I Close My Eyes and Dream of Better Days

di Angie Mars Halen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nikki ***
Capitolo 2: *** Vince ***
Capitolo 3: *** Sydney ***
Capitolo 4: *** Vince ***
Capitolo 5: *** Sydney ***
Capitolo 6: *** Vince ***
Capitolo 7: *** Sydney ***
Capitolo 8: *** Vince ***
Capitolo 9: *** Nikki ***
Capitolo 10: *** Sydney ***
Capitolo 11: *** Vince ***
Capitolo 12: *** Nikki ***
Capitolo 13: *** Sydney ***
Capitolo 14: *** Nikki ***
Capitolo 15: *** Sydney ***
Capitolo 16: *** Nikki ***
Capitolo 17: *** Sydney ***
Capitolo 18: *** Nikki ***
Capitolo 19: *** Sydney ***
Capitolo 20: *** Nikki ***
Capitolo 21: *** Sydney ***
Capitolo 22: *** Nikki ***
Capitolo 23: *** siKKi niXX ***
Capitolo 24: *** Sydney ***
Capitolo 25: *** Sydney ***
Capitolo 26: *** Nikki ***
Capitolo 27: *** Nikki ***
Capitolo 28: *** Sydney ***
Capitolo 29: *** Sydney ***
Capitolo 30: *** Nikki ***
Capitolo 31: *** Sydney ***
Capitolo 32: *** Nikki ***



Capitolo 1
*** Nikki ***


I CLOSE MY EYES AND DREAM OF BETTER DAYS







1
NIKKI





West Hollywood, CA, luglio 1980

Il Rainbow, come ogni venerdì sera, traboccava di persone come un fiume in piena. Le luci soffuse si riflettevano sulla pelle rosso cremisi delle poltrone, sui bicchieri dalle mille sfaccettature e sugli abiti scintillanti dei clienti, creando un effetto psichedelico amplificato dall’erba e dal Jack. Nonostante la musica impazzasse, la gente non si dava per vinta e continuava a parlare ad alta voce come se stesse cercando di sovrastare il meraviglioso e scatenato pezzo dei Van Halen che stavano trasmettendo, in attesa dell’arrivo della band che avrebbe suonato.

Insieme alle voci e agli schiamazzi, dai tavoli si alzavano nuvole di fumo che portavano con loro gli effluvi di lacca per capelli, cibo e cocktail di ogni genere, molti dei quali erano stati inventati sul momento, costringendo qualcuno a vomitare senza pietà sul pavimento.

Io, con l’umidità che mi si appiccicava alle braccia e sembrava insinuarsi persino sotto i vestiti attillati che portavo, ero seduto a uno dei tavoli dell’isola centrale, quelli riservati alle personalità più rispettate del Sunset Strip, come i London. Lizzie, il nostro chitarrista, nonché uno dei miei pochi veri amici, era seduto accanto a me, intento a ridacchiare con una ragazza che aveva comodamente preso posto sulle sue ginocchia. Agitava da tutte le parti la sigaretta che teneva con strafottenza tra le dita, mettendo in evidenza le unghie estremamente corte, come si addice a un chitarrista, ma laccate di nero.

“Qualcuno non aveva ordinato da bere?” saltò su il nostro batterista, sporgendosi in avanti e approfittandone per dare un’occhiata da più vicino alla scollatura della mora che sghignazzava in compagnia di Lizzie, il quale prese un attimo di pausa e lo informò che poco prima avevo chiesto una bottiglia intera da condividere tutti insieme, da bravi compagni di band.

“Ci stanno mettendo troppo,” continuò il chitarrista, poi si liberò del peso della ragazza scansandosela da addosso e sollevò una mano, schioccando le dita. “Qui abbiamo sete, cazzo!”

Mentre ero impegnato a ridere per l’espressione che aveva assunto nel vano tentativo di essere considerato anche durante una serata di massima affluenza come quella, sentii una mano appoggiarsi con delicatezza sulla mia spalla e percepii una presenza amichevole.

“Di’ a Lizzie di portare pazienza ancora un po’,” mi invitò una voce gentile. “Stasera c’è davvero tanta gente.”

Mi voltai e mi ritrovai di fronte il viso gentile di Sydney West, che correva da un tavolo all’altro dalle otto e mezza e che cercava di accontentare prima noi solo per fare un piacere a un amico, ovvero a me.

Ci eravamo conosciuti circa un anno prima, sull’Hollywood Boulevard. Lei era seduta su uno sgabello pieghevole di legno e dall’aspetto scomodo, con un largo cappello di paglia appoggiato sui capelli tagliati come quelli di Marylin Monroe e dello stesso brillante biondo platino. Osservava con occhio critico un’elegante turista sui cinquant’anni che, seduta su una sedia da regista, attendeva che la ragazzina che aveva di fronte completasse il suo ritratto al carboncino. Stavo facendo un giro tra i negozi di seconda mano che spuntavano come funghi in spazi angusti al piano terra degli edifici che costeggiavano il viale e, quando scorsi il suo cavalletto che svettava tra la folla che correva lungo la Walk of Fame, mi avvicinai per guardare cosa stesse disegnando. Rimasi immobile dietro di lei per qualche secondo, a bocca aperta, suscitando ilarità nell’elegante turista. Non avevo mai visto un ritratto più fedele di quello e sentii una forza provenire da dentro di me che mi esortava a dirglielo perché lei doveva assolutamente saperlo. Quando sentì la mia opinione, la ragazza mi ringraziò velocemente e mi domandò scherzosamente se anch’io volessi un ritratto. I suoi grandi occhi chiari contornati dall’ombretto celeste mi fissavano in attesa di una risposta e, dato che nelle mie tasche c’erano solo due monete da venticinque centesimi, le chiesi se per caso volesse disegnare un logo per una band heavy metal. Ovviamente i London non ne avevano bisogno, ma dato che ormai mi aveva dato appuntamento in un locale su Melrose Avenue per il pomeriggio seguente, dove avremmo discusso riguardo lo stile che preferivo, non potevo certo tirarmi indietro. Mi presentai al suo tavolo senza sapere cosa dire ma senza togliermi dalla faccia un sorriso spavaldo con il quale intendevo celare l’imbarazzo che quello sguardo radioso mi faceva provare. Le dissi che non avevamo più bisogno di un logo e le riferii la prima giustificazione poco logica e plausibile che mi venne in mente e che lei non contestò, forse perché aveva capito che, in fin dei conti, non mi interessava poi così tanto di quel disegno. Fortunatamente non se la prese. Finimmo per restare in quel pub per un paio d’ore, durante le quali scoprii che si chiamava Sydney, che si era trasferita a Los Angeles da sei settimane, che era originaria del Nevada, e che adorava disegnare, dipingere e la fotografia. Il suo sogno era, infatti, aprire uno studio di sua proprietà in cui far prosperare tutte le sue passioni artistiche che, ora che aveva cambiato città, non sapeva con chi condividere se non con i turisti che visitavano Hollywood, rimanendo immobile sul marciapiede di marmo nero che trasudava i raggi bollenti del sole della California.

Mi fu sufficiente tornarmi a presentare nello stesso posto in cui l’avevo vista la prima volta perché accettasse di tornare a prendere una birra in mia compagnia. Mi resi conto per la seconda volta quanto fosse piacevole parlare con lei senza essere criticati o giudicati, e non ne avrei certo aspettata una terza per chiederle dove avrei potuto trovarla a parte che all’altezza della stella di Marylin Monroe, per la quale sembrava proprio avere un’ossessione. Ebbi così modo di vedere degli altri disegni che teneva stipati in un monolocale di venticinque metri quadrati, tutto invaso da barattoli, tubetti, carta sporca di pittura e cataste di riviste. Quel disordine non aveva nulla da invidiare a quello di casa mia o a quello che un indomani avrebbe regnato nella Mötley House, però non aveva nulla di insano né di squallido: trapelava di colori, luce e creatività.

Adesso, dopo parecchi mesi, mi recavo ancora in quel monolocale e, come possono testimoniare le numerose tele che lo popolavano e che sembravano spiare ogni mia mossa, non avevo ancora avuto il coraggio di offrirle più di un abbraccio. Lizzie e gli altri avevano il loro bel da dire, con tutte quelle battute stupide da ventenni arrapati – anche perché, adesso che Sydney aveva iniziato a frequentare un belloccio che aveva incontrato nello studio fotografico in cui era stata assunta per assistere il proprietario, il tempo a mia disposizione per rimuginare qualcosa da dirle che fosse efficace e allo stesso tempo poco impegnativo da riferire era finito. Sarò anche stato il fottuto bassista dei London che mandava a fuoco il palco, faceva risse con chi osava contraddirlo e faceva piazza pulita di tutti gli alcolici che trovava, ma non ritenevo per niente semplice o spontaneo comunicare con una persona come Sydney. In lei non c’era nulla di falso né di caricato e, soprattutto, riusciva a leggere dentro le persone a cui voleva bene senza sbagliare quasi mai, il che mi faceva sentire indifeso.

“Ehi, Sixx, sveglia!” esclamò Lizzie dopo avermi rifilato uno scappellotto, il quale tornò immancabilmente indietro. “Smettila di rimuginare, hai tutto il giorno per farlo. Adesso pensa a divertirti e... ehi, guarda quella tipa laggiù!”

Seguii con lo sguardo la direzione indicata dal suo indice e intravidi una rossa che parlava animatamente con un trio di ragazzi. L’avrei anche studiata più a fondo se Sydney non mi si fosse parata davanti, la fronte sudata per le corse che stava facendo tra i tavoli e il vassoio vuoto sottobraccio.

“Mi dispiace, ma abbiamo finito il Jack,” disse, mordicchiandosi il labbro inferiore. “Questa sera c’è davvero tantissima gente. C’è qualcos’altro che posso portarvi?”

“Scegli tu per noi,” buttai lì come risposta, concentrato a osservare il colorito insolito del suo viso. Le feci poi cenno di avvicinarsi e accostò l’orecchio a me per ascoltare ciò che avevo da dirle. “Se quel coglione del tuo capo ti fa correre troppo, ci penso io a dirgli due paroline gentili.”

Lei tornò alla sua altezza e mi guardò di sbieco. “Corro così tutte le sere.”

“Non hai una bella cera,” le riferii senza troppi giri di parole.

Sydney roteò gli occhi. “In effetti è da stamattina che non mi sento molto in forma, ma posso resistere.”

Annuii mentre tornava al lavoro ma non le scollai lo sguardo da addosso, sempre più determinato a cercare il suo principale per invitarlo a piantarla di affidarle tutti quei tavoli da servire e di far muovere il culo a quei due tipi che gracchiavano dietro il bancone della cassa.

Bevvi un sorso di birra dal boccale di Lizzie, che era troppo impegnato a tenere banco con gli altri per accorgersene, e osservai Sydney passare in mezzo alla gente con il vassoio carico di bicchieri pieni. A un certo punto interruppe la sua folle corsa come se le suole delle decolleté di vernice nera si fossero incollate al pavimento e io mi sporsi dal tavolo per osservare meglio la scena. Il vassoio che portava sospeso sul palmo di una mano cominciò a inclinarsi lentamente, i bicchieri scivolarono giù e si infransero per terra, ricoprendo le piastrelle scure di mille pezzi di vetro. Sydney, che non sembrava essersi nemmeno resa conto del disastro che aveva fatto, ondeggiò appena prima di raggiungere la pozza di alcol, che inzuppò presto la camicetta rosa che indossava. Senza pensarci due volte, abbandonai il mio tavolo e mi precipitai da lei, che tentava di ripararsi dalle luci colorate mentre tastava il pavimento alla ricerca di una mano amica che la aiutasse.

“Te l’avevo detto che avresti dovuto smettere di correre così,” la rimproverai, ma lei mi fece cenno di non arrabbiarmi. Gli occhi erano lucidi ma non erano arrossati, né le pupille avevano assunto una dilatazione sospetta, per cui esclusi che avesse bevuto o che avesse preso qualcosa di strano.

“Voglio andare a casa,” mormorò mentre i litri di alcol che aveva rovesciato continuavano a infradiciarle i capelli e i vestiti.

Una sua collega, anche lei con il fiatone per la fretta e il caldo, le accarezzò il capo per rassicurarla e la informò che avevano chiamato un’ambulanza, ma questo non servì a rassicurarla.

“Ho detto che voglio andare a casa,” esclamò rivolta verso di me, stavolta con le lacrime agli occhi. “Voglio tornare da John.”

“Non avevi detto che stasera il coglione aveva troppe cose da fare?” le domandai.

“Cristo, Nikki, smettila di chiamarlo così,” mi rimproverò, sempre più stanca. “È il mio fidanzato, abbi rispetto.”

Appunto.

Restava comunque il fatto che il famigerato John non si trovava a casa, e i paramedici dell’ambulanza la raccolsero in fretta e furia per uscire il prima possibile dal Rainbow. Prima che mi chiudessero in faccia le porte bianche con un’enorme croce rossa dipinta al centro, provai a corrompere quei tre tizi dalle divise candide sperando che mi ammettessero sull'ambulanza ma, dal momento che il regolamento lo vietava severamente e Sydney lo sapeva, si raccomandò che la andassi a trovare a casa sua tre giorni dopo. Feci appena in tempo a confermare prima che il mezzo si allontanasse, facendo lo slalom tra le auto e le motociclette che avevano invaso il Sunset Strip e schivando i pedoni.

Per quanto riguardava me, mi limitai a sospirare e cacciai le mani nelle tasche del chiodo, dopodiché girai sui tacchi e tornai all’interno del locale, dove mi attendevano gli altri, e ripresi a fare baldoria con loro. Non ero molto preoccupato per Sydney. Non era la prima volta che mi capitava di vedere qualcuno svenire per il caldo, gli sforzi o qualche bicchiere di troppo. Piuttosto mi interessava andare a trovarla in nome di un’amicizia mai nominata esplicitamente che, se solo non fossi stato un ragazzino sperduto che vagava per le strade di Los Angeles da quando aveva diciassette anni, con la speranza e il timore di trovare ciò che non aveva mai avuto, sarebbe potuto diventare qualcosa di più – ma John era stato più veloce di me e, come si usa dire, chi primo arriva, meglio alloggia.

Il pomeriggio di tre giorni dopo, tuttavia, sebbene non fossi in forma come avrei voluto, mi alzai a fatica dal letto, mi pulii la faccia dal trucco sbavato della sera precedente e mi misi in cammino alla volta della palazzina in cui abitava Sydney. Varcai la soglia del piccolo cortile asfaltato e salii le scale esterne che conducevano al corridoio, sul quale si affacciavano quattro porte bianche coperte di graffi e scalfitture. Appoggiai una spalla allo stipite e, quando premetti il pulsante del campanello, mi accorsi che non suonava, allora cominciai a bussare con insistenza. I colpi che infierivo alla porta bianca attirarono l’attenzione del ragazzo che viveva nell’appartamento dalla parte opposta del corridoio dai muri celesti. Attirò timidamente la mia attenzione, torcendo le mani all’altezza del petto.

“Amico, è inutile che bussi,” mi informò, aggiustandosi il colletto del maglioncino di cotone giallo pallido. “Sydney West è andata via ieri sera.”

Tirai su col naso. “Okay. Allora mi siederò qui per terra e che aspetterò che torni.”

Il ragazzetto, che aveva tutta l’aria di essere lo studente di qualche college nei paraggi, tornò a sollevare un dito. “Non hai capito, amico. Sydney è tornata ieri sera insieme al suo fidanzato, ha raccattato tutte le sue cose, ha riconsegnato le chiavi alla padrona di casa, che abita di sotto, e se n’è andata.”

o fissai con gli occhi spalancati e le braccia penzoloni lungo il corpo, con una tale confusione in testa che mi costrinse a prendermi qualche secondo prima di rivolgergli una domanda.

“Sai dov’è andata?”

Alzò le spalle. “Ha detto che un’urgenza in famiglia l’ha costretta a tornare a Las Vegas. John, il suo fidanzato, mi ha detto che sarebbe partito con lei per restarle vicino. Mi dispiace non saperti dire di più, amico.”

Annuii come un automa mentre indietreggiavo. “Okay. Va bene. Ci vediamo, amico.”

E guizzai verso la mia auto scassata.

Tornai a passare davanti al suo appartamento per diverse volte per un mese intero, finché un giorno non vidi due bambini che giocavano sul balcone e capii che si trattava dei nuovi inquilini. Provai a estorcere qualche informazione alle sue colleghe del Rainbow, ma sapevano quanto sapeva il ragazzo che le abitava davanti. Mi recai anche a casa di John, infischiandomene del fatto che il nostro ultimo incontro fosse sfociato in una rissa e, dopo aver riconosciuto la sua auto parcheggiata davanti al cancello per due volte, a partire dalla terza non la vidi più e anche il suo appartamento fu presto occupato da persone nuove.

Lizzie diceva che erano scappati insieme perché lui aveva avuto dei problemi con la legge. Sparò una sfilza di ragioni per giustificare la loro fuga, una più assurda e stupida dell’altra, e andò avanti finché il tempo non cancellò il volto di Sydney dalle nostre memorie – fino a quando non voltavo più il capo ogni volta in cui passavo davanti a casa sua, non la cercavo distrattamente tra la folla del Rainbow o non desideravo poterla chiamare per chiederle se voleva andare da qualche parte a dipingere. Presto dimenticai ogni suo disegno, il suo tono di voce, le sue mani sempre sporche di pittura e il suo numero di telefono.

Dimenticare un amico non era mai stato difficile per uno che avevo passato l’infanzia a cambiare scuola e compagni ogni anno. Quelli che se ne andavano erano destinati a essere rimpiazzati, ma Sydney non era facile da sostituire. Hollywood era una fogna colma di ratti che pensavano solo a procurarsi il cibo a scapito degli altri. Non avrei mai trovato un’altra persona buona e amichevole come Syd. Forse, pensai, uno dei motivi per cui aveva lasciato Los Angeles era perché aveva capito che non sarebbe sopravvissuta a lungo.

Qualunque fosse la ragione della sua partenza, comunque, io avevo altro di cui preoccuparmi, specialmente adesso che avevo lasciato i London e avevo incontrato un tipo strano, tutto ossa e capelli, con un sorriso da moccioso stampato in faccia, e che diceva di essere bravo a suonare la batteria.




N.D’.A.: Buongiorno a tutti!
Come promesso, ritorno con una nuova storia. Stavolta si tratta di una trama un po’ diversa da quelle che ho scritto fino ad ora, ovvero ho deciso di introdurre una nuova categoria di personaggi, se così posso chiamare i bambini. Spero possiate apprezzare la scelta.
Questo primo capitolo funge un po’ da introduzione, per cui a partire dal prossimo sarete catapultati nel fatidico 1987, e da lì la vicenda comincerà a evolversi, non senza guai o personaggi invadenti che metteranno – volontariamente o meno – i bastoni tra le ruote ai protagonisti.
Prima di andarmene, vorrei precisare che ho tratto spunto da The Dirt e da The Heroin Diaries di Nikki Sixx. Ho cercato, per quanto sia possibile in una storia di fantasia, di attenermi alla realtà e di non sfociare nell’assurdo o nell’improbabile anche se, essendo una fanfiction, entrambe le cose possono accadere. Ma l’importante, dico sempre, è essere coerenti. Nel caso non lo fossi stata, così come nel caso in cui qualcuno dovesse notare imprecisioni o errori grammaticali o di qualunque altro tipo, vi chiedo di farmelo notare, in modo che possa correggerli, rendendo così la lettura più piacevole.
Con questo scritto non intendo criticare, ridicolizzare o sminuire i Mötley Crüe. Il mio intento è, infatti, quello di rendere onore alla loro grandezza artistica, e al fatto che loro stessi abbiano riconosciuto e ammesso gli errori commessi in passato.
Il titolo del racconto è tratto dalla canzone Misunderstood, ma tanto lo sapete già!
Grazie per aver letto questo primo capitolo e per esservi soffermati su queste righe che ho ritenuto necessario pubblicare. ♥
Ci si rilegge mercoledì, giorno in cui, almeno per diverso tempo, mi impegnerò a pubblicare un nuovo capitolo.
Un abbraccio,

Angie Mars



Disclaimer: I Mötley Crüe non mi appartengono e tutti gli altri personaggi sono di pura fantasia. Ovviamente nessuno mi paga per scrivere questa storia.


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Capitolo 2
*** Vince ***


2
VINCE





Hollywood, CA, aprile 1987

Gli occhi di tutti i presenti erano letteralmente schizzati fuori dalle orbite per la scena che si stava tenendo al nostro tavolo. I clienti sembravano statue di sale con un sorriso paralizzato sulle facce sudate e le cameriere avevano tutte la lingua che toccava il pavimento lercio solo perché quel folle di Tommy Lee aveva deciso che era giunta l’ora di farsi riconoscere.

Tutto aveva avuto inizio poco prima, quando le casse dello stereo avevano cominciato a sparare Uh! All Night dei Kiss e lui era andato completamente fuori di testa. Aveva spalancato gli enormi occhi scuri, aveva messo su un ghigno che la diceva lunga ed era saltato in piedi sul tavolo, barcollando come uno di quegli inquietanti fantocci di tela che svolazzano nei cortili degli autoconcessionari. “Facciamo casino, cazzo!” aveva urlato brandendo in aria il pugno in cui teneva la bottiglia di birra, e adesso era ancora lì a berciare come una scimmia fatta di coca e a incitare il suo Gemello Terribile a prendere parte alla sua follia. Ovviamente Nikki lo seguì a ruota e senza esitare per il puro gusto di raddoppiare il trambusto che T-Bone stava facendo tutto da solo, lasciando me e Mick a guardarli e a domandarci cosa ci fosse che non andasse in loro. Non che non lo sapessimo, anzi, lo sapevamo alla perfezione, così come loro sapevano quello che non andava in noi. Per farla breve, tutti sapevano ma nessuno muoveva un dito per rimettere in riga se stesso o aiutare un compagno. Andava bene così, e sarebbe andata bene finché non fosse successo qualcosa di ancora più grave degli avvenimenti passati che avevano marcato in negativo la nostra carriera e le nostre vite personali.

Se siamo ancora qui a fare i cazzoni, allora vuol dire che dobbiamo continuare! era stata la massima di Nikki in uno dei suoi rari momenti di lucidità – una lucidità che, come si può ben intuire, aveva dei limiti ristretti.

“Ci vuole dell’altro Jack!” esclamò Tommy dopo essersi tornato a sedere su quella povera sedia che stava sopportando da mezz’ora un metro e novanta di batterista che saltava, si contorceva e si dondolava. Mi ricordava quei ragazzini delle elementari che si divertono a sfottere la maestra, che ripete loro di smettere di dondolarsi perché poi cadono all’indietro, sbattono la testa contro il muro e al pronto soccorso gli metteranno i punti.

Nikki schioccò le dita in direzione di una cameriera di passaggio per attirare la sua attenzione e lei si avvicinò mostrando una certa soggezione nei nostri confronti, come se non avesse mai avuto a che fare con un gruppo di clienti ubriachi. Si fermò di fianco a lui con il vassoio stretto al petto ed esibì un sorriso tirato. “Come posso aiutarvi?”

“Portaci una bottiglia di Jack. Possibilmente piena e ancora da aprire, non mezza vuota come ha fatto la tua collega poco fa,” le ordinò Nikki con gli occhi lucidi incollati alla scollatura della divisa di vernice blu, i quali si spostarono presto al volto roseo per studiarlo con attenzione prima di spalancarsi in un moto di sorpresa.

La cameriera scosse il capo e si strinse ancora di più al vassoio. “Purtroppo abbiamo esaurito le scorte. Non ci aspettavamo così tanti clienti questa sera. Se vuoi, però, possiamo servirvi qualcos’altro come–”

“Ehi!” La interruppe Nikki con un tono piuttosto sarcastico come se avesse voluto darle una lezione per avergli fatto un torto. “Ti ho chiesto del Jack, non vodka, tequila o del fottuto champagne con caviale, cazzo. Che razza di locale è questo, eh, Vince?”

Mi voltai svogliatamente verso di lui e sogghignai divertito dalla faccia che aveva fatto, una specie di espressione contorta di finto sdegno alterata dall’ebbrezza. “Avanti, Sixx, non te la prendere. Sono cose che capitano.”

“Che non dovrebbero capitare quando ci siamo noi in giro, vorrai dire,” mi corresse Tommy mentre passava in rassegna la ragazza dalla testa ai piedi.

Con mio grande piacere constatai che la tipa in questione non era poi così male: aveva raccolto i capelli in una coda alta, gli occhi chiari e pesantemente contornati dall’eye-liner ci fissavano uno a uno per tenere sotto controllo ogni nostra mossa e le scarpe basse ma dalla punta affilata sembravano pronte a tirarci un calcio nel momento del bisogno.

“Vuoi ordinare qualcos’altro?” ripeté tremando, sempre con il vassoio rotondo stretto a sé e le mani che si muovevano nervosamente.

Nikki sbuffò e si accasciò sulla sedia con un gomito appoggiato allo schienale e un braccio pesantemente steso sul tavolo. “Io volevo del Jack ma, a quanto pare, in questo postaccio avete esaurito le scorte. Oppure sei tu che non vuoi portarmene? Chi lo sa? Per quel che mi riguarda, potresti aver mentito spudoratamente. Il mondo è pieno di bugiardi.”

Notai che le gambe della cameriera tremavano come se si fosse trovata davanti a un rapinatore che la minacciava con una pistola.

Sixx, ignorando totalmente la reazione della ragazza, si scambiò un’occhiata tutt’altro che rassicurante col suo compagno di bisbocce, appoggiò i gomiti sulla superficie metallica del tavolo facendo fatica a mantenere l’equilibrio e unì i polpastrelli per assumere un atteggiamento formale per porle una domanda che ne avrebbe previsto uno completamente diverso. “Mettiamola così, signorina: se non mi porti quello che ti ho chiesto entro un minuto, mi alzo da qui e me lo vado a prendere da solo perché so che ne hai.”

Detto questo, scoppiò in una risata che contagiò tutti, persino il pacifico Mick, che era stato costretto a seguirci in quel locale che non avevamo ancora infestato con la nostra presenza.

La cameriera strabuzzò gli occhi e socchiuse appena le labbra per emettere un sussurro tremolante. “Stai esagerando. Se continui sarò costretta a chiamare la sicurezza.” A quel punto tutti tacquero, compresi noi e lo stesso Nikki, che la fissò con gli occhi che a momenti schizzavano fuori dal cranio per l’oltraggio subìto. La ragazza puntò poi un dito verso la finestra alle nostre spalle e la sua unghia laccata di rosso fuoco indicava un tratto deserto del Sunset Boulevard dove balenava la sola insegna di uno strip club. “Hai sbagliato indirizzo, bello. Se cerchi un posto dove puoi attaccare briga con le cameriere ed essere sicuro che ti daranno retta, prego, attraversa pure il viale e va’ laggiù dove ci sono tutte quelle belle luci al neon.”

Detto questo, fece per girare sui tacchi per andare a servire qualche altro cliente che attendeva il suo turno, ma la mano enorme e con tanto di unghie con lo smalto nero tutto rosicchiato di Nikki la fermò. I loro sguardi si incrociarono per un attimo, uno terrorizzato e l’altro adirato, e la tensione era palpabile.

Nikki mise su il suo consueto sorrisetto malefico e aumentò la morsa. “Secondo me quella che dovrebbe attraversare la strada sei proprio tu, così almeno vai là e raggiungi le tue amiche.”

La cameriera riuscì a divincolarsi con un gesto veloce ed esperto, agevolata dalla condizione critica dell’altro, e sollevò in aria il vassoio con l’intenzione di colpire Nikki su quella testa cotonata che si ritrovava, ma un omaccione sulla quarantina si mise in mezzo per sedare la situazione. Afferrò prima il collo del chiodo di Nikki e lo tornò a piazzare sulla sedia come un sacco senza distogliere gli occhiacci iniettati di sangue dai suoi allucinati, poi acciuffò la cameriera e la trascinò in disparte senza fare troppa fatica data la sua corporatura minuta.

“Maledetta stronza,” squittì il bassista mentre tornava ad appoggiare i gomiti sulla tavola, stavolta con atteggiamento capriccioso e il tono ancora più lagnoso a causa della sbronza che sembrava peggiorare ogni minuto di più. “Avete sentito cos’ha detto?”

Tommy si avvicinò a lui trascinandosi sulla sedia e ci mise un po’ prima di riuscire a proferire le sue prime parole coerenti della serata. “Amico, guarda che stavolta sei stato un po’ troppo–”

“‘Un po’ troppo’ cosa?” attaccò Nikki in sua difesa; continuò a sostenere la sua tesi per tutta la sera, biascicando e sudando. Non capii molto di quello che diceva, ma riuscii a intuire che doveva averla incontrata precedentemente da qualche altra parte e che, come al solito, era stata la causa di qualche casino.

Mi voltai verso Mick sperando di trovare un minimo di sostegno nel suo sguardo, ma scoprii in fretta che trapelava solo stanchezza, spossatezza e noia, allora diedi un’occhiata alla mia destra. Strizzai gli occhi per schiarire la visuale e vidi la cameriera intenta a gesticolare e a gridare di fronte a quello che probabilmente era il suo capo, e si stava atteggiando proprio come lo stesso Nikki stava facendo di fianco a me. Scossi il capo e finii di bere la birra rimasta nella mia bottiglia, poi diedi una pacca sulla spalla di Tommy. “Qui non c’è più niente da fare, ormai il tuo amico ha rovinato la serata. Io me ne vado.”

“Concordo in pieno,” mormorò Mick mentre si alzava lentamente e si tornava a infilare la giacca di jeans, dopodiché ci dirigemmo tutti verso il parcheggio, dove un paio di fan ci attendevano da quando eravamo entrati con la speranza che facessimo loro un autografo. Li accontentammo e ce ne sbarazzammo in fretta, poi vidi Nikki salire a bordo della sua Corvette nera insieme a Mick, che in quel periodo era stato tradito dalla sua Chevy degli anni Settanta e aveva bisogno di qualcuno che lo andasse a prendere e che lo riportasse a casa – sempre ammesso che un palo del telefono o il tronco di un albero non li fermasse prima che arrivassero a destinazione. Un attimo dopo T-Bone balzò in sella alla sua motocicletta e rombò via dietro l’auto del suo amico, lasciandomi da solo in mezzo al cortile del locale.

Decisi di approfittare di quel breve momento di solitudine e quiete per respirare la brezza fresca della sera e mi appoggiai alla portiera della mia macchina. Il parcheggio non era molto illuminato, anzi, era così buio che si distinguevano a malapena le sagome delle palme e dei tralicci della laterale del Sunset sul quale si trovava.

Stavo per aprire la portiera della mia auto quando il rumore di una porta pesante che veniva sbattuta e un fascio di luce gialla veloce come un fulmine attirarono la mia attenzione. Mi abbassai per evitare di essere visto dal momento che temevo si trattasse di un fan in agguato ma, quando un singhiozzo sommesso giunse alle mie orecchie, capii che non si trattava di qualcuno di molesto. Tornai quindi alla mia altezza normale e tentai di sbirciare da sopra il tettuccio delle altre macchine, ma un separé di canne di bambù al limite dell’usura mi ostacolava la visuale. Qualche minuto dopo un’ombra avanzò nella semioscurità e si fermò in prossimità della scarsa luce emanata da un neon tremolante appeso alla tettoia del locale. Impiegai un po’ di tempo prima di capire che la ragazza che stava piagnucolando mentre si guardava intorno con sospetto era proprio la cameriera che aveva discusso con Nikki. Se ne stava immobile vicino al parcheggio deserto e, adesso che portava dei jeans a sigaretta strappati e scarpe da ginnastica, sembrava molto vulnerabile. Se fosse restata lì ancora a lungo e qualche malintenzionato si fosse accorto della sua presenza, per lei sarebbero stati guai seri, altro che le minacce di Sixx, che era solo buono a dare aria ai denti. Questo era già un motivo abbastanza valido per sgattaiolare fuori dal mio nascondiglio e annunciare la mia presenza, chiamandola e precisando che non avevo cattive intenzioni.

“Vattene via, lasciami in pace!” gridò ad alta voce mentre indietreggiava verso il pesante portone di ferro nero che conduceva al retro del locale.

Mi fermai a qualche metro da lei e sollevai le mani in segno di resa.

“Calma, non c’è bisogno di allertare l’esercito,” esclamai per niente ironico dal momento che, vista la reazione di poco prima, non mi sarei stupito de fosse corsa dentro urlando che un maniaco la stava importunando. “Non voglio portare guai a nessuno. Non ne ho bisogno.”

Si fermò con le spalle attaccate al portone e mi fissò di sbieco e con diffidenza. “Allora faresti meglio ad andare via. Io non ti conosco, tu non mi conosci, e non abbiamo niente da dirci.”

Roteai gli occhi e sbuffai sonoramente nel silenzio inquietante del parcheggio. “Che cazzo, sei uscita in lacrime dalla porta e lo so che è colpa di quel demente del mio amico se ti sei spaventata. Ma non preoccuparti, adesso è andato a fare danni in qualche altro posto.”

“Smettila di ridere, non c’è niente di divertente,” mi zittì acida. “E il tuo amico non mi ha spaventata, mi ha solo fatta incazzare. Poi, visto che sei così preoccupato per me, sappi che mi hanno licenziata perché ho tentato di aggredire quel tuo amico per legittima difesa. Secondo il mio capo... ex capo, ormai... insomma, secondo lui avrei donato al suo locale la fama di avere delle cameriere che prendono a colpi di vassoio i clienti un po’ troppo pretenziosi, ma non è colpa mia se non sono come le sue due bimbe preferite e se ho avuto le mie buone ragioni per farlo,” fece una pausa per riprendere fiato durante la quale continuò a guardarmi con sospetto, poi sembrò ritrovare un minimo della tranquillità e del controllo che aveva perso. “Hai capito o devo ripetere?”

“Sì, chiarissimo,” risposi apatico. “Cosa pensi di fare adesso?”

Alzò gli occhi al cielo e si appoggiò al muro di mattoni rossi e levigati. “Devo aspettare che le mie colleghe finiscano il turno e tra un paio d’ore, quando saranno uscite, mi riaccompagneranno a casa.”

Non aggiunse altro e si limitò a stringersi nelle spalle e a continuare a guardarsi intorno per sorvegliare la zona circostante. Evidentemente non ero l’unico a temere che potesse accaderle qualcosa di spiacevole, e l’immagine di quella ragazza che veniva aggredita da una gang di sconosciuti mi fece rabbrividire.

“Vuoi un passaggio a casa?” domandai tutto d’un fiato e automaticamente.

Lei scosse prontamente il capo perché quella era la risposta da copione da dare agli sconosciuti. “No, abito troppo lontano da qui. Non avrebbe senso.”

“Per me non sarebbe un disturbo. Il massimo che posso fare adesso è andarmi a chiudere in casa a bere e a fumare sigari finché non mi viene sonno. E magari nel frattempo mi faccio un paio di risate con le stupidaggini che sparano su MTV,” risposi con tono piatto dopo aver fatto spallucce. “Te lo dico perché questo non è un posto sicuro. Lo conosco come le mie tasche perché ci bazzico da quando andavo al liceo... cioè, da quando avrei dovuto frequentare il liceo, ma non ci andavo più da un bel pezzo.”

La cameriera si guardò intorno e, una volta constatato che era esattamente come avevo detto, si incamminò verso di me.

“Pensi di riuscire a portarmi a casa tutta intera?” domandò, indicando la mia Ferrari con un cenno del mento.

Annuii e storsi il naso. “Assolutamente. Ho già passato abbastanza casini, non me ne serve un altro.”

“D’accordo,” rispose lei. “Allora portami a Venice. Una volta che saremo là, ti darò le indicazioni necessarie per raggiungere il luogo in cui devi scaricarmi.”

Le feci segno di OK e la osservai mentre prendeva posto sul sedile accanto al mio. Studiava attentamente ogni singolo dettaglio degli interni della mia nuova auto mentre si allacciava la cintura di sicurezza, e si tornò a stringere nelle spalle prima di complimentarsi per la scelta del mio nuovo bolide.

Mostrai un sorriso compiaciuto. “Sono una delle mie più grandi passioni. Le auto, dico.”

“Almeno puoi permetterti di soddisfarle,” esclamò, e avrebbe anche proseguito se non avesse dovuto starnutire.

“Dovresti sapere che da queste parti la sera fa piuttosto fresco,” borbottai, poi allungai una mano sui sedili posteriori e cominciai a muoverla finché non arraffai il foulard che mi ero tolto prima di entrare nel locale. “Mettiti questo affare.”

La cameriera osservò divertita la stoffa lucida e di colore rosa prima di avvolgerlo intorno al collo. “Grazie, Vince.”

“Vedo che non ho bisogno di presentazioni,” bofonchiai sarcastico.

“Non dovresti stupirti. Tutti lo sanno. Ed evita di spiegarmi il motivo perché posso immaginarlo da sola.”

“Non avevo in programma di sprecare fiato per questo,” ribattei stizzito. “In compenso mi interessa sapere il tuo nome visto che tu conosci il mio.”

“Mi chiamo Sydney,” rispose senza nemmeno guardarmi. Preferiva concentrarsi sulle luci colorate del viale durante la notte e sugli effetti psichedelici che creavano sull’asfalto e sulle altre vetture.

“Bene,” approvai mentre giravo il volante. “Venice è da questa parte, giusto?”




N.D’.A.: Buongiorno!
Immagino che a questo punto qualcuno si stia domandando che cavolo ci faccia Vince in qualità di narratore. Se fornissi una spiegazione sarei costretta a rivelare troppi particolari, per cui il massimo che posso dire adesso è che il povero Vince è cascato dentro la storia quasi da solo e, visto che ho pensato che ci stesse bene, ce l’ho lasciato. Chissà per quanto tempo resterà? Ad ogni modo, però, questo è solo l’inizio. ;)
Per quanto riguarda le voci narranti, comunque, sono tre e Nikki è destinato a ricomparire presto.
Detto questo, volevo ringraziarvi per aver letto il primo capitolo. Dopo neanche un giorno dalla sua pubblicazione ho notato che le visite sono schizzate alle stelle, quindi grazie! ♥ Spero che il racconto continui a piacervi e che abbiate gradito anche questo capitolo. Ovviamente, se avete un’opinione di qualunque tipo da esprimere, sarò lieta di leggerla!
Ci si rivede mercoledì prossimo!

Angie






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Capitolo 3
*** Sydney ***


3
SYDNEY





Il traffico non era intenso come accadeva la maggior parte delle sere e la Ferrari sfrecciava con estrema sicurezza sul Venice Boulevard. Nessuno dei due aveva ancora parlato ed era meglio così perché quel Vince, per quanto famoso, non mi sembrava particolarmente abile nel tenere compagnia. Alla radio stavano trasmettendo un pezzo dei Doors e preferii concentrarmi su di esso guardando fuori dal finestrino prima di lanciare un’ultima occhiata al mio autista. Se non mi avesse offerto quel passaggio sarei stata costretta ad attendere due ore nel parcheggio perché quella sera non era toccato a me fare il giro per andare a prendere le mie due ex colleghe che abitavano nel mio stesso distretto. Non si può mai sapere cosa può accadere a una ragazza che aspetta da sola in un parcheggio semibuio a Hollywood a mezzanotte.

“Bene, ci siamo,” la voce di Vince attirò la mia attenzione, costringendomi a distogliere lo sguardo dai caseggiati che scorrevano oltre il vetro come una pellicola cinematografica sbiadita. “Posso accompagnarti fin sotto casa o preferisci scendere da un’altra parte?”

Mi voltai svogliatamente verso di lui e ne osservai velocemente il profilo scuro nell’ombra, poi iniziai a spiegargli quale strada avrebbe dovuto seguire con tono piatto e duro per porre una sorta di muro tra noi ed evitare così che mi rivolgesse ulteriori domande. Vince seguì le mie istruzioni senza fiatare e si fermò davanti alla palazzina cubica e celeste nella quale vivevo. Notai che si sporse in avanti per sbirciare l’unica finestra con la luce accesa da attraverso il parabrezza, poi tornò a sedersi e abbozzò un sorriso. “Abiti qui?”

“Sì,” risposi, poi ricambiai il sorriso. “Grazie per il passaggio.”

“Di niente,” rispose lui senza mutare espressione. “A presto.”

Sollevai entrambe le sopracciglia e trattenni miracolosamente una risata sarcastica. “A mai più, vorrai dire? Se il tuo amico deve tornare a fare una scenata del genere facendomi perdere il posto, allora spero proprio di non vedervi mai più.”

“Che programmi hai?” saltò su mentre aprivo la portiera e ignorando ciò che avevo appena detto, ma non lo degnai di particolare attenzione e uscii.

“Dormire. Sono stanca e almeno stasera vorrei andare a letto un po’ prima del solito, anche se non credo che riuscirò a prendere sonno.”

E gli chiusi la portiera in faccia dato che si era sporto alla sua destra per guardarmi negli occhi mentre parlavo.

Non mi preoccupai di controllare la sua reazione e proseguii dritta per la mia strada senza voltarmi. Non lo feci neanche quando la Ferrari rombò via sgommando. Lo sentii frenare in fondo alla via e tornò a passarmi davanti rombando a tutta velocità, ma non lo considerai: l’importante era che non avesse corso come un folle mentre ero a bordo con lui.

Ora che potevo finalmente godere di un minimo di tranquillità, sospirai e presi le chiavi di casa dalla borsa. Mentre rovistavo mi imbattei nella divisa di vernice blu che ero solita indossare al locale e fui tentata di gettarla al pastore tedesco dei vicini affinché ci giocasse e la stracciasse, ma tornai a cacciarla dentro la borsa e aprii il cancelletto. Il primo ad accogliermi fu proprio il cane, che uggiolò e scodinzolò finché non entrai nell’ingresso e salii la rampa che portava all’unico pianerottolo sul quale si affacciavano le porte dei due appartamenti. Abbandonai la borsa piena e pesante sopra il mio zerbino e diedi una rassettata ai capelli e ai vestiti prima di premere il pulsante del campanello dei vicini. La porta si aprì quasi subito, il che mi fece pensare che la signora Flores mi stesse aspettando – e, come volevasi dimostrare, Nancy Flores, una donna poco più grande di me con i capelli ricci e corti fino alle spalle e la frangia perennemente appuntata sul capo, mi squadrò dalla testa ai piedi con i suoi grandi occhi scuri e aggrottò la fronte.

“Qualcosa non va, cara?” domandò mentre si asciugava le mani in uno strofinaccio bianco e rosso.

Allontanai i capelli dal viso e scossi il capo. “È così evidente che oggi è la giornata storta delle giornate storte?”

“Abbastanza,” rispose dopo aver aperto del tutto la porta. “Ti aspettavo per le due, ma sei arrivata con un paio d’ore d’anticipo. Lo sai che se vuoi a me puoi raccontare tutto. Ci possiamo mettere nel tuo salotto, così mio marito non ci sente.”

“Lo so, e forse non mi farebbe poi così male,” risposi volgendo lo sguardo verso l’interno dell’appartamento, ancora impregnato dal profumo dei pomodori che aveva utilizzato per cucinare la cena. “Prima però vorrei riprendermi Francis. Magari lo metto a dormire nel suo letto e tu vieni di là, così evito di lasciarlo da solo. Non vorrei che si svegliasse.”

Nancy si fece da parte e mi fece cenno di entrare. “Lo trovi in salotto che gioca con José. Stasera non volevano saperne di andare a dormire e sono ancora in piedi. Che abbiano mangiato troppo?”

“Di sicuro non hanno mangiato male!” ribattei divertita al solo pensiero delle squisite specialità messicane che Nancy era in grado di preparare – e il profumo che mi avvolse appena entrai nel tinello ne era la conferma.

Seduto sul tappeto e nascosto sotto al tavolino di legno scuro, Francis era intento a pianificare qualcosa in compagnia del figlio dei Flores, probabilmente uno dei marchingegni che erano soliti progettare su un foglio del quaderno dei disegni con un pastello colorato, e che tentavano di ricreare con gli oggetti che trovavano in cortile. Quando sentì i miei passi si voltò distratto, convinto che si trattasse di Nancy, ma appena mi riconobbe abbandonò il suo progetto per guizzare fuori da sotto il tavolo e corrermi incontro.

“Mamma!” esclamò appena lo acchiappai al volo. “Perché oggi sei tornata prima?”

“Volevo farti una sorpresa,” mormorai al suo orecchio. Nancy, che mi aveva sentita, mi guardò di sottecchi. Era palese che volesse sapere tutto per filo e per segno, ma quando feci per congedarmi Francis iniziò a tirare un lembo della mia giacca perché voleva assolutamente mostrarmi l’ultimo disegno che aveva fatto con José. Tirò fuori un foglio a quadretti sul quale aveva abbozzato quello che lui chiamava “piano per una trappola per catturare i piccioni”.

“Così dopo ne teniamo uno nella vecchia gabbia del pappagallo e ci possiamo giocare,” esordì dopo avermi spiegato meticolosamente il funzionamento di quella specie di rete che non avrebbe mai funzionato come i bambini desideravano.

Gli sorrisi e lo tornai prendere in braccio. “Non si può giocare con i piccioni perché volerebbero via, e non si possono neanche tenere in gabbia. Non è bello tenere in prigione un animale che potrebbe essere libero.”

“Allora facciamo che prendiamo i gabbiani?” domandò prima di lasciarsi fuggire uno sbadiglio degno di un leone.

“Allora facciamo che domani andiamo in spiaggia a vedere i gabbiani che volano?” ribattei mentre mi dirigevo verso il mio appartamento.

Francis borbottò qualcosa con il viso premuto contro la mia spalla e a quel punto capii che la sua autonomia si stava esaurendo. Riuscii a fargli un bagno veloce e a infilargli il pigiama prima che crollasse addormentato nel suo letto. Girai i listelli della veneziana bianca, accostai la porta della sua camera e quella del disimpegno, e invitai Nancy a entrare e ad accomodarsi sul divano.

Il silenzio regnava sovrano ora che Francis e José erano andati a dormire, e Nancy Flores continuava a tamburellare le dita sul bracciolo del sofà riempiendo l’aria circostante con un lieve suono ovattato. “Non mi risulta che June, Jenna, o come si chiama la tua collega, abbia una Ferrari rossa.”

Sobbalzai e il succo che stavo versando nel mio bicchiere fuoriuscì appena, macchiando la superficie di legno chiaro del tavolo. “Oh, be’, infatti non era Jennifer. Ho rimediato un passaggio. Prima però lasciami spiegare tutto dall’inizio.”

Nancy annuì e sorseggiò l’aranciata che le avevo appena portato. Mi accomodai accanto a lei e le raccontai di aver incontrato una persona che mi credeva dispersa da anni, quando in realtà non avevo mai varcato il confine della California. Il soggetto in questione, di cui ero stata amica, era piuttosto ubriaco e l’ebbrezza aveva mescolato sorpresa, rabbia e, forse, tristezza in un mix che lo avevano portato a reagire male di fronte a quella che per lui non era altro che una bugiarda che sei anni prima lo aveva abbandonato a West Hollywood, senza salutarlo, senza ricordargli che non avrebbe mai dimenticato il legame che li teneva uniti e senza neanche una valida scusa per partire senza dire niente a nessuno.

Parlai senza quasi prendere mai fiato, gli occhi spalancati per la smania di raccontare tutto e subito, di fronte alla mia amica che non poteva fare altro che annuire piano mentre tentava di decifrare le parole che mi mangiavo nella fretta.

“Aspetta,” mi fermò quando aveva ormai perso il filo del discorso, “mettiamo momentaneamente da parte la storia del tuo vecchio amico. Mi stai dicendo che quel tipo ti ha portata fino a qui? Mi stai dicendo che tu hai accettato di salire a bordo dell’auto di una persona che neanche conosci?”

Si stava alterando, ma riusciva comunque a tenere basso il tono della voce. Del resto, anche lei aveva un figlio piccolo e sapeva quanto fosse sgradevole svegliarli nel bel mezzo del sonno perché si sta parlando troppo forte.

“No... cioè, sì, Nancy, ma adesso sono qui e non–”

“Oh, Signore...” mi interruppe. “Non avresti dovuto farlo, Syd. È pieno di malintenzionati là fuori.”

“Stiamo parlando di una persona famosa, Nancy. Una rockstar. Non gli conviene fare qualcosa di spiacevole a una ragazza alla quale ha offerto un passaggio, e non credo lo avrebbe mai fatto,” ribattei sebbene fossi costretta a riconoscere che aveva in parte ragione. “Si è persino scusato per l’accaduto anche se non è stato lui a causarlo, e io avrei rischiato lo stesso se fossi rimasta da sola nel parcheggio.”

Nancy unì le mani e volse lo sguardo verso il cielo mormorando qualche parola che non riuscii a sentire, poi tornò a guardarmi con la stessa espressione con cui io guardavo Francis quando combinava una birichinata da bambino di cinque anni. “Adesso però bisogna che trovi un altro lavoro serale, non puoi vivere solo degli incassi del negozio di Katherine. Ti ricordi dei tuoi progetti, vero?”

“Certo, non posso dimenticarmi dell’unica cosa che conta. Dopo Frankie, si intende.”

Nancy tamburellò le dita sul bracciolo un altro paio di volte prima di riprendere a parlare. “A proposito, se domattina vuoi lasciarlo a giocare con José, mi fa piacere. Tanto è sabato, le scuole sono chiuse e i turisti invadono il lungomare. Immagino che avrete più lavoro da svolgere.”

“Sì, è senz’altro meglio che portarlo con me,” approvai.

“D’accordo. Allora lo aspettiamo!” esclamò Nancy mentre si alzava dal divano e si stiracchiava le braccia.

La accompagnai fino alla porta e mi tuffai sotto la doccia per lavarmi via da addosso quella giornata terminata nel peggiore dei modi e con in mente solo l’idea di andare a dormire, sempre ammesso che i ricordi di quel periodo compreso tra la partenza da Las Vegas alla nascita di Francis mi concedessero di riposare bene. Mentre raccoglievo distrattamente i miei vestiti per metterli nel cesto della lavanderia, rinvenni un foulard di seta con una fantasia leopardata su sfondo rosa che non ricordavo di possedere. Impiegai qualche secondo prima di realizzare che si trattava proprio del foulard che Vince mi aveva prestato. Lo tastai attentamente e lo studiai con occhio critico, arrivando così a capire che si trattava di vera seta e che era un tipo di accessorio che normalmente non mi sarei potuta permettere. Se me lo fossi tenuto a lui non sarebbe interessato e, forse, non si era nemmeno accorto di averlo perso dal momento che doveva possederne parecchi. Dato che appropriarmi di oggetti che non mi appartenevano non era da me, decisi di tenerlo per il semplice motivo che tanto non lo avrei mai più rivisto. Feci spallucce e lo appoggiai accanto al lavandino con l’intenzione di lavarlo a mano per evitare che si rovinasse in lavatrice e mi recai dritta nella stanza di Francis. Mi inginocchiai sulla moquette accanto alla sua branda e passai una mano sulla sua guancia morbida. Dormiva profondamente a pancia in giù e con entrambe le braccia sprofondate nel cuscino, sul suo viso l’espressione più serena che avessi mai visto. Gli rimboccai le coperte prima di andare nella mia stanza e sedermi sul bordo del letto, pensierosa. Incrociai le gambe e posai lo sguardo su una fotografia che conservavo sul comò e che ritraeva me e Francis quando aveva tre anni e la stessa espressione vivace di adesso. Sospirai e mi lasciai cadere sul materasso: dovevo trovare un lavoro al più presto, magari uno che mi permettesse di intascare qualche dollaro in più rispetto a quello che avevo perso perché solo così avrei potuto ottenere prima quello di cui avevo bisogno. E magari avrei anche potuto comprare qualche volta in più quei biscotti alla vaniglia con le gocce di cioccolato che piacevano tanto a Frankie.




N.D’.A.: Buonasera!
Come potete vedere, è finalmente entrato in scena il tanto chiacchierato bambino. È la prima volta che introduco un bambino nei miei racconti, fanfiction e non, per cui non so come sia riuscito questo personaggio. Spero comunque che vi piaccia perché ho cercato di crearlo il più adorabile possibile!
Per oggi mi fermo qui e ringrazio chi recensisce, chi segue e chi legge. ♥
Ci si vede mercoledì con il prossimo capitolo! Un abbraccio,
Angie






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Capitolo 4
*** Vince ***


4
VINCE





La porta dello studio si spalancò all’improvviso e una sagoma nera e massiccia fece il suo lento ingresso drammatico. Sembrava di essere sul set di un film di paura: una porta di legno che si apre scricchiolando e un fantasma oscuro che avanza lentamente verso il centro della stanza. L’unica differenza era che quell’informe ombra nera non apparteneva a un demone frutto degli effetti speciali, ma a Nikki Sixx, che era appena rientrato dopo essere stato chiuso in bagno per una buona mezz’ora. Ci guardò uno a uno arricciando il naso colante, nonché prova tangibile di quello che aveva appena fatto, spostò la frangia sbilenca da davanti agli occhi e le sue labbra si contorsero in una strana smorfia con la quale poteva esprimere sia compiacimento che spossatezza. Si appoggiò poi a un tavolo con un fianco ed estrasse un pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni, dopodiché ne accese una con lentezza snervante e fece un tiro portentoso. “Allora, Neil, ti sei schiarito le idee?”

Spalancai gli occhi senza aver capito cosa intendesse. “Su cosa, scusa?”

Nikki si lasciò sfuggire una risata sarcastica e scosse il capo.

“Ti ricordi quel pezzo che abbiamo provato ieri?” attese che annuissi prima di proseguire con lo stesso tono insofferente. “Ti ricordi anche che non sei nemmeno riuscito a tenere una nota almeno un quarto della sua durata complessiva?”

“E allora?” esclamai avanzando di un passo verso di lui, le braccia incrociate e lo sguardo puntato dritto nel suo. “Cosa ti aspetti che abbia fatto? Credi che stanotte sia avvenuto un miracolo e che tutto sia tornato perfetto?”

“Fa’ che questo miracolo, come lo chiami tu, accada,” tuonò, agitando un dito verso di me con fare accusatorio. “Non si può andare avanti con te che non ricordi più come cazzo si fa a cantare.”

A quel punto l’unica azione che mi restava da fare era strizzare gli occhi, aspettare qualche secondo e riaprirli con la speranza che Nikki non fosse più lì, ma ovviamente non successe e lui era ancora in piedi davanti a me, con la sua fastidiosa faccia da schiaffi e il suo ghigno strafottente. Mi passai una mano tra i capelli per poi cacciarla pesantemente in una tasca. “Allora fa’ un miracolo anche tu: da domani inizi a passare tutto il tempo dentro la sala prove senza mai uscire per andarti a chiudere nel cesso.”

Nonostante il notevole spessore della frangia e l’ombra che faceva sul suo viso pallido, riuscii a vedere i suoi occhi chiari schizzare fuori dal cranio e la fronte corrugarsi in modo minaccioso. Avevo appena toccato il suo punto debole e sembrava avere tutte le intenzioni di farmela pagare. Non ero l’unico ad averlo capito dal momento che Tommy schizzò fuori da dietro la batteria e, con ancora le bacchette in mano e le braccia tese davanti a sé, tentò di calmare l’amico.

“Buono, Sixx, buono,” disse mentre gli assestava qualche pacca sulla spalla come se avesse avuto a che fare con un mastino rabbioso, poi si voltò verso di me e mi rimproverò fissandomi truce. “Porca miseria, Vince! Lo sai che certe affermazioni lo infastidiscono, perché cazzo continui a farle? Non puoi cucirti quella bocca e stare zitto? Per una volta, amico, una sola e fottuta volta.”

Mick borbottò qualcosa dalla sedia traballante sulla quale si trovava accasciato, con gli occhiali scuri indosso sebbene fossimo al chiuso, ma nessuno gli diede ascolto. Quando si accorse che la sua opinione non sarebbe mai stata presa in considerazione, ci mandò a fare in culo e ricominciò a strimpellare la sua chitarra. Io, al contrario di Mick, ero intenzionato a far capire agli altri che non erano loro a comandare.

“Quindi secondo te dovrei stare zitto di fronte a uno che ogni dannato giorno ruba del tempo alle prove per spararsi una dose, e dovrei anche tacere quando la stessa persona critica me?” esclamai ad alta voce. “Non avete proprio capito niente.”

“Ci vuole veramente un cazzo di miracolo,” borbottò Mick, incupito e curvo sulla Kramer.

“Zitto, anche tu!” gli ordinò autoritario Tommy, l’unico che sembrava non essere ancora esploso per davvero in quella gabbia di matti. A volte penso che avrebbero dovuto darci una cella imbottita per provare, non una sala con le pareti di legno. “Visto che la situazione è degenerata e che abbiamo perso quel po’ di sintonia che avevamo trovato all’inizio, propongo di concludere qui le prove.”

Trasalii. “Assolutamente no. Non possiamo permetterci di perdere altro tempo.”

Tommy alzò le spalle mentre Nikki, che aveva già indossato la giacca di pelle e il cappello bianco da cow-boy, lo tirava verso l’uscita. “Se rimanessimo qui passeremmo il resto del tempo a guardarci male, quindi tanto vale che ce ne andiamo.”

Fece appena in tempo a concludere la frase e la porta si chiuse con un colpo forte.

Restai imbambolato al centro della sala, con ancora i pugni che mi fremevano e una gran voglia di urlare tutto ciò che avevo evitato di dire per non peggiorare una situazione già critica, poi la mia attenzione fu attirata da Mick che, in religioso silenzio come un piccolo fantasma buono che non vuole arrecare disturbo ai proprietari della casa in cui vive da secoli, mi passò di fianco con la custodia della chitarra in mano e se ne andò senza nemmeno salutarmi. Mi ritrovai così da solo dentro la sala prove messa a soqquadro, dove non volava una mosca e i rumori esterni erano schermati dalle pareti insonorizzate. Rilassai i pugni e le braccia penzolarono lungo i miei fianchi come due stracci umidi al vento, ma la voglia di gridare non era passata. Chinai il capo e mi rassegnai al fatto che ormai lì dentro non ero più il benvenuto, perché era questo di cui mi ero convinto.

“Maledizione...” sussurrai prima di cacciarmi la giacca di scamosciato su una spalla, determinato a impormi su quei due, che erano sempre culo e camicia.

Scappai fuori dallo studio e salii a bordo della motocicletta, poi girai la chiave e il motore si accese con un rombo forte e sicuro – l’esatto opposto di quello che ero io in quel momento – e guidai fino al Sunset Boulevard con l’intenzione di andare da qualche parte che non fosse casa mia. Dovevo cercare un luogo in cui potessi distrarmi dal casino che mi circondava, un posto tranquillo che fosse libero dalla frenesia a cui ero sottoposto ogni giorno e ancora di più a ogni tour, ma ne avevo piene le scatole di guidare lungo Mulholland Drive e fermarmi in uno spiazzo per osservare la città dall’alto mentre fumavo una sigaretta da seduto sul cofano della macchina o appoggiato alla motocicletta. Nessuno sapeva di questa mia stramba abitudine che preferivo definire un piccolo privilegio che mi concedevo dopo aver passato la settimana tra locali, concerti e festini – e non mi sto riferendo a bettole, live al Whisky a Go-Go e party all’insegna della trasgressione, bensì a costosi strip-club sul Sunset, concerti-bomba in arene col volume al limite della sopportazione, e feste nella mia casa a North Hollywood nelle quali circolava di tutto e di più. Io però non appartenevo a quel genere di gente. Né io né gli altri eravamo cagnolini da salotto. Noi eravamo lupi che prima correvano liberi nella foresta e lottavano per la sopravvivenza che erano stati catturati ma mai domati. Eravamo in gabbia.

Sospirai quando passai davanti al Rainbow e pensai a tutte le sere in cui mi ero ritrovato in quel locale buio, con le travi basse che attraversavano il soffitto e con i bagni che avevano tutt’altra funzione rispetto a quella per la quale erano stati costruiti. Era sempre gremito di gente e noi sedevamo solo sulle poltrone al centro, gridavamo, bevevamo e, quando ci stancavamo di stare lì, tornavamo a casa, seguiti dalla folla. Se avessi provato a entrare, come minimo mi sarei ritrovato calpestato da un’orda di fan, e questo non rientrava nei miei progetti.

