il proprio stomaco brontolare mentre
si formava
l’acquolina in bocca. Era quasi l’ora di pranzo e
non toccava cibo dal pranzo
del giorno prima.
Velocemente si avvicinò all’apertura della tenda e
spiò al suo interno. Qualche
volta, quando la tenda era incustodita, aveva rubato il cibo senza
chiedere
nulla a nessuno, riuscendo a recuperare anche quelle buonissime
barrette di
cioccolato di cui lui e i suoi compagni andavano molto ghiotti.
Oggi però la tenda era
piuttosto affollata. Romano rimase
sulla soglia della tenda indeciso se entrare e chiedere un
po’ di cibo
mostrando la miglior faccia pietosa che potesse sfoggiare oppure
aspettare di
trovare la tenda nuovamente incustodita per rubare tutto il cibo che
voleva.
Mentre era assorto in quella decisione qualcuno lo affiancò.
“Hello dude, anche oggi a
chiedere cibo non meritato?”
Romano saltò dalla paura
nel sentire all’improvviso quella
voce stridula e fastidiosissima che ben conosceva. Si girò
piuttosto irritato e
fissò l’americano con uno sguardo storto.
Alfred F. Jones lo sovrastava di quasi una testa piena ed era di
costituzione
molto più forte della sua nonostante fosse più
piccolo d’età. Era diventato
famoso nell’accampamento militare per essere invincibile
nelle sfide di braccio
di ferro e per essere uno dei più bravi e spericolati
aviatori che l’esercito
americano avesse mai avuto.
Il ragazzo però non era perfetto. Oltre ad avere
un’incredibile quanto
incontrollabile parlantina e una risata fastidiosissima, Alfred aveva
il brutto
vizio di dire tutto quello che pensava esattamente quando lo pensava,
diventando piuttosto scomodo nella maggior parte dei casi.
Romano non sopportava molto quell’egocentrico ed esaltato
americano ma aveva
bisogno di più agganci possibili nell’accampamento
a cui chiedere favori,
inoltre aveva molta fifa di quel gigante d’oltreoceano.
Alfred
rise di gusto
nel vedere la reazione contrita dell’italiano e gli diede
diverse pacche sulla
spalla. Romano sopportò quell’abuso del suo spazio
personale con molto sforzo.
“Su su, piccolo italiano, I
was joking! Stavo scherzando!
Vieni con me, ieri sera hanno smistato gli ultimi rifornimenti che ci
sono
arrivati dall’America, ho qualche cosa di buono anche per
te!”
Gli occhi di Romano si illuminarono
nel sentire quelle
parole! Alfred aveva qualcosa di buono da mangiare e lo voleva
condividere con
lui. Forse doveva rivalutare quel ragazzino dal fisico troppo cresciuto
e dal
cervello palesemente infantile. Si accodò docilmente al
ragazzo che si era nel
frattempo allontanato già pregustando le barrette di
cioccolata americane,
quando Alfred si fermò bruscamente e si girò
verso di lui.
“In cambio, mi presteresti
uno dei tuoi libri? I romanzi
italiani sono i migliori. Credo di sapere l’italiano
abbastanza per leggerne
uno!” Sfoderò un sorriso abbagliante.
Romano divenne rosso in volto
dall’imbarazzo e dalla rabbia.
Come faceva quel bastardo a sapere dei suoi romanzi? Lo aveva per caso
visto
leggerne uno? Impossibile, era sempre molto attento a non farsi
beccare. Oppure
aveva frugato nella sua roba in quella tenda bucherellata che gli
avevano
concesso dopo tante suppliche?
Romano cercò di dire qualcosa ma il miscuglio di sentimenti
glielo impedì.
Alfred rise di gusto nel vedere il ragazzo in difficoltà,
poi ricominciò a camminare
dritto verso la sua tenda.
Romano rimase in silenzio per tutto il tragitto cercando di capire come
quell’americano avesse scoperto dei suoi libri. In
realtà aveva solo due
romanzi che aveva letto così tante volte che ormai conosceva
a memoria. Entrambi
parlavano di una storia d’amore ambientata in Spagna in
periodi storici diversi
dove i protagonisti venivano divisi da molte avversità ma
infine si
ricongiungevano in un lieto fine. Romano aveva sognato molte volte di
trovarsi
al posto della donna e di vivere quelle splendide avventure con un
affascinante
cavaliere spagnolo, ma purtroppo gli unici uomini interessati a lui che
aveva
visto finora erano i tedeschi per fargli la pelle e gli americani che
volevano
mandarlo al fronte.
Dopo poco tempo Alfred si
avvicinò a una tenda e si chinò
per entrare, per poi uscirne poco dopo con in mano una borsa.
“Troviamo un buon posto per
gustarci queste squisitezze!”
Il pensiero di Romano andò
ai suoi compagni che stavano
aspettando il suo ritorno con qualcosa da mangiare.
“Scusate ragazzi, oggi dovrete vedervela da soli!”
Pensò mentre annuiva
all’americano e lo seguiva fuori dall’accampamento.
Si avvicinarono a una piccola macchia
boschiva non troppo
distante dalle tende e si sistemarono su una grande roccia. Alfred
svuotò la
sua borsa sulla pietra rivelando barrette di cioccolata, pacchetti di
gomme da
masticare, pacchettini di biscotti, zollette di zucchero rotte,
caffè e
limonata solubile, scatolette di cibo varie e un pacchetto di sigarette.
Romano guardò inorridito le scatolette di qualche cibo non
identificato. Quello
doveva essere cibo? Un italiano non poteva mangiare quelle schifezze,
lui
conosceva la vera cucina e non poteva accettare di ingurgitare roba
simile. Un
brontolio dello stomaco però gli fece cambiare subito idea e
afferrò senza
tante parole una scatoletta di quella che sembrava carne e
l’aprì tirando la
linguetta.
Alfred rimase qualche secondo a scegliere cosa mangiare poi
afferrò un’altra
scatoletta di metallo e iniziò a pranzare.
Romano mangiava con una tale fame
addosso da non masticare
bene i bocconi pur di mangiarne il più possibile
velocemente. Alfred lo guardò
sconvolto mentre si gustava il suo pranzo.
“Ehi dude, calma, il tuo
cibo non va da nessuna parte!”
“Sta…
gnam… zitto bastardo… mhn… non mangio
da ieri…!
“Lo
vedo…”
Romano finì la sua
scatoletta pulendone ogni briciola
possibile con le dita. Sapeva perfettamente di aver sacrificato la sua
dignità
di buongustaio italiano da molto tempo perciò non fu turbato
dalle parole
dell’americano. Posata la scatoletta sulla pietra
afferrò una barretta di
cioccolata, scartandola velocemente e infilandola in bocca.
“Perché stai
condividendo queste cose con me? Non sei idiota
a dare via metà della tua razione
così?” Chiese dopo un momento di silenzio.
Alfred rise di gusto a quelle parole
perforando i timpani
dell’italiano, poi si mise a masticare una cicca guardando il
cielo.
“Non
c’è un motivo preciso, mi stai simpatico. In
realtà sei
l’unico con cui posso parlare liberamente. Gli altri non mi
sopportano molto,
forse perché li ho battuti tutti a braccio di ferro.
Comunque questa non è la
mia razione, quella l’ho già mangiata stamattina,
sono tutte cose che ho vinto nelle
varie sfide!”
Romano lo guardò senza
parole. Era incredibile come quel
ragazzo riusciva ad essere serio e perspicace e contemporaneamente
così stupido
e ingenuo nello stesso momento. E comunque aveva ragione, nessuno lo
sopportava, nemmeno lui, ma non lo dava a vedere. Guardò per
qualche istante
tutto il cibo accumulato accanto a loro.
“Ci credo che ti odiano, li
hai lasciati a mani vuote!”
Pensò finendo di mangiare la barretta di cioccolato.
Alfred fece due o tre palloncini con
la gomma da masticare
assorto in chissà quale pensiero, poi si girò
nuovamente verso l’italiano con
uno sguardo serio.
“Stamattina ho sentito dire
dagli ufficiali con cui stavo
gareggiando cosa è successo quella notte in cui il vostro
accampamento è stato
scoperto e attaccato dai tedeschi. È per questo che non vuoi
tornare al
fronte?”
“B-bastardo! Che cosa ne
vuoi sapere tu di cosa è successo
quella sera?”
“Dude, sono sbarcato in
Sicilia e sono risalito fin qui, ne
ho visti di scontri e di morti, so cosa si prova e cosa comporta la
guerra.
Solo che non sopporto proprio questi atti di codardia nei confronti
della
propria patria!”
Romano era incredulo. Cosa diavolo
voleva da lui quel
bastardo così all’improvviso? Lo accusava di
codardia senza nemmeno sapere
cos’era realmente successo quella sera e i giorni seguenti,
di quello che tutti
i partigiani del suo gruppo avevano dovuto patire e di quello che
stavano
soffrendo ancora. Ma soprattutto, che ne sapeva lui di guerre e
sofferenze di
vario genere? Era sicuramente un damerino dell’alta
società americana che si
era arruolato per gioco, che aveva svolazzato sull’Italia
bombardando qua e là
mentre mangiava le sue barrette di cioccolato americane e che piantava
tende
dove più gli conveniva facendosi bello di fronte alla
popolazione italiana
stremata dalla fame e dalla guerra.
Lui non sapeva proprio un cazzo di niente!
“Vaffanculo stronzo, tu non
sai proprio niente!” Gridò
furioso mentre si alzava e scendeva dalla roccia.
Ecco, quello stronzo era riuscito ad inimicarsi anche lui,
l’unico imbecille
del campo che gli dava ancora retta.
“È per via di
tuo fratello, vero?”
Romano si fermò nel
sentire quelle parole.
Questo era troppo.
Tornò indietro con grandi falcate, risalì la
roccia velocemente e afferrò per
il colletto lo stupido americano che ancora lo guardava con quello
sguardo
azzurro innocente dietro le lenti, iniziando a scuoterlo violentemente.
“Tu non sai proprio un
cazzo di niente, brutto stronzo!!”
Era vero.
Da quella maledettissima notte in cui il loro accampamento era stato
assaltato
da una pattuglia tedesca Romano non era riuscito più a
condurre una vita
“normale” a causa dei rimorsi. Per colpa della sua
codardia aveva abbandonato
il campo ormai pullulante di tedeschi senza nemmeno guardarsi indietro,
abbandonando tutto e tutti, perfino il suo adorato fratellino che
ancora
dormiva profondamente. Aveva assistito impotente alla cattura di
Feliciano da
sopra un albero su una collinetta. Le urla che disperate lo chiamavano
e
gemevano gli risuonavano ancora nelle orecchie nitide e impossibili da
dimenticare. Non aveva fatto nulla per salvare lui e quei pochi
malcapitati che
non erano riusciti a fuggire, e quando era riuscito a riunirsi con i
superstiti
aveva giurato chiudere per sempre con la resistenza e con la guerra
stessa.
Voleva solo condurre una vita tranquilla cercando di mitigare il dolore
per
aver perso suo fratello per colpa sua.
Alfred sorrise e Romano
s’infuriò ancora di più. Stava
davvero prendendo in considerazione l’idea di iniziare una
rissa con quel
gigante con una bella testata, quando Alfred gli prese le mani e
stringendole
quasi da rompergliele se le staccò di dosso. Romano gemette
dal dolore e cercò
di liberarsi inutilmente.
“Invece capisco benissimo,
yeah!” Rispose con uno sguardo
serio “Ho un fratello anch’io sai?”
“È che cazzo
dovrebbe fregarmi, sentiamo?”
“Anche lui è
disperso in guerra”
A queste parole Romano si
calmò improvvisamente. Vide come
gli occhi brillanti e vivaci di Alfred iniziarono a colmarsi di dolore
mentre
lasciava lentamente le sue mani. Romano iniziò a sfregarsele
per calmare il
dolore mentre continuava a fissare il ragazzo con una
curiosità sempre
crescente.
“Fratellastro, in
realtà!” Continuò Alfred rimettendosi a
guardare il cielo.
Romano si sedette nuovamente affianco a lui e rimase in silenzio
aspettando che
l’americano continuasse, ma Alfred non accennava a parlare e
continuava a gonfiare
palloncini con la gomma che stava masticando.
Spazientito Romano decise di fare la prima mossa.
“Fratellastro?”
“Yeah, io e Matthew non
siamo fratelli. Stesso padre ma
madre diversa, per questo abbiamo anche dei cognomi diversi”
“In America non si usa
portare il cognome del proprio
padre?”
“O yeah, yeah, certo, se
tuo padre ti riconosce! Il mio però
non l’ha fatto nonostante mi abbia voluto molto bene
perciò ho preso il cognome
di mia madre. Sai, mio padre era un canadese che approfittando del
proibizionismo
americano di Roosevelt cominciò a contrabbandare alcool in
America, dove ha
conosciuto mia madre. Purtroppo però lui aveva
già una famiglia in Canada… si
esatto, Matthew è il fratello maggiore!”
Alfred si fermò per qualche istante per fare un altro
palloncino con la gomma
che scoppiò con un sonoro POP!
“La madre di Matthew non ha mai accettato
l’esistenza di noi e ha costretto mio
padre a non riconoscermi e Matthew a non avere nessun tipo di contatto
con me.
Nonostante tutto mio padre ha voluto bene ad entrambi i suoi figli e ha
sostenuto anche economicamente mia madre. Quando avevo sette anni
però nostro
padre, insieme alla madre di Matthew, è morto a causa di un
incidente
ferroviario. Matthew non aveva parenti prossimi in Canada
perciò mia madre lo
adottò permettendoci finalmente di crescere insieme. Quando
è scoppiata la
guerra però Matthew è stato richiamato dal
governo canadese per arruolarsi in
guerra. Io ho sempre desiderato essere un eroe della patria
perciò mi arruolai
volontariamente”
Un’altra pausa, ma quando continuò a raccontare
Romano si accorse che gli
tremava la voce.
“Io divenni un aviatore dell’esercito americano,
lui una spia del distaccamento
canadese dell’esercito britannico di Sua Maestà.
Era bravo in quello che faceva
e i suoi sforzi venivano lodati dai suoi superiori,
però… circa un anno fa ha
intrapreso una missione di spionaggio nel territorio francese occupato
dai
tedeschi, e non è più tornato. Tutti i contatti
con lui si sono interrotti
bruscamente, nemmeno dopo la liberazione della Francia abbiamo saputo
niente,
non sappiamo che fine abbia fatto… se è morto o
vivo…”
Alfred sputò la gomma e
agguantò la prima cosa che gli
capitò a tiro. Aprì frettolosamente il
pacchettino di biscotti e si infilò
tutto il contenuto in bocca in una sola volta.
Romano rimase in silenzio ad elaborare tutto quello che aveva ascoltato
finora
mentre osservava l’americano mangiare con nervosismo i
biscotti.
Nonostante cercasse di trovare un senso a tutto quello che era successo
da
quando aveva seguito l’americano alla sua tenda, proprio non
ci riusciva. Non
capiva perché Alfred era stato così gentile ad
offrirgli del cibo volendo in
cambio una sciocchezza come un romanzo rosa, non capiva
perché improvvisamente
lo aveva provocato per poi raccontagli la sua vita. Davvero non
riusciva a
capire quel ragazzone infantile e spensierato che improvvisamente
diventava
serio e perspicace, per poi tornare poco tempo dopo di nuovo idiota
come
sempre.
Finiti i biscotti,
l’americano si alzò e scese dalla roccia
lanciando un sorriso contenuto al ragazzo bruno.
“Ieri pomeriggio
è arrivata una comunicazione tramite
piccione viaggiatore dall’Inghilterra. L’esercito
di Sua Maestà ci informava
che i russi stanno penetrando nel territorio degli stati satelliti
tedeschi, ma
soprattutto che stanno trovando in alcune coordinate fornitegli dagli
inglesi
degli agglomerati di edifici recintati e pesantemente sorvegliati.
Sembrerebbero delle prigioni”
“Perché mi stai
dicendo questo, stupido americano? Io non
voglio avere niente a che fare con tutto ciò!”
“Pensaci bene, i nostri
cari sono dispersi, catturati dai
soldati tedeschi e mai più tornati. O sono morti, oppure
sono…” Fece un gesto
eloquente.
Romano sgranò gli occhi a
quella rivelazione. Feliciano
poteva essere ancora vivo. In realtà Romano dava ormai per
scontato che il suo
amato fratellino fosse stato fucilato da qualche parte tra le montagne
italiane, e l’idea che fosse rinchiuso in qualche sporca
prigione di quei
crucchi bastardi lo sconvolse.
Scese anche lui dalla roccia e afferrò le spalle
dell’americano stringendole
disperato.
“È
così? Non mi stai dicendo una cazzata, vero? Giura che
è
così! Giuramelo!!”
“Non posso dirtelo con
precisione, non sappiamo se davvero
quelle sono prigioni e se davvero loro sono finiti in una di quelle, ma
il
crittografo che ha scritto il comunicato era molto fiducioso”
Fu il turno di
Alfred di afferrare le spalle di Romano e stringerle “Romano!
Noi dobbiamo
vincere questa guerra e liberare i nostri fratelli dai tedeschi, come
farebbero
dei veri eroi! Io sto per partire per combattere i tedeschi oltre la
linea Gotica,
dovete combattere anche voi. Dobbiamo vincere, lo capisci? Tuo fratello
e il
mio possono essere ancora salvati!”
A Romano gli mancò
l’aria. Alfred sorrise e lo lasciò andare
incamminandosi verso le tende dell’accampamento. Dopo pochi
passi si fermò e si
voltò indietro.
“Il resto del nostro
spuntino te lo regalo, dividilo con i
tuoi compagni!”
Detto questo l’americano si
allontanò velocemente per poi
sparire tra le tende. Romano rimase a fissare un punto indefinito
dell’accampamento per diverso tempo cercando di elaborare la
notizia appena
ricevuta. Dopo alcuni minuti che per lui sembrarono ore
ritornò in sé e
recuperando tutto il cibo sulla roccia si affrettò a
raggiungere i suoi compagni.
Doveva assolutamente convincerli a ritornare ad operare nella
resistenza,
dovevano fare anche loro la loro parte per poter vincere quella guerra,
lui
doveva agire in prima linea, solo così avrebbe potuto
salvare il suo fratellino
ed eliminare una volta per tutte il suo dolore.
Quella stessa notte Alfred si
avvicinò a passo svelto al suo
amatissimo P-51 Mustang che riposava sulla pista di atterraggio che gli
americani avevano costruito velocemente appena si erano stanziati in
quel
posto. Alfred poggiò un piede sul bordo di un’ala
dell’aereo per allacciarsi
per bene gli anfibi, poi si sistemò con cura il tipico
cappello d’aviatore in
testa. Indossava la divisa militare completa dell’aviazione
statunitense, e con
al fianco una tracolla contenente del cibo e altri accessori
indispensabili per
il volo era pronto ad affrontare quella nuova missione che gli avevano
affidato. Un ufficiale si avvicinò a lui, scambiò
alcune parole ricordandogli
gli obbiettivi della missione, poi si allontanò. Alfred
salì con agilità sul
suo aereo e iniziò ad accendere il motore mentre un soldato
si piazzava sulla
pista di atterraggio con delle torce per guidarlo nella partenza.
Mentre il motore si riscaldava e l’elica girava sempre
più velocemente Alfred
accarezzò un piccolo orsetto di pezza bianco che aveva
fissato vicino al
cruscotto delle spie e manopole del motore con uno spago. Gli
accarezzò la
testa, poi gli premette il naso, infine girò una zampa
rivelando il nome
“Matthew” scritto a doppio filo colorato sul bordo
della cucitura.
“Spero che
quell’isterico nanerottolo della crittoanalisi
britannica abbia davvero ragione”
Il soldato sulla pista diede il
segnale agitando le torce
freneticamente e Alfred premette sull’acceleratore.
Luogo non precisato, Polonia
La neve cadeva lentamente mentre il
grosso dell’esercito si
fermava in un campo incolto organizzandosi per allestire un
accampamento in cui
passare la notte. Non smetteva di nevicare da giorni, ma
quell’esercito era
abituato a ben di peggio.
I campi circostanti erano tutti incolti e coperti di quasi venti
centimetri di
neve. Le casupole che si ergevano ai confini dei campi semi diroccate
sembravano
abbandonate ormai da tempo.
Tutti fuggivano difronte all’avanzata dell’Armata
Rossa.
Appena tutti i fanti arrivarono nel
campo furono divisi dai
superiori in più squadre di piccola dimensione. Una fu
incaricata di
perlustrare la zona nel caso in cui ci fosse la presenza del nemico
nascosta,
un’altra fu incaricata di controllare le casupole circostanti
per cercare
qualsiasi cosa potesse rivelarsi utile per l’avanzata
dell’esercito russo in
terra polacca (soprattutto cibo e vestiti), un’altra ancora
fu mandata in un
piccolo boschetto lì vicino a cercare della cacciagione. I
restanti gruppi
furono impiegati per montare le tende e allestire il campo.
Dopo poco tempo arrivarono anche i
carri armati che in fila
circondarono il campo in allestimento lasciando enormi solchi nella
neve.
Velocemente i portelloni dei vari carri si aprirono e gli equipaggi
sciamarono
fuori, tutti desiderosi di sgranchirsi le gambe e di prendere una
boccata
d’aria.
Ivan Braginsky fu l’ultimo dell’equipaggio ad
uscire da quella gabbia di ferro.
Appena mise la testa fuori dal portellone i fiocchi di neve si posarono
sul suo
colbacco mentre il freddo lo morse con prepotenza, ma non era forte e
crudele
come il freddo invernale russo, perciò Ivan prese una
rigenerante boccata
d’aria fresca e uscì atterrando con un suono
ovattato sulla neve soffice.
Ivan era il quarto
dell’equipaggio ed era il servente che
aiutava il cannoniere a inserire i proiettili nella lunga canna della
torretta
centrale. Il suo ruolo era tanto importante quanto difficile e
stancante e ogni
volta che si accampavano per la notte si sentiva sempre esausto.
Affondando i lunghi stivali nella spessa coltre di neve, Ivan
cercò di
dileguarsi subito per non essere fermato da qualche ufficiale e messo
ad
allestire il campo insieme agli altri. Non era un fannullone, ma
diavolo, ogni
giorno condivideva pochi metri quadrati con altre tre persone, voleva
qualche
momento per sé ogni tanto.
A passo svelto raggiunse il piccolo
boschetto accanto ai
campi incolti e si accoccolò sotto un grosso albero
sempreverde, dove la neve
veniva intercettata dalla folta chioma e non toccava terra.
Lì Ivan si sfilò
dalla spalla il grosso fucile in dotazione e lo poggiò al
tronco affianco a sé,
poi si rilassò allungando le gambe.
Purtroppo era di costituzione molto robusta (non grassa come dicevano
gli altri),
perciò doveva rannicchiarsi parecchio per riuscire a stare
bene nei pochi metri
quadrati del suo carro.
Chiudendo gli occhi e appoggiando la
testa al tronco, Ivan
si rilassò. Finalmente aveva un po’ di tempo per
sé in totale silenzio da
godersi finché non veniva scoperto o richiamato da qualche
suo compagno. Non
che Ivan rifiutasse i rapporti sociali, anzi li apprezzava e cercava
sempre di
inserirsi nei gruppi che si formavano tra i vari commilitoni, ma i temi
che
spesso finivano a discutere non gli interessavano.
L’argomento principale dei
soldati che bivaccavano o degli equipaggi nei carri armati era le
donne; donne
belle, formose, provocanti, donne che avevano accontentato i vari
soldati, fidanzate
di cui si sentiva la mancanza, donne desiderate ma mai ottenute, ecc.
A Ivan non interessavano questi discorsi perciò si limitava
a sorridere e ad
ascoltare con finto interesse.
Più che i discorsi a Ivan
non interessavano le donne. Si era
accorto di questo “difetto”
nell’età adolescenziale, quando gli altri
ragazzini
del villaggio cominciavano a provare interessi per le femmine,
soprattutto le
sue sorelle, ma Ivan non condivideva i loro gusti. Inspiegabilmente era
attratto più da loro che dalle loro sorelle o cugine.
Crescendo cominciò a capire cos’era
quell’inspiegabile tendenza e a nasconderla
a tutti, perfino alle sue adorate sorelline.
Ivan sospirò pensando a
loro. Aveva dovuto lasciare il suo
villaggio natale per arruolarsi nell’esercito qualche anno
prima quando il
governo aveva ordinato a tutti i maschi in buona salute della sua
regione di
prestare servizio per la patria. Sua sorella maggiore aveva pianto per
giorni
mentre recuperava e metteva tutta la sua roba in una borsa da viaggio,
mentre
sua sorella minore era stata letteralmente incollata a lui
finché non era
partito.
Le aveva lasciate sotto la custodi del vicino, il vecchio Generale
Inverno,
chiamato così perché era stato un generale
(così diceva lui) nella Prima Guerra
Mondiale e perché era freddo e burbero proprio come
l’inverno russo. Ivan non
aveva mai conosciuto il suo vero nome, ma dopo la morte dei suoi
genitori in
tenera età era stato aiutato molto da quell’uomo,
perciò si fidava ciecamente
di lui.
Alcuni rumori provenienti dal
boschetto lo misero in
allerta. Velocemente afferrò il suo fucile e si
buttò a terra pronto a sparare.
I rumori continuarono ad avvicinarsi e Ivan iniziò a sudare
per la tensione. Quella
situazione gli riportò alla mente i spiacevoli ricordi di
Stalingrado dove
aveva dovuto combattere contro i tedeschi per fermare
l’avanzata nazista nel
territorio russo. In quella situazione aveva visto e fatto
così tante atrocità
e azioni immorali da segnarlo per sempre. Sentiva che dopo
l’assedio e la
battaglia di Stalingrado aveva perso una parte importante di
sé, come se la sua
sanità mentale fosse stata irrimediabilmente corrotta.
Sarebbe stato perseguitato a vita dai loro ricordi.
I rumori divennero ben presto passi
ovattati nella neve
accompagnati da risate e grida in russo. Ivan si rilassò
sentendo un’ondata di
sollievo e si rimise appoggiato al tronco cercando di calmare il
battito
incontrollato del suo cuore e il fiato corto. Dopo pochi istanti vide
passare
tra gli alberi un gruppo di soldati russi che parlottava allegro mentre
alcuni
di loro stringevano tra le mani guantate della cacciagione.
Ivan sentì lo stomaco brontolare e l’acquolina
formarsi in bocca.
Non ricordava l’ultima volta che aveva mangiato un pasto
decente.
Ivan aveva sempre sofferto la fame,
sia in gioventù quando
essendo l’unico uomo di casa lavorava come bracciante nei
campi altrui
riuscendo a portare a casa quel poco e non più per far
sopravvivere la
famiglia, sia da adulto nell’esercito quando
combatté a Stalingrado.
Ricordare ancora quel campo di battaglia gli fece torcere le viscere.
Aveva
visto in prima persona cosa la guerra poteva fare alla popolazione.
Aveva visto
persone così magre e smunte da essere quasi dei cadaveri
ambulanti, morti in
putrefazione ad ogni angolo della strada, donne che si prostituivano
per
cercare di dar da mangiare ai figli denutriti, soldati che requisivano
il poco
cibo che le famiglie affamate riuscivano a procurarsi, persone
arrestate o
fucilate per cannibalismo.
Sinceramente non sapeva se anche tra
i soldati vi erano
stati atti così disumani, e non sapeva davvero dire
cos’era quello che a volte
i loro superiori gli davano da mangiare. Aveva imparato da tempo a non
fare
domande, perciò anche in quella situazione non aveva
domandato e a occhi chiusi
aveva ingoiato tutto quello che gli avevano dato.
Ma il dubbio rimaneva e questo lo rendeva folle.
Il disgusto fu così forte
che il ragazzo si strinse il
ventre cercando di calmarsi. Nello stringere sentì
scricchiolare un oggetto
ripiegato nella tasca della sua divisa militare.
“Oh da, me ne ero
dimenticato!”
Dalla tasca sfilò una foto
dai bordi logorati e dal nero
sbiadito che raffigurava un ragazzo dal sorriso timido e dai capelli
lunghi che
guardava dritto al suo osservatore. Ivan rimase a fissarlo a lungo
osservando
ogni singolo dettaglio del suo volto e del suo mezzo busto.
Erano stati due prigionieri che avevano liberato quando avevano
cacciato i
tedeschi dal territorio dei Paesi Baltici dargli questa foto. Piangendo
il più
piccolo dei due lo aveva pregato di prenderla e di cercare un certo
Toris
Laurinaitis tra i prigionieri tedeschi perché era un loro
amico e compagno che
era stato catturato molto tempo prima e deportato chissà
dove dai tedeschi.
Ivan aveva accettato senza dare molto importanza alla cosa
perché probabilmente
quel ragazzo era morto da tempo ormai, ma con la notizia da parte degli
esploratori russi della scoperta di alcuni complessi di edifici
recintati nel
territorio tedesco forse c’era una possibilità di
ritrovare quel tipo vivo.
Ivan continuò a osservare
la foto a cui non aveva mai
prestato molta attenzione. Convenne che quel Toris era davvero un bel
ragazzo e
che forse valeva la pena di cercarlo e salvarlo ovunque lui si
trovasse. Ivan
immaginò il ragazzo provato e in lacrime abbracciarlo con
disperazione mentre
lo ringraziava di averlo salvato, per poi dargli un bacio come premio.
Si, sembrava una di quelle fiabe europee che sua sorella maggiore gli
raccontava sempre da piccolo prima di andare a dormire, dove un
principe
affrontava un’avventura pericolosa per poter salvare una
bella principessa dalle
grinfie di un drago cattivo, per poi sposarla e vivere felici e
contenti.
Ivan sorrise alla sua fantasia
strampalata. Ovviamente lui
era gay ma questo non significava che anche gli altri lo fossero,
soprattutto
quel Toris, perciò la sua sarebbe rimasta una fantasia da
uomo represso che
sognava una vita romantica.
Eppure ora che guardava bene quella foto si sentiva incredibilmente
attratto da
quel ragazzo. Voleva trovarlo e salvarlo, non perché quei
due prigionieri
glielo avevano chiesto, ma perché sentiva di voler salvare
quel ragazzo e
vederlo felice.
Una voce lo distolse dai suoi
pensieri romantici. Un suo
compagno di carro lo chiamò a gran voce dicendogli che
avevano montato la tenda
e che stavano consegnando le razioni da mangiare. Ivan rispose di
rimando, poi
ripose con cura la foto nella tasca e recuperato il fucile, si
avviò verso le
tende.
Si sentiva come il principe che
doveva salvare la sua bella
principessa nel castello dalle grinfie del cattivo drago.
Ex proprietà della
famiglia Lukasiewicz, periferia di
Varsavia
I cavalli correvano spensierati nel
grande recinto innevato
della proprietà dei Lukasiewicz, ex proprietà dei
Lukasiewicz.
Dopo la cattura di tutta la famiglia e la sua deportazione, la villa
con tutti
i terreni annessi alla proprietà, domestici, cavalli, ecc.
furono concesse ad
un ufficiale tedesco in pensione che vantava forti agganci con il
governo tedesco.
Uno dei domestici che era rimasto al
servizio del nuovo
proprietario osservava con tristezza i cavalli che correvano e
giocavano tra di
loro. L’erede della famiglia Lukasiewicz, il rampollo Feliks,
amava moltissimo
i cavalli e aveva fatto costruire quel recinto e la stalla proprio per
tenere
tutti i cavalli che riusciva a comprare nelle varie fiere.
Il suo preferito era un pony castano dalla lunga criniera morbida che
sgambettava dietro gli altri cercando di mantenere il passo nonostante
le sue
corte zampe non glielo permettessero.
Il domestico fu improvvisamente
affiancato da un grasso uomo
altezzoso con indosso una divisa militare pluridecorata con medaglie di
vario
tipo. Prendendo una boccata dalla sua pipa, l’uomo
osservò per qualche istante
i cavalli, poi si rivolse al domestico.
“Sono stati scelti i
cavalli che devono essere venduti all’esercito
tedesco?”
“Si signore. I tre stalloni
e quel magnifico esemplare
arabo. Passeranno in giornata a prenderli, l’offerta
è molto buona, signore”
“Certo che è
buona, ho parlato direttamente con le alte
sfere tedesche, abbiamo trovato un accordo sul prezzo quasi
subito”
L’uomo fece un cenno a
degli altri domestici che si
precipitarono nel recinto per recuperare i cavalli dalle briglie e
portarli
nelle stalle dove poi sarebbero stati presi dall’esercito. Il
domestico guardò
con dispiacere quelle povere bestie che sarebbero andate presto al
fronte.
L’uomo grasso osservò ancora qualche istante i
cavalli, poi fece per andarsene.
“Signore! Cosa ne facciamo
degli altri cavalli?”
“Non sono abbastanza forti
per l’esercito e a me non
servono. Io odio i cavalli. Portali al macello e poi vendine le carni
ai
macellai della città. Ringrazieranno!”
Il domestico sentì i
capelli rizzarsi sulla testa.
“S-signore, anche il pony?
Il pony è in buonissima salute,
potrebbe essere utile per-“
“Il pony?”
Interruppe l’uomo girandosi e guardando sgomento
il domestico “Quello non si può nemmeno definire
un cavallo! Al macello anche
lui. E muoviti! Stasera voglio cenare con carne di cavallo!”
Il domestico rimase senza parole.
Seguì con lo sguardo l’uomo
rientrare in casa, poi guardò il recinto dove il pony
correva con i restanti
cavalli agitando la criniera, cercando di liberarsi dai fiocchi di neve.
“Mi dispiace signorino
Feliks…. Mi dispiace….”
Note
dell'autore:
Salve,
eccoci con un nuovo, corposissimo capitolo.
Oggi c'è davvero molto da dire x'D
Innanzitutto questo capitolo è incredibilmente lungo per i
miei standard. Inizialmente volevo dividerlo in due capitoli, ma
così facendo avrebbe perso molto, perciò ho
deciso di tenerlo unito. Spero che questo non vi crei disagio
><
Per questo capitolo mi sono documentata molto circa i fatti storici
citati, e anche non citati ma che riguardano comunque quello che ho
scritto. In realtà non ho trovato alcune notizie che mi
avrebbero fatto molto comodo, perciò mi scuso se ci sono
eventuali incongruenze di tipo storico o la ff non fila bene, ho
cercato di mediare il più possibile.
Quando ho ideato tutta la trama di questa ff ho subito pensato a questo
capitolo come uno dei capitoli più toccanti e belli, uno che
avrei voluto davvero scrivere subito e riempirlo di feels allucinanti.
Spero che almeno in parte ci sia riuscita, ho cercato di calarmi molto
nelle loro menti (purtroppo non sono molto brava in questo x'D). Per
scriverlo ho ascoltato tantissimo due canzoni, Castle of glass dei
Linkin Park e Est ce que tu m'aimes? di Gims Maitre. Mi hanno aiutato
molto a immaginare le condizioni psicologiche dei personaggi di questo
capitolo.
Mi scuso per eventuali errori grammaticali ecc. Sono un po' nabba, si
sa x'D
Se volete commentare il capitolo sono disponibilissima *-*
Però non odiatemi per avervi fatto soffrire così
tanto con questo capitolo (nel bene e nel male) x'D
Vi do un anticipo: il prossimo capitolo sarà importantissimo
ai fini della storia, perciò spero di completarlo il prima
possibile!
A presto!
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Capitolo 8 *** La lettera ***
Era una fredda e uggiosa mattina di
gennaio.
Nel campo di concentramento prussiano si era depositata al suolo
così tanta
neve da potervici affondare interamente un piede fino alla caviglia.
Roderich camminava a passo svelto nel corridoio freddo e umido
nell’edificio
del personale del campo. Il suo umore era pessimo ed era tale da molti
giorni
ormai: i rifornimenti tardavano ad arrivare bloccati dalla neve, dalla
guerra e
da chissà quale altra scusa, e le scorte del suo amatissimo
surrogato di caffè,
chiamato comunemente orzo, erano esaurite già molto tempo
prima di Natale.
Roderich non viveva senza il suo
orzo. Certo, preferiva di
gran lunga il vero caffè, quello che veniva importato
dall’America e che aveva
un aroma unico, ma la guerra aveva bloccato ogni tipo di commercio con
il Nuovo
Mondo costringendo gli appassionati come lui ad accontentarsi di questo
nuovo
composto creato dalla Germania stessa.
Solo che adesso era finito e non aveva a disposizione altro da molto,
troppo
tempo.
L’umore del nobile austriaco peggiorava incredibilmente
quando non assumeva
regolarmente la sua bevanda preferita, rendendolo molto irascibile e
nevrotico,
davvero intrattabile per chiunque.
Quella mattina era particolarmente
ingestibile anche per un
altro motivo.
Nel trasferirsi nel campo di concentramento, Gilbert aveva chiesto e
ottenuto
il permesso di portare con sé il suo amatissimo canarino, un
pennuto grasso e
dal carattere difficile, che cantava perennemente a squarciagola e
beccava
chiunque si avvicinasse alla sua gabbietta che non fosse il suo
padrone,
lasciando grossi segni sulle dita.
Roderich odiava quel canarino demoniaco, era il ritratto sotto forma di
uccello
del suo fastidioso padrone. E odiava soprattutto quando Gilbert gli
ordinava di
dargli da mangiare al suo posto perché tornava sempre con
grossi segni rossi e
dolorosi sulle sue delicatissime mani da musicista.
Entrando spedito in una stanza
illuminata dallo scarso sole
che filtrava dalle nuvole invernali, Roderich si chiuse violentemente
la porta
alle spalle e guardò dritto vicino la finestra dove un
piedistallo di marmo
sorreggeva una grossa gabbietta in ferro battuto. Un piccolo e paffuto
canarino
iniziò a cinguettare verso di lui agitando le ali come per
salutarlo.
“Risparmia le moine per il
tuo padrone, stupido uccello”
Esclamò con sdegno mentre prendeva un piccolo sacchettino
con del mangime
dentro da sopra un tavolo pieno di scartoffie.
Il canarino sembrò non
capire il disprezzo dell’austriaco e
continuò a cinguettare allegramente seguendo ogni movimento
del sacchettino tra
le mani.
Cautamente Roderich aprì uno sportellino della gabbietta e
prese la ciotolina
del mangime, chiudendolo velocemente dopo averlo tirato fuori. Quel
piccolo e
paffuto canarino poteva sembrare simpatico e adorabile a prima vista,
ma era un
mostro e l’austriaco voleva preservare il più
possibile le sue dita dal suo
becco.
Velocemente riempì la
ciotolina fino all’orlo, poi aprì
nuovamente lo sportellino infilando con una mano la ciotolina
all’interno.
