I got all I need when I got you and I

di Roscoe24
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***
Capitolo 19: *** 19. ***
Capitolo 20: *** 20. ***
Capitolo 21: *** 21. ***
Capitolo 22: *** 22. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Settembre era sempre stato un bel mese, per Alec.
Gli piaceva camminare per strada e vedere come le foglie degli alberi cominciavano a cambiare colore, ingiallendosi un poco. E trovava piacevole sentire la temperatura che si abbassava giorno dopo giorno, salutando la calura estiva per dare il benvenuto alla temperatura autunnale. La verità era che lui preferiva le stagioni fredde, a quelle calde. Era più il tipo da piumone, cioccolata calda e libro aperto sulle ginocchia, che da costume, spiaggia e feste nelle quali avrebbe finito per sedersi nel posto più isolato possibile – finendo sempre per essere l’unico sobrio e, di conseguenza, accollarsi il compito di baby-sitter della serata. Aveva perso il conto delle volte in cui si era dovuto caricare Jace in spalla per riportarlo a casa tutto intero.
Se qualcuno dice tranquillo, lo reggo benissimo l’alcol, quel qualcuno mente. E Jace aveva mentito così tante di quelle volte che Alec si stupiva non avesse ancora capito che, evidentemente, la sua soglia alcolica era più bassa di quella che credeva. Aveva persino smesso di contare le volte in cui, in preda all’ebbrezza alcolica, suo fratello aveva finito per dare spettacolo esibendosi in striptease che lui reputava sexy, ma che agli occhi esterni risultavano scoordinati e un tantino imbarazzanti. Se non fosse stato per tutta l’abbondanza che nascondeva sotto la maglietta, nessuna ragazza l’avrebbe mai preso in considerazione. Ma la storia era sempre la stessa: finivano tutte con il ridacchiare, dandosi gomitate e commentando quanto fossero perfetti gli addominali di Jace Lightwood, l’attraente biondino dai magnetici occhi bicromatici. E non poteva dare torto a nessuna di quelle ragazze. Per un periodo della sua vita anche lui era stato attratto da Jace – occhi bicromatici e addominali da urlo compresi – sentendosi uno sporco pervertito: era vero che non condividevano gli stessi geni, che era stato adottato e i suoi genitori avevano deciso di cambiargli il cognome per farlo sentire parte integrante della famiglia, ma… ma Alec l’aveva sempre recepita come una cosa sbagliata. Si sentiva un disonesto ogni volta che Jace si spogliava in sua presenza – magari quando, nella camera che condividevano, si cambiava per infilarsi il pigiama e andare a dormire – e Alec indugiava sulla curva che il suo sedere formava con il fondo della schiena, sentendosi tutelato dall’ignoranza del biondo, che non aveva mai pensato di poter essere l’oggetto del desiderio del fratello.
Ma poi quella fase era passata. Non si sa come, non si sa in che modo, forse con l’aiuto di Izzy.
Sicuramente con l’aiuto di Izzy, che aveva fiutato l’omosessualità del maggiore dei suoi fratelli come un cane da tartufo.
“Vedrai che ti passerà,” gli aveva detto una sera quando si erano trovati a parlare in camera della ragazza.
“Cosa, l’omosessualità? Mica è come la febbre, Iz!”
Isabelle aveva roteato gli occhi con così tanta convinzione che Alec aveva temuto le fossero arrivati al cervello, “E meno male mamma e papà pensano sia tu il più intelligente dei loro figli!” gli aveva dato un pizzico su un braccio, “La cotta per Jace, cretino!”
“Non ne sono sicuro…” Non aveva nemmeno tentato di negare, con Iz era inutile: primo, lei lo conosceva meglio di se stesso; secondo, era l’unica con cui poteva parlare apertamente senza avere paura di essere giudicato. In pratica, era l’unica che lo salvava da un’implosione. Tenersi tutto dentro gli riusciva con tutti meno che con sua sorella. Aveva bisogno delle parole di Izzy.
“Io sì, invece. Un giorno capirai che tutto quello che provi è dettato solo da fatto che lui è l’unico ragazzo con cui ti sei mai relazionato e quindi hai i sentimenti confusi…”
Quella sera di due anni prima – incredibile come a tredici anni sua sorella fosse più saggia di moltissimi adulti – Alec non aveva bene capito a cosa potesse riferirsi Isabelle, solo più tardi avrebbe realizzato la portata di quelle parole: i suoi sentimenti erano confusi per il semplice fatto che Alec, la cui esperienza rasentava l’inesistenza, cosa di cui certo non andava fiero, non sapeva distinguere il bene fraterno dall’amore. Aveva mischiato le due cose, convincendosi che tutto ciò che provava per Jace fosse amore, quando invece altro non era che il modo che aveva Alec, la cui natura era estremamente diffidente e chiusa, per difendersi dalla realtà: se avesse convinto se stesso di essere innamorato di Jace, non avrebbe provato a rischiare di affacciarsi al mondo esterno e a tutte le sue pericolose relazioni, che avrebbero potuto spezzargli il cuore, o peggio: mettere in luce la sua omosessualità. Nascondendosi dietro ai sentimenti che credeva di provare per suo fratello, in questo modo, avrebbe tenuto alla larga ogni cosa: la verità, la possibilità di farsi delle esperienze, la delusione che avrebbe letto nei volti dei suoi genitori una volta ammesso come stavano le cose.
Nessuno, in casa Lightwood – tranne Isabelle – sapeva la verità su Alec.
E a lui andava bene così. Ancora non si sentiva di ammettere al mondo chi fosse veramente, aveva appena cominciato ad ammetterlo a se stesso.
“Aleeeeeeeeec!” le grida di sua sorella lo estraniarono dai suoi pensieri.
“Che vuoi?” le rispose di rimando, sistemando dei libri nello zaino. Con l’arrivo di settembre, era arrivato anche l’inizio della scuola e un diciassettenne Alec stava per cominciare il suo terzo anno. Non che la cosa lo emozionasse particolarmente, a dirla tutta. Mentre sembrava che Isabelle stesse per impazzire. Infatti, piombò nella sua camera come un uragano: “Devi aiutarmi, Alec. Sono in crisi!”
Alec roteò gli occhi al cielo: “Che genere di crisi, Iz?”
“Non trovo il mio reggiseno!”
Alec arrossì: “E perché lo vieni a dire a me??”
“Ma come perché? Tu sai sempre tutto!”
“Iz, so dove sono i vestiti di Max perché lui ha otto anni. Tu ne hai quindici. Sembri un po’ grandicella per non sapere dove si trova la tua roba!”
“Eddai, Alec. Aiutami!”
Il maggiore sbuffò. L’idea di avere a che fare con la biancheria intima di sua sorella lo faceva rabbrividire fino all’inverosimile, ma non riusciva mai a dire di no ad Iz. Era l’unica sorella che aveva e tendeva sempre un po’ a viziarla.
“Va bene,” esalò, sconfitto, “Descrivimelo.”
Isabelle batté le mani, soddisfatta. “È quello nero con il pizzo grigio sui bordi delle coppe…” la ragazza si lanciò in una descrizione estremamente dettagliata che fece arrossire Alec fino all’attaccatura dei capelli. Il pensiero che qualcuno potesse arrivare a vedere sua sorella sotto quel punto di vista così intimo lo infastidiva parecchio. In fin dei conti, nonostante Isabelle fosse cresciuta e avesse dato prova più volte di sapersela cavare da sola, tendeva sempre ad essere molto protettivo con lei.
“Hai capito qual è?” concluse la ragazza.
Alec sospirò: “Sì, sì ho capito. Ma non è un reggiseno da primo giorno di scuola!”
“Cosa?” ribatté stizzita, “È perfetto come reggiseno da primo giorno di scuola! Ah, ma cosa ne vuoi sapere tu!”
“Quanto basta!”
Isabelle alzò un sopracciglio: “Ne sai quanto basta di reggiseni, ne sei sicuro?”
Alec boccheggiò, aprendo e chiudendo la bocca senza che nessun suono che avesse un senso ne uscisse. Lui non ne sapeva un bel niente di reggiseni. Non gli avevano mai nemmeno scatenato quella curiosità che aveva spinto Jace a dodici anni a cercare su Internet le foto delle modelle di Victoria’s Secret.
“E va bene, non ne so niente! Sai cosa ti dico? Cercatelo da sola e mettiti quello che ti pare! Siamo già in ritardo!!”
Detto questo, l’accompagnò verso l’uscita della camera e si chiuse la porta alle spalle. Lanciò un’occhiata al suo letto, accuratamente rifatto, e poi una a quello di suo fratello, tirato su con la stessa precisione maniacale con cui Alec aveva rifatto il proprio. Avevano ricevuto la stessa rigida educazione: rifare il letto, tenere la stanza in ordine, non appendere poster di nessun genere al muro perché causano distrazione durante lo studio. Niente cd musicali, niente libri che non fossero quelli scolastici, o classici della letteratura. Aboliti i libri di fantascienza: secondo Robert Lightwood altro non erano che un’accozzaglia di baggianate senza senso che gli pseudo scrittori usavano per farcire la testa degli adolescenti con delle stupidaggini. E loro, ovviamente, avevano ubbidito. Alec in particolare non riusciva a disubbidire ai suoi genitori. Forse perché si sentiva in colpa a nascondergli la grande verità della sua vita. Forse perché pensava che, quando un giorno avrebbe trovato il coraggio di dire loro come stavano veramente le cose, non sarebbero poi stati così tanto delusi, ripensando a tutte le volte che si era comportato bene.
Forse, forse, forse…
“Sei pronto, Alec?”
Fu Jace, questa volta, ad estraniarlo dai suoi pensieri. Suo fratello aveva aperto la porta della loro camera e lo guardava con un mezzo sorriso e le braccia incrociate al petto, i bicipiti che si gonfiavano, smorfiosi e desiderosi di essere notati – come se fosse stato possibile non farlo. Portava una maglietta azzurra, con lo scollo a V che evidenziava le sue clavicole, e dei pantaloni neri, ai piedi gli anfibi slacciati.
“Sì, sono pronto.” Afferrò lo zaino e, non appena vide Jace fare lo stesso, pensò che, esattamente come l’anno prima, anche quest’anno ogni ragazza avrebbe fatto il diavolo a quattro pur di uscire con il più bello dei fratelli – si specifichi maschi, altrimenti Isabelle l’avrebbe picchiato per quel pensiero – Lightwood.

***

“Allora Izzy, sei emozionata?” domandò Alec, non appena scesero alla fermata dell’autobus. I tre fratelli si incamminarono verso la scuola, percorrendo il marciapiede che accostava un viale alberato. Alec alzò il viso per poter guardare il cambiamento che stava avvenendo nelle foglie: alcune avevano già cominciato ad ingiallirsi, altre, meno resistenti, stavano già rischiando di staccarsi, ormai secche. Altre ancora, invece, persistevano, forti verdi e vigorose, lasciandosi cullare dalla leggera brezza piuttosto che sentirsene minacciate.
“No. Ai corsi estivi ho già conosciuto metà della mia classe. È come se fosse il secondo anno anche per me!”
Isabelle, come era successo precedentemente ai suoi fratelli, aveva dovuto frequentare i corsi estivi preparativi all’inizio del primo anno di liceo. Era solo una cosa facoltativa, ma Robert e Maryse avevano deciso che tutti i loro figli avrebbero dovuto partecipare, convinti che ciò gli avrebbe agevolati in qualche modo. E, in un certo senso, così era stato: Jace l’anno prima, aveva conosciuto un certo Meliorn, un tipetto tutto particolare, con i capelli lunghi e la passione per il banjo. Non che fosse nata chissà quale amicizia, tra i due, però almeno andavano d’accordo. Alec era sicuro che la cosa che Meliorn apprezzasse di più di Jace fosse Isabelle, con la quale era uscito per circa due mesi, quell’estate.
“Non vorrei mai averti in classe!” disse Jace, beccandosi una gomitata dalla sorella.
“Molti ragazzi ucciderebbero per essere in classe con me, cocco.”
“Tipo quello sfigato di Meliorn?”
“Meliorn non è sfigato!”
“No, infatti.” Rispose sarcastico Jace, prima di lanciarsi nell’imitazione del povero Meliorn, “ ‘Jace, Izzy ti parla mai di me?’  E poi aspettate, c’è la mia preferita: ‘Oh, quanto è bella Isabelle. È la creatura più meravigliosa che abbia mai abitato sul pianeta’. Se non è da sfigati questo, non so cos’altro possa esserlo!” concluse con una smorfia di disgusto, come se un comportamento simile gli desse il voltastomaco.
Isabelle, che camminava al centro dei suoi fratelli, si voltò verso sinistra per folgorarlo con gli occhi perfettamente truccati da due linee di eyeliner. Erano gli occhi di un’altezzosa bellezza, gli occhi di una ragazza che si stava preparando per diventare una donna forte e determinata, proprio come sua madre Maryse. Alec le trovava simili sotto molti aspetti, sebbene non l’avesse mai confessato alla sorella, consapevole che non avrebbe apprezzato moltissimo. Entrambe le donne di casa Lightwood erano delle guerriere, toste come l’acciaio, infrangibili, due ancore che avrebbero sempre protetto la nave dalle tempeste, impedendo al mare di scaraventarla sulle scogliere per mandarla in frantumi. Avevano un portamento sicuro, autoritario e la bellezza fiera delle regine. Erano scaltre ed intelligenti. Isabelle, a differenza della madre, era meno rigida mentalmente e tendeva ad aggirare di più le regole, che invece Maryse rispettava alla lettera.
“Lui sa apprezzarmi.” Isabelle calcò il concetto spostandosi teatralmente i lunghi capelli corvini dietro alle spalle.
“Ti ritieni davvero la creatura più meravigliosa che abbia mai abitato sul pianeta?”
“Perché, tu no?”
Isabelle si allargò in un enorme sorriso vittorioso. Alec si trovò a ridacchiare e Jace gli rivolse un’occhiata tra il ferito e l’oltraggiato.
“Ora anche tu ti prendi gioco di me?”
“Puoi darle torto?”
“No,” ammise Jace, senza nemmeno una punta di imbarazzo nella voce. Il biondo sapeva di essere straordinariamente bello e non si impegnava nemmeno a nasconderlo: la modestia non era proprio nel suo DNA, come non lo erano la discrezione e tante altre cose, tipo la prudenza.
“Allora: Iz, 1 – Jace, 0.” Concluse Alec.

I Lightwood si stavano avvicinando sempre di più all’entrata della scuola. Si trovavano ancora sul marciapiede, però, quando una voce giunse alle loro spalle.
“Izzy!”
E siccome quella voce era femminile e quindi si sentiva di escludere, con ogni sicurezza, quella piattola di Meliorn, anche Jace si voltò. Le amiche di Isabelle finivano sempre con l’essere molto, molto gentili con lui. Per non dire in quante di loro erano state generose.
Isabelle si voltò, roteando elegantemente su se stessa; i capelli che seguirono dolcemente il suo movimento alzandosi un poco.
“Clary!” si illuminò non appena riconobbe la nuvola di capelli rossi che le stava correndo in contro tutta trafelata.
Alec, che prima d’ora non aveva mai sentito nominare nessuna Clary, dedusse che i corsi estivi fossero serviti anche ad Isabelle per socializzare con qualcuno. A quanto pare, lui era l’unico che non era riuscito a trovarsi un amico. Certo, due anni prima, quando era toccato a lui, aveva conosciuto Lydia Branwell, ma non era nata un’amicizia. Si salutavano e si scambiavano pareri sui compiti ogni tanto. Nulla di più, nulla di meno.
“Ti ho vista…” fece una pausa la ragazza rossa quando li raggiunse, aveva il fiatone per la corsa e la borsa a tracolla evidentemente troppo pesante, “…ti ho vista scendere dall’autobus!”
“Pensavo lo prendessi anche tu.”
“L’ho perso! Stamani la sveglia è suonata tardissimo e ho dovuto fare tutto di fretta!” si indicò la salopette che indossava sopra ad una semplicissima maglietta a mezze maniche a righe bianche e nere, come se volesse scusarsi di non essere abbastanza bella, confrontata ad Isabelle, che portava degli aderentissimi pantaloni bianchi abbinati ad una camicetta di seta grigio perla.
Ma per come la vedeva Jace, quella ragazza – Clary, che bellissimo nome – era stupenda. I suoi occhi verdi come due smeraldi sembravano la cosa più luminosa che il ragazzo avesse mai visto, per non parlare di come il suo naso si arricciava quando accennava un sorriso. Era adorabile.
Era…
la creatura più meravigliosa che abbia mai abitato sul pianeta?
Gli suggerì la propria voce canzonatoria e lui rabbrividì. Cosa diavolo gli stava capitando? Era diventato come Meliorn nel giro di mezzo secondo?
Pff, assolutamente no. Non esisteva al mondo che Jace Lightwood diventasse uno sfigato rammollito.
“Loro sono Alec e Jace, i miei fratelli.” sentì Izzy che li presentava. Vide Alec rivolgerle un sorriso un po’ impacciato, il solito sorriso di cortesia che riservava alle persone che non rientravano nel nucleo di quelle con cui passava la sua vita, quindi in pratica lui, Iz e Max.
Poi, quando la ragazza posò i suoi occhi su di lui, rivolgendogli un dolcissimo sorriso, Jace decise di sfoggiare tutto il suo charme.
“Sono Jace, piacere di conoscerti.” Allungò una mano verso di lei.
“Clarissa, ma anche Clary va benissimo,” specificò, “il piacere è mio,” e afferrò la mano per ricambiare la stretta, ma Jace gliela girò con delicatezza per andare a baciarle il dorso. Clary arrossì lievemente, apprezzando il gesto, sebbene lo trovasse un po’ antiquato e fuori luogo.
“D’accordo,” si intromise Isabelle, che intanto si stava chiedendo che caspita si fosse fumato Jace a colazione, “noi dobbiamo proprio andare.” E afferrando l’amica per le spalle, si avviarono verso l’entrata.
Jace rimase imbambolato a guardare la chioma rossa di Clary, decidendo che, come mai prima di allora, avrebbe volentieri giocato con il fuoco che sembrava aver baciato i capelli della ragazza.
“Il baciamano, sul serio?” il tono derisorio di Alec lo riportò alla realtà.
“Che vuoi?” Jace lo guardava con gli occhi ridotti a due fessure, ma Alec proprio non riusciva a trattenere il sorriso, che poi si tramutò in una vera risata.
“Prenderti in giro, se non fosse chiaro.”
Jace tenne ancora per qualche istante il broncio, ma poi si lasciò contagiare dall’ilarità di Alec, dato che i momenti in cui rideva spontaneamente senza controllare il volume della sua voce erano rarissimi.
“È carina, non pensi?”
“Sì, Jace. È carina.”
Il fatto che non fosse attratto dalla bellezza femminile non lo rendeva incapace di riconoscerla e Clary era davvero carina. E poi… poi Jace non aveva mai guardato nessuna come aveva guardato Clarissa. Si trovò a pensare a come qualche anno prima un pensiero simile l’avrebbe lacerato dentro, facendolo corrodere nella gelosia più acuta. Ma adesso… adesso poteva solo fargli piacere che Jace provasse interesse per qualcuno che non fosse se stesso. O meglio, che guardasse qualcuno in un modo che, fino ad ora, Alec gli aveva solo visto riservare al riflesso nello specchio.
Una sorta di tristezza lo colse, trovandolo impreparato. Pensò a come era stato facile per Jace trovare qualcuno che gli interessasse e manifestare ad alta voce questo interesse, con naturalezza, senza nessun tipo di timore di suscitare anche solo un sospiro sorpreso o amareggiato. Chissà come avrebbe reagito se Alec gli avesse confessato di non provare attrazione per le ragazze. Chissà se avrebbe cambiato opinione su di lui, se sarebbe stato a disagio a condividere la camera.
“Ehi, sei ancora con me?” Jace gli sventolò una mano davanti al viso.
“S-sì,” balbettò Alec, ma la sua mente era ancora intenta a pensare a quante cose fossero diverse per lui. A quanto i suoi sguardi dovevano sempre essere controllati, per strada, quando incrociava un bel ragazzo. A quanto trovasse difficile ammettere ad alta voce di trovare qualcuno attraente – non che fosse capitato chissà quante volte, nella sua vita. A diciassette anni non aveva ancora baciato nessuno, passo che Izzy e Jace avevano già compiuto da un pezzo. Per essere il più grande di tutti i suoi fratelli, era quello che aveva meno esperienza, se si escludeva Max. “Ci vediamo a pranzo?” concluse con un sospiro un tantino amareggiato.
Jace notò quel cambiamento di umore, come se ormai riuscisse a percepire quell’oscurità che aleggiava su suo fratello. Riuscì quasi a vederla, quella subdola manipolatrice, mentre si mangiava via i residui di quell’allegria che aveva colorato il viso di Alec qualche istante prima. E soffriva, ogni volta che vedeva Alec in quelle condizioni. Moltissime volte avrebbe voluto aprirgli la testa e guardarci dentro per trovare il modo di capirlo fino in fondo e aiutarlo, o scuoterlo per le spalle intimandogli di tirare fuori tutto ciò che lo turbava, che tanto ci sarebbe sempre stato lui ad aiutarlo a raccogliere i cocci dei suoi tormenti. Di una cosa Jace era certo nella vita e quella cosa era proprio che per nulla al mondo non avrebbe preso le parti di Alec. Sarebbe stato dalla sua parte anche se gli avesse chiesto di seguirlo all’inferno.
Avrebbe voluto fare tante cose, ma si limitò a dirgli: “Certo, fratello. A più tardi.”

***

Alec camminava per il corridoio diretto a quello che ormai era il suo armadietto da tre anni. Intorno a lui, centinaia di studenti stavano facendo lo stesso, dopo essere passati in segreteria a ritirare l’orario delle lezioni dei corsi da seguire. Provava sempre una sorta di affascinante curiosità ad immaginarsi cosa passasse per la testa dei suoi coetanei, quali corsi avessero scelto e perché.
C’era sempre una motivazione dietro alle scelte di chiunque e il ragazzo si trovava a fantasticare su quali fossero quelle per cui Stacy avesse scelto storia anzi che economia, o per cui Jack avesse scelto fisica anzi che letteratura… O per quale astruso motivo Alec Lightwood avesse deciso di smettere di guardare dove stava andando, trovando più interessante la punta delle sue consunte converse nere, finendo con l’andare a sbattere con la fronte dritto sullo sportello di un armadietto aperto.
Il botto fu così secco che per qualche istante alcuni studenti si fermarono a guardare cosa fosse successo.
“Ahi,” si lamentò, toccandosi la fronte. Ci sarebbe spuntato un bel bernoccolo, se lo sentiva.
“Oh santi numi!” sentì esclamare e poi di nuovo il botto metallico dello sportello che veniva chiuso. Alec aveva ancora le mani sulla fronte, quindi non poteva vedere chi fosse il suo interlocutore. La verità era che si stava vergognando così tanto di essersi comportato come un tale imbranato che non aveva il coraggio di togliersi le mani dal viso.
“Ehi, là sotto. Tutto bene?” lo sconosciuto appoggiò le mani sui polsi di Alec, il quale percepì il tocco caldo contro la sua pelle. Curioso, si liberò la faccia. La curiosità l’aveva sempre fregato fin da bambino, e lo fregò anche quella volta, quando, dopo aver liberato il viso dalle mani, si trovò davanti il ragazzo più bello su cui i suoi occhi si fossero mai posati. E dire che aveva sempre vissuto con Jace.
Il ragazzo era alto, sebbene non arrivasse alla sua altezza, aveva tratti orientali, occhi scuri e capelli neri. Un po’ stravagante, visto come si era truccato: matita nera sotto gli occhi e ombretto blu scuro sulle palpebre. Ma l’unica cosa che Alec riusciva a notare era quanto quel colore facesse risaltare il nocciola delle iridi. Solo dopo qualche istante si ricordò che gli aveva fatto una domanda e lui, invece, era rimasto a fissarlo come il peggiore degli imbranati, imbambolato come una farfalla attratta dalla luce.
“S-sì, i-io sto bene…”
“Oh grazie al cielo, non mi sarei mai perdonato se fossi stato la causa della rovina di un tale bel viso.”
Che cosa?
CHE COSA?
Alec sentì le guance andare in fiamme prima ancora di rendersi effettivamente conto che il complimento era rivolto a lui. Perché ce l’aveva con lui, giusto? Per quanto improbabile fosse, c’era solo lui lì.
“Sei sicuro di stare bene? Non è che hai una commozione cerebrale o qualcosa di simile?”
No, sono solo geneticamente programmato a fare figuracce.
“N-no, i-io sto…”
“Bene, l’hai già detto. Ma non sembra.”
Il ragazzo orientale si avvicinò ancora più ad Alec per guardarlo meglio da vicino, come se si volesse assicurare che stesse effettivamente bene. E Alec, d’istinto, fece un passo indietro, come se fosse appena stato colto dalla consapevolezza che erano in un posto pubblico e che decine e decine di studenti potevano vederli.
“Tranquillo. Non... non preoccuparti.”
E detto questo, si allontanò senza nemmeno rivolgere un’altra occhiata a quel viso bellissimo, sebbene avesse voluto farlo.
Occhiate controllate per non dare nell’occhio, giusto?
La vita era tremendamente ingiusta. Soprattutto quando un’occhiata controllata non era bastata a colmare la voglia che Alec aveva di studiare quei lineamenti.

Il fatto che avesse delle turbe mentali, secondo Izzy, era evidente fin dalla tenera età, ma Alec aveva sempre scacciato l’ipotesi che sua sorella potesse avere ragione perché sì, insomma, Isabelle tendeva sempre ad esagerare su tutto ed era plateale in ogni cosa. Anche nella psicanalisi.
Ma quando, alla seconda ora, la mente di Alec era ancora fissa sul viso del ragazzo orientale, come se avesse fatto uno screenshoot e l’avesse appeso in ogni angolo del suo cervello, si trovò a concordare con sua sorella: aveva delle turbe mentali. Quale altro motivo, se non un profondo disagio psichico, poteva portare un ragazzo a fissarsi su un dettaglio così futile?
Si erano scontrati – o meglio, lui era finito contro il suo armadietto facendo la figura dell’idiota – l’altro ragazzo era stato gentile e basta, fine della storia. Non vedeva per quale motivo avrebbe dovuto fissarsi su quell’incontro. O sulla sfumatura giallognola che aveva colto nel nocciola degli occhi a mandorla di quell’affascinante studente.
Era uno stupido.
Così come era stupido lasciare che la voce vellutata di quel ragazzo continuasse a ripetere nelle sue orecchie: bel viso.
Lui non era Jace, non ce l’aveva un bel viso.
Sicuramente era un modo di dire. Magari era straniero e non conosceva bene la lingua e si era semplicemente sbagliato.
Sì, sicuramente si era sbagliato.
Con uno sbuffo, si decise a prestare attenzione alla lezione.
Dio, quanto odiava matematica.

*

Cibo, aveva un disperato bisogno di cibo. Il suo stomaco brontolava in maniera imbarazzante da una buona mezz’ora e non vedeva l’ora di buttar giù qualcosa, anche se si trattava del cibo dalla dubbia origine della mensa. Alec percorreva il corridoio a grandi falcate, desideroso di sentire come fosse andato fino ad adesso il primo giorno del primo anno di Iz. Non che dubitasse fosse successo qualcosa, e sua sorella non aveva certo bisogno di una guardia del corpo, ma in caso contrario sarebbe stato felice di impartire una lezione a chiunque avesse infastidito la sua sorellina. Alec era un tipo tranquillo e piuttosto solitario, fino a che non si toccavano le persone a cui teneva.
Così, quando entrò in mensa, la prima cosa che fece fu cercare Izzy con gli occhi. La trovò quasi subito, notando una ragazza mora che si sbracciava. Al suo fianco, c’era Clary, i capelli rossi raccolti in una coda di cavallo, vicino a lei un ragazzo che non conosceva e, vicino allo sconosciuto, c’era Jace. Alec si affrettò a raggiungerli, prendendo poi posizione vicino al fratello, che lo salutò con una pacca sulla spalla.
“Alec!” trillò Isabelle, battendo le mani. Lo faceva ogni volta che doveva raccontargli qualcosa che l’aveva resa particolarmente felice.
“Izzy!” ribatté lui, senza condire l’esclamazione con la solita dose di euforia.
“Lui è Simon, il migliore amico di Clary!”
Alec prestò attenzione al ragazzo che stava seduto vicino a Clary. Era un tipo magrolino, piuttosto ordinario, con i capelli castani e gli occhi del solito colore, nascosti dietro ad un paio di occhiali rotondi. Gli rivolse un timido sorriso che Alec ricambiò.
“Alec,” disse quindi.
“Siamo in classe insieme!” spiegò Isabelle, “Non è carinissimo?” domandò poi, appoggiando il mento al palmo di una mano, guardando l’interessato con sguardo sognante. Alec alzò gli occhi al cielo. Isabelle non si sapeva trattenere, quando provava interesse per un ragazzo che reputava carino. E un po’ la invidiava, almeno lei non cominciava a balbettare. E mai nessuno l’aveva scambiata per una che rischiava una commozione cerebrale. Quindi ne sapeva sicuramente più di lui, in fatto di ragazzi. Non che questa fosse una novità, però Alec tenne a ricordarselo, giusto per mortificarsi un po’. Ah, l’autocommiserazione. Non gli era mancata per niente. Ma, a quanto pare, a lei piaceva tornare, ogni tanto, per torturarlo.
“E Meliorn?” le rispose, lanciando un’occhiata a Jace, il quale ricambiò lo sguardo, allargandosi in un sorriso.
“Già, pensa al povero Meliorn. Mi ha già tartassato di domande. Non l’ho ammazzato solo perché l’omicidio è illegale.”
Alec lasciò che un sorriso attraversasse i suoi tratti.
“Ti ha già detto quanto sia bella?”
“Oh sì. E speciale. E tutta una serie di cose che non sto a ripetere perché ho smesso di ascoltarlo dopo tre secondi.”
Se Alec stava cominciando una risata, Isabelle gliela smorzò sul nascere con l’occhiata di fuoco che gli lanciò. E che, ovviamente, riservò anche a Jace.
“Siete due spine nel fianco!”
“Oh, ma smettila Izzy. Ci adori!” Jace si appoggiò allo schienale della sedia, le mani intrecciate dietro la testa e un ciuffo di capelli che solcava un viso perfetto.
Un bel viso.
Sul serio, Alec? Ancora con questa storia?
Come se potesse mentire a se stesso e far credere che non aveva passato tutta la mattina a rimuginare su quell’incontro. O impedire al suo cervello di domandarsi se il misterioso ragazzo fosse tra la folla di studenti che erano intenti a nutrirsi. Magari era ad un tavolo vicino al suo, o magari era distante. Magari era solo e aveva bisogno di compagnia, magari era nuovo e non conosceva nessuno e lui avrebbe potuto, per puro spirito di gentilezza e altruismo, privo di qualsiasi secondo fine, aiutarlo ad integrarsi.
Certo, come no.
Come se davvero avesse il coraggio di fare una cosa simile. Come se davvero esistesse la possibilità che non cominci a balbettare, sopraffatto dalle sue insicurezze e dalla sua totale incapacità di relazionarsi.
“Certo che vi adoro, ma a volt- Alec cosa stai facendo?”
Alec, che si era estraniato dalla conversazione, aveva cominciato, seguendo la fila del suoi pensieri, ad allungare il collo verso la folla. E Isabelle, ovviamente, se n’era accorta.
“Niente!” arrossì, incassando la testa tra le spalle. “Vi stavo ascoltando!”
“Sembrava stessi cercando qualcuno…” indagò, gli occhi ridotti a due fessure.
Alec si schiarì la gola, determinato a cambiare argomento. Non sarebbe stato torchiato da sua sorella. Non davanti a due sconosciuti.
“Figurati. Allora, com’è andato il primo giorno?”

Prima di intavolare una vera e propria conversazione, il gruppetto si diresse verso la cucina, dove avrebbero fatto la fila per riempire il vassoio con il cibo che quel giorno la mensa offriva. Quando toccò ad Alec, arricciò il naso davanti a delle polpette che, delle polpette, non avevano nemmeno la forma. Non dovevano essere tonde, di norma? Era sicuro di si. E allora perché quelle sembrava avessero i tentacoli?
Smise di fissarle, convinto che da un momento all’altro si sarebbero mosse e saltò quell’opzione. Gli rimanevano un’insalata e una mela. Il pasto triste di un ragazzo il cui stomaco sarebbe stato destinato a soffrire i morsi della fame fino all’ora di cena.
Tornati al tavolo – che avevano tenuto occupato con i loro zaini – si sedettero esattamente come poco prima e Isabelle rispose alla domanda che suo fratello le aveva posto.
“Bene, per ora.”
“Per ora?” indagò Alec, immergendo la sua forchetta di plastica nell’insalata. Notò con gioia che ci avevano infilato anche dei pezzi di pomodoro – in quel modo, almeno, avrebbe potuto ingurgitare qualcosa di sostanzioso.
“Sì,” ribatté la ragazza con un’incurante alzata di spalle, “Le lezioni non sono ancora finite.”
Alec la osservò dedicarsi alla stessa insalata su cui aveva ripiegato anche lui con una controllata compostezza, come se fosse una duchessa intenta a consumare un pranzo regale. Isabelle era eterea, cosa che gli faceva seriamente dubitare che condividessero gli stessi geni. Magari, gli unici figli biologici di Maryse e Robert erano Isabelle e Max e anche lui era stato adottato. Se solo non si fossero assomigliati così tanto, avrebbe potuto anche credere a quell’ipotesi.
La verità era che Izzy aveva ereditato la bellezza della madre, il suo portamento e la capacità di gestire ogni tipo di situazione. Lui, invece, aveva solo ereditato i suoi capelli neri. Per il resto, non si sognava nemmeno di attribuire tali qualità alla sua personalità. Lui era tranquillo, obbediente, così ordinario da definirsi banale, se non mediocre.
Sospirò.
“E per te, Clary? Sta andando tutto bene?” cominciò Jace, che invece aveva appena finito di divorare una polpetta.
Clary, sentendosi interpellata e inserita in quel quadretto fraterno, accennò un sorriso timido, prima di incatenare gli occhi a quelli di Jace.
Alec ebbe l’impressione di sentirlo trattenere il respiro, ma non seppe dire se fosse successo davvero o se fosse stata solo una sua impressione perché lo vide comportarsi esattamente come si comportava ogni volta che voleva colpire nel segno e conquistare una ragazza, ostentando sicurezza e fascino. E di entrambi Jace ne aveva da vendere.
“Sì, tutto bene.” Disse e poi, volendo continuare la conversazione – perché era evidente che non fosse solo Jace quello interessato, bastava notare come Clary lo guardava – aggiunse: “Anche se non so ancora come sono tutti i corsi…”
Jace parve particolarmente interessato, “Ah, sì? E come mai?”
“Il corso d’arte comincia solo la prossima settimana. Spero sia bello come viene descritto nel sito della scuola!”
“Corso d’arte…” Rifletté Jace, “…sei una pittrice?”
“Mi sembra un termine un po’ pretenzioso, visto che non sono Monet, ma… mi piace dipingere, sì.”
Alec si trovò a pensare che il fatto che Jace non avesse sfoderato uno dei suoi terribili doppi sensi sui pennelli la dicesse lunga sul fatto che, per ora, Clary sembrava suscitargli un interesse totalmente diverso da quello che gli avevano sempre suscitato le amiche di Isabelle. Non che non se la fosse già immaginata nuda, su questo Alec si avrebbe messo la mano sul fuoco, ma probabilmente voleva andare al di là del contatto fisico. Sembrava provasse un interesse sincero nei suoi confronti, come se volesse conoscerla davvero.
“Mi piacerebbe vedere qualche tuo quadro… quadro è il termine appropriato?”
Clary accennò una risata, “Sì, è il termine giusto. E te ne mostrerò qualcuno volentieri, appena avrò qualcosa di decente!”
Jace sembrò soddisfatto della risposta e si sporse un po’ di più sul tavolo, cercando di avvicinarsi, per quanto la vicinanza con Simon lo permettesse, a Clary. Alec, dalla sua posizione, riusciva a vedere i quattro intrecciati per riuscire a parlare meglio l’uno con l’altro: Simon si era sporto per parlare con Izzy; Jace l’aveva fatto per parlare con Clary. Era tutto uno sporgersi per parlare con qualcuno di interessante e lui se ne stava lì come uno stoccafisso a fissare i suoi fratelli che si comportavano esattamente come avrebbe voluto fare lui se avesse avuto la loro solita dose di coraggio impressa nel DNA. Ma siccome Alec era uno che per natura tendeva a ritirarsi, a chiudersi a riccio, gettò lo sguardo sulla sua insalata triste, proprio come lui, e lì lo lasciò, aspettando paziente la fine dell’ora del pranzo.




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Ciao a tutti! 
Come prima cosa, vorrei ringraziare chiunque abbia aperto la storia e abbia deciso di arrivare fino alla fine, lo apprezzo moltissimo! 
In secondo luogo... non so bene da dove sia nata questa idea dell'AU, so solo che ne ho lette un po' in giro e l'idea di scriverne una mi frullava in testa da un po', fino a che non ha preso forma! 
L'idea di base è quella di seguire più o meno la trama della prima stagione, anche se a grandi linee, e sviluppare la Malec, perché gennaio 2018 sembra lontanissimo e senza quei due non ci so stare! xD 
Ora, ho cercato di mantenere i personaggi il più IC possibile, ma se pensate che invece non lo siano, fatemelo sapere almeno potrò cercare di porre rimedio! E, sempre se vi va, mi piacerebbe sapere cosa ne pensate di questa storia in generale! 
Grazie ancora a tutti quelli che hanno letto, ci vediamo (?) al prossimo capitolo! :D 

PS: Il titolo è preso da Flashlight - Jessie J  

 

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Capitolo 2
*** 2. ***


La notizia che Jace Lightwood uscisse con una ragazza che sembrava aver catturato tutte le sue attenzioni, gettò nel lutto la popolazione femminile della scuola. Alcune andavano persino a chiedere conferma ad Alec.
“Dicono che tuo fratello esca con una certa Clary Fairchild. È vero?”
Aveva perso il conto delle volte in cui aveva risposto affermativamente e aveva visto le ragazze andare via indignate, come se fosse colpa sua se Jace aveva perso la testa per la rossa. Uscivano insieme da due settimane, ormai. E Alec, da quattordici giorni a questa parte, si sentiva ripetere da suo fratello ogni particolare delle uscite con Clary.
Una sera, dopo averlo minacciato di morte se avesse parlato con qualcuno di quello che stavano per fare, si erano persino seduti sul pavimento, uno di fronte all’altro con le schiene appoggiate ai rispettivi letti per stare a parlare di lei.
“Mi fa stare bene, capisci? Ha quel modo di fare tutto dolce e carino, ma mi tiene testa come non ha mai fatto nessuna. E mi capisce, Dio, se mi capisce. Le basta uno sguardo e sa cosa mi passa per la testa.”
Jace si era lasciato andare persino ad un sospiro trasognato e Alec, anche se la voglia di prenderlo in giro era tanta – d’altronde, lui l’aveva sempre fatto con Meliorn – si mostrò interessato alla cosa. Forse perché lo era davvero. Forse perché era curioso di sapere come si comportavano i ragazzi della sua età agli appuntamenti. Magari avrebbe potuto persino imparare qualcosa.
“Gliel’hai detto?”
“Cosa, che la ritengo la creatura più meravigliosa che abbia mai abitato il pianeta?”
aveva riso Jace, “No. Non ancora almeno. Usciamo insieme da troppo poco, non vorrei pensasse che sono uno appiccicoso.”
“Giusto.”
“Non ci siamo nemmeno ancora baciati…”
gli aveva confessato con una punta di imbarazzo. Probabilmente perché prima di Clarissa, gli appuntamenti di Jace contemplavano un utilizzo della lingua che comprendeva tutto meno che il parlare.
“Non avrai mica l’ansia da prestazione?”
Jace gli aveva lanciato un’occhiata omicida, “Per chi mi hai preso, Alec? Voglio solo fare le cose con calma, come si deve. Da gentiluomo.” Aveva gonfiato il petto, orgoglioso di sé.
Alec aveva sorriso, trovandosi a realizzare che, per la prima volta da quando vivevano insieme, si era trovato ad essere geloso di Jace in un modo che esulasse dalla possessività. Se, quando credeva di amarlo, la sua gelosia lo corrodeva perché invidiava chi poteva stare con lui, adesso lo invidiava perché anche a lui sarebbe piaciuto parlare di qualcuno che lo prendeva in quel modo. Anche a lui sarebbe piaciuto rivolgersi a Jace per dei consigli o semplicemente per metterlo al corrente della situazione che aveva con il tipo che gli piaceva.
E che non vedeva da moltissimo tempo, realizzò mentre camminava verso l’aula di storia e riviveva il ricordo di qualche sera prima.
Chissà che fine aveva fatto il bel tipo. L’aveva cercato tra la folla, discretamente, ma non l’aveva mai trovato.
Alec iniziava a pensare di esserselo immaginato. Magari il suo cervello burlone gli aveva fatto immaginare tutto in modo da torturarlo, facendolo fantasticare sul ragazzo orientale per fare in modo che diventasse una specie di ossessione.
Oddio, era come Meliorn. Solo che almeno Meliorn con Isabelle ci era uscito, per qualche tempo – prima che lei lo scaricasse perché restia a creare un legame solido con un maschio che non fosse uno dei suoi fratelli.
Lui era addirittura peggio di Meliorn perché non sapeva nemmeno il nome del ragazzo da cui era ossessionato.
Si poteva essere più patetici? No, non credeva.
Strisciando i piedi si diresse verso l’aula di storia. La mattinata si prospettava una lunga agonia.

L’ora di pranzo cominciava ad essere una specie di tortura per Alec perché finiva sempre con il sentirsi il quinto in comodo: Clary e Jace ormai sedevano sempre vicini e parlottavano di qualsiasi cosa, interrompendosi solo per ridacchiare. Ci mancava solo un cartello con la scritta al neon siamo innamorati per renderli più espliciti. Anche un cieco si sarebbe reso conto di quanto cominciassero a diventare profondi i sentimenti che li legavano. Isabelle e Simon, invece, cercavano di coinvolgerlo ogni tanto, ma finivano sempre col parlare di cose che Alec non capiva, tipo la differenza tra Star Wars e Star Trek, cosa che Iz a quanto pare trovava parecchio interessante. Anche se Alec sospettava che l’interesse per tutta quella roba nerd derivasse più dal fatto che fosse Simon a raccontargliela, se fosse stato qualcun altro, l’avrebbe liquidato con un gesto stizzito della mano.
Così, anche quel giorno di fine settembre, si avviò in mensa con l’umore nero e l’entusiasmo sotto la suola delle scarpe, facendo particolare attenzione a calpestarlo ad ogni passo che faceva, e prima di cercare il tavolo che avevano occupato i suoi amici, si diresse a prendere da mangiare – un pezzo di pizza, uno yogurt, una bottiglietta d’acqua e una piccola vaschetta d’uva bianca.
Con il suo vassoio pieno di viveri in mano, si decise a cercare il gruppetto con gli occhi. Lo individuò quasi subito, notando l’assenza di Clary. Si sentì un po’ in colpa, quando realizzò che quella sensazione alla bocca dello stomaco era gioia: se lei non c’era, Jace avrebbe potuto parlare un po’ con lui, evitando, così, di sentirsi l’unico sfigato che non sta con nessuno e si trova sempre a reggere il lume.
“Ciao,” salutò quindi, recuperato un po’ di entusiasmo, non appena si avvicinò al tavolo.
“Ciao!” ricambiarono in coro Jace, Iz e Simon.
Alec trovò la cosa un tantino inquietante, ma si sedette vicino al fratello. Iz e Simon erano seduti davanti a loro. Da quella posizione Alec riusciva a vedere tutta la sala, i tavoli gremiti di studenti, le porte della mensa che venivano lasciate aperte per far entrare e uscire i ragazzi più facilmente. I suoi occhi, come d’abitudine, abbracciarono l’intero perimetro senza però incontrare niente – nessuno – che gli interessasse.
“Come mai Clary non c’è?” domandò, poi, per cortesia, facendo attenzione a non mostrarsi troppo felice.
“Ritarda un po’. Il corso d’arte finisce più tardi degli altri.”
“Oh,” Alec sperò che la delusione non trapelasse dalla sua voce: avrebbe fatto il quinto in comodo anche oggi, a quanto pareva, “D’accordo.”
Alec si tuffò sulla sua pizza, cercando un conforto almeno nel cibo e non appena addentò il trancio, sentì la voce di Jace squillare come una tromba quando disse: “Eccola!” come se stesse aspettando la materializzazione della Madonna.
Alec, il cui umore era davvero pessimo quel giorno, non alzò nemmeno gli occhi, limitandosi a sussurrare un ciao malinconico, non appena sentì la ragazza salutare gli amici.
“Ragazzi, vorrei presentarvi qualcuno!” disse la rossa e Alec, allora, spinto da quella cosa chiamata buona educazione si trovò ad alzare gli occhi dal suo piatto e, per un pelo, non si strozzò con il boccone che stava masticando.
Vicino ad una Clary con il viso sporco di pittura e i jeans strisciati di vernice, stava, in tutto il suo splendore, il ragazzo dell’armadietto. Se possibile, era ancora più bello di quanto Alec ricordasse, con i capelli pettinati in aria e gli occhi truccati di viola – eyeliner e mascara erano coordinati. Si concesse un’occhiata a tutto l’insieme, dal momento che Clary gli stava presentando gli altri e la sua ispezione sarebbe passata inosservata. Era alto, con le spalle larghe e i muscoli della braccia ben definiti – portava una maglietta a maniche corte nera, ricoperta di paillettes viola, in pendant con il trucco, evidentemente; le gambe, fasciate dentro ad un paio di pantaloni di pelle nera, erano toniche e… storte. Il ragazzo dell’armadietto aveva i polpacci che formavano un arco e Alec stava letteralmente impazzendo. Era un dettaglio, quello, per cui aveva sempre perso la testa e che andò ad aggiungersi alla lista delle cose che, ai suoi occhi, lo rendevano perfetto.
Quel ragazzo sembrava fosse stato creato appositamente da Dio per torturarlo: guardare, ma non toccare. Decisamente irraggiungibile. Un miraggio d’acqua in un deserto.
“E lui è Alec.” Sentì la voce di Clary giungere da lontano e quindi rinsavì, volendo evitare di fare la figura dell’idiota – un’altra volta. Non che l’altro se ne ricordasse, probabilmente.
“Mi ricordo di te. Come va la fronte?”
“Voi due vi conoscete?” chiese Clary, ma il ragazzo orientale non l’ascoltò, intento com’era a ricambiare lo sguardo di Alec.
“B-bene, grazie.”
E invece si ricordava. Il suo cuore, a quanto pare deciso a remare contro Alec, cominciò a impazzire, rimbombando non solo nella cassa toracica, ma anche nelle orecchie.
“Mi fa molto piacere. Sono Magnus,” disse, allungando una mano verso Alec, il quale si trovò a notare che con gli altri non l’aveva fatto. Gliela strinse e fece per scuoterla, ma Magnus si allungò sul tavolo per sfiorargli il dorso con le labbra.
Il baciamano.
IL BACIAMANO!
Da quando era diventato il Clary della situazione???
Lo reputava comunque un passo avanti: da essere come Meliorn lo sfigato, era diventato come Clary eccoti-un-baciamano.
Alec riusciva a sentire il suo viso andare a fuoco in maniera vergognosa e ogni neurone del suo cervello rimbalzare per le pareti della scatola cranica in preda al panico. Come si reagiva a certi gesti? Come si reagiva davanti ad una creatura con gli occhi più belli – e magnetici – che Alec avesse mai visto e le labbra più morbide del mondo? E da quanto tempo, esattamente, era in apnea?
Ritirò la mano, sopraffatto da troppe emozioni. E forse lo fece in maniera troppo brusca, ma Magnus – così si chiamava la nuova ossessione di Alec, il quale, come se trovarlo attraente sotto ogni punto di vista non bastasse a torturarlo, si trovò a pensare a quanto fosse particolare quel nome, trovandolo di una bellezza… esotica – si allargò in un sorriso che riservò tutto al maggiore dei Lightwood.
Che qualcuno spenga il sole, avevano appena trovato una nuova fonte di luce, e questa probabilmente sarebbe stata inesauribile. Ad Alec stava cominciando seriamente a seccarsi la gola, la lingua sembrava una spugnetta di acciaio.
“Andiamo a prendere da mangiare?” propose Clary a Magnus, il quale annuì con gli occhi ancora fissi su quelli di Alec. Almeno, trovò a congratularsi con se stesso quest’ultimo, non stava abbassando lo sguardo. Come avrebbe potuto, dopotutto? Quando vieni sfiorato da occhi del genere, cerchi di goderti l’attimo finché puoi.
Un affamato non rifiuta un’abbondante dose di cibo prelibato.
“È un po’ strambo, ma sembra simpatico…” parlò Simon per primo, che in genere aveva sempre una parola buona per chiunque. Anche per chi non conosceva.
“A me non piace.” Aveva sentenziato Jace, non perdendo di vista la coppia adesso lontana formata da Clary e Magnus che si erano messi in fila e avevano cominciato a parlare. “Cosa vuole da lei?”
“Rubartela.” Aveva risposto sarcastica Iz, staccando un pezzo di pane dalla pagnotta che aveva davanti, “Perché ogni ragazzo esistente al mondo vuole la tua ragazza.” Concluse, prima di mettersi in bocca il boccone.
Jace alzò il dito medio, ma Isabelle liquidò quella provocazione sventolando una mano, come se stesse scacciando una mosca fastidiosa, e poi continuò: “Secondo me è sexy.”
Alec, che aveva approfittato della lontananza di Magnus per attaccarsi alla bottiglietta d’acqua con l’intento di idratare di nuovo la sua gola, per poco non si strozzò.
Era la seconda volta nel giro di dieci minuti che rischiava di morire soffocato. 
Si voltò verso sua sorella con gli occhi sgranati, trovandola già a guardare nella sua direzione. Quella piccola spina nel fianco aveva già capito tutto e lo stava solo provocando. Il suo sorriso ferino ne era la conferma.
“È bello, alto. Avete notato le sue braccia?” usava il plurale, ma quel diavoletto vestito da angelo ce l’aveva solo ed esclusivamente con lui, “Ti fanno venire voglia di stringertici dentro.” E più Isabelle parlava, più Alec aveva voglia di sotterrarsi. Certo che aveva notato le sue braccia, solo un cieco non l’avrebbe fatto.
“Non è niente di speciale,” sentenziò Jace, che evidentemente sentiva il primo posto di belloccio indiscusso vacillargli sotto ai piedi. Ma Alec avrebbe voluto dirgli che si sbagliava di grosso. Cosa che, ovviamente, non fece. Rimase in silenzio fino al ritorno dei due, che si fecero strada tra i tavoli occupati dagli altri studenti con i vassoi in mano. Quando raggiunsero di nuovo il tavolo occupato dal gruppetto, che si trovava in fondo alla sala, vicino alla parete a finestra che dava sul cortile, Clary si sedette vicino a Jace, mentre Magnus, con grande sorpresa di Alec, si sedette vicino a lui. Cosa che gli permise di costare che portava un buonissimo profumo al sandalo.
Avrebbe potuto sedersi vicino a Clary, trovandosi in questo modo tra le due ragazze del gruppo, invece no, si era seduto proprio vicino ad Alec. Sicuramente era un caso, magari Clary aveva trovato il modo di metterlo al corrente della situazione sentimentale che aleggiava nell’aria e non voleva mettersi in mezzo alle coppiette.
“Allora, Magnus,” cominciò Isabelle, umettandosi le labbra truccate perfettamente di un rosso scuro come il sangue, “Come mai frequenti il corso d’arte di Clary?”
“Faccio fotografia,” piluccò un po’ del cibo che aveva nel proprio piatto, “L’hanno integrata al corso d’arte e lì ho conosciuto questa deliziosa fanciulla.”
Alec venne percorso da una scossa di dolorosa consapevolezza, quando realizzò che l’unico motivo per cui Magnus era seduto a quel tavolo era Clary: magari lei non gli aveva detto un bel niente di come stavano le cose con Jace e Magnus voleva provarci con lei. Dopotutto, era davvero molto carina, perché non avrebbe dovuto provare interesse per lei?
Clary arrossì lievemente: “In realtà gli ho solo indicato dove fosse l’aula di fotografia. L’anno scorso avevano un’unica aula sia per pittura che per fotografia, ma quest’anno sono riusciti a riservare due aule separate, quindi si svolgono entrambe alla stessa ora, ma in aule diverse.”
“E come avete fatto a diventare amiconi?” Jace appoggiò gli avambracci al tavolo, incrociandoli per far gonfiare i muscoli. Sembrava tanto un capo branco che segna il territorio, un’alfa che vuole dimostrare la sua supremazia.
“Mi piace l’arte, lei è un’artista e non ho resistito a farle qualche domanda.”
“Anche tu lo sei,” si inserì Clary, determinata a troncare quello che sembrava il principio di una scenata di gelosia, “Le tue foto sono meravigliose!”
Magnus la ringraziò con un sorriso e dopo aver bevuto un sorso d’acqua, parlò di nuovo.
“E a proposito di fotografie… hai mai posato, bel ragazzo?”
“No,” rispose Jace, “Non mi è ma-”
“Non stavo parlando con te,” lo interruppe Magnus, sul viso un’espressione quasi indignata, come se il fatto che Jace avesse potuto pensare che lo trovasse bello lo offendesse profondamente, “Stavo parlando con te.
Alec, che nonostante la delusione provata poco prima, non aveva potuto fare a meno di continuare a guardarlo, quando lo vide voltarsi verso di lui e indicarlo con l’indice, sentì il cuore che saltò un battito, prima di riprendere la corsa, veloce come un cavallo imbizzarrito. Un sorriso sollevò solo un angolo della sua bocca, incapace di trattenersi, ma poi cercò di camuffare l’euforia con un colpo di tosse e una scrollata di spalle. I suoi occhi tornarono al vassoio, incapace di reggere quelli di chiunque a quel tavolo. Era un comportamento a dir poco inequivocabile, il suo. Se Magnus gli fosse stato indifferente si sarebbe comportato come Jace, avrebbe negato con naturalezza e fine della storia. Invece si stava comportando in modo impacciato, insicuro e ci mancava solo un cartello sulla sua testa che dicesse lo trovo bellissimo ad indicare quanto quel ragazzo gli facesse effetto.
“No,” si limitò a dire, scuotendo la testa.
“Alec pensa di non essere abbastanza bello, per certe cose.” Intervenne Izzy, probabilmente notando la sua difficoltà. E anche se detestava quando spiattellava a degli estranei ciò che le confessava, come le insicurezze circa il suo aspetto esteriore – sapeva che lo faceva per cercare di scuoterlo, per renderlo più estroverso, e non per metterlo in imbarazzo, ma ahimè, Alec e l’imbarazzo andavano a braccetto da troppo tempo perché riuscisse a separarsene – apprezzò quel gesto. Lo apprezzò veramente, veramente tanto. In questo modo avrebbe potuto concentrarsi a regolare la respirazione per farla tornare normale, o avrebbe rischiato l’iperventilazione.
E si aspettava che riprendessero la conversazione, magari parlando d’altro e tornando ad ignorarlo come succedeva sempre, ma ciò non avvenne.
Quello che sentì, invece, fu l’indice di Magnus che con delicatezza si posava sotto al suo mento per spronarlo ad alzare il viso dal vassoio e incrociare così – di nuovo – i loro sguardi.
“Alec non sa quanto si sbaglia.”
Tre tentativi di morte nel giro di quindici minuti. Solo che l’ultimo non era così brutto come i primi due, era più che altro un’eutanasia, non intesa con il significato moderno, piuttosto come quello antico di bella morte. I soldati nell’epoca antica erano stati educati con la convinzione che morire in battaglia fosse la morte più onorevole a cui potessero andare in contro, un evento che li avrebbe resi degli eroi agli occhi dei loro concittadini. Alec si trovò a pensare che morire soffocati a causa di una frase del genere potesse essere paragonata ad una bella morte. Nessuno l’aveva mai notato, prima di adesso. Nessuno aveva manifestato interesse per la sua persona – non quando a tavola c’erano sia Isabelle che Jace. E improvvisamente non si sentì più nemmeno infastidito dall’ipotesi che Magnus trovasse Clary interessante perché non gli importava: anche se l’avesse fatto, era a lui che stava riservando quello sguardo così intenso, adesso. Era lui che quegli occhi bellissimi avevano scelto di studiare. Era lui quello a cui era stato rivolto un complimento che lo faceva sciogliere come burro al sole.
Avrebbe voluto quanto meno ringraziarlo, ma siccome, nonostante i pensieri che gli stavano passando per la testa, rimaneva sempre il solito, impacciato Alec, si limitò a sorridergli.
Magnus parve comunque soddisfatto di quella reazione perché ricambiò e, dopo qualche istante, intavolò una nuova conversazione.
“Mi servirebbe frequentare dei corsi extrascolastici, per accumulare un po’ di crediti… avete qualche idea?”
“C’è la squadra di basket,” propose Jace.
“Di cui scommetto fai parte..”
Il biondo annuì: “Quest’anno miro alla fascetta di capitano.”
“Ma non prendono in considerazione nessuno se non dal terzo anno in su!” si intromise Simon e Jace gli serbò un sorriso appuntito, che ne aveva del famelico.
“Appunto. Voglio rendere possibile l’impossibile.”
Magnus alzò gli occhi al cielo, trovando quel suggerimento un nemmeno troppo velato motivo per parlare di sé. E siccome quel biondino ossigenato non gli interessava minimamente, decise di rivolgersi alla parte decisamente interessante del tavolo.
“E tu, Alec? Cosa fai?”
“Oh, io… io non gioco a basket,” esordì, tirandosi le maniche lunghe della maglietta fino a coprirsi le mani. Gesto che non sfuggì certo all’attenta analisi che Magnus stava rivolgendo a quel ragazzo che sembrava essere sceso dal cielo, un angelo sotto forma umana. Come poteva anche solo minimamente essere convinto di non essere bello, quando tutta la sua fisicità urlava: sono un bocconcino prelibato.
Ah, la modestia. In quantità esagerate rende le persone insicure.
Anche se tutto quell’essere impacciato lo rendeva adorabile.
“E cosa fai, allora?”
A parte balbettare e sentire la lingua secca ogni volta che mi guardi?  Pensò Alec.
“Boxe e tiro con l’arco, preferisco gli sport individuali.” Si affrettò ad aggiungere, come se dovesse una spiegazione del perché delle sue scelte. “Ci sono tante opzioni, in realtà.” Iniziò, rispondendo alla domanda iniziale di Magnus, “C’è il corso di teatro, o quello di musica, c’è il comitato per l’organizzazione degli eventi…”
“Tutte cose molto collettive,” disse e Alec rise.
“Tutte cose da cui mi sono badato bene di stare alla larga,” gli uscì, senza che avesse davvero intenzione di dirlo. Ma Magnus sembrò comunque apprezzare e non lo guardò come se fosse uno strambo asociale come si aspettava che invece lo guardasse.
Gli sorrise – di nuovo – e staccò un acino d’uva dal piccolo grappolo che Alec aveva nel suo vassoio per portarselo alla bocca. L’istinto di condivisione che l’aveva accompagnato per tutta la sua vita e il fatto che avesse un innato istinto per occuparsi degli altri – d’altronde era il maggiore di quattro fratelli e aveva sempre avuto la tendenza a prendersi cura di loro – portò Alec a sistemare la vaschetta tra di loro, in modo che Magnus non dovesse allungarsi troppo per prendere la frutta.
Il ragazzo orientale sembrò soddisfatto di quel gesto, una specie di punto a suo favore, una piccola testimonianza che le sue attenzioni erano almeno un poco gradite e che Alec stava trovando il modo di essere gentile.
“Non sai di che cosa li hai privati.”
“Gli ho risparmiato un sacco di disastri, in realtà,” rispose, sebbene avesse le guance rosse per ciò che aveva appena detto Magnus, “Non ci so fare con tutta quella roba là.”
Magnus rise, scuotendo la testa, divertito.
“Sei un tipo particolare, Alec.”
Il ragazzo avrebbe voluto rispondergli che era tutto fuorché particolare, ma la campanella suonò, segnando la fine della pausa pranzo.

***

Era stata una giornata insolita, secondo Jace.
Primo, aveva provato un sentimento che non aveva mai provato in vita sua: la gelosia. Non gli era mai capitato di temere che qualcuno potesse portargli via qualcosa a cui teneva, semplicemente per il fatto che nessuno aveva mai sfiorato qualcosa a cui davvero teneva. Prima di Clary le uniche persone a cui era saldamente ancorato erano i suoi fratelli e non aveva mai temuto nessun tipo di confronto: quali che fossero gli svariati fidanzati di Isabelle, anche se un giorno si fosse decisa a trovarne uno a cui affezionarsi seriamente, sapeva benissimo che ciò che lo legava a sua sorella era qualcosa di radicato nei loro cuori. La stessa cosa valeva per Alec, anche se fino ad ora non aveva manifestato grande interesse per le relazioni umane.
Jace sapeva che in ogni caso ciò che legava lui e i suoi fratelli era qualcosa di così solido da risultare indissolubile. Sapeva che non avrebbero mai permesso a niente e a nessuno di distruggere ciò che avevano.
Ma con Clary era diverso… lei poteva trovare qualcuno che le piacesse di più, poteva andarsene, avrebbe potuto lasciarlo, convinta che si sarebbe trovata meglio con qualcun altro. Magari con quel Magnus tutto paillettes e ombretti.
E questo lo portava al secondo punto: appurato che Clary non provasse interesse per Magnus – e di conseguenza la sua gelosia si era affievolita – e che quest’ultimo provasse un più che evidente interesse per suo fratello, perché Alec non l’aveva respinto?
Forse perché ricambiava un tale interesse? E, se sì, perché Alec non gli aveva mai parlato di come stavano le cose?
Si mise a sedere, non riuscendo in alcun modo a prendere sonno e, nel buio della stanza, si voltò verso il letto di suo fratello. Non vedeva un accidenti perché la camera era immersa nelle tenebre e la tenda alla finestra era tirata, quindi decise di accendere l’abat-jour che stava sul comodino, tra i due letti, all’altezza delle loro teste.
“Alec!” lo chiamò sussurrando. Ma suo fratello dormiva beato a pancia in su, i capelli arruffati sul cuscino e un braccio che ciondolava giù dal materasso. Scalciando via le coperte decise di alzarsi per accucciarsi all’altezza della sua faccia.
“Alec!” chiamò con più impeto, cominciando a scuotergli il braccio.
“Che vuoi?” grugnì l’altro con la voce impastata dal sonno e gli occhi ancora chiusi. Tirò via il braccio per evitare di avere un altro contatto con Jace, che evidentemente era in vena di essere petulante e l’aveva svegliato. D’istinto si girò dall’altra parte, il viso rivolto verso il muro, dandogli la schiena e si accomodò per riaddormentarsi.
“No, no, no.” ma Jace non parve assolutamente d’accordo con quel comportamento. Era deciso ad affrontare un discorso e siccome lui era tutto meno che discreto, o delicato, o prudente, lo afferrò per le spalle e lo fece girare di nuovo. “Non riaddormentati!”
Gli occhi di Alec, adesso, erano aperti, la sua schiena era appoggiata al materasso e il viso era voltato verso Jace. Uno sguardo omicida faceva luccicare le iridi verdi del maggiore.
“Spero sia importante,” sibilò come un drago che si prepara a sputare fuoco.
“Lo è,” confessò e Alec, che non sapeva mai dire di no a nessuno dei suoi fratelli, si mise a sedere facendogli spazio sul materasso. Jace si alzò da terra per andare a sistemarsi con le gambe incrociate ai piedi del letto.
“Se ti chiedo una cosa, prometti che non scapperai o ti chiuderai in te stesso?”
“Mi fai paura, Jace.” Si strofinò gli occhi, ancora gonfi di sonno.
Ma il biondo non aveva nessuna voglia di scherzare: “Prometti,” disse risoluto e Alec, suo malgrado, si trovò a promettere.
“Ti piace Magnus?”
Alec, che si sentiva ancora mezzo addormentato, si svegliò di colpo. Il suo cervello cominciò a cercare un modo per spiegare la situazione a cui aveva assistito il fratello, ma il cuore balzato alla gola e la morsa di panico che gli attanagliava le viscere rendeva il tutto estremamente difficile.
“N-no, perché dovrebbe piacermi?”
“Forse perché ti piacciono i ragazzi…” avanzò cauto – probabilmente per la prima volta nella sua vita – il biondo.
Alec sentiva le lacrime pungergli dietro agli occhi. Cosa doveva fare, a questo punto? Trovare una scusa per il suo comportamento e continuare a nascondersi? Avrebbe passato tutta la sua vita a farlo? Forse non era ancora ora di parlarne con i suoi genitori, ma Jace era suo fratello, il suo migliore amico. Se era giunto il momento di coinvolgere anche qualcun altro in quella verità oltre ad Izzy, era giusto che quel qualcuno fosse lui. D’altronde, non l’avrebbe giudicato, no? Si erano sempre protetti, coprendosi le spalle in ogni occasione, perché adesso dovrebbe essere diverso?
“A-avresti…” cominciò timoroso, abbassando lo sguardo. Nonostante i suoi buoni propositi, una parte di lui era ancora terrorizzata all’idea che avrebbe reagito male, magari urlandogli contro. Non l’avrebbe sopportato, se Jace avesse cambiato opinione su di lui, o avesse cambiato il modo di guardarlo.
“Dei problemi?” avanzò il biondo, sporgendosi in avanti per entrare nel campo visivo del fratello. Alec a quel punto alzò gli occhi su di lui, in attesa del verdetto non appena annuì con il capo a quella domanda.
“Assolutamente no, Alec!” Jace accartocciò la faccia come se i timori di Alec fossero assurdi, “Perché dovrei averne?”
“Non lo so, magari pensi sia…” deglutì, sentendo un masso che gli ostruiva la gola e le lacrime pungergli dietro agli occhi. Era fisicamente doloroso trattenerle, “…contro natura.”
I tratti di Jace si addolcirono e avanzò verso il fratello. Allungò persino una mano per provare a prendere quella di Alec, ma si fermò a mezz’aria. Non erano mai stati espansivi fino a quel punto. C’erano stati degli abbracci, certo, ma nient’altro. Così la fece cadere sul materasso.
“Ascoltami bene, adesso.” Il minore si sistemò sui talloni, come se fosse stato infervorato da ciò che stava per dire e stare fermo gli risultasse impossibile, “Solo perché papà lo pensa non vuol dire che abbia ragione. Sai che lui è un po’ antiquato, per non dire bigotto e retrogrado, ma non importa quello che pensa lui, importa quello pensi tu di te stesso. E per come la vedo io non c’è niente di sbagliato ad amare qualcuno, maschio o femmina che sia.”
Alec abbozzò un sorriso, lasciando che venisse corrotto da quel velo di tristezza che gli pesava sul cuore ogni volta che immaginava come avrebbe reagito suo padre una volta scoperta la verità. Robert Lightwood aveva sempre espresso il suo disappunto verso ‘l’esistenza di individui depravati che provano attrazione verso qualcuno del proprio sesso’, giustificando l’utilizzo di tali mortificanti parole con il fatto che fosse ‘contro natura’.
Alec era cresciuto con questo mantra e si era quasi fatto convincere di essere sbagliato, quasi malato, fino a quando non aveva sentito cosa pensasse Izzy. Ad Isabelle non importava chi piacesse ad Alec, la cosa importante per lei era che un giorno trovasse qualcuno che lo rendesse felice come meritava. Isabelle Lightwood era davvero la creatura più meravigliosa che aveva camminato sul pianeta per una valanga di motivi. E il suo straordinario aspetto fisico era l’ultimo di essi.
“A me non cambia niente, Alec.” continuò Jace, non sapendo come interpretare il silenzio prolungato del fratello.
“Davvero?”
“Davvero, davvero. Sei mio fratello, ti voglio bene esattamente per quello che sei.”
“Anche se una volta ho buttato la tua giacca di pelle in lavatrice?”
Jace colse il tono più rilassato di Alec e decise di seguirlo in quel gioco di sguardi complici  che avevano da quando si erano incontrati. Non erano fratelli di sangue, ma lo erano per scelta. E Jace, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce perché non era tipo da smancerie, sapeva che Alec era la scelta migliore che gli potesse mai capitare.
“No, per quello potrei cominciare ad odiarti.”
Alec si lasciò andare ad una risata, che però tenne sotto controllo per non rischiare di svegliare nessuno.
“Mi sento un po’ meglio, ora che lo sai.” Confessò, sentendo un po’ di leggerezza sul cuore. Sapere di avere dalla propria parte due dei suoi tre fratelli – Max era ancora troppo piccolo per essere coinvolto in cose come gli interessi amorosi dei suoi fratelli maggiori – lo faceva stare bene. Gli rendeva quasi, quasi, più facile anche immaginare di aprirsi con i suoi genitori. Anche se era uno scenario che proiettava sempre molti anni più avanti, tipo la fine del college.
“Quindi comincerai a parlare anche con me, adesso?”
“Io e te parliamo sempre!”
“Non per essere pignoli, ma… se io parlo e tu ascolti è più un monologo.”
Alec rise di nuovo: “Hai ragione. Sì, comincerò a parlare anche con te.” Disse, convinto che con quel anche Jace si riferisse alle volte in cui lui e Izzy erano rimasti a parlare in camera della ragazza. Alec non si sentì di dirgli che molti di quei discorsi avevano lui come protagonista, quando aveva avuto una cotta nei suoi confronti. Avevano fatto un passo già abbastanza grande, quella notte. Non era necessario che Jace conoscesse tutta la verità in una volta. Forse gliel’avrebbe detto più avanti, o forse mai.
“E dunque… Magnus ti piace?”
“Intendevi cominciare a parlare adesso?”
“Beh, perché no?”
“Perché sono le tre del mattino!”
Jace sbuffò, facendo volare un ciuffo di capelli che gli era caduto sul viso, “Ho capito. Una cosa alla volta.” Si alzò dal letto di Alec per tornare al suo, dove si sdraiò dopo aver recuperato le coperte scalciate qualche attimo prima. “Buonanotte, Alec.”
“Buonanotte, Jace.”
Il biondo spense la luce pensando che, anche se era stata una giornata strana, era stata decisamente intensa.

La sveglia doveva sicuramente essere stata inventata dal diavolo in persona. Quel suo suonare fastidioso, continuo e assillante penetrava nelle orecchie di Alec e gli faceva venire voglia di strapparsi i timpani, gettarli ai piedi del letto e continuare a dormire. Ma ovviamente, ciò non era possibile.
“Spegnila!” lo implorò Jace, la voce ovattata dal cuscino su cui aveva premuto la faccia per coprirsi le orecchie.
“Ci sto provando!” mugugnò Alec che, sdraiato a pancia in giù e il viso affondato nel cuscino, gettava il braccio alla cieca sul comodino per trovare quell’aggeggio demoniaco che segnava l’inizio di una nuova giornata. Quando, al quarto tentativo, il suo avambraccio colpì lo spigolo del comodino, con un’imprecazione a denti stretti decise che era arrivato il momento di alzare la testa per vedere cosa stava facendo. Ed eccola lì, la mostruosa bestiola elettronica che li stava torturando. Alec si limitò a spegnerla, combattendo con l’impulso di defenestrarla.
“Odio quel suono,” si lamentò Jace, un avambraccio sopra agli occhi.
“Anche io.” Sbuffò Alec, voltandosi in costa verso di lui e permettendo al suo cervello di svegliarsi del tutto. Senza l’assillante suono della sveglia era facile cogliere altri rumori: quelli inesistenti nella loro camera e quelli che giungevano dalle altre stanze, ovattate dalle pareti. Sentiva chiaramente i rumori dei fornelli, immaginando Maryse preparare il caffè e la colazione; l’acqua della doccia scorrere, segno che Izzy era già sveglia e si era impossessata del bagno. E dei passi. Passi affrettati, veloci, che si avvicinavano sempre di più, fino a raggiungere la loro porta.
“Sveglia, dormiglioni! Mamma sta facendo i waffles!!” gridò euforico Max, entrando come un uragano nella camera dei fratelli.
“Sei sicuro che non sia Izzy?” domandò terrorizzato Jace, appoggiandosi sui gomiti per guardare il fratellino.
Il piccolo Lightwood scosse la testa: “So distinguere Izzy dalla mamma, non sono mica scemo!”
“L’ultima volta ti sei fatto fregare dal fatto che fosse girata di spalle, Max.” precisò Alec, strofinandosi gli occhi.
“Dopo che ho quasi rischiato l’avvelenamento ho imparato ad accertarmi quale delle due fosse.” Rispose piccato Max, come se avesse messo nel sacco quei sapientoni antipatici dei suoi fratelli.
I maggiori si lanciarono un’occhiata divertita e scoppiarono a ridere.
“Impari in fretta!” disse alzandosi Jace. Alec lo seguì immediatamente, accarezzando i capelli del minore dei suoi fratelli. A Max piaceva quando entrambi gli prestavano attenzione. Con il fatto che fossero grandi e condividessero la stanza, lui si sentiva un po’ escluso. Ma ogni volta che li andava a trovare, facendo comparsate come quelle, loro lo facevano sempre sentire parte integrante di quel rapporto speciale che avevano.
Adorava i suoi fratelli. E sua sorella, ma questo sembrava che lei lo sapesse già.
Il piccolo Lightwood rimase a guardarli mentre cominciavano a mettere in ordine la camera. Era quella la regola, dopotutto: ordinare le stanze prima di scendere a fare colazione. Così, Max si mise ad osservare Alec che apriva la finestra in fondo alla stanza per far entrare l’aria e Jace tirare le coperte ai piedi del letto per farlo arieggiare. Vide Alec fare lo stesso.
“Sei già pronto?” gli domandò poi il più grande dei suoi fratelli.
“Sono già pronto,” rispose, gonfiando il petto orgoglioso, “Mi sono già lavato, ho sistemato la mia camera e controllato di avere tutto l’occorrente nello zaino per la scuola!”
Alec gli scompigliò di nuovo i capelli: “Bravo, soldato!”
Jace e Alec uscirono da quella stanza e Max li seguì. Voleva stare con loro il più possibile, prima di cominciare la scuola.



“Izzy giuro che se non ti dai una mossa sfondo la porta con un calcio!” esclamò Alec, dopo aver bussato alla porta del bagno per la decima volta. In casa Lightwood c’era una regola per ogni cosa, compreso il tempo da passare sotto la doccia. Quindici minuti, venti al massimo e poi bisognava liberare la stanza. Maryse aveva giustificato quella decisione con il fatto che in casa fossero in sei e se ognuno avesse cominciato a stare sotto l’acqua un’ora, oltre che ad una bolletta spropositata, avrebbero dovuto cominciare a svegliarsi a notte fonda per riuscire a cominciare in tempo le rispettive giornate.
Isabelle, che aveva sempre avuto una particolare passione per infrangere le regole che sua madre si premurava diligentemente di imporre, spendeva i suoi quindici minuti solo per insaponarsi il corpo, passando poi con controllata lentezza a lavare i capelli e solo dopo essersi sciacquata per bene si accingeva ad asciugarli. Tempo trascorso: minimo quaranta minuti. C’erano giorni in cui impiegava un’ora buona.
“I miei capelli non si piastrano da soli, Alec!” berciò dall’altra parte della porta chiusa.
“Hai una presa e uno specchio anche in camera tua, perché non puoi piastrarteli lì i capelli?”
“E perché devi essere sempre, costantemente, così palloso?”
Alec serrò la mascella, infastidito da quel comportamento infantile, ma non reagì a quella provocazione.
“Isabelle Lightwood,” cominciò invece, il tono secco e deciso che precede le minacce serie, “Se non esci immediatamente lancio tutti i tuoi trucchi fuori dalla finestra!”
“Non oseresti!” gridò quella risentita.
“Oh, oserei. Oserei eccome!”
Jace vicino ad Alec stava ridendo come un matto, tanto che gli veniva impossibile partecipare a quel battibecco. Max, al fianco dei fratelli, si godeva la scena, pregustando già l’espressione furibonda che avrebbe avuto Isabelle una volta uscita dal bagno.
E infatti… Izzy aprì la porta con così tanto impeto che rischiò di scardinarla. I suoi capelli erano piastrati per metà: la parte superiore era sollevata da una grossa pinza gialla, mentre ai lati del collo scendevano i capelli che avevano già subito il trattamento. Il viso era struccato, ma nei suoi occhi si leggeva benissimo un acido risentimento.
“Tu avvicinati ai miei tesori e io do fuoco al tuo stupido arco!” lo minacciò Iz sventolandogli la piastra ancora calda sotto il naso.
Alec gonfiò le guance e le puntò un indice contro: “Provaci e userò i tuoi preziosissimi rossetti come penne per prendere appunti!”
Isabelle boccheggiò. “Eretico!” esclamò poi sventolando la mano libera in aria e allontanandosi da quella massa di rincitrulliti che aveva per fratelli – perché sì, aveva sentito le risate sguaiate di Jace e quelle sommesse di Max – “Miscredente!” continuava, mentre raggiungeva la sua camera, “Blasfemo!!” concluse, chiudendosi la porta dietro le spalle.
Jace, Alec e Max rimasero a lanciarsi occhiate per qualche secondo prima di cominciare a ridere.
“Ti ucciderà, fratello!” commentò Jace, mentre si asciugava una lacrima sfuggita da un occhio.
“È molto probabile,” confermò Alec.

La mattinata, tutto sommato, era iniziata come sempre: Iz che se la prendeva comoda, Jace e Alec che dopo essersi fatti la doccia, erano tornati in camera per finire di sistemarla e Max che li seguiva.
Si erano vestiti, avevano sistemato le ultime cose per la scuola ed erano scesi al piano di sotto per fare colazione, dove Maryse li attendeva.
Alec aveva sempre ritenuto sua madre una bella donna, un po’ rigida e troppo composta, forse austera, ma bella. I suoi lineamenti erano molto marcati, la bocca ben delineata e gli occhi antracite erano tremendamente espressivi. Quando erano bambini, infatti, e si comportavano male, bastava che Maryse lanciasse loro un’occhiata di pietra per convincerli a comportarsi meglio.
“Buongiorno, mamma..” la salutò lui, imitato dai fratelli. Presero posto intorno al tavolo, dove notarono l’assenza del padre: Robert si alzava molto presto per aprire il suo ufficio legale. Papà Lightwood era un notaio molto richiesto.
“Siete in ritardo,” rispose la donna, sistemando un piatto colmo di waffles al centro del tavolo. “E anche io,” continuò, slacciandosi il grembiule da cucina che teneva legato alla vita sopra ad un semplicissimo tubino nero che le arrivava fino a sotto il ginocchio, ai piedi gli stessi tacchi alti che piaceva tanto portare ad Isabelle. “Vostro padre mi sta aspettando da quasi venti minuti, sapete quanto odia aspettare!” Maryse si occupava della contabilità dell’ufficio e organizzava tutti gli appuntamenti del marito.
“Scusa mamma,” si affrettò a dire Alec, reggendo solo per un istante lo sguardo della madre.
Maryse si lasciò andare ad un sospiro controllato: “Vedete di rispettare i tempi, la prossima volta.”
Alec annuì, “Certo.”
Isabelle al suo fianco, gli strinse una mano sotto al tavolo e lui ricambiò. Certe volte era difficile saper gestire tutte le regole della famiglia, soprattutto quando entrambi i loro genitori erano così avvezzi al rigido rispetto di esse, anche quelle più insignificanti.
“Mangiate, adesso.” Esalò Maryse, affrettandosi per versarsi una tazza di caffè. La terza nel giro di almeno un’ora.

***

Alec stava chiudendo il libro di letteratura, mentre nella sua testa la voce di Isabelle rimbombava schietta. Quando la ragazza si arrabbiava la sua voce raggiungeva toni così elevati che solo i cani potevano sentirla e lui, ogni volta, si premurava di farglielo notare. Un po’ perché ultrasuoni o meno, di solito erano le sue orecchie le vittime di quel tono perforante, un po’ perché voleva cercare di calmarla.
Quella mattina, l’oggetto dell’ira di Isabelle era proprio la loro madre.
‘Non la sopporto più! Perché deve sgridarci anche per la minima cosa, mh? Non può essere una madre normale, una volta tanto?? E perché deve sempre prendersela con te, come se fossi il rappresentate ufficiale dei suoi figli??’
Il suo viso si era colorato di un rosso così intenso che nemmeno il contouring  che applicava con cura maniacale ogni mattina era bastato a nasconderlo. Era furibonda e non sopportava l’idea che Maryse se la prendesse con Alec solo perché, in quanto maggiore, lo riteneva responsabile dei suoi fratelli.
‘Pensa che siccome sei il più grande tu debba occuparti di noi!!’
‘A me piace occuparmi di voi, Iz.’

