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Per leggere questa storia bisogna
necessariamente leggere “Black
Smoke” e “Dark
Lovely Sea” di
cui è continuo e fine (e se volete anche “I
rumori della lontananza”, anche se non è necessario visto che è soltanto un
brevissimo intermezzo che completa il quadro).
Come sempre, buona lettura ;)
Night
Soul
La
casa era vuota, ancora calda.
Severus
sfogliava il giornale, svogliato, le gambe accavallate e una tazza di caffè che
ogni tanto sorseggiava, anche quello svogliatamente, tanto che ormai era
diventato freddo. E imbevibile.
Fece
una smorfia e l’allontanò da sé, piegando accuratamente il giornale fece
un’altra smorfia: come al solito niente d’interessante.
Perché
si ostinava a farselo recapitare?
Forse
perché voleva mantenere un qualche contatto con ciò che aveva lasciato o forse,
semplicemente – anche se non era disposto ad ammetterlo – perché cercava un
nome tra quelle righe. Un nome soltanto.
Si
accontentava di quello, anche se ogni giorno il suo inconscio sperava di vedere
un volto, una foto per spiare un istante della sua vita, come andava avanti.
Perché
gli sarebbero rimaste soltanto quelle fotografie da guardare e riguardare fino
a consumarle con gli occhi, immaginando di essere al suo fianco o anche solo
vicino per poterlo sfiorare da un momento all’altro, per immaginare tutta una vita
giorno dopo giorno.
Soltanto
pezzi di carta di tutti i suoi desideri, da tenere o strappare come il ricordo
di quel sorriso e di quello sguardo di speranza.
Scosse
la testa prepotentemente mentre riscaldava il caffè, senza, però, berlo: se
n’era andato proprio per non cercare nulla di lui, aveva deciso di cominciare
una nuova vita altrove perché nella sua vecchia esistenza non riusciva più a
starci, e respirava a malapena nel sapere di non poterlo avere accanto per
sempre.
Era
scappato perché pochi attimi non gli bastavano più.
Riprese
il giornale, senza aprirlo, soltanto tra le mani a fissare la prima pagina, lì
dove la data faceva bella mostra di sé.
31
ottobre.
L’anno
lo lesse e basta mentre sfilava una sigaretta dal pacchetto, non gli sembrava
importante tenerlo nella mente, era solo l’ennesimo tempo passato inutilmente,
vuoto di speranze e di quei piccoli momenti felici della vita, di quella guerra
che combatteva ormai solo dentro se stesso, mai dimentico di quelle maschere
che ancora continuava a cucirsi addosso con un grosso ago che faceva male.
31 ottobre.
Indugiò
ancora su quei numeri e su quelle lettere, aspirando a lungo un po’ di
nicotina, e gli sembrò di andare a fuoco. Di esser bruciato da dentro da fiamme
invisibili e senza fumo che, però, lo asfissiavano comunque.
Erano
passati anni di niente, eppure quel giorno continuava a distruggerlo come una
lenta agonia che si presentava all’improvviso rendendolo arido e folle di
dolore. Ed era pura follia continuare a torturarsi per un passato che non
poteva più cambiare e cui aveva cercato di porre rimedio in ogni modo. E lo
aveva fatto.
Aveva
sacrificato persino la sua vita per quegli istanti andati d’insensatezza,
eppure era lì.
Ancora
lì.
E
guardava pagine piene di parole e foto. Piene di una vita fa.
Una
lenta tortura che gli lambiva il corpo e la carne e poi ancora più in
profondità fino a sentirsi corroso e inutile. Inesistente.
Si
alzò di scatto dalla poltrona portando con sé il giornale e quei caratteri che
come lame continuavano a perforargli la carne, e lo gettò nel camino che ardeva
flebile, aspettando che le fiamme si alzassero e ne consumassero fino all’ultimo
angolo, fino all’ultimo tratto d’inchiostro che continuava a dolergli come un
marchio appena fatto.
E
la sentiva la pelle che si carbonizzava all’istante. Ne sentiva l’odore.
E
il dolore.
Mentre
continuava a fissare le fiamme che si erano fatte meno intense, qualcosa lo
distrasse, un leggero bussare alla porta che si fece via via più forte per poi
interrompersi: forse era qualche abitante del paese che voleva qualcosa, ma in
quel momento non aveva alcuna voglia di ricevere visite.
Si
voltò di nuovo verso il camino, la sigaretta stretta tra le labbra, e aspettò
che chiunque fosse se ne andasse, come ormai avevano imparato a fare quando non
apriva subito la porta, ma il rumore riprese, più deciso.
Era
un tocco che conosceva fin troppo bene. Un tocco che si era lasciato anch’esso
alle spalle come tutto ciò che riguardava la sua vecchia vita.
Aveva
davvero creduto di dimenticare semplicemente la sua vecchia esistenza?
Ci
aveva sperato, ma quella speranza era scoppiata come tutte quelle che aveva
avuto fin dalla sua infanzia, quando ancora aveva pochi anni e molti sogni.
Poteva
provare ad ignorare il rumore, la persona al di là della porta, ma sapeva che
era del tutto inutile.
«Severus,
lo so che ci sei.»
Il
mago trasse un profondo sospirò per cercare di scrollarsi di dosso la cenere
asfissiante di quel giorno, si staccò dalla pietra del camino che aveva stretto
con troppa intensità fino a farsi dolere le dita e gettò il mozzicone tra la
legna, poi diresse i passi verso l’ingresso, fermandosi con la mano a pochi
attimi dalla maniglia, esitante e quasi timoroso. E aprì.
«Minerva.»
Lo disse deciso, ma con tono flebile, come se volesse mantenersi distaccato.
Erano
passati appena pochi mesi dall’ultima volta che l’aveva incontrata, eppure gli
sembravano secoli, come se la persona che in quel momento gli era davanti, era
qualcuno che non conosceva, che non aveva mai visto, ma i suoi capelli erano
raccolti nella stessa crocchia di sempre e il mantello verde appuntato sul
petto era quello che le aveva visto indossare spesso.
«C’è
puzza di nicotina qui dentro.»
«Come
mi hai trovato?» fu l’unica cosa che gli parve sensato chiedere, ignorando
l’affermazione della donna.
«Grazie
al tuo abbonamento a La Gazzetta del
Profeta.»
«Ah.»
Quel giornale era inutile, pieno d’insensatezze e di futili speranze, e aveva
sempre saputo che un giorno o l’altro gli avrebbe causato problemi, ma pensava
più a complicazioni emotive e sentimentali, non a visite che non voleva
ricevere.
Era
stato stupido, doveva ammetterlo, se loro sapevano come raggiungerlo, poteva
scoprirlo chiunque, era ovvio.
Quello
era un buon motivo per smettere di riceverlo, si disse mentre fissava la strega
sfilargli accanto, sorridente e malinconica.
«Cosa
ci fai qui?»
L’anziana
donna dapprima non rispose, si guardava intorno forse in cerca di qualcosa o
forse di niente, scrutava ogni angolo della stanza, di quello che poteva vedere,
come se volesse trovare pezzi di lui tra le pareti, di un lui che non
conosceva, o almeno non conosceva più. Poi voltò soltanto il viso per fissarlo,
mentre il corpo rimaneva immobile: «Non rispondi alle mie lettere.»
«Ho
scelto di non avere più alcun contatto col passato.»
Stavolta
Minerva girò tutto il corpo, piegando la testa continuò a fissarlo, curiosa e
forse triste, poi la vide sorridere, un sorriso appena accennato, ma c’era,
come quelli che riservava a Dumbledore e alle sue idee insensate. «E La Gazzetta del Profeta ti arriva per
sbaglio, giusto?»
Colpito
da quelle parole, cercò di passare oltre, di mostrarsi ancora una volta
impassibile e con una maschera sul volto, forse era una nuova o ne aveva scelta
una dal suo repertorio, ne aveva così tante nel suo catalogo che ormai neppure
le distingueva più. «Minerva cos’è che vuoi, esattamente?»
«Oggi
è Halloween.»
«Se
sei venuta a dirmi questo, potevi benissimo risparmiare il viaggio. Lo so che
giorno è. Perfettamente» e dolorosamente, avrebbe aggiunto volentieri, ma poi
cosa sarebbe cambiato? Dentro di sé e fuori?
Voleva
solo dimenticarsene. Nient’altro.
Era
chiedere troppo?
Non
era giusto che gli fosse permesso di voltare finalmente pagina? Di lasciarsi
tutto alle spalle?
Non
aveva sofferto abbastanza? Non aveva espiato più di quanto fosse stato
necessario?
Voleva
solo andare avanti. Nulla di più.
Eppure
Minerva era lì davanti a lui, a ricordargli ogni cosa; il suo viso si era
trasformato in un’onda del passato che gli si era abbattuta nuovamente addosso.
Era
andato oltre Lily, oltre tutto, e lo aveva fatto grazie ad un altro paio di
occhi verdi, e poi aveva perso anche loro. E oltre quelli non era ancora
riuscito ad andare, inutile negarlo. Inutile mentire e raccontarsi favolette a
cui neppure i bambini ormai credevano più.
E
lui, alle favole, aveva smesso di credere da tempo. E persino ai sogni. O alla
felicità.
Se
avesse potuto bruciare le inquietudini e i dolori come poco prima aveva
bruciato il giornale, tutto sarebbe stato più semplice.
E
lui sarebbe potuto essere un nuovo se stesso. Costruirsi persino una nuova
immagine del suo essere.
Niente
più spia, niente più traditore, niente più Mangiamorte. E niente più assassino.
Soltanto
Severus. Nulla di più.
Severus
con il proprio bene e il proprio male, con le sue ombre e con tutto quello che
di bello aveva da offrire. Nient’altro.
Smettila di sognare ad
occhi aperti, Severus.
L’anziana
strega si avvicinò, lentamente, e allungò una mano per sfiorargli il viso e
sorridergli piena di apprensione e di quel sentimento di maternità che spesso
aveva sentito provenire dal suo corpo. «Vi amate, lo so, ma è una situazione
che vi porterà a farvi del male. Solo che ve ne farete ancora di più stando
lontani.»
Snape
s’irrigidì e poi vacillò appena, sgranando gli occhi si allontanò dalla strega,
come se lo avesse colpito con uno schiaffo invece che con delle parole. «Tu…
come…» e cercò di riprendersi, di infilarsi nuovamente la maschera e smentire
quelle parole, ma sapeva che ormai i suoi gesti lo avevano tradito ed era
troppo tardi per tornare indietro.
«Avete
lo stesso sguardo vuoto e addolorato. Lo stesso bagliore di amor perduto.»
«Non
è la stessa cosa.» Il mago raddrizzò il corpo, lievemente irritato per quel
paragone: lui era l’amante, il terzo incomodo, qualcuno con cui rompere la
routine coniugale, non poteva per niente paragonare le loro condizioni e, anzi,
equipararle così facilmente.
«Severus...»
la strega fece un passo indietro, e poi un altro, e andò a sedersi sulla
poltrona dov’era stato lui fino a pochi minuti prima, quasi stanca di lottare
contro tutte le complicatezze della vita, e di quelle che le persone si
creavano inutilmente. «Non puoi incatenare l’amore attraverso i contesti che lo
compongono. Non può essere razionalizzato.»
«Minerva,
con tutto rispetto, ma non ho alcuna voglia di perdere tempo in discorsi
filosofici. I contesti, come li chiami tu, hanno una certa importanza,
soprattutto dove ci sono una famiglia e una persona che può distruggerla. Non
puoi parlare semplicemente di contesti.»
«Se
lui non fosse sposato, cosa faresti?»
«Sarebbe
diverso. Tutto diverso.»
«Quindi
vivresti con lui? Sareste felici?»
«Forse
o forse no. Ma lui è sposato.»
«Vedi,
questo è un contesto senza valore, perché vi amate, ed è questo che conta.»
«Minerva,
sei impazzita, per caso? Ti è successo qualcosa quando me ne sono andato?»
Snape si mosse appena, la testa che vagava per la stanza per guardare qualsiasi
cosa che non fossero gli occhi dell’anziana strega nascosti dietro gli occhiali
squadrati. «Non posso credere che tu lo stia dicendo davvero. Che ci creda
davvero a queste parole.»
«Il
mio primo amore era un Babbano che non ho voluto sposare per non fare la stessa
vita di mia madre rimpiangendo il vivere senza magia, e di mio padre che ha
dovuto mentire per anni per nascondere la nostra “condizione”, venendo meno al
suo essere un uomo di Dio. E ho continuato a tenerlo nel cuore finché non è
morto.» Minerva pronunciò una parola dopo l’altra senza neppure prendere fiato,
senza distogliere lo sguardo da lui, fissandolo con decisione, quasi non
sbattendo le palpebre, e si torturava le dita come se il ricordo ancora
l’addolorasse.
Severus
smise di guardare la stanza e fissò gli occhi in quelli della strega, storse un
po’ la testa prima di parlare: «Se volevi sostenere la tua tesi, avresti dovuto
scegliere un esempio diverso» e la donna per un attimo sorrise, quasi iniziò a
ridere senza, però, smettere di torturarsi le mani. «Se fosse stato un mago, lo
avresti sposato, e la tua teoria sui contesti va piuttosto a farsi fottere,
Minerva.»
«Lo
so.»
«Lo
sai?» drizzò la testa alzando un sopracciglio, curioso, e in attesa che dicesse
altro. «Comincio a fare fatica a seguirti, sinceramente.»
«Non
guardarmi come se fossi Albus!» Snape spostò di nuovo la testa, all’indietro,
non capendo cosa volesse intendere: non la stava guardando in nessun modo,
tantomeno non come guardava quel vecchio pazzo quando sputava un’insensatezza
dietro l’altra. «Lo stai facendo di nuovo.»
«Non
ti guardo come Albus. Tu non sei Albus» andò per un attimo a sistemare un
ciocco di legno che era caduto in un angolo, e lo fissò per alcuni istanti
mentre si accendeva un’altra sigaretta. «Fortunatamente» aggiunse, continuando
a guardare le fiamme che si ravvivavano, sputando fuori un po’ di fumo nero
prima di buttarla quasi intatta. «E non voglio parlare di Albus Dumbledore,
perché avrei molte cose da dire su di lui» e si voltò brandendo l’attizzatoio
come se quel nome gli avesse tirato fuori anni e anni di rabbia.
«Beh,
Severus, l’hai detto tu che non sono lui, quindi metti giù quell’affare, per
Godric!»
«Oh…
scusa.»
«Comunque
nemmeno io voglio parlare di lui, anche se avrei molto da dire.»
Snape
si allontanò lasciandola sola per un paio di minuti, quel nome lo aveva turbato
più di quanto avrebbe ammesso, come se già l’essere il 31 di ottobre e l’essere
solo non fossero stati abbastanza.
«Tieni»
e le porse un bicchiere che riempì non appena l’anziana strega l’ebbe
afferrato.
«Whiskey.
Alle nove di mattina. Sei serio?»
«Se
devo continuare a scambiare confidenze d’amore con te, credo che mi serva. E
che serva anche a te.»
Mandarono
giù una sorsata e poi si ritrovarono entrambi a ridere, e continuarono a
parlare come due vecchi amici che si rivedono dopo anni e si raccontano storie
della loro vita. Beh, più lei di Severus che per la maggior parte del tempo
ascoltava bevendo il liquore.
«Tutto
mi sarei aspettata nella vita, tranne parlare di questo con te.»
La
bottiglia era ormai finita, anche se in realtà aveva bevuto più lui della
McGonagall, e alle dieci del mattino non era una cosa positiva.
Non
il 31 di ottobre.
Non
a parlare – a sentir parlare – di Harry Potter.
