Kimura Nanako.

di usotsuki_pierrot
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Infanzia. ***
Capitolo 2: *** II. UA. ***
Capitolo 3: *** III. Collision. ***



Capitolo 1
*** I. Infanzia. ***


PREMESSA
... È passato più di un mese dall'ultima volta che ho pubblicato qualcosa... Mi sento una persona orribile. Ma questa fic è stata (ed è a dire la verità, visto che la sto continuando e sarà divisa in più parti) un vero e proprio parto. Tra interruzioni continue, pause di... riflessione, diciamo, e i dieci giorni passati al mare sono riuscita a dividerla e a rivederla solo oggi. Mi dispiace davvero, spero almeno sia venuta bene-
Detto ciò, questa fic è incentrata su Kimura Nanako, la mia oc di Boku no Hero Academia! In particolare sulla sua infanzia, nel caso di questo capitolo, e sul suo rapporto con il fratello adottivo Takuya.
Durante la storia saranno presenti anche gli oc di due mie care amiche! Lizzy, o meglio Elizabeth, che ormai conoscete bene, e Mizu Satoru!
Spero che vi piaccia e... al prossimo capitolo!!



«Takuya, aspettami!!».

«Non è colpa mia se sei lenta come una lumaca, Nanako!».
Ero sempre stata invidiosa di tutto ciò che riguardava mio fratello, Kimura Takuya. O di ciò che rimaneva, di lui. Nonostante non avessimo davvero legami di sangue, essendo lui stato adottato prima che nascessi, ci assomigliavamo quel tanto che ci permetteva di vivere il nostro rapporto fraterno senza che qualche estraneo si accorgesse di questo non così piccolo dettaglio.
I miei genitori non avrebbero voluto avere figli naturali. Ai loro occhi, gran parte delle coppie decidevano di avere dei bambini per il mero desiderio di portare avanti l'unicità dell'uno o dell'altro; in alcuni momenti li avevano definiti addirittura degli "esperimenti", dei semplici test. O almeno così mi aveva riferito Takuya.
«È per questo che mi hanno adottato», mi aveva confidato una sera, poco prima di metterci a dormire. «Però», aveva continuato, senza rivolgermi nemmeno per un secondo lo sguardo, «quando mamma ha saputo che saresti nata tu, erano così felici... Come se da quel momento avessero cambiato totalmente idea».
«Pensi che io sia un esperimento?», avevo chiesto, incespicando in quelle parole ancora difficili da pronunciare e da comprendere fino in fondo per una bambina di appena quattro anni.
Takuya aveva scosso la testa in risposta, rivolgendomi un'espressione sorridente accompagnata dal rapido movimento della mano, con la quale mi scompigliò i capelli.
«Mamma e papà ti vogliono bene, Nanako...». C'era una punta di risentimento nella sua voce a quel tempo. Sembrava quasi che si pentisse di tutto ciò che diceva. Aveva paura di ferirmi o di spaventarmi, immaginai quando gli anni passarono.


E poi apparve anche la mia unicità: fiato gelido. Era un'unione perfetta; nostra madre aveva sempre approfittato di quello che noi avevamo definito il quirk per eccellenza di un genitore, ovvero la voce amplificata. Le bastava trattenere un po' il fiato, concentrarsi, e ciò che usciva dalle sue labbra era paragonabile ad un urlo potenziato dall'uso di un megafono nuovo di zecca. Mio padre, dal canto suo, aveva ottenuto una delle unicità che mi sarebbero rimaste maggiormente impresse nella memoria. Tutti la chiamavano "sguardo di ghiaccio", tanto che quando da piccola non ero ancora a conoscenza di cosa fossero i quirk credevo si riferissero a qualche sua caratteristica fisica, o a qualche aspetto del suo carattere. Essendo sempre stato un uomo allegro e solare non avevo mai compreso fino in fondo il significato di quell'appellativo che si era guadagnato. E la sua riluttanza a sfruttarlo non mi aveva di certo aiutata.
Scoprii di cosa si trattava quando un giorno, attraversando la strada di fretta, non mi accorsi di una macchina che si stava avvicinando pericolosamente a me. In quell'istante serrai gli occhi e tutto ciò che avrei ricordato in futuro furono le braccia di mio padre che mi stringevano, il suono incessante del clacson e il vociare preoccupato e confuso dei passanti. Quando riaprii gli occhi vidi l'auto completamente congelata. Da cima a fondo. A pochi centimetri da noi. Guardai mio padre, che stava ancora fissando insistentemente la vettura davanti a lui. Venni a conoscenza del fatto che la sua abilità gli permetteva di trasformare in una statua di ghiaccio tutto ciò che voleva grazie allo sguardo, a seguito di una conversazione con mia madre.
Ero ancora piccola, avevo all'incirca otto anni, ma compresi comunque i motivi che rendevano mio padre così restio ad usare il suo quirk.

 

Ebbi modo di testare sulla mia stessa pelle quanto le unicità potessero rivelarsi non tanto inutili quanto dannose, in alcuni casi. Come accadeva per la maggior parte dei bambini, anche la mia si manifestò intorno ai quattro anni ma, come ci spiegò più avanti il dottore di famiglia, il mio corpo parve non essere del tutto pronto a questo cambiamento radicale.
Arrivarono il freddo, i raffreddori e le febbri incessanti e incontrollabili. La causa si rivelò essere la completa trasformazione della mia temperatura corporea, alla quale il mio organismo aveva cercato di opporre resistenza. Durante i mesi e gli anni successivi mi sentii incredibilmente debole la maggior parte del tempo, facevo fatica ad andare a scuola come tutti gli altri e trascorrevo i pochi pomeriggi di pace e apparente salute insieme a Kaminari Denki ed Elizabeth, due miei coetanei che abitavano vicino a me. Scoprii solo più tardi che erano effettivamente gemelli dall'aspetto diverso. Non che mi fossi posta il problema; a me importavano solamente i momenti che passavamo insieme, che fossero fuori o dentro casa, tranquilli o più movimentati. Non sembravano capirmi, pareva piuttosto che per loro il mio stato di salute altalenante, le mie limitazioni, le preoccupazioni dei miei genitori, niente di tutto questo rappresentasse un ostacolo.
Persino quando tornavo a casa con qualche livido causatomi da chi invece non riusciva a vedere oltre il proprio naso e si divertiva a prendersi gioco dei più deboli per potersi creare una stupida reputazione (e mi chiedevo se davvero a Denki e Lizzy andasse bene passare del tempo con me), i loro visi sorridenti mi facevano stare meglio. Immaginavo le loro voci risuonare al ritmo di parole di conforto che avrei voluto sentirmi dire, e mi tranquillizzavo.
Al contrario di mia madre, ovviamente, che più volte aveva rischiato di finire a scuola a informare gli insegnanti di cosa stesse accadendo, nonostante io per prima non lo volessi.
Takuya dal canto suo sembrava tramare qualcosa; era sempre silenzioso, più del solito, se ne stava in disparte a scrivere su degli strani fogli e ogni qualvolta mi avvicinavo a lui nascondeva il tutto dove poteva e mi offriva un sorriso che non aveva nulla a che vedere con quelli che solitamente manteneva, quando era davvero felice. Non importava quante volte gli chiedessi cosa stesse facendo; "non sono cose che ti riguardano" era diventata la sua frase preferita.
Inizialmente credetti che si trattava di stress. Da un paio d'anni si era iscritto nientepopodimeno che alla UA, la scuola per diventare eroi. Era da sempre stata un sogno per lui, e anche quando eravamo piccoli non faceva che ripetermi quanto fosse emozionato all'idea che prima o poi ci sarebbe entrato. Aveva più volte detto che il suo obiettivo era quello di proteggermi, che ci sarebbe riuscito solo analizzando i quirk di quanti più ragazzi possibile, e che la UA sembrava il luogo ideale per farlo.
Era determinato. Tanto che non fece quasi fatica a passare il test. Ma fu solo l'inizio di una serie interminabile di problemi.
Takuya divenne riservato, silenzioso, passava la maggior parte del tempo in camera sua senza dare a nessuno la possibilità di entrarvi. Era visibilmente preoccupato e agitato, ma né io né i nostri genitori sembravamo avere il privilegio di sapere cosa gli frullasse per la testa. Lo sentivo man mano più distante. Quella complicità che ci univa e che ci permetteva di riconoscerci come veri fratello e sorella stava diminuendo, tanto che per qualche tempo arrivai a considerarlo un estraneo. Arrivai a chiedermi se i bei momenti passati insieme durante l'infanzia fossero esistiti davvero o rappresentassero solo un'allucinazione creata dalla mia mente a causa della malattia costante.
Giunsi persino a dubitare della sua capacità di diventare un eroe. Ai miei occhi ormai appariva un'immagine distorta di quello che era il Takuya di anni prima.