Il canarino non attendeva altro.
Scuotendo violentemente le ali piccole rispetto al suo corpo, il
pennuto si
avventò sulle dita del ragazzo beccandone una e stringendo
la presa sulla carne
rosea.
Roderich lanciò un urlo di dolore misto a sorpresa e
tirò velocemente la mano
fuori dalla gabbietta, scuotendola violentemente per liberarsi dalla
presa di
quella bestia.
Dopo vari tentativi il canarino
mollò la presa cadendo e
rimbalzando sul pavimento dove cominciò a scuotere le ali e
a pigolare
insistentemente cercando di prendere il volo, ma le sue piccole ali non
riuscivano a dargli lo slancio che gli serviva per alzarsi da terra.
Roderich si portò la parte ferita alla bocca guardando con
odio puro il pennuto
da dietro le lenti degli occhiali. Pur essendo un piccolo canarino,
quella
bestia malefica aveva una forza spropositata e per poco non gli
staccava la
carne dal dito.
L’austriaco dovette
reprimere con forza l’impulso di
schiacciare quell’ammasso di piume sotto i suoi scarponi
dalla suola chiodata
facendo appello a tutta la sua forza di volontà.
Invece tirò un sospiro esasperato:
“Sei il diavolo sotto forma
di uccello, tu. Sei proprio il
canarino di Gilbert! Ora da bravo fatti prendere così ti
rimetto nella gabbietta
e nessuno si farà di nuovo male!”
Il canarino si fece prendere
facilmente arruffando le piume
intorno al collo. Roderich sperò per un secondo di poter
mettere quella bestia
nella sua gabbietta senza ulteriori problemi, ma le sue speranze si
infransero
quando il canarino beccò nuovamente la sua mano appendendosi
a un lembo di
pelle e procurandogli un dolore atroce.
Accecato dalla rabbia e dal dolore,
Roderich afferrò il
canarino con l’intero palmo stringendogli il corpo e
staccandolo con forza dalla
sua mano. La vista del sangue che usciva dal taglio che si era
procurato lo
fece uscire fuori di testa. Con uno scatto girò su
sé stesso e lanciò con forza
il canarino fuori dalla finestra verso alcuni edifici lungo il
perimetro di
recinzione.
Dopo alcuni istanti in cui la sua
rabbia era sbollita del
tutto e il suo cuore ritornava al battito normale,
l’austriaco si appoggiò al
davanzale della finestra sui i gomiti con la testa sulle mani ammirando
il
panorama innevato del campo di concentramento e dei campi incolti
limitrofi.
Del pennuto nessuna traccia.
Roderich sorrise.
“Sono nella merda”
Matthew camminava lentamente sulla
neve lasciando grosse
impronte dietro di sé. Le sue scarpe semi distrutte
affondavano interamente
nella neve e quest’ultima penetrava in qualunque foro,
strappo o scollatura di
esse. Matthew aveva i piedi, le mani e il naso completamente
ghiacciati.
Essendo canadese era abituato al freddo quasi polare, ma adesso il suo
corpo
stremato dalla fame e dalla fatica non riusciva a reggere quelle
temperature.
Il ragazzo non sentiva più le estremità
periferiche degli arti e cercava
inutilmente di riscaldarsi le mani muovendole insistentemente e
alitandoci
sopra.
I vestiti che indossava erano stracci consumati e troppo leggeri per
quella
stagione. Molti prigionieri si erano ammalati di febbre e altre
malattie che
Matthew non aveva mai visto prima finendo all’infermeria.
Alcuni erano tornati
dopo pochi giorni bene o male guariti o in via di guarigione, altri non
si
erano più visti.
Continuando ad affondare nella neve
il canadese raggiunse
una fossa nauseabonda che fungeva da pozzo nero del campo dove i vari
dormitori
buttavano gli escrementi che erano costretti a fare in un secchio. Ogni
dormitorio aveva un solo secchio che quando si riempiva doveva essere
svuotato,
qualunque ora fosse.
Fin dall’inizio Matthew era stato incredibilmente sfortunato
riguardo il
secchio. Ogni volta che doveva fare dei bisogni lo trovava pieno ed era
costretto dalle guardie di turno a fare buoni 50 metri nella neve per
svuotarlo
nel pozzo.
Anche quella mattina gli era toccato quel simpatico viaggetto.
Dalla fossa uscivano rivoli di vapore
e odori
indescrivibili. Mentre svuotava il secchio Matthew cercò di
non guardare il suo
contenuto né quello che c’era nel pozzo. Si
concentrò invece nel fissare altri
poveri sciagurati di altri dormitori che come lui erano stati costretti
a fare
quel servizio.
Matthew li trovò magrissimi e denutriti, curvi su
sé stessi e pallidi con gli
occhi infossati e le membra così stanche che quasi
sembravano sciogliersi
staccandosi dalle ossa. Il ragazzo si allontanò velocemente
da quel posto
chiedendosi se anche lui avesse quell’aspetto così
disumano, come se non fosse
più un uomo ma un mostro uscito da un incubo di un bambino.
Cercando di camminare nelle proprie
orme per non riempire le
scarpe di altra neve, il ragazzo biondo si affrettò a
raggiungere il suo
dormitorio dove avrebbe potuto togliere le scarpe e scaldare i piedi
sotto la
coperta di cotone per qualche minuto prima di iniziare il lavoro.
All’improvviso qualcosa di duro e pesante, grande quanto un
pugno, lo colpì
alla schiena facendolo sobbalzare e facendogli cadere il secchio dalle
mani.
Matthew si voltò sorpreso e spaventato cercando chi lo
avesse colpito con
quella che sembrava una palla di neve, poi vide qualcosa a terra.
Incredulo si tolse gli occhiali e alitò sopra le lenti per
poi pulirle con un
lembo della maglia convinto di avere gli occhiali sporchi, ma quando li
rimise
i suoi occhi si allargarono ancor più per lo stupore.
Si accucciò su sé stesso mentre un sorriso si
diffondeva sul suo volto.
Gilbert era furibondo.
Non sapeva per quale motivo non aveva picchiato a sangue
quell’inutile damerino
che aveva avuto il coraggio di lanciare fuori dalla finestra il suo
amatissimo
canarino. Le mani gli tremavano ancora per la voglia animalesca di
deturpare
quel bel faccino curato dell’austriaco, ma si era limitato
soltanto ad urlargli
contro blasfemie di ogni sorta e a spedirlo con una spinta a
sorvegliare una
fabbrica del campo.
Non poteva sbilanciarsi troppo con lui, era pur sempre il figlio di
un’importante famiglia austriaca legata alle alte sfere del
governo tedesco.
La rabbia però non
accennava a diminuire mentre usciva
dall’edificio e iniziava a cercare tra la neve sperando di
ritrovare il suo
amato uccellino giallo.
Gilbird, così si chiamava il suo incredibile canarino, era
stato l’ultimo
regalo di compleanno del nonno prima di morire, l’unica
persona che aveva
davvero amato Gilbert nonostante il suo aspetto e comportamento.
Gilbird si era sempre comportato in modo protettivo nei suoi confronti:
tutti
odiavano Gilbert e Gilbird odiava tutti.
L’albino non conosceva una
sola persona che non fosse stata
beccata dal suo canarino, o bersagliata dai suoi escrementi. Persino
Ludwig non
era tollerato nonostante Gilbert lo amasse quasi come sé
stesso.
Gilbert amava così tanto il suo canarino da aver chiesto il
permesso di
portarlo con sé nel campo di concentramento, un permesso
accordatogli grazie
alle influenze del padre che non vedeva l’ora di liberarsi
del canto continuo
di quell’animale.
La neve era soffice al tatto mentre
Gilbert la spostava con
gli stivali e le mani guantate, frugando qua è là
vicino gli edifici, davanti
la finestra, controllando i muri degli edifici di fronte sperando di
non
trovare nessuna prova che potesse indicare che il canarino era finito
contro il
muro.
Tutti sforzi inutili.
Disperato, Gilbert
cominciò ad allargare l’area di ricerca intorno
la finestra. Dopo una decina di minuti era entrato quasi nel panico. Di
Gilbird
non c’era nessuna traccia e non era possibile
perché era un canarino allevato
in cattività che non conosceva il mondo esterno, inoltre era
grasso e tozzo e
non volava molto bene.
L’albino ebbe il timore che qualche prigioniero, trovandolo
lì indifeso, lo
avesse preso per vendetta o peggio ancora per mangiarselo, affamati
com’erano (quel
pensiero gli fece venire i brividi) oppure che fosse morto di freddo
caduto in
mezzo alla neve.
Mentre si guardava per
l’ennesima volta intorno sperando di
vedere una macchiolina gialla tra il bianco candido della neve, Gilbert
notò un
passaggio formato dagli angoli di due dormitori largo più o
meno mezzo metro
proprio davanti la finestra.
“Impossibile…
Roderich non può avere una mira così
buona…”
Pensò incredulo, ma ormai il dubbio si era insinuato nella
sua mente, e poi
aveva cercato ovunque senza successo, quel passaggio era
l’ultima speranza a
cui aggrapparsi.
Velocemente affondò i suoi
stivali impermeabili di pelle
nera nella neve e si infilò nel passaggio percorrendolo
tutto. Era
incredibilmente in perfetta linea d’aria con la finestra, un
buon lancio lo
avrebbe percorso tutto fino alla fine dove sboccava sul percorso
affianco al
perimetro di recinsione.
Raggiunta l’uscita, Gilbert si fermò con la bocca
aperta dalla meraviglia.
A pochi passi da lui c’era
il prigioniero inglese che gli
aveva provocato tanti disturbi emotivi che girava su sé
stesso ridendo in modo
spensierato. Ai suoi piedi, tra le tante orme che stava lasciando con i
suoi
volteggi, c’era uno di quei luridi secchi che il campo dava
in dotazione ai
dormitori come gabinetto.
Ma quello che aveva paralizzato l’albino non era il
prigioniero in sé ma
piuttosto quel piccolo batuffolo giallo che svolazzava goffamente sulla
sua
testa.
Gilbird cinguettava allegramente
mentre si poggiava sulla
testa bionda del ragazzo aggrappandosi con le sue piccole zampette ai
capelli
arruffati, poi con uno slancio ricominciava a volteggiare mentre il
ragazzo ridendo
lo seguiva con lo sguardo tenendo le braccia aperte.
Sembravano entrambi felici.
Ma soprattutto Gilbird non stava mordendo, pizzicando, graffiando o
sporcando
il ragazzo in nessun modo. Sembrava anzi contento della sua presenza
esattamente come lo era quando vedeva il suo padrone.
Gilbert era sconcertato e confuso.
Il prigioniero non sembrò
accorgersi della sua presenza e
continuò a giocare con il canarino. Nuvolette di vapore
salivano in aria
insieme al suono delle risate formando dei strani disegni in aria. Era
una
strana immagine da vedere in un campo di concentramento e Gilbert
immaginò per
un istante di non trovarsi più lì come
sorvegliante di un luogo di detenzione,
morte e lavoro forzato, ma su un lago ghiacciato dove il ragazzo
volteggiava
pattinando sul ghiaccio, avvolto in un cappotto e una bella sciarpa
colorata,
ridendo e chiamandolo con la sua melodica voce.
“Che pensiero
stupido!” Esclamò tra sé appena si
accorse di
avere la testa tra le nuvole.
Era indeciso se andarsene senza farsi
notare e di recuperare
il suo canarino in un secondo momento o di rovinare quel momento
idilliaco e
finire ciò che aveva iniziato.
Questa indecisione lo fece accigliare: il vecchio Gilbert non avrebbe
mai avuto
un dubbio simile, avrebbe messo fine a quello svago immediatamente,
punito
severamente il detenuto con sadico divertimento e poi lo avrebbe
costretto a
fare uno dei lavori più pesanti del campo. Da quando era
diventato così
compassionevole con quella gentaglia?
Eppure
non riusciva a
staccare gli occhi di dosso da quel ragazzo. Dalla prima volta che lo
aveva
notato, quando stava per finirlo nella fabbrica, quella povera anima
aveva
perso almeno un terzo del suo peso diventando magrissimo. I suoi
capelli si
erano sfibrati e avevano acquisito un colorito spento mentre la pelle
mal
coperta dai vestiti troppo leggeri e troppo larghi per la sua
corporatura era
diventata screpolata e bruciata dal freddo in più punti.
Eppure i suoi occhi,
pur avendo perso la loro brillantezza e il loro colorito vivace, non
erano
spenti come quelli di tutti gli altri detenuti, ma anzi erano ancora
gonfi di
vitalità e di dolcezza.
Gilbert si sentiva ancora incredibilmente attratto da quegli occhi e da
quel
ragazzo e vederlo in quello stato pietoso aveva alimentato ancor di
più il
desiderio di prendersi cura di lui. Contemporaneamente vederlo giocare
in quel
modo con Gilbird lo rendeva incredibilmente sereno.
Dopo uno slancio particolarmente
energico, Gilbird non
riuscì a tenere il suo corpo in volo e con un forte
cinguettio cadde sulla
testa del ragazzo dove rimbalzò senza riuscire ad
aggrapparsi ai capelli.
Gilbert, che aveva assistito a tutta la scena, fece per correre in
avanti per
afferrare il povero animale che altrimenti sarebbe sprofondato nella
neve,
quando le mani delicate e screpolare del ragazzo biondo lo anticiparono
raccogliendo il pennuto in una morbida coppa.
Il ragazzo sembrava sorpreso da
quella presa e preoccupato
si portò il canarino davanti al volto, così
vicino che se Gilbird avesse voluto
avrebbe potuto facilmente beccare il naso o una guancia.
Gilbert rimase con il fiato sospeso.
“Ti sei fatto male
piccolino? Devi stare attento, la neve
non è un bel posto per cadere per un animale così
piccolo come te, sai?”
Sussurrò dolcemente. Gilbert ebbe difficoltà a
sentire quelle parole per quanto
piano parlava.
Il canarino rimase un istante in
silenzio a fissare il
detenuto, poi iniziò a trillare allegramente arruffando le
piume e scuotendo le
ali.
Il ragazzo biondo lanciò un gridolino di apprezzamento e
strofinò una guancia
sull’uccellino ridendo dolcemente mentre
quest’ultimo ricambiava il gesto
d’affetto con altrettanta dolcezza.
Quella scena trafisse il petto di
Gilbert come una lancia.
In tutta la sua vita non aveva mai visto qualcosa di più
bello e più dolce come
questa scena. Quell’inglesino sembrava davvero un angelo
caduto dal cielo con
le ali spezzate. Il fatto che Gilbird ricambiasse con così
tanto entusiasmo il
suo affetto era innegabilmente la prova che quel ragazzo era speciale.
L’albino sentì una fortissima ondata di calore nel
petto.
Si, che Dio potesse perdonarlo, si era innamorato… di un
uomo!
Dopo qualche istante di affetto
reciproco Gilbird girò
casualmente la testa e vide il suo padrone. Subito iniziò a
cinguettare e
trillare animatamente nella sua direzione portando anche il prigioniero
a
girarsi. Appena lo vide, il ragazzo quasi fece cadere il pennuto dalle
mani per
quanto fu forte la reazione di spavento che ebbe. Immediatamente si
ricompose
allontanandosi di qualche passo dall’avvallamento che si era
formato a causa di
tutte le impronte che aveva lasciato ballando e rimase immobile a
fissare il
ragazzo albino tremando per il freddo e per la paura. Sulle sue mani
tremanti
Gilbird sembrava un budino per come veniva scosso ritmicamente.
Gilbert non sapeva come comportarsi.
La magia si era
interrotta, la sua presenza era stata scoperta e il momento quasi
divino era
stato rovinato. Ora l’oggetto di quasi tutti i suoi pensieri
da vari mesi a
quella parte se ne stava immobile davanti a sé impaurito
come un topo in
trappola.
Dopo qualche istante in cui la sua mente vagliò una decina
di possibilità e in
cui si fissarono reciprocamente in silenzio, Gilbert concluse che
qualsiasi
cosa avesse fatto avrebbe sicuramente spaventato a morte il ragazzo,
perciò
optò per comportarsi in modo spontaneo.
Posizionando la lingua dietro i denti
Gilbert fece un
fischio acuto. Gilbird subito rispose con uno strano verso e
lanciandosi dalle
mani del biondino svolazzò verso il suo padrone. Il
prigioniero non riuscì a
distogliere lo sguardo dal suo carceriere tant’era la paura,
ma quando Gilbird
si appollaiò tra i capelli argentei del tedesco
l’inglese non riuscì a
trattenere uno sbuffo e un sorriso che subito coprì con le
mani lanciando uno
sguardo colpevole.
Gilbert sorrise a sua volta sentendo la tensione generale allentarsi,
sperando
di non aver sfoggiato uno dei suoi soliti sorrisi da lupo affamato.
“Tu sei quel tizio che ho
quasi ammazzato in fabbrica
qualche mese fa, vero?”
Nemmeno il tempo di finire la frase e già Gilbert avrebbe
voluto darsi un pugno
in faccia. Di tutte le cose che poteva dire in quel momento aveva
scelto la
peggiore… ma che cazzo stava pensando in quella testolina
bacata che si
ritrovava?
Ovviamente il prigioniero rimase a
bocca aperta diviso tra
l’incredulità e il terrore puro. Sembrava una
bandieruola al vento per come
tremava.
Gilbert cercò di recuperare subito l’errore che
aveva commesso.
“Tu sei… ehm,
non ricordo il tuo nome… ma sei inglese vero?
“M-Matthew
Williams… e-e sono canadese” Rispose con un filo
di voce incrinato dal tremito.
Gilbert alzò entrambe le
sopracciglia annuendo in segno di
comprensione. Sulla sua testa Gilbird agirò le ali per
tenersi in equilibrio.
“Ah canadese eh? Credevo
inglese… sai, l’accento… M-ma a quanto
pare hai fatto amicizia con il mio fantastico canarino!”
Esclamò indicando il
pennuto sulla sua testa.
Matthew sorrise a quelle parole
guardando il canarino
pulirsi alcune penne.
“O-oh si, è davvero così carino e
simpatico! L’ho trovato mentre tornavo dal pozzo
nero e non mi ha più lasciato”
“E’ un tipo con
un caratterino molto particolare, ma non è
abituato ad stare per troppo tempo fuori dalla sua gabbietta, sai?
Probabilmente, se tu non lo avessi trovato, sarebbe morto nel giro di
qualche
minuto tra la neve che si è accumulata qui!”
Il canadese arrossì
vistosamente a quelle parole che
sembravano quasi un ringraziamento. Imbarazzato e rosso in volto, si
inchinò
velocemente all’albino e prese il secchio che ormai era
diventato gelido al
tatto e fece per andarsene.
Gilbert si allarmò, non voleva che se ne andasse, non voleva
sprecare
quest’occasione d’oro di poter stare in sua
compagnia senza che occhi
indiscreti lo fissassero e vedessero quanto poco professionale ed etico
fosse.
“A-aspetta!”
Ordinò con un tono più duro di quanto avesse
voluto.
Matthew si fermò
all’istante e si girò confuso.
Gilbert cercò di trovare qualche sciocchezza da dire senza
che sembrasse
davvero un pretesto per tenerlo lì ma non ne
trovò nessuna che fosse vagamente
intelligente. Il ragazzo biondo rimase a fissarlo in silenzio spostando
il suo
sguardo dal suo volto a Gilbird accoccolato tra i capelli.
Gilbert ebbe un’idea.
“S-sai, si chiama
Gilbird!”
Va bene, forse era stata un’idea stupida, ma inaspettatamente
Matthew reagì in
modo positivo a quelle parole. Prese il secchio con entrambe le mani e
si
avvicinò nuovamente al tedesco oscillando.
“Un nome non molto
fantasioso. Sembra ancora un pulcino,
quanti anni ha?”
Gilbert sorrise. Matthew era
diventato più audace e stava
chiacchierando con lui con più spontaneità.
Ridendo con il suo tipico suono “kesesese” gli mise
una mano sulla spalla e iniziò
a parlare di quanto fosse impressionante la storia del suo canarino.
Rimasero a parlare di Gilbird e di
altro per quelle che
sembrarono ore intere, ma in realtà furono solo pochi
minuti. Grazie a quei
pochi minuti però Gilbert sentiva di aver creato una sorta
di legame intimo con
quel canadese. Gli aveva raccontato di come Gilbird era entrato nella
sua vita,
di come odiasse tutti gli altri umani tranne lui e di come era sorpreso
che
avesse accettato di così buon grado Matthew. Non sapeva
nemmeno perché gli
stesse raccontando tutte quelle cose ma era felice di farlo. Aveva
scoperto in
quei pochi mesi che trovava piacevole la compagnia del canadese anche
se non
aveva mai realmente scambiato parole con lui e sentiva che in sua
presenza
poteva essere sé stesso senza alcun timore di sentirsi
sbagliato o disprezzato.
Da parte sua Matthew gli aveva raccontato di quella volta che voleva a
tutti i
costi adottare come animale domestico un orso polare visto allo zoo e
la madre
gli aveva regalato un orsetto di pezza per farlo contento. Aveva amato
quel
pupazzo come fosse davvero un essere vivente o un secondo fratello.
Mentre
raccontava quell’intimo aneddoto il suo volto era rosso
dall’imbarazzo e
Gilbert lo trovò davvero adorabile.
La loro conversazione fu interrotta
da qualcuno che chiamava
a gran voce Gilbert con un forte accento tedesco. L’albino
riconobbe la voce
del suo adorato fratellino Ludwig e subito rispose urlando qualcosa in
tedesco.
Guardando il suo orologio da tasca e notando l’ora Gilbert
lanciò un sorriso di
scuse al canadese.
“È arrivata
l’ora di andare, il mio fratellino mi cerca e tu
devi iniziare a lavorare nella fabbrica. È stato un piacere
chiacchierare con
te, e so che lo è stato anche per te perché io
sono fantastico!”
Ridendo iniziò ad
allontanarsi verso dove aveva sentito il
fratello chiamarlo. Era sicuro che Matthew lo stesse osservando con
quel suo
bel sorriso stampato sul volto, ma non si aspettò di sentire
il ragazzo
chiamarlo.
“A-ancora una
cosa!” Esclamò sforzandosi come se stesse
urlando quando in realtà stava parlando con un tono normale.
Gilbert lo guardò girando la testa curioso di sapere cosa lo
spingesse ad avere
così tanto coraggio.
Matthew sembrò prendere fiato varie volte, anche se sembrava
più che stesse
raccogliendo il coraggio, poi guardando i piedi di Gilbert senza avere
il
coraggio di incrociare il suo sguardo disse velocemente:
“Sei stato tu a lasciarmi
gli occhiali nel letto?”
Gilbert rimase a fissarlo con uno
sguardo indecifrabile, poi
sbuffò e sorrise. Riprese a camminare verso il passaggio da
cui era venuto
senza dire una parola ma facendo un ampio gesto con la mano che non
lasciava
alcun dubbio.
Matthew sgranò gli occhi mentre sul suo volto si formava un
ampio sorriso.
Quando non vide più la figura pallida del tedesco si
girò verso il dormitorio
H3T4 e iniziò a correre a perdifiato ridendo come uno
sciocco e cercando di
scaricare tutta l’adrenalina che sentiva in corpo
Quella sera Gilbert sedeva alla
scrivania del suo ufficio
ripensando agli eventi della giornata. Dopo aver avuto quel momento
intimo con
Matthew aveva incontrato il fratello e avevano dovuto coordinare lo
scarico dei
rifornimenti che finalmente dopo quasi un mese di ritardo erano
arrivati.
Nonostante l’iniziale arrabbiatura che aveva provato nei suoi
confronti,
Gilbert aveva deciso di accordare a Roderich una quantità
extra di orzo per
ringraziarlo segretamente per avergli permesso, grazie al suo
disgustoso gesto,
di passare qualche momento da solo con Matthew. Roderich non aveva
fatto
domande e aveva accettato con entusiasmo l’orzo extra
correndo subito nelle
cucine per gustarsi una buona tazza di quella brodaglia.
Oltre ai rifornimenti erano arrivati sia diversi dispacci dai superiori
dell’amministrazione del campo a cui Gilbert rispondeva sia
alcune lettere
personali dirette alle varie altre guardie. Gilbert aveva lasciato
l’oneroso
compito di leggere e rispondere ai dispacci per la sera, desideroso di
non
guastarsi la giornata che era iniziata in modo incantevole con le
stronzate che
pretendevano i suoi superiori: incremento della
produttività, meno richieste di
rifornimenti.
Ogni volta era la stessa storia.
Quella sera però non aveva
in mente solo di rispondere per
le rime ai superiori sottolineando quanto fossero fantasiose e
irrealizzabili
le loro richieste anche per un campo di concentramento. Gilbert stava
pensando
a Matthew.
L’incontro di quella mattina aveva spalancato una porta su un
mondo del tutto
nuovo e sconosciuto per Gilbert.
L’albino aveva passato tutto il giorno a fissare
insistentemente il ragazzo,
quasi a mangiarlo con gli occhi, notando con piacere che Matthew gli
lanciava
occhiate furtive e sorrisi quanto poteva. Ogni volta che il canadese
notava di
essere fissato arrossiva vistosamente e diventava più goffo
del normale.
Semplicemente adorabile.
Gilbert non si preoccupava di poter essere visto dal fratello. Aveva
notato da
tempo che Ludwig aveva occhi solo per l’italiano. Che avesse
anche lui quel
determinato tipo di interesse per quel ragazzo?
A quell’idea Gilbert aveva riso di gusto. Era impossibile che
Ludwig potesse
provare qualcosa del genere per qualcuno; Ludwig era tutto
d’un pezzo, un uomo
d’acciaio, sempre controllato e rigido, il perfetto ariano
che nemmeno una
bomba avrebbe smosso dalla sua posizione. Tutto il contrario di Gilbert
che era
sanguigno ed emotivo.
Quello che stava occupando la sua
mente per tutto il giorno
era un’idea tanto assurda quanto stupenda. Ormai era iniziato
il nuovo anno, il
1945, ed era certo che la Seconda Guerra Mondiale era agli sgoccioli.
Gilbert
non sapeva di per certo se sarebbe finita con la vittoria della
Germania e del
Giappone contro tutto il mondo dopo la bruciante sconfitta che avevano
ricevuto
in Russia e dopo i territori persi in Italia, ma qualora avessero vinto
aveva
già in mente cosa chiedere come pagamento per i suoi servigi
alla causa
nazista.
La sua idea era quella di chiedere il permesso di avere la custodia di
Matthew
per poterlo rieducare secondo il modello ideologico ariano avendo lui
caratteristiche idonee per la riqualificazione razziale. Era una scusa
bella e
buona per permettere di tirare fuori il ragazzo dall’aspirale
senza fondo del
lavoro forzato e dell’inferiorità razziale che lo
avrebbe costretto a una vita
di stenti, di soprusi e di dolore. Ma soprattutto era un modo per
permettere a
Gilbert di poter rimanere al fianco di Matthew, di poter convivere
sotto lo
stesso tetto, di avere una relazione che dall’esterno non
sembrasse
compromettente nonostante segretamente lo fosse. Gilbert avrebbe fatto
di tutto
per realizzare questo sogno, di tutto!
Ancora fantasticando su quanto
sarebbe stata bella la loro
vita insieme, Gilbert prese i dispacci e iniziò a ad aprire
una per una le
lettere e a leggerle attentamente.
La maggior parte erano lettere delle varie fabbriche di Berlino che
confermavano che i prodotti del campo erano stati consegnati ai loro
stabilimenti, roba poco importante, mentre due lettere erano firmate
dall’amministrazione centrale del governo tedesco.
Gilbert si accigliò mentre
apriva la prima frettolosamente
con il suo tagliacarte, per poi rilassarsi quando vide che era una
lettera di
suo padre che era stata inviata tramite le sue conoscenze per
accertarsi che
fosse recapitata. La lettera era datata quasi alla fine di novembre e
chiedeva
come procedeva la gestione del campo, chiedeva se Ludwig si fosse
ambientato
bene, lodava entrambi i fratelli e informava che tra non molti mesi
sarebbero
arrivati altri treni merci carichi di nuova manodopera e spronava a
liberarsi
di quella vecchia e ormai poco produttiva.
Se tempo addietro questi discorsi lo esaltavano molto, ora come ora con
il
pensiero costantemente su Matthew l’idea di trattare i
prigionieri come feccia,
come meri oggetti da utilizzare e di cui disfarsi quando non erano
più buoni
iniziava ad essergli ripugnante.
“Accidenti, quasi non mi
riconosco più!” Sussurrò tra
sé
mentre metteva da parte la lettera del padre per prendere
l’altra.
Questa lettera, scritta con una
grafia più elegante e
ricercata, era firmata direttamente dai collaboratori del Fuhrer
stesso.
Gilbert intuì che doveva trattarsi di qualche comunicazione
importante che era
stata diramata a tutta la nazione e l’aprì con
estrema delicatezza come se quei
fogli di carta emanassero un’autorità propria.
In realtà era solo una
pagina che diversamente dalla lettera
era stampata a macchina e riportava poche righe. Gilbert si mise comodo
sulla
sua sedia di velluto e iniziò a leggere.
Dopo poche parole la sua bocca
divenne completamente
asciutta mentre le sue pupille si assottigliavano diventando piccole
come teste
di spillo e i suoi occhi si aprivano quasi uscendo dalle orbite.
Lentamente la
sua bocca si aprì dall’incredulità e le
sue mani iniziarono a tremare
violentemente.
Quando il suo sguardo alterato arrivò all’ultima
parola la mano che reggeva il
foglio ebbe uno spasmo improvviso facendolo cadere.
Volteggiando, il pezzo di carta finì sotto la scrivania.
Gilbert non si preoccupò di raccoglierlo tant’era
sconvolto. Si portò una mano
alla bocca mentre fissava il vuoto con uno sguardo che nemmeno un
posseduto che
stava per essere sottoposto ad esorcismo avrebbe potuto avere.
No, no, no ,no, no, no!
Gilbert sentì una fitta
nel petto. Il suo cuore batteva in
modo incontrollato facendogli quasi male e creandogli una sorta di
blocco alla
gola. O forse quello era colpa dell’ansia, non sapeva dire.
Non credeva a quello che aveva letto, era semplicemente impossibile.
Sentì all’improvviso
una violenta ondata di sudore freddo mentre la stanza iniziava a
ballare
davanti i suoi occhi a causa delle vertigini.
Era semplicemente impossibile.
No, no, no, no, no, NO!
Gilbert piantò con forza
le mani sulla scrivania e si alzò
di scatto rimanendo con lo sguardo fisso sulla superficie lucida del
mobile. La
sedia fu spinta violentemente indietro e cadde con un sonoro tondo a
gambe all’aria,
giacendo inerme sul freddo pavimento di pietra.
Aveva bisogno d’una boccata d’aria fredda, cazzo
aveva bisogno di una
fottutissima boccata d’aria fredda!
NO, NO, NO, NO, NO, NO!
Barcollando si avvicinò
alla porta dell’ufficio dove si
appoggiò allo stipite cercando di riprendersi. Era solo un
incubo quello, era
solo un fottutissimo incubo. Non poteva essere vero, non ora che aveva
trovato
un senso alla sua vita, non ora che aveva realizzato sé
stesso, non ora che
aveva trovato Matthew.
Lanciò uno sguardo storto verso la scrivania e lo vide, vide
quel maledetto
foglio di carta con quelle poche righe battute a macchina e firmate da
uno scarabocchio
in inchiostro nero.
Gilbert fu colto dalla nausea.
Premendosi una mano sulla
bocca iniziò a correre più veloce che
poté nei corridoi dell’edificio. Si
scontrò con Ludwig davanti la libreria facendolo quasi
cadere. Probabilmente
gli urlò qualcosa dietro ma Gilbert era così
sconvolto da non prestare
attenzione a nulla. Uscì fuori dal dormitorio e
cominciò a correre senza meta
nella neve con solo indosso la camicia e il pantalone della divisa e un
paio di
pantofole.
Nell’ufficio ormai vuoto,
affianco alla sedia accasciata su
un fianco e abbandonata a sé stessa giaceva ancora il
comunicato del governo
che era arrivato quella stessa mattina:
Comunicato
di massima priorità.
Si comunica a suddetto campo di concentramento collocato in territorio
prussiano
sottoposto all’amministrazione e gestione di Gilbert
Beilschmidt dell’avvistamento
dell’Armata Rossa in territorio polacco dirigersi verso i
territori tedeschi.
Pertanto viene ordinato dall’onorevole Fuhrer a suddetto
campo di
concentramento collocato sulla traiettoria perseguita dal nemico di
occultare
ogni documento sensibile riguardo il governo e i progetti di produzione
bellica,
di procedere con la pulizia etnica eliminando ogni testimone e di
abbandonare
la postazione ripiegando nella capitale.
Data:
13 dicembre 1944
Note
dell'autore:
Salve a tutti :D
Eccomi qui a scusarmi nuovamente del ritardo della pubblicazione
-_-'
Purtroppo ho avuto importanti impegni nel real che mi hanno portato a
non poter scrivere con frequenza questo capitolo che insieme a quello
precedente sugli alleati ritengo chiave in questa ff.
Infatti possiamo ritenere il capitolo degli alleati come uno
spartiacque tra i primi capitoli che sono di presentazione dei
personaggi, del luogo, delle relazioni ecc. e il blocco di capitoli che
inizia con questo dove si affrontano temi più seri e
importanti nella storia. Spero che questo cambiamento non vi dispiaccia
perché... effettivamente questo è un campo di
concentramento non una colonia estiva x'D E per citare un film
recensito da Yotobi "E' finito il tempo delle mele P*****a!"
Le date non sono messe a caso ma sono calcolare, non preoccupatevi, non
ci sono errori cronologici x'D
Inoltre in questo capitolo c'è una fortissima citazione a
una fonte su cui mi sto basando moltissimo e che ritendo bellissima,
spero che riusciate ad individuarla!
Detto ciò... a presto :D E spero che questa volta sia
davvero presto x'D
|
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Capitolo 9 *** Il crollo ***
Ludwig fu
avvolto dall’aria gelida carica di fiocchi di neve
appena aprì la porta dell’edificio. Sulla neve
erano rimaste le impronte che il
fratello aveva lasciato correndo fuori senza alcun apparente motivo.
Ludwig si strofinò il braccio dove Gilbert lo aveva urtato
violentemente e
fatto quasi perdere l’equilibrio; non si era scusato
né si era fermato ad
aiutarlo, aveva semplicemente continuato a correre come un pazzo. Il
ragazzo
biondo non sapeva davvero cosa pensare, ma una cosa era certa, non
aveva mai
visto suo fratello in quello stato di agitazione.
Questo lo preoccupava.
Alzò
il bavero del cappotto con le mani guantate mentre seguiva le
orme del fratello tra i fiocchi di neve che cadevano incessantemente.
In realtà
Gilbert non si era allontanato molto e Ludwig lo trovò
appoggiato contro un
muro dietro un edificio vuoto.
Era davvero in pessime condizioni.
L’albino
aveva smosso tutta la neve intorno a sé come se fosse
caduto nel punto in cui Ludwig lo aveva trovato e si poggiava al muro
con le
mani mentre vomitava.
Ludwig distolse lo sguardo disgustato per non vedere la cena che
avevano
assaporato qualche ora prima rigettata tra la neve e si
schiarì la voce per
farsi notare dal fratello.
“Hai…
hai mangiato qualcosa che ti ha fatto male?” Chiese
prudentemente.
Gilbert
ebbe un altro conato di vomito, poi tossì pesantemente e
cercò di raddrizzarsi pulendosi la bocca con una manica. Il
gesto disgustò
ancor di più il ragazzo che sentì il suo stomaco
rivoltarsi.
“No,
no… non è stato il cibo… non
è stato lui…”
Lo
sguardo del ragazzo dai capelli argentei era sgranato e lucido.
Ludwig riusciva a distinguere soltanto gli occhi e i capelli del volto
del
fratello in quanto si confondeva alla neve tant’era pallido.
Gilbert sosteneva che non era stato il cibo, ma allora cosa aveva
potuto ridurre
così un uomo dal carattere forte, arrogante ed esuberante
come il suo?
Ludwig
rimuginò sulla questione mentre guardava dubbioso il
fratello cercare di ricomporsi e fare qualche passo. Gilbert
però non si era
ancora del tutto ripreso dallo shock e barcollò pesantemente
sulle proprie
gambe finendo in ginocchio nella neve. Subito il fratello gli fu vicino
ad
assisterlo.
L’amministratore del campo tremava come una foglia al freddo
invernale e le sue
labbra cominciavano a perdere colore. Ludwig cercò di
rimetterlo in piedi ed
aiutarlo a camminare fino alla sua stanza.
“Cos’è
successo Gilbert? Non ti ho mai visto così prima
d’ora!”
Disse cercando di camuffare il tono preoccupato della sua voce senza
riuscirci
bene. Era vero che non lo sopportava, ma era pur sempre suo fratello
maggiore, era
stato cresciuto da lui e gli era stato accanto nel bene e nel male.
Ludwig non
poteva dire di provare soltanto sentimenti negativi nei suoi confronti.
“Una
catastrofe…” Rispose con voce alterata
l’albino.
I piedi
sprofondavano nella neve ormai alta quasi trenta
centimetri come coltelli nel burro. Ludwig era rimasto senza parole nel
sentire
la risposta del fratello e sentì la sua preoccupazione
aumentare. Rimase in
silenzio per tutto il tragitto finché non arrivarono alla
porta dell’edificio
delle guardie. Una volta entrati il suo sguardo si posò
sulla libreria nel
corridoio dove Gilbert lo aveva mandato quasi a gambe
all’aria e gli venne
un’intuizione.
Le lettere.
Deglutì nervosamente iniziando a temere la notizia che aveva
ridotto suo
fratello così.
Lentamente
la tensione nel corpo di Gilbert lasciò il posto alla
debolezza e al languore. Cercò di camminare da solo e non
appoggiarsi a suo
fratello ma le sue gambe non rispondevano bene ai suoi comandi.
Quando Ludwig stava per imboccare le scale che portavano alle camere
private
delle varie guardie Gilbert lo fermò e gli indicò
invece la porta del suo
studio.
Ludwig capì al volo che la questione era così
urgente da dover essere discussa
immediatamente.
Una volta
dentro l’ufficio Ludwig rimase interdetto dal disordine.
In realtà non era una stanza disordinata ma semplicemente
non sembrava
l’ufficio del perfetto Gilbert che aveva la mania di ordinare
e pulire ogni
singolo centimetro quadrato. La sedia della scrivania giaceva
dimenticata su un
fianco sul pavimento mentre la stufa a legna che riscaldava la stanza
era ormai
quasi spenta. Sulla scrivania diverse lettere erano accatastate in un
angolo
mentre un foglio spiegazzato e la sua busta da lettere occupavano il
centro del
mobile.