«Senti,
Severus» la strega si fece all’improvviso seria, bevendo l’ultimo sorso di
liquore che ancora aveva nel bicchiere, guardandolo spegnere l’ennesima
sigaretta. «È vero, è sposato, e questo complica tutto, ma non lasciare che
questo distrugga quello che provate l’uno per l’altro, non sei mai stato uno
che si arrende. O si nasconde.»
«Ti
sbagli, Minerva, io mi sono nascosto per anni. Ho nascosto una grossa parte di
me dietro un muro di nero e di niente, dietro un cumulo di maschere che mi
hanno soltanto fatto odiare.»
«E
allora cambiala questa cosa. Smettila di nascondere te stesso e di nascondere i
tuoi sentimenti, non l’hai già fatto abbastanza?»
«Già,»
ma quella parola gli uscì più amara di quanto volesse, e forse voleva proprio
che fosse così, che in tre sole piccole lettere e un tono di rassegnazione,
fossero riassunte tutte le delusioni che avevano attraversato la sua vita.
«Lui
ti ama.»
«L’amore
a volte non basta. È soltanto una parola che si dice o l’aggrovigliarsi di due
corpi in poche notti l’anno.»
«Torna
a casa, Severus. Torna a casa con me, e lotta affinché non sia più soltanto una
parola. Mi fa male vedervi così.»
«A
me vedi poco.»
«Ma
vedo Harry e so che quello che vedo in lui è anche in te.»
«Non
voglio che soffra, che perda tutto. Non voglio far soffrire Ginny Weasley o la
sua famiglia.»
«E
credi che dividere la vita con qualcuno e amarne un altro non faccia soffrire
entrambi? Le menzogne fanno soffrire, Severus, dovresti saperlo.»
Snape
sospirò sentendosi l’animo sconfitto e pesante, e tornò davanti al camino per
stringerne la pietra ancora una volta, quasi con disperazione, come se
aggrappandosi ad esso, non sarebbe scivolato nella realtà di quelle parole e di
tutta quella situazione.
Perché
si era dovuto innamorare proprio di lui? Di tutte le persone possibili proprio
di quel dannato moccioso cui aveva rovinato la vita.
E
se proprio il destino gli avesse riservato quell’amore, perché non glielo aveva
messo davanti agli occhi prima? Appena pochi mesi per evitare che tutto si
complicasse ancora.
Non c’è mai niente di
facile per te, vero, Severus? Non c’è mai niente di facile nella vita.
«Non
so che fare, Minerva,» ma continuava a scrutare i colori delle fiamme, sperando
che prima o poi si facessero talmente alte da divorarlo completamente. «Lui è
il Ministro della Magia.»
«E
allora?»
«Allora?!»
«Già,
allora. Non è mica il Papa, ed esiste il divorzio.»
«Sei
molto brava a semplificare le cose» e sorrise, abbassando la testa e le spalle come
se qualcuno lo avesse caricato di un improvviso ed invisibile peso, e se lo
sentiva addosso davvero, se lo sentiva da tempo a spingerlo sempre più a terra
fino ad ascoltare ogni passo in lontananza, ogni voce e ogni singola emozione
che lui sentiva di non poter vivere.
«Sono
venuta qui per questo!» e ridacchiò facendogli sentire che tutto poteva essere
davvero così semplice. «Torna a casa» ripeté ancora una volta, facendosi di
nuovo seria, convinta e sperando di convincere anche lui, con tutto l’amore di
cui era capace e con tutto il bene che, nonostante in passato lo avesse messo
in discussione, era ancora lì, adesso come allora e come sempre.
Si
alzò dalla poltrona e lo raggiunse vicino al camino, lì dove il volto era
rivolto a terra a guardare quel pavimento che si dilatava e si restringeva, e
le mani ancora schiacciate sulla pietra, e ne prese una tra le sue segnate dal
tempo, da quelle pieghe e vene che disegnavano tutta una vita, e la strinse,
forte, sentendola fredda nonostante il mago stesse davanti al fuoco.
«Severus…»
il mago alzò appena il volto per guardarla. «Non chiuderti nuovamente in te
stesso. Non lasciare nuovamente scorrere la vita e basta,» poi si drizzò,
scostando le mani dal camino e da quelle dell’anziana strega, osservandola
appena prima di allontanarsi da lei, dalle sue parole, e da tutto quello che
significavano. Dalla realtà che emanavano come un profumo troppo forte e
nauseante.
«Hai
paura di ferire gli altri, lo capisco, ma così continui a ferire soltanto te
stesso. E gli altri finirete per ferirli comunque mentendo.»
«Non
dipende soltanto da me, Minerva. Non conta solo quello che voglio io.»
«Dovresti
chiedergli cosa vuole lui, cosa vuole davvero.»
«Il
volere non basta.»
«Volere
è potere, te l’hanno mai detto?»
«Non
ho mai amato queste frasi fatte, perché nella realtà non si adattano ad ogni
cosa. Le situazioni cambiano. Le persone cambiano.»
«E
tu? Tu sei cambiato? Vuoi cambiare, Severus? O vuoi continuare ad essere una
pagliuzza d’oro nascosta sotto strati e strati e strati di stoffa nera e mura
impenetrabili?»
Snape
osservò il mondo fuori la finestra, quella porzione di casa dove si vedeva un
bosco che si estendeva fin dove non lo sapeva, non si era mai spinto fino là, e
in quel momento pensò che gli sarebbe piaciuto immergersi in un groviglio di
rami dove c’era soltanto il rumore degli animali e null’altro.
Si
girò alcuni secondi verso di lei, poi tornò a scrutare quello che c’era
all'esterno: voleva continuare ad indossare una maschera dietro l’altra o
voleva cambiare davvero? O meglio, essere quello che era davvero?
Fissò
per un attimo il suo riflesso sul vetro, quel volto più scavato del solito e
così triste, come poche volte si era visto, e lo sfiorò, disegnandone con
l’indice ogni contorno, ogni ruga, e ogni dolore invisibile, e ogni angolo che
gli aveva toccato e baciato, sentendosi per un attimo le sue mani sulla pelle e
le sue labbra umide che gli sussurravano parole che non ricordava più.
Lui
era già cambiato. Lo sentiva nei battiti nel petto. Nei sogni che poteva
davvero realizzare. E nelle paure di perdere quell’amore che mai aveva provato.
Era
cambiato più di quanto avrebbe ammesso, nel profondo, ma non aveva comunque
abbandonato il suo vecchio se stesso, quella parte razionale e timorosa, quella
parte di buio che sempre lo avvolgeva come una fitta nebbia. Forse non era
davvero cambiato, forse, semplicemente, aveva tirato fuori quello che dentro
aveva sempre avuto, quei pezzi che avevano sempre composto il suo essere, ma
che aveva relegato nel punto più profondo della sua stessa anima.
Era
cambiato. Era se stesso. Era un assetato che si era tirato fuori dal pozzo.
“Non
conosco chi sono in realtà. Probabilmente non l’ho mai saputo.”
«Torna
a casa.» Minerva lo disse per la terza volta, senza essersi spostata di un
pollice, lì, davanti al camino, che lo guardava perdersi in riflessioni e in
quell’altrove oltre la finestra, e lo ribadì per la quarta volta mentre dal
mantello tirò fuori un piccolo sacchetto di cuoio e lo posò sul tavolino che
riluceva colorato dalle fiamme. «Quando vuoi, ma per favore, torna» e senza
aggiungere nient’altro, camminò verso la porta ed uscì. Semplicemente.
Neppure
Snape disse nulla, e nemmeno la guardò mentre si chiudeva la porta alle spalle,
sentì solo il rumore, soltanto passi che pian piano svanivano.
Prese
il sacchetto che gli aveva lasciato Minerva McGonagall senza neanche vedere
cosa contenesse, se lo infilò in tasca e uscì anche lui.
*
Aveva
sempre amato il fresco dei suoi Sotterranei, l’umidità che gli si appiccicava
addosso, eppure, in quel momento, mentre camminava, cercava ogni angolo
riscaldato dal sole, andava qua e là per le stradine sperando di trovare un po’
di calore che gli dissipasse i pensieri e gli sciogliesse quelle sensazioni che
gli stringevano l’anima.
Sapeva,
però, che non poteva essere così semplice.
Il
proprietario di un’erboristeria lo salutò, era un anziano mago che più volte
aveva ascoltato i suoi consigli, migliorando alcuni infusi e pozioni, anche se
molte di più erano state le cose che aveva imparato lui stesso da quell’uomo,
piante del posto che non conosceva e antichi distillati che risalivano a
ricette tramandate per secoli.
Aveva
ascoltato ogni sua parola con molto interesse, appuntando di tutto, e preso
semi che l’anziano mago gli aveva regalato «per quando tornerai a casa»,
spiegandogli come andavano coltivati nei minimi dettagli.
Ricambiò
il saluto senza dire una parola, muovendo appena la testa, e continuò a
camminare costeggiando alcuni edifici dall’architettura tipicamente medievale,
fino ad una lunga discesa che portava all’entrata del paese. O all’uscita, in
quel caso.
Proseguì,
passo dopo passo, fino alla zona più rurale, là dove foreste si perdevano nel
buio e sentieri s’inerpicavano sopra colline e rocce aprendo panorami che
spesso gli avevano calmato lo spirito distogliendo ansie e ricordi.
Prese
una strada sterrata coperta di foglie di tanti colori, le sentiva scricchiolare
sotto i piedi, e dov’era passato vedeva il rosso confondersi con il marrone e
poi con il giallo, e perdersi tutti tra la terra umida. Ne sentiva il profumo,
e anche di quelle lievi sporcature di verde che s’intravedevano qua e là come
piccole e flebili speranze che tentavano di uscire.
O
come minuscoli riflessi di un paio d’occhi che faceva fatica a dimenticare.
E
quel giorno dannato glieli ricordava entrambi. Gli ricordava il dolore di
quelli che aveva contribuito a far spegnere per sempre e di quelli che amava e
non poteva avere accanto a sé.
Tirò
un calcio ad un sasso, rabbioso, mentre un leggero vento si alzava e gli
s’insinuava sotto la stoffa, dalla nuca fin su tutta la schiena, facendolo
rabbrividire appena.
Quando tornerai a
casa...
Già,
quando? Ci sarebbe tornato?
Anche
Minerva glielo aveva chiesto e richiesto quella stessa mattina, quasi
implorato, e se n’era andata ascoltando il suo silenzio dopo averlo invocato
un’ultima volta, e lui non aveva saputo rispondere a lei come all’anziano
erborista: cosa avrebbe dovuto dire?
Stava
bene lì, aveva trovato persone gentili e simpatiche che spesso si facevano gli
affari propri, persone con cui parlare o con cui non dire niente, cui non
importava niente di lui, del suo passato e di cosa avesse fatto. Lì era
semplicemente lui, e nessuno lo giudicava per quello, quindi perché tornare in
un luogo dove c’era ancora chi lo guardava con odio e disprezzo?
Dove
ogni giorno avrebbe visto il film di una vita che desiderava ma che non avrebbe
mai potuto avere?
Scalciò
un altro sasso e poi ancora uno e altri, finché ne trovava sulla strada
nascosti tra le foglie.
Quel
bosco aveva un’entrata? Si chiese. Era proprietà di qualcuno? Severus non lo
sapeva, si limitava a guardare da una parte all’altra alla ricerca di qualche
spiraglio tra la vegetazione e le recinzioni ai lati della stradina.
«Sai,
Severus, io sono vecchio d’età,» si voltò e vide l’anziano erborista con una
bacchetta bianchissima tra le dita che muoveva un po’ tremante, fin quando tra
gli alberi non iniziò a formarsi un arco. «Ma tu mi sembri così vecchio
dentro.»
Quelle
parole non gli fecero per nulla piacere, ma rimase in silenzio, non voleva
mancargli di rispetto, anche se quella mattina sembravano tutti avere qualcosa
da dirgli, qualcosa di non richiesto, si affrettò a pensare: non aveva mai
amato le intromissioni nella propria vita.
«Andiamo»
e con un gesto della mano lo esortò a seguirlo sotto quell’apertura che si era
creata tra i rami, ma Snape esitò per qualche secondo, era andato lì per
rimanere da solo, e invece si ritrovava per la seconda volta in quella stessa
mattina con qualcuno che non aveva alcuna intenzione di rimanere muto, ma,
anzi, di continuare a ficcare il naso nei propri affari.
L’anziano
lo guardava, perplesso, mentre lui rimaneva immobile a pensare se andarsene per
conto proprio o seguirlo.
Alla
fine decise e l’erborista sorrise, compiaciuto, mentre Snape trattenne a stento
una smorfia.
«Non
sono vecchio dentro.» Dopo aver camminato per dieci minuti nel completo
silenzio, Severus lo ruppe, volendo ribattere a quelle parole perché lui non si
sentiva per niente in quel modo.
«Certo
che lo sei. Non parli mai, sei sempre in casa e anche quando esci sei sempre immerso
nel tuo mondo.»
«Questo
vuol dire essere riservati, non vecchi. Amo la solitudine. E il silenzio. Non
ci trovo nulla di male.»
«Vivi
nel tuo limbo di routine e banalità, di piccole cose che conosci e non ti fanno
paura.» L’erborista continuava a parlare, come se non avesse ascoltato neppure
una sillaba che aveva pronunciato, oppure, semplicemente, facendo finta di non
aver capito, perso nel suo discorrere.
«Siete
tutti così esperti della vita, che sapete tutto di quella degli altri, eppure
continuate ad avere rimpianti, dolori per cose fatte o non fatte nel passato. Liste
di errori compiuti. Tutti così sapienti delle vite altrui. E tutti così
arroganti nel voler indirizzare le vite degli altri.»
Al
diavolo il rispetto, al diavolo tutto, chi era quell’uomo per dirgli chi lui
fosse e cosa dovesse fare? Non sapeva niente di lui. Niente!
«Arroganti,
forse. Sapienti, assolutamente no.» Nonostante tutto, l’anziano continuava a
sorridere bonario, e quello lo irritava a tal punto che gliele avrebbe
strappate quelle labbra. «Proprio perché abbiamo sbagliato tanto nella vita che
possiamo essere così arroganti con i giovani che abbiamo davanti.»
Sembrava
un ragionamento molto sensato, tentò di convincersi: i loro errori potevano
essere insegnamenti per gli altri, ma lui continuava a mal sopportare quelle
intromissioni, soprattutto perché della propria vita non conosceva niente e non
conosceva niente di lui, di quello che era stato, di quello che provava, di
ogni singolo frammento che lo componeva.
«Allora,
dimmi» parlò all’improvviso, fermandosi dopo che per un po’ avevano ripreso a
camminare, «Cos’è che dovrei fare esattamente?» la sua voce, però, continuava a
tradire irritazione, e se ne accorse anche l’anziano erborista che gli
sorrideva ancora, facendo finta di niente.
«Torna
a casa» gli rispose. «Questo non è il tuo posto. Qualunque sia il motivo che ti
ha fatto fuggire, affrontalo e basta.»
«Io
non sono scappato,» ma poteva davvero affermare il contrario?
Lo
aveva chiesto lui, era vero, aveva voluto provocarlo, ma quelle parole lo
avevano in un certo senso disturbato perché avevano lo stesso significato di
quelle che aveva pronunciato Minerva non molto tempo prima.
«Sto
bene dove sto» parlò, cercando di mantenersi calmo. «E me ne vado da qui,
magari dove non incontrerò nessun altro con le stesse intenzioni di dirmi cosa
devo o non devo fare» e si voltò, allontanandosi da quella porzione di bosco
senza aggiungere nient’altro e senza più ascoltare l’anziano erborista che lo
pregava di restare.
Proseguì
sui propri passi facendosi strada tra gli alberi che si facevano sempre più
fitti, ogni tanto si aiutava con la bacchetta, ma mai si era guardato indietro,
soltanto avanti, verso una meta che neppure lui conosceva.
