CUORE SUL GRILLETTO

di Alicat_Barbix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO 1 ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 5 ***
Capitolo 6: *** INTERMEZZO ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 6 ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 7 ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO 8 ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO 9 ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO 10 ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO 11 ***
Capitolo 13: *** CAPITOLO 12 ***
Capitolo 14: *** CAPITOLO 13 ***
Capitolo 15: *** CAPITOLO 14 ***
Capitolo 16: *** CAPITOLO 15 ***
Capitolo 17: *** CAPITOLO 16 ***
Capitolo 18: *** CAPITOLO 17 ***
Capitolo 19: *** CAPITOLO 18 ***
Capitolo 20: *** CAPITOLO 19 ***
Capitolo 21: *** CAPITOLO 20 ***
Capitolo 22: *** INTERMEZZO 2 ***
Capitolo 23: *** CAPITOLO 21 ***
Capitolo 24: *** CAPITOLO 22 ***
Capitolo 25: *** CAPITOLO 23 ***
Capitolo 26: *** EPILOGO ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO 1 ***


 CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 1

 
Un quadro. Uno come quelli di Leonardo da Vinci, di Caravaggio, o ancora, di Picasso. Uno di quelli che suo fratello amava ammirare, studiare, cercando di  scovare ogni minimo dettaglio nelle pennellate, nella scelta dei colori, nella prospettiva.
Sherlock Holmes si trovava davanti a un quadro. Un quadro vivo, animato. La cornice era il rettangolo di una piccola finestra. Il dipinto raffigurava una scena rara, anzi, rarissima. Una scena che in quei tempi non poteva essere contemplata. Non doveva essere contemplata.
Il soggetto che il pittore si era minuziosamente impegnato a rappresentare era un ometto dall’altezza infima e dai capelli dorati. Sì, un ometto. Come definirlo altrimenti? Sherlock si dovette persino interrogare sul perché un artista avesse provato il desiderio di dipingere un soggetto così irrilevante. Insignificante. Doveva esserci un motivo. E fu per la sua sete di sapere che rimase lì, ad osservare la scena con i suoi occhi di ghiaccio.
Un particolare. Doveva scovare un particolare importante. Un particolare che mettesse a tacere i suoi quesiti. L’ometto si muoveva rigidamente per l’ampia stanza su cui la cornice della finestra si affacciava. Un postura singolare, militare. Un soldato. E poi cosa? Cos’altro era importante? Il suo modo di sorridere? Quel fare rassicurante e comprensivo? Come poteva essere così…così sciocco e irrazionale da voler aiutare quella feccia che lo fissava come fosse Dio?
L’ometto fermò il suo su e giù imperturbato davanti ad una bambina. O – almeno – così sembrava a Sherlock. Quelli come lei erano tutti uguali anche fra le varie fasce d’età. Il suo sguardo inquisitore si soffermò su quegli occhi enormi, quel nasino schiacciato, quel collo corto e incassato nelle spalle esili. Affinando l’udito poteva quasi sentire quella parlata strascicata. Una bambina down. Che cosa ci trovava il pittore di interessante in un’handicappata? Che cosa ci trovava in quell’ometto che si chinava su di lei e le baciava la fronte?
Tutta quella strada e si ritrovava soltanto con una manciata di nemici dello stato e un ometto insignificante.
La segnalazione era arrivata circa una settimana prima. Se ne stava tranquillamente nel suo studio in quello che un tempo era Buckingham Palace, perso nel suo palazzo mentale, fregandosene della montagna di scartoffie che si erigeva con fare dittatoriale sulla sua scrivania, quando Mike Stanford aveva fatto la sua solita entrata plateale. A Sherlock era bastata un’occhiata per capire che aveva qualcosa di importante da spiattellargli. E si era augurato vivamente che non avesse niente a che fare con i suoi sospetti sull’infedeltà della moglie – cosa effettivamente non eclatante o inaspettata –.
“Devo parlarti.”
“Immaginavo.”
Holmes non si era curato neanche di spostare la pila di fascicoli e documenti intonsi e ricoperti da una leggera lamina di polvere per vedere meglio il suo visitatore.
“Credo di aver trovato un covo di Incompleti.”
L’espressione sul volto di Sherlock si era fatta immediatamente interessata. Finalmente un po’ d’azione dopo settimane e settimane recluso in quella stanza troppo lussuosa per i suoi gusti, in un marasma totale, annegando nell’inattività e beandosi soltanto grazie ai suoi inseparabili cerotti alla nicotina.
“Si trova nel Sussex.”
Holmes aveva inarcato entrambe le sopracciglia, stupefatto. “Nel Sussex? Ma dopo il bombardamento dello Stato Jihadista quel luogo è una terra brulla e inospitale. Non c’è niente a parte il nuovo aeroporto addetto al trasporto merci.”
Stanford gli aveva fatto cenno di avvicinarsi, come se volesse confidargli uno dei suoi più oscuri segreti. “All’inizio pareva strano anche a me. Ma ho saputo da fonte certa l’ubicazione del rifugio di un gruppetto di Incompleti.”
Sherlock aveva aggrottato la fronte. “Fonte certa?”
“Giri di amicizie varie che non starò qui a spiegarti.” Mike si era guardato intorno, come preoccupato che le sue parole giungessero ad orecchie indiscrete. “E a proposito di amicizie…” Altro sguardo apprensivo in giro. “…Un mio amico…Pare che ci sia un mio vecchio amico dietro a tutto questo.”
“Ah, un nemico dello Stato!” aveva esclamato Holmes imitando la voce irritante di suo fratello.
“Sherlock, per favore! Sono sicuro che ci sia una spiegazione a tutto questo. E’ un amico di vecchia data che stimo molto.” Prese un respiro profondo, tergendosi il sudore con la manica del trench. “Vedi…Ci siamo rincontrati dopo tanti anni per caso, abbiamo chiacchierato un po’ e la discussione si è incentrata sugli Incompleti. Lui s’è lasciato scappare qualcosa a proposito di una causa ingiusta e di un modo per cambiare le cose. Poca roba, ma mi ha messo comunque in allerta. Ho fatto una piccola ricerca e pare che lasci il lavoro ad orari inconsueti, prenda l’auto e sparisca per mezza giornata.”
“Sì, è veramente sospetto il fatto che un uomo voglia avere un po’ di pace. C’è da avvertire l’Esercito al più presto!” aveva ironizzato l’altro con un sorrisetto schernitore.
Il viso di Mike si era fatto paonazzo di sdegno. “E’ una questione seria. Ho fatto una chiacchierata con una sua collega che ha detto che una volta lui le ha raccontato di andare spesso nel Sussex. I motivi, ovviamente, sono anche a lei ignoti.”
Stanford si era interrotto e Sherlock aveva atteso, le mani giunte sotto il mento. “E?” aveva domandato ad un certo punto Holmes piccato dal mutismo dell’altro.
“E basta. Non sono io quello che fa parte dell’Inquisizione. Posso avere un bicchier d’acqua?”
Incredibile come il senso di colpa potesse far salire una tale sete! La gola dell’uomo era completamente arida. Persino il Sahara sarebbe risultato meno riarso. L’aveva fatto. Aveva tradito un suo amico. Era accorso alla Sede dell’Inquisizione appena il suo cervello era stato in grado di fare due più due, con il cuore greve di rimorso per ciò che di lì a poco avrebbe fatto, ma con la speranza che una volta che la verità fosse fuoriuscita dalle sue labbra lui sarebbe finalmente stato capace di sentirsi libero.
Ma dal peso che gli gravava all’altezza del petto non sembrava aver funzionato.
“Molto bene. Indagherò senza coinvolgere né Mycroft né nessun altro dell’Inquisizione. Se le tue ipotesi si riveleranno veritiere, non ti nascondo che la situazione del tuo amico non sarà affatto semplice. Dopotutto è un traditore.”
Sherlock aveva sorriso a quel punto. Parlava esattamente come suo fratello o suo padre. Era impregnato di quei valori razziali con cui gli avevano farcito la testa sin da quando era piccolo.
Gli Incompleti sono il male, Sherlock. Sono loro che hanno portato alla disfatta il nostro Paese. Così come la zizzania va estirpata dalle piante buone, il diverso va eliminato per non compromettere l’unità e la pace del nostro mondo.
E lui ci credeva. Ci aveva sempre creduto. La loro terra era uno scheletro. Un frammento imperfetto. Un qualcosa che non poteva competere con lo splendore di un tempo.
Tutto a casa dei diversi. Tutto a causa della guerra. Tutto a causa dello Stato Jihadista.
Nei primi anni del 2000, vi erano stati solo dei piccoli focolai. Attentati. Terrorismo. Esecuzioni capitali. Quello che un tempo era conosciuto come ISIS – che corrispondeva a Islamic State of Iraq and Siria – aveva accresciuto lentamente il proprio potere sotto il naso di potenze come Russia, Stati Uniti, Corea del Nord… Sotto lo sguardo inconsapevole del mondo aveva armato sicari impietosi, emissari di morte…Un’armata inarrestabile. Ogni attentato, ogni atto di terrorismo, erano tutti espedienti per eludere la sorveglianza del resto del pianeta, attirare la sua attenzione il più lontano possibile dalla realtà. Una realtà impastata di armi, odio e guerra. Una corsa agli armamenti avvenuta nell’ombra.
Ma un qualcosa di così devastante non può restare celato per troppo tempo. Nel 2054 ci fu un esplosione.
Non un reattore. Non un’eruzione vulcanica. Non una stella.
Una guerra. Una guerra che chiamò a sé la maggior parte dei Paesi della Terra. Una guerra che infuriò per più di vent’anni. Una guerra che si concluse solo nel 2078. Una guerra che non vide un vincitore vero e proprio.
Il mondo era crollato. Si era trasformato in qualcosa di molto simile a un cumolo di macerie.  La gente era a pezzi. Troppi morti. Troppi, troppi, troppi. Troppa serenità frantumata. Troppe famiglie alla deriva.
Tutto questo per colpa della diversità. Una diversità che cominciava a fare paura. Che aveva scavato un solco profondo all’interno della gente. Nel 2083, in Francia, ci fu la prima emanazione della Lex Discriminis, un codice di leggi scritte in cui veniva abolito ogni rapporto con il diverso.
I punti principali di tale codice erano i seguenti:
 
  • Agli individui appartenenti a determinate Nazioni è severamente vietato spostarsi liberamente in altri Paesi non munito di un permesso speciale di Espatrio.
  • Coloro che verranno scoperti in Paesi differenti dal proprio non muniti del permesso di Espatrio verranno costretti al Rimpatrio e reclusi nei carceri della madrepatria per violazione del decreto soprastante.
  • Chi, alla nascita, presenterà difetti di ogni tipo – fisico o psicologico – verrà sequestrato alla famiglia dalle autorità e – a seconda del ceto e delle possibilità economiche dei familiari – verrà destinato ai laboratori come cavia avendo così salva la vita. In caso il compenso monetario non si riveli sufficienti per espiare la colpa dell’impurità, l’individuo verrà bruciato pubblicamente in modo che il suo corpo imperfetto venga purificato mediante l’Incinerazione.
  • Chiunque venga sorpreso ad avere orientamenti immorali – quali l’omosessualità, la transessualità, la pansessualità o l’intersessualità – verrà giustiziato in pubblica piazza come esempio di impurità.
 
Il diverso doveva essere schiacciato. Espulso. Umiliato.
Alla prima emanazione della Lex Discriminis erano seguite tante altre: nel Settembre 2083 in Germania e in Italia, nel 2084 nel Regno Unito, nell’Irlanda del Nord e in Danimarca, nel 2085 nei Paesi dell’Europa orientale, tra cui la Russia, e così via, fino ad arrivare al 2092, anno che vedeva tre di cinque continenti dominati da leggi razziali pari a quelle di Hitler. Soltanto Oceania e Africa erano rimaste in un angolo a guardare, senza prendere posizioni – attivamente, dato che anche in questi due continenti ben presto comparvero regimi dittatoriali basati su discriminazioni di vario tipo.
Nel 2098, venne istituito il Tribunale dell’Inquisizione – su modello di quelli più antichi – che aveva il compito di stanare ogni piccolo scarafaggio in mezzo alle mantidi e di procedere di conseguenza. Nel Regno Unito, a Londra, Buckingham Palace venne preso d’assalto nello stesso anno, re e regina reclusi in prigione, e venne istituito il primo Governo comandato dall’Inquisizione stessa. Il capo supremo dell’Inquisizione? Siger Holmes, padre di Mycroft e Sherlock Holmes.
Erano passati trentadue anni da allora. Dopo la presa della reggia dei sovrani, il Regno Unito si era trasformato nel modello ideale da imitare. Una belva feroce che serrava le sue fauci mastodontiche sulle prede che vedeva più deboli, più indifese. Diverse.
Negli ultimi anni, il lavoro all’interno del Tribunale si era fatto sempre meno attivo: la maggior parte degli Incompleti – come venivano definiti tutti coloro che non rispecchiavano l’esempio di purezza e moralità – era stata estirpata. E nell’ufficio di uno dei figli del grande Holmes, non era rimasto che un noioso lavoro di catalogazione e cose così. Il caso di Stanford aveva risvegliato il completo interesse di Sherlock. Era deciso: si sarebbe recato nel Sussex sulle tracce di quello stupido individuo che aveva avuto il coraggio – che Sherlock aveva però classificato come stupidità – di mettersi contro lo Stato. Contro di lui.
E quello stesso individuo, ora era lì. Davanti ai suoi occhi. Era riuscito a rimediare proprio un bel nascondiglio, Sherlock doveva ammetterlo. Era una vecchia fattoria, a giudicare dalla forma allungata, dalle numerosi recinzioni e da una costruzione leggermente distaccata che aveva proprio tutta l’aria di essere una stalla in disuso.
Non era facile trovare edifici ancora in piedi in quella zona della Gran Bretagna. La parte meridionale dell’isola era stata quasi completamente rasa al suolo e quella vasta area era stata denominata semplicemente Sussex, riprendendo il nome di quelli che un tempo erano il West Sussex e l’East Sussex.
Sherlock studiò l’ometto dai capelli biondi fino a quando il sole, in lontananza, non cominciò a tingere il cielo di un colore che sfumava dal carminio al rosa pallido all’arancio. E se fosse stato un tipo che di fronte a quei piccoli ma grandiosi fenomeni del giorno si impressionava o peggio commoveva, si sarebbe fermato a riflettere sulla bellezza di quel paesaggio, sulla comunione fra i colori che sebbene non c’entrassero niente l’un l’altro, si sposavano perfettamente assieme. Se solo l’avesse fatto…
Stanco di quella visione ripugnante, Sherlock fece un giro di perlustrazione della fattoria, la sua mente che sferragliava come un treno in corsa. Terra brulla, priva di coltivazioni, recinzioni vuote, vuota anche la stalla. Si sedette in disparte, in un punto dove non sarebbe stato individuato ma che gli consentiva una vista nitida sull’intera fattoria.
Dalla tasca interna del suo cappotto tirò fuori un fascicolo scarno di informazioni e prese a sfogliarlo con attenzione.
 
Nome e Cognome: John Hemish Watson
Data di nascita: 8 Settembre 2096
Luogo di nascita: Londra
Cittadinanza: Britannica
Residenza: Londra
Via: Wigmore Street 139
Stato civile: ---
Professione: Medico
Statura: 1.69
Capelli: Biondo scuro
Occhi: Azzurri
Segni Particolari: Nessuno
 
Sherlock lesse qualche riga su una carriera militare abbandonata però per frequentare i corsi di laurea in medicina alla Barts. Nessuna conoscenza particolare – a parte evidentemente quella di Mike Stanford –, e anzi, sembrava un tipo piuttosto solitario. Relazioni traballanti, mai serie, finite dopo pochi mesi. Una sorella alcolista distaccata dalla famiglia per ragioni al dossier ignote. Genitori comuni, fedeli al Governo…
Poco. Troppo poco.
Con un movimento nervoso, lanciò il fascicolo, esasperato. John Watson…Un mistero. Un problema di geometria da risolvere. Nemmeno l’archivio dell’Inquisizione – a quanto pareva – poteva fare un po’ di luce sulla storia di quell’ometto.
Effettivamente, la fattoria era gremita di Incompleti: immigrati, disabili…A quanto pareva vi erano persino delle coppie gay/lesbiche.
Non si poteva negare l’affronto di quel Watson nei confronti dello Stato. Sherlock avrebbe potuto benissimo irrompere nella stanza e dichiarare tutti in arresto, minacciandoli con la sua Colt 2000, e avvisare suo fratello dell’arresto. D’altro canto, però, sarebbe stato un rischio: John Watson non poteva di certo fare tutto da solo. Doveva per forza essere immischiato in qualcosa di più grande, come un’organizzazione a delinquere, o un traffico illegale di Incompleti…
No. Non poteva agire. Non con così poche informazioni e così tante domande. Sherlock Holmes poteva essere un apatico, un menefreghista, ma di certo non uno sprovveduto. Presto, molto presto avrebbe fatto luce sulla questione Watson.

***
 
 Nemmeno cinque giorni interi trascorsi appollaiato ai margini della fattoria gli avevano permesso di carpire qualche informazione in più su John Watson. Al dossier del medico aveva aggiunto una pagina bianca su cui si era meticolosamente impegnato ad appuntare ogni suo spostamento. Ma la situazione sul foglio di carta attaccato con una graffetta era questa:
 
  • ore 19:33 arrivo alla fattoria
  • ore 24:48 ritorno all’appartamento a Wigmore Street
  • ore 7:14 partenza per l’ambulatorio medico
  • ore 13:05 pausa pranzo
  • ore 18:20 partenza per il Sussex
  • ore 23:40 ritorno all’appartamento a Wigmore Street
 
Sempre la solita, snervante routine. La routine di un uomo insignificante. Come si poteva sopravvivere a tanta noia? Ma la domanda più consona era: come poteva Sherlock sopravvivere a quell’abitudinarietà? Gli orari di John Watson erano anche i suoi. Gli spostamenti di John Watson erano anche i suoi. La vita di John Watson era anche la sua.
Cinque giorni passati all’inseguimento di un medico traditore. Tempo sprecato. Ore e ore in fumo. Com’era possibile che quel John Watson mandasse avanti la baracca per conto suo? D’accordo, aveva una collaboratrice, una certa Molly, che gli dava il cambio mentre lui lavorava all’ambulatorio.
Molly Hooper, 30 anni, laureata in medicina legale, nata e cresciuta a Londra, più precisamente a Westminster. Viveva da sola, fidanzata con un certo Will Smith – laureato in ingegneria navale, 35 anni, disoccupato –. Ceto sociale: medio-alto. Da piccola durante un tema in classe aveva parlato del suo migliore amico: Omar Madani – arabo, 9 anni, vissuto con la sua famiglia nascosto in una casa in rovina, trovato dall’Inquisizioni grazie al tema di Molly e cacciato dal Regno Unito –. Da quel giorno, Molly aveva sempre confidato alle sue amiche di sentirsi mortalmente in colpa per aver costretto il suo migliore amico al Rimpatrio e al carcere a soli nove anni.
Da questo fatto si evinceva perfettamente la motivazione della presenza di Molly Hooper in quella fattoria, fra quei rifiuti umani. E queste informazioni erano solo un terzo di tutto quello che compariva nel fascicolo della giovane dottoressa.
Ma John Watson… C’erano tre domande che assillavano Sherlock:
 
  1. Chi era veramente John Watson?
  2. Che cosa lo spingeva a rischiare così tanto aiutando degli Incompleti?
  3. Tutto quello era una sua iniziativa o c’era qualcosa o qualcuno di più grosso a guardargli le spalle?
 
Fu al sesto giorno inconcludente che si decise. Doveva elaborare un piano efficace, un piano che facesse abboccare il medico… Qualcosa di estremamente ingegnoso nella sua semplicità…
Un’idea gli balenò in mente, accompagnata da un sorriso vittorioso. Poteva già pregustare la sua rivalsa. La sconfitta di John Watson. Tuffò la mano in tasca e ghermì il cellulare come una pistola.
Digitò in fretta il numero di Lestrade sulla casella del destinatario del sms. Per spiegare tutta la situazione sarebbe bastata una chiamata. Anzi, forse sarebbe stata più praticata. Ciononostante odiava dover parlare con le persone, conversare, sprecare tempo. Con i messaggi poteva tranquillamente andare dritto al punto.
Ho bisogno di un favore SH.
 
***
 
Era una grigia mattina di Novembre. Uno di quei soliti giorni uggiosi caratteristici della capitale. Era accomodato sulla sua solita sedia, la mente stanca e le palpebre pesanti. Rispettare quegli orari era veramente, VERAMENTE difficile. Andare a letto tardi per poi svegliarsi presto cominciava ad essere destabilizzante. E soprattutto in quel periodo dell’anno, la percentuale di probabilità di ammalarsi era alta e lui non poteva certo permettersi di starsene a casa, al calduccio.
Anche perché, se tutto andava come stava andando, presto una casa non l’avrebbe avuta più. Si passò pollice e indice sugli occhi, cercando di sfregare via la leggera nebbiolina di sonno che gli offuscava appena la vista.
Addormentarsi a lavoro! In tutti i suoi anni di carriera non gli era mai capitato niente del genere.
Fortunatamente, un toc toc alla porta si rivelò essere la sua salvezza. Il periodo tra Ottobre e Novembre era sempre frenetico, l’ambulatorio pullulava di malati che riempivano la calma ovattata portata dalla pioggia con i loro starnuti e la tosse.
“Avanti.”
La porta candida si aprì e sul rettangolo lasciato da essa si stagliò la figura di un uomo dall’aspetto singolare. Era un tizio come tanti altri, ma c’era qualcosa in lui che lo attirò da subito. In effetti, dalla sua sagoma asciutta e vestita da un pesante cappotto nero spirava un’aura carismatica, che metteva quasi in soggezione. Ma quello che più lo colpì furono gli occhi: freddi, scrutatori, profondi.
“Prego.” lo invitò indicando la sedia dall’altro lato della scrivania.
Il nuovo arrivato si sedette gemendo appena e raschiando la gola un paio di volte. “Dottore.” fece con voce in falsetto a causa del raffreddore e della raucedine. “Le ruberò solo pochi minuti: non voglio farle sprecare il suo tempo.”
“Oh, ma si figuri! Sono qui perché voi pazienti mi facciate sprecare il mio tempo.”
L’uomo sorrise appena ma insistette comunque. “Davvero, ho solo bisogno della prescrizione di un antibiotico. E’ il mio solito febbrone che viene a trovarmi una volta l’anno in questo periodo. Di solito mi rivolgo alla dottoressa Sawyer, ma a quanto pare ho beccato il suo giorno libero.”
“Sì, Sarah oggi non c’è. Si dovrà accontentare di me. Ora, si stenda sul lettino: non posso prescriverle un antibiotico senza prima aver un quadro clinico esatto.”
Quadro. Il quadro della fattoria. Il soggetto insignificante. Il pittore incompetente. L’ometto illeggibile.
Sherlock seguì le istruzioni del dottore: si stese, tirò su la maglia e lasciò che la membrana metallica dello stetoscopio gli passasse tra le costole, studiando il suo battito regolare e le sue funzioni respiratorie per niente compromesse.
Due giorni prima aveva chiesto a Lestrade di incontrarsi per discutere meglio della situazione. Gregory era un detective di Scotland Yard che doveva un paio di favori a Sherlock – favori che la loro amicizia non era riuscita a sanare – e così, quando l’amico gli aveva chiesto di corrompere il proprietario di un piccolo appartamento situato a Wigmore Street, si era visto costretto ad accettare.
Sherlock non poteva fare tutto per conto suo. Aveva bisogno di un intermediario per ridurre al minimo le possibilità di una qualche complicazione nel corso del suo piano. E Lestrade faceva perfettamente al caso suo. Ovviamente, tutto era andato come previsto (essere nell’Inquisizione sapeva fruttarti un piccolo patrimonio, sicuramente sufficiente a corrompere il proprietario dell’appartamento del dottor Watson) e ora il suo piano procedeva.
Tossicchiò un paio di volte, per essere credibile, ma alla misurazione della temperatura non poté far molto.
“Be’, lei non ha febbre. E’ ancora un po’ presto per parlare di polmonite o altro. Per adesso le consiglio semplicemente di stare a casa e riposare. Se vuole le firmo un certificato di malattia.”
Sherlock assunse un’espressione amara. “Ah, dottore, ha ragione: credo che dovrei godermi la casa prima di venire sfrattato.”
Un sorriso mesto affiorò sulle labbra del medico. “Non lo dica a me…”
“Anche lei ha problemi con la casa?” domandò Sherlock celando la soddisfazione che cominciava a risalirgli in petto.
“Be’, il figlio del proprietario dell’appartamento in cui vivo tornerà la prossima settimana da Edimburgo e quindi vuole riprendersi la casa. Non posso neanche biasimarlo, ma ora non ho la minima idea di dove andare.”
“Ma davvero? La proprietaria del mio appartamento ha aumentato il prezzo improvvisamente e ora che mi hanno licenziato non posso certo permettermi di pagare la casa tutto da solo.” La sua faccia si fece pensosa. “A meno che…” Le sue parole scivolarono nel silenzio. Il volto del medico era interessato, attendeva pazientemente. “…A meno che non mi trovi un coinquilino.”
“Un coinquilino? Be’, di certo è una buona soluzione. Magari anche io dovrei cercare qualcuno con cui condividere una casa. Mi va bene tutto. C’è solo un problema.”
“Chi mi vorrebbe come coinquilino?”
Si guardarono. Insieme. L’avevano detto insieme. Studiarono entrambi le reazioni dell’altro. Infine, sorrisero.
Sherlock approfittò dello smarrimento del medico. “Perché non viene ad abitare con me? L’appartamento è grande e l’affitto non è così alto diviso per due.”
“Io…Non saprei. Devo…rifletterci su.”
“Ma naturalmente! Non si preoccupi. Prenda tutto il tempo che le occorre. Ma prima di decidere definitivamente, la prego di dare comunque un’occhiata alla casa. Potrebbe aiutarla.”
Il medico annuì, ancora tentennante. “Sicuro, certo.”
L’altro si alzò con un moto gioviale e gli strinse con vigore la mano. “La ringrazio ancora dottore.” e si diresse a passo svelto verso la porta.
“Ma non vuole quel certificato…”
“Non si scomodi, dottore. In fondo, niente lavoro e riposo vanno di pari passo”
Fece per uscire, ma prima di chiudersi la porta alle spalle si girò un’ultima volta. “Il mio nome è Sherlock Holmes e l’indirizzo è il 221B di Baker Street. Buona giornata.” E dopo aver scoccato un occhiolino spavaldo al dottore, sparì.
Il medico si avvicinò alla porta appena chiusa e si fermò lì davanti. Sherlock Holmes… Aveva un suono strano… Già sentito. Holmes… Dove?
Dov’è che il dottor John Watson l’aveva sentito?
Dall’altra parte della porta, Sherlock stava immobile, con la sua postura austera.
E così, John Watson, i giochi sono finalmente cominciati
E di certo si sarebbero conclusi con una vittoria schiacciante da parte del figlio del grande Siger Holmes.
 
***
 
Quel giorno era più distratto del solito. Visitò i pazienti con scarsa voglia – ovviamente sapeva perfettamente quello che faceva – e anche quando arrivò alla fattoria, la sensazione di tranquillità e di pace non ebbero lo stesso effetto delle altre volte.
Per fortuna, almeno il cielo si stava dimostrando clemente con lui: quel giorno doveva scaricare le coperte e le stufe per permettere ai rifugiati di trascorrere l’Inverno serenamente. Per quanto contasse la parola serenamente per loro. Molly accorse a dargli una mano e gli tolse dalle braccia qualche coperta. Dovettero fare vari giri prima di aver sgombrato la macchina di John – una volta prendeva i taxi, ma per arrivare nel Sussex la situazione si era fatta più complessa e così aveva dovuto acquistare un’auto –.
Si sedette con un sospiro accanto ad una stufa accesa, isolato dal gruppo. Quel giorno aveva bisogno di starsene un po’ da solo: c’erano troppi fattori da valutare per l’eventuale convivenza con quello Sherlock.
In primis, la fattoria. I suoi spostamenti numerosi e sospetti. Non poteva certo pretendere che il suo possibile coinquilino non facesse domande. D’altro canto, era anche per il bene della fattoria che doveva limitare le spese. Tra la benzina per il viaggio da Londra al Sussex, l’affitto, i viveri per l’intera comunità e per se stesso, e i conti da fare in ambulatorio, la situazione economica era pericolosamente in bilico. E poi, gli sarebbe bastato mentire e attribuire quelle uscite e quei rientri tardivi a una presunta fidanzata. Fidanzata che non avrebbe faticato a trovare nella realtà – anche perché con Sarah le cose stavano andando molto bene, ultimamente –.
Provò a pensare ad altri punti critici su quella decisione…ma si rese conto che la fattoria era l’unica cosa che realmente contava. Incredibile come degli sconosciuti potessero cominciare a significare tanto per lui. Come una bambina down potesse strappargli un sorriso anche in quelle giornate in cui si sentiva scoraggiato e impotente. Come un ragazzo cileno lo facesse viaggiare con la fantasia, raccontandogli del suo Paese e della sua casa in cui aveva timore di tornare per la povertà e la carestia.
Incredibile come degli sconosciuti potessero diventare la loro famiglia. Da Alexandra, la bambina down, a Matias, il ragazzo cileno, a Devis e Logan, una coppia gay. Tutti quelli che erano riuniti in quella stanza erano fondamentali per lui. Ognuno, con la sua storia, aveva riportato luce nella sua vita. E ancora, ci sperava. Sperava che il suo sogno si realizzasse. Ci sperava quando nuovi Incompleti bussavano alla sua porta. Ci sperava mentre faceva correre lo sguardo nella stanza. Ci sperava mentre cercava con gli occhi fra quei volti e quelle storie di dolore e rifiuti.
Ma da un lato, non contava più così tanto. Erano passati talmente tanti anni…
“John?”
Watson si voltò e incontrò gli occhi rotondi di Alexandra. “Ehi, piccola, che c’è?”
“Sei triste?”
Quella parlata strascicata e stentata lo fece sorridere. Quanto era stupida la gente. Stupida, stupida, stupida. “No. Penso.”
“A che cosa?”
“A quanto mi piacerebbe adottare un cucciolo di cane e portarlo qui per giocarci.”
Gli occhi di Alexandra si accesero di emozione. “Sì, sì, cagnolino!”
John rise e le scompigliò i capelli con la mano. Girandosi, incappò in un’occhiata di rimprovero di Molly. “Vai da Matias, adesso. Se glielo chiedi per favore magari ti racconta una delle sue storie.”
“Sì, sì, storie! Storie!”
La dottoressa si avvicinò a Watson, mentre Alexandra camminava goffamente verso un Matias stranamente di buon umore e sorridente. “Non possiamo permetterci un cane. Né per i soldi né per lo spazio. Non possiamo tenerlo fuori, attirerebbe l’attenzione!”
John fece un gesto d’insofferenza con la mano. “Nel Sussex non viene mai nessuno. E poi trovare un randagio non è un evento così sensazionale, non credi?”
“E i soldi per il mantenimento? Il veterinario? L’antipulci? Il guinzaglio…”
“Molly, per favore. Ho soltanto voglia di…” Respirò profondamente l’aria che annunciava l’Inverno. “… lasciarmi andare. Fare qualche pazzia.” Si affacciò sulla collinetta davanti alla fattoria. “Ho bisogno di sentirmi libero.”
 
***
 
Il cielo latrava e piangeva. L’ombrello rischiava di venire spezzato in due dal forte vento. Ci mancava solo il nubifragio! Corse a perdifiato per la via, scorrendo i numeri civici con apprensione, temendo che quelle tre cifre e quella lettera slittassero improvvisamente via dalla sua memoria.
222A…
221C…
221B!
Pigiò il campanello con l’indice e prese a sfregare le mani sulle braccia nello strenuo tentativo di ottenere un po’ di calore. Non dovette aspettare molto perché la porta, davanti a lui, si aprisse. La testa di una vecchietta dal viso gioviale e gli occhi furbi fece capolino da dentro casa.
“Sì?”
“Ehm…Io sono…”
“Dottor Watson!”
John si voltò di scatto, sussultando. Davanti a lui, la figura fradicia di Sherlock Holmes. Un sorrisetto arrogante gli illuminava il viso e gli occhi lo fissavano con un fare vittorioso.
“Lieto di rivederla.”

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 2 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 2 


Un letto scomodo e cigolante. Le molle che pigiano sulla schiena. Una televisione dalle dimensioni infime. La corrente che l’attimo prima c’è e quello dopo salta. Pareti scrostate, soffitto unto dalla muffa.
Un comodo divano letto. Un materasso in cui poter sprofondare beatamente. Una TV con la possibilità del 3D. Acqua calda, Wi-Fi stabile. Ambiente semplice ma confortevole.
Sì, la vita a Baker Street non poteva essere più diversa da quella nel misero appartamento dove abitava in precedenza. E anche l’affitto era straordinariamente basso.
La signora Hudson, la proprietaria della casa, ogni mattina faceva trovare il tavolo della cucina imbandito di tutto e di più: pancakes caldi, uova e bacon serviti con una piccola porzione di piselli, una tazza di the fumante, e una cesta di frutta fresca…
Insomma, un ben di Dio!
John era veramente soddisfatto della sua scelta. Mai avrebbe pensato che la sua vita potesse prendere una piega tanto inaspettata. Nel senso positivo del termine.
Erano ormai passato poco più di un mese da quando si era trasferito al 221B di Baker Street e durante quel lasso di tempo aveva imparato ad apprezzare persino quel coinquilino fuori dal comune che alle quattro del mattino cominciava a sviolinare una Primavera di Beethoven o un Concerto in Sol Maggiore di Mozart, che sapeva essere cordiale in certi momenti ma tremendamente irritante in altri, che non amava parlare e rispondere alle domande, ma che adorava formularle.
Sì, Sherlock Holmes era un individuo fuori dal comune. Ma questo fuori dal comune era un bene. In fondo, John si rapportava continuamente con persone fuori dal comune.
Durante quelle settimane, Watson aveva imparato che raramente il coinquilino faceva colazione assieme a lui. E invece, quella mattina, mentre sorseggiava il suo caffè per accumulare un briciolo di energie, in cucina strisciò la figura assonnata di Sherlock.
“Dormito male?”
Holmes preferì limitarsi ad un grugnito infastidito. Non sapeva cosa sarebbe potuto scappagli di bocca in quel momento. Trentasei giorni. Trentasei, stramaledettissimi giorni e ancora niente! Per quante domande poneva, per quanto cercasse di scavare nella vita di John Watson, non trovava niente di niente. Quella notte era rimasto sveglio, a vagare all’interno dell’archivio online dell’Inquisizione, sperando di trovare uno stralcio di notizia in più su quel medico. Ma niente!
La televisione, alle loro spalle, gracchiava, mostrando uno di quei film sulla Guerra Jihadista. John poggiò la tazza di caffè con una smorfia. Non era proprio il suo genere. Sherlock si sedette con un sospiro di fronte a lui, la guancia poggiata sulla mano e gli occhi chiusi, ancora rossi per le lunghe ore al computer.
“Dovresti prendere delle gocce o un infuso che ti aiutino a dormire. Non può andare avanti così.” osservò John spiando l’altro da sopra il suo pezzo di pancake infilzato dalla forchetta. “Sei uno straccio.”
Sì, John. Non può andare avanti così!
“Dove sei stato ieri?”
Il pancake s’incastrò nella gola di Watson che cominciò a tossire. La mano del dottore corse alla tazza di the di Sherlock e la portò alle labbra. Il liquido gli scese in gola come un lenitivo contro una ferita. Sospirò di sollievo quando sentì il pezzetto di dolce scivolargli finalmente verso lo stomaco.
“Perché me lo chiedi?”
Holmes si riappropriò della tazza di the. “Perché ieri era il tuo giorno libero. Eppure sei partito presto e hai rincasato tardi.”
John annuì, raccogliendo in fretta le idee. “Ieri è stato il compleanno di Sarah. Siamo stati fuori tutto il giorno.”
Balle. Sarah Sawyer, 34 anni, nata il 13 Agosto 2096, dottoressa nello stesso ambulatorio di John. Aveva avuto una relazione seria di quattro anni con un suo compagno di università. Finita per colpa di lui. Tradimento.
E Sherlock avrebbe potuto continuare a tracciare nella sua mente la figura della donna, il suo passato, la sua media di voti alla High School e al College, le sue abitudini e le sue passioni… Ma non era di alcuna utilità. L’unica cosa che contava era che no, il suo compleanno non cadeva di Dicembre.
“Ah, mi sarebbe piaciuto farle gli auguri.”
John sorrise, sperando in un qualche miracolo che potesse tirarlo fuori da quella situazione. “Glielo dirò…”
Ad un tratto, la stupida telenovela alle loro spalle venne interrotta da un interferenza. Entrambi si voltarono e ben presto lo schermo scuro si aprì su una scena completamente diversa da quella del film A morte la Jihad.
John trattenne il respiro. Trafalgar Square. Una moltitudine di teste urlanti circondava un palco in argento rialzato. Un palco tristemente noto per i suoi scopi. Il Justice Podium. Il Podio di Giustizia.
Su di esso dominava un fila di persone in divisa militare, col petto ricoperto di stemmi e targhette onorative. In braccio, fucili.
Dall’altra parte del palco, due donne. In lacrime. Urlavano l’una il nome dell’altra con disperazione. Le loro voci erano impregnate di dolore, di rimpianto. Di amore.
Davanti a tutti, un uomo vestito con un elegante completo scuro. Leggermente stempiato, un naso aquilino, occhi piccoli e feroci.
Sherlock studiò quella figura avvolta da un potere straordinario. Un potere che esercitava anche su di lui. Quell’uomo altri non era che Mycroft Holmes. Suo fratello.
“Popolo di Londra!” urlò alla folla riunita e stipata sotto di lui. “Quest’oggi siamo riuniti perché abbiamo scovato dei nemici dello Stato.” Si voltò a guardare le due donne con le mani legate a due pali di metallo. “Kate Green e Lauren Jones.”
Dalla calca al disotto del palco si levarono grida e ingiurie contro le due Incomplete. John strinse i pugni e si alzò di scatto dalla sedia per avvicinarsi al televisore. Nei suoi occhi, il riflesso del sorriso di Mycroft Holmes. Sherlock gli fu subito accanto. Non sapeva perché l’avesse seguito. Non era la prima esecuzione a cui assisteva. Né di certo sarebbe stata l’ultima. Eppure, qualcosa lo spingeva a stare lì, al fianco di John Watson.
“Kate e Lauren!” gridò il maggiore degli Holmes. “Siete accusate di alto tradimento. Con il vostro amore impuro state cercando di abbattere il nostro Paese.”
Amore. Faceva uno strano effetto pronunciato da un uomo così meschino. Come si poteva essere giudicati per il proprio amore? Per la propria nazionalità? Per i propri difetti? In che razza di mondo stavano vivendo?
“Non vi verrà concesso neanche il diritto di ultima parola. Verrete giustiziate pubblicamente per le vostre colpe” La sua voce era sormontata dalle grida delle due donne “in modo che tutti possano vedere con i propri occhi cosa succede quando si affronta la Patria!”
I soldati in riga batterono una sequenza ritmata con i piedi. Regolare. Una danza di accuse. Di insulti. Di morte.
“Caricare!”
Le cartucce scivolarono inesorabilmente all’interno della feritoia di emissione dei fucili. Intanto, quei battiti sul pavimento d’argento non cessavano. Le urla impazienti della gente, il sorriso dell’uomo in abiti eleganti, i pianti delle condannate…
John sentiva la propria testa scoppiare. Voleva gridare. Liberarsi i polmoni fino all’ultimo. Non poteva. Non poteva rimanere lì, inerme, ad osservare la scena. Ma doveva. Per la causa che stava portando avanti nella fattoria, per Alexandra, per Matias, per Davis e Logan. Per se stesso. Per la sua speranza.
“Puntare!”
Le bocche dei fucili erano divise simmetricamente: cinque contro Kate Green; cinque contro Lauren Jones.
Sherlock lanciò uno sguardo furtivo a John. Lo vedeva fremere, quasi tremare. Si sentì strano. Una sensazione che non aveva mai provato.
Affetto. Desiderio di proteggere.
Ma John Watson era il nemico. John Watson doveva essere tolto di mezzo appena possibile. John Watson era pericoloso.
“Kate! Ti amo!”
“Anche…”
“FUOCO!”
Le canne dei fucili latrarono morte. I corpi delle due donne vennero perforati da cinque proiettili ciascuno. Silenzio. Non importava quanto la gente esultasse, o quanto quell’uomo importante abbaiasse valori morali. Nel 221B di Baker Street rimase solo un silenzio pesante, impastato di quella dichiarazione mai urlata, di quelle parole mai dette. Di quel Ti amo che non avrebbe mai più potuto essere proferito.
John si accasciò sul divano, la testa ciondolante tra le mani. Respirava rumorosamente per cercare di scacciare il suono della detonazione che ancora gli fischiava nelle orecchie.
Il cuore pesante. Troppo pesante. I polmoni pieni. Troppo pieni. Il groppo in gola soffocante. Troppo soffocante.
Parole. Aveva bisogno di parole. Di pronunciare parole. Di riempire quel silenzio che a sua volta gli riempiva la testa e le orecchie.
“Perché?” disse solo.
Sherlock rimase immobile davanti a lui. Lo sguardo imperturbabile. “Perché sono impuri.”
John alzò la testa di scatto, gli occhi sgranati. “Tu la pensi come loro?”
“Non è questione di pensarla come loro, John. Il loro essere diverse non poteva essere accettato. Non in questo mondo. Non in questo momento. E’ così e basta.”
“E’ assurdo!”
“Non è assurdo. E’ necessario.”
Watson si tirò su e cominciò a percorrere la stanza a passi frenetici, una mano che grattava la nuca come per voler sfregare via anche le parole del coinquilino.
Necessario? Che cosa c’è di necessario nella morte di due persone che come unica colpa avevano quella di amarsi?”
Sherlock si prese un attimo per formulare la risposta. “Credo che dovresti rassegnarti, John. E’ solo questione di tempo prima che l’Inquisizione…trovi altri clandestini.”
E sarebbe stato proprio John Watson a portare lui e suo fratello da loro. Ma non ancora. Non così presto.
John, finalmente, si fermò. Era ritto davanti a Holmes e sebbene quest’ultimo lo superasse di una buona stazza, Watson in quel confronto risultava più imponente, più forte. Fissò quelle iridi gelide, scavò in esse, sperò di trovarci una spiegazione a quelle parole affilate, a quelle convinzioni inaccettabili. Ma quegli occhi erano porte blindate. Inaccessibili.
“E se ci fossi tu lì?” Tacque un istante imitato dall’altro. “Se l’unica tua colpa fosse quella di amare una persona in un mondo chiuso e ingiusto? E’ facile parlare quando sono altri che muoiono, mentre noi restiamo vivi.”
Le labbra di Sherlock tremarono appena. Quelle parole si piazzarono all’altezza del suo petto con insistenza e cominciarono a urlare e urlare senza tregua. Facile parlare quando sono altri che muoiono. Facile parlare quando il diverso non sei tu. E’ tutto facile a parole. Facile giudicare, facile sputare sentenze, facile vivere tranquillamente sul sangue di innocenti che noi riteniamo colpevoli.
“E’ questo il punto, John: non ci sono io lì. Non sono diverso. Non sono un Incompleto. Perché dovrei preoccuparmi della sorte degli altri quando io ho la coscienza pulita?”
Quelle parole precipitarono fra di loro come macigni. E John se ne sentì schiacciato. Rimase tacito per alcuni istanti, durante i quali la tensione tra i due si accumulava sempre di più in un groviglio di pensieri. “Come puoi essere tanto insensibile?” La sua voce era roca, stranamente bassa per lui. Una voce pacata. La calma prima della tempesta. “Come puoi essere così cieco?” Il tono cresceva ancora e ancora, sempre più. “Non si può rimanere indifferenti di fronte ad una visione del genere! Un essere umano non può rimanere indifferente di fronte ad una visione del genere!”
Sherlock non si scompose. “Eppure è quello che sto facendo.”
I pugni di John erano diventati così chiusi, così serrati, che le nocche erano sbiancate e le unghie affondavano nella carne. “E allora sai che c’è? C’è che non sei un essere umano! Sei soltanto una fottutissima MACCHINA!”
Si voltò e afferrò con rabbia la giacca appesa all’attaccapanni. Fece per uscire ma la porta di casa venne aperta e nella stanza entrò la signora Hudson con occhi intimoriti. “Va tutto bene?”
“Lo chieda a lui.” rispose sprezzante John indicando col mento Sherlock.
“John caro, c’è qui…”
“Sarah, lo so.”
Si volse un’ultima volta verso la figura immobile di Holmes. Lo fissò intensamente, sperando che dalle sue labbra uscisse una parola di scuse, di conforto. Ma niente.
“Perfetto.” disse – più tra sé e sé che rivolto agli altri –.
Sherlock guardò il medico sgattaiolare fuori dalla stanza di fretta. Lo guardò fuggire da lui.
“Posso sapere che è successo?” domandò la signora Hudson con tono di rimprovero immaginando di chi fosse la colpa di quel litigio.
Holmes non la degnò neppure di uno sguardo: corse alla finestra, scostando la tendina. Vide Sarah, bella ed elegante come non mai, e John che la prendeva fra le braccia e le schioccava un bacio sulle labbra.
La faccia di Sherlock si contrasse in una smorfia di ribrezzo. Istintivamente e senza neanche accorgersi, si trovò a sfogliare mentalmente il dossier scarno di John.
Nessuna relazione stabile.
Ma con Sarah… con Sarah era diverso. Si frequentavano da più di cinque mesi secondo il fascicolo. Che fosse quella giusta per lui?
Si staccò dalla tenda, irritato e afferrò il violino nervosamente. Provò a suonare, a far scorrere l’arco lungo le corde dello strumento, a lasciare che fossero le note a parlare per lui. Ma il suono era stridulo, stonato. Che cosa gli prendeva? Perché non riusciva a suonare? Perché le uniche note che contavano davvero erano quelle cantate da John? Macchina. Che suono profondo e dolente avevano quelle poche note.
 
***
 
Sarah era divertente. Lo faceva ridere. Gli risollevava il morale. I suoi baci che dopo le loro romantiche cenette sapevano di vino e porridge, gli facevano dimenticare il mondo in cui vivevano. Ma quella sera fu diverso. Neanche il Pinot Nero e le risatine flirtanti di lei potevano fargli dimenticare quell’esecuzione e quegli occhi gelidi e imperscrutabili.
E’ solo questione di tempo…
Quella frase gli echeggiava ancora nella mente. Tempo. Poco tempo. La fattoria era sopravvissuta per anni. Gli Incompleti arrivavano, si fermavano per un lasso di tempo variabile – cioè quello necessario perché John riuscisse a procurarsi dei biglietti per Cuba, dove risiedeva in pace la più grande comunità di Incompleti al mondo – e partivano, per lasciar posto ad altri rifugiati. Il tragitto tra la fattoria e il nuovo aeroporto – al confine con Londra – era impervio ed estremamente pericoloso. Ci volevano giorni interi per programmare gli spostamenti. Finché erano coppie omosessuali a dover partire, non era così difficile confondersi fra la folla. Ma i disabili e gli immigrati saltavano subito all’occhio. Il gruppo doveva procedere a piedi attraverso il Sussex, rimanendo il più nascosti possibile. All’aeroporto – grazie ad alcune conoscenze di Molly – disabili e stranieri passavano attraverso un corridoio secondario che li conduceva direttamente all’aereo e dove fornivano documenti falsi all’amico/a in questione. Ma per evitare ogni possibile inconveniente, dovevano esserci persone…dalle fattezze normali. Persone il cui difetto risiedesse nel cuore e non nel corpo. Le coppie omosessuali si accalcavano attorno agli altri Incompleti e procedevano a marcia serrata, quasi stessero andando in guerra. In passato, purtroppo, era capitato che un’autorità beccasse un disabile o un immigrato e agisse di conseguenza. Ma se tutto andava secondo i piani, gli Incompleti salivano su un aereo merci per Cuba e tanti saluti xenofobi, razzisti, omofobi.
Avevano proceduto così per anni. E John aveva sempre saputo che era questione di tempo prima che qualcosa andasse storto.
“John?”  Watson si riscosse. La mano di Sarah era delicatamente appoggiata sulla sua. “Va tutto bene?”
Il medico annuì e buttò giù un sorso di Pinot Nero. “Sì, sì, bene.”
E invece non stava bene per niente. Una strana inquietudine raschiava all’altezza del petto, tormentandolo. Dopo la discussione con Sherlock, i suoi pensieri erano rivolti interamente al gruppetto di Incompleti che era partito un paio di giorni prima. A quest’ora sarebbero già dovuti essere nei pressi dell’aeroporto. Il tratto più difficile. Il tratto più scoperto. Pensava ad Alexandra e alla sua mamma che faceva di tutto per proteggerla e regalarle una vita serena per quanto possibile, a Matias, che ricordava la sua casa con nostalgia ma che non poteva farvi ritorno per la difficile situazione e doveva così stare lontano dalla sua famiglia, dalla sua terra, a Davis e Logan, al loro amore indissolubile anche attraverso le difficoltà, e a tutti gli altri che erano partiti dalla fattoria assieme a loro.
“Vuoi venire a casa mia?” propose Sarah con voce suadente. In condizioni normali, John avrebbe accettato al volo, ma quella sera tutto era diverso. Tutto era confuso.
“Non stasera, no. Sono stanco.”
Uscirono dal ristorantino e camminarono per un po’ lungo i vialetti di Hyde Park, mano nella mano come una coppia normale. Le dita di Sarah erano vere, concrete sotto il suo tocco. Ma lui non si sentiva padrone del suo corpo né tanto meno della sua mente. Non riusciva ad essere lì con lei veramente.
Non quella sera, no. Era stanco.
Si salutarono con un bacio privo di passione e John rimase a fissare la schiena di Sarah allontanarsi da lui. Si sedette su una panchina e chiuse gli occhi. Il vento di Dicembre prese a fischiare dopo pochi attimi.
Alexandra... Matias… Davis… Logan…
Sherlock. Perché gli veniva in mente Sherlock proprio in quel momento? Non era neanche così sicuro di voler tornare a Baker Street dopo quello che era successo la mattina.
La notte stendeva il suo abito di seta nero glitterato di stelle dolci e flebili.
Nel silenzio della sera, il telefono squillò.
 
***
 
Sherlock era disteso sul divano, le mani giunte sotto il mento, i cerotti alla nicotina attaccati al braccio. Gli occhi all’apparenza dolcemente chiusi saettavano sempre più spesso e sempre più febbrilmente in direzione dell’orologio.
Non tornerà. E’ probabile che si fermi da Sarah.
Nemmeno la nicotina riusciva a cancellare quella lite, quello sguardo accusatorio di John, quella Sarah perfetta, quelle note cupe: macchina.
Era davvero solo una macchina? In tutta la sua vita, l’unica cosa che assomigliava lontanamente ad un sentimento era stata la gelosia nei confronti di Mycroft. Di un fratello che aveva la completa attenzione del padre, la sua stima e la sua fiducia.
“Sono fiero di te, figlio mio. Sarai un degno successore di tuo padre.” diceva Siger Holmes senza curarsi della presenza del minore nella stanza. Ma col passare degli anni, niente sembrava più scalfire la corazza che Sherlock Holmes indossava. Niente amore, amicizia, tristezza, felicità… Tutto nella sua vita aveva un colore smorto che però non incuteva malinconia. Dava solamente una visione nitida della vera essenza delle cose. Senza filtri né colori. Solo grigio.
Ma dall’arrivo di John Watson nella sua vita, qualcosa stava cambiando. O forse era già cambiato. Quel biondo, quegli occhi azzurri, quell’insopportabile maglione a righe marroni, quel sangue cremisi che imbrattava i corpi delle due condannate sul Justice Podium… I colori stavano lentamente ricomparendo. E non andava bene. Non andava bene per niente.
Un rumore di passi lo spinse a scattare in piedi come una molla. La porta si aprì adagio, cigolando.
Sherlock rimase in silenzio per un po’. “Credevo avresti dormito fuori.”
John non sembrava nemmeno averlo sentito: i suoi occhi erano vuoti, le sue labbra semiaperte, le sue mani tremanti. Sherlock contemplò quella visione senza parole. Quell’uomo non aveva niente del John con i capelli biondi, gli occhi azzurri, il maglione a righe marroni. Non era il John che conosceva.
“Che hai?”
Silenzio.
“John?”
Ancora silenzio.
“John, per l’amor di Dio, che succede?”
Stavolta il medico sembrò udire la voce del coinquilino. Spostò il suo sguardo vuoto su Sherlock e quest’ultimo se ne sentì trapassato.
“John…”
Watson si abbandonò sulla poltrona. Le mani che coprivano il volto. Non stava accadendo davvero… Non poteva essere reale… Non poteva…
“Che cos’hai?”
Che cos’ho? Niente di che. Ho solo ricevuto una telefonata di Molly in cui mi informava che il gruppetto di Incompleti che sarebbe dovuto partire stasera per Cuba è stato trovato dalle autorità che hanno fatto fuoco quando loro hanno provato a scappare.
Morti. Tutti morti. Così aveva detto l’amica hostess di Molly. I loro corpi erano stati presi e bruciati. Le loro ceneri sparse sulla terra. Quanto bastava poco per morire, in quel tempo.
La piccola Alexandra… Matias il sognatore… Davis e Logan, insieme per sempre…
Morti.
Sherlock aveva ragione. Doveva rassegnarsi. Doveva arrendersi all’evidenza. Non era nessuno. Non poteva impedire che degli innocenti venissero ammazzati.
Non poteva.
“Ti è mai capitato…” cominciò alla fine dopo aver preso un respiro profondo. “…Ti è mai capitato di cercare di fare la cosa giusta ma di arrivare ad un punto in cui non sai più se quello che stai facendo è veramente giusto?”
“Sì.”
Non trattenne quella parole. Quelle due lettere. Il suo cuore le aveva urlate ancora prima che Watson terminasse la frase. Eccome se gli era capitato! Gli era capitato quando aveva visto le labbra di John posarsi sulla fronte di quella bambina down, quando avevano assistito insieme all’esecuzione di quelle due donne, quando John aveva urlato sei una macchina, quando era rimasto sdraiato per ore e ore sul divano, ad aspettare che John tornasse. Tutta colpa di quel medico, di quell’ometto, di quel soggetto insignificante! Di quel John.
“E come si fa a capire quando è arrivato il momento di arrendersi? Di gettare la spugna.”
Sherlock si avvicinò a lui lentamente, quasi avesse davanti una belva da domare. Come si faceva? Guardando in faccia la realtà. Guardando in faccia John. Guardando in quegli occhi il proprio riflesso. “Non lo so. Accade e basta.” Le labbra di Watson si schiusero in un sorriso amaro e per un istante, Holmes credette che sarebbe scoppiato in lacrime. “Parlami, John. Che cosa mi tieni nascosto?”
Non voleva più sapere per l’Inquisizione. Per Stanford. Per la Patria. Per se stesso. Voleva saperlo per John, perché condividesse con lui quella croce troppo pesante da portare da solo. Si chinò di fronte a lui e pose entrambe le mani sulle sue spalle.
“Fidati di me.”
Il medico scosse appena la testa. “Non posso. Non posso farti questo.” L’occhiata interrogativa di Sherlock lo spinse a continuare. “Ho un segreto. Qualcosa che non ho mai rivelato a nessuno. Qualcosa che metterebbe in pericolo la vita di chiunque solo sapendolo.”
Che intendeva dire? Mettere in pericolo la vita degli altri? Stava tenendo nascosta la questione fattoria per… Proteggerlo?
“John, non ho paura.”
Ma improvvisamente si rese conto di quanto quell’affermazione fosse un’emerita cazzata. Le mani sulle spalle di John erano calde, la sua vicinanza intera lo riscaldava. Troppo vicino. Troppo importante.
Tolse le mani in fretta e si sedette sulla poltrona a fianco a quella del medico.
“Dovresti. Perché io ne ho. Tanta.”
Non per sé, ma per la fattoria. Per altri innocenti. Se solo fosse stato come quell’uomo vestito elegantemente, come quei soldati, come quella folla acclamante… Sarebbe stato tutto più facile.
“John.” La voce di Sherlock lo riscosse. L’amico aveva preso il violino e ora lo guardava con occhi dolci, preoccupati. “Stenditi sul divano e riposa.”
Non appena ebbe concluso la frase, un suono soave invase la stanza. Così struggente, così malinconico. Una ninna nanna.
John si alzò dalla sedia e si rannicchiò sul divano dove fino a pochi minuti prima era rannicchiato Sherlock stesso. Incredibile… Ciò che quella sera non erano riusciti a fare il Pinot Nero o i baci di Sarah, ci stavano riuscendo le note dolci di Holmes. Chiuse gli occhi e si abbandonò a quella melodia suonata solo per lui.
Anche Sherlock aveva gli occhi chiusi. Aveva provato a suonare tutta la mattina, senza successo. E ora che John era lì… Il suono era magnifico, indescrivibile.
Le tre domande che l’avevano assillato fino ad allora, sbiadirono come inchiostro vecchio, lasciando posto ad altre:
 
  1. Che cos’era John Watson?
  2. Come riusciva a spingerlo a fare cose di cui non era mai stato capace?
Ma soprattutto: era veramente giusto condannare la gente per il semplice fatto di essere diversi? 
 
***
 
 "Gu
arda, guarda chi è risorto dal regno dei morti!”
Sherlock alzò a malapena lo sguardo dal suo portatile. “Mycroft. Noto con dispiacere che non hai perso il tuo orribile senso dell’umorismo. Sei ingrassato dall’ultima volta che ti ho visto.”
Mycroft si tastò istintivamente la pancia. “Al contrario, sono dimagrito.”
“Sì, sì.” mormorò il fratello tornando a concentrarsi sul computer.
Il maggiore degli Holmes si sedette davanti alla scrivania di Sherlock, i gomiti appoggiati sul tavolo e le dita intrecciate sotto il mento. Studiò il fratello per alcuni minuti, senza proferire parola. Da quando era entrato nello studio del vecchio Buckingham Palace, aveva subito notato qualcosa di diverso in lui. Era stata una percezione. Piccola piccola. Ma c’era.
“Allora, mi vuoi dire che fine avevi fatto?”
Sherlock non staccò gli occhi dallo schermo del portatile. “Mi sono preso una piccola vacanza.”
Il viso di Mycroft si fece improvvisamente minaccioso, gli occhi ristretti, che sembravano volerlo sbranare per la sua solita impudenza. “L’essere figlio di Siger Holmes non ti consente di fare come ti pare. Ci sono delle regole da rispettare, Sherlock. Se vuoi una vacanza allora devi chiedere un permesso.”
“Sì, mamma.”
Mycroft sbuffò spazientito, ma non lasciò che la benzina di suo fratello facesse divampare il piccolo focherello di rabbia che ardeva in lui. “Ho sentito che ti sei trovato un coinquilino.”
Stavolta, Sherlock si immobilizzò. E quel fatto non sfuggì al maggiore.
“Vedo che i tuoi uomini sanno ancora fare il proprio mestiere.”
Il fratello sorrise falsamente. “I miei uomini non c’entrano. Ho parlato con quel tuo amico, Lestrade, per sapere se aveva tue notizie e mi ha raccontato questa bella storia della convivenza.” Le sue iridi grigie tradivano impazienza, esprimevano malizia. “Ora mi chiedo: come mai ti sei cercato un coinquilino?”
“Suppongo che non ci siano molti motivi per trovare qualcuno con cui abitare.” rispose evasivo Sherlock.
“Solitamente per soldi. Per risparmiare. Ma non mi sembra che i soldi ti manchino.” osservò Mycroft facendo correre lo sguardo per la lussuosa stanza in cui si trovavano. “Per socializzare? Non mi sembri il tipo da lunghe chiacchierate di fronte ad una tazza di the. E allora perché?”
Il fratello chiuse di scatto il portatile e le immagini del fascicolo sulla famiglia Watson scomparvero. “Perché sì, Mycroft. Non verrò certo a dare spiegazioni a te.”
Un sorrisetto impertinente comparve tra le labbra sottili di Mycroft. “E questo Watson? Com’è?”
Questo Watson, come lo chiami tu, è una persona normale, innocua e non è un Incompleto. Ti basta?”
“Che cos’è questa vena rabbiosa che sento nella tua voce, fratellino?”
Sherlock, sotto la scrivania, strinse i pugni. Doveva voleva arrivare? Che cosa voleva sapere con quell’espressione viscidamente soddisfatta dipinta in volto? Gli mancava l’aria, aveva bisogno di andarsene, di tornare a Baker Street da John. Anzi, di tornare a Baker Street e basta.
“Non c’è nessuna vena…”
“Siete amici?”
Il fratello minore lo guardò con astio e comprese: voleva giocare. Era l’unica cosa che Mycroft aveva sempre amato. Divertirsi a sue spese. Voleva metterlo alle strette, guardare le sue reazioni, studiarlo.
“Sì.”
“Ma davvero?”
Sherlock si alzò e si infilò il cappotto. Fuori, la fitta cappa di nubi minacciava al più presto la prima neve dell’anno. “E’ passato più di un mese, Mycroft. Mi sembra normale l’aver stretto amicizia.”
Normale? Andiamo, Sherlock, tu non stringi amicizie. Né altri rapporti del genere. Io e te siamo uguali. Siamo fatti della stessa pasta, Sherlock. Sangue dello stesso sangue.”
Un tonfo sordo all’altezza del petto. Fu quello l’effetto delle parole del fratello. Sherlock si fermò, la sciarpa in mano. Erano uguali? Ancora ricordava quell’esecuzione, il modo in cui suo fratello sorrideva, le urla delle due donne… Lo sguardo di John.
Non voleva essere come suo fratello. O come suo padre. Lui era Sherlock. Non Mycroft. Né Siger. Sherlock. E non gli piaceva neanche più portare quel maledettissimo cognome che ormai gli sapeva di mostruosità.
“Io e te non siamo uguali. E, francamente, mi dispiace davvero per te.” Fece per andarsene, ma alla fine si bloccò. “Sono stanco di lavorare nell’Inquisizione. Questa è l’ultima volta che mi vedrai qui.”
E prima di tornare a Baker Street, afferrò il portatile e se lo strinse al petto. In quel piccolo strumento era racchiuso il destino di John.
“Ricordati quello che è successo ad Eurus.”
Sherlock si voltò di scatto al sol sentir pronunciare quel nome. “Che cosa c’entra lei con me?”
Mycroft sospirò e si accomodò meglio sulla sedia. “Tutte le vite finiscono. Tutti i cuori sono spezzati.” I suoi occhietti si rifletterono in quelli del fratello. “Farsi coinvolgere non è un vantaggio, Sherlock.”
“Non sono coinvolto.”
“Meglio.”
“Posso andare ora?” chiese spazientito Sherlock.
“Certo e goditi il tuo non essere coinvolto.”
 
***
 
Accarezzò la foto. Erano passati tanti anni, ma era ancora integra, per niente rovinata a parte un graffio al centro.
Accarezzò la sua speranza che ancora gli bruciava in petto. Il suo obbiettivo iniziale. Forse l’unico. Guardò quel sorriso, quegli occhi, quei denti leggermente da castoro…
Fuori, le nuvole inghiottivano il cielo con le loro fauci di gas. Avrebbe nevicato presto. Molto presto.
Era questione di tempo
Che fattore meschino il tempo. Fagocitava i ricordi, le relazioni. Scorreva inesorabile e non era possibile sfuggirgli.
Anche quella foto, prima o poi, sarebbe sbiadita lentamente e, a poco a poco, sarebbe stata cancellata. Completamente. E non ci sarebbe stato un John Watson che ricordasse, che potesse descriverla. Persa per sempre.
La porta d’ingresso al piano di sotto sbatté. John sussultò e si guardò attorno convulsamente mentre i passi di Sherlock risalivano le scale. Una pila di vecchi giornali sul tavolino di fronte alla poltrona attirò il suo sguardo. Ficcò la fotografia in mezzo a quei fogli vecchi e ingialliti nello stesso istante in cui Holmes aprì la porta che dava sul salotto.
“Oh, Sherlock! Com’è andato il colloquio di lavoro?”
Sherlock poggiò il portatile sulla scrivania e si srotolò la sciarpa dal collo. “Mi faranno sapere, ma ho capito che c’è gente più qualificata di me.”
“Capisco, mi dispiace.”
L’altro accennò un sorriso prima di sprofondare sul divano. John non aveva ancora voluto parlargli né della fattoria né tanto meno di ciò che era successo quella sera. Tutto ciò che sapeva, era che da allora l’amico non era stato più lo stesso. Sembrava… Spento. Assente, il più delle volte.
“John, ecco…” Sapeva bene che avrebbe dovuto tacere, che non erano esattamente affari suoi, ma vederlo così gli infondeva una sensazione strana. “…Se hai voglia di uscire, di fare qualcosa…”
“No, Sherlock. Non con questo freddo. E poi ora ho un appuntamento.”
“Con Sarah?”
John si voltò perplesso. Scrutò l’espressione appena corrucciata dell’amico e si sorprese a sorridere. “E’ un problema?”
“No, no. Affatto.”
“Certo… Be’, io vado. Non aspettarmi sveglio.”
Sherlock si stese sul divano e si rannicchiò dall’altra parte, dando le spalle all’amico. “Certo che no.”
Pochi secondi dopo, sentì la porta chiudersi alle spalle del medico. Si alzò e corse alla finestra com’era solito fare quando Watson usciva di casa. Vide la sua figura entrare in macchina e partire. Quando l’automobile venne inghiottita da una svolta, mormorò: “Via libera.”
Si diresse a passi affrettati verso il computer che aveva posato sulla scrivania, ma col piede urtò dolorosamente il tavolino su cui John conservava i giornali. Il pavimento venne ricoperto da un tappeto di fogli vecchi e neri d’inchiostro.
“Cavolo…”
Era meglio mettere apposto prima che arrivasse la signora Hudson e – trovando quel disordine – gli facesse la ramanzina. Si chinò a terra e cominciò a raccogliere pazientemente i giornali e a poggiarli sul tavolino dal quale erano caduti.
Ad un tratto, le sue dita incapparono in qualcosa di più liscio rispetto alla carta spessa e ruvida dei quotidiani. Spostò lo sguardo dalla montagna di carta alla sua destra, e lo puntò sulla mano sinistra.
Le sue dita stringevano una vecchia foto, a giudicare dal colore leggermente sbiadito. Sherlock rimase a fissare quell’immagine con il cuore in gola. Una giovane donna. Non bella, ma sicuramente attraente. Era girata di spalle, fatta eccezione per il viso sorridente puntato contro l’obbiettivo. Da dove veniva fuori quella?
Adesso che ci pensava… Appena entrato si era reso conto che John aveva immerso la mano nella pila di quotidiani per poi ritrarla subito dopo. Ma lì per lì non aveva dato importanza a quel semplice gesto…
Ma allora… quella foto apparteneva a John. Una foto curata, conservata come un tesoro. Lucida, priva di impronte delle dita. Un simulacro dedicato ad una persona estremamente importante. Ad una donna estremamente importante.
Girò la fotografia e, sul retro, scritta con un pennarello indelebile campeggiava una frase: Ti troverò, fosse l’ultima cosa che faccio.
 
***

 
John attendeva impazientemente dentro la fattoria. Aveva bisogno di attivarsi, di fare qualcosa, di mettere in moto la mente e il corpo. Erano passati due giorni da quando…
Si passò una mano sul volto, confuso, malinconico, vuoto. Come poteva accettare una tale sconfitta? Una tale perdita di vite? Avrebbe dovuto stare più attento, dannazione! Avrebbe dovuto fare di più! Avrebbe dovuto… Avrebbe dovuto… AVREBBE DOVUTO!
“Sono arrivati!”
John si riscosse al suono delle parole di Molly e scattò in piedi con meno vitalità e forza del solito. Era buffo, ma un pensiero stupido lo colse inaspettato.
Che sia la volta buona?
Si mosse con enfasi verso l’entrata della fattoria e protese la testa fuori, dove l’Inverno aveva ormai cominciato ad allungare le sue dita scheletriche. In cima alla collina, un gruppo di persone arrancava stancamente. John cercava e cercava con i suoi occhi ormai allenati a cercare. A cercare una speranza che mai arrivava. E chissà, forse, che non sarebbe arrivata mai.
La foto… Dov’era la foto? Dove l’aveva messa? Ah, sì. Era a Baker Street. Nella fretta non l’aveva neanche recuperata.
Pochi minuti dopo, i puntini stremati in lontananza assunsero le fattezze di persone stremate. Un uomo dalla pelle scura gli porse la mano, sorridendo mestamente. “Dottor Watson, è un piacere fare la sua conoscenza.”
John strinse quella mano così diversa dalla sua. Nero e bianco si unirono in un sigillo, in una promessa. Quelle dita di colori differenti sancirono un patto.
Possiamo restare?
Sì, potete restare.
Grazie dottore.
Non deve ringraziarmi. Sono qui per questo.
Non ci fu bisogno di parole. Bastò quella stretta. L’uomo dalla pelle scura si voltò verso il gregge di agnelli sperduti che lo seguiva. “Salutate il dottor Watson e ringraziatelo per l’ospitalità.”
Era un intero gruppo di africani. John era stato informato tramite vie traverse che sarebbe arrivata una comitiva di Incompleti a giorni. Ma non avrebbe mai creduto che fossero tutti uomini e donne di etnia afro.
I membri del gruppo si disposero ordinatamente in fila indiana, susseguendosi nel porgergli la mano, presentarsi e ringraziarlo per l’accoglienza. Ben presto, i volti, i nomi e i ringraziamenti si mescolarono e John si trovò distante da lì. L’unico viso che voleva vedere, l’unica voce che desiderava ascoltare non c’erano.
C’ho sperato troppo. Mi sono illuso.
La sua speranza stava lentamente morendo in cuor suo. Che cosa gli rimaneva? Che cosa gli avrebbe dato una nuova speranza?
Era solo. Completamente solo. Solo in un mondo dominato da una stupida selezione naturale.
Fanculo a Darwin. Fanculo alla fattoria. Fanculo a inutili speranze.
Era solo. Solo.
 
***
 
Sherlock passeggiava sotto la pioggia. La sua figura ammantata di nero si confondeva fra altre figure. Non aveva preso l’ombrello. Gli ricordava troppo il fratello. E poi, la pioggia sul suo corpo gl’infondeva una sensazione di benessere, come se quell’acqua mandata dal cielo potesse lavare via la lordura del suo animo. Il peso di quello che aveva avuto intenzione di fare gli gravava sulle spalle, gliele incurvava come un vecchio.
La gente attorno a lui correva, borbottando imprecazioni o farfugliando frasi stupide e scontate come quanto piove! Le persone normali lo infastidivano. Questa era la verità. Che ne sapevano loro della sofferenza? Del non essere accettati? Un Incompleto avrebbe camminato lentamente sotto quel diluvio, insofferente al freddo, al bagnato.
Sherlock camminava. Le sue scarpe infradiciate producevano un rumore buffo sul marciapiede.
Cic, ciac, cic, ciac…
Sherlock camminava. Le gocce di pioggia disegnavano lacrime finte. Com’era piangere? Aveva mai pianto? Non se lo ricordava. I riccioli corvini gli ricadevano sulla fronte, appesantiti dall’acqua.
Sherlock camminava e si fermò soltanto davanti ad una tabaccheria che stava per chiudere. Il proprietario stava ritirando espositori con su attaccate pagine di giornale grondanti di pioggia. L’uomo gli rifilò un’occhiata dubbiosa quando lo notò fermo davanti al suo negozio ma con quell’ira del cielo preferì sbrigarsi a tirar giù la saracinesca e a defilarsi.
Sherlock ebbe la tentazione di fermarlo, di avvertirlo che aveva dimenticato fuori un espositore. Ma non lo fece. L’espositore stesso lo trattenne. Su di esso, era attaccato un foglio di quotidiano. Aveva come una lastra di vetro davanti. Come se servisse a proteggerlo. No, non proteggerlo. Mostrarlo, era il termine adatto. Esibirlo sotto gli occhi di tutti in qualsiasi momento, sotto qualsiasi cielo, in qualunque situazione.
 
SVENTATA LA FUGA DI UN GRUPPO DI INCOMPLETI ALL’AEROPORTO DI LONDRA.
 
Sherlock sgranò gli occhi. Fuga? Di Incompleti? Fuga di Incompleti sventata? Cominciò a far scorrere gli occhi su quelle righe concise, lapidarie.
 
E’ stato bloccato due giorni fa un tentativo di evasione dal Paese di una banda di Incompleti al nuovo aeroporto Final Victory di Londra. Le autorità hanno individuato un gruppo numeroso e compatto in direzione degli imbarchi per Cuba. Quando hanno cercato di fermarli per controllare i loro documenti si sono accorti della presenza di immigrati e handicappati tra loro. Un intero gruppo di Incompleti. I tentativi di arresto si sono rivelati vani e così gli addetti alla sorveglianza hanno aperto il fuoco, provocando una strage. Adesso si pone un problema di importanza internazionale: da dove arrivano questi Incompleti? Come hanno fatto a restare nascosti per così tanto tempo dall’emanazione della Lex Discriminis? Ma soprattutto, c’è qualcuno dietro tutto questo, qualcuno che pilota i loro spostamenti e le loro azioni? Chiunque sappia qualcosa, è pregato di avvisare subito gli Inquisitori, prima che vi sia un nuovo crollo dell’equilibrio nazionale ed estero.
 
Due giorni prima… La sera in cui John era tornato tardi con espressione delusa e sofferente! I suoi protetti… erano morti. E Dio solo sapeva quanto quello sciocco di uno Watson si sarebbe sentito in colpa per quello.
Doveva trovarlo. Convincerlo a sfogarsi con lui. Convincerlo a liberarsi di quel peso. Doveva stargli accanto. Come la mattina dell’esecuzione.
Che cos’era? Che cos’era quella… sensazione? Quel sentirsi garante della serenità di John? Cos’era?
Tornò indietro di corsa, verso Baker Street, e se non l’avesse trovato… Se non l’avesse trovato amen. Sarebbe andato personalmente nel Sussex. Avrebbe trovato una scusa qualunque, ma doveva essere con lui.
In lontananza, sotto la pioggia, scorse una figura. Una figura rigida, immobile. Una figura che si stupì riconoscere all’istante.
La figura di John Watson.
Si avvicinò lentamente, con cautela, e sotto i ricci poté subito leggere le emozioni che sfilavano sul volto del medico. Disperazione, delusione, rassegnazione, impotenza, e poi colpa, colpa e ancora colpa.
John capì che si trattava di Sherlock ancor prima di voltarsi. Lo fissò con sguardo vacuo. Quei capelli fradici, quell’aria trascurata, quei vestiti zuppi l’avrebbero fatto sorridere in condizioni normali. Ma quella non era una condizione normale.
Sherlock Holmes era come tutti gli altri. Non poteva capire. Non voleva capire. Era soltanto uno dei tanti burattini nelle mani dell’Inquisizione.
Perciò, fanculo anche a Sherlock.
E gliel’avrebbe detto, anzi no, urlato se non avesse scorso qualcosa di indicibile nei suoi occhi. Una tristezza che non aveva mai visto in quelle iridi. Non più porte blindate. Non più barriere inaccessibili. In quegli occhi, finalmente riusciva a intravedere qualcosa. Qualcosa a cui non sapeva dare un nome. E cercava, cercava e cercava in quello sguardo. Con i suoi occhi abituati a cercare.
“John…”
Quella voce… Non più sprezzante, non più indifferente, non più irraggiungibile. Una voce profonda, scura, impastata di amarezza. Una voce uguale al suono del suo violino.
“Non ce la faccio più, Sherlock.”
Sherlock continuò ad avvicinarsi con calma. Un martello all’altezza del petto sferrava poderosi colpi all’udir quel suono straziato e straziante. “Sfogati, John.”
“Voglio solo risolvere tutto in qualche modo.” continuò il medico con una voce che non gli apparteneva più. “Ma quanti? Quanti tentativi ci vorranno per fare la cosa giusta? Per aggiustare tutto?”
“Tutto cosa, John?”
Confidarsi? Aveva paura. Paura di essere giudicato. Paura che non avrebbe capito. Paura che dire troppo lo avrebbe allontanato. No, non poteva dire la verità. A costo di continuare con il dolore e le false speranze che gli corrodevano l’anima.
“A volte mi fermo e mi chiedo: posso ricominciare da capo? Posso tornare indietro e cancellare tutto?” Si prese una pausa, durante il quale strinse gli occhi. “Ma poi mi dico che devo restare e affrontare i miei errori. E la verità è che… vorrei scappare. Sono stanco di portare il peso di questo cazzo di mondo sulle mie spalle!”
Sherlock accorciò la distanza e afferrò le spalle di John con entrambe le mani. Dentro di sé urlava sfogati ma sapeva che non gli avrebbe mai detto la verità. Che non avrebbe mai trovato il coraggio di confidarsi con lui. E allora che fare? Che fare quando qualcuno rifiuta il tuo aiuto?
Non aveva mai cercato di aiutare nessuno. Era la prima volta. John era la prima volta di tutto. Perché prima di John, Sherlock non era mai esistito. C’era sempre stato solo un Holmes come tanti altri prima di lui. Un Holmes come suo fratello, un Holmes come suo padre.
Dov’era stato Sherlock prima di John Watson? Recluso in un angolo del suo essere. Un gingillo inutile su uno scaffale. Adatto solo a prendere polvere.
“John…” Le parole non venivano, non fluivano attraverso le corde vocali. Dannazione! Perché in un momento del genere doveva perdere la sua inesauribile parlantina? Perché proprio ora, quando John aveva bisogno di lui?
L’altro lo guardava, aspettava, sperava. Tutto dipendeva da Sherlock. John era sull’orlo di un baratro. Toccava a lui tirarlo via, lontano dal nulla, dall’oblio. “…Il mondo fa schifo.”
Era stata la prima cosa che gli era venuta in mente. Che senso aveva quella frase? Eppure, ora che aveva masticato le prime parole, avvertiva altre arrivare, affacciarsi alle sue labbra, premere sulla sua lingua. “Il mondo fa schifo.” ripeté. “Non sei tu quello sbagliato! Non sono gli Incompleti quelli sbagliati! E’ l’ordine naturale delle cose che è sbagliato! Ma cambiarlo è difficile… Forse impossibile. Quindi, tira fuori i pugni e da’ un cazzotto in aria. Accetta la verità, cioè che la vita è ingiusta! Che tu non c’entri niente, che i tuoi errori non sono imperdonabili.”
Non si accorse di star gridando. Di star scuotendo con forza John. Di star cercando di svegliarlo, di trascinarlo lontano da quella maledettissima voragine senza fine.
“Non sei tu. Non sei mai stato tu. Il peso del mondo non deve per forza essere solo sulle tue spalle.”
Qualcosa dentro di John si sciolse. Qualcosa che era rimasto dentro di lui per tanto, troppo tempo. Qualcosa che col passare degli anni aveva accresciuto le sue dimensioni, gli aveva occluso la gola, aveva cercato di soffocarlo. Un sorriso sollevato affiorò sulle sue labbra. Una sensazione di libertà prese possesso di lui. Qualcosa di forte, qualcosa di ineluttabile. Qualcosa che portava addosso il nome di Sherlock Holmes.
“Sherlock…” Non poteva più tenersi dentro tutto. Non poteva più combattere con il suo passato e il suo destino. Sherlock era lì, era il presente, era l’unica persona di cui potesse fidarsi. “…Il mio segreto. Ho bisogno di…”
“Sono qui.” lo interruppe Holmes. “Sono qui, se mi vuoi.”
John annuì. “Andiamo di sopra.”
 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 3 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 3

 

Il 221B di Baker Street era avvolto da un paludoso silenzio. La pioggia non aveva smesso di scrosciare e le nubi inghiottivano il firmamento cupo della notte. Soltanto il vecchio orologio a pendolo infisso alla parete osava spezzare quella pace innaturale.
Sherlock e John erano seduti ognuno sulle rispettive poltrone. Erano passati circa dieci minuti da quando erano saliti per parlare, ma ancora nessuno dei due sembrava veramente pronto: uno a raccontare e l’altro ad ascoltare. La verità si erigeva fra di loro come un muro. Un muro che li teneva distanti. Un muro che entrambi volevano abbattere.
Ma quant’era difficile la verità…
Fu un qualcosa di inaspettato a rompere definitivamente quella situazione di equilibrio: un tuono. Fragoroso, minaccioso come una fiera. La luce saltò improvvisamente e oltre al silenzio, regnò l’oscurità. Il buio li abbracciava nelle sue spire paterne, li cullava, li proteggeva. La verità non sarebbe risultata così devastante in quelle tenebre. Potevano farcela.
John si schiarì nervosamente la gola: era arrivato il momento. “Allora, da dove comincio?” Prese a tormentarsi le mani concitatamente. “Il segreto del quale non ho voluto parlarti l’altra sera… Ecco…” Un lungo e profondo respiro gl’infuse la forza di abbandonarsi alle parole, ai ricordi, di smettere di preoccuparsi per quello che sarebbe stato. Basta paura. “…Io gli Incompleti non li compatisco e basta: li aiuto. Ho rimediato una base nel Sussex: una vecchia fattoria scampata ai bombardamenti. E’ lì che vado quando non sono impegnato all’ambulatorio; diciamo che è quella la mia casa.”
Sherlock rimase in silenzio nonostante quell’ultima affermazione gli avesse procurato un senso di malessere inspiegabile.
“Lì accolgo gli Incompleti e li tengo al sicuro finché non riesco a farli espatriare tramite una rete di contatti miei e di Molly, la mia collaboratrice. E, bè, quella sera…” Il solo ricordo inflisse al medico una scarica di dolore. “…quella sera ho scoperto che un gruppo di loro che avrebbe dovuto imbarcarsi per Cuba è stato intercettato dalle guardie e…”
“Non serve, John. Ho saputo.” lo interruppe Holmes con una leggera vena apprensiva nella voce.
“Già…”
Calò nuovamente il silenzio e in quella mistura di parole non dette e pensieri non espressi, a John sembrava quasi sentire il suo battito cardiaco risuonare ovunque, irradiarsi in tutto il corpo a ogni pulsazione del suo cuore scorticato.
“Da quanto tempo fai… quello che fai?”
La domanda arrivò a bruciapelo e inaspettata come uno schiaffo in pieno volto. Da quanto… Quando hai iniziato… Perché hai iniziato… Che cosa c’era prima… Chi c’era prima…
Quel capitolo della sua vita era una porta in corrente che continuava ad aprirsi e a sbattere senza controllo. Il suo passato sembrava così impalpabile in quel momento, così inspiegabile… Ma ormai era in ballo, tanto valeva ballare.
“Circa sei anni.” rispose il medico piegandosi sulle ginocchia, come se la comodità non fosse adatta a quella storia. “Io… Ho fatto una cosa terribile, Sherlock. Una cosa che non riesco a scrollarmi di dosso.” Arricciò le labbra prendendosi il tempo necessario durante il quale gli occhi di Holmes vagarono nell’oscurità alla ricerca dei suoi. “Ho fatto del male ad una persona che amavo con tutto me stesso.”
Sherlock ricordò la foto e si sentì in parte dilaniare da quel bel sorriso e da quella frase così melliflua come la melassa scritta sul retro. Era quella donna. Era quella donna che viveva nelle parole di John, ne era certo. Presto, con il suo racconto, avrebbe preso forma, sarebbe tornata da lui, gli sarebbe stata accanto. Strinse inconsapevolmente il pugno sul bracciolo della poltrona, facendo sbiancare le nocche.
“Mia sorella.”
Holmes sgranò gli occhi, basito. Sua sorella? Sua sorella?! La sorella citata nel fascicolo? La stessa sorella alcolista che se n’era andata di casa?
“Si chiama Harriet. Io le volevo molto bene, nonostante il nostro rapporto conflittuale: litigavamo spesso sia da bambini che una volta diventati più grandi, ma nel momento del bisogno c’eravamo l’uno per l’altra. Lei mi chiamava il mio mostriciattolo, e il bello è che a me piaceva quel soprannome.” Una risatina amara fuoriuscì dalle sue labbra e venne assorbita dalle pareti della stanza. Il sorriso che si era formato al ricordo degli anni felici trascorsi con la sorella, sfumò a poco a poco, fino a svanire. “Poi, gli anni sono passati e la nostra relazione è diventata… complicata. All’età di diciassette anni Harry ha cominciato a bere e a farsi di tutto quello che trovava in giro. Io ho cercato disperatamente di aiutarla, di farle capire che c’ero, ma lei mi respingeva, mi allontanava. E così, giorno dopo giorno, tutto quello che c’era stato fra noi si è sgretolato.”
John si passò una mano sul volto. I ricordi erano troppo vivi, troppo lontani, troppo dolorosi. Quell’infanzia trascorsa a bisticciare per un giocattolo era scemata via, lasciando il posto a liti furiose e ai tonfi del corpo della sorella ubriaca sul letto accanto al suo.
“Poi nella sua vita arrivò una persona. Peter. Era un suo compagno del college che le faceva la corte da quando erano ragazzini. Quando aveva quindici anni, Harry mi parlava continuamente di lui, di quanto fosse fastidioso, di quanto non sopportasse averlo trai piedi. Ma quando si sono rincontrati al college, tutto è cambiato. Si sono messi insieme e la loro storia è andata avanti per qualche anno, finché lui non le ha chiesto di sposarlo. E lei ha accettato.”
Sherlock si alzò mentre ancora John parlava. Si diresse con passi frettolosi verso la credenza dove tenevano lo Scotch e riempì due bicchierini. Watson rifiutò il suo con un gesto della mano e si limitò a schiarirsi la gola.
“Il matrimonio venne organizzato in fretta e furia: niente abito da sposa, niente torta e pochi invitati. Era come se Harriet facesse tutto… contro natura.” Quelle ultime parole gli disegnarono un sorriso amaro in volto. “In tutto quel tempo i suoi vizi non erano cambiati. Anzi sì, erano peggiorati. Mi capitava spesso di dover uscire nel cuore della notte e andare a prenderla in qualche discoteca con la macchina di mio padre. Così, il giorno dell’addio al nubilato, ho seguito di nascosto Harry e le sue amiche e mi sono infiltrato nel party per impedire che facesse qualche sciocchezza. Ma tutto mi sarei potuto aspettare meno che trovarla a letto con una donna.”
 
***
 
Quella sera era scolpita a fuoco nella mente, come un tatuaggio che insinua il suo inchiostro sottopelle. Se chiudeva gli occhi, John poteva ancora rivedere sua sorella quasi completamente nuda, che si baciava con una delle sue amiche d’infanzia.
“Quando l’ho vista io… ho dato di matto. L’ho trascinata via, raccogliendo tutti i vestiti e urlandole di rimetterseli addosso e di venire a casa con me. Quella sera, stranamente, non era ubriaca. E chissà, forse sarebbe stato meglio.”
Male. Quella scena faceva un male tremendo, la voce di Harriet sbraitava nelle sue orecchie così come la sua.
“Che cazzo hai in testa!?” aveva urlato lui mentre la conduceva in disparte, abbastanza lontano dalla sala da ballo per poter parlare con sua sorella nonostante la musica, ma non troppo distante per non destare sospetti nella gente.
“Ma si può sapere che te ne frega? Lasciami, mi fai male!”
La presa sul braccio della sorella non si era allentata. “Non credevo che l’alcol potesse farti anche questo effetto! Ti sei ridotta ad andare a letto con una donna, Harry! Una donna!”
“Lasciami!”
“Cosa credi sarebbe successo se fosse arrivato qualcun altro, eh? Ti avrebbe consegnato all’Inquisizione!”
Harry era riuscita a divincolarsi dalla presa. “Meglio! Almeno smetterei di essere quella che non sono!”
John si era bloccato e l’aveva guardata come se fosse una pazza. “Che vuoi dire?”
Delle lacrime di rabbia avevano cominciato a premere sugli occhi della sorella. “Tu non lo sai com’è! Essere diversi! Essere giudicati per quello che si è! Vivere in una famiglia da cui devi nasconderti!”
“Mi stai dicendo…”
“Sono lesbica! Okay? Sono una cazzo di lesbica! E’ giusto giudicarmi per questo?”
John le aveva tappato la bocca e l’aveva trascinata fuori dal locale, mettendole addosso la sua giacca. Avevano camminato un po’ per le strade deserte della Londra periferica. E se solo il John Watson di vent’anni fosse stato come il John Watson di trentaquattro anni… “Ci dev’essere un errore.” Fu tutto quello che era riuscito a dire.
Harry lo guardava con faccia allucinata. “Un errore? Dio, John, sono io! Sono sempre tua sorella! Non sono un errore!”
“La nostra famiglia… E’ fedele allo Stato, non è possibile che ci sia un Incompleto.”
Una risatina nervosa aveva riecheggiato assieme ai loro passi. “Ma ti senti, John? Parli esattamente come loro! Come quei puritani del cazzo che non fanno altro che sputare sentenze!”
“Non parlare così del Governo, Harry!”
Harriet si era arrestata in mezzo alla strada, i pugni serrati, il corpo intero che tremava. “Non ho bisogno di un altro giudice, John. Ce ne sono già abbastanza.” Gli aveva preso la mano con un affetto e una dolcezza che sembravano così lontani da allora. “Ho bisogno di un fratello. Di mio fratello. Ho bisogno di te, John.”
Negli occhi della sorella John aveva letto un gomitolo di progetti, di piani, di fughe… Aveva avuto paura sotto quello sguardo così deciso e così maledettamente bello. Si era ritratto di scatto, allontanandosi da sua sorella come da un appestato.
“E’ la tua vita, Harriet, che è sbagliata! Non la mia! In questi anni non ho fatto altro che starti accanto, ma tu mi hai sempre tenuto a distanza! E ora pretendi che vada contro l’Inquisizione, contro mamma e papà?”
“Te la fai sotto come un moccioso di tre anni, John! Quand’eri bambino ti piaceva non rispettare le regole. Ti faceva sentire vivo, ti divertivi! Ammettilo!” l’aveva schernito la sorella incrociando le braccia al petto.
“Questo è diverso, Harriet! Sei un’Incompleta e questa è l’unica cosa che conta adesso! Sei sempre stata brava a far fare agli altri ciò che volevi. Ma io sono stanco di correrti appresso come uno stupido cagnolino. Hai capito? Sono stanco di te e delle tue cazzate!”
Era calato il silenzio. In lontananza si poteva udire la musica a palla del locale e le risate degli invitati che festeggiavano una persona che non era più lì con loro. E che forse non c’era mai stata.
“Credi che la tua vita senza di me sarebbe stata migliore?” Non c’era rabbia nella voce di Harriet. Non c’era odio. Solo un’amarezza sconfinata.
John le aveva puntato addosso uno sguardo intenso. “A volte lo penso, sì.”
La sorella aveva annuito un paio di volte, come per assimilare quella risposta. “Bene. Mi dispiace di aver reso la tua vita un Inferno, John.”
Quando l’aveva vista voltarsi, il fratello le era corso dietro e le aveva ghermito il braccio. “Dove vai? Andiamo a casa.”
“E’ la mia ultima festa da non sposata e gradirei godermela.” aveva replicato lei strattonando via il polso.
“Vuoi dire che…”
“Non ti creerò altri problemi. Mi sposerò con Peter e smetterò di essere la sorella che non hai mai voluto.” Era voltata, cercava di contenere i fremiti alla voce, di non far vedere le lacrime che le rigavano le gote. “Vai a casa, John. Ci vediamo domani alla cerimonia.”
 
***
 
E lui se n’era andato. Perché diavolo se n’era andato?
“L’indomani non si è presentata in chiesa e neanche a casa. Né il giorno dopo, né il giorno dopo ancora. Da quella sera, non l’ho più vista, né sentita. L’ho cercata in lungo e in largo per anni, sapendo che era tutta colpa mia, che mia sorella aveva sofferto a causa mia. Era un’Incompleta, è vero, ma era anche mia sorella. E io l’avevo cacciata dalla mia vita. Sei anni fa ho dato il via all’attività di ospitalità degli Incompleti nella speranza che, prima o poi, alla mia porta avrebbe bussato anche mia sorella. Ma la verità è che – anche fosse ancora in Gran Bretagna – non verrebbe mai da me, dal fratello che non ha saputo amarla per quello che era. Però, ancora ci spero.”
Quelle ultime parole vennero inghiottite dal ronzio delle lampade spente che sembravano volersi rianimare. John aveva lo sguardo perso nel vuoto, le mani che coprivano parte del volto come se si vergognasse di tenerlo scoperto anche al buio.
La disperazione di Harriet gli straziava il cuore, la sua stupidità glielo martellava e il suo no glielo spappolava. Una danza di emozioni su un palco pulsante, un turbinio di ricordi attorno ad una vecchia cicatrice.
Sherlock si limitò ad alzarsi e da sotto il cappotto tirò fuori la fotografia di Harriet. Raggiunse la poltrona di John al buio, camminando lentamente, e si chinò di fronte a lui, l’immagine della ragazza in mano. Nel buio, gli occhi del medico riconobbero la speranza a cui si era aggrappato per tutto quel tempo. La prese con cura e attenzione, la strinse al petto e dentro di sé cominciò ad urlare il nome di una sorella che non meritava.
“E’ colpa mia, Sherlock. Lei mi ha chiesto aiuto e io l’ho respinta.”
Il tono in falsetto tradì l’angoscia di John. Qualcosa di inaspettato trapassò il petto di Sherlock con così tanta violenza che quasi venne sbalzato all’indietro. Un dolore che andava oltre la fisicità. Un dolore che in realtà non gli apparteneva.
Il dolore di John. Lo sentiva scorrere nelle vene, mescolarsi col suo sangue, pulsare al ritmo del suo cuore.
Tradire John… Assurdo. Gli sembrava così lontano quell’iniziale piano. Fargli del male… Impossibile. Non voleva farlo soffrire. Non voleva.
La sua mano si mosse praticamente da sola, senza che potesse controllarla. Le sue dita affusolate da violinista si strinsero attorno a quelle più tozze di John. Una scarica elettrica invase entrambi a quel tocco. Il pollice di Sherlock si muoveva lentamente sul dorso della mano di John, come se volesse scacciare via ogni preoccupazione, ogni sofferenza, ogni cosa brutta che potesse insinuarsi nel suo cuore, nei suoi pensieri.
Le lampade gracchiarono di nuovo e bastarono pochi secondi perché la stanza venisse inondata nuovamente dalla luce. Ecco la luce. La luce scopriva i segreti, le maschere. La luce rivelava fatti e misteri che sarebbero dovuti restare tali.
La luce avrebbe dovuto spaventarli. Farli allontanare.
Ma le loro mani rimasero legate come i ganci di ferro che tengono uniti due vagoni di un treno. I loro occhi si incontrarono inaspettatamente, quasi per caso, quasi non riuscissero ad obbedire al comando dei padroni di stare lontani.
Con l’altra mano, Sherlock sfilò dolcemente la fotografia di Harriet delle dita di John e la guardò con attenzione. Riconobbe il sorriso, dolce e sbarazzino. Gli occhi, vivi e pulsanti. I capelli, dorati e luminosi. In quell’immagine c’era così tanto di John, così tanto dell’uomo a cui teneva la mano in quel momento.
John restò in silenzio a fissare Sherlock che lo cercava nella foto di sua sorella. Lo capiva dal guizzo intermittente delle sue labbra. Ogni qualvolta che i suoi occhi intercettavano una somiglianza, sorrideva appena. Ed era così… bello quel sorriso malcelato.
Allungò la sua mano verso il viso di Sherlock e le sue dita catturarono un ciuffo ribelle che ricadeva sulla fronte dell’altro. Holmes distolse lo sguardo dalla fotografia e immerse nuovamente i suoi occhi in quelli di John. Il medico scostò il ricciolo corvino e lo assicurò dietro l’orecchio dell’altro.
Una tensione magnetica li attirava uno verso l’altro come se l’aria che respirassero stesse diradandosi e si concentrasse nello spazio ristretto che c’era fra di loro. Ed entrambi avevano bisogno di respirare. Avevano bisogno di avvicinare i loro volti in cerca di aria. Avevano bisogno l’uno dell’altro.
Il silenzio venne spezzato improvvisamente dallo squillo del cellulare di John. Sia lui che Sherlock sobbalzarono e le loro mani si staccarono velocemente, come scottate l’una dal tocco dell’altra. Il medico si mosse goffamente attraverso la stanza, inciampando e sbattendo, arrancando verso l’appendiabiti dove era attaccato il suo giubbetto con dentro il telefono.
“Pronto, Molly.”
“Devi venire qui subito!”
“Perché? Cos’è successo?”
“Una donna.”
“Una donna?”
“E’ arrivata mezz’ora fa, non so da dove sia sbucata. Ha la febbre alta, John, delira e…”
“E cosa?”
“Chiede di te.”
“Che cosa?”
“Nel sonno urla il tuo nome.”
***
 
L’auto era immersa nel silenzio. Il vetro del cruscotto era levigato dalle gocce di pioggia. John guidava in silenzio, le mani chiuse sul volante e lo sguardo fisso sulla strada che sfilava come una passerella sotto le ruote della sua Land Rover. Non riusciva ancora a credere alle parole di Molly.
Una donna. Che chiamava. Il suo nome.
Pezzi di frase che gli turbinavano in testa senza controllo, impazziti. La foto di Harriet riposava dolcemente nella tasca interna del suo giubbetto, al sicuro dalla pioggia, dal vento, dal mondo. Sua sorella non avrebbe più sofferto. Mai più.
Nella macchina, vi era una seconda persona che taceva a sua volta. Per ragioni diverse, è vero, ma il mutismo, il silenzio, riparano da qualsiasi tipo di emozioni. Sherlock tamburellava con le dita sul suo ginocchio. Con quelle stesse, dannate dita che avevano stretto la mano di John. Non riusciva più a controllare quel movimento nervoso. Semplicemente, non poteva. E i suoi occhi non facevano che correre in direzione di Watson ogni qual volta che la sua mano sinistra si protendeva verso di lui… per poi afferrare il cambio e ingranare la marcia.
“Sherlock?”
La voce di John gli procurò un salto del cuore.
“Sì?”
“Credi… Sì, insomma, credi che sia lei?”
Holmes non rispose subito e meditò attentamente su quella domanda. “Non saprei, John. E’ probabile. In fondo, quale altra donna sarebbe interessata ad arrivare fino alla fattoria con la febbre e urlerebbe il tuo nome nel sonno…”
Le parole gli morirono in gola quando ripensò al fascicolo. Nessuna relazione stabile. Sarah Sawyer. Quattro mesi insieme. Con Sarah era diverso…
“Insomma, ci sono buone probabilità.” concluse per scacciare quei pensieri bizzarri che non capiva da dove saltassero fuori.
John sorrise, senza staccare gli occhi dalla strada. “Sherlock?”
“Sì?”
“Grazie.”
 
***
 
Scesero lentamente, incuranti della pioggia che li battezzava. John avvertiva il suo cuore esplodere. Lui e sua sorella. Dopo tutto questo tempo. Insieme. E inoltre, la vicinanza di Sherlock gli faceva bene. Gl’infondeva… serenità.
Molly aprì il portellone della fattoria e corse loro incontro, ma quando scorse la figura di Sherlock s’immobilizzò e restò a fissarlo incredula – cosa che Holmes interpretò come un John, sei matto a portare uno sconosciuto qui?, mentre Watson come un oh mio Dio, ma è vero? –.
“Lui…”
“E’ con me.” l’anticipò John superandola frettolosamente per due ragioni principali: il desiderio di vedere Harriet e… Bè, la seconda meglio non contemplarla per niente.
“Io sono Molly.” cinguettò la ragazza protendendo una mano verso Holmes.
“Le presentazioni preferirei farle dentro.” rispose secco lui, infastidito dalla pioggia e dalla vocetta di quella donna che non gli staccava gli occhi di dosso.
L’ambiente in cui Sherlock entrò era caldo e accogliente: la stanza era puntellata da tante stufe e tanti giacigli su cui riposava beatamente una moltitudine di persone di colore. John si guardava attorno febbrilmente, così elettrizzato che non gli passò in mente neanche per un istante l’idea di chiedere a Molly dove si trovasse la donna in questione.
“E’ al piano di sopra, nel fienile.” disse infine la ragazza costringendosi a non fissare lo sconosciuto dal cappotto scuro.
Watson la ringraziò senza troppa enfasi e sfrecciò al piano di sopra, salendo a due a due i gradini con le sue gambe forse un po’ corte.
“Non mi ha detto…” pigolò Molly rivolgendosi a Sherlock solo per constatare che lui era già partito all’inseguimento del medico.
Di sopra, la paglia aveva reso tutto ancora più caldo. Su un lettino mezzo sfasciato, avvolto da pesanti coperte, stava un corpicino tutto rannicchiato su se stesso. John si avvicinò con solennità, quasi temendo di scostare lenzuola e quant’altro e di non trovare la persona che cercava da anni. Ma il suo cuore ormai batteva lento, sicuro. Sua sorella era lì. Lo sapeva. Lo sentiva.
“Le ho dato un antidolorifico un’ora fa. Potrebbe riprendersi a momenti.”
Il pesante gomitolo di coperte impediva a John di scorgere la figura di sua sorella. Si portò una mano al petto – alla parte destra, più precisamente – e le sue dita sfiorarono la fotografia. I ricordi lo vennero a trovare come dei sicari assoldati per toglierlo di mezzo: Harriet con una donna, Harriet che lo supplicava, Harriet che chiedeva il suo aiuto, Harriet che se ne andava trattenendo le lacrime.
Allungò la mano verso le lenzuola e con meno delicatezza di quanto avesse voluto tirò via le coperte dal viso della donna. Il suo cuore rallentò. Ancora e ancora.
Tum…tum.......tum………………
Il volto assopito era disteso in un’espressione angelica, gli occhi dolcemente chiusi, i capelli impiastrati di sudore le avvolgevano il viso.
L’immobilità s’impadronì di ogni parte del corpo di John. Sherlock osservò quelle spalle rigide, quelle mani chiuse a pugno, quella nuca protesa in avanti. Si avvicinò piano, senza però affiancarlo, come rispettoso di quel momento di intimità di cui il medico necessitava. Si sporse appena oltre la sua spalla e finalmente la vide.
Sul letto era adagiato il corpo di una giovane donna dal volto coronato da un caschetto castano. Holmes ripensò ai lunghi capelli biondi di Harriet, al suo naso leggermente inarcato verso il basso, alle sopracciglia pronunciate…
No. Non Harriet.
Le membra di John si afflosciarono improvvisamente, come se le gambe non reggessero più il suo peso, come se l’effimera gravità che dominava sul mondo con le sue sporche leggi lo stesse attirando verso terra. Sherlock lo afferrò al volo da dietro e lo strinse al petto per impedirgli di cadere.
“Non è…” biascicò il medico.
“Lo so.”
L’intero corpo di non Harriet venne scosso da un fremito e le sue labbra si schiusero in un gemito strozzato: “John…Watson.” Un alito di vento s’insinuò attraverso le travi di legno del fienile, spirando sul volto della giovane, provocandole un’intermittente sbattimento delle palpebre.
I suoi occhi si spalancarono di colpo. Occhi grandi, di un colore indefinito, tra il verde e il marrone. Occhi stanchi e affaticati. Occhi indagatori.
Occhi abituati a cercare. Come quelli di John.
Si tirò su di scatto, ritraendosi da quegli sconosciuti che la fissavano. Il medico puntò i piedi a terra, liberando Sherlock del suo peso e si ricompose, lo sguardo puntato su una speranza che era appena scemata via.
Non Harriet si tirò le coperte fino al naso, come a volersi nascondere, proteggere. “Dove mi trovo?”
“In una fattoria del Sussex. Come ti senti?”
La ragazza rimase immobile a studiare Watson. Il medico si sentiva stranamente esposto – certo, non come quando si trovava sotto lo sguardo intenso di Sherlock – ma qualcosa gli attanagliava ugualmente le viscere.
“John?” mormorò infine lei abbassando di poco le sue difese. “John Watson?”
John si voltò in direzione di Holmes. I loro sguardi restarono incollati per diversi attimi. Un muto scambio si susseguì all’interno dei loro occhi. “Sì.” rispose turbato Watson non sapendo se fidarsi o meno di quella sconosciuta. “Come fai a sapere il mio nome?”
Le labbra della ragazza si sciolsero in un sorriso sollevato. “Tu sei John… Sei John.” La sua voce era flebile, appena percettibile, il volto arrossato dalla febbre e gli occhi striati da venature sanguigne. “Sei John… Sei…”
Non fece in tempo a terminare la frase che le palpebre si chiusero come una trappola sulle iridi, la schiena ricadde pesantemente sullo scomodo materasso. Quando Molly si avvicinò per misurarle la febbre, si accorse che si era assopita.
“E’ molto forte. Poverina, chissà che cosa deve aver passato per arrivare fin qui tutta sola.” constatò rimboccandole le coperte.
John si abbandonò su una balla di fieno accanto al letto, le dita intrecciate appoggiate alle labbra. “Va’, Molly. Ora ci penso io.”
“Sei sicuro?”
“Sì.”
La dottoressa fece un cenno col capo prima di dirigersi a passo saltellane verso Sherlock. “E’ stato un piacere signor…”
“Holmes.”
Molly accennò un sorriso radioso prima di sgattaiolare al piano di sotto, lasciando Watson e Holmes da soli con le loro croci in spalla.
Sono uno stupido, stupido! Come ho potuto pensare che potesse essere lei? si ripeteva John sfregandosi la nuca con la mano.
Sherlock rimase immobile per qualche istante, incapace di discernere cosa fare: mostrare a Watson la sua vicinanza, o lasciargli il suo spazio? In fondo, lui non era nessuno per John. Solo un coinquilino. E John non era niente per lui. Solo un coinquilino. Uno scomodo coinquilino. Scomode emozioni. Scomodo John Watson. Pericoloso John Watson.
“Sherlock,” lo chiamò il medico distogliendo l’ex inquisitore dai sui pensieri. “che cosa credi che debba fare?”
Holmes dapprima non si mosse, ma poi gli occhi dell’altro lo attirarono a sé. Camminò lentamente, lasciando che i suoi passi echeggiassero per il fienile ristagnante. Qualche gocciolina d’acqua piovana doveva essere riuscita a trovare un varco nel tetto, perché tutto ciò che si poteva udire era un continuo plic, ploc.
Sherlock prese posto accanto a John. “Non ne ho idea.”
“Andiamo, tu sei Sherlock Holmes! Sai sempre cosa fare.”
Un sorriso amaro comparve sulle labbra di Holmes. “No, John, non sempre.” Prese un respiro profondo, durante il quale il plic, ploc divenne più insistente. “Sono passati tanti anni. Harriet potrebbe non essere neanche più in Gran Bretagna. Magari ora si trova in un posto migliore, dove non è costretta a nascondersi per ciò che è.”
“Io volevo solo dirle tutto ciò che non sono riuscito anni fa. E’ troppo tempo che dentro di me covo queste parole e francamente non so più se ingoiarle a forza o lasciare che continuino a riposarmi in gola.”
Sherlock pensò alla sua di sorella. Alle parole che lui non era riuscito a dire. Lui e quel medico erano più simili di quanto non volesse ammettere. Entrambi avevano alle loro spalle un passato che gravava su di loro con insistenza e li soffocava, occludendo loro la gola con frasi e frasi che non sarebbero mai potute essere urlate. Almeno per lui.
“Anch’io ho una sorella.” John si voltò di scatto, uno sguardo stupito dipinto sul viso. “Si chiama Eurus… si chiamava. E’ morta una decina di anni fa.”
“Dio… Hai voglia di… parlarne?”
Sherlock si girò a sua volta e osservò per qualche secondo l’espressione sinceramente addolorata dell’altro. “Ti somigliava moltissimo. Anche lei era una ribelle. Diciamo che… si è innamorata dell’uomo sbagliato, agli occhi dello Stato. Mark. Era uno a posto, ma non per la Patria. Le ha messo in testa idee di pacifismo e di uguaglianza, ha appiccato un fuoco che non sarebbe più potuto essere domato. Idee che li hanno spinti a…” Sherlock si interruppe e arricciò le labbra, sperando che le parole non venissero meno. “…a compiere un gesto stupido, suicida. Sono saliti sul Justice Podium durante un’esecuzione e hanno protestato per le crudeltà e l’ingiustizia della Patria. Sono stati fucilati seduta stante di fronte a tutti.”
Gli occhi di John si accesero di consapevolezza. “Ma sì, ora ricordo! La notizia ha fatto il giro di tutta Londra. Per la gente comune fedele allo Stato erano dei traditori ma per gli Incompleti il loro gesto ha significato la presenza di una speranza.”
Sherlock si limitò ad annuire. Lui era lì, quella mattina. Una testa fra una miriade di teste. Ricordava alla perfezione la sensazione claustrofobica che si impadroniva di lui ogni volta che si trovava ammassato fra altre persone. E Mycroft… Mycroft era come sempre in prima fila: maestoso e terribile in tutto il suo aspetto tirannico. Poi delle urla, spintonamenti vari, una testa che gli ricordava quella di sua sorella. E infine, eccola lì: bella e coraggiosa mentre alzava la bandiera con il simbolo della pace. Bella anche quando il sangue le dipingeva il giubbotto da motociclista. Bella persino quando cadeva sul palco e moriva.
“Eurus è stata abbindolata da un folle.” si era giustificato il fratello in risposta al suo scatto d’ira. “Doveva essere eliminata, fratellino. Era diventata una nemica.”
Troppo sangue scorreva per le vie di Londra. Venezia – in confronto – con i suoi canali intriganti e le sue romantiche gondole, non era niente. Londra stava marcendo. Ferite sempre più profonde si aprivano fra quelle case, quei monumenti, quei folli. Quella città maledetta dalla pazzia umana ci sarebbe affogata nel suo sangue, soffocata dall’odore di morte.
“Sherlock?”
Holmes si riscosse e si accorse di essersi velato il viso con una mano. John era a fianco a lui, una mano che gli circondava le spalle. Una stretta rassicurante. Amichevole.
“Scusa, ero sovrappensiero.”
“Non fingere con me, Sherlock.” lo rimproverò bonariamente l’amico rafforzando la presa della mano sul suo braccio. “Se stai male o hai qualche problema, puoi contare su di me. Sempre.”
Nessuno, in tutta la sua esistenza, gli aveva mai offerto supporto o una spalla a cui aggrapparsi. Nessuno. Mai. Solo John Watson. “Grazie, John.”
“Grazie a te.”
 