Mi pentii solo dopo di non averlo fermato.
A quel tempo avevo all'incirca dodici anni. Era una di quelle giornate che si prospettano essere normalissime, il sole splendeva in cielo con qualche piccola nuvola passeggera; si stava avvicinando l'estate. Ero appena uscita di casa, per aspettare Lizzy e Denki come ogni pomeriggio passato con loro. Per un attimo mi chiesi come mai non fossero ancora arrivati, ma non me ne preoccupai più di tanto. Ero certa che prima o poi li avrei visti in lontananza, perciò non mi restava che aspettare pazientemente.
Man mano che i minuti passavano sentii il calore del sole colpirmi la pelle in maniera sempre più aggressiva; mi sembrò di bruciare. Ci avevo fatto l'abitudine, ormai. Non importava quanto alte o basse fossero le temperature, ogniqualvolta rimanevo ferma sotto il sole avevo l'impressione di squagliarmi. Avrei insomma potuto descrivere come si sentisse il piccolo pupazzo di neve lasciato in balìa del calore primaverile o il ghiacciolo che attende impaziente di essere mangiato pur di non sopportare ancora a lungo i raggi estivi.
Mi sedetti all'ombra generosamente offerta da un albero nelle vicinanze e mi affrettai a recuperare dalla borsa una delle bottigliette d'acqua che ero stata da poco costretta a portare con me. Fortunatamente era ancora ghiacciata. Ne bevvi un sorso, e il mio corpo venne scosso da lievi brividi nel momento in cui percepii la freschezza gelida attraversarmi la gola già secca. La consapevolezza che quello sarebbe stato un gesto ricorrente per il resto della mia vita, che quella sensazione di bruciore alla pelle sarebbe rimasta per sempre e che ogni estate si sarebbe rivelata un terribile inferno creava un retrogusto amaro in bocca, o forse era solo la mia impressione. Riposi la bottiglietta al suo posto, tornando successivamente a guardarmi intorno. Di Lizzy e Denki nessuna traccia. Decisi che mi sarei incamminata verso casa loro, così mi alzai.
«Dove stai andando?».
Mi voltai e indirizzai lo sguardo verso l'alto. Takuya era sul balcone, con le braccia conserte poggiate sulla ringhiera, che mi fissava. La sua espressione era distaccata, ma non fredda quanto quella che aveva riservato a me e al resto del mondo nei giorni precedenti. Al contrario, avevo potuto percepire un pizzico di preoccupazione nella sua voce.
«Sto andando da Lizzy e Denki», risposi, ricambiando il suo sguardo ma mantenendo calma e gentilezza nel tono.
«Non dovevano arrivare loro fin qui?».
«Si ma stanno facendo tardi e penso che magari sarebbe meglio se-».
«Tu resti qui».
Quelle parole mi colpirono come lame affilate.
«Cosa..?».
«Ho detto che devi rimanere qui ad aspettarli».
Non l'avevo mai sentito parlare in quel modo. Era così teso che al solo guardarlo tutto ciò che fui in grado di rispondere fu un semplice "perché?", quasi sussurrato.
«Vuoi forse ammalarti di nuovo? Sei guarita stamattina e pretendi non solo di uscire, ma anche di fare il tragitto da sola?!».
Si susseguirono alcuni minuti di silenzio, al seguito dei quali non riuscii più a rimanere immobile. Strinsi un poco i pugni e dopo aver rivolto un'espressione irritata a Takuya mi diressi verso la casa dei gemelli elettrici.
«Nanako! Torna qui!!», mi ripeteva invano. Lo ignoravo, nonostante la sua voce giungesse alle mie orecchie così forte da penetrarmi nel cervello.
Mi costrinsi a non voltarmi, nemmeno per rispondergli; abbassai lo sguardo, ma ero così concentrata sulla mia risolutezza che non mi accorsi di dove effettivamente stessi andando. Pochi istanti più tardi urtai contro qualcosa, o meglio qualcuno. Una giacchetta nera, probabilmente di pelle - in netto contrasto con le temperature di quel giorno -, una maglietta chiara e dei pantaloni scuri mi si pararono davanti; e ancor prima che l'individuo si voltasse per guardarmi avevo già chiaro in mente di chi si trattasse. Frequentava la mia classe. Era alto poco più di me e aveva un fisico asciutto, tanto che a prima vista non sembrava capace di ferire nemmeno una mosca. Eppure era uno dei ragazzi che più mi infastidiva e torturava ogni giorno, e di certo il suo quirk non mi aiutava a liberarmi di lui o ad evitarlo. "Braccia lunghe", lo chiamavano i suoi amici più stretti per prenderlo un po' in giro, ma quel nomignolo era estremamente attinente alla sua unicità, che gli permetteva di allungare gli arti superiori per diversi metri. Il suo hobby era prendersi gioco di chi, come me, non aveva ancora capito come usare la sua abilità, o più semplicemente ne aveva una ben più complessa della sua. Pareva non capire quanto per alcuni potessero rivelarsi un inferno, come era accaduto a me (proprio una contraddizione, essendo il mio quirk di tipo ghiaccio).
«Oh, ma guarda chi c'è, Nanako!», esordì con una voce irritante. Era visibile il suo tentativo di infastidirmi anche solo con un saluto.
«Preferirei che non mi chiamassi per nome, Fukuda-san», risposi, il più pacata possibile.
«E chi saresti tu per darmi degli ordini, hah? Posso chiamarti come voglio, deboluccia». Rimasi zitta, come mio solito, non tanto per paura ma semplicemente perché non amavo attaccar briga e prendere troppo sul personale degli insulti dettati dall'ignoranza e da un presunto senso di superiorità. Continuai a guardarlo, finché non fu lui a continuare il discorso con un ghigno indisponente.
«Beh? Non sei ancora svenuta dal caldo, questa volta? Stai facendo progressi, non c'è che dire... Ma dopotutto non sarei così dispiaciuto se ci restassi secca una volta per tutte». Strinsi i pugni, cercando di resistere all'impulso di trasformarlo in una statua di ghiaccio o a quello di imprimergli l'impronta del mio palmo su una guancia.
«Non pensi sarebbe tutto più semplice anche per te, Nanako-chan?? Insomma, non avresti più problemi e non ne daresti a nessuno, con quel quirk stupido che ti ritrovi! Sarebbe una liberazione, in fondo».
«Cos'hai detto?».
Ero così focalizzata sul mantenere il controllo che non mi ero accorta della presenza di Takuya poco lontano da noi.
«Takuya!», esclamai nel momento in cui si diresse pericolosamente verso di lui.
«Sta' zitta, Nanako. Con te parlerò più tardi».
Ciò che accadde negli istanti successivi fu così rapido che feci fatica a seguirlo con lo sguardo. Riuscii solamente a vedere mio fratello sollevare Fukuda dal colletto della giacca, per poi portarlo senza troppa gentilezza con la schiena contro il tronco di un albero; lo stesso sotto al quale avevo trovato riparo dai raggi del sole poco prima. Notai subito l'espressione distorta dal dolore e dalla paura del bullo, che cominciò a muovere spasmodicamente le gambe.
«Lasciami!!».
«Prova a ripetere quello che le hai detto, se ne hai il coraggio». Non riuscivo a guardare il volto di Takuya dalla posizione in cui mi trovavo. Potevo vedergli solo le spalle e la testa, ma mi bastò per visualizzare nella mente il suo sguardo freddo, gli occhi blu fissi in quelli spaventati della sua vittima.
«Ho detto solo la verità! Chi non sa usare la propria unicità non serve a nulla in questa società!!», gridò Fukuda.
«Tsk», fece Takuya, poco prima di allentare la presa per far cadere la sua preda a terra. «Mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro».
Infilò lentamente una mano nella tasca sotto lo sguardo preoccupato del più piccolo, per poi estrarvi un'armonica. La SUA armonica. Quella da cui non si separava mai, che portava sempre con sé e con cui l'avevo visto armeggiare fin da quando eravamo molto piccoli. Non avevo mai saputo esattamente quale fosse l'unicità di mio fratello, perché come nostro padre anche lui era da sempre stato restio ad utilizzarla; ma da quanto avevo potuto capire quell'armonica era ciò che gli permetteva di sfruttarla.
«Vorrà dire che ti farò cambiare idea con la forza». Il suo tono era così serio, così scuro, che per poco non sentii leggeri brividi di paura salirmi lungo la schiena.
«Nanako, torna in casa, adesso».
Deglutii. Era evidente che stesse cercando di allontanarmi; forse per non ferirmi, o per non farmi assistere al suo quirk in azione. Non riuscii a muovere un muscolo. Ero stata catturata dal terrore e dalla curiosità di saperne di più.
Ma a quanto pare Takuya era troppo occupato per assicurarsi che fossi effettivamente andata via. Potei osservarlo mentre ripuliva alla veloce la superficie dello strumento e i fori sul lato; la maneggiava alla perfezione, eppure non l'avevo mai sentito suonare nulla prima di allora. Ripose il fazzoletto dopo qualche secondo. Portò l'armonica davanti alle labbra, e posizionò al meglio le dita per facilitarne il movimento.
Bastò una nota. Una singola, innocua nota, e sentii quella che mi parve a tutti gli effetti un'onda colpirmi, attraversarmi e immobilizzarmi. Ero paralizzata, ma non dall'angoscia.
Una seconda nota, una seconda onda; mi sentii travolgere da un senso di impotenza incredibile. Riuscii a fatica a buttare lo sguardo sulla figura di Fukuda, che pareva versare nelle mie stesse condizioni.
Una terza nota e la sensazione di pesantezza e disagio aumentò a vista d'occhio. Il mio respiro si fece affannoso mentre tentavo di recuperare aria per far fronte a quella terribile morsa; boccheggiavo lasciando che qualche leggera nuvola di vapore fuoriuscisse dalla mie labbra. Potevo sentire il mio cuore battere a mille, come se stesse colpendo furiosamente le pareti che lo imprigionavano per uscire. Ma non appena i miei occhi chiari si posarono nuovamente sul volto di Fukuda, i battiti quasi cessarono. Vidi gocce che scendevano copiose lungo le sue guance, gocce che mi rifiutai inizialmente di definire lacrime. Cadevano a terra bagnando la strada, ma non emettevano alcun suono. Non sentivo singhiozzare, non sentivo rumori o versi soliti di chi piange. I suoi occhi scuri erano spalancati, fissi sulla figura di Takuya che si ergeva in piedi, le pupille parevano tremare; le labbra erano schiuse, immobili. La pelle era diventata pallida, quasi come se fosse morto.
«Ta...ku...». Ero bloccata. Non riuscivo nemmeno a parlare; ma dovevo chiamarlo, dovevo interrompere quell'incubo, prima che fosse troppo tardi.
Non feci in tempo a finire di pronunciare il suo nome. Takuya smise all'istante di suonare, voltandosi immediatamente verso di me.
«Nanako?! Ti avevo detto di andartene!!».
Mi sentii come se mi fossi appena liberata da delle catene invisibili. Feci un passo, lasciando che la testa ricadesse in avanti e che gli occhi puntassero a terra. Mi portai una mano sul petto, stringendo la maglia nella presa; respiravo di nuovo. A fatica, si, ma potevo respirare.
«Co...Cosa sei tu?!», gridò Fukuda, rialzandosi barcollante. «Io... Io..!».
Strinse i pugni tremanti e si incamminò verso casa con le gambe che davano l'impressione di essere fatte di gomma, digrignando i denti. «Me la pagherete..!!».
Gli occhi blu di Takuya erano rimasti fissi su di me per tutto il tempo, quasi come se avesse già cancellato dalla mente la presenza del bullo alle sue spalle.
«Nanako», disse; ma le mie orecchie non sembravano funzionare come al solito. Sentivo il mondo incredibilmente ovattato, non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Infine, le ginocchia cedettero, i suoni dell'ambiente circostante diminuirono a vista d'occhio e le palpebre si chiusero contro la mia volontà.
«Taku...ya...».

 

Feci un sogno molto strano, nelle poche ore in cui rimasi addormentata in quel sonno profondo. Ero nella mia stanza, seduta sul mio letto; sembravo aspettare qualcosa. Presto capii che si trattava di qualcuno. In pochi istanti, la porta si aprì e Takuya entrò nella camera. Si avvicinò al letto e si sedette accanto a me. Dalla sua bocca uscirono parole che non ricordavo, o che semplicemente non avevo compreso sin dal principio; tuttavia, rimasi attenta all'ascolto fino alla fine, fino a quando non mi rivolse un lieve sorriso che non vedevo sul suo volto da settimane, forse mesi. Lo sentii abbracciarmi, percepii il suo calore e anche dopo il mio risveglio avvertii a lungo quella bella sensazione. Feci per portare una mano tra i suoi corti capelli castano chiari, ma non appena le dita entrarono in contatto con i primi piccoli ciuffi, tutto svanì. Aprii gli occhi.
Abbassai lo sguardo, ancora frastornata dal sonno e intontina da quello stranissimo sogno. Le pupille incontrarono il morbido e leggero lenzuolo, che scostai non appena riacquistai il controllo delle braccia. Tentai di mettermi seduta; non immaginavo che avrei fatto tanta fatica. Il mio corpo era ancora estremamente pesante, come se non fosse più di mia proprietà.
Sospirai. Cos'era successo? Cosa aveva fatto Takuya? Quanto tempo era passato da quando mi ero addormentata, o meglio, da quando ero svenuta?
Lo sguardo si spostò dapprima al pavimento chiaro della stanza, per poi posarsi sulla sedia davanti alla scrivania. Notai solo allora che la mia borsa era stata appesa al suo bracciolo, e che il telefono era stato appoggiato sulla superficie in legno.
Mi misi seduta, barcollando e facendomi forza sulle braccia. Riuscii ad alzarmi solo dopo qualche minuto di sforzi inutili, raggiunsi la scrivania a passi lenti e pesanti ed afferrai il cellulare.
La prima cosa che feci fu controllare l'orario, per constatare quanto avessi dormito: relativamente poco, un paio d'ore. Nella mia mente comparvero in un baleno le immagini di Lizzy e Denki, che probabilmente non si erano fatti vivi, aspettavano ancora sotto casa mia o, peggio, erano entrati per cercarmi.
Mi diressi verso la porta della camera, aprendola quel tanto che bastò per farmi dare una rapida occhiata all'esterno. La mia camera dava su un piccolo corridoio, e si trovava in una posizione da cui si poteva vedere senza problemi parte della sala, o perlomeno il grande divano contro la parete. Era lì che solitamente io e i due gemelli elettrici rimanevamo quando faceva caldo, o ero troppo malata per uscire. Con mio grande sollievo però, era vuoto; e fui ancora più sollevata quando mi resi conto di non sentire le loro voci per la casa.
Decisi di uscire: volevo far sapere a mamma e papà che stavo bene, e soprattutto avevo mille domande da porre a Takuya a cui non avrei di certo trovato risposta standomene in panciolle sul letto.
Aprii un poco di più la porta.
«Ho accompagnato Elizabeth e Denki a casa, si sta facendo tardi...».
«Io ho appena chiamato la polizia, ci aiuteranno loro».
«La scuola?».
«Non ha saputo dirmi nulla».
«N-Nemmeno loro...».
«Dove può essere finito?! Eppure era qui fino ad una ventina di minuti fa! Non può essere andato lontano!».
«La finestra... La finestra era aperta...».
«Hai detto che ha portato via tutto?».
«Ogni cosa... La sua camera è... completamente vuota...».
«Non ha lasciato nulla che potrebbe aiutarci a capire dove sia? Neanche un biglietto?!».
«Caro, dovremmo...».
«Io vado a cercarlo».
«Ma dovremmo rimanere qui e aspettare la polizia..!».
«Al diavolo la polizia!! Mio figlio è scomparso, potrebbe essere andato chissà dove e noi dovremmo rimanere qui ad aspettare loro?! Tu sta' qui e tieni d'occhio Nanako, a Takuya penso io per ora».
Mi sentivo paralizzata, per la seconda volta quel giorno. La mano scivolò via dalla maniglia della porta, ricadendo come senza vita lungo il fianco. Sentivo la gola secca, gli occhi erano fissi sulla parete del corridoio. Deglutii, muovendo senza quasi nemmeno accorgermene un passo avanti a me e voltandomi verso i miei genitori; questi ultimi fecero altrettanto, mentre sui loro visi appariva un'espressione di amara sorpresa e rassegnazione.
«Nanako...», fece mio padre.
«Dov'è... Dov'è Takuya..?», chiesi. La voce risultò roca, traballante, e la gola mi bruciava.
«Nanako-chan..!», esclamò mia madre.
Tutto ciò che vidi prima che i miei occhi si riempirono di lacrime fu mio padre che si avvicinava a me; sentii il calore del suo abbraccio, paragonabile a quello che avevo percepito nel sonno. Iniziai a singhiozzare copiosamente, senza tener minimamente conto delle parole di conforto che mamma e papà mi rivolsero per tentare di calmarmi.
La me dodicenne non riusciva a capire cosa stesse accadendo. Mi dissi che l'unicità di Takuya doveva essere quella di far sentire male le persone. Dopotutto, era successo ben due volte in una sola giornata...