Le aveva detto per cercare di calmarla. Magari se lei avesse saputo che a lui non creava problemi farlo, forse si sarebbe tranquillizzata.
‘Il punto non è questo, Alec. Il punto è che ti scarica addosso troppe responsabilità…’
‘Izzy, ascoltami, va bene?’
le aveva appoggiato le mani sulle spalle e lei si era rilassata un pochino, ‘Mamma è… fatta a modo suo. Con ciò non voglio dire che impazzisco per i suoi modi di fare, ma che puoi farci? Arrabbiarti con lei per ogni cosa?’
‘Potrei farlo!’
‘E ci guadagneresti solo un fegato consumato e il sangue marcio. Non devi preoccuparti per me, io sto bene.’
‘Ma non voglio che esageri, tutto qui.’
‘Non esagera. Alla fine, l’unica cosa che mi chiede è di occuparmi dei miei fratelli e voi siete le persone a cui tengo più al mondo, quindi non vedo che male ci sia…’

Isabelle aveva sospirato, lasciando fuoriuscire tutta la rabbia accumulata e lo aveva abbracciato forte forte, come solo lei sapeva fare, affondando il viso nel suo petto. Alec l’aveva stretta a se e le aveva appoggiato il mento sopra alla testa.
‘La verità, Alec, è che tu sei troppo buono e lei non ti merita!’
Alec aveva ridacchiato, ‘E tu mi meriti?’
‘Ovviamente, che domande sciocche!’

Il ragazzo infilò il libro dentro allo zaino e si alzò, ripensando a quella conversazione avuta solo qualche ora prima con la sorella, prima che lei entrasse in classe. Iz si era premurata che rimanessero soli e non perché con Jace dovessero avere dei segreti, solo che era abituata più a confidarsi con lui in solitudine… per quanto il corridoio di una scuola fosse compatibile con tale definizione.
Sospirò, uscendo dalla sua classe, gli occhi bassi sulle sue solite converse e i pensieri che gli arrovellavano il cervello. Chissà se forse abbassava sempre la testa con sua madre solo perché sapeva che un giorno avrebbe dovuto darle una notizia che l’avrebbe colpita in pieno petto come una frusta. Se non avesse avuto niente da nasconderle, forse, si sarebbe comportato come Isabelle, i cui scontri con la madre erano frequentissimi.
O forse avrebbe reagito nello stesso modo anche se non avesse avuto niente da nascondere: gettare benzina sul fuoco non era un comportamento compatibile con il suo carattere, lui tendeva più che altro a calmare gli animi. Almeno credeva.
Un altro sospiro e questa volta, però, i suoi pensieri vennero interrotti…
“Perché sospiri così tanto, raggio di sole?”
…dalla voce di Magnus. Alec alzò gli occhi trovandolo davanti alla sua classe, appoggiato al muro come in ogni commedia cinematografica adolescenziale che si rispetti. Il cuore di Alec fece un balzo, non appena i loro sguardi si incrociarono e le sue labbra si incurvarono involontariamente in un sorriso. Magnus era impeccabile anche quel giorno: i capelli erano colorati di azzurro sulle punte, gli occhi truccati con l’eyeliner dorato. Indossava una camicia color avorio, i primi bottoni della quale erano lasciati aperti, mostrando così almeno tre collane di diversa lunghezza; i pantaloni erano dello stesso azzurro intenso delle punte dei capelli e lo fasciavano in una maniera che Alec reputava, senza tanti giri di parole, illegale.
“C-ciao,” disse dopo aver finito la sua – tutto tranne che discreta – ispezione. Magnus sorrideva, probabilmente orgoglioso di aver suscitato un tale interesse.
“Ciao a te, stellina. Allora, perché sospiri tanto?”
“Nulla di che… e non chiamarmi stellina.
“Preferivi raggio di sole?”
“No,”
“Fiorellino?”
“Scordatelo,”
“Bocconcino?”
Assolutamente no!”
“Ma bocconcino è bello, mi fa venire voglia di mangiarti!”
Alec strabuzzò gli occhi, sorpreso da tale schiettezza, e arrossì violentemente.
“…Non che mi serva un soprannome simile, per provare tale desiderio.” Specificò Magnus in un tono che risultò, alle orecchie di Alec, il più sensuale udito in tutta la sua vita. Non che qualcuno gli avesse mai parlato in quel modo, ma… si trovò a boccheggiare, rimanendo a fissare Magnus senza sapere esattamente come rispondere a tale provocazione. Istintivamente, i suoi occhi si precipitarono sulla bocca del ragazzo, come se per un attimo il suo cervello si fosse chiesto come sarebbe stato permettergli di farlo, ma poi, la sua parte razionale aveva preso prepotentemente il sopravvento e l’aveva fatto rinsavire.
“Chiamami solo Alec, d’accordo??”  
Magnus gli sorrise serafico e lo affiancò, non appena intuì che Alec stava per cominciare a camminare. Direzione: ignota. Non che gli importasse più di tanto dove stessero andando fin tanto che era con quel ragazzo stupendo. Era diventato il suo chiodo fisso da quando la sua bellissima faccia era finita contro il proprio armadietto, ma non aveva più avuto modo di incontrarlo fino a quando – sia lode al destino – non l’aveva rivisto in mensa. Il fatto era che aveva avuto un sacco di impegni, tra la fine del trasloco, l’organizzazione dei corsi e tutta quella cosa chiamata integrazione scolastica a cui era stato obbligato a partecipare. Non aveva bisogno di una specie di squallido gruppo di sostegno per trovare delle persone con cui passare il tempo. Magnus Bane non aveva bisogno di nessuno… tranne forse che dell’adone che rispecchiava alla perfezione la definizione di alto, ombroso e affascinante che adesso si trovava al suo fianco.
“Solo Alec… è un soprannome?”
Il moro annuì, “Sarebbe Alexander, ma tutti mi chiamano Alec.”
“Che abominio ridurre la magnificenza di tale nome, non trovi?”
“No… non credo, almeno.” Alec alzò le spalle, “Mia sorella è stata la prima a chiamarmi così: appena ha imparato a parlare, Alexander era troppo difficile da dire, quindi le è uscito Alec. Da quel giorno è diventato il mio nome.”
“Che cosa adorabile.”
Alec arrossì, guardandolo per una frazione di secondo prima di gettare gli occhi di nuovo a terra. Magnus aveva un ascendente particolare su di lui: riusciva ad attrarlo in maniera spropositata, come un satellite che gravita inevitabilmente intorno ad un pianeta, ma dall’altra parte si sentiva quasi intimorito dalla sua presenza, come se non si ritenesse alla sua altezza. Lo confondeva. Gli smuoveva dentro emozioni che fino a quel momento era riuscito a tenere al guinzaglio, ma che adesso, ogni volta che quel ragazzo posava i suoi occhi su di lui, cominciavano a scalciare, ribellandosi a qualsiasi tipo di costrizione che impedisse loro di manifestarsi.
“Pensavo,” esordì Magnus, studiando il silenzio pensieroso di Alec. Quest’ultimo tornò a guardarlo e Magnus si beò per un istante della bellezza dei suoi occhi, prima di riprendere a parlare, “Cosa fai domani sera?”
“Non ho piani specifici per il sabato sera, in genere…”
Magnus si allargò in un sorriso compiaciuto: “Perfetto! Allora gradirei fare qualcosa insieme, Alexander. Ti va?”
Alec dovette mantenere il controllo delle sue facoltà fisiche e mentali non appena il suono della voce di Magnus che pronunciava il suo nome per intero raggiunse le sue orecchie. Lo diceva in un modo vellutato, armonioso, sensuale. Gli dava una sfumatura nuova, accattivante. In poche parole, mai come prima di quel momento gli era piaciuto così tanto sentir pronunciare il suo nome.
“N-non lo so…” il momento di idillio venne spezzato subito dopo dal panico: voleva uscire con Magnus? Certo che voleva. Era terrorizzato dall’idea che potesse deluderlo? Certo che lo era. Come avrebbe potuto non deluderlo, dopotutto? Non c’era niente di speciale, in lui. Come poteva un tipo così particolare come Magnus essere attratto da un tipo ordinario e – citando Izzy quella mattina – palloso? “…Non sono sicuro di-”
Ma Magnus lo zittì portandogli un indice davanti alle labbra, senza toccarlo davvero.
“Facciamo così, inizieremo con qualcosa di semplice e collettivo… non farti strane idee, passerotto, non intendo un’orgia o cose simili…” si affrettò ad aggiungere notando l’espressione titubante e terrorizzata di Alec, “Serata cinema con i tuoi amici. Chiedi alla tua combriccola se ha voglia di venire a casa mia e ci guardiamo un film.”
Alec ponderò la proposta: alla fine non era un vero appuntamento, giusto? Se fossero stati tutti insieme non sarebbe poi stato tanto diverso dal giorno prima, in mensa. Non rischiava poi chissà quali figuracce.
“D’accordo. Sento cosa dicono e poi-”
“Perfetto, fiorellino!” Magnus non lo lasciò finire e allungò una mano verso di lui, “Cellulare.” Aggiunse e Alec, che una cosa di quel ragazzo l’aveva capita e quella cosa era proprio il fatto che non accettasse un no come risposta, estrasse il suo telefono dalla tasca anteriore dei jeans. Quando alzò lo sguardo di nuovo su Magnus, lo beccò mentre fissava – senza premurarsi di essere discreto – la patta dei suoi pantaloni. Imbarazzato, si schiarì la gola.
“Oh, certo. Pardonnez-moi  ero distratto!” commentò senza che nemmeno l’ombra di un minimo disagio attraversasse i tratti del suo viso. Alec lo invidiava tantissimo e in quel momento, capì quale fosse una delle tante cose che lo attirava di Magnus: la sua totale libertà. Non aveva remore a dimostrarsi per quello che era. Era eccentrico, si vestiva in modo anticonvenzionale, era completamente a suo agio con la propria sessualità e non era in alcun modo spaventato a dimostrare interesse per qualcuno, anche se quel qualcuno apparteneva al suo stesso sesso.
Era lontano dal controllo degli schemi che la società imponeva. E gli piaceva da morire per questo.
“Vorrei chiederti da cosa, ma penso di saperlo.”
Gli era uscito senza che realmente volesse dirlo. Era più un pensiero ad alta voce, un qualcosa nato, forse, dal filo dei precedenti pensieri. La libertà che invidiava in Magnus poteva pretenderla anche per sé, forse, e se non con tutti, almeno con lui. L’espressione che si formò sul viso del ragazzo orientale, poi, gli permise di sentire crescere dentro di sé un’emozione particolare: soddisfazione, la stessa che provava quando, al primo colpo, centrava il bersaglio con una freccia.
“Qualcuno qui sta diventando sfacciato,” commentò, il sorriso felino e un sopracciglio alzato. “Mi piace.”
Magnus digitò il suo numero sul cellulare di Alec, salvandosi come Magnus Meraviglia.
“Mi piace tantissimo,” scandì tenendo gli occhi incollati a quelli di Alec, mentre con grazia riposava il cellulare nella tasca dei pantaloni del moro. Erano pericolosamente vicini. Alec aveva ufficialmente smesso di respirare non appena il profumo di Magnus gli era entrato nelle narici e poi, quando quest’ultimo aveva infilato un dito in uno dei passati dei suoi pantaloni per tirarlo a sé e lasciargli un bacio su una guancia, si era sentito letteralmente morire.
“Non farmi aspettare troppo, bel viso.” Gli sussurrò all’orecchio prima di allontanarsi. Alec rimase in piedi, pietrificato in mezzo al corridoio, con il cuore che batteva a mille, le orecchie che fischiavano e la voglia di avere Magnus accanto che gli scorreva nelle vene come fuoco liquido.



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Ciao a tutti! 
Come prima cosa, vorrei ringraziare chiunque abbia messo la storia tra le seguite/preferite e abbia recensito il primo capitolo, mi fa piacere sapere che c'è qualcuno che ha apprezzato la storia! <3 
Venendo al secondo... ho introdotto la conversazione di Jace e Alec riguardo l'omosessualità di quest'ultimo ambientandola di notte perché pensavo sarebbe stato più bello se ne avessero parlato nell'intimità della loro stanza, condividendo un momento tutto loro lontano dal resto dei ragazzi. E, inoltre, vediamo per la prima volta Maryse... ora, so che lei è un personaggio un po' particolare: nella serie all'inizio possiamo trovarla antipatica, ma alla fine, secondo me, si fa apprezzare, quindi vorrei cercare di far notare questo cambiamento anche lungo il corso di questa storia (ci proverò almeno xD). 
Venendo al Malec moment: ho voluto usare "bel ragazzo" perché ho amato il momento nella serie in cui, nella 1x04, Jace da per scontato che fosse rivolto a lui quando invece Magnus ce l'aveva con Alec (<3). In più, nel dialogo finale mi sono completamente inventata l'origine del soprannome, pensando che sarebbe stato carino se fosse stata Isabelle la prima a chiamarlo in quel modo. 
Ok, credo di aver detto tutto... se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate! 
Vi ringrazio ancora tantissimo per aver letto la storia, a presto! :) <3

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Capitolo 3
*** 3. ***


Alec aveva pensato a come introdurre la proposta di Magnus ai suoi amici tutta la mattina. Durante l’ora di pranzo si era ripetuto più e più volte che doveva darsi una mossa, o avrebbe rischiato di sentirsi dire che avevano già programmato qualcosa per la sera successiva e lui avrebbe dovuto disdire il suo presunto appuntamento. Che poi, aveva già chiarificato con se stesso, proprio un appuntamento non era.
Aveva provato e riprovato nella sua testa a trovare le parole giuste per avanzare la proposta risultando casuale e distaccato, senza dare l’impressione di morire dalla voglia di assecondare la proposta di Magnus, ma nessuna ipotesi che gli era balenata alla mente lo soddisfaceva abbastanza. Aveva sempre il timore di risultare troppo esplicito.
Sospirò, controllando il telefono per l’ennesima volta, nella speranza di trovare l’idea geniale.
“Alec, per l’amor del cielo, si può sapere che hai?” sbottò Iz, al suo fianco. Si stavano incamminando verso la fermata dell’autobus e lui per tutto il tempo altro non aveva fatto che ripensare all’incontro di quella mattina, al bacio che Magnus gli aveva dato, alle sensazioni che aveva provato e al fatto che di qualsiasi cosa si trattasse, ne voleva di più. Ma non sapeva come fare.
Non era mai stato molto bravo a prendersi ciò che desiderava per il semplice fatto che era stato abituato a non chiedere niente.
“Niente, Iz. Stavo solo-”
“Aspetti un messaggio che non arriva?” avanzò, poi quando Alec le rivolse un’occhiata interrogatoria, lei alzò le spalle: “Controlli il telefono ogni trenta secondi.”
Esagerata. Non lo controllava poi così spesso…
“Pensavi non me ne fossi accorta?”
…o forse sì.
“Tu ti accorgi di troppe cose, Izzy.”
Che poi, cosa lo controllava a fare dal momento che era lui quello ad avere il numero di Magnus e non viceversa?
“Questo perché sono la più sveglia tra tutti noi. Lo sanno tutti che il cervello delle donne ha più neuroni di quello degli uomini…”
Alec alzò gli occhi al cielo, “Vuoi sapere cosa volevo chiederti o vuoi continuare a lodarti?”
“Per quanto mi piaccia la seconda ipotesi, sceglierò la prima!”
Il maggiore scosse la testa, lanciando prima un’occhiata alle loro spalle dove Jace e Clary si stavano salutando utilizzando mezzo metro di lingua. Il povero Simon, al loro fianco, aveva cominciato a guardare per aria. Alec non lo invidiava per niente.
“C’è la possibilità che Magnus ci abbia invitati a casa sua, domani sera, per guardare un film. E a me piacerebbe andarci…” Esalò tutto d’un fiato, come se stesse confessando il crimine del secolo. Non si era nemmeno reso conto di aver chiuso gli occhi, fino a quando non fu costretto a riaprirli perché Isabelle aveva cominciato ad esibirsi in gridolini euforici e saltelli eccitati. I suoi tacchi vertiginosi battevano sull’asfalto del marciapiede e l’unica cosa a cui riusciva a pensare Alec era che se non si fosse data una calmata, oltre ad attirare l’attenzione di ogni persona nel giro di almeno dieci chilometri, visto come stava urlando, avrebbe anche rischiato di rompersi una caviglia.
“Adesso calmati!” la rimproverò afferrandola per le spalle. Ma lei non ne voleva sapere, aveva cominciato a battere le mani e sul viso aveva un sorriso che le arrivava alle orecchie.
“Lo sapevo!” esclamò “Anche lui ti piace!”
Anche?” le domandò, perplesso.
“Oh, andiamo. Che tu piacessi a lui era più che evidente, Mr. Baciamano.”
Il ragazzo assunse una tonalità di viola simile a quella di una melanzana.
“È stato un gesto così galante.” Continuò Isabelle, decisamente troppo presa dalla situazione, “E tu… oh Dio Alec, sarebbe così bello se usciste insieme!”
Vedere Isabelle così euforica gli dava una forza tale da farlo sentire invincibile. Aveva sempre avuto la tendenza a farsi trasportare da sua sorella, dalla sua forza, da credere a qualsiasi cosa lei credesse. Se Iz credeva che lui potesse scalare una montagna, automaticamente si convinceva che l’Everest non era poi così alto. Se Isabelle credeva che sarebbe stato bello se lui e Magnus fossero usciti insieme, automaticamente lui sentiva tutte le sue insicurezze che venivano messe da parte.
“Lo credi sul serio?”
La mora annuì con convinzione.
“Allora pensi che accetterete questa proposta? Sai, ha detto che vuole cominciare con qualcosa di semplice e coll-”
Iz non lo lasciò neppure finire: “Jace!” berciò, “Smettila di esplorare la gola di Clary con la lingua e venite qui, dobbiamo parlare!”
“Sei una rompipal-”
Adesso!” ordinò così imperiosa che Jace non poté fare altro che obbedire, seguito da Clary. Isabelle ogni tanto usava quel tono autoritario che gli ricordava sua madre in modo spaventoso. E così come nessuno osava contraddire Maryse, nessuno aveva mai contraddetto Isabelle. “Simon, tesoro, avvicinati anche tu.” Aggiunse poi con dolcezza.
Quando il gruppetto fu a portata di orecchio, Isabelle si sistemò i capelli sulla spalla sinistra, come se dovesse mostrarsi al meglio per dire ciò che stava per dire.
“Che ne dite di andare da Magnus, domani sera?”
Jace lanciò immediatamente un’occhiata al fratello, il quale annuì impercettibilmente con la testa. Era quello un caso di quella che a Izzy piaceva chiamare telepatia maschile e da cui si sentiva sempre un po’ esclusa. I suoi fratelli avevano la capacità di capirsi con un solo sguardo. Alec lanciava un’occhiata a Jace e questo capiva. Jace faceva un cenno con la testa ad Alec e questo capiva.
Si facevano intere conversazioni in silenzio, basandosi su cenni, sguardi e, talvolta, anche sbuffi.
“Per me va bene,” concluse Jace, alzando le spalle.
“Anche per me.”
Se Alec e Jace, talvolta, si capivano senza parlare, Simon e Clary tendevano spessissimo a rispondere alle domande nello stesso identico modo e contemporaneamente. Isabelle pensava fosse dovuto al fatto che avevano passato la loro intera esistenza insieme da quando avevano sei anni.
“D’accordo,” concluse la mora. “Penso che Alec ci farà conoscere i dettagli al più presto.”

***

Alec se ne stava in quello che in casa sua veniva chiamato lo studio, ma che altro non era che una minuscola stanzetta nella mansarda di casa Lightwood. Situata tra il secondo piano e il tetto, quella stanza era il rifugio preferito di Alec, che di solito lo usava per andare a studiare in santa pace o leggere i suoi libri preferiti senza che qualcuno lo interrompesse – o scoprisse, nel caso di Robert, che sembrava allergico a qualsiasi lettura non venisse approvata da lui. Per raggiungerla era sufficiente tirare una cordicella che pendeva dal soffitto del secondo piano, nel corridoio dove si trovavano le camere da letto, e salire una scalinata che avrebbe condotto ad una stanzetta illuminata solo da una finestra tonda – che ad Alec piaceva chiamare rosone perché gli ricordava tanto le chiese gotiche che lo affascinavano da sempre – e arredata soltanto da un divano, una scrivania e una lampada. Ad Alec piaceva studiare lì, ma ancora di più gli piaceva sistemarsi alla finestra, con le gambe rannicchiate al petto a guardare fuori. Era il suo posto, il suo rifugio. Da lì osservava il mondo, ma non si sentiva esposto agli occhi di esso, come se potesse imparare a studiare un nemico che ancora non era totalmente pronto ad affrontare. Ci voleva strategia per vincere le battaglie ed Alec si stava preparando giorno dopo giorno ad affacciarsi alla realtà che prima o poi avrebbe dovuto affrontare. Uscire allo scoperto, evitare di farsi divorare dai pregiudizi e stare in piedi con le proprie forze.
Fuori dalla finestra, però, in quel momento vedeva solo l’oscurità calare su New York e i lampioni cominciare ad accendersi come tante lucciole che illuminano le notti d’estate. La stessa estate a cui avevano detto addio qualche settimana prima.
Cominciava ad avvertirlo, l’arrivo dell’autunno. Iniziava a percepire i brividi di freddo la sera, la voglia di stare in casa con la felpa – cosa che aveva fatto – e indossare i pantaloni della tuta. Cominciava a sentire la voglia di pioggia, dell’odore di asfalto bagnato, di camini accesi e dei bar affollati di gente desiderosa di scaldarsi. Adorava l’autunno e ancora di più l’inverno, con la neve e tantissime scuse per andare al cinema.
Non vedo cosa ci trovi di speciale nell’andarti a rinchiudere in un cinema senza nessuno con cui pomiciare, Alec! brontolava sempre Izzy, ma a lui piaceva andare al cinema da solo, riusciva a godersi un pochino di libertà, si sentiva indipendente e in qualche modo svincolato. Non aveva da temere niente, se non la possibilità che non trovasse il film di proprio gradimento, cosa che, per sua fortuna, capitava pochissime volte.
Sì, era proprio una persona invernale.
Con un’ultima occhiata alla strada, che adesso era completamente buia, decise di fare ciò per cui era andato a rintanarsi lassù: scrivere a Magnus.
Lanciò un’occhiata al display: segnava le 21.15. Contando che si erano parlati quella mattina, l’aveva fatto aspettare anche troppo.

> To: Magnus Meraviglia, 21.16
Alec si appuntò mentalmente di cambiare il nome in rubrica e poi digitò il messaggio.
Ciao Magnus, sono Alec… volevo dirti che ho parlato con gli altri e ci farebbe molto piacere accettare il tuo invito.

Forse era troppo formale. Magari doveva aggiungere delle faccine, o impostare il messaggio in maniera diversa. Una leggera paranoia lo assalì, portandolo a mangiucchiarsi l’unghia di un pollice. Avrebbe dovuto scrivere altro? O semplificare il tutto?
Invialo e basta, Alec! – si rimproverò zittendo le sue ansie e premendo invio.
Si pentì immediatamente.
Magari lo disturbava, magari Magnus si era già dimenticato, o stava facendo cose migliori…
Il suo cellulare vibrò e il suo cuore cominciò a martellare feroce, facendogli capire che aspettava una risposta più di quanto immaginasse.

> From: Magnus Meraviglia, 21.17
Fiorellino! Pensavo che mi avresti dato buca…
> To: Magnus, 21.17
Cosa te l’ha fatto pensare?
> From: Magnus, 21.18
L’attesa… ma non è un problema, aspettare non mi piace solo quando non ne vale la pena.

Alec, senza che riuscisse a controllare i muscoli della sua faccia, si allargò in un sorriso.
Nessuno aveva mai pensato che lui ne valesse la pena. La maggior parte delle volte che si trovava a rapportarsi con qualcuno gli veniva molto difficile aprirsi, dal momento che per natura tendeva a non fidarsi e quindi ad erigere un muro che proteggesse le sue emozioni, risultando agli occhi esterni scontroso e diffidente. Con Magnus era diverso… anche se non lo conosceva bene, c’era qualcosa in lui che lo spingeva a fidarsi, a non respingerlo.

> From: Magnus, 21.20
Alexander? Sei ancora con me?
> To: Magnus, 21.20
Sì, scusami… Non volevo farti aspettare, comunque. Ho solo… avuto da fare.
> From: Magnus, 21.21
Non scusarti, fiorellino. Allora, la tua combriccola ha dato l’ok?
> To: Magnus, 21.21
Sì, hanno dato l’ok. Soddisfatto?
> From: Magnus, 21.22
Moltissimo… anche se avrei preferito passare del tempo insieme a te, da soli…

Alec rimase a fissare la chat istantanea aperta, titubando sulla tastiera del suo smartphone. C’era una ragione se aveva accettato di vedersi in compagnia: in quel modo si sarebbe sentito più a suo agio, in un certo senso spalleggiato dalla presenza di Jace e Iz, perché, nonostante provasse un’attrazione verso la personalità di Magnus che lo spingeva a volersi aprire con lui, il terrore di non piacergli una volta scoperto cosa ci fosse sotto la sua corazza gli aderiva come una seconda pelle, non abbandonandolo nemmeno un istante, spiaccicandosi al suo corpo con così tanta intensità da dargli l’impressione di soffocare.

> From: Magnus, 21.24
Ho esagerato…?
> To: Magnus, 21.25
No… io… ci vuole un po’ di pazienza, con me. E non mi aspetto tu ce l’abbia, davvero.
> From: Magnus, 21.25
Non ho intenzione di scappare, Alexander. Se è pazienza che vuoi, pazienza avrai. Non mi allontanerò da te tanto facilmente.
> To: Magnus, 21.27
Perché?

E glielo chiese con sincerità. Era davvero curioso di sapere cosa ci trovasse in lui da spingerlo ad assecondare le sue paranoie, le sue insicurezze, le sue anomalie, quando era evidente che uno come Magnus avrebbe potuto trovare di meglio semplicemente schioccando le dita.



> From: Magnus, 21.28
Perché vali più di quanto pensi e il fatto che tu non lo veda non vuol dire che io non abbia ragione.
> To: Magnus, 21.29
Mi conosci appena, come puoi dire certe cose?
> From: Magnus, 21.29
Chiamalo istinto. Ti sei mai fatto guidare dal tuo?
> To: Magnus, 21.30
Meno di quanto pensi, in realtà.
> From: Magnus, 21.30
Almeno una volta l’hai fatto?

Sì, pensò Alec, quando il suo istinto gli aveva fatto cercare Magnus tra la folla, quando l’aveva spinto a non respingerlo quando avevano cominciato a parlare in mensa, così come quando non si era allontanato quella mattina quando l’aveva baciato – seppur sulla guancia – in un luogo pubblico. Era sicuro di non essere pronto ad un bacio vero in pubblico, aveva ancora troppo timore del mondo esterno per gettarsi tra le sue fauci senza almeno un’armatura, ma il fatto che non fosse stato terrorizzato da quell’innocente contatto lo reputava un passo avanti, un passo che era riuscito a fare solo perché qualcosa negli occhi a mandorla di Magnus lo spingeva ad assecondarlo, a sentirsi al sicuro… almeno un pochino.

> To: Magnus, 21.33
Sì…
> From: Magnus, 21.33
E ne sei stato deluso?
> To: Magnus, 21.34
No… no, per niente.
> From: Magnus, 21.34
Allora non vedo perché il mio istinto dovrebbe deludermi. Certe cose si sentono dentro, Alexander.
> To: Magnus, 21.35
Sei sempre così sicuro di te?
> From: Magnus, 21.36
In genere sì. Sono poche le volte che mi sono sbagliato riguardo qualcuno. Ad esempio… quel Jade sapevo fosse un pallone gonfiato da come ne parlava Clary, quando l’ho conosciuta, e come vedi non mi sono sbagliato. Onestamente, non capisco cosa possa trovarci Clary in lui…

Alec, sebbene l’oggetto di maldicenza fosse suo fratello – che poi, poteva forse negare che la maggior parte delle persone avevano quell’impressione di Jace? Certo che no – apprezzò il fatto che Magnus avesse alleggerito l’atmosfera, cambiando abilmente discorso.

> To: Magnus, 21.37
Jace (perché è questo il suo nome) tende a fare questa impressione. Ma in realtà è molto più di quel che sembra.
> From: Magnus, 21.37
E tu lo sai bene, perché…

Era un chiaro invito a continuare, la ricerca di una spiegazione all’ultimo messaggio inviato da Alec.

> To: Magnus, 21.38
Perché è mio fratello.
> From: Magnus, 21.39
Oh… non ti aspettare che mi scusi, penso ancora sia un pallone gonfiato. Siete sicuri di essere parenti?

Alec colto da un’improvvisa ondata di sadismo, si trovò a ridacchiare sotto i baffi, pensando che avrebbe tanto voluto vedere la faccia di Magnus dopo aver letto il messaggio che stava per inviargli, anche se una parte di lui dubitava che quel ragazzo fosse capace di provare vergogna.

> To: Magnus, 21.42
In realtà, no. Jace è adottato.
> From: Magnus, 21.45
…Avresti potuto dirmelo, prima di farmi fare una gaffe del genere.
> To: Magnus, 21.46
E perdermi l’occasione di metterti nel sacco una volta tanto? Non se ne parla proprio.
> From: Magnus, 21.46
Ti odio, sappilo.
> To: Magnus, 21.47
Non è vero…
> From: Magnus, 21.48
Hai ragione. Sono geneticamente programmato per non riuscire ad odiare i ragazzi affascinanti.

Alec sentì il viso andare in fiamme e il sorriso da ebete tornare alla carica.

> To: Magnus, 21.49
Smettila…
> From: Magnus, 21.50
Di ricordarti quanto tu sia un dono di Madre Natura? Giammai. Ho una missione, io. E la prendo molto seriamente.
> To: Magnus, 21.52
Non ne dubito, Mr. Bond.
> From: Magnus, 21.53
Stai facendo del sarcasmo?
> To: Magnus, 21.54
Sei perspicace, vedo…
> From: Magnus, 21.55
E tu impertinente. Dovrai farti perdonare, per questo… penserò ad un modo adatto. Intanto, buonanotte Alexander.
> To: Magnus, 21.55
Buonanotte, Magnus.

*

La mattina seguente, Alec si svegliò senza che la sveglia suonasse.
Fu un altro rumore a destarlo dalla sua nottata passata quasi del tutto insonne a ripensare alla conversazione avuta con Magnus. Non gli era mai capitato di mandarsi messaggi con qualcuno che gli interessasse nel modo in cui gli interessava Magnus. E doveva ammettere che era stato piacevole sentire uno sfarfallio alla bocca dello stomaco quando riceveva una risposta.
Il cellulare che vibrò sul comodino fu proprio il rumore che lo destò da un sonno in cui era sprofondato solo qualche ora prima. Allungando un braccio fuori dalle coperte, afferrò l’oggetto e lesse il messaggio.

> From: Magnus, 07.48
Buongiorno, impertinente fiorellino…

Alec – con quel sorriso sulle labbra che sembrava nascesse spontaneo, senza che lui riuscisse ad impedirlo ogni volta che leggeva il nome di Magnus sul suo display – alzò gli occhi al cielo. Impertinente. Evidentemente non gli era andato a genio il commento della sera precedente.

> To: Magnus, 07.49
Buongiorno a te… colgo un certo risentimento, o sbaglio?
> From: Magnus, 07.49
Sbagli, fiorellino. Era solo un piccolo promemoria.
> To: Magnus, 07.49
Per cosa?
> From: Magnus, 07.50
Per ricordarti che devi farti perdonare, raggio di sole. E si da il caso che abbia trovato il modo…

Alec deglutì sentendo la bocca improvvisamente secca. Una scossa di freddo panico gli morse lo stomaco al pensiero di chiedergli spiegazioni. Temeva davvero che il modo che Magnus aveva per riscattarsi fosse qualcosa che uscisse troppo dalle proprie corde. Qualcosa che aveva paura di non saper gestire.


> From: Magnus, 07.52
Alexander, se pensi che ciò che ho detto contempli l’utilizzo dei metodi di un serial killer, posso assicurarti che non è assolutamente così. Vuoi sapere cos’ho in mente?

Se si fosse comportato da serial-killer avrebbe potuto anche saperlo gestire, d’altronde aveva visto così tanti documentari su individui del genere – Izzy aveva sempre pensato che il fatto che trovasse interessante roba simile lo rendesse parecchio strano – ma se avesse voluto fare altro, qualcosa di normale amministrazione tipo… tipo cosa? Era così preso dall’ansia che non riusciva nemmeno a pensare ad un’ipotesi decente.

> From: Magnus, 07.54
Il tuo silenzio mi preoccupa…

Oh, andiamo! Perché doveva sempre fare la figura dell’imbranato? O di quello che ha sempre troppa paura di avere a che fare con le emozioni umane? Non che questa seconda opzione potesse trapelare ad occhi esterni, essendo troppo personale a differenza della prima, ma Alec lo sapeva. E non voleva più sentirsi triste, o insoddisfatto. Magnus aveva parlato di pazienza la sera prima, giusto? Quindi non aveva da temere nulla…

> To: Magnus, 07.57
Scusa… non volevo farti preoccupare. Dimmi a cosa hai pensato…
> From: Magnus, 07.57
Non scusarti. Pazienza, giusto?

Alec tornò a sorridere, sentendo il cuore leggero questa volta, circondato da una nuova sensazione di calore.

> To: Magnus, 07.57
Giusto… ma solo se anche per te va bene. Come ti ho detto, non voglio costringerti a fare niente.
> From: Magnus, 07.57
Nemmeno io voglio costringerti a fare niente, Alexander. E a me va bene, te l’ho già detto: aspettare non mi piace solo se non ne vale la pena. Ma per te è diverso…

Quanto avrebbe voluto essere diretto con Magnus come lo era lui. Avrebbe voluto dirgli tante cose: parlargli della sua totale inesperienza che aggiunta al tabù che esisteva in casa sua riguardo alla sua sessualità lo rendeva un miscuglio di insicurezze, tristezza, paura e insoddisfazione. Paura di non essere accettato, di essere deriso, avvilito. Ma erano cose troppo grandi da dire adesso, troppo potenti per poter essere comunicate tramite messaggio.


> To: Magnus, 07.59
Spero non rimarrai troppo deluso… lo spero davvero.
Comunque, perché non mi dici cos’avevi in mente?

> From: Magnus, 07.59
Vederci questa mattina. Non è un appuntamento. Solo due persone che fanno colazione insieme, ti va?

Se Magnus gli andava in contro rispettando i suoi tempi e non affrettando le cose, non vedeva perché anche lui non avrebbe dovuto fare lo stesso. Dopotutto, i rapporti si costruiscono in due. E lui lo voleva un rapporto con Magnus perché la tristezza, quando stava con lui, sciamava, sparendo quasi. I suoi problemi sembravano meno insormontabili, vicino a quel ragazzo. Perché privarsi di una cosa simile, dunque?

> To: Magnus, 08.00
Certo, mi andrebbe moltissimo.
> From: Magnus, 08.00
Perfetto, allora facciamo tra un’ora! Vado a prepararmi… altrimenti non farò mai in tempo. Ti riscrivo per metterci d’accordo sul posto.
> To: Magnus, 08.00
Va bene, a più tardi!
> From: Magnus, 08.01
Un’ultima cosa, Alexander…
> To: Magnus, 08.01
Cosa?
> From: Magnus, 08.01
Non potrei rimanere deluso da te nemmeno se volessi.

Ed eccolo lì che ritornava, il famoso sorriso da ebete. Alec cominciava già ad affezionarcisi alla sensazione euforica che gli dava sorridere in quel modo.
 
Rimase a fissare il display ancora per un po’, concentrandosi sull’ultimo messaggio mandato da Magnus. Lo leggeva e lo rileggeva e più lo faceva più il suo sorriso si allargava, il cuore accelerava e la sensazione di inadeguatezza spariva. Come poteva uno sconosciuto farlo sentire in questo modo? Si erano parlati per pochissimo e visti per un lasso di tempo minuscolo, eppure c’era qualcosa in Magnus che lo faceva sentire al sicuro. Probabilmente, era stato vittima di quel fenomeno romantico definito colpo di fulmine a cui non aveva mai creduto fino ad adesso.
Guardò l’ora: le 08.03. Era già in ritardo. Fortunatamente, sia sua madre che suo padre dovevano già essere allo studio, così non avrebbe dovuto inventarsi una scusa per uscire di casa.
Facendo attenzione a non svegliare Jace, si alzò uscendo discretamente dalla stanza, chiudendosi delicatamente la porta alle spalle. Lanciò un’occhiata alla camera di Max, la cui porta era ancora chiusa, segno che stava dormendo, e poi una a quella di Isabelle, chiusa anche quella.
La casa era immersa in un religioso silenzio. Alec rimase un attimo a godersi quel momento di assoluta solitudine e poi si diresse verso il bagno per farsi una doccia.

*

Isabelle si svegliò sentendo il rumore dell’acqua che scrosciava e qualcuno che fischiettava una canzone che lei non conosceva. Sembrava allegra e spensierata. Sorrise, contagiata da quel momento di gioia e rimase ancora in ascolto. Sentì l’acqua venire chiusa e la cabina della doccia aprirsi. Immaginò quel qualcuno allungare un braccio per afferrare il proprio accappatoio attaccato all’attaccapanni e avvolgercisi dentro, ricevendo la sensazione simile a quella del più caldo degli abbracci.
Si chiese quale dei suoi fratelli fosse, riflettendo su chi dei tre fischiettasse sotto la doccia: Max non ne era capace, Jace tendeva a fare concerti in stile Bohemian Rapsody dei Queen e Alec se ne stava zitto. Chi poteva essere, dunque?
Si alzò, presa da un’irrefrenabile curiosità e uscì dalla sua camera, scalza e con addosso il suo pigiama verde lime che adorava. Di soppiatto si diresse verso il bagno e trovando la porta chiusa si preparò per bussare.
“Iz?” le domandò Alec, trovandola con il pugno a mezz’aria. Suo fratello l’aveva preceduta.
“Alec?!” era perplessa. Alec non fischiettava mai sotto la doccia…
“Perché la cosa sembra sorprenderti?”
Suo fratello profumava di bagnoschiuma al muschio, i capelli erano ancora bagnati, sebbene sembrasse fossero stati passati con un asciugamano e tutto il suo corpo era avvolto nell’accappatoio.
“Perché tu non fischietti mai.” Si giustificò, come se quella motivazione fosse più che sufficiente a spiegare la sua quasi entrata in bagno.
“Non vuol dire che non mi piaccia farlo.”
“Perché ti sei fatto la doccia?”
Alec la guardò, le sopracciglia aggrottate e gli angoli della bocca contratti, “Perché altrimenti puzzerei? Iz, che ti prende?”
“Che prende a te. Non fischietti mai sotto la doccia e il sabato matt-” La ragazza si fermò, colta da un’improvvisa consapevolezza. I suoi occhi cominciarono a scintillare non appena il motivo dell’umore di suo fratello fu chiaro. La sua bocca si aprì in una O perfetta, prima che cominciasse a saltellare sul posto.
“MAGNUS!” squittì euforica, la chioma corvina che la circondava come una nuvola. “Ti ha chiesto di vedervi??”
Alec prese a grattarsi la nuca, mordendosi il labbro inferiore, “Può darsi…” confessò e Isabelle per un pelo non esplose.
“Ma è fantastico, Alec! Dove andate?”
“Non lo so, a fare colazione…”
“E cosa ti metterai?”
“Non lo so, Iz, improvviserò!”
“Non puoi improvvisare al primo appuntamento! È una regola base, Alec!”
Non è un primo appuntamento.”
Isabelle sorrise astuta, come se capisse molte più cose di quante ne riuscisse a capire Alec, vedendo qualcosa che a lui sfuggiva, “Certo, fratellone. Sicuro…”
Alec la superò con tutto l’intento di tornare in camera sua, “Siamo solo due persone che prendono un caffè insieme…” si giustificò poi, con la mano sulla maniglia della porta.
Isabelle scosse la testa e pronunciò in tono solenne: “Tu non sai niente, Alexander Lightwood.”
“Dovrei cogliere un significato in questa frase?”
“Solo se guardi Game of Thrones.”
Alec alzò gli occhi al cielo: “Passare troppo tempo con Simon ti fa male, Iz.”
Isabelle gli fece una linguaccia e rientrò in camera sua. Alec fece lo stesso.

*

Il luogo dell’incontro – perché nonostante quello che dicesse Iz non era un appuntamento – era una piccola pasticceria che Alec aveva sempre avuto sotto gli occhi, ma nella quale non era mai entrato. Magnus lo stava aspettando sul marciapiede, le mani infilate dentro alle tasche di un paio di pantaloni grigi abbinati ad una camicia blu costellata di brillantini celesti. Mentre si avvicinava, con gli occhi fissi a studiare la figura di Magnus, Alec si chiese se Izzy non avesse ragione: improvvisare non andava mai bene. Magnus faceva attenzione ai dettagli, era sempre impeccabile e i suoi vestiti erano di ottima qualità. Evidentemente, Magnus dava molta importanza a cose del genere, alla moda. Cosa avrebbe detto del suo maglione nero e sformato e dei suoi semplicissimi jeans?
Avrebbe dovuto chiedere consiglio ad Isabelle. Sicuramente lei gli avrebbe impedito di vestirsi in quel modo. Colto dal suo solito senso di inadeguatezza, si passò i palmi sudati sui pantaloni, tentando di esorcizzare almeno un po’ il nervosismo, mentre si avvicinava sempre di più a Magnus.
Non era un appuntamento.
Non. Era. Un. Appuntamento.
Non…
“Ciao, Alexander.”
…era in grado di pensare razionalmente. Non si sarebbe mai abituato alla bellezza di Magnus, o dei suoi occhi, che truccati erano ancora più belli – non che l’avesse mai visto senza trucco, ma da quello che aveva sempre sentito dire da Isabelle, se qualcosa è già bello di per sé il trucco aiuta solo a valorizzare tale bellezza – così come non si sarebbe mai abituato al brivido lungo la schiena ogni volta che Magnus lo chiamava con il suo nome per intero.
“Ciao, Magnus.” Esalò, una volta ripreso fiato.
Il ragazzo gli sorrise e Alec sentì il cuore scalciare. Doveva proprio avere l’espressione più intelligente del mondo, sul viso. Non certo quella di uno che è appena stato ipnotizzato.
Ma chi voleva prendere in giro? Agli occhi esterni sarà sicuramente risultato un imbranato, imbambolato da una bellezza di cui il mondo, Alec ne era sicuro, non era degno.
“Vogliamo entrare?”
“Certo,” rinsavì, cercando di imporsi una certa compostezza.
Magnus si avviò alla porta, che tenne aperta facendogli cenno di entrare per primo. Quanta cavalleria. Alec sentì le guance andare in fiamme. Si guardò intorno: il posto era carino, semplice e profumava di zucchero. Alec sentì lo stomaco borbottare mentre continuava la sua ispezione, notando i muri gialli, dove le ricette per preparare i dolci più strani provenienti da paesi diversi erano state scritte con la vernice nera; il suo sguardo scese ai tavolini di vetro, circondati da sedie in ferro battuto.
“Ti piace?” domandò Magnus al suo fianco.
“Sì, è molto carino… è la prima volta che lo vedo all’interno.”
“Sono felice che tu l’abbia visto con me, allora. Significa che ogni volta che lo guarderai dalla strada o tornerai a bere un caffè, penserai a me.”
Come se avessi bisogno di una caffetteria per pensare a te, rifletté Alec.
“Posso fare questo sforzo,” disse invece, guardandolo di lato, con un angolo della bocca alzato, aspettando una reazione a quella piccola provocazione.
“Farò finta di non aver sentito. O altrimenti dovrò trovare un modo per farti perdonare anche di questa scempiaggine.”
Scempiaggine?”
Magnus aggrottò le sue curatissime sopracciglia: “Che hai contro la parola scempiaggine?”
“Che non viene più usata da circa trent’anni?”
Il ragazzo orientale gli lanciò un’occhiataccia: “Taci, pasticcino. O mi costringerai a chiuderti quella bocca perfetta con un bacio.”
Alec arrossì, deglutendo a vuoto, la gola secca e le gambe che improvvisamente sembravano inadatte a reggere il suo peso.
“Sediamoci, là c’è un tavolo libero!” disse leggero Magnus, come se non avesse appena tentato di distruggere la sanità mentale di Alec, il quale lo seguì senza opporre alcuna resistenza.
Perché avrebbe dovuto resistergli, dopotutto?





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Ciao a tutti e ben ritrovati! :D 
Allora come prima cosa ringrazio chiunque abbia messo la storia tra i seguiti/preferiti perché siete molti più di quanto mi aspettassi e non sapete quanto sono felice! Ringrazio anche chiunque spenda tempo per recensire perché davvero ogni volta che leggo le vostre recensioni mi si apre un sorriso sulle labbra! Non sapete quanto sono contenta di leggere i vostri commenti positivi (e i vostri scleri, perché mi fanno sentire meno sola! Scleriamo tutti insieme per i Malec <3). 
Venendo al capitolo... cosa ne pensate? 
Ho voluto inserire un piccolo incontro tra i due senza che venisse vissuto come un appuntamento per non mandare in ansia Alec, che comunque ha fatto dei progressi, ma la serata cinema è già stata scritta nel capitolo 4, che ho quasi finito di scrivere. A questo proposito, volevo proporre una cosa, se vi va. Non l'ho mai fatto prima, ma vorrei provare: sentire qualche vostra idea su dei possibili incontri tra Alec e Magnus da inserire nella storia qua e là. Giusto per avere qualche idea in più da integrare a quelle che mi frullano già nella testa. Questo, ovviamente, solo se volete, non voglio obbligare nessuno! XD 
Vi ringrazio ancora per aver deciso di dedicare il vostro tempo a questa storia, alla prossima! Un abbraccio <3 

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Capitolo 4
*** 4. ***


Alec conosceva delle cose di Magnus, grazie a quella mattina passata insieme. Primo: gli piaceva il cappuccino con tanta schiuma, tanto zucchero e una spolverata di cannella.
Secondo: adorava partecipare alle feste, ma solo a quelle organizzate da se stesso perché, riteneva, non aveva ancora incontrato qualcuno in grado di eguagliare la capacità organizzativa di Magnus Bane. E in questo modo Alec aveva anche scoperto come facesse di cognome. Non che volesse usare questa nuova informazione per cominciare a sbirciare i suoi social… o forse sì. Magari solo un’occhiatina qua e là…
Terzo: gli piaceva la moda, ma adorava creare uno stile tutto suo, evitando di seguire le regole perché, diceva, se le avesse seguite sarebbe stato una specie di manichino vivente uguale a tutti i ragazzi che si vedevano in giro e lui, invece, voleva distinguersi. Per come la vedeva Alec, Magnus si sarebbe distinto anche se avesse indossato un sacco della spazzatura usato. Quarto: gli piaceva la fotografia. Aveva persino lavorato come aiutante fotografo un’estate, finendo per avere un flirt con la figlia del suo mentore. Da qui, Alec aveva scoperto che a Magnus piacevano anche le ragazze.
‘Mi considero un bisessuale disinvolto.’
‘Ti prego, non usare mai questa definizione davanti ai miei genitori.’

Ma Alec si era pentito immediatamente di avergli risposto in quel modo, perché ebbe l’impressione di dare a quell’incontro un aspetto troppo serio, temendo in questo modo che Magnus avrebbe potuto sentirsi soffocare. Avevano parlato di pazienza, di non correre troppo e lui se ne usciva con una frase del genere. Poteva essere più idiota?
Ma Magnus aveva sorriso, calmo, mescolando lo zucchero nel suo cappuccino con un elegante movimento del cucchiaino.
‘Hai intenzione di presentarmi i tuoi, pasticcino?’
Alec aveva sentito le guance diventare rosse, ‘No, certo che no… non subito,’  e poi si era reso conto che stava solo peggiorando la situazione, dando per scontato che tra di loro sarebbe nato sicuramente qualcosa, quando in realtà non stavano avendo nemmeno un vero appuntamento, ‘Non che io intenda che devi conoscerli per forza, dobbiamo vedere come va e tutto il rest-’
‘Alexander, per l’amor del cielo, rilassati.’
Magnus aveva allungato una mano sul tavolo e l’aveva appoggiata alla sua. Il primo istinto di Alec fu quello di ritirarla per paura di essere visto, ma quando il calore della pelle di Magnus raggiunse la propria, il moro si trovò a non opporre resistenza. Gli piaceva quella sensazione di benessere addosso, gli piaceva vedere il contrasto delle loro pelli: scuro e chiaro che si mischiavano andando a formare un equilibrio perfetto, rassicurante. Perché avrebbe dovuto ritirare la mano, quando intrecciare le dita a quelle anellate di Magnus era l’unica cosa che voleva fare in quel momento? E lo fece. La sua mano scivolò delicatamente all’indietro solo per poter fare in modo che le proprie dita toccassero quelle di Magnus e poi le aprì sovrastando quelle del ragazzo di fronte a lui per andare a riempire i vuoti tra le sue dita. Magnus ricambiò con una stretta ferrea, dando ad Alec l’impressione di non volerlo lasciare andare per nessun motivo al mondo. ‘Ho capito benissimo cosa intendevi. Stavo solo scherzando, d’accordo?’
Alec aveva annuito e avevano continuato a parlare tenendo le mani intrecciate in quel modo, incuranti delle persone intorno a loro, di cosa potessero o non potessero pensare.
Alec in quella mattinata, che a detta sua era passata fin troppo in fretta, aveva costruito un legame con qualcuno e si era stupito di quanto gli fosse venuto facile farlo. Con Magnus sembrava tutto più bello, tutto meno spaventoso.
“Terra chiama Alec. Ci sei, fratellone?”
“Cosa?”
Isabelle alzò gli occhi al cielo, “Si può sapere dove hai la testa?”
In caffetteria.
“Da nessuna parte.”
“Certo, e io sono la fata turchina.” Isabelle gli lanciò un’occhiata laterale, cercando di incatenare i suoi occhi antracite a quelli verdi del fratello. Li aveva sempre trovati confortanti, gli occhi di Alec. Un porto sicuro, un luogo in cui rifugiarsi quando il mondo sembrava intenzionato a farle troppo del male. Ci traeva una forza infinita, Isabelle, dalle iridi di suo fratello, che le aveva sempre dato l’impressione di essere un gigante dall’indistruttibile armatura, pronto a difendere chiunque amasse da qualsiasi pericolo.
Era da lui che correva da bambina quando faceva i brutti sogni, mai dai suoi genitori. La piccola Isabelle di cinque anni era solita sognare un mostro dai denti aguzzi e occhi rossi che voleva mangiarla e di corsa si precipitava fuori dalla sua stanza per andare a rannicchiarsi sotto le lenzuola di Alec, che mai una volta si era lamentato di essere svegliato nel cuore della notte, e la stringeva a sé, dicendole che non doveva avere nulla di cui avere paura perché erano insieme e in due erano più forti di uno solo. Moltissime volte era capitato che anche Jace si aggiungesse a loro, finendo per addormentarsi tutti e tre nel solito letto, che era troppo piccolo per ospitarli tutti, ma a nessuno importava: erano insieme, più forti di qualsiasi cosa. Indistruttibili. Loro tre contro il mondo.
“Potresti smettere di fissarmi in quel modo, Iz?”
Isabelle si estraniò dai suoi pensieri, sorridendo. “Solo se mi dici a cosa stavi pensando.”
Alec sbuffò dal naso, “Alla mattinata con Magnus,” sussurrò, continuando a camminare per il centro commerciale in cui Isabelle l’aveva trascinato per fare shopping. Tutto d’un tratto invidiava Jace rimasto a casa a badare a Max per via dell’assenza dei genitori, ancora a lavorare.
“Oh, Alec!” Isabelle gli sorrise radiosa. Era così bello per lei sapere che suo fratello avesse finalmente provato ad aprirsi con qualcuno, a concedersi uno spicchio di felicità. Secondo Izzy, Alec si meritava un intero sistema solare di felicità e forse con Magnus l’avrebbe trovata. “È così bello!”
“Lo so. I miei occhi funzionano benissimo.” Alec lanciò uno sguardo alla vetrina di scarpe da donna che stavano costeggiando, convinto al cento per cento che Isabelle avrebbe voluto entrare nel negozio e infatti… lo acchiappò per un gomito, stringendo la presa come se ne andasse della sua vita e lo costrinse a incrociare i loro sguardi. Sua sorella aveva un’espressione strana stampata sul viso, diversa dalla solita folle euforia che le dava lo shopping compulsivo di scarpe con un tacco così alto da essere reputato un’arma impropria. Isabelle sembrava… stupita.
Alec aggrottò le sopracciglia e piegò la testa di lato, “Cosa c’è, Iz?”
“L’hai apprezzato ad alta voce.”
“Ho sempre apprezzato chiunque davanti a te, Izzy. Se non te ne fossi accorta, prima di coinvolgere Jace qualche sera fa, eri l’unica con cui parlavo.”
“Lo so,” Iz scosse la testa e i capelli ondularono, “Solo che l’hai fatto con naturalezza, senza paura.”
Alec rifletté su quelle parole realizzando che sua sorella aveva ragione: gli era uscito senza pensarci, senza riflettere troppo, senza preoccuparsi di nulla se non di dire ciò che sentiva nel cuore.
“Hai ragione…”
Isabelle lo abbracciò stretto, stretto. “Comunque, mi riferivo al fatto che fosse bello che pensi a lui.”
“Oh,” Alec fece scivolare le braccia dalla schiena della sorella per portarle lungo i propri fianchi. Isabelle si staccò per guardarlo in viso, un sorriso astuto sul volto. “Ho capito male, e allora?” continuò il maggiore, “Magnus rimane bello, che tu ce l’avessi con lui o meno!”
Isabelle gli pizzicò un fianco e poi lo affiancò di nuovo, prendendolo sotto braccio. Si incamminò, oltrepassando il negozio di scarpe e quando Alec fece per chiedere spiegazioni lei lo zittì in partenza: “Penseremo a te, oggi, mio caro. Stasera hai un mezzo appuntamento e voglio vedere Magnus rimanere senza parole.”
“Non credo sia possibile.”
“Non dubitare delle mie capacità, potrei offendermi.”

*

Magnus camminava avanti e indietro per il salone di casa sua, lanciando occhiate nervose all’orologio che teneva al polso. Sarebbero arrivati a minuti. Sarebbe arrivato a minuti e sentiva le mani sudate, accompagnate da un principio di ansia che gli attanagliava lo stomaco. Perché tanta insicurezza, poi? Si erano già visti quella mattina e avevano passato delle ore splendide insieme. Alexander era speciale, gli accendeva un fuoco dentro, alimentato dalla voglia di scoprire giorno dopo giorno come fosse quel ragazzo i cui occhi l’avevano stregato non appena aveva tolto le mani dal viso, quella volta in cui aveva seriamente temuto di aver rovinato una tale opera d’arte. Erano luminosi, due fanali verdi in grado di illuminare l’oscurità che viveva nel cuore di Magnus Bane, decisamente troppo giovane per aver vissuto tutte le cose che aveva passato. Diciott’anni e così tanti demoni dentro di sé, demoni che avevano imparato a nuotare, nonostante lui avesse provato plurime volte a farli annegare, la maggior parte di esse nell’alcol.
Sospirò, passandosi una mano sul viso. Lanciò ancora un’occhiata all’orologio: il quadrante segnava le 20.53. Ancora qualche minuto e l’avrebbe rivisto. Avrebbe potuto di nuovo sentire il suo profumo che gli riempiva le narici, il suono della sua risata sommessa che andava a solleticargli le orecchie, facendogli venire voglia di non fare altro nella vita, se non cercare di far ridere Alexander per sentire come sarebbe stata, quella risata, se non fosse stata controllata. Ripensò al modo in cui incurvava la testa di lato quando ascoltava con attenzione, al fatto che avesse cominciato a giochicchiare con uno dei suoi anelli quando tenevano le mani incrociate, come se fosse un’abitudine che perdurava nel tempo e non qualcosa di nuovo. C’era sintonia tra di loro e Magnus si rese conto che, anche se avesse dovuto aspettare trecento anni, l’avrebbe fatto con gioia se questo significava avere Alexander tutto per sé.
‘Dimmi qualcosa che non so…’
Alec si era sistemato meglio sulla sedia, gli occhi fissi sulle loro dita intrecciate. Si era umettato le labbra prima di parlare e Magnus si era chiesto che sapore avessero, se fossero tanto buone quanto belle.
‘Ad esempio?’
‘La prima cosa che ti viene in mente.’

Alec aveva usato l’indice della mano libera per picchiettarsi il mento, ‘Vediamo…’  Magnus si era concesso un lungo attimo di contemplazione, mentre lo osservava pensare e arricciava il labbro superiore sotto al naso. Era così bello che dubitava fosse reale. ‘Oh, sì!’ aveva continuato il moro, ‘Tiro con l’arco da quando avevo sette anni.’
‘Pensavo lo facessi con la scuola…’
Magnus aveva cominciato ad accarezzare il dorso della mano di Alec che teneva stretta alla sua con il pollice, disegnando cerchi concentrici.
‘No… è stata un’idea di mia madre. Poi mi sono appassionato anche io. È un momento tutto mio, siamo io e il mio arco e l’ignoto.’
‘L’ignoto?’

Alec aveva annuito, la sua voce carica di entusiasmo che andava a gonfiare il cuore di Magnus, ‘Sì. Non sai mai come andrà a finire. Centrerò il bersaglio? Non lo centrerò? E quando colpisco nel segno sento un’onda di soddisfazione, dentro.’  
Magnus ne voleva di più. Voleva ancora vedere l’euforia attraversare i tratti di Alec, voleva ancora sentire la sua voce, toccare le sue mani, posare i propri occhi sui suoi lineamenti, studiare ogni parte del suo corpo. Voleva conoscere quel ragazzo meglio di chiunque altro, voleva che si appartenessero. Lo sentiva dentro che avrebbero potuto appartenersi. Addirittura amarsi.
‘La prima volta che ho vinto un torneo mi hanno anche fatto un regalo. Forse per spronarmi a continuare, non lo so… i miei non sono tipi da regali senza motivo…’ Magnus l’aveva visto infilarsi la mano dentro allo scollo del maglione – e Dio solo sa quanto l’aveva invidiata, quella mano – ed estrarre una lunga catenella d’argento, appesa alla quale stava una piccola freccia dello stesso materiale. Era bella, semplice, proprio come Alexander.
‘Non l’ho più tolta da quando avevo nove anni.’
Magnus aveva sorriso perdendosi nel verde delle iridi del ragazzo che gli stava di fronte, così genuino da far sembrare il mondo indegno della sua presenza. Parlava con semplicità, mostrandosi per ciò che era, non costruiva facciate per farsi accettare, semplicemente offriva se stesso.
‘È bellissima, Alexander.’
L’aveva visto sorridere e poi sporgersi sul tavolo, una mano ancora intrecciata alla propria e l’altra a sorreggere il mento.
‘Tocca a te, adesso. Dimmi qualcosa che non so.’
Il campanello lo destò dai suoi pensieri. Guardò l’ora: le 21.00 precise. Sorrise preparandosi a rivederlo di nuovo. Si sistemò la camicia di seta porpora che indossava, lisciandola nonostante non ce ne fosse bisogno, si assicurò che i suoi pantaloni dorati fossero  impeccabili – e, ovviamente, lo erano – e si incamminò verso la porta.
Quando l’aprì, percepì il suo cuore battere così forte che ebbe l’impressione di sentirlo uscire dalla cassa toracica. Ecco lì, Alexander Lightwood, la cosa più simile ad una divinità che avessero in Terra.
Non si era reso conto di trattenere il respiro fino a quando non realizzò che non l’aveva ancora salutato, troppo concentrato a studiare il modo in cui i capelli gli si arricciavano sulle punte.
“Ciao,” lo salutò il moro, alzando un singolo angolo della bocca, regalandogli quel mezzo sorriso che lo faceva andare fuori di testa.
“Ciao a te, splendore.” Si concesse tutto il tempo che reputava necessario per studiarlo bene: il modo in cui la camicia a quadri neri e verde scuro che indossava gli aderiva perfettamente sulle spalle, scendendo a fasciare i muscoli delle braccia così definiti da sembrare scolpiti da Michelangelo in persona. Osservò con attenzione il modo in cui il tessuto aderiva alla vita, evidenziando i fianchi stretti e, che Dio lo aiuti, quei pantaloni erano indecenti. Sembrava gridassero: strappaci, Magnus! Strappaci e lanciaci da qualche parte!
Il tessuto dei jeans neri aderiva alle cosce toniche di Alec come una seconda pelle, lasciando poco all’immaginazione. Ah, Madre Natura era stata molto, molto generosa.
“Prego, pasticcino, accomodati.”
E quando Alec entrò, Magnus lo seguì con lo sguardo, lanciando un’occhiata anche alla sua schiena, scendendo fino ad osservare un sedere così sodo che se avesse deciso di lanciarci una monetina sarebbe rimbalzata senza problemi.
Che ogni divinità gli vada in aiuto e gli dia la forza di contenersi perché i suoi ormoni avevano cominciato a perdere il controllo. Ogni parte del suo cervello gli urlava di chiudere fuori il resto del gruppo, saltare addosso a quel semidio che adesso si trovava nel suo salotto e di denudarlo di ogni cosa superflua, tipo i suoi vestiti. E le mutande.
“Vuoi un fazzoletto per la bava?”
Era stato Jace e rompere il suo idillio. Maledetto.
“Quanta sagacia. Per nulla banale, il tuo sarcasmo.”
Jace entrò senza che nessuno gli desse il permesso di farlo, “Ti rode solo che abbia ragione.”
Magnus lo liquidò sventolando stizzito una mano, prima di rivolgersi al resto del gruppo rimasto ancora sulla soglia.
“Avanti, entrate!”
Simon, Clary e Isabelle entrarono. Quest’ultima lanciò un’occhiata soddisfatta al maggiore dei suoi fratelli mimando un te l’avevo detto con le labbra e Alec si trovò a pensare che Isabelle Lightwood era riuscita a compiere l’impossibile: lasciare Magnus Bane senza parole.

*

La sala di Magnus era veramente enorme, realizzò Alec. I mobili erano disposti in modo che lo spazio venisse occupato intelligentemente, permettendo di stare comodamente seduti sul pavimento coperto di cuscini così grossi da assomigliare a dei veri e propri pouf. Il gruppetto, infatti, era sistemato tra il divano e un tavolino da caffè in marmo. Ognuno di loro aveva occupato uno dei cuscini sistemati da Magnus, rivolti verso una televisione spenta, in attesa che il film venisse scelto. Il problema era che, nonostante Magnus avesse una scelta di DVD così ampia da far invidia ad una videoteca, non si trovavano d’accordo su niente.
“Die Hard!” esclamò Jace, “Guardiamo questo!”
“No. Mi hai costretta a vederlo così tante volte che ho il vomito!” protestò Isabelle.
“Transformers, allora!” intervenne Simon, ma Clary roterò gli occhi, nauseata.
“Mi oppongo. Per lo stesso motivo per cui Iz si oppone a Die Hard!”
“Se proponete un film inguardabile tipo Le pagine della nostra vita giuro che mi ammazzo!” brontolò Jace, indicando con gli indici sua sorella e la sua ragazza.
Entrambe alzarono gli occhi al cielo come se Jace avesse detto un’assurdità. “Solo perché siamo femmine non vuol dire che dobbiamo guardare film simili, Jace.” Lo rimbeccò Clary.
“Scusate!” disse lui sarcastico, sventolando le mani, “Non pensavo foste così permalose!”
“Vuoi davvero che ci uccidano, amico?” intervenne Simon, che sembrava aver capito quanto potesse essere inconveniente mettersi contro due come Iz e Clary, dolci e carine finché un qualche stolto non le provocava.
“Volete scegliere qualcosa, per favore?” li supplicò Alec, fino a quel momento rimasto in silenzio, seduto sul suo pouf.
“Scegli tu, Alexander.” propose Magnus, al suo fianco.
“NO!” esclamarono allarmati Jace e Isabelle in coro, così Alec li guardò, aggrottando le sopracciglia in attesa di spiegazioni.
“Non fare quella faccia!” cominciò Jace.
“Infatti… io ti adoro, Alec, ma scegli sempre film lunghissimi.” Concluse Iz.
“Ma sono belli!” si giustificò il maggiore, “Scorsese non ne sbaglia una!”
“Ne sono certa, fratello, ma è così difficile arrivare alla fine!”
Alec incrociò le braccia al petto, affondando maggiormente nel suo pouf: “Allora guardati Die Hard per la tremillesima volta!”
“Sì!” gioì Jace, ma il suo entusiasmo fu smorzato sul nascere dalla proposta di Clary, che dal mucchio di DVD sparsi sul pavimento, estrasse Wolverine.
“Che ne dite di questo?”
“Oh si!” esclamò Simon.
“Ovvio che ti piacesse. Potresti essere meno nerd, Lewis?”
“E tu potresti essere meno irritante, Lightwood?”
Jace gli fece una boccaccia a cui Simon rispose alzando il dito medio. Isabelle, intanto, aveva cominciato a studiare la copertina del DVD per leggere la trama sul retro. Da quando usciva con Simon era diventata quasi un’esperta di fumetti e adattamenti cinematografici.
“A me va bene,” concluse con un’alzata di spalle.
“Anche a me,” aggiunse Alec.
“Permettetemi di dire che è stato peggio di un parto trigemellare podalico!” Magnus si alzò dal suo pouf per andare a mettere il DVD nel lettore. Alec lo osservò premere il pulsante per far uscire lo sportellino, come se l’oggetto volesse fare una metallica linguaccia al suo proprietario, e inserire il disco. Si stava perdendo nella contemplazione della sua schiena e del modo in cui la camicia scivolava perfettamente sui suoi dorsali, evidenziandoli quel tanto che bastava per fargli intuire che fossero piuttosto definiti, quando Isabelle parlò.
“Ho un annuncio da fare!”
Controvoglia, quindi, Alec portò l’attenzione su sua sorella, che si stava sistemando il suo aderentissimo vestito blu elettrico. Il ragazzo, mentre la osservava tirare l’orlo quel tanto che bastava per non farlo alzare troppo mentre accavallava le gambe, si chiese come riuscisse a respirare correttamente strizzata in un abitino così stretto da far invidia ai corsetti ottocenteschi. Simon, invece, sembrava assai felice della scelta di Iz, dal momento che stava indugiando sulle gambe nude della ragazza, facendo risalire lo sguardo fino a che i loro occhi non si incrociarono. Evidentemente, Isabelle apprezzò parecchio quello studio approfondito del suo corpo perché Alec la vide sorridere a Simon, attorcigliandosi una ciocca corvina intorno all’indice.
“Ti sei resa conto che Simon è un idiota e vuoi mollarlo?”
Isabelle, che era intenta a scambiarsi occhiate intenerite con Simon, si voltò verso suo fratello cambiando totalmente espressione. Iz era capace di passare dalla dolcezza alla furia omicida in 0.2 secondi.
“L’unico idiota qui se tu, Jace.”
Il biondo gonfiò le guance e si accasciò sul suo pouf, “Sei cattiva, Izzy.”
“Non è vero. Sono meravigliosa, e lo sai.” Concluse lei, spostandosi i capelli di lato. “Comunque, ciò che volevo dire era… rullo di tamburi…” e Simon lo mimò sulle proprie ginocchia, “…io e Clary abbiamo deciso di entrare nella squadra femminile di lotta!”
“La nostra scuola ha una squadra femminile di lotta?”
“Sì, da quest’anno!”
“Ti prego, promettetemi che mi farete assistere ai vostri allenamenti!”
“Ehi!” rinsavì Alec, colto all’improvviso dal significato di quel commento, “È di mia sorella che stai parlando!”
“Già. E della mia ragazza!” si aggiunse Jace, guardando di traverso il povero Simon, che nel mentre aveva incassato la testa tra le spalle. “Però,” continuò il biondo, questa volta rivolto a Clary, “Se ti alleni con un’altra ragazza – perché Iz è mia sorella e sarebbe parecchio strano – ti prego chiamami. Meglio ancora: se cominciate a rotolarvi per terra, avvinghiate una all’altra, potrei aggiungermi.”
“Certo, Jace. Solo se prima vi rotolate tu e Alec e io posso fare lo stesso! Sai, Alec non è mio fratello, quindi non avrei nessun tipo di problema.” La rossa gli rivolse un sorriso scaltro, gli angoli della bocca che arrivavano a toccare le tempie. Jace la guardò strabuzzando gli occhi, non aspettandosi una risposta del genere, mentre Alec arrossì fino all’attaccatura dei capelli.
“Non fare quella faccia, mica sei l’unico che può fantasticare su cose del genere!” gli fece l’occhiolino e la mascella di Jace, per poco, non cadde sul pavimento.
“Sono confuso…”
Clary alzò gli occhi al cielo, “No, hai capito benissimo. Sei solo scioccato dal fatto che una ragazza abbia parlato come un ragazzo, pensando che a noi certe cose non siano permesse. Quando invece abbiamo tutto il diritto di pensare le stesse cose che pensate voi ragazzi!”
Jace rimase a fissarla in silenzio per qualche istante, la bocca aperta e le sopracciglia schizzate in alto, poi si buttò su di lei, afferrandole il viso tra le mani, per baciarla.
“Dove sei stata fino ad ora, donna?” le disse, prima di baciarla di nuovo, mentre Clary rideva, divertita da quella reazione. “Sono serio. Sei tipo la mia anima gemella, Fairchild.”
“Non fare il ruffiano, adesso.”
Ma Jace aveva abbandonato l’ilarità del momento e la stava guardando con la solita intensità che le riservava ogni volta che erano da soli, facendole sentire le ginocchia molli e la bocca dello stomaco attorcigliarsi su se stessa. Il tocco caldo delle sue mani sul proprio viso, la sua bocca così vicina alla sua tanto da sentire il suo respiro sulle guance, gli occhi del colore del mare, macchiati da una striscia di sabbia calda. Le faceva mancare il respiro semplicemente guardandola in quel modo.
“La mia anima gemella.” Le ripeté, la voce roca e tremendamente seria. E solo in quel momento Clary si ricordò che non erano soli, ma che, come spesso le succedeva quando era con Jace, erano finiti nella loro bolla speciale, dove esistevano solo loro due e i loro sentimenti, così si allontanò da lui un poco – gesto che le risultò più difficile del previsto, dal momento che Jace la faceva sentire come una calamita lasciata in balia di una superficie metallica, che per natura si sente attratta da essa non riuscendo a sfuggire in alcun modo al suo destino – lasciandogli un bacio leggero e fuggitivo sulle labbra.
“Bene,” Magnus ruppe il silenzio con un battito secco di mani, “È giunto il momento dei popcorn. Alexander, mi accompagneresti in cucina?”
Alec si alzò, “Certo.”