***
 
Si era addormentato sulla sua spalla. Alla fine, la testa pesante gli era caduta addosso e lo aveva svegliato dal suo sonno tormentato dagli incubi. John sorrise tra sé e sé nell’odorare il profumo della pioggia tra quei ricci ribelli.
Dalla piccola finestra circolare cominciavano a filtrare le prime pallide luci dell’aurora. Era bello essere svegliati da Sherlock. Sentire la sua testa sulla spalla. Accorgersi del braccio che ancora ghermiva le spalle di lui. Si rese conto solo in un secondo momento dell’assenza del cappotto. Gli bastò un movimento per capire dove fosse finito. Il pesante tessuto lo avvolgeva materno, infondendogli un dolce calore che lo aveva pervaso in pochi istanti.
“Sherlock…” mormorò divertito John appoggiando il mento sul capo dell’altro. Fu in quel momento che capì. Che realizzò. Quel calore, quei ricci, quel cappotto, quel braccio ancora attorno alle spalle, quella sensazione di protezione e di costante serenità…
No, non poteva essere. Non DOVEVA essere. Lui non era…
Sherlock mugugnò nel sonno, biascicando una serie di borbottii indecifrabili.
No… No, no, NO!
John si staccò quasi violentemente da lui e il corpo di Holmes – trovando il vuoto – crollò a terra con un tonfo sonoro.
“Ma che diavolo!” si lamentò l’ex inquisitore massaggiandosi la mascella. Watson aveva sfruttato quel momento di smarrimento per allontanarsi il più possibile. Da Sherlock, da quel NO, da non Harriet…
La ragazza! Quasi se n’era dimenticato. Corse in quella direzione, ostentando freddezza nel momento in cui avvertì lo sguardo di Holmes sulla sua schiena. La febbre era scesa, fortunatamente, e anche il volto della giovane sembrava aver riacquisito un colorito naturale.
“Posso fare qualcosa?” sussurrò Sherlock ancora assonnato. John inventò una scusa qualunque per spedirlo di sotto il tempo necessario per riprendersi da… tutto quello. Con la coda dell’occhio lo osservò mentre scendeva elegantemente le scalette e per un attimo si pentì di quella sensazione di… paura mista a ribrezzo.
Una mano si posò delicatamente sulla sua, facendolo sobbalzare. Non Harriet si era svegliata e lo guardava stancamente.
“Ben svegliata. Come ti senti oggi?”
La ragazza si sollevò a fatica, quasi volendo provare a lui ma soprattutto a se stessa di essere forte. “Meglio. Molto meglio.”
John annuì e le porse un bicchier d’acqua mentre si sedeva sul ciglio del letto. Non Harriet era incredibilmente graziosa nonostante il suo aspetto da maschiaccio. Aveva un che di angelico unito ad uno spirito guerriero e combattivo. Da cosa lo si capiva? Dagli occhi. Ormai John era troppo abituato a leggere nell’anima della gente. Solo un’altra persona era in grado di tenergli testa… Una persona a cui non doveva pensare.
“Allora,” cominciò il medico riprendendo il bicchiere vuoto. “so che sarai stanca e un po’ scombussolata, ma credo che dovrei sapere almeno come sei venuta a conoscenza di questo posto… e del mio nome.”
Il viso di non Harriet si adombrò di colpo. “Non sono dell’Inquisizione se è questo che vuoi sapere.”
“Voglio sapere chi ti ha parlato di me e della fattoria.”
“Diciamo che… abbiamo una conoscenza in comune, John.”
Watson si fece improvvisamente interessato. “Ovvero?”
Gli occhi di lei si riempirono di lacrime in pochi istanti. “Io… mi spiace.” mormorò massaggiandosi le palpebre con le dita. “Mi ero ripromessa che sarei stata forte, che avrei… retto. Ma ora che sono qui con te…” Un singhiozzo le mozzò le parole. “E’ tutto sbagliato… Non è giusto che ci sia io qui con te… Non è giusto…”
John rimase spiazzato da quello slancio emotivo e si sentì a disagio e incapace di muovere un muscolo. Se c’era una cosa in cui non era bravo nonostante il suo essere dottore, era consolare gli altri. Aveva già troppi demoni, dentro di sé, che non riusciva a domare; pensare anche a quelli altrui era impossibile.
Non Harriet scacciò con i palmi delle mani le lacrime che le rigavano le gote ancora pallide per la malattia. Prese un respiro profondo, cercando in tutti i modi di contenere i singulti che minacciavano di farla crollare definitivamente. “Il mio nome…” sussurrò arricciando le labbra. “…il mio nome è Clara e sono qui per raccontarti la nostra storia.”
Vostra di chi?” la incalzò John.
“Mia” rispose Clara. “e di Harriet Watson.”

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 4 ***


CUORE SUL GRILLETO
Capitolo 4
 


Era raro incappare in una giornata di sole come quella, a Londra. Il cielo terso affogava le solite nubi gonfie di pioggia che incombevano in quel periodo dell’anno.
Camminava velocemente, la mano destra che non faceva che alzare la manica che occultava l’orologio, gli occhi che saettavano attorno per assicurarsi che non vi fosse nessuno. Non era un bel quartiere, quello. E forse era anche per questo che ogni mattina la prima cosa di cui si attrezzava era la sua fedele FN Five-seven.
Il vicoletto che stava percorrendo di buon passo era infelicemente noto per la grande quantità di cadaveri in cui si poteva incappare. Il quartiere di Brixton non aveva una grande fama in generale, ma quella stradina che si srotolava sotto i suoi piedi poteva benissimo essere coperta da corpi di persone decedute a causa di un coma etilico o di overdose.
Per questo le sue gambe erano pronte a scattare e la sua mano a correre alla pistola nella sua tasca. Ad un tratto, un rumore sospetto catturò la sua attenzione. Si voltò, le dita già saldamente chiuse sull’arma, la guardia alta. I suoi occhi osservarono la zona, sospettosi, esaminarono ogni bidone della spazzatura, ogni angolo in cui potesse annidarsi un eventuale pericolo… Cercavano e cercavano senza sosta, atterriti e colmi di adrenalina allo stesso tempo.
Altro rumore. Un gemito.
Premette il corpo contro il muro e attese. Di nuovo, un lamento. Si sporse appena su di una stradina ancora più laterale di quella e, schiacciata ad una parete scrostata, scorse una figura minuta piegata in due. L’odore nauseante di vomito era inconfondibile.
Esaminò la situazione restando dietro alla svolta. L’individuo che stava squadrando si alzò a fatica, mettendosi a quattro zampe. Lunghi capelli biondi sporchi di gesso e di muffa strisciavano a terra e coprivano il viso di colei che stava rimettendo. Finalmente, la figura alzò appena il capo, quel tanto che bastava per vederne le fattezze: il viso di una ragazza, non più in là dei trent’anni, occhi chiari e offuscati dal dolore dei crampi addominali, un’espressione stravolta.
Clara restò immobile, indecisa sul da farsi. Ma più guardava quella giovane donna, più in lei rivedeva la se stessa di anni prima. Si avvicinò con cautela e una volta davanti alla sconosciuta si chinò su di lei.
“Ecco, tieni.” disse porgendole il suo fazzoletto. La ragazza la fissò smarrita, ma infine prese il pezzo di tessuto e ci si pulì le labbra, masticando un grazie impastato dall’alcol.
Clara tuffò la mano nello zainetto che portava sulle spalle, in cerca dell’aspirina che portava sempre con sé per la sua emicrania.
“Questa ti farà passare almeno il mal di testa.”
L’altra si tirò su a fatica, accettando il suo secondo omaggio. Le sembrava che in testa fosse in corso un palio composto da stalloni imbizzarriti. Si portò una mano alla tempia, il volto contorto in un’espressione dolente. Provò a parlare, ma tutto quello che le usciva dalle labbra erano mugugni incomprensibili.
“Oh, non ti sforzare. So come sono i postumi da sbornia.” la rassicurò Clara sorridendo. La ragazza dai capelli biondi cercò di ricambiare il sorriso, ma tutto quello che ottenne fu una smorfia. Se suo fratello l’avesse vista in quelle condizioni sarebbe impallidito e le avrebbe fatto una bella ramanzina.
Già, suo fratello…
“Come ti chiami?”
Si schiarì la gola, sperando di pronunciare qualcosa di chiaro. “Harriet.”
“Io sono Clara.”
Le loro mani si allacciarono in una stretta di presentazione e solo quando la sua manica si alzò appena, rivelando l’orologio, Clara ricordò il suo impegno e il suo ritardo. “Mio Dio, quant’è tardi!” esclamò balzando in piedi. Harriet provò ad alzarsi a sua volta, ma le gambe le cedettero e cadde rovinosamente a terra.
“Cavolo, tutto bene?”
“Sì, sì… Me la cavo… da sola.”
Clara guardò quell’ammasso gracile di ossicine e carne e il senso di colpa si fece spazio in lei. Non poteva lasciarla lì, così. Quante volte si era trovata nella stessa situazione? Quante volte aveva desiderato che qualcuno la aiutasse? La vecchia Clara cominciò a bussare insistentemente alla porta.
Dannazione!
“Dov’è che abiti?”
Harriet sorrise amaramente. “Qui.”
In quel momento, l’altra si rese conto di una stuoia non troppo distante dal punto in cui si trovavano e di un cumulo di stracci bruciacchiati che sembravano essere serviti ad accendere un fuoco. “Qui?” le fece eco con tono rammaricato. “Non hai una casa vera?”
Harry scosse debolmente la testa, i timpani che le fischiavano, lo stomaco che faceva capriole pericolose.
Clara si guardò intorno confusa. Che fare? Quella ragazza era solo un’alcolista. Una sconosciuta. Una barbona. Perché aiutarla? Non la conosceva nemmeno! Poteva essere una ladra, o un’assassina! Doveva andarsene. E in fretta anche. Non era un buon posto, quello. E anche la tipa, Harriet, di certo non era la persona migliore del mondo. La scelta più saggia era abbandonarla.
Ma molte volte, il cuore ha la meglio sul buon senso.
 
***
 
“Sono a casa!”
Harriet le corse incontro appena mise piede in soggiorno. I suoi occhi si accesero di meraviglia e ammirazione quando incontrarono la figura dell’amica. “OMG! Ma sei troppo figa!”
Clara si esibì in un esemplare e modesto inchino, ridendo. “Ti piacciono?”
“Se mi piacciono?! Clara, sono WOW!”
I lunghi capelli castani avevano lasciato posto ad un caschetto ribelle che conferiva alla coinquilina un’aria da gangster mista a una da rock star. Harry rimase a fissarla con il sorriso dipinto in volto. Erano passati due anni da quando Clara l’aveva trovata e si era presa cura di lei. Così tanto tempo… E così tanti segreti…
Il suo cuore le balzò in gola quando Clara si sfilò il giubbetto. Un gesto semplice, innocuo, ma che in lei provocò un uragano di emozioni e desideri ingestibili. Si voltò repentinamente e scappò nella cucina dove la pentola a pressione fischiava insistentemente.
“Vieni a sederti a tavola, è pronto.”
“Arrivo!” rispose urlando Clara dalla sua camera da letto mentre Harriet portava a tavola i piatti col roastbeef. Dopo pochi minuti si sistemarono e cominciarono a mangiare avvolte da un’atmosfera serena e ovattata, chiacchierando del più e del meno, spettegolando come due liceali.
All’improvviso, il cellulare di Clara vibrò. Un sorriso esuberante si formò sulle sue labbra nel leggere il messaggio. “E’ Steve! Mi ha chiesto di vederci questa sera!”
Harriet avvertì una morsa all’altezza dello stomaco. Dolore, dolore, dolore… Ma non doveva permettere ai sentimenti di traboccare. Non doveva permettere loro di rovinare un rapporto sincero e solido come l’amicizia. “Grande...”
Clara le rifilò un’occhiata stizzita. “Potresti anche mostrarti un po’ più contenta.”
Harry si alzò da tavola facendo strisciare rumorosamente le gambe della sedia sul pavimento. “Prometto che quando mi racconterai i giochetti erotici che ti farà fare saltellerò di gioia.”
“Ma che ti prende, Harry?” insorse l’altra sulla difensiva.
“Niente, Clara, niente. Va tutto bene! Torna pure nel tuo mondo fatato fatto di Steve.” ribatté acida Harriet mentre rimetteva la sua carne in pentola.
“Mi spieghi che hai?”
Nulla. Non aveva proprio nulla. Non era così che si comportava un’amica.
Stupida, stupida, stupida! pensò Harriet senza però riuscire a contenere l’ondata di sensazioni discordanti che la stavano facendo annaspare.
“Davvero non capisci che cos’ho!? Solo un cieco non lo capirebbe!”
Clara scattò in piedi, facendo rovesciare la sedia. “Dimmelo, Harriet! Dimmi che cosa dovrei capire!”
Harry la fissò per qualche istante. Aveva voglia di piangere, di urlare, di fuggire. Ma non c’era nessuno che le avrebbe offerto una spalla su cui versare le sue lacrime, che avrebbe ascoltato il suo sfogo, che l’avrebbe stretta a sé e consolata. Una volta c’era… Ma ora, non più. E allora doveva avere le palle per restare. Doveva avere le palle per affrontare la verità.
Bastò un passo per arrivare ad un soffio da Clara e catturare le sue labbra in un bacio tracimante di passione. Aveva un sapore buono, quella bocca. L’avrebbe assaggiata per tutto il giorno. Ma non poteva. Perché Clara non era come lei. Anzi, lei non era come Clara. Lei era diversa. Incompleta.
Si sottrasse al contatto con il viso in fiamme e gli occhi ardenti. Corse alla porta d’ingresso, consapevole che quel bacio era stata la sua rovina, la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Nessuno poteva capirla.
Non i suoi genitori.
Non suo fratello.
Non Clara.
Nessuno.
Scese la tromba di scale del condominio velocemente, non avendo il coraggio di guardarsi indietro. Basta. Era stanca. Mortalmente stanca. Voleva solo… Trovare pace.
Nei baci di una puttana? Nell’alcol? Nella morte?
Non lo sapeva. L’unica cosa certa era che doveva andarsene di lì o sarebbe crollata. Ma qualcosa la fermò. Incontrò gli occhi indecifrabili di Clara. Erano carichi di rabbia – o di amore? –, di paura – o di sollievo? –. Quant’erano belli quegli occhi. Pozze infinite in cui affondare e perdersi completamente.
“Mi dispiace.” sussurrò quella rafforzando la presa sul suo polso. “Io… avevo paura. Paura che tu non provassi lo stesso e… paura di amarti.” La mano libera strinse quella dell’altra con dolcezza infinita. “Perdonami, Harriet. Per averti fatta soffrire. Per essere stata peggio di un cieco.”
Harry affondò il viso nel petto di Clara e pianse. Pianse tutte le ragioni che, sebbene le procurassero un tale dolore, la tenevano in vita: John, Clara, la speranza.
Pianse perché era felice. Perché lo era sempre stata, dopotutto. John le aveva donato un’infanzia meravigliosa nonostante i loro bisticci. Le aveva asciugato lacrime di cui non conosceva la ragione. L’aveva abbracciata con un vigore e un amore che solo Clara riusciva ad equiparare. Non poteva biasimarlo per il suo rifiuto. Non poteva. Era il suo fratellino. L’unica cosa che contava. L’unica assieme a Clara.
 
***

 
La pioggia aveva placato la sua sete di caos e ora il cielo era ormai solo una patina scura e nuvolosa. Clara aveva le gote ferite. Due profonde cicatrici. Due lacrime.
“…così abbiamo capito che i nostri sentimenti non potevano più essere repressi.” concluse con un sospiro.
“Sai, per caso,” s’intromise John timidamente. “quanto tempo era passato dalla sua fuga di casa quando vi siete incontrate?”
“Cinque anni.” rispose Clara. “A volte mi parlava del suo passato. Di te.”
Lui lasciò che un mesto sorriso gli ferisse il volto come le lacrime facevano su quello della donna. “Ti ha detto che sono stato la causa di tutto il suo dolore?”
“Niente affatto. Ti amava così tanto… Eri il suo fratellino, non poteva portarti rancore.” I suoi occhi si annebbiarono nuovamente di lacrime. “Dopo che ci siamo messe insieme, ti abbiamo cercato in lungo e in largo. Ci sono voluti anni per riuscire a capire qualcosa. Anni e anni di ricerche a vuoto. E proprio quando abbiamo cominciato a raccogliere informazioni importanti…”
John voleva estraniarsi. Tapparsi le orecchie. Impedire alla voce di quella donna di distruggerlo. Ma ormai voleva sapere. Ne aveva il diritto.
“Che cos’è successo?”
Clara ingoiò un groppo di lacrime. “Non lo sapevamo… ma ci stavano alle calcagna da tempo. Brixton pullulava di agenti dell’Inquisizione sotto copertura. Un giorno… stavamo camminando per il mercato quando… un uomo ci ha avvicinato e ha mostrato il distintivo… Allora, Harry mi ha preso per mano e mi ha trascinato via. Lo abbiamo seminato, ma ha chiamato rinforzi e allora Harry…”
S’interruppe, il viso che affondava nelle ginocchia. “Harry cosa?” la incalzò John trattenendo il dolore, la rabbia, la speranza perduta.
“…Harry mi ha detto che dovevamo separarci. Che divise ce l’avremmo fatta, ma prima di andare ha aggiunto… Qualunque cosa accada, trova mio fratello.”
Una lama invisibile si conficcò nel petto di Watson, là dove la foto di sua sorella stava sfumando lentamente, perdendo il sorriso radioso, gli occhi lucenti… Dove Harriet stava scomparendo.
“Io… non sapevo cosa fare e così sono scappata nella direzione opposta alla sua e poi… Uno sparo.” Tacque come se la detonazione le rimbombasse ancora nelle orecchie. “Ho seguito quel rumore, le chiacchiere della gente, e sono arrivata al vicolo… dove ci siamo incontrate per la prima volta, e lei… lei era lì. Per terra. Con un foro alla tempia e una pistola in mano.”
Il nulla avvolse la stanza. Un’agonia impalpabile prese a dilaniare le anime dei due. John non si stupì di quel gesto: sua sorella era così. Ribelle. Libera. Inafferrabile. Anche nella morte: non avrebbe mai sopportato di andarsene per mano di quei puritani del cazzo come li chiamava.
John scoppiò a ridere. Una risata isterica e stonata. Una risata che si sarebbe trasformata in singhiozzo se non fosse stato John Watson. Perché John Watson non mostrava la sua debolezza a nessuno. Nessuno.
Clara gli prese la mano e gliela strinse forte. “Mi dispiace, John… Mi dispiace così tanto… Ho passato un anno intero nascosta, in continuo movimento, solo per trovare te. Per esaudire l’ultimo desiderio di Harry… E ora…”
“Non dirlo.” la stoppò John. “Sapeva che sarebbe morta. E sapeva che tu ce l’avresti fatta. Perché credi che si sia sparata un colpo in testa se non per consentirti di scappare, di vivere? Siamo così egoisti… Così dannatamente egoisti.” Clara si portò una mano alla bocca per soffocare un gemito di dolore. John tirò fuori la foto da cui sua sorella se ne era appena andata… Ma invece l’immagine di Harriet era ancora lì. Bellissima. Nitida. Sarebbe svanita, un giorno. Ma non quello. Non finché c’era John. Harriet non sarebbe mai morta veramente, perché era lì, su quel foglio lucido. Sorridente. Inscalfibile. Porse la fotografia a Clara. “Lei è ancora qui, vedi? Non possiamo tornare indietro, dobbiamo trovare la nostra strada. Se ce ne andassimo, lei rimarrebbe sola. Basta fare gli egoisti. Dobbiamo andare avanti anche per lei. Possiamo farcela, Clara.”
Lei accarezzò la foto sorridendo. La sua Harry… Quanto l’aveva amata. E quanto l’avrebbe amata ancora. John aveva ragione: non doveva arrendersi. Per Harriet. Per se stessa. Per il loro amore. “Grazie, John. Grazie di tutto.”
Watson si sforzò di sorridere, ma subito dopo si alzò in piedi. “Ora riposa. Io vado… vado a fare un giro.”
Non attese risposta. Scese le scalette velocemente, i suoi passi – tonfi sonori sul pavimento – che somigliavano al suo dolore – tonfo sonoro sul petto dove non c’era più nessuna Harriet –. Attraversò la fattoria di corsa, e uscì fuori, sotto un cielo plumbeo, e proseguì ancora alla cieca, sulla collina, verso un boschetto fatto di scheletri di alberi, lungo un torrente.
Via, via, via! Lontano. Correre. Sentire il fiato corto. Il cuore galoppare. I muscoli stridere come le ruote di un treno. Mettere in moto il corpo per non pensare. Fare di tutto per non pensare. Il vento urlava il suo nome. Lo pregava di fermarsi.
No.
Non il vento.
Una voce nel vento.
Sherlock lo afferrò con un salto in avanti e lo tenne stretto, nonostante le sue resistenze.
“Lasciami!”
“Non se prima non ti calmi.”
Watson sferrò una brutale gomitata allo sterno di Holmes che a questo punto fu costretto ad arretrare, massaggiandosi il torace.
John sarebbe dovuto partire di nuovo, ma le sue gambe non rispondevano ai comandi. Il suo cuore non rispondeva ai comandi. Restò immobile, gli occhi fissi su Sherlock. Improvvisamente, la rivelazione di Clara prese forma. La forma di una chimera. Era nel buio. E i suoi occhi abituati a cercare continuavano a cercare. A cercare una ragione per continuare a credere che un giorno sarebbe riuscito a rivedere la luce.
Harriet. Morta.
Non si era mai sentito così. Così dilaniato. Così debole. Così esposto.
“Harriet è morta.” mormorò solo. Sherlock rimase in silenzio, senza però distogliere lo sguardo.
Passarono alcuni, interminabili istanti. La mano di John agì senza controllo. Coprì il suo volto, lo tenne al riparo, lo mascherò. Un suono straziante echeggiò attorno a loro. Un singhiozzo, due, tre… John Watson, l’impavido John Watson, il caparbio John Watson… Piangeva. E non avrebbe pianto se Sherlock non fosse stato lì. Ne era certo. Quell’uomo ammantato di nero gli faceva venir voglia di abbandonarsi persino alle sue debolezze, quello stesso uomo che prese a camminare verso di lui piano e circondò il suo corpo rigido con le sue braccia forti. Era bello, pensò John, stare immobile, col viso affondato nel petto di Holmes. Era bello. Troppo bello.
“Va tutto bene.” mormorò Sherlock stringendolo ancora più forte. Le sue mani non stavano più toccando una schiena. Ma un’anima. L’anima di John. Un’anima ferita e piangente.
“Non va tutto bene.”
“No.” rispose poggiando il mento sulla nuca dell’altro. Doveva proteggerlo. Da tutto. Da tutti. Da se stesso. Dalla morte di Harriet. Non andava tutto bene, no. Ma lui era lì. E ci sarebbe sempre stato. Perché lui… “Ma è quel che è.”
 

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 5 ***


 

CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 5

 
Aprì la porta barcollando, mentre alle sue spalle si diffondeva quella risata che adorava ascoltare. Rischiò di inciampare sul gradino, ma fortunatamente le case sono fatte di muri, e di conseguenza sono fatte di punti d’appoggio per due ubriachi.
Era stata una serata magica. La festa per il loro primo anno di convivenza. Anno tutt’altro che facile da affrontare tra il lavoro di entrambi alla fattoria, Harriet e la strage che veniva consumata regolarmente sotto gli occhi di una popolazione di assoggettati. L’idea era stata di Sherlock – avvenimento alquanto sorprendente –. Un drink in diversi bar – il progetto iniziale era un drink in un locale di ogni strada in cui avevano prelevato un gruppetto di Incompleti – ma quando l’alcol ti entra in circolo non riesci più a distinguere la differenza fra un boccale assaporato in un posto significativo o meno. Quindi no, i nobili piani di Sherlock Holmes non erano stati seguiti proprio alla lettera. O almeno, non del tutto.
Si appoggiarono alla parete accanto alle scale senza smettere di ridere. “E’ stata la cosa più folle che abbia mai fatto.” esordì John cercando di contenere l’ebrezza.
“Eppure hai creato un covo di nemici dello stato.” replicò Sherlock guadagnandosi un buffetto alla spalla da parte del medico.
Si staccarono dal muro, con l’intento di salire al piano superiore, ma Holmes inciampò nei suoi stessi piedi. Nel corso di pochi attimi, si scatenò un putiferio. Sherlock cadde, John era davanti, Sherlock borbottò qualcosa durante la caduta, John si voltò, Sherlock cercò disperatamente di aggrapparsi, John provò invece a sostenerlo lui stesso…
Risultato? Un John Watson supino sulle scale e uno Sherlock Holmes sopra di lui. La situazione avrebbe dovuto perlomeno generare imbarazzo, disagio, farfugli di scuse e di non fa niente. Invece rimasero lì, i corpi premuti l’uno contro l’altro, a ridere.
“Sei un idiota.” beffeggiò John.
“E tu non reggi bene l’alcol.”
“Sei tu che mi sei caduto addosso!”
“Dipende dai punti di vista. Magari sei stato tu a farmi cadere di proposito sopra di te.” ribatté Sherlock ridendo.
“Morivo dalla voglia di essere schiacciato da… Dio, Sherlock, ti stai addormentando?!”
Holmes rimase con gli occhi chiusi e la guancia appoggiata al petto di John. “Sto comodo.”
“Bè, io no.”
Con un movimento dettato dal suo istinto da soldato, John fece rotolare il corpo quasi inerme di Sherlock accanto a lui. Rimasero così per qualche istante, le loro schiene a contatto.
“Credi che ci abbia visti qualcuno?” farfugliò l’ex inquisitore dopo un po’.
“In quella scomoda situazione che tu hai provocato? Spero di no.”
“Mi riferivo al bere. Dici che qualcuno ha visto che mi sono ubriacato?”
“No, certo che no, abbiamo solamente girato ogni pub di Londra! Perché qualcuno dovrebbe averti visto?”
“Dannazione! Io ho una fama internazionale.” si lamentò Sherlock voltandosi appena verso John con espressione stizzita. “Tu non hai una fama internazionale?”
“No, non penso.” rispose il medico.
“Esatto. Però non mi ricordo perché ce l’ho… Forse perché sono figlio di…”
“Ragazzi!” esclamò una vocetta petulante. Nel campo visivo dei due comparve la figura della signora Hudson avvolta dalla vestaglia e dalla camicia da notte. “Credevo rincasaste più tardi.”
“Perché, che ore sono?”
“Siete stati fuori solo due ore.” concluse lei portando fuori la spazzatura.
A quelle parole, Watson e Holmes si alzarono il più in fretta – e indolore – che il loro organismo imbottito di alcol consentisse loro. Salirono le scale goffamente, abbracciati da un’atmosfera allegra e rilassata.
Predisposero tutto per uno di quegli stupidi giochi di cui Sherlock andava matto: indovina chi. Scrissero su due post-it la parola che l’altro avrebbe dovuto indovinare e li attaccarono sulle rispettive fronti. Sherlock Holmes poco sopra gli occhi di Sherlock e Melissa Wild – una cantante in voga in quel periodo – su quelli di John.
“Sono un vegetale?” cominciò Watson con la voce impastata e lo sguardo vacuo.
“Tu o… la cosa?” domandò a sua volta Holmes ridacchiando.
“Divertente.”
“Grazie.”
“Dai…”
“No, non sei un vegetale.” rispose finalmente Sherlock accomodandosi meglio sulla poltrona.
“Tocca a te.”
“Sono umano?”
John fece schioccare la lingua e sorrise tra sé e sé per quel quesito. “Certe volte.”
“Così non vale.” ribatté Sherlock. “O è o è no.”
“Sì, sei umano.”
“Bene… Sono un uomo?”
“Sì.”
“Simpatico?” continuò Holmes.
Watson gli rifilò per un istante un’occhiata dubbiosa. “Un po’.”
“Intelligente?”
“Direi di sì.”
“Le persone mi amano?”
John poggiò il suo bicchiere di Scotch sul tavolino e portò la mano chiusa a pugno contro il mento. “No, le affronti nel modo sbagliato.”
“Va bene.” concluse Sherlock sporgendosi in avanti. “Sono il re della Gran Bretagna.”
John scoppiò a ridere, sprofondando nella poltrona. “Adesso non abbiamo un re.”
“No?”
“No. Ti dice qualcosa la parola Inquisizione?” ribadì il medico sorridendo.
“Okay, okay. Tocca a te.”
John fece scorrere il sedere verso il bordo della poltrona, rischiando quasi di cadere. La sua mano si appoggiò alla coscia di Sherlock, procurando un bruciore intenso che decise però di ignorare. Ma la sua mano non si mosse. “Sono una donna?” domandò per soffocare quelle voci discordanti che gli imponevano azioni che da ubriaco non riusciva a contemplare lucidamente.
Sherlock non sembrò neanche accorgersi di quel gesto – men che meno del tentativo di John di dissimularlo –, ma scoppiò a ridere per quella domanda. “Sì.”
“Sono… carina?”
“La bellezza è un concetto basato su giudizi infantili stereotipati e modelli esterni.” rispose Holmes riprendendo per un istante quel briciolo di petulanza che lo accompagnava da ormai più di trent’anni.
“Sì, ma sono bello?” John si rese conto troppo tardi delle parole uscite dalla sua bocca. “Bella.” si corresse infatti sperando che l’amico fosse abbastanza ubriaco da sorvolare sulla cosa. Ma la verità era che Sherlock – dei due – era il più sobrio. Quello che non era ubriaco solo ed esclusivamente per il vino, ma soprattutto per la magia che stava assaporando in compagnia di John. Ogni sua risata, ogni suo borbottio, perfino quella caduta sulle scale erano stati – sebbene in minima parte – intenzionali.
E fu proprio quella frase a risvegliare i suoi sensi dal torpore dato dallo Scotch e dalla birra. I suoi occhi corsero alla mano di Watson chiusa attorno al suo ginocchio. Così viva, così infuocata. Così fatta per stringere la sua gamba.
Rivolse un’occhiata significativa a John che lo fissava con gli occhi annebbiati dall’ubriacatura, eppure così belli. Sì, John Watson era bello. Non nel senso stretto della parola. Ma per Sherlock era la cosa più bella che avesse mai visto.
Accadde tutto in un momento. Nessuno dei due seppe poi chi si era avvicinato, ma successe. La resistenza reciproca cedette, e le loro labbra si sfiorarono. Lentamente. Come se camminassero sul ghiaccio prossimo a spezzarsi e a farli cadere nel buio abisso che era il loro cuore. Assaporarono il momento. Quella sensazione di sorpresa al contempo così dolce e così sbagliata. Si allontanarono l'uno dall'altro con riluttanza per riprendere fiato, rimanendo però vicini. Le loro fronti a contatto, come se volessero dirsi qualcosa, ma non bastassero le parole. Perché no, le parole non potevano descrivere tutto quello.
"Sherlock io..." provò ad obbiettare il dottore, ma Sherlock lo zittì con un altro bacio, ormai perso e inebriato dal desiderio di sentirlo ancora così vicino.
 Il secondo bacio non aveva nulla a che fare con quello precedente. Al suo interno c'era tutto. Amore. Passione. Impazienza. Avidità. Rabbia. Odio. Un mix letale di emozioni troppo forti per essere gestite, perfino per il freddo e distaccato Sherlock Holmes.
Quel secondo bacio lo riportò alla realtà. Ad una realtà in cui tutto quello era sbagliato, in cui LUI era sbagliato. Incompleto. Il pensiero lo colpì come uno schiaffo in pieno viso. Lo aveva finalmente ammesso a se stesso, e il terrore che anche gli altri potessero scoprirlo lo fece staccare dalla persona che aveva causato tutto questo. Si guardarono negli occhi, uno sguardo pieno di paura, ma non di pentimento. Sherlock non riusciva a ravvedersi per averlo baciato, perché era quello che voleva. Ed era proprio questo a spaventarlo.
Si alzò in fretta e, quasi correndo, si chiuse dentro la sua camera, dentro il suo riparo sicuro. Voleva solo allontanarsi il più possibile dalla sua grande tentazione. Da quel frutto proibito che non aveva il diritto di assaporare appieno.
Lasciò John in preda alla confusione dovuta sia al troppo alcol in circolo nel suo corpo sia a ciò che era appena successo. Sherlock lo aveva baciato. Gli sembrava ancora impossibile. Con il sapore delle sue labbra ancora impresso nella mente, John – troppo ubriaco e stanco per pensare chiaramente all’accaduto – si trascinò fino alla sua stanza e crollò in un sonno profondo fatto di baci e riccioli ribelli.
 
***

 
Non aveva mai provato qualcosa di così forte e di così travolgente. Per nessuna donna con cui era stato. E ne aveva girate tante. Ma quella figura che riempiva tutto il suo campo visivo lo faceva sentire vivo. Più vivo di un cuore che batte. Più vivo di un neonato che libera i polmoni con il suo primo pianto. Più vivo di qualsiasi altra cosa viva.
E quel sapore che gl’invadeva le labbra, quell’odore di acqua di colonia, quel desiderio che gli torceva le viscere… No, qualcosa di solo lontanamente simile a Sherlock Holmes non c’era mai stato.
“John?”
“Mmm?”
Ma non arrivò risposta. O almeno, non verbale. La personificazione della vita gli mozzò il respiro con le sue labbra, catturandole in un bacio tanto meraviglioso quanto disperato. Ricambiò ogni movimento, ogni carezza, perché la vita gli pulsava in petto con così tanta enfasi che non riusciva a trattenere quei battiti impazziti.
Si fermarono per un secondo e si guardarono intensamente, col fiato corto. I volti stravolti e imperlati da goccioline di sudore, le pupille dilatate, sorrisi stanchi ma appagati.
John non riusciva a smettere di guardare quei riccioli che durante quei lunghi e splendidi baci gli avevano solleticato il viso. Contrasse gli addominali e sollevò appena la schiena dal materasso, sfiorando con le sue labbra quelle di Sherlock. Non era la solita voglia di fare, non era la solita passione bruciante, non era la solita lussuria, quelle che gli percorrevano il corpo mescolandosi al sangue. Era qualcosa di più… di più. Come se avesse paura di sbagliare, di fare qualcosa che potesse ferire l’altro. Una dolce paura che lo spingeva ad essere diverso, migliore.
E forse fu per quello che si stupì delle dita di Sherlock che correvano alla sua camicia e cominciavano a sbottonarla lentamente. John fissò quegli occhi sconfinati per qualche secondo e lesse insicurezza. Portò la sua mano su quella dell’altro. “Sei sicuro?”
“Sì.”
 
***
 
Il materasso cigolò violentemente sotto il suo peso. Si voltò cercando una sagoma accanto a lui ma… Non c’era. Come poteva? Quella notte… Quella magica notte non era mai esistita. Poteva sentir la sensazione delle mani di Sherlock su di sé svanire, andandosene impalpabile come era arrivata. Lanciò un’occhiata alla sveglia sul suo comodino. Le 8:00. Non aveva alcuna voglia di alzarsi dal letto e lasciare che anche tutto il resto del sogno svanisse. Come poteva una semplice attività psichica fargli quell’effetto? Al piano di sotto poteva udire il cinguettio della signora Hudson; almeno non avrebbe dovuto affrontare da solo Sherlock. Si alzò controvoglia e ispezionò il suo intero guardaroba con una perizia che non aveva mai avuto. Non aveva intenzione di indossare uno di quei suoi soliti maglioni. Aveva voglia di essere… all’altezza. Di chi? Di quel tipo così elegante e magnetico? Proprio di lui.
Scese le scale silenziosamente con la sua semplice camicia rossa e si scoprì terribilmente agitato. Poteva uscire di soppiatto di casa e fare colazione al bar di sotto. Poteva, ma non voleva: il desiderio di vedere Sherlock e di assaporare la sensazione al contempo terribile e bellissima nell’incrociare il suo sguardo lo attirava verso il soggiorno.
Sherlock era seduto al tavolino e aveva il volto completamente immerso nel giornale che – ad un’occhiata attenta – si sarebbe rivelato essere di una settimana prima. L’aveva sentito arrivare. John Watson. E probabilmente stava esitando ad entrare.
Non aveva mai fatto niente di così stupido in tutta la sua vita, mai. Lasciarsi coinvolgere, come diceva suo fratello, era una cosa che non aveva mai potuto permettersi. Non si era mai sentito attratto da nessuna donna, così come da nessun uomo, ma quel medico era tutt’altro. Era qualcosa che andava al di là di ogni razionalità.
Finalmente, i passi di John gli segnalarono che aveva appena fatto il suo ingresso.
Calma, sta’ calmo.
“Oh, John caro! Prego siediti, siediti!”
“Sì, sì… prendo solo un caffè…”
Balbettava impercettibilmente. Cattivo segno. Non avrebbe dovuto balbettare! Insomma, se John si fosse mostrato sicuro e l’avesse tirato da parte dicendogli che era stato tutto un errore, sarebbe andato tutto a posto. Ma quella vena apprensiva di cui era intrisa la sua voce…
“Sherlock? Sherlock!”
La voce della signora Hudson lo destò dai suoi pensieri. “Diceva?”
“Ho chiesto com’è andata la serata.”
Gli occhi di Holmes ebbero l’impulso di correre in direzione di John, ma si costrinse a non farlo. “E’ stata… inaspettata.”
“Inaspettata?”
Sherlock non rispose e nascose di nuovo la faccia nel giornale.
La signora Hudson lanciò un’occhiata dubbiosa a John sulla cui faccia era palesemente scritto a caratteri cubitali: è successo un casino!
“Volete che vi lasci soli per…”
“NO!” fu la risposta repentina di entrambi.
Finalmente, i loro occhi trovarono accesso gli uni nello sguardo degli altri. Stranamente, non ebbero la tentazione di sfuggire a quel contatto visivo. La signora Hudson capiva sempre tutto. Era proprio quello di cui avevano bisogno: parlare, confrontarsi.
Il campanello trillò, venendo loro in aiuto. “Vado e torno, sarà il corriere.” esclamò la signora Hudson sgattaiolando fuori dalla stanza e lasciando i due coinquilini da soli.
Sherlock aprì la bocca un paio di volte sperando che le parole uscissero, ma sembrava che non ci fosse abbastanza aria per colmare i polmoni. E John… John non riusciva a pensare lucidamente con l’immagine sfocata del sogno ancora in testa.
“E se… Uscissimo a prendere una boccata d’aria?” propose infine il medico. Holmes si aprì in un sorriso accennato e si limitò ad annuire.
“Certo, fammi finire il the e…”
“John?”
Watson si voltò e davanti a sé si parò la figura slanciata di una giovane donna dalla pelle scura e dai capelli neri raccolti. Un’espressione esterrefatta si delineò sul volto di lui. “Jeanette! Che bella sorpresa…”
La donna lo squadrò confusa. “Non è esattamente una sorpresa. Mercoledì mi hai proposto di fare un giro per il centro e mi hai detto che sarei dovuta passare a casa tua attorno alle otto e mezzo.”
John si portò una mano alla fronte. “E’ vero… Mi era dimenticato.”
“Dimenticato?” gli fece eco lei incrociando le braccia al petto.
“…dimenticato di avvisare la signora Hudson che non avrei pranzato a casa.” si schermì John alzandosi come una molla e correndo verso la fidanzata con sguardo fintamente entusiasta. Afferrò il giubbetto con uno strattone e se lo infilò in fretta. Un altro strato. Giubbetto, camicia, canottiera, pelle, cuore. Sperava che così quest’ultimo potesse tacere una buona volta.
Passò un braccio attorno alla vita di Jeanette e la trascinò nervosamente fuori dalla stanza, rifilando alla signora Hudson e ad Holmes un frettoloso a dopo.
Sherlock restò per un po’ con gli occhi fissi nel punto in cui John era appena sparito e poggiò la sua tazza di the con rabbia: ci era quasi cascato. L’istinto lo costrinse a muoversi velocemente attraverso la stanza e a scostare la tenda della finestra. Un vizio a cui – nel corso di dodici mesi – non aveva rinunciato.
Ed eccolo lì. Con un’espressione stupidamente felice in volto e un braccio che avvinghiava la vita di una delle tante fidanzate che si portava appresso. Faceva male. Un male cane. E anche se sapeva che era meglio così… non poteva evitare a quella catena di spine che aveva imparato a conoscere bene, di avvinghiare il suo cuore.
Stava quasi per scansarsi, quando John si voltò, lo sguardo alto. I loro occhi si incrociarono per pochi istanti, ma bastarono per provocare in entrambi una sensazione ineluttabile. La bocca di Sherlock ebbe un impercettibile guizzo verso l’alto. No, non ci era quasi cascato, ci era cascato del tutto.
John ricambiò il sorriso e fu tutto talmente veloce e lento nello stesso tempo che per vari secondi nessuno dei due si mosse. Dalla finestra, Holmes guardò Jeanette stringere il braccio di Watson ed esortarlo a muoversi.
 Fine del contatto visivo, dei sorrisi. John da una parte, Sherlock dall’altra. Ed entrambi non vedevano l’ora di poter finalmente restare soli.
 
***

 
La giornata trascorse monotona. Nemmeno il violino poteva mettere a tacere quei pensieri che gli si arrovellavano in testa, così come la tazza di the non riusciva a spegnere il fuoco che ardeva in lui. Una giornata monotona, ma se non altro non seccante. O almeno finché non arrivò un gruppo di agenti a prelevarlo per portarlo a Buckingham Palace.
Ci mancava solo Mycroft! Certo che aveva un tempismo perfetto quell’uomo.
La sfarzosa limousine lasciò Sherlock davanti alle pesanti inferriate che impedivano l’accesso a chiunque al di fuori degli Inquisitori. Il minore degli Holmes odiava quel posto, gli metteva addosso una sensazione claustrofobica di cui non riusciva a liberarsi prima di andarsene. E quella volta non fu da meno.
Perché Mycroft l’aveva convocato? Che cosa voleva da lui? Un terribile presentimento svettò nella sua mente gettandolo nel panico: aveva scoperto di John? Del suo lavoro alla fattoria? Del loro lavoro alla fattoria?
Se così fosse stato, avrebbe dovuto trovare un modo per dissimulare ogni sospetto del fratello. Lo avrebbe portato sulla strada sbagliata, allontanandolo da John e dalla fattoria.
“Signor Holmes?” lo chiamò una guardia. “Va tutto bene?”
“Sì, sì. Mio fratello mi aspetta nel suo studio immagino.”
“E’ esatto, signore.”
Sherlock rimase qualche attimo fermo davanti ai cancelli, infine entrò e non si accorse di un paio di occhi ferini che lo fissavano con astio da dietro il monumento decapitato della regina Vittoria.
 
***
 
“Mi aspettavo una telefonata se non altro per gli auguri di Natale.” si lamentò Mycroft al suo arrivo.
Sherlock inarcò un sopracciglio. “Chissà perché ma ho il sospetto che non ti sia mancato affatto.”
Il solito sorriso beffeggiatore si disegnò fra le labbra sottili del fratello. “Chissà perché ma credo sia reciproco.”
Il minore prese un respiro profondo, infine chiese: “Perché sono qui?”
“Una riunione di famiglia.”
“La verità.”
Mycroft sospirò e si appoggiò alla scrivania, incrociando le braccia. “Me l’ha chiesto papà: è preoccupato per te.”
“Papà? E da quando papà si preoccupa per me e non per il primogenito?” ironizzò Sherlock. Fin da quando erano piccoli loro padre non aveva fatto nulla per mascherare l’infinita ammirazione che nutriva nei confronti del figlio maggiore. I regali di Natale di Mycroft rispecchiavano sempre i suoi desideri – voleva un cellulare nuovo? riceveva un cellulare nuovo. voleva una giacca all’ultima moda? e giacca era! –, mentre l’unica cosa che Sherlock aveva da sempre chiesto non era mai arrivata: un cane. Allergia, a detta di suo padre, ma lui sapeva bene che anche fosse stato un gatto o una macchinina rossa fiammeggiante non sarebbe cambiato nulla. E sebbene si ostinasse a sostenere il contrario, aveva sofferto molto per la sua presenza mai calcolata.
“Abbiamo un progetto approvato direttamente da lui. Ed è sua richiesta che sia tu a lavorarci su, date le tue conoscenze in fatto di chimica.” continuò Mycroft.
“Mi sembrava di essere stato chiaro a proposito del mio allontanamento dall’Inquisizione.”
“Suvvia, Sherlock, non fare il bambino. E’ uno dei più grandi progetti di tutto il secolo. La creazione di un serio potentissimo, capace di…”
“Non mi interessa: ho chiuso. Leggi il labiale se non capisci.” E detto ciò si voltò per andarsene lanciando un’occhiata nervosa all’orologio.
“Posso sapere perché non vuoi più lavorare per l’Inquisizione?” chiese infine il fratello.
“Diciamo che… Ho altre priorità.”
Uscì e non vide lo sguardo perplesso di Mycroft, né l’ombra che – fuori da Buckingham Palace – lo seguì fino a quando non entrò in un taxi.
 
***
 
La sera cominciava ad affacciarsi sul cielo londinese. Presto, il meridiano di Greenwich sarebbe stato solcato dalla ventesima ora del giorno. Sherlock era ritto davanti allo specchio, intento a lisciarsi febbrilmente la giacca nera e la camicia.
“Stasera ceno fuori, caro. Vi ho lasciato la cena nel frigorifero, accanto a quella macabra scultura a forma di testa umana.” lo informò la signora Hudson.
Sherlock si voltò appena e le prese le spalle con entrambe le mani. “Si diverta con il panettiere.” esclamò schioccandole poi un bacio sulla guancia. La padrona di casa rimase allibita per quella deduzione e fece per controbattere – o almeno per provarci – ma il clacson al piano di sotto la spinse a salutare Holmes e a raccomandarsi di non distruggerle casa mentre era via.
La porta d’ingresso si richiuse con un tonfo e Sherlock rimase solo. Nervi… nervi… troppi nervi. Doveva fare qualcosa, passare il tempo, o sarebbe impazzito. Imbracciò il violino come un soldato avrebbe fatto con un fucile, mentre la sua mano sinistra ghermiva l’archetto come un proiettile da inserire.
Quando il fascio di crini tocco le corde fu pura e semplice poesia. Quello che Dante, Quasimodo, Ungaretti esprimevano con i versi, Sherlock Holmes lo trasformò in dolci note. Una melodia che non aveva mai suonato, una melodia nuova che parlava di lui e di John. Si trovò a sorridere nel constatare che era la più bella esecuzione che avesse mai fatto in tutta la sua vita. E la musica lo prese con sé, nel suo abbraccio, lo sollevò fino all’Eden per poi cullarlo sospeso su un London Eye illuminato da luci variopinte.
Probabilmente, fu proprio per quell’insieme mistico di note che non sentì la porta al piano di sotto cigolare e dei passi salire le scale. Accadde tutto in un attimo. Un ringhio che poteva sembrare effettivamente appartenente ad una belva invase la stanza. Sherlock si voltò di scatto e si ritrovò davanti un uomo dall’aspetto orribile, con i vestiti laceri e una barba incolta che adombrava la mascella. E gli occhi… gli occhi potevano tranquillamente essere quelli di un toro. Un toro che aveva davanti un drappo rosso.
“Finalmente ti ho trovato.” sussurrò lo sconosciuto puntandogli addosso una pistola. “Sherlock Holmes.”
 
***

 
La giornata trascorse monotona anche per John Watson che venne trascinato in tutti i negozi del centro possibili e immaginabili. Jeanette aveva provato vestiti di alta moda, si era cosparsa di profumi che insieme avevano creato un odore alla fine sgradevole, aveva comprato una borsa di pelle firmata e dal prezzo vertiginoso, e ora camminava per Baker Street con i suoi nuovi tacchi vertiginosi. In tutto quello, John era rimasto in disparte, appoggiato a manichini in cui sperava di trovare conforto e qualcosa da fare – che magari non includesse il pensare dato che se pensava era tutto terribilmente difficile da gestire –.
“Sono stata bene oggi.” mormorò Jeanette davanti al 221B di Baker Street, seduta sul comodo sedile di un taxi.
“Anche io.” mentì John con un sorriso falso sulle labbra. “Allora… ci si vede.”
Ci si vede?” ripeté piccata la fidanzata, ma il medico neanche la stette a sentire e chiuse la portiera prima che lei potesse partire con uno dei suoi sermoni su cosa volesse dire essere una coppia.
Frugò freneticamente nelle tasche e gli sembrò quasi che un destino crudele si stesse divertendo a far toccare alle dita di John tutto meno che le chiavi – il cellulare, il suo taccuino degli appunti che usava per catalogare i prodotti alla fattoria, la pistola, la lista della spesa che non aveva avuto modo di consultare… -
Finalmente dopo cinque minuti buoni si ricordò di averle infilate nella tasca posteriore dei pantaloni proprio per non sprecare tutto quel tempo. Astuto John Watson! E alquanto previdente.
Infilò le chiavi nella toppa ed entrò silenziosamente come ormai era abituato a fare, pensando che la signora Hudson stesse guardando la sua solita telenovela romantica. Ma al posto delle voci di qualche cane di attore, ne udì una rabbiosa e roca, come se la persona a cui apparteneva non parlasse da molto tempo.
“Finalmente ti ho trovato, Sherlock Holmes.”
John avvertì distintamente lo scatto della rimozione della sicura di una pistola.
Merda! pensò mettendo mano a sua volta all’arma che teneva in tasca. Salì le scale piano, sperando di non fare il benché minimo rumore, mentre la voce proseguiva.
“Non sai da quanto tempo è che aspetto questo momento…” Che cos’era quella sensazione? Quella… familiarità? “Non sai da quanto tempo è che aspetto di ucciderti.”
Si avvicinava sempre più così come sempre più il tono rabbioso dello sconosciuto cresceva.
“Chi sei?”
La voce di Sherlock. Ferma, composta, sicura. Una voce che infuse in lui stesso la calma necessaria per salire l’ultimo gradino e dirigersi di soppiatto fino alla porta del salotto.
“Chi sono, dici? Non credo che importerà così tanto quando ti avrò piantato una pallottola tra gli occhi.”
“Non se prima lo faccio io a te.” intervenne John facendo il suo ingresso nella stanza e puntando la pistola contro l’estraneo che si girò velocemente. Gli occhi di quest’ultimo si fecero grandi di meraviglia e tutto l’odio che vi era prima si attenuò un poco.
“John?”
Watson corrugò la fronte al sentir pronunciare il suo nome e studiò il volto dell’intruso. La sua mano vacillò, così come il suo sguardo: sembrava più vecchio di anni, la barba gli aveva infuso un’aria trasandata e pericolosa, i vestiti strappati avvolgevano un corpo scarno e che sembrava reggersi a stento in piedi. Niente di com’era prima. Ma gli occhi non mentivano. Era lui. Proprio lui.
“Davis!” esclamò alla fine indietreggiando appena. “Credevo che tu fossi…”
“Morto? Sarebbe stato meglio.” abbaiò l’altro allargando la guardia e prendendo la mira anche in direzione di John. “Tu lo conosci? Questo bastardo? Lo conosci!?”
“Io e lui abitiamo insieme...”
L’espressione di Davis si riaccese di un odio sconfinato e soffocato per mesi e mesi. “Dunque sei dalla sua parte… Sei stato tu a rivelare agli Inquisitori la nostra posizione, quel giorno, all’aeroporto di New Victory, vero!?”
Watson lanciò un’occhiata confusa in direzione di Sherlock che taceva e lo fissava intensamente. Che cosa voleva dirgli con quello sguardo?
“Lui non c’entra, non vi ha traditi.” s’intromise Holmes muovendo un passo in avanti ma subito la bocca della pistola gli si ripuntò addosso. “Puoi fidarti di John, non sa niente, non ha mai saputo niente.”
Lo sguardo di Davis tradì sollievo: l’uomo a cui si era affidato per tutto il tempo non era un traditore. Se non altro, quello. “Allora ha abbindolato anche te.” disse rivolgendosi a John. “Ti ha usato.”
“Ma di che stai parlando, Davis? Come potrebbe avermi usato?”
“Lui fa parte dell’Inquisizione, John. Chissà quante informazioni avrà passato ai suoi durante tutto questo tempo.”
Il medico scoppiò a ridere, sospirando un Oh, Cristo, e guardò Davis come fosse impazzito. “Di sicuro c’è un malinteso. Chiunque tu stia cercando non è Sherlock, perciò abbassa la…”
“Sherlock Holmes. Ti dice niente questo cognome?” lo interruppe Davis. “Siger Holmes, Mycrof Holmes… Sono i capi supremi dell’Inquisizione. E lui…” continuò indicando Sherlock con il mento. “Lui è uno di loro.”
Lo sguardo di John non vacillò neanche per un istante, nonostante un senso sesto cominciasse a ronzargli nelle orecchie. Holmes… Ecco perché quel nome in un primo momento gli era sembrato familiare. “Andiamo, Davis: ci saranno chissà quanti altri Holmes in giro per Londra. Mi rifiuto di credere che lui sia uno di quelli dell’Inquisizione.”
“Sono rimasto davanti a Buckingham Palace per settimane nella speranza di scovare uno della loro famiglia. Settimane e mai l’ombra di una traccia che mi conducesse a Mycroft Holmes o a suo padre o a chiunque altro di loro. Poi oggi è arrivata una macchina con a bordo questo bastardo e ho sentito distintamente una guardia chiamarlo signor Holmes. E non solo: ha fatto anche riferimento ad un fratello.”
John provò a replicare ma gli occhi di Sherlock lo fermarono. Perché non si difendeva dalle accuse? Perché restava in silenzio e lo guardava semplicemente?
“Sherlock, ti prego di darmi una spiegazione perché non ci sto capendo niente.”
Holmes non abbassò lo sguardo mentre le sue labbra si aprivano per formulare la risposta. “E’ tutto vero.” dichiarò dopo interminabili secondi di silenzio. “Io sono Sherlock Holmes, figlio di Siger Holmes e fratello di Mycroft Holmes.”
Tutta la sicurezza sul volto del medico s’infranse di colpo. La realtà lo investì violentemente come le fiamme di un incendio.
Sherlock. Traditore. Holmes.
La fattoria… La fattoria! Gli aveva mostrato i suoi più oscuri segreti. Segreti da cui dipendevano le vite di un centinaio di innocenti! Che cosa aveva fatto? Quei nomi che alcune notti venivano a trovarlo in sogno presero a vorticargli in testa: Alexandra………..Matias………….Logan……….
Morti per colpa sua. Per colpa di Sherlock Holmes.
“Facevo parte dell’Inquisizione, è vero. Ma non c’entro nulla con ciò che è successo all’aeroporto…”
“BUGIARDO!” ruggì Davis mentre lacrime bollenti gli solcavano le gote lanose. “HAI UNA VAGA IDEA DI QUELLO CHE HO DOVUTO SOPPORTARE? HAI IDEA DI CHE COSA SIGNIFICHI RESTARE DA SOLO SENZA LA PERSONA CHE SI AMA? HAI IDEA DI COME CI SI SENTA A NON POTER NEANCHE PIANGERE SUL SUO CADAVERE!?”
La mano armata cominciò a tremare convulsamente, mentre quella di John era caduta lungo il fianco, sconfitta e sormontata dalla verità. I suoi occhi fissavano il pavimento, incapaci di guardare la persona che aveva causato tutto quello.
“Ero andato a prendere una lattina di Lemon Soda per la piccola Alexandra… Ma c’era la fila e poi… gli spari… Ho provato a raggiungerli ma sono stato trascinato via dalla calca. Ho saputo della morte di Logan ascoltando il telegiornale! AL TELEGIORNALE!” Le spalle di Davis si alzavano e abbassavano al ritmo dei singhiozzi che gli mozzavano le parole. “Volevo ammazzarmi… Eccome se lo volevo, ma poi mi sono detto che i responsabili avrebbero pagato per averlo portato via da me. Mi sono concesso dodici mesi per vendicare la sua morte… E finalmente ho l’occasione per riscattarmi.”
Sherlock non distolse lo sguardo dalla figura di John. Era così piccolo e indifeso, il coraggioso eroe degli Incompleti. Se ne stava lì con le braccia abbandonate, gli occhi spenti… Non avrebbe dovuto scoprirlo in quel modo. C’erano così tante cose da spiegare, così tante parole non dette, così tanti sentimenti reclusi nel suo cuore… Aveva paura. Non voleva morire. Non senza prima aver detto a John tutta la verità.
“Ti spedirò all’Inferno, Sherlock Holmes. E ti posso assicurare che non dovrai aspettare molto perché io arrivi anche laggiù e porti avanti la mia vendetta anche da morto…” latrò Davis cacciando indietro le lacrime. “Addio.”
Uno sparo. Un’eco di morte. Il tonfo della vita che abbandona un corpo. E sangue, sangue, sangue… Dappertutto, onnipresente, viscoso…
John evitò di guardare quel cadavere, ma alla fine si costrinse a camminare verso di lui. La pallottola aveva perforato il cranio con una precisione impeccabile. Se non altro, non aveva sofferto. Gli chiuse gli occhi ormai vitrei e avvolti da una cataratta di morte, e se lo caricò in spalla, il giubbetto che cominciava ad imbrattarsi di sangue a sua volta. Non avrebbe permesso che rimanesse lì, che la signora Hudson lo trovasse, che la morte non venisse seppellita.
Pensò a quel sentimento che ora gli lasciava un sapore amaro in bocca. All’amore che aveva provato per un uomo che lo aveva tradito e meritava di giacere senza vita sul pavimento del 221B di Baker Street. Un uomo che però continuava a fissarlo con una dolcezza che non riusciva a sopportare dopo tutte quelle bugie e quel tradimento.
Si sollevò in piedi, il corpo senza vita di Davis sulle spalle e la pistola con un proiettile in meno in tasca. Alzò gli occhi e fu come essere trafitto da una mazza ferrata. Sherlock Holmes, anzi, solo Holmes aveva negli occhi un qualcosa di inspiegabile… Quante volte lo avevano tratto in inganno quegli occhi? Quante volte aveva carpito informazioni essenziali e le aveva passate ai suoi collaboratori soltanto puntandogli addosso quegli occhi?
Cercò di ricambiare lo sguardo, ma era più difficile di guardare un morto. Quelle iridi glaciali avevano ormai perso ogni significato, quelle labbra avevano perso ogni significato. Sherlo…no, non Sherlock, solo Holmes aveva perso il suo significato.
“John…” mormorò Sherlock facendo un passo in avanti verso John, ma quello si ritrasse e si limitò a scuotere la testa. Quanto conteneva quel muto e semplice no… Mille e mille urla non avrebbero potuto equiparare quel gesto e soprattutto ciò che scatenò in Sherlock. L’aveva perso. Aveva perso John Watson. Quel soggetto che inizialmente riteneva insignificante ma che ora avrebbe guardato in eterno. Quell’ometto che un tempo ripudiava per la sua stupidità e che ora ammirava per il suo sconfinato coraggio.
Quel John Watson una volta pericoloso e ora essenziale. Per lui, per andare avanti, per vivere.
L’aveva perso. E quando la porta d’ingresso al piano di sotto sbatté fu più chiaro che mai.

***
 
Erano passati poco più di quindici giorni e quella stanza che si era rifiutato di prendere tempo addietro gli sembrava più vuota che mai. Non aveva toccato nulla da quando… bè, da quando John se n’era andato. Solo il letto. Gli piaceva sdraiarcisi sopra e immaginare che accanto a sé ci fosse anche lui.
Quel giorno, però, infranse il rito: aprì l’armadio e cominciò a riempire il borsone che gli aveva prestato la signora Hudson con tutti i vestiti e gli averi che John aveva lasciato intonsi al 221B di Baker Street. Casa in cui non era più tornato neanche per riprendere le sue cose.
Sherlock piegò accuratamente le camicie e quegli orrendi maglioni che avrebbe potuto tollerare solo su Watson… Per che cosa quella cura? John se n’era andato e non avrebbe fatto ritorno. E Holmes, questo, lo sapeva. Ciononostante l’unica cosa che sembrava lenire appena il vuoto era quella stupida speranza che non se ne voleva andare. La stessa speranza che aveva accompagnato John per anni e anni mentre era alla ricerca di una sorella che non avrebbe più rivisto.
Partì subito dopo pranzo, osservando il prospetto degli orari del medico che aveva fatto agli albori di quella storia, quando Sherlock era ancora solo un Holmes e John viveva la sua vita tenuto in piedi solo dal desiderio di trovare Harriet. La macchina che teneva nel garage della sua vecchia casa gli sembrava così scontata dopo quei lunghi viaggi sul sedile accanto a quello di Watson e animati dalle stupide canzoni patriottiche di cui entrambi facevano una rivisitazione a modo loro.
La sagoma della vecchia fattoria si delineò in lontananza e ai suoi occhi apparve come il miraggio di una fonte d’acqua immersa nella calura del deserto. Qualche fiocco di neve prese a volteggiare nel cielo come leggiadri ballerini. Le prime settimane di Gennaio avrebbero aperto le porte al freddo e alle lunghe serate passate davanti al camino con una tazza di the bollente in mano e una coperta di lana sulle gambe.
Attraverso la leggera foschia che avvolgeva la collinetta, Sherlock distinse il bagliore di un fuoco acceso e delle figure imbacuccate attorno ad esso. Si fermò e scese dalla macchina in fretta, prima di lasciare all’emozione e alla paura di prendere il sopravvento rendendolo un perfetto idiota. Afferrò il borsone e si avvicinò a quella luce tenue che mandava riflessi rossastri verso il cielo grigio.
“Sherlock!” esclamò Molly correndogli incontro. “Che cosa ci fai qui?”
Lui le indicò con il capo il borsone che teneva in mano. “Sono di John, magari ne ha…” Le parole gli morirono in bocca quando scorse la figura di Watson alle spalle della dottoressa. Così poco tempo eppure così tanta distanza fra di loro. Chilometri e chilometri asfaltati di bugie e sentimenti velati, di verità nascoste e risentimenti crepitanti.
“Grazie, Molly, torna pure dagli altri.” la esortò il medico frapponendosi tra lei e il vecchio coinquilino. La donna sembrò indecisa sul da farsi, ma alla fine – come prevedeva la sua indole – obbedì al collaboratore.
“Allora, che vuoi? Sei venuto qui per arrestarci tutti?”
Quell’asprezza nella voce di John intaccò tutte le buone intenzioni che avevano spinto Sherlock sin lì. “Sono venuto a portarti le tue cose. Ho pensato che potresti aver bisogno di qualcosa di caldo per il freddo e poi… c’è anche il tuo portatile e un ombrello… Insomma, ti ho preso tutto.”
John non fiatò né accettò il borsone. Holmes provò la voglia di chiudersi a riccio sotto quegli occhi imperscrutabili. Finalmente, Watson si decise a prendergli dalle mani le sue cose.
“Grazie.” disse con un sorriso. “Perché non ti unisci a noi al falò?”
L’espressione di Sherlock passò da stupita a scioccata: era… era tutto a posto fra di loro? Insomma, John lo aveva appena invitato a passare del tempo insieme. Doveva interpretarlo come un buon segno?
“Non vorrei disturbare.” rispose allora per non immergersi in acque poco sicure.
“Ma figurati, vieni.”
Sherlock seguì la nuca di John fino al falò e trovò tutta la loro comunità riunita ad arrostire marshmallow. Due ragazzini albanesi arrivati un paio di mesi fa gli corsero incontro e lo abbracciarono, lasciandolo confuso e commosso al tempo stesso. Una volta John gli aveva confidato che la fattoria era casa sua. Ora sapeva che cosa volevano dire quelle parole.
“Per favore, allontanatevi dal fuoco: dobbiamo ravvivarlo.” annunciò Watson facendosi largo fra gli Incompleti che sedevano a gambe incrociate con la bocca impastata di marshmallow. Tutti eseguirono il suo comando come soldati di fronte al proprio capitano, lasciando a lui e ad Holmes lo spazio necessario per raggiungere il falò.
John poggiò per terra il pesante borsone che conteneva tutta la sua vita al 221B di Baker Street e si chinò su di esso aprendo la lampo che lo chiudeva. Ne estrasse un maglione pesante, dalla soffice lana marrone. Lo accarezzò, saggiando i ricordi che gli portava alla mente e poi si alzò, lanciando un’occhiata eloquente a Sherlock. Alzò la mano munita del capo d’abbigliamento, tenendola sospesa per diversi secondi scanditi dal crepitare della fiamma. Con un fluido movimento del braccio lanciò il maglione tra le fiamme e subito il fuoco divampò.
Sherlock rimase basito a guardare John mentre estraeva le sue cose, il suo passato, e gettava tutto fra le fiamme ormai impazzite. Non riuscì a fermarlo, ma se anche ci avesse provato non era suo diritto.
Guarda caso, l’ultima cosa che tirò fuori era una maglia a righe. Anzi, la maglia a righe. Quella della festa, della loro ubriacatura. Del loro bacio. E la cosa che fece più male… Fu che John la guardò con amarezza, nostalgia… E Sherlock non poteva sopportarlo. Non poteva sopportare di vedere quella notte gettata in pasto alle fiamme. Distolse lo sguardo mentre il fuoco si cibava dell’ultimo frammento del passato di Watson.
Nessuno osò aprire bocca o muoversi. Tutto era sospeso, tutto iniziava e finiva in quel rosso scoppiettante.
John si voltò lentamente e lo sguardo che gli puntò addosso, Sherlock non l’avrebbe mai dimenticato. “Come ti fa stare – essere illuso, essere ingannato –?” domandò con tono rabbioso. “Non ti fa venir voglia di spaccare qualcosa, ti prendermi a pugni?”
“John…”
Sherlock aveva solo voglia di sentirlo vicino per l’ultima volta. Di toccarlo, di saggiare il suo tocco di nuovo. Tentò di avvicinarsi, ma lui riacquistò la distanza. “Io non so più chi sei, Sherlock. E a questo punto, credo di non averlo mai saputo.”
Qualcosa si era rotto in Holmes. Aveva udito il rumore, lo stridere dei cocci… la cornice di una foto che non avrebbe più potuto essere come prima. Una foto che come toccò terra si dissolse. Una foto che non aveva stampata sopra una vera e propria immagine, ma un ricordo.
“Se…” La voce di John si fece stentata e improvvisamente roca. “… se quello che ci ha… legati è stato almeno in parte vero, allora ti chiedo: non venderci alla tua famiglia, all’Inquisizione. Non essere la nostra rovina, Sherlock.”
Sherlock arricciò le labbra per ritardare l’esplosione della bomba. Il conto alla rovescia era iniziato e proseguiva, inarrestabile. Sarebbe esplosa quando meno se l’aspettava, ma doveva assolutamente allontanarla da lì.
“Posso averti mentito all’inizio, ma ti posso giurare che ogni mia parola e ogni mio gesto negli ultimi mesi sono stati sinceri.”
John sorrise amaramente. “Vorrei poterti crederti, ma ho il sospetto che… una volta che finisci scottato” e indicò il falò alle sue spalle. “capisci che devi stare alla larga dal fuoco.”
Poco. Mancava molto poco. Mancava troppo poco. Sherlock si concesse poche ultime parole per dire addio all’unica persona che in tutta la sua patetica esistenza aveva contato davvero e che ormai aveva perso. “Mi dispiace per tutto il dolore che ti ho causato.”
John non rispose e si limitò a dargli le spalle e a guardare il suo passato ardere assieme ai tizzoni. Holmes capì che era tutto finito. Il fuoco cancella e lascia soltanto ceneri. La maglia a righe riposava nelle fiamme e si sarebbe dissolta. E con lei, la loro storia.
Non si guardò indietro mentre fuggiva facendosi largo fra gli Incompleti che lo fissavano smarriti. Il conto alla rovescia scorreva come i granelli di sabbia di una clessidra.
-20, -19, -18…
S’infilò in macchina e fece ruotare la chiave un paio di volte prima che riuscisse a mettere in moto il veicolo.
-14, -13, -12…
Le ruote filarono via veloci sulla strada laminata di ghiaccio, lasciandosi indietro la fattoria e tutto ciò che ne faceva parte.
-10, -9, -8…
Quanto aveva perso? Tutti quei sorrisi e quegli abbracci degli indifesi che in lui avevano trovato una difesa. Tutte quelle storie e quei racconti degli infelici a cui aveva regalato felicità. Tutte quelle lacrime e quelle sofferenze dei disperati che in quel luogo avevano abbandonato la disperazione.
E John. John Watson. Il pericoloso John Watson. Perso.
BOOOOOOM!!!
La macchina fece un paio di testa coda impazziti e Sherlock batté la fronte contro il volante. Ecco. La bomba era esplosa. E dentro quell’auto, al riparo dal mondo e dai suoi errori, Sherlock Holmes conobbe la debolezza e le lacrime.

 

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Capitolo 6
*** INTERMEZZO ***


CUORE SUL GRILLETTO
Intermezzo

 

 

9 giorni dall’esplosione
 
Una melodia lontana
Suona il vecchio violino
Lo Sguardo che incappa
In una sedia ormai vuota.
 
Mani stanche,
Inconsapevolmente Memori
Di carezze non date,
Sfiorano appena l’arco,
Temendo di nuocere
Temendo di rievocare
Cimeli di un passato precluso
 
Passi invisibili si trascinano,
Immagini sbiadite si susseguono
Mentre quella mano stanca
Afferra la momentanea salvezza
Mentre i sensi si abbandonano
Ad un’effimera ed illusoria tranquillità
Mentre il cielo livido
Si libera nel suo pianto.
 


458 giorni dall’esplosione
 
Vattene,
Personificazione inconsistente
Di un reale inganno
Di errori consumati
 
Vattene,
Solida ancora
Di illusioni passate
Di felicità consumata
 
Ma non ti muovi
Sei in piedi
Immobile
Tangibile
Come la pazzia
Che germoglia nella mente
Come la tortura che deteriora il corpo
Come il tormenti
Che conquista infine
Il cuore.
 
 
583 giorni dall’esplosione
 
Mia
La solitudine nella stanza sgombra
Colma di logori rancori
Mia
L'assenza di un sorriso
Diventato indispensabile
Mia
La lacrima che ruzzola giù
Come una rara gemma
Mia 
La mano che scosta l'aiuto
Non essendone degna
Mia 
La voglia di uscire da questo dedalo
Che mi trascina verso il fondo
Mia
La voce che geme rassegnata 
Incapace di fermarsi
Mia
La colpa
Solo mia.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 6 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 6

 
 
Non fu una nave spaziale, o una bomba, o un arrivo inaspettato a sconvolgere la logorante routine a cui il signor Sherlock Holmes era stato sottoposto per due anni. Fu un bip, la vibrazione del cellulare, un SMS.
Sherlock grugnì indignato mentre afferrava stancamente il cellulare. La sua vita senza droga era tinta di grigie sfumature di grigio. Almeno, con quella roba il tempo scorreva più velocemente, senza prendersi gioco di lui come stava facendo in quel momento, senza ricordargli quotidianamente il prima.
Guardò assonnato l’ora sul display: 2:53. La pallida luce della luna filtrava come un coltello attraverso la finestra non schermata dalle persiane, creava curiosi giochi di luce in quel marasma tenebroso, e illuminava pigramente la scritta sullo schermo del dispositivo: numero sconosciuto.
 
Salva un’anima adesso!
John o forse James Watson?
Zio Tobia nella fattoria ia-ia-o
Sbrigati altrimenti zio Tobia – o la sua gallina – morirà!
 
Sherlock lesse il messaggio più e più volte, sconcertato, e più leggeva più qualcosa andava delineandosi nella sua testa. Una sequenza, una specie di codice… Una parola ogni quattro.
No… Non poteva essere.
“Salva John Watson... fattoria… Sbrigati o…” Il telefono gli fuggì di mano e cadde a terra con un tonfo sordo. “…morirà…”
Il freddo della notte lo investì con efferatezza, mordendogli la carne come un mastino affamato. Chi poteva essere il mittente di quel messaggio? Più e più volte aveva provato a contattarlo mentre si muoveva per le stanze del 221B raccattando cappotto, sciarpa e revolver, ma nessuno aveva risposto.
La fattoria… Che ci faceva John alla fattoria? Giorni dopo la loro separazione, Sherlock aveva provato un ultimo tentativo, ma l’aveva trovata vuota. Una saggia precauzione che solo uno sciocco non avrebbe preso, eppure…
Il motore dell’auto rombò d’impazienza mentre Sherlock ingranava la prima, ma con un sussulto si spense. “Andiamo!” ringhiò girando una seconda volta la chiave. “E dai, accenditi!”
Ma dopo un secondo scossone, la macchina taceva di nuovo. Sherlock scese e calciò con disperazione la ruota, quando un bagliore in lontananza catturò la sua attenzione: il rumore prepotente di una moto gl’infuse nuova speranza. Si piantò in mezzo alla strada, sotto uno dei tanti lampioni di Baker Street, e protese una mano in avanti. La moto frenò bruscamente, appena in tempo, e Sherlock sorrise vittorioso.
 
***

 
“John!” urlò mentre correva dentro il relitto di una vita lontana. “John!”
Nessuna risposta: la fattoria era vuota. Sherlock si guardò intorno freneticamente, ma poi si fermò, come colto da una rivelazione: era corso fino al Sussex come se non ci fosse stato un domani… solo per John. Due anni e ancora non riusciva a non provare quello che provava.
Era stato uno scherzo? Ma non aveva senso. Perché perdere tempo a divertirsi con lui? E poi, chi poteva sapere di lui e di John?
I suoi pensieri vennero interrotti da un cigolio. Era stato appena percettibile, ma nella melodia d’insieme di quella nottata senza stelle aveva stonato. Sherlock fece correre gli occhi nelle tenebre.
“John?” chiamò di nuovo muovendosi silenziosamente. Dopo pochi secondi, avvertì un colpo al pavimento di legno. “John!”
“Aiuto!” gridò una voce che proveniva da sotto i piedi di Sherlock. Holmes s’inginocchiò e i suoi occhi scovarono una botola. Tirando forsennatamente, riuscì ad aprire un pertugio nel pavimento dove s’infilò agilmente, finendo in uno spazio angusto e tenebroso.
“John?”
La sua mano si serrò attorno al cellulare e azionò la torcia. Trattenne il fiato a quella visione: John era seduto a terra, il polso sinistro ammanettato ad un paletto di legno e una macchia di sangue rappreso sulla tempia.
“John!” Gli corse incontro, immemore di tutti gli anni passati, del loro addio, dei loro sentimenti. “Stai bene?”
Watson lo guardò confuso per qualche istante, le palpebre pesanti che gravavano sugli occhi. “She…Sher…”
“Non parlare, va tutto bene. Ti tiro fuori.” mormorò Holmes armeggiando con le manette che imprigionavano l’altro. “Va tutto bene…” ripeté più a se stesso che all’altro. All’improvviso, un frastuono. Sherlock si voltò, appena in tempo per vedere la fenditura sopra di loro chiudersi di colpo. Vi si gettò quanto più velocemente gli consentivano le gambe, cercando di contrastare l’incontrastabile. Provò a bombardare di pugni il soffitto, urlò, pestò il piede a terra, ma nulla serviva.
“Una trappola…” ringhiò serrando i pugni. Cercò di pensare a qualcosa, ma non c’era un vero qualcosa a cui pensare.
John, intanto, cercò di forzare la serratura strattonando debolmente il braccio. Aveva la mente ancora appannata dalla droga che quei due tizi gli avevano somministrato. Un senso d’impotenza si fece largo in lui, insieme allo smarrimento di rivedere Sherlock dopo tutti quegli anni, dopo tutte quelle bugie…
“D’accordo.” sentenziò Holmes abbassandosi nuovamente su di lui. “Ora ti libero e poi troviamo un modo per andarcene.”
Forse era la droga, forse il dolore rombante in testa, ma a John quello sembrò quasi un sogno. La voce di Sherlock gli sembrava così lontana… Una flebile eco in una burrasca di frastuoni. E tutto quel buio, quel silenzio – e quel cazzo di dolore alla testa – non contribuivano certo a mantenerlo lucido.
Non proferì parola mentre Holmes cercava di liberarlo, né quando una strana puzza di fumo si fece largo nell’antro. Un colpo di tosse gli mozzò il fiato.
Sherlock avvertì l’impellente bisogno di liberarsi del cappotto, come se la temperatura si stesse elevando vertiginosamente, ma quando anche le sue narici captarono la puzza di fumo, un pensiero svettò nella sua mente, abbagliandolo con la sua terribile chiarezza.
“Oh no…”
Si avvicinò nuovamente al punto da cui era entrato e tese l’orecchio, nella speranza di intercettare un minimo suono. E infatti arrivò.
“No, no, no…”
Si catapultò nuovamente verso di John e prese a tirare con forza, oppresso dalla portata della situazione. Tirò e tirò, dimentico della logica e della razionalità, della freddezza e della distanza dalle emozioni. Una paura incontrollata bussò insistentemente all’altezza del petto e una nuova consapevolezza gli si manifestò altrettanto sconcertante e inaspettata: non voleva morire.  E questo, era alquanto curioso: per più di un anno e mezzo aveva brancolato nell’ombra di se stesso, vissuto recluso in un angolino della sua mente, succube della droga e della solitudine. Per più di un anno e mezzo aveva sputato sulla sua vita.
Ora invece, la morte lo atterriva. Non poteva morire. Non in quel momento, non in quel luogo. Non con John.
“E andiamo, dannazione!”
John era mortalmente stanco: voleva solo dormire. Aveva bisogno di chiudere gli occhi e abbandonarsi al dolce oblio del sonno. Con la mano libera cercò di sedersi più rittamente, per scacciare un minimo quella leggera foschia che incombeva sui suoi sensi. Le sue dita sfiorarono un oggetto affilato che gli ferì la carne. Percorse la lama curvata fino ad arrivare all’impugnatura dell’arnese: un falcetto, di quelli che si usavano prima del ventunesimo secolo del secolo per l’agricoltura. Anni e anni alla fattoria e di quel posto non aveva mai conosciuto l’esistenza: doveva essere un vecchio ripostiglio che poi durante la guerra era servito per ripararsi dai bombardamenti.
Trovò a fatica la serratura, e vi infilò la punta dell’attrezzo. Cercò in tutti i modi di aprire quei diavoli di manette, ma era tutto inutile: non vedeva niente e soprattutto la sua presa era debole e insicura. Una mano sfiorò la sua e un’antica sensazione gli avvampò in cuore.
“Lascia, faccio io.”
John non rispose, si limitò a tenere gli occhi puntati nel buio. Era tutto così surreale… Non sapeva cosa l’aveva portato a Baker Street quel pomeriggio o… qualunque giorno fosse stato. Era un po’ come se le sue gambe lo avessero condotto in quel posto, dove tutto era cominciato. O forse, era meglio dire finito. Aveva tentennato sul marciapiede per qualche minuto, accarezzando l’idea di suonare quel maledetto campanello, crogiolandosi in pensieri stupidi e insensati. Poi, un tizio incappucciato l’aveva urtato brutalmente, mentre un altro gli era arrivato da dietro iniettandogli nel braccio qualcosa che in pochi secondi si era rivelato devastante.
Uno scatto lo riportò al presente: il suo polso sinistro era libero. Se lo massaggiò come se fosse la prima volta che lo sentiva. Cercò di alzarsi, ma crollò a terra dopo poco.
“Tu sta’ fermo lì. Ci penso io.”
Sherlock parlava veloce, come se avesse bisogno che il silenzio venisse riempito, come se necessitasse di comunicare con John, come se fosse la prima volto dopo tanto tempo che spiccicava parola. Di nuovo, provò a forzare la botola dal quale era passato, ma le sue dita si ritrassero immediatamente, bruciate. Si infilò nuovamente i guanti che si era tolto per armeggiare con la serratura delle manette di John, e tempestò di pugni il basso soffitto.
“Sherlock.” Per la prima volta da quando si trovavano insieme in quel posto, la voce del medico risuonò limpida e ferma nell’antro. “E’ inutile.”
Sherlock si fermò e guardò John con occhi mesti. Certe cose lo erano: inutili. E Sherlock era una di quelle. Non poteva fare niente: non poteva tirarli fuori da quella situazione, non poteva fermare il tempo o mandarlo indietro, non poteva riparare ai suoi errori, non poteva aggiustare quel John Watson rassegnato che gli stava davanti.
Il suo battito cardiaco rallentò di colpo, come imbastito di nuova tranquillità. In fondo, morire è semplice. Tutto si ferma semplicemente e tu sei morto. Ma John… Non poteva accettare che a morire fosse anche John. E’ proprio questo il punto: le persone attorno a te muoiono? Questa è la parte difficile. Soprattutto se sei tu a vivere, sapendo che quelle se ne sono andate. Ma per fortuna, il subdolo destino di cui era vittima gli avrebbe risparmiato almeno quello.
Si sedette accanto al medico e tacque. Il rumore delle fiamme sopra le loro teste s’intensificò, prendendo forma propria, sussurrando veemente e con ghigno feroce che la loro fine stava arrivando.
“Che ci fai qui?”
Holmes sobbalzò al sentir nuovamente quella voce. Erano tre mesi che non toccava cocaina o altre robacce del genere, eppure gli sembrava così simile ad un’allucinazione, quella scena. Perché, invece, proprio quel momento doveva essere reale?
“Mi è arrivato un messaggio.” rispose solo evitando lo sguardo dell’altro.
“E cosa diceva?”
“Diceva che…” Sospirò. “…che eri in pericolo e che ti avrei trovato qui.”
John rimase interdetto e tacque per qualche istante: due anni e Sherlock si era gettato in suo soccorso. Stentava a credere che la stessa persona che si era presa gioco di lui per un anno intero fosse sfrecciata a tutta velocità nel cuore della notte per salvarlo con in mano solo uno stupido sms. Per tutto quel tempo, c’era stata una cosa che lo aveva tormentato: era stato tutto falso? Anche quei sorrisi, quei taciti scambi, quel bacio?
“Perché?”
“Perché cosa?”
“Perché sei venuto?”
Nessuna risposta.
“Sherlock?”
Niente.
“Sherlock, Cristo santo, rispondimi!”
Sherlock si voltò lentamente e nelle tenebre a John sembrò quasi di intravedere quello sguardo intenso che una volta adorava. “E tu perché hai sparato a quell’uomo?”
Watson inarcò le sopracciglia, fingendo di non capire, sebbene al contrario capisse perfettamente. “Di che parli?”
“Lo sai.”
Era vero: lo sapeva. Ma quello che invece non sapeva era il perché di quello sparo. Aveva ucciso Davis, un suo grande amico, solo per proteggere un traditore, un assassino. Perché era così che vedeva Sherlock: come un individuo meschino, un parassita che si era avvicinato a lui solo per conto dell’Inquisizione.
Aveva voglia di sbatterlo a terra e picchiarlo e picchiarlo e ancora picchiarlo, tanta era la rabbia che gl’infiammava in fondo al cuore. Ma al contempo, voleva ritornare indietro e continuare ad essere un povero bastardo illuso, inconsapevole dei secondi fini di quel parassita a cui si era abbandonato, perché se c’era una cosa che non poteva negare era che il tempo trascorso nelle menzogne di Sherlock era stato il più bello della sua vita.
“Non lo so.”
“Io sì.” ribatté Sherlock con decisione. “Lo so eccome, ed è lo stesso motivo per cui sono qui adesso.” Un sorriso amaro gli schiuse le labbra. “Non capisci, John? E’ tutto fermo a quel giorno, a quella sera. E’ tutto sospeso nel giorno in cui hai deciso di andartene. Anche noi lo siamo, John.”
“Ti sbagli.” replicò Watson con meno convinzione di quanto volesse.
“Mi sbaglio?” ripeté Holmes. “Lo faccio davvero, John?”
Stavolta, fu John a tacere. Il suo silenzio, spinse Sherlock ad avvicinarsi impercettibilmente. “Perché lo hai fatto, John? Perché hai sparato a quell’uomo per salvarmi?”
Il medico serrò la mascella, mentre una cappa di fumo cominciava a trasudare dalle pareti e dal soffitto. Perché l’aveva fatto? “La verità? E’ la verità che vuoi, non è così? Perché sei uno stronzo! Uno stronzo che è stato capace di portare un po’ di luce in tutti i miei casini! Uno stronzo che però mi faceva sentire bene! Uno stronzo capace di farmi dimenticare lo schifo di mondo in cui viviamo!” S’interruppe con la gola secca e gli occhi rossi a causa del fumo. Holmes taceva e aspettava, cercando di trattenere il galoppo in cui il suo cuore imbizzarrito si era lanciato. “Io ti amavo, Sherlock.”
BOOOOOOOOM!
Una seconda bomba, a due anni di distanza dalla prima, era scoppiata. Ma Sherlock, stavolta, non si trovava solo, in macchina, con due solchi d’acqua sulle gote, ma accanto a John, con una spensieratezza che è paradossale avere prima di morire. Dannata morte… C’era voluta lei, con la sua imminenza, perché i loro cuori si liberassero della camicia di forza che li aveva avvolti per tanto, troppo tempo.
“Ti amavo anch’io.”
E non c’era più nulla da dire. Nessuna parola vuota, priva di senso. Nessuna frase spicciola, presa da un libro. Niente di niente.
Fu John a sporgersi e a posare delicatamente le sue labbra su quelle di Sherlock. Un lieve contatto da cui sprizzarono scintille di trenta milioni di volt. E Sherlock… Sherlock stesso venne fulminato da quelle scintille. Nulla aveva il sapore di quelle labbra, nulla lo faceva stare meglio… Non la droga, non l’oblio, non il vuoto…
Ricambiò quel bacio con dolcezza e una punta d’impaccio: la prima volte che le loro labbra si erano incontrata, erano entrambi ubriachi. Ora tutto quello era vivido, presente, concreto. Bellissimo.
Nemmeno si accorsero del fumo che inondava l’ambiente e li stringeva in un abbraccio di morte.

***
 
La prima cosa che avvertì al suo risveglio fu un bruciore acuto alla gola e agli occhi. Era come se la sua trachea fosse puntellata da tanti piccoli spilli che ostruivano il passaggio dell’aria. Bianco. Tutto intorno a lui era bianco. Bianche le pareti, bianco il soffitto, macchioline di muffa agli angoli superiori della stanza. La sua mente funzionava a rallentatore, come un vecchio motore che impiega un abbondante lasso di tempo per ingranare. Un rumore continuo e costante gli ronzava nelle orecchie, metallico, e quando i suoi occhi incontrarono il saturimetro comprese che corrispondeva al suo battito cardiaco.
“Cristo, Sherlock, finalmente.” sospirò una voce roca alla sua destra. Nel suo campo visivo, comparve il volto sollevato di Lestrade. Una sensazione di tranquillità si fece strada in lui: Greg c’era sempre. Sempre. Durante i suoi due anni neri senza John, si era spesso presentato al 221B, prendendolo a pugni, scuotendolo, abbracciandolo, tentando di destarlo da quella forma di totale apatia e autodistruzione che non lo aveva mai abbandonato. Più spingevi quel detective via e più questo ritornava.
“Cosa…” cominciò Holmes con voce raschiante. “…cosa è successo?”
“Un incendio, probabilmente di carattere doloso. Qualche buon’anima ha trovato te e John e vi ha tratti in salvo, chiamando un’ambulanza e domando in parte le fiamme.”
“John?”
“Sta bene. Meglio di te, sicuramente. E’ stato dimesso giusto due giorni fa. Sei stato incosciente per una decina di giorni.”
Sherlock gemette, tentando di sistemarsi come meglio poteva su quello scomodo lettino. Finalmente, la sua mente appannata cominciò a soffiare via la cappa di nubi che l’avvolgeva, consentendogli di tornare ad essere quello di sempre, quello di una volta.
C’erano tre principali quesiti a cui desiderava poter dare risposta:
 
  1. Colui che aveva appiccato l’incendio corrispondeva alla persona che gli aveva mandato quello strano SMS?
  2. Quello che lo aveva contattato e informato sulla vita in pericolo di John, come sapeva che ciò sarebbe bastato per farlo correre a salvare l’ex coinquilino?
  3. Chi poteva averli salvati in una landa desolata come quella in cui era ubicata la fattoria del Sussex?
 
“Posso chiederti che cosa ci facevi in quel posto, con John?” domandò a bruciapelo Lestrade.
Sherlock congiunse le mani sotto al mento e fissò le macchioline di muffa che costellavano il soffitto. “E’ una storia lunga di cui non voglio discutere ora.”
“Sherlock…”
“Avanti, Lestrade, mi sono appena svegliato dopo un’incoscienza della durata di dieci giorni. Guarda, sono anche su un letto d’ospedale!”
Greg incrociò le braccia, un’espressione dubbiosa in faccia e sembrò sul punto d’insistere, ma qualcos’altro parve catturare i suoi pensieri. “E’ passato anche tuo fratello.”
“Gentile da parte sua. Se chiudo gli occhi riesco a vedere la sua espressione contrariata quando ha saputo che stavo bene.”
“Era seriamente preoccupato. Giudichi tuo fratello troppo duramente.”
Sherlock indurì improvvisamente lo sguardo. “Come giudicheresti una persona spietata e insofferente al dolore umano come lui?”
“Fino a più o meno tre anni fa anche tu eri così.” gli fece notare il detective. “Poi, chissà come, hai cambiato idea.” Le sue parole crearono un alone di silenzio. Greg tenne il suo sguardo saldo sull’amico, inconsapevole di spiccicare parola. Avrebbe voluto essere più cieco, non capire che cosa stava accadendo, non poter aiutare Sherlock non perché non aveva i mezzi per farlo, ma perché – semplicemente – non sapeva avesse bisogno di aiuto. Prese un respiro profondo in cui era racchiuso tutto il senso di impotenza che lo affliggeva quando guardava quel ragazzino spaventato imprigionato nel corpo di un adulto troppo intelligente. “A proposito, John è qui fuori. Non si è mai mosso da quando ha rimesso piede in ospedale dopo la sua dimissione. Credo che avrebbe piacere di sapere da te che stai bene.”
L’altro si limitò ad annuire e così Lestrade si alzò da quella sedia di plastica azzurra, dirigendosi verso l’uscita della cameretta d’ospedale, dopo averlo salutato con un cenno del capo e un sorriso stentato.
Bastarono pochi istanti perché la porta si chiudesse alle spalle di John. Sherlock non osava alzare gli occhi sulla figura del medico, consapevole che tutta la storia dell’incendio doveva riguardare lui e lui solo. Watson era stato sicuramente solo un mezzo per attirarlo in una trappola effimera posta da chissà chi. E il sapere di aver messo John in pericolo lo faceva sentire ripugnante, stupido, inutile.
Il medico non si mosse. Rimase ritto davanti all’ingresso della stanza, come fosse pronto per spiccare un balzo all’indietro e sfuggire a qualunque cosa la sua presenza lì lo avrebbe condotto. Fuori dalla camera, echeggiavano i passi frettolosi di dottori e pazienti, di infermieri svogliati e parenti di familiari che potevano essere costretti a lasciare presto, di persone sofferenti e individui lontani dal dolore.
Il mondo era sempre stato una sorta di antitesi, un parallelismo mal riuscito: una stupida legge si era divertita a costruire barricate, muri, diversità che non c’erano realmente; persone idiote e dominate da una stupidità che andava al di fuori di uno spiccato quoziente intellettivo si erano appropriati del diritto di ripartire la popolazione in giusti e sbagliati.
E di quel mondo, erano vittime anche John Watson e Sherlock Holmes, che ora erano incapaci di guardarsi negli occhi, di parlare, di dire la verità, perché tra loro era sempre tutto così dannatamente impossibile.
John si schiarì la gola, ancora leggermente affaticata dall’aspirazione del fumo, ma invece di parlare camminò verso l’ampia finestra che dava sul parcheggio dell’ospedale, per guardare fuori senza davvero guardare.
“Allora, come ti senti?” esordì Sherlock puntando il suo sguardo sulle spalle del medico.
“Direi… affumicato.”
Entrambi sorrisero debolmente a quelle parole, ma non bastarono per sciogliere tutta la tensione che vibrava fra loro, elettrizzando ogni pulviscolo di polvere, ogni molecola di ossigeno, ogni piccola essenza che viveva nella cameretta.
“Tu, invece?” domandò di rimando John.
“Ho avuto momenti migliori, ma anche… di peggiori.” e Sherlock non poté evitare ai ricordi di correre a quei lunghi, lunghissimi mesi trascorsi nella penombra di un 221B abbandonato da tutto e da tutti.
“Certo.” Finalmente Watson si voltò a guardare Holmes, con una luce sconosciuta in volto. “Senti, Sherlock, quello che è successo…”
“L’incendio?”
John scosse debolmente la testa. “No, l’altra cosa.”
Sherlock arricciò all’indentro le labbra e prese a tormentarsi le mani sotto al lenzuolo ospedaliero che odorava di malattia. “Oh, quello…”
“Sì, quello.” confermò il medico cercando di prendere tempo. “Il fatto è che…”
La porta si spalancò senza preavviso e nella stanza fece il suo ingresso una ragazza giovane – vestita di bianco e con le mani piccole avvolte da guanti in lattice – che si affrettò verso la flebo a cui era collegato il filo che veniva inghiottito da una delle vene di Sherlock. Controllò frettolosamente i valori sullo schermo del saturimetro e annotò qualcosa sulla cartella che stringeva in mano.
“Bene: sembra essere tutto nei parametri. Informo il medico del suo risveglio in modo che appena sarà disponibile possa venire a visitarla.” borbottò con scarso entusiasmo e presa interamente dalla cartella, e se ne andò di fretta così come era entrata.
John lanciò un’occhiata nervosa alla porta, come se da un momento all’altro potesse arrivare qualcun altro. Già… qualcuno che avrebbe potuto vederli, capire, denunciarli, condurli inevitabilmente al Justice Podium. Lui sarebbe morto, e Sherlock… Bè, Sherlock era un Holmes, del resto: i suoi familiari non avrebbero di certo permesso che uno della loro stirpe potesse essere visto dal mondo come un Incompleto. Sherlock sarebbe vissuto e lui sarebbe morto. Riassunto della storia. Quello che si erano detti alla fattoria, quelle poche parole significavano così tanto, eppure così poco in un universo come quello.
“Dunque – cosa stavo dicendo? – ah, sì. Allora, Sherlock, quello che è successo… Non doveva succedere. E’ stato un errore.”
Sherlock corrugò la fronte e strinse appena gli occhi, gesto abituale nei momenti in cui era confuso o spiazzato dalla situazione. “Ne sei sicuro? No, perché mi sembra di ricordare che tu abbia detto...”
“So quello che ho detto.” lo interruppe lapidario John, serrando i pugni. “Lo so e ti posso assicurare che…” Prese un respiro profondo. “…che era tutto vero, un tempo. Ma ora le cose sono diverse.”
“Diverse?”
“Complicate.”
Sherlock lo guardò sbigottito, quasi divertito dall’assurdità di quelle parole. “Quando non lo sono state, John? E’ sempre stato tutto complicato fra me e te. C’è mai davvero stato qualcosa di lineare, di semplice?”
“No, ed è proprio per questo che il… che quello che è successo è stato uno sbaglio. Perché non è possibile, perché mi hai fatto male, perché non ho la più pallida idea di come comportarmi quando sono con te.”
Sherlock si sollevò appena, raddrizzandosi, facendo perno sulle braccia. “E quindi? Che vuoi fare? Dimenticare tutto e andare avanti come prima?”
John lo fissò in silenzio, con le labbra schiuse, quasi fosse tentato di svuotarsi i polmoni con la verità, ma improvvisamente entrò un uomo sulla sessantina, col cranio rasato e guance lanose.
“Allora, signor Holmes, come si sente?” domandò all’ex inquisitore, in tono gioviale.
Watson rimase qualche istante immobile, in disparte, fino a quando il dottore non si voltò e gli chiese di andarsene. Solo in quel momento John riuscì a riprendere possesso delle sue facoltà e ad imporsi su se stesso. Non riuscì neanche a salutare l’uomo disteso su quel lettino d’ospedale. Non poteva. Era troppo difficile. Troppo complicato. Sgusciò fuori dalla stanza quasi correndo e si richiuse la porta alle spalle. Il corridoio era stranamente tranquillo, adesso. Non c’era anima viva a percorrerlo col suo passo caratteristico. Solo una figura seduta, china sulle ginocchia, che appena lo vide gli andò incontro.
“Allora?”
“Bene. Sta bene.”
“Questo lo so anch’io, John. Ma com’è andata?”
“Come doveva andare.”
Non aveva la forza di continuare la sua battaglia. Andare avanti come prima. No, non ce l’avrebbe mai fatta. Non finché quell’emozione sarebbe rimasta in lui. Superò in fretta Greg che sembrava non aver intenzione di demordere.
“John!” lo fermò infatti il detective, restando immobile a fissare la figura dell’amico allontanarsi. “Spero che tu sappia quello che stai facendo!”
No, non lo sapeva. Ma proprio in quel momento il cellulare trillò e allora tutto fu nitido ai suoi occhi. Stava facendo la cosa giusta. E il nome sul display del telefono non faceva che rafforzare quella convinzione.
 
 

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Capitolo 8
*** CAPITOLO 7 ***


 CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 7

 

Respirò a pieni polmoni l’aria fresca che gli carezzava il volto, assaporando la sensazione di libertà e cancellando ogni traccia di quello sgradevole odore di malattia che trasudava dalle pareti dell’ospedale. Aveva praticamente pregato in ginocchio i medici di lasciarlo andare, e dopo averli tormentati per giorni era riuscito a convincerli a sbatterlo fuori da lì, il più lontano possibile dalle loro orecchie e dai loro coniugi all’oscuro di qualche trama amorosa fra colleghi.
Il taxi li aspettava accostato al marciapiede, con le quattro frecce, e la nuca di un uomo pelato vestito in beige faceva capolino da dietro il finestrino. Lestrade gli aprì con fare quasi cavalleresco la portiera del veicolo e Sherlock vi si infilò senza troppe storie. A forza di polemizzare contro il cibo ospedaliero e l’incapacità dei dottori, sentiva il bisogno di recuperare il suo solito non parlare per giorni. Ciononostante, quel mutismo selettivo avrebbe dovuto aspettare ancora un po’: c’era prima una situazione della massima urgenza che doveva affrontare.
“Baker Street.” esordì Greg rivolgendosi al tassista.
“No.” lo contradisse Holmes sporgendosi verso il tassista. “Non ora.”
“Che intendi con non ora?” s’intromise Lestrade.
“Dimmi dove abita John.”
Greg lo fissò confuso e al contempo rammaricato da quel desiderio impulsivo che crepitava nel suo amico. “Sherlock, forse è meglio se vai a casa e riposi un po’.”
“Portami da John Watson.” ripeté l’altro scandendo laconico le parole.
“Ne sei sicuro?”
Sherlock abbassò gli occhi, sulle dite intrecciate e leggermente tremanti. “Sì.”
 
***
 
Il taxi si fermò davanti a una villetta qualunque di Green Street, dopo circa tre quarti d’ora di strada dal St Bartholomew’s Hospital, acquietandosi come un cavallo esausto dopo una corsa sfiancante attraverso il deserto. Sherlock non si scomodò a sporsi verso l’autista per pagarlo, ma saltò già dal veicolo col cuore in gola e le mani impiastrate di sudore freddo. Lestrade gli borbottò dietro qualcosa che però lui ignorò, troppo concentrato sullo studio della casa davanti a cui si trovava: era una bella sistemazione, doveva ammetterlo, forse un po’ troppo spaziosa per un uomo solo, ma in fondo a John non dispiaceva potersi concedere qualche piccolo lusso. Si domandò dove avesse racimolato un compenso tale da consentirgli l’acquisto di quella graziosa villetta.
“Eccoci qui.” mormorò Greg affiancandoglisi e squadrando a sua volta la nuova sistemazione di John con meno stupore e meraviglia di quanto regnassero negli occhi di Holmes.
“Sei già stato qui, non è vero?”
“Una o due volte sì.” rispose vago il detective. “Sherlock, ascolta, c’è una cosa che…”
“Qualunque cosa sia, può aspettare.” lo interruppe l’altro incamminandosi verso la porta d’ingresso della casa e guardandosi intorno, scrutando l’intero quartiere.
Lestrade rimase ritto davanti al cancelletto di una seconda villetta, con le mani affondate nelle tasche del pesante cappotto e un’espressione quasi di cruccio in volto che se solo fosse stato leggermente più attento, Sherlock avrebbe stanato subito. Ma c’era una sola cosa che in quel momento occupava i pensieri di Sherlock Holmes, e di certo non era Gregory Lestrade.
Sulla porta dominava un numero battuto in ottone, sotto al quale campeggiava una maniglia rifinita, simile a quella che avevano a Baker Street. Doveva ammettere che quella casa era di gran lunga simile al 221B, come se John avesse desiderato ricreare quella vita, quell’ambiente in cui tutto era iniziato. Un qualcosa che sapeva di speranza mista ad emozione attorcigliò le viscere di Holmes, mentre tutte queste considerazioni gli frullavano nella mente e la sua mano si serrava attorno al battiporta, bussando timidamente sul legno scuro.
“Ecco!” esclamò una voce dall’altro capo dell’accesso, mentre passi rapidi macinavano la distanza fra visitato e visitatore. La porta si aprì lentamente, con un leggero cigolio di cardini, rivelando una figura non troppo alta, vestita con una camicia a scacchi e un paio di pantaloni scuri. Una figura che come scorse quella di Sherlock, rabbrividì visibilmente. Un alito di vento soffiò dolcemente sulla strada quasi deserta, elevando la pagina strappata di un vecchio giornale, smuovendo le fronde dei pineti che puntellavano la strada cementata qua e là, colmando il silenzio che l’apparizione dell’ex inquisitore aveva generato.
“Che cosa ci fai qui?” domandò John abbassando la voce e lanciando un’occhiata furtiva – e forse anche leggermente risentita – a Lestrade, che si era stretto nelle spalle un po’ a causa della leggera brezza, un po’ a causa dell’imbarazzo.
“Possiamo parlare?”
“Credevo fossi ancora in ospedale.”
“Sono riuscito a farmi dimettere prima. Posso entrare?”
Watson sospirò e chiuse il pugno, appoggiato allo stipite della porta, sembrando quasi minaccioso o magari, più semplicemente, in difficoltà, ma alla fine si scansò per lasciar passare il vecchio coinquilino. Gregory gli fece un cenno eloquente col capo e si limitò a sedersi sul muretto davanti alla casa e ad aspettare.
Quando la porta si richiuse, una quiete instabile avvolse le ampie stanze della villetta, accorpandosi lentamente fra le pareti bianche e le tende rosse del salotto. Sherlock si guardò intorno senza prestare troppo interesse a ciò che i suoi occhi arguti vedevano, ma si lasciò comunque sfuggire un: “Ti sei sistemato bene.”
John ostentò freddezza e si diresse al bollitore ancora sul fuoco del fornello, che gorgogliava invitante.
“Forse è un po’ grande, ma è bella. Molto.” continuò Holmes mentre alle sue orecchie giungeva il suono del the versato nelle tazze. Poco dopo John comparve nel salotto reggendo un vassoio ammannito con una zuccheriera, un grazioso pentolino ricolmo di latte caldo e due tazze di the fumanti, che appoggiò sul basso tavolino disposto davanti al divano di pelle candida.
Se quello fosse stato un ospite come tanti, John lo avrebbe già invitato ad accomodarsi e a servirsi, intavolando una placida discussione come una persona comune, ma con Sherlock Holmes una delle tante prerogative della vita era quella che tutto era più difficile della norma.
“Vuoi?” si limitò a domandare John, versando un po’ di latte nel liquido rosato e prendendo con due dita il manico sottile della tazza.
Sherlock deglutì un paio di volte istintivamente e accettò il suo the, senza però mischiarlo col latte. Aveva bisogno di quanta più teina potesse ricevere. Sorseggiarono in silenzio ognuno la propria bevanda, senza distogliere gli occhi da terra; il tempo trascorso era scandito dal ticchettio di un orologio a pendolo intagliato in un pezzo di mogano, assai raffinato ed elegante, e dalla finestra semiaperta filtrava uno sbuffo d’aria che scuoteva tristemente le tende.
Le tazze risuonarono all’unisono sui piattini di ceramica, annunciando che il tempo dei silenzi era terminato.
“John, sai bene che sono un tipo schietto, uno che va dritto al punto.” esordì Sherlock poggiando la tazzina sul vassoio. “Perciò sarò diretto: quello che ci siamo detti all’ospedale, o meglio, quello che tu mi hai detto in ospedale, ritengo che sia uno sbaglio colossale.”
“Dio, Sherlock…”
“Mi perdonerai, John, se dopo un anno di lontananza e una conversazione come quella che abbiamo avuto alla fattoria – che era palesemente una reciproca dichiarazione – cerco di mettere a posto le cose.”
John si massaggiò la radice del naso con due dita. “Sherlock, è tardi per mettere a posto, per aggiustare tutto. Non puoi, non più.”
“Non posso è vero, ma solo se tu non mi dai almeno un’occasione per provare.” replicò Holmes sporgendosi in avanti, verso di lui. “Tanto per essere chiari: è vero, mi sono avvicinato a te con lo scopo di stanare la rete di spostamenti degli Incompleti, ma mi sono reso presto conto che tutto era sbagliato, che il mondo aveva torto riguardo chi è diverso. E l’ho capito soprattutto grazie a te. E credimi quando ti dico che non ho detto a nessuno, nessuno, né di te, né della fattoria.”
Watson lo guardava con occhi distanti, feriti. “Come posso esserne certo, Sherlock?”
“Non puoi. Devi fidarti di me, come hai sempre fatto, come io mi sono sempre fidato di te.” rispose flebilmente Sherlock allungando una mano verso quella di John. Il contatto fra le loro pelli fu magnetico, ineluttabile, magico. Una nostalgia antica si affacciò fra quelle dita intrecciate le une sulle altre. “E poi…” continuò l’ex inquisitore. “…c’è dell’altro. C’è questo.” Rafforzò dolcemente la presa sulla mano di John, tentando di abbattere il residuo di difese rimaste a quest’ultimo. “Questa cosa, John, che sento, che ho sempre sentito… So che lo senti anche tu, che non sono solo io.” La mano dell’altro tremò appena sotto la sua, quasi fosse così fragile da essere sul punto di frantumarsi. “Dimmi che non sono solo io, per favore.” proseguì Sherlock cercando lo sguardo sfuggente di Watson, sul cui volto regnava una battaglia fra la confusione e l’afflizione.
Trascorsero secondi che sembrarono interminabili minuti, secondi durante i quali Sherlock non cessò nemmeno per un istante di guardare John, di stargli accanto con la sua mano e di supportarlo con i suoi occhi. Ma quello taceva, divorato dai dubbi, dal passato, da vecchi errori e vecchie ferite, contorcendosi internamente sotto uno sguardo che avrebbe dovuto odiare, ma che non poteva fare a meno di desiderare.
“John?”
John era dilaniato, un rombo cupo gli straziava l’anima, e la voce di Sherlock lo schiaffeggiava con violenza, quasi efferatezza.
“John?”
“Mi sposo.”
Seguì uno schianto. Il rumore fragoroso di cocci a terra. Il suono angoscioso di qualcosa che è rotto, diviso. La dura consapevolezza dell’impossibilità di un ritorno allo status quo ante.
E forse, dico forse, quello schianto era stato proprio il cuore di Sherlock. Quel rumore, il rumore di un sentimento respinto, che giace a terra in pezzi. Quel suono non era altro che la sinfonia di lacrime invisibili ad occhi nudo, che superavano la concretezza di ogni cosa esistente. E Sherlock, in quel momento, capì. Un fulmine attraversò le sue membra spezzate, con bruschezza, ramificandosi in lui con affluenti d’elettricità misti al sangue di una ferita profonda, troppo.
Gli occhi corsero al tavolo da pranzo non troppo distante da loro: quattro sedie, due delle quali quotidianamente utilizzate, deducibile dall’assenza del sottile strato di polvere che caratterizzava le altre. Nella credenza, sfilavano stoviglie e posate allineate, ma era un curioso numero per un set da tavola: quattordici pezzi – che andavano da piatti da portata a bicchieri dalla forma ad anfora a coppette per il gelato – dello stesso materiale, porcellana – forse –, bianche splendenti; sospetto era il fatto che all’appello mancassero due piatti grandi per i cibi consueti, e due bicchieri. Nella libreria troneggiavano le classiche collane di libri esistenziali che appassionavano John, ma accanto ad essi si leggevano titoli per lui inusuali, quali Parlami di te senza parole – libro uscito poco dopo la fine della guerra Jihadista, che trattava della tragica storia d’amore fra una ragazza araba e un soldato spagnolo –, o tomi di medicina infermieristica – per nulla il campo di competenza di John –. Così tanti indizi, così tanti segnali, e il profumo! Quella leggera fragranza che aleggiava per la stanza, impregnando i cuscini del divano e la stessa camicia di John…
“Chi è?”
John si sentì oppresso da quell’appena percettibile tremolio nella voce di Sherlock. “Ci siamo incontrati un paio di mesi dopo che… bè, dopo che me ne sono andato. Siamo usciti per un po’, all’inizio non era niente di serio, ma poi…”
“Che stai facendo?” lo bloccò Sherlock, alzandosi e girando attorno alla poltrona su cui sedeva, appoggiandosi allo schienale con sguardo perso, lontano.
“Che vuoi dire?”
“Le tue parole mi sanno tanto di giustificazione.”
John incassò il colpo e tacque, visibilmente a disagio in quella situazione. “Sherlock…”
“Chi è?” ripeté seccamente l’altro.
Il medico sospirò e si allontanò per pochi secondi in un’altra stanza, per tornare con in mano una cornice in argento. Nell’istante in cui la foto passò dalle mani di John a quelle di Sherlock, le loro dita si sfiorarono, così vicine eppure così lontane. Coronata dall’argento, un’immagina più dolorosa della lama di un coltello. John sorrideva. Felice. Così dannatamente felice. Abbracciava la sagoma di una donna dai corti capelli biondi, bella, solare. Felice. Così ingiustamente felice. Attorno al suo dito, un anello brillante, semplice ma al contempo bellissimo.
“Si chiama Mary. Lavora nel mio ambulatorio come infermiera. Le ho chiesto di sposarmi un mese fa. La cerimonia è fissata per questa domenica.”
Proposta… Cerimonia… Mary… Una casa ora non più così grande, una casa adatta a costruire un futuro, una famiglia…
Sherlock non poté evitare di odiare quel sorriso così splendente, quel cappotto grigio che le avvolgeva il corpo da donna, quell’anello che sembrava calzarle perfettamente. Non era giusto. Non era giusto. E glielo avrebbe urlato. Glielo avrebbe urlato, a quello stupido di uno Watson, se la luce che scorse nei suoi occhi non fosse stata così maledettamente… luminosa.
“Sei felice con lei?” chiese allora, stringendo impercettibilmente la foto, provando l’impulsivo desiderio di gettarla a terra e calpestarla, mandandola in frantumi come il suo cuore era stato mandato in frantumi.
“Sì.”
“E la ami?”
Stavolta, la risposta non arrivò subito. Venne ponderata, venne mentalmente avvolta in parole futili che significavano quanto un uno in una moltiplicazione. “Ho deciso renderla mia moglie, perciò…”
Sherlock guardò la foto e comprese che… che lui non c’entrava nulla. Che quella non era casa sua. Che quella non era la sua vita. Che quello non era il suo John. Era di Mary.
Che lui non era nessuno.
“Ho capito.” sentenziò infine a fil di voce. “Sono felice per te.”
John lo guardò come se stesse assistendo ad un incredibile fenomeno della natura. “Felice?”
Sherlock annuì solennemente. “E’… è meglio così. Meglio per te e meglio per…”
Come poteva? Come poteva essere meglio per lui? Aveva passato un anno di merda, nella totale oscurità. Un anno durante cui aveva accettato di aver fatto una cazzata, di aver perso John. Ma questo… questo era troppo. Aveva davvero creduto che potesse tornare tutto al proprio posto? Era stato davvero così stupido da credere che John non sarebbe andato avanti dalla loro separazione?
Stupido, stupido, STUPIDO!
“Addio, John.”
Si incamminò, con gli occhi ancora incollati a quelli di Watson, i passi che si susseguivano all’indietro fino alla porta d’ingresso. Se lo sarebbe ricordato come in quella foto: bellissimo, luminoso, felice. E in cuor suo sperò che quella Mary potesse dargli l’amore che lui non aveva avuto il tempo di donargli.
John non proferì parola, mentre Sherlock arrancava a gambero lontano da lui, per sempre. Non se lo voleva ricordare così: sofferente, straziato, rotto. Se lo sarebbe ricordato come il coinquilino irritante che sparava al muro, che alle tre di mattina suonava una ballata di Brahms, che conservava nel frigorifero teste umane o barattoli di pollici, che gli aveva dato tanto senza chiedere nulla in cambio.
Addio, Sherlock.