Continuò
ad arrampicarsi, abbassandosi e scavalcando spesso grossi rami che spuntavano
dal terreno, ma quell’aria umida e quegli odori lo invasero così tanto che
avrebbe camminato per giorni interi sentendosi avvolgere completamente dal buio
che veniva scalfito appena dai raggi del sole.
Le
foglie rosse erano così cupe e sanguigne che sembravano cuori pulsanti e gli
sembrava persino di sentirne il battito e lo scorrere di quel fluido cremisi e
caldo.
Per
un attimo tornò ad altre foglie rosse e ad altri passi tra una foresta, a
quella casa che odorava di tutto quello che aveva sempre voluto e che per un
attimo gli era sembrato di possedere, lì tra le braccia di Harry, a quando lo
aveva supplicato di fare l’amore con lui e di strappargli il cuore dal petto e
tenerselo, farlo per sempre suo, e in un modo o nell’altro lo aveva fatto,
l’aveva preso perché lui aveva voluto donarglielo completamente, anche se
faceva male da respirare appena.
All’improvviso
si sentì stanco, le gambe pesanti che gli dolevano in più punti, ma era niente in
confronto al vuoto che si sentiva dentro, a quel profondo buco che lo stava
inghiottendo inesorabilmente.
Che
cosa avrebbe dovuto fare?
Si
gettò ai piedi di un grosso albero, esausto, e si lasciò abbracciare dalle
foglie e dalla terra, e dai molteplici aromi che si sprigionavano tutto intorno,
e provò a riconoscerli, uno ad uno, per cercare di distrarre la propria mente
e, soprattutto, di acquietarsi l’animo che sentiva sfilacciarsi come una
vecchia coperta.
Un
piccolo uccello era appollaiato su di un ramo e lo fissava, piegando ogni tanto
la testa da una parte e poi dall’altra, non ne riconobbe la specie, o forse non
voleva impegnarsi a farlo, ma soltanto starsene lì a farsi guardare. A farsi
beccare così nel profondo da far fuoriuscire tutto quello che aveva al suo
interno, e marcire lì, nella carne e nello spirito, mentre altri banchettavano
con i suoi resti.
«Che
hai da guardare?» L’uccello si spostò appena a sinistra. «Che dovrei farei
secondo te? Hanno tutti detto la loro, tu che ne pensi? Forse la tua risposta è
migliore delle altre» e si ritrovò a ridacchiare per quell’assurda situazione:
no, non stava bene se era finito a parlare con gli animali. Non stava bene per
niente, pensò, continuando però a ridere mentre lo guardava con espressione che
sembrava interrogativa.
Volò
su un ramo più basso e più vicino, e continuava a fissarlo sempre muovendo la
testa, poi aprì il becco e iniziò a cinguettare, anche se era più un suono
stridulo il suo, quasi fastidioso, tanto che avrebbe voluto cacciarlo via, ma
qualcosa lo spinse a rimanere immobile e studiarlo mentre graffiava l’aria
tutta intorno e si avvicinava ancora.
Poi,
all’improvviso, smise di emettere suoni e volò via, lasciandolo di nuovo solo.
«Questa
sarebbe la tua risposta?» ma il bosco rimase in silenzio come un muro crollato
in più parti che faceva filtrare la luce del sole.
In
quel momento, però, si scoprì nuovamente a non volere il calore dei suoi raggi
sul volto né sulla pelle, voleva di nuovo sentire tutto il freddo sotto gli
abiti impregnati di umidità. Solo per qualche minuto, come se nulla fosse
cambiato e lui si trovasse ancora una volta nelle sue stanze al Castello con il
camino perennemente spento, o a pezzi nella solitudine della Foresta Proibita.
Soltanto
per un po’.
Chiudere
gli occhi, raggomitolarsi su se stesso e lasciarsi trasportare dal passato
secondo dopo secondo, farsi avvolgere e contemplare ogni pezzo di vita che gli
scorreva davanti.
Riaprì
gli occhi subito dopo, di scatto, ormai stanco di ancorarsi ancora a quello che
era stato, al dolore delle sue scelte e al rimpianto di quello che avrebbe
potuto fare – o non fare.
E
continuò a tenerli aperti, spalancati e vigili, mentre prendeva il sacchetto di
cuoio che le aveva lasciato Minerva.
Se
lo rigirò a lungo tra le mani, non sapendo cosa contenesse né che cosa avrebbe
dovuto farne, lo guardava, semplicemente, da un lato e poi dall’altro,
ispezionandone ogni cucitura come se si aspettasse un tranello da un momento
all’altro, ma era Minerva che glielo aveva dato, come poteva anche solo pensare
che volesse condurlo in una trappola?
Sospirò,
riflettendo su quanto quei pensieri fossero idioti, neanche l’essere stato una
spia costantemente in pericolo, avrebbe potuto giustificare qualsiasi sospetto
verso l’anziana strega. Come diavolo gli era venuta in mente una cosa simile?
Se
fosse stata lì, lo avrebbe sicuramente rimproverato o, cosa più probabile, gli
avrebbe lanciato contro qualche fattura. Quel pensiero lo fece ridere e gli
riportò alla mente tutti i loro battibecchi per il Quidditch, a quanto quei
momenti spensierati lo avevano aiutato a rimanere a galla e a non soffocare
nella sua stessa oscurità.
Iniziò
ad allentare i lacci che chiudevano il sacchetto e in pochi istanti una nuvola
grigiastra sembrava farsi strada dall’interno fino alle sue dita, per poi farsi
bianca e addensarsi in una piccola pergamena che si srotolò da sola, senza che
lui l’avesse neppure sfiorata.
Era
vuota, bianca come il fumo che l’aveva generata, e Severus non ne capì il
significato, la guardava e basta, poi sorrise e la toccò appena.
Pian
piano, lettera dopo lettera, la carta iniziò a riempirsi di linee nere eleganti
che si ergevano dal nulla come torri medievali fin quando comparve in fondo un
nome, strappandogli un altro sorriso.
Sei un’anima notturna, Severus, ma
ti prego di non lasciar andare quella luce che brilla così intensamente dentro
di te.
Di non lasciare andare la tua vita.
Rilesse
ancora una volta quelle poche righe, poi, semplicemente rigirò il sacchetto,
facendo scivolare il suo contenuto: non appena quello che sembrava un anello
toccò la sua mano, iniziò a vorticare su se stesso, poi sparì.
Vorrei ringraziare tutti quelli che
hanno ricordato, preferito e seguono questa storia, soprattutto al91 che ha
recensito (spero che anche il resto possa piacerti ;) grazie mille!), ma anche
tutti quelli che hanno letto.
Vi adoro!
E vi lascio al secondo capitolo e,
spero, buona lettura! ;)
Dark Garden
Quando
riapparve, pochi secondi dopo, il cancello di Hogwarts
faceva bella mostra di sé davanti ai suoi occhi, proprio come lo aveva lasciato
mesi prima, e in quel momento, guardandolo, guardando tutto quello che significava
quel posto, non sapeva se gli sembrava fossero passati anni o pochi istanti
soltanto.
Era
così confuso, frastornato, che non credeva che Minerva lo avesse portato
proprio lì come se non fosse successo niente, come se non avesse lasciato che
poche righe abbandonando tutto e tutti. Forse abbandonando anche una parte di
se stesso che sarebbe sempre rimasta tra quelle pietre e tra tutti i ricordi di
cui erano intrise, legate come se fosse stata calce.
Rimase
immobile a fissarlo, solo ogni tanto spostava la testa a destra o a sinistra
per sfiorare le mura con lo sguardo: cosa ci faceva lì? Si chiese, e cosa
avrebbe dovuto fare?
Entrare
oppure no? Andarsene nuovamente?
Erano
troppe domande alle quali dare una risposta, e lui non ne aveva nessuna, fissava
i contorni del castello ed era come non sapere più nulla, come se la sua mente
fosse stata svuotata non appena aveva messo piede sopra quell’erba così
familiare.
Snape
esaminò l’anello che ancora stringeva nella mano, l’Incantesimo Passaporta era svanito, e riuscì ad osservare piccole gemme
nere che s’incrociavano le une nelle altre e una piccola incisione al suo
interno.
«Era
di mio padre.»
Una
voce lo distrasse, facendogli cadere il gioiello dalle dita, e fu solo con
prontezza che lo afferrò poco prima che toccasse terra.
«Hai
deciso di farmi morire d’infarto?»
Minerva
McGonagall era dietro di lui e ridacchiava, mentre Severus cercava di ricomporsi: avrebbe dovuto immaginare
che sarebbe comparsa da un momento all’altro visto che era stata proprio lei a
lasciargli quel sacchetto che lo avrebbe condotto nuovamente su quelle terre
che erano state la sua casa per anni e, forse, lo erano ancora, e sempre lo
sarebbero state, perché nonostante tutto si sentiva di appartenere aquel luogo, di avere ogni singolo angolo
della scuola dentro di sé come la scuola possedeva gran parte di lui stesso.
«Adesso appari dal nulla come Albus?»
«No»
e smise di ridere. «Sapevo che saresti venuto.»
Sapevo di poter contare
su di te…
Perché
sembravano tutti sapere cosa avrebbe o non avrebbe fatto?
Era
così prevedibile?
Snape
si avvicinò e le porse l’anello, ma l’anziana strega scrollò la testa,
rimanendo con le braccia intrecciate al petto: «Vorrei che lo tenessi.»
«Perché?»
«Ho
sempre pensato che un giorno l’avrei donato a mio figlio.»
«Ma…»
«E
vorrei che lo tenessi tu perché ti ho sempre considerato un po’ come un figlio»
continuò prima che il mago potesse muovere obiezioni, sorridendogli. «Un figlio
che vedi poco e col quale parli ancora meno, che comprendi e che hai compreso poco,
che ti fa soffrire e piangere, e che più di una volta ti strappa un sorriso.»
Severus
la guardava, guardava il suo sguardo supplicante che nascondeva sentimenti
materni che avrebbe voluto riversare sul proprio figlio e che invece le scelte
di vita l’avevano portata altrove, ad essere un po’ la madre di tutti gli
studenti – alcuni più di altri – che entravano ad Hogwarts
da bambini e ne uscivano quasi da uomini.
«Andiamo?»
lo esortò, mentre faceva un passo verso l’entrata della scuola, e poi un altro,
fermandosi al terzo per guardare il mago e aspettare che anche lui si muovesse,
ma Snape non lo fece.
«Non
adesso. Io non sono…» e rimase per un attimo in silenzio a fissare il castello
al di là del cancello, poi tornò a guardare Minerva, confuso: «Non adesso»
concluse, semplicemente, per poi voltarle le spalle e andare altrove. Lontano
da lì e da tutto quello che gli ricordava.
Perché
erano ancora troppi i ricordi che lo tenevano ancorato al dolore. Con il
passato ormai conviveva, era stato quel che era stato e non avrebbe potuto
cambiare le cose, conviveva con quello che aveva fatto, con gli occhi azzurri
che aveva estirpato dalla vita su quella stessa torre che svettava e pulsava
alle sue spalle come un cuore ancora vivo e come sangue che si faceva cristallo
affilato pronto a trapassargli il petto.
Ciò
che aveva perso negli anni viveva dentro di lui, ormai, ma esistevano immagini
che ancora gli facevano male e gli toglievano il respiro, troppo recenti per
farne semplicemente un altro pezzo d’anima.
Erano
istantanee non ancora sbiadite di sguardi rubati tra un corridoio e l’altro, di
visite improvvisate per sottrarre momenti sbagliati e baci alcolici. Di occhi
negli occhi e corpi troppo vicini.
O lontani.
Di
scuse d’amanti e verità mai dette.
No,
non era ancora pronto a rivivere tutto quello. Non con quella confusione che
albergava dietro ai suoi occhi e tutte quelle parole vecchie e nuove che si
muovevano frenetiche cercando di non toccarsi.
Continuò
a camminare verso Hogsmeade e poi oltre, Smaterializzandosi
per poi riapparire vicino ad un sentiero che s’inerpicava verso un bosco oscuro
e talmente fitto che si faceva persino fatica a respirarci dentro, ma lui
proseguì, sicuro, Smaterializzandosi ancora e di nuovo fin quando non si trovò
davanti ad una statua decadente di un angelo, logora del tempo e dell’umidità
che permeava l’aria.
Con
il volto triste rivolto a terra, gli aveva sempre un po’ ricordato se stesso
quando andava a nascondersi lì, la osservava ed era come specchiarsi, come
vedere la sua stessa disperazione in quegli occhi di pietra, ma lui, le ali,
non le aveva mai avute. Quelle dell’angelo, invece, erano ancora lì, non più
candide ma ormai sporche, ben ancorate alle sue spalle come lui aveva sempre
avuto dolori e nient’altro, e peccati che ancora lo macchiavano come muffa che
continuava ad espandersi.
Eppure
su quel volto inerme c’era l’ombra di un sorriso, non lo aveva mai notato
prima, soltanto in quel momento si accorse di quelle labbra piegate appena.
Perché
lo vedeva solo adesso? Significava qualcosa?
Aveva
sempre pensato che sorridere era un gesto sopravvalutato, un’azione meccanica
cui la gente dava troppa importanza. Si poteva fingere un sorriso pieno di
felicità mentre dentro si moriva lentamente, un sorriso di cortesia per qualcuno
che si odiava e un sorriso di odio quando in realtà si voleva bene alla persona
che era davanti. O la si amava.
Essersi
accorto soltanto in quel momento delle labbra piegate all’insù di quell’angelo,
significava, dunque, che anche lui doveva farlo?
Lo
guardò di nuovo, in tralice, quella solenne tristezza e solitudine che aveva
amato contemplare per giorni e notti, sorrideva anche, e lui non lo aveva mai
notato.
«Perché
dovrei farlo, eh?» gli chiese come se avesse potuto rispondere in qualche modo
come aveva fatto il piccolo uccello spostandosi e cinguettando e infine volando
via.
Che
sciocco, pensò, che patetico sciocco doveva essere per finire a parlare con una
statua incrostata dal tempo e ricoperta qua e là di muschio.
Ne
percorse gli angoli con le dita come spesso aveva fatto sulla tomba di Dumbledore, ma non c’era niente della sua levigatezza e
candore, era ruvida e sporca, con una patina umida che si appiccicava alla
pelle, e non c’era nulla del calore – e del dolore – che si sentiva addosso
quando pensava al mago che giaceva ormai inerme. Al suo sorriso ormai spento.
Non
c’era niente in Albus del sorriso perfetto
dell’angelo, il suo era così incompleto eppure così vivo e umano da farlo
sentire allo stesso modo, come se meritasse di essere altrettanto vivo e fosse
altrettanto umano. Ma lui era sempre stato soffocato, opaco, un essere
abominevole che aveva peccato d’amore quando l’amore non era mai stato per lui.
E
guardare quell’angelo, improvvisamente gli ricordava il sorriso che non poteva
fare mentre guardava il sepolcro di se stesso farsi più spesso e granitico.
Sarebbe
diventato anche lui una statua da mettere ai margini di luoghi remoti? O forse
lo era già?
Si
sentiva così immobile, impotente. Nient’altro che un pezzo di marmo che pian
piano si sostituiva alla sua carne.
Sfiorò
di nuovo la pietra in qualche punto, con le dita e oltre con gli occhi, poi,
semplicemente, sfilò al di là di essa, lasciandosi quel sorriso e quella
tristezza alle spalle, quasi fossero il passato, e salì gli scalini di roccia
logora.