Alla vista della lettera sulla scrivania Gilbert aggrottò le
sopracciglia, ma
non disse nulla.
Velocemente
il ragazzo si staccò dal fratello e andò alla
scrivania dove prese il foglio abusato.
Anche se la tensione era svanita lasciando il posto alla debolezza
fisica la
mente di Gilbert era un caos totale. Non riusciva a pensare a qualcosa
di
coerente, non riusciva a trovare una soluzione o almeno a far chiarezza
sulla
vicenda per cercare di organizzare un piano alternativo.
L’unica cosa che riusciva a pensare era che volevano
ammazzare Matthew.
“Questa
è una lettera arrivata direttamente dal governo
tedesco”
Disse con voce tremante. Ludwig si avvicinò alla scrivania
concentrandosi sul
fratello e sulla lettera.
Gilbert
si prese qualche istante per cercare di riordinare le
idee. Ludwig doveva assolutamente sapere di quell’ordine, in
realtà tutti
dovevano saperlo per poter organizzare in modo rapido la ritirata nel
territorio sicuro. Ludwig inoltre sarebbe stato d’accordo con
lui sul non
abbandonare i prigionieri e fare in modo di salvarli in qualunque modo
anche se
questo avrebbe significato disobbedire a un ordine diretto dei loro
superiori.
Ma come avrebbe spiegato a suo fratello questo improvviso interesse per
persone
che pochi mesi prima reputava oggetti di scarso valore con cui poter
giocare
liberamente?
Gilbert non si sentiva ancora pronto ad ammettere il suo interesse nei
confronti di Matthew a qualcuno, soprattutto se quel qualcuno era suo
fratello,
una persona rigida che quasi non provava sentimenti.
Lo sguardo di ghiaccio del fratello
gli stava perforando il corpo mettendogli ansia e facendolo sentire
sotto
pressione. Infine iniziò a parlare senza riflettere.
“Il
governo ci informa che i russi stanno penetrando nel
territorio tedesco e che dobbiamo abbandonare il campo di
concentramento
immediatamente”
“Cosa?
I russi? Non è possibile, loro… No, non posso
crederci…””
Esclamò Ludwig perdendo la sua tipica compostezza.
Quella era una notizia sconvolgente. Nessuno si sarebbe aspettato un
contrattacco dei russi nel cuore del territorio tedesco. Questo
significava che
avevano i minuti contati, che dovevano lasciare immediatamente quei
luoghi
perché se fossero stati trovati dall’Armata Rossa
sarebbero stati con ogni
probabilità fucilati a vista.
Ma questo significava anche altri moltissimi problemi collaterali.
Ludwig sentì una scossa di puro terrore percorrergli tutta
la colonna
vertebrale.
“E
i prigionieri? Cosa ne facciamo dei prigionieri?”
Gilbert
si aspettava quella domanda ma non aveva una risposta da
dare. Non sapeva davvero cosa fare, era una situazione molto delicata,
molto
ostica e così improvvisa...
Inoltre in quel momento non poteva certo definirsi lucido.
“Loro
non possono rimanere qui, loro… loro verranno sicuramente
uccisi. I russi non hanno pietà di nessuno”
Gilbert
notò con stupore che suo fratello si stava agitando.
L’uomo dall’aspetto puramente ariano che aveva
sempre controllato in modo
impeccabile le sue emozioni si stava sgretolando velocemente davanti i
suoi
occhi lasciando il posto all’incertezza e alla paura.
Gilbert non sapeva spiegarselo. Forse Ludwig aveva paura
dell’arrivo
dell’Armata Rossa e di tutto quello che ne sarebbe
conseguito, forse non voleva
rischiare di essere ucciso o di diventare prigioniero dei russi.
Quest’idea
però era del tutto sbagliata perché Ludwig non
aveva mai mostrato di temere il
fronte o qualsiasi scontro con il nemico, di qualunque genere.
Allora cos’era che stava spaventando così tanto
suo fratello?
L’albino
guardò il fratello negli occhi. Il suo sguardo era
sgranato e terrorizzato, con un alone di ansia e apprensione che
offuscava quel
bel azzurro ghiaccio. A Gilbert ricordò il suo sguardo
quando lo intravide nel
riflesso del legno della sua scrivania nel momento in cui aveva appena
letto la
lettera.
Un’intuizione lo colpì come un fulmine e quasi lo
lasciò senza fiato.
L’italiano.
Non poteva crederci. Era semplicemente ridicolo. Tutta quella faccenda
era
ridicola.
“Dobbiamo
fare qualcosa Gilbert, non possiamo abbandonarli qui. Li
condanneremo a morte certa! Loro devono essere aiutati, non ce la
faranno da
soli, non hanno cibo a sufficienza, non sanno nemmeno dove andare e
sono fisicamente
deboli. Lo so che sono soltanto dei prigionieri, però io non
posso abbandonarlo…!”
Ludwig
interruppe di colpo la sua filippica sconvolto. Rimase a
bocca aperta a fissare suo fratello con uno sguardo colpevole.
Gilbert rimase in silenzio per un istante a squadrare il volto del
fratello.
Non aveva mai visto Ludwig appassionarsi così tanto per
qualcosa, in realtà non
aveva mai visto il fratello esprimere alcun tipo di sentimento che non
fosse
rabbia o fastidio. Eppure quel lapsus aveva confermato le sue ipotesi e
smascherato i suoi veri sentimenti.
L’albino sentì un forte sentimento di simpatia
diffondersi nel petto. Ludwig
era il suo fratellino e il compito di ogni fratello maggiore era quello
di
proteggere il proprio fratellino e renderlo felice. Inoltre sembrava
che
entrambi tenessero a determinate persone che volevano assolutamente
proteggere.
Piegando
il foglio su sé stesso Gilbert riacquistò in
parte la sua
tipica sicurezza sfrontata e guardò il fratello dritto negli
occhi con uno
sguardo serio.
“Loro
verranno con noi. L’ordine è di sgomberare il
campo di tutti
i documenti compromettenti e di tutti i prigionieri prima che arrivino
i russi.
Non so che fine faranno i prigionieri una volta arrivati in Germania,
ma
comunque non verranno abbandonati qui”
Ecco, era
fatta.
Insubordinazione e alto tradimento.
Era nei guai fino al collo.
Ma vedere il volto di suo fratello rilassarsi dal sollievo valeva tutto
questo.
Secondo
la più grande menzogna che avesse mai detto nella sua vita
i prigionieri avrebbero lasciato il campo con loro. Questo significava
organizzare una grande deportazione di massa dal campo prussiano, dove
si
trovavano, ai territori tedeschi cercando di risparmiare tempo, di
trovare le
vettovaglie per la maggior parte di loro e di sperare che i fisici
debilitati
di quelle povere anime reggessero lo sforzo di quell’esodo.
Sembrava impossibile ma dovevano farlo, solo così si
sarebbero potuti salvare
tutti.
Ludwig,
ormai ritornato il ragazzo stoico di sempre, annuì con uno
sguardo serio.
“Come ci organizzeremo? Stando alla lettera non sappiamo dove
sono i russi ed è
possibile che abbiamo poco tempo ormai”
Gilbert
annuì a sua volta pensieroso.
“Domani raduneremo tutte le guardie del campo e prepareremo
le squadre d’azione
per organizzare la partenza sia di guardie che di prigionieri. Dobbiamo
assolutamente recuperare più cibo possibile e dobbiamo
eliminare tutte le prove
della permanenza dei prigionieri qui”
Piegò
ulteriormente la lettera, poi si girò a sistemare la sedia e
le lettere che erano state ignorate fino a quel momento.
“La
lettera mi ha colto davvero di sorpresa, sto ancora cercando
di elaborare il suo contenuto”
In effetti era vero, ancora non si capacitava che una cosa simile
stesse
accadendo proprio in quel momento e proprio a lui.
Ludwig non rispose e per alcuni istanti l’unico rumore nella
stanza era il
vento carico di neve che ululava fuori dalla finestra chiusa.
Gilbert era assorto nel riordinare le carte già ordinate
della sua scrivania.
Non sapeva più cosa dire al fratello per non cadere in
trappola e smascherare
la sua bugia e stava sperando con tutto il suo cuore che lo lasciasse
solo.
Infine Ludwig sospirò e si passò la mano tra i
capelli biondi.
“Dicono
che la notte porti consiglio. Credo che il riposo ci
aiuterà a trovare delle soluzioni a questo problema.
Buonanotte Gilbert” E
senza aggiungere altro o aspettare la risposta del fratello
lasciò la stanza
chiudendosi alle spalle la porta.
Appena
rimasto solo Gilbert agguantò con forza il pezzo di carta
piegato e alzandosi si avvicinò alla stufa quasi spenta.
Doveva assolutamente
disfarsi di quella lettera, non poteva rischiare di essere scoperto
dalle altre
guardie, lo avrebbero additato come traditore e ucciso sul momento.
Prendendo
un attizzatoio dal gancio, aprì lo sportello della stufa e
attizzando i carboni
ormai quasi morti buttò la lettera tra di loro.
Osservò
il fuoco mangiare la carta fino a quando non ne rimase che
cenere. Gilbert non sapeva spiegarsi il perché ma sentiva
che il fuoco non
aveva bruciato soltanto quel maledetto pezzo di carta ma anche una
parte di sé
stesso.
Imputò quella sciocca sensazione alla stanchezza.
La
mattina dopo Ludwig si trovava affianco a suo fratello davanti
la schiera di guardie ordinata in file perfette. Lui e Gilbert erano
saliti su
un piccolo palchetto che si trovava nello spiazzale principale del
campo dove
di solito venivano comunicate le notizie più importanti,
come in quel giorno.
Ludwig si sentì tutti gli occhi puntati addosso
finché il fratello non cominciò
a parlare a gran voce al pubblico.
“Signori,
stamattina vi ho convocato qui prima dei lavori
quotidiani per una comunicazione urgente e di vitale
importanza” Fece una pausa
d’effetto lasciando che il suo sguardo vagasse su tutti i
soldati che in
silenzio ascoltavano le sue parole “Con l’ultimo
approvvigionamento è arrivata
una comunicazione firmata dal portavoce del Fuhrer”
Si
alzò un leggero mormorio. I soldati cominciarono a
scambiarsi
parole a bassa voce guardandosi gli uni con gli altri con apprensione.
Le
comunicazioni che arrivavano direttamente dal portavoce del Fuhrer non
erano
mai un buon segno e spesso non portavano buone notizie.
Ludwig guardò Gilbert che con un gesto azzittì il
mormorio. Era sempre stato
una persona carismatica, che riusciva ad essere al centro
dell’attenzione con
grande abilità e non voleva perdersi la
possibilità di poterlo osservare da
vicino. Non lo avrebbe mai ammesso, ma ammirava alcuni aspetti di suo
fratello.
“La
lettera comunica l’avvistamento dell’armata russa
in
territorio polacco” Si levò un forte brusio che
Gilbert tentò di calmare con un
altro gesto “Silenzio! L’armata russa sta marciando
verso di noi. Non possiamo
più rimanere qui, dobbiamo sgomberare il campo
immediatamente!”
Il brusio
divenne in poco tempo un vociare confuso. Le guardie
persero la loro disciplina e iniziarono a esclamare, parlare, urlare
tutte
insieme verso Gilbert e verso gli altri.
Gilbert si aspettava una reazione simile, lui stesso ne aveva avuta una
ancora
più forte. Forse anche tra di loro c’era qualcuno
che si era affezionato a
qualche prigioniero e non voleva accettare questa situazione, ma
Gilbert era
contento di poterlo rassicurare con lei sue prossime parole.
Prese un profondo respiro che attirò l’attenzione
di Ludwig, che nel mentre si
era girato ad osservare la confusione generale delle guardie, e
prendendo
coraggio per quello che avrebbe dovuto dire, continuò il
discorso.
“Silenzio!
Abbiamo poco tempo e non possiamo sprecarlo così!
Abbiamo l’ordine di eliminare ogni prova di produzione
bellica e di presenza
sia nostra sia dei prigionieri. Ogni documento e oggetto
dev’essere distrutto.
Inoltre ci è stato chiesto di trasferire i prigionieri nel
territorio tedesco
in vista di un nuovo smistamento nei campi di concentramento”
Ecco, era
fatta.
Le guardie cercarono di ricomporsi e di ascoltare tutti i dettagli
dell’organizzazione dei giorni rimanenti prima della
partenza. Ludwig aveva
avuto ragione, la notte aveva portato consiglio.
Le guardie furono assegnate a dei gruppi di lavoro composti dai
prigionieri di
ogni dormitorio. Il loro compito era di sorvegliarli e guidarli nei
vari lavori
che gli sarebbero stati affidati. Un gruppo di lavoro avrebbe procurato
le
vettovaglie sia dalle rimanenze in cucina sia dai campi circostanti; un
altro
avrebbe smantellato tutti i dormitori bruciando tutti i loro contenuti;
un
altro ancora si sarebbe occupato delle fabbriche mentre un quarto
avrebbe
cercato di recuperare tutti i mezzi di trasporto disponibili nel campo
cercando
di aggiustare quelli fuori uso (quasi impossibile ma bisognava
provare).
Il medico del campo aveva il compito di rendere i malati in grado di
affrontare
il viaggio sui veicoli e sulle barelle. Nessun prigioniero sarebbe
stato ucciso
o lasciato indietro.
Quella
notizia portò non poca confusione tra le guardie.
In tutto il trambusto che si era creato con quel discorso soltanto
Roderich non
aveva dato alcun segno di stupore o di panico. Si limitò ad
osservare
insistentemente Gilbert in silenzio e con un’espressione
indecifrabile.
Dopo aver
smistato le varie guardie ai loro nuovi gruppi Gilbert
annunciò la fine della riunione e inviò le
guardie a lavoro. Scendendo dal
palco, Ludwig vide dei piccoli fiocchi di neve scendere dal cielo
nuvoloso.
“Ancora
neve? Accidenti quest’anno ha nevicato più del
solito!”
Esclamò l’albino affondando gli stivali nella neve.
Ludwig guardò i tetti degli edifici carichi della soffice
sostanza bianca con
preoccupazione.
“Spero
solo che non diventi un problema per la nostra partenza”
Pensò mentre seguiva il fratello.
Feliks si
svegliò di scatto con il cuore in gola. Non aveva
sentito nessun urlo in tedesco e questo lo preoccupava. Temendo di
essere
rimasto addormentato nonostante la sveglia delle guardie, si
precipitò fuori la
cuccetta per mettersi le scarpe temendo una punizione da Gilbert,
svegliando in
malo modo il suo compagno di cuccetta. Solo dopo essersi messo le
scarpe si
accorse che i prigionieri erano ancora tutti nelle loro cuccette,
alcuni svegli
a guardarsi intorno con uno sguardo confuso come il suo, altri come
Feliciano
che dormivano ancora beatamente.
Feliks si
avvicinò alla cuccetta di Francis che intanto si era
messo a sedere.
“Cosa
succede?”
“Non
saprei dirtelo, oggi i nostri secondini sono in ritardo!”
“Forse
oggi non si lavora?” Chiese Toris raggiungendoli.
“Ma
non dire stupidaggini, Toris! Però non è normale
che non sono
ancora venuti a svegliarci” Rispose Feliks pensieroso.
Mentre
discutevano a bassa voce di quanto fosse strana quella
situazione improvvisamente la porta del dormitorio fu aperta lasciando
entrare
un forte vento carico di fiocchi di neve che fece rabbrividire tutti.
“Fuori
feccia maledetta!”
Feliks e
Francis si scambiarono uno sguardo confuso. Le guardie
erano infine arrivate a chiamarli per il lavoro, ma non erano
né Ludwig né quel
demonio di Gilbert. Era invece una guardia quasi sconosciuta che
avevano visto
sporadicamente in giro o durante le grandi riunioni del campo.
Molto strano.
Velocemente
i prigionieri si sistemarono e uscirono nel freddo
invernale. Molti si stringevano le braccia al corpo per cercare di
scaldarsi
senza molto risultato. Francis rimase indietro come sempre per cercare
di
svegliare Feliciano, che incredibilmente quel giorno si alzò
quasi subito.
Una volta
fuori la guardia li fece mettere in fila e iniziò a
parlare. Gli fu spiegato che da lì a poco avrebbero dovuto
lasciare il campo
senza alcuna motivazione valida e che i dormitori erano stati assegnati
a nuovi
lavori speciali. Il dormitorio H3T4 era stato assegnato alla raccolta
di tutto
ciò che era commestibile nei campi adiacenti al perimetro
del campo di
concentramento.
A quelle
parole Feliks ebbe un brivido lungo tutta la schiena e
sbiancò visibilmente. Aveva sentito molte storie riguardo i
finti viaggi che i
prigionieri erano costretti a fare. Viaggi che in realtà
erano soltanto
biglietti diretti per le camere a gas.
Quei bastardi volevano farli tutti fuori.
Si
girò cercando con lo sguardo Francis, uno dei pochi che
poteva
sapere una cosa del genere essendo un veterano come lui. Anche il
francese era
sbiancato visibilmente ma cercava di camuffare il suo panico con un
atteggiamento più spontaneo possibile. Feliks
invidiò il suo sangue freddo, lui
se la stava facendo letteralmente sotto.
Dopo aver
finito il suo sermone la guardia, armata di manganello,
li costrinse a marciare verso l’uscita secondaria del
perimetro recintato per
raggiungere i campi ormai sepolti dalla neve e dal ghiaccio.
Feliks sospirò sconsolato. Non gli avevano dato nemmeno una
zappa, un forcone o
un bastone per smuovere la neve e la terra, avrebbero dovuto scavare a
mani
nude per fare un buco nell’acqua.
Cosa poteva mai crescere sotto trenta centimetri di neve?
Ludwig
alitò sulle mani sfregandole velocemente. Quella notte era
veramente gelida e il soldato biondo non vedeva l’ora di
entrare nella sua
stanza dove una stufa scoppiettante lo stava aspettando per
riscaldarlo. Si
rimise in fretta i guanti neri della divisa cercando di non disperdere
tutto il
calore.
Maledetto posto dimenticato da Dio.
Ludwig
camminava a grandi falciate nella coltre di neve altissima.
Nell’organizzazione dei nuovi gruppi di lavoro era stato
assegnato al gruppo
che si occupava del recupero dei veicoli e aveva passato tutto il
giorno a
controllare e a volte anche aiutare i prigionieri di un dormitorio a
smontare e
rimontare vecchie ferraglie a quattro ruote. Ludwig si sentiva ancora
l’odore
nauseabondo addosso di grasso e olio per macchina.
“Spero
davvero che ci sia ancora dell’acqua calda per farsi una
doccia”
Piccoli
fiocchi di neve si posavano sulle spalle e sul cappello
del ragazzo mentre cercava di proteggersi dal fortissimo vento che gli
bruciava
la pelle e gli occhi. Intorno agli edifici era buio pesto e
c’erano pochissime
luci che sporgendo dai muri illuminavano oscillando pericolosamente al
vento
piccole sezioni di strada.
Nell’aria c’era un’atmosfera quasi
lugubre e Ludwig sentì nascere dentro di sé
un’ondata di ansia.
Lasciò
la strada principale del campo per raggiungere gli alloggi
delle guardie, ma appena imboccò il vicolo si
fermò sul posto. Vicino la
recinzione, sotto una lampada che ondeggiava al vento c’era
una figura nera
immobile.
A Ludwig vennero in mente tutti quei racconti paurosi che il suo
stupido
fratello gli raccontava da piccolo quelle sere in cui i genitori non
c’erano
per spaventarlo e costringerlo a notti insonni e a chiedere di dormire
con lui.
Sentì un brivido lungo il corpo e l’adrenalina
aumentare spaventosamente.
Chi era? Cosa stava facendo lì a quell’ora della
sera?
Poi
improvvisamente sentì una voce melodiosa che a tratti
arrivava
alle sue orecchie trasportata dal vento. Quella voce cantava una
melodia molto
lenta che suscitava tristezza e angoscia.
Ludwig percepì soltanto due o tre parole, ma non ebbe dubbi
a riguardo.
Una canzone italiana.
Si
avvicinò lentamente al ragazzo cercando di essere
più discreto
possibile ma la neve scricchiolava rumorosamente sotto i suoi stivali
di pelle.
Quando si avvicinò abbastanza per distinguere i dettagli
della figura Feliciano
smise di cantare, ma non si girò per guardarlo. Se ne stava
immobile a guardare
l’oscurità oltre la recinsione aspettando che il
ragazzo lo raggiungesse.
“Cosa
ci fai qui?” Chiese Ludwig più dolcemente
possibile, ma le
sue parole uscirono così dure che nemmeno il vento
riuscì a smorzare.
Feliciano
non rispose subito. Nuvolette calde volavano via dal suo
volto e Ludwig notò con dispiacere che il suo corpo magro e
provato tremava
come una foglia per il freddo.
“Ve,
s-sto cantando…”
“Ho
sentito, una bella canzone. Però non dovresti essere qui a
quest’ora,
c’è il coprifuoco. E poi fa freddo, potresti
ammalarti seriamente se rimani qui
fuori con solo quei panni addosso” Ludwig arrossì
leggermente “Vieni con me, ti
accompagno al tuo dormitorio”
“Aspetta…
volevo almeno finire la canzone”
Ludwig
rimase interdetto a quelle parole. Feliciano stava seriamente
rischiando di prendere una polmonite o qualcosa di peggio soltanto per
cantare
all’aperto?
Il ragazzo bruno tirò su con il naso, poi finalmente si
girò a guardarlo.
“Sto
dicendo addio a mio fratello” Disse mentre le lacrime gli
rigavano il volto bruciato dal freddo.
Ludwig
rimase a bocca aperta tant’era sconvolto. Gli occhi di
Feliciano
erano rossi e gonfi di lacrime e le sue labbra di un colore bluastro.
Il suo
naso era rosso e colava mentre le sue guance erano graffiate dal vento.
Ludwig
non sapeva cosa fare, Feliciano stava piangendo davanti a lui.
L’italiano
tirò nuovamente su con il naso e si asciugò le
guance
bagnate con il dorso della mano.
“Stamattina… ci hanno detto che dobbiamo fare un
viaggio, non si sa dove… ve,
ma noi sappiamo dove… tutti lo sanno…”
Ludwig
non riusciva a capire di cosa stesse parlando. Quella
mattina Gilbert era stato così chiaro riguardo
all’ordinanza, nessuno sarebbe
stato lasciato indietro oppure ucciso. Ma allora perché
Feliciano stava
piangendo e agendo in modo così strano?
“Ve,
voi… voi volete mandarci nelle camere a gas, vero?
E’ per
questo che ci sono tutti questi preparativi, volete ucciderci”
“C-cosa?”
Riuscì a dire la guardia sgomenta. Cosa diavolo stava
farneticando quell’italiano così tutt’un
tratto?
Ludwig stentava quasi a riconoscerlo. Feliciano era stato sempre una
persona
molto allegra e spensierata, sbadata e anche piagnucolona, si, ma non
aveva mai
mostrato quell’atteggiamento prima d’ora.
“Voglio
dare a mio fratello, ovunque egli sia, il mio ultimo
saluto… perché lo so, in un modo o
nell’altro non uscirò vivo da qui!”
Feliciano mantenne il suo sguardo fisso in quello del biondo nonostante
i suoi
occhi si riempivano nuovamente di lacrime e il suo corpo veniva scosso
dai
singhiozzi.
Ludwig
scosse la testa a quelle parole. Si rifiutò di accettare la
visione di Feliciano sconvolto dal pianto.
Questo era troppo.
Con pochi passi accorciò la distanza che li separavano e
avvolse il fragile
corpo del prigioniero in uno stretto abbraccio. Feliciano
sgranò gli occhi per
la sorpresa mentre il suo volto affondava nella spalla del soldato.
Ludwig lo strinse forte a sé senza dire nulla per alcuni
interminabili istanti in
cui il suo cuore minacciava di uscire dal suo petto, poi
sospirò lentamente e
strinse ancor di più il ragazzo a sé.
“Non
dire stronzate, Feliciano. Non permetterò che ti uccidano,
non permetterò nemmeno che ti tocchino. Farò
tutto il possibile per proteggerti.
Tu rivedrai tuo fratello” E velocemente gli spiegò
dell’ordinanza ricevuta la
sera prima.
Nella sua
mente un crogiolo di voci urlavano contemporaneamente.
Alcune lo accusavano di essere diventato pazzo, di agire senza pensare,
di compiere
la più grande sciocchezza che potesse mai fare, altre invece
urlavano disperate
temendo le conseguenze di quel gesto. Una su tutte però
faceva valere il suo
suono riuscendo a coprire tutte le altre.
Era la voce che urlava il sentimento che provava per Feliciano.
L’italiano
non rispose. Rimase immobile nelle braccia ben allenate
del biondo per alcuni istanti, poi fece per allontanarsi quel tanto che
bastava
per poterlo guardare negli occhi. I suoi occhi erano ancora grandi,
acquosi e
rossi per il pianto, ma i suoi lineamenti si erano ammorbiditi e un
piccolo
sorriso iniziava a nascere sul suo volto. Ludwig rimase incantato da
quello
sguardo così dolce, notando anche come le guance cotte dal
freddo iniziavano a colorirsi
per altri motivi.
Infine l’italiano sorrise:
“Ve…
sei così caldo”
Ludwig si
chinò verso il ragazzo. Le sue labbra incontrarono
quelle fredde e livide del ragazzo e per pochi istanti che sembrarono
un’eternità
i due si scambiarono un casto bacio.
Quando Ludwig si allontanò l’imbarazzo fu
così grande che distolse lo sguardo
arrossendo vistosamente.
“S-scusami,
io non volevo, io…”
“Ve!
Non scusarti, in realtà… mi piaci dalla prima
volta che ti ho
visto alla stazione”
Ludwig
tornò a guardare Feliciano incredulo. L’italiano
aveva un
sorriso genuino sul volto e lo guardava dolcemente. Ludwig era
sconcertato
dalla schiettezza del ragazzo. Aveva sentito parlare della totale
assenza di
pudore e di vergogna degli italiani, ma non credeva che ciò
arrivasse a tanto.
Nonostante ciò non poté fare a meno di sorridere.
“Una
guardia e un prigioniero che si innamorano… non ti sembra
comica come cosa?
“Si,
si lo è” Rispose Ludwig sorridendo amaramente.
“Mi
basta sapere i tuoi sentimenti. Sapevo fin dall’inizio che
era
impossibile come cosa, ma… ve, mi basta sapere che i miei
sentimenti sono
corrisposti!”
Ludwig
appoggiò la fronte su quella di Feliciano.
“Si,
lo sono… ma non possiamo…”
“Ve,
so anche questo, non sono stupido-“
Improvvisamente
Feliciano starnutì violentemente. Il suo corpo
tremava come una foglia tra le braccia del biondo. Ludwig
scompigliò i suoi
capelli bruni con la sua mano guantata.
“Avanti,
andiamo al tuo dormitorio prima che ti ammali sul serio”
“No
aspetta!” Feliciano tirò la mano di Ludwig quando
questo fece
per allontanarsi “Posso… posso avere altri di quei
baci?”
“Adesso?”
“Anche
domani, o il giorno dopo. Ve, io vorrei poterti stare sempre
vicino, e ora che so quello che provi lo vorrei ancora di
più!”
Ludwig
rimase a pensare per qualche istante, poi sorrise al ragazzo
bruno.
“Vediamoci
domani sera in questo stesso posto. Cerca di non farti vedere
da nessuno. Va bene?”
Feliciano
lo raggiunse e, in punta di piedi, gli diede un piccolo
bacio sulle labbra.
“Si”
Ludwig si
sentiva agitatissimo. Aveva appena baciato e confessato
i suoi sentimenti a un prigioniero e invece di sentirsi sbagliato si
sentiva
incredibilmente bene. Sperava davvero di poter iniziare una relazione
con
Feliciano, anche se clandestina, e segretamente sperava anche di
imparare
presto a baciare e a fare altre cose che aveva letto in alcuni libri
ormai
censurati. Ma soprattutto sperava di poter riscattare la
libertà di Feliciano
una volta che avrebbero raggiunto la Germania.
Ma per ora doveva riportarlo al suo dormitorio.
Quella
notte Toris si svegliò di soprassalto in preda ai sudori
freddi. Cercando di calmare il battito accelerato del suo cuore si
sedette e
iniziò a respirare lentamente cercando di non pensare
all’ennesimo incubo che
aveva appena sognato. La storia delle camere a gas lo aveva turbato
moltissimo,
ma si sentiva più tranquillo dopo aver parlato con
Feliciano. Il ragazzo
sembrava incredibilmente sicuro che i loro secondini non stessero
tramando per
la loro morte.
La luce
della luna penetrava debolmente dalle finestre ostacolata
dalle nuvole sospinte dal forte vento invernale, lasciando
l’interno
dell’edificio quasi al buio totale.
Da fuori arrivava il parlottare di due persone. A Toris sembrarono la
voce dal
forte accento tedesco della guardia di turno e la soave voce francese
di
Francis.
Affianco a sé sentì il corpo di Feliks agitarsi.
“Toris!
Toris, stai bene?” Sussurrò il polacco.
“Si…
scusami se ti ho svegliato… di nuovo”
Feliks si
girò sulla schiena e poco dopo si mise a sedere
lanciando un sorriso al suo compagno di cuccetta.
“Non
preoccuparti, in realtà non riuscivo a dormire nemmeno io.
Sono preoccupato per questa storia della partenza. Le chiacchiere di
Feliciano
non mi hanno convinto!”
Feliks
iniziò a parlare senza sosta delle sue sensazioni e dei
suoi pensieri riguardo la notizia che avevano ricevuto quella mattinata
e
riguardo la fatica che aveva provato nel lavorare nei campi innevati,
lamentandosi per le mani rovinate dal freddo e per il poco cibo che
avevano
trovato. Toris ascoltò pazientemente la sua filippica
abbozzando un tenero
sorriso, poi quando Feliks finalmente finì sorrise
dolcemente.
“Grazie
Feliks”
“Di
niente! Ma per che cosa?”
“Grazie
a te ho dimenticato l’incubo che mi ha svegliato. Sono
contento che siamo compagni di cuccetta!”
Feliks
rimase senza parole. Abbozzò un sorriso al suo compagno,
poi lo abbracciò.
“Sai,
ho sempre voluto avere un fratello, invece sono figlio
unico. Quando penso a un ipotetico fratello però lo immagino
sempre uguale a
te!”
Toris
ricambiò l’abbraccio con forza mentre gli occhi
gli si
riempivano di lacrime.
“Grazie
Feliks, grazie di starmi vicino. Senza di te probabilmente
sarei già morto!”
“E’
probabile. Non preoccuparti Toris, noi sopravvivremo”
Toris
stava per rispondere che si, sarebbero sopravvissuti e che
quando sarebbero tornati a casa avrebbe invitato Feliks a cena da lui
quando un
forte rumore rimbombò in tutto il dormitorio seguito dal
buio più totale.
L’ultima cosa che Toris percepì fu le urla
terrorizzate dei prigionieri nelle
altre cuccette.
Gilbert
si alzò di scatto nel letto svegliato da un rumore
assordante e dalle urla varie che ne seguirono. Quella mattina aveva
deciso di
formare dei gruppi di sentinelle che sarebbero stati di guardia sulle
torri del
perimetro del campo e lui aveva finito da poche ore il suo turno. Era
completamente stremato e assonnato, ma nonostante ciò le
urla continuarono
confermandogli che non si era trattato della sua immaginazione. Uscendo
lentamente da sotto le sue amatissime coperte e dal letto si
avvicinò strusciando
i piedi a terra alla finestra per vedere cosa diavolo stava succedendo
nel
cuore della notte nel suo campo di concentramento.
Appena vide l’enorme colonna di fumo che si alzava da dietro
i tetti dei
dormitori il suo cuore perse un battito e la sua mente si
svegliò immediatamente
perdendo tutto il suo torpore.
Velocemente
si mise addosso dei vestiti pesanti e corse fuori
dalla sua stanza e dal dormitorio delle guardie. Mentre correva vide
che altre
guardie e prigionieri si stavano accalcando nella stessa direzione.
Facendosi
largo tra tutta quella gente finalmente Gilbert riuscì ad
arrivare al punto di
origine del fumo.
Si pentì amaramente di averlo fatto.
Il
dormitorio H3T4 non esisteva più.
Al suo
posto vi era un cumulo di macerie e di neve. Gilbert si
sentiva come se la sua mente fosse stata divisa dal suo corpo in quanto
aveva
perso completamente la facoltà di muoversi.
Era
umanamente impossibile.
Dopo aver patito così tanto per colpa della lettera, dopo
aver mentito
spudoratamente sia a suo fratello sia a tutte le guardie del campo,
questo.
Era morto, era sicuramente morto. Tutti quelli che stavano in quel
capannone
erano sicuramente morti.
Mentre
era afflitto da quella bruciante verità il cerchio di
curiosi si divise per far passare Ludwig. Appena vide il disastro il
tedesco
biondo lanciò un urlo disperato e corse verso le macerie
iniziando a scavare a
mani nude tra la neve e a spostare travi e mattoni vari.
Gilbert sentì un blocco formarsi nella gola nel vedere
quant’era disperato suo
fratello.
Poco dopo fu affiancato da Francis che, buttando il secchio dei bisogni
lontano
e urlando nella sua lingua madre, si mise anche lui a smuovere la neve
e le
macerie.
Fu
tentato anche lui di affiancarli nello scavo quando Roderich lo
fermò afferrandolo per un braccio.
“Gilbert
dobbiamo iniziare la procedura d’emergenza”
Non era
una richiesta ma un ordine. In una situazione normale
Gilbert avrebbe subito sgridato la maleducazione di quello snob
austriaco e
punito con qualche lavoro extra, ma quella non era una situazione
normale. Un
dormitorio era letteralmente scomparso, crollato su sé
stesso per qualche
oscuro motivo, forse il suo amato canadese morto schiacciato dalle
macerie
insieme a tutti gli altri prigionieri, tra cui quell’idiota
italiano tanto caro
a suo fratellino.
“Si…
la… la procedura…” Balbettò
guardandolo in modo confuso.
Sentiva
il cuore martellargli nelle orecchie. Due eventi orribili
in così poco tempo, Gilbert sentiva che stava per morire di
crepacuore.
No, in quel momento lui non aveva la mente lucida per poter prendere
decisioni
tant’era sconvolto e inebetito dal dolore, ma sembrava che
Roderich la avesse.
Senza
aspettare alcun consenso si girò verso le guardie che si
erano mischiate tra i prigionieri nella folla di curiosi e
iniziò a urlare.
“Adottare
la procedura d’emergenza, grado A, muovetevi!!! Primo
gruppo radunate i prigionieri e fate rimuovere tutte le macerie. Gruppo
2
occupatevi dei sopravvissuti, ordinate in file i cadaveri nello
spiazzale.
Gruppo 3 sulle torri di guardia! Potrebbe essere stato un attacco dei
russi!”
A quelle
parole Gilbert si scosse profondamente.
I russi!
Se i russi erano già arrivati significava che non avevano
via di scampo.
Scuotendo la testa incredulo, Gilbert fece per correre verso le macerie
ma la
presa di Roderich si strinse ancor di più fermandolo.
“Gilbert,
conviene che vai sulle torri di guardia. Se veramente
sono arrivati i russi dovremo prendere decisioni velocemente. Devi
sapere in
tempo reale cosa sta succedendo per decidere come muoverci”
Gilbert
rimase scioccato dalla fredda lucidità della mente di
Roderich nonostante la catastrofe che si era appena consumata, e forse
nonostante la catastrofe che stava per arrivare. Guardò
velocemente il cumulo
di macerie ormai circondato dai prigionieri che spostavano pietre e
travi per
cercare dei sopravvissuti, o dei corpi. Vide delle guardie avvicinarsi
a Ludwig
e portarlo via con la forza.
Si girò nuovamente verso Roderich e si liberò
dalla sua presa.
“Hai
ragione” Si limitò a dire, poi si avviò
correndo verso la
torre di guardia situata a est del campo.
Lo
sguardo di Roderich lo accompagnò finché non si
rifugiò dietro
un muro. Una volta nascostosi rallentò la sua andatura e
cercò di riprendere
fiato e di recuperare la sua lucidità mentale, per quanto
era possibile.
“Dio
ti supplico, fa che non sia morto” Pensò mentre i
suoi occhi diventavano
lucidi.
Note dell'autore:
Ed ecco
il nuovo capitolo.
Purtroppo non ho potuto pubblicare prima perché ho avuto e
ho ancora molti impegni, anche e soprattutto universitari, che mi
stanno dannando l'anima.
Ma non preoccupatevi perché la storia è tutta
decisa, dev'essere soltanto resa su carta x'D
Sono consapevole che questo capitolo non è il massimo ma non
potevo fare di meglio a causa del poco tempo frazionato anche piuttosto
male (notare quando a che ora sono costretta a pubblicare xD), ma
nonostante ciò spero che vi piaccia comunque :)
Sono successe molte cose in questo capitolo e gli altri non saranno da
meno!!
Detto questo, a presto e Buone Feste :D
|
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Capitolo 10 *** L'inizio della fine ***
15 morti
e 7 feriti, di cui due lievi.
Era
questo il bilancio che fu riferito a Gilbert diverse ore dopo
il collo del dormitorio.
L’albino aveva passato tutto quel tempo cercando di
nascondere la forte
angoscia, che lo stava divorando dall’interno, scrutando
senza risultato
l’orizzonte insieme alle altre guardie di vedetta.
Nessun movimento sospetto, nessun avvistamento.
Niente che potesse far supporre la presenza dell’Armata Rossa.
Gilbert
però non si illuse e continuò a controllare i
confini con
le altre guardie, finché un prigioniero con il fiato grosso
per la corsa non lo
informò del numero dei morti e dei feriti e della causa del
crollo.
Gilbert rise incredulo quando seppe che il tetto della costruzione,
ormai
fatiscente da anni, aveva ceduto sotto il peso della neve che si era
accumulata
sui tetti per giorni interi, tirando giù anche i muri dalle
travi marcie.
Era incredibile quanto poteva essere maledettamente beffardo a volte il
destino!
Compreso
ormai che i russi non erano la causa della tragedia,
Gilbert lasciò pochi poveri malcapitati di guardia mentre
congedò le altre, lui
stesso si dileguò appena gli fu possibile.
Doveva assolutamente controllare tra i cadaveri allineati davanti le
macerie se
lui era tra quelli. Gilbert pregò varie volte Dio di non
dover provare lo
strazio di doverlo vedere sotto uno di quei stracci che coprivano i
vari corpi,
non sapeva davvero come avrebbe potuto reagire alla vista del suo
bellissimo
viso tumefatto dal crollo, o alla vista del suo corpo straziato.