 
***
 
Arrancò appoggiandosi alle pareti del corridoio, quasi barcollando, oppresso da tutto quello che era stato e che avrebbe potuto essere ma che non sarebbe stato. Le sue dita sfioravano cornici di foto dai ricordi felici, forse colorate di una serenità tale da essere falsa. Entrò in camera da letto, corse alla finestra, barricò la luce mediante la persiana, sbatté la porta, rimase nel buio. Respirò quell’oscurità come una rosa dai petali neri.
La memoria lo guidò fino all’armadio, spinse le sue mani ad aprire gli sportelli di legno, incoraggiò le dita ad affondare nella pila ordinata di vestiti piegati e freschi di lavatura, condusse i polpastrelli a sfiorare una vecchia scatola di latta. La tirò fuori con la stessa solennità con cui la regina aveva collocato i suoi gioielli dietro una teca dal vetro infrangibile della torre di Londra, e cacciò via il leggero strato di pulviscoli che la velavano, allontanando dal passato ferroso la ruggine.
L’aveva sempre tenuta lì, al riparo da tutto e da tutti, confidando che avrebbe avuto la forza di non avvicinarsi più, di non aprire una seconda volta il vaso di Pandora, ma quel giorno ne aveva bisogno. Era una necessità a cui non poteva sottrarsi. E fu con la consapevolezza di star sbagliando, di star commettendo un errore che aprì la scatola, liberando i mali del mondo.
Sopra a tutto, un pezzo di stoffa dai contorni bruciacchiati, laceri. La stese sul letto, lisciandola con dolci carezze, affogando in un turbinio di sensazioni discordanti. Non un pezzo di stoffa. Una maglia. La maglia. Quella maglia.
L’aveva guardata bruciare con il cuore infranto, aspettando solo il momento in cui Sherlock se ne sarebbe andato, per correre a riprenderla, a salvarla. E così era stato: non appena Holmes era ritornato alla macchina, John si era catapultato in direzione del falò, aveva immerso il braccio nel fuoco, aveva avvertito il dolore del calore rovente delle fiamme e aveva tratto in salvo la maglia. Non era riuscito a lasciarsi ogni cosa completamente alle spalle. Non ce l’aveva fatta.
Sorrise tra sé e sé ricordando quella magica notte che avrebbe decretato la loro salvezza o la totale rovina, se non fosse successo tutto quello che era successo. Si passò una mano sul volto, pensando alla sua vita dopo Sherlock. Una vita che era cominciata come le grigie mattine di Londra: con pesanti nuvole e venti gelidi.
Si svegliava, andava a lavoro, andava alla fattoria, tornava a casa, andava a dormire, andava a lavoro, andava alla fattoria e così via… Un’esistenza così futile e piatta che molte volte lo aveva spinto ad aggirarsi intorno al 221B di Baker Street, anche solo per sentire l’eco di uno sparo, o l’arcata di un violino, ma le finestre della casa erano orbite vuote di un teschio. Silenziose. Profonde. Senza fine.
Poi era arrivata Mary. Un’infermiera graziosa, da uno sbarazzino caschetto biondo e due occhi che brillavano come lucciole nella notte. Era gentile, lo aveva invitato a prendere un caffè un paio di volte, avevano a lungo parlato di quello di cui le persone comuni parlano, ridendo per stupidi aneddoti a cui solitamente avrebbe risposto con un’arcata scettica del sopracciglio… Aveva dimenticato di essere un Incompleto.
E allora era giunta. La voglia di ricominciare. La brama di rifare tutto da capo. Il desiderio di essere come tutti gli altri. Di non essere diverso. Con Mary, tutto era diventato leggero. La ferita inflitta da Sherlock era sempre rimasta aperta, certo, a volte sanguinava, ma il dolore – piano piano – era passato, ed era subentrata la rabbia, il senso di vittoria nel vedere la casa del 221B misera e infelice, mentre passeggiava per Baker Street mano nella mano con la cosa migliore che potesse accadergli in quel momento.
I mesi erano passati ovattati. Avevano comprato la villetta, deciso di costruire una vita assieme, organizzato il matrimonio e tutto il resto. Mary gli aveva lanciato un salvagente mentre lui era in mare aperto, vittima di una terribile tempesta, salvandolo dal canto delle sirene che lo circondavano. Salvandolo da se stesso e da Sherlock.
Tenerle segreta l’attività alla fattoria era stato molto più difficile che chiederle di sposarlo. Era riuscito ad organizzare gli orari in modo tale da avere il tempo necessario per sgattaiolare via, all’insaputa della fidanzata, per recarsi dai bisognosi. E altrettanto difficile era stato il trovare un rifugio sicuro in sostituzione alla fattoria del Sussex. Aveva perlustrato Londra metro per metro, ma alla fine ce l’aveva fatta: aveva scovato un posticino perfetto nel quartiere di Peckham, un vecchio lanificio in disuso, abbastanza discosto da non essere notato, ma non troppo per risultare sospetto.
Si era impegnato tanto sia nella vita privata sia nella carriera sia nel lavoro clandestino per conto degli Incompleti che John era arrivato a un punto in cui non si riconosceva più. Era diventato tipo da lunghe coccole sul divano di fronte a noiosi film d’amore, da visite per contrastare emorroidi, o testicoli ritenuti… Insomma, John Watson, il vero John Watson, quello amante del pericolo, attratto dalle avventure, affamato di adrenalina, era completamente sbiadito dietro la figura di una persona che non esisteva davvero.
E grazie alla visita di Sherlock, ora lo sapeva. Non aveva affatto voltato pagina. Non aveva realmente dimenticato ciò che era accaduto, né ciò che aveva provato. E Sherlock… Sherlock si era mostrato così indifeso, così fragile, così spezzato che John faticava a focalizzare l’immagine di quegli occhi feriti. E poi, quando gli aveva preso la mano e gliel’aveva stretta con così tanto amore…
“Sono a casa!”
John sussultò e richiuse in fretta la scatola, gettandoci dentro – in malo modo – la maglia, e ficcando il contenitore sotto al letto, appena in tempo, perché un secondo più tardi nel rettangolo della porta comparve la figura di Mary.
“Ehi!” esclamò John andandole incontro. “Ti aspettavo un’ora fa.”
“Tesoro, devi imparare a controllare i messaggi che la tua futura moglie ti invia più regolarmente.”
Watson sfilò dalla tasca dei pantaloni il cellulare e si rese conto che in effetti Mary gli aveva scritto più di un sms per avvisarlo del suo ritardo. “Cavolo, Mary, scusa, non mi sono proprio accorto.”
Mary scrollò le spalle e appoggiò la borsa sul letto, sfilandosi il cappotto con un sospiro affaticato. “Che giornata!” borbottò lasciandosi cadere sul morbido materasso, strofinandosi gli occhi con ambo le mani.
“A chi lo dici…”
“Ma se oggi avevi il giorno libero!” lo rimbeccò lei bonariamente dando un po’ di colpetti alla parte del letto accanto a sé, per invitare il fidanzato ad accomodarcisi.
“Lo so, lo so, è che… pensavo sarebbe stato un giorno libero più tranquillo.” osservò John sdraiandosi accanto a lei e tenendo gli occhi fissi sul soffitto.
Mary si irrigidì appena e appoggiò la guancia sul palmo della mano, fissandolo con aria interrogativa. “Mi vuoi dire che è successo?”
“Diciamo che… ho ricevuto una visita inaspettata.”
“I tuoi. Sono venuti i tuoi, non è vero?”
“Ma no…”
“Hanno saputo che non li abbiamo invitati al matrimonio e ora ne fanno una questione di principio!”
“Non erano loro, davvero…”
“Te l’avevo detto io che era meglio contattarli! In fondo ti sposi solo una volta nella vita e anche se con i tuoi genitori non hai chissà che rapporto…”
“Mary!” la interruppe bruscamente John. “Non erano i miei, sul serio.”
“Ah.” disse in un soffio lei. “E allora chi?”
Watson distolse lo sguardo dagli occhi della fidanzata, mentre prendeva un respiro profondo. “Ti ho parlato di Sherlock, non è così?”
“Il tuo vecchio amico con cui hai abitato per un po’ di tempo e hai avuto quella brutta lite?”
“Lui, sì. Bè, oggi è venuto e… abbiamo parlato.”
L’espressione sul viso di Mary si fece attenta e curiosa. “Di che cosa?”
“Dei vecchi tempi, dei vecchi rancori… Di te.”
Lei sorrise, e allungò una mano verso il viso del medico, carezzandogli lentamente la guancia. “E che cosa gli hai detto di me, esattamente? Che sono la donna migliore che tu abbia mai conosciuto? Che sei innamorato pazzo di me?”
“Che sei la donna più modesta e seria del mondo.” ironizzò lui scoccandole un bacio sulla guancia, prima di alzarsi e dirigersi in corridoio. “Vogliamo aspettare ancora qualche ora per mettere sotto i denti qualcosa o possiamo cenare?”
“Non possiamo farlo dopo? Che fretta c’è? Stiamo qui ancora un po’?”
John tornò da lei e le prese le mani nelle sue, tirandola in piedi con forza, ridendo. “Coraggio, futura signora Watson, lo stomaco del tuo futuro marito implora pietà!”
“Va bene, va bene!”
Ormai era questa la normalità di John. Una donna che gli dava tutto ciò che poteva desiderare, una casa, un lavoro, stabilità. Forse era tutto troppo banale per il vecchio lui, ma per quello nuovo andava benissimo. La banalità era perfetta.
 
Sherlock scese dal taxi velocemente, lasciando una seconda volta a Lestrade il compito di pagare l’autista. Non appena, però, giunse davanti alla porta si rese conto di un fatto assai spiacevole: il battiporta era dritto. E questo voleva dire solo una cosa.
Salì le scale in fretta, contenendo l’impulso di sbraitare a suo fratello di andarsene non appena l’avesse visto, perché in fondo era per mezzo del sangue che li accomunava che le crudeltà nei confronti di Sherlock erano cominciate.
“Che cosa ci fai qui?” ringhiò alla vista del sorrisetto ferino del fratello.
“Buona sera, fratellino. Sono stato informato della tua dimissione dall’ospedale, come ti senti?”
“Starei meglio senza averti qui fra i piedi.”
Mycroft fece ruotare il suo inseparabile ombrello che portava con sé non tanto per proteggersi dalla pioggia, quanto da spiacevoli eventi di svariata natura. “Quanta freddezza, Sherlock, sono solo venuto a farti un saluto da buon fratello maggiore.”
“Cosa assai improbabile, Mycroft. Che vuoi?”
Il capo dell’Inquisizione sospirò amaramente. “Sempre dritti al punto, eh? Bene, non fai che risparmiarmi del tempo prezioso. Ricordi quel progetto di cui ti parlai l’anno scorso?”
“Quello che mi rifiutai di portare a compimento? Sì, perfettamente.”
“Abbiamo trovato una persona di fiducia, ciononostante abbiamo comunque bisogno del parere di un esperto, se capisci ciò che intendo.”
“No.” rispose seccamente Sherlock incrociando le braccia al petto.
“No?”
“No, e ora se non ti dispiace, puoi andartene? Ho bisogno di stare solo.”
Mycroft si alzò controvoglia e superò il fratello con incedere regale e altezzoso, guardandolo dall’alto al basso. “Spero che sia tutto a posto, fratellino. Oltre allo spiacevole fatto dell’incendio. Ricordami, com’è che sei finito in quella fattoria del Sussex?”
Sherlock serrò la mascella e strinse i pugni, assumendo una posizione da combattimento. “Non credo che questi siano affari tuoi, Mycroft.”
“Mi preoccupo solo per te, Sherlock. Costantemente. E mi assicuro… che tu non faccia qualcosa di cui possa pentirti.”
La frase di Mycroft era eloquente, tremendamente. Troppo ben piazzata per essere causale, troppo calibrata per non avere uno scopo preciso. Che cosa significava? Aveva… aveva scoperto qualcosa? Durante tutto quel pandemonio si era perfino scordato dell’Inquisizione e della scure di morte che regnava incessantemente sulla testa sua e di John. 
“Che cosa intendi?”
“Che cosa intendo?”
Sherlock inarcò un sopracciglio, infastidito. “Vuoi davvero fare questo giochetto con me, Mycroft?”
“Che giochetto?”
Quel ghigno lo faceva imbestialire, gl’infiammava le membra di una furia innaturale, gli attraversava le vene, rosso, mescolandosi al rosso del sangue. In quel riso maligno era racchiusa l’intera esistenza di Mycroft Holmes. Della famiglia Holmes in generale.
Era la classica espressione vincente di un predatore che non fa altro che aspettare che la preda si tradisca da sola, che vada di sua sponte incontro alle sue fauci, un predatore troppo altezzoso per sporcarsi le mani in prima persona.
In quel sorriso feroce vi era tutto il principio che Darwin aveva elaborato senza pensare che la sua stupida Selezione Naturale avrebbe portato a una tale situazione, a un tale universo. Il più forte avrebbe sempre trionfato sul più debole. Sempre. E in questo caso, il più debole era proprio Sherlock. Una volta non era così. Una volta non era inferiore al fratello. Ma ora… ora aveva un punto debole, un tallone d’Achille. E questo lo rendeva vulnerabile, troppo vulnerabile.
“Ti lascio riposare, fratello caro, non vorrei che per colpa mia tu possa crollare a terra senza sensi. A presto.”
E detto questo, sparì, scendendo elegantemente le scale com’era solito fare. Sherlock rimase immobile, al centro della stanza, le braccia abbandonate lungo i fianchi e un senso d’impotenza in corpo. Poi, tutti gli avvenimenti del giorno gli piombarono addosso con una gravità che gli mozzava il fiato. Saettò verso il tavolo del salotto dove una volta lui e John consumavano la colazione in silenzio e lo rovesciò con un urlo frustrato. Poi fu la volta della libreria, da cui i testi di medicina e i gialli erano scomparsi. Il rumore dei tomi a terra e delle ampolle con strani composti risuonò in tutto l’appartamento, colmando il vuoto che dominava ormai come signore e padrone.
Quando la signora Hudson mise piede nell’appartamento, tutto ciò che trovò furono cocci, pagine strappate, e un uomo distrutto.

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Capitolo 9
*** CAPITOLO 8 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 8
 

Il giardino risuonava del dolce gracchiare delle cicale laboriose che balzavano di fiore in fiore; le variopinte corolle floreali punteggiavano l’erba fresca di rugiada e ronzanti api aleggiavano su di esse, contendendosi a vicenda il posto d’onore o con alcune farfalle altezzose che si libravano leggiadre in aria. Il cantare degli uccelli, i raggi abbacinanti del sole, le seggiole di vimini che accompagnavano la via di ciottoli adamantini verso l’altare in legno… Tutto era perfetto.
John si muoveva nervosamente sul posto, attendendo che la sua sposa arrivasse, ammantata di bianco, lanciando occhiate ansiose al sacerdote che se ne stava ritto e con un sorriso forzato dietro l’altare.
“E’ il grande giorno, figliolo.” osservò quello con voce pacata.
“Eh, già…”
“Il matrimonio… la fine di un capitolo e l’inizio di uno nuovo.”
“Proprio così, sì…”
“E’ un passo importante da fare, richiede consapevolezza, ma soprattutto amore.”
“Amore, esatto…”
Finalmente, da un sentiero alberato, emerse la figura angelica di Mary, con un sorriso sognante sulle labbra e un bouquet floreale in mano. John si trovò a sorridere a quella visione, a tanto incanto…
“Il matrimonio cambia le persone.” continuò il prete mentre la sposa metteva piede sul viale di ciottoli.
“Senza dubbio.”
“All’inizio, tutto sembra facile, ma più si va avanti, più le cose si complicano e vengono a galla vecchie questioni in sospeso, parole non dette… sentimenti reclusi.”
“Mi scusi, non so se si è reso conto che la sposa sta arrivando.” lo rimbeccò John, con gli occhi fissi sulla sfilata nuziale di Mary.
“…Purtroppo, basta poco, pochissimo perché ci si renda conto di aver commesso un’emerita cazzata. Vero John?”
A quelle parole, John – completamente sbigottito – si voltò verso il prete. “Ma le pare il caso di…”
Si bloccò e ogni altra cosa sembrò rallentare di colpo, come rispecchiando ciò che gli stava succedendo dentro. Dietro di lui non c’era un sacerdote, né un alto funzionario col compito di celebrare le nozze, ma una ragazza con i jeans strappati e una maglietta nera. John guardò quell’immagine come se fosse un miracolo divino, un dono arrivato dal cielo, o magari un miraggio effimero, che giocava col peso che portava sulla coscienza e per questo lo derideva.
“Harriet.”
“Fratellino.”
Accanto a lui, comparve la figura raggiante di Mary che lo guardò stranita. “Tutto bene?”
John distolse lo sguardo dalla fidanzata e lo riportò nel punto in cui la sorella stava ancora immobile.
“John?” lo chiamò di nuovo la sposa. “John?”
Improvvisamente, tutto si fermò: a qualche metro dalle loro teste, corpi di uccelli in volo erano sospesi, con le ali ancora in tensione, così come il getto d’acqua della fontana, le mani degli invitanti che fino a pochi secondi prima avevano applaudito all’arrivo della sposa, e persino Mary. Tutto era immobile. Solo John sembrava immune a quella sorta d’incantesimo. John e Harriet.
“Io non capisco…”
“Il matrimonio il più bello, ma al contempo arduo giuramento: promettersi fedeltà, rispetto, amore eterno, è quanto di più vero e nobile e puro esiste in questo mondo, non credi?”
John si limitò ad annuire, ammaliato dallo sguardo magnetico della sorella. Era esattamente come tanti e tanti anni prima, quando l’aveva lasciata andare, quando l’aveva allontanata, quando aveva giudicato il suo essere diversa.
“Sei hai scelto di sposare questa donna, vuol dire che il tuo amore per lei è così grande da poter superare tutto, ogni ostacolo, ogni asperità… Tutto. Liti, incomprensioni, paure, distanze, la morte…”
Harriet girò attorno all’altare e si affiancò a Mary, ancora paralizzata nel suo sguardo sospettoso verso il fidanzato. Con un movimento fluido e aggraziato, fece ricadere il vaporoso velo bianco sul viso della sposa.
“Guardala, John. Che cosa vedi?”
“Che cosa vedo, dici?” Un cenno affermativo del capo da parte della sorella lo spinse a rispondere. “Vedo… la mia futura moglie. Con il viso nascosto dal velo.”
“Guarda oltre il velo, John. Che cosa c’è oltre il velo?” lo incalzò Harriet.
“C’è una donna solare, divertente, che mi fa ridere e riesce sempre a trovare la cosa giusta da dire.”
“Cos’altro?”
“C’è una donna che mi ama, che ha avuto la pazzia di accettare di sposarmi. Una donna perfetta, una donna da amare.”
“Ma?”
John spostò il suo sguardo da Mary alla sorella. “Ma cosa?”
“Andiamo, John, non sono né Mary né Sherlock. Da dove mi trovo ora, riesco a vedere tutto e ti conosco meglio di chiunque altro.”
Quelle parole lo riportarono alla realtà. Si guardò intorno come se utilizzasse gli occhi per la prima volta in vita sua. “Non è reale. Tutto questo. Da dove ti trovi… Tu non sei reale.”
Lo sguardo di Harriet venne mascherato dalla tristezza. “No, John. Niente di tutto ciò è reale, ma tu… tu sì. Il tuo cuore, le parole che hai dentro e premono per uscire, i tuoi veri sentimenti… Tu sei reale e io sono qui, accanto a te.”
“Ho paura, Harriet.”
“Paura di che cosa, John?”
Il fratello si morse il labbro, trattenendo l’ondata di parole che cercavano di fuoriuscire senza controllo e senza possibile ritorno. “Di star commettendo una cazzata.” rispose riprendendo le parole del prete – o di Harriet – e sorridendo amaramente. “Paura che tutto questo che sento non se ne andrà con una semplice fede al dito. Paura di ciò che provo davvero, di ciò che desidero.”
“E che cos’è questa cosa che desideri. Chi è?”
John si premette una mano sulla fronte e abbassò lo sguardo inspirando ed espirando convulsamente, trattenendo l’intrattenibile e soffrendo nel farlo.
“Dillo, John! Chi è!?”
“SHERLOCK!”
Il suo grido echeggiò fra le seggiole, fra gli invitati, fra le fronde rigogliose degli alberi, e ancora più in là, volando fino all’azzurro limpido del cielo, fra le nubi candide, perdendosi nell’orizzonte.
La mano di Harriet accarezzò dolcemente la sua spalla. “Bravo, fratellino mio. Bravo. Adesso sai che cos’è giusto fare.”
John si abbandonò fra le braccia morbide della sorella, assaporando gli antichi momenti in cui da piccolo si svegliava in preda al panico a causa di un incubo e Harry lo stringeva a sé, rassicurandolo e sussurrandogli che andava tutto bene. E a quel punto, la paura passava e tornava il sonno. Ma in quel momento tutto era diverso, completamente. La posta in gioco non erano poche ore di sonno ma un’intera esistenza.
“Come hai fatto, Harry? Come hai fatto a trovare la forza di accettare cos’eri e di scappare, senza sapere dove quella decisione ti avrebbe portato? Come hai fatto a fidarti di Clara, a non aver paura dei vostri sentimenti?”
“Come ho fatto, dici? Bè, avevo un fratello super figo che mi ha posto di fronte al bivio che fino a quel momento non avevo fatto altro che aggirare.”
“Ma se ti ho fatto soffrire come un cane.” replicò John.
“Un po’, è vero. Ma è stata la scossa che mi è servita per accettare che vivevo in un mondo di idioti e che non ero io la sbagliata, ma loro.”
“E adesso? Adesso che devo fare?”
Harry sospirò amaramente e puntò gli occhi su una farfalla librata in aria, immobile. “Adesso sta a te: devi capire che cos’è meglio per te, per il tuo futuro.”
“E se io… se io sapessi di che cosa ho bisogno ma conoscessi anche le difficoltà a cui andrei incontro?”
La sorella si scostò appena e gli sorrise amorevolmente. “In cuor tuo, hai già deciso, fratellino mio. E so che può sembrarti la classica frase da film, ma… Ascolta il tuo cuore, John.”
John sospirò e guardò Mary come se non l’avesse mai vista veramente: le voleva bene, era una donna con cui avrebbe potuto essere felice, ma niente più… Non c’era mistero, né attrazione, né complicazioni… niente.
Ad un tratto, un ronzio sommesso lo fece destare dai suoi pensieri. Un’ape aveva ripreso a svolazzargli attaccata ad un orecchio. Cercò di scacciarla con un movimento secco della mano, ma quella ritornò con insistenza, seguita da un’altra e da un’altra ancora.
“Ma che diavolo… Harry?”
Quando guardò in direzione della sorella, si accorse che era sparita e che Mary si era rianimata improvvisamente. “Mio Dio, John!”
Ma lui era troppo preso dal cercare con lo sguardo la sorella fra la massa degli invitati che gli si stava accalcando intorno, e dentro di sé urlava il nome della sorella, la pregava di restare ancora pochi istanti per chiederle scusa per tutte le cattiverie che quella sera le aveva gridato, per cercare di aggiustare la marea di errori che con lei aveva commesso, per dirle che le mancava e che non c’era giorno in cui non desiderasse averla al suo fianco.
Ma Harriet era andata. Per sempre.
 
***
 
Si svegliò di soprassalto, boccheggiante e madido di sudore. La testa gli pulsava incessantemente e gli occhi gli bruciavano a causa della luce. La figura di Harriet era così vivida, le sue parole così impresse nella mente, come un tatuaggio sulla pelle.
Si guardò intorno ancora intontito per quella visione così maledettamente reale e si scoprì essere in compagnia di Mike e di Greg. Il primo era completamente abbandonato su una scomoda brandina, ancora addormentato, l’altro aveva la schiena appoggiata contro le freddi e grigie pareti dell’antro, con il volto cinereo e l’espressione di chi ha dormito da schifo.
“Dove siamo?” mugugnò John passandosi una mano sulla faccia.
“A Scotland Yard. Credo di essere il primo poliziotto che viene arrestato dai suoi stessi colleghi. Cristo, che mal di testa!”
“Cos’abbiamo combinato?”
“Disturbo della quiete pubblica… Abbiamo cantato un po’ troppo forte e quei poveri bastardi degli abitanti del quartiere hanno chiamato la polizia.”
“Fantastico… Che addio al celibato pessimo… Non potrebbe andare peggio…”
“Oh, sì, invece! C’è una cosa ben peggiore dell’essere sbattuti al fresco la notte del celibato.” lo contradisse Lestrade.
“Cioè?”
“Essere sbattuti al fresco due ore prima del tuo matrimonio.”
John si alzò di scatto imprecando, e prese ad urlare alla guardia di servizio di farlo uscire immediatamente. Nello schiamazzo generale, Stanford cadde dal letto, suscitando un’ilarità generale che venne spazzata via nel momento in cui Anderson si presentò riferendo loro che ci sarebbe voluto ancora un po’ prima di ricevere il permesso di rilasciarli.
Quel giorno incominciava proprio che era una meraviglia!
 
***

 
Tristi gocce di pioggia ticchettavano sul tetto della chiesa, scivolando lungo le tegole in ruscelli sciabordanti che ricadevano sulle aiuole che abbracciavano il gotico edificio in cui erano stipate circa un centinaio di persone in fibrillazione.
Mike Stanford era appoggiato contro l’organo, con le palpebre che minacciavano di richiudersi sugli occhi cerchiati da due profonde borse.
“Dannazione, Mike, riprenditi!” lo rimbeccò Lestrade comparendogli improvvisamente davanti, facendolo sussultare. “Siamo i due testimoni, che figura ci facciamo?”
“Sono stravolto, Greg…” si lamentò però l’altro massaggiandosi dolorosamente il collo, memore della scomoda nottata in gattabuia.
“Sembri un sessantenne. Guarda John come si è ripreso!”
Gli occhi di Stanford corsero verso l’altare, dove Watson stava impettito e teso come una corda di violino. Un velo di tristezza gli mascherò le iridi a quella visione: non aveva ancora avuto il coraggio di dire a John che era stato proprio lui a mettere Sherlock e l’Inquisizione sulle sue tracce. Con Holmes si era visto un paio di volte dopo quel primo colloquio in cui lui aveva fatto l’infame nei confronti di un amico. Non aveva capito bene gli sviluppi della storia, ma Sherlock lo aveva rassicurato sostenendo che era tutto apposto. O almeno, finché John non se n’era andato da Baker Street. E quando Watson gli aveva chiesto di essere uno dei suoi testimoni, lui invece di vuotare il sacco e confidagli tutta la verità, lo aveva abbracciato e si era commosso. Si faceva veramente schifo…
I suoi pensieri vennero interrotti dall’ennesimo rimprovero di Lestrade, misto ad un ulteriore complimento nei confronti dello sposo. “Ma questo è il suo gran giorno, quindi è normale che sia più sveglio.”
“Già, il suo gran giorno…” borbottò Greg tra sé e sé, avvertendo l’impulso di avvicinarsi allo sposo. Appena lo vide arrivare, lo sguardo di John si fece cupo, come intuendo la ragione di quell’avvicinamento improvviso.
“Emozionato?”
“Direi di sì.”
Il detective annuì ripetutamente, sorridendo come se due morse gli stessero tirando gli angoli della bocca, e lo sposo non fece troppa difficoltà per riconoscerlo.
“Che c’è?” chiese infatti quest’ultimo, sulla difensiva.
“No, niente, niente…”
“Greg!”
“Cristo, John, sei sicuro di questa scelta?”
John alzò gli occhi al cielo e sfrecciò dalla parte opposta a quella dov’era l’amico che però gli corse dietro, per niente scoraggiato.
“Io sono preoccupato, John. Per te e… anche per quello stupido di uno Sherlock.”
“Sherlock se la caverà benissimo.” ribatté Watson con più amarezza nel cuore di quella che avrebbe voluto avere.
Greg alzò le mani al cielo in un gesto esasperato. “Non puoi saperlo! Non voglio che abbia una nuova ricaduta proprio ora che…”
Le parole gli morirono in bocca quando si rese conto di quello che era appena uscito dalle sue labbra. John lo fissava con occhi sgranati e confusi, la testa lievemente inclinata di lato per poter scrutare meglio il volto dell’amico.
“Che vuoi dire, Greg?”
“Ma no, niente…”
“Che intendi con una ricaduta?”
Lestrade fece correre lo sguardo intorno a sé, cercando una qualche ancora di salvezza, ma nessuno sembrava interessato a fargli da salvagente.
“Sherlock non voleva che tu lo sapessi…”
“Che io sapessi cosa?”
Il detective sospirò rassegnato, massaggiandosi nervosamente la radice del naso. “In questi due anni ne ha passate tante. Ha rischiato anche grosso. Non so cosa gli sia passato per la testa, ma… ha cominciato a drogarsi, proprio come quando era un ragazzino. Trovo davvero incredibile il fatto che sia ancora vivo. Avrebbe dovuto restarci secco per un’overdose da molto tempo.”
John corrugò appena la fronte, e suoni atoni indistinti fuoriuscirono dalla sua bocca. Una volta, lui e Sherlock avevano affrontato l’argomento droga, e sì, sapeva degli stravizi di gioventù del coinquilino, ma non credeva che avrebbe potuto spingersi così oltre da rischiare di…
“John!”
Una mano candida e affusolata strisciò lungo la sua spalla. Nel suo campo visivo comparve il sorriso solare di Clara. Sembrava una persona completamente diversa da quella che era arrivata alla fattoria due anni prima. I capelli prima a caschetto erano ora raccolti in un grazioso chignon, le labbra sottili velate da un leggero strato di rossetto e la corporatura prestante vestita con un abito lilla uguale per tutte le damigelle della sposa.
“Allora, ti senti carico? Sei pronto a darci dentro con la tua Mary?”
Lestrade ne approfittò per sgattaiolare via in direzione di Mike che nel mentre si era abbandonato nuovamente contro l’organo.
“Noto con piacere che in questo giorno almeno tu sei normale.” osservò lo sposo tormentandosi le mani.
“Normale in che senso?”
“Normale che appoggi questa decisione di sposarmi, di costruirmi un futuro con Mary…”
“Oh, no, ma io non ti appoggio affatto. Anzi, secondo me stai facendo una grandissima…”
“Grazie, hai reso il concetto.” la interruppe John premendole una mano sulle labbra. “Ma io ti prego di fidarti di me, okay?”
Non sapeva come facesse Clara a sapere di lui e di Sherlock, probabilmente era una qualche abilità che lo stare con Harriet le aveva trasmesso. Non avevano neanche mai affrontato l’argomento, ma qualcosa gli diceva che lei sapeva.
“Non ti arrabbi se ti dico che non mi fido affatto, vero?”
“Sei molto d’aiuto, davvero.”
Clara sospirò, incrociando le braccia al petto. “E’ quello che ti direbbe Harriet se fosse qui, ma dato che non c’è te lo dico io.”
Il sogno gli tornò in mente con una vividezza che lo fece rabbrividire. Il prete, Mary, Harry, il suo desiderio che era riuscito ad esprimere solo nell’irrealtà…
I suoi pensieri vennero interrotti da Janine, la seconda damigella di Mary, che si frappose tra loro, respirando freneticamente. “E’ arrivata!”
John si accorse solo allora che il prete e i suoi testimoni stavano cercando di attirare la sua attenzione sbracciando convulsamente. Fece per raggiungerli ma la mano di Clara gli ghermì il braccio e lo tirò a un soffio dal suo viso. “Ascolta il tuo cuore, John.”
Ma di tutte le maledettissime frasi proverbiali e celebri di cui la gente si riempiva continuamente la bocca, proprio quella doveva dire Clara?
John si sottrasse a quella stretta troppo sicura e stabile in confronto a com’era lui internamente, e con un paio di balzi fu di nuovo davanti all’altare.
“E’ il grande giorno, figliolo.” mormorò il prete dietro di lui.
John si voltò appena e lo squadrò come se da un momento all’altro potesse essere rimpiazzato da sua sorella. “Arguti, voi preti.”
Il viso del sacerdote venne riempito di sdegno e stupore al tempo stesso, ma decise di tacere e attendere l’arrivo della sposa.
Mary non giunse dalle porte principali, non percorse la navata centrale, ma sbucò dalla piccola sacrestia laterale che dava sulla chiesa. Si era cambiata lì onde evitare che l’abito da sposa potesse bagnarsi o peggio macchiarsi. Nonostante la sua entrata non fosse quella che tutte le donne sognano – in grande stile, sfilando fra le panche ornate con bouquet variopinti, con gli occhi ammirati di tutti addosso – la futura signora Watson era bellissima e immensamente felice.
Appena John scorse la sua figura nell’ampia chiesa, un pensiero svettò nella sua mente: “Andrà tutto bene, puoi farcela, John.” Mary avanzò appena, facendo un passo piccolo, ma che a Watson provocò una sensazione di claustrofobia ineluttabile, come se fosse in trappola. Una percezione peggiore di quella che si era impossessata di lui quando era stato rinchiuso sotto la fattoria assieme a Sherlock.
“Sherlock…”
Secondo passo di Mary.
“Chissà che starà facendo adesso.”
Terzo passo.
“E se avesse deciso di buttarsi nuovamente sulla droga?”
Quarto passo.
“Non ti deve importare quello che fa Sherlock. E poi, se la caverà."
Quinto passo.
“Ce la farai…”
Sesto passo.
“Non sarà così male.”
Settimo.
“Non è forse quello che ho deciso?”
Ottavo.
“Non è forse la scelta che… mi renderà felice?”
Nono.
“Non lo è.”
Decimo.
Il braccio di Mary si intrecciò al suo e lo strinse con forza, sorridendo come mai aveva sorriso. “Ciao quasi marito.” gli sussurrò all’orecchio.
John forzò una mezza risata che si spense amaramente in bocca. Avrebbe voluto dirle che era stupenda, che quello era il giorno più bello della sua vita, che la amava con tutto se stesso… Ma avrebbe mentito. Perché non era lei che voleva. Ma era lei che aveva scelto. Ed era troppo tardi per tornare indietro.
Il sacerdote allargò le braccia, tendendole verso l’alto e enunciando la consueta formula di accoglienza al rito.
“Bentrovati a tutti e a tutte! Quest’oggi è un giorno speciale, perché davanti a Dio si uniscono in matrimonio due giovani vite. E noi qui riuniti di fronte a questo magnifico giuramento, non possiamo fare altro che gioire e ringraziare questi due sposi per mantenere intatta la purità di questo Paese che rischia di venire sopraffatto dal male di esseri insulsi quali gli Incompleti.”
John deglutì rumorosamente, frenando l’istinto di assestare un pugno allo stomaco di quel vecchio. “Com’è tradizione dalla conclusione della grande guerra Jihadista, pronunciamo assieme ai due futuri coniugi le formule prescritte dalla sacra Inquisizione.”
Seguì un silenzio insulso, uno di quelli che seguono solo una battuta ad effetto di un’opera teatrale. Tutti erano ormai semplici burattini privati del buon senso e della propria volontà, che seguivano meccanicamente gli ordini e il volere di menti superiori e potenti. Erano in un macabro teatrino a forma di mongolfiera in cui le zavorre venivano eliminate senza indugi.
“John e Mary, in rappresentanza di Dio e di tutta l’assemblea degli Inquisitori io vi chiedo: siete venuti a contrarre matrimonio in piena libertà e consapevoli del significato della vostra decisione?”
“Sì.” risposero in coro i due sposi.
“No.” urlò il cuore di John.
“Siete disposti ad accogliere con amore i figli che Dio vorrà donarvi e a educarli secondo la legge di Cristo e dell’Inquisizione?”
“Sì.”
“No.”
“Siete disposti, seguendo la via del Matrimonio, ad amarvi e a onorarvi l'un l'altro per tutta la vita?”
“Sì.”
Mary si voltò verso John con sguardo frastornato. Una sola voce aveva pronunciato quel , e non era stata quella dello sposo. “John?”
“Mmh?”
“Amore, dovresti anche tu dire di sì.” lo incoraggiò Mary lanciando uno sguardo apprensivo verso il sacerdote che rispose con un cenno pacato del capo.
“Ah, giusto.” sussultò John allora. Si schiarì ripetutamente la gola, ripetendo dentro di sé la formula del celebrante, scandendo parola per parola, assaporando la sensazione che esse gl’infondevano. Bella, bellissima. Amarsi e onorarsi per tutta la vita… Non ce l’avrebbe mai fatta ad amare in questo modo. Anzi, non ce l’avrebbe mai fatta ad amare Mary in questo modo.
“Certo, sì…”
“No.”
Non poteva continuare così. Non poteva continuare a mentire a se stesso, a Mary, a Greg e a Clara.
“Molto bene. Prima di procedere chiedo alla prima damigella della sposa di porgere le sacre fedi forgiate con l’oro che l’Inquisizione mette regolarmente a disposizione dei giusti e onesti abitanti del Paese.”
Clara si avvicinò maestosamente, in mano un cuscino lilla come il suo vestito. E su questo, due anelli. Si fermò accanto al sacerdote che impugnò lo scettro che ormai tutti i preti possedevano e che simboleggiava l’alleanza fra Dio e l’Inquisizione.
“Per mezzo della volontà divina e umana, io benedico le vostre fedi, affinché siano simbolo concreto di un amore puro e duraturo.”
Mary prese quella più grande e la infilò gentilmente nell’anulare della mano aperta di John che tentennò nel fare lo stesso con quella di lei. I due anelli, sovrapposti l’uno all’altro su dita intrecciate assieme, luccicavano mestamente sotto la debole luce del lampadario sopra l’altare.
“Prima di continuare con la sacra cerimonia devo chiedere: c’è qualcuno di voi che si oppone a questo matrimonio ora benedetto da Dio e dall’Inquisizione?”
Un fremito percosse l’aria fra le figure impettite del pubblico. Il silenzio vibrò di attesa. Infine…
“Io.”
Il fremito iniziale venne sostituito da un boato fragoroso di sdegno e interdizione. Tutti gli occhi furono puntati sulla fonte di quella blasfemia. E un paio di occhi, più di tutti, erano sgranati nel constatare chi aveva parlato.
“Ma che stai dicendo?” domandò debolmente Mary scrutando lo sguardo deciso di John. “Che stai dicendo, John!?” ripeté, stavolta alzando la voce e rafforzando la presa sul braccio dello sposo, risultando quasi violenta.
“Ho detto che mi oppongo, Mary.” sentenziò infine Watson, allontanandosi di un passo dalla sposa.
“Perché!?”
“Perché non posso sposarti. Non c’è una ragione vera e propria, solo… Non posso.”
La ragione c’era eccome e portava su di sé un nome ben preciso. Ma non poteva certo esprimerla a parole. Non lì. Non in quel mondo.
“Vuoi dire… Vuoi dire che non ami?”
Lui portò lo sguardo da Mary al sacerdote a Clara che sedeva alle spalle della sposa. Ricordò le parole sue e di Harriet: “Ascolta il tuo cuore.”
“No!” urlò il suo cuore e “No.” sentenziò John Watson. “Non ti amo, Mary. Perdonami.”
“Non è vero, stai mentendo. Abbiamo passato così tanto tempo assieme, tu mi ami, tu devi amarmi, John! Non saremmo qui se non fosse vero.”
John prese le mani di lei nelle sue e le strinse dolcemente come solo un’altra persona al mondo sapeva fare. Non c’era elettricità fra lui e quella donna dai capelli biondi e lo sguardo smarrito, non c’era passione lacerante fra lui e quella donna che stava per fare a pezzi, non c’era amore fra lui e quella donna che stava per abbandonare.
“Perdonami, ma non posso.”
Non aggiunse altro. Si volse e attraversò la navata centrale di corsa, seguito dagli occhi stupiti e forse un po’ indignati degli ospiti che si alzarono come un unico essere e si accalcarono attorno ad una sposa che aveva perso il suo sposo. Nessuno provò a fermarlo, nessuno gli corse dietro, nessuno lo strattonò per la giacca.
Il cielo sopra di lui era grigio, ma se non altro aveva cessato di piovere. Una sensazione di libertà gl’inondò il petto e un unico pensiero si accavallò a tutti gli altri.
Baker Street. Alla svelta.
 
***
 
Stava trafficando in cucina quando avvertì il campanello trillare insistentemente. Quel suono gracchiante la stordì talmente tanto che dovette premersi le mani sulle orecchie.
“Ma insomma! Che cosa c’è di tanto urgente!?” sbottò spalancando la porta con una furia pari solo a quella dell’antico dio del mare e dei terremoti. Sebbene la sua rabbia fosse sul punto di fuoriuscire causando una calamità naturale, nel momento in cui mise a fuoco la persona che le stava davanti, ogni traccia d’ira scomparve dal suo volto. “Oh cielo…”
Appoggiato allo stipite della porta, col fiato corto ed eleganti vestiti in disordine, c’era John Watson.
“John!” esclamò la signora Hudson e fece per fiondarsi verso di lui ma qualcosa sembrò trattenerla. Un ripensamento. “E’ da un po’ che non ci si vede, giovanotto. Qualcosa come… Due anni?”
“Sì, lo so, signora Hudson, ma adesso non credo sia…”
“Non sono sua madre, non ho il diritto di pretendere…”
“No…”
“…Ma almeno una telefonata, John! Una telefonata poteva farmela!” continuò la padrona di casa imperterrita.
“Lo so, signora Hudson, lo so, ma…”
“…E inoltre il litigio fra lei e Sherlock non giustifica il fatto che lei si sia completamente dimenticato…”
“Signora Hudson, per l’amor di Dio, dov’è?!” esplose John scansandola delicatamente – ma con convinzione – dalla porta e scattando verso le scale che conducevano all’appartamento che un tempo condivideva con Sherlock.
“Dov’è chi?”
“Sherlock. Dov’è Sherlock? Devo parargli, è urgente.”
La signora Hudson scrollò appena le spalle e rimase quasi divertita dallo slancio che John stava dimostrando. “E’ uscito una mezz’ora fa. L’ho praticamente cacciato: stava facendo come al solito i suoi esperimenti nella mia cucina e quando ho visto tutto quel disordine l’ho spedito dritto dritto al St Bartholomew’s Hospital.”
“Capisco, grazie infinite.” mormorò John avanzando verso la strada e facendo segno ad un tassista di fermarsi.
“Com’è elegante, oggi, John! Qualcosa di speciale?”
John ridacchiò tra sé e sé. “E’ il giorno più importante della mia vita. Come sto?” chiese poi facendo un giro su se stesso per sfoggiare meglio il suo completo.
“E’ perfetto, caro!” cinguettò la signora Hudson congiungendo le mani emozionata.
Watson balzò sul taxi e si sporse appena verso l’autista che aveva appena alzato leggermente la solita musica patriottica d’elogio alla guerra e all’Inquisizione. “Al Barts, in fretta, per favore.”
Aveva bisogno di arrivare, di scendere da quella macchina e di correre da Sherlock. Ed era felice. Stupidamente felice. Era la cosa più stupida che avesse mai fatto, come aveva detto quella lontana sera al suo coinquilino, una volta tornati stravolti e ubriachi dalla loro gita notturna per i pub di Londra.
“La cosa più stupida, sì…” mormorò tra sé e sé sorridendo come un idiota. Era colpa di Sherlock. Lui era la cosa più stupida esistente ed era lui che gli faceva fare cose stupide. Due poveri stupidi, ecco quello che erano.
Non aveva mai provato un sensazione come quella prima d’ora: mai, in tutta la sua vita, era stato COSI’ sicuro di qualcosa. Mai il suo cuore aveva battuto in quella maniera pazza con cui batteva in quel momento. Nemmeno si accorse che l’auto si era appena accostata al marciapiede di fronte all’ospedale.
Saltò giù e per la foga quasi inciampò nei suoi stessi passi, rotolando a terra. Era sul punto di correre all’entrata della struttura, ma il tassista lo bloccò esigendo – giustamente – un pagamento. Pagamento che per inciso John non aveva. Chi è che tiene il portafogli in tasca il giorno del proprio matrimonio?
“Ascolti, io non ho contanti, non ho nulla.” si giustificò John saltellando sul posto per la fretta.
“Lei mi deve dodici sterline e dodici sterline pretendo.”
“Ha perfettamente ragione.” concordò Watson. “Ma oggi è il giorno del mio matrimonio non posso pagare, davvero. Non potrebbe… essere il suo gentile omaggio allo sposo?”
“Ha voglia di scherzare?”
John sospirò esasperato. “La prego. Chiuda un occhio. Anzi, ha presente la strada in cui sono salito? Io abito lì – o almeno spero che tornerà ad essere così da oggi – e può suonare al campanello quando vuole per avere le sue dodici sterline. Ma la prego, ora è davvero urgente: è questione di vita o di morte!”
Forse era un po’ esagerato, ciononostante il tassista si limitò a squadrarlo sospettoso, quasi avesse davanti un terribile ricercato – che, stando ai fatti, non era una cosa troppo lontana dal vero –, ma alla fine sgommò via, fissando data e ora del pagamento.
Un sorriso sollevato si delineò sulle labbra di John mentre i suoi occhi correvano al profilo dell’ospedale che s’innalzava davanti a lui. Un raggio di sole riuscì a penetrare dalla fitta cappa di nubi e illuminò qualcosa sulla cima dell’edifici, accecandolo per un istante. Quando il grigio delle spumose nuvole inghiottì nuovamente quella precaria fonte di luce, il medico riaprì piano gli occhi e quello che vide lo lasciò sbigottito: seduta sul cornicione del palazzo, stava una figura indistinta. O così sarebbe stato agli occhi di chiunque altro, ma a quelli di John tutto apparve anche troppo chiaro.
“Oddio…Sherlock…”
Restò immobile per alcuni attimi, indeciso sul da farsi: chiamarlo al telefono o raggiungerlo di persona sul tetto? No, non poteva parlare attraverso un insignificante dispositivo che non avrebbe fatto altro che filtrare i loro sentimenti e creare una barriera invalicabile.
Corse all’entrata e attraversò i vari corridoi col cuore in gola, animato dalla paura trepidante che Sherlock avrebbe potuto commettere una qualche sciocchezza proprio mentre lui stava cercando di raggiungerlo. S’infilò fra le porte di un ascensore che proprio in quel momento si stava per chiudere e pigiò il pulsante dell’ultimo piano, incurante di chiedere agli altri presenti la loro destinazione. Non appena si creò un minimo varco fra ascensore ed esterno, John sgusciò fuori e percorse le scale che conducevano alla porta che dava sul tetto balzando i gradini a due a due. Le mani spinsero con foga l’anta dell’ingresso per l’apice del Barts e lui fu finalmente fuori.
La figura di Sherlock, prima pensosa e intenta a scrutare il vuoto, si voltò di scatto, incontrando gli occhi atterriti di John. Quella visione lo spinse a balzare in piedi, rendendo ogni cosa, sotto lo sguardo smarrito di Watson, ancora più drastica: il profilo di Holmes avvolto nel solito cappotto nero e in bilico sul cornicione del tetto gli mozzò il fiato.
“Sherl…”
“Che ci fai qui?” lo interruppe l’altro lanciando uno sguardo al vuoto dietro di sé.
“Che cosa ci fai tu qui? Anzi, , su quel cornicione.” ribatté John cercando di fare un passo in avanti. “Non farlo Sherlock.” E quella che avrebbe voluto sembrare una supplica si tramutò in un ordine fermo e deciso.
“Fare cosa… Oh! Buttarmi di sotto.” Un sorrisetto amaro si profilò sulle labbra dell’ex inquisitore. “Perché no? Sei l’ultima persona che è autorizzata a farmi una richiesta del genere. A proposito, congratulazioni. Era oggi, no?” E i suoi occhi corsero alla fede d’oro che cerchiava l’anulare di Watson.
Lo sguardo del medico seguì quello di Holmes e lo fece rendere conto di non essersi ancora tolto l’anello. “Non è come pensi…”
“Ah no? Non vi siete sposati – tu e quella Mary –?”
John sospirò e si sfilò la fede lentamente e con solennità, studiando il nome inciso su di essa. Così sbagliato, così irreale. “No.” rispose con convinzione.
Sul volto di Sherlock venne dipinta un’espressione incredula. “Non… Tu non…”
“No, non potevo.” John avanzò piano, senza distogliere lo sguardo da quello di Sherlock. “Ora scendi, forza.”
“Perché non potevi?” domandò invece l’ex inquisitore, ignorando il comando del medico. “Che cos’è che ti ha trattenuto?”
“Sherlock, per favore, ne possiamo parlare dopo?”
Sherlock ridacchiò. “Se io sono barcollante tra la vita e la morte, ti senti esposto a dirmi la verità?”
John sbuffò leggermente, abbassando gli occhi. “Lo sai che cos’è stato a fermarmi.”
“No, John, non lo so.”
“Cos’è, un ricatto? Se non te lo dico che fai?”
Sherlock si guardò indietro. “Vuoi provare a scoprirlo?”
Watson si morse un labbro e serrò i pugni. “Senti, trovo difficile questo tipo di cose.”
“Lo so.”
“E va bene: perché, dici? Perché non la amo. E non la amo perché io…” S’interruppe chiudendo gli occhi e prendendo un respiro profondo. “…Perché io amo te.”
Sherlock s’irrigidì improvvisamente e restò così, paralizzato, per diversi secondi. John era davanti a lui, le guance leggermente arrossate, lo smoking spiegazzato, la fede tra due polpastrelli. Il cuore in mano. Glielo stava porgendo, quel cuore, dove dentro c’era racchiusa ogni sua paura, ogni sua incertezza, ogni suo rimpianto e ogni suo infinito granello d’amore che esisteva solo per lui. E lui… Lui c’aveva sperato, quando l’aveva intravisto scendere da un taxi sotto al Barts, quando l’aveva scorto correre dentro l’ospedale con foga, quando la sua figura aveva fatto capolino di fronte a lui. C’aveva sperato quando da quelle labbra leggermente screpolate dal freddo era uscita una rivelazione che l’aveva sconvolto e rallegrato al tempo stesso. C’aveva sperato quando aveva minacciato di fare qualcosa di irreparabile. Ma non credeva che quelle parole sarebbero mai davvero arrivate. Che quel cuore sarebbe mai stato esposto.
Sorrise. Un sorriso sollevato, sincero, incredulo. “Credevo che non l’avresti mai detto.”
“Sì, anch’io.” rispose John imitando quel sorriso. “Ora che l’ho detto… Puoi scendere?” Tese la mano verso Sherlock, e con essa il cuore che aveva appena stretto tra le dita. Holmes osservò quelle dite, ne percorse mentalmente il contorno, immaginò di intrecciarle alle sue…
“Scendo io o sali tu?”
John non ebbe difficoltà nel carpire il sottile tono di sfida celato in quella domanda. “Mi stai sfidando, Holmes?”
“Elementare, Watson.”
Il medico trattenne una sorrisetto e avanzò lentamente, ritirando la mano e fissando quegli occhi in cui era contenuta tutta la bellezza e la magia delle sterminate lande ghiacciate su cui i raggi del sole si specchiano. Arrivò di fronte a Sherlock, ancora in piedi sul cornicione e si fissarono intensamente come se volessero trasmettersi reciprocamente tutto quello che a parole era difficile esprimere. Sarebbe bastato un alito di vento sia per azzerare la distanza che regnava fra loro, sia per spingere Sherlock all’indietro, verso un baratro senza fondo.
E il vento alitò.
John fece appena in tempo a scorgere la figura dell’altro lasciarsi andare all’indietro e nella sua mente già si proiettò la postura scomposta di un corpo sfracellato a terra. Agì d’impulso e completamente alla cieca. Si slanciò in avanti e con un movimento lesto del braccio afferrò la vita di Sherlock e la tirò a sé con quanta forza aveva dentro. Barcollò appena all’indietro, ma appena Holmes mise piede a terra entrambi si stabilizzarono.
“MA CHE DIAVOLO CREDEVI DI FARE?” sbraitò John col fiato corto e il cuore che martellava impazzito al centro del petto.
Ma Sherlock sorrideva. Uno stupidissimo e divertito sorriso. “Te l’avevo detto che era una sfida.”
“E io ti ho mai detto che sei un idiota?”
“Non ricordo bene, può essere…”
“Allora è il caso che te lo dico ora.”
“E dimmelo.”
“Sei un idiota.”
“E io ti amo.
E il vento alitò una seconda volta.
John chiuse dolcemente gli occhi, come un bambino che si rannicchia sotto le coperte e sprofonda in un sonno pesante e gravido di sogni, e si abbandonò a quella sensazione di leggerezza e libertà che le labbra di Sherlock gl’infondevano. Fu qualcosa di eterno e di paradisiaco, qualcosa che nessuno dei due aveva mai sperimentato.
Si staccarono appena, quel tanto che consentiva loro di guardarsi negli occhi e capire se quello era tutto un sogno o se era la realtà.
“E comunque non avevo finito d’insultarti…”
“Lo so, per questo mi è sembrato opportuno interromperti.”
John ridacchiò e scansò via dolcemente il corpo di Sherlock. “L’avresti fatto?”
Holmes inarcò un sopracciglio. “Fatto cosa?”
“Ti saresti buttato?”
“Ah! Ecco, a questo proposito…” Il silenzio che seguì fu denso di tensione. “Non volevo buttarmi, John. Stavo solo prendendo una boccata d’aria. Ho mischiato male due composti e ho scatenato una piccola esplosione più maleodorante che catastrofica, ma ci tengo a precisare che…”
“Aspetta, aspetta, aspetta!” lo bloccò John facendo un passo indietro e squadrandolo dall’alto al basso. “Vuoi dire che mi hai fatto credere di essere disperato solo perché io ti dicessi che ti amo?”
Sherlock ci pensò qualche istante su. “Sì, è così.”
“Ma tu sei un grandissimo…”
“Bugiardo, lo so.”
Il sorriso che gli regalò non poté che spegnere la rabbia del momento che John covava dentro di sé al pensiero di essere stato preso in giro su un fattore così importante. “E quindi, se mi fossi sposato con Mary e avessi preso la mia strada, non l’avresti fatta finita?”
“Cosa? No! Certo che no, John. Pecchi di presunzione: il mondo non gira tutto intorno a te.” lo schernì l’ex inquisitore, tornando però subito serio. “Non avrei mai potuto fare una cosa del genere. Non avrei mai potuto farti una cosa del genere. Se l’avessi fatto, tu avresti trascorso quelli che sarebbero dovuti essere gli anni più belli della tua vita in preda al rimorso e ai sensi di colpa.” Con una mano gli sfiorò una ciocca di capelli ribelli che calava davanti a un occhio. “L’amore non possiede, John. E il mio non è da meno. Se tu fossi stato più felice con Mary o con chiunque altro, allora io l’avrei accettato.”
“L’hai presa da qualche parte.” osservò John puntandogli un indice contro. “La frase, l’hai presa da qualche libro, da qualcosa…”
“Kahlil Gibran, L’amore.” rispose l’altro ridacchiando. “Ti è piaciuta?”
“Puoi fare di meglio, secondo me.” lo contraddisse il medico incrociando le braccia sul petto. “Una delle mie tante fidanzate ne ha scritte una marea di poesie per me e tu scopiazzi frasette da opere di autori celebri.”
“Io non sono una delle tue tante fidanzate, John.”
Lo sguardo di John si addolcì tutto d’un tratto e con espressione lievemente imbarazzata si avvicinò di nuovo a lui. “No, infatti.” Le sue dita si chiusero dolcemente sul polso dell’altro, per poi scendere fino alla mano che prese come aveva preso quella di Mary solo un’ora prima. Ma non c’era niente, niente che poteva equiparare la sensazione che provava in quel momento. “Se lo fossi sarebbe tutto più semplice.”
“Già… Avresti un futuro migliore, più sicuro, senza pericoli.” Sherlock distolse lo sguardo, quasi costernato di essersi rifatto vivo, di averlo messo in pericolo quella notte e di non potergli garantire la vita che meritava.
“Hai perfettamente ragione.” concordò il medico sorridendo tra sé e sé. “Cristo santo, che palle di vita sarebbe stata!”
Sherlock scoppiò a ridere, mentre John posava delicatamente le sue labbra sulle sue, togliendogli il respiro e ogni incertezza.
Qualche goccia di pioggia tintinnò a terra, lasciando però entrambi indifferenti, perché i loro cuori, quel giorno, stavano suonando una melodia dolce e struggente, nostalgica, ricca di amore, che colmava ogni cosa attorno.
Quel giorno, i loro cuori erano custoditi fra le loro dita intrecciate assieme. Al sicuro. Da tutto.
 

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Capitolo 10
*** CAPITOLO 9 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 9
 
 
"Sei proprio sicuro che non abbia bisogna di una mano?”
“No, John, non sono un bambino. Sono perfettamente in grado di preparare la colazione.” ribatté Sherlock stizzito mentre armeggiava pericolosamente con una teiera. E proprio il modo in cui maneggiava quest’ultima era la perfetta contraddizione con quanto aveva detto.
John sospirò amareggiato e tornò a concentrarsi sul giornale, tentando di ignorare i rumori sinistri che provenivano dalla cucina, anche se di tanto in tanto non poteva evitare di lanciare sguardi preoccupati davanti a sé. Quella mattina si erano entrambi svegliati di buon umore e Sherlock aveva deciso di punto in bianco di prendersi il compito di fare la colazione per tutti e due. Quando un rumore di ceramica frantumata a terra raggiunse le sue orecchie John borbottò: “Lo sapevo: dovevo prepararla io.”
Dopo pochi secondi, Sherlock sbucò dalla cucina con una tazza traboccante di the che minacciava di riversarsi da un momento all’altro a terra e battezzare il tappetto a cui la signora Hudson era assai affezionata.
“Ci sono, John, e sai una cosa? Tu dovresti avere più fiducia nelle mie doti di…”
Non riuscì a terminare il solito elogio alla sua persona che almeno una volta al giorno doveva spuntare fuori, interrotto dalla rovinosa caduta della tazza dritta dritta sul povero sventurato che sedeva sulla poltrona.
“Merda! John, mi dispiace… Che idiota! Io… io rimedio subito, aspetta solo un minuto.” E mentre ancora farfugliava scoordinate frasi di venia, si chinò sul coinquilino per constatare i danni inferti dal suo disastroso tentativo culinario. Una macchia di the larga quanto una pozzanghera impregnava i pantaloni di John che stava cercando di rimediare all’accaduto tamponando la stoffa con il giornale che aveva in mano.
Sherlock fece per alzarsi, non perfettamente conscio di quello che avrebbe fatto, ma l’altro lo afferrò per la maglietta blu scuro del pigiama e lo tirò nuovamente verso il basso, sogghignando.
“Sherlock, calmati. Sono solo dei pantaloni, non è così grave. Un piccolo giretto turistico in lavanderia ed è tutto risolto.” disse ridendo di quel ragazzo. Del suo ragazzo. Ancora stentava a crederci. Si sporse in avanti per posare le labbra su quelle dell’oggetto dei suoi desideri proibiti, per lasciarsi trasportare in un mondo diverso. Un mondo tutto loro.
Il solito, placido gorgoglio all’altezza del petto bussò alla porta del suo cuore, facendolo sorridere per l’emozione. Quando si trattava di Sherlock era sempre così: ogni cosa, ogni momento con lui condiviso era un’iniezione di felicità tenue e idilliaca, un qualcosa di inspiegabile a parole. Qualcosa che con Mary non era mai scattato. Il suo ricordo gl’infuse un lieve amarezza: se n’era andato la sera stessa del matrimonio. Aveva preso tutte le sue cose ed era sparito dalla vita di quell’infermiera così com’era apparso: improvvisamente. Le uniche cose che aveva preso erano stati i suoi pochi capi d’abbigliamento, i suoi amati libri e la preziosa scatola senza la quale non poteva stare. Le prime due sere – il tempo necessario perché regolasse ogni cosa con la signora Hudson – le aveva passate in un piccolo B&B non troppo distante da Baker Street, ma ovviamente, appena aveva potuto, si era fiondato fra le mura protettive del 221B.
Sherlock si staccò appena, suscitando un brontolio di disappunto in John. “Avanti, dottore. Ho preparato la colazione perché tu possa servirtene, non per cincischiare.”
“Cincischiare, eh?” ripeté Watson inarcando un sopracciglio, divertito, mentre portava la tazza di the alle labbra. “Sono sicuro che sarà delizioso.”
Non l’avesse mai detto. In mezzo secondo, un potente getto di colore ramato venne spruzzato con precisione millimetrica in faccia a Sherlock.
“Ma è… dolce!”
“Avrei fatto meglio a chiederti dove esattamente tolleri due cucchiaini di zucchero…” borbottò Holmes passandosi la manica della vestaglia sul viso.
Le fragorose risate di entrambi riempirono in breve tempo il salotto, rincorrendosi a vicenda.
“Siamo una coppia di idioti.” sentenziò Sherlock scuotendo la testa esasperato, prima di tornare dalle amate labbra dell’altro.
Amava baciarlo. Amava il momento in cui entrambi potevano smettere di fingere, di ingannare il mondo e loro stessi. Amava quando finalmente potevano spogliarsi di tutte quelle machere che il mondo maledetto in cui vivevano aveva costretto loro ad indossare.
Il bacio continuò per interminabili secondi. Ecco, da quando avevano finalmente aperto i loro cuori l’uno all’altro, non erano mai riusciti ad andare oltre baci come quello. Bellissimi. Ricchi di promesse. Di aspettative.
Ma questo, non perché non volessero o fossero minimamente spaventati. Era più questione di… attesa. Un’attesa che avrebbe reso il fatidico momento ancora più indimenticabile. Solo Dio sa quante volte John avrebbe voluto tuffare le mani tra i riccioli ribelli del suo ormai ex amico e quante volte Sherlock avrebbe bramato sfilare quei ridicoli maglioni dal corpo dell’altro.
Si staccarono appena, aprendo gli occhi quel tanto che consentiva loro di guardarsi e perdersi l’uno nelle iridi dell’altro.
Uno sguardo.
Bastò solo uno sguardo.
Ed entrambi capirono: erano pronti. John si alzò lentamente, prendendo l’altro per i polsi e tirandolo su con sé. Uno di fronte all’altro, occhi negli occhi, si avvicinarono ancora di più, azzerando ogni distanza, ogni spazio fra di loro. Si studiarono per pochi istanti, si cercarono con le labbra a un soffio le une dalle altre, si trovarono in un bacio che infiammò i loro animi, che non aveva nulla di quel piccolo gioco di scambi, di stoccate e di scherzose schivate, che avevano portato avanti fino ad allora. In esso c’era tutto.
Entrambi erano stanchi di temporeggiare. Stanchi di attendere il momento perfetto. O magari era semplicemente arrivato.
Sherlock portò una mano sul maglione di John, strattonandolo verso l’alto nel tentativo di sfilarlo, e le mani dell’altro gli vennero incontro per aiutarlo.
Un botto. Entrambi si riscossero dal loro universo denso di passione e desiderio. Si guardarono smarriti per alcuni istanti, fino a quando un rumore ancora più agghiacciante non raggiunse le loro orecchie.
“Chi siete voi?” pigolò la signora Hudson dal piano di sopra.
“Siamo membri dell’Inquisizione. Siamo qui per conto dell’autorità più alta della Gran Bretagna.”
John schizzò via dalle braccia dell’altro, lisciandosi il maglione e cercando di contenere il fiato corto che gli mozzava il respiro. Sherlock si aggiustò i capelli e scattò sulla sua poltrona, ostentando calma e indifferenza, ma il cuore gli pulsava così violentemente in petto che aveva paura fosse udibile a chiunque si trovasse nei paraggi. Lui e Watson si scambiarono uno sguardo d’intesa, di paura mista a confusione. Che cosa ci facevano gli uomini di Mycroft al 221B?
Passi decisi e meccanici si susseguirono regolari sulle scale che conducevano al loro appartamento, seguiti dalla vocetta della signora Hudson che cercava di fermarli e di convincerli ad attendere al piano inferiore.
La porta venne spalancata con decisione e nella stanza fecero capolino le figure di quattro nerboruti vestiti con abiti formali neri e occhiali da sole così scuri da impedire a chiunque di poter vedere oltre le spesse lenti.
“Signor Holmes?” disse il primo dirigendosi istantaneamente verso Sherlock.
“Qualche problema?” domandò lui deglutendo il nodo d’inquietudine formatosi poco sotto l’epiglottide.
“La sua presenza è richiesta a Buckingham Palace, su gentile invito della sua famiglia, signore.”
“E io rifiuto il gentile invito della mia famiglia.” ribatté secco l’ex inquisitore alzandosi in piedi per essere alla stessa altezza dell’energumeno che aveva appena parlato. “Buona giornata.”
Fece per andarsene, ma un secondo colosso gli si parò davanti con aria truce. “Il signor Holmes è stato chiaro riguardo la sua presenza al quartier generale.”
“Perché mio fratello è sempre così ossessionato nell’annoiarmi? Ho di meglio da fare!”
“Non si tratta di suo fratello, ma di suo padre.”
“Mio padre!?” esclamò Sherlock sgranando gli occhi. “Mio padre vuole vedermi?”
“Esatto, signore, il prima possibile.”
John, in piedi in disparte e con le braccia conserte, notò subito il leggero tremore della mano del coinquilino e si stupì di quella reazione, avvezzo al totale distaccamento di Sherlock dalla sua famiglia e dal resto del mondo.
L’ex inquisitore tacque per svariati istanti, lo sguardo perso nel vuoto, poi un’idea gli balenò in testa, chiara come le prime luci dell’alba. “Ho capito.” concluse. “Datemi solo il tempo di vestirmi.”
John aggrottò la fronte a quelle parole e trattenne la sua reazione fino a quando gli inquisitori non scesero di nuovo nella loro auto.
“Sherlock!?”
Holmes non rispose e si diresse in camera sua; prese a setacciare il suo guardaroba in cerca di qualcosa da mettersi addosso.
“Sherlock!?”
Ancora una volta l’ex inquisitore si limitò ad ignorarlo e si spogliò della vestaglia e della maglia, provocando nell’altro una balzo del cuore in gola.
“Sherlock, Cristo Santo, ti vuoi fermare un attimo?!” esplose infine il dottore prendendolo per un braccio e costringendolo a voltarsi. “Hai davvero intenzione di andarci?”
Sherlock sostenne lo sguardo. “Tu non conosci mio padre. In tutto questo tempo non si è mai degnato di farmi sentire che c’era e ora magicamente rispunta fuori dal nulla. Deve esserci qualcosa di importante…”
John allentò la presa sul braccio dell’altro. “Credi… credi che abbiano scoperto qualcosa? Qualcosa su di noi?”
Holmes portò la sua mano su quella di Watson. “Devo ricordarti che non ha esitato a ordinare l’esecuzione di mia sorella? Se avessero scoperto qualcosa credi davvero che mi avrebbero mandato a chiamare con tanto di agenti e limousine?”
“Non ne ho idea… E’ difficile capire che cosa passa per la testa di uno squilibrato genocida.”
Sherlock abbassò appena gli occhi, come vergognandosi del sangue di cui le mani di Siger Holmes erano impregnate. “Se non andassi risulterebbe sospetto. Tra l’altro mio fratello mi sta già addosso per il mio rifiuto di occuparmi di un qualche progetto che pare stargli molto a cuore.”
John sospirò profondamente. “E va bene, facciamo che mi fido.”
Holmes sorrise e gli scoccò un fugace bacio sulle labbra prima di tornare ad occuparsi del vestiario.
E mentre lo osservava farsi bello per un padre assente e draconico, scendere le scale rapidamente e baciare la signora Hudson sulla guancia, John avvertì una stretta al cuore, come se qualcosa fosse imminente. Qualcosa di oscuro.
 
***

 
Buckingham Palace si stagliò all’orizzonte con tutta la sua sontuosa imponenza. Come previsto, l’elegante limousine non si fermò davanti ai cancelli principali, ma fece il giro fino ad arrivare ad un’entrata secondaria adoperata quando la discrezione era ritenuta imprescindibile. Sherlock scese quasi al volo, trepidante come un musicista prima del suo grande debutto.
Un energumeno di quelli che l’avevano accompagnato fino a lì lo guidò attraverso il dedalo di corridoi talmente fastosi che erano quasi vergognosi se si considerava che ancora una buona fetta della popolazione inglese viveva nella miseria.
Si fermarono di fronte ad una porta adamantina, dalle maniglie intarsiate d’oro, e di una grandezza che incuteva un senso di nullità in chiunque vi si trovasse dinnanzi. Sherlock deglutì rumorosamente, meritandosi un’occhiata accusatoria da parte dell’inquisitore che lo accompagnava.
“Stupido burattino nelle mani di un altrettanto stupido burattinaio.” pensò Holmes rispondendo allo sguardo dell’altro con un’espressione altezzosa.
L’inquisitore attese ancora pochi istanti e infine si decise a bussare.
Toc… toc… toc…
Tre tocchi. Tre bussate. Tre colpi che lo separavano da tutto quello che più aveva temuto in tutta la sua vita: suo padre.
“Avanti.”
Non fu la solita voce fintamente pacata del fratello a impartire l’ordine, ma una che – sebbene flebile – era dura e ferma. Una voce che Sherlock conosceva troppo bene.
L’inquisitore aprì la porta e si scansò per lasciar passare l’ospite d’onore di Buckingham Palace, che entrò a passi lenti e scanditi, con il solito tocco di teatralità che amava.
La stanza era immensa, finemente arredata, dalle pareti ricoperte da una carta da parati color porpora e il soffitto candido striato da fregi dorati incisi con perizia, con quadri dal valore apparentemente esorbitante a costellare i muri e un camino in marmo nero lucente…
Sherlock era entrato solo una volta in quella camera, molto tempo addietro, e constatò con ribrezzo che non era affatto cambiata nel tempo.
Al centro della stanza troneggiava un letto a baldacchino rivestito come se fosse un bambino a cui badare più che un oggetto, coperto di uno sfarzo e una varietà di colori raccapriccianti. E attorno a quel letto era raccolta una torma non molto numerosa di massimi inquisitori e parenti di lontani gradi somiglianti ad avvoltoi. E su quel letto, la figura abbandonata di un vecchio. Un semplice vecchio. Un vecchio infermo nel corpo ma temprato nello spirito. Un vecchio che come lo scorse si risollevò appena a fatica, suscitando la disapprovazione mista ad apprensione di una anziana donna che gli teneva la mano.
Tutti gli occhi vennero puntati su di lui.
“Sherlock.” sospirò il vecchio disteso sul letto con occhi velati dalla malattia. “Andatevene.” disse poi agli altri. “Andatevene tutti. Lasciatemi solo con lui.”
“Papà…” provò a contraddirlo Mycroft, forse sperando di poter restare e assistere alla loro conversazione, ma l’anziana donna gli prese un braccio.
“Andiamo, Myc.”
“Mycroft è il nome che mi hai dato e ci terrei che tu mi chiamassi così.”
“Vai anche tu, Mycroft.” s’intromise debolmente il vecchio. “Ho solamente bisogno di restare col minore dei miei figli un altro po’.”
Mycroft non parve convinto, ma alla fine assentì con un cenno del capo e uscì, seguito da tutti i presenti. Nella stanza calò il silenzio.
Siger Holmes provò a raddrizzarsi, maledicendo quell’infermità che da tempo lo costringeva su quel dannato letto, e cercò lo sguardo del figlio.
“Avvicinati.”
Sherlock si mosse meccanicamente, quasi come se fossero state le sue stesse membra ad avanzare prima ancora che fosse lui a deciderlo. Era quello l’effetto che suo padre aveva su di lui: riusciva a governarlo come una marionetta, un essere non dotato di volontà propria. E questo fatto non era cambiato dopo che lui si era distaccato dall’Inquisizione e dalla sua famiglia.
Serrò i pugni, facendo sbiancare le nocche: lo odiava. Odiava lui e i suoi mille altri burattini aventi la sua medesima sorte. Eppure, quando quegli agenti erano venuti a prelevarlo per conto del padre, lui non aveva potuto evitare di provare un emozione di gioia mista ad agitazione. Dopo tutto quel tempo, ancora cercava l’approvazione, o forse ancor di più la comprensione, di un genitore che non c’era mai stato.
“E’ da un po’ che non ci vediamo.” osservò Siger con un mezzo sorrisetto. “Tre anni?”
“Quattro.” lo corresse il figlio. “Lo so, non cambia molto, sono solo dettagli irrilevanti.”
Non voleva. Non voleva dire quelle cose, mostrarsi debole. Perché lo stava facendo? Perché si stava esponendo in modo così evidente? Non si ricordava così privo di forza, di indifferenza. Che cos’era cambiato?
Stroncò la risposta sul nascere, spaventato dall’idea che suo padre potesse penetrare nella sua mente e leggere il segreto più oscuro e più luminoso che covasse in sé.
“Sei arrabbiato.”
Era un’affermazione più che una domanda, ma Sherlock sentì comunque il bisogno di rispondere: “Non sono arrabbiato, stavo solo constatando.”
“Sono consapevole di non essere stato esattamente il padre migliore del mondo.”
Sherlock sorrise di riflesso. “Il padre migliore del mondo? No, non è questo il punto. Il punto è che tu non sei stato proprio un padre. O meglio, non per me.”
“Credi che abbia amato più Mycroft che te?”
“Anche questo non è così: io non lo credo solo, ne ho la certezza.”
Siger sospirò e appoggiò la nuca alla testiera del letto. “E va bene, va bene. Pensala come vuoi. Ma cambiamo argomento adesso.”
Sherlock avvertì la rabbia crescergli in petto: la superficialità del padre quando si trattava dei sentimenti delle persone era disarmante. Come poteva sorvolare su un tale argomento? E pensare che per un periodo aveva anche desiderato essere come lui. E ci sarebbe anche diventato, se non fosse arrivato John.
“Ti ho fatto chiamare perché non mi resta molto tempo da vivere.”
“L’avevo capito. Ma devo dire che mi sembri tranquillo.”
“Lo sono, infatti: arriva per tutti la morte. Anche per i grandi. Ma comunque, la ragione per cui sei qui è che io ho deciso di affidare il comando dell’intera Gran Bretagna a Mycroft e a te. Vorrei andarmene con la certezza che i miei unici figli portino avanti il lavoro che io ho portato avanti fino a che ho potuto.”
Unici figli. Eurus non meritava essere chiamata sua figlia. Anzi, forse era fortunata proprio per quello. Da quando lei aveva deciso di ribellarsi a suo padre e all’intero sistema, aveva perso ogni diritto di portare su di sé il nome Holmes. Era finita nel dimenticatoio di tutti. Tranne che in quello del secondogenito.
Sherlock scavò in quegli occhi offuscati dall’età e della malattia e si chiese se anche lui avrebbe trovato la rovina a causa di quello sguardo vuoto, così come l’aveva trovata la sorella. Avrebbe voluto poter sputare verso quegli occhi e bestemmiare contro il sacro nome degli Holmes, ma doveva contenersi per non rischiare di lasciar trapelare nulla di quello che stava succedendo.
“No.”
“No?”
“Non posso, non più. Non ho più nessun’intenzione di andare avanti con l’Inquisizione, ma soprattutto con questa famiglia. Ti sei mai chiesto quello che provavamo? Io, Eurus e sì, anche Mycroft. Hai sempre dato per scontato che fossimo tuoi succubi, non tuoi figli.”
“Quella non è mia figlia.” L’asprezza della voce di Siger era raccapricciante.
“E invece lo era.” ribatté Sherlock infervorandosi. “Lo era prima che tu lasciassi che morisse davanti a tutti, che facesse da esempio per tutti colori che potessero essere in disaccordo con te. Ma non era altro che una ragazza bisognosa dell’affetto del proprio padre, non del suo ordine di fucilarla!”
Si aspettava una risposta da parte del grande e indistruttibile Holmes, ma quello tacque, incassando il colpo. Il fatto che fosse così vulnerabile, così solo e così prossimo alla fine, non infondevano in Sherlock un senso di pena, ma di giustizia. E dentro di sé, augurò al padre di morire il più lentamente e dolorosamente possibile.
“Ti prego, Sherlock.” sussurrò Siger alla fine. Il figlio sgranò gli occhi, non riuscendo a credere a quello che le sue orecchie avevano appena udito. “Ti supplico, non lasciare che sia un altro a prendere il tuo posto.”
“E chi? Mycroft può benissimo farcela da solo.” replicò l’altro.
“Tu non sai quello che dici. Ci sono altri là fuori… persone che non aspettano altro che io mi levi di torno per prendere il potere.”
“C’è solo da sperare che siano persone con un po’ di sale in testa.”
Siger gli riservò un’occhiata truce. “Da come parli sembra quasi che i tuoi problemi non siano solo nei miei confronti o in quelli di tuo fratello, ma anche verso l’Inquisizione.”
“E’ così.”
“Saresti finito in carcere per affermazioni meno esplicite.” borbottò il vecchio sprofondando nella comodità del materasso del letto.
“So qual è la strada per arrivarci, se ti fa stare più in pace con la coscienza.”
“Sherlock, per favore, non ho alcuna intenzione di fare imprigionare l’unica salvezza di questo Paese.”
Sherlock fece un passo indietro. “Mi spiace, ma non sono più sotto il tuo controllo. Avresti dovuto raggirarmi meglio, come hai fatto con Mycroft.” Siger non ribatté, si limitò a massaggiarsi la tempia con espressione dolente. “Se non c’è altro, io andrei.”
Non attese risposta. Si voltò e percorse la stanza a passo sicuro, solenne. Il passo di un vincitore.
“Sherlock.” lo chiamò il padre con le ultime forze che aveva. “Non te l’ho mai detto… Ma io…” Si bloccò, morsicandosi il labbro. “Insomma…”
Sherlock puntò un’ultima volta gli occhi in quelli di un uomo che ormai era più morto che vivo. In quel frangente comprese che quello era suo padre e che per quanto potesse odiarlo, le cose stavano così. In quel balbettare flebile, quegli occhi sfuggenti, quel leggero rossore di imbarazzo, lesse ciò che a parole quel vecchio, che tante sentenze di morte aveva pronunciato, non sarebbe mai riuscito a dire.
“E’ troppo tardi, per dirlo…” Fece per uscire, ma qualcosa lo costrinse a fermarsi una seconda volta. Non si volse, però, indietro. Non ebbe il coraggio di incrociare un’ultima volta lo sguardo con quello del padre. “…Papà.”
E sparì.
 
***
 
Quando fu fuori dalla reggia reale, si concesse finalmente di sospirare profondamente, liberando il groppo formatosi durante la conversazione con il padre. Una volta uscito da quella camera che sapeva ormai di obitorio, suo fratello aveva cercato di carpire qualche informazione riguardo il suo scambio con Siger, mentre sua madre gli si era avvicinata con modi rigidi e impacciati, provando a mostrare un affetto da sempre posato e contenuto. Ma Sherlock non aveva bisogno di altri soggetti della famiglia Holmes. Aveva bisogno di una faccia amica a cui raccontare tutto, una persona che lo avrebbe ascoltato senza fiatare e che gli avrebbe poggiato una mano sulla spalla in segno di comprensione.
Non John. Non se la sentiva di raccontargli tutto. Non voleva caricargli addosso zavorre che non gli appartenevano. Non Lestrade. Aveva dovuto stargli dietro anche troppo e meritava un po’ di riposo.
Ma allora chi?
Gli sarebbe piaciuto avere Eurus accanto. Eurus che coglieva sempre la prima occasione per inveire contro lo Stato. Eurus che sebbene fosse più piccola di lui era la più saggia e intelligente dei tre fratelli Holmes. Eurus che si era immolata pur di non rinunciare alle proprie idee. Un’immagine gli svettò nella mente, simile a quella della sorella.
Il cellulare in tasca vibrò. Affondò la mano nella stoffa e la ritirò fuori con il telefono fra le dita. Da una parte sperava che fosse John, dall’altra no: aveva bisogno di stargli lontano per qualche ora, per fare mente locale su quanto era successo. Sul display del cellulare, però, non vi era il nome del dottore, ma un semplice numero. Non era strano: a parte quello del coinquilino, che era più un fatto affettivo che altro, non aveva nessun altro contatto salvato. Poteva benissimo ricordare i numeri di chiunque a memoria, nel suo palazzo mentale. Ciononostante, quelle cifre erano per lui insignificanti.
Aprì il messaggio.
 
Un giorno ci incontreremo. -Anonimo
 
Che sciocchezze, avrebbe detto in casi normali. Ma dopo la faccenda dell’incendio e l’aura di morte che aleggiava intorno a lui e a John, i suoi sensi non potevano che mettersi in allerta qualunque cosa accadesse.
Scrisse velocemente e con la mascella serrata.
 
E’ banale. -SH
 
Non dovette aspettare perché il cellulare vibrasse di nuovo.
 
Tu non hai idea di chi io sia. Né di quello di cui sono capace… Se vuoi che smetta di essere banale, non hai che da chiedere. -Anonimo
 
Fu con quelle parole in testa che Sherlock pigiò l’icona verde e attese.
Uno squillo… due squilli… tre squilli… quattro squilli… cinque squilli…
Dall’altro capo non ci furono né la voce gracchiante della segreteria telefonica né quella del misterioso Anonimo, ma solo un tutu incessante. Si guardò intorno convulsamente, il vento che gli sferzava il volto. Provò a richiamare una seconda volta, ma sempre dopo cinque squilli l’individuo misterioso buttò giù. Cinque squilli. Perché gli diceva qualcosa il numero cinque? Sempre cinque squilli e poi il vuoto.
Si fiondò in mezzo alla strada, fermando un taxi all’ultimo, e balzò sul veicolo, incurante di una giovane coppia a cui esso spettava per precedenza.
“Scotland Yard, subito.”
 
***
 
John stava in fila alla cassa del supermercato vicino casa quando gli arrivò un messaggio da parte di Sherlock.
 
Non aspettarmi per pranzo. Ci vediamo stasera. -SH
 
Aggrottò la fronte in un moto vacillante fra la delusione e la disapprovazione. Ci doveva essere qualcosa nelle leggi della fisica e della chimica secondo cui lui e Sherlock erano destinati ad avere ostacoli anche in momenti così semplici appartenenti alla vita quotidiana. Da quando l’altro se n’era andato, John non aveva fatto altro che attendere che quello tornasse e gli raccontasse che cosa suo padre potesse mai volere da lui. Sapeva perfettamente di potersi fidare di Sherlock, ma c’era quel presentimento che non se ne voleva andare, che gli tamburellava sui vetri delle finestre della sua coscienza con insistenza.
I suoi pensieri vennero interrotti da una seconda notifica, stavolta non sua. Molly, accanto a lui, fremette nel leggere l’SMS e un sorriso incantato affiorò sulle sue labbra.
“Qualcuno di speciale?”
Lei abbassò gli occhi, mostrandosi evidentemente restia a vuotare il sacco. E John fu svelto ad accorgersene.
“Non ti chiedo nulla, promesso.” Finalmente era il loro turno alla cassa. Si erano recati a fare la spesa per tutta la loro comunità dato che le scorte in magazzino si stavano esaurendo e dovevano comunque restare per eventuali e indesiderati inconvenienti. E John ne aveva ovviamente approfittato per comperare qualcosa per quella sera e la prima cosa ad essere depositata nel carrello era stata una bottiglia di Merlot dai costi leggermente vertiginosi. Ma quella sera non voleva badare a spese. Fece passare un cartoccio di latte sopra il lettore del codice a barre e lo pose in una delle borse gigantesche che erano spesso state complici di traffici illegali per Incompleti. “Anzi sì, una voglio fartela: sei felice?”
Molly fece scivolare a sua volta un pacco di assorbenti e pannolini all’interno della sua busta. “Sì… non lo so. Non è da molto che usciamo insieme, ma credo… credo di esserlo, sì.”
“Questa è l’unica cosa che conta.” le disse John stringendole delicatamente una spalla, sorridendo, per poi tornare a concentrarsi sugli articoli da passare alla cassa.
Molly rimase alle sue spalle, intenta a fissarlo con gli occhi lievemente socchiusi. “E tu?”
“Io?”
“Tu non eri felice con Mary? Ha fatto qualcosa che ti ha ferito, per questo l’hai lasciata?”
John si lasciò sfuggire una mezza risatina. “Oh no, lei era perfetta. Anche troppo per me. Credo che io abbia un interesse più verso… persone imperfette. Persone come me e te.”
“Sei interessato a me?” sussultò lei.
“Cosa?”
“J-John, s-sono lusingata, davvero, ma io mi sono appena fidanzata e non credo neanche che io sia…”
John scosse la testa, con un sorrisetto forzato che però celava un’implorazione del tipo qualcuno mi tiri fuori da questa situazione. “Ma che hai capito! Non parlavo di te. Parlavo in generale, di persone che non sono davvero convinte che esistano Completi e Incompleti.”
Molly sospirò, sollevata, e continuò con il suo lavoro di smistamento nelle varie buste fra alimentari, generi di prima necessità, vestiti… “E quella bottiglia di vino? Dopo Mary hai già voltato pagina?”
John si rese conto solo allora di star stringendo quasi paternamente il Merlot. “Questo? No, questo me l’ha chiesto Sherlock. Credo abbia bisogno di scaricare un po’ di tensione accumulata in questi giorni.”
“Già! Greg me l’ha detto che sei tornato a vivere con lui! Quindi vi siete chiariti dopo quella brutta lite?”
“Greg? E… che ti ha detto di preciso?”
“Solo che avete risolto i vostri trascorsi e che dato che non hai trovato altra sistemazione, ti sei trasferito nuovamente a Baker Street.” rispose lei caricandosi sulle spalle le buste e uscendo. “Allora? Lui… come sta? Pensi che tornerà a lavorare con noi? Insomma, se hai deciso di tornare a vivere con lui significa che hai ricominciato a fidarti, giusto?”
John la seguì e si offrì di portare una delle sue borse, prima di rispondere: “Sì, io mi fido. Per il momento non c’è stato molto tempo per parlare. Tra il trasloco e tutto… Devo ancora finire di svuotare gli scatoloni.”
“Capisco. Bè, mi piacerebbe molto poterlo rivedere…” cominciò lei, ma le parole – a mano a mano che la frase fuoriusciva – diminuirono d’intensità, probabilmente a causa del ricordo del suo recente fidanzamento che contrastava con il desidero troppo genuino di rivedere Sherlock. “Ad ogni modo, io vado per di qua.” si affrettò infatti ad aggiungere prima che il silenzio si facesse troppo denso e troppo esplicito. John la guardò camminare verso il cartello dell’entrata della metro.
“Sicura che ce la fai a portare tutto?”
“Sì, ti aspetto domani alla base per sistemare un po’ tutto e fare una registrazione dettagliata di quello che abbiamo e di quello che ci manca… Poi uno di noi dovrebbe anche passare in farmacia per comprare quel prodotto anti-repellente per il bambino di Judit… Dovrei prendermi un permesso dall’obitorio per riuscire a fare tutto…”
“Molly.” la fermò John sorridendo. “Perché non ti prendi un po’ di tempo per te? Ora io ho più tempo, non dovendolo impiegare ad assaggiare sette tipi di torte, scegliere i vestiti delle damigelle, e quant’altro. Ci penso io. Ti faccio sapere quando avrò bisogno che tu mi sostituisca. E poi, se proprio c’è occorrenza, Clara è disponibile giorno e notte per venire a darmi una mano. Prenditi una settimana, dieci giorni da dedicare a te e alla tua nuova fiamma. Okay?”
Molly sembrò sul punto di ribattere, ma alla fine la stanchezza e lo stress ebbero la meglio. “Hai ragione. Nello stato in cui sono in questo periodo finirei per fare solo danni.”
“Ecco! Motivo in più per stare a casa!” scherzò John subito prima di chinarsi e di scoccarle due baci sulle guance. “Grazie di tutto.”
“Figurati, John. Ciao… E saluta Sherlock!”
“Senz’altro.”
“Neanche morto” pensò dentro di sé mentre la figura della dottoressa spariva sottoterra.
Controllò l’ora sul cellulare. 12:23. Troppo tempo vuoto da cercare inutilmente di riempire…
 
***
 
La notte stendeva il suo strascico da sposa nera quando Sherlock rincasò, rifugiandosi nel piccolo appartamento di Baker Street che mai prima di allora sentiva il bisogno di chiamare casa. Aveva passato l’intero pomeriggio alla stazione di polizia, nella speranza di rintracciare quel numero sconosciuto che dopo svariati tentativi era risultato. Una perdita di tempo, insomma.
Salì le scale con passo quasi strascicato, abbattuto da tutti gli avvenimenti di quel giorno, e con un’unica forza scaturita dalla consapevolezza che John lo stava aspettando di sopra. Entrò, sulle labbra si stava già affacciando uno sbadiglio per la stanchezza. Ma quello gli morì in gola, soffocato da qualcosa di più forte: dalla sorpresa. Il confortevole salotto era avvolto dalla penombra, rischiarato solo dalla tenue luce di flebili fiammelle che danzavano sulla cera di alcune candele sparse per tutta la stanza. Il tavolino su cui solevano consumare la colazione era apparecchiato raffinatamente, con una tovaglia rossa e lunghi calici nei quali era depositato del vino color porpora. E poi c’era John, in piedi davanti a lui, con una bottiglia di Merlot addormentata fra le sue braccia, e il petto vestito con una maglia a righe assai familiare. La maglia.
Sherlock avanzò timidamente verso di lui, guardandosi intorno semplicemente colpito dalla cura con cui il coinquilino aveva allestito tutto. Ma non riuscì a non tendere le dita verso Watson e stringergli fra le dita un lembo della maglia: i bordi erano mangiucchiati, le righe scolorite, il bianco annerito, ma era lei.
“L’ho conservata per tutto questo tempo.” ammise John con sorriso sfuggente. “Non potevo lasciare che anche questa maglia… che anche quella notte venisse divorata dalle fiamme.”
Holmes gli prese la bottiglia dalle mani, mentre i suoi occhi lo osservavano teneramente, come se quella visione fosse troppo incantevole per lui. “Ti sta bene… E’ proprio come la ricordavo.”
Calò un lieve silenzio durante il quale nessuno dei due riuscì a proferire parola, infine John fece segno a Sherlock di accomodarsi. “Prego, signore.” disse con un plateale inchino che suscitò nell’altro una mezza risata.
“Grazie.”
“Desidera un bicchiere di vino?” continuò il medico con tono cavalleresco.
“Non che io abbia molta scelta dato che qualcuno si è già premonito di riempirlo.” Sherlock portò il calice alla bocca e il vino gli scese in gola come nettare divino. Fece schioccare le labbra e deglutì in cerca del retrogusto sublime del Merlot. “Merlot, John? Sul serio? Ma quanto l’hai pagato?”
“Non è importante.” glissò John rifugiandosi in cucina dove cominciò ad armeggiare con la teglia del forno. “Anzi, credo che il vino sarà l’unica cosa dignitosa di questa cena.”
Tornò con un vassoio bollente da cui si elevava ancora un leggero rivolo di fumo.
“Vuoi una mano?”
“Ce la faccio.”
“Basta che non vada a finire come stamattina.” ironizzò Sherlock facendo spazio all’altro perché poggiasse il piatto da portata. “Pollo arrosto, wow. Potresti partecipare ad un programma culinario con questo.”
“Mi sto sbellicando.” replicò John sedendosi davanti al coinquilino, munito di coltello per tagliare la pietanza. “Okay, vediamo…” Studiò il pollo quasi fosse un acerrimo nemico di cui trovare il punto debole, reggendo le posate come un soldato reggeva delle granate. A Sherlock sfuggì una risata nel vedere l’espressione corrucciata dell’altro. “Non ridere o ti uccido. Per la miseria, secondo te da dove devo partire per tagliare questo coso?”
“Devo ricordarti com’è andata a finire con una semplice tazzina di the?”
“Okay, ho capito… Parto dalle zampe?”
“Consapevole che se sbagli avrai privato inutilmente un povero pollo arrosto dei suoi arti.”
John prese un respiro profondo e cercò di chiamare alla memoria il breve corso di chirurgia che aveva seguito; infine infilzò la forchetta nel petto del pollo nel tentativo di tenerlo fermo mentre staccava le zampe. Dopo un paio di sofferti minuti, i due pezzi dell’animale erano poggiati nei piatti dei due coinquilini.
“E’ stata un’esperienza orribile.” concluse John sbuffando. “Dimmi che basta e che non devo tagliarne un altro pezzo.”
“Ti direi di no solo per vederti una seconda volta con quell’espressione esilarante che avevi prima.” rispose Sherlock addentando il pollo e studiandone il sapore.
“Com’è?” chiese John sporgendosi in avanti con occhi apprensivi.
“Stranamente buono.” disse Holmes porgendogli il suo pezzo di pollo. “Al cuoco il verdetto finale.”
John morse con poca convinzione la carne, pregando che non fosse velenosa, ma scoprì che il sapore era gradevole, nonostante si fosse lievemente bruciato. “Non è male.”
“Te l’avevo detto.”
John si riaccomodò sulla sua sedia e cominciò a tagliare la sua porzione. “Che cosa voleva tuo padre?”
Sherlock s’immobilizzò con la forchetta a un centimetro dalla bocca e lo sguardo perso nel vuoto. Con un sospiro si pulì le labbra con il tovagliolo e intrecciò le dita davanti a sé. “Sta morendo.”
Watson sgranò gli occhi e fece per partire con una raffica di domande, ma si trattenne, lasciando che fosse l’altro ad aprirsi piano piano con lui.
“Voleva solo che io esaudissi il suo ultimo desiderio: tornare nell’Inquisizione, assieme a Mycroft.”
“E tu che hai risposto?”
“Ovviamente che non ho alcuna intenzione di tornare in quella gabbia di matti.”
John sospirò e pose la sua mano su quelle intrecciate di Sherlock. “Tu lo sai che io ci sono, vero? Per qualsiasi cosa.”
Holmes strecciò le dita e prese la mano di Watson nelle sue e la portò alle labbra. “Lo so.”
Si guardarono per dilatati istanti con la voglia di restare così vicini, così bene, così felici per sempre. E’ difficile spiegare quante immagini e quante parole possano sfilare negli occhi di ciascuno di noi, e altrettanto difficile è spiegare come gli altri possano capire in un battito di ciglio che cosa vi sia racchiuso.
“Mi è venuta un’idea!” esclamò Sherlock balzando in piedi e dirigendosi verso il vecchio giradischi che la famiglia della signora Hudson conservava da generazioni. Inserì il vinile che lui stesso aveva acquistato in un negozio di antiquariato su cui era inciso la meravigliosa composizione di Ennio Morricone Cinema Paradiso. Le note iniziali si diffusero soavi, accorpandosi in una struggente e magica melodia che portò il corpo di Sherlock a molleggiare leggiadro al ritmo della sinfonia, mentre porgeva a John una mano.
“Mi concedi questo ballo?”
“Non essere ridicolo, Sherlock!” replicò però l’altro ritirandosi appena e scuotendo leggermente la testa. “Io che ballo?”
“Perché no? Dai, non ci vede nessuno!”
“Mi sarà capitato di ballare al massimo un paio di volte e tutte alle feste di fine anno al college. Già ero negato con la musica disco, figuriamoci con musica del genere.”
Sherlock gli prese la mano e lo tirò su a forza, conducendolo al centro del salotto. “Dai, John! Ci sono io. Solo io. Non ti fidi di me?”
“Non è questione di fiducia, Sherlock. E’ che non so fare… non l’ho mai fatto.”
Holmes gli si fece più vicino, stringendolo a sé e conferendogli una sensazione di sicurezza. “Segui me.”
E bastò un passo perché si trovassero a volteggiare per la stanza avvolti da un abbraccio di note cristalline e dolci, rincantucciati nella loro casa, l’uno fra le braccia dell’altro, ridendo della loro goffaggine e del loro essere idioti. John si abbandonò completamente alla stretta dell’altro, seguendo le sue movenze e la sua leggiadria, sorprendendosi nell’essere stranamente a suo agio sull’onda della melodia che Morricone aveva sicuramente composto solo per loro, solo per quella sera.
Ad un tratto, John s’immobilizzò e lanciò a Sherlock uno sguardo di sfida. “Cambio.”
“Eh?”
“Adesso guido io, vediamo se ho più o meno capito come si fa.”
Holmes scoppiò a ridere sotto l’occhiata fintamente offesa dell’altro. “Credo che dovrò cercarmi un piede nuovo per il futuro.”
“Bravo, bravo, ridi.” ribatté Watson facendo un passo indietro seguendo quanto più possibile il ritmo della musica. “Visto che ti credi tanto talentuoso, chiudi gli occhi.”
Sherlock inarcò un sopracciglio. “Perché?”
“Perché anche tu devi fidarti di me.”
Holmes non sembrava del tutto convinto, ma nonostante questo obbedì al comando dell’altro e si lasciò guidare dai movimenti impacciati e stentati di Watson che sulle sue labbra aveva dipinto un sorrisetto vittorioso. Continuando a girare in circolo e con lieve scoordinazione, si mosse per il salotto, portando Sherlock con sé, attraversò il corridoio e infine giunse in una seconda stanza. Senza smettere di sorridere chiuse la porta alle sue spalle, isolando entrambi da Morricone, dall’Inquisizione, dalla signora Hudson e chi più ne ha più ne metta.
Sherlock aprì lentamente gli occhi e nel suo campo visivo si proiettò l’immagine della sua camera da letto… anche se non era esattamente la sua camera da letto: le pareti erano affiancate da una fila di lumini che rischiaravano appena l’ambiente, conferendogli una bellezza misteriosa e intrigante; il letto era stato liberato dalle vecchie lenzuola, sostituite da nuove di un colore chiaro e che sapeva di lavanda. Tutti intorno a lui era diverso e… meraviglioso.
“Volevo che fosse speciale.” mormorò John intrecciando le sue dita con quelle di Sherlock.
“Come fai?”
Watson assunse un’espressione interrogativa. “A fare cosa?”
“Come fai a rendere tutto così… bello? E non parlo della camera o del salotto, ma di me… di noi.”
“Beh…” cominciò John ridacchiando tra sé e sé. “…Non lo so. Ma credo che sia tutto merito tuo.”
“Mio?”
“La verità è che ci rendiamo migliori a vicenda. Tu me e io te. Ed è proprio questa cosa a rendere tutto così bello.”
Sherlock sorrise appena mentre le labbra di John sfioravano appena le sue. Erano delicate, colme di amore, avevano ancora qualcosa del pollo mezzo bruciacchiato e del Merlot. Labbra delicate che a mano a mano che i secondi trascorrevano cercavano sempre di più le sue, in un modo diverso da quello con cui si erano approcciate. Più… bramose. E sebbene quella mattina si fosse sentito pronto, ora Sherlock era spaventato, perché in quel campo lui era un inetto, un adolescente, non sapeva come fare, come muoversi, aveva la stupida paura di sbagliare e di indurre John a ricredersi su di lui…
“John.” lo fermò infatti scansandolo dolcemente. “Io… Non so fare, John, non l’ho mai fatto.”
John sorrise teneramente e gli baciò dolcemente l’angolo della bocca. “Segui me.”
Qualcosa di forte, di immensamente forte prese a pompare all’altezza del cuore di Sherlock. Un misto di terrore e di esaltazione, un brivido di emozione e di follia. E come John si era affidato a lui, lui si affidò a John. Non si era mai soffermato ad immaginare come sarebbe stata la sua prima volta. Anzi, per anni non aveva mai contemplato neanche lontanamente la possibilità di trovare una persona che potesse infondergli il desiderio di andare oltre ogni barriera, oltre ogni sicurezza, di esporsi e di essere nudo sia nel senso reale della parola che non. Perché lui, agli occhi di quel piccolo medico militare era continuamente esposto, privo di vestiti, di protezioni, e ogni cosa lo raggiungeva con una tale potenza da mandarlo in tilt.
Ma John non lo baciò con foga, non gli morse le labbra, non lo costrinse a spogliarsi. Continuò a poggiare la sua bocca sulla sua lievemente, come se fosse la prima volta che si baciavano.
“Com’è?” domandò poi scostandosi solo per poterlo guardare negli occhi.
Sherlock non rispose e si limitò a tirarlo di nuovo a sé, approfondendo i baci precedenti, lasciando che quello stupido e istintivo lato di sé avesse la meglio. Le sue mani da violinista percorsero il torace di John, arrivando sino ai fianchi e stringendoli fortemente mentre sentiva i polmoni ardere e il cuore pompare così forte da avvertirlo fino alle tempie. Un qualcosa di travolgente si era improvvisamente impossessato di lui, e la voglia di avere John, di firmare il contratto già precedentemente stipulato, lo spinse a sfilargli via la maglia a righe che era sopravvissuta alle fiamme e ai rancori, la stessa maglia che scivolò a terra. Qualcosa li fermò, frenò la foga, il desiderio, ogni cosa. Qualcosa di più forte di ogni lussuria.
Entrambi posarono i loro occhi sulla maglia a righe che giaceva sul pavimento, e davanti ad essi sfilarono le difficoltà, i momenti salienti della loro storia, il loro incontro, le loro liti… Tutto così lontano, tutto così insignificante in quella notte illuminata non da stelle ma da soffuse candele.
“E pensare che io ho sempre creduto che l’amore fosse un mero difetto chimico… Un errore umano.” osservò Sherlock con un sussurro.
“In un certo senso lo è, Sherlock.” rispose John con un mezzo sospiro. “Per gli altri, per questo mondo… Il nostro amore è un errore, un difetto…”
Holmes si voltò a guardare l’altro con sguardo malinconico. “E a noi questo importa?”
John si girò a sua volta e lo trasse a sé, baciandolo con trasporto. “Perché dovrebbe? Questo mondo può avere anche le nostre vite, ma mai il nostro difetto chimico.”
Sherlock si aprì in un sorriso, mentre tornava sulle labbra di John e lui gli sbottonava la camicia con dita agili ed esperte. Le dita del dottore disegnarono il contorno dei muscoli dell’altro, imprimendo la loro immagine nella mente, saggiandone la prestanza e la bellezza. John allacciò le dita dietro al collo di Sherlock e lo trascinò verso il letto aggrappandosi a lui, quasi sollevandosi da terra, senza mai interrompere la fusione delle loro bocche, la comunione più profonda dei loro esseri.  A pochi centimetri dal letto, inciamparono nei loro stessi passi e caddero goffamente sul materasso, ridendo e continuando scambiarsi baci traboccanti di passione.
E ogni altra cosa era scomparsa. Mentre John baciava gli zigomi di Sherlock, Sherlock percorreva il collo di John con la sua bocca. E ogni altra cosa era stata inghiottita. Vestiti indistinti riposavano sul pavimento, gli uni sugli altri come i corpi dei due loro proprietari.
E ogni altra cosa poteva bruciare. Nulla restava più tranne un curioso gioco di antitesi: baci che toglievano il respiro e ridavano vita, carezze che spogliavano di ogni razionalità e infondevano vigore, sorrisi che interrompevano la danza delle bocche e trasmettevano serenità, mani che sfilavano ogni vestito e costruivano una bolla di felicità e sicurezza attorno a loro.
In questa bolla, stremati e senza fiato, si addormentarono, mentre ogni candela si spegneva, con il profumo di lavanda nelle narici e i loro corpi abbracciati assieme. 

 

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Capitolo 11
*** CAPITOLO 10 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 10
 
 
Una sensazione di pienezza lo avvolse non appena aprì gli occhi. Era qualcosa di strano, di mai provato… Non era stato un raggio di sole o uno spiffero d’aria a svegliarlo. E quando voltò appena la testa, scoprì la causa di quel risveglio prematuro: davanti a lui, il viso radioso di John coronato da ciuffi di capelli dorati sparati all’insù. Sherlock si sciolse in un sorriso a quella visione così buffa e dolce al tempo stesso. Voleva svegliarsi sempre così, accanto a lui e con il suo sorriso come prima cosa a portata d’occhio.
“Io mi darei una sistemata ai capelli, fossi in te.” esordì l’ex inquisitore ridacchiando. Watson sbuffò verso l’alto per scostare una ciocca bionda dagli occhi. “Oh, così è sicuramente meglio…”
“I capelli sono l’ultimo dei miei problemi al momento. Come hai dormito?”
“Ottima domanda. Perché, ho dormito? Non mi sembra che tu me ne abbia lasciato il modo.”
John gli diede un pizzicotto al fianco che lo fece sussultare. “Sei insopportabile.”
“Lo so, lo so… Ora se non ti dispiace, io mi rimetto a dormire.” E detto ciò Holmes fece per rannicchiarsi in posizione fetale, volto dall’altra parte, ma il medico lo afferrò per un polso, impedendogli di girarsi.
“No, non c’è tempo per dormire.”
“Sei un guastafeste, John! Ho sonno e poi non sono neanche le sette del mattino!” si lamentò l’ex inquisitore con le palpebre pesanti.
“Appunto, io fra un’ora devo essere in ambulatorio e tu oggi devi sentire Lestrade per quella ridicola storia del consulente investigativo.”
“Non è ridicolo.”
“Lo è, invece.”
“Non è vero.”
“Sherlock, in tutta la tua vita non hai fatto altro che essere un Inquisitore e ora ti sei messo in testa questa cosa di voler aiutare Scotland Yard. Tralasciando, poi, l’assurdità di questo mestiere –di tua invenzione tra l’altro –, la polizia non consulta i dilettanti.”
Sherlock si sollevò appena per guardarlo meglio negli occhi. “E io sarei un dilettante? Io?”
“Non vedo nessun altro qui intorno oltre a me e te.”
L’ex inquisitore fece correre una mano verso l’incavo fra il collo e la spalla del medico che ricadde pesantemente sul materasso, ridendo. “Sherlock, no, dai! Smettila!”
“Ripetilo se hai il coraggio.” lo sfidò Holmes montando su di lui, senza smettere di tormentarlo.
“Dai, ti prego, basta!”
Sherlock si fermò dopo un po’, con le mani ai lati della testa di John e il volto vicino al suo. Non si baciarono, non si toccarono, ma rimasero a fissarsi con una dolcezza sconfinata. Negli occhi di Sherlock sfilavano parole di scuse per tutto quello che era successo da quando si erano conosciuti e ringraziamenti per tutto quello che John non aveva permesso succedesse; in quelli del medico era racchiusa una muta preghiera, che esortava l’altro a guardarlo sempre così, a farlo sentire sempre così.
“Ti amo.”
John sorrise al suono di quelle parole e si tese nello sforzo di arrivare alle labbra dell’altro. “Anch’io, sempre.”
E quel sempre restò sospeso tra loro, mentre si baciavano con la stessa passione della sera prima, mentre il sole fuori dalla finestra si affacciava a guardare quanto amore regnava in quella stanza, mentre fuori il mondo continuava a girare con le sue regole sbagliate e le sue proibizioni. Mentre i due infelici facevano l’amore felici.
 