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Capitolo 2
*** II. UA. ***


PREMESSA
Finalmente sono tornata con il capitolo due!! Dunque, in questa parte mi sono concentrata sull'ingresso di Nanako alla UA! Quindi l'entrata nella scuola, i rapporti che si instaurano nella classe, l'impressione che gli altri hanno di lei quando la vedono... Insomma, tante, troppe cose :'' Sono consapevole che possa risultare un po' lungo, ma... non volevo dividere anche questo in due parti, e ormai mi ero decisa a strutturare la fic in tre capitoli. Spero vivamente di aver fatto la scelta giusta.
Qui facciamo anche la conoscenza di un nuovo OC, che però non spoilero e preferisco incontriate da soli! Per il resto... nulla, mi metto subito a lavorare sull'ultima parte, che sarà parecchio difficile, già lo so--
Come ultima cosa, vi invito a fare un salto alla mia pagina fb, Usotsuki_Pierrot! Vi lascio il link: usotsuki_pierrot.
Alla prossima! :3



La UA si stagliava in tutta la sua maestosità davanti ai miei occhi. Decine di ragazzi e ragazze camminavano a passo deciso verso l'entrata dell'istituto, sotto ad una cascata di petali rosa; i ciliegi erano infatti ormai in fiore, e donavano a quel primo giorno di scuola un'atmosfera tranquilla, pacata, quasi magica. Non osavo guardarmi intorno. Preferivo tenere la testa bassa e studiare senza fretta la strada, pur di non dover sopportare gli sguardi indagatori degli altri ragazzi. Era già passato qualche mese da quando in TV era comparsa la notizia di una rapina effettuata in un locale poco fuori città, a cui era seguito l'omicidio del proprietario. Il criminale era stato da subito identificato grazie alle telecamere, e il fatto che avesse svolto il tutto senza nessuna protezione o maschera o travestimento aveva reso il lavoro della polizia molto più facile: il colpevole era Takuya. Era entrato poco prima che il locale chiudesse, si era avvicinato al bancone, e tutto ciò che fu possibile vedere dalle telecamere furono il corpo dell'uomo che si accasciava al suolo, e Takuya che riportava la mano in tasca, poco prima che si voltasse per fissare senza alcuna esitazione gli occhi blu al dispositivo che aveva ripreso il misfatto.
Non riuscii a finire il mio pranzo quel giorno, così come mio padre e mia madre. Non fummo in grado di proferire parola, e per diversi giorni rimasi rintanata nella mia stanza. Per quanto provassi a pensarci e a riflettere sull'accaduto non capivo cosa potesse essergli successo. Takuya era davvero diventato un criminale? Lui, che desiderava tanto divenire un eroe per proteggere gli altri, per proteggere me?
Purtroppo i miei tentativi di convincermi che avevo solo preso un abbaglio fallirono miseramente nel momento in cui in TV apparirono nuovi servizi che testimoniavano i crimini perpetuati da chi consideravo mio fratello. La polizia aveva più volte tentato di fermarlo, di catturarlo, ma ogni volta era riuscito a fuggire in modi che non erano stati documentati. Persino alcuni degli eroi che erano riusciti ad intervenire avevano dichiarato che riuscire a prenderlo si sarebbe rivelata un'impresa.
Sospirai. Chiusi gli occhi, come facevo sempre quando mi agitavo per qualcosa, special modo per Takuya. Sollevai le palpebre alzando la testa e posai lo sguardo sulla famosa scuola per eroi che avrei frequentato e in cui aveva studiato anche lui, per un paio d'anni.
"Forza, Nanako... Ce la puoi fare", mi dissi mentre percorrevo il tragitto che mi avrebbe condotta all'interno. Quello sarebbe stato il luogo perfetto per allenarmi, sviluppare le mie capacità, migliorare il mio quirk, e chissà quante altre cose a cui aspiravo da tempo. Avrei salvato Takuya. Lo avrei riportato a casa.
Mi ero ripromessa che non avrei tenuto la testa bassa una volta entrata in classe, ma appena vi misi piede e incrociai lo sguardo di un paio di studenti non riuscii a mantenerla. Un individuo occhialuto continuava a fissarmi senza sosta, tanto che mi sembrò quasi di averlo a un centimetro di distanza. Mi sedetti al primo banco libero che trovai; era nelle ultime file, fortunatamente. Ma non potei non notare un ragazzo dai corti capelli verde acqua tendente al celeste e dalle strane orecchie che ricordavano le pinne di un pesce. Pensai che la sua unicità doveva essere in qualche modo collegata al mare o all'acqua in generale. Resistetti a stento all'impulso di toccargli la guancia per constatare se fosse coperta di squame, cercando di convincermi che dopotutto non avrei voluto fare brutte figure il primo giorno di scuola.
Posai a terra la cartella, accanto ad una delle gambe del banco. Dopodiché alzai di poco lo sguardo per analizzare la classe. Non feci in tempo a guardarmi un po' intorno, che incrociai subito lo sguardo con un ragazzo già seduto. Aveva i capelli metà di colore bianco e metà di colore rosso, e non appena lo osservai con più attenzione notai una grande macchia scura intorno all'occhio sinistro che inizialmente mi era sfuggita, ma dopo qualche istante mi parve addirittura troppo visibile.
Non appena distolsi l'attenzione dalla ferita evidente, mi resi conto che mi fissava da quando i nostri sguardi si erano incrociati. Abbassai velocemente gli occhi, per ridurre al minimo il contatto visivo. Sentivo di essere al centro dell'attenzione di molti, in quel momento; il che non mi aiutò per nulla a smorzare la tensione. Potevo sentire la mia temperatura corporea salire lenta ma graduale. Scossi lievemente la testa per riprendere quel minimo di tranquillità e autocontrollo che mi erano rimasti. C'era qualcosa, nello stare in mezzo alla gente, che mi preoccupava sin da quando avevamo ricevuto notizie dei misfatti di Takuya alla televisione. Non eravamo certo gemelli, perciò il mio aspetto non era immediatamente collegabile al suo, ma le interviste fatte alla mia famiglia e gli pseudo interrogatori ai miei genitori (più per capire che tipo fosse Takuya che altro) comparsi ai telegiornali non avevano fatto che aumentare la popolarità del caso e il nostro coinvolgimento.
Ero così focalizzata sul fissare il più possibile il banco che non mi accorsi dello sguardo del ragazzo dalle orecchie a pinna seduto di fronte che si era posato inesorabilmente su di me, da dietro la sua spalla.
«Ehi, tu!!». Sentii una voce risuonare dall'altra parte della classe. Inizialmente non vi avevo prestato troppa attenzione, credevo non fosse possibile che fosse diretta proprio a me. Fu solo quando lo strano tizio con gli occhiali (che aveva iniziato a fissarmi quando ero entrata in classe) si ritrovò a pochi millimetri da me, ripetendo la frase appena pronunciata, che alzai la testa posando gli occhi chiari sui suoi.
«Come..?».
«Dico proprio a te, cosa fai qui?!».
Non capii cosa volesse dire. Pensai che avessi sbagliato classe, ma ero quasi certa di essere nel posto giusto. Mi fermai ad osservarlo attentamente, per cercare di ricordarmi se lo avessi visto da qualche altra parte prima di allora e si fosse avvicinato in modo minaccioso per quel motivo; ma più tentavo di scavare nella memoria, più il suo volto mi suonava nuovo, mai visto.
«Beh, ecco...».
«Cosa fa la sorella di un criminale qui alla UA?!». Il suo tono si era fatto incredibilmente alto e aveva raggiunto ogni angolo della stanza, in cui era calato un improvviso e assordante silenzio.
In quel preciso istante potei osservare il viso e l'espressione (curiosa per qualcuno, confusa o spaventata per altri) di ogni studente; tutti si erano girati a guardarci. O meglio, a guardare me.
«Ohi, fermo!». Riconobbi all'istante quella voce.
«Denki!!». Il biondo si avvicinò e mi sorrise, posando poi una mano sulla spalla del ragazzo misterioso.
«Cos'hai da scaldarti tanto, eh?», chiese. «Sei Iida, sbaglio?».
«Mi chiamo Iida Tenya», fece lui, raddrizzando la schiena come se fosse stato interpellato da un suo superiore. «Trovo inaccettabile che una ragazza come lei sia-».
«"Come lei" in che senso?». Il tono di Denki era calmo, quasi divertito dalla situazione.
«Non sai chi è?».
«Certo che lo so, è Nanako!».
«È la sorella di Kimura Takuya, il criminale!! Non hai sentito di lui al telegiornale?!».
«E questo cos'ha a che fare con lei?».
«Cosa ha a che fare? È sua sorella, è un pericolo!!».
Il biondo per poco non scoppiò a ridere.
«Nanako? Un pericolo? Non farmi ri-».
«Denki, lascia perdere», dissi. Decisi che era meglio interrompere la conversazione in quel preciso istante. Dopotutto, Iida aveva ragione: ero pur sempre la sorella di Takuya e avrei potuto davvero essere pericolosa quanto lui.
«Che succede qui..?».
«Oh, nee-chan, senti qua!».
«Denki, non...».
«Questo qui pensa che Nanako sia... pff... crede che Nanako sia pericolosa!». L'elettrico scoppiò in una fragorosa risata, sotto lo sguardo confuso dei presenti. Lizzy mi rivolse un'occhiata altrettanto stupita, che non ebbe bisogno di essere accompagnata da parole. Risposi con un piccolo sorriso che risultò ben meno sincero di quanto avessi voluto far credere.
«Ciao, Liz...».
Seguirono alcuni istanti di silenzio in cui l'unico rumore presente fu quello della risata incessante di Denki.
«A-Ad ogni modo!!», riprese Iida, con un tono leggermente più... esplosivo, e incerto. «Non è un discorso da fare qui, e ora! Vi saluto!».
Detto questo, si voltò rapidamente e tornò da dove era venuto. Mi era parso di scorgere una punta di rossore sulle sue guance. Bastarono pochi secondi di attesa e confusione generale affinché un altro ragazzo, più basso, dai capelli verdi, la pettinatura disordinata e qualche lentiggine sul viso facesse la sua apparizione accanto al banco.
«S-Scusate davvero..!», esordì, con un grande inchino e gli occhi serrati. Mi fece immediatamente tornare il sorriso.
«Non... Non devi scusarti, davvero», dissi. «E non è nemmeno necessario che tu ti inchini in questo modo!». Non riuscii a trattenere una lieve risata, quasi per liberarmi da tutta la tensione di quegli ultimi minuti.
Lui si rialzò, visibilmente agitato, un'espressione imbarazzata regnava sul suo viso e le pupille si muovevano da tutte le parti, evitando di incrociare lo sguardo di chiunque fosse di fronte a lui.
«I-Il mio nome è Midoriya Izuku... Mi dispiace per il comportamento di Iida-kun, io non...».
«Non è colpa tua, e nemmeno sua», dissi mantenendo un tono quanto più possibile rassicurante.
Il verdino sembrò calmarsi quel poco che gli permise di emettere un leggero sospiro. Sollevò le palpebre, voltandosi lievemente ad osservare un punto alle sue spalle.
«Iida-kun si era allontanato così velocemente che io e Uraraka-san ci siamo spaventati...».
Poco più lontano, accanto al banco in cui il blu era appena tornato a sedersi, una ragazza dai corti capelli castani e l'espressione preoccupata ci guardava. Non appena Midoriya incrociò il suo sguardo, le fece un piccolo cenno con la testa; lei sospirò a sua volta, dopodiché mi rivolse un lieve sorriso e un saluto con la mano, che ricambiai.
«Sembra allora che sia tutto a posto!», esclamò felice Denki, portandosi le mani ai fianchi con aria vittoriosa. «Andiamo, nee-chan!», disse poi indirizzandosi a Lizzy.
Quest'ultima annuì. «Nanako-chan, tu stai bene..?».
Dopo un mio cenno affermativo del capo (a cui lei rispose con un'espressione non molto convinta), ci salutammo sbrigativamente, e tutti tornarono ai propri posti. Ma non riuscivo a non sentirmi fin troppo osservata.
Scostai lo sguardo per incrociare - inaspettatamente - quello del ragazzo dalla ferita sul viso, che aveva ripreso ad osservarmi non appena la piccola folla attorno a me si era dileguata. Pensai che sarebbe rimasto a fissarmi per minuti interi senza proferire parola, facendomi sentire ancora più a disagio; al contrario, fu proprio lui a parlare.
«Va tutto bene?», chiese, pacato.
Annuii, accennando un sorriso forzato.
«Non sembra».
«È tutto a posto, davvero!». Cercai di rimanere il più calma possibile. Dovevo assolutamente cambiare argomento. «In ogni caso, il mio nome è-».
«Kimura Nanako».
«E-Esatto...», balbettai. Mi sentivo stupida. Era ovvio che sapesse chi fossi, non ero certo una sconosciuta in quella scuola, purtroppo.
«Todoroki Shouto». Pensai mi avesse letto nel pensiero. «Piacere».
Rimasi qualche istante in silenzio, senza sapere cosa dire. Era stato il primo a presentarsi in un modo... quasi normale.
«Piacere mio...», risposi, mentre un lieve sorriso involontario compariva già sul mio viso e gli occhi tornavano a posarsi sulla liscia superficie del banco chiaro.