*

Alec seguì Magnus in cucina, uscendo dal salone per imboccarsi in un ampio corridoio a cui lati erano appesi delle fotografie che ritraevano paesaggi, probabilmente scattate da Magnus. Il parquet sotto i piedi di Alec faceva risuonare la suola delle sue scarpe come se stesse calpestando delle rane gracidanti. Magnus prese la prima porta a destra e Alec lo imitò. La cucina era ampia e spaziosa. Un’isola d’acciaio regnava in quella stanza come una regina smorfiosa, mentre dietro di essa stavano il frigo e il piano cottura, sopra al quale si trovava una dispensa a sei ante. Magnus ne aprì una per estrarre dei sacchettini di mais.
“Posso fare qualcosa?” gli domandò dunque Alec, desideroso di rendersi utile.
“Per cominciare, potresti smetterla di starmi così lontano,” Magnus si voltò verso Alec, che era rimasto vicino all’entrata, e gli sorrise, arricciando un indice su se stesso in un chiaro invito ad avvicinarsi. Alec non se lo fece ripetere e in due falcate lo raggiunse. Erano di nuovo vicini, in quella maniera pericolosa che aveva portato Magnus a baciarlo sulla guancia, la mattina prima. Da quella distanza, Alec riusciva a studiare i dettagli di quel viso bellissimo senza doversi sforzare troppo: la pelle color cannella di Magnus, le sue ciglia folte e lunghe – prive di mascara, quella sera – il colore ambrato delle sue iridi, costellate da pagliuzze giallognole, simili al grano, o all’oro; la linea dritta del naso e la curva sinuosa della bocca, il labbro superiore più fine di quello inferiore, che aveva tutta l’aria di essere terribilmente morbido. Chissà che sapore aveva, la bocca di Magnus…
“Continua a fissarmi in quel modo, pasticcino, e potrei non avere più il controllo sulle mie azioni.”
Alec si schiarì la gola, un principio di rossore a colorargli le guance, ma non si spostò. Cosa sarebbe successo se fosse arrivato fino alla fine? Se avesse spinto Magnus a perdere il controllo, come aveva detto? Cosa sarebbe successo se per caso le proprie mani si fossero appoggiate sul suo petto, risalendo lentamente fino ad allacciarsi dietro la nuca di Magnus? Poteva provare, no? Le sue mani si mossero, inizialmente mal ferme, ma man mano che salivano acquistavano sempre più sicurezza.
“Alexander…” disse il più grande, la voce ridotta ad un ringhio gutturale. Quando deglutì, Alec seguì il movimento del pomo d’Adamo, provando l’impulso di posarci sopra le labbra. Ma questa volta, resistette, reputandolo un gesto fin troppo audace.
“Sei stato tu a dire di volermi più vicino…” soffiò, i loro nasi così vicini che le punte si sfioravano, i loro respiri accelerati scandivano il ritmo di due cuori che stavano scalpitando furiosi.  Alec si avvicinò ancora di più come se volesse marcare ulteriormente il concetto, facendo aderire il proprio corpo a quello di Magnus. Era terrorizzato a morte: non sapeva se quello era il modo giusto di approcciarsi, di comportarsi, ma non aveva tempo di ascoltare la sua ragione, non aveva voglia di prestare attenzione a quella parte di sé che gli aveva sempre impedito di lasciarsi andare per paura di essere respinto o di non essere all’altezza della situazione, perché in qualche modo ci si sentiva: si sentiva padrone della situazione, capace di gestirla senza enormi difficoltà, se non quelle dettate dalla sua mancanza di esperienza, ma che, si stava rendendo conto, venivano attutite dall’istinto. Quell’istinto primordiale che gli faceva desiderare la vicinanza di Magnus, nello stesso identico modo in cui un uomo che rischia di affogare tenta di cercare ossigeno, e guidava le sue mani, il suo corpo.
“Direi che adesso non mi posso più lamentare.”
Alec si lasciò andare ad una risata, liberando anche un po’ della tensione che gli scorreva dentro.
“Toccami,” gli disse e Magnus si lasciò andare ad un respiro strozzato, la sua pelle cominciò a bruciare, complici, oltre all’inesistente distanza tra lui ed Alec, tutte le immagini che quella frase aveva fatto balenare nel suo cervello.
“Può risultare una richiesta piuttosto ambigua, pasticcino.”
Alec roteò gli occhi al cielo, anche se le sue guance si colorarono un poco, “Intendevo,” gli allacciò una delle mani ai capelli alla base della nuca, “Che voglio sentire le tue mani su di me.”
Magnus appoggiò la propria fronte alla sua, “Ancora, può essere interpretata in vari modi.”
“Non pensi ad altro?”
“Hai idea di cosa sei, Alexander? Hai praticamente spalmato il tuo corpo da adone greco su di me, è ovvio che io non riesca a pensare ad altro!”
“Ma,” continuò Alec, con una sicurezza che non credeva di possedere, “nonostante questo, le tue mani sono ancora lungo i tuoi fianchi. Devo pensare che le tue parole siano destinate al vento, Magnus?”
Questo era giocare con il fuoco. Anzi, era come gettare benzina su un incendio nel bel mezzo della foresta amazzonica. Quanta impertinenza sfacciata nascondeva quell’innocente faccino angelico? E quanto stava perdendo la testa, Magnus, per questo ragazzo? Ma, soprattutto, perché i suoi pantaloni cominciavano a diventare scomodi? Pff, questa era una domanda a cui sapeva rispondere con chiarezza e senza alcuna difficoltà, a differenza delle precedenti due. Che nessuno dica che Magnus Bane non sia in grado di cogliere le occasioni!
Infatti, il maggiore appoggiò le proprie mani sui fianchi di Alec, risalendo piano per tutto il suo costato, spostandosi poi sulla schiena dove salì con una lentezza controllata. E più Magnus saliva, più il respiro di Alec accelerava e i suoi occhi saettavano impazienti. Fu solo quando Alec, con lo sguardo fisso sulla sua bocca, si umettò le proprie labbra, che Magnus reagì: lo tirò a se con urgenza, perché sentirlo addosso era una delle cose che gli piaceva di più – cosa che aveva appurato nel giro degli ultimi dieci minuti – e fece incontrare le loro labbra. Sentì il sospiro sorpreso di Alec e sorrise sulla sua bocca, prima di schiudere la propria e guidare il moro affinché facesse lo stesso, inserendo la lingua tra i denti di quest’ultimo. Alec reagì immediatamente, con la curiosità e l’inesperienza di chi non ha mai baciato nessuno, lasciandosi guidare dai movimenti più esperti di Magnus, che stava esplorando la bocca del più piccolo con un’urgenza controllata, come se accelerando quel semplice gesto avesse rischiato di prendere fuoco. Non voleva bruciare subito, voleva farlo lentamente e, possibilmente, sulla bocca di Alec, che sapeva di menta e limone. E sì, a quanto pareva le sue labbra erano tanto buone quanto belle, realizzò Magnus, quando si staccò per riprendere fiato, lo stesso che gli veniva a mancare sempre di più ogni volta che Alec, semplicemente, lo guardava. Figuriamoci quando lo baciava.
“Pensi ancora che le mie parole siano destinate al vento, fiorellino?”
Alec, che dovette impegnarsi per regolarizzare il respiro e non rischiare l’iperventilazione, deglutì, sentendo ancora la testa girare dall’emozione.
“No.” ansimò, appoggiando una seconda volta la fronte a quella di Magnus, un po’ perché aveva voglia di farlo, un po’ perché a quanto pareva la sua testa non aveva alcuna intenzione di smettere di girare. “No. Per niente…”
“Bene,” Magnus cominciò ad accarezzargli le guance accaldate con entrambi i pollici, tenendo il suo viso chiuso tra le proprie mani, “Posso ritenermi soddisfatto.”
Alec annuì con convinzione, il cuore che gli rimbombava ovunque: cassa toracica, orecchie, polpastrelli. Il respiro che non voleva saperne di regolarizzarsi, il suo sistema nervoso che continuava a mandargli scosse elettriche in ogni parte del corpo. Quel bacio era stato vita pura, una botta di adrenalina, una dose di fuoco liquido versato nelle sue vene e che lo incendiava ovunque.
“E tu?” gli domandò Magnus, una delle mani, adesso, intenta a giocare con i capelli che si arricciavano sulla nuca di Alec.
“Io cosa?” chiese perplesso.
“Puoi ritenerti soddisfatto?”
“Certo, Magnus, che domande…”
“Oh, tartufino, so di essere un fenomenale baciatore, volevo solo assicurarmi che il tuo primo bacio avesse soddisfatto le tue aspettative.”
“Tu sei solo un fenomenale smorfioso, Magnus,” scherzò Alec, pizzicandogli un fianco. In realtà quel lato così aperto di Magnus, la sua sicurezza in se stesso, gli piaceva tantissimo. “Le ha superate, comunque.”
“Ah sì?”
Alec annuì, un sorriso ad attraversare il suo viso. Non aveva mai speso molto tempo ad immaginare il suo primo bacio, anche perché, riteneva, quella era una cosa che facevano le ragazze. Si era chiesto, invece, plurime volte, se sarebbe stato capace di baciare, o ancora, se avesse mai trovato qualcuno disposto a baciarlo e, a quanto pareva, qualcuno esisteva. Qualcuno tremendamente bravo che l’aveva colto di sorpresa e l’aveva acceso in ogni parte del corpo. Una in particolare, ma questo era un dettaglio a cui non voleva prestare troppa attenzione, temendo che pensandoci troppo, non sarebbe riuscito a nascondere l’evidenza. Continuava a sorridere, mentre Magnus lo fissava, studiandolo pensieroso. Improvvisamente, una consapevolezza la colse e gli fece venire la voglia di sotterrarsi.
“So di non essere stato bravo quanto te…”
Magnus aggrottò la fronte, come se quell’affermazione lo confondesse. Era vero che si percepiva dal modo impacciato e confusionario in cui Alec aveva risposto al bacio che era la prima volta che lo faceva, ma questo non significava che non fosse stato bravo. O che Magnus l’avesse ritenuto meno piacevole, anzi.
“Perché dici ciò, caramellina gommosa?” Magnus gli accarezzò dolce una guancia e Alec, d’istinto, piegò la testa di lato per facilitargli il movimento.
“Perché – e ti prego, caramellina gommosa non si può sentire – hai una strana espressione sul viso.”
“Oh, dolce orsetto di zucchero, la mia espressione non era in alcun modo legata alle tue capacità di baciatore – che, permettimi, sono piuttosto buone considerando che non l’hai mai fatto prima.”
“E allora cosa c’è, Magnus?” chiese Alec, sinceramente curioso, arrendendosi al fatto che, per quanto gli avesse chiesto di non farlo, Magnus avrebbe comunque continuato ad affibbiargli nomignoli imbarazzanti.
“Stavo solo riflettendo su quanto sia egoista il nocciola delle tue iridi.”
Alec sbatté le palpebre qualche volta prima di parlare: “Che cosa?”
“Vedi,” Magnus abbassò la mano dal suo viso per avvicinarsi meglio con il proprio, i loro nasi che tornarono a sfiorarsi, “Hai degli occhi meravigliosi, Alexander. Particolari e, credimi, indimenticabili. E la parte castana delle tue iridi tende spesso a spaziare sul verde, coprendolo ad occhi esterni e tenendolo tutto per sé.”
Alec sentiva la gola secca e il cervello scollegato dalla lingua. Ogni volta che si trovava vicino a Magnus non riusciva a pensare razionalmente e non era sicuro che la cosa non gli piacesse. Anzi, era sicuro che gli piacesse da morire, facendolo sentire più vivo e sicuro di quanto non si fosse mai sentito in vita sua.
“Ed è un male?”
“Cosa, che i tuoi occhi cambino colore?”
Alec annuì.
“Assolutamente no. Mi piacciono entrambe le varianti.”
Alec deglutì e toccò a Magnus, questa volta, focalizzarsi sul suo pomo d’Adamo e fare richiamo a tutto il suo autocontrollo per non saltargli alla gola e iniziare a succhiarlo senza nessuna delicatezza. Ci voleva calma e pazienza. Alexander era un fiore che andava coltivato con cura, facendolo crescere rigoglioso e forte. Se si fosse avventato su di lui, aveva paura che l’avrebbe perso. E Magnus non lo voleva di certo.
“Vuoi aiutarmi?” domandò il maggiore, ancora perso dentro agli occhi del moro. Alec annuì, silenzioso. Ma nessuno dei due si allontanò. Nessuno dei due voleva distruggere quel momento tutto loro, dove i loro corpi erano incastrati tanto quanto i loro cuori, adattandosi l’uno all’altro come si adatta un puzzle al proprio pezzo mancante, sentendosi entrambi completi. Una sensazione che entrambi stavano aspettando da troppo tempo e alla quale non avrebbero rinunciato tanto facilmente.
“Possiamo provare a cuocere i popcorn rimanendo in questa posizione.”
“O potremmo rimanere in questa posizione e infischiarcene dei popcorn.” Suggerì Alec, facendo ridere Magnus.
“La tua idea mi piace di più.” L’orientale sfregò la punta del suo naso contro quella di Alec, nell’imitazione di un bacio all’eschimese.
“Quindi Scorsese, eh?” iniziò, un principio di sorriso sulle sue labbra. Alec alzò gli occhi al cielo.
“Esagerano, come sempre. Una volta ho affittato Gangs of New York e Izzy si è addormentata, mentre Jace ha continuato a fare domande per tutta la durata del film perché si alzava ogni tre secondi e perdeva pezzi fondamentali della trama.”
“Dev’essere uno strazio guardare film con loro.”
Alec rise: “Devi solo evitare Scorsese.”
“Evitare Scorsese è come evitare metà della filmografia di DiCaprio. Il che è un peccato mortale.”
“Esatto!” esclamò Alec, nella voce l’enfasi carica di complicità di due che si trovavano d’accordo.
“Vorrà dire che userò questo pretesto per averti tutto per me. Ti corromperò con i film di Scorsese.”
“Non ti serve corrompermi per avermi tutto per te.”
Magnus fu colto da un brivido lungo tutta la schiena non appena quelle parole, pronunciate con una sincerità disarmante, gli arrivarono dritte alle orecchie come un’affettuosa carezza. Strinse Alec ancora di più a sé e catturò nuovamente le sue labbra, che si schiusero con più velocità questa volta e gli lasciarono più spazio di azione, dal momento che ogni centimetro di Alec, adesso, sembrava più rilassato. Lo baciò con più cura, questa volta, lentamente e assaggiando ogni parte della sua bocca, esplorandola con devozione, come se volesse carpirne ogni segreto e, allo stesso tempo, volesse rendere l’esperienza il più piacevole possibile per Alec.
Ed era sorprendente il modo in cui Alec assecondava i movimenti della sua lingua, come se entrambi altro non aspettassero altro che entrare in contatto con qualcosa che i loro cuori già conoscevano, ma i loro corpi toccavano per la prima volta. Baciare Alec era come baciare la felicità, era come baciare quella tenerezza che Magnus non provava da tanto tempo, nonostante la sua giovane età.
“Sei buono,” gli disse quando si staccarono, “Avevo il sospetto che lo fossi, ma non pensavo lo fossi così tanto.” Confessò e Alec arrossì, sorridendo timido. La sua bellezza, si trovò a pensare Magnus, rapito da quel viso radioso che si illuminava in tutta la sua interezza quando Alec sorrideva, era eterea. Era qualcosa che esulava dall’umano, qualcosa che era sicuramente la testimonianza del passaggio in terra del divino. La creazione di un Dio così soddisfatto del proprio operato da sentire la necessità di lasciare uno stampo, un marchio, imprimendo nel sorriso di Alexander Lightwood tutta la bellezza delle sfere celesti, delle albe e dei tramonti. Non riusciva a spiegarsi tale meraviglia, se non ricorrendo a una spiegazione che ne aveva dell’angelico. E dire che non si reputava un credente sfegatato.
“Mi fissi, Magnus.”
“Be’, di questo devi solo incolpare la tua straordinaria bellezza, piccola meringa caramellata.”
Alec scoppiò a ridere. Una risata entusiasta, priva di qualsiasi controllo che smorzasse il suo volume. Era una risata genuina, spontanea, bella da morire. E Magnus sentì il cuore esplodergli di gioia, quando quel suono paradisiaco raggiunse le sue orecchie.  
“Perché?”
“Chiedilo al tuo DNA perché, mica è colpa mia se sei bello!”
“Non intendevo quello. Intendevo: perché meringa caramellata?” Alec ancora rideva, una lacrima faceva capolino all’angolo dell’occhio. Magnus gliela accarezzò via con il pollice.
“Perché mi piace!”
“È il peggiore di tutti quelli che hai trovato fino ad ora, lasciatelo dire.”
Una smorfia attraversò i tratti del maggiore, qualcosa che ricordò ad Alec lo sguardo predatorio dei felini.
“Ah sì?” domandò Magnus, un sopracciglio alzato.
“Sì.” Confermò il moro e Magnus allora partì alla carica: le sue braccia scesero verso il costato di Alec dove le proprie dita cominciarono a punzecchiare le costole, facendo saltare Alec come se fosse stato colpito da una miriade di scariche elettriche. Magnus fu soddisfatto nel costatare che soffriva tremendamente il solletico.
“Basta!” disse, non riuscendo a trattenere le risate e provando a scacciare via le mani di Magnus che nel mentre sembrava essersi trasformato in una specie di polpo. Le sue mani, infatti, sembravano riuscissero a toccare Alec ovunque.
“Solo se mi permetterai di chiamarti come voglio.”
“A patto che tu non lo faccia in pubblico!”
Magnus arrestò improvvisamente la sua lotta a base di solletico: “Mi sta bene.”
“Sei cattivo,” gli disse Alec, un adorabile broncio che gli incurvava il labbro inferiore. Magnus glielo afferrò con i denti, non riuscendo a trattenersi, e lo succhiò leggermente.
“Tu non sai quanto,” gli sussurrò e Alec si sentì letteralmente morire. Sapeva che il tono gutturale con cui Magnus aveva pronunciato quella frase andava inserito in un contesto che esulava dal solletico e comprendeva ben altre attività fisiche che Alec ancora non aveva sperimentato. E una parte di lui lo mandò nel panico, facendo insinuare nel suo cervello l’idea che non fosse abbastanza, che fossero incompatibili, che niente di ciò che aveva Alec da offrire era sufficiente per Magnus. Ma quei pensieri che gli stavano facendo formicolare nelle gambe la voglia di scappare, vennero sopraffatti da un’altra emozione, che lo colpì e gli fece saltare il cuore come un balzo nel vuoto: eccitazione. L’eccitazione di una cosa nuova, di tutti i sentimenti che si mischiavano nel suo cuore in questo esatto momento: felicità, appagamento, curiosità, serenità. Alec stava bene, come non gli capitava da moltissimo tempo, ormai. E non voleva rinunciare a tutto questo solo perché aveva paura di essere bloccato dalla sua inesperienza. Avrebbe imparato, ne era sicuro. Era tutto nuovo, ma non per questo doveva necessariamente essere spaventoso. Quell’impressione derivava soprattutto dalle sensazioni che il tono usato da Magnus gli avevano fatto provare. Una strana stretta allo stomaco che si era propagata calda per tutto il suo corpo fino a raggiungere il basso ventre, che aveva sentito vibrare in una maniera vergognosa.
“Magari lo scoprirò, un giorno.”
Una scintilla attraversò le iridi di Magnus, rendendole – se possibile – ancora più lucenti.
“Solo quando – e se – vorrai, pasticcino. Non abbiamo fretta, giusto?”
“Giusto.”
Magnus appoggiò di nuovo la fronte contro la sua, in un gesto che nel giro di pochissimo tempo era diventato il loro modo di avvicinarsi l’uno all’altro, qualcosa che dava conforto ad entrambi e andava a sfamare, almeno in parte, quel bisogno che avevano di sentirsi vicini. Era un modo di toccarsi piano, leggermente, entrando nello spazio vitale dell’altro quasi chiedendone il permesso – sebbene nessuno dei due avesse bisogno di farlo, dal momento che la presenza dell’uno era più gradita dall’altro – per poi far collidere i loro corpi con altre parti di loro stessi: fronte contro fronte, occhi negli occhi e bocca contro bocca, in quel contatto caldo e bagnato che sapeva di loro, dei loro sentimenti nascenti, delle parole ancora non dette, ma che non vedevano l’ora di dirsi, di quelle che invece non avrebbero mai preso forma perché in alcuni casi non c’è bisogno di parlare. E, ancora, erano baci, quelli, che avevano il sapore di quello che sarebbero diventati: una parte fondamentale l’uno della vita dell’altro, una presenza che avrebbero chiesto come l’aria, e che avrebbe impedito ad entrambi di farsi sopraffare dai propri demoni.




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Ciao a tutti e ben ritrovati!
Allora... devo confessarvi che ho un po' d'ansia perché temo di non aver soddisfatto le vostre aspettative riguardo a questo famoso appuntamento, di cui si parla ormai da tre capitoli e quindi non vorrei avervi deluso! Nel caso, accetto il lancio di uova in testa! :'D 
In questo capitolo, inoltre, ho inserito qualcosina riguardante il passato di Magnus che, sebbene non potrà essere come quello della serie, perché ovviamente non è uno stregone (xD), farò adattare ad una storia più mondana, diciamo così! 
Arriveranno anche momenti tristi, ma non tragici... diciamo quei momenti necessari affinché due persone si conoscano a fondo e imparino ad amare anche la parte oscura della persona che hanno al loro fianco "And if I show you my dark side, will you still hold me tonight? / And if I open my heart to you and show you my weak side, what would you do?" dicono i Pink Floyd ed è una cosa che mi piacerebbe tanto applicare anche a Magnus che Alec, che indipendentemente dall'universo in cui si trovano, dalle cose che si raccontano, troveranno sempre il modo di stare insieme (momento smieloso). 
In questo capitolo, è presente anche una citazione dei libri (Mi considero un bisessuale disinvolto) che ho voluto inserire perché mi piace tantissimo! 
Come sempre, vorrei ringraziare chiunque abbia messo la storia tra i preferiti/seguiti e chi trova sempre il tempo per recensire perché sapere che ci siete mi fa davvero molto, molto, molto piacere! Inoltre i vostri commenti sono sempre tanto gentili <3 
Spero che questo capitolo sia stato almeno un po' di vostro gradimento, fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va! 
Alla prossima <3 

P.S. Chiedo scusa per le innumerevoli volte in cui nomino gli occhi di Alec, ma il fatto è che adoro gli occhi di Matthew e volevo che fossero un po' protagonisti, insieme al loro bellissimo colore! 
Inoltre, ho letto le vostre idee riguardo possibili incontri su Alec e Magnus e troverò il modo di inserirle perché sono tanto carine :3 (la proposta è sempre aperta, quindi sentitevi liberi di suggerire qualche idea!)  


 

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Capitolo 5
*** 5. ***


Alec si svegliò a causa della voce di sua madre che li chiamava fuori dalla porta della loro camera, accompagnando il tutto con un insistente bussare. In altre circostanze avrebbe trovato la cosa irritante, ma dopo la serata che aveva passato in compagnia di Magnus, sarebbe riuscito a sopportare anche la cena di Natale e tutte le domande insistenti dei parenti ficcanaso che gli chiedevano in continuazione come mai non avesse una ragazza. Più volte era stato tentato di rispondere che era gay solo per vedere che faccia avrebbe fatto la prozia Eloide, che tra tutti era quella più insistente e più vecchia, bigotta  e retrograda quanto il suo caro nipotino Robert.
Sorrise, mentre apriva gli occhi – lo stesso non si poteva dire di Jace che stava già imprecando sotto voce, la testa nascosta tra il materasso e il cuscino – e ripensava, con un’euforia che cresceva sempre di più, al suo primo bacio, che era stato accompagnato da molti altri, tutti ugualmente belli, se non di più.
“Alec! Jace! Alzatevi!” ordinò Maryse, non una traccia di rabbia nella voce, solo il tono secco degli ordini, quello freddo che non ammette repliche. Alec sentì il rumore dei suoi tacchi scandire ogni passo mentre si allontanava per andare a bussare anche alla porta di Isabelle.
“Odio la domenica,” bofonchiò Jace, il cuscino ad ovattare la voce.
Alec no. O almeno, non odiava quella domenica specifica.
“Odio dover andare a messa,” continuò Jace, “A pregare un Dio che non crede in noi.”
“Jace, adesso esageri.”
“Perché non mi posso riposare? Non ha creato il settimo giorno per riposarsi? O era una cosa riservata solo ed esclusivamente a Lui?”
“Non ne ho idea. E onestamente, non mi interessa. È troppo presto per intavolare discussioni del genere!”
Allungò la mano verso il comodino per afferrare il cellulare e vedere che ora fosse. Quando illuminò il display e notò un messaggio di Magnus, un sorriso spontaneo aprì il suo viso.
“Ma a quanto pare non è troppo presto per sorridere come un idiota davanti ad uno schermo.”
Alec lo ignorò e sbloccò il display. Jace non avrebbe rovinato il suo buon umore con le sue frecciatine taglienti.

> From: Magnus, 08.13
Buongiorno, zuccherino…

Ma se c’era una cosa che a Jace non piaceva era essere ignorato, così saltò fuori dal suo letto per gettarsi al fianco di Alec, spintonandolo per farsi spazio. Alec, all’inizio restio a muoversi, dovette cedere all’invadenza di suo fratello che altrimenti l’avrebbe spiaccicato.
“Cosa ti scrive?”
“Non penso siano affari tuoi.” Rispose Alec, le mani a coprire lo schermo dagli occhi curiosi di Jace.
“Eddaaaaiii” Jace si sporse verso Alec, che alzò una mano in alto, tenendo il cellulare lontano dal fratello. Ma Jace era sempre stato uno che non si arrendeva, quindi balzò sulle ginocchia, piantandone uno su una coscia di Alec, il quale soffocò un gemito di dolore e piazzò uno scappellotto sulla nuca del biondo con la mano libera.
“Ahi!”
“Ahi lo dico io, ho settantacinque chili addosso!”
“Ehi,” gli fece l’occhiolino, “sono i settantacinque chili migliori che potrai trovare.”
“Su questo ho forti dubbi.”
“Oh, certo,” cominciò, intrecciando le proprie mani tra di loro e portandole sotto il mento, sbattendo teatralmente le lunghe ciglia dorate, “Perché il peso ideale sopra di te sarebbe Magnus, vero?”
Alec lo fulminò, gli occhi ridotti a due fessure strettissime: “Ti odio.”
“Vuoi negare? O vuoi farmi credere che avete passato tutta la serata in cucina solo a raccontarvi le favole?”
Alec roterò gli occhi al cielo, consapevole che Jace l’avrebbe torchiato fino a che non avesse vuotato il sacco.
“Non nego un bel niente, Jace. E no, non ci siamo raccontati le favole.”
Jace sbatté le mani in uno schiocco secco: “Lo sapevo!” gridò euforico, “Lingua?”
Alec arrossì, sebbene non riuscisse a trattenere una risata genuina davanti all’espressione carica di aspettativa del fratello. “Sì.”
“Non ti chiederò com’è stato perché è una cosa da ragazze. Ma sono felice per te, fratello.” Jace si sporse per dargli una pacca sulla spalla, prima di alzarsi dal letto di Alec e avviarsi alla porta. “Ti lascio al tuo messaggio.” Il biondo gli fece l’occhiolino prima di sparire fuori dalla camera.

> To: Magnus, 08.17
Buongiorno…
> From: Magnus, 08.17
Ti ho svegliato?
> To: Magnus, 08.18
No, tranquillo… ci ha pensato mia madre.
> From: Magnus, 08.18
E come mai? Non ha mai sentito parlare di sonni di bellezza?

Alec rise allo schermo mentre digitava il messaggio seguente.

> To: Magnus, 08.18
E tu hai mai sentito parlare di famiglie estremamente religiose e della messa della domenica?
> From: Magnus, 08.19
Sembra orribile.
> To: Magnus, 08.19
Non lo è poi così tanto… o almeno mi convinco che sia così. Non credi?
> From: Magnus, 08.19
Mi definisco un agnostico, raggio di sole. E tu?
> To: Magnus, 08.20
Secondo me lassù qualcuno c’è. Jace è fermamente convinto del contrario, io no. Penso ci sia un Dio. Anzi, credono ce ne siano molti, in base alla religione che gli uomini scelgono di seguire. Trovo più difficile credere negli uomini, onestamente.
> From: Magnus, 08.20
Quanto sei profondo, pasticcino.
> To: Magnus, 08.20
Non prendermi in giro, adesso…
> From: Magnus, 08.21
Non ti prendo in giro, anzi, ritengo tu sia molto più ragionevole di tante altre persone. Direi che il tuo discorso ha senso: fidarsi degli uomini è tremendamente difficile, se non impossibile, a volte. È molto più facile trovare conforto in un Dio che forse non incontreremo mai e che almeno non potrà mai deluderci.
> To: Magnus, 08.21
Chi ti ha deluso, Magnus?

Gli chiese di getto, convinto che quel messaggio fosse applicabile a scene di vita più quotidiana, ordinaria, diversa dalla misticità religiosa.

> From: Magnus, 08.22
Questo, crostatina, è un discorso che riprenderemo. Magari più in là. Magari non via messaggio.
> To: Magnus, 08.22
Certo, scusa. Non volevo essere indiscreto.
> From: Magnus, 08.22
Non scusarti… ho bisogno di tempo anche io per certe cose, ma non potevi saperlo.
> To: Magnus, 08.22
Ma ora lo so. E ti darò tutto il tempo che vorrai.
> From: Magnus, 08.23
Grazie, Alexander.
> To: Magnus, 08.23
Non devi ringraziarmi. Pazienza, ricordi? La cosa vale per entrambi.

Jace fece capolino in camera, un ciuffo biondo a tagliargli il viso.
“Detesto interromperti, ma giù di sotto sembra si stiano preparando all’Apocalisse!”
Alec alzò gli occhi dal display: “E come mai?”
“Cosa ne so, a quanto pare Padre Aldertree ha anticipato la messa.”
“E quindi?”
“Quindi papà è impaziente. Non sia mai che i Lightwood arrivino in ritardo, rischiando di non essere notati dalla comunità.”
“O essere notati per il loro ritardo imperdonabile di tre minuti e mezzo.”
Jace scoppiò in una risata fragorosa a cui si unì anche Alec. C’era complicità tra loro, come se una parte della loro anima fosse legata a quella dell’altro, rendendoli, almeno in parte un’unica persona. Erano uguali e diversi allo stesso tempo. Erano complementari, venuti al mondo per completare l’altro.

> To: Magnus, 08.26
Devo andare, rischio la flagellazione. Ci sentiamo più tardi.
> From: Magnus, 08.27
Certo, fiorellino. A più tardi <3

Era un cuore, quello?
Certo.
Ed era un sorriso, quello che stava allargando il viso di Alec in maniera così ampia da essere ritenuta umanamente impossibile?
Certo.

*

Victor Aldertree era un uomo alto, di colore e con un carisma che attirava ogni persona della comunità a seguire i suoi sermoni. Era giovane, con folti ricci castani e scuri occhi profondi come due pozzi. Aveva l’abitudine di accogliere personalmente i suoi parrocchiani, stando davanti alla porta della Chiesa – che veniva chiamata anche l’Istituto per via delle stanze adibite all’educazione cattolica adiacenti ad essa – stringendo le mani a chiunque e dando loro il benvenuto. Alec lo aveva adocchiato da lontano, con la sua tunica bianca e verde, mentre sorrideva alla signora Herondale, la sua preside.
Per nessuno dei due il ragazzo provava simpatia.
“Alec!”
Mentre provava una profonda e sincera simpatia per la proprietaria di quella voce.
“Aline!” Il moro le sorrise mentre la ragazza si gettava tra le sue braccia. La strinse forte a se in un abbraccio stritola costole. “Come stai?”
“Bene, e tu?”
Alec scrollò le spalle: “Bene!”
Aline Penhallow aveva abitato di fronte a casa Lightwood fino ai quattordici anni, poi i suoi genitori avevano insistito per mandarla in un collegio femminile dall’altra parte della città, convinti che in quel modo la figlia si sarebbe concentrata meglio sullo studio, senza essere distratta da cose come i ragazzi. Quello che i coniugi Penhallow ignoravano era che Aline non si sarebbe interessata ai ragazzi nemmeno se con un contatto con il genere maschile avesse salvato la razza umana dall’estinzione. Non le piacevano. E, anche se lei non l’aveva mai detto, Alec lo sapeva. Lo aveva letto più volte negli occhi scuri di Aline ogni volta che, da ragazzina, guardava incantata Isabelle, leggendo nel suo sguardo cupo la stessa sofferenza del suo quando guardava Jace. Gli occhi di Aline trasudavano lo sconforto e la consapevolezza che si hanno solo quando si capisce di avere una cotta per qualcuno di eterosessuale.
E forse anche lei sapeva di Alec, ma nessuno dei due aveva detto nulla, semplicemente perché il loro rapporto non sarebbe cambiato se ne avessero fatto parola. Si volevano bene ed erano riusciti a legare fin da subito.
“Come va a scuola?”
“Mi piace,” rispose Aline, incurante, “Solo che mi manca stare qui. Mi mancate voi Lightwood.”
Aline tornava solo per i week-end, passando la maggior parte del tempo con i genitori e la famiglia. In questo modo, non aveva molte occasioni di passare il tempo con i suoi amici prima di ripartire per la sua scuola.
“Anche a noi manchi, Aline.”
“Che mi venga un colpo se quella non è Aline Penhallow!” gridò Isabelle euforica, correndo verso di loro con Jace e Max appresso. Alec fece giusto in tempo a vedere lo sguardo rigido dei loro genitori, visibilmente contrariati dal comportamento esuberante della figlia, prima di concentrarsi su Iz, che, impeccabile nel suo abito rosa antico, si destreggiava tra la folla in attesa di entrare in chiesa, ondeggiando sui suoi tacchi verniciati in pendant con il vestito. Come facesse a non impiantarsi nel terreno morbido del giardino davanti alla struttura sacra, Alec proprio non lo sapeva. Forse Isabelle era magica.
“Izzy!” rispose Aline con altrettanto entusiasmo, abbracciando la ragazza. Si strinsero entrambe in un amichevole abbraccio, comunicandosi tutta la nostalgia che avevano una dell’altra. Isabelle e Aline avevano molto legato, da piccole, diventando inseparabili, fino a quando, appunto, Aline non aveva dovuto trasferirsi tre anni prima.
“Come stai?” domandò Iz, mentre Aline salutava Jace e Max.
“Bene, ma come dicevo ad Alec, mi mancate.”
“Dovremmo fare qualcosa la prossima volta che torni. Sgattaioli dalla presa dei tuoi genitori e fuggiamo da qualche parte!”
Aline rise: “Sicuro, come se fosse possibile. Ma se dovessi riuscire ad evadere, mi farebbe molto piacere.”
“Potremmo sempre inscenare un finto rapimento,” propose Jace.
“Sì, una cosa tipo: entriamo in casa tua bendati e ti trasciniamo fuori dalla tua stanza!” gli diede corda Iz.
“Sareste dei pessimi banditi, lo sapete? Come spieghereste la mia presenza in casa vostra?”
“A quello ci può pensare Alec,” disse Jace, alzando le spalle.
“E certo, voi fate casini e io li devo sistemare. Chissà come mai questa cosa mi risulta familiare!” rispose Alec ridendo.
Aline si lasciò trascinare dall’entusiasmo, sentendo una familiare stretta al petto causata dalla mancanza. Quando era partita e aveva dovuto rinunciare ai Lightwood, i migliori amici che avesse mai avuto, aveva avuto l’impressione che le staccassero un pezzettino di cuore.
Avrebbe voluto trovare il modo di dirglielo, di far sapere a quei ragazzi quanto fossero importanti per lei, ma sua madre, Jia, si avvicinò a loro per informarli che era arrivata l’ora di entrare. Così, senza che si dicessero niente, si avviarono insieme all’entrata della chiesa.

*

La funzione terminò intorno alle undici del mattino, ma i Lightwood si trattennero fino verso mezzogiorno, dal momento che Robert e Maryse erano impegnati a parlare con persone che conoscevano da molto tempo ed erano attivi nella comunità religiosa, proprio come loro. Jace pensava che assomigliassero ad una specie di setta segreta che non accettava nessuno che non reputassero alla loro altezza. Alec, invece, li vedeva solo come una manciata di bigotti, ciechi a qualsiasi cosa non fossero le loro antiquate convinzioni e rigide regole comportamentali.
Persone che l’avrebbero flagellato se avessero saputo la verità su di lui, reputandolo una vergogna, un abominio. L’aveva sempre saputo. Era sempre stato consapevole che ai loro occhi sarebbe stato visto sbagliato – perché era così che parlavano degli omosessuali, erano sbagliati –  ma si stupì nel costatare che non gli importava più di sapere cosa avrebbero potuto pensare di lui. Non lo faceva più stare male il pensiero che qualcuno potesse trovarlo sgradevole solo perché provava attrazione per individui del suo stesso sesso. Quella comunità, quelle persone che predicavano amore, ma erano talmente incoerenti da accettarlo sotto un’unica forma, non avevano il diritto di possedere la sua felicità. Ne tanto meno di privarlo della sua felicità. Non era giusto che si ergessero a giudici, decidendo cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato perché l’unico che poteva scegliere cosa fosse giusto e sbagliato per se stesso era Alec.
Non importa cosa pensa papà, Alec. L’importante è cosa pensi tu di te stesso.
E Jace aveva avuto ragione da vendere, quella sera. L’unico che poteva governare il timone della nave che era la sua vita era solo ed esclusivamente Alec.
Quella costatazione lo riempì di tranquillità, di una pace interiore che sentiva crescere intorno al suo cuore giorno dopo giorno. Quella pace, sapeva, che una volta raggiunta totalmente l’avrebbe aiutato a trovare tutto il coraggio necessario per fare coming out.
Si sentiva diverso. Stava cambiando. Stava crescendo.
E in parte quel merito era di Magnus, che nel giro di pochissimo tempo era riuscito a mostrargli un lato del mondo che pensava non avrebbe mai visto, facendolo sembrare meno crudele, meno spietato.
Sorrise, mentre pensava a lui e, istintivamente, estrasse il cellulare dalla tasca.

> To: Magnus, 12.07
Central Park, oggi pomeriggio. Cosa ne dici?
> From: Magnus, 12.07
È un appuntamento?
> To: Magnus, 12.07
Devi dargli per forza un nome?
 
> From: Magnus, 12.08
Beh, sì. Devo sapere cosa mettermi, zuccherino.

Alec scosse la testa, sul viso un sorriso che non aveva intenzione di scomparire.

> To: Magnus, 12.08
Non sapevo che a Central Park avessero un dress code.
> From: Magnus, 12.08
Non sapevo sapessi l’esistenza di parole come dress code, raggio di sole.
> To: Magnus, 12.09
Pensavi vivessi in una caverna?
> From: Magnus, 12.09
Certo che no, sciocchino. Ma il tuo gusto in fatto di moda è pessimo, lasciatelo dire.
> To: Magnus, 12.09
Mi prendi in giro, adesso? Attento, o dovrò trovare il modo per farti perdonare di questa scempiaggine.
> From: Magnus, 12.10
Perché mi sembra di vivere un déjà-vu?
> To: Magnus, 12.10
Perché era quella l’intenzione. Allora, Central Park?
> From: Magnus, 12.10
Sai, girasole, se fossi qui con me avrei sicuramente trovato un modo per farti stare zitto.
> To: Magnus, 12.10
Questo perché detesti essere stuzzicato.
> From: Magnus, 12.11
Sbagli, caramellina, io adoro essere stuzzicato. Da te in particolare. E dalla tua bocca.
 
Alec arrossì fino all’attaccatura dei capelli mentre leggeva quel commento, le guance che andavano in fiamme come se un incendio avesse preso residenza sul suo viso e si stesse allargando sempre di più.

> To: Magnus, 12.11
Non mi hai ancora risposto, però. Cosa dovremmo dedurre da ciò, io e la mia bocca? Che ti sei già stancato di noi?
> From: Magnus, 12.11
Non dire stupidaggini, passerotto. Mi stancherò di te quando alle pantere cresceranno spontaneamente le branchie. Ti sembra possibile?
Tu, io e tutta l’abbondante carrozzeria che ti porti appresso ci vedremo questo pomeriggio a Central Park.


Alec dovette fare uno sforzo titanico per non esplodere in una risata proprio davanti alla chiesa, dove il gruppetto che stava analizzando poco prima e dal quale si era allontanato, stava ancora parlando.

> To: Magnus, 12.11
Mi sembra perfetto. Ci sentiamo più tardi per i dettagli.
> From: Magnus, 12.11
Certo, fiorellino!

*

“La vuoi sapere una cosa?” gli domandò Magnus, la testa nascosta nell’incavo del suo collo. Alec sentì ondate di brividi percorrergli tutto il corpo, non appena il respiro di Magnus gli sfiorò la pelle.
Era una giornata bellissima – non bella come Magnus, rifletté Alec – il sole di inizio ottobre lasciava un piacevole tepore sui visi di due ragazzi sdraiati sull’erba del parco ancora verde, a differenza delle foglie che coloravano le chiome degli alberi che li circondavano, che erano un’esplosione di colori: giallo, rosso, arancione. Alec pensò con una punta di tenerezza che se ci fosse stata Clary, con loro, avrebbe cominciato a guardarsi intorno curiosa, i suoi occhi avrebbero colto ogni dettaglio di ogni minima sfumatura e le sue mani avrebbero cominciato a fremere impazienti, desiderose di avere a portata di mano pennelli e tela per imprigionare per sempre quella bellezza naturale in un quadro. Si era affezionato a Clary. Era una brava ragazza, voleva bene ad Izzy e amava Jace con tutta se stessa. E lui non poteva che essere felice di avere incontrato una persona che facesse stare così bene entrambi i suoi fratelli.
Appoggiò le labbra sulla fronte del maggiore, in un gesto che gli venne istintivo, come se fosse una conseguenza naturale dell’azione poco prima compiuta da Magnus.
“Certo.”
Sdraiati su un plaid che Magnus aveva appositamente portato perché non accettava la possibilità che i suoi fantasmagorici vestiti potessero macchiarsi d’erba, il ragazzo orientale si accoccolò meglio vicino ad Alec, il quale lo circondò con un braccio.
“Sono felice non ti abbiano flagellato.”
Alec si lasciò andare ad una risata: “Beh, onestamente anche io.”
“Non mi vuoi dire perché ho rischiato di veder deturpato il tuo bellissimo corpo?”
“Non sai se il mio corpo è bellissimo, Magnus. Fossi in te non alzerei troppo le aspettative, potresti rimanerne deluso.”
“Sciocchezze. Sei bellissimo, io lo so.”
“Sei troppo sicuro di te.”
“E tu troppo insicuro.”
“Potrei avere un enorme bitorzolo sulla pancia!”
“Ce l’hai?” domandò Magnus, facendo scorrere un dito nella zona nominata. Alec trattenne il respiro, ma si godette la sensazione calda ed elettrica che quel contatto gli provocava. Magnus gli faceva quell’effetto solo toccandolo sopra i vestiti. Non voleva pensare a cosa avrebbe provato se, eventualmente, un giorno, l’avesse toccato sotto i vestiti. Era sicuro che gli avrebbe mandato in tilt tutti i circuiti nervosi.
“No. Ma ho una cicatrice sulla schiena.”
Magnus parve interessato: “Davvero?”
Alec annuì: “Colpa di Jace.”
“Come mai la cosa non mi sorprende?”
Il moro rise e Magnus sentì la risata raggiungergli il cuore. “Racconta.”
Alec parve pensarci un po’ su, come se volesse richiamare alla memoria quell’episodio specifico. “Avevamo… sette, al massimo otto anni, penso. Stavamo correndo in bicicletta, nessuno dei due troppo particolarmente bravo, dal momento che avevamo da poco abbandonato la bici a rotelle. Jace, già competitivo in tenera età, ha avuto la brillante idea di saltare un muretto vicino a casa nostra. Facciamolo, Alec! continuava a dire e io gli rispondevo che era una cattiva idea – sei un fifone pappamolle, mi insultava e allora volevo solo dimostrargli il contrario. Così, con l’incoscienza di quell’età, abbiamo improvvisato una rampa con una tavola di legno trovata dietro casa nostra e l’abbiamo sistemata in modo da darci la spinta necessaria per saltare il muretto. Il risultato è stato tragico: prima di saltare, ho sbandato, sono scivolato dal sellino della bici e sono caduto all’indietro. La mia schiena è finita dritta sul muretto, ma, come se non bastasse, la spinta mi ha fatto cadere verso il marciapiede e mentre cadevo ho preso l’unico spuntone nel muro che mi si è conficcato nella pelle e mi ha lasciato una bella ferita. Mia mamma si è spaventata così tanto che ci ha tenuto in punizione per tre settimane. Tre settimane. Diceva che eravamo stati fortunati perché quello spuntone avrebbe potuto persino danneggiarmi la spina dorsale.”
“Disgraziato!” gli disse Magnus, sfiorandogli una guancia con il naso.
Alec ridacchiò: “Un pochino.”
“Vi siete dati una regolata, almeno, crescendo?”
“Se lo chiedi, significa che non conosci Jace.”
“Se tuo fratello è un pazzo con istinti omicidi-suicidi non vuol dire che debba coinvolgerti!”
“Ti stai preoccupando per me, Magnus?” gli domandò, giocando con i suoi capelli.
“Devo?” ritorse l’altro, allacciando lo sguardo a quello di Alec. Il moro gli sorrise con dolcezza e posò delicatamente le proprie labbra sulle sue.
“No. So badare a me stesso.”
“Bene, ma terrò comunque d’occhio tuo fratello.”
Alec rise e lo strinse a sé. Magnus si sistemò ulteriormente al suo fianco, incastrandosi ancora di più.
“Avevano anticipato la messa.” Disse Alec, dopo qualche istante passato in silenzio.
“Cosa?”
“Il motivo della mia quasi flagellazione. Avevano anticipato la messa e stavo ritardando.”
“Oh…” Magnus parve sorpreso.
“Già. La mia famiglia… i miei genitori,” Alec fece una pausa, un lampo di tristezza attraversò il suo viso, corrompendo la serenità che quella giornata stava portando, “Mio padre, in particolare, sono molto devoti, religiosissimi. Vanno in chiesa, partecipano a tutti gli eventi organizzativi, beneficienza, cose così… hanno… hanno un’idea specifica della religione e dei suoi dogmi. Più mio padre ad essere onesto… è lui quello più incanalato.”
Magnus lo vide deglutire, come se fosse faticoso far uscire quelle parole dalla gola. Stava per dirgli che non era necessario parlarne se non voleva, ma Alec riprese.
“È lui che ritiene che l’omosessualità sia sbagliata, contro natura. È fermamente legato all’idea di famiglia uomo-donna e un sacco di figli. Non che la parte del sacco di figli sia sbagliata, anche a me piacciono le famiglie numerose. È solo la sua mentalità che mi spaventa. Mia madre si irrigidisce ogni volta che l’argomento viene casualmente fuori, quindi penso che nemmeno lei impazzisca per i gay. Il che rende tutto estremamente difficile. Non mi vergogno di quello che sono, ho solo paura di sentirmi respinto da due persone per me importanti.”
Magnus rimase qualche istante in silenzio, dando ad Alec la possibilità di aggiungere altro, se avesse voluto. Ma quando realizzò che non l’avrebbe fatto, allora parlò.
“Avete bisogno di tempo. Tu ne hai bisogno per trovare tutto il coraggio dentro di te per aprirti completamente. Loro avranno bisogno di tempo per capire che indipendente da chi potrai mai amare, in vita tua, rimani sempre lo stesso, meraviglioso, Alec.”
“Non è così facile.” Alec, nonostante il peso che gravava sul suo cuore, feroce come un animale a digiuno davanti ad una preda facile, abbozzò un sorriso davanti alle parole confortanti di Magnus.
“Nessuno ha mai detto che lo sia. Finché esisterà pregiudizio, esisterà la difficoltà.”
Alec si voltò in costa per appoggiare la fronte a quella di Magnus, in quel gesto familiare che gli infondeva tranquillità.
“A volte vorrei fossero tutti come Iz, o Jace. È stato così facile con loro. Ad entrambi non è cambiato granché dopo che avevo detto loro come stavano le cose. Anzi, non è cambiato proprio nulla. Per loro basta che sia felice.”
“Esistono più persone che la pensano come i tuoi fratelli di quante ne credi, Alexander.”
“Lo so, suppongo… vorrei solo che due di quelle persone fossero i miei genitori.”
Magnus abbassò lo sguardo, un lampo doloroso ad attraversargli il viso. “Vorremmo sempre cose diverse, quando determinate situazioni riguardano i nostri genitori.”
Alec si inserì nel campo visivo di Magnus, abbassandosi un poco finché quest’ultimo non rialzò lo sguardo su di lui. Gli sembrò perso, come se stesse ripercorrendo una strada che conosceva, ma anche lo stesso tempo lo portava verso lo smarrimento.
“Cosa c’è, Magnus?”
Il maggiore scosse la testa in un segno di diniego e nascose il viso nel petto di Alec, che lo circondò con le braccia e cominciò ad accarezzargli la schiena con movimenti lenti e rassicuranti. Gli sembrava così fragile, in quel momento; una sensazione che mai avrebbe associato a Magnus che, in tutta la sua gloria, sembrava sempre in procinto di spaccare il mondo, invincibile, intoccabile. Ma a quanto pareva, la sua era solo la corazza di qualcuno che ha sofferto tanto e ha imparato, nonostante il dolore, a sollevarsi, a stare in piedi a testa alta e a non temere il mondo per nessun motivo. Magnus era come la fenice che, dopo la morte, risorge dalle proprie ceneri più forte di prima.
“Non me lo devi dire, se non vuoi.” Gli baciò la fronte e gli appoggiò il mento sopra alla testa, nel modo che aveva di proteggere coloro a cui teneva dai brutti pensieri. Lo faceva con Iz quando da bambina correva nel suo letto, convinto che la loro vicinanza sarebbe stata abbastanza forte da allontanare gli incubi. E adesso lo stava facendo con Magnus. Gli avrebbe fatto scudo con il proprio corpo se avesse significato avere la possibilità che i suoi tormenti lo abbandonassero almeno per un po’.
“Ho paura a dirlo, ma vorrei. Credimi, Alexander, vorrei.”
“Va tutto bene,” sussurrò, “Me lo dirai quando sarai pronto. Io non vado da nessuna parte.”
“Ma tu…” cominciò Magnus, la voce ovattata dalla camicia di Alec, “Tu ti sei aperto e-”
“Quando vorrai farlo, lo farai anche tu, Magnus. Non c’è una data di scadenza, per dirsi certe cose. Come non bisogna parlare di certi argomenti solo perché uno di noi due l’ha fatto.”
Magnus portò le sue braccia intorno al busto di Alec, aggrappandosi alla sua schiena con forza, come se in quel momento fosse l’unica cosa che gli impedisse di farsi trascinare nell’abisso delle acque nere e gelide che gli soffocavano il cuore, era la sua sana boccata d’ossigeno, la sua ancora contro quella tempesta che lo strascinava sempre a fondo ogni volta che ricordi legati al suo passato tornavano a galla.
“Non ti merito neanche un po’, Alexander.”
“Questo non lo devi dire mai.” Alec lo tirò indietro per le spalle per fare in modo di guardarlo in viso. “Mai. Hai capito?”
Magnus, gli occhi lucidi che trattenevano il pianto, annuì.
“Vieni qui, adesso.” Alec lo tirò a sé, chiudendolo tra le sue braccia, simili alla fortezza che protegge la principessa – il principe, in questo caso – dal drago. Alec l’avrebbe fatto a pezzi a mani nude, quel drago, se fosse stato necessario. Nessuno avrebbe mai fatto del male al ragazzo che adesso stringeva tra le sue braccia. Non l’avrebbe mai permesso perché l’avrebbe protetto ad ogni costo, da chiunque. Anche dai demoni che sembrava abitassero nella parte più profonda di lui e gli avvelenavano quel cuore che, Alec lo sapeva, altro non meritava che cose belle.

*

Dopo aver passato una ventina di minuti in silenzio, Magnus, ancora con il viso nascosto nel petto di Alec, gli chiese se aveva voglia di camminare un po’ per Central Park e Alec accettò.
Stavano camminando in silenzio, circondati dal rumore degli animali nascosti nei cespugli o negli alberi, dal chiacchiericcio dei passanti, dalle note di canzoni che arrivavano alle loro orecchie, cantate a squarciagola e accompagnate da una chitarra leggermente scordata. Ma niente di ciò che sentiva era ciò che Alec voleva udire. Voleva sentire di nuovo la voce di Magnus, che invece si era chiuso in un apparente mutismo, probabilmente a disagio dopo quello che era successo. Alec lo sentiva, lo leggeva nel modo in cui i suoi ambrati occhi felini guardavano ovunque tranne che nella sua direzione. D’istinto, gli afferrò la mano, facendo intrecciare le loro dita, incurante di poter essere visto da qualcuno che avrebbe potuto riferire quella verità ai suoi genitori. Non gli importava granché, in quel momento l’unica cosa che voleva era dimostrare a Magnus che c’era ed era lì per lui, che lo rispettava, e che era pronto ad ascoltare quando e se avesse voluto parlare. Quello era il modo silenzioso che aveva Alec di dire a Magnus che andava tutto bene e non aveva da preoccuparsi di nulla. Magnus strinse la presa e posò con cautela i suoi occhi su Alec.
“Stai bene?”
Magnus annuì.
Ma Alec sapeva che non era vero, lo sentiva dentro. Era impensabile essere così arroganti, rifletté. Perché era davvero arrogante da parte sua credere di poter sapere cosa passasse per la testa di qualcuno che conosceva da così poco. Ma per come la vedeva lui, Magnus era tutto tranne che uno sconosciuto. Si sentiva legato a quel ragazzo come se fossero stati plasmati dallo stesso pezzo di cuore e avessero costruito, intorno a quel frammento comune, il resto dei loro corpi. Era una cosa che non si poteva ignorare, questa. Indipendentemente dal tempo che avevano passato insieme, Alec sentiva di conoscere Magnus, di riuscire a percepire ciò che gli passasse per la testa. E l’unica cosa che voleva fare, in questo momento, era allontanare quella nebbia che stava circondando Magnus e lo stava portando sempre più a fondo. Se non si sentiva di condividere con lui qualsiasi cosa fosse la cosa che lo rattristava così tanto, Alec quantomeno voleva provare a distrarlo.
“È arrivato il momento di parlare di musica.”
Magnus gli accennò un sorriso confuso e per Alec fu una specie di traguardo.
“Di musica?”
“Certo, non ne abbiamo ancora parlato. Non mi sembra un argomento da sottovalutare, ti pare?”
Magnus ridacchiò ed Alec quasi riuscì a vedere la luce del sole che alimentava l’energia vitale di Magnus squarciare quell’oscurità che l’aveva circondato.
“No, non va sottovalutato affatto.”
“Bene,” convenne Alec, “Allora, nomina una canzone che ti piace ascoltare.”
Magnus parve pensarci su e poi rispose: “The Kill.”
Alec la conosceva, quella canzone. Poteva cantarne le parole a memoria, tante erano le volte che l’aveva ascoltata. E poteva quasi immaginarsi Magnus farsi trascinare dalle stesse parole che avevano invaso anche il cervello di Alec una miriade di volte.
I tried to be someone else but nothing seem to change, I know now this is who I really am inside.
Chissà se anche Magnus aveva provato ad essere qualcun altro nella sua vita, ma si era reso conto che niente cambiava, dal momento che cercare di essere qualcun altro non è la soluzione a nessun tipo di problema. Chissà se aveva combattuto per poter avere la libertà di mostrarsi per chi era veramente. Chissà quante battaglie aveva dovuto affrontare e quante ne aveva vinte, chissà quante ne aveva perse.
“È una bella canzone.”
Magnus parve riacquistare un po’ del suo solito malandrino brio e gli lanciò un’occhiata laterale.
“Lo credi davvero o lo dici solo per quel figo di Leto?”
“Dipende da che Leto intendi.” Scherzò Alec, sebbene la sua opinione sulla canzone fosse sincera.
Magnus si aprì in un sorriso luminoso. Niente oscurità. Non più. Era tornata in basso, in quella parte profonda di sé che Magnus custodiva e che gli avrebbe mostrato solo quando si sarebbe sentito pronto a farlo. Era una vittoria a caratteri cubitali, quel sorriso, come se Magnus stesse tornando a stare bene.
“Jared.”
Alec scosse la testa: “Non ci siamo, Magnus. Per niente.”
Magnus strabuzzò gli occhi, scioccato: “Non ti piace?”
“Non ho detto questo.” Alec gli diede una spallata leggera, giocosa, mentre con il pollice disegnava cerchi sul palmo di Magnus. “Solo che preferisco Shannon.”
“Ma è basso.”
“L’altezza non è un problema, se consideri tutto il resto.”
“Devo essere geloso di un nano da giardino?”
Alec esplose in una risata che lo costrinse a portarsi la mano che aveva libera sulla pancia. Magnus era ufficialmente tornato. Alec si fermò nel bel mezzo del viale che stavano percorrendo e lo tirò a sé.
“Non devi essere geloso di nessuno, Magnus.” Gli accarezzò una guancia, prima di posargli delicatamente le labbra sulle sue, in un bacio leggero e fuggitivo.
“Dove credi di andare?” Magnus parve contrariato dalla sua scelta di allontanare il suo viso dal proprio, così riacciuffò le sue labbra, provocando una risata in Alec, che fu ben felice di assecondare quella richiesta.
“Grazie.” Gli sussurrò poi Magnus, la fronte appoggiata a quella del moro.
“Non so di cosa stai parlando.”
“Sì che lo sai. Non pensare che non abbia capito cos’hai fatto.”
Magnus sentiva crescere dentro di se un sentimento caldo, qualcosa che non provava da tanto tempo: fiducia, gratitudine. Alec si era preso cura di lui in modo silenzioso, ma infondendogli una sicurezza rara per un ragazzo della sua età. Si era fatto carico della sua sofferenza, sebbene non ne conoscesse la portata, abbracciandolo, inglobando quel senso di disagio che abitava in lui e rispettando i suoi silenzi che erano stati appresi, capiti e rispettati. L’aveva rassicurato, cullandolo come si potrebbe fare con un bambino spaventato dall’uomo nero e aveva pazientemente aspettato che la tempesta si quietasse. La bellezza di quel ragazzo non si limitava solo al suo aspetto fisico. Alexander era speciale in un modo che lui stesso non avrebbe mai appreso, ma che Magnus riusciva a vedere chiaramente, nonostante lo conoscesse da poco.
“Sei una specie di stregone, Magnus?”
“Può darsi. Magari un Sommo Stregone, destinato all’immortalità e alla lettura della mente.”
“Adesso esageri.”
“Solo Sommo Stregone va bene?”
Alec rise: “Direi di sì. È più fattibile.”
“Andata, allora.” Concluse soddisfatto Magnus. “Hai fame?”
“Fare presunte magie ti mette appetito?”
“Non sai quanto!”
Alec scosse la testa, “Andiamo, mi hai fatto venire fame per empatia.” Allacciò le spalle di Magnus con un braccio, baciandogli una tempia, mentre quest’ultimo gli circondò la vita.
Insieme, abbracciati in quel modo, si diressero alla ricerca di qualcosa di commestibile che avrebbe pacato i loro stomaci.

Continuarono a camminare fino a quando non uscirono da Central Park, imboccandosi in una stradina che a detta di Magnus era sinistra. Ed Alec capì subito che Magnus con sinistra intendeva una strada il cui asfalto era stato coperto da fieno e paglia. Ben presto entrambi capirono di essere capitati, non si sa come, non si sa perché, nel bel mezzo di una fiera medievale.
“Andiamo via!” esclamò Magnus con orrore, non appena una delle sue preziosissime scarpe di marca (Alec davvero non ricordava di chi fossero, nonostante Magnus gliel’avesse comunicato con orgoglio. Lui proprio non ci sapeva fare con certe cose) aveva sfiorato escrementi equini.
“Perché?”
“Il motivo a pallette che giace in mezzo alla strada non è abbastanza evidente, per te?”
Alec roteò gli occhi al cielo, “Andiamo, potrebbe essere divertente!”
“Calpestare cacca di cavallo? Abbiamo idee divergenti per quando riguarda il divertimento, Alexander.”
“Nessuno trova divertente la cacca di cavallo, Magnus. Ma i cavalli sì.”
“Preferisco cavalcare altro.” Gli lanciò un’occhiata maliziosa che di equivocabile non aveva assolutamente niente.
“Sottile, davvero.” Gli rispose sarcastico, le guance in fiamme, afferrandolo per una mano e trascinandolo dentro alla fiera. Magnus lo lasciò fare e realizzò in quell’esatto momento che per Alexander Lightwood era disposto davvero a fare di tutto. Anche rischiare di rovinare le sue Jimmy Choo.
“Possiamo almeno mangiare, prima?” si lamentò, come un bambino. Alec, di fronte al broncio adorabile di Magnus non seppe trattenersi dal sorridere, sentendo la tenerezza che gli saliva dallo stomaco e andava ad inondargli il cuore, scaldandolo.
“Tutto quello che vuoi.”
“Misura bene le parole, ciambellina. Potrei cambiare idea e decidere che tutto quello che voglio sei tu e potremmo andarcene da questo posto che odora di stalla.”
“Se vuoi davvero andartene ce ne andiamo subito.”
Magnus si stupì di come quelle parole fossero prive di qualsiasi tipo di accusa, o risentimento. Alec sembrava davvero intenzionato ad andarsene, se solo lui avesse voluto. Stava mettendo se stesso in secondo piano, dando implicitamente più importanza alla volontà di Magnus rispetto alla propria. Per questo, Magnus si chiese quante volte gli era capitata nella vita, una cosa del genere. Quante volte aveva messo da parte se stesso per far felice i suoi fratelli senza che ciò gli facesse provare astio nei confronti di nessuno. Alec era altruista nel modo più genuino e puro che potesse esistere.
“No,” Magnus gli chiuse il viso tra le mani a coppa, “Rimaniamo. Andiamo a vedere i cavalli e tutto quello che vuoi. Te ne rubo persino uno, se ti aggrada.”
Alec rise, in quel modo che faceva ridere anche i suoi occhi e faceva impazzire il cuore scalpitante di Magnus, e annuì.
“Magari possiamo rinunciare al furto.”
“Come vuoi, zolletta.”
Zolletta perché stiamo parlando di cavalli?”
“Non mangiano le zollette di zucchero?”
“Questa cosa dei soprannomi ti sta decisamente sfuggendo di mano, Magnus.” Alec sorrideva, mentre scuoteva la testa, arrendevole al fatto che lamentarsi non avrebbe fatto smettere Magnus nella sua impresa di chiamarlo in ogni modo possibile immaginabile, “Vieni, là hanno del cibo!”

Il cibo che placò la fame mostruosa di Magnus – che aveva l’impressione che nel suo stomaco avesse cominciato ad abitare un drago nevrotico ed estremamente suscettibile – fu una quantità imbarazzante di pretzel, prima salati e successivamente dolci, perché non si può dire di no alla cioccolata, nemmeno quando è contenuta dentro a dei panini contorti su loro stessi. Con la pancia piena e più di buon umore, Magnus osservava Alec – cosa che trovava alquanto di proprio gradimento – guardarsi intorno, curioso. Era affascinato da qualsiasi cosa: i banchetti di caramelle, gli stand che vendevano riproduzioni perfette di strumenti, armi e vestiti medievali, i palchi dove uomini e donne in costume ballavano sulle note strimpellate da strumenti a corde, che probabilmente erano i bis-bis-bis-bis-un sacco di bis-nonni del mandolino, da altri uomini anch’essi in costume.
Ma la cosa che più di tutte piacque a Magnus, però, fu vedere lo sguardo eccitato di Alec quando vide i cavalli. Il ragazzo non riuscì a trattenersi: affrettando il passo – e trascinando Magnus con se – si diresse verso gli animali, che venivano lasciati liberi in uno spazio destinato solo ed esclusivamente a loro.
“Eccoli!”
Alec era euforico e Magnus si aprì in un sorriso intenerito. Lasciò la sua mano ed Alec lo guardò con le sopracciglia aggrottate in una muta richiesta di spiegazione.
“Vai, ti raggiungo subito.”
“Non vuoi vederli?”
“Non ho detto questo, Alexander. Tu avviati, io arrivo.”
Alec si adombrò un poco, ma si avviò comunque. Magnus non aveva alcuna intenzione di ferirlo, o di fargli pensare che non aveva voglia di raggiungerlo – perché ne aveva una voglia matta – ma voleva solo avere il tempo necessario per estrarre la macchina fotografica dalla sua borsa a tracolla e immortalare Alexander in tutto il suo splendore. Sarebbe stato un peccato mortale non catturare la bellezza di Alec quel pomeriggio, la sua energia, la sua intraprendenza, la sua genuina voglia di conoscere, guardare, studiare. Il modo in cui si faceva trasportare dalla magia che quel posto comunicava, come se fossero finiti in un’altra epoca dopo un viaggio dentro ad una macchina del tempo. Alexander era arte che camminava e lui da artista aveva delle responsabilità: immortalarlo affinché i posteri potessero essere anche loro testimoni di tale beltà. Dunque, con la macchina fotografica stretta tra le mani, si sistemò per mettere a fuoco la figura di Alec, che si era avvicinato ad un cavallo nero a cui stava accarezzando il muso. L’animale – mica scemo – dava segni di apprezzamento avvicinando la testa verso il ragazzo.
Fu quando Magnus lo vide sorridere al cavallo che scattò la foto. Era un abbozzo grezzo, si trovò a pensare, guardandola nel display. Le luci andavano regolate meglio, ma il risultato gli piacque comunque: Alec era messo a fuoco alla perfezione, la testa incurvata di lato, mentre una mano era sistemata sotto il muso dell’animale, e lo sfondo si sfuocava lasciando l’impressione che non ci fosse altro, al mondo se non i due soggetti dell’immagine. E Magnus capì che la scelta di scattare la foto in quel modo era tutto tranne che casuale: da quando l’aveva conosciuto, infatti, lui non vedeva altro che Alec, come se, in sua presenza, il resto del mondo sparisse, mostrando solo lui. Non aveva fatto altro che pensarlo da quando aveva sbattuto contro il suo armadietto, chiedendosi che tipo fosse e, adesso che lo stava conoscendo, si rendeva conto che mai avrebbe potuto immaginarsi la portata dell’intensità delle emozioni che provava in sua presenza. Il mondo spariva, ma Magnus si accendeva, provando quei sentimenti che il suo passato e le sue precedenti esperienze avevano sepolto da troppo tempo, in fondo a quel cuore fatto a brandelli, che adesso stava cominciando a fiorire di nuovo, battendo più forte che poteva e sprigionando un’energia vulcanica, impossibile da ignorare.
“Che stai facendo?”
Alec lo distrasse dalla sua attenta analisi della foto e dai successivi pensieri che essa avevano generato, portandolo ad alzare gli occhi su di lui. Di certo le foto non rendevano giustizia alla bellezza di quel viso stupendo.
“Guardo te.”
Alec abbassò lo sguardo sul display.
“Oh...”
“Non ti piace?”
Il tono apprensivo nella voce di Magnus fece si che Alec spostasse i suoi occhi su di lui.
“Al contrario. Sei davvero bravo.”
“In realtà è tutto merito del soggetto.”
Alec sbuffò dal naso, un sorriso accennato sulle labbra: “Il cavallo è molto bello, in effetti!”
Magnus alzò gli occhi al cielo, esasperato: “Cosa devo fare con te?”
“Non lo so, dimmelo tu. Cosa vuoi fare con me, Magnus?”
Lo stava provocando? Oh sì, lo stava facendo eccome. E in maniera nemmeno poi troppo velata, diversamente da come ci si aspetterebbe da qualcuno che arrossisce ad ogni minimo complimento. Magnus adorava questa cosa, l’innocenza di Alec mescolata al suo modo di essere spigliato quando meno se lo aspettava.
“Non hai idea delle cose che ti farei, tesoro.”
Se bisognava giocare, tanto valeva che lui lo facesse in grande. Alec arrossì, un’intensa tonalità porpora a colorargli le guance, ma si avvicinò di più al viso di Magnus, chinandosi leggermente verso di lui.
“Finalmente hai trovato qualcosa che non sia troppo imbarazzante.” Gli sussurrò prima di portargli una mano sulla nuca, facendo allacciare le dita ai capelli di Magnus, e baciarlo. Con la mano occupata, portò Magnus a tirare indietro la testa, leggermente, per poter essere lui, questa volta, ad approfondire meglio il bacio e avere più spazio di azione. Non che fosse sicuro che si facesse esattamente così, dal momento che, nonostante gli piacesse tantissimo imparare a baciare Magnus come si doveva, era ancora terrorizzato dall’idea di sembrare una specie di lumaca incontinente. Ma il suono che uscì dalla gola del ragazzo, un misto tra un ringhio d’approvazione e un sospiro strozzato, fece capire ad Alec che tanto male non doveva essere, così le sue labbra continuarono a muoversi in sintonia con quelle di Magnus, fino a che, per mancanza d’ossigeno, non fu costretto a staccarsi.
“Sono…” cominciò Magnus, toccandosi il labbro inferiore con il pollice, “piacevolmente colpito. Ti chiamerò tesoro di continuo, se ogni volta devi baciarmi così.”
Alec tornò rosso, ma si aprì in un sorriso compiaciuto.
“Per me si può anche fare.”
Magnus lo guardò come si guardano le cose belle, quelle che fanno stare bene il corpo e la mente, l’anima e il cuore. Ogni volta che lo guardava, si rendeva conto che mai e poi mai avrebbe rinunciato a lui e che avrebbe passato anche la sua intera vita a cercare di fare felice il ragazzo che gli stava di fronte.
“Anche per me.”
E forse Alec non lo sapeva, ma se Magnus avesse davvero avuto tutta l’eternità a disposizione, l’avrebbe passata con lui.




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Ciao a tutti e ben ritrovati!
Nuovo capitolo, nuova dose di ansia, soprattutto perché le cose si stanno facendo più serie - a tratti - e i due cuoricini si stanno dicendo cose abbastanza importanti e io ho paura di aver rovinato tutto e di fare schifo, perché non sono riuscita a trovare niente di meglio del paragone Conclave/Chiesa e famiglia bigotta. Walk of Shame for me come Cersei Lannister. In questo frangente, fantasia 0 e vi chiedo umilmente perdono.
Venendo al capitolo, cosa ne pensate? Vi è piaciuto almeno un pochino? Volete tirarmi le uova in testa? 
Fareste bene.
Alec è quello che si apre un po' di più e lo fa per primo, proprio come è successo nella serie, dove vediamo le sue problematiche esposte prima di quelle di Magnus, personaggio più misterioso - nei libri lo è ancora di più. E sebbene, da buona furba quale sono, mi sia spoilerata qualcosa, della sua storia si sa ancora pochissimo.. e sono al quinto libro... ma vabbè sto divangando! 
Tornando a noi, ci sarà spazio anche per la storia di Magnus, che nella mia testa sta prendendo una forma sempre più dettagliata. 
Menzione d'onore ai fratelli Leto che, per chi non lo sapesse, sono 2/3 dei 30 Seconds to Mars, autori della canzone citata, The Kill, che amo tantissimo. 
Menzione d'onore pt. 2 ad Aline Penhallow perché secondo me è un bel personaggio e mi piacerebbe vederla molto di più nella serie! 
Come sempre, vorrei ringraziare tantissimo chiunque legga, metta tra le preferite/seguite e trovi anche il tempo di recensire, mi fa davvero un immenso piacere sapere che ci siete, quindi vi abbraccio tutti tantissimo! 
Grazie per essere arrivati fino a questo punto, alla prossima! <3 

 

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Capitolo 6
*** 6. ***


L’idilliaco weekend di Alec fu spazzato via dalla brutalità della realtà e del lunedì mattina, accompagnato dall’insistenza di una sveglia che, prima o poi, avrebbe davvero scaraventato contro il muro. Quando aprì gli occhi gli sembrò di essere uscito da un sogno durato troppo poco: l’atmosfera creatasi in quei due giorni che aveva passato insieme a Magnus, si stava disintegrando come vetro sotto al peso della cruda realtà, ricordandogli che, per quanto fosse stato bene in quei giorni, i suoi comportamenti a scuola dovevano tornare ad essere controllati per una serie di motivi che cominciava ad odiare, ma dei quali aveva ancora paura per liberarsene definitivamente. Primo: se fosse stato tanto esplicito come lo era stato il giorno prima a Central Park sarebbe stato impossibile equivocare il suo orientamento sessuale e di conseguenza sarebbe stato il primo studente a fare coming out. Da qui, il secondo motivo: se fosse venuta fuori la verità, era sicuro che Imogen Herondale avrebbe impiegato una cosa come tre secondi e mezzo per informare i suoi genitori della scioccante e oltremodo inaccettabile situazione.
In poche parole, il mondo era tornato ad essere ingiusto, ma almeno sembrava meno schifoso. Ed Alec sospettava fortemente che il motivo di tale impressione fosse proprio Magnus, che faceva sembrare ogni cosa migliore. Chissà solo se era disposto a tenere segreto il loro rapporto, per adesso. Aveva paura di chiedergli troppo.
“Alec, riesco a sentire gli ingranaggi del tuo cervello muoversi da qui.”
Jace alla sua sinistra, si era voltato in costa per riuscire a guardarlo meglio.
“Stai fissando il soffitto da almeno cinque minuti,” continuò il biondo, “ti ho salutato e non mi hai risposto, come se non mi avessi nemmeno sentito. Vuoi dirmi cosa c’è?”
Alec si lasciò andare ad un sospiro pesante, afflitto. “È lunedì.” Disse, come se Jace avesse potuto capire ogni cosa. Ma, per quanto, di solito, le loro menti viaggiassero sullo stesso binario, quella mattina Jace dovette chiedere qualche spiegazione in più per riuscire a capire l’umore del fratello.
“E quindi?”
Alec voltò la testa di lato, per riuscire a guardare Jace. Erano così diversi, pensò. Opposti, non solo caratterialmente, ma anche fisicamente. Jace era biondo, luminoso come il giorno, Alec era moro, ombroso come la notte.
Erano il sole e la luna ma, contrariamente a quanto succede ai corpi celesti, che non stanno mai in cielo nello stesso momento, Jace e Alec non avrebbero potuto vivere separati. Non potevano fare a meno uno dell’altro, troppo uniti nel profondo per essere in grado di rinunciare uno all’altro.
Ciò che li univa andava al di là di qualsiasi legame di sangue. Era forte, calcificato nelle loro anime.
Alec ripensò momentaneamente alla storia che aveva raccontato a Magnus, quella su come si era procurato la cicatrice, e con la mente vagò al pomeriggio passato in ospedale per mettere i punti. Maryse guardava con apprensione il figlio mentre, con la schiena nuda rivolta verso il dottore, si faceva visitare da quest’ultimo. Alec ricordava le mani calde dell’uomo sulla sua pelle, così in contrasto con la temperatura fredda degli strumenti metallici che usava per visitarlo. Ricordava bene lo sguardo angosciato impresso nelle iridi scure – e di norma indecifrabili – della madre, ma ancora meglio ricordava l’espressione preoccupata e terrorizzata di Jace. Era spaventato all’idea che potesse succedergli qualcosa e Alec sapeva che si sentiva in colpa, anche se colpa sua non era. Era stato lui ad accettare quella sfida.
‘Dobbiamo mettere dei punti, signora. Ma non è niente di grave.’
A quelle parole, Maryse si era lasciata andare ad un sospiro liberatorio, rilassato.
‘Quando può metterglieli?’
‘Anche subito, signora. Può aspettare fuori, se vuole.’
‘No, preferisco rimanere, se posso.’
‘Certo. E tu, piccolo?’

Il dottore aveva guardato Jace, rimasto in silenzio a fissare Alec fino a quel momento.
‘Rimango anche io, signore. Alec starà bene?’
‘Alec starà benissimo. Gli rimarrà solo una cicatrice.’

Jace aveva annuito e si era avvicinato al fratello. Non si erano detti nulla, non si erano nemmeno toccati. Jace era semplicemente rimasto al fianco di Alec mentre il medico gli faceva passare un ago da un lembo di pelle all’altro, chiudendo la ferita. In quel momento, entrambi capirono che quello sarebbe stato il loro posto per tutta la loro vita: uno di fianco all’altro. Insieme, per sostenersi, per coprirsi le spalle.
“Alec, sono consapevole della mia ultraterrena bellezza, ma potresti smettere di fissarmi? Inizi a spaventarmi, sicuro di stare bene?”
“Sto bene… sono solo preoccupato.”
“Per cosa?” Jace tornò serio.
“La quotidianità. Questi giorni con Magnus sono stati bellissimi, ma so che a scuola non posso comportarmi come ho fatto in questo weekend.”
“Perché le voci girerebbero e quell’arpia della Herondale spiffererebbe tutto a mamma e papà.”
“Esatto.”
“Che palle. La odio.” Jace sbuffò, frustrato.
“Mi preoccupa anche un’altra cosa,” cominciò Alec, in un sussurro. Non era abituato ad essere così eloquente riguardo le sue questioni, tendeva sempre ad ascoltare gli altri, piuttosto che parlare di sé, ma Jace gli aveva chiesto se avesse cominciato a parlare anche con lui, coinvolgendolo di più, ed era quello che Alec voleva fare.
Jace si sistemò meglio sul fianco, un braccio sotto al cuscino, “Cosa?”
“Dovrei tenere segreto il rapporto con Magnus, ma ho paura di chiedergli troppo…”
“Alec,” cominciò Jace, un sorriso rilassato ad aprirgli il viso, “Quel ragazzo farebbe di tutto, per te. Se gli chiederai di aspettare, lui lo farà.”
“Ma non è giusto nei suoi confronti.”
“Nemmeno forzarti a fare qualcosa che non vuoi fare è giusto.” Ribatté. “Parlargli. Sono sicuro che arriverete ad un compromesso.”
“Tu dici?”
“Dico. Sono piuttosto sicuro che sono poche le cose che Magnus non farebbe pur di continuare a vederti.”
“Vuoi dire che lo conosci meglio di me?” scherzò Alec.
Jace rise: “Anche se fossi interessato, dubito che l’interesse sarebbe reciproco. Quel ragazzo è completamente immune al mio fascino stratosferico.”
Alec si lasciò andare ad una risata, “Un caso unico, insomma.”
“Esatto! Come pensi possa sentirsi il mio ego?”
“A pezzi, immagino!”
Jace si girò a pancia in su, una mano sopra ad essa per cercare di placare la risata. “Sul serio, Alec. Gli piaci da morire, si vede da come ti guarda. Troverete una soluzione, ne sono sicuro.”
“Lo spero, davvero.”

*

Alec era in preda all’ansia. Non sapeva come doveva gestire la cosa, in fondo avevano passato solo un weekend insieme, giusto? Che diritto aveva di avanzare delle pretese, o di pensare che quello che avevano passato sarebbe stato il preludio di una possibile relazione?
Sicuramente le cose che si erano detti faceva pensare che qualcosa di serio poteva nascere.
Quello che tu hai detto.
Gli suggerì malefica la sua coscienza, facendogli tornare a galla l’insicurezza. Era vero. Solo lui aveva parlato delle cose che più lo terrorizzavano, ma ciò non voleva dire che Magnus aveva dato segni di disinteresse a costruire qualcosa con lui. Avevano parlato di tante cose, alcune più serie di altre ed era nato qualcosa, tra di loro, qualcosa a cui Alec non sapeva dare un nome. Era decisamente troppo presto per cercare di etichettare quello che lui e Magnus avevano, ma non era troppo presto per sapere lui cosa ne pensasse, giusto?
Gli sudavano terribilmente le mani e nemmeno passarle una cosa come dodici volte sul tessuto dei jeans lo aiutava a calmarsi. Continuava a guardare fuori dal finestrino, seduto sull’autobus, nell’attesa di veder comparire la sua fermata e di conseguenza la figura di Magnus, a cui aveva mandato un messaggio dopo la chiacchierata con Jace.
Gli aveva scritto che doveva parlargli e Magnus si era trovato d’accordo.
Quando vide la sua fermata e con essa anche la figura sgargiante di Magnus, iniziò a sudare freddo, in preda ad un crudele panico che gli attanagliava le viscere. Strinse le mani a pugno e chiuse gli occhi, strizzandoli più forte che poté.
Quando sentì l’autobus fermarsi, una mano appoggiata sulla spalla glieli fece aprire.
“Devi stare tranquillo, fratello.”
Jace.
Alec apprezzava davvero il suo tentativo di rassicurarlo, ma temeva sul serio che avrebbe rovinato tutto, che avrebbe mandato all’aria l’unica cosa bella che aveva da tempo immemore e avrebbe distrutto qualcosa che forse era destinato ad essere speciale.
Deglutì, gesto che risultò alquanto inutile: la sua gola era terra bruciata dal sole, un deserto colmo di cactus.
Seguì Jace e Iz fuori dall’autobus e, mentre loro si avviavano verso Clary e Simon, Alec rimase impietrito qualche istante, imbambolato a guardare Magnus che l’aveva già adocchiato. Era bello. Dio, se era bello. Era qualcosa di magico, di meraviglioso. Gli si avvicinò, attratto dalla sua aura come la luna è attratta dalla terra, gravitando insieme ad essa intorno al sole.
Non riusciva a controllare il suo corpo, si stava avvicinando senza che il suo cervello gli mandasse l’impulso di farlo, era come se fosse stato guidato dai movimenti involontari dei suoi battiti cardiaci: il suo cuore reclamava la vicinanza di Magnus e lui, istintivamente, obbediva.
“Buongiorno, fragolina.”
Alec rimase qualche secondo a fissarlo, a perdersi nell’ambra delle sue iridi, quel colore così caldo e confortante che associava alla stessa sensazione di benessere che gli dava il fuoco acceso nel camino d’inverno.
“Buongiorno.”
Avrebbe voluto baciarlo. Avrebbe davvero voluto farlo, ma c’erano occhi che avrebbero visto e voci che avrebbero parlato. Se era arrivato a capire che non gli importava di cosa potessero pensare gli amici dei suoi genitori su di lui, convinto che non avessero il diritto di possedere la sua felicità, non era ancora riuscito a superare lo scoglio di quello che potessero pensare sua madre e suo padre. Per quanto potesse non concordare con le loro idee, una parte di lui ancora non voleva ferirli, non voleva deluderli.
“Alexander, stai bene?”
“S-si,” si scosse dai suoi pensieri, “Volevo solo… parlarti.”
“Ti ascolto.”
“Io.. io..” Alec sentì il viso andare in fiamme e la lingua arricciarsi su stessa, come se non avesse la minima intenzione di collaborare. Non era mai stato bravo in queste cose. Anzi, non aveva mai fatto certe cose. Qual era il modo giusto di dire a qualcuno che vuoi continuare a frequentarlo, ma senza essere troppo espliciti in pubblico?
“Tu?” lo incoraggiò l’altro.
“Non possiamo farci vedere, Magnus.”
Bravo, Alec, complimenti. Per nulla brutale, davvero. Avrebbe voluto darsi uno schiaffo da solo.
“Lo so, Alexander. Credi che non ti abbia ascoltato, ieri pomeriggio?”
Alec rimase colpito da quella risposta e dal fatto che Magnus non sembrava per nulla arrabbiato con lui o scocciato per quella richiesta. Il ragazzo lo stava semplicemente capendo e assecondando. Alec lo apprezzava davvero tantissimo. “Non è per te, voglio che tu lo sappia, questo. E voglio anche che tu sappia che…” deglutì, di nuovo a vuoto. Tra la gola e la lingua, l’interno della sua cavità orale sembrava fatta di cartavetra, “che non voglio rinunciare a questo…” indicò prima se stesso poi Magnus, non sapendo che nome dare alla cosa nata tra di loro.
Magnus, con grande sorpresa di Alec, si distese in un sorriso tenero, “Nemmeno io voglio rinunciarci, Alexander. E so che hai ancora bisogno di tempo. Non voglio forzarti a fare nulla, intesi?”
“Grazie.” Alec si lasciò andare ad un sospiro liberatorio e gli sorrise, grato.
“Non devi ringraziarmi, fragolina.”
“Hai trovato un nome nuovo?”
Magnus sorrise compiaciuto: “Ti piace?”
“Non mi pronuncerò, Magnus.”
“Stai rendendo la scelta estremamente difficile, lo sai, zuccherino?”
“Potresti cominciare a chiamarmi semplicemente Alec.”
“No. A questa richiesta mi oppongo fermamente.”
“Perché, che ha Alec che non va?”
“Niente, solo che tutti  ti chiamano Alec e io non voglio essere tutti.
Alec sorrise, facendo comparire due fossette sulle guance arrossate.
“Non sei tutti, Magnus.”
“Con questa risposta ti sei guadagnato un bacio, fragolina.” Magnus fece un passo verso Alec, il viso abbastanza vicino a quello del ragazzo perché solo lui potesse sentire quello che stava per dirgli, ma non così tanto da far sembrare la loro vicinanza sospettosa. “Non vedo l’ora di averti tutto per me per poter dartene uno come si deve.”
Alec arrossì e si umettò le labbra, come se quel gesto gli portasse alla memoria il sapore di Magnus.
“Potremmo stare fuori a pranzo.” Suggerì, gli occhi che non riuscivano a scollarsi dalla bocca del ragazzo orientale.
“Si può fare, vasetto di miele.”
Alec spostò gli occhi su quelli di Magnus, accigliato: “Vasetto di miele è terribile.”
“Dovevo fare in modo che staccassi gli occhi dalla mia bocca, pasticcino, o non sarei riuscito a mantenere la promessa.” Spiegò piccato, “E poi non è vero. Tu sei dolce, il miele è dolce. È perfetto!”
“Nient’affatto!”
“Sei un guastafeste!”
Alec sbuffò dal naso: “Muoviti, andiamo. O arriveremo tardi!”
“Come vuoi, paparino.”
Magnus pronunciò quella parola con la voce arrochita, un suono simile alle fusa di un gatto, gli occhi felini e lo sguardo scaltro, poi, non facevano altro che aumentare quella sensazione in Alec, che nel frattempo era arrossito così intensamente da aver scoperto una nuova tonalità di viola.
“Magari comincerò a chiamarti così!”
“NO!” esclamò Alec, il viso bollente.
Magnus esplose in una risata a cui Alec rispose con un’occhiataccia e, insieme, si incamminarono verso l’entrata della scuola.

*

In uno spazio vicino agli spalti deserti del campo da football, l’aria frizzante di ottobre accarezzava i loro visi. Alec osservava Magnus che teneva gli occhi chiusi e si godeva la sensazione del sole sulla pelle. Era simile al caramello liquido, la pelle di Magnus, liscia e priva di imperfezioni, fossero esse un neo o un punto nero. Gli sembrava di guardare la tela perfetta di un quadro bellissimo, senza tempo, destinato a non mutare mai. Chissà se Magnus sarebbe mai stato vittima del tempo o avrebbe avuto l’aspetto di un diciottenne anche a quarant’anni. L’assurdità di quel pensiero lo fece sorridere, reputandosi uno sciocco: certo che Magnus sarebbe invecchiato, anche se sicuramente l’avrebbe fatto  più che bene. I suoi capelli, di certo, non sarebbero caduti. Alec aveva la forte convinzione che Magnus si impegnasse a fondo per prendersi cura di loro. I suoi sospetti erano accentuati dal fatto che lui li avesse toccati, quei capelli, ed era umanamente impossibile che fossero così morbidi di natura, sicuramente dovevano essere il frutto di qualche trattamento speciale.
“Sei silenzioso, orsacchiotto.” Magnus teneva ancora gli occhi chiusi, la testa lasciata cadere un poco all’indietro (Alec provò a non indugiare troppo sulla gola oscenamente esposta di Magnus, relegando in un angolo remoto del suo cervello la voglia di lasciarci un morso leggero), mentre le mani erano appoggiate alle ginocchia delle gambe incrociate all’indiana. Sembrava stesse meditando. La tunica viola che indossava, poi, portata sopra a degli strettissimi pantaloni dello stesso colore, non faceva altro che aumentare quell’impressione. Alec si concesse una lunga e attenta occhiata al profondo scollo a V dell’indumento, che faceva intravedere, oltre ad almeno quattro collane di diversa lunghezza, anche le clavicole di Magnus, prima di parlare.
“Sono impegnato.”
“A fare cosa, sfogliatina?”
“A guardarti.”
Magnus aprì solo un occhio, assumendo quell’espressione che ad Alec ricordò un gatto acciambellato la cui attenzione viene attirata da un rumore particolarmente interessante.
“E ti piace ciò che vedi?”
“Hai davvero bisogno di una risposta?”
“Beh, sì.”
Alec rise e si sporse verso Magnus quel tanto necessario affinché la propria bocca sfiorasse la sua guancia. “Mi piace tantissimo,” gli sussurrò, lasciando una serie di piccoli baci prima sulla guancia e poi lungo tutto la linea della mascella. Trovando, a questo punto, impossibile combattere quella voglia che poco prima aveva represso, scese con un movimento lento, controllato e abbastanza sicuro (cosa di cui si stupì fortemente) fino a che non raggiunse il collo del ragazzo, mordicchiando, tra un bacio e l’altro, lembi di pelle. Magnus fu coperto ovunque da un’ondata di piacevoli brividi e, guidato dall’istinto, immerse una mano tra i capelli di Alec, mentre appoggiava l’altra sotto al suo mento, guidandolo ad alzare il viso. Alec lo guardava con gli occhi languidi, le iridi che saettavano andando a cercare quelle di Magnus, che erano ben felici di ricambiare quello sguardo abbagliante.
“Ti devo un bacio,” soffiò Magnus, stupendosi di come la sua voce uscì strozzata dall’emozione. Alec deglutì ed annuì, lentamente, avvicinandosi ancora di più. Le loro labbra che si sfioravano appena. Magnus capì che Alec voleva essere baciato, così azzerò la distanza tra loro, facendo scontrare le loro bocche in quel bacio che entrambi avevano agognato da quando quella mattina si erano visti alla fermata dell’autobus.
“Credo tu abbia abbondantemente pagato il tuo debito.”
Magnus rise, “Direi di sì.”
Alec ricambiò con un sorriso, facendo ricomparire quelle fossette sulle guance che, Magnus lo aveva appena deciso, erano diventate una delle sue caratteristiche preferite di Alec. Lo rendevano adorabile in una maniera che sfiorava l’impossibile.
“Ho una proposta da farti,” disse di getto il maggiore.
“Ti ascolto.”
“Mi hanno dato un compito, per il corso di fotografia. Vuoi accompagnarmi a fare queste foto?”
“Certo! Mi incuriosisce l’idea di vederti nel tuo campo.”
“Il mio campo… non è proprio il mio campo, Alexander. Sto imparando.”
“Dubitare di te stesso non ti si addice, Magnus. Sai benissimo di essere bravo. Vuoi solo sentirtelo dire.”
“Hai ragione, non posso negarlo.” Magnus fece svolazzare una mano anellata, facendo tintinnare i braccialetti al polso e ridere Alec.
“Quando devi cominciare?”
“Abbiamo una settimana di tempo. Mi piacerebbe cominciare subito, per avere più varianti, più soggetti…”
“D’accordo. Possiamo fare domani pomeriggio.”
“Va bene, zuccherino.”
Alec scosse la testa e gli lasciò un bacio a stampo che Magnus fu ben felice di ricevere.