***

 
John arrivò in ambulatorio con mezz’ora di ritardo e al colosso dell’Inquisizione che all’entrata gli chiese: categoricamente causa del ritardo, omise di rispondere: unico consulente investigativo al mondo, incredibilmente sexy e focoso, e si era limitato a dire problemi di famiglia. C’era forse un problema di famiglia più grande del non poter dire chi era la sua famiglia?
Si sedette dietro alla scrivania con un sospiro stremato, preparandosi psicologicamente alla lunga fila di persone che avrebbero sfilato da quella porta, così bisognosi e fragili… Una volta era diverso. Una volta il suo lavoro lo soddisfaceva, gl’infondeva energia e benessere… Invece, ora l’unica cosa che riusciva a dargli un po’ di sollievo erano le frequenti vibrazioni seguite da messaggi stupidi e infantili provenienti da una persona altrettanto infantile – ma per niente stupida –.
 
Non so se Gavin sia più spiazzato per la mia proposta o idiota: è ovvio che la responsabile della morte del giovane Brown sia una medusa! SH
(Mon, 8:12 a.m.)
 
Sherlock, non si può arrestare una medusa. JW
(Mon, 8:12 a.m.)
 
Questo è quello che pensi tu. SH
(Mon, 8:12 a.m.)
 
Sherlock, è entrata una paziente, devo andare. JW
(Mon, 8:13 a.m.)
 
C’è una criminale latitante per la Manica e tu pensi ad una donna con la candida che ti chiederà di farle un esame approfondito? SH
(Mon, 8:13 a.m.)
 
Hai tirato a indovinare. JW
(Mon, 8:13 a.m.)
 
Non lo faccio mai. SH
(Mon, 8:14 a.m.)
 
Sherlock, per l’amor di Dio, io starei lavorando. JW
(Mon, 8:14 a.m.)
 
Cosa credi che io stia facendo? SH
(Mon, 8:14 a.m.)
 
Cazzeggiando. JW
(Mon, 8:15 a.m.)
 
Vergognati, John Watson. Da oggi, con me hai chiuso. SH
(Mon, 8: 15 a.m.)
 
Non aspettavo altro. JW
(Mon, 8:16 a.m.)
 

John si alzò di scatto, mollando il cellulare, sebbene fosse consapevole che avrebbe passato le ore a continuare a parlare con quel ragazzino piuttosto che visitare una paziente con la candida, e porse la mano alla donna appena entrata.
“Salve, scusi l’attesa.”
Lei gli sorrise comprensiva. “Si figuri, a volte noi mogli sappiamo davvero essere soffocanti.”
“Come ha capito che era… mia moglie?”
“Mi limito ad osservare.”
Il medico la fece accomodare sulla sedia davanti alla scrivania e la studiò meglio: era una bella donna – forse un po’ eccentrica, con tutto quel rosa che si ritrovava addosso –, dai lunghi capelli biondi e il viso magro.
“Non credo di averla mai visitata.” osservò John.
“No, infatti. Vengo da Cardiff, mi trovo a Londra per lavoro. Sono qui perché ho bisogno di una semplice prescrizione: ho dimenticato i miei soliti sonniferi a casa e senza quelli non riesco a dormire. Ma a quanto pare, i farmacisti adorano negare medicine innocenti come quelli che uso io in assenza di una ricetta medica.”
“Complimenti John, sei un idiota. Una paziente con la candida, da quando sei diventato così stupido da ascoltare Sherlock Holmes?”
John sorrise, divertito dal temperamento di quella donna stravagante. “Capisco, bè, in tal caso rimediamo subito, ho solo bisogno di alcuni suoi dati.”
Inserì nel computer le varie informazioni necessarie per aprire la cartella clinica virtuale della signora ed effettivamente constatò che vi era un farmaco che ricorreva negli ultimi quattordici anni.
“Signora, scusi se mi permetto, ma questi non sono esattamente dei sonniferi.” notò lanciandole una veloce occhiata. “Sono antidepressivi.”
“Mi aiutano a non pensare, la notte. Mi permettono di dormire, quindi che differenza fa?”
Il cellulare di John vibrò sul tavolo. “Oddio…” sospirò esasperato il medico alzando gli occhi al cielo.
“Deve amarla proprio tanto.” constatò Jennifer sorridendo. “Sua moglie, dico.”
“Lo spero, anche se a volte sa davvero come rendermi la vita impossibile…”
Lo sguardo della donna si fece mesto e nostalgico. “E’ questo il bello di una relazione: scoprire sempre cose nuove dell’altro, pregi e difetti che siano, e vivere ogni istante insieme, anche con dei semplici messaggi.” Abbassò gli occhi, mordendosi appena il labbro inferiore. “Se finisce il mistero, finisce tutto.”
John la fissò per qualche istante, mentre la stampante rigurgitava la ricetta. “Lei non è sposata?”
Jennifer fece ricadere lo sguardo sull’anello al dito, ormai opaco e vecchio. “Essere sposati non significa conseguentemente essere innamorati…”
Il telefono della Wilson – rosa anche quello – squillò improvvisamente e lei si affrettò a rispondere. “Pronto? Sì, sto arrivando, il taxi con cui sono arrivata mi aspetta di sotto… Il tempo di passare in farmacia e sono da te. A più tardi.”
Una volta riattaccato, Jennifer Wilson si alzò in piedi, seguita da John, che le porse la ricetta. “Grazie infinite, scusi se scappo in questo modo, ma ho lasciato i miei bagagli di sotto e quel povero tassista si sarà stancato di aspettarmi.”
“Si figuri, vada pure.” rispose lui stringendole per la seconda volta la mano.
“Arrivederci e mi raccomando, si goda sua moglie.”
Quando se ne fu andata, John si trovò a sorridere tra sé e sé per quel temperamento così singolare.
“Che tipo…” mormorò risedendosi e prendendo in mano il cellulare.
 
Okay, Gavin è decisamente più cieco che spiazzato. SH
(Mon, 8: 22 a.m.)
 
Greg, Sherlock, Greg. JW
(Mon, 8: 26 a.m.)
 
Comunque, cos’ha combinato ora? JW
(Mon, 8:27 a.m.)
 
Tre suicidi, tutti in serie. SH
(Mon, 8:27 a.m.)
 
Lestrade è convinto che siano veri suicidi. SH
(Mon, 8:27 a.m.)
 
Ma? JW
(Mon, 8:28 a.m.)
 
Ma cosa? SH
(Mon, 8:28 a.m.)
 
Non avresti dato a Greg dell’idiota a meno che non ci fosse stata una buona ragione. JW
(Mon, 8:30 a.m.)
 
Anzi, dimentica quello che ho detto, l’avresti fatto. JW
(Mon, 8:30 a.m.)
 
Certo che l’avrei fatto. SH
(Mon, 8:31 a.m.)
 
Ma comunque, io sono convinto che non siano davvero dei suicidi quanto degli omicidi. SH
(Mon, 8:31 a.m.)
 
Interessante, davvero, ma perché ne parli con me? JW
(Mon, 8:32 a.m.)
 
Grazie al mio nuovo coinquilino, non ho più il mio fidato teschio. SH
(Mon, 8:33 a.m.)
 
Ancora con questa storia del teschio? JW
(Mon, 8:33 a.m.)
 
Era creepy al massimo. JW
(Mon, 8:34 a.m.)
 
Creepy? Sul serio, John? Quanti anni hai, dodici? SH
(Mon, 8:35 a.m.)
 
E’ la volta buona che quando torno a casa ti ammazzo. JW
(Mon, 8:37 a.m.)
 
Buona giornata, John. SH
(Mon, 8:39 a.m.)

 
***
 
Il cielo sopra di lei era sereno, il placido sole illuminava le vie d’inchiostro di Londra. Era nata e cresciuta nella cittadina di Bath, un posticino tranquillo e sereno, ma nulla equiparava la bellezza di quella città così magica attraverso cui stava camminando.
Peckham non era uno dei suoi quartieri preferiti, soprattutto da quando gli Jihadisti avevano raso al suolo praticamente tutto. Al resto, avevano pensato gli Inquisitori: agli inizi del ventunesimo secolo, quel quartiere racchiudeva un vero e proprio mosaico di etnie. Mosaico di cui ormai non vi era più traccia.
Clara giunse di fronte ad un’austera fabbrica dalle pareti spesse e annerite dai suoi stessi gas di scarico che vomitavano le alte ciminiere quando ancora era utilizzata, e si guardò intorno con aria circospetta. Nessuno in vista.
Bussò sulla pesante porta, scandendo il ritmo prefissato come una sorta di parola d’ordine. Non dovette aspettare molto perché un ragazzo dagli occhi a mandorla venisse ad aprirle, lasciandola entrare.
“Buongiorno, signorina Clara.”
“Buongiorno, Tao.”
Si richiuse le ante alle spalle e si ritrovò in un’ampia stanza costellata da circa una sessantina di persone che gironzolavano per i comodi loro. Anzi, non persone ordinarie, ma Incompleti.
“Come va oggi?” chiese poi lei, rivolgendosi al ragazzo.
“Meglio, la signorina Molly è passata giusto ieri a consegnare tutto il necessario.”
“Perfetto, allora io vado ad occuparmi della catalogazione, vuoi venire con me?”
“Con immenso piacere, signorina. Oggi John verrà?”
Clara controllò l’ora sul suo orologio da polso, un regalo di Harriet. “Dovrebbe essere qui a momenti. Ormai avrà finito il turno da venti…”
La sua frase venne interrotta da una bussata alla porta. Riconobbe il codice d’accesso e così sfrecciò in direzione della porta. “E’ proprio vero che quando parli del diavolo, gli spuntano le…”
Tacque. Davanti a lei, non vi erano né John né Molly, anzi, non vi era nessuno. Solo un vecchio dispositivo che poteva ricordare un cercapersone. Su di esso, era composta una frase… No, non una frase, ma delle lettere tutte accumulate insieme, senza senso.
DSPCWZNV T LX HLENSTYR JZF.
Prese il piccolo dispositivo in mano e solo allora si rese conto che sul retro era attaccato un post-it.
 
Per Sherlock,
con affetto
-Anonimo.
 
Clara scattò fuori correndo, guardandosi intorno smarrita e arrabbiata al tempo stesso, stringendo il cercapersone così forte da rischiare di romperlo.
“Dove sei!? Chi sei!?” urlò aggirandosi per i vicoli abbandonati, cercando in ogni angolo, in ogni traversa, un segno, un qualcosa! A un vicolo cieco, tornò sui suoi passi e svoltò a destra. E fu proprio allora che accadde. Sbatté violentemente contro qualcosa che si era parato in mezzo alla strada, anzi, qualcuno. E quando le mani di questo qualcuno serrarono le sue spalle, Clara urlò.
 
***

 
Sherlock stava analizzando un campione di residuo di vernice verde. Era stata una giornata alquanto frenetica e… piuttosto interessante. Era stato appagante vedere la faccia esasperata di Lestrade che si ostinava a sostenere l’impossibilità di permettergli di accedere a informazioni riservate e quant’altro, ma gira che rigira era bastato mostrargli le sue doti deduttive per farlo cedere. Sherlock Holmes, primo e unico consulente investigativo al mondo. Sì, decisamente interessante. Poi, Greg era stato trattenuto in una conferenza stampa con svariati giornalisti del Paese riguardo i tre suicidi seriali avvenuti nell’ultimo periodo, e ovviamente il caro detective di Scotland Yard non aveva capito assolutamente nulla.
Ma al momento, non erano i suicidi che gl’interessavano, quanto il curioso decesso di quel Jack Downing, trovato morto dalla moglie. Sicuramente, era stata una questione di eredità. Da quanto aveva capito, Sir Harry Downing, un ricco benestante, era morto, lasciando tutto in eredità al maggiore dei suoi figli, Jack. Jack, poi, era stato trovato morto poco dopo. Per forza di cose, morto Jack e senza per altro aver avuto figli, tutto il patrimonio di famiglia era finito nelle mani del minore, Keith. Ma era ancora presto per…
Il telefono squillò, distogliendolo dalla rete intricata di informazioni che stava accumulando.
“John?”
“Sherlock, è successa una cosa.”
“John, calmati.”
“Sono calmo.”
“Non è vero, so che non lo sei. Che cos’è accaduto.”
“Clara…”
“Clara cosa?”
“Sono per strada, ci vediamo a Baker Street fra dieci minuti.”
“John, non riattaccare. Che è successo a Clara? Tu stai bene…”
Ma John buttò giù la comunicazione, lasciandolo con un groviglio di domande ammassate in testa e troppe poche risposte. Uno strano presentimento si fece strada in lui.
Poteva essere che…
 
***

 
Arrivò a Baker Street trafelato e col cuore in gola. Salì le scale a due a due, il più rapidamente possibile, si lanciò verso la porta, la aprì con uno slancio e fu dentro. Seduta sul divano, vi era la figura della signora Hudson, uno sguardo preoccupato in volto e le braccia maternamente avvolte attorno al corpo di Clara che in mano reggeva una tazza di the fumante.
“Sherlock.”
Al suono di quella voce, si voltò di scatto, incontrando lo sguardo cupo di John. Gli corse incontro senza riuscire a razionalizzare che non erano soli e che avrebbero fatto meglio a mantenere un basso profilo anche con persone fidate come le due donne. “Tu stai bene?” gli chiese trattenendo l’impulso di prendergli le mani.
“I-io bene …” rispose balbettando il medico, colpito dal coinvolgimento che il coinquilino stava mostrando.
Sherlock stesso dovette rendersi conto di quell’atteggiamento fuori dai suoi schemi, perché riacquistò subito la distanza di sicurezza e fece marcia indietro, verso Clara.
“E tu?”
“No, bene… Sì, bene.”
“Qualcuno potrebbe gentilmente spiegarmi che diavolo è successo?”
“Piacerebbe saperlo anche a me.” s’intromise la signora Hudson rivolgendo un’occhiata torva a John che per tutta risposta cercò aiuto nello sguardo di Sherlock. Il quale, ovviamente, capì al volo.
“Signora Hudson, sono certo che John, in qualità di dottore, si sia accertato delle condizioni fisiche di Clara, così come il suo the si è occupato di quelle psicologiche. Perché non va di sotto a prepararci una cenetta passabile…”
“Squisita.” si affrettò a correggerlo Watson.
“Ho perfettamente capito che è solo un modo per sbarazzarvi di me.”
“Signora Hudson, le prometto che se ci cucinerà uno dei suoi deliziosi manicaretti potrà mettere a posto le cose di Sherlock.”
“COSA?” insorse il consulente investigativo.
“Se è così, allora va bene! Questo posto ha davvero bisogno di un bella ripulita.”
“Grazie, è perfetta come sempre.” sviolinò John accompagnandola con una mano sulla schiena verso la porta.
“E’ troppo gentile, John.”
“Una tazza di the, per me.” borbottò Sherlock prendendo il posto della donna accanto a Clara.
“Non sono la vostra governante!”
Ma l’esclamazione della padrona di casa s’infranse contro la porta chiusa. Una volta soli, Holmes rivolse uno sguardo significativo a Clara, concentrata sul suo riflesso sopra il liquido ramato.
“Vuoi raccontarmi tutto quanto?”
Lei non si scompose. Si limitò a ficcare una mano in tasca e ad estrarne un dispositivo dalle dimensioni infime e all’apparenza abbastanza vecchio. Un cercapersone. E sul display, una scritta incomprensibile, composta di lettere attaccate disposte completamente alla cieca.
“Che cos’è?” domandò ancora l’ex inquisitore rigirandosi l’oggetto in mano.
“L’ho trovato questo pomeriggio, davanti al lanificio. Qualcuno ha bussato seguendo il nostro codice, io pensavo fosse John e così sono andata ad aprire, ma non ho visto nessuno. E c’era questa cosa a terra, davanti all’entrata della nostra base.”
Sherlock continuò a studiare quella scritta che doveva per forza avere un qualche senso…
“Quando l’ho trovato, sono subito corsa in giro per beccare chiunque l’avesse messo lì, ma l’unica persona in cui mi sono imbattuta è stato John.”
“Le mie orecchie ancora ringraziano per lo splendido urlo che hai lanciato quando tu mi sei venuta addosso.” borbottò John incrociando le braccia al petto.
“E non rompere, ero spaventata! Credevo che fosse qualcuno dell’Inquisizione, che mi avrebbero catturata e ammazzata…”
“Quindi non sapete chi abbia collocato questo curioso oggetto davanti all’entrata della base.” li interruppe Holmes, assumendo un tono pensoso.
“Nessuna idea. Però, dietro a quello ho trovato un biglietto. Nella confusione dev’essermi caduto da qualche parte. C’era scritto qualcosa come… Per Sherlock, con affetto. Firmato: Anonimo.” rispose lei sorseggiando un po’ del suo the.
A quelle parole, sul viso di Sherlock esplose un sorrisetto tra il divertito e l’interessato, un sorrisetto che non avrebbe dovuto comparire in una situazione del genere, ma il solito brivido della caccia e l’amore per l’avventura gli attraversarono il corpo come tremori di febbre.
“D’accordo, allora, io chiamo Molly e l’avverto che c’è un trasferimento di massa da effettuare. Dovrebbe esserci qualcosa di temporaneo nei dintorni dove poterci rifugiare… - esclamò esasperato John – Accidenti! Proprio ora che stava andando tutto bene…”
“No.” lo interruppe Sherlock alzandosi in piedi.
No? Che vuol dire no?”
“Che non c’è motivo per cui voi dobbiate andarvene.”
Il medico sgranò gli occhi, fissandolo sconcertato. “Tu credi? Quanto pensi che ci metterà il tuo fratellino per scovarci tutti quanti e mandarci a morire?”
“Non è mio fratello. Mio fratello non è così interessante.” lo corresse il consulente investigativo.
“Interessante?”
“Abbiamo a che fare con qualcosa di nuovo. E’ un gioco, John. Soltanto un gioco. Un gioco per me.”
“Un gioco?”
“Ti diverte ripetere tutto quello che dico?”
“Sherlock, Cristo Santo! Come può essere un gioco tutto questo, eh!?”
Sherlock lo superò quasi ignorandolo, il cercapersone stretto in mano. “Non sono io quello ad aver iniziato, ma credo proprio – lanciò un’occhiata alle lettere insignificanti – che questo sia il mio turno.”
E detto questo, si chiuse in camera, lasciando Clara e John pietriti.
 
***

 
Erano più o meno le 3:09 del mattino quando Sherlock riemerse dalla stanza da letto, un sorriso vittorioso in volto. John era disteso sul divano – probabilmente aveva lasciato la sua ormai ex stanza a Clara – e dormiva profondamente.
Sherlock gli balzò praticamente sopra, facendolo sobbalzare così tanto che lo stesso consulente investigativo per un istante si trovò in aria, trasportato dal salto del medico.
“Tu non sei normale! Ma proprio per niente!” cominciò John con l’espressione di chi ha intenzione di attaccare un insulto dopo l’altro.
“Fa silenzio. Non vorrai svegliare tutta Baker Street.”
“A questo punto la domanda mi sorge spontanea: perché sono sempre io il povero coglione che alle non ho idea di che ore siano della mattina viene sempre svegliato?”
Sherlock ridacchiò tra sé e sé. “Non sempre, solo quando c’è qualcosa per cui ne vale la pena.”
John s’immobilizzò di colpo e lo fissò con curiosità che poi si sciolse in uno sguardo ammaliante. “Hai intenzione di rapirmi per portarmi da qualche parte per uno di quegli appuntamenti indimenticabili sotto le stelle?”
Holmes ci pensò su per diversi istanti. “No, ho qualcosa di meglio.”
“Meglio di una passeggiata mano nella mano per le vie deserte di Londra, con Inquisitori che ci inseguono armati per condurci in catene sul Justice Podium e farci fuori simultaneamente dopo una splendida dichiarazione d’amore che resterà per sempre nella storia del mondo?”
“Decisamente meglio. Guarda, ho risolto l’enigma.”
“Enigma?”
“Tu devi smetterla di ripetere ogni singola parola che proferisco.”
“E tu di proferire parole che mi portano a ripetere ogni singola parola che proferisci. Tu sei quello intelligente e io quello tardo, chiariamo bene i ruoli.”
Sherlock sospirò, esasperato, e fece cenno all’altro di lasciargli un posto per sedersi. “E’ un codice cifrato che nasconde un messaggio. E’ uno piuttosto elementare, usato principalmente nell’antica Roma. E’ chiamato Cifrario di Cesare e in parole spicciole, per trovare la risoluzione è necessario partire dalla lettere indicata e prendere la quindicesima lettera a distanza da quella nell’alfabeto.”
John annuì un paio di volte. “Mi sorprende che per una volta la tua spiegazione sia stata comprensibile.” A un’occhiata sbieca dell’altro, si limitò a scuotere la testa. “Okay, quindi, se ho capito bene… Allora, abbiamo: DSPCWZNV T LX HLENSTYR JZF. Ammesso che io non sia un completo idiota e tu non abbia detto una scemenza, la D in realtà equivale alla… S?”
“Esatto. E la S alla H.”
“E la P alla E...”
“E se continuiamo con questo metodo...”
“…Otteniamo: Sherlock I Am Watching You. Sherlock, ti sto guardando.” John si volse a guardare il coinquilino che ricambiò lo sguardo. “Avevi ragione: è davvero un gioco per te.”
“Chiunque sia dietro a tutto questo sa di certo come apparire enigmaticamente inquietante.” E mentre ancora parlava, mostrò all’altro il messaggio che gli era arrivato il giorno prima.
“Mio Dio… Che cosa pensi di fare?”
“Attendere.”
“Dici davvero?”
“Certamente: io sono il bersaglio, i bersagli attendono.” si spiegò Holmes celando un tono soddisfatto. Era irrazionalmente sbagliato tutto quello, eppure lo divertiva in un modo… oscuro.
John si lasciò ricadere a peso morto sul divano, stremato e sormontato da tutti gli avvenimenti di quegli ultimi due giorni. “E’ pazzesco. Sul serio, perché non riusciamo a semplicemente ad avere una vita… normale? Come quella di tutte le altre coppie.”
Sherlock si rannicchiò nel poco spazio lasciato dall’altro, poggiando la testa sul suo braccio. “Perché noi non siamo una coppia come le altre. Non siamo la coppia, giusto?”
Il medico sorrise e accarezzò dolcemente il viso del coinquilino. “Avrà mai fine?”
“Sì, John. Finirà.”

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Capitolo 12
*** CAPITOLO 11 ***


 
CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 11
 
La mattina John e Sherlock si svegliarono prima del solito, per non farsi trovare addormentati l’uno nelle braccia dell’altro. John, da parte sua, aveva due profonde borse che gli circondavano gli occhi rossi di stanchezza: non era più riuscito a prendere sonno dopo tutte quelle rivelazioni sconcertanti, mentre Sherlock si era addormentato come un bambino.
Verso le sette e mezzo, scese Clara, con i capelli spettinati e una felpa di John che le avvolgeva la corporatura magra e slanciata, lasciando scoperta una buona porzione di gambe.
“Non vi dispiace, vero?” esordì sedendosi a tavola assieme a loro. “Intendo, che vada in giro mezza nuda. Tanto non so quanto i nostri interessi possano combaciare.”
John tossicchiò appena, imbarazzato dalla solita schiettezza della donna. Sherlock, invece, sorrise divertito.
“Fa’ come se fossi a casa tua.” la rassicurò infatti.
Clara ringraziò, mentre addentava uno dei cornetti caldi che la signora Hudson aveva comperato quella mattina dal panificio dietro l’angolo. “Allora, ne siete venuti a capo? Del codice, dico.”
“Sì.”
“E che cosa avete scoperto?”
“Che c’è un tizio losco che sembra divertirsi a stuzzicare l’interesse di qualcuno di mia conoscenza. Vero, Sherlock?”
Holmes poggiò la tazza di the sul piattino, dichiarando mutamente che lui aveva finito. “Sei sempre così esagerato, John. Comunque, Clara, il messaggio non diceva nulla di importante. Credo fosse semplicemente un invito a ballare insieme.”
“Molto romantico, davvero.” borbottò il medico pulendosi le labbra con il tovagliolo, ma Sherlock lo ignorò.
“E comunque, se vuoi dilettarti su come io sia arrivato alla soluzione, puoi controllare sul mio blog.”
“Cosa? Aspetta, tu hai un blog?” s’intromise Watson scoccandogli uno sguardo poco convinto.
“Yup. L’ho creato stanotte. L’ho chiamato Scienza della deduzione, ti piace?”
“E’ la cosa più trash che io abbia mai sentito.” dichiarò Clara scoppiando a ridere.
“Lo so, è per questo che attirerà la gente.”
“Potremmo entrare in affari.”
Sherlock assunse una faccia perplessa. “Non credo avrebbe successo, ci vuole qualcosa di più diretto, che abbia un impatto. Potrei farti una foto con le gambe completamente scoperte e postarla, spacciandomi per te.”
“Credo proprio che Sherlock non sia un nome da donna.” osservò John.
“C’ho provato.”
Tutti e tre scoppiarono a ridere e l’atmosfera si fece serena e ovattata, finché John non si alzò da tavola per prendere giacca e quant’altro e recarsi in ambulatorio. Quando se ne fu andato, Clara cominciò a sparecchiare la tavola e a lavare le stoviglie, seguita dallo sguardo improvvisamente assente di Sherlock. Quando era uscito da Buckingham Palace, due giorni prima, aveva sentito il bisogno di parlare con qualcuno di tutto quello che stava accadendo e l’unica persona che gli era venuta in mente era stata Eurus. Ciononostante, scartata lei, un’immagine gli aveva attraversato la mente come un fulmine a ciel sereno.
“Allora?”
Sherlock si riscosse e si accorse che Clara era voltata, ancora intenta a sciacquare le tazze. “Cosa?”
“Sei strano. E’ da quando se n’è andato John che fai quella faccia. Qualcosa non va?”
“No, assolutamente.”
“Sherlock.”
“Va tutto alla grande.”
“Non sono John, capisco quando mi menti.”
“E va bene, la verità è che non è ho la più pallida idea.” Clara si risedette, sporgendosi verso di lui con fare comprensivo, senza però esortarlo a continuare, a spiegarsi meglio. Attese, poggiandogli una mano sulla spalla. “Due giorni fa, mio padre mi ha fatto convocare alla reggia e io ci sono andato solo per scoprire che sta per morire e che ha intenzione di lasciare il comando dell’Inquisizione a me e a mio fratello. Io ovviamente ho rifiutato perché…” Frenò le parole mordendosi un labbro.
“Perché c’è John.” completò lei sorridendo appena.
“Già… Solo che quello che mio padre mi ha detto dopo mi ha lasciato sconcertato. Ha detto che potrebbero esserci altri a prendere il mio posto, persone che non aspettano altro che mio padre sia nella fossa per appropriarsi del potere.”
“La cosa più strana è che lui stesso sia a conoscenza di questo fatto.”
“Esatto. La sua non era un’ipotesi, lui è certo che là fuori ci sia qualcuno che non desidera altro che indossare la corona dell’Inquisizione.” assentì lui.
Clara si prese qualche tempo per pensare. “E tuo fratello? Che dice?”
“Non ne ho idea e di certo non sono interessato a scoprirlo.” rispose acidamente Holmes.
“Capisco che il tuo livello di tolleranza nei confronti di quello stronzo sia praticamente a secco, ma questo potrebbe essere importante, potrebbe cambiare le sorti del Paese. E se salisse al potere una persona che aspira a ricostruire uno Stato di pace e di integrazione?”
“Io non sarei così fiducioso, fossi in te, e poi fin da piccolo ho studiato ogni singolo punto della Lex Discriminis: non è possibile ribaltare le imposizioni dell’Inquisizione, a meno che non si voglia incorrere in una guerra civile. Inoltre, non sono sicuro che la Gran Bretagna sia pronta a sostenere una politica di accettazione, dopo ormai così tanti anni. Chiunque provi a realizzare un tale operato, verrebbe di certo deposto dalla carica ancor prima di poter dichiarar guerra al sistema.”
“Quindi credi che qualsiasi cosa si stia avvicinando sia da temere?”
“E’ ancora presto per dirlo, ma ho una strana sensazione.”
Clara sospirò, abbandonandosi sullo schienale della sedia. Sherlock le lanciò un’occhiata fugace, sentendo il bisogno di parlare ma non avendo il coraggio per farlo. Non aveva mai esternato i suoi sentimenti a nessuno, prima di John, ma quel giorno era come uno staccato da tutta la loro storia. Quel giorno era solo Sherlock che si rapportava con i sentimenti di Sherlock, John non c’entrava, John non poteva sapere.
“Ti è mai capitato…” cominciò a un certo punto fissando terra. “Ti è mai capitato di aver paura? Nel senso, una paura folle che a volte ti paralizza e non ti permette di ragionare razionalmente?”
Clara ci pensò su per un po’. “Intendi applicato ad un contesto specifico o in generale?”
“No, con… con Harriet.”
Al suono di quel nome la donna venne percossa da un fremito che le ghiacciò le vene: era tanto che non pensava ad Harriet. Certo, non se n’era andata dal suo cuore, ma col passare del tempo il dolore si era affievolito così tanto da permetterle di scansare la figura dell’amata in un angolo dei suoi ricordi. Non poteva concedersi il lusso di continuare a vivere nelle sue memorie, doveva andare avanti. E così aveva fatto.
“Ogni minuto di ogni ora di ogni giorno.” Gli sorrise con sguardo malinconico. “Non potevamo mai essere del tutto felici, perché c’era sempre quella vocina nella nostra testa che ci ricordava dov’eravamo e soprattutto cosa eravamo.”
“E ne parlavate mai – dei pericoli che correvate?”
“E come potevamo? Parlarne avrebbe significato spezzare ogni incantesimo che si creava quando eravamo insieme. Poi, la sera, quando eravamo a letto… Ci rigiravamo, incapaci di prendere sonno. In quei momenti pensavo all’Inquisizione, al Justice Podium che sembrava come la linea del traguardo in fondo alla pista, inevitabile. E, accanto a me, sapevo che anche Harry stava provando lo stesso…”
Sherlock annuì. Riconosceva ogni singola parola proferita dalle labbra della donna: tutte le volte che si separava da John, la paura e la tristezza tornavano, e allora lui aveva bisogno di prendere il cellulare e scrivergli un messaggio, anche stupido, solo per accertarsi che fosse tutto apposto, che non gli fosse capitato nulla di male.
“Vuoi un consiglio, Sherlock?” Il silenzio dell’altro spinse Clara a proseguire. “Andatevene di qui. In questo posto ci sono troppi draghi da combattere anche per te. Per voi. Andate a Cuba prima che accada qualsiasi cosa.”
“Sai che ormai Cuba è diventata pressoché irraggiungibile, dopo i vari tentativi di fuga degli Incompleti.”
“Fregatevene. Scappate da questa città, lasciatevi alle spalle ogni cosa e trovate la felicità che meritate.”
Sherlock la guardò mestamente, sperduto come un bambino. Avrebbero potuto farlo: partire, affrontare un viaggio eterno attraverso Stati pronti a farli fuori senza il permesso di espatrio – assai difficile da ottenere –, arrivare a Cuba sani e salvi e… E poi cosa? Chi gli diceva che una volta là, l’isola non sarebbe stata presa d’assalto dalle potenze mondiali? Non c’era un luogo davvero sicuro, questa era la realtà.
“Non voglio perderlo.”
Quelle parole gli uscirono dal cuore, risalendo dal petto attraverso le corde vocali alla bocca. Non avrebbe potuto dire niente di più vero.
“Se dovessi perderlo… Che cosa farei?”
Clara gli cinse il corpo smilzo con le sue braccia candide, stringendolo a sé come un bambino spaurito, svegliato da un brutto incubo. “Non succederà, Sherlock. Non permetterò che accada. Col mio nuovo lavoro, all’agenzia viaggi, posso tranquillamente ricorrere a moduli non di dominio pubblico e accedere a informazioni private. Vi aiuterò, fosse l’ultima cosa che faccio. Non permetterò che vi accada ciò che è successo a me e ad Harriet.”
Sherlock avvertì la voce di lei farsi sottilmente più incrinata e flebile ad ogni parola e lui non poté che ammirarla per quella forza e quella resistenza che aveva dimostrato e stava continuando a dimostrare in onore dell’amata perduta. Non sapeva se lui, al suo posto, sarebbe riuscito a fare altrettanto.
Da sotto casa, giunse il rumore di una brusca frenata. Il consulente investigativo si staccò da quell’abbraccio così bello, in tempo per vedere arrivare la figura trafelata di Lestrade.
“Ce n’è stato un quarto.” mormorò fiaccamente il nuovo arrivato.
“Dove?” esclamò subito di rimando Sherlock, mentre scattava in piedi e afferrava la sciarpa e il cappotto.
“Lauriston Gardens.”
“C’è qualcosa di diverso?”
“Avevano mai lasciato un messaggio?”
“No.”
“Stavolta l’hanno fatto. Vieni con me?”
Holmes trattenne un moto di gioia, dissimulandola con la sua solita acidità che alle volta riaffiorava inevitabilmente. “Non salgo sulle auto della polizia.”
Greg sospirò portandosi le mani ai fianchi e scoccandogli un’occhiata di rimprovero. “Grazie.” E scese le scale trotterellando, di corsa così com’era arrivato.
Sherlock attese lo sbattere del portone, prima di esibirsi in un salto compiaciuto ed esalto. Clara lo sentì blaterare qualcosa ma nemmeno gli prestò troppa attenzione, presa com’era dall’inarcare un sopracciglio, impressionata dal cambiamento repentino dell’amico.
“Sherlock?”
“Cosa?”
“Che pensi di fare?”
“Chiamare un taxi e fare una tappa intermedia verso il luogo del delitto.”
Un sorrisetto sfilò sulle labbra. La sua espressione da gioco.
 
***
 
John salì le scale controvoglia e guardando con aria truce il coinquilino, che sembrava aver appena ricevuto un regalo di Natale, più che il caso di un quarto suicidio-omicidio.
Lestrade accolse il medico con espressione stupita, a cui Holmes rispose con un laconico: “E’ con me.”
“Lo vedo, ma che è venuto a fare?”
“Ho detto che è con me. E’ un medico, può aiutare.” replicò di nuovo Sherlock facendo segno a Watson di indossare il completo azzurro che portava anche il detective di Scotland Yard al momento.
Nel farlo, John si avvicinò con cautela all’amico, sussurrandogli all’orecchio: “Il perché mi abbia voluto qui è un mistero anche per me.”
Greg, in risposta, scrollò le spalle e scosse la testa quasi con rassegnazione.
“Dov’è il cadavere?” chiese Sherlock.
“Di sopra.”
Vedendo che il coinquilino stava per partire in quinta, il medico lo afferrò per la manica del cappotto, trattenendolo con sicurezza.
“Tu non indossi il completo?”
Holmes sorrise appena, prima di divincolarsi dolcemente dalla presa dell’altro e salire le scale quasi correndo e insultando Philip Anderson lungo la strada.
John percorse i gradini affiancando Lestrade. “La vittima?”
“Si chiama Jennifer Wilson, stando alla sua carta di credito, l’hanno trovata dei ragazzini.”
Il medico sgranò gli occhi e s’immobilizzò interamente. “Jennifer Wilson?”
“Sì, perché?”
John si strofinò la fronte con indice e medio, scioccato. “Ecco io… l’ho conosciuta. Ieri è passata in ambulatorio, per farsi prescrivere degli antidepressivi. Era una donna così esuberante, così apparentemente felice. Credete davvero che si sia suicidata?”
Lestrade riprese la sua ascesa, incrociando le braccia con fare riflessivo. “Come hai detto tu, John, apparentemente. Purtroppo alcune persone ci appaiono così forti che neanche ci rendiamo conto quanto fragili possano essere in realtà. Guarda Sherlock, ad esempio.”
John soppesò le parole dell’amico mentre si apprestava ad entrare nella camera dove la morte aveva abbracciato come una matrigna la vita di Jennifer Wilson. Era vero: anche Sherlock dimostrava più forza e sicurezza di quanto in realtà avesse, ciononostante lui gli aveva giurato che non aveva mai avuto intenzione di togliersi la vita. Jennifer Wilson avrebbe davvero potuto compiere un simile gesto?
La prima cosa che intravide fu il rosa. Acceso, forte, prorompente. La seconda fu Sherlock, chino sul corpo abbandonato della donna, intento a studiare ogni singolo dettaglio come se non avesse mai fatto altro in tutta la sua vita. Il consulente investigativo sentì i due avvicinarsi e solo quando furono entrati si scollò dall’analisi che stava conducendo sul cadavere di quell’eccentrica signora. E la terza cosa che John scorse fu un messaggio scavato nel pavimento, proprio sotto le unghie della vittima: Rache.
“Ce ne avete messo di tempo. Stavate spettegolando come due quindicenni?”
“La conoscevo.” ribatté il medico. “E’ venuta all’ambulatorio, ieri, voleva che le prescrivessi degli antidepressivi.”
Gli occhi del consulente investigativo s’illuminarono. “Antidepressivi, eh? Bene, questo non fa che rafforzare la mia teoria.”
“Quale teoria?” domandò Greg.
“Ogni cosa a suo tempo.”
Anderson si affacciò alla porta, appoggiandosi allo stipite. “Era tedesca: rache, significa vendetta, forse voleva dirci qualcosa.”
Ma Sherlock troncò quasi la frase a metà, sbattendogli la porta in faccia con un moto spocchioso che fece corrugare la fronte al medico.
“Quindi era tedesca?” chiese Lestrade cercando di celare l’interesse che la teoria di Philip aveva suscitato in lui.
“Era di Cardiff.” rispose John, gonfiando leggermente il petto, cercando di attirare l’attenzione del coinquilino.
“Cardiff, ovvio.” gli fece eco Sherlock smanettando con il cellulare.
“Scusa, ovvio?”
“Dottor Watson” cominciò il consulente investigativo velando la domanda di formalità. “che ne pensa?”
“Senza offesa, John, ma abbiamo un’intera squadra di medici…”
“Lestrade, non parlare, sei fastidioso. Inoltre, sai che hai bisogno di me.” Si rivolse nuovamente al medico. “Dia pure un’occhiata, dottore.”
John lanciò uno sguardo di muta richiesta al detective di Scotland Yard che dopo qualche istante d’indecisione si arrese e fece momentaneamente dietrofront, lasciando lo spazio necessario al medico, affiancato dal coinquilino.
“Allora?” lo spronò Sherlock.
“Che cosa ci faccio qui? E perché mi dai del lei tutto ad un tratto?”
“Mi aiuti a capire la situazione, e per la questione del lei è per precauzione con tipi come Anderson e Donovan.”
Watson sospirò e cominciò ad analizzare il cadavere con quanta più perizia gli permettevano gli occhi penetranti del coinquilino su di lui, che sembravano studiare ogni suo minimo movimento.
“Sì.” decretò dopo un po’. “Asfissia, probabilmente. E’ svenuta e si è soffocata nel suo vomito. E’ qui da un giorno, più o meno. Niente odore di alcool. Magari è un collasso, magari una droga.”
“Sai… sa di che cosa si tratta, li legge i giornali.”
“Beh, è uno dei suicidi, il quarto.”
Lestrade si frappose trai due con aria perentoria. “Sherlock, due minuti. Mi serve tutto quello che sai.”
“La vittima aveva quasi quarant’anni, una professionista nel settore televisivo, a giudicare dall’improbabile tono di rosa. E’ arrivata da Cardiff ieri, con l’intenzione di passare la notte a Londra a giudicare dalle dimensioni della sua valigia.”
“Valigia?”
“Valigia, sì. E’ sposata da almeno dieci anni, ma non era un matrimonio felice. Aveva una sfilza di amanti che però non sapevano fosse sposata. La fede ne è la prova: è l’unico gioiello che non viene regolarmente pulito, ma dentro è linda, come se venisse spesso rimossa.”
“Quindi è questo che intendeva dire, ieri: che il suo matrimonio non era più felice.” osservò John.
“Te ne ha parlato? Ti ha detto qualcos’altro?” lo incalzò Greg.
“No, mi ha semplicemente detto…” I suoi occhi corsero impercettibilmente verso Sherlock che finalmente – da quando erano arrivati in quel posto – non lo fissava più soltanto come un aiutante. “…Niente di importante.”
“Scusa, Sherlock, hai parlato di una valigia.”
“Sì, dove sta… Avrà avuto un cellulare o un’agenda. Scoprite chi è Rachel.”
“Come sai che aveva una valigia?” continuò Lestrade.
“Dietro la sua gamba destra ci sono piccole macchie sul tallone e sul polpaccio, ma non sulla sinistra. Stava trascinando un trolley con la mano destra. Quelle macchie non hanno altra spiegazione. Una valigetta, a giudicare dagli schizzi. Una valigetta per una donna così elegante? Aveva con sé un unico cambio necessario per una sola notte. Allora, dov’è? Che ne avete fatto?”
“Non c’erano nessuna valigia.”
Sherlock arrestò il suo moto frenetico, improvvisamente rapito dalle parole dell’ispettore.
“Ripetilo.”
“Non c’erano valige.”
“Interessante.”
Una voce nuova rimbombò cupa tra le pareti della stanza. I tre uomini sobbalzarono e si voltarono, all’unisono. Davanti a loro, un tizio dagli occhi chiarissimi, velati da un paio di occhiali dalle lenti ovali, con capelli chiari che gli lasciavano scoperta l’ampia fronte. Se ne stava ritto sulla cornice della porta, una mano nella tasca degli eleganti pantaloni e un sorrisetto compiaciuto in viso.
“Dico davvero, signor Holmes: molto, molto interessante.”
“Chi è lei?” intervenne Greg indignandosi per la presenza di quello sconosciuto sulla scena di un crimine. “Non credo di conoscerla e soprattutto non credo che lei sia autorizzato a stare qui.”
L’uomo ridacchiò, senza distogliere gli occhi da Sherlock, e procedendo lentamente, come un predatore, verso di loro. “E io non credo di essere l’unico.”
Lestrade deglutì un paio di volte, visibilmente preso in contropiede. Provò a ribattere qualcosa, ma il consulente investigativo fu più veloce. “Non ha risposto alla domanda dell’ispettore: chi è lei?”
“Davvero non lo sa? Beh, ho potuto osservare con i miei stessi occhi le sue capacità deduttive. Mi stupisca, avanti.”
Sherlock ficcò le mani in tasca e prese a camminare intorno al nuovo arrivato, osservandolo attentamente. “Lei non è inglese, questo è ovvio. A giudicare dal suo accento potrei affermare con certezza che proviene da uno stato del nord Europa, scandinavo, probabilmente. E’ un uomo elegante, distinto, che tiene alle apparenze ma non in modo morboso: si è sistemato la giacca solo un paio di volte, lisciandosi il tessuto difficile da stirare efficientemente, giusto per apparire dignitosamente ma senza esagerare. Un uomo con tale portamento non può essere un semplice curioso – anche perché quale interesse potrebbe avere chiunque nel venire ad ammirare un cadavere? –, ciononostante non è neanche un alto funzionario di polizia, poiché Lestrade ha dichiarato apertamente che non l’ha mai vista e lei stesso ha affermato di non essere autorizzato ad essere sulla scena di un crimine. E’ sfacciato, ha risposto apertamente ad un ispettore di Scotland Yard, curioso, ha desiderio di mettermi alla prova, e misterioso, non ha intenzione di svelarmi la sua identità finché non sia io a capirlo. Uomo elegante, curioso, sfacciato e misterioso? Per quale giornale lavora?”
Lo sconosciuto sorrise compiaciuto alla raffica di spiegazioni fornite dal consulente investigativo.
“Fantastico.” mormorò John, colpito dalla dote – a quanto pare naturale – del coinquilino.
L’uomo lo squadrò per qualche istante e il medico non poté che sentirsi a disagio sotto quegli occhi vacui. “Magnussen. Charles Augustus Magnussen.” si presentò infine tornando a guardare Holmes. “I miei complimenti, lei è davvero un uomo incredibile. Non posso negare che l’interesse che certe persone provano nei suoi confronti sia ben riposto.”
“Certe persone?”
Magnussen ignorò la domanda e come un pitone prese a strisciare mentalmente verso l’ex inquisitore, attraversandolo con il suo viscido corpo e radiografandolo da capo a piedi. “Barbarossa…” sussurrò sovrappensiero, osservando il consulente investigativo con interesse.
Sherlock spalancò appena gli occhi, mentre un gelo gli percuoteva le membra, ghiacciandogli le ossa nel profondo. Farfugliò qualcosa, incapace di proferire una frase di senso compiuto e sentì lo sguardo interrogativo di John su di sé. Come faceva… Come poteva sapere…
Non attese un istante di più. Si precipitò in direzione della porta, oltrepassando il giornalista, raggirandolo il più lontano possibile, come se – una volta avvicinatosi – quello avesse potuto cavargli fuori qualche altra informazione preziosa. E con John lì, nella stessa stanza, non poteva permetterlo.
“Dove stai andando?!” gli urlò dietro Lestrade.
“A cercare la valigia di Jennifer Wilson.” rispose laconico lui, scendendo le scale di corsa, senza voltarsi indietro.
John fece per corrergli dietro, ma tra lui e la porta si frappose la figura di Magnussen. “E così, lei è John Watson.”
“Come sa il mio nome?”
“Sono uno degli uomini più potenti della Gran Bretagna e forse anche dell’Europa intera. Sapere il nome di un’insignificante medico militare non è poi così difficile.”
John aprì e chiuse la mano sinistra un paio di volte, punto sul vivo del proprio orgoglio. “Posso andare, adesso?”
“Che fine ha fatto Mary Morstan, dottor Watson? Ho saputo che avreste dovuto felicemente sposarvi ma che alla fine lei si è tirato indietro. La sua scelta ha fatto gran scalpore, era da anni che non capitava che qualcuno si sottraesse alla benedizione matrimoniale dell’Inquisizione.”
C’era qualcosa nel modo di fare di quell’uomo, nel suo sguardo vuoto, nel suo ghigno, che provocava nel medico un uragano di sensazioni contrastanti, dal volerlo attaccare al muro, a dileguarsi come aveva fatto Sherlock poco prima. Sherlock. Doveva raggiungerlo, subito.
“Mi sono reso conto che i nostri sentimenti non coincidevano e ho ritenuto giusto fermare quella farsa prima di recare a Mary un dolore peggiore di quello che avrà provato al matrimonio. Ecco tutto.”
“Lei lascia la sua fidanzata e ritorna immediatamente da Sherlock Holmes, con cui aveva da tempo tagliato i ponti, da quanto mi risulta…” Magnussen fece schioccare la lingua. “Mi domando perché una simile decisione.”
“Abbiamo finito?” ringhiò John evitando accuratamente gli occhi del giornalista.
“Me lo dica lei.”
E non ci fu nient’altro da aggiungere. Watson lo superò con incedere sicuro e altezzoso, cercando di riflettere l’opposto di come si sentiva interiormente. Paura. Ecco cos’era. Paura di essere scoperto. Paura di essere scoperti. Scese i gradini ostentando freddezza, calma, proiettando su di sé una facciata. La facciata che sia lui che Sherlock dovevano mantenere inscalfibili per la loro salvezza.
“E’ stato un piacere, rivedersi. E si ricordi che Sherlock Holmes non ci sarà per sempre per proteggerla.”
E a quelle parole, gridate dietro di lui, la facciata crollò.

 
 

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Capitolo 13
*** CAPITOLO 12 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 12
 
 
Barbarossa. Quel nome gli echeggiava ancora in testa, di fronte alla valigia rosa di Jennifer Wilson, adagiata sulla sedia davanti alla sua poltrona. Il vantaggio di possedere un Palazzo Mentale era quello di poter conservare ogni piccolo frammento di ricordo, lasciarlo depositare in una stanza qualunque e poterlo riprendere tempo e tempo dopo. Per ogni suo ricordo era stato così. Certo, era obbligato a scartare le informazioni meno importanti che altrimenti gli avrebbero intasato la testa come spazzatura. Quel nome… Quel nome non era finito nel cestino delle memorie. Era rimasto in una stanza ben precisa del suo palazzo mentale. Non lo aveva abbandonato. Da quel giorno.
“Sherlock.”
Si riscosse, riaprendo gli occhi e separando le mani prima unite sotto il mento. “Dov’eri finito?”
John si sedette sulla sua poltrona, stanco. “Dov’eri finito tu? E comunque potresti anche chiamarmi invece di continuare ad inviarmi messaggi tipo Baker Street subito. Se non ti è possibile vieni lo stesso.” Il coinquilino non rispose e così John riprese. “Ad ogni modo, cos’è che volevi?”
“Ho trovato la valigia di Jennifer Wilson.”
Solo allora il medico si rese conto del trolley rosa che dominava su una delle sedie che usavano per fare colazione. “Come… diavolo hai fatto?”
“E’ stato pressoché elementare. Doveva esserci per forza una valigia, non poteva certo averla mangiata. Ipotizzando che il killer sia un uomo, cosa molto probabile, avrebbe destato sospetti ad avere con sé un trolley di un simile colore. Doveva dunque disfarsene e così mi è bastato cercare in ogni punto da cui chiunque avrebbe potuto facilmente sbarazzarsi di qualcosa senza essere visto. E alla fine l’ho trovata.”
“Tutto questo perché hai capito che la valigia era rosa.”
“Per forza era rosa.”
“E adesso?” chiese dopo alcuni istanti di silenzio John.
“Il cellulare non è nella valigia e la polizia non l’ha rinvenuto da nessuna parte. A meno che non l’abbia lasciato – cosa che ritengo alquanto improbabile dato che essendo un’adultera seriale ci stava attenta – deve averlo l’assassino.”
“E adesso che succede fra noi?” ripeté Watson specificando meglio il senso della domanda. Sul volto di Holmes comparve un’espressione più consapevole.
“Oh… In che senso?”
John si passò una mano fra i capelli. “Nel senso che io non ce la faccio più, Sherlock. Fingere di essere qualcosa che non sono, dover trattenermi da qualsiasi gesto nei tuoi confronti di fronte agli altri. Hai una vaga idea di quante volte avrei voluto baciarti, oggi, invece che biascicare uno stupido fantastico?”
Sherlock si alzò dalla poltrona e gli prese il volto tra le mani, fissandolo con amore misto a rammarico. Rammarico perché non c’era niente che potesse fare per cambiare le cose, per impedire che fossero sbagliati, per impedire di strappare via dal cuore di John quel sentimento così scomodo che ogni giorno attentava alla sua vita. Niente. E fu per questo che lo baciò, con disperazione, con foga, come se potesse essere l’ultima volta.
John si sporse di più verso di lui, approfondendo il bacio e incoraggiandolo a non fermarsi. Sherlock si staccò appena, senza fiato e con uno stupido sorriso sul volto. “C’è il caso a cui pensare, ora, dottore. Non vorrà portarmi via ogni briciolo di energia che ho in corpo, vero?”
John rise e se il suo cellulare non avesse vibrato avrebbe afferrato il coinquilino per la camicia e lo avrebbe tirato a sé, impedendogli di allontanarsi, impedendogli di uscire dalle mura della fortezza di Baker Street, l’unico luogo in cui potevano concedersi piccoli attimi come quelli.
Gli occhi di entrambi si puntarono sulla schermata di blocco del telefono, mentre il medico inseriva la password.
Sher-locked? Sul serio, John?”
Le guance di Watson si tinsero di una tenera sfumatura di rosso, mentre cercava di accampare qualche buona scusa o solo una protesta per la vena d’ironia dell’altro. “Mi sembra normale che quando ami una persona vuoi che in un modo o nell’altro sia sempre con te. Un po’ come fai tu quando mi invii stupidi sms per verificare che io stia bene.”
Stavolta, fu il turno di Holmes di arrossire. “Non è vero… Non lo faccio per… Mi annoio.”
John depositò un fugace bacio sulla guancia dell’altro, sorridendo per quel ribaltamento delle parti. “Anche Jennifer Wilson ha detto una cosa simile, l’altro giorno.”
Sherlock spalancò gli occhi e lo fissò attonito per diversi secondi duranti i quali il medico dovette accertarsi che stava ancora respirando e che fosse vivo. Infine, il consulente investigativo balzò in piedi, esultando.
“Era furba, furba! Più di tutte le piccole menti che infestano Scotland Yard. Il cellulare, John! Non l’ha perso, l’ha lasciato di proposito all’assassino perché aveva capito ciò a cui stava andando incontro. E Rachel è la chiave.”
“Rachel?” fece John sbigottito.
“Sì, John, Rachel!” E la situazione sarebbe stata alquanto esilarante – con Sherlock da una parte con la classica espressione da abbiamo capito ogni cosa e John dall’altra con invece la tipica truce occhiata di quando intendeva no, tu hai capito, io no – se non vi fosse stata una vittima.
“Continuo a non capire.”
“Andiamo, John, l’hai detto tu stesso. E’ naturale conservare un pezzo di coloro che amiamo anche in qualcosa di stupido come la schermata di blocco del cellulare. Lestrade mi ha chiamato poco fa: Rachel è la figlia nata morta quattordici anni fa di Jennifer Wilson.”
“Quattordici anni fa… E’ esattamente da quando Jennifer Wilson ha cominciato a farsi prescrivere degli antidepressivi!”
Sherlock sorrise. “Proprio così e se il mio intuito non m’inganna…”
Si sedette alla scrivania e accese il computer. “John, sulla valigia c’è una targhetta, dettami la mail.”
“jenny.pink@mephone.org.uk”
“Sono stato troppo lento: non aveva un portatile quindi gestiva i suoi affari dal telefono che è uno smartphone, è abilitato alle email, perciò c’è un portale con il suo account. Il nome utente è l’indirizzo mail e a questo punto la password è…”
“Rachel.”
“E’ uno smartphone: ha il GPS, serve a rintracciarlo online quando lo perdi. Ci sta conducendo direttamente all’uomo che l’ha uccisa.”
Sulle scale risuonò il passo saltellante della signora Hudson. “Sherlock, di sotto la sta aspettando il suo tassista!”
Sherlock, colto dalla trepidazione del momento, si alzò di scatto verso di lei. “Non ho chiamato un tassista, lo mandi via. Tra l’altro, non è l’ora del suo calmante serale?”
John prese il posto del coinquilino e osservò lo schermo del computer proiettare una mappa dettagliata di tutta la città che a mano a mano andava restringendosi verso il punto in cui il cellulare si trovava. Aggrottò la fronte prima solo lievemente, poi più profondamente, fissando senza capire quello che aveva davanti.
“Sherlock…”
“Allora, dov’è?” domandò Sherlock sporgendosi da sopra la sua spalla per poter vedere meglio la mappa.
“Qui al… 221B.”
“Come può essere qui?” sussurrò l’altro rialzandosi lentamente.
“Beh… Magari era nella valigia e quando sei salito ti è caduto.” ipotizzò il medico.
“E io, io non me ne sono accorto?”
Mentre cercava di riordinare le idee ammassate alla rinfusa nella sua testa, nella tasca della giacca il telefono vibrò. Sherlock lo prese e osservò il messaggio arrivatogli:
 
Vieni con me.
(Tue, 7:34 p.m.)

 
Quando si voltò intravide alle spalle della signora Hudson un uomo dai capelli bianchi scendere le scale, infilandosi qualcosa di rosa in tasca, in un muto invito a seguirlo. E allora tutto fu chiaro. Chi poteva mai cacciare in un luogo affollato, prelevare vittime da sotto gli occhi di tutti, guadagnarsi inevitabilmente la fiducia di chiunque? Stupido, stupido per non esserci arrivato prima.
“Sherlock?” lo chiamò John.
“Vado… a fare quattro passi.”
“Vuoi che venga con te?”
Ma l’altro non lo stava più a sentire: aveva appena superato la signora Hudson e ora stava scendendo le scale. Solo che John non poteva immaginare neanche lontanamente che cosa lo stesse aspettando alla fine di quei gradini.
 
***
 
Sherlock non si mosse. Restò lì, con gli occhi incollati alla figura di quell’uomo che lo stava fissando incuriosito.
“Taxi per Sherlock Holmes.”
“Non ho chiamato un taxi.” si affrettò a rispondere Sherlock.
“Questo non significa che non ne abbia bisogno.”
I due si scambiarono reciproche occhiate di studio, di analisi, come soldati che hanno di fronte un nemico di cui devono carpire le debolezze.
Il tassista fu il primo a distogliere lo sguardo, voltandosi e aprendo la portiera posteriore, invitando l’altro a salire. “Le farà bene sfogarsi, signor Holmes. Salga.”
“Perché? Perché uccida anche me?”
“Oh, io non voglio ucciderla, signor Holmes. Voglio solo parlare con lei e poi lei si ucciderà da solo.”
Sherlock restò immobile per qualche istante, combattuto tra il buon senso e la sua sete di conoscenza. Ma come al solito, quest’ultima ebbe la meglio e Sherlock salì.
 
***
 
John guardò la figura del fidanzato sparire all’interno del taxi e non poté fare a meno di chiedersi che cosa stesse accadendo, che cosa Sherlock stesse facendo. Perché mai prendere un taxi a quell’ora?
Non ebbe tempo di trovare risposta, perché il computer cominciò a mandare segnali acustici, richiamando la sua attenzione. Si avvicinò e con orrore notò il punto che indicava la posizione del telefono della vittima muoversi, addentrarsi nel centro di Londra, percorrendo la trama di strade pullulanti del solito traffico serale.
Solo in quel momento capì. Tardi. Sempre troppo tardi, John Watson.
 
***
 
“Come mi ha trovato?” esordì Sherlock sistemandosi comodamente per apparire agli occhi del tassista il più rilassato possibile.
“Mi avevano avvisato.”
“Chi l’aveva avvisata?”
L’autista gettò uno sguardo all’altro tramite lo specchietto retrovisore. “Ha un ammiratore.”
Sherlock osservò l’uomo con più attenzione, notando il residuo della schiuma dopobarba dietro l’orecchio e la foto vicino al volante ritraente due bambini. Una terza persona era stata tagliata fuori dall’immagine, una donna, a giudicare dalla mano curata che spuntava fuori, cingendo uno dei due bambini.
“A questo proposito, signor Holmes, guardi sul sedile di fianco a lei. C’è un regalo.”
Il consulente investigativo ruotò di scatto la testa e trovò una piccola scatolina di velluto, nera, simile a quelle riservate agli anelli di fidanzamento. La prese con cautela, rigirandosela nelle mani per un po’. I suoi pensieri lo trascinarono con via, proiettandogli davanti un probabile scenario di come avrebbe potuto fare una simile proposta a John. Non che il matrimonio rientrasse nei suoi interessi – anzi, lo trovava abbastanza inutile dato che non aveva bisogno di avere una fede al dito per attestare il suo amore per Watson – ciononostante non poté evitare di vedere se stesso inginocchiarsi, lamentandosi per le stupide formalità e i tradizionalismi che lo obbligavano a fare una cosa del genere, e John ridere della sua goffaggine, della sua acidità che aveva imparato essere usata solo per dissimulare il suo imbarazzo, il suo senso di inadeguatezza.
Ma all’interno della scatolina non vi era un anello, bensì un biglietto scritto con una calligrafia impeccabile, tondeggiante.
SOMNEHCCGTEKOTYRIMOOLAIGU.
“Ah, quell’ammiratore.”
Il tassista ridacchiò tra sé e sé. “Prima di morire, signor Holmes, potrebbe voler venire a conoscenza del messaggio racchiuso lì dentro.”
Sherlock non rispose e cominciò ad elaborare velocemente un metodo di cifratura, richiamando alla memoria ogni sistema che aveva appreso nella sua vita, vagando per le stanze del Palazzo Mentale. Non seppe dopo quanto spalancò gli occhi, con la soluzione a portata di labbra.
“E’ un codice cifrato a griglia. Ci sono venticinque lettere quindi è facile lavorare con una tabella da 5x5. Basta formare una griglia che abbia tali dimensioni e disporre le lettere da sinistra verso destra, occupando tutti i riquadri formatisi. Infine è sufficiente leggere il messaggio dall’alto verso il basso e procedendo sempre da sinistra a destra.”
 
S O M N E
H C C G T
E K O T Y
R I M O O
L A I G U
 
 
Sherlock sto venendo a prenderti… un po’ inquietante come ammiratore.”
Il tassista non rispose e si limitò a pigiare di più il piede sul pedale dell’acceleratore, quasi volesse arrivare il prima possibile. Davanti agli occhi di Sherlock, incollati al finestrino, sfrecciavano le magnetiche luci di Londra, con i loro colori e la loro magia. Quella città era viva, respirava, aveva un cuore pulsante. E il consulente investigativo poteva sentire i singhiozzi emessi da questa, le preghiere, le implorazioni. Quella città non voleva altro sangue. Ne aveva abbastanza.
Il taxi si fermò davanti a due edifici pressoché identici. L’autista scese e aprì galantemente la portiera di Sherlock che si limitò a domandare: “Dove siamo?”
“Conosce ogni strada di Londra. Sa esattamente dove siamo.” ribatté il tassista.
“Al college superiore di Roland Kerr. Perché qui?”
L’autista scrollò le spalle con noncuranza. “E’ aperto, ci sono gli addetti alle pulizie. Allora, non viene?”
“Come convince le sue vittime a seguirla?”
L’uomo estrasse dalla tasca una pistola lucida – stranamente troppo lucida – e la puntò contro il consulente investigativo, che assunse un’espressione contrariata. “Non può convincere le sue vittime a suicidarsi puntando loro contro una pistola.”
“Non lo faccio.” replicò tranquillamente l’autista. “E’ molto più elaborato di così. Se vuole seguirmi…”
Sherlock non se lo fece ripetere due volte e balzò giù dal taxi, al seguito del famigerato serial killer che lo guidò attraverso i corridoi di uno dei due edifici, fino ad arrivare ad un’ampia camerata vuota, costellata di tavoli sormontati da sedie rovesciate.
“Coraggio, signor Holmes. Si accomodi.”
Sherlock osservò il tassista mentre tirava giù due sedie e si sistemava su una di quelle. Il consulente investigativo si sedette comodamente sull’altra. “Bene, ora che ho fatto come mi ha detto credo di meritare le risposte che cerco.”
“Perché siete ancora qui?” domandò l’autista ignorando la domanda di quella che era a tutti gli effetti una sua preda.
“Scusi?”
“Lei e il dottor Watson. Perché non siete ancora fuggiti a Cuba?”
Sherlock, sulla sedia, abbandonò la postura rilassata per assumerne una più scomposta e fremente. “Perché mai dovremmo?”
“Suvvia, signor Holmes, non deve fingere con me, anche perché le farà bene sfogarsi prima di morire.”
“Se le cose stessero come sta insinuando, mi creda, saremmo già morti da un pezzo.”
Al serial killer sfuggì una risata stonata, amara, che sapeva di violino non accordato. Di nuovo, la pistola si frappose tra i due con la sua aura di morte attorno. “Che cosa significa quando un assassino non riesce a colpire il bersaglio?”
Sherlock rimase impassibile di fronte a quel gesto così scontato e prevedibile. Davvero quell’uomo credeva che non avrebbe subito capito che l’arma era in realtà falsa? I secondi volarono, dilatandosi, incrementando la massa del silenzio che li circondava.
Il tassista premette il grilletto.
 
***
 
John scese dal taxi e studiò i due edifici di fronte a sé. A giudicare dall’auto parcheggiata di fianco a sé, Sherlock doveva trovarsi per forza là da qualche parte. Aveva seguito il segnale sino al piazzale di fronte a quel college, con il cuore in gola e il telefono incollato all’orecchio nel tentativo di mettersi in contatto con Greg. Imboccò l’entrata dell’edificio alla sua sinistra, macinando il pavimento con la sua corsa da soldato, impressa come un tatuaggio nel suo DNA, ereditata dal padre e poi messa in pratica da lui stesso. I corridoi erano bui, le aule silenziose, il pericolo imminente, la tasca greve del peso della sua vecchia pistola. Sherlock era in compagnia di un assassino. Sherlock poteva morire da un momento all’altro. Sherlock poteva essere già morto. Quel pensiero lo spinse ad aumentare il passo. No, non poteva. Non poteva permettere che una simile cosa accadesse. Non poteva immaginare di perdere Sherlock…
E fu in quel momento che una muta preghiera s’impossessò della sua mente.
“Ti prego Dio, fallo vivere.”
 
***
 
Un’innocua pistola finta. Niente di più. Sherlock sorrise tra sé e sé di fronte a quella fiammella scaturita dalla canna dell’arma.
“Significa che non ci sta provando sul serio.” concluse il tassista mettendo via la pistola.
“Che cos’ha a che fare questo con me e col dottor Watson?”
“Vi sono persone, signor Holmes, che si divertono ad assistere alla vostra impotenza e ai vostri strenui tentativi di cambiare le cose.” Sospirò, fintamente commosso. “Davvero, avreste potuto lasciarvi tutto questo alle spalle e ricominciare da capo a Cuba, fin quando potevate. Ma ormai, è troppo tardi.”
Il tassista gli pose davanti una boccetta con un liquido scarlatto, simile al colore del sangue, e una siringa munita di un lungo e minaccioso ago. Al sol vedere quest’ultimo oggetto, l’intero corpo del consulente investigativo venne scosso da un tremore. Poteva ancora sentire il dolore per la perdita di John, il bisogno di non soffrire, la nebbia che gl’infondeva la droga attraverso il suo essere, il disperato desiderio di staccarsi da quel diavolo che lo corrodeva in profondità. Accanto alla prima siringa, il tassista ne posizionò una seconda, uguale in ogni dettaglio all’altra, e accanto ad essa, un’ulteriore boccetta con un liquido identico all’altro.
“Sarebbe questo il veleno che somministra alle vittime?”
“Oh, no. Lei non è una mia vittima, signor Holmes. Lei è soltanto una cavia. Vede, questo farmaco ha poteri inimmaginabili. Tutti pensavano di attendere ancora un po’, di perfezionarlo, ma alla fine si è deciso di concludere questa farsa. Signor Holmes, a quanto pare è diventato… noioso agli occhi del suo ammiratore.”
“Così noioso da volermi morto?”
“Così noioso da voler concludere le danze.”
Sherlock osservò l’assassino inserire il liquido carminio nella prima siringa con calma raggelante. Un pensiero gli svettò nella mente: rivide Mycroft – spocchioso come sempre – chiedergli di tornare nell’Inquisizione per lavorare alla realizzazione di un potente siero. Che fosse proprio quello il siero di cui parlava? Questo avrebbe significato che… che l’Inquisizione era immischiata in tutto quello. Poteva essere?
Quando il tassista riempì anche la seconda siringa, porse la prima al consulente investigativo. “Allora, signor Holmes, le ho dato il siero buono o quello cattivo?”
“Quindi uno è velenoso e un altro innocuo, ma come faccio a sapere che non sono entrambe nocive?”
“Ancora non le ho detto la parte migliore: qualunque siringa lei sceglierà, io prenderò l’altra. E allora vedremo chi ha vinto e chi invece ha perso.”
Sherlock congiunse le mani sotto al mento, pensoso. “E’ un caso, è al cinquanta per cento.”
“Ho giocato quattro volte e sono vivo, non è un caso. E’ genio!”
L’autista aveva detto una cosa interessante: lei non è una mia vittima. Chiunque fosse dietro a tutto quello non lo voleva morto, solo sconfitto. E John? Che c’entrava John con la sua sconfitta? Un timore soffocante strisciò in lui come un serpente, avvelenandogli i sensi e la lucidità: dov’era John? L’aveva lasciato a Baker Street, ma era davvero al sicuro? Doveva tornare da lui. Raccontargli ogni cosa. Metterlo in guardia. Doveva chiudere il gioco.
Osservò i due sieri, identici in tutto e per tutto, eppure doveva esserci qualcosa capace di comunicargli quale fosse quello buono e quale quello cattivo.
“Allora… Lei ha rischiato la vita quattro volte per uccidere degli estranei. Perché?”
Il tassista indicò le due siringhe col capo. “E’ ora di giocare.”
“Io sto giocando. Questo è il mio turno. C’è della schiuma da barba dietro l’orecchio sinistro, nessuno glielo ha fatto notare. Ci sono anche tracce precedenti, questo indica che lei vive da solo. Ha una foto di bambini, la madre è stata eliminata dalla foto, se fosse morta non l’avrebbe tolta. La foto è vecchia ma la cornice è recente: lei pensa ai suoi figli ma non può vederli. E’ un padre estraneo: sua moglie si è portata via i figli, ma lei li ama ancora e soffre molto.” Continuò a studiarlo con un sorrisetto vincitore, sentendosi padrone della situazione. “Oh, ma c’è di più. I vestiti sono freschi di lavanderia, ma tutto quello che indossa ha almeno… tre anni. Mantiene le apparenze ma non pensa al futuro. E ora è diventato una furia omicida con istinti suicidi, perché?”
Già, perché? Era solo un pazzo o c’era di più? Rischiava la sua vita per dimostrare che era intelligente, uccideva degli estranei… “Ah… Tre anni fa… gliel’hanno detto allora?”
“Detto cosa?”
“Che non le rimane molto da vivere.”
Il killer sorrise, compiaciuto e forse anche stupito, da un lato: doveva riconoscere che Sherlock Holmes era davvero geniale, dotato di un intelletto pari al suo. “Aneurisma.” confessò, portandosi l’indice alla tempia. “Proprio qui.”
“E dato che sta morendo ha deciso di uccidere quattro persone… Perché?”
“E’ divertente per chi ha un aneurisma.”
Holmes si prese un istante per ragionare, seguendo il filo che i suoi pensieri stavano prendendo. “No… No, c’è qualcos’altro. Lei non ha ucciso quattro persone solo perché è amareggiato: il rancore paralizza. L’amore… è un movente molto più nocivo. In qualche modo si tratta dei suoi figli. Ma come?”
Il tassista calò per un secondo la sua maschera arrogante nel ripensare alla ragione che lo aveva spinto a commettere quei delitti. “Quando morirò, i miei figli non avranno molto. Non ti arricchisci guidando taxi.”
“O a fare il serial killer.”
“Ne rimarrebbe sorpreso.” Si piegò in avanti, avvicinandosi al consulente investigativo. “Ho uno sponsor: per ogni persona che uccido versa dei soldi ai miei figli. Più uccido… più ricchi diventano.”
“E questo sponsor… è forse il mio ammiratore?”
“C’è un nome che nessuno pronuncia e non sarò di certo io a farlo. Ma ora basta chiacchiere: è tempo di giocare.”
Sherlock abbassò gli occhi sulle due siringhe. Dunque, ricapitolando: quell’uomo stava per morire, era disperato, incline al suicidio, i suoi figli avevano di certo già racimolato una somma di denaro consistente. Che cosa lo spingeva a vivere? 
Con un gesto elegante della mano afferrò la siringa davanti al tassista e si alzò in piedi rigirandosela tra le mani e studiandola alla luce dei neon. Le striature scarlatte si mescolavano con riflessi dorati, sormontando il colore acceso del liquido.
“Bene!” esclamò il tassista alzandosi a sua volta e prendendo il secondo siero. “Che dice? Giochiamo?” Si tirò su la manica, imitato dal consulente investigativo. La mano di Sherlock, armata di siringa, tremava appena, il braccio scoperto, così candido da lasciar intravedere la vena maestra, era freddo. “Ne è proprio sicuro, signor Holmes? Scommetterebbe la vita? Si annoia, vero? Un uomo come lei così intelligente… Ma che gusto c’è ad essere intelligenti se non riesce a dimostrarlo? Ora non si sta annoiando, vero?” continuò a sfotterlo il serial killer con calma innaturale. “Si sta div…”
Un latrato spezzò le parole dell’uomo. Holmes guardò la figura del tassista contorcersi dal dolore e crollare a terra, con la spalla perforata da un proiettile. Scavalcò agilmente un tavolo e osservò attraverso il pertugio creato dal colpo di pistola, verso il secondo edificio del college. I suoi occhi incontrarono solo il buio di un aula.
L’autista gemette, a terra, cercando di portarsi una mano alla ferita. Sherlock volò verso di lui e lo guardò con astio, concentrando su quel volto dolorante tutti i soprusi che lui, John e ogni altro Incompleto era costretto a subire.
“Va bene, mi dica questo: il suo sponsor, chi era? La persona di cui mi ha parlato, il mio ammiratore. Voglio un nome.”
Le labbra del serial killer tremarono appena mentre si schiudevano nel proferire un semplice no.
“Sta morendo, ma ho ancora tempo per farla soffrire. Mi dica quel nome.”
E nonostante il tono secco, le parole scandite, lo sguardo rabbioso, il tassista scosse stancamente la testa. Sherlock digrignò i denti, avvertendo l’ira montare: quell’uomo non solo aveva ucciso quattro persone, ma era in combutta con una delle più grandi minacce che avesse mai affrontato. Le parole di sue padre tornarono, mescolandosi ai suoi pensieri annebbiati, alimentando la fiamma d’odio e di furore che crepitava nel suo petto.
Vendetta.
Voleva vendetta. Non gl’importava che quell’individuo non c’entrasse direttamente con l’Inquisizione e le sue barbarie, non contava che non avesse mai pronunciato una sentenza di morte sul Justice Podium, perché la sete di sangue sconfinava in lui, implacabile, insaziabile.
Premette con forza la scarpa sulla ferita del tassista che urlò come una bestia in trappola, ferendo il silenzio della notte che abbracciava il college di Roland Kerr.
“Il nome!” gridò più forte, deliziandosi di quella lenta agonia che stava infliggendo ad un carnefice, ad un assassino. Di nuovo, l’uomo scosse la testa e Sherlock avvertì l’impulso irrefrenabile di premere più forte, scacciando ogni principio morale, ogni buon senso, ogni pietà.
E l’avrebbe fatto se una mano non si fosse serrata attorno al suo braccio, trascinandolo via. Il consulente investigativo si voltò di scatto, gli occhi che sprizzavano rancore, e chiuse le dita attorno al collo del suo aggressore.
“Sher…”
Improvvisamente, ogni cosa riacquistò colori neutri, diversi dal rosso. Sotto la sua presa salda, vi era John Watson, con un occhio semichiuso per il dolore e la mancanza di aria, e la mano stretta attorno al polso dell’altro.
Sherlock rimase qualche istante imbambolato, con gli occhi smarriti e le labbra semiaperte in un tentativo di emettere qualche parola. Quando tutto si fece nitido e cangiante intorno a lui, staccò violentemente la mano dal collo del fidanzato, guardando le sue stesse dita con orrore.
John tossì un paio di volte, massaggiandosi la gola e rivolgendo uno sguardo apprensivo ad Holmes. “Sherlock…”
“Sta’ lontano, John.” lo interruppe secco l’ex inquisitore, volgendosi nuovamente verso il tassista il cui colorito aveva assunto una sfumatura cinerea. Eppure, non gli importava. Era riuscito a rimanere impassibile di fronte all’esecuzione di migliaia di innocenti: perché preoccuparsi di un assassino? “Non la lascerò morire finché non mi avrà detto quel nome!”
Fece per calciare il corpo dell’autista, ma di nuovo John lo tirò via con forza, stavolta inchiodandolo al muro. “Sherlock, no!” E lo colpì. Uno schiaffo così forte da lasciargli un segno sullo zigomo pronunciato. “Non sei come lui! Non sei come loro!”
Sherlock fissò l’altro come se fosse pazzo. “Perché dovrei farmi problemi per dei miserabili come lui, mentre i suoi capi ci danno la caccia, giocano con noi e i nostri sentimenti, ci uccidono?!”
Lo sguardo di John si addolcì, nei suoi occhi un affetto e un’amarezza insondabili. Si sollevò appena sulle punte e poggiò le sue labbra su quelle del consulente investigativo. Quando si staccò accarezzò con la mano il segno dello schiaffo sulla guancia dell’altro.
“Perché loro non hanno questo. E non lo avranno mai, ricordi?”
In quel frangente, il volto di Sherlock si riempì di consapevolezza. Tutto l’odio e la rabbia che erano esplosi in lui sparirono, o forse si attenuarono solo, lasciando posto alla sensazione di aver rischiato di essere come loro, un’altra volta. Ma a impedirlo c’era stato John, un’altra volta.
Quando il medico capì che il coinquilino era tornato in sé, si staccò e si diresse verso l’autista che – sebbene ancora cosciente – era allo stremo delle forze. Non c’era niente da fare: sarebbe morto di lì a pochi minuti, ciononostante John si liberò della sua giacca e la premette contro la ferita del serial killer che puntò i suoi occhi velati dalla morte su di lui. Cercò di proferire un grazie, ma nulla uscì dalle sue labbra.
Watson sorrise appena e fece per alzarsi ma la mano del tassista si serrò attorno al suo polso e lo trasse a sé. “Moriarty.” sussurrò nel suo orecchio, poi ricadde pesantemente a terra con un sospiro.
 
***
 
La versione dei fatti che fornirono a Lestrade fu assai semplice: Sherlock aveva smascherato il colpevole che, avvertito il rischio, aveva cercato di farlo fuori e così era intervenuto John. Nella foga del momento le siringhe di vetro erano cadute a terra e i sieri si erano sparsi per il pavimento. Irrecuperabili.
Ora, Sherlock se ne stava seduto su un’ambulanza con Watson da una parte e Lestrade dall’altra.
“Moriarty…” ripeté pensoso l’ispettore al sentir pronunciare quel nome. “Non ho la più pallida idea di che cosa voglia dire, mi dispiace.”
Sherlock sbuffò, alzandosi in piedi e liberandosi di quella scomoda copertina arancione. “Dobbiamo scoprirlo al più presto. Odio il non sapere.”
Si allontanò assorto, perso nei suoi pensieri, seguito da John che salutò Greg e si scusò per il solito atteggiamento infantile del coinquilino. Mentre camminava dietro la figura del consulente investigativo, il medico ripensò a quanto era successo: Sherlock sapeva che sarebbe arrivato. Lo stava aspettando, ne era certo. Anche ora, dava per scontato che lui gli stesse trotterellando dietro. E in effetti, John si rese conto che era vero, che l’avrebbe sempre seguito, ovunque, che l’avrebbe sempre sostenuto e riportato in sé. Nei suoi occhi, quella sera aveva letto un dolore e una paura immensi che si erano condensati in odio, brama di vendetta, di sangue. E John stesso non poteva biasimarlo.
Si rese conto troppo tardi che Sherlock si era fermato e – perso nelle sue riflessioni – andò inavvertitamente a sbattere contro il coinquilino, immobile e statuario in mezzo alla strada. John guardò confuso la sagoma ritta e rigida del consulente investigativo.
“Sherlock?”
Gli occhi dell'altro erano fissi su un punto preciso. Il medico seguì a sua volta quello sguardo e il suo cuore perse un battito. Davanti a loro, fermo accanto a una macchina scura, in abiti eleganti e con a fianco una donna avvenente col naso attaccato al cellulare, stava Mycroft Holmes.
I due fratelli si scambiarono una lunga occhiata, un muto scambio. Le spalle di Sherlock si rilassarono di colpo, afflosciandosi quasi.
“Quando?” domandò.
“Un’ora fa.” rispose il maggiore.
John lanciò occhiate confuse prima ad uno poi all’altro, non capendo. “Cosa… Cosa è successo?”
Sherlock non si volse a guardarlo, anzi, fece un passo laterale per ripristinare fra loro un’adeguata distanza. “Mio padre. E’ morto.”

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Capitolo 14
*** CAPITOLO 13 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 13

 
Il corteo aveva dimensioni mastodontiche. Il centro di Londra era stato chiuso al traffico, le strade brulicavano di bandiere nere e rosse – i colori dell’Inquisizione –, un branco di persone in nero arrancava lungo le vie della capitale vigilate da un consistente numero di militari. Il cielo rigurgitava gocce di pioggia che intristivano quella lenta e inesorabile marcia diretta verso Buckingham Palace. La reggia, se possibile, era ancora più blindata della città, abbracciata da inferriate minacciose allestite in poco tempo, per tenere fuori coloro che non meritavano di entrare nel palazzo e assistere alle onorificenze del capo supremo dell’Inquisizione.
Tra tutte quelle teste confuse, quegli abiti scuri, quei volti straziati dal dolore, John poteva scorgere i riccioli corvini del fidanzato, appesantiti dalle lacrime false che anche il cielo versava. Durante quella lenta processione, Sherlock si voltò un paio di volte, cercando nell’accalcarsi di anime dannate e disperate, quella pura e luminosa del medico che però, essendo di statura infima, non riusciva a farsi localizzare da quegli occhi.
Non avevano più parlato dalla sera precedente. Holmes aveva seguito il fratello a palazzo per organizzare il funerale del padre e consolare la madre. Quella notte, Watson non aveva chiuso occhio, avvertendo un peso sconosciuto gravargli sul petto, opprimendogli il respiro. La mattina si era svegliato ancora più stanco della sera prima, si era gettato addosso controvoglia degli abiti scuri, di lutto, e si era avviato verso il punto di partenza della Grande Processione di cui tutti i maggiori capi dell’Inquisizione avevano diritto alla loro morte. John odiava l’ipocrisia, odiava fingere un dolore che in realtà non lo sfiorava neanche lontanamente. Dentro quella bara elegante di mogano, non vi era soltanto un prodigioso generale e una draconica autorità politica, ma anche gli strascichi di tutte quelle vite strappate via dal corpo degli innocenti che egli aveva condannato. Se c’era una persona che meritava di giacere morto, quella era proprio Siger Holmes. E lui non si sarebbe neanche presentato a quella ridicola dimostrazione di affetto di un Paese in gabbia nei confronti del suo condottiero, se non ci fosse stato Sherlock. Era per lui che camminava assieme a persone che molto probabilmente l’avrebbero voluto morto se avessero scoperto chi in realtà era, che cosa in realtà era. Era per lui che sopportava la pioggia, il vento, i tuoni. Per lui.
Il corteo funebre si arrestò di fronte all’imponente sagoma di Buckingham Palace. Lo stridore dei pesanti cancelli assordò ogni anima in pena intenta ad asciugarsi lacrime di dolore, mentre John rimase impassibile. I militari di guardia lasciarono passare i becchini che imbracciavano la bara e la famiglia del defunto, assieme ad uno sciame di Inquisitori. Il resto della popolazione fu tagliato fuori e stipato di fronte agli enormi proiettori allestiti per consentire a chiunque di assistere anche da fuori alla celebrazione.
John fissò con indifferenza quel rito ormai senza senso e senza moralità, ascoltò senza davvero ascoltare le bestemmie di un sacerdote che anteponeva l’Inquisizione a Dio, conferendo ad essa una sorta di apoteosi. Per un’istante, lo schermo venne inondato dal volto impassibile di Sherlock, dai suoi occhi distaccati, bellissimi. Il medico sospirò a quella visione, rammaricato: lo conosceva, lo conosceva meglio di chiunque. Dietro quello sguardo distanti, quel volto imperscrutabile… Si nascondeva il vero dolore che il giovane Holmes – in quel momento – provava. L’aveva capito l’altro giorno, quando Sherlock si era recato a Buckingham Palace. Lo aveva capito dal suo modo di studiarsi allo specchio, cercando un abito adatto, dalla sua febbrilità nei movimenti, dal leggero movimento verso l’alto che le sue labbra avevano avuto di tanto in tanto. Sherlock – suo malgrado – amava suo padre. Nonostante fosse un genocida, un despota, un tiranno, lui lo amava. Quante maschere che regnavano sul viso di Sherlock Holmes. E l’unica persona che era riuscito a sfilargliele tutte, era John Watson.
 
***
 
Sherlock salutò distrattamente la valanga di Inquisitori che si precipitò da lui per stringergli la mano e fargli le sue condoglianze. Li odiava tutti, dal primo all’ultimo. Erano solo uno stormo di avvoltoi pronti a cibarsi dei resti del potere che Siger Holmes aveva appena lasciato. Mycroft, accanto a lui, era impeccabile nel suo completo, nei suoi gesti, nelle sue parole. Se solo fosse stato come lui, se solo fosse stato cieco, se solo non fosse mai cambiato… Sarebbe stato tutto più semplice.
“Le mie condoglianze.” esordì la centesima voce, porgendo la centesima mano da stringere.
“Grazie.” rispose laconico, ma quando sollevò appena lo sguardo dalle sue dita intrecciate con quelle del nuovo arrivato, si paralizzò, sul volto un’espressione attonita. “Non è possibile.”
Un uomo dai riccioli ramati e penetranti occhi castani, lo fissava sorridendo debolmente, per quanto le tristi circostanze glielo permettessero. Il cuore di Sherlock ebbe un lieve sussulto a quella visione.
“E’ da un po’ che non ci si vede, eh Holmes?”
Sul volto del consulente investigativo si affacciò l’ombra di un sorriso sincero. “Trevor! Victor Trevor.”
 
***
 
Si sedettero in uno dei pochi bar aperti in quella giornata di lutto. Sherlock aveva inviato a John un messaggio conciso comunicandogli il suo rientro tardivo a casa e il medico aveva risposto che avrebbe passato la giornata alla fabbrica.
Victor non era cambiato in tutti quegli anni: aveva sempre la solita espressione sbarazzina e provocatoria, tipica di quando sfidava i professori in classe, scatenando l’ira di questi ultimi e l’ammirazione dei compagni. Sherlock non credeva esistesse – sulla faccia della terra – persona più diversa da lui. Ogni piccola molecola di Trevor era composta da un’allegria raggiante, contagiosa e la sua spiccata intelligenza – non paragonabile a quella di Holmes, ma comunque consistente – non era motivo di vanto o di beffe nei confronti degli altri. Victor aveva questa… visione bonaria del mondo: aveva la stupida convinzione che ogni essere umano meritasse di essere felice con chi e dove voleva. Stupida convinzione agli occhi dello Sherlock di una volta, già vittima della corrente della sua famiglia. Erano cresciuti insieme: da bambini avevano giocato ai pirati – Sherlock era Barbagialla e Victor Barbarossa –, da adolescenti si erano approcciati al mondo della chimica, scoprendosi entrambi grandi appassionati di quella materia, da ragazzi avevano frequentato lo stesso college e stretto un legame ancora più solido, ferreo, e una volta raggiunti i vent’anni… Victor era partito per Edimburgo. La nuova Università, aperta come trionfo sugli Jihadisti, offriva una formazione impeccabile e rigorosa sia in campo scientifico che in quello umanistico. Era stato il loro sogno fin da quando la scienza si era impossessata delle loro menti. Ma Sherlock era un Holmes e aveva altri obblighi. E pensare che Victor si era persino offerto di restare, di proseguire i suoi studi a Londra, ma lui l’aveva convinto a desistere da quelle intenzioni, a fare ciò che sognava, con la sola pretesa di tagliare ogni rapporto. Niente più contatti di nessun genere. Victor sarebbe dovuto sparire dalla sua vita.
E ora se lo ritrovava lì davanti, seduto con la sua solita posizione da hippy, intento a sorseggiare un cappuccino dall’odore invitante, mentre lui era intento a girare la sua zolletta di zucchero nel the.
“Che hai da guardare?” lo prese in giro il vecchio amico. “So di essere rimasto un giovane affascinante, ma davvero, non è il caso di divorarmi con lo sguardo.”
Per poco il liquido non gli andò di traverso. “Sei forse impazzito a scherzare su cose del genere? L’Inquisizione potrebbe… fraintendere.”
Victor inarcò un sopracciglio. “Okay… Giuro che non farò alcun tipo di avance nei tuoi confronti in pubblico.”
“Tu sei fuori di testa, Victor, lasciatelo dire.”
Trevor assunse un’espressione innocente. “Io?” Si guardarono per alcuni istanti, poi, entrambi scoppiarono a ridere. “Dovevi assolutamente vedere la tua faccia! Era qualcosa di impagabile!”
“Senti chi parla, sembravi uno stoccafisso.”
Faceva uno strano effetto ridere con un vecchio amico. D’accordo, da quando nella sua vita era entrato John gli capitava spesso di venire avvolto da un’atmosfera idilliaca e paradisiaca, che suscitava in lui una leggerezza e una serenità indescrivibili, eppure, con Victor c’era sempre stata quell’intesa, quella facilità nel loro rapporto, tutte cose che gli erano mancate terribilmente. Molte volte, dopo la loro separazione, aveva pensato di cedere, di sguinzagliare gli uomini di Mycroft per rintracciarlo e mettersi nuovamente in contatto con lui. Ma alla fine si era sempre rifiutato di dare ascolto a quella sfera di sé che rappresentava tutte le sue più grandi e scomode paure: quella dei sentimenti.
“Allora, che mi racconti? Che cosa fa il grande Sherlock Holmes, ultimamente?”
Sherlock bevve un sorso di the, sorridendo appena a quella domanda. “Ho una relazione con un sovversivo, nemico dello Stato, che manda avanti un’organizzazione a delinquere per salvaguardare gli Incompleti, e progetto di fuggire con lui a Cuba. Ah, ti ho raccontato del pazzo che mi sta ossessivamente dando la caccia? Pensavo di invitarlo a mangiare il fish and chips con me, una di queste sere.”
“Niente di che.” si limitò a rispondere. “Aiuto Scotland Yard con qualche caso, per tenermi occupato quando sono annoiato.”
Victor sgranò gli occhi, sinceramente colpito. “Ti sei ridotto a fare l’aiutante della polizia? Sul serio, Holmes?”
“Non è così male!” ribatté contrariato il consulente investigativo. “E di certo è molto più interessante che lavorare ai piani alti del governo dell’Inquisizione, come mio fratello.”
Victor terminò il suo cappuccino e ridacchiò quando capì che le sue labbra erano contornate da un alone di schiuma di latte. “E così hai lasciato.” disse pulendosi la bocca con un tovagliolo, lasciando intendere una domanda che Sherlock fu ben svelto a cogliere.
“Non c’è una ragione vera e propria. Solo… Ero stufo della vita monotona che conducevo.”
Bugia, bugia, bugia.
“Hai trovato una persona speciale?” domandò a bruciapelo l’amico, con sguardo serio.
Il consulente investigativo, sulla sedia, si agitò visibilmente. Quella domanda era stata così improvvisa, così… poco premeditata, così dannatamente scomoda! “C-cosa? No! Assolutamente no! Sai che cosa penso riguardo questo genere di cose! I sentimenti sono solo…”
“Un difetto chimico situato nella parte che perde… Bla, bla, bla. Lo avrai ripetuto un milione di volte, ma non credevo che ne avresti davvero fatto una filosofia di vita, come tuo fratello.”
Quell’osservazione provocò dell’amaro nella bocca di Sherlock: era davvero così che Victor lo vedeva in quel momento? Come un riflesso distorto di Mycroft? Faceva… male. Insomma, Victor era una delle persone a cui Sherlock aveva mai tenuto davvero e sapere che lo riteneva soltanto una fotocopia del fratello gli provocava una sensazione spiacevole. Perché Sherlock non era come Mycroft. Non era un mostro. Non era solo. Perché Sherlock aveva John. E quanto, quanto avrebbe desiderato dirlo ad alta voce, di fronte a quello sguardo così rassicurante e familiare, così amico e dolce. Infondo, era stato proprio Victor ad osare a battersi per i suoi ideali contro il figlio del capo dell’Inquisizione. Perché avrebbe dovuto considerarlo diversamente solo per il fatto di essere innamorato di un altro uomo?
“E tu? Hai finalmente messo la testa a posto o cambi ancora una donna al giorno come da ragazzo?”
Trevor scoppiò a ridere. “Mi ferisci, Holmes! Mi ha sempre mosso il solo desiderio di trovare la mia anima gemella! Se non provo, come faccio a saperlo?”
Sherlock scosse la testa, fintamente spazientito. “Ma dimmi un po’, che ci fai qui a Londra?”
L’altro sospirò, portandosi le mani dietro la testa, annoiato, simulando uno dei suoi gesti consueti quando erano ragazzi. “Lavoro. Sono qui da ormai più di un anno.”
Holmes aprì la bocca, come per dire qualcosa, ma poi la richiuse, distogliendo gli occhi. A Victor non sfuggì l’espressione ferita che s’impossessò del suo volto. “Lo so, scusa. Avrei dovuto cercarti, ma… ho avuto paura.” Sorrise timidamente. “Vedi Sherlock, io non ho più trovato una persona come te. Né a Edimburgo né in nessun’altra città in cui mi sono dovuto muovere per lavoro. Una volta a Londra ho subito pensato di provare a mettermi in contatto con te, ma poi mi sono ricordato del modo in cui mi hai detto addio, per messaggio, della tua richiesta di non contattarti più e… non so, ho pensato fosse meglio lasciare tutto così.”
Quelle parole infusero nell’ex Inquisitore un senso di beatitudine, di calma, e un sorriso compiaciuto comparve sul suo viso di solito così spigoloso e sprezzante. La sua testa, in quel momento, gli mandava segnali contraddittori che non riusciva a discernere né a interpretare…
Il cellulare vibrò, nella tasca di Sherlock. “Scusa.” biascicò lui, rivolgendosi all’amico. Quando sul display comparve il nome di John si sentì stranamente in colpa, come se avesse fatto qualcosa di ingiusto nei suoi confronti.
 
Ti va di raggiungermi alla fabbrica? Credo che ti farebbe bene stare un po’ qui con me, Clara e gli altri. JW
(Wed, 12:09 p.m.)

 
L’ex inquisitore si morse il labbro inferiore, leggendo quel messaggio ed essendo consapevole che non aveva alcuna intenzione di interrompere quel momento assieme a Victor. Ciononostante digitò in fretta la risposta, accettando l’invito e chiedendogli la locazione esatta del covo.
“Vic, io… Devo andare.” sussurrò Sherlock alzandosi in piedi, afferrando la sciarpa blu che aveva appoggiato sullo schienale della sedia e cingendosi con essa il collo.
“Oh, sì, certo.” fece Trevor alzandosi a sua volta e recuperando anche lui cappotto e l’ombrello. “Tanto, ora che ci siamo rivisti, ho il sospetto che ci rincontreremo più spesso.”
Sherlock lasciò il denaro sul tavolo, insistendo per offrirgli il cappuccino e trascinandolo fuori prima che potesse controbattere.
“Dove abiti ora?”
Trevor scrollò le spalle. “Un po’ in giro. Dove trovo una stanza libera. Sai, non sono molto pratico del centro di Londra e fino a poco tempo fa vivevo in periferia, ma ora ho bisogno di una sistemazione in centro.”
“Potrei sentire la signora Hudson, la mia padrona di casa. Di certo lei sarà a conoscenza di qualche affare conveniente.”
Gli occhi dell’amico si accesero. “Sul serio? Te ne sarei infinitamente grato.”
“Lasciami il numero, almeno quando verrò a sapere qualcosa potrò informarti.”
Victor lo guardò con un sorriso sornione. “Dillo che è solo una scusa per invitarmi ad un appuntamento galante.”
Sherlock rise, dandogli una pacca amichevole sulla spalla, e si appuntò il numero nella rubrica del telefono, così che sopra al nome di John vi fosse quello di Victor. L’aveva già imparato a memoria, eppure aveva paura che svanisse, che se ne andasse dai suoi ricordi. E l’ultima cosa che voleva era perdere di nuovo il suo migliore amico.
 
***
 
Sherlock si avventurò cautamente per le strade di Peckham, guardandosi le spalle, aspettandosi quasi che qualcuno avesse potuto saltargli addosso da un momento all’altro. I suoi pensieri tornarono alla sera prima, a quel nome sussurrato nell’orecchio di John, a quella rabbia indomabile che aveva provato. Chi era Moriarty? Aveva fatto una meticolosa ricerca nell’archivio dell’Inquisizione, quella notte, ma non aveva trovato niente di niente.
Si sentiva irrequieto, osservato, studiato. Anzi, no. Ne era certo. Qualcuno si stava aggirando fra quelle stradine, pedinandolo. Aumentò il passo, svoltò varie volte alla cieca, fece dietrofront un paio di volte, ma sulla sua strada non incontrava mai nessuno. Chiunque lo stesse seguendo conosceva bene i dintorni, sapeva come e dove muoversi per eludere la sua tattica. E questo poteva significare solo una cosa: erano stati già molte altre volte lì. Quel pensiero lo fece rabbrividire. Si immaginava John, Clara, Molly, osservati dall’ombra di qualche angusto nascondiglio, derisi per la loro ingenuità…
Fece per cambiare nuovamente direzione, nell’ultimo, disperato tentativo di intrappolare chiunque lo stesso seguendo, quando un paio di mani forti lo sbatterono al muro del rudere di una casa diroccata, inchiodandolo alla pareti fatiscente. Quando riaprì gli occhi il suo intero corpo, prima teso nello sforzo di resistere, si rilassò.
John catturò le sue labbra in un bacio traboccante di passione che gli fece dimenticare che erano allo scoperto, che era comunque pericoloso scambiarsi effusioni in un luogo – sebbene abbandonato – rischioso. Quando si separarono, Sherlock scoprì il volto di John contorto nello sforzo di non scoppiare a ridere.
“E così il dottor Watson è riuscito perfino a mettere nel sacco l’inquisitore Holmes.”
“Consulente investigativo.” corresse l’ex inquisitore. “E comunque non mi hai messo nel sacco. Se avessi voluto, attaccato a questo muro ci saresti tu.”
“Stai dicendo che ti piace quando sono io a prendere l’iniziativa?”
Sherlock non rispose e si sporse per incontrare nuovamente la bocca del medico che sapeva di menta, di fresco. John dovette costringersi a spingerlo via prima che entrambi perdessero completamente la testa. “Dopo.” sospirò solo a fior di labbra, prima di scoccare un ultimo, affettuoso bacio sulla bocca del consulente investigativo.
Le dita del medico corsero verso quelle di Holmes e s’intrecciarono formando un unicum indissolubile. “Vieni.” sussurrò trascinandolo quietamente attraverso gli ultimi vicoli da percorrere prima di giungere alla fabbrica. Giunsero di fronte ad un imponente edificio dalle pareti annerite, con un pesante portone di metallo. John bussò seguendo il codice e non dovettero aspettare molto perché un ragazzo cinese venisse loro ad aprire.
“Finalmente, signor John, cominciavamo a preoccuparci.”
“Ciao Tao, scusa ma qualcuno mi ha fatto aspettare.”
Sherlock fece la sua tipica faccia distaccata, innocente, che gli fece guadagnare un pizzicotto del medico alla coscia.
Entrarono e per Holmes fu come essere catapultato indietro di due anni. Rivedeva la fattoria, unico edificio localizzabile in quella che ormai era una vera e propria steppa, una terra brulla. Rivedeva gruppetti di Incompleti scambiarsi storie, sedere assieme durante i pasti, giocare, farsi forza a vicenda… Gli era mancato tutto quello. Si guardò intorno sorridendo e si decise che sì, trascorrere il pomeriggio in quel posto con quella gente non aveva niente in confronto col passarlo assieme a Victor che, sebbene gli fosse molto affezionato, non avrebbe mai potuto dargli l’emozione che provava in quel momento o quando John lo aveva baciato con quella passione travolgente, pochi minuti prima.
“Giro turistico?” propose Watson compiaciuto dell’espressione dell’altro.
“D’accordo.”
Il medico gl’illustrò le varie ali della fabbrica – la cucina, il dormitorio, la stanza dei giochi, il magazzino –, gli presentò chiunque incrociassero, trascorrendo un paio di minuti a conversare felicemente, e gli diede un secondo, appassionato bacio per zittirlo quando fece un commento poco gentile sul suo modo stupido di rapportarsi con quella gente.
“Questa credo che sarà la stanza che amerai di più.”
Sherlock inarcò un sopracciglio, dubbioso. “Non dirmi che sono i bagni perché giuro che non rispondo di me stesso.”
“Sarei tentato, ma no, non sono i bagni.”
Con fare misterioso John aprì un porta marrone, di legno, che stonava col resto dell’edificio. Dietro di essa, vi era una stanza dalle dimensioni ridotte ma comunque accogliente, caratterizzata dalla presenza di un bancone candido e di qualche credenza su cui sfilavano strumenti d’uso scientifico. Gli occhi del consulente investigativo sprizzavano euforia da tutti i pori. Si diresse praticamente saltellando verso la credenza e controllò gli strumenti a uno a uno, accarezzandoli con fare quasi materno.
“Sei un idiota.” lo sfotté Watson cingendogli da dietro la vita con le braccia. “Solo un idiota può eccitarsi tanto per qualche provetta e un microscopio.”
“Non mi sto eccitando.”
John poggiò il mento nell’incavo tra il collo e la spalla di Sherlock, ridacchiando. “Sì, invece.”
Sherlock si girò appena, quel tanto che bastava perché i loro nasi si sfiorassero. “Sapessi cos’è davvero in grado di eccitarmi, John.”
Watson si ritrasse con un’espressione fintamente schifata in volto. “Cristo Sherlock, vergognati. Potrebbe entrare in qualsiasi momento un bambino.”
Holmes scrollò appena le spalle. “Devono scoprire prima o poi che i bambini non li portano le cicogne.”
“Sei davvero pessimo.” concluse il medico con un sospiro esasperato.
“Per cosa utilizzate questo laboratorio?” chiese Sherlock afferrando una provetta con dentro un liquido difficile da identificare e avvicinandosi al microscopio già posizionato sul bancone.
John si appoggiò al tavolo, guardandolo mentre si metteva all’opera come un bambino con qualche gioco della realtà virtuale che tanto andavano di moda in quel periodo. “Lo usa Molly quando deve portarsi qualcosa da casa per scopi lavorativi. Dato che ormai passa la maggior parte del tempo qui ha spostato la sua attrezzatura in modo da poterne usufruire liberamente anche qui.”
“Mossa intelligente, lo ammetto.”
Stava per mettersi a sperimentare qualche delle sue genialate quando dalla porta sbucò la figura di Molly. “Oh, Sherlock! E’ una vera sorpresa trovarti qui!” cinguettò avvicinandosi. “Mi fa piacere vederti anche perché così, almeno, posso dire di non aver combinato un totale disastro…”
John incrociò le braccia al petto e aggrottò la fronte, mentre Sherlock non la degnò di un briciolo di attenzione. “Che hai combinato, stavolta, Molly?”
La ragazza prese a tormentarsi le mani e si colorò di rosso effettuando la perfetta imitazione di un pomodoro. “Io… Non so neanche come mi sia venuto in mente, però…”
Non fece in tempo a finire che la porta si aprì una seconda volta e da essa fece capolino la testa di un giovane uomo. Come lo vide, John sussultò, in preda al panico, ma quando si accorse dell’espressione rilassata della collaboratrice nel veder entrare quello sconosciuto, si calmò appena.
“Posso?” domandò con voce gentile il nuovo arrivato.
“Certo, Jim! Entra, entra…” Lo sguardo che rivolse al medico fu di completa supplica e di pentimento. “Jim… lui è John Watson, il pilastro dell’attività…”
“Oh!” esclamò con meno enfasi di quello che voleva mostrare il ragazzo. I suoi occhi scattarono verso la figura del moro, ancora intento ad analizzare chissà che sostanza. “E lui?”
“Lui è il suo coinquilino nonché amico fidato, Sherlock Holmes.”
John squadrò con diffidenza il nuovo arrivato, avvertendo una strana sensazione allo stomaco. Quel… Jim, chiunque egli fosse, stava letteralmente… divorando con gli occhi il suo coinquilino. Suo coinquilino.
“Allora sei tu sei Sherlock Holmes. Molly mi parla spesso di te.” cominciò Jim avvicinandosi lievemente al consulente investigativo, quasi per indurlo a considerarlo. “Mi ha raccontato che hai una vasta conoscenza della chimica. Ti ammira molto.”
Le guance di Molly s’imporporarono, colorandosi appena di rosso, mentre si affrettava a balbettare qualcosa che sviasse l’attenzione dei presenti sulle ultime parole del ragazzo. “Jim lavora al reparto informatica, ci siamo conosciuti al Barts. Una storia tra colleghi.”
Sia lei che il fidanzato ridacchiarono appena, costringendo Sherlock ad alzare gli occhi dal microscopio, ormai conscio di aver completamente perso la tranquillità necessaria per concentrarsi. Guardò il nuovo arrivato per pochi secondi, prima di mormorare la sua sentenza: “Gay.”
“Come scusa?” domandò l’anatomopatologa mentre il suo sorriso si spegneva.
“Niente, ehm… Ciao.”
John si trovò Jim davanti, sulla linea immaginaria che collegava perfettamente lui e Sherlock, e quello gli provocò un fastidio insormontabile.
“Gelosia? Sul serio John?” pensò mentre scoccava un’occhiata truce all’informatico che sembrava completamente perso nel contemplare Sherlock. “Ciao…” mormorò quello con voce quasi incantata facendo inavvertitamente cadere un piattino di latta dove l’ex inquisitore aveva poco prima appoggiato la siringa vuota. “Scusa!” esclamò Jim, chinandosi repentinamente a raccoglierlo per rimediare al disastro da lui combinato. John alzò gli occhi al cielo, sconvolto dall’impaccio del nuovo arrivato, mentre Sherlock assumeva un’espressione quasi scandalizzata. I loro occhi si incontrarono nel frangente in cui entrambi stavano osservando quanto fosse imbarazzante l’atteggiamento maldestro di quel tipo e consapevoli che il pensiero dell’uno era stato il medesimo dell’altro, trattennero una risatina.
Molly si avvicinò al fidanzato e lo prese per mano. “E’ meglio che andiamo…”
“No, Molly.” la fermò però il medico, una volta ripresosi dallo sguardo complice con il coinquilino. “Dobbiamo parlare. In privato.”
La ragazza sospirò e chiese a Jim di aspettarla di fuori. Lui si affrettò ad annuire, intuendo la gravità della situazione, ma prima di andare si voltò un’ultima volta verso il consulente investigativo, di nuovo assorto nel suo studio. “Ciao… E’ stato bello conoscerti.”
Seguì qualche secondo carico di un silenzio a dir poco imbarazzante, spezzato infine da John che controvoglia rispose: “Anche per lui.”
Jim lanciò uno sguardo vacillante tra il ferito e l’ammirato in direzione di Sherlock e quando comprese che non avrebbe ottenuto da lui il minimo saluto, sgattaiolò via con le orecchie in fiamme.
Una volta rimasti soli loro tre, Molly prese un respiro profondo. “John, prima che tu possa dire qualsiasi…”
“Che diavolo ti è saltato in mente?” la interruppe il dottore alzando la voce. “Sei forse impazzita ad aver portato con te uno sconosciuto? Nel nostro covo, poi!”
“John, capisco che tu sia arrabbiato, ma io mi fido di lui e-e stiamo insieme, così… h-ho pensato di condividere con lui tutto ciò che riguarda la mia vita.”
John assunse un’espressione fintamente comprensiva. “Ma davvero? E per questo tuo desiderio romantico hai appena messo in pericolo la vita di ognuno di noi, te ne rendi conto?”
Molly strinse i pugni e cercò di raccogliere un minimo di coraggio. “T-tu sei l’ultima persona che può farmi la morale. Anche tu hai portato Sherlock prima alla fattoria e adesso qui!”
“Ma con lui è stato diverso! Abitando insieme mi è stato impossibile ad un certo punto non confessargli tutto.” si difese il medico. “E poi, con tutto il rispetto, quel tipo non mi sembra poi chissà che. Sei davvero sicura che tu ti possa fidare di lui?”
“Tra l’altro è gay.” fece notare Sherlock senza distogliere gli occhi dalla struttura molecolare della sostanza.
“Sta’ zitto.” lo rimbeccarono in coro i due collaboratori.
“E’ il mio fidanzato, di certo non è gay, ed è la persona più buona che io abbia mai conosciuto! Non farebbe niente, niente per fare del male a me o a ciò che amo, come quest’attività.”
Molly aveva gli occhi lucidi e il fiato corto. John si rese conto solo in quel momento di quanto fosse stato duro con lei: in fondo, non se lo meritava. Era sempre stata disponibile, leale, gentile…
“Molly…” sussurrò allora pentito. “…Scusa. E’ che… non so, tienilo d’occhio, okay?”
La ragazza non rispose, si limitò a voltarsi e a fiondarsi fuori dal piccolo laboratorio.
“Poi sono io quello che non è gentile.”
“E’ diverso, io ho perso per un attimo le staffe e ci è andata di mezzo Molly. Non provare a giustificare i tuoi comportamenti soliti.”
L’angolo sinistro della bocca di Sherlock guizzò verso l’altro, compiaciuto di quell’adorabile lato esasperato che il suo coinquilino gli stava mostrando.
“Comunque, da un lato ha ragione. Insomma, tu hai accolto nientemeno che il figlio del capo supremo dell’Inquisizione.” ricordò, ridacchiando, al medico che però mantenne uno sguardo impassibile.
“Non ti permetto di paragonarti a chiunque di quei folli. E inoltre… Tu non sei neanche lontanamente simile a quel tizio.”
Sherlock ridacchiò staccandosi finalmente dal microscopio e puntando gli occhi in quelli di Watson. “Lo spero bene. Hai visto quelle mutande – visibili sopra la vita? Non credo di aver incontrato una persona con uno stile d’abbigliamento più discutibile di quello che indossava lui!”
John ridacchiò appena, passandosi inconsapevolmente la punta della lingua su un labbro – tic consueto che si affacciava ogni qualvolta era emozionato o nervoso – e si avvicinò di nuovo al coinquilino, colmando la distanza creata precedentemente dalla presenza del fidanzato di Molly. “Sì, ho notato anch’io… Soprattutto ho visto il modo in cui ti guardava.”
Holmes assunse un’espressione fintamente inconsapevole. “Davvero? Come mi guardava?”
John alzò gli occhi al cielo e portò le mani ai fianchi di Sherlock che – seduto su quello sgabello rialzato – era alla sua stessa altezza. “Come se volesse fare qualcosa di questo tipo…”
“John, credo che tu non sia obbiettivo: la verità è che tu giudichi le sue occhiate esplicite solo perché non puoi vedere lo sguardo che hai tu ogni volta che posi i tuoi occhi su di me.”
Watson fece ancora un passo in avanti, azzerando quasi del tutto la loro distanza. “Ti voleva saltare addosso, te lo dico io.”
“Probabile, ma non si può biasimare: sono sempre stato un tipo pieno di risorse, carismatico, enigmatico…”
“Modesto.” aggiunse il medico mentre le mani del coinquilino si poggiavano dolcemente sulle sue.
“…E tu, tu, John Watson, meglio di chiunque, dovresti capire il fascino che esercito sulla gente. Tra l’altro, mi ha anche lasciato il numero sotto il piattino.”
John aggrottò la fronte mentre guardava il coinquilino tirar su il piatto, mostrando un numero telefonico e un’infantile cuore sotto.
“Oddio…”
“Che dici, dovrei chiamarlo subito? Le ragazze del mio college parlavano di una certa regola delle… tre ore? Non ricordo con precisione.”
“Sherlock, di’ un’altra parola e non rispondo delle mie azioni.”
“Oh, non avevo capito che interessasse a te. Beh, in questo caso mi faccio da parte, tieni il numero.”
“Sherlock, sto davvero facendo fatica a non strangolarti seduta stante.”
“Ci sono! Ho risolto il problema. Possiamo fare una bella cosa a tre.”
“Ora sono sicuro che ti ucciderò.” sentenziò infine John staccandosi da Sherlock con sguardo offeso.
“John!”
Una voce echeggiò alle loro spalle. La porta venne spalancata da Clara, ansimante, con la fronte imperlata da piccole goccioline di sudore, spettinata. Si stupì nell’istante in cui i suoi occhi incrociarono quelli di Sherlock. “Sherlock… Non sapevo fossi qui.”
“Ehi, Clara.” la salutò cordialmente lui sorridendole. “Posso chiederti perché hai corso così tanto fino a qui?”
“Sai quei quattro Incompleti che se ne sono andati l’altro giorno?” chiese lei rivolgendosi a John che si limitò ad annuire. “Ho controllato ogni telecamera di ogni negozio di ogni isolato qui intorno. Niente di niente. E’ come se fossero svaniti nel nulla.”
“Quali Incompleti?” s’intromise il consulente investigativo.
John si appoggiò di schiena al bancone. “Dopo che è arrivato quel messaggio… Beh, alcuni non se la sono sentita di restare e se ne sono andati una notte, a nostra insaputa. Il problema è che non conoscono la città, sono soli contro una popolazione di fiere e non hanno la minima idea di dove potersi rifugiare. Sono due giorni che io e Clara li cerchiamo senza sosta ma… ancora non abbiamo raccolto nessun indizio e cominciamo a temere che siano finiti nelle mani degli inquisitori.”
Sherlock annuì un paio di volte, sospirando. “Capisco… Suppongo che sia tutta colpa mia.”
“No, è colpa di quel matto che ti sta dando la caccia.” replicò Clara con fermezza. “Dobbiamo… continuare a cercarli. Li troveremo.”
Vennero interrotti da un timido bussare alla porta. “Posso?” pigolò la voce di un bambino dalla pelle diafana e gli occhi e i capelli chiarissimi. Un albino.
“Vieni, Sam.” lo accolse calorosamente John. “Che cos’hai, piccolo?”
Il bambino restò in silenzio per qualche istante, infine protese la mano che fino a quel momento aveva tenuto nascosta dentro la tasca della felpa verde. “Io… h-ho trovato questo sopra uno dei tavoli della cucina.”
Era una busta rossa, sigillata da una M nera e sul cui retro era scritto elegantemente Sherlock. L’ex inquisitore scattò in piedi, scosso da una scarica di adrenalina incontrollabile. Strappò dalla mano del bambino la busta e la studiò intensamente. Avvertì indistintamente la voce di John borbottargli qualcosa dietro, ma in quel momento anche il suo fidanzato passava in secondo piano. Il tassista aveva detto che quel Moriarty si era stancato di giocare con lui, che le danze dovevano finire, ma allora… perché quella busta?
“I-in realtà c’era a-anche una rosa.” continuò il bambino confortato dall’abbraccio materno di Clara che ora lo stringeva a sé affettuosamente.
A quelle parole, il sorriso di Sherlock si fece ancora più compiaciuto: decisamente i giochi erano ricominciati. Aprì la busta con cura, servendosi del taglierino che gli porse Clara, ed estrasse la pergamena racchiusa in essa. Profumava. Una fragranza maschile, virile. Srotolò il foglio con lentezza, solennità, pregustando la battaglia contro quel famigerato Moriarty.
Un’unica riga campeggiava all’inizio della pagina: A quanto pare sei riuscito a sorprendermi di nuovo. Continua ad intrigarmi, Sherlock Holmes.
Sotto, il solito messaggio criptato.
 