Dovette
prestare più attenzione del solito per avanzare, quel paesaggio ormai era
diverso dall’ultima volta che vi aveva messo piede, c’erano profonde crepe
sulle scale, pezzi in bilico e erba che ne aveva confuso i contorni, facendoli
quasi scomparire; alcuni piccoli rampicanti si ritiravano al suo passaggio,
riconoscendo nei suoi passi la magia che li aveva fatti rinascere, e poi altri
ancora, in alto, lenti e poi veloci, finché non scoprirono un cancello di ferro
che sembrava composto di rami e foglie neri e lucidi.
Lo
spinse in avanti a fatica creando un cigolio sinistro che spezzò per un attimo
la quiete tutto intorno, quella sorta di oasi che lo aveva accolto più di una
volta in quegli anni.
Ancora
ricordava perfettamente la notte in cui era caduto ai piedi dell’angelo,
sembravano passati che pochi giorni, eppure era molto il tempo trascorso da
quando aveva levato la bacchetta contro Albus
gettandolo ormai morto tra le braccia della gravità.
Era
stato una statua priva di dolore e sentimenti di fronte alla gioia degli altri
e del suo Signore, moriva dentro mentre loro ridevano, e aveva continuato a
morire dentro aspettando il momento in cui avrebbe potuto andarsene, scappare a
piangere ogni lacrima che aveva in corpo fino a togliersi l’anima come un
vestito ormai logoro e da buttare. Uno straccio inutile.
E
lo aveva fatto. Era corso lontano, in un posto che aveva scoperto per caso e
aveva continuato a correre finché non aveva visto quella pietra scolpita così
familiare e vi si era aggrappato disperato come se fosse stato sul punto di
affogare in un mare in tempesta, cercando con forza di stringere le dita ai
bordi di una barca, e lui le aveva strette ai piedi di marmo fino a farsi male,
fin quando non aveva visto il sangue imbrattare tutto quel candore.
E
aveva pianto davvero ogni lacrima mentre il verde che inghiottiva l’azzurro gli
aveva riempito gli occhi per poi uscire di nuovo e cadere a terra, e strisciare
tra le foglie e i rami finché non avevano preso vita e si erano fatte da parte
per condurlo oltre tutto quello, lì dove sarebbe stato solo con se stesso. Solo
con il suo dolore.
Ed
era tornato in quel luogo, lì dove aveva scoperto di poter essere semplicemente
SeverusSnape. In silenzio.
Nel buio e nella solitudine.
Ed
era scappato da Hogwarts, ed era tornato lì, in tutto
quello per riuscire a capire, ma cosa? Cosa esattamente doveva comprendere di
se stesso e di quello che doveva fare?
Sapeva
chi era. Sapeva quali fossero i suoi sentimenti. Ma era anche ben consapevole
di non poter far nulla, che non dipendesse da lui.
Desiderava
solo che fosse felice, e se quello avrebbe significato non vederlo mai più, lo
avrebbe fatto, e si era allontanato proprio per quello. Alla fine si sarebbero
dimenticati a vicenda e avrebbero continuato le loro vite, ma allora perché
Minerva era andata a cercarlo?
Avrebbe
potuto mandarla via, gli disse una voce nella testa, sarebbe potuto rimanere e
scordarsi quella visita, quelle parole, eppure qualcosa lo aveva scosso,
qualcosa in quello che aveva detto l’anziana strega lo aveva colpito, tanto da
farlo tornare a casa. O quasi.
Percorse
ancora una volta il perimetro del chiosco, lento, guardando ogni angolo come se
lo avesse visto per la prima volta, eppure quelle colonne lo avevano sorretto più
di una volta, e quei rami che correvano lungo la sommità si erano allungati e
stretti spesso per proteggere il suo pianto e chiudere le urla al mondo.
Toccò
alcune foglie, percorrendo ogni estremità con le dita, volendo quasi sentire la
vita che scorreva fluida dentro di esse, ogni singolo atomo sulla pelle come
piccole creature che si muovevano una dietro l’altra.
E
avrebbe voluto ascoltare ancora una volta le sue urla disperate, il grido di
dolore che gli era fuoriuscito quando quel vecchio stolto di Dumbledore gli aveva rivelato che avrebbe dovuto ucciderlo.
Lui.
Levare la bacchetta contro l’uomo che gli aveva regalato una seconda
possibilità, che gli aveva donato una seconda vita.
Ed
era stato costretto ad ucciderlo. Su quella maledetta torre lo aveva pregato di
pronunciare quelle due parole per salvare l’anima di Draco.
«E
la mia anima, Dumbledore? La mia.»
«Tu
solo sai se evitare a un vecchio sofferenza e umiliazione sarà un danno per la
tua anima.» [1]
E
poi lo aveva ringraziato. Lo avrebbe ammazzato e lo aveva ringraziato per
quello.
Molte
notti, dopo aver chiuso gli occhi, aveva sentito spesso quelle parole, ogni
sfumatura di ogni singola lettera gli era apparsa davanti come una processione
perpetua di spettri che non lo lasciava dormire. Né vivere.
E
la solitudine della sua casa non lo aveva mai aiutato in quello.
Poi
era arrivato lui a travolgerlo come un’onda alta e impetuosa, e nelle notti in
cui il suo corpo era accanto al proprio, ogni spettro svaniva pezzo dopo pezzo,
e più lo stringeva a sé, più quelle immagini scolorivano velocemente, fin
quando non erano svanite del tutto.
Alla
fine, però, era lui ad essere svanito.
Riprese
a camminare per fermarsi di nuovo e poi voltarsi e scendere rapido gli scalini
che conducevano lungo un altro sentiero che, man mano che si andava avanti, si
ricopriva di rami e foglie che si facevano via via più fitti creando una sorta
di copertura naturale che faceva filtrare a malapena la luce.
Proseguì
svelto finché il bosco non si aprì su di una piccola radura dove l’erba alta
iniziò pian piano a ritirarsi, così come lunghissimi e intricati rovi si fecero
lentamente più corti ed esili, scoprendo un massiccio ponte in pietra che
conduceva ad una costruzione fortificata che secoli prima – forse, non lo
sapeva con certezza – era stata innalzata sopra ad uno sperone di roccia, una
sorta di penisola che per trequarti si immergeva nella nebbia mentre il resto
si perdeva tra una fitta schiera di alberi.
Era
un luogo isolato, solitario, che aveva sempre rispecchiato il suo essere in
ogni minima parte: impenetrabile a chiunque tranne che a se stesso – o a coloro
che lui avrebbe fatto entrare –, circondato da spesse e forti mura che
proteggevano piante e fiori di diverse specie, delicati e fragili.
Lui,
beh, non si era mai ritenuto delicato né fragile, ma aveva comunque in sé cose
che non voleva mostrare a nessuno, aspetti che nessuno doveva conoscere.
Per
paura di essere compreso fino in fondo? Probabile.
Aveva
imparato con il tempo ad essere così, a nascondersi dietro maschere ogni volta
diverse che tirava fuori all’occorrenza, diverse per le diverse situazioni – o
persone –, ma aveva ancora senso tutto quello?, gli chiese quella fastidiosa
voce sempre nella sua testa. Aveva ancora senso far finta di non esistere, di
essere vuoto? Di non provare mai nulla?
Severus
sospirò dopo aver respirato profondamente tutta l’aria pulita e fredda che
c’era lì, come se quella purezza avesse potuto infondersi nel suo stesso corpo,
ma a cosa sarebbe servito? Lui era quello che era.
Non
desiderava più finzioni né maschere. Bastava tutto. Non gl’importava che la
gente lo amasse o meno, voleva soltanto essere ciò che era. Null’altro.
Voleva
soltanto essere libero di poter amare.
Almeno
una volta nella vita essere libero di amare davvero e senza nascondersi
nell’ombra o nella sua stessa anima che veniva soltanto corrosa e attorcigliata
da ciò che non poteva essere veramente.
Un
passo dopo l’altro attraversò il ponte, svelto, e altrettanto veloce sfilò
oltre un portico di alte colonne che cingeva un giardino su tre lati, mentre il
quarto si apriva ancora oltre, perdendosi più in là tra pietre e boschi.
Arrestò
i passi di fronte ad un cumulo di polvere e niente per poi piegare le gambe,
spostando il mantello da una parte per essere più libero nei movimenti, e si
bloccò per un attimo a contemplare le piante che si ravvivavano davanti ai suoi
occhi e diversi fiori che ripresero a crescere e ad aprirsi ai suoi tocchi
leggeri e a parole appena sussurrate.
La
lavanda cominciò ad allungarsi e a disegnare spighe dove il viola si faceva
sempre più intenso, e continuavano a tendersi mentre un giglio dietro l’altro
si schiudeva, bianco, quasi accecante da dargli fastidio, ma rimase immobile ad
osservarne ogni movimento e a sentirne i profumi che si espandevano nell’aria
così penetranti da riempirgli i polmoni.
E
continuò a guardarli come faceva un tempo, fissando le parole che i loro aromi
creavano nell’aria, quelle che prima avrebbe spiato con soltanto dolore e
lacrime sul volto, adesso si ritrovava a sfiorarle con nient’altro che un
sorriso.
Stava
davvero sorridendo? Stava davvero facendo quello che aveva sentito suggerirgli
la statua dell’angelo minuti prima?
Era
come se avesse voluto dirgli che occhi nuovi avrebbero visto il mondo tutto
intorno in maniera nuova, diversa, ma lui non aveva occhi nuovi, lui era sempre
lo stesso.
Oppure…
«Il
tuo ricordo è sempre stato la mia unica felicità,» e prese una lunga pausa,
trattenendo a lungo il respiro, prima di confidare al silenzio che c’era
intorno, quel nome che era sempre stato un simbolo di sofferenza per lui, che
gli aveva riempito il cuore mentre ogni lettera lo aveva trapassato facendolo
sanguinare.
«Lily…»
pronunciò infine, respirando di nuovo e sentendosi improvvisamente leggero.
Perse
per un attimo l’equilibrio e dovette poggiare una mano a terra, poi fece lo
stesso con entrambe le ginocchia, mettendosi più comodo per osservare le piante
alla sua destra e poi quelle che crescevano alla sua sinistra, in mezzo alle
quali iniziarono a farsi strada giacinti colorati di porpora che si
ingrandivano come sotto al sole della primavera.
Ma
per lui, lì, non era mai stata primavera. Lì ogni singolo grappolo che
sbocciava perpetuo, era stato soltanto il ricordo di tutto il dolore che aveva
provato nella sua vita, di ogni folle sofferenza che lo aveva reso solo ed
odiato, privo di qualsiasi affetto che non aveva mai creduto di meritare.
«Perdonami.»
A Lily, ad Harry, e, forse, anche a se stesso.
Quello
che lui non era mai stato capace di confessare con le parole, che mai aveva
preteso di ricevere – né d’esserne degno –, lo aveva svelato la magia di quel
luogo per lui, trasformando i suoi silenzi in colori e fiori e profumi; e lui
non aveva fatto altro che guardarli uno ad uno, guardare ogni pianta, ogni ramo
e ogni spina che cresceva, sperando, nelle notti di pena e solitudine, di
esservi avvolto fino a farsi prosciugare ogni lacrima di vita che aveva dentro.
Eppure…
Eppure
in quel momento continuava a sorridere. Era una piega appena accennata sul suo
volto, soltanto un angolo alzato, ma gli sembrava di sentire un certo tepore
irradiarsi dentro se stesso, qualcosa di nuovo che mai aveva percepito prima –
o forse faceva solamente fatica a ricordare.
Si
mise seduto a terra, continuando a scrutare ciò che lo circondava, tutte quelle
piante e quei fiori che crescevano e mutavano mentre lui, per un attimo,
ripensò all'angelo, e poi più indietro e ancora più lontano nel tempo. Chiuse
gli occhi al presente per osservare i ricordi, e poi li riaprì, spalancati e
fissi su ciò che aveva davanti.
Di
nuovo avanti.
E
i fiori si mossero come spinti dal vento e cambiarono colori, forme e ogni
cosa. Le tenebre di ogni speranza svanita che tingevano ogni vilucco sparirono e lasciarono spazio ad una nuova
speranza. A tante nuove speranze.
E
la loro assenza di profumo fu coperta da un aroma dolce e delicato che
s’innalzava nell’aria mentre piccoli fiori bianchi con lievi pennellate di rosa
spuntavano ovunque, oltre a dove arrivava la vista, creando un drappeggio
candido più accecante dei gigli che c'erano prima.
Si
rialzò da terra mentre un tappeto di biancospini aveva ricoperto tutta una
porzione di giardino, e ne percorse i confini e li sfiorò, sentendoli
ondeggiare uno ad uno sotto le dita; voleva sentirseli addosso, lasciare che il
loro profumo invadesse i suoi abiti e poi la sua pelle, ma non voleva
calpestarli né rovinare tutta quella bellezza e perfezione, e si limitò a
toccarli e fissarli, sentendosi ad ogni passo più leggero, stranamente più
leggero.
Cos’era
che stava succedendo tutto intorno e dentro di lui?
Girò
su se stesso, lento, fissando ogni angolo che poteva essere lambito con lo
sguardo, e vide tutto mutare, ogni cosa che aveva osservato per anni sparire e
tramutarsi in altro, in nuove piante, nuovi fiori e aromi che mai aveva
sentito.
La
magia di quel posto cambiava come lui, ogni suo stato d’animo, ogni sua parola
che non riusciva a dire, veniva fuori in colori, ogni dolore e ogni pianto che
non fuoriuscivano dai suoi occhi o quelli che, al contrario, non era in grado
di arrestare, colavano a terra, ricrescendo in piante tetre dalle mille spine,
contorte e alte da coprire ogni spiraglio di luce che poteva entrare.
E
adesso sembrava mostrare qualcosa che lui ancora non sentiva pienamente,
qualcosa che sapeva esserci ma che ancora faceva fatica a far uscire.
Trasse
un profondo respiro, e continuò a camminare, un piede davanti all’altro per
allontanarsi, lì dove le colonne non arrivavano, distante da quelle tinte e da
quelle essenze, sotto ad un muro di pietra dove poteva scorgerle appena, come a
non volersene dimenticare seppur non stando vicino, distinguerle un poco da
lontano senza toccarle.
E
si buttò di nuovo a terra, la schiena alle pietre fredde e gli occhi ancora una
volta chiusi a pensieri che erano distanti da lì. A quel volto che sembrava
svanito tra la nebbia e man mano si faceva sempre più nitido: prima pochi
tratti di una matita e poi sfumature e dettagli.
E
sorrisi.
E
una voce.
Riaprì
gli occhi, ma li tenne fissi in alto, oltre il colonnato e oltre il cielo
stesso, cercando qualcosa che non c'era. Qualcuno.
Continuava
a guardare sopra la sua testa quando si sentì sfiorare la mano poggiata a
terra, un tocco leggero che divenne sempre più forte finché non si sentì
avvolgere le dita e poi il polso e sempre più su, sul braccio fino al collo e
fino alle labbra dove si schiuse un fiore viola e nero che sembrava intessuto
nel velluto.
«Comincio
ad odiarvi, sapete?» ma quelli continuavano a sbocciare uno dopo l’altro,
sfumature che si intrecciavano le une nelle altre, smeraldi nel buio e notti
che si perdevano nel verde di infinite speranze.
E
fiorivano, uno ad uno, con estrema lentezza per mostrargli ogni singolo colore,
così piccoli e delicati che avrebbe voluto si preservassero per sempre, come il
significato che si portavano dietro e come ogni pensiero felice che aveva
attraversato la sua vita.
Come il suo viso.
Perché
doveva essere così difficile l’amore?
Perché
ci si doveva legare a qualcuno che non poteva far parte della nostra vita?
Essere
innamorati di qualcuno che non ricambiava o esserlo di qualcuno che amava
un’altra persona, era tutto così stupido e ingiusto che spesso si desiderava
soltanto di non provare mai un simile sentimento.