Erano pensieri orribili che gli fecero sentire un morso allo stomaco.
Arrivato
nello spiazzale si fermò qualche istante a osservare il
luogo del crollo. I prigionieri, guidati dalle guardie, avevano fatto
tutto
sommato un buon lavoro. Le macerie erano state per la maggior parte
accantonate
affianco alla struttura distrutta, di cui rimanevano soltanto qualche
pezzo di
muro intatto e qualche trave spezzata. I detriti più grandi
erano rimasti lì
come una carcassa d’animale spolpata della carne. La scena
che si presentava
era meno impressionante del momento del crollo, ma Gilbert ammise che
fu una
fortuna che erano riusciti bene o male a trovare e disseppellire tutti
i
prigionieri rimasti là sotto.
Più morti che vivi purtroppo.
Questo lo
riportò al motivo principale per cui era qui.
Davanti le macerie erano stati allineati quindici corpi su due file
parallele.
I cadaveri erano stati coperti alla meglio con degli stracci, alcuni
riuscivano
a coprire soltanto il volto del malcapitato lasciando vedere
perfettamente lo
stato pietoso del resto del suo corpo, spesso sporco di sangue.
Gilbert sentì l’impulso di vomitare, ma
cercò di controllarsi e mantenere un
certo decoro davanti le guardie che stavano ancora controllando i
prigionieri,
che lavoravano sui detriti.
Velocemente
si avvicinò a una guarda che stava vicino ai cadaveri
e appuntava su un taccuino:
“Ehi
tu!”
“S-signore!!
Si, signore?” Rispose la guardia tremando
visibilmente. La maggior parte delle guardie aveva timore di Gilbert e
del suo
famigerato sadismo.
“Sono
venuto a controllare lo stato dei lavori. Avete riconosciuto
e appuntato i nomi dei morti?”
“N-no,
signore, stavo per cominciare”
“Bene,
allora non ti dispiacerà se assisterò,
vero?” Con un
sorriso porse la mano alla guardia e fece un gesto eloquente.
La guardia guardò prima l’albino, poi i cadaveri a
terra e infine il taccuino.
Realizzando cosa il suo superiore gli stava gentilmente suggerito, si
lasciò
sfuggire un gemito e consegnò il taccuino a Gilbert mentre
lui iniziò a
scoprire i volti dei cadaveri per il riconoscimento.
Gilbert
era compiaciuto dal fatto di aver trovato una buona scusa
per controllare i cadaveri senza destare sospetto.
Velocemente la sfortunata guardia scoprì il volto di ogni
vittima
pronunciandone il nome e cognome e il codice cucito
sull’avambraccio. Per quei
corpi con il volto così tumefatto da essere impossibile da
riconoscere, il
povero malcapitato gemeva il numero di riconoscimento respirando forte
dalla
bocca per non sentirsi male.
Più
il tempo passava, più corpi riconoscevano, più le
speranze di
Gilbert aumentavano. Finora non aveva fatto la tanto sofferta scoperta
né del
canadese né dell’italiano, anche se conosceva la
maggior parte di quei
prigionieri.
Con il cuore in gola finì di appuntare i numeri del
penultimo cadavere e
lentamente si avvicinò all’ultimo corpo coperto a
terra.
Gilbert sentì la gola stretta mentre si accorse che la
statura di quel corpo
era simile a quella di Matthew. La guardia aspettò che il
suo superiore si
avvicinasse abbastanza, poi afferrò il lembo di stoffa che
lo copriva fino ai
ginocchi.
Gilbert trattenne il fiato mentre il cuore gli pulsava nelle orecchie
tant’era
forte l’agitazione e l’ansia che stava provando in
quel momento.
Infine la
guardia sfilò la stoffa con un gesto rapido, rivelando
il volto del malcapitato.
Gilbert tremò.
Francis
si passò una mano tra i capelli sciolti mentre cambiava
posizione sulla sedia mezza rotta dell’infermeria. Stava
ancora cercando di
riprendersi dalla tragedia successa ore prima.
Nella sfortuna si sentiva incredibilmente fortunato:
l’edificio era crollato
proprio nel momento in cui lui era stato costretto dalla guardia di
turno a
svuotare il secchio dei bisogni.
Se questo era un segno del destino Francis lo aveva recepito benissimo.
Erano
già due anni che si trovava in quell’inferno, era
uno dei più longevi
prigionieri di tutto il campo, ed era scampato a morte certa sotto le
macerie
del proprio dormitorio…
“Mon
dieu, sono proprio un miracolato. Forse posso davvero
cominciare a sperare di rivedere Arthur!”
Ma quei
pensieri provocavano più dolore che gioia, quindi Francis
cercò subito di distrarsi da loro, concentrandosi invece sul
lettino logoro
dove dormiva profondamente Feliciano. Lui era stato uno dei pochissimi
a
salvarsi dal crollo.
Più o meno.
Era ancora vivo, questo era certo ed era anche molto, ma aveva
riportato brutte
ferite dal crollo. La sua gamba era rotta in più punti ed
era stata steccata
con due pezzi di legno. Aveva qualche costola inclinata a detta del
medico del
campo, ma sentendo le urla di dolore del povero italiano ogni qual
volta faceva
un movimento anche minimo, Francis sospettava che fossero rotte. La
testa era
stata fasciata, ma il francese non sapeva esattamente perché.
Tutto sommato era fortunato, ad altri era andata molto peggio.
Francis
avrebbe tanto voluto aiutare la squadra addetta alla
rimozione dei detriti per cercare in ogni modo possibile di salvare
quelle
povere anime sotto le macerie, ma era stato violentemente scacciato in
favore
dell’infermeria. Quando arrivarono i primi feriti Francis
cominciò ad avere una
speranza. Più gente arrivava più la sua speranza
cresceva.
Essa si fermò al numero sette.
Fortunatamente
tutti quelli che erano riusciti ad arrivare in
infermeria non erano in pericolo di vita. Feliks e Toris avevano
riportato
delle forti contusioni ma erano stati classificati come feriti lievi.
Anche
loro, come Francis, erano increduli di quanta fortuna avessero avuto.
Francis sospirò e strinse i pugni sul favolino nel pensare a
quelli che invece
non ce l’avevano fatta. Erano tutte brave persone, alcune con
un cuore d’oro,
tutte che speravano in un futuro migliore, magari tornare a casa dalla
propria
famiglia, chi invece emigrare in America per fare fortuna.
Quelle povere vite innocenti erano state spezzate così
bruscamente in un posto
simile e probabilmente sarebbero state gettate in fosse comuni come dei
normali
rifiuti.
Un gemito
lo distolse da questi pensieri facendolo girare verso i
lettini. Feliciano si era mosso nel sonno e il dolore era stato
così forte da
farlo gemere anche mentre dormiva. Il ragazzo castano
cominciò a mormorare
strane parole mentre si spostava ancora, parole che Francis riconobbe
come
italiane, tutte seguite da un piccolo sussurro: Lud.
Francis
sorrise mentre addolciva lo sguardo rivolto all’italiano,
che con un ultimo spostamento ricominciò a dormire
pesantemente. Dopo poche ore
dal disastro, quando il medico del campo ebbe finito di visitare tutti
i
pazienti lasciandoli in mano a Francis, nell’infermeria era
entrato Ludwig.
Francis avrebbe voluto salutare quel gran bel pezzo di tedesco con una
delle
sue battute ammiccanti e provocatorie, ma le parole gli morirono in
gola quando
vide lo stato pietoso di quel povero figliolo.
Apparentemente sembrava avere il suo solito aspetto, i capelli ben
ordinati, la
divisa pulita e ben stirata, ma se si provava a guardare il suo volto
era
impossibile non notare il suo pallore quasi cadaverico che metteva in
risalto
lo spesso rossore che cerchiava i suoi occhi chiari.
L’uomo
non disse nulla mentre si chiudeva la porta alle spalle. Si
avvicinò lentamente a Francis e guardò per un
attimo verso i lettini, poi
spostò il suo sguardo implorante e bagnato sul francese.
Francis sorrise e andò a sedersi sulla sedia
dov’era rimasto, apparentemente
concentrandosi su alcuni fogli appuntati, praticamente tenendo un
occhio e un
orecchio sulla stanza dei lettini.
Ludwig
rimase per molto tempo al capezzale dell’italiano. Dapprima
Feliciano non era cosciente, così Ludwig si
limitò ad accarezzargli il volto e
a tenergli la mano, poi quando riprese conoscenza i due parlarono per
molto
tempo. Francis lì colse molte volte a scambiarsi un bacio
fugace quando pensavano
di non essere visti da nessuno.
Era sinceramente felice per quel giovane italiano, ma era anche
stupefatto di
sapere che un prigioniero amava una guardia ed era ricambiato.
All’improvviso
la porta fu aperta violentemente e la figura
terrificante di Gilbert entrò nell’infermeria,
distogliendo il francese dai
suoi pensieri. Francis balzò subito in piedi spaventato
mentre l’uomo chiudeva
sgraziatamente la porta e si avvicinava a lui con pochi passi.
“Fuori”
Sibilò con uno sguardo furioso.
Francis sentì le gambe sciogliersi al pensiero di dover
fronteggiare quel
pazzo, ma non poteva lasciare i malati incustoditi, anche se era
Gilbert in
persona a chiederglielo.
“J-je
ne peux pas… i malati… non posso lasciarli
soli…” Rispose
con un filo di voce.
“Allora
nell’ufficio del medico”
“M-ma,
io non…”
Senza
battere ciglio, Gilbert estrasse velocemente la pistola in
dotazione a ogni guardia del campo. Francis impallidì
vistosamente.
Esattamente come Gilbert, anche quella pistola era leggendaria tra i
prigionieri. Si diceva che avesse ammazzato più lei che
tutti i fucili e le
pistole usati in questa inutile guerra.
Gilbert sorrise godendosi la reazione del biondino.
“Vedo
che la conosci. Sai anche che non ho problemi ad usarla.
Nell’ufficio. ORA!”
Francis
corse tra i lettini fino a raggiungere una porta sul fondo
dello stanzone, chiudendosela rumorosamente dietro una volta entrato.
Gilbert
lo seguì con lo sguardo annuendo e rinfoderando la sua
pistola.
Il trambusto e le
urla disturbarono
alcuni malati che si svegliarono insonnoliti. Quasi tutti si
riaddormentarono
velocemente, tutti tranne uno.
Gilbert lo individuò subito appena mise piede nella stanza.
Su secondo lettino a sinistra c’era Matthew.
Era vivo,
sia lodato il Signore, era vivo.
Gilbert voleva quasi piangere dalla gioia, ma le lacrime si sarebbero
trasformate ben presto in lacrime di dolore quando diede
un’occhiata più
attenta al ragazzo.
Matthew aveva un braccio fasciato e stretto al petto mentre le
fasciature sul
capo gli coprivano anche l’occhio sinistro. Il suo volto era
tutto graffiato e
abraso. Il paio di occhiali che Gilbert gli aveva regalato tempo prima
giaceva
su una sedia che fungeva da comodino. Una lente era scheggiata mentre
la
montatura il legno irrimediabilmente rotta.
Il
ragazzo girò lentamente la testa cercando di guardarsi
attorno
con l’occhio sano, ma Gilbert sapeva che in realtà
era cieco come una talpa e
non riusciva a vedere oltre il suo naso.
Spaventato dal trambusto e dal fatto che non riuscisse a vedere nulla,
Matthew
si mise a sedere sul letto mentre spostava il suo sguardo sulla sagoma
vicino
la porta della stanza.
“Francis?
Francis cosa succede?” Sussurrò con la sua voce
delicata.
A Gilbert
gli si strinse il cuore, e contemporaneamente gli si
spense il cervello.
Con pochi lunghi passi fu vicino il lettino e in un attimo le sue
braccia
strinsero il corpo debole e sofferente del prigioniero. Gilbert nascose
la
testa nella spalla del ragazzo mentre si stringeva sempre
più al suo corpo,
cercando di non danneggiarlo in nessun modo. Matthew guaì
dalla sorpresa per
l’inaspettato contatto fisico e cercò debolmente
di divincolarsi ma senza
successo. Le braccia di Gilbert erano gentili ma salde intorno a
sé.
L’occhio
sano di Matthew stava per gonfiarsi di lacrime mentre
cercava con un filo di voce di chiedere chi fosse
quell’estraneo che lo stava
molestando così all’improvviso, quando
l’uomo si separò da lui guardandolo in
volto e accarezzandogli la faccia con le mani guantate. Matthew
poté vedere
nella luce fioca della stanza che l’uomo aveva i capelli
corti e di un colore
che il canadese non riusciva a identificare.
Dopo pochi istanti riuscì a riconoscerlo e il suo volto
assunse un’espressione
stupita.
Gilbert pensò che fosse irresistibile.
“Gil…?!”
Matthew
non fece in tempo a finire di parlare. Le labbra di
Gilbert premettero sulle sue con forza mentre le mani della guardia
lasciavano
le sue guance per il fianco e una spalla, stringendolo più
vicino. L’occhio
miope del biondo si spalancò per la sorpresa e
fissò incredulo gli occhi chiusi
dell’altro, che intanto assaporava le sue labbra.
Nonostante ciò non oppose resistenza.
Gilbert
cercò subito di approfondire il bacio leccando le labbra
morbide e screpolate del canadese con la sua lingua. Il ragazzo
aprì
timidamente la bocca e Gilbert iniziò subito ad esplorarla.
Aveva un pessimo sapore ma Gilbert non vi fece caso, tutto
ciò che importava
era che Matthew era vivo e che Gilbert poteva finalmente averlo per
sé.
La lingua
di Matthew rimase inizialmente ferma e ciò fece
sospettare al tedesco che il ragazzo non avesse mai baciato prima di
allora,
poi timidamente iniziò a muoversi imitando l’altra.
Dopo pochi istanti Gilbert ruppe il bacio e posò la sua
fronte delicatamente su
quella fasciata del canadese, prendendogli di nuovo il volto tra le
mani.
Matthew sembrava sul punto di piangere e di urlare contemporaneamente.
Il suo
occhio buono era lucido e gonfio e la sua bocca si apriva e chiudeva
incerta
come un pesce che boccheggiava.
Gilbert decise di prendere nuovamente l’iniziativa e
parlò per primo.
“Ho
avuto paura. Pensavo di non poterti più rivedere.
Io… io….” Le
parole gli morirono in gola. Per quando fosse sceso a patti con la
propria
coscienza sulla sua appena scoperta sessualità, gli
risultava ancora difficile
ammetterlo ad alta voce. Forse non sarebbe mai riuscito a farlo.
Matthew
chiuse immediatamente la bocca mentre le sue labbra
iniziarono a tremare e la sua guancia si rigò di lacrime.
Strinse l’uomo a sé e
affondò il volto nella sua spalla piangendo disperatamente.
Gilbert cercò di tranquillizzarlo
accarezzandogli ripetutamente la schiena con una mano e sussurrandogli
parole
dolci nell’orecchio.
Gilbert
rimase nell’infermeria (con Francis bloccato
nell’ufficio
del medico) diverso tempo in cui consolò, parlò e
coccolò Matthew.
Era incredibile come quel povero ragazzo, al quale qualche mese prima
stava per
togliere la vita, avesse accettato così di buon grado i suoi
sentimenti, anzi
sembrava anche ricambiarli.
Gilbert pensò per un breve momento se potesse essere un
tranello per ingannarlo
e per rabbonirsi l’amministratore del campo per ricevere
qualche favore, ma
l’idea sfumò velocemente com’era
arrivata. Matthew era troppo dolce e puro per
poter tramare qualcosa di simile, e soprattutto era l’unico
che non l’avesse
mai giudicato, perciò Gilbert sentiva di potersi fidare
ciecamente.
Quando
infine decise di andare, salutò Matthew con un bacio sulle
bende che coprivano la fronte e con la richiesta di mantenere segreto
cos’era
successo e soprattutto il loro rapporto, poi urlò qualche
insulto a Francis
dicendogli di poter tornare al suo posto e si affrettò ad
uscire
dall’infermeria e ad allontanarsi nella luce del mattino.
Non si accorse di essere osservato.
Quel
giorno le attività delle squadre continuarono i lavori
assegnati come se non fosse successo nulla. La squadra assegnata alla
raccolta
di viveri però era stata dimezzata dalla tragedia e faticava
a trovare cibo per
la partenza.
Feliks e Toris guardarono la colonna umana sfilare davanti i capannoni
diretta
verso l’esterno del campo con la speranza di trovare qualcosa
di commestibile.
I due superstiti del dormitorio H3T4 erano stati esonerati dai loro
compiti a
causa delle ferite ed erano stati assegnati a mansioni più
semplici e meno
impegnative come l’infermeria o la cucina.
Ora capivano quant’era stato fortunato Francis ad essere
assegnato in modo
fisso a quei lavori.
Entrambi
avevano riportato ferite leggere dal crollo. Erano stati
dissotterrati abbracciati l’uno con l’altro e
sconvolti, ma quasi illesi. Toris
era ancora turbato a tutta la situazione, mentre Feliks sembrava non
pensarci
più, come se non fosse mai successo nulla. Il ragazzo
polacco era più
interessato a discutere con l’italiano su delle informazioni
riguardo la
partenza.
“Io
non ci credo. Non è possibile che le guardie facciano tutti
questi sforzi per poterci spostare e salvare la vita!”
“Ma
Ludwig mi ha detto che…”
“Ah
Ludwig! E’ già difficile credere che abbiate una
sorta di
relazione, figuriamoci credere all’idea che ci vogliano
salvare dalle grinfie
dei russi! Quelli ci portano nelle camere a gas, ve lo dico
io!”
“Ve….
Ma non è vero…”
Toris si
avvicinò ai lettini interessato. Da quando il giorno
prima Feliciano era tornato al dormitorio urlando dalla
felicità, erano
successe così tante cose assurde che ormai il ragazzo bruno
non sapeva più a
cosa credere o meno. Quante probabilità c’erano
che un prigioniero potesse
iniziare una relazione sentimentale con una guardia?
Ma poi, quante probabilità c’erano che il
dormitorio crollasse proprio quella
notte? E che uscissero vivi? Perciò non poteva essere poi
così incredibile
l’idea che le guardie stessero trovando un qualsiasi modo per
salvarli tutti…
no?
Feliks
però era seriamente convinto di ciò che diceva,
mentre
Feliciano non riusciva a controbattere e perdeva terreno e fiducia.
Francis era
impegnato a medicare un ferito qualche lettino più in
là, cercando con parole
dolci di convincere il pover’uomo a farsi cambiare le bende
ormai incrostate
alle ferite senza troppi capricci, perciò non partecipava
alla discussione.
Matthew invece rimase in silenzio ad ascoltare i due discutere senza
intervenire, ma Toris sapeva che se anche se lo avesse fatto, sarebbe
rimasto
ignorato e non sarebbe cambiato nulla.
“Io
anche non mi fido dei tedeschi” Esordì attirando
l’attenzione
stupita di entrambi i ragazzi “Ma ho lavorato molto a
contatto con il governo
russo. Mi fido di loro, potrebbero davvero salvarci”
Fissò i due ragazzi con
uno sguardo serio.
Feliciano
rimase a bocca aperta incredulo mentre Feliks non ci
mise molto ad esplodere com’era il suo solito:
“Ma
cosa dici Toris?? Il crollo ti ha danneggiato il cervello? Tu
davvero ci stai suggerendo di consegnarci nelle mani dei russi? Quei
sadici che
portano soltanto dolore e miseria ovunque vadano!”
Toris
notò che Feliks non era semplicemente sconvolto dalla sua
affermazione come Feliciano. A differenza di quest’ultimo, il
polacco sembrava
più terrorizzato che incredulo. Toris ricordò la
prima volta che incontrò
Feliks nel dormitorio e di come, scambiandolo per russo, lo fece
arrabbiare
subendosi per quasi tutta la serata le sue filippiche. I polacchi non
erano in
buoni rapporti con i russi, questo era certo, ma Toris era anche certo
che i
russi avrebbero davvero potuto sconfiggere i tedeschi e salvarli tutti
quanti.
Con un movimento improvviso afferrò le mani di Feliks e le
strinse mentre
fermava il suo sguardo in quello del polacco.
“Feliks
fidati di me. I russi possono davvero salvarci, loro
vogliono vedere la Germania capitolare tanto quanto noi. Ho lavorato
per loro
nella resistenza dei Paesi Baltici contro il giogo tedesco, loro
vogliono
liberarci da quei farabutti!”
Feliks
rimase qualche istante a fissare lo sguardo risoluto di
Toris a bocca aperta, non aveva mai visto il bruno così
deciso e forte. Era una
rivelazione che lo confuse e affascinò al tempo stesso.
Riprendendosi, cercò di
controbattere con la sua solita esuberanza.
“Liberarci?
Toris, sono russi! Quelli non lo fanno per liberarci
ma per assoggettarci a loro! Non vogliono aiutarci, vogliono
conquistarci, loro
vo-…”
“Che
lo facciano allora! Meglio loro che i tedeschi! Con loro
almeno non verremo trattati come degli schiavi senza
dignità, con loro avremo
un futuro!”
Toris
lasciò le mani di Feliks e abbassò lo sguardo a
terra,
chinando leggermente la testa. Feliks pensò che Toris avesse
capito che stava
dicendo soltanto un mucchio di sciocchezze, ma dalle sue parole
comprese che
quello non era un segno di resa, anzi.
“Loro
non sono dei mostri come pensi tu, Feliks. Sono i tedeschi i
mostri! Loro ci stanno facendo questo! Io… io voglio essere
trovato dai russi!”
Feliks
rimase in silenzio non sapendo cosa dire, forse per la
prima volta in tutta la sua vita. Si limitò a fissare
l’amico con uno sguardo
infelice sul volto. Feliciano, che per tutto il tempo era rimasto
spettatore, cercò
di dire la sua con poca convinzione:
“Ma…
Ma Ludwig…. Ve…”
“Questi
discorsi sono inutili!”
Tutti si
girarono verso Francis che, lasciato il ferito, li
raggiunse con pochi passi e uno sguardo piuttosto serio.
“È
inutile discutere su chi sia migliore, su chi salverà chi o
quale piano hanno in mente i tedeschi, tanto non lo sapremo mai. E
inoltre a
questo mondo nessuno fa nulla per niente, ricordatelo
tesoro!” Toris abbassò lo
sguardo irritato “Il nostro unico obbiettivo ora è
cercare di sopravvivere, con
chi non lo sapremo finché non sarà il momento.
Tedeschi, russi, chiunque andrà
bene, l’importante è continuare a
vivere… e tornare a casa prima o poi!”
Poi
appoggiò le mani sulle spalle dei ragazzi e sorrise.
Era quasi
il tramonto quando Gilbert salì sul palchetto nella
piazza del campo insieme a suo fratello. Sotto di loro le guardie li
fissavano
con gli occhi che riflettevano luce fioca del sole invernale.
Gilbert aveva in mano i rapporti stilati delle varie squadre stilati da
quando
avevano iniziato a lavorare per il trasferimento.
Non erano per niente promettenti, il malcontento era dilagante anche
tra le
guardie stesse.
Schiarendosi
la gola, Gilbert iniziò a parlare al pubblico
riguardo i rapporti che stringeva nella mano. Mentre parlava il suo
sguardo
vagava su tutta la folla cogliendo i segni di disagio, irritazione,
ansia e
rabbia delle guardie. Man mano che continuava, anche la sua
preoccupazione
aumentava in modo esponenziale.
Gilbert
aveva notato che per tutto il giorno gruppi di guardie si
riunivano a parlottare vicino i muri degli edifici con fare concitato,
per poi
azzittirsi o disperdersi nel momento in cui passava o si avvicinava.
Tutti però
lo fissavano insistentemente, senza che l’albino capisse il
perché.
La pressione dell’arrivo imminente ed improvviso del nemico,
il lavoro a cui
erano stati sottoposti, la nottata passata in bianco a causa del crollo
e
l’evidente inadeguatezza dei mezzi di cui disponevano per
sostenere una marcia
forzata di varie settimane, aveva reso irrequiete le guardie.
Gilbert
anche era piuttosto agitato. Dopo aver subito il duro
colpo della lettera, esser quasi morto di dolore per il crollo del
dormitorio
e aver passato la
notte sveglio a
controllare confini vuoti, l’albino cominciava a mostrare
segni di cedimento.
Il suo volto era provato e teso, il suo corpo affaticato e la sua voce
non più
squillante come al solito. Del vecchio Gilbert energico ed esuberante,
restava
soltanto una sorta di guscio vuoto, un’ombra debole e vacua.
Ludwig invece sembrava non mostrare segni di affaticamento o di ansia,
anzi
agli occhi di Gilbert il fratello perfetto sembrava anche
più rilassato del
solito. Si scoprì ad invidiarlo per questo.
“Siccome i viveri
non sono
abbastanza per sostenere un viaggio simile, razioneremo il nostro cibo
esattamente come quello dei prigionieri. Così facendo, a
conti fatti, dovremmo
riusci-“
“Cosa?
Sei forse impazzito?”
Gilbert
alzò lo sguardo dal foglio, incredulo. Chi era
quell’idiota che aveva il coraggio di interromperlo e
rispondergli in quel
modo?
Ma la voce non si fermò nonostante Gilbert fissasse la folla
con uno sguardo
omicida, e ben presto la voce di protesta fu accompagnata da altre urla
e gesti
di disapprovazione. Gilbert rimase confuso e incredulo per quello che
stava
vedendo, e anche Ludwig anche perse la sua compostezza rivelando
confusione nel
suo sguardo.
Le guardie che per anni erano state sotto il suo diretto comando
rispettando
una ferrea disciplina si stavano improvvisamente ribellando.
“SILENZIO!
È un ordine!”
Ma i suoi
sottoposti continuarono a protestare, parlottando tra di
loro e urlando. Gilbert stava perdendo velocemente il controllo della
situazione, qualcosa che non era mai successo da quando era diventato
amministratore del campo.
Cosa stava succedendo? Perché all’improvviso i
suoi sottoposti, che avevano
sempre dimostrato rispetto per lui, all’improvviso non
avevano più timore?
Forse ai loro occhi il fiero e feroce Gilbert ormai era diventato solo
uno
spaurito coniglio bianco?
Guardò incredulo il fratello che ricambiò lo
sguardo stupito, per poi spostarlo
nuovamente sulla folla. Nel caos che si stava creando, notò
che soltanto
Roderich non partecipava alla confusione generale ma anzi rimaneva in
silenzio
a fissarlo con quel suo sguardo irritante dietro le lenti.
I nervi
di Gilbert non ci misero molto a saltare. La stanchezza,
la paura, la preoccupazione e la rabbia che aveva accumulato in quegli
ultimi
giorni esplosero insieme rendendolo furioso.
Con lo sguardo iniettato di sangue e i denti scoperti in un ringhio
feroce,
l’albino estrasse velocemente la sua pistola e
sparò un colpo in aria, per poi
spostare subito la mira sulla folla.
Immediatamente tutte le guardie sotto il palchetto si azzittirono
stupiti e
impauriti.
“Silenzio
maledetti bastardi! Non osate più disobbedirmi
altrimenti vi mando al creatore all’istante!”
Urlò a squarciagola spostando la
pistola ovunque sulla folla.
Anche
Ludwig era scioccato dalla reazione improvvisa del fratello
e lo fissava con la bocca aperta, pallido come un lenzuolo, senza avere
il
coraggio di parlare.
Gilbert lanciò un lungo sguardo furioso alla folla, poi si
mise a ridere in
modo sguaiato mentre giocherellava con la pistola, puntando sempre alle
guardie.
“Ke
se se se. Bene, ora che ho ottenuto nuovamente la vostra
attenzione, come stavo dicendo, razioneremo anche noi il cibo come i
prigionieri… Se qualcuno non è
d’accordo lo dica subito così gli sparo e non se
ne parla più, ok? Non mi servono dei traditori nel mio
campo!”
“Allora…
se la metti così…”
La canna
della pistola mirò alla persona che aveva appena avuto il
coraggio di parlare prima che Gilbert lo guardasse direttamente. Con
sua grande
sorpresa e irritazione Roderich si fece largo tra le altre guardie e
arrivò fin
sotto il palchetto. Gilbert mirò esattamente al centro della
fronte di quel
pomposo aristocratico.
“Cosa
cazzo stai facendo, Roderich? Non posso perdere tempo con te
per le tue stronzate da aristocratico viziato! Torna al tuo
posto!”
Ma Roderich non si mosse, anzi sostenne il suo sguardo con orgoglio e
superbia.
Gilbert avrebbe tanto voluto sparargli in quel momento per toglierselo
dai
piedi una volta per tutte, ma sapeva di non poterlo fare
perché era protetto
dal governo. Piuttosto sentì avvicinarsi al suo fianco
Ludwig avvicinarsi
agitato mentre notava che alcune guardie affiancavano Roderich con lo
stesso
sguardo di sfida.
“Dici
che non ti servono dei traditori nel campo, quando sei tu il
primo traditore in mezzo a noi”
Gilbert
ebbe un sussulto.
La sua mano tremò per un secondo prima che la presa sul
manico della pistola si
irrigidisse e la canna si allineasse perfettamente alla fronte
dell’austriaco.
Stava per fare fuori quello stronzo, Gilbert stava davvero per
sparargli in fronte,
quando un urlo secco di Ludwig lo distrasse. Il ragazzo biondo lo
afferrò per
una spalla scuotendolo violentemente.
“No
Gilbert! Sei impazzito?”
Gilbert
non fece in tempo a guardare suo fratello negli occhi, Lo
strofinio di qualcosa e molti click lo riportarono immediatamente a
guardare
oltre il palchetto. Le guardie che avevano affiancato Roderich avevano
tutte
estratto le loro pistole e le puntavano contro Gilbert e Ludwig nello
stupore e
nella confusione generale delle altre guardie.
Gilbert guardò tutte quelle canne vuote contro di lui e
iniziò a sudare freddo.
La presa sulla sua pistola vacillò.
Roderich sospirò e incrociò le braccia sul petto,
più annoiato che altro.
“Ascoltami
Gilbert, abbiamo giocato abbastanza, è ora che la
verità venga a galla”
“Quale
verità? Cosa cazzo stai dicendo?” Rispose
d’impulso il
giovane, ma l’avvicinarsi delle guardie con le pistole
puntate su di lui gli
fecero passare la voglia di parlare. Solo un po’.
“Sto
dicendo che so tutto della lettera e dell’infermeria, Gilbert
Beilschmidt, o meglio sappiamo tutto”
La gola
di Gilbert si seccò istantaneamente mentre una vampata di
sudore freddo gli percorse tutto il corpo. Cercò di
deglutire mentre fissava in
silenzio l’austriaco. Roderich notò il panico che
si stava impadronendo di lui
e continuò a parlare.
“Ho
letto la lettera la sera in cui è arrivata. Ero stato
disturbato da tutto il chiasso che avevate fatto ed ero venuto a
rimproverarvi
quando ho trovato l’ufficio vuoto e in uno stato pietoso.
Aspettando il vostro
ritorno per mettervi al corrente della mia irritazione, ho trovato la
lettera
sotto la scrivania. In realtà non sono stato molto sorpreso
da quel comunicato,
in fin dei conti me lo aspettavo. Quello che mi ha sorpreso invece
è stato il
tuo discorso il giorno dopo!”
Fece una
pausa scuotendo la testa in segno di disprezzo. Le altre
guardie si erano calmate e anche loro si erano avvicinate per capire
cosa
stesse succedendo. Gilbert notò che alcune di loro
poggiavano la mano sulla
fondina della pistola mentre pendevano dalle labbra di Roderich.
Il silenzio era quasi assoluto mentre gli ultimi raggi del pallido sole
d’inverno illuminavano il campo innevato. Gilbert riusciva a
sentire soltanto
il pesante respiro del fratello, che come le altre guardie ora
ascoltava concentrato
l’austriaco.
“Abbandonare
il campo portandosi dietro i prigionieri… Davvero
Gilbert, cosa diavolo ti è passato per la testa?
Perché vedete, la lettera ordinava
di eliminare ogni prova del nostro operato qui; Perciò
documenti… dormitori…
fabbriche… prigionieri… tutto!
Un brusio
si levò all’istante, le guardie cominciarono
nuovamente
a commentare tra di loro, ma questa volta la maggior parte estrasse la
pistola
e la puntò contro gli amministratori sul palchetto. Gilbert
sentì il mondo
crollargli addosso nel preciso istante in cui Roderich finì
di parlare.
Era stato scoperto, e cosa peggiore era stato scoperto dai suoi
sottoposti che
lo stavano letteralmente processando su due piedi.
L’albino avrebbe voluto dire qualcosa per difendersi ma le
parole non uscirono dalla
gola riarsa. Tutto quello che riuscì a fare fu restare
perfettamente immobile
con gli occhi strabuzzati fissi sull’austriaco mentre il
sudore gli colava
sulla fronte cadaverica e sulle tempie fino al collo.
Ludwig anche non disse nulla e non si mosse, ma Gilbert
sentì che la presa
sulla spalla si strinse con forza.
“Inizialmente
ho fatto finta di niente perché non avevo alcun
interesse se salvavi o no quella feccia ambulante, ma non riuscivo a
capire
cosa ti avesse spinto a disobbedire a degli ordini diretti. Ma preferii
farmi
gli affari miei, inoltre non lo sapeva nessuno. Certo, potevo
smascherarti fin
da subito e farti uccidere sul posto, ma avrei guadagnato soltanto
un’intera
ritirata da organizzare. Davvero poco conveniente. Ma caro il mio
scherzo della
natura, ti sei tradito da solo quando dopo il turno di guardia sei
andato a
intrufolarti di nascosto nell’infermeria!
Forse credevi di essere solo, ma ti sbagliavi. Io e le altre guardie
qui
presenti ti abbiamo visto lasciare l’infermeria agitato.
Perciò…” Anche lui
estrasse la pistola puntandola al petto dell’albino
“Da quando te la fai con
quella sgualdrina di un francese? È per questo che hai
tradito noi e il
governo? È per questo che stai mettendo a rischio tutte le
nostre vite con una
fuga disperata mentre i russi potrebbero attaccare da un momento
all’altro? Per
salvare quello schifoso? Il perfetto Gilbert Beilschmidt,
così perfetto
che crede di poter sfidare tutta l’ideologia nazista e
farsela con un altro
uomo sotto il nostro naso… Tu…”
Il volto di Roderich assunse
un’espressione di rabbia e
irritazione raccapricciante. Tutto il disgusto e disprezzo che provava
in quel
momento presero forma sul suo volto, per poi sparirono velocemente come
erano
arrivate. Il ragazzo bruno si rilassò e sorrise con fare
superbo.
“L’amministrazione Beilschmidt finisce qui. Sei stato
appena processato e dichiarato colpevole di alto tradimento ai danni
del
governo nazista e di sodomia dall’unanimità delle
guardie che mi hanno eletto
nuovo amministratore del campo. Perciò ora verrai
giustiziato con disonore,
feccia che non sei altro! Giustizieremo anche tuo fratello per
complicità. Voi
altri iniziate a prepararvi per la partenza, cercate di prendere tutto
quello
che trovate, soprattutto cibo e vetture. Per i prigionieri fate quello
che vi
pare, uccideteli pure, non m’interessa”
Gli istanti immediatamente successivi
alle parole
dell’austriaco furono percepiti da Gilbert in modo confuso,
come se la sua
vista fosse sdoppiata e al rallentatore, le sue orecchie percepivano i
suoni in
modo ovattato come sott’acqua.
Vide le restanti guardie puntare le pistole contro il palchetto mentre
altre
urlavano con forza parole che Gilbert non riusciva a comprendere.
Il suo corpo era rigido e immobile come un albero, non riusciva a
muovere nessun
muscolo mentre il sudore gli imperlava il volto. Gli occhi erano fissi
e
sgranati sulla folla mentre la mente era vuota e leggera.
Al suo fianco Ludwig mosse qualche passo in avanti. Di sfuggita vide
che urlava
qualcosa di rimando che però arrivò alle sue
orecchie come un urlo lontano,
come quasi un’eco urlato tra le montagne.
L’unica cosa che riusciva a sentire era il rumore del suo
respiro, incerto e
tremolante.
Questo era quello che si provava quando si stava per morire?
La distorsione del tempo
finì quando Ludwig lo prese improvvisamente
per un braccio e lo tirò con forza giù dal
palchetto mentre alcuni colpi di
pistola fendettero l’aria vicino al punto in cui si erano
trovati pochi istanti
prima.
I due ragazzi rovinarono sulla neve rotolando. Ludwig sentì
un forte dolore
sordo alla spalla sinistra, ma non vi prestò molta
attenzione mentre si
rialzava e rimetteva in piedi suo fratello strattonandolo per la giacca.
Da dietro il palchetto le guardie urlarono inferocite e iniziarono a
sparpagliarsi.
“Prendete quei due bastardi
traditori!”
“Abbiamo accatastato le
provviste in quel magazzino! Le auto
sono nel capannone affianco”
“Ho una tremenda voglia di
ammazzare quei cani nei dormitori!”
Ludwig tirò Gilbert mentre
iniziava a correre senza una
precisa meta, ma con l’unico scopo di allontanarsi dalle
guardie e di non
essere sparato a vista. L’albino sembrava estremamente
confuso ma corse a
perdifiato seguendo il fratello in silenzio.
Dopo poco tempo Ludwig sentì dei passi dietro di loro
correre affondando nella
neve. Alcune guardie li stavano seguendo, e a giudicare dal rumore dei
passi e
del fiato corto, avevano proprio intenzione di raggiungerli.
Alcune grida e altre pallottole sibilarono nell’aria. Ludwig
chinò la testa e
corse più accovacciato possibile, sempre tirando il fratello
per la giacca, che
lo imitò.
Alcune pallottole fischiarono dietro
di loro, mentre
qualcuna si avvicinò pericolosamente alle orecchie del
biondo. Spaventato,
Ludwig si guardò intorno freneticamente in cerca di un
nascondiglio e infine
spinse bruscamente il fratello in un piccolo passaggio tra due edifici.
Una
volta dentro il vicolo, corsero ancora per qualche metro e raggiunsero
una
porta marrone scrostata, che per fortuna era aperta.
Con un gesto veloce Ludwig la aprì e vi spinse dentro
l’albino, per poi entrare
e richiuderla qualche istante prima che le altre guardie imboccassero
il
vicolo.
Chiudendo le sicure della vecchia porta, fece segno di fare silenzio
all’altro
e rimase in attesa ad ascoltare i rumori fuori.