 
Sherlock ridacchiò maliziosamente come una ragazzina che raccontava alle amiche la serata trascorsa ad essere corteggiata. Beh, si aspettava qualcosa di meglio, quello era certo. Piuttosto semplice come codice. Era il così detto cifrario pigpen, nulla di eclatante, nulla di infattibile. Stava tutto nel ricordarsi a quali lettere corrispondessero i vari simboli, tutto lì. E questo, per un individuo munito di un Palazzo Mentale delle dimensioni consistenti, come Sherlock, non era un problema.
Senza smettere di sorridere e di guardare il codice porse il palmo della mano destra a John e a Clara, masticando qualche parola come una penna. Il medico frugò freneticamente nelle tasche finché le sue dita non incontrarono la penna a sfera senza cui non usciva mai – un abitudine della sua professione di medico –. La pose con malagrazia nella mano di Sherlock, sibilando irritato: “Ti stai divertendo?”
“Sto cominciando a farlo.”
C’erano certe volte, rare volte, in cui John si faceva alcune domande sulla personalità del coinquilino: come poteva passare da un comportamento così dolce e avvenente a un atteggiamento così rude e menefreghista? Stentava a credere che lo stesso Sherlock Holmes che lo stuzzicava con battute provocanti e lo baciava con amore fosse lo stesso che aveva in quel momento davanti.
“Fatto!” esclamò Holmes lasciando andare platealmente la penna e esibendo agli altri due il suo operato. Affianco ad ogni simbolo, Sherlock aveva scritto la corrispettiva lettera dell’alfabeto.
 


"Sherlock... ti ho trovato."
 
SPAZIO AUTRICI
Ciao a tutti! Abbiamo avuto un piccolo problema e quindi stiamo ricaricando tutti i capitoli compattandoli. Le immagini potrebbero non essere visualizzabili... Ehm... già. E' comunque il terzo messaggio cifrato su The Science Of Deduction. Scusate per tutti questi problemi! 

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Capitolo 15
*** CAPITOLO 14 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 14
 
John si sedette al tavolo con un sospiro stanco, affondando il viso nei palmi delle mani davanti alla sua tazzina di caffè mattutino che la signora Hudson aveva appena portato.
“Dove hai dormito?”
Sherlock, accanto a lui, con il giornale che gli schermava metà volto, protese una mano verso uno dei biscotti caserecci della padrona di casa. “Non ho dormito. Ho fatto delle ricerche nell’archivio digitale dell’Inquisizione, cercando informazioni riguardo gli ultimi arresti effettuati.”
“Hai ancora accesso a dati così importanti?”
“Naturalmente mio fratello ha cambiato la password, ma ci ho impiegato solo trentasette secondi esatti per capire quale fosse. Non è di certo fort nox.”
John fece schioccare la lingua, impressionato. “Trovato niente?”
Il consulente scosse appena la testa, completamente assorto in quello che stava leggendo.
“Da quando leggi i giornali?”
“Non sto leggendo le notizie, ma annunci di case in vendita in centro.”
“Vuoi già chiedere il divorzio?” scherzò il medico intrecciando le dita davanti a sé.
“Non essendo sposati, John, lo ritengo impossibile. Meglio comunque tenermi sempre aperta una via di fuga.”
“Cos’era, una battuta? No, non faceva ridere.”
Sherlock ridacchiò alla vista della faccia corrucciata del coinquilino. La signora Hudson entrò nella stanza canticchiando allegramente, munita di aspirapolvere e stracci, pronta a cominciare l’opera di pulizia che John le aveva promesso tempo addietro.
“Signora Hudson!” la chiamò Holmes scattando in piedi e facendola appena sussultare. “Ha a disposizione altri appartamenti da queste parti?”
La donna sbatté ripetutamente le palpebre, perplessa per quella domanda. “Io… Sì, certo, c’è il 221A e il 221C. Ma perché lo vuole sapere, caro?”
“Un mio amico ha bisogno di un posto dove abitare, in centro, e mi sono offerto per…”
“Aspetta, aspetta, aspetta.” lo bloccò John protendendo verso di lui una mano, enfatizzando il suo comando. “Ho sentito bene? Hai detto amico?”
“Amico, sì. Perché?”
L’espressione di John passò da stupita a completamente sbigottita. “Sherlock, sei consapevole che in questi tre anni tu non hai mai, e dico mai, parlato di amici?”
Sherlock fece un gesto d’insofferenza con la mano, sminuendo quell’affermazione che sapeva essere vera. “Non esagerare, adesso. Comunque, questo amico si chiama Victor, siamo praticamente cresciuti insieme e da che ricordo siamo sempre stati amici. Poi lui si è trasferito a Edimburgo per frequentare la nuova università e ci siamo persi di vista. Ci siamo rincontrati al funerale di mio padre, abbiamo parlato un po’ ed è venuto fuori che aveva bisogno di un posto dove stare.” Si rivolse alla padrona di casa. “Quando sarebbe disponibile per mostrare i due appartamenti?”
La signora Hudson controllò l’ora sul suo orologio da polso. “Ho solo bisogno di un paio d’ore per rimettere a lucido questo posto… Per me si potrebbe anche fare alle dieci.”
Sherlock afferrò il telefono e scrisse velocemente il messaggio.
 
Ci vediamo alle 10 in Baker Street. Per le indicazioni cerca su internet. SH
(Thu, 8:02 a.m.)
 
Okay, capo! ; ) V
(Thu,8:03 a.m.)

 
“Gli hai scritto?” domandò John sporgendosi impercettibilmente verso il cellulare dell’altro.
“Sì, ci vediamo alle dieci qui sotto.”
“Vi dispiace se ci sono anch’io?”
Sherlock inarcò un sopracciglio. “No, affatto. Anzi, sono sicuro che andrete d’accordo. Victor è la classica persona che riesce a conquistare tutti.”
Watson sorvolò su quelle parole discutibili e assunse un’espressione seria. “Dovremmo parlare.”
“Di che cosa?”
Il medico sorrise appena. “Da dove cominciare… Di come ti senti dopo il funerale, dei messaggi di quel tipo, di noi…”
Il consulente investigativo fece scivolare la mano sul ginocchio dell’altro, sotto il tavolo, e cominciò ad accarezzarlo con delicatezza e uno sguardo affettuoso. “Ti preoccupi troppo, dottore.”
John poggiò la mano su quella del fidanzato. “Come faccio a non preoccuparmi?”
“Per la storia di mio padre… Sto bene. Sono nella fase in cui sto cominciando ad interiorizzare la sua scomparsa. Riguardo Moriarty, se devo essere sincero comincio ad essere irrequieto: sa troppe cose su di me, su di te, sul covo degli Incompleti. E a questo discorso ci agganciamo noi due.” Intrecciando le loro dita, Sherlock indusse dolcemente il coinquilino ad alzarsi insieme a lui. “Ho parlato con Clara. Abbiamo avviato la pianificazione della nostra partenza per Cuba.”
John lasciò che le braccia del coinquilino gli cingessero la vita, attirandolo ancora più vicino a sé, ad una distanza che – sebbene ormai fosse consueta – gli provocò un’accelerazione del battito cardiaco. “Come faccio ad andarmene, Sherlock? Come faccio a lasciarli?”
Sherlock comprese che l’altro alludeva alla comunità di Incompleti di cui si occupava. “Ti sei occupato di loro per anni. Non meriti anche tu di essere felice?”
Il medico abbandonò la testa sul petto del coinquilino, strusciando il volto sulla sua camicia viola. “Lo so… Ma non posso abbandonarli. Come potrei essere felici sapendo che ho lasciato delle persone indifese?”
Holmes sorrise debolmente fra le ciocche dorate dell’altro. Stupido, ingenuo John Watson. Altruista John Watson. Benedetto John Watson.
Lo strinse con forza, fregandosene di potergli far male, di poterlo soffocare. Non era tanto il suo corpo che voleva sentire premuto contro di sé, quanto la sua anima, il suo cuore, la sua essenza.
“Sherlock… così mi strozzi.”
Sherlock lo ignorò e prese ad accarezzargli la nuca. “Ti porterò via.”
“Sei diventato una sorta di principe azzurro?”
“Ti porterò via.” ripeté il consulente investigativo. “Ma prima ci occuperemo della fuga di tutti gli Incompleti che state ospitando. Una volta che saranno tutti al sicuro a Cuba, sarà il nostro turno, okay?”
John rise, annuendo stupidamente un paio di volte, senza smettere di abbracciarlo. “Cos’ho fatto?”
“In che senso?”
“Per meritare te.”
“Tutto, John Watson. Tutto.”
E quelle parole vennero suggellate da un bacio tenero, a fior di labbra, che tanto ricordò la prima volta che le loro bocche entrarono in contatto l’una con l’altra, quella lontana sera, ubriachi e inconsapevoli.
 
***
 
“Holmes!” urlò Victor correndogli incontro, sbracciando, esageratamente euforico.
“Trevor.” rispose Sherlock sorridendo e lanciando uno sguardo divertito al coinquilino che si teneva leggermente in disparte, dietro di lui, come timoroso di quell’incontro.
“Sei in ritardo di tredici minuti.”
Trevor alzò gli occhi al cielo, piegandosi un istante sulle ginocchia, nel tentativo di riprendere fiato. “Hai detto Baker Street, non hai specificato in che parte.”
“Ah, sarebbe colpa mia?”
“Effettivamente, Sherlock, avresti anche potuto comunicargli l’indirizzo.” osservò John facendo un timido passo avanti, senza osare però affiancare il coinquilino.
Gli occhi di Trevor si posarono ridenti sulla figura del medico. “Dio sia ringraziato! Una persona normale che capisce.”
Sherlock passò lo sguardo da uno all’altro, indispettito. “Bene, vedo che v’intendete già a meraviglia.”
Victor scoccò un occhiolino divertito in direzione del medico. “Non ci hai ancora presentati, Holmes.”
“Victor, ti presento il mio amico John Watson.”
“Collega.” si affrettò a correggerlo John, improvvisamente spaventato che sarebbe potuto trapelare qualcosa del loro rapporto.
“Collega, eh? Quindi lo segui in questa folle cosa dell’aiutare Scotland Yard? Ti ha pagato o hai firmato un contratto sotto tortura?”
Watson rise, ignorando lo sguardo inviperito di Sherlock. “Credo fossi ubriaco quando è cominciato tutto.”
Sentì gli occhi del coinquilino su di sé e avvertì la voglia di sfiorargli appena la mano, anche solo per un istante, giustificandolo poi come un gesto accidentale, ma si trattenne.
“Già, a dire il vero eravamo entrambi ubriachi.” si trovò a pensare con un mezzo sorriso.
“Adesso mi è tutto più chiaro… Trevor.” si presentò Victor porgendogli la mano. “Victor Trevor, un vecchio amico di Sherlock.”
“Io e John abitiamo insieme al 221B, la casa esattamente opposta a questa. Sarebbe bello se venissi ad abitare qui.” constatò Sherlock girando la chiave fornitagli dalla signora Hudson – ancora troppo impegnata nell’impresa di pulizia del loro appartamento –.
“Ah, siete coinquilini?”
“Già.” rispose John invitandolo ad entrare. “Ci siamo trovati entrambi sfrattati e con pochi soldi in tasca. Il nostro incontro aveva del surreale, vero Sherlock?”
Il consulente investigativo, davanti a loro, ridacchiò divertito. “E’ stato davvero terribile. John è un dottore, io stavo poco bene e così sono andato al suo ambulatorio per farmi visitare. Non ricordo nemmeno com’è saltato fuori il discorso della convivenza… fatto sta che il giorno dopo abbiamo cominciato a vivere assieme. Sono passati più o meno tre anni…”
Victor ascoltava interessato la loro storia, più che prestare attenzione alla casa. “Wow… Devo farti i miei complimenti, John: passare tre anni con Sherlock ed essere sopravvissuto senza ucciderlo è davvero un’impresa non da poco.” Sferrò un coppino amichevole a Sherlock che lo guardò in cagnesco, provocandogli una risata cristallina. “Al liceo lo odiavano tutti… Sapeva sempre con chi avevi passato la notte solo guardando come ti eri sistemato quella mattina o da qualche altro particolare insignificante. Era davvero irritante agli occhi di tutti.”
“Mi sembra che tu non ti sia mai lamentato della mia compagnia.” lo rimbeccò Holmes, infastidito dai commenti dell’amico.
Il sorriso solare di Victor sfumò lentamente, lasciando appena un’ombra sulle sue labbra. Guardò Sherlock per qualche istante, con occhi nostalgici e con… qualcos’altro di indefinibile. “Io non sono tutti, Sherlock.”
Anche Sherlock s’immobilizzò, fermando il suo sbrigativo tour del 221A, e scrutò quegli occhi nocciola così profondi eppure così cristallini. John percepì una strana tensione, un magnetismo quasi palpabile… Si sentiva di troppo. Si sentiva d’intralcio. Guardò di sottecchi l’espressione del fidanzato e sentì l’aria mancargli: Sherlock era fermo, bellissimo, concentrato a contemplare il volto di un altro. Un altro che non era lui.
Victor si riscosse e distolse lo sguardo per puntarlo nella stanza in cui si trovavano. “Mi piace.” sentenziò girando intorno per ammirare meglio l’ambiente. “Sì, davvero confortevole. La prendo.”
Qualcosa, all’altezza del petto di John, si smosse, doloroso. Victor… A Baker Street… A pochi metri da loro… Da Sherlock.
Sherlock batté le mani, soddisfatto, e prese l’amico per le spalle. “Da ora in poi, Trevor, non hai scuse: dovrai riprendere familiarità con la mia sociopatia.”
L’amico strinse con convinzione i suoi polsi. “Non aspettavo altro.”
Boom… boom… boom.
Colpi sordi sul suo cuore, dolore muto allo stomaco, sensazione claustrofobica che gli attanagliava la gola. Si volse quasi di scatto, senza proferire parola e scese le scale che conducevano a Baker Street. Non si rese nemmeno conto di star correndo, di star saltando gli scalini…
Quando fu fuori riempì i polmoni di aria, dilatando la cassa toracica il più possibile. Non si era mai sentito così. Non aveva mai percepito in quel modo la rabbia, il desiderio di sferrare un cazzotto al muro. Era consapevole del fascino di Sherlock, della sua meravigliosa intelligenza, della sua inconfutabile bellezza… Eppure…
“John!”
Il medico alzò la testa di scatto, sorpreso di sentire la voce di Greg chiamare il suo nome. “Greg… Che ci fai qui?”
Lestrade sospirò, scuotendo la testa. “E’ tutta la mattina che chiamo Sherlock, ma non risponde. E tu uguale. Così mi sono trovato costretto a passare di persona.”
“Mi spiace… Effettivamente io ho lasciato il mio a casa e penso anche Sherlock. Che cosa è successo?”
Lo sguardo dell’ispettore si spostò alle spalle di Watson, dove fece capolino la sagoma di Holmes. “Proprio te cercavo. C’è una cosa che penso dovresti vedere.”
 
***
 
“Ce l’hanno inviato stamattina presto.” li informò Greg guidandoli attraverso gli uffici di Scotland Yard che pullulavano di uomini indaffarati. “Ovviamente, è privo di nominativo.”
“Tipico.” mormorò Sherlock sprezzante, rivolgendo uno sguardo a John che però non lo contraccambiò. Si sentiva come un palloncino sgonfiato. Vuoto. Non riusciva a capire da dove venisse quel malessere continuo che si stava agitando in lui dall’arrivo di Victor.
Lestrade entrò nel suo ufficio, seguito dai due coinquilini, e si sedette sulla sua sedia, mentre gli altri due si accomodavano su quelle di fronte alla scrivania. Davanti al pc, una scatola dalle dimensioni medie, sul cui coperchio era scritto, con un pennarello nero, Sherlock.
“E’ indirizzata a te.” cominciò l’ispettore porgendola al consulente investigativo. “L’abbiamo radiografata e non è una bomba.”
Certo che no, avrebbe voluto esclamare l’ex inquisitore: sapeva perfettamente chi era il mittente e l’avrebbe decisamente deluso se fosse stata una bomba il contenuto.
“Rassicurante.” commentò osservandola sotto il fascio di luce della lampada da tavolo. “Niente impronte?”
“No.”
Sherlock sollevò il coperchio con cautela sotto gli occhi apprensivi di Lestrade e di Watson, e la prima cosa che vide all’interno della scatola fu il rosa. Affondò la mano nel contenitore e ne estrasse un cellulare dalla cover fucsia.
“Ma quello… Quello è il telefono rosa.” mormorò John avvicinandosi appena per vederlo meglio.
“Quello del caso degli omicidi-suicidi?”
“Naturalmente non è lo stesso cellulare.” spiegò Sherlock senza smettere di analizzarlo. “Questo è nuovo di zecca. Qualcuno ha voluto farlo sembrare uguale a quel telefono.”
“Hai un nuovo messaggio.” gracchiò la voce metallica preregistrata del cellulare. Tutti attesero, trattenendo il fiato. Il telefono emise cinque bip, uno di seguito all’altro e poi tacque.
“Tutto qui?” chiese il medico.
“No, non è tutto.” rispose Sherlock mentre quei bip, quel numero di bip gli occupava la mente. Cinque bip… Cinque… Come cinque erano stati gli squilli a vuoto del numero di cellulare che gli aveva inviato quell’inquietante sms. Dopo pochi istanti, sullo schermo del telefono comparve un’immagine che ritraeva una costruzione fatiscente, ubicata in uno spazio aperto…
“Sherlock, ma quella… Quella è…” sussurrò John guardando il fidanzato con occhi grandi di confusione.
“Potrei essere reso partecipe anch’io?” intervenne Greg.
Sherlock depose il telefono nella tasca del cappotto nero e si volse con una piroetta teatrale, dando le spalle all’ispettore che gli sbraitava contro di fermarsi e spiegargli cosa stava succedendo.
“Non credo serva a qualcosa combattere.” commentò il medico, poggiando una mano sulla spalla dell’amico, con fare comprensivo. “Appena scopriremo qualcosa di interessante sarai il primo a saperlo. Promesso.”
Lestrade roteò gli occhi, ma sotto lo sguardo sicuro di Watson si tranquillizzò. “E va bene. Pensaci tu, okay?”
“Come sempre.” rispose John con un sorriso prima di rincorrere la figura di Sherlock, già lontana. “Allora?” chiese una volta che lo ebbe raggiunto. “E’ la fattoria?”
“Esattamente.”
“Perché proprio la fattoria?”
Holmes non rispose subito e si limitò ad aprire la portiera dell’auto di John, infilandosi sul sedile del passeggero. “Ho circa tre idee a riguardo. La cosa certa è che dobbiamo raggiungerla.”
Il medico si sistemò alla guida con un sospiro. “D’accordo, ma prima passiamo in un posto.”
Sherlock lo guardò e annuì.
 
***
 
La fattoria era ancora più decadente di come la ricordavano: l’incendio doveva averle fagocitato le interiora di legno a tal punto da farla crollare quasi completamente. Sulla steppa sterminata regnava una calma irreale, che presagiva lo scoppio di una tempesta, la detonazione di un fucile, l’esplosione di una bomba.
“D’accordo… E adesso?” chiese a fil di voce John respirando a malapena, come se un solo sospiro di troppo avesse potuto scatenare l’apocalisse.
Sherlock non fece in tempo a rispondere che il telefono rosa trillò insistentemente. Lo prese con cura, tenendolo sospeso sul palmo della mano. La sua mano cercò quella di Watson e, dopo averla trovata, pigiò la cornetta verde, mettendo la chiamata in modalità vivavoce.
“Pronto?”
Dall’altro capo giunse un singulto strozzato, disperato. “Ciao… sexy.” Una voce femminile, scossa dai singhiozzi riempì il precario equilibro di silenzio che vi era stato fino a poco prima.
“Chi parla?”
“Ho… Ho pensato che f-fosse arrivato il momento di… giocare come si deve… con te e-e… il dottor Watson.”
La mano di John, nella sua, venne scossa da un impercettibile tremore. Il consulente investigativo rafforzò la presa su di essa, cercando di trasmettergli sicurezza. “Chi parla, perché stai piangendo?”
“Non-non sto piangendo… sto scrivendo e questa… stupida puttana lo sta leggendo…”
Lo sguardo del medico s’illuminò improvvisamente, accesso di consapevolezza. “Camilla? Camilla, sei tu?”
Di nuovo, la donna singhiozzò. “P-potrebbe… dottore. Ma non è lei… quella di cui dovrebbe p-preoccuparsi ora.”
John si passò una mano sul viso, stordito. “Camilla è una dei quattro Incompleti che sono fuggiti l’altro giorno. E’ italiana ed è qui con… con il suo bambino.”
“Bene, Sherlock.” disse la donna. “E’ arrivato… il momento di giocare. Entrate.”
Senza chiudere la comunicazione, il consulente investigativo prese a camminare verso l’ingresso della fattoria, la mano fusa con quella di Watson. Insieme, spinsero con forza i pesanti battenti in legno del portone scorrevole che dopo uno sforzo immane, si aprì faticosamente, arrancando sull’asse di scivolamento.
John trattenne il respiro, mentre Sherlock corrugava la fronte: all’interno dell’edificio, vi erano tre uomini imbavagliati, con mani legate e i piedi poggiati su delle scatole di legno. Intorno al collo, una spessa corda che attendeva di strappare via la vita dai corpi dei tre individui.
“Vedete… Vedete il tavolo… alla vostra sinistra? A-aprite la busta.”
Il medico fece per correre in direzione degli ostaggi, ma la voce tremante di Camilla lo bloccò. “No, dottore… N-non è questo… il gioco. Torni indietro se…” La donna singhiozzò profondamente. “…se non vuole che faccia esplodere questa donna…”
John fissò impotente i tre uomini che cercavano in tutti i modi di togliersi dalla gola il cappio, dimenandosi con disperazione e emettendo versi strazianti.
“John.” lo chiamò Holmes. “Dobbiamo fare quello che dice. Vieni.”
Watson si girò, in direzione del coinquilino che gli stava porgendo una mano con sguardo di supplica. Non l’aveva mai visto così… spaventato e impotente prima d’ora. Mai. Gli prese la mano e si lasciò trasportare al suo fianco, respirando profondamente, cercando di allentare i battiti del suo cuore.
“Oh… Che visione stucchevole.” commentò l’artefice di tutto quello attraverso la voce terrorizzata di Camilla. “... Avete capito perché il nostro… gioco comincia proprio qui?”
Sherlock aprì la cartellina, accanto a cui vi era un fucile, e poggiò il cellulare sul tavolo. “Perché è qui che io e John ci siamo incontrati per la prima volta.”
John strinse appena gli occhi. “Ma noi non ci siamo incontrati qui. Eravamo in ambulatorio, ricordi?”
“Beh, io era da un po’ che ti seguivo.” rispose con un mezzo sorriso il consulente investigativo. “La prima volta che ti ho visto, ero davanti a quella finestra, che ti spiavo mentre ti prendevi cura dei tuoi ospiti.”
“Tutto…tutto questo è molto… tenero, ma ora basta flirtare. Cominciamo a giocare.” dichiarò la donna. “Sei mesi fa un uomo di nome Evans è stato ucciso… Caso mai risolto. Gli hanno sparato da una distanza di trecento metri con quel fucile.” Sherlock imbracciò il fucile e lo studiò minuziosamente, mentre la voce spezzata di Camilla proseguiva con la spiegazione. “I sospettati erano tre… tutti fratelli: Nathan Garrideb, Alex Garrideb e Howard Garrideb. Quelle… quelle foto che vedi, nella cartellina, sono recenti. Ma dimmi… mio caro, chi ha sparato?”
John strinse i pugni, osservando le foto disposte ordinatamente sul tavolo. “Significa che dobbiamo risolvere questo caso, ma su quali basi?”
“Queste, abbiamo solo queste.” rispose Sherlock con tono basso, cupo.
“Avanti… voglio vedere come interagisci con… con il tuo amato fuori dal contesto baci e sesso.”
Il consulente investigativo fece una smorfia, serrando la mandibola a tal punto da far scricchiolare i denti. Si sentiva una cavia chiusa in un laboratorio. Una stupida cavia che doveva dimostrare ad un viscido individuo che era intelligente quanto affermava di essere, ma soprattutto…
Guardò John, cercando sul suo volto tracce di confusione, di timore, ma l’unica cosa che trovò fu forza, determinazione. Gli porse il fucile e con un debole sorriso lo incoraggiò ad aiutarlo.
“Sì, dunque...” cominciò il medico facendo appello alle sue reminiscenze che l’Accademia Militare gli aveva trasmesso. “…questo è un fucile da caccia. E’ vecchio, deve appartenere ai… primi anni duemila. Mirino semplice, senza reticolo o rilevatore di movimento e di energie vitali.”
“Occhiali, occhiali...” biascicò pensoso Holmes riprendendo il fucile e imbracciandolo a dovere. “Nathan ha gli occhiali. Il rinculo di un fucile di questo calibro è devastante, avrebbe rotto le lenti.” Osservò un ultima volta la foto dell’uomo in questione prima di voltarla. “Non è Nathan.”
“Molto bravo… Sherlock. Voglio proprio vedere come… ragioni con un contesto emotivo. Avete già avuto modo di notare i tre fratelli. Una volta… trovato il colpevole giustizia sarà fatta. Hai a disposizione… dieci minuti prima che...” Camilla s’interruppe, in lacrime. “… prima che faccia esplodere questa puttana. Se sbagli… mi costringerai a togliere di mezzo sia lei… che i tre fratelli… Comincia il conto alla rovescia…”
“Sherlock...” mormorò John guardandolo con fermezza. “… puoi farcela, possiamo farcela.”
L’ex inquisitore annuì un paio di volte e prese il telefono, avvicinandosi ai tre fratelli per studiarli meglio. “D’accordo, proviamo con Howard… E’ pallido, sul naso ha il rossore tipico di chi beve e… il tremore dimostra che soffre di delirium tremens. Non poteva eseguire il tiro da trecento metri.” Si spostò verso l’uomo al centro. “Questo ci porta ad Alex. I segni sulle tempie ci indicano che di solito indossa gli occhiali, ha la fronte corrugata nello sforzo di osservare. E’ miope, o meglio, lo era: grazie al laser ha risolto il problema… Dunque ha la vista perfetta e le mani ferme. Ha premuto il grilletto, lui ha ucciso Evans.”
“Siete… Siete pronti a condannare il prigioniero?”
Sherlock immerse i suoi occhi in quelli blu di John. Se la sua conclusione si fosse rivelata infondata… Sarebbe morta sia Camilla sia i tre fratelli. Sentiva il peso delle parole gravargli sulle corde vocali e tentava disperatamente di calmare il respiro accelerato, guardando il coinquilino, attingendo, tramite quell’occhiata, alla sua riserva d’energia.
“Sherlock… Sei pronto a condannare il prigioniero?” ripeté la donna a fil di voce, ma con più enfasi rispetto a prima, forse perché da quelle parole sarebbe dipesa la sua vita o la sua morte.
“Alex.” sentenziò Sherlock. “Condanno Alex Garrideb.”
A quelle parole seguì un silenzio dilatato, straziante, rotto solo dai singulti della donna, dall’altro capo del telefono. Infine, qualcosa scricchiolò. Accadde tutto in fretta: il pavimento sotto le due scatole laterali cedette, facendo sprofondare Nathan e Howard, trattenuti dal cappio al collo che spremette via il loro ultimo respiro.
I due coinquilini sussultarono, facendo un istintivo passo indietro. Due innocenti. Avevano ammazzato due innocenti. Questa consapevolezza li investì con un’irruenza smodata, lasciandoli senza parole e senza forze. Le immagini del Justice Podium sfilarono nei loro occhi, le detonazioni riecheggiarono nelle loro orecchie… Ora erano come quei soldati. Assassini.
“Molto… molto bene, mio caro. Hai scelto… quello giusto.”
John strappò dalla mano di Sherlock il telefono, portandoselo vicino alle labbra, tremando di rabbia. “E gli altri due perché?”
“Interessante…”
“Perché?!” urlò ancora il medico.
“F-fa davvero differenza uccidere… il colpevole o l’innocente?” Camilla tacque e i due coinquilini la poterono sentire distintamente biasciare dei no strozzati. “… Vediamo.”
Non fecero in tempo a voltarsi che già, sotto la scatola di Alex Garrideb, si era aperta una voragine. Crollò verso il vuoto con gli occhi sbarrati dalla paura. Pochi secondi e il suo intero corpo s’irrigidì completamente, abbracciato dalle spire di morte.
“No… Comunque… Potete venire a riscuotere… la vostra ricompensa. Vi spedirò l’indirizzo… a cui potrete trovarla… Arrivederci, Sherlock.”
E fu silenzio.
John guardò tristemente i tre cadaveri penzolanti di fronte a lui, nemmeno si accorse che Sherlock era schizzato verso di essi e stava cercando di liberarli dai cappi. Quando il tonfo del corpo morto di Howard risuonò per tutto l’ambiente, il medico si riscosse e spostò lo sguardo sul fidanzato, intento a tirar su il cadavere di Alex, combattendo contro il peso dell’abbandono totale. Gli fu subito vicino e con le braccia cinse il petto del colpevole di quello stupido gioco che aveva tolto la vita a ben tre persone. Insieme riuscirono a deporre anche i corpi degli altri due fratelli Garrideb a terra. Contemplarono in silenzio il loro operato. John sferrò un pugno al pavimento di legno. E poi un altro, un altro, un altro ancora. Finché le braccia esili di Sherlock non lo strinsero forte, impedendogli di continuare.
“Basta, John… Basta.”
“Li abbiamo uccisi.”
“No, John. Non noi. Questo grande gioco.”

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Capitolo 16
*** CAPITOLO 15 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 15

 
 
Tre giorni. Tre giorni di attesa. Tre giorni di tensione. Tre giorni di logoramento.
Erano passati lenti, inesorabili, attaccati ad un telefono rosa che si ostinava a non squillare. Avevano tormentato le loro notti, allontanandoli l’uno dall’altro sul letto, creando una scia divisoria fra le loro schiene. Aveva infuso la paura di amarsi, di lasciar fluire i sentimenti, di poter essere minacciati proprio da quelle emozioni.
Quella mattina, John si svegliò prima del solito e aveva trovato la parte di materasso accanto a lui vuota. Si infilò le pantofole e si trascinò verso il salotto, avvertendo l’inconfondibile odore di caffè. Si affacciò stancamente sulla stanza e trovò Sherlock seduto sulla sua poltrona, intento a parlare con una seconda figura, accomodata invece sulla poltrona del medico. Quando il consulente investigativo udì i passi del coinquilino, alzò gli occhi su di lui, sorridendo. “Oh, John. Ben alzato.”
La seconda sagoma si volse e John sentì il cuore stringersi. “Ehilà, Johnny! Dormito bene?”
“Victor… Ciao. Sì, bene, grazie.” Si prese qualche istante per analizzare la situazione di fronte a cui si trovava. “Come mai da queste parti così presto?”
“Ieri sera hanno giusto concluso di scaricare i mobili. Volevo solo fare un saluto ai miei nuovi vicini preferiti!” esclamò alzandosi e andandogli alle spalle per dargli una pacca amichevole alla schiena. “E poi volevo anche invitarvi a fare un giro per Londra con me. Sherlock ha già detto che per lui non ci sono problemi. Ti aggreghi?”
John scoccò un’occhiata contrariata al coinquilino. “Diciamo che avevo altri programmi per oggi… Comunque, mi spiace, oggi lavoro fino a tardi.”
L’espressione allegra sul viso di Victor scemò via. “Che peccato… Sarebbe stata una buona occasione per passare una giornata tutti insieme. Se vuoi possiamo rimandare…”
“No, non è necessario. Voi andate pure, non preoccupatevi. Ora devo correre a prepararmi, altrimenti farò tardi. Buon 13 Aprile, Sherlock.”
Il consulente investigativo sbatté ripetutamente le palpebre. “G-grazie… Anche a te.”
Il medico sospirò profondamente prima di voltarsi per prepararsi per andare a lavoro. Anzi, per scappare a lavoro.
 
***
 
Sarah lo accolse con espressione perplessa. “John… Non ti eri preso la giornata libera oggi?”
“Lascia perdere, per favore.” rispose seccamente lui rifugiandosi nella banalità del suo studio medico, richiudendosi la porta alle spalle. La banalità gli mancava. Da quando si era innamorato di Sherlock Holmes, era un concetto completamente scemato via. Si sedette alla sua scrivania, studiando la cartella clinica di uno dei suoi pazienti, affetto da un tumore maligno al fegato. Sarebbe bastato un intervento al Barts, grazie alle recenti scoperte in campo medico, perciò scansò il fascicolo e accese il computer per fare un ordine di farmaci che si era prefissato di effettuare l’indomani. Ma, a quanto pareva, i piani erano cambiati.
Un timido bussare alla porta lo indusse a sollevare lo sguardo dallo schermo del pc. “Avanti.”
“Posso?”
John sgranò gli occhi nel vedere Mary entrare quasi timorosamente nella stanza.
“Mary...” mormorò sorridendo leggermente. “I-io… Mi fa piacere rivederti qui.”
Lei si avvicinò lentamente, tormentandosi le mani e guardandosi nervosamente in giro. “Beh… Ho pensato che era ora tornare.” commentò sedendosi compostamente davanti alla scrivania di Watson. “Insomma, non potevo certo restare per sempre a casa a oziare, no?”
“No… Però… Ecco, se hai bisogno di qualche altro giorno io lo capisco…”
Mary lo fermò con un cenno gentile della mano. “Non servirebbe, te l’ho detto. E’ finito il tempo dei piagnistei e delle domande. Ora devo riprendere in mano la mia vita.”
John la guardò con ammirazione, colpito dalle sue parole. “Sai… Non ti nascondo che… non ho la più pallida idea di che dirti se non che… ti ammiro molto per la tua forza.”
La donna sorrise di riflesso, abbassando istintivamente gli occhi, cercando di nascondere il leggero rossore alle guance. “Grazie, anche se… non è esattamente la tua ammirazione che desidero.” Quando si rese conto delle sue parole si affrettò ad aggiungere, a disagio: “Mi dispiace! Davvero, mi è scappato. Oddio…”
“Tranquilla, va tutto bene, è giusto che tu ce l’abbia ancora con me. Lo capisco.”
“No, non voglio fare l’ex acida e vendicativa… Scusa ancora.” Si prese qualche istante per riflettere, come se dovesse ponderare una domanda, l’inizio di un discorso. “Permettimi comunque di farti una domanda, John: perché? E’ dal matrimonio che non faccio altro che chiedermelo. Ho fatto o detto qualcosa che ti ha ferito, ho avuto un comportamento sbagliato… Io… Dimmelo, ti prego.”
Il tono di supplica che la donna aveva usato lo fece sentire una merda. Quanto male le aveva fatto? Non solo l’aveva lasciata, spezzandole il cuore, ma l’aveva anche illusa, portandola all’altare, e umiliandola, abbandonandola con l’abito bianco di fronte a tutti.
Si alzò e si chinò di fronte a lei, prendendo le sue mani nelle proprie. “Mi dispiace… Non è colpa tua. Tu eri… sei perfetta.”
“E allora perché? Non ero abbastanza per te?”
John vacillò sotto lo sguardo avvilito della donna a cui aveva distrutto la vita. “Sono stato uno stupido.”
“A lasciarmi o a metterti con me?”
Mary guardò il viso dell’ex fidanzato mascherarsi di stupore e sofferenza.
“Bella domanda.” pensò il medico numerando le innumerabili difficoltà che quella scelta aveva e avrebbe comportato. Ripensò a quel Moriarty, probabilmente la stessa persona che stava giocando con loro, a Victor che era irrotto nelle loro vite e si stava avvicinando sempre più e sempre più pericolosamente a Sherlock. Poi, però gli tornò in mente il loro bacio, sul tetto del Barts, la loro prima volta, la felicità che provava ogni volta che il consulente investigativo diceva qualcosa di incredibilmente stupido o di incredibilmente intelligente. Sherlock era… era il suo tutto. Ecco perché l’aveva lasciata.
“A farti del male. Avrei potuto evitarti tutto quel dolore, capire prima i miei sentimenti. Mi dispiace, Mary. Le cose sono andate così e… non c’è una vera e propria spiegazione. Solo, non ti amavo. Non come tu volevi.”
Mary prese un lungo respiro, chiudendo gli occhi, e John poté giurare che fosse sul punto di scoppiare in lacrime. Ma infine, lei riaprì gli occhi e gli sorrise. “Grazie, John. Dovevo sentirmelo dire… per voltare definitivamente pagina. Grazie.”
Si alzò, imitata da Watson, e gli accarezzò una spalla. L’ultimo contatto intimo fra di loro. Fece per andarsene quando sembrò ricordarsi di qualcosa: “Ah, buon compleanno, John.”
John sorrise, stupito che se ne fosse ricordata. “Grazie… Non pensavo che…”
“Mi ricordassi? Non mi conosci, dottor Watson.” scherzò lei infilando una mano nella tasca del cardigan grigio che indossava. “Questa è per te.” Watson le prese dalle mani una chiavetta di latta, lucida. “Ci ho messo dentro tutte le nostre foto. Sai… erano nel mio computer. Lo so che è finita, però… sono comunque stata parte della tua vita e vorrei che ti ricordassi di me, qualche volta.”
Il medico la strinse forte, ringraziandola. Aver rinunciato a quell’amore così genuino e profondo per chiunque sarebbe risultata una scelta folle. Ma non per John Watson che, ricevuto un sms da Sherlock – una volta che Mary era uscita –, venne catapultato nuovamente tra le nuvole, facendolo sprofondare nella sedia da scrivania con uno stupido sorriso sulle labbra.
 
Ci vediamo stasera. Ho una sorpresa per te. SH
(Fri, 9:29 a.m.)

 
***
 
John Watson era un uomo solido, rigoroso, dai saldi principi morali, un dottore eccellente, comprensivo, rassicurante… Eppure, tutto questo, quando si trattava di Sherlock Holmes, sembrava andare in fumo. Aveva fatto un salto dal Tesco più vicino all’ambulatorio per comprare il Merlot. Voleva assolutamente ricreare l’esatta atmosfera presente in quella splendida notte, trascorrere un compleanno indimenticabile con l’uomo che amava. Se qualcuno – da ragazzo – gli avesse detto che avrebbe provato tutto quello non tanto per un individuo del suo stesso sesso, quanto per una persona qualunque, sicuramente gli avrebbe riso in faccia. E invece, ora stava armeggiando con la chiave per aprire la porta d’ingresso, emozionato alla sola idea di avere finalmente l’occasione, dopo tanto tempo, di passare una serata con Sherlock. Fece le scale praticamente volando, ma s’interruppe a metà rampa. La sua risata. Bellissima, pura. Sherlock stava ridendo, ma… con chi? Salì gli ultimi scalini col cuore in gola, pregando una qualche entità onnipotente che non fosse come pensava. Quando sporse la testa nel salotto scorse la figura del coinquilino che, abbracciando il violino, parlava allegramente con Victor, sbracato sulla poltrona di John.
Di nuovo quel dolore. Ma perché? Perché doveva fare così male? Era sciocco: stavano… parlando. Erano amici. Ma allora perché gli occhi di Sherlock sembravano così… luccicanti? Guardò mestamente il vino che stringeva in mano, così inutile ora come ora, così latore di ricordi lontani… Che stava succedendo? Non aveva la forza di affrontare quei due, così fece per dirigersi silenziosamente nella sua vecchia stanza al piano superiore, ma la voce di Trevor lo fece sobbalzare.
“Johnny! Finalmente! Ti stavamo giusto aspettando per infornare la specialità di Sherlock. Mi ha detto che gli hai insegnato tu a cucinare.” Gli andò incontro con il suo solito sorriso che, quando i suoi occhi scorsero la bottiglia di Merlot, si fece ancora più ampio. “Hai preso il vino, grande! Adesso capisco perché hai fatto tardi. Dai, vieni, il famoso pollo arrosto di Sherlock è quasi pronto.”
Quelle parole lo schiaffeggiarono in pieno, lasciandogli l’impronta della botta. Sherlock aveva cucinato il pollo arrosto? Il pollo arrosto che lui aveva preparato per la loro serata speciale?
“Visto che non sei potuto uscire con noi stamattina ho pensato di invitare Victor a cena.” spiegò il coinquilino affiancando Victor e sfoggiando uno dei grembiuli della signora Hudson.
John avrebbe voluto saltargli addosso e sbatterlo contro il muro: come poteva essersi dimenticato del suo compleanno? Come aveva potuto pensare che avesse voglia di stare con il terzo in comodo piuttosto che con lui?
“Scusate, a dire il vero non mi sento molto bene...” sussurrò infine, distogliendo lo sguardo. “… credo di avere un po’ di febbre. Vado in camera a riposare, ma tu, Victor, puoi restare senza problemi. Buona serata.”
Trevor prese la bottiglia di vino che John gli porse quasi brutalmente e lo osservò perplesso salire le scale. “Credevo fosse questa al primo piano la sua camera. Stamattina non è uscito da lì?”
Sherlock deglutì a vuoto, irrigidendosi interamente. “La verità è che ieri la sua camera da letto era praticamente occupata dalla signora Hudson che stava pulendo. Così gli ho offerto il mio letto, dato che era molto stanco.”
“La signora Hudson fa le pulizie anche di sera?”
L’amico lo guidò in cucina per tirare fuori dal forno il pollo. “Te l’avevo detto che è strana.”
Quando tirò fuori la teglia un nuba di fumo si propagò per la stanza, facendo tossire entrambi. “Okay, forse avrei dovuto tirarlo fuori prima…”
Victor scoppiò a ridere. “Ho sempre adorato il cibo ben cotto.”
Sherlock imitò la sua risata. Una risata che in realtà gli uscì forzata. Lo sguardo quasi rassegnato di John non sembrava volerlo abbandonare. Era successo qualcosa a lavoro? Alla fabbrica?
I suoi occhi caddero sul calendario appeso al muro della cucina. Il 13 Aprile era cerchiato… Cos’aveva detto quella mattina John? Per poco la teglia non gli cadde dalle mani. Che grandissimo coglione.
 
***
 
Non sapeva da quanto si stesse rigirando nel letto, raggomitolato su se stesso nel tentativo di ricevere un po’ di calore: la signora Hudson doveva aver tolto le coperte e portate in lavanderia, pensando che tanto non sarebbero servite, almeno non per il momento. Ma non era solo il freddo che lo teneva sveglio: il suo orecchio era teso, pronto a rintracciare il minimo rumore sospetto. Sapere che Sherlock e Victor era di sotto, da soli… Perché diavolo aveva lasciato loro il Merlot?! La tentazione di scendere era devastante, ma si costrinse a resisterle, anche se non sapeva per quale motivo: se perché voleva dimostrare a se stesso di fidarsi ciecamente di Sherlock o se perché era semplicemente rassegnato al fatto che avrebbe potuto provare qualcosa per l’amico d’infanzia. L’immagine del suo fidanzato con Trevor gli fece accapponare la pelle, costringendolo a rannicchiarsi ancora di più.
“Sherlock...” chiamò dentro di sé stringendo la metà di letto vuota.
“Sherlock.” invocò nuovamente, stavolta più forte, avvertendo il bisogno lacerante di sentirlo a fianco a lui.
“Sherlock!”
Un peso improvviso e inaspettato piegò il materasso ai suoi piedi, ma non lo fece sussultare. Non provocò in lui sorpresa, timore, spavento. Solo un immenso rammarico. Nemmeno controllò chi fosse, poiché sapeva perfettamente chi era.
“John?”
La sua voce era bassa, appena un sussurro, e John avrebbe potuto giurare che sul volto di Sherlock regnasse un’espressione colpevole, pentita. Ma non aveva la forza di guardarlo negli occhi, di affrontarlo, di fronteggiare quell’emozione famelica che lo stava divorando.
“John.”
Il medico avvertì la mano dell’altro sulla propria coscia, ma la scansò con un movimento brusco della gamba. Nonostante questo, Sherlock non si arrese e di nuovo allungò le dita verso il corpo immobile di Watson che di nuovo lo allontanò.
“Mi dispiace, John.” mormorò infine il consulente investigativo stendendosi ai suoi piedi. “Sei molto arrabbiato?” John continuava a tacere, a ostentare un silenzio tombale. “John, per favore, che devo fare ancora per mostrarti che sono mortificato?”
Finalmente, il medico lasciò fluire le parole che premevano in gola per uscire. “Victor?”
“E’ andato via poco dopo che sei salito. Gli ho detto di essermi ricordato di un caso importante da risolvere il prima possibile. Abbiamo cenato in fretta, fortunatamente la signora Hudson si era premunita di preparare un pasto di riserva: sai, il pollo non è venuto un granché… Poi lui è andato via e io ho avuto il tempo per scendere e fare compere.”
Sherlock si alzò e si inginocchiò di fronte all’altro porgendogli un pacchetto rosso che conferiva a quel regalo un aspetto più natalizio che di compleanno. “Tanti auguri, John.”
John fissò con occhi vacui quella scatola così accuratamente impacchettata. “E’ passata la mezzanotte.”
Il consulente investigativo sospirò e si sedette sul bordo del letto, nel poco spazio lasciato dalla posizione fetale del coinquilino. “Mi dispiace, perdonami. E’ che… sono successe così tante cose ultimamente. Tra la morte di mio padre, Moriarty e il ritorno di Victor… mi è passato di mente.”
John sorrise mestamente. “Volevo solo passare una serata… normale con il mio fidanzato. E invece, mi ritrovo a casa questo… questo Victor che sembra una cozza più che un essere umano e… mi chiama pure Johnny…”
Sulle labbra di Holmes sfilò un sorrisetto divertito. “Allora è questo il problema: sei geloso.”
“No.” negò l’altro con tono di voce per niente convinto e che dimostrava l’esatto opposto.
“Sì, invece. Sei geloso marcio!” dichiarò l’ex inquisitore accompagnando le sue parole da un pizzicotto alla vita del coinquilino.
“No, non è vero, dai smettila!”
Sherlock scoppiò a ridere mentre continuava a solleticargli il collo, l’addome, facendolo ricadere supino sul materasso e salendogli sopra. “Dio, Johnny, sei ancora più affascinante quando sei geloso.”
John riuscì a dimenarsi e a respingerlo con un calcio delicato. Holmes non riusciva a trattenersi dal ridere interiormente alla vista di quel John Watson così fragile e corrucciato che si alzò a sedere incrociando le braccia.
“Dai, John. Posso farmi perdonare.” mormorò riavvicinandosi a lui gattonando, ma di nuovo il medico lo allontanò col piede.
“No, vai a dormire o a risolvere il caso o a fare qualsiasi cosa tu avevi intenzione di fare prima che il mio compleanno ti rovinasse la serata.”
Sherlock non si arrese e riprovò una, due, tre volte, finché le sue labbra non si poggiarono dolcemente sul collo dell’altro. “Giusto per sapere, John… cos’aveva in programma questa serata normale col tuo fidanzato?”
“Niente, a questo punto niente.” rispose seccamente Watson non riuscendo però a cacciare un’ulteriore volta il corpo dell’altro. Il consulente investigativo sorrise mentre portava le dita alla camicia rossa del medico e prendeva a sbottonarla lentamente, spostando la bocca dal suo collo al petto.
“Sei davvero sicuro?”
John mantenne una salda posizione di protesta, non arrendendosi a sua volta come non demordeva il coinquilino. “Assolutamente.”
Le labbra di Sherlock giunsero alla mascella, poi alla guancia, arrivando a un soffio da quelle di Watson.
“E’ il punto di non ritorno, dottore. Sono a sua completa disposizione.”
John cercò con tutte le sue forze di voltarsi dall’altra parte, di mostrarsi fermo nelle sue decisioni, di farsi rispettare ma… era semplicemente troppo difficile a quel punto.
“Fottuto bastardo.” sussurrò prima di unire la sua bocca con quella di Holmes che rise mentre rispondeva al suo bacio. “Idiota.” continuò il medico mentre si liberava completamente della camicia e cercava il contatto con la pelle del fidanzato. “Narcisista colossale.” infierì ancora spingendo il corpo di Sherlock verso il basso, senza interrompere il contatto delle loro labbra. “Macchina calcolatrice.”
“Sì, sì, sì.” rispose frettolosamente il consulente investigativo. “E tu parli troppo.”
“Non ho finito.” ribatté John mentre sfilava la maglia del pigiama del coinquilino. “Il fatto che stiamo facendo l’amore… non vuol dire che non sia ancora arrabbiato con te.”
“Lo so, lo so.”
“Lo sono ancora e moltissimo e te lo rinfaccerò ogni tanto.”
Sherlock non riuscì più a trattenersi e si staccò da lui, lasciandosi cadere sul materasso in preda alle risa. “Penso che tu sia l’unico essere umano a parlare così tanto in un momento del genere.”
E John gli si stese a fianco, ridendo assieme a lui. “Non mi hai dato il regalo.”
Gli occhi del consulente investigativo brillarono mentre si alzava, ancora ansimante e riprendeva in mano il pacchetto. Il medico lo scartò febbrilmente, scoprendo la custodia di un computer di ultima generazione – stando a quanto diceva la scritta sul cartone –.
“Un computer?”
Sherlock sorrise e gli scostò dal viso una ciocca di capelli. “Così la smetterai di prendere il mio.” Gli prese dalle mani la custodia e l’aprì, tirandone fuori un pc nero dal design moderno ed elegante. “L’ho preso in prestito direttamente dai laboratori informatici dell’Inquisizione. Dovrebbe essere uno dei modelli migliori in circolazione e non.”
“Quindi l’hai rubato?”
“Non farlo sembrare un crimine più grande di quello che in realtà è.” replicò tranquillamente l’ex inquisitore. “E poi non ho neanche fatto alcuna infrazione: avevo le chiavi. Ad ogni modo, ho pensato che potrebbe anche servirti per quanto riguarda la gestione della fabbrica e tutto il resto. Pensa, potresti anche aprire un blog.”
“Un blog?” ripeté divertito il medico.
“Perché no? Anch’io ne ho uno, dove elenco 243 tipi di tabacco.”
“Il mondo ne sentiva un gran bisogno.” replicò John ridacchiando e suscitando un’espressione offesa nel consulente investigativo.
“Potresti parlare dei miei casi. In questi ultimi tre giorni ne ho risolti ben cinque.”
“Così tutto il merito va a te e Greg sembra essere un pomposo arrogante che vuole sfruttarti per la risoluzione dei casi e prendersi tutti i meriti, quando sei tu a tormentarlo con questa idea del consulente investigativo.”
Sherlock alzò le mani al cielo, in segno di resa. “Come ti pare. Non aprire un blog dedicato interamente al tuo coinquilino preferito.”
John ripose il computer nella custodia che poggiò delicatamente a terra, riparata dietro il comodino. “Andiamo di sotto.”
“Perché?”
“Perché non ho voglia di spogliarmi con questo gelo, Sherlock.”
Holmes si alzò, guardandolo vittorioso. “Consulente investigativo-dottore: 1-0”
Il medico scattò in piedi afferrandogli la mano e trascinandolo giù per le scale. “Sei davvero una cosa impossibile, Sherlock Holmes.”
 
 
***
 
L’indomani fu John quello ad essere destato dal suo sonno placido e ristoratore. Quando aprì gli occhi scorse subito i ricci corvini di Sherlock ricadergli voluminosi sugli occhi dolci e caldi. Incredibile come quelle iridi potessero assumere sia un gelo glaciale sia un tepore accogliente.
“’Giorno.” mugugnò Watson sbadigliando e tirandosi su coi gomiti. “Che ore sono? Ho dormito troppo?”
“No, no, oggi è il tuo giorno libero.” lo rassicurò il coinquilino. “Ti ho preparato qualcosina da mettere sotto i denti.”
John si mise seduto, con la schiena poggiata sulla testiera del letto. “Spero che il risultato non sia come quel famoso the.”
“Onde evitare, ho ricevuto un piccolissimo aiuto dalla signora Hudson.”
“Ha fatto tutto lei.”
“Sì.” ammise infine il consulente investigativo. “Però ho portato su il vassoio. Colazione in camera.”
Il medico guardò il solito ben di Dio cucinato dalla padrona di casa, ma sentiva lo stomaco chiuso e ancora pieno di farfalle per la nottata trascorsa. “E a cosa devo il piacere di questo servizio?”
“Devo farmi perdonare.”
John addentò un pezzo di salsiccia, corrugando appena la fronte. “Mi sembrava di aver capito che mi avessi già fatto le tue scuse. Piuttosto gradite, tra l’altro.”
Sherlock arricciò le labbra, improvvisamente a disagio. “Sì, infatti… Questa è… una scusa per un’altra cosa.”
Il medico roteò gli occhi e sbuffò spazientito. “Che hai combinato, adesso?”
“Oggi è il tuo giorno libero… E sono certo avessi in programma qualcosa con me. Il fatto è che Lestrade mi ha chiamato per un caso che richiede la mia totale dedizione. Si tratta dell’omicidio di Eddie Van Coon, un importante uomo d’affari che lavora in banca e si occupa dei rapporti con Hong Kong.”
“Va bene.”
Holmes spalancò gli occhi e lo fissò per qualche secondo senza proferire parola. “Davvero?”
John gli sorrise dolcemente, sporgendosi verso di lui e strofinando il naso contro il suo. “E’ lavoro – anche se tecnicamente non ti pagano –, e so che ci tieni. Vai pure.”
Sherlock gioì, saltando sul letto e rischiando di tracimare il vassoio con tutta la colazione. Poi balzò in piedi e prese le mani dell’altro, portandosele alle labbra. “Sei fantastico. Sarei perso senza di te.”
“Mi fai sembrare il classico fidanzato possessivo che non fa altro che farti privazioni.”
“No, no, no. Sei perfetto.” ribatté l’ex inquisitore stampandogli una serie di baci affettuosi per tutto il viso. “Anzi, perché non vieni con me?”
“Sulla scena di un crimine?” fece John inarcando entrambe le sopracciglia, stupito.
“Perché no? Come il caso del tassista. Andiamo, John! E’ pur sempre un modo per stare insieme.”
“Certo, esaminare il corpo di un morto assieme è davvero romantico. Anzi, è la cosa più romantica che si possa fare.”
“Ti prego.”
Lo sguardo di Sherlock era supplicante come quello di un bambino e sciolse il cuore del medico che sospirò. “E va bene.”
 
***
 
Sherlock era annoiato. Decisamente annoiato. Era corso all’appartamento di Van Coon solo per scoprire che – al posto di Lestrade – a coordinare le indagini c’era l’ispettore Dimmock. Più idiota di Grent – o come si chiamava –. Appena lui e John erano arrivati, quel tipo aveva insinuato che il loro unico obbiettivo fosse quello di farsi pubblicità e gettare fango sull’operato di Scotland Yard. Cosa, a parere di Sherlock, ancora più allucinante, era stato la sua teoria sulla morte di Van Coon.
“Non c’è molto da indagare.” aveva sentenziato con l’aria di uno che la sa lunga. “Si è trattato di un suicidio. Mi sembra evidente.”
Inutile dire che aveva accampato spiegazioni illogiche basate sul solo fatto che la vittima era stata trovata con in mano una pistola e un foro alla tempia destra. Destra, accorgimento che non era sfuggito al consulente investigativo che aveva deliziato i presenti con le sue delucidazioni sul fatto che Van Coon fosse mancino per una serie di cose – il telefono sulla destra, sintomo che teneva la cornetta con la destra e prendeva eventuali appunti con la sinistra; le tazzine, tutte rivolte col manico a sinistra; il coltello col burro sul lato sinistro piuttosto che sul destro –, portando così all’esclusione dell’ipotesi di un suicidio.
Ora, lui e John sedevano tranquillamente al tavolo di un bar squallido, intenti a consumare il loro pasto.
“Mi fa piacere vederti mangiare, una buona volta.” osservò soddisfatto il medico mentre addentava il suo panino.
“Dover condividere le mie conoscenze con quell’idiota di Dimmock mi ha fiaccato. Era così evidente che non potesse trattarsi di un suicidio.”
Watson emise un profondo sospiro. “Sherlock, lasciatelo dire… Tu sei al di sopra del medio quoziente intellettivo. Noti cose che nessuno nota, fai deduzioni strabilianti che a te sembrano elementari ma che agli occhi di noi persone ordinarie sono semplicemente incredibili.”
L’angolo destro della bocca di Sherlock guizzò verso l’alto, chiaramente compiaciuto delle lusinghe del fidanzato. “Perché pensi che tu sia una persona ordinaria?”
John scrollò le spalle. “E’ ciò che sono, Sherlock. In confronto a te… io non sono nessuno.”
Holmes fece per controbattere, ma la notifica di un telefono lo precedette, rispedendo le sue parole in gola. Affondò la mano in tasca, incontrando le superfici di due cellulari: non si separava mai da quello rosa. Era diventato parte di sé. Non ne aveva mai parlato con John, ma certe volte lo posava sul tavolo, davanti a sé e restava a fissarlo per ore, nell’attesa di una dannata chiamata o di un maledetto messaggio, i quali, però, non arrivavano mai. Non fu il telefono rosa a prendere, ma il suo personale, su cui lesse un sms di Victor.
 
Hey, Holmes, che stai facendo? V
(Sat, 12:08 p.m.)
 
Digitò la risposta con un mezzo sorriso, frettolosamente.
 

Sto risolvendo un caso. SH
(Sat, 12:08 p.m.)
 
E sono circondato da completi idioti. SH
(Sat, 12:09 p.m.)
 
John è con te? V
(Sat, 12:09 p.m.)
 
Sì, perché? SH
(Sat, 12:09 p.m.)
 
Consideri anche lui un’idiota? V
(Sat, 12:10 p.m.)
 
No, certo che no. E’ l’unico non idiota qua attorno. SH
(Sat, 12:10 p.m.)
 
Ti ringrazio, Holmes! Vent’anni passati assieme e non mi ritieni degno della tua suprema intelligenza. V
(Sat, 12:10 p.m.)
 
Saresti venuto comunque a saperlo, prima o poi. Non volevo ferirti, mi spiace. SH
(Sat, 12:10 p.m.)
 
Oh, non importa. Credo che prima o poi, qualunque essere umano sia stato costretto ad affrontare la dura verità di essere inferiore al grande Sherlock Holmes. V
(Sat, 12:10 p.m.)

 
John si schiarì teatralmente la gola, cercando inutilmente di attirare l’attenzione di Sherlock. “Chi è?” chiese infine scocciato.
“Ah, ehm… Lestrade.”
“Ti ha scritto qualche barzelletta?” Incoraggiato dallo sguardo confuso di Holmes, il medico continuò: “Stavi sorridendo. Qualcosa di divertente?”
“Oh, no. Cioè, sì. Stavamo semplicemente conversando a proposito dell’idiozia di Dimmock.”
Era strano, ma John sapeva che gli stava mentendo. Lo vedeva dagli occhi che saettavano febbrilmente per il locale pur di non incontrare il suo sguardo, lo percepiva dal tono leggermente in falsetto, lo avvertiva dalla genuinità del suo sorriso. Greg non sarebbe mai stato capace di farlo sorridere in quel modo così spontaneo e completamente perso.
Per la seconda volta, nel locale risuonò il suono della notifica di un telefono, diversa dal primo. Gli occhi di Sherlock, prima intrisi di leggerezza, si oscurarono e la sua mano si tuffò alla ricerca del cellulare rosa che aveva vibrato per un paio di secondi nel tessuto del cappotto. John si sporse appena verso di lui, trattenendo il fiato mentre il coinquilino apriva il messaggio inviato da un numero sconosciuto.
Bip… bip… bip… bip…….
“Oh…” mormorò solo l’ex inquisitore una volta visualizzato l’sms e si alzò, lasciando il medico fermo al tavolo, basito.
“Sherlock!” gli urlò quello dietro ghermendo alcuni inquisizi – la nuova valuta del Paese – e pagando al gestore anche più del dovuto, senza esigere il resto per non perdere di vista il coinquilino. “Sherlock!” ruggì di nuovo attraversando la strada e afferrandogli un lembo del cappotto. “Cosa dice il messaggio?”
“Devo essere solo.” si limitò a rispondere Holmes, riprendendo il cammino verso il parcheggio dove aveva lasciato l’auto. “Tu prendi un taxi e tornatene a Baker Street.”
John non demorse e lo tirò bruscamente verso di sé per la stoffa nera. “Cristo, Sherlock, dimmi che sta succedendo.”
“Va’ a casa.”
“No.” rispose lapidario il medico. “Non ti lascio andare da solo… dovunque tu debba andare e qualunque cosa tu debba fare.”
“Lo dice lui.” controbatté il consulente investigativo mostrandogli il messaggio.
 
All’ambulatorio del tuo dottore, adesso. Lascia indietro il tuo cucciolo. Il suo posto non è accanto a te.
(Sat, 12:15 p.m.)

 
“Non puoi davvero permettere…”
“Lasciami solo, John. Non ti riguarda.” gli ordinò acidamente Sherlock prima di prendere posto sul sedile del guidatore.
“Tu credi, Sherlock? Con molta probabilità c’è un altro di quei poveretti che sono scappati in pericolo. Poveretti che, ti ricordo, erano sotto la mia protezione. Come fa a non riguardarmi?”
Holmes chiuse la portiera e mise in moto, ignorando le parole del fidanzato che si era attaccato allo sportello e sembrava irremovibile sullo scansarsi.
“Sherlock!”
“Hai detto bene. Erano sotto la tua protezione, poi hai lasciato che se ne andassero. Non è più una questione riguardante te. Fatti da parte.”
Gli occhi di John vennero avvolti dall’orrore: che cosa gli era preso? Come… come aveva potuto dirgli quelle cose? Avvertì come se le sue forze fossero state risucchiate via da qualcosa di grande, di prorompente. Fu come se le gambe fossero più deboli… molto più deboli. Guardò impotente la macchina di Sherlock partire alla velocità della luce e sparire ad una traversa. L’aveva abbandonato. L’aveva davvero abbandonato. Era una sensazione peggiore di quella che aveva provato quando aveva capito che sua sorella non sarebbe tornata, che l’aveva ferita a tal punto da averle fatto scegliere la fuga da tutto ciò che era sempre stata, lui compreso. Si sentiva uno stupido: se ne stava lì, come un idiota, in mezzo ad un parcheggio deserto, con un vuoto sconfinato all’altezza del petto.
Doveva andarsene. Sì, tornare al 221B, dove avrebbe trovato ad aspettarlo Sherlock che col suo solito sguardo impertinente gli avrebbe detto qualcosa come dove ti eri cacciato, John? Mi sto annoiando, fa’ qualcosa!
Mosse un passo ma percepì qualcosa di… diverso. Come se la sua gamba destra non rispondesse perfettamente ai suoi comandi, come se si rifiutasse di sottostare agli ordini di un ordinario medico che non aveva nulla a che vedere col mondo straordinario di Sherlock Holmes. Cercò di ignorare quella sensazione e raggiunse nuovamente la strada principale dove fermò un taxi e indicò all’autista come meta Baker Street.
Si sedette sospirando e allungando istintivamente la gamba destra quanto il sedile anteriore gli consentiva. L’autista aveva appena impostato sul navigatore Baker Street quando il cellulare di John vibrò.
 
***
 
A pochi metri dall’ambulatorio, Sherlock rimase imbottigliato in una coda vertiginosa che si prospettava infinita. E lui non aveva tempo da perdere. Spense il motore e balzò giù dalla vettura fregandosene degli urli sguaiati della gente attorno a lui, ma quando un agente di polizia gli si parò davanti fu costretto a fermarsi.
“Dove crede di andare?”
“Guardi,” cominciò tranquillamente l’ex inquisitore. “se c’è qualche multa da pagare questa è la carta di credito. Non ha neanche bisogno di presentarmi una ricevuta fiscale, può prendere tutto il denaro che vuole, ma ora devo andare.”
Il vigile era così scioccato che restò paralizzato mentre Sherlock lo superava correndo, macinando la poca distanza che lo separava dalla sua destinazione. In lontananza, scorse un manipolo di persone indignate assiepato di fronte all’entrata dell’ambulatorio. Si fece strada in quella folla a suon di gomitate, finché non arrivò di fronte alle guardie dell’Inquisizione che presidiavano l’accesso allo studio medico.
“Che succede?” domandò ai due inquisitori che lo squadrarono sospettosi.
“L’ambulatorio è chiuso. Ordini superiori.”
“Ci deve essere un errore. Ordini superiori richiedono la mia presenza qui.”
Le due guardie si scambiarono uno sguardo d’intesa. “Lei è Sherlock Holmes?” Il consulente investigativo annuì, sorridendo appena. “La stavamo aspettando.”
Gli inquisitori si scansarono per lasciare il passaggio libero ad Holmes per poi richiudere il varco, respingendo la massa protestante.
Sherlock entrò con le mani giunte poco distanti dalle labbra. Interessante: quegli ordini superiori coincidevano per lui e per gli inquisitori e, a meno che questi non fossero stati corrotti – ipotesi scartabile dato che ai membri del Governo non mancava certo denaro –, voleva dire che l’Inquisizione era immischiata appieno in quel gioco. Che quel Moriarty facesse parte dei piani alti? Ne avrebbe di certo sentito parlare al funerale di suo padre, fra le tante ciarle degli inquisitori… Suo padre. Suo padre aveva menzionato un problema d’importanza nazionale e forse anche estera. Aveva fatto riferimento a… qualcuno assetato di potere, uno sciacallo pronto a salire al governo al suo posto accanto al fratello. Poteva essere che fosse proprio il dinamitardo la persona a cui Siger Holmes si riferiva?
Il cellulare rosa che stringeva in mano vibrò e sul display venne proiettata la schermata di una chiamata da un numero sconosciuto.
“Pronto?”
“H-hai… fatto bene… ad allontanarlo. Suppongo che funzioni così… quando si ama qualcuno: si teme più per l’incolumità dell’altra persona che per la propria… Vomitevole.”
“Hai rubato un’altra voce.”
Stavolta, la voce dall’altro capo era maschile, giovanile e tremendamente terrorizzata. “L’hai scacciato… per il suo bene. Ma sei sicuro che ti seguirà in eterno? La strada è irta… di insidie. Potrebbe stancarsi di… correrti dietro come un cagnolino o potrebbe inciampare e… non rialzarsi.”
“Lascialo fuori!” tuonò Sherlock stringendo il telefono a tal punto che dovette subito allentare la presa per evitare che si frantumasse nella sua mano.
“E’ un gioco, mio caro… E John è un giocatore… tanto quanto me e te.” Dalle labbra dell’ostaggio fuoriuscì un gemito strozzato. “Ma ora basta… parlare. Va’ nello studio del tuo dottore preferito e… e goditi la scena.”
Holmes corrugò la fronte e volse lo sguardo in direzione della porta grazie a cui, anni prima, era entrato a contatto con John, una lontana mattina di Novembre, per ragioni sbagliate, affatto conscio di quello che sarebbe successo.
Entrò lentamente, guardandosi intorno con circospezione, come se qualche arma mortale incombesse su di lui, ma l’unica cosa degna di nota nella stanza era lo schermo del computer su cui dominava l’immagine di un salotto. Un salotto che conosceva molto bene.
“Voglio proprio vedere, Sherlock… che cosa accade alle persone normali quando… vedono la persona che amano con un’altra persona.”
“Che vuoi…”
Le sue parole vennero interrotte dal trillo di un campanello e istintivamente si guardò intorno, cercando la fonte di quel suono; quando nel salotto ripreso fece capolino la figura di una donna, diretta verso la porta d’ingresso, capì ogni cosa. E quando John comparve all’interno dello schermo del computer, il suo cuore perse un battito.
 
***
 
“Che ci fai qui?” domandò Mary tirando su col naso e asciugandosi una lacrima che brillava al lato del suo occhio.
John restò in silenzio per qualche istante, dondolandosi a disagio sulle punte dei piedi, intimorito da quel dolore tangibile sul volto della donna. Il suo sguardo cadde sull’ammasso di scatole e scatoloni che occupavano l’intero ambiente del salotto. “Traslochi?”
La donna si voltò appena, seguendo il suo sguardo. “Già… Non ce la facevo più.”
“Ti capisco, anzi… credevo avessi già cambiato casa.”
“Avevo fatto un patto con me stessa… Mi ero detta che potevo farcela, che potevo cominciare a costruire qualcosa di nuovo dalle macerie del vecchio…” Una debole lacrima sfuggì al suo controllo, ferendole amaramente la gota candida. “…E invece sono molto meno forte di quello che credevo…”
Il medico fece un passo avanti e allungò una mano verso di lei, per scacciare da quel viso distrutto quella dolorosa goccia d’acqua, ma l’infermiera si sottrasse a quel contatto così distruttivo.
“Che cosa vuoi?” domandò con voce debole, stremata, supplice. “Che cosa vuoi ancora da me, John?”
John stava per parlare, per confortarla in qualche modo, ma la realtà incombente gracchiò nel suo orecchio, distogliendolo brutalmente da quella visione per lui così dolorosa. “Perdonami, Mary… Ma devi dirlo. Dirmi che cosa provi per me, se c’è rimasto ancora qualcosa di quel sentimento che sentivi prima di… tutto.”
Mary scoppiò a ridere, di una risata stonata, isterica. “Hai voglia di scherzare, spero.”
“Lo so, Mary. Mi dispiace. Solo… Dillo.”
Lei scosse violentemente la testa e si voltò dall’altra parte, premendosi le mani sugli occhi.
“Mary…” mormorò impotente il medico prendendole spalle e costringendola a girarsi e guardarlo negli occhi.
“Che cazzo vuoi che ti dica ancora!? Ti ho detto quello che provo a quel fottuto matrimonio! E tu l’unica cosa che sei stato capace di rispondermi è stato non posso! Come credi che mi sia sentita, eh!? Con tutti quegli invitati del cazzo che mi si stringevano attorno, soffocandomi, quando l’unica persona che avrei voluto accanto era appena scappata!”
“Mary, ti prego. Ti chiedo perdono, mi dispiace, ma devi dirlo.”
Mary lo spintonò lontano da lei, rivolgendogli un’occhiata di fuoco. “Mi dispiace! Sai dire soltanto questo! Io non le voglio le tue scuse, John! Io voglio il tuo amore!”
Il tempo scorreva. Granelli di sabbia che ruzzolavano da una parte all’altra di una clessidra. Secondi, minuti che sfumavano lentamente conducendo inesorabilmente ad una catastrofe.
“Mary.” ripeté, stavolta con tono fermo e sicuro, prendendola per le spalle e schiacciandola ad una parete. “Dillo ora.”
Mary lo fissò con occhi grandi di meraviglia e… quel sentimento così infido. Sembrò quasi sul punto di cedere, ma si costrinse a scuotere debolmente la testa. “Dillo tu per primo.”
John assunse un’espressione stupefatta. Dirle… dirle quelle cose che non le aveva mai detto neanche quando stavano insieme? Quelle cose che aveva detto solo una volta nella sua vita – a una persona sola? Alla stessa che l’aveva abbandonato in mezzo ad un parcheggio deserto, sputandogli addosso accuse, allontanandosi sempre più di lui?
“Mary…”
“No, John. Dillo e basta.”
Watson restò immobile immergendo il suo sguardo da cane bastonato in quello ferito di lei, così bella e sicura anche nelle sue fragilità. Il suo orecchio registrava i secondi che scorrevano alla rovescia, prorompenti come latrati di fucili. “Mary, io…” La guardò un’ultima volta, cercando la forza di dirlo, di farle del male. Perché era quello che sarebbe successo. L’avrebbe ferita. Di nuovo. “Ti amo.” mormorò di getto, a malapena udibile e si chiese se fosse sufficiente, se sarebbe riuscito nel suo intento o se il conto alla rovescia avrebbe scoccato il rintocco della morte. “Ti amo.” ripeté allora, stavolta con disperazione, pregandola con lo sguardo.
Mary avvicinò il volto al suo, in modo che i loro nasi si strofinassero appena. “Ti amo, John.” sussurrò sulle sue labbra prima di congiungerle alle proprie, rapendo il respiro dell’altro. John non ricordava come fosse baciare Mary, di che cosa sapesse la bocca di una donna, la sua pelle a contatto con la propria. Per un istante la lasciò fare, intontito da tutto quello che stava accadendo, dalla consapevolezza che ce l’aveva fatta e che al contempo non ce l’aveva fatta. Per un istante, solo per uno… si chiese se non fosse quella la vita che meritava: una donna che lo amava con tutta se stessa, che si ricordava del suo compleanno, che non metteva in pericolo la sua incolumità…
La spinse dolcemente via, studiando con somma sofferenza l’espressione smarrita sul volto di lei. “Che c’è?”
E tutto quello che riuscì a proferire fu un flebile e maledetetto: “Mi dispiace.”
Due parole piccole, semplici, banali. Due parole in cui Mary lesse tutto ciò che c’era da leggere. “Bastardo…” sussurrò mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. “Bastardo…” iterò avvicinandosi di nuovo a lui e sferrandogli uno schiaffo poderoso. “Bastardo…” disse mentre lo spingeva verso la porta sferrando pugni e colpi alla cieca, con lacrime gonfie di dolore che scorrevano sulle sue guance. “Bastardo!” urlò mentre le dita di John le si chiudevano attorno ai polsi, immobilizzandole le mani. “Bastardo.” singhiozzò abbandonandosi a lui, crollando senza forze a terra, scossa dai singulti.
Lui le cinse il corpo tremante con le braccia, stringendola forte a sé. “Perdonami, Mary. Non era mia intenzione farti del male, te lo giuro. Te lo giuro.”
Ma quelle parole, invece che calmarla, le scaricarono addosso la frustrazione necessario per farla balzare in piedi e allungare un braccio verso il vaso dove, tanto tempo prima, aveva poggiato delle rose rosse, regalate proprio da John. Lo sollevò, alto sulla sua testa, senza smettere di piangere lacrime di rabbia e di umiliazione. “Vattene.” sibilò tremando. Watson provò a muovere un passo verso di lei, ma Mary scagliò il vaso a un soffio dal volto di lui. “Vattene!” urlò senza più ritegno. E solo allora John si decise a voltarsi e ad andarsene.
 
***
 
 
Baker Street era avvolta nelle spire del silenzio. Anche il 221B era stranamente taciturno. Solitamente brulicava degli spari di Sherlock contro il muro, delle sue urla contro qualche povero disgraziato, dei suoi sproloqui quotidiani, dei suoi monologhi senza capo né coda… Ma quella sera il 221B taceva. Sherlock taceva.
John superò l’ultimo gradino come l’unico ostacolo che divide un corridore dal traguardo. Anzi, no. Non c’era adrenalina, non c’era speranza di raggiungere la fine della pista, non c’era niente di niente. Solo un vuoto immenso.
“Oh, John. Bentornato.”
Il medico neanche si voltò verso Sherlock e proseguì verso la cucina, per prendersi un bicchiere d’acqua. No, Sherlock non poteva capire. Sherlock non avrebbe mai capito.
“Sai… Ho saputo quello che hai fatto. Insomma… sei stato bravo. Lestrade mi ha chiamato poco fa informandomi che gli artificieri hanno neutralizzato gli esplosivi sull’ostaggio. E’ tutto merito tuo.”
Watson ingoiò in un sorso tutta l’acqua, ignorando le parole dell’altro. Se Sherlock credeva che aveva già dimenticato il pezzo che gli aveva fatto quel pomeriggio, si sbagliava di grosso. Si trascinò fiaccamente verso la camera al piano di sopra, sperando che la signora Hudson avesse ritirato lenzuola e coperte dalla lavanderia.
“Dove vai?”
“A letto, ho avuto una giornata difficile.”
Holmes deglutì a vuoto e si alzò dalla poltrona, camminando frettolosamente verso di lui. “Se è per quello che ho detto prima, ecco, io…”
“Non ti scomodare a dirmi che ti dispiace, non serve. Spero che tu e quel pazzo vi stiate divertendo.” lo bloccò freddamente.
“Credi che io mi stia divertendo, John?”
“Sì, Sherlock. Lo vedo dal modo in cui aspetti un segno di vita da questo… questo folle. Lo vedo da come cambi espressione quando ti arriva una foto o una chiamata. E’ diventata la tua unica ragione di vita o quasi.”
Sherlock sorrise, scioccato. “Che cosa te lo fa pensare?”
John si appoggiò allo schienale della sua poltrona. “Ci sono delle vite in gioco, Sherlock! Vite di gente reale! Tanto per sapere, ti importa vagamente?”
“Preoccuparmene mi aiuterà a salvarle?” replicò distaccato il consulente investigativo, congiungendo le mani sotto il mento.
“No.”
“Allora continuerò a non commettere quell’errore.”
“E lo trovi facile, giusto?”
“Sì, molto.”
Quelle parole caddero tra loro rimbombando. John scosse la testa con rassegnazione e fece per andare in camera sua, ma la voce di Sherlock lo trattenne. “Ti ho deluso, vero?”
“Bravo, è una buona deduzione.” rispose aspramente il medico.
“L’incontro con Mary deve averti spiazzato. Chissà, forse in fondo ti sei reso conto che il dinamitardo ti ha portato a fare soltanto ciò che tu volevi fare. Ho visto le vostre foto, belle. Cos’è, hai avuto un ripensamento?”
John scattò verso di lui e nel farlo urtò con la gamba destra la sedia del tavolo da pranzo, facendola rovesciare a terra e creando uno schiamazzo frastornante. “Se è questo che pensi di me allora sai che c’è, Sherlock?” sibilò a un soffio da lui, con espressione dura. “C’è che non hai la minima idea di chi io sia. Riesci a immaginare come stia adesso quella donna? L’ho illusa portandola all’altare, l’ho umiliata lasciandola davanti a tutti gli invitati, le ho ridato una speranza a causa di questo stupido gioco che come scopo ha soltanto quello di rovinare la vita alle persone. Sono un mostro, Sherlock. Un mostro. Ecco perché sto così, ecco perché non riesco a… divertirmi come fate tu e il dinamitardo.” Si allontanò da Holmes guardandolo glaciale un’ultima volta. “La prossima volta che dici che tutto questo non mi riguarda, ricorda quello che ho fatto oggi. Ho salvato una vita, è vero, ma ne ho distrutto un’altra.”
E senza aggiungere altro salì, zoppicando leggermente.
 
***
 
Sherlock si buttò sul letto con un sospiro. Quella sera non sarebbe salito, no. L’aveva capito dal tono di voce di John, dal suo sguardo, dal modo in cui gli si era avvicinato, quasi minaccioso. Quella sera non sarebbe riuscito a ricongiungersi a lui neanche se l’avesse voluto. Perché, da un lato, non voleva. Insomma, lo infastidiva il fatto che John non lo accettasse per quello che era. In quegli anni, era cambiato tanto solo per lui, per renderlo felice e per essere degno del suo amore, ma ora… Ora si sentiva come intrappolato dalla rete di quell’amore che ormai sembrava strattonarlo più che spingerlo a dare il meglio.
Cosa credeva, che per lui fosse stato facile guardarlo dichiarare il proprio amore, anche se finto, ad un’altra persona? La verità era che… Che fino all’ultimo non aveva capito quello che stava succedendo. Non aveva fatto caso all’auricolare, agli sguardi fugaci di Watson in direzione della telecamera grazie a cui lui stava osservando la scena, alle pretese insensate del medico nel sentirsi dire quel ti amo. John Watson era il suo tallone d’Achille, lo rendeva vulnerabile ad ogni fattore esterno, fragile. Solo dopo che aveva guardato lui e Mary baciarsi, avvertendosi dentro una lacerazione profonda, la voce dell’ostaggio gli aveva confessato che quella prova riguardava anche e soprattutto John. Che il dinamitardo, attraverso la voce del secondo Incompleto scappato dalla fabbrica, aveva contattato anche il coinquilino, obbligandolo a strappare quella dichiarazione prima che il conto alla rovescia scadesse, causando l’esplosione del materiale addosso all’ostaggio. Una volta che Watson se n’era andato dalla casa di Mary, Hanry Williams, l’Incompleto che fino ad allora aveva parlato sotto indicazioni altrui, lo aveva richiamato, implorandolo di venire a prenderlo e di trovare sua zia, cieca, anche lei rapita dal dinamitardo. Era bastato avvisare Lestrade come aveva fatto per la signora Camilla che, al sicuro nella fabbrica, ancora aspettava di abbracciare suo figlio piccolo.
Ma quella reazione da parte di John proprio non se l’era aspettata. E ancora le parole del fidanzato gli echeggiavano in testa, logorandolo. No, stavolta non sarebbe stato lui a strisciare ai piedi dell’altro, chiedendogli perdono. No.
Si rigirò nel letto per quelle che gli sembrarono ore che in realtà corrispondevano a pochi minuti. Non capiva che gli stava succedendo. Aveva bisogno di qualcosa, di… qualcuno.
Afferrò meccanicamente il proprio cellulare, senza far neanche caso a quello che stava facendo. Digitò il numero alla svelta, anche se lo aveva salvato nella rubrica e attese.
“…Sherlock?” La voce di Victor era strascinata, impastata di sonno.
“Ciao, scusa se chiamo a quest’ora.”
“…Fa’ niente, tranquillo. E poi non stavo dormendo. Solo gli anziani dormono a quest’ora.”
Sherlock sorrise al suono di un plateale sbadiglio. “E’ l’una e mezzo di notte, Vic.”
“Appunto! Abbiamo ancora tutta la notte a disposizione per… dormire? Dio, Sherlock, ma tu almeno sai che cosa vuol dire dormire?”
“Dormire è noioso.” ribatté semplicemente il consulente investigativo, appallottolandosi nelle coperte calde e scacciando il pensiero di John che, al piano di sopra, avrebbe anche potuto star gelando in quel momento.
“Va tutto bene?”
“Sì, perché me lo chiedi?”
Victor sbadigliò ancora. “Non so, sei solito chiamare nel cuore della notte poveri cittadini che dormono beatamente?”
“Di solito sveglio John.” farfugliò tristemente l’ex inquisitore osservando il soffitto e immaginandoselo dolcemente assopito, bello.
“Avete litigato?” domandò ancora Trevor.
“No, noi non… perché pensi che abbiamo litigato?”
L’amico sospirò. “A meno che tu non abbia deciso di sostituirlo con me, cosa che ritengo assai improbabile, deve per forza essere successo qualcosa tra voi se hai deciso di svegliare me e non lui.”
“Perché assai improbabile?”
“Eh?”
“Hai detto a meno che tu non abbia deciso di sostituirlo con me, cosa che ritengo assai improbabile. In che senso?”
“Ma in nessun senso, Sherlock!” rispose Victor alzando la voce. “L’ho detto così, tanto per dire. Sembrate ottimi amici, tutto qui.”
“Lo siamo, infatti.”
“Bene, buono a sapersi. Ma se non avete litigato, perché stai parlando con me e non con lui?” insistette Victor.
“Per nessun motivo particolare. Avevo voglia di… sentirti. Tutto qui.”
L’amico tacque per qualche istante, infine esclamò: “Misurati la febbre. Anzi, chiama direttamente John, che è medico.”
Quel commento che voleva essere innocente, ironico, buttato lì per alleggerire l’atmosfera, provocò in Sherlock una rottura. “E va bene! Visto che pare che tutti mi consideriate uno stronzo senza sentimenti vi asseconderò, contenti?”
E buttò giù, senza attendere la risposta dell’amico. Nei minuti successivi il telefono squillò diverse volte, ma Holmes lo ignorò, masticando le parole di John e quelle di Victor. Perché tutti lo credevano una macchina fredda? Lui non era così. Non era così.
La notifica di un messaggio lo costrinse a voltarsi. Si immaginò, fuori da ogni logica, che fosse John, che gli chiedesse scusa per quello che aveva detto e che gli chiedesse di raggiungerlo di sopra, per prenderlo fra le proprie braccia e scaldarlo. Ma l’unico messaggio che gli era arrivato proveniva da Victor.
 
Ehi, amico, mi dispiace, non intendevo ferirti. Mi ha fatto semplicemente strano sentirti dire quelle cose così diverse da quelle che avrebbe detto lo Sherlock di una volta. Non fraintendermi, mi piaci molto di più ora. Se non hai voglia di parlare lo capisco, ma sappi che io sono qui per te. V
(Sat, 1:38 a.m.)

 
Sherlock lesse e rilesse quell’sms così semplice eppure così bello. Si sentì uno stupido per aver trattato l’amico in quel modo. Non se lo meritava. Forse, John aveva ragione e lui stava come al solito distruggendo una delle cose belle che gli era capitata tra le mani. Poteva tollerare di perdere Victor, ma non John. Senza John, lui non era niente, solo un corpo in stato vegetativo che respirava ma non viveva. Che peso amare qualcuno…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 17
*** CAPITOLO 16 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 16
 
 
Sherlock suonava. Gli serviva per ricostruire i vari tasselli di tutta quella storia. Il caso di Van Coon era passato in secondo piano, totalmente. Dimmock lo aveva chiamato per un secondo omicidio, quello di un giornalista, ma lui non aveva la lucidità adeguata per seguire qualunque caso. Quella mattina era salito nella camera di John, sperando di potersi chiarire con lui in qualche modo, ma l’aveva trovata vuota, il letto sfatto. Se non altro, la signora Hudson aveva ritirato le coperte dalla lavanderia e lui aveva potuto dormire al caldo. Si era chiesto dove fosse, che cosa stesse facendo, ma l’ipotesi più probabile era che si trovasse alla fabbrica. Andava lì ogniqualvolta aveva bisogno di schiarirsi le idee o semplicemente di non pensare.
“Sherlock!”
La voce squillante della signora Hudson giungeva dal piano di sotto, cristallina come al solito, infondendogli una sensazione di mitezza e tranquillità.
Accorse nel salotto, pronto insolitamente a sorbirsi diligentemente ogni suo rimprovero o a soddisfare qualunque suo desiderio, ma ad attenderlo non c’era solo la sua padrona di casa.
“Ehi, amico.” lo salutò flebilmente Victor con un gesto timido della mano. Sherlock accennò una risposta che però nessuno dei presenti intercettò.
La signora Hudson li guardò indagatoria e quasi arrabbiata nel constatare quella tensione. “Beh, io vi lascio soli.” dichiarò dopo un po’ facendo per lasciare la stanza e urtando accidentalmente Trevor. “Oh, scusi caro. Sa, vado di fretta. Quando John tornerà a casa vorrà trovare un buon pasto caldo.”
Holmes alzò gli occhi al cielo per quel comportamento così infantile. Non capiva perché sia lei che John fossero così ossessionati a tenerlo legato a loro in quella maniera. Era davvero così strano saperlo amico di qualcuno?
“Allora…” biascicò Trevor una volta soli. “… Ti va di… di fare quattro passi?”
Il consulente investigativo non rispose e si limitò a vestirsi col suo cappotto e la sua sciarpa. Si diresse verso l’uscita ma Victor gli afferrò saldamente la mano, stringendola forte. Quel gesto scatenò nell’ex inquisitore le emozioni più disparate, mandando il suo hard disk in tilt e paralizzandolo sotto quelle dita.
L’amico aprì la bocca, come per dire qualcosa, ma alla fine la richiuse, con sguardo sconfitto, e allontanò anche la mano fissando il pavimento.
“Andiamo.” disse solo Sherlock prima di prendere la porta.
 
***
 
“Allora, perché è qui?”
John prese un respiro profondo, contemplando la sua mano sinistra che tremava leggermente sul bracciolo della poltrona su cui era seduto. Perché era lì? Non lo sapeva neanche lui ad essere sincero. Sapeva solo che aveva incontrato un suo amico dell’accademia militare, Bill Murray, che si erano fermati a parlare cinque minuti e che lui aveva quasi perso la testa. Non ricordava neanche perfettamente che cosa gli avesse detto, né che cosa lo avesse spinto a confidarsi con una persona che non vedeva da ormai vent’anni. Gli aveva spiegato che stava male, che non capiva che cosa stesse succedendo alla sua vita, che sentiva un vuoto sconfinato dentro di sé, e Bill, per tutta risposta, gli aveva consigliato di parlare con Julia, una sua cara amica, che avrebbe potuto aiutarlo. Era bastata una sua chiamata per fissare un appuntamento quella mattina stessa.
Ed eccolo lì, John Watson, seduto sulla poltrona dello studio dio una strizzacervelli. Lui aveva sempre creduto nella scienza della medicina in generale, ma di fronte alla psicologia si era mostrato diffidente e restio all’accettazione di tali studi come veritieri, basati su fatti concreti, tangibili.
“Ecco, io… non lo so.”
“Bill mi ha detto che si sente come… vuoto. E’ la verità?” insistette la donna appuntandosi sulla pagina di un block-notes il nome e il cognome del suo paziente.
“Lo è, ma forse venire qui è stato un errore.”
“Perché dice così?”
John sorrise di sbieco. “Non amo raccontare i fatti miei ad uno sconosciuto.”
Julia annotò qualcosa sul foglio, annuendo tra sé e sé. “Invece sa cosa penso? Penso che le farebbe bene sfogarsi proprio con uno sconosciuto, una persona che non la conosce e può restare il più oggettivo possibile.”
“Lei ha scritto che ho problemi di fiducia.” notò Watson indicando il block-notes.
“E lei ha letto la mia scrittura al contrario.” osservò a sua volta la psicologa con tono severo ma sciogliendosi quasi subito in un sorriso comprensivo. “Capisce che intendo?”
John non rispose e rimase in silenzio per svariati istanti, mentre nella sua testa campeggiava l’immagine di Sherlock che lo accusava di essere ancora innamorato di Mary a cui poi si sovrapponeva quella sua e di Victor assieme. “Senta, non dovevo venire. Sono capace di risolvere i miei problemi anche da solo.”
Si alzò, convinto di andarsene e lasciarsi quella stupida seduta alle spalle, dirigendosi alla fabbrica, l’unico luogo dove sembrava contare veramente, ma Julia gli porse un foglietto con il suo recapito telefonico. “Potrebbe non averne bisogno, ma la prego, non lo butti. E se dovesse avere bisogno di qualcuno con cui parlare, non esiti a contattarmi.”
Lui non lo voleva. Non lo voleva quel pezzo di carta. Non voleva l’aiuto di nessuno. Ma nonostante tutto lo prese, affondandolo nella tasca del giubbetto, per non ferire in qualche modo quella donna che, alla fine, aveva semplicemente fatto il suo lavoro ed era stata anche molto gentile e paziente con lui.
La psicologa si levò in piedi a sua volta, porgendo al dottore la mano di fata e sorridendogli candidamente. “Arrivederci, dottor Watson.”
“Arrivederci.”
 
***
 
Victor e Sherlock stavano passeggiando silenziosamente per Oxford Street, mescolandosi con la folla sciamante, camminando avvolti dal completo anonimato tra persone ciarliere, dipendenti frettolosi, venditori avidi e bambini urlanti inseguiti da genitori altrettanto urlanti.
Nel marasma di quella fredda mattinata di Aprile, i due amici proseguivano, talora separandosi, ma ritrovandosi dopo poco, come guidati da un segnale GPS. Nessuno dei due aveva spiccicato parola da quando erano scesi in strada e montati sul primo taxi disponibile. E quel silenzio perdurava mentre la corrente popolosa li trascinava con sé.
Si fermarono solo quando Victor si accorse che Sherlock aveva deviato percorso, abbandonandosi a sedere su una delle panchine più isolate della via. Trevor procedette nella sua direzione, quasi correndo, ma non prese posto affianco a lui. Restò ritto davanti all’amico che lo scrutava, aspettando qualcosa o semplicemente studiandolo.
“Sherlock, ascolta, volevo dirti che…”
“Mi dispiace.” lo precedette Holmes accarezzando la parte della panchina accanto a sé, esortando l’amico a sedersi.
Victor obbedì di riflesso a quel comando velato, senza però riuscire ad evitare di sgranare un poco gli occhi, stupito della sincerità riflessa su quel volto di solito così freddo e distaccato. “Ti… dispiace?”
“Sì, non avrei dovuto comportarmi in quella maniera. E’ solo che… non so, ero arrabbiato per altre questioni e tu sei stata solo la valvola d’uscita della mia rabbia. E non era giusto, non quando ti eri offerto di restare ad ascoltarmi. Perciò… scusami.”
Trevor sorrise, sollevato e si lasciò andare contro lo schienale della panchina, sospirando profondamente. “Dio, Sherlock… Mi hai fatto prendere un colpo. Io… non so, credevo di aver rovinato tutto.”
Il sollievo dell’altro andò a scaldare il cuore di Sherlock, ora così confuso e intimorito a causa di quella discussione con John. Sentiva una sensazione di penuria d’aria, come se avesse difficoltà a respirare. E ogni volta che ripensava alla lite… Doveva liberarsi di quella zavorra o non sarebbe stato in grado di affrontare lucidamente il fidanzato, una volta insieme. Ne avrebbe potuto parlare con Clara, certo, ma a quell’ora aveva di certo già incontrato John alla fabbrica, e non voleva certo che finisse in mezzo a quella situazione.
Poteva fidarsi di Victor, si disse. Ciononostante… raccontargli tutto avrebbe comportato mettere lui stesso in pericolo, rendendolo cosciente della scomoda condizione in cui si trovavano John e Sherlock. E inoltre… John non lo avrebbe mai perdonato per aver rivelato ad un quasi sconosciuto la loro storia.
“Ricordi quando mi hai chiesto se c’era qualcuno nella mia vita e io ti ho risposto che… disgusto ogni genere di sentimento?” Incoraggiato dal gesto affermativo di Trevor col capo, continuò. “Beh, mentivo. La verità è che… una persona c’è.”
Gli occhi di Victor rifletterono tutto il suo sbigottimento, accendendosi di stupore. “Tu… in una relazione?”
Sherlock si schiarì nervosamente la gola, come spesso faceva anche John. “Già.”
“O mio Dio, Holmes! E… e lei com’è?”
Lei. Ovvio. Non poteva esserci un lui. “Ecco, è…” Era estremamente difficile riuscire a definire in modo nitido come fosse John Watson, che cosa rappresentasse per lui. “… è gentile, altruista… molto altruista: pensa prima al bene di chiunque altro che al suo e... riesce a starmi accanto come nessuno ha mai fatto, mi rende migliore. Ogni volta che siamo insieme è un po’ come dimenticarsi di tutto e contemporaneamente non riuscire a fare a meno di chiedersi a cosa tutto questo ci condurrà…”
Si interruppe, congiungendo i polpastrelli, col viso stravolto dallo sforzo di aprire il suo cuore in quel modo, sezionarlo e presentare ogni sua parte. “Merda, amico… Certo che questa donna ti manda proprio fuori di testa.” Sherlock sorrise appena di fronte a quell’osservazione. Quant’era vero. “Qual è il suo nome?”
“Si chiama… si chiama Beth.”
“Beth… mi piace, bel nome. Devo dire che non me la sarei mai immaginata così la donna dei tuoi sogni.”
Il consulente investigativo rivolse lo sguardo verso l’amico che stava sorridendo nostalgicamente, scrutando un punto indefinito in mezzo alla calca. “E come te la immaginavi – sentiamo –?”
“In realtà non è che me la sia mai immaginata… credevo che tu fossi destinato ad innamorarti di una persona reale, che io stesso ho conosciuto.”
Il panico lo assalì improvvisamente. Si… si stava riferendo a John? Come diavolo l’aveva capito? Si erano comportati il più neutralmente possibile fra loro, riducendo al minimo indispensabile l’interagire fra loro per sviare ogni possibile sospetto, ma ora…
“Chi?” domandò flebilmente Sherlock irrigidendosi impercettibilmente.
Victor si voltò e i loro sguardi si incontrarono violentemente, pugni sonori in piena faccia. “Irene Adler.”
L’ex inquisitore si svuotò i polmoni con un sospiro infinito che aveva il sapore della dolce brezza estiva della città. Sorrise nel ricordare quella ragazza così scaltra e sicura di sé. Gli ricordava tanto sé stesso.
“Cavolo, Sherlock, si vedeva lontano un miglio che era cotta di te.”
“A me risulta che non si facesse scrupolo a… passare bei momenti con altri ragazzi.”
“Non ci andava a letto, se è questo che intendi col tuo solito poetismo. Offriva servizi vari, ma a quanto pare non ha fatto sesso con nessuno con cui non volesse. E… beh, penso che se tu avessi mai mostrato interesse nei suoi confronti te la saresti fatta senza problemi.”
“Quanta eleganza, Vic.” osservò con una smorfia Sherlock.
“E’ la verità. E poi, ora che anche tu hai una fidanzata, non sei più scusato per sottrarti a tali argomenti.”
“Hai intenzione di parlare di un semplice atto carnale tutta la mattinata o pensi di voler proporre qualcosa di più interessante?”
Victor lo fissò intensamente per qualche istante, muovendo i suoi occhi su ogni centimetro di pelle nivea del volto dell’altro, infine scattò in piedi con espressione sconvolta. “Non dirmi che non l’avete ancora fatto!”
Il consulente investigativo lo ritirò giù a sedere tirandolo per la manica, cercando di nascondersi da alcuni sguardi incuriositi e infastiditi da parte di certi cittadini che si erano fermati, catturati da quell’esclamazione. “Abbassa la voce, dannazione!” lo redarguì trascinandolo in un sibilo.
“Allora è vero?” insistette Trevor abbassando a sua volta la voce.
Sherlock distolse lo sguardo, non riuscendo a spiegarsi bene il perché. No, non era vero, però… insomma, parlare di quello con Victor sarebbe stato quantomeno imbarazzante. Non era di certo dei suoi momenti con John che voleva discutere.
“No, certo che no. Ma non è questo il punto ora. Il punto è che… in questo momento sento che ci stiamo allontanando.”
Il viso di Trevor si velò di tristezza. “Merda, mi dispiace. Con John hai parlato?”
“Perché avrei dovuto?”
“Ovvio… Ah, cioè, nel senso…”
La tensione di Victor venne sprigionata con tale evidenza che Holmes si sentì come accerchiato da essa.
“Nel senso che John potrebbe darti consigli migliori di quelli che potrei darti io.” si spiegò tentennante Trevor, mentre si scostava ripetutamente una ciocca di capelli dalla fronte. “E con Beth?”
“Volevo farlo oggi, ma lei sembra essere scappata volutamente per non affrontare il discorso.”
“Ma è successo qualcosa di preciso?”
Sherlock pensò al dinamitardo, alla fabbrica, all’Inquisizione, a Mary… Bastavano tutti quei fattori per dirottarli? Per allontanarli l’uno dall’altro? Per incrinare il loro equilibrio resistente e fragile al contempo, come un palazzo di vetro? Ma chissà… forse loro stessi erano le crepe in quel castello. Con le loro liti, le loro incomprensioni, le loro gelosie e la loro incapacità di comunicare. Quell’amore stava bruciando come una supernova: incontrollabile, prorompente, instabile. Stava consumando i loro corpi gelidi, avvolgendoli con un abbraccio rovente di lingue di fuoco, facendoli brillare, risplendere.
“Abbiamo litigato, ieri sera.” confessò infine il consulente investigativo. “Ci siamo detti reciprocamente cose orribili… anzi, io gli ho detto cose orribili, cose che non pensavo realmente.”
“Gli?”
“Le.” si corresse in fretta Holmes, sperando che l’amico sorvolasse su quel piccolo grande errore che aveva appena commesso. Doveva stare più attento, dannazione! “E lei se n’è andata. Ed è colpa mia.”
Victor gli poggiò fraternamente una mano sulla spalla, mentre gli sorrideva, incoraggiante. “Non dire così. La colpa non viene mai da una sola parte, Sherlock. Sono sicuro che anche Beth ha la sua buona parte di responsabilità.”
L’aveva davvero? John aveva davvero fatto qualcosa per scatenare quel conflitto, a parte essere dannatamente sensibile, altruista, meraviglioso e desideroso di stargli accanto e mettere così la sua vita stupidamente in pericolo? No, la colpa era solo sua. L’aveva lasciato indietro, lo aveva trascurato per Victor, si era dimenticato il suo compleanno, lo aveva accusato di essere ancora innamorato di Mary, lo aveva ingannato, avvicinandolo con una menzogna e aveva finito per innamorarsi di lui. Non sapeva come faceva quel piccolo medico militare a restare al suo fianco.
“Io voglio solo che torni tutto come prima. Così mi sembra di impazzire, di non sentire niente a parte… un grande vuoto.”
Victor annuì tra sé e sé, sorridendo, per poi sferrargli un poderoso coppino che lo fece saltare via dalla sua stretta con un’espressione scandalizzata e adirata in volto.
“E questo perché diavolo l’hai fatto?”
Trevor si alzò con lui e gli passò un braccio attorno alle spalle, strofinando le nocche sulla sua testa, ridendo. “Perché sei cambiato, Sherlock.” Sherlock si liberò da quella presa, ricomponendosi e sistemandosi i riccioli neri. Fece per inveire contro l’amico ma la dolcezza con cui quello lo stava guardando lo pietrificò. “Sei cambiato…”
 
***
 
John arrivò con una buona ora di ritardo che lui attribuì al traffico. Tao, come sempre a guardia della porta d’ingresso, non fece domande e si limitò a salutarlo calorosamente come faceva sempre.
“C’è Clara?”
Il ragazzo scosse la testa. “La signorina non è ancora arrivata. E’ in considerevole ritardo, dato che avrebbe dovuto essere qui due ore prima di lei, dottore.”
“Capisco… Avete provato a chiamarla?”
Una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare. “Mi ha scritto un messaggio poco fa, dicendomi che va tutto bene e che per oggi non riuscirà a venire.”
Molly era leggermente incurvata su se stessa, una mano che le sfregava nervosamente la spalla e gli occhi che saettavano per la stanza. Tao si congedò rispettosamente e tornò alle sue solite mansioni, lasciando i due collaboratori soli. Lei fece per allontanarsi, ma John la chiamò stancamente. “Molly, aspetta.” La ragazza si fermò, voltandosi appena. “Ti devo delle scuse: non avrei dovuto urlarti a quella maniera, solo… sta’ attenta a quello che fai.”
“Ci siamo lasciati.” confessò lei girandosi finalmente verso di lui. “Sherlock… Sherlock aveva ragione. Jim mi ha rivelato di essere omosessuale. Prima di andarsene mi ha giurato che non ne avrebbe fatto parola con nessuno.”
Watson abbassò gli occhi, sinceramente rammaricato per quella notizia. “Mi dispiace…”
Molly aveva il viso scuro, quasi non sembrava più la ragazza allegra e solare che ogni mattina lo salutava tutta spettinata ed esuberante, presa in qualche sua corsa quotidiana. “Sono arrivata alla conclusione che… l’amore vero non esiste. Non per me, almeno.”
“Non dire così.”
La ragazza sospirò. “La verità è che ci sono persone che non sono fatte per l’amore. E io sono una di quelle. E’ questa fabbrica il mio futuro o il carcere se un giorno dovessero scoprirci.”
Quelle parole lo fecero riflettere… E se anche lui non fosse fatto per l’amore? Insomma, non era riuscito ad avere una relazione stabile nell’arco di una vita intera prima di Mary che aveva lasciato sull’altare per correre da un dannato sociopatico che ora stentava a riconoscere. “Magari è solo questione di attesa… ma questa è una delle cose più ipocrite che si possano dire in certe situazioni.”
Molly sorrise debolmente, tirando su col naso mentre gli occhi le si inumidivano. John corrugò la fronte e allungò una mano verso di lei senza sapere che cosa dire o che cosa fare.
“Mi sono innamorata della persona sbagliata.” singhiozzò portandosi i pugni chiusi di fronte agli occhi e cercando di scacciare le lacrime. “Mi sento così sola…”
Lui l’abbracciò tristemente, incapace di spiccicare una parola di conforto. E lui sapeva. Sapeva che quella persona non poteva essere quell’insignificante Jim. Lo sapeva da molto tempo, lo aveva capito. Era strano come, certe volte, lui e quella ragazza fossero simili: erano entrambi innamorati della stessa persona sbagliata, entrambi stavano soffrendo, entrambi si sentivano soli e inadatti. Si sentiva come… come se Sherlock fosse una mina vagante, un elettrone impazzito, destinato a staccarsi dalla complessità della molecola. E lui non poteva tenerlo attaccato a sé se non era quello che lui desiderava.
“Quando ami davvero una persona, devi anche essere pronto a lasciarla andare.” sospirò mestamente, poggiando il mento sulla spalla di Molly a cui sfuggì un singhiozzo.
“Però non è giusto…”
“No, infatti.” John la spinse via con delicatezza, ma tenendola vicina a sé, sorridendo dolcemente. Catturò due lacrime sul suo volto, asciugandole lievemente. “Ma le cose stanno così.”
 
***
 
“Scusa.” mormorò frettolosamente Sherlock, inabissando repentinamente la mano in tasca, mentre Victor scrollava tranquillamente le spalle, bonario. Quando però quest’ultimo scorse il telefono rosa trattenne il fiato.
“Le hai rubato il cellulare?”
“Non essere stupido. E’ per un caso…” rispose distrattamente il consulente investigativo impegnato nell’aprire il messaggio appena arrivato.
Bip…Bip…Bip…
Dopo i segnali acustici, lo schermo del telefono venne invaso interamente dall’immagine di un confortevole salotto raffinatamente arredato, col pavimento coperto da un tappeto cremisi, e le pareti verdi e marroni. Due poltrone sormontavano la scena, una rossa e l’altra nera, di pelle, l’una orientata verso l’altra, come stallatiti e stalagmiti che protendono il loro braccio di roccia le une in direzione delle altre.
Sherlock non ebbe neanche il momento di interiorizzare ciò a cui si trovava di fronte che il cellulare trillò insistentemente, quasi sollecitandolo ad affrettarsi a rispondere.
“Vic, io…” biascicò sveltendo il passo e immergendosi nel mare urbano della Londra nell’ora di punta. “… devo andare, mi dispiace!”
“Sherlock! Aspetta!” gli gridò dietro l’amico tendendo una mano verso di lui ma andando inevitabilmente a sbattere contro un passante che gli borbottò acidamente dei rimproveri. Victor cercò di rabbonirlo con alcune scuse sentite e dei sorrisi imbarazzati, ma quando l’uomo raccolse la sua borsa e si defilò, Sherlock era scomparso.
 