E
Severus lo aveva bramato spesso, un click nella sua testa e tutto ciò che si
legava a quella parola, svaniva, come se non fosse mai esistito.
Niente
più sentimenti malati per Lily. Niente più peccato d’amore folle per Harry.
Forse
sarebbe stato meglio se non avesse attraversato le loro vite, si disse. O,
forse, sarebbe stato meglio se fosse scomparso davvero dalle loro vite, da
quelle di tutti.
Tutti
quei germogli, però, sembravano svelare lettere della sua anima ben diverse, e
ogni viola del pensiero che si schiudeva in mille colori gli sussurrava ben
altro – o probabilmente erano grida –, qualcosa che aveva paura di rivelare.
E
il fiore proseguiva la sua corsa sulla sua carne.
All’improvviso
una piccola luce volò rapida verso di lui, una luce che da azzurra divenne
rossa e pulsante: era il segno di un intruso nelle vicinanze.
Si
alzò di scatto scostando di dosso il fiore che lo aveva avvolto, e corse veloce
con la bacchetta ben stretta nella mano destra, all’erta, cercando di percepire
ogni minimo movimento o il più piccolo dettaglio che non c’entrava con lui e
con quel luogo, corse più che poteva facendo a ritroso tutto il percorso che lo
aveva portato lì dopo tanto tempo e si arrestò quando si ritrovò di nuovo
vicino all’angelo, lì dove una barriera magica avrebbe dovuto celarlo a
qualunque occhio.
Cercò
di normalizzare il respiro, ritrovare la calma, e attese. Semplicemente.
Una
testa di lunghi capelli spettinati uscì a fatica da un alto intrigo di rami e
foglie, e si guardava intorno, curiosa.
Ficcanaso,
specificò nella sua testa, aggiungendo ancora fra sé che lo era sempre stato,
fin da quando lo aveva conosciuto.
«Come
hai fatto a trovarmi?» parlò, facendo un passo avanti, oltre la barriera; un
passo appena per essere visto.
«Sono
il Ministro della Magia. Il mio lavoro è anche trovare le persone.»
Harry
Potter, come di suo solito, come se fosse stato ancora uno studentello al primo
anno, dall’alto della sua sempre presente arroganza, non si scompose affatto
nell’essere stato scoperto dove non doveva essere, d’altronde Snape non lo aveva attaccato né, fortunatamente, ucciso. Lo
vide sorridere.
“Irritante.”
«Pensavo
fosse firmare scartoffie.» Il giovane mago non rispose, lo fissò sghembo con
una strana espressione sul volto, poi raddrizzò lo sguardo e, semplicemente,
sorrise. Di nuovo.
«Anche
CorneliusFudge era
Ministro della Magia. E non era il massimo dell’intelligenza» aggiunse, quasi
divertito, vedendo che il sorriso sul volto del giovane Ministro scompariva.
«Non
paragonarmi a quell’inetto!» Lo vide scurirsi in volto, irritato, forse perché
ancora ricordava con risentimento quando non aveva voluto credere al ritorno di
Voldemort, accusando sia lui che Dumbledore.
«Ti
manca, vero?»
Harry
rimase per qualche istante in silenzio, aveva capito benissimo a chi si
riferiva nonostante non avesse pronunciato alcun nome.
«E
a te?»
Anche
Snape comprese senza che aggiungesse altro. «Mi
mancano molte persone che ho perso.»
«Lo
stesso vale per me.»
Rimasero
entrambi in silenzio, come se non avessero più altro da dirsi o forse ne
avevano solo il timore, la paura di quelle voci che potevano rovinare ogni
cosa, ne bastava una sbagliata, una detta in un modo invece che in un altro, e
tutto andava in frantumi, evaporava, e non sarebbe rimasto nulla da ricomporre.
Spesso
era stato così tra di loro: le parole li avevano fatti a pezzi più dei gesti.
Harry si mosse lentamente, come se
avesse avuto paura di avvicinarsi troppo a lui per un motivo che non comprendeva,
e prese ad accarezzare quello stesso angelo che lui aveva sfiorato allo stesso
modo minuti e minuti prima, una sorta di continuità tra le proprie dita e
quelle del ragazzo, e si ritrovò per un attimo, uno soltanto, a desiderare
quelle mani su di sé.
Si massaggiò per alcuni secondi gli
occhi, tornando poi a guardare Harry. «Non mi hai ancora detto come hai fatto a
trovarmi.»
Il giovane Ministro rimase ancora un po’
a fissare quella statua, come rapito – che
cosa aveva di così speciale quel pezzo di marmo? –, poi si voltò verso di
lui: «L’anello.»
«L’anello?» chiese perplesso Snape.
«Sì, l’anello.» Severus
non parlò e quando capì che stava solo aspettando spiegazioni – con le braccia
accuratamente piegate al petto come quando era ancora a scuola – continuò: «Sì,
beh…» e si grattò la nuca, quasi imbarazzato, come lo aveva visto fare tante
volte, quel gesto che lo aveva sempre fatto impazzire, facendogli desiderare
ogni volta di stringere quei capelli tra le dita, con forza, e tirarli mentre
s’impossessava famelico del suo collo.
Cercò di allontanare quelle immagini da
sé e tornò a fissarlo come avrebbe fatto con chiunque altro, in attesa di una
spiegazione.
«Allora?» lo incalzò.
«Quello che ti ha dato la professoressa McGonagall,» ma Snape non disse
nulla, aspettava curioso. «Le ho chiesto di fare un Incantesimo di
Localizzazione, così mi è bastato seguire il segnale ed eccomi qui.»
Continuò a non dire nulla.
«Bene. Bella alleanza, la vostra.»
«Non arrabbiarti, per favore.»
«Non sono arrabbiato.»
«Non ancora, ma il viso inizia a
contrarsi, e la tua deliziosa ruga della
rabbia è già spuntata» e gli sorrise mentre si avvicinava, con il corpo, e
con le dita verso il volto, sfiorando quel piccolo tratto ad un lato della
bocca.
Come gli era mancato il suo tocco, sentire
la sua pelle sulla propria, e quanto desiderava baciarlo in quello stesso
momento sentendolo avvicinarsi ancora, troppo, con l’anima stessa e fino a
sentirne ogni battito.
Scostò di scatto la mano di Harry,
spostandosi di lato per allontanarsi da lui e da quel tormento che cresceva in
lui. «Non possiamo. Non… dobbiamo.»
«Perché?»
«Lo sai il perché. I motivi sono gli
stessi di sempre, quindi non chiederlo.»
«Severus, noi…
noi dobbiamo parlare.»
Cosa c’era di strano in quelle due
parole che erano capaci di affliggere così tanto chiunque?
Snape
ricordava le volte in cui sua madre le aveva pronunciate, quando suo padre era
ancora fuori, ricordava il giorno in cui Lily era corsa da lui, arrabbiata, e
gli aveva detto quelle stesse parole ma con più decisione, senza sospensioni né
tentennamenti; e gli passò davanti persino l’immagine di Dumbledore
che gli aveva sorriso prima di ripetere quelle lettere ben scandite.
Non era mai stato nulla di buono. Mai.
E sapeva che in quel momento sarebbe stato
altrettanto. Come poteva essere altrimenti per uno come lui? Come poteva
esserci la felicità ad aspettarlo dietro l’angolo?
Avrebbe riso volentieri a tutto quello,
a quella pazzia che lo aveva portato lì, di nuovo ai piedi dell’angelo a
soffrire per desideri e sogni che non gli sarebbero mai appartenuti, per dolori
che sembrava dover continuare ad avere.
Avrebbe voluto ridere e dare fuoco ad
ogni dannatissimo fiore che era ricresciuto e ad ogni dannatissima pianta che
continuava a muoversi e ad allungarsi, bruciare ogni simbolo di ogni menzogna a
cui per qualche istante aveva davvero creduto.
Era venuto per chiudere tutto, ne era
certo, e forse era meglio così. Era meglio gettare cumuli e cumuli di detriti
sopra qualcosa che era stato destinato a morire prima ancora di nascere.
Perché allora tutto quel teatrino con
Minerva, l’averlo fatto tornare ad Hogwarts, tornare
lì?
Perché? Si chiese ancora e ancora, nella
sua testa, anche se avrebbe voluto gridarlo. Urlarlo mentre prendeva a calci la
statua e la buttava giù e la distruggeva in mille pezzi e poi ancora mille,
finché non fosse diventata polvere da far volar via, da disperdere per sempre
insieme alle sue speranze.
«Questo non è un buon posto per parlare.
Andiamo» e lo esortò a seguirlo, e, senza dire nient’altro, oltrepassarono
entrambi la barriera magica, salendo poi la vecchia scalinata, uno dietro
l’altro.
In silenzio.
[1]Harry Potter e I Doni della Morte, Capitolo 33 – La
storia del Principe
Erano
tornati indietro velocemente e avevano oltrepassato il ponte in pochi minuti,
nonostante Harry si fosse fermato spesso a guardarsi intorno arrancando poi per
mantenere il passo.
Cos’era
quel posto? Non lo sapeva neppure lui con esattezza.
Era
un po’ la fortezza della sua anima, un invalicabile scudo in cui sciogliere il
proprio cuore, mura e piante dove poter essere semplicemente se stesso.
«È
il mio posto.»
«Scusa.
Non volevo invadere i tuoi spazi.»
«Ma
lo hai fatto. Come al solito fai solo quello che ti passa per la testa credendo
che sia tutto giusto.»
«Beh,
ma questo mi ha comunque portato al Ministero della Magia.» Quanta nostalgia
aveva avuto della sua risata. Quelle labbra che si schiudevano scoprendo appena
i denti e quel suono che sapeva acquietargli lo spirito come nessun altro, gli
erano mancate come pioggia nel deserto, e quante volte aveva spezzato quel
suono con le proprie labbra, afferrandogli il respiro con il proprio.
E
lo desiderava anche in quel momento, desiderava quella bocca e ogni sua parola
e cellula, ma cercò di trattenersi, di portare il pensiero altrove mentre con
violenza stringeva i pugni conficcandosi le unghie nella carne.
«Non
ci trovo nulla di divertente, è risaputo che al Ministero è passata gente
dall’intelligenza non proprio spiccata.»
Harry
smise di ridere e lo fissò – falsamente – irritato, piegando le labbra in
quello strano modo che lo aveva sempre fatto diventare matto, soprattutto
quando si perdevano sulla propria pelle, facendo scemare quell’irritazione in
respiri sul collo.
Era
dannatamente difficile averlo così vicino e non pensare di stringerlo di nuovo
a sé, togliersi ogni desiderio di dosso come pioggia dai capelli.
E
per un attimo gli tornò alla mente quello stesso giorno di un anno prima.
Ricordando
ogni singola parola che era stata detta su quella dannata Torre, e ricordando
ogni gesto, ogni immorale gesto che avevano compiuto su quella pietra intrisa
di sangue e umori e, forse, persino d’amore.
*
La
pioggia cadeva furente sopra Hogwarts infrangendosi
con tutta la sua rabbia sulle finestre, il vento soffiava altrettanto forte e
sferzava i grossi alberi come se fossero stati dei fragili ramoscelli.
I
rumori della natura ovattavano persino la musica e le voci, ma sembravano
donare maggiore allegria ad ogni presente, come se fossero stati semplice
abbellimento per Halloween, un’atmosfera cupa e minacciosa creata appositamente
per la festa.
Ma
fuori il cielo continuava a fare come voleva e dentro anche lui si sentiva come
pioggia cadente destinata ad evaporare, e più guardava Harry insieme a Ginny e più il vento distruggeva la sua anima come una lama
affilata che si abbatteva più e più volte su di una mela abbandonata.
E
scappò.
Un
codardo qualunque che non reggeva più quella vista, e corse via da lì, come un
animale ferito. Un amante distrutto.
Come
il nulla che si sentiva di essere sempre stato e che sempre gli sarebbe
appartenuto.
Lui
non avrebbe mai potuto avere niente. Lo sapeva.
E
allora aveva continuato a correre con gli occhi fissi ai suoi piedi senza
sapere davvero dove sarebbe andato, e corse per poi fermarsi e camminare,
lento, e correre di nuovo, con il sorriso del giovane mago che non riusciva a
cancellare.
Si
fermò di nuovo e per un istante tra i battiti del proprio cuore sentì ancora
una volta il desiderio improvviso di tornare nella Sala e scostare tutti fino
ad arrivare da lui e dalla sua bocca, per afferrarla con la propria davanti a
tutti e risucchiare dentro di sé tutto l’amore che aveva dentro.
Ma
era scappato.
Aveva
stretto i pugni con rabbia – e con dolore – ed era corso via per ritrovarsi in
quel luogo dannato che ogni volta sembrava chiudersi intorno a lui come una
gabbia e via via sempre più stretta fino a disintegrarlo tra le sue mura e il
suo vuoto, e persino guardarlo da lontano gli aveva sempre procurato quella
sensazione, ma d’altronde non poteva aspirare a nulla di diverso.
Né
lo meritava.
Lì
era stato ancora una volta un assassino.
Lì
aveva mantenuto la sua promessa, ma era morto insieme al vecchio Dumbledore, e ogni volta che tornava lassù, si sarebbe
sempre sentito meno vivo. Sempre un omicida.
«Sei
sparito.»
Rimase
in silenzio per un po’, non volendo parlargli né guardarlo, poi lo ruppe: «Volevo
prendere un po’ d’aria.»
«Qui
ce n’è un po’ troppa, mi sembra.» Il vento, lassù, sembrava essere più rabbioso
che altrove. «E moltissima acqua» aggiunse, mentre prendeva la bacchetta e
lanciava un incantesimo sopra di loro, e la pioggia cambiò direzione, come
deviata da un invisibile tetto.
Snape
sorrise, continuando a guardare la notte oltre la balaustra, quella pioggia che
continuava a cadere incessante persino sopra di lui, senza avere alcuna
intenzione di smettere, e si beò del suo profumo, facendosi penetrare da ogni
goccia di acqua e umidità che c’era nell’aria.
«Non
ti ho chiesto di seguirmi.»
«No»
e fece alcuni passi avanti finché non gli fu vicino. «Certo che no.»
Il
suo odore si confuse con quello della pioggia e per un attimo chiuse gli occhi,
immaginando di essere entrambi là sotto, con l’acqua che avrebbe lavato via
ogni sbaglio e ogni dolore.
«Non
ami molto questa festa, vero?»
«No.»
«Né
questo luogo. Eppure vieni qui spesso. E là.»
«Già.»
«Non
si era detto basta con il passato?»
«Sì.»
«E
allora?»
«E
allora niente. Non è il passato che mi preoccupa» e mi fa male, ma questo non lo disse. «Ma il presente.»
«E
il futuro?»
«Il
futuro non esiste.»
Harry
sospirò, non era in grado di ribattere a quell’affermazione, in cuor suo era
consapevole che non ci fosse nessuna risposta, lo sapevano entrambi.
«Allora
viviamo il presente.»
Snape
strinse con forza – e rabbia – le mani alla pietra, facendole diventare ancora
più bianche, si sporse un po’, oltre l’invisibile copertura, e l’acqua lo colpì
sul viso stanco e per un istante sembrò risvegliarlo, togliersi di dosso quel
torpore dall’anima, ma continuò a mantenere il controllo di sé e non si voltò a
guardarlo, neanche a sfiorarlo appena con gli occhi. Rimase immobile,
impassibile e imperscrutabile.
«Qui.
Adesso» Harry continuò a parlare incurante della sua freddezza, non facendosi
neppure scoraggiare dal suo ignorarlo.
«Viviamo
di momenti io e te. Siamo momenti.
Siamo degli angoli strappati di un libro che s’incontrano tra la spazzatura.»