«Ohi, Kaminari!».
«Eh? Dici a me?».
«Certo che dico a te!».
«Come ti chiamavi, tu..?».
«Kirishima! Kirishima Eijirou!!».
«Ooooh, è vero! Dimmi tutto».
«Davvero tu conosci la sorella di quel Takuya?».
«Nanako? Siamo amici d'infanzia, altroché se la conosco! Ma ehi, non farti strane idee anche tu sul tuo conto, non è assolutamente come potrebbe sembrar-».
«Ti andrebbe di, ecco... presentarmela, un giorno di questi? Senza fretta, eh!».
«Oh... Non... Non me l'aspettavo».
«Beh?? Che ne dici?».
«Dico che prima agiamo meglio è!!».

I giorni successivi ebbi modo di scoprire di più su quelli che erano diventati miei compagni di classe. Imparai pian piano i loro nomi, le loro unicità, parti disparate del loro carattere, e compresi una verità che mi avrebbe accompagnata assecondando i miei pensieri durante la prima settimana scolastica.
Indipendentemente dal tempo, che scorreva inesorabile scandendo le nostre attività da studenti della UA, e dalla mia forza di volontà, la mia reputazione da "sorella di un ricercato" non sarebbe cambiata facilmente. Anzi, probabilmente non sarebbe mutata affatto. Fatta eccezione per Denki, Lizzy e alcuni ragazzi che avevo invece conosciuto da poco (ad esempio Midoriya, Uraraka e Todoroki), sentivo di non potermi ancora avvicinare né tanto meno fidarmi di nessuno. Iida manteneva sempre un atteggiamento di supponenza e uno sguardo da "non dovresti stare qui", che avrei potuto percepire a chilometri di distanza.
C'era chi, più coraggiosamente, mi lanciava rapide occhiate curiose o intimorite, come se avessi ucciso un innocente. L'atmosfera generale che respiravo, tuttavia, era quella che avrebbe potuto percepire un estraneo, o l'intrufolato ad una festa alla quale non era stato invitato.

"Che ci faccio qui..?" mi chiesi un giorno, attraversando a passo lento e incerto il corridoio che mi avrebbe condotta alla classe che non sentivo ancora per nulla mia. Tenevo la testa bassa, gli occhi ghiaccio fissi ad osservare il pavimento lucidissimo, il mondo intorno a me divenuto improvvisamente ovattato e lontano.
"Dovrei andarmene...", mi ripetevo. "Non posso rimanere in questa scuola".
Improvvisamente sentii un rumore sordo, un tonfo, come di plastica che cade a terra. Mi risvegliai dal vortice di pensieri e immagini che regnava nella mia mente, per voltarmi e indirizzare lo sguardo sulla bottiglietta d'acqua che mi era evidentemente caduta dalla cartella. Sospirai; feci un passo in avanti e allungai il braccio destro per afferrarla.
«Immagino che questa sia tua». Una figura comparve quasi magicamente davanti a me, senza che me ne accorgessi. Quelle parole (e il fatto che proprio il ragazzo si stesse abbassando a recuperare la bevanda finita sul pavimento), mi costrinsero a bloccarmi sul posto e ad alzare lievemente lo sguardo, quantomeno per capire chi fosse. Non avevo ancora sentito quella voce; o meglio, mi sembrava di averla udita da qualche parte, ma non sapevo a chi appartenesse.
«Ecco qui».
Riconobbi i capelli del colore del mare in una giornata di sole, gli occhi dorati e le orecchie a pinna. Rimasi qualche istante ad osservare queste ultime, affascinata da quanto fossero simili a quelle di un pesce. Notai solo dopo una ventina di secondi che il ragazzo mi stava fissando con un'espressione confusa e in piccola parte infastidita.
«S-Scusa», biascicai, riprendendomi la bottiglietta d'acqua e distogliendo immediatamente lo sguardo. «Grazie... per averla raccolta».
«Non mi ringraziare, Nanako». Il blu accennò un lievissimo sorriso, portandosi le mani nelle tasche della divisa, una volta liberate dall'impiccio dell'oggetto gelido.
«Tu sei... Mizu-kun, dico bene?». Mizu Satoru, era quello il nome che ricordavo.
«Esatto», rispose. Sorrisi di rimando.
«Eri sovrappensiero, o sbaglio?», chiese poi, rivolgendomi una rapida occhiata indagatoria e iniziando a camminare verso la classe. Mossi alcuni passi tuttavia si fermò voltandosi nuovamente; distolse lo sguardo per non incrociare il mio, e mi sembrò di intravedere un lieve broncio sul suo viso. «Cosa fai, non vieni?».
Ero talmente stranita dalla conversazione così inusuale per me in quell'istituto che feci quasi fatica a riprendere a camminare.
Annuii, con le labbra curvate allegramente all'insù, per la prima volta alla UA.
Sentivo che Satoru sarebbe diventato una figura importante per me, a scuola.