***
 
“John!”
Salì i gradini di corsa, rischiando molteplici volte di inciampare.
“John!”
Spalancò la porta e irruppe nella stanza col cuore a mille. Nella stanza, ciononostante, ad attenderlo non c’era John, ma Clara che alla sua bruta entrata si era voltata.
“Sherlock.” lo salutò lei accennando un sorriso.
Sherlock girò su se stesso un paio di volte, cercando con gli occhi un qualcosa che potesse preannunciargli ciò che lo attendeva. Ma niente sembrava poterlo aiutare, prepararlo.
“Vattene di qui. Subito.” ordinò dunque alla donna che invece che fissarlo sbigottita assunse un’espressione costernata.
“Sherlock…”
“Vattene, Clara! Ora!” tuonò allora Holmes voltandosi di scatto verso di lei e guardandola con occhi ardenti.
Clara infilò le mani nella giacca a vento che indossava e gli si avvicinò mentre un sorriso sghembo rendeva il suo volto ancora più amareggiato e rassegnato. “Non posso, perdonami.”
Sherlock si portò il telefono all’orecchio che aveva preso a squillare. “Che significa?” sbottò sondando il territorio in cui si stava addentrando sul volto sconfitto dell’amica.
La voce che aveva parlato mentre lui si stava confondendo nella folla, nel tentativo di seminare Victor, sibilò tremolante poche parole: “Sorpreso… Signor Holmes?”
Un’anziana donna, terrificata, sconvolta, sola e in lacrime. Bastardo… Chiunque fosse, bastardo. John, in seguito alla prima mossa del dinamitardo, gli aveva descritto gli altri Incompleti che, con tutta probabilità, si trovavano nelle fauci di quella belva invisibile che si muoveva attraverso la rete telefonica. All’appello mancavano: Marco – il figlio di nove anni di Camilla, il primo ostaggio –, Amanda – un’anziana signora cieca –, e suo nipote e responsabile Derek. Andando per esclusione, Derek era stato il secondo ostaggio, quindi non rimanevano che il bambino e…
“Che cosa ci fa lei qui?”
“Fa… parte del gioco.” rispose Amanda rocamente, senza fiato. “Non sei felice… Sherlock? Non è bello giocare assieme a… qualcuno?”
Holmes strinse il pugno libero. “Non sono già coinvolte abbastanza persone? Io, te, gli ostaggi, John.”
“Non sono mai… abbastanza. Ma adesso basta… basta temporeggiare. Giochiamo. Metti il vivavoce.”
Il consulente investigativo lanciò uno sguardo afflitto a Clara e si trovò costretto ad eseguire i comandi del dinamitardo.
“Mi sente, signorina… Clara?”
La donna inspirò a fondo. “Sì.”
“Bene, allora… porga al signor Holmes… l’oggetto necessario per continuare a giocare.”
Clara annuì con decisione e quando la mano destra riemerse dalle tasche del giubbetto era munita di una pistola nuova di zecca, dotata di una terribile bellezza. Sherlock alzò gli occhi dalla pistola all’amica che rispose al suo sguardo con un cenno rassicurante col capo.
“Avanti, Sherlock… prendila.”
Holmes allungò la mano verso quella di Clara, così salda e forte. Le tolse l’arma e approfittò di quel fugace contatto per carezzarle dolcemente il dorso del pollice, provando a infonderle più coraggio di quello che già vedeva divampare nei suoi occhi scuri.
“Adesso ti spiego le regole, mio caro… Una persona vive e una… e una muore. E’ tempo di fare una scelta, Sherlock… Deciderai di salvare qualcuno a te caro… o un innocente a te estraneo, che si trova… in queste condizioni senza ragione alcuna?”
“Sii più chiaro.”
Seguirono alcuni istanti di silenzio, infine la voce provata di Amanda riempì nuovamente il salotto. “Dovrai sparare alla signorina Clara altrimenti… boom… boom…” La vecchia fu scossa da un singhiozzo agghiacciante che scosse entrambe i presenti fin dentro il midollo osseo. “Ora sono stato… sufficientemente chiaro?”
Sherlock roteò la testa all’indietro, digrignando sconsolatamente i denti.
Clara rimase immobile ad osservarlo, i pugni chiusi e le braccia abbandonate lungo i fianchi snelli. Era consapevole di quanto… di quanto difficile sarebbe stato. Lui non era una macchina, un mostro. Era un essere umano, uno dei pochi rimasti al mondo. Era così terribilmente ingiusto caricarlo di un simile peso.
Agì d’impulso. Scattò in avanti e strappò dalla mano dell’ex inquisitore l’arma; in meno di un secondo la canna della pistola era puntata contro il mento, il dito che correva alla rimozione della sicura.
“NO!” urlò la voce di Amanda, sinceramente allarmata. “Deve… farlo Sherlock, altrimenti morite entrambe.”
Clara non si mosse, interdetta, e quasi non si rese conto della figura di Sherlock che percorreva la stanza a grandi passi, come impazzita. Quando metabolizzò ogni cosa, abbandonò la posizione e tornò a guardare l’amico.
“Sherlock.” lo chiamò con voce perentoria. “Sherlock, guardami.” Ma non attese che l’altro si girasse. Con un passo gli fu a un soffio e gli prese il viso con entrambe le mani, obbligandolo a non sfuggire al suo sguardo. “Va tutto bene. E’ tutto okay. Ti fidi di me?”
“No, Clara. Non posso farlo.” rispose miseramente lui tentando pietosamente di arretrare, ma lei era così stabile che sembrava impossibile qualsiasi movimento.
“Puoi, invece.” replicò flemmaticamente la donna. “Sherlock, io so che mi vuoi bene e te ne voglio anche io, tantissimo, ma ormai ho perso Harriet. Non ho paura di morire, anzi. E’ arrivato il mio momento, Sherlock. Il momento che ho atteso da quando Harry è morta. Tu hai l’occasione di salvare un’innocente e io… io di rivederla. E’ giusto così.”
Sherlock scavò in quelle pozze sconfinate e attinse a tutta la loro acqua di speranze e sogni irrealizzati. Se lui avesse perso John… di certo avrebbe espresso la stessa richiesta. “D’accordo.” sospirò sconfitto mentre faceva un passo indietro e si rigirava la pistola in mano.
Dall’altro capo del telefono provenne un respiro sollevato. Povera vecchia… Sarebbe morta d’infarto prima di finire maciullata dall’esplosione se solo lui si fosse rifiutato. Guardò il volto sorridente di Clara e per un attimo la sua mano vacillò, una gocciolina di sudore gli si ghiacciò sulla tempia. Ripensò a quando aveva parlato per la prima volta solo con l’amica, la loro prima uscita con John, la sua confessione che era innamorato del coinquilino, le telefonate rifiutate di lei durante il suo periodo nero caratterizzato solo dalla droga… No. Non doveva pensare a quei momenti che avevano condiviso. Non avrebbero fatto altro che rendere più difficile l’istante in cui avrebbe dovuto premere il grilletto. Così freddo e reale, sotto il suo indice. Così incombente e definitivo. Così…
Clara si accorse dei suoi indugi e si voltò dall’altra parte, dando le spalle all’amico in modo da facilitargli il compito. La canna della pistola sulla sua nuca la fece stranamente sussultare: credeva di essere pronta ma la verità era che… che aveva paura. Chiuse gli occhi e per un attimo, uno solo, le sembrò che qualcosa di morbido e caldo le sfiorasse la mano, stringendola e stabilizzandola. Pronunciò mutamente il nome di Harriet e una lacrime le sfilò sulla guancia, così amara e dolce al tempo stesso. Sì. Poteva farcela.
“Salutami John. Digli che andrà tutto apposto.” mormorò riaprendo appena gli occhi e gettando uno sguardo alla poltrona del medico, così vicina a lei.
Sherlock annuì, deglutendo sonoramente, la mano che tremava, il dito che tentennava su quel dannato grilletto. Si impose di stare calmo, di essere lucido, di distaccarsi da quelle emozioni così opprimenti. Decise che avrebbe contato fino a tre, poi avrebbe fatto fuoco.
“Vuoi… vuoi che ti dica quando…”
“No. Sarò pronta quando lo sarai anche tu.”
“D’accordo…”
Inspirò a pieni polmoni. E va bene… Non poteva sottrarsi.
Uno…
Clara allungò la mano sinistra verso la sua, libera della pistola, e gliela strinse incoraggiante.
Due…
Intrecciò le sue dita con quelle di lei, lasciando fluire un groviglio di espressioni e sentimenti che fluivano tramite quel ponte di carne e ossa che avevano formato.
Tre.
Chiuse gli occhi e premette il grilletto. La detonazione subissò l’ambiente. E non rimase che il silenzio e una trama di dita intrecciate fra loro.
“Sherlock...” mormorò Clara lasciandogli la mano e guardandolo maternamente, affettuosamente.
“Io… io non ci sono…”
La comunicazione dall’altro capo venne improvvisamente interrotta, ma nonostante questo, fu quasi come udire impotentemente il frastuono dell’esplosione assordarlo, distruggendogli i timpani. Si passò una mano in volto e arrancò verso la sua poltrona. Le gambe lo ressero a stento e lui si lasciò cadere sui cuscini di pelle nera, subito raggiunto da Clara che gli si chinò di fronte, poggiandogli le mani sulle ginocchia.
“Ti prego, non guardarmi come se fossi io la vittima…”
“Ma lo sei.” ribatté l’amica. “Perdonami.”
“Perdonarti?”
“Per averti chiesto di fare una cosa simile.”
Sherlock arricciò le labbra e chiuse gli occhi respirando a fondo, infine lasciò andare la testa riccioluta contro il petto della donna che lo avvolse in un abbraccio rassicurante.

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Capitolo 18
*** CAPITOLO 17 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 17
 

John entrò nella stanza di corsa, guardandosi intorno freneticamente, alla ricerca del coinquilino. Sherlock era raggomitolato sulla poltrona rossa, le ginocchia al petto e il volto nascosto nelle gambe.
“Sherlock…”
Il medico si avvicinò cautamente e quando gli fu davanti, protese una mano in avanti, accarezzandogli i riccioli spumosi, attorcigliandoli attorno alle sue dita. “Ehi.”
Il consulente investigativo, senza alzare la testa, fece passare le braccia attorno alla sua vita e lo spinse contro di sé, trattenendolo in una presa disperata. John non smise di accarezzare il capo dell’altro neanche per un istante, mentre il vecchio orologio a pendolo segnava lo scoccare dei secondi, dei minuti… Dopo un po’, Sherlock alzò gli occhi, puntandoli in quelli del fidanzato.
“John, io ho…”
John si piegò su di lui e poggiò le proprie labbra sulle sue, impedendogli di continuare. “Mi ha già detto tutto Clara.”
“Ti ha detto che ho ucciso una donna?”
“Mi ha detto che il dinamitardo ha ucciso una donna.”
L’ex inquisitore abbozzò un sorriso ironico. “Non riesco più a vedere la differenza fra me e lui.”
Il medico scosse violentemente la testa, passando con decisione le dita su quel viso così smarrito e colpevole, come se ciò bastasse per scacciare le ombre che vi sfilavano sopra. “Tu non sei come lui, Sherlock. Tu sei…” Accostò la fronte a quella di Holmes e respirò il suo odore che tanto gli mancava. “…tu sei la persona di cui mi sono innamorato. Tu sei l’uomo migliore e più saggio che io abbia mai conosciuto. Tu sei l’essere umano… più umano su questo pianeta.”
“Mi fai apparire quasi come un eroe.”
“Per me lo sei.”
I lati della bocca di Sherlock guizzarono verso l’alto. “Beh, non lo sono. Gli eroi non esistono, John, e se fosse il contrario di certo non sarei uno di loro.”
“Sherlock…”
“Hai mai pensato che la persona di cui sei innamorato sia solo un’immagine che ti sei creato da solo, nella tua testa?”
“No, mai.”
Il consulente investigativo si alzò in piedi e avanzò verso la finestra, con le mani allacciate dietro la schiena. “Tu hai intenzione di… ripararmi?”
“Ripararti?” ripeté John sgranando gli occhi. “Sherlock, ma che stai dicendo?”
Sherlock si voltò di scatto e gli puntò addosso uno sguardo colmo di rabbia. “Lo vedo dal modo in cui mi guardi, in cui mi stai accanto. Tu credi che io sia rotto e che tu sia l’unico in grado di aggiustarmi, è così?”
“Cosa… No!”
Holmes si avvicinò al medico, aspettandosi quasi che indietreggiasse, ma quello rimase statuario al centro della stanza, mentre gli arrivava ad un soffio del viso. Restarono così per un tempo indeterminabile, fissandosi come mai si erano fissati prima, con… incomprensione, a tratti ira.
“Non puoi ripararmi, John, perché io non sono rotto. Non sono uno dei tuoi pazienti. Sono Sherlock Holmes, la persona che hai scelto di amare. Non dimenticarlo mai.”
“Perché, Sherlock?” sussurrò John socchiudendo appena gli occhi, sovrastato da quello sguardo così intenso e, allo stesso tempo, dalla vicinanza così opprimente con il coinquilino. “Perché mi dici queste cose?”
Sherlock avvicinò il suo viso ancora di più, in modo che le loro labbra si sfiorassero pericolosamente, ma alla fine voltò il capo e si scostò, camminando verso l’uscita. John poteva ancora sentire la sensazione del suo cuore impazzito che gli martellava in petto, atterrito e confuso. Guardò il fidanzato infilarsi velocemente le scarpe, così diverso e così lontano dallo Sherlock che conosceva. Il consulente investigativo cominciò a scendere le scale con una postura per lui inusuale: ingobbita, fragile, brutta.
“Che cosa ci sta succedendo!?” gridò il medico in cima ai gradini, avvertendo un qualcosa di incrinato al centro del petto e, per la prima volta, la voglia di buttar fuori il dolore piangendo. Era da quando aveva scoperto della morte di Harriet che non percepiva il bisogno delle lacrime, di sfogarsi. Peccato che quella volta c’era stato Sherlock accanto a lui. Adesso?
Sherlock si fermò a quelle parole, ma non si voltò né rispose. Dopo alcuni secondi durante i quali John cercò di tenere a freno quella stretta effimera al cuore, riprese la sua discesa e sparì, lasciando il coinquilino solo, in cima ad un tromba delle scale desolata e all’entrata di un appartamento freddo e sconsolato.
 
 
***
 
“Johnny!” lo salutò Victor dandogli una pacca amichevole alla spalla per poi dirigersi in cucina e aprire il frigorifero. “Scusa per la visita inaspettata, ma ho bisogno di parlare con Sherlock.”
John si appoggiò allo stipite della porta, le braccia conserte e lo sguardo vuoto. “Siamo in due.” pensò deglutendo pesantemente e a fatica. Ma la verità era che da un po’ di tempo Sherlock preferiva trascorrere il suo tempo con l’amico piuttosto che con lui, che con Victor di certo parlava, che con Victor si divertiva, che con Victor rideva. Prese un respiro profondo, chiudendo gli occhi e cercando in se stesso il flemma necessario per rispondere.
“Non è in casa. E’ uscito un’ora fa e non so dove sia andato né quando tornerà, mi dispiace.”
Trevor annuì un paio di volte, estraendo dal frigo una delle tartine che la signora Hudson aveva portato loro il giorno prima. “Io credo di saperlo, invece.”
“Ma davvero?”
Il nuovo arrivato si accomodò sul divano e gli fece segno di avvicinarsi, con espressione maliziosa e petulante. Il medico alzò gli occhi al cielo, ma infine si schiodò dal muro e si diresse svogliatamente verso Victor. “E’ dalla sua fidanzata, Beth.”
“La sua fidanzata?” mormorò Watson aggrottando la fronte.
“Me ne ha parlato stamane. Pare che abbiano litigato. Povero Sherlock. Quella Beth deve davvero tenerlo al guinzaglio.”
John si sedette accanto a lui, le mani che sfregavano nervosamente le ginocchia. “Puoi essere più preciso?”
“Non mi ha raccontato molto, ma da quello che ho capito il nostro amico è innamorato pazzo di questa donna ma sembra che lei sia cieca e che non lo accetti per quello che è realmente.”
Watson chiuse le mani di fronte la parte inferiore del viso, mentre i suoi occhi fissavano terra e un senso di colpa gli attraversava le viscere. “Che cosa glielo fa pensare?”
Trevor scrollò le spalle. “Non lo so. Però credo che… che Sherlock meriti di più. Qualcuno che lo ami per quello che è davvero e non lo faccia soffrire in tal modo.”
John scattò in piedi e lo prese per il colletto della giacca, sbattendolo contro una parete. “Tu sei l’ultima persona che può andare a fare una morale alle persone per aver fatto soffrire Sherlock! L’hai abbandonato per i tuoi interessi, hai lasciato che lo trasformassero in un mostro!”
Quando si rese conto di quello che stava facendo, gli occhi del medico s’ingrandirono per l’orrore e lo sbigottimento. Lasciò andare l’altro e indietreggiò raccapricciato da quel gesto, da quel colpo di testa. Victor si aggiustò la camicia, lisciandosi il tessuto bianco con espressione stordita: era successo tutto così in fretta che non aveva praticamente capito che cosa era appena accaduto.
“Mi dispiace, io… Scusa.”
Trevor si sforzò di sorridere, ottenendo come risultato una smorfia. “No, tranquillo… Ma che ti è preso?”
John si voltò passandosi entrambe le mani sul viso, inorridito dalla follia che si era impossessata di lui per quei pochi, terribili istanti. “Niente, ho solo… solo bisogno di prendere una boccata d’aria. Tu puoi… puoi anche aspettare Sherlock qui.”
Non attese la risposta di Victor. Afferrò il giubbetto e corse di sotto, ma la gamba destra tremò, rischiando quasi di cedere, facendolo cadere. Si aggrappò al corrimano in tempo, respirando sommessamente, mentre un senso di vertigini lo sorprendeva. Che gli stava succedendo? Che stava succedendo al suo corpo? Era come se non rispondesse più perfettamente ai suoi comandi. Al piano di sopra udì lo squillo di un telefono e la voce di Victor, un secondo dopo, rispondere allegramente e con un timbro diverso dal suo solito.
E se… se fosse stato Sherlock? Se in quel preciso momento Sherlock stesse chiedendo a Trevor di incontrarsi da qualche parte, soli e…
Scacciò quelle fantasie con brutalità. Sherlock non sarebbe mai stato capace di fargli una cosa del genere. Fece per uscire, quando si ricordò di aver dimenticato le chiavi di sopra, così fece dietrofront e risalì i gradini trascinandosi con la mano saldamente appoggiata contro il muro.
Prese le chiavi che aveva lasciato sul tavolino e si diresse nuovamente verso le scale, ma qualcosa lo trattenne. La voce di Victor proveniva dalla camera di Sherlock, smorzata dalla porta semichiusa. John avrebbe tanto desiderato fregarsene di tutto quello e lasciarsi resuscitare con una passeggiata per le strade d’inchiostro di Londra, dimenticandosi del fidanzato, del dinamitardo, della fabbrica che si stava spopolando velocemente grazie a Molly e Clara, dell’Inquisizione… Di tutto. Ma un cupo sesto senso lo spinse ad acquattarsi di fronte alla porta socchiusa che dava sulla camera di Sherlock. Sulla loro camera.
“Sì, ci sono vicino.” stava dicendo Victor con una voce che sembrava quasi non appartenergli. “Manca poco per separarli definitivamente. Non sarà difficile visto i risultati accumulati quest’oggi. Entro breve glieli offrirò su un piatto d’argento, signore. D’accordo, aspetto le sue prossime istruzioni. Arrivederci.”
Trevor chiuse la comunicazione e aprì la porta per uscire, ma si trovò di fronte la figura austera di John che lo fissava come si fissava la feccia. “John!” sussultò quando lo vide, impallidendo sotto i suoi occhi ridotti a fessure. “Pensavo fossi uscito, amico. Dimmi un po’, non ti hanno insegnato che è maleducazione origliare?”
Riacquistò subito il suo solito piglio baldanzoso e superò il medico sorridendogli angelicamente, prendendolo sottobraccio e guidandolo verso la cucina. “Oggi sto veramente morendo di fame. Ti va se mangiamo qualcosa assieme?”
“Con chi eri al telefono?” domandò lapidariamente John, quasi con un ringhio.
“Con il mio capo. Sai, lavoro come chimico presso i laboratori della città e mi hanno affidato uno dei compiti più difficili di tutta la mia vita: devo separare un composto di due elementi che a livello particellare risulta non scomponibile dato che i due elementi che ne fanno parte si trovano praticamente in uno stato di simbiosi totale, perciò… Ma che te lo spiego a fare. Non sei Sherlock, senza offesa, naturalmente.”
“Due elementi.” gli fece eco Watson con un sorrisetto ironico. “La telefonata riguardava la separazione di due elementi.”
“Sì, è così. Perché me lo chiedi?”
John assottigliò lo sguardo, rendendolo ancora più minaccioso e imperscrutabile. “E’ un periodo che non fai altro che girare intorno a Sherlock. Non so se è perché ti senti in colpa per averlo abbandonato o perché hai altri fini.”
Victor sbatté le ciglia ripetutamente con fare innocente, ma in un lampo i suoi occhi mutarono, diventando scuri, predatori, mentre un ghigno rapace gli si formava sulle labbra. “Paura, piccolo Johnny? Il vostro amore è davvero così forte o basta solo il ritorno di una vecchia fiamma di Sherlock per mettervi in crisi?”
“Una… vecchia fiamma? Che intendi dire?”
Trevor prese a girargli attorno, guardandolo ferocemente. “Oh, non te l’ha detto? Non ti ha detto che quando eravamo ragazzi mi ha confessato di essere innamorato di me dalla nostra prima infanzia?”
John strinse i pugni. “Stai mentendo.”
“Può darsi, ma potrai saperlo solo chiedendolo a lui. E comunque, Johnny, non sono un criminale o cosa. Sono qui solo per riprendermi ciò che mi spetta di diritto da quando avevo vent’anni.”
“No, no, no… C’è dell’altro, vero? Quella chiamata… non era per scopi chimici, non è così?”
Trevor scoppiò a ridere e s’infilò una seconda tartina in bocca, masticando avidamente. “Oh, Johnny, sei così esilarante! Sherlock deve averti influenzato: vuoi che tutto sia più intelligente di quel che sia. Ma lascia che ti dia un consiglio d’amico: fatti da parte, lascialo andare. Tu non sei nessuno, tu non meriti di averlo.”
“Lui non è mai stato mio.” sibilò di rimando John. “Lui appartiene a lui e a lui soltanto.”
Victor lo schernì con un applauso fintamente sentito, beffeggiandolo con il suo ghigno persistente. “Quanto amore, sono commosso! Ma ora basta chiacchiere. E’ tempo che vada: sospetto che questa sera Sherlock potrebbe venire da me e… chiedermi il suo aiuto.”
“Non lo farà!” ribatté con slancio Watson. “Non appena lo vedrò, gli racconterò tutto.”
“E’ proprio questo il punto, Johnny. Quando lo farai… lui non ti crederà, avrete il vostro ennesimo litigio e… beh, lui verrà da me perché io lo consoli. E’ così che vanno le cose, piccolo Johnny. Ma credimi quando ti dico… che mi dispiace per te.”
Non aggiunse altro e sgattaiolò via in un moto baldanzoso e vincitore. John si abbandonò sulla poltrona rossa, la testa fra le mani e un peso ancora più consistente sul cuore.
 
Dove sei? Ho bisogno di parlarti. JW
(Fri, 6:49 p.m.)

 
***
 
Sherlock arrivò mezz’ora dopo, avvolto nel suo cappotto scuro, presentandoglisi come una divinità greca, in tutta la sua bellezza. John gli corse incontro, gettandogli le braccia al collo e strofinando il viso contro il suo petto. Il consulente investigativo s’irrigidì appena sotto quella stretta e, tentennando, circondò il corpo del fidanzato con le sue braccia magre. Restarono così per qualche istante, fino a quando le dita del medico non percorsero il torace di Holmes, raggiungendo la giacca di velluto e facendola scivolare a terra con un solo movimento.
Sherlock fece per staccarsi, attonito a causa di quell’improvvisa azione di Watson, ma quello gli impedì di scansarsi, afferrandolo disperatamente per la camicia e tirandolo più vicino in modo da aver il suo collo a portata di labbra. Cominciò a baciarlo con foga, quasi con angoscia, mentre gli sbottonava la camicia.
“John.” mormorò l’ex inquisitore cercando di spingerlo via senza successo. “John” ripeté mentre la bocca del fidanzato raggiungeva la sua, zittendolo e togliendogli il respiro. Serrò gli occhi e con uno spintone allontanò il corpo dell’altro con aggressività. John barcollò e incespicò nei suoi piedi stessi, ruzzolando a terra senza fiato, annaspando.
“Si può sapere che ti è preso!?” gli chiese Sherlock alzando la voce con tono duro.
Che mi è preso?! Una volta ti piaceva fare l’amore con me! Una volta ti piaceva parlare con me! Una volta ti piaceva stare con me! Che cazzo sta succedendo, Sherlock!?” sbraitò di rimando il medico rialzandosi quanto più velocemente la sua gamba gli consentì.
Il consulente investigativo inarcò entrambe le sopracciglia. “Non è che… non è che non ho voglia di… Insomma, non capisco perché mi sei saltato addosso in quel modo.”
“Perché sto impazzendo, Sherlock. Perché ho bisogno di sentirti, di stare con te, di dimenticare per una notte ogni cosa. E’ chiedere troppo riacquistare quel briciolo di normalità che avevamo prima dell’arrivo di Victor?”
“Che c’entra Victor, adesso?”
John si mise a sedere sul bracciolo della sua poltrona, con un inquietudine perforante che gli trivellava i pensieri con efferatezza. “Victor sta nascondendo qualcosa, Sherlock.” rivelò dopo aver preso un respiro profondo, suscitando nell’altro un’espressione stranita. “Questo pomeriggio è venuto qui, ti cercava, poi ha ricevuto una chiamata ed è sparito in camera nostra. L’ho sentito parlare con qualcuno a proposito di una… divisione e del suo essere prossimo a riuscire nel suo intento. Quando gli ho chiesto a cosa si riferisse ha quasi eluso la mia domanda e poi… era diverso, una persona completamente differente. Ha detto che vuole riavere quello che ha perso quando aveva vent’anni.” A quelle parole, Sherlock sussultò appena, particolare che non sfuggì agli occhi del medico. “Allora è vero. Eri innamorato di lui… Perché non me l’hai detto?”
Holmes si sedette a sua volta sulla propria poltrona, congiungendo le mani sotto il mento. “Non mi sembrava importante. E’ stata un’infatuazione, niente di più. E poi, lui non ricambiava i miei sentimenti.”
“Stando a quanto dice Victor, sei stato innamorato di lui sin dall’inizio. E’ vero?”
Il consulente investigativo deglutì un paio di volte a vuoto, cercando di raccogliere in fretta le idee e contemporaneamente di non apparire troppo insicuro o colpevole. “Non ricordo: è passato talmente tanto tempo…”
“E’ vero, Sherlock?” iterò con decisione John tendendosi verso l’altro per osservarlo meglio, quasi fosse in grado di decodificare ogni pensiero che attraversava la mente del coinquilino.
“Sì, è vero. Victor era diverso da chiunque conoscessi. Era l’unico che non mi mandava affanculo quando mi cimentavo in una delle mie deduzioni, l’unico che si sedeva con me in mensa, l’unico che mi avesse mai detto qualcosa di carino. E poi era… incredibilmente intelligente e carismatico. Poteva permettersi di avere per amico chiunque, eppure ha scelto me.”
Le parole di Sherlock lo colpirono dritto allo stomaco, come cazzotti virtuali, inconsistenti e al tempo stessi terribilmente vividi e dolorosi. Non credeva che lo avrebbe mai sentito parlare in questo modo di qualcun altro; non credeva che fosse capace di esprimere certe emozioni verbalmente; non credeva che potesse aver amato qualcuno prima di lui. Pensava che lui fosse stato il primo. Il primo bacio di Sherlock, la prima volta di Sherlock, il primo amore di Sherlock… E invece non lo era affatto. Victor l’aveva stregato, gli aveva rubato il cuore quando erano ragazzi. Era stato lui il primo. E John… John era venuto dopo. Lui aveva trovato in Sherlock quello che già Trevor aveva impresso su di lui, anni e anni prima.
“Ti ha abbandonato, Sherlock.” gli ricordò con voce ferita, debole, come se fosse la sua ultima carta da giocare. “Ti ha lasciato solo e poi è tornato, deciso a riconquistarti. Non ti sembra strano, dannazione? Proprio tu che hai da sempre fondato ogni cosa sulla logica. Non ti pare sospetto?”
Holmes strinse gli occhi, riducendoli a due feritoie che contemplavano John con rimprovero. “Perché credi che sia così strano che qualcuno possa amarmi come mi ami tu?”
“Non è questo il punto, Sherlock. Il punto è che si è presentato qui dopo tanti anni, solo per… averti indietro: a vent’anni ha scelto di rinunciare a te, dopo molto tempo si trasferisce a Londra per lavoro ma decide di non cercarti, al funerale di tuo padre ti si avvicina come se non aspettasse altro, e ora dice di amarti e di essere disposto a tutto pur di averti. Andiamo, Sherlock, non è un comportamento normale.”
“Hai contemplato l’idea che magari, dico magari, lui si sia innamorato di me soltanto adesso? Da ragazzi mi ha chiaramente fatto capire che non era interessato, ma le persone cambiano, John! Io sono cambiato, lui è cambiato.”
John scosse la testa, ridacchiando amaramente. Come poteva Sherlock essere così cieco, così ingenuo? Proprio lui… “Hai ragione: sei cambiato.” sospirò in modo abbattuto. “Sherlock… ho paura che lui possa farti del male, lo capisci? E io non voglio che tu soffra.”
Sherlock si alzò in piedi per recuperare la sua giacca che si rimise addosso in un moto stizzito e vanitoso. “Se è vero quello che hai appena detto, smettila di comportarti come una fidanzatina isterica.”
S’infilò il cappotto e si avvolse la sciarpa intorno al collo.
“Dove vai?” domandò il medico scattando verso di lui e afferrandolo con occhi supplichevoli.
“Ho bisogno di aria.”
“Non andare da lui, Sherlock. Non… ti prego.”
Il consulente investigativo serrò le mani attorno ai polsi del fidanzato, spezzando la presa ferrea delle sue dita sulla camicia. “Lasciami andare, John.”
E quella frase percorse il corpo del medico come un fulmine. Le parole rimbombarono nelle sue orecchie come tamburi spietati, accompagnati da eco diverse e cacofoniche.
Fatti da parte, lascialo andare. Tu non sei nessuno, tu non meriti di averlo.
Quando ami davvero una persona, devi anche essere pronto a lasciarla andare.
Abbassò le mani, distrutto, sconfitto, umiliato. “E’ finita?” domandò a fil di voce.
Sherlock a quelle parole sorrise appena. “No, John. Ho solo bisogno… di una o due ore da solo. Poi torno, te lo prometto.”
Le labbra di Holmes si posarono delicatamente sulla fronte di John. Quel tocco un tempo sarebbe stato un lenitivo, un qualcosa capace di alleviare ogni dolore, ogni dubbio, ogni paura. Ma in quel momento gli parve solo l’impronta di un antico e autentico calore.
Prima che Sherlock potesse andarsene, il medico gli afferrò per l’ultima volta la giacca. “Io ti amo, Sherlock. Ma un giorno potresti voltarti e realizzare che non ti sto più seguendo come un cagnolino. Non… non ci sarò per sempre.”
Il consulente investigativo tremò al suono di quelle parole, ma si costrinse a non girarsi e ad andarsene, inghiottito dalle tenebre notturne e dall’eco delle parole di John.
 
***
 
Victor gli aprì con un sorriso radioso che però si spense non appena vide il suo volto abbattuto. “Dio, Sherlock… Hai una brutta cera.”
“Posso entrare?” chiese timidamente quello abbozzando una sottospecie di sorriso.
“Ma certo, vieni.”
Trevor si scostò dalla porta per lasciar passare il consulente investigativo che entrò con una camminata per nulla elegante e maestosa come al suo solito. L’amico lo guidò nel suo salotto e lo fece accomodare sul divano, mentre lui si defilò in cucina per preparare un the.
“Credo di aver bisogno di qualcosa di più forte.” borbottò Sherlock prendendo a giocare con il rimasuglio di una cicca consumata all’interno di un posacenere.
Victor tornò dopo poco con un vassoio su cui sfilava un intero servizio di cristallo, con una bottiglia che conteneva un liquido ambrato e dei bicchieri finemente curati. Poggiò il tutto sul tavolino, accanto al posacenere, e prese posto accanto all’amico, versando il liquore.
“Allora, che è successo? Ancora Beth?”
Holmes sospirò mentre accettava il bicchiere che l’altro gli stava porgendo. “No, stavolta si tratta di John.”
Trevor s’immobilizzò, guardandolo con colpevolezza. “Ah. Avete… avete litigato?”
“In realtà è da un po’ che c’è della… tensione fra noi, non so spiegarlo. Ho la sensazione di… di essere soffocato dal suo atteggiamento, in qualche modo.”
Victor intrecciò le dita con il piglio che avrebbe usato uno psicologo. “E’ lui Beth, vero?” domandò d’improvviso. Sherlock arricciò le labbra e trattenendo il fiato, si limitò ad annuire. “L’avevo immaginato.” confessò l’amico con un mezzo sorriso.
“Senti, Vic… John mi ha parlato della telefonata che hai ricevuto questa mattina. Ha detto… ha detto di averti sentito parlare con qualcuno a proposito di dividere qualcosa o…”
“Ah, sì, quella… Senza offesa, ma John deve essersi fissato. Stavo parlando col mio attuale capo riguardo la separazione di un nuovo composto di recente scoperta. Nell’attuale laboratorio di Londra è stata possibile la fusione fra due dei più potenti veleni esistenti al mondo grazie ad un intervento particellare ad opera di reazioni nucleari. Si prevede una guerra, Sherlock, e noi abbiamo tra le mani il veleno più potente al mondo. Immagina se sganciassimo una fiala sugli Stati Uniti o sulla Germania che cosa accadrebbe. Secondo i calcoli è capace di sterminare una città popolata da circa cinquecento mila abitanti. Ma per continuare a studiare questa reazione, mi è stato chiesto di separare nuovamente i due veleni e di ricompattarli per saggiarne gli effetti. Era di questo che stavo discutendo al telefono.”
“Che veleni?” chiese Holmes incuriosito.
“Botulinum e conium maculatum.”
“Botulino e cicuta maggiore… Accoppiata interessante.” convenne l’ex inquisitore. “Direi che i tuoi studi a Edimburgo sono serviti a qualcosa.”
Victor sorrise e in un sorso vuotò il bicchiere col liquore. L’immagine di John svettò a tradimento nella mente di Sherlock, paralizzandolo completamente. Lo vedeva solo, a Baker Street, in preda ai dubbi e al dolore, e quella visione gli straziò il cuore. Non voleva che soffrisse, soprattutto per causa sua, però…
“In realtà, mi ha detto anche un’altra cosa.” aggiunse provocando nell’altro un sussulto.
“Sarebbe a dire?”
“Ha detto che... sì, insomma, ha detto che tu sei innamorato di me.”
Trevor tacque per diversi istanti, carichi di tensione e sottintesi, infine si alzò in piedi, nervosamente e pestò appena il piede a terra. “Merda. Non volevo che lo venissi a sapere così… anzi, non volevo proprio che lo venissi a sapere.”
Si passò una mano sul volto, improvvisamente imporporato a causa dell’imbarazzato.
“Quindi è vero?” lo incalzò l’amico poggiando il bicchiere di cristallo tracimato sul basso tavolino.
“Sherlock, senti… lascia perdere. E’ stato un errore, mi è scappato. Quando questo pomeriggio sono passato da te, ho trovato John e, senza pensare, gli ho detto di Beth e… beh, mi è sfuggito qualche commento sul fatto che lei non avesse il diritto di chiederti di essere qualcosa che non sei, cose così. Lui si è arrabbiato e mi ha attaccato al muro, rinfacciandomi la mia partenza per Edimburgo. E così… mi sono lasciato scappare che cosa provassi davvero in quel momento…” Scosse violentemente la testa, scacciando i ricordi di quella tremenda giornata in cui aveva detto addio al suo migliore amico. “Davvero, Sherlock, io voglio solo che tu sia felice. E credo che in fondo, con lui, tu lo sia.”
Sherlock si alzò in piedi, ma non si mosse verso di lui. Rimase in disparte, a studiare ogni singola emozione che sfilava sul volto dell’altro. “E allora perché te ne sei andato? Perché quando ti ho detto quello che provavo mi hai respinto? Perché non mi hai cercato quando sei tornato a Londra?”
Victor avanzò repentinamente verso l’amico, riempendo quella labile distanza fra loro. “Perché avevo paura, Sherlock! Hai visto in che mondo viviamo, credevo che… che non valesse la pena rischiare la vita per qualcuno.” Il consulente investigativo ridacchiò, roteando gli occhi. “Lo so, lo so. Mi vergogno di me stesso e mi sento un miserabile per tutto il tempo che ho sprecato e che avrei potuto invece sfruttare.”
Lo sguardo ironico di Holmes scomparve, lasciando il posto ad un’estesa macchia di solennità e fermezza. “E che cos’è cambiato ora?”
Trevor fece un ulteriore passo avanti, portandosi sempre più vicino all’altro. “Il fatto che io non riesco più a starti lontano. Io ho bisogno di te eppure… sono pronto ad accettare che tu non abbia bisogno di me. E’ una contraddizione bella grossa, non trovi?”
Sherlock distolse lo sguardo. “Quindi… E’ vero?”
“Sherlock, ti prego, non…”
“E’ vero?” ripeté l’ex inquisitore puntando stavolta i suoi occhi in quelli dell’amico… o di qualunque cosa fosse.
Victor aprì la bocca, senza che però da essa fossero scaturiti dei suoni, così si gettò in avanti con uno slancio e lo baciò. Sherlock sbatté le palpebre un paio di volte, meravigliato, infine chiuse gli occhi e rispose alle labbra dell’altro. Si baciarono per interminabili istanti finché non fu Trevor a staccarsi. “Resta qui, stanotte.”
E Sherlock sorrise.
 
***
 
Quando Sherlock fece ritorno a Baker Street, le prime luci dell’alba avevano già cominciato a tingere il cielo di splendide sfumature di giallo e d’azzurro. Era una mattinata così eccezionalmente limpida per Londra. Così inspiegabilmente tersa e gonfie di promesse.
John era disteso sul divano, arrotolato in una coperta di pile che di certo la signora Hudson gli aveva messo addosso. Aveva gli occhi chiusi, il viso dolcemente rilassato in un’espressione serena, beata. Sherlock sorrise a quella vista e si chinò accanto al divano. Gli scostò dalla fronte una ciocca dorata, intento a contemplare ogni dettaglio di quel volto che tanto amava. Quel pensiero gli procurò una stiletta di dolore all’altezza del petto, ricordandogli che cosa aveva fatto e che cosa stava continuando a fare alle sue spalle. Si sentiva un mostro, un essere ripugnante. John non meritava tutto quello, ma lui era intrappolato in se stesso. Quella notte non aveva potuto fare a meno di andare da Victor, di cercare risposte, di lasciarsi baciare da lui come solo il fidanzato aveva mai fatto e di baciarlo come aveva fatto soltanto col medico.
Una profonda agitazione lo condusse a poggiare delicatamente le sue labbra su quelle di John. Restò immobile per alcuni secondi, fin quando non avvertì un movimento sotto di sé. Si staccò e quando riaprì gli occhi incontro lo sguardo ancora appannato dal sonno del coinquilino.
“Sherl…” mormorò quello aprendosi in un sorriso, mentre si alzava a rilento, ancora intorpidito dal destamento dal sonno. “Che ore sono?”
“Appena le sei.”
“Devo essermi addormentato mentre ti aspettavo.” osservò il medico sbadigliando.
“Già, ho notato. Quando sono rientrato eri già steso sul divano.”
John si stiracchiò, senza smettere di essere scosso da profondi sbadigli e Sherlock lo guardò con tristezza. Mentirgli lo rendeva ancora più bastardo, ma non era pronto a dirgli la verità… sapeva che cosa sarebbe accaduto se l’avesse fatto.
“Ti va di andare da qualche parte a fare colazione?” propose allontanando le sue preoccupazioni. “Ho voglia di passare un po’ di tempo con te.”
Watson sgranò gli occhi e lo fissò come allucinato. “Dici… dici davvero?”
Holmes annuì e in meno di un secondo si trovò sbalzato indietro, oppresso dal peso dell’altro che gli era saltato addosso, abbracciandolo disperatamente. “Grazie, grazie, grazie!” sussurrò quello sul suo orecchio rafforzando ancora di più la stretta, così tanto che l’ex inquisitore dovette incoraggiarlo ad allentare un po’ la presa o sarebbe soffocato. John si staccò di colpo, un sorriso imbarazzato in volto. “Scusa…”
Ma Sherlock scosse la testa, divertito, e si allungò verso il fidanzato poggiando dolcemente e con un sorriso le proprie labbra sulle sue.
 
***
 
Si sedettero in un bar ancora vuoto, nell’angolo più remoto del locale, al riparo da occhi e orecchie indiscreti. Era strano per loro uscire per una specie di appuntamento, camminare tranquillamente per le strade della loro amata e odiata città, prendere posto in un luogo pubblico. La normalità aveva per loro il sapore di un barattalo di crema al cioccolato gustato nel ripostiglio di casa, timorosi che qualcuno avesse potuto aprire di colpo la porta e beccarli a mangiare il dolciume.
John ordinò la sua consueta tazza di caffè che – sebbene non ne andasse matto – gl’infondeva le energie necessarie per affrontare la routine quotidiana. Anche Sherlock – contro ogni aspettativa – prese qualcosa: un the, molto probabilmente per non lasciare il coinquilino a mangiare da solo.
Una volta che il cameriere ebbe adagiato sul loro tavolino le ordinazioni e si fu defilato, il consulente investigativo incrociò le dita, scrutando l’altro con interesse.
“Allora, alla fabbrica tutto bene?”
 Il medico ingoiò il caffè con un unico sorso, facendo schioccare la lingua contro il palato, e assunse un’espressione ridondante di serenità. “Non potrebbe andare meglio. Ci sono stati sviluppi, sai? Molly è riuscita a produrre delle maschere che, a contatto con un qualunque volto, si adatta perfettamente alla forma. Grazie a questa invenzione, gli stranieri e le persone soggette ad handicap visibili sul volto possono girare per la città senza problemi. Inoltre, Clara ci ha presentato degli itinerari per raggiungere l’isola di Cuba attraverso altri paesi, fornendoci permessi di espatrio falsi per ogni Nazione. Un gruppetto di dieci Incompleti è partito due giorni fa e percorrerà un viaggio attraverso le Americhe, un secondo, di dodici, ieri, attraverso l’Africa.” A quelle parole si bloccò, cercando le parole necessarie. “Fra poco la fabbrica sarà svuotata e… noi due potremmo finalmente partire, come d’accordo. Sempre che tu lo voglia ancora…”
 Sherlock a quelle parole si raddrizzò e si tese impercettibilmente verso il medico. “Certo che lo voglio, John.”
John sorrise, sollevato, e, dopo aver lanciato una rapida occhiata in giro, protese la mano verso quella del consulente investigativo che però lo anticipò scansandola con malagrazia. “Sei matto? Potrebbero vederci.” sibilò infatti quello, abbassando repentinamente la voce.
Si aspettò che sul volto dell’altro sfilasse rabbia, incomprensione, rassegnazione, ma Watson si limitò a sporgersi verso di lui, appiattendosi sul tavolino del bar, e gli indicò con lo sguardo il locale vuoto. “Non c’è nessuno, Sherlock! E’ deserto.”
L’ex inquisitore si guardò intorno e un ghigno s’impossessò del suo viso, conferendogli un’espressione diabolicamente divertita. “Oh, John, ormai è evidente che coloro da cui dobbiamo stare in guardia non sono più le marionette in mano all’Inquisizione. E probabilmente neanche gli Inquisitori stessi.”
“Parli del dinamitardo?” domandò il medico senza scansarsi.
Sherlock non fece in tempo a rispondere che la notifica di un nuovo messaggio animò il telefono rosa. Entrambi trattennero il fiato, sbarrando gli occhi per lo stupore: era come se… come se avesse appena assistito al loro scambio, come se li stesse ancora osservando, nascosto da qualche parte, all’ombra. Holmes poggiò il cellulare sul tavolo, mentre due bip risuonavano nel locale con un suono più tetro e raccapricciante del verso di un gufo in piena notte.
Sullo schermo campeggiò, come al solito, un’immagine e sotto ad essa, una scritta.
 
Stavolta porta anche il cucciolo, ci servirà.
(Sun, 06:29 a.m.)

 
“Dio, Sherlock… Ma quello è…”
John lasciò la frase sospesa, permettendole di accorparsi fra loro, prendere una forma propria, svelarsi ai loro occhi come un predatore in fremente attesa.
“Andiamo.” sentenziò solamente il consulente investigativo alzandosi in piedi e poggiando bruscamente sul tavolo i soldi. Non gli piaceva che il dinamitardo richiedesse la presenza di John. Una paura effimera prese a gorgogliargli all’altezza dello stomaco, una paura che cercò di allontanare il più possibile dalla sua mente, rinchiudendola all’interno di una cassa di sicurezza, in una qualche stanza del suo Palazzo Mentale. Non voleva fare del male a John. Non voleva farlo soffrire. Non era abbastanza quello che gli stava già facendo? Quello che gli aveva già fatto? E quello che non poteva fare a meno di fargli? Estrasse il proprio cellulare e digitò distrattamente un messaggio, mentre lui e il coinquilino salivano su di un taxi.
 
***
 
Sul tetto del Barts tirava un’aria gelida. Londra si stava lentamente rianimando, le sue strade popolando, il suo cielo svegliando.
John era seduto sul parapetto, le punte dei piedi che rimbalzavano nervosamente a terra, le mani sudate che cercavano strenuamente di asciugarsi sulla stoffa dei pantaloni. Udiva Sherlock, di fronte a sé, percorrere il tetto con passi nervosi, ampli, e tremendamente frustranti uniti a quell’attesa altrettanto frustrante. Ma Watson non parlò, non gli impose di fermarsi, di dargli due istanti di tregua.
“Dannazione!” sbottò all’improvviso Holmes con tono impiastrato di rabbia e di preoccupazione. “E’ un’ora che aspettiamo!”
“E’ tutto parte del gioco, Sherlock.” osservò John sconsolatamente, credendo a malapena a quello che aveva appena detto. “Vuole deteriorarci prima dell’inizio della sfida.” Si alzò e camminò lentamente in direzione del fidanzato che finalmente si era fermato e ora stava respirando rumorosamente, al centro del tetto. “Sherlock, ascolta, io credo che dobbiamo essere pronti a tutto.”
Il consulente investigativo piegò appena la testa lateralmente, osservandolo incuriosito. “In che senso?”
“Non è un caso che abbia richiesto espressamente la mia presenza. Io credo che tutto questo abbia a che fare con me e voglio che tu sappia che qualunque cosa succeda noi dobbiamo salvare quel bambino, è l’unico rimasto. Oggi siamo soldati, Sherlock. Soldati. Perciò…” Si prese un istante per formulare la frase. “…perciò l’incolumità di entrambi deve venire dopo quella del piccolo. Intesi?”
“Intesi.”
Il cellulare rosa squillò, facendoli sobbalzare. Prima di accettare la chiamata, si scambiarono uno sguardo eloquente, uno sguardo che significava tutto. Infine, Sherlock pigiò il tasto verde.
“Pronto?”
John respirava sommessamente, entrando in completa simbiosi con l’atmosfera sospesa che regnava in quel momento sulle loro teste.
Dall’altro capo del telefono, solo silenzio. Silenzio e tensione.
“Pronto?” ripeté Sherlock, ma le parole gli morirono in bocca quando il cellulare gli vibrò in mano. Sullo schermo, compariva l’arrivo di un sms.
 
Sono curioso di vedere che cosa succede con dieci colpi.
(Sun, 7:33 a.m.)
 
Avanti, fatemi vedere se siete in grado di farvi del male fisico. Per quello interiore ho già avuto prova che non vi fate troppi problemi.
(Sun, 7:33 a.m.)
 

“Che intende?” domandò John alzando gli occhi dallo schermo del telefono al viso dell’altro che, per tutta risposta, sbiancò appena, evitando palesemente di incontrare il suo sguardo. “Sherlock?”
Ancora nessuna risposta.
“Sherlock?”
“Ti ho tradito.”
John schiuse appena le labbra, un’espressione sconcertata sul viso. Doveva sicuramente aver sentito male. Doveva per forza essere così… Doveva.
“Ma che stai dicendo?” domandò mentre un sorriso incredulo gli nasceva sulle labbra.
“La verità.”
Cercò in quegli occhi un segno di menzogna, qualsiasi cosa, ma sul volto del coinquilino regnava una sicurezza talmente granitica che… No, non poteva essere.
“Sherlock… lo trovi divertente? Perché non lo è.”
 
Dieci pugni. Non importa chi dei due. Basta che vi sbrigate, altrimenti…
(Sun, 7:37 a.m.)

 
“Ho baciato Victor.” continuò Sherlock alla visione di quel messaggio. “L’ho baciato.”
John deglutì a vuoto un paio di volte. “Dai, smettila…”
 
Tic, toc… tic, toc… E la bomba dopo poco scoppiò…
(Sun, 7:38 a.m.)

 
“Cazzo, John, ci sono andato a letto!” urlò il consulente investigativo avvicinandosi pericolosamente all’altro. “E sai una cosa? Mi è piaciuto pure!”
Watson fece un istintivo passo indietro, scuotendo bruscamente la testa da una parte all’altra. “Stai zitto, basta…”
“Te lo ricordi ieri sera, John? La verità è che non avevo voglia di fare sesso con te perché avevo altri piani già prestabiliti.” proseguì Holmes senza smettere di camminare verso il fidanzato i cui occhi si erano improvvisamente fatti grandi di confusione e disperazione.
“Basta!”
“Sei arrivato tardi, John. La verità è che l’ho capito. Finalmente ho capito che sei arrivato tardi, perché Victor è sempre stato nel mio cuore, sempre. E tu sei stato solamente una momentanea distrazione per farmi superare la noia.”
“Ho detto che devi stare zitto!” ruggì John scattando in avanti e sferrando un pugno poderoso allo zigomo di Sherlock; lo stesso fottuto zigomo che più di una volta aveva baciato, accarezzato, sfiorato. L’ex inquisitore venne sbalzato all’indietro e si mantenne in piedi con un colpo di reni.
“Dieci.” pigolò una vocetta dal telefono, ancora in modalità chiamata.
Holmes portò i suoi occhi glaciali sulla figura tremante del medico. Ma questo non badò a quelle iridi che tante volte erano riuscite a cancellare ogni cosa intorno a lui solo immergendosi nelle sue. Tenne lo sguardo basso, i pugni chiusi.
Sherlock. Lo aveva. Tradito. Con Victor.
“Ti fa stare meglio? Ti fa stare meglio, vero? Ti senti meno…”
Le nocche del medico colpirono fortemente la sua guancia, spezzando la frase a metà e facendolo riversare a terra. Tossì violentemente, portandosi una mano ai due colpi che bruciavano come tizzoni ardenti sulla pelle.
“Nove.” mormorò di nuovo il bambino in ostaggio.
“Mi dispiace di averti sfruttato, John. Mi dispiace che sia finita così.”
John si chinò su di lui, assestandogli una gomitata allo sterno, gli occhi che pizzicavano.
“Non è vero… Non è vero… Non è vero!”
“Otto.”
Altro pugno, stavolta al naso, poi un calcio, un ulteriore pugno, e poi ancora, ancora, seguendo la voce disperata di un bambino innocente. Le sue mani erano sporche di sangue. Non sapeva se del suo o di quello dello stronzo che stava massacrando. Con un flash, gli tornò alla memoria quella lontana sera in cui aveva scoperto tutto: del piano di Sherlock, del suo ruolo nell’Inquisizione, della sua famiglia, delle sue menzogne. Venne catapultato a quei giorni bui e terribili, a quei due anni così freddi e vuoti, a quel dolore sordo che ogni tanto fuoriusciva strepitando.
“Uno.”
Con un urlo frustrato e sofferente, la sua mano calò per l’ultima volta sul viso ormai completamente bagnato di quel liquido denso e rappreso che aveva lo stesso colore dell’amore, della rabbia, dell’odio. Come poteva un unico pigmento racchiudere così tante emozioni discordanti?
A quel boato terribile, seguitò un silenzio tetro. Un vento gelido scosse l’aria. Prese a soffiare sul tetto. Sul tetto del loro inizio, del loro bacio. Sul tetto della loro fine. Perché non c’era modo di tornare indietro, giusto?
“V-vi prego! Venitemi a salvare! Sono… sono alla Hickman Gallery. Vi prego, sbrigatevi.”
Sherlock si mise in ginocchio con un mugugno trattenuto di dolore. “Non ti preoccupare, stiamo arrivando.” mormorò stancamente con la vista baluginante come una lampadina durante un temporale. La sua mano ricadde stremata a terra, il cellulare rosa che volò accanto ad un piede di John, immobile, in piedi, con la sua posa di soldato.
“Chiama Lestrade…” biascicò il consulente investigativo cercando di pulirsi il viso dal sangue con una mano, inutilmente. “…Digli… digli di contattare gli artificieri il prima possibile e di recuperare quel ragazzino.”
Il medico non si mosse. Come poteva quel bastardo fargli una richiesta qualunque dopo… dopo quello che aveva detto?
“John…” La voce di Sherlock era strozzata, tormentata dal dolore. Una preghiera. “Il bambino… Siamo soldati, ricordi?”
Avrebbe pianto, John Watson. Avrebbe pianto dopo tanto, tantissimo tempo. Avrebbe lasciato che il dolore fluisse fuori dal suo corpo. Ma quello non era il momento. Non era mai il momento. Non era mai stato il momento per ribadire a Sherlock il suo amore, non era mai stato il momento per prenderlo per mano e trascinarlo via da quel Paese, non era mai stato il momento per nulla. Neanche per piangere.
Si limitò ad afferrare il suo vecchio cellulare e a digitare frettolosamente un messaggio per Lestrade: non avrebbe mai avuto la forza necessaria per parlare a voce o avrebbe rischiato di lasciarsi andare con l’unico amico che aveva. Una volta inviato l’sms, non si scomodò neanche a girarsi un’ultima volta verso l’ex inquisitore, a degnarlo di uno sguardo. Fece un passo, poi un secondo, poi un terzo, avvertendo le forze scemare lentamente via. Era difficile continuare, andare avanti. Ma sembrava che lui esistesse per fare quello: chiudere una pagina della sua vita e cercare l’energia necessaria per ricominciare. Tanto ormai ci era abituato: aveva ricominciato quando se n’era andato da casa, aveva ricominciato quando lo avevano sfrattato, aveva ricominciato quando aveva scoperto che sua sorella era morta, aveva ricominciato quando Sherlock gli aveva confessato di essere un inquisitore, e… avrebbe ricominciato anche quella volta. Forse.
 
***
 
Entrò a Baker Street che la sera aveva già steso le sue dita di tenebra sulla città. La pioggia, fuori, scrosciava, riflettendo il grigiore che stava sconfinando in lui. Una musica malinconica, straziante, risuonava tra le pareti di quel 221B che non percepiva più come casa propria.
“John…” lo chiamò flebilmente la signora Hudson sbucando dalla sua cucina e rivolgendogli uno sguardo smarrito. Probabilmente aveva intuito qualcosa dal ritorno di Sherlock e dalla sua assenza per l’intera giornata.
Non aveva pianto, non aveva preso a pugni un muro o Victor Trevor, non aveva parlato con Clara o Greg, non aveva fatto niente di niente. Aveva girovagato per le strade di una Londra a lui ostile. Una Londra che lo aveva visto nascere, crescere, innamorarsi, ma che contemporaneamente aveva assistito allo sboccio di un nuovo amore nell’unica persona per cui aveva mai provato qualcosa di vero. Aveva peregrinato per la città e aveva pensato e aveva ponderato le opzioni e aveva deciso. Infine.
Regalò un sorriso che era la rappresentazione in terra di un dolore incommensurabile e poi si trascinò sulle scale di Baker Street. Le scale dove Sherlock gli era caduto addosso. Dove il suo cuore aveva sussultato. Dove Sherlock si stava per abbandonare, ubriaco, contro di lui. Si fermò di fronte all’entrata dell’appartamento. L’appartamento che li aveva accolti, nascosti, protetti. Attese. La melodia del violino che si sviscerava in quelli che parevano quasi lamenti, singhiozzi. Non aveva mai udito niente di più struggente in tutta la sua permanenza in quella casa. La mano sfiorò tremante la maniglia. Respirò profondamente, gonfiando il petto che ancora faceva male, riempiendo i polmoni che ancora non ricordavano perfettamente come dilatarsi e sanare quell’oppressione gravosa.
Dopo poco, entrò. Sherlock era avvolto nella sua stramaledetta vestaglia blu, voltato verso la finestra, perso in un oceano di note, rivolto verso quella casa in cui si era consumata la loro fine. No, non la loro fine. Non ancora, almeno.
L’arco si arrestò improvvisamente, restando sospeso sulle corde ormai mute, teso verso il basso. Come qualunque cosa esistente, la loro storia aveva avuto una sua crescita, un suo apogeo e adesso… come quell’archetto che si arrendeva, catturato dalla gravità, era probabilmente arrivata la loro caduta.
“Credevo non ti saresti più fatto vedere.” osservò Sherlock, riempendo quel silenzio strepitante. “Ma effettivamente, potresti voler riprendere le tue cose prima di andartene per sempre.”
John trattenne quelle dannate lacrime che per tutto il giorno avevano minacciato di sgorgare come sangue da una ferita. Osservò il consulente investigativo voltarsi, mettendo in risalto i cerotti che gli ricoprivano il volto magro. Gli occhi distanti. Erano sempre stati così lontani quegli occhi? Così freddi? Era stata davvero solo un’utopia, la sua? Aveva davvero frainteso tutto? Aveva davvero fantasticato su qualcosa che non c’era? Anche quei baci, quelle carezze, quelle notti, quei ti amo?
Si avvicinò, la gamba destra che sembrava avvolta da una sorta di intorpidimento totale. Per poco non inciampò nella sua stessa poltrona. Anche quella poltrona era diventata sua nemica?
“Dimmi che non mi sono inventato tutto.” sussurrò debolmente a un soffio dall’altro. “Dimmi che non sono io che mi sono immaginato ogni cosa.”
Ma Sherlock non rispondeva. Per un momento, un unico momento, a John sembrò che quelle inferriate che erano diventate le sue pupille ristrette, avessero tremolato appena, tradendo una risposta senza voce, ma subito solo porte sprangate.
Il violino si frapponeva tra loro come uno scudo. Anche quel violino gli aveva mentito? Tutte quelle melodie che aveva sprigionato, quelle mute dichiarazioni d’amore in cui tanto aveva creduto? Solo falsità anche quelle?
Le dita si mossero da sole, come animate da volontà propria. Si serrarono sul tessuto blu, lo strinsero come se da esso dipendesse la loro vita, lo tirarono disperatamente, come ultima richiesta, come un addio. John si alzò in punta di piedi e posò un bacio casto e tremante su quelle labbra che ormai sembravano non avere più il sapore da lui conosciuto, bensì un qualcosa di a lui estraneo, di appartenente a qualcun altro. Era forse quello il sapore di Victor? Una lacrima appena visibile si liberò dal suo controllo non appena chiuse gli occhi, lasciandosi andare ad una nostalgia dilaniante e subdola. Sentì la bocca di Sherlock ricambiare il bacio, le sue mani stringergli gentilmente i fianchi, il violino scivolare a terra, e il sapore di Victor Trevor abbandonarli per non tornare mai più. Ma niente di tutto questo accadde. Sherlock rimase immobile sotto il suo tocco, sotto il suo invito, sotto il suo sono pronto a perdonarti perché sei tutto per me. La pioggia fuori infuriava, accompagnata come una dama reale da tuoni e fulmini violentissimi. John si staccò appena, giusto il necessario per poter incatenare i suoi occhi con quelli dell’altro.
“Lo ami?” domandò in un bisbiglio appena percepibile.
Le labbra di Sherlock si distesero in un sorriso amaro, le pupille che si dilatarono appena e si colmarono finalmente di quell’umanità che per chissà quante volte il medico aveva ricercato e trovato. “Come faccio a non amarlo?”
Le mani di John liberarono Holmes. Lo lasciarono andare. E sì, ora ne era certo: quella era la fine. Si allontanò dai riccioli corvini, dagli occhi indecifrabili, dal sorriso divertito, dalla risata profonda, dalle labbra soffici, dai baci passionali, dalle mattine dolcissime, dai pomeriggi stancanti, dalle notti infuocate. Si allontanò da Sherlock Holmes. Da quello che era e che era sempre stato per lui. Un tassello nel puzzle della sua vita. Solo un tassello. Senza il quale, però, l’intero motivo non aveva alcun senso.
 
***
 
“John?”
Clara lo guardò con occhi sgranati. I capelli dorati gonfi di acqua piovana, lo sguardo basso, le labbra tremanti, gli occhi coperti da un ciuffo biondo, una mano a sorreggerlo poggiata sull’anta della porta.
“John?” ripeté non ricevendo risposta.
Finalmente, John alzò gli occhi e Clara trattenne il fiato, impossibilitata nell’esprimere qualunque frase di senso compiuto. Stava piangendo, John Watson. John Watson che non piangeva dalla morte di Harriet. John Watson che ormai era una delle poche persone importanti che aveva. John Watson che era sempre stato restio nel dimostrare i suoi sentimenti.
Tutti quei John Watson si frantumarono di fronte a quella visione. I suoi occhi erano enormi, gonfi, buttavano lacrime dalla rotondità imperfetta.
“John.”
Stavolta non lo stava chiamando. Quell’unica parola racchiudeva un milione di altre parole: vieni dentro, raccontami tutto, ti sono vicina, non piangere, ti voglio bene. Ma dato che non sarebbe mai riuscita ad esprimere questa valanga di inutili fonemi e articolazioni della bocca, lo tirò dentro l’appartamento e lo strinse a sé. Lo strinse anche mentre sentiva il suo corpo, contro il proprio, crollare a terra. Lo strinse inginocchiata sul pavimento. Lo strinse mentre gli scossoni di pesanti singhiozzi scuotevano quell’abbraccio.
“E’ finita.”
Clara non smise di accarezzargli i capelli fradici. “Che cosa è finita?”
“Tra me e Sherlock.”
Lei avrebbe voluto scansarlo per guardarlo in faccia e cercare conferma nel suo sguardo, ma quei singulti non potevano non racchiudere la verità.
“Capita a tutti di litigare, John. Ma non per questo…”
“Tu non capisci.” ringhiò debolmente John premendo con più forza la testa contro il petto della donna. “Tu non…” Un singhiozzo spezzò le sue parole, riducendolo nuovamente al silenzio. Clara attese. Avrebbe atteso anche tutta la sera e tutta la mattina, fino alla fine dei suoi giorni. Perché lui era John. John Watson, l’amato fratellino della sua amata Harriet.
Dopo un tempo incalcolabile, lui si staccò, tirando appena su col naso, e la guardò come un cane bastonato. “Sherlock…” Si schiarì la voce con una finta tosse per contenere un nuovo singulto. “… Sherlock non… Non mi ama più.”

SPAZIO AUTRICI
Ciao ragazzi! Allora, ci sono stati dei casini e abbiamo dovuto ripostare tutti i capitoli (abbiamo colto l'occasione per accorpare quelli più corti) e quindi scusate per il disastro. Comunque, questo capitolo è una bella mazzata, detto proprio papale papale. A volte ci chiediamo se non rischiamo di essere colpite da qualche fulmine scagliato da voi lettori che - giustamente - non vedete l'ora che tutto questo finisca. Vi diciamo solo che ci stiamo avviando alla conclusione. Okay, okay, è una cosa ipocrita dirvi così poco ma la pazienza è la virtù dei forti (dov'è che l'abbiamo già sentita?)... Buon fine settimana a tutti e alla prossima! Ciao!

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Capitolo 19
*** CAPITOLO 18 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 18
 
 
Si portò la tazzina alle labbra e sorseggiò rumorosamente l’amaro caffè nero che prendeva tutte le mattine. Non era riuscito a dormire, quella sera. Per la testa gli frullavano così tanti pensieri che… che il sonno era andato a farsi fottere e con lui il suo solito viso riposato. Due profonde occhiaie gli solcavano il volto come lividi di un pugno, gli occhi gli bruciavano. Quella mattina, Londra era illuminata da un tenue sole di Aprile inoltrato e una brezza fresca filtrava dalla finestra semi aperta per arieggiare l’appartamento.
Il campanello trillò appena, provocandogli una rotazione automatica degli occhi. Odiava ricevere visite di prima mattina. Odiava dover avere a che fare con la gente in generale, il più delle volte. Ma quella giornata era proprio la giornata sbagliata per ricevere seccature. Si passò una mano fra i capelli e, soffocando uno sbadiglio, aprì appena la porta d’ingresso, quel tanto che gli consentiva di vedere il suo visitatore. Non appena quella figura gli si proiettò davanti si dipinse forzatamente un sorriso di circostanza.
“John… che piacere.”
“Non posso dire altrettanto.” rispose trai denti il medico.
“John, ascolta, io non ho mai voluto… non ho mai sognato…”
Ma quello non gli lasciò il tempo per parlare. Un dolore fastidioso gli invase la faccia sotto le nocche dell’altro. Si appoggiò contro la porta, portandosi una mano al labbro spaccato che stava cominciando a sanguinare. Si aspettava un secondo pugno, ma i secondi trascorsero e del nuovo colpo non c’era ancora traccia.
Quando si decise a puntare i suoi occhi sulla figura del dottore, poté osservarlo meglio e il cuore perse un battito: il suo intero corpo era appoggiato ad un bastone di legno, la mano sinistra, quella libera con cui gli aveva tirato quel cazzotto, tremava visibilmente, e gli occhi… gli occhi non sprizzavano rabbia, odio, disperazione… solo un grande vuoto.
“John, cosa ti è successo?” domandò dimenticandosi per un attimo il dolore alla bocca.
“Mi hai portato via tutto,” rispose John con voce atona, priva di ogni sentimento. “Victor.” L’asprezza con cui però pronunciò il suo nome gli dimostrò che il medico non era completamente insofferente all’accaduto. “Ma io ti giuro, Victor, ti giuro che non permetterò che tu gli faccia del male. Non permetterò che tu lo faccia soffrire come hai fatto con me.”
“John, io…”
“John.”
Una voce profonda fece sobbalzare entrambi, ma mentre Victor si trovò realmente sorpreso, John si voltò lentamente, assumendo nuovamente quello sguardo imperscrutabile con cui si era presentato quella mattina.
Sherlock reggeva in mano una piccola busta di carta del panettiere all’angolo della strada e fissava il medico con occhi freddi.
“Che cosa ci fai qui?” Ma quando i suoi occhi incontrarono il volto di Victor, la sua espressione si accese di orrore. “Per l’amor di Dio… che cazzo hai fatto, John!?” ruggì oltrepassandolo e scattando verso Trevor che gli rispose con un sorriso d’incoraggiamento, le dita che cercavano di scansare dolcemente quelle dell’altro intente ad esaminare la botta.
“Sherlock, è tutto okay. Non mi ha fatto tanto male.”
Ma Sherlock si voltò repentinamente verso John, il quale rispose ai suoi occhi dardeggianti con uno sguardo insofferente. Il consulente investigativo si avvicinò al medico, i pugni stretti, arrivandogli ad un soffio dal viso, la punta del proprio naso che quasi sfiorava il setto nasale dell’altro. Restarono immobili a specchiarsi l’uno negli occhi dell’altro per momenti dilatati e carichi di tensione. Momenti che un tempo sarebbero stati spezzati con l’unione delle loro labbra, ma quel tempo era passato.
“Stacci lontano, John. Stai lontano da lui, ma soprattutto… stai lontano da me.”
Le pupille del medico si allargarono, riflettendo un qualcosa che sembrava così forte da far fatica a lasciarsi soffocare. Victor rimase immobile a guardare la scena e non gli sfuggì l’occhiata preoccupata che l’amico rivolse all’ex fidanzato quando quello si volse e ripercorse zoppicando il tragitto verso il taxi, parcheggiato svariati metri indietro – saggia precauzione per evitare di attirare l’attenzione dell’autista.
Ma durò un attimo. Subito, l’ex inquisitore si precipitò dentro il 221A, richiudendosi la porta d’ingresso alle spalle, e prese il volto dell’amico fra le mani.
“Deve aver fatto male…” mormorò tristemente passando il pollice sul labbro ferito, leggermente.
“Un po’, ma credo che… che non sarà mai eguagliabile al dolore che io ho provocato a lui.”
Il viso di Holmes si adombrò appena. “Non dire così. Non sei tu il problema. Era lui il problema.”
“Ora capisco perché non mi rispondevi alle chiamate. Perché non mi hai detto che l’avresti lasciato, quella sera?”
Il consulente investigativo scrollò le spalle. “Perché non sapevo che l’avrei fatto, ma soprattutto perché sapevo che avresti cercato di impedirmelo.”
“Ci avrei provato, è vero. Ma credo che… che alla fine non ce l’avrei fatta comunque a starti lontano.”
Le sue parole caddero nel nulla, mancando un’eventuale risposta che, a ricordi logica, sarebbe dovuta arrivare. E Victor stava ancora aspettando, quando le labbra di Sherlock sfiorarono leggermente le sue. Rispose al bacio prima lentamente, gustando l’attimo, poi cercò con sempre più bramosia il contatto con l’altro che però si scansò dolcemente, sorridendo.
“Va meglio il labbro?”
Trevor lo prese per mano e cominciò a giocherellare con le sue dita da violinista. “Decisamente meglio. Potresti brevettare una nuova cura, sai?”
“Ci penserò.”
 
***
 
Si lasciò cadere sul sedile, gli occhi coperti da una mano. Lacrime silenziose si sciolsero, ricadendo pesantemente sul suo viso. Non sembrava finire mai, quel dolore. Non era come l’amore che, a quanto pare, si esauriva in un battito di ciglio. Il dolore era lì, lo straziava, gli massacrava il cuore con martellate poderose. Cercò di respirare per sanare quel bruciore al petto, ma un singhiozzo lo tradì. Ringraziò internamente il tassista che non gli pose alcuna domanda. Se non altro, la discrezione inglese non era cambiata. Si vergognava della sua stupida debolezza. Si vergognava di non riuscire a contenere quella lenta agonia che lo dilaniava. Si vergognava di essersi innamorato in quel modo di un uomo che più volte gli aveva dato ragioni per dimostrargli che era uno stronzo bastardo. Uno stronzo bastardo che ancora stava proteggendo. Il pugno non era stato calcolato. Gli era venuto in quel momento, alla vista dell’ipocrisia riflessa sul suo viso di Trevor. E con quel cazzotto, non aveva fatto che ribadire la sua debolezza. Avrebbe voluto limitarsi a metterlo in guardia, ad avvertirlo che se avrebbe mai fatto soffrire Sherlock sarebbero stati guai. Non si era mai drogato in tutta la sua vita, ma avrebbe potuto giurare che fosse quella la sensazione che si provava durante la disintossicazione. L’assenza era come l’impronta gigantesca di un tirannosauro.
 
***
 
“Non dev’essere stato facile con John.”
Victor era disteso sul divano, teneva la testa sulle cosce di Sherlock, seduto. I suoi occhi erano rilassatamente chiusi, mentre le dita dell’altro gli carezzavano i ciuffi di capelli rossicci.
“E’ stato più facile di quello che credevo. Pensavo di amarlo davvero e di averti dimenticato, ma quando sei tornato è riesploso tutto. John è passato in secondo piano, poi in terzo, infine ho capito che era solo attrazione fisica, quella tra noi, niente di più. Non volevo fargli del male, quello no, però non potevo continuare a mettere la mia… la nostra felicità dopo la sua. E poi sono sicuro che troverà qualcun altro che possa renderlo felice.”
“E adesso? Adesso che cosa provi?”
Sherlock appoggiò la nuca alla parete e chiuse a sua volta gli occhi. Le palpebre tremarono leggermente. “Nulla. John non è nulla per me. E poi… il fatto che ti abbia colpito ha cancellato ogni traccia di pena nei suoi confronti.”
Victor si sollevò e si sporse verso il consulente investigativo, le mani chiuse attorno alle sue ginocchia. “Che cavaliere senza macchie e senza paura!”
“Lo sono sempre stato, sei tu che non te ne sei mai accorto.”
“Ho deciso: da ora in poi ti chiamerò sir Sbruffotto.”
Holmes assunse un’espressione schifata. “E’ orribile.”
“Lui come ti chiamava?”
Gli occhi di Sherlock si oscurarono di colpo. “Possiamo smettere di parlare di John?”
“Sì, scusa.”
E si sporse ancora di più, attirandolo in un bacio infuocato.
 
***
 
Quando udì la porta chiudersi, Clara scattò in piedi e corse all’ingresso.
“Finalmente sei tornato.” mormorò incrociando le braccia.
Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Per l’amor di Dio, Clara, non ti ci mettere anche tu, ti prego.”
“Cazzo, Sherlock!” scoppiò lei serrando le dita attorno al suo polso e trascinandolo al piano superiore. “Posso sapere che è successo, eh!?”
“Come se non lo sapessi!” ribatté lui alzando a sua volta la voce e sottraendosi alla sua stretta. “Ti avrà raccontato tutto di sicuro.”
Lei spalancò gli occhi. “Mi chiedo se stiamo parlando della stessa persona. Mi chiedo se tu sappia che cosa ti stai perdendo, chi ti stai perdendo! Mi ha solo detto Sherlock non mi ama più e ciao, ci vediamo stasera, per il resto non ha spiccicato parola.”
Sherlock si lasciò cadere sulla sua poltrona con un profondo sospiro. “Gli passerà. Non è la prima persona ad avere il cuore spezzato.”
Clara batté il pugno sul tavolo della cucina, tracimando un beker e rovesciando una colonna a riempimento. “Come fai a parlare in questo modo di John!? Di John! E’ l’uomo che hai amato, l’uomo che hai aspettato per due anni, l’uomo per cui avresti dato la vita…”
“Come fai a dirlo, Clara? Tu non sei me, non sai che cosa provo, che cosa ho provato. John è un uomo fantastico ma questo non implica per forza un mio coinvolgimento sentimentale.”
“Andiamo, Sherlock! Ti sei forse dimenticato quello che ci siamo detti prima che iniziasse tutta questa storia del dinamitardo? Io, in te, ho rivisto il mio amore per Harriet. Puoi anche farmi credere che io sia cieca, ma non che sia indifferente a ciò che mi dice il cuore!”
Sherlock tacque. Un silenzio greve. Ricordava quella mattina, quello che aveva detto. Così lontano, così sfumato…
“Pensaci, Sherlock. Non buttare la tua vita in questo modo. Non sarai mai completo senza di lui… Io lo so.” Sospirò, mordendosi un labbro, e si avviò come un fantasma verso l’uscita, ma alla porta si bloccò. “Sherlock… Quando ho perso Harry… è stato un dolore inimmaginabile. Se non ti sbrighi lo perderai e non te lo perdoneresti fino alla fine dei tuoi giorni.”
La porta si richiuse con un tonfo a cui ne corrispose un altro all’altezza del petto di Sherlock. Una notifica a Baker Street. E Sherlock scattò in piedi.
 
***
 
La piscina era semi illuminata. L’acqua sciabordava impercettibilmente. L’ombra creava tetri giochi d’oscurità. Sherlock entrò, le mani saldamente ficcate in tasca, le dita a contatto con la pistola che John aveva lasciato a Baker Street. Girò su se stesso con la sua postura elegante e distinta.
“Finalmente siamo arrivati alla fine!” ruggì infine, rivolto al nulla. “Un solo bip. Spero che finalmente mi mostrerai chi sei o rimarrei deluso!”
Un cigolio lo indusse a voltarsi verso sinistra. Da una porta laterale uscì una figura. Il mondo cominciò a vibrare, come scosso da un terremoto. I piedi di Sherlock sembrarono perdere attrito al terreno. Ogni cosa prese ru0tare febbrilmente.
John si stava appoggiando al bastone, la mano sinistra nella tasca del giubbetto verde militare. “Buonasera.” esordì sbattendo irregolarmente le pupille, come se avesse difficoltà a vedere o fosse infastidito dalla luce. “Bella sorpresa. Non è vero, Sherlock?”
“John, cosa diavolo…”
“Questo non l’avevi previsto.” proseguì come se nulla fosse il medico. Sherlock prese ad avanzare lentamente verso di lui, gli occhi spalancati e una confusione densa, palpabile che spirava dal suo volto. “Sei tu il dinamitardo? Sei tu Moriarty?” lo scimmiottò Watson, stringendo più saldamente le dita attorno al bastone. “Sì, Sherlock, sono io. Allora, come ci si sente? Fa male, vero? Adesso saprai quello che si prova a soffrire.”
“John, che stai dicendo?”
“Non avresti dovuto fare di testa tua, Sherlock. Non volevo far male a nessuno, ma non mi hai lasciato scelta. Oggi… qualcuno si farà male davvero.”
“Ti prego, ascoltami…” mormorò il consulente investigativo tendendo una mano verso l’altro che però indietreggiò di un passo, trascinando il bastone con sé.
“Non sei stato tu a dirmi di… starti lontano? Hai commesso un errore, Sherlock, un piccolo, grande errore. Chi stavi cercando di proteggere realmente?”
“John, io non…”
John si scostò un lembo di giubbetto con la mano sinistra, rivelando un gilet di esplosivi a fasciargli il torace, e una lucina rossa prese a muoversi impazzita sul suo petto. Per poco, il cuore di Sherlock non fuoriuscì per correre dall’altro. Non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo. Aveva fatto di tutto… aveva fatto di tutto, cazzo! Ma non era servito a nulla.
“Allora, Sherly!” esclamò una voce improvvisa. Il consulente investigativo fece scattare gli occhi verso la fonte di quelle parole. La figura di Victor Trevor si stagliò magnifica sotto una luce della piscina, ammantata in un completo beige che metteva in risalto il fisico slanciato e prestante. “Ti direi sorpresa! ma sono perfettamente consapevole che non lo è affatto. Ah, puoi anche prendere la pistola, se ti fa stare meglio.” Sherlock sfoderò l’arma puntandola contro Trevor che camminava placidamente verso di loro. “Devo ammettere che sei alquanto affascinante sotto le vesti di eroe. Sei contento, Johnny? Il tuo principe azzurro è venuto per salvarti.”
Sherlock puntò il suo sguardo su John che però si ostinava a fissare terra, un’espressione dura sul volto. Perché non lo guardava? Aveva bisogno dei suoi occhi, in quel momento più che mai. Perché continuava a sfuggire al suo sguardo?
“Stai bene?” gli chiese dunque, sperando di ottenere una qualche reazione. Una reazione che però non giunse.
“Puoi parlare, piccolo Johnny.” lo sfotté Victor, accostandosi a lui da dietro. “Povero Sherlock! Ha cercato così strenuamente di tenere a distanza il suo amato… per poi ritrovare solamente il suo odio.”
“Come hai fatto a capirlo?”
“Prima di tutto, non hai mai accettato di venire a letto con me – credimi quando ti dico che non ci tenevo troppo neppure io. In secondo luogo, hai esortato il tuo Johnny a starti lontano piuttosto che a stare lontano da me. E’ stato il tuo ultimo tentativo di fargli capire che stavi facendo tutto quello per il suo bene, ma a quanto pare ti sei innamorato di un idiota. Conosco persone interessate a te che ucciderebbero per avere la tua attenzione. Eppure, tu ti innamori di questo piccolo, stupido medico. Perché?”
Sherlock tolse la sicura, digrignando appena i denti. “Devo ricordarti che se premo il grilletto sei morto?”
“E io devo ricordarti che ho un cecchino appostato da qualche parte col mirino contro il tuo piccolo Johnny?”
John, finalmente, puntò i suoi occhi in quelli del consulente investigativo che non appena avvertì lo sguardo dell’altro su di sé venne avvolto da un calore tenue. Victor lo superò, diretto verso Holmes.
“Ascolta, Sherl, non voglio farvi del male. Sono soltanto un emissario, un portavoce. Ma dovete venire con me. Ci servite per… un esperimento.”
Il medico scattò in avanti e circondò il collo di Trevor con le sue braccia forti, costringendolo a inclinarsi indietro. “Sherlock, corri!” urlò dopo che si fu accertato di tenere saldamente il nemico, ma Sherlock si limitò a indietreggiare, colto di sorpresa.
“Oh… Bene! Adesso capisco perché te lo sei scelto. Ma sai, alle volte si esagera con l’amare i propri cuccioli.”
“Se il tuo cecchino preme il grilletto, Victor, saltiamo in aria tutti e due.”
Victor scoppiò a ridere, chiudendo le dita nodose attorno al braccio di John che lo teneva stretto, rischiando quasi di soffocarlo. “E’ ammirevole la devozione che gli mostri anche dopo tutto quello che ti ha fatto… sebbene fosse per il tuo bene, in parte.”
“Ti conviene chiudere il becco, altrimenti ti strangolo qui e subito.” sibilò il medico sul suo orecchio, con tono minaccioso.
“Non lo metto in dubbio, ma sai, credo che ci sia una piccola falla nei tuoi piani.” Una lucina rossa comparve improvvisamente sulla fronte perlacea di Sherlock, dritta dritta trai suoi occhi color del ghiaccio. John si pietrificò completamente a quella vista. “Ti conviene mostrare le mani, Johnny.”
Scrutò quel puntino così piccolo eppure grande abbastanza da rappresentare la fine come il punto fermo prima di una nuova frase e si scansò da Victor con le mani alzate. Sherlock abbassò gli occhi, sospirando profondamente.
“Ascoltate, ragazzi: sul serio, ammiro la vostra forza e il vostro amore ma diamoci un taglio, che dite? Vi conviene venire con me senza fare troppe storie, risparmiereste molte energie. Tanto, come potete vedere, ho in mano l’intero edificio.”
“Quindi, la piscina è tenuta sotto tiro dai tuoi uomini? L’intera piscina, anche fuori?” domandò il consulente investigativo abbassando lentamente la pistola, sperando che quelle maledette lucine rosse sul petto di John potessero svanire come per magia.
“Vuoi provare a scappare, Sherly? Non ti conviene, davvero, cadresti a terra morto prima di poterci arrivare, all’esterno.”
“Perché lo fai?” chiese il medico a bruciapelo.
“Io per soldi. Pagano bene i grandi boss, sapete? Ma se è dei miei superiori che state parlando, allora... Perché la gente fa quello che fa, Sherlock? Si annoiano e voi due siete diventati il loro principale intrattenimento.” Una risatina echeggiò per la stanza, mescolandosi con lo sciabordio dell’acqua clorata. “Devo ammettere che mi è piaciuto questo piccolo gioco… Gioco che sta continuando anche adesso. Dimmi, Johnny, tu sai il vero significato dei luoghi in cui avete svolto le vostre prove, non è così?”
John emise un verso minaccioso, paragonabile al ringhio di un cane. “Non verrò certo a dare la spiegazione a te.”
Un’altra risata fuoriuscì dalle labbra di Trevor che prese a camminare verso Sherlock con fare predatorio. Infine, una volta arrivato dietro di lui, gli poggiò entrambe le mani sulle spalle, massaggiandogliele dolcemente, per poi farle scorrere lungo il suo petto. L’ex inquisitore si divincolò, ma la voce di Victor gli soffiò bollente in un orecchio: “Ricordati che basta un semplice colpo in testa per fare stramazzare il tuo fidanzatino per terra.”
Sherlock strinse i pugni, le unghie che affondavano come lame affilate nella pelle. Cercò gli occhi di John e li trovò colmi di ira repressa.
“La fattoria – testimone del vostro incontro indiretto –, l’ambulatorio –spettatore della prima volta in cui avete davvero interagito –, il 221B – il vostro nido d’amore –, il tetto del Barts – luogo in cui avete dichiarato i vostri sentimenti –… E questa piscina, John? Che cosa c’entra questa piscina con voi?” Spostò lo sguardo su Sherlock, sorridendo. “Tu l’hai capito, non è vero?”
“Che cosa c’è da capire?” ringhiò il medico facendo un piccolo passo, trascinandosi dietro il bastone che sembrava essere diventato un oggetto completamente inutile, ora. “Non ha collegamenti con noi.”
“Esatto!” gioì Victor saltellando vero di lui. “Esatto, Johnny, nessun collegamento con voi, ma con noi sì. Ancora non capisci, eh? Vedi, caro, negli spogliatoi di questa piscina un certo diciottenne, mentre mi cambiavo, mi è saltato addosso, baciandomi, e sono sicuro che non ti sarà difficile fare due conti per capire di chi sto parlando...”
John lanciò un’occhiata smarrita verso Sherlock. “E’ la verità?” Quando l’altro annuì, gli sembrò che il mondo avesse smesso di girare completamente. Si sentiva spogliato di ogni difesa. L’ultimo tassello non erano lui e Sherlock ma Sherlock e Victor. Si immaginò un giovane Sherlock aprire finalmente il suo cuore ad un giovane Victor. E lui che cosa stava facendo circa quindici anni fa? Qual era la ragazza con cui stava uscendo in quel periodo? Non se lo ricordava… Nella sua mente si formò però un ricordo non suo, un’immagine che non gli apparteneva. Quegli spogliatoi, quella piscina, quella dichiarazione… E lui, solo uno spettatore insignificante. 
“Perché i tuoi superiori hanno scelto questo luogo? E’ fuori dai loro schemi.” chiese Holmes rivolto a Victor.
Trevor scrollò le spalle. “Mi hanno concesso di dare un tocco personale per quest’ultimo atto. Ho provveduto di conseguenza. E adesso bando alle ciance. Potete seguirmi con le buone oppure con le cattive. A voi la scelta.”
Il consulente investigativo gettò la pistola a terra, gli occhi bassi, sconfitti e Victor si chinò a raccoglierla soddisfatto del suo operato. John lo guardò passarsi una mano in volto e capì. Capì che era davvero finita. Capì che niente li avrebbe tirati fuori da quella situazione. Ma in fondo… era meglio così. Si erano ormai persi a vicenda: troppe menzogne, troppi inganni anche se a fin di bene... Sarebbero morti e avrebbero portato nella tomba, assieme a loro, quello scomodo amore che non se ne voleva andare.
“Puoi darci… puoi darci due minuti di privacy? Che cosa sono, ormai, due minuti?”
Trevor incrociò le braccia e lasciò che la sua espressione enigmatica andasse a creare un muro di tensione palpabile. “Va bene.” sentenziò infine, abbandonando le braccia lungo i fianchi. “Ma solo due, non un secondo di più. Siamo già in ritardo con la tabella di marcia.”
“John può togliersi il giubbetto?”
“Fate come volete, basta che vi sbrigate.” E detto questo estrasse il telefono dalle tasche e compose velocemente un numero, perdendosi in una conversazione che si smarrì tra le pareti della piscina.
Sherlock corse verso il medico, chinandosi ai suoi piedi. “Stai bene?” domandò mentre prendeva a slacciare il giubbotto carico di esplosivo con mani tremanti. “Stai bene?!”
“Io… sì.” rispose John in completa balia dei movimenti bruschi dell’altro che stava cercando disperatamente di liberarlo della sua prigione di morte. “Sherlock…” mormorò poi provando a suonare rassicurante, ma gli uscì un sibilo roco.
Il consulente investigativo riuscì finalmente a slacciare ogni fottuta zip e a lanciare lontano il tutto, con un sospiro di sollievo. Persino le lucine rosse si erano placate, rabbonite da forse un qualche ordine superiore. La gamba destra tirò John a terra, facendolo precipitare rovinosamente, il bastone inutile per sorreggerlo. Appoggiò schiena e nuca contro una parete, respirando sommessamente per cercare di ristabilire il regolare battito cardiaco. Sherlock si piegò su di lui, prendendogli le mani, ma lui si ritrasse, colto da un improvviso moto di timore. Scrutò il viso addolorato dell’altro ma non poté fare a meno di chiedersi se fosse reale o solo l’ennesima maschera che l’ex inquisitore stava usando con lui.
“Sei un bastardo.” sibilò alla fine, tirando su col naso e distogliendo lo sguardo.
“Lo so, lo so, ma non c’è rimasto molto tempo, perciò…”
“Che vuoi che faccia, eh!?” sbottò il medico scuotendo freneticamente la testa, quando un mal di testa improvviso – probabilmente dato dal cloroformio – lo colse.
“Voglio che mi abbracci e mi stringi il più forte possibile. Non devi lasciar intravedere niente.”
“Niente?”
Ma Sherlock non perse secondi preziosi per spiegarsi. Si premette contro di lui, strusciando il volto contro la sua guancia. John restò immobile, sentendosi un perfetto idiota a stare… a stare così bene. Nonostante quel bastardo l’avesse tradito, nonostante quel bastardo gli avesse mentito, nonostante quel bastardo lo portasse a non sapere a che cosa credere.
Avvertì le mani del detective infilarsi nel minimo pertugio rimasto fra i loro corpi. “Sherlock, che stai…”
Si accorse solo dopo il sorrisetto beffardo dell’altro del cellulare. Riuscì a malapena a scorgere il breve messaggio impresso sullo schermo.
 
Lazarus avviato. SH
(Mon, 10:01 p.m.)

 
“Che cos’è?” sussurrò il medico quando Sherlock ebbe fatto scivolare nuovamente il telefono in tasca.
“La nostra salvezza.”
Bastarono pochi secondi. Si udì lo spalancamento di più porte contemporaneamente e urla e fermi, polizia!, e poi spari, gemiti, caos. Sherlock scattò in piedi e afferrò la mano di John. “Andiamo!”
“La gamba…”
Il detective pestò un piede a terra per poi chinarsi nuovamente sull’altro, portandosi un suo braccio sulla spalla. “Ce la fai a fare perno sull’altra?”
“Credo di sì…”
Si tirarono su lentamente e quando ebbero la certezza che la gamba di John avrebbe retto fino al bastone – abbandonato poco più in là – provarono a muoversi, ma un suono agghiacciante invase le orecchie di entrambi. Victor era immobile davanti a loro, la pistola in mano, puntata verso di loro, gli occhi cattivi.
“Hai fatto una cazzata, Sherlock.”
Sherlock si posizionò di fronte al medico, schermandolo col suo corpo. John provò a controbattere, a spostarlo, ma la sua gamba era così dannatamente inerme e Sherlock così dannatamente sicuro della sua scelta di volerlo salvare!
“Fedele fino alla fine, vedo” lo sfotté Trevor sogghignando. “C’è qualcosa che vorresti dirgli prima che ti faccia un buco in fronte?”
Lui si voltò appena verso John, risolutezza e imperturbabilità sul suo viso. “Usa il mio corpo come scudo quando verrà il momento.”
“E’ davvero tutto quello che sai dire in un momento del genere?” gemette il medico provando per l’ultima volta a tirarlo via da davanti a sé. Non poteva accettare che quel bastardo morisse per lui. Nella sua mente aveva ormai delineato il vero Sherlock Holmes – bugiardo, traditore, infame, sociopatico –, perché doveva mettersi addosso ancora un’altra maschera, confondendolo, straziandolo?
“Uno…” cominciò a contare Victor.
“Tutto quello che voglio è che tu viva. Il resto non conta.”
“Sherlock…”
“Due…”
La mano del detective raggiunse quella del medico e la strinse forte con disperazione.
“Tre.”
E la detonazione rimbombò.

SPAZIO AUTRICI
Ciaooo!! Carino questo capitolo, vero? Davvero, davvero carino. Prevediamo già gli anatemi che ci arriveranno, abbiate pietà come l'abbiamo noi... ehm, ops, no, siate più clementi di noi. Scusate se vi facciamo soffrire e scusate se ci facciamo spesso pregare per raggiungere una certa... diciamo stabilità. Appuntamento al prossimo sabato, ciao!

 

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Capitolo 20
*** CAPITOLO 19 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 19

 
 
John scosse sconsolato il capo per l’ennesima volta, quella notte. Scotland Yard pullulava di vita. Troppa vita. Vita insulsa. Greg gli aveva fatto il centesimo nome per la centesima volta e lui per la centesima volta negò di averlo mai sentito pronunciare.
“Bene, allora… abbiamo finito.” sospirò Lestrade strizzandosi le palpebre chiuse con pollice e indice. “Grazie per la tua disponibilità nonostante… beh, tutto.”
John, che da quando aveva messo piede in quell’ufficio era stato desideroso di fuoriuscirne come da un tunnel buio e senz’aria, rimase incollato alla sedia. Fissò gli occhi dell’ispettore cerchiati da due profonde occhiaie, il quale si drizzò leggermente sulla poltrona, aspettandosi probabilmente la fatidica domanda.
“Come?”
Greg lasciò fuoriuscire un sospiro grave. “Sono stato contattato da Molly Hooper. Ha fatto da intermediario tra noi e Sherlock che ci passava ogni singolo pezzo del suo piano. Era sorvegliato ventiquattr’ore su ventiquattro, per questo non poteva comunicarci alcunché senza rischiare di venire scoperto. Anche noi eravamo sotto controllo: ogni suo contatto con noi veniva intercettato. Ma lui ha trovato il modo di raggirare questa sorveglianza, contattando l’ultima persona che chiunque si sarebbe mai aspettata di trovare: Molly. Grazie a lei e anche a Clara abbiamo macchinato diverse strategie per tirarvi fuori dall’ultima prova che Sherlock sapeva sarebbe stata decisiva. Ad ogni piano abbiamo affibbiato un nome, così è bastato un unico messaggio per far partire il tutto.”
Tacque. Parole effimere. Parole vuote. Parole senza senso, ormai. Non sapeva perché l’aveva voluto sapere, solo… l’aveva voluto sapere. Si alzò mezzo barcollando e strinse la mano dell’amico cercando di simulare un sorriso abbozzato che però non gli riuscì come sperava.
“Passerà dei guai?”
Greg, anche stavolta, capì. “Non troppi. Cercherò di mettere una buona parola in modo da rendere il giudice più comprensivo.”
John annuì seccamente, prima di voltarsi e uscire dall’ufficio di Greg.
 
***
 
Non appena lo vide uscire, Clara scattò in piedi. Quando i loro sguardi si incrociarono, fu costretta a mordersi un labbro per non lasciar fuoriuscire qualche lacrima. L’amico lasciò correre lo sguardo su tutto il suo corpo, mani e polsi compresi.
“John…”
Il medico non le permise di continuare, riducendola al silenzio con una stretta sfiatante. Lei cercò di ricambiare l’abbraccio, ma le mani erano ostacolate da quei maledetti pezzi di ferro che le ferivano la carne. Sentì l’amico battere ripetutamente la fronte contro la sua spalla, come a colpevolizzarsi, come a mortificarsi.
“Ti voglio bene.”
Lei sorrise e annuì, infine si staccò e lo guardò in viso. “Vai a Baker Street ora?”
“Pensavo di rimanere qui per aspettarti…”
“Non ce n’è bisogno. Non so neanche se e quando potrò uscire… torna a casa.”
“Quella non è più la mia casa.” rispose prontamente lui, stringendo rabbiosamente i pugni.
Clara prese un respiro tanto profondo quanto tremolante. “Io… io credo che ti farebbe bene andare lì, sai?”
“E perché? Non mi è rimasto più nulla.”
Lei accarezzò il suo volto quanto gli anelli di metallo le consentivano. “Sai che non è vero.”
John sbuffò e strinse gli occhi in un patetico tentativo di sopprimere quelle immagini che minacciavano di impossessarsi della sua mente al solo sentir menzionare quella strada del centro.
“Ci andrai?”
“Sì, sì, ci andrò.”
“Promesso?”
“Promesso.”
Greg si affacciò sulla porta, un’espressione avvilita in volto. “Clara… è proprio ora che entri. E tu, John, va’ a casa: hai bisogno di riposare.”
Clara si avvicinò all’ispettore obbedientemente, il capo colpevolmente chino, infine si voltò, sorridendo per l’ultima volta a John. “Stava giusto per tornarsene a casa sua. Loro.”
 
***
 
“John…”
“Ciao.”
Si guardarono in silenzio, la tensione che si accorpava tra loro in una sottospecie di belva dalle dimensioni mastodontiche dotata di fauci pronte a calare sulle loro teste. John si morse il labbro inferiore, spostando inconsapevolmente il peso sulla gamba debole ma sempre sorretta dal bastone.
“Vuoi… vuoi salire?” domandò Sherlock timidamente, pallido in volto e visibilmente stravolto dall’interrogatorio di Anderson – aveva insistito egli stesso affinché ad interrogare John fosse Greg e non qualche idiota, così a lui erano toccate quelle vipere di Anderson e Donovan che se non altro avevano fatto presto –.
“Io… giusto cinque minuti…”
Il consulente investigativo lo lasciò passare e lo guardò con occhi dolcemente angustiati salire le scale come si scala la vetta di un monte. Così debole e così piccolo, il suo medico… Suo? Lo era davvero? Lo era ancora? Che schifo di situazione… John vacillò appena, proiettato inesorabilmente verso l’indietro, ma lui scattò in avanti, le mani dolcemente strette ai suoi fianchi per stabilizzarlo. Non appena quelle dita da violinista entrarono in contatto con il suo corpo, il medico si scansò di getto, rischiando quasi di sbilanciarsi una seconda volta, di cadere in avanti.
“Scusa, io… non volevo.” bisbigliò Sherlock, ritraendo all’istante le mani e allacciandosele dietro la schiena, poiché non aveva la più pallida idea di che cosa farci di quelle mani tanto sapienti col violino, tanto impacciate con le strette, ma anche tanto inutili senza quelle di John nelle sue.
“No, figurati… anzi, grazie…”
Entrarono nel salotto avvolti da un silenzio imbarazzante, greve come un macigno. Era proprio come se lo ricordava John, il salotto: le due poltrone, l’una volta verso l’altra, lo smile giallo sulla tappezzeria, il teschio sul caminetto, la finestra rivolta ad un cielo freddo e senza stelle. L’istinto lo chiamò verso quella soffice poltrona rossa, ma qualcosa lo frenò, conducendolo, invece, sul divano: non voleva che Sherlock potesse… fraintendere la sua presenza lì.
“Vuoi qualcosa? Non so, un the o un caffe…”
“Alle quattro della mattina, Sherlock?”
“No, direi di no…”
“Direi anch’io.”
Sherlock sospirò appena, prima di lasciarsi sprofondare nella vecchia poltrona del coinquilino. John spalancò appena gli occhi e fu costretto a distogliere lo sguardo. “Dannato bastardo” pensò mentre stringeva il pugno della mano sinistra che non sembrava voler smettere di tremare. Era l’ennesima sfida che gli stava lasciando: lo stava mettendo alle strette, sedersi nella sua poltrona era decisamente un colpo basso.
“Non ti aspettavo.” esordì infine l’ex inquisitore, schiarendosi appena la gola.
“E io non mi aspettavo di venire. Anzi, se non fosse stato per Clara probabilmente non sarei venuto.”
Sherlock abbassò appena gli occhi al sentirla nominare. “Come sta?”
Un sorriso ironico affiorò sulle labbra dell’altro. “Una meraviglia! Aveva le lacrime agli occhi per quanto rideva!” Tacque per qualche istante, pentendosi della meschinità impressa nella sua voce. In fondo, Sherlock non aveva colpa… almeno non del tutto. “Sta male.” confessò infine. “Ma credo che sia comprensibile, visto che ha ucciso un uomo.”
“Mi ha salvato la vita… se non fosse stato per lei a quest’ora…”
“Di fronte alla legge non cambia. Clara non fa parte della polizia e l’omicidio di Victor avrà gravi conseguenze per lei. Ma in fondo, questo lo sai meglio di me.”
Il consulente investigativo si massaggiò le tempie, i riccioli voluminosi che ricadevano un po’ troppo lunghi sulla fronte candida e liscia. “Non verrà condannata a morte visto che ha salvato una vita, ma l’ergastolo non glielo leverà nessuno.”
La frase cadde senza alcuna risposta: John era troppo impegnato a contare i granelli di polvere sulle punte dei suoi mocassini per accorgersi dell’occhiata intensa che l’altro gli stava rivolgendo. Eppure, in un modo o nell’altro, se ne accorse ugualmente. Nonostante i pulviscoli sulle sue scarpe, nonostante gli occhi completamente incapaci di guardarlo, nonostante non sapesse se quello Sherlock Holmes fosse il vero, se ne accorse. Avrebbe potuto avvertire le sue iridi su di sé ovunque.
“John, so che sei arrabbiato e… spaesato, ma ti prego, lasciami…”
“Spiegare? Se è il tuo brillante piano che mi vuoi illustrare, puoi anche risparmiartelo: Greg mi ha detto tutto. Credo che tuttavia abbia saltato la questione Victor.”
“L’ho fatto per far credere a lui e ai suoi capi che il loro piano filasse liscio.”
“Bene, è quand’è che avevi intenzione di rendermi partecipe di questo brillante piano?”
Sherlock si alzò dalla poltrona e prese a camminare verso di lui, avvilimento e abbattimento che imperversavano sul suo viso smunto. Si fermò al centro della stanza, avvolto nella sua vestaglia preferita, con i capelli lunghi in disordine, con gli occhi chiari colmi di pentimento, con le mani impotentemente inerti. “Non potevo dirti nulla o avrei messo a repentaglio l’intero piano. Speravo di arrivare ai piani alti di questo complotto, di capirci finalmente qualcosa, ma… non ci sono riuscito.”
“Hai una vaga idea di come mi sia sentito?” sputò John con voce tremante e incrinata. “Io pensavo… che sarebbe finita un giorno, sì, ma con la nostra esecuzione su quel dannato Justice Podium! Non per… le cose stupide per cui la gente comune si lascia.”
“Lo so, lo so…” farfugliò sconnessamente l’altro lasciandosi cadere in ginocchio di fronte al medico che si era incurvato, il mento che toccava il petto e gli occhi che minacciavano lacrime chiusi. “Ma io… dovevo proteggerti. Credevo che in questo modo ti avrebbero lasciato stare, credevo che avrei potuto salvarti.”
“Io non voglio essere protetto, Sherlock!” sbottò John spalancando nuovamente gli occhi blu incrinati da venature rosse. “Io non voglio essere il tuo tesoro, Sherlock. Voglio essere quello che è al tuo fianco a custodirlo, quel forziere. Non ci sono io dentro il tuo baule, ma…” Si morse il labbro inferiore, cercando istintivamente le mani dell’altro che si aggrapparono alle sue con disperazione. “… il nostro amore. Ricordi quando ti dicesti che… che questo mondo non potrà mai avere il nostro difetto chimico? Beh, io dicevo sul serio. Ma ora…”
“Non è cambiato niente, John.” lo bloccò Sherlock circondandogli il viso con le dita lunghe. “Tu sei sempre tu, io sono sempre io e noi… noi siamo sempre noi. Senti!” Afferrò la mano sinistra di John e se la portò al petto, dove il suo cuore rimbombava impazzito, nella speranza di attirare la loro attenzione, nella speranza di chiamare il cuore dell’altro.
Il medico, però, ritrasse il palmo, scuotendo tristemente la testa. “Oh, Sherlock, tu non puoi capire. Non vuoi capire. Ci sono state troppe bugie fra noi, troppe difficoltà che io non so se posso continuare a fingere che vada tutto bene, che la nostra vita non sia un perfetto casino…”
“Insieme, John. Possiamo affrontare tutto questo se siamo insieme.”
“No, Sherlock!” tuonò infine John alzandosi di scatto e spingendo all’indietro il corpo di Sherlock che ricadde rovinosamente a terra. “Non saremo mai insieme! Non so neanche se lo siamo mai stati! Quante cazzate mi hai raccontato, eh? Credevo di aver superato la storia dell’Inquisizione, ma… ma dopo questa ragnatela di menzogne che ci sta intrappolando… ho capito che non so più fidarmi di te.”
“John, ti prego…”
“Sherlock, io sto male.” I loro occhi si incontrarono nuovamente. John piangeva, quasi, ma il suo rigore di soldato non glielo avrebbe mai permesso. Non di fronte a Sherlock Holmes. Sherlock, invece, sembrava un bambino terrorizzato e completamente abbandonato a se stesso. “Sto male perché ti guardo, Sherlock… e non so chi sei.”
Il cuore di Sherlock venne percorso da una fitta trama di crepe invisibili. Un nero più nero del nero lo avvolse interamente.
Guardò John, lo guardò bene. Come se fosse stata l’ultima volta.
Per primo, la notte seguente alla quarta prova del dinamitardo, aveva scansato quel piccolo medico, quel soggetto insignificante raffigurato nella tela di un qualche pittore scadente abbracciato dalla cornice dalla piccola finestrella di una fattoria del Sussex. La loro storia era stata intrecciata dalle mani esperte e spietate di una qualche tessitrice che si era dilettata col porre di fronte a loro prima piccoli sassolini, poco più che pietruzze, fino ad arrivare a sterminate catene montuose che abbracciavano col loro assolutismo qualunque altra cosa di fronte a loro.
Guardò John, lo guardò bene. Come fosse stata la prima volta.
Il loro destino era davvero quello di sgretolarsi contro la roccia aspra dei monti? John era sconsolatamente rivolto verso la porta. Quel 221B era stato così spesso teatro di amore, di dolore, di incomprensioni… c’era così tanto in quelle quattro mura che sembrava come se ogni singolo momento racchiuso nei loro ricordi rimbalzasse da una parete all’altra, da poltrona a poltrona, dal frigo alla televisione.
“Non voglio perderti.” provò come ultima carta il consulente investigativo, rialzandosi mentre si sfregava prepotentemente gli occhi sperduti. “Se è davvero tutto finito, io lo accetto. Ma ti prego, non sparire dalla mia vita.”
John gli rivolse un sorriso traboccante di tenerezza e malinconia, poi volse lo sguardo verso l’uscito del salotto, parole di piombo che pesavano sulla trachea.
“Ti scongiuro.” lo implorò Sherlock che mai aveva implorato in vita sua. Perché quell’uomo doveva avere la capacità di renderlo così pateticamente debole? Due anni prima si sarebbe steso sul divano, appallottolato nella sua vestaglia e avrebbe chiuso fuori il resto del mondo col suo cinismo, ma ora… ora aveva conosciuto tanto per essere disposto a perdere troppo. “Permettimi di continuare a vederti, di tanto in tanto.”
“Non credo ti farebbe bene. E lo stesso vale per me.”
L’ex inquisitore arricciò convulsamente le labbra in un tic nervoso mirato a contenere la piena di sofferenza che di lì a poco avrebbe abbattuto ogni argine. “Come vuoi, allora. Se… se dovessi avere bisogno di qualcosa, di qualunque cosa, io… beh, io ci sarò sempre.”
“Grazie, Sherlock.”
“Mi dispiace.”
“Già, anche a me.”
 