*

La giornata di Alec, tutto sommato, era stata piacevole. Dopo l’iniziale ansia provata la mattina, aver chiarito le cose con Magnus aveva fatto si che fosse in grado di godersi il resto del giorno. Dopo pranzo, erano tornati ognuno nella sua classe e si erano visti dopo le lezioni per studiare. Avevano optato per la biblioteca, in modo da riuscire a concentrarsi meglio senza essere troppo distratti l’uno dall’altro, ma Magnus, a quanto pareva adorava distrarlo.
Alec riusciva ancora a sentire la sensazione calda della mano di Magnus che, nascosta sotto al banco, si posava sulla sua coscia.
‘Magnus,’ Alec aveva sussurrato, imponendosi di tenere gli occhi fissi sulla pagina di storia che stava studiando. Aveva letto l’attacco di Sarajevo almeno cinque volte prima di capire che se Magnus avesse continuato a tenere lì la sua mano, la Prima Guerra Mondiale non l’avrebbe mai imparata.
‘Che c’è, trottolino?’
‘La mano…’
‘Che ha che non va, la mia mano?’
‘Mi distrae.’
‘Ma davvero?’

Magnus, appurò Alec in quell’istante, era profondamente malvagio. Infatti, quella specie di mezzo demone che stava al suo fianco e si divertiva a torturarlo, aveva cominciato a muovere lentamente il palmo aperto per tutta la lunghezza della sua coscia, facendo rabbrividire Alec, che aveva smesso di respirare. Si passò la lingua sulle labbra, perché improvvisamente in quella biblioteca sembrava avesse preso residenza il fuoco infernale, tanto che faceva caldo, e lui sentiva la bocca secca. Gesto che fu praticamente e profondamente inutile: la sete che sentiva non sarebbe certo stata placata dall’acqua e il calore che gli faceva ribollire il sangue nelle vene non era certo dovuto alla temperatura della stanza. Tutto ciò che lo scombussolava era Magnus.
Magnus e quella sua mano dalle dita lunghe, affusolate e anellate. Deglutì, al pensiero di un possibile contrasto di temperatura tra il calore della pelle del ragazzo e il freddo del metallo degli anelli contro la propria pelle, e rabbrividì di nuovo.
Poi Magnus decise di avere pietà di lui e smise di accarezzarlo in quel modo.
‘Se non togli la mano, siamo punto e accapo, Magnus.’
‘Non posso toccarti, quindi?’
‘Non se vuoi che impari qualcosa.’
‘Posso insegnarti tutto quello che vuoi, passerottino.’
La voce roca di Magnus lo portò ad alzare gli occhi su di lui, a cercare quello sguardo che bramava su di se più di quanto si sarebbe mai immaginato. Era uno sguardo, quello, che lo faceva sentire desiderato e desiderabile, qualcosa che non aveva mai provato in vita sua. Qualcosa che solo Magnus era in grado di fargli provare.
‘Intendevo imparare qualcosa attinente al programma scolastico,’  Gli tremò la voce, risultando poco convincibile anche alle proprie orecchie. Magnus gli rivolse un sorriso malandrino e tolse la mano.
‘Pignolo!’
‘Tentatore…’
 sorrise Alec, alzando solo un angolo della bocca e incatenando gli occhi a quelli di Magnus per qualche istante prima di riabbassargli sul suo libro di storia. Magnus, vicino a lui, gli pizzicò un fianco e tornò a studiare chimica.
“Alec, tuo padre ti ha fatto una domanda!” la voce di sua madre lo riportò alla realtà. Era seduto a cena con la sua famiglia e la sua mente aveva vagato fino a ripercorrere i momenti con Magnus. Quindi portò la sua attenzione sul padre, che lo guardava con i suoi scuri occhi indagatori. Alec si chiese da dove provenisse il colore dei propri occhi, considerando che entrambi i suoi genitori li avevano neri. Isabelle li aveva ereditati sicuramente da Maryse, dal momento che avevano la stessa forma, oltre che lo stesso colore.
“Scusa, papà. Puoi ripetere?”
Robert, la postura rigida e le spalle costantemente tese, sbuffò. Stava a capotavola, Maryse stava alla sua destra, a sinistra della madre c’era Max e Alec stava vicino al fratellino, dall’altro capo del tavolo proprio di fronte a Robert. Izzy vicino a lui e Jace tra la sorella e il padre.
“Volevo sapere il motivo per cui ti sei allontanato, ieri mattina.” Congiunse le mani tra di loro, appoggiandole in grembo. “I tuoi fratelli erano con noi, perché tu non sei rimasto?”
Alec sostenne lo sguardo indagatore del padre. Non voleva dimostrarsi intimorito da quella specie di squallida indagine – perché era di questo che si trattava, dal momento che Robert Lightwood non faceva mai domande solo per parlare, ma per carpire informazioni. A quanto pare, l’insolito comportamento del maggiore dei suoi figli, di norma così ubbidiente e mansueto da non allontanarsi dal nucleo familiare per cercare di mantenere il più possibile quell’apparenza di famiglia devota e perfetta, l’aveva fatto insospettire.
“Ho ricevuto un messaggio e ho trovato più educato allontanarmi, piuttosto che rimanere dov’ero e dare l’impressione di non essere interessato alla conversazione, o alle persone coinvolte in quella conversazione.”
Alec si batté mentalmente il cinque da solo: era stato calmo, aveva spiegato le sue motivazioni con tranquillità senza balbettare o mostrarsi in qualche modo intimorito dal padre. Era soddisfatto di se stesso.
Robert lo studiò per qualche istante, gli occhi impercettibilmente socchiusi, prima di afferrare di nuovo la forchetta che aveva lasciato a lato del piatto e infilzare una patata al forno, che portò alla bocca. Masticò lentamente, prima di parlare di nuovo.
Anche quello, pensò Alec, era un test: sapeva che lo stava facendo per notare la sua reazione davanti al silenzio. Ma Alec aveva detto la verità – più o meno – quindi non aveva niente di cui preoccuparsi troppo.
“Peccato. Lydia ha chiesto di te. È una ragazza così carina, dovresti invitarla ad uscire.”
Alec per poco non si strozzò con la sua saliva. Ecco dove voleva andare a parare. Si impose di mantenere la calma, di non esplodere di fronte ad una richiesta tanto insolente quanto inopportuna.
“Io e Lydia siamo solo amici,” rispose educato.
“Da un’amicizia possono nascere tante cose, figliolo.”
“Non con Lydia, papà.”
“Perché?”
Perché mi piacciono i maschi.
“Perché non mi piace in quel senso.” E forse era per il fatto che temesse che suo padre leggesse troppo tra le righe, arrivando, contro ogni logica, a leggergli nella mente e capire l’assoluta verità, ma si affrettò ad aggiungere, “È più una sorella,” mentendo spudoratamente. Lui e Lydia si passavano gli appunti, ogni tanto studiavano insieme e facevano coppia a biologia, quando dovevano fare esperimenti su poveri animali da vivisezionare. Si vedevano la domenica in chiesa perché i Branwell, proprio come i Lightwood, erano una famiglia di spicco, ma si riduceva tutto a questo. Un rapporto scolastico, ecco quello che li legava. Non si poteva nemmeno definire una vera amicizia, la loro. Ma questo non era necessario che suo padre lo sapesse.
“Capisco. Un vero peccato, è davvero carina.”
“Abbiamo capito che è carina, papà! Non serve ripeterlo all’infinito!” intervenne Isabelle, guadagnandosi un’occhiataccia dalla madre.
“Non è necessario reagire così, Isabelle.”
“Nemmeno organizzare un matrimonio mi sembra necessario.”
“Sei sempre così melodrammatica! Tuo padre e tuo fratello stavano semplicemente conversando.”
Le due donne si guardarono per un attimo che ad Alec parve interminabile. Gli sembrò che Isabelle stesse per rispondere con un commento pungente, ma invece, si scusò. Non abbassò gli occhi e in quel gesto Alec ci lesse la ribellione tipica di Isabelle, il fatto che, seppur avesse deciso di scusarsi, uccidendo sul nascere una possibile discussione con la madre, non si stava facendo mettere in soggezione dallo sguardo severo della donna.
Ciò fece calare un silenzio tombale, interrotto solo dalle posate che si scontravano con i piatti.
“Oggi a scuola abbiamo fatto un tema!” esordì Max, rompendo il silenzio, e guadagnandosi tutta la gratitudine di Alec, oltre che il suo interesse.
“Ah, sì?” gli domandò e Max si sistemò meglio sula sedia, voltando il busto di tre quarti per riuscire a parlare meglio con il maggiore dei suoi fratelli.
“Sì: cosa vorresti fare da grande!”
“E tu cos’hai scritto?”
“Che voglio fare l’astronauta!”
Alec si aprì in un sorriso: non lo stupiva il fatto che suo fratello provasse desideri simili, era un bambino estremamente curioso e lo spazio, per lui, altro non era che altro territorio da poter esplorare.
“È un’idea bellissima, Max.”
“Non riempire la testa di tuo fratello con sciocchezze, Alec.” lo ammonì Robert, senza nemmeno alzare lo sguardo dal suo piatto. Alec fu rammaricato da questa cosa perché una parte di lui avrebbe davvero voluto che suo padre vedesse l’occhiata di fuoco che gli stava riservando. Sguardo che non sfuggì a sua madre, che però non commentò. Quando si trattava di Max, Maryse diventava più morbida, forse perché avevano rischiato di perderlo, tre anni prima.
L’espressione affranta sul viso di Max, però, gli diede il coraggio sufficiente di fare in modo che la sua occhiataccia si tramutasse in parole.
“Solo perché non le approvi non vuol dire che siano sciocchezze.”
Gli occhi di Robert schizzarono sul suo primogenito, “Temo di non aver capito.”
“Credo che tu abbia capito perfettamente, invece. Non vedo che male ci sia a fare l’astronauta.”
“È una fantasia infantile, Alec.”
“Non c’è niente di infantile nel provare il desiderio di andare nello spazio. Se l’avessero pensata tutti come te, nessun uomo sarebbe mai andato sulla Luna e noi non potremmo studiarla!”
Alec sentì chiaramente i denti del padre scontrarsi gli uni contro gli altri, un suono che assomigliava alla macabra danza di ossa che si scontrano tra di loro dentro ad una ciotola troppo grande. Osservò la mascella dell’uomo irrigidirsi, mentre nelle sue iridi passava una luce infuocata. L’aveva fatto arrabbiare.
“Quello che Alec vuole dire,” intervenne Maryse, una mano posata delicatamente su quella del marito, “È che non necessariamente potrebbe essere una fantasia infantile, quella di Max. Potrebbe avere gli stessi desideri, da grande.”
Robert si rilassò – cosa che non si poteva dire di Alec, che aveva l’impressione di essere seduto su un cactus – e spostò lo sguardo dal figlio alla moglie. Alec sapeva che la rabbia non gli era passata, che sarebbe stata latente in lui chissà per quanto, ma sapeva anche che l’unica in grado di gestire e ammansire Robert era proprio sua madre.
“Ma certo,” disse l’uomo a denti stretti, lasciando cadere in quel modo la questione.
Alec sostenne il suo sguardo ancora qualche istante, poi tornò a prestare attenzione a Max, che si lanciò nella descrizione dettagliata del suo tema.
Mentre ascoltava suo fratello, Alec si rese conto che quella era la prima volta che rischiava di discutere con il padre. E capì che forse stava cambiando più di quanto si sarebbe mai aspettato.

*

Alec fissava il buio della sera dalla finestra rotonda dello studio. Stava rannicchiato su di essa, le braccia che abbracciavano le gambe e il mento appoggiato alle ginocchia. Non sapeva quanto tempo fosse passato, esattamente, probabilmente qualche ora, da quando era salito lassù dopo cena.
Sapeva di essersi comportato come non aveva mai fatto, ma stranamente non si sentiva in colpa. O almeno, non ci si sentiva troppo. Una parte di lui era attanagliata dal rimorso per essersi rivolto a suo padre in quel modo, suggerendogli che gli aveva mancato di rispetto. E quale bravo figlio manca di rispetto ai propri genitori?
Ma si stupì nel costatare che dentro di se c’era qualcosa che andava a placare il rimorso, una vocina che gli sussurrava che aver tenuto testa al padre, difendendo Max e facendogli notare che la sua opinione non doveva necessariamente essere legge, era stata la cosa giusta da fare. Era una discussione, nulla di più. Nelle famiglie capita. Non significa necessariamente che venga a mancare il rispetto.
Il fatto era che Alec diventava terribilmente protettivo quando si trattava dei suoi fratelli, di Max in particolare, che era un bambino e non sapeva ancora difendersi da solo, e non sopportava l’idea di vedere sul suo faccino quell’espressione sofferente. C’era rimasto male e Alec non l’aveva sopportato.
Così aveva reagito ed era esploso come un fuoco d’artificio.
Sospirò, guardando la strada. Era buia, circondata dall’oscurità interrotta solo dalla luce dei lampioni.
“Alec…?” una voce lo fece sussultare, dal momento che non si era accorto che qualcuno stesse entrando in quella stanza. Si voltò, incrociando gli occhi scuri di Isabelle. Erano più neri della notte che fuori mangiava i dettagli di New York ed erano molto più belli. Perché, a differenza del nero della notte che inghiotte ogni cosa, trasformandola solo in un’accozzaglia di figure prive di dettagli, le iridi di Isabelle riuscivano a brillare, come se fossero state puntellate da una miriade di minuscoli diamanti. Contro ogni logica, perché si trattava di un ossimoro bello e buono, gli occhi di Isabelle erano pieni di un’oscurità luminosa.
“Ehi, non ti ho sentita arrivare.”
Izzy si avvicinò, i suoi piedi nudi non facevano il minimo rumore sul parquet della stanza, e si sistemò alla finestra insieme a lui. Lo guardò e Alec ricambiò quello sguardo, osservando i dettagli del viso pulito della sorella. Senza trucco sembrava ancora più giovane di quanto non fosse. Alec la trovava persino più bella, più naturale e meno artificiosa. La sua pelle liscia la faceva assomigliare ad una bambola di porcellana, sebbene non ne avesse la fragilità. Isabelle aveva un fuoco, dentro, che la temprava giorno dopo giorno. Una forza che non l’avrebbe mai abbandonata e che la rendeva una guerriera indomita.
“Non volevo disturbarti.”
“Non l’hai fatto.”
Isabelle gli sorrise, “Hai fatto bene, sai?”
Alec non aveva bisogno di chiederle a cosa si riferisse.
“Lo pensi sul serio?”
“Certo.”
“Non pensi abbia esagerato?”
“No. Lui esagera, come sempre. Mette le cose troppo sul piano razionale: è fermamente convinto che ogni cosa debba avere un’utilità concreta per essere ritenuta di valore.”
“Esatto. Non accetta che qualcuno possa uscire dalla razionalità, ogni tanto, e lasciarsi andare a delle fantasie.”
“Lo so. Altrimenti non sarebbe così rigido.”
Alec sospirò e Isabelle gli accarezzò un braccio: “Sei stato bravo,” gli disse, “Max si è sentito spalleggiato mentre dicevi quelle cose a papà. Gli si leggeva in faccia.”
“Non si merita di essere trattato così. Se vuole andare nello spazio, da grande, ci deve andare. Deve avere la libertà di essere chi vuole.”
“Anche tu, Alec.”
“Io sono abituato a nascondermi, Iz. Non voglio che capiti anche a Max, però. Non deve rinunciare ad una parte di sé solo perché nostro padre non approva.”
“Vedi, Alec, a lui non succederà perché ci sarai tu ad impedire che accada. Ti occupi di lui da quando era un bambino, cercherà sempre il tuo appoggio e io so che tu lo incoraggerai sempre a fare ciò che lo renderà felice.”
Alec sorrise e sciolse la presa intorno alle sue gambe per sporgersi verso Isabelle e inglobarla in un abbraccio.
“Come farei senza di te, Iz?” le baciò i capelli.
“Ce la faresti comunque, Alec. Sei più forte di quanto credi.” Lo abbracciò stretto, stretto, “Però mi piace l’idea che ti fa piacere avermi intorno!”
Alec rise, “Sei la mia sorellina, Iz. Ti vorrò sempre intorno!”
“Anche quando non vivremo più sotto lo stesso tetto?”
“Certo.”
“Era quello che volevo sentirmi dire!” esclamò soddisfatta, sciogliendo l’abbraccio. Si sistemò di nuovo sulla finestra, facendo incastrare le gambe tra quelle lunghe di Alec.
“Allora, dimmi,” cominciò, “cos’avete fatto oggi tu e Magnus?”
“Studiato.”
“Come studiano Jace e Clary o studiato davvero?”
Alec rise, tirando leggermente la testa all’indietro: “Studiato davvero. Siamo andati in biblioteca per evitare distrazioni.”
Distrazioni,” ripeté Isabelle maliziosa, svirgolando le sopracciglia perfette.
“Oh, Iz, piantala!”
“Mai! Adoro metterti in imbarazzo.”
Alec, siccome era il maggiore e vantava di una certa maturità, si esibì in una linguaccia perfetta a cui Isabelle rispose con una risata.
Era un suono bellissimo, pensò Alec. Un suono che aveva sempre associato alla sicurezza, alla stabilità. Isabelle era sempre stata il faro che illuminava l’oscurità di Alec, quella che viveva nel suo cuore e temeva di non saper cacciare. Isabelle l’allontanava un po’, quella tenebra, ma Alec stava imparando che se avesse voluto liberarsene totalmente, avrebbe dovuto diventare la propria luce, il proprio faro. Doveva imparare a diventare il punto fermo di se stesso. Solo in quel modo, sospettava, sarebbe stato in grado di tirare fuori tutta la forza che Izzy pensava che lui avesse.

*

Alec e Magnus avevano deciso, per la loro giornata destinata alla fotografia, di muoversi in metropolitana. Saltavano da un treno all’altro, muovendosi più o meno agilmente tra la folla e Magnus, quando vedeva scene interessanti, si piazzava dietro l’obiettivo e scattava.
Era bello vedergli fare qualcosa che amava tanto. L’energia che sprigionava mentre si lanciava in discussioni su come andavano regolate le ISO e l’apertura dell’obiettivo per rendere la foto più o meno luminosa aveva fatto si che anche Alec si appassionasse.
Era travolgente, Magnus. E Alec l’avrebbe ascoltato per ore.
“Le scene di vita quotidiana, ecco cosa mi piace fotografare.” Disse Magnus, mentre erano seduti dentro all’ennesimo treno.
“E come mai?”
Magnus armeggiò con la macchina fotografica qualche istante prima di voltarsi verso Alec, “Perché sono quelle che definiscono gli umani, umani. Voglio dire… è nella quotidianità che troviamo la natura degli esseri umani, che capiamo come reagiscono ai problemi che le giornate portano, piccoli o grandi che siano. Una madre che deve fare due lavori per mantenere il figlio a scuola, ad esempio. La sua tenacia la vedi durante la sua giornata tipo, non la vedi, quando, ad esempio, si prende una serata libera. Le eccezioni non mostrano mai l’intera essenza, ma solo la facciata.”
“Quindi di quella madre non vuoi vedere solo l’aspetto rilassato che appare mentre si prende una serata per sé dopo tanti sacrifici, ma vuoi immortalare quei sacrifici?”
“Esatto, perché sono anche quelli, soprattutto quelli, che l’hanno formata, che probabilmente l’hanno temprata.”
“Vuoi fotografare la verità in un mondo di apparenze, Magnus. Sei sicuro di non voler riuscire nell’impossibile?”
“Non smorzare la mia vena artistica, sfogliatina!”
“Io non voglio smorzare nulla, Magnus. La tua idea mi piace tantissimo.”
Magnus gli sorrise e gli lasciò un fugace bacio sulla guancia. “Grazie.” E forse fu il modo in cui Alec lo guardò languido, o il modo in cui le sue labbra si distesero in un sorriso che gli ricordava tanto un luogo dove potersi sentire al sicuro, o forse fu proprio l’insieme di entrambe le cose che portò Magnus a sollevare la macchinetta e scattare prima che Alec avesse il tempo di protestare. Voleva immortalare l’espressione sul viso di Alec per poterla guardare ancora, ancora, ancora e ancora, fino alla fine dei tempi. Voleva che quel ragazzo diventasse la sua quotidianità, quel porto sicuro in cui rifugiarsi e che fa sembrare il mondo meno astioso.
“A tradimento non vale, però.”
“Non è a tradimento. Tu eri lì, tanto bello da far sembrare il tramonto una bazzecola da quattro soldi, e io ho dovuto fotografarti. Ho un obbligo morale, muffin, capisci?”
“Obbligo morale verso chi, esattamente?”
“Me stesso, ovviamente. Non mi sarei mai perdonato se avessi perso l’occasione di fotografare tanta bellezza.”
Alec rise, gli zigomi arrossati e gli occhi bassi. Era incapace di reggere i complimenti diretti e Magnus non capiva proprio il motivo della sua insicurezza. La bellezza di Alexander era palese, la sua prestanza fisica lo era ancora di più: l’altezza, il fisico sinuoso e slanciato, quell’aura misteriosa che lo circondava e lo rendeva irresistibile. E poi… poi c’era il suo cuore, tenuto sotto ad una teca di vetro: si poteva vedere, ma erano pochi quelli che riuscivano a decifrarlo e avevano accesso alle sue emozioni, ai suoi sentimenti. Magnus l’aveva capito fin da subito e si sentiva privilegiato ad essere una delle persone che era riuscita a poter entrare dentro a quella teca. Certo, non c’era dentro come potevano esserlo Isabelle o Jace, ma sapeva che Alec, con il tempo, l’avrebbe fatto entrare completamente. E Magnus non vedeva l’ora di aver completo accesso a quella parte di Alec perché la bellezza del suo cuore rendeva quasi nulla la sua bellezza esteriore.
Scattò un’altra foto, come promemoria di quel filo di pensieri e Alec alzò immediatamente lo sguardo su di lui.
“Smettila!”
“Perché?”
“Perché ci sono tante cose da fotografare e non devi sprecare memoria per me.”
“Non è memoria sprecata, muffin. Fotografarti è il miglior uso che posso fare dei giga presenti nella schedina.”
“Stai esagerando, adesso.”
“Nient’affatto, girasole.” Disse Magnus risoluto, “Potrei dedicarti un intero album!”
Alec sorrise, timido, e poi dopo essere rimasto in silenzio qualche istante si decise a vincere la sua insicurezza e chiedere, impacciato, “Fanne una insieme a me.”
Magnus lo guardò, ma Alec non ricambiò lo sguardo. Si stava torturando le mani, nascondendole dentro alle maniche lunghe del maglione blu scuro che indossava. Tendeva a farlo quando era a disagio, cercava di nascondersi per coprirsi agli occhi del mondo. Ma Magnus non accettava che si coprisse ai propri occhi, così gli afferrò le mani e gliele tirò fuori dalle maniche, che gli arrotolò fino a gomiti. I suoi occhi indugiarono sui muscoli degli avambracci e sul reticolo di vene in rilievo che adornavano la pelle di Alec. Era un dettaglio che aveva sempre trovato di proprio gradimento e fu ben felice di notare quella caratteristica in Alec.
“Ne farei anche cento con te,” disse, facendo intrecciare le loro dita. “Anche duecento. Comprerei tutte le schedine memoria di questo pianeta e le riempirei di foto nostre.”
Nostre.
Magnus sentì il cuore scalpitare mentre quella parola risuonava nelle proprie orecchie. Era una parola così intima, che richiamava un certo grado di confidenza, di condivisione. E gli piaceva associarla ad Alec.
Il minore sorrise, incatenando gli occhi a quelli di Magnus e stringendo la presa tra le loro dita, “Cominciamo con una?”
Magnus rise, “Certo, fragolina!” e siccome non era un tipo convenzionale e fare selfie con il cellulare come tutte le persone era una cosa decisamente troppo normale, girò la macchina fotografica e scattò dall’alto una foto di loro due. La loro prima foto insieme li ritraeva vicini, Magnus stava dando un bacio sulla guancia ad Alec, mentre quest’ultimo sorrideva, anche se non guardava l’obiettivo. Si vedevano anche le loro mani intrecciate, le loro pelli che creavano contrasto e si univano in un modo perfetto.
Magnus adorava quella foto.
“È bella,” gli disse Alec, sbirciando il display.
“Te la mando, se vuoi.”
“Certo che voglio, perché non dovrei?” Alec appoggiò la testa sulla spalla di Magnus, gli occhi fissi sul display: per quale motivo non avrebbe dovuto volere quella preziosità?
Gli piaceva vedere come risultavano insieme, apparentemente così diversi, ma in realtà così simili.
“Non lo so, in effetti. È una foto così bella che fosse per me l’appenderei ovunque.”
Alec rise: “Sai, la tua modestia è una delle cose che mi piace più di te.”
“La modestia è sopravvalutata, muffin.” Sentenziò Magnus, dandosi un tono saggio, “Quindi sentiti pure libero di elencare le varie cose che ti piacciono di me quando vuoi.”
“Cosa ti fa pensare che ce ne siano necessariamente tante?” lo stuzzicò.
“Non saresti qui, croissant, se non mi trovassi di tuo gradimento sotto molti aspetti.”
Alec si aggiustò meglio sulla sua spalla e tracciò linee invisibili sul palmo di Magnus con il pollice, “Hai ragione.” Dichiarò, “Il fatto è che mi fido di te. Ed è una cosa estremamente rara, per me. Io sono diffidente di natura. Ma con te è stato diverso…”
“Davvero?” chiese Magnus, sinceramente colpito da quella confessione.
Alec annuì contro la sua spalla: “Mi fido solo di tre persone: Izzy, Jace e Max, il più piccolo dei miei fratelli,” specificò, realizzando che Magnus aveva conosciuto solo Iz e Jace, “Poi sei arrivato tu e mi è venuto naturale fidarmi di te. Lo so che è un controsenso perché ci conosciamo da poco, ma… non lo so, sento qualcosa dentro che mi spinge a farlo.”
Magnus appoggiò una guancia alla testa di Alec, “Anche io mi fido di te, muffin,” gli baciò i capelli. “Mi hai stregato, Alexander Lightwood. Hai idea di quante persone l’abbiano fatto?”
“Rivangare la moltitudine dei tuoi ex in un momento simile non mi pare il cas-”
“Zero, Alexander.” lo interruppe Magnus, “Nessuno, tra la moltitudine dei miei ex, mi ha fatto l’effetto che mi fai tu.”
“Oh…”
“Già, oh…
Alec alzò la testa, cercando gli occhi di Magnus. Quando il maggiore ricambiò lo sguardo, Alec rimase a fissarlo un attimo, prima di avvicinarsi di più per baciarlo.
E Magnus, in quel momento, scattò la prima foto che ritraeva un loro bacio. Una foto, ne era sicuro, che avrebbe custodito gelosamente.




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Ciao a tutti e ben ritrovati! :D 
Allooora, come vi è sembrato questo capitolo? Devo essere sincera, ero un po' titubante sulla parte di Robert, questo perché, devo ammetterlo, a parte essermi fatta un'idea vaga del suo carattere per ora non è un personaggio che è stato approfondito più di tanto, ne nella serie ne nei libri, almeno fino a dove sono arrivata a leggere. So qualcosina da ciò che ho trovato leggendo su internet prima di cominciare a leggere i libri, quindi in base a quelle informazioni e a quel poco che si è visto nella serie ho immaginato il suo personaggio. Spero di non averlo troppo fatto uscire dal suo carattere originale, nel caso qualcuno lo conosca meglio e vuole chiarire qualcosa, io sono dispostissima ad ascoltare e ad apprendere per apportare eventuali modifiche lungo il corso della storia! 
Vorrei ringraziare chiunque legga, o abbia messo nei preferiti/seguiti la storia perché davvero non mi aspettavo la leggeste in tanti! *lacrimuccia* *li abbraccia tutti*
Ringrazio anche chiunque trovi il tempo per recensire perché leggere i vostri commenti mi fa tanto piacere, siete dei tesori! 
Alla prossima! <3 

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Capitolo 7
*** 7. ***


Pensava ai cambiamenti, Alec, quando guardava la foto insieme a Magnus, scattata due settimane prima e custodita in una cartella segreta del suo cellulare. Avrebbe tanto voluto usarla come sfondo, quella foto dove loro due erano insieme, le labbra di Magnus sulla propria guancia e sul viso quel sorriso spontaneo che non riusciva mai a trattenere quando si trattava di lui. Magnus si trovava nei paraggi e Alec, istintivamente, sorrideva.
Magnus sorrideva e ad Alec veniva naturale ricambiare quel sorriso come respirare. Era impossibile per lui non farlo. Così come gli veniva impossibile non prestare ascolto a ciò che un angolo del suo cervello gli suggeriva ogni volta che era in sua compagnia: che ruolo avevano uno nella vita dell’altro? Per Alec, rispondere era tutt’altro che facile perché non era sicuro di come chiamare la loro relazione. O meglio, lui definiva Magnus il suo ragazzo e si reputava a sua volta il ragazzo di Magnus, ma sebbene sentisse un senso di appartenenza legarlo all’altro, non aveva mai esposto la questione ad alta voce. E questo lo faceva pensare ai cambiamenti. Magnus gli aveva piacevolmente stravolto la vita. Era stato tante cose per lui: il suo primo bacio, il suo primo appuntamento, sebbene non ne avessero avuto uno ufficiale. Ed era stato il primo a cui non aveva mostrato la sua dura corazza di diffidenza e sarcasmo. E questo cambiamento gli piaceva. Meno gli piaceva di l’idea di apportare cambiamenti al loro rapporto solo perché sentiva la necessità di dargli un nome. Eppure… eppure una parte di lui moriva dalla voglia di poter parlare di Magnus definendolo il mio ragazzo – cosa che, ovviamente, avrebbe potuto fare solo con i suoi fratelli, ma era già qualcosa. Si sentiva uno sciocco, a tratti infantile, a provare desideri simili. Dopotutto, che necessità c’era di etichettare quello che avevano quando l’importante era che l’avessero?
“Alec,” Izzy lo fece sussultare. Indossava la divisa della squadra di lotta – aderente come una seconda pelle – e portava i capelli legati in due spesse trecce attaccate alla testa, le cui estremità scendevano sulle spalle. Si sedette al tavolo della mensa occupato, fino a quel momento, solo da Alec. “Devo farti una proposta,” La ragazza adocchiò Jace sulla porta e gli fece cenno di avvicinarsi. Il biondo, con un vassoio carico di cibo, reduce di una lezione di fisica, raggiunse i fratelli e si sedette al fianco di Alec.
“Gliel’hai già detto?” domandò, agganciando le sue brillanti iridi bicromatiche a quelle carbone di Isabelle.
“Dirmi cosa?” domandò Alec, allarmato. Quando Jace e Izzy facevano piani tra di loro non finiva mai bene per lui.
“Andiamo al Pandemonium, venerdì sera.” Squittì sua sorella.
Il Pandemonium, per Alec, aveva lo stesso significato funesto che hanno gli iceberg per il Titanic: non importa quanto speri in un finale diverso, Jack Dawson finirà sempre a fare compagnia ai pesci sotto forma di ghiacciolo. Alec, allo stesso modo, aveva sempre finito per fare da tappezzeria ogni volta che aveva messo piede in quel locale. Non sapeva ballare, era completamente negato, così ogni volta si trovava appoggiato al muro nell’attesa che i suoi fratelli si stancassero di spacciare le loro mosse da macachi ubriachi per dei passi di danza e andare a casa.
Ok, forse Isabelle era brava e attirava su di sé sguardi che un fratello non vorrebbe mai vedere rivolti alla propria sorella, ma non era questo il punto. Il punto era che, per una volta, aveva la possibilità di sottrarsi a quella tortura.
“Ho un impegno, venerdì.”
“Ma davvero?” domandò scettico Jace, un biondo sopracciglio alzato.
“Sì,” rispose deciso Alec, “Facciamo i baby-sitter.”
Facciamo?” Isabelle si lasciò sfuggire una risata eloquente, “Riservi a te stesso un pluralis maiestatis o tu e Magnus siete diventati una coppia che usa sempre il noi?”
Alec si agitò sulla sedia, che improvvisamente sembrava troppo scomoda.
“Io e Magnus non siamo una coppia.” Borbottò, anche se il filo dei suoi pensieri stava tornando a galla.
Isabelle emise un verso canzonatorio con il naso e lanciò un’occhiata complice a Jace, “Hai sentito? Lui e Magnus non sono una coppia!”
Jace si puntellò il mento con l’indice: “Aspetta, mi stai dicendo che sbaciucchiarsi e mandarsi messaggini sdolcinati non è una cosa che fanno le coppie?”
“Smettila!” sibilò Alec, rosso in viso. Perché aveva deciso di ascoltare quei due? Non portavano mai cose buone, quando le loro piccole menti diaboliche cooperavano. Erano come la dinamite e la nitroglicerina. Pessima combinazione.
“E non dimenticare le foto insieme!”
“Già! Quante volte l’hai guardata, oggi, quella foto?”
Alec riservò un’occhiata assassina ad entrambi. “Vi odio. Profondamente.”
Isabelle rise, tirando indietro la testa, “Avanti, Alec. Stiamo scherzando!”
“Sì, fratello. Non te la prendere!”
Alec stava per rispondere con una parolaccia rivolta ad entrambi, invece…
“Di cosa non se la deve prendere?”
…i Lightwood sussultarono quando quella voce conosciuta giunse alle loro spalle. Si voltarono all’unisono, come in una scena comica di un cartone animato. Magnus li guardava dall’alto, un sopracciglio coperto di glitter alzato, mentre i suoi occhi felini truccati di fucsia scrutavano i tre. Ai suoi lati, come se fossero le ballerine che accompagnavano Beyoncé nel video di Single Ladies, stavano Clary e Simon, curiosi quanto lui di scoprire di cosa stessero parlando i tre fratelli.
“Di niente!” si affrettò a dire Alec, il viso ormai bordeaux.
“Lo stavamo solo prendendo un po’ in giro.” Disse Jace, piazzando una gomitata intercostale al fratello, a cui il maggiore rispose con uno scappellotto secco.
“Devo preoccuparmi?” indagò l’orientale. Alec avvertì il suo profumo al sandalo invadergli le narici e immediatamente si rilassò.
“No,” rispose, “Va tutto bene.”
Magnus lo scrutò ancora per qualche istante e poi si fece spazio tra lui e Jace per sedersi vicino al moro. Il fatto che non potessero toccarsi in pubblico, quando erano a scuola, provocava una sofferenza fisica ad entrambi, che finivano sempre per colmare quella mancanza con la vicinanza. Non era come toccarsi, ma almeno potevano percepirsi.
“Allora, abbiamo deciso per venerdì?” disse Simon, sedendosi a sua volta al fianco di Isabelle.
Alec contrasse il viso in una smorfia sofferente che fece ridacchiare Isabelle.
“Alec ha un impegno,” disse, caricando l’ultima parola di malizia.
“E per quale motivo ci abbandoni?” gli chiese Simon, sinceramente curioso.
“Dobb-” Alec si interruppe ricordando le prese in giro dei suoi fratelli, “Magnus deve fare il baby-sitter e io gli faccio compagnia.”
“Oh.” Simon ci pensò su un attimo, “Oooh,”  svirgolò le sopracciglia in direzione dei due interessati. Lui e Isabelle ragionavano allo stesso modo e Alec non era sicuro di non essere spaventato da questa cosa.
“Piantala, Sheldon. Sei inquietante.”
“Simon, Magnus. Mi chiamo Simon, in nome di Dio!” disse il ragazzo, esasperato.
Magnus lo liquidò con un gesto della mano, movimento che provocò un concerto di tintinnii causato dai braccialetti che portava al polso. “Come vuoi, Stuart.”
“Alec, ti prego, intervieni.”
“Non te lo meriti, il mio aiuto, dopo quella… quella cosa. Cosa doveva rappresentare, esattamente?”
Simon alzò braccia e occhi al cielo, un disperato tentativo di non perdere la pazienza. E dire che lui ne aveva da vendere. “Mi arrendo, ragazzi. Due contro uno non vale!”
Entrambi gli rivolsero un sorriso compiaciuto e si batterono un pugno vittorioso sotto il tavolo.
“Ora, sproloqui di Sherman a parte, dove volevate trascinare Alexander venerdì sera?”
Simon roteò gli occhi, ma non commentò quell’ennesimo nome, lasciando che fosse Iz a prendere parola.
“Al Pandemonium!”
“Io adoro quel posto!” disse Magnus entusiasta e Alec reagì con un grugnito che fece sghignazzare Jace.
“Oh sì, anche Alec!”
Il biondo si guadagnò un’altra occhiata omicida da parte del fratello, che appoggiò la schiena alla sedia e incrociò le braccia al petto.
“Che ha quel posto che non va?” domandò Clary, notando la reazione del moro.
“Comprende interazioni umane, Clary,” spiegò Jace, “Alec odia interagire con gli esseri umani.”
“Io odio solo dover stare in un posto pieno di gente che non conosco, che mi tocca in punti che non vogliono siano toccati, costringendomi a stare in un angolo buio fino a che voi due non vi stufate di fare quella cosa ridicola che chiamate ballare e mi venite a cercare per tornare a casa!”
“Io ballo benissimo!” dissero all’unisono Jace e Isabelle.
“Izzy balla bene, tu Jace sembri più qualcuno con lo scheletro di legno.”
“Immagino che la tua sia una valutazione soggettiva, fratello, perché le centinaia di ragazze che si sono strusciate su di m-”
“Ehi!” Clary gli rivolse un’occhiata ammonitrice.
Jace si schiarì la gola, “Voglio dire,” tentò di riprendersi, “se avessi accettato le avances di tutte le ragazze, che ovviamente ho rifiutato, ci sarebbe una lista lunghissima che dimostra il contrario di quello che dici.”
“Come bugiardo fai schifo, Jace.” Sentenziò Clary, una nota di gelosia nella voce. Il fatto che conoscesse la portata dei sentimenti che Jace provava nei suoi confronti non le impediva di essere gelosa delle ragazze che lo guardavano come se volessero mangiarselo.
“Nessuna può reggere il paragone con te, amore.” Il biondo si sporse, circondandole le spalle con un braccio e baciandole una guancia.
Clary arrossì diventando un tutt’uno con i suoi capelli, “Voglio ben sperare,” ma il tono della sua voce si era già addolcito.
Alec li trovava carini, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce. E li invidiava, li invidiava da morire. Erano liberi di fare quello che volevano, di comportarsi come volevano, di chiamarsi come volevano.
Amore era una cosa importante da dire e sapeva che se Jace l’aveva chiamata in quel modo era perché l’amava davvero. Come si capisce se ami qualcuno? Alec non lo sapeva. Non si era mai innamorato, nella sua vita.
I suoi occhi schizzarono su Magnus, al suo fianco, che stava osservando con maniacale minuzia il suo smalto fucsia, in pendant con l’ombretto, e si chiese se fosse lui la cosa più simile all’amore che avesse trovato in vita sua.
Sapeva di per certo che, almeno stando a quanto detto in ogni singola canzone romantica, l’amore fa battere il cuore più forte del dovuto. E per far sì che il suo cuore accelerasse in maniera spropositata, bastava che Magnus semplicemente entrasse nella stessa stanza dove si trovava anche Alec, figuriamoci quando gli stava vicino, o quando lo baciava. La forza di quell’emozione, che gli saliva dallo stomaco ogni volta che le loro labbra si scontravano, era così intensa che gli faceva bruciare i polmoni e mancare l’aria. Una dolce apnea a cui Alec non avrebbe mai rinunciato. Da qui, si aggiungeva dunque un altro punto: il respiro mozzato.
Sapeva che questi potevano essere dei sintomi più che validi, aggiunti alle mani sudate, al fremito che ogni parte del suo corpo provava quando sapeva che stavano per vedersi, a quella incontenibile felicità che gli faceva esplodere il cuore ogni volta che passavano le giornate insieme.
Forse si stava innamorando di Magnus. E forse gliel’avrebbe anche detto, un giorno. Adesso gli sembrava tutto troppo affrettato, tutto troppo enorme.
“Comunque” Simon lo distrasse dal suo filo di pensieri, “Cosa vogliamo fare?”
“Possiamo rimandare?” propose speranzoso Alec, “Tipo a mai e poi mai?”
“Come sei melodrammatico, Alec!” Izzy roteò gli occhi al cielo.
“Sapete una cosa?” fece il maggiore dei Lightwood, sul viso un sorrisetto scaltro, “Andateci voi. Non vorrei mai farvi rinunciare ad una cosa a cui tenete così tanto solo perché a me non piace farla!”
Izzy e Jace lo guardarono con gli occhi ridotti a due fessure così strette che Alec dubitava riuscissero a vederlo davvero. Non si muovevano quasi mai in sincronia, ma quando lo facevano, Alec li trovava inquietanti al limite dell’umano, roba che Stephen King, a confronto, sembrava uno che racconta barzellette.
Entrambi portarono una mano sotto al mento, all’unisono, continuando a guardarlo in quel modo strano.
Gli stavano letteralmente mettendo i brividi.
“Piantatela di guardarmi in quella maniera!”
“Facciamo così,” intervenne Magnus, alzando gli occhi dalla sua manicure impeccabile, e attirando su di sé l’attenzione di tutti, “Io e Alexander per questa volta saltiamo, ma…” creò un volontario attimo di suspense, “Recupereremo ad Halloween!”
“Vuoi andare al Pandemonium il 31 di ottobre?”
“Non dire sciocchezze, Sherwin! Il 31 di ottobre faremo una festa a casa mia, così voi sbarbatelli potrete bere alcol senza mostrare un ridicolo documento falso a cui non crede nessuno.”
“Sai di avere solo qualche anno più di noi, vero?” avanzò Jace, che sarebbe stato un tantino più pungente se non avesse trovato oltremodo geniale l’idea di Magnus. “Non è che tu sia un essere pluricentenario, o cosa…”
“Questo non puoi saperlo, Drace. Magari ho camminato nei secoli, conosciuto Maria Antonietta, e sono arrivato fino ai tempi moderni. Chi lo sa?”
Jace,” calcò aspro l’altro, ignorando volutamente il resto della frase.
“Non sono l’unico a cui da fastidio, allora!” esclamò Simon.
Alec alzò gli occhi al cielo e ignorò quel teatrino, “Sei sicuro che non ti causa problemi?”
“Assolutamente no, Alexander.”
“Il suo nome non lo sbagli mai, però…” borbottò Simon.
“Perché lui mi piace,” Magnus gli rivolse un sorrisetto che Simon non seppe interpretare e lasciò, quindi, che un abbraccio di Isabelle lo consolasse. “Comunque,” proseguì l’orientale, “Chiederò a Cat se vuole venire anche lei. Il comitato scolastico le ha negato il permesso di affittare un locale per mancanza di fondi e non ha idea di dove fare la festa di Halloween!”
Cat era Catarina Loss, presidentessa del comitato eventi, organizzatrice impeccabile e, da qualche settimana a questa parte, amica di Magnus. Si erano conosciuti perché il ragazzo aveva deciso di dedicarsi ad attività extrascolastiche per riceve crediti in più e, dal momento che lo sport non lo faceva impazzire – lui era fan di un altro tipo di attività fisica – aveva optato per il comitato che organizza eventi. Chi meglio di lui era in grado di organizzare feste grandiose? Nessuno.
“Potresti farle un favore, sai?” concordò Alec, “Almeno eviteresti di farla impazzire.” Il moro ancora ricordava la mezza crisi isterica che Catarina aveva avuto davanti al suo armadietto qualche giorno prima, una volta appresa la bocciatura della sua richiesta. E ci era voluta tutta la pazienza di Magnus per riuscire a calmarla.
‘Non vogliono darmi nemmeno la palestra, Magnus! Dicono che non possono rischiare venga ridotta in condizioni pietose, dal momento che comincia il campionato di basket!’
Alec aveva davvero pensato che sarebbe scoppiata in lacrime per la frustrazione.
“Perché le sue idee non le respingi?” domandò Jace, “Improvvisamente la gente che non conosci e che ti tocca in punti in cui non vuoi essere toccato non ti infastidisce più?”
“Primo: le sue idee non le boccio perché lui mi piace,” cominciò Alec, facendo eco alle parole di Magnus, alzando un dito per ogni punto, “Secondo: non è vero che ci sarà gente che non conosco, ci sarete voi e Catarina. Terz-”
“Terzo” lo interruppe Magnus, “Io sarò l’unico che lo toccherà in punti in cui spero vorrà essere toccato almeno da me, pena il taglio delle mani per chiunque provi a sfiorare il mio pasticcino.”
Alec divenne viola come una melanzana – cercando di ignorare, inutilmente, la ferrea stretta allo stomaco provocata da quel mio piazzato in quella frase con disarmante naturalezza – ma si trovò comunque a sorridere, mentre Simon, che per indole non riusciva a rimanere imbronciato con gli amici, si lasciò sfuggire un aaawww a cui aggiunse: “Voi ragazzi siete troppo carini.”
“E per niente da diabete,” dichiarò sarcastico Jace.
“Sei troppo cinico. Devi amare l’amore, amico.”
“Iz, sei sicura che il tuo ragazzo non si droghi?”
“Ancora, sei cinico.” Continuò Simon, sporgendosi verso Isabelle per darle un bacio. “Amare l’amore è bello,” sussurrò il ragazzo, tenendo gli occhi incollati a quelli di Isabelle, che, per come la vedeva lui, erano la cosa più splendida che avesse mai visto. La ragazza gli sorrise di rimando e posò nuovamente le labbra sulle sue.
Alec e Magnus si guardarono in silenzio, tenendo le mani intrecciate sotto il tavolo.
Simon aveva ragione: l’amore era davvero stupendo.

*

Dopo le lezioni, Alec camminava verso il suo armadietto quando la voce di Magnus lo chiamò da lontano: “Alexander!”
Alec si fermò e si voltò verso la direzione di quella bellissima voce e lo osservò mentre, con un passo accelerato – Magnus non correva, altrimenti avrebbe rischiato di sudare e rovinare il trucco – lo raggiungeva.
“Ciao!” lo salutò Alec, quando furono abbastanza vicini da non dover urlare per parlarsi. “Hai già informato Catarina?”
Magnus annuì: “Le è piaciuta l’idea. Dobbiamo solo organizzare una festa grandiosa in meno di quindici giorni.”
“Ce la farai, Magnus. Tu adori questo genere di cose.” Gli sorrise incoraggiante.
“Ti ringrazio per il supporto, marshamallow. Ma dimmi… tu le odi davvero?”
“Più che odiare mi mettono a disagio.”
“Vuoi che ritiri tutto? Posso dire a Cat di trovare un altro posto e passare Halloween solo noi due soli.”
Noi.
Noi due.

Alec sentiva il cuore impazzire ogni volta che Magnus si riferiva a loro usando il noi, una parola che gli faceva venire in mente sempre l’unità, come se si fossero mischiati a tal punto da diventare una cosa sola. Era un concetto che veniva usato sempre con più naturalezza e che faceva passare ogni tipo di dubbio ad Alec: quando Magnus usava quel noi, sapeva esattamente qual era il suo posto nella vita dell’altro.
Gli sorrise, intenerito. Magnus aveva questo modo di prendersi cura di lui, senza che nemmeno se ne rendesse conto. Sarebbe stato disposto a rinunciare ad una cosa a cui, Alec lo sapeva, teneva tantissimo solo per lui, per cercare di farlo sentire meno a disagio. Il fatto era, però, che Alec avrebbe seguito Magnus anche nella bocca di un vulcano e non avrebbe temuto le ustioni, quindi cosa poteva essere una festa?
“No, Magnus. Tu farai la tua festa, che sarà grandiosa, e io ci parteciperò volentieri.”
“Davvero?” il ragazzo non riuscì a tenere a bada il suo entusiasmo e Alec sorrise, combattendo con tutte le forze che aveva la voglia di accarezzarlo.
“Davvero, davvero.”
“Grazie, grazie, grazie!” Magnus aveva cominciato a battere le mani, “Ti abbraccerei in questo momento, lo sai?”
“Sarebbe il minimo, visto quello che ho accettato di fare per te!” scherzò Alec, guardandolo con occhi inteneriti
(innamorati)
e realizzando che avrebbe accettato di fare qualsiasi cosa, se questa avesse fatto felice Magnus.
“Vieni fuori con me, allora.” Gli sussurrò suadente il maggiore, “Ti darò anche qualcosa di più.”
Alec rabbrividì e annuì, così insieme si avviarono verso l’uscita della scuola.

Fu quando si trovarono ad una distanza ritenuta sufficiente a far si che nessuno li vedesse che, nascosti sotto agli spalti metallici del campo di football, Magnus tirò, con pochissima delicatezza, Alec a sé e gli infilò senza troppi preamboli la lingua in bocca.
Alec gemette, ma impiegò pochissimo tempo a rispondere a quel bacio. Il fatto che non potessero nemmeno sfiorarsi a scuola, faceva si che la smania che avevano di toccarsi esplodesse non appena avevano l’occasione di rimanere appartati, traducendosi in baci irruenti, che facevano gonfiare e arrossare le labbra, e mani che vagavano ovunque. Magnus, quel giorno in particolare, cominciò a far vagare le sue sotto alla maglietta di Alec, stringendo la pelle del minore, che ebbe l’impressione di star prendendo fuoco.
“Magnus,” lo chiamò con il fiatone.
Il maggiore allontanò il viso quel tanto da poter incrociare gli occhi di Alec, ma tenne le mani immobili. Alec riusciva distintamente a sentire il calore delle dita del ragazzo e il contrasto con il freddo metallo degli anelli. E sentiva chiaramente anche un’altra cosa, decisamente più a sud, che rendeva i suoi pantaloni estremamente scomodi.
“Che c’è, fiorellino?” pianissimo, cominciò a far vagare le mani sull’addome di Alec, riuscendo quasi a immaginare la perfezione della sua muscolatura celata sotto la stoffa dell’indumento, tanto che era definito, e si spostò poi con controllata lentezza fino alla schiena, che percorse in tutta la sua lunghezza. E più Magnus lo sfiorava, più Alec tratteneva il respiro e sentiva l’aria venirgli meno nei polmoni.
Deglutì a vuoto e lasciò che Magnus continuasse far vagare le mani lungo la sua schiena, dimentico della ragione per cui aveva interrotto il loro bacio.
Perché l’aveva fatto?
(perché i tuoi pantaloni stanno rivelando più di quanto dovrebbero)
E allora? Era una reazione normale, no?
(certo, ma-)
Niente ma, Alec ignorò la sua razionale coscienza e afferrò Magnus per il bavero della camicia, riappropriandosi delle sue labbra, risultando più vorace di quanto avrebbe voluto. E qualcosa in lui scattò nell’esatto momento in cui le mani di Magnus smisero di accarezzarlo lentamente e si arpionarono ai suoi dorsali, portando il minore a far indietreggiare l’altro e schiacciarlo tra il proprio corpo e la parete d’acciaio degli spalti. Come la schiena di Magnus si scontrò con la parete, l’orientale gemette e Alec, incapace ormai di darsi un freno, infilò una gamba tra quelle di Magnus, spronando quest’ultimo ad aprire le proprie.
Cosa avrebbe fatto, adesso? Non lo sapeva e nemmeno gli importava di avere un piano premeditato. L’unica cosa che gli interessava era sentire i sospiri accelerati di Magnus, le mani di entrambi che vagavano sull’altro e il fatto che, a quanto pare, Alec non era il solo a reagire a tutta quella situazione. La sentiva chiaramente la reazione di Magnus contro la propria gamba. Sorrise, compiaciuto da quella costatazione, e abbandonò le labbra del ragazzo solo per dedicare attenzione al suo collo. Fu nell’esatto momento in cui la sua bocca si chiuse intorno al pomo d’Adamo di Magnus, che il maggiore lo chiamò.
“Alexander,” gli tremò la voce ed Alec cercò di non concentrarsi sul fatto che fosse roca perché altrimenti gli sarebbe nuovamente saltato addosso.
“Cosa c’è?” ansimò.
“Non che mi stia lamentando, ma credo dovremmo fermarci.” Fece scivolare le mani fuori dalla maglietta e le appoggiò al suo petto, facendo in modo, questa volta, che le loro pelli fossero divise dalla stoffa. “Stai attentando al mio autocontrollo.”
Alec appoggiò le proprie mani su quelle di Magnus, prendendosi un attimo per osservarlo. Per la prima volta, i suoi capelli non erano in ordine, e sapere che erano state le sue mani a scompigliarli in quel modo gli faceva un immenso piacere. Le sue labbra erano arrossate e gonfie a causa dei morsi che avevano intervallato i loro baci. E i suoi occhi… Dio, i suoi occhi. Alec stava letteralmente uscendo di testa, leggendo nelle iridi di Magnus la luce residua di quel desiderio che aveva infiammato entrambi.
“Io penso di averlo perso, il mio autocontrollo.” Confessò, realizzando che non si era mai comportato in quel modo, prima di quel momento.
Magnus gli sorrise e si alzò sulle punte per lasciargli un piccolo morso sul mento, “Dovresti farlo più spesso, tesoro. In un luogo più consono, la prossima volta.”
Alec arrossì e circondò il collo di Magnus con entrambe le braccia, lasciandogli un bacio sulla fronte.
“Lo terrò a mente.”
“Bene, splendore.” Lo abbracciò, “Cosa vuoi fare adesso?”
Alec parve pensarci su, “Possiamo studiare e poi potresti venire con me a tiro con l’arco, se non ti pesa…”
“Mi stai chiedendo se mi pesa starti a guardare mentre le tue bellissime braccia si tendono, mostrandosi in tutta la loro muscolosa gloria?”
Alec rise, tirando indietro la testa: “Lo prendo come un sì.”
Sciolsero l’abbraccio e si diressero fuori dagli spalti, abbandonando ufficialmente il territorio scolastico per dirigersi verso la biblioteca.
Ogni passo, Alec lo sapeva, serviva a regolarizzare il battito del suo cuore, che stava ancora scalpitando, rimbombando in ogni parte del suo corpo.

*

Magnus non aveva mai visto un poligono di tiro dall’interno e non si stupì nel costatare che non sapeva nemmeno cosa immaginarsi. Quando entrò con Alec e insieme saltarono la zona riservata alle armi da fuoco per dirigersi verso la zona arcieri, Magnus cominciò a guardarsi intorno incuriosito. Quel luogo dai soffitti alti, dalle corsie divise da muri di vetro, dai bersagli piazzati a diverse distanze, era una parte fondamentale di Alec. Osservare quel luogo era come osservare un pezzo dell’essenza del ragazzo che adesso stava al suo fianco.
“Quindi è qui che avviene la magia?”
Alec ridacchiò, sembrava nervoso, “Ti piace?”
“Sì,” Magnus si guardò intorno e poi tornò a guardare Alec, i cui occhi erano grandi di aspettativa, “Mi piace tanto.”
Ed era vero. Non sarebbe mai stato in grado di mentirgli, non gli avrebbe mai detto qualcosa che non pensava.
“Mi fa piacere,” Alec sorrise, si sfregò le mani e poggiò a terra la custodia che aveva portato con sé da quando erano passati da casa a prenderla – Magnus ovviamente l’aveva aspettato fuori, abbastanza celato ad occhi che avrebbero potuto trovare sospetta la sua presenza – e con estrema cura estrasse l’arco e la faretra colma di frecce.
Magnus lo osservò posizionarsi in una delle corsie libere e lo seguì, non perdendosi nessuna delle sue mosse. Lo guardò aprire le gambe in modo tale che i piedi corrispondessero all’ampiezza del bacino, mentre voltava il busto di lato. Lo osservò tendere il braccio destro in una linea orizzontale perfetta, parallela al pavimento, mentre la mano teneva l’arco e il braccio sinistro veniva piegato in un angolo mentre incoccava la freccia.
Alexander era un’armonia di gesti aggraziati e coordinati tra di loro, funzionali ad ottenere il risultato impeccabile che Magnus stava osservando. Era perfetto, sinuoso. Sembrava che l’arco fosse un prolungamento del suo corpo. Guardarlo gli dava una soddisfazione immensa che andava ad appagare tutti i suoi sensi, quello visivo in primis, dato che la virilità che trasudava da Alec quando si concentrava in quel modo era un attentato bello e buono alla sanità mentale di Magnus. Alec era così… prestante. Affascinante in modo letale. Il suo sguardo vagò sulle braccia del ragazzo, lasciate scoperte grazie alla maglietta a maniche corte, soffermandosi sulla muscolatura degli avambracci e sul modo in cui i suoi bicipiti si gonfiavano in due sfere perfette per lo sforzo di tenere l’arco fermo e la freccia tesa. Si lasciò andare ad un sospiro sognante, realizzando che tutto quel ben di Dio che stava osservando, in qualche modo, era suo.
Quanto era fortunato?
Alec lasciò andare la freccia che colpì il centro del bersaglio più lontano e quando si voltò verso Magnus, questi cominciò ad applaudire.
“Sai cosa avrebbe reso migliore questo tiro, pasticcino?”
“Cosa?” domandò Alec, sinceramente interessato ad un consiglio.
“Se l’avessi fatto senza maglietta. In quel caso sarebbe stata un’esperienza al limite del divino, per me.”
Alec scoppiò a ridere, “Perché, con la maglietta addosso è stato tanto male?”
“No, ciliegina, assolutamente. Dico solo che la tua nudità avrebbe reso il tutto ancora migliore.”
Alec scosse la testa divertito e in qualche modo anche lusingato da quel complimento.
“Vuoi provare?”
“Non voglio rischiare di uccidere nessuno!”
“I vetri ai lati di ogni corsia esistono per evitare omicidi involontari. Sono antiproiettile, resistono anche alle frecce lanciate dai principianti.” Spiegò Alec, “Dai, vieni qui!”
“Se insisti, fragolina…” Magnus si avvicinò ad Alec, il quale fece un passo indietro per fare in modo che il ragazzo coprisse il posto da lui occupato poco prima. Erano di nuovo vicini, si trovò a pensare Magnus, in quel modo che li faceva scattare entrambi e ringraziò che, almeno nella parte destinata alla posizione dell’arciere, i vetri fossero oscurati. Era come se si trovassero dentro ad una cabina protetta e non poté che essere felice per questa cosa.
“Come prima cosa,” cominciò Alec, “Devi aprire le gambe.”
“Per te lo faccio più che volentieri, tesoro.”
Alec divenne paonazzo e ringraziò il cielo che Magnus gli desse le spalle e non potesse vederlo in viso.
Si schiarì la gola, in un vano tentativo di darsi un contegno, “Allineale con il bacino.” Magnus obbedì e Alec, allora, portò le proprie mani sui fianchi del ragazzo per guidarlo a voltare correttamente il busto di lato. E siccome Magnus, per natura, adorava stuzzicarlo, accostò la schiena al petto di Alec, facendo particolare attenzione a tirare fuori il sedere, che si stava accidentalmente appoggiando al basso ventre del minore.
Magnus sentì Alec trattenere rumorosamente il respiro, come se improvvisamente tutto l’ossigeno fosse stato risucchiato dalla stanza e sorrise soddisfatto.
“E adesso?” sussurrò, tirando indietro la testa e appoggiandola nello spazio tra la spalla e il collo di Alec.
Il minore sentiva la bocca asciutta – improvvisamente incapace di articolare anche solo una parola che avesse un senso, figuriamoci una spiegazione di senso compiuto su come scoccare una freccia – mentre i suoi occhi indugiavano sul collo esposto del ragazzo.
“M-Magnus,” lo chiamò, i circuiti nervosi che stavano andando in tilt, “Luoghi consoni, ricordi?”
Magnus alzò la testa e si smise di spalmarsi totalmente su Alec, “D’accordo, d’accordo. Hai ragione, splendore. Mi sono fatto prendere la mano.”
“Ho notato.”
Magnus rise, “Avanti, insegnami come si fa.”
Alec lo guidò nei movimenti, prima su come posizionarsi e poi su come fare per scoccare una freccia e, con grande sorpresa di Magnus, questi impiegò solamente cinque tentativi prima di beccare il cerchio più esterno del bersaglio.
“Niente male, Magnus. Niente male davvero!”
“Dici sul serio?”
Alec annuì, “Certo. È una pratica abbastanza complicata e tu impari in fretta.”
Magnus si voltò di centottanta gradi, infilando due dita nei passanti dei pantaloni di Alec per tirarlo a sé, “Ho un buon insegnante,” disse, prima di appropriarsi della sua bocca.
Non ne avrebbe mai avuto abbastanza di Alec e dei suoi baci.



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Ciao a tutti e ben ritrovati! 
Allora, cosa ne pensate di questo capitolo? Mi rendo conto non sia estremamente sostanzioso in fatto di trama, ma mi piaceva inserire una scena con il gruppo al completo perché mi piace il rapporto che hanno gli uni con gli altri e che si vogliano bene nonostante le loro divergenze! 
Nel prossimo capitolo vedremo Alec e Magnus in versione baby-sitter e si accettano scommesse su chi sarà la fortunata creatura che passerà del tempo con loro! (scherzo, in realtà è abbastanza semplice intuire chi sarà xD). 
Spero che abbiate apprezzato il capitolo e che, visto che alcuni avevano suggerito un incontro tra Alec e Magnus che riguardava il tiro con l'arco, abbiate trovato la parte finale di vostro gradimento! 
Inoltre, ci sono dei riferimenti ai libri: il primo quando Isabelle chiede ad Alec se lui e Magnus sono diventati una di quelle coppie che usa sempre il noi, anche se il contesto era diverso, mi piaceva riprendere quella frase. Il secondo è un riferimento a Le Cronache di Magnus Bane, che ho preso e leggiucchiato un po', dove in un racconto sulla Francia si dice che Magnus ha conosciuto Maria Antonietta, quindi ho inserito anche quello! :)
Vorrei aggiungere anche che non ho idea di come funzioni veramente il tiro con l'arco, quindi tutte le istruzioni dettate da Alec sono completamente frutto della mia fantasia e di quello che si vede nei film! 
Vi ringrazio come sempre immensamente per leggere la storia, ringrazio anche chiunque l'abbia messa tra i seguiti/preferiti e chiunque trovi sempre il tempo per lasciare una recensione. Sarò ripetitiva, ma sapere che ci siete e che apprezzate questa storia per me è davvero importante, quindi grazie a tutti <3 
Un abbraccio grosso, grosso! Alla prossima! :)

PS: è probabile aggiornerò la storia ad Halloween per far coincidere la festa nel capitolo con la realtà... ho tutte le intenzioni di farlo, impegni permettendo, nel caso non dovessi riuscirci chiedo scusa in anticipo! 

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Capitolo 8
*** 8. ***


Successe un mercoledì. Alec si stava lavando i denti in bagno quando Jace cominciò a bussare alla porta con così tanta intensità che rischiò di buttarla giù.
“Apri Alec! Ho bisogno di te!”
Alec, le sopracciglia aggrottate e lo spazzolino infilato tra una guancia e i denti, con ancora il pigiama addosso, si diresse alla porta e l’aprì.
Jace se ne stava in piedi davanti alla porta aperta, già vestito per andare a scuola, con gli occhi così sgranati che, per un attimo, Alec credette di veder schizzare fuori i suoi bulbi oculari dalle orbite.
“Hai visto una papera, Jace?”
Il panico, che rendeva il viso di Jace teso come una corda di violino, venne sostituito da una momentanea smorfia di disapprovazione.
“Ti sembra il momento di fare dell’ironia?”
“Non sto facendo dell’ironia. Hai la faccia terrorizzata, proprio come quando a dieci anni siamo andati in quel parco pieno di anatre che scorrazzavano libere.”
Jace rabbrividì al ricordo di quei mostruosi esseri inquietanti che lo inseguivano desiderose di essere nutrite – lui l’avrebbe fatto volentieri usando l’arsenico, dannate bestiacce terrificanti – ma poi tornò a concentrarsi su Alec.
“Piantala. Ho bisogno di parlarti.”
“E allora parla,” disse Alec, riprendendo a lavarsi i denti. Si diresse nuovamente verso il lavandino per evitare che la schiuma del dentifricio finisse per terra e sporcasse il pavimento e, lasciando la porta aperta, fece un cenno con la mano libera a Jace per spronarlo a parlare.
Il biondo cominciò a dondolare da un piede all’altro, indeciso su come affrontare l’argomento. Alec percepì la sua tensione, così decise di dedicargli tutta la propria attenzione: sputò nel lavandino la schiuma in eccesso, si sciacquò la bocca e si asciugò sul suo asciugamano. Una volta finito, si voltò verso Jace, incrociando gli occhi con i suoi.
“Devo preoccuparmi?”
“No… è solo che è una cosa così strana, per me…”
Alec trovava alquanto anomalo il comportamento del fratello. Jace sembrava… insicuro, titubante, una cosa che non era mai successa in tutta la vita che avevano passato insieme. Jace era una specie di leone feroce, un predatore fiero e rispettato, qualcuno che conosce le proprie straordinarie capacità e ne trae forza, mostrandole senza vergogna alcuna al mondo. Jace non era modesto perché non aveva motivo di esserlo: era atletico in un modo che esulava dalla normalità, era dotato di un intelligenza parecchio sopra alla media e la sua tenacia avrebbe fatto invidia a chiunque. Le sue capacità erano note a chiunque, evidenti come se fossero costantemente illuminate dalla luce del sole. Dunque, perché adesso sembrava dubitare di se stesso?
“Non so ancora leggerti nel pensiero, Jace.”
“Non ne sono tanto sicuro, sai?” scherzò e Alec sorrise.
“Avanti,” lo incoraggiò, “Dimmi che c’è.”
Il biondo si grattò la nuca: “C’è la prima di campionato, domani…” si interruppe, “E volevo… oh, al diavolo, volevo chiederti se vuoi allenarti un po’ con me, oggi pomeriggio.”
Alec non si stupì più di tanto del comportamento di Jace, una volta appurata la causa del suo disagio. Il minore non era tipo che chiedeva aiuto, tendeva più che altro a risolversi i problemi da solo, quindi anche una cosa così piccola come un allenamento, per uno che non era mai abituato a rivolgersi agli altri, diventava fonte di difficoltà.
Alec si sventolò teatralmente una mano sugli occhi, come se volesse asciugarsi lacrime di emozione.
“Non posso credere che il capitano dei Nephilim dell’Alicante High School abbia chiesto a me di aiutarlo negli allentamenti!” concluse appoggiando l’altra mano sul cuore.
Jace lo guardò di traverso, ma poi si mise a ridere, “Sei un idiota!” sentenziò, piazzandogli un pugno sulla spalla.
Alec rise, “Simile attira suo simile, non te l’hanno mai detto?”
“Devo essermi perso questa fondamentale informazione.” Incrociò le braccia al petto, “Allora, mi aiuterai?”
“Certo che ti aiuterò, anche se non vedo a cosa possa servirti. Sei al secondo anno e sei già capitano, riuscendo nell’impossibile. Tutto grazie alle tue capacità. Ti ho visto giocare, Jace, di cosa hai paura?”
“Di deludere le aspettative. Tutti si aspettano che il grande Jace Lightwood faccia faville, ma se fossi solo tutto fumo e niente sostanza?”
“Questo è impossibile. Sei nato per giocare a basket e sei il migliore. Andrà tutto bene, fidati di me.”
“Lo faccio da quando ho quattro anni, Alec. Non smetterò di farlo a sedici.”
Alec gli sorrise e gli diede delle affettuose pacche sulle spalle, poi si diresse verso camera sua per andare a vestirsi.  

*

La porta si aprì lentamente e Maryse entrò con cautela, i suoi passi erano controllati, come se avesse voluto chiedere il permesso, lei che piuttosto che fare una cosa simile, preferiva chiedere scusa dei danni provocati dai suoi comportamenti. Ma con i suoi figli era diverso. Si reputava una madre severa, alcuni l’avrebbero anche definita arida, ma lei sapeva quanto amava i suoi bambini, quindi non aveva da dimostrare nulla a nessuno. Il giorno in cui entrò nella cameretta di Alec, dunque, lo fece con grazia, con gentilezza. Il piccolo Alec notò la dolcezza con cui sua madre si era chinata sul tappeto gommoso insieme a lui e aveva cominciato a giocare con i Lego. Avevano costruito delle macchinine, le cui ruote erano quadrate, che Alec aveva cominciato a far muovere sul tappeto, imitando con la voce il rumore del motore. Maryse aveva sorriso, accarezzando i capelli del suo ometto. Era un bambino bellissimo, il suo Alec, così dolce e curioso. I suoi occhioni verdi scrutavano sempre ovunque per apprendere più dettagli possibili.
“Alec, lo vorresti un fratellino?” gli domandò Maryse, le mani che avevano smesso di far muovere le macchinine, torturandosi a vicenda. Alec era troppo piccolo per notare un gesto simile, così si era limitato ad alzare gli occhi su sua madre.
“Ti tornerà la pancia grossa com’è successo quando è arrivata Izzy?”
Maryse sorrise, “No, questa volta sarà un po’ diverso, Alec.”
“La pancia grossa verrà a papà?”
“No, tesoro. Questa volta adotteremo un bambino. Sai cosa significa?”
Alec fece segno di no con la testa e abbandonò le sue macchinine Lego per concentrarsi solo sulla madre.
“Significa che prenderemo con noi un bambino e diventerà parte della nostra famiglia.”
“Questo bambino è senza mamma?”
“Si, Alec.”
“Ma ora non più, giusto? Se verrà qui con noi, sei tu la sua mamma, adesso…”
Maryse si trovò a combattere le lacrime con tutta se stessa: “Sì, sono io la sua mamma, adesso. A te sta bene?”
Alec annuì con convinzione. “Mi piacerebbe avere un fratellino, Izzy vuole sempre farmi giocare con le sue bambole!”
“Tua sorella ha un carattere particolare, nonostante sia molto piccola, ma ti vuole bene.”
“Anche io gliene voglio, mamma. Solo che le bambole non mi piacciono!”
Maryse si lasciò andare ad una risata controllata, giusto per liberare un po’ della tensione accumulata.
“Nemmeno lei sembra gradirle troppo, visto che alle ultime ha staccato la testa.”
Alec rise, una manina a coprirsi la bocca. Maryse rimase poi a guardarlo mentre tornava a giocare con le sue macchinine.
“Aleeeec, Aleeeeec, devi vedere!”
Isabelle sgambettò nella camera del fratello, nelle manine stringeva un disegno appena fatto, privo di senso, i cui colori formavano una figura astratta e andavano a sovrastarsi tra di loro. Maryse notò che anche le dita della figlia erano colorate e si appuntò mentalmente di lavarle approfonditamente le mani.
Il bimbo si alzò dal tappeto per andare verso la sorella, che gli mostrò il disegno fiera di se stessa.
“L’ho fatto tutto da sola!”
“Sei stata brava, Izzy!”
“Posso vedere, Isabelle?”
La bambina si voltò verso la madre, i capelli legati in due codine che la facevano assomigliare ad una bambola di porcellana, “Certo, mamma!”
Maryse allungò una mano per afferrare il foglio portole dalla figlia, “Che cos’è?”
“Uno zoo!”
La madre sorrise. Erano veramente pochi gli attimi nei quali si concedeva un sorriso, o nei quali si lasciava andare a delle tenerezze. Sapeva che era la sua indole ad impedirle di mostrare più affetto di quanto avrebbe voluto, ma sapeva anche che a sua volta era stata cresciuta nella rigidità, dove la mancanza di smancerie era normale.
“Izzy, non sono fatti così gli zoo!” brontolò Alec, osservando con occhio critico il disegno.
Isabelle si esibì in una pernacchia: “Invece sì!”
“Bambini…” li ammonì Maryse ed entrambi i suoi figli smisero di bisticciare. “È ora del bagno, forza, andiamo!”
Alec e Isabelle si diressero con la madre fuori dalla stanza del bambino.
“Sai che avremo un fratellino, Izzy?”
“Ma io ne ho già uno!”
“Non ne vuoi un altro?” indagò Maryse, mentre apriva la porta del bagno ed entrava seguita dai bambini. Entrambi la osservarono riempire la vasca di acqua calda – trovavano il vapore parecchio affascinante – poi Isabelle scrollò le spalle.
“Sì, vorrei un altro fratello! I fratelli mi piacciono!” rivolse un sorriso sdentato ad Alec, al suo fianco.
“Va bene, allora.” Maryse emise un sospiro liberatorio, “Avanti, nella vasca!”

Il giorno in cui ebbe terminato il completamento dei documenti per l’adozione di Jace, Maryse varcò la soglia di casa sua tenendo il bambino in braccio. Aveva quattro anni, poteva camminare benissimo, ma quel piccolo sembrava così spaventato che il suo istinto di protezione aveva avuto la meglio su qualsiasi altro lato del suo carattere. Lo sentiva già figlio suo, quel bambino dai capelli dorati, che con una manina stringeva una ciocca dei capelli corvini della donna, mentre nell’altra stringeva un soldatino di plastica.
Johnatan Christopher Wayland era stato vittima di un sistema basato sulla raccapricciante follia di Valentine Morgenstern, un uomo che per anni aveva fatto parte della loro comunità e che aveva deciso segretamente di reclutare ragazze madri che non potevano permettersi di crescere un bambino e che, accudite per nove mesi da Valentine in una clinica segreta, poi gli affidavano il neonato e lui si premurava di venderlo a famiglie che non potevano avere figli.
Valentine era un mostro e Maryse si era sentita altrettanto mostruosa al pensiero che aveva trovato quell’uomo interessante. Si era lasciata affascinare dalla sua intelligenza e dal suo carisma, senza sapere che dietro a tutto ciò si celava un uomo che, per soldi, mercificava donne disperate e bambini innocenti.
La madre biologica di Jace era morta di parto e Valentine si era occupato del piccolo, dandogli un nome e tenendolo con sé per quattro anni. Il motivo per il quale non avesse tentato di affidarlo ad una famiglia rimaneva ancora un mistero, ma a Maryse non importava. L’unica cosa che le interessava era che quel folle maniaco adesso stesse marcendo dietro le sbarre di un carcere federale e che il piccolo adesso fosse al sicuro.
Era determinata a far si che il bambino rimuovesse quella parte traumatizzante del suo passato, quindi aveva deciso di ridargli un nome: Jace, da JC, e Lightwood, perché era giusto che si sentisse parte integrante della famiglia, figlio suo esattamente come lo erano Alec e Isabelle.
Quando entrò in casa sua con il bambino in braccio, Alec e Isabelle le andarono in contro facendo particolare attenzione a non risultare troppo irruenti. Robert era rimasto con loro a casa, attendendo l’arrivo della moglie e del bambino.
“Jace, posso presentarti qualcuno?”
Il piccolo aveva annuito, senza dire una parola, così Maryse si era inginocchiata all’altezza dei suoi figli e aveva atteso pazientemente che Jace si sentisse pronto a voltarsi.
“Loro sono Alec e Isabelle, i tuoi fratelli. E lui è Jace.”
Jace aveva voltato la testina bionda verso i due bambini, incrociando prima lo sguardo con Alec, il quale gli porse incoraggiante una mano. Jace lo guardò con diffidenza, ma qualcosa, in quel bambino, lo spinse a fidarsi di lui, così abbandonò la presa sui capelli di Maryse e si allungò verso Alec. A quel punto, Maryse lasciò che il bambino si posizionasse in piedi davanti ai fratelli. Jace e Alec si stavano tenendo per mano, mentre Izzy guardava il nuovo arrivato con curiosità.
“Vuoi vedere la cameretta?” gli domandò Alec e Jace annuì. Quando si incamminarono, seguiti di genitori e da Isabelle, Alec notò il soldatino.
“Ne ho qualcuno anche io, di quelli, sai? Possiamo giocarci insieme!”
Jace aveva guardato prima il soldatino e poi Alec.
“Vuoi vederlo?” sussurrò piano. Maryse si rese conto che quelle erano le prime parole pronunciate da Jace e si trovò a deglutire un groppo in gola grosso come un sasso e a trattenere delle lacrime che risultavano più pungenti di una corona di spine. Aveva pensato che sarebbe stato difficile, sia per Jace che per i suoi figli, ma forse, tutto sommato, non lo sarebbe stato. Forse avrebbero legato subito.
“Sì, se posso…”
Jace allungò la mano e aprì il palmo, mostrando il soldatino. Alec lo guardò con occhi grandi di interesse. “È molto bello! Izzy, hai visto?”
La bambina si avvicinò con cautela, studiando il nuovo arrivato. Jace fece lo stesso con lei, entrambi dubbiosi sul potersi fidare dell’altro, ma quel gioco di sguardi titubanti durò pochissimo perché Jace, così come gli era venuto naturale fidarsi di Alec, trovò piuttosto naturale coinvolgere anche Isabelle.
“Mi piace.” Sentenziò la bambina e Jace le accennò un sorriso timido. “Quelli di Alec sono tutti consumati, sai?”
“Ci giochiamo a fare la lotta, ecco perché.” Spiegò Alec, piccato.
Jace continuava a guardarli, prima uno e poi l’altro e si trovò a pensare che quei due bambini – i suoi due fratelli, gli piaceva come suonava questa parola – erano simpatici, sembravano buoni, qualcuno di cui potersi fidare.
“Vuoi andare a giocare? Ti faccio vedere la cesta nella cameretta, è piena di giochi!”
Jace annuì con più convinzione e si affiancò ad Alec. Maryse e Robert accompagnarono i bambini al piano di sopra, dove entrarono nella cameretta di Alec, a cui avevano aggiunto un letto.
“Vieni!” esclamò il bambino, facendo strada a Jace. Alec, seguito da Isabelle, si diresse verso la cesta dei giocattoli e ne sollevò il coperchio. 
“Vieni, Jace!” ripeté Alec, facendo cenno con la manina all’altro di avvicinarsi. Jace si avvicinò e si sistemò tra i due, guardando curioso all’interno della cesta, dove una miriade di giocattoli stava in bella mostra. Non ne aveva mai visti così tanti, dal posto dove veniva lui i giochi erano proibiti. Il soldatino che teneva ancora stretto in mano era l’unica cosa che gli era permessa di avere.
“Sono anche tuoi, adesso.” Aveva detto Alec e Maryse realizzò che quello fu il momento esatto in cui quella testina bionda che stava al centro delle due testine more era diventata davvero parte integrante della loro famiglia. In quel momento, la donna lo sapeva, era nato quel legame che avrebbe unito i suoi figli per il resto della loro vita.