«Cosa stavo dicendo??».
«... Nanako, ma sei sempre così distratta?».
«Mizu-kuuuun, non sono "distratta"! Sono solo-».
«Distratta».
«- diversamente attenta!».
Ci fu un attimo di silenzio. Satoru mi scoccò un'occhiata perplessa, e quanto mai irritata.
«Diversamente attenta». Ripeté, in tono piatto.
«Proprio così, mhmh!», annuii convinta, per accompagnare quell'affermazione a cui seguì un profondo e rassegnato sospiro del ragazzo acquatico. Sorrisi, divertita; adoravo stuzzicarlo in quel modo.
Erano passati solo un paio di giorni dal nostro primo incontro per i corridoi, ma sentivo già un legame particolare formarsi tra me e Satoru. Tanto che mi erano bastate poche ore per convincerlo (impresa non da poco, scorbutico e brontolone qual era), a raccontarmi tutto sul suo quirk, collegato, come avevo previsto - e com'era facilmente intuibile -, all'acqua.
Mi aveva spiegato come fosse in grado di manipolare e controllare quell'elemento, quasi come se fosse parte di lui, di come furono felici i suoi genitori nel momento in cui lo scoprirono; fu quasi spassoso osservare la sua espressione insolitamente contenta e affascinata mentre si perdeva nei meandri dei suoi stessi discorsi, e non potei trattenere una lieve risata ogniqualvolta si imbarazzava da morire per essere andato troppo oltre o per essersi lasciato scappare dei sorrisi sinceri.
«Terra chiama Nanako. Lo trovi divertente?», mi chiese, notando il sorriso a trentadue denti che era comparso sul mio volto. Mi ero persa nei miei pensieri, di nuovo.
«Come?», domandai, incerta su cosa dire.
In tutta risposta lui tirò l'ennesimo sospiro, seduto com'era al suo banco di fronte al mio con la schiena voltata per poter parlarmi faccia a faccia.
«Hai ragione, non sei distratta. Sei proprio un caso senza speranza».
Sfoggiai un broncio che tuttavia di arrabbiato o offeso aveva ben poco.
«Miku-kun, lo sai che sei proprio-».
«Come fai a parlarci così tranquillamente?!».
Fui costretta ad concludere la frase a metà, interrotta dalle parole quasi urlate e cariche di sgomento - e... paura - di uno degli studenti. Mi chiesi come aveva fatto ad avvicinarsi senza che lo notassimo, ma non appena mi voltai mi fu chiaro il motivo: si trattava di Mineta, uno dei quindicenni più bassi che avessi visto nella mia vita. Superava di pochissimo il metro d'altezza, e aveva un aspetto a dir poco buffo, con una miriade di sfere viola in cima alla testa che costituivano i suoi... capelli? Non avevo scoperto molto su di lui, a dire la verità.
«Che vuoi dire, scusa?», chiese Satoru, lanciandogli uno sguardo innervosito. Sapeva bene anche lui a cosa il ragazzo stesse alludendo.
«Ci hai fatto amicizia come niente fosse!! Cosa sei, un mostro?!».
«Ehi, tu!», esclamai, non riuscendo a trattenermi. «Non osare parlargli così!».
A quel punto il nanetto sbiancò, iniziando a guardarsi intorno spaventato alla ricerca di un posto in cui nascondersi, probabilmente.
«Non, non, non parlare TU così a me, futura criminale!!».
Strinsi i pugni; la mia espressione - ne ero certa - tradiva la rabbia nascosta che quella frase ripetuta centinaia di volte cominciava a far nascere dentro di me.
«Ohi!!».
Alzai lo sguardo. Una voce decisamente maschile si era levata sopra quella di Mineta, con un tono così forte che parve una vera e propria esplosione. Un ragazzo dai capelli biondo chiaro - i cui ciuffi partivano a punta dalla testa - e lo sguardo truce si avvicinò a passi decisi e prepotenti, fermandosi dietro al viola, che venne oscurato dalla sua ombra minacciosa a dir poco.
Bakugou Katsuki. Uno degli studenti più difficili da gestire della 1-A. L'unico che mi avesse genuinamente intimorita; e averlo faccia a faccia, o meglio, a pochissimi passi, dietro al nanetto alto un metro, faceva una certa impressione.
«Tu», prese a parlare, con lo stesso tono basso e colmo di rabbia di poco prima. «Di che stai parlando?!».
Mineta si irrigidì, trasformandosi in un istante in quella che sembrò a tutti gli effetti una statua di ghiaccio. Si voltò quel tanto che gli bastava per poter guardare negli occhi il più alto, visibilmente tremante.
«B-Bakugou..!!».
«Tsk!». Il biondo lo fissò, gli occhi rossi puntati su quelli del ragazzo. Arricciò il naso, sfoderando un ghigno irritato; attese qualche istante, prima di sbottare del tutto.
«Hai davvero paura di quella?!». Si voltò verso il resto della classe, per fissare lo sguardo su quello dei compagni, alcuni dei quali già stavano osservando la scena.
«E VOI vorreste diventare eroi?! VOI che avete paura di quella, vorreste sconfiggere dei Villain? Cosa ci fate in questa scuola, razza di codardi?!». L'urlo gelò l'intera stanza. L'aria divenne quasi fredda, dal silenzio che seguì quell'esplosione di rabbia. Mi fermai ad osservare con attenzione le espressioni - alcune spaventate, altre improvvisamente imbarazzate -; nessuno aveva osato rivolgermi lo sguardo, ma quella volta sapevo che il motivo era un altro. Avevano realizzato quanto le parole di Bakugou fossero fondate.
Sollevai gli occhi chiari per incontrare la figura di quest'ultimo, che, immobile, mi dava le spalle. Sentii una strana sensazione crescere dentro di me; che fosse coraggio?
Lanciai una rapida occhiata a Satoru, che ricambiò subito e mi indirizzò un lieve cenno affermativo del capo.
Mi alzai dal banco, abbassando di poco le palpebre, e mi diressi a passi lenti verso la cattedra, senza curarmi minimamente del fatto che avrei attirato l'attenzione ancor prima di iniziare a parlare.
Mi voltai ad osservare la porta d'ingresso della classe, dove il prof Aizawa aveva fatto la sua apparizione; ci guardammo per qualche secondo, il tempo necessario affinché mi desse un qualsiasi cenno affermativo.
Sospirai per raccogliere coraggio - ancora un po' -. Sentivo le espressioni confuse addosso mentre salivo sulla cattedra, ma non vi prestai troppa attenzione.
«Ascoltate». Non era proprio l'inizio più emozionante a cui avessi pensato.
«Io SO che cosa ha fatto Takuya. Ne sono consapevole». Incrociai per un secondo lo sguardo di Denki ed Elizabeth, che mi incitavano a continuare senza bisogno di dire una parola.
«So che adesso è un Villain. So che lo è diventato pur avendo frequentato per anni questa scuola». Guardavo finalmente i miei compagni di classe negli occhi; non sentivo la necessità di distogliere subito l'attenzione da loro. «Ma io non sono "la sorella di Takuya". Sono Kimura Nanako, e sono qui per gli stessi obbiettivi che avete tutti voi...». Mi lasciai sfuggire un lieve sorriso.
«Diventare un eroe. Offrire il mio aiuto a chi ne ha bisogno. E salvare Takuya...». Sussurrai l'ultima frase, conscia del fatto che rappresentava uno scopo che apparteneva solo a me. «Perciò vorrei collaborare con voi per raggiungerli, insieme. Ecco perché mi sono iscritta alla UA, nonostante tutto».
Non ottenni una risposta immediata, e pensai che fosse meglio terminare il discorso il più in fretta possibile. Non aveva funzionato, dopotutto. Mi voltai, aggiungendo solo un dettaglio, mentre i piedi tornavano a toccare terra.
«E, giusto perché si sappia, Takuya non è mio fratello. Non più». Mi rivolsi nuovamente alla classe, con l'intento di tornare al banco. Indirizzai un piccolo inchino all'insegnante, che era rimasto sulla soglia della porta.
«Sei stata grande!!».
Una voce maschile interruppe improvvisamente il silenzio gelido che era calato su di noi e il mio lieve inchino. Mi voltai per trovare l'origine di quella frase urlata ai quattro venti; e non dovetti cercare a lungo. Il ragazzo a cui, dedotti, apparteneva si era alzato, sovrastando l'immagine di tutti gli altri. Alcuni si erano voltati a guardarlo, per capire cosa stesse facendo. Altri avevano semplicemente alzato lo sguardo dal banco a cui erano stati costretti a prestare particolare attenzione a seguito del mio piccolo discorso.
La prima cosa che notai furono i capelli; erano di un rosso acceso, che si intonavano con le pupille vivaci dello stesso colore, e dall'acconciatura fatta di tanti ciuffi che nella parte superiore puntavano all'insù, e in quella posteriore ricadevano sul collo. Una minuscola cicatrice spuntava dall'occhio destro, ma feci fatica a notarla di primo acchito, tanto era piccola. L'espressione apparteneva decisamente ad una persona solare e allegra, tanto che nel guardarmi aveva già sfoggiato un grosso sorriso che aveva messo in evidenza gli insoliti denti a punta.
Sentii una lieve ondata di calore salirmi per il viso, e dalla sensazione di secchezza alla gola potei facilmente intuire che la mia temperatura corporea era salita. Cos'era successo?
Scossi lievemente la testa per ritornare alla realtà, e rivolsi un leggero sorriso al ragazzo, che mi parve fosse arrossito seppur di poco. Proseguii in direzione del mio banco, nel vano tentativo di non incrociare nessuno degli sguardi che in quell'istante mi fissavano, come per recuperare il tempo perso ad evitarmi i giorni precedenti.
Per ultimo incontrai gli occhi dorati di Satoru che, seduto, mi rivolse un'occhiata sinceramente orgogliosa.
«Nanako!!». Mi sentii chiamare; non appena mi voltai, vidi Denki in piedi vicino al suo banco, che sventolava una mano quasi come se non sapesse che non eravamo così lontani. Toccò la superficie liscia con il palmo dell'altra un paio di volte, come a fermi cenno di ritrovarmi lì dopo la fine delle lezioni. Sorrisi di rimando e mi sedetti. Mi sentivo molto meglio.
«Mi è piaciuto».
«Mh?». Avevo subito capito che a parlare era stato il ragazzo dalla ferita sul viso e i capelli a metà seduto al banco accanto al mio. La sua voce così bassa che pareva non avere emozione mi era rimasta impressa sin dalla prima parola che mi aveva rivolto.
«Il discorso, dico». Sfoggiai un sorriso ben più grande di quelli che erano apparsi sul mio viso da quando ero entrata in quella scuola.
«Oh... Grazie!». Un lievissimo cenno affermativo del capo, e Todoroki tornò ad osservare la cattedra in cima alla classe, a cui Eraser Head si stava avvicinando.
«Per quanto le parole di Kimura fossero giuste», mi scoccò una rapida occhiata.
«Se in futuro doveste fare di nuovo questa scenetta», ritornò ad osservare la classe con aria seria. «... non salite sulla cattedra, intesi?».


«Sei stata fantastica!!».
«Dici sul serio? Non mi sembrava granché...».
«Cosa?! Hai fatto un discorsone coi fiocchi!».
Le lezioni erano finite ormai da una decina di minuti, e, come deciso, mi ero avvicinata subito al banco di Denki, salutando velocemente Satoru.
«Kirishima ha assolutamente ragione, Nanako!». Vidi il biondo allungare una mano e la sentii poco dopo scompigliarmi i capelli, come del resto faceva spesso.
«Lizzy è già andata via..?», chiesi all'elettrico, che in tutta risposta alzò le spalle.
«Lo sai com'è fatta, sarà già a casa a studiare!».
«È un peccato però, mi sarebbe piaciuto se fosse rimasta un po' qui con noi...».
Denki sfoderò un sorrisetto compiaciuto; si puntò il pollice sul petto, chiudendo gli occhi con aria trionfale.
«Cosa ti posso dire, ha preso proprio dal migliore!».
«Se sei tu il migliore, siamo proprio in buone mani». Una ragazza dai capelli viola - Jirou Kyouka, pensai - era appena passata accanto a noi rivolgendo quella frase direttamente al biondo; quest'ultimo rimase pietrificato per qualche istante. Dopo una risata forzata, si avvicinò a noi e sussurrò un «sono certo che le sto già simpatico!», a cui non potei non reagire con un sorriso a malapena accennato.
«Oh, a proposito, lui è Sero Hanta! Non credo vi siate ancora presentati!».
Un ragazzo dai corti capelli neri all'apparenza rigidi si fece avanti, mostrando un sorriso a denti serrati.
«Era ora che ci presentassi», esclamò.
«Ohi, non è colpa mia se avevate paura di lei fino a un minuto fa!!». Risi, divertita.
«Immagino che tu conosca già Bakugou...», continuò il biondo quasi in un fil di voce. Il soggetto in questione era ancora seduto al banco, con le mani nelle tasche della divisa e le gambe accavallate e distese per poggiare le caviglie sulla superficie. Aveva gli occhi chiusi, ma l'espressione accigliata che avevo potuto vedere tempo prima era rimasta tale e quale; il che mi parve quasi buffo.
Non appena Denki lo nominò, le palpebre si aprirono di poco, dando al suo volto l'impressione di essere sul punto di esplodere di rabbia.
«Bakugou!», dissi, voltandomi completamente nella sua direzione.
«Hah? Che vuoi?», chiese brusco rivolgendomi gli occhi rossi. Sorrisi.
«Grazie... per ciò che hai detto prima». Mi fermai per qualche secondo, poi ripresi. «È stato davvero gentile da parte tua, e mi ha aiutata molto».
Lui emise un "tsk", distogliendo lo sguardo.
«Si si, come vuoi».
Avevo immaginato che avrebbe risposto così; conscia della cosa, mi lasciai sfuggire una piccola risata.
«Ohi, che c'è di tanto divertente?!». Posò un piede a terra, come se fosse pronto ad alzarsi da un momento all'altro.
«Oh, nulla! Sei solo molto prevedibile, Bakugou!». Seppur già arrabbiato, aveva notato il pizzico di malizia nella mia voce, come a prenderlo in giro.
«Cos'hai detto?!».
Quella volta scoppiai in una risata ben più forte, e nel momento in cui il biondo si alzò urlando "adesso ti faccio fuori", cercai rifugio dietro la schiena di uno dei ragazzi, quello con i capelli rosso acceso. Afferrai la manica della sua divisa e - senza riuscire a trattenere un grande sorriso divertito - affondai istintivamente il viso nel tessuto grigio che gli ricopriva la schiena.
«Bakugou, non fare così, su!», proruppe proprio quest'ultimo.
«Tu non intrometterti, capelli a punta!!».
«Mh? Ohi, Kirishima, stai bene?», fu Denki a parlare, quella volta. Il rosso si agitò d'un tratto; potei notarlo perfettamente, ancora appiccicata alla sua divisa com'ero.
«C-Certo!! Come mai..?», balbettò.
«Sei rosso come un peperon-». All'improvviso, sentii la morbidezza della divisa allontanarsi, e vidi Kirishima intento a bloccare tempestivamente la bocca di Denki con una mano. Il biondo gli rivolse un'occhiata interrogativa, confuso e quasi irritato dal gesto repentino dell'amico.
Quest'ultimo sospirò, prima di scostare il palmo dal viso dell'elettrico; si voltò verso di me, e non potei non notare un vivido rossore colorargli le guance. Dapprima sembrò fare fatica a mantenere lo sguardo fisso sul mio, difatti si concentrò maggiormente sui banchi intorno a noi, sul pavimento e sugli angoli più remoti del soffitto. Si avvicinò nuovamente a me e, posati gli occhi dello stesso colore dei capelli (e del viso) sui miei, mi rivolse un piccolo sorriso.
«Non mi sono ancora presentato per bene! Mi chiamo Kirishima Eijirou».
«Piacere di conoscerti, Kirishima! Io son-». Mi bloccai. Presentarmi di nuovo sarebbe stato inutile. Mostrai un sorriso forzato e abbassai un poco la testa.
«Sei?». Alzai lo sguardo. Sul suo volto era nuovamente apparsa un'espressione allegra che senza bisogno di parole mi invitava a proseguire.
«Na...nako...», dissi. «Puoi chiamarmi Nanako».