La neve sul terreno era fresca e soffice e non era difficile lasciare
impronte
quando si camminava in giro, infatti nella loro corsa avevano lasciato
molte
impronte che finivano davanti quella porta. Una persona con un minimo
di
cervello si sarebbe sicuramente accorto che i due fuggiaschi erano
entrati
nella porta sul retro dell’edificio.
Ludwig sperò con tutto sé stesso che i loro
inseguitori non fossero così acuti.
Il rumore dei passi in corsa si
avvicinò in pochi istanti,
che per Ludwig sembrarono un’eternità. Quando
furono in prossimità della porta,
il ragazzo trattenne il respiro mentre il suo cuore accelerava il
battito per
la paura.
Il rumore, accompagnato dal fiato grosso e da imprecazioni varie, non
accennò a
fermarsi e lentamente si allontanò così
com’era arrivato. Ludwig lasciò andare
il respiro trattenuto con un tremito, cercando di rilassare i suoi
nervi.
Ora che avevano seminato i loro
aggressori per qualche tempo
potevano allentare un po’ la tensione, anche se non potevano
abbassare la
guardia.
Sospirando nuovamente, Ludwig si girò ad affrontare suo
fratello. Gilbert
sembrava un lenzuolo sgualcito: la sua carnagione era diventata
tutt’un colore
con i suoi capelli, sul suo volto si potevano distinguere soltanto le
pupille
rosse dei suoi strani occhi.
Probabilmente Ludwig non aveva mai visto suo fratello ridotto in quello
stato.
Lo sguardo dell’albino era
perso nel vuoto e le sue labbra
tremavano, così come il resto del suo corpo. Era il ritratto
perfetto del
terrore. Ludwig avrebbe voluto aiutarlo dicendogli di non preoccuparsi,
di
rassicurarlo e consolarlo come spesso il fratello aveva fatto con lui
quando
era piccolo, ma la rabbia, lo sconcerto e le mille domande che si
affollavano
nella sua mente presero il sopravvento.
Afferrò il colletto della giacca di Gilbert e lo spinse
contro il muro con
forza. L’albino gemette stringendogli le braccia nel vano
tentativo di
fermarlo.
“Che cazzo significa tutto
questo?” Ludwig avrebbe tanto
voluto urlargli in faccia con tutta la sua forza, ma si
limitò a parlare con
una voce bassa e potente.
Gilbert lo guardò impaurito e boccheggiante. In effetti era
la prima volta che
Ludwig lo aggrediva in quel modo.
“Parla!”
Tirandolo un pochino a sé, lo sbatté di nuovo con
forza contro il muro facendolo gemere
“Cos’è questa storia della lettera?
Roderich dice il vero, hai davvero mentito?”
“S-si… si
è vero, ho mentito…”
Ludwig digrignò i denti in
un ringhio rabbioso. Una mano
lasciò velocemente il colletto della giacca per dare un
pugno ben assestato al
volto dell’albino. Gilbert si accasciò da un lato
mentre il suo labbro si spaccò
e iniziò a sanguinare, ma la presa ferrea di Ludwig lo
rimise in piedi contro
al muro come prima.
“Bastardo… Io mi
fidavo di te! Lurido traditore, ci hai
quasi fatto ammazzare, e siamo condannati per sempre! Ti rendi conto di
che
cosa hai fatto?” Gli occhi ghiaccio erano iniettati di sangue
“Perché non mi
hai detto niente?”
“Io volevo tenderti fuori,
volevo proteggerti…”
“E’
così che mi proteggi?” Quasi urlò il
ragazzo biondo
sbattendo nuovamente il fratello contro il muro “Non
dicendomi nulla e
facendomi quasi ammazzare come un criminale qualunque? E
cos’è questa storia
dell’infermeria? Da quand’è che te la
fai con quel francese?”
A quelle parole Gilbert
abbassò la testa in silenzio. I
capelli chiari e canditi gli coprivano gran parte del viso, il sangue
gli
rigava il mento dal taglio sul labbro dove era stato colpito. Dopo
qualche
istante Gilbert sospirò scuotendo la testa e
abbassò le spalle in un chiaro
segno di sconfitta.
“No, non
Francis… Matthew…”
Ludwig lasciò la presa sul
colletto del fratello, sconvolto.
Tutto ciò era assurdo. Già il solo pensiero che
Gilbert, fervente religioso e
fanatico dell’ideologia nazista, fosse implicato in una
relazione omosessuale
era incredibile, figurarsi con il fragile e sensibile canadese che
pochi mesi
prima aveva tentato di uccidere.
Ludwig fece qualche passo indietro fissando il fratello con sgomento,
portandosi una mano sulla bocca aperta.
“Assurdo…”
L’albino alzò la
testa di scatto guardando il fratello
dritto negli occhi. Aveva lo sguardo di una persona completamente
distrutta,
schiacciata da un peso troppo grande per lui, sconfitto e rassegnato.
Del
Gilbert arrogante e prepotente che conosceva e che aveva visto in tutto
il suo
splendore quando era appena arrivato al campo non era rimasto nulla se
non
l’aspetto.
Ludwig provò una forte pietà nei suoi confronti.
“In tutta la mia vita non
c’è stata una sola persona che non
mi abbia disprezzato e mi abbia amato per quello che sono, e non per
quello che
sono diventato. Nemmeno tu, che sei mio fratello minore e che ho amato
quasi
come ho amato me stesso. Eppure Matthew, che ho mortificato e seviziato
in vari
modi e che ho cercato di uccidere, non ha provato odio e disprezzo nei
miei
confronti, ma solo compassione”
Ludwig
rimase senza
parole ad ascoltare il monologo del fratello. In tutta la sua vita
Gilbert non
si era mai confidato con lui con il cuore in mano come stava facendo in
questo
momento. Agli suoi occhi e a quelli di tutti gli altri Gilbert era una
testa
calda, violento e sadico, che riusciva a conquistare tutti gli
obbiettivi che
si prefiggeva e che affrontava gli ostacoli a testa alta, superandoli
con pochi
sforzi.
Ludwig non aveva mai pensato una singola volta che suo fratello potesse
avere
dei problemi e potesse soffrire per qualcosa.
Si vergognò di sé stesso e della sua
stupidità.
“Quando ho letto
quell’ordine del governo, ho avuto paura. Ho
avuto paura di perdere l’unica persona al mondo che mi avesse
capito e
accettato per quello che sono… e ho avuto paura anche per
te. Per questo ho
deciso di mentire a tutti e di non uccidere i prigionieri…
Io semplicemente non
potevo”
Gilbert vide l’evidente
domanda non pronunciata sul volto di
Ludwig e sospirò.
“Non volevo che tu perdessi
l’italiano”
Il volto di Ludwig sbiancò
a quelle parole. Un’ondata di
agitazione e di pensieri convulsi lo travolse mentre fissava stordito
il
fratello. Come aveva fatto capirlo? Aveva cercato di nascondere il suo
interesse in tutti i modi possibili anche se ammetteva che le scuse per
esser
stato sotto la doccia più del dovuto erano piuttosto deboli.
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma fu subito fermato dal
fratello.
“Non provare a negare,
è piuttosto palese. Ti conosco bene,
sei mio fratello dopotutto, e posso dire con certezza di non averti mai
visto
così felice come adesso. Io non volevo farti soffrire, non
volevo che tu
tornassi il serio e imperscrutabile Ludwig d’acciaio senza un
minimo di
emozioni!”
Ludwig era senza parole.
Suo fratello aveva fatto tutto questo anche per proteggere lui e la sua
felicità, aveva sfidato le autorità e tutto
ciò in cui credeva anche per lui, lui
che lo aveva ritenuto sempre un sadico nazista senza cuore, che aveva
disprezzato ed evitato, e che ora aveva anche colpito e insultato.
Ludwig si sentì una carogna.
“Gilbert,
io…”
Dall’esterno si sentirono
alcune urla e dei colpi di
pistola. Ludwig lasciò la frase a mezz’aria
guardando la porta scrostata mentre
i rumori venivano rimpiazzati da altre grida e colpi d’arma
da fuoco.
“Stanno sparando sui
prigionieri! Maledetti!” Esclamò il
ragazzo biondo con rabbia.
“Dobbiamo trovare Matthew e
il tuo amico prima che lo
facciano loro” Rispose con urgenza Gilbert
“Dov’erano l’ultima volta che gli
hai visti?”
“All’infermeria,
Feliciano non può ancora camminare”
“Dobbiamo raggiungerli
subito, prima che lor-“
La sua frase fu completamente coperta
dal fortissimo suono di
una sirena che si diffuse in tutto il campo. Gilbert sgranò
gli occhi mentre i
suoi capelli si drizzarono sulla testa.
Ludwig non comprese bene il significato di quel suono e
iniziò a guardarsi
intorno mentre i rumori esterni furono completamente sopraffatti.
Infine guardò Gilbert con uno sguardo interrogativo.
“I russi… sono
arrivati i russi”
Feliks e Toris si trovavano nelle
cucine del campo quando il
sole tramontò oltre l’orizzonte innevato,
lasciando il posto alla notte gelida.
I due erano stati mandati da Francis a prendere la cena per i malati
dell’infermeria. Il campo aveva escogitato un modo astuto per
fingere di curare
quei poveri malcapitati: dividere l’unico pasto dei
prigionieri in due volte
per dare l’illusione di nutrire al meglio i malati. In
realtà la quantità di
cibo era la stessa dei prigionieri sani, ma era divisa in pranzo e
cena. Feliks
sorrise amaramente quando Francis lo informò della cosa, il
campo era davvero
un posto crudele.
I due amici entrarono nelle cucine
dalla porta laterale
sapendo che se avessero usato quella principale il cuoco e le altre
guardie li
avrebbero sgridati e puniti. Loro erano esseri inferiori, non umani, e
pertanto
dovevano strisciare nei vicoli e usare la porta di servizio, mentre
tutti gli
altri usavano quella principale. Francis aveva raccontato che alcune
volte
invece di passargli il cibo glielo avevano gettato addosso o per terra
e poi
costretto a ripulire tutto. Ovviamente i pavimenti erano luridi e
nonostante
ciò i loro secondini e il cuoco lo avevano costretto a
servire quel cibo
ugualmente. A Feliks rivoltava lo stomaco ogni qual volta vi pensava.
Le cucine erano stranamente vuote, un
ambiente silenzioso e
sinistro inghiottito dall’oscurità più
totale. Feliks guardò Toris preoccupato
e il ragazzo ricambiò il suo sguardo, per poi fare un passo
avanti dentro la
stanza.
“C’è…
c’è qualcuno?” Chiese a gran voce, ma la
stanza gli
riportò il suo eco senza nessuna risposta.
Toris ritornò vicino
all’amico con fare agitato.
“Non sembra ci sia
qualcuno, cosa facciamo? Forse il cibo
per i malati è stato appoggiato da qualche parte e dobbiamo
soltanto prenderlo”
“Non ne sono sicuro, Toris.
Non voglio mettere le mani da
nessuna parte, non so se ci è permesso entrare e prendere il
cibo. Non ho
bisogno di una punizione”
“Torniamo da Francis,
saprà cosa fare… magari possiamo stare
noi con i malati mentre lui viene a prendere da mangiare”
L’idea piacque molto a
Feliks, che sorrise all’amico. I due
si chiusero la porta dietro di sé mentre il freddo della
notte cominciava a
farsi sentire con leggere folate di vento, e si avviarono verso
l’infermeria.
Per fortuna aveva smesso di nevicare da un po’, Feliks non
voleva ritrovarsi
sotto o anche vicino a un altro edificio sul punto di crollare.
La neve però era soffice e alta sul terreno e i due
osservarono come le loro
scarpe semi distrutte affondavano fino alla caviglia in quella coltre
bianca.
“Sai, questo mi ricorda
molto la Polonia. Io abitavo nella
periferia di Varsavia, l’inverno era sempre molto
innevato”
“Feliks ti ricordo che io
sono lituano, la neve da me cade
il doppio di quella in Polonia!”
“Non è
vero!” Rispose mettendo il broncio.
Continuarono a discutere sulla
quantità della neve nei loro
rispettivi paesi finché non sentirono degli spari seguiti da
una moltitudine di
urla. Il sangue di Feliks si gelò all’istante,
mentre Toris trattenne il
respiro, sconvolto.
Erano arrivati quasi alla fine del vicolo che dava sul cortile davanti
l’infermeria, quando un gruppo di persone corse velocemente
davanti l’apertura
della stradina. Feliks riuscì a vedere di sfuggita che i
colori dei vestiti del
gruppo erano uguali ai loro. Dopo pochi istanti un altro gruppo di
guardie
corse nello spiazzo, alcune inseguendo i malcapitati, altre fermandosi
e
prendendo la mira con le loro pistole.
Con delle urla agghiaccianti le
guardie fecero fuoco. Due,
tre, cinque, otto colpi furono sparati dalle varie pistole. Feliks
rimase
immobile, con il cuore che minacciava di uscirgli dal petto per il
terrore,
mentre le urla doloranti e agonizzanti del gruppo che fuggiva gli
riempivano le
orecchie. Le guardie davanti a loro ridevano e si asciugavano la fronte
sudata
mentre alcune di loro imprecavano e lanciavano insulti vari.
Toris era terrorizzato più
di Feliks, ma non ebbe il suo stesso
sangue freddo. Fece qualche passo indietro mentre si copriva la bocca
lanciando
un grido soffocato. Avevano appena ucciso un gruppo di prigionieri
senza batter
ciglio, e ridevano come indemoniati. Le sue più grandi paure
si stavano
trasformando in realtà; le guardie stavano uccidendo i
prigionieri, erano
spacciati.
Feliks tentò di fermare il
ragazzo prima che potesse
tradirli con qualsiasi tipo di rumore, ma non fece in tempo.
Afferrò il suo
braccio nel momento in cui una guardia si voltò a guardare
nel vicolo, attirato
dai rumori di Toris, notandoli e indicandoli con un sorriso sadico.
“Lì ce ne sono
altri due!” Esclamò attirando
l’attenzione
delle altre guardie “Quelli sono miei, li ho visti prima
io!”
Le altre guardie risero e
parlottarono ma lasciarono che
quella che li aveva notati per primo si avvicinasse al vicolo e alzasse
la
pistola contro di loro.
Feliks sentì una scarica d’adrenalina in tutto il
corpo quando vide la canna
ancora fumante della pistola puntargli contro.
“Corri…
CORRI!” Urlò a Toris mentre si girava e lo
trascinava con sé correndo verso il fondo del vicolo,
accompagnato dalle risate
della guardia.
Il suo cuore pulsava nelle orecchie,
tutto intorno a lui si
curvò ai bordi della sua visuale diventando scuro, eppure
continuò a correre e
a trascinare con sé l’amico che incespicava nella
neve.
La guardia puntò Feliks
alla nuca. Stava per premere il
grilletto quando l’altoparlante, che si trovava esattamente
sulla sua testa
attaccato al muro, improvvisamente iniziò a suonare con un
allarme fortissimo.
La guardia fu spaventata dall’improvviso suono e
sbagliò mira.
Feliks sentì il proiettile
volargli sopra la testa
nonostante il suono assordante della sirena e cercò di
correre più velocemente,
svoltando a destra oltre il vicolo e continuando senza una meta a
correre,
trascinandosi dietro il lituano.
Erano entrati in una delle strade principali del campo. La strada era
larga
abbastanza da far passare contemporaneamente due carri armati
affiancati ed era
fiancheggiata dagli edifici nella sua totale lunghezza, da dove
spuntavano dei
lampioni che illuminavano tutto il percorso.
All’estremità della strada si
poteva vedere il cancello d’entrata del campo, illuminato da
grossi fari, e i
campi sterminati fin oltre l’orizzonte.
Toris cercò di liberarsi
dalla presa dell’amico tirando in
senso contrario, completamente terrorizzato dall’esser usciti
in un posto così
ampio e completamente privo di ripari.
“Feliks! Feliks dobbiamo
nasconderci!” Urlò a squarciagola,
ma il ragazzo non lo ascoltò mentre correva in mezzo alla
strada cercando di
dar fondo a tutte le sue energie.
Improvvisamente il polacco si
fermò strattonando Toris per i
vestiti e facendolo slittare sulla neve e cadere sul fondoschiena.
Confuso,
Toris guardò prima il suo amico, che sembrava sul punto di
svenire, poi davanti
a sé.
L’ultima parte di strada che li divideva dal cancello
principale era
disseminata di corpi esanimi accasciati in larghe pozze di sangue che
coloravano in modo macabro la neve. Toris si portò una mano
alla bocca e cercò
di reprimere il fortissimo senso di vomito che lo stava assalendo.
“S-sono… loro
sono… le guardie li hanno uccisi
tutti…!”
Balbettò in evidente stato di shock.
Ma quello che stava guardando Feliks
con puro terrore non
erano i morti a terra, bensì lo schieramento di persone
dall’altra parte del
cancello, seguite sullo sfondo da enormi veicoli dai lunghi cannoni.
Alzò una
mano tremante e indicò nella loro direzione.
“Sono arrivati….
Non abbiamo via di scampo…”
Finalmente Toris levò lo
sguardo dai cadaveri in favore
dell’esercito russo che si affollava davanti il cancello. I
soldati, tutti
avvolti in lunghi cappotti e strani elmetti, si stavano allontanando
per
lasciar passare uno dei carri armati che seguivano il loro
schieramento. Con
dei suoni secchi di ingranaggi, il carro armato abbassò il
cannone fino a metà
altezza del cancello, esplodendo un colpo.
Il boato fu fortissimo. Feliks e Toris videro il cancello sventrarsi a
causa
del colpo e pezzi di ferro volare ovunque e cadere tra i corpi a terra.
Immediatamente i soldati russi circondarono il carro armato e
superarono il
cancello appena violato sciamando nel campo come delle formiche
impazzite.
La paura in Feliks ebbe il
sopravvento e riuscì a sbloccare
il corpo del povero ragazzo. Velocemente alzò
l’amico tirandolo dalla presa che
non aveva mai lasciato, e iniziò a correre verso un vicolo
laterale alla strada
tra due fabbriche.
“Cosa stai facendo? Feliks
fermati! I russi sono arrivati, i
russi possono salvarci!”
“Io non voglio
morire!”
Era evidente che il polacco aveva
perso il suo sangue freddo
e si trovava nel panico totale, non riuscendo più a
ragionare a mente lucida.
Imboccarono il vicolo e Toris ne approfittò per liberarsi
dalla sua presa. Con
una mano afferrò l’angolo del muro
dell’edificio e tirò con tutte le forze che
gli erano rimaste. Il tessuto lurido scivolò dalla mano di
Feliks che sorpreso
si fermò e si girò a fronteggiare il compagno.
“Toris, sei
impazzito?” Urlò con gli occhi che quasi
uscivano fuori dalle orbite. Aveva il fiato corto e i suoi capelli
erano un
completo disastro, mentre le guance emaciate erano rosse dallo sforzo.
Il cuore di Toris divenne pesante nel guardarlo.
“No, tu sei impazzito. I
russi sono venuti a salvarci e tu
vuoi scappare con il rischio di essere ucciso dai tedesch-“
“Trovati!”
La guardia che avevano seminato pochi
istanti prima spinse
violentemente Toris nel vicolo facendolo cadere su Feliks. I due
rotolarono
nella neve, ma cercarono di rialzarsi guardando con paura la guardia,
che
intanto entrava lentamente nel vicolo.
“No, no, restate
lì fermi. Quei bastardi comunisti sono
arrivati alla fine, non c’è più tempo,
ma non me ne vado senza prima aver
ucciso qualcuno di voi animali”
La canna della pistola fu nuovamente
puntata verso di loro,
ma questa volta mirava alla fronte di Toris.
“Tu sarai il
primo” Disse con una smorfia che alterava il
suo volto in modo orribile. Sembrava completamente impazzito.
Toris non riusciva a distogliere lo
sguardo dall’arma nella
sua mano che rifletteva la luce dell’unico lampione del
vicolo. Sentì Feliks
aggrapparsi a lui e stringere la presa nel disperato tentativo di
trovare
conforto, ma Toris sapeva che ormai non ci sarebbe stato più
conforto per loro,
solo un gelido vicolo pieno di neve dove i loro corpi sarebbero marciti
per
sempre.
Sentì le lacrime bagnargli gli occhi e minacciare di cadere
sulle sue guance.
Di tutti i modi possibili di morire che aveva immaginato, questo era di
sicuro
uno dei più atroci. Si diceva che guardando la morte in
faccia si poteva vedere
velocemente tutta la propria vita scorrere davanti agli occhi, ma
l’unica cosa
che Toris riusciva a vedere in quel momento era la guardia che, con una
smorfia
disumana sul volto, premeva il grilletto.
Il suono dello sparo
aggredì le sue orecchie mentre sentiva
improvvisamente un forte dolore bruciante sulla sua spalla. Si
portò una mano
sulla ferita a bruciapelo mentre vide, senza capire il
perché, la guardia
tedesca inginocchiarsi di peso sulla neve e poi crollare a terra, la
sua
pistola scivolare vicino i due prigionieri. In pochi istanti sotto il
corpo
dell’uomo si formò un piccolo rigagnolo di sangue
fumante.
Dietro di lui alcuni uomini dai
lunghi giubbotti puntavano
il fucile contro di loro e urlavano frasi in russo. Toris conosceva
bene il
russo, e sospettava che anche Feliks lo conoscesse, ma quegli uomini
parlavano
con uno strano accento e con parole mai sentite prima, probabilmente in
un
dialetto sconosciuto ai più.
I soldati russi fecero qualche passo verso di loro e incitarono i
prigionieri
con i loro fucili a rispondere, ma i due non riuscirono a capire nulla
e rimasero
immobili a fissarli terrorizzati.
Il sollievo di Toris per esser stato salvato dall’imminente
morte fu offuscato
dal vedere quei soldati inferociti che sbraitavano contro di loro e li
minacciavano con i fucili. Stava cominciando a perdere le speranze di
essere
salvato quando i soldati si fermarono improvvisamente, probabilmente
realizzando di non essere capiti, e si misero a parlottare tra di loro
abbassando i fucili.
Feliks mantenne il suo volto
terrorizzato e la sua posa
immobile, ma Toris sentì le sue prese allentarsi sul suo
corpo.
Dopo qualche istante a parlottare, alcuni soldati uscirono dal vicolo
mentre
altri si interessarono al cadavere della guardia, girandolo sulla
schiena con
lo stivale e frugando tra i suoi vestiti. Nel frattempo, uno di loro si
avvicinò lentamente ai due ragazzi con un mezzo sorriso sul
volto severo.
“Non abbiate paura, siamo
venuti a salvarvi” Disse con un
russo comprensibile.
Toris lasciò sfuggirsi un
gemito mentre Feliks iniziò a
piangere poggiando il volto sulla spalla del ragazzo.
Davanti al vicolo apparve un grosso
carro armato che si
fermò esattamente davanti l’entrata. Toris lo
guardò da sopra la spalla del
soldato russo, sgomento. Aveva visto molti carri armati durante le sue
operazioni nei Paesi Baltici, ma nessuno era grande e impressionante
come
quello.
Il rumore fece girare i soldati incuriositi verso il veicolo, alcuni di
loro lo
salutarono esultanti per aver ucciso un altro nazista.
Il portellone superiore del carro armato si aprì con un
forte rumore e dalle
sue viscere comparve la testa e il busto di un ragazzo dal naso
incredibilmente
grande e dai capelli chiari, coperti quasi totalmente da un colbacco.
Il
ragazzo uscì quasi del tutto dal portellone, poi si
sistemò un’estremità della
sciarpa che si era srotolata dal suo collo e mise una mano nella tasca
mentre
guardava direttamente ai due prigionieri.
La luce del lampione creava uno strano gioco di ombre sul volto del
ragazzo, ma
questo non fermò Toris dal pensare che quel russo era forse
la cosa più bella
che avesse visto da quando era stato internato in
quell’orribile posto.
Sperava che non fosse l’ultima.
Il russo guardò il pezzo
di carta e poi i prigionieri, poi
si sporse leggermente mentre urlava con il suo forte accento.
“Sei tu Toris
Laurinaitis?”
La sua voce era dolce ma decisa,
ricordava vagamente quella
di Matthew, ma il suo tono era monotono, come se avesse dovuto ripetere
quella
frase molte volte.
Le guance di Toris si rigarono di lacrime mentre la presa di Feliks si
stringeva su di lui.
Era salvo, anzi erano salvi.
Il ragazzo bruno chinò la testa gemendo forte e abbracciando
il compagno mentre
il russo scendeva dal carro armato e si faceva largo tra i compagni con
un
sorriso sul volto.
Ivan si fermò davanti i
prigionieri e si inginocchiò
poggiando una mano sulla testa di Toris e accarezzandogli i capelli con
dolcezza.
“Due ragazzi della
resistenza baltica mi hanno chiesto di
trovarti. Ha davvero dei buoni amici, дорогой
(caro)!”
E così il principe russo,
sul suo bel cavallo armato, riuscì
a salvare la principessa lituana, rinchiusa nel castello di
concentramento,
dalle grinfie del drago nazista.
Dopo aver sentito la sirena dare
l’allarme, Ludwig si era
diviso da Gilbert per precipitarsi all’infermeria e portare
in salvo il maggior
numero di persone, primo tra tutti Feliciano. Avrebbe tanto voluto che
Gilbert
lo seguisse per non perderlo di vista in un momento tanto critico, ma
Gilbert
aveva insistito di dover prendere alcune cose importanti nel suo
ufficio, tra
cui uno zaino pieno di vettovaglie e Gilbird. Il ragionamento
dell’albino non
era sbagliato, era impossibile sopravvivere tra la neve nel paesaggio
prussiano
senza il necessario, ma Ludwig temeva di non rivederlo mai
più.
Dopo il confronto di pochi attimi prima, il tedesco biondo aveva
improvvisamente rivalutato suo fratello. Certo, tutte le cose malvagie
che
aveva commesso non potevano esser cancellate in un attimo con qualche
parola
ben pesata, ma Ludwig sentì che dopo aver scoperto il piano
di Gilbert i suoi
sentimenti verso i lui erano cambiati.
Insomma, non lo riteneva più un bastardo
senz’anima, e aveva cominciato ad
accettare nuovamente i sentimenti d’amore fraterno che per
molto tempo aveva
represso.
Fortunatamente, nel seminare i loro
inseguitori, i due
fratelli erano entrati nella porta sul retro del dormitorio
dell’amministrazione
del campo. Facendo molta attenzione, Gilbert sarebbe riuscito
facilmente a
passare inosservato e a raggiungere il suo ufficio in poco tempo. Lo
stesso non
si poteva dire di Ludwig, che dovette appiattirsi ai muri e guardarsi
intorno
continuamente con la pistola in mano mentre percorreva i vicoli e gli
spiazzali
per raggiungere l’infermeria. Purtroppo, aveva visto molti
prigionieri a terra
morti sotto i colpi delle guardie, alcuni erano stati addirittura
calciati o
trascinati in giro per gioco.
Quello scempio fece montare una forte rabbia in Ludwig.
Quando arrivò
all’infermeria scoprì con orrore che la porta
era stata sfondata con un calcio. Lentamente entrò dentro
puntando la pistola
davanti a sé pronto a far fuoco al minimo cenno di pericolo.
L’infermeria era vuota e tetra, non una luce illuminava le
stanze silenziose.
Qualcosa filtrava dalla finestra che dava sulla stanza dei malati, ma
invece di
aiutare la vista dava un aspetto lugubre e malsano al luogo. Dopo una
rapida
occhiata in giro, Ludwig raggiunse i lettini dei malati, facendo una
macabra
quanto orribile scoperta: sui lettini lerci dell’infermeria i
malati giacevano
inermi con evidenti ferite d’arma da fuoco sul corpo. Il
sangue di alcuni di
loro aveva macchiato non solo i letti ma perfino il pavimento.
Ludwig si portò una mano
alla bocca mentre represse un
coniato di vomito, ma la sua forza di volontà non fu
abbastanza forte. Si
accasciò a terra mentre svuotava lo stomaco e riversava il
suo contenuto a
terra. Quella scena avrebbe potuto impressionare chiunque.
Cercando di riprendersi dallo shock e
dal dolore, il ragazzo
biondo si rialzò e controllò i lettini. Erano
tutti morti di recente, i loro
corpi erano ancora caldi. Ma ciò che interessava Ludwig era
vedere se tra le
vittime c’erano Feliciano e Matthew.
Con suo grande sollievo, non
trovò né loro né Francis.
Probabilmente
erano riusciti a scappare prima dell’arrivo dei soldati,
anche se non capiva
come, soprattutto perché Feliciano aveva una gamba rotta e
non poteva
camminare.
Si guardò ancora qualche secondo attorno a sé per
cercare di capire come quei
tre erano riusciti a salvarsi, quando vide la porta della stanza del
medico
aperta, e all’interno la finestra spalancata.
Ecco come.
Ludwig raggiunse la finestra e
guardò fuori. Da quel punto
riusciva a vedere il perimetro del campo che si estendeva oltre gli
edifici, ma
soprattutto riusciva a vedere delle impronte sulla neve. In tutto erano
quattro, due leggere mentre altre due molto profonde.
“Qualcuno sta portando
sulla schiena Feliciano. Devo
trovarli immediatamente, sono un bersaglio troppo facile da
colpire!” Pensò il
tedesco mentre si lanciava fuori dalla finestra e iniziava a correre
seguendo
le impronte.
La sua deduzione si rivelò
giusta, infatti non dovette
correre molto per trovare i tre ragazzi cercare di scappare seguendo il
perimetro per raggiungere una delle uscite che dava sui campi. In un
altro
contesto Ludwig avrebbe ammesso che quella visione era davvero comica,
con
Francis che cercava di correre barcollando pericolosamente a causa del
peso di
Feliciano che portava sulle spalle, e che evidentemente il suo corpo
stremato
mal sopportava, mentre teneva per mano un Matthew ancora senza occhiali
e cieco
come una talpa.
Sarebbe stato davvero divertente da vedere in un circo, ma
lì in mezzo alla
neve, tra gli edifici di un campo di concentramento e con delle guardie
che sparavano
a chiunque gli capitasse sotto tiro, quello spettacolo feriva
l’anima.
Francis si girò di scatto
sentendo i suoi passi sulla neve,
rischiando di cadere all’indietro trasportato dal peso
dell’italiano.
“Ludwig!”
Esclamò Feliciano in lacrime “Ve… cosa
sta
succedendo?”
“Abbiamo sentito la sirena
suonare e improvvisamente le
guardie hanno iniziato a inseguire i prigionieri ovunque e a sparargli
contro.
Siamo riusciti a scappare dalla stanza del medico prima che aprissero
la porta
a calci… Mon dieu!”
“Tutti quei poverini che
sono rimasti lì… loro sono
tutti…”
Ludwig provò
pietà per il povero canadese che si asciugava
l’occhio sano, gonfio e arrossato, dalle lacrime di dolore.
“Non potevate salvarli,
è già una fortuna che siete ancora
vivi. Aspetta Francis, ti aiuto a trasportare Feliciano”
Il francese non accennò a
fermarsi mentre avvistava la porta
laterale del perimetro.
“Non abbiamo tempo, non
preoccuparti. Se proprio vuoi
aiutarmi, prendi Matthew”
Francis lasciò la mano del
canadese e si sistemò meglio
l’amico sulla schiena tenendogli le gambe con entrambe le
mani. Dopo un attimo
di esitazione, Ludwig prese la mano di Matthew e continuò a
camminare a passo
svelto al fianco ai prigionieri.
“Ludwig” Disse
d’un tratto Francis con un’evidente segno di
sforzo nella voce “La sirena… sono arrivati,
vero?”
Non ricevendo una risposta da parte
del tedesco, Francis imprecò
in francese e non fece altre domande. Al suo posto invece
parlò Feliciano.
“Ve, perché le
guardie ci vogliono uccidere? Forse Feliks
aveva ragione. Chissà dove sono, se sono riusciti a
scappare… ve…”
Ludwig stava per rispondergli con una
spiegazione vaga,
almeno per rassicurarlo quanto bastava per non vederlo in quello stato,
quando
dei passi e delle urla provenienti da un vicolo alla loro destra
attirarono la
loro attenzione.
Subito Ludwig estrasse la pistola e la puntò contro
l’uomo che correva verso di
loro, per poi abbassarla qualche istante dopo accorgendosi, con una
buona dose
di sollievo, che si trattava di suo fratello Gilbert.
L’albino correva a perdifiato con un grosso zaino sulle
spalle, tenendo la
pistola in una mano e con l’altra reggendo il povero, grasso
Gilbird sulla
testa. I suoi vestiti e il volto erano macchiati di sangue.
“Vi ho trovati! Matthew,
stai bene?” Chiese rivolgendo
subito la sua attenzione al canadese, quasi ignorando gli altri.
Matthew arrossì e
annuì con un timido sorriso. Francis
sorrise a sua volta distogliendo lo sguardo per far finta di non sapere
nulla
mentre Feliciano aggrottò la fronte nella confusione
più totale. Ludwig invece
non riusciva a distogliere lo sguardo dalle macchie di sangue.
“Sei ferito?”
“No, hanno cercato di
fermarmi… ma non ci sono riusciti
perché sono troppo furbo. Nessuno può
fermarmi!” Ammiccò verso Matthew mentre sorrideva
come un bambino davanti un vassoio di dolcetti.
Ludwig però non sorrise
come gli altri, con lui quella
recita non funzionava. Poteva vedere perfettamente l’ansia e
la paura nello
sguardo del fratello, il volto pallido e tirato, le mani che tremavano
in modo
incontrollato, il sudore che ammantava il collo e le tempie rendendo
appiccicosi i suoi capelli.
Continuarono a muoversi insieme,
anche se Francis e
Feliciano rallentavano tutto il gruppo. Ad un certo punto, Gilbert si
mise
dietro di loro e iniziò a spingerli premendo sul
fondoschiena di Feliciano,
nella speranza di velocizzare la loro corsa. Ludwig sentì
una scintilla di
gelosia, ma dovette resistere perché era per il loro bene,
inoltre non gli era
sfuggito lo sguardo velenoso che Gilbert gli aveva lanciato nel vedere
la sua
mano stringere quella di Matthew.
La porta ormai era a un centinaio di
metri, Francis poteva
vedere che era ancora chiusa e in perfette condizioni. Sperava
vivamente che
Gilbert avesse con sé le chiavi del lucchetto che bloccava
la sua apertura,
altrimenti da loro salvezza quella porta si sarebbe trasformata in
rovina.
Il francese già pregustava la libertà. Avrebbero
dovuto soffrire il freddo e la
fame nel paesaggio spoglio e inospitale prussiano, ma una volta
raggiunto il
primo centro abitato, Francis si sarebbe dileguato per non essere
catturato
nuovamente. Rispetto a Feliciano e Matthew, che potevano godere della
protezione di quei due tedeschi, Francis era scoperto e non poteva
permettersi
di essere catturato e internato nuovamente, non dopo aver sofferto
tanto per
tornare libero.
Lui doveva tornare in Inghilterra.
Le sue speranze morirono alla vista
dei giubbotti lunghi e
dei fucili dei soldati russi, che si raggrupparono velocemente davanti
la porta
cercando di aprirla strattonandola con forza nella speranza che il
lucchetto
cedesse per il freddo.
Si fermarono bruscamente a quella vista, Matthew che non capiva il
perché di
quel brusco arresto poiché non riusciva a vedere nulla a
quella distanza.
Ludwig cercò lo sguardo di Gilbert nel panico più
totale, se quel gruppo di
soldati li avesse visti non avrebbero esitato a fucilarli un solo
istante.
L’albino ricambiò il suo sguardo con altrettanta
preoccupazione mentre lasciava
la presa su Feliciano, poi annuì leggermente. Immediatamente
Ludwig tirò la
mano di Matthew e cominciò a correre sulle loro stesse orme
verso l’infermeria
da dove erano venuti, mentre Gilbert tirava Francis per farlo girare e
muovere,
e ricominciava a spingere su Feliciano con più forza.
Non ci volle molto tempo prima che
dei soldati russi,
attirati dai rumori di passi sulla neve, li notassero e cominciassero a
urlare
e corrergli dietro. Feliciano, che non doveva stare attento a dove
mettere i
piedi, si girò per dare una sbirciatina alle sue spalle,
cominciando a piangere
quando vide i soldati russi alle loro calcagna imbracciare il fucile.
“Vi prego, non sparate, non
voglio morire!!” Urlò in preda
al panico, aggrappandosi alla testa di Francis con forza e chinandosi
il più
possibile nel vano tentativo di rendersi meno visibile.
Il rumore del calpestio sulla neve e
le urla in russo
riempirono le orecchie di Ludwig che, in preda al panico, correva al
massimo
delle sue capacità con gli occhi sgranati, tirandosi dietro
il canadese che
cercava disperatamente di stargli dietro, distanziando gradualmente gli
altri.
Alcuni colpi di fucile fendettero l’aria facendo urlare dal
panico l’italiano e
dando un incentivo in più agli altri per correre.
Nella sua mente Gilbert ripeteva come un mantra tutte le preghiere che
conosceva.
Improvvisamente sia le urla sia il
rumore dei passi
cessarono all’unisono, lasciando che tornasse il silenzio. I
fuggitivi si
voltarono varie volte per cercare di capire cos’era successo
senza rallentare
la loro andatura.
Ludwig vide Feliciano guardare oltre le sue spalle e allentare la presa
sulla
testa di Francis, mentre dietro di loro due soldati si staccavano dal
gruppo e
alzavano i fucili contro di loro.
A quella vista, il suo corpo divenne improvvisamente leggero e la sua
mente si
svuotò completamente, mentre la consapevolezza della sua
fine occupava tutto il
suo pensiero.
Uno dei fucili fu puntato su di lui,
mentre l’altro fu
puntato su Gilbert, che intanto si era fermato e allontanato di qualche
passo
dai due prigionieri, alzando le mani in segno di resa.
Il cuore di Ludwig affondò nel vederlo arrendersi,
significava che era davvero
tutto finito, che non avevano più scampo e che dovevano
sperare nella pietà del
nemico. Ma quei fucili puntati su di loro davvero non avevano nulla di
pietoso.
Comunque, la speranza era l’ultima a morire,
perciò Ludwig emulò suo fratello
e, lasciando la mano di Matthew e facendo qualche passo lontano da lui,
alzò le
mani sulla testa.
Un uomo si fece largo dal gruppo di
soldati, affiancando
quei due che imbracciavano il fucile. Il suo volto era bruciato dal
freddo e
severo, gli occhi chiari che potevano scrutare direttamente dentro
l’anima,
mentre una mascella forte delineava il viso che sfoggiava un naso
rotto.
Il soldato urlò qualcosa con voce tonante, poi fece un gesto
inequivocabile.