Alec non pensava spesso al primo giorno in cui aveva conosciuto Jace, ma quella frase pronunciata dal fratello quella mattina, aveva fatto riaffiorare quel ricordo. Erano dei bambini, il tempo era passato più in fretta di quanto avrebbero mai immaginato e adesso si trovavano ad essere dei ragazzi che non riuscivano ad immaginare di stare l’uno senza l’altro. In questo concetto, ovviamente, andava inclusa anche Isabelle.
Gli faceva strano pensare che non condividessero gli stessi geni, per questo nel periodo della sua vita in cui aveva creduto di amarlo, sentiva crescere di sé una profonda vergogna, perché, sangue o non sangue, lui e Jace erano fratelli.
Per fortuna, poi, nella sua vita – e nel suo cuore, soprattutto – si era fatta un po’ più di chiarezza e aveva capito come stavano le cose.
Il cellulare dentro alla sua tasca vibrò, così Alec, che quella mattina aveva deciso di passare la sua ora buca in aula studio per cercare di apprendere qualcosa, lo estrasse dai pantaloni.

Izzy ti ha aggiunto al gruppo “Squad”.

Alec alzò gli occhi al cielo. Lui odiava le chat di gruppo. E poi che razza di nome aveva scelto?
Bloccò lo schermo e tornò sul suo libro, ma il cellulare vibrò ancora.

> From: Izzy @Squad, 10.17
Indovinate cosa fanno oggi pomeriggio Alec e Jace.

“Non penso siano affari tuoi, sorella!” borbottò Alec allo schermo, ma evitò di rispondere. Cosa importava agli altri cosa avrebbero fatto lui e Jace? Mica doveva essere un affare di stato il loro allenamento. Sbuffò e fece per bloccare nuovamente lo schermo, se non fosse stato per quel Magnus sta scrivendo… che comparse sotto al nome della chat. Non doveva seguire algebra, lui?
A quanto pare la lezione era più noiosa di quanto aveva immaginato.

> From: Magnus @Squad, 10.18
Attentano alla vita di qualcuno?

Melodrammatico! Al massimo lui e Jace attentavano alle proprie vite e solo perché Jace era così stupido da essere pericolosamente avventato e perché Alec era così idiota da assecondarlo nel vano tentativo di limitare dei danni che, invece, sarebbero sicuramente risultati incontenibili.

> From: Jace @Squad, 10.19
Con la mia bellezza? Hai ragione, Magnus…

Alec roteò gli occhi, lasciandosi andare ad un sonoro sbuffo esasperato.

> From: Magnus @Squad, 10.19
C’è solo un Lightwood che attenta alle vite degli altri con la propria bellezza e non sei tu.
> From: Izzy @Squad, 10.19
Sono io, infatti.

Alec, con le guance rosse per il messaggio di Magnus, decise di intervenire.

> To: Squad, 10.20
Non avete delle lezioni da seguire, voi altri?
> From: Jace @Squad, 10.20
Non potresti, per una volta, non dover fare il guastafeste?

Alec alzò gli occhi al cielo per l’ennesima volta, incapace di trattenersi.

> From: Clary @Squad, 10.20
Tutto questo casino e nessuno ha risposto all’indovinello di Iz.
> From: Izzy @Squad, 10.21
Esatto. Avanti, indovinate! (Alec non rovinare il gioco!)
> To: Squad, 10.21
Non è un gioco se ti diverti solo tu.
> From: Simon @Squad, 10.21
Io mi diverto. E tento con: rispondere in maniera sarcastica a chiunque provi a chiedere loro informazioni.
> From: Jace @Squad, 10.21
Per quale motivo io e Alec dovremmo andare in giro a dare informazioni a gente a casaccio, Lewis? Perché non connetti il cervello, ogni tanto?
> From: Simon @Squad, 10.22
Sei proprio acido, sai?
> From: Clary @Squad, 10.22
Secondo me è più qualcosa di sportivo.
> From: Izzy @Squad, 10.22
Fuochino, Clary.

Alec si stava seriamente domandando cosa avesse fatto di male nella vita per finire ad avere a che fare con dei disagiati del genere. E ancora, si domandò cosa ci fosse di sbagliato in lui per voler bene a quelle persone. Dopotutto, l’aveva detto lui stesso: simile attira suo simile. Se i suoi amici erano una banda di disagiati, forse era perché lui in primis lo era, sotto molti punti di vista.

> From: Magnus @Squad, 10.23
Basket. Scommetto la mia collezione di smalti Chanel che c’entra il basket!
> From: Izzy @Squad, 10.23
La voglio io la tua collezione di smalti Chanel!
> From: Magnus @Squad, 10.23
Ovviamente, cara, l’avrai solo se ho perso la scommessa. Ma ho la sensazione che non sia così.
> From: Izzy @Squad, 10.23
Alec ha cantato?
> To: Squad, 10.23
Dove siamo, in un film gangster da quattro soldi? Non ho cantato, Isabelle!
> From: Izzy @Squad, 10.24
Quindi Magnus ha indovinato tutto da solo. Niente collezione di smalti per me! Comunque, oggi pomeriggio si allenano e, visto che adesso è noto a tutti, potremmo andare con loro! Ci lamentiamo sempre che fuori dalla scuola non passiamo molto tempo tutti insieme, questa potrebbe essere una scusa!
> From: Jace @Squad, 10.24
Io accetto solo se Lewis promette di stare alla larga dal campo.
> From: Simon @Squad, 10.24
Non gioco così male!
> From: Jace @Squad, 10.24
L’ultima volta che ti sei avvicinato ad un pallone da basket hai ucciso un piccione!
> From: Simon @Squad, 10.24
L’ho solo tramortito!

Alec stava letteralmente impazzendo. E non in senso buono.

> To: Squad, 10.25
Vi prego, basta!
Alle 15 ci vediamo tutti davanti all’entrata della scuola e ci avviamo al campetto insieme.

> From: Izzy @Squad, 10.25
Agli ordini, capo!
Ci vediamo più tardi, xoxo


Alec scosse la testa e tornò al suo libro. Visto il silenzio, adesso, avrebbe imparato qualcosa. Forse.

*

Il campo da basket in cui Jace e Alec avevano deciso di allenarsi era nascosto all’interno di un reticolato di quartieri e viuzze che si intrecciavano tra di loro, che avevano ricordato a Magnus il labirinto del Minotauro. Nemmeno il filo di Arianna l’avrebbe aiutato a ritrovare la strada di ritorno, ma a quanto pare Alec e Jace conoscevano quel posto come le loro tasche.
Mentre i due giocatori si posizionavano al centro di un campo asfaltato, con i canestri corrosi dalle intemperie del tempo e arrugginiti, Magnus si sistemava insieme al resto del gruppo su quelli che dovevano essere spalti, ma che, in realtà, erano un ammasso di ferraglia che un tempo doveva essere stata verniciata di verde e che, adesso, era rossa di ruggine e odorava di metallo. Quell’odore ferroso entrava nelle narici e si impregnava ovunque.
“Cosa ci trovano di speciale in questo posto?”
“Vengono qui da quando Jace aveva nove anni. È in questo posto che ha capito che avrebbe voluto giocare seriamente a basket.” Spiegò Iz, sedendosi al fianco di Magnus. Dietro di lei si piazzò Simon, che divaricò le gambe per fare in modo che la schiena della ragazza aderisse al suo petto, mentre Clary si sedette al fianco dell’amico.
“Non potevano allenarsi in palestra?” domandò la rossa.
Isabelle alzò le spalle: “A loro piace venire qui.”
“Iz, vieni qui!” la chiamò Alec e la ragazza si alzò dagli spalti per andare dai fratelli. Il moro le porse la palla, “Sai quello che devi fare.”
Iz annuì, sorridendo: “Voglio un gioco pulito, ragazzi.” Disse, indicando prima Alec e poi Jace. I due annuirono e la ragazza, a quel punto, lanciò la palla in aria e uscì velocemente dal campo. Come il pallone cominciò a fluttuare in alto, i due ragazzi saltarono: Alec era sempre stato avvantaggiato dalla sua altezza, ma Jace, per questo motivo, aveva imparato a saltare molto più in alto del fratello, così riuscì ad afferrare la palla per primo. Palleggiò con agilità, evitando Alec, e dirigendosi a canestro, ma proprio quando stava per schiacciare, con un balzo Alec interpose la propria mano tra la palla e il canestro, respingendo il tentativo di Jace di segnare.
“Devi essere più veloce.”
“Se andassi più veloce di così dovrebbero darmi il posto di Flash nella Justice League!”
“Di nuovo.” Disse Alec, perentorio.
Jace gli rivolse un sorriso ferino, “Qualcuno vuole tirare fuori le palle.”
“Concentrati. Se riesco a marcarti io, che non sono un giocatore, riusciranno a marcarti anche i tuoi avversari.”
Jace annuì e tornarono al centro del campo.
“Iz.” La chiamò il biondo e la ragazza si avviò nuovamente al centro del campo, lasciando la palla in aria una seconda volta e uscendo subito dopo averlo fatto.
Concentrato sul pallone in aria, Jace se ne riappropriò come aveva fatto nel primo tentativo, scartò di nuovo Alec e si diresse a canestro. Tentò una nuova schiacciata, ma quando percepì Alec al suo fianco che stava saltando, allora fece un giro completo intorno al fratello palleggiando, e solo quando i piedi di Alec toccarono di nuovo terra, Jace saltò a canestro, segnando i primi due punti.
Clary dagli spalti cominciò ad applaudire e Jace le lanciò un bacio volante dal campo.
“Ti sono sembrato abbastanza veloce?” domandò sornione al fratello.
Alec gli stava sorridendo: “Così devi fare. Rimani concentrato e non dare tutto troppo per scontato.”
Jace annuì.
“Forza,” disse Alec, “Di nuovo!”

Mentre Alec e Jace erano impegnati in una partita infinita uno contro uno, Magnus se ne stava sugli spalti al fianco di Isabelle a fissare, senza premurarsi di non essere notato, il sedere di Alec, a cui quei pantaloncini rendevano estremamente giustizia. Fosse stato per lui, Alec avrebbe potuto indossare pantaloncini simili sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro. Lo fasciavano in modo giusto, senza essere troppo larghi, ma senza troppe costrizioni e cadevano morbidi sulle cosce.
Erano un indumento interessante. O forse erano interessanti perché erano portati da Alexander Ho-le-gambe-chilometriche Lightwood e quindi anche un sacco di iuta avrebbe fatto lo stesso effetto. 
Era sempre stato un ammiratore della muscolatura soda, onestamente parlando, e Alexander era sodo ovunque. In una maniera quasi oltraggiosa, della serie: come osi essere così perfetto?
Ma Magnus non poteva che essere felice del fatto che Alexander – più nolente che volente – fosse così oscenamente sodo.
Si leccò le labbra, in un gesto che poteva anche essere interpretato come voler idratare delle labbra troppo esposte al freddo delle temperature autunnali, ma che in realtà era un modo per placare quella voglia di avere Alexander vicino che stava crescendo in lui.
Stupidi sexy calzoncini. Gli facevano perdere il suo contegno.
“Magnus?”
Il ragazzo sussultò, “Che c’è, cara?”
“L’organizzazione della festa come procede?”
Magnus non riusciva proprio a prestare attenzione ad Isabelle, i suoi occhi venivano attirati dalla figura di Alexander in una maniera spropositata. Aveva l’impressione che perdersi anche il minimo dettaglio sarebbe stato un peccato mortale.
“Bene,” disse quindi, lo sguardo incollato ad Alec. Erano le sue braccia, adesso, che facevano sì che il suo contegno andasse a farsi un giro. I bicipiti si gonfiavano e rilassavano al ritmo dei palleggi. “Cat ha moltissime idee sugli addobbi e sugli inviti. Penso che-” si interruppe a metà frase, rapito dal modo che aveva Alec di saltare, allungandosi in maniera aggraziata. Quando lo vide andare a canestro e segnare, applaudì e Alec, dal centro del campo, gli fece l’occhiolino.
“Ha ammiccato?” Domandò Isabelle, incredula.
“Sì, sono piuttosto sicuro che l’abbia fatto.” Un brivido corse lungo tutta la spina dorsale del ragazzo.
Isabelle si aprì in un sorriso luminosissimo e batté le mani felice, senza aggiungere altro, mentre Magnus lasciò che quella sensazione elettrica provocata da tutta quella situazione pervadesse il suo corpo.
“Penso che riusciremo a fare tutto entro i tempi stabiliti,” completò la frase lasciata in sospeso.
“Oh, perfetto! Sono curiosa di vedere cosa avete in mente!”
“È una sorpresa, mia cara...” Magnus accavallò le gambe e tornò a guardare il campo, dove Alec stava chiedendo un time-out, che Jace concesse volentieri. Si diressero insieme verso i loro borsoni, lasciati a bordo campo, e si attaccarono simultaneamente alle rispettive bottigliette d’acqua.
“Non l’avevi mai visto giocare?”
“No, l’ho solo visto tirare con l’arco.”
“È bravo, vero? Il suo istruttore ha sempre detto che ha un talento naturale.”
“È bravissimo! Fa sembrare il tutto estremamente facile, ma credimi, non lo è!”
Isabelle rise: “Ha provato ad insegnarti?”
Magnus annuì, “Dice che sono stato bravo, ma penso l’abbia detto perché è un tantino di parte,” accentuò il concetto avvicinando il pollice e l’indice della mano destra.
“Nah, Alec è incapace di mentire. Te l’avrebbe detto, se avessi fatto tanto schifo!”
Magnus spostò lo sguardo da Isabelle ad Alec, che si stava passando un asciugamano sul collo, i capelli corvini arruffati dal sudore.
“Buono a sapersi.” Concluse, nella voce una nota di dolcezza. La sincerità era una delle cose che più gli piacevano di Alec. “Perché non gioca a basket?”
“Gli piace più la boxe,” rispose Iz, con un’alzata di spalle. “Dovresti vederlo combattere.”
“Luke dice che è un buon combattente, con molta disciplina.” Si intromise Clary.
Luke Garroway era il coach di Alec e il patrigno di Clary – cosa che entrambi erano venuti a sapere solo dopo che si erano conosciuti. Luke era un ex pugile che per un brutto incidente al costato aveva dovuto concludere prima la sua carriera da professionista, limitandosi all’insegnamento. Amava troppo quello sport per abbandonarlo definitivamente.
“Ma se Alec è una specie di Rocky,” ragionò ad alta voce Simon, “Questo fa di te la sua Adriana? Voglio dire, una versione più alta e mascolina e glitterata…”
“Ti prego, Stanley, non finire questo insensato discorso.”
“Non è insensato, invece…” gli diede corda Clary, “Se Alec è Rocky, tu sei la versione maschile di Adriana.”
“A volte dimentico che siete migliori amici. E che deve esserci un motivo, se lo siete!”
Simon e Clary si batterono il cinque, orgogliosi.
“Non siate fieri di voi stessi! Non c’è niente per cui esserlo!”
Isabelle ridacchiò e si sistemò i capelli di lato, tornando a guardare i suoi fratelli che avevano ricominciato a giocare. Vide Jace segnare di nuovo e Alec dargli una pacca sulla schiena. C’era sempre stata sana competitività tra loro (chi arrivava primo in una corsa, chi riusciva a mangiare più peperoncini senza provare l’impulso di vomitare, cose del genere), ma ogni volta che dovevano sostenersi, Isabelle si stupiva di quanto potesse essere profondo il supporto che  si davano.
I due continuarono a giocare, Jace attaccava e Alec difendeva, e più Alec si impegnava nella difesa, più Jace migliorava nell’attacco. Si muovevano in sintonia, due ingranaggi che si muovono all’interno di una macchina perfetta. Isabelle si riempiva di orgoglio ogni volta che li guardava.
Il gruppo rimase in silenzio per qualche istante, concentrati a guardare i due giocatori che correvano avanti e indietro da un canestro all’altro, segnando punti e difendendo la propria parte di campo. Passò un’altra ora, circa, prima che i ragazzi decisero di fermare definitivamente il gioco.
“Basta,” sentenziò Alec, con il fiatone, “Se faccio un altro passo muoio.”
Jace rise, il suono intervallato da colpi di tosse funzionali a regolare il respiro, “Sono d’accordo. Altrimenti domani mi farà male ovunque e farò schifo.”
“Non farai schifo!”
Jace sorrise, rincuorato, e porse una mano ad Alec per tirare a sé il fratello. Si diedero delle pacche sulla schiena e poi si diressero dal gruppo. 
“Siete stati bravissimi.” Disse Isabelle, gli occhi antracite che brillavano di orgoglio.
Jace e Alec l’abbracciarono simultaneamente e Izzy, nonostante i tacchi vertiginosi, sparì inglobata dall’abbraccio di due giganti.
“Puzzate di carogna!” si lamentò la ragazza, scatenando le risate di tutti. Allora Jace cominciò ad alzare le braccia e ad avvicinarsi al viso di Iz, che inorridita si nascose dietro a Simon. “Stai lontano da me!”
Alec rise, rivedendo in quel comportamento i due bambini che si ricorrevano per casa, con la differenza che, da piccola, Izzy si nascondeva dietro di lui quando ne aveva abbastanza dei dispetti di Jace. Non erano cambiati poi tanto, stava pensando Alec, che venne distratto dai suoi pensieri da un pizzico su un fianco. Si voltò, incrociando la figura di Magnus, in piedi sugli spalti dietro di lui. Per la prima volta da quando si erano conosciuti, Alec dovette alzare la testa per guardarlo.
“Ehi,” gli disse e, come Magnus gli sorrise, si avvicinò di più a lui, allontanandosi dal gruppo, “Sei alto,”
Magnus rise: “Io sono sempre alto. Vicino a te sembro basso, ma perché tu sei una specie di montagna.” Chinò il viso verso il basso e Alec, d’istinto, sollevò il proprio. “Sei bravo, sai?” Magnus gli chiuse il viso tra le mani e rimase ad osservarlo: la fronte imperlata di sudore, le guance arrossate per le corse, i capelli arruffati, sparati in ogni direzione senza un minimo senso logico. Era bellissimo anche così, sudato e accaldato. Il che fece passare nella testa di Magnus immagini che erano tutto tranne che pure e caste, costringendolo a schiarirsi la gola per darsi un contegno – che, grazie ad Alexander, era stato minato più volte in quelle due ore e mezzo che in tutta la sua vita.
“Non sapevo ti piacesse il basket.”
“Non mi piace, infatti. Mi piaci tu in calzoncini corti, è diverso.”
Alec rise e portò le sue mani sui fianchi di Magnus. Quest’ultimo dunque, si chinò e lo baciò.
“Puzzo,” si giustificò il minore.
“Non mi interessa,” disse l’altro, tirandolo più a sé e baciandolo di nuovo. Il corpo di Alec emanava il calore tipico degli sforzi fisici, quella specie di aura bollente che viene percepita intensamente, come si percepisce il calore del fuoco acceso nel camino. Era diverso dalla solita sensazione calda che il suo corpo emanava nella normalità, ma non per questo doveva essere sgradevole, anzi. Alec percepì il corpo di Magnus che aderiva sempre di più al proprio e spostò le mani sulla sua schiena per abbracciarlo.
“Mi sei mancato, sai?” disse Magnus, i pollici ad accarezzare le guance di Alec. Vide il rossore su di esse mutare: da rosso delicato diventarono di un rosso scarlatto.
“Ero qui.”
“Lo so, ma mi sei mancato comunque.” Incurante del sudore, Magnus gli baciò la fronte, “Però è stato bello guardarti fare qualcosa che ti piace. Un giorno mi piacerebbe vederti boxare.”
“Va bene, basta che non ti aspetti chissà che cosa, non è che sono Rocky, o simili…”
“Ti prego non nominare quell’individuo. Stephen ritiene che io sia la tua Adriana!”
Alec trattenne una risata, che uscì come un verso mozzato dal naso: “Simon deve smetterla di fare paragoni assurdi!”
“È quello che gli ho detto anche io!”
Alec strofinò il proprio naso contro il mento di Magnus e quest’ultimo gli sorrise. “Sembri un cucciolo.”
“Non è vero.”
“Sì, invece. Sei adorabile.” Magnus gli diede un bacio leggero, “Sei adorabile e sei mio.” Disse con una spontaneità che fece arrossire Alec fino all’attaccatura dei capelli. Boccheggiò con il cuore che scalpitava furioso, premendo contro la cassa toracica come se avesse voluto romperla.
“C-cosa hai detto?” balbettò, maledicendosi di essere un tale imbranato. Avrebbe potuto uscirsene con una frase ad effetto, qualcosa di sagace che avrebbe potuto donare qualcosa di speciale all’atmosfera creatasi e invece aveva rovinato tutto. Stupido idiota.
Magnus gli accarezzò il viso arrossato: “Che sei mio, Alexander. E te lo ripeterò all’infinito, se è quello che vuoi.”
Alec sostenne il suo sguardo, combattendo con la voglia di abbassarlo perché si sentiva incapace di reggere un’emozione così intensa. Ma una parte di lui non voleva perdersi niente di quel momento. Voleva che tutto, di quell’attimo creatosi senza premeditazione, rimanesse impresso a caldo nel suo cervello, come un marchio.  
“Io sono tuo,” disse, appoggiando la mano sul polso di Magnus e cominciando ad accarezzarlo con il pollice, “E tu sei mio.”
E non balbettò. Non l’avrebbe fatto nemmeno volendo perché le parole di Magnus avevano spazzato via tutte le sue insicurezze. Sapeva benissimo che si appartenevano, che erano nati per stare insieme, per essere l’uno parte dell’essenza vitale dell’altro. E non c’era più spazio per i dubbi, dopo una confessione simile.
“Sì, lo sono dal momento in cui hai sbattuto contro il mio armadietto.”
Alec gli sorrise e lo abbracciò. Forse l’unico modo per riuscire a spiegare tutto ciò che provava per quel ragazzo era definirlo amore.
Alec si era innamorato.
Ed era una sensazione bellissima.

*

Il giorno seguente, Jace avrebbe giocato la sua prima partita da capitano. Per questo aveva chiesto ad Alec di andare con lui al pre-partita, che per Alec consisteva nel starsene sugli spalti di cemento della palestra della scuola a guardare il riscaldamento dei giocatori, mentre Starkweather, l’allenatore della squadra, faceva un ripasso degli schemi ad alta voce. Jace ogni tanto gli lanciava delle occhiate, come se volesse essere rassicurato delle sue capacità, e Alec si limitava ad un delicato cenno del capo, che avrebbe percepito solo Jace.
Suo fratello era nervoso e Alec lo capiva tremendamente. A lui capitava lo stesso quando doveva affrontare le gare di tiro con l’arco. Mesi di preparazione venivano spazzati via dall’ansia da prestazione, da quella vocina subdola che abitava in un angolo remoto del cervello e cominciava a demolire ogni tipo di sicurezza, suggerendo ogni possibile scenario apocalittico. Mille volte Alec aveva immaginato di infilzare qualcuno con una freccia, o scordarsi come si tiene l’arco, o peggio ancora perdere la vista. Erano tutte ipotesi assurde che gli venivano inculcate dal panico. Probabilmente anche per Jace era così, adesso, anche se non lo dava a vedere.
“Ciao, Alec.”
Il ragazzo si voltò in direzione della voce conosciuta che l’aveva appena salutato, trovandosi ad incrociare Raj, suo compagno di classe che faceva boxe con lui. Il coach Garroway li aveva fatti anche allenare insieme, una volta.
“Ehi, Raj!” lo salutò.
“Sei venuto presto…”
“Già, sono arrivato con Jace.”
Raj annuì, i suoi occhi neri scrutavano Alec in un modo che il ragazzo non seppe interpretare, come se stesse per chiedergli qualcosa cercando di usare un’altra lingua, che però nessuno dei due conosceva.
“Si aspettano grandi cose da lui,” ruppe il silenzio, spostando lo sguardo da Alec al campo.
“Sì… almeno credo.” Alec alzò le spalle, guardando il campo e cercando Jace, che stava saltellando sul posto. Quando si voltò di nuovo verso Raj, il ragazzo lo stava già guardando. “E tu che ci fai qui prima dell’inizio della partita?”   
“Addetto alla sicurezza.”
“Esiste una cosa del genere?”
Raj sbuffò una risata: “Ehi, non giudicare. Finché mi promettono crediti extra, a me va bene tutto!”
Alec alzò le mani in segno di resa, “Non giudico, lo trovo solo un po’…”
“…Ridicolo?”
Il moro arricciò il naso, “Strano, più che altro… non che succeda chissà cosa ad una partita tra squadre liceali.”
“Lo so. Valle a capire, le decisioni della Herondale.”
Alec stava per rispondere quando Jace lo chiamò dal campo, facendogli cenno con la mano di guardare verso la porta, dove il moro riconobbe Magnus, insieme ad Izzy e Catarina. Il suo cuore sussultò e immediatamente scattò in piedi, sventolando una mano per farsi notare dai tre, che come lo videro attraversarono tutta la palestra per raggiungerlo. Alec non si stupì più di tanto quando, al passaggio di Isabelle davanti alla squadra, i giocatori smisero simultaneamente di fare ciò che stavano facendo per non perdersi nemmeno un movimento della giovane Lightwood. Meliorn azzardò anche ad accennare un fischio, che venne smorzato sul nascere da un pugno su una spalla ben piazzato di Jace, “Quella è mia sorella, idiota!” – Ah, se gli sguardi avessero potuto uccidere, Meliorn sarebbe ridotto in cenere, in questo momento.
Izzy raggiunse Alec sugli spalti, seguita da Catarina e Magnus, impegnati in una conversazione sulla festa.
“Allora…” cominciò Raj e Alec portò nuovamente la sua attenzione su di lui, “Io vado, ci vediamo, Alec.”
Il moro gli sorrise, cordiale, “Ci vediamo, Raj.”
Il ragazzo sostenne il suo sguardo ancora per un po’ e poi si allontanò dagli spalti per dirigersi alle porte con le maniglie antipanico all’entrata della palestra, piazzandosi in prossimità di esse con tutto l’intento di stare lì per tutta la durata della partita.
“Non me li presenti, i tuoi amici?” Magnus si sedette al sua fianco, approfittando del fatto che nessuno avrebbe ascoltato la loro conversazione, dal momento che Catarina e Izzy avevano cominciato a parlare dei loro costumi di Halloween.
“Temo di non capire, Magnus.”
Il maggiore accavallò le gambe, fasciate dentro ad un paio di jeans verde smeraldo, così aderenti che Alec cominciava a dubitare il sangue scorresse correttamente, e indicò con un discreto cenno del capo la porta, in direzione di Raj.
“Raj?”
“Non ho idea di come si chiami, tesoro. È amico tuo, non mio.”
Magnus sembrava… geloso. Alec strinse le labbra all’interno della bocca per trattenere un sorriso compiaciuto. Nessuno era mai stato geloso di lui e, finché rimaneva una gelosia innocua, poteva dire che era una sensazione abbasta piacevole.
“Sei geloso?”
“Di quella specie di testosterone ambulante? Fammi il piacere.”
“Eppure sei sulla difensiva…”
“Da quando sei un esperto del linguaggio del corpo?”
“Perché non ammetti semplicemente che sei geloso?”
“Devo esserlo?”
Alec gli sorrise dolcemente, “Andiamo, Magnus, smettila di rispondere alle mie domande con altra domande. Io e Raj facciamo boxe insieme e abbiamo qualche corso in comune, tutto qui. Siamo conoscenti.”
“Lui non ti guarda come si guardano i conoscenti, però.”
“Magnus, Raj ha la ragazza.”
“Non vuol dire che non possa trovarti di suo gradimento.”
Alec parve pensarci su: trovava improbabile che Raj provasse davvero un’attrazione per lui, sapeva che il fatto che avesse una ragazza non significava poi molto – lui stesso alle medie si era inventato una certa Jessica Hawkblue per non fare la figura di quello che non aveva mai baciato nessuno – ma non aveva mai colto in Raj comportamenti che potessero far pensare che fosse gay, o che fosse interessato a lui. Però, se anche Magnus avesse avuto ragione, lui non poteva farci niente: il suo cuore era già impegnato.
“Se anche così fosse, dovrà accettare il fatto che ho già qualcuno.” Alec gli sfiorò una mano fugacemente, “Qualcuno che mi piace tantissimo.”
“Dalla luna e ritorno?”
Alec rise: “Anche di più.”
Magnus avrebbe tanto voluto accarezzarlo, ma si limitò a dirgli: “Per me vale lo stesso.”
La voce di Isabelle che chiamava Clary e Simon per dirgli di avvicinarsi, poi, portò entrambi di nuovo alla realtà.
E mentre Clary si sistemava vicino agli amici, costringendo il povero Simon ad aiutarla a sollevare uno striscione più lungo di una balena, disegnato appositamente dalla rossa in occasione della prima partita del suo ragazzo, il fischio di inizio diede il via a quella che sarebbe stata la prima vittoria dei Nephilim.

*

Il famoso venerdì sera arrivò relativamente in fretta. Alec, mentre camminava verso l’indirizzo fornitogli da Magnus, si trovò a strofinare le mani una contro l’altra e non certo per il freddo. Era in ansia. Sarebbe stato solo con Magnus e una bambina che non conosceva e che, per quanto ne poteva sapere lui, avrebbe potuto odiarlo e rendergli quelle tre ore un inferno. Ad Alec piacevano i bambini e pensava anche di saperci fare abbastanza – con Max era stato facile, ma forse perché erano fratelli – solo che era terrorizzato all’idea di fare fiasco.
Inspirò profondamente ed espirò, avviandosi alla porta della casa subito vicina a quella di Magnus, molto simile alla sua, grande nello stesso modo e dalla struttura moderna. Si avviò alla porta e una volta raggiunta, rimase a fissarla per cinque minuti in attesa di trovare il modo giusto per bussare, dandosi poi dell’imbecille perché non esistevano modi giusti o sbagliati di bussare, ne esisteva solo uno, quindi tanto valeva darsi una mossa.
Bussò.
Magnus gli aprì immediatamente e Alec, come sempre, rimase senza fiato non appena i loro sguardi si incrociarono. Era bellissimo – e a questo, Alec ormai l’aveva appurato, non ci avrebbe mai fatto l’abitudine. I suoi occhi erano decorati con due ali di eyeliner nere sovrastate dal glitter azzurro come il cielo, lo stesso colore della sua camicia di raso, abbinata ad un paio di pantaloni bianchi.
“Ciao, stellina.”
Alec gli sorrise, “Ciao.”
“Avanti, entra.”
Magnus si scostò per farlo entrare e come Alec mise piede in quella casa, una bambina dalla pelle scura, le treccine e un vestitino giallo gli andò in contro, guardandolo con gli occhi color nocciola grandi di curiosità.
“Tu sei l’amico di Magnus?”
Il ragazzo annuì, “Sì, sono Alec,” si chinò all’altezza della bambina per porgerle la mano, che la piccola strinse.
“Io sono Madzie.” La piccola si avvicinò all’orecchio di Alec, come se volesse dirgli un segreto in confidenza, “Ti piacciono i biscotti?”
Alec sorrise, quella bambina già gli stava simpatica: “Sì, e a te?”
“Tantissimo! Li sai fare? Io e Magnus stavamo per cucinarli!”
Alec si voltò verso Magnus, “Non sapevo che Magnus sapesse cucinare…”
“Solo i biscotti.”
“Non devi dire le bugie, Magnus,” lo rimproverò la bambina, che guardando Alec aggiunse: “Sa fare anche le spremute. E i pancakes!” la bimba si avviò verso Magnus prendendolo per mano e poi, una volta afferrata anche la mano di Alec, si diresse in cucina, “Oh, e anche la cioccolata calda! Vero, Magnus?”
L’interessato rise: “Certo, sweet pea.”
“Come vedi, è un bravo cuoco.”
Alec rise dal naso, “Non ne dubito.”
Madzie li trascinò in cucina, una stanza abbastanza grande, che riportò alla mente di Alec il suo primo bacio. Sentì le guance accaldarsi a quel pensiero e nello stesso istante in cui la sua mente veniva invasa dalle immagini di quel piacevole ricordo, la bocca di Magnus gli sfiorò il lobo destro e Alec rabbrividì, “Smettila.” Sussurrò per non farsi sentire da Madzie che, in testa al gruppo, ancora teneva entrambi per mano, formando una piccola piramide con lei al vertice.
“A cosa stai pensando?” Magnus non si allontanò e afferrò il lobo tra labbra.
“Te lo dico se ti allontani,” rantolò Alec, in preda ad un principio di soffocamento provocato dal ragazzo al suo fianco.
Magnus ciondolò la testa in un segno di disapprovazione, ma si allontanò.
“Al nostro primo bacio,” sussurrò Alec, pianissimo, le guance rosse come due mele.
Magnus gli sorrise intenerito, “Oh, tesoro, è una cosa dolcissima.” E si guardò intorno, ricordando piacevolmente come erano andate tra di loro le cose l’ultima volta che si erano trovati in una cucina.
“Li sai fare i biscotti, Alec?”
Entrambi i ragazzi sussultarono quando la bambina lasciò le loro mani e si voltò a guardarli. Alec sostenne lo sguardo carico di aspettativa di Madzie: “Sì, posso aiutarti a farli?”
Madzie batté le manine, euforica: “Certo! Cosa serve per fare i biscotti? Io li mangio e basta, di solito.”
Alec ridacchiò, trovando nella spontaneità di Madzie, che doveva avere più o meno cinque anni, la stessa di Max. “Di solito uova, zucchero, farina…”
“Polvere di unicorno,” aggiunse Magnus e Madzie lo guardò con gli occhi grandi e la bocca spalancata.
“Davvero?”
“Certo. Vengono più buoni.”
“E dove la troviamo?”
“Non si trova,” intervenne Alec, guadagnandosi un’occhiata complice di Magnus, “Si ottiene con un incantesimo.”
“E voi sapete farlo?” squittì la bambina.
“Magnus sì, lui è magico, sai?”
Madzie spostava lo sguardo da uno all’altro, sempre più interessata a quello che i due ragazzi le stavano dicendo. I suoi occhi nocciola saltavano da Alec e Magnus, guardando entrambi con aspettativa e curiosità. I due ragazzi si chinarono alla sua altezza e Alec continuò: “Però è un segreto. Nessuno sa della sua magia, solo io e te.”
“Anche io voglio essere magica.”
“C’è solo un modo per scoprirlo,” disse Magnus, “Devi pronunciare l’incantesimo, se la polvere appare sei magica, altrimenti no.”
“Alec è magico?”
“No, Alec no, purtroppo.”
Madzie parve rattristarsi, come se l’assenza di magia in Alec fosse una specie di disgrazia, “Però è carino,” disse, come per cercare di risollevare gli animi, “E simpatico.” Si rivolse direttamente all’interessato: “Se non avessi già intenzione di sposare Magnus, da grande, sposerei te.”
Alec rise di cuore, trovando Madzie più adorabile di quanto si sarebbe mai immaginato.
“Vorrà dire che porterò i vostri anelli, ti va?”
Madzie annuì con convinzione.
“Allora, lo vuoi fare l’incantesimo?”
“Sicuro!”
“Prego, signor Bane, tocca a lei.” disse Alec, facendo cenno a Magnus di continuare. L’orientale gli lanciò un’occhiata divertita e poi si rivolse a Madzie: “Devi chiudere gli occhi e contare fino a tre, pronta?”
“Prontissima!” Madzie seguì le istruzioni, serrando gli occhi.
“Uno,” disse Magnus, facendo cenno ad Alec di raggiungere la dispensa. Il ragazzo l’aprì cercando di fare il minimo rumore possibile, “Due,” continuò Magnus, mentre indicava il secondo scompartimento, dove Alec trovò un preparato per la pasta di zucchero colorata. La afferrò e la porse all’altro, che ancora era accucciato all’altezza della bambina e che nascose la busta dietro alla schiena, “Tre!” esclamò e Madzie aprì gli occhi.
“Non c’è niente, qui.” Disse con delusione, “Vuol dire che non sono magica?”
“Assolutamente no, sweet pea. L’incantesimo non è ancora finito.” Spiegò Magnus con pazienza. “Forza, adesso devi chiudere nuovamente chiudere gli occhi e porgere le mani in avanti.”
La piccola obbedì e rimase in attesa: “E adesso?” domandò, impaziente.
“Devi dire la parola magica: accio unicorno!”
Alec premette le labbra all’interno della bocca per trattenere una risata divertita. La verità era che vedere Magnus alle prese con Madzie era adorabile oltre ogni limite sopportabile: nel suo sangue stava cominciando a scorrere una dose eccessiva di dolcezza, rischiando l’iperglicemia, mentre nel suo cervello si formavano idee che vedevano entrambi in un possibile futuro alle prese con un bambino, il loro bambino. Arrossì, al pensiero. Era troppo presto per fantasticare su cose del genere, erano ancora decisamente troppo giovani e si frequentavano da troppo poco, ma Alec non poteva fare a meno di pensare che Magnus sarebbe stato un ottimo papà.
Non riuscì più a trattenere quel sorriso che aveva cercato di celare, mentre i suoi occhi erano fissi su Magnus, guardandolo come se fosse la cosa più bella creata dall’universo. E per Alec, lo era davvero.
“Accio unicorno!” esclamò la bimba con convinzione, mentre Magnus le metteva tra le mani la scatola del preparato per la pasta di zucchero.
“Adesso apri gli occhi!”
Madzie obbedì e aprì la bocca in una O perfetta, lo stupore che le faceva luccicare gli occhi: “Sono magica!” cominciò a saltellare felice per la stanza, stringendo al petto la scatola come se fosse il suo tesoro più prezioso.
Alec appoggiò una mano tra le scapole di Magnus, mentre insieme assistevano alla scoordinata danza di Madzie: “Sei bravo, lo sai?”
“A fare il mago?”
Alec rise dal naso, “A fare il baby-sitter.” Gli lasciò un fugace bacio sulla guancia.
“Anche tu.”
“Ho passato tanto tempo con Max, quando…” deglutì, un magone doloroso che ostruiva la sua gola, “Quando era più piccolo.”
Magnus notò quel cambiamento nella voce del ragazzo e lo guardò con lo sguardo interrogativo.
“È una storia lunga e non così piacevole. Te la racconterò, ma non stasera.”
“Certo, fagiolino, quando vorrai.”
Alec gli sorrise e Magnus gli passò un braccio dietro alla schiena per stringerlo a sé.
“Magnus!” chiamò Madzie con il fiatone per via della sua danza. I due sciolsero velocemente l’abbraccio.
“Dimmi tutto, sweet pea.”
“Pensavo che sono un po’ stanca per fare i biscotti… e non potrei mangiarli stasera, vero?”
“Giusto, perché devono cuocere e raffreddarsi.”
“Ecco. Però possiamo fare la cioccolata calda, quella è più veloce!”  
Magnus le sorrise con dolcezza, “Certo, sweet pea. Facciamo la cioccolata calda.”
Madzie batté le manine, felice e si sistemò al tavolo della cucina, le gambe che ciondolavano dalla sedia.
Magnus si diresse verso la dispensa afferrando il preparato per la cioccolata e il pentolino dove l’avrebbe fatta cuocere.
“Alexander, puoi prendere il latte in frigo?”
Alec annuì e si diresse verso il frigo, dove prese una busta di latte che porse a Magnus, il quale fece particolare attenzione a sfiorare le sue dita, sorridendogli complice a conferma che non era un gesto casuale.
“Vuoi una mano?”
“No, ti ringrazio.”
“Posso guardare da vicino?” si intromise Madzie, ancora seduta al tavolo.
“Certo, ma solo se Alec ti tiene in braccio. Non voglio che stai troppo vicina al fuoco.”
“Il fuoco è brutto,” confermò Madzie, scendendo dal tavolo per dirigersi verso Alec, che senza esitazione alcuna la sollevò per tenerla salda a se, evitando di farla stare troppo vicino al pentolino caldo.
Magnus fissò entrambi per un istante, i lineamenti del viso addolciti da ciò che i suoi occhi stavano guardando: Alec che teneva in braccio Madzie e lei che gli aveva passato un braccino intorno al collo come se fosse la cosa più naturale del mondo, qualcosa che faceva spesso. Madzie era una bambina che tendenzialmente non si fidava molto, di nessuno, ma con Alec si comportava come se lo conoscesse da sempre. Le veniva facile fidarsi di lui perché probabilmente vedeva la stessa bontà che riusciva a percepire Magnus.
“Magnus?” la voce di Madzie lo riportò alla realtà.
“Giusto, la cioccolata!” si sbottonò i polsini della camicia e arrotolò le maniche fino ai gomiti, provocando un mezzo attacco cardiaco ad Alec, che aveva sempre trovato quel gesto di suo gradimento, ma vederlo fare da Magnus era qualcosa che andava reputato illegale. I suoi avambracci erano illegali. Stava studiando particolarmente la loro muscolatura definita e il colore ambrato della pelle di Magnus, quando questi si schiarì la gola per attirare la sua attenzione.
“S-sì, sono tornato!”
“Tornato da dove?” domandò ingenuamente Madzie, “Mica ci siamo allontanati!”
Magnus ridacchiò, “Quando sarai più grande capirai, sweet pea.”
Madzie scrollò le spalle: “D’accordo.”
Magnus le sorrise e cominciò a far girare il latte e la polvere di cioccolata con un cucchiaio di legno fino a che non cominciò a bollire e ad addensarsi.
“Guarda, Madzie,” le disse Alec, “La cioccolata è quasi pronta.”
“Siii!” esclamò euforica, “Prendi le tazze, Alec, le tazze!”
Alec rise, rallegrato dall’entusiasmo della piccola e con lei in braccio si fece guidare da Magnus su dove prendere le tazze. Due per loro e quella viola con una streghetta stampata sopra per Madzie, che rimase a guardare Magnus versare la cioccolata al loro interno come se stesse osservando un processo particolarmente interessante e affascinante.
“Brucia, sweet pea, fai attenzione.” L’ammonì Magnus, non appena appoggiò la tazza al tavolo, dove Alec l’aveva fatta sedere qualche istante prima.
La bambina annuì e circondò la tazza con le manine, trovando particolarmente piacevole il calore, sebbene sapesse che era ancora troppo presto per berne il contenuto.
Magnus fece cenno ad Alec di sedersi alla destra di Madzie, mentre lui si sedette alla sua sinistra, in questo modo la bimba stava al centro, a capotavola, mentre loro due stavano uno di fronte all’altro.
“Quando posso bere, Magnus?”
“Quando si sarà raffreddata un pochino.”
“Va bene, intanto mi racconti una favola?”
“Ma certo, sweet pea.”
Magnus si lanciò nell’appassionato racconto di una ragazza che voleva ardentemente aprire un ristorante tutto suo, ma incontrò una rospo, un giorno, che ritenendosi un principe vittima di un bruttissimo incantesimo, le chiese di baciarla trasformandola a sua volta in una rana. E più Magnus andava avanti con la storia, gesticolando e dando intonazioni diverse alle parole per creare l’effetto giusto, più Madzie si appassionava. E più Alec assisteva a questo spettacolo, più si rendeva conto che era impossibile esprimere a parole quanto Magnus fosse speciale.



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Ciao a tutti! 
Come prima cosa voglio scusarmi per non aver inserito la festa di Halloween come promesso, ma già così veniva un capitolo di 20 pagine Word e temevo che inserendoci anche la festa sarebbe venuto chilometrico e, di conseguenza, troppo pesante da leggere! (In più, l'ho finito di scrivere stasera, quindi avevo paura che sarebbe venuta tirata via e non volevo rischiare - se mi sono sfuggiti degli errori di ortografia, chiedo scusa!) 
La dose di fluff presente in questo capitolo tocca livelli glicemici altissimi, ma spero comunque vi sia piaciuto lo stesso! 
La storia dell'adozione di Jace me la sono completamente inventata, tagliando volutamente la parte che lo vede un Herondale perché altrimenti le cose si sarebbero troppo complicate, quindi ho usato Wayland come cognome iniziale, cambiato poi in Lightwood. 
C'è un accenno ad un evento specifico nella vita di Max, che verrà fuori più tardi perché ho in mente di inserirla in un momento particolare della storia, quindi non sono pazza, c'è un motivo per cui ho inserito la battuta di Alec verso la fine, abbiate fiducia (o magari no, a voi la scelta XD).
Come sempre, vorrei ringraziare chiunque abbia messo la storia tra i preferiti/seguiti e chiunque spenda del tempo per recensire, è davvero importante per me sapere che la apprezzate! Vi abbraccio tutti tantissimo! <3 
Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va, e se Madzie e i Malec in versione baby-sitter sono stati di vostro gradimento, alla prossima! :D 

 

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Capitolo 9
*** 9. ***


“Le sta stampando!” esclamò Magnus, mentre Alec, davanti alla macchinetta per le foto tessere, si chinò all’altezza del foro di emissione per prenderle. Osservò quella striscia di carta plastificata che ritraeva quattro piccole foto di loro due insieme: in una Magnus tirava fuori la lingua, mentre Alec gonfiava le guance; in una erano schiena a schiena e con le mani mimavano una pistola, come se fossero due detective – da ciò era nata la terza foto che li ritraeva mentre ridevano come matti perché si erano sentiti troppo stupidi dopo aver optato per quella posa che faceva molto anni ’80; nella quarta e ultima foto, invece, si stavano baciando. Quella era la preferita di Alec. Insieme alla prima… o forse, le preferiva tutte, visto che non riusciva a scegliere quale gli piacesse di più, dal momento che più le guardava più trovava quelle foto di proprio gradimento.
“Tienile tu.” Disse Magnus, al suo fianco.
Alec alzò lo sguardo dalle foto a lui, lo sconforto attraversò i suoi lineamenti, “Non posso. Se le trovassero…” si interruppe a metà frase e Magnus gli passò un braccio intorno alla schiena, capendo perfettamente dove voleva arrivare il discorso di Alec.
“Le terrò io per te, allora, va bene?”
Alec annuì, passando il pollice sulle foto, come se volesse salutarle a dovere prima di consegnarle a Magnus. Sapeva che non poteva rischiare di tenerle in casa perché se sua madre o suo padre le avessero trovate, le conseguenze di tale scoperta non sarebbero state piacevoli. Soprattutto per Alec, che si sarebbe trovato con le spalle al muro e magari colto anche impreparato. Aveva intenzione di parlare ai suoi, ma dal momento che non aveva ancora scelto come dire loro la verità, non voleva che fosse un imprevisto a farlo al posto suo. Così, consegnò le foto a Magnus, che le mise nella tasca interna della sua giacca di velluto rosa antico.
“Le difenderò a costo della vita!”
Alec rise, “Non esagerare, adesso.” Era bello come Magnus riuscisse a fargli tornare il buon umore con così tanta semplicità.
L’eco delle loro risate ancora si stava disperdendo nell’aria di fine ottobre, quando il cellulare di Magnus squillò, sul display un nome che attirò l’attenzione di Alec più di quanto avrebbe voluto: non che di solito sbirciasse il telefono di Magnus, solo che normalmente lui non agiva come se avesse dovuto nascondere qualcosa.
Non appena quel Ragnor cominciò a troneggiare sul display, infatti, Magnus gli diede le spalle e Alec si rese conto che come quel ragazzo aveva il potere di mettergli il buon umore, aveva anche la capacità di toglierglielo. Perché si nascondeva? Chi era quel Ragnor? E perché Alec sentiva una zavorra attaccata al cuore che glielo gettava in un’oscurità dolorosa, come se tanti denti aguzzi e spietati glielo stessero masticando? Si impose di mantenere la calma, di non lasciarsi andare a conclusioni affrettate. Si fidava di Magnus, vero? Certo. Era di se stesso che non si fidava, del fatto che, nonostante tutto, ancora non si sentisse abbastanza per lui perché, sebbene sapesse ciò che Magnus provava nei suoi confronti, Alec rimaneva sempre il solito imbranato, impacciato e inesperto ragazzo che nella sua vita aveva avuto solo un’esperienza. E quell’esperienza portava una giacca rosa e gli stava voltando le spalle, adesso.
“Torno prima di cena, sì.” Stava dicendo Magnus, “Sì, la pizza va benissimo.” Sussurrava e ancora non si voltava, “Non devi scusarti, Ragnor, so che lavori fino a tardi.” Una risatina affettuosa, comprensiva, “Stai tranquillo, lo so.” Una pausa, “Sì, sono con lui.”
Alec non ci stava capendo molto, solo il fatto che, evidentemente, questo Ragnor sapeva della sua esistenza e aveva la faccia tosta di chiamarlo sebbene sapesse fossero insieme. E Magnus aveva un’altrettanta faccia tosta a rispondere alle sue chiamate di fronte a lui! Sentì chiaramente un moto di gelosia corrodergli le budella, ma aspettò, paziente, facendo ricorso a tutta la sua razionalità.
“No.” continuò Magnus, “No non glielo dirò.”
Dirmi cosa? –  pensò Alec.
“No, Ragn-” Magnus sbuffò, arrendevole, “Va bene, va bene, va bene, glielo dico. Basta che smetti di blaterare. Sì, sì, ci vediamo a cena. D’accordo, sì! Ho capito!” concluse esasperato la chiamata e si voltò con calma verso Alec, che, evidentemente incapace di controllare le sue espressioni facciali, si stava mostrando più inquieto di quanto avrebbe voluto.
“Non fare quella faccia, pasticcino.”
“Non chiamarmi pasticcino.” Brontolò l’altro, lapidario.
Magnus si avvicinò e fece per prenderlo per mano, ma Alec si ritirò bruscamente – gesto che a Magnus fece più male di quanto diede a vedere.
“Ragnor è il mio tutore legale, Alexander.”
Tutta quella sensazione spiacevole, la gelosia, la rabbia, persino, sciamarono in un attimo e Alec si sentì profondamente idiota e tremendamente stronzo. Le sue insicurezze l’avevano portato a conclusioni affrettate, sebbene la sua razionalità gli avesse suggerito di non farlo, e cosa ci aveva guadagnato? Un bel niente. Aveva fatto rimanere male Magnus scostandosi dalla sua presa – perché sì, se n’era accorto – e aveva fatto anche la figura dell’insensibile, del ragazzino viziato, quando l’ultima cosa che voleva era che Magnus si sentisse forzato a parlare della sua famiglia. Si sentiva una persona orribile.
“M-mi dispiace, Magnus.” Con una falcata lo raggiunse e lo stritolò in un abbraccio, che Magnus ricambiò immediatamente, stringendo la presa sulla schiena di Alec. “Non volevo… i-io… non ho giustificazioni.”
Magnus ispirò profondamente il profumo di Alec, trovandolo rassicurante oltre ogni limite. Lo trovava strano, a volte, che la sua idea di sicurezza venisse da un ragazzo che era entrato nella sua vita da poco, ma contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tutto ciò non lo spaventava. Alexander era un’ancora, per lui. Il suo profumo, qualcosa che gli ricordava l’odore secco della sabbia del mare, era avvolgente come i suoi abbracci, caldi e forti. Alexander era casa, una sensazione che nella sua vita aveva provato rarissime volte.
“Sei geloso, muffin?” disse Magnus, la voce ovattata dal petto di Alec.
“Forse…” ammise cauto Alec, cominciando ad accarezzare la schiena di Magnus con movimenti lenti e rassicuranti. 
Magnus lo strinse forte, “Non esiste persona al mondo in grado di eguagliarti, tesoro mio. Non hai e mai avrai rivali, Alexander, perché non voglio nessun altro al mio fianco, se non te.”
Il cuore di Alec ebbe un sussulto, come se venisse buttato giù da un dirupo altissimo.
“Io starò sempre al tuo fianco.” Gli sussurrò, “Vuoi parlarne?” domandò con cautela.
Magnus sciolse l’abbraccio per guardarlo in viso. Voleva parlarne? Probabilmente no, ma desiderava davvero che Alec lo conoscesse, che sapesse tutto della sua vita, voleva offrirgli il suo cuore nella sua interezza, come Alexander aveva fatto con lui, mostrandogli le sue paure. “Ragnor,” cominciò con un filo di voce, un masso ad ostruirgli la gola, “Mi ha adottato dopo che i miei genitori sono… sono…” aprire il proprio cuore era più difficile di quanto si aspettasse, sebbene volesse davvero farlo, almeno con Alec.
“Non serve dirlo,” Alec gli prese il viso tra le mani, “Ho capito, Magnus.” Lo abbracciò di nuovo, mentre lacrime silenziose cominciavano a bagnare il viso di Magnus, che si aggrappò nuovamente ad Alec per non precipitare di nuovo negli abissi profondi di quel suo cuore malandato, fatto a pezzi e masticato, che aveva ricominciato a battere solo dopo l’incontro con Alexander.
“Mi dispiace.”
“Non devi, Magnus. È un argomento doloroso e non voglio forzarti a parlarne.”
“Grazie.”
“Non devi nemmeno ringraziarmi.”
Magnus accennò una minuscola risata, mentre scioglieva l’abbraccio e cominciava ad asciugarsi gli occhi, “Ragnor mi ha detto di chiederti una cosa,” avanzò, cambiando argomento, gli occhi ancora lucidi e le ciglia umide.
“Ti ascolto.”
“Se vuoi venire a cena da noi, stasera. Mangeremo la pizza. Puoi dire di no, ovviamente.” Alec gli sorrise dolcemente, “Mi piace la pizza.”
“È un sì, quindi?”
Alec annuì. Per Magnus sarebbe sempre stato un sì.

*

Dire di sì gli era sembrata una bella idea, in primis perché davvero non riusciva a dire di no a Magnus, in secondo luogo perché si era comportato non come il migliore dei ragazzi e quindi voleva rimediare. Ma una volta messo piede di nuovo in casa propria, nel tardo pomeriggio, le budella di Alec avevano cominciato ad arrotolarsi su loro stesse, attorcigliandosi in una presa ferrea che significava una sola cosa: panico totale. Ragnor era come un padre per Magnus e se lui non avesse fatto buona impressione? Se l’avesse trovato odioso? O, cosa molto più probabile, lo trovasse strambo?
Ispirò a fondo ed espirò. Tirarsi indietro era fuori questione, quindi l’unica che gli rimaneva da fare era accantonare il panico e cercare di fare buona impressione. Per questo, necessitava il parere di un’esperta.
Alec uscì dallo studio, scendendo la scala che pendeva dal soffitto e, dopo averla rimessa al suo posto – altrimenti avrebbe penzolato in mezzo al corridoio del secondo piano – si diresse in camera di Izzy, bussando piano per non disturbarla troppo. Sapeva che stava studiando.
“Entra!!” gridò, così Alec fece capolino. Isabelle se ne stava seduta a gambe incrociate sul proprio letto, un libro – da quella distanza ad Alec sembrava di biologia – aperto sul materasso, le cui pagine venivano coperte frammentariamente dai capelli, ormai così lunghi che ci cadevano sopra. Era vestita con una semplice tuta, sebbene il viso fosse ancora truccato dalla mattina.
“Ti disturbo?”
Isabelle alzò gli occhi dal libro al fratello, rivolgendogli un sorriso ampio, “Non disturbi mai. Entra, gli organismi monocellulari possono aspettare!”
Allora ci aveva visto giusto.
Alec si incamminò con passo silenzioso verso Isabelle e si sedette sul fondo del materasso, il libro giaceva chiuso tra lui e la sorella.
“Allora, devi dirmi qualcosa, uomo del mistero?”
“Ora cominci anche tu con i soprannomi?”
“Scusami tanto, pasticcino.”
Alec arrossì fino all’attaccatura dei capelli, “Gli avevo detto di non farlo in pubblico, ma a quanto non ritiene che voi siate il pubblico.
“Aaww, è una cosa tanto tenera, questa!”
“Non se devi usarla contro di me!” si lamentò Alec e Isabelle rise, tirando indietro la testa.
“Bando alle ciance, fratello. Svuota il sacco!”
Alec si lasciò andare ad un sospiro e si accasciò alla parete a cui era attaccato il lato sinistro del letto come un palloncino svuotato. “Sono in ansia.” Sbuffò, le gambe che penzolavano giù dal letto e le mani incrociate sull’addome. Voltò la testa verso destra, in direzione di Iz e quando alzò le sue iridi su di lei la trovò con le sopracciglia sollevate, in attesa che spiegasse. “Sono a cena da Magnus, stasera.” Fece una pausa, “E conoscerò suo padre…”
Alec optò per quella definizione, senza stare a spiegare troppo la reale situazione di Magnus.
“Oh.”
Isabelle si paralizzò, il voltò sbiancò sotto il blush e Alec realizzò che sua sorella era sempre stata allergica a situazioni simili, non avendo mai provato il desiderio di legarsi veramente a nessuno. Questo, fino a quando non aveva incontrato Simon, ma anche con lui le cose stavano procedendo abbastanza con cautela – e con cautela Isabelle intendeva tenersi il più possibile alla larga dalla signora Lewis, cercando di rimandare la sua conoscenza a data da destinarsi – un gentile eufemismo per non dire mai.
“Alec…” si riprese, “…è una cosa bella, no?”
“Non se sei me. Io di solito non piaccio alle persone!”
“Non dire idiozie!”
“Dici sempre che sono strano!” si giustificò Alec, “E posso contare i miei amici sulle dita di una mano.”
Isabelle si avvicinò a lui, mettendosi al suo fianco, “Questo perché sei selettivo. Ciò non fa di te un sociopatico!”
“Ho paura lo stesso.” Mugugnò Alec, le braccia incrociate al petto. Isabelle sorrise, intenerita da quel comportamento che lo faceva sembrare un bambino. “Se facessi la figura dello stupido?”
“E se invece gli piacessi?” suggerì Isabelle, un sorriso ad alzare gli angoli delle sue labbra. C’era qualcosa di estremamente materno nella sua espressione, una dolcezza particolare che Isabelle non mostrava spesso, ma che celava nascosta dietro la sua dura armatura d’acciaio.
“Lo reputi possibile?”
“A Magnus piaci, no? Quindi è possibilissimo.”
Alec sorrise, mentre sentiva i suoi nervi sciogliersi letteralmente, come se fossero burro al sole, rilassandosi sempre di più.
“Non so cosa mettermi.” Confessò dopo vari minuti passati in silenzio. “Mi dai una mano?”
Isabelle alzò gli occhi e le braccia al cielo, la testa tirata all’indietro per dare enfasi a quel gesto: “Dio, ti ringrazio per aver ascoltato le mie preghiere e aver reso finalmente consapevole questo ragazzo della sua totale assenza di senso estetico!”
Signori e signori, ecco Isabelle Lightwood, la regina del dramma. Alec avrebbe roteato gli occhi con convinzione, se non fosse stato in qualche modo divertito dal modo che Iz aveva di acconsentire ad aiutarlo.
“A me piacciono i miei vestiti.” Replicò, comunque.
“Ti piacciono così tanto che non li ritieni adeguati per incontrare il padre di Magnus.”
Alec odiava quando Isabelle aveva ragione.
“Non ho detto questo!” ribatté perché comunque non gliel’avrebbe mai data vinta, “Dico solo che sarebbe carino se Magnus e suo padre mi vedessero con qualcosa di più… appropriato.”
“L’unica cosa appropriata, per Magnus, sarebbe vederti nudo, Alec.” gli lanciò un’occhiata maliziosa, accompagnata da un sorrisetto tutto fossette – le stesse che Alec sapeva comparivano anche nel suo viso quando sorrideva – e si godette la reazione del fratello, che si strozzò con la propria saliva.
“Smettila.”
“Almeno non neghi. Sai ti guarda come se volesse assaggiarti, pur avendo già la consapevolezza che ti riterrà delizioso.”
Alec sentì il viso bollente e incassò la testa tra le spalle, come se volesse nascondersi da quel demonio che si ritrovava per sorella. Dannata quella sua lingua lunga.
“Iz, smettila!” esclamò, imbarazzato.
“Perché, Alec?” chiese lei, improvvisamente seria, abbandonando qualsiasi tipo di scherno nella voce. “Perché non accetti semplicemente che qualcuno possa trovarti desiderabile sotto diversi punti di vista?”
Alec alzò gli occhi su di lei, trovandosi ad invidiare la sua sicurezza. Isabelle non aveva bisogno di qualcuno che le ricordasse quanto fosse bella, sapeva di esserlo e accettava questo fatto come accettava qualsiasi altro lato del suo carattere. Alec, invece, prima di Magnus non aveva mai pensato di poter essere considerato bello da qualcuno. Era seriamente convinto che nella sua struttura fisica non ci fosse niente di speciale, di particolare. Solo con Magnus qualcosa in lui era scattato, accendendogli un campanellino che gli suggeriva che forse poteva suscitare anche lui desiderio in qualcuno, così come avevano sempre fatto i suoi fratelli.
“Mi piace come mi guarda,” confessò, in un sussurro, come se si sentisse colpevole di un pensiero tanto vanitoso. “Nessuno mi aveva mai nemmeno notato, Iz. Lui mi nota, mi guarda, mi vede. E lo fa in moltissimi modi.”
E ognuno di questi gli faceva tremare le gambe con un’intensità diversa, ma ugualmente importante.
“Quando ti guarda è come se non vedesse altro che te, Alec. I suoi occhi si posano su di te e, improvvisamente, il resto del mondo per lui sparisce.”
Alec smise di respirare per qualche istante, mentre metabolizzava le parole di Isabelle, e lei allungò una mano per afferrare quella di Alec.
“L-lo pensi sul serio?”
“Non te lo direi, altrimenti.”
E Alec sapeva che Isabelle non gli avrebbe mai mentito su una cosa del genere.
“Io credo di amarlo,” disse, seguendo il sentiero che aveva preso quella conversazione, fattasi estremamente personale e profonda. Non si sentiva pronto per confessarlo a Magnus, aveva troppa paura di affrettare le cose, di mettergli pressione, ma aveva bisogno di dirlo a qualcuno, per sentire che effetto gli avrebbe fatto. E chi meglio di Isabelle, che era sempre stata colei a cui aveva sempre detto tutto?
Sua sorella balzò sulle ginocchia per riuscire a buttargli le braccia al collo e stringerlo forte a sé, facendogli quasi mancare il respiro.
“Oh, Alec,” disse, la voce che le tremò per l’emozione, “È meraviglioso.” 
“Mi manca l’aria, Iz.”
“Scusa!” lo lasciò immediatamente, ma continuò a guardarlo con gli occhi carichi di orgoglio, “Sono così felice per te, Alec! E sono sicura che anche lui prova le stesse cose.”
“Forse, ma non ho intenzione di scoprirlo, ancora. Voglio andarci piano.”
“Certo!” concordò Isabelle, “Possiamo cominciare andando a riesumare qualche vestito decente dal tuo armadio!” sorrise e Alec ricambiò, grato che sua sorella avesse nuovamente alleggerito l’atmosfera. Isabelle si alzò dal proprio letto e Alec la imitò, così insieme uscirono da quella camera per dirigersi verso quella di Alec.

Alec seguì Isabelle che entrò in camera dei suoi fratelli come se stesse entrando in territorio proprio. Trovarono Jace sul letto, la schiena incurvata su un quaderno e l’espressione corrugata in un eterno sgomento. Era talmente concentrato che non si rese nemmeno conto dell’arrivo dei suoi fratelli, che si misero a fissarlo. Solo quando Iz si schiarì la gola, Jace alzò lo sguardo su di loro – una tesa disperazione corrompeva il suo viso.
“Sono ufficialmente diventato stupido.” Sentenziò in preda allo sconforto, allontanando da sé il quaderno e il libro in un moto di istintiva repulsione.
“Che problema c’è?” domandò Alec, apprensivo, avvicinandosi al letto, dimentico momentaneamente del motivo originario per cui si trovava lì.
“Non riesco a trovare l’errore. E so che è minimo perché nel mio risultato è sbagliato solo il segno.”
Alec corrugò la fronte, pensoso, e afferrò il quaderno che Jace aveva allontanato da sé come se scottasse. Matematica, lo scoglio dei Lightwood. Nessuno di loro la amava, ma non erano mai andati male. Anche perché nella loro famiglia non era permesso andare male a scuola, di conseguenza era inaccettabile anche solo un’insufficienza. Alec si armò di tutta la pazienza che possedeva, perché altrimenti si sarebbe fatto contagiare dalla disperazione di Jace, e lesse l’equazione scritta sul quaderno. Era davvero chilometrica, quindi non si stupì dello sgomento di Jace e nemmeno del fatto che non riuscisse a trovare l’errore: un testo così lungo comportava almeno sette passaggi e nel tragitto era facile confondersi. Alec cominciò a leggere ogni passaggio risolto da Jace, pensando che molto probabilmente il suo famigerato errore era dovuto, in realtà, solo al fatto che ci fosse un errore di stampa nel libro di testo, quando, controllando il penultimo passaggio, Alec notò il minuscolo sbaglio, sicuramente una svista.
“Jace,” lo chiamò e il biondo alzò i suoi occhi su di lui, “Quanto fa meno moltiplicato meno?”
La faccia di Jace si contorse in un’espressione offesa, oltraggiata: “Ok che ho detto che sono stupido, ma non ti sembra di esagerare?”
A quel punto, Isabelle sbirciò a sua volta e Alec le indicò direttamente dove guardare.
“Non sta esagerando. Rispondi alla domanda.”
Jace sbuffò sonoramente, “Fa più,” disse pungente, “Mi offende sapere che mi ritenete così stupido.”
Alec gli sorrise, carico d’affetto, “Non stupido, solo stanco.” disse, passandogli il quaderno e indicandogli l’errore.
Jace grugnì di incredulità: “L’ho controllato cinque volte e non me ne sono accorto!”
“Succede di continuo, più cerchi l’errore e meno lo trovi.”
“Ok, Yoda, adesso lascia stare Jace e pensa al motivo per siamo qui!”
“Perché siete qui?” domandò il biondo, correggendo l’errore e chiudendo quaderno e libro con un’espressione di trionfo sul volto.
Isabelle sorrise eloquente, mentre Alec le lanciò un’occhiata ammonitrice – come a dire non esagerare – che lei ovviamente ignorò.
“Magnus l’ha invitato a cena.” Cominciò, sganciando la bomba un poco alla volta.
“Oh, ti ha convinto ad un vero appuntamento?”
Alec cambiò l’oggetto della sua occhiataccia, posando i suoi occhi su Jace, “Non capisco che necessità ci sia di chiamarli veri appuntamenti.” Brontolò, pensando che però era vero: lui e Magnus non avevano ancora avuto un appuntamento degno di questo nome.
“Io non avevo ancora finito.” Li rimproverò Iz, glaciale, facendo gelare i due sul posto. “Magnus l’ha invitato a cena per fargli conoscere suo padre!”
Udendo quelle parole, ad Alec tornò un principio di panico, Jace, invece, guardò il fratello come se lo stesse salutando un’ultima volta prima di partire per una guerra da cui sapeva non avrebbe mai fatto ritorno. Si alzò dal suo letto per abbracciarlo forte e Alec sentì lo stomaco contorcersi, mandandogli un violento conato di vomito. Se questa era la reazione di Jace, nella sua mente non poteva esserci nulla di buono.
“Preparati alla serata più imbarazzante di tutta la tua vita.”
Alec deglutì, le mani sudate che cominciarono a torturarsi tra di loro. Isabelle notò il gesto e gliele afferrò, lanciando un’occhiata truce a suo fratello.
“Solo perché per te è andata male, non significa che andrà male anche ad Alec!”
Jace le fece una boccaccia, “Non è andata male, saputella. Diciamo che è partita male. Jocelyn mi odia.”
“Jocelyn non ti odia,” lo rassicurò Isabelle, sebbene il tono melodrammatico del fratello le avesse fatto alzare gli occhi al cielo, “Sei il primo ragazzo serio di sua figlia, è logico che stia in apprensione per lei. Quella donna è iperprotettiva!”
Jace gonfiò le guance e ne fece uscire l’aria, “Lo so, mi guardava come se fossi pronto a rapire Clary e portarla in una dimensione alternativa per tramare loschi piani per la conquista del mondo insieme al mio compare psicopatico.”
Alec e Isabelle alzarono simultaneamente le sopracciglia, che schizzarono in mezzo alle loro fronti: “Wow,” disse il maggiore, “Ne hai di fantasia.”
“Taci, ne riparleremo quando il padre di Magnus ti farà domande imbarazzanti tipo quante ragazze hai avuto prima di sua figlia e se le tue intenzioni sono davvero serie o se sei uno scapestrato che vuole usarla solo per aggiungere una tacca alla sua cintura di conquiste, come se fosse impossibile che io possa amarla davvero!” sputò tutto d’un fiato Jace, isterico.
Alec socchiuse un occhio e alzò un sopracciglio, “Ho l’impressione che non stiamo più parlando di me.”
“Ma va?” sottolineò Isabelle, “Jace, l’importante è che Clary sappia che la ami e che le tue intenzioni con lei sono serie. Jocelyn lo capirà con il tempo.” gli sfiorò un braccio, rassicurante, prima di avvicinarsi a lui e abbracciarlo. Isabelle sapeva come trattare i suoi fratelli: Alec poteva sembrare quello più burbero e meno propenso al contatto fisico, ma in realtà preferiva di gran lunga gli abbracci a delle infinite parole di conforto; Jace, invece, andava prima calmato a parole e poi rassicurato con un abbraccio, altrimenti, il suo primo istinto sarebbe stato quello di respingere qualsiasi tipo di contatto fisico e rifugiarsi all’interno di se stesso, proteggendo le sue emozioni.
Isabelle sentì le braccia del fratello stringerle la vita e sorrise soddisfatta.
“Grazie,” le sussurrò all’orecchio.
“Quando vuoi,” gli passò una mano sulla schiena e Jace le baciò la fronte prima di sciogliere l’abbraccio e guardare Alec, riacquistando tutta la sua sicurezza.
“Dimmi che non hai intenzione di conoscere il padre del tuo ragazzo con quell’orribile maglione grigio topo!”
“È nero!” esclamò Alec in un sibilo, socchiudendo gli occhi. Quasi quasi preferiva Jace in versione crisi isterica alla versione saccente.
Era nero, Alec. Adesso è grigio tarpone. E deformato. E ti prego toglitelo, equivale ad un pugno in un occhio per me!” commentò Isabelle, melodrammatica.
Alec alzò gli occhi al cielo, ma non si spogliò. Non aveva alcuna intenzione di patire il freddo perché i suoi fratelli avevano il dramma nel sangue. Un maglione era un maglione. Serviva a riscaldarlo in autunno inoltrato e gli piaceva.
“Risparmiami le tue crisi alla Vera Wang, Iz. Vuoi aiutarmi o no?”
Isabelle sventolò una mano e si avviò con passo sicuro verso l’armadio di Alec – era stranissimo non sentire il ticchettio dei suoi tacchi che scandiva ogni suo passo, rimbombando sul pavimento, ma almeno in casa Isabelle teneva le pantofole e di conseguenza non faceva rumore alcuno. Erano in quei momenti che Alec si rendeva conto della sostanziale differenza d’altezza che c’era effettivamente tra lui e sua sorella. I tacchi potevano slanciarla, ma Isabelle era davvero piccola, sebbene le sue dimensioni non la facessero sembrare più indifesa, o fragile. Anche in quelle condizioni, Isabelle rimaneva una macchina da guerra, spietata – con chi lo meritava – e fiera. E Alec la adorava così tanto per questo, per la sua audacia e il suo modo di non farsi mai calpestare da nessuno.
“Sai che Vera Wang fa principalmente abiti da sposa, vero?” disse Iz, le spalle rivolte verso i fratelli e il viso all’armadio, intenta a studiarne il contenuto.
Jace si lasciò andare ad una risata che non si premurò nemmeno un po’ di mascherare, e nemmeno lo sguardo truce che Alec gli lanciò, spietato, riuscì a farlo smettere.
“Vuoi dirmi che inconsciamente hai già pensato a come ti vestirai, se vi sposerete?” lo prese in giro Isabelle, voltandosi a guardarlo, “Onestamente parlando, io avrei pensato più ad un Tom Ford, su di te, ma de gustibus…”
“Isabelle!” esclamò Alec, esausto ed esasperato, mentre Jace si piegava in due dalle risate. Averla a che fare con i suoi fratelli quando si mettevano di impegno per torturarlo diventava sempre più difficile. “Perché devi sempre prendere alla lettera ogni cosa che dico?”
“Perché mi piace testare la tua pazienza!” disse lei, la lingua tra i denti e lo sguardo furbo. Se Alec non le avesse voluto un bene immenso, probabilmente avrebbe perso la sua pazienza anni prima. La vide immergersi nell’armadio, mentre Jace si asciugava le lacrime dagli occhi, e riemergere con dei vestiti che Alec si era persino dimenticato di avere.
“Prova questi. Fammi vedere come ti sta qualcosa che non sia grigio topo.”
“Nero,” bofonchiò Alec, ma afferrò i vestiti e obbedì.

*

Alec stava davanti alla casa di Magnus con il respiro che non ne voleva sapere di regolarizzarsi. Improvvisamente, la camicia di denim che aveva scelto Iz per lui gli sembrava più aderente di quanto gli fosse sembrata quando se l’era infilata e gli impediva di respirare correttamente. Avrebbe tanto voluto fare dietrofront e tornarsene a casa, ma questa idea lo faceva più stare male di quanto lo stava facendo il panico provocato dal fatto che stava per conoscere il padre di Magnus. Così con un ultimo, profondo, respiro, si decise a suonare il campanello. Il cuore cominciò a martellargli nel petto, invadendo le orecchie, i polpastrelli e quando la porta si aprì, di certo le cose non migliorarono. Il suo battito cardiaco lo stava assordando così tanto che non udì il saluto dell’uomo che stava sulla soglia. Era alto, aveva i capelli brizzolati –  che fecero intuire ad Alec che doveva avere più o meno una quarantina d’anni – e lo stava osservando con profondi occhi scuri.
“Tu devi essere Alexander.” disse e la sua voce – che questa volta Alec riuscì a percepire – suonò cordiale.
Alec riprese piena facoltà di sé – o almeno ci provò – e abbozzò un sorriso, “Solo Alec va bene, signore.”
Ragnor si fece da parte per farlo entrare, “Niente signore, ti prego, mi fa sentire più vecchio di quanto non sia.” Disse, mentre Alec entrava in casa, “Solo Ragnor va bene.” L’uomo fece eco alle parole di Alec, il quale si trovò, momentaneamente, a respirare di nuovo come un normale essere umano. Ragnor non sembrava intento a torturalo, almeno per il momento.
Alec rimase al centro del salotto per ambientarsi un attimo, ricordando benissimo l’ultima volta che era stato lì, e poi si ricordò di avere le mani occupate.
“H-ho portato…” e si maledisse per essere entrato in modalità imbranato, “…qualcosa.” Wow, sicuramente non sembrava un cretino. Improvvisamente l’idea che una voragine infernale si aprisse sotto ai suoi piedi e lo trascinasse a fare una visitina a Lucifero in persona sembrava più allentate che fare la figura dell’idiota di fronte a Ragnor.
L’uomo stava per rispondergli, quando…
“Ho sentito suonare il campanello, Ragnor!”
…la voce di Magnus veniva dal piano di sopra, sebbene la sua figura non fosse ancora comparsa nonostante i passi frenetici che scendevano le scale.
“Alexander è arrivato!” continuò agitato.
Alec vide Ragnor stringere le labbra per non ridere e rimanere volutamente in silenzio fino a quando Magnus non entrò in salotto solo per godersi l’espressione momentaneamente sorpresa – e tradita, perché a quanto pare Magnus riteneva opportuno che Ragnor lo informasse di come stavano le cose –  che comparve sul suo volto.
“Oh…” disse, guardando Alec. “Sei qui,” la sua voce era carica di una dolcezza disarmante. Magnus si avvicinò a lui e lo liberò del vassoio che teneva in mano, passandolo senza troppe cerimonie a Ragnor, che lo afferrò trattenendo ancora una risata. Magnus sembrò ignorarlo di proposito, come se sapesse cosa stava passando per la testa dell’uomo e di conseguenza non volesse dare ascolto a qualsiasi cosa fosse ciò che, apparentemente, lo divertiva tanto. Non ignorò invece Alec e si mise alle sue spalle per aiutarlo a togliersi il giubbotto di pelle e appenderlo all’attaccapanni vicino alla porta. Non che Alec avesse davvero bisogno di farsi aiutare a togliersi il giubbotto, ma era piacevole vedere Magnus che si prendeva in qualche modo cura di lui. Così come era piacevole sentire il suo sguardo addosso, i suoi occhi che indugiavano sui punti del suo corpo messi in evidenza da una camicia che sì non lo faceva respirare, ma almeno sembrava essere gradita da Magnus.
E il modo in cui il ragazzo stava lentamente percorrendo Alec con gli occhi, valeva tutta l’apnea che stava sopportando.
“Sei bellissimo.”
Alec arrossì, sia per il complimento sia perché Ragnor era ancora in quella stanza e poteva sentirli. Era abituato ai suoi genitori, al modo che avevano di pensare, al fatto che lui di fronte a Robert non avrebbe mai potuto definire un ragazzo, o meglio, il suo  ragazzo, bellissimo. Ma Ragnor sapeva della bisessualità di Magnus ed evidentemente gli stava bene che uscisse con lui altrimenti non l’avrebbe invitato a cena, altrimenti Magnus non si sarebbe sentito così a suo agio a fargli i complimenti in sua presenza. Altrimenti Ragnor non avrebbe avuto quel sorriso premuroso stampato sul viso mentre guardava Magnus. Ragnor sembrava semplicemente felice della felicità di Magnus e Alec trovò immediatamente la cosa confortante. Si sentì quasi più a suo agio. Quasi.
“Grazie,” sussurrò pianissimo.
Ragnor si schiarì la gola, probabilmente perché la situazione stava diventando leggermente imbarazzante anche lui – l’unico che non era toccato da questo sentimento, Alec ci avrebbe scommesso il suo arco, era Magnus. 
“Non dovevi portare niente, Alec.” gli disse e suonò sincero.
Alec, sebbene non avesse fatto parola alla sua famiglia su dove fosse realmente – i suoi genitori pensavano fosse al cinema, cosa piuttosto credibile, visto che i film in solitaria erano una delle sue abitudini più radicate – immaginò la faccia che avrebbe fatto sua madre se avesse saputo che si era presentato a casa di qualcuno che l’aveva invitato a cena a mani vuote. L’avrebbe guardato con rimprovero e gli avrebbe chiesto se in anni di educazione non avesse imparato niente.
“Mi ha fatto piacere,” si limitò a dire e Magnus sbirciò il sacchetto che avvolgeva il vassoio, che aveva un logo familiare. Sorrise quando lo riconobbe, ma disse solo: “Cosa c’è li dentro?”
“Muffin. Spero vi piacciano.”
Magnus si allargò in un sorriso gongolante, “Il mio muffin mi ha portato dei muffin, quindi?”
“Magnus…” lo rimbeccò Ragnor, mentre Alec diventava viola. “Dagli tregua,” aggiunse l’uomo, notando il rossore di Alec. “Ci piacciono i muffin, Alec, grazie.” Gli sorrise Ragnor, gentile, prima di avviarsi verso il corridoio che conduceva alla cucina, ufficialmente con la scusa di mettere a posto il vassoio, sostanzialmente per lasciarli da soli. L’uomo aveva l’impressione che quei due non si fossero ancora salutati come in realtà avrebbero voluto.
Magnus aspettò di vedere la chioma brizzolata di Ragnor sparire dalla stanza prima di avvicinarsi ad Alec e infilare le dita nei passanti dei suoi pantaloni verde militare per tirarlo a sé e baciarlo.
Alec impiegò mezzo secondo a rispondere a quel bacio, visto che lo aveva desiderato dal momento stesso in cui aveva sentito la voce di Magnus.
“Devo dedurre,” soffiò Magnus sulle sue labbra, “Che poi non lo trovi tanto ridicolo come soprannome?”
Alec sbuffò una risata, “No, devi dedurre che forse mi condizioni troppo.”
“O che ti piace pensarmi. Ho riconosciuto il logo.”
Alec arricciò il naso, in una smorfia che Magnus ritenne adorabile, “L’ho fatto di proposito. Ricordi cosa mi hai detto quando siamo entrati in quella pasticceria?”
Come avrebbe potuto non ricordarlo? La prima volta che aveva passato del tempo insieme ad Alec, per Magnus, era stata una dei momenti migliori della sua vita.
“Che ero felice ci entrassi con me per la prima volta, almeno mi avresti pensato tutte le successive volte che l’avresti fatto.”
“E sai cosa avrei voluto risponderti?” gli disse Alec, il naso che si strofinava contro quello di Magnus nell’imitazione di un bacio all’eschimese.
“No, cosa?” domandò l’altro, curioso.
“Che non mi serve una pasticceria per pensarti.”
Magnus gli rivolse un sorriso soffice, “Sei disgustosamente dolce.”
“Lo dovrai sopportare come io sopporto i tuoi nomignoli strani.”
“Non ho detto che la cosa non mi piace, muffin.
Alec roteò gli occhi, ma venne tradito dal sorriso sulle sue labbra. “Ce n’è qualcuno alla cannella.”
Magnus lo guardò con gli occhi che luccicavano di stupore, “Ti sei ricordato,”
“Lo dici come se fosse una cosa anomala, Magnus. Io mi ricordo tutto quello che dici, soprattutto quando ti lanci in appassionate motivazioni sul perché ami la cannella ovunque.”
E Alec ricordava bene che la prima volta che si erano visti, Magnus aveva gentilmente chiesto alla barista di mettere una spolverata di cannella sul suo cappuccino. Quando poi si erano diretti al tavolo libero, aveva cominciato a parlare di come trovasse i dolci alla cannella superiori ad una miriade di dolci.
“C’è solo una cosa che mi piace più della cannella.”
“Cosa?” domandò Alec, anche se un’idea se l’era fatta. Magnus, in tutta risposta, gli leccò le labbra prima di baciarlo approfonditamente.
“Tu,” soffiò e Alec sorrise soddisfatto.
“Ragazzi!” li chiamò Ragnor dalla sala da pranzo, “A tavola!”
Magnus gli stampò un bacio sulle labbra prima di sciogliere l’abbraccio. “Sei ancora nervoso?”
Alec si astenne dal chiedergli come facesse a sapere che lo fosse, perché sapeva che la risposta era semplice: a Magnus veniva facile capire Alec come respirare.
“Un po’ meno, adesso.”
Magnus gli sorrise incoraggiante e gli porse una mano, che Alec afferrò – le loro dita si intrecciarono come se altro non avessero aspettato che ricongiungersi con la metà mancante dopo una lunga lontananza – e insieme si diressero da Ragnor.