Presi a tamburellare le dita sul manubrio per distrarmi dai ricordi e fu allora che mi venne in mente un posto in cui sarei potuto andare. Sogghignai soddisfatto della mia idea e accelerai alla volta di Venice. Inizialmente non avrei nemmeno saputo dire cosa mi avesse spinto a recarmi in quel quartiere, o più semplicemente mi vergognavo di ammettere a me stesso che speravo di incrociare casualmente la ragazza che avevo accompagnato a casa qualche sera prima.

Fissai il mio riflesso sullo specchietto retrovisore e intravidi i miei occhi aggrottati e nascosti dall’ombra del casco. Mi stavo rimproverando da solo.

Come, scusa? Stai andando a cercare Sydney? E con quale scopo?

Quello di riprendermi il foulard che le ho prestato visto che ho buttato via novanta dollari per quel pezzo di seta leopardata.

Mi sentivo fortemente ridicolo perché mi stavo prendendo in giro da solo, e ci ero anche cascato. A me di quel foulard da novanta dollari non era mai interessato niente visto che avrei potuto comprarne quanti ne desideravo. Volevo solo vedere quella ragazza perché emanava un forte senso di quiete, l’unica sensazione di cui avevo bisogno.

Quando raggiunsi la sua via rallentai finché non riconobbi la sua abitazione, una specie di cubo celeste con gli infissi bianchi piazzato in mezzo ad altri due cubi, uno grigio e l’altro rosa pallido, sempre con le finestre bianche e circondati da un piccolo cortile delimitato da una rete di metallo arrugginito. Quello di casa sua era in parte ricoperto da cemento e dove c’era ancora un po’ di terra cresceva un banano rigoglioso, le cui foglie scavalcavano la rete e uscivano in strada, un paio di cactus, una piccola palma e qualche cespuglio. Poi, di tutt’altra natura ma non meno importante, c’era anche uno splendido esemplare di pastore tedesco che mi fissava impettito da dietro il cancello. Parcheggiai la Harley e mi avvicinai all’abitazione per cercare di distinguere quale delle finestre appartenesse a Sydney, ma erano tutte oscurate dalle veneziane abbassate. Tirai fuori una mano dalla tasca della giacca con l’intenzione di suonare il campanello e salutai il cane con uno schiocco della lingua, ma quello iniziò a ringhiare minaccioso prima ancora che potessi premere il bottone.

“A cuccia!” ordinai autoritario, ma anziché sedersi e scodinzolare come io, povero illuso, credevo avrebbe fatto, rizzò il pelo del dorso e cominciò ad accompagnare i ringhi con qualche abbaio tuonante che mi convinse ad arretrare di un passo sebbene una rete piuttosto robusta ci separasse. Il problema era che più tentavo di dissuaderlo, più lui abbaiava, tanto che la portafinestra di un balcone si aprì e fece la sua comparsa una donna con un vestito a fiori.

“Zitto, Scheggia!” gridò, e subito la belva si spostò sotto al balcone con le orecchie basse e la coda tra le zampe, poi la donna si rivolse a me, stavolta molto più gentile. “Sta cercando qualcuno?”

“Sydney abita qui?” risposi con ancora il casco sulla testa.

La donna spalancò i grandi occhi e aggrottò le sopracciglia arcuate. “Lei chi è, scusi?”

“Un conoscente,” buttai lì senza perdere tempo per cercare una risposta migliore e più convincente.

“Non mi sembra di averla mai vista,” ribatté.

“Infatti Sidney e io ci siamo incontrati una sola volta. Ha dimenticato di restituirmi una cosa che mi appartiene,” risposi cercando di mantenere un tono neutro.

La donna appoggiò gli avambracci alla ringhiera e indicò verso la costa con un cenno del mento.

“Adesso è al lavoro. Sai dove si trova il suo negozio?” scossi il capo e lei indicò ancora in direzione della spiaggia. “Va’ sulla passeggiata e gira a destra: si trova tra uno studio di tatuaggi e un piccolo bar, all’altezza del campo da skateboard. Lo riconoscerai perché è l’unico in cui fanno ritratti e disegni.”

Ringraziai la donna con un veloce cenno della mano e mi incamminai verso il lungomare, rigorosamente camuffato dal casco che tenevo appoggiato sulla testa e dagli occhiali da sole. Non che così non attirassi l’attenzione dei passanti, però almeno non ero riconoscibile al primo colpo e potevo permettermi di circolare in mezzo ai comuni mortali.




N.D’.A.: Buongiorno!
Scusate per il ritardo, ma ho non ho potuto utilizzare il computer fino a pochi giorni fa e ho dovuto rimandare la pubblicazione direttamente a oggi. Potete però stare tranquilli: da mercoledì prossimo riprenderò a pubblicare regolarmente, una volta alla settimana!
Dunque... questo capitolo illustra un po’ la situazione dei Mötley a quel tempo e, come già sappiamo, Nikki e Vince non si sopportavano più. Il cantante, però, ha un po’ la testa fra le nuvole, ma nemmeno lui sa esattamente cosa gli stia frullando nel cervello. Chissà quanto tempo impiegherà per capirlo e, soprattutto, chissà se sarà veramente quello che vuole?
Detto questo, ringrazio chi legge e segue questo racconto. ♥
Se qualcuno avesse un’opinione da esprimere o qualcosa da segnalare, prego, non si tiri indietro!
Un abbraccio e a mercoledì prossimo,

Angie






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Capitolo 5
*** Sydney ***


5
SYDNEY





Katherine continuava a tamburellare le dita sul bancone, appollaiata su uno sgabello abbastanza alto da consentirle di avere una buona visuale dell’intero negozio, specialmente ora che tre ragazzini intorno ai quattordici anni gironzolavano svelti e silenziosi come topi, forse con l’intenzione di sottrarre qualche souvenir per aggiungerlo al resto della refurtiva che avrebbero poi rivenduto per ricavare i soldi per comprarsi dell’erba, qualche birra o un disco. Dal momento che non c’erano altri clienti, mi appostai sulla soglia e li osservai attentamente mentre uscivano, apparentemente a mani vuote, poi tornai dalla mia collega.

“Sembravano quei due che sono entrati lo scorso anno e si sono portati via quaranta dollari di calamite e venti di magliette mentre eravamo sul retro,” sibilò Katie mentre tornava ad alzare il volume della radio, alla quale stavano trasmettendo un pezzo dei Def Leppard.

“Mi sembra che stavolta non abbiano preso niente,” la informai ottenendo un grande sorriso come risposta.

Katherine però ritornò subito a sbuffare. “Lo spero, anche perché oggi c’è meno gente degli altri giorni.”

Annuii distrattamente mentre spostavo lo sguardo sulle pareti, tutte ricoperte da magliette per la maggior parte raffiguranti i celebri simboli della California, poi mi spostai nel piccolo studio sul retro dove eseguivo i ritratti dei clienti o altri disegni che vendevo per ricavare qualche spicciolo in più. I tubetti dei colori erano ancora tutti allineati nella cassetta di legno, i pennelli puliti erano raccolti all’interno di un barattolo di vetro e le fotografie dalle quali copiavo i soggetti erano disposte in file ordinate lungo le pareti. Una delle mie passioni era scattare le foto e riprodurre i paesaggi ma, da quando la macchina fotografica aveva deciso di abbandonarmi definitivamente, circa un paio di anni prima, dovevo accontentarmi di vecchie immagini che mi ero dimenticata di possedere, oppure mi recavo più spesso di persona sul luogo anziché portarne a casa la fotografia.

Sospirai al ricordo di quando, da bambina, mio padre aveva iniziato a insegnarmi a usare la macchina fotografica, e dei tempi delle scuole medie, quando vincevo i concorsi di arte guadagnandomi l’invidia degli altri ragazzi, capaci solo di parlare alle spalle altrui e di ridacchiare quando passavo con la faccia, le mani e i vestiti sporchi di pittura e l’attrezzatura sottobraccio. Dicevano che i miei disegni facevano schifo, e forse avevano ragione perché se solo fossi stata capace, avrei potuto svolgere un lavoro che mi facesse guadagnare più soldi per mantenere me e Francis – e Frankie, per la cronaca, aveva il mio stesso ticchio per il disegno.

A riportarmi alla realtà e, soprattutto, al presente, ci pensò la voce di Katherine, la quale mi stava chiamando da già un po’. Scattai sull’attenti facendo stridere i piedini dello sgabello sulle mattonelle e mi affacciai alla porta dello studio. Quando la mia testa fece capolino dalla tenda antimosche spelacchiata e sbiadita, mi ritrovai davanti un tipo il cui volto era parzialmente celato da un casco da motociclista e da un paio di Aviator scuri con la montatura color oro.

“Il signore vorrebbe un ritratto,” annunciò Katie con un enorme sorriso stampato sul volto, visibilmente dovuto al fatto che il quinto cliente della giornata non fosse un ragazzino che cerca di rubare. Io invece sorrisi perché sapevo che stavo per intascare qualche dollaro extra.

“Venga con me,” lo invitai cordialmente mentre spostavo la tenda, poi indicai una vecchia sedia imbottita di finta pelle verde. “Si accomodi. Lasci pure il casco sul tavolo e si prepari come preferisce, io arrivo subito.”

Mi voltai per prendere il carboncino dal cassetto e, quando tornai a guardare nella sua direzione, sentii il cuore saltarmi in gola per la sorpresa e rischiai di far cadere per terra il foglio che avevo preso dal blocco. Solo ora che si era tolto il casco e gli occhiali scuri lo avevo riconosciuto, e si trattava proprio di Vince, il tipo che mi aveva riaccompagnata a casa dopo l’ennesimo licenziamento della mia vita. Se ne stava in piedi al centro della stanza e rideva per la reazione che avevo appena avuto, con lo stesso atteggiamento spavaldo che avevo notato qualche sera prima al locale e che mi ricordava terribilmente i modi di fare da gradasso di Nikki.

“Non credevo che uno come te potesse permettersi di girovagare indisturbato da queste parti,” esclamai. “Questo non è un posto da VIP. Cosa ti porta da queste parti?”

Vince fece spallucce. “Sono solo venuto a riprendermi quella sciarpa che ti avevo prestato qualche sera fa. Te la ricordi, vero?”

Aggrottai la fronte più perché era strano che tenesse così tanto a un foulard piuttosto che per il fatto che non ricordassi nemmeno dove l’avessi intanato. “Sì, be’, certo. Se mi dai qualche minuto vado a prenderla e torno indietro, altrimenti puoi seguirmi.”

Un sogghigno astuto si impossessò del suo viso. “E il ritratto?”

“Davvero ne vuoi uno?” domandai. Non che desiderare un ritratto fosse assurdo, però era il modo stranamente amichevole con cui si rivolgeva a me che mi insospettiva.

Vince annuì convinto. “Ho visto un paio di lavori esposti nell’ingresso e mi sono piaciuti. Adesso sono curioso di sapere quale sarebbe il risultato se il soggetto fossi io.”

“E va bene,” risposi dopo aver preso posto sullo sgabello. “Siediti e guarda verso di me.”

Obbedì e corressi la sua postura prima di cominciare a tracciare i primi segni scuri sul foglio. Osservavo attentamente ogni singolo particolare del volto per poterlo riportare sulla carta il più fedelmente possibile, e fu così che mi accorsi che i suoi occhi puntavano esattamente nella mia direzione non con il consueto disinteresse delle persone che aspettano di essere ritratte, ma con una certa curiosità. Cercai di accantonare il vago imbarazzo che quei grandi occhi scuri mi facevano provare e mi imposi di concentrarmi il più possibile perché era l’unico modo per ottenere un lavoro di buona qualità.

“Ti vedo molto impegnata,” esordì con tono pacato. “Scommetto che ho dei tratti difficili.”

“No, sei normale,” risposi in un impeto di acidità causato dall’estrema concentrazione, ma riuscii a rimediare abbozzando un sorriso. “Adesso taci e non muoverti,”

Quando ebbi finito tirai un sospiro di sollievo perché avere il suo sguardo costantemente puntato addosso era strano, anche se dovevo ammettere che era più preoccupante il fatto che mi fossi lasciata intimidire da un gesto che tutti quelli che chiedono un ritratto compiono spontaneamente. Mostrai a Vince il disegno terminato e un sorriso illuminò il suo volto prima che iniziasse a snocciolare inutili complimenti, forse con l’intento di spingermi a parlare di più nonostante il mio tempo scarseggiasse.

“Suppongo che adesso rivoglia la tua sciarpa, giusto?” domandai mentre Vince continuava a rimirare il ritratto come se si fosse trovato davanti a un autentico dipinto d’autore.

Vince sollevò il capo mostrando la fronte aggrottata, poi sembrò ricordarsi improvvisamente del motivo per cui era venuto fino lì. “Ah, sì, certo. Ti accompagno perché ho parcheggiato proprio di fianco a casa tua. Ti ho cercata là, non sapevo che lavorassi qui sulla passeggiata. Ha dovuto dirmelo una tua vicina.”

“Okay,” approvai mentre facevo cenno a Katherine che sarei tornata nel giro di poco, poi uscii dalla porta sul retro per evitare il lungomare e mi incamminai verso casa. Vince mi seguiva in silenzio, intento a studiare con attenzione la strada dissestata e gli edifici pallidi che la costeggiavano.

Riconobbi in lontananza la sua motocicletta parcheggiata vicino alla rete metallica che circondava la palazzina in cui vivevo e in prossimità di un banano le cui foglie sporgevano sulla strada.

“Entra, è meglio che non resti qui fuori troppo a lungo,” lo invitai mentre aprivo il cancello e contemporaneamente tentavo di impedire al cane di uscire.

“Vedo che ti preoccupi che nessun curioso mi stani mentre gironzolo per Venice,” disse con un sorriso stampato in faccia. “Grazie.”

“No, mi preoccupo che nessuno ti fotografi mentre stai entrando in casa mia. Vedere la mia faccia stampata da qualche parte non è mai stata la più grande aspirazione della mia vita,” ribattei prima di controllare che nessuno ci avesse seguiti, poi chiusi il portone e salii le scale.

Quando entrammo nel mio appartamento, Vince abbandonò il casco sul divano e, anziché accomodarsi come gli avevo suggerito di fare mentre cercavo disperatamente quella maledetta sciarpa da un milione di dollari, iniziò a gironzolare per il salotto e a fermarsi davanti a ogni quadro, tutti rigorosamente opera mia.

“Dove hai imparato a disegnare così?” domandò stupito.

Tirai fuori la testa da dentro il cesto della biancheria sporca. “Ho cominciato da bambina.”

“Sarà una di quelle cose che hai nel sangue, immagino.”

Annuii ad alta voce prima di tornarmi a tuffare nel cesto alla ricerca del foulard. Impiegai cinque minuti buoni prima di scovarlo tra gli asciugamani che la lavatrice aveva appena finito di centrifugare. Tirai un sospiro di sollievo quando realizzai che era ancora integro, poi me lo appoggiai su una spalla e riordinai velocemente il bagno prima di tornare nel soggiorno.

“Lo avevo messo in lavatrice, quindi è ancora un po’ umido,” dissi come scusa mentre lo restituivo al legittimo proprietario, il quale lo riprese e lo appallottolò per poi cacciarlo in una tasca della giacca di pelle come se non gliene fosse importato niente.

“Non preoccuparti, c’era bisogno che qualcuno si preoccupasse di lavarlo,” rispose Vince, poi ebbi l’impressione che tentasse di cambiare discorso. “Comunque qui non è male, casa tua. Voglio dire, da fuori sembra un appartamento molto più piccolo.”

Alzai le spalle e mi appoggiai allo stipite della porta del corridoio. “Considerando che ho vissuto in posti peggiori, per me va benissimo. E se poi si tiene conto che si trova anche vicino a dove lavoro, allora capisci che non posso desiderare di meglio.”

E non lo avrei mai desiderato perché non avevo intenzione di portare via Frankie da un posto che adorava.

“Però non eri vicina a Hollywood quando lavoravi ancora in quel locale,” ribatté Vince, rendendosi conto che avrebbe fatto meglio a tacere quando era ormai troppo tardi.

Arricciai il naso, evidentemente infastidita dal riferimento che aveva appena fatto. “In compenso farei di tutto pur di riavere quel lavoro. Sai, tutto sommato non mi pagavano male e i soldi che guadagnavo mi permettevano di vivere più serenamente. Il negozio sulla passeggiata non frutta abbastanza. Del resto vendiamo solo souvenir e magliette.”

“Sono convinto che troverai un’alternativa, magari anche più vicina a casa tua,” cercò di rincuorarmi Vince, ma comprese la mia preoccupazione solo quando mi sentì sospirare. Forse, se avesse saputo che non usavo quei soldi per comprarmi le pasticche come facevo ai tempi in cui frequentavo il tanto chiacchierato bassista dei London ma per crescere il mio bambino, avrebbe capito prima, tuttavia preferii tacere su questo particolare della mia vita così come su tutto il resto. Avevo già parlato troppo e stavo perdendo tempo prezioso.

“Devo tornare in negozio,” dissi con una certa fretta. “Ho lasciato la mia collega da sola.”

“Come preferisci,” mormorò Vince mentre mi seguiva per le scale. Solo in quel momento mi accorsi che la porta dell’appartamento dei vicini era socchiusa ed ero pronta a scommettere che Nancy si trovava proprio dietro lo spiraglio, intenta a origliare. Evitai di parlare finché non ci trovammo in strada, nascosti dal banano del giardino, proprio dove lui aveva parcheggiato.

“Grazie per aver conservato quell’affare,” esordì dopo essere saltato in sella e strappandomi un sorriso dato che in realtà avevo già escogitato di tenere il foulard per me, poi mise in moto e il rombo del motore riecheggiò tra le pareti degli altri edifici. “Ti dispiace se uno di questi giorni passo di nuovo a trovarti?”

“Hai paura che prenda a colpi di tavolozza qualcuno?” chiesi sarcastica.

“Credo che non lo avresti mai fatto e, anche se ci avessi provato, non saresti sicuramente riuscita a debellare il mio amico,” rispose Vince, poi un altro rombo rimbalzò nella via deserta e lui prese ad agitare una mano in aria in segno di saluto, ribadendo che un giorno sarebbe tornato. Lo osservai sfrecciare lungo la strada sollevando una nuvola di polvere e sabbia, ed ero così concentrata che non mi accorsi di una presenza alle mie spalle.

“Ancora quel tipo?” si intromise Nancy, facendomi sobbalzare. “Ti porterà soltanto dei guai.”

“Voleva solo che gli restituissi il foulard che mi aveva prestato,” mi difesi con la voce ancora tremante a causa del recente spavento.

Nancy scoppiò a ridere. “Credi davvero che uno come lui si scomodi per un foulard?”

“Grazie tante, Nancy, ci arrivo benissimo da sola a capire che era una scusa,” sibilai infastidita dal fatto che la mia amica stesse parlando dei fatti miei ad alta voce e in mezzo alla strada. “Ho fatto finta di stare al gioco solo perché speravo che servisse a farlo andare via prima. Non ho tempo da perdere.”

Nancy fece un passo avanti, guardò nella stessa direzione in cui Vince era sparito poco prima e strizzò gli occhi. “Quanto ci scommetti che tra meno di una settimana è di nuovo qui?”




N.D’.A.: Buongiorno!
A quanto pare, Vince è tornato a farsi vivo. Eppure Sydney non sembra poi così contenta del suo arrivo improvviso in negozio... voi che ne dite? Nancy avrà previsto bene?
Come sempre, grazie a chi legge la mia storia e anche a chi mi scrive per esprimere pareri positivi sui miei racconti! ♥
Adesso devo scappare. Ci si rilegge mercoledì prossimo! Ovvero il mercoledì dopo il concerto dei Mötley Crüe... divertitevi, voi che ci potete andare, ed esultate anche per me. Fate casino, mi raccomando: deve essere un concerto memorabile sia per loro che per chi sarà presente. Io passerò il pomeriggio a lezione a struggermi sul tavolo.
Un abbraccio e alla prossima,

Angie






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Capitolo 6
*** Vince ***


6
VINCE





Il sole di quella splendida giornata si rifletteva sul Pacifico, ricoprendolo di scaglie argentate, e l’aria era abbastanza fresca e piacevole per un giro in motocicletta sulla Pacific Coast Highway.

Accelerai per il solo gusto di sentire la Harley rombare e diedi un’occhiata allo specchietto retrovisore per accertarmi che Nikki fosse ancora dietro di me. Appena voltai il capo, me lo ritrovai di fianco, il pollice sollevato come per dirmi che tutto stava procedendo alla grande e il suo consueto sorriso sghembo. Sollevai il pollice a mia volta e gli feci cenno di seguirmi. Eravamo sulla strada da due ore, dopo che Tommy aveva telefonato a entrambi, chiedendoci se avevamo voglia di fare un giro insieme per poi darci buca quando Nikki e io avevamo già raggiunto il punto di ritrovo. Era quindi giunta l’ora di fermarsi per godere un po’ di quella giornata primaverile una volta che potevamo farlo.

Mi trovavo in una situazione piuttosto strana dato che non mi era mai capitato di andare in giro di mattina con uno dei miei compagni di band e di fermarmi lungo la strada come una persona comune. Solitamente uscivamo la sera solo per andare a fare il giro degli strip-club più in di Hollywood, ma ciò non significa che non mi dispiacesse essere lì. Anzi, il fatto che Nikki e io non ci fossimo ancora insultati stava cominciando a rivelarsi più piacevole di quanto credessi.

“Sixx!” urlai accompagnando le parole con un gesto frettoloso. “Usciamo alla prossima!”

Nikki annuì e lasciammo la PCH per imboccare l’uscita per Santa Monica. Proseguimmo sotto il sole per un altro quarto d’ora e ci fermammo nel parcheggio sul retro di un locale sulla strada, uno di quei posti che di giorno funge da pit-stop per i motociclisti e che di sera è preso d’assalto dai festaioli più tranquilli.

Nikki si guardò intorno con fare curioso, soffermandosi in modo particolare sulla vegetazione rigogliosa che ricopriva la recinzione di rete metallica, e si aggiustò il chiodo di pelle nera. “Cazzo, Vinnie, quanto abbiamo guidato?”

Appoggiai il casco sulla sella e mi stiracchiai. “Tanto, però ne è valsa la pena. Oggi il tempo è proprio bello.”

“Già,” tagliò corto Nikki mentre si mordeva nervosamente il labbro inferiore, poi si avviò verso l’entrata. “Vado a pisciare.”

E sparì dietro l’angolo senza aggiungere altro.

Sapevo cosa sarebbe andato a fare e sapevo anche che ci avrebbe impiegato qualche minuto di troppo, così mi rassegnai alla lunga attesa ed entrai a mia volta. Fortunatamente il locale non era particolarmente affollato e nessuno sembrava avermi riconosciuto, così ordinai qualcosa di fresco da bere e andarmi a rintanare nel tavolo più defilato di tutti, dove aspettai quasi venti minuti prima che Nikki riemergesse dalle tenebre. Apparve sulla soglia del bagno con un’espressione così serena che se non lo avessi conosciuto come le mie tasche avrei pensato che fosse la persona più felice del mondo. Aggrottai la fronte e tenni lo sguardo fisso su di lui mentre si avvicinava lentamente al tavolo e prendeva posto sulla sedia di fronte a me, sorridendo appena. Appoggiò poi i gomiti sulla tavola, si sorresse il mento con un palmo e restò a fissare la strada che si poteva intravedere dalla vetrata alle mie spalle.

“Tommy sarebbe dovuto venire con noi,” disse con un filo di voce e senza nemmeno guardarmi in faccia.

Smisi di rigirare il bicchiere sulla superficie di granito e arricciai il naso. “A me non è dispiaciuto fare un giro.”

“Nemmeno a me, però con lui mi diverto di più che con te.”

“Fottiti,” mormorai.

Nikki si passò una mano sul volto e si stropicciò gli occhi contornati da occhiaie scure e profonde. “Fottiti tu. Se avessi saputo che sarei stato da solo con te, non credo che sarei uscito di casa.”

Mi limitai a rispondergli con un’occhiata glaciale e a tacere. Avevo previsto che quella pace non sarebbe durata a lungo: a lui piaceva dire ciò che gli passava per la testa senza preoccuparsi dei sentimenti che suscitava negli altri e io non ero certo il tipo che si lasciava insultare senza rispondere.

Sbuffai e mi guardai intorno mentre aspettavo che il bassista si decidesse a schiodare dal tavolo, e ne approfittai per studiare attentamente i particolari del locale: non era uno di quei bar bui e angusti in cui eravamo soliti rintanarci. Dietro al bancone un paio di cameriere si davano da fare per servire i clienti e, vicino al registratore di cassa, scritto a caratteri cubitali su un foglio giallo, notai un annuncio per un posto da cameriera. All’improvviso, come se fosse stato un riflesso involontario, mi comparve davanti l’immagine di Sydney che aspettava da sola nel parcheggio del locale in cui lavorava dopo essere stata licenziata. Se solo si fosse trovata lì con me e avesse visto l’annuncio, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata correre da una delle cameriere e chiedere qualche informazione in più.

“Quanto dista Venice da qui?” domandai a bassa voce a me stesso, ma Nikki dovette avermi sentito lo stesso perché rispose.

“Una decina di minuti. Perché?”

“Devo fare una cosa importante,” dissi automaticamente mentre mi alzavo e mi dirigevo verso l’uscita.

“Cosa?” continuò mentre mi seguiva come un’ombra.

“Non sono affari tuoi.”

Nikki pestò un piede come un bambino capriccioso e diede un colpo alla sella della motocicletta con la mano aperta. “Che palle! Mi avete quasi costretto a uscire di casa, T-Bone mi ha anche dato buca, e adesso tu vuoi piantarmi qui perché ti è venuto in mente chissà cosa?”

“Non ti lascerei qui se non fosse urgente. Facciamo la strada insieme fino a Venice, così non ti senti solo, poi tu prendi la 405 e te ne torni a Van Nuys. Pensi di farcela o hai bisogno di assistenza anche per percorrere al contrario la strada che hai appena fatto?” sbottai.

Nikki mi fissava con gli occhi fuori dalle orbite, probabilmente domandandosi cosa mi stesse passando per la testa o, più facilmente, domandandosi se per caso avessi fatto fuori qualche pista mentre lui era in bagno senza offrire.

“Posso venire con te?” saltò poi su con una spontaneità stupefacente.

“No,” risposi secco e autoritario, poi saltai in sella e tornai a prendere la PCH. Ero così concentrato che non mi resi nemmeno conto di quando persi di vista Nikki. Forse mi aveva addirittura accostato per farmi un cenno e io non lo avevo considerato perché avevo in mente solo di fermarmi davanti alla palazzina celeste in cui abitava Sydney, ma non mi interessava.

Parcheggiai di nuovo sotto le foglie del banano, mi preoccupai di controllare di essere presentabile osservando il mio riflesso sullo specchietto retrovisore e mi fiondai davanti al cancelletto, senza ovviamente riuscire a evitare di attirare l’attenzione della belva. Abbaiava e saltava allo stesso tempo e fu necessario l’intervento di un bambino per placarlo, dopodiché qualcuno rispose finalmente al citofono.

“Ciao, Sydney!” esclamai giulivo. “Ti disturbo?”

Ci fu un attimo di silenzio prima che tornassi a sentire la sua voce distorta dall’apparecchio. “Vince? Perché sei qui? Non mi risulta di aver preso nuovamente qualcosa di tuo.”

“Infatti il motivo è un altro,” risposi, spiazzandola. “Forse ho trovato una soluzione al danno che il mio amico ha fatto l’altra sera.”

“Vorresti dire che mi hai trovato un lavoro?”

“Proprio così. Se può interessarti e vuoi passare a dare un’occhiata, è in un locale grande e luminoso a Santa Monica.”

“A Santa Monica?” ripeté lei, incredula. “Ma è vicinissimo! Risparmierei venti minuti.”

“Vieni giù e ti ci porto subito.”

Sydney non rispose per non perdere altro tempo e nel giro di pochi minuti era già fuori dal cancello con un sorriso smagliante stampato sul volto. “Facciamo in fretta, però. Ho degli impegni.”

Annuii e saltai in sella. “Siediti qui dietro e tieniti forte.”

Sentii le sue braccia stringersi intorno alla mia vita e, quando capii che aveva finito di sistemarsi sul sedile, misi in moto e partii alla volta di Santa Monica. Mi fermai nel parcheggio in cui ero già stato insieme a Nikki e aspettai che Sydney terminasse di ravvivarsi i capelli dopo che erano stati schiacciati dal casco.

“Ti aspetto qui. In bocca al lupo,” le augurai mentre si allontanava, poi mi sedetti sul muretto che delimitava la proprietà del locale e fumai un paio di paglie in attesa del suo ritorno. Con gli occhiali da sole calati sul naso e lo sguardo perso nel cielo limpido, mi resi conto che non vedevo l’ora che tornasse, ma il motivo era ancora più preoccupante del mio desiderio: volevo che tornassimo a salire sulla motocicletta e volevo che mi stringesse di nuovo.

Scossi il capo con forza come per mandare via i pensieri che mi stavano annebbiando la mente. Era assurdo: non avevo mai avuto nessuna difficoltà a ottenere un abbraccio da parte di una ragazza qualunque, invece adesso mi ritrovavo a dover sperare che si presentasse un determinato tipo di occasione, ovvero l’unica in cui avrei potuto avere ciò che desideravo avidamente.

Forse ho guidato troppo sotto al sole, pensai dopo aver calciato via una lattina vuota con la punta di uno stivale.

Stavo ancora scuotendo il capo senza accorgermene quando la sua voce riecheggiò nel parcheggio bollente.

“Ehi! Ce l’ho fatta!” continuava a urlare mentre correva verso di me.

Mi alzai immediatamente in piedi, colto di sorpresa e strappato dai miei pensieri. “Ti hanno assunta subito?”

“Sì!” esclamò, e un attimo dopo me la ritrovai appesa al collo, forse con le lacrime di gioia. “Ho trovato proprio quello che cercavo e che fino a ora era disponibile solo lontano da casa mia.”

“Allora ho veramente rimediato al danno di Sixx,” dissi compiaciuto mentre appoggiavo una mano sul retro del suo capo. I suoi capelli erano incredibilmente morbidi e piacevoli al tatto, allora scesi lungo la chioma e ne strinsi una ciocca tra le dita senza che se ne accorgesse.

“Posso cominciare già da domani,” spiegò da ancora stretta nel mio abbraccio. “Di lunedì e giovedì devo fare il tempo pieno, in compenso ho tutto il sabato libero. Grazie per avermi aiutata, ne avevo bisogno. Adesso però mi riaccompagneresti a casa? Ho un impegno molto importante.”

Senza indugiare ulteriormente, le porsi il casco e ritornammo a Venice, dopodiché mi rimisi in viaggio per tornare a casa, ricordandomi solo quando mi ritrovai imbottigliato nel traffico lungo la freeway che un paio di miei amici si erano autoinvitati a casa mia per cena. Li trovai entrambi seduti contro il cancello, intenti a fumare come due ciminiere e circondati da un crocchio di ragazze che riconobbi come le dipendenti di uno strip club che frequentavo spesso.

“Alla buon’ora, stronzo!” mi rimproverò uno dei due dopo essersi alzato e stiracchiato per far passare il dolce intorpidimento che lo aveva assalito dopo che si era quasi appisolato sotto la luce arancione del sole che tramontava oltre le colline aride.

“Ti stiamo aspettando da almeno tre quarti d’ora,” continuò l’altro, poi indicò una ventiquattrore nera con le rifiniture metalliche che giaceva ai suoi piedi, ricoperta dalla polvere e dalla sabbia della strada. “Abbiamo portato un po’ di roba buona. E anche un po’ di divertimento in più,” aggiunse infine, puntando un dito contro le ragazze.

L’unica parola che riuscii a proferire dopo aver corso in motocicletta per tutto il giorno fu un biascicato “bene”, poi li feci accomodare in casa e attesi che il proprietario della valigetta la aprisse e mettesse il suo prezioso contenuto a disposizione di tutti. Nel giro di pochi minuti iniziai a vedere le pareti sdoppiarsi e oscillare lentamente; le voci erano alterate e lontane, e non riuscivo a stare fermo. Non avevo idea di quale fosse la provenienza di quella coca, però era così buona da cancellare i ricordi di un arco di tempo piuttosto vasto.

Ripresi coscienza solo intorno alle sette del mattino, quando mi svegliai di soprassalto e trovai una delle tipe che mi avevano invaso la casa seduta di fianco a me e con una bottiglia di vodka tra le mani.

“Ben svegliato, tesoro,” mi salutò, innalzando la bottiglia e lasciandosi cadere sul materasso a peso morto.

Mi stropicciai gli occhi e feci scivolare le mani sul volto finché non raggiunsero le orecchie e le coprirono. “Cerca di fare poco casino. Rimettiti a dormire o va’ di sotto. Basta che mi lasci riposare un po’ il cervello.”

La donna riprese a ridere e cercò di sdraiarsi su un fianco, ma a quanto pareva aveva perso il senso dell’equilibrio e aveva preferito arrendersi e tornarsi a sdraiare supina.

“Posso chiederti una cosa?” biascicò poi, lo sguardo vacuo rivolto verso il soffitto appena illuminato dalla luce emessa dall’abat-jour. “Chi è Sydney?”

Non appena udii quel nome mi ripresi all’improvviso dal torpore e sobbalzai. “Come, scusa?”

“Ti ho chiesto chi è Sydney,” ripeté alzando la voce, poi iniziò a simulare una specie di pianto. “Io te l’avevo detto che il mio nome è Joanna, te l’avrò ripetuto decine di volte, ma tu non hai fatto altro che chiamarmi Sydney. Sydney, Sydney, Sydney! Sei andato avanti così per dieci minuti! Perché? Dimmelo!”

Scansai il braccio magro e pallido che aveva teso verso di me e volsi lo sguardo da un’altra parte, gli occhi ancora spalancati per l’incredulità.

In coca veritas, eh, Vinnie?

Scossi il capo e tornai a guardare in direzione di Joanna e la fissai mentre continuava a borbottare tra sé: aveva i capelli rossi e lisci, così lisci che quando li toccavo mi sembrava di avere tra le mani qualcosa di viscido. Non erano i boccoli morbidi e dorati di Sydney, quelli che avevo accarezzato così volentieri il giorno prima. E gli occhi erano spenti, non luminosi e pieni di vitalità come quelli che avevo visto velarsi di lacrime nel momento in cui lei aveva trovato quello che stava cercando da molto tempo.

Sto impazzendo. Sto andando fuori di testa.

“Ehi, tesoro,” tornò a chiamarmi la voce alticcia della rossa che stava ancora agitando la bottiglia che aveva in mano. “Ne vuoi un po’?”

“Non adesso,” risposi secco.

Joanna tramutò l’espressione furbesca in una delusa e cercò di bere un sorso di vodka finendo col rovesciarne qualche goccia sul materasso. Sebbene io non lo trovassi affatto divertente, specialmente ora che avevo un gran mal di testa e voglia di stare da solo, lei scoppiò a ridere e mi vidi costretto a toglierle la bottiglia dalle mani.

“Esci da qui,” le ordinai con freddezza. “Vai al piano di sotto, o dove ti pare. Però esci.”

La rossa arricciò il naso piuttosto contrariata e, dopo aver raccattato il body fucsia che indossava quando era arrivata, lasciò la stanza senza proferire una sola parola.

Mi riparai gli occhi coprendoli con un avambraccio e ascoltai i suoi passi felpati camminare prima sulla moquette della camera, poi su quella del corridoio e infine scendere le scale. Ero finalmente da solo con i miei pensieri – o meglio, ero da solo con il mio pensiero. Arraffai la cordicella metallica dell’abat-jour e spensi la luce, mi girai su un fianco e notai che l’orologio sul comodino segnava le sette e dieci del mattino. Decisi che alle nove mi sarei alzato, avrei mandato via tutti e che mi sarei reso presentabile sebbene avessi passato la serata a fare baldoria. Forse sarei riuscito ad arrivare a Santa Monica entro mezzogiorno.




N.D’.A.: Buongiorno!
Allora, gente, siete sopravvissuti al concerto di ieri sera? Avete fatto casino? Per quanto riguarda la sottoscritta, sono stata assalita da una crisi di rimpianto con un giorno di ritardo. Chi è stato costretto a restare a casa può capirmi e chi non ha mai visto questo gruppo dal vivo può capirmi ancora di più... ma sorvoliamo.
Passando alla storia, spero che abbiate gradito questo delirante capitolo dell’altrettanto delirante punto di vista del nostro cantante che, lasciatemelo dire, si sta facendo un po’ troppi viaggi mentali. Spero per lui che alla fine ne sia valsa la pena di pensare e arrovellarsi così tanto!
Detto questo, ringrazio chi legge e chi mi segue. ♥ Ho anche notato che avete fatto schizzare alle stelle le visualizzazioni della mia prima storia, così ho pensato di approfittare di questi giorni di influenza per rileggere i capitoli e aggiustarli un po’, per quanto mi fosse possibile. Sicuramente ci sono rimasti degli errori e ho dovuto lasciare le note d’autore ridicole e smielate come le ho create due anni fa, ma credo di aver dato una sistemata non indifferente alla punteggiatura. :)
Aspetto un vostro parere. Ci si rilegge mercoledì prossimo!
Un abbraccio,

Angie






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Capitolo 7
*** Sydney ***


7
SYDNEY





Nancy si lasciò sfuggire un gridolino, come se fosse stata lei quella che aveva trovato un lavoro che faceva al caso suo e, proprio in quel momento, attirato dalla sua esclamazione, Francis fece capolino dalla porta della sua cameretta e domandò cosa fosse successo di così bello da far ridere la vicina in quel modo.

“La mamma ha trovato un nuovo lavoro, tesoro!” esclamai mentre mi abbassavo per prenderlo in braccio. Lui, però, anziché lasciarsi sollevare, incrociò le braccia e mise il broncio.

“Ero più contento quando non ce l’avevi più e la sera stavamo insieme,” piagnucolò, fissandosi le punte dei piedi, ora coperti da un paio di calzini rossi con una fantasia geometrica verde e gialla.

Non potevo negare che tutti gli impieghi serali che cambiavo ogni sei mesi non avevano fatto altro che privarmi di buona parte del tempo che avrei dovuto passare con mio figlio, ma per ora erano l’unica possibilità perché avevo bisogno di soldi per pagare le rate dell’affitto e della scuola e tutto ciò che era necessario per garantire una vita serena a un bambino di cinque anni.

Guardai Nancy alla ricerca di un minimo di conforto e lei sospirò, appoggiandosi allo stipite con una spalla, allora mi sedetti sul pavimento e tirai Frankie verso di me. “Stavolta è un po’ diverso. Lavoro fino a sera e torno a casa molto prima, all’ora di cena, così possiamo mangiare insieme, e dopo che hai giocato con Josè possiamo andare a dormire.”

“Sei sicura?” domandò mentre si stropicciava gli occhi con entrambe le mani.

“Sicurissima,” risposi con un sorriso, poi si lasciò finalmente prendere in braccio. “Adesso però torniamo a letto, domattina devi andare a scuola.”

Non appena appoggiò la testa sul cuscino, Francis cadde in un sonno profondo come se non si fosse mai svegliato, e io potei finalmente tornare in salotto, dove Nancy mi aspettava, stavolta con un’espressione furbesca dipinta in faccia.

“Comunque hai visto che avevo ragione io?” disse, agitando l’indice all’altezza del mio naso. “Non è passata neanche una settimana dall’ultima volta che lo hai visto e quel tipo è tornato a farti visita.”

“Almeno stavolta ha fatto qualcosa di utile,” ribattei atona da seduta sul divano.

Nancy sogghignò. “Certo, però una persona qualunque non si scomoderebbe per correre fino a qui, dirti che ha trovato qualcosa che fa per te e offrirsi anche di darti un passaggio per mostrartela. Se fossi in te, lo terrei d’occhio.”

“Cosa vuoi dire?”

“Che è ovvio che quel tizio miri a qualcosa,” rispose con fare saputello. “Non si può ancora dire che cosa voglia esattamente ed è per questo che voglio che tu stia attenta. Aspetta di capirlo, poi agisci di conseguenza e valuta bene ogni particolare. Adesso hai Frankie a cui badare.”

Con quest’ultima affermazione mi salutò velocemente, mi augurò la buonanotte e chiuse la porta del mio appartamento.

Mi presi la testa fra le mani e sbuffai sonoramente perché in effetti Nancy aveva ragione sul fatto che una persona qualunque non si sarebbe mai scomodata così tanto per me. Stando a ciò che aveva detto in seguito, però, per ora era il caso di lasciare che il destino facesse il proprio corso, dopodiché avrei dovuto prendere una decisione e ricordarmi innanzitutto di Francis. Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi e mi fu sufficiente lanciare un’occhiata all’orologio appeso sopra la cucina per capire che era giunta l’ora che anch’io andassi a dormire, anche perché l’indomani mattina mi sarei dovuta svegliare in tempo per portare a scuola sia mio figlio che quello di Nancy dal momento che era il minimo che potessi fare per ricambiare la sua gentilezza dopo anni che faceva da baby-sitter a Frankie.

Fortunatamente la scuola non distava molto né da casa mia né dalla fermata dell’autobus che avrei dovuto prendere per raggiungere Santa Monica, una soluzione assai più comoda rispetto alla macchina, per la quale avrei dovuto trovare un parcheggio e pagare la benzina. Scesi a un centinaio di metri dal locale e, quando varcai la soglia, mi ritrovai davanti il mio capo, lo stesso col quale avevo parlato il giorno prima, rigorosamente con un cappello marrone da cow-boy e un grosso sigaro tra le labbra. Mi consegnò il grembiule bordeaux che avrei dovuto indossare sopra i miei indumenti, i quali avrebbero dovuto consistere in jeans e camicetta a quadri per riprendere l’atmosfera country, e mi indicò una donna più o meno mia coetanea che mi avrebbe fatto da tutor per il primo periodo. Quella, una ragazza alta e secca e con un paio di treccine rosse che le toccavano le spalle, mi rivolse un sorriso e mi piazzò letteralmente tra le mani un vassoio sul quale aveva appoggiato un taccuino con i fogli a righe e una penna nera.

“Visto che hai detto di aver già svolto lavori simili per molto tempo, immagino tu non abbia bisogno di imparare a usare una macchina del caffè o un registratore di cassa, giusto?” domandò il capo, poi attese che confermassi. “Ad ogni modo, Margaret ha il compito di tenerti sott’occhio. Quando sarà terminato il periodo di prova, ti faremo sapere. Ovviamente si pretendono puntualità, cortesia nei confronti dei clienti e rapidità. Adesso va’ pure al tuo lavoro, e buona fortuna.”

Annuii e, non appena mi girai dall’altra parte, mi ritrovai faccia a faccia con Margaret, la quale mi fissava sempre sorridendo e con un pennarello indelebile stretto nella mano destra. “Come hai detto che ti chiami, scusa?”

“Sydney,” risposi, e subito dopo scrisse il mio nome a caratteri cubitali ed eleganti su una targhetta che affisse sul mio grembiule.

“Buon lavoro, tesoro!” cinguettò prima di tornare a rintanarsi dietro al bancone a servire uno dei primi clienti.

La prima parte della giornata sembrò scivolare via in pochissimo tempo e, sebbene ci fosse un continuo viavai di persone dato che quel locale si trovava proprio sulla strada, riuscii a svolgere il mio lavoro con la rapidità richiesta grazie all’organizzazione del personale che non aveva nulla da invidiare a quello dei bar in cui avevo lavorato prima.

Verso mezzogiorno, quando ero sul retro a godere dell’aria fresca durante il break di mezz’ora che mi spettava, Margaret comparve quasi magicamente al mio fianco, una sigaretta sostenuta con stile tra le dita con le unghie laccate di rosa.

“Allora, cara, come ti stai trovando?” domandò con il suo consueto sorriso che metteva in evidenza due simpatiche fossette ai lati della bocca.

“Per ora bene. Qui riesco finalmente a svolgere il mio lavoro in pace,” confessai. “Dimmi un po’: l’atmosfera in questo posto è sempre così tranquilla?”

Margaret arricciò il naso all’insù ed esalò il fumo della sigaretta. “Be’, a volte capita che arrivi la squadra di motociclisti ubriaconi che iniziano a fare casino, però in genere non ci sono risse o cose simili, e il boss è sempre nei dintorni per tenere sotto controllo la situazione. Ma visto che anche tu fai il turno fino a sera insieme a me, ti consiglio di tenere gli occhi aperti quando vai a prendere l’autobus o vai verso la tua auto.”

“Ho notato che la fermata non dista molto da qui e che è ben illuminata,” dissi mentre osservavo l’area sul retro, delimitata da una rete metallica sulla quale si arrampicavano alcune piante di gelsomino.

“Abiti molto lontano da Santa Monica?” chiese Margaret mentre schiacciava il mozzicone sull’asfalto con la suola della scarpa prima di tornare dentro al nostro lavoro.

“Vivo a Venice. Solo una decina di minuti.”

“Vivi con qualcuno?”

“Sì, con mio figlio di cinque anni.”

Appena sentì quelle parole, i grandi occhi color nocciola di Margaret si spalancarono e la sua ugola generò uno strano verso acuto. “Cinque anni? Oh, che carino! Come si chiama?”

“Francis,” risposi con la tipica tenerezza che ha ogni madre quando pronuncia il nome del proprio figlio.

“Bello! Sai che anch’io ho un nipotino della stessa età di–” si ammutolì all’improvviso e, sempre con gli occhi che rischiavano di schizzarle fuori dalla testa, puntò un dito in direzione dell’ingresso, cambiando totalmente atteggiamento. “Oh, no... oh, mio Dio, Sydney, hai visto chi è appena entrato?”

Seguii la direzione indicata dalla sua unghia rosa confetto e mi accorsi che sulla soglia del locale, seguito da un soggetto alto e magro che si guardava intorno fumando una paglia con fare piuttosto giulivo, Vince stava passando in rassegna l’intero locale con lo sguardo, probabilmente alla mia ricerca.

“Lo sai chi sono quei due, vero?” sussurrò Margaret al mio orecchio dopo avermi circondato le spalle con un braccio. “Sono il cantante e il batterista dei Mötley Crüe, ma sono sicura che tu li conosca già. Sono una loro grandissima fan e tu non hai idea di quello che farei pur di poter rivolgere loro anche una sola parola,” piagnucolò, poi mi si piazzò davanti e puntò i grandi occhi scuri e tondi dentro i miei. “Ti dispiace se li servo io?”

Stavo per annuire e lo avrei fatto anche volentieri, ma non ebbi nemmeno il tempo per compiere quel semplice gesto che la voce squillante di Vince sovrastò il brusio che caratterizza i locali grandi e affollati.

“Sydney, sapevo che ti avrei trovata!” esclamò quasi cantando. Il viso latteo con le guance imbrattate di blush rosa di Margaret si contorse in un’espressione di delusione mista a disperazione.

“Non potevo che essere qui,” ribattei abbozzando un vago sorriso e cercando di non mostrare imbarazzo.

“Sono giusto passato per vedere come te la stessi cavando,” rispose con un ghigno malizioso che si estendeva sul suo volto abbronzato; attirò poi l’attenzione di Margaret e lei quasi sobbalzò per la sorpresa. “Ci porteresti due birre mentre io scambio un paio di parole con la tua collega?”

Margaret annuì e si affrettò ad accontentare la richiesta di Vince, mentre Tommy, che doveva aver capito che il suo compare avrebbe preferito non averlo intorno mentre parlava con me, si appollaiò su uno degli sgabelli del bancone, facendo così felice Margaret dopo la delusione iniziale.

“Sto lavorando, Vince,” dissi a bassa voce e pregando mentalmente che il capo non decidesse di fare un giro di ricognizione in quel preciso istante. “Non posso perdere tempo a parlare con gli amici o con le persone, specialmente ora che sono in prova.”

Il sorriso furbesco di Vince si tramutò immediatamente in un’espressione dispiaciuta e un po’ delusa. “In effetti hai ragione. Forse non mi sarei dovuto presentare qui proprio all’ora di pranzo. Verso che ora stacchi?”

“Oggi alle cinque, gli altri giorni alle sette e mezza. Come vedi, c’è stato un piccolo ma sensibile cambiamento di programma, ma va benissimo lo stesso,” risposi con la voce resa fredda dal timore che il boss potesse sbucare da un momento all’altro, magari avvertito proprio da uno dei miei nuovi colleghi.

Vince tornò a sorridere e a gongolare sotto lo sguardo indagatore di Margaret che, mentre contemplava Tommy sorseggiare una birra, lanciava qualche occhiata fugace nella nostra direzione. “Allora passerò più tardi, tanto per me non è un problema.

“Per me invece sì,” ribattei, spiazzandolo e cogliendolo alla sprovvista. “Stasera ho da fare.”

“Oh... non importa,” borbottò, poi arraffò uno dei biglietti da visita del locale esposti in una pila accanto al registratore di cassa e allungò un braccio dietro al bancone per prendere una penna, con la quale scribacchiò qualcosa sul retro del cartoncino bianco. “Ti lascio il mio numero, così puoi chiamarmi,” disse mentre mi consegnava il biglietto, poi avanzò di un paio di passi per chiamare il suo amico. “Ehi, Tommy, alza le chiappe da quella sedia. Si riparte.”

“Ma come? E perché così presto?” esclamò il batterista allampanato con un tono quasi capriccioso. “Avevi detto che avremmo fatto una sosta abbastanza lunga per bere una birra e rilassarci un po’!”

“Lo so, ma ho cambiato idea,” buttò lì come scusa.

“Uffa, che palle,” si lamentò Tommy mentre scendeva dallo sgabello e si avvicinava a Vince con un’andatura dinoccolata. “La prossima volta ti lascio a casa e i miei giri in motocicletta me li faccio da solo.”

“Ti ricordo che sei stato tu a volermi seguire nonostante le mille preghiere a non farlo.”

“Preghiere e insulti,” lo corresse acidamente e convinto che non lo avesse sentito.

Li osservai uscire dal locale, discutendo e rifilandosi qualche spallata a vicenda, dopodiché girarono l’angolo e passarono dietro alle vetrate e infine entrarono del parcheggio, dove li persi di vista. Margaret mi fece notare che la birra del cantante non era neanche stata consumata e trovò anche il coraggio di aggiungere che non l’aveva assaggiata perché era troppo impegnato a chiacchierare con me.

“Avrei preferito se non fosse venuto,” confessai sovrappensiero mentre ritornavo al mio lavoro, con una mano premuta sulla tasca del grembiule in cui avevo infilato il biglietto da visita, un gesto che non sfuggì alla mia collega.

“Non riuscirai mai a farmelo credere,” mormorò. “Da quant’è che lo conosci?”

Spostai subito la mano e caricai sul vassoio il panino e il the freddo da portare a un cliente. “Ci ho scambiato qualche parola due o tre volte. Se fosse per me potrebbe anche restare a casa sua, ma è lui che si ostina a cercarmi.”

“Allora perché non gli dici di smetterla?” indagò Margaret, sempre più determinata ad arrivare al sodo della faccenda.

Sospirai e consegnai il pranzo al cliente prima di risponderle. “Vedi, Mag, certe cose non sono possibili. E queste cose impossibili, se solo fossero possibili, sarebbero anche ciò di cui non ho bisogno, ma è comunque meglio starne alla larga.”

“Capisco...” disse con un’espressione confusa dal mio giro di parole.

“E, comunque, non ho intenzione di dirgli un bel niente,” saltai su, brandendo lo strofinaccio con cui stavo pulendo il bancone dalle briciole e dalle macchie di caffè. “Tanto domani avrà già trovato un’altra da pedinare, o almeno lo spero.”




N.D’.A.: Buongiorno!
E fu così che Sydney espresse esplicitamente la sua opinione... povero Vince... che lei stia mentendo oppure no, stavolta sta proprio facendo la cosiddetta figura del salame, per giunta per colpa mia. In compenso qualcun altro godrà e si sfregherà le mani. Nel prossimo capitolo, comunque, avrete il responso definitivo, oltre che la tanto attesa entrata in scena della band al completo.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!
Ringrazio chi legge e spero di ricevere qualche altro vostro parere! ♥
Ci si rivede mercoledì prossimo!
Un bacio,

Angie Mars






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Capitolo 8
*** Vince ***


8
VINCE





Sebbene lo spesso vetro imbrattato di ditate mi impedisse di sentire ogni rumore al di fuori della sala di registrazione, l’espressione seccata e insofferente che si era impadronita del volto di Doc McGhee mi fu più che sufficiente per capire che la mia performance non era stata gradita dalle sue orecchie. Tale pensiero fu confermato quando si asciugò la fronte dal sudore, aiutandosi con un fazzoletto bianco e ben stirato, e si avvicinò al microfono.

“Basta così, Vince. Vieni fuori da lì, ho bisogno di parlarti,” ordinò accompagnando le parole con un gesto rapido e quasi impercettibile.

Annuii sbuffando e uscii dalla saletta, oltre la cui porta di legno chiaro mi attendevano il manager e i miei tre colleghi, uno con una faccia meno rassicurante dell’altro.

“Ragazzi,” attaccò Doc, incrociando le braccia tozze sul petto, dove i bottoni della camicia a quadri e a maniche corte che indossava erano talmente tesi che sembravano sul punto di schizzare via, “lo sapete che entro metà maggio dobbiamo aver finito di registrare questo maledetto disco, vero?”

Tommy ebbe il coraggio di rispondere con uno squillante “sì!” che non aiutò di certo il manager a rilassarsi.

“Siamo ad aprile ed è come se i lavori fossero fermi a metà febbraio. È necessario che vi concentriate come non vi è mai capitato di fare nelle vostre miserabili vite,” mise in chiaro Doc, prima di puntare un dito contro di me. “Adesso, Vince, torna a chiuderti là dentro per un’altra mezz’ora e vedi di concludere qualcosa. Ultimamente ti vedo molto perso.”

Stavo per rispondergli per le rime quando notai che gli occhi scuri del batterista si erano spalancati come quelli di un cane che viene chiamato dal padrone e, visto che uno dei suoi passatempo preferiti era infastidirmi e la battuta gli era stata servita su un piatto d’argento, gongolò mentre sollevava una mano in aria come un bambino che vuole farsi notare a tutti i costi.

“Io lo so cos’ha che non va, il biondo!” esclamò dando di gomito a Nikki, e solo in quel momento capii su quale argomento stava per buttarsi. “La cameriera di ieri lo ha mandato via a mani vuote e quasi a calci.”

Sixx sollevò il capo e si strofinò il naso con il dorso dell’indice. “Cameriera? Tu straparli. Con tutte le cameriere che si fa, dubito che questo sia un dettaglio rilevante.”

“No, bro, la colpa è proprio di quella cameriera!” insisté T-Bone, battendo un pugno sul palmo della mano per chiarire il concetto. “Quella che lavora nel locale dove siamo stati ieri! Vero, Vince?”

“Sta’ zitto,” lo intimai ringhiando, ma lui sembrò non avermi neanche sentito e continuò dritto per la sua strada, sorridente e spontaneo come sempre.

“Ieri voleva andare a tutti i costi in quel posto anche se ho proposto mille altre luoghi interessanti, così l’ho accontentato,” iniziò a raccontare, totalmente incurante dei miei pugni che fremevano per la stizza. “L’ho seguito ed è andato dritto in un ristorante sulla strada e si è fiondato davanti a una tipa che sono certo di aver già visto da qualche parte.”

Una lattina di Budweiser lo colpì contro una spalla e la voce debole di Mick ci sorprese. “Ma se quando esci dagli strip-club non ti ricordi nemmeno come ti chiami, batterista.”
Senza pensarci due volte, Tommy raccolse la lattina e la lanciò in direzione di Mars, mancandolo.

“Tu torna a dormire. E voi due ascoltatemi,” si sedette meglio sullo sgabello e ghignò ancora. “Ha provato ad attaccare discorso con la tipa, ma lei lo ha scaricato e ha reagito in modo impassibile quando le ha dato il suo numero. Poi ci è rimasto male e mi ha obbligato ad andare via. Cazzo, ragazzi, era dai tempi del liceo che non vedevo una scena simile!”

“Falla finita!” esclamai a gran voce, facendo sobbalzare il pacifico Mick sopra la sua poltrona e suscitando in Tommy solamente una risatina. “Non sono affari tuoi e, visto che ti interessa tanto la mia vita privata, ho in programma di uscire con lei e stavolta, per fortuna, non sarò costretto a portarti con me.”

Detto questo, tornai a segregarmi nella saletta e ripresi il lavoro da dove l’avevo lasciato, sforzandomi di dare il meglio di me a dispetto della mia voce che stava cominciando a sentire il peso degli eccessi. In compenso il pubblico era diminuito: Nikki era corso fuori appena avevo iniziato a cantare e il suo braccio destro lo aveva seguito a ruota; Mick si era lentamente alzato dal suo trono di finta pelle marrone, aveva riposto la sua Kramer all’interno della custodia ed era uscito perché aveva capito che tanto quel giorno non avrebbe concluso nulla. L’unico rimasto era Doc, il quale aveva preso il posto di Mars sulla poltrona e aveva passato tre quarti d’ora a fissarmi, finché non decisi che era giunta l’ora di porre fine a quella tortura.

Uscii dagli studi con la piccola soddisfazione di essere riuscito a perfezionare una parte di un brano che ora poteva essere considerato completo e pronto per essere inciso. Nel giro di poco, però, i pensieri riguardanti il lavoro sembrarono sparire dalla mia mente e, se proprio vogliamo essere precisi, accadde nel momento in cui imboccai la Pacific Coast Highway. Quando quel pomeriggio avevo detto a Tommy che avevo in programma di uscire con Sydney, avevo parzialmente mentito: era un’idea che avevo, ma a lei non lo avevo ancora detto. Pensai che sarebbe stato più semplice appostarmi di fianco all’ingresso dei dipendenti del locale e farle una sorpresa non appena fosse uscita – ammesso che avrebbe trovato la mia idea una sorpesa e non una seccatura.

Il sole aveva già iniziato a calare sull’oceano freddo e avrei preferito guardare il tramonto immerso nella pace piuttosto che fissare un muro grigio e scalcinato – sempre immerso nella pace, ma stavolta si trattava di quella che regnava nel parcheggio. Nell’attesa fumai un paio di paglie e feci anche in tempo a rendermi conto che non avevo idea di dove saremmo potuti andare: Santa Monica è un luogo piuttosto affollato e meta dei turisti, nonché il celebre distretto in cui si concentra un grande numero di celebrità e, di conseguenza, anche di paparazzi.

Stavo per accendere la terza sigaretta della serata quando la porta di metallo accanto a cui stavo sostando come un avvoltoio si aprì e uscirono una coppia di ragazze: una era la cameriera magra e con i capelli rossi che avevo visto in compagnia di Sydney il giorno precedente e l’altra era Sydney in persona. La rossa mi vide per prima e sembrò andare in iperventilazione. Forse doveva anche aver capito più del necessario perché se ne andò incespicando, dicendo che era meglio se ci avesse lasciati soli. Intanto Sydney mi guardava senza sorridere e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi come se il suo più grande desiderio in quel momento fosse vedermi scomparire.

“Mi stavi aspettando?” domandò poi con un mezzo sorriso.

“Già,” risposi stringendomi nelle spalle e segretamente deluso per quel sorriso sforzato che mi aveva riservato.

“Dammi un minuto, devo fare una telefonata,” disse prima di rientrare e uscire nel giro di qualche istante. Quando ricomparve sembrava finalmente più serena. “Ho dovuto rimandare un piccolo impegno, ma in compenso possiamo fare due chiacchiere, visto che mi sembra che tu ci tenga molto.”

“Giusto,” confermai. “Se vuoi possiamo andare a fare un giro.”

“Non mi sembra una cattiva idea,” approvò lei, spalancando i grandi occhi chiari sui quali si riflettevano gli ultimi raggi di sole. “Il molo non è lontano e conosco un posto sulla passeggiata dove fanno dello squisito cibo messicano.”

“Se non fosse perché è un luogo molto affollato accetterei, ma visto che preferisco la solitudine alla compagnia degli impiccioni, ho una soluzione,” dissi, mostrandole le chiavi della motocicletta.

Sydney si morse un labbro. “Basta che non sia troppo lontano.”

“Non molto,” risposi, invece sapevo che mi sarebbe toccato guidare per almeno una ventina di minuti. Avevo anche previsto che avrei dovuto rispondere che ci mancava pochissimo ogni volta in cui lei mi avrebbe domandato quanto tempo avremmo impiegato per raggiungere il posto che avevo in mente.