Ludwig sentì il proiettile
passare con un sibilo a pochi
centimetri dal suo braccio sinistro, andando a conficcarsi nel muro di
un
edificio a centinaia di metri di distanza dietro di lui.
Gilbert invece non fu così fortunato.
Senza nemmeno emettere un suono, l’albino fu scaraventato
all’indietro dalla
forza del proiettile, finendo di schiena sulla neve. Gilbird
rotolò nella neve
a pochi passi dalla sua testa.
La vista di Ludwig si
macchiò di giallo e di nero mentre il
suo corpo era scosso da una vampata di sudore freddo. La sua testa
girava
vorticosamente, gli mancava il fiato, le orecchie erano piene delle
urla
stridule di Feliciano e di quelle concitate di Francis, seguite
dall’urlo
disumano e ben udibile di Matthew.
Corse e si inginocchiò di peso accanto al corpo del
fratello, guardandolo come
se fosse la prima volta nella sua vita, mentre Francis cercava di
spingere
Matthew nel lato opposto per continuare a scappare nonostante il
rifiuto
categorico del ragazzo di lasciare Gilbert in quello stato, e i russi
che li
raggiungevano esultanti.
Quando si avvicinò,
Gilbert era ancora cosciente. Il suo
sguardo spento e stanco si posò lentamente su di lui mentre
si sforzava di
sorridere nonostante il dolore. Dalla sua spalla usciva una grande
quantità di
sangue che ben presto macchiò i vestiti e la neve
sottostante. Il foro di
entrata del proiettile era grande quanto una moneta da un marco e
così profondo
che Ludwig poteva quasi vedere l’osso e le articolazioni.
Gli occhi di Ludwig si riempirono di lacrime.
Gilbert prese una boccata
d’aria, che gli costò una
sofferenza atroce:
“Piangi come…
una femminuccia? Non… ti si addice…
sai?”
“Gilbert” Ludwig
cercò di trattenere le lacrime nei suoi
occhi azzurri “Per favore, cerca di resistere,
l’infermeria non è lontana,
posso…”
Ludwig fu interrotto dalla risata di
Gilbert che si
trasformò in un rantolo.
“Non dire
cazzate… piuttosto… prenditi cura di
te… di
Matthew… Gilbird…”
Le lacrime cominciarono a scivolare
dagli occhi di Ludwig,
rigandogli le guance e cadendo dal mento e dal naso sui vestiti di suo
fratello. Gilbert abbozzò un sorriso tremante e sofferto
mentre alzava con
sforzo la mano per raggiungere il volto di Ludwig, non riuscendovi a
causa
delle forze che lo stavano lasciando. Prontamente, il fratello la prese
tra le
sue e se la portò al volto, baciandogli le dita.
Intanto i russi li avevano circondati e puntavano i fucili contro di
loro,
pronti a sparare a qualunque movimento brusco, ma notando i gradi delle
divise
dei due tedeschi e capendo che potevano essere prigionieri molto utili,
rispettarono il momento sforzandosi di tacere. Alcuni di loro invece si
avvicinarono a Gilbird, che intanto pigolava tra la neve. Dopo un breve
parlottare sommesso, uno di loro lo raccolse per un’ala e lo
infilò in un
tascone del suo giubbotto.
Ludwig gemette piano mentre piangeva
come non aveva fatto
mai nella sua vita. La sua vista era completamente offuscata dalle
lacrime, ma
cercò in ogni modo di focalizzare l’immagine del
volto di suo fratello. Tirò su
col naso un paio di volte mentre il respiro di Gilbert diventava sempre
più
lento e interrotto da rantoli e gemiti.
Un detto popolare diceva che si
riusciva ad apprezzare
qualcosa soltanto quando la si perdeva, Ludwig conosceva bene quel
proverbio, ma
non aveva mai capito fino in fondo cosa si potesse provare nel perdere
qualcosa
e capirne il valore soltanto a tragedia compiuta.
Ora purtroppo era in grado di capirlo.
Con il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, con
lo sviluppare dei propri
gusti, dei propri pensieri e ragionamenti, Ludwig era finito da amare
il
fratello a odiarlo con tutto sé stesso. Non aveva mai
sopportato il suo
comportamento, il suo agire, perfino il suo aspetto. Aveva sempre
cercato di
non essere quello che invece lui era, allontanandosi da lui e
disprezzando
qualunque cosa gli fosse collegata. I sentimenti d’amore
verso suo fratello
erano stati brutalmente soffocati a favore di quelli di odio e
disprezzo.
Ludwig credeva di averli eliminati per sempre, invece esistevano ancora
e in
quel momento erano più forti che mai, e chiedevano di essere
espressi a gran
voce.
“Ti prego, non
lasciarmi…. Ho ancora bisogno di te…
Gil…”
Lo sguardo di Gilbert assunse
un’espressione scioccata. I
suoi occhi si inumidirono mentre i bordi delle labbra si alzavano in un
sorriso
dolce. Una singola lacrima scivolò via percorrendogli il
volto pallido.
“Erano anni… che
non… mi… chiamavi….
cos…ì…”
Le pesanti palpebre di Gilbert si
chiusero mentre il braccio
alzato cadeva senza forza nelle mani di Ludwig. Il ragazzo biondo
lanciò un
urlo disperato mentre si chinava sul corpo del fratello, piangendo e
stringendolo con fare convulsivo.
Quando il corpo di Gilbert cadde a
terra colpito dal
proiettile, Francis non provò gioia e soddisfazione come
aveva sempre pensato,
ma tristezza. Dire che aveva immaginato le morti più atroci
per quella guardia
dall’animo nero era poco, ma in quel momento non riusciva
davvero a provare
odio nei suoi confronti, e davvero non sapeva il motivo. Forse aveva
aiutato il
fatto che negli ultimi mesi era stato meno bastardo e più
umano nei loro
confronti, o forse era il pensiero che quel farabutto era riuscito a
cambiare
in meglio grazie all’amore che provava per Matthew.
Qualsiasi fosse il motivo, Francis non ci mise molto a realizzare che
la loro
unica possibilità di uscire dal campo vivi era morta con lui.
Mentre Ludwig lanciava urla disperate
e si gettava sul corpo
del fratello e Feliciano gridava terrorizzato per lui, il suo unico
pensiero fu
di salvare la pelle. Cercò di sovrastare quella cacofonia di
rumori con la sua
voce, urlando ai suoi due compagni di scappare nella speranza di poter
approfittare della distrazione dei soldati russi per svignarsela, ma
l’urlo di
Matthew lo azzittì e contemporaneamente lo fece
rabbrividire.
Il giovane canadese era famoso per la sua voce dolce e delicata,
così delicata
da risultare quasi impossibile da udire, inoltre il suo stesso aspetto
lo
aiutava il più delle volte a passare inosservato. Era
davvero perfetto per lo
spionaggio sul campo, Francis lo aveva sempre pensato.
Ma quell’urlo gli ferì le orecchie con una forza
tale che difficilmente avrebbe
potuto dimenticarlo.
Non aveva idea di come Matthew fosse
riuscito a vedere o a
capire cosa stesse succedendo, ma dal suo comportamento Francis dedusse
che
Matthew sapeva che Gilbert era stato colpito, sapeva che il suo amato
stava per
morire. Il ragazzo cercò di raggiungere Gilbert, ma fu
prontamente bloccato dal
corpo di Francis, mentre Feliciano lo tirava per la maglia e per i
capelli.
Nonostante ciò Matthew sembrava una furia, urlava e si
dimenava come sotto
tortura, l’occhio buono che piangeva ininterrottamente.
Francis dovette appellarsi a tutta la
sua forza di volontà
per raccogliere le forze e scontrarsi con il canadese. Matthew
finì a terra di
peso mentre Feliciano rimase con una sua ciocca di capelli biondi in
mano.
“Smettila, stupide, non
abbiamo tempo da perdere. Vuoi forse
morire?”
Matthew si alzò
lentamente, sconvolto dai singhiozzi. Guardò
il volto di Francis rosso dalla rabbia e dal panico, poi lo
spostò su Gilbert
che intanto alzava una mano verso suo fratello. Doveva essere davvero
una
grandissima sofferenza dover perdere il proprio fratello in quel modo e
vederlo
morire sentendosi impotente. Quel pensiero gli riportò alla
mente il sorriso
smagliante di suo fratello Alfred, il giorno che lo aveva salutato
prima di
imbarcarsi per prendere parte all’operazione di spionaggio in
Francia, non
sapendo che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo
avrebbe visto.
Voleva davvero rivedere il suo amato fratello.
Quel pensiero bastò per farlo rialzare, ma non sarebbe stato
più lo stesso
Matthew.
Lanciò un ultimo sguardo
verso Ludwig e Gilbert, assistendo alla
sofferenza del tedesco biondo nel vedere suo fratello morire, soffrendo
lui
stesso nel vedere la persona che aveva amato esalare l’ultimo
respiro.
Si asciugò l’occhio con la manica sfibrata della
maglia e diede la mano a
Francis che iniziò ad allontanarsi velocemente da quel
luogo.
Pochi istanti dopo tre soldati russi notarono i loro spostamenti e si
precipitarono a sbarrargli la strada. I loro sguardi erano duri e
freddi, ma
non puntarono i fucili contro di loro, anzi se li misero sulle spalle e
si avvicinarono
di qualche passo.
Il cuore di Francis minacciava di
esplodere.
Non avevano più speranze, non erano riusciti a scappare e
ora erano in mano ai
soldati russi. Francis voleva piangere, era così vicino alla
libertà, invece
ora dalla prigionia tedesca sarebbe passato a quella russa,
più crudele.
Il suo pensiero andò al suo Arthur che era rimasto in
Inghilterra solo e ad
aspettarlo, ma con una fitta di dolore realizzò che non
riusciva a ricordare
più la maggior parte dei dettagli del suo volto.
Ormai non aveva più niente.
Preso dal panico,
indietreggiò velocemente quando vide il
soldato avvicinarsi, ma si sbilanciò e cadde
all’indietro finendo su Feliciano
che urlò di dolore tenendosi la gamba steccata tra le mani.
Ben presto però
l’italiano cercò di avvicinarsi il più
possibile a lui, preda anch’egli del
terrore. Matthew invece rimase fermo dov’era, non sapendo
assolutamente cosa
fare.
Il soldato, un ragazzo dai capelli
scuri e dagli occhi
chiari, disse alcune parole nella sua lingua offrendo una mano a
Francis mentre
si avvicinava. I tre prigionieri rimasero a fissarlo immobili e pieni
di paura.
Il ragazzo ripeté le parole più lentamente e
scandendo ogni lettera, ma ebbe lo
stesso risultato. Sospirando, ritrasse la mano e chiamò
verso il gruppo di
soldati che accerchiavano il corpo di Gilbert. Un altro soldato rispose
alla
sua chiamata e si staccò dai suoi compagni per raggiungerlo.
Dopo un breve scambio di parole, il soldato appena arrivato si
girò verso di
loro e con un inglese molto stentato disse:
“Noi salvare. Voi
liberi”
Dopo un momento di stallo, Francis
nascose il volto tra le
mani e iniziò a singhiozzare. Matthew sentì le
gambe deboli e cadde in
ginocchio, il suo sguardo perso nel vuoto mentre l’occhio si
inumidiva
nuovamente.
Soltanto Feliciano, che non conosceva né il russo
né l’inglese, non riuscì a
capire cosa stesse succedendo. Si guardò intorno preso dal
panico.
“Francis… cosa
succede?” Infine, chiese sussurrando, senza
perdere di vista i soldati russi davanti a loro.
“Finalmente…
quest’incubo è finito!”
Ludwig strinse il corpo del fratello
a sé come un polpo la
sua preda.
Non voleva lasciarlo per nessun motivo, non voleva accettare il fatto
che il
suo tanto amato e odiato fratello fosse morto. I suoi gemiti di dolore
riempirono l’aria, ma i soldati russi non furono disposti a
concedergli altro
tempo.
Uno dei soldati che lo stavano accerchiando, lo stesso con il naso
rotto che
prima aveva ordinato di sparare, disse alcune parole in russo e i
soldati si
mossero. Due di loro andarono dietro il tedesco e cercarono di
afferrarlo per
tirarlo via, ma lui resistette aggrappandosi al fratello e poggiando
con forza
la testa sul suo petto.
“NO! NO! Lasciatemi! Non
voglio abbandonarlo!” Gridò a pieni
polmoni anche se i russi non potevano capire una sola parola di quello
che
diceva.
Fu in quel momento che lo
sentì.
Il cuore di Gilbert, anche se debolmente, batteva ancora, il che
significava
che suo fratello non era ancora morto.
Quella rivelazione sconvolse a tal punto il ragazzo che i soldati
riuscirono
finalmente ad agguantarlo per le braccia e tirarlo via per renderlo
prigioniero. Ludwig si riprese subito e cercò di
divincolarsi in ogni modo
possibile, scalciando e puntando i piedi a terra, mentre urlava contro
le
guardie che intanto si accostavano al corpo dell’albino.
“E’ ancora vivo!
Aiutatelo, vi prego! Lui… gnh… lui è
ancora
vivo!”
Nel 1945
si concluse la Seconda Guerra Mondiale con la resa della Germania, dopo
la
caduta di Berlino, e la resa del Giappone, dopo lo sgancio delle due
bombe nucleari.
Nel novembre dello
stesso anno si
tennero i processi di Norimberga, volti a giudicare e condannare coloro
che si
erano macchiati di vari crimini contro l’umanità e
la pace comune.
Per le
atrocità compiute come amministratore del campo di
concentramento nel
territorio prussiano, Gilbert Beilschmidt venne condannato a 17 anni di
reclusione.
Per aver compiuto gli stessi crimini ma in minore intensità,
Ludwig Beilschmidt
venne condannato a 10 anni di reclusione, da scontare in un carcere
differente
da quello del fratello.
Nel 1952
Berlino Est e Berlino Ovest, i due blocchi che nacquero dalla divisione
della
città da parte delle forze occidentali e della Russia,
chiusero la frontiera
non permettendo più ai tedeschi di poter circolare
liberamente tra “le due città”.
Nel 1961 fu costruito il muro di Berlino, che di fatto divise
fisicamente in
due la città.
I due
fratelli Beilschmidt non ebbero la possibilità di
ricongiungersi.
________________________
Note
dell'Autore
Innanzitutto
mi scuso per il fortissimo ritardo della pubblicazione, ho avuto
problemi a livello universitario e a livello di salute che non mi hanno
permesso di completare prima il capitolo.
Come avete potuto vedere, in questo capitolo accadono moltissime cose,
non è stato molto semplice da scrivere per me che sono alle
prime armi x'D
Comunque sia spero vi sia piaciuto nonostante la lunghezza esagerata e
tutti gli errori che possono esserci (nonostante io controlli
scrupolosamente ogni capitolo prima della pubblicazione, qualcosa mi
sfugge sempre x'D).
Il prossimo capitolo sarà l'ultimo, siamo quasi arrivati
alla fine del nostro percorso :)
Spero che questa ff vi sia piaciuta e vi abbia divertito, fatto
soffrire, interessato come l'ho ha fatto con me ^^
E credo davvero che riceverò una bella denuncia per abusi e
maltrattamenti dai legali di Prussia x'D
Come sempre, aspetto le recensioni *-*
A presto!
|
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Capitolo 11 *** Un nuovo inizio ***
Febbraio 1946,
Londra
Quando
aprì gli occhi, Francis si
accorse immediatamente di due cose: la prima era che il sole filtrava
prepotentemente tra le spesse pieghe della tenda che copriva la
finestra,
fendendo l’aria e cadendo esattamente dov’erano i
suoi occhi, accecandolo; la
seconda fu la voce soave di un uomo che cantava una lenta e dolce
melodia
dall’altra parte della casa, seguita dallo sgradevole odore
di cibo bruciato
che si insinuava in ogni anfratto dell’appartamento come un
parassita.
Francis si
passò una mano sugli occhi
ancora pesanti dal sonno mentre si metteva lentamente seduto sul letto.
I suoi
capelli erano un disastro, come ogni mattina, e cadevano in ciocche
arruffate
sul volto e sulle spalle. Liberatosi finalmente dalla luce traditrice,
il
francese si stiracchiò allungando le braccia sulla testa e
sbadigliando. La
camicia da notte che portava cadde morbida dalle sue braccia
scoprendole,
rivelando anche l’avambraccio numerato.
Svegliarsi
presto stava cominciando a
diventare sempre più difficile con il passare del tempo,
soprattutto se durante
la sera e la notte era costretto a partecipare ad eventi di vita
mondana con
Arthur. Nonostante il suo odio spropositato per la movida inglese,
Arthur era
ancora l’ultimo erede della prestigiosa famiglia Kirkland, e
aveva degli
obblighi da rispettare.
Poggiando i
piedi nudi sulla moquette
morbida, Francis si alzò dal letto e, grattandosi la nuca
ancora assonnato, si
diresse verso la cucina, la fonte dell’odore disgustoso che
appestava l’aria.
Come aveva immaginato, nella cucina c’era Arthur che
canticchiava la sua
adorata ninna nanna mentre cucinava, o torturava, qualcosa sui
fornelli. Francis
si fermò sulla soglia della porta ad osservare la scena, per
poi appoggiarsi allo
stipite con la spalla e la testa, sorridendo.
I suoi occhi vagarono su tutta la figura bassa e snella del britannico,
sul suo
collo roseo e scoperto, sulle spalle strette e gentili, sui fianchi che
sostenevano i lacci legati del grembiule, sul suo fondoschiena piccolo
e sodo,
morbido, che combaciava perfettamente con le grosse mani del francese.
Arthur non si
accorse della presenza
del francese finché, abbassandosi per aprire il forno e
prendere la teglia di
scones carbonizzati, non si bruciò un dito nonostante le
presine. Subito il
ragazzo iniziò a imprecare nella sua lingua natia una serie
incalcolabile di
nomi, oggetti ed esclamazioni strane, finché la risata di
Francis non lo fece
girare verso la porta.
“Cosa
diavolo ridi, stupida rana?”
Urlò mentre il suo volto diventava rosso per
l’imbarazzo.
Francis, che
intanto aveva dato
un’occhiata più approfondita al suo fondoschiena,
continuò a ridere di gusto.
Arthur era sempre stato negato per la cucina fin da quando si erano
conosciuti
anni addietro, quando Francis era soltanto un orfano affamato
introdotto nella
ricchissima famiglia Kirkland. Aveva più volte cercato di
insegnargli almeno i
concetti base di come usare i fornelli, ma era stato tutto inutile.
Spostandosi dallo stipite della porta, il francese si
avvicinò lentamente ad
Arthur e gli prese la mano baciando il dito scottato e facendogli
l’occhiolino.
Il britannico arrossì vistosamente e poi distolse lo sguardo
con un leggero
cipiglio e un borbottio incomprendibile.
“Devi
stare più attento, mon ami!”
“T-taci!
Non solo mi sono svegliato
presto per cercare di cucinarti la colazione, devo essere anche preso
in giro
così!”
Francis
sbatté varie volte le ciglia
stupito: se Arthur diceva di essersi svegliato presto, e già
di per sé si
svegliava presto, ciò significava che quella teglia di
biscotti deformi non era
stata la prima aberrazione che era uscita da quel forno quella mattina.
Un
brivido lo scosse lungo tutta la schiena al pensiero di quanti
ingredienti
preziosi erano stati sacrificati nelle mani dell’inglese.
“Merci,
mon ami, io apprezzo sempre
quello che fai per me!” Canticchiò mentre spingeva
l’altro verso una sedia del
tavolo “Ma è mattina inoltrata e io ho fame. Ora
da bravo rimani qui seduto e
aspetta che cucini qualcosa di buono… o per lo meno
commestibile…”
Arthur
cercò di fare resistenza mentre
la sua bocca sciorinava una serie di imprecazioni da vero londinese,
infine si
arrese e si sedette togliendosi il grembiule da cucina e lanciandolo
contro
Francis, che lo prese al volo.
“Su
su, tesoro, non essere così
arrabbiato! Piuttosto, cosa vorresti per colazione?”
Legandosi il
grembiule dietro la
schiena, Francis iniziò a recuperare tegami e altri
strumenti da cucina.
Sorrise quando vide il cestino, che di solito Arthur usava per fare la
spesa,
contenere uova, farina e latte fresco. In realtà il francese
non aveva mai
capito come il suo compagno riuscisse a procurarsi quei beni alimentari
quasi
di lusso mentre il resto della popolazione era affamata e per strada
tra le
macerie.
Un pensiero che per ora non era molto importante.
“I
miei scones, per favore!” Rispose
con veleno l’altro biondo da dietro le sue spalle.
Francis
lanciò un’occhiata alla teglia
ancora fumante con sopra i biscotti quasi carbonizzati. Scosse la testa
in
disapprovazione e iniziò a riunire degli ingredienti in una
ciotola,
amalgamandoli con una frusta.
“Mon
dieu, non vorrai davvero mangiare
quella roba tutta bruciacchiata? Non vorresti invece una bella crepe
con un po’
di thè?”
Arthur rispose
con un verso frustato,
rimanendo il silenzio per il resto del tempo. Francis sorrise sotto i
baffi, il
suo amico era così orgoglioso da non voler ammettere che
preferiva il cibo
francese piuttosto che i suoi biscotti cotti male inglesi.
Fischiettando, il biondo mischiò per bene gli ingredienti
nella ciotola
roteando la frusta velocemente e con decisione, la manica della camicia
da
notte che rivelava i numeri sull’avambraccio a ogni colpo di
frusta. Francis
sentiva lo sguardo di Arthur forargli la schiena, ma non disse nulla.
Prendendo una
padella e mettendola sul
fuoco, in poco tempo riempì un piatto di fumanti e deliziose
crepes dall’odore
invitante. Mentre aspettava che l’ultimo crepe si cuocesse
nella padella, prese
la teglia ormai fredda e la svuotò in un sacchetto di carta.
Da dietro le sue
spalle Arthur esclamò la sua disapprovazione.
“Non
voglio sprecarli, conosco molte
persone che li apprezzeranno nonostante siano così
bruciati”
“Ma io
li ho fatti per te!”
“Lo
so, mon ami, ma sai anche che non
li mangerò!”
Non era per
cattiveria, ma da quando
era tornato in Inghilterra vari mesi prima, Francis aveva giurato a
sé stesso
di non mangiare più alcun cibo se non fosse stato della
cucina francese e
cucinato da lui. Gli dispiaceva offendere in quel modo il suo adorato
compagno,
ma purtroppo il suo fisico non si era ancora ripreso dagli abusi subiti
durante
la sua prigionia nonostante fosse trascorso più di un anno
dalla sua
liberazione, e intendeva mangiare in modo salutare per cercare di
salvare il
salvabile. I medici che lo avevano visitato gli avevano assicurato che
si
sarebbe rimesso in sesto presto, ma Francis sentiva il suo fisico, e
soprattutto la sua mente, compromessi per sempre.
Un pugno sul tavolo lo riportò alla realtà.
“Stupida
rana! Crepa! Sparisci dalla
mia vista!”
Francis rise di
gusto a quelle parole.
Da quando era stato accolto nella casa della famiglia Kirkland, Arthur
aveva
sempre avuto il vizio di inveire contro di lui quando qualcosa non era
di suo
gradimento, o semplicemente quando era arrabbiato o nervoso. Di solito
Francis
portava il conto delle volte che Arthur gli diceva quella frase per il
semplice
gusto far infuriare maggiormente il suo compagno, che trovava
semplicemente
adorabile in quello stato. Questo era un gioco che facevano prima che
lui
partisse per il fronte, ma da quando era tornato Arthur non glie
l’aveva ancora
mai detta.
Con un rapido
colpo di spatola, il
francese girò la pastella sul fuoco e stava per rispondere
ad Arthur iniziando
il conto degli insulti, quando due braccia gli strinsero il busto da
dietro.
Arthur premette il petto contro la sua schiena, poggiando la fronte
sulla
spalla del ragazzo, che sorpreso da quel gesto posò la
spatola sulla cucina.
“No….
Ti prego, non farlo…”
“A-Arthur?”
Il rumore di
alcuni singhiozzi arrivò
alle orecchie del francese. Dietro la sua schiena Arthur strofinava il
suo
volto sulla sua spalla, bagnandola di lacrime.
“Non
voglio che tu… che tu muoia, o… o
che te ne vada… Non voglio rimanere solo… di
nuovo”
Francis strinse
le labbra mentre i
suoi occhi si inumidivano e il suo cuore si stringeva per il dolore. Se
per lui
quegli anni erano stati difficili, per Arthur, che non sapeva dove si
trovasse
e se fosse ancora vivo, lo erano stati altrettanto.
Girò su sé stesso senza rompere
l’abbraccio e strinse il britannico al suo
petto accarezzandogli con una mano la schiena mentre con
l’altra i capelli.
“Tranquillo
Arthur, tesoro… non vado
da nessuna parte. Io non ti lascerò mai più, te
lo prometto!”
A quelle parole
Arthur strinse ancor
più il corpo del francese e gemette nel pianto. Francis gli
prese il mento con
la mano e gli alzò il volto per guardarlo negli occhi. Lo
sguardo di Arthur era
bagnato e carico di dolore, i bordi degli occhi e le guance rossi
mentre le
lacrime scendevano copiose.
Francis rimase incantato dalla sua bellezza.
“Arthur”
Sussurrò, poi chiuse le
distanze tra di loro.
Le labbra di Arthur erano morbide e sottili, mentre quelle di Francis
screpolate e carnose. Il francese diede un piccolo morso a quelle
labbra così
invitanti, poi approfondì il bacio chiedendo il permesso di
poter esplorare la
bocca dell’altro con la sua lingua, permesso subito
accordato. Arthur si chinò
leggermente all’indietro spinto dalla forza gentile ma decisa
del bacio, mentre
il suo corpo si spostò per combaciare perfettamente a quello
del suo compagno e
le braccia si strinsero attorno al suo collo.
La stanza si
riempì velocemente
dell’odore pungente di cibo bruciato, ma la coppia
sembrò non farci caso
tant’era concentrata nel baciarsi.
Francis non riuscì a resistere e fece scivolare le sue mani
dalla vita
dell’inglese fin sul fondoschiena che strinse forte,
facendolo gemere per la
sorpresa e rompendo il bacio.
Il francese sorrise e appoggiò la fronte sulla sua.
“Non
esiste nulla al mondo che possa allontanarmi
di nuovo da te! Soltanto la morte forse, e dovrà combattere
molto… sono un osso
duro, sai?” Fece l’occhiolino.
Arthur sorrise
mentre un’ultima
lacrima scivolava sulla guancia, poi annuì di rimando e si
alzò in punta di
piedi per iniziare un altro appassionato bacio.
Maggio 1950, San
Pietroburgo
Toris si
passò la manica del giubbotto
sulla fronte mentre camminava per le strade trafficate della grande
città
russa. Il sole picchiava senza tregua sui palazzi e sulle strade
illuminando e
scaldando tutti i pedoni che frettolosamente camminavano ovunque
intorno a lui,
guardandolo con vivo stupore e con una punta di giudizio.
Il ragazzo lituano camminava a passo svelto coperto da un lungo
cappotto e una
sciarpa, decisamente troppo pesanti per quella stagione, madido di
sudore e con
un grosso sacchetto della spesa tra le braccia. Cercò di
ignorare le lunghe
occhiatacce che la gente gli lanciava mentre cercava di allargare la
sciarpa
quel tanto che bastava per non farla aderire alla pelle del collo e
quindi
farlo sudare ulteriormente. Almeno aveva avuto la decenza di legare i
capelli
con un nastro, anche se sulla fronte e vicino le orecchie erano tutti
bagnati.
Schivando i vari
veicoli che ronzavano
ovunque con il loro rumore assordante, finalmente riuscì ad
arrivare al portone
del palazzo dove condivideva un appartamento con il suo compagno Ivan.
Dopo essere stato salvato dal campo di concentramento, Toris era stato
oggetto
di una corte quasi da romanzo rosa da parte del soldato russo che in
quella
fatidica notte era saltato fuori dal carro armato come una inaspettata
quanto
bellissima sorpresa. Inizialmente Toris non gli diede molto credito,
guidato
anche Feliks e i suoi amici che non vedevano di buon occhi Ivan, ma a
lungo
andare cedette al corteggiamento, trasferendosi in Russia con lui.
Girando la
chiave nella grossa
serratura del portone, Toris fu colpito da una folata d’aria
fredda proveniente
dalla tromba delle scale appena aprì l’anta.
Girava sempre una piacevole aria
fresca nel grande atrio del condominio, che d’estate
rinfrescava e d’inverno
invece scaldava quel tanto che bastava per ritrovare la
sensibilità alle dita
degli arti.
Il loro appartamento si trovava al terzo piano, dopo una scalinata
degna di
qualunque scalata su di una montagna. Dopo aver salito quelle rampe di
scale
Toris aveva sempre il fiato corto, soprattutto se portava altri pesi
con sé
come il sacchetto della spesa. Gli altri coinquilini russi, tra cui
anche Ivan,
non sembravano soffrire della cosa.
Arrivato sul
pianerottolo davanti il
portone, Toris esitò qualche istante prima di infilare la
chiave nella
serratura e girare la maniglia. Si diede quasi dello sciocco per
quell’attimo
di incertezza, cercando di reprimere un lieve senso di paura che stava
crescendo dal suo interno.
La sua vita in Russia era tranquilla e appagante, Ivan gli voleva bene,
non
avevano problemi economici gravi.
Non aveva nulla da temere.
Eppure, quando
l’odore pungente della
vodka lo assalì dopo aver aperto la porta, Toris
sentì lo stomaco chiudersi dal
terrore e una sgradevole sensazione, che provava ogni volta che sentiva
l’odore
o alla vista della vodka, pesare sulla sua pelle.
“No,
ti prego no… non di nuovo” Pensò
mentre entrava lentamente e guardingo nella sala d’ingresso.
L’odore
della vodka proveniva in
cucina dove una radio suonava una melodia piuttosto ritmata russa,
seguita dal rumore
dello sfrigolare di una padella. Toris raggiunse la cucina stringendo
forte il
sacchetto tra le sue braccia e cercando di non fare alcun rumore nella
speranza
di non essere scoperto.
Ivan era seduto
al tavolo intento a
leggere un quotidiano russo mentre ascoltava rilassato la radio, sulla
cucina qualcosa
aromatizzato alla vodka cuoceva nella padella. Appena Toris vide Ivan
leggere
il giornale con il suo solito sorriso ingenuo sul volto tutta la sua
tensione
si sciolse all’istante, seguita dal nodo allo stomaco.
Ritrovando una certa
serenità, entrò nella cucina salutando
allegramente il russo che intanto balzò
sulla sedia spaventato dall’improvvisa voce.
“T-Toris!
Non ti ho sentito arrivare!”
Esclamò mentre il suo sorriso si allargava in volto,
appoggiando il giornale
aperto sul tavolo.
“Sono
stato piuttosto bravo a non
farmi sentire, vero? Potrei lavorare come spia!”
Il ragazzo bruno
posò il sacchetto sul
tavolo mentre Ivan rispondeva positivamente e si alzava per salutarlo
con un
bacio sulla guancia. Appena le sue labbra toccarono la pelle sudata, il
russo
si accorse dell’abbigliamento e dello stato del suo compagno.
“Toris,
perché indossi ancora questi
vestiti pesanti? Sei un bagno di sudore. Pensavo che ti fossi abituato
ormai al
clima russo e che riconoscessi il cambio delle stagioni”
Cerco di afferrare la
sciarpa per tirarla via ma Toris scostò la mano e con delle
scuse si allontanò
da lui.
“Non
preoccuparti tesoro, avevo freddo
stamattina quand’ero uscito e il cambiamento del tempo mi ha
sorpreso, tutto
qui. E poi anche tu porti una sciarpa, non dovresti
criticarmi” Disse mentre si
avviava verso il bagno inseguito dai borbottii di Ivan, che era stato
preso in
contropiede “Vado a farmi una doccia, potresti sistemare la
spesa? Ho comprato
tutto il necessario per cucinare i pirozhki!”
Un’esclamazione
euforica e il
frusciare della busta di carta furono le ultime cose che
sentì prima di
chiudere la porta del bagno.
Toris sospirò e iniziò a slegarsi i capelli e
spogliarsi da quei pesanti
vestiti impregnati di sudore. Mentre i panni scivolavano a terra la sua
pelle
rivelava il motivo per cui il ragazzo insisteva a coprirsi tanto anche
se era
iniziata la stagione calda: lividi ovunque, grandi, piccoli, lunghi e
viola,
oppure maturati e sbiaditi, accompagnati da tagli freschi, in via di
guarigioni
e cicatrici piccole e lunghe.
Soprattutto saltava all’occhio un grosso livido sul collo che
aveva la forma di
due paia di mani che si allargavano dalla base fino sotto il pomo
d’Adamo, d’un
viola molto acceso, ultimo ricordo di una nottata d’incubo.
Toris
finì di spogliarsi e guardò la
sua immagine riflessa nel piccolo specchio appeso sopra il lavandino.
Con un
dito toccò il grosso livido sul collo e seguì il
contorno fino ad arrivare al
muscolo trapezio, l’incavo tra il collo e la spalla, mentre
la sua mente
tornava indietro ad alcune notti precedenti e il suo sguardo si faceva
triste.
Dopo essere
stato liberato dalla
prigionia, pur avendo affrontato un lungo periodo di convalescenza sia
in
Lituania sia in Russia con Ivan, Toris non era ancora riuscito a
liberarsi del
ricordo degli orrori del campo di concentramento, e soprattutto dei
traumi che
ne sono derivati.
Incubi notturni, panico nei luoghi affollati, la persistente sensazione
di
essere osservato e inseguito ovunque, la paura di essere catturato
nuovamente e
imprigionato in un altro di quei campi infernali, questi erano alcuni
dei
problemi che Toris doveva giornalmente affrontare.
Il ragazzo aveva cercato di nascondere i suoi traumi al suo compagno
per non
creargli problemi, ma era fermamente convinto che Ivan avesse intuito
qualcosa
e cercasse in modo discreto di aiutarlo. In effetti il ragazzo russo
era sempre
stato molto premuroso con lui e quando aveva qualsiasi tipo di problema
era
sempre al suo fianco per aiutarlo.
Purtroppo, anche
Ivan soffriva di
traumi dovuti alla guerra.
Si agitava quando sentiva rumori forti che potevano ricordare cannonate
o lo
scoppio di mine e granate; aveva un’ossessione nel accertarsi
della provenienza
della carne che acquistava, a volte pretendendo addirittura di vedere
il
macellaio all’opera sull’animale; spesso soffriva
d’ansia che lo portava a
vagare in casa come se attendesse qualche evento catastrofico da un
momento
all’altro; aveva sviluppato anche una mania compulsiva di
accumulare il cibo in
una vecchia valigia sotto il suo letto, nel caso dovesse succedere
qualsiasi
cosa, diceva.
Ma il trauma più grave di cui soffriva erano le
allucinazioni.
Di giorno queste allucinazioni si limitavano ad essere soltanto sonore,
dove
Ivan sentiva i rumori di un combattimento in atto o le grida dei nemici
morenti, mentre di notte esse diventavano più forti e
aggressive, spesso
accompagnate da visioni.
Nonostante Ivan
fosse stato fin da
subito sincero circa i suoi problemi con Toris, il russo non aveva mai
accennato alle sue allucinazioni, sicuramente nel tentativo di
proteggerlo e
per non allarmarlo, ma dopo poco tempo il lituano lo venne a scoprire,
e nel
peggiore dei modi.
Per tentare di fermare le allucinazioni che lo facevano cadere in
fortissimi
stati depressivi, Ivan aveva cominciato a bere per cercare di stordire
la sua
mente. Spesso il metodo funzionava e Toris trovava il suo povero
compagno
accasciato sul tavolo mentre piangeva e mormorava parole incoerenti, la
bottiglia di vodka vuota accanto a un bicchiere rovesciato su un
fianco. In
quelle situazioni Toris cercava di tranquillizzare il russo con carezze
e
paroline dolci, poi lo aiutava a raggiungere il letto, dove
quest’ultimo cadeva
in un sonno profondo.
Altre volte invece, Ivan non era così fortunato da placare
le sue
allucinazioni, anzi l’alcol le amplificava rendendolo
violento.
In quelle situazioni Toris aveva due scelte: nascondersi e aspettare
che il suo
compagno cadesse incosciente, sperando che nel frattempo non cercasse
di
ferirsi o addirittura uccidersi; oppure affrontare Ivan nel tentativo
di
tranquillizzarlo.
Toris sceglieva sempre la seconda.
Di solito il
tutto finiva nell’arco di
una diecina di minuti da quando Toris andava da Ivan per cercare di
placarlo,
arco di tempo in cui Ivan rompeva qualsiasi cosa gli finisse sotto
tiro,
lanciava piatti e bottiglie urlando frasi ingiuriose contro Toris, che
veniva
visto come il nemico, cercando di colpirlo con calci e pugni.
Passati quei minuti infernali, l’adrenalina di Ivan finiva
lasciando il posto
alla fatica e l’enorme ragazzo russo si accasciava su
sé stesso esausto,
riacquistando gradualmente la sua lucidità.
Toris era
particolarmente bravo a
schivare i colpi del compagno e a sgusciare dalle sue prese, ottenendo
a volte
qualche ferita dovuta dalla ceramica o dai vetri rotti, oppure qualche
livido
qua e là sulle braccia e sul torace. Durante il periodo
della resistenza contro
l’occupazione tedesca era stato addestrato anche al
combattimento corpo a
corpo, così in quei particolari momenti poteva applicare le
sue conoscenze sia
per non farsi male sia per non fare male ad Ivan.
Sfortunatamente,
due notti prima non
era riuscito ad evitare un pugno allo stomaco e, mentre si accasciava
per il
dolore, Ivan gli aveva messo le mani al collo per cercare di
strangolarlo.
Toris ne era uscito con solo un grosso livido perché era
riuscito a fermare il
russo sferrandogli un forte colpo al pomo d’Adamo,
soffocandolo momentaneamente
e indebolendolo a tal punto da liberarsi. Quella fu la prima notte che
scelse
anche la prima possibilità, ovvero quella di nascondersi.
Incredibilmente,
le mattine dopo
quelle nottate d’inferno il russo non ricordava nulla. La
sbronza non sembrava
avere alcun effetto su di lui, che si svegliava di buonora, riposato e
tranquillo. Toris cercava di nascondere ogni prova di quei momenti
tragici,
buttando i cocci rotti e pulendo tutto, attribuendo il caos generale ai
ladri
che in quegli anni frequentemente rubavano in casa e nascondendo i
lividi e i
tagli ai suoi occhi.