«Si chiama Unforseen Simulation Point! USJ!».
Ad accoglierci alla struttura nella quale ci attendeva la lezione di quel giorno fu il pro Hero Thirteen, che - appena arrivati - ci spiegò cosa quell'edificio rappresentava e cosa racchiudeva.
«Mizu-kun, guarda!!».
«Lo vedo benissimo, Nanako...».
Era, per dirla breve, stato ideato per simulare svariati tipi di incidente in modo da aiutare noi aspiranti eroi ad allenarci al salvataggio in ogni condizione; era diviso in zone che andavano dal naufragio all'area di terra, dall'incendio alla tempesta.
Eravamo tutti così emozionati che non riuscimmo quasi ad emettere altri suoni che non fossero esclamazioni di ammirazione o felicità.
Entrammo, accompagnati da Aizawa e Thirteen, e ci fermammo estasiati di fronte all'enorme struttura su cui si estendeva un'altrettanto grande cupola di vetro.
«Bene, e ora-». Eraser Head iniziò a parlare per mettere ordine nella situazione, ma non fece in tempo a terminare la frase. Le decine di lampadine poste sulla lastra che formava la base del tetto si spensero improvvisamente; anzi no, si fulminarono.
Al centro dell'edificio comparve quella che parve a tutti gli effetti una nube di colore viola scuro misto a nero - una sorta di portale, pensai - che si allargò nel giro di pochi secondi.
«Cosa?!», Aizawa si voltò rapidamente prima in direzione dell'intruso, poi di nuovo verso di noi.
«Radunatevi e non muovetevi!!». Dopodiché si rivolse al pro Hero poco lontano da lui.
«Tirtheen, proteggi gli studenti».
Poco più tardi, una mano fece la sua apparizione al centro della nube, seguita dal viso di un uomo. Aveva una mano attaccata al volto, con le dita aperte di modo che gli fosse possibile vedere; pensai a quanto fosse raccapricciante.
Nella confusione generale e nel giro di qualche minuto, l'intero suo corpo e quello di molti altri venne liberato da quello strano portale, che si rivelò essere un'entità vera e propria. Avevano tutti l'aspetto di essere... dei Villain.
Pensai che non avrei potuto essere più confusa e spaventata di come lo ero in quel momento. Una vera e propria banda di Super-cattivi ci stava attaccando e per giunta eravamo solo noi ragazzi della 1-A e due pro Hero.
"Cosa facciamo ora?!", fu il primo pensiero che mi venne in mente. Non riuscivo a muovere un muscolo, ero paralizzata. La mia temperatura corporea stava salendo, ma non ero in grado di afferrare una delle bottigliette d'acqua gelata o i cubetti di ghiaccio contenuti nei barattoli del costume.
E quando lo vidi... Quando lo vidi, credetti di essere caduta in un incubo ad occhi aperti. Immaginai il suolo sotto ai miei piedi crollare, l'ambiente intorno a me divenire nero, un nero cupo e profondo simile a quello della strana sostanza che aveva condotto i nemici in quel luogo. Spalancai gli occhi, mentre le mie labbra cominciavano a muoversi e a tremare seppur di poco, insieme al mio corpo.
«Takuya..?».

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Capitolo 3
*** III. Collision. ***


PREMESSA
Eccoci qua, finalmente, con il terzo ed ultimo capitolo di questa fic infinita! Dunque, cosa dire. Innanzittutto che mi ci sono impegnata, seriamente, più su questo capitolo che sugli altri due; non che non mi sia focalizzata abbastanza sulle altre parti, anzi, ho fatto fatica e mi sono scervellata parecchio anche lì, ma in questo caso... ho cercato di trovare un'organizzazione, ecco. Ho tentato di scriverlo per gradi, mi sono immaginata le scene nel modo più dettagliato possibile, sia per descriverle al meglio delle mie attuali capacità sia per rendere il tutto quanto più realistico. Questa è una delle fic in cui ho messo l'anima, praticamente :''
Ringrazio soprattutto la mia senpai, creatrice di Satoru, perché senza di lei probabilmente non sarei giunta a questo punto e non sarei stata in grado di pensare ad alcune di queste scene.
Quindi, senza altri indugi - perché tanto Takuya, Lizzy e Satoru ormai li conoscete - vi lascio qui il link della mia pagina fb, vi auguro buona lettura e vi saluto! Alla prossima!!