«Io
non ci considero per nulla spazzatura!» sentì il malumore di Harry crescere
come una nube di densa ira che avrebbe scaricato grandine su un tappeto di
fiori delicati pronti a morire, ma fissò ancora il vuoto davanti a sé, uno due
tre secondi, poi cinque finché non si sentì strattonare con decisione. E si
ritrovò a fissare gli occhi verdi del giovane mago, scuri di speranze ormai del
tutto vane.
Lo
osservò con attenzione e rise. Rise forte.
«Cos’hai
da ridere?»
«È
meglio ridere che piangere, non trovi?»
«Trovo
che lei sia un emerito cretino, SeverusSnape!» E rise ancora, con l’acqua che continuava a
gocciolare dai suoi capelli e dai vestiti.
«Puoi
cancellare dalla mia anima il dolore che provo ogni volta che vengo qui?
Estirparlo dai miei pensieri e bruciare il ricordo dalla mia mente come fosse
carta straccia? Puoi farlo, Harry?» e alzò gli occhi al cielo per guardare la
pioggia di fine ottobre scendere per accogliere l’inizio del nuovo mese,
sorridendo amaramente.
E
per un attimo gli parve che tutto si fermasse, le parole, i respiri, e persino
la pioggia sembrava immobile nell’aria come se un altro incantesimo l’avesse
colpita.
I
due uomini non si guardavano neppure, uno fisso al buio e l’altro al nulla.
Poi
tutto tornò a muoversi, ma i loro occhi rimasero distanti dall’altro anche se i
loro corpi si reclamavano iniziando ad urlare la necessità che avevano di
consumare quei pochi momenti di solitudine senza perdersi in voci e pensieri.
Per consumarsi a vicenda e ricordarsi quegli attimi quando sarebbero rimasti da
soli.
«Allora,
puoi farlo?» domandò di nuovo mentre per un attimo tornò a guardarlo.
«Non
voglio cancellare i tuoi dolori, così come non cancellerei mai i miei. Siamo
quello che siamo grazie a loro, e non ti vorrei diverso da quello che sei.»
Harry
gli sfiorò appena le dita con le sue, timorose, come se avesse avuto paura di
non sapeva bene cosa neppure lui, e lo fissava come se avesse potuto compiere
qualsiasi gesto, come se avesse voluto che lo facesse.
Il
volto di Harry rimase fisso ancora per qualche secondo ad esse, poi alzò il
mento ai suoi occhi neri e sorrise, quel sorriso che amava tanto, quello che
sapeva strappargliene uno anche a lui. Quello che spesso desiderava sul suo
petto.
«Posso
regalarti un ricordo nuovo» e lo baciò senza dire nient’altro, ma Snape si scostò, facendo un passo indietro. «Posso darti un
Halloween nuovo» e il giovane mago, invece, fece un passo avanti, verso di lui.
«Non…
non sarebbe giusto.»
«Cosa?
Sovrapporre l’amore all’odio? La felicità al dolore?»
«Qui
ho ucciso!»
«Vivi.
Ama.»
«Non
posso.»
«E
allora lascia che lo faccia io. Che seppellisca la morte con le mie mani e la
bocca e il mio respiro. Con la mia pelle sulla tua.»
«Harry…»
non erano molte le volte che lo chiamava per nome, lo faceva solo quando era
completamente se stesso, quando le emozioni più profonde prendevano il
sopravvento. «Non qui» ed era sincero. Desiderava il giovane mago anche in quel
momento, era vero, voleva stringerlo a sé più che poteva, ma quel posto
continuava ad essere un fantasma del suo passato, un dolore che sarebbe stato
sempre un ricordo dei suoi errori.
Harry,
però, si fece più vicino e poté sentire il calore del suo corpo sul proprio, ma
rabbrividì come un castello smosso dalle fondamenta; provò ad allontanarlo
ancora una volta da sé, chiuse gli occhi e si figurò le proprie mani che lo
spingevano via, ma quando lì riaprì le braccia erano immobili, così come le
gambe e ogni altro muscolo, e il giovane era sempre più vicino, stoffa contro
stoffa a disintegrare ogni autocontrollo.
E
poi, prima che aprisse la bocca per dire altro, Harry lo abbracciò, gli strinse
le braccia dietro la schiena e poggiò la fronte sulla sua spalla, ma Snape rimase ancora fermo, le mani tese – quasi rabbiose –
sui fianchi ed un senso d’impotenza opprimente, come se non fosse stato capace
di parlare o di muoversi, di scostarlo o di stringerlo a sé.
«Torniamo
in Sala Grande. Gli altri si staranno domandando che fine hai fatto,» ma provò
lo stesso con tutte le forze a distruggere quel momento.
A scappare anche da lì.
Il
ragazzo rimase muto, poi, semplicemente, si sollevò e rispose con un bacio, e
poi un altro e uno ancora sulle guance, sul mento, sul collo e poi sugli occhi
e sulle orecchie. Su ogni parte di sé.
«Harry…
no,» ma in realtà non desiderava altro.
«Shhh!»
Fu
quando il giovane mago intrecciò le mani con le sue che perse ogni ragione e
ogni controllo – e ogni ricordo di dolore
–, e poi lo strinse a sé, lo abbracciò con forza, con un bisogno quasi
primordiale.
E
gli Halloween passati cominciarono via via a nascondersi, a pesare sempre di
meno, e più Harry lo stringeva, più le sue braccia li seppellivano uno ad uno,
spostando dolori e tristezze nel buio più profondo.
Sarebbe
durata per sempre quella sensazione?
Soltanto
pochi giorni o per quegli attimi e basta?
Lì,
su quella torre, ognuno nella braccia dell’altro, non avrebbe saputo trovare
una risposta né gli interessava farlo, desiderava soltanto che il tempo
cementificasse quel momento rendendolo immortale, e si sarebbe trasformato egli
stesso in una statua se fosse servito a vivere per sempre quelle sensazioni.
E
Halloween andava avanti mentre loro rimanevano fermi in quell’abbraccio.
Poi
si mossero, le mani sull’altro, le bocche a toccarsi e a risucchiare l’anima, e
null’altro esisteva intorno a loro, né il loro passato né ciò che sarebbe
stato.
Harry
sorrise e gli slacciò uno dopo l’altro i bottoni della casacca, rapido e tremante,
per poi sfilarla senza dire una parola, e fece lo stesso con la camicia senza,
però, togliergli la sciarpa nera che portava sempre al collo, lasciò soltanto
che gli angoli gli pendessero sul petto, su quella porzione scoperta di pelle
che cominciò a baciare e toccare senza mai fermarsi.
E
le sentiva le sue labbra e la sua lingua su di sé, e ogni muscolo si fece più
teso e ogni nervo più sensibile.
«Mi
sento così sacrilego. Un peccatore di blasfemia nei confronti di questo luogo.»
«La
tua è solo una percezione di ciò che realmente è questo posto.»
Snape
sorrise. «Qui ho ucciso AlbusDumbledore.
Realmente. Nessuna proiezione di una
mia fantasia.»
«Per
me, qui, è dove hai fatto ciò che andava fatto. Lo è per tutti.»
«Non
la pensavi così quando mi hai visto farlo.»
«Non
conoscevo la verità. Puoi biasimarmi?»
«No.
Certo che no.»
Non
poteva biasimare nessuno per averlo creduto un traditore assassino, e non
riusciva a farlo neppure con chi ancora lo credeva, ormai era un’abitudine con
la quale conviveva e basta, come alzarsi la mattina o fare colazione.
Vide
il volto di Harry mutare e un velo di tristezza scendergli addosso. «Non essere
triste per me.»
«Non
ho mai capito niente di te, sempre a farci la guerra, ad odiarci.»
«È
stata una cosa reciproca. E… passata»
e per la prima volta parlò del passato come se non portasse con sé nessun peso
addosso, il suo tono di voce era calmo, libero,
e il giovane Potter in qualche modo se ne accorse e sorrise, uno dei sorrisi
più ampi che gli aveva visto fare.
E
allora Severus lo strinse al proprio corpo sentendone
il calore invadergli la pelle fredda per il vento che continuava a soffiare
forte sulla torre, lo strinse con tutte le sue forze e Harry fece altrettanto:
un abbraccio che aveva tutto il sapore della leggerezza, e rimasero di nuovo
immobili per lunghi minuti, interminabili, a confondere i loro odori e i loro
respiri sotto quell’acqua che cadeva senza neppure colpirli.
Un
istante dopo, però, l’incantesimo cessò e la pioggia comincio a scivolare su di
entrambi.
E
allora si baciarono nell’acqua per stringersi ancora e di nuovo baciarsi,
afferrarsi, sfiorarsi e toccarsi mentre dita andavano su altre dita e sulla
carne lasciata scoperta dagli abiti ormai gettati a terra come stracci inutili
e ingombranti.
«Potrebbe
salire qualcuno.»
«Che
vedano pure, così la finiamo con questa segretezza come due criminali.»
«Non
dire idiozie, sarebbe un disastro.»
«Un
disastro, professor Snape,
sarebbe sprecare ancora questo momento a parlare» e lo spinse con rabbia verso
la pietra ruvida che gli graffiava la pelle nuda, e Severus
sorrise, lasciandolo fare, lasciando che facesse ciò che voleva, riempiendo
quegli attimi in qualsiasi modo desiderasse come pioggia che s’infilava in ogni
crepa della torre e in ogni pezzo di terra intorno a loro.
Come
la sua bocca che riempiva ogni frammento di sé.
E
la sentiva dargli sollievo dove prima i denti si erano stretti sulla carne
umida di lui e di pioggia, e più scendeva a baciarlo e più tirava la sciarpa
ormai zuppa, ci si aggrappava come ad un’ancora di salvezza e in quel momento
anche lui desiderava aggrapparsi a qualcosa, alla ragione, al giusto, ma le sue
dita si strinsero malamente soltanto alla pietra dietro di lui; quella pietra
che in quegli attimi non si portava dietro alcun ricordo, soltanto le immagini
di quegli istanti, di Harry che lo toccava.
E
non c’era nient’altro che lui e tutto l’amore disperato che aveva attaccato
addosso come pioggia e come lacrime che sgorgavano senza che lui potesse fare
qualcosa per fermarle.
Quel
senso di nulla svanì tra i fulmini che cadevano lontani e vicini.
«Che
succede?» Harry si accorse del suo turbamento e si sollevò di scatto,
prendendogli il viso tra le mani, preoccupato. «Ho fatto qualcosa di
sbagliato?»
«Non
sei tu il problema.»
Harry
si alzò sulle punte, sorrise, e gli baciò gli occhi, uno ad uno, e in quel
gesto seppe che aveva capito ogni cosa senza il bisogno di dire altro, e in
quel momento non sarebbe riuscito a farlo, a pronunciare alcuna parola.
Nel
loro essere corrotti e a brandelli si conoscevano più di quanto davano a vedere,
anche negli anni dell’odio forse si erano conosciuti senza mai svelarsi l’un
l’altro, in fondo le loro vite erano state così legate da sembrare una sola,
con i dolori che attraversavano entrambi in una sorta di linea infinita che
apparteneva ad ognuno di loro.
E
più imparavano l’uno dell’altro, e più si capivano, senza neppure il bisogno di
parlare.
«Torniamo
giù» parlò Harry per entrambi, quelle parole che a lui non riuscivano ad
uscire.
Aveva
rovinato ogni cosa, lo sapeva. Salendo lassù era piombato nuovamente nella
morsa di quel passato che non gli faceva vivere a pieno il presente e gli
negava ogni futuro.
Futuro…
Che
futuro poteva mai esserci per lui? Per loro?
«Finalmente
vi ho trovati!»
Si
erano da poco rivestiti quando Ginny apparve sulla
torre, la bacchetta stretta alla mano per lanciare un incantesimo che la
riparasse dalla pioggia.
Entrambi
si voltarono cercando di sembrare solamente due vecchi amici – o nemici – che
conversavano, e sorrisero entrambi alla ragazza e lei ricambiò, con solarità.
«È
bello vedervi parlare, ma siete spariti da così tanto tempo che ci eravamo
preoccupati.»
«Ero
solo venuto a prendere un po’ d’aria e quello stupido di tuo marito ha voluto
seguirmi.»
«L’impulsività
non gli è mai mancata, professore» e sorrise di nuovo mentre puntava la
bacchetta verso i due uomini per asciugarli.
«Ma
siete comunque due idioti. Non mi sembra né il clima né il luogo adatto per
prendere una boccata d’aria e conversare.»
E
continuarono a parlare come se i vecchi amici fossero stati tre, ma il senso di
malessere continuò a crescere in Snape: per il luogo,
per il vederli così felici insieme – erano poi davvero felici? –, ma
soprattutto per se stesso, per quanto si sentiva veramente un idiota a stare in
mezzo a tutto quello.
Ma
cosa avrebbe potuto fare? Non era così facile come combattere con qualcuno
nascondere e seppellire i propri sentimenti, lo aveva fatto per lungo tempo ma
non era servito a nulla.
Ogni
volta si riprometteva di smettere e ogni volta gli bastava anche solo vederlo
per cedere completamente.
Era
uno stupido, aveva ragione Ginny.
Era
uno stupido con un cuore a pezzi.
Uno
stupido con un cuore che batteva forte.
Continuava
a guardarli mentre una stretta invisibile gli serrò la gola, una morsa che lo
distrusse pian piano, e desiderò soltanto sparire.
*
«Allora…»
Snape cambiò tono. Cambiò pensieri. E tornò al
presente, con quella stessa morsa alla gola, in quella casa persa in un
giardino che aveva raccontato di lui più di quanto aveva fatto egli stesso.
«Hai
detto che dovevamo parlare. Bene, parla» e lo invitò a sedersi, ad iniziare,
mentre lui accendeva il fuoco nel camino per riscaldare quelle mura da troppo
tempo fredde e solitarie. Non che lui si fosse concesso spesso un po’ di tepore
né che fosse stato un’ottima compagnia.
Harry,
però, non sembrava intenzionato a pronunciare alcuna parola, non sapeva per
quale motivo, se fosse soltanto timore o semplicemente non sapesse da dove
iniziare.
Per
un attimo tornò di nuovo indietro nel tempo, facendo scorrere nella sua mente
gli Halloween degli anni già trascorsi, uno ad uno come se fossero libri di un
archivio da consultare, un archivio fatto di molto dolore e persino paure, ma
cercò di trovare dei momenti felici in quella melma che era il suo passato,
anche uno soltanto, un frammento che spazzasse via il resto.
E
ne riportò alla mente uno di quando era piccolo e sua madre lo teneva per mano
mentre passeggiavano per alcune stradine nascoste di Londra.
Poi
prese una sigaretta e l’accese con un tizzone ardente nel camino, non volle
guardare Harry che continuava a rimanere in silenzio, ma fissò il fuoco
aspirando fumo e ricordò.
Ricordò
di quando era bambino, troppo ingenuo per capire fino in fondo cosa succedeva a
casa sua e troppo piccolo per lasciarsi ferire da un insulto che aveva iniziato
una bella giornata per lui e per la sua famiglia.
«Almeno
questa sera potete confondervi tra le altre maschere di mostri. Potremmo
persino sembrare una famiglia normale e felice.»
Rammentava
ancora con esattezza quelle parole, il preciso momento in cui suo padre le
aveva pronunciate proprio davanti al suo sorriso dopo che la madre era entrata
in camera sua e gli aveva afferrato le mani per farlo uscire dall’armadio, da
quelle vecchie assi di legno dove si rifugiava spesso per non sentire le urla e
i pianti.
«Andiamo,
tesoro mio, questa sera mamma ti compra un sacco di dolci!» gli aveva detto con
quella sua voce quasi sempre spezzata, in un sorriso che gli era sempre
sembrato forzato e fasullo, per far finta che tutto andasse bene, ma aveva
sorriso anche lui, felice perché per una volta avrebbe potuto trascorrere
quella festa come tutti gli altri bambini della sua età. Trascorrerla con la
sua famiglia.