***
 
Nella sua mente era tutto confuso. Luci blu e rosse, parlottii di sottofondo, Greg che si raccomandava di restare fuori da quell’edificio e di lasciare che si occupassero di tutto loro. Poi l’istinto irresistibile di trasgredire agli ordini, il sesto senso che qualcosa sarebbe potuto andare storto. Poi buio, e la luce chiara della piscina. Spari, confusione, la pistola che le bruciava tra le mani, lo sciabordio dell’acqua. Poi la figura di Sherlock che si parava di fronte a quella di John, la sagoma di un uomo ritta di spalle di fronte a lei. L’indice che correva alla rimozione della sicura, la canna della pistola così diabolicamente bella e latrice di salvezza, i suoi amici così disperati e in pericolo. Poi il grilletto che veniva premuto, anch’esso effimero, freddo, distante, indifferente al suo ruolo. Il tonfo di un corpo che cade a terra, la pistola che le cadde dalle mani tremanti e imbrattate di un sangue invisibile che però c’era, Sherlock che le correva incontro, John che si appoggiava alla parete, la voce di Lestrade che imprecava, quella di qualcun altro che le ordinava di alzare le mani, e poi confusione e confusione, buio, luci abbaglianti, voci sussurrate, frastuoni, ossimori, occhi indaco e occhi indefinibili, mani amiche e mani che la spingevano in una qualche macchina diretta verso qualche prigione in cui sbatterla. Scotland Yard, l’attesa, Sherlock che entrava Sherlock che usciva, John che entrava, John che usciva, lei che provava per l’ultima volta a farli emergere dal loro oceano insondabile a causa di quanti problemi vi galleggiavano. E poi, ancora Lestrade e Anderson e Donovan, appollaiati di fronte a lei, Greg con occhi comprensivi, Philip e Sally con sguardi accusatori. La sua confessione, se così poteva definirsi, il sospiro di Greg, qualche borbottio su un certo processo, un certo giudice, una certa accusa, un certo sconto della pena. E poi freddo. E buio. E umidità.
Clara era rannicchiata su se stessa e tremava. Per la paura. Per il gelo. Per le lacrime che le deturpavano le gote. Era diventata un’assassina. Gli occhi vitrei di quell’uomo le offuscavano ancora la vista, costringendola a tenere le palpebre serrate per cercare di sopprimere quella visione. La testa, debolmente sorretta dalle mani, a tratti veniva scossa da una parte all’altra, quasi a voler scacciare ogni ricordo, ogni azione, ogni conseguenza. Pluriomicida. E la sua prima vittima… la sua prima vittima era stata proprio Harriet che aveva dato la sua vita per salvare la sua. Non era forse anche quello un omicidio? L’odore del sangue rappreso la prendeva alla gola, le mani le sembravano presentare tracce di una qualche incrostatura derivata da quel maledetto liquido vermiglio che pareva sommergere la cella intera.
La porta cigolò malamente e l’avrebbe anche assordata se la detonazione del suo sparo non le avesse spaccato già il timpano destro. Non osò alzare la testa. Non sapeva chi fosse – se un poliziotto, se l’addetto alla consegna dei pasti, se Greg, se il suo avvocato –, ma non le importava.
“Hai una visita.” sentenziò la voce dell’agente che l’aveva scortata dalla stazione di polizia alle prigioni dell’Inquisizione dove ormai venivano rinchiusi tutti i criminali o i nemici dello Stato.
Il tremore che le percorreva le membra infreddolite si attenuò. Sherlock? John? Harry? Ah, no, Harry era morta. L’aveva uccisa lei. Avrebbe ucciso anche Sherlock e John, molto probabilmente. E’ quello che fanno gli assassini. Sì, sì, sì, è proprio una cosa da killers ammazzare. Si sentiva strana… meno padrona di se stessa, come sospesa in una dimensione completamente diversa. No, no, no, di dimensione diversa esisteva solo l’aldilà, lei non poteva andare nell’aldilà, eh no, lei era un’omicida, già, già… Brava, Clara, brava! Aveva la febbre. Molto probabilmente aveva la febbre. Ma com’era avere la febbre? Faceva male? Sicuramente meno male che avere una pallottola piantata nel cervello come quel poveretto… No, no, no! No, Clara: non era poveretto, no, no. Lui era dalla parte dei cattivi… ma lei da che parte era? Dalla parte dei buoni! Ma allora perché si trovava in prigione? Che strana la vita… lei che era buona veniva sbattuta al fresco, che ridere! Anzi, no, non faceva ridere per niente. Aveva solo voglia di piangere.
E pianse, Clara, mentre il suo misterioso visitatore si richiudeva la porta della cella alle spalla. Che cosa le stava succedendo? Cosa… cosa le prendeva tutto all’improvviso?
“Ma guardati… povera disgraziata.” esordì la voce del nuovo arrivato. Una voce che non conosceva. Una mano le accarezzò la nuca, portandola a rannicchiarsi ancora di più su se stessa. “Sssh… non voglio farti del male. Ho bisogno del tuo aiuto.”
“Che cosa vuoi da me?” farfugliò lei restando con il capo premuto contro le sue cosce.
“Si tratta di Sherlock Holmes e John Watson. Sono amici tuoi, vero?”
“Sì… loro sono… miei amici. E’ per loro che sono qui… E’ per loro che sto male. Voglio uscire…” Clara si alzò improvvisamente, gli occhi sgranati, i pugni rivolti alla parete squallida della buia prigione. “Voglio uscire! Fatemi uscire!” urlò scaraventando pugni dolorosi contro il muro. Un paio di mani forti le ghermirono i polsi, allontanandola dalla sua pratica di autolesionismo sfrenato. “Lasciami! Lasciami! Fuori! Voglio andare fuori! Oppure ammazzami!”
“Calmai! Calmati adesso! Ti farò stare meglio se mi aiuterai…”
Il corpo della donna si afflosciò di colpo, precipitando inesorabilmente verso terra. Un briciolo di lucidità la rianimò. “No… loro sono miei amici. Non posso dirti niente…”
“Oh, ma anche io sono loro amico. Voglio solo aiutarli, ma per farlo ho bisogno di te. Aiutami e ti prometto che ti farò stare meglio.”
“Non posso… sono miei amici.”
“E’ per il loro bene, Clara.”
“Mi prometti che… non farai nulla per far loro del male?”
“Lo prometto.”
“E prometti di farmi stare meglio? E’ tutto così confuso e… strano…” Una voce prese a sussurrarle qualcosa. “Cosa?”
“Cosa?” le fece eco lo sconosciuto.
“Hai detto qualcosa?”
“Io no…”
Clara tornò in ascolto di quella voce… anzi, no, di quelle voci, prima bisbigli… poi grida strazianti, grida di dolore. “Assassina!” urlavano. “Mi hai ucciso!” singhiozzavano. “Meriti di marcire in quella cella!”
“Basta!” gridò lei, le mani saldamente premute contro le orecchie. “Basta! Basta! Basta!”
Lo sconosciuto si chinò su di lei, avvolgendo tentennante il corpo della donna che si dimenava come indemoniata. “Calma. Calma. Va tutto bene… Guardie!”
Dopo pochi secondi giunsero due poliziotti, i volti allarmati e gli occhi sbarrati alla visione di Clara che si dibatteva nelle braccia salde del visitatore. “Che sta succedendo…”
“Clorpromazina!”
“Cosa?”
“Subito! Chiamate un’ambulanza e raccomandatevi che portino della clorpromazina!”
Uno dei due estrasse con prontezza il telefono e digitò frettolosamente il 911. Con parole concise ma trafelate seguì le istruzioni dello sconosciuto il quale stava ancora cercando di calmare la detenuta, completamente delirante.
“Signore, perché fa così?” chiese il secondo agente rivolto al visitatore.
Questo sospirò e ammorbidì lo sguardo infinitamente gelido. “Non sono un dottore, idiota.”
“Sì, signore, ma ci ha fornito istruzioni ben precise su cosa far portare all’ambulanza, quindi deve avere un’idea più o meno chiara della situazione.”
L’uomo strinse ancora di più la stretta attorno a Clara che aveva preso a graffiarlo e a strepitare frasi sconnesse nelle quali comparivano regolarmente i nomi Harriet, John, Sherlock, in una continua tiritera ricolma di follia e delirio. “Assomiglia molto a mia madre… credo che… che si tratti di schizofrenia.”
 
***
 
Erano le due abbondanti del pomeriggio quando Sherlock venne svegliato dal trillo del campanello e dalla conseguente vocetta petulante della signora Hudson. I suoi sensi erano incredibilmente più acuiti quando la casa era vuota così come il suo cuore. Per un attimo si chiese se stesse ancora battendo, là dentro. Domanda stupida. Ovvio che batteva. Ma che razza di idiota era diventato?
La voce che rispose con un fredda cordialità alla padrona di casa gli diede i brividi. No. Lui no. Si rannicchiò ancora di più sulla poltrona rossa, diventata ormai il suo rifugio, il suo piccolo sacrario in cui potersi concedere un briciolo di umanità. Tre tocchi a terra. Tre. In poco tempo, la porta del salotto venne aperta, ma lui non ci badò. Non aveva voglia di discutere, quel giorno. La sensazione bruciante del rifiuto di John gli infiammava ancora il corpo intero.
“Ti trovo bene.”
Sherlock si concesse di alzare appena lo sguardo fiacco sulla figura del visitatore. “Anche io. Hai preso sette kili dall’ultima volta che ti ho visto.”
“In realtà quattro.”
“No, sette.”
Mycroft fece roteare gli occhi e lanciò un’occhiata alla poltrona di pelle dove il fratello soleva sedersi, lo sguardo dubbioso. “Dov’è John?”
“John?”
“Non fare il finto tonto con me.”
“Ah, quel John. Non lo so e non mi interessa. Non sono la sua balia.”
Bravo, Sherlock. Davvero bravo. Perlomeno, sapeva ancora fingere.
“Certo…” fece il maggiore non completamente convinto mentre si accomodava sulla poltrona nera.
“A cosa devo questa spiacevole visita?”
Mycroft si mangiucchiò appena la gengiva – mal di denti, dedusse Sherlock –, poi allungò una busta di carta gialla chiusa al minore che la prese con un sopracciglio alzato. Era dal funerale di suo padre che non vedeva suo fratello e di certo non gli era mancato, ma quella visita inaspettata lo turbava più di quello che mostrava. Se il Governo in persona si era recato nel suo appartamentino di Baker Street, senza alcun inquisitore al seguito, con una macchietta di caffè sulla manica destra, allora doveva di certo trattarsi di qualcosa di segretissimo e… di pericoloso. Quando aprì la busta, però, i suoi occhi si fecero grandi di confusione. Estrasse i fogli plastificati con cura e devozione, studiandoli non con perizia quanto con stupore.
“Che significa?”
“Quello che vedi.”
Sherlock si rigirò i documenti in mano, soffermandosi sul secondo su cui troneggiava una fotografia di John. Sotto, nome e cognome falsi: Martin Freeman. Secondo il suo, invece, si chiamava Benedict Cumberbatch, trentadue anni, impiegato nei laboratori dell’Inquisizione.
“Perché mi stai dando dei documenti falsi?”
Mycroft sospirò e sprofondò nella poltrona di pelle, abbandonando la sua posizione regale e distinta. “Ho scoperto di essere migliore di quello che la gente crede. Di quello che tu credi.”
“Mi fa piacere, ma non mi hai ancora risposto.”
“Sei sempre così pieno di risentimento.” sospirò l’inquisitore giocherellando con il manico del suo ombrello. “Mi sto solo preoccupando per te.” Un ghigno da parte dell’altro lo spinse a continuare, fomentandosi appena. “Per l’amor del cielo. Devi andartene da questo Paese, ora, e devi portare con te anche lui.”
“John? E perché mai?”
“Non sono stupido, Sherlock. So di voi due.”
Quelle parole raggelarono il consulente investigativo. Mycroft sapeva? Da quando? Come? Chi altro sapeva? Prima il dinamitardo, poi Victor, adesso suo fratello… in che diavolo di imbroglio erano intrappolati, lui e John?
“Lo so da un po’.” lo anticipò il maggiore. “Ed è per questo che dovete andarvene. Adesso.”
“Perché ora?” chiese allora Sherlock. “Perché ora e non… due mesi fa?”
Mycroft si sporse verso di lui, assottigliando gli occhi gelidi come quelli del minore. “Perché adesso ci sono… loro.”
“Loro? Loro chi?”
“Non posso dirti altro, Sherlock. Io ho le mani legate, non posso fare niente per proteggerti. Ti ho tenuto al sicuro fino a che ho potuto, ma alla morte di nostro padre è cambiato tutto.”
“Perché vuoi proteggermi? Hai fatto ammazzare nostra sorella di fronte a tutti. Perché io no.”
Le labbra dell’inquisitore si aprirono in un sorriso triste. “Io… io ci tengo a te, Sherlock, ma credo che tu debba sapere che… che Eurus non era davvero nostra sorella. E’ il frutto del tradimento di nostro padre con un’altra donna. Eurus era intelligente, astuta, carismatica… avrebbe potuto aizzare il popolo contro il Governo, so che ci sarebbe riuscita. Ma allora ero ancora sicuro della nostra persecuzione, delle nostre leggi. Ora invece… non so più che cosa pensare.”
Sherlock sgranò gli occhi. Eurus… era una figlia illegittima? Era per questo che, la notte, spesso udiva provenire degli strazianti singhiozzi dalla camera dei suoi genitori quando suo padre non rincasava? Era per questo che erano cominciati gli attacchi schizofrenici di sua madre? Perché suo padre l’aveva tradita? E da quel tradimento era nata sua sorella? Era solo una menzogna? O era la verità?
“E tu ti aspetti davvero che ti creda? Chi mi dice che non mi stai tendendo una trappola e che la storia su Eurus non sia soltanto una scusa?”
Mycroft si alzò in piedi, l’incedere sicuro, e avanzò verso la finestra. I suoi occhi si persero ad osservare quelle stupide marionette dello Stato mentre cominciavano ad animarsi, riscosse da un lento scroscio di pioggia. “Io non voglio la tua morte. Io voglio che tu sia felice. Loro hanno un piano ben collaudato… e se non vi sbrigate rimarrete bloccati qui per sempre.”
“Qual è loro piano?”
“Non posso dirtelo. Vorrei… vorrei tanto, ma non posso. Solo… ti prego, ti scongiuro, vattene. Salvati. Vivi.”
Le parole di suo fratello trasudavano una tale sincerità che Sherlock se ne trovò spiazzato. Possibile che suo fratello avesse deciso di deporre veramente l’ascia di guerra?
Loro… una setta? Un’organizzazione? Cosa? Ma se erano loro a tessere i fili di quella congiura contro di lui, dovevano davvero andarsene. Però John…
“Io… ci penserò.”
“Tre giorni. Massimo tre giorni: non riuscirò a tenerli occupati per più di allora. Avete tutto il necessario: documenti, permessi di espatrio, autorizzazioni, tutto. Devo però avvertirvi che vi sarà impossibile viaggiare assieme. Non appena scopriranno che avete lasciato il Paese, si metteranno sulle vostre tracce e nonostante i nomi falsi non sarà difficile trovarvi. Se invece vi dividerete, prendendo due percorsi diversi, allora sarà più difficile rintracciarvi.” Mentre parlava, aveva preso gentilmente dalle mani del minore una delle due cartine geografiche contenute nella busta e con l’elegante penna nera che teneva nella tasca della giacca, aveva tracciato due percorsi. Uno che da Londra arrivava a Cuba attraverso l’America e un altro che da Londra arrivava a Cuba attraverso l’Africa. “C’è una piccola locanda, in Messico, che è protettorato cubano. Potrete riunirvi lì. E’ tutto calcolato.”
Sherlock restò qualche secondo a ponderare la situazione: era perfetto. Documenti nuovi, identità nuove, permessi di espatrio autentici e non falsi… era tutto così perfetto! Perché era dovuto succedere quello che era successo proprio ora!? Ripensò alla mattina prima della prova sul tetto del Barts. Ripensò a John che timidamente gli chiedeva se avesse ancora intenzione di partire. Diavolo, John. Eccome se ce l’aveva. Ma ora, lui era lontano e Sherlock… Sherlock era solo.
Il flash che seguì fu anticipato da un breve campanellino nella sua testa. “Come hai fatto a stabilire questi percorsi?” John gliene aveva parlato. Anche la sua comunità, diretta verso Cuba, aveva preso le due vie consigliate da Mycroft. Come faceva, suo fratello, a conoscere quei due tragitti?
“Mi sono fatto aiutare dalla signorina Clara.” confessò l’inquisitore, rabbuiandosi improvvisamente. “L’ho incontrata stamane, in carcere.”
Il viso di Sherlock si accese di luce propria. “Come sta?” Ma qualcosa nell’espressione del fratello fu più eloquente di ogni parola. “Mycroft? Che cos’ha? Devi dirmelo.”
“Lei… credo si tratti di schizofrenia.”
“Schizofrenia?” fece eco il consulente investigativo.
“Ha avuto un attacco stanotte. Io credo… credo che abbia a che fare con tutto quello che è successo. L’ho fatta traferire nel nuovo manicomio. Ho ragione di credere che i farmaci sperimentali possano rivelarsi utili e, chissà, magari anche definitivi.”
Sherlock si passò una mano sul volto, la fronte corrugata nello sforzo di capire perché. Perché le era toccata anche quella? Perché proprio a lei? Perché ad una persona buona e dolce come Clara? Perché a lei, che aveva già perso tanto, se non tutto?
 “A questo proposito…” continuò Mycroft dopo una manciata di secondi, mentre la sua mano tirava fuori dalla tasca una pezzo di carta alquanto stropicciato e imbrattato di inchiostro. “Questa è da parte sua. Per te e per il dottor Watson.”
Il minore prese il foglio e se lo portò al viso, intercettando una debole scia del suo profumo. “Devo vederla.”
“Non essere sciocco, Sher…”
“Ho detto che devo vederla!” scoppiò, scattando in piedi e facendo per infilarsi il cappotto scuro sopra il pigiama e la vestaglia, ma Mycroft lo raggiunse con un balzo felino, ghermendogli il polso e costringendolo a guardarlo negli occhi.
“Lei non vorrebbe che la vedessi in quello stato!” A quelle parole, Sherlock si immobilizzò. Il maggiore prese un lungo respiro e addolcì la voce e lo sguardo. “Se tu ti trovassi nelle sue stesse condizioni… credi davvero che vorresti che lei ti vedesse in quel modo? Mi ha pregato di tenervi lontani da lei, anche a costo di piantonare due inquisitori all’entrata della struttura. Tipino deciso, quella donna…”
Sherlock sorrise. Già… Era proprio vero. Era così che se la doveva ricordare: come la donna che l’aveva risollevato, come una sorta di sorella maggiore, come colei che aveva combattuto per lui e per John e che per loro era andata in carcere. Sì, era questo che Clara avrebbe desiderato.
“La terrai al sicuro, non è vero?”
“Lo giuro.” Il minore annuì appena, imitato dal maggiore, segno che la conversazione poteva ritenersi conclusa. “Beh, penso che questa sia l’ultima volta che ci vediamo.”
“Già, penso anch’io.”
Mycroft allungò con una specie di pudore la mano, fino ad arrivare alla spalla del fratello che sussultò sotto quel contatto così inusuale per loro. “Abbi cura di te, fratello mio.”
“Anche tu, Mycroft.”
E quelle poche parole, unite a quel contatto così innocente ma ricco di significati, furono il loro reciproco addio.
 
***
 
La pioggia scrosciava come se dovesse sommergere l’intera città. Si era infilato nel primo taxi disponibile, rischiando quasi di venire investito, ed era sprofondato fradicio e col fiatone nel sedile posteriore, accompagnato da una serie di occhiatacce da parte dell’autista. Aveva quasi urlato quando quello gli aveva chiesto: “Destinazione?” Il cuore era in procinto di esplodere, lo sapeva. Si era preparato un bel discorso – discorso che poi avrebbe deliberatamente ignorato – e si era agghindato per l’occasione. Si sentiva un perfetto idiota. Non aveva la più pallida idea di che cosa fare una volta arrivato, di che cosa dire – perché il discorso tanto se lo sarebbe proprio scordato –, di che cosa provare. Due giorni. Due giorni e aveva ceduto. Non sapeva se vergognarsene o se invece rallegrarsene. Quando il taxi si fermò in mezzo alla via desiderata, balzò giù, pagando frettolosamente e col cuore in gola. Là, sotto all’ira di Dio, si arrestò e alzò lo sguardo. Dalla finestra al piano di sopra proveniva una luce calda e soffusa, quasi rosata. E, dietro quei vetri, avvolto da quella luce, c’era lui. Lui che non impiegò molto per accorgersi di quel povero cretino che se ne stava immobile, preda di un acquazzone. La figura alla finestra sparì e anche quella in strada si rianimò, correndo verso la porta. Ci vollero cinque secondi al massimo perché questa si spalancasse, rivelando un viso stupito e speranzoso al tempo stesso.
Lui si bloccò di nuovo, la pioggia che gli perforava il cranio, l’acqua che gli percorreva ogni centimetro di pelle. Si bloccò e attese. Che cosa, poi, non lo sapeva nemmeno lui – se il coraggio di entrare, la forza di parlare, il buon senso di andarsene –. Attese, fino a quando con un ampio passo non fu dentro, il suo bacino avvolto da un braccio forte che lo tirava all’interno dell’edificio.
John lasciò che Sherlock lo premesse con trepidazione contro il muro dell’ingresso del 221B. Lasciò che le loro labbra trovassero la via l’una verso l’altra, che il loro abbraccio si facesse ancora più stretto e soffocante, rendendo ancora più difficile respirare. Sorrise mentre rispondeva ai baci stupidamente felici di Sherlock che aveva cominciato a ridacchiare e a mormorare qualche debole che conteneva il mondo intero. Aveva voglia di fare l’amore con quel bastardo. Col suo bastardo. Si sottrasse alla bocca dell’altro solo per guardarlo un attimo in faccia e invitarlo mutamente, con un cenno del capo, verso le scale. Sul viso di Sherlock esplose un sorriso raggiante che da solo avrebbe potuto perforava la cappa plumbea che regnava quella notte su Londra e riprese a baciarlo con foga.
Un rumore fece sobbalzare entrambi. “Sherlock Holmes! Che cos’è questo scherzo? Aprimi!”
John osservò allucinato la porta che dava sulla cucina della signora Hudson mentre veniva tempestata di pugni irritati, accompagnati dalle solite minacce innocenti tipiche della loro padrona di casa. “Hai chiuso la signora Hudson in casa sua?” sussurrò spostando l’attenzione sul volto infurbito dell’altro.
“Certo che l’ho chiusa in casa sua. Non volevo che piombasse in casa com’è solita fare.”
“Non credi che dovremmo… liberarla?” Sherlock gli depositò un bacio fugace sulla mascella, un altro sul collo, un altro ancora sulla giugulare. John sospirò, rassegnato e alzò gli occhi al cielo. “Ho capito… lasciamola là dentro.”
Le sue dita si intrecciarono gentilmente con quelle dell’ex inquisitore che sembrava aver subito una paralisi facciale, tanto luminoso era il sorriso stampato sulle labbra leggermente arrosate. Poi, qualcosa sembrò ridestarlo dal suo stato euforico e sognante, mentre il medico lo guidava con passo sicuro verso casa loro. “John… il bastone.”
“Ah, già, quello. Credo di essermelo dimenticato nella fretta di venire qua.” Arrivati nel salotto, John, con un sorriso, spinse dolcemente il corpo di Sherlock sul divano e si sedette sulle sue gambe. “Avevo… altro a cui pensare.”
“Ne sono felice.” rispose l’altro prima di chiudere dolcemente gli occhi e buttarsi all’indietro, stringendo tra le braccia il piccolo e zuppo John Watson, che si abbandonò contro il suo petto per qualche istante. Rimasero abbracciati per molto… molto tempo. Così tanto tempo che la voce inviperita della signora Hudson finalmente si placò, probabilmente memore della presenza di vicini che avrebbero potuto indispettirsi a loro volta per quella confusione.
John sorrideva. Sorrideva e ne era fottutamente consapevole. Aveva passato due lunghi giorni a struggersi per la lontananza da quella casa, da quella strada, da quella padrona di casa, da quello Sherlock Holmes. E ora che aveva ritrovato tutto questo… aveva voglia di ridere e piangere al tempo stesso. Di ridere perché gli sembrava così assurdo essere fradicio, tra le braccia dell’uomo che amava, con il fiatone che scuoteva entrambi, e di piangere perché… perché si sentiva un cretino per aver allontanato Sherlock. C’erano voluti due giorni di riflessioni per arrivare alla conclusione che Sherlock non meritava tutto quello. Era vero, gli aveva mentito e parzialmente lo aveva pure tradito, però era stato tutto per il suo bene, per il loro bene. Sherlock ci aveva pensato a loro. Non aveva pensato solo a lui o solo a se stesso. “Mi dispiace.” mugolò alla fine, strusciando il volto contro il petto dell’altro.
“Di che cosa?”
“Di averti fatto soffrire.”
“A te? A te dispiace?”
“Non lo meritavi. Hai fatto solo quello che ritenevi più giusto.”
“E tu hai intenzione di biasimare te stesso per esserti comportato come un umano? Non eri tu quello a sfiatarsi nel ripetermi che dovevo cercare di comportarmi più come un essere umano? Devo ricordarti che tu non sei da meno?”
John sospirò profondamente e tacque, rapito dal battito cardiaco di Sherlock. Quel cuore che ascoltava, quel cuore che pulsava, quel cuore che gioiva era suo. Quel cuore non era posseduto da altri che lui. Sherlock Holmes glielo aveva donato innumerevoli volte e… glielo stava donando anche quella notte. “Non dubiterò più… Mai più. Lo giuro.”
“E io non ti nasconderò più nulla. Lo giuro.”
John si alzò come meglio poteva a causa della posizione in cui era bloccato e porse il mignolo al consulente investigativo che gli rispose con l’inarcamento di un sopracciglio. “Sul serio, John? Siamo alle elementari?”
“Se non stai zitto il tuo destino è quello di dormire fuori dalla porta, sotto la pioggia.”
“Declino l’invito.”
Sherlock strofinò il suo naso con quello dell’altro e intrecciò il proprio mignolo col suo, sugellando quella promessa così sincera e spontanea che si erano appena scambiati. Il medico richiuse gli occhi e si abbandonò nuovamente tra le braccia del detective che respirò con nostalgia il suo odore su quei capelli dorati zuppi di pioggia. Rimase immobile per un po’, fino a quando non avvertì che anche la sua maglia cominciava a mostrare qualche segno evidente del contatto con il bagnato. “Cristo, John.”
“Cosa?”
“Sei completamente mollo.”
John si alzò e scoppiò a ridere. “Effettivamente, comincio ad avere freddo. Credo sia il caso di farmi un bella doccia calda.”
Sherlock annuì mentre lo guardava saltellare allegramente verso il bagno. Improvvisamente, gli tornarono in mente il viso di suo fratello, il suo piano, le sue informazioni e… Clara. Non aveva ancora avuto il coraggio di aprirla, quella dannata lettera. Aveva la sensazione che lei avrebbe voluto che venisse letta da entrambi, insieme. “Vuoi unirti a me? Possiamo stringerci, se vuoi.”
Il detective si alzò a sua volta dal divano e camminò rapidamente verso il medico. Gli lasciò un breve bacio sulle labbra e una carezza sulla guancia. “Ti aspetto a letto. Sbrigati, che dobbiamo parlare.”
Il viso di John, prima rilassato, si oscurò, rivelando la sua agitazione. “E’ successo qualcosa di grave?”
“Tu sbrigati. Io ti aspetto.”
 
***
 
Sentendo la porta aprirsi, Sherlock alzò lo sguardo dalla busta che era rimasto a contemplare per tutta la durata della doccia dell’altro. I suoi occhi si fecero grandi di meraviglia e un lieve rossore gli scaldò le guance. John era in piedi, rilassatamente intento a frugare nei suoi vecchi cassetti, avvolto da solo il suo accappatoio e un asciugamano sulla testa intirizzita. Il consulente investigativo distolse istintivamente lo sguardo, quasi non più capace a guardare il medico in quei panni. John dovette accorgersene, perché gli rifilò uno sguardo curioso misto a un sorrisetto ironico. “Che hai?”
“Niente, è che… non sono più abituato a vederti girare per casa… così.”
“Wow, Sherlock Holmes imbarazzato! Quale onore.”
“Oh, chiudi il becco.”
John ridacchiò e scagliò l’asciugamano dritto in faccia all’altro. “Vado a rivestirmi, così non ti sentirai più esposto.”
“E-esposto? Io non mi sento esposto!”
Ma il medico era già sparito una seconda volta in bagno. Dopo una manciata di minuti, John riemerse nella camera, avvolto nel suo pigiama di lino, e si sedette al fianco di Sherlock. “Allora, cos’hai di tanto importante da dirmi?”
L’ex inquisitore scivolò ad un’altezza tale che gli permettesse di appoggiarsi alla spalla del medico, suscitando il lui un dolce sorrisetto intenerito, poi gli porse la busta con tutto il materiale fornitogli da Mycroft. Non appena estrasse i documenti, il viso di John si accese prima di incredulità, poi di puro sbigottimento.
“E questi come diavolo te li sei procurati?”
“Mycroft.”
“Tuo fratello? Tuo fratello, il nuovo capo dell’Inquisizione, ti ha fornito dei permessi di espatrio falsi?”
Sherlock fece scivolare la sua mano in quella dell’altro, assaporando la sensazione di estrema completezza che provava solo con quel piccolo gesto. “Dice che dobbiamo andarcene, che c’è qualcosa di grosso dietro tutto… Che quelli che stanno giocando con noi hanno smesso di giocare.”
“E’ sicuramente una trappola.”
“Non lo è.”
“Perché?”
“Perché io riconosco chi mente.”
“Con Victor non mi pare sia successo.”
Il fitto e repentino scambio di battute si chiuse con una manciata di secondi di silenzio. Il consulente investigativo prese a mangiucchiarsi freneticamente il labbro inferiore, rafforzando la presa sulle dita del medico intrecciate alle sue, poiché temeva che quelle parole potessero generare un nuovo allontanamento tra loro.
“Era diverso.”
“Sì, infatti, non credo che tu abbia mai baciato tuo fratello.”
“John…”
John si zittì, poi, a sua volta, strinse più fortemente la mano dell’altro. “Scusa, è che… ancora se ci penso, fa male.”
Sherlock si levò a sedere e gli accarezzò amorevolmente le labbra, passando e ripassando il loro contorno quasi a volerle ridisegnare da principio. Il medico chiuse gli occhi mentre con un sospiro riceveva il contatto lieve della bocca del detective sulla sua.
“Cuba…” mormorò poi aprendosi in un sorriso sognante. “Riesci ad immaginarti la nostra vita in un posto diverso da questo – libero da catene di paura e di pregiudizi?”
Il consulente investigativo affondò il volto contro la maglietta di lino dell’altro, nascondendo la sua espressione raggiante e speranzosa. “Sai che non sono solito pensare a qualcosa di così distante nel tempo…”
“Io invece posso tranquillamente vederci in un posto del genere. Per prima cosa, ti chiederei di uscire per un appuntamento vero e proprio, che sia in un lussuoso ristorante o in un parco. Anzi, preferisco decisamente il parco: un bel pic-nic sul prato con io che ti imbocco.”
“Per l’amor di Dio, John! Sei serio? E una cosa così sdolcinata che potrei ingrassare come mio fratello solo a sentirla.”
John ridacchiò e depositò un bacio casto tra quei ricci sempre più lunghi e ribelli. “Lo so, ma non è quello che le persone normali fanno? Schifosamente sdolcinato, ma bellissimo. E poi, sono certo che ti piacerebbe.”
“Io non credo proprio.”
Il medico roteò gli occhi e decise di ignorarlo deliberatamente. “Poi, dopo l’appuntamento, vorrei passeggiare con te, mano nella mano, nel cuore della notte e fermarmi a prendere un gelato per strada. Vorrei baciarti dopo una tua geniale deduzione, vorrei vivere in una casa che non sia solo il nostro rifugio, ma anche il nostro inizio. Vorrei… amarti. E vorrei essere amato.” La sua confessione si dissolse priva di risposta. John attendeva che Sherlock controbattesse acidamente o che lo schernisse per le sue stupide fantasie, ma quello, invece, taceva. “Troppo diabetico?”
“Sì.” assentì finalmente il detective, ma dopo un secondo, si portò le loro mani allacciate insieme alle labbra. “Ma non c’è niente al mondo che desidererei di più.”
“E dopo questa posso ritenere la diagnosi di diabete certa.”
Sherlock si sfilò da sotto la nuca il cuscino e per ripicca glielo sbatté in faccia, senza però evitare di ridere. Fuori, persino le stelle avevano ripreso a baluginare debolmente, come riaccese dalla speranza di vedere due innamorati con in mano la felicità tanto attesa e sperata e meritata. L’oscurità tenebrosa della notte abbracciava col suo manto astrale quel piccolo appartamento dentro a cui si stava consumando un amore che con ogni probabilità era scritto negli annali del tempo e dell’universo.
“Dovremo partire presto. Domani al massimo.”
“Come pensi di organizzare il viaggio?” Sherlock sfilò dalla pila di fogli e documenti la cartina su cui erano tracciati i loro percorsi e gliela mostrò. “Ma questi… Come faceva tuo fratello a conoscere gli itinerari programmati da me e Clara?”
Ecco. Era arrivato, dunque. Il momento che avrebbe preferito rimandare ad un altro tempo, ad un altro luogo, anzi, che avrebbe voluto non tirare fuori dal Palazzo Mentale mai più. La lettera non era tra quelle scartoffie, no. Non era tra il loro futuro. Se ne stava solitaria sul comodino, accanto alla lampada, paladina del loro passato. Sherlock la prese con cura e amore, carezzandola quasi, e la fece scivolare sulle gambe di John.
“Che cos’è?” chiese retoricamente quello nello stesso tempo in cui girava la piccola busta di carta, rivelando i destinatari ma non il mittente.
“E’ di Clara.”
“Di… di Clara?”
Sherlock chiuse gli occhi e inspirò profondamente, ricercando nel suo debole animo il coraggio e la forza per rivelare, aprire la busta, leggere la lettera, spezzarsi più di quanto non fosse spezzato e spezzare John più di quanto non fosse già spezzato. Non seppe se li trovò, quel coraggio, quella forza, ma con occhi cupi e profondi riuscì a pronunciare poche parole necessarie: “Sta male, John.”
Il medico sbatté ripetutamente le palpebre, come a domandarsi se avesse sentito bene o se invece fosse d’obbligo chiedere all’altro di ripetere. Ma ogni volta che è così, è ovvio che la verità sia solo una. Perciò non fece domande, non sprecò neanche fiato nel formulare frasi inutili e magari anche sconnesse per lo shock, ma si limitò ad aprire la busta e ad estrarre il foglio su cui erano impresse mediante l’inchiostro le parole che Clara non era riuscita a dire loro. Si scambiò un rapido sguardo con Sherlock, poi cominciò a leggere ad alta voce.
 
Miei cari John e Sherlock,
non so neanche cosa potervi scrivere, o cosa si debba scrivere in tali circostanze, ma cercherò di essere breve e chiara: andatevene. Mi fido di Mycroft, forse sbaglio, ma ho come questa istintiva certezza che lui è la chiave per la vostra salvezza. Se state leggendo questa lettera, allora… è un addio. Partite, amatevi, lasciatevi dietro ogni cosa, me compresa. So che siete due teste dure e che probabilmente non capirete la mai volontà, ma vi chiedo di non cercarmi. Perché non potrei sopportare di rivedervi con gli occhi di questa Clara che non ha più niente di quella che voi conoscete. Ora sto bene, ma quanto potrà durare? Perciò, per amor mio, vi prego: dimenticatemi. O se volete, portate con voi un pezzo di me – di quella vera – e uno di Harriet: rivedo così tanto di noi in voi. Spero che siate felici e che finalmente troviate un luogo in cui amarvi.
Addio per sempre.
      Vostra Clara
 
John tacque, lo sguardo basso e sconfitto. Non voleva sapere che cosa le era successo, perché sapeva che sarebbe stato come venire percossi da un centinaio di dolorose sferzate alla schiena. Clara… la donna che sua sorella aveva amato, per cui aveva dato la vita… stava male. Non sapeva di che male si trattasse, sapeva solo che quando la mattina dopo l’interrogatorio si era recato a Scotland Yard per vederla, Greg era rimasto sul vago, sostenendo che non fosse possibile, ora come ora, farle visita. E lui se n’era andato. Come un coglione. Come un vigliacco. Sarebbe dovuto restare e buttare giù Scotland Yard pur di vederla. Non era giusto… non era giusto, non era giusto, non era giusto!
“John…”
La voce di Sherlock gli arrivava soffusa, le mani che lo stringevano gli sembravano inconsistenti. Aveva perso sua sorella, stava per perdere Clara, e Dio solo sapeva se avrebbe potuto perdere anche Sherlock…
“John… John, guardami.”
E lui lo fece. Spostò il suo sguardo perso in quello fermo di Sherlock, che gli prese il viso tra le mani. “Non la lasceremo sola, John. Mai. Ti giuro che troverò un modo, ma la porteremo con noi, a Cuba.”
“E come? E’ nella prigione di maggiore sicurezza del Paese, come credi di riuscire a portarla fuori?”
“Non è in prigione, è in una struttura per… persone come lei.”
“Che ha?” riuscì finalmente a chiedere il medico, liberandosi il petto di un macigno incommensurabilmente pesante.
“Schizofrenia, pare.”
John rovesciò la testa all’indietro, gli occhi puntati sulle piccole macchioline di muffa sul soffitto. Componevano uno strano gioco di figure: due se ne stavano attaccate, quasi in simbiosi, mentre un'altra era lontana, solitaria, triste. Rivide la loro intera storia in quelle chiazze di muffa: loro due, a Cuba, realizzati, e lei in quella gabbia di stronzi, da sola e eternamente infelice. No, non sarebbe andata così.
“Contatterò Mycroft e insieme elaboreremo un piano. Partiremo domani stesso, dopo averla liberata.”
Il medico annuì un paio di volte, inglobando e interiorizzando quelle parole. “I biglietti?”
“Anche a quello ha pensato Mycroft. Io passerò per l’Africa, tu per l’America. E Clara… per Clara vedremo.”
Le loro dita trovarono strada le une verso le altre e s’intrecciarono amorevolmente. “Ho paura a lasciarti andare, Sherlock.” confessò John rannicchiandosi contro di lui.
“Anche io. Ma dopo quest’ultimo ostacolo… sarà tutto finito. Finalmente.”
Chiusero entrambi gli occhi, sorridenti. E credettero a quella labile promessa.

SPAZIO AUTRICI
Aaaaallora. Buonsalve, bentrovati e viva Mycrfot! Dai, non diteci che credevate davvero che avremmo potuto ridurre questo FANTASTICO personaggio ad un mero supercattivo!? Per quello tanto c'è Moria... LALALA! NON C'E' NESSUNO, NONO! *fischiettano sperando di averla scampata* Comunque! La nostra cattiveria è terribile. Ci eravamo affezionate così tanto a Clara... MA I NOSTRI PIANI NON POSSONO ESSERE SCOMBUSSOLATI DAL MERO AFFETTO PER UN PERSONAGGIO! O sbagliamo? Comunque, nel prossimo capitolo capiremo (non solo capirete) che cosa accidenti succederà e penso che ne vedremo delle belle. Grazie come sempre a chiunque abbia recensito o anche sopportato in silenzio questo supplizio, e ci vediamo prossimamente, CIAO! 

 

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Capitolo 21
*** CAPITOLO 20 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 20
 
Il letto su cui dormiva era indicibilmente scomodo. Si era rigirata come un idiota su quel materasso cigolante e umido, che puzzava di muffa. Non sapeva dire se fosse ancora notte, né tantomeno che ore fossero: era rinchiusa in una stanza ancora più soffocante di quella maledetta cella con cui aveva familiarizzato per una sola, infinita notte. Ora sedeva compostamente sul letto, i capelli castani che ricadevano sul suo volto perso a scrutare il vuoto. Intrecciò le sue dita con altre immaginarie e articolò quel nome con le labbra, senza avere il coraggio di imprimerlo concretamente mediante la voce.
La serratura della sua camera scattò un paio di volte e la figura anonima di una guardia altrettanto anonima scivolò nella stanza. “Visite.” informò laconico prima di risparire. Clara neanche si scompose quando udì dei passi indistinti alle sue spalle: visite molte volte corrispondeva a Lestrade o ad altri agenti desiderosi di spremerla con quegli stupidi interrogatori celati da incontri amichevoli.
“Vi ho detto tutto quello che sapevo.”
Il silenzio che seguì fu più chiaro di un milione di parole. Si riscosse brutalmente, le labbra semiaperte e gli occhi rivolti verso l’alto in una muta protesta a tutto quello.
“Credevo di essere stata chiara.” mormorò freddamente senza però voltarsi, ritardando il più possibile il non ritardabile. “Perché dovete sempre fare di testa vostra?!”
Si alzò e si voltò di scatto, gli occhi che sembravano sprizzare lingue di fuoco. John era di fronte a lei, gli occhi dolcemente pietosi, e Sherlock dietro di lui, l’espressione apparentemente neutra ma che tradiva il suo tormento interiore tramite quel lieve tremore delle labbra. Quanto li conosceva bene, oramai. Erano tutto quello che aveva, tutto quello che le era rimasto… O meglio, che era rimasto alla vecchia Clara.
“Clara, vogliamo aiutarti.” biascicò John facendo un pericoloso passo avanti, portandosi vicino, troppo vicino, spaventosamente vicino.
“Non potete. Nessuno può. Mycroft, forse, ma anche se dovessi magicamente rinsavire, sarei in gabbia.”
Stavolta, fu Sherlock ad avanzare, raggiungendo il fianco dell’altro. Si sostenevano a vicenda persino in piccoli gesti parzialmente dettati dall’istinto o dal subconscio come quello. “Possiamo portarti fuori di qui. La via è libera: Mycroft ha provveduto a tutto. Non incontreremo una guardia fino all’aeroporto dove ci aspettano i nostri aerei…”
“Dove vi aspettano, vorrai dire.” lo corresse lei, le mani perentoriamente allacciate ai fianchi. “Io di qui non mi muovo. Non così, non in queste condizioni.”
“Clara, troveremo un modo, ma ti prego adesso…”
“Voi non capite!” I due si raggelarono all’udire quella voce rabbiosa e disperata, così diversa da quella della loro Clara. “Se me ne andassi, chi rimarrebbe con lei?”
“Con chi?”
Clara distolse lo sguardo dai due e lo puntò alla sua sinistra, mentre un sorriso sollevato le increspava le labbra e la sua mano si accarezzava la spalla, come se fosse sormontata da qualcosa. “Con Harry.”
La vedeva, la sua Harriet: era in piedi, bellissima, accanto a lei. Le sorrideva e le accarezzava amorevolmente la spalla, non badando alla presenza degli altri due. Era meraviglioso poterla rivedere dopo tutto quel tempo, dopo quegli anni di agonia, di incubi, di echi di spari, di scie di sangue. Harry era lì e ci sarebbe rimasta per sempre.
“Clara…” La voce di John interruppe il filo dei suoi pensieri. “Che stai dicendo? Harriet è morta.”
Clara allargò ancora di più il suo sorriso. “Si muore davvero del tutto, John? Pensaci. Perdere la vita è davvero sinonimo di morire?” Si mosse con cadenza leggiadra verso di lui, l’indice proteso in direzione della sua fronte. “Non si può mai morire davvero. Non finché la nostra immagine resta salda qui e…” La mano sinistra corse al petto dell’amico. “…qui.”
Il medico si voltò istintivamente verso Sherlock che ricambiò lo sguardo. Ecco che ci risiamo, pensò Clara, roteando gli occhi divertita. Aveva da sempre trovato quella loro capacità di comunicare con una sola occhiata estremamente adorabile, ma ora che le si ritorceva contro doveva ammettere che la riteneva fastidiosa. Fu per questo che spostò nuovamente gli occhi in direzione del punto dove fino a poco prima aveva visto Harriet, ma lei era svanita. Si guardò intorno spaesata, e avrebbe persino cominciato ad urlare il suo nome se non l’avesse rivista accanto a Sherlock. Un sollievo lenitivo le alleviò quella mancanza d’aria che la sua assenza era ormai solita provocare, ma quando vide lo sguardo che era impresso sul suo volto, il cuore sembrò fermarsi. Piangeva, Harriet. Lacrime silenziose le correvano inesorabilmente lente sulle gote. Guardava Sherlock. Anzi, lo accarezzava con lo sguardo.
“Harry…” sussurrò Clara con gli occhi sgranati.
John sussultò e Sherlock assottigliò lo sguardo, ma niente di tutto quello era importante. L’unica cosa reale, tangibile, era l’espressione disperatamente rassegnata di Harriet, mentre la mano affusolata sfiorava inconsistentemente i ricci scuri del consulente investigativo.
“Harry!” urlò allora, sperando di richiamare la sua attenzione, di riscuoterla dal suo muto dolore, ma il suono di un singhiozzo fragoroso come una cascata l’assordò, costringendola a terra, le mani premute sulle orecchie e gli occhi fissi sull’incarnazione del suo amore perduto.
“Clara!” esclamarono all’unisono John e Sherlock precipitandosi su di lei. Il medico la prese per le spalle, accarezzandola gentilmente. “Che succede, Clara? Dimmelo, ti prego.”
“Harry… Harry sta piangendo.”
“Harry sta… Dov’è?” John che sperava, John che ci credeva, John che era così ingenuo.
“Accanto a Sherlock.” Sherlock corrugò la fronte, uno sguardo confuso dipinto in volto. “Ti guarda, Sherlock… e piange. Ora… ora ti sta accarezzando.”
La vista venne annebbiata da copiose lacrime perlacee che andarono a creare un spessa barriera dietro alla quale intravide il corpo del consulente investigativo farsi ancora più vicino. Le braccia del medico si allontanarono da lei, lasciando posto all’altro. “Va tutto bene, Clara.” cercò di rassicurarla quello.
“No, tu non capisci… Lei piange. Lei sta piangendo e io non ho la minima idea del perché o di che cosa fare per… Sono inutile, inutile come il giorno in cui diede la vita per la mia… Sono inutile, inutile, inutile…”
“Sssh…”
Il corpo caldo di Sherlock si strinse al suo così freddo eppure così distante dall’essere morto. Avrebbe preferito essere morta piuttosto che sopportare quel lento supplizio che la sua pazzia e i suoi ricordi le infliggevano. Non c’era pietà in quella spire di emozioni che le serravano il cuore. Volevano divorarla dall’interno, fino a renderla un mero guscio vuoto. Niente più.
Riaprì gli occhi e da sopra la spalla ammantata di nero del detective, scorse di nuovo il fragile volto di Harriet. Accadde tutto nella durata infinitesimale di un battito di ciglio: le iridi di lei sembrarono animarsi di vita propria. In esse, presero a sfilare fotogrammi rapidi e incredibilmente confusi, latori di emozioni più che di eventi. Tutto quello la stordì e la sconvolse al tempo stesso. Le immagini le inondarono la mente, terribili e… Oddio. Oddio, no.
Si staccò da Sherlock brutalmente e si rialzò immediatamente, schiacciandosi contro la parete. “Via… Andate via…” mormorò, gli occhi sbarrati. John fece per avvicinarsi a lei, ma Clara gli intimò di stare fermo. “Ho detto: andate via!”
“Clara, noi vogliamo…”
“Via!!”
Le grida attirarono la sorveglianza che, sebbene corrotta per far finta di niente di fronte ad un’evasione, fu costretta ad intervenire. Clara prese a dimenarsi tra le braccia di sconosciuti, al pari di un’assatanata. L’ultima cosa che vide prima di sprofondare nel buio e nell’oblio causato dal sedativo, furono i volti costernati e feriti di Sherlock e John mentre venivano trascinati via.
 
***
 
L’aeroporto pullulava di volti e vite sconosciuti. Figli che salutavano madri, padri che salutavano figli, innamorati che si scambiavano un ultimo bacio prima di un lunga ma non eterna separazione, e poi hostess, piloti alla fine del loro turno, cani al guinzaglio che abbaiavano, voci gracchianti degli altoparlanti… In tutto quel marasma, Sherlock e John erano solo due puntini insignificanti, indistinti, incompleti. Se ne stavano a svariati centimetri di distanza, gli occhi bassi, le mani abbandonate lungo i fianchi. Attendevano. Erano diventati piuttosto bravi a farlo, entrambi. Non facevano altro da quando si erano conosciuti: avevano atteso prima la risolutezza per ignorare quei sentimenti, poi il coraggio per dichiararsi, in seguito la forza per andare avanti e dimenticare, dopo ancora l’amore per affrontare ogni avversità… E adesso aspettavano la chiamata dell’aereo di John: sarebbe stato il primo a lasciare l’aeroporto New Victory, il primo a lasciarsi alle spalle Londra e quant’altro. Il permesso di espatrio falso gli gravava in tasca.
“Signore e signori, il volo da Vancouver è in arrivo presso il cancello 29.”
Fu come venire risucchiati in una qualche effimera dimensione distorta e portatrice di disgrazie. John volse lo sguardo il minimo indispensabile per studiare la reazione di Sherlock che se ne stava impassibile e statuario nel suo ostentare freddezza e distacco. Si sentiva morire al pensiero di lasciarlo lì, da solo. Aveva un bisogno lacerante di saperlo al sicuro, soprattutto dopo le parole di Clara. Avrebbe tanto voluto avere la fotografia di Harriet con sé, ma quel lontanissimo giorno alla fattoria l’aveva affidata alla donna che sua sorella aveva amato e per cui si era sacrificata. Era giusto così, ma avrebbe dato qualunque cosa pur di potersi aggrappare almeno a quella.
Sherlock si alzò, ma lui non si mosse. Si disse che avrebbe aspettato il prossimo volo, che avrebbe guardato Sherlock salire sul suo volo e partire, sano e salvo, e solo dopo di questo sarebbe andato a sua volta.
“John.”
“Posso prendere il volo dopo.”
“Non fare il bambino. Andiamo, alzati.”
Con un profondo sospiro, John Watson obbedì. Il suo intero corpo era posseduto dal terrore che qualcosa avrebbe potuto andare storto, che gli inquisitori li avrebbero intercettati ma che mentre lui sarebbe riuscito a salvarsi, Sherlock…
“John.” La sua voce scacciò ogni altra cosa.
“Ho paura.” sussurrò tra i denti, temendo che qualcuno potesse udire, capire, agire di conseguenza.
“Che sciocchezza. Vedrai, andrà bene. Ci incontreremo nel luogo indicato da Mycroft sulle cartine.”
“E se ti succedesse qualcosa mentre io sono sull’aereo?”
“Non succederà.”
“E se succedesse?”
Sherlock tacque e deglutì rumorosamente un paio di volte, probabilmente cercando le parole per rispondere. “Quando arriverai alla locanda Cross Keys aspetterai dieci giorni. Se entro quel limite di tempo non dovessi arrivare…”
“Tornerò immediatamente a Londra.”
“Andrai a Cuba senza di me.” lo corresse Sherlock riducendo la voce a un sussurro a malapena udibile da John. “Promettimelo.”
“E tu promettimi che non sarà necessario che io mantenga questa promessa.”
Il consulente investigativo alzò gli occhi al cielo. “Lo prometto.”
“Bene, allora anche io prometto.”
Sherlock si sfilò il guanto di pelle nera e gli porse la mano. “Ai nostri tempi migliori, John.”
John restò basito a fissare quelle dita protese così formalmente verso di lui. Infine, lentamente, gli strinse la mano. Gli ricordava la prima volta che si era recato a Baker Street per dare un’occhiata all’appartamento, sotto la pioggia, e il suo futuro, maledetto coinquilino lo aveva sorpreso alle spalle, un sorriso sornione sulle labbra. Avrebbe tanto desiderato stringerlo forte a sé e baciarlo e trascinarlo sull’aereo insieme a lui, ma tutto questo cercò di comunicarglielo con la semplice stretta della mano. Sherlock sorrise. Un sorriso fruttato. Un sorriso sicuro. Avrebbe mantenuto la promessa, John ne era certo. Fu solo grazie a questa convenzione che riuscì a staccarsi da lui e ad imboccare il corridoio verso il suo aereo. Si sarebbero rivisti, in un altro luogo, liberi da catene e pregiudizi. Finalmente insieme. Insieme contro il mondo.

SPAZIO AUTRICI
Vi dobbiamo delle scuse per il ritardo! Pubblichiamo oggi perché sabato e domenica eravamo fuori e non abbiamo potuto sbrigarcela con la pubblicazione. Per scusarci, Mercoledì uscirà un piccolo assaggio di quello che seguirà sabato. Mamma, mia... Ci stiamo avviando alla fine. Non possiamo pensarci!! Ma ci raccomandiamo: non abbassate mai la guardia con noi due... Grazie a tutti i recensori e a tutti voi lettori in generale! Appuntamento a Mercoledì, ciao!!

 

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Capitolo 22
*** INTERMEZZO 2 ***


CUORE SUL GRILLETTO 
Intermezzo


 
Il suo profumo
Perché non ricordo il suo profumo?
Cazzo, sei partito da meno di un’ora.
Calmati.
Perché l’aereo trema?
Perché io tremo?
Smettila, Cristo.
Non trema più.
Trattienile.
Non piangere.
Andrà bene
Andrà tutto bene.
 
Ora scendo.
Il passaporto?
Vuole il passaporto?
Tutto a posto, sei passato.
E’ freddo
Cristo, s’è freddo.
Dov’è l’autobus?
L’ho perso?
No, eccolo arriva.
Merda, i suoi occhi
Mi mancano i suoi occhi
Mi mancano le sue labbra
Le sue mani
Smettila.
Andrà bene
Andrà tutto bene.
 
Perché non si fermano?
Una macchina, Cristo,
non chiedo altro.
Si fermerà prima o poi.
Manca poco,
ci sei quasi.
Te l’ho detto,
ce l’hai fatta.
E’ andata bene.
No
Non è vero.
Lui non c’è.
Non ce l’ho fatta,
non ancora.
Ma andrà bene
Andrà tutto bene.
 
Ancora uno,
un ultimo miracolo:
fallo tornare da me.
Tornerà, vero?
Andrà bene
Andrà tutto bene.
 
Vero?

SPAZIO AUTRICI
Hola! Piccolissimo spaccato del viaggio di John verso il luogo dell'incontro con Sherlock. Anche per questo breve momento di transizione abbiamo deciso di renderlo in versi - anche se non possiamo definirla una poesia vera e propria, quanto un'accumulazione dei sentimenti e pensieri di John. Breve ma intenso. Appuntamento a Sabato con un capitolo molto, MOLTO speciale. A presto, guys!

 

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Capitolo 23
*** CAPITOLO 21 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 21


 
Sette giorni. Sette lunghi giorni. Cercò di ripetersi che andava tutto bene, che non doveva preoccuparsi, che sarebbe arrivato… Ma il sole tramontava, la luna sorgeva, un giorno volava via e una notte imperava. Le stelle pulsavano ora serene ora tristi, i loro occhi luminosi rivolti a quello stupido ometto che se ne stava seduto sulla sommità di una collinetta, di fronte ad una graziosa locanda da cui proveniva una musica allegra e festosa.
Era una settimana che se ne stava lì, John Watson, che non viveva la sua vita, che si limitava a svegliarsi la mattina presto, a buttar giù un caffè nero, e a trascorrere una giornata intera con gli occhi all’orizzonte, persi a scrutare un nulla infinito. Arriverà, si ripeteva, andrà tutto bene, iterava ancora.
Infine, arrivò il nono giorno. Il calore del sole lo aveva costretto a spogliarsi dei suoi soliti maglioni e ad indossare una camicia azzurra leggera. Particolari futili che però contribuivano al facilitamento dello scorrere del tempo. Come ogni dì, si accomodò a terra, l’erba verdeggiante che gli solleticava le mani. Attese. Attese. Attese. Il sole percorse il suo intero ciclo: salì, dominò sul cielo, e poi ridiscese, tingendo il cielo di un carminio che si mescolava al rosa delle nubi spumose. Quel giorno, il sole sembrava avere il colore del sangue. Il sangue di chi? No, di lui no. Lui aveva promesso, lui stava bene. Ma le tenebre cominciavano a stendere le loro grinfie con efferatezza, inutili le preghiere di John perché il giorno ritardasse il suo ciclo ineluttabile. Chiedeva tempo, altro tempo, tempo a sufficienza. Sarebbe tornato a Londra, avrebbe demolito Buckingham Palace, eliminato ogni singolo inquisitore sulla sua strada, si sarebbe ripreso Sherlock e insieme avrebbero vissuto felici e contenti a Cuba, come in ogni fiaba che si rispetti. Ma quella non era una fiaba, lui non era affatto il protagonista di una storia d’amore indistruttibile… era solo un medico, un ometto insignificante che attendeva.
Quando il sole raggiunse il suo punto più basso, i suoi occhi ormai allenati a cercare, scorsero qualcosa, una figura. Si alzò di scatto, quasi incespicò nel farlo. Ai piedi della collina, lo vide. Era lui, ne era certo. Sherlock dovette vederlo, perché cominciò a sbracciarsi e ad urlare il suo nome. Il peso enorme che gli era gravato sul petto per nove, lunghi giorni, scomparve. John prese a correre giù per la collina, inciampando, rotolando a terra come un idiota, e rialzandosi con la camicia sporca del verde dell’erba. Sherlock lasciò andare il suo bagaglio e scattò a sua volta verso di lui. L’impatto fu traumatico. John sormontò il corpo dell’altro, facendogli perdere l’equilibro e causando una rovinosa caduta all’indietro. Si ritrovò sopra di lui, scosso da dolci risate di euforia e sollievo. Il consulente investigativo dovette balbettare qualcosa riguardo al fatto che gli pesasse, ma a lui non importava più niente se non il fatto che stessero bene e fossero lontani da ogni minaccia. Catturò le labbra del fidanzato in un bacio ardente e nostalgico. Aveva dimenticato com’era avvertire le labbra di Sherlock sulle sue – bello, bellissimo. Sentì le sue mani spingerlo dolcemente contro di lui, incurante del peso che esercitava sul suo corpo a terra, e si lasciò guidare nell’approfondimento di quel bacio disperatamente sollevato. Sospirarono entrambi, come se avessero ricominciato a respirare solo in quell’istante. Si staccarono, ma John non si mosse e rimase immobile a guardare uno Sherlock senza fiato, sotto di sé. I suoi occhi quel giorno erano verdi, verde speranza, verde libertà. Le labbra ancora schiuse erano circondate da un velo di barbetta incolta che gl’infondeva l’aspetto di un qualche narcotrafficante, e la pelle pallida era lievemente abbrustolita a causa, sicuramente, del potente sole africano.
“Devi raderti. Picchi.”
Sherlock scoppiò ridere e passò la mano tra i capelli del medico. “E questo ciuffo all’insù? Non è proprio nel tuo stile.”
“Mi permetto di dissentire: non c’è stata una ragazza che non si sia voltata a guardarmi.”
“Probabilmente avevi qualcosa sulla faccia.” Il detective tacque per un istante, come se stesse riflettendo in merito a qualcosa, poi con un colpo di reni riuscì a rotolare su un fianco, spostando il baricentro del fidanzato e facendolo crollare a terra. Con una risata si portò sopra di lui, riguadagnando una posizione di favore. “E così delle ragazze ti guardavano…”
“Praticamente tutte. Mi sembrava di essere tornato al liceo.”
“Ah, già… John tre continenti Watson.”
“E tu come fai a…”
“Mike.”
John scosse la testa, fintamente esasperato. Un qualcosa di insano, però, prese a logorargli il petto: la paura, anzi, il terrore di non rivedere più Sherlock gli piombò addosso inesorabile e i suoi occhi s’inumidirono di tutte le lacrime che aveva trattenuto durante quell’attesa debilitante e di tutte le lacrime di gioia che stavano crescendo ora che sapeva che l’altro stava bene. Il detective se ne accorse, il suo sguardo s’adombrò, la sua mano corse ad accarezzare la guancia di John con amore sconfinato. “Ehi…”
“Scusa… Scusa, scusa, scusa…”
Il medico si passò il dorso della mano sugli occhi, cancellando ogni traccia del pianto imminente. Sherlock gli sfiorò le labbra dolcemente. “Va tutto bene. Non devi vergognarti, non con me.”
“Lo so, ma mi sento comunque un idiota…” John fece perno sugli avambracci e riuscì a levarsi a sedere, scansando il corpo di Sherlock. “Ad ogni modo, dobbiamo sbrigarci.”
“Non sapevo avessimo un programma.”
“Eccome se l’abbiamo. Per prima cosa io prenoto un tavolo sperando che non sia troppo tardi, tu intanto sali in camera e ti prepari…”
“Mi preparo, eh? E per che cosa?”
John ignorò la provocazione celata in quella domanda, e lo tirò su senza troppa grazia. “Ti prepari a dire addio alla tua barba.”
“Cosa!? Ma a me piaceva! Non mi dà un’aria da… cattivo ragazzo di strada?”
“Appunto, non ho alcuna intenzione di farmi vedere in giro con un barbone.” replicò il medico prendendo la mano dell’altro e trascinandolo su per la collina, in direzione della locanda.
“Se io mi rado, tu ti tiri giù il ciuffo.”
“Ma ha stile!”
“Non è vero. Mostra il tuo desiderio di sembrare un ventenne, quando ventenne, caro mio, non lo sei più da un pezzo.” lo schernì affettuosamente il consulente investigativo mentre il loro momentaneo alloggio si affacciava, sempre più vicino.
“Solo per stasera.” lo pregò John mentre entravano nella locanda e salutava Gary, uno dei proprietari, con un cenno del capo e un sorriso.
Anche Sherlock rivolse un accennato saluto all’uomo al bancone, ma subito tornò a fissare John, le sopracciglia inarcata. “Perché? Cosa succede stasera?”
“Non posso dirti sempre tutto. Muoviti, stanza 10, secondo piano, ecco la chiave. Arrivo fra due minuti.”
Non gli diede altre spiegazioni e con pochi, ampi passi si diresse verso Gary. “Ehilà.”
“Ehi, John. Allora è lui l’uomo misterioso che aspettavi!”
Un sorriso sognante e timido al tempo stesso schiuse le labbra del medico che si appoggiò con sguardo felice al bancone. “Già… Non è… meraviglioso? Uno così che sta con uno come me…”
“Suvvia, John!” lo rimbeccò amichevolmente il locandiere, intento ad asciugare un boccale di birra appena sciacquato. “Anche io a volte mi chiedo come fa un tipo fantastico come me a stare con uno come Billy, sono punti di vista!”
E John rise. Per la prima volta, dopo lunghe settimane di viaggio, lasciò che la sua felicità fuoriuscisse da lui sotto forma di una dolce risata. Sapeva che Gary scherzava: era perso per Billy, il suo compagno. Anche loro erano inglesi, scappati quando ancora le linee con Cuba non erano state tagliate, poi però avevano deciso di mettere su un attività lì, in quella zona brulla protettorato dell’isola e quindi libera. Un ricovero per i bisognosi in fuga come lo erano stati loro tempo addietro. John ammirava i loro sforzi e il loro amore, adorava scherzare con Billy e raccontare di Sherlock a Gary. Li aveva conosciuti e con loro aveva da subito stretto un legame solido e puro, scoprendo di ritenerli amici.
“Ti ho sentito!”
La voce di Billy fece sussultare entrambi. Gary balzò indietro, leggermente impaurito dal volto infastidito del compagno che gli si avvicinò con occhi minacciosi. “E così tu saresti troppo per me?”
“Scherzavo, Billy, davvero…”
“Lo spero bene, altrimenti stanotte dormirai col cane.”
John si estraniò per qualche istante da quel battibecco domestico. La sua vita con Sherlock… se la immaginava più o meno così, con i soliti bisticci, i momenti dolci, le notti d’amore, magari anche un cane – a Sherlock piacevano da matti i cani –. C’erano quasi. La sera del giorno dopo, con tutta probabilità, sarebbero entrati a Cuba, in salvo, e avrebbero cominciato quella vita.
“Ad ogni modo, John.” si ricompose Billy scansando malamente il compagno. “Volevi prenotare un tavolo?”
“Sì, sempre se non vi crea troppo disturbo…”
“Oh no, affatto! Ve ne riserviamo uno nella stanzina privata? Renderebbe tutto molto più romantico.”
“Sarebbe l’ideale.” rispose subito John, cinguettando quasi. “Stasera sarà la sera.”
Billy aggrottò la fronte, mentre il volto di Gary s’illuminò immediatamente. “Santo cielo, John! Gli farai la proposta?”
A quelle parole, anche l’altro si animò. “Sul serio?”
Il medico arrossì lievemente e si limitò a far scivolare una mano in tasca. Ne estrasse un cofanetto rivestito da un pezzo di velluto viola. Quando lo aprì, scintillarono due fedi d’oro puro, all’interno delle quali vi erano scritti il suo nome e quello di Sherlock. Le aveva acquistate in segreto poco prima di partire, quando lui e il consulente investigativo si erano separati per un paio di ore con la scusa di raccattare le cose che aveva lasciato nell’appartamento di Clara. All’anello di fidanzamento aveva rinunciato visto che non ne facevano della misura e dello stile per un uomo.
L’entusiasmo dei due locandieri, però, sfumò a poco a poco, così come le loro espressioni esaltate, e Billy prese la parola: “John… non so se lo sai, ma anche a Cuba ci sono delle difficoltà. La gente crede di giungere in un Paese libero e pacifico, ma le cose non stanno realmente così: le coppie gay per sposarsi impiegano anni e anni di firme, tasse, incontri con magistrati e quant’altro.” I due si scambiarono un’occhiata triste. “La maggior parte di loro, per questo motivo, rinuncia per evitare di raggiungere livelli di stress elevati e nocivi. Anche a noi è successo…”
John abbassò gli occhi. Perfetto, no? Andavano in un Paese che sulla carta era libero ma che poi, per un fottuto matrimonio, rovinava delle famiglie. Stentava quasi a crederci. Forse, era meglio tacere la proposta. Non sapeva neanche se Sherlock avrebbe accettato, considerato il suo cinismo. E se anche lo avesse fatto, probabilmente avrebbero gettato la spugna in seguito.
“John.” lo chiamò Gary poggiandogli una mano sulla spalla. “Non devi rinunciare ai tuoi sogni. Se quello di sposarvi è ciò che desideri… allora non guardare in faccia a nessuno. Credo che nessuno meglio di uno come te o come il tuo ragazzo sappia che cosa significhi lottare per qualcosa.”
Quelle parole risvegliarono il suo desiderio di rivalsa. Ma sì, che aveva da perdere? Avrebbe fatto la proposta e comunque sarebbe andata, lui amava Sherlock e questo non sarebbe cambiato mai.
“Grazie, ragazzi. Allora, conto su di voi.”
“Puoi stare tranquillo.”
Si volse e, mentre si dirigeva verso le scale, udì il dolce schiocco di un bacio sicuramente altrettanto dolce.
 
***
 
“Avevi detto due minuti.”
“Sì, e allora?”
“Ci hai impiegato cinque minuti e tre secondi.”
John raggiunse Sherlock in bagno, dove se ne stava seduto sul bordo della vasca da bagno con le guance già ricoperte di schiuma da barba. “Sei sempre così melodrammatico.” lo sfotté affettuosamente il medico mentre si muniva di rasoio e si avvicinava all’altro studiando per un attimo quel volto perfetto.
“Se mi radi un sopracciglio sei un uomo morto.”
John non rispose e cominciò la sua opera. Con estrema delicatezza, passò lo strumento sulla mascella del detective, accarezzandola quasi, e trovandosi a sorridere nel farlo.
“John?”
“Eh?”
“Ti ricordi il nostro primo bacio?”
“Credo che fossi leggermente sbronzo.”
“Io me lo ricordo.” si vantò invece Sherlock, riaprendo appena le palpebre.
“Ah sì? E com’è stato?”
Il consulente investigativo cercò le parole adatte, arricciando lievemente le labbra e rischiando di far tremare la mano di John, ancora munita del rasoio affilato. “Non lo so. Non credo neanche di averci fatto realmente caso. L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era…”
Oh mio Dio, sta succedendo davvero.” completò il medico riponendo lo strumento e porgendogli una ciotola d’acqua in modo che si sciacquasse il viso.
“Esatto.”
Restarono immobili per svariati istanti, l’uno di fronte all’altro, due sorrisi talmente eguali da sembrare dei riflessi su una pozza d’acqua limpida.
Dopo qualche tenero istante di silenzio, John bagnò un panno nell’acqua e si adoperò per sciacquare il volto ormai vellutato del fidanzato, ma lui gli afferrò improvvisamente il polso e lo tirò a sé con uno sguardo serio e concentrato.
“Sherlock, che stai…”
“Ho contato i giorni.” sussurrò Sherlock a poca distanza dalle sue labbra in modo che il fiato caldo si infrangesse contro il suo volto. “Li ho segnati con delle crocette ovunque andassi – sul muro di un ostello, sulla sabbia del deserto, sul tronco di un albero avvizzito. Ho contato i giorni e le notti e mi sono sembrati secoli.” John ricambiò quello sguardo così profondo e si chiese se dovesse dire qualcosa, magari anche di stupido e ovvio, ma gli occhi di Sherlock erano calamite insondabili e ineluttabili che lo attiravano verso di lui, spingendolo però a mantenere il silenzio. Le loro labbra si toccarono appena, ma nessuno dei due chiuse gli occhi o cercò di approfondire quel semplice e banale sfregamento. “Per tutto questo tempo” continuò il consulente investigativo in un sussurro. “non ho fatto altro che pensare a te.” La sua voce tremolò appena, come scossa da una lenta agonia. “E’ stato orribile, perché sapevo di essere in ritardo, sapevo che mi stavi aspettando, ma semplicemente, non riuscivo a raggiungerti. Ho temuto così tanto di non riuscire a rivederti, di perderti.” E a questo punto, John avrebbe davvero voluto rispondere che no, non lo avrebbe mai perso, che il loro amore era così forte da non poter essere spezzato, ma di nuovo fu costretto al silenzio da quello sguardo grave e ombroso. La bocca di Sherlock, lievemente screziata del bianco della schiuma, accarezzò l’angolo destro della sua, infondendogli il desiderio di baciarlo e di dimenticare i suoi piani per quella sera, di rivangare le lontane nottate londinesi trascorse a scambiarsi baci e carezze passionali. “Quello che sto cercando di dirti…” riprese Sherlock poggiando la fronte contro la sua e socchiudendo dolcemente gli occhi. “… è che senza di te non vivo.”
A quelle parole, John si riscosse e gli prese il volto tra le mani; lo baciò con disperazione, cercando di scacciare quel celato timore, come se avesse potuto in qualche modo fare irruzione nelle loro vite, concreto e terribile. Lo dilaniava udire quel tono malinconico e perso nella voce del fidanzato, gl’infondeva una sensazione di malessere che gli pompava all’altezza dello stomaco e lo ribaltava con efferatezza.
Lo strinse come se da quell’abbraccio dipendesse la loro intera vita, aspirò l’odore dolciastro del sudore misto a quello della schiuma da barba sulla maglietta bianca e sozza.
“Neanche io.” rispose istintivamente a fil di voce invece di qualcosa come non accadrà o andrà tutto bene, non preoccuparti o cose simili, perché se c’era una cosa che aveva imparato da tutte le loro vicissitudini, era che nessuno di loro aveva davvero il controllo della loro vita, che erano solo pedine in uno schema più grandioso – che fosse quello dell’Inquisizione, del dinamitardo o di chissà che Dio. “Preferirei morire piuttosto che vivere senza di te.”
Sherlock non rispose e rimasero così per chissà quanto. Per John era come… come nascere una seconda volta, vivere nuovamente. Un tempo, prima che i due grandi ceppi dell’Islamismo e del Cristianesimo prendessero il sopravvento sugli altri Paesi e di conseguenza sugli altri culti durante e dopo la Terza Guerra Mondiale, esisteva una religione che credeva in qualcosa di simile, gli sembrava si chiamasse Induismo. Secondo gli induisti, quando l’anima di un morto lasciava il corpo, dopo un certo periodo di tempo si reincarnava in un altro e ogni vita futura dipendeva dalle azioni in quella precedente, fino ad arrivare alla fusione con l’Assoluto. E John, da laico qual era, sapeva con certezza che quello, quell’abbraccio, quella comunione di due anime e di due cuori, quel tremendo e meraviglioso consulente investigativo, fossero il suo Assoluto. E se c’era un’altra vita ad aspettarlo, da qualche parte nel corso degli eventi e della storia, allora non poteva fare altro che pregare affinché anche allora con lui ci sarebbe stato Sherlock.
Dopo alcuni secondi, Sherlock gli depositò piccoli baci sul collo, facendolo sorridere per la sensazione di solletico provocata, ma non ebbe la prontezza per sottrarsene.
“Sherlock…”
“Mmm-hmm?”
“Sherlock, non possiamo, dai…”
“Perché no, dottor Watson?” ridacchiò Sherlock zittendo i suoi patetici mugugni con le labbra, spostandosi poi alla mascella e poi ancora alla bocca.
John sorrise ancora di più e fece quasi per lasciarsi andare, ma un minuscolo contenitore di velluto gli saettò in mente. Si ritrasse a fatica, cercando di contenere il desiderio di rimanere lì, col suo fidanzato.
“Su, su, Sherlock.” lo esortò tirandolo su a forza. “Muoversi che manca appena un’ora alla cena.”
“Sì, ma in un’ora si possono fare tante cose, perché semplicemente non riprendiamo dove eravamo rimasti?” rispose con voce provocante l’altro, rifilandogli uno sguardo di sfida.
“Non se ne parla. Ti devi ancora fare la doccia, io mi devo vestire e tutto il resto, poi devo prepararmi…”
“Prepararti non è uguale a vestirsi, infatti.” osservò ironicamente Sherlock, divertito dalla piega che il discorso di John stava prendendo.
“Prepararmi in un altro senso, Sherlock, ma a te non deve importare. Coraggio, fila dentro la doccia e lavati via anche quell’espressione divertita oltre che lo sporco.”
Finalmente l’ex inquisitore si decise a demordere e con un’occhiata maliziosa si guardò allo specchio, constatando il lavoro dell’altro. “Non sei efficiente come barbiere, non mi hai neanche sciacquato la faccia.”
“Ci stavo provando, sei tu che… lascia perdere e sbrigati.”
“Va bene, va bene, basta che te ne vai. O hai intenzione di farmi compagnia? Lo spazio c’è.”
John si limitò ad alzare gli occhi e a masticare un fintamente frustrato Sherlock Holmes, infine si defilò dal bagno, richiudendosi dietro la porta. Una volta solo nella camera, l’adrenalina del grande passo che si apprestava a compiere gli montò addosso e si ritrovò a saltellare allegramente per il vano, intento a disfare lo scarno bagaglio di Sherlock. Una volta trovato quello che cercava, si adoperò per vestirsi in fretta, temendo che l’altro potesse irrompere da un momento all’altro e vederlo con smoking e gel per i capelli. Prima di schizzare via, si osservò compiaciuto allo specchio, uno stupido sorriso felice sulle labbra: sì, si sentiva davvero bene e affascinante, capace di conquistare il mondo con un semplice occhiolino.
“Quando hai fatto, mettiti quello che trovi sul letto e scendi.” urlò contro la porta del bagno in modo che l’altro potesse sentirlo. Non attese la risposta, anche perché con lo scroscio dell’acqua avrebbe avuto difficoltà a sentirla, e uscì dalla camera per osservare da vicino i preparativi. Era trepidante, emozionato – come mai era stato prima – felice – come mai era stato prima – e innamorato – come mai era stato prima.
 
***
 
 
Si rigirava la scatolina sulla tavola minuziosamente apparecchiata, meravigliandosi di come un qualcosa di così piccolo potesse contenere promesse così grandi. Certo, fare la proposta con le fedi nuziali non era il massimo, ma doveva accontentarsi. L’entusiasmo aveva lasciato il posto ad un nervosismo cieco che quasi lo faceva tremare mentre sorseggiava febbrilmente dell’acqua; neanche quando aveva chiesto a Mary di sposarlo era stato così agitato. E tra l’altro, Sherlock era in ritardo di mezz’ora.
Dove diavolo s’era cacciato?
Quasi chiamata da quei pensieri, la sua figura fece improvvisamente capolino sull’uscio della stanzetta a loro riservata. John sgranò appena gli occhi e si trovò a deglutire convulsamente a vuoto, cercando della saliva che non c’era.
Un sorrisetto vincitore sfilò sulle labbra dell’altro che aveva incrociato annoiatamente le braccia e ora lo stava guardando con aria di sfida. Oh, che bastardo.
“Stavo per chiederti come sto, ma credo che non ce ne sia bisogno.” esordì avvicinandosi al tavolo senza cancellarsi dal viso quel maledetto sorriso.
“Oh, Sherlock, sei davvero…”
“Meraviglioso? Grazie, lo so già.”
John corrugò la fronte e incrociò a sua volta le braccia, nella vana speranza che gli conferissero quella sicurezza che dominava sul volto dannatamente incantevole dell’altro. Sapeva che Sherlock era bello, eccome se lo sapeva, ma quella sera era… non sapeva nemmeno descriverlo.
“Mi spieghi cos’è tutta quest’atmosfera? E perché mi hai fatto vestire come un pinguino?”
Il viso del medico s’illuminò di stupore. “Come un… Sherlock, sono abiti tuoi ed è uno smoking!”
“Noto con piacere che non ti sfugge niente come al solito.”
Non sapeva spiegarsi il perché Sherlock avesse indossato quella maschera ironica e saccente che lo contraddistinguevano con gli estranei o con persone che lui non sopportava, eppure il sorrisetto sulle labbra rosee gli comunicava il necessario da sapere, e cioè che quella era una sfida. Sherlock Holmes lo stava sfidando. Del perché, non ne aveva idea, ma sapeva che era così.
“Eccolo qua!” esclamò la voce calorosa di Gary che sfrecciò verso di loro non appena Sherlock si fu accomodato al suo posto. “Non ci siamo presentati – anche se onestamente conosco praticamente tutto di te grazie a John, qui presente.” Ammiccò con aria complice in direzione di John che gli rispose con un’occhiata truce. “Ad ogni modo, io sono Gary.”
“Sherlock.” rispose il consulente investigativo stringendo compostamente la mano che il locandiere gli stava porgendo.
“E’ un piacere conoscerti, Sherlock. Oh, e questo è…”
“Billy.” lo anticipò il compagno, appena arrivato furtivamente da loro, allungando a sua volta la mano. “Vi state godendo l’atmosfera?”
“Sarebbe tutto delizioso se qualcuno si degnasse di darmi qualche spiegazione…” rispose Sherlock scoccando un’occhiata al fidanzato.
“Cristo, Sherlock, ho solo voglia di passare una serata con te!” sospirò il medico alzando gli occhi al cielo mentre intorno al loro si diffondevano le risatine infantile dei due locandieri.
“Non ne consegue che sia quello che voglia anche io, c’hai mai pensato?”
“Adesso stai esagerando…”
“No, sei tu che mi hai trascinato dentro, privato della mia amata barba, spinto in una doccia a forza e fatto vestire come uno stupido pinguino. Ho diritto di essere perlomeno irritato.”
Stavolta, quella di Gary fu una risata grassa vera e propria che andò a contagiare anche il compagno e, in parte, Sherlock stesso. John rimase a bocca semiaperta di fronte a quella risposta secca, ma di nuovo gli occhi dell’altro lo attirarono: erano vivi, splendenti, e lanciavano sprizzi di allegria mista a malizia.
“Scusatelo, di solito non è così.” sospirò in direzione dei due locandieri, accennando loro un sorrisetto. “E’ anche peggio.”
Per la stanza si diffuse una seconda risata che stavolta estraniò il consulente investigativo, intento a giocherellare con i bottoni della giacca scura, gli occhi ora ridotti a due fessure.
“Ad ogni modo.” glissò il medico per non rischiare che si scatenasse un’apocalisse. “Possiamo ordinare?”
“Qualunque cosa, John, offre la casa. Angelo, il nostro cuoco, sarà lieto di dare sfoggio delle sue abilità culinarie.” rispose serenamente Billy.
Ordinarono sbrigativamente, senza neanche prestare troppa attenzione al menù finemente rilegato e aggraziatamente scritto. Quando i due locandieri si defilarono, calò qualche istante di teso silenzio, in cui Sherlock non smetteva di tormentarsi i bottoni e John sorseggiava nervosamente l’acqua, in attesa di una buona bottiglia di rosso.
“Perché ti comporti così?” domandò infine il medico, spezzando il silenzio.
“Così come?” chiese di rimando il consulente investigativo senza smettere di guardarlo come se fosse un trofeo lucido da guadagnarsi.
“Come un idiota.”
Sherlock scrollò innocentemente le spalle, un’espressione angelica improvvisamente impressa sul suo volto prima insolente e tracotante. “Mi annoio…”
“Ti annoi?”
“Mi annoio.”
“Ma… è un appuntamento. Il nostro appuntamento.” balbettò confusamente John.
Sherlock si sporse verso di lui, abbandonando ogni traccia di ironia o di innocenza. “E allora sorprendimi, dottore.”
Si ritrasse appena in tempo per lasciare spazio a Billy affinché poggiasse la bottiglia di rosso chiesta in precedenza dal medico. Gli occhi del consulente investigativo incontrarono l’etichetta e finalmente un’espressione stupita gli sfilò sul viso. A quella vista, John sogghignò.
“Sto cominciando a farlo.” disse solo mentre versava il Merlot in entrambi i loro calici. “E adesso, puoi smetterla di atteggiarti come una prima donna mestruata?”
“Sono ufficialmente offeso.”
Contro ogni aspettativa, in seguito a queste parole all’apparenza fredde se non addirittura acide, la sua mano scivolò sotto quella di John, nervosamente intenta a tamburellare le dita contro il tavolo. Il medico lo guardò attonito, ma dal viso dell’altro era scomparsa ogni traccia di qualunque cosa non fosse lo Sherlock innamorato di sempre. Intrecciò le dita con le sue e si concesse finalmente un sospiro. Come inizio era stato… inatteso e sperò con tutto il suo cuore che la fine non fosse altrettanto… o che lo fosse in senso buono.
Nell’attesa si scambiarono reciprocamente la propria esperienza di viaggio, i momenti più difficili, i momenti più stupefacenti, i momenti in cui non credevano di farcela, e fu così che quando Gary portò loro i piatti richiesti, si trovarono entrambi sorpresi e colpevolmente colti in flagrante a scambiarsi lievi carezze e sguardi amorevoli. Si staccarono di scatto, arrossendo uno più dell’altro e schiarendosi agitatamente la gola.
Gary sorrise tra sé e sé a quella visione, mentre sistemava le pietanze di fronte ai legittimi consumatori, e una volta terminato il suo compito esclamò: “Non temete, non siete più in quel posto. Qui nessuno vi farà del male solo perché vi tenete per mano.”
Sherlock sorrise di rimando, colpito dall’arguzia di quell’uomo. “Dobbiamo solo farci l’abitudine.” biascicò di rimando e riprendendo dolcemente la mano del fidanzato. “Ma forse lo stiamo già facendo…”
Il locandiere si posizionò alle sue spalle e si chinò su di lui, dandogli un’amichevole pacca alla schiena. “Oh, Sherlock, sei proprio un uomo da sposare. Vero, John?”
Il viso del medico si colorò immediatamente della tonalità del vino e si sventolò nervosamente con il tovagliolo lindo, attribuendo quell’inconveniente al Merlot e ai condizionatori del locale, ma l’espressione compiaciuta dell’amico nell’andarsene era semplicemente troppo da gestire. Aveva bisogno di vuotare il sacco. Non ce la faceva più. Così, appena Sherlock fece per portarsi la forchetta alle labbra, lui lo bloccò con un gesto gentile ma deciso della mano. “Sai, la sera in cui ho proposto a Mary di sposarmi, era tutto perfetto.” esordì senza spostare le dita dal polso dell’altro. “Il ristorante era perfetto come questa stanza, il cibo era perfetto come di certo sarà questo, lei era perfetta…” Sherlock poggiò la forchetta sul piatto e gli rivolse uno sguardo annoiato, quasi infastidito, come se il solo ricordo di quello che avrebbe potuto perdere per colpa di quella donna fosse semplicemente troppo doloroso da rivangare. “Anche stasera è tutto perfetto. Io sono perfetto, tu sei perfetto…” Si guardò attorno, contemplando le candele che illuminavano tenuamente la stanza, il buon gusto dell’arredamento, l’atmosfera magica che regnava. “Ma noi non siamo esattamente tipi da perfezione, sbaglio?” osservò poi con un sorriso che crebbe ancor di più quando scorse lo smarrimento negli occhi chiari del fidanzato. Si alzò in piedi e gli porse galantemente la mano. “Se mi vuole seguire, signore.”
Sherlock non capiva e John amava quando Sherlock non capiva, ciononostante le loro mani si strinsero l’una nell’altra e il medico trascinò l’altro fuori dal locale, incurante delle legittime domande dei due locandieri. Cominciò a correre ridendo senza motivo o forse il motivo c’era ma era indiscutibilmente meglio non montare ulteriormente la testa dell’uomo che stava procedendo a passo rapido accanto a lui.
“John, dove andiamo?”
“Pazienza, Sherlock.”
Corsero per le pendici della collinetta, avvolti dal manto di una notte limpida e stellata, assai rara da scorgere altrove, in una città bigia come Londra.
“John… John, il confine…”
“Sì, lo so, fidati.”
Arrivarono a quel maledetto steccato che segnava la divisione fra accettazione e ostilità. Non era una linea immaginaria o un confine naturale, ma un recinto ben delineato che era stato costruito per dimostrare a chi era dentro che fuori nessuno sarebbe stato dalla loro parte, mai. Si fermarono di fronte al cancello, senza fiato e sudati.
“Che razza di follia hai in mente?” ansimò Sherlock. John non rispose e si limitò a camminare all’indietro, verso la fine della loro vita pacifica e l’inizio di quella tormentata e carica di supplizi. “John, per l’amor di Dio, che stai…”
“Devo farlo qui.” lo interruppe tranquillamente il medico una volta che i suoi piedi furono entrambi fuori dal terreno sicuro.
“Fare cosa?”
“Sai, Sherlock, ci sono delle persone – stupide persone, a mio avviso – che credono di poter etichettare ogni persona in base al suo colore della pelle, al suo stato di salute fisica e psicologica, o alla sua sessualità. E in uno schifo di mondo come questo io ti ho incontrato.” Fece una pausa per raccogliere idee e fiato, e l’espressione di Sherlock era semplicemente impagabile. “Ti ho incontrato e mi sono innamorato di te. Siamo passati attraverso tante difficoltà, troppe, eppure siamo qui, insieme e al sicuro.”
“Saresti più al sicuro se facessi un passo avanti…”
“E tutto questo può significare una cosa sola.” lo ignorò John proseguendo col suo discorso accampato sul momento. “Vuoi provare a indovinare?”
“Che se non vieni qui a momenti arriva un inquisitore messicano e ti spara un colpo in testa.”
“Risposta errata.” esclamò di rimando il medico, prendendogli con entusiasmo e timidezza le mani e portandosele alle labbra. “Che siamo fatti per stare insieme, qualunque cosa accada. Che il nostro amore è più forte dell’Inquisizione, del dinamitardo, di tutto.”
Finalmente, gli occhi di Sherlock si riempirono d’amore e commozione. Era bello, bellissimo sotto la luce chiara della luna, con i ricci leggermente spettinati per la corsa e lo smoking che metteva in risalto la sua figura perfetta, da divinità greca.
“E sai anche un’altra cosa, Sherlock Holmes? Stasera non ho ancora avuto modo di dirtelo, ma ti amo e sei così bello da togliere il fiato.”
Un tenero rossore andò ad imporporare le guance del detective che dovette prendere un respiro profondo per regolarizzare quel batticuore impazzito che lo dominava dal momento in cui il fidanzato aveva cominciato a snocciolare quelle parole di miele.
“No... Sherlock Holmes che arrossisce? Sono onorato! Non è una cosa che vedi tutti i giorni.” esclamò John ridacchiando.
“Ma sta zitto…”
“Eh, no, non ancora. C’è un’ultima domanda che devo farti.” Non poteva credere che fosse, infine, arrivato il momento. Ci aveva fantasticato sopra per tutto il viaggio, aveva usato quella flebile speranza come unica fonte di vita, si era aggrappato ad essa con tutto se stesso e grazie a lei era riuscito a percorrere la strada che lo separava dalla sua felicità con l’uomo che amava. La scatolina pesava nella tasca della giacca, fremeva per uscir fuori e conquistarsi ciò che meritava. Così lo fece. Scacciò quei piccoli strascichi di dubbio dati dalle informazioni di Billy e Gary riguardo i matrimoni e tirò fuori la scatolina mentre s’inginocchiava solennemente sotto gli occhi di uno Sherlock semplicemente allibito.
“Sherlock Holmes, e non dirò tutto il nome altrimenti staremmo qui per anni.” Il consulente investigativo ridacchiò appena, senza però smettere di trattenere il respiro di fronte a quella scena apocalittica. “Dicevo, Sherlock Holmes, mi vuoi sposare?” E infine, aprì la scatolina dove i loro anelli scintillavano al chiaro di luna, amenamente, perfettamente. Un sorriso radioso gli aveva allargato le labbra e non si sarebbe sorpreso di trovarsi gli angoli della bocca fino alle orecchie.
Sherlock aprì e chiuse la bocca per svariate volte, un tic irregolare nello sbattere le palpebre, infine, sospirò. “John, io… sono lusingato, ma lo sai come la penso sui matrimoni. Due persone che si amano e che convivono non hanno bisogno di una fede al dito o di stupidi documenti legali per attestare il loro amore. Il matrimonio non cambia le persone.”
John si raggelò sul posto, ancora in ginocchio e con ancora gli anelli in bella vista. L’aveva… l’aveva rifiutato. Era il suo no, la sua maniera carina di dire no. Sebbene si fosse ripetuto che anche senza essere ufficialmente il marito di Sherlock le cose sarebbero state perfette, avvertì un immenso senso di desolazione all’altezza del cuore. Sherlock non lo voleva, non in quel modo, non con il suo nome impresso su di un anello sempre al dito. Si sentiva un completo idiota. Stupido, stupido, stupido! Ma perché non doveva mai dare retta alla parte razionale di se stesso?
Fece per alzarsi in piedi quando Sherlock lo trattenne a terra, un enigmatico sorriso sulle labbra. “Oh, John.” sospirò ridacchiando. “Sei un idiota. Un vero, vero idiota: hai rovinato tutto.”
“Tutto? Tutto cosa?”
“Pensavo di chiedertelo io.” rispose fintamente scoraggiato il detective. “Ma tu devi sempre fare di testa tua… Mi ero preparato un bel discorso e tutto e poi te ne esci dal nulla con Sherlock Holmes, mi vuoi sposare? Sei decisamente una canaglia, John Watson.”
John credette di non aver capito, di essersi perso un passaggio, di essere davvero così idiota da farsi un film mentale per rimediare al rifiuto di Sherlock. Nonostante tutto fosse semplicemente ridicolo, aprì le labbra e diede voce a quella sua speranza. “Chiedimelo.”
Sherlock sorrise, come se non aspettasse altro. “John Hamish Watson” cominciò sottolineando il secondo nome, consapevole di quanto l’altro lo odiasse. “Devi capire che io non sono ai tuoi comandi. Tra l’altro, mi sei sempre stato col fiato sul collo e alla fine un uomo si stufa di non avere margine di iniziativa, di non poter organizzare nulla da solo.”
“Sherlock…”
“E quindi avevo deciso che questa cosa volevo farla prima io, ma tu sei un guastafeste, perciò, ecco.” Da fuori la tasca estrasse a sua volta un cofanetto scuro, elegante. John lo prese e lo aprì, rivelando un anello a banda a larga impreziosito da molteplici pietruzze variopinte. “Vuoi sposarmi, John?” mormorò il detective osservando il fidanzato intento ad ammirare il gioiello. “Tra l’altro, la mia proposta è molto più valida della tua perché io ho l’anello di fidanzamento e tu hai usato le fedi.” John scosse la testa, sorridendo beatamente e alzando finalmente gli occhi sull’altro. “Per farla bene dovrei mettermi in ginocchio ma niente da fare. Ho pur sempre la mia dignità.”
Prima che potesse rendersene conto, si sentì trascinato a terra e si ritrovò in ginocchio, tra le braccia del medico che ora in mano aveva ben due cofanetti.
“Allora? Qual è la risposta?”
“Sei terribile.” mormorò John ridacchiando e baciandolo dolcemente, accarezzandogli il naso con la punta del suo. “E la mia dichiarazione è stata molto meglio, ma… Dio, sì… sì, Sherlock, sì.”
Sherlock sorrise mentre rispondeva ai baci irruenti e gioiosi dell’altro, e anche lui si trovò a pronunciare quelle due lettere, rispondendo a sua volta a quella proposta che gli aveva creato uno splendido subbuglio interiore.
John si staccò, un’espressione improvvisamente grave in volto. “Sherlock… C’è una cosa che devi sapere. Il matrimonio per le coppie gay, anche a Cuba, è un vero inferno da ottenere. Ci vogliono anni di pratiche e pagamenti e pare sia semplicemente logorante e infruttuoso.” Sherlock assunse un’aria pensosa per svariati istanti, infine tolse dalle mani dell’altro il proprio cofanetto da cui estrasse l’anello, e glielo fece scivolare sull’anulare della mano destra.
“Si mette a sinistra, scemo.” lo canzonò il medico contemplandosi con aria perduta il dito.
“Ne hai bisogno.” replicò Sherlock alzandosi e tirando con sé John, riportandolo all’interno del recinto. Si schiarì la gola e lo guardò intensamente, le labbra nervosamente arricciate. “Quello che sto per fare comprometterà decisamente la dignità che ho cercato di mantenere intatta durante la proposta… ma credo che se ne sia andata quando ho deciso di rispondere ai tuoi flirt, tempo fa.”
“Ah, i miei flirt.”
Sherlock lo ignorò e si aggiustò seriamente la giacca, come a volersi preparare per qualcosa di importante. “Bene, dunque… Amici e amiche, siamo qui per vedere due anime unirsi assieme mediante il sacro vincolo matrimoniale.”
A quelle parole, meraviglia e sbigottimento si accamparono sul volto di John. “Sherlock, che stai…”
“Prima di continuare, chiedo a voi sposi se siete qui per vostra spontanea scelta o se qualcuno vi ha costretti.” Il detective, prima di fronte al promesso sposo, balzò al suo fianco. “Sono qui per mia totale volontà.” Il medico lo guardò con occhi sgranati. “Allora, John? Non abbiamo tutta la notte.”
“Ah, ehm, ecco… Sì, sono qui di mia volontà.”
Con un secondo salto, Sherlock si portò di nuovo di fronte a lui. “Bene, tralasciamo le inutili acclamazioni verso il Padre Eterno e l’Inquisizione e arriviamo al dunque.”
John scoppiò a ridere e si passò una mano sul volto ancora incredulo. “Sherlock, sei un pessimo celebrante, lasciatelo dire.”
“Silenzio. E ora, Sherlock Holmes, pronuncia pure i tuoi voti coniugali al qui presente John Watson. Giura di dire tutta la verità, niente altro che la verità e solo la verità.”
“Ma cosa c’entra la formula che si usa durante i processi?” rise il medico osservando il promesso sposo tornare al suo fianco.
“Stai rovinando l’atmosfera.” lo redarguì il detective.
“Va bene, starò zitto e ti asseconderò in questa follia.”
“Grazie.” sospirò Sherlock. Puntò lo sguardo a terra per svariati istanti, le mani che si torcevano l’una contro l’altra. John lo guardò mentre cercava le parole, mentre si preparava a mettere a nudo la sua anima sotto quel cielo stellato, ai piedi di quella collinetta. Sherlock Holmes, il cinico Sherlock Holmes, gli stava regalando il matrimonio più bello di sempre, un matrimonio vero, un matrimonio che li vedeva uniti contro ogni altra cosa, perché erano sempre stati loro due soli. Non avevano bisogno di testimoni, celebranti, familiari… Anzi, non avevano bisogno di nulla se non l’uno dell’altro. “Io, Sherlock Holmes, giuro solennemente di amarti, di non tradire mai la tua fiducia, in alcun modo, di assisterti in salute, nella malattia e in qualunque difficoltà, ogni volta che ne avrai bisogno, fino alla fine dei miei giorni.”
John ammirò quel volto serio, quegli occhi meravigliosi e avvertì di essere sul punto di piangere, di crollare a terra e ringraziare qualunque entità superiore – se c’era – per aver permesso loro un momento come quello dopo e nonostante tutti i loro difficili trascorsi.
“John, dovresti pronunciare anche tu il giuramento, avanti.” sibilò il detective, visibilmente ansioso.
Lui annuì e lasciò che fosse il suo cuore, prima che la sua testa, a far muovere quelle labbra tremanti da cui presto sarebbe probabilmente fuoriuscito un dolce singhiozzo. “Io… John Watson, prometto di amarti con tutto me stesso, di esserti sempre fedele, di rispettarti sempre e… di credere sempre e per sempre in te, qualunque cosa accada.”
Si rifletterono l’uno negli occhi dell’altro per istanti interminabili, anche gli occhi di Sherlock era adesso umidi di lacrime di commozione e di gioia.
“Sherl? Dovresti continuare. Cioè, non tu, il celebrante che è in te.”
Il detective si riscosse e balzò nuovamente nella sua postazione da funzionario. “Ora che le promesse sono state pronunciate, scambiatevi gli anelli nuziali.”
John estrasse prima quella su cui era scolpito il proprio nome, e prese la mano dell’unica persona che aveva mai amato, di nuovo accanto a lui. Osservò come l’anello filava perfettamente su quell’anulare lungo e aggraziato, da violinista, e finalmente una lacrima sfuggì al suo controllo. Sherlock la catturò con le labbra, appena sotto all’occhio, e gli accarezzò delicatamente la guancia, poi prese l’anello destinato a John e glielo infilò sull’anulare sinistro. Le loro mani, unite, risplendettero grazie alle fedi che si mostravano con superbia sotto il cielo e le stelle e la luna, sfoggiando la loro importanza e la loro bellezza.
Le loro labbra si unirono con passione e foga, mentre si stringevano l’uno contro l’altro.
“Sherlock, non hai pronunciato proprio la parte più importante…” sussurrò John tra un bacio e l’altro.
“Dichiaro che sei mio marito e che quindi ora ho il fottuto diritto di baciarti e fare l’amore con te.”
Il medico rise senza però interrompere quella danza che le loro labbra stavano inscenando le une sulle altre, lasciando che la giacca gli sfilasse via dalle spalle e che le sue dita prendessero a sbottonare con desiderio la camicia di suo… marito. Sherlock si staccò appena, ghignando, e, una volta preso per mano il suo sposo, lo trascinò con sé verso il piccolo boschetto che cresceva spontaneamente alla base della collinetta.
“Niente camera calda e letto comodo, eh?” osservò John con una mezza risata.
“Sei noioso. E poi è la nostra prima notte di nozze, ci vuole qualcosa di speciale.”
“Cosa c’è di più speciale di un prato, abeti e cespugli vari?” ironizzò il medico prima guardandosi intorno, e poi tirando a sé l’altro, una dolce risata che gli spezzava il fiato. “Estremamente romantico, non c’è che dire. Solo a Sherlock Holmes poteva venire in mente un’idea del genere.”
“A quanto pare non hai perso l’abitudine di parlare troppo quando facciamo l’amore.” osservò di rimando Sherlock scuotendo appena la testa, ma appena terminò la frase John lo spinse contro il tronco di un albero, completando la sua opera di privarlo della camicia.
“Come vuoi.” disse semplicemente baciandogli l’incavo tra il collo e la spalla. “Passiamo ai fatti.”
Fu divertente spogliarsi in quel posto, con l’adrenalina pura che pompava nelle loro vene, con l’eccitante paura che sarebbe potuto arrivare qualcuno e beccarli in quello stato. Sherlock si abbandonò a terra e, tirandolo per il polso, invitò John a stendersi sopra di lui e a continuare a baciarlo e ad accarezzarlo. Fecero l’amore come la prima volta, in lontananza potevano quasi udire echeggiare quel brano di Ennio Morricone, in bocca ancora il sapore del Merlot, gli impacciati passi di danza ancora fra di loro. La loro felicità si trovava racchiusa fra quelle labbra e quei corpi fusi assieme come un metallo inscindibile. Amore. Era questa l’unica parola a cui valesse la pena pensare. Che cos’era mai l’odio del mondo intero in confronto a quell’agglomerato indistricabile e invincibile che li abbracciava, che muoveva i loro corpi, le loro menti e i loro cuori? Nulla più che un brutto ricordo, un graffio su una vecchia e amata foto, una piccola screziatura su una pagina del proprio libro preferito, un’imperfezione insignificante sulla filigrana di una meravigliosa vita intera. Amore. Sempre. Per sempre. Solo amore. Solo due cuori e niente più.
 
***
 
Era stato difficile dire addio a Gary e Billy, anche se nessuno di loro aveva osato definirlo tale. Tutti e quattro l’avevano spacciato come un banale arrivederci per cui non spendere neanche chissà quante parole, ma la verità era celata radicalmente nel profondo dei cuori di ognuno. Così, dopo che si scambiarono degli abbracci calorosi e fraterni e che i novelli sposi montarono sul fuoristrada dell’amico che i due locandieri avevano contattato, Sherlock lasciò andare il capo contro la spalla di suo marito e mormorò: “Sai che non li rivedremo più, vero?”
John si limitò ad annuire e a far scivolare la sua mano in quella di Sherlock. Quante persone avevano lasciato indietro per stare insieme? Davis… Greg… Molly… la signora Hudson… Mycroft… Clara… Gary… Billy… Un elenco infinito di nomi talmente importanti e lontani da opprimerli con efferatezza. Restarono così per l’intero viaggio, osservando fuori dal finestrino immagini e panorami così distanti dalla bolla di felicità che si era creata intorno a loro. Finalmente, all’orizzonte, dopo una buona ora di macchina, comparve la linea azzurra del mare, col suo odore di salsedine e il suo vento di libertà. Scesero in fretta, ringraziando cordialmente l’amico di Gary e Billy e raccomandandosi di portar loro i migliori auguri, e infine si diressero verso la biglietteria, scoprendo con sollievo che, almeno per quel giorno, non vi erano molte persone.
John si avvicinò alla ragazza che vendeva pazientemente i vari biglietti. Con la mano, indicò il numero due, sperando che bastasse per farle capire e lei fu rapida ed efficiente: una volta consegnatole i permessi di espatrio forniti da Mycroft, porse loro i biglietti richiesti.
“Uno alla volta.” masticò col suo inglese stentato e indicò loro le zone di controllo. Il medico le sorrise e la ringraziò, poi sgattaiolò di nuovo da Sherlock, mostrandogli i frutti della sua breve spedizione.
“Dobbiamo andare uno alla volta.”
“Non è un problema. Oh, guarda… i biglietti sono numerati. Pare che tu sia il ventottesimo e io il ventinovesimo. Tocca a te ad andare per primo, tesoro.”
John roteò gli occhi e sospirò. Nonostante fossero ormai fuori Londra, aveva sempre questa paura folle che vi potesse essere qualcuno, nascosto da qualche parte, pronto a tendere loro un’imboscata. “Possiamo sempre fare a cambio biglietti, caro.”
“Il destino ha voluto così, amore.”
Entrambi scoppiarono a ridere e si diressero verso gli imbarchi verso l’isola. “Ora fa strano, ma è… inaspettatamente bello sentirti chiamarmi così.”
“Non ti ci affezionare troppo, mio adorato.”
“Non lo farò, maritino mio.”
Di nuovo, le loro risate echeggiarono per tutto il porto e si persero nell’infrangersi delle onde sulla battigia. “Questo era davvero troppo.” osservò Sherlock.
“Per una volta sono perfettamente d’accordo con te.” assentì l’altro porgendo il proprio biglietto al controllore. Una volta ricevuto il permesso di passare, John, prima di imboccare la scala mobile che conduceva all’interno del ventre d’acciaio della nave, si voltò a guardare suo marito.
“Dai, aspettami dentro.” lo incalzò Sherlock con un sorriso incoraggiante e scoccandogli un occhiolino complice. Il medico annuì e, dopo alcuni istanti brevi, troppo brevi, si trovò costretto a montare sui gradini metallici e a lasciarsi trasportare verso l’interno della nave.
Il detective rimase immobile a guardarlo diventare sempre più piccolo. Un raggio di sole catturò il suo sguardo e, da lontano, intravide la fede, la fede che portava il suo nome, e istintivamente guardò anche il suo, di anello. Avrebbe voluto sfilarselo e accarezzare i contorni di quel nome che ormai per lui rappresentava ogni cosa, ma si disse che sulla nave avrebbe avuto tempo per lasciarsi andare a stupidi sentimentalismi. Alzò nuovamente gli occhi e constatò con un sorriso che il suo piccolo medico era quasi giunto dentro.
Accadde tutto all’improvviso. Un lieve fastidio al collo annunciò ogni cosa. Si toccò il punto interessato e tra le sue dita intravide una piccolissima limetta di ferro. Avvertì il suo corpo svuotarsi di ogni energia e si ritrovò supino, uomini col capo velato da un passamontagna stavano cercando di immobilizzargli le gambe. Cercò di opporre resistenza, ma era troppo debole… troppo debole e indifeso e la vista cominciava ad offuscarglisi. L’ultimo pensiero che gli svettò in mente era che John era sulla nave, al sicuro, almeno lui. Poi qualcosa gli ronzò nelle orecchie con insistenza. Un nome.
Sherlock… un nome, il suo nome. Un nome urlato. Oddio. Ricacciò indietro la nebbia, per quanto possibile, in tempo per vedere la figura di suo marito correre giù per la scala mobile, urlando il suo nome. Avrebbe voluto gridargli di stare indietro, di salvarsi, che lo amava, ma il buio fu più veloce e lo inghiottì con le sue fauci di tenebra.

SPAZIO AUTRICI
Aaaallooora! Che macello, ragazzi, che macello. E' frustrante scrivere/leggere della coronazione finale di una storia d'amore per poi ricevere una tale batosta finale. Soffriamo anche noi, sul serio. Ad ogni modo, non c'è molto altro da dire se non risparmiateci gli anatemi, scusate per lo shock, fateci sapere che ne pensate e a sabato prossimo!!!

 

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Capitolo 24
*** CAPITOLO 22 ***


CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 22
 

Sherlock riebbe a poco a poco. Un martello invisibile sembrava volergli spaccare la testa. Impiegò qualche istante a focalizzare l’ambiente attorno a lui: una stanza dalle pareti di un bianco abbacinante, rischiarata da una prepotente luce a neon.
Quando il dolore si placò un pensiero svettò nella sua testa ancora più luminoso e nitido di quella sala.
“John!”
“Ehi, sei sveglio.”
Una voce distorta giunse alle sue orecchie come un fischio, un frastuono trapanante. Si voltò di scatto e – davanti a lui – comparve chiara e stupenda la figura di John: se ne stava inginocchiato a terra, la tempia imbrattata di un liquido rappreso… Cristo, no. Si avvicinò a lui strisciando sul pavimento, ancora scosso dallo smarrimento e dalla nausea. Fece per gettargli le braccia al collo ma sbatté contro qualcosa di invisibile ma terribilmente concreto.
“Ma cosa...”
“Una parete di vetro, Sherlock.”
Sherlock fissò John con occhi addolorati e protese una mano verso di lui, incontrando l’insormontabile muraglia che li divideva. Il medico sorrise appena e poggiò la sua su quella dell’altro.
Incredibile come l’astratto possa diventare concreto. Per anni si erano sentiti distanti l’uno dall’altro, nonostante fossero vicini. Per lunghi giorni avevano avuto come l’impressione che fra di loro ci fosse stato qualcosa a bloccarli, sebbene ogni loro parola e ogni loro gesto arrivasse con violenza al cuore dell’altro. Per troppo tempo John Watson e Sherlock Holmes avevano rinunciato l’uno all’altro a causa di una barriera inesistente. E ora che sapevano di non poter più star lontani, separati, ora che sapevano che i loro sentimenti avevano bisogno di essere gridati e ascoltati, una stupida parete di vetro impediva alle loro dita di intrecciarsi assieme. Sherlock rimase immobile a fissare la persona per cui aveva rinunciato a tutto, la persona che gli aveva ridato un cuore, uno scopo, la felicità. Era tutto sbagliato nella presenza di John lì. Non sarebbe dovuto essere lì. Sarebbe dovuto trovarsi al sicuro sulla nave per Cuba, dove nessuno, nemmeno un Holmes, avrebbe potuto scalfirlo.
“Non dovresti essere qui.”
“Neanche tu.”
Sherlock sospirò mentre la sua mano si chiudeva a pugno su quella del medico. “Saresti dovuto scappare. Saresti dovuto vivere.”
“Che razza di vita sarebbe senza un idiota come te?”
Sorrise, ma qualcosa gli corrodeva l’anima, qualcosa che neanche la presenza di John Watson poteva scacciare.
“Lo capisci che l’unica cosa di cui mi importi davvero sei tu? Saperti in salvo avrebbe reso tutto più semplice, cazzo! Perché devi sempre essere così testardo?”
“Non fare l’idiota, Sherlock Holmes, avresti fatto lo stesso.”
Tacquero entrambi e rimasero immobili, le loro dita lontane, troppo lontane, i loro corpi lontani, troppo lontani, i loro cuori lontani… O forse no. Forse quello stupido muscolo che pompava il sangue per tutto l’organismo funzionava ancora, riceveva ancora forte il segnale dell’altro.
“Sherl?”
Sherlock alzò gli occhi e incontrò lo sguardo stanco di John.
"Che cosa succede adesso?"
Tacque, sopraffatto dalla paura e dall’ignoto. Se solo quello sciocco che amava con tutto se stesso fosse stato al sicuro...
“Succede che niente e nessuno ci dividerà.” rispose dopo un po’.
John sorrise, ma la botta che quegli uomini gli avevano inferto aveva ricominciato ad offuscargli i sensi. La vista si era fatta più appannata, le ginocchia tremavano sotto il peso del suo corpo. Cadde seduto a terra, le spalle poggiate sul vetro. Prese ad ansimare cercando di scacciare quella sonnolenza che lo stava avvolgendo seraficamente nelle sue spire.
Sherlock appoggiò la sua schiena contro quella di John e restarono in silenzio per alcuni istanti. Ad un tratto, Holmes udì un colpo sul vetro e quando voltò appena la testa vide che il dorso della mano di John era appoggiato sulla parete. Le sue dita corsero in quella direzione come se non fossero state create per far nient’altro se non seguire John Watson.
“Hai paura?” domandò Sherlock.
“Non finché siamo insieme.”
Come faceva a dire sempre quelle cose così banali eppure così traboccanti di verità? Quanto lo amava... Quanto aveva paura di perderlo… Che cosa lo aveva reso, John Watson?
“Io invece ne ho. E tanta. Mi hai donato così tanta gioia, così tanto amore, che ora ho paura che tutto questo finisca.”
“Non finirà.” replicò pacatamente l’altro. “Non finirà mai, Sherl. Te lo prometto.”
Sherlock sorrise e un’ondata di sollievo lo investì. “Ti amo, John.”
Dall’altra parte del vetro, John ridacchiò. “Qualcosa mi dice che è proprio questo il problema.”
“No, John, dico davvero. Qualunque cosa succeda là fuori...ricordati che ti amo. Non voglio lasciare niente in sospeso fra di noi.”
Il medico si voltò. “Che vuoi dire?”
“Io, l’esecuzione di quelle due donne, me la ricordo ancora... Lauren e Kate. Dovevano amarsi tanto... Prima che i soldati facessero fuoco, Lauren ha gridato a Kate che l’amava...ma Kate non è riuscita a rispondere...Non voglio essere come Kate, non voglio morire senza che tu sappia che ti amo e che se devo morire, allora sono felice di morire con te.”
John si inginocchiò nuovamente e appoggiò la fronte al vetro. “Ti amo anch’io, e continuerò a farlo qualunque cosa accada.”
Sherlock, in risposta, accostò a sua volta la fronte alla parete. Restarono così per pochi istanti.
Un urlo. Non di dolore. Non di paura. Un ordine.
“In piedi!” sbraitò un uomo dall’aria truce mentre entrava nella stanza e puntava il suo kalashnikov contro Sherlock. “Avanti!”
Sherlock non si mosse, restò con gli occhi fissi in quelli terrorizzati di John. Due soldati, però, lo presero di peso e lo trascinarono lontano dalla parete. Lontano da John.
“SHERLOCK!”
“Lasciatemi! Lasciatemi, ho detto! John!”
La porta si richiuse e le sue stesse grida gli rimbalzarono addosso come i pugni di un pugile.
 