Fu una serata piacevole, per Alec. Si rese conto che le sue paure e  i suoi timori se ne andarono con la stessa velocità con cui erano arrivati nel momento stesso in cui si sedette a tavola, nella sala da pranzo. Ragnor aveva apparecchiato, ma Alec aveva sentito l’impulso di dirgli, educatamente, che avrebbero potuto mangiare la pizza nei cartoni, facendo sorridere l’uomo, che gli disse senza troppi preamboli che gli piaceva il suo modo di ragionare e che sarebbero sicuramente andati d’accordo. E fu così. Ragnor si dimostrò un uomo buono, intelligente e spiritoso, sebbene Magnus ritenesse che le sue battute fossero imbarazzanti.
“Non apprezzi il mio umorismo, non è una novità.”
Magnus rispose con una smorfia, mentre Alec non riusciva a trattenere un sorriso.
Era bello vedere Magnus a proprio agio con qualcuno come lo era con quell’uomo. Aveva appurato, durante la serata, che Ragnor Fell era presente mentre Magnus Bane veniva al mondo, dal momento che la madre del ragazzo, Mallory, era stata la sua migliore amica. E in quanto tale, la sua assenza gravava sul cuore dell’uomo come se fosse venuta a mancare ieri e non certo sei anni prima. Non che esista un lasso di tempo ritenuto sufficiente a colmare una perdita simile, in ogni caso. Certi vuoti non si colmano. Mai. Per questo Alec non aveva fatto domande su di lei. Il dolore va rispettato e capito finché il portatore del suddetto dolore si sente forte abbastanza da gestirlo ed esternarlo. Solo allora possiamo accoglierne una parte che vada ad alleggerire il cuore di chi se l’è portato dietro per anni. O almeno, Alec la vedeva così.
“Dovresti cercare di migliorarti, anzi che offenderti.” Ribatté Magnus, ma nel suo tono non c’era nemmeno la metà del sarcasmo che avrebbe voluto usare. Era una frase carica di complicità, di qualcosa nato negli anni tra di loro, un gioco che conoscevano solo Magnus e Ragnor, una specie di tradizione di famiglia.
“Taci.” Concluse l’uomo, un indice puntato in direzione di Magnus, “Davvero non so come fai a sopportarlo!” aggiunse poi, rivolto ad Alec, che sorrise.
“Ha tanti pregi.”
“Il che presuppone automaticamente che io abbia dei difetti, come se fosse davvero possibile attribuirmene!”
Alec roterò gli occhi al cielo, “Gliel’ho sempre detto che lo apprezzo maggiormente per la sua modestia.”
E Magnus, siccome sapeva di essere abbastanza perfido, almeno quando si trattava di pungolare Alec e metterlo in imbarazzo – nei limiti consentiti dalla carta dei diritti fondamentali dell’uomo, ovviamente – disse: “E io che pensavo mi apprezzassi maggiormente per il mio sedere.”
Alec si strozzò con l’acqua che stava bevendo e gli lanciò un’occhiata assassina, mentre il suo viso si accaldava. Non aveva il coraggio nemmeno di respirare, a questo punto, figuriamoci guardare Ragnor per capire che espressione avesse in viso. Gliel’avrebbe fatta pagare. Poteva giurarci. Gli avrebbe versato tutti i suoi smalti nello scarico di un bagno pubblico, o gli avrebbe preso in ostaggio la macchina fotografica fino a data da destinarsi. Aveva tempo per decidere.
“Io sicuramente apprezzo il tuo. Tanto. Ancora di più dentro a quei pantaloni.” Continuò Magnus, giusto per dargli il colpo di grazia.
“Tutto ciò non fa altro che confermare la mia insinuazione: dovrebbero farlo santo per sopportarti!”
Il commento rilassato di Ragnor – che evidentemente teneva particolarmente a non imbarazzarlo (a differenza di Magnus) – fece si che l’apparato respiratorio di Alec tornasse a funzionare correttamente.
“Stavo per dire che ti apprezzo per moltissime cose, ma a questo punto non ti meriti di sapere quali!” concluse Alec e Ragnor ridacchiò. Ma Magnus, ovviamente, si dimostrò contrario alla decisione di Alec, quindi mise il broncio e lo guardò con gli occhi grandi, da cucciolo – gli occhi a cui Alec non sapeva negare niente, “Ma io vorrei saperle!”
Manipolatore.
Lo era. Lui e i suoi bellissimi occhi ambrati. Ma era talmente adorabile che Alec si trovò a perdonarlo con facilità.
Respirò a fondo, prima di parlare, come se volesse ponderare se aprirsi così tanto di fronte a Ragnor sarebbe stato opportuno, ma il suo cuore prese parola prima che il cervello lo guidasse verso la direzione che reputava più razionale.
“Sei gentile e buono,” cominciò Alec, gli occhi incatenati a quelli di Magnus in quel modo che non gli faceva percepire altro se non lui, “Sei appassionato e curioso, intelligente in una maniera raffinata,” continuò allungando una mano sul tavolo per riuscire a toccare quella di Magnus, “Hai un entusiasmo nei confronti di tutto ciò che c’è di bello nella vita che è contagioso e…”
Alec si fermò giusto in tempo.
E io ti amo.
Era il modo in cui avrebbe voluto finire quella frase, ma non era né il luogo, né il momento adatto perché non erano soli, perché quelle erano parole importanti e non voleva che venissero percepite come premature, anche se Alec le sentiva dal più profondo del suo cuore. Non c’era fretta. Nessuna fretta.
Magnus, a quel punto, si alzò dal suo posto e fece il giro del tavolo per raggiungerlo, girò la sedia su cui si trovava seduto Alec verso di sé per infilarsi tra le sue gambe e riuscire ad aderire meglio contro di lui, mentre le proprie mani si allacciavano al suo collo e faceva scontrare le loro bocche in un bacio bisognoso, impaziente. Magnus voleva mostrargli tutta la gratitudine che sentiva gonfiargli il cuore ad ogni parola pronunciata da Alec. Nessuno l’aveva mai dipinto in quel modo. Nella sua vita gli erano stati assegnati moltissimi nomi, molti spiacevoli, altri meno, ma mai nessuno, nessuno, gli aveva fatto credere di poter essere una persona migliore, di voler essere una persona migliore.
Alec sentì Ragnor alzarsi da tavola, probabilmente con l’intento di lasciarli soli nella loro intimità, ma fu un suono distante, perché nelle sue orecchie echeggiava il rimbombo del suo battito cardiaco accelerato. Le sue mani andarono automaticamente alla schiena di Magnus, stringendo l’abbraccio e ricambiando il bacio, nel modo più intenso che riuscì a trovare.
Lo amava, Dio se lo amava. E ogni parte di sé glielo stava urlando: il cuore impazzito, le orecchie che fischiavano, l’aria assente nei polmoni, il viso in fiamme.
“Grazie,” gli sussurrò Magnus sulle labbra, quando il bisogno di ossigeno li portò a separarsi.
“Di cosa?” chiese Alec a fatica, il respiro mozzato e il cuore che non aveva ancora intenzione di placarsi.
“Di essere entrato nella mia vita.”
Il moro gli baciò il naso e lo abbracciò più forte, “Potrei dire lo stesso di te.”
“Ma non lo farai perché vuoi vendicarti di ciò che ho detto davanti a Ragnor?” suggerì Magnus, una risata leggera che non riuscì a trattenere, mentre accarezzava gli zigomi di Alec, che teneva ancora le braccia intorno alla sua vita.
“Per quello mi vendicherò in altro modo, sappilo.” Lo baciò a stampo.
“Non sono più dolce e buono e tutte quelle meravigliose cose che hai appena finito di dire?”
Alec rise, “Lo sei, ma sei anche incredibilmente indiscreto e fuori luogo, a volte. E ti piace mettermi in imbarazzo-”
“Sei adorabile quando arrossisci,” spiegò Magnus, come se quell’affermazione bastasse a giustificare il suo comportamento, guadagnandosi un’occhiata spigolosa di Alec che si premurò di smussare con un bacio. Funzionò. Gli occhi di Alec, grandi, intensi da farlo uscire di testa e carichi di una genuina dolcezza, gli sorrisero prima ancora che riuscissero a farlo le sue labbra.
“Devi smetterla di comportarti così,” lo rimproverò, ma non suonò convincente quanto sperava. Nemmeno un po’, onestamente parlando.
“Non è vero, ti piace quando faccio queste cose.”
“Disgustosamente sdolcinate?” suggerì Alec, alzando la testa per sfiorare con il naso il mento di Magnus, in una delicata carezza.
“Disgustosamente sdolcinate.” Confermò l’altro, intervallando la sua risata a dei baci che Alec ricambiò volentieri.

*

Quando Alec rientrò in casa propria, con un sorriso ebete sul viso che non aveva nessunissima intenzione di scomparire, i suoi occhi vennero attratti da una figura raggomitolata sul divano. Si avvicinò con cautela, cercando di fare meno rumore possibile e quando fu abbastanza vicino, si rese conto che in quel misto di coperte e cuscini c’era sepolto Max, che si era addormentato guardando un film d’azione. Glieli lasciavano guardare, se non erano troppo violenti. D’istinto, gli accarezzò la fronte e il bambino si mosse leggermente, ma non si svegliò.
“Voleva aspettarti sveglio,” sussurrò una voce al suo fianco. Alec si voltò per incrociare gli occhi carbone di sua madre. Maryse indossava ancora uno dei completi che usava per andare a lavoro, ma teneva un grembiule legato in vita e si stava asciugando le mani con un canevaccio. Alec dedusse che doveva appena aver finito di sistemare la cucina.
“Com’era il film?” gli chiese, una nota sinceramente curiosa nella voce. Sua madre, per quanto severa potesse essere, a differenza di suo padre quando faceva domande semplici si aspettava una risposta altrettanto semplice. Non domandava per cogliere significati nascosti. Domandava perché era davvero interessata alla vita dei suoi figli.
“Bello,” alzò le spalle, cercando di imporre un contegno ai suoi muscoli facciali, che altrimenti avrebbero ripreso a sorridere. Non gli piaceva mentire a sua madre, ma sapeva che, per adesso, piccole bugie erano l’unica cosa che poteva salvaguardarlo un po’.
Era ancora presto per la verità. “Un po’ lento, in alcuni punti, ma piacevole.” Aggiunse perché non farlo sarebbe stato sospetto. Alec parlava sempre dei film che andava a vedere descrivendoli abbastanza e mai limitandosi ad un aggettivo unico.
Maryse annuì e Alec vide la stanchezza attraversare i suoi tratti, “Va’ a dormire, mamma. A Max ci penso io.”
“No,” disse perentoria, negli occhi una scintilla lucida che Alec ormai aveva imparato a riconoscere. L’aveva vista piangere così tante volte, dopo l’incidente di Max, che capire quando stava per farlo era diventato facile. Ma sua madre era anche tremendamente orgogliosa, quindi ricacciò indietro le lacrime e si avvicinò al figlio più piccolo, con l’intento di svegliarlo. Alec, però, le afferrò delicatamente il polso, “Va’ a dormire,” ripeté.
Maryse si morse le labbra – e Alec sapeva che quel gesto era un modo per ricacciare indietro il ricordo, ancora troppo vivo nella sua mente, di quando gli aveva permesso di prendere il suo posto, in ospedale, ogni volta che tornava a casa per riposarsi, chiedendo ad un ragazzino di quattordici anni più responsabilità di quanta ne fosse prevista per la sua età –  ma annuì senza dire una parola. Accarezzò il bambino e successivamente posò una mano sulla guancia di Alec, lasciandola lì per qualche istante.
“Hai fatto così tanto per lui. Per me.”
Non gli lasciò il tempo di rispondere perché si stava già allontanando, e Alec, mentre teneva gli occhi fissi sulla schiena di sua madre, si chiese se si sarebbe mai perdonata per averlo coinvolto così tanto quando Max era in ospedale, per essersi appoggiata a lui in un momento in cui la sua forza e la sua tenacia sembrava non fossero abbastanza, e dire che di entrambe Maryse ne aveva da vendere. Se lo chiese perché era l’unica che incolpava se stessa di qualcosa, dal momento che Alec non l’aveva mai ritenuta responsabile di niente. Non la incolpava di niente. Si sarebbe preso cura di Max anche se non avesse percepito il bisogno disperato di una donna (di una madre che stava andando in pezzi) di avere qualcuno al suo fianco. E dal momento che suo padre non c’era stato, Alec si era fatto avanti. Ma l’avrebbe fatto comunque, perché si trattava di Max e gli era venuto istintivo stare al suo fianco.
“Ehi, soldato.” Sussurrò Alec, cacciando indietro quei pensieri, scuotendo leggermente Max per una spalla. Il bambino aprì un occhio solo di mala voglia.
“Ancora cinque minuti.”
Alec sorrise, rivedendo in suo fratello un po’ di se stesso, “Non sei nel tuo letto. Avanti, svegliati.”
Max si stiracchiò e cominciò a strofinarsi gli occhi, poi li aprì e quando riconobbe totalmente Alec sorrise, “Sei tornato! Com’era il film?”
“Interessante,” rispose Alec, sorridendo di rimando al fratellino, “Ora alzati, così puoi tornare a dormire nel tuo letto.”
Max annuì e, uscendo dal bozzolo di coperte che si era buttato addosso, si mise in piedi sul divano, facendo mostra del suo pigiama con gli alieni di cui andava particolarmente fiero.
“C’è solo un modo in cui andremo di sopra!” disse e Alec scosse la testa, divertito. Sapeva benissimo come sarebbe andata a finire nel momento esatto in cui l’aveva visto addormentato sul divano, così si voltò e si chinò, in attesa che Max gli saltasse sulla schiena.
“Arriverà un giorno che non potrai più farlo, lo sai, vero?”
“Perché sarò diventato più alto di te, mentre tu sarai vecchio?” ridacchiò Max e in quella punta di sarcastica insolenza, Alec riconobbe Jace.
“Non diventerai più alto di me!”
“Si invece, i maschi Lightwood sono tutti alti!” insisté e Alec rise di cuore, mentre si incamminava su per le scale con Max sulla schiena, le braccia del bimbo che si tenevano fermamente al suo collo.
“Alec,” lo chiamò dopo attimi di silenzio, una volta finite le scale, mentre imboccavano il corridoio delle camere.
“Dimmi,” disse il maggiore, sistemandosi meglio Max sulla schiena.
“Hai un odore strano addosso,” lo disse con una semplicità disarmante, come se stesse parlando del tempo, ma Alec, che aveva la coscienza sporca – perché mentire a Max gli veniva più difficile che mentire a sua madre – si bloccò in mezzo al corridoio, i pensieri che incespicavano su loro stessi incapaci di formare qualcosa di coerente che sarebbe dovuto uscire dalla sua bocca.
“È legno di sandalo, Max.” intervenne Isabelle, le braccia incrociate al petto, mentre stava appoggiata allo stipite della porta di camera sua. Nemmeno a farlo apposta, dopo mezzo secondo Alec vide la testa bionda di Jace uscire dalla loro. Entrambi avevano un sorriso ferino, qualcosa che li faceva assomigliare a dei predatori e Alec non si era mai sentito tanto agnellino in vita sua.
Hannibal Lecter, se paragonato a Jace ed Iz in questo momento, non sembrava poi tanto spietato.
“Mi piace. È strano, ma mi piace.” Concluse con semplicità il bambino, saltando giù dalla schiena di Alec per dirigersi in camera sua. Sulla soglia della stanza, però, tornò indietro e abbracciò Alec, che si chinò alla sua altezza per facilitargli le cose, poi si diresse da Jace, che imitò il fratello per fare in modo che Max riuscisse ad abbracciarlo senza difficoltà e poi andò da Isabelle, che invece lo sollevò per coprirlo di baci.
“Vi voglio bene. Tanto tantissimo!” disse il piccolo Lightwood, prima di salutare i suoi fratelli e andare in camera sua.
“Anche noi,” risposero all’unisono i tre più grandi, in un modo che fece ridacchiare Max, che tutto sommato poteva ritenersi soddisfatto e fortunato di avere dei fratelli così.
“Buonanotte!” disse, prima di chiudere la porta della sua camera e lasciando Alec solo con i due squali che aveva per fratello e sorella. Non aveva scampo, lo sapeva.
Che l’interrogatorio abbia inizio.


“Devi raccontarci tutto!” squittì Isabelle seduta a gambe incrociate sul letto di Jace, il suo pigiama rosa che la faceva sembrare una nuvola di zucchero filato.
“Anche i dettagli sconci.” Rincarò Jace, al fianco della sorella, con la schiena appoggiata alla testata del letto e le gambe distese sul materasso.
Era strano pensare che Isabelle mettesse una cura maniacale anche nella scelta del suoi pigiami, mentre per lui e Jace la scelta ricadeva su dei pantaloni di vecchie tute e magliette logore a maniche corte.
Sospirò, guardandoli dall’alto, visto che era ancora in piedi, e si trovò ad alzare un sopracciglio.
No. I dettagli sconci se li sarebbe tenuti per sé.
Non che ce ne fossero, comunque. Lui e Magnus si erano solo baciati.
“Non vi racconterò un bel niente!” brontolò Alec, dirigendosi al suo letto e frugando sotto al cuscino per trovare ciò che definiva pigiama. La camicia e i pantaloni saranno stati anche apprezzati da Magnus, e Alec davvero ne era compiaciuto, ma non riusciva più a respirare. Si tolse velocemente la camicia, sostituendola con una maglietta blu scuro e scivolò fuori dai pantaloni, infilando con la stessa velocità il sotto di una tuta grigia.
“Aleeeeeec!” cantilenò Isabelle alle sue spalle, tenace come uno squalo che ha fiutato sangue. Il maggiore si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli più di quanto Magnus non avesse già fatto, e si voltò.
“Ti preeeeego.”
Alec avrebbe voluto lanciarle uno sguardo severo, ma non ci riuscì, perché Isabelle sapeva come prenderlo, come addolcirlo, come smussare quella parte spigolosa del suo carattere restia a condividere le sue emozioni e quindi, quando lo guardava con gli occhi scuri carichi di curiosità e comprensione, Alec cedeva ogni volta.
“D’accordo,” esalò, paziente e Isabelle dondolò sul letto di Jace, mentre il biondo, con un sorriso soddisfatto sul viso – sapeva benissimo che poteri aveva Isabelle su Alec perché erano gli stessi che aveva su di lui, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce – cominciò a tamburellare con la mano sul materasso, un chiaro invito a far si che Alec si mettesse sul letto tra di loro.
Cosa che risultò alquanto difficile, dal momento che non erano più bambini e Alec sfiorava il metro e novanta.
“Prima di tutto: vi odio,” cominciò, facendo ridere i due ai suoi  lati, “Secondo: non ci sono dettagli sconci e anche se ci fossero non ve li racconterei!”
Entrambi sbuffarono, “Io ti racconto tutto!” aggiunse Jace.
“E sei anche troppo dettagliato nel farlo, se permetti.”
“Voglio condividere a pieno esperienze piacevoli con mio fratello, nonché migliore amico, vuoi farmene una colpa?”
“Sta’ zitto, Jace!” lo rimbeccò Isabelle, che si allungò verso il fratello per pizzicargli un braccio, “Voglio sapere com’è andata!”
Alec intrecciò le mani sull’addome, “Bene, tutto sommato. All’inizio ero nervosissimo, ma Ragnor è simpatico. È un paleontologo, ha scritto molti libri e ha viaggiato in tantissimi posti del mondo per i suoi studi. Lui e Magnus hanno vissuto a Parigi qualche anno fa e a Barcellona fino a che non sono ritornati a New York, quest’estate, perché Ragnor ha ottenuto un posto come insegnate all’università.”
“Quindi ti sussurra cose sconce in spagnolo?” incalzò Jace, beccandosi un’occhiata assassina di Alec.
“Che vuoi? Lo spagnolo è sexy. Se Clary cominciasse a dirmi cose in spagnolo andrei fuori di testa!”
“È necessario che lei si limiti a guardarti per farti uscire di testa, Jace.”
“Hai ragione. Ma cosa posso farci? È stupenda!”
Alec rise, ma senza nessuna intenzione di deriderlo, era solo felice di vedere Jace così preso dalla ragazza che amava, lui che non si era mai spinto troppo in là con nessuna, troppo concentrato a proteggere le sue emozioni per mostrare al mondo che persona meravigliosa si celasse dietro la sua corazza di arroganza e sarcasmo.
Clary era riuscita ad abbattere lo scudo di spine che circondava il cuore di Jace e l’aveva coltivato con cura reverenziale, con devozione. Si era fatta amare e amava a sua volta, in una maniera del tutto speciale, unica. E Alec trovava fosse una cosa stupenda.
“Non mi ha mai parlato in spagnolo, comunque.”
“Dovrebbe farlo! Sarebbe la volta buona che smetti di mangiartelo con gli occhi e gli salti addosso sul serio!”
Isabelle, a quelle parole di Jace, scoppiò in una risata incontrollabile, appoggiando la testa sulla spalla di Alec, incapace di rimanere ferma. “Io approvo!”
“Questo perché sei perversa!”
“Oh, Alec, lo sei anche tu nel profondo. Io lo so!”
“Tu non sai un bel niente!”
“Ti conosco meglio delle mie tasche!” insisté la ragazza, e Jace le diede corda facendo scontrare un pugno sostenitore a mezz’aria con lei.
Alec mise il broncio, incrociando le braccia al petto, “Vi odio,” rimarcò, ma non c’era un briciolo di credibilità in lui e i suoi fratelli lo sapevano perché entrambi lo soffocarono in un abbraccio stritola costole, prima di tornare a chiacchierare del più e del meno, di qualsiasi cosa passasse loro per la testa, fosse essa una stupidaggine o una cosa estremamente profonda.
Alec amava quei momenti con tutto se stesso e non li avrebbe scambiati per nulla al mondo.

*

Convincere sua madre a lasciarli andare alla festa organizzata da Magnus, non fu semplice per Alec, ma gli anni passati a destreggiarsi tra i guai dei suoi fratelli, gli avevano insegnato a come fare per uscire indenne da una conversazione con Maryse e riuscire, in un certo senso, ad ottenere accordi vantaggiosi per entrambe le parti. Per questo, Alec era arrivato alla conclusione che dire la verità era la cosa migliore (se avessero mentito, Imogen avrebbe potuto dire a Maryse la verità riguardante la festa e allora avrebbero dovuto affrontare l’ira della madre, che non sopportava essere presa in giro) e aveva impacchettato la cosa dicendole che, se partivano presto e tornavano un po’ più tardi del previsto, era solo per aiutare il gentile padrone di casa a sistemare la sua abitazione in modo da renderla decente per gli ospiti e successivamente aiutarlo a pulire per non lasciarlo tutto solo a sistemare la sporcizia provocata da un’orda di adolescenti euforici. Alec aveva fatto leva sulla parte responsabile di sua madre, sul suo senso dell’ordine e sul fatto che aveva sempre avuto l’idea che se qualcuno organizza un evento, o una cena, era giusto dover aiutare a sistemare la casa alla fine di esso.  
Maryse aveva contratto le labbra in una linea sottilissima, i suoi occhi si erano posati sui suoi figli guardandoli uno alla volta, scrutatori, tanto che Alec pensava avrebbe detto di no, e invece accettò.
Così Alec, insieme al resto del gruppo, si trovava davanti alla casa di Magnus, che vantava decorazioni che Simon, vestito da Spiderman senza maschera, aveva ribattezzato alla Magnus – probabilmente per il modo in cui le ragnatele, che sembravano estremamente vere e facevano rabbrividire Alec di orrore, cadevano dal portico formando una specie di cortina, in cui erano intrappolati ragni e pipistrelli, che andava attraversata per arrivare alla porta, o per via delle decine di zucche che addobbavano il vialetto per raggiungere la casa, o forse (e Alec puntava su questa, perché lo trovò un tocco profondamente alla Magnus) fu la strega con il sensore di movimento che berciava una risata stridula ogni volta che qualcuno si avvicinava al campanello – che ovviamente, Alec non sapeva come era stato possibile, per l’occasione emetteva un rimbombo spettrale seguito da uno stridio acuto.
Magnus aprì la porta, raggiante nonostante fosse vestito di nero. O meglio svestito perché appena Alec si rese conto cosa aveva addosso gli andò il sangue al cervello. Magnus, infatti, indossava un paio di pantaloni neri, aderentissimi, accompagnati da nient’altro se non un gilet di pelle, arricchito da delle piccole borchie sulle spalle. I suoi occhi erano truccati con del kajal che faceva sembrare liquida l’ambra delle sue iridi, mentre i suoi capelli… a quanto pare, Magnus aveva intenzione di farlo morire perché li aveva rasati ai lati per avere una cresta, lunga e sparata in alto, con le punte colorate di rosso.
Dovette deglutire per cercare di riprendere possesso delle sue facoltà mentali, ma risultò tutto inutile. Come avrebbe potuto prendere possesso di sé quando tre paia di addominali lo stavano fissando, reclamando tutta la sua attenzione?
“Alexander, tesoro, i miei occhi sono quassù.”
Solo allora Alec tornò a guardarlo in viso, “Come se ti dispiacesse.”
Magnus gli rivolse un sorrisetto astuto e compiaciuto, “Non posso darti torto.”
“Smettetela di amoreggiare!” esclamò Jace, entrando in casa, seguito dal resto del gruppo. Alec li guardò togliersi i giubbotti, mentre Catarina andava loro incontro per dare direttive su dove posare gli indumenti, poi portò tutta la sua attenzione su Magnus.
“Non so chi o cosa dovresti essere, ma approvo in pieno.” E per rincarare si concesse un’altra occhiata agli addominali in bella mostra perché davvero sono un pazzo non l’avrebbe fatto.
Magnus rise, gongolante, “Sono una rockstar, Alexander. Non ti ricordo Axl Rose? Certo, ho sostituito la bandana rossa con la tinta per capelli, perché non avrei potuto rischiare di appiattirli, e il giubbotto con un gilet perché sarebbe stato strano in casa portare un giubbotto-” spiegò Magnus dettagliatamente e Alec lo zittì con un bacio.
“Axl Rose non è mai stato così bello nemmeno ai tempi d’oro, Magnus.”
Magnus gli sorrise e lo baciò di nuovo, le mani allacciate dietro la sua schiena. “Anche tu stai bene, sai?”
“Mi sento ridicolo,” borbottò Alec, le guance che si coloravano di rosso, “Ma Izzy mi ha obbligato a vestirmi, quindi ho scelto la cosa meno imbarazzante.” Spiegò, indicando con gli occhi bassi il suo costume, che altro non era che una divisa mimetica da marines.
Magnus emise un suono simile alle fusa di un gatto, “Ho sempre adorato gli uomini in divisa. In realtà, adoro te in divisa.”
Alec si rilassò e rise, sentendosi automaticamente meno in imbarazzo e gli baciò il naso. “Questa cosa l’hai detta anche dei pantaloncini da basket.”
“Perché su di te tutto diventa migliore, Alexander.”
Alec stava per baciarlo di nuovo, quando Catarina chiamò Magnus per completare gli ultimi dettagli della festa.
“Scusate, ragazzi,” disse, gli occhi nocciola truccati con l’eyeliner, le labbra tinte di rosso, che spiccavano sulla sua pelle scura, mentre i lunghi capelli, legati in una miriade di treccine, erano tenuti indietro da un cerchietto con le orecchie da gatta. Catarina, infatti, si era messa d’accordo con Izzy e Clary per fare un costume di gruppo e avevano optato per le sirene di Gotham: lei sarebbe stata Catwoman, Isabelle Harley Quinn, nella versione della Suicide Squad, e Clary Poison Ivy. “Ma davvero, Magnus, di là dobbiamo finire.”
“Certo,” disse Alec, “Vai, anzi se possiamo dare una mano…”
“Non preoccuparti, tesoro. Io e Cat possiamo farcela. In più abbiamo Raphael, che non fa altro che lamentarsi, ma almeno mentre blatera lavora.”
“Ti ho sentito, cabron.” Si intromise il diretto interessato, sbucando dalle spalle di Catarina.
“Io ti ho forse offeso, hombre? Non mi pare. Ho solo esposto la verità dei fatti!”
“Ragazzi…” si intromise Catarina, cercando di mantenere il tono più neutrale possibile, mentre Raphael lanciava una delle sue solite occhiate cariche di disapprovazione verso Magnus. Non che avesse altre espressioni, ragionò Alec. Raphael faceva parte del comitato e questo solo perché Catarina l’aveva trascinato con sé non volendo cominciare da sola. Quando si era iscritta, infatti, aveva chiesto a Raphael di accompagnarla perché voleva che ci fosse almeno una faccia conosciuta e il ragazzo aveva accettato. Se non altro, era un amico su cui poter contare, sebbene la sua faccia facesse pensare che avrebbe potuto saltarti al collo e succhiarti tutto il sangue dal corpo. La verità rimaneva, comunque, che per quanto scontroso potesse essere Raphael non era così male. E si era affezionato a Magnus e agli altri più di quanto avrebbe ammesso. E, cosa da non sottovalutare, stava insegnando ad Izzy a cucinare, il che non poteva altro che essere accolto positivamente da Alec, che almeno non avrebbe più rischiato di morire avvelenato mangiando i piatti preparati da sua sorella.
Vamos,” concluse Magnus, salutando Alec con un bacio, “tenemos una fiesta para planificar.
E mentre Magnus spariva con Catarina e Raphael fuori dalla sala, Alec si trovò a pensare che Jace aveva ragione. Lo spagnolo era sexy.
Soprattutto se era Magnus a parlarlo.

*

Gli invitati alla festa arrivarono qualche ora dopo l’arrivo del gruppo, che alla fine si era messo al lavoro e aveva aiutato gli altri a finire i preparativi. La casa di Magnus sembrava così diversa, gli addobbi che coloravano ogni angolo, catene di caramelle tenute insieme dallo spago che pendevano dal soffitto, le luci stroboscopiche che cambiavano colore a intervalli regolari, illuminando i volti degli studenti di ogni sfumatura esistente, fosse essa viola, verde, azzurra, gialla o rossa. La musica, di cui Simon si era gentilmente offerto di occuparsi, variava da un genere all’altro, creando sempre atmosfere diverse e mai banali, variando dai pezzi rock anni 90, alla discodance, ai lenti stile Il tempo delle mele, film che Simon aveva visto una cosa come dieci volte, sebbene Alec non ne capisse il motivo.
Era una festa grandiosa di cui, con ogni probabilità, gli studendi avrebbero parlato fino al ballo di fine anno e di cui Magnus sarebbe andato fiero. Alec, invece, sebbene fosse orgoglioso di Magnus, se ne stava in un angolo della sala, nascosto dalla movida. Non che avesse sperato la sua serata sarebbe andata diversamente, lui era patologicamente allergico a cose simili e mai prima di quella sera questo suo lato di sé l’aveva fatto sentire a disagio. Ma le cose erano cambiate circa quindici minuti prima, quando nella miriade di studenti che ballavano sopra le note della musica assordante che Simon lanciava dalla sua consolle, aveva visto Magnus, illuminato da una luce verde, che era stato braccato da Imasu.
Alec odiava Imasu. Dal più profondo del suo cuore. E detestava se stesso per non essere esattamente quello che si definiva un animale da festa perché, altrimenti, se lo fosse stato, si sarebbe avvicinato a Magnus (il suo Magnus) e si sarebbe sbarazzato di quel peruviano tutto muscoli e spalle larghe in tre secondi. Ma invece, siccome lui era tutto meno che un animale da festa, si stava limitando a guardare Imasu in cagnesco nella speranza che prendesse fuoco per autocombustione spontanea.
“Ehi, Alec!” lo affiancò Jace vestito da pirata – con annessa bandana sulla fronte, sebbene avesse rinunciato alla benda sull’occhio – distraendolo dai suoi pensieri. Il biondo teneva tra le mani due gelatine alcoliche alla menta, una delle quali destinata ad Alec, ma questi le afferrò entrambe e le trangugiò senza indugio una dietro l’altra. Le sentì scivolare facilmente giù per la gola, mentre il retrogusto di vodka gli bruciava la trachea e calmava un tantino i suoi nervi.
“Wow, si può sapere che hai?”
Alec non parlò, si limitò ad un irritato cenno del capo in direzione di Imasu e Magnus. Jace seguì il suggerimento con gli occhi e capì.
“Oh, afferrato.”
“Dovresti imparare a suonare il charango, Magnus!” cominciò allora Alec, imitando in maniera lagnosa la voce di Imasu, gesticolando frenetico con le mani, “Potrei insegnarti io, almeno avrei una scusa per abbracciarti da dietro, farti avere un incontro ravvicinato con le mie enormi braccia e avere una scusa per appoggiarti il mio pe-”
“Ho capito!” scattò Jace, interrompendolo, consapevole sia di come sarebbe andata a finire la frase, sia del fatto che in realtà non voleva sentire davvero come andava a finire quella frase.
“Chi cacchio lo suona più il charango??” sbottò Alec, frustrato.
“La vera domanda è cos’è un charango, Alec.”
“Una specie di chitarra ricavata dall’armadillo o una cosa del genere, ma non è questo il punto.”
“Il punto è che c’è un tizio che vorrebbe spalmarsi sul tuo ragazzo. Chi è, a porposito?”
“Imasu, frequenta letteratura francese con Magnus.” Alec fulminò il peruviano, gli occhi ridotti a due fessure, “Lo odio.”
Jace fece correre gli occhi bicolore da Alec a Imasu e da Imasu ad Alec.
“Vieni con me,” disse poi, afferrandolo per un polso senza lasciargli il tempo di replicare e dirigendosi verso il tavolo degli alcolici. Afferrò altre due gelatine e ne porse una ad Alec, “Al tre le buttiamo giù.”
“No.” Si rifiutò perentorio.
“Sì.” Ribatté con altrettanta risolutezza, “Ho un’idea, ma ci vuole un po’ di incoraggiamento.”
“Non mi fido delle tue idee quando comprendono l’alcol.”
“Sta’ zitto e buttala giù!” esclamò Jace, alzando il gomito del fratello in modo che Alec ingoiasse la sua gelatina. Il biondo lo imitò immediatamente. “Ok,” disse poi, “Vedi i barili di birra?” indicò al centro della sala e Alec annuì, “I ragazzi della squadra vogliono fare una specie di gara, ovvero chi riesce a stare a testa in giù il più possibile, attaccati al barile in equilibrio sulle braccia, mentre si beve la birra senza nessuno che ci tenga le gambe.”
“È la cosa più stupida del mondo,”
“Più stupida di te che rimani imbronciato in un angolo a guardare malissimo un tizio che vorrebbe infilare mezzo metro di lingua nella gola del tuo ragazzo?”
Colpo basso. Bassissimo.
“Cosa hai in mente?” si arrese Alec, ormai in balia della follia di suo fratello. Sapeva che aveva un piano: per quanto Jace poi mandasse tutto all’aria con la sua impulsività, le sue azioni erano ragionate. Almeno in parte.
“Vogliono farmi cominciare per primo, ma nessuno vuole fare la gara con me, perché sanno che perderanno in partenza,” si fermò a guardare male Alec quando questi roteò gli occhi, ma poi decise di proseguire, “tu invece hai abbastanza resistenza da poter competere con me.”
“Continuo a non capire cosa c’entra tutto questo con me.”
Jace gli rivolse uno dei suoi sorrisetti scaltri, “Beh lo dobbiamo fare nudi.”
“Non esiste.” Alec scosse frenetico la testa, “Non lo farò.”
“Vuoi attirare l’attenzione di Magnus sì o no?”
Voleva?
Sì, a dirla tutta. Non erano ancora riusciti a stare insieme per più di dieci minuti perché ogni volta Magnus veniva chiamato a risolvere quella o questa cosa, o perché gli studenti volevano parlare con lui della festa, facendogli i complimenti, e siccome era un ottimo padrone di casa dava udienza a tutti. Ma una parte di lui si sentiva infantile a reclamarlo per sé, come se stesse facendo i capricci o non accettasse che ad una festa era normale che certe cose succedessero.
“Alec, per l’amor del cielo, fallo e basta!” alzò le braccia al cielo Jace, “Avrei dovuto farti bere di più, almeno saresti meno razionale!”
Alec parve pensarci su. Non sarebbe andato direttamente da Magnus a interrompere le sue attività, giusto? Avrebbero solo fatto qualcosa che avrebbe potuto attirare la sua attenzione e, a quel punto, eventualmente, lui avrebbe potuto scegliere se stare un po’ con lui o meno. Non lo costringeva a fare niente. Non si autoimponeva come sua unica opzione. Era una cosa che poteva o non poteva portare ad un possibile momento in cui potevano stare un po’ insieme.
“Facciamolo.”
“Sì!” esclamò euforico Jace, prima di farsi largo tra la folla e cominciare a parlare con una ragazza dai capelli castani che Alec non conosceva. Sembrava sapesse perfettamente quello che doveva fare, comunque, perché annuì e si diresse verso la consolle di Simon dove si avvicinò al suo orecchio per chiedergli qualcosa. Quando Simon annuì e la musica si fermò, la ragazza afferrò il microfono e cominciò: “Magnuuus!” e la folla esplose in un boato, “Sa fare delle belle feste non è vero?” altro boato, “Ma... una festa, per quanto grandiosa possa essere, non è completa senza una sfida, giusto?” la folla urlò così forte che Alec ebbe l’impressione di sentire i vetri delle finestre tremare, “I Nephilim ne hanno organizzata una e ovviamente il loro capitano sarà il primo a cominciare!” altre urla, una quantità spropositata di fischi di approvazione, mentre il nome di Jace cominciava ad essere scandito dagli studenti in un boato che aumentava sempre di più. “Ma... abbiamo bisogno di uno sfidante!”
Gli occhi della ragazza percorsero la folla, alla ricerca di qualche volontario, ma con la stessa velocità con cui avevano cominciato a gridare, si erano zittiti. “Jace!” lo chiamò e il biondo si fece largo tra la folla per raggiungerla. “Dal momento che nessuno si è fatto avanti, devi scegliere il tuo sfidante.”
Jace si avvicinò al microfono e senza esitazione alcuna scandì: “Alec!”
Alec ebbe l’impressione di vedere il suo nome fluttuare nel silenzio per qualche attimo prima che si levassero nuovamente altre urla e altri fischi.
La ragazza sorrise, “Perfetto! Avviatevi ai barili...”
Jace scese dalla consolle seguito dalla ragazza e raggiunse Alec, che non era più tanto sicuro della sua scelta: odiava essere al centro dell’attenzione e tutta quella bravata gliene stava portando anche troppa.
“Andrà tutto bene,” sussurrò Jace mentre insieme si incamminavano tra la folla che faceva loro spazio.
“Comincio a pentirmi.”
“Lo so, ma sarà divertente, vedrai. Indipendentemente da come andrà a finire.”
Non stava facendo danni a nessuno, con il suo comportamento, giusto? Quindi Jace aveva ragione, sarebbe stato divertente, indipendentemente dal fatto che Magnus avrebbe potuto o meno decidere di avvicinarsi a lui successivamente.
Sicuramente era meglio che starsene in un angolo buio.
“Se dovrò aggiungere un’altra cicatrice alla mia schiena non sarà divertente!” sussurrò Alec, facendo ridere Jace.
“Nel caso, ti ricucirò io stesso questa volta!”
“Ragazzi!” urlò la ragazza dai capelli castani per farsi sentire da tutti, vista la mancanza di microfono. “È giunto il momento, siete pronti?”
Jace e Alec si scambiarono un’occhiata complice, un sorriso affilato che tagliava il viso del biondo. Alec lo conosceva bene, quel sorriso. Era quello delle sfide, delle scommesse prive di senso che facevano sempre, era il modo silenzioso che suo fratello aveva di dirgli vediamo chi resiste di più.
“Siamo pronti!” rispose Alec, accettando implicitamente la sfida. Improvvisamente, tutta la folla intorno a lui sparì, insieme alla timidezza e all’insicurezza. Era diventato un gioco, qualcosa che avrebbero ricordato con l’andare del tempo con un sorriso sulle labbra, e il senso di disagio di Alec evaporò del tutto. C’erano solo lui, Jace e l’euforia di lasciarsi andare a fare qualcosa di frivolo.
“Bene!” batté le mani la ragazza, prima di far scorrere i suoi occhi sui corpi di entrambi. “C’è una regola fondamentale: liberarvi di qualche strato.”
Le urla che quell’affermazione provocò fece prendere nuovamente coscienza ad Alec della presenza di altre persone. Persone che non aspettavano altro che uno spoglierello di Jace, come era sempre successo durante tutte le feste a cui avevano partecipato – e in cui Alec aveva sempre fatto da spettatore. Il biondo di certo non li deluse, liberandosi della camicia con facilità, lasciando solo i pantaloni di cuoio marrone del suo costume. Alec rischiò di diventare sordo per il volume esagerato delle grida che la vista della mezza nudità di suo fratello provocò e una punta di disagio tornò a farsi strada in lui, che mai aveva amato esibirsi e, soprattutto, mai si era spogliato davanti a così tante persone. Ma quella sensazione se ne andò con la stessa velocità con cui era arrivata: non poteva più tirarsi indietro, tanto vale andare fino in fondo.
Così cercando di non prestare attenzione al leggero tremito delle sue mani, si tolse la parte superiore della divisa.
“Anche la canottiera, Lightwood.” Lo rimbeccò la ragazza, facendogli un’occhiolino. Alec la vide fare un passo verso di lui, avvicinandosi quel tanto che le permise di parlare a bassa voce affinché solo lui potesse sentirla, dal momento che le persone intorno a loro stavano cominciando a scandire di nuovo il nome di Jace, che li incitava con le mani. “Posso farlo io, se vuoi.” Ed era un se vuoi privo di significato dal momento che aveva afferrato il bordo della canottiera e aveva cominciato a sollevarla ancora prima di finire la frase. Alec le afferrò con delicatezza il polso, non volendo sembrare scortese, e la allontanò.
“Faccio da solo, grazie.”
La ragazza arretrò di un passo, per nulla turbata da quel rifiuto, gli occhi grigi incollati su Alec, e alzò un sopracciglio come ad invitarlo a proseguire. Era una sensazione strana, per lui. Sentire quello sguardo addosso non lo gratificava, non gli faceva provare nessuna vibrazione intensa perché, sebbene Alec riuscisse a vedere la bellezza felina di quella ragazza, lei non gli interessava. La sua oggettiva bellezza, non era la fiera bellezza che caratterizzava il viso di Magnus e che faceva tremare il cuore di Alec.
Lei non era Magnus.
Nemmeno se a guardarlo in quel modo, adesso, fosse stato un ragazzo la sua opinione sarebbe cambiata.
Nessuno sarebbe mai stato in grado di egualiare Magnus nemmeno in un milione di anni. Non importava se altri paia di occhi potevano posarsi su Alec, se quegli occhi non appartenevano a Magnus, quegli sguardi di apprezzamento non avrebbero significato niente.
C’era e ci sarebbe stato sempre e solo Magnus, per Alec.
“Stanno aspettando, Lighwood.” La voce della ragazza lo riportò alla realtà, così Alec si privò anche della canottiera scura, lanciandola nella stessa direzione in cui aveva buttato la parte superiore della divisa. Altre grida risuonarono nelle sue orecchie, mentre con gli occhi cercava un contatto visivo con Jace, che lo accontentò immediatamente.
I due fratelli, posizionati davanti a due barili, uno di fronte all’altro, si scambiarono solo un cenno del capo prima di posizionare le mani in modo da riuscire a sollevare il corpo.
Era più faticoso di quanto Alec si sarebbe aspettato – e di certo non si era aspettato una passeggiata, ma la parte che gli risultò più difficile fu riuscire a bere a testa in giù. Mentre i suoi muscoli faticavano per trovare il giusto equilibrio, infatti, rischiò di strozzarsi almeno tre volte, ma alla fine riuscì a trovare anche il modo per bere senza morire.
Non seppe esattamente quanto tempo lui e Jace passarono in quella posizione, seppe solo che quando tornò in posizione eretta, Jace lo seguì pochissimo dopo, risultato che venne contato come parità e che venne accolto con uno scroscio di applausi che Alec pensava non sarebbero mai finiti, se non fosse stato per Simon che dalla sua consolle fece ripartire la musica e, di conseguenza, fece ricominciare tutti a ballare.
“Allora è stato tanto male?” gli domandò Jace.
“No,” sorrise Alec, la birra e l’adrenalina che lo rendevano euforico, “È stato divertente!”
“Te l’avevo detto!” il biondo enfatizzò l’affermazione facendo battere le mani in uno schiocco secco.
Alec stava per rispondere, ma venne interrotto dall’urgano Isabelle che piombò alle sue spalle cercando di saltargli sulla schiena, chiaramente su di giri. Le feste la rendevano sempre particolarmente euforica.
“Oh ragazzi! Siete stati fantastici!”
Alec si sistemò la sorella meglio sulla schiena per non farla cadere, le mani che la tenevano salda dietro alle ginocchia, mentre lei gli circondava il collo con le braccia.
“Pensavo che non l’avresti mai fatto, Alec!” Disse stampandogli un bacio su una guancia e scendendo dalla schiena del fratello.
“E invece, ha stupito tutti!” disse Jace, “Iz, hai visto Clary?” domandò poi, rendendosi conto che la sorella si era avvicinata da sola.
“È in consolle con Simon,” Iz si voltò verso il suo ragazzo, “Che con quella tutina mi scombussola gli ormoni più del solito.”
“Come fa uno come Lewis, che ha il fascino di un pinguino, a provocarti reazioni del genere?” chiese Jace, come se trovasse fuori dal mondo una cosa simile.
“Lo dici perché non l’hai mai visto senza maglietta. Quel ragazzo è equipaggiato alla grande!”
Entrambi i suoi fratelli contorsero la faccia in una smorfia, ma Isabelle li liquidò con un gesto della mano.
“Piantatela. Andiamo a ballare!” Li afferrò entrambi per una mano, ma Jace si scusò con gli occhi prima ancora di parlare.
“Volevo andare da Clary...” si giustificò.
“Allora vai, mio prode cavaliere, raggiungi la tua damigella!” scherzò Isabelle, facendo ondeggiare la chioma corvina. Jace rise, scuotendo la testa e si congedò dai fratelli, facendosi largo tra la calca.
“E tu, vuoi ballare?” Izzy gli lanciò un’occhiata carica di aspettativa e Alec quasi si sentì male a ribadire un concetto che per lui era ovvio da anni, ormai.
“Io non so ballare, Iz.”
Isabelle incurvò il labbro inferiore in un broncio, mentre i suoi occhi neri si facevano più grandi del solito.
Quell’espressione era il punto debole di Alec da quando Iz aveva più o meno quattro anni e aveva capito che, con quella combo, avrebbe potuto facilmente ottenere ciò che voleva dal maggiore dei suoi fratelli. E siccome Alec non era mai riuscito a dire di no a quell’espressione, roterò gli occhi, ma le rivolse un sorriso, lasciandosi trascinare in mezzo alla pista, mentre Isabelle si faceva largo tra la folla come un caterpillar.
Isabelle si muoveva con la grazia regale delle pantere. Sembrava che i suoi movimenti avessero sempre uno scopo, anche quando doveva semplicemente ballare. Alec aveva ritenuto che fosse questa la ragione per cui attirasse tanti sguardi – non solo perché era bellissima, ma perché si fidava del suo corpo, lo rendeva un’arma di seduzione, qualcosa che gli altri ragazzi avrebbero trovato impossibile da non guardare.
E Alec, così come Isabelle era diventata un’esperta di questa tecnica, era diventato un esperto nelle occhiatacce quando scorgeva qualcuno che voleva allungare le mani. Non che Iz non fosse in grado di liberarsi di uno scocciatore, ma lui era il suo fratellone, no?
Era uno dei suoi compiti assicurarsi che nessuno infastidisse sua sorella.
“Alec, sto ballando da sola!” lo rimbeccò Iz, distraendolo dai suoi pensieri.
“Te l’ho detto che non sono capace!” si giustificò lui. Ma Isabelle parve non sentirlo perché gli afferrò le mani e cominciò a fare giravolte sotto le sue braccia, mentre Alec si trovava costretto ad assecondare quella strana danza. Isabelle sorrideva e lo spronava a seguire i suoi movimenti e Alec, contro ogni logica, si trovò a ballare.
Stava ballando.
Era una cosa più unica che rara, probabilmente dal giorno successivo il sole avrebbe cominciato a sorgere ad ovest e a tramontare ad est.
“Tu balli!” esclamò Isabelle, entusiasta mentre osservava orgogliosa suo fratello. “E sei anche un bugiardo perché non è vero che non sei capace, guardati!”
No, guardarsi non l’avrebbe mai fatto, altrimenti si sarebbe sentito nuovamente ridicolo – per non parlare del fatto che era ancora senza maglietta e questo dettaglio cominciava a farlo sentire a disagio. Era vero che lui e Jace avevano bevuto un po’ e che normalmente l’alcol infonde coraggio e distrugge i freni inibitori, ma non aveva certo bevuto così tanto da perdere consapevolezza di se stesso. Non era di certo ubriaco e nemmeno brillo, diciamo che era solamente un pochino più sciolto. Cosa che, comunque, non gli impediva di provare imbarazzo per la sua seminudità, adesso ingiustificata.
“Izzy, Alec!!” squittì una voce nelle vicinanze ed entrambi i fratelli si voltarono per incrociare lo sguardo di Catarina, che si stava avvicinando per ballare con loro. Era strano e bello allo stesso tempo, era qualcosa che Alec non aveva mai fatto, ma non gli sembrava sbagliato o motivo di vergogna. Era... divertente. E ad Alec piaceva lasciarsi andare, seguire il ritmo di una musica incalzante che faceva si che una moltitudine di ragazzi si muovesse in sincronia come una marea irruenta. Alec ballava e capiva perché ad Izzy piaceva tanto farlo: c’era qualcosa di magico e misterioso allo stesso tempo nel lasciarsi guidare da qualcosa di così istintivo come il ritmo. Niente logica, solo il corpo che risponde ad una chiamata primordiale.
E Alec, doveva essere onesto, lo trovava fantastico.
Almeno fino a quando una mano si posò tra le sue scapole nude, cominciando a scendere con una calcolata lentezza. Era una carezza estranea, lo sapeva. Magnus non aveva quel modo di toccarlo, le sue mani erano ferme e prive di imperfezioni. Questa carezza, invece, era ruvida e tremante, insicura. La conferma ai suoi pensieri arrivò quando lamano si spostò su uno dei suoi fianchi e Alec abbassò lo sguardo notando la pelle scura, diversa da quella ambrata di Magnus.
Alzò lo sguardo sul proprietario, decisamente troppo scioccato per riuscire a fare qualsiasi cosa – compreso scacciare la mano, che lo faceva solo sentire a disagio.
“Raj?”
L’altro non rispose, non cercò nemmeno di aprire bocca per spiegare il proprio comportamento, si limitò a guardare Alec come se altro non gli importasse che perdersi dentro delle sue iridi, e provò a baciarlo.
La reazione di Alec arrivò velocemente, questa volta, e interpose una mano tra lui e Raj, allontanando quest’ultimo. “No,” gli disse, deciso.
Ma Raj non lo sentì, o fece finta di non sentirlo, perché ci riprovò e proprio quando Alec stava per allontanarsi a lui di nuovo, qualcuno si interpose tra di loro, come se volesse fargli da scudo.
“Sei sordo?” ringhiò Magnus, la mascella contratta e gli occhi severi. “Ha detto di no.” Spurò, astioso, i pugni serrati lungo i fianchi, le nocche bianche per lo sforzo.
“L’avevo sentito.”
Magnus tremò, i suoi occhi saettarono di qualcosa che assomigliava alla rabbia, “E hai pensato bene di provarci di nuovo?”
Raj non indietreggiò di un passo, “Perché non avrei dovuto farlo?”
Magnus ringhiò, un suono basso, gutturale, la sua voce simile ad un tuono e il corpo teso, “Perché non dovrei spaccarti la faccia?”scattò in avanti e Alec gli fu di fronte prima che le sue mani raggiunsero Raj. Gli appoggiò le mani sul petto: “Lascialo perdere, ok?”
Ma Magnus guardava ancora alle sue spalle, intento a ringhiare contro Raj, che lo guardava con arroganza.
“Magnus,” lo chiamò Alec, deciso e allo stesso tempo rassicurante, “Magnus.” Ripeté e solo allora l’altro portò i suoi occhi su di lui. “Vieni con me,”
Magnus regolarizzò il respiro e annuì, solo allora Alec si voltò verso Raj, avvicinandosi quel tanto affinché solo lui potesse sentirlo. Alec lo vide deglutire.
“Riducilo di nuovo in quello stato e mi assicurerò di spaccartela io, la faccia.” Sibilò, perché tutto poteva sopportare meno qualcuno che turbasse Magnus, e poi si voltò per tornare dal suo ragazzo, intrecciando le dita con le sue e conducendolo lontano dalla ressa.
Si incamminarono insieme fuori dalla sala, allontanandosi dai corpi che si ammassavano insieme, dalla luci frenetiche e dalla musica alta e imboccarono il corridoio, raggiungendo poi la cucina.
Magnus si chiuse la porta alle spalle e guardò Alec che si era seduto sull’isola d’acciaio, le gambe che penzolavano nel vuoto.
“Mi dispiace,” cominciò e Alec alzò un sopracciglio, confuso. “Il mio comportamento,” continuò allora, in spiegazione, “è stato...”
“Eccitante.” Concluse Alec per lui, le guance che si coloravano di rosso per l’affermazione. “Voglio dire, Raj è un coglione e se prova a provocarti di nuovo sarò io a prenderlo a pugni-”
“È questo che gli hai detto?” domandò Magnus, non riuscendo a trattenere un sorriso.
Alec annuì, “Ma ammetto che è stato interessante vederti difendere la mia virtù.”
Magnus si incamminò verso di lui e appoggiò le mani sulle cosce di Alec, che quest’ultimo divaricò per farlo accomodare tra di esse. “Mi stai prendendo in giro, Alexander?” domandò sulle labbra dell’altro, che le aprì leggermente.
“No. Non sono mai stato più serio in vita mia.” Lo baciò perché era insensato non farlo, perché aveva desiderato farlo tutta la sera e ora che poteva farlo voleva approfittarne. Magnus gemette e si spalmò di più contro di lui, rafforzando la presa sulle sue cosce e facendo scontrare meglio le loro bocche, che cominciarono a muoversi in sincronia, unendosi in un bacio umido e impellente, bisognoso. Alec scivolò giù dalla penisola, il suo bacino che cozzò con quello di Magnus, mentre portava le mani sul viso di quest’ultimo, facendolo indietreggiare finché la schiena di Magnus non finì contro la porta. L’impatto fece ridere entrambi, che si guardarono negli occhi un attimo, leggendo l’uno nelle iridi dell’altro i sentimenti che condividevano e che non avevano ancora esternato.
Ma c’era davvero bisogno di farlo, quando i loro occhi davano voce ai loro cuori più di quanto le parole avrebbero mai fatto?
“Mi piace il tuo lato possessivo,” sussurrò Alec, sulle labbra di Magnus, prima di divorargli di nuovo la bocca. E sentì nascere un desiderio dentro di sé, mentre Magnus rispondeva ai suoi baci, mordendogli le labbra e accarezzando la pelle nuda della sua schina. Era così giusto che fosse lui a toccarlo, così perfetto che fossero le sue mani ad attraversare la lunghezza della sua schiena, sfiorando la cicatrice e provocandogli brividi lungo tutto il suo corpo, che Alec sentì l’impulso di fare altro, di portare la loro appartenenza anche ad un livello fisico. Non l’aveva mai fatto, non sapeva come si facevano certe cose e in altre circostante avrebbe brancolato nel buio e si sarebbe fatto prendere dal panico. Ma non erano circostanze qualsiasi, c’era Magnus con lui e se erano insieme Alec non temeva nulla. Erano così giusti insieme, così complementari, che trovava naturale che arrivassero ad appartenersi anche in un modo fisico.
Così, seguendo la linea dei suoi pensieri, Alec abbandonò le labbra di Magnus e con una lenta urgenza – che ossimoro, gli urlò il suo cervello, che lui zittì. L’unica cosa a cui avrebbe dato ascolto, quella sera, sarebbe stato il suo istinto che lo guidava a compiere azioni sconosciute, ma conosciute allo stesso tempo – cominciò a baciargli il collo, seguendo la linea sinuosa della sua gola, soffermandosi sul pomo d’Adamo, che succhiò con particolare attenzione, facendo uscire dalla gola di Magnus un verso osceno che non suonò altro che come un incoraggiamento alle orecchie di Alec. Scese, dunque, verso le clavicole, dove cominciò a succhiare la pelle – ci sarebbero stati dei segni, il giorno dopo, ma ad Alec non importava e a quanto pareva, nemmeno a Magnus, che altro non faceva che attirare Alec a sé sempre di più, lasciandosi schiacciare tra suo corpo e la porta. Respirare era diventato superfluo, nessuno dei due necessitava di ossigeno, in quel momento, avevano solo bisogno l’uno dell’altro, dei loro respiri che collidevano, nutrendosi uno dell’altro. Alec si intrufolò ancora meglio tra le gambe di Magnus, afferrandolo per le cosce e portandolo ad allacciarle al suo bacino. Fu quello l’esatto momento in cui i loro occhi si incrociarono di nuovo, colmi di consapevolezza. Entrambi sentivano l’effetto che tutta quella situazione stava avendo sulle loro zone erogene. Così Alec, carico di quel coraggio che i suoi pensieri gli avevano dato poco prima, portò Magnus nuovamente a terra – e fu sorpreso di come si lasciò guidare senza dire una parola – e lo spogliò del suo gilet perché voleva guardarlo completamente, senza che ci fosse niente ad ostruire la sua vista. E Magnus lo lasciò fare, si lasciò guardare e rabbrividì quando Alec cominiciò a tracciargli con le lunghe dita la riga che divideva il petto liscio e gli addominali. Si era dimenticato come si faceva a respirare, lui Magnus Bane, che di certo non era un ragazzino alle prime armi. Ma Alexander con la sua intraprendenza, con quel fuoco che gli bruciava nelle vene, aveva fatto ribollire anche quello di Magnus, mandandolo in un’altra dimensione, facendogli vivere sensazioni che sembravano nuove e familiari allo stesso tempo. Alexander era il fulmine che squarciava il cielo e precedeva la tempesta. Era fiero, indomabile, incontenibile, proprio come una forza della natura. E lui era innamorato di quel ragazzo, che riusciva ad essere estremamente premuroso e buono, ma anche tremendamente passionale, un connubio che aveva fatto sì che Magnus perdesse la testa. Non c’era via di ritorno, per lui, ormai. Alexander possedeva non solo il suo cuore, ma anche la sua anima.
Per questo lo lasciò fare, curioso di vedere fino a dove voleva arrivare e lo assecondò quando, ancora una volta, le sue labbra cercarono le proprie, dando via ad un altro bacio, e ad un altro e ad un altro ancora, fino a che la bocca di Alec non abbandonò la sua e cominiciò a scendere lungo tutto il suo corpo, lasciando una scia umida di baci e piccoli morsi ad intervalli regolari. E Magnus altro non poteva fare che lasciarsi andare a dei gemiti che non si premurò nemmeno di soffocare, dal momento che il rumore assordante della musica li tutelava. Era come se fossero finiti in una bolla sicura, dove esistevano solo loro due.
Fu quando sentì la lingua di Alec circondargli il perimetro dell’ombelico che si rese conto di quanto fosse andato in basso e si costrinse a recuperare un po’ di razionalità per verificare se tutto questo era davvero ciò che voleva Alec, se nonostante si fosse spinto fino a questo punto voleva davvero continuare.
“Alexander,” lo chiamò, la voce che suonò estranea persino alle sue orecchie, tanto bassa e roca uscì. Commise il terribile errore di abbassare lo sguardo su Alec, inginocchiato tra le sue gambe aperte, e incrociare i suoi occhi verdi, che bruciavano di genuina curiosità, di un febbriciante desiderio, alimentato da quella fame che solo l’astinenza provoca. Alec si era privato dei piaceri della carne e adesso voleva sperimentarli con lui. Magnus si sentì onorato di tutto ciò.
“Vieni qui,” gli disse, e Alec lo assecondò. Non lasciando mai i suoi occhi, cominciò a risalire lentamente, la punta della lingua che passò sopra al suo ombelico, dedicandosi poi alla riga che divideva gli addominali, arrivando fino al petto, dove salì ancora, leccandogli la gola fino a raggiungere il mento che prese tra le labbra, lasciandoci un morso. Fece tutto ciò con una lentezza tale che, fanculo, se Magnus non avesse vantato una certa resistenza in determinate situazioni, sarebbe venuto nei pantaloni come un quattordicenne alla sua prima volta.
“Non vuoi?” soffiò Alec, letalmente vicino, leccandosi le labbra. Oh, c’era da dire che per essere privo di esperienza, Alexander sapeva giocare e lo sapeva fare dannatamente bene.
“La vera domanda, tesoro, è se lo vuoi tu.”
“Ti sembra che io non lo voglia?”
Magnus deglutì quando Alec spinse il suo bacino contro il proprio per dare enfasi a quelle parole.
“Voglio solo essere sicuro che tu lo voglia davvero, Alexander.”
Alec incantenò i suoi meravigliosi occhi verde-nocciola in quelli di Magnus, del dubbio, in essi, nemmeno l’ombra.
“Lo voglio, Magnus.”
E Alec aspettò di vederlo annuire, prima di procedere a sbottonargli i pantaloni e inginocchiarsi di nuovo.
“Fa attenzione ai denti, tesoro.”
E quella, fu l’unica frase di senso compiuto che Magnus pronunciò per parecchio tempo.

*

Magnus osservava Alec abbottonarsi i pantaloni mimetici con un movimento fluido del bacino, mentre con lo sguardo percorreva il suo corpo che gli suscitava pensieri peccaminosi, nonostante avessero appena finito di prendersi cura l’uno dell’altro. Era stato particolarmente fiero di se stesso quando, inginocchiato tra le gambe di Alec, aveva sentito uscire dalla sua bocca imprecazioni che mai si sarebbe aspettato di sentire da qualcuno che arrossisce al primo complimento e mai l’aveva amato come prima di quel momento. Andava particolarmente fiero anche del succhiotto grosso come il Texas che Alec aveva sul collo e dei marchi che avevano lasciato i propri morsi sulle sue clavicole, chiaro segno del proprio passaggio. La pelle candida di Alec, costellata dai marchi lasciati da Magnus, era ancora più bella.
“Mi stai fissando.”
“È diventato illegale farlo?”
“No,” rise Alec e Magnus si concesse un’altra occhiata al suo corpo perché era quella l’unica cosa che doveva essere reputata illegale. Nemmeno la sua fervida immaginazione – e Magnus ne aveva tanta – era riuscita ad eguagliare la realtà. Niente di tutto quello che si era immaginato, poteva competere con la fisicità atletica e scolpita del petto e delle braccia di Alec.
“Sai cosa è illegale? Vederti ballare.”
“Lo so di essere negato, non serve ribadirlo.”
Au contraire, ma chérie,” disse Magnus, “Eri qualcosa di straordinario, ipnotico, direi. Aggiungici i tuoi meravigliosi addominali e la combo diventa letale.”
Alec rise, scuotendo la testa.
“Non mi stupisce che Raj si sia avvicinato. Mi ha preceduto, quel bastardo.”
“Volevi ballare con me?” gli domandò Alec, avvinandosi, un sorriso ad illuminare i suoi bellissimi lineamenti.
“Certo,”
“E vuoi ancora farlo?”
“Tu vuoi farlo?”
Alec aapeva cosa gli stava chiedendo: vuoi farti vedere in pubblico in intimità con me? E sentì scaldarsi il cuore, perché Magnus, come sempre, lo stava assecondando, rispettando i suoi tempi.
“Sì, Magnus.” Si chinò per baciargli la fronte e Magnus chiuse gli occhi, godendosi la sensazione di benessere che solo la vicinanza di Alec gli dava.
“Allora andiamo di là!” disse il maggiore, afferrandolo per mano e aprendo la porta della cucina.
Raggiunsero la sala in un attimo e proprio mentre stavano per immettersi nella calca, Isabelle attirò la loro attenzione. Con lei c’erano anche Jace e Clary.
“Si può sapere che fine avete fatto voi due? È più di un’ora che vi cerco!”
“Alec che hai sul collo?” domandò, invece, Jace, un sorrisetto scaltro sul viso.
“Sono caduto!” rispose in fretta Alec, cercando una banale scusa per cercare di rimandare il più possibile l’interrogatorio dei suoi fratelli.
Sul collo?”
Alec gli lanciò un’occhiataccia, mentre il fratello cominciava a ridere. Jace scosse la testa, dando affettuose pacche sulle spalle al fratello, e poi prese Clary per mano e insieme si diressero verso la pista da ballo. Alec stava per fare lo stesso insieme a Magnus, quando Isabelle, dopo aver atteso che il ragazzo orientale si avviasse, prese suo fratello per un polso e si alzò sulle punte per riuscire a parlargli nell’orecchio.
“Odori di legno di sandalo e peccato, fratello. E io non sono mai stata più orgogliosa di te!”
Alec ebbe appena il tempo di scorgere l’occhiolino malizioso che gli rivolse sua sorella, prima di vederla sparire in direzione della consolle per raggiungere Simon. Scosse la testa, un sorriso che tendeva le sue labbra. Era grato per i suoi fratelli, nonostante sembrasse avessero fatto un patto tra di loro per metterlo costantemente in imbarazzo.
Ed era grato anche per il ragazzo che adesso lo stava guardando con occhi carichi di affetto e lo stava invitando a ballare.
Non se lo fece ripete due volte, perché se quella sera aveva capito che ballare poteva essere piacevole, farlo con Magnus doveva esserlo ancora di più.


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Ciao a tutti e scusatemi immensamente per il ritardo, ma sono stati giorni impegnativi e non riuscivo a scrivere niente! 
Venendo al capitolo... partiamo dal fondo? Sono un po' in ansia, onestamente, perché questa storia di Halloween viene nominata da tre capitoli e magari aspettavate chissà cosa e invece è venuta una ciofeca... fatemi sapere cosa ne pensate, quindi! A tal proposito, ho cambiato il rating perché anche se non si entra troppo nei particolari avevo l'impressione si uscisse un po' dal verde e quindi, per sentirmi un po' più tranquilla, ho preferito cambiarlo! 
Dunque, risalendo questo capitolo abbiamo sia l'incontro con Ragnor, che in questa storia è il patrigno di Magnus, sia una scoperta in più su ciò che è successo a Max e le conseguenze che il suo incidente ha avuto sulla sua famiglia. Sono solo degli accenni che verranno approfonditi più in là, ma diciamo che questo capitolo ha funzionato un po' come trampolino di lancio per il passato di entrambi i nostri cuoricini, che nel mentre sono sempre più innamorati e attratti l'uno dall'altro! Seriamente, devo smetterla di ambientare tutte le loro scene intime in cucina, ma la fantasia alle volte mi manca e quindi chiedo venia! Come chiedo scusa a Magnus per averlo vestito in modo così semplice - perché, diciamolo, lui avrebbe optato per qualcosa di più appariscente - ma mi serviva qualcosa che potesse essere tolto facilmente e un gilet mi è sembrata la scelta giusta. Lo stesso discorso vale per Alec, anche se non credo lui si lamenterebbe! 
Menzione speciale al dialogo finale che è stato ripreso dai libri, perché quando l'ho letto ho riso tantissimo e quindi volevo trovare un modo per inserirlo. 
Come sempre vi ringrazio tantissimo per leggere la storia, metterla tra i preferiti/seguiti e recensirla, non smetterò mai di dire quanto sia importante per me, quindi vi abbraccio tutti perché ve lo meritate <3 
Alla prossima! 

PS: potrei cominciare ad aggiornare ogni due settimane, anzi che una volta a settimana perché devo studiare e non vorrei tirare via la scrittura, quindi procederò solo un po' più a rilento, scusate! 

 

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Capitolo 10
*** 10. ***


Alec si svegliò la mattina seguente con un mal di testa atroce e la bocca impastata dall’alcol. Non l’aveva ancora appurato, ma era quasi sicuro che il suo alito sapesse di morte – non che avesse l’impellenza di scoprirlo. Nonostante l’emicrania che minacciava di fargli esplodere il cervello, però, si svegliò con il sorriso. Cosa che, si rese conto, succedeva spesso da quando aveva conosciuto Magnus.
Magnus.
Tutto era più bello in sua compagnia: ballare, baciarsi, persino bere dal bicchiere dell’altro incrociando gli avambracci e facendo attenzione a non far cadere l’alcol. Erano diventati piuttosto competitivi, quando si erano sfidati a quel gioco, tanto che avevano cominciato a tirare di proposito l’uno il braccio dell’altro affinché versasse più liquido. Tutto ciò era finito in uno scoppio di risate e Alec, davvero, non ricordava di aver mai riso tanto. Posò una mano sulla pancia, ricordando che, ad un certo punto, le risate gli avevano fatto dolere gli addominali.
Ma quel tocco lo fece focalizzare anche su un’altra parte della serata. Quando era stato Magnus a sfiorarlo nello stesso punto, il palmo aperto sul suo addome, mentre lo accarezzava in tutta la sua lunghezza, il tocco caldo che aveva fatto mancare il respiro ad Alec. Lui e Magnus avevano fatto… qualcosa.
(Sesso orale, Alec! Chiama le cose con il loro nome!)
Non si stupì nemmeno più di tanto quando quel rimprovero risuonò nel suo cervello con la voce di Isabelle. Rimaneva il fatto che, comunque, avesse ragione.
Sesso orale.
Più ripeteva quelle parole nella sua mente, più assumevano il loro significato. Alec aveva sempre pensato al concetto del sesso in generale come qualcosa di lontano, qualcosa che avrebbe sperimentato solo dopo essersi allontanato dalla casa di famiglia, magari al college, dove avrebbe potuto essere chi era veramente senza premurarsi di nascondersi e, di conseguenza, riuscire a sperimentare ciò che i ragazzi della sua età normalmente sperimentavano. Mai avrebbe pensato, quindi, di sentirsi pronto a sperimentare certe cose così presto.
Era tutto merito di Magnus, pensò, del modo che avevano loro due di connettersi. Ripensandoci, sentiva salire in sé quel terrore che avrebbe dovuto provare mentre viveva quella situazione, l’agitazione della prima volta. Non si imparava a fare certe cose, non c’erano manuali su cui poter apprendere come muoversi in quel campo. Nessuno insegnava ad un ragazzo gay come fare a rapportarsi con la sessualità e il sesso in generale. E quindi Alec aveva dovuto fare tutto da solo, seguendo il suo istinto, che sicuramente ne sapeva più di lui. O almeno, così credeva, fino a quando non si era trovato effettivamente in ginocchio e un principio di panico si era insinuato in lui, facendolo sentire come un analfabeta a cui viene affidato il lancio di uno shuttle della NASA nello spazio. La sua ragione, in quella frazione di tempo, aveva ripreso il comando della nave-Alec e aveva cercato di commettere ammutinamento contro l’istinto – quella piccola, subdola manipolatrice voleva tornare padrona e avere di nuovo la supremazia – ma poi, Magnus aveva parlato.
“Fai attenzione ai denti, tesoro.”
E Alec aveva ritrovato tutta la sua sicurezza, che l’aveva spinto a zittire la prepotenza della sua razionalità, e si era lasciato guidare da quella parte di sé che aveva desiderato esplorare l’aspetto fisico di una relazione con qualcuno al quale si sentiva così legato. Se i loro cuori erano intrecciati, aveva pensato Alec, era giusto che cominciassero a farlo anche i loro corpi. E, sebbene non avessero avuto un rapporto completo, Alec era felice di aver fatto quel piccolo, ma importante, passo.
Scostò le coperte, facendo particolare attenzione a non fare nessuno rumore, alzandosi. Nella stanza entrava una luce blu, tipica della mattina presto, e i respiri profondi di Jace spezzavano il silenzio. Suo fratello stava ancora dormendo, per cui Alec uscì dalla loro camera silenziosamente.
Sulla porta, ascoltò i rumori della casa per capire chi fosse sveglio. Da basso, arrivò il suono di pentole e padelle, chiaro segno che Maryse era già in un cucina per preparare non solo la colazione, ma anche il pranzo. Giorno di festa – rosso sul calendario – significava nonna Phoebe in visita. Alec avrebbe storto il naso, se il suo umore non fosse stato così alla stelle.
Si diresse verso il bagno, aprì la porta e vi entrò con tutta l’intenzione di farsi una doccia, ma qualcosa, nel fugace riflesso che i suoi occhi carpirono nello specchio, lo indusse a fermarsi e a guardarsi meglio.
“Alec, che hai sul collo?”
A quanto pareva, un succhiotto enorme. Alec sapeva che ci sarebbe rimasto il segno, ma non credeva che sarebbe stato così grosso. Non se ne dispiacque, comunque. Poteva coprirlo da occhi indiscreti con facilità, mentre lui, adesso, poteva concedersi un’occhiata a quel simbolo, alla prova che effettivamente tutto ciò che stava rivivendo nella sua mente era successo davvero e non era stato un sogno.
Il suo stomaco ebbe un tuffo, mentre le sue dita allargavano il colletto della maglietta per riuscire a vedere meglio quel segno. Lo sfiorò con la mano libera e la sua mente tornò, ancora una volta, alla sera prima, a Magnus che gli aveva preso il viso con una mano, lo aveva fatto alzare e gli aveva pulito un angolo della bocca con il pollice, prima di sfiorare tutto il labbro inferiore. Alec, a quel gesto, aveva istintivamente schiuso le labbra e Magnus l’aveva baciato. L’avevano fatto moltissime volte, nell’ultimo periodo, ma quel bacio in particolare aveva un sapore nuovo. Sapeva di gentilezza, ma allo stesso tempo mandava scariche elettriche in tutto il corpo di Alec; lo faceva sentire al sicuro, sebbene l’impressione che aveva era quella di essersi lanciato da un burrone senza paracadute.
Era un bacio lento, pieno di accortezza, ma non per questo privo di passionalità. Alec aveva sentito ogni singolo centimetro del suo corpo diventare bollente, mentre Magnus spostava le proprie labbra dalla sua bocca e si dirigeva, lentamente, verso la sua mascella. Non l’aveva morso, come aveva fatto Alec con lui, si era limitato a percorrere la distanza tra le labbra e il lobo con una tranquillità calcolata, lasciando baci umidi lungo una strada ben delineata. E quando era arrivato sotto all’orecchio, gli aveva afferrato il lobo tra le labbra e aveva cominciato a succhiarlo. Alec aveva soffocato un gemito.
“Non farlo.” Aveva sussurrato Magnus al suo orecchio, “Non trattenerti.”
Alec aveva annuito – perché parlare in quel momento gli sembrava estremamente difficile – e Magnus aveva fatto scendere la bocca fino al suo collo. C’era una calma in Magnus, così diversa dall’irruenza che aveva avuto Alec, che rendeva il tutto estremamente piacevole. Alec era bruciato in fretta, come un fuoco di paglia, guidato dalla sua frenesia, dalla voglia di scoprire al più presto qualcosa che non si conosce, ma che si ha voglia di provare. Magnus, invece, stava bruciando lentamente, un incendio che si prendeva piano piano un pezzo di foresta alla volta, diventando sempre più alto, sempre più indomabile, sempre più letale. Conosceva quello che stava facendo e lo stava facendo dannatamente bene, prendendosi il tempo necessario affinché Alec potesse imprimersi anche il più piccolo dettaglio nella mente per non dimenticarlo mai. Ecco cosa stava facendo Magnus: gli stava regalando un ricordo, qualcosa che si sarebbe portato con sé tutta la vita. E per far imprimere un ricordo a fondo, ci vuole calma, pazienza e cura.
Fu in quel momento che gli lasciò il succhiotto. Alec aveva sentito le sue labbra premere all’altezza della giugulare, la lingua che lambiva la pelle e i denti che la mordicchiavano senza fargli male. Come se fosse stato possibile, aveva pensato Alec in un momento di lucidità, che tutto questo potesse in qualche modo essere spiacevole. Adorava tutto questo. Gli piaceva sentire come la bocca di Magnus fosse rovente sulla propria pelle e riuscisse a lasciare segni su di essa.
“Hai l’affanno, tesoro.” Aveva detto Magnus, abbandonando il suo collo per tornare a guardarlo il viso. Dio, quanto erano belli i suoi occhi. Alec adorava il loro colore, caldo e avvolgente come le fiamme. C’era qualcosa di rassicurante e pericoloso, in essi, come se fossero stati in grado di distruggere qualsiasi cosa, se solo quel qualcosa avesse fatto male a chi Magnus amava. Erano una calamita, per Alec, che mai si sarebbe stancato di perdersi dentro di essi.
“È colpa tua.” La sua voce aveva tremato, rauca e ansimante, il cuore che sembrava volesse schizzare fuori dal petto.
Magnus aveva sorriso. “Io direi che è merito mio.”  E lo aveva detto carico di orgoglio, come se ciò che stava facendo fosse la cosa migliore al mondo. E forse lo era davvero.
Magnus l’aveva baciato di nuovo, prima di fare un passo indietro – con grande disappunto di Alec, che aveva aggrottato le sopracciglia in una muta richiesta di spiegazione. Magnus aveva sorriso di nuovo.
“Voglio guardarti, Alexander. Non vado da nessuna parte.”
E lo guardò. Dio, se lo guardò. Alec pensava si sarebbe disintegrato, liquefatto, sotto quello sguardo, che percorreva ogni singolo millimetro del suo corpo come se dovesse placare una fame disumana. Magnus lo guardava e Alec bruciava, sentiva la pelle formicolare e richiamare la sua vicinanza.
“Toccami.” Gli uscì, prima che ricordasse di aver già fatto una richiesta simile nella stessa stanza, solo qualche tempo indietro. Magnus gli si avvicinò di nuovo, lo sguardo incollato alla figura di Alec, che per la prima volta in vita sua si era sentito bello, come se riuscisse a vedersi attraverso gli occhi di Magnus.
Aveva trattenuto il respiro quando il suo ragazzo aveva cominciato ad accarezzarlo: era partito dalle clavicole e lentamente era sceso al petto, coperto da una leggera peluria, e agli addominali, piano, percorrendone la loro fattezza, come un cieco che cerca disperatamente di definire i contorni di qualcosa che ha sempre desiderato vedere, ma che, purtroppo, non vedrà mai. Il fatto era, però, che Magnus lo vedeva e lo toccava, accarezzandolo con una devozione che Alec non avrebbe mai pensato qualcuno avrebbe potuto riservargli.
Il respiro gli si mozzò ancora – e davvero aveva perso il conto delle volte che l’aria gli era venuta a mancare – quando Magnus aveva cominciato a baciargli la clavicola, su cui lasciò un morso, ed era sceso, tracciando con la lingua il perimetro di un capezzolo. Alec era sicuro di aver tremato, a quel punto.
Non riusciva più a respirare. Gli sembrava di correre una maratona che non avrebbe mai avuto fine. L’unica cosa che riusciva a uscire dalla sua bocca erano sospiri mozzati e gemiti che non cercava più di trattenere perché non avrebbe avuto senso farlo. Il cuore pompava frenetico il sangue al corpo, ma Alec aveva l’impressione che arrivasse solo in un punto specifico. E Magnus sembrava se ne fosse accorto. Deglutì, quando cominciò ad accarezzarlo sopra alla stoffa dei pantaloni, la patta gonfia e dolorosamente scomoda.
“Era questo che intendevi,” aveva cominciato, facendo scivolare le dita dentro ai pantaloni e ai boxer di Alec, “Quando mi hai chiesto di toccarti?”
Alec aveva chiuso gli occhi e sbattuto la nuca contro il muro, per darsi una parvenza di contegno. Non avrebbe resistito ancora molto, lo sapeva, e non voleva che tutto questo finisse. Non ancora. Ne voleva ancora un po’. Alec voleva bruciare ancora un po’. Se era quello l’inferno riservato ai peccatori di cui parlavano quei bigotti all’Istituto, Alec era felice di accogliere la dannazione eterna.
Scosse la testa ad occhi chiusi, in un segno di diniego.
“Guardami, Alexander.”
Alec aveva obbedito. L’ambra liquida negli occhi di Magnus aveva una sfumatura dorata che li accendeva di una luce nuova, carica di desiderio.
“Cosa vuoi che faccia, tesoro?” aveva chiesto, roco.
Alec si era schiarito la gola, sentendola secca. Come poteva chiedergli una cosa simile in un momento in cui il suo cervello era andato in tilt e ragionare gli veniva difficile come scalare una montagna altissima senza le dovute dosi di ossigeno in più?
Ecco cosa gli faceva Magnus, gli azzerava il cervello e lo privava di ossigeno. Gli faceva martellare il cuore con prepotenza e incendiava il suo corpo in un modo che andava al di là dell’umana comprensione. Quello che riusciva a fargli provare Magnus, in ogni contesto, era qualcosa di ultraterreno.
Magnus fece uscire la sua mano dai pantaloni di Alec, che come unica risposta riuscì ad elaborare solo un lamento di disapprovazione.
“Devi solo chiedere, Alexander.”
Magnus stava giocando ad un gioco che sembrava fosse stato inventato da lui stesso. Faceva sembrare che tutto dipendesse da Alec, ma in realtà tutto dipendeva da lui. Sapeva cosa dire e come dirlo per far sciogliere Alec, per fargli andare in nebbia il cervello, per far sentire il suo corpo come pastafrolla che viene amalgamata con cura dalle mani del maggiore.
“Chiedi,” aveva continuato, la mano che aveva cominciato ad accarezzarlo di nuovo, su e giù per l’addome con calcolata lentezza, prima di afferrare la lunga catenella con la freccia che Alec aveva al collo e tirarlo di più a sé, “E ti sarà dato.”
Alec deglutì ancora una volta, gli occhi incollati alla bocca di Magnus: “Inginocchiati.”  La voce che tremò di nuovo, estranea persino alle orecchie dello stesso Alec. Ma non certo perché titubasse, semplicemente non riusciva più ad avere controllo di se stesso, era entrato dentro un vortice di emozioni, come se si trovasse dentro l’occhio di un ciclone e non riuscisse a uscirne – non volesse più uscirne. Era una situazione che lo faceva sentire vivo, che accendeva ogni nervo del suo corpo e gli faceva tremare anima e cuore. Avrebbe voluto che tutto quell’attimo durasse in eterno. Solo lui, Magnus e tutto quello che avevano da offrirsi.
Magnus assecondò la sua richiesta e Alec, per tutto quel lasso di tempo, non si morse la lingua nel tentativo di trattenere i suoi gemiti e le sue imprecazioni, solo perché Magnus gli aveva chiesto di non trattenersi.
Alec tornò alla realtà non appena si rese conto che aveva cominciato a sudare. Spostò lo sguardo dallo specchio, notando le guance che si erano colorate di rosso, e dal succhiotto, che sapeva coincideva perfettamente con la bocca di Magnus.
Magnus. Gli avrebbe scritto, più tardi. Sorrise.
Prima doveva farsi un doccia. Fredda. Decisamente ghiacciata.