Come previsto, dopo neanche una decina di chilometri Sydney cominciò a chiedermi quando saremmo arrivati, e mi ritrovai a sperare che non si arrabbiasse perché non rientrava affatto nel mio piano. Viaggiammo verso nord e ci fermammo in uno spiazzo vicino alla spiaggia dove nelle giornate estive si radunavano surfisti e famigliole in vacanza e che, durante la notte e l’inverno, fungeva da rifugio per i pensatori e i romantici. A quell’ora era ormai del tutto buio e il tramonto aveva finito il suo spettacolo quotidiano, mentre dall’oceano si era sollevata una brezza fredda che fece rabbrividire entrambi. La spiaggia era deserta e scura, il rumore delle onde che si infrangevano sulla riva giungeva fino alle nostre orecchie sebbene fosse parecchio distante, e Sydney fissava la vasta distesa di sabbia argentata come se non avesse mai voluto smettere di guardarla.

“Allora?” la chiamai da già in piedi sul punto in cui l’asfalto finiva per dare spazio alla spiaggia. “Vuoi venire con me?”

“Non si vede niente. Pensi che sia sicuro?” replicò lei, il tono contrariato smentito dalle sue azioni: stava infatti camminando verso di me, stretta nella giacca di pelle e con i camperos in mano.

Procedette in silenzio e al mio fianco finché non fummo abbastanza lontani dalla strada e potei finalmente circondarle le spalle con un braccio. Mi aspettavo che rispondesse con un gesto simile, invece si limitò a stringersi ancora di più nella giacca per le basse temperature e a guardare per terra mentre ci avvicinavamo alla riva. Pesai che fosse una di quelle persone timide e insicure che hanno bisogno di essere certe al cento percento che l’azione che stanno per compiere sia gradita da chi la riceverà, e per questo aspettano di avere tutte le prove possibili che a me sembrava di aver fornito da già parecchio tempo. Tuttavia, dal momento che speravo di riuscire a creare sentimenti anziché distruggerne, preferii aspettare.

“Da questa parte,” dissi indicando una delle tipiche cabine di legno dalla quale i bagnini sorvegliano i bagnanti. Salii la passerella scricchiolante che conduceva alla porta con una piccola finestra e mi sedetti sulla parte non inclinata prima della porta, rivolto verso l’oceano. Invitai Sydney a sedersi e lei prese posto poco più avanti, tra le mie gambe, in modo da poter appoggiare il capo contro il mio petto e dandomi la conferma che aveva iniziato a sciogliersi. Le circondai nuovamente le spalle, stavolta con entrambe le braccia, e appoggiai il mento su quella sinistra. Da così sistemato potevo sentire ancora meglio il suo profumo, ora mischiato all’odore fresco della salsedine trasportato dal vento, e lasciai che per una volta a fottermi il cervello fosse qualcosa di diverso da un bicchiere di Jack o una pista di coca.

“Qui non è male,” saltò su Sydney, che ora aveva preso ad accarezzarmi il dorso di una mano.

“Da ragazzino andavo spesso in spiaggia, ma da quando ho cominciato a cantare con la mia band ci sono andato sempre meno,” raccontai con il viso leggermente voltato verso di lei. “Chiaramente questo non significa che l’abbia dimenticato. Ci torno ogni volta che ho bisogno di pace e, credimi, in questo periodo sono sempre da queste parti.”

“Hai avuto una buona idea,” approvò. “Credo che qualche volta lo farò anch’io.”

Aumentai di poco la presa intorno alle sue spalle. “Se vuoi una volta posso accompagnarti.”

A quel punto mi aspettavo un “sì” o una risatina soffocata contro il palmo della mano, invece sospirò scuotendo appena il capo. “Noi due dobbiamo parlare, Vince.”

Ogni viaggio mentale, ogni piccola certezza – infondata e ingiustificata – che mi ero fatto, crollò come un castello di sabbia sotto un’onda più forte delle altre.

Sydney aprì la borsa e, dopo aver rovistato al suo interno e aver rinvenuto il portafoglio, estrasse una polaroid sbiadita che mi mise in una mano affinché la guardassi. Sulla carta lucida era ritratta una ragazza molto giovane e con i capelli biondo platino che le conferivano un’aria sbarazzina, la quale era però smentita dallo sguardo tenero e dal dolce sorriso suscitati dal bambino che reggeva tra le braccia per cullarlo in quelli che, a giudicare dal suo aspetto, dovevano essere i suoi primi giorni di vita.

“In quella foto avevo diciotto anni e i capelli tagliati in quel modo perché ero fissata con Marylin Monroe,” esordì Sydney con tono pacato.

Studiai più attentamente l’immagine e riconobbi che i tratti somatici della ragazzina erano proprio i suoi.

“Non ti avevo riconosciuta,” mormorai.

Se quella della fotografia era lei, allora non c’era ombra di dubbio che il bambino che teneva in braccio fosse suo figlio.

L’indice sottile di Sydney indicò la polaroid e la sua voce non era più tesa, ma dolce e intenerita come quella di un innamorato. “Lui è il mio bambino. Si chiama Francis e adesso ha cinque anni. Era lui l’impegno a cui mi riferivo quando sei venuto a prendermi. Ho dovuto chiamare la vicina e chiederle di tenerlo con sé anche a cena.”

Per un attimo mi sembrò che mi stesse incolpando per averle rubato del tempo prezioso da trascorrere insieme a suo figlio, ma il fatto che avesse appoggiato la testa a me per rilassarsi mi fece pensare che, forse, essere lì con me non le dispiacesse poi così tanto.

“Abitate da soli?” tentai di domandare mentre le accarezzavo distrattamente i capelli.

Annuì. “Suo padre è andato via di casa dopo pochi mesi e da allora si fa vivo una volta all’anno, verso Natale. Era solo un approfittatore e sono convinta che se fosse rimasto avrebbe fatto ancora più danni.”

Il suo sguardo era diventato immensamente triste e io non avevo la più pallida idea delle parole che avrei potuto dire per confortarla. Mi limitai a passarle una mano aperta sulla testa e scesi fino alla punta dei capelli, i boccoli che si contorcevano tra le mie dita.

“Raccontami qualcosa di Francis,” la esortai, come se un’eventuale descrizione del ragazzino avesse potuto aiutarmi a decidere se continuare a seguire le mire che avevo sempre avuto su di lei o mi avesse convinto a lasciar perdere la questione che, in fin dei conti, non faceva per me.

“Frankie è un bambino molto buono e solare nonostante tutto. Si accontenta delle cose semplici perché non l’ho mai viziato, ma, anche se avessi voluto, non avrei avuto i mezzi per farlo, né li ho tutt’ora. Però credo che questo gli sarà utile in futuro perché così imparerà ad apprezzare il valore dei gesti,” raccontò con lo sguardo perso verso l’oceano oscuro, poi tacque e restammo entrambi in silenzio in compagnia del solo rumore delle onde.

Sydney si era ormai abbandonata tra le mie braccia e io non potei resistere alla tentazione di spostare la mano dai suoi morbidi capelli al collo, che cominciai a sfiorare con i polpastrelli. Lei si girò verso di me, mostrandomi i grandi occhi che sembravano chiedermi cosa avessi in mente di fare anche se sicuramente lo sapevano già. La risposta alla sua domanda arrivò nel giro di pochi attimi, quando le nostre labbra si erano già sfiorate per poi fondersi lentamente e a lungo. Sentii una sua mano aggrapparsi alla mia spalla, stringendo un lembo della giacca, e io le passai entrambi i palmi ben aperti sulla schiena e sui fianchi, come se non avessi voluto tralasciare un solo millimetro. Continuammo in silenzio e completamente da soli su quella spiaggia deserta finché Sydney non si staccò e si passò una mano tra i capelli per ravvivarli e riordinarli dopo che erano stati scompigliati dalle mie dita. Pensai che fosse così bella e adorabile che non avrei mai potuto resistere all’idea di non poterla avere tutta per me.

“Vieni a casa con me,” quasi le ordinai a questo proposito.

“Tu pretendi troppo,” mormorò in risposta.

“Ti porto a casa con me poi domattina mi dici dove vuoi andare e ti ci accompagno,” insistei con la convinzione che avrei facilmente ottenuto ciò che volevo, ma Sydney si mostrò più che irremovibile.

“No, Vince,” si rifiutò ancora. “A casa c’è Francis che mi aspetta. Non posso e non voglio lasciarlo da solo.”

A quel punto capii che avevo perso. Sospirai e le tesi una mano per aiutarla a rialzarsi, dopodiché tornammo ad attraversare l’immensa spiaggia fredda e oscura, stretti l’uno all’altra come all’andata, ma senza il coraggio di parlare o guardarci in faccia.




N.D’.A.: Buongiorno!
Ve l’avevo detto che, presto o tardi, Vince avrebbe ottenuto una risposta definitiva, vero? Be’, adesso lo sa... mi dispiace per coloro che facevano il tifo per lui, ma così è andata. Ad ogni modo, i suoi sostenitori avranno modo di rivederlo!
Per quanto riguarda gli ammiratori di Nikki (so che siete molti!), invece, allacciate le cinture, perché Sixx entrerà in scena con il prossimo capitolo! E, come sempre, Sixx=guai.
Detto questo, ringrazio ci segue e recensisce! ♥
Ci si rilegge mercoledì prossimo con un nuovo capitolo e un seminuovo narratore! :)
Un abbraccio,

Angie Mars






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Capitolo 9
*** Nikki ***


9
NIKKI





Ne avevo abbastanza. Ero stanco di non avere le forze necessarie per affrontare una registrazione; ero stanco di vedere Mick dormire o fare finta di essere addormentato per non essere infastidito; ma, soprattutto, ero stufo di Vince che sembrava aver disimparato a fare l’unica cosa che fosse capace di fare in tutta la sua misera vita: cantare.

Questi erano solo alcuni dei motivi per cui decisi di abbandonare gli studi senza assistere all’ultimo tentativo del biondo, il quale era stato obbligato da Doc a mettersi il cuore in pace e a restare chiuso nella sala di registrazione per almeno mezz’ora, con la speranza che riuscisse a concludere qualcosa in più del solito. Mi alzai dalla sedia e varcai la soglia con passo deciso, determinato a non straziare più le mie orecchie e il mio cervello con gli sproloqui di Vince sulla sua ultima conquista che, a quanto pareva, lo aveva lasciato a bocca asciutta. Mentre scendevo le scale di fretta, sentii dei passi pesanti che mi rincorrevano. Non mi fu per niente difficile riconoscere che si trattava di Tommy, ma ignorai le sue richieste di fermarmi e procedetti finché non mi trovai nel parcheggio sul retro, dove il mio amico mi raggiunse con il fiatone.

“Cazzo, bello, volevi farmi rotolare giù dalle scale?” domandò sarcastico mentre cercava di regolare meglio il respiro.

Per tutta risposta alzai le spalle. “Nessuno ti ha chiesto di seguirmi.”

“E tu sei scappato via senza neanche salutare,” ribatté mimando un tono infantile, poi estrasse un pacchetto di sigarette e uno Zippo dalla tasca dei jeans e si accese una paglia. “Vuoi?”

“Perché no?” approvai prima di accenderne una per me. “Cos’è questa storia della cameriera, poi?”

Tommy sghignazzò e scosse il capo con fare piuttosto divertito. “Sei peggio di una vecchia zitella.”

“Sono solo curioso di sapere chi sarà a portare Vince sulla via errata distraendolo e facendolo impazzire più di quanto non abbia già fatto da solo,” ribattei.

Tommy esalò una nuvola di fumo grigio e la fissò mentre si dissolveva lentamente nell’aria. “Potrebbe anche sposarla che tanto resterebbe il marpione di sempre.”

“Infatti non intendevo dire che perderà la testa per lei, ma che sarà lei a farlo diventare matto con tutti i suoi capricci, le pretese e tutte queste cose assurde che fanno le donne,” specificai atono.

Tommy si lasciò sfuggire un sorriso sarcastico e scosse il capo. Non fu necessario che si esprimesse a parole perché capissi che i suoi gesti erano rivolti a Vanity, la ragazza che si presentava a casa mia quando lo decideva e che mi incasinava il cervello senza che ce ne fosse bisogno. In realtà, però, non era solo colpa sua. Tralasciando il fatto che ero stato proprio io a muovere il primo passo e a contattarla dopo averla vista in un video su MTV, non eravamo legati da nessun sentimento né da nient’altro che non fossero quantitativi esagerati di droghe di ogni genere o da casse di champagne. Vanity aveva un sacco di problemi e, proprio come per me, la causa di ognuno di essi era la droga. Tuttavia, lasciavo che entrasse in casa mia ogni volta che si presentava sia perché portava abbastanza sballo per entrambi, che per il semplice fatto che, se avessi indugiato anche solo cinque minuti prima di aprire la porta, avrebbe iniziato a sbraitare, attirando l’attenzione di tutti i vicini.

“Io me ne vado a casa. Non ho più voglia di stare qui,” dissi dopo aver schiacciato il mozzicone con la suola di uno stivale, poi sollevai il capo in direzione del mio amico. “Stasera Vanity è impegnata. Perché non vieni da me a bere qualcosa?”

Tommy si grattò la nuca. “Ah, bello, verrei volentieri, ma ho promesso a mia moglie che avrei cenato insieme a lei in un posto carino vicino al mare.”

Posto carino... ripetei mentalmente, e ringraziai il cielo o chiunque fosse alla guida di questo mondo perché l’elevata quantità di zucchero contenuta in quella frase e nel suo stesso sguardo non mi aveva fatto cariare i denti seduta stante.

“Non importa,” lo liquidai mentre estraevo le chiavi della motocicletta dal giubbotto di pelle.

“Non te la prendere!” esclamò Tommy esibendo un sorriso sforzato. “Giuro che la prossima volta vengo, ma oggi non posso proprio.”

Saltai in sella alla mia Harley Davidson e sollevai un pollice. “Va tutto alla grande, non ti preoccupare.”

Il rombo del motore mi impedì di sentire le ultime parole di Tommy, il quale prese a sbracciare per salutarmi mentre mi allontanavo.

Essendo l’orario di punta, preferii non immettermi nella freeway con il rischio di rimanere bloccato nel traffico e optai per una strada secondaria che attraversava le colline. Era caratterizzata da diverse curve e conduceva ugualmente a Van Nuys, il distretto in cui vivevo da ormai un anno. Seguii il viale principale costeggiato da edifici bassi e grigi e da qualche palma che si stagliava nel cielo terso, conferendo alla strada un aspetto ancora più desolato, poi raggiunsi Sherman Oaks e svoltai sul Valley Vista Boulevard. La mia casa era facilmente riconoscibile perché era l’unica che al posto di un giardino ben curato aveva una specie di foresta pluviale fatta di alberi mai potati ed erba mai tosata, ai quali si aggiungeva qualche sacco dell’immondizia che dimenticavo di mettere fuori dal cancello il giorno in cui passava il camion della nettezza urbana, e alcuni utensili per il giardinaggio abbandonati dove capitava. Mi nascosi sotto alcune chiome scure e rigogliose che facevano ombra sul vialetto mentre attendevo che il cancello si aprisse e, non appena entrai in giardino, da dietro un cespuglio sbucò Whisky, una delle mie poche ragioni di vita. Si lanciò in una folle corsa verso di me, scodinzolando e muovendo la testa in alto e in basso, con la lingua rosa che penzolava e sbavava. Non appena si trovò ai miei piedi, iniziò a girare in tondo come se avesse voluto inseguire la sua stessa coda, gemendo e digrignando i denti in quella che voleva essere una sorta di sorriso canino. Appoggiai una mano aperta sulla sua schiena e accarezzai il mantello maculato, lasciandomi sfuggire un sorriso compiaciuto. Il contatto con il mio palmo sembrò calmarlo e, sempre con la coda che sembrava roteare da tanto era felice, mi seguì fino in casa. La mia maledetta casa. Tutta buia, in disordine, con i gargoyle che spuntavano da ogni mensola e le tende di pesante velluto cremisi che impedivano alla luce di entrare. Pensai sarcasticamente che avrei potuto affittarla per girare qualche horror di serie B.

Sospirai e un senso di nausea mi assalì insieme all’odore di chiuso e alla tristezza che le pareti trasudavano. Se avessi frugato nei cassetti avrei sicuramente trovato un po’ di roba, ma siccome non ne sentivo ancora un bisogno soffocante, provai ad aspettare che la fame diventasse insopportabile. Lanciai la giacca sullo schienale di una sedia, abbandonai gli stivali in un angolo del salotto e mi lasciai cadere sul divano. Se ci fosse stato Tommy avremmo fatto casino per tutto il tempo – avevo anche fatto scorta di birra e Jack –, invece lui aveva preferito passare la serata nel suo castello con Sua Maestà Sua Moglie.

E io? Cosa ne sarebbe stato di me se anche lui mi avesse dimenticato? Non avrei avuto nessuno su cui contare dato che l’unica persona che frequentavo era instabile quanto me.
Sentii Whisky uggiolare e percepii il tepore del suo muso adagiato sul mio ginocchio. Aprii gli occhi e, proprio come avevo previsto, mi stava fissando con uno sguardo abbattuto come se avesse percepito la mia malinconia.

“Non guardarmi così. Sei un pointer, non un cocker,” lo ammonii come se avesse potuto capirmi, tanto che continuò a fissarmi con gli occhi tristi.

Tornai ad appoggiare il capo allo schienale del divano e ripensai a Tommy, che in quel momento doveva essere a casa sua a prepararsi per la cenetta romantica, contento come un bimbo in un negozio di caramelle. Lo vedevo davanti allo specchio intento ad aggiustarsi il farfallino, con il mento proteso in avanti e il suo consueto sorriso largo e soddisfatto.

‘Fanculo... io ero a casa da solo ed ero l’unico ad esserlo visto che pareva che adesso anche Vince avesse trovato qualcuna disposta a sopportarlo.

Allora perché io non avevo mai trovato nessuno? L’unica mezza-fidanzata che avevo avuto, come la definivano i ragazzi, l’avevo mollata perché si stava costruendo una buona carriera e non aveva più bisogno di me. Ci eravamo persino incrociati qualche settimana prima agli studi e lei era sbiancata dalla paura che le avevo fatto con la mia faccia pallida e la motivazione di un bradipo con la bronchite che avevo nel muovermi e nel fare le cose. Pensai che, se ai tempi dei London fossi veramente riuscito a farmi avanti con Sydney, saremmo senz’altro finiti male come era successo con Lita. Se solo fossi stato una persona normale, avrei potuto trovare qualcuno disposto a starmi vicino, ma non lo ero e sapevo che sarei rimasto da solo fino alla fine dei miei giorni, un evento che forse non era neanche poi così lontano.

Un altro guaito soffocato attirò la mia attenzione e stavolta Whisky aveva piazzato le zampe anteriori sul divano e mi guardava con le orecchie basse, muovendo il naso umido.

“Smettila, stupido, e torna per terra,” gli ordinai, ma lui continuava a stare immobile e in bilico sulle zampe posteriori.

Ero convinto che quel cane avrebbe preferito essere stato adottato da qualcun altro piuttosto che da me. L’avevo portato a casa qualche mese prima perché ero convinto che mi avrebbe aiutato a distrarmi dai miei casini, senza pensare che avrebbe trascorso la maggior parte del tempo a scorrazzare in totale solitudine nel mio giardino disordinato perché sarei stato impegnato con le registrazioni e forse anche con un nuovo tour mondiale. Avevo pensato solo a me, non a lui – il mio solito egocentrismo del cazzo. Eppure, nonostante tutto, quel cucciolo troppo cresciuto sembrava essersi veramente affezionato a me, ma lui era un cane e, per quanto fosse estremamente intelligente e affettuoso, non avrebbe mai potuto sostituire l’amore di un essere umano.

Gli occhi iniziarono a pizzicarmi nel momento in cui l’uggiolio di Whisky si intensificò. Presto si annebbiò anche la vista, il respiro divenne irregolare e qualcosa di caldo cominciò a colare lungo le mie guance, fino ad insinuarsi tra le mie labbra, permettendomi di riconoscerne il sapore salmastro.

Stavo piangendo.

“Cazzo,” imprecai quando me ne resi conto. “Non di nuovo!“

Le lacrime iniziarono a scendere copiose e il cane non esitò a saltare sul divano per accucciarsi in grembo a me, per quanto la sua taglia glielo permettesse. Non era grande ma nemmeno piccolo, per cui impiegò un po’ di tempo prima di trovare la sua posizione ideale, dopodiché appoggiò il muso sul mio braccio e sospirò come se avesse voluto dirmi “che cazzo, padrone, non è che posso sempre pensarci io a te quando ti fai prendere dalle paturnie...”.

“Hai ragione, Whisky, ma sei l’unico che sembra essere veramente disposto a farlo,” mormorai mentre lo stringevo delicatamente a me.

Restammo fermi così per una decina di minuti, come se anche lui fosse stato una persona, e cominciai a pensare che quel cane avesse veramente una componente umana nel DNA. Gli altri cani che avevo avuto quando andavo in giro per il Paese con i miei nonni e ci fermavamo in qualche località sperduta del Texas o dell’Idaho non mi consideravano più di tanto. Preferivano scorrazzare per i campi a prendere le pulci piuttosto che appoggiare la testa contro il mio petto quando piangevo perché mi mancava mia madre. In compenso a quei tempi ci pensava Nona a scovarmi quando mi rintanavo nel capanno degli attrezzi o dietro una balla di fieno a frignare. Mi prendeva in braccio a dispetto del mal di schiena, mi portava nella roulotte, mi appoggiava delicatamente a sedere sul tavolo come se fossi stato un vaso di cristallo, poi tirava fuori una moneta da dieci centesimi dal vecchio barattolo di latta in cui raccoglieva gli spiccioli. “Prendi la bicicletta, va’ in paese e comprati dei pop-corn al burro” mi diceva, e io mi asciugavo le lacrime aiutandomi con l’intero braccio, la ringraziavo – ai tempi mi ricordavo ancora della corretta abitudine di dire grazie – e sfrecciavo verso il negozio più vicino.

Adesso però Nona non c’era più e io non avevo nemmeno fatto in tempo a ringraziarla per tutti i sacrifici e le rinunce che aveva fatto per me, sempre ammesso che potessi mai esserle abbastanza riconoscente.

Nona, senza di te vado fuori di testa.

Un fulmine balenò nella nebbia pestilenziale che oscurava il mio cervello.

Mi asciugai gli occhi sul dorso della mano incurante del trucco che aveva creato un composto viscido e denso mescolandosi con le lacrime, scansai il cane cercando di non spaventarlo e arraffai il primo pezzo di carta che trovai. Mi raggomitolai poi sul tappeto impolverato, avvicinai il viso al foglio stropicciato e iniziai a scrivere con foga, rischiando di bucare la carta. Quando ebbi terminato, mi ritrovai con una mano sudata stretta intorno al pennarello verde che avevo usato e davanti a una colonna composta dalla stessa frase riscritta per almeno una decina di volte come un lamento sussurrato nel buio della cameretta di Frankie Feranna.

Nona... I’m out of my head without you.

Quelle parole iniziarono a rimbalzare contro le pareti della mia testa e sembravano creare delle vibrazioni così potenti e assillanti che mi costrinsero a tenermi il capo con entrambe le mani. Dovetti liberarne una per aggrapparmi al tavolino da caffè e rimettermi in piedi, barcollante come se avessi disimparato a camminare da un momento all’altro. Attesi che quella sgradevole sensazione di vertigini sciamasse e intravidi la mia chitarra acustica appoggiata sul tavolo del salotto. Tirai su col naso: avrei potuto trovare una melodia adatta per quelle otto parole così vere e spontanee, ma lo avrei fatto solo dopo essermi rifocillato dell’unica sostanza che sembrava tenermi in vita, condannandomi a morte.




N.D’.A.: Ciao a tutti!
Come avevo già anticipato, questo capitolo vede il ritorno di Nikki. Spero di aver fatto passare almeno un po’ la fame a tutti quelli che non vedevano l’ora che ricomparisse!
Oltre a Nikki, comunque, ho deciso di far entrare in scena anche Whisky, il cane di cui parla nella sua biografia. Nessuno di noi autori EFP ne ha mai parlato, se non forse una volta (ma non ricordo chi né dove, purtroppo), allora ho pensato che sarebbe stato carino inserirlo nel mio racconto e dare un ruolo anche a lui. Insomma, tutti sappiamo quanto a Nikki piacciano i cani – avete visto che carini che sono i due cuccioli che ha preso di recente? <3 Ad ogni modo, spero che la mia scelta sia di vostro gradimento.
Detto questo, sparisco e vado a studiare, ma non prima di aver ringraziato chi mi segue! ♥
Aspetto i vostri commenti!
Un abbraccio e a mercoledì prossimo,

Angie Mars






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Capitolo 10
*** Sydney ***


10
SYDNEY





Margaret strabuzzò i grandi occhi tondi, contorse il volto in un’espressione di stupore quasi teatrale, e trattenne a stento un gridolino agghiacciante solo perché le avevo rivolto un’occhiata truce.

“Vuoi farmi credere che l’altra sera sei uscita con–” si guardò intorno sospettosa e, dato l’elevato numero di clienti, ognuno dei quali era dotato di un paio di orecchie certamente ben funzionanti, abbassò ancora di più il tono della voce e si ingobbì nell’inconscio tentativo di rendersi meno visibile. “–sei uscita con Vince Neil e lo hai scaricato come se non te ne importasse niente?”

Sbuffai e accelerai il ritmo con cui stavo asciugando alcuni boccali di birra appena usciti dalla lavastoviglie. “Te lo ripeto ancora e poi non te lo ripeterò più, Mag: l’ho scaricato perché non me ne importa niente, d’accordo?”

“Tu sei matta! Là fuori e, se vogliamo essere pignoli, anche qui dentro, più precisamente davanti a te, è pieno di donne disposte a tutto pur di essere notate o anche solo salutate da lui. Pagheremmo in lingotti d’oro pur di vivere quello che tu hai vissuto e l’unica privilegiata che conosco che cos’ha fatto? L’ha mandato via!” sbuffò mentre strofinava il piano dei vassoi usati con una spugna logora. “Ti ha proposto di andare a casa sua, te ne rendi conto? E chissà cosa aveva in serbo per te!”

“Vuoi farla finita o devo chiederti di scambiare il tuo incarico di stasera con Lucille così sarà lei ad aiutarmi nelle pulizie mentre tu mi starai lontana per servire i tavoli?” sbottai, attirando l’attenzione di un tipo seduto al bancone, dove stava consumando il suo burrito con un’avidità disgustosa, sparpagliando chicchi di mais e fagioli tutt’intorno a sé.

Margaret sospirò e sembrò tranquillizzarsi. “Eravate tutti soli sulla spiaggia, in piena notte, nel silenzio... e forse, a dispetto della sua fama di marpione e stando a quanto tu mi hai raccontato, era anche in vena di romanticismi.”

Scossi il capo e appesi lo strofinaccio madido e macchiato sull’apposito gancio metallico per potermi dedicare ai tavoli. “Può essere, ma lo avrei respinto lo stesso. Non ho tempo per queste cose. Adesso scusami, ma bisogna che impieghi diversamente la mia ultima ora di lavoro.”

Stavo per allontanarmi da dietro il bancone con il vassoio e abbandonare Margaret ai suoi viaggi mentali quando una sagoma scura e fin troppo familiare varcò la soglia. Inizialmente non me ne preoccupai, ma quando distinsi una massa di capelli scuri e scompigliati che facevano ombra su un viso pallido, mi sentii mancare il pavimento da sotto i piedi. Mi pietrificai a pochi passi dal tavolo verso il quale mi stavo recando, con il vassoio stretto al petto e gli occhi sgranati e fissi su quell’ammasso di pelle nera e lucida. Iniziai a tremare e a sudare, e sarei corsa a nascondermi nei camerini se solo non avessi incrociato il suo sguardo freddo per una frazione di secondo. Ebbi come la sensazione di trovarmi a bordo di un aereo che stava attraversando un temporale perché mi girava la testa e mi sentivo lo stomaco sottosopra. Ero certa che si sarebbe avvicinato a me con un pretesto qualunque solo per rinfacciarmi di essere sparita dalla circolazione e averlo lasciato da solo a Los Angeles come se non mi fosse mai importato nulla della nostra amicizia, allora attesi che si accomodasse in attesa della sua prossima mossa. Lo seguii con lo sguardo mentre attraversava la sala ma, anziché prendere posto a uno dei tavoli più defilati, filò dritto nel bagno e decisi di approfittare di quel momento per nascondermi.

“Hai visto chi è appena entrato?” sussurrò Margaret come se avesse voluto mettermi in guarda del rischio che stavo per correre dal momento che era l’unica che conosceva il nome di colui che mi aveva fatto perdere il lavoro.

Appoggiai il vassoio sul bancone e la tirai a me per parlare in un orecchio. “Vado sul retro. Se il capo dovesse passare, digli di venirmi a cercare. Gli spiegherò tutto.”

Margaret annuì e riprese il lavoro da dove lo aveva interrotto. Guizzai oltre la porta riservata al personale e mi sedetti su una sedia priva di un bracciolo, rassegnata ad aspettare che Mag facesse capolino per comunicarmi che Nikki era uscito proprio come si aspetta che una violenta scossa di terremoto cessi per correre fuori da un edificio. Passai una buona mezz’ora a fissare l’orologio rumoroso appeso alla parete crepata davanti a me, contorcendo le mani sudate e battendo un piede per terra per ingannare l’attesa e per sfogare l’ansia e il timore che il capo potesse trovarmi immobile su una sedia, nullafacente e spaventata. Per mia fortuna restò segregato nel suo ufficio immerso nelle scartoffie e nei giornali d’economia e io non dovetti raccontare a nessuno quella storia assurda che avrei preferito tenere per me.

Quando Margaret entrò nel corridoio del retro per informarmi che Nikki se n’era andato, era già il momento di staccare – e, a dire la verità, non vedevo l’ora di farlo. Mi scusai con lei per aver passato mezz’ora a nascondermi anziché a lavorare e, dopo aver riposto il mio grembiule nell’armadietto, mi passai la borsa a tracolla, sciolsi i capelli che avevo tenuto raccolti in una coda alta e mi incamminai verso la fermata dell’autobus. La strada non era trafficata come durante il giorno ed ero l’unica anima viva in giro a piedi. Mi strinsi nella giacca di pelle per ripararmi dalla brezza fresca e umida che soffiava dall’oceano e accelerai il passo per arrivare prima alla fermata, dove si trovava un neon abbastanza luminoso che attirava le falene e mi faceva sentire meno esposta ai pericoli. Un’auto passò a tutta velocità sollevando la polvere e mi suonò, ma restai impassibile. Quando fu abbastanza lontana, però, il rombo del suo motore lasciò spazio a uno scalpiccio alle mie spalle. A giudicare dal rumore doveva trattarsi di un paio di camperos con dei tacchi particolarmente duri, tuttavia preferii non voltarmi per verificare la mia ipotesi e cercai di sbrigarmi a raggiungere la pensilina sfasciata e imbrattata di graffiti.

Il mio cuore perse un battito: perché all’accelerare del mio passo anche lo scalpiccio aveva accelerato?

Cercai di non considerare troppo questo particolare quando avrei fatto bene a mettermi a correre, sperando di avere abbastanza forze da raggiungere la piccola birreria che distava un centinaio di metri, nonché l’unico luogo in cui sarei potuta entrare per sfuggire dalle grinfie di un eventuale malintenzionato.

All’improvviso una mano avida mi afferrò per una spalla e vidi quattro dita assumere la forma tipica degli artigli di un rapace e conficcarsi nella pelle del mio giubbotto, esercitando abbastanza pressione da impedirmi ogni movimento. Una persona che non ero io assunse il controllo di me nel giro di poco, e un attimo dopo mi ritrovai con la schiena contro una recinzione di metallo, a faccia a faccia con un ghigno irsuto che emanava pesanti effluvi di alcol.

“Le ragazzine non dovrebbero andare in giro da sole, specialmente a quest’ora,” rantolò mentre afferrava la mia borsa per strapparmela dalle mani e aprirla. Frugò al suo interno finché non trovò il portafoglio, si impadronì dei trenta dollari di mancia che avevo racimolato durante il turno, se li cacciò in tasca e lanciò il resto sul marciapiede impolverato. Sollevò poi lo sguardo e puntò gli occhi minacciosi nei miei, sogghignando. “E stavolta posso anche dire di aver preso due piccioni con una fava.”

Uno erano i trenta dollari che avevo onestamente guadagnato e che avrei dovuto portare a casa. L’altro ero io.

“Lasciami andare!” gridai con quanta più voce avevo in gola, consapevole che nessuno avrebbe potuto sentirmi.

“Non fare la stronza e piantala di gridare,” biascicò. Il fetore del suo fiato era sempre più potente e rivoltante.

Volevo vomitare per la sensazione di sudiciume che mi sentivo addosso, ma il massimo che riuscii a fare fu rifilargli un calcio nella gamba dato che era riuscito a immobilizzarmi abbastanza da impedirmi di raggiungere qualsiasi altra parte. Provavo a dimenarmi, scalciavo con la poca forza che mi era avanzata e urlavo, ma tutto sembrava totalmente inutile.

L’autobus sul quale sarei dovuta salire per tornare a casa passò, ma nessuno dei passeggeri si preoccupò di fermare il mezzo per correre in mio aiuto: scene del genere si vedevano spesso e tutti facevano sempre finta di niente perché avevano paura di trovarsi una pistola puntata alla tempia, e non potevo certo pretendere che gli altri facessero qualcosa che io per prima non avrei mai fatto per loro. Guardai l’autobus rombare via nella notte e pensai che fosse finita: quell’individuo avrebbe portato a termine il suo sporco lavoro e io sarei rimasta da sola sul marciapiede, terrorizzata e incapace di chiedere aiuto perché mi sarei vergognata troppo di incrociare lo sguardo di chiunque – e intanto Francis mi aspettava a casa perché voleva cenare insieme a me.

Frankie... pensai prima di scoppiare in lacrime senza più un briciolo di forza per provare ancora a liberarmi. L’uomo, infastidito dai miei singhiozzi, mi rifilò uno schiaffo in faccia.

“Smettila di piangere e collabora!” minacciò, ma fu interrotto prima che riuscisse a portare avanti la frase.

Aprii gli occhi quanto bastava per distinguere le sagome di ciò che mi circondava e scorsi un paio di mani aggrappate alle sue spalle, caratterizzate da unghie corte e laccate di nero.

“Tieni giù le mani, figlio di puttana,” ringhiò una voce tenebrosa. Un attimo dopo qualcuno mi strappò di dosso quello spregevole individuo che, nel tentativo di opporre resistenza, si aggrappò a me ancora di più, perse l’equilibrio e mi spintonò, facendomi cadere sul marciapiede. Urtai uno dei pali che sosteneva la recinzione di ferro con la fronte e mi accasciai per terra, stordita dal colpo e dallo spavento. Nel frattempo potevo sentire il mio aggressore ringhiare e sbuffare come un toro mentre cercava di difendersi da colui che, non appena riuscì a spostare la rissa alla luce di un lampione, riconobbi essere Nikki, ed era esattamente come lo ricordavo. Il suo sguardo furioso che fulminò quello dell’altro e le labbra serrate mi ricordarono le diverse sere in cui aveva dovuto difendere me o uno dei suoi amici da qualche scocciatore, e per un attimo mi convinsi di essere tornata indietro di sei anni.

Mi aggrappai alla recinzione per rimettermi in piedi e notai che Nikki era più basso e meno grosso dell’uomo che mi aveva aggreditoa e che, di conseguenza, oltre a darle riusciva anche a prenderle. Sembrava che, nonostante ciò, stesse comunque riuscendo ad avere la meglio, ma non feci in tempo a terminare di elaborare il pensiero che l’altro lo aveva colpito e Nikki era caduto sul marciapiede, ritrovandosi immediatamente schiacciato sotto al peso del corpo massiccio del bestione. Mi domandai perché avesse cercato di aiutarmi e, qualunque fosse la risposta, adesso toccava a me provare ad agire in sua difesa. Feci un respiro profondo e mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa con cui avrei potuto colpire il mio aggressore dal momento che non avrei potuto fare affidamento sulla mia bassa statura. Trovai la soluzione in un albero piuttosto gracile i cui rami sporgevano oltre la recinzione: ne afferrai uno abbastanza robusto e iniziai a tirarlo finché non riuscii a strapparlo e corsi in direzione dei due litiganti per colpire il mio rivale su un fianco. Essendo stato colto di sorpresa, perse nuovamente l’equilibrio e scivolò di lato, permettendo a Nikki di saltargli addosso e vendicarsi per i colpi ricevuti in precedenza. Solo ora mi accorsi che la mia borsa giaceva sulla strada, a pochi metri da me, e dentro c’era la soluzione a tutto. Mi fiondai verso di essa, la aprii ed estrassi il flacone di lacca che portavo sempre con me per ravvivare i capelli prima di iniziare a lavorare. Lo agitai per bene e mi avvicinai a grandi passi verso quei due gatti soffianti, i quali erano avvinghiati l’uno all’altro e sembravano non avere intenzione di cedere. Rifilai un altro colpo col ramo al mio aggressore e gliene infersi degli altri finché non si ritrovò supino e con il viso non protetto dalle mani. A questo punto gli spruzzai contro abbastanza lacca da costringerlo a tenere gli occhi chiusi e contorcersi su se stesso come un lombrico. Lo avevo messo fuori gioco, ma ero paralizzata dalla paura e sarei rimasta in piedi accanto a quell’uomo se Nikki non mi avesse afferrata per le spalle.

“Via da qui,” disse austero mentre mi trascinava verso la sua auto, nella quale mi caricò con estrema facilità e agevolato dalla mia incapacità di reagire. Lo vidi fare il giro di corsa e salire al posto di giuda, dopodiché controllò che l’uomo non si fosse rialzato buttando un’occhiata fugace sullo specchietto retrovisore e partì sgommando. Sfrecciò con le mani aggrappate al volante finché non ci ritrovammo dalla parte opposta di Santa Monica e si fermò nel parcheggio di un locale vicino alla spiaggia e ora chiuso, con i cavi delle luci colorate che pendevano spenti e scuri nel buio. Nessuno dei due aveva osato parlare durante quei pochi chilometri e, appena la Corvette nera si fermò e il motore tacque, sospirammo all’unisono per lo scampato pericolo. Nikki abbassò la capote dell’auto per permettere all’aria di circolare e di ossigenarci il cervello, poi appoggiò pesantemente il capo al sedile.

“Che cazzo di rissa,” mormorò tra sé.

Non risposi e mi limitai a guardare la strada davanti a noi per non incrociare il suo sguardo, ma quando batté una mano sul volante mi voltai istintivamente, instaurando così il contatto visivo che avevo provato a evitare.

“Las Vegas, vero?” domandò con un tono troppo calmo per appartenergli. “Questa non mi sembra proprio Las Vegas.”

Iniziai a sfregarmi nervosamente le mani sudate. “Io non sono mai–”

“Oh, sì, lo so che non sei mai partita!” mi interruppe, stavolta alzando la voce, poi si passò una mano sul viso come se avesse voluto catturare le emozioni che la sua espressione lasciava trasparire per impedirmi di vederle. “Mi domando solo cosa ti sia successo di così grave da costringerti a scappare. Perché, vedi, lo so che sei scappata, altrimenti, Las Vegas o no, saresti passata da me per un ultimo saluto e avresti dato l’addio anche alle ragazze del Rainbow con cui lavoravi. Invece loro non sapevano niente di te ed erano preoccupate. Io ero preoccupato. Ed ero anche dispiaciuto, perché eravamo amici. Adesso capisci perché l’altra sera, tralasciando il fatto che fossi ubriaco marcio, ero così arrabbiato?”

Chinai il capo e lasciai ricadere le mani sul grembo. “Non sono andata via perché avevo voglia di tagliare i contatti tutti. Se credi che ce l’avessi con qualcuno, ti stai sbagliando. Tutto stava andando alla perfezione. Avevo un lavoro in uno studio fotografico, arrotondavo facendo la cameriera al Rainbow, avevo un paio di buone amiche e avevo anche te, l’unico che apprezzasse veramente i miei sforzi.”

Notai che tamburellava le dita sul volante per scacciare la tensione. “Avevi anche John. Sei andata via insieme a lui.”

“Sì, avevo John,” confermai come se ce ne fosse stato veramente bisogno. “Peccato che non piaccia a tutti avere delle responsabilità permanenti come un ragazzino di cinque anni.”

Un ragazzino di cinque anni?” ripeté Nikki, incredulo, gli occhi chiari spalancati. Si prese poi qualche secondo per fare un paio di calcoli veloci e, quando giunse alla sua conclusione, trattenne il respiro per un attimo. “Vuoi farmi capire che siete andati via perché... oh, Cristo. E come avete fatto con un figlio a carico?”

Scrollai le spalle con fare sarcastico, accompagnando il gesto con un sorriso sprezzante. “Be’, io ho perso il lavoro perché il padrone dello studio non voleva avere a che fare con una madre che avrebbe chiesto permessi per prendersi cura di suo figlio, mentre John ha continuato a svolgere il suo solito lavoro. Finché siamo stati insieme, abbiamo abitato a Santa Barbara con i suoi genitori, poi John ha deciso di lasciarmi e da quel giorno me la sono sempre cavata da sola.”

Nikki sospirò mentre continuava a guidare senza distogliere lo sguardo stanco dalla strada, poi trovò il coraggio per pormi una domanda a cui rispondevo sempre allo stesso modo.

“No, Sixx, non ho mai trovato nessun altro,” sbuffai. “In compenso c’è chi sembra interessato a me. Come sia possibile, non lo so.”

“Da quel che mi ricordo dai vecchi tempi, sei una persona estroversa con una visione della vita molto particolare e interessante,” rispose con convinzione. “Comunque dovresti concedergli una possibilità, a quel poveraccio.”

Trattenni a stento una risata sarcastica. “Non se si tratta di un tuo collega.”

Si girò verso di me con un sopracciglio sollevato, curioso di sapere quale dei tre avesse tentato la sorte con me e, specialmente, quando accidenti fosse successo e da quanto la questione stesse andando avanti. “Di chi stai parlando?”

“Del tuo cantante,” dissi tutto d’un fiato. Nikki non sembrò gradire la risposta dato che si ritrovò a inchiodare bruscamente per non tamponare un pick-up scoppiettante che viaggiava davanti a noi.

Vince?” esclamò, stavolta molto più sorpreso e preoccupato di quando gli avevo raccontato le ragioni della mia fuga improvvisa. “Quel rompicoglioni pervertito...”

“Mi ha riaccompagnata a casa la sera in cui mi hai vista in quel locale a Hollywood e mi hai fatto perdere il lavoro,” specificai con stizza. “Dopo che il mio capo mi ha licenziata perché ti avrei tirato un colpo con il vassoio se mi avessi infastidita, mi ha trovata da sola nel parcheggio e mi ha dato un passaggio, poi è passato a trovarmi altre volte con la speranza di riuscire a portarmi a casa sua. Ovviamente non ci è mai riuscito.”

Percepii il lieve sospiro di sollievo che Nikki si lasciò sfuggire. “Se posso darti un consiglio da amico, visto che una volta lo eravamo, ti direi di lasciarlo perdere. In fondo non è una cattiva persona, però è tendenzialmente egocentrico. Gli altri vengono sempre dopo, indipendentemente dal fatto che siano i suoi amici, la sua fidanzata o il primo che passa per strada.”

Lo fulminai con lo sguardo, consapevole che ciò che aveva detto potesse essere vero, ma infastidita dal fatto che, se solo avesse potuto, mi avrebbe impedito di incontrarlo un’altra volta.

“Spetta a me decidere con chi vedermi, non a te,” risposi con la voce pacata, memore delle tante volte in cui il tono leggermente alterato lo aveva fatto arrabbiare. “Ad ogni modo, non credo che abbia molte speranze.”

Nikki sbuffò e rallentò in prossimità di un bivio. “Se mi dici dove abiti, ti riaccompagno a casa.”

“A Venice,” risposi con gli occhi bassi e fissi sulle dita che stavo nervosamente contorcendo.

“Va bene,” approvò. “Tu adesso prova a non pensarci più. E se becco per strada quel tipo di prima, è la sua fine.”




N.D’.A.: Buonasera!
Dopo una lunga attesa, eccovi accontentati: Nikki e Sydney si sono finalmente incontrati – per fortuna, altrimenti la situazione non avrebbe preso una bella piega.
Lascio a voi ogni commento al riguardo. Sentitevi liberi di esprimere la vostra opinione sul capitolo, che spero sia stato di vostro gradimento!
Grazie a chi legge e a chi segue! ♥
Il capitolo seguente sarà caricato mercoledì prossimo. :)
Un bacio,

Angie Mars






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Capitolo 11
*** Vince ***


11
VINCE





Nikki mi rifilò una gomitata per niente amichevole proprio nelle costole e sghignazzò al solo pensiero di quello che voleva comunicarmi. I due quarti restanti della band lo guardavano sospettosi dall’altro lato del tavolino a cui ci eravamo appena seduti per una birra, dopo tre ore di prove decenti, probabilmente domandandosi perché si stesse comportando in quel modo dopo che aveva passato la giornata a sbuffare e a criticare anche il nostro più piccolo movimento.

“Ehi, ragazzi, devo assolutamente raccontarvi questa!” esclamò, poi incrociò le braccia sul petto e assunse la migliore delle espressioni strafottenti. “Ieri ho salvato la vita a una ragazza.”

Tommy non gli lasciò neanche il tempo di proseguire con la spiegazione e si slanciò in avanti per dare sfogo a una risata sguaiata, accompagnata da qualche goccio di birra che era volato fuori dal boccale che reggeva in una mano.

“Come cazzo hai fatto a salvare qualcuno se a momenti non riesci neanche a salvaguardare la tua stessa persona da un capitombolo giù per le scale come hai fatto stamattina?” la spontaneità di T-Bone era così genuina che riuscì a farla franca con il bassista, il quale si limitò a storcere il naso anziché rispondere per le rime come avrebbe fatto se a pronunciare quella frase fossimo stati io o Mick.

“L’ho vista mentre lavorava in un locale a Santa Monica e l’ho incrociata per strada mentre ero in macchina,” raccontò da comodamente stravaccato sulla sedia. “Poi un tipo ha cercato di aggredirla e a quel punto sono arrivato io. L’ho conciato per le feste. Adesso, però, provate un po’ a indovinare chi era la tipa?”

“Come puoi pretendere che ci ricordiamo tutte le tipe che incontriamo?” piagnucolò il suo fedele compare con un tono falsamente disperato.

A quel punto Nikki appoggiò i gomiti sulla tavola, unì i polpastrelli e sogghignò. “Avete presente la ragazza di quel locale a Hollywood con cui mi sono arrabbiato perché avevano finito le scorte di Jack?”

Il mio cuore perse un battito mentre Mick sghignazzava silenziosamente sotto i baffi sperando che non ce ne accorgessimo.

“Ha detto di aver perso il posto proprio a causa mia,” spiegò, poi aggiunse con estrema soddisfazione che avevano pareggiato i conti perché lui l’aveva aiutata e accompagnata a casa.

Intanto sentivo la rabbia ribollire dentro di me come lava vulcanica e strinsi i pugni frementi. Con tutti i posti che c’erano, con tutte le strade che spezzavano Los Angeles in migliaia di quartieri e con tutte le ragazze che poteva trovare, il caso doveva fargli incontrare proprio Sydney?

“E poi cos’è successo?” lo incalzai, cercando di mantenere un tono tranquillo e indifferente pur essendo consapevole che non ci sarei mai riuscito.

Nikki fece spallucce. “Niente. Aveva qualche livido perché l’avevano strattonata ed è caduta contro una recinzione di rete metallica. Era così terrorizzata che ho dovuto riportarla a casa. Lo so, è strano da parte mia, specialmente se consideri che un giretto me lo sarei fatto volentieri, però ormai non era più possibile.”

Quell’ultima affermazione era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso ed io non riuscii più a stare zitto. Lo fulminai con un’occhiata che, a giudicare dagli sguardi attoniti degli altri, doveva essere stata piuttosto minacciosa, poi aprii entrambe le mani sul tavolo di granito. “Suppongo ti abbia anche detto di avermi conosciuto visto che io l’ho riportata a casa quando ha perso il lavoro per colpa tua.”

Ero convinto che Nikki mi avrebbe risposto con un semplice “sì” o con un “no” o con un più probabile “fottiti”, invece si limitò a sbattere le palpebre assumendo la tipica espressione perplessa dei bambini che non capiscono un concetto troppo complesso e saltò su con una frase che spiazzò tutti e mi fece rendere conto della situazione scomoda in cui mi ero cacciato. “Perché me lo chiedi? Sei arrabbiato, per caso?”

Tommy fu il primo a riprendersi dallo shock che aveva momentaneamente colpito tutti e tamburellò i polpastrelli tra di loro con fare meschino. “Ah, quindi ti sei trovato una tipa?”

“Povera ragazza...” mormorò Mick, scuotendo il capo e facendo ondeggiare i lunghi capelli scuri e lisci che ormai gli sfioravano i fianchi.

“Ma che cazzo dite?” tuonai in mia difesa, sperando di riacquistare un po’ della mia consueta sfacciataggine che era stata messa in dubbio dalla domanda di Nikki. “Ci sono uscito solo un paio di volte.”

Un attacco di risate colpì i miei compagni band, Mars compreso, il quale aveva uno strano modo di ridere, probabilmente causato da qualche goccetto di troppo: incrociava saldamente le braccia, sporgeva il capo in avanti come un avvoltoio e rideva digrignando i denti rovinati dall’alcol, con i capelli corvini che facevano ombra sul volto pallido, ragliando una specie di “hiii-hiii-hi!”.

La situazione stava cominciando a diventare fin troppo scomoda per me, dunque mi sentii costretto ad agire per rimediare: mi alzai facendo strisciare i piedini della sedia sul pavimento, lanciai sul tavolo un tovagliolino di carta appallottolato, proprio in direzione di Nikki, poi mi cacciai la giacca di pelle su una spalla. “Andatevene a ‘fanculo. Me ne torno a casa.”

Tommy allungò un braccio verso di me come se avesse voluto acchiapparmi per fermarmi e cercò di assumere un’espressione dispiaciuta sebbene le risate glielo impedissero. “Ehi, dài, bello, stavamo solo scherzando! Lo sai come siamo, no? Non andare via, non fare il coglione permaloso.”

Varcai la soglia del locale mostrandogli il dito medio e saltai in sella alla motocicletta non per andare a casa a far niente, ma per volare a Venice per assicurarmi che Sydney stesse bene. Anche se Nikki l’aveva aiutata a scappare, non era sicuramente il tipo paziente e comprensivo che cerca di consolare una persona che ha appena vissuto una brutta esperienza. Non che io lo fossi, però per lei avrei potuto fare qualche sforzo e non potevo permettermi di far passare il fatto inosservato, rifiutandomi di andarla a trovare a casa sua. Ma scoprii presto che ero l’unico a pensarla in questo modo.

Erano ormai le dieci quando arrivai davanti alla palazzina in cui abitava e lei si affacciò alla finestra con un atteggiamento sospettoso e guardingo.

“Perché sei qui?” domandò non appena riconobbe la mia sagoma in strada.

“Mi faresti entrare?” risposi cercando di non parlare a voce troppo alta per non attirare l’attenzione di qualcuno. Sydney borbottò qualcosa tra sé e aprì; salii le scale quasi con un solo salto e mi immobilizzai davanti alla porta aperta, sulla cui soglia sostava lei, le braccia incrociate e lo sguardo assonnato tipico di chi ha lavorato tutto il giorno.

“Volevi vedermi?” chiese mentre si spostava lentamente per permettermi di entrare in casa. “Possiamo parlare solo qualche minuto perché mio figlio sta dormendo e non vorrei che si svegliasse.”

Annuii e accostai la porta alle mie spalle, determinato a dire quello che dovevo dire. “Ho saputo che ieri hai conosciuto Nikki.”

Sydney abbozzò un sorriso sarcastico. “In realtà lo conosco da prima ancora che la vostra band fosse fondata.”

Strabuzzai gli occhi. “Dici davvero, o è una battuta?”

“No,” mi smentì lei con estrema calma. “Era un mio amico dei vecchi tempi, quando ero appena arrivata a Los Angeles, ma le circostanze mi hanno costretta a lasciare Hollywood dopo poco più di un anno per trasferirmi in un distretto più adatto per crescere un bambino. È stato così che ci siamo persi di vista, finché qualche settimana fa non l’ho rivisto a quel locale per poi incontrarlo ieri.”

“Mi ha detto che ti hanno aggredita mentre tornavi a casa,” la anticipai, poi notai un lieve taglio ormai coagulato sulla sua fronte e un livido su una spalla. Le accarezzai il viso con un gesto di insolito affetto, ma lei si sottrasse alla mia mano con un movimento inaspettato.

“Se non ci fosse stato Nikki non oso immaginare cosa sarebbe potuto succedermi,” disse puntando gli occhi chiari dritti nei miei.

Deglutii a vuoto. “Questo è vero.”

“E oserei anche dire che tu sei più preoccupato perché ho parlato con lui piuttosto che per il fatto che mi abbiano fatto del male,” riprese la sua voce fredda. “Sei entrato in casa mia con una faccia del tipo ‘oh, mio Dio, ho saputo che ieri hai incontrato Nikki! Cos’avete fatto a mia insaputa?’.”

Sobbalzai, incapace di ribattere perché avevo lasciato trasparire proprio ciò che avrei voluto nascondere. “Sicuramente non mi fa piacere che tu abbia avuto a che fare con lui, però questo non significa che avrei preferito che non si intromettesse e che quel–”

“Vorrei anche vedere!” ribatté Sydney, interrompendomi. “Poi ho avuto modo di parlargli e anche di capire che in fin dei conti non mi sarei dovuta arrabbiare così tanto con lui. Ma dietro questo c’è un ragionamento piuttosto complicato.”

Mi domandai di che tipo di ragionamento si trattasse e arricciai il naso.

“Be’, almeno non è stato un dialogo aggressivo come il primo,” borbottai irritato e con le mani pesantemente cacciate nelle tasche del giubbotto di pelle che estrassi lentamente per tentare nuovamente di instaurare un lieve contatto fisico, stavolta sfiorandole un braccio. “Devi aver avuto molta paura.”

Sydney annuì perdendo tutta l’arroganza che mi aveva riservato fino a un attimo prima. Chinò il capo e approfittai di quel momento per abbracciarla e farle capire che non ero come quel tipo che Sixx aveva steso. Io le volevo bene e non avevo cattive intenzioni sebbene la mia fama dicesse l’esatto opposto – ma cosa ne sapeva lei di quello che ero veramente?

Sydney stava per spostarsi quando una voce infantile attirò l’attenzione di entrambi, portando me a sciogliere immediatamente l’abbraccio e lei a comportarsi come se fino a quel momento non avesse tenuto un atteggiamento distaccato e perfino acido.

“Chi è quello lì, mamma?” domandò la vocina assonnata e immediatamente seguita da un sonoro sbadiglio.

Sulla soglia del corridoio, con un animaletto di pezza di una specie indefinibile e intento a stropicciarsi gli occhi, c’era un bimbetto biondo in pigiama che non poteva essere nessun altro se non Francis.

Sydney si lasciò sfuggire un dolce sorriso e fece cenno al bambino di avvicinarsi. “Lui è un mio amico. Vieni qui a presentarti, così potrai chiedergli come si chiama.”

Lui annuì e si avvicinò strisciando i piedi nudi sul pavimento, si fermò davanti a me e tirò una delle frange di pelle che penzolavano dalla cintura dei miei pantaloni. “Io mi chiamo Francis. Tu come ti chiami?”

Presi delicatamente quella manina vellutata e mi abbassai alla sua altezza. “Piacere, io sono Vince.”

Francis annuì e tirò su con il naso, allora Sydney estrasse magicamente un fazzoletto dalla tasca per correre ai ripari – lo strano potere magico delle madri di far comparire dal nulla fazzoletti e cerotti nel momento del bisogno è sorprendente.

“Perché sei passato a trovarci a quest’ora? Non è ora di andare a dormire?” domandò il bambino mentre sua madre gli asciugava il naso colante.

“Ho voluto fare una sorpresa,” buttai lì come scusa; lui annuì, cercando di tenere aperti i grandi occhi azzurri.

“Qui ormai ci vogliono gli stuzzicadenti,” esclamò Sydney, alludendo alle palpebre di suo figlio che sembravano aver disimparato a restare aperte, poi lo prese in braccio e lui appoggiò la testa alla sua spalla. “Lo rimetto a dormire poi torno, ma solo per qualche minuto perché domattina devo andare al lavoro.”

Annuii e la osservai adagiare gentilmente il piccolo Francis nel letto, dopodiché si inginocchiò sulla moquette e attese che chiudesse gli occhi, accarezzandogli i capelli a spazzola. Io non sarei mai stato in grado di fare qualcosa del genere. La sola visione di me stesso seduto ai piedi della brandina di un moccioso di cinque anni, intento a guardarlo mentre si addormenta e a sospirare soddisfatto, era quasi una comica, ma ciò non significava che fosse impossibile, anche perché avevo già avuto modo di farlo.

Ero così preso dai miei pensieri che non mi accorsi neanche di quando Sydney uscì dalla stanza accostando la porta e mi si materializzò davanti.

“Forse è ora che torni a casa tua,” disse. “Domani devo lavorare. Ultimamente abbiamo parecchio da fare in negozio, persino con i ritratti e i disegni. Ai turisti piacciono molto.”

“Immagino,” esclamai, ricordando della volta in cui avevo visto il suo studio. “A casa ho ancora il mio ritratto.”

Sydney sorrise timidamente e le sue guance assunsero un colorito rosato.

“Credo che tornerò a Hollywood. Ci si rivede da queste parti. Possiamo vederci di nuovo non appena mi sarà liberato dalle registrazioni?”

Fece spallucce. “Non so se sarò sempre disponibile... è già abbastanza difficile organizzarsi tra Frankie e il lavoro.”

Aprì poi la porta come se avesse voluto invitarmi a sbrigarmi a togliere il disturbo.

La salutai con un cenno della mano e, quando feci per controllare se mi stesse sbirciando dalla finestra mentre andavo via, mi accorsi che aveva già girato i listelli delle veneziane.




N.D’.A.: Buonasera!
Mi scuso per aver saltato la pubblicazione dello scorso mercoledì, ma le cose da fare sono veramente tante e la connessione capricciosa di casa ha favorito il tutto con la sua decisione di funzionare solo quando pareva a lei. Ma rieccomi qui, insieme al povero Vince rifiutato!
Spero che la storia, almeno fino a questo punto, sia stata di vostro gradimento.
Come ho già fatto con i miei racconti precedenti, mi fermerò durante le vacanze natalizie per rivedere il resto della storia (e, visto che devo farlo, per preparare un paio di esami). Ritornerò con un capitolo dedicato a Nikki e ai suoi casini, quindi restate sintonizzati!
Detto questo, auguro a tutti buon Natale, buone vacanze e buon 2016! E, già che ci sono, auguro un buon anno da single ai Mötley (visto che divorziano definitivamente...), la cui musica li ha però resi immortali. ♥
Un grazie a tutti coloro che seguono e leggono! ♥ Attendo i vostri pareri.
Un abbraccio e Buone Feste,

Angie Mars






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Capitolo 12
*** Nikki ***


12
NIKKI





La prima cosa che notai quando varcai la soglia degli studi fu che dentro regnava un silenzio surreale interrotto solo dalla voce lontana e quasi impercettibile di un impiegato che parlava al telefono. Alzai le spalle e camminai lentamente verso la nostra sala, i tacchi dei camperos che ticchettavano sul parquet scuro senza seguire un ritmo preciso. Sulla porta che sigillava il nostro bunker campeggiava il solito foglio A4, ingiallito, stropicciato e con gli angoli anneriti dalla fiamma dell’accendino di Tommy, con una scritta sbiadita che riportava la frase “Vietato entrare!” a caratteri cubitali e sproporzionati. Abbassai la maniglia stupendomi che non fosse chiusa a chiave e, non appena aprii, un pungente odore di marijuana mi colpì in pieno viso, peggiorando la sensazione di nausea che provavo da quando mi ero alzato. Gli occhi iniziarono a bruciarmi, ma la lacrimazione non era sufficiente a offuscarmi la visuale e a impedirmi di vedere Vince. Se ne stava seduto sul divano, le gambe accavallate e lo sguardo perso nel vuoto, a fumare e bere birra in religioso silenzio. Attirato dal cigolio della porta che veniva aperta, si voltò lentamente e arricciò in naso quando si accorse che avevo appena inquinato il suo campo visivo con la mia presenza.