Ivan sembrava crederci ogni volta, dimostrando
un’ingenuità quasi disarmate, e
si comportava nuovamente in modo affettuoso come se non fosse mai
successo
nulla.
“Sono
stato io a farteli, non è vero?”
Toris
saltò sul posto nel sentire la
voce di Ivan che proveniva dalla porta socchiusa. Immediatamente
cercò di
coprirsi non la virilità ma i lividi sul corpo, girandosi
verso la fonte,
spaventato.
La porta era stata aperta quel tanto che bastava per permettere a Ivan
di
guardare all’interno del bagno. Metà del suo volto
era nascosto dal legno
laccato di bianco, mentre l’altra metà presentava
uno sguardo spento e
addolorato, il suo sorriso era stato sostituito una smorfia triste.
Toris rimase a
bocca aperta mentre
sosteneva lo sguardo di Ivan, che intanto vagava su ogni segno non
nascosto
dalle braccia, fermandosi infine sul collo. Cercò di dire
qualcosa ma un nodo
in gola non gli permise di continuare.
Come faceva a sapere che quei lividi erano colpa sua?
Toris era certo di non aver rivelato nulla di tutto ciò e di
aver nascosto bene
le prove.
Vedendolo in
difficoltà, Ivan sospirò
e aprì la porta per entrare nel bagno. Toris non
accennò a muoversi né ad
indietreggiare mentre Ivan socchiudeva la porta e lo raggiungeva, non
perché
terrorizzato ma perché si fidava ciecamente del suo compagno.
Raggiunto il ragazzo lituano, Ivan cedette a un moto
d’affetto e lo abbracciò
stringendolo a sé mentre si curvava per premere il volto tra
l’incavo del suo
collo. Toris si ritrovò premuto contro il petto largo del
suo compagno, che lo
sovrastava di parecchi centimetri.
Ancora cercando
di capire cosa stesse
succedendo, un singhiozzo attirò la sua attenzione. Il corpo
di Ivan iniziò a
tremare mentre sentiva il suo naso tirare su un paio di volte.
“Ivan..?”
“E’…
è arrivata una lettera da Feliks.
Io, io l’ho letta. Ero curioso di sapere cosa…
cosa vi dicevate, un po' geloso
anche… e...” La voce gli morì in gola
mentre veniva scosso da altri singhiozzi.
Toris
ricambiò l’abbraccio poggiando
la testa sul suo torace, stringendo i denti.
L’amicizia con Feliks era durata anche al di fuori del campo
di concentramento
tramite scambio epistolare, e occasionalmente Toris e Ivan passavano
qualche
settimana in vacanza nella tenuta Lukasiewicz.
Mentre con gli altri detenuti i rapporti erano
stati interrotti dai contrasti sorti dopo la guerra circa la
spartizione dei
territori alle nazioni vincitrici, di fatto allontanando sempre
più l’Europa
dell’Est dal resto dell’Europa e
dell’America, i rapporti con Feliks rimasero
saldi e forti. I due sopravvissuti si consideravano quasi come
fratelli, e Feliks
si arrogava il diritto di trattare Toris come un fratello minore
dandogli
consigli e criticando o approvando le sue idee.
Spesso Feliks finiva le sue lunghe lettere, quasi interamente
incentrate sui
suoi cavalli, con una filippica che cercava di persuadere il lituano a
lasciare
Ivan e a trasferirsi da lui. Egli sapeva dei problemi di Ivan e delle
violenze
che compiva su Toris, lui glie ne aveva parlato, e cercava in ogni modo
di
proteggere il suo amico convincendolo a sottrarsi da
quell’amore malato. Toris
però non considerava il loro rapporto malato, anzi.
Mentre con una
mano iniziava ad
accarezzare la schiena, con l’altra scompigliava i capelli
chiari del suo
compagno, nel tentativo di tranquillizzarlo.
“Da
quanto tempo?” Chiese Ivan quando
riuscì a calmarsi quel tanto che bastava per poter
ricominciare a parlare “Da
quanto tempo va avanti questa storia?”
“Alcuni
anni” Si limitò a rispondere
Toris.
Ivan trattenne
il respiro mentre la
sua presa si stringeva ulteriormente sul corpo di fronte. Toris
sentì il suo
cuore stringersi potendo solo immaginare come stava soffrendo in quel
momento
il suo compagno.
Rimasero in quella posizione, abbracciati l’un
l’altro, con Ivan che respirava
forte per cercare di calmarsi e Toris che lo accarezzava per
tranquillizzarlo,
per diverso tempo, finché il russo non prese improvvisamente
la parola.
“Sono
un mostro…” Sussurrò “Tu
meriti
di meglio…”
Toris
sgranò gli occhi mentre le
parole del russo riecheggiavano nelle sue orecchie.
Non aveva davvero detto quelle parole, vero?
Sentì la presa su di sé lentamente sciogliersi e
l’aria fredda del bagno
insinuarsi sul suo torace ancora caldo dal contatto fisico con
l’altro.
Ivan lo stava liberando dal suo abbraccio. Lui lo stava lasciando.
Toris
alzò lo sguardo incredulo verso
il volto dell’altro mentre la sua presa si stringeva con
forza per non
lasciarlo andare, ma il ragazzo dai capelli chiari cercò in
ogni modo di non
incrociare il suo sguardo, guardando ovunque tranne che verso di lui.
“Cosa
stai dicendo?” Sussurrò
incredulo.
Ivan
abbassò lo sguardo a terra
mordendosi un labbro mentre le sue braccia cadevano lungo i fianchi,
inermi e
stanche.
Non ci fu risposta, ma Toris non ne voleva alcuna.
Serrando le sue braccia intorno al corpo più grande,
premette il volto contro
il petto di Ivan e non accennò a lasciarlo andare.
Il russo sospirò e cercò gentilmente di
allontanarlo spingendolo dalle spalle,
ma la sua presa era così inaspettatamente forte che non
cedette di un
millimetro.
“Toris”
Sbuffò infine “Io-“
“Se
avessi voluto…” Lo interruppe il
lituano con la sua voce ovattata dal suo maglione “Se avessi
voluto lasciarti,
l’avrei fatto molto tempo fa. L’avrei fatto la
prima volta che sono stato
testimone dei tuoi problemi, o la prima volta che i miei compagni
d’arme mi
incitarono a farlo, o quando Feliks mi chiedeva disperatamente di
trasferirmi
da lui”
Mentre parlava,
la sua testa si
sollevò dal petto del russo e lo sguardo cercò il
suo incredulo e ancora
addolorato.
“Ma io
non l’ho fatto, semplicemente
perché non volevo farlo, anche se ho avuto moltissime
occasioni. Io volevo
stare al tuo fianco e voglio starci ancora, qualsiasi cosa succeda,
perché so
che mi ami e so che quella persona violenta che mi procura tutti questi
lividi
non sei tu!”
Le sue mani si
posarono sulle guance
pallide del russo, accarezzandole affettuosamente. Ivan aveva socchiuso
gli
occhi gonfi nuovamente di lacrime, le labbra tremavano per
l’emozione. Strinse
di nuovo il corpo nudo a sé circondandolo alla vita e
tirò su col naso nel vano
tentativo di trattenere le lacrime.
Toris ne
asciugò qualcuna con il
pollice, lanciando un timido sorriso al suo compagno.
“S-scusami….
avrei dovuto
parlarti dei miei problemi…”
“Ivan,
non devi scusarti. Anzi sono io
a doverlo fare, non solo non ti ho parlato dei miei di problemi, ma non
ho
nemmeno provato ad aiutarti. Ma ti prometto che d’ora in
avanti affronteremo
tutto insieme, va bene?”
Ivan
annuì un paio di volte mentre le
lacrime gocciolavano sulla pelle esposta del lituano, che stava
cominciando a reagire
al freddo della stanza. Ivan diede un bacio sulla testa di Toris
sussurrandogli
innumerevoli volte grazie, poi accorgendosi della pelle raffreddata,
iniziò a
strofinarla con le mani per scaldarlo.
“Ma tu
stai congelando! Ti lascio al
tuo bagno allora, anche se non vorrei davvero farlo”
“Allora
facciamolo insieme!” Propose
Toris con un dolce sorriso.
Ivan rispose a sua volta con un sorrisetto e annuì mentre si
allungava per
chiudere la porta.
Qualche ora
più tardi, quando il bagno
e il pranzo erano state consumate e Ivan era andato a riposare per
prepararsi
al turno notturno del lavoro, Toris si sedette allo scrittoio
nell’angolino
della sala di lettura e aprì l’ultima lettera di
Feliks.
Il biondo polacco aveva scritto a Toris circa una sua cavalla che
partoriva,
com’era nel suo solito, e del fatto che
quell’invernata era stata molto gelida
in Polonia, forse molto più che in Russia (Toris ne dubitava
fortemente), inoltre
si scusava per il ritardo delle sue prossime lettere perché
il sistema postale
polacco stava avendo dei problemi a causa di “non sapeva il
perché” (tipico di
Feliks non sapere nulla di ciò che non lo toccava
direttamente).
La lettera finiva con la sua solita, lunga filippica sulla violenza di
Ivan e
sul come Toris doveva immediatamente lasciarlo per mettersi in
sicurezza da lui
o dai suoi amici (preferibilmente da lui).
Toris sorrise
per quasi tutta la
lettura sentendo un moto d’affetto e di nostalgia nei suoi
confronti, ma il
sorriso svanì quando lesse le ultime righe, come sempre
quando leggeva quelle
parole che erano frequenti nel loro scambio epistolare.
Prendendo un foglio dal cassetto e una penna, il ragazzo bruno
cominciò a
scrivere una lettera di risposta per il suo amico.
Raccontò quant’era stato duro l’inverno
in Russia e quanta neve era caduta
nelle strade, e come la cosa lo disturbò non poco
ricordandogli il crollo del
capannone. Gli raccontò anche un episodio buffo accaduto in
un negozio qualche
settimana prima, e come era scivolato in modo imbarazzante su una
lastra di
ghiaccio semi sciolto per una strada trafficata del centro.
Ebbe premura di
non nominare mai Ivan,
com’era il suo solito, per non scatenare le risposte seccanti
dell’amico,
scrivendo molti episodi che aveva vissuto con lui come se fosse stato
solo in
quei momenti. Quando arrivò alla terza pagina, decise di
concludere la lettera
con una risposta a tono alle premure malvolute dell’amico.
Brevemente, gli spiegò il perché delle sue scelte
e il perché non avesse ancora
lasciato Ivan, ripetendo tra l’altro ciò che aveva
detto al suo compagno ore
prima. Chiese gentilmente all’amico di non insistere, anche
se sapeva che
quella richiesta sarebbe stata totalmente ignorata, e concluse con un
saluto di
commiato, la data del giorno e la sua firma.
Rilesse
nuovamente il foglio
aggiustando qualche errore qua e là, poi prese una busta e
un francobollo dal
cassetto e preparò la lettera per essere spedita
l’indomani.
Mentre scriveva l’indirizzo della villa di Feliks,
ripensò agli eventi della
mattina e alle parole di Feliks.
Certo, sia lui sia i suoi amici avevano ragione, Ivan diventava molto
pericoloso quando era preda delle allucinazioni, soprattutto quando
beveva, ma
anche lui aveva dei problemi significativi e Ivan era stato sempre al
suo
fianco per aiutarlo in ogni modo possibile.
“Affronteremo
insieme questi problemi
e li supereremo” Pensò mentre posava la lettera
sul mobile “Non sarà facile, ma
insieme ci riusciremo. E poi nessuno è perfetto,
no?”
Dicembre 1963,
Berlino Ovest
La sirena
riecheggiò in tutto
l’edificio con un suono forte e pulito, annunciando la fine
del turno. Ludwig
sospirò mentre lasciava la sua postazione vicino alla
fonderia per premere dei
bottoni su un pannello e spegnere il macchinario per la stampa dei
barattoli in
latta. Gli altri operai, che come lui avevano appena finito il turno,
sciamarono in silenzio verso l’uscita
dell’edificio, diretti allo stanzone dove
si trovavano i loro armadietti. Qualcuno provò a intavolare
un discorso, ma la
maggior parte di loro era stanca e desiderava soltanto tornare a casa,
e la
domanda o l’esclamazione volava via portata dal vento gelido,
senza risposta.
Togliendosi le
poche protezioni che
aveva, Ludwig seguì il gruppo in silenzio, conformandosi
all’umore generale.
Da quando era stato catturato nel campo di concentramento e processato
a
Norimberga, Ludwig aveva speso i successivi quindici anni della sua
vita in un
carcere di Berlino, divenuta nel frattempo Berlino Ovest. La sporcizia,
il
trattamento a dir poco disumano che le guardie riservavano ai detenuti,
il cibo
scadente e quasi assente, i criminali che lo circondavano, tutto in
quel posto
lo aveva fatto tremare fin dentro le ossa e tolto per molti notti il
sonno.
Durante quei
lunghissimi anni di
prigionia era stato indirizzato in progetto lavorativo in ambito
metallurgico,
formandolo per un presunto lavoro in vista della sua scarcerazione. In
effetti,
poco tempo dopo essere tornato libero era riuscito a trovare lavoro
presso la
fabbrica di barattoli di latta dove si trovava ora.
La colonna di
uomini silenziosi
imboccò un piccolo corridoio che li portò nello
stanzone degli armadietti.
Velocemente, molti di loro afferrarono le loro cose e con pochi saluti
si dileguarono.
Ludwig sapeva bene del perché di quella fretta, di solito
gli operai erano
sempre molto lenti nel prendere i loro averi e andarsene, spesso si
fermavano
per brevi chiacchierate o per organizzare un gruppetto per andare al
pub, ma
quello era il giorno di paga e molti di loro avevano fretta di prendere
i pochi
soldi che gli spettavano.
Alcuni li avrebbero portati a casa per pagare i debiti e per comprare
da
mangiare alla famiglia, altri li avrebbe dilapidati in alcol o
scommesse
clandestine.
Ludwig non si
affrettò anche se l’idea
di avere finalmente la sua paga mensile era esaltante, non aveva
nessuna voglia
di andare al pub e non aveva nessuno ad aspettarlo a casa.
Nuovamente libero, Ludwig faticò non per trovare lavoro,
bensì per trovare
un’abitazione a causa degli affitti troppo alti. Si dovette
accontentare di un
bugigattolo di tre stanze che condivideva con un emigrato spagnolo
sempre
allegro e spensierato, che come lui lavorava nella fabbrica ma in un
altro
settore.
Indossò
il lungo e pesante cappotto rattoppato
e, mettendosi la borsa sulle spalle, si avviò verso gli
uffici dei dirigenti
per riscuotere il frutto del suo lavoro. Mentre raggiungeva il gruppo
di
persone che si ammassava nervosa davanti gli uffici, fu raggiunto da
Antonio,
il suo coinquilino, che aveva appena terminato un turno di straordinari.
Ludwig lo salutò con poco slancio mentre il bruno gli
lanciava un caloroso
sorriso.
“Hola,
amigo! Anche tu hai appena
finito il turno?”
“Ja,
stavo giusto andando a prendere
la paga. Devi riceverla anche tu?”
“Oh,
no, no, io l’ho presa a fine
turno. Sono venuto qui soltanto per incontrarti, così
andiamo a casa insieme”
Raggiunsero i
restanti operai mentre
dagli uffici usciva un amministratore che con un elenco
cominciò a chiamare
cognomi di varie nazionalità, spesso deformandoli.
Finalmente Ludwig si girò a guardare il suo amico per la
prima volta da quando
si erano incrociati.
“Non
avevi un turno di straordinari?”
Chiese accigliandosi mentre Antonio incominciava a ridere con una
strana risata
musicale.
“No,
in realtà era un turno normale,
solo che sono arrivati dei nuovi operai appena emigrati e mi hanno
chiesto di
fargli fare un giro della fabbrica e di spiegargli alcune
cose”
Ludwig
annuì sovrappensiero mentre
tornava a guardare l’amministratore che girava il foglio
accedendo a un’altra
lista. Dopo poco tempo venne urlato il suo nome e il ragazzo biondo si
affrettò
a raggiungere l’uomo, intascare la piccola busta contenenti
la sua paga, e
tornare da Antonio. Nel mentre, Ludwig si sentì
più di qualche sguardo puntato
addosso.
Aveva cercato con ogni mezzo di nascondere la sua parentela con la
famiglia
caduta in rovina dei
Beilschmidt,
arrivando perfino a negare una presunta parentela con suo padre, che
con la
caduta del regime si era suicidato insieme alla moglie come la maggior
parte
degli ufficiali di alto rango del Fuhrer. La quasi totalità
degli operai gli
aveva creduto, ma alcuni avevano ancora molti sospetti e lo fissavano
senza
pudore con uno sguardo diffidente, bollandolo nella loro mente come uno
sporco
nazista.
Antonio era
rimasto nel posto dove lo
aveva lasciato. Facendogli un cenno con la testa, i due cominciarono a
camminare verso l’uscita della grande fabbrica, pronti ad
affrontare una serata
gelida e nevosa per tornare nella loro abitazione.
“Sai,
quelli nuovi che sono arrivati
sono molto simpatici, ci sono anche un gruppetto di spagnoli!
E’ stato bello
chiacchierare con loro nella nostra lingua, e non essendo delle mie
parti ci
siamo raccontati qualcosa del nostro territorio a vicenda”
“Sembra
bello. Hai intenzione di
cucinare tu stasera?”
“Uh?
Ah si, magari una tortilla, tanto
le patate non mancano mai, dovrei comprare soltanto le
uova…”
“Allora
mentre torniamo ci fermiamo
dal droghiere” Rispose il tedesco mentre abbozzava un mezzo
sorriso,
pregustando la cucina spagnola di cui era segretamente ghiotto.
“Vale
(Va bene)!” Rispose di rimando
lo spagnolo, poi sorrise nuovamente “Di cosa parlavamo?
Giusto, dei nuovi
arrivati! Ci sono anche due francesi, sono davvero splendidi, con il
loro
accento così morbido…”
Antonio
cominciò a raccontare di ogni
singolo individuo che era stato assunto quel giorno nella fabbrica.
Ludwig
gradualmente smise di ascoltarlo e si concentrò su un
piccolo gruppetto di
persone che chiacchierava davanti la porta d’uscita. Antonio
aveva il vizio di
parlare troppo e Ludwig aveva capito di non possedere più la
pazienza infinita
di cui andava tanto fiero da giovane. Però, non volendo
offendere il suo amico,
il tedesco si limitava a fingere di ascoltare, annuendo qualche volta
ed
esclamando stupore.
Mentre si
avvicinavano, dal gruppetto
si staccò un ragazzo bruno che iniziò a strillare
verso un corridoio con fare
quasi animalesco. Ludwig si fermò all’istante per
due motivi, attirando la
curiosità dello spagnolo che smise con la sua filippica su
quanto sono poco
simpatici gli olandesi.
Il primo motivo fu il comportamento quasi osceno del ragazzo, che si
era messo
a urlare come se qualcuno lo stesse scorticando vivo.
Il secondo motivo era che aveva urlato qualcosa di incomprensibile in
una
lingua armoniosa, sembrava quasi stesse cantando a squarciagola.
Ma a uno sguardo più attento, Ludwig trovò un
terzo motivo, di gran lunga
superiore ai primi due: quel ragazzo era uguale a Feliciano.
Nei quindici
anni che aveva passato in
carcere, la mente di Ludwig era volata innumerevoli volte verso
l’italiano, disperandosi
di non poterlo più vedere e immaginando cosa stesse facendo
in quello stesso
momento. Inizialmente l’immagine di Feliciano era nitida
nella sua mente, i
capelli castani lisci che ondeggiavano al vento con lo strano ricciolo
ribelle,
il suo corpo mingherlino da proteggere, i suoi occhi vivaci e luminosi,
il suo
sorriso caldo e rassicurante.
Ma anche se la mente del tedesco era costantemente impegnata nel
ricordo del
suo amato, con i vari mesi l’immagine di Feliciano
iniziò ad affievolirsi, a
sfumare i contorni, a perdere i dettagli e i colori, finché
non rimase che un
forte senso di angoscia e di perdita che portò Ludwig a non
pensarci più pur di
non soffrire ulteriormente.
Una volta libero, Ludwig fu così sopraffatto dagli eventi
circostanti da non
pensare più al bell’italiano che gli aveva fatto
girare la testa, ritrovandosi
però un vuoto nell’animo così
incolmabile che nemmeno le birre oppure solo
l’idea di trovare qualcun altro potevano risolvere.
Ma in quel
momento, la vista dei
capelli bruni e lisci, la bassa statura e il corpo mingherlino, la voce
forte
che urlava parole in italiano…
Feliciano era lì, davanti a lui, finalmente poteva rivederlo.
Ludwig fu
travolto da una forte ondata
di gioia, che velocemente si tramutò in panico.
Con quale faccia poteva andare davanti all’italiano, ex
prigioniero del campo
di concentramento che gestiva con suo fratello, e restaurare un
rapporto malato
nato tra sofferenza e torture varie?
Feliciano avrebbe potuto provare sentimenti di odio e repulsione alla
sua
vista, ricordando quei momenti terribili, e avrebbe potuto scacciarlo
in malo
modo, infliggendogli una ferita quasi mortale.
Indeciso sul da
farsi, rimase fermo a
fissare l’italiano sbalordito, trattenendo il fiato. Antonio
lo guardò
dubbioso, poi notò il ragazzo bruno e sorrise allegramente.
“E’
vero, mi sono dimenticato di dirti
che ci sono anche degli italiani! Davvero gente simpatica, ma un
po’ maleducata.
Si dice in giro che uno di loro ha il codice sul braccio!”
Ludwig
deglutì, tutto corrispondeva.
Vedendo che il suo amico non rispondeva, lo spagnolo si rivolse al
ragazzo
bruno chiamandolo e salutandolo a gran voce.
Ludwig non fece in tempo a fermarlo, e quando l’italiano si
girò il suo cuore
affondò nel petto con un dolore sordo.
Non era lui.
Quel ragazzo gli assomigliava moltissimo, ma non era Feliciano. Il
colore dei
capelli e la corporatura erano praticamente identici, anche se il
taglio era
leggermente diverso, ma il suo sguardo e il suo volto era totalmente
differenti,
più duri e ostili.
Ludwig respirò a pieni polmoni per cercare di calmarsi e di
abbassare l’ondata
d’adrenalina. Era stato un falso allarme, una speranza che
era nata e morta in
poco meno di trenta secondi, tutto stava tornando alla triste
normalità.
Antonio si
avvicinò allegramente al
ragazzo, mentre quest’ultimo si accorse di lui e
indietreggiò di qualche passo.
“Hola
mi amigo!! Allora, ti è piaciuta
la fabbrica? Dove lavorerai?”
“Cosa!!!
Ancora tu? Cosa cazzo vuoi?”
“Suvvia,
non essere così diffidente…
ehm… come hai detto che ti chiami?”
“Non
te l’ho detto, e non lo farò mai!
E ora sparisci, mi metti i brividi! E tu idiota, muoviti che fa
freddo!” Urlò l’italiano
verso il corridoio da dove provenivano dei passi affrettati, non
prestando più
attenzione ad Antonio.
“Ve!
Arrivo!”
Lo sguardo di
Ludwig seguì la figura
appena entrata nell’atrio, che correva verso
l’italiano, vedendola a
rallentatore, come se fossero tanti piccoli fotogrammi messi su un
proiettore.
Il suo cuore perse qualche battito mentre il suo respiro si bloccava in
gola.
Feliciano raggiunse l’altro ragazzo bruno, chinandosi un
po’ su sé stesso per
riprendere fiato, per poi salutare Antonio con il suo solito
entusiasmo.
Tutti i suoi
pensieri, tutti i sogni,
i sentimenti, i desideri che aveva avuto su quella figura ormai quasi
sbadita
dal tempo e dalla memoria traditrice, vennero a galla prepotentemente,
rinvigoriti dalla presenza del centro del suo mondo da ormai quindici
anni, lì,
proprio lì in Germania, a Berlino Ovest, in quella fabbrica.
Ludwig sentì la testa leggera e un forte senso di vertigine.
Feliciano
continuò a parlare
allegramente con Antonio, presentando l’altro italiano come
suo fratello
Romano, che intanto si rifiutava di guardare lo spagnolo interessandosi
invece
alla neve che cadeva visibile da una finestra.
“Piacere
di conoscerti, Romano. In
effetti sei stato un dei pochi che non si è presentato
quando abbiamo finito il
giro della fabbrica! Lasciate invece che vi presenti il mio amico e
coinquilino
Ludwig”
Di tutti e tre
gli sguardi che si
posarono sulla sua statura, Ludwig vide soltanto quello di Feliciano.
L’italiano tardò a posare il suo sguardo su di
lui, come se quel nome
significasse che lui fosse effettivamente lì. Nessuno
pensò a un caso di
omonimia, appena pronunciati i loro nomi entrambi seppero che
l’altro era lì,
davanti a loro.
Gli occhi di
Feliciano si
spalancarono, seguiti da quelli di Romano. Evidentemente il fratello
sapeva
della sua esistenza, altrimenti non si spiegava il suo repentino
cambiamento da
arrabbiato a furioso.
Feliciano invece non si scompose, rimase a fissare il tedesco stupito e
quasi
inebetito mentre le sue labbra si dischiudevano lentamente per formare
una
piccola “o”.
Ludwig anche
rimase immobile, con la
testa vuota e il corpo pesante, incapace di pensare o muoversi. Il suo
sguardo
era fisso in quello dell’italiano, si guardavano
l’un l’altro scrutandosi
nell’animo senza presentare alcun cenno di voler fare il
primo passo.
Probabilmente Feliciano perché era incredulo
dall’averlo trovato nella fabbrica
in cui stava iniziando a lavorare, Ludwig perché sopraffatto
e terrorizzato dai
sentimenti e dai pensieri negativi che ad essi seguivano.
Probabilmente, se Antonio non fosse intervenuto per fendere
l’aria pesante che
si era creata con una risata e qualche parola, loro sarebbero potuti
rimanere
immobili a fissarsi per ore intere.
Romano invece
era rosso in volto e
tremava dalla rabbia che a stento tratteneva. Ludwig non seppe mai
perché in
quel momento il fratello dal carattere difficile dell’uomo
che amava non aveva
accorciato le loro distanze velocemente e non lo aveva colpito con
forza in
volto, un dubbio che preferì non chiarire mai.
“Fusososo,
cos’è tutta questa
timidezza, Ludwig? Vieni a conoscere i nostri nuovi compagni!”
“Tu…”
Appellò Romano, ma fu subito
azzittito da Feliciano che, facendo un passo incerto in avanti verso il
ragazzo
biondo, si leccò le labbra spaccate dal freddo.
“Ludwig…”
Iniziò, ma non potette aggiungere
nessun’altra parola.
Preso da una
fortissima ondata di
panico, appena visto che Feliciano stava facendo il primo passo verso
di lui,
il ragazzo tedesco ebbe paura e, voltandosi velocemente,
scappò verso il lato
opposto all’interno della fabbrica.
Molti fissarono la scena confusi, alcuni perfino sorridendo al gesto
inaspettato di Ludwig, che era stato sempre una persona molto seria e
composta,
alcuni soltanto sorpresi dell’accaduto, come Antonio che non
si aspettava una
reazione simile dal suo amico “serio come la morte”
(così lo chiamava
scherzosamente).
Romano invece fu il primo ad uscire dal suo stato di stupore e ad
esclamare
qualcosa di volgare in italiano.
Feliciano
osservò immobile con la
bocca spalancata Ludwig correre nella direzione opposta, per poi
svoltare l’angolo.
Incerto su cosa fare, guardò suo fratello per un istante,
ricevendo uno sguardo
di incomprensione, e poi iniziò a correre anche lui.
Le urla di Romano che gli intimavano di tornare indietro riecheggiarono
per
tutto l’atrio, ma Feliciano non accennò a
rallentare. Mentre i suoi occhi si
riempivano di lacrime, la sua mente era una mescolanza di pensieri.
Di tutte le cose
che aveva immaginato
quando aveva deciso di seguire il fratello in Germania per cercare
lavoro, il
ritrovare Ludwig, per di più nella stessa fabbrica dove era
stato assunto, non
era tra quelle.
Quei quindici anni di lontananza li aveva spesi ad aspettare
un’occasione, un
modo, oppure un miracolo, per poter ritrovare o anche solo vedere per
un
momento il giovane tedesco. Aveva passato giornate intere a sognare ad
occhi
aperti davanti una finestra, e speso le più lunghe e buie
nottate a piangere
con il volto premuto sul cuscino. Suo fratello lo aveva rimproverato
non
ricordava quante volte, maledicendolo e maledicendo quel demonio
tedesco che
gli aveva procurato così tanto dolore, e che lo stava
facendo soffrire anche in
quel momento.
Pian piano il suo dolore prese la sfumatura di sorda rassegnazione,
finché
Feliciano non divenne disilluso: soltanto un miracolo da un dio molto
beffardo
avrebbe potuto fargli rincontrare Ludwig, qualcosa che non avrebbe mai
potuto
ottenere.
Lentamente il suo comportamento tornò alla
normalità, facendo tirare un sospiro
di sollievo al fratello, una normalità che celava
però una grande sofferenza.
Con la coda
dell’occhio, mentre
svoltava l’angolo, Ludwig vide Feliciano muoversi ed
accelerò il passo. La
consapevolezza di essere un codardo per essersela data a gambe in quel
modo
davanti tutti e senza una spiegazione, insieme alla paura e il timore
di dover
affrontare Feliciano e dovergli chiedere un perdono che non sarebbe
venuto, gli
pesavano sull’animo e sullo stomaco come un macigno.
Correva come se
da quel gesto
dipendesse la sua vita, il lungo giubbotto che svolazzava intorno alle
gambe
ormai non più toniche come un tempo. Soltanto una volta
nella sua intera vita
aveva corso in quel modo, ed era stato in quel maledetto giorno in cui
i russi
avevano liberato il campo di concentramento.
La gente che incrociava per i grandi corridoi lo guardava stupita,
alcuni si
giravano per seguirlo con lo sguardo.
A Ludwig non importava, tutto ciò che voleva era nascondersi
da Feliciano,
colui che in quel momento stava cercando di raggiungerlo e urlava il
suo nome
disperato.
Ad ogni suo urlo, Ludwig sentiva aprirsi una lacerazione nel suo
interno.
Correndo senza
una meta precisa, il
ragazzo biondo si infilò all’ultimo secondo in una
porta attraverso cui si
accedeva a un settore della fabbrica a lui sconosciuto. Macchinari
giganteschi
ed enormi tubature apparvero davanti i suoi occhi avvolte quasi del
tutto
dall’oscurità, con nastri trasportatori immobili
che si snodavano per chissà
quanti metri nel buio più totale.
Incerto sul da farsi, decise di nascondersi dietro un robusto tubo che
dal
macchinario si immetteva nel suolo con un’elegante curva,
premendo la schiena
contro l’acciaio gelato e coprendosi la bocca con una mano
per celare la sua
presenza.
Dopo pochi
secondi, la porta fu
violentemente aperta e dei passi affrettati, seguiti da un ansimare,
riecheggiarono per tutto lo stanzone. Feliciano si guardò
disperatamente
attorno, cercando di intravedere il tedesco tra tutti i macchinari e il
fitto
buio in quella stanza. Non riuscendo a trovare nulla, iniziò
a gemere e
singhiozzare.
“Ludwig…
Ludwig sei qui? Ti prego
Ludwig… ti prego…”
Nessuna risposta.
Lentamente, Feliciano indietreggiò fino alla porta mentre
piangeva in silenzio.
“Ve…
non è qui…” Sussurrò a
sé stesso,
poi uscì dalla porta e ricominciò a correre.
Quando i suoi
passi furono lontani,
Ludwig si lasciò sfuggire un sospiro. Le sue gambe tremarono
e si accovacciò
con la schiena contro il grosso tubo, mentre le mani gli coprivano il
volto
rigato dalle lacrime.
I giorni
seguenti a quell’incontro
furono un totale inferno per Ludwig, costretto non solo a schivare le
sempre
più spinose domande del suo coinquilino e di calmare la sua
fortissima
agitazione dovuta ai vecchi sentimenti che erano riaffiorati
tutt’insieme, ma
anche a dover trovare un modo per entrare e uscire dalla fabbrica senza
farsi
vedere dal gruppo di italiani che circondava perennemente i due
fratelli bruni.
Inoltre, come
scoprì con stupore,
Feliciano si rivelò un ragazzo piuttosto tenace: ogni
giorno, e per almeno un
paio di volte, gli operai che lavoravano nello stesso settore gestito
da Ludwig
gli riferivano che un italiano aveva chiesto di lui sperando in un
colloquio,
anche se breve. Ludwig non sapeva come aveva fatto a capire in quale
settore
della fabbrica lavorasse, ma sospettava ci fosse uno zampino spagnolo.
Comunque
sia, si era premurato fin dall’inizio di informare i suoi
compagni di non
permettere di far entrare nel settore altri operai non addetti,
specialmente
l’italiano che aveva dipinto, malvolentieri, come un
piantagrane che lo aveva
preso di mira. Non gli riuscì particolarmente difficile
convincere gli altri
operai in quanto gli italiani non avevano una buona nomea, o meglio
erano
famosi per essere malviventi, attaccabrighe e piuttosto seccanti quando
prendevano di mira qualcuno.
I primi giorni
Feliciano non accennò a
desistere, ma con il passare delle settimane la sua resistenza
vacillò passando
da cercarlo ininterrottamente per più volte al giorno a
cercarlo di meno, poi a
giorni alterni, infine smettendo del tutto.
Ludwig non sapeva se la cosa doveva fargli piacere oppure renderlo
triste,
aveva dei sentimenti piuttosto confusi a riguardo: sollievo, ansia,
tristezza,
rimorso, rassegnazione.
In effetti, più pensava a tal proposito più
concludeva che doveva esserne
triste, ma che doveva comunque lasciar correre e andare avanti, anche
se questo
avrebbe significato una maggiore sofferenza.
Un loro riavvicinamento non avrebbe giovato per nessuno dei due.
Per cercare di
non pensare troppo a
quella situazione, Ludwig accettò di buon grado degli
straordinari malpagati
che lo costringevano a rimanere fino a notte fonda nel suo settore, in
compagnia di metallo fuso e macchinari per stampa rumorosi e ormai
obsoleti.
Molti dei suoi compagni accettarono gli straordinari come lui,
cosicché a fine
lavoro si formava un gruppo piuttosto folto di persone che, silenziosi
e con
andatura stanca, si trascinava fin fuori dalla fabbrica dove il vento
gelido
notturno li aggrediva senza pietà facendoli rabbrividire
violentemente.
Con quegli straordinari, Ludwig era costretto in fabbrica per quindici
ore, e
quando tornava a casa trovava Antonio già addormentato da
tempo, ma la cena
fredda a base di pietanze spagnole pronta sul tavolo.
Gli straordinari
sarebbero durati per
tutto il mese, ma dopo una settimana Ludwig già si chiedeva
come sarebbe
riuscito a portarli a termine, esausto com’era per le troppe
ore di lavoro e il
poco sonno a disposizione.
Quella sera colui che gestiva il settore in cui lavorava si era
ammalato
improvvisamente, lasciando tutto il lavoro nelle sue mani,
costringendolo a una
doppia fatica. Quando finalmente il fischio sancì la fine
dei turni di
straordinario, Ludwig si piegò sulle gambe asciugandosi la
fronte e sospirando
per il sollievo. Gli altri operai iniziarono a sistemare i macchinari e
a
sciamare in gruppi verso la porta dello stabile, alcuni in vena di
chiacchiere,
altri semplicemente trascinandosi fuori, come sempre.
Il tedesco si rimise dritto e andò al pannello di controllo
per spegnere tutti
i macchinari, la corrente elettrica e altre cose che gli erano state
spiegate
qualche ora prima. Controllando scrupolosamente di aver sistemato
tutto, si
accertò di essere l’ultimo in quella stanza e
uscì chiudendosi la grande porta
alle spalle.
Nello stanzone
degli armadietti,
mentre recuperava le sue cose infilandosi il suo lungo e pesante
cappotto nero,
Ludwig sentì gli altri operai parlottare eccitati in vari
gruppetti, qualche
volta ridendo, altre invece esclamando per lo stupore. Incuriosito da
quell’insolito scoppio di vitalità a
quell’ora di notte e soprattutto dopo il
lavoro, il ragazzo biondo cercò di tendere
l’orecchio, senza molto successo. Il
vociare era così sussurrato e fitto che era quasi
impossibile distinguere
qualche parola.
Senza perderci
altro tempo, lasciò la
stanza infilando il cappello sui capelli tirati all’indietro
e seguì le altre
persone che si incamminavano verso l’atrio della fabbrica.
Mentre proseguiva
sovrappensiero, immaginando già quale cena il suo amato
coinquilino gli avesse
preparato, un gruppetto davanti a lui si fermò
all’improvviso esclamando a voce
alta.
Ludwig quasi andò a sbattere contro uno di loro.
“Incredibile!
Allora è vero!”
“Ve lo
dicevo che quella gente è
strana, meglio non avere niente a che fare con loro”
“Cosa
succede?” Domandò Ludwig, ormai
preso dalla curiosità.
Uno degli operai si girò a guardarlo e, dopo averlo
squadrato per qualche
ragione a lui sconosciuta, gli sorrise e gli spiegò la
situazione.
“Dicono
che dal fine turno regolare un
uomo si è messo ad aspettare davanti il cancello della
fabbrica, sotto il
lampione, non si sa chi! E’ da oggi pomeriggio che sta
lì impalato, e ha
nevicato ben due volte. Pensavamo che fosse una di quelle storielle
stupide
inventate per passare il tempo mentre si lavora, ma a vedere tutta
questa gente
che fissa fuori dalle finestre, dev’essere vero!”
L’uomo
indicò un folto gruppo di
persone che si accalcavano davanti la porta dell’atrio
cercando di guardare
fuori dalle finestre. Un forte vocio riempiva tutta la stanza.
Ludwig si accarezzò il mento con fare dubbioso, la pelle dei
guanti che
strofinava dando una sensazione di morbidezza sull’accenno di
ricrescita della
barba sul suo volto.
Quella storia sapeva di assurdo, eppure il tedesco non credeva che
all’improvviso tutti gli operai degli straordinari fossero
impazziti
all’unisono. Sentendo la sua curiosità crescere in
modo esponenziale, ringraziò
l’uomo per la spiegazione e si avvicinò al folto
gruppo di persone che si
accalcava nell’atrio per cercare di capire qualcosa in
più, o almeno per
cercare di uscire dalla fabbrica e tornare a casa.
Nella massa
trovò alcuni suoi compagni
di settore con cui aveva scambiato qualche parola ogni tanto e li
raggiunse. Salutando
in modo cortese, Ludwig fece capire di essere interessato alla storia
che stava
infuocando gli animi di tutta la fabbrica.