E
avevano camminato per quelle stradine di Londra, insieme, e ogni tanto aveva
sentito persino suo padre ridere tra tutte quelle maschere e dolci e colori, e
cantare una qualche vecchia canzone che lui non conosceva.
Ricordava
di avergli chiesto di insegnargliela: «Ti prometto che una sera di queste lo
faccio» gli aveva risposto, lui, però, non aveva mai imparato quella canzone né
nessun’altra, aveva finito persino per odiarla ogni volta che sentiva qualcun
altro cantarla, e aveva odiato ancora di più suo padre che non aveva mantenuto
nessuna delle sue promesse.
E
lo aveva abbandonato pur rimanendogli accanto, donandogli una presenza che non
c’era, un’assenza nella loro stessa casa.
Non
sapeva perché avesse scelto proprio quel ricordo tra tanti, forse perché in
quei passi compiuti in mezzo ai suoi genitori c’era qualcosa di bello, un
momento che era stato felice, uno soltanto, un attimo in qui la sua vita
famigliare era stata normale. Un attimo come tanti che tante famiglie vivevano.
Si
voltò a guardare per pochi secondi il giovane mago e tornò di nuovo al fuoco, a
quelle fiamme che sembravano aver impresso in esse quelle immagini che cercava di
tenere nella memoria. E poi bruciare.
E
avrebbe voluto bruciare quei pezzi di passato di entrambi, ma lo fissò ancora
per un poco e sorrise, un po’ amaro un po’ soddisfatto, pensando che aveva
avuto ragione Harry su quella Torre, erano diventanti gli uomini che erano
anche grazie a ciò che avevano vissuto, trovando la forza in ogni difficoltà
che avevano incontrato lungo il loro cammino.
«Severus, per favore, non scappare da me. Sei un uomo forte.
Non scappare.»
Quelle
parole erano sempre lì, nella testa, e allora ricordò ancora.
Ricordò
quella notte in cui Albus lo aveva legato ancora una
volta alla promessa fatta e lui era fuggito, dalle stanze del preside, dal
vecchio mago e persino da se stesso e si era rifugiato lì, in quella stessa casa
dove stava ancora aspettando le parole di Harry.
Dove
attendeva la fine di tutto.
E
aveva corso per miglia e miglia per togliersi tutto dai pensieri, per far
evaporare ogni dolore come fiato che si spezzava ad ogni passo, e aveva
continuato ad avanzare per arrivare in quel dannato giardino e strappare tutto
con le mani fino a farle sanguinare, ma quando si era trovato davanti a quelle
piante e fiori, tutto era cambiato di nuovo.
Neppure
aveva memoria di quello che ci fosse stato prima, ma nel momento esatto in cui
aveva arrestato la corsa, con il fiato ancora corto, distese di fiori erano
mutati, trasformandosi in un manto di rose bianche che venivano sostituite da
quelle nere, come se le stessero inghiottendo una ad una, e sembravano urlare
tutto l’odio che poteva esistere nel mondo mentre quell’oscurità azzannava
famelica ogni traccia di purezza, di umile e remota purezza, e per istanti
interminabili, quasi infiniti, aveva riversato quel disprezzo negli occhi
azzurri di Dumbledore e poi nel proprio cuore.
E
aveva sentito l’odore della morte sprigionarsi dai loro petali, il profumo
dell’addio che fuoriusciva in fili sottili ed invisibili da ogni loro foglia, e
li aveva sentiti, li aveva percepiti come schiaffi sul viso e colpi allo
stomaco, e si era voltato per scappare anche da lì, ma piccoli fiori avevano
iniziato a sbocciare davanti ai suoi piedi, investendolo del loro aroma.
Un
aroma buono che lo attraversò di solitudine come mai si era sentito, e avrebbe
voluto piangere e bruciare ogni cosa, e più la rabbia era aumentata più il
dolore lo aveva cinto come una catena troppo stretta, e non sarebbe servito a
niente scappare, lo aveva saputo fin da subito. Aveva saputo che il suo destino
sarebbe stato nient’altro che quello.
E
allora si era allontanato di pochi passi e si era gettato a terra e aveva
iniziato a piangere.
«Severus…» quella voce dannata lo aveva raggiunto anche lì,
tra le lacrime e gli umori che gli ostruivano occhi e parole, e mentre il
vecchio preside si era piegato per sfiorargli il viso con la mano annerita,
papaveri avevano iniziato a sbocciare intorno ai due uomini.
Snape
li aveva osservati a lungo, continuando a piangere, e più li aveva guardati e
più le lacrime erano aumentate, perché niente, niente avrebbe potuto consolarlo
dalla mancanza di Albus e niente avrebbe potuto
riempire il buco di dolore che gli avrebbe causato la sua morte. Il doverlo
ammazzare come un nemico qualunque.
Ricordava
di aver pianto a lungo tra le braccia di Albus, come
un bambino tra le braccia del padre. Maledizione stretta ad un’altra maledizione.
Consolazione che non c’era.
L’ennesimo
abbandono nella sua disastrata vita.
E
ritornò in quella stanza, davanti a quel camino, in attesa di un altro
definitivo abbandono. Di un altro dolore.
«Sto
aspettando.» Cancellò tutto quello che aveva riportato alla mente fino a quel
momento e si voltò a guardarlo, a fissare i propri occhi nei suoi. «Devo
entrarti nella mente e facciamo prima?»
«No
no! Certo che no. Stavo solo cercando le parole giuste.»
C’erano
parole giuste per dire a qualcuno che era finita? Esisteva un modo peggiore o
migliore per chiudere dei sentimenti in una scatola e gettarli in un mondo
irraggiungibile?
Le
parole, lo sapeva, potevano essere onde alte che distruggevano ogni cosa
davanti a loro.
E
lui ne aveva dette di parole avvelenate che avevano avuto il potere di far
esplodere tutto.
Sanguesporco. Un altro
ricordo.
E
per un attimo la propria voce gli rimbombò di nuovo in testa riportandolo
davanti a quella porta come non gli capitava da tempo.
L’ennesimo
abbandono.
Si
guardò le mani pallide, pulite e curate, ma sotto la pelle vide tutto ciò che
nel tempo aveva avvelenato, allontanandolo per sempre da sé.
Qualcosa
lo trafisse in pieno petto, ma non era dolore né sensazioni di fine. Era
qualcosa che non riusciva a spiegarsi. «Credo di non aver capito bene.»
«Io
credo, invece, tu abbia capito benissimo,» ma il giovane Potter sorrideva. Il
sorriso più bello che avesse mai visto.
«Ma…»
«No!
Lasciami finire. Spiegare.»
«D’accordo.»
Snape
provò a rilassare le spalle, ma si sentiva così teso e impaziente e confuso che
non riusciva a credere di aver ascoltato davvero quelle parole, che per la
prima volta nella vita poteva davvero essere felice. Per un istante o un’ora o
un mese o un anno soltanto, ma poteva esserlo davvero, senza più doversi
nascondere.
Respirò
a fondo, cercando di calmarsi, stava correndo troppo, lo sapeva, e se c’era una
cosa che aveva imparato nel tempo, era che non si dovevano mai creare
aspettative, perché puntualmente venivano deluse, così cancellò quegli ultimi
pensieri e attese.
«Ho
parlato con Ginny, le ho detto tutto.» Si alzò dalla
poltrona, frenetico. «Non ce la facevo più a portare avanti questa vita. Stare
con lei mentre amo qualcun altro» parlava veloce mentre passo dopo passo si era
avvicinato a lui che lo fissava con i muscoli di nuovo rigidi. «Mentre amo te.»
Glielo
aveva detto tante volte, ma in quegli attimi sembrava avere un sapore diverso,
un altro suono che sembrava scioglierlo davvero.
«No!»
lo fermò ancora, prima ancora che potesse aprire le labbra. «Io voglio stare
con te e con te soltanto. Non m’importa se dovrò lasciare il Ministero o la mia
casa, non voglio più stare lontano da te. Senza di te. Perché in questo mondo
nulla ha valore se non posso viverlo con te accanto. Casa non è casa senza di
te. Senza di te, tutto è niente.»
Harry
pareva voler dire altro, come se avesse trattenuto dentro di sé parole per anni
e avesse voluto tirarle fuori tutte in quel momento, ma rimase immobile e in
silenzio a guardarlo. Ad attendere.
Lui,
invece, le parole faceva sempre fatica a farle uscire, il silenzio era più
affine alla sua anima, forse perché aveva ascoltato molte parole vuote e altre
che facevano male.
Che uccidevano.
E
in quegli attimi non sapeva cosa dire.
Più
di una volta aveva dichiarato il suo amore al giovane mago, ma era anche
scappato, lasciandolo su quella spiaggia senza mai voltarsi indietro,
rimpiangendo ogni minuto quella scelta, ma sforzandosi di convincersi che fosse
stata la cosa migliore da fare. Nient’altro che quello.
Ed
ora era lì. Aveva ascoltato ogni parola di Harry, l’aveva divorata e fatta
molecola della sua anima, ma non sapeva cosa dire.
Si
scoprì di non esserne in grado, e allora fece l’unica cosa che gli sembrava
sensata, l’unica cosa che cuore e mente gli urlarono di fare.
Prese
il suo viso tra le mani e lo baciò con una foga tale che quasi caddero entrambi
a terra, e lo spinse indietro verso la poltrona mentre le loro labbra
rimanevano incollate e i loro respiri si fondevano in uno soltanto.
E
si staccarono soltanto quando ebbero bisogno di prendere aria.
«Non
posso credere stia accadendo davvero.»
«Cosa
sta accadendo?» lo canzonò Harry, quasi sfidandolo, ma Snape
lo baciò di nuovo, incapace per la prima volta di trattenere l’euforia che
aveva dentro: se si fosse specchiato avrebbe addirittura faticato a
riconoscersi.
Chiunque
avrebbe faticato a farlo.
Era
completamente un altro, oppure, semplicemente, SeverusSnape era per la prima volta nella vita felice. E non
aveva paura di mostrarsi tale.
«Non
sarà una cosa facile.»
«Sai
cosa abbiamo dovuto affrontare noi due?» e gli prese di nuovo il viso tra le
mani, fissandolo. «Lo sai, Harry ciò che abbiamo passato io e te?» e si
avvicinò ancora un po’. «Credi che questo mi spaventi? Non mi spaventa
affrontare qualcosa, mi spaventano i sentimenti, provare ciò che non ho mai
provato e conosco. E il resto…»
«E
il resto?»
«Che
vada a farsi fottere!» e lo baciò per un istante, poi si ritrovarono entrambi a
ridere mentre il sole, fuori, iniziava a tramontare, gettando gli ultimi raggi
di luce sui fiori che continuavano a sbocciare e mutare anche se lui non li
vedeva.
Anche
se erano oltre le mura e le finestre, loro continuavano a ricamare il suo
essere più profondo, disegnandone i colori e ogni sfumatura, facendo esplodere
sentimenti che in lui cominciavano a fuoriuscire a piccole gocce. Una dietro
l’altra, fino a farne un rivolo.
Snape
si fermò per un attimo ad osservarlo bene: era cambiato così tanto dall’ultima
volta che lo aveva visto su quella spiaggia, più magro, più rughe, sembrava
essersi invecchiato troppo velocemente, eppure era ancora così giovane.
Era
ben consapevole che il suo ruolo fosse complicato e pesante, ad aggravare ciò
c’era la situazione con Ginny, con lui stesso e con
tutto ciò che sarebbe venuto, e avrebbero dovuto essere forti ancora per un
po’, per quegli attimi che servivano ad uscire dall’ombra e vivere la loro
vita, e poco sarebbe importato il pensiero della gente.
Loro
si amavano, ed era tutto ciò che contava.
Tutto
ciò che serviva.
Era
mortificato per le persone cui avrebbero causato dolori e dispiaceri, certo, ma
come poteva essere una colpa essere innamorati? Esserlo senza poterli nemmeno
vivere davvero quei sentimenti.
Non
seppe perché, ma si mosse, una mano sul viso, vicino alla bocca, e l’altra sul
petto del ragazzo, e poi posò le labbra sulla sua testa, in un gesto delicato
di affetto, come a voler dire io sono sopra di te per proteggerti da qualsiasi
cosa per tutta la vita, da ogni male che potrà colpirti, io sarò riparo e mi
farò ferire al tuo posto, ma starò per sempre al tuo fianco, vicino ad ogni tuo
respiro e ad ogni tuo battito.
E
quel rivolo, in un attimo, si fece torrente che lo travolse, e allora lo
afferrò e lo strinse a sé, senza dire una parola, rimanendo in silenzio lo legò
al suo corpo volendone sentire ogni più piccola sfumatura di calore e ogni
battito e respiro. Volendo sentire semplicemente Harry addosso.
Il
giovane Potter si mosse appena, percepiva il suo viso sul proprio petto anche
se c’era la stoffa a separarli e il suo profumo lo invase, e non avrebbe voluto
mai più staccarsi da lì, da quegli attimi di felicità e di – osò dire – amore.
«Non
mi hai ancora detto che posto è questo.» Harry alzò appena il viso per
guardarlo. Continuava a sorridergli.
«Questo…»
Severus non si mosse, continuava a stringerlo nel
proprio abbraccio, cercando di respirarne ogni essenza. «Questo… non lo so
nemmeno io cos’è. Il giorno in cui Dumbledore mi ha
chiesto di ammazzarlo sono scappato come un codardo qualsiasi pieno di paure e
dolori, e ho corso disperato e mi sono Smaterializzato e Materializzato fino a
quando non sono arrivato ai piedi di quella stupida statua e l’ho trovato.»
«È
un luogo bellissimo. Così tranquillo, lontano da tutto. Così silenzioso. Così strano ed enigmatico. Mi ricorda un po’
te, sai?» e anche Harry si strinse ancora un po’ a lui. «Mi ricorda molto te.
Ti rappresenta,» ma Snape bofonchiò qualcosa di
incomprensibile e al ragazzo venne da ridere, ma si strinse ancora a lui.
«Non
sono…»
«Non
sei silenzioso?»
«Beh,
sì, ma…»
«Non
sei strano ed enigmatico?»
«Non
direi.»
«Mmm…»
«D’accordo.
Va bene. Lo sono.»
«E…»
«Ti
prego, non aggiungere altro, per Salazar!»
«Ok
ok» si scostò un attimo da lui e per un attimo rivide
il ragazzino con quell’aria perenne di sfida negli occhi che lo irritava ogni
volta, quello sguardo che per anni aveva odiato rivedendo in lui nient’altro
che James, ma ora… ora c’era soltanto Harry.
Ora
c’erano soltanto loro due.
E
gli sembrava di scoppiare. Di morire.
«È
tutto un sogno, vero?»
Harry
piegò la testa e lo fissò, sorridendo. «No» e lo disse deciso, fermo, con una
convinzione che aveva davvero il sapore di un sogno, del sogno più bello che si
potesse mai fare. «Sarà la nostra vita. Saremo noi.»
Il
giovane Potter allungò una mano verso una delle proprie, continuava a fissare
gli occhi neri del professore con sicurezza, ma le dita gli tremavano, sembrava
come timoroso, come se qualcosa avesse potuto rompersi da un momento all’altro.
Snape, però, altrettanto timoroso ma deciso, strinse
le proprie in quelle del ragazzo: dita che s’intrecciavano, che s’incastravano
perfettamente le une nelle altre come se fossero state scolpite proprio per
quello. Ammassi di cellule che ne aspettavano altri, ben definiti.
Pelle
fatta per toccarsi.