***

Rimase immobile a fissare l’altra metà della stanza con occhi inespressivi. John Watson era morto. Morto dentro. L’avevano portato via... Avevano portato via Sherlock…
No, no, NO! NON POTEVA FINIRE COSÌ! Doveva rivederlo. Un’ultima volta. Doveva.
“Ti prego Dio, non lasciarlo morire. Almeno lui.”
 
***
 
Si dimenava brutalmente, così tanto che dovettero unirsi altri due energumeni per farlo camminare per i corridoi d’acciaio e semibui che correvano simultaneamente l’uno verso l’altro a comporre un mandala di interstizi e di vicoli ciechi. Un vero e proprio labirinto. Riconosceva quel posto. Erano le prigioni dell’Inquisizione. Lo trascinarono fino a che, dietro ad una cartina gigante su cui erano segnati gli attuali imperi in diversi colori, non comparve un pertugio rettangolare. Delle altre guardie accorsero e lo presero in custodia, strattonandolo per un edificio assai più maestoso e traboccante di lusso: Buckingham Palace. La sua mente, sebbene risentisse ancora del soporifero che gli avevano iniettato, cominciò ad elaborare il percorso che gli stavano facendo imboccare. Un brivido percorse la sua schiena e un’oscura, amara consapevolezza si fece largo in lui. Non poteva essere… Non poteva semplicemente essere…
E invece si arrestarono proprio di fronte a quelle maledette porte intarsiate d’oro. Non riusciva a crederci, a credere di essere stato tradito proprio da lui. I due inquisitori che se ne stavano impettiti a sorvegliare l’entrata allo studio dell’uomo più potente del Paese se non dell’Europa intera, si esibirono in un rigido saluto militare a cui gli energumeni che lo bloccavano risposero frettolosamente. Sherlock poteva avvertire ogni centimetro del suo corpo ardere di rabbia; un’ira incontrollabile scavò nel suo petto.
John. Doveva portarlo via. Si divincolò per l’ennesima volta, stavolta con estrema violenza, riuscendo a sbattere uno dei suoi carcerieri contro una parete. Cercò di farsi largo approfittando dello smarrimento degli altri, ma un paio di mani forti lo tirarono animalescamente per il colletto della camicia, rischiando quasi di soffocarlo. Si trovò a terra, il respiro irregolare e un senso di impotenza che gli crepitava dentro.
I due inquisitori non degnarono quel patetico tentativo di fuga neanche di un minimo di turbamento e si limitarono ad aprire le massicce porte che sorvegliavano.
Con un calcio, i suoi custodi lo sbalzarono a un paio di metri di distanza, all’interno dello studio del Capo Supremo dell’Inquisizione. Rantolava, il sapore di sangue gl’impastava la bocca, con una mano allo stomaco cercò di attenuare quel dolore che, lentamente, si diffondeva per tutto il suo corpo ormai quasi pienamente libero dell’anestetico.
“Piano, piano. Abbiate un po’ di riguardo. E’ pur sempre un Holmes.”
Con fatica immane, alzò lo sguardo sull’individuo che aveva appena parlato. Sgranò gli occhi e dovette sbatterli ripetutamente per accertarsi che la vista non cominciasse a giocargli brutti scherzi. E invece era lì, proprio lui, l’ultimo uomo che avrebbe mai pensato potesse trovarsi in quella stanza, seduto a quella scrivania.
“E’ da un po’ che non ci vediamo, non è vero signor Holmes?”
La sua voce era sempre, disgustosamente piatta. Nessuna emozione vi si rifletteva, così come nei suoi occhi. Lo guardò prima con confusione, confusione che lentamente sfociò in una smorfia di odio e di ripugnanza.
“Dov’è Mycroft?” ringhiò passandosi il dorso della mano sul labbro. “Dov’è mio fratello?”
Magnussen distolse lo sguardo e prese a giocherellare con quello stupido globo di vetro che racchiudeva una miniatura approssimativa del Big Ben innevato che per quanto in passato Sherlock lo avesse trovato insensato e infantile, ora non riusciva neanche lontanamente a tollerare che qualcuno all’infuori di suo fratello lo toccasse.
“Temo che abbia combinato qualche sciocchezza. Pare si sia schierato dalla parte sbagliata, alla fine.”
“E quale sarebbe la parte giusta? La tua?” replicò acidamente.
Magnussen ridacchiò, scoprendo quei denti abbacinanti, così simili a quelli di un vampiro. “No, non la mia. Io sono dalla parte giusta, ma non è la mia.”
“Chi? Chi c’è a capo di tutto questo?” Il sorriso viscidamente divertito del giornalista lo indusse a riflettere, a spremere la sua mente stanca e provata, a ricercare in se stesso la risposta. Si guardò faticosamente attorno e le sue labbra guizzarono impercettibilmente verso l’alto. “Oh… E’ qui, non è vero? Ci sta osservando…”
La sua deduzione venne assorbita da un sorriso d’assenso. Attese, le mani scosse da un tremore appena visibile. Infine, una corrente d’aria, l’ampia tenda rossa venne scossa da un alito di vento e una lieve brezza s’insinuò all’interno dello studio. Si voltò verso la mastodontica porta finestra e, ancora mezza celata dietro il tendaggio, intravide la figura di un uomo.
“Ti ho dato il mio numero. Pensavo mi avresti richiamato.” Con un plateale gesto della mano, il nuovo arrivato scostò teatralmente la tenda, rivelandosi finalmente agli occhi confusi di Sherlock. Un ometto non troppo alto, mingherlino, il volto pallido, gli occhi scuri, addirittura vuoti… Dove? Dov’è che l’aveva già visto? Il suo numero… Fu un flash. L’immagine di quell’idiota del fidanzato di Molly che ci aveva provato con lui dominò nitidamente nella sua testa. “Jim Moriarty. Ciao!” Il tizio in questione prese a camminare felinamente verso di lui, un sorrisetto insolente sulle labbra, come un predatore pronto a scattare e ad azzannare la sfortunata vittima. “Jim? Jim del covo degli Incompleti? Ho fatto un’impressione così scialba? Ma d’altronde… credo fosse esattamente questo l’intento.”
Sherlock cercò di rialzarsi ma una delle guardie gli premette un piede tra le scapole e lo costrinse a terra, la faccia schiacciata contro la moquette scarlatta. “Sei tu… vero? Sei sempre stato tu. Dietro a tutto questo…”
“Oh, piccolo Sherlock… Ma certo! E considera che ti ho fatto dare solo una piccolissima occhiata di quello che posso fare in questo grande mondo crudele. E devo dire che mi sono divertito.”
“Che cosa vuoi da noi?”
“Da voi? Oh, no, Sherlock, da voi non voglio assolutamente niente, è di te che ho bisogno.”
Cercò di sgusciare via da sotto quella scarpa pesante e dolorosa che lo premeva a terra come un mero scarafaggio. Aveva difficoltà a respirare, a pensare, ad elaborare un piano per tirarsi fuori da quella situazione – o se non altro, di tirare fuori John. “Bene…” cercò di sussurrare, ma era debole e terribilmente stanco, non riusciva più a inalare uno spiffero d’aria. Con la coda dell’occhio notò Moriarty levare in aria una mano e subito il peso esercitato sulla sua schiena si affievolì. La porta dello studio si richiuse, inghiottendo i passi delle guardie che l’avevano tenuto prigioniero per tutto quel tempo. Spalancò la bocca e si portò una mano alla gola, l’aria che finalmente ricominciava a fluirgli nei polmoni brucianti. Deglutì a vuoto, sondando il suo stesso corpo, e non gli sembrò improbabile che quel calcio poderoso avesse potuto compromettergli una vertebra. Strinse i pugni: quell’uomo aveva il completo controllo su di lui. Era snervante osservare quella malizia che dilagava sul suo volto malefico.
“Bene.” ripeté, provando ad imprimere nella sua voce un tono scuro e autoritario. “Se è me che vuoi, lascia andare John. Uccidi me, ma liberarlo.”
“Ucciderti?” reiterò Jim con una smorfia pressoché schifata. “No, o meglio, ho intenzione di ucciderti comunque, prima o poi, ma ora mi servi.”
“Ti prego, ti… ti scongiuro: prendi me ma permettigli di andarsene, di vivere finalmente la vita che merita, lascia che vada a Cuba.”
Moriarty e Magnussen si scambiarono uno sguardo complice, infine scoppiarono entrambi a ridere.
“Cuba…” bisbigliò il giornalista tra le risa. “Oh, signor Holmes, lei ha dormito un po’ troppo.” Detto questo, premette un pulsante sulla sua scrivania e, dal nulla, si materializzò lo schermo gigante di un’ipotetica televisione. Sulla sua superficie semitrasparente, immagini e notizie scritte a caratteri cubitali: città fantasma, strade principali ricoperte da cadaveri dagli occhi vitrei, spore di un colore indefinito fluttuanti per gli edifici spettrali.
 
CUBA COLPITA DA SEI POTENTI GRANATE INGLESI.
 
“Che… che cos’avete fatto?”
“Oh, il caro Victor… Mi è stato così utile, pace all’anima sua.” sospirò Moriarty appoggiandosi alla scrivania e osservando placidamente quei fotogrammi di morte come se rappresentassero una fiera invece che una strage. “Ti ha parlato del progetto GA – Global Annihilation?”
Victor? Aveva accennato a qualcosa, sì… ad un veleno potentissimo in grado di spremere via la vita da una città intera senza distruggere per forza ogni cosa. E poi, aveva parlato di una guerra incombente.
“In quelle bombe è contenuto un veleno così meravigliosamente letale… Oh, ed è anche stato potenziato da quando siete partiti. E’ bastato buttarne una sull’Avana per annientare qualunque essere vivente. Non c’è formica in quella città che sia ancora in vita.”
“Perché?” sussurrò Sherlock con voce spezzata.
Jim scrollò le spalle. “Sai, Sherlock, voglio confessarti un segreto… Un tempo, anche io ero come te, pieno di risentimento verso il Governo, un ribelle. Ma poi ho capito che potevo fare di meglio che rovesciare il potere. Potevo appropriarmene. Ed eccomi qui, in tutta la mia magnificenza. Sono anni che tesso una trama di unioni con intelligence, cellule terroristiche… Oh, fanno sempre a gara – papà vuole più bene a me – le persone normali non sono adorabili?”
Sherlock immerse il suo sguardo in quello vacuo di un bambino dagli occhi di porcellana, spenti e opachi come quelli di una vecchia bambola. Come poteva essere così semplice togliere la vita a così tante persone? Come poteva una mente umana anche solo concepire un abominio simile?
Sul fondo dello schermo, lampeggiava pazzamente un dato: sei milioni di morti. Sei milioni… quanti erano sei milioni? Con sei bombe, sei milioni di persone avevano perso la vita, strappate dalla loro quotidianità all’improvviso e senza ragione.
“Guarda, Sherlock. Guarda quanto potere. Io possiedo la chiave di questo potere… ma ho bisogno di te. Ho un disperato bisogno di te.”
Una ragazzina dai lineamenti orientali campeggiò sull’intero schermo, la bocca digrignata verso un sole di cenere e un cielo che vomitava morte. Aiutarlo? Aiutare quel folle a compiere simili oscenità?
“Ti aiuterò.” decretò infine. “Ma solo se libererai John e lo lascerai vivere in pace.”
La risata di Moriarty lo schiaffeggiò in pieno volto. Astrasse lo sguardo dalla morte imprigionata in quelle immagini, per puntarlo su quell’ometto così piccolo eppure così grande. “Oh, Sherlock… Forse non hai ancora capito. Comando io, non sei tu ad avanzare compromessi.”
“Bene, e allora farete a meno di me e del mio cervello. Non farò niente finché non saprò che John è al sicuro.”
“Sherlock, Sherlock…” sospirò ancora Jim, scuotendo rassegnatamente la testa, a mo’ di rimprovero. Dietro di lui, Magnussen scivolò con passo felpato verso una parete ricoperta da un quadro gigantesco raffigurante la figura austera di Siger Holmes. “Devi ancora imparare a conoscermi… Ma sono sicuro che ci sarà tempo, mio caro.”
Il ritratto si animò improvvisamente, scorrendo lungo dei cardini invisibili, rivelando una seconda porta segreta. Sherlock sbatté gli occhi ripetutamente: non ricordava quel passaggio, né Mycroft o suo padre gliene avevano mai parlato.
“Tranquillo, non sforzare la tua mente già debilitata per ricordare qualcosa che non puoi ricordare: ho fatto costruire io questa porta e la stanza che sto per mostrarti.”
Si tirò su tentando di dissimulare la smorfia di estremo dolore che gli corrugava il volto in un’espressione debole e sofferente, per evitare di apparire ancora più assoggettato di quel che era già. Arrancò in direzione dell’accesso al vano segreto sotto gli occhi famelici di Moriarty e lo sguardo vacuo di Magnussen. Si sentiva come un pesciolino rosso all’interno di una vasca intera di squali che si stavano godendo le sue disgrazie e la sua inferiorità prima di azzannare. S’infilò nel pertugio e si ritrovò in un antro scuro, a malapena illuminato. Non era esageratamente grande o elaborato, anzi, sembrava quasi un cunicolo scavato nella roccia come quello di una caverna, con solo una parete sormontata da un finestrone che dava su un secondo vano ancora più soffocante, con due poltrone dai braccioli che ospitavano lugubri intrichi di cinghie di cuoio.
“Bene!” esclamò Moriarty, dietro di lui, battendo le mani con soddisfazione, come un bambino di fronte ad un regalo enorme da scartare. “E’ arrivato il momento di mostrargli il giocattolino, Charles.”
Magnussen si limitò a sorridere e a leccarsi le labbra mentre si portava una mano all’orecchio dove gli occhi di Sherlock intercettarono un piccolo auricolare di ultima tecnologia. “Siamo pronti.”
Non dovettero aspettare molto perché la porticina che si intravedeva dall’altra parte del vetro si spalancasse, rivelando un paio di figure completamente nere, col volto celato, trascinare con loro un bambino in lacrime e una giovane donna che urlava disperata, la mano disperatamente protesa verso il figlio. I tizi in nero li separarono brutalmente e li strattonarono verso le poltrone a cui li allacciarono mediante il sistema di cinghie. Nella stanza entrò un’ultima figura, anch’essa scura, ma a differenza delle altre non indossava alcun passamontagna ma solo una cuffia pesante ficcata prepotentemente sul capo. Si avvicinò al vetro, brandendo minacciosamente la pistola che stringeva in mano. Una donna. Occhi chiari, ciocche bionde ribelli che s’intravedevano dalla cuffia. Sherlock spalancò appena gli occhi e nonostante sapesse che non poteva sbagliarsi, cercò di convincere se stesso che le cose non stavano realmente così. Non poteva essere. Non poteva essere…
“E così sei tu. Finalmente ci conosciamo.” sputò con acidità la nuova arrivata. “Sei tu il bastardo che mi ha portato via mio marito.”
“Deduco che tu sia Mary.”
“Rosamund. Rosamund Mary Morstan.” si presentò lei volgendo poi gli occhi in direzione di Moriarty. “Oh, Jim, ti prego, permettimi di fargli un buco di proiettile da qualche parte. Non sai da quanto aspetto questo momento.”
“Suvvia, Rosamund, lui è con noi. Per altro, da morto non sarebbe né così affascinante né così utile...”
Lei scrollò appena le spalle. “E chi ha parlato di ammazzarlo? Mi basterà sparargli un colpo nell’addome. Avanti, lo sai che sono brava e non ti ho mai deluso.”
“Sarà per un’altra volta, mia cara.” Moriarty si girò a contemplare con appagamento lo smarrimento negli occhi di Sherlock. Gli si avvicinò e si piegò lievemente in avanti, sfiorandogli l’orecchio con le labbra. “Hai visto, Sherlock? Hai visto cosa sono in grado di fare? Sono riuscito a riunire sotto di me il Napoleone del ricatto, un’assassina addestrata dalla Cia, un tassista disperato per la lontananza dei figli e di grande intelligenza, un chimico dotato di straordinarie abilità… E’ una ragnatela, Sherlock. Un’immensa ragnatela su cui tu hai camminato finora e su cui stai camminando tuttora. Strabiliante, non trovi?”
“Hai il potere, hai in mano l’intera Nazione, che cosa vuoi da me?”
“Oh, Sherlock, io non voglio limitarmi a possedere un banale Paese come il nostro, no, no, no, no… La mia non è semplice brama di conquista, io voglio dimostrare all’America, all’Arabia, alla Russia, alle più grandi potenze mondiali che io sono il più potente. Voglio vedere quei ridicoli vertici dei Governi strisciare a terra a leccarmi i piedi.”
La mano di Jim si serrò attorno alla spalla di Sherlock che, colto da un moto di repulsione, provò ad allontanarsi, ma le dita scheletriche dell’altro lo trattennero.
“Ci sono vicino, Sherlock, vicinissimo… Un immenso puzzle che ho composto con pazienza all’oscuro di tutto e di tutti, e ora a questo puzzle manca solo un tassello… e sei tu.” Senza dare il tempo al detective di rispondere, alzò gli occhi su Mary, ancora immobile con uno sguardo intimidatorio sul viso. “Procedete.”
Lei annuì e sfrecciò in direzione di un uomo dal camice lindo appena entrato nella stanza delle poltrone. Si scambiarono qualche parola, poi lei uscì in fretta dalla stanza, seguita dagli altri individui in nero, e l’uomo estrasse dalla tasca una siringa ricolma di un liquido rosso, avvicinandosi al bambino che piangeva e gridava dei pietosi mamma. Il piccolo provò a dimenarsi, ma il dottore era troppo forte e le cinghie troppo strette. Sherlock osservò con orrore la siringa svuotarsi lentamente e il corpo del bambino calmarsi gradualmente, fino a raggiungere una totale infermità.
“Will! Will!” strepitava la madre in preda a singulti incontrollati, dimenandosi come indemoniata su quella maledetta poltrona.
“Guarda quella povera sciocca.” sussurrò Jim ancora attaccato all’orecchio del consulente investigativo. “Teme per la vita del suo bambino… Ancora non può saperlo, come andrà a finire, ma fossi in lei la mia ultima preoccupazione sarebbe quel moccioso.”
“Che cosa gli hai fatto!?” ringhiò Sherlock riscuotendosi improvvisamente, e, mosso da una rabbia istintiva, afferrò Moriarty per il collo e lo sbatté contro il vetro. Magnussen fece per intervenire, ma la voce del suo apparente padrone lo bloccò.
“La domanda, Sherlock, non è che cosa io gli ho fatto, ma cosa lui farà.”
“Che intendi?”
Ma alla sua domanda non vi fu risposta. I suoi occhi intercettarono un movimento nella stanza oltre il vetro e si rese conto che il ragazzino si stava rianimando, un’espressione imperscrutabile sul volto, gli occhi vacui.
“Sono pronto a seguire ogni comando del mio padrone.” pronunciò con voce quasi metallica, scrutando il vuoto.
Jim allontanò senza troppa difficoltà il corpo di Sherlock e si portò un auricolare uguale a quello di Magnussen all’orecchio. “Ehilà, mio piccolo amico. Io sono Jim e ci divertiremo molto insieme. Dunque, per prima cosa, voglio che tu risponda a qualche domandina, giusto per rompere un po’ il ghiaccio.” Il suo sguardo saettò e si incatenò con quello di Sherlock. Il detective contemplò quel volto paragonabile a quello del diavolo. Anzi, non avrebbe saputo dire se Dio esistesse o meno, ma se qualcuno gli avesse chiesto di rappresentare il diavolo, avrebbe disegnato James Moriarty. “Qual è il tuo nome?”
“William.”
“E tua madre?”
“Jenny.”
“Quanti anni hai?”
“Dodici.”
“Vuoi bene a tua madre?”
“L’amore è una cosa stupida e inesistente.”
“Bene! Molto bene! Bravo, Billy! E adesso, dovrai fare una cosuccia per me.” Nella stanza entrò nuovamente Mary, la sua pistola in mano, sulle labbra, un ghigno traboccante di cattiveria. Sherlock tremò, un brivido gli percorse la schiena, la paura lo investì senza motivo. “Spara a tua madre.”
Sherlock spalancò gli occhi. “Che stai…” ma le sue parole vennero interrotte dalla visione del bambino che accoglieva senza esitare la pistola che gli stava porgendo la donna. Gli occhi del ragazzino scivolarono lentamente in quelli della madre che aveva ricominciato ad urlare il nome del figlio, un suono stonato e così acuto da straziarle la gola. “Will! No! Sono io! Amore mio, sono la mamma!”
Ma William, una volta libero dalle cinghie che gli fissavano le braccia alla poltrona, alzò la mano armata, occhi scuri, occhi vuoti. Sherlock sbatté un pugno sul vetro. “No…” mormorò. “No.”
Come se non fosse vissuto per fare altro, il bambino tolse la sicura alla pistola, la canna pronta a latrare morte. Il tempo rimase sospeso, ogni cosa sembrò paralizzarsi, perfino le lame di luce che filtravano dalla porta che dava sullo studio reale. William sbatté piano le palpebre, poi la detonazione. Il corpo strepitante della madre abbandonò la vita e la testa ricadde pesantemente indietro, gli occhi vitrei e la bocca ancora spalancata in una disperata preghiera. Sulla fronte, il foro di un proiettile. Il figlio abbassò con calma innaturale la pistola, mentre Mary slacciava frettolosamente le ultime cinghie e lo trascinava fuori dalla stanza con malagrazia.
Sherlock rimase raggelato sul posto, intento a fissare l’ormai cadavere di una madre uccisa dal suo stesso figlio. “Perché?” sussurrò poggiando la fronte sul vetro. “Perché… perché… PERCHE’?”
Il suo grido non smosse o intaccò la sicurezza che traspariva sul volto di Moriarty.
“E’ quello che le persone fanno, Sherlock.”
“Le persone muoiono, sì, muoiono sempre, ma perché…”
“Mio Dio, Sherlock… Quanto sei diventato umano… Dovrò fare un bel lavoro con te. Non mi riferivo al morire, mi riferivo all’uccidere. Le persone uccidono in così tanti modi che non puoi neanche immaginarlo.” Jim sospirò con fare annoiato e incrociò le braccia al petto, poggiandosi al vetro. “L’amore di un figlio verso una madre… Un amore grande, grandissimo… E’ vero che alterare il subconscio di un moccioso non è poi così difficile, ma è comunque un passo avanti, non credi? Pensa quanto potere acquisterei soltanto iniettando un po’ di questo siero nel corpo di qualunque persona: sarebbero burattini nelle mie mani, involucri completamente vuoti… Non trovi che sia geniale?”
“E’ folle.”
“Suvvia, la follia è solo un modo dispregiativo per indicare un qualcosa di estremamente intelligente.”
“Tu sei pazzo. A che pro rendere un bambino un assassino?”
“Dovevo testare la potenza del siero e, a quanto pare, funziona a meraviglia. Le prime cavie molto spesso si ribellavano e non svolgevano i compiti più difficili, alcune invece non reggevano alla sua azione e morivano. Con svariate prove e interventi chimici, l’abbiamo potenziato e allo stesso tempo abbiamo cominciato a capire come padroneggiarlo, ma dovevamo comunque testarlo su di un essere dotato di… intelligenza.”
Sherlock indietreggiò istintivamente, la sua mente che cominciava a collegare ogni singolo evento di quello stupido giochetto che lo aveva inseguito per tutto quel tempo. Il tassista… il tassista e i due veleni, le vittime, cavie che non avevano retto al siero.
“Quindi… gli ostaggi e le sfide erano dei semplici esperimenti per testarmi?”
“Ammetto che erano cominciati con questo scopo, sì, ma il gioco era così intrigante che non sono riuscito a trattenermi e a inserire diversi ostacoli anche per il caro dottor Watson.”
Al sentir pronunciare il nome di John, Sherlock s’irrigidì completamente, le mani vennero scosse da un lieve tremore. Si disse che John non c’entrava niente con tutto quello, che se lui avesse fatto il bravo sarebbe stato libero, che ogni cosa sarebbe andata nel verso giusto. In qualche modo.
“Sai, Sherlock, è orribile a dirsi, ma… sono arrivato alla conclusione che la tua mente, per quanto geniale, non sia niente di fronte alla potenza di questo siero. E’ ben altro che ti tiene ancorato a terra, cosciente.” continuò Moriarty abbandonando la sua posa sicura di sé e assumendone una ponderosa, concentrata. “E adesso ti dirò qualcosa che probabilmente ti lascerà stupefatto: dal tuo incontro col caro Hope, il tassista, il tuo corpo ha ospitato il siero.”
“Non è possibile. Non mi è stato iniettato.” ribatté il detective, portandosi istintivamente una mano al braccio, dove la vena principale si intravedeva leggermente al di sotto della pelle perlacea.
“Non serve iniettarlo. Può essere assunto anche mediante inalazione, un po’ come la cocaina. Tu più di tutti sei dotto in materia.” Sherlock digrignò appena i denti, ma non lo interruppe. “Quando le siringhe sono cadute a terra, il siero si è sparso a terra e l’aria è stata contaminata. Ergo, se l’aria è stata contaminata e tu hai respirato l’aria contaminata…”
“Sono stato contaminato a mia volta.” completò con un sussurro. “Ma c’era anche John… anche lui ha respirato quell’aria.”
“Infatti! E devo dire la verità: mi ha stupito. Nonostante si sia dimostrato instabile dal punto di vista emotivo, è riuscito a resistergli fino alla prova al Barts.” Gli occhi di Moriarty si spostarono lentamente sul cadavere della donna, nell’altro vano, e le sue labbra guizzarono impercettibilmente verso l’alto. “Ma guardala… così sola, così morta. Se mi concentro, posso quasi sentire le sue urla e i suoi singhiozzi per il suo povero figlioletto. Anche tu sei stato posto dinnanzi ad una situazione simile, ricordi?”
“Clara.”
“Proprio così, ma sapevamo che il siero non era abbastanza abbondante nel tuo corpo, visto che gran parte l’avevi sicuramente già espulsa, perciò ne abbiamo fatto rilasciare altro al 221B, poco prima della prova con la tua amica. E nonostante tutto, il tuo… affetto verso quella donna ti ha impedito di premere il grilletto. Disgustoso, vero?”
“Ma così anche Clara ha assunto il siero.” puntualizzò Sherlock.
“L’ha fatto, eccome se l’ha fatto… A questo proposito, ho saputo che è stata rinchiusa in un manicomio, dovrei passarla a trovare di tanto in tanto.”
Il detective inarcò un sopracciglio, ma poi i tasselli del puzzle che gli si stava formando in testa presero ad andare ognuno al suo posto. “Il siero? E’ il siero che l’ha resa così?”
Moriarty scrollò le spalle con noncuranza. “E’ stata una sorpresa, ma sì, il suo organismo ha avuto una reazione quasi… allergica. Ma non temere, le passerà tutto quando il suo corpo avrà espulso gli ultimi residui della sostanza.”
Adesso ogni cosa acquistava un senso. Ora capiva il significato nascosto delle prove del dinamitardo, l’incontro col tassista, i due sieri, le parole di Victor… Un grande, gigantesco, mastodontico gioco. Un gioco per cui erano morte delle persone, per cui lui e John avevano sofferto e si erano fatti del male a vicenda, durante il quale non erano stati altro che delle marionette nelle mani di un pazzo.
“Se era me che volevi, perché hai tirato dentro anche John?”
Moriarty sbuffò sonoramente. “Perché ogni singola cellula del tuo corpo è fatta d’amore, Sherlock. Tu sei… amore vivente, e John è il centro motore che ti tiene in vita. Come ho detto, non è l’intelligenza, non sarà mai l’intelligenza a salvarti dal siero… E’ l’amore che provi per quello stupido medico. Dovevo verificare e vedere con i miei occhi quanto a fondo ti saresti spinto per il tuo tenero coinquilino, per questo ho chiesto a Charles un aiutino.”
Magnussen, che fino ad allora era rimasto appoggiato alla parete ad assistere a quella conversazione in silenzio, si staccò dal muro e camminò elegantemente verso di loro. “Ho chiesto agli Agra di darmi una mano affinché la distanza tra lei, signor Holmes, e il dottor Watson venisse sanata, e loro mi hanno fatto il favore di infilarvi tra le fiamme assieme. A quanto pare, abbiamo ottenuto l’effetto sperato.”
“Quindi è lei che mi ha inviato quel messaggio… E i suoi uomini hanno appiccato il fuoco alla fattoria.”
“E l’hanno anche spento, sì. Non potevamo certo lasciarvi morire.”
Moriarty applaudì platealmente al resoconto sommario del suo collaboratore e passò un braccio attorno al collo di Sherlock, stringendolo amichevolmente. “Perfetto! Ora che ogni cosa è stata chiarita, passiamo ad illustrarti come andranno a finire le cose: abbiamo testato il siero potenziato su qualsiasi tipo di essere umano, dagli idioti ai geni, dai ricchi ai poveri, dai feriti agli innamorati, e ognuno di loro è diventato un burattino nelle nostre mani. Perciò, manca un ultimo gradino per dichiarare l’esperimento riuscito, e quel gradino siete voi: Sherlock Holmes e John Watson.”
“Che vuoi fare?” domandò flebilmente Sherlock, appiattendosi contro il vetro, quasi nella speranza di svanire e ricomparire in cella, al fianco di John.
Moriarty ghignò. “Bruciarti il cuore.”

SPAZIO AUTRICI
Allora, vogliamo una medaglia solo per essere riuscite a finire e a pubblicare un capitolo simile. La nostra tempra ha resistito alle interrogazioni di latino, alle versioni di greco, al rewatch della quarta stagione di Sherlock e sì, anche a questo maledetto capitolo che entrambe odiamo con tutte noi stesse. Ad ogni modo, ci sembra giusto che se voi siate costretti a odiare qualcuno, quel qualcuno siamo noi. Perciò non vi diremo di non insultarci o di non inviarci maledizioni di vario tipo e... non abbiamo neanche una scusa pronta. Ci vediamo al prossimo capitolo, signori nostri, molto probabilmente... l'ultimo. Felice settimana, ragazzi!

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Capitolo 25
*** CAPITOLO 23 ***


 CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 23

 
Il cigolio dei cardini lo fece balzare in piedi, il cuore a mille e lo sguardo che vagava nella luce abbagliante in cerca di quegli occhi, di quei ricci, ma l’unica figura che s’infilò nella stanza fu quella di una donna in lacrime.
“John!”
Gli gettò le braccia al collo e il suo naso affondò tra i suoi capelli biondi, aspirando un odore che sapeva di lontano e di irraggiungibile. John rimase sbigottito di fronte a quello slancio e si ritrovò pietrificato tra quelle braccia così stranamente calde e confortanti. Non pensava che un semplice abbraccio potesse provocare in lui un simile effetto: il cuore aveva ripreso improvvisamente a battere, la mente ad elaborare, la testa a far male. Ogni ora sospesa in attesa del ritorno di Sherlock gli precipitò addosso senza preavviso, colpendolo dritto al petto. Quanto aveva aspettato? Perché lui non era ancora arrivato? Si ritrovò a stringere quel corpo vero, come ultimo appiglio a cui aggrapparsi prima di precipitare inesorabilmente in una voragine famelica senza fine e senza inizio.
“John…” mormorò di nuovo la donna abbracciandolo con ancora più forza. “John, alzati. Avanti… Dobbiamo andare.”
Andare? Andare dove? Andare con chi? Sherlock era sparito. O magari… magari lo stava aspettando da qualche parte fuori da quella prigione, con il suo solito sorriso sprezzante, e se ne sarebbe uscito con uno dei suoi Sei ritardo di tre minuti e trentaquattro secondi.
“Sherlock… Dov’è Sherlock?” chiese, aspettandosi stupidamente una risposta che non sapeva sarebbe potuta arrivare o meno, ma quella domanda gl’infiammava la bocca, la lingua, premeva per fuoriuscire, e per questo si diede dello stupido: in fondo, lei non sapeva nemmeno chi fosse Sherlock.
“Non è il momento di pensare a lui adesso. Forza, alzati…”
“No!” la interruppe scattando in piedi e appoggiandosi al vetro che divideva la stanza in due. “Dov’è!?”
La donna sospirò e scosse piano la testa. “Sherlock è… Cristo… penso sia meglio che tu non lo sappia. Se non ce ne andiamo ora non potremo andarcene mai più, John. Svelto!”
“Io non me ne vado senza di lui.”
“Per l’amor del cielo, muoviti e dimenticati di lui per una buona volta! Non è la persona che pensi che sia, lo vuoi capire? Per lui non sei niente, John, niente!”
Gli occhi di John si ridussero a due fessure e prese ad avanzare verso Mary con sguardo quasi minaccioso. “Non ti azzardare a parlare di lui in questo modo. Lui mi ama e io amo lui, e per questo siamo qui dentro.”
Siete? Scusa, caro, ma non credo di vedere nessun altro oltre a me e a te.”
“Lo hanno portato via…”
“Portato via, eh? No, no, John, non l’hanno portato via. E’ tutto parte di un piano. Dio mio, ma perché non vuoi semplicemente schiodarti di lì e seguirmi per il tuo bene!? Sono riuscita ad ottenere questi pochi minuti, fuori la strada è libera… Per favore, non posso lasciarti morire.”
“No.” rispose fermamente, indietreggiando e volgendole le spalle. Mary corse verso di lui e gli circondò le spalle con un secondo abbraccio. “John…” sussurrò, il tono incrinato dalle lacrime. “… io ti amo, capisci? Non posso vederti morto, non posso permettere che tu muoia per lui.”
“Vattene, Mary. Sei intelligente e bella e divertente, non avrai difficoltà ad incontrare qualcuno che sia in grado di amarti come io non ho saputo fare.”
Lei scosse la testa freneticamente. “Io non voglio nessun altro che te, John. Sei stato tutto il mio mondo, non posso dimenticarmi di te…”
John si voltò, gli occhi alla stessa altezza della donna. Si trovò a sorridere interiormente, abituato com’era alla statura di Sherlock, a quel doversi sporgere in punta di piedi per afferrargli il bavero del cappotto e tirarlo a sé. Le circondò il viso con le mani e asciugò due lacrime con i pollici. “E allora ricordami. Portami nel tuo cuore come l’uomo che è morto per la persona che amava.”
“Sherlock ti ha solo usato. Non è l’uomo che pensi, John, lui non ti ama…”
“Basta.” sentenziò distogliendo lo sguardo e lasciandola andare. “E’ tempo che te ne vada.”
“John…”
Ma le parole di Mary vennero interrotte da un trapestio concitato fuori dalla cella. Sul rettangolo della porta comparvero le figure di due guardie.
“Tempo scaduto.”
“No, aspettate…” biascicò la donna mentre uno dei due uomini le afferrava con delicatezza e quasi deferenza il polso e la trascinava gentilmente fuori. “John, ripensaci! Non fare il mio stesso sbaglio! Non ostinarti ad amare qualcuno che non lo fa! John, ti prego!”
Ma le sue grida si dissolsero lentamente, lasciando solo una eco disperata e piangente. John si passò una mano sul volto e, tra le dita che gli velavano il viso, scorse la guardia restante fissarlo con quasi disgusto.
“Dov’è mio marito?” domandò mantenendo il mento alto e lo sguardo fiero.
L’uomo ridacchiò appena, scuotendo il capo, e masticando un che schifo, ma poi si ricompose, senza però lavarsi dal muso quel suo ghigno. “Di certo, in un posto migliore di quello in cui andrai tu.” Il medico corrugò la fronte e nel frattempo la guardia gli si avvicinò, le manette che gli scintillavano in mano. “Sta’ buono e non peggiorare la tua condizione, frocetto. Vedrai che tra un’ora o poco più sarà tutto finito e… buona notte, Vienna.”
John lasciò che le manette gli circondassero i polsi e gli ferissero la carne da quant’erano strette, ma sul suo volto non lasciò trasparire alcun tipo di sentimento. Sherlock, la notte in cui si erano sposati, aveva parlato di dignità, e anche se lo aveva fatto con leggerezza e ironia, aveva ragione: sarebbero morti, se ne sarebbero andati tra le urla sdegnate e i fischi della gente, al cospetto di un mondo ingiusto, che faceva schifo, ma l’avrebbero fatto con onore.
“Se pensi sia troppo stretto, puoi anche attaccarti al cazzo. Tra l’altro, immagino che non ti dispiaccia.”
Strinse i denti e tenne gli occhi alti e saldi. Dentro di sé stava bruciando di rabbia, di odio, forse anche di umiliazione, ma non avrebbe permesso a nessuno di avere il potere di leggergli dentro. Solo una persona lo aveva fatto e per quella persona oggi moriva.
“Eccomi, Ted.”
“Larry, vieni. Stavo giusto accompagnando il frocetto alla forca. E’ uno spettacolo che non puoi perderti.”
“No, direi di no.” Il nuovo arrivato si avvicinò a John, gli occhi che brillavano di malizia e le labbra aperte in un sorrise beffeggiatore. “Che faccino adorabile, Ted. Fa quasi voglia di diventare froci solo a guardarlo.”
John assottigliò lo sguardo. “Tempo perso, sono impegnato. Per altro siete entrambi decisamente troppo stupidi e troppo poco stronzi per i miei standard.”
Il volto di Larry venne deformato da una smorfia di rabbia e le sue labbra si aprirono per lasciar fluire uno sputo che arrivò dritto sugli occhi del medico. Ted, invece, gli assestò un calcio nel basso ventre, costringendolo in ginocchio, dolorante, ma la sua bocca rimase sigillata e non permise che alcun gemito ne fosse liberato.
“Oh, ma guarda! Cosa sono queste cose che hai infilate negli anulari?”
“Cazzo, Larry, ma sono due anelli.”
“Non provate a toccarli…” ringhiò John quanto più forte il dolore gli permetteva, ma una ginocchiata tra le scapole lo ammutolì. Si ritrovò con la faccia schiacciata a terra. Puntando i palmi delle mani a terra, cercò di risollevarsi, ma le braccia erano così deboli che tremavano sotto il suo peso. “Ho detto… non provate a toccarli.”
Entrambe le guardie scoppiarono a ridere a quella visione così patetica e una di loro si chinò su di lui, afferrandolo per i capelli. “Altrimenti che fai, eh? Ti arrabbi? Ce la fai pagare? Vediamo.”
Con orrore, John avvertì il metallo della fede nuziale scivolare via dal suo dito. Provò a dimenarsi, ma un calcio lo bloccò sul pavimento freddo. I suoi occhi bruciavano di rabbia, di dolore, di vergogna per la sua infinita debolezza. Le risate dei due lo schiaffeggiavano, colpendolo con ancora più violenza delle percosse.
Sherlock.” lesse ad alta voce uno degli uomini. “Minchia, ti sei fatto il figlio in persona di Siger Holmes. Punti in alto, eh?”
“Ai piani ai alti per un periodo non si è parlato altro che di una sua missione. Che sia questa? Pensa cos’è stato costretto a fare, quel poveretto, per lo Stato! Si è dovuto fottere un altro uomo…”
John serrò i pugni, le dita che stridettero contro il pavimento liscio e marmoreo. Non vedeva l’ora che quello strazio finisse. Non vedeva l’ora che le pallottole dei fucilieri lo ammazzassero. Non vedeva l’ora di scorgere Sherlock, magari in salvo da qualche parte, bloccato da un inquisitore qualunque o magari da suo fratello, vivo.
Sherlock.
Pensò al suo volto spigoloso, alla sua pelle diafana, ai suoi occhi color del ghiaccio, ai suoi ricci spumosi, al suo cappotto scuro, alle sue labbra morbide, al suo cuore che gli apparteneva. Negli occhi, nella mente, nel cuore, quell’immagine idilliaca, proibita, dannata. Sherlock sapeva di salvezza nonostante la disperazione, di amore nonostante la lontananza, di libertà nonostante la prigionia, di vita nonostante la morte.
“Alzati, frocio del cazzo.”
Pensò a lui mentre lo trascinavano fuori, mentre lo schernivano, mentre lo percuotevano con calci o schiaffi o pugni, mentre lo spingevano in una stanza qualunque di Buckingham Palace. Si ritrovò nuovamente in ginocchio, schiacciato a terra dal peso di uno dei due che si era seduto sopra la sua schiena incurvata.
“Ehi, tu! Sei nuova, vero?”
John riuscì a malapena ad alzare lo sguardo e ad incontrare la figura di una ragazza dai capelli rossi e gli occhi verdi che lo fissavano con qualcosa che sembrava pietà ma che era più dolce. Quello sguardo lenì il suo dolore come un balsamo rigeneratore.
“Oggi ti dovrai occupare di questo frocio, ma non temere se pensi che la tua giornata faccia schifo: stasera sono libero, ti va di uscire a bere qualcosa?”
“Ehi, amico! Sei un idiota bastardo! Era il mio turno!”
La ragazza accorse verso di John e con uno spintone scacciò la guardia che sedeva su di lui. “Fuori.”
“Ehi, bella, sta’ calma, voglio solo bere qualcosa per rompere il ghiaccio.”
Lei alzò lo sguardo sui due, una maschera di ribrezzo in viso. “Bravo, è un ottima idea. Ho sentito che al polo Nord, in questo periodo, i ghiacci si stanno sciogliendo con più frequenza. Magari se ci cammini sopra va a finire che cadi in acqua e affoghi, sarebbe l’appuntamento migliore del mondo. E adesso, liberatelo dalle manette e poi fuori.”
John sorrise appena e avvertì la voglia di complimentarsi con quella ragazza per la sua meravigliosa acidità. I due, stranamente, non fiatarono ulteriormente ed eseguirono gli ordini senza obbiettare. Una volta usciti, lei tornò con gli occhi apprensivi fissi su di lui.
“Mio Dio, ma come ti hanno ridotto…”
Il medico si lasciò condurre con gentilezza fino a raggiungere una comoda poltrona. Non appena il suo corpo toccò i soffici cuscini, le sue labbra emisero un sospiro sollevato e le palpebre ricaddero stanche sui suoi occhi. Dopo un po’, il suo viso venne cosparso di qualcosa di fresco e rigenerante.
“E’ una pomata miracolosa. Ti aiuterà col dolore e con questi brutti lividi.”
Non rispose e si abbandonò completamente alle dita capaci di quella sconosciuta così premurosa con lui quando non avrebbe dovuto esserlo.
“Ecco fatto.”
“Che ci faccio qui?”
Lei sospirò. “Ti do una sistemata prima che tu venga presentato in pubblico.”
“Sul Justice Podium?”
Lei non rispose e afferrò un cofanetto ricco di trucchi di ogni gradazione e tipologia. Immerse due dita in una crema marrone e prese a spalmargliela sulle guance e intorno agli occhi.
“Che cos’è?”
“Fondotinta, per nascondere i lividi e ridarti un po’ di colore. Sei pallido come un cencio.”
“Non penso che da morto possa fare molto contro il pallore.” ridacchiò lui con amarezza. La ragazza interruppe il suo lavoro e si perse a contemplare l’espressione rassegnata di quell’ometto così piccolo e solo. Sospirò tristemente e poggiò il cofanetto su un tavolino basso, accanto alla poltrona. “Vi odio.”
“Noi Incompleti?”
“Sì.”
“Non sei l’unica.”
“No, non vi odio perché siete diversi, vi odio perché morite.” replicò con un sorriso triste. “Sai, qui la gente arriva, mi racconta la propria storia, le proprie colpe, poi se ne va e non torna più. Sono l’ultima persona con cui ogni prigioniero può parlare. Mi chiedo sempre che diritto ho, io, di poter parlare con voi prima che vi espongano in pubblico e vi spediscano o in un altro paese o in un laboratorio o nella tomba. E ovviamente, mi rispondo sempre che è il mio stupido lavoro, che è così che funziona e che non si parla di diritti, di sentimenti, di umanità. Questo sistema non è altro che una macchina. Una gigantesca macchina e niente più.”
John ridacchiò e arrossì lievemente quando si accorse che la ragazza lo stava fissando con il broncio, come se la stesse prendendo in giro. “No, scusa, è che una volta ci ho chiamato una persona, così. Ero arrabbiato e deluso e me la sono presa con questa persona che proprio non se lo meritava. Oddio, da un lato si era comportato da vero stronzo, ma la sua era una semplice maschera.”
“Dev’essere un uomo molto fortunato.” osservò lei con un sorriso. John alzò lo sguardo su di lei in cerca di risposte. “L’uomo che ami. E’ di lui che stai parlando, vero? Ti brillano gli occhi e hai ripreso a sorridere.”
Il medico sospirò e affondò la nuca nello schienale della poltrona, immaginandosi per un attimo a Baker Street, di fronte ad uno Sherlock intento a suonare una dolce melodia da lui composta. “Sono così intuibile? Però! Non so davvero come sia riuscito a non farmi beccare dall’Inquisizione per tutto questo tempo.”
“Hai voglia di raccontarmi la vostra storia?” domandò lei.
Era strano, ma la sua voce non lasciava intuire curiosità o invadenza. Era una semplice richiesta che sapeva mirata a farlo distrarre dall’apocalisse che presto si sarebbe scatenata fuori da quella stanza. E un’altra cosa strana, era che John Watson non si fidava di nessuno veramente, eppure qualcosa in quella ragazza lo spingeva ad aprirsi con lei, a confidarsi. Per qualche ragione senza senso gli ricordava sua sorella.
“Da dove cominciare?” ridacchiò facendo appello ai suoi cassetti della memoria, anche se non c’era davvero qualcosa da tirar fuori da sotto pile di ricordi inutili: ogni istante vissuto con Sherlock era scolpito nella sua mente, nitido e terso come il cielo in una limpida mattinata d’estate. “Per fartela breve, lui mi ha avvicinato con un secondo fine e siamo andati a vivere insieme, come semplici coinquilini, ovviamente. Col passare del tempo ci siamo resi conto di questa… attrazione, chiamiamola così, e proprio quando stavamo per renderci conto che il nostro rapporto andava molto oltre l’amicizia, ho scoperto che faceva il doppio gioco alle mie spalle. Così me ne sono andato e ho provato ad andare avanti. Dopo due anni senza avere sue notizie, avevo chiesto alla mia fidanzata di sposarmi e lei aveva accettato. Sembrava andare tutto alla perfezione, ma poi lui è ripiombato nella mia vita e ho capito di non averlo mai dimenticato e di non aver mai smesso di provare quello che provavo. Il giorno del mio matrimonio ho lasciato la sposa sull’altare e sono corso da lui, mi sono dichiarato ed è iniziata la nostra storia travagliata e sofferta. Dopo tante difficoltà e crisi, abbiamo deciso di andarcene di qui e siamo partiti per Cuba dove ci siamo fatti a vicenda la proposta e dove alla fine ci siamo sposati senza invitati, testimoni o addirittura celebranti. Solo noi due.” Il sorriso che gli increspava le labbra svanì a poco a poco, schiacciato dai ricordi più dolorosi e più vicini. “Al check-in per Cuba, l’Inquisizione ci ha trovati, non so come e non so neanche come sia possibile perdere tutto a così poco dalla libertà… E poi, bè, il resto più o meno lo sai.”
Lei abbassò gli occhi sulle sue giunte in grembo. “Che storia…”
“Già, storia che però è destinata alla rovina perché siamo diversi.”
“Non ho mai sentito una storia d’amore del genere, mai. O quasi.”
John sospirò e i suoi occhi si riempirono di sofferenza liquida e amara. Cercò di respirare profondamente, ma un nodo alla gola glielo impedì. “Adesso io sono qui… e non ho la più pallida idea di dove sia lui, se stia bene, se sia vivo o morto…” Si passò una mano sugli occhi per scacciare un paio di lacrimoni che minacciavano di fuoriuscire. “So solo che mi ha detto che mi amava, che me l’hanno portato via da sotto agli occhi e che ora la gente dice che niente era vero, che lui mi ha… mentito, ma io non ci credo. Non potrei mai crederci.” Puntò il suo sguardo in quello della ragazza. “Non ho paura di morire. L’unica cosa che voglio ora è che lui viva.”
Lei sospirò mestamente. “Credi davvero che sia quello che vuole anche lui?”
“Che intendi?”
Scrollò timidamente le spalle. “Niente, solo che certe volte è più difficile vivere che morire. E ancora più difficile, per un morto, è vedere i propri cari vivere senza farlo realmente. Se tu avessi la possibilità di vivere senza di lui o di seguirlo anche nella morte, che cosa sceglieresti?”
John ponderò attentamente quelle parole. “Ovviamente di morire.”
“E se invece fossi tu quello a morire e in un ipotetico mondo ultraterreno osservassi la vita dell’uomo che ami scorrere come una maledizione, non penseresti che sia meglio fosse morto con te?”
“Forse hai ragione, però… io non potrei sopportare l’idea di vederlo morire. Sono egoista, non è vero?”
“No, affetto. Sei solo innamorato.” rispose con un sorriso la ragazza. Calò qualche istante di silenzio carico di tensione e forse anche di imbarazzo. John doveva ammettere che l’aver parlato con quella ragazza l’aveva aiutato ad accarezzare i suoi ricordi più belli di Sherlock, a riviverli – quasi –, a riassaporare emozioni e sentimenti che credeva sepolti dalla paura e dall’umiliazione.
“John.” Il suono del suo nome pronunciato dalle labbra di lei lo fece sussultare. Non le sembrava di averle detto il proprio nome, ma probabilmente lo conosceva per sentito dire, magari l’aveva ascoltato dalla bocca di qualche guardia o letto in qualche scartoffia di lavoro. “Qualsiasi cosa accada là fuori, ricordati quello che mi hai raccontato, aggrappati a quei ricordi con tutto se stesso e non lasciarli andare, mai. Capito?”
John annuì e contemporaneamente si diffusero dei sonori battiti alla porta.
“E’ ora.” grugnì una voce maschile, che non sembrava appartenere a una delle guardie di prima, dall’altro lato della parete.
Il medico si voltò di scatto verso la ragazza, quasi in cerca di una rassicurazione da parte di una madre o di una sorella maggiore.
“Un minuto!” rispose lei alzando la voce, ma affrettandosi, subito dopo, a riavvicinarsi a lui. “Finirà presto, John, te lo prometto.”
“Non voglio andare.” mormorò il medico con voce quasi infantile.
La ragazza si chinò di fronte a lui e poggiò entrambe le mani sulle sue ginocchia. “Lo so, lo so, e credimi, non te lo chiederei se non fosse necessario, ma devi andare. Ti prometto che non sarai solo, ci sarò io con te.”
John sorrise tristemente. “Promesso?” chiese ingenuamente porgendole un mignolo che lei si affrettò ad incatenare col suo.
“Promesso.”
Lui le prese entrambe le spalle e gliele strinse con affetto. “Io lo so che ci conosciamo da appena dieci minuti, ma ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Quando… quando sarò morto, promettimi che troverai Sherlock e che ti prenderai cura di lui.” Che richiesta stupida. Ne faceva tante ultimamente, ma forse la morte rende solo tutto più banale e insensato. Sapeva che per lei sarebbe stato impossibile eseguire tale preghiera, ma nonostante questo aveva bisogno di sentirsi dire che, almeno Sherlock, sarebbe stato bene e al sicuro.
“Promesso.” rispose di nuovo la ragazza sorridendo, poi avvicinò le labbra alla sua fronte e gli depositò un bacio caldo e vivo, poi fece scivolare sul suo dito un qualcosa di freddo. Trattenne il fiato nello scorgere la fede, di nuovo luccicante e splendida sul suo anulare. Rimase a contemplarla per istanti infiniti e si chiese come potesse averla recuperata, ma la sua voce interruppe il filo dei suoi pensieri. “Non dubitare, John.”
“Di che cosa?”
“Dell’uomo che ami, della mia promessa, del fatto che io sarò lì con te.”
“Non lo farò anche se credo sarà un po’ difficile per te starmi accanto.”
Ma il sorriso non abbandonò le labbra della ragazza. “Oh, John, ho superato barriere ben peggiori pur di starti sempre accanto.”
John sgranò appena gli occhi e aprì le labbra per parlare, ma la porta venne spalancata da un uomo in nero la cui mano si serrò attorno al braccio del medico e lo trascinò con insistenza verso la porta. “Aspetta un secondo, un secondo solo… Qual è il tuo nome?”
La ragazza sorrise, le gote rigate due lacrime di cristallo. “Harriet.” E detto questo, scomparve.
 
***
 
Era lei. Prima una semplice ragazza coi capelli rossi e poi una giovane donna dagli occhi vivi e piangenti. Era lei. Rise, John, mentre gli energumeni lo trascinavano attraverso un condotto sotterraneo. Da sopra la sua testa provenivano suoni di vita quotidiana – fischi di freni, clacson, passi frettolosi, grida di cittadini. Da dove si trovavano loro, ogni minimo rumore era perfettamente percepibile, nonostante il cemento e il metallo del tunnel. Sapeva dov’erano diretti. Sapeva perché si trovavano in quel cunicolo angusto e gocciolante d’umidità. Sapeva quale fosse il suo destino. Ma quello che non sapeva era in realtà ciò che gli importava di più sapere. Sherlock. Un’incognita costante che durante un intera equazione si è costretti a trascinarsi dietro. Dov’era Sherlock? Stava bene Sherlock? Lo amava Sherlock? Scacciò dalla mente l’ultima domanda, vergognandosi di essere anche solo lontanamente capace di pensare una cosa del genere.
Camminava. Macinava velocemente quel pavimento su cui gocciolava acqua ristagnante. Andava incontro all’inevitabile. Istintivamente prese a giocherellare con la fede, accarezzandosela col pollice della mano destra. I minuti passavano e lui camminava affiancato da inquisitori dall’aria truce ma che se non altro non lo sfottevano come quelle due guardie. Trascorsero una ventina di minuti prima che nell’oscurità si affacciasse una colonna di luce davanti alla quale degli altri inquisitori aspettavano. Cercò voracemente tra quelle figure, ma lui non c’era. “Dove sei?”
Vedendoli arrivare, uno degli uomini dinnanzi a loro si portò una mano all’orecchio e borbottò nitidamente un sono arrivati. Fu questione di pochi minuti prima che una voce generosamente amplificata echeggiasse per tutto il corridoio sotterraneo. John alzò lo sguardo per individuare la fonte della luce e della voce: una botola, e in quei pressi doveva esserci, con tutta probabilità, il Justice Podium. Quella voce che a mano a mano salutava il Paese, non apparteneva al fratello di Sherlock. L’aveva sentito molte volte alla tv e avrebbe giurato che non era lui.
“Popolo della Gran Bretagna – voi che siete qui riuniti e voi che assistete da casa –, ti porgo i miei omaggi! Non sapete quanto mi colmi di gioia vedervi tutti qui riuniti! La feccia e le lordure si stanno diffondendo tempestivamente, ma con gli attacchi a Cuba ci sono buone probabilità di stanare definitivamente ogni Incompleto rimasto in ogni parte del mondo!”
Lo sproloquio di quel folle qualunque tra tanti altri folli continuò imperterrito per altri dieci minuti, concedendo a John il tempo necessario per chiudere gli occhi e cercare accanto a sé sua sorella. Non seppe se l’aveva trovata, se era lei, ma dopo poco venne attraversato da una scia tiepida e rassicurante che sapeva di casa. Sapeva di Sherlock, di Harriet, di Clara, di Gary e Billy, del vecchio covo di Incompleti, della signora Hudson, del 221B, di quella felicità preclusa. Sorrise. Andava bene. Andava tutto bene. Se l’era ripetuto durante l’infinito cammino attraverso l’America e se lo sarebbe ripetuto anche ora che il suo viaggio, quello vero, stava terminando. Il treno si era appena fermato per lui. L’altoparlante, invece che la stazione, chiamava il suo nome. E John… John aveva un bagaglio tanto carico quanto leggero: non aveva rimpianti o rimorsi, non aveva parole taciute o desideri inespressi. Si guardò un attimo indietro e si fece la fatidica domanda: ne è valsa la pena di vivere? E l’odore assente eppure impresso nei suoi ricordi di quell’acqua di colonia, di quella schiuma da barba, risposero che no, non ne era solo valsa la pena, ma era stata la vita più bella che avesse potuto vivere.
Ti amo.
Quelle parole lo colsero impreparato. Quasi sussurrate sul suo orecchio. Quasi urlate nel suo cuore. Si guardò intorno, alla ricerca di quegli occhi, ma intorno a lui solo buio e nemici. Forse era solo la sua mente che cominciava a perdere lucidità o forse i troppi ricordi, però… però si strinse al cuore quelle parole, si accoccolò tra loro e chiuse gli occhi, attenendo che il buio e l’oblio giungessero.
“…Ma tra tutti i peccati… l’omosessualità! Che abominio! Che aborto della natura! Se dovessi associare alla parola impurità un sinonimo, sceglierei di certo questa. Due esseri dello stesso sesso che affermano di amarsi… semplice follia! Questo amore non è vero, non è sano! Dobbiamo estirpare questo peccato, amici! Eppure, ci sono persone che pur non essendo Incompleti si ostinano a credere il contrario. Per tutti coloro che sostengono questo, volete davvero vedere che cos’è questo amore impuro? Portate avanti il condannato!”
Gli inquisitori spinsero in malo modo John ad arrampicarsi sulla scaletta che conduceva fuori, dove si erano affacciati i volti di altri rappresentanti del Governo in attesa del loro agnello sacrificale. Prima ancora che si fosse issato fuori, questi ultimi lo presero e lo tirarono violentemente per le braccia, strattonandolo verso il Justice Podium che s’innalzava con maestosità vibrante sotto alcuni timidi raggi di sole. John osservò il palco che aveva più volte scorso facendo zapping alla tv; anni prima avrebbe pensato di finire lassù, sì, ma non per il suo amore verso un uomo. Sorrise a quel pensiero mentre lo spintonavano sul palco e un’ondata di grida di disgusto e disprezzo accoglieva la sua misera entrata. Sul Justice Podium s’innalzava un palo in metallo, somigliante ad un gigante che tendeva il suo unico braccio verso il cielo. E verso quel gigante lo condussero, costringendolo a terra e legandogli le mani ad esso con un nodo così stretto che credette che la circolazione avrebbe potuto fermarglisi. Intanto, le grida e gli insulti crescevano sempre più, sempre più, sempre più… erano così potenti e logoranti da potergli quasi sfondare i timpani.
Distolse lo sguardo da terra per puntarlo sull’orda di belve che inneggiavano all’Inquisizione e alla sua morte. Eccoli là, i suoi carnefici. Tutti riuniti di fronte a quel palco di vittoria e sconfitta, al cospetto di un uomo qualunque dai capelli castani tirati indietro, vestito elegantemente, e con i suoi occhi nocciola fissi sdegnosamente su di lui. Gli scherni erano intermezzati da un nome che sembrava in grado di distruggere Londra al sol pronunciarlo. Moran. Intuì che si trattasse di quell’individuo che lo osservava come la peggior feccia del pianeta. Quello alzò un braccio e le urla si placarono in un istante. Il silenzio piombò desolante come gli effetti di una granata.
“Costui” sputò acidamente Moran avvicinandosi a John. “è accusato del peggior crimine di cui un individuo possa essere accusato.”
Il medico si concesse un mezzo sorriso. “Non mi pare di aver mai ucciso nessuno. Per quello siete più che sufficienti tutti voi.”
Trafalgar Square intera proruppe in ingiurie e improperi, tanto che anche l’uomo sul palco faticò a riportare la calma. John mantenne lo sguardo fiero e dentro di sé da un lato sperò che Sherlock potesse vederlo, in quel momento. Orgoglioso. Intrepido. Sprezzante. John Watson. Si sentiva se stesso, ora più che mai. Con Sherlock non aveva bisogno di essere qualcuno. Con Sherlock era semplicemente un idiota innamorato e folle. Senza Sherlock sarebbe stato nessuno, ma lui non poteva permetterselo. Perciò lì, dinnanzi all’intera Gran Bretagna, sorrideva e fissava impassibile quei volti inviperiti che aprivano e chiudevano la bocca in fischi e strepiti di disapprovazione.
“Hai coraggio.” osservò con tono quasi ammirato l’inquisitore. “Ma se pensi che questo ti salverà, allora sbagli di grosso.”
“No, io non penso niente, davvero.” replicò semplicemente lui. “Sto soltanto cercando di far capire a tutti i signori qui presenti che sono consapevole del perché mi trovo inchiodato a questo palo ma di certo non mi dichiarerò colpevole di un qualche crimine.”
“Silenzio!” ruggì Moran abbassandosi su di lui e menandogli uno schiaffo in pieno volto. “Sei un impudente… o forse un povero illuso?”
John si morse il labbro inferiore e si rivolse nuovamente alla folla. “L’amore non è mai un crimine! Pensate come sarebbe se foste voi ad essere perseguitati, scovati, uccisi solo per la persone che amate.” Di nuovo, il colpo dell’inquisitore troncò le sue parole, ma John non si arrese. “Come può l’amore essere qualcosa di impuro? Come possono due persone che si amano essere dalla parte del torto talmente tanto da essere uccisi per questo?”
Un paludoso silenzio abbracciava le file scomposte della folla. La gente ascoltava. La gente elaborava. La gente capiva. O avrebbe potuto capire. Quel pensiero gli illuminò il volto e gli diede la forza necessaria per sopportare i colpi di Moran che ormai sembravano mirati con l’unico intento di assaporare la sua sofferenza. Che cosa sarebbe successo se il mondo avesse capito che quelli che si trovavano al potere erano dei folli? Ci sarebbero state rivoluzioni, battaglie, bandiere per la libertà sventolate in alto. Quelle immagini gli sfilarono davanti agli occhi luminose e traboccanti di speranza. Comunque, lui non sarebbe vissuto abbastanza per scoprire se un qualcosa del genere avesse mai potuto verificarsi.
“Sei davvero sicuro che l’amore che ti legava col tuo compagno fosse reale?” domandò improvvisamente Moran, ricomponendosi e cercando di contenere un ulteriore schiaffo mentre gli occhi di John lo sfidavano.
“Non esiste niente di più reale.”
“Bene! Avete sentito tutti, no? Perfetto. Adesso, dimmi, prigioniero, qual è il tuo nome?”
“John Watson.”
“D’accordo, John. Guardati intorno. Stai per morire, eppure c’è qualcosa che stona, non trovi? Che cosa?”
John studiò il palco attentamente. Forse era l’influenza di Sherlock, ma c’erano così tante cose che stonavano! L’assenza di un secondo palo, quella dei fucilieri, quella di Sherlock – anche se per quest’ultima non poteva che rallegrarsi.
“Cos’è, hai paura di aver intuito?”
Intuito? Che cosa c’era da intuire? John corrugò la fronte, gli occhi che saettavano da una parte all’altra del Justice Podium. Se ci fosse stato Sherlock, al posto suo, avrebbe di certo capito tutto, ma lui… lui non era Sherlock, perché Sherlock sarebbe vissuto e lui sarebbe morto. Doveva essere così. Era pur sempre il figlio di Siger Holmes.
“Pensa, John Watson, pensa!”
Avvertiva il corpo teso, i muscoli attenti, il cuore impazzito. La sua mente pedalava furiosamente alla ricerca della risposta. Cosa stonava? Cos’era intuibile? Perché mancava un palo? Perché mancavano gli esecutori? Perché… cosa… perché…
Moran scoppiò a ridere e batté le mani in un applauso di scherno. “Bravo, John Watson, il tuo intuito è spettacolare. Non ci arrivi, eh? O magari non ci vuoi arrivare.” Si portò una mano all’orecchio e John ebbe l’impressione che avesse premuto qualcosa. “Fatelo venire avanti.”
L’istante seguente, sul podio echeggiarono dei passi sicuri che risalivano le scale che conducevano alla sua sommità. John seguì lo sguardo gongolante dell’inquisitore, aspettandosi di veder comparire un qualche soldato con in braccio un fucile carico di colpi con cui lo avrebbe trivellato.
E invece no. Non un soldato. Non un inquisitore. Non un carnefice. Un uomo alto. Slanciato. Bellissimo.
Sherlock Holmes.
John contemplò la sua figura magnetica stagliarsi splendidamente verso il cielo, il corpo magro rivestito da un elegante completo nero, uno di quelli che soleva indossare quando abitavano ancora al 221B. In quella magnificenza quasi divina, vi era, però, un qualcosa che stonava, come una nota errata in una composizione armonica: il suo volto era infatti una maschera imperscrutabile, le labbra strette, la fronte distesa. Ma furono gli occhi, più di quel quadro generale, a infondere in lui un’emozione oscura, quasi sinistra: erano gelidi e… vuoti. Non erano gli occhi di Sherlock, con le loro pupille dolcemente dilatate, le loro iridi costellate di pagliuzze dorate, il loro incontenibile amore.
Seguì la sua avanzata in direzione di Moran, trattenendo il fiato e studiando con confusione quella figura rigidamente impettita in una posa quasi da soldato obbediente. L’inquisitore lo accolse spalancando le braccia e depositandogli pacche amichevoli sulle gracili spalle, un sorriso falsamente esteso sulle sue labbra.
“Sherlock Holmes!” lo presentò come se la Nazione intera non lo conoscesse già come uno dei simboli portanti del sistema dell’Inquisizione. Un applauso tempestato da urla di esaltazione e di giubilo scosse interamente lo stuolo astante. “Il nostro ospite speciale!” L’applauso continuò per quelli che sembrarono eterni minuti di agonizzante smarrimento che tormentava il cuore di John. I suoi occhi, ora di un blu profondo come la sua inquietudine, studiavano apprensivamente suo marito che, dalla sua entrata, non l’aveva degnato di uno sguardo. Quando finalmente la calma ritornò signora di Trafalgar Square, Moran continuò, senza allontanare la mano dalle spalle di Sherlock. “Ovviamente lo conosciamo tutti, il figlio minore del grande Siger Holmes, pace all’anima sua.” Vi furono mormorii d’assenso. “Ma quello che probabilmente, o forse dovrei dire sicuramente, non sapete… è che anche lui, come un comune essere umano, è stato affetto dalla malattia da cui, più di tutte, dobbiamo guardarci: l’omosessualità.”
Un boato di incredulità squassò la piazza intera: la gente cominciò a volgersi a destra e a sinistra scompostamente per scambiare parole inviperite o sconcertate riguardo alla gigantesca notizia appena data loro. Era stata sganciata una bomba dagli effetti desolanti: per la piazza si scatenò un tumulto, con persone che alzavano in alto i pugni e strepitavano bestemmie e insulti nei confronti di Sherlock – il cui volto non accennava a mostrare alcun’emozione – altre, invece, cercavano di acquietarle inutilmente, finendo spintonati in direzioni diverse. “Silenzio!”
L’urlo di Moran echeggiò in ogni dove, facendo tremare dalle viscere il capannello di spettatori raccolto di fronte al Justice Podium. Quando una nuova quiete calò su tutti loro come pioggia dal cielo, l’inquisitore riprese a parlare come se niente fosse successo. “Con questo, vogliamo dimostrarvi che noi tutti siamo a rischio. Il nostro rango non ci protegge. Dobbiamo prendere misure di sicurezza più estreme: dobbiamo eliminare questa minacce dalle radici. Eliminiamo i sovversivi e ricreiamo uno stato di pace e omogeneità. Ma per farlo definitivamente, tutti voi dovete capire, vedere coi vostri stessi occhi che questo… legame – non oso spingermi a chiamarlo sentimento – non è puro, anzi, è la matrice dell’impurezza.” Moran si volse nuovamente verso Sherlock e strinse ancor di più la presa sulle sue spalle. “Ora mi rivolgo a te, Sherlock: spiega a tutti gli onesti cittadini britannici il perché tu sei qui, accanto a me, e non prostrato ai miei piedi.”
John attese, il cuore che sembrava aver smesso di battere: si aspettava che l’altro si aggiustasse il vestito, che si lisciasse la giacca, che prendesse a strofinare il pollice contro l’indice come faceva quando era nervoso, ma quello non si smosse neanche per fare un passo avanti.
“Come ho già detto di fronte alla più alta autorità del Paese, io mi dichiaro colpevole.” Nella folla si diffuse un sommesso borbottio che presto venne, però, spezzato dalla voce del detective. “Mi dichiaro colpevole e sono pronto a prostrarmi a terra e redimermi per le mie azioni sconsiderate.” John strinse gli occhi, riducendoli a due mere fessure a malapena necessarie per osservare la scena. “A causa di questa mia… spiacevole condizione ho rischiato di commettere il più grande sbaglio della mia vita, di piegarmi di fronte al peccato, ma grazie all’efficienza dell’Inquisizione ora so di aver sbagliato. La nebbia che prima sembrava offuscarmi la vista è ora completamente scomparsa ed io sono rinsavito. Questo sentimento, come voi lo chiamate, non è amore, certo che non lo è. E’ un qualcosa di infido che ti s’insinua dentro e ti spinge alla pazzia.” Finalmente, con estrema e addirittura solenne lentezza, si voltò, gli occhi artici su di John. “E’ l’incrinatura in una lente, un mero difetto chimico, niente più.”
E a John parve quasi d’essere catapultato nuovamente ai giorni in cui Victor Trevor era entrato nelle loro vite, ai giorni in cui Sherlock srotolava la sua trama di piani per tenerlo al sicuro, ai giorni in cui aveva irrimediabilmente dubitato di lui e del loro amore. La sua testa gli diceva che stavolta era diverso, che c’era qualcosa che – come aveva detto Moran – stonava, ma lui rifiutò categoricamente quel pensiero, rinchiudendolo in un meandro buio della sua coscienza. Sherlock era… era il suo eroe. Lo aveva sempre tirato fuori da ogni situazione, gli era sempre stato accanto, gli aveva sempre offerto quella forza e quella tenacia per stringere i denti ed andare avanti, e lo aveva sempre fatto nelle maniere più disparate.
Per questo, mantenne quello sguardo, doloroso solo a scorgerlo, tentando in ogni modo possibile di comunicare con lui, di entrare nei suoi pensieri e sviscerare i suoi reali intenti. Ma quegli occhi erano porte sprangate, inaccessibili.
“Perciò” riprese il detective “ora mi rimetto a voi: giudicatemi secondo le vostre convinzioni, sapendo che il mio pentimento e la mia ripugnanza verso i miei errori sono sinceri.”
La folla si rianimò improvvisamente, tuonando parole sconnesse e a tratti indecifrabili, ma alla fine fu chiaro: sporadici colpevole in mezzo ad una tormenta incontenibile di innocente. Un sorrisetto compiaciuto sfilò sulle labbra di Moran, mentre invece il viso di Sherlock rimaneva di uno stoicismo insovvertibile.
“Bene, amici!” esclamò dunque l’inquisitore battendo le mani in direzione del detective, imitato dalla grande massa di astanti. “Ora che il verdetto è stato pronunciato, c’è un’ultima cosa che dobbiamo chiedere al nostro amato Sherlock affinché ci provi, senza più ombra di dubbio, il suo pentimento.”
Un secondo inquisitore comparve sul palco e si affrettò con passi concitati verso Moran, in mano un involto di un telo rosso come il sangue. Quello accettò gongolante il regalo dell’altro, e non appena l’oggetto misterioso, velato dal drappo, fu depositato nei palmi delle sue mani, con un gesto teatrale svelò il contenuto dell’involucro. Ai tiepidi raggi del sole, luccicò diabolicamente la sagoma di una pistola nera come le interiora più profonde dell’Inferno. L’intero coacervo trattenne il fiato di fronte a quella visione e per qualche istante ogni cosa, ogni singola cosa restò sospesa in aria, come immobilizzata.
Moran assaporò l’effetto del suo gesto, del suo potere. Con estrema calma e gravità, si voltò in direzione di Sherlock, le mani, unite a coppa per ospitare meglio l’arma, protese verso di lui. “Uccidi la persona per cui hai rischiato di sprofondare nella perdizione.”
Un qualcosa all’altezza del cuore di John si smosse. Non seppe neanche lui dire che cosa fosse stato, ma sapeva che c’era stato. Per quanto quelle parole accesero una fiammata rovente in lui, non permise ad alcuna emozione di sfilare sul suo viso. Fuori, calma; dentro, caos. Un intero marasma di sentimenti e pensieri a cui faticava star dietro. Si sentiva soffocare, aveva bisogno che le manette attorno ai suoi polsi venissero allentate, che la stretta contro il palo venisse allentata, che il groviglio nel suo petto venisse allentato, ma era impotente. Un agnello perduto in mezzo ad un branco di lupi famelici, e Sherlock… Sherlock era il secondo agnello, anche lui solo e perso, nonostante il suo aspetto esterno non lasciasse dedurre alcunché. O forse… o forse era anche lui un lupo.
“Tu sai la verità, John.” echeggiò una voce nella sua testa. “Aggrappati ad essa e stringila forte, non staccartene.”
John sapeva la verità. E a quella verità si sarebbe aggrappato. Sapeva che le parole pronunciate da Sherlock non erano vere, che non l’avrebbe mai tradito, che lo amava più di ogni altra cosa al mondo. Sapeva a cosa credere.
Sherlock prese la pistola meccanicamente, rivolgendole appena uno sguardo di sufficienza, e subito le sue dita corsero alla rimozione della sicura. John cercò la verità nei suoi occhi, ma questi erano ancora serrati, distanti, irraggiungibili. Irraggiungibili come sembrava essere il suo cuore. Rimase immobile ad osservare il volto perlaceo di Sherlock rivolto sprezzantemente verso di lui, la pistola impugnata con la stessa mano che un tempo stringeva un archetto, il cuore imprigionato nello stesso petto che un tempo si era aperto, rivelando il suo tesoro nascosto. Dov’era il cuore di Sherlock?
Con le labbra articolò il suo nome, opprimendo la caterva di sensazioni che lo volevano affogare nelle loro malefiche spire. Ancora una volta, porte sprangate.
Moran si avvicinò a lui sogghignando, le mani strofinate l’una contro l’altra in un moto soddisfatto. “Ebbene, dottor Watson, siamo giunti al capolinea. Ma per il coraggio da te dimostrato, vogliamo concederti di pronunciare le tue ultime parole.”
John non spostò neanche per un istante lo sguardo da quello di Sherlock. Avvertiva come se dentro di lui non vi fossero altro che ghiacciai perenni e buio. Un vuoto così immenso da inghiottire il tutto lo colse impreparato e capì d’aver paura. Paura perché Sherlock, il suo Sherlock, avrebbe premuto il grilletto. Lo capiva dai suoi occhi. Quello non era il suo Sherlock. Non sapeva come c’erano riusciti, ma glielo avevano portato via. E per questo li maledisse, perché mai, mai avrebbe pensato di dover subire un tale supplizio, di dover guardare negli occhi l’ombra del suo antico amato che sembrava scomparso per sempre. Sherlock sarebbe diventato un assassino. Il suo assassino. E lui una vittima. La vittima di Sherlock. Tutto quello che c’era stato prima, tutti i trascorsi, le difficoltà, le avventure, le lacrime, le liti, l’amore… Dove sarebbe andato a finire tutto quello? Non poteva semplicemente ridursi a quel momento, a quel palco, a quel grilletto che da un momento all’altro sarebbe stato premuto. Venne assalito dal panico e si ritrovò a sezionare la sua piccola mente alla ricerca di un’ultima preghiera, di un ultimo miracolo…
“Ricorda, John. Ricorda chi eravate. Ricorda cosa condividevate. Ricorda e aggrappati ad esso.”
Harriet, ora, lo stava avvolgendo con le sue braccia fatte di nulla, e anche se John non poteva vederla, sapeva che era lì, con lui, alla fine.
“Ho paura.” mormorò dentro di sé.
Ricorda. Ricordami.
Spalancò occhi che la sua mente non aveva, ma li spalancò, come investiti da un raggio di sole. Quella voce… No, non era sua, non di Harriet, no. Guardò in direzione di Sherlock, statuario nella sua spietata bellezza. Lo guardò e, sebbene non fosse cambiato niente da un istante prima, sapeva che quella voce era sua. Sherlock lo stava chiamando, Sherlock lo stava proteggendo. Il suo Sherlock. E John ricordò. Ricordò ogni cosa, dal loro primo incontro al loro primo bacio, dalla loro dichiarazione sul tetto del Barts al loro matrimonio, e dal loro matrimonio fino a quell’ultimo, disperato ti amo nella cella. Sherlock aveva detto di non voler lasciare niente in sospeso. Aveva detto che qualunque cosa sarebbe successa, lui si sarebbe dovuto ricordare che lo amava e che non c’era niente di più vero del loro amore.
Si schiarì la gola, gli occhi lucidi ma saldi nel loro orgoglio e nella loro speranza. “Non molto tempo fa, ho fatto un giuramento. Ho giurato all’uomo che amavo… e che amo ancora, che avrei sempre, sempre creduto in lui, qualsiasi cosa sarebbe successa.” Sorrise debolmente nel ricordare quell’ultima sera dove erano soltanto loro due e niente o nessun altro. “Anche quell’uomo mi ha fatto un giuramento… mi ha giurato che mi avrebbe amato per sempre e che mi sarebbe sempre stato accanto, in salute e in malattia, in vita e… in morte. E per quanto assurdo possa sembrare, io ci credo ancora in quelle promesse. Hai capito, Sherlock? Io ci credo.” Il volto di Sherlock non tradì la minima emozione. “Ci credo e nessuno, ripeto, nessuno potrà mai convincermi che quello che abbiamo condiviso, che il nostro amore non è reale. Neanche tu.”
Gli ultimi, intrepidi raggi di sole vennero completamente oscurati, lasciando nient’altro che un tappeto di nuvole nere e minacciose sospeso in cielo. Qualche goccia di pioggia prese a picchiettare su quel palco che aveva visto fin troppe esecuzioni, fin troppe morti. Qualcuno della folla imprecò, qualcun altro cercò di ripararsi come meglio poteva, qualcun altro sgattaiolò via alla ricerca di un riparo. Sul Justice Podium, invece, solo una pesante immobilità.
“E’ tutto?” domandò Moran con fare annoiato.
“No, ho un’ultima richiesta.” rispose con prontezza John. “Sherlock, avvicinati.”
Sherlock non si mosse per lunghi secondi, il suo corpo come pietrificato sotto quel lento aumentare della pioggia. Infine, fece il primo passo, poi il secondo, poi il terzo, fino ad arrivare a un soffio da John.
“Inginocchiati.” sussurrò ancora il medico così flebilmente da permettere a Sherlock e a Sherlock soltanto di udire le sue parole. “Per favore.” lo implorò poi vedendo che quello non accennava a muoversi. Lentamente, il detective si chinò su di lui, le ginocchia puntate a poca distanza dai suoi piedi. John prese a tremare leggermente, non dalla paura, ma dal dolore di essergli così vicino solo per capire d’essergli in realtà sempre più lontano. Due lacrime si confusero con le gocce di pioggia sempre più insistenti e rabbiose che tintinnavano a terra con la cadenza delle lancette di un orologio, un orologio che segnava lo scoccare della mezzanotte, della fine. “Adesso, voglio che tu mi punti quella pistola al petto, dove sta il cuore.” Sherlock alzò l’arma, la cui canna affondò inesorabilmente contro il petto di John che sussultò appena a quel contatto così vivido e reale. “Okay…” mormorò, più rivolto a se stesso che all’altro. “E ora… ora, Sherlock, ti chiedo soltanto un’ultima cosa prima di sparare: poggia la mano sinistra accanto a dove punti la pistola.” La mano del detective si mosse quasi subito, raggiungendo il punto di fianco a cui teneva la canna dell’arma. Nei suoi occhi non vi fu alcun guizzo di umanità o di consapevolezza o di amore, e John avrebbe mentito se avesse sostenuto di non averci sperato anche solo per un istante. “Lo senti, Sherlock? E’ tuo. E’ sempre stato tuo.” Ma quelle parole rimbalzarono inesorabilmente contro la barriera che quel nuovo Sherlock aveva creato. John deglutì a fatica, lo sguardo incatenato con quello dell’altro, il cuore che martellava così furiosamente da poter quasi raggiungere il grilletto, fuori dal petto. La paura fece posto alla rassegnazione e la rassegnazione fece posto alla speranza e ancora la speranza… la speranza fece posto all’amore. Sorrise. Un ultimo, dolce, amaro sorriso. Un sorriso che solo lui poteva vantare. “Addio, amore mio.”
Chiuse gli occhi e quello che venne dopo fu solo un lieve bruciore al petto. Poi, buio e gelo.
 
***
 
Sotto la pioggia scrosciante, una pistola crollò a terra, il suono della sua caduta rimbombò tra la furia dei tuoni e le urla della gente. Sotto la pioggia scrosciante, Sherlock Holmes riaprì gli occhi. Davvero. Lacrime copiose gli bagnavano le guance e il suo intero corpo era scosso da singulti strozzati e talmente forti da fargli male. Da sotto le ciglia appesantite dall’acqua piovana mescolata alle lacrime, scorse un corpo senza vita piegato inesorabilmente in avanti.
“John…” sussurrò a fatica mentre ogni cosa prendeva forma e gli si disegnava di fronte agli occhi. “John…” ripeté, stavolta con disperazione e rabbia e amore. Amore, cazzo, amore! Dov’era quell’amore mentre il siero creato dalla rete di Moriarty gli entrava in circolo annullandolo completamente? Dov’era mentre sputava quelle parole infarcite d’acidume e d’odio contro di John? Dov’era mentre, con la mano a contatto col cuore risonante di John, premeva il grilletto, uccidendo l’unica persona nella sua vita che aveva mai contato, che contava, che avrebbe mai contato.
Alle sue spalle, Moran ringhiò un non doveva essere permanente?, e caos, caos, e ancora caos. E lui era lì, in ginocchio, con gli abiti imbrattati del sangue di John. Premette le mani sporche sugli occhi e pianse mentre cercava di raggiungere la pistola che giaceva ancora carica a pochi passi da lui, ma delle braccia lo afferrarono e lo tirarono via. Lui provò a dimenarsi, a scalciare, a graffiare, ma era tutto inutile. Mentre lo trascinavano verso le scalette che conducevano alla base del palco, urlò il nome di John così tante volte e così forte da ferirsi la gola. Nessuno badò a raccogliere il corpo senza vita di suo marito. Nessuno si preoccupò di lasciare che si bagnasse, che prendesse freddo, che si ammalasse… Ma che stava dicendo? John era un cadavere. Un cadavere. Un qualcosa di freddo che ormai non era altro che un mero oggetto, un pasto per gli organismi decompositori.
Lo trascinarono via. Via da John. Via dalla sua vita. Via dal suo amore. E ogni cosa che seguì… fu un vuoto straziante e incolmabile.

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Capitolo 26
*** EPILOGO ***


CUORE SUL GRILLETTO
Epilogo

 
 
Avevano detto che sarebbe durato. Avevano detto che non si sarebbe svegliato mai più. Avevano detto che non avrebbe sentito niente. E invece, un ampio squarcio impresso col fuoco al centro del suo cuore buttava sangue così come i suoi occhi buttavano lacrime. Ogni singola cellula del suo corpo sembrava chiedere pietà per quanta sofferenza si spandeva per il suo intero corpo. L’avevano inchiodato al muro, gli avevano immobilizzato mani e piedi e una flebo gli pompava nel sangue i principi nutritivi necessari a non farlo morire di fame, visto che per una settimana intera si era rifiutato di toccare cibo anche quando gli avevano premuto la faccia contro i resti del piatto che aveva fatto volare con uno scossone della testa. Non dormiva da giorni, perché dormire era nocivo, doloroso: nel sonno, lo venivano a trovare troppe immagini fasulle che, nonostante lo astraessero dalla sanguinante realtà, quando riapriva gli occhi lo facevano risprofondare in essa con ferocia, schernendolo per aver anche solo sperato che un mero sogno potesse essere vero. Moriarty – o chi per lui – spesso entrava e gli faceva domande su un qualche progetto a cui stava lavorando – domande a cui, ovviamente, lui non rispondeva – e alcuni dottori gli iniettavano in corpo quel maledetto siero, sperando di piegarlo alla loro volontà, ma sembrava aver sviluppato una sorta di autoimmunità al farmaco.
Dopo lunghi giorni senza bere e mangiare, senza dormire, Sherlock Holmes si concesse il privilegio di chiudere gli occhi per un momento, uno soltanto, ma quel momento gli fu fatale. Quando li riaprì, si ritrovò in un ambiente completamente avvolto nell’ombra, così diverso dalla cella perennemente illuminata da quei fari abbaglianti. Si guardò intorno, il suo subconscio che ingranava laboriosamente i vari listelli della sua mente, mentre il suo sguardo cercava nell’oscurità.
“John?” chiamò istintivamente. Era ormai l’unica parola che fuoriusciva dalle sue labbra. Un nome. Una vita. Un amore. Un lutto. John era tutto quello che era capace di dire, l’unica cosa che la sua lingua fosse in grado di articolare. Non importava se sogno o realtà, ormai anche in quella cella gli capitava di chiamare debolmente l’amato perduto. Fungeva come una sorta di ricarica: gli ricordava che non c’era più, ma che c’era stato, che i farmaci, che gli estrogeni non avrebbero potuto cancellare nuovamente quella dolce immagine che lo cullava beatamente.
I suoi occhi sondarono il buio, e, nella congerie di tenebre, scorse una luce. Le corse incontro, la inseguì come un bambino spensierato insegue una farfalla, come il sole rincorre la luna nel suo ciclo giornaliero, come lui aveva rincorso e rincorreva tuttora John.
“John!” urlò con le lacrime agli occhi, sperando che quel barlume luminoso si arrestasse, che, sentendolo, interrompesse la sua avanzata, ma quello, anzi, sembrò velocizzarsi, scappare da lui. “John, non te ne andare! John! John!”
“Sherlock.”
Una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare. Si voltò di scatto e davanti a lui apparve la figura minuta di una ragazza dai lunghi capelli rossi e gli occhi vividi e accesi di affetto. La studiò per lunghi istanti. Non gli sembrava di conoscerla. Non gli sembrava di averla mai vista. Eppure, c’era qualcosa di inconfutabilmente familiare nel modo in cui sorrideva, nel modo in cui i suoi luccicavano.
“Chi sei?”
“Tu non mi conosci. Ma io conosco te. Ho passato così tanto tempo ad osservarti.”
“Che cosa vuoi?”
Lei scrollò semplicemente le mani. “Niente. Una persona mi ha semplicemente incaricato di prendermi cura di te.”
Gli occhi di Sherlock si accesero di consapevolezza e al contempo di nostalgia. “Dov’è? Dov’è lui?”
“In un posto migliore. Lontano dal dolore e dallo schifo umano.”
“Voglio parlargli, voglio vederlo…”
La ragazza si affrettò verso di lui e gli accarezzò una guancia. “Lo so, ma non è possibile, Sherlock. Non gli è consentito essere qui con te. E anche il mio tempo sta per scadere.”
“Solo un attimo. Voglio vederlo anche solo un attimo.” la pregò Sherlock inginocchiandosi di fronte a lei e tirandole la maglietta d’ombra che indossava, piangendo. “Io l’ho ucciso… l’ho ammazzato, capisci? E devo chiedergli perdono, devo dirgli che lo amo, devo dirgli che non volevo…”
“John non ti ha perdonato perché non c’è niente da perdonare. Lui lo sa, Sherlock, l’ha sempre saputo. Sa che non sei stato tu il responsabile, sa la verità.”
Sherlock affondò il volto piangente nel ventre morbido della ragazza. “Lui credeva in me… credeva in me anche quando gli ho sparato dritto in cuore. E’ colpa mia…”
“Non è colpa tua.” lo bloccò lei stringendogli le spalle e costringendolo a guardarla negli occhi. “Non è colpa tua.”
“Lui è tornato indietro per me, è stato catturato per me, è morto per me! E io che cosa ho fatto? Che cosa ho mai fatto per lui?”
La ragazza sorrise dolcemente e gli asciugò le lacrime dal viso. “L’hai amato. Fino alla fine. Il tuo cuore ha raggiunto il suo nonostante quel siero. Lui ti ha sentito, Sherlock. Ha sentito la tua voce e ad essa si è aggrappato.”
“Il mio amore non era abbastanza forte… il mio amore non era abbastanza forte da contrastare il siero.”
“Ah no? Non ti sei chiesto come mai non ha più effetto su di te? Purtroppo, Sherlock, troppo spesso un cuore spezzato è più forte di un cuore innamorato. Il ricordo di John, così vivo in te, il terrore di poter, in qualche modo, fargli ancora del male a causa del siero, tengono in vita la tua coscienza e annullano l’effetto del liquido.”
Sherlock sospirò e cercò di cacciare le lacrime che, copiose, gli rigavano le guance. “Vorrei dirgli solamente che lo amo.”
“Lo sa già.”
“Sì, ma vorrei guardarlo negli occhi e dirglielo.”
Lo sguardo della ragazza si oscurò appena e un amaro sospiro lasciò le sue labbra. Chiuse gli occhi e restò immota per diversi secondi, infine li riaprì, alzandoli in un punto indefinito, dietro a Sherlock.
“E allora fallo.”
Sherlock batté confusamente le ciglia, ma lentamente, si volse, seguendo lo sguardo dell’altra, e il suo cuore sussultò. La luce che stava inseguendo si era improvvisamente aperta come la corolla di un fiore al mattino, rivelando una figura non troppo alta, forse leggermente tarchiata, ma bellissima. Gli occhi di Sherlock percorsero ogni centimetro di quella visione idilliaca, soffermandosi sul volto radioso e sorridente.
“John.” sussurrò, osando un timido passo verso di lui. Quando John aprì le braccia, si lanciò in una corsa disperata verso di lui, urlando il suo nome e piangendo lacrime di gioia. Affondò contro di lui e lo tenne stretto, imprigionandolo contro il suo corpo, temendo che un qualche ordine superiore lo potesse portare via senza alcun preavviso. Le braccia di John lo avvolsero interamente e un dolce e tiepido calore lo pervase placidamente.
“John…”
“Sono qui.”
“Sei tu, vero? Non sei un altro John, sei davvero tu?”
Lo sentì ridacchiare sulla sua spalla. “Credi che se fossi uno dei falsi te lo verrei a dire?”
“No.” sospirò strofinando il naso contro il collo dell’altro, lasciandovi sporadici baci, come a testare il sapore tanto amato. “Mi dispiace, John… Mi dispiace.”
“No, Sherlock, a me dispiace. Nel mio egoismo, non ho fatto altro che sperare che tu ti salvassi, che vivessi… non avrei mai immaginato che… Cristo, Sherlock, è così orribile…”
“E allora portami con te.” rispose prontamente. “Portami dovunque tu sia ora.”
Ma il sorriso mesto che sfociò sulle labbra di John fu più chiaro di mille spiegazioni. “Mi chiedi l’impossibile, Sherlock. Un giorno, te lo giuro… Un giorno verrò a prenderti, quando sarà il momento.”
“Ma io ho bisogno di te, non voglio… non voglio che tu te ne vada.”
“E io non voglio andarmene, ma non ho altra scelta, capisci? Siamo bloccati in due mondi opposti, che per quanto vicini non si toccheranno mai. Ma arriverà presto, Sherlock, te lo prometto. Presto avremo il nostro per sempre.”
“Non ci credo più, ormai.” mormorò il detective scansandosi appena da quell’abbraccio per poter osservare il volto luminoso di John.
“Credici, Sherlock.” John afferrò la mano di Sherlock e in essa depositò qualcosa di freddo e piccolo, poi la chiuse con deferenza. “Aggrappati ai ricordi di noi due, come ho fatto io. Fallo e ti prometto che andrà tutto bene.”
“John…” farfugliò Sherlock notando che l’immagine dell’altro si era fatta improvvisamente più sbiadita e che quella luce che li circondava, lentamente, svaniva.
“Non guardare, Sherlock. Chiudi gli occhi e non combattere.”
“No, John, che sta succedendo? Non puoi andartene ora.” balbettò cercando di afferrargli il braccio, ma le sue dita incontrarono un nulla impalpabile. “John…”
“Ti amo, Sherlock. Ricordatelo. Ricordatelo sempre.”
“John… John! JOHN!”
Aprì gli occhi e si ritrovò scosso da profondi tremori. Il suo corpo era pervaso da un gelo assoluto e al contempo da un fuoco rovente che imperversava impietoso.
Si guardò intorno, il volto bagnato di lacrime, e in piedi, di fronte a lui, scorse una figura. Trattenne il fiato a quella visione e pensò di star ancora sognando, di non essersi ancora svegliato.
“Pensavo fossi morto…”
“Lo pensavo anch’io.” rispose Mycroft tirando via dalle tasche dei pantaloni le mani. “E probabilmente, da un lato, lo sono.”
“Dove sei stato?”
Le labbra del fratello maggiore si ridussero ad una mera fessura percorsa da tremiti. “Ho provato a seguire le tue orme… ma mi hanno portato semplicemente alla distruzione di una delle poche persone che abbia mai contato in vita mia.” Sherlock assottigliò lo sguardo e come conseguenza, due lacrimoni rotolarono giù dai suoi occhi, tintinnando a terra. “C’era una persona nella mia vita. C’era. Adesso è morta. L’ho uccisa io. Proprio come tu hai ucciso John.” La bocca tremante di Mycroft emise una mezza risata stonata e quasi soffocata. “Purtroppo, a quanto pare, noi Holmes vantiamo una forza d’animo superiore alle persone comuni. E per questo, il siero non ha eterna durata e la nostra vita risparmiata non sarà altro che una mera maledizione.”
“Chi?”
“Non ha importanza.” sospirò. “Nostro padre aveva ragione: tenere a qualcuno non è un vantaggio.”
“Che cosa ci fai qui? Perché non sei in prigione come me?”
“Perché io, al contrario tuo, non ho alcuna intenzione di ribellarmi nuovamente a Moriarty.” Gli occhi di Sherlock s’ingigantirono improvvisamente e di limitò a guardare il fratello con stupore, ma al contempo attesa. “La persona che… che amavo, è morta odiandomi. Ha creduto che volessi solo raggirarlo e che per questo mi sono avvicinato a lui.” La voce di Mycroft tremò irregolarmente e così fu costretto a passarsi una mano sul volto per evitare di lasciare alle lacrime il potere di solcargli le gote pallide.
“E credi davvero che la persona che amavi sarebbe felice di vederti assecondare l’uomo che vi ha distrutto?”
“No.” rispose semplicemente il maggiore. “Resterò nelle file di Moriarty e lo distruggerò pezzo per pezzo. Ma per farlo, devo portarlo a fidarsi di me. Il mondo sta cambiando, Sherlock, la morte di John ha sconvolto la nazione, il tuo risveglio improvviso ha creato scompiglio, domande… si stanno scatenando rivolte, è in atto un colpo di Stato, e la cosa si sta diffondendo per l’Europa intera e, chissà, magari presto anche nelle parti del mondo restanti.”
Sherlock distolse lo sguardo: il mondo si stava risvegliando, il mondo stava reagendo, il mondo stava cambiando. E tutto questo, grazie a John. Sorrise sofferentemente rendendosi conto di quanto fosse stato fortunato ad esser stato amato da lui. John Watson ce l’aveva fatta, alla fine. Aveva cambiato il mondo. Tutto era cominciato con la ricerca di sua sorella ed ora… ora ogni cosa si stava smuovendo.
Distruggere Moriarty. Moriarty che aveva distrutto Cuba. Cuba che aveva distrutto inutili pregiudizi. Pregiudizi che avevano distrutto milioni di persone. Milioni di persone che avevano distrutto il sistema.
Un cane che si mordeva instancabilmente la coda. E lui, lui era stanco di lottare. Stanco. L’unica cosa che voleva ora era chiudere gli occhi e non riaprirli mai più.
“Deduco che tu non hai alcuna intenzione di seguirmi in questo progetto.”
Un debole sorriso si affacciò sulle labbra di Sherlock. “Ho lottato troppo per continuare a lottare. Un tempo avevo qualcuno per farlo, ora non mi è rimasto neppure quello. L’unica cosa che voglio è smettere di sentire…” La sua voce venne incrinata dal dolore riapparso come l’impronta di un tirannosauro sul suo cuore. “… di sentire questo vuoto enorme.”
Mycroft annuì debolmente e con lentezza, si avvicinò al fratello minore, le mani che scivolarono nelle ampie tasche dei pantaloni. Si fermò a poca distanza da lui e studiò il suo volto devastato dal dolore. Con estrema calma, estrasse una siringa con all’interno un liquido trasparente. Sherlock osservò quell’ago affilato e se ne sentì rapito, infine, un sorriso sollevato gli esplose in viso.
“Grazie, Mycroft.”
“Non ringraziarmi. Questo non ti ucciderà: le tue funzioni vitali sono strettamente monitorate e qualunque valore sballato farebbe scattare una serie infinita di allarmi e di protocolli per ripescarti dalla morte e riportarti nel mondo dei vivi. Questo farmaco ti ridurrà in uno stato vegetativo: la tua mente sarà libera da ogni paletto che la tiene ora attiva. Sarà come vivere nel tuo Palazzo Mentale fino a quando il tuo corpo non cederà inevitabilmente.”
Sherlock ponderò quelle parole e si trovò a sorridere. Il suo Palazzo Mentale… Ci aveva passato così tante ore, vagando per quelle stanze ingombre di scaffali e archivi. Nell’ultima settimana, aveva cercato disperatamente di rinchiudersi in esso e riprendere la sua vita spezzata assieme a John a cui aveva dedicato un’intera, gigante ala. Le torture degli scagnozzi di Moriarty, però, l’avevano sempre catapultato fuori con violenza ed era diventato sempre più difficile chiudere gli occhi e trovare quella calma necessaria per ricominciare a vivere tra quei muri confortanti. Ora, aveva la possibilità di restare là dentro per sempre. O meglio, finché anche il suo corpo non fosse morto. Ci sarebbe stato anche John, con lui. Era perfetto.
“Fallo.” sussurrò Sherlock sorridendo. “Fallo, te ne prego.”
“Come desideri.”
Mycroft si inginocchiò di fronte a lui, la siringa in mano e gli occhi arrossati. Non aveva bisogno di tirar su alcuna manica, dato che il torso di Sherlock era completamente nudo e deturpato da profonde ferite e bruciature a causa delle torture. “Mi dispiace così tanto, Sherlock…” mugugnò allora, chinando appena la testa e scuotendola con aria sconfitta. “Avrei voluto far di più, avrei voluto rendermi prima conto della mia follia, avrei voluto…”
“Ti voglio bene, fratello mio.” lo interruppe Sherlock. “Alla fine, ti sei rivelato il fratello che speravo di avere.”
Mycroft non riuscì più a trattenere due amare lacrime. “Greg.” biascicò alla fine. “Era Greg.”
“Lo sospettavo.” rispose il minore con un mezzo sorriso.
“Addio, fratello mio.”
“Addio, Mycroft.”
E l’ago s’infilò dolce nella carne.
 
***
 
Sherlock era steso su un prato fiorito e osservava le scaglie di cielo azzurro che s’intravedevano attraverso le fronde verdeggianti dei pochi alberi che componevano quel piccolo boschetto.
“Ah, allora eri qui.”
Volse appena la testa, quel tanto che gli bastava per scorgere la figura di Clara in piedi accanto a lui, le braccia rigidamente conserte.
“Dove pensavi che fossi?”
“Dio solo lo sa.” rispose lei sospirando con fare annoiato. “Signor Holmes, vorrebbe gentilmente degnarmi della sua presenza all’interno della locanda?”
Sherlock roteò gli occhi e si girò su un fianco, dandole le spalle. “Gary ha di nuovo sbagliato prenotazione e Billy è sull’orlo di mangiarselo? Chiama qualcun altro, Clara, non ho voglia di muovermi di qui.”
Una serie di passi si avvicinarono lesti e pesanti. “No, sono io che sono sull’orlo di mangiarmi tuo fratello.”
La voce di Lestrade lo fece sobbalzare, ma a quelle parole non riuscì a trattenere una risata. “Che ha combinato, stavolta?”
“Ho preso le ferie per andare in vacanza con lui, ma il signor Governo non può più, dato che è stato trattenuto da impegni irrimandabili.”
“Lo conosci mio fratello, Greg. E poi, si sa, alla fine lo perdoni sempre.”
“Eh no!” esclamò fuori di sé l’ispettore alzando le braccia al cielo, suscitando in Clara una risatina divertita. “No! Stavolta, non la passerà liscia. Ora tu vieni dentro con me e lo convinci a rimandare qualsiasi cosa ritenga irrimandabile. O al limite, mi basta che mi trattenga dallo sbranarlo senza pietà.”
Sherlock sospirò nuovamente e si tirò su, ciuffi d’erba gli si erano impigliati nei riccioli corvini. “E va bene, va bene.”
“Clara!”
Clara si voltò, appena in tempo per accogliere il corpo di una giovane donna dalla voce squillante e i capelli color del grano. “Harry, per l’amor del cielo, hai intenzione di farmi cadere e sbattere la testa?”
Harriet si staccò, un sorriso furbo a illuminarle il viso radioso. “Può darsi, anche perché sua intelligenza l’ispettore Lestrade l’avrebbe fatto archiviare come un semplice incidente domestico.”
“Poi però sarebbe arrivato Sherlock e ti avrebbe fatta sbattere al fresco.” replicò l’altra ridendo, per poi accarezzarle dolcemente i capelli spettinati dalla corsa.
“Così però non vale…”
Lestrade incrociò le braccia, infastidito dalle parole di Harriet, ma decise di soprassedere, visto che lo aspettava un’altra guerra, e tirò via l’amico per un braccio, trascinandolo su per la salita che conduceva alla locanda.
Sherlock si guardava attorno con gli occhi che brillavano: ovunque c’erano volti conosciuti e altri no, vi erano persone scure, chiare, dagli occhi a mandorla, dalle labbra sporgenti, vi erano individui su carrozzine, bambini con visibili difetti fisici abbracciati a mamme, papà, nonni… Se avesse creduto nel Paradiso, Sherlock avrebbe detto che fosse quello.
Dalla locanda, uscì di corsa la figura austera di suo fratello, in mano il suo inseparabile ombrello, ma appena li vide arrivare s’immobilizzò, l’incertezza che andava a colorargli il volto pallido.
“Cielo, Greg, spero che tu stia scherzando…”
“Non chiamarmi Greg quando sai che sono fuori di me.” lo interruppe l’altro. “Sherlock, ti prego, parlaci tu.”
“Oh, tutto questo è semplicemente puerile da parte di entrambi.”
“Sono qui non di mia volontà, Mycroft, te l’assicuro.” ribatté il fratello cercando di divincolarsi dalla presa ferrea di Lestrade.
“L’ho chiamato io per risolvere questa storia.”
“Non c’è niente da risolvere, Greg, non posso non…”
“Non mi chiamare Greg!”
“Whoa, ragazzi, calmatevi!” esclamò Gary comparendo alle spalle di Mycroft e circondandolo con un braccio, in una stretta amichevole. “Oggi è un giorno speciale, non roviniamolo.”
Sherlock assottigliò lo sguardo. “Che giorno speciale?”
Billy apparve accanto al compagno, sorridendo come un ragazzino spensierato. “Vieni dentro e lo scoprirai.”
Clara ed Harriet, comparse da chissà dove, afferrarono il detective per le braccia e lo condussero ridendo dentro la locanda e ciò che Sherlock vide fu semplicemente incredibile: per quanto l’ambiente fosse piccolo, migliaia e migliaia di persone vi giravano sorridenti, parlottando fra di loro, ridacchiando, scambiandosi aneddoti. Fra di essi, riconobbe alcuni volti che aveva visto da qualche parte, in una vita passata: c’erano la piccola Alexandra con sua madre e il suo finalmente ritrovato padre, c’era il giovane Matias assieme ai suoi fratellini e alle sue sorelline, c’erano Davis e Loghan che se ne stavano in un angolino abbracciati, c’era Thao con la sua fidanzata che aveva lasciato in Cina, c’erano Molly e la signora Hudson, e tanti, tanti altri ancora… Colori caldi e vivaci dominavano per la stanza e tutti tenevano in mano un calice di champagne intonso, come pronti per un brindisi. Sherlock si guardò attorno con gli occhi che brillavano e, per qualche strana ragione, fra quei volti allegri e quelle teste, cercava qualcosa… o qualcuno? Una voce al suo orecchio lo fece sobbalzare:
“Trovalo.” gli mormorò Clara mentre Harriet lo spingeva con fare incoraggiante in mezzo alla calca.
Trovarlo? Trovare chi? Si mosse tra quei corpi e quelle persone con fluidità, per niente oppresso dalla torma che lo circondava, e il suo sguardo vagava in cerca di qualsiasi cosa dovesse trovare. Sentiva che mancava qualcosa a quel quadro meraviglioso. Sentiva che mancava qualcuno. A mano a mano che passava, gli occhi di tutti si posavano ridenti su di lui e in molti lo salutavano, porgendogli la mano o dandogli amichevoli pacche sulle spalle.
Una luce. In mezzo alla folla, una luce. E Sherlock prese a seguirla, aumentando il passo e cominciando quasi a correre, ancora, ancora, ancora… finché non si ritrovò in un appartamento. Intonaco verde, tende marroni, due poltrone, un divano… Familiare. Tutto quello era straordinariamente e innegabilmente familiare. Studiò col cuore in gola lo smile giallo dipinto sulla parete di fondo e il teschio adagiato sul camino.
“Baker Street…” mormorò dentro di sé.
“Sherlock.”
Si voltò di scatto, gli occhi che, inspiegabilmente, presero a lacrimare. Davanti a lui, un ometto dalla statura infima, capelli biondi, occhi cristallini.
“John…”
E John sorrise. Sorrise mentre annuiva serenamente. Sorrise mentre si avvicinava a lui con sguardo dolce. Sorrise mentre circondava il suo corpo scosso dai singhiozzi con le sue braccia forti. Sorrise mentre gli mormorava che andava tutto bene, che adesso era tutto finito.
“John…” ripeté Sherlock gustando quella parola dolce e fruttata.
Quando sciolsero l’abbraccio, i loro corpi rimasero vicini, i nasi che si sfioravano, e le labbra a pochi centimetri di distanza.
“Perché sto piangendo?” chiese con un sorriso imbarazzato Sherlock mentre chiudeva appena gli occhi e poggiava la fronte contro quella dell’altro.
“Non ne ho idea. Forse, col passare del tempo, sei solo diventato il più sentimentale di tutti.”
E Sherlock rise. Rise mentre chiudeva nuovamente gli occhi. Rise mentre le sue labbra s’incontravano con quelle di John. Rise mentre il suo cuore batteva felice in sintonia con quello di suo marito. Rise mentre sussurrava tutto il suo amore e John rispondeva con i suoi baci dolci e vellutati.
“Credo che tu abbia qualcosa che mi appartiene.” sussurrò infine il medico staccandosi appena. All’altro, bastò aprire il palmo della mano dov’era magicamente apparsa una banda dorata, al cui interno era inciso un nome. Il suo nome.
“Credo proprio di sì.”
E detto questo, l’anello sfilò sul dito di John come fosse una seconda pelle. Le loro mani sinistre s’incontrarono e le fedi luccicarono beatamente.
“All’amore!”
Un boato li fece sussultare e quando si voltarono scorsero la locanda di Billy e Gary colma di persone che innalzavano verso di loro i propri calici, sorridendo.
John e Sherlock tornarono a fissarsi reciprocamente, occhi negli occhi, cuore nel cuore.
“All’amore.” sussurrò John.
“All’amore.” rispose Sherlock.

SPAZIO AUTRICI
Eccoci qui, alla fine... E' stato un percorso impervio, sofferto. Un percorso che, personalmente, ci ha regalato molte soddisfazioni grazie a tutti voi. Non abbiamo commentato il capitolo precedente proprio perché abbiamo intenzione di aprire e chiudere una piccola-grande parentesi qui. D'accordo, il finale potrà sembrarvi ingiusto, anche per noi è così, e fino all'ultimo ci siamo interrogate su quale fosse la scelta migliore. Poi, ovviamente, è prevalso il nostro lato sadico e quindi eccoci qui. Speriamo che, nonostante il finale drammatico, abbiate apprezzato questa storia, abbiate apprezzato noi due bastarde - perché è esattamente quello che siamo - e abbiate apprezzato l'amore sconfinato dei nostri protagonisti. E' vero, l'esecuzione di John ci lascia con un "ma allora l'amore non vince su tutto". E noi vi rispondiamo: no, non vince su tutto. Non in vita, perlomeno. Ma noi siamo certe che l'amore, quello vero, quello che provano Sherlock e John l'uno per l'altro, sopravvive alla morte. Se vogliamo, è anche un finale aperto perché non sapremo mai come si concluderà la rivoluzione, i piani di Mycroft... lasciamo a voi l'immaginarvelo, se volete potete anche scriverci come pensate possa finire nelle recensioni. E niente, fra poco è Pasqua, perciò SU COL MORALE, siete liberi di odiarci con tutto il vostro cuore, insultateci pure nelle recensioni - se volete - e speriamo di rivederci prossimamente ad un'altra fan fiction. Ciao, Cuore sul grilletto, e grazie per tutte le emozioni che hai regalato in primis a noi autrici. E grazie anche a tutti voi, davvero. 
Un bacio
Alicat_Barbix

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