“Ciao, Vinnie. Cosa ci fai qui tutto solo?” domandai mentre mi avvicinavo.

Il cantante soffiò fuori il fumo bianco e denso della canna. “Avevo bisogno di un po’ di pace.”

“Ah...” mormorai, poi indicai il pacchetto di erba abbandonato sul tavolino. “Offri?”

Annuì senza guardarmi, sempre con le gambe accavallate e lo spinello sostenuto tra l’indice e il pollice con tutta la strafottenza di cui disponeva. “Certo. Serviti pure.”

Mi sedetti accanto a lui, sul cuscino sfondato del divano di finta pelle marrone, estrassi una cartina dalla tasca e mi girai una canna in fretta senza far cadere neanche un frammento di erba. Mentre le mie mani lavoravano esperte e veloci, sbirciavo il mio compare fumare e guardare fuori dalla finestra con fare piuttosto pensieroso e preoccupato. Una volta terminato il mio lavoro e riposto l’accendino nella tasca della giacca, feci un tiro e gli domandai cosa gli fosse preso.

“Hai qualcosa di strano, oggi,” dissi con voce pacata. “Per caso è successo qualcosa che devo sapere, ma che nessuno mi ha detto?”

Vince si girò di nuovo, stavolta di scatto, e mi fissò con gli occhi fuori dalle orbite. “No.”

E si tornò a voltare dall’altra parte.

“Tu non me la racconti giusta,” continuai imperterrito più per infastidirlo che per scoprire la realtà sul suo ultimo guaio.

Vince arraffò la bottiglia di birra semivuota da sopra il tavolino e ne ingollò un sorso. “Ho bisogno di silenzio per pensare.”

Inarcai le sopracciglia come se fossi stato estremamente sorpreso dalle sue parole. “Wow, Vince, tu pensi?”

“Fottiti, Sixx,” sibilò in sua difesa. “Certe cose non puoi nemmeno capirle, quindi fammi il piacere di stare zitto e di lasciarmi in pace.”

Mi grattai una tempia con la punta dell’indice per placare il fastidio che i quintali di lacca e brillantina con cui ricoprivo i capelli mi procuravano e aggrottai la fronte. Una vaga idea di cosa potesse preoccuparlo me l’ero fatta da già un bel pezzo, per cui decisi che era giunta l’ora di smettere di indugiare. “Pensi ancora a Syd, vero?”

“Syd chi?”

“La ragazza di Venice,” specificai. “Una volta eravamo amici. È una bella persona che non merita di essere usata dal primo che passa, come faceva ai tempi dei London e come, a quanto pare, ha fatto anche dopo.”

Vince appoggiò un gomito sul bracciolo della poltrona e si sostenne il capo con un palmo. “Me l’ha detto che vi conoscete e non stento a crederlo perché anche lei è un tipo abbastanza scontroso. Sto cominciando a pensare che forse è giunta l’ora che mi faccia da parte.”

Strizzai gli occhi: era strano sentirlo parlare in quella maniera ed era ancora più insolito vederlo comportarsi in quel modo passivo nei confronti di una ragazza qualunque e con la quale aveva parlato poche volte. Forse era colpa dell’erba.

“Farti da parte?” ripetei incredulo. “Da quando ti tiri indietro così? Non che voglia incoraggiarti a provarci con lei, ma vedi di rimetterti in riga perché, qualunque cosa ti ronzi per la testa, non ho intenzione di portarmi dietro uno straccio al posto di un cantante.”

Vince spense il mozzicone dentro un posacenere straripante e tornò ad appoggiare la schiena contro il divano, lentamente e silenziosamente come se avesse temuto che il debole scricchiolio della finta pelle avesse potuto destare l’attenzione di qualcuno di scomodo.

“Ieri sono andato da lei perché volevo sapere cos’era successo a Santa Monica. Non sembrava felice di vedermi, anzi, ho quasi avuto l’impressione che volesse sbattermi fuori a calci,” iniziò a raccontare. “Ha detto che l’unico motivo per cui mi sono presentato era la gelosia. Amico, crede che sia geloso perché tu l’hai difesa da quel tipo e l’hai riaccompagnata a casa!”

Una ghignata alticcia scaturì dalla sua gola.

Avevo la vaga sensazione che il problema fosse esattamente quello: era schifosamente geloso e non riusciva nemmeno ad ammetterlo a se stesso perché non era abituato a provare emozioni simili. Gli dissi di non dire stronzate, ma in realtà non lo pensavo: ero stato così scorbutico con lui solo perché morivo di invidia nei suoi confronti. Vince aveva perso la testa per una persona reale che avrebbe potuto ricambiare e dargli tutto quello che nessuno aveva mai dato a me, mentre io avevo occhi solo per la droga che mi aspettava nascosta dentro la cassetta della posta, più puntuale di una fidanzata vera.

“Se certi discorsi ti infastidiscono potresti anche evitare di ascoltare, così almeno non rompi le palle a chi li fa,” ribatté Vince.

“Oh, andiamo... non è che mi diano fastidio, semplicemente li trovo ridicoli,” inventai sul momento per giustificarmi. “Potresti avere tutte le ragazze che vuoi, invece stai qui a struggerti per una sola.”

“Non lo sto facendo per lei,” rispose, ma era ovvio che non credesse nemmeno alle sue stesse parole.

Mi fissai la punta degli stivali per qualche secondo, soffermandomi sulla pelle rovinata della scarpa destra, poi tornai a guardare il mio cantante. “Dopo cos’è successo?”

“Quando, l’altra sera?” domandò, poi alzò le spalle dopo che ebbi annuito. “Ho conosciuto il ragazzino. Suppongo ti abbia detto che ha un marmocchio di cinque anni. E se non sono cinque, saranno quattro o sei.”

Annuii di nuovo come un automa e Vince unì le mani per poi lasciarsi sfuggire un’impercettibile risata sarcastica.

“Credo che mi odi. È entrato in salotto mentre abbracciavo Sydney. Avresti dovuto vedere la faccia che ha fatto.”

Tirai su col naso, dandogli l’impressione che me ne stessi altamente fregando delle sue parole, quando in realtà ero rimasto incantato e distratto da un ricordo che era riaffiorato da un meandro polveroso del mio cervello. Rividi me stesso a sei anni, in piedi sulla soglia della cucina, scalzo perché le scarpe erano troppo fastidiose, intento a guardare mia madre parlare con il fidanzato di turno. Mi domandavo se quel tipo peloso e alto come una montagna dovesse per forza abitare insieme a noi. Era brutto e cattivo, il suo cane era un maledetto pastore tedesco che sembrava avere una predilezione per la mia ciccia morbida e, per concludere, era sempre intorno alla mia mamma – e quest’ultimo punto era così fastidioso che i precedenti passavano automaticamente in secondo piano. Tuttavia, nonostante la belva domestica si divertisse a mordermi e quel colosso del suo padrone mi mal sopportasse, mia madre continuava a permettergli di abitare in casa nostra.

“Però è meglio così,” riprese Vince, probabilmente dopo un’altra serie di osservazioni che non avevo seguito perché ero troppo impegnato a rivivere mentalmente quei momenti amari della mia infanzia. “Anche perché, pensandoci bene, tu davvero riusciresti a pensare a me che mi occupo di un ragazzino come quello?”

“No,” la risposta mi uscì spontanea dalle labbra.

“Nemmeno io,” approvò il biondo, accompagnando le parole con una ghignata nervosa. “A quanto pare si è trattato solo di una sbandata, ma è destinata a finire presto.”

Detto questo, si alzò dal divano e, una volta constatato che la bottiglia non conteneva più neanche una goccia di birra, la abbandonò sul tavolino e si avviò verso l’uscita con passo lento e stanco.

“Adesso dove vai?” chiesi ad alta voce. Vince si fermò quando aveva già abbassato la maniglia della porta e mi guardò stranito.

“A casa,” rispose con tono ovvio. “Le prove sono finite un’ora fa. O meglio, Mick e io abbiamo sistemato un paio di cose e, per quel che ne so, T-Bone potrebbe anche essere partito per le Bahamas senza dire niente a nessuno.”

“Ok...” mormorai, lasciando intuire alla perfezione che non ero passato dagli studi con un’ora di ritardo perché avevo voglia di farlo, ma perché mi ero completamente sbagliato con l’orario dopo essermi svegliato.

Vince non diede peso alla mia espressione sorpresa né sembrò arrabbiarsi per l’errore che avevo commesso, ma si limitò ad agitare il capo in segno di disapprovazione prima di sparire oltre la porta senza salutare. Mi ritrovai improvvisamente da solo nella sala di registrazione e Vince era stato così silenzioso che non mi era nemmeno sembrato che fosse stato chiuso dentro la mia stessa stanza per quasi un quarto d’ora. Il neon sul soffitto era spento e la sala era illuminata solo dalla luce che entrava dalla finestra parzialmente oscurata da una veneziana bianca, impolverata e storta. Presi in considerazione l’idea di sedermi sul divano e meditare come aveva fatto Vince fino a pochi minuti prima, ma mi ricordai che a casa mia avrei potuto trovare di meglio. Un fulmine mi abbagliò gli occhi e cominciai a non capire più niente se non che dovevo rimettermi in sella alla mia Harley e sfrecciare fino a Van Nuys prima che il pastore tedesco del fidanzato di mia madre ricominciasse ad abbaiare nella mia testa fino a farmi piangere per l’emicrania. Uggiolò durante l’intero viaggio in motocicletta, iniziò ad abbaiare appena entrai nel giardino di casa mia e prese a ululare non appena riconobbi un’automobile sportiva bianca parcheggiata dall’altra parte della strada con un tipo addormentato seduto al posto di guida. Sapevo a chi apparteneva e sapevo anche che la sua proprietaria era entrata nella mia villa perché l’ultima volta in cui ci eravamo incontrati le avevo lasciato le chiavi. Come volevasi dimostrare, la porta era rimasta accostata e la trovai seduta sul tappeto a gambe incrociate, intenta a fumare una sigaretta e a far saltare un sacchetto sul palmo della mano per sottolinearne la presenza. Gli occhi vuoti e lucidi mi fissavano, le labbra si piegarono in una smorfia che sarebbe dovuta essere un sorriso, e tese la mano verso di me con un gesto teatrale.

“Appena l’ho trovata, ho pensato che sarebbe stato gentile da parte mia portartela,” disse con la voce impastata.

“Nessuno ti ha dato il permesso di entrare in casa mia, Vanity,” la rimproverai mentre mi avvicinavo traballando e con la testa che mi scoppiava.

Lei fece spallucce. “Tesoro, ti sei dimenticato di avermi lasciato le chiavi? Hai detto che casa tua è anche casa mia e che posso passare tutte le volte che voglio.”

Annuii solo per darle ragione sebbene non riuscissi a ricordare neanche una delle parole che avevo pronunciato in quello che non era stato altro che un momento di totale delirio. Mi sedetti sul divano, di fronte a lei, e mi grattai il naso. “Che roba è? Dove l’hai presa?”

Vanity sollevò le sopracciglia nere e perfette. “Si tratta solo di un po’ di coca, non ho trovato nulla di meglio. Per quello dobbiamo aspettare domani, a meno che tu non conosca qualcuno che possa procurarcela adesso.”

Mi presi qualche secondo extra per rimuginare e passai in rassegna l’infinito elenco mentale di nomi finché non mi imbattei in quello del mio spacciatore di fiducia, l’unico disposto a svegliarsi nel pieno della notte e a guidare per un sacco di chilometri solo per accontentare una rockstar viziata. “Jason fa al caso nostro.”

Vanity spalancò gli occhi umidi e balzò in piedi con un’agilità che non credevo possedesse. “Allora prendi il fottuto telefono e chiamalo. Muoviti, cazzo!”

Sollevai l’apparecchio che si trovava sul tavolino proprio dietro il divano, lo tirai bruscamente verso di me a causa del filo che si era aggrovigliato e composi l’unico numero che sapevo a memoria.

Vanity afferrò la cornetta con entrambe le mani e iniziò a strattonarla per appropriarsene. “Metti in mezzo, voglio sentire anch’io.”

“Aspetta, non ha ancora risposto,” le ordinai sibilando non appena iniziò a sentirsi il tipico suono che accompagna l’attesa. Cercai di tenerla lontana mentre elencavo a Jason tutto quello che avrebbe dovuto portarci poi, non appena ebbi riagganciato e feci per rivolgermi a Vanity, un uggiolio attirò la mia attenzione. Ignorai automaticamente Vanity che continuava a blaterare e notai che i latrati erano accompagnati anche da un paio di zampe che grattavano contro la porta che avrei fatto meglio ad aprire prima che Whisky la rovinasse più di quando non avesse già fatto. Mi alzai dal divano e, con gli occhi puntati contro la mia meta e le braccia penzoloni lungo il corpo, mi diressi verso l’ingresso per far entrare il cane, che iniziò a girarmi intorno con la testa bassa e la coda che roteava alla massima potenza, riempiendo la casa con i suoi guaiti di gioia alternati a qualche starnuto.

“Nikki, tesoro, i cani non dovrebbero stare in casa,” puntualizzò Vanity, indicando la bestiola con l’indice sottile.

“Lui sta sempre in casa con me,” ribattei mentre tornavo verso il divano, seguito da un Whisky più contento che mai di essere finalmente in compagnia del suo padrone e anche di un altro essere umano che non aveva ancora avuto l’onore di conoscere. Peccato che Vanity si lasciò sfuggire un verso inorridito e fin troppo acuto per l’udito delicato di un pointer.

“Che schifo! Non lo sai che gli animali sono sporchi e portano malattie e infezioni?” berciò agitando sul tappeto i piedi scalzi e avvolti in sottili calze di nylon nero.

Mi limitai a sogghignare sadicamente: si trovava all’interno del salotto più lurido di tutta la contea di Los Angeles, nella casa di un tossicomane come lei stessa era, e tutto ciò a cui riusciva a pensare era che il mio cane avrebbe potuto portare qualche strana malattia.

“Smettila di strillare,” le ordinai serio.

Proprio in quel momento Whisky saltò sul divano, scodinzolante come sempre e felice di fare conoscenza con la nuova ospite. Avanzò sui cuscini di pelle affondando leggermente e annusò una mano di Vanity, costringendola a ritrarla, disgustata dal naso freddo e umido che le aveva sfiorato la pelle.

“Vai via!” gridò mentre si puliva il dorso della mano contro la gonna. “Scendi subito da qui! Il tuo posto è il pavimento.”

Whisky, spaventato dalla sua voce, non esitò a balzare giù e a nascondersi dietro le mie gambe. Per fortuna che sarebbe dovuto essere un impavido cane da caccia...

“Piantala,” la intimai impietosito dai tremori del corpo snello del cane che continuava a guardarla di sottecchi come se si fosse sentito in colpa.

“Quella bestia voleva mordermi,” sibilò lei. “E tu hai permesso a un cane di mordere la tua ragazza. Ti odio!”

Roteai gli occhi, pregando che Jason arrivasse il prima possibile, certo del fatto che un po’ di eroina le sarebbe stata d’aiuto per calmarsi, ma ero consapevole che fosse ancora troppo presto per il suo arrivo.

“Innanzitutto, non sei la mia ragazza,” misi subito in chiaro, “e in secondo luogo voglio che tu la smetta di urlare e di prendertela col mio cane. Voleva solo conoscerti.”

“Ma gli animali non si tengono in casa!” sbraitò, gli occhi fuori dalle orbite. Whisky abbaiò, particolare che la fece adirare ancora di più.

A quel punto, dato che non potevo certamente permettermi di passare un’ora in una simile situazione, la sollevai di peso e mi avvicinai alla porta.

“Vuoi buttarmi fuori?” domandò mentre cercava disperatamente di divincolarsi. “Vuoi buttare fuori me, la tua fidanzata, e preferisci tenere in casa un cane? Sei proprio uno stupido. Stupido!”

Attraversai il giardino buio incurante dei vicini che stavano certamente sbirciando la scena da dietro le tende e con le luci spente, varcai la soglia del cancello e camminai spedito fino all’automobile bianca parcheggiata a pochi metri dall’entrata. Bussai contro il finestrino per svegliare l’autista, il quale si affrettò a scendere e ad aprire la portiera.

“La riporti a casa,” ordinai dopo che ebbi scaricato Vanity sul sedile posteriore, poi mi rivolsi a lei e le puntai un dito addosso. “Hai sentito bene? Tu adesso vai a casa e ti tranquillizzi.”

“Come pensi che possa tranquillizzarmi senza di te?” piagnucolò tendendo le braccia magre verso di me. Sospirai e la ignorai prima di chiudere la portiera con un colpo e fare cenno all’autista di partire per portarla il più lontano possibile da me.




N.D’.A.: Buongiorno!
Sono tornata, come promesso. Spero che abbiate passato buone ferie/vacanze.
Vanity ha fatto il suo ingresso in scena, ma non è destinata a rimanere a lungo. Al contrario del cane, che diventerà quasi un personaggio a tutti gli effetti, lei toglierà presto il disturbo. Essendo la storia narrata da un punto di vista di Nikki (e della band in generale), Vanity 6, qui come nelle altre mie storie, ricopre un ruolo negativo. Tuttavia, ci tengo a precisare che non ho mai avuto nulla contro di lei, che allora era nella stessa situazione di Nikki, in confronto al quale non era né migliore né peggiore. Per fortuna, è riuscita a rimettersi in carreggiata per godersi il resto della sua vita, che mi risulta abbia trascorso in modo sereno nonostante la salute.
Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento! Aspetto di leggere qualche parere. :)
Anche quest’anno continuerò a pubblicare ogni mercoledì (salvo imprevisti).
Grazie per seguirmi! ♥
Alla prossima,

Angie Mars






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Capitolo 13
*** Sydney ***


13
SYDNEY





Francis infilò la manina nella confezione dei Cheerios, ne afferrò un pugno e li lasciò cadere nella tazza di latte, stupendosi del fatto che alcuni fossero rimasti attaccati alla pelle del palmo a causa del miele con cui erano ricoperti, poi mi guardò sorridendo. “Guarda, mamma, i cereali si sono incollati!”

Distolsi lo sguardo dall’auto dei vicini che si stava allontanando e risi divertita dall’espressione di Frankie, che continuava a osservare i Cheerios dispettosi che stavano cominciando a staccarsi. Attesi che anche l’ultimo fosse caduto nel latte e che impugnasse il cucchiaio come se fosse stato un badile per iniziare a mangiare prima di tornare a guardare fuori.

Erano le nove di mattina ed ero in piedi dalle sei, quando mi ero svegliata a causa di un forte rumore proveniente dalla strada. Avevo cercato di riaddormentarmi ma, non appena avevo chiuso gli occhi, avevo iniziato a rivivere la conversazione che avevo avuto con Vince, e con questo erano arrivati anche i sensi di colpa per averlo cacciato via così brutalmente, senza nemmeno fornirgli le spiegazioni che avrebbe voluto ricevere. Appoggiai pesantemente la fronte contro il vetro della finestra e sbuffai perché sapevo che il vero problema ero io, che non mi ero ancora rassegnata alla mia ultima disavventura sentimentale e che avevo il dovere di pensare a procurare una vita felice anche a Frankie oltre che a me stessa. Non gli avevo detto che non avevo neanche il coraggio di guardarlo in faccia. Mi ero vilmente nascosta dietro la falsa scusa che il giorno dopo avrei dovuto lavorare e che volevo che se ne andasse perché avevo bisogno di dormire. Mi sembrava di vederlo ancora mentre scendeva le scale a passi lenti, ciondolando e con le mani pesantemente cacciate nelle tasche del giubbotto, mentre pronunciava parole incomprensibili col capo chino. Forse avrei dovuto cercarlo e parlargli a quattr’occhi come era giusto che facessi. Quel giorno era domenica e il ristorante era chiuso, dunque avrei potuto prendere in considerazione l’idea di recarmi a Hollywood, dove si trovavano gli studi di registrazione, e sperare di incontrarlo. L’unica seccatura era che avrei dovuto costringere Francis a seguirmi nelle mie follie, ma ero certa che per una volta avrebbe potuto sopportare. Mi affrettai a prepararmi e guidai fino a Hollywood, con Frankie che cantava spensierato le canzoni dei Beatles che ascoltavamo da una cassetta registrata in casa da una mia amica. Il sole era alto nel cielo e il traffico intenso come sempre, tuttavia riuscii a raggiungere gli studi e a parcheggiare non troppo lontano.

“Dove stiamo andando?” domandò innocentemente mio figlio, con il suo zainetto in spalla e gli occhi spalancati che curiosavano dappertutto.

“Ti ricordi il mio amico dell’altro giorno?” Francis annuì, improvvisamente serio. “Stiamo andando a trovarlo. Sei contento?”

“Sì, mamma,” mentì bofonchiando, ma senza lasciare la mia mano, che strinse ancora più forte quando la signora del centralino della casa discografica lo vide e iniziò a ricoprirlo di complimenti.

“Che bel bambino! Che begli occhi che hai!” esclamò svariate volte, poi si degnò di domandarmi chi stessi cercando e, quando ottenne la risposta, si irrigidì e mi informò che avrei potuto lasciare mio figlio sotto la sua attenta compagnia mentre andavo a trovare quei tipi rumorosi del piano superiore. Feci cenno di no e mi diressi dove mi aveva indicato, trovandomi davanti a una porta chiusa sulla quale campeggiava un foglio che vietava l’accesso ai non addetti. Non mi feci intimidire e bussai un paio di volte, il fiato sospeso e gli occhi immobili sul legno davanti a me, finché la porta non si aprì appena e fece capolino un viso pallido e piuttosto seccato che avevo già avuto modo di conoscere.

Nikki mi fissava sorpreso e con lo sguardo corrucciato mentre stavo immobile davanti a lui, sulla soglia del loro studio. “Perché sei qui?”

“Sto cercando Vince,” risposi schietta.

“Non è ancora arrivato. Se mai accadrà, sarà tra un’ora o poco più,” mi informò atono, poi spostò lo sguardo su Francis e un angolo della sua bocca fece un guizzo involontario e piuttosto nervoso prima che tornasse a guardarmi. “Questo è il ragazzino? Voglio dire, è tuo figlio?”

Annuii e sfiorai Frankie sulla schiena per esortarlo a presentarsi a quello strano individuo che si era ritrovato davanti, ottenendo ciò che volevo. Tese la manina verso Nikki, nascose l’altra nella tasca dei pantaloni e abbozzò un sorriso timido che creava due graziose fossette sulle sue guance. “Ciao, mi chiamo Francis. Tu come ti chiami?”

Il bassista mi rivolse uno sguardo interrogativo e attese che annuissi prima di chinarsi all’altezza del bambino e prendere la sua piccola mano. “Ciao, piccoletto. Io mi chiamo Nikki.”

“Sei anche tu un amico della mamma?” domandò innocentemente e alludendo a Vince, ma quando l’altro confermò lui sorrise inaspettatamente. “Allora sei anche amico mio, e gli amici mi chiamano Frankie.”

Giuro di aver visto Nikki impallidire e spalancare gli occhi come se avesse appena ricevuto un oracolo catastrofico da una veggente: si alzò in piedi, si liberò il viso dai ciuffi ribelli e tentò di cambiare argomento il più velocemente possibile.

“Come ho già detto, Vince dovrebbe essere qui tra un’ora,” ripeté sfregandosi nervosamente le mani. “Ti consiglio di aspettare di sotto, o di portare il ragazzino nel parco qui dietro.”

Francis iniziò a tirarmi per una manica, sperando di convincermi a scegliere la seconda opzione facendo sorridere appena il bassista.

“Per quanto riguarda me, credo che tornerò a casa. Qui non c’è più niente da fare.”

Frankie non abbandonò la sua impresa, ma la intensificò. “Mamma, perché non gli chiedi se vuole venire con noi?”

“No, tesoro, adesso sta lavorando,” risposi, dimostrandomi severa per evitare che continuasse a chiedermelo con insistenza, ma Nikki rese vane le mie azioni e affermò l’esatto contrario.

“Mi sembra una buona idea,” approvò con un sorriso sghembo, poi si affacciò alla porta e fece un fischio per attirare l’attenzione di qualcuno che sapeva sarebbe accorso a velocità fulminea. Un attimo dopo fece la sua comparsa un tipo molto alto, magro come un chiodo e con un sorriso così radioso che sembrava illuminare l’interno buio dello studio. Mi osservò con occhio critico e, non appena incrociò lo sguardo curioso di Francis, il suo sorriso sembrò estendersi ancora di più.

“Wow! Un marmocchio!” esclamò Tommy Lee mentre rifilava una serie di gomitate amichevoli a Nikki, poi assunse un’espressione ancora più strana della precedente e tentò di instaurare un dialogo con Frankie. “Ehi, bello, qual buon vento? Lo sai che questo non è un posto per bambini, vero? Ma non importa, non importa! Anzi, dimmi come ti chiami, sono curioso!”

“Francis,” rispose intimidito da quel tizio allampanato che sembrava stravedere per lui.

“Bel nome. Io sono Tommy,” si voltò poi verso Nikki, più giulivo che mai, e indicò mio figlio. “Questo ragazzino è adorabile tanto quanto sua madre... o zia... o sorella...”

Nikki appoggiò un gomito sulla sua spalla per evitare che continuasse ad agitarsi in quel modo assurdo e ritenne necessario intervenire. “È sua madre. E, per la cronaca, se mai dovesse interessarti, è anche la tipa di cui parlava Vince. Ha detto che lo sta aspettando e nell’attesa ho deciso di andare con loro nel parco qui dietro a fare una pausa in santa pace e a respirare un po’ d’aria che non sia satura della puzza delle tue ascelle .”

Come avevo previsto io che avevo a che fare un bambino di cinque anni ventiquattro ore al giorno, quel personaggio da film insisté per accompagnarci perché anche lui voleva sgranchirsi un po’ le gambe dopo aver passato la mattina a suonare la batteria, e ovviamente nessuno riuscì a persuaderlo a restare nello studio. Tuttavia, strada facendo, mi resi conto che non era insopportabile come credevo e sembrava persino divertente.

Tommy si degnò di presentarsi solo quando uscimmo dagli studi e ci tenne a informarmi riguardo il suo ruolo nella band, che ovviamente conoscevo già da tempo, e a snocciolare lodi e complimenti nei confronti di Francis. Quando ebbe terminato di parlare, rallentò il passo per accendersi una sigaretta e rimase indietro. Frankie continuava a voltarsi per controllare dove fosse quel tipo così simpatico a cui avrebbe rivolto un sacco di domande finché non fosse giunto il momento di tornare ognuno a casa propria. Sghignazzava quando Tommy gli faceva le boccacce poi tornava a guardare avanti, camminando insaccato come se avesse voluto tendergli un agguato. Continuò in quel modo finché non presi posto su una panchina accanto a Nikki, che appoggiò i gomiti sullo schienale e sospirò come se quella fosse stata la prima volta in tutto il giorno in cui era riuscito a trovare un po’ di calma.

“Perché non vai a giocare sull’altalena, Francis?” domandai a mio figlio, certa del fatto che avrebbe preferito divertirsi sui giochi del parco piuttosto che stare seduto di fianco a me ad ascoltare quello che credevo sarebbe stato un discorso muto tra me e Nikki.

Frankie obbedì e Tommy, che ci aveva raggiunti in quel preciso istante, sembrava essersi pentito di averci seguiti fuori dagli studi.

“Sì, be’, io andrei col moccioso...” balbettò grattandosi la nuca. “Così almeno vi lascio da soli a chiacchierare, perché mi pare che l’intenzione sia proprio questa. Del resto capita quando non ci si vede da tanto tempo, giusto?” e si diresse di corsa verso l’altalena sulla quale Francis stava dondolando e rideva, probabilmente perché tutto quel dondolare aveva stimolato la sua mente e si stava raccontando un’avventura di cui era il protagonista indiscusso.

Nikki estrasse una paglia dal pacchetto e la accese con un gesto fulmineo prima di ricacciare distrattamente l’accendino in una tasca del chiodo. “Così quello sarebbe il bambino di cui parlava Vince?”

“Davvero ti ha raccontato di lui?” domandai stupita, e il bassista annuì.

“Mi ha detto di averlo conosciuto,” specificò con tono flemmatico e con lo sguardo fisso su un punto a caso davanti a sé. “Sembra un ragazzino iperattivo e sempre allegro. Un po’ come Tommy.”

Voltai istintivamente lo sguardo verso l’oggetto del discorso: Tommy sembrava divertirsi un mondo a spingere l’altalena con Frankie che gridava qualcosa riguardo gli aeroplani e le mongolfiere colorate che volano altissimi nel cielo, proprio come lui in quel momento.

“Lo è nonostante tutto,” confermai rallegrata dalla scena che si stava svolgendo a qualche metro di distanza.

Nikki sembrò rizzare le antenne e gli occhi si aprirono di più. “Nonostante cosa?”

“Nonostante viva da solo con me in un appartamento minuscolo,” risposi seccata e sperando che capisse che non avevo intenzione di raccontare ogni particolare della mia vita privata. Nikki si limitò ad arricciare il naso.

“Dov’è finito John?” saltò su.

“Se n’è andato dopo un anno,” risposi brevemente. “Non so che fine abbia fatto se non che passa a trovare suo figlio solo nel periodo intorno a Natale, ma forse è meglio così. Oppure no. Non lo so nemmeno io.”

“Dove hai detto che lavori, a parte il ristorante?”

Che cos’è, la Santa Inquisizione? pensai dopo questa sua uscita.

“Aiuto una signora che gestisce un negozietto sulla passeggiata di Venice Beach e faccio ritratti ai turisti, anche se in realtà continuo ad aspirare a lavorare nel campo della fotografia,” raccontai quasi commossa dal ricordo dei tempi in cui lo facevo veramente.

“Oh...” mormorò Nikki con lo sguardo chino sulle mani unite, poi lo sollevò all’improvviso. “Questo me lo ricordo bene. Perché hai smesso?”

Feci spallucce mentre mi accanivo su una foglia secca con la suola della scarpa destra. “Dopo che ho lasciato Hollywood, ho lavorato per un po’ in uno studio a Santa Barbara. Era un posto di merda. Poi ho perso il lavoro quando sono rimasta da sola con Frankie e non avevo nessuno che mi aiutasse e, come se non bastasse, qualche anno dopo la mia macchina fotografica ha smesso di funzionare. Sono due anni che risparmio per comprarne una nuova, ma i soldi scarseggiano e le necessità aumentano, così mi devo accontentare di un lavoro da cameriera e di un altro da pittrice, se così può essere definito.”

Per tutto il tempo in cui parlai Nikki mi aveva fissato con gli occhi spalancati come se non riuscisse a credere ai particolari principali della mia vita. Si riprese nel giro di qualche secondo e tornò a fissarsi le mani. “Anche a me piacerebbe imparare a fare fotografie, ma non ho mai tempo. Avevo anche comprato la macchina fotografica, ma ci sono troppi tasti. Poi non c’è abbastanza gusto nel scattare le foto e non poterle sviluppare da soli.”

“Per ora potresti imparare a usare l’apparecchio,” lo incoraggiai con un sorriso che sembrò contagiarlo. “Se solo potessi ti aiuterei personalmente, ma non credo che sia fattibile.”

“No, infatti,” sussurrò, poi si lasciò cadere contro lo schienale della panchina. “Un giorno imparerò.”

Dopo quella sua affermazione il silenziò calò tra noi, lasciando spazio al solo rumore dei motori delle automobili che passavano veloci sul viale alle nostre spalle e alle risate in lontananza di Francis, che si stava passando il tempo salendo e scendendo dallo scivolo di corsa.

Le palme facevano ombra su quel piccolo giardino ed erano così fitte da impedire la vista del parcheggio degli studi, ma riuscii comunque ad accorgermi dell’arrivo di Vince perché udii il rombo familiare di una motocicletta il cui motore si spense con una serie di rumori che avevo sempre associato alla sua Harley.

“Credo che sia arrivato,” mi informò Nikki, sottintendendo il nome del suo cantante. Il tono insofferente con cui pronunciò quella frase mi convinse sempre di più del fatto che non andassero d’accordo come due compagni di band avrebbero dovuto.

Annuii e mi alzai lentamente e stiracchiandomi. “Allora è giunta l’ora di riprendersi i rispettivi bambini.”

Nikki sollevò il pollice prima di portarsi entrambe le mani ai lati della bocca per chiamare il suo amico. “Ehi, piccolo T-Bone! Si torna a casa!”

Il batterista rise da seduto sull’altalena e per alzarsi dovette prima liberarsi facendo forza con le mani sul sedile perché ci era rimasto incastrato, dopodiché si avvicinò con quei suoi passi incredibilmente lunghi e seguito da un Francis saltellante.

“Woah, bello, questo ragazzino è uno spasso!” esclamò esaltato mentre Frankie lo fissava con un sorriso che si estendeva da un orecchio all’altro. “Dovrei portarlo a casa da Heather. Forse potrebbe essere la volta buona che si convince che i mocciosi sono la cosa più divertente del mondo e che non è vero che rappresentano un pericolo per l’ordine e l’incolumità della casa, come dice sempre.”

“Non ha tutti i torti, comunque,” risposi strizzandogli l’occhio mentre entravamo nel cortile della palazzina in cui si trovavano gli studi. Tommy stava per dire qualcosa quando la sua espressione allegra tramutò in una più furbesca e un ghigno sorse sul suo viso mentre guardava in direzione della porta che conduceva al parcheggio. Mi voltai e notai che Vince era ancora fuori, e la causa della faccia poco convincente del batterista era proprio lui. Salutò il bassista con uno svogliato cenno della mano e solo in seguito si accorse della mia presenza, un particolare che sembrò sollevarlo.

“Sydney?” domandò un po’ sorpreso. “Perché sei qui? Non credevo che saresti passata proprio dagli studi.”

“Infatti si tratta solo di una visita breve, anche perché, come puoi vedere, non sono da sola,” risposi indicando Francis col mento. “Hai qualche minuto?”

Vince aggrottò la fronte insospettito dal mio tono piatto e dalla totale assenza di un sorriso abbastanza ampio o di un qualsiasi altro indizio che potesse fargli credere che fossi contenta di rivederlo. “Sì, certo che ho tempo. Però è meglio entrare e andare nel nostro studio. Là non ci interromperà nessuno.”

“D’accordo,” confermai cercando di sciogliere la mia freddezza prima di seguirlo. Tenevo Francis per mano e un paio di metri dietro di noi c’era Nikki, che aveva preferito trattenersi qualche minuto in più piuttosto che accettare l’invito di Tommy ad andare a prendere una birra. Pensai che avesse intenzione di impicciarsi perché, non appena entrammo nel loro studio, si accasciò su un divanetto e accavallò le gambe come se si fosse trovato al cinema prima dell’inizio del film. Anche Vince doveva aver fatto il mio stesso pensiero dato che mi fece cenno di seguirlo nella saletta insonorizzata.

Prima di andare con lui presi Frankie in disparte e indicai una sedia vicino a una scrivania invasa da copie di Rolling Stone e altre riviste di musica. “Adesso devo parlare con Vince e ho bisogno che tu stia lì seduto per qualche minuto finché non ho finito, va bene?”
Francis si lasciò sfuggire uno sbuffo e incrociò le braccia nascondendo le mani sotto le ascelle. “Va bene. Però non metterci troppo, che mi annoio.”

“Cerca qualcosa da fare. Ti sei portato dietro uno zaino più grande di te, dentro ci sarà pur qualcosa interessante, o no?” ribattei passando una mano tra i capelli a spazzola. “Farò presto, te lo prometto.”

Frankie annuì e prese posto sulla sedia come se fosse stato a scuola, e io potei finalmente varcare la soglia della piccola stanza sotto lo sguardo indagatore di Vince, che si affrettò a chiudere la porta.




N.D’.A.: Buongiorno!
Faccio una capatina veloce qui, giusto per non aggiornare stanotte, quindi non mi dilungherò molto, ma quanto basta per dire che il prossimo capitolo sarà la “seconda parte” di questo. Più precisamente, Nikki e Frankie si conosceranno – era ora, aggiungerei!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!
Grazie a coloro che leggono e seguono! ♥
Ci si rilegge mercoledì prossimo.
Un abbraccio,

Angie Mars






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Capitolo 14
*** Nikki ***


14
NIKKI





Non appena la porta dello studio si chiuse, Francis sollevò lo sguardo seccato dalla superficie scura della scrivania, abbozzò un sorriso timido e iniziò a frugare nel suo zaino finché non rinvenne un astuccio con dentro una miriade di pastelli colorati di varie dimensioni, che dispose sul tavolo senza un criterio per scegliere più in fretta quello di cui aveva bisogno. Notai che si grattò i capelli biondi con fare pensoso, il dito sul mento, poi tornò a guardarmi. “Mi presti un foglio, per piacere?”

Sollevai le sopracciglia di fronte a quel bambino che diceva “per piacere” in quel modo caricato tipico dei suoi coetanei poi mi alzai, presi un foglio a righe da una risma su una mensola e glielo porsi.

“Grazie,” mormorò prima di impugnare una matita e iniziare a scarabocchiare qualcosa di indefinibile.

Lo osservai mentre tracciava linee, cancellava e riprovava a disegnare il soggetto con la speranza che fosse più vicino all’idea che aveva in mente, poi lo vidi scendere dalla sedia con un saltino, acchiappare foglio e matita, e infine corrermi incontro. Si fermò a un passo da me e non sembrava molto convinto di quello che stava per fare, ma ben presto riuscì a trovare il coraggio di parlarmi.

“Per caso tu sai disegnare una chitarra?”

Annuii consapevole di essere a malapena in grado di disegnare un gatto stilizzato con un ovale e una sfera con sopra due triangoli. “Certo che sì. Ti piacciono le chitarre?”

“Mi piace quella là,” rispose, puntando il dito contro il mio Thunderbird bianco risalente a qualche anno prima.

“Quello è un basso,” lo corressi, ma a quanto pare il mio tono suonò troppo brusco alle sue orecchie dato che spalancò gli occhi, mostrando disappunto e dispiacere. A quel punto provai a rimediare al danno: abbandonai il mio confortevole giaciglio sul divano e presi il mio Thunderbird e la Kramer di Mick dai rispettivi piedistalli.

“Questo è un basso,” dissi sollevando il primo, poi fu il turno dell’elettrica. “Questa, invece, è una chitarra. È più piccola, vedi?” mi accorsi che Francis annuiva alle mie affermazioni e alle domande con fare interessato. “Ha le corde più sottili, mentre quelle del basso sono grosse. Poi suonano in modo diverso.”

Gli feci cenno di avvicinarsi ed estrassi un plettro dalla tasca. Gli insegnai come tenerlo stretto e presi la sua piccola mano per avvicinarla alle corde della chitarra. Il plettro passò lentamente su di esse, producendo un suono più acuto rispetto a quello del basso, che provò un attimo dopo.

“Quale ti piace di più?” gli domandai. Francis puntò il dito contro la Kramer con estrema convinzione. “Devo disegnarti questa?”

“Non mi serve più,” rispose con la sua vocina flebile, poi si portò una mano dietro la schiena e iniziò a dondolarsi sui piedi. “Però vorrei provare a suonarla di nuovo. Posso?”

Sapevo per certo che Mick non sarebbe mai stato contento di sapere che avevo lasciato che un bambino provasse la sua chitarra, così come sapevo che non sarebbe nemmeno riuscito a tenerla in braccio a causa del peso notevole, ritrovandomi così costretto a scuotere il capo. “Purtroppo non si può.”

“Oh...” mormorò chinando la testa. “Ero curioso di provare. Il mio amico José ha una chitarra in camera sua, ma è del suo papà, che non ce la lascia mai usare. Mi piacerebbe averne una, ma la mamma ha detto che non può comprarmela.”

“Forse quando sarai più grande,” e quella era la stessa risposta che mi dava mia nonna le rare volte in cui, da bambino, le chiedevo di avere qualcosa come uno di quei trattori con i cingoli che aravano i campi dell’Idaho o gli aeroplani da turismo che sorvolavano la nostra roulotte parcheggiata in una qualche cittadina del Texas. Alla fine mi ero comprato una motocicletta.

Francis si sedette sul divano accanto a me e si lasciò sprofondare nei cuscini. “No, la mamma dice ‘forse quando avrò trovato abbastanza soldi’. Forse domani, che è il giorno del mio compleanno, la sorpresa sarà proprio una chitarra come quella che c’è da José.”

“Davvero è il tuo compleanno?” chiesi, e le mie parole sembrarono risollevarlo completamente di morale, tanto che il suo volto fu illuminato da un enorme sorriso sdentato.

“Compio sei anni così,” mi informò, fiero di aver raggiunto quel grande traguardo e mostrandomi il numero sulle dita delle mani. “Domani pomeriggio faccio anche la festa e non vedo l’ora perché la mamma preparerà un sacco di brownies.”

Mi lasciai sfuggire un sorriso di fronte a quel bambino eccitato per la sua festa. Quando ero piccolo mia madre riusciva a essere lontana anche il giorno del mio compleanno e i nonni non avevano abbastanza soldi per organizzare una festicciola, senza contare che ogni anno si presentava sempre lo stesso problema: se anche avessi avuto la possibilità di farne una con gli striscioni colorati, i cupcakes, le patatine e una torta di pandispagna farcito con la crema, nessuno dei miei compagni di classe sarebbe venuto. Ogni anno ero costretto a cambiare scuola a causa degli spostamenti dei miei nonni e dopo quattro mesi dall’inizio delle lezioni non ero riuscito a farmi un solo amico. Mi ritrovavo così a festeggiare il mio compleanno davanti alla piccola torta di mele fatta da Nona con tutto il suo amore, tranne quella volta in cui mia madre si degnò di organizzare un piccolo rinfresco a cui parteciparono solo due vicini, i nonni e il suo compagno del tempo. Poi compii sedici anni e imparai a organizzarmi le feste da solo: andavo a pescare i miei tre amici più fidati dalle rispettive camere, ci recavamo in qualche pub di Seattle dove vendevano alcolici anche ai minorenni, e facevamo baldoria fino a tardi. Per concludere, a partire dal mio ventesimo compleanno, iniziai a festeggiare per davvero: musica a tutto volume, scorte di birra e Jack, ragazze, acidi, pasticche, e poi fu il turno della cocaina. Si andava avanti finché anche l’ultimo animale da party non cedeva e crollava per terra, probabilmente centrando una chiazza di vomito o una coppietta indaffarata.

“A te piacciono i brownies?” la voce di Francis mi riportò immediatamente alla realtà.

“Certo. Piacciono a tutti,” annuì vigorosamente, già con l’acquolina in bocca al solo pensiero dei dolcetti.

“I miei amici li adorano,” esclamò. “Domani, dopo la scuola, passeranno tutti da casa mia per la festa. Ci saranno i miei compagni di classe, il mio amico José e–” si interruppe all’improvviso e ritrasse lentamente la mano sulla quale stava compitando il numero degli invitati. Il sorriso spensierato che era riuscito a incantare persino un cuore di pietra come il mio si spense e uno sbuffo impercettibile sfuggì dalle sue labbra.

“Ehi, gnomo, perché sei triste?” domandai. “Domani è il tuo compleanno, nessuno è triste il giorno del proprio compleanno.”

Fatta eccezione per me, che l’ultima volta ero rimasto a casa da solo, seduto accanto al telefono in attesa di sentirlo squillare, cosa che non accadde mai.

Francis fece ciondolare la testa nell’indecisione se riferirmi o no ciò che lo turbava e infine riuscì a trovare il coraggio per farlo.

“Vorrei tanto che ci fosse anche il mio papà,” mormorò, giocando distrattamente con le sue stesse dita piccole e paffutelle.

“Non verrà?” chiesi spontaneamente e con il suo stesso tono infantile come se avessi subìto una regressione alla tenera età di cinque anni, quando mi ritrovavo a mia volta a sperare che mio padre si ricordasse di chiamarmi per farmi gli auguri di compleanno, di Natale e di buon inizio scuola.

“La mamma mi parla sempre di lui ma non capisco perché non è mai venuto al mio compleanno,” disse piano, le braccia incrociate e il mento appoggiato al petto. Nei suoi occhi lessi lo stesso sentimento di speranza misto a tristezza che avevo visto nei miei quando avevo la sua età, e l’unica cosa che avrei voluto fare era abbracciarlo forte. Quando ero piccolo e pregavo che i miei genitori si ricordassero di me, ero solito raggomitolarmi in un angolo del letto e ci stavo senza fiatare in attesa che Nona si chiedesse dove fossi e venisse a cercarmi. Solo dopo che era riuscita a scovarmi potevo ottenere quell’abbraccio affettuoso e profumato di biscotti che desideravo. Ma Francis non era mio nipote e non potevo certamente abbracciarlo e rischiare di spaventarlo, allora mi limitai a sorridere comprensivo e a scompigliare i suoi capelli. Quel gesto gli strappò un sorriso identico a quello di Syd, mentre i grandi occhi luminosi e ridenti avevano lo stesso taglio di quelli di John, che ancora ricordavo.

“Allora, vuoi che te la disegni, questa chitarra?” esclamai con la speranza di riuscire a distoglierlo dai pensieri che un bambino della sua età non avrebbe mai dovuto avere.

“Sì, grazie,” rispose, e si accucciò contro lo schienale del divano per osservarmi attentamente mentre tentavo di copiare una chitarra dal vivo per la prima volta in tutta la mia vita e consapevole delle mie scarse abilità nel campo del disegno. Mi sforzai di attenermi il più possibile alla realtà e devo dire che il risultato, se si pensa proporzionalmente alle mie scarse doti pittoriche di allora, fu piuttosto soddisfacente.

Francis mi ringraziò e saltellò con il suo disegno stretto al petto. Proprio mentre lui esultava e io mi compiacevo perché avevo appena scoperto di non essere poi così scarso come credevo, la porta della saletta di registrazione si aprì. Vince teneva stretta la maniglia come se avesse voluto chiuderla non appena Syd fosse uscita, e ciò accadde dopo un timido “ciao, ci vediamo in giro” del cantante, il quale tornò a segregarsi nella sala.

Francis corse incontro a sua madre sventolando il foglio, tutto contento perché voleva mostrarle che cosa fosse in grado di fare quel suo strano amico con tanti capelli, ma lei si limitò a ordinargli di riprendere il suo zainetto, lo sguardo chino e perso sul pavimento consumato dello studio. Approfittai del momento in cui Francis era impegnato a rimettere i pastelli nell’astuccio per domandare a Sydney cosa fosse successo.

“Niente di grave, non ti preoccupare,” rispose mentre si aggiustava la giacca di jeans. “Il tuo amico ci è solo rimasto un po’ male e io mi sento un disastro, ma non vorrei esserlo. Credi che si possa?”

Alzai le spalle di fronte a una tale domanda e risposi di sì, sebbene fossi solito rispondere di no quando la ponevo a me stesso.

Syd riuscì finalmente a chiudere il giubbotto e si buttò su un altro argomento con la speranza di concludere e dimenticare momentaneamente quello precedente. “Frankie ha fatto il bravo mentre ero dentro?”

Annuii. “Mi ha raccontato del suo compleanno.”

Solo ora riuscì a sollevare lo sguardo dal pavimento. “È domani e ho dovuto prendere un permesso dal lavoro per poter organizzare una piccola festa. Almeno questo devo farlo.”

Avrei voluto risponderle che se credeva di non fare abbastanza per Francis si sbagliava di grosso: a momenti mia madre non era capace neanche di darmi il bacio della buonanotte, mentre lei era disposta a tutto pur di garantire a suo figlio tutto ciò che serve a un bambino – e non sto parlando di feste in cui il festeggiato si ingozza di dolciumi e annega nei regali, ma di quel po’ di calore di cui ha bisogno e che trova nel sorriso di sua madre mentre prepara i brownies e la torta, e nelle grida dei suoi amichetti che strillano e cantano allegri nel salotto. Invece fui solo capace di augurarle buon lavoro prima che uscisse dallo studio tirandosi dietro Francis, che mi salutava continuando a brandire il mio disegno con una certa fierezza finché non scomparve dietro la porta. Attesi che il rumore dei loro passi si attenuasse fino a scomparire prima di bussare alla porta della saletta, ottenendo in risposta solo un grugnito contrariato da parte di Vince.

“Vado a casa,” lo informai. “Ci vediamo martedì.”

Non disse nulla e, in virtù del detto secondo cui chi tace acconsente, feci spallucce e mi misi in viaggio verso Van Nuys. Percorsi un tratto del Santa Monica Boulevard incastrato nel fitto serpentone di automobili e l’assenza di velocità mi permise di guardarmi intorno e anche di scorgere un negozio di strumenti musicali che non ricordavo di aver mai visto prima. La curiosità mi assalì, così come mi colpì un’idea geniale. Svoltai a destra per parcheggiare, mi diressi verso l’ingresso e mi fermai sulla soglia per passare in rassegna le innumerevoli chitarre esposte: c’era un’intera parete tappezzata di elettriche e una invasa da acustiche, tutte ordinate per marca e tonalità di colore. In un angolo dell’enorme stanza, appese a un cavalletto, notai alcune chitarre classiche dai colori sgargianti. Non esitai a fare un cenno al commesso.

“Prendo quella là,” dissi, puntando il dito verso una di esse. “Quanto ti devo?”




N.D’.A.: Ciao!
Siamo finalmente entrati nel vivo della storia. Ce ne abbiamo messo di tempo, ma non potevo fare incontrare Frankie e Nikki al terzo capitolo – dovevo prima infilarci Vince, perché non sarebbe una mia storia senza Neil in mezzo ai piedi. Adesso però è il turno di Nikki. Restate collegati, perché non è detto che le cose vadano come pensiate!
Grazie a chi legge e a chi continua ad aggiungere le mie storie precedenti tra le seguite e le preferite! ♥
Un abbraccio e a mercoledì prossimo,

Angie Mars






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Capitolo 15
*** Sydney ***


15
SYDNEY





Francis era seduto sul tappeto della sala ed era piuttosto concentrato a capire come funzionasse l’aeroplanino che gli era stato regalato da un amico durante la festa che si era conclusa da una decina di minuti. Nel frattempo io ero ancora impegnata a riporre gli avanzi di patatine e salatini all’interno degli appositi recipienti e a raccogliere i brownies rimasti in un vassoio di cartone ricoperto di film dorato, con l’intenzione di mangiarne un paio l’indomani mattina per colazione.

“Mamma?” chiamò Frankie mentre rigirava il giocattolo che consisteva in una fusoliera di plastica e in un paio d’ali di polistirolo che avrebbe volato se lui avesse girato l’elica, facendo arrotolare l’elastico che ne avrebbe mantenuto il moto per pochi secondi. “Ma secondo te questo aereo vola veramente?”

“Certo che vola, Francis,” risposi dopo aver chiuso il sacchetto delle patatine. “Bisogna solo imparare a usarlo.”

Lo vidi alzarsi in piedi con uno scatto e saltellare per il salotto, probabilmente con l’idea di chiedermi di uscire per poterlo provare in giardino insieme al figlio dei vicini, ma fu interrotto dal campanello.

“Vai a rispondere, è sicuramente per te,” ordinai mentre finivo di pulire il tavolo dalle briciole. Frankie annuì e corse fino al citofono, sollevò la cornetta e rispose con un allegro “chi è?”, subito seguito da un “oh!” sbalordito.

“Mamma!” chiamò di nuovo, il ricevitore teso verso di me. “C’è quel tuo amico di ieri. Devo aprire?”

Cercai di contenere la sorpresa senza successo. “Che amico?”

“Come ‘che amico’!” esclamò con tono ovvio. “Quello che ieri parlava con te al parco. Quello che ha quell’amico strano che sale sull’altalena.”

Ora avevo indizi a sufficienza per capire che si trattava di Nikki e premetti il tasto che sbloccava il cancello. Mi domandai perché fosse passato da casa mia e la risposta arrivò quando aprii la porta e me lo ritrovai davanti con un mezzo sorriso e un pacco regalo sotto al braccio. Aggrottai la fronte, accompagnando tale reazione con un sorriso che smentiva quella che avrebbe potuto interpretare come un’espressione di fastidio. “Ciao, Nikki. Non ti aspettavo.”

“Oggi non è il compleanno di Francis?” chiese, e quando annuii indicò il pacco che teneva tra le braccia. “La festa è ancora in corso?”

“In realtà è appena finita,” lo corressi, e mi sembrò di udire un flebile e sollevato “bene” nel momento in cui si scambiò un cenno di saluto con Frankie. “Vuoi entrare?”

“Certo! Ho anche qualcosa per lui.”

Mi spostai dalla soglia per dargli il permesso di varcarla e si accomodò sul divano mentre osservavo la scena da appoggiata contro la parete. Depose il pacco giallo e blu sul tappeto e Francis gli domandò se un regalo così grande fosse veramente per lui. Nikki annuì e il bambino sorrise, mostrando quel buco proprio al centro dell’arcata dentaria superiore causato da un topino che una notte aveva barattato un incisivo con una moneta da venticinque centesimi. Portò poi le mani dove i due lembi della carta si sovrapponevano, strinse quello superiore e tirò forte, scoprendo quella che aveva tutte le caratteristiche di una comunissima custodia di plastica nera e rigida. Corrugò la fronte e comprese che, trattandosi di una custodia, c’era un’altissima probabilità che contenesse qualcosa, allora finì di strappare la carta, sganciò le chiusure di metallo e sollevò il coperchio, ritrovandosi di fronte a una chitarra classica che non saprei nemmeno dire se stupì più me o lui. Mi portai istintivamente una mano davanti alla bocca per reprimere un’esclamazione colorita: erano mesi che Frankie mi chiedeva se potevo comprargliene una visto che ce l’aveva anche José, ma io avevo sempre dovuto rimandare l’acquisto per la mancanza di soldi. E adesso un tipo sbucato dal nulla di cui non avevo avuto notizie per anni si presentava a casa nostra il giorno del compleanno di Francis con la chitarra dei suoi sogni.

“Mamma!” esclamò Frankie tutto contento e con il dito puntato contro il suo regalo di compleanno. “Guarda che bella! Guarda!”

Spostai la mano dal viso. “Di’ grazie a Nikki.”

Frankie si alzò, girò intorno alla chitarra e, anziché ringraziarlo a parole, salì sul divano e gli circondò il collo con le braccia, lasciandolo basito. Gli occhi verdi del bassista si spostarono addosso a me carichi di sorpresa per la reazione di Frankie, che non sembrava essere intenzionato a lasciarlo andare.

“Però devi imparare a suonarla, così quando sarai grande potrai averne una come quella di ieri,” si raccomandò Nikki mentre ricambiava l’abbraccio. Solo più tardi scoprii che il giorno prima, mentre ero impegnata a parlare con Vince, Nikki aveva intrattenuto Francis mostrandogli una chitarra elettrica che si trovava nello studio e che solo allora aveva saputo dell’enorme desiderio di mio figlio di possederne una.

“Non te la sei presa, vero?” domandò Nikki con un sopracciglio scuro sollevato.

“No, però continuo a non capire il perché di questo gesto,” risposi. “Non fraintendermi, non voglio che tu creda che mi sia offesa perché non lo sono, anzi, sono molto contenta, però ci siamo ritrovati da così poco tempo e–”

“Mi sembrava una buona idea,” mi interruppe lui. “Poi la faccenda della chitarra mi ha colpito. Voglio dire, quel ragazzino vuole imparare a suonarla! Fantastico, no? Di solito ai bambini di oggi interessa solo guardare cartoni idioti.”

“Certo...” mormorai con gli occhi fissi sulla punta delle scarpe, poi tornai a sollevare lo sguardo. “Non so come sdebitarmi. Il massimo che posso fare è chiederti se posso offrirti qualcosa da mangiare visto che ho la casa invasa da schifezze di ogni tipo. Sai, quelle che piacciono tanto ai bambini.”

Nikki si limitò ad alzare le spalle. “Perché no? In fondo piacciono anche agli adulti.”

Mi affrettai ad aprire nuovamente il pacchetto delle patatine e a rovesciarne una quantità sufficiente per entrambi in una scodella di vetro che appoggiai sul tavolo insieme a un paio di bicchieri di plastica rossa, qualche bibita e un piatto con una fetta di torta. Osservai con una certa curiosità Nikki mentre prendeva posto su una delle sedie e guardava il piattino di carta e le bottiglie di tè e Coca-Cola come se non ne avesse mai visti, dopodiché impugnò la forchetta e tagliò un angolo della fetta. Lo fissavo con una certa ansia perché ero curiosa di sapere se gli sarebbe piaciuta la torta che avevo fatto quella mattina. Quando sollevò il pollice capii che, proprio come avevano affermato i bambini poco prima, il mio lavoro meritava qualche lode.

“A proposito, prima che mi dimentichi... ti ho portato una cosa,” biascicò Nikki con la bocca ancora piena mentre tirava verso di sé una sportina di carta che avevo a malapena notato quando era arrivato. La appoggiò sul tavolo ed estrasse una custodia di pelle rigida dalla forma cubica della quale potevo facilmente intuire il contenuto. “Apri questo affare e dimmi se può andarti bene.”

Presi la custodia con delicatezza come se avessi potuto romperla con un semplice tocco, sganciai la fibbia che la teneva chiusa e al suo interno trovai una macchina fotografica. Non una di quelle che compra le gente perché ha bisogno di qualcosa con cui scattare le foto durante le vacanze: quella era roba da centinaia di dollari, un apparecchio professionale che non vedevo da quando il mio si era rotto e avevo dovuto chiuderlo nell’armadio perché non avevo il coraggio di buttarlo né di guardarlo.

Sollevai lo sguardo verso Nikki e spinsi verso di lui la custodia di pelle con il coperchio ancora aperto. “Sei fuori di testa. Tutto questo è imbarazzante.”

“Perché?” domandò mantenendo un’invidiabile calma mentre sorseggiava del tè dal bicchiere di plastica.

“Perché mi stai mettendo in difficoltà,” ribattei con i pugni serrati e nascosti in grembo, sotto il tavolo. “Non avrei dovuto accettare quella chitarra, ma l’ho fatto perché era il regalo per Francis. Questa però sono costretta a restituirtela.”

“Sempre per la questione che non sai come ricambiare?” azzardò con un sopracciglio sollevato.

Feci un respiro profondo prima di annuire. “Non posso far finta di nulla.”

Nikki mi rivolse un sorriso sghembo. “Se non la prendi tu resterà inutilizzata per sempre e sarebbe un peccato. L’ho comprata durante il tour perché credevo che sarebbe stato semplice imparare a usarla, ma alla fine non sono neanche capace di cambiare il rullino. Ho pensato che, visto che non imparerò mai perché ho di meglio da fare, avrei potuto regalartela.”

Francis ci stava guardando da comodamente seduto sul divano e non aspettava altro che gli dicessi che cosa stesse succedendo di così eclatante, ma mi ritrovai costretta a interrompere quel nostro breve contatto visivo per rispondere a Nikki. “Sono mesi che risparmio per comprarmi una macchina fotografica decente che mi permetta di tornare a svolgere il mio lavoro. Non puoi presentarti qui con l’oggetto dei miei sogni come se niente fosse.”

“Se non la vuoi posso sempre riportarla a casa,” azzardò con un sorriso astuto stampato in faccia, prevedendo già la mia risposta. Mi ritrovai a sbuffare e ad accettare dal momento che se lo avessi rifiutato sarei stata una stupida, e avevo appena cominciato a snocciolare ringraziamenti di ogni tipo, consapevole del fatto che non lo avrei mai ripagato abbastanza per la sua infinita gentilezza, quando il telefono squillò. Feci cenno a Francis di rispondere dato che ero certa che si trattasse di una telefonata per lui e attesi che sollevasse la cornetta per accertarmene. Solo quando esclamò un “nonno!” che riempì la sala con il suo suono argentino tornai a voltarmi verso Nikki.

“Ha appena chiamato mio padre per fargli gli auguri,” spiegai mentre Frankie raccontava ad alta voce ogni minimo particolare della sua festa. “I miei genitori abitano a Las Vegas e per loro è piuttosto difficile venire fin qui per diversi motivi, quindi non hanno spesso la possibilità di vedere il loro nipotino.”