«Non muovetevi!».
La voce di Aizawa arrivò ovattata alle mie orecchie.
«Quelli sono Villain».
Se ne fossi stata in grado, avrei di certo deglutito. Forse per impedire alla tensione e alla paura che provavo in quel momento di prendere il controllo totale su di me.
Takuya era davvero lì, davanti ai miei occhi, in mezzo a tutti quei Supercattivi. Anzi, si era avvicinato proprio a quello che pareva il capo, l'individuo raccapricciante con le mani mozzate attaccate da ogni parte.
«Ma quello non è..?!». La voce di Momo seguì quella dell'insegnante, che sembrava già pronto a sferrare il primo attacco.
«È Takuya!! Lo sapevo!!».
«Mineta, calmati». Il tono di Tsuyu risultò più calmo di quello degli altri, ma eravamo consapevoli che ormai il terrore albergava dentro ognuno di noi.
«Nanako..!». Kirishima si voltò verso di me con un'espressione preoccupata dipinta sul volto per nulla tranquillo.
Mi tornarono in mente i ricordi di quel giorno in cui Takuya, con la sua maledetta armonica, aveva sferrato quel primo attacco, che mi sarebbe rimasto impresso per sempre.
Strinsi i pugni, per scacciare quell'orribile sensazione, quelle catene invisibili che mi bloccavano.
Le immagini del volto sconvolto di Fukuda...
«Ragazzi, allontanatevi!».
... i suoi occhi spaventati...
«Sensei!!».
... Quella sorta di soddisfazione nell'espressione severa di colui che credevo fosse mio fratello...
«Dobbiamo chiamare i rinforzi in qualche modo!!».
“Basta così”. Furono quelle, le parole di cui mi sarei ricordata in futuro, insieme al coraggio misto ad un tremendo panico che si fece strada dentro di me, spingendo il mio corpo verso l'ignoto.
«Nanako?! Nanako!!».
Le urla di Kirishima giunsero sempre più distanti e flebili man mano che correvo in direzione di Takuya. Le mie gambe mi parvero estremamente leggere e per un attimo ebbi l'impressione di non toccare terra. L'aria che mi circondava sembrò quasi trasformarsi in un vento che, rapido, mi sferzava il viso ad una velocità tale che per poco non mi fece male, passandomi accanto.
Cacciai un grido quando mi ritrovai ad una distanza ravvicinata, un grido di battaglia che fece scattare in Takuya un sorrisetto malvagio che mai avevo visto sul suo volto.
Saltai, sferrando un calcio dritto verso la sua guancia, ma venni prontamente bloccata dalla sua mano. Strinse un poco la caviglia, abbastanza da far comparire sul mio viso una smorfia di dolore appena accennata; riuscii a posare l'altro piede a terra, mentre l'altra gamba era ancora sollevata.
Cercai di imprimere quanta più forza mi fosse possibile per respingere quella barriera eretta dalle sue dita, ma non fui in grado di completare l'opera. I nostri occhi si incrociarono, i miei color del ghiaccio e i suoi blu di una profondità che inizialmente mi spaventò. Un ghigno quasi divertito si aprì sulle sue labbra, sembrava rilassato.
«Na-na-ko», disse all'improvviso scandendo ogni singola sillaba con un tono di rimprovero. «Accogli in questo modo il tuo fratellone?».
«Così è questa tua sorella?». Lo strano individuo dai capelli corti chiari che sembrava a capo di quell'imboscata si avvicinò pericolosamente a me. Deglutii, lanciandogli uno sguardo truce, intrappolata com'ero nella morsa di Takuya.
Quest'ultimo si accigliò di punto in bianco, riservandogli la stessa mia occhiata innervosita e liberandomi dalla presa.
«Tieni giù le mani, Shigaraki».
«Ehi, era per caso una battuta?».
«Mi occupo io di lei, te ne sei forse dimenticato?», il tono di Takuya era teso, irritato.
«Come vuoi, come vuoi», riprese lui. «Tanto non è lei il mio obiettivo».
Cominciò a grattarsi freneticamente il collo, raschiando la pelle con le unghie, tanto da lasciarne segni ben visibili.
“Devo far allontanare Takuya”, pensai, posando lo sguardo prima sull'uomo e poi sul diretto interessato. “Altrimenti non riuscirò mai ad affrontarlo”.
Il castano sembrò leggermi nella mente, tant'è che si voltò nella mia direzione ancora una volta offrendomi un sorriso che di rassicurante aveva ben poco. Avvicinò il viso al mio, finché le labbra non furono quasi appiccicate al mio orecchio destro.
“Perché... perché non riesco a muovermi..?!”.
«Che ne diresti se andassimo in un posticino un po' più tranquillo, solo noi due? Così potremmo parlare in tutta calma...». La sua mano si posò sul mio braccio scoperto dalle maniche troppo corte della maglietta al di sotto della salopette che fungeva da costume; le dita fredde presero a sfiorare la pelle, facendomi rabbrividire. Ero paralizzata, dalla paura forse, o dalla tensione.
«Se non vuoi che resti qui a sistemare i tuoi amichetti uno per uno... seguimi».
Strinsi i pugni; di certo lui se ne accorse, dato che si allontanò senza alcuna fretta e con una risatina che mi irritò non poco. Ci scambiammo un'altra occhiata, poi cominciò a correre lontano dai brutti ceffi che - me ne accorsi solo in quel momento - già stavano lottando contro Eraser Head.
“Tsk...”. Mi misi all'inseguimento di mio fratello, noncurante della pericolosa destinazione che sarebbe diventata di lì a pochi istanti il luogo del nostro scontro: la zona incendi.
Ero così focalizzata nella corsa per non perderlo di vista (tant'era la paura che scomparisse nel nulla come anni prima), che me ne accorsi solo quando, una volta fermatosi poco più avanti di me, una coltre di fumo non mi offuscò la vista e una sensazione sgradevole di forte bruciore non mi salì per il naso.
Mi bloccai, annaspando e portandomi le mani alla gola che iniziava già a pizzicare. Chiusi un occhio, leggermente piegata sulle ginocchia com'ero, e mi guardai intorno; fiamme di ogni dimensione sovrastavano l'ambiente circostante, rendendo il tutto tinto di un rosso acceso e accecante, e il soffitto coperto di una scura nebbia grigia che avrebbe causato una sensazione di soffocamento a chiunque. I palazzi che ci circondavano erano distrutti, inclinati e sulle pochissime finestre ancora intatte regnava il riflesso del fuoco e della distruzione.
“Questo è un incubo”, pensai, stringendo i denti e rimettendomi completamente in piedi. Il ginocchio sinistro per poco non cedette. Ansimai, e il leggero vapore che fuoriuscì dalla mia bocca rappresentava decisamente un brutto segno; avrei dovuto sbrigarmi, se non volevo morire bruciata lì dentro, o peggio, per mano di Takuya.
«Perché fai questo?!».
«Mmmh? Questo cosa, esattamente?».
«Perché hai scelto di unirti a dei Supercattivi?! Non stavi bene con noi, con me?».
«Non sono affari che ti riguardano, sorellina».
Digrignai i denti, guardandolo con un'espressione preoccupata. Afferrai il più rapidamente possibile il contenitore con i cubetti di ghiaccio appeso alla cintura; ne presi uno e lo misi in bocca lasciando che si sciogliesse trasportato da un lato all'altro dalla lingua. Non ci volle molto. Come pensavo, si era già in parte sciolto a causa delle alte temperature che erano state in grado di superare la protezione del contenitore termico.
Alzai la maschera d'ossigeno che ancora riposava appesa al mio collo, a cui erano stati implementati due tubi di piccole dimensioni ai lati. La loro caratteristica principale era la flessibilità: a seconda della potenza del mio fiato, aumentavano o diminuivano la loro larghezza. Al centro, dei minuscoli forellini avevano il compito di aiutare ad amplificare l'efficacia della mia unicità.
Lanciai uno sguardo di sfida a Takuya, che nel frattempo si era lasciato sfuggire una lieve risata divertita, come aveva fatto poco prima. Saltai all'indietro allontanandomi ancora da lui, per poi preparare il fiato e soffiare qualche istante più tardi.
La mascherina trasparente divenne bianca mentre ne raccoglieva abbastanza per poter aumentare l'intensità dell'attacco. Trasformatosi in vento gelido, passò successivamente ai tubi chiari, che si allargarono con il passare dei secondi, fino a rilasciare una potente brezza contenente brina e qualche piccola scaglia di ghiaccio. Alcune delle fiamme vennero colpite e spegnendosi contribuirono in minima parte a migliorare la situazione.
Tirai un sospiro di sollievo, ma capii immediatamente che non avrei potuto festeggiare. L'incendio era troppo aggressivo per essere anche solo indebolito tramite l'uso del mio quirk.
Osservai Takuya. Il ghigno sul suo viso si era aperto ancora di più, nonostante sulla guancia fosse spuntata una ferita da taglio. “Una delle schegge deve avergli trafitto la pelle” pensai, analizzando i fatti. Una piccola goccia di sangue scese prontamente, giungendo fino al mento e cadendo sul terreno arido.
«Bene... Vedo che sei migliorata».
"Tsk...". Non attesi un istante di più. Abbassai nuovamente la maschera, lasciandola ricadere sul petto, e indirizzai lo sguardo a terra. Raccolsi una quantità sufficiente di fiato che mi permise, soffiando, di spiccare un salto abbastanza alto da avvicinarmi a Takuya.
Ero proprio sopra la sua testa, quando il balzo era ormai al termine. Tentai un ulteriore calcio, che venne bloccato come prima, ma dal braccio. Mossi l'altra gamba approfittando del fatto che ero ancora in volo, e riuscii a colpirgli la guancia sinistra, la stessa che era stata ferita.
Takuya indietreggiò, lasciandosi sfuggire un lieve gemito di dolore e portando la mano a toccare la parte danneggiata; si era formato un alone viola scuro intorno al graffio, che aveva tutto l'aspetto di essere il principio di un livido.
“Devo averlo colpito per bene... L'ho preso alla sprovvista”, mi dissi mentre a passo veloce mi avvicinavo nuovamente. Sferrai un pugno dritto verso il suo mento, ma come avevo previsto fu interrotto dalla sua mano. Mi afferrò il polso istintivamente, cosa che mi permise di piegare in fretta e furia la gamba destra tentando di attaccarlo allo stomaco con il ginocchio. Non funzionò, ma fu comunque costretto ad allontanarsi per schivarlo, e perciò a lasciare la presa.
«Sei diventata molto più veloce di prima, Nanako...». La sua voce era così melensa, in totale contrasto con il suo atteggiamento e l'espressione compiaciuta, che rischiai di rabbrividire.
Era vero, negli anni avevo migliorato la mia agilità, per sopperire alle difficoltà che il quirk mi aveva obbligata ad affrontare. Ma non lo ero ancora abbastanza, non per riuscire a sconfiggere Takuya in un corpo a corpo.
“Non mi resta altra scelta...”. Strinsi i pugni. Ormai sentivo la pelle bruciare; rimanere lì m avrebbe consumata da un momento all'altro.
«Come mai non parli, sorellina?». Mi guardò, senza abbandonare nemmeno per un secondo l'aria soddisfatta stampata sul volto. Non risposi.
Portai la mano ad afferrare una delle bottigliette d'acqua che un tempo erano ghiacciate. Mi sorpresi nel constatare che la plastica era estremamente calda. Provai a berne un sorso; era anche più bollente di quanto pensassi. Tanto che fui costretta a buttarla a terra, tossendo.
“Si mette male...”. Non potevo fare altrimenti.
«Nanako, dovresti saperlo che non bisogna buttare a terra nulla...».
Ero arrivata a detestare quella voce. Appoggiai per la seconda volta la maschera sul viso, davanti alla bocca, e cominciai a respirare pesantemente; era il modo più rapido per ottenere quanto più alito freddo possibile. Il materiale della mascherina si appannò di nuovo mentre minuscoli cristalli di ghiaccio accompagnavano la brina prodotta dal mio fiato.
«Cosa stai progettando, eh?». Takuya fece un passo avanti. Poi un altro. E un altro ancora. Sempre più veloce.
Indietreggiai. Non potevo permettergli di raggiungermi prima che avessi finito.
«Rispondimi!!». Era vicino, troppo vicino. Potevo sentire la sua voce rimbombarmi nelle orecchie. Era ad un passo da me.
Allungò una mano, era ormai sul punto di toccarmi. Le dita stavano per sfiorarmi la pelle.
Serrai gli occhi. Abbassai di colpo la maschera dopo aver ispirato; feci per gridare.
«Ma cosa..?!».
Un scia di ghiaccio uscì dalla mia bocca, seguendo una direzione lineare, avanti a me.
Takuya per poco non ne fu travolto.
Parte del terreno venne distrutta, sul suolo erano comparse profonde crepe che si aggiunsero a quelle già presenti nella zona, causate dall'enorme masso ghiacciato fatto di spuntoni e del mio stesso fiato.
Caddi a terra, le ginocchia avevano ormai ceduto. Annaspai, cercando l'aria che non riuscivo a trovare. Mi portai la mano alla gola sentendola pizzicare come non mai.
Gli occhi mi lacrimavano, ma non perché stessi per piangere, quanto piuttosto per la fatica.
Non riuscivo nemmeno ad alzare la testa.
Il mio corpo tremava.
“Cosa... Che mi è successo..?!”; a malapena riuscivo a pensare.
«Nanako!! Tutto bene?!». Una voce estranea fece la sua apparizione poco lontano da noi e dal blocco di ghiaccio appuntito che separava me da Takuya.
“Ojiro..?!”. Il ragazzo biondo con la coda, risultato della sua unicità, mi guardava con un'espressione preoccupata dipinta sul volto. Doveva essere saltato su uno dei massi rialzati di terra creati dalle crepe e dalle fiamme, pensai. Aprii la bocca per parlare, per avvisarlo, dirgli di scappare o di fare attenzione. Ma l'unica cosa che fuoriuscì dalle mie labbra fu il silenzio.
“Cosa... Cosa?! Non esce niente!! Com'è possibile?!”.
«Tsk... Vedo che uno dei tuoi nuovi amichetti è arrivato fin qui...».
Takuya mi rivolse uno sguardo infastidito.
«Sai, sorellina... Non sei l'unica ad essere migliorata, qui».
Strabuzzai gli occhi. Stava per fare ciò che avevo paura avrebbe fatto sin dall'inizio?
Infilò la mano nella tasca per poi estrarvi il suo amato strumento musicale, l'armonica argentata. Ciò che mi fece preoccupare ancora di più fu lo stato in cui quel maledetto oggetto versava: era estremamente consumato. Chissà quanto Takuya si era allenato... e quanto aveva sviluppato la sua unicità. Mi morsi il labbro; tentai di alzarmi, ma era come se il mio cervello non avesse più controllo del corpo. Le gambe non si volevano muovere.
Si portò l'armonica alla bocca, socchiudendo gli occhi blu.
«Cosa ti è-».
«Ojiro, scappa!!», riuscii a gridare, con la voce mozzata.
«Che?!».
Troppo tardi. L'armonica rilasciò la prima nota. Serrai gli occhi, stringendo i pugni. Aspettai qualche secondo, ma non sentii assolutamente nulla.
“Non... Non funziona..!!”, mi dissi, esultando tra me e me. Ma non feci in tempo a finire quel pensiero, che un potente urlo si librò nell'aria facendola quasi vibrare.
Spalancai gli occhi chiari e mi voltai immediatamente verso Ojiro; le palpebre erano serrate, i denti digrignati e le mani premevano contro le orecchie.
Takuya suonò la seconda nota. Le gambe del biondo iniziarono a tremare, come se stessero per cedere da un momento all'altro; un nuovo grido, anche più forte e carico di dolore del primo, partì dalle sue labbra, mentre buttava la testa all'indietro.
Ero paralizzata, con gli occhi ancora spalancati e la vista che pareva offuscarsi ogni secondo di più. Il mio respiro divenne affannoso a quella vista, e leggere nuvole di vapore si liberarono nell'aria scura di fumo.
“No... Non di nuovo..!!”. Non ero in grado di muovere un muscolo. Avevo consumato troppa energia nell'attacco diretto a Takuya.
La terza ed ultima nota partì dallo scintillante oggetto tra le dita del castano. Ojiro cadde, battendo le ginocchia al suolo, incapace anche solo di cacciare l'ennesimo urlo disperato. Rivoli di sangue scivolarono dall'apertura delle dita, ancorate alle tempie, colando rapidamente sul dorso delle mani e attraversando le braccia fino al gomito, da cui poi caddero sotto forma di piccole gocce rosso scure.
Gli stavano sanguinando le orecchie.
«Basta..! Finiscila!!», gridai con voce rauca.
Takuya si fermò indirizzandomi un'occhiata gelida e divertita allo stesso tempo. Allontanò lo strumento dalle labbra, per poi riportarlo nelle tasche dei pantaloni.
«Ci tieni proprio ai tuoi insulsi compagni di classe, vedo», disse. «Tanto quello non riuscirà a muoversi per un bel po'...».
Si voltò verso di me, che ancora mi trovavo completamente immobilizzata di fronte al blocco di ghiaccio che iniziava lentamente a sciogliersi.
«Così nessuno potrà disturbarci...», riprese poi con un tono melenso con il quale sottolineò la parola "nessuno".
Si avvicinò a me, per poi chinarsi e accarezzarmi il mento con una mano, alzandomelo. Lo guardavo dritto negli occhi, in quel momento. Digrignai i denti corrucciando la fronte. Passò un dito sulla pelle rovinata dalle fiamme tutt'intorno.
Sorrise, e potei notare un che di malizioso nel suo sguardo.
Dopo qualche istante sentii i polpastrelli allungarsi sul mio collo, finché tutto il palmo non aderì completamente. Le falangi si strinsero, facendomi mancare l'aria per qualche secondo. Boccheggiai nel momento in cui Takuya aumentò la pressione e la forza delle dita per potermi sollevare da terra fino a distendere interamente il braccio verso l'alto.
Chiusi un occhio stringendo i denti e portai le mani ad afferrargli il polso, mentre l'altra pupilla vagava per cercare la figura di Ojiro; era accasciato a terra. Era cosciente, aveva gli occhi aperti e mi guardava con un ghigno disperato, ma pareva troppo debole per muoversi. Mi dimenai con la poca forza che avevo ritrovato, ma non servì a nulla.
Takuya iniziò a camminare senza allentare la presa e portandomi ad una distanza fin troppo ravvicinata ad una delle fiamme che divampavano vicino a noi.
«E ora... finalmente posso...». Con la mano libera sganciò le bretelle della salopette, che ricadde liberando la maglietta chiara che indossavo al di sotto.
Si leccò le labbra, mostrandomi un sorrisetto diverso dal solito.
«... posso farti mia...». Sbiancai, irrigidendomi.
Il mio cervello parve smettere di funzionare correttamente. Non riuscivo a produrre un pensiero di senso compiuto. Non potevo muovermi, nemmeno per aumentare la forza nella presa al suo polso. Fui solo in grado di guardarlo dritto negli occhi e di percepire l'orribile sensazione della sua mano che si infiltrava al di sotto del tessuto della maglia e quella dei polpastrelli che mi accarezzavano avidamente la pelle.
Involontariamente disegnai nella mia mente il percorso che le dita - di MIO FRATELLO - stavano eseguendo, soffermandosi sui fianchi, risalendo e infilandosi sotto il reggiseno. Non avevo la forza nemmeno per rabbrividire.
«Potrò averti di nuovo tutta per me... tutta».
«Na... Nanako..!». Takuya si voltò, riconoscendo al volo la voce che aveva parlato. Ojiro stava tentando disperatamente di rialzarsi, dopo aver assistito alla macabra scena.
Lo guardai, con gli occhi carichi di terrore e disgusto, finché non riuscii, grazie ad un improvviso attacco di follia e coraggio, ad urlare un «allontanati da me, mostro!!», tirandogli un calcio dritto in mezzo alle gambe. Barcollò, gemendo di dolore, poco prima di lasciarmi cadere a terra senza forze.
Tentai di riprendere fiato come potei, ma la vista era ormai offuscata dal fumo, dalla mano di Takuya intorno al mio collo e dalle fiamme a cui ero stata esposta.
All'improvviso, sentii un rombo. Un rumore forte e sordo che proveniva dall'esterno dell'edificio. Alzammo tutti e tre la testa verso l'origine di quel caos, finché, d'un tratto, un torrente d'acqua non distrusse la porta che bloccava l'ingresso e non ci travolse. Serrai gli occhi proteggendomi per quanto possibile con il mio stesso corpo, portandomi le braccia a fare scudo alla testa.
Mi sentii sollevare da qualcuno, e per un attimo mi irrigidii, credendo fosse ancora mio fratello.
«Stai bene?!». Riaprii gli occhi e mi voltai, incrociando lo sguardo preoccupato di un ragazzo che non era per niente chi temevo fosse.
«Satoru!!».
«Sei così contenta di vedermi che mi chiami persino per nome adesso?».
Mi prese in spalla e, trasportato dalla corrente, raggiunse Ojiro.
«Riesci a muoverti? Dobbiamo andarcene il prima possibile da qui!».
Il biondo riuscì a fatica a rialzarsi, e potei vedere il sangue ormai seccato colato dalle orecchie; guardò il ragazzo acquatico con un'espressione decisa seppur dolorante e annuì.
«Muoviamoci!», disse poi.
Satoru eseguì un cenno affermativo con il capo e saltò, aiutandosi con un'onda creata dalla corrente che stava spegnendo ormai quasi tutto l'incendio. Ojiro seguì, battendo con forza la coda. Una volta in aria, il blu buttò l'occhio all'entrata, urlando un «puoi andare!!».
A seguito di quell'ordine, una potente scarica elettrica si sprigionò per tutto l'edificio, amplificata dalla presenza dell'acqua che - ne ero sicura - proveniva dal lago presente nella zona naufragi.
Non vidi più Takuya. Non lo sentii nemmeno. Pensai che avrebbe urlato o si sarebbe fatto ancora vivo, magari saltando anch'egli prima dell'attacco.
«Va tutto bene, Nanako», mi rassicurò Satoru, poco prima di atterrare su una parte di terra più asciutta. La scarica era terminata.
«Ragazzi!!». Una voce femminile ci raggiunge; mi voltai.
«Lizzy..!», esclamai, ma dalla mia bocca non fuoriuscì nient'altro che un debole soffio.
«Per fortuna state bene..!!». La castana non riuscì a terminare la frase. Cadde in avanti, ma venne prontamente sorretta dalla coda di Ojiro.
«Forse... forse ho esagerato troppo con l'elettricità, eheh...», disse lei, rivolgendoci un sorriso forzato. Succedeva sempre, quando non controllava la potenza dell'attacco: crollava a terra priva di forze, il più delle volte di faccia.
Scoprimmo solo uscendo dall'edificio, che gli altri ci stavano aspettando. I Supercattivi erano fuggiti.