E
loro erano lì, uno davanti l’altro a guardarsi, a scrutarsi nel profondo mentre
i loro respiri s’intersecavano in un punto ben preciso, in uno spazio che si
restringeva sempre di più, e ancora, fin quando tra le loro labbra non c’era
più nulla, soltanto il sapore delle loro labbra. Soltanto due bocche che più si
cercavano e più volevano scoprirsi, conoscersi per conoscere ogni brandello di
anima risucchiata nell’altro.
«Ti
amo.» Harry parlò dopo essersi appena staccato da lui, ma Severus
rimase muto, immobile.
Non
perché non lo amasse e non volesse rispondere, avrebbe voluto gridarlo,
gridarlo a chiunque, ma in quel momento voleva solo trovare le parole giuste,
il modo giusto; per la prima volta voleva dirlo nel modo perfetto.
“Anch’io”
era vuoto, non diceva niente, anch’io cosa? Non c’era sentimento in queste
parole, non c’era nulla.
“Ti
amo anch’io” non lo sentiva perfetto, quelle parole gli stonavano perché gli
sembrava contenessero una precisazione senza senso, di quelle che servono
soltanto ad elevarsi al di sopra dell’altro, “sì, tu mi ami, ma anche io, il
mio amore ha un valore superiore al tuo” e questo proprio non voleva dirlo, né
lo pensava, perché loro erano semplicemente loro, due persone che si amavano,
non c’era un di più e un di meno, unio
e tu, c’era solo un noi, un siamo ciò che siamo, niente scalini più alti o più
bassi.
E
allora cosa dire? Qual era la risposta perfetta quando qualcuno ti guardava
negli occhi e ti parlava di amore?
C’era
qualcosa di perfetto nell’amore oppure era fatto da tante piccole imperfezioni?
Da sbagli e sbagli e sbagli?
Lo
fissò ancora per un po’ e poi parlò, in modo semplice e chiaro.
«Ti
amo.»
Pronunciò
quelle stesse parole, perché lo stesso era il valore che avevano l’uno per
l’altro.
«Ti
amo» ripeté ancora senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi, da quel verde
che mai come prima di allora aveva il sapore della speranza più pura di quello
che poteva essere, che qualcosa potesse esserci davvero. Della speranza di un
futuro.
Si
sorrisero l’un l’altro e poi, semplicemente, stettero a lungo a guardarsi, con
le labbra che si desideravano ma rimanevano immobili e piegate a cerare un
sospiro, ad attenderlo. Ad immaginarsi ogni sorriso ad ogni bacio.
Ad
ascoltare i battiti del cuore suonare nell’aria silenziosa di quel posto, e
quel silenzio così irreale e profondo non faceva altro che amplificarli, ad
aumentarne l’intensità fino a martellare le pareti.
Un
passo avanti, uno soltanto, e restarono immobili mentre fuori i fiori mutavano
ancora una volta. Non poteva vederli, ma ne sentiva il profumo, così come
sentiva quello di Harry.
Così
come sentiva il loro profumo di una vita.
E
continuarono ad abbracciarsi, desiderandosi, desiderando ogni loro imperfezione
e sfiorandosi cauti per poi esplodere ed entrare l’uno nell’altro con tutto
quello che si erano nascosti per tutto quel tempo, riversando l’uno nell’altro
persino la distanza e la confusione che svaniva.
E
i loro tocchi traboccavano di dolori come un bicchiere che continuava a
riempirsi, e loro non facevano altro che riempirsi dei loro respiri.
Fecero
l’amore a lungo, dimenticandosi di tutto il resto, e si baciarono ricordandosi
soltanto i loro nomi, soltanto i nomi di due persone che potevano finalmente
amarsi.
Sorridendo
ancora ognuno all’anima dell’altro, in silenzio, sfiorandosi appena tra un
passo e l’altro, uscirono da lì, da quella casa che profumava di fiori e sesso
e solitudine e tornarono, anche solo per un attimo, in quel luogo che più di
qualunque altro avevano considerato casa.
***
«Ron non vuole più parlare con me. Lo capisco, ma… non vuole
più parlare con me. Né vedermi.»
Il
Cancello di Hogwarts era di nuovo lì, gli sembrava
fosse passata un’eternità da quando era tornato, eppure erano trascorse appena
poche ore da quando era rimasto a fissarlo scappando poi di nuovo da quel posto
e persino da Minerva.
«Tornerà,
stai tranquillo,» ma il ragazzo tranquillo non lo era affatto, era triste,
glielo leggeva nello sguardo, così gli afferrò una mano e gli sorrise. «È solo
arrabbiato, ma vedrai gli passerà. Quando capirà, gli passerà, devi solo dargli
un po’ di tempo.»
Ron era sempre
stato un impulsivo e si faceva spesso soggiogare dalle proprie paure, ma era
una di quelle persone che tornava sempre e si sarebbe fatta uccidere per i
propri amici.
Senza
di lui, Harry sarebbe stato perso, lo sapeva persino Snape
che di amici veri aveva avuto soltanto sua madre, la dolce Lily che aveva
cercato in tutti i modi di metterlo in guardia dall’oscurità che cresceva
dentro il suo cuore, ma non era stato capace di ascoltarla; non aveva voluto
farlo.
E
non gli era stato mai permesso di ritornare l’uno dall’altra, perché la sua
cecità e follia l’avevano fatta uccidere.
Si
domandò cosa sarebbe successo se fossero mai tornati a passeggiare spensierati,
forse parlando di ciò che amavano o odiavano, se la vita avesse riservato loro
un destino diverso.
Si
chiese anche come avrebbe reagito alla sua relazione con Harry e per un attimo
alzò appena un angolo della bocca, divertito, e avrebbe riso ancora di più al
pensiero della faccia che avrebbe fatto James.
«Che
c’è?»
«Nulla,
scusami, stavo pensando ad una cosa, ma niente di importante. Andiamo? Sei
sicuro?»
«Non
molto» e ridacchiò, grattandosi la nuca, in quel gesto che faceva sempre e che
spesso gli aveva fatto perdere il controllo.
Guardando
il volto di Harry comprese di non essere l’unico a sentirsi così oppresso
eppure così legato a quel posto: entrambi facevano fatica ad avanzare, più
fissavano le mura oltre le mura, più sentivano il peso di tutto il loro
passato, di ogni sbaglio e di ogni colpa.
Certo,
il giovane Potter non avrebbe mai potuto eguagliare i propri, di errori;
varcare quella soglia avrebbe significato tornare lì dove aveva fatto del male,
dove le sue mani si erano sporcate del sangue peggiore, tornare a guardare
persone a cui aveva mentito così tanto e in questo capiva Harry più di chiunque
altro.
Capiva
perfettamente come doveva sentirsi, cosa aveva provato in quei lunghi mesi:
fissare le persone negli occhi e dire che il sole splendeva quando la realtà
era solamente pioggia e fulmini, parlare di sentimenti quando se ne provavano
altri.
Sussurrare
un amore quando se ne voleva urlare un altro.
Dichiararlo
e basta.
«Possiamo
tornare a casa.» Snape si accese una sigaretta.
«Casa?
Casa mi piace.»
«Ovunque
vuoi, io e te, e sarà casa.»
«Casa…
suona bene.»
«Allora
andiamo.»
Senza
neanche pensarci ulteriormente, si voltarono entrambi e iniziarono ad
allontanarsi dal cancello: ancora una volta si era fermato lì e ancora una
volta non lo aveva varcato, lasciandolo alle spalle mentre andava altrove; ma
stavolta non era da solo.
«Harry
Harry!» qualcuno stava chiamando il giovane mago, una
voce affannata che si faceva sempre più vicina. «Harry aspetta!»
Ronald
Weasley correva verso di loro e dopo qualche secondo
gli era davanti e si fermò all’improvviso, le mani sulle ginocchia e ansimante
per la corsa.
«Forse
è meglio se vi lascio da soli.»
«No…»
Ron parlava a fatica cercando di riprendere fiato.
«No… non c’è problema. Non ho mica più paura di lei, professore.»
Severus
si mosse appena e Ron fece un involontario passo
indietro: era bello costatare che certe cose non sarebbero mai cambiate.
Il
giovane Weasley si ricompose e si drizzò in tutta la
sua statura, tirando fuori tutto il suo coraggio e tutto quello che era venuto
a dire.
«Ti
ho odiato, Harry, è vero!» Ron parlava al passato, e
questa era già una bella notizia, ma vide che Harry era ancora teso, forse
troppo coinvolto per notare certe sfumature, ma non disse nulla, lasciò che il
ragazzo continuasse a parlare: «Ma Ginny è mia
sorella! Che fratello sarei stato se non ti avessi odiato, lo capisci?»
«Lo
capisco benissimo, e non mi devi alcuna spiegazione, avevi e hai tutte le
ragioni di questo mondo.»
No,
le sfumature proprio non le aveva notate.
«E
invece è giusto che io te le dia perché sei il mio migliore amico.»
Stavolta
parlava al presente: un’altra sfumatura positiva, importante, ma Harry non si
accorse neppure di quella.
Comprensibile.
«Ti
ho insultato così tanto che me ne sono vergognato subito dopo, ma ero troppo
orgoglioso per scusarmi immediatamente, mi dispiace.»
«Non
hai nulla di cui dispiacerti, avevi diritto a dirmi ogni cosa.»
«Non
è vero, avrei soltanto dovuto cercare di ascoltare e capire.»
«Ginny è una ragazza intelligente, forte e bellissima, e non
meritava ciò che le ho fatto ed io non meritavo lei. Voglio bene a tua sorella,
Ron, un bene profondo e sincero, ma non potevo darle
l’amore che desiderava e non volevo più che avesse un marito a meno di metà,
perché io ero niente, non potevo essere niente per lei se amavo un’altra
persona. Non potevo essere niente di più che un fratello che l’avrebbe sempre
protetta. Non posso essere che questo.»
«Credo
che Ginny l’abbia presa molto meglio di me, o meglio,
non che ne fosse felice, ma ha compreso i motivi. Ti ha ascoltato e li ha
compresi.»
«Non
voglio che soffra per me. Non ho mai voluto farla soffrire a causa mia, né te e
neppure la tua famiglia. Né nessuno, Ron, questo lo
devi capire.»
«Lo
so, amico mio, lo so.»
«Purtroppo
non ho preventivato di innamorarmi di qualcuno che non fosse mia moglie.»
«Lo
so» ripeté, «ma se la caverà e sarà felice. Meritiamo tutti di essere felici.»
Rimasero
in silenzio per alcuni minuti guardandosi per poi distogliere lo sguardo e poi
guardarsi di nuovo, mentre lui era fermo e li osservava e capiva le motivazioni di entrambi e si doleva per ogni singola
sofferenza che aveva causato ad ognuno di loro, ma si era solamente innamorato.
Punto.
Che
avrebbe dovuto fare? Reprimere i propri sentimenti ancora una volta?
No,
non era più disposto a nascondere ciò che aveva dentro, per quanto guardandosi
allo specchio avrebbe fatto fatica a riconoscersi, non lo avrebbe più fatto;
certo, non lo avrebbe urlato né avrebbe affisso manifesti, ma non avrebbe
neppure fatto finta che non esistessero, che ciò che provava non ci fosse.
Si
era nascosto per tutta la vita ed ora non lo avrebbe più tollerato.
«Io…
non… cioè, è strano!» Ron ruppe il silenzio fissando
per un momento prima l’uno poi l’altro. »Voi due… è decisamente strano!»
Snape
continuò a non dire nulla, non aveva voluto intromettersi, ma anche la sua
pazienza aveva un limite e gli sembrava così pesante tutto quel parlare e
parlare e parlare, eppure rimase muto, anche se voleva solo andarsene da lì.
Si
chiese se ne avessero ancora per molto. Tipico
di Snape.
Ron fece un passo
avanti, e lo stesso fece Harry, lui, invece, rimase fermo, le mani incrociate
al petto e lo sguardo sempre vigile ad osservare ciò che i due ragazzi
facevano, ogni più piccolo gesto e movimento, accorgendosi di molte più cose di
quante ne avrebbero viste quei due, così coinvolti ed emotivi.
Un
altro passo e impacciati nei loro sentimenti, si abbracciarono, contenti e
addolorati di tutto quel tempo che avevano trascorso lontani senza davvero
capirsi, senza neppure sfiorarsi con le parole, ma in fondo l’amicizia era
anche quello, erano alti e bassi. Erano mille sfumature. Erano chiarimenti,
arrabbiature, sorrisi e lacrime e risate.
Era
tornare sempre.
In
quel momento Severus non seppe trattenersi, e le sue
labbra si piegarono, e più li guardava più sorrideva, una gioia profonda che
gli veniva da dentro.
Era
felice, felice per loro, perché l’amicizia era importante, e lui che non
l’aveva mai realmente avuta, lo sapeva più di chiunque altro.
Lui
che non era mai stato davvero un amico per nessuno, comprendeva in quel momento
quanto avesse perso in tutti quegli anni e quanto avrebbe dovuto ancora fare
per riparare, per esserlo davvero.
Vide
Harry e Ron abbracciati che si scusavano nel silenzio
e si promettevano di esserci sempre, ed era felice.
Felice
davvero.
«Ne
abbiamo passate così tante e abbiamo visto così tanta morte che tutto il resto
sono cose che si possono superare. Mia sorella starà bene e… sono felice per
voi se lo siete.»
«Lo
siamo» rispose deciso Harry, senza neanche pensarci un momento, guardando Snape subito dopo aver parlato, con un sorriso sulle
labbra.
«Andiamo?»
Ron fece un passo verso il cancello, esortandoli a
fare lo stesso, ma nessuno dei due si mosse, rimasero come due statue,
fissandosi appena un paio di secondi per poi tornare a guardare il giovane Weasley.
«Non
ora.» Stavolta fu Severus a rispondere mentre gettava
a terra il mozzicone di sigaretta. «Non oggi.»
Dicembre
Erano
gli ultimi giorni d’autunno, ormai stava lasciando il posto al gelido respiro
dell’inverno che aveva già iniziato a sferzare ovunque.
SeverusSnape si svegliò sentendo il profumo di caffè.
Il
letto era comodo e soprattutto caldo, e non avrebbe voluto lasciare quelle
coperte, ma quel profumo gli aveva fatto aprire gli occhi.
Forse
perché era il profumo della semplicità.
E
allora scese e i piedi nudi sul pavimento gelido gli procurarono un brivido
lungo tutto il corpo, ma non ci badò molto, continuò ad avanzare verso la
cucina. Verso quell’aroma.
Un
aroma che sapeva di normalità.
«Pensavo
volessi dormire ancora un po’.» Il buongiorno era negli sguardi e non aveva
bisogno di uscire dagli occhi, da quel verde e nero che si conoscevano e si
toccavano anche quando non si sfioravano neppure.
«Ho
sentito odore di caffè.»
Harry
piegò le labbra in un sorriso, quello che amava, quello che sapeva di casa, e
fece altrettanto, sperando di disegnargli addosso quegli stessi sentimenti.
Il
camino in sala era acceso, ne sentiva il rumore fino a lì, quei piccoli crepiti
che gli piaceva spesso ascoltare mentre s’incantava a lungo a guardare le
fiamme: lo faceva spesso, gli ricordava quand’era bambino e si metteva davanti
al fuoco ad ascoltare le storie dei genitori, quando ancora sembravano una
famiglia normale.
E
andò a fissarle ancora una volta, per ricordare quei momenti, per ricordare
attimi felici del passato in attesa di crearne altri. Da solo. Con Harry. Con
ogni persona a cui voleva bene.
Il
giovane mago lo seguì, sedendosi accanto a lui, e gli porse una tazza di caffè fumante
e bollente.
Soffiò
appena e insieme bevvero finalmente il loro profumo di felicità.