“Capisco...” mormorò infastidito, come se l’argomento non fosse stato di suo gradimento. Poi, come se gli avessi appena detto qualcosa di sgradevole, si alzò in fretta dalla sedia e si guardò intorno alla ricerca della giacca di pelle che aveva abbandonato sul divano dopo essere entrato. La indossò e fece un cenno di saluto a Francis, il quale chiese al nonno di restare in linea per correre incontro a Nikki e tentare di abbracciarlo sebbene fosse piuttosto grosso.

Presi il ricevitore per evitare che mio padre stesse in attesa troppo a lungo e approfittai di quei pochi secondi per scambiare qualche parola con lui prima di tornare a passargli il suo nipotino. “Ho sentito che ti ha fatto la descrizione dettagliata della festa.”

“Certo!” esclamò mio padre, la cui voce, sebbene distorta dall’apparecchio, era sempre scherzosa come la ricordavo. “Mi ha fatto l’elenco dei regali e dei dolci che hai preparato. Devi esserti data molto da fare, vero?”

Sorrisi alla vista di Nikki che scompigliava i capelli di Francis. “Ho dovuto prendere un giorno di ferie solo per questo e credo che sia un valido motivo.”

“Decisamente,” approvò, poi il suo tono si fece più indagatore e basso. “A proposito, mi ha detto che è passato a trovarti un tuo nuovo amico.”

Trasalii e Nikki parve notarlo perché aggrottò la fronte come per chiedere spiegazioni.

“Sì, be’, certo... voleva portargli il regalo di compleanno, ma è già andato via.”

“Non so chi sia questo ragazzo, però stai attenta,” mi ammonì, la voce era ora dura come quando mi telefonava durante i primi mesi in cui vivevo a Los Angeles contro la sua volontà.

Sospirai e in quel preciso istante la porta si chiuse e Francis tornò vicino a me. “Non c’è bisogno che tu me lo dica, papà.”

“Ricordati che sei mia figlia e che non ho intenzione di vederti avere a che fare con un altro tipo come quel... quel...” bofonchiò qualche parola incomprensibile che doveva essere molto vicina a un insulto e infine riuscì a trovare il coraggio necessario per pronunciare quel nome che non avrebbe mai più voluto sentire per tutta la sua vita. “Un tipo come quel John. Puah!

“Mettiti pure il cuore in pace, papà,” lo rassicurai mentre Francis aveva iniziato a tirarmi un lembo della maglia perché voleva riavere la supremazia assoluta sulla cornetta. “Ora che c’è Frankie sto molto attenta a quello che faccio. I vecchi tempi sono finiti. Forse un po’ troppo presto rispetto ai miei piani, però sono finiti.”

“Lo so che sei una ragazza sveglia,” rispose con una certa fierezza. “Adesso ti passo tua madre, altrimenti finirà per staccarmi un braccio a forza di picchiettare quelle dita sulla mia povera spalla.”




N.D’.A.: Ciao a tutti!
Scusate il ritardo... spero che questo capitolo vi piaccia almeno un terzo di quanto piaccia a me. Ho fatto del mio meglio per creare un Nikki tenero e gentile che però non si allontanasse troppo dalla sua personalità del tempo.
Dato che mi si sono ribaltati tutti gli orari – in fondo si sa: semestre nuovo, vita nuova –, ho deciso di aggiornare ogni lunedì anziché ogni mercoledì.
Grazie a chi legge e a chi mi segue! ♥ Se qualcuno volesse dire la sua, io sono qui. :)
Continuate a tenere allacciate le cinture, perché dalla torre di controllo mi segnalano turbolenze!
Un bacio e a lunedì prossimo,

Angie Mars






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Capitolo 16
*** Nikki ***


16
NIKKI





Era un miracolo. Un fottuto miracolo. Un evento da segnare sul calendario – ma dato che, per qualche ragione, quel dannato calendario non era più appeso alla parete della cucina dove era sempre stato, lo appuntai sul mio diario, un quadernetto con la copertina rigida di finta pelle rovinata da graffi e disegnini sconci, e con le pagine increspate da schizzi di Jack, birra e caffè. Afferrai la penna, scrissi la data del giorno e le mie dita iniziarono a tremare quando giunse il momento di scrivere di quell’evento così importante per me. Strinsi e riaprii gli occhi diverse volte, mi raggomitolai ancora di più sulla moquette della camera come se avessi temuto che qualcuno potesse leggere ciò che stavo per scrivere, e appoggiai la punta della penna sulla carta. Esercitai quel po’ di pressione che consentì a una sottilissima e irregolare linea di inchiostro di macchiare il foglio, e appuntai quel traguardo in corsivo perché era più difficile da decifrare rispetto allo stampatello e conferiva alla pagina un aspetto più solenne ed elegante, quasi gotico.

Terzo giorno senza eroina.

Sorrisi compiaciuto. Afferrai il diario e lo sollevai per permettere a un fascio di luce di illuminare quelle quattro parole.

Sì!” esultai prima di intanare quel quadernetto sfasciato nel cassetto del comodino e correre giù per le scale. Raggiunsi il salotto col fiatone perché ultimamente le mie energie erano ancora più scarseggianti di prima – in compenso, però, la mia pelle aveva assunto un colorito più sano, gli occhi non erano più due biglie di vetro incastonate nel mio cranio, e avevo una gran voglia di correre fuori e fare la prima cosa che mi fosse venuta in mente. Raccattai così i miei camperos rossi, uno da sotto il divano e l’altro da dietro il mobile della televisione, feci cenno a Whisky di seguirmi e lasciai che trotterellasse con me fino alla macchina. Lo feci poi saltare sul sedile posteriore e lì si accucciò mentre uscivo in retromarcia dal cortile.

Piazzai la suola dello stivale sull’acceleratore e mi fiondai sulla 405 con Whisky che guardava fuori dal finestrino con la lingua penzoloni e gli occhi placidamente socchiusi, forse domandandosi per quale ragione quel pazzo del suo padrone lo stesse portando a fare un giro in macchina. Se avesse avuto la possibilità di chiedermelo, non avrei saputo rispondergli. L’importante era correre e assaporare la velocità una volta tanto che ero abbastanza cosciente da riuscire a farlo, ma questo obiettivo fallì nel momento in cui mi resi conto che, a pensarci bene, c’era un’altra cosa che avrei potuto fare. Venice non era lontana e la curiosità di sapere come se la stesse cavando Francis con la chitarra e Sydney con la macchina fotografica mi convinse a tornare a pigiare l’acceleratore e a volare dritto verso la costa. Raggiunsi la loro abitazione in poco tempo, agevolato dal traffico fitto ma scorrevole, e non feci nemmeno in tempo a parcheggiare che scorsi Syd mentre usciva dal cancelletto. Subito dietro di lei, con una sacca di tela verde in spalla, stava arrivando anche Francis che, incuriosito dalla presenza di un’automobile nera di un modello che non capitava di vedere a ogni incrocio quando il semaforo era rosso, puntò un dito verso di me. Sapevo che non mi aveva visto dato che i vetri erano oscurati, ma Syd aveva fin troppo presente la mia Corvette e gli fece cenno di non muoversi dal marciapiede mentre si avvicinava. Abbassai il finestrino e la salutai portandomi l’indice e il medio uniti all’altezza della fronte.

“Ciao, Nikki,” rispose mentre si guardava intorno con fare sospetto, probabilmente pensando che qualcuno potesse vederci e formulare chissà quali pensieri. “Sembra che farmi appostamenti sotto casa sia un’abitudine del tuo gruppo.”

“A me tutto è concesso,” ribattei ironico. “Sono passato a trovarvi. Volevo sapere se quell’aggeggio che ti ho portato la scorsa settimana funziona davvero.”

Syd mostrò la custodia scura che pendeva dal suo collo e abbozzò un sorriso. “Stavo giusto andando a provarla.”

“Quindi stai andando via?” la incalzai, riuscendo anche nell’intento di nascondere un’inspiegabile ansia che aveva iniziato a opprimermi.

“Sto andando in spiaggia con Frankie,” spiegò puntando un dito verso nord. “Più su c’è un tratto sempre deserto dove vorrei provare a scattare qualche fotografia.”

Intercorse un attimo di silenzio assoluto durante il quale lei fissò la custodia della macchina fotografica e io la guardai con la speranza che riuscisse a leggere i miei pensieri o almeno a intuirli, cosa che sembrò riuscirle piuttosto bene.

“Se vuoi puoi venire con noi, così posso provare a insegnarti a usare l’apparecchio. Se ricordo bene, avevi detto che ti sarebbe piaciuto imparare,” azzardò lei.

Mi limitai ad annuire con fare interessato. “Non è una cattiva idea, ma non credo che resterò per molto. Potrebbe arrivare qualche rompicoglioni e–”

“Di questo non devi preoccuparti,” mi interruppe. “Conosco bene quella zona e, proprio per il fatto che è difficile da raggiungere perché bisogna parcheggiare in uno spiazzo sterrato e camminare in mezzo alla vegetazione per un po’, non ci va mai nessuno.”

Fu sufficiente un sorriso per intenderci: parcheggiai in un piazzale tra due palazzine, rigorosamente sotto la chioma di una pianta per camuffare l’auto, poi salii a bordo con loro. Francis mi si avvinghiò alla vita, per poi correre incontro a Whisky, che era ancora giovane e aveva energie a sufficienza per passare il pomeriggio a correre e giocare. Durante il viaggio lo relegammo nel baule e la sua testa sbucava da dietro i sedili prima per controllare che fossi ancora all’interno della macchina, poi per sbirciare la strada dal parabrezza posteriore. Trascorremmo il viaggio con la voce sottile e gioviale di Frankie che mi faceva il resoconto dettagliato dell’ultima settimana, senza tralasciare i particolari relativi alla nuova chitarra che stava provando a strimpellare, ovviamente alla sua maniera. Continuò a parlare indisturbato finché non ci fermammo nel famigerato spiazzo sterrato, tra gli arbusti bassi e profumati e a una cinquantina di metri dalla Pacific Coast Highway.

Syd fu la prima a scendere e indossò un cappello da cow-boy marrone con dei particolari neri. “Non ci resta che camminare. Gambe in spalla, Sixx!”

La seguii in mezzo alla vegetazione con Whisky che mi camminava di fianco, annusando dappertutto rumorosamente e impazientemente. Continuò a strisciare il naso per terra finché non raggiungemmo la spiaggia, dove poté finalmente scorrazzare libero e rotolarsi sulla sabbia.

Sebbene non fosse il periodo dell’anno in cui si verificava la maggior affluenza di turisti nella zona di Los Angeles, il tempo era già perfetto per passare una giornata al mare. Il cielo terso si rifletteva sull’oceano, colorandolo di un azzurro vivo quasi accecante per i miei occhi abituati al buio della mia villa, ma il rumore ritmato delle onde che si infrangevano sulla battigia diffondevano in me un piacevole senso di quiete che mi portò a chiudere gli occhi e a ricordarmi di quando, da bambino, vivevo in Messico e correvo sulla riva insieme ai ragazzini della zona. Quello era un tempo segnato dall’innocenza in cui nessuno di quei dieci mocciosi urlanti guardava se l’altro fosse messicano o statunitense, bianco o nero. Noi correvamo e basta, qualche volta ci buttavamo in acqua e poi ci rotolavamo nella sabbia, liberi come i gabbiani che passavano in enormi stromi sopra le nostre teste nella luce arancione del tramonto.

“Mi rispondi?” squittì Francis impaziente e tirando un lembo del mio chiodo, probabilmente dopo avermi ripetuto una domanda diverse volte senza che gli avessi dato ascolto. “Mi aiuti sì o no?”

“A fare cosa?” chiesi stupidamente. Riuscii a risolvere l’enigma solo quando mi porse un secchiello di plastica gialla. Il ragazzino voleva che lo aiutassi a costruire un fottuto castello di sabbia – già, ma come accidenti era che si costruiva un castello di sabbia? Mi grattai il capo con fare pensoso e cercai di trovare le istruzioni in un angolo remoto della mia memoria, ricordandomi solo in seguito che da bambino non avevo un secchiello e costruivo i castelli ammucchiando sabbia bagnata e adornandoli con sassi e conchiglie.

“Quindi mi aiuti?” insisté Francis, tendendo il secchiello verso di me.

Abbozzai un sorriso. “E va bene.”

Ero consapevole che, in un modo o nell’altro, avrei dovuto costruire una sorta di palazzo reale dato che i bambini non si accontentano mai di un mucchio di sabbia come facevamo io e i miei amichetti messicani, che ci ritrovavamo a prendere a calci la nostra opera d’arte perché ci faceva schifo e più che un castello sembrava un termitaio. Mi rimboccai dunque le maniche, mi sedetti per terra e iniziai a riempire il secchiello di sabbia bagnata. La pareggiai per bene e, una volta colmo, capovolsi il secchiello e presi a picchiettarlo con le mani in modo che il contenuto si staccasse meglio. Quando giunse il momento di sollevarlo, Francis e io ci scambiammo uno sguardo speranzoso e solo in quel momento, quando incrociai i suoi occhi azzurri che brillavano come il cielo sopra di noi, mi resi conto che mi stavo divertendo esattamente come quando avevo la sua età e giocavo in spiaggia con gli altri bambini. Era una sensazione così bella e innocente che non sapevo se reagire ridendo o piangendo, ritrovandomi presto a sorridere con gli occhi che bruciavano terribilmente per lo sforzo ben ricompensato di trattenere qualunque sentimento fosse trapelato.

“Forza, guardiamo com’è venuto,” mormorò Frankie, trepidante e accovacciato su se stesso, in bilico sui piedi per non sedersi sulla sabbia e bagnarsi i vestiti.

Mi morsi il labbro inferiore e cominciai a sollevare cautamente il secchiello, scoprendo appena la solida base del castello. Continuai a sollevarlo e solo quando ebbi terminato l’opera mi accorsi che si era staccato un pezzo alla sommità, conferendo al nostro palazzo reale l’aspetto di una roccaforte rovinata dal tempo e dalle intemperie.

“Capita a tutti di essere fuori allenamento,” mi giustificò Syd, che aveva seguito attentamente ogni fase di costruzione.

Arricciai il naso. “L’ultimo castello l’ho costruito vent’anni fa. Credo di essere giustificato.”

“Sei più che giustificato,” rispose prima di riprendere a osservare l’ambiente che ci circondava.

Francis però non era ancora contento e, siccome doveva aver capito che non era la giornata adatta per costruire castelli, trovò un’attività alternativa nella quale coinvolgermi. Mi tirò per il polsino sbottonato della camicia finché non mi alzai e mi fece cenno di seguirlo mentre girovagava sulla riva alla ricerca di sassolini e conchiglie di varie forme e colori, che piazzava puntualmente nelle mie mani con la scusa che fossero più grandi e che riuscissero a contenerne di più delle sue, senza tralasciare l’avvertimento più severo di tutti: tienili bene e non perderli. Inutile dire che nel giro di cinque minuti iniziai ad appellarmi anche alle tasche del chiodo.

“Quando vengono a trovarmi i nonni raccogliamo sempre le conchiglie,” spiegò Francis mentre mi camminava di fianco. “A casa ne ho un vaso pieno. Anche tu da piccolo lo facevi?”

Il flash di Nona che mi seguiva mentre camminavamo per i campi alla ricerca di piante strane che adoravo raccogliere e conservare mi abbagliò e rallentai automaticamente il passo. “Certo.”

Francis si asciugò il naso sul dorso della manina. “Ti aiutava la nonna?”

“Sì,” mormorai.

“La mia vive a Las Vegas e passa a trovarmi solo una volta all’anno,” spiegò. “Anche la tua abita lontano?”

“Tanto, tanto lontano,” risposi un filo di voce, scandendo quelle parole che sembravano gravare sulle mie labbra.

Francis inclinò il capo. “Tanto... quanto?”

“Dall’altra parte del mondo.”

“Oh...” esclamò il bambino, che per lo stupore aveva smesso di camminare. “Cosa c’è dall’altra parte del mondo?”

“Non lo so. Non ci sono mai stato.”

Ma ci sarei finito presto se quella maledetta cura fai-da-te che avevo trovato non fosse riuscita a ripulirmi completamente. Tuttavia, quel giorno mi sentivo più vivo che mai, specialmente quando la piccola mano di Francis cercò di prendere la mia, forse in un involontario gesto che voleva esprimere solidarietà nei miei confronti. Osservai la differenza tra le nostre mani e mi stupii di quanto fosse minuscola e morbida la sua. Non ricordavo di aver mai tenuto per mano un bambino, fatta eccezione per quando avevo dieci anni e tenevo la mano di mia sorella per evitare che si perdesse quando andavamo a passeggio insieme.

“Andiamo?” mi esortò poi Francis, un dito puntato in direzione di sua madre, che voleva raggiungere. Gli sorrisi e lo accontentai, ma Sydney dovette aver capito le nostre intenzioni perché agitò un braccio in aria e ci chiamò.

“Vuoi imparare a usare la macchina fotografica o hai già cambiato idea?” domandò quando fui abbastanza vicino da riuscire a sentirla.

“Non mi tiro mai indietro, io,” ribattei lanciandole un’occhiata di sfida alla quale rispose con un sorriso astuto.

Sydney mi porse la macchina fotografica e mi pregò di passarmi la cinghia di stoffa intorno al collo. “Vediamo quanto sei veloce ad apprendere.”




N.D’.A.: Buongiorno!
Siamo tutti a conoscenza dell’ossessione di Nikki per la fotografia, così ho pensato di introdurre tale passione nel mio racconto e di fare in modo che la condividesse con Syd. Chissà come se la caverà con la macchina fotografica?
Come sempre, grazie a chi continua a leggere i capitoli! ♥
Ci si rilegge lunedì prossimo!
Un abbraccio e alla prossima,

Angie Mars






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Capitolo 17
*** Sydney ***


17
SYDNEY





“Credo di aver consumato degli scatti per niente,” si lamentò Nikki mentre mi restituiva la macchina fotografica.

Alzai le spalle prima di prenderla e riporla nella custodia. “Non preoccuparti, l’hai fatto per una buona causa. E poi c’è anche la remota possibilità che potresti aver fatto delle buone fotografie.”

Nikki abbozzò un sorriso sforzato col quale volle lasciarmi intendere di non essere per niente convinto delle sue capacità di fotografo, dopodiché si voltò verso l’oceano, sopra il quale il sole stava cominciando a tramontare, tingendo le nubi di arancione e disegnando lunghe sagome sulla sabbia. Poco più in là Frankie stava correndo dietro a Whisky, un vispo esemplare di pointer che Nikki si era portato dietro e a cui mio figlio si era subito affezionato. A volte capitava che uno dei due perdesse l’equilibrio e cadesse nella sabbia, allora l’altro correva in suo soccorso e finiva per essere trascinato per terra a sua volta. Finirono presto di guizzare da una parte all’altra della spiaggia, ma se Whisky aveva trovato abbastanza forze per camminare fino ai piedi del suo padrone, Francis si era seduto a qualche metro da noi e dovette aspettare qualche minuto prima di riuscire a raggiungermi per avvinghiarsi alla mia vita.

“Hai visto che bello?” saltò su Nikki con lo sguardo ancora rivolto verso l’orizzonte rosseggiante, ma lo ignorai perché ero troppo presa dalla voce stanca e flebile di Frankie che mi chiedeva quando saremmo tornati a casa, sollevato dall’idea che in macchina avrebbe potuto dormire.

“Credo sia giunta l’ora di tornare indietro,” dissi indicando Frankie con lo sguardo. “Andiamo?”

“Sì, prima che si addormenti,” approvò Nikki prima di richiamare l’attenzione di Whisky con un fischio. Il cane rizzò le orecchie scure e sospirò perché aveva capito che gli sarebbe toccato camminare dopo aver corso per tutto il pomeriggio.

A dispetto di Whisky che uggiolava, Nikki notò che Francis non aveva intenzione di ripercorrere la strada dell’andata, che ora si presentava anche in salita, e trovò una soluzione: lo sollevò da terra con estrema facilità e Frankie gli circondò il collo con le braccia, ben contento di essere riuscito a schivarsi cinque minuti di scampagnata in salita che noi adulti passammo in religioso silenzio, proprio come avevamo fatto all’andata. La quiete surreale e incredibilmente piacevole fu interrotta dalla voce di Nikki solo quando raggiungemmo lo spiazzo dove avevo parcheggiato.

“Potresti riprenderti il ragazzino?” domandò con tono basso.

“A quanto pare sei un materasso comodo,” lo canzonai, divertita dal fatto che Francis si fosse addormentato con la testa sulla sua spalla e le braccia penzoloni. Nikki non rispose alla mia battuta e si liberò dal peso cercando di fare meno rumore possibile per non svegliarle Frankie mentre lo riponeva sul sedile posteriore dell’auto.

“Tuo figlio è troppo forte,” mormorò dopo essere riemerso dalla macchina, poi mi rivolse un sorriso sghembo prima di tornare a sparire all’interno. “D’altronde dovrà pur aver ereditato questa caratteristica da qualcuno.”

Sicuramente non da John, pensai tra me.

“Credo si sia divertito molto in tua compagnia,” dissi sperando di essere riuscita a ricambiare il complimento con una frase altrettanto gradevole. “Non è solito trovarsi subito a suo agio con gli estranei, ma quando accade è tutto merito di chi è con lui. Bisogna sapergli parlare nel modo giusto.”

Nikki infilò una mano in una tasca del chiodo e, quando la estrasse, aveva un pezzetto di carta stretto tra l’indice e il pollice.

“Pensa che solitamente non sono capace di interagire con i bambini della sua età,” ribatté divertito, poi mi porse il pezzo di carta. “Qui c’è il mio numero. Nel caso volessi farti viva, saprai dove trovarmi. Se vuoi potrai farmi sapere cosa ne è stato delle fotografie.”

Presi il biglietto e lo feci scivolare nella tasca dei jeans perché quello era il posto più sicuro in cui conservarlo. Durante il breve arco di tempo in cui compii quel semplice gesto, Nikki aveva fatto in tempo a prendere posto sul sedile posteriore per offrire la spalla a Frankie, che nel frattempo aveva aperto appena gli occhi e gli aveva chiesto se potevano sedersi vicini. Aveva obbedito e Francis gli si era accoccolato addosso. Dormì per tutta la durata del viaggio di ritorno e non si accorse quando Nikki scese dall’automobile per salire sulla sua.

Nikki fece lampeggiare le luci abbaglianti in segno di saluto e intravidi la sua sagoma che agitava la mano dietro il vetro oscurato. Attesi che si immettesse sulla strada e la prima cosa che feci subito dopo aver parcheggiato fu portare il rullino a sviluppare. Da quando la macchina fotografica precedente si era rotta, la stanza adibita a camera oscura era ritornata alla sua normale funzione di sgabuzzino, costringendomi a stipare tutta l’attrezzatura necessaria in cantina, all’interno di una scatola di plastica che custodivo gelosamente sopra uno scaffale.

Trascorsi due giorni con la smania di vedere le mie prime fotografie dopo tanti mesi e mi fiondai allo studio non appena il fotografo mi telefonò per dirmi che erano pronte. Ritirai la busta prima di andare a prendere Francis a scuola e, una volta a casa e sola in camera mentre lui era impegnato a scorrazzare in giardino in compagnia di José e del cane, estrassi il plico di foto. La maggior parte di esse ritraevano una porzione di spiaggia, il tramonto sull’oceano o un particolare interessante come il fiore colorato e odoroso di un arbusto, una conchiglia, o la spuma delle onde. Le raccolsi tutte con l’intenzione di dipingerne i soggetti poi proseguii con le ultime. Le estrassi lentamente, come se prolungando la sensazione di curiosità avessero potuto apparire ancora migliori di quanto credevo che fossero, e la prima che vidi era uno scatto piuttosto mosso e sfuocato della spiaggia, così come la seconda. La terza consisteva invece nel visto tondo e dall’espressione canzonatoria di Frankie, che si era piazzato davanti all’obiettivo con la pretesa che Nikki gli scattasse una foto, ottenendo così il terzo disastro della serie. Il quarto scatto era un po’ più chiaro e meno mosso degli altri, peccato però che ritraesse solamente della sabbia e la punta degli stivali del bassista.

Separai le quattro fotografie di Nikki per farle vedere a Francis e presi le altre per osservarle con occhio più critico, rendendomi conto che non avevo affatto perso la mano come credevo. Ne stavo studiando attentamente una che avevo scattato a un pontile in lontananza quando scorsi due figure nell’angolo destro del rettangolo lucido. Avvicinai la fotografia agli occhi e riconobbi con estrema facilità che si trattava di Nikki e Frankie che camminavano lentamente lungo la riva, uno con le mani unite a coppa che reggevano un’enorme quantità di sassi e conchiglie, l’altro che controllava attentamente che ci fossero ancora tutti quelli che aveva raccolto, in punta di piedi e con un dito puntato sul bottino. Le loro movenze erano così spontanee e gli sguardi così naturali che si integravano perfettamente col resto della fotografia, tanto che, se fossero stati rimossi, la foto avrebbe perso il suo valore. Sembrava veramente lo scatto di un attimo quotidiano ed era così perfetto e ordinato che mi commosse. Mi sarebbe piaciuto che Nikki la vedesse e la tenesse. Avrei potuto chiamarlo per chiedergli quando e dove avrei potuto portargliela, ma rimandai l’impegno perché sapevo che era impegnato e non volevo disturbare. Mi aveva lasciato il suo numero scritto su un pezzo di carta e, a differenza di come avevo fatto con quello di Vince, che era finito nella pattumiera non appena ero arrivata a casa, lo conservavo con cura in un portagioielli che fungeva da porta-tutto in quanto non possedevo oggetti di valore, fatta eccezione per un braccialetto d’oro che mi era stato regalato il giorno della mia nascita. Un tempo avevo anche un anello con un minuscolo diamante che mi aveva regalato John, ma lo avevo venduto poco tempo dopo la sua partenza per racimolare qualche soldo in più.

Infilai le fotografie nella borsa per evitare di dimenticarle a casa quando l’indomani sarei tornata al negozio e scesi in giardino, dove i bambini stavano sperimentando con un vecchio skateboard rinvenuto chissà dove e il cane stava rosicchiando un bastone. Presi posto al tavolo rotondo che avevamo sistemato sotto la chioma di un oleandro e nel giro di poco mi raggiunse Nancy, con la quale non mi sedevo a chiacchierare da ormai due giorni.

“Cosa fai qui tutta sola?” domandò.

“Sto pensando,” risposi, ma ero consapevole che lo sapesse già.

Nancy si accomodò su una delle tre sedie ancora libere e sospirò non appena si sedette.

“Pensi? Tu pensi sempre. Pensi al tizio che l’altro giorno si è presentato sotto casa?” ci fu un attimo di silenzio durante il quale ci fissammo senza fiatare, poi specificò, con le braccia incrociate sul petto. “Quel tuo vecchio amico con la macchina nera.”

“Ci ha seguiti in spiaggia,” raccontai a bassa voce. “Credevo che se ne sarebbe andato nel giro di poco, invece ha iniziato a camminare insieme a Francis e a raccogliere conchiglie.”

“Raccogliere conchiglie?” ripeté Nancy, incredula e con gli occhi spalancati per la sorpresa. “Stai veramente cercando di farmi credere che quel tizio ha raccolto conchiglie con tuo figlio?”

Annuii. “Ha anche provato a scattare qualche foto.”

“Oh, è vero, mi ero quasi dimenticata di quella macchina fotografica,” borbottò lei, sempre più scettica.

“Cos’è che ti infastidisce così tanto che devi farmi una ramanzina ogni volta che Nikki si presenta sotto casa?” le domandai seccata. Non era mia intenzione essere scortese, ma quella era stata un’azione involontaria e dettata dal fastidio che provavo ogni volta in cui Nancy tentava di intromettersi negli affari miei in quel modo così invadente.

Lei sollevò le mani in segno di discolpa. “Assolutamente niente, però non mi sembra una persona affidabile.”

“Non è mai stato un angioletto, ma c’è un motivo se un tempo eravamo molto amici,” risposi tutto d’un fiato.

“Non credo che le persone restino sempre le stesse durante gli anni,” disse Nancy con un atteggiamento superiore che stava cominciando a farmi innervosire. “E sarebbe anche il caso che tu evitassi di farti beccare in giro con una persona come lui.”

Sollevai di scatto gli occhi dalle mani. “Se anche fosse?”

Nancy fece spallucce. “Non sarebbe carino passare per la fidanzata di turno di uno come lui.”

“Non sono la sua fidanzata di turno e posso dire di avere la coscienza pulita per quanto riguarda questo, però ora spiegami cos’ha lui di così cattivo e malvagio.”

Nancy rivolse lo sguardo verso i bambini che giocavano. “È uno di quegli ubriaconi irrecuperabili che tra dieci anni sarà ridotto come uno straccio, sempre ammesso che vivrà abbastanza a lungo da arrivarci.”

“Ti ricordo che se non fosse stato per Frankie io sarei da qualche parte a ridurmi peggio di lui,” sibilai in risposta. “Lo devo soltanto a Francis se ho smesso con tutta quella merda.”

Nancy sospirò e schiaccio distrattamente una foglia secca con la suola di una scarpa. “Voglio solo che tu capisca che non ti dico certe cose perché sono gelosa o stronza. Lo faccio perché ti voglio bene e non voglio che tu subisca di nuovo quello che hai passato per colpa quell’idiota di John.”

“Non ho mai avuto alcun dubbio al riguardo,” risposi senza guardarla e con un tono di voce meno acido rispetto a quello di poco prima. “Però puoi stare tranquilla. Ho parlato con lui già diverse volte e ho capito che non è una persona perfida come vorrebbe che la gente credesse. Vuole solo un po’ di compagnia.”

Nancy sospirò. “Spero sia davvero così. Se tu dovessi aver ragione, allora spero che torniate a essere buoni amici.”

“Siamo già amici e nessuno dei due intende superare questo limite,” esclamai. “Ti sembro il tipo che pretende di più?”

E con questa domanda retorica mi alzai dalla sedia di plastica, la salutai e tornai in casa. Quella breve conversazione mi aveva convinta a fare quello che avrei dovuto fare già mezz’ora prima, così chiusi il portone per evitare che la mia voce rimbombasse nelle scale e corsi in camera a prendere il pezzetto di carta che conservavo nel portagioielli. Lo stirai per bene per leggere il numero che Nikki ci aveva scritto sopra, lo digitai sulla tastiera del telefono e mi accomodai sul divano in attesa che rispondesse.




N.D’.A.: Buongiorno! :)
Oggi vado un po’ di fretta, quindi mi limito a salutarvi e a ringraziarvi. Un grazie speciale va a coloro che continuano a seguire e a ricordare il mio racconto precedente! ♥
Ci si rilegge lunedì prossimo!
Un bacio,

Angie Mars






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Capitolo 18
*** Nikki ***


18
NIKKI





Il telefono sul comodino squillò all’improvviso, svegliandomi bruscamente dal mio sonno tormentato. Balzai a sedere e, con la testa che girava in modo impressionante e con un forte senso di nausea causato dall’hamburger e birra che avevo mangiato per colazione, allungai la mano verso destra. Arraffai l’apparecchio e feci cadere un paio di lattine mentre lo tiravo verso di me, poi sollevai la cornetta e la appoggiai svogliatamente contro l’orecchio.

“Pronto? Chi è?” domandai acido.

“Ciao, Nikki, sono Syd. Ti disturbo?” rispose una voce dolce e allegra.

Spalancai gli occhi e tossicchiai lontano dal ricevitore con la speranza di riacquistare un tono meno rauco. “No, affatto!”

“Volevo dirti che ho ritirato le foto. Le tue però sono un po’ mosse.”

Qualcosa si accese dentro di me: qualcosa di buono e positivo.

Soffocai una risata sarcastica prima che esplodesse. “Lo immaginavo.”

“Però ce n’è una che ho fatto io in cui ti si vede mentre cammini con Frankie.”
Frankie.

“A me piace molto. Credo sia davvero bella,” proseguì. “Vorrei che la vedessi e vorrei mostrarti anche le altre. Quando possiamo incontrarci?”

Mi passai una mano sulla fronte per scostare la frangia che mi si infilava negli occhi facendoli bruciare, e appoggiai la schiena contro la spalliera, ancora incredulo. “Non oggi e forse nemmeno domani. Ho... ho delle cose da fare. Ho da fare agli studi e sarò molto impegnato. Dopodomani può andare bene?”

Dall’altra parte della cornetta udii uno sfrigolio simile a quello delle pagine di un’agenda che vengono sfogliate in fretta, accompagnate da qualche mormorio che doveva consistere in una serie di ragionamenti che Syd stava facendo tra sé.

“Dopodomani va bene,” esclamò quella voce allegra e troppo musicale per i miei timpani.

“Okay. Fatti trovare sul Van Nuys Boulevard verso le cinque. Appena entri sul viale dopo essere uscita dall’autostrada, dovrebbe esserci un Walmart... credo...” mi portai una mano sulla fronte e cercai di visualizzare la strada che le stavo indicando, possibilmente evitando di commettere errori fatali. “Oh, no, c’è un Target! Sai, quello rosso e bianco... con i due cerchi.”

Mentre lo dissi mimai le due forme nell’aria come se avessi potuto disegnarle.

“Sì, Sixx, lo so cos’è il Target.”

“Ecco. È sulla tua sinistra. Fermati nel parcheggio. Passerò a prenderti io.”

“D’accordo,” rispose. “Allora ci vediamo dopodomani.”

“Aspetta!” la chiamai prima che potesse riattaccare, poi strinsi il ricevitore nella mano destra. “Porti anche Francis?”

“No, resterà dai vicini,” il suo tono di voce, prima spensierato come quello di una ragazzina, era improvvisamente tornato quello di un’adulta. “Ci vediamo. Adesso devo andare.”

Riagganciò e mi lasciò con la cornetta in mano che emetteva un fastidioso tu-tu-tu-tu-tu. La riposi al suo posto e mi ritrovai a fissare il telefono grigio e sporco, con la rotella dei tasti incrostata di sostanze sconosciute, probabilmente Jack che col tempo si era caramellato, dei residui di cenere delle sigarette che Vanity si divertiva a spegnere nelle cavità sopra i numeri, e avanzi di cibo e briciole.

Cazzo.

Escludendo Vanity, era un anno che non ricevevo un invito a cena da parte di un amico che non fosse Tommy. Solitamente ero io quello che telefonava alla gente per chiedere se avevano voglia di andare a prendere una birra da qualche parte e i prescelti si potevano contare sulle dita di una mano: uno era il mio amico Robbin, lo stesso che nell’Ottantatre mi aveva ospitato dopo che avevo lasciato la mia fidanzata, offrendomi anche il suo letto, poi c’era Slash, il chitarrista di una band emergente di West Hollywood che ero certo avrebbe solcato i palchi delle arene più importanti di tutto il mondo. Eravamo soliti piazzarci sul divano, esaurire le scorte di droga e alcol e guardare MTV come se ce ne fosse veramente fregato qualcosa e, soprattutto, come se fossimo stati in grado di capire quello che dicevano i conduttori o di riconoscere il brano che stavano trasmettendo. Dopo un po’ l’ospite schiodava, mi salutava, prometteva di telefonare presto, ma toccava sempre a me fare la prima mossa quando la solitudine cominciava a diventare insopportabile.

Invece adesso Sydney mi aveva chiamato perché voleva mostrarmi quelle famose fotografie che aveva scattato in spiaggia. Non sapevo se ci fosse un secondo fine dietro il suo invito, però sembrava proprio che volesse fare qualcosa di gentile per me, come del resto faceva una volta.

Spostai lo sguardo su Whisky, che se ne stava accovacciato sulla moquette con la schiena contro il muro del camino con i mattoni a vista alla ricerca di un po’ di fresco, e feci scioccare la lingua contro il palato per chiamarlo. Il cane si limitò a sollevare un orecchio.

“Hai sentito chi ha telefonato?” gli chiesi come se avesse potuto rispondermi. Whisky arricciò il naso umido e sospirò ma, quando fece per tornare a chiudere gli occhi e riprendere a sonnecchiare, un rumore percepibile solo dal suo finissimo udito attirò la sua attenzione. Alzò la testolina nera, sollevò bene entrambe le orecchie e si lasciò sfuggire un abbaio soffocato.

“E adesso cosa c’è Torna a cuccia. Non è che puoi agitarti ogni volta che passa una macchina,” bofonchiai mentre mi rigiravo sul materasso.

Un ringhio sommesso scaturì dalla sua gola. Che Vanity fosse tornata? Ma ecco che quel suono rauco e minaccioso lasciò spazio a un uggiolio allegro, rigorosamente accompagnato dalla sua coda roteante e dall’irrequietezza delle zampe, che muoveva in modo scoordinato. Subito dopo il campanello suonò e, a giudicare dalla sequenza di squilli piuttosto insolita, capii al volo che si trattava di Tommy, che aveva adottato quel sistema per farsi riconoscere prima che mi prendesse il panico quando, da strafatto, mi spaventavo e mi presentavo alla porta col fucile per difendermi da eventuali schiere di nani messicani.

Ma stavolta ad aver suonato era il mio migliore amico, allora mi catapultai giù dal letto e scesi le scale, rischiando di inciampare nel cane, che voleva superarmi a tutti i costi. Ci riuscì solo nel momento in cui aprii la porta: sgusciò fuori per correre incontro a Tommy e fargli le feste. Lo seguì addirittura fino in casa e, non appena entrò nel salotto, iniziò a saltare e scodinzolare contemporaneamente.

“Ehi, bro, sorpresa!” esclamò Tommy con il suo consueto sorriso smagliante. “Sono passato a trovarti! Non sei contento?”

Osservai Whisky che, stanco di saltare, aveva preso a mordicchiare la punta di uno dei camperos del mio amico. “Certo, T-Bone! Capiti anche al momento giusto. Ieri ho rifornito il frigo di birra e Jack. Tu va’ sulla veranda e aspettami là mentre vado a prendere da bere.”

Mi guardò di traverso senza obbedire ai miei ordini, le sopracciglia aggrottate e un ghigno furbo. “Ho capito male o hai deciso di passare la giornata fuori da queste mura anziché stare a marcire sul divano?”

Annuii con estrema convinzione e anche con una buona dose di soddisfazione. “Sì. Da quando ho smesso con quella merda, sento il bisogno di prendere un po’ d’aria, e anche un po’ di sole.”

Tommy sorrise, fiero dei miei progressi come se fossero stati i suoi, poi si diresse sulla veranda, dove lo raggiunsi con una bottiglia di Jack Daniel’s nuova di zecca. Mi accomodai su una delle due sedie di vimini, l’aria tiepida che muoveva le foglie dei grandi alberi del mio giardino e un forte e piacevole profumo di vegetazione rigogliosa.

“Cos’hai fatto oggi?” domandai a Tommy tanto per iniziare un discorso.

Lui aprì la bottiglia e fece spallucce.

“Niente di particolarmente esilarante. Mi è toccato accompagnare mia moglie per i negozi. Mi ha fatto percorrere tutta Rodeo Drive senza alcuna pietà, però si è rifiutata di fare una passeggiata su Melrose Avenue per dare un’occhiata a quei negozi fighi che ci sono. E io che volevo anche comprare una giacca di pelle meravigliosa che avevo visto in una vetrina! Sai, una di quelle robe con frange e catenelle, rossa e nera... ma non ho potuto. Vorrà dire che ci andrò un altro giorno, tanto non scappa,” bevve un sorso di Jack e sembrò sentirsi piuttosto sollevato. “Tu, invece, cos’hai fatto?”

Appoggiai la schiena contro la paglia della sedia e accavallai le gambe. “Le solite cose. Ho dormicchiato tutto il giorno e mi sono svegliato con una forte emicrania che non è andata via finché non mi sono imbottito di ibuprofene. Ieri sera è passato Robbin e aveva dell’erba con sé. Forse è stata quella. Oh, e poi poco fa ha chiamato Syd.”

L’espressione vagamente annoiata che aveva rabbuiato il volto di Tommy lasciò immediatamente posto a una faccia da briccone. Cominciò anche a rifilarmi pugni amichevoli sulla spalla, ai quali reagivo con la stessa passività di un sacco da boxe. “Lo sapevo, io, che la tipa si sarebbe rifatta viva! Dopotutto c’era da aspettarselo, specialmente dopo che ti sei presentato a casa sua qualche giorno fa. Su, bello, racconta!”

Mi fissava con gli occhi spalancati e sorridente, il mento sostenuto dalla mano, il gomito appoggiato sul tavolino nel tentativo di imitare una ragazzina pettegola.

Roteai gli occhi e mi maledissi per aver parlato troppo. “Vuole portarmi le fotografie e dice che in una di quelle che ha scattato lei ci siamo io e Francis. Vorrebbe che la vedessi.”

“Non bisogna essere dei cazzo di geni per capire che le foto sono solo una scusa,” constatò con gli occhi luminosi per la felicità che provava per me. “Quand’è che uscite? Fammi sapere, amico, non tenermi sulle spine.”

Risposi a tutta quell’agitazione con l’imperturbabilità più assoluta. “Dopodomani. Le ho detto di farsi trovare sul Van Nuys Boulevard, poi andrò a prenderla. Devo solo cercare un posto decente in cui portarla, ma preferirei che non fosse un ristorante sfarzoso perché a lei quel genere di roba non piace. Ci vorrebbe un posto piccolo e poco frequentato, qualcosa di semplice.”

L’indice sottile di Tommy iniziò a picchiettarmi la spalla. “Come mai ti preoccupi così tanto di trovare un posto che soddisfi ogni sua minima esigenza?”

“Che razza di domanda è?” esclamai sottraendomi al suo dito martellante.

“Una domanda retorica che presuppone una risposta del tipo ‘perché la tipa mi interessa e voglio che si trovi bene, altrimenti non vorrà più uscire con me perché non la porto nei posti giusti’,” rispose tutto d’un fiato.

“Stronzate,” ribattei troppo velocemente. “Mi trovo bene con lei, ma è tutto qui. Non è una persona assillante, non ha delle fisse per delle idiozie e non è una psicolabile come Vanity.”

“Ringrazio chiunque ci sia lassù che tu abbia trovato qualcuno così. Sai, credevo che questo tipo di persone non esistessero,” disse Tommy ad alta voce e levando le mani verso il cielo, ma le abbassò immediatamente non appena un pensiero cominciò a tormentarlo. “Scusa, amico, mi viene in mente una cosa. Come la mettiamo col moccioso?”

Iniziai a giocherellare nervosamente con il tappo di alluminio verniciato della bottiglia. “Ti ho detto che devo uscire a cena con lei, non che da dopodomani mi trasferisco nel suo appartamento a Venice e divento il padre-supereroe del ragazzino.”

Tommy aggrottò le sopracciglia folte, probabilmente infastidito dal solo pensiero che, se non si fosse deciso a fare su armi, bagagli e batteria dalla villa di sua moglie e a trovare una persona adatta a lui, non sarebbe diventato il supereroe di nessun bambino, mentre io, in confronto a lui, avevo lo 0,001% di possibilità in più di farlo – e questo minimo e impercettibile vantaggio era sufficiente a fargli fumare le orecchie. Tuttavia, non era questa la mia ambizione, almeno per ora. Syd mi piaceva perché non si era fermata a quella massa di capelli, pelle borchiata e tatuaggi che mi ricopriva come l’esoscheletro di un insetto. Non potevo incolparla per essere quasi scappata la sera in cui sono saltato al collo del suo aggressore a Santa Monica dal momento che l’ultima volta mi ero comportato da stronzo, però mi sembrava che mi avesse dato la possibilità di rimediare. L’avevo colta al volo e pareva che fossi riuscito a riparare al danno che avevo fatto, e in virtù di questo avrei dovuto fare molta attenzione per evitare di rovinare tutto – e io non sono mai stato un tipo particolarmente attento.

“Nikki, ascolta un po’,” attaccò Tommy, ora con una voce più seria. “Lei sa?

Corrugai la fronte, confuso. “Cosa dovrebbe sapere?”

“No, amico, dico, lei sa che...” e lasciò la frase a metà per completarla con un gesto familiare che consisteva nel toccarsi ripetutamente un lato del naso con la punta dell’indice.

“Cosa, che sniffiamo come segugi?” domandai. Tommy annuì e mi lasciai sfuggire una risata sarcastica. “Nah, non ancora.”

“Invece lo sa,” mi contraddisse il batterista, affermando quello che in realtà pensavo già ma che non volevo dire ad alta voce. “Tutti sanno il tipo di vita che conduciamo noi rockstar e a maggior ragione lo sa una persona che ha vissuto a Hollywood da quando aveva diciassette anni, almeno stando a ciò che mi hai raccontato l’altro giorno. E poi, a meno che non abbia avuto la fortuna di appartenere a una famiglia di ricchi sfondati, fosse la cheerleader della sua scuola e frequentasse esclusivamente il salotto di casa sua, la chiesa e le feste della scuola insieme alle sue compagne di squadra, una ragazza di Hollywood ha avuto modo di provare la roba peggiore di tutta la California. Tipo le pasticche da pochi soldi che compravamo quando abitavamo ancora a North Clark Street, te le ricordi? Ma, stando alle valanghe di fatti, episodi e avvenimenti che mi hai raccontato, credo che la prima opzione sia da scartare.”

“Se lo ha fatto perché dovrebbe preoccuparsi per me?” domandai con tono indagatore.

“Perché non ci è mai cascata dentro come hai fatto tu e ha paura per te,” rispose Tommy, le braccia incrociate sul petto. “Se è quasi certa di questo, avrà anche dei sospetti che in casa tua circoli di peggio. Segui il mio consiglio: ripulisci questa cattedrale abbandonata, apri le finestre, accendi qualche lampadina che non sia un lumino elettrico, fa’ sparire tutta la tua merda, e invitala.”

Non capivo.

Tommy era convinto che Syd mi piacesse ma, se veramente fosse stato, non l’avrei mai fatta entrare in quella casa. Sarebbe stato il modo migliore per perderla e anche di bruciare l’unica occasione che mi si era presentata per ritrovare un’amica.

“A proposito, Sixx, stavolta vedi di non combinare danni, okay?” domandò T-Bone con serietà. Era impressionante il modo in cui riuscisse a leggermi nel cervello. Sembrava che avessimo quella specie di shining che hanno i gemelli di sangue.

“Sta’ tranquillo,” risposi sollevando il pollice e sorridendogli beffardo. Peccato che non ci fosse niente di divertente. Mi aveva messo in testa un pensiero assillante, troppo assillante. E io non ero capace di reggere un simile peso.




N.D’.A.: Guess who’s back in circulation???
Credevate fossi sparita, eh? Invece no, sono qui, sana e salva, nonostante gli ultimi mesi siano stati parecchio difficili. Eppure, qualche settimana fa mi è ripartita l’ispirazione e ho cominciato a buttare giù un sacco di idee per altri racconti; ho poi pensato che, prima di riprendere la pubblicazione di questa storia, avrei dovuto riordinare le altre dato che c’è ancora qualcuno che le legge.
Dunque sì, rieccomi qua e riecco Nikki, Syd e Frankie!
Non so quanto sarò puntuale dato che la sessione estiva mi sta per colpire in pieno, ma cercherò di fare del mio meglio, senza farmi prendere da troppi dubbi.
Per oggi è tutto. Grazie a chi segue e legge questo racconto e quelli precedenti! ♥
Ci si rilegge la prossima settimana!
Un abbraccio e tante, tantissime scuse,

Angie Mars






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Capitolo 19
*** Sydney ***


19
SYDNEY





I due cerchi concentrici dell’insegna luminosa del Target emettevano una fioca luce rosata come quella dei lampioni che si erano appena accesi nel parcheggio. Mi guardavo intorno in attesa di scorgere la Corvette nera che stava venendo a prendermi e tenevo una mano appoggiata sulla cartellina in carta cuoio color ocra che conteneva le fotografie. Sorrisi quando ricordai che dentro c’era anche un disegno che avevo fatto nei giorni precedenti. Avevo voluto copiare l’immagine di Nikki e Frankie per ingrandirla e renderla un po’ più personale. L’avevo colorata con gli acquerelli perché ricordavo che a Sixx piacevano i disegni dipinti con quella tecnica, in particolar modo quelli che era abituato a vedere nel mio vecchio appartamento.

Erano già le cinque e mezza e di lui non c’era ancora traccia. Il sole stava tramontando sulle colline in fondo al viale, il traffico si stava intensificando, e presto la gente che era uscita dal lavoro avrebbe riempito il parcheggio per andare a fare la spesa. Pensai che, forse, nonostante mi fossi fermata nel punto più appartato e la sua auto avesse i finestrini oscurati, darmi appuntamento in un posto del genere non era stata una grande idea.

Stavo per andare a cercare una cabina telefonica e chiamarlo quando intravidi un’automobile sportiva che entrava nel parcheggio, risparmiando i consueti rumori che l’autista può far fare al motore per annunciare il suo arrivo al mondo intero. Non c’era alcun dubbio: Nikki si era finalmente degnato di arrivare e mi sentivo stranamente contenta.

La Corvette si aggirò per l’enorme piazzale finché non riconobbe la mia auto ammaccata degli anni Settanta, accelerò appena, si fermò di fianco a me, e il finestrino si abbassò scoprendo un volto come il sipario di un teatro.

“Salta su,” mi esortò Nikki con un sorriso. “Abbiamo un po’ di strada da fare.”

Scesi dalla macchina, salii a bordo della sua con una velocità che non riuscii nemmeno a spiegarmi e, quando mi trovai finalmente al posto del passeggero, nascosta dai vetri oscurati e con il rumore del motore in sottofondo, ricambiai il sorriso. “Dove andiamo?”

“Nel mio ristorante preferito,” rispose mentre guardava il viale a quattro corsie davanti a sé, poi si voltò verso di me. “Se ricordo bene, ti piace molto il cibo cinese.”

“Ricordi bene,” confermai compiaciuta, poi sollevai la cartellina. “Ti ho anche portato le foto.”

“Francis come sta?” chiese ignorando ciò che avevo appena detto. Ma se da un lato la sua domanda mi irritò perché per una frazione di secondo mi aveva fatto pensare che non gli interessasse nulla delle foto, dall’altro mi intenerì perché si era preoccupato per Frankie.

“Sta bene. Ha detto di salutarti e oggi è tornato da scuola con una cosa per te.” raccontai divertita.

Nikki si limitò a sorridere, stavolta in modo meno evidente di prima, poi continuò a guidare in silenzio lungo la freeway infinita. Eravamo già nella contea di Ventura quando svoltò a destra per imboccare un’uscita. Sfrecciammo lungo il viale principale, una strada a più corsie con un largo spartitraffico in cui erano stati piantati arbusti scuri, costeggiata da edifici nuovi nei cui giardini crescevano palme e oleandri rigogliosi. Tutto era immerso nel buio e nella vegetazione selvaggia della California, raramente interrotto da qualche luce al neon.

“Ci siamo quasi,” mi rassicurò. “Devo solo guidare per delle strade meno trafficate, ma non ci perderemo.”

“Bel posto, Westlake, no?”

“Forse un indomani mi trasferirò qui,” bofonchiò. “Van Nuys sta diventando troppo noiosa.”

“Venice e Westlake sono lontani.”

Voleva essere una semplice constatazione, ma mi resi conto che dietro si nascondeva ben altro e forse non ero stata neanche l’unica ad aver percepito l’ambiguità nella mia stessa frase.

“Dipende,” obiettò Nikki alzando le spalle.

“Da cosa?”

“Da tante cose. Siamo noi a determinare le distanze, non lo spazio. Se ci tieni, io e te siamo vicini di casa, altrimenti abito sul cucuzzolo irraggiungibile di una montagna,” rispose mentre girava il volante per svoltare. “Comunque, parlando di cose importanti, siamo arrivati.”

Riconoscere il ristorante non fu affatto difficile dal momento che si presentava come un basso edificio dall’architettura orientale e con quattro lanterne di carta rossa con dei caratteri cinesi dorati che pendevano sotto la tettoia, le frange sotto di esse che si muovevano dolcemente sospinte dal vento. A rovinare la calma di quel posto fu un gruppo ben nutrito di persone accalcate davanti all’ingresso del bar accanto, impegnate a ridere e a sbraitare, probabilmente dopo un lungo periodo trascorso senza vedersi.

“Odio la confusione,” mormorò Nikki contrariato prima di sgusciare sul parcheggio sul retro. “Per fortuna adesso entriamo nel ristorante. Non esiste posto più tranquillo di quello.”

Aprii la portiera e lo raggiunsi dall’altra parte dell’auto. “Credevo ti piacessero i locali affollati.”

Scosse il capo e mi fece cenno di seguirlo. “Non da quando non posso fare un solo passo senza che la gente mi sommerga.”

Giusto.

Attraversammo il parcheggio buio con passo svelto e camminando rasi alla siepe che delimitava l’area, certi che avremmo varcato la soglia del ristorante nel giro di poco e indisturbati. Nikki stava per dire qualcosa, probabilmente riguardo una scritta in cinese che aveva indicato, ma una voce squillante attirò la nostra attenzione e ci fece raggelare il sangue nelle vene.

“Guarda, c’è Nikki Sixx!” berciò una ragazzina sui diciotto anni mentre strattonava una sua coetanea. L’altra impiegò qualche secondo prima di realizzare e, appena lo vide, si portò le mani tra i capelli rossi e prese a gridare qualcosa di incomprensibile.

“Merda,” sussurrò Nikki quando il crocchio di persone ammassate davanti all’ingresso dell’altro locale si voltò all’unisono verso di noi, facendomi sentire come se fossi in piedi sul palcoscenico con un faro puntato addosso durante un soliloquio.

Una delle due ragazzine, quella che aveva urlato per prima, si lanciò in una corsa traballante per l’emozione verso il suo eroe, mentre l’altra stava ancora cercando di riprendersi e il gruppo di persone aveva iniziato a muoversi in massa per fare lo stesso. Ero paralizzata e, più la gente si avvicinava, più la sensazione di avere i piedi ancorati all’asfalto aumentava.

Dal branco scalpitante emerse un corpo scuro che avrei potuto riconoscere da un miglio di distanza. Emise una luce veloce, un flash che per una brevissima porzione di tempo rischiarò la scena rendendo evidenti i volti sorridenti delle persone come un lampo. Feci appena in tempo a nascondere il viso dietro la cartellina che conteneva le foto e i disegni e a voltarmi dall’altra parte prima che il proprietario della macchina fotografica premesse il pulsante per scattare.

La mano di Nikki mi afferrò per un braccio e riuscì a scansarmi. “Dobbiamo andarcene.”

“Subito, se non ti dispiace!” esclamai senza abbandonare il mio nascondiglio.

Lo sentii sbuffare mentre faceva dietrofront, portandomi con sé e guidandomi come se non fossi stata in grado di camminare da sola. Non considerò minimamente quella ventina di persone che ci avevano assaliti, nemmeno quando un paio di loro cominciarono a domandare chi fossi e perché ci trovassimo da quelle parti. Nikki accelerò il passo, si addentrò nel parcheggio e mi scortò fino allo sportello destro della sua Corvette, dove attese che entrassi prima di mettersi alla guida.

“La festa è finita,” ringhiò in faccia a un tizio invadente che stava cercando di infilare la testa dentro lo sportello. Si affrettò poi a mettere in moto, fece rombare il motore un paio di volte per spaventare le persone che ci stavano impedendo il passaggio, e sgommò sulla strada principiale finché il ristorante cinese non diventò solo una macchia rossa e soffusa all’orizzonte.

“Non posso crederci,” sibilò mentre procedevamo a velocità più moderata lungo una via residenziale che probabilmente non conosceva neanche. “Se vado spesso a cena in quel ristorante è perché è uno dei pochi locali in cui non ho mai trovato dei rompicoglioni del genere.”

Si voltò verso di me e roteò gli occhi quando si accorse che ero aggrappata alla maniglia della portiera, con la schiena incollata al sedile e ancora spaventata come quella sera in cui avevano tentato di aggredirmi a Santa Monica. Il suo tono perse subito l’inflessione dura e arrabbiata e ne assunse una più pacata.

“Non te la prendere. Se credi che abbiano rovinato tutto sappi che ti sbagli, perché ho un’alternativa.”

“In realtà mi preoccupa il fatto che abbiano una foto di me,” ribattei.

“Sei riuscita a nasconderti in tempo, credo,” tentò di rassicurarmi, ma lo fece inutilmente. “Comunque, se vuoi, possiamo fermarci così mi fai vedere quelle famose foto. Del resto è per quelle che sei qui, giusto?”

Annuii e accostò un marciapiede vicino a un parco.

“Da queste parti non passerà mai nessuno. A quest’ora sono tutti a casa tranne noi,” spiegò prima di accendere la luce interna. “Avanti, sono pronto.”

Aprii la cartellina e gli porsi quelle che aveva scattato lui, sulle quali si soffermò solo per qualche secondo, dopodiché gli mostrai la foto in cui compariva insieme a Francis. La strinse a entrambi i lati tra l’indice e il pollice e la avvicinò al viso, gli occhi che studiavano attentamente le due figure impegnate a chiacchierare piacevolmente, spalancati e increduli. A quel punto estrassi anche il mio disegno, ansiosa di vedere la sua reazione.

“Per fare questo mi sono ispirata all’ultima fotografia che hai visto,” spiegai mentre gli passavo il foglio di carta spessa. “Vorrei lasciarteli entrambi.”

“D’accordo,” mormorò ancora concentrato sul disegno, poi si voltò verso di me con sguardo inquisitorio. “Come può un essere umano riprodurre un’immagine così fedelmente?”

Alzai le spalle cercando di trattenere un sorriso compiaciuto. “Sono anni di esperienza. Quando avevo l’età di Francis scarabocchiavo esattamente come fanno lui e i suoi coetanei e, giusto perché tu abbia un’idea, voglio farti vedere che cos’ha preparato per te.”

Tornai ad aprire la cartellina e stavolta presi un foglio A4 piegato in quattro parti asimmetriche. Nikki lo distese con una certa curiosità e si ritrovò davanti un disegno fatto con i pennarelli e in maniera piuttosto frettolosa, ma non per questo privo di significato. Lo osservò per qualche secondo per interpretarne il soggetto. La pagina era attraversata da una linea orizzontale gialla che rappresentava la battigia e, in piedi su di essa, si trovavano due omini stilizzati, uno alto con le mani davanti a sé e l’altro più piccolo e con un aspetto decisamente più dinamico. Una scritta sbilenca che riportava il nome di Nikki era collegata alla prima figura da una linea, e un’altra dello stesso colore era abbinata all’altro e si poteva leggere chiaramente il nome di Frankie.

“Di solito sono i fan giapponesi a regalarmi disegni, non i bambini,” esordì il bassista con un tono divertito ma con qualche nota amara, poi puntò un dito sul suo ritratto a pennarello. “Per caso quella roba gialla e arancione che ho in mano sono conchiglie?”

“Suppongo di sì,” risposi mentre mi stringevo nella giacca di pelle.

“Di’ grazie a Francis,” disse mentre tornava a piegare il foglio per infilarlo nella tasca del chiodo. “Non mi capita spesso di ricevere disegni dai ragazzini delle elementari.”

“Nemmeno a Frankie capita spesso di giocare con qualcuno di più grande che non sia me,” mi lasciai sfuggire mentre abbandonavo il capo sul poggiatesta. “Di solito non è così socievole, almeno non con tutti, ma con te si è comportato in modo diverso. È come se ci fosse qualcosa.”

Feci una pausa di pochi secondi durante la quale schioccai ripetutamente le dita con la speranza di trovare un termine che potesse definire adeguatamente ciò che avrei voluto dire, ma Nikki fu più veloce di me.

“Un’alchimia, forse?” azzardò, torcendosi le mani nel buio dell’auto. “Un sesto senso che ci lega?”

“Sì,” esclamai. “Penso che gli ricordi qualcuno. Deve aver fatto uno di quei giri mentali che fanno i bambini e deve averti associato a qualcuno che gli ricorda un momento bello. Forse a mio padre. Di solito è lui che lo accompagna a prendere le conchiglie sulla spiaggia.”

Mi voltai verso Nikki per controllare la sua reazione alla mia ipotesi e lo trovai pietrificato sul sedile, con le mani immobili, lo sguardo fisso sul volante e uno strano colorito del viso. Sembrava che gli avessi appena comunicato una notizia sgradevole.

“Sei pallido. Va tutto bene?” constatai per non tacere, ma Nikki non sembrò prenderla bene e scattò sull’attenti come se avesse sentito un rumore sospetto.