*

Dopo la sua doccia raffredda ormoni, Alec aveva lavato via il torpore del sonno, ma non l’assillante mal di testa, arrivando alla conclusione che solo un’aspirina l’avrebbe aiutato a liberarsene. Prima di scendere al piano di sotto e attuare il suo piano, però, tornò in camera sua e, seduto sul letto, afferrò il cellulare.

> To: Magnus, 08.48
Buongiorno…

Inviò anche se non sapeva se aspettarsi una risposta, dopotutto Magnus poteva ancora essere a dormire.
Ma il suo cellulare vibrò, riempiendo il silenzio della stanza, e Alec sorrise.

> From: Magnus, 08.48
Buongiorno a te, stellina. Dormito bene?
> To: Magnus, 08.48
Sì, tutto sommato. Ho mal di testa…
> From: Magnus, 08.48
Conseguenza della sbronza, tesoro mio. L’alcol è divertente all’inizio, ma i postumi sono devastanti.

Alec soffocò una risata. Riusciva quasi a vederlo, Magnus, che scriveva da sotto le coperte, i capelli arruffati e il kajal sbavato dalla sera prima.
Sicuramente era una di quelle rare persone che sono belle anche appena sveglie, ne era certo.

> To: Magnus, 08.49
E tu, stai bene?
> From: Magnus, 08.49
Sì, la mia testa ha finalmente smesso di girare. È stato divertente ubriacarsi con te.”

Alec si trovò a sorridere come un ebete, non riuscendo a trattenersi.

> To: Magnus, 08.49
Anche per me. Non l’avevo mai fatto, prima.
> From: Magnus, 08.49
Vuoi dire che sono stato la tua prima sbronza, tartufino?
> To: Magnus, 08.49
Sei stato tante mie prime cose, Magnus…
> From: Magnus, 08.49
Tutte ugualmente positive?

Non ne avevano parlato di quello che era successo in cucina. Si erano limitati a guardarsi, una volta finito, occhi negli occhi e basta, fino a che Alec aveva fatto notare a Magnus che lo stava fissando.

> To: Magnus, 08.50
Tutte ugualmente positive.
(Il succhiotto è enorme)


La buttò là come esperimento perché in cuor suo voleva trovare un modo per parlare di ciò che era successo e capire se anche per Magnus era stato piacevole tanto quanto per lui.

> From: Magnus, 08.50
Sono particolarmente fiero di quel succhiotto. 
> To: Magnus, 08.50
È un modo per marchiare il territorio?
> From: Magnus, 08.50
Mi fai sembrare un uomo delle caverne, così.
> To: Magnus, 08.51
Sei piuttosto possessivo, devi ammetterlo.
> From: Magnus, 08.51
Preferisco protettivo. La possessività può sfociare nell’ossessione e, a volte, diventare pericolosa. Sono protettivo nei tuoi confronti perché tengo a te, ma se un giorno tu dovessi capire di non voler più stare con me, di certo non te lo impedirei.
> To: Magnus, 08.51
Io vorrò sempre stare con te.
> From: Magnus, 08.51
Anche io, Alexander. Era solo per mettere le cose in chiaro. Sarai mio fino a quando vorrai esserlo.
> To: Magnus, 08.51
Allora sarò sempre tuo.
> From: Magnus, 08.51
Stiamo nuovamente sfociando nel disgustosamente dolce. Siamo da diabete.

Alec rise sommessamente per non svegliare Jace, gli occhi che brillavano innamorati, mentre fissava lo schermo del cellulare.
Stava per rispondere, ma Magnus lo precedette.

> From: Magnus, 08.52
È stato bello, ieri sera.
> To: Magnus, 08.52
Anche per me. Tanto.

“Ti prego, almeno dimmi che non vi state scrivendo cose sconce via telefono, mentre io sono nella stessa stanza.”
Alec sussultò e dovette trattenersi per non saltare letteralmente sul materasso.
Jace si era svegliato e lo stava guardando di traverso, nella tipica espressione contrariata che aveva quando qualcuno disturbava il suo sonno. La sua voce arrocchita lo faceva sembrare ancora più orso di quanto non fosse normalmente, il che fece presumere ad Alec che nemmeno suo fratello dovesse stare benissimo.
“Mal di testa?”
“Puoi giurarci. Mi sembra di avere un battaglione militare che marcia nel mio cervello.”
“Non volevo svegliarti.” Si scusò Alec e Jace gli rispose con un cenno del capo, chiudendo di nuovo gli occhi, un avambraccio piegato affinché venissero coperti.
“Salutami il tuo ragazzo. Sempre se non stavate facendo del sexting. In quel caso, lasciami fuori.”
Alec arrossì, “Niente sexting.”
Jace si voltò verso il muro, sistemando il braccio sotto al cuscino, “Allora salutamelo,” borbottò prima di addormentarsi di nuovo.

> To: Magnus, 08.54
Jace ti saluta.
> From: Magnus, 08.54
L’abbiamo svegliato?
> To: Magnus, 08.54
Si è già riaddormentato. Ha anche cominciato a russare. Oggi cosa fai?
> From: Magnus, 08.54
Ragnor vuole portarmi a conoscere una sua amica, Dorothy. Suppongo non sia solo un’amica, però.
> To: Magnus, 08.55
Gliel’hai già chiesto?
> From: Magnus, 08.55
Certo. E lui ha negato. Ma lo conosco. Le sue orecchie sono diventate viola e ha cominciato a guardare altrove. C’è del tenero in Danimarca.

Alec rise dal naso, trattenendosi per non svegliare di nuovo Jace.

> To: Magnus, 08.55
Non era esattamente così…
> From: Magnus, 08.55
Lo so, ma era divertente dirlo comunque. C’è del tenero a New York ti piace di più?
> To: Magnus, 08.56
Sembra il titolo perfetto per una commedia romantica. C’è del tenero a New York: la storia di come Ragnor e Dorothy si sono innamorati.
> From: Magnus, 08.56
Dirò a Ragnor che l’hai detto. Secondo me gli piace.
Era tanto che non lo vedevo così, comunque… non frequenta una donna da quando mi ha adottato, in pratica. Vederlo prendersi anche cura di sé e dei suoi sentimenti mi fa piacere.

> To: Magnus, 08.56
Questa Dorothy deve essere speciale, se ha catturato la sua attenzione. Non sei curioso di conoscerla?
> From: Magnus, 08.56
Certo, voglio sapere chi è la donna che lo sopporta!

Alec scosse la testa, il sorriso che non accennava ad andarsene.

> To: Magnus, 08.56
Smettila. Lo adori.
> From: Magnus, 08.57
Certo, ma adoro anche lanciargli frecciatine. E il mio modo di dimostrargli affetto. Tu cosa fai, oggi, invece?
Alec sbuffò al pensiero che prima o poi avrebbe dovuto lasciare quella stanza, smettere di parlare con Magnus e affrontare i parenti in visita. Non voleva i parenti, voleva Magnus. Parlare con lui, ridere con lui. E invece avrebbe dovuto sopportare le domande imbarazzanti e insistenti di nonna Phoebe e della prozia Eloide. Vecchie megere.

> To: Magnus, 08.57
Parenti in visita a casa Lightwood: nonna e sua sorella vengono qui per discutere con mia madre sul Ringraziamento. Parleranno degli invitati, del menù e alterneranno il tutto a domande imbarazzanti. Voglia sotto zero.
> From: Magnus, 08.57
Fuggi da me.
> To: Magnus, 08.57
Non mi tentare. Potrei farlo davvero.

Un insistente bussare interruppe Alec. Sua madre doveva essere salita al piano di sopra senza che lui se ne accorgesse.
“Alec, Jace!” gridò da fuori la porta e Alec ringraziò che sua madre non aveva l’abitudine di piombare nelle camere dei suoi figli perché altrimenti avrebbe notato l’enorme marchio sul suo collo. Non voleva dire altre bugie, o inventarsi scuse che avrebbero portato ad eventuali domande – o indagini, nel caso di suo padre – per scoprire chi fosse la sua ragazza. Come se fosse così impensabile che potesse avere un ragazzo.
Cercò di non focalizzarsi sulla scena, ma la sua mente aveva già lavorato veloce: Robert e Maryse seduti al tavolo che si lanciano occhiate per decidere chi dei due avrebbe dovuto porre per primo la domanda e, successivamente, uno schiarimento di gola da parte di suo padre, preludio di una conversazione che sarebbe iniziata più o meno così: “Alec, figliolo, tua madre ha notato qualcosa sul collo. Non devi dirci nulla?”
E Alec avrebbe potuto mettere su la sua più stoica faccia, rimanendo impassibile prima di rispondere: “Certo, ho incontrato un ragazzo stupendo e usciamo insieme.”
Alec riusciva a malapena ad immaginarsi le facce che avrebbero fatto i suoi, ma se prima di Magnus tutto questo gli avrebbe dato l’impressione di essere una delusione, per loro, adesso sentiva una sorta di ingiustizia nascere dentro di sé che lo portava a chiedersi perché avrebbero dovuto reagire male, o rimanere delusi da lui. Alla fine, lui era sempre lo stesso Alec, cosa cambiava se, anzi che le femmine, gli piacevano i maschi? Mica diventava un disonesto, o un bugiardo, ne tanto meno un ladro. La sua sessualità non cambiava il suo carattere, o la persona che era, ne tanto meno i suoi principi o la sua educazione. Quindi per quale motivo i suoi genitori avrebbero dovuto provare rammarico o delusione davanti alla scoperta della verità?
Sentiva nascere qualcosa in sé, qualcosa che, era sicuro, l’avrebbe portato presto a parlare, a mettere in chiaro le cose.
Una cosa alla volta, si disse. Era già un enorme passo il fatto che non si sentisse più in colpa nei confronti dei suoi genitori per non rispecchiare esattamente le aspettative che avevano su di lui: il primogenito etero che avrebbe dovuto portare loro i primi nipotini, i quali avrebbero avuto i suoi occhi e i capelli della madre o viceversa.
Alec di figli ne voleva, certo, ma era sicuro che suo padre non avrebbe approvato il modo in cui li avrebbe avuti. Questo, comunque, oltre a rimanere un problema di Robert, era qualcosa che Alec avrebbe affrontato con il tempo. Prima la verità, poi tutto il resto. E anche per la verità aveva ancora bisogno di tempo.  
“Non voglio alzarmi,” mugugnò Jace, un suono che sembrava provenisse dall’oltretomba e che distrasse Alec dalle sue elucubrazioni mentali.
“Devi farlo,” disse Alec, mentre scriveva un messaggio a Magnus spiegandoli che doveva andare e che si sarebbero sentiti più tardi. Magnus gli rispose dicendo che andava bene, decorando il tutto con una fila di cuori. Alec sorrise.
“Non ti ho mai visto sorridere tanto.”
Alec alzò gli occhi sul fratello. Jace se ne stava in costa, girato nella sua direzione, i capelli arruffati e gli occhi velati dai postumi dell’alcol. La voce era uscita rauca, probabilmente per tutto il tempo passato a gridare euforico cercando di sovrastare, invano, la musica che veniva pompata dalle casse. Simon era un bravo DJ, pensò fugacemente prima di concentrarsi di nuovo su Jace.
“Ed è bello, Alec.” continuò il minore, “Ho sempre avuto l’impressione che avessi una sorta di oscurità che albergava dentro di te e divorasse tutta la luce buona che emetti. E Dio solo sa quanto io…” si interruppe serrando la mascella, probabilmente cercando le parole esatte. Alec avrebbe voluto fargli presente che si riteneva un ateo abbastanza convinto e che quindi frasi del genere avevano davvero poco senso, ma si rimproverò immediatamente di quel pensiero. Erano rare le volte in cui Jace si apriva così tanto emotivamente e non voleva interromperlo (era certo che questo cambiamento fosse dovuto a Clary, che lo spronava ad aprirsi e a comunicare) – in più, non avrebbe potuto ribattere niente di quello che Jace stava dicendo perché anche Alec aveva avuto la stessa impressione, per un periodo della sua vita. Aveva sempre pensato che ci fosse qualcosa, dentro di lui, che faceva si che la sua felicità venisse corrotta da qualcosa di più oscuro. Sapeva che era la paura dei pregiudizi a renderlo insicuro. Era quella la sua oscurità: i pregiudizi, la paura di essere giudicato, senza che qualcuno lo conoscesse davvero, solo in base a chi amava. La mancanza di tolleranza, il fatto che chiunque l’avesse incontrato, avrebbe sempre e solo visto il fatto che era un uomo che amava un altro uomo. Non importa se avesse fatto cose grandiose nella vita, per alcune persone, l’unica cosa a cui dare importanza sarebbe stata quella.
Nessuno ha mai giudicato qualcuno per la sua eterosessualità, ma se un ragazzo, o una ragazza, dicono di essere omossessuali, allora quella sembra diventare la cosa più importante per definire un essere umano.
Era quello che spaventava Alec. Era quella la sua parte oscura.
“…Quanto io avessi voluto aiutarti. Ma non sapevo come fare, non sapevo cosa dire. Lo sentivo che c’era qualcosa, ma non sapevo cosa. E mi sembrava di barcollare nell’ignoto. Tu eri triste e io non sapevo cosa fare per sollevarti il morale.”
Jace fece una pausa, i suoi occhi fissi in quelli di Alec, carichi di un affetto profondo ed esplicito. “Vederti sorridere, quindi, è fantastico, Alec. E sono felice che qualcuno sia riuscito ad abbattere la tua tristezza.”
Alec aveva la lacrime agli occhi, ma le ricacciò indietro. Piuttosto, si alzò dal proprio letto e si allungò verso il fratello, stringendolo in un abbraccio stritola costole. Era grato per tante cose e Jace era una di queste.
“Grazie,” gli sussurrò, mentre sentiva le braccia di suo fratello intorno alla schiena.  
“Se ti fa soffrire, però, lo uccido.”
Alec si trovò a ridere, trovando una frase del genere così tipica di Jace e del suo essere protettivo nei confronti dei suoi fratelli. A quanto pare, era una cosa dei Lightwood, si trovò a pensare.
“Non sto scherzando, non devi ridere!”
“Oh, piantala e alza il tuo pigro culo dal letto!”
“Il mio culo è tutto tranne che pigro, mio caro!” disse spingendo giocosamente via Alec e alzandosi dal proprio letto, sculettando esageratamente verso la porta. Alec rise e scosse la testa, mentre Jace usciva dalla loro stanza. Rimasto solo, Alec decise di vestirsi, coprendo il succhiotto con un maglione a collo alto, e poi scendere per prendere finalmente quella benedetta aspirina.

*

Phoebe Lightwood era quella che poteva essere definita una donna intimidatoria. I suoi piccoli occhi scuri riuscivano a mettere in soggezione chiunque, dando sempre l’impressione che stesse criticando ogni cosa.
Alec aveva sempre pensato che i comportamenti di sua nonna spiegassero molti tratti del carattere di suo padre. Robert era stato cresciuto da una madre incapace di slanci affettuosi, che l’avevano reso a sua volta inabile a dimostrare affetto verso i suoi figli. Alec faceva davvero fatica a ricordare l’ultima volta che suo padre gli aveva dato un carezza o un abbraccio casuali. Erano gesti, quelli, che riservava solo alle feste – Natale, i compleanni, l’ultimo dell’anno, il Ringraziamento, la Pasqua. Solo in quelle occasioni Robert abbracciava i suoi figli, rendendo un gesto così genuino estremamente formale. Sembrava lo facesse perché doveva farlo, come se le dimostrazioni di affetto fossero ammesse solo durante occasioni speciali. Alec si trovò a pensare al modo casuale che, invece, aveva Maryse di aggiustare la sciarpa di Max prima di uscire per la scuola, o al modo che aveva di lisciare i capelli di Isabelle, sebbene trovasse sempre da ridire sul fatto che, se avesse continuato a piastrarli, li avrebbe rovinati.
“Non ti serve piastrarli, Isabelle. Sono lisci di natura! Li brucerai!”
E ogni volta Isabelle borbottava qualcosa, scocciata, e si allontanava bruscamente dalla madre.
Erano diversi, i suoi genitori. Si erano trovati, certo, perché entrambi non erano ciò che normalmente viene definito un genitore affettuoso, ma nella sua rigidità Maryse rimaneva comunque umana. Robert, invece, sembrava che nel cervello avesse un compartimento riservato alle emozioni e alle manifestazioni di affetto che teneva sempre chiuso a chiave. Robert era arido, sebbene non se ne rendesse conto.
“Ci staranno tutti i Lightwood a questo tavolo, Maryse?” domandò nonna Phoebe, distraendo Alec dai suoi pensieri. La osservò. Era seduta davanti a sua madre e la scrutava con il naso all’insù, come se, sebbene la reputasse una più che degna avversaria, non temesse davvero il confronto. Maryse era tosta, ma Phoebe lo era di più e –  Alec ne ignorava il motivo – aveva passato la maggior parte del tempo in cui i suoi genitori erano stati fidanzati a cercare lo scontro con lei. Non sapeva se lo facesse per testare l’autenticità dell’amore che Maryse provava per suo figlio, o per altro. Dopo il matrimonio, la cosa era diventata meno frequente, sebbene continuasse a trovare scuse per rimbeccare Maryse, cercando un pretesto per fare critiche – nemmeno troppo velate – sulle sue scelte.
“Certo, ci siamo sempre stati, non vedo perché quest’anno dovrebbe essere diverso.”
Phoebe fece una smorfia contrariata, “L’anno scorso Eloide è dovuta stare nella parte aggiunta del tavolo. Quella specie di ridicola protesi aveva le gambe che traballavano.”
La prozia Eloide, un’acida zitella che aveva persino fatto scappare il suo gatto, non aveva niente della tempra della sorella. Se Phoebe era una colonna portante di un tempio antico, Eloide si limitava ad essere la sua ombra. Gravitava intorno alla sorella convinta che in quel modo avrebbe racimolato un po’ del suo carisma, ma non era affatto così.
“Inaccettabile.” Si limitò a dire Eloide, cercando di darsi un tono. Alec riuscì chiaramente a vedere sua madre stringere i denti per un secondo, prima di riacquistare la sua compostezza.
“Mi sono già scusata per l’inconveniente dello scorso anno. E quest’anno abbiamo un tavolo nuovo, come potete ben notare.” Dichiarò Maryse, un sorriso vittorioso sul volto. Sua madre, Alec doveva riconoscerlo, aveva una certa grazia a non farsi calpestare. Non diventava mai aggressiva, ma era risoluta e tenace; intimidirla era molto, molto difficile. Provò una punta di orgoglio nel vedere che, nonostante Phoebe avrebbe fatto paura anche al demonio, sua madre le teneva testa.
“Che comunque mi sembra troppo piccolo.” Ribatté Phoebe, perché comunque doveva sempre avere l’ultima parola.
“Troppo piccolo,” ripeté Eloide.
“Ci staremo, mamma.” dichiarò Robert, tagliando corto. Sapeva benissimo che Phoebe avrebbe potuto andare avanti per un tempo indeterminato, se si trattava di trovare da ridire su sua moglie. Almeno questo, Alec glielo concedeva, non l’aveva mai permesso. Robert prendeva sempre le parti di sua moglie, smorzando ogni tentativo di critica di sua madre.
“Vedremo,” disse Phoebe, austera, prima di abbassare lo sguardo sul suo piatto e tornare a mangiare.
Alec lanciò un’occhiata ad ognuno dei suoi fratelli, rimasti in silenzio come lui. Tutti e tre ricambiarono il suo sguardo e ci lesse dentro il suo stesso disagio.
Improvvisamente, scappare da Magnus divenne una soluzione ancora più allettante di quanto non fosse già all’inizio. Avrebbe davvero voluto fuggire da lui, passare la giornata insieme a fare niente, semplicemente stando in compagnia. Con Magnus, le conversazioni non erano mai cariche di tensione e i silenzi erano piacevoli. Non sentivano mai la necessità di riempirli con frasi di circostanza perché non erano mai a disagio l’uno con l’altro. I loro silenzi erano confortevoli come le loro conversazioni. E ad Alec mancava l’armonia che c’era quando era con Magnus. Armonia che, adesso, era assente.
Sospirò e cominciò a mangiare. Lo stesso fecero i suoi fratelli.

*

“È stato imbarazzante.” Disse Alec, dopo aver raccontato il pranzo familiare del giorno prima a Magnus. Si trovavano nella loro caffetteria e, dopo aver passato il pomeriggio a studiare in biblioteca, avevano deciso che un caffè era più che meritato. Era bello sapere che quel posto aveva un significato particolare, per loro. Era la loro caffetteria, il luogo dove si erano tenuti per mano la prima volta e dove avevano rotto il ghiaccio. Era lì che avevano costruito le prime basi della loro relazione, dove avevano creato un legame e preso confidenza. Alec adorava quel posto.
“Direi. Tua nonna sembra la versione babbana della Umbridge.”
Alec, che si stava portando la tazza colma di caffè alle labbra, dovette riappoggiarla al tavolo per non rischiare di versarsi il liquido scuro addosso a causa della risata che Magnus gli aveva provocato. Non poteva dargli torto. Se Phoebe Lightwood si fosse vestita di rosa, sarebbe stata la perfetta Dolores Umbridge.
“Non avrei saputo descriverla meglio.” Concordò, bevendo un sorso di caffè e lanciando un’occhiata complice a Magnus da sopra la tazza. L’altro ricambiò lo sguardo, sorridendo. “A te com’è andata, invece?”
Magnus afferrò un biscotto dal vassoietto che lui e Alec stavano condividendo, “Bene. Dot è simpatica. È stata lei a volermi conoscere.”
“Dot?” domandò Alec, un sopracciglio alzato.
“Ha insistito perché la chiamassi così. Dice che Dorothy è troppo formale.” Spiegò, dando un altro morso al biscotto, “È un’archeologa, lei e Ragnor si sono conosciuti perché insegnano entrambi all’università ed è stato amore a prima vista!”
Alec sorrise, sentendo l’entusiasmo nella voce di Magnus. Sembrava sinceramente colpito da quella donna ed era palese che fosse felice per Ragnor.
“Sei felice?” gli domandò per confermare la sua ipotesi. Si appoggiò allo schienale della sedia, le mani ad abbracciare la tazza di fronte a lui. Guardava Magnus dritto negli occhi e l’orientale sostenne il suo sguardo per un attimo più lungo del dovuto, prima di rispondergli: “Sì.”
Alec non sapeva se quel era dovuto solo alla situazione tra Ragnor e Dot, dal momento che i suoi occhi avevano indugiato un po’ troppo dentro ai propri.
“Tanto.” Aggiunse e quando si allungò sul tavolo per afferrare una delle mani di Alec e intrecciare le loro dita, il minore ebbe la conferma che non era riferito solo a Ragnor.
Sentì il cuore esplodergli di gioia e lo stomaco fare una capriola al pensiero che riusciva a rendere felice Magnus come Magnus rendeva felice lui.
“Se volessi portarti in un posto, questo sabato, tu verresti?”
Magnus, che aveva cominciato ad accarezzare il dorso della mano di Alec con il pollice, alzò un sopracciglio con fare interrogativo, “Dipende. Rischio di rovinare le mie Jimmy Choo?” domandò e Alec rise, al ricordo della faccia scettica di Magnus quando erano casualmente finiti in quella fiera medievale.
“Andiamo, non farla tragica. Ti sei divertito, alla fine. E le tue Jimmy Choo stanno benissimo!”
Magnus si arrese all’evidenza: indipendentemente da dove andassero, finché era con Alec ogni posto diventava piacevole.
“D’accordo,” alzò gli occhi al cielo perché comunque voleva continuare la sua commedia ancora  un po’, “Dove vuoi portarmi?”
Alec si aprì in un sorriso furbo, le fossette ai lati delle guance che comparvero malandrine, come se sapessero qualcosa che Magnus, invece, ignorava. Magnus adorava quelle fossette.
“È una sorpresa.”    
“Sei fortunato che mi fido di te!” disse Magnus, facendo ridere Alec.
“Non devi preoccuparti di niente, solo… vestiti in maniera comoda, ok?”
“Ok.” Magnus fece spallucce, usando la mano che aveva libera per prendere la sua tazza colma di cappuccino e prenderne un sorso. Quando ebbe riappoggiato la tazza al tavolo, Alec era intento a mangiare uno dei biscotti. Lo trovava adorabile anche mentre mangiava: quanto era cotto da uno a ormai sei irrecuperabile?
Scosse la testa, conoscendo la risposta.
“Hai sentito cosa dicono a scuola?” domandò cauto. Alec deglutì il suo boccone e annuì.
“Sì. Ma non sono preoccupato.”
Al loro rientro, quella mattina, a scuola girava voce che due ragazzi, alla festa di Magnus, si fossero baciati. Nessuno conosceva la loro identità e le ipotesi erano tantissime. Alcuni ritenevano che fossero due della squadra di football, altri di basket – perché c’era la convinzione che fossero molti gli atleti omosessuali restii a dichiararsi. Altri ancora, invece, pensavano che fosse semplicemente una conseguenza di una sbronza colossale che aveva fatto si che, di chiunque si trattasse, non doveva avere veramente quell’intenzione e si era confuso.
Alec sospirò: “Siamo noi, Mags. Lo so. Ma evidentemente c’era così buio che nessuno ci ha riconosciuto.”
Mags. Alec non era il tipo da nomignoli, o da soprannomi. Erano così rare le volte in cui lo chiamava in quel modo che, ogni volta, Magnus sentiva il cuore battere impazzito. Era una cosa così intima, personale, così autentica che il ragazzo ogni volta non riusciva a trattenersi dal sorridere, felice oltre ogni misura.
“Ti sei pentito?” gli domandò, perché in fondo aveva introdotto quel discorso per sapere cosa pensasse Alec, quali fossero i suoi sentimenti riguardo quel pettegolezzo.
“Di averti baciato in pubblico? O di aver passato con la persona che più mi piace al mondo la serata migliore della mia vita? Quale delle due, Mags?”
Magnus, per la primissima volta in vita sua, arrossì. Non violentemente, certo, ma riusciva a sentire chiaramente le sue guance scaldarsi.
“Di entrambe.”
“No. Non mi sono pentito. Lo rifarei duecento volte. Buio o non buio.”
Magnus rifletté un attimo su quelle parole, “Stai uscendo dall’armadio, tesoro.”
Alec sorrise, “È probabile.”
“Però manterremo un profilo basso, comunque. Non voglio che ti piombi tutto addosso in una volta sola.”
“Grazie.” Alec gli strinse la mano e ne baciò il dorso. Magnus sorrise.
“Sono davvero la persona che più ti piace al mondo?”
Alec scoppiò in una risata che lo portò a tirare indietro la testa, “Come se non lo sapessi.”

*

Alec si diresse a casa di Magnus alle tre di sabato pomeriggio come d’accordo. La prima settimana di novembre aveva portato con sé un abbassamento di temperatura che aveva costretto Alec a riesumare il giubbotto invernale dall’armadio e nel quale aveva seppellito il viso per tutto il tragitto dalla fermata della metropolitana alla casa di Magnus. Sentiva chiaramente le guance e il naso freddi. Sicuramente doveva assomigliare a Rudolf la renna con il naso arrossato, ma decise che non ci avrebbe dato tanto peso. Piuttosto, imboccò il vialetto che lo avrebbe condotto a casa di Magnus e, una volta saliti i tre scalini del portico, suonò il campanello. Magnus impiegò trenta secondi ad aprirgli la porta.
“Ciao, tesoro.” Lo guardò con tenerezza, notando le guance e il naso rossi per il freddo. Magnus trovava il viso di Alec stupendo sempre, ma con quel rossore e i capelli scompigliati lo trovava ancora più bello.
“Ciao.” Alec gli sorrise e si sporse in avanti per lasciargli un bacio delicato sulle labbra. “Sei pronto?” gli domandò, rimanendo sulla soglia.
“Sì!” confermò l’altro. Solo in quel momento Alec abbassò lo sguardo sull’abbigliamento del suo ragazzo. Magnus indossava una camicia bianca, abbinata ad un gilet grigio perla e dei pantaloni dello stesso colore.
“Magnus,” cominciò Alec, titubante, “Avevo detto comodo.”
Magnus lo guardò come se avesse parlato in ostrogoto, “Sono comodo.”
“Certo, ma questi vestiti non sono adatti per dove stiamo andando.”
Magnus lo guardò ad occhi sgranati, come se Alec l’avesse appena schiaffeggiato senza motivo. I suoi vestiti, insieme ai suoi trucchi e alla sua macchina fotografica, erano una delle cose materiali a cui teneva di più e Alec sapeva quanto potesse diventare permaloso se qualcuno aveva da ridire su queste tre cose.
“Cosa dovrei mettermi, di grazia?” ribatté, un tantino risentito.
“Una tuta?” propose Alec, cautamente.
Magnus si portò una mano al cuore, facendo uscire il re del dramma che – Alec lo sapeva benissimo – viveva in lui.
“Una tuta?” ripeté quasi disgustato all’idea, “Non so, perché non mi chiedi di mettere degli acid washed jeans, Alexander?”
Magnus detestava, anzi odiava gli acid washed jeans. Più delle tute.
Alec sospirò e fece un passo verso Magnus, in modo che entrambi potessero essere in casa – fuori c’era freddo e stare immobile non era proprio la migliore delle soluzioni – e dopo essersi chiuso la porta alle spalle, tornò a guardare Magnus.
“Ti fidi di me?”
“No.” disse l’altro, le braccia incrociate al petto e lo sguardo risoluto. Alec sapeva che non avrebbe dovuto trovarlo carino oltre ogni limite quando si arrabbiava e tra le sue sopracciglia si formava una ruga che lo rendeva così serioso da farlo sembrare più grande di quanto non fosse, ma non poteva farne a meno. Si avvicinò lentamente, sciogliendo le braccia di Magnus, che oppose meno resistenza di quanta Alec si sarebbe aspettato, e sistemandole intorno alla propria vita, mentre gli prendeva il viso tra le mani.
“Sei arrabbiato?” domandò, facendo sfiorare i loro nasi.
“Hai insultato i miei vestiti.” Brontolò l’altro, come se tale risposta fosse una sufficiente giustificazione.
Alec gli baciò un angolo della bocca, “Non ho insultato i tuoi vestiti,” chiarì, passando a baciare l’altro angolo, “Ho solo detto che sono inadatti per dove andremo.” Fissò i suoi occhi in quelli di Magnus, le loro bocche separate dalla distanza di un capello, “Non vorrei mai si rovinassero e sparlassero male di me con le tue Jimmy Choo. Non voglio che i tuoi vestiti e le tue scarpe pensino che voglio rovinare il tuo intero guardaroba.”
Magnus rise, abbandonando definitivamente il suo cipiglio imbronciato e tirò Alec a sé per baciarlo, sentendo la necessità di azzerare quell’insulsa distanza tra di loro.
“Sei un idiota.” Decretò, appoggiando la fronte a quella di Alec, che rise – i suoi occhi si illuminarono prima dell’intero viso, in quel modo che Magnus adorava. “Però sei un gran figo, quindi posso accettare la tua idiozia.”
“E vorrà dire che per lo stesso motivo, accetterò il fatto che la tua idea di comodo equivalga a vestirti come un pinguino.”
Magnus boccheggiò: “Rimangiatelo!”
Alec non riuscì a trattenere una risata: “Mai!” gli pizzicò un fianco e Magnus sussultò.
“Sei antipatico, oggi.”
“Mi ringrazierai quando vedrai dove stiamo andando.”
“Rimane comunque il fatto che mi hai dato del pinguino!”
“E tu mi hai dato dell’idiota!”
“L’ho detto in modo affettuoso, non lo penso sul serio!”
“Nemmeno io lo penso sul serio,” Alec si chinò per dargli un bacio a stampo, “In realtà penso che la tua figaggine aumenti spropositatamente quando ti vesti in quel modo.”
Magnus lo scrutò per riuscire a capire se Alec stava facendo il ruffiano o se lo pensasse davvero. Quando capì che era serio, soddisfatto di quella costatazione, lo baciò di nuovo.
“Anche se,” cominciò Alec, quando si staccarono, “Niente ha ancora battuto il gilet di pelle con niente sotto.”
Magnus rise, scuotendo la testa affettuosamente. Non gli sarebbero bastate tutte le parole di tutte le lingue che conosceva per riuscire a spiegare quanto amasse Alexander Lightwood.
“Lo credo bene, pasticcino. Il motivo per cui i miei vestiti mi stanno così bene è perché ho degli addominali favolosi.”
Alec rise, ma non ribatté. Dopotutto, Magnus aveva ragione. “Vatti a cambiare!” disse soltanto.
“Solo se vieni in camera mia con me.”
Alec annuì senza pensarci troppo e insieme si diressero verso il piano di sopra.

Entrare nella camera di Magnus era come entrare nella rappresentazione fisica della sua personalità. Era una stanza grossa, colorata e inondata dal profumo al sandalo. Al centro di essa, troneggiava un imponente letto a baldacchino, con la trapunta rossa decorata da fili dorati, vicino al quale stava un cassettone in legno con annesso specchio su cui facevano bella mostra tutti i trucchi che Magnus possedeva – e Alec aveva la sensazione che i tre cassetti di quel mobile fossero colmi di strumenti per il make-up e smalti. C’era una scrivania vicino alla finestra, colma di libri chiusi ordinatamente, e sulla quale era appoggiata la sua macchina fotografica. Sul pavimento in parquet, erano sparsi pouf e cuscini di ogni colore. La cosa che più colpì Alec, però, furono le foto attaccate ai muri. Ce n’erano tantissime: alcune ritraevano Magnus bambino, con le guance paffute e la frangetta che cadeva sugli occhi vispi e curiosi – Alec sentì la tenerezza invadergli il cuore come una violenta marea; altre ritraevano Magnus ragazzino insieme ad un Ragnor più giovane di qualche anno, i capelli neri appena striati dalle sfumature grigiastre. Altre, invece, erano più recenti e raffiguravano loro due insieme. C’erano entrambe le foto che si erano fatti in metropolitana – le loro prime foto – e c’era persino quella che lo ritraeva insieme al cavallo. Il cuore di Alec aveva cominciato a battere più forte, scalpitando contro la cassa toracica. Era bello sapere che Magnus lo riteneva tanto importante da metterlo insieme ai ricordi della sua infanzia. Era come se non lo ritenesse una cometa passeggera nella sua vita, ma piuttosto una tappa fondamentale della sua esistenza, qualcuno con cui condividere il cammino della vita. E Alec non poteva essere più felice di costatare questa cosa perché per lui valeva lo stesso. Forse era prematuro dirlo, perché entrambi erano molto giovani, ma Alec non riusciva ad immaginarsi con nessun altro, se non con Magnus. Ed era, questo, un pensiero a lungo termine. Lo amava e sempre l’avrebbe fatto. Sentiva dentro di sé il desiderio di passare tutta la sua vita con Magnus, che andava a completare il pezzo mancante del suo cuore. Era la sua metà della mela, ne era certo.
“Siediti dove vuoi, orsetto.”
Alec si distrasse dalle fotografie e si incamminò verso la scrivania, sedendosi sulla sedia.
“Perché orsetto?”
Magnus rise, la lingua tra i denti e il naso arricciato, “Perché con quella felpa enorme sembri tanto un orsetto. E in più, perché mi piace punzecchiarti con nomi che detesti.”
“E lo fai perché credi abbia insultato i tuoi vestiti.” Non era una domanda e Magnus lo sapeva.
“Mi conosci così bene, fiorellino.”
Alec roteò gli occhi e cominciò, sovrappensiero, a giocare con il laccio della macchina fotografica. Magnus lo lasciò fare e si diresse al suo armadio – che era grosso quanto una nazione e occupava tutta una parete della camera. Non che Alec se ne stupì. Gli piaceva quella stanza perché rispecchiava Magnus alla perfezione e ancora di più gli piaceva vedere come loro due si muovessero all’interno di essa. Era la prima volta che ci entrava, ma non si sentiva in imbarazzo o fuori luogo, al contrario, si sentiva a suo agio, come se ci fosse sempre stato. Alec smise di prestare attenzione alla macchina fotografica e si concentrò su Magnus: la cresta perfettamente curata, ciocche della quale cadevano sulla nuca del ragazzo; le spalle ampie fasciate dentro alla camicia, la linea sinuosa alla fine della schiena che formava una curva aggraziata dove la schiena e il sedere si congiungevano e… basta Alec, contegno.
Al diavolo! Una sbirciatina non avrebbe fatto male a nessuno. Anzi, avrebbe fatto solo bene ai suoi occhi ingordi che altro non volevano che fissare il sedere di Magnus. Non era colpa sua se era sodo e bellissimo e bramava tutte le attenzioni di Alec, sporgendosi all’infuori naturalmente e in maniera armoniosa.  
“Almeno non sbavare, tesoro.”
“Io non sbavo!” sussultò Alec, colto in flagrante.
Magnus spostò lo sguardo dal suo armadio a lui, voltandosi completamente per guardarlo negli occhi. “Non sei credibile.”
“Ah sì?” lo sfidò Alec, le braccia incrociate al petto, “Allora vorrà dire che non ti guarderò per il resto della giornata.”
Magnus avrebbe voluto rispondere con un sarcastico come se ci riuscissi, ma optò per un’altra soluzione. Si incamminò verso Alec, gli occhi incollati ai suoi e, quando lo raggiunse, si sedette a cavalcioni su di lui. Lo senti trattenere rumorosamente il respiro e sorrise, soddisfatto di quella reazione. Sentì immediatamente le mani di Alec sulla schiena e, istintivamente, allacciò le proprie alla sua nuca, facendo scorrere le mani tra i capelli corvini. Strofinò il naso contro quello di Alec, prima di appropriarsi voracemente delle sue labbra, che succhiò avidamente prima di infilare la lingua nella bocca di Alec, che reagì con un gemito soffocato.
“Doveva essere una punizione a quello che ho detto? Perché sembrava tutto tranne che questo.” Disse Alec, ansimante a causa della mancanza di ossigeno dovuta al bacio.
Magnus rise, continuando a far correre le dita tra i capelli di Alec. Li adorava, come tante altre cose di lui.
“Era un modo per farmi guardare.”
Alec avrebbe voluto rispondergli che era impossibile non guardarlo, soprattutto quando si muoveva con l’aggraziata eleganza ipnotica tipica dei felini che caratterizzava ogni suo movimento, ma con Magnus che lo guardava in quel modo, come se fosse qualcosa di prezioso e raro, il suo profumo che gli inondava le narici e i loro respiri che si mescolavano a causa dell’inesistente distanza tra di loro, il suo cervello non riuscì ad elaborare altro se non il comando di stringerlo ancora di più a sé e baciarlo.
Magnus si schiacciò contro di lui più che poté, petto contro petto, i bacini che collisero, mentre le mani di Alec cominciarono a vagare sulla sua schiena, in una carezza premurosa e impellente allo stesso tempo. Sembrava sempre che volesse chiedergli il permesso di toccarlo, lottando contro la propria necessità di percepirlo sotto le proprie dita. L’altruismo di Alexander, Magnus lo percepiva anche in gesti simili. Lottava contro i suoi desideri per capire se prima erano condivisi. Combatteva la voglia di toccarlo in modo frenetico assicurandosi prima che Magnus volesse essere toccato. Sembrava che ancora non avesse capito a pieno che poteva toccarlo quando e come voleva perché Magnus l’avrebbe sempre lasciato fare. Moriva dalla voglia di sentirsi sfiorare dalle dita lunghe e callose di Alec, dalle sue mani piene di minuscole imperfezioni e cicatrici, le mani di un pugile e di un arciere, che trasmettevano forza, ma che erano capaci anche delle carezze più delicate e premurose. Erano ruvide e lisce allo stesso tempo, erano forza e dolcezza. Erano proprio come Alexander. Il suo dolce, premuroso e incredibilmente forte Alexander.
“Non volevi portarmi da qualche parte?” gli domandò, la voce che sussultava per via del respiro affannoso. Alec sbuffò una risata, i suoi occhi fissi sulle labbra di Magnus.
“Hai ragione.” Gli diede ancora un bacio a stampo prima di alzare le sue iridi su di lui.
“Non vuoi dirmi dove andiamo?”
Alec scosse la testa.
“Un indizio piccolo piccolo?”
Alec gli accarezzò il viso, “No. E non provare a dissuadermi.”
Magnus alzò gli occhi al cielo e – riluttante, molto, molto riluttante – si alzò da Alec e si diresse nuovamente verso il suo armadio. Alec non si perse nemmeno una delle sue mosse.
“L’unica cosa comoda che ho sono dei pantaloni da yoga e una maglietta che non metto dall’anteguerra.”
“Andranno benissimo.”
Magnus annuì e, dopo aver estratto gli indumenti nominati da un angolo buio e dimenticato del suo armadio, cominciò a liberarsi dei vestiti che aveva addosso. Cominciò con il gilet che lanciò ad Alec, il quale rise e lo afferrò al volo. La sua espressione si fece seria quando vide Magnus cominciare a sbottonarsi la camicia davanti a lui. Ok che si erano visti più o meno nudi, ma non poté impedire alle sue guance di diventare viola, quando la camicia sparì nell’armadio – appesa accuratamente ad una gruccia – e Magnus rimase a torso nudo. Dio, era così perfetto che Alec si era persino dimenticato come si faceva a respirare. Indugiò sul modo in cui i dorsali di Magnus si contraevano mentre sistemava la gruccia nell’armadio, alzando le braccia e mostrando anche i suoi bicipiti. Stava ufficialmente sbavando. Era inutile negare. Si lasciò andare anche ad un sospiro sognante perché sì. Non gli serviva un vero motivo per sospirare sognante quando Magnus e tutta la sua muscolatura erano tutto ciò su cui Alec aveva sempre fantasticato. Corrispondeva alla sua idea di bellezza, era tonico, delineato e definito senza essere esageratamente muscoloso. Era una combinazione perfetta dei doni di madre natura curati con un po’ di attività fisica. Equilibrato e bellissimo.
“Alexander?” lo chiamò Magnus, un sopracciglio alzato.
Alec sbatté le palpebre più volte e dovette fare uno sforzo enorme per alzare lo sguardo sugli occhi di Magnus e smettere di fissargli gli addominali.
“Non mi stavi ascoltando?”
“No.” ammise sinceramente, “Mi distrai. Puoi ripetere?”
Magnus rise perché in fondo beccare Alec con le guance rosse che lo guardava di nascosto era divertente e piacevole allo stesso tempo. “Ho chiesto se saremo all’aperto o al chiuso.”
“Che è un modo per estorcermi indizi.”
“Sono solo curioso!”
Alec si alzò dalla sedia e lo raggiunse. Gli baciò la fronte ed evitò di concentrarsi su altre parti del corpo di Magnus perché altrimenti si sarebbe distratto di nuovo e disse: “Prima ti vesti, prima scoprirai dove siamo diretti.”
“Sei ingiusto.”
“Disse quello che si è spogliato per estorcere informazioni.”
“Alexander!” esclamò Magnus, cercando di risultare oltraggiato nel modo più convincente possibile, “Mi ferisce sapere che mi credi fautore di tali mezzucci.”
Alec sorrise e lo attirò a sé, tenendo le labbra ad una distanza minima, ma senza baciarlo, “L’hai detto tu che ti conosco così bene. Quindi ammettilo e basta.”
Magnus assottigliò lo sguardo, “Non so se considerarti un genio, o solo un formidabile smorfioso.”
“Puoi pensarci mentre ti vesti.”
Magnus non riuscì a trattenere una risata a cui si unì anche Alec, i loro occhi innamorati che si cercarono per trovarsi, complici in una felicità che era così autentica da sembrare irreale.
“D’accordo.” si arrese Magnus, che cominciò a vestirsi, mentre Alec lo seguiva con gli occhi.
Era bello stare insieme. Indipendentemente da cosa facessero.

*

Magnus camminava con le mani di Alec sugli occhi. Aveva perso il conto delle volte che aveva rischiato di inciampare, scatenando risolini sommessi in Alec, che si impegnava davvero per fargli da guida.
“A destra c’è un buco sulla strada, stai sulla sinistra.”
“Comincio a pensare che vuoi portarmi a sperdere.”
“Non dire idiozie, Magnus.”
Alec lo spinse leggermente per fargli imboccare un’altra strada, facendolo voltare a sinistra. Camminarono per qualche metro ancora, in silenzio, prima di fermarsi di botto. Magnus provò a intuire dove si trovassero, ma il fatto che New York fosse una città estremamente rumorosa, con i suoi clacson e le grida dei rispettivi autisti, con la musica degli artisti di strada e le liti per i rarissimi parcheggi che si trovavano, non lo aiutava a capire molto.
“Sei pronto?”
“No.”
Alec rise, “Dai, Magnus. Fidati un pochino di me!”
“D’accordo.” concesse, così Alec tolse le mani dai suoi occhi. Magnus dovette osservare la grande struttura a forma di cupola in vetro e guardare bene all’interno prima di capire dove si trovassero: era una struttura adibita al paintball. Si trovò a sorridere ancora prima di voltarsi verso Alec.
“Ti sei ricordato!”
Alec, soddisfatto di quel sorriso che allargava il viso di Magnus, annuì orgoglioso. Ricordava una conversazione particolare che avevano avuto, una volta, mentre discutevano di film. Magnus aveva nominato, tra quelli che più gli piacevano, Dieci cose che odio ti te, dicendo che una delle sue scene preferite era proprio quella dove Patrick Verona e Kat Stratford giocavano a paintball.
“Mi piacerebbe provare, un giorno.”
“Davvero?”

Magnus aveva annuito con convinzione, “Sembra divertente.”
Così Alec si era messo sotto per cercare su internet un posto dove, anche in inverno, fosse possibile giocare. E, quando aveva trovato questa struttura – che aveva aperto da poco – aveva deciso che gli avrebbe fatto una sorpresa.
Magnus lo abbracciò fortissimo, stringendolo a sé, “Grazie.”
“Per averti portato qui o per aver salvato i suoi preziosissimi vestiti dalla vernice?”
Magnus rise, scuotendo la testa. “Entrambe le cose.”
Alec gli accarezzò una guancia, lasciando poi la mano appoggiata al viso di Magnus: “Ti piace?”
Magnus annuì, gli occhi che luccicavano. Doveva aver sicuramente fatto qualcosa di buono, in una vita precedente, per meritarsi Alexander, altrimenti non si spiegava come un tale dono del cielo fosse entrato nella sua vita.  
“Allora entriamo!” Alec lo prese per mano e, insieme, si diressero all’entrata.

L’edificio, visto dall’interno, si mostrava molto più ampio rispetto a come appariva dall’esterno. Non c’era il fieno o la paglia, come si vedeva nel film, perché essendo al chiuso l’avevano organizzato come se fosse una palestra. C’erano totem dietro cui nascondersi e piccole fortezze da conquistare; per i più audaci c’erano persino pareti da scalare per raggiungere fortezze ancora più ampie che, una volta conquistate, facevano accumulare un sacco di punti. Era questo che la ragazza addetta alla distribuzione delle pistole a vernice stava spiegando loro. Le regole del gioco sembravano molte di più di quante ne apparissero nei film, ma i due ragazzi non sembrava se ne preoccupassero.
“Le pistole le carichiamo noi, avete circa 50 munizioni a testa. Se le finite e ne volete altre, venite qui e ve le ricarico io.”
“Grazie.” Risposero in coro i due e la ragazza sorrise, consegnando le pistole.
“Divertitevi!”
Magnus e Alec le fecero un cenno con il capo e, dopo aver preso le pistole, si diressero verso il punto di gioco. Lo guardarono un attimo, studiando i dettagli, rimanendo in silenzio, poi Magnus parlò.
“Uno contro uno?”
“Pensavi che avremmo fatto squadra contro quei due ragazzini laggiù?”
L’orientale alzò gli occhi al cielo, sbuffando: “Sai, a volte assomigli a Jace. Questo sarcasmo inopportuno tipico di voi Lightwood.”
Tipico di noi Lightwood? Perché lo fai suonare come se fosse una cosa sporca?”
Magnus lo guardò per costatare se Alec si fosse offeso per quell’uscita. Ok, era stata un po’ infelice, ma onestamente parlando non voleva che suonasse come se fosse un’offesa, voleva semplicemente che uscisse come un dato di fatto. Evidentemente, però, la sua intonazione non la pensava così. Stava per scusarsi, quando Alec alzò un indice per precederlo.
“E ti prego, non uscirtene con uno dei tuoi doppi sensi su sporco. È così tipico tuo.” Alec roteò teatralmente gli occhi, ma venne tradito da un sorriso accennato che gli alzò solo un angolo della bocca. Probabilmente, Magnus costatò, si era accorto di quanto quella sua affermazione l’avesse imbarazzato e voleva trovare un modo per sdrammatizzare. Gliene fu molto grato.
“Non volevo offenderti.” Disse, comunque, perché ne sentiva il bisogno.
“Lo so,” Alec gli sorrise affettuoso, prima di cominciare a camminare all’indietro, mentre continuava a tenere gli occhi fissi su Magnus. Il maggiore era così concentrato a capire se Alec gli credeva davvero che non si accorse della palla di vernice gialla che lo colpì in pieno petto.
“Sei lento, Bane.” Magnus guardò prima la vernice venire assorbita dal tessuto della maglietta, poi alzò lo sguardo su Alec, che aveva cominciato a ridere così forte che si stava tenendo la pancia, e poi ancora il punto colpito. Alzò di nuovo lo sguardo su Alec, la bocca che andava a formare una O perfetta in preda allo stupore, mentre gli occhi si ridussero a due fessure per l’affronto subito.
“A tradimento non vale.”
“Si ritiene a tradimento solo se si colpisce alle spalle. Ti sembrano spalle, quelle?” indicò con il dito in direzione del petto di Magnus.
“No,” disse Magnus, ricomponendosi, “Ma quelle sì!” continuò alzando la sua pistola per colpire Alec. Una palla di vernice rossa, infatti, andò a colpire la sua spalla destra. “Sei lento, Lightwood.”
Alec gli sorrise, un sorriso che non aveva niente a che vedere con quelli dolci che gli riservava di solito. Era una sorriso ferino, scaltro, che andava ad accendere gli occhi di Alec di una luce competitiva.
“Ok,” disse Alec, la voce arrocchita. “Giochiamo.”
Magnus sapeva che non avrebbe dovuto trovarlo così eccitante, con la voce cavernosa e l’espressione di chi ha intenzione di divorarlo. Il fatto era, però, che Magnus si sarebbe fatto mangiare volentieri da Alec, quindi beh… lo trovava sexy oltre al limite umano consentito, quando si comportava in quel modo.
“Giochiamo.” Ribatté, anche se, in quel momento esatto, Magnus stava pensando ad un altro tipo di gioco.

Passarono quasi tutto il pomeriggio dentro quell’edificio, rincorrendosi come dei bambini, mentre si colpivano a vicenda, sporcandosi di vernice ovunque. Alec andava sempre a segno e Magnus non mancava mai di fargli notare che se era così bravo era solo perché era un arciere. I comuni mortali, invece, era normale che ogni tanto mancassero il bersaglio. Non che lui se la fosse cavata male, comunque. Magnus era piuttosto soddisfatto della varietà di vernice che macchiava la vecchia felpa di Alec. Gli unici punti dove non si erano sporcati, erano nella zona vicino agli occhi, protetti da una mascherina di plastica trasparente. Per il resto, invece, anche i loro capelli erano rimasti vittima del loro scontro all’ultimo colpo di vernice.
Era stato davvero, davvero divertente. Avevano riso come matti, alternando le risate ad insulti bonari. La cosa bella del loro rapporto, stava pensando Alec, mentre stava accasciato ad un totem vicino a Magnus, era che oltre ad essere una coppia erano anche amici. Non si limitavano a fare ciò che le coppie fanno, ampliavano il loro rapporto anche all’amicizia. E Alec non poteva pensare a niente di più bello.
La persona che amava era anche il suo migliore amico. Cosa poteva chiedere di meglio?
“Allora, sei soddisfatto?” chiese, voltandosi verso Magnus, che aveva una guancia striata di viola e verde.
“Molto. È stato più divertente di quanto immaginassi. Ma suppongo sia merito tuo.”
“Merito mio?”
Magnus cercò di scrostare con il pollice un po’ di vernice azzurra dal naso di Alec. “Merito tuo.” Confermò, “Se l’avessi fatto con chiunque altro non sarebbe stato divertente nemmeno la metà. Il fatto è che sei tu a rendere tutto migliore, tesoro.”
Alec arrossì intensamente, facendo scomparire, in quel modo, le tracce di vernice rossa che sporcavano il suo viso. Magnus gli sorrise, intenerito. “È bello stare insieme a te,” gli disse, appoggiando una guancia alla spalla di Alec, il quale si voltò per baciargli i capelli.
“Anche a me piace.”
“Lo credo bene,” disse Magnus, “Sono una delle persone che più ti piace al mondo!”
Alec scoppiò in una risata, riservandogli una spallata leggera che costrinse Magnus ad allontanarsi da lui. Mugugnò in disapprovazione, prima di risistemarsi esattamente com’era messo.
“Smetterai mai di dirlo?”
“Mai.”
Alec fece intrecciare le loro dita. Se Magnus voleva ricalcare quel concetto, a lui stava più che bene. In fondo, era la verità. Non vedeva perché avrebbe dovuto negarlo.



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Ciao a tutti e ben ritrovati! 
Dopo due settimane, e qualche giorno di ritardo di cui mi scuso tantissimo, ecco un nuovo capitolo! Vorrei scusarmi, inoltre, perché rispondendo ad una recensione del capitolo precedente avevo detto che in questo capitolo avremmo visto Alec in veste di infermiere, ma il capitolo è venuto più lungo del previsto e quindi ho pensato di mettere questa cosa anzi nel capitolo successivo! 
Allora... cosa ne pensate? All'inizio ho voluto inserire i pensieri di Alec riguardante la festa perché mi sembrava giusto porre l'attenzione su come si sentisse, dal momento che era una sua prima volta e ammetto che ne ho approfittato per scrivere il missing moment (possiamo definirlo così?) del capitolo precedente, dove vediamo solo Magnus che ammira Alec mentre si riveste (Magnus è furbo e la sa lunga, ammettiamolo). Successivamente - oltre all'apparizione di nonna Phoebe, che, correggetemi se sbaglio, dovrebbe esistere davvero nei libri, insieme a questa prozia Eloide, che invece ho totalmente inventato -  abbiamo un momento Malec dove si scopre che un loro bacio è stato notato sebbene non si sappia l'identità di chi è coinvolto e a tal proposito vorrei chiarire, anche se sicuramente lo sapete già, che "uscire dall'armadio" è la traduzione letterale di "come out of the closet" che è un modo di dire fare coming out, ma siccome in italiano non abbiamo niente di simile, ho usato la traduzione letterale che non è bellissima, ma passatemela! 
Sto parlando un sacco, sono logorroica, scusatemi! Vi saluto e, come sempre, vi ringrazio immensamente per leggere questa storia, ringrazio chiunque l'abbia messa tra i seguiti/preferiti e chi trova sempre il tempo per recensire. Mi fa un enorme piacere e, come sempre, vi abbraccio tutti! Ve lo meritate, davvero <3 
Alla prossima!

PS: per la scena dove giocano a paintball vorrei ringraziare Napi, che ha suggerito l'idea in una recensione precedente! Spero che il momento sia stato all'altezza dell'aspettativa! 


 

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Capitolo 11
*** 11. ***


Il lunedì successivo, Catarina aveva proposto ai suoi amici di sperimentare un gruppo studio. L’idea, in sé, era davvero carina: in questo modo avrebbero potuto passare del tempo tutti insieme e svolgere responsabili il loro lavoro di studenti. Se non fosse che, evidentemente, presi in gruppo la loro responsabilità andava a farsi friggere. Si trovavano a casa di Catarina, che passava quasi tutti i pomeriggi da sola, dal momento che i suoi genitori – medici, di cui voleva seguire le orme – erano sempre in ospedale, e aveva deciso che una casa grande e silenziosa era meglio di una biblioteca in cui anche il minimo sussurro veniva rimbeccato da quella megera addetta alla distribuzione del libri. La scusa ufficiale era stata Come facciamo a ripetere gli argomenti che studiamo se quella vecchiaccia ci zittisce di continuo?
E quindi per avere più occasioni di studiare approfonditamente, i ragazzi avevano accettato.
La cosa che non avevano tenuto in conto, però, era che messi tutti insieme, in una stanza in cui i dialoghi non erano proibiti, parlare veniva troppo facile. E quindi, da una conversazione che era partita con una domanda scolastica era nata una specie di gara al pettegolezzo più succulento. Inutile dire che tutto ciò era partito da Izzy, alimentata poi da Cat e Clary, che avevano cominciato a parlare delle coppie formatasi alla festa di Magnus.
“A quanto pare,” disse Catarina, “Mark ha baciato Monica di biologia.”
“Mark della squadra di football?” domandò Iz, che adorava questo genere di pettegolezzi.
Catarina annuì.
“Ma lui ha già una ragazza!” aggiunse Clary, indignata. E lanciò un’occhiataccia a Jace, che aggrottò le sopracciglia con fare interrogatorio. La rossa lo liquidò con un gesto della mano che il biondo, in tutta onestà, non comprese. Primo: lui non l’avrebbe mai tradita, l’amava troppo. Secondo: lui non lo conosceva nemmeno questo Mark della squadra di football. Terzo: il fatto che Mark fosse un atleta fedifrago e idiota non rendeva tutti gli atleti fedifraghi e idioti.
Ah, le donne e le loro (paranoiche) elucubrazioni mentali.
“Infatti.” Confermò Cat, “La sua ragazza l’ha mollato appena l’ha scoperto, piazzandogli una cinquina in pieno viso.”
“E quindi lui ora esce con Monica?” rincarò Iz.
“Beh, sì.”
“Che stronzo!” concluse Isabelle, battendo un pugno sul tavolo e guadagnandosi l’approvazione di Catarina e Clary.
“Piantatela, o a questi individui esploderanno le orecchie.” Brontolò Raphael, seduto vicino a Cat, la quale si voltò verso di lui, appoggiandogli una guancia sulla spalla e guardandolo dal basso verso l’alto. Il ragazzo non si scompose. Le dimostrazioni di affetto e il contatto umano non facevano certo per lui. L’unica eccezione sembrava essere Catarina: non l’abbracciava mai di sua spontanea volontà, ma se lei lo toccava non si scostava. Cosa che invece, faceva con il resto del mondo, a quanto pareva. Una volta Simon aveva avuto il coraggio di dargli una pacca sulla spalla, Raphael l’aveva fulminato e, afferrata la mano, l’aveva brutalmente tolta dalla propria spalla.
“Eddai, Raph. Anche a te piacciono queste cose in fondo. Molto in fondo.”
“Io detesto queste cose.”
“Tu detesti chiunque respiri, Santiago.” Aggiunse Magnus, guardando il suo riflesso in uno specchietto portatile, nero e ricoperto di brillantini fucsia. Stava controllando che il suo eyeliner fosse ancora intatto. Ovviamente lo era, mica comprava i trucchi waterproof per niente.
“Detesto te in particolare.” Sibilò Raphael, lanciandogli un’occhiataccia a cui Magnus, invece, rispose con un bacio volante. Raphael lo guardò disgustato e Magnus rise. Era strano il loro rapporto, doveva ammetterlo, ma Raphael, sebbene restio al contatto fisico e alle dimostrazioni di affetto, era un bravo ragazzo. Tra di loro era nata questa amicizia odio-amore che era divertente. Erano così diversi che in qualche modo dovevano essere per forza complementari e l’elemento che rendeva tutto possibile era Catarina, che aveva unito la secolare amicizia con Raphael alla nuova amicizia con Magnus, rendendo i due amici per sillogismo. Magnus tutto sommato era felice di averli entrambi nella sua vita.
“Sapete chi ha lasciato presto la festa, invece?” disse di nuovo Catarina, evidentemente non ancora satura di pettegolezzi. Clary e Isabelle alzarono le orecchie come segugi pronti a carpire ogni cosa. “Raj.”
A quel nome, sia Magnus che Alec si irrigidirono. Magnus contrasse persino la mascella, infastidito, mentre Alec sbuffò impercettibilmente.
Impercettibilmente per tutti, tranne che per Isabelle, che aveva notato il cambiamento della coppia. Infatti, la mora assottigliò lo sguardo e lo fece passare da Alec a Magnus e da Magnus ad Alec.
“Cosa succede?” domandò.
I due interessati fecero finta di nulla, ma siccome Iz odiava essere ignorata si sporse sul tavolo e sventolò una mano di fronte ad entrambi.
Magnus e Alec si guardarono un istante, prima di decidere se parlare o meno.
“Andiamo, tutta queste segretezza mi fa morire di curiosità!”
“E se ti rispondessi che sono affari tuoi, Iz?”
“Saresti il fratello più acido del mondo.” Concluse e poi si rivolse a Magnus, “Allora?”
Magnus lanciò un’occhiata ad Alec, come se volesse chiedergli il permesso di parlare e questi, dato che conosceva benissimo l’insistenza petulante di sua sorella, fece un cenno d’assenso con il capo.
“Raj ci ha provato con lui.”
“Che cosa????” esclamò Iz, la voce talmente stridula che Alec sentì i propri timpani chiedere pietà.
“Potresti non urlare?”
Isabelle lo ignorò, come se non avesse nemmeno parlato: “Perché non me l’hai detto??”
“Perché sapevo che avresti reagito così!”
Isabelle si voltò verso Jace, gli occhi ridotti a due fessure: “Tu lo sapevi?”
Jace si sentì indifeso sotto quello sguardo intimidatorio e cominciò a scuotere la testa ancora prima di parlare: “No,” alzò le mani in segno di resa, “L’unica cosa che so è che Alec stava accusando un certo Imasu di voler avvicinarsi agli attributi di Magnus.”
“L’unico che si è avvicinato ai miei attributi è stato tuo fratello!” chiarì l’orientale, con un certo orgoglio.
Alec voleva morire. Si poteva morire di imbarazzo?
“MAGNUS!” esclamò, rosso in viso, voltandosi verso il suo ragazzo come se l’avesse appena pugnalato alle spalle.
“Scusa, tesoro.” Magnus gli posò una mano sul viso arrossato, “Era per chiarire.”
“Potevi semplicemente dire che non avevi fatto niente con quel…” fu Alec a contrarre la mascella, questa volta, “Quell’idiota.”
“Hai ragione. Non spiattellerò più i nostri dettagli intimi.” Baciò la guancia di Alec, che stava tornando di un colore normale. “Che comunque ci sono stati.” Disse poi rivolto al gruppo, come se volesse rimarcare la cosa, traendone un particolare vanto.  
Alec scosse la testa, le guance che tornarono paonazze.
“E si può sapere che ha fatto Raj?”
“La domanda, Iz, è perché Raj prova interesse per Alec.”
Magnus a quell’ultima domanda posta da Jace contorse la faccia in un’espressione risentita e incredula, “Come sarebbe a dire perché?” domandò, offeso, “L’hai guardato bene? Ci vorrebbe una mappa solo per riuscire ad uscire dai suoi occhi!”
Alec avvampò, rosso ovunque; Raphael alzò gli occhi al cielo, disgustato; Simon, invece, che adorava le dimostrazioni di affetto, si allargò in un sorriso ampio.
Jace sbuffò, “Intendevo dire: ha una ragazza, no? Perché dovrebbe provare interesse per Alec?”
Magnus lo guardò con compassione, come se non riuscisse a comprendere una cosa semplicissima: “Primo: potrebbe essere bisessuale. Secondo: questa fantomatica ragazza di cui tutti parlate potrebbe non esistere. Terzo: potrebbe essere gay.”
“Io l’ho vista la ragazza di Raj!” disse Simon.
“Potrebbe essere una copertura. O potrebbe essersi reso conto di non amarla più, ma non ha il coraggio di lasciarla per un ragazzo perché non è ancora pronto ad uscire allo scoperto.”
“Soprattutto perché il ragazzo per cui ha una cotta ha già un ragazzo.” Concluse Clary, facendo annuire Magnus.
“Quindi hai fatto strage di cuori e non mi hai detto niente!” disse Isabelle, tornando al punto di partenza. Alec sbuffò esasperato.
“Quanto sei esagerata, Iz. Raj si è avvicinato, io gli ho detto di no e lui si è allontanato. Non è una strage di cuori, questa.” Non era andata proprio così, ma Alec non aveva voglia di scendere nei dettagli. Soprattutto se quei dettagli avrebbero portato al momento intimo che aveva avuto con Magnus e di cui, lo sapeva benissimo, Izzy avrebbe voluto sapere ogni minimo particolare.
“Solo di uno.” Commentò Catarina, con un’alzata di spalle.
Rimasero in silenzio per un po’, tanto che sembrava avessero ripreso a studiare seriamente, ma poi Simon ruppe il silenzio, le sopracciglia aggrottate in un’espressione riflessiva.
“E Imasu, invece?”
Raphael in tutta risposta, cominciò a picchiare la fronte contro il tavolo, disperato. Magnus e Alec, invece, si lanciarono un’altra occhiata. Magnus sapeva cosa aveva fatto e detto Raj perché era insieme ad Alec, ma quest’ultimo non sapeva cosa avesse fatto o detto Imasu – a parte cercare di stare incollato a Magnus, mentre lui invece teneva le distanze.
“Imasu si è avvicinato e ha cominciato a parlare della festa, poi del charango. Tutto questo mentre invadeva sempre di più il mio preziosissimo spazio vitale. E io, di conseguenza, mi allontanavo.”
Alec lo aveva visto. Aveva notato come Magnus si irrigidisse ogni volta che Imasu tentava di azzerare la distanza tra di loro, come arretrasse. Si sporse verso Magnus, baciandogli una tempia. “La prossima volta mi vesto da Robin Hood, porto l’arco e lo uso come bersaglio.”
Magnus rise, accostandosi ad Alec e facendo in modo che quest’ultimo gli circondasse le spalle con un braccio. In quell’esatto momento, Alec si trovò a pensare che normalmente non avrebbe ceduto ad effusioni in pubblico. Prima di incontrare Magnus, il solo pensiero di farsi vedere da qualcuno con un possibile suo ragazzo lo terrorizzava a tal punto da pietrificargli il sangue nelle vene. Adesso, invece, era tutto diverso. E non era solo merito di Magnus e dei sentimenti che li legavano. Era merito anche delle persone che erano sedute al tavolo con lui. Persone che gli volevano bene – alcune da più tempo, altre da meno – e alle quali lui si era affezionato moltissimo. Persone alle quali non importava chi amavi, l’importante era com’eri. E, sebbene Alec avesse un sacco di difetti, si sentiva accettato per la persona che era da tutti i presenti a quel tavolo, compreso Raphael che apparentemente sembrava odiasse l’intero universo.
Era felice, Alec. Era grato: per Magnus, per i suoi fratelli e per i suoi amici.
“Puoi fare Legolas, volendo.” Esordì Simon.
“Ma Legolas era biondo.”  Gli fece notare Iz, al suo fianco, “Secondo me assomiglia più a Aragorn.”
“Sì, ma Aragorn non era un arciere!”
“Ma era un re!”
“Invece Legolas era un poveraccio qualsiasi, vero?” ribatté sarcastico Simon, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Isabelle.
“Andiamo, Izzy. Non fare quella faccia!” si sporse verso di lei, cercando di portarle un braccio intorno alla vita, immettendolo tra la schiena della ragazza e lo schienale della sedia. Isabelle, per tutta risposta, gli schiacciò l’avambraccio tra lei e lo schienale.
“Mi fai male!”
“Te lo meriti.” Affermò lapidaria, liberandogli poi l’avambraccio e mettendo il broncio.
“Sei permalosa,” le sussurrò avvicinando il viso alla sua guancia. Iz, con le braccia incrociate al petto, allontanò il viso da Simon, che sorrise. Isabelle stava per inveirgli contro, dicendogli che non c’era niente per cui sorridere dato che era arrabbiata, ma Simon cominciò a punzecchiarle i fianchi, facendole il solletico, prima che lei potesse proferire parola alcuna.
“Smettila,” supplicò, tra le risate, e Simon smise immediatamente. Quando si sporse per baciarle la guancia, questa volta Isabelle non si ritrasse e lo lasciò fare, arrossendo leggermente sotto al blush. Magnus notò in quel comportamento un’impressionante somiglianza con Alec. Il modo che aveva di sobbalzare quando le veniva fatto il solletico – lo stesso che aveva Alec – o il modo che aveva di arrossire – le sue guance si imporporavano solo sugli zigomi, mentre quando era Alec ad arrossire, il rossore partiva dallo stesso punto in cui partiva alla sorella, solo che si disperdeva per tutto il suo volto. I geni Lightwood erano una benedizione. Ed era sicuro che anche Simon la pensasse esattamente come lui.
“Da ora in poi potresti aprire ogni porta esattamente come fa Aragorn ne Le due Torri.”  Sussurrò Magnus ad Alec, in modo che solo lui potesse sentire. Simon e Izzy erano ancora intenti a riappacificarsi, mentre Clary e Jace stavano parlando con Catarina, davanti ad un impassibile Raphael che, sebbene sembrasse annoiato, in realtà stava ascoltando.
“Nessuno potrà mai eguagliare Viggo Mortensen.”
“No,” Magnus si allungò per baciargli l’angolo della mascella, “Saresti anche meglio. E io avrei un incentivo in più per saltarti addosso.”
Alec arrossì e, percorso da un brivido incontrollabile, deglutì a vuoto. Avrebbe cominciato a balbettare suoni senza senso e parole sconnesse, se il suo cervello non avesse recepito un dettaglio che sembrava stonare.
“Sei caldo.”
“Grazie, tesoro.” Rispose l’altro, lusingato.
“No. Intendo dire che bruci.”
“Di passione per te? Non è una novità.” Continuò Magnus con un sorriso malandrino. Alec roteò gli occhi e si voltò totalmente verso Magnus per riuscire ad avere una visuale completa del ragazzo. Notò gli occhi lucidi, così gli portò entrambe le mani sulle guance e avvicinò le proprie labbra alla sua fronte. Tutto il viso di Magnus emanava un calore diverso, febbrile.
“Oh-oh” disse Jace, ma ne Magnus ne Alec gli prestarono attenzione.
“Oh-oh, cosa?” domandò Clary, ma anche lei risultò lontana alle orecchie di entrambi. Alec era concentrato su Magnus, mentre Magnus beh… era concentrato sulle mani di Alec che erano finite sotto alla sua maglietta e lo stavano toccando un po’ ovunque.
“Tesoro,” lo chiamò afferrandogli delicatamente i polsi. Alec portò i suoi occhi preoccupati su Magnus, “Non mi sto lamentando,” riprese il maggiore, “Ma mi vuoi spiegare cosa stai facendo?”
“Alec è entrato in modalità mamma.” spiegò Jace, lanciando un’occhiata consapevole ad Isabelle, che stava già annuendo.
“Modalità mamma?” domandò Clary.
“Alec entra in modalità mamma quando pensa che qualcuno stia male. Comincia a misurare la temperatura corporea e un sacco di altre cose.” Spiegò il biondo.
“Ci sono passata io, c’è passato Jace e c’è passato Max. Nessuno sfugge alle sue grinfie, quando Alec-mamma entra in azione!” Disse Izzy.
“Preoccuparmi per voi e occuparmi di voi quando siete malati non fa di me una mamma.”
“No, azzeccare la temperatura corporea senza un termometro, fa di te una mamma.” fece notare Jace, facendo sorridere Isabelle. Sembrava stessero guardando un film già visto un milione di volte.
Alec arrossì, e quando tentò di negare, sua sorella incrociò le braccia al petto, sfidandolo. “A quanto ha la febbre, secondo te?”
“38.3.” disse Alec di getto, maledicendosi mentalmente subito dopo. Isabelle e Jace si diedero il cinque e poi la mora si voltò verso Catarina: “Hai un termometro, Cat?”
La ragazza annuì e sparì dalla sala per tornare qualche istante dopo con un termometro elettronico, che passò ad Alec. Magnus guardò quell’oggetto con fare molto, molto, scettico.
“Dove hai intenzione di metterlo?”
Alec lo guardò malissimo, cogliendo un velato doppio senso, “Sotto al braccio, Magnus.” Allargò il colletto della maglietta rossa e carica di brillantini che Magnus stava indossando e si intrufolò con il termometro al suo interno. “Alza il braccio.”
“Ma mi fa il solletico.” Si lamentò Magnus, proprio come un bambino. Alec, che aveva passato quasi tutta la sua vita ad avere a che fare con situazioni simili, abbandonò il cipiglio severo – e preoccupato – e gli rivolse un sorriso dolce. “Andiamo, se fai il bravo ti darò qualcosa in cambio.”
“Qualsiasi cosa?”
Dios, tu no eres un niño, misurati la febbre e sta’ zitto!”
Magnus si voltò verso Raphael, lasciando momentaneamente Alec in attesa, “Taci. C’è una trattazione in corso molto importante e non voglio che la tua boccaccia inopportuna la rovini.”
Raphael sibilò – e Alec poteva giurare di avergli visto tirare fuori i denti, come se avesse voluto usarli per mordere Magnus. “Eres tan estúpido che mi domando come faccia a stare con te!”
“Sei solo geloso.” Concluse Magnus, con un gesto incurante della mano, liquidando Raphael e le sue occhiatacce, prima di rivolgersi nuovamente ad Alec, appoggiando il mento al palmo di una mano e guardandolo con vivo interesse. Alec sospettava che quello sguardo celasse qualcosa che ancora non riusciva a comprendere a pieno, ma conosceva Magnus abbastanza bene da sapere come la sua mente ragionasse.
“Qualcosa. Non qualsiasi cosa.” Specificò, quindi, portando Magnus a fare il broncio, ma riacquistò immediatamente il suo brio.
“Cosa puoi offrirmi, dunque?”
Alec rabbrividì, come se fosse lui quello con la febbre alta e non Magnus. Il fatto era che quando l’orientale usava quel tono basso e controllato, che usciva dalla sua gola come il suono più sensuale che Alec avesse mai sentito, automaticamente il suo cervello andava il tilt riducendosi ad una pappetta liquida e incapace di formulare anche solo una frase sensata.
“P-prima misurati la febbre,” disse, cercando di ricomporsi, schiarendosi la gola. “Poi penserò a cosa darti in cambio.”
Magnus lo guardò con gli occhi felini affilati, come un predatore paziente che aspetta il momento giusto per attaccare la sua ignara preda. Alec non era sicuro di non trovare piacevole quello sguardo. Anzi, era piuttosto sicuro che gli piacesse essere guardato in quel modo, come se fosse commestibile. Più che altro perché in quel modo avrebbe potuto sentire la bocca di Magnus un po’ ovunque sul suo corpo e… stop. Doveva concentrarsi. Primo: doveva sapere se Magnus aveva effettivamente la febbre. Secondo: c’erano persone che li stavano guardando e non era opportuno farsi vedere in condizioni poco consone, tipo una presenza più che evidente all’altezza del suo inguine.
“Come desideri, tesoro.”
Alec incrociò gli occhi di Magnus e per un po’ rimase imbambolato a fissarli, leggendoci dentro un mucchio di cose che di certo non lo stavano aiutando a concentrarsi e a mantenere il controllo sui suoi ormoni.
“Alec?” la voce di Isabelle lo fece rinsavire, “Ti hanno lobotomizzato?”
Il maggiore dei Lightwood si voltò verso sua sorella per lanciarle un’occhiataccia, poi si concentrò di nuovo su Magnus, che collaborò questa volta e si fece misurare la febbre.
Passarono due minuti prima che il termometro emettesse un suono costante e metallico, segno che aveva finito di misurare la temperatura. Magnus si tolse il termometro dal braccio e lesse il verdetto.
“38.3” confermò.
“Mamma-Alec non sbaglia mai!” esultò Jace, facendo ridere Iz. L’ilarità però non raggiunse Alec, che cominciò a guardare Magnus con apprensione.
“Hai freddo?”
“No,” rispose l’interessato, cercando di rassicurare Alec. Non voleva che si preoccupasse troppo per lui. “Sto bene, Alexander.” lo rassicurò, ma la ruga di preoccupazione formatasi tra le sopracciglia di Alec non se ne andò.
“Mentre venivamo qui hai detto che avevi freddo.”
“Probabilmente perché mi stava venendo la febbre, ma ora sto bene.”
“Copriti.” Affermò l’altro, come se Magnus non avesse nemmeno parlato. Il maggiore vide il moro afferrare il suo giubbotto dallo schienale della sedia e metterglielo sulle spalle. “Devo portarti a casa.”
“Ma sto b-”
“Niente ma, Magnus.” Disse autoritario, “Devi stare al caldo, a casa tua, coperto da qualcosa di più di una maglietta piena di paillettes.”
“Strass.” Lo corresse Magnus, abbassando lo sguardo sulla sua favolosa maglietta.
“Strass.” Concesse Alec. “Rimane il fatto che è troppo leggera.”
“Come vuoi, papi.”  
Alec arrossì a quel vezzeggiativo, più che altro per il modo in cui Magnus l’aveva pronunciato, usando quel tono ammiccante che gli faceva tremare le gambe.
Si schiarì la gola, ancora, nel tentativo di ricomporsi.
“Allora, andiamo.” Alec cominciò a raccogliere le sue cose e metterle nel suo zaino, poi fece lo stesso con quelle di Magnus, le cui proteste furono vane. Alec non gli permise di fare alcun tipo di sforzo.
“Cat,” cominciò il moro, “Grazie di tutto.” poi si rivolse ai suoi fratelli, “Noi ci vediamo a casa.” Jace e Isabelle annuirono, così Alec salutò tutto il gruppo e si diresse verso la porta con Magnus, che aveva lanciato un bacio volante a tutti, prima di allontanarsi dal gruppo.
“Vieni qui.” Disse Alec, cominciando a chiudergli il giubbotto e a sistemargli la propria sciarpa intorno al collo.
“Posso fare da solo, Alexander.”
“Puoi, è vero. Ma voglio farlo io.”
Magnus non poté fare a meno di sorridere davanti a tanta gentilezza e premura. Lo guardò, carico d’amore, e gli accarezzò il viso. Alec si immobilizzò all’istante, notando lo sguardo languido di Magnus. I suoi occhi brillavano per la febbre, ma c’era anche dell’altro, un genuino affetto che fece agitare lo stomaco di Alec come fosse pieno di tante farfalle che cominciano a svolazzare entusiaste.
“Devi coprirti anche tu, fuori fa freddo.” Disse Magnus cominciando a togliersi il giubbotto di Alec che il ragazzo gli aveva dato.
“No.”
“Alexander, ho il mio. E non uscirò da questa casa sapendo che patirai freddo.”
Alec si arrese, sapendo che protestare ancora avrebbe solo portato ad un ritardo e non voleva che Magnus rimanesse fuori casa sua per troppo tempo, così afferrò il proprio giubbotto e lo indossò, aiutando poi Magnus a indossare il suo. Lo coprì per bene, abbottonandolo fino alla gola e aggiustandogli nuovamente la propria sciarpa intorno al collo; Magnus lo lasciò fare. Solo quando il moro fece comparire dalla tasca del suo giubbotto un cappello di lana e lo vide accennare a metterglielo in testa, Magnus si ritirò.
“Quello no. Mi appiattirà i capelli.”
“Questo sì. Servirà a tenerti al caldo.”
“Ma… i miei capelli!”
“Non mi interessa.” Ribatté Alec, usando di nuovo quel tono autoritario che Magnus stava cominciando ad apprezzare più del dovuto. Aveva sempre sospettato che Alec avesse delle doti da leader, all’occasione. Un lato del suo carattere che teneva celato la maggior parte del tempo, mostrandosi invece dolce e accondiscendente. Non che non gli piacesse, ma sapere che sotto quell’adorabile faccino si celava qualcuno  che sapeva imporsi, diventando estremamente autoritario e dominante faceva sì che la spina dorsale di Magnus avesse un brivido che non c’entrava nulla con la febbre.
“Allora agli ordini, dolcezza.”
Alec, con le guance arrossate, gli sistemò il cappello in testa e, insieme, uscirono da quella casa, ignari del fatto che, non appena si chiusero la porta alle spalle, Simon aveva fatto una domanda: “Secondo voi, si rendono conto di essere praticamente sposati?” che fece sorridere praticamente tutto il gruppo. Raphael compreso.