“Non
hai sentito? Pare che un uomo sia
rimasto da oggi pomeriggio fino ad adesso sotto quel palo della luce
davanti al
cancello senza muoversi mai! E’ incredibile vero? Ed ha pure
nevicato molto
oggi, ma non ha accennato ad andarsene. Secondo alcuni sta aspettando
qualcuno
o qualcosa, ma secondo me è soltanto un pazzo. Se ti affacci
alla finestra puoi
vederlo, il lampione lo illumina tutto”
Ludwig
cercò di sfruttare la sua
statura per affacciarsi a uno dei finestroni che fiancheggiavano
l’uscita,
quasi del tutto coperto dalle teste degli altri curiosi che sbirciavano
fuori.
Riuscì a intravedere, nel buio più totale della
notte, il fascio di luce del
lampione che veniva smorzato dai fiocchi di neve che cadevano
velocemente
portati dal vento, e in mezzo ad esso la sagoma di un’esile
figura.
“Secondo
me è morto in piedi,
congelato dal freddo, ed è rimasto in quel modo”
Commentò un altro compagno “E’
impossibile sopravvivere a tutto quel freddo con quei pochi stracci che
ha
addosso”
A uno sguardo
dubbioso di Ludwig,
annuì e spostò lo sguardo verso il finestrone.
“Si,
sono stato uno dei primi degli
straordinari a vederlo. E’ vestito come se fosse estate, quel
disgraziato,
starà patendo le pene dell’inferno. E pensare che
il fratello ha cercato in
tutti i modi di portarlo via”
A quelle parole
Ludwig distolse lo
sguardo dal panorama esterno per concentrarlo totalmente sul suo
interlocutore.
“Fratello?”
Chiese ansiosamente.
“Si, o
così mi hanno detto. Pare
abbiano messo su un bello spettacolino, con urla e percosse tanto forti
che
infine hanno dovuto portare via il fratello indiavolato in tre,
altrimenti avrebbe
davvero ammazzato quello scemo”
L’uomo
continuò a parlare, ma Ludwig
non prestò più attenzione alle sue parole. Aveva
un bruttissimo presentimento
riguardo colui che stava compiendo quel gesto quasi da suicida e voleva
chiarire il dubbio. Cercò di farsi avanti spingendo da parte
le altre persone e
avanzando nella folla, senza staccare gli occhi dal finestrone e dalla
sagoma
che di tanto in tanto si muoveva cercando di scrollarsi di dosso la
neve e il
freddo.
Mentre avanzava, sentiva parti dei discorsi degli altri operai.
“Ma
quello è pazzo-“
“Ehi,
non spingere”
“State
bloccando l’uscita, voglio
andare a casa! Fate passare!”
“-cono
che è vestito di stracci, forse
è un barbone!”
“Si,
il fratello gli urlava nella loro
lingua come se lo stessero scorticando vivo. Giuro-“
“Sai
come sono fatti questi italiani,
no? Gente rozza, senza la minima educazione, io li rimanderei nella
loro
nazione-“
La mano guantata
di Ludwig poggiò a
palmo aperto sul ferro della porta, mentre l’altra
girò con forza il pomello,
quasi rompendolo. Una folata di vento e neve colpì la folla
facendogli gonfiare
i giubbotti mentre usciva di corsa fuori il cortile della fabbrica.
La neve copriva ogni cosa a perdita d’occhio, sia a terra
dove le impronte
degli operai erano state coperte da tempo, sia i muretti e i tetti
delle case
circostanti. Il buio era quasi totale, spezzato soltanto da qualche
lampione
qua e là e da qualche finestra lontana con la luce ancora
accesa. Il silenzio
era quasi sacro, rotto soltanto dalle folate di vento e da qualche
starnuto che
si sentiva da lontano, dalla sagoma che sotto il lampione aspettava con
una
compostezza quasi militare. Ludwig cercò di abituare gli
occhi all’oscurità,
mentre faceva qualche passo nella neve. Sentiva tutti gli occhi degli
operai
che da dietro i vetri della finestra gli bucavano la schiena, curiosi e
avidi
di storie assurde da poter raccontare il giorno dopo ai loro compagni,
ma non
gli importava.
Non gli importava di nulla se non della figura che sotto il lampione
moriva dal
freddo.
La sagoma non
accennò a muoversi
nonostante si avvicinasse sempre di più, e ad ogni passo
riusciva a cogliere un
dettaglio nuovo: la magrezza della figura, l’assenza di
vestiti pesanti, gli sbuffi
di respiro caldo portati via dal vento, i capelli castani scompigliati
che
volavano ovunque.
Ad ogni passo il suo cuore accelerava di un battito, minacciando di
scoppiare
tant’era forte. Poteva sentire la sua pressione in gola, le
mani tremavano nei
guanti di pelle mentre la testa iniziava a pulsare.
Infine, si
fermò all’altezza del
grosso cancello che segnava il confine della proprietà della
fabbrica, lo
sguardo fisso davanti a sé.
Dall’altra parte della strada, Feliciano ricambiava il suo
sguardo tremando
come una foglia sotto la luce del lampione, pallido come un cadavere e
con il
volto rosso e bruciato dal freddo. Non si mosse né
cercò di attirare
l’attenzione su di lui, semplicemente rimase rigido nella sua
posizione a
sostenere lo sguardo di colui che aveva aspettato per tutto quel tempo.
Il tedesco era
completamente
paralizzato, lo stupore non gli permise di pensare velocemente. Poi un
ricordo
si fece largo nella sua mente confusa come una lama affilata che
affonda nel
burro. Ai suoi occhi, Feliciano non vestiva più i leggeri
panni colorati con
cui cercava di proteggersi dal freddo, bensì gli stracci a
strisce nere e
bianche del campo di concentramento, il suo sguardo lo fissava da
dietro una
rete elettrificata mentre il suo corpo era consumato dalla fatica e
dalla fame,
sul volto i segni delle violenze subite dalle altre guardie.
Gli ci vollero
pochi secondi di corsa
per raggiungerlo, Feliciano che sorrideva felice mentre Ludwig si
sfilava il
lungo cappotto nero per coprirlo. Quando infine lo raggiunse, lo
avvolse con il
cappotto e lo strattonò violentemente.
“Stupido!
Sei uno stupido! Le persone
muoiono con questo freddo!”
“Ve…
Ludwig, finalmente…” Rispose con
voce debole, distorta dalla gola fredda e probabilmente ammalata.
Ludwig avrebbe
voluto urlargli contro,
schiaffeggiarlo e maledirlo per essere così sconsiderato e
per aver messo in
pericolo la sua vita, facendo inoltre preoccupare suo fratello, ma
rinunciò
quando vide il sorriso raggiante dell’italiano e il suo
sguardo caldo e colmo
d’affetto su di lui.
Con un sospiro di rassegnazione, rimboccò il pesante
giubbotto sulle spalle di
Feliciano. Il ragazzo si avvicinò velocemente a lui e lo
abbracciò senza alcun
preavviso.
“Ve…
sei così caldo!”
“Si,
me l’avevi già detto”
Sussurrò
lui mentre circondava affettuosamente il corpo del ragazzo con le sue
braccia.
“Allora
lo ricordi ancora!” Chiese con
stupore l’italiano guardandolo direttamente negli occhi.
Un rumore
metallico si diffuse per
tutto il cortile fino all’esterno, seguito da alcuni passi
ovattati nella neve.
Evidentemente gli altri operai stavano uscendo fuori dalla fabbrica per
tornare
alle proprie case, o più probabilmente per assistere meglio
al loro incontro.
“Si,
ma non è questo il posto per
parlare. Vieni, andiamo da questa parte”
Prendendo una
mano gelata nella sua
guantata, Ludwig portò velocemente via Feliciano da sotto
quel lampione,
spostandosi di qualche isolato e imboccando molte stradine secondarie
per
seminare quegli spioni che proprio non ne volevano sapere di tornare
nelle loro
case.
Dopo poco tempo,
trovata una casa
semidistrutta dai bombardamenti e non ricostruita, i due uomini si
ripararono
dalla nevicata sotto il tetto fatiscente della struttura. Feliciano era
rimasto
in silenzio per tutto il tempo, cosa piuttosto strana in quanto il
tedesco lo
ricordava piuttosto rumoroso, ma manteneva ancora il suo genuino
sorriso sul
volto. Per quanto riguardava Ludwig, temeva seriamente di poter morire
da un
momento all’altro per quanto fosse veloce e forte il suo
battito cardiaco.
“Aspetteremo
qui che la nevicata
diminuisca o smetta del tutto. Dove abiti?” Chiese infine
“Ti riporto a casa da
tuo fratello, sicuramente sarà molto preoccupato”
“Io
non voglio tornare a casa, non ora
che finalmente ho avuto l’occasione di rincontrarti, di
poterti parlare di
nuovo” Eruppe l’italiano con lo sguardo che stava
velocemente tendendo al
lacrimevole “Ho aspettato così tanto tempo per
questo!”
Ludwig
ricordò le parole dei suoi
compagni, di come Feliciano si era messo ad aspettare fuori dalla
fabbrica alla
fine del turno regolare. Ma erano più di otto ore, no?
Dubbioso su quanto effettivamente quella testa di rapa avesse
aspettato,
domandò di preciso quanto tempo era stato ad attendere.
Feliciano gli lanciò un sorriso con una forte sfumatura di
tristezza.
“Quindici
anni”
Qualcosa si
ruppe in quel preciso
istante in Ludwig.
Quel numero, quelle due parole dal semplice significato, gli fecero
riaffiorare
nella mente e nell’animo tutti i ricordi e le sensazioni
provate dal momento in
cui aveva messo piede nel campo di concentramento fino in quel momento:
tutte
lo sofferenze, le gioie, l’amore che aveva provato per lui,
l’odio per il
fratello e poi l’atroce sofferenza di perderlo per sempre, la
paura e
l’angoscia provata in carcere, la rassegnazione e la
tristezza che provava ora…
Si
ritrovò a piangere violentemente
mentre abbracciava con forza l’italiano tirandoselo al suo
petto.
Mentre piangeva si scusava con insistenza, chiedendo perdono per tutta
la
sofferenza che aveva dovuto patire per colpa sua, ma chiedendo perdono
anche a
sé stesso per aver negato il suo stesso essere.
Feliciano
ricambiava l’abbraccio e
l’affetto seguendo il compagno con grosse lacrime,
sussurrandogli parole
rassicuranti e accarezzando lentamente la schiena con il palmo della
mano.
Quando entrambi si furono calmati, Feliciano prese il viso di Ludwig
tra le
mani e sorrise:
“Il
destino vuole proprio farci stare
insieme”
“Chi
sono io per oppormi ad esso?”
Feliciano
assunse un’espressione
meravigliata a quelle parole, e Ludwig ne approfittò per
avvicinarsi e lasciare
un morbido bacio sulle sue labbra.
Ci fu un’improvvisa folata di vento, ma Ludwig non la
sentì tant’era preso dal
baciare Feliciano. Quando si divisero, l’italiano rise di
felicità e si
risistemò il giubbotto sulle spalle, che nel frattempo era
scivolato
minacciando di cadere e lasciarlo scoperto.
“Ha
smesso di nevicare, ti riporto a
casa”
“No!
Non voglio che tutto questo
finisca, come in quelle opere teatrali dove infine il protagonista si
risveglia
scoprendo di aver sognato tutto! Ve, non voglio!”
“Farò
tutto ciò che è in mio potere
per non farlo finire” Rispose il tedesco prendendogli la mano
“Te lo prometto”
Feliciano
rispose con un ampio sorriso
mentre si incamminarono verso le case popolari dei sobborghi di Berlino
Ovest.
Gennaio 1964,
Berlino Est
Se non era la
neve a congelare persino
l’anima, era il vento sferzante e gelido che si incanalava
nei vari vicoli
diventando forte quasi quanto una burrasca. E se non il vento, ci
pensavano la
pioggia e la grandine a tormentare le povere persone di Berlino Est.
Ma se quelle più fortunate potevano contare su eleganti
ombrelli, giubbotti
lunghi e caldi e su posti rinomati per ripararsi come i
Cafè, le persone che
non possedevano nulla erano costrette a ripararsi come meglio potevano,
nei
posti più bui e sporchi della città, frugando
nell’immondizia nella speranza di
trovare qualcosa da mettersi addosso oppure qualcosa da mangiare.
Le giornate di
Gilbert erano tutte più
o meno uguali, tutte spese a guardare la gente passare concentrata
sulla
propria vita e completamente cieca al pezzente che, sbragato a ridosso
di un
muro, li fissava con uno sguardo vitreo nella speranza di ricevere
qualche soldo
o qualcosa da mangiare.
Le persone camminavano a passo svelto cercando di non scivolare sul
ghiaccio
che si era formato a terra, strette nei loro lunghi vestiti pesanti e
caldi, a
volte scavalcando le lunghe gambe dell’albino che si
allungavano sul
marciapiede.
Gilbert cercava
di attirare la loro
attenzione allungando verso di loro un cappello mal rattoppato e ormai
inutilizzabile e sussurrando richieste di pietà, sperando in
qualche elemosina.
I dollari e i rubli erano il denaro più ambito
perché di maggiore valore, ma si
sarebbe accontentato anche solo di qualche marco per riuscire a
comprare un
tozzo di pane e placare quell’insaziabile fame che lo
accompagnava da quando
era tornato libero.
In prigione non
se l’era cavata troppo
male, era stato confinato con altri nazisti, formando un solido gruppo
in cui
si spalleggiavano a vicenda, ma una volta fuori dalla prigione Gilbert
realizzò
con amarezza che il mondo era cambiato, si era evoluto, e che si era
dimenticato di lui.
Non c’era più posto per lui in quel mondo, un
nazista povero di una famiglia
decaduta che aveva speso gli ultimi diciassette anni in carcere, eppure
continuava ad aggrapparsi alla vita con forza cercando di tirare avanti
ogni
singolo giorno come poteva.
Aveva cercato di
trovare un lavoro
discreto, o almeno che gli permettesse di comprare un po’ di
cibo ogni giorno,
ma velocemente scoprì che il regime sovietico non era stato
così gentile con il
suo paese, che l’economia era disastrosa e che nessuno in
quelle condizioni gli
avrebbe potuto offrire un lavoro, non con quella spalla lesionata che
non gli
permetteva di fare sforzi e nemmeno di alzare il braccio oltre
l’altezza del
mento.
Intorno a lui vi erano così tanti uomini in buona salute che
cercavano lavoro,
accettando anche pagamenti e condizioni disumane, che quando provava a
farsi
assumere il più delle volte i datori di lavoro gli ridevano
in faccia, o lo
additavano come un poveraccio e lo cacciavano via.
Alla fine era davvero diventato un pezzente.
I peggiori erano
i russi, con i loro
modi di fare rudi e senza il minimo scrupolo, trattavano la gente come
se fosse
inferiore, per non parlare di coloro che si trovavano nella condizione
di
Gilbert. Lui soprattutto era preso sempre di mira per il suo aspetto
inusuale,
spesso era costretto a scappare e nascondersi tra le macerie non ancora
rimosse
degli edifici per sfuggire a un linciaggio, uniche sue colpe essere un
senzatetto ed essere albino.
Qualche volta non era stato così fortunato e portava ancora
addosso le
cicatrici delle coltellate che aveva ricevuto.
No, nessuno in quel mondo aveva pietà dei barboni.
Dopo aver
passato ore a tendere il
braccio in direzione dei passanti, Gilbert si arrese e posò
il cappello a
terra, rannicchiandosi il più possibile sui cartoni per
difendersi dal freddo.
Quel giorno era riuscito a recuperare pochi pfennig (centesimi di
marco),
insufficienti anche per un quarto di pane, e il freddo era
più intenso che mai.
“Forse
è arrivato il giorno in cui ci rimetterò
finalmente le penne” Pensò mentre osservava la
gente che, diminuita
sensibilmente, si affrettava a tornare a casa dopo un estenuante turno
di
lavoro.
Alcuni volti non
erano nuovi per
l’albino, sedendo in quel punto del marciapiede da
più di un anno ogni singolo
giorno, ormai conosceva bene tutti quelli che passavano quotidianamente
per
quella strada:
un uomo con il giubbotto rattoppato e di pessima fattura che usciva
dalla
fabbrica e si andava a rintanare subito in un pub a bere birra; una
donna ormai
sulla cinquantina che si affrettava a tornare a casa con una busta
piena di
alimenti; un ragazzo che portava sulle spalle la lunga scopa da
spazzacamino
che si puliva insistentemente il volto dalla fuliggine, imbrattandolo
ancora di
più; un uno piuttosto alto dal lungo giaccone e
incappucciato di cui non
riusciva a vedere mai il volto tant’era stretto nei suoi
abiti, con una lunga
sciarpa bianca che gli cadeva fino alle gambe.
Mentre passava,
l’uomo senza volto si
girò a guardarlo per una frazione di secondo, lasciando
cadere una singola
moneta dalla manica del giubbotto che gli copriva le mani, per poi
continuare
il suo cammino come se niente fosse. Gilbert non riuscì a
vedere il suo viso a
causa dell’ombra del cappuccio, ma si avventò
sulla moneta come un avvoltoio su
una carcassa, urlando lodi e ringraziamenti mentre intascava la
preziosissima
moneta da un marco.
Grazie a quell’uomo, anche quel giorno avrebbe mangiato.
Gilbert
lasciò la sua postazione di
lavoro quando calò il sole. Subito si mise a piegare i suoi
preziosi fogli di
cartone, senza i quali non poteva difendersi in alcun modo dal freddo
dell’inverno e dalla neve, e si precipitò nel
negozio di alimentari nei
sobborghi periferici della città, dove tutti coloro che non
avevano di che
vivere potevano riuscire a mettere le mani su un pezzo di pane per
pochi soldi.
Mentre addentava
freneticamente il
cibo e gustava la sensazione della fame placata, l’albino
ripensò all’uomo
incappucciato che gli aveva donato la moneta. Non era la prima volta
che incontrava
quello strano individuo, e non era la prima volta che riceveva del
denaro da
lui. Anzi, a pensarci bene, quell’uomo era l’unico
che ogni qual volta passasse
davanti a lui, gli lasciava una moneta da un marco, qualche volta
addirittura
un rublo.
Ogni volta che Gilbert pensava a quell’uomo una sorta di
calore si diffondeva
nel suo petto, la sua compassione era quasi commovente. Spesso gli
ricordava
Matthew e il suo sguardo dolce, l’unica persona che non lo
aveva giudicato ma
accettato per quello che era, qualcuno che ormai non avrebbe mai
più rivisto se
non nella sua mente.
“Non
è un russo, impossibile che sia
un russo, nessuno di loro sarebbe così gentile con
me!” Farfugliò a bocca
piena, parlando tra sé e sé.
Se non russo
allora era un tedesco di
buon cuore, non c’era alcun dubbio, era rarissimo incontrare
stranieri da quel
lato del muro.
Gilbert finì in poco tempo il suo pasto e iniziò
a vagare per la periferia
della città cercando un posto adatto per passare la notte.
Doveva essere
prudente e meticoloso nella ricerca, sia perché di notte era
più facile essere
assaliti per un senzatetto, sia perché doveva trovare un
posto coperto e
asciutto per proteggersi dal freddo.
Ogni notte era come tentare la fortuna con i dati, poteva sbucare nel
buio o da
dietro un angolo un malvivente con l’intenzione di rubare
quelle poche cose che
possedeva, oppure un gruppetto di ricchi figli di papà con
l’intento di passare
la serata a torturare la gente povera e a lasciarla morire senza
pietà.
Inoltrandosi nei
fitti vicoli sporchi
e maleodoranti della periferia, ad un certo punto Gilbert vide una
sagoma
passargli davanti a una distanza di una decina di passi. Subito si
nascose
dietro un cumulo di macerie nella speranza di non essere visto,
fissando con
paura davanti a sé. La sagoma continuò a
camminare come se nulla fosse a passo
svelto, la neve che scricchiolava sotto le sue scarpe. Quando
passò sotto il
piccolo lampione a gas che sporgeva da un muro illuminando
l’incrocio di
vicoli, Gilbert vide l’uomo incappucciato e dalla lunga
sciarpa imboccare una
di quelle stradine, silenzioso e veloce come un fantasma.
Che cosa ci
faceva quell’uomo in un
posto del genere a quell’ora di notte?
Forse era anche lui un senzatetto che cercava un posto per passare la
notte, ma
l’albino scartò subito l’idea ricordando
quanti soldi gli aveva dato in
elemosina per tutto questo tempo.
“Un
uomo con tanti soldi come lui non
può non avere una casa” Pensò mentre si
alzava.
Improvvisamente
il rumore di altri
passi si fece largo tra i vicoli, costringendo Gilbert ad accucciarsi
nuovamente dietro i detriti di pietra. Un gruppo di tre uomini dal
volto poco
rassicurante passò velocemente sotto il lampione,
palesemente seguendo le orme
che aveva lasciando l’altro pochi secondi prima. Qualcuno
borbottò qualcosa
aggiustandosi il colbacco sulla testa.
Gilbert non aveva dubbi, quelli erano russi e anche della peggiore
specie.
Attese qualche
altro secondo nascosto
nella paura di incappare in un secondo gruppo di uomini, ma quando vide
che non
sarebbe arrivato nessun altro, si alzò e iniziò a
camminare lentamente verso
l’incrocio dove la moltitudine di impronte nella neve veniva
illuminata dal
lampione.
Forse era
soltanto un caso che
quell’uomo caritatevole fosse passato da quelle parti prima
del gruppo di
russi, ma l’albino aveva il fortissimo presentimento che non
fosse così, e che
anzi quell’uomo era in serio pericolo.
“Non
sono affari tuoi” Gli sussurrò
una vocina nella testa, forse la coscienza
“Quell’uomo sicuramente si è messo
in qualche guaio con i russi, e non è un tuo problema.
Cercare un posto per
dormire, è questo quello a cui devi pensare ora!”
Ma il ricordo
dell’uomo che gli
regalava una moneta mentre passava, guardandolo per qualche secondo
come se
stesse dicendo “io ti vedo, tu esisti”, si fece
largo prepotentemente nella sua
mente, spazzando via quella vocina fastidiosa ed egoista.
Seguendo le orme a terra, anche Gilbert imboccò il vicolo e
con passo svelto
cercò di raggiungere l’uomo incappucciato, o
almeno il gruppo di russi,
sperando di non arrivare troppo tardi.
Trovò
entrambi in un piccolo spiazzale
dietro una grossa chiesa abbandonata, l’uno di fronte agli
altri a fissarsi
mentre il vento soffiava violentemente tra i vicoli, i russi che davano
le
spalle alla stradina da cui Gilbert assisteva alla scena.
Uno dei tre fece un passo avanti e indicò l’altro
uomo con una mano guantata.
“Finalmente
ti abbiamo in pugno” Disse
con il suo forte accento dell’est “E’
inutile che neghi, sappiamo chi sei e
cosa fai, stronzo”
“Sei
una schifosa spia americana, e a
noi le spie non piacciono” Continuò un altro, il
pelo del colbacco e svolazzava
ovunque a causa del vento.
Gilbert non fu
particolarmente colpito
da quelle parole, infatti non molto tempo prima aveva sollevato i suoi
dubbi
riguardo quell’uomo, ma nonostante ciò il tono di
quei russi gli mise i
brividi. Sentì che l’uomo incappucciato era in
guai seri e che quella
situazione sarebbe precipitata in poco tempo.
L’uomo
rimase in silenzio a fissare il
gruppo ostile ancora per qualche secondo, le mani nascoste nelle grosse
tasche
del cappotto.
I tre russi si spazientirono in fretta del suo silenzio, due di loro
cacciando
delle pistole dalle tasche, mentre il terzo un coltello a serramanico.
“Cos’è,
il gatto ti ha mangiato la
lingua, maledetto americano? Ma sta tranquillo, in un modo o
nell’altro faremo
in modo che tu non possa più parlare per sempre! Il governo
russo non ha
bisogno di spie nemiche nel suo territorio!” Urlò
infine.
Gilbert vide il
metallo delle pistole
luccicare alla luce dei lampioni dello spiazzale. Da quella posizione,
era in
grado di raggiungere con poche falcate gli uomini, mentre
l’altro si trovava
più lontano e soprattutto a portata di tiro. Dal suo
comportamento tranquillo,
Gilbert era sicuro che quell’uomo non si era accorto che i
russi erano armati
ed erano pronti a sparargli in qualsiasi momento. Doveva agire,
altrimenti lo
avrebbero ammazzato con pochi colpi di pistola, ma cosa poteva mai fare
debole,
invalido e disarmato com’era?
Infine,
l’uomo solo rispose con una
voce così leggera che il vento la portò via
immediatamente, ma nonostante ciò
arrivò comunque alle orecchie dei russi e di Gilbert.
“Sono
canadese”
In quel momento,
Gilbert sentì
un’ondata fortissima di adrenalina corrergli per tutto il
corpo. Sprofondando
un piede nella neve, si diede lo slancio per uscire fuori dal vicolo e
correre
verso il gruppo dei russi, che presi alle spalle di sorpresa, non
riuscirono a
controbattere in tempo. Le pallottole sparate dalle pistole a casaccio
guidate
dalla paura fischiarono ovunque mentre Gilbert saltava su uno di loro,
aggrappandosi con tutte le sue forze alla sua schiena con le braccia e
le
gambe, urlando all’uomo incappucciato di scappare.
Non si accorse che nel frattempo aveva estratto una pistola e stava
sparando
contro i russi, freddandoli con singoli colpi precisi.
Dopo quei pochi
secondi di adrenalina
pura dove la mente si ridusse a un insieme di immagini sfocate e urla
ovattate,
l’albino si ritrovò con la schiena sulla neve
schiacciato dal corpo pesante e
privo di vita del russo.
Improvvisamente tutto diventò silenzioso, soltanto il vento
con il suo
incessante ululato era ancora udibile, accompagnato dal calpestio della
neve.
“Stai
bene?” Infine, urlò l’uomo
mentre si chinava su Gilbert e lo aiutava a spostare il corpo morto con
un tono
molto preoccupato.
Mentre liberava
le gambe dal peso,
finalmente Gilbert riuscì a vedere per la prima volta il
volto dell’uomo, e
quasi non svenne per l’emozione.
“T-tu…”
Balbettò senza riuscire a
continuare.
Matthew gli
sorrise mentre gli porse
la mano per aiutarlo ad alzarsi. Gilbert era così scioccato
da quella scoperta
che la testa gli girava vorticosamente, o forse era soltanto
l’adrenalina che
abbandonava il suo corpo. Comunque sia, non riuscì a
distogliere gli occhi dal
suo volto pallido e sorridente.
Era incredibile che Matthew fosse lì in quel preciso
momento, forse Gilbert era
morto nel tentativo di aiutare l’uomo caritatevole, e un
angelo con le sembianze
di Matthew era venuto a prenderlo per portarlo di fronte al giudizio
divino.
Ma Matthew sembrava più tangibile e reale di
un’illusione mistica e alata.
Non era cambiato
di una virgola in
tutti quegli anni.
I suoi occhi erano ancora brillanti e caldi, e lo guardavano con gioia
e amore,
il suo sorriso era così genuino da sembrare quasi finto,
mentre i capelli
biondi e vaporosi erano portati ancora semi lunghi. La cosa che
attirò più di
tutti l’attenzione dell’albino fu la montatura
degli occhiali, di legno con
sofisticati intagli, come quelli che gli aveva regalato nel campo di
concentramento e che erano andati distrutti. Ma come
diavolo…?
Matthew rimase
in silenzio per tutto
il tempo, dando al tedesco il tempo necessario elaborare quella nuova
scoperta,
aspettando pazientemente mentre si toglieva la sciarpa per arrotolarla
intorno
al suo collo scoperto.
Infine Gilbert riuscì a mettere insieme una frase coerente e
ad articolarla in
modo comprensibile.
“Cosa
diavolo ci fai qui?”
“Gilbert,
dovresti saperlo, sono una
spia” Rispose piano Matthew dopo essersi guardato intorno
“Ma non è sicuro
parlare qui fuori, anche i muri potrebbero avere le orecchie. Vieni con
me, ho
un appartamento a pochi isolati da qui. Ti offro qualcosa di caldo se
ti va”
A Gilbert andava
ovviamente, ma lo
stupore era così forte che si ricordò a malapena
di annuire.
Per tutto il tragitto rimasero in silenzio, Gilbert con la mente piena
di
domande e Matthew guardingo e con il perenne presentimento di essere
seguito.
Infine, raggiunsero un piccolo edificio condominiale dove Matthew
alloggiava,
nella zona meno malfamata della periferia di Berlino Est.
L’appartamento
tutto sommato era
scadente e poco accogliente, con qualche mobile sporadico e spifferi
ovunque,
ma dopo aver vissuto più di un anno per strada, per Gilbert
quel posto sembrava
una villa. Matthew lo fece accomodare su un divano malmesso mentre si
liberava
del lungo soprabito invernale e iniziava a preparare del tè
caldo.
“Riguardo
alla tua domanda” disse
all’improvviso facendo sobbalzare l’albino, che
ormai si era abituato al
silenzio “Sono in missione” Si limitò a
dire.
“Missione?”
Nella stanza
cadde nuovamente il
silenzio. Il bollitore emanò un lungo fischio e Matthew lo
tolse dal fuoco per
versare l’acqua calda in due grosse tazze, aggiungendo
l’infuso e qualche
zolletta di zucchero. Quando offrì la tazza al suo compagno
questo subito la
prese e bevve avidamente qualche sorso scottandosi la lingua, ma la
sete e il
bisogno di calore era così forte che quasi non ci fece caso.
Invece notò un
grosso pupazzo di pezza bianco a forma di orso polare che sedeva
rigidamente su
un angolo del divano, una scritta blu si intravedeva sotto una zampa.
Dopo aver sorseggiato per un po’ il suo tè in
silenzio, Matthew posò la tazza
un piccolo tavolino e guardò l’albino direttamente
negli occhi.
“Dopo
che il campo di concentramento è
stato liberato, sono stato riportato in patria e decorato con varie
onorificenze. Sono rimasto in riabilitazione per molto tempo prima di
poter
ritornare a lavorare. In quel periodo, in cui ho incontrato nuovamente
la mia
famiglia, ho deciso di continuare a lavorare per l’esercito
come spia. Ho
accettato questo incarico appena ho potuto”
“Capisco…”
Si limitò a rispondere
Gilbert. Sorseggiò ancora per qualche momento il suo
tè, poi quando lo finì se
ne fece versare dell’altro e ricominciò a bere.
Sapere che il canadese era riuscito a ricrearsi una vita normale dopo
la
liberazione fece provare a Gilbert del sollievo, ma il ricordare qual
era stata
la causa dei suoi mali gli mise addosso un forte senso di angoscia.
“Perciò,
l’uomo caritatevole eri tu”
Esclamò d’un tratto “Tu mi permettevi di
comprare da mangiare con l’elemosina,
tu rimanevi a fissarmi per ore facendo finta di leggere il giornale
appoggiato
al muro, eri tu che…” Rimase con le parole a
mezz’aria.
“La
missione prevede di recuperare più
informazioni possibili sul regime russo” Interruppe Matthew
con la voce
alterata “ma non l’ho accettata per questo. Io
l’ho accettata per un altro
motivo…”
Gilbert
posò la sua tazza ancora
semipiena sul tavolo, sbalordito. I suoi occhi si aprirono per lo
stupore
mentre le parole venivano assimilate nella sua mente.
Matthew era qui per lui?
Impossibile negare che per tutto quel tempo non aveva mai dimenticato
il
piccolo e fragile canadese, ma Gilbert aveva cercato con forza di
metterci una
pietra sopra, di rassegnarsi a non poterlo mai più rivedere,
anzi a non averne
il diritto dopo tutto quello che era successo, dopo quant’era
stato disumano
con lui e con gli altri prigionieri.
Gilbert si portava dietro delle colpe che difficilmente avrebbe potuto
espiare,
Dio abbia pietà di lui.
“Matthew…”
Sussurrò.
Il canadese
sorrise e abbassò lo
sguardo, togliendosi gli occhiali e rigirandoseli tra le mani. Quel
gesto pieno
di significato quasi fece commuovere Gilbert, ma nonostante
ciò non riuscì ad
esprimere la moltitudine di sensazioni e sentimenti che imperversavano
nel suo
animo.
Era tutto così strano, così veloce e improbabile
che Gilbert quasi temesse
fosse un sogno.
“Io…
non sono riuscito a dimenticare,
Gilbert” Fu tutto ciò che disse.
L’albino
rimase in silenzio per qualche
istante, poi sorrise:
“E’ normale, io sono troppo fantastico per essere
dimenticato”
Non diceva
quella frase da tempo
ormai, e dirla in quel preciso momento, vestito di stracci e smagrito
difronte
a colui che un tempo aveva perseguitato con ferocia, era davvero fuori
luogo e
lasciava un sapore piuttosto amaro in bocca, ma Matthew si
limitò ad annuire
con il sorriso.
“Si,
è vero!”
Il ragazzo dai
capelli argentei vide l’altro
cercare di trattenere a stento le lacrime mentre il suo sorriso
vacillava pericolosamente.
Si alzò di scatto e abbracciò stretto
quell’uomo che per tutto quel tempo non
aveva smesso di cercarlo, nonostante lui si fosse rassegnato al destino.
“No,
sei tu ad essere fantastico. Non
ci sarà giorno in cui non lo ricorderò al mondo
intero”
Matthew
ricambiò l’abbraccio con
forza, premendo il viso sulla sua spalla.
Da una delle maniche che posavano morbidamente sulle braccia si
intravedevano i
numeri cuciti sottopelle.
--------
Arthur
e Francis convissero in un piccolo appartamento al centro
di Londra per sette anni, finché Arthur non passò
a miglior vita a causa di una
cirrosi epatica malcurata. Rimasto solo, Francis continuò a
coltivare le rose
di Arthur deponendone una sulla sua tomba nella cappella di famiglia,
ogni
giorno. All’età di 53 anni si spense a causa di un
infarto fulminante e fu tumulato
nella stessa cappella accanto ad Arthur, permettendogli di poter stare
insieme
per l’eternità. La loro morte mise fine alla lunga
discendenza della famiglia
Kirkland. La proprietà di famiglia venne trasformata in un
ricovero per i
reduci di guerra, secondo le loro volontà testamentarie, con
l’obbiettivo del loro
reinserimento nella società.
-------
Ivan
si impegnò a seguire una terapia riabilitativa per liberarsi
definitivamente dei suoi problemi post traumatici, ma quando il regime
iniziò a
bollare le persone in terapia come malati mentali e a rinchiuderli nei
manicomi,
dovette smettere. Con il passare degli anni, gli attacchi divennero
sempre più
frequenti e violenti, finché una notte di inizio dicembre,
quando si trovavano nella
tenuta di Feliks in vacanza, Toris fu gravemente ferito da Ivan in
preda a una
forte crisi e ricoverato in ospedale.
Compresa la gravità della situazione, ormai non
più sostenibile né risolvibile,
Ivan affidò il compagno a Feliks, lasciando la villa la
notte stessa. Fu
trovato impiccato ad un albero alcuni giorni dopo in un terreno incolto
non
lontano dalla residenza.
Feliks non ebbe mai il coraggio di dire la verità a Toris,
né quest’ultimo
chiese mai nulla, semplicemente comprese e si rassegnò. Di
tanto in tanto però Feliks
poteva sentire di notte i lamenti del pianto dell’amico
attraverso i muri delle
camere.
Toris non tornò più in Russia e
l’appartamento che condivideva con Ivan rimane
ancora oggi chiuso e inutilizzato, tutti i loro averi
all’interno, nel
frigorifero gli ingredienti ormai liquefatti per la torta di compleanno
di Ivan.
Vivono tuttora nella residenza Lukasiewicz.
------
Chiariti
i loro sentimenti, Ludwig e Feliciano iniziarono una
relazione stabile e segreta mal accettata da Romano e supportata da
Antonio.
Dopo molti corteggiamenti da parte di quest’ultimo, alla fine
Romano si arrese
e iniziò a frequentare lo spagnolo, facilitando di molto lo
scambio di inquilini
che permise a Ludwig di vivere con Feliciano e a Romano di vivere con
Antonio.
Nel 1975, a causa di un grave incidente sul lavoro, Feliciano rimase
paralizzato dalla vita in giù senza alcuna
possibilità di riabilitazione. Continua
tuttora a godere dell’assistenza dei suoi famigliari e del
suo compagno mentre
si afferma definitivamente nel mondo dell’arte come pittore
paesaggista.
-------
Abbandonata
finalmente la strada, Gilbert iniziò a convivere con
Matthew, cercando di non disturbare l’operato della spia.
Insieme aderirono a
un movimento clandestino dedito al rovesciamento del regime comunista e
all’abbattimento
del muro di Berlino. Durante il loro operato nella
“resistenza”, entrambi si
impegnarono per aiutare coloro che volevano superare il muro per
ricongiungersi
con i propri famigliari nella parte occidentale.
Oggigiorno vivono a Bonn in una piccola casa di campagna dove Gilbert
alleva
canarini.
--------
Alfred
combatté sul fronte occidentale contro i tedeschi,
successivamente prestò servizio sul fronte asiatico contro i
giapponesi. Dopo
un’epica disavventura, con il finire della guerra, rimase
qualche anno in
Giappone per poi ritornare in patria accompagnato dall’amico
Kiku Honda, dove
poté finalmente incontrare suo fratello e sua madre.
Divenuto addestratore di nuove reclute nell’esercito
americano, attualmente si
gode la pensione in un Ranch in Texas insieme al suo amante Kiku.
--------
Dopo
la liberazione del campo di concentramento prussiano, di
Roderich non si ebbero più notizie. Voci ufficiali affermano
che sia morto durante
la liberazione e che il suo corpo sia stato seppellito nelle fosse
comuni insieme
agli altri caduti, mentre voci di corridoio lo vorrebbero vivo e vegeto
in Venezuela,
dove riuscì a stabilirsi con altri ufficiali nazisti
sfuggiti ai processi, e a
formare una famiglia.
Non si seppe mai la verità.
-------
Il
9 novembre 1989 il muro di Berlino fu abbattuto, riunificando la
città e il paese per sempre e mettendo fine alla guerra
fredda tra USA e URSS.
All’età
di 60 anni, i due fratelli Beilschmidt
potettero finalmente riabbracciarsi.
Il
Blocco H3T4-L14
Fine
Note
dell'Autore
Scusate
il terribile ritardo e la qualità del capitolo.
Grazie di avermi accompagnato lungo questa bellissima avventura.
Tornerò!!!
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