“Sono un po’ stanco. Oggi è stata una giornata intensa,” ribatté prima di mettere in moto. “Adesso ti riporto a Van Nuys, così potrai prendere la tua auto e tornare a casa da Francis. Credo ti stia aspettando.”




N.D’.A.: Buonasera!
Vado piuttosto di fretta, per cui taglierò un po’. Come sempre, grazie a chi segue e a chi ha ricominciato a leggere questa storia, nonostante la mia lunga assenza! ♥
Ci si rilegge la prossima settimana.
Un bacio,

Angie Mars






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Capitolo 20
*** Nikki ***


20
NIKKI





Spalancai gli occhi e cercai di parlare, sebbene la notizia che avevo appena ricevuto mi avesse letteralmente lasciato senza fiato.

“Tu sei sicuro, Neil, vero?” biascicai con le mani che tremavano.

“Certo che sono sicuro,” ribatté Vince dall’altra parte del telefono. “Stamattina sono entrato per caso in quel negozio e ho visto il tuo nome su uno dei titoli della copertina. Ho letto l’intera frase per pura curiosità, ma quando ho capito che ti avevano beccato in giro con una, ho pensato che potesse essere lei, allora ho cercato la pagina e l’ho riconosciuta.”

Mi passai una mano sul volto come se avessi voluto cancellarmi dalla faccia della Terra, e con l’altra strinsi la cornetta. “D’accordo, però adesso dimmi una cosa: perché cazzo mi hai chiamato? Stai morendo d’invidia o c’è dietro un motivo più complesso che la tua mente è riuscita a elaborare?”

Stava per rispondere quando Whisky, che si trovava accucciato sul tappeto, di cui stava anche rosicchiando un angolo come se fosse stato un osso, abbandonò la sua attività e drizzò le orecchie. Come previsto, qualcuno suonò il campanello.

“Puoi smettere di blaterare,” dissi acido. “Hanno appena suonato e devo andare. Ci vediamo.”

Non gli diedi tempo di dire altro e riagganciai, lieto di non sentire più la sua voce acuta, dopodiché sollevai la cornetta del citofono. Feci appena in tempo a domandare chi fosse prima che uno strillo inquietante mi perforasse il timpano destro.

“Aprimi subito!” sbraitò Vanity, più furibonda che mai.

Nella mia breve esistenza avevo capito che una frase simile non porta mai nulla di buono, tuttavia aprii il cancello e la porta per lasciarla entrare prima che mettesse in scena una delle sue tragedie, dando spettacolo al vicinato, che sbirciava dalle finestre mentre un altro membro della famiglia digitava il numero del 911 con la speranza che venissero a prendere sia lei che me.

Vanity fece irruzione nel salotto e iniziò a colpirmi ripetutamente il petto con un giornale arrotolato, che mi piazzò a pochi centimetri dal naso quando ebbe terminato di torturarmi.

“Leggi,” ordinò con la voce resa rauca dal fumo eccessivo e gli occhi iniettati d’ira, poi lo avvicinò ancora di più al mio viso quando si rese conto che non avevo la minima intenzione di obbedire. “Ti ho detto di leggere!”

Deglutii a vuoto mentre lei sfogliava la rivista alla ricerca della pagina indicata accanto alla mia fotografia in copertina. Sotto un enorme titolo scritto in caratteri gialli c’era una fotografia che dovevano avermi scattato qualche sera prima quando ero fuori con Sydney. All’interno di una cornice dello stesso colore del titolo c’ero io con gli occhi spalancati dalla sorpresa e, avvinghiata al mio braccio e col volto coperto dalla cartellina e in parte anche dal cappello bianco da cow-boy che era solita portare, Syd cercava di nascondersi dagli obiettivi e dai flash. Fortunatamente la sua faccia non era per niente visibile e di lei si poteva appena scorgere solo il colore dei capelli.

Vanity era rossa dalla rabbia. “Dimmi chi è questa e perché sei uscito con lei.”

“Non sono affari tuoi,” ringhiai in risposta, dritto davanti a lei e già pronto a spedirla fuori.

Vanity pestò un piede e nel contraccolpo i suoi ricci ballonzolarono come un enorme budino al cioccolato. “Sì che sono affari miei! Sono io la tua fidanzata, non lei!”

“Ancora con questa storia?” mi lagnai portandomi le mani sulle tempie come se così avessi potuto impedire alle sue parole di oltrepassare la scatola cranica e raggiungermi il cervello

A quel punto Vanity, che cambiava umore in una maniera repentina e preoccupante, si gettò ai miei piedi e unì le mani in segno di preghiera. Gli occhi neri erano velati dalle lacrime e allucinati, e le labbra rosee tremavano nel tentativo di parlare e di trattenere il pianto.

“Ascoltami, ti scongiuro,” piagnucolò mentre mi teneva le mani. “Sai benissimo che sono l’unica persona al mondo in grado di amarti, perché vuoi mandare tutto all’aria?”

Ritirai la mano dalle sue, così fredde e umide. “Perché non ti sopporto più.”

Vanity cercò di rialzarsi, traballando sui tacchi a spillo, e mi fece una carezza sul viso. “Dici così perché sei agitato. Senti, tesoro, io ho qualcosa che può calmarti subito. Ti fidi di me?”

Il sangue mi raggelò nelle vene: no che non mi fidavo di lei. Cazzo. Erano quasi venti giorni che ero pulito e limitavo gli eccessi a qualche sorso di Jack e a un paio di canne al giorno, non potevo cedere proprio adesso. Se lo avessi fatto e avessi incontrato di nuovo Syd, lei avrebbe scoperto tutto. Non che fossi convinto che non sospettasse di nulla, ma presentarsi davanti a qualcuno con l’aspetto di una persona sobria anche se non lo si è, è diverso dal farlo quando si hanno delle occhiaie spaventose, si puzza da far vomitare e si dà l’impressione di essere assenti e di non essere in grado di seguire neanche il più semplice dei discorsi. Ero certo che sarei riuscito a non cedere, ma quando Vanity frugò nella sua borsetta ed estrasse la scatolina di latta delle caramelle alla menta, capii che se l’avesse aperta sarei impazzito. Lei lo sapeva e tolse il coperchio rotondo. Dentro c’era una buona quantità di cocaina e ne dispose un paio di piste sul tavolino di vetro davanti al divano.

“Una è per te,” biascicò suadente. “Hai la faccia di uno che ne ha bisogno.”

Bisogno? Cazzo, sì! Sono quasi venti giorni che non sniffo. Non ho mica i superpoteri. Non è che se stamattina mi sveglio e dico che smetto, smetto veramente e per sempre.

“Coraggio!” mi esortò prima di buttarsi a capofitto sulla sua striscia, dopodiché mi porse la banconota arrotolata che aveva utilizzato.

Sapevo perfettamente quali sarebbero state le conseguenze della mia azione, tuttavia me ne infischiai e inalai la mia dose mentre Vanity era già in preda a quelle sue risate isteriche che non sopportavo e che presero a rimbombarmi in testa come un coro di gong. Lasciai cadere la banconota da cinquanta dollari sul tappeto persiano e schizzai in piedi per correre in bagno, rigorosamente seguito da Whisky. Purtroppo la distanza da percorrere era troppa e vomitai prima in cucina, poi sulla moquette delle scale mentre mi dirigevo verso il bagno del piano superiore, dove ero certo che avrei trovato anche la soluzione a quel casino, nonché la causa di un altro guaio ben più grande. Chiusi a chiave la porta della camera, lieto di non sentire più la voce di Vanity, che probabilmente stava continuando a ridere da sola nel salotto, e mi fiondai in bagno. Finii di rimettere nella vasca da bagno, con il cane che mi guardava con le orecchie basse ed emettendo sottili uggiolii.

(Stupido. Sei proprio stupido.)

“Chi parla?” esclamai dopo aver sollevato la testa.

(Meriti di affogarci, in quel vomito.)

C’era qualcuno. Eppure Whisky non si stava agitando come era solito fare quando percepiva la presenza di un estraneo.

Scossi il capo e lasciai il bagno per stendermi sul letto, poi battei la mano sul materasso per fare cenno al cane di saltare su e lui si acciambellò contro di me. Mi girai supino mentre le chiome degli alberi del mio giardino risuonavano sospinte dal vento oppure mosse da un esercito di nani che si arrampicavano per entrare in casa; passai un braccio sotto al muso di Whisky e sospirammo all’unisono. La testa mi girava a una velocità insopportabile, le fronde delle querce e delle palme facevano sempre più rumore, e qualcuno aveva preso a saltare sul letto. Un bambino, forse. Solo i bambini saltano sul letto, non di certo gli adulti.

(Nikki! Nikki! Allora, ti muovi? Devi insegnarmi a suonare la chitarra!)

“Non saltare sul letto, Francis.”

Detto e fatto subito: Francis saltò all’indietro per scendere e scomparve nel nulla, come se si fosse tuffato nell’oceano da uno scoglio.

Fissai la finestra davanti a me e la sagoma di una mano si materializzò sul vetro: le dita piegate iniziarono a graffiarne la superficie, come se qualcuno stesse cadendo e non sapesse dove aggrapparsi.

Francis! Francis sta cadendo!

Mi alzai dal letto in un attimo e mi precipitai alla finestra, ma quando la aprii notai che sotto non c’era nessuno. C’erano piuttosto una miriade di occhi gialli sull’albero davanti alla finestra che mi scrutavano famelici, e non si trattava di civette.

Bastardi. Avete usato Francis come esca perché volevate che mi avvicinassi.

Chiusi i vetri e le persiane facendoli sbattere. Il colpo risuonò nella stanza in un’eco insopportabile e alterato da quella pista di coca che avevo appena sniffato. La testa mi faceva un male terribile e tutto intorno a me girava vorticosamente: la sagoma dell’armadio si sovrapponeva a quella della cassettiera di noce, gli angoli del soffitto sembravano infiniti e il lampadario di vetro oscillava come se ci fosse stato il terremoto.
Camminai all’indietro finché non urtai il bordo del letto, persi l’equilibrio e ci piombai sopra a peso morto, facendo sobbalzare Whisky. Chiusi gli occhi senza nemmeno preoccuparmi di trovare una posizione più comoda per dormire che non fosse quella che avevo assunto in quel momento e scalciai via la coperta appallottolata vicino ai miei piedi.

Volevo Syd. Non ne sapevo il motivo esatto, però volevo che fosse lì. Ma se anche ci fosse stata, che cosa avrebbe pensato di me? Avrebbe certamente scosso il capo e se ne sarebbe andata perché a nessuno piace la vista di un tossico che si lamenta e si contorce. Nonostante questo, ero disposto a pagare oro per vederla seduta di fianco a me, con quel sorriso che aveva sempre stampato sul visto a dispetto di tutto quello che aveva passato e stava ancora passando, lo sguardo buono e paziente che fino ad ora avevo visto solo a Nona.

Mi girai su un fianco e abbracciai il cuscino puzzolente, voltando le spalle al cane, che scese dal letto e si accucciò sulla moquette. Non capivo nemmeno io perché volessi Sydney. Forse perché era riuscita a portare un pizzico di normalità nella mia vita incasinata? Quando ero con lei qualcosa tornava al suo posto e riportava in me una parte dell’armonia che non avevo mai trovato. Era strano, quasi assurdo, ma almeno era una bella sensazione. Desideravo solo che si materializzasse al posto di quel lurido cuscino a cui non cambiavo la federa da almeno un mese e che stringevo forte a me con la speranza che accadesse veramente ciò che speravo. Un’ora dopo ero ancora abbracciato al cuscino con la testa che girava, mentre il cane russava sulla moquette, più precisamente davanti alla porta perché era l’unico modo che aveva per dormire con la certezza di rendersi conto se fossi uscito. A quel punto provai a dormicchiare quando bastava per fermare la mia testa, ignorando completamente Vanity che blaterava al piano di sotto. Chiusi gli occhi, mi tirai la coperta fin sopra il capo, e mi assopii per qualche minuto, fino a quando suonò il telefono. Non lo considerai e lasciai che smettesse di squillare, poi allungai una mano verso di esso e lo sollevai dal comodino per tirarlo verso di me, dopodiché controllai quanti messaggi mi avevano lasciato sulla segreteria. Ce n’era solo uno e al mittente fu sufficiente dire un paio di sillabe perché ne riconoscessi la voce.

“Ehm... Nikki? Sono Syd. Scusa se ti disturbo con questo messaggio, però non hai risposto e non ho molto tempo per riprovare, quindi... quindi ti lascio un messaggio. Ti ho chiamato per dirti che domani devo andare a fare delle foto. Mi domandavo se volessi venire con me. Fammi sapere qualcosa, okay? Ciao.”

Scusa per cosa? Per avermi tenuto compagnia con un messaggio telefonico di venti secondi?

Se solo avesse saputo quanta importanza aveva per me quel piccolo gesto...

Riprodussi il messaggio un’altra volta solo per sentire ancora la sua voce così buona e rassicurante prima di riporre il telefono sul comodino, con in mente solo di confermare la sua proposta non appena fossi riuscito a rimettermi in piedi.




N.D’.A.: Ciao a tutti!
Sydney è probabilmente una delle poche che non vorrebbe mai vedere la sua faccia accanto a quella di Nikki Sixx su una rivista di pettegolezzi, però il caso ha voluto che sia capitato proprio a lei. Qualcuno dovrà pur dirglielo – e qualcuno, sempre la stessa persona, ha anche qualcos’altro di importante da comunicarle.
Grazie a chi legge! ♥
Ci si rivede la prossima settimana!
Un abbraccio,

Angie Mars






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Capitolo 21
*** Sydney ***


21
SYDNEY





Mentre salivo di fretta le scale degli studi di registrazione, il ticchettio dei tacchi di cuoio dei camperos riecheggiava contro le pareti, attirando l’attenzione dei presenti, i quali si voltarono, convinti che si trattasse di una bionda di un metro e ottanta col tacco dodici. Notai con un certo divertimento le espressioni deluse quando si rendevano conto che altri non era che una ragazza in jeans e camicia di flanella, con tanto di cappello che penzolava sulla schiena.

Mi sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mi fermai davanti alla porta dello studio in cui, stando a ciò che mi era stato detto per telefono quella mattina stessa, Nikki avrebbe dovuto trovarsi. Mi assicurai di essere presentabile dopo aver corso ed essermi preparata in fretta una volta rientrata dal lavoro. Un attimo prima che bussassi, la porta si aprì da sola e mi si materializzò davanti l’unica persona che avrei voluto vedere in quel momento – e da cui volessi essere vista.

“Guarda un po’ chi si rivede,” esordì Vince con una punta di sorpresa nel tono della voce. “Cosa ti ha portata fin qui? Oppure dovrei domandare chi?”

Mi passai una mano tra i capelli per scostarli dal viso, rendendo così ancora più evidente la mia espressione seccata. “Cercavo Nikki.”

Vince sollevò le sopracciglia e si lasciò sfuggire un sorriso a metà tra il sadico e il sarcastico. “Ah, capisco... ovviamente so già tutto, non ci ha risparmiato nemmeno questo. Quando vuole sa essere molto loquace e non si limita a mandare tutti a fare in culo e a lamentarsi. Ma suppongo tu lo sapessi già, dico bene?”

Indietreggiai di poco, infastidita dalla sua eccessiva vicinanza. “Qualcosa che non va, Vince?”

“Se qualcosa non va?” ripeté fingendosi stupito, le braccia allargate e i palmi rivolti verso l’alto in segno di discolpa. “Va tutto benissimo, anzi, ci voleva qualcuno che tenesse dietro a quel coglione di Sixx visto che non è capace di farlo da solo.”

“Io non tengo dietro proprio a nessuno né ho intenzione di farlo,” ribattei acida, le braccia incrociate sul petto e gli occhi fissi nei suoi. “Ho già qualcuno a cui badare, non mi serve una persona in più. Io e Nikki siamo amici e abbiamo condiviso delle cose. Se così non fosse, non credo che avremmo continuato a parlarci dopo quella volta in cui mi ha aiutata a difendermi da un maniaco per strada.”

Vince roteò gli occhi. “Ah, dimenticavo che adesso è diventato anche un supereroe che salva le signorine in pericolo.”

“Avresti voluto esserci tu?” domandai schietta. “Vorresti essere tu la persona con cui condivido le cose che mi piacciono e che mi salva dai pericoli della strada?”

Tornò a ridere come se quella risata fosse l’unica cosa che fosse in grado di fare. “Non credo che–”

“Non credi cosa, Neil?” tuonò un’altra voce da dietro di lui, poi comparve Tommy che, a quanto pareva, aveva origliato la nostra breve conversazione. “Te lo dico io qual è il tuo problema, bello. Tu, amico mio, stai rosicando come un topo di fogna che ha appena trovato una crosta di formaggio, cazzo.”

La delicatezza in persona.

“Adesso fa’ una cosa carina: lascia in pace la ragazza, qui, e torna a casa. Tanto là ad aspettarti c’è l’intero staff del Tropicana. Ci penseranno loro a soddisfarti come si deve, non lei,” concluse Tommy quasi tutto d’un fiato, poi si accorse che Vince era ancora immobile sulla soglia con la bocca aperta e proseguì. “Avanti, muovi quel culo da diva che ti ritrovi e smamma. Syd non è come te, non ha tempo da perdere,” allungò un braccio e le sue dita ossute mi afferrarono il polso per trascinarmi all’interno, mentre con l’altra mano continuava a gesticolare in direzione dell’altro. “Hai capito? Sciò!”

E gli chiuse la porta in faccia, gesto a cui Vince rispose con un pugno sul legno prima di scendere rumorosamente le scale. Mi accertai che il ticchettio dei suoi passi fosse svanito del tutto prima di spalancare gli occhi e puntarli dritti in quelli di Tommy, che sembrava quasi divertito.

“Cosa ti è saltato in mente?” lo rimproverai a bassa voce per evitare che mi si sentisse anche nelle stanze adiacenti. “Perché lo hai mandato via così?”

Tommy alzò le spalle senza togliersi quel sorrisetto astuto dal viso. “Lo conosco abbastanza da poter dire con certezza che ti avrebbe tenuta ferma sul pianerottolo per un’ora, così ho pensato che avrei potuto fare un piacere al mio gemello visto che ho saputo che avete un appuntamento.”

Aggrottai le sopracciglia, ancora per niente convinta della sua risposta, una scusa evidentemente campata per aria, e seguii il suo dito che indicava un’altra porta, dietro alla quale sapevo che avrei trovato Nikki. Quando la aprii, lo sorpresi seduto su una sedia con le ruote, una paglia svogliatamente sostenuta tra il pollice e il medio in attesa che arrivassi. Ebbi l’impressione che il mio arrivo lo avesse sollevato.

“Allora, andiamo o no?” domandai sollevando la mano nella quale tenevo la custodia della macchina fotografica. Nikki annuì, raccattò il chiodo e il cappello da sopra il divano e mi seguì fuori dalla porta in totale silenzio e senza nemmeno fare un cenno di saluto a Tommy, che aveva osservato la scena con una certa curiosità. Scendemmo le scale quasi di corsa, sgusciammo nel parcheggio servendoci della porta sul retro, e ci intrufolammo a bordo della sua Corvette nera.

“Qual è la location per il tuo servizio fotografico?” domandò Nikki mentre accendeva il motore.

“Vai a Downtown L.A.. Una volta che saremo là, ti indicherò la strada.”

“Non credo sia una buona idea,” ribatté prima di uscire dal cortile. “Downtown è una zona piuttosto frequentata.”

“Nessuno andrebbe in cima a un grattacielo,” risposi con un finto tono di superiorità.

Nikki non rispose. Si limitò a scuotere il capo e a seguire le mie indicazioni, che lo costringevano a sterzare continuamente per le vie del centro finché non scese in un parcheggio sotterraneo, dove lasciammo l’auto. Gli pneumatici di un altro veicolo stridettero sul pavimento lucido e feci cenno a Nikki di seguirmi mentre mi muovevo a passo svelto in direzione dell’ascensore.

“Spero che non si tratti di una partita a nascondino,” obiettò, intento a guardarsi allo specchio mentre si aggiustava il colletto del chiodo e il cappello in modo da rendersi il meno riconoscibile possibile. “Questo tipo di gioco non fa per me.”

“Cerca di resistere per ancora cinque minuti. Ti assicuro che ne vale la pena,” risposi, e subito dopo si aprirono le porte. Dall’altra parte della strada c’era l’ingresso di un hotel, nonché la nostra meta. Presi Nikki per una manica del giubbotto e varcammo la soglia, passando del tutto inosservati grazie al viavai di persone in giacca o tailleur che avevano occupato l’atrio, probabilmente dopo una conferenza. Camminammo con le spalle contro il muro e ci intrufolammo in un altro ascensore, occupato solo da una signora sulla sessantina che doveva scendere al piano successivo. Sebbene non si trattasse di una persona che potesse riconoscerlo, Nikki si voltò col viso contro la parete della cabina e non si mosse finché la donna non scese, permettendoci di proseguire indisturbati fino all’ultimo piano. Il silenzio regnava sovrano nel corridoio e io, che sapevo già la strada, mi diressi verso la mia sinistra e continuai a camminare finché non mi trovai di fronte a una porta bianca che vietava l’accesso agli ospiti.

“Voglia di trasgredire?” domandò Nikki con un sopracciglio sollevato e un’espressione non del tutto convinta.

“No,” risposi prima di spingere la maniglia antipanico. “Voglia di vedere la città dall’alto.”

Oltre la porta pesante, dietro un muretto grigio, Los Angeles si estendeva come un tappeto di luci sovrastato dal brusio del traffico. I raggi del tramonto tingevano di rosso gli edifici e le colline, ma avrei dovuto aspettare il buio prima di scattare alcune fotografie. Nell’attesa non c’era altro da fare che sedersi contro il muro e guardare il panorama imbrunirsi lentamente fino a diventare un cielo stellato sulla Terra.

“Posso farti una domanda, Nikki?” esordii dopo un breve attimo di silenzio durante il quale eravamo stati entrambi concentrati a fissare Downtown dall’altro. Lui annuì e proseguii dopo aver superato l’imbarazzo iniziale. “Perché ce l’avete così tanto con Vince?”

Corrugò la fronte e prese a sfregarsi le mani. “Nessuno ce l’ha con lui. Forse, se la smettesse di atteggiarsi come se fosse il migliore, potremmo trattarlo un po’ meglio.”

“Credo che dovreste,” risposi seria. “Non voglio intromettermi negli affari vostri, però penso di poterlo fare dato che Tommy si è intromesso in quelli miei e di Vince.”

“Lascialo perdere. T-Bone è fatto così,” sussurrò il bassista. “Voleva solo che ti sbrigassi a entrare. Certe volte ha delle reazioni impulsive, ma è solo il suo carattere. Sul fatto che non avrebbe dovuto intromettersi, però, non posso darti ragione: se non fosse intervenuto, Vince sarebbe stato capace di tenerti ferma a parlare per non so quanto tempo.”

Strofinai i palmi sui jeans e mi fissai le dita. “Non credevo che fosse così arrabbiato con me e, sinceramente, non riesco neanche a giustificarlo. Tu pensi che sia stata cattiva o scortese con lui?”

Nikki si lasciò sfuggire una ghignata sarcastica e stese le gambe sul pavimento di cemento.

“Cattiva o scortese? Sei seria, Syd?” ripeté come se avesse voluto assicurarsi di aver sentito bene. “Rifiutare di essere portata a casa sua perché nella tua, di casa, c’è Francis che ti aspetta è un gesto di cattiveria? Non sentirsela di frequentarlo ancora perché l’ultima volta che hai fatto una cosa simile hai sofferto come un cane è da persona scortese?”

Mi strinsi nella giacca e raccolsi le ginocchia contro il petto, scuotendo il capo.

“Però c’è una cosa che vorrei che tu sapessi,” riprese mentre si accendeva una sigaretta. “Ci è rimasto male. Normalmente alza le spalle e va subito a cercare un’altra, ma stavolta è arrivato a porsi delle domande sul perché non lo volessi. Non credo che abbia trovato anche delle risposte, ma se ci è riuscito saranno il risultato sbagliato di qualche complicato viaggio mentale. In ogni modo, credo che non sia una bella sensazione sentirsi respinti. Se poi consideri che avevi fatto colpo, deve essersi sentito ancora peggio.”

Ascoltai il suo discorso con gli occhi fissi nei suoi, senza perdere una sola parola, e mi sentii rabbrividire. “Pensi che si sia rassegnato al fatto che non ho intenzione di diventare più che una sua normale conoscente?”

“Non l’ha ancora fatto ma, conoscendolo, prima o poi ce la farà alla grande,” rispose dopo aver scaricato la cenere della sigaretta sul pavimento, dopodiché la discussione si concluse e tornammo a tacere fino a quando Nikki si accorse che qualcuno mancava all’appello. “Dov’è Francis?”

“A dormire a casa di un compagno di classe,” dissi mentre cominciavo a preparare la macchina fotografica.

Nikki si morse un labbro con fare pensieroso. “Come vanno le cose? Sta bene?”

“Certo. Quando gli ho detto che stasera saresti venuto con me a fare delle fotografie ha detto di salutarti e che ti vuole bene,” gli raccontai, divertita dal ricordo di Frankie che, oltre a dirmi quelle parole, mi pregava di portarlo con noi. Tuttavia, sapevo che, ora che si trovava in compagnia del suo amichetto, non avrebbe sentito la nostra mancanza.

Nikki annuì prima di indicare il cielo. “Credo che sia diventato abbastanza buio per cominciare.”

Scossi il capo. “Ci vuole ancora un po’. Hai tempo di aspettare, vero?”

Fece spallucce e schiacciò il mozzicone sotto la suola di cuoio dello stivale per dare un tocco di spavalderia al suo atteggiamento. “Tanto a casa non c’è nessuno che mi aspetta a parte il cane. Preferisco stare qui con te piuttosto che seduto sul divano a guardare quei programmi idioti che trasmettono di notte. Anzi, mi fa piacere essere in tua compagnia.”

“Anche a me,” saltai su quasi istintivamente, accorgendomi solo pochi attimi dopo che quella breve affermazione gli aveva strappato un sorriso infantile come quello di Francis quando gli facevo una sorpresa e, dopo essere stata al supermercato, facevo comparire magicamente un ovetto di cioccolata sul tavolo, sopra la tovaglietta di plastica sulla quale era solito fare merenda.

“Normalmente la mia non è una presenza gradita,” aggiunse con una punta di amarezza nel tono della voce. “Ho la tendenza a essere noioso. Parlo solo di musica e dei testi che scrivo.”

“Sei noioso per chi non apprezza queste cose,” ribattei rigirando la custodia della macchina fotografica tra le mani. “Anzi, visto che non me ne hai ancora parlato, se vuoi puoi farlo. Giuro che terrò la bocca chiusa con quella mia collega del locale.”

“So che sei una persona affidabile,” disse più che convinto.

“Puoi scommetterci!” ribattei ad alta voce, poi gli feci cenno di seguirmi verso il bordo del muro. Appoggiai le mani sulla ringhiera di metallo e la strinsi saldamente. Sapevo di trovarmi molto in alto, ma volevo provare il brivido della vertigine prima di immortalare quello spettacolo di luci e tenebre sulla pellicola fotografica. Mi voltai verso Nikki con un sorriso astuto poi volsi nuovamente il capo davanti a me. Il vento fresco si insinuava tra i miei capelli, facendoli svolazzare. Le mani fremevano sulla ringhiera e sentii i passi di Nikki avvicinarsi al bordo. Sollevò un pollice in segno di OK e io ricambiai con lo stesso gesto prima di portare lentamente la testa avanti. Il mio sguardo passò prima sul muretto di cemento poi, non appena lo superò, si ritrovò sul vuoto: sotto di me c’erano decine di metri di nulla e, in fondo, una strada a sei corsie trafficata e illuminata da insegne al neon e lampioni. All’improvviso tutto cominciò a cambiare posizione, le luci si affievolirono per poi tornarmi a balenare negli occhi, e la terribile sensazione di non avere più nulla sotto ai piedi mi fece scattare all’indietro, senza però riuscire a staccare le mani dalla balaustra. Solo quando una presa salda e sicura mi afferrò inaspettatamente per le spalle mi decisi a sciogliere quel garbuglio che le mie dita avevano formato con la ringhiera di metallo e trovai il coraggio per indietreggiare di qualche passo.

“Devi stare attenta quando fai queste cose. Lo sapevi che avrebbe potuto girarti la testa,” mi ammonì Nikki.

“Sì, però è stato da brivido,” risposi col cuore che batteva ancora all’impazzata per lo spavento. “Non credo che lo rifarò ancora.”

Percepii il movimento del suo capo mentre annuiva e la morsa sulle spalle si allentò sempre di più, finché le sue mani non presero a scivolare lungo le mie braccia, fino a raggiungere le mie. “A meno che tu non sia una di quelle persone testarde che continuano a fare quello che vogliono e non smettono neanche quando sbattono il muso.”

“Cosa vuoi dire?” domandai perplessa sia dal suo tono improvvisamente malinconico che dalle sue parole.

“Ci sono un paio di cose che dovrei dirti,” confessò prima di lasciarmi andare, permettendomi di guardarlo negli occhi mentre mi parlava. “Non si tratta di buone notizie e probabilmente le sai già, però voglio essere sicuro che tu le sappia.”

“D’accordo,” approvai con un brivido che mi percorreva la spina dorsale. “Ti ascolto.”



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Capitolo 22
*** Nikki ***


22
NIKKI





Ero perfettamente consapevole di essermi messo nei casini da solo, ma dall’altra parte sapevo che, se non le avessi detto la verità su di me, prima o poi l’avrebbe scoperta senza fare troppa fatica.

Feci un respiro profondo, con il cervello memore dell’abbraccio di poco prima che sembrava fluttuare nell’etere caldo, e volsi lo sguardo per terra mentre Syd mi fissava con il capo inclinato da un lato e un’espressione curiosa ma allo stesso tempo preoccupata.

Decisi che avrei cominciato con la domanda più semplice e meno diretta di tutte. “Ti ricordi quando andavamo in giro per il Sunset Strip in piena notte?”

Lei annuì sorpresa, probabilmente aspettandosi qualcosa di diverso. “Certo che me lo ricordo. Non penso che dimenticherò facilmente quel periodo della mia vita.”

“Sono cambiate molte cose da allora,” cominciai mentre mi tornavo a sedere sul pavimento di cemento insieme a lei. “Però il fatto che abbiamo guadagnato una barca di soldi non significa che siamo diventati delle altre persone. Siamo sempre gli stessi e abbiamo sempre le stesse abitudini, solo che ci dedichiamo a queste sotto il tetto di una villa anziché sotto quello di un appartamento scalcinato di West Hollywood.”

Syd si portò un dito su un lato del naso. “Stai parlando di–”

“Non solo,” la interruppi bruscamente. “Parlo di roba di ogni tipo. Ormai non c’è rimasto nulla che non abbiamo provato, e se c’è non sappiamo della sua esistenza.”

A quel punto mi aspettavo che si alzasse tremolante per l’imbarazzo e la soggezione che provocavo e che si inventasse una scusa poco credibile per sgusciare via. Ero convinto che piuttosto che farsi riaccompagnare a casa da me avrebbe speso parecchi dollari per pagare un taxi, ma scoprii presto di essermi sbagliato. Syd rimase seduta per terra, stretta nel giubbino e con gli occhi spalancati. Forse, pensandoci meglio, la sorpresa era stata tale da immobilizzarla.

“Volevo che lo sapessi,” biascicai. “Di solito me ne frego di quello che mi dicono gli altri e continuerò a farlo, però volevo anche dirti uno dei motivi per cui ultimamente tutti dicono di trovarmi noioso.”

Sistemò nervosamente la frangia gonfia e strinse a sé la custodia della macchina fotografica. “Non preoccuparti, a me non fa impressione. Un po’ so che cosa significa. Del resto ho passato due anni della mia vita in uno strano stato di semi incoscienza che non mi permette di ricordare diversi momenti. Poi è arrivato Frankie e ho passato otto mesi infernali a casa dei genitori di John che non mi sopportavano ma che mi tenevano con loro solo per controllarmi. Sai, se fosse successo qualcosa al figlio del loro figlio sarebbe stata solo colpa mia, così come lo è stata quando John se n’è andato di casa. Tenevano così tanto a mio figlio che non sono mai passati a trovarlo da quando si sono trasferiti a Seattle.”

Tutto il contrario di Nona.

“Poi lo sapevo già,” proseguì Syd. “Tutti sanno quello che fate voi gente famosa. Credo comunque che questo non potrà rovinare un’amicizia, anzi, forse l’amicizia potrebbe anche aiutare.”

Avrei voluto afferrarla per le spalle, scuoterla e gridarle in faccia che, ehi, cazzo, il peggior effetto della roba, se si escludono quelli che ha sul fisico di chi la assume, è il modo in cui riesce a rovinare amicizie e relazioni persino tra parenti, ma mi trattenni. Avrei anche voluto abbracciarla perché non mi capitava spesso che qualcuno si sentisse così interessato a me. Forse doveva ancora conoscere a fondo la nuova persona che ero diventato, e se fosse successo avrebbe visto con i suoi occhi che razza di animale raccapricciante ero. Sarebbe stato sufficiente che passasse dagli studi mentre ero chiuso nel cesso e solo allora si sarebbe accorta dello sguardo vacuo che avevo normalmente e di come diventavo improvvisamente cinico e insofferente verso tutto e tutti.

A quel punto, memore del pomeriggio in cui si era presentata alla nostra sala prove con il ragazzino, mi sorse spontanea una domanda: perché aveva permesso a Francis di avvicinarsi? Nessun genitore consentirebbe al proprio figlio di scambiare anche solo un sorriso con uno come me.

Syd sollevò lo sguardo dalla punta dei suoi camperos e, come se fosse riuscita a leggermi nel pensiero, abbozzò un sorriso malinconico.

“Ho sempre vissuto in mezzo alle persone che la gente definisce poco raccomandabili,” raccontò mentre stiracchiava le gambe sul pavimento. “Sono nata e cresciuta in una periferia, ho vissuto a West Hollywood e adesso abito a Venice. È sufficiente fare una passeggiata sul lungomare per rendersi conto che una buona parte dei suoi abitanti è composta da barboni. Di solito li schivano, ma può capitare di vederli suonare la chitarra con i ragazzini. Se sono dei turisti a volte vanno a comprare un paio di panini e glieli offrono, oppure regalano loro una sigaretta. Mio figlio è sempre in spiaggia a giocare e sa come comportarsi con loro: non deve deriderli e deve trattarli come persone normali perché è quello che sono. Se poi dovessero infastidirlo, cosa che potrebbe fare chiunque, allora sa chi chiamare.”

“E tu?” domandai automaticamente e con un vago tono di sfida. “Non hai paura?”

Scrollò le spalle. “No. Vivo da sola da anni, ormai ho imparato a difendermi.”

“Allora faresti meglio a difenderti anche dagli occhi indiscreti,” bofonchiai mentre estraevo una rivista arrotolata da una tasca interna del chiodo. “Ho un’altra notizia poco piacevole.”

Le piazzai davanti agli occhi il magazine di gossip spiegazzato e sporco dell’inchiostro di una penna che era esplosa qualche giorno prima mentre lo utilizzavo da supporto per scrivere un’idea interessante su un foglio volante. Syd strabuzzò gli occhi quando si imbatté in una mia fotografia accompagnata da una didascalia che riassumeva il contenuto dell’articolo. Fece un balzo alla sua destra per strapparmi il giornale dalle mani e cominciò a sfogliare le pagine finché non trovò quelle che le interessavano, e proprio lì, camuffata da un tondo di colori sbiaditi e stretta al mio braccio, c’era lei che tentava di nascondersi dall’obiettivo di quel tizio che avevamo maledetto per tutta la sera.

“Che cosa significa?” domandò con la voce che tremava, poi lasciò cadere la rivista sul pavimento.

“Che nessuno, a parte me e Vince, ti riconoscerà perché il tuo volto è stato oscurato,” risposi sperando che almeno questo la consolasse, ma lei incrociò le braccia e si lasciò sfuggire uno sbuffo.

“L’avevo capito, ma questa faccenda non mi piace,” si lamentò. “La prossima volta dobbiamo stare attenti a non farci vedere da nessuno, oppure non mi darò più pace. Pensa se Frankie fosse stato con noi!”

Mi strinsi nella giacca e alzai le spalle, cercando qualcosa da dire per non tacere. “Avrebbero camuffato anche il suo volto.”

Syd si portò le mani sul capo e le fece scivolare sul viso prima di lasciarsele cadere in grembo. “Forse qualcuno ci ha già visti, forse ci vedranno quando crediamo che non ci sia nessuno nei dintorni, forse ci hanno visti quando eravamo in spiaggia tutti insieme.”

“Sono sicuro che ti sbagli,” obiettai con troppa convinzione.

Syd scosse il capo e si alzò goffamente per andare fino al bordo della terrazza, sulla cui balaustra appoggiò i gomiti. Riuscii a capire che si lasciò sfuggire un lungo sbuffo sebbene mi desse le spalle, per questo abbandonai il mio posto freddo sul cemento per recarmi di fianco a lei e appollaiarmi a mia volta sulla ringhiera.

“Sta’ tranquillo, non ce l’ho con te,” mormorò con il mento appoggiato sui palmi. “Non ce l’ho con nessuno.”

Tirai un impercettibile sospiro di sollievo. “Meglio così.”

“Non sarà certo un articolo su un giornale del cazzo a impedirmi di vedere un amico,” sibilò tra i denti, poi aggiunse con tono meno adirato che la prossima volta avremmo dovuto tenere gli occhi ben aperti e scegliere un posto più protetto.

Annuii poi volsi lo sguardo verso la distesa di luci e mi affrettai a cambiare argomento. “Mi sembra che sia abbastanza buio, adesso, giusto?”

Sydney fece spallucce e solo ora mi accorsi che aveva lasciato la macchina fotografica appoggiata sulla porzione di pavimento su cui era stata seduta fino a poco prima. Ero certo che sarebbe andata a prenderla, invece si limitò a sollevare la custodia da terra afferrandola per la tracolla e a caricarsela su una spalla.

“Andiamo?” mi esortò da già sulla porta e con un piede oltre la soglia.

“E le foto?” domandai ingenuamente, il dito puntato verso i grattacieli di Downtown.

Syd abbassò lo sguardo celando appena l’espressione stomacata. “Mi è passata l’ispirazione.”

In quel momento mi sentii un vero schifo: con le mie idiozie, i miei problemi e quella maledetta rivista ero riuscito a farle passare l’ispirazione. Sapevo che cosa significasse perdere la voglia di fare la cosa che preferisci al mondo, e sapevo anche che a causare un simile sensazione di nausea nei suoi confronti poteva essere solo qualcosa di decisamente spiacevole e preoccupante. Dato che non avrebbe potuto riacquistarla nel giro di pochi secondi, mi rassegnai e la seguii prima per il corridoio dell’albergo, poi nell’ascensore e infine nel parcheggio sotterraneo senza osare fiatare. Quando arrivammo vicino alla mia automobile, attese silenziosamente che aprissi la portiera, poi si sedette al suo posto, la custodia della macchina fotografica in grembo e lo sguardo fisso davanti a sé.

“È per quell’articolo?” domandai mentre salivamo lungo la rampa dell’uscita.

Sydney mi guardò di sbieco. “Che cosa?”

“Dico, quel muso lungo è per l’articolo?”

“No. Mi hanno camuffata così bene che neanche i miei genitori mi riconoscerebbero. Poi basterà essere più cauti la prossima volta,” disse atona. “Stavo solo pensando alla tua storia.”

Strinsi forte il volante tra le mani. “Non devi preoccuparti per me. Me la sono sempre cavata da solo.”

Bugiardo.

Ecco che cosa sei. Sei un bugiardo, Sixx.

Roteò gli occhi chiari che brillavano nel buio. “Se volevi che non stessi in pensiero avresti fatto meglio a tenere la bocca chiusa, ma prima o poi ci sarei arrivata da sola. Comunque apprezzo il tuo sforzo.”

Forse avrei fatto meglio a lasciare che si preoccupasse per me e che mi stesse vicino dal momento che nessuno lo aveva mai fatto prima d’ora, però la paura di rovinare quel sottile legame che stava cominciando a ricrearsi mi convinse che la soluzione migliore sarebbe stata cercare di tenerla alla larga da tutto quello schifo che mi circondava. Certo era che, adesso che sapeva tutto, non si sarebbe data per vinta.

Se avessi voluto fare qualcosa di buono per lei, avrei fatto meglio a tagliare i rapporti e a non farmi più vivo, così io che lo meritavo avrei continuato a bollire nel mio brodo, mentre lei avrebbe avuto modo di trovare qualcun altro con cui condividere la sua passione per la fotografia e i posti strani. Ma come potevo pretendere di riuscire a compiere un gesto simile se quella era una delle rarissime volte in cui qualcuno aveva deciso di provare un po’ di vera amicizia e preoccupazione nei miei confronti?

Passai tutto il viaggio a elaborare una scusa da dire a me stesso per rassegnarmi al fatto che sarebbe stato meglio per tutti se non ci fossimo mai più visti, ma il castello che mi ero creato iniziò a vacillare presto, più precisamente quando mi fermai nel parcheggio dello studio. Prima di aprire la portiera per scendere, Syd strinse a sé la macchina fotografica in un gesto dettato dall’insicurezza.

“Stai attento a quello che fai,” disse seria, la mano ferma a mezz’aria nell’attesa di trovare il coraggio per appoggiarsi sul mio avambraccio. “Non voglio perderti un’altra volta.”

“Non preoccuparti,” risposi con malcelata agitazione. “Vedrai che troverò un rimedio anche per questo.”

Sydney aprì la portiera e sganciò la cintura di sicurezza. “Ricordati che puoi sempre rivolgerti a me. Se non sarò disponibile sarà sicuramente colpa del lavoro e dei miei impegni, ma quando potrò aiutarti lo farò.”

Annuii mentre si dirigeva verso la sua auto e non mi mossi dal parcheggio finché non la vidi svoltare sul viale. Adesso che ero nuovamente solo, senza niente da fare e senza nessuno con cui parlare, non mi restava che tornare a casa. Dovevo anche dare da mangiare a Whisky, povera bestiola... gli avevo riempito la ciotola di crocchette, ma sapevo che quell’ingordo le aveva finite tutte in una volta. Misi dunque in moto la macchina e filai dritto a Van Nuys, con una strana sensazione di irrequietudine che mi rosicchiava da dentro. Io, che dopo tutto quel tempo avevo imparato a riconoscere i sintomi di una crisi da “dov’è-la-mia-cazzo-di-roba-cazzo?”, capii che, a meno che non avessi voluto stramazzare sul divano del salotto nel vano tentativo di combattere contro l’astinenza, subendone i dolori, la nausea e i giramenti di testa che comportava, avrei dovuto correre in camera, dove avevo creato una specie di cassaforte in cui nascondevo tutto, e spararmene abbastanza da placare il male. Percorsi la 405 senza quasi mai staccare il piede dall’acceleratore e, appena riconobbi il cartello che segnalava l’uscita per il mio distretto, mi sentii sollevato. Superai un pick-up sulla rampa senza curarmi minimamente della pericolosità del mio numero e rombai fino a Sherman Oaks.




N.D’.A.: Mi vergogno tremendamente, ma lo dico lo stesso, come da copione: ciao a tutti!
Ebbene sì, sono tornata. Dopo più di un anno, ho deciso di portare a termine quello che ho iniziato, e il minimo che potessi fare era caricare tutti i capitoli pronti per essere pubblicati. Quelli successivi sono ancora sotto revisione (quasi un anno fa ho avuto la brillante idea di stravolgere alcuni punti e mi sono trovata in difficoltà), ma arriveranno.
Mi dispiace avervi fatto aspettare così tanto e so quanto sia odioso voler finire di leggere una storia e non poterlo fare perché l’autore ha deciso di interromperne la pubblicazione. Quindi eccomi qui che cerco di farmi perdonare.
Ringrazio di cuore i lettori silenziosi, chi lascia commenti e coloro che mi hanno chiesto esplicitamente quando la pubblicazione sarebbe ripresa. È sempre un piacere ricevere certi messaggi! ♥
Spero che questi due capitoli siano stati di vostro gradimento.
Un abbraccio,

Angie






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Capitolo 23
*** siKKi niXX ***


23
siKKi niXX





(Ahahah!)

(Muah-ihihih!)

(Ahahah!)

(Booo!)

(Muu-ihihih!)

Basta, cazzo!

(Muah-ihihih!)

Ho detto che dovete smetterla! Lo sapete che se non la smettete chiamo la S.W.A.T..

(Tanto non ti credono!)

(Fifone!)

Piantatela! Non posso pensare di sopportarvi ancora una volta, accidenti. Cosa c’è di così divertente nel tormentarmi? Eh? Dài, cazzo, rispondete.

(Idiota!)

Ecco. Vaffanculo. Lasciatemi in pace, vi prego. Non vi ho mai fatto nulla di spiacevole, perché vi ostinate a comportarvi così? Io, giuro, non riesco più a sostenere tutto questo.

(Muah-ihihih!)

VAI VIA! Tu e i tuoi amici. Andate via.
Sentili come mi girano intorno alla testa. Neanche fossi nel centro di un tornado... anzi, se mi ricordo bene quello che mi hanno spiegato a scuola, quando ti trovi al centro di un tornado sei al sicuro. Ma non ne sono certo, del resto avevo dieci anni, dieci fottutissimi anni e qualcuno che aspettava che rientrassi da scuola, qualcuno che mi faceva trovare un panino al burro d’arachidi ogni lunedì o una mela gli altri giorni, qualcuno che mi voleva bene per davvero e che non aveva bisogno di ingraziarmi perché la mia amicizia può essere vantaggiosa.

Nona, chissà cosa stai facendo adesso? Forse stai piangendo perché il tuo piccolo Franklin sta tanto male e vorrebbe essere abbracciato da te come ai vecchi tempi. Oppure ti faccio così schifo che non riesci neppure a guardarmi. Oppure, un’altra ipotesi ancora, sei così arrabbiata con me e ti rifiuti di considerarmi. Sai, io quel giorno sarei anche venuto, in chiesa da te, ma proprio non riuscivo ad alzarmi dal divano. C’era una forza che mi teneva ancorato a quei cuscini appiccicosi e un’altra che faceva pressione su questo corpo marcio impedendomi ogni movimento.

No, hai ragione, non devo piangere. Non si piange quando si sa di aver combinato un casino, vero, Nona?

E, dimmi, la mamma ha mai pianto per me? Ha mai pensato che forse avrebbe dovuto fare qualcosa di più per il piccolo Frankie? Ha mai fatto come fa Syd, che a volte si chiede se sta facendo abbastanza per Francis o se sia il caso di impegnarsi di più?

(Nikki!)

Vedi, Nona, lei è una persona così buona... è un po’ come te. Quando parla del suo bambino, mi ricorda te quando raccontavi di me alle tue amiche. Ti si illuminavano gli occhi. Non ti importava di come portassi i capelli, di che colore fossero le mie unghie o di quanto alto fosse il volume del giradischi che mi avevate regalato tu e il nonno.

(NIKKI!)

Chi è adesso?

(Allora, quand’è che mi insegni a suonare la chitarra? Me lo avevi promesso!)

Guarda un po’ chi è passato a farmi visita. Francis!

Aspetta che mi tiri su da qui, poi ti insegno il tuo primo accordo, quello che ricorderai per sempre. Ti insegnerò il Re, il primo che io stesso ho imparato a suonare quando ero piccolo.

(Frankie?)

(Sì? Chi è che mi chiama?)

Sì? Qualcuno mi ha chiamato?

(Ti ho portato un regalo, non vuoi venire ad aprirlo?)

(Un regalo? Per me? Davvero?)

Ehi, amico, aspetta, io non aspettavo re–

Oh, cazzo, no. Non tu. Non di nuovo tu e il tuo dannato slittino rosso. Me l’hai già regalato e l’ho anche già rotto e buttato nella spazzatura. Non me ne serve un altro, puoi tenertelo.

(Quello slittino è davvero per me?)

(Certo, Frankie. Perché non vai fuori a provarlo?)

Non andare, piccolo, fuori non c’è la neve, qui non c’è mai la neve, è una trappola!

(Vado a farlo vedere alla mamma)

Sei un essere senza cuore, John. Perché gli hai portato un regalo se sai già che non tornerai mai più? Non lo sai che insieme a questa dolce illusione gli hai portato anche un eterno dolore che non guarirà mai? Dico, non lo vedi come sto? Vuoi che anche lui si riduca come me per dimenticarti?

Oh, no, piccolo Francis, no...

Tu hai ancora qualcuno che ti ama e che è pronto a consolarti quando sei triste, a difenderti quando sei in pericolo e ad aiutarti quando sei in difficoltà. Io invece no. Anzi, ce l’avevo, ma sono riuscito a mandare a farsi fottere tutto quanto e mi sono reso conto di quanto fosse fatale questo errore solo quando l’ho persa, la mia adorata Nona. L’ho capito quando la roba ha smesso di fare effetto e mi sono accorto che era veramente andata via per sempre. Non era stata un’allucinazione, quella telefonata che mi aveva fatto nonno Tom. E io ero ancora chiuso nella mia villa da rockstar in via di decomposizione mentre in Idaho i miei parenti si erano riuniti per farsi forza a vicenda.

Tu, bambino mio, tu hai ancora Syd. La mia Syd.

Come vorrei che fosse qui proprio adesso!

Invece dove sei, Syd? Se Francis è qui, suppongo tu sia nei paraggi. Oppure no? Probabilmente no. Perché mai dovresti venire fin quassù? Nessuno vorrebbe essere al mio fianco in questo momento. Faccio schifo. Come quando i passanti schivano un barbone che fa l’elemosina, avvolto nei suoi stracci umidi e in compagnia di un cane stanco e pulcioso. Solo che io sono pieno di soldi e non ho un cane pulcioso. Allora perché insisti per vedermi? Cosa c’è di così attraente in me? I soldi? La fama?

Dolce Syd, non sei qui, ma so che se ti chiamassi arriveresti in un batter d’occhio. Ma non lo faccio. Mi rifiuto di strisciare attraverso il letto e prendere la cornetta perché non voglio che tu mi veda in queste condizioni. Resta a casa tua, non sprecare il tuo tempo con me quando potresti essere in giro a divertirti o a giocare con Francis.

(Nikki!)

Francis! Sei già rientrato? Perché sei triste? Te l’avevo detto che qui non nevica. Lascia perdere quello slittino e torna da tua madre. Non sa dove sei finito ed è preoccupata per te. Vai, su, e se ti chiede come sto, dille che sto bene.

(Allora ciao, Nikki!)

Ciao, piccolo Francis e – no, non passare per di là! Non scendere dalla finestra, sull’albero ci sono i mostri. Bravo, vai giù per le scale e sta’ attento a dove vai. Mi raccomando, non dire alla mamma che sto male.

Sono di nuovo da solo con i demoni e c’è caldo ma ho freddo. La temperatura esterna è insopportabile, ma io grondo sudore e rabbrividisco quando l’aria mi sfiora la pelle. Non trovo più la coperta, continuo a rigirarmi sul materasso, mosso dagli spasmi che i crampi mi impediscono di controllare, e il comodino è ancora troppo lontano. Un ultimo sforzo, Sikki, ci sei quasi... ce l’ho, la dannata maniglia, ce l’ho!

Tutto vortica intorno a me e il sacchetto con l’eroina ha una strana consistenza molle, come se fosse di gelatina. Lo sollevo dal cassetto con tutte le forze che ho, fosse l’ultima cosa che faccio. Il mio armamentario è già a portata di mano e la luce della fiammella si riverbera sulle mie dita bianche e malate in una danza ipnotica. Osservo il liquido ambrato schizzare contro le pareti di plastica. La lampadina traballa, cade dal soffitto e rimane sospesa a mezz’aria, sostenuta dal nulla.

Non trovo una vena sana. Mi avvicino le braccia e le mani agli occhi, metto a fuoco, bestemmio, ma non ce n’è una che sia buona. Devo ripiegare sulle caviglie.

Francis se n’è poi andato, vero?

(Zì, è uzcito dalla cucina)

E voi cosa ne sapete?

(Muahahihih, l’abbiamo vizto!)

Nani di merda, giù le mani da Francis!

E il cuore, qui, sta per esplodermi. Ho paura, so cosa sono in grado di fare quei mostriciattoli. Le pareti trasudano ombre color lavanda.

L’ago affonda nella pelle, il dolore confortevole della salvezza che non è più così lontana. E BOOM, le voci si placano, le ombre si dissolvono, le risate sibilanti muoiono in lontananza ed io sono solo, totalmente solo in casa mia. Vado alla deriva sul materasso. La camera è una vecchia pellicola muta che traballa, qualche vago sprazzo di colore qua e là. La testa pulsa, le vene pulsano, le palpebre pulsano.

Chiudo gli occhi, un sospiro liberatorio che spazza via anche gli ultimi residui di ombre e ghignate.

Sono solo, fluttuo nel nulla e non ci sono più passato né futuro.

Sto bene così.




N.D’.A.: Ciao!
Toccata mordi e fuggi prima che il dovere mi chiami. Questo capitolo è corto, ma scriverlo è stata dura dato che non mi cimento spesso in questo stile. Non è necessario ai fini della trama ma, dopo essermi chiesta diverse volte se inserirlo o meno, ho deciso di lasciarlo. Spero che questa cosa assurda non sia... brutta. Se volete farmi sapere cosa ne pensate, accetto anche le critiche, purché costruttive!
Grazie a chi ha letto gli ultimi due capitoli! :’)
Alla prossima,

Angie






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Capitolo 24
*** Sydney ***


24
SYDNEY





Era già passata più di una settimana dall’ultima volta in cui avevo visto Nikki e non avevo ancora ricevuto né una visita né una telefonata da parte sua. Probabilmente era stato impegnato col disco che stavano terminando di incidere, ma ogni sera, quando andavo a dormire, mi ritrovavo stesa sul materasso a pensare a come se la stesse passando in quel momento. Mi domandavo se ogni tanto si ricordasse di me e si ponesse le stesse domande che io ponevo a me stessa nel buio della mia stanza. Probabilmente, mentre io dormivo, lui si trovava da qualche parte che non fosse casa sua, possibilmente in un locale di Hollywood, a bere con i suoi amici e a provarci con le cameriere. I nostri impegni non erano più compatibili come una volta e vivevamo in condizioni troppo diverse per poterci frequentare abitualmente come succedeva in precedenza, ma questo non significava che non ci ritenessimo più una normalissima coppia di amici – anzi, ero convinta che lo fossimo, altrimenti non mi sarei lasciata seguire fino in cima a un grattacielo per concedere a una persona di confessarmi uno dei fatti più dolorosi della sua vita. Tuttavia, nonostante non ci tenessimo più in contatto come prima, non mi dispiaceva la piega che avevano preso le cose. Considerando che trovare degli amici veri non è mai stato il mio forte a causa del mio temperamento apparentemente freddo e schivo, mi sembrava che Nikki avesse guardato oltre quella patina di ghiaccio che mi ricopriva e che non riuscivo a sciogliere, e che avesse trovato qualcosa di bello e piacevole.

Un giorno decisi di telefonargli, ma al quinto tentativo fallito rimandai la missione all’indomani: mentre Frankie sarebbe stato a scuola, sarei andata a cercarlo di persona perché, conoscendolo, avevo la sensazione che qualcosa non stesse andando per il verso giusto.

“Cosa fai oggi, mamma?” la voce di Francis mi riportò alla realtà e me lo ritrovai davanti, lo zaino in spalla e il cappellino dei Los Angeles Dodgers indossato al contrario. Si trattava di un regalo che John gli aveva portato l’ultimo Natale insieme a un canotto gonfiabile dotato di piccoli remi di legno.

“Credo che andrò a trovare Nikki,” risposi sovrappensiero mentre riordinavo velocemente la borsetta.

“Non vai a lavorare nel negozio di Katherine?” indagò il bambino con fare curioso.

Mi passai la borsa a tracolla e gli porsi la mano. “Oggi è giorno di chiusura.”

Frankie la prese ma non si mosse dal salotto come avrei voluto che facesse. “Perché non mi porti più con te quando vai da Nikki?”

Sospirai e cercai di trovare una spiegazione che fosse semplice sia da comprendere che da dire, maledicendomi mentalmente per avergli confessato i piani della mattinata. “Perché ultimamente è un po’ triste.”

“Come me quando cado e mi faccio male?”

“Sì, Francis,” dissi a bassa voce. “Solo che lui è più grande e più alto, quindi si è fatto più male. E se tu corri da me quando cadi, lui non può andare dalla sua mamma perché abita lontano e ha bisogno che ci vada qualcun altro.”

Feci una breve pausa durante la quale mio figlio annuì rassegnato, dopodiché gli aggiustai il cappellino sulla testa e lo esortai ad andare.

“Forza, José ci sta aspettando per andare a scuola.”

A missione compiuta, quando erano ormai le nove, riprovai a chiamare Nikki, ma non ottenni risposta dopo nessuno dei tre tentativi. Per un attimo pensai che fosse partito per lavoro e che non mi avesse detto nulla, ma dal momento che l’album non era ancora stato completato la mia ipotesi non poteva che essere sbagliata.

Passai un paio di minuti a tamburellare le dita sul tavolo sperando che ascoltasse il messaggio che gli avevo lasciato all’ultimo tentativo e che mi richiamasse, poi decisi che avrei tagliato la testa al toro e che mi sarei recata agli studi. Saltai in macchina e mi misi in viaggio nel traffico mattutino, disposta a trascorrere buona parte del tempo immobile sul sedile con la radio sintonizzata su una stazione a cui trasmettevano solo heavy metal britannico e in mezzo allo smog della freeway. Arrivai agli studi con la maglietta inzuppata di sudore, parcheggiai in una viuzza laterale esente dal parchimetro e salii direttamente al piano della sala della band, riservando alla centralinista un veloce “buongiorno” e ignorando le sue domande. Bussai alla porta dello studio finché qualcuno non aprì e mi ritrovai davanti Tommy. Mi fissava in modo strano: le folte sopracciglia inarcate, gli enormi occhi spalancati e la bocca semiaperta. Una spiacevole sensazione di imbarazzo mi travolse quando, un attimo dopo, mi resi conto che avevo bussato come se fosse successo il finimondo e che dovevo avere l’espressione di una che aveva appena assistito a un evento sovrannaturale.

“Ciao, Tommy,” mormorai sollevando la mano destra in segno di saluto. “Sto cercando Nikki. Sono giorni che non lo sento ed è da ieri che provo a chiamarlo ma non risponde. Per caso è qui?”

Il batterista rilassò il viso teso in una bizzarra espressione di stupore e sembrò diventare più basso di un metro: insaccò la testa nelle spalle, lasciò penzolare le braccia magre lungo i fianchi e si chinò leggermente sulle ginocchia. “Sono già alcuni giorni che non si presenta alle prove. Il disco è già stato finito e non ci resta che ultimare alcune cose cercando di limitare risse e battibecchi vari, ma lui preferisce lavorare da solo.”

“Non ha molto senso,” obiettai tra me. “Siete una band, dovete provare insieme, non ognuno a–”

“Infatti è proprio questo il problema,” mi interruppe Tommy, poi mi fece cenno di entrare in modo che potessimo parlare senza che tutto il palazzo ascoltasse le nostre voci che rimbombavano nelle scale. Non appena chiuse la porta, si passò le mani tra i capelli e si lasciò sfuggire uno sbuffo tutt’altro che rassicurante.

“Qualcosa non va?” azzardai. Tommy appoggiò una spalla al muro poi la staccò subito, nervoso.

“Io... io...” cominciò a balbettare mentre muoveva le mani in modo veloce e confuso. Gli occhi scuri nuovamente spalancati parlavano per lui ed esprimevano tutta la preoccupazione che una persona può provare per un amico. “Io non so cosa sai né quanto, quindi non so cosa posso dirti a parte che questo è un periodo per niente facile per Nikki così come per tutti noi.”

Mi accomodai sul divano e gli feci cenno di prendere posto accanto a me battendo leggermente il palmo della mano sulla finta pelle del sofà. “Se ti riferisci alle sue brutte abitudini, l’ultima volta che ci siamo incontrati mi ha raccontato qualcosa, poi non l’ho più visto né sentito.”