Era passata solo qualche ora dall'attacco dei Supercattivi alla USJ. Il sole stava ormai tramontando, riempiendo di un acceso arancione il paesaggio. Il tuo tocco sulla mia pelle era caldo, una volta filtrato attraverso le imponenti finestre della UA.
Ero seduto, in quel momento. Seduto su una delle sedie nel corridoio colorato poste al di fuori dell'infermeria. Aspettavo.
Il mondo giungeva quasi ovattato alle mie orecchie, mentre gli occhi erano fissi al pavimento lucido e i gomiti appoggiati alle ginocchia.
Sentii dei passi avvicinarmi, ma non ebbi la forza di guardare a chi appartenessero.
«Cosa fai ancora qui?». Avrei riconosciuto quella voce e quel tono perennemente irritato tra mille. Mi lasciai sfuggire una risatina forzata.
«Sto aspettando...».
«COSA stai aspettando, eh?!».
«Bakugou, io non... non posso entrare».
«Smettila di dire cretinate o ti prendo a calci nel culo finché non ti convincerai a portare quei dannati capelli a punta lì dentro!». Come al solito, non riusciva a contenersi.
«Non ne ho il diritto».
«Hah?! Hai preso una botta in testa o te la devo tirare io adesso?!».
«Non ho fatto nulla per aiutarla. Non sono stato io ad andare lì e salvarla».
«E con questo?».
«Come "e con questo"?! Non vorrà neanche rivolgermi la parola!».
«Non sei l'unico a non aver fatto nulla per lei. Perfino quel cagasotto di testa a sfere è entrato». Sospirai. Era vero, avevo visto andare tutti, dal primo all'ultimo studente della 1-A, andare in quella stanza.
«È perché quella merda umana l'ha toccata, per caso?».
Mi irrigidii. Da quando Ojiro aveva parlato alla classe di cosa Takuya aveva fatto a Nanako, non ero riuscito a togliermi l'immagine dalla mente. Strinsi i pugni.
«Quella vuole vedere te più di chiunque altro. Anche più della gemella intelligente di quell'idiota di Kaminari, e del ragazzo pinnoso, che sono dentro adesso».
Rivolsi lo sguardo alla porta.
«Vuoi forse farti fregare da quei due?! Non eri tu il vero uomo?! E invece guardati, stai qui a piagnucolare, aspettando che ti portino via la tipa». Deglutii, e non potei fare a meno di arrossire.
Presi coraggio e mi alzai. Aveva ragione, dovevo entrare. Lo guardai, con un'espressione da cui trasparivano le emozioni che provavo in quel momento.
«Grazie, Bakugou».
«Tsk, muovi il culo, ho detto!!».
Risi un poco, e mi affacciai alla porta. Afferrai la maniglia e la feci scorrere. All'interno della stanza c'erano due letti, uno dei quali vuoto, e una tenda che serviva a separarli. Accanto, i numerosi macchinari disposti ordinatamente, che emettevano i soliti bip e suoni ripetuti all'infinito.
«Mh? Oh, Kirishima!».
«Finalmente ti sei deciso...».
Elizabeth e Satoru mi rivolsero un'occhiata che valeva più di mille parole. “Era ora”, dicevano. “Ti sei fatto attendere abbastanza”.
Sul letto dalle lenzuola bianche, Nanako era seduta con la schiena appoggiata alla testiera, le braccia e il collo coperto di bende pulite, e un'espressione sorridente ma incredibilmente sconvolta e triste sul volto. Tra le mani aveva un cartello bianco e una penna dall'inchiostro nero; mi tornarono in mente le parole di Recovery Girl, che annunciavano alla classe quanto fosse stata dura curare dalle ferite la sua pelle e la sua gola, e che la guarigione comportava che non potesse parlare per qualche giorno.
Deglutii nuovamente, fin troppo teso.
«Andiamo, lasciamoli soli», proruppe Satoru, rivolgendosi a Liz e indirizzando alla arancione un sorrisetto compiaciuto.
Una volta usciti e chiusosi la porta alle spalle, mi voltai ancora verso Nanako, che con aria sollevata prese a scrivere.
«N-Nanako, io..!», balbettai.
Lei si concentrò per qualche istante.
Mi sorrise. Alzò il cartello.
“Come stai, Kirishima?”.



L'oscurità della notte inoltrata aveva pervaso ogni angolo di quel vicolo nascosto nella città di Tokyo. Gli edifici i cui lati fungevano da sue pareti erano in rovina, pieni di crepe e dalla vernice scrostata in più punti. L'odore rancido di due cassonetti della spazzatura abbandonati a loro stessi poco lontano da me mi penetrava le narici, facendo comparire una smorfia di disgusto sul mio viso e per poco non mi fece tornare indietro seduta stante. I vestiti che avevo indosso si erano finalmente asciugati solo qualche decina di minuti prima, zuppi com'erano. Al solo pensiero di come, poche ore prima, avevo rischiato di finire annegato o fulminato per colpa di due semplici mocciosi mi irritava non poco; ma ciò che mi faceva andare su tutte le furie erano le loro mani... le loro braccia... intorno al corpo della mia preziosa sorellina. Solo io avevo il permesso anche solo di sfiorarla. Solo io potevo accarezzarla, dappertutto, dove più preferivo. E allora perché, perché si erano permessi di portarla via da me?!
Tirai un pugno al muro, accecato dall'ira. Sospirai per calmarmi; avevo bisogno di riprendere fiato. Entrai nel locale dalle luci soffuse che usavo come rifugio quando la mia mente tornava a pensare a Nanako e a quanto lontana fosse da me.
Mi sedetti, ordinando il solito drink. Non feci in tempo a darmi un'occhiata in giro che una voce femminile alle mie spalle mi colse alla sprovvista.
«Piacere di conoscerti, Takuya...».

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