Tommy sospirò e si sedette, le mani che si attorcigliavano nel vano tentativo di sfogare la tensione. “Quello è proprio il motivo per cui non vuole venire qui. E se non si fa più vivo con te non è perché è uno stronzo o uno che ha voluto approfittarsene finché ne ha avuta la possibilità, ma perché ha la tendenza a farsi inutili viaggi mentali. Non so esattamente cosa gli passi per la testa, però so che nel novantacinque percento dei casi trae conclusioni infondate in base alle quali si comporta. Certe volte pensa che io preferisca mia moglie a lui e che sia stato suo amico finché mi sono sposato. Crede che da quel giorno abbia trovato qualcosa di meglio da fare e che non mi interessi più la nostra amicizia. Ti rendi conto?”

Aggrottai la fronte. Il cuore mi batteva all’impazzata, veloce come le parole del batterista. “Tutto questo è assurdo.”

“Certo che lo è!” esclamò Tommy, ora in piedi davanti a me.

Abbassai lo sguardo sulle mie mani sudate e, quando lo sollevai, lo fissai intensamente. “Posso sapere dove abita?”

“No,” rispose impulsivamente, poi si corresse. “Cioè, sì, te lo dico, però ti sconsiglio di andare a casa sua. Non è un bello spettacolo, potresti pentirtene.”

“Non importa, vorrei vederlo lo stesso,” risposi seria. “Voglio capire qualcosa. È già stato abbastanza strano rincontrarlo dopo sei anni e, come se non bastasse, l’ho trovato in pessime condizioni. Puoi darmi il suo indirizzo, per favore?”

Tommy sbuffò mentre prendeva la giacca di pelle dall’attaccapanni e si accese una sigaretta.

“Hai lasciato l’auto in un parcheggio a pagamento?” scossi la testa e lui annuì. “Bene. La tua macchina resterà qui a Hollywood per un po’. Ti ci porto io, a Van Nuys, così posso conoscere meglio la tipa di cui quell’idiota di Sixx parla sempre. L’hai fatto diventare peggio di una radio.”

La sua affermazione mi lasciò non poco stupita. Non mi aspettavo che Nikki gli parlasse spesso di me, ma in fondo mi faceva piacere.

Accettai l’invito di Tommy e approfittai di quella mezz’ora di viaggio per raccontargli quanto era necessario che sapesse sul mio conto. Il nostro dialogo si interruppe quando la sua auto si fermò vicino al marciapiede di una via larga e costeggiata da piante rigogliose a Sherman Oaks. Spense il motore e indicò un cancello alto e nero con un rapido cenno del mento. “È lì che abita.”

Deglutii a vuoto e mi soffermai sul giardino trascurato e infestato dalla vegetazione selvaggia. “Non mi sembra un posto felice.”

“Te l’avevo detto che non era Disneyland,” ribatté serio, poi si voltò verso di me. “Sei ancora sicura di voler entrare?”

Annuii e Tommy aprì la portiera dell’auto sospirando. Attraversò la strada con lunghe falcate e con me dietro che osservavo quella zona residenziale e verdeggiante di Van Nuys. Mi domandai se i rapporti con i suoi vicini di casa andassero bene dato che nessuno vorrebbe che il proprio giardino col prato all’inglese confini con una specie di giungla recintata da un muro alto due metri.

Accelerai il passo e seguii Tommy fin sotto la tettoia del cancelletto, poi ci appoggiammo al muro in attesa che qualcuno rispondesse dopo che il batterista ebbe suonato per ben tre volte, senza mai lamentarsene perché, come disse lui stesso, tanto faceva sempre così, quell’idiota di Sixx.

Tommy stava per fare il quarto tentativo quando la grata del citofono emise uno strano ronzio, subito seguito da un colpo di tosse e da una voce infastidita. “Chi cazzo è? Siete di nuovo quelli che vanno in giro a vendere enciclopedie? Sapete cosa ci faccio, io, coi vostri fottuti libri? Ve li infi–”

“Ehi, bro, calmati,” lo interruppe il batterista con tono autoritario, poi sembrò ammorbidirsi. “Sono Tommy e non sono da solo. Si può?”

La voce tornò a uscire dalla grata, gracchiante e tremolante. “Chi accidenti ti sei portato dietro? Non sarà mica quel rompicoglioni chiacchierone che suona nella band di Slash? Lo sai che a lui la mia roba non–”

“Chi, Steven? Ma figurati!” esclamò. “C’è Sydney. Te la ricordi, lei, vero?”

Tra la domanda e la risposta intercorse un lasso di tempo che parve infinito e durante il quale fissai Tommy con la speranza che la risposta non fosse negativa o che non dicesse cose spiacevoli nei miei confronti.

“Sì che me la ricordo. Sono fatto ma non rimbambito, almeno non ancora,” biascicò Nikki.

“Finirai per diventarlo quando ti sarai bruciato tutti i pochi neuroni che ti sono rimasti,” lo apostrofò l’amico, poi tornò a suonare il campanello. “Dài, bello, apri la porta. Syd sta aspettando.”

Nikki riagganciò la cornetta con poca delicatezza e un attimo dopo la serratura del cancelletto scattò. Attraversai il vialetto fatto da una doppia fila di mattonelle composte da una miriade di sassolini, tra i quali spuntavano foglie di tarassaco e ciuffi d’erba. Realizzai di aver corso solo quando mi fermai di scatto davanti alla porta, tenuta aperta da una mano pallida e tremante.

“Nikki?” chiamai, ora con una voce meno entusiasta.

“Perché sei qui?” domandò senza uscire dal suo nascondiglio.

“È tanto tempo che non ti sento. Ho provato a chiamarti ma non hai mai risposto né alle telefonate né al messaggio che ti ho lasciato sulla segreteria,” spiegai mentre esercitavo una lieve pressione contro la spessa porta di legno scuro nel tentativo di aprirla un po’ di più. “Mi sono preoccupata perché so che ultimamente non te la stai passando bene, allora ho chiesto a Tommy di darmi il tuo indirizzo. Volevo vederti.”

“Volevi... vedermi?” il bassista ripeté le mie parole come se avesse avuto bisogno di un’ulteriore conferma, e quando annuii la porta si aprì del tutto. Me lo ritrovai davanti tutto pallido e imbarazzato, con le occhiaie scure e profonde di chi non dorme un sonno tranquillo da troppo tempo, i capelli arruffati e resi stopposi dalla lacca che non lavava via da giorni. Tremolava sulla soglia con addosso una T-shirt strappata con un logo sbiadito dei Cheap Trick e un paio di pantaloni di flanella sgualciti che probabilmente appartenevano a un pigiama. Lasciò cadere un braccio lungo il corpo e appoggiò una spalla allo stipite per sostenersi.

“Di solito la gente mi evita, ma penso che tu abbia parlato sinceramente, anche se comunque cercherò di verificarlo. Sai, ultimamente ho la tendenza a non fidarmi troppo di nessuno,” rivolse un’occhiata a Tommy, il quale era rimasto in piedi dietro di me, zitto e immobile, poi tornò a posare lo sguardo su di me. “Vorrei invitarti a entrare, ma la casa è un disastro.”

“Chi se ne frega?” saltò su Tommy. “È sempre meglio parlare seduti al tavolo piuttosto che stare immobili sul patio, non credi?”

Nikki si strinse nelle spalle e sospirò sotto i nostri sguardi indagatori, poi si fece da parte per liberare l’ingresso. Ci invitò a entrare, raccomandandosi con me che, se avessi sentito il bisogno di fare dei commenti riguardo le condizioni del salotto, avrei dovuto tenerli per me dato che non aveva bisogno di sentirli. Varcai poi la soglia, ma Tommy disse che sarebbe rimasto fuori a fumare. Ci scambiammo un’occhiata di complicità: avevo inteso che l’unica ragione per cui aveva scelto di stare seduto su una panca di legno contro il muro era perché voleva che parlassimo senza lui tra i piedi.

Nikki lasciò la porta principale accostata, permettendo a un leggero alito di aria tiepida di riscaldare quell’immensa sala. Accese poi il lampadario, che probabilmente aveva acquistato in un negozio di antiquariato, e potei constatare che lo stato di quell’abitazione era anche più critico di quanto avessi immaginato. La polvere aveva reso opache le superfici di legno dei mobili costosi, c’erano bottiglie, riviste, fogli accartocciati e mozziconi di sigarette sparsi ovunque come se una grande mano li avesse lasciati cadere dal soffitto, e uno stomachevole odore di marcio aveva impestato l’aria viziata. Il bassista doveva essersi accorto dell’espressione disgustata che avevo vanamente tentato di nascondere perché scostò le tende pesanti e aprì una finestra, illuminando il salotto e lasciando che l’aria circolasse meglio.

Dopo che il mio sguardo ebbe vagato per tutto il pian terreno sempre più sconcertato, si posò su quello impaziente di Nikki. Scossi il capo un paio di volte perché avevo notato che, dietro di lui, appoggiato sul ripiano di una libreria, c’era un grosso gargoyle di pietra che protendeva la lunga lingua biforcuta verso di me.

“Cosa cazzo sta succedendo qui dentro?” domandai retorica: la risposta si trovava incrostata su un cucchiaio da minestra abbandonato vicino alla base della libreria.

“Lascia che ti spieghi,” mi pregò Nikki avanzando verso di me, il braccio teso che mi implorava di non scappare. “Ci sono ancora tante cose che non sai e che non so nemmeno se voglio dirti.”

“Come fai a vivere qui?” chiesi con la voce tremante più dal dispiacere che dalla soggezione provocata dalle statue gotiche che spuntavano da ogni angolo.

“Non lo so,” mormorò. Il braccio tornò a cadere lungo il suo fianco, come l’altro, poi tornò a sollevarlo, il palmo della mano rivolto verso l’alto.

Mi mossi in avanti di un solo, indeciso passo. “Di me puoi fidarti. Se c’è qualcosa che vuoi dirmi, puoi farlo.”

I suoi occhi verdi sembrarono accendersi e brillare.

“Posso davvero?” attese che annuissi prima di liberare il sorriso che aveva cercato di reprimere. “Allora sediamoci. È una storia lunga.”




N.D’.A.: Ciao a tutti!
Oggi ho il cervello fritto, per cui non mi dilungo troppo. Mi limito a ringraziare di cuore chi legge e chi segue la storia! :)
A presto,

Angie






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Capitolo 25
*** Sydney ***


25
SYDNEY





Il divano era un enorme pezzo di arredamento in vera pelle color ebano. Se avessi voluto metterlo nel mio salotto per sostituire quello a due posti che possedevo, ci sarebbe stato solo in diagonale. Prima che mi sedessi, Nikki passò una mano su di esso per liberarlo dalle briciole e dai gusci di arachidi che lo ricoprivano, infine sistemò i cuscini e distese meglio il tappeto persiano. Mi fece accomodare poi prese posto accanto a me, i gomiti ordinatamente appoggiati sulle ginocchia e lo sguardo fisso sul camino. Davanti al divano si trovava un tavolino da caffè con un ripiano di vetro sporco di cera colata. Le bottiglie, le lattine e i tre posacenere che lo invadevano proiettavano strani riflessi sul muro, urtati da un raggio di sole proveniente dalla finestra.

“Le ho bevute tutte da solo,” mi informò il bassista alludendo alle bottiglie vuote o quasi finite. “È uno dei pochi passatempi che mi restano. Ultimamente persino la musica mi dà la nausea. Mi sembra di aver perso l’ispirazione, eppure di cose che vorrei dire ce ne sono tante.”

“Se non sbaglio, c’era anche qualcosa che volevi dirmi,” azzardai.

Nikki si aggiustò sul divano e frugò nelle tasche finché non rinvenne un foglietto spiegazzato e macchiato di caffè. Lo distese con attenzione come se fosse stata fragile carta velina e me lo mostrò: si trattava di quel disegno di Francis che gli avevo portato tempo prima. Non riuscendo a fare nessun collegamento tra lo scarabocchio di un bambino e l’elemento peggiore di una delle band più folli e amate del momento, aggrottai la fronte e lo fissai di sbieco, interrogandolo con lo sguardo.

“Conosco un bambino triste,” iniziò mentre si sfregava nervosamente le mani. “È triste perché il suo papà è lontano e non era presente alla sua ultima festa di compleanno, né lo è stato alla penultima, alla terzultima e a tutte le altre,” allungò una mano sotto il tavolino e recuperò un diario dalla copertina rovinata e le pagine raggrinzite. “L’ultima volta che si sono visti era Natale. Quel giorno sì che era felice, perché finalmente aveva potuto rivedere i suoi genitori uno accanto all’altra, e per un attimo ha anche pensato che fosse sempre stato così. Gli ha portato un regalo, ma sa già che nel giro di pochi giorni finirà in cantina perché tanto è brutto e noioso, proprio come suo padre, che non lo va mai a trovare. Le poche volte che succede, non fa altro che impartire ordini. Però sorride. Sa che c’è qualcuno che gli vuole ancora bene.”

Separai le mani e cercai di rilassare i nervi, che fino a quel momento erano stati in massima tensione.

“Frankie?” sussurrai.

“Sì, Frankie,” disse lui con tono piatto mentre apriva di poco la prima pagina del diario. “Franklin Feranna.”

“Sei–”

“Sì, sono io,” confermò, poi riprese il suo monologo. “Franklin però non aveva una mamma che gli voleva bene. Preferiva andare in giro per il Paese a divertirsi, di Frankie le importava poco, forse niente. In compenso c’era Nona, sua nonna. Lei sì che gli voleva bene. Lo ha portato con sé e il nonno tutte le volte in cui si sono spostati per lavorare e non ha mai pensato di affidarlo a qualcun altro. Piuttosto è stato lui che, durante il liceo, ha deciso di trasferirsi a Seattle da sua madre perché là c’era sicuramente più da divertirsi che in un paesino sperduto in mezzo ai campi. Sai, questa decisione è stata la sua rovina e la sua benedizione allo stesso tempo: ha visto com’è vivere in città, ha conosciuto persone come lui e ha iniziato a strimpellare un basso rubato. Nel giro di qualche mese è tornato in Idaho a lavorare con i nonni e, quando ha raccolto abbastanza soldi, è partito per Los Angeles, dove nessuno lo avrebbe più schernito per i suoi gusti, le sue scelte e il suo aspetto. A Los Angeles c’è il paradiso, gli avevano detto, e il pivello ci ha creduto. Peccato si sia ritrovato in una fottuta giungla, senza nessuno su cui contare, almeno finché un giorno non ha incontrato quel coglione che adesso se ne sta da qualche parte fuori in giardino. Lui è diventato la sua famiglia. Lui e gli altri due.”

Spostai una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Non hai mai più parlato con tua nonna?”

Nikki si morse un labbro e scosse il capo.

“Sì, certo, però se n’è andata l’anno scorso. E sai dov’ero io?” strinse il diario tra le mani e lo lasciò cadere sul cuscino del divano. “Ero chiuso qui, fatto fino al midollo. Non capivo quello che era successo e non riuscivo a schiodare da questo fottuto salotto perché ero convinto che nessuno di loro volesse più vedermi.”

Si passò le mani ben aperte sul volto, sospirando tra le dita. Ero certa che prima o poi avrebbe ceduto e sarebbe esploso.

Strisciai sulla pelle del cuscino e mi avvicinai a lui. “Perché hai iniziato a farti?”

“Perché era l’unico modo per mettere a tacere i dispiaceri,” biascicò contro i palmi. “Lo so che non ci sono scuse, lo so, cazzo, me lo dicono sempre, ma all’inizio funzionava. Adesso... adesso niente sembra più andare per il verso giusto.”

Gli domandai se avesse mai provato a ricoverarsi in una di quelle cliniche che ti ripuliscono dalla testa ai piedi, uno di quei posti bianchi e noiosi in cui avevano mandato anche un mio amico di Las Vegas che avevo perso di vista dopo che ero stata costretta a trasferirmi a casa della madre di John, finché nell’Ottantasei ho saputo che era finito in una clinica di San Francisco insieme ad altri due ragazzi che conoscevo. Una di loro è scappata dopo due settimane scavalcando la recinzione, mentre gli altri sono riusciti a superare tutto, si sono sposati e sono rimasti a vivere da qualche parte in quella meravigliosa città.

“Non ne uscirò più, Syd,” si lamentò Nikki, il viso affondato contro le mani. “Vorrei riuscirci, ma ci ho già provato e ho abbandonato il programma dopo poco tempo perché era diventato insostenibile.”

Allungai una mano verso di lui e la appoggiai sulla sua spalla, non del tutto convinta che quel lieve contatto gli facesse piacere. Mi ricredetti quando si piegò lievemente verso la sua sinistra, come se avesse voluto darmi il consenso di toccarlo.

“Non mi resta più niente da fare. Sono riuscito a rovinare le poche cose belle della mia vita,” riprese con lo stesso tono tremante. “I contatti con la mia famiglia, la mia band, la musica e persino me stesso. E sai perché? Perché sono un idiota!”

Voltò il capo e io mi sporsi in avanti, notando che una lacrima gli rigava il volto, portando con sé i residui del trucco che probabilmente gli ristagnava sulle palpebre da più giorni. Era strano vedere una persona grande e grossa come lui cadere in mille pezzi in quel modo. Nikki era uno di quei tipi che, pur di non dire che stavano attraversando un periodo difficile, sarebbe stato in grado di fingere sorrisi spavaldi e fare finta di essere l’uomo più tosto di tutti. Ma adesso la maschera sembrava essersi sciolta grazie al calore che può trasmettere una voce amica che ti autorizza a essere te stesso anche quando ti senti in imbarazzo.

“Nikki?” tornai a sfiorargli la spalla. Stavolta rispose scivolando di lato finché non fui costretta a prenderlo tra le braccia come se fosse stato Francis che tornava a casa da scuola, disperato dopo che un altro bambino lo aveva deriso per qualcosa di futile. Sembrava che fosse regredito all’età di cinque anni da tanto era distrutto. Ero convinta che sarebbe scoppiato in un pianto epocale, invece appoggiò semplicemente la testa contro la mia spalla e iniziò lentamente a calmarsi. Il suo respiro divenne sempre più regolare, i muscoli si rilassarono e chiuse gli occhi.

“Quando ho incontrato Francis per la prima volta mi sono rivisto in lui,” confessò senza aprire le palpebre rese scure dal trucco sciolto e dalla stanchezza. “Però so che tu non lo lascerai mai da solo. Avrà sempre qualcuno su cui contare.”

Passai una mano tra i suoi capelli scuri e stopposi. “Anche tu, se lo vorrai, potrai avere qualcuno. Però devi fidarti.”

“Sì, come no...” bofonchiò sarcastico.

“Tommy è tuo amico. Io sono tua amica.”

Aprì di colpo gli occhi chiari e girò la testa verso di me. “Tu?”

Annuii e quel gesto fu sufficiente perché tornasse ad appoggiare la testa sulla mia spalla, allora circondai le sue con entrambe le braccia e lasciai che si crogiolasse in quell’affetto per qualche minuto, senza parlare e limitando il più possibile ogni movimento. Solo quando girai il collo per dare un’occhiata alla porta socchiusa notai che, fermo sulla soglia e nascosto dietro di essa, Tommy ci osservava. Si accorse che lo avevo visto e sollevò il pollice, un’espressione di esausta gratitudine stampata sul viso. Aspettai che si allontanasse prima di controllare l’orario e realizzare che era già giunto il momento di tornare a casa, allora attirai l’attenzione di Nikki passandogli una mano sul capo.

“Devo andare,” dissi sottovoce. “Tornerò tra un paio di giorni, va bene?”

“Non andare via,” ribatté calmo e senza forze.

“Devo andare,” risposi mentre tornava a sedersi. “Oggi pomeriggio ho il turno al locale e non posso permettermi di arrivare in ritardo.”

Nikki si stropicciò gli occhi e mi accompagnò alla porta senza mai staccare il palmo dalla mia spalla, come se fosse stato un modo per prolungare il più possibile il contatto di poco prima. Dovetti ripararmi gli occhi dalla luce bianca del sole non appena varcai la soglia. Nikki restò fermo sulla porta a guardarmi come se stessi partendo per un paese lontano con l’intenzione di non tornare mai più.

“Fammi un favore, Sixx,” cominciai puntandogli contro un dito per enfatizzare la richiesta. “Qualche volta telefonami. Non tutti i giorni, ma solo ogni tanto. Voglio essere sicura che tu stia bene.”

Si grattò la nuca, gli occhi strizzati a causa della troppa luce. “Come vuoi.”

“Torno!” esclamai ironica prima di chiudermi il cancelletto alle spalle.

Tommy era già in macchina in attesa che finissi di fare raccomandazioni al suo amico, intento a cercare una stazione radio su cui trasmettessero un pezzo a lui gradito. Smise di fare zapping solo quando presi posto sul sedile del passeggero, lo sguardo fisso sulla strada davanti a noi.

Fu lui il primo a rompere il silenzio quando avevamo già raggiunto la freeway. “Te lo aspettavi?”

Sospirai e appoggiai il capo al vetro del finestrino. “Lo sapevo già che si faceva, ma non mi aspettavo uno scenario del genere. In che razza di posto vive?”

“Gli ho proposto mille volte di chiamare qualcuno che metta un po’ in ordine, ma ha sempre rifiutato perché ha paura che gli rubino la roba,” le mani saldamente aggrappate al volante dimostravano quanto fosse arrabbiato e dispiaciuto per il suo amico. “Però non è una casa pulita ciò di cui ha più bisogno. Gli serve qualcuno che gli voglia bene per davvero.”

Aggrottai la fronte assumendo l’aspetto di una mocciosa che non aveva ben compreso. “Tu non sei il suo migliore amico?”

“Sì, ed è proprio questo il problema,” esclamò. “Di me se ne approfitta perché abbiamo troppa confidenza. Poi io, stando a ciò di cui si è convinto negli ultimi mesi, da quando mi sono sposato non mi interesso più di lui perché ho trovato qualcuno di migliore. Pensa che mi sia approfittato di lui per tutto questo tempo, capisci?”

“Ma una moglie è diversa da un amico, così come lo è da un genitore o un fratello,” ribattei con il capo ancora appoggiato al finestrino, incurante dei sobbalzi dell’automobile. “Non ce n’è uno che amiamo di più. Proviamo un affetto diverso per ognuno e basta.”

“Be’, Nikki non ci vuole arrivare,” borbottò, la testa insaccata nelle spalle. “Tu che puoi e, soprattutto, tu che lo vuoi, dovresti fargli capire che non ti sei affezionata a lui solo perché è famoso e pieno di soldi o un’altra delle stronzate che dice sempre. Vorrei che gli stessi vicino il più possibile perché sento che sei uno dei pochi che può farlo.”

Mi degnai di guardarlo in faccia per la prima volta da quando avevamo lasciato Van Nuys. “Dici?”

“Sì,” si affrettò a confermare. “Ovviamente non sei costretta ad accettare, però ho capito che lui vede in te qualcuno di positivo. Io, che lo conosco da tanto, so che ha la tendenza a diffidare di tutti, ma dovresti ricordartelo anche tu.”

Mi sedetti composta sul sedile nero e mi tirai indietro i capelli. “Prima non era così esagerato ma, dopo tutto quello che ha passato, non stento a crederci.”

Tommy svoltò in direzione di Hollywood e lasciò la freeway trafficata. “Appunto. Però, tralasciando quella sera al locale, posso dire che ti tratta diversamente dalle altre persone, e sono contento perché significa che la tua presenza lo fa sentire sereno. Mi spiego?”

“Alla perfezione,” risposi con un filo di voce mentre osservavo le costruzioni e le palme ai lati del viale che scorrevano via.

“Non vedo l’ora che si liberi dai suoi casini,” confessò piano come se qualcuno avesse potuto sentirci. “A proposito, se dovessi aver bisogno per aiutare quell’idiota patentato, dimmelo. Ti aiuterò tutte le volte che vuoi.”

Annuii. Avere qualcuno che mi stesse vicino nell’aiutare Nikki mi avrebbe senz’altro fatto comodo.

Non avevo mai visto una persona essere così legata e preoccupata per un’altra. Gli amici che avevo frequentato avevano sempre avuto la tendenza a essere degli approfittatori: finché erano loro ad aver bisogno di me erano tutti miele e paroline dolci, ma quando anch’io ho cominciato a sentire la necessità di avere accanto qualcuno che mi sostenesse, erano tutti spariti.




N.D’.A.: Buongiorno!
Si comincia a fare luce su qualche mistero. Non che non si fosse capito prima, ma almeno Nikki sta cominciando ad ammetterlo (a Syd e a se stesso).
Ringrazio di cuore chi segue, legge e lascia recensioni! ♥
Alla prossima,

Angie






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Capitolo 26
*** Nikki ***


26
NIKKI





“Quanti hai detto che sono, bro?” domandò Tommy. In quel momento era stravaccato su una delle sedie del giardino, una sigaretta tra le labbra e gli occhiali da sole calati sul naso per nascondere le occhiaie di uno che la sera precedente è rimasto chiuso nella sala prove a rullare come un forsennato e che ora, nonostante la stanchezza, ha trovato le forze per andare a trovate il suo migliore amico.

Sollevai una mano mostrando il numero con le dita. “Quattro. Cinque oggi a mezzanotte meno un quarto.”

T-Bone sghignazzò sarcastico scuotendo il capo. “Bello, se posso permettermi, ti dico che secondo me tutto questo tira e molla con la roba non è un grande idea. Tanto lo sappiamo entrambi che tra una decina di giorni torni a ricomprare tutto perché non riesci più a resistere.”

Roteai gli occhi e mi lasciai scivolare sulla sedia di plastica, arrivando a toccare lo schienale con la nuca. “Stavolta devo riuscirci, o almeno devo provarci.”

“L’unico modo è chiud–”

“Taci,” lo interruppi bruscamente. “Lo so cosa dovrei fare, ma domani partiamo per il tour,” attesi che Tommy annuisse. “Ecco, avrei un’idea. Voglio lasciare tutta la roba a Los Angeles e utilizzare queste settimane per–”

“Okay, amico, basta così,” stavolta fu lui a interrompermi, il suo consueto tono pacato accompagnato da un gesto quasi impercettibile, poi lasciò cadere gli avambracci sui braccioli della sedia e scosse il capo, quasi divertito. “Bro, ma quanto ti ha fatto andare fuori di testa quella?”

Aggrottai la fronte sperando di aver sentito male, invece le parole che mi rivolse poco dopo confermarono il mio sospetto.

“Non fare il finto idiota!” mi ammonì puntandomi contro un dito. “Ti sei rimesso in testa di uscire dai tuoi casini seguendo una delle tue soluzioni drastiche la sera stessa in cui Sydney, Britney, o come si chiama, si è presentata qui.”

Ci fu un attimo di pausa durante il quale gli lanciai una di quelle occhiate fulminanti che sono solito riservare alle persone per avvertirle che stanno esagerando, poi appoggiò le mani sul tavolino e si avvicinò a me senza togliersi dalla faccia quel suo ghigno da furbo.

“Dài, Sixx, siamo seri per una volta. Quanto ti piace la tipa?”

Indietreggiai facendo grattare i piedini della sedia sulla palladiana del marciapiede. “Piantala con queste stronzate.”

“Non sono stronzate!” ribatté dopo essere tornato al suo posto. Il sorrisetto marpione era scomparso. “Voglio solo darti un consiglio da amico. Apri bene le orecchie,” schiacciò il mozzicone nel posacenere strapieno prima di proseguire. “Quella ragazza mi sembra una tipa a posto e sono quasi sicuro al cento percento che non ha secondi fini. Vuole solo starti vicino. Dove abbia trovato la forza e la voglia di affezionarsi a uno come te non lo so, però non mi dispiace che l’abbia fatto. È per questo che vorrei che non ti facessi delle strane idee su di lei. Continua a telefonarle così non sta in pensiero e così fate anche due chiacchiere, però lascia perdere i tuoi soliti giri mentali, d’accordo?”

Mi sembrava un po’ tardi per mettermi in guardia su certe cose. Raramente mi era capitato che qualcuno si affezionasse a me, ed era uno dei motivi per cui, non appena accadeva, mi affezionavo a mia volta ed era difficile distogliermi da un sentimento così bello – perché, diciamocelo, amare qualcuno ti fa sentire così bene che vorresti vivere eternamente cullato da quell’affetto. Quando pensavo a Syd o parlavo con lei al telefono, mi sentivo così sereno e sollevato che avrei voluto averla accanto e stringerla forte. Volevo mostrarle tutta la mia gratitudine e lo strano attaccamento che avevo sviluppato nei suoi confronti. Tuttavia, come afferma lo stesso proverbio, se la montagna non va da Sixx, Sixx va alla montagna – e ci va anche alla svelta, a bordo della sua Corvette e infischiandosene del traffico sulla 405.

Aspettai mezz’ora prima che Tommy si decidesse a schiodare dalla sedia per correre a casa da Sua Maestà Sua Moglie. Lo salutai dalla soglia come se fossi stato una di quelle mammine apprensive come la mia non era mai stata, e filai dritto al piano di sopra per darmi una sistemata. Furono sufficienti una doccia fatta in tempo record e dei vestiti freschi di bucato, et voilà. Ero un bijou. Non avevo neanche le occhiaie, anzi, il mio volto era illuminato da un’espressione serena che non vedevo da tempo.

Whisky iniziò a scodinzolare non appena capì che mi stavo preparando per uscire, certo che lo avrei portato con me. Tutto quello che riuscì a ottenere fu la ciotola piena di crocchette e un mezzo cheeseburger avanzato dal pranzo di cui avrebbe mangiato solo la carne e il formaggio, il tutto accompagnato da una carezza sulla testa, ricambiata con un’appiccicosa leccata sulla guancia.

Sintonizzai la radio della macchina sulla mia frequenza preferita e corsi lungo la freeway finché non raggiunsi Venice, sulla quale il sole stava cominciando a tramontare. Parcheggiai in una stradina polverosa e buia tra due blocchi di appartamenti e corsi fino al cancelletto della palazzina di Sydney, la testa insaccata nel collo del chiodo e i capelli che mi coprivano il viso.

Quando Syd rispose al citofono non mi sembrò che fosse contenta della mia visita, tuttavia cercai di convincermi del contrario e salii le scale che conducevano al suo pianerottolo. Là, sulla soglia della porta, lei mi aspettava con un’espressione sorpresa stampata sul viso.

“Sono passato a trovarti,” esordii. “Stavi facendo qualcosa di importante?”

Scosse il capo mentre mi faceva cenno di entrare. “Sono tornata dal lavoro un’ora fa. Frankie e io abbiamo appena finito di cenare e adesso si sta facendo la doccia. Qual buon vento?”

Scrollai le spalle. “Mi chiedevo se stessi bene.”

“Certo che sto bene!” esclamò accompagnando le parole con un sorriso gentile. “Tu, piuttosto?”

Mi accertai che Francis fosse ancora in bagno e trattenni a stento la felicità di quella notizia che le stavo portando. “Ho deciso di mettermi in riga.”

Sydney sobbalzò e mi fissò con i grandi occhi fuori dalle orbite, probabilmente chiedendosi se fossi impazzito o se stessi mentendo

“Sono quasi cinque giorni che non tocco neanche un granello di coca e che mando giù solo aspirine per il mal di testa,” annunciai fiero di me stesso, per una buona volta. “Stavolta faccio sul serio.”

Syd sollevò le sopracciglia, sempre più attonita. “Hai intenzione di farlo da solo?”

“In realtà pensavo di affidarmi a qualcuno di esperto,” mentivo e ne ero consapevole. Non avrei mai lasciato che qualcun altro risolvesse un mio problema per me. Se fossi veramente riuscito a saltare fuori da quella fossa buia in cui ero caduto, l’avrei fatto da solo. Più precisamente, avrei approfittato del tour per sistemare le cose. Le mentii solo perché volevo che non si preoccupasse e anche che se ne stesse un po’ alla larga dalle mie decisioni. Apprezzavo il sostegno e l’amicizia che Syd era disposta a darmi, ma non avrei lasciato che lei né nessun altro si intromettesse nel mio problema.

Sydney si portò una mano sulla fronte, l’altra appoggiata sul fianco, e la lasciò scivolare lungo il viso. “Quello che stai per fare è un passo veramente importante. Soprattutto se si tiene conto che–”

La sua frase fu interrotta da una voce acuta proveniente dal disimpegno.

“Nikki!” esclamò Francis non appena mi vide, gli occhi strabuzzati e un sorriso con qualche buco che gli illuminava il volto. Lo salutai con un cenno della mano e mi chinai sulle ginocchia, pronto ad acchiapparlo al termine della sua scoordinata corsa attraverso il salotto. Si precipitò tra le mie braccia e mi si aggrappò al collo, ed era così contento di vedermi che, nel tentativo di raccontarmi tutte le cose che aveva fatto dall’ultima volta in cui ci eravamo visti fino a quel giorno, si mangiava le parole. Il suo monologo si concluse col classico attacco di singhiozzo che prende le persone che parlano troppo in fretta. Syd gli porse un bicchier d’acqua, Francis ne bevve un sorso e riprese subito a parlare. “Che bello rivederti! La mamma dice sempre che passa a trovarti o che le hai telefonato, però io non sono mai a casa e non posso né andare con lei né farmi passare la cornetta per salutarti.”

“Non ti preoccupare, ci pensa lei a portarmi i tuoi saluti,” risposi con un occhiolino. “A casa ho anche il tuo disegno della spiaggia.”

“Quand’è che torniamo a raccogliere le conchiglie?” domandò mentre giocherellava con un bottone della camicia del pigiama.

“Quest’estate, quando sarai in vacanza,” buttai lì, ma a quanto pareva ero riuscito a dimenticarmi che eravamo già all’inizio di giugno e che le scuole sarebbero finite entro pochi giorni. Non fu difficile inventare un’altra scusa che fosse di suo gradimento.

Sydney mi fece cenno di rimetterlo con i piedi per terra e indicò l’orologio. “Visto che domani sarai ancora a scuola, sarebbe meglio andare a dormire.”

“Non posso neanche chiedergli se può suonare qualcosa con la mia chitarra?” la implorò con gli occhi che faticavano a stare aperti per la stanchezza.

Syd non si fece intenerire dallo sguardo supplichevole del bambino. “Un’altra volta. Sono già le nove e devi andare a letto.”

“Posso chiedergli di raccontarmi qualcosa?”

E a questo punto sentii il suolo scomparire da sotto i piedi, soprattutto dopo che sua madre ebbe approvato, specificando che avrebbe potuto ottenere ciò che voleva solo se anch’io fossi stato favorevole.
Ma io non sono bravo in queste cose!

Sydney mi informò che c’era un libro sul comodino e che avrei potuto leggergli uno dei racconti che conteneva. Annuii a testa bassa e mi diressi verso la stanza, dove Francis aveva già preso posto nel suo letto, sotto la coperta gialla con una fantasia con gli aeroplanini. Notai che il tema dell’aeroplano era piuttosto ricorrente all’interno della cameretta: uno di polistirolo colorato con la tempera pendeva dal soffitto sostenuto da un filo di nylon trasparente, alcuni modellini erano allineati su uno scaffale, e sull’anta dell’armadio erano stati appesi dei disegni che rappresentavano aerei con gli occhi dalle lunghe ciglia e i sorrisi sproporzionati.

“Ti piacciono gli aerei?” domandai retorico mentre prendevo il libro dal comodino.

“Sì,” confermò. “Mi piace volare, ma non l’ho mai fatto. Tu hai mai preso l’aereo?”

“Oh, sì, tante volte,” mormorai in risposta, e quando mi chiese quante volte avevo volato e dov’ero andato, mi sentii in dovere di elencare tutti i Paesi in cui mi ero fermato per un concerto. Giappone, Inghilterra, Francia, Italia, Canada... e New York, Chicago, Londra...

Francis mi guardava con la bocca spalancata, domandandosi come fosse possibile che una persona avesse viaggiato così tanto e così lontano. “Qual è il più bello?”

Mi spremetti le meningi, maledicendomi per non aver mai visitato una sola delle città in cui ero stato in modo più approfondito, ma la risposta non fu difficile da trovare. “Senz’altro il Giappone.”

Francis sfoggiò un enorme sbadiglio poi si accucciò meglio tra le coperte. “Dov’è il Giappone?”

“Dall’altra parte dell’Oceano,” dissi. “Quando guardi verso il sole che tramonta, guardi verso il Giappone.”

“E come mai è così bello?”

Mi voltai alla mia destra e notai che Syd ci stava osservando in silenzio da dietro la porta. Ci scambiammo un cenno di complicità prima che rispondessi alla domanda di suo figlio. “Perché quando vedono qualcuno che viene da lontano e che piace loro, le persone gli fanno tanti regali. Mi hanno ricoperto di bambole, aquiloni e disegni.”

“Li fanno i bambini, i disegni? Come faccio io con te?”

“No, li fanno anche i grandi. Sono strani simboli che usano per scrivere.”

“Non possono scrivere con le lettere normali?” un altro sbadiglio infinito.

“A loro piacciono di più i simboli strani. E, in effetti, sono più interessanti.”

Si stropicciò gli occhi poi nascose le mani sotto la coperta, al caldo. “Anch’io voglio andare in Giappone.”

E un attimo dopo le palpebre si abbassarono del tutto. Si era addormentato con una facilità invidiabile e il libro di favole era ancora chiuso sulle mie ginocchia. Lo riposi attentamente sul comodino, spensi l’abat-jour e abbandonai la camera senza far rumore grazie alla moquette che attutiva il rumore delle suole degli stivali.

Sydney chiuse la porta del disimpegno e sollevò i pollici. “Ottimo lavoro. Credo che dovrei chiamarti più spesso, oppure assumerti come addormentatore a tempo pieno. Sai, a volte fa i capricci e non vuole andare a letto perché preferirebbe giocare. Non posso biasimarlo, però lui deve andare a scuola e io al lavoro, quindi mi tocca costringerlo a dormire.”

Abbozzai un sorriso nell’attesa che Syd prendesse posto sul divano. Era ora che le comunicassi i miei piani per le prossime settimane dato che le avrei passate tutte lontano da Los Angeles, a bordo di un autobus o di un jet claustrofobico, saltando da una città all’altra, da un albergo all’altro, da un palco all’altro senza mai notare nulla di nuovo. Per una frazione di secondo immaginai come sarebbe potuto essere se fossi scappato di casa, fossi risultato irreperibile e mi fossi rifugiato in quell’appartamento di Venice con Sydney e Francis. Non avrei potuto farlo neanche se lo avessi voluto per davvero e neanche per un solo giorno: Syd non avrebbe voluto uno come me in giro per casa troppo a lungo.

Notai che prima di parlare attese che mi sedessi e che mi rilassasi, dopodiché prese posto accanto a me, le braccia incrociate.

“Adesso che Frankie dorme, posso sapere il motivo per cui sei piombato qui?” aggrottai la fronte alla ricerca di una spiegazione. “Ho l’impressione che tu mi debba dire qualcos’altro, o sbaglio?”

Cominciai a prendere in considerazione l’esistenza della telepatia e dello shining. Forse Stephen King, considerando il soggetto, non se l’era del tutto inventato.

“In effetti ci sarebbe una cosa che vorrei dirti,” cominciai senza dare nessun segno di imbarazzo né di impazienza. “Domani inizia il tour che promuove il nostro nuovo disco.”

Syd spalancò gli occhi e le braccia si sciolsero dal nodo che avevano formato sul suo busto. “In effetti mi sembra di aver letto che Girls, Girls, Girls sta riscuotendo un ottimo successo.”

“Sì, be’, non avevo dubbi al riguardo,” biascicai, poi iniziai ad abbassare lentamente lo sguardo, ritrovandomi a fissare le mie stesse mani. “Il tour dovrebbe durare circa un anno, ma ci saranno dei periodi in cui tornerò a L.A.. Tu, però, potrai chiamarmi quando vuoi,” frugai in tasca ed estrassi un biglietto che avevo preparato prima di andare a Venice. “Qui c’è il numero della casa discografica. Puoi telefonare e farti mettere in contatto con me, però specifica chi sei perché ho già informato la segretaria che chiamerai per avere mie notizie.”

Syd prese il foglietto spiegazzato dalle mie dita e ne studiò la filigrana spessa prima di infilarlo in una tasca dei pantaloni.

“Lo farò solo se anche tu prometti di prendere su la cornetta e chiamarmi per dirmi che stai bene,” le sue mani si affrettarono a prendere la mia in un gesto spontaneo. “Solo qualche volta, così non mi preoccupo.”

Che cosa strana. Nessuno si era mai preoccupato per me. Nessuno mi aveva mai chiesto di fare delle telefonate per assicurarsi che fossi ancora vivo. Nessuno era mai riuscito a trasmettermi un senso di calore così intenso semplicemente prendendomi la mano.

Con un gesto svelto ma fin troppo gentile per uno come me, approfittai di quel contatto per tirarla verso di me. Non avevo strane intenzioni, non mi erano passate per la testa neanche una volta in tutta la serata. Volevo solo abbracciarla: c’era forse qualcosa di male? Sicuramente non si addiceva a una persona come me visto che è credenza comune quella che i rocker siano tutti dei tipacci senza sentimenti che amano distruggere, picchiare e pestare. Ma, a questo punto, se veramente non provassimo sentimenti, come potremmo comporre quei pezzi che i nostri fan amano tanto?

Dopo aver passato anni con una fame implacabile per la distruzione e la ribellione, volevo finalmente fare ciò che avrei dovuto fare tempo prima: creare un’amicizia vera.

Syd sembrava aver capito le mie intenzioni, e infatti scosse il capo, sconfortata, senza lasciar andare le mie mani.

“Non voglio partire per quel cazzo di tour,” confessai mentre le accarezzavo i ricci.

La presa sulle mie mani aumentò. “Anche se ci vediamo poco perché viviamo lontani e abbiamo altre cose e altre persone a cui pensare, mi mancherai tanto.”

“Anche tu mi mancherai,” confessai sottovoce, come se qualcuno avesse potuto rinfacciarmi di aver proferito tali parole. “Però appena torno ti passo a trovare. Andremo in cima ai grattacieli a fare le foto a Los Angeles e porterò anche Francis a vedere un aereo vero.”



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Capitolo 27
*** Nikki ***


27
NIKKI





Fin dal primo giorno del lungo tour che ci aspettava, capii che non avrei assolutamente potuto affrontare la situazione da solo. Ero partito senza aver messo in valigia nient’altro che non fosse erba, con di fianco Tommy che mi guardava con un sopracciglio sollevato come se fosse stato in attesa della crisi che diceva mi avrebbe colpito nel giro di poco. Infatti, come lui stesso aveva previsto, la sera del secondo show, non appena riuscii ad abbandonare la location del concerto con in mente solo di andare a dormire perché non mi ero ancora abituato ai ritmi e alla routine della vita on the road senza roba, cominciai a sentirmi strano. Dapprima mi assalì un forte raffreddore, poi fu la volta di un insopportabile senso di nausea. Avevo capito a quale tortura stavo andando incontro, allora mi feci riaccompagnare subito in albergo, dove avrei potuto soffrire da solo e in silenzio, senza ragazze che mi giravano intorno e senza Doc che impartiva ordini a cui non avremmo mai dato ascolto.

Il viaggio in ascensore parve durare un’eternità, e il tragitto dal pianerottolo alla mia stanza era stato reso una scalata senza fine dalle vertigini e dal dolore alle gambe causato dai pantaloni di pelle troppo attillati. Barcollai in bilico sui miei arti formicolanti fino alla porta, che riuscii ad aprire solo dopo un paio di tentativi e, non appena la ebbi richiusa, mi liberai immediatamente di quei dannati indumenti stretti. Feci appena in tempo a farlo prima di perdere l’equilibrio per poi essere salvato dal materasso. Restai immobile a pancia in giù per qualche minuto in attesa di accumulare abbastanza forze per sgusciare sotto le coperte e, quando riuscii a farlo, mi arrotolai nel lenzuolo rigido come se avesse potuto proteggermi dal mondo esterno. Soffrii in una pozza di sudore per tutta la notte, girandomi e rigirandomi, con il naso che colava, lo stomaco che sembrava dovesse esplodere e un male lancinante ad ogni singola parte del corpo. Sentivo come una saetta che mi trapassava la testa e le ossa, e mi sembrava che ogni muscolo fosse colpito da un crampo. Mi ero anche promesso che quella sera avrei telefonato a Sydney per rassicurarla e dirle che stavo bene, invece ero costretto a letto dai crampi, con le pareti rosa pesca della camera che vibravano come le insegne al neon dell’Hollywood Boulevard.

Nel bel mezzo della notte, quando il dolore aveva raggiunto il suo apice, riuscii ad allungare un braccio per arraffare il telefono sul comodino e digitare il numero della stanza di Tommy. Attesi che rispondesse e, non appena sentii il rumore della cornetta che veniva sollevata, gli ordinai di portarmi un po’ della sua roba. Bofonchiò qualcosa di incomprensibile prima di riagganciare, dopodiché si presentò nella mia stanza con un’espressione piuttosto seccata, mentre io non ero ancora riuscito a sedermi.

“Te l’avevo detto,” sibilò. “Non riesci nemmeno a tirarti su da quel letto. Ho dovuto chiedere ad una cameriera di aprirmi.”

“Non lo vedi che sto male?” gli rinfacciai da stretto nelle coperte. “Mi hai portato qualcosa, piuttosto?”

“Ho un’aspirina,” disse con tono piatto, ma quando sentì un mio verso di disappunto sbuffò sonoramente. “Cazzo, Nikki, ci stavi riuscendo. Non è stata una bella idea farlo proprio adesso, durante il tour, però ce la stavi facendo.”

Ci fissammo a vicenda per un po’, nel bel mezzo del silenzio della camera, la cui moquette era impregnata di vomito e le cui pareti erano a malapena illuminate dalla luce.

Fu lui il primo a cedere. Cacciò pesantemente una mano nella tasca del chiodo, ne estrasse una bustina e me la lanciò addosso. “Ecco quello che volevi.”

Non esitai a strappare la plastica e a stendermi una striscia di cocaina sul dorso della mano per sniffarla subito dopo, il tutto sotto lo sguardo assonnato ed esausto di Tommy.

“Adesso sono io quello che ti ha portato la roba,” mormorò mentre si passava le dita tra i capelli. “Che cazzo...”

Mi asciugai il naso e mi rilasciai cadere supino, cullato in un abbraccio che mi era mancato. “Non preoccuparti, Tommy-baby, hai fatto il tuo dovere.”

“Avrei semplicemente potuto lasciarla nella tasca,” disse, le braccia magre che penzolavano lungo i fianchi. “Ma non sono riuscito a resistere a quello che ho visto.”

“Come se tu non ti facessi mai una pista...” ribattei.

T-Bone si lasciò sfuggire una ghignata sarcastica prima di girare sui tacchi e abbandonare la mia stanza. Se fosse restato, avremmo potuto condividere quel che era rimasto della sua roba, da buoni amici quali eravamo sempre stati, invece gli avevo fatto schifo – e perché qualcosa faccia schifo a Tommy Lee, deve essere qualcosa di veramente rivoltante.

Sono così rivoltante, io?

Mi tirai il lenzuolo fin sopra gli occhi e attesi che giungesse l’ora di abbandonare l’albergo alla volta della tappa successiva, consapevole di non aver mantenuto fede alla promessa che avevo fatto a T-Bone, a Syd e, soprattutto, a me stesso. Quella era l’ennesima prova del fatto che da solo non sarei mai riuscito a cavare i piedi da quella situazione, ma ero troppo testardo per capirlo. Io ero Nikki Sixx, cazzo, e non avevo bisogno di nessuno. Frankie Feranna aveva bisogno di essere aiutato, ma io no.

A partire dalla sera successiva, mi riempii la valigia con tutta la roba che ero riuscito ad acquistare da uno spacciatore della zona e potevo essere dichiarato ufficialmente sconfitto. Ero arrivato a un punto in cui non me ne fregava più di niente e nessuno. Non che prima mi lasciassi influenzare dalle idee altrui, però da quando avevo rincontrato Sydney qualcosa mi stava imponendo di smettere, perché se fossi stato pulito le avrebbe fatto più piacere avermi vicino e forse sarei riuscito a ricostruire una vecchia amicizia che credevo persa per sempre. Ma il dolore e le ripercussioni della mia decisione mi avevano costretto a tornare al mio posto nel giro di poco tempo.

Chi ti credevi di essere, Sixx? Volevi fare tutto da solo, povero illuso?

Sì, volevo fare tutto da solo, come avevo sempre fatto, senza rendermi conto che ciò di cui avevo veramente bisogno avrei potuto crearlo solo con qualcun altro. Ed io, che ero un ammasso di contraddizioni, presi l’abitudine di chiamare Syd solo quando ero immerso nella pace della mia stanza, a fine concerto, e dopo essermi ripreso dallo sballo. Prendevo su la cornetta, componevo con poca pazienza la solita sequenza di digitazioni che bisogna fare per effettuare una chiamata esterna all’albergo, e attendevo che rispondesse, con una paglia tra le dita e la testa leggera che sembrava fluttuare nell’aria stantia della stanza. Le conversazioni erano più o meno sempre le stesse: uno chiedeva all’altra come stava, ci raccontavamo dell’ultima giornata di lavoro o dell’ultimo concerto, ogni tanto mi passava Francis, che iniziava a parlare di duecento cose alla volta, infine la chiamata si concludeva con un “stammi bene” da parte sua. Non appena riagganciavo, una morsa mi stringeva il cuore e lo stomaco. Sembrava così felice quando le raccontavo di come era andato bene il live... era così fiera di me... e se solo avesse avuto modo di vedere quali erano le mie condizioni mentre tenevo stretta la cornetta, sono certo che mi avrebbe riattaccato in faccia gridandomi di non telefonarle mai più. Avrebbe stracciato il biglietto su cui avevo appuntato il numero della casa discografica, l’unico modo che aveva per mettersi in contatto con me, e avrebbe camminato sopra ai pezzi di carta. E poi cos’aveva detto Francis poco prima? Aveva parlato di così tante cose... scuola, compiti, spiaggia, una trappola per i piccioni, la chitarra nuova, il suo amichetto Josè... però non ricordavo nulla a parte il suo tono gioioso e la richiesta di tornare presto perché sulla battigia c’erano tante conchiglie da raccogliere. Del resto gli avevo promesso che durante l’estate saremmo andati in spiaggia insieme, invece ero partito per il tour.

Erano previste alcune date in cui saremmo rientrati a Los Angeles per un paio di giorni, ma se la prima volta ero riuscito a tenerlo nascosto a Sydney, a partire dalla seconda sentii il bisogno di vederla e parlare con lei. Quella fu una delle rare volte in cui mi degnai di buttarmi sotto la doccia. Nascosi le braccia forate sotto le camicie di cotone più leggere che riuscii a trovare per non dover patire il caldo sotto il sole della California, coprii il colorito insano della pelle del volto e le occhiaie con del fondotinta di una tonalità più scura, mi pettinai i capelli senza gonfiarli perché non si vedesse quanto fossero sfibrati e celai il capo sotto un cappello bianco con una striscia di stoffa nera. Syd fu così felice di rivedermi che ancora non riuscivo a credere che ci fosse qualcuno al mondo che aveva passato settimane in attesa che tornassi. Era tutto così bello che non riuscivo a crederci.

Ma io avrei rovinato tutto.

Non avrei potuto continuare a nascondere i segni sempre più evidenti della mia decadenza fisica. Sarebbe stato sufficiente che ne notasse anche solo uno, il più piccolo di tutti, e avrebbe cominciato a fare ipotesi, a domandarsi cosa lo avesse causato e, conoscendola, avrebbe preteso una spiegazione. Ma finché le cose fossero andate bene e la situazione fosse stata gestibile e favorevole, non avrei perso tempo a preoccuparmi e avrei piuttosto fatto il possibile per non perdermi una sua sola parola o un sorriso, senza neanche rendermi conto che in realtà la stavo solo prendendo in giro, la mia Syd, che mi aveva sempre sopportato, mi aveva sempre voluto bene e aveva sempre fatto il possibile per aiutarmi sebbene fossi ormai senza speranze.

Una sera di fine settembre, quando passai davanti allo specchio della mia stanza, mi soffermai ad analizzare attentamente il mio riflesso mentre un nodo mi si formava in gola. Quello non ero neanche più io. Da dove veniva quella pelle giallastra, molle come gomma appiccicosa? E che cos’era quel viso sciupato? Per non parlare degli occhi lucidi e dei capelli così indeboliti che mi era sufficiente tirarli appena perché le punte si strappassero come se fossero state friabili fili d’erba secca. Avevo anche perso diversi chili, il che significava che alcuni capi d’abbigliamento mi andavano larghi.

Il mese stava volgendo al suo termine e ci aspettava un’altra piccola pausa, ma stavolta il fondotinta non sarebbe stato sufficiente a nascondere le prove tangibili del mio misfatto perché nessun trucco né indumento particolare avrebbe potuto mascherare la mia spossatezza e i movimenti sforzati. Se Sydney aveva dei dubbi li avrebbe confermati ed io, in preda alla paura e incapace di trovare una soluzione e tantomeno di affrontare la situazione, ritenni opportuno barricarmi in casa senza preoccuparmi di telefonarle né del fatto che fosse perfettamente al corrente che mi trovassi a Los Angeles.

Non appena giunsi in città, andai a recuperare Whisky dalla persona volenterosa che l’aveva accudito al mio posto per la bellezza di quaranta verdoni al giorno. Persino lui sembrava essersi accorto che la situazione era peggiorata esponenzialmente. Non mi corse incontro come era solito fare né cominciò a saltare e a far roteare la coda, ma si avvicinò a testa bassa, la coda che oscillava appena da una parte e dall’altra e producendo un lieve uggiolio tremolante.

“Cos’hai, mi stai tenendo il broncio perché non ti ho visto per settimane?” gli domandai mentre gli accarezzavo la testolina coperta dal mantello corto e sottile, gesto a cui rispose con una timida leccata alla mia mano “No, bello, non fare così. Adesso sono tornato.”

Però quel cane era più intelligente di quanto pensassi. Se avesse voluto fare l’offeso, si sarebbe andato ad accasciare nella sua cesta e sarebbe rimasto lì a vegetare per ore, ignorandomi, invece si accucciò di fianco a me, sul letto, e appoggiò il muso e le zampe sulle mie ginocchia per essere sicuro che non me ne andassi. Mi guardava con gli occhi tristi e sospirando mentre vegliava su di me, che cercavo di combattere l’insonnia tormentando il mio diario con le solite lamentele e le mie domande esistenziali, alle quali ero certo che non avrei mai trovato una risposta.




N.D’.A.: Ciao!
Uno dei lati positivi di questo tempo che mi costringe in casa è che, non avendo voglia di studiare, mi sono messa a nerdeggiare qui sopra. Quindi eccovi servita una doppia dose di capitoli (narrati da Nikki, tra l’altro, come piace a voi)!
Stiamo lentamente volgendo verso la fine. Grazie infinite a chi segue e legge! ♥
Ci si rilegge presto,

Angie






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Capitolo 28
*** Sydney ***


28
SYDNEY





Los Angeles, CA, ottobre 1987

Mi scostai dalla finestra solo dopo aver constatato che Francis fosse ancora in cortile a giocare con José e mi voltai verso Tommy con le braccia incrociate sul petto, ottenendo in cambio uno sguardo sconsolato.

“Mi aveva detto che aveva smesso e che tutto stava andando bene,” mormorai con gli occhi fissi sulla punta delle scarpe. “Perché hai pensato che fosse meglio dirmelo anziché aspettare che lo facesse lui?”

Il batterista alzò le spalle con fare ovvio. “Sei stata tu a chiamarmi preoccupata perché non ti risponde al telefono da due giorni anche se ieri vi sareste dovuti incontrare.”

“Lo so, ma perché hai voluto dirmelo?” domandai, accorgendomi che facevo fatica a mantenere il controllo del mio tono di voce. Tommy, tuttavia, sembrò non lasciarsi scuotere dal mio atteggiamento alterato.

“Perché Nikki ha bisogno di te,” ci fu un attimo di silenzio assoluto durante il quale lo fissai con gli occhi spalancati. “Questo non è un periodo facile per nessuno di noi, però sento che tu potresti aiutarlo. Non sto dicendo che voglio che tu faccia un miracolo, ma vorrei che andassi a trovarlo.”

Mi passai una mano tra i capelli per scostarli dal viso. “Capisco che siamo amici, ma non so veramente cos’altro fare.”

Tommy, che fino a quel momento aveva mantenuto un atteggiamento apparentemente pacato e insolito per lui, lasciò scivolare il capo in avanti e seppellì il volto contro i palmi, sbuffando.

“Basta fargli compagnia,” scoprì il viso, permettendomi di notare gli occhi lucidi per la commozione. “Voglio troppo bene a quel cazzone per sopportare ancora la situazione in cui si è cacciato. Non posso perderlo. Non voglio.”

Senza sapere cosa dire, lasciai che i gesti sostituissero le parole e mi sedetti accanto a lui in segno di solidarietà ma anche di sottomissione e rassegnazione a una situazione ormai degenerata.

Restammo in silenzio per un po’. Da fuori giungevano gli schiamazzi divertiti dei bambini che giocavano a nascondino tra i bidoni e le piante del cortile. Se poi prestavo più attenzione, potevo sentire il marito di Nancy suonare un ritmo latino con la chitarra acustica, da cui mi distrassi a causa del rumore di qualcosa che era caduto in cucina.

“Cos’è stato?” domandò Tommy con un sopracciglio sollevato.

Stavo per incolpare i contenitori di plastica che avevo impilato precariamente nello scolapiatti quando i vetri iniziarono a vibrare. Subito dopo il divano si spostò in avanti portandoci con sé, e il lampadario del salotto prese a oscillare come un’altalena. Mi ritrovai con la schiena schiacciata contro il sofà, incapace di muovermi, ma Tommy riuscì ad alzarsi e urlò qualcosa attraverso il frastuono dei mobili che tremavano. Fu costretto a tornarsi a sedere a causa delle scosse che gli impedivano di mantenere l’equilibrio e, non appena il suolo si fu calmato, mi afferrò per un braccio e mi trascinò fuori dall’appartamento. Incrociammo Frankie per le scale, in lacrime e terrorizzato; quando fece per abbracciarmi, Tommy lo sollevò di peso e lo portò fuori dalla palazzina.

Un attimo dopo ci ritrovammo nel cortile insieme alla famiglia Flores, che giurarono di non rimettere piede in casa fino al giorno successivo prima di lasciarsi andare a qualche commento riferito al batterista, al suo aspetto e al fatto che si trovasse in casa mia.

Tommy, ancora scosso e tremante dalla paura, mi toccò una spalla per attirare la mia attenzione. “Mi serve un telefono.”

“Tua moglie è a casa?” domandai comprendendo il terrore che doveva averlo assalito in quel momento, ma lui scosse il capo.

“Per fortuna è a Chicago per lavoro,” spiegò. “Voglio chiamare Sixx per sentire come sta. Sai, non è che ultimamente sia molto reattivo.”

Indicai la finestra di casa mia con un cenno del mento. “La cabina più vicina si trova sul viale principale, ma se vuoi puoi usare il mio telefono.”

Tommy annuì e lo seguii su per le scale. Senza lasciarselo ripetere un’altra volta, compose il numero di Nikki e posizionò la cornetta a metà strada tra me e lui, in modo che potessi sentire. La guardava con gli occhi colmi di speranza, continuando a ripetere che stavolta avrebbe risposto perché il terremoto lo aveva sicuramente spaventato. Infatti, come aveva previsto, la voce di Nikki uscì tremolante e distorta dall’apparecchio dopo svariati secondi d’attesa.

“Ehi, bro, sono T-Bone,” si annunciò il batterista. “Hai sentito che cazzo di terremoto?”

“Sì che l’ho sentito,” biascicò. “Sono appena rientrato. Ho dovuto spaccare un vetro perché mi ero chiuso fuori. Sai, la porta non è rimasta aperta.”

Tommy mi rivolse un’occhiata complice e andò subito al sodo senza troppi preamboli. “Senti, bello, sono contento che non ti sia caduto un gargoyle in testa, però adesso vorrei sapere una cosa: perché non rispondi al telefono? Ho parlato con Syd qualche ora fa ed è molto preoccupata per te. Mi ha detto che avreste dovuto vedervi ma che non ti sei presentato e che non riesce a rintracciarti.”

La cornetta emise un lungo sbuffo. “Non ci riesco, amico. Non posso.”

“Vederla? Presentarti davanti a lei?” indagò l’altro sotto mio suggerimento.

“Non solo,” confermò il bassista. “Però vorrei che fosse qui. Mi sento così stanco di tutto, così solo e a pezzi che–”

“Allora perché non le telefoni e le chiedi come sta?” lo interruppe Tommy.

“Perché non posso,” si giustificò. “Non voglio che mi veda. Senti, perché non passi di qua, oggi pomeriggio? Ho del Jack. Ce la passiamo un po’.”

“D’accordo,” approvò l’altro. “Anzi, sai cosa? Vengo adesso. Ti do mezz’ora per alzarti dal letto, renderti presentabile e aprire le finestre perché non voglio vomitare appena varco la soglia,” riattaccò senza neanche lasciargli il tempo di salutarlo, poi si rivolse a me e mi fece cenno di sbrigarmi. “Tu vieni con me.”

Restai immobile a fissare la sua mano tesa, confusa. “Non posso lasciare Frankie a casa da solo proprio adesso.”

“Possiamo portarlo con noi,” tagliò corto. “Tu vai da Nikki e io faccio la bada al ragazzino. E non ti azzardare a dire che sono la persona sbagliata a cui affidare un bambino perché ne ho già abbastanza di mia moglie.”

Annuii senza aggiungere altro e salii in macchina con lui. Frankie sembrava contento di allontanarsi da Venice, evidentemente perché era troppo piccolo per capire che se il terremoto avesse colpito ancora, non avrebbe toccato solo la nostra zona ma l’intera area di Los Angeles e delle contee confinanti.

Alla fine del viaggio ci fermammo a circa duecento di metri dalla casa di Nikki, nell’unico punto della strada lontano da tralicci e alberi che avrebbero potuto cedere e cadere nel caso ci fosse stata un’altra scossa. Abbandonai l’auto solo dopo aver elencato una serie di raccomandazioni che Tommy avrebbe dovuto seguire se non avesse voluto subire la mia ira, dopodiché mi incamminai verso il cancello, le braccia incrociate sul petto. Dovetti suonare il campanello due volte prima che il padrone ci casa si degnasse di rispondere, ma quando accadde il cuore iniziò a battermi a velocità supersonica.

“Nikki!” esclamai, sollevata dal suono della sua voce. “Apri, sono Syd.”

Senza aggiungere nulla, riattaccò il citofono e aprì il cancelletto. Mentre correvo lungo il vialetto d’ingresso, lo vidi immobile sulla soglia. Accelerai il passo per raggiungerlo il prima possibile, ma non fui abbastanza veloce: prima che potessi salire i tre gradini di cotto che si trovavano a metà strada tra il cancelletto e la porta principale, Nikki si accasciò pesantemente per terra, il capo appoggiato contro lo stipite e una mano sul viso per proteggersi gli occhi dalla luce solare. Non appena gli fui vicina, lo scossi forte per le spalle per accertarmi che fosse ancora cosciente e lui spostò la mano dalla faccia, mostrandone il colorito malaticcio che aveva assunto nelle ultime settimane e segni di malnutrizione. Gli occhi, lucidi come specchi e con le iridi che galleggiavano in un mare di capillari rossi, mi fissavano stanchi ricoprendomi di mille domande.

“Perché sei qui?” mormorò con la poca voce che gli era rimasta.

“Tommy mi ha detto di passare a trovarti,” buttai lì, poi passai il mio braccio intorno al suo come se volessi sollevarlo. “Forza, Nikki, entriamo in casa.”

“Non voglio entrare,” si lamentò. “Prima c’è stato il terremoto e per poco non mi è caduto in testa un vaso che se ne stava in bilico su una mensola. Voglio restare fuori.”

“Non rompere i coglioni, Sixx,” lo apostrofai autoritaria. “Hai anche i brividi, per la miseria.”

“E va bene, cazzo, va bene!” ribatté con rabbia prima di aggrapparsi a me con una mano e allo stipite con l’altra per alzarsi. Quando fu in piedi notai che indossava un kimono sgualcito, probabilmente un acquisto risalente all’ultimo tour in Giappone. Era sporco e stropicciato e la parte anteriore era ricoperta dai peli del cane, al cui odore si aggiungeva quello di un essere umano che aveva passato giorni senza mai toccare acqua e sapone.

“Hai bisogno di un bagno,” sussurrai mentre entravamo in casa, poi alzai il tono della voce. “Come hai fatto a ridurti così?”

“Lo sapevo già che ho bisogno di un bagno, non c’era bisogno che me lo dicessi tu,” ribatté. “Credi che non me ne sia reso conto?”

Mi passai una mano sul volto, troppo attonita per reagire con razionalità alle sue parole e alla sua stessa vista. “Lascia perdere, non volevo offenderti.”

Nikki scosse il capo, lasciò ricadere le braccia lungo il corpo, poi trovò il coraggio di parlare.

“Ti ho delusa, vero?” domandò con una sincerità quasi spaventosa, ma quando gli risposi che non era affatto come credeva, si lasciò sfuggire una risata sarcastica. “Non dire stronzate. Appena mi hai visto hai fatto una faccia che parlava per te. Cosa vuoi da me, eh? Posso saperlo? Posso sapere a cosa punti e per quale motivo vuoi che faccia l’impossibile per far tornare la situazione come prima?”

Lo guardai stranita e senza capire di cosa stesse parlando esattamente. Sapevo che era solito fare dei complicati giri di parole per esprimere un concetto che non aveva in coraggio di illustrare in maniera diretta, ma stavolta non riuscivo proprio a capire quale potesse essere.

“Voglio solo che tu stia bene,” dissi con estrema sincerità. “Siamo amici, mi dispiace vederti stare male.”

Nikki si morse un labbro e fissò il pavimento, le braccia incrociate sul petto in un’evidente atteggiamento di difesa. “Lo so, però non so più cosa fare.”

“Invece lo sai,” lo contraddissi senza staccargli lo sguardo da addosso, mettendolo ancora più in imbarazzo di quanto già non fosse.

Sbuffò impercettibilmente. “Ormai è tardi. Mi sono fottuto con le mie stesse mani e non so più come saltarne fuori.”

Sgranai gli occhi. “Ma cosa stai–”

“Non dire che sono ancora in tempo perché non è vero,” mi interruppe Nikki, stavolta con gli occhi appena sollevati. “Comunque, proprio per questo, ti devo chiedere di non tornare più qui. Non chiamarmi più, non cercarmi da nessuna parte e lasciami perdere. Hai già troppe cose di cui preoccuparti, non te ne serve un’altra.”

Cercai di non perdere la pazienza di fronte alla sua richiesta sconsiderata, anche se quella non era esattamente la giornata più adatta per trattenere i nervi. Feci un respiro profondo e lo guardai sconsolata. Lo conoscevo abbastanza da poter dire che quella era solo una delle sue solite reazioni impulsive a cui si abbandonava quando si trovava davanti a una situazione complessa. Decisi che lo avrei lasciato in pace per qualche giorno, dopodiché avrei provato a chiamarlo per accertarmi che stesse bene.

“Non ti sbarazzerai facilmente di me,” lo avvisai mentre mi avvicinavo a lui. “Per te ci sarò sempre. Anche Tommy ci sarà sampre.”

Abbozzò un sorriso con il quale confermò ciò che avevo intuito: gli avevo detto esattamente quello che avrebbe voluto sentirsi dire e che mi aveva comunicato attraverso uno dei suoi discorsi contorti.

Lo avrei abbracciato se non avesse puzzato così tanto, dunque dovette accontentarsi di un cenno della mano prima che mi chiudessi la porta alle spalle e abbandonassi il suo giardino incolto. Camminai lungo la strada stretta nel giubbotto di jeans e, quando raggiunsi il punto in cui Tommy aveva parcheggiato, lo trovai a sedere sul cofano con mio figlio di fianco, intento a puntare il dito in tutte le direzioni per spiegargli cosa li circondava. Frankie lo guardava con curiosità, rideva e puntava a sua volta il dito per chiedere chiarimenti.

“Cavolo, tuo figlio è uno spasso!” esclamò Tommy più divertito che mai. “Sto seriamente valutando l’ipotesi di farlo conoscere a mia moglie.”

“Il che non significa che cambierà idea riguardo i bambini in giro per casa,” ribattei sforzandomi di apparire allegra solo per non fare insospettire Francis.

Tommy gli fece cenno di salire in macchina e, una volta che fummo tutti dentro, pescò un walkman con le cuffie dal portaoggetti. Allungò il braccio verso i sedili posteriori e lo porse a Frankie, mostrando un sorriso smagliante. “Qui dentro c’è una cassetta con le canzoni che ogni chitarrista che si rispetti deve conoscere. Perché non ne ascolti qualcuna mentre torniamo a casa?”

Gli occhi di Frankie brillarono di luce propria. “Davvero posso?”

“Certo, piccolo. È tutto tuo fino a Venice.”

Senza farselo ripetere un’altra volta, Francis si posizionò le cuffie sulle orecchie e premette il tasto play con soddisfazione.

“Così non ci sente,” si giustificò Tommy indicandolo con un’occhiata. “Allora, com’è andata?”

Alzai le spalle. “Mi ha chiesto di non tornare più.”

“Lo fa spesso anche con me,” spiegò il batterista mentre ci immettevamo sul Van Nuys Boulevard. “Ma non gli ho mai dato ascolto.”

“Non gliene darò nemmeno io,” dissi a bassa voce prima di guardare fuori dal finestrino e concentrarmi sul paesaggio urbano che scorreva ai lati del viale. Non si sarebbe mai liberato di me così facilmente.




N.D’.A.: Ciao!
Questa settimana e la prossima vedranno diverse capatine veloci-veloci della sottoscritta dato che vorrei finire di pubblicare questa storia prima dell’inizio del semestre.
Per ora grazie a chi legge e segue! ♥
Un abbraccio e a presto,

Angie






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Capitolo 29
*** Sydney ***


29
SYDNEY





Tre settimane dopo non ero ancora riuscita a togliermi dalla testa la voce di Nikki che mi pregava di non tornare. Più la sentivo, più mi convincevo che il giorno in cui sarebbe rientrato dal tour mi avrebbe trovata davanti al cancello di casa sua, stavolta insieme a Tommy. Il batterista mi aveva promesso che, sebbene neanche lui se la stesse passando poi così bene, avrebbe fatto di tutto per aiutarmi a tirare Sixx fuori dai guai.

Quella domenica pomeriggio, mentre aspettavo una telefonata di Tommy, che avrebbe dovuto chiamarmi per comunicarmi la data in cui sarebbero tornati a Los Angeles, Frankie strimpellava la sua chitarra seduto sul tappeto, circondato da diversi fogli e dai pastelli che aveva utilizzato fino a poco prima. Mi divertivo a osservarlo mentre muoveva le mani totalmente a caso, memore di un solo accordo che Nikki gli aveva insegnato molte settimane prima. A un certo punto sollevò lo sguardo dalla chitarra e me lo puntò addosso con fare inquisitorio. “Mamma, ma perché alla fine Nikki non è più passato a trovarci? Aveva detto che saremmo andati in spiaggia a raccogliere le conchiglie.”

“Perché è al lavoro, tesoro,” buttai lì come scusa. “È sempre in giro per il mondo a suonare e tornerà a Natale, ma a Natale ci verranno a trovare i nonni, che vorranno sicuramente stare con te.”

“Quanto manca a Natale, mamma?” domandò.

“Poco meno di un mese e mezzo,” risposi mentre aprivo il frigo per prendere la marmellata e il pane per preparargli la merenda.

“Posso già scrivere la letterina a Babbo Natale?”

Stavo per rispondergli quando il campanello suonò. Non ricordavo di aspettare nessuno, anche perché Nancy e la sua famiglia erano usciti, Margaret era a pranzo col suo fidanzato e Katherine era in negozio. Appoggiai frettolosamente il vasetto della marmellata e la busta del pane sul ripiano della cucina, mi controllai velocemente allo specchio per assicurarmi di essere presentabile e feci cenno a Francis di raccogliere tutti i pastelli e riporli nella loro scatola mentre mi avvicinavo al citofono. Sollevai la cornetta e tirai fuori la mia voce migliore. “Sì?”

“Ciao, Sydney,” una voce bassa e fin troppo conosciuta mi chiamò dall’altra parte. “Sono John. Posso entrare?”

Premetti il pulsante con un gesto automatico e, quando mi ripresi dalla sorpresa, mi accorsi di avere ancora in mano la cornetta beige del citofono.

“Vieni qui, Francis,” chiamai. “Papà è passato a trovarci.”

Frankie si nascose dietro di me, aggrappandosi alla cintura dei miei jeans e affacciandosi leggermente di lato per controllare cosa stesse accadendo mentre aprivo la porta. Davanti a me, alto e serio come era sempre stato, John mi salutò con un cenno della mano. I suoi occhi chiari mi fissavano da dietro le lenti di un paio di Ray-Ban Aviators, un cappello bianco da cow-boy faceva ombra sul suo viso abbronzato e, come sempre, era stretto dentro un completo grigio con la camicia giallo pastello, rigorosamente allacciata fino al penultimo bottone. Ogni volta che lo vedevo sembrava sempre di più un uomo d’affari della West Coast.

“Scusa se non ti ho avvertita, ma avevo in programma di passare la settimana prossima,” disse, poi si chinò sulle ginocchia e rivolse un sorriso a suo figlio. “Allora, Francis, non mi saluti?”

Frankie mormorò un timido “ciao” prima di uscire dal suo nascondiglio. Non sembrava intenzionato a riservare più di un paio di parole a suo padre, che cercò di persuaderlo con un piccolo regalo.

“Ti aspettavamo nelle prossime settimane. Come mai questa sorpresa?” chiesi mentre Francis era impegnato a studiare il nuovo giocattolo che aveva ricevuto e che non rientrava affatto nei suo gusti. Le macchine, al contrario di molti suoi coetanei, non gli erano mai piaciute.

“Alla fine siamo riusciti a ottenere la casa nuova con largo anticipo,” spiegò riferendosi all’abitazione che aveva acquistato in zona insieme alla sua attuale moglie. “I vecchi inquilini sono stati costretti a trasferirsi prima di quanto avevano previsto.”

Presi posto al tavolo della cucina e lui fece lo stesso. “Dov’è che abiti esattamente, ora?”

“A Sherman Oaks.”

La sua risposta mi fece sobbalzare: era lo stesso quartiere in cui abitava Nikki. John non sapeva e non immaginava neanche lontanamente che ci fossimo rivisti e avessimo riallacciato i rapporti, ma prima o poi lo avrebbe scoperto, specialmente ora che abitava a Los Angeles.

“Sai, è il quartiere più elegante di Van Nuys. C’è un bel paesaggio, è una zona tranquilla, non c’è molto traffico e non pullula di hippies come qui. Sarebbe l’ideale per Francis,” cominciò, la schiena comodamente appoggiata alla sedia e le braccia incrociate sul petto come se avesse voluto imporre la sua superiorità. “C’è anche una delle migliori scuole elementari della città.”

“Frankie è già iscritto qui a Venice da agosto dello scorso anno,” gli comunicai, nascondendo un brutto presentimento dietro un sorriso sforzato.

“Non sarà un problema,” mi stroncò senza mostrare un minimo di sensibilità. “Mi sono già informato e per il primo anno ci sono meno restrizioni con i trasferimenti. Ovviamente mi occuperò io stesso delle rate, anche se saranno decisamente più elevate. Però, come puoi ben capire, questo significa anche che frequenterà un istituto decisamente migliore.”

Iniziai a sfregarmi le mani sudate e controllai che Francis fosse abbastanza lontano e concentrato per non sentire una sola parola. “Qui ci sono tutti i suoi amichetti.”

“Andiamo, Sydney, ha sei anni, non sedici. Gli amici li troverà anche a Van Nuys,” ribatté seccato, poi continuò imperterrito. “Tu potresti vederlo ogni finesettimana. L’avvocato stabilirà dei giorni in cui–”

“Di che avvocato parli, John?” lo interruppi bruscamente ma continuando a mantenere un tono di voce moderato. “Non posso permettermi nulla di simile, e lo sai.”

Si mise più comodo sulla sedia e sciolse le braccia, che aveva tenuto incrociate fino a quel momento. “Servirà solo per risolvere legalmente la questione e provvederò io alle spese. Vedi, penso che sia giunta l’ora di rimediare agli errori che ho commesso e di recuperare il tempo che ho perso.”

Mi passai le mani sul viso come se avessi voluto zittirmi da sola prima di dire qualcosa di inopportuno. “Credi davvero che portarlo via dalla casa in cui è cresciuto e spedirlo in un’altra scuola gli farà bene?”

“E tu credi che Francis non voglia passare del tempo con suo padre?”

Sospirai. Sapevo che un cambiamento così improvviso non sarebbe stato d’aiuto, ma se John aveva veramente tirato in ballo un avvocato, non c’era più nulla che potessi fare se non cercarne uno per me stessa. Tuttavia, se lo avessi fatto, avremmo aperto una questione che non avremmo mai risolto e che avrebbe portato ulteriori scompensi. L’unico pensiero che mi consolava era quello che, forse, l’avvocato avrebbe ascoltato anche i miei bisogni e saremmo giunti a un accordo meno drastico, ma quello che sborsava la grana restava sempre John.

“Se continuasse ad andare a scuola qui potresti vederlo tutte le volte che vuoi,” biascicai con la voce che tremava alla sola idea che presto avrei avuto il diritto di vedere mio figlio solo un paio di giorni alla settimana. “Io non posso guidare fino a Sherman Oaks tutte le mattine e i miei orari di lavoro non sono flessibili come i tuoi.”

“Appunto, Sydney,” ribatté lui, sempre più tranquillo. “I miei orari mi permettono di rientrare a casa alle cinque e mezza tutti i giorni e di cenare con la mia famiglia.”

Mi aveva appena rinfacciato di fare i salti mortali tra due lavori diversi senza tenere minimamente conto che lo facevo per necessità. Nei giorni in cui c’era da sgobbare più del solito, l’unico pensiero che mi dava la forza per lavorare era quello che presto sarei tornata a casa da Frankie.

“Tornerò dopodomani per sistemare la questione,” annunciò John mentre si alzava, poi si aggiustò la giacca e il colletto con la fierezza del vincitore. “Adesso devo rientrare.”

Salutò Francis scompigliandogli i capelli e sparì giù in strada, lasciandomi immobile sulla soglia con un peso che mi incombeva sullo stomaco come un enorme masso.

Frankie mi tirò un angolo della maglietta e si pulì il naso sul dorso della mano. “È successo qualcosa, mamma?”

“No, tesoro,” risposi prontamente mentre chiudevo e gli rivolsi un sorriso recitato. “Papà mi stava dicendo che presto comincerete a vedervi di più, e forse potrai anche andare a casa da lui.”

Frankie aggrottò la fronte, sulla quale spiccava il recente segno lasciato dallo spigolo della cassettiera dei Flores. “Ma la casa di papà è lontana. Devo andare lontano anch’io?”

“Adesso abita vicino a noi,” lo rassicurai prima di prenderlo in braccio. “Potrai vederlo tutte le volte che vorrai. Non sei contento?”

Frankie non rispose. Si limitò ad annuire e ad aggrapparsi al mio collo.

Sapevo cosa sarebbe successo nelle settimane seguenti e aspettai il giorno fatidico con la stessa ansia con cui si aspetta che un estraneo che sta picchiando contro la porta la sfondi e irrompa in casa. Sapevo anche cosa aspettarmi e cercai di prepararmi ma, quando l’avvocato firmò la pratica, cominciai a sentire le lacrime che bruciavano negli occhi. Con la scusa inammissibile – ma ben retribuita – che John viveva vicino a una scuola più adatta e che aveva più disponibilità economiche di me, l’avvocato annunciò, guardandoci da sopra gli occhiali da lettura, che Francis avrebbe abitato con suo padre, dove avrebbe condotto una vita più stabile, senza nessun vicino che lo ospitasse a casa fino al ritorno di sua madre. Io avrei potuto vederlo nel finesettimana, ma se si tiene conto che il mio lavoro mi costringeva a lavorare per tutta la mattina del sabato, avremmo trascorso insieme solo una parte del pomeriggio e il giorno seguente lo avrei riportato a Van Nuys prima di cena, il che significava, a casa di John, alle sei.

Non fu facile comunicarlo a Frankie, che scoppiò a piangere come non lo avevo mai visto fare in sei anni, escludendo il periodo critico in cui i bambini piccoli mettono su i denti. Mi domandò se la sua scuola a Venice fosse così brutta da dover andare via, come avrebbe fatto per andare a giocare a casa dei suoi amici e perché avrebbe dovuto passare il Natale a casa di John e sua moglie. Mi chiese addirittura se nella sua nuova casa ci sarebbero stati altri bambini e la risposta negativa lo demoralizzò ancora di più.

Misi una parte delle sue cose dentro un borsone e, dato che avrebbe dormito lontano per sei giorni alla settimana, raccolsi i giocattoli a cui teneva di più, col risultato che ora la sua cameretta era vuota. Ma l’assenza dei giochi non era nulla in confronto a non averlo più in casa con me. Mi telefonava tutte le sere perché gli augurassi la buonanotte e una volta mi chiamò anche alle sette del mattino per dirmi che quel giorno non aveva la minima intenzione di andare a scuola e che odiava la divisa che era costretto a indossare. Sentii la voce di John che gli ripeteva che tutti i bravi bambini ci vanno e qualche rumore causato dal tira e molla che stavano facendo con la cornetta, chiaramente vinto da suo padre, che riattaccò senza neanche pensare di dirmi qualcosa.

Nonostante la vicinanza di Nancy, Katherine e Margaret, ogni giorno sembrava vuoto e inutile come se avessi perso l’unico scopo della mia vita. Ogni settimana non vedevo l’ora che fosse sabato e facevo i salti mortali per andare nell’unico negozio di Venice in cui vendevano i biscotti preferiti di Francis per farglieli trovare pronti sul tavolo, insieme a qualche altra leccornia che John non gli avrebbe mai permesso di mangiare.


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Capitolo 30
*** Nikki ***


30
NIKKI





Il parco di Van Nuys era quasi deserto, fatta eccezione per qualche bambino che si arrampicava sulla torretta dello scivolo e una decina di persone che avevano deciso di fare un barbecue, riempiendo l’aria dell’odore stuzzicante della carne grigliata. Whisky era impegnato a mordicchiare un ramo che aveva trovato durante la nostra passeggiata, nascosto sotto la panchina sulla quale mi ero seduto.

Cappellino da baseball dei Lakers e Ray-Ban scuri, ero sicuro che nessuno mi avrebbe riconosciuto e che mi avrebbero scambiato per uno studente che, con i jeans puliti e una felpa blu navy del college locale, era stato costretto dalla madre a portare a spasso il cane.

Il sole di dicembre era ancora tiepido grazie alla latitudine a cui si trova Los Angeles, e il tepore dei raggi mi aveva portato ad appisolarmi sulla panchina. Probabilmente sarei caduto in un sonno profondo se una voce infantile non mi avesse svegliato di soprassalto.

“Ciao Nikki!” esclamò Francis, che pareva essersi materializzato davanti a me. “Non pensavo fossi tu perché non metti mai il cappellino, però ho riconosciuto Whisky.”

Il bambino mi fissava con gli occhi spalancati dalla gioia. Se avesse continuato a saltellare come stava facendo, avrebbe finito per attirare troppi sguardi, ovvero avrebbe creato la situazione che volevo evitare a tutti i costi.

“Fa’ piano, non urlare,” gli ordinai a bassa voce, mimando il gesto del silenzio con l’indice.

Francis si zittì all’improvviso, stranito, e mi guardò di sbieco. “Perché sei qui? Abiti qui vicino?”

“Sì, abito a Van Nuys,” risposi, poi mi guardai intorno alla ricerca di Sydney, senza però scorgerla da nessuna parte. “Tu, piuttosto, cosa fai qui da solo? Dov’è tua madre?”

Gli occhi luminosi di Francis si intristirono all’improvviso e chinò distrattamente lo sguardo su Whisky, ancora impegnato a masticare il suo bastone. “Non abito più con la mamma. Adesso sto a casa del mio papà.”

Strabuzzaigli occhi fino ad avere la sensazione che i bulbi stessero per saltare fuori dalle orbite.

Cos’aveva detto? Papà? Ma John non li aveva abbandonati?

Impiegai qualche secondo prima di riprendermi e cominciai ad agitarmi al solo pensiero che John potesse vedermi, dopodiché feci cenno a Francis di avvicinarsi e di raccontarmi cos’era successo. Dopo aver preso posto accanto a me spiegò, a parole sue, che adesso vedeva sua madre solo quando non andava a scuola e che frequentava le elementari a Van Nuys e non più a Venice. Con mio grande shock capii che John doveva essere riemerso dal nulla e che, proprio come faceva mia madre quando tornava a casa, aveva preteso di avere suo figlio tutto per sé. Mi domandai come Sydney avesse preso la situazione e, conoscendola, doveva essere furiosa non tanto perché ora poteva vedere suo figlio solo durante il finesettimana quando non doveva lavorare, quanto perché conoscesse alla perfezione che genere di persona fosse John. Sapeva che non era un tipo affidabile e che presto sarebbe tornato a fare su armi e bagagli per partire alla volta di un’altra città deludendo suo figlio, proprio come mia madre.

A quel punto pensai che la cosa migliore da fare fosse tagliare la corda da quel parco per evitare incontri sgradevoli, allora slegai frettolosamente il guinzaglio di Whisky da intorno alla gamba della panchina e lanciai via il ramo con cui stava giocando. Avevo intenzione di salutare Francis e sgusciare via, ma il bambino fu attratto da un uomo che lo chiamava ad alta voce, visibilmente preoccupato. Il soggetto in questione fece capolino da dietro un cespuglio e non ci misi più di un secondo a riconoscerlo: davanti a me, in un abbigliamento casual ma impeccabile, John incedeva vistosamente nella nostra direzione. Mi aggiustai il cappello, notando troppo tardi che una ciocca di capelli era scivolata fuori, conferendomi non più l’aria dello studente perbene del college, ma quella di uno spiantato che passa i pomeriggi al parco in cerca di un po’ di erba da quattro soldi.

“Francis, accidenti, ti avevo detto di non allontanarti troppo,” lo rimproverò suo padre, poi mi squadrò dalla testa ai piedi con un sorriso dispiaciuto, evidentemente scambiandomi per uno studente anziché per uno spiantato, tanto che aggiunse cortesemente, “Devi scusarlo se ti ha infastidito ma, come vedi, è solo un bambino.”

Gli avrei anche risposto di non preoccuparsi se Francis non mi avesse preceduto. Mi puntò contro un dito, tutto contento, ed esclamò: “Guarda, papà, che noi due ci conosciamo. È un amico della mamma.”

Beata innocenza... proprio non lo potevi evitare, eh?

John spalancò i grandi occhi azzurri, identici a quelli del figlio, e tornò a studiarmi con attenzione, mordendosi vistosamente l’interno di una guancia. Iniziai a temere che, se mi avesse riconosciuto, avrebbe potuto infervorarsi come era solito fare quando, ai tempi in cui aveva iniziato a frequentare Syd, mi vedeva in sua compagnia. Una discussione con qualcuno non era ciò di cui avevo bisogno in quel momento, né tantomeno era qualcosa a cui Francis avrebbe dovuto assistere.

Tu conosci Sydney West?” domandò poi, il tono di voce tagliente. Vedendo che non accennavo a voler rispondere, spedì Francis da quella che doveva essere la sua nuova compagna e, una volta che il bambino fu abbastanza lontano da non sentire più nulla, tornò a ripetere la domanda, alla quale risposi sollevando gli occhiali scuri. John impallidì come un lenzuolo per poi avvampare tutto d’un colpo.

“Per dio, ma tu sei coso... com’è che ti chiami?” sbottò. “Sei quell’idiota che sbavava dietro a Sydney e che ho anche preso a pugni. Come accidenti è che ti chiami, tu? Johnny Six?”

“Nikki Sixx,” lo corressi. “E se evitassi di urlare il mio nome qui in mezzo te ne sarei grato.”

“Non me ne frega niente di quanto sei famoso,” sibilò cercando di mantenere un tono basso. “Cosa ci fai tu vicino a mio figlio?”

“Ho incontrato Syd qualche mese fa, dopo sei anni che non ci vedevamo, e mi è capitato di incontrarla altre volte in cui era con Francis e me l’ha presentato. Tutto qui,” spiegai con pochi giri di parole.

John si passò una mano sul volto con fare teatrale e disperato. “Merda... vorrei sapere che cosa ci trova Sydney in quelli come te.”

“Qual è il problema?” domandai mentre mi alzavo in piedi.

Mi picchiettò la spalla con un dito per un paio di volte, gli occhi assottigliati e infuriati.

“Mettiamo subito in chiaro una cosa, d’accordo? E vedi di aprire bene le orecchie perché non mi piace ripetere le cose,” prese rumorosamente fiato e mi puntò addosso l’indice destro. “La prima cosa che farò non appena sarò arrivato a casa sarà telefonare a Sydney e dirle che con te è libera di fare quello che vuole, a patto che tu stia alla larga da mio figlio. Quelli come te non sono il tipo di persona di cui Francis ha bisogno.”

Se ne andò senza lasciarmi il tempo per ribattere e sparì dietro il cespuglio da cui era sbucato. Lo scorsi in lontananza mentre se ne andava insieme a suo figlio e a sua moglie, gesticolando animatamente con la donna, sicuramente riguardo la discussione che avevamo appena avuto.

Tornai a indossare gli occhiali scuri e mi calcai il cappello sulla testa: non mi restava che tornare a casa, inforcare la motocicletta e correre da Syd. Non che dovessi per forza arrivare prima della telefonata di John, ma sapendo che lui l’avrebbe sicuramente rimproverata con poca leggerezza per aver riallacciato i contatti con me, volevo quantomeno prepararla.

Sfrecciai lungo la 405 facendo lo slalom tra i pick-up e i camion e, una volta raggiunta Venice, rombai tra le vie strette e polverose finché non mi ritrovai davanti al cancello della palazzina di Sydney. Senza togliermi il casco, mi attaccai al campanello finché non si decise a rispondere.

“Chi è?” esclamò irritata, evidentemente colta di sorpresa.

“Sono Nikki,” risposi senza riuscire a celare l’agitazione nel mio tono di voce. “C’è un problema, fammi entrare.”

La sentii bofonchiare qualcosa prima che il cancelletto si aprisse e, quando ci ritrovammo faccia a faccia, mi accorsi che aveva ancora il fiatone.

“Mi stavo riposando e mi hai fatta saltare giù dal letto. Si può sapere cos’è successo?” domandò mentre si chiudeva la porta alle spalle.

Feci un respiro profondo per prendere coraggio e decisi di evitare inutili giri di parole. “Ho visto John.”

Sydney inarcò le sopracciglia scure. “Ah, davvero?”

“Sì,” confermai prima di sedermi sul divano, accanto a lei. “Francis mi ha trovato mentre ero al parco col cane e... be’, mi ha presentato a John, che mi ha riconosciuto subito. Credo voglia telefonarti.”

Sembrava ancora più confusa di prima. Scosse il capo e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. “Stai cercando di dirmi che John ce l’ha ancora con te da–”

“Proprio così,” la interruppi. “Non so cos’abbia contro di me dopo tutto questo tempo, ma credo che a turbarlo sia il mio lavoro. Nessuno vorrebbe una rockstar intorno al proprio figlio, non credi?”

Syd restò senza parole. Conosceva John e sapeva quanto fosse difficile fargli cambiare idea.

Il silenzio era calato nel piccolo appartamento e io avevo iniziato a fare il conto alla rovescia in attesa della famigerata chiamata del padre di Francis, che però non arrivò mai. Mi voltai allora verso Sydney, la quale si stava distrattamente fissando le mani, e attirai la sua attenzione con un colpo di tosse.

“Cosa c’è di così terribile in me da costringere un genitore ad allontanare il proprio figlio?” domandai tutto d’un fiato.

Syd sospirò e si abbandonò contro lo schienale del divano. “Io non ho mai allontanato Frankie da te.”
“Perché tu mi conosci,” borbottai. “Però perché chi non mi conosce lo fa? Perché lo ha fatto anche John?”

“Il mondo è pieno di gente che si ferma alle apparenze,” cominciò con tono piatto. “Però lasciamelo dire, Nikki, ma non è che tu faccia proprio una buona impressione. Non che sia una giustificazione valida per chi dice cose cattive su di te, però il primo impatto scatena una sorta di riflesso involontario, come quando tocchi qualcosa di bollente. Per quanto riguarda John, invece, credo che il suo sia un problema personale. Non ha mai digerito il fatto che fossimo amici, evidentemente perché era geloso, e se continua a disprezzarti tutt’ora è perché fa parte del suo carattere di merda.”

Arricciai il naso, inorridito. “Cosa crede, che possiamo tornare a prenderci a botte?”

Sydney fece spallucce. “Sicuramente no, però continuerà a vederti come una persona sgradita. Cerca di essere superiore, tanto non devi vederlo tutti i giorni.”

“Tu, invece, quando lo vedi?” domandai, più per portare il discorso verso un altro argomento che per reale interesse.

“Solo quando devo andare a prendere Frankie,” rispose. “Tutti i sabati vado a prenderlo a Van Nuys e andiamo a fare un giro insieme. Credo che dopodomani lo porterò da qualche parte a vedere gli aerei che decollano dato che, da quando gli hai raccontato dei tuoi viaggi, si è convinto che da grande farà il pilota.”

Le sue parole mi strapparono un sorriso genuino e rivissi la sera in cui, seduto sul pavimento della sua stanza, gli avevo parlato dei lunghi voli a bordo del jet della band. Allora nessuno sarebbe riuscito a immaginarmi intento a raccontare una storia a un bambino, accucciato ai piedi del suo lettino e circondato da giocattoli e disegni. Invece era successo e io, in quanto comune mortale, avevo iniziato a pensare che, in fin dei conti, un moccioso a cui raccontare storie non sarebbe stato una brutta idea, anzi, sarebbe anche stato possibile se solo non fossi incastrato in un guaio ancora più grande di me. Se mi fossi ripulito avrei potuto iniziare a pensare di avere una famiglia, il che significava avere qualcuno che mi amasse e qualcuno da amare. A pensarci bene, però, se già ora avessi voluto essere utile a qualcuno e renderlo felice, avrei potuto farlo, e l’occasione mi era appena stata servita su un piatto d’argento.

Mi voltai di scatto verso Sydney, la quale mi guardò stranita, e colsi la palla al balzo. “Anche a Van Nuys c’è un aeroporto. Se mi volete, sabato verrò con voi.”

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Capitolo 31
*** Sydney ***


31
SYDNEY





Convincere John che avevo incontrato Nikki solo qualche volta fu difficile, ma fare in modo che si rassegnasse al fatto che ci saremmo tenuti in contatto lo fu ancora di più. Dal momento che questa conversazione, avvenuta per telefono, lo aveva già alterato abbastanza, quando il sabato seguente mi recai a casa sua per prendere Francis, evitai di dilungarmi troppo perché, conoscendolo, avrebbe potuto riprendere nuovamente l’argomento e farne un’inutile tragedia.

Lo congedai con un semplice gesto della mano e mi affrettai a salire in macchina, dove Frankie mi stava aspettando in silenzio.

“Oggi andiamo a vedere gli aerei che decollano,” annunciai canterellando mentre mi allacciavo la cintura di sicurezza. “Sei contento?”

Lui abbozzò un sorriso. “Sì, mamma. È da tanto tempo che lo aspetto.”

Sospirai: da quando aveva iniziato a fare la spola tra la casa di John e la mia, non sembrava più il bambino allegro e spensierato che era sempre stato. Era sicuramente una conseguenza del cambio di abitudini che era stato costretto ad affrontare, e il massimo che potessi fare era cercare di sfruttare al meglio il poco tempo che mi spettava per stare con lui.

Con questi pensieri per la testa, svoltai nel viale che correva parallelo alla pista di decollo e guidai finché non trovai lo spiazzo polveroso in cui mi Nikki mi stava aspettando, seduto contro il guardrail rovinato e intento a guardarsi intorno con fare disinteressato. Quando riconobbe la mia auto, mi salutò portandosi l’indice e il medio all’altezza della fronte, un ghigno astuto stampato in viso.

“Non sono mai stata da queste parti,” dissi mentre scendevo dalla macchina, ma Nikki mi fece cenno di restare a bordo e salì, scatenando in Francis una reazione di pura gioia.

“Nikki!” esclamò, poi si slacciò la cintura in un attimo e balzò sul sedile anteriore, proprio in braccio al bassista. “Mi hai fatto una sorpresa! La mamma non mi aveva detto che saresti venuto con noi.”

Nikki fece in modo che Frankie si sedesse correttamente e gli circondò il busto con un braccio, felice di rivederlo. “Sì, ma la sorpresa non è finita qui. Metti in moto, Sydney. Una volta fuori da qui, ti indicherò come raggiungere la pista dove ci attende il nostro aereo.”

Sobbalzai sul sedile e spostai accidentalmente il piede dalla frizione, portando la macchina a spegnersi con un movimento improvviso.

“Il nostro aereo?” ripetei incredula. “Che cavolo dici, Sixx?”

Lui sfoggiò un sorrisetto astuto. “Prima metti in moto e segui le mie indicazioni, poi vedrai.”

Senza osare ribattere, abbandonai la piazzola e mi diressi dove Nikki diceva, ritrovandomi presto a oltrepassare un cancello aperto e sorvegliato da una guardia armata che conduceva proprio sulla strada interna al territorio dell’aeroporto. Proseguii finché non raggiunsi l’area riservata agli hangar, con Frankie che si guardava intorno estasiato, le mani appiccicate al finestrino e la bocca spalancata per la sorpresa, specialmente quando passammo di fianco a un piccolo jet nero con le rifiniture color crema.

Nikki mi fece fermare a pochi metri dall’aereo e, dopo aver incaricato un addetto a posteggiare la mia auto all’interno di un hangar, tese un braccio in direzione del jet con fare teatrale. “Hai visto, Francis? Questo è l’aereo che mi ha portato fino a New York.”

Gli occhi di mio figlio scintillarono. “Wow! Posso salire e vedere com’è dentro?”

Nikki sogghignò rivolto a me. “Certo che puoi. È vero, Syd, che può?”

Mi portai le mani sul capo più per l’incredulità che per la necessità di liberare il viso dai capelli che il vento secco e tiepido faceva svolazzare. Approvai l’idea di Nikki senza pensarci due volte, con grande gioia di Frankie che, tra un saltello e l’altro, si piazzò in capo al gruppo e salì i gradini che conducevano all’ingresso dell’aereo. Aspettai che varcasse la soglia e, ancora sulle scale, fermai Nikki tenendolo per un lembo del chiodo.

“Come hai fatto a trovare questo affare?” domandai.

“Non stavo scherzando quando ho detto che è l’aereo della band,” rispose divertito dalla mia espressione. “Di solito è posteggiato da un’altra parte, ma adesso si trova qui perché tra poco partiremo per il Giappone e questo aeroporto è più comodo per tutti.”

Inarcai le sopracciglia. “Quindi il tour è ancora in corso? Sta durando tanto.”

Nikki fece spallucce e si appoggiò alla ringhiera di metallo delle scale. “Durerà fino al prossimo anno e proseguirà fino in Europa. Sono sicuro che troveremo un modo per affrontarlo.”

Il suo sguardo preoccupato e le mani che si contorcevano nervosamente erano più che eloquenti. Era evidente che ci fosse qualcosa che lo preoccupava e, a giudicare da come il suo umore era cambiato nel giro di pochi secondi, doveva trattarsi di un problema non indifferente.

“Non hai una bella cera,” gli feci notare.

Abbassò lo sguardo sui gradini metallici e dalla vernice scalfita.

“Lo so. Ho provato a rimettermi in riga, ma non sembro esserne capace,” sollevò gli occhi e prese a fissare l’orizzonte, sul quale si adagiava una scia di umidità spessa e opaca, in cui si potevano intravedere i contorni vibranti delle palme. “Ho perso così tanto peso da non avere più un solo indumento che non mi stia largo. Credo che ritenterò la fortuna quando sarò tornato dal Giappone, sempre ammesso che torni indietro.”

Abbracciarlo mi risultò istintivo, come mi capitava quando Frankie si spaventava per qualcosa, e da quel breve contatto percepii il cambiamento fisico che aveva subìto nelle ultime settimane.

“Tu, invece, che programmi hai per l’anno nuovo?” domandò prima di riprendere a salire le scale.

“Sono stata contattata da uno studio fotografico di Hollywood e ho un colloquio a metà gennaio,” annunciai, poi entrai e la voce mi morì in gola per lo stupore. Per una ragazza abituata a vivere in appartamento e a passeggiare per Venice Beach, quella specie di salotto con poltrone di pelle, frigorifero e divani era una reggia con le ali.

Francis si trovava immobile davanti a un tavolino bianco, gli occhi strabuzzati e ormai certo di aver trovato l’aereo dei suoi sogni.

“Tu viaggi sempre qui?” domandò a Nikki, il quale annuì divertito e gli annunciò che doveva ancora vedere la parte più bella. Gli tese poi una mano e lo condusse nella cabina, dove il pilota si stava assopendo sul suo sedile. Frankie si accomodò al posto del copilota, tutto preso dalla miriade di tasti e leve.

“L’hai fatto venire qui apposta per aprirci l’aereo?” domandai sottovoce accennando al pilota sonnolento.

Nikki indietreggiò di un passo per chiudere la porta della cabina. “In realtà, dato che partiremo domani, è qui per controllare che il jet funzioni come si deve. Ho pensato che sarebbe stato carino da parte sua far vedere la cabina a Francis.”

Sapevo che sarebbe partito ma, da come lo aveva detto poco prima, avevo pensato che il tour sarebbe iniziato almeno una settimana dopo, non l’indomani. Quando glielo confessai, Nikki sorrise e si accomodò su un divanetto.

“Ho chiesto di potervi incontrare per salutarvi prima della partenza,” disse mentre prendevo posto di fianco a lui.

Mi lasciai sprofondare contro i cuscini in tinta con la stoffa del divano e sospirai. “Vi stanno proprio spremendo come limoni, vero?”

Nikki stava per rispondermi quando la porta della cabina si aprì e Frankie schizzò fuori, le braccia aperte per imitare le ali di un aereo, diretto verso di noi. Quando fu abbastanza vicino, con la sua risata che riecheggiava contro la fusoliera, saltò sul divanetto e scivolò dalla mia parte.

“Hai visto com’era bello, là dentro, mamma?” domando senza smettere di sorridere in quel suo modo contagioso.

Lo trascinai a sedere in modo corretto e gli scompigliai i capelli. “Sì, è proprio bello! Hai ringraziato il pilota?”

“Sì.”

“E Nikki?”

Francis si fermò per una frazione di secondo per poi guizzare via dal mio abbraccio e girarsi verso il bassista esclamando un forte “grazie, Nikki!”, che strappò un sogghigno anche al pilota, che ora stava scendendo le scale per lasciarci soli. Nikki, incantato da quel bambino che gli saltava davanti più felice che mai, tese le braccia verso di lui e il gesto fu sufficiente perché Frankie si gettasse tra di esse. Nikki lo strinse a sé e prese a cullarlo dolcemente, un luccichio nuovo nei suoi occhi verdi, mentre Frankie continuava a ridere.

Francis lo abbracciò più forte e appoggiò il viso contro la sua spalla. “Ti voglio bene, Nikki.”

Nikki si voltò subito verso di me, gli occhi strabuzzati dallo stupore, visibilmente confuso.

“Hai sentito? Ti vuole bene,” dissi sottovoce.

“Anch’io gli voglio bene, e ne voglio anche a te.”

“Lo sapevo già,” dissi prima di lasciarmi sfuggire una carezza che posai sulla sua guancia. Nikki sembrò gradire il gesto, tanto che cercò di trascinare nell’abbraccio anche me, aiutandosi con la mano non impegnata a sorreggere Francis.

“Il pilota ha detto che domani partite e andate in Giappone,” esordì mio figlio sollevando il viso dalla giacca di pelle del bassista. “È vero?”

Quando Nikki confermò, Frankie assunse un’espressione triste, gli occhi bassi e fissi sul pavimento rivestito di moquette grigia.

“Guarda che torno, non è che me ne resto in Giappone per sempre,” gli fece notare Nikki dopo aver attirato la sua attenzione solleticandogli il naso. “Quando sarò di nuovo qui andremo a fare un giro in spiaggia. Io, te e la mamma.”

Frankie lo guardò sospettoso. “Porti anche Whisky?”

“Sì, certo.”

“Non vedo l’ora che torni,” cinguettò Frankie, poi scese dal divano per riprendere la sua esplorazione.

“Secondo te cosa ci trova di così adorabile in me?” domandò poi Nikki senza distogliere lo sguardo dal bambino, ora intento a studiare un’ala dal finestrino con estrema curiosità.

“La sincerità dei sentimenti,” risposi senza esitare. “Oltre al fatto che un ragazzino della sua età la percepisce meglio di un adulto, tu riesci a comportarti in modo spontaneo quando sei con lui.”

Nikki scosse il capo, un po’ confuso. “Non sono mai stato il preferito di nessuno.”

“Avrai pur avuto una fidanzata o qualcosa del genere, no?”

Scrollò le spalle e si lasciò sprofondare nel divano. “Sì, però se mi fossi comportato in modo decente non avrebbe tagliato i contatti, come hanno fatto tutti.”

“Forse,” gli diedi ragione, poi gli diedi una pacca sulla spalla. “Però a volte siamo costretti ad allontanarci dalle persone a cui vogliamo bene perché ce lo impongono le circostanze.”

“Era bello quando eravamo piccoli,” disse con voce commossa e nostalgica. “Ti ricordi quando andavamo sulle colline a fare le fotografie?”

Annuii divertita dal ricordo delle innumerevoli serate passate a fumare erba sul tettuccio della sua auto scassata e rumorosa, con la macchina fotografica pronta a immortalare il tramonto e la birra calda a portata di mano.

“Credo che dovremmo tornarci,” saltò su Nikki con convinzione.

“Lassù ci sono solo turisti,” risposi seccata. “Però, quando sarai tornato, potremmo cercare un altro posto tranquillo in cui andare. Sai, ci sto riprendendo la mano. Ultimamente sono sempre impegnata a fare fotografie dato che voglio essere in forma per quando, a gennaio, comincerò a lavorare in quello studio di cui dicevo prima.”

“Tienimi aggiornato riguardo i tuoi progressi, allora,” esclamò strizzando l’occhio, poi si alzò dal suo posto e si stiracchiò. Avrebbe dovuto essere a Hollywood entro due ore, quindi preferì cominciare ad avviarsi per evitare di rimanere imbottigliato nel traffico. Scese le scale con Francis che gli trotterellava dietro, ancora impegnato a guardarsi intorno, mentre io mi domandavo quanto quel tour in Asia sarebbe stato utile per lui. Sapevo che la prossima volta in cui ci saremmo rivisti lo avrei trovato in condizioni ancora più preoccupanti, e il solo pensiero non faceva che accrescere il magone che provavo tutte le volte in cui mi ricordavo che, oltre a essere un mio amico, Nikki era anche una persona tormentata che non sapeva più come uscire dalla fossa che si era scavato con le sue stesse mani.

“Allora ci vediamo dopo Natale?” domandò il bassista.

Annuii in fretta, colta di sorpresa dopo essere stata distolta dai miei ragionamenti cupi. “Certo, però promettimi che cercherai di tenerti lontano dai guai.”

Nikki si strinse nelle spalle, affermando che avrebbe fatto il possibile, poi si chinò all’altezza di Frankie per salutarlo con un buffetto affettuoso sulla guancia. “Lo farò. Tu, intanto, datti da fare con la macchina fotografica. Hai bisogno di ritornare a fare quello che hai sempre voluto.”

Detto questo, mi rivolse un frettoloso cenno di saluto e si diresse verso uno degli hangar, da cui lo vidi uscire sfrecciando a bordo della sua motocicletta prima ancora che riuscissi a mettere in moto la mia auto. Lo osservai fare lo slalom tra gli aerei parcheggiati sulla pista e non partii finché non varcò il cancello, sollevando dietro di sé una notevole quantità di polvere.

“Ma poi Nikki viene a trovarci davvero, dopo Natale, mamma?” chiese Francis non appena misi in moto.

Sospirai mentre facevo manovra per uscire dal posteggio. “Sarà molto impegnato, ma spero di sì.”

“Okay...” mormorò, poi tornò a guardare gli aeroplani parcheggiati, perdendosi in altri pensieri.




N.D’.A.: Ciao!
Tripla dose di capitoli!
Come sempre, grazie a chi continua a leggere e seguire nonostante i mille ritardi. ♥
Un abbraccio e alla prossima,

Angie






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Capitolo 32
*** Nikki ***


32
NIKKI





T-Bone, ora stravaccato sulla poltroncina di velluto verde smeraldo della mia stanza, si lasciò sfuggire un immenso sbadiglio per poi stiracchiarsi vistosamente le gambe allungandole sulla moquette. Quando tornò a prendere una posizione quasi composta, arricciò il naso e si grattò la pancia con spossatezza. “Ehi, bro, quand’è dobbiamo trovarci giù con gli altri per il soundcheck?”

Diedi un’occhiata al mio orologio da polso abbandonato sul comodino e mi sentii salire la nausea. “Ci mancano ancora tre ore.”

Tommy roteò gli occhi e spense la sigaretta sulla superficie di vetro del tavolino, schiacciandola appena. “Che palle. Cosa facciamo noi due qui da soli per altre tre ore?”

Mi misi a sedere sul letto e scrollai le spalle, proponendo di ordinare il pranzo.

“Non ho fame,” si oppose Tommy, il tono sempre più insofferente e capriccioso. “Quella roba che ci siamo presi stanotte mi fa venire voglia di vomitare, non di mangiare.”

Le sue parole rimbombarono nella mia testa e l’unica cosa di cui avevo bisogno non era più un piatto di raffinato cibo giapponese, ma una dose e un po’ di silenzio assoluto. Sapevo dove avrei potuto trovare la prima, ma il secondo, ora che avevo Tommy in camera, era impossibile da ottenere. Tornai dunque a sdraiarmi, mi girai su un fianco in modo da voltargli la schiena, e mi coprii gli occhi col cuscino nonostante la tenda spessa filtrasse quasi completamente la luce esterna. Avrei voluto schiacciare un pisolino prima di lasciare l’hotel, ma Tommy si alzò rumorosamente dalla poltroncina e prese a girovagare per la stanza con passi lenti e dal ritmo scandito. Lo sentivo camminare e, dagli altri rumori che i miei sensi alterati riuscivano a percepire, intuii che stesse aprendo i cassetti e frugando in giro per scuriosare nell’attesa che il tempo passasse. A un certo punto lo udii trafficare con del materiale simile al cartone o a buste di plastica, ma non me ne curai e continuai a restare sdraiato in silenzio: ero troppo stanco per preoccuparmi di capire cosa stesse sfasciando Tommy.

“Ehi, bello!” esclamò qualche minuto dopo, tutto estatico. “Guarda qui che figata!”

Rotolai sul materasso per girarmi e, una volta messa a fuoco la scena, mi ritrovai davanti il mio amico che rimirava un aquilone giapponese a forma di carpa viola e celeste.

“Mettilo via,” lo intimai svogliatamente mentre tornavo a sedermi e mi stropicciavo gli occhi impiastricciati di trucco sciolto e sudore.

“Cazzo, Sixx, è fortissimo! Ti sei comprato un aquilone a forma di pesce!” disse estatico mentre ne toccava il tessuto lucido e colorato.

“Avanti, rimettilo nella scatola. Preferirei che arrivasse a Los Angeles ancora intero,” biascicai consapevole che, probabilmente, non avrebbe obbedito.

Invece Tommy, sentita la destinazione di quell’oggetto, lo piegò alla meglio e lo abbandonò sul tavolo abbozzando un sorriso. “Scommetto che è un regalo per il ragazzino.”

“No,” mentii senza neanche guardarlo in faccia.

“E allora cosa te ne fai? Lo leghi sul tetto di casa tua e aspetti che tiri una folata di vento?” esclamò, poi si degnò di riporlo all’interno della scatola decorata con ideogrammi dorati. “Dài, non dire stronzate. Ti conosco, io, sai? Hai fatto una cosa carina.”

Mi lasciai scivolare sul bordo del materasso finché non mi ritrovai seduto per terra, sotto lo sguardo indagatore del mio amico.

“Come sta Sydney?” domandò poi Tommy dopo aver preso posto sulla poltroncina verde sulla quale aveva passato buona parte della nottata.

Appoggiai il viso sul copriletto impregnato di fumo e umidità, e riportai alla mente l’ultima volta in cui ci eravamo visti. “Se la cava. Vuole anche che ogni tanto le telefoni, forse perché vuole tenermi d’occhio.”

Tommy abbozzò un sorriso e unì le mani. “Credo che voglia solo essere sicura che tu stia bene.”

Annuii fingendo disinteresse. “Può essere. L’altra sera, comunque, mi ha passato il ragazzino e... oh, T-Bone, continuava a chiedermi quando sarei tornato perché vuole che gli insegni a suonare quella maledetta chitarra che gli ho regalato!”

Tommy si mostrò più incuriosito del solito. “Ti ci vedo a insegnare a suonare a un bambino di sei anni, proprio tu che non hai nemmeno voglia di spiegare qualcosa a Mick per la seconda volta.”

Allungai una mano a fatica, sentendo i muscoli del braccio dolere, e arraffai il pacchetto delle sigarette e l’accendino da sopra il letto.

“Infatti non credo di poterlo fare, anche perché per Natale non tornerò a Los Angeles,” gli occhi scuri e arrossati dal sonno e dall’erba di Tommy si spalancarono all’improvviso, le pupille fisse su di me. “Ho deciso di fare un viaggio in Thailandia e dintorni. Non ho voglia di tornare a casa.”

“Doc non ti lascerà mai partire,” fu l’unica frase che riuscì ad articolare dopo essere sbiancato tutto d’un colpo, poi ingollò un sorso di birra ormai calda e appoggiò la lattina sul tavolo con poca grazia. “Non puoi andare laggiù da solo. È... è pericoloso.”

“Pericoloso?” ripetei, non convinto di aver sentito bene. “Ho vissuto per strada fino a quattro anni fa, cosa può esserci di più pericoloso?”

Tommy si passò una mano aperta sul volto rivolgendo gli occhi verso l’alto, come a implorare l’aiuto di una divinità nella quale non credeva nemmeno, spinto dalla disperazione.

“Non sono posti sicuri, bro,” farfugliò accompagnando le parole con gesti confusi e frettolosi. “Girano malattie strane.”

“Anche nei nostri backstage girano malattie strane,” ribattei atono prima di lanciare un mozzicone spento nella sua direzione, mancandolo miseramente.

Tommy lo spostò con un lato dello stivale. “Non appena saprà dei tuoi progetti, Doc farà un sacco di storie. E sai anche cosa? Sono pronto a scommetterci le palle che quel tipo che ci sta seguendo per tutto il Giappone pretenderà di accompagnarti.”

Sospirai rumorosamente e mi spostai verso di lui strisciando il sedere sulla moquette, poi lo guardai dritto negli occhi, sperando di instaurare un contatto più profondo. “Ho bisogno di andare via da L.A. per un po’.”

“Certo, Sixx, capisco,” rispose secco. “Anche perché là dove vuoi andare sono pieni di droghe di ogni tipo.”

Abbassai lo sguardo come un cane con i sensi di colpa. Tommy non era stupido e non ci voleva una laurea per capire quale fosse la ragione per cui volessi recarmi in quella zona dell’Asia.

“Perché non torni a casa?” insisté, stavolta quasi implorandomi. “Così ci andiamo a fare qualche giro in motocicletta io e te da soli. Eh, che ne dici, bello? Niente Vince e niente Mick, solo noi due. Dài, Billy ha bisogno del suo Captain America, non può andare in giro da solo!”

Scossi il capo, seccato, perché sapevo che sarebbe stato troppo impegnato con le vacanze di Natale insieme a sua moglie per trovare mezza giornata per lanciarsi all’avventura con me.

“Non hai voglia di rivedere Sydney?” chiese poi con una sincerità e una spontaneità quasi impressionante. Sembrava che fosse l’unica domanda che si fosse posto da quando avevamo iniziato a parlare dell’argomento. Ora che mi aveva indotto a cercare una risposta, comunque, mi resi conto di non essere in grado di trovarne una. Da un lato il bisogno di vedere un volto familiare e sentirne la voce rassicurante mi divorava, ma dall’altro sapevo che non mi sarei potuto presentare davanti a Syd nelle condizioni in cui mi trovavo.

“Nikki?” mi chiamò Tommy. “Forse tu non vuoi vederla, ma credo che lei voglia vedere te.”

Corrugai la fronte. “Come lo sai?”

Dondolò le braccia. “Lo so e basta come so che, in fin dei conti, anche tu vorresti incontrarla. Vuoi portare il regalo al ragazzino.”

“Quello posso darglielo anche a gennaio,” borbottai con le labbra premute contro i palmi.

Tommy allungò un piede per colpirmi lievemente su una spalla, finendo per sbilanciarmi di lato. “Non sei curioso di vedere che faccia farà?”

T-Bone ci aveva preso un’altra volta, confermando quanto mi conoscesse. Stavo morendo dalla voglia di vedere la reazione di Francis di fronte a quell’aquilone giapponese. Volevo vedere il suo faccino tondo illuminarsi e sorridere di fronte a quella carpa volante che gli avevo portato, e sapevo che, a modo suo, avrebbe capito che gliel’avevo portata perché l’avevo pensato. Poi mi avrebbe sicuramente chiesto di andare a provarlo in spiaggia, e non c’era periodo migliore dell’inverno per passeggiare in riva al mare evitando di imbattersi in turisti. Ma l’odore acre dell’eroina era più allettante di qualunque altra cosa e aveva ottenuto la priorità su tutto, persino sulle persone che amavo e sulla musica.

Tommy continuava a guardarmi sperando che rimandassi il mio viaggio, ma non risposi e finimmo per interrompere la nostra conversazione. Ci ritrovammo uno seduto per terra a fumare e l’altro a fare zapping tra i programmi della televisione giapponese. Restammo dediti a tali attività finché Doc non venne a bussare alla mia porta, ricordandomi che era giunta l’ora di recarsi all’arena in cui avremmo suonato. Passai le ore successive in uno stato di semicoscienza per niente confortevole di cui ricordo solo le grida del pubblico, un capitombolo giù dalla pedana della batteria con conseguente capocciata sulla griglia metallica del pavimento, e l’incapacità di smettere di pensare a Sydney dopo che, una volta solo nella mia stanza, mi abbandonai sulla poltroncina precedentemente occupata da Tommy. Continuavo a pensare a come nascondere ogni segno di decadenza per farle credere che fossi sulla buona strada sebbene non ne avessi ancora raggiunto la fine, e mi arrovellavo su come avrei potuto chiederle di lasciarmi riabbracciare Francis che, ero pronto a scommetterci, mi stava aspettando, consapevole che gli sarei corso incontro.

Sospirai rumorosamente nella quiete della mia camera e lasciai pendere la testa all’indietro. Erano le tre del mattino e ci mancavano ancora quattro ore alla partenza, il che significava che avrei dovuto trovare qualcosa da fare per ingannare l’attesa ora che avevo anche il naso abbastanza pieno. Scesi dunque nella hall, ora semideserta, e presi a girovagare. Mi imbattei in Doc, che era sceso in ciabatte per andare a prendere qualcosa al bar, riconobbi uno dei roadie con una risma di scartoffie in mano e, in un meandro dell’ingresso, vidi Mick appartato in compagnia della sua nuova ragazza, nonché la nostra corista. Girai subito sui tacchi senza farmi notare e sgusciai fino alla camera di Tommy, alla quale bussai.

“Chi cazzo è che rompe?” tuonò lui dall’altra parte del legno spesso. “Vaffanculo, mi ero appena addormentato.”

“Sono Nikki,” annunciai, poi tirai su con il naso. “Volevo dirti che giù ci sono Mick ed Emi.”

Un attimo dopo la porta si aprì appena e il volto del mio amico fece capolino, rivelando gli occhi più lucidi che mai. “Okay, bello, solo un minuto. Prendo i petardi e arrivo.”




N.D’.A.: Ciao!
Come sempre, grazie a chi continua a leggere!
Se qualcuno volesse esprimere un’opinione, non esiti a farsi avanti. ;)
A presto,

Angie






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