*

Isabelle, seduta a mensa insieme ai suoi amici, fissava il maggiore dei suoi fratelli, che aveva deciso bellamente di ignorarli. Era sicura che ciò che lo portava a controllare il telefono ogni due secondi fossero i messaggi di Magnus, rimasto a casa con l’influenza. Alec ormai aveva persino smesso di alzare lo sguardo su di loro fingendosi interessato alle loro conversazioni. L’unica cosa che faceva era fissare lo schermo del suo cellulare e picchiettare con i pollici scrivendo risposte, accompagnate da varie espressioni: il più delle volte erano sorrisi accompagnati da un leggero rossore alle guance, anche se delle volte tendeva ad aggrottare le sopracciglia, in un’espressione che lei aveva imparato ad associare alla preoccupazione. Probabilmente, se conosceva bene suo fratello – e lo conosceva bene – quelle espressioni erano la conseguenza dello stato fisico di Magnus che lo teneva informato sulla sua condizione di malaticcio.
“…Mettere un soggetto blu su sfondo marrone non è mai una buona idea. Oltre ad essere brutto esteticamente, impedisce la netta distinzione tra le due cose.” Stava spiegando concitata Clary ad un Jace che si stava concentrando al massimo per capire esattamente dove la rossa volesse andare a parare. Il fatto era che Jace non ci capiva granché d’arte. Le poche cose che sapeva gliele aveva insegnate Clary e lui ancora faceva confusione tra tutti i termini tecnici che lei usava con semplicità, ma che per il biondo equivalevano all’arabo.
“Voglio dire, se vuoi che nasca un obbrobrio inguardabile, allora va bene. Altrimenti si dovrebbe cambiare totalmente i toni!”
Jace stava annuendo e Isabelle poteva chiaramente vedere il panico insinuarsi nei suoi occhi, consapevole che da un momento all’altro Clary gli avrebbe chiesto la sua opinione e lui non avrebbe saputo cosa dire. Era quasi buffo vedere quell’espressione agitata sulla sua faccia. Così come trovava adorabile che suo fratello, che tendenzialmente non si era mai legato a nessuna, pur di rendere felice Clary si sottoponesse a cose simili.
Lanciò un’occhiata ancora a Jace e poi un’altra ad Alec.
I suoi fratelli, le persone che più amava al mondo, erano felici. Entrambi. D’istinto portò i suoi occhi su Simon, seduto al suo fianco, intendo a finire ciò che c’era nel suo piatto. Anche lei era felice. Non aveva mai immaginato di trovarsi con un ragazzo come Simon. Fino ad ora era uscita con ragazzi bellissimi, ma dai quali non voleva prendere altro se non divertimento e il brivido di qualcosa di proibito. Non si era mai legata a nessuno perché, fondamentalmente, non credeva in quel tipo di amore. Pensava che fosse una condizione passeggera, qualcosa destinato inevitabilmente a finire, lasciando come conseguenza solo sofferenza e cuori infranti. E Isabelle Lightwood non avrebbe permesso a nessuno di spezzarle il cuore. Da qui, la sua decisione di vivere le sue relazioni su un piano prettamente fisico ed estremamente superficiale. Nessuno può farti del male se non mostri la tua essenza. Ma poi era arrivato Simon, che con la sua instancabile parlantina, gli occhiali grossi e i suoi dolcissimi occhi castani, era riuscito a grattare la superficie dietro la quale Isabelle si era murata e si era fatto amare. Era stato paziente, non aveva preteso nulla che lei non fosse disposta a dargli, non aveva affrettato le cose dandogli necessariamente un nome e in men che non si dica, si erano ritrovati ad essere una coppia. Tutto con lui era diverso. I baci, le carezze, le chiacchiere. Isabelle sentiva lo stomaco danzare d’euforia al solo pensiero di vederlo e di raccontargli le cose che le erano successe perché Simon riusciva a rendere tutto speciale. Lui era speciale.
“Ho qualcosa sulla faccia?” le domandò il ragazzo, essendosi accorto che lo stava fissando. Lei sorrise.
“Ce l’ho, vero??” Simon cominciò a toccarsi il viso, pulendosi a casaccio dell’inesistente sporcizia.
“Smettila, non hai nulla sul viso.” La mora gli afferrò i polsi e cominciò ad accarezzargli i dorsi delle mani.
“Allora che c’è?”
“Niente.”
“Iz,” disse eloquente, “So che c’è qualcosa. Sputa il rospo.”
Isabelle non disse niente, si limitò ad appoggiargli la testa su una spalla. Simon le baciò la fronte.
“Non vuoi dirmelo?”
“Non ancora.”
“Devo preoccuparmi?” domandò, teso. Isabelle poté chiaramente sentire il suo corpo irrigidirsi vicino al proprio e un po’ si dispiacque di creargli una preoccupazione, ma voleva trovare tutto il coraggio necessario prima di confessargli una cosa che aveva capito, ma che aveva paura di dire ad alta voce.
“No. Assolutamente.”
“Va bene,” Simon le diede un altro bacio sulla fronte, delicato come solo lui sapeva essere e intrecciò una mano con la sua. Era calda e confortevole. Izzy abbassò lo sguardo sulle loro mani intrecciate sentendo un senso di appartenenza scaldarle il cuore: era sempre stata convinta di appartenere solo ed esclusivamente a se stessa, eccezion fatta per i suoi fratelli ai quali si mostrava completamente esattamente per quello che era. Non aveva mai pensato di sentirsi di un uomo, piuttosto aveva sempre ritenuto di bastarsi, di essere sufficiente, di riuscire a stare in piedi da sola. Ma da quando aveva conosciuto Simon, doveva ammettere che l’idea di appartenergli, un pochino, di essere la sua ragazza, non le dispiaceva per niente. Complice anche il fatto, probabilmente, che Simon era un tipo che adorava l’indipendenza e la forza di Izzy e incoraggiava questi lati del suo carattere.
“Secondo te si staccherà mai da quel telefono?” gli domandò, dopo qualche minuto di silenzio. Simon alzò la spalla su cui Izzy non era appoggiata e guardò Alec, ancora intento a mandare messaggi.
“Alec, voglio portare Iz a sperdere.” Cominciò Simon, facendo ridacchiare la ragazza, che con un sorriso sulle labbra prima guardò verso l’alto, incrociando gli occhi divertiti del suo ragazzo, e poi guardò verso suo fratello, che non li degnò di uno sguardo.
“Ah-ah.”
Isabelle trattenne una risata, “Alec, voglio diventare un’alcolizzata.”
“Sembra una buona idea,” disse il moro, rispondendo ad un messaggio.
“Gliel’ho detto anche io, dopo che le ho proposto di andare a vivere insieme.” Continuò Simon, gli angoli della bocca contratti, sforzandosi di non ridere.
“In una roulotte.” Aggiunse Isabelle, “Diventeremo nomadi e ci uniremo ad una tribù.”
“Fantastico.” Alec continuava a scrivere, ignaro di tutto.
Simon e Isabelle dovettero fare uno sforzo titanico per non scoppiare a ridere.
“Sono incinta!”
“Bene.” Alec scrisse ancora un po’, prima di bloccarsi e alzare di scatto gli occhi su sua sorella. I pollici fermi a mezz’aria, mentre le mani stringevano ancora il cellulare. “Cosa??” strillò, scioccato, facendo sobbalzare Clary e Jace, che si erano persi tutto il resto della conversazione. Alec non badò a loro, piuttosto portò i suoi occhi, ridotti a due fessure, su Simon e Isabelle, “Siete impazziti, per caso? Non penso abbiate dieci anni da non sapere che esistono precauzioni per impedire cose del genere!!”
“Alec…” cominciò Isabelle, che davvero stava faticando immensamente per non scoppiare a ridergli in faccia.
“Non cominciare, Isabelle. Siete stati irresponsabili!” poi  fissò i suoi occhi solo su Simon, “E tu,” ringhiò, “giuro che se la lasci da sola in questa delicata situazione ti spezzo le braccia!”
Simon, nonostante tutto, si trovò a deglutire perché Alec sapeva essere tremendamente spaventoso, se ci si metteva d’impegno: “Stavamo scherzando,” confessò, incassando la testa tra le spalle. Isabelle a quel punto esplose a ridere, mentre sul viso di Alec si formava un’espressione incredula.
“Ci siamo accorti che non staccavi gli occhi dal telefono, ignorando tutti, così abbiamo cominciato a dire cose assurde. L’unica cosa che hai sentito è stata l’ultima.” Spiegò Simon, perché Isabelle non riusciva nemmeno a respirare dalle risate.
“Voi…tu… lei…” Balbettò Alec, passando gli occhi da uno all’altra, poi si ricompose. “Tu non sei incinta?”
“No, Alec,” rispose Iz, asciugandosi una lacrima sfuggita all’angolo dell’occhio per le troppe risate.
“Siete due imbecilli!” li sgridò Alec, incrociando le braccia al petto, risentito.
Jace e Clary, fino a quel momento rimasti in silenzio non capendo cosa fosse successo, si guardarono un attimo, entrambi disorientati e ignari di cosa fosse successo tra i tre.
“Ci siamo persi qualcosa?” domandò Jace, un biondo sopracciglio alzato.
“No,” rispose Alec, “Tua sorella e il suo ragazzo sono degli idioti. Tutto qui.” Concluse, tornando a prestare attenzione al suo cellulare.
Simon e Isabelle esplosero nuovamente a ridere, ormai incapaci di trattenersi oltre.

*

Alec camminava verso la casa di Magnus con il viso affondato in una sciarpa e un cappello di lana calato sulla testa, le mani all’interno delle tasche del suo giubbotto. L’inverno a New York era ormai arrivato e con esso anche le sue temperature fredde. Alec si domandava quando avrebbe cominciato a nevicare, pensando che una volta guarito, lui e Magnus avrebbero potuto andare a giocare con la neve. Alec sorrise di se stesso, prendendosi in giro da solo: lui e Magnus mica erano due bambini!
Nonostante questo, però, non riuscì a trattenersi dall’immaginare Magnus con il naso arrossato che si impegnava a costruire un pupazzo di neve. Poi però, un dubbio lo colpì: magari Magnus odiava i pupazzi di neve e la neve. Si appuntò mentalmente di chiederglielo, mentre saliva i gradini del portico e si accingeva a suonare il campanello.
Non aveva mai conosciuto qualcuno a cui non piacesse la neve, Magnus poteva essere il primo.
Alec stava rimuginando su questo pensiero quando sentì la voce ovattata di Magnus dall’altra parte della porta, che gridava qualcosa a Ragnor.
“Aspetti qualcuno?”
Alec aggrottò la fronte, confuso. Era vero che ad invitarlo a casa, quel pomeriggio, era stato Ragnor, ma era convinto che Magnus lo sapesse.
“No. È Alec.”
“Cosa??” La voce di Magnus suonò stridula e colma di panico. Alec riuscì a sentire chiaramente dei passi frettolosi e un tonfo sordo, seguito da un lamento doloroso e una risata trattenuta.
“L’ho invitato qui,” spiegò Ragnor, con calma, mentre continuava a trattenere una risata.
“Tu cosa hai fatto????” Magnus suonava decisamente isterico. Alec cominciava a chiedersi se quell’improvvisata non fosse stata un’idea terribile. Magari Magnus non aveva voglia di vederlo e lui stava imponendo la sua presenza a qualcuno che non aveva minimamente il desiderio di stare con lui. Alla fine, erano passati solo due giorni dall’ultima volta che si erano visti e Magnus continuava ad avere la febbre, poteva non essere dell’umore per una visita.
“Ho invitato Alec qui.”
“E perché l’hai fatto???” Magnus sembrava stesse per avere un attacco di panico.
Ragnor, intanto continuava a trattenere – malissimo – una risata. Alec, nonostante tutto, rimase in ascolto, ancora dietro alla porta.
“Perché sono stanco di sentirti blaterare su come ti manca il tuo ragazzo. Non lo vedi da due giorni e non hai fatto altro che parlare di lui.”
“La sua lontananza mi crea sofferenza e tu ti prendi gioco di me?”
Alec, nonostante tutto, si trovò a sorridere come un ebete. Magnus sentiva la sua mancanza. Stava gongolando giusto un po’.
“Non è lontano. È dietro quella porta e probabilmente starà congelando! Aprigli!”
“Sei impazzito, Ragnor? La demenza senile è arrivata prima del previsto?”
“Non parlarmi in questo modo!”
“Sei tu che hai iniziato a dire stupidaggini!”
Alec sentì Ragnor sospirare pazientemente e se lo immaginò mentre si massaggiava le tempie, raccogliendo tutta la sua calma.
“Magnus, non vedo perché devi reagire così. Lui ti manca, io l’ho invitato.”
“Hai notato in che condizioni sono? Ho l’influenza, non mi sono lavato i capelli e sono struccato!” esclamò disperato Magnus, come se avesse appena finito di elencare le prime caratteristiche dell’apocalisse. “Non voglio aprirgli perché non voglio che mi veda in queste condizioni!” continuò, la voce che si alzava di un’ottava.
Alec sentì tutta la sua preoccupazione sciogliersi insieme ai suoi muscoli tesi: aveva seriamente temuto che la sua presenza non fosse gradita, invece Magnus si stava facendo solo delle paranoie, che Alec comprendeva – perché lui era il re delle paranoie – ma erano inutili, perché non gli importava cosa Magnus indossasse, lui lo trovava sempre bellissimo.
“Va’ ad aprire a quel ragazzo, o giuro che lo faccio io!”
“Stiamo insieme da troppo poco per farmi vedere così!”
Alec arrossì sentendo Magnus usare le parole stiamo insieme e si trovò a sorridere di nuovo.
“Sono sicuro che ad Alec non interessa che tu sia truccato o meno, Magnus.”
“Ma-”
“Niente ma, Magnus. Aprigli o lo troverai congelato!”
Alec sentì Magnus borbottare qualcosa di incomprensibile, mentre Ragnor gli rispondeva di smettere di fare l’idiota e poi la porta si aprì.
Alec non era preparato a quella visione: era abituato al fatto che Magnus lo lasciasse senza fiato per la sua radiosa bellezza, per la cura che impiegava in ogni minimo dettaglio, ma mai si sarebbe aspettato di trovarlo ancora più bello senza la solita aura glitterata che caratterizzava la sua persona. Magnus, privo di trucco e con la cresta abbassata di lato, lo stava guardando con il naso arrossato e gli occhi lucidi, avvolto in un pigiamone di pile, troppo grosso per uno abituato a comprare vestiti così aderenti da lasciare pochissimo spazio all’immaginazione. Alec non riuscì a trattenere un sorriso, mentre guardava Magnus, trovandolo adorabile oltre ogni limite.
“Ciao, Magnus.”
Magnus accennò un sorriso, “Ciao, tesoro.” Si spostò di lato per farlo entrare. Alec fece un passo in avanti e, dopo aver chiuso la porta per non far prendere freddo a Magnus, gli baciò la fronte.
“Come stai?”
Magnus lo guardava di sfuggita, abbassando lo sguardo sui suoi piedi. Alec gli andò più vicino, afferrandogli il mento tra l’indice e il pollice, portando Magnus ad alzare gli occhi. Lo baciò a fior di labbra.
“Ti prenderai la febbre.”
“Non mi interessa.”
Magnus sorrise, “Sto bene.” Rispose alla domanda postagli in partenza da Alec.
“Pensavo che Ragnor ti avesse avvertito del mio arrivo,” disse Alec, dopo essersi tolto il giubbotto, averlo sistemato all’attaccapanni e raggiungendo Magnus sul divano.
Magnus incassò la testa tra le spalle, un leggero rosa colorò le sue guance. “Hai sentito tutto?”
Alec gli sistemò la coperta in modo che Magnus venisse avvolto come una specie di bozzolo. “Sì.”
“Non intendevo dire che non ti voglio qui,” chiarì, impiegando qualche istante prima di alzare gli occhi su Alec.
“Lo so.” Alec gli circondò le spalle con un braccio, tirandolo a sé. Magnus appoggiò la testa al suo petto.
“Avrei potuto almeno truccarmi,”
Alec rise, il suono che vibrò nel suo petto e raggiunse Magnus. “Andiamo, Mags. Sei bellissimo anche struccato.”
“Lo pensi sul serio?”
“Sì!” gli baciò la testa e lo strinse ancora di più. “Senti abbastanza caldo?”
Magnus annuì, accoccolandosi su Alec come se fosse la coperta più calda e confortevole del mondo. In effetti lo era. La sola vicinanza di Alec gli dava l’impressione di stare meglio. I brividi di freddo si calmavano e persino la testa gli doleva meno.
“Ti ho portato qualcosa,” disse Alec, indicando con gli occhi uno zaino ai suoi piedi che Magnus non aveva notato prima di quel momento. Era stato troppo intento a capire se le sue parole fossero state fraintese e avessero ferito Alec.
“Un camice da dottore che indosserai con niente sotto per la gioia dei miei occhi?”
Alec, malgrado le guance rosse, si trovò a ridere, costatando che Magnus, con la febbre o senza, rimaneva sempre il solito, “No.”
Magnus cominciò a far vagare una mano sull’addome di Alec, sollevando il bordo del maglione per entrare in contatto con la sua pelle. Il minore, non appena avvertì il tocco caldo di Magnus, trattenne il respiro.
“Peccato.” Concluse Magnus, facendo uscire la mano dopo aver accarezzato Alec un’ultima volta.
Il ragazzo dovette schiarirsi la gola, prima di parlare. Richiamare a pieno la funzionalità delle sue facoltà mentali, gli richiese più tempo del previsto. “Catarina mi ha consegnato i compiti per te, così non rimani indietro.”
Magnus fece una smorfia, ma annuì. “Grazie.”
“Raphael mi ha detto di dirti, testuali parole: tu ausencia beneficia mi alma. Anche se non ho idea di cosa voglia dire.”
Magnus alzò gli occhi al cielo, “Tu rispondigli che in realtà so che mi adora.”
Alec annuì, come se avesse mentalmente appuntato la risposta, “Che ti ha detto?”
“Che la mia assenza fa bene alla sua anima. Come se credessi davvero che non gli piaccio.”
“Tu piaci a tutti, Magnus.” Lo disse come se fosse un dato di fatto, una specie di legge universale inconfutabile e Magnus si trovò a sorridere e ad allungarsi verso il suo ragazzo per lasciargli un bacio sulla guancia più lungo del previsto.
“C’è dell’altro,” esalò Alec tutto d’un fiato; Magnus lo sentì chiaramente irrigidirsi sotto al suo corpo e, istintivamente, si tirò su per riuscire a guardarlo in viso. Alec aveva le guance rosse e guardava ovunque, nella stanza, meno che nella sua direzione. Aveva cominciato a torturarsi le mani e a nasconderle dentro alle maniche del maglione, tirando quest’ultime fino a farle scomparire al loro interno.
“Devo preoccuparmi?”
“N-no,” Alec ancora non lo guardava, “i-io…”
“Alexander.” Magnus gli afferrò le mani, impedendogli di torturarle ulteriormente. Alec tenne lo sguardo fisso su di esse per qualche istante, prima di alzare i suoi grandi occhi sull’altro. Prese un profondo respiro e poi parlò.
“Ti ho preso un regalo.” Fu un sussurro delicato, come il pigolio timido di un uccellino, qualcosa che Magnus udì solo perché erano vicini.
“Un regalo?”
Alec abbassò di nuovo gli occhi, “S-sì, mentre venivo qui… c’era questa bancarella e l’ho vista colorata e ho pensato a te, perché di solito tu sei sempre colorato, mi sono avvicinato e c’erano tutti quest-”
“Alexander, calmati.” Lo interruppe Magnus, sapendo che quando cominciava a parlare a macchinetta senza respirare era un chiaro sintomo che stava entrando in panico. Alec lo guardò di nuovo, incerto e titubante. Sembrava un cerbiatto con quei bellissimi occhi grandi, circondati da nere ciglia così lunghe e folte che la maggior parte delle ragazze avrebbe ucciso per averle simili alle sue solo la metà. Erano due gemme preziose, gli occhi di Alec, e le sue ciglia lo sapevano perché facevano di tutto per proteggerli e circondarli al meglio, come la corona degna del più maestoso re.
“Posso vederlo?”
Alec annuì e si chinò oltre il bordo del divano per mettere la mano dentro allo zaino: prima ne estrasse i compiti di cui aveva parlato e li appoggiò sul tavolino davanti a loro; successivamente, estrasse un piccolo sacchettino verde con un nastrino argentato che lo teneva chiuso e lo porse a Magnus, insicuro.
Quando l’orientale lo afferrò, Alec trattenne il respiro. Il minore lo osservò sciogliere con le lunghe dita – si accorse in quel momento che Magnus non portava la solita quantità di anelli – il nastrino e depositarlo accanto a sé. Sentì il cuore accelerare per l’ansia quando Magnus inserì una mano all’interno del piccolo sacchetto e ne estrasse il contenuto.
E se non gli piaceva?
Ma poi Magnus sorrise e Alec cominciò nuovamente a respirare. “È un omamori. Questo, in particolare, dovrebbe portarti protezione e fortuna.” Spiegò Alec perché sentiva la necessità di riempire il silenzio che era calato. Magnus non proferì parola per un po’, limitandosi a fissare l’oggetto con un sorriso e accarezzandolo con il pollice.
Alec prese a torturarsi il labbro inferiore con i denti.
“È bellissimo, tesoro. Grazie.”
Un regalo. Alexander gli aveva fatto un regalo. Nessuno con cui era mai stato l’aveva mai fatto, fuori dalle feste comandate. C’erano stati regali di Natale, di compleanno, ma mai qualcosa che venisse fatto con il cuore, solo perché passando davanti ad una bancarella avevano pensato a lui. Era stato un gesto genuino, spontaneo, pieno di affetto e dell’accortezza che solo Alec sapeva avere. Non aveva seguito una regola, non aveva aspettato Natale, l’aveva semplicemente preso perché gli piaceva l’idea di comprargli qualcosa. Magnus si sentiva così felice ed euforico, che temeva potesse esplodergli il cuore. Guardò Alec, che a sua volta lo stava guardando e, senza pensare al fatto che avrebbe potuto attaccargli la febbre, lo baciò, circondandogli il collo con le braccia, l’omamori stretto in una delle mani. Alec gli circondò la schiena per stringerlo a sé, incurante della febbre, dei germi e di tutto ciò che non fossero loro due e i loro baci.
“Sono felice ti piaccia.” Disse Alec, più rilassato, con la fronte appoggiata a quella di Magnus.
“Sono felice che tu sia qui.”
Alec sorrise.
“Vuoi guardare un film?” propose Magnus. Alec annuì.

Magnus e Alec, intrecciati sul divano entrambi protetti dal plaid celeste e peloso di Magnus, stavano facendo zapping, indecisi su cosa guardare. All’ennesimo canale scartato, Alec pensava che davvero non avrebbero guardato nulla, ma poi Magnus si fermò quando sullo schermo comparvero due donne dall’aria familiare.
“Non ci credo. Sono anni che non guardo un episodio!”
Ad Alec bastò un’ulteriore occhiata per avere conferma delle sue ipotesi: “Rizzoli e Isles. Io e Izzy eravamo fissati qualche anno fa. È grazie a Maura che ha deciso di diventare una patologa forense, da grande.”
“Davvero?”
Alec annuì: “Nessuno batte Izzy nelle materie scientifiche. È un genio.”
“E tu cosa vuoi fare?” domandò Magnus, accoccolandosi ad Alec.
“Lo scrittore. Mi piacerebbe scrivere storie, entrare nella testa delle persone e mostrare loro un mondo nuovo, qualcosa che li aiuti a vivere un’avventura pur stando comodamente seduti a casa, uscendo per un attimo dalla loro routine.”
Magnus sorrise sentendo l’entusiasmo nella voce di Alec, “Sembra fantastico, tesoro.”
“E tu?” Alec gli accarezzò i capelli.
“Il fotografo, no?”
Alec rise, “Certo, era una domanda retorica.”
“Potresti posare per me, un giorno.”
“In una foto da mettere sul retro del mio futuro libro?” scherzò Alec, una mano a cercare quella di Magnus, che si portò alle labbra per baciarne lo nocche una ad una.
“Anche. Io intendevo in un futuro più imminente, però.”
“Vuoi che ti faccia da modello?”
“Sì. È tanto che ci penso. Per il corso di fotografia ci hanno chiesto di scegliere un soggetto su cui basare un album nostro. Vorrei fossi tu il mio soggetto.”
Alec tossicchiò, a disagio. Magnus sapeva quanto non gli piacesse stare al centro dell’attenzione e che probabilmente si sarebbe sentito ridicolo, ma tentare non nuoceva a nessuno. Chiedere è lecito, rispondere è cortesia, diceva un detto. E Magnus voleva provare. Sapeva che non chiedendoglielo nemmeno si sarebbe pentito, quindi preferiva sentirsi dire di no, piuttosto che dare per scontato che Alexander avrebbe rifiutato.
“Cosa hai in mente?”
“Non lo so ancora.”
Alec sospirò, pensieroso. Magnus ci teneva, altrimenti non gliel’avrebbe chiesto. E, dopotutto, erano solamente delle foto, giusto? E le avrebbe fatte Magnus, quindi non avrebbe provato alcun tipo di imbarazzo. Si fidava di Magnus, sapeva che l’avrebbe messo a suo agio.
“Va bene.” Disse e Magnus lo guardò, gli occhi colmi di euforia.
“Davvero?”
Alec rise del suo entusiasmo, che lo faceva assomigliare ad un bambino la mattina di Natale.
“Davvero!”
“Oh, Alexander!” Magnus saltò sui talloni e lo abbracciò stretto, stretto, prima di sistemarsi di nuovo al suo fianco. “Grazie, tesoro.”
“Non ringraziarmi. Con ogni probabilità potrei essere il peggior modello con cui tu abbia mai avuto a che fare!”
“Ne dubito fortemente.” Gli baciò una guancia.  
Rimasero a guardare la televisione, l’episodio che proseguiva seguendo una trama per la risoluzione dell’omicidio. Quando Jane e Maura si trovarono nel familiare obitorio, Magnus riempì il silenzio con una domanda.
“Secondo te,” cominciò e Alec abbassò lo sguardo su di lui, “Non sono un po’ troppo affiatate per essere semplici amiche?”
Alec parve pensarci su, “Penso di sì.”
“Sarebbero una bella coppia, comunque.”
“Sono complementari. Chissà chi mi ricordano.”
Magnus fece in modo di guardare Alec in viso, su cui troneggiava un sorriso storto.
“Dovremmo essere io e te?”
“Vuoi negare che sei praticamente una Maura al maschile?”
Magnus rise, “No. Non posso farlo. Anche io faccio shopping compulsivo quando sono stressato e amo coordinare ogni tipo di accessorio.”
“Appunto.”
“E tu sei scontroso con chiunque non sia qualcuno della tua famiglia. Proprio come Jane.”
“Grazie, Magnus. È sempre bello sentirti parlare bene di me.”
Magnus con un sorriso sulle labbra gli pizzicò un fianco, “Sta’ zitto.”
Alec gli lanciò un’occhiata divertita e poi tornò a guardare lo schermo. “Comunque ciò che hai detto dovrebbe farti capire l’importanza che hai per me.” Magnus vide chiaramente le guance di Alec diventare rosse, a quelle parole, gli occhi ancora fissi sulla tv. Magnus lo abbracciò forte e si sporse verso di lui per baciargli l’angolo della mascella.
“Ne sono onorato, caramellina.”
Alec scosse la testa per il nomignolo, evitando di opporsi. Era una cosa che aveva rinunciato a fare, così stava imparando semplicemente ad accettare il fatto che Magnus l’avrebbe chiamato come voleva.
Magnus lo strinse forte, un braccio passato sopra all’addome di Alec, mentre quest’ultimo teneva abbracciate le sue spalle.
“Com’è stato per te?” gli chiese, prendendo ispirazione dal precedente discorso, e all’inizio Magnus non capì. “Capire di non essere etero.” Chiarì allora Alec.
“Non lo so,” cominciò Magnus. “Non… non ho avuto il tempo di dirlo ai miei genitori, ma lo sapevo già quando loro…” deglutì, “…se ne sono andati.”
Alec rimase in silenzio, stringendo solo la presa su Magnus, abbracciandolo più stretto.
“La prima persona a cui l’ho detto è stato Ragnor. Volevo sapere se fosse davvero possibile provare attrazione sia per i maschi che per le femmine.”
“E lui che ti ha detto?”
“Che la bellezza ha varie forme e ognuna di esse può attrarci.”
“È la verità, se ci pensi.”
Magnus annuì. “All’inizio pensavo fosse insolito. I miei compagni di scuola parlavano di ragazze in continuazione e capivo i loro commenti, alcuni li condividevo, anche. Ma capivo anche quando le mie compagne parlavano di ragazzi e mi trovavo a condividere anche quelle opinioni. Non tutte. Alcune hanno dei gusti orribili, in fatto di ragazzi.”
Alec accennò una flebile risata.
“Così ho iniziato a realizzare che probabilmente mi piacevano entrambi e l’ho chiesto a Ragnor.”
“Non ti spaventa dirlo ad alta voce?”
“All’inizio sì. Ho incontrato così tante persone con pregiudizi, persone che credevano che dal momento che ero bisessuale dovessi necessariamente avere una relazione con un uomo e contemporaneamente con una donna. Una cosa assurda.” Magnus fece una pausa. “Nessuno di loro si è mai soffermato a vedere cosa ci fosse in me, mi vedevano solo come pensavano che fossi. Non hanno mai preso in considerazione l’idea che sono il tipo da un’anima alla volta. Mi innamoro prima di quella e successivamente di tutto il resto.” Magnus alzò le testa per guardare Alec a lungo, cercando di fargli arrivare in modo indiretto quelle parole. Gli stava dicendo, in maniera velata, che si era innamorato di lui, della sua anima, del suo modo di essere, del suo cuore generoso. E forse, senza che si dicessero nulla a parole, Alec lo intuì perché le sue guance divennero rosse e i suoi occhi non riuscivano a lasciare quelli di Magnus, come se ci leggessero dentro qualcosa di conosciuto, ricambiato persino, ma ancora celato.
“Ma con il tempo,” continuò Magnus, senza lasciare gli occhi di Alec, “Ho capito che sono solo problemi loro. Non devo nascondermi. I’m beautiful in my way, ‘cause God makes no mistakes. I'm on the right track, baby, I was born this way, don't hide yourself in regret, just love yourself.” Concluse Magnus canticchiando e Alec riconobbe la canzone immediatamente. Magnus gliel’aveva fatta sentire così tante volte che adesso poteva citare il testo a memoria.
“Sei la persona migliore che esista, Magnus. E se non lo capiscono, ci perdono loro. Più Magnus per me.”
Magnus rise, affondando il viso nell’incavo del collo di Alec. Lo baciò all’altezza della giugulare. “Mi piace come suona.”
Alec gli baciò la fronte, lasciando le sue labbra appoggiate più a lungo del previsto. Stava riflettendo, Magnus lo sapeva.
“E per te?” gli chiese, con cautela.
“Per me è stato strano.” Alec abbracciò la stanza con gli occhi, rimanendo in silenzio, mentre i pensieri della sua infanzia si affollavano nella mente. Magnus riusciva chiaramente a sentire il suo respiro caldo pizzicargli la pelle. Sciolse l’abbraccio in cui erano incastrati e si appollaiò sul divano, guardando Alec, che nel mentre sembrava stesse combattendo una guerra interiore da cui sapeva sarebbe uscito per forza perdente. C’era sconforto, nei suoi meravigliosi occhi verdi, resi cupi e scuri dalla preoccupazione, da qualcosa che lo divorava dentro.
“Non devi dirmelo, se non vuoi.”
“No, è che… solo Izzy sa quello che sto per dirti e ho paura che tu…” Alec non lo guardava. Si passò le mani tremanti sul viso e tra di esse lo lasciò, celandosi agli occhi di Magnus. “Che tu possa vedermi come una specie di… pervertito o qualcosa simile.”
Magnus gli liberò il viso, proprio come aveva fatto la prima volta che si erano incontrati. Le sue mani, adesso rese ancora più calde dalla febbre, afferrarono con delicatezza i polsi di Alec e condussero le mani di quest’ultimo sul proprio grembo. Alec lo lasciò fare.
“C’entra Jace?” gli chiese con calma, accarezzandogli i dorsi delle mani con moti circolari. Gli occhi di Alec schizzarono per incontrare quelli di Magnus, sicuro che ci avrebbe letto disgusto. Era insopportabile per lui pensare che il ragazzo del quale si era innamorato potesse guardarlo in modo diverso, potesse vederlo sotto una luce diversa – quella di qualcuno così disturbato mentalmente da aver creduto di provare dei sentimenti per suo fratello.
Ma Magnus lo stava guardando nello stesso modo, una scintilla comprensiva ad illuminare i suoi occhi lucidi di influenza.
Alec si trovò ad annuire ancora prima di pensare se fosse o meno una buona idea. “So che è una cosa malata…” Alec abbassò gli occhi sulle loro mani intrecciate, sul chiaro e lo scuro che si mischiavano creando quell’equilibrio perfetto che adorava, “E mi sentivo davvero come se qualcosa in me non andasse, come se fossi difettoso in qualche modo: non solo non mi piacevano le ragazze, come agli altri ragazzi, ma avevo una cotta per mio fratello. Adottivo, ma pur sempre fratello.” fece una pausa, gli occhi che ancora non si staccavano dalle loro mani, incapace di alzare lo sguardo per incrociare quello di Magnus. “Ma poi… poi una volta Izzy mi ha detto una cosa: un giorno capirai che ciò che credi di provare è dettato dal fatto che lui sia l’unico ragazzo con cui ti sei mai relazionato. E aveva ragione. Isabelle ha sempre ragione…” accennò un sorriso al pensiero della sorella, “Lei ha sempre capito le cose ancora prima che le capissi io stesso.”
“E come l’hai capito?”
Non percependo nessun accusa, nel suo tono, Alec alzò gli occhi su Magnus. “È una cosa stupida, in realtà. Un cliché degno di un film. Una volta… Mamma ha invitato un socio di papà a casa, io avrò avuto giusto quindici anni, e quest’uomo si è presentato con il figlio. Era così carino.” Fece un’altra pausa, “Quando ho cominciato ad immaginare di…” Alec arrossì come un pomodoro, “…di baciarlo, ho capito che Isabelle aveva ragione. Non avevo mai immaginato niente del genere su Jace e quando ci provai la cosa mi sembrò parecchio strana.”
Magnus accennò un sorriso, “E com’è finita?”
“Quel ragazzo, ovviamente, non aveva occhi che per Izzy. Te l’ho detto: un cliché.” Alec parve assentarsi un attimo, la sua mente vagò altrove, prima di tornare in quella stanza, insieme a Magnus. “Poi ho incontrato te,” sussurrò, stringendo la presa sulle sue dita, “E… beh, non c’è nessuno che regga il confronto.”
Magnus si sporse verso di lui per stringerlo in un abbraccio ferreo. “Non ho pensato che fosse una cosa malata, per la cronaca. Ho immediatamente avuto la stessa impressione di Isabelle, ma volevo lasciarti finire.”
Alec appoggiò la fronte a quella di Magnus, i pollici a sfiorare i suoi zigomi. “Davvero?”
“Davvero. Tu e Jace avete un rapporto molto particolare, è normale ti abbia confuso.”
Alec sospirò, rilassato. Gli sembrava di aver retto il mondo sulle sue spalle per un’eternità e adesso che si era liberato di quel peso e sapeva che Magnus non lo riteneva strambo, si sentiva leggero come una piuma.
“Quel ragazzo…” cominciò e Alec accennò un sorriso, le fossette a fare capolino, “Lo vedi ancora?”
Alec liberò una risata, tirando indietro la testa. “Non essere sciocco, Magnus. Ti ho appena detto che nessuno reggerà mai il confronto con te!”
“Lo so. Ma è bene precisare che sei impegnato.”
“Non l’hai sentita la parte dove ti dicevo che aveva occhi solo per Iz?”
“Dettagli.”  
 Alec scosse la testa e gli baciò la fronte. Entrambi avevano vissuto esperienze diverse che li avevano formati per quello che erano, come se fossero stati preparati tutta la vita per incontrarsi, per far si che al singolo puzzle mancasse un pezzo affinché se ne formasse uno doppio. Alec lo sapeva. Sapeva che il vuoto che sentiva dentro, prima dell’arrivo di Magnus, era destinato ad essere riempito solo ed esclusivamente da lui.
Era la sua anima gemella e niente gli avrebbe fatto cambiare idea.

Qualche ora più tardi, Alec e Magnus avevano lasciato il divano per sistemarsi in sala da pranzo, occupando il tavolo in legno per giocare a carte. Alec aveva scherzato sul fatto che Magnus, avvolto dentro al suo plaid azzurro, mentre tirava sul tavolo un carico di briscola, sembrava uno di quei vecchietti seduti al bar. Magnus l’aveva zittito con un’occhiata gelida.
Alec stava mescolando le carte per la prossima partita, quando Magnus cominciò a tossire senza alcun controllo. In una volata, Alec attraversò il tavolo per essergli a fianco e Magnus sentì chiaramente la mano di Alec che, con movimenti circolari, gli massaggiava la schiena.
“Hai preso lo sciroppo?” domandò Alec, non appena la crisi passò. Magnus negò con un cenno del capo.
“Dove lo tieni? Lo vado a prendere.”
“Non è necessario, Alexander.”
“Sì che lo è.”
“Non serve, davvero.”
Alec si piantonò davanti a Magnus, guardandolo con uno sguardo così risoluto che non ammetteva nessuna replica. “Dov’è lo sciroppo, Magnus?”
Magnus, arrendendosi all’idea che sarebbe stato più facile domare un ciclone che far cambiare idea ad Alec, indicò un armadietto in un angolo della sala. Il maggiore osservò il moro incamminarsi verso la direzione indicata e chinarsi verso il mobiletto, regalandogli una splendida visuale sul suo fondo schiena. Improvvisamente si sentiva già meglio.
“Puoi rimanere in quella posizione tutto il giorno, volendo. Sei più efficacie di qualsiasi medicina.”
Alec si rimise bruscamente in posizione eretta, con il viso in fiamme, mentre tra le mani stringeva la boccetta di sciroppo. Era così bello quando arrossiva – pensò Magnus.
Senza dire nulla, Alec si incamminò di nuovo verso Magnus. Non appena fu a portata di braccio, Magnus allungò un braccio, infilando l’indice in un passante dei pantaloni di Alec e lo tirò a sé. Quest’ultimo emise un respiro sorpreso e, appoggiata la boccetta sul tavolo vicino a lui, fece scorrere le proprie mani tra i capelli di Magnus.
“È questo che mi spetta per averti permesso di misurarmi la febbre, due giorni fa?” Magnus, ancora seduto, appoggiò il mento sull’addome di Alec, i suoi occhi felini a cercare quelli dell’altro.
“Non capisco di cosa parli.”
Magnus si allargò in un sorriso famelico, “Avere a disposizione l’infermiere più sexy che esista è una lauta ricompensa.” Magnus fece vagare le sue mani fino a che entrambe non agguantarono il sedere di Alec, che sussultò preso alla sprovvista.
“Magnus…” lo rimbeccò il moro, “Lo sciroppo.”
“Sei veramente puntiglioso.” Si lamentò l’orientale, spostando, a malincuore, le mani per portarle al proprio petto.
“La tosse non passerà da sola.”
Magnus, avvolgendosi nella sua coperta come un bozzolo, fece roteare gli occhi. “Va bene,” disse arrendevole, “Hai vinto.”
“Bravo.” Alec prese nuovamente la boccetta e versò la quantità di sciroppo necessaria dentro ad un tappo di plastica, che porse a Magnus. “Ingoialo tutto.”
Magnus lo guardò malizioso, prima di afferrare il tappo che Alec gli stava porgendo e sorridere scaltro, “Se sei tu a fare una richiesta simile, tesoro, non posso che assecondarti.”
Alec, che fino a quel momento non si era reso conto della pessima scelta delle sue parole, si trovò ad arrossire violentemente sotto lo sguardo divertito di Magnus, che non riuscì a trattenere una risata.

*
 
Magnus impiegò una settimana intera a guarire completamente dall’influenza. Una settimana che Alec aveva passato completamente a casa sua, impegnando i loro pomeriggi in attività estremamente costruttive come giocare a monopoli, a cluedo, a nomi cose e città e tanti altri giochi degni di due ragazzi che si avvicinavano all’età adulta.
Dopo una settimana passata tra fazzoletti, sciroppi per la tosse, antibiotici e pigiami di pile, Magnus aveva sentito la necessità di uscire e Alec aveva acconsentito a quella richiesta. Così, adesso, si trovavano a camminare per le strade di New York, uno a fianco all’altro, con una cuffia a testa nell’orecchio. Avevano avuto questa idea quando, durante uno dei loro pomeriggi costruttivi della settimana passata, avevano guardato Begin Again, un film nel quale i protagonisti, durante una serata, ascoltano le playlist presenti sull’iPod dell’altro, alternandosi. Quel pomeriggio era toccato a Magnus, quindi stavano ascoltando il suo iPod, dove la voce inconfondibile di Sia riecheggiava poderosa e definita.
Magnus guardò Alec con complicità e questi ricambiò l’occhiata, insieme chiusero un pugno davanti alle proprie labbra, mimando un microfono e cominciarono, incuranti dei passati che potevano sentirli e guardarli come se fossero due pazzi, a cantare a squarciagola.
I don’t care if I sing off key, I found myself in my melodies; I sing for love, I sing for me, I shout it out like a bird set free!
Una vecchietta con una borsa della spesa, passando affianco alla coppia, lanciò loro un’occhiata stranita e affrettò il passo per allontanarsi il più velocemente possibile da loro.
I due ragazzi scoppiarono a ridere, mentre la canzone proseguiva.
“L’hai spaventata!” cominciò Magnus.
“L’ho spaventata io?  I tuoi acuti stonati terrorizzerebbero chiunque!”
Magnus gli diede una spallata mentre insieme proseguivano per la strada affollata di gente. La seconda metà di novembre aveva portato con sé la frenesia natalizia e le persone brulicavano come formiche tra le strade della Mela. Alec e Magnus, ancora con la musica nelle orecchie, fecero vagare i loro occhi su ciò che li circondava: negozi, insegne luminose ovunque, colori brillanti che andavano in contrasto con il cielo grigio che minacciava nevicate da un momento all’altro. Questo dettaglio fece ricordare ad Alec un appunto, che però si era dimenticato di esprimere.
“Magnus,” chiamò e l’orientale si voltò per guardarlo, “Ti piace la neve?”
“Sì, perché?”
Alec fece spallucce, “Così. Si avvicina il periodo nevicate.”
“Adoro quel periodo. È una scusa perfetta per tirare fuori i miei stivali da neve!”
“Hai degli stivali da neve?”
“Certo, sciocchino. Mica posso rischiare di scivolare e rovinare una qualsiasi parte del mio splendido corpo!”
“Sarebbe un peccato mortale,” concordò Alec, sporgendosi verso di lui per catturare le sue labbra con più voracità del previsto. Il fatto era, però, che in quella settimana che Magnus era stato malato i loro baci erano stati scarsi e quelli che si erano scambiati erano stati a stampo per non rischiare di contagiare Alec. Adesso che il suo ragazzo era guarito, quindi, il moro si sentiva in dovere di rimediare.
Ma proprio mentre stava per baciarlo di nuovo, Magnus si allontanò leggermente, togliendo le cuffie dall’orecchio di entrambi.
“Hai sentito?”
“Sì, chiaro e forte: era la mia frustrazione. Io ti bacio e tu ti allontani.”
Magnus alzò un sopracciglio, un cipiglio divertito sul viso: “Sei sessualmente frustrato, scimmiotto? Vuoi che rimedi, in qualche modo?”
Alec avvampò, paonazzo in volto: “I-io non… non ho detto questo!” si risentì, ma non suonò convincente nemmeno un po’. Magnus gli baciò il naso.
“Ho sentito un rumore, proveniente da quel vicolo.”
Alec guardò nella direzione indicata dal suo ragazzo e lo guardò come se fosse uscito di testa.
“Quel vicolo oscuro?”
“Non è oscuro.”
“Ah, no? E come definisci qualcosa che rimane buio nonostante le ore del giorno?”
Magnus roteò gli occhi e si incamminò verso la direzione da lui indicata con Alec alle calcagna che bofonchiava: “Le fiere medievali ti fanno ribrezzo, i vicoli dove rischiamo di prendere il tetano invece no.”
“Ti ho sentito!” disse Magnus, entrando in quel vicoletto.
“Era il mio scopo, altrimenti l’avrei semplicemente pensato!”
Magnus sbuffò sonoramente, ma lo ignorò, addentrandosi sempre di più. Alec al suo fianco. Quel posto puzzava di rifiuti lasciati a marcire e urina. Magnus arricciò il naso.
“Sono sicuro di aver sentito qualcosa.” Sussurrò.
“Perché sussurri?”
“Perché questo posto mi manda vibrazioni negative.”
“Te l’avevo detto!” Alec alzò le braccia al cielo, guadagnandosi un’occhiata laterale da parte di Magnus.
“Non dire te l’avevo detto.”
“E invece sì, te lo meriti. Sei voluto entrare in un vicolo sporco e puzzolente solo perc-” Alec si interruppe, un suono flebile attirò la sua attenzione. Era quasi impercettibile e probabilmente lo udì perché era stato condizionato da ciò che diceva Magnus, convinto di aver sentito qualcosa.
“Ho sentito un rumore!”
“Te l’avevo detto!” gongolò Magnus e Alec lo guardò malissimo, intendendo con quell’occhiata un non dire te l’avevo detto che non uscì mai dalla sua bocca.
Alec si incamminò verso il suono che aveva sentito, con Magnus che camminava al suo fianco, fino a quando, in prossimità di un cassonetto, il suono divenne più forte e finalmente distinto: un miagolio.
Magnus si piegò sulle ginocchia e, dietro al cassonetto, i suoi occhi incrociarono quelli gialli di un cucciolo di gatto. Il suo pelo grigio era sporco e arruffato, ma sembrava sano.
“Vieni qui, piccolino.” Magnus sporse una mano per fare in modo che il gattino scegliesse di avvicinarsi senza sentirsi minacciato dalla presenza di quei due umani così grossi. Qualche istante dopo, il cucciolo uscì completamente dal cassonetto e si diresse verso Magnus, che lo prese in braccio senza pensarci due volte.
“Dobbiamo portarlo da un veterinario.” Suggerì Alec, mentre fissava i suoi occhi in quelli gialli del piccolo felino, che si stava già strofinando sul petto di Magnus, probabilmente in cerca di calore.
“Sì, dobbiamo assicurarci che stia bene.” Magnus accarezzò la piccola testa del cucciolo, che cominciò a fare le fusa.
“E poi?” domandò Alec, conoscendo già in parte la risposta. Lo sguardo che Magnus stava riservando a quel gattino era più eloquente di mille parole.
“Poi lo terrò con me. Non posso lasciarlo solo. Con ogni probabilità è randagio.”
Alec annuì, trovando in quelle parole la conferma dei suoi pensieri. “Devi trovargli un nome, allora.”
Magnus sollevò il micio facendo in modo che il musetto fosse all’altezza del suo viso. Rimasero occhi negli occhi per un po’, studiandosi a vicenda. “Miao.” Decretò dunque Magnus.
“Non chiamerai il tuo gatto Miao, Magnus.”
L’orientale parve pensarci su: “Hai ragione. È inaccettabile che il mio gatto abbia un nome così scontato. Lo chiamerò Presidente Miao!”
Alec scosse la testa divertito, ma lasciandosi contagiare dall’entusiasmo di Magnus per quella nuova adozione. Avevano salvato un gattino, il quale avrebbe vissuto in una casa calda, con un padrone che si sarebbe preso amorevolmente cura di lui. Alec lo invidiò per un attimo, pensando che Presidente Miao avrebbe passato tutte le ore della sua giornata in compagnia di Magnus. Si avvinò ai due, grattando il micio dietro alle orecchie, il quale in risposta cominciò a fare le fusa.
“Sei un gattino fortunato tu, sai?”
Magnus gli sorrise e con Presidente stretto al petto, uscirono fianco a fianco da quel vicoletto poco raccomandabile per cercare il veterinario più vicino. 


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Ciao a tutti! Dopo due settimane ecco un nuovo capitolo... Onestamente avevo pensato di farlo finire in un altro modo, inserendo un personaggio detestato quasi da tutti: Camille. Sì, è prevista anche lei, ma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare la sua presenza non sarà così nociva e dannosa! Quindi, dal momento che, come sempre, mi dilungo sempre troppo e non riesco mai a far coincidere le mie idee iniziali con quelle finali, con ogni probabilità nel prossimo capitolo incontreremo la famigerata Camille! Non odiatemi, pls!
Venendo all'attuale capitolo... non succede un granché a livello di sviluppo della trama, ma sentivo la necessità di ritargliare uno spazio dove Magnus e Alec si aprissero, confidandosi su un piano personale, andando ad approfondire quel legame speciale che già li lega. 
Menzione speciale al Presidente Miao, perché mi piaceva l'idea di inserirlo, sapendo quanto è importante per Magnus!

Detto questo, spero che complessivamente il capitolo vi sia piaciuto - fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va! Ringrazio immensamente chiunque abbia messo la storia tra i seguiti/preferiti, chi trova sempre il tempo per recensire e chiunque decida di leggerla semplicemente, lo apprezzo tantissimo e non smetterò mai di dirlo! 
Un abbraccio e alla prossima! 
(Non so se riuscirò ad aggiornare nelle prossime due settimane perché tra l'università, il natale e il fatto che a fine mese parto, riuscire a trovare il tempo per scrivere potrebbe risultare difficile. Nel caso, vi auguro un buon natale e un felice anno nuovo! <3) 

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Capitolo 12
*** 12. ***


L’idea di posare per Magnus era sembrata una buona idea ad Alec. Almeno fino a quando non si era effettivamente trovato a doverlo fare. Nonostante il fotografo sostenesse il contrario, Alec sapeva di essere un pessimo modello. Guardare in camera e stare in posa lo faceva sentire estremamente ridicolo e ogni volta, le foto venivano fuori un disastro. Non che Magnus gliel’avesse detto, ma gli occhi di Alec funzionavano alla perfezione, quindi poteva benissimo costatarlo da solo. Sbuffò, mentre rimuginava sulla sua totale incapacità di risultare naturale e sfacciato e un sacco di cose che si presumesse dovessero fare i modelli. Era questo il punto cruciale di tutto, si trovò a realizzare Alec: lui non era un modello. Non aveva i lineamenti adatti, la sua mascella con ogni probabilità non era abbastanza squadrata e i suoi occhi non erano abbastanza penetranti. La sua pelle non era abbastanza liscia, poiché ricoperta di peli e cicatrici. Quella sulla schiena era solo quella che più risaltava agli occhi, dal momento che era oblunga e marcata, ma se si osservava bene il corpo di Alec, soprattutto se il suddetto era illuminato da accecanti luci di un set fotografico improvvisato, si notavano tutte quante: quella sull’avambraccio, quando durante uno dei suoi primi tentativi con l’arco, la freccia gli era scappata e la punta si era conficcata nella sua carne; quella sulla spalla, quando un incontro di pugilato l’aveva fatto finire all’angolo: non solo si era rotto l’osso, ma si era tagliato la carne così in profondità che l’avevano dovuto ricucire con i punti. E poi, c’erano quelle sulle mani. Magnus non le aveva mai notate, o se l’aveva fatto sembrava non ci desse tanto peso, ma Alec sapeva che erano lì, insieme ai calli da pugile. Tirare con l’arco aveva richiesto fatica e sudore e quella disciplina si era presa piccoli pezzi della pelle sulle sue mani, che adesso tra le nocche mostravano sottili cicatrici perlacee.
Alec era imperfetto. Totalmente incompatibile con l’idea di bellezza messa in mostra dai modelli. Per quale motivo Magnus avrebbe dovuto continuare a volerlo come suo soggetto?
Sospirò, colto da un improvviso senso di inadeguatezza e si spalmò sul suo banco, in attesa di sentire la campanella che segnasse l’inizio della lezione di biologia, la fronte appoggiata alla superficie di legno.
“Alec?” domandò una vocina, una punta di preoccupazione che trasudava da essa. Il moro alzò istintivamente la testa, incontrando un paio di occhi azzurri che lo guardavano titubanti.
“Lydia, ciao.”
Lei lo osservò, studiando i suoi lineamenti e strinse impercettibilmente gli occhi quando notò che intorno a quelli di Alec c’era un leggero alone scuro. Occhiaie.
“Va tutto bene?”
No. Quei pensieri che gli rimuginavano nel cervello l’avevano tenuto sveglio tutta la notte.
“Sì, ho solo… dormito poco, stanotte.”
La ragazza si sedette al suo fianco, come succedeva sempre a biologia, e gli riservò un’occhiata dubbiosa, ma decise che quella risposta poteva bastarle. Si legò i lunghi capelli biondi in una coda alta, prima di appoggiare il viso su una mano, voltandosi di tre quarti verso Alec.
“Preoccupato per qualcosa?”
(Sì. Di non essere abbastanza.)
“Non particolarmente,” scrollò le spalle, “Immagino sia solo un po’ di stress pre-verifiche.”
Lydia annuì, concorde. “Già, prima delle vacanze di natale ci riempiono sempre di una quantità disumana di compiti in classe.”
Alec le rivolse un sorriso comprensivo, come se condividesse ciò che stava dicendo. E in parte lo faceva, se non fosse che quella mattina in particolare i suoi problemi vertessero su un altro binario.
“Potremmo…” cominciò Lydia, titubante, abbassando gli occhi, “Studiare insieme, qualche volta.” La bionda alzò gli occhi su di lui, torturandosi il labbro inferiore in attesa di risposta.
Alec parve rifletterci su: era già capitato che studiassero insieme, soprattutto per i progetti di biologia e doveva ammettere che Lydia era un’ottima compagna di studi. Era ligia al dovere, non si distraeva spesso e credeva nel gioco di squadra, di conseguenza lasciava agli altri lo stesso raggio di azione che riservava a se stessa.
“Sì,” Alec alzò un angolo della bocca, abbozzando un sorriso che Lydia ricambiò, “Potremmo.”
“Perfetto!” gli rispose, cominciando a tirare fuori i libri dallo zaino. Alec fece lo stesso nell’esatto momento in cui la campanella suonò.

La lezione di biologia durò più del previsto. La spiegazione del professor Collins richiese più tempo del dovuto e Alec si trovò a raccogliere le sue cose in fretta e in furia.
“Ti sta aspettando qualcuno?” gli chiese Lydia, con un sorriso, notando la sua foga.
Alec si fermò all’istante, come se fosse stato colto in flagrante a fare qualcosa di proibito e sorrise imbarazzato. “Ehm, sì. I miei fratelli mi aspettano fuori da scuola.” Alec pensò soprattutto al fatto che ci fosse anche Magnus ad aspettarlo, ma non gli sembrava necessario che la ragazza lo sapesse.
Lydia annuì, sistemando i libri e i quaderni nello zaino. “Non passate inosservati.” Disse poi, dando l’impressione ad Alec che quell’affermazione sembrasse più un casuale pensiero pronunciato ad alta voce –  così mentre si stava già caricando il proprio zaino sulla schiena, la guardò con fare indagatore.
“Che vuoi dire?”
Le guance di Lydia si colorarono di rosa, un tocco delicato che la fece assomigliare ad una bambola antica. “Niente solo che…” fece una pausa e smise di guardare Alec in viso, “…è difficile non lasciarsi attrarre dai Lightwood.”
“Jace?” domandò Alec, come se stesse ascoltando una storia che gli era stata raccontata milioni di volte.
Ma Lydia non rispose, limitandosi a chiudere la cerniera del suo zaino. “Ci vediamo, Alec. Fammi sapere quando vuoi studiare, d’accordo?” gli accennò un timido sorriso e uscì dall’aula, lasciando Alec ai suoi pensieri. Evidentemente, Lydia non doveva aver preso benissimo il fatto che Jace fosse impegnato, se nemmeno riusciva a parlarne.
Sospirò e caricandosi lo zaino in spalla, uscì dall’aula, diretto fuori dalla scuola.

“Alec, ci hai messo un’eternità!” si lagnò Jace, passandosi una mano tra i biondi capelli, tirandoli indietro, la rasatura ai lati risultava di una tonalità di biondo più scuro.
Alec, che aveva corso per raggiungere l’uscita più in fretta possibile, si scusò con gli occhi prima ancora di parlare. “Non l’ho fatta apposta. Collins ha perso la cognizione del tempo.”
“Non pensavo fosse diventato sordo. Non l’ha sentita la campanella?”
“L’ha sentita. Ma ha anche minacciato di darci compiti extra se ci fossimo alzati dai nostri posti prima che lui finisse.”
“Wow, diventa sempre più acido.”
Alec annuì concordando con lui. “Poi mi ha fermato Lydia.”
“Lydia?” si intromise Isabelle. “È strano…”
“Non così tanto, in realtà. Voleva chiedermi di studiare insieme, qualche volta.”
“Oh. Allora no, non è strano.”
“Chi è Lydia?” domandò Magnus, stringendosi nel cappotto beige che indossava. Alec portò i suoi occhi su di lui, notando come Magnus avesse coordinato il colore del suo cappotto con quello dell’ombretto, realizzando che solo lui poteva stare bene con un colore simile sulle palpebre.
“È una mia compagna di classe. Seguiamo molti corsi, insieme, ma principalmente ci troviamo compagni a biologia.”
“Laboratori. Alec è una specie di secchione.” Spiegò Jace, alzando le sopracciglia con fare eloquente.
“Non sono un secchione.” Bofonchiò il maggiore dei Lightwood, “Mi piacciono i laboratori e Lydia è l’unica che li prende seriamente.”
“Perché non sei in classe con me,” si intromise Isabelle, “Altrimenti avremmo unito i nostri cervelli!”
Il gruppo guardò Isabelle con fare inquietato. Jace e Alec alzarono un sopracciglio, perplessi.
“Iz, quando parli così assomigli a Frankenstein.” Parlò Clary per tutto il gruppo.   
Dottor Frankenstein. C’è la convinzione comune che solo il mostro si chiami così, ignorando che il nome derivi principalmente dal dottore che gli ha donato la vita.” Spiegò piccata la mora, facendo alzare gli occhi alla rossa.
“Lo so, Iz. Me l’avrai detto più o meno un centinaio di volte.”
“E continui a sbagliarlo?”
“Certo, è divertente vederti assumere quest’aria da intellettuale dei cadaveri.”
“Questo discorso sta prendendo una piega decisamente macabra. E a me non piacciono le cose macabre!” esordì Magnus, muovendo la mano come se volesse scacciare quel discorso, nemmeno fosse una mosca fastidiosa.
“A me piace sentirla parlare di cose macabre!” esclamò Simon, guardando Isabelle con fare adorante.
“A te piace sentirla parlare di ogni cosa, Samuel!”
“Devo contraddirti, Magnus. Quando mi trascina a fare shopping e passa ore a parlare di scarpe preferirei amputarmi gli arti.”
Isabelle gli lanciò un’occhiata omicida, mentre Alec si lasciò andare ad un grugnito di piena e totale comprensione.
“Che hai tu da grugnire?” lo accusò Magnus, assottigliando gli occhi.
“Tu sei uguale.” Confessò Alec, accantonando l’idea di usare una scusa per giustificare la sua reazione. “Parli ore di vestiti che non ti servono perché nei hai a vagonate, ma che compri comunque perché credi di averne bisogno.”
“Io ne ho bisogno, Alexander.” ribatté pungente Magnus.
“Perché una volta non andate voi due in giro per negozi e risparmiate me e Alec?” propose speranzoso Simon.
“No!” risposero in coro Magnus e Izzy, lanciandosi uno sguardo carico di intesa. “Vi meritate una punizione per la vostra insensibilità nei confronti dei nostri bisogni!” aggiunse Magnus, guadagnandosi un cinque di approvazione da parte di Isabelle.
Simon e Alec alzarono simultaneamente gli occhi al cielo, brutalmente sconfitti.
“D’accordo,” dissero, avviliti.
“Sai,” disse Jace, abbassandosi all’orecchio di Clary in modo che solo lei sentisse, mentre i loro amici continuavano a discutere, “Sono estremamente felice che la tua idea di shopping riguardi le fumetterie e non i centri commerciali.”
Clary gli rivolse un sorriso dolce e carico di comprensione. “Lo so.” Si alzò sulle punte per baciargli una guancia, ma quando fece per indietreggiare, Jace le afferrò il viso tra le mani per baciarla sulla bocca, invitandola ad aprire le labbra per accogliere la sua lingua. Clary sorrise sulla bocca del suo ragazzo, prima di ricambiare il bacio e sentire le familiari farfalle nello stomaco che cominciavano a svolazzare euforiche.  

*

Presidente Miao cominciò a strusciarsi tra le gambe di Alec non appena il ragazzo mise piede in casa di Magnus. Le sue fusa riempivano una stanza altrimenti silenziosa. Il ragazzo si chinò per prendere il micio in braccio e grattarlo dietro alle orecchie. Il gatto apprezzò particolarmente quelle attenzioni e lo manifestò strusciandosi sul petto di Alec, che sorrise intenerito da quella reazione.
“Quel gatto è più astuto di quanto dia a vedere.”
Alec alzò gli occhi da Presidente al proprietario di quella voce: Magnus se ne stava in piedi, al centro del salotto, le braccia incrociate al petto, e lo guardava con un sorriso eloquente sul viso. Non appena Alec ricambiò con un sorriso timido, l’orientale si avvicinò e afferrò il gattino per appoggiarlo delicatamente sul suo apposito cuscino sistemato sul divano. Una volta sistemato Presidente, che si acciambellò dopo aver protestato con un miagolio per via della lontananza di Alec, Magnus si avvicinò al moro, appoggiandogli le mani a palmo aperto sul petto, esattamente nel punto in cui il gatto si stava accoccolando poco prima.
“Il mio gatto ha dei gusti ottimi, sai?”
Alec arrossì.
“Non tutti gli piacciono. A Ragnor, ad esempio, soffia di continuo. Con te, invece…” Magnus strinse leggermente i palmi per avere una presa più salda sui pettorali di Alec, “…è tutto uno strusciarsi e fare le fusa e richiedere le tue attenzioni.”
“Io tendo a viziarlo.”
“O forse mi assomiglia più di quanto avrei immaginato.” Concluse Magnus, afferrando la stoffa della maglietta consunta di Alec e tirando il ragazzo a sé per baciarlo con foga. Aveva desiderato farlo da quando aveva messo piede in casa sua, ma Presidente – quell’ingordo felino – se l’era tenuto tutto per sé.
Alec rispose al bacio e le sue mani vagarono sui fianchi di Magnus, sotto la maglietta, cercando la pelle nuda, calda e liscia. Magnus fece aderire il suo corpo a quello di Alec, quasi incollandocisi, ed emise un gemito simile alle fusa che fece ridere Alec sulle sue labbra.
“E quello cos’era?” Alec lo baciò ancora, stringendo la presa sui suoi fianchi, mentre Magnus reagiva avvicinandosi sempre di più.
“Un riflesso involontario?”
“Forse sei tu che assomigli a Presidente e non il contrario.”
Magnus rise, le sue mani che si spostavano dal petto alla schiena di Alec, arpionandosi ai suoi dorsali. “Sta’ zitto.”
“E tu smettila di fare le fusa.”
Magnus si allontanò nel momento esatto in cui Alec stava per baciarlo di nuovo, le sue labbra erano rosse e invitanti e dovette fare uno sforzo titanico per non divorargliele.
“Dovrei smettere anche di strusciarmi su di te, allora?”
“Non ho detto questo.” Alec lo tirò a sé, una mano dietro alla nuca per impedirgli di allontanarsi nuovamente, e lo baciò di nuovo. L’avrebbe fatto di continuo e, a volte, gli capitava di pensare che se avesse avuto le branchie avrebbe potuto baciarlo all’infinito senza richiedere la dovuta dose di ossigeno necessaria a non soffocare.
“Ehm-ehm.” Una voce attirò l’attenzione di entrambi, portandoli a separarsi. Ragnor era sceso dal piano di sopra, vestito con un completo marrone scuro abbinato ad una cravatta verde bottiglia che si guadagnò immediatamente il disprezzo di Magnus, che la guardava con orrore. “Io… esco. Voi fate i bravi. E con fate i bravi intendo studiate. Perché è per questo che vi vedete, giusto?” Ragnor strinse le labbra per non sorridere. Nemmeno lui credeva a quello che stava uscendo dalla sua bocca, ma era pur sempre un adulto e, come tale, doveva dire cose responsabili. 
“Giusto,” si affrettò a dire Alec, arrossendo.
“Quella cravatta è orrenda.” Fu l’unica risposta di Magnus, i cui occhi erano stati catturati dall’indumento in questione.
Ragnor, istintivamente, abbassò lo sguardo sul suo petto. “A me piace.”
“Abbinata a quel completo è un NO grande quanto la Cina.”
Ragnor sbuffò e si lisciò l’indumento, come se volesse avvalorare la sua opinione.
“Dot la odierà.” Rincarò la dose Magnus, fermamente determinato a impedire all’uomo di uscire con quell’abbinamento improponibile.
Ragnor alzò gli occhi al cielo e cominciò a sciogliere il nodo della cravatta, sfilandosela dalla testa e lanciandola a Magnus, che la afferrò con due dita, come se stesse toccando qualcosa di tossico, e la gettò sul divano. “Contento?”
“Molto.” Annuì il ragazzo, soddisfatto.
“Bene,” concluse Ragnor. “Io vado. Tornerò tra qualche ora, voi…” l’uomo passò lo sguardo sui due ragazzi, sulle loro magliette stropicciate e le labbra arrossate, “…voi…al diavolo, tanto non mi ascoltereste comunque!” sbottò alzando le braccia in aria e avvicinandosi all’attaccapanni per prendere il suo cappotto. “Solo… proteggetevi, intesi?” Senza aspettare una risposta, uscì di casa.
Magnus si voltò per guardare Alec, che aveva assunto tutte le tonalità di rosso esistenti – era sicuro che avesse anche smesso di respirare.
“Pulcino?” lo chiamò, sfiorandogli un braccio. Alec sussultò. “Stai bene?”
Alec annuì, ma Magnus percepì il suo nervosismo perché non lo guardava.
“Alexander.” si posizionò appositamente di fronte a lui, le sue mani chiuse a coppa sul suo viso, spronandolo a guardare solo ed esclusivamente lui. “Lo deve dire, ok? Fa parte della responsabilità di un genitore, ma non vuol dire che dobbiamo farlo per forza.”
Alec abbassò di nuovo lo sguardo, le guance così rosse che Magnus riusciva a percepire il calore emanato dal sangue affluito ad esse, come se fosse finito tutto lì, sul viso di Alec. Quasi cinque litri di sangue, tutto sulle sue guance. Magnus cominciò a sfiorargli gli zigomi con i pollici. “Rilassati.”
“La fai facile, tu.” Borbottò l’altro a mezza voce, i suoi occhi incollati al pavimento.
“Guardami, per favore.”
Alec acconsentì alla richiesta, combattendo contro il suo istinto di tornare a guardare in basso. Si sentiva così in imbarazzo, così fuori luogo – un alieno, quasi – che guardare Magnus gli risultava quasi doloroso.
“Non dobbiamo farlo per forza. Intesi?” Magnus gli baciò la punta del naso.
“Non… non l’ho mai fatto. E lo sai.” cominciò Alec, con un filo di voce. “Mi ha sfiorato parecchie volte l’idea di farlo con te, ma…”
“Ma non ti senti ancora pronto. È normale, tesoro mio.”
Alec fece vagare lo sguardo per tutta la stanza, pensieroso, prima di tornare a guardare Magnus. “E se non fossi capace?” confessò, la voce resa tremula dall’insicurezza e dai dubbi. Aveva pensato che le cose sarebbero state facili. Dopo ciò che era successo tra di loro alla festa pensava che le sue insicurezze fossero, almeno in parte, scomparse; che tutto sarebbe stato più semplice. E invece, era bastata un’allusione di Ragnor per farlo ricadere nel mare delle sue paure e dei suoi timori, complici con ogni probabilità anche tutti quei pensieri sul non essere abbastanza che gli ronzavano in testa dalla notte precedente. Magnus poteva avere qualcuno con più esperienza di lui, qualcuno che sapesse come muoversi e che non rimasse immobile come una statua di sale solo perché nell’aria aleggiava l’allusione di un possibile rapporto sessuale completo. Si sentiva uno stupido.
Magnus gli sorrise amorevolmente, le sue mani che continuavano ad accarezzare il viso di Alec. “È una cosa piuttosto istintiva, Alexander. Tutti ne siamo capaci.” Magnus gli baciò una guancia ancora arrossata. “Rispondi a questa domanda: ciò che è successo ad Halloween era la prima volta che lo facevi, giusto?”
Alec annuì.
“E ti sembrava di non esserne capace?”
Alec annuì di nuovo, improvvisamente incapace di proferire parola alcuna. Cosa poteva dire? Che non era stato niente in confronto a lui? Che la sua incapacità era stata palese anche per lui, dopo che Magnus si era occupato di lui, mostrando come si facesse? Magnus sapeva come toccarlo, come muoversi – percorreva una strada che aveva già visto chissà quante volte e sembrava fosse nato per muoversi in quel campo. Alec, invece, sembrava un cieco che percorreva una strada destinata a terminare in un dirupo.
“Sai, per quanto possa valere la mia opinione… penso che per certe cose tu abbia un talento naturale, tesoro. Ti manca l’esperienza, ma mi offro volentieri come tributo.”
Alec, nonostante tutto, si trovò a sbuffare una risata dal naso, liberando un po’ della tensione. Magnus sapeva sempre cosa dire per farlo stare meglio, per tranquillizzarlo. E lo amava anche per questo. Sperava solo che un giorno le sue insicurezze e il suo senso di inadeguatezza si sarebbero placate, evitando di farlo andare in panico.
“Senza fretta, Alexander.”
Alec appoggiò la fronte a quella del maggiore e chiuse gli occhi, respirando il suo profumo. “Grazie.” Disse soltanto e Magnus lo baciò dolcemente.

In camera sua, Magnus stava al pc seduto alla scrivania, mentre Alec stava appollaiato sul suo letto a studiare letteratura. Presidente Miao era sgattaiolato fino alla camera del suo padrone e si era raggomitolato sulle gambe intrecciate di Alec, che aveva cominciato ad accarezzargli la testa sovrappensiero, mentre imparava a memoria una poesia di Shakespeare. Le fusa di Presidente riempivano la stanza, mentre Magnus, gettandosi all’indietro, poggiava la schiena sullo schienale della sedia e sbuffava rumorosamente.
Alec, dal letto – che Magnus aveva cambiato, sostituendo quello a baldacchino con uno a due piazze – gli lanciò un’occhiata incuriosita.
“Che c’è?”
Magnus si coprì il viso con le mani, afferrandosi le guance con le dita anellate, in preda all’esasperazione. “Ho perso le mie abilità di fotografo.”
“Questo è impossibile, Magnus.”
“E invece sì. Tutte le foto che ti ho fatto non mi soddisfano abbastanza.”
Alec abbassò lo sguardo d’istinto, tutte le sue angosce che tornarono ad investirlo come una violenta marea. Inadeguato. Ecco cos’era. Magnus poteva metterla come voleva: non era lui che aveva perso le sue abilità di fotografo, era Alec che non era il soggetto adatto, pieno di difetti e imperfezioni.
“Forse dovresti cambiare soggetto. Trovarne uno migliore, più adeguato…” Suggerì, gli occhi fissi sulla testa di Presidente mentre continuava ad accarezzarlo, come se quel gesto potesse in qualche modo aiutare a calmare i suoi nervi tesi. 
Magnus si liberò il viso, guardando Alec, che però aveva ancora lo sguardo basso sul gatto. L’orientale si alzò dalla sua sedia per dirigersi verso Alec, che concentrato com’era sul felino non si era reso conto di niente. Sussultò, infatti, quando Magnus gli mise due dita sotto il mento per spronarlo ad alzare lo sguardo. Dubitava di se stesso. Come poteva farlo anche solo minimamente, quando soltanto i suoi occhi facevano tremare le gambe di Magnus come se fossero state di gelatina, incapaci di reggere il suo peso corporeo?
Come poteva dubitare della sua bellezza, quando le sue labbra piene e rosee fungevano da sipario per il più luminoso dei sorrisi?
“Non è il soggetto. È il fatto che non riesco a mostrarti come vorrei.” Si chinò per lasciargli un bacio leggero sulla bocca. “Ed è frustrante, perché in foto la tua bellezza non rende abbastanza giustizia alla realtà.”
Alec sentì qualcosa sciogliersi dentro di sé –  probabilmente tutta la sua struttura scheletrica, come se ogni singolo osso presente nel suo corpo si stesse liquefacendo sotto lo sguardo di Magnus. Deglutì a vuoto, mentre le sue guance si coloravano, incapace di proferire parola, ipnotizzato dalla sfumatura giallognola che brillava in fondo alle iridi di Magnus.
L’orientale si chinò di nuovo, le sue labbra ad un soffio da quelle di Alec. “Non dubitare di te stesso. Potrei persino trovarlo offensivo: è del mio ragazzo che parli.” Le sue mani vagarono fino alla nuca di Alec, intrecciando le dita ai suoi capelli neri, che tanto gli piacevano. Erano in costante disordine e gli scatenavano di continuo pensieri decisamente poco casti.
Fece in modo di incatenare i propri occhi a quelli verdi di Alec e rimase a fissarli per un tempo che gli parve infinito, prima di appropriarsi delle sue labbra –  come se stesse morendo di fame e quello fosse l’unico modo di saziarsi. Magnus percepì le mani di Alec sui suoi fianchi e si accostò ancora di più, fino a che le sue ginocchia non si scontrarono con il materasso. Ci salì sopra, senza staccarsi dalle labbra di Alec, che si sistemò esattamente come lui. Sentì in lontananza i miagolii di protesta di Presidente Miao, ma sembrava provenissero da un altro pianeta. L’unica cosa che sentiva erano le mani di Alec su di sé, il suo cuore che rischiava di esplodere perché aveva cominciato a battere troppo forte, e prima che se ne rendesse conto, si trovò completamente sdraiato su Alec, che gli aveva fatto spazio tra le sue gambe e stava schiacciato tra lui e il materasso.
“La sicurezza, nella tua famiglia, è andata tutta ad Izzy e a Jace.” Gli disse, quando si staccò per prendere fiato. Non si spostò, comunque, perché stare sopra ad Alec era appena diventata una delle sue cose preferite. “Eppure, tu non hai motivo alcuno di essere insicuro.” Giocò con i suoi capelli, passandoci le dita. “Cosa devo fare per fartelo capire?”
Alec allontanò lo sguardo da Magnus, portandolo sul soffitto. Una delle sue mani cominciò distrattamente ad accarezzargli un fianco e Magnus rabbrividì.
“Ho solo… paura, Magnus.” Confessò, la sua voce che tremava, “Ho l’impressione di non essere abbastanza, capisci? Tu sei una specie di supernova e io mi sento più come un buco nero. Tu brilli, io…” si bloccò, rendendosi conto di star trattenendo le lacrime. Se avesse continuato non sarebbe più riuscito a farlo.  Solo in quel momento tornò a guardare Magnus, notando nei suoi occhi le stesse lacrime che stava trattenendo lui, solo che le sue sembravano diverse. Se quelle di Alec erano di tristezza, quelle di Magnus sembravano dettate da… rabbia – e Alec per un attimo si sentì morire. Probabilmente aveva rovinato l’unica cosa bella della sua vita per le sue paranoie. Forse non era giusto arrivare a condividere cose così profonde, nemmeno se si pensa che la persona con cui si sta è quella con cui vorresti passare tutta la tua vita.
“Basta, Alexander.” Magnus si alzò sui gomiti per riuscire a guardarlo bene. “Niente di quello che dici è vero. La luce che credi di vedere in me è dettata dalla tua presenza nella mia vita. L’unico motivo per cui sei convinto di vedermi brillare è perché tu mi fai brillare. Illumini il cammino di qualcuno che prima di incontrarti era destinato a finire in quel buco nero che credi di essere, con la differenza che tu non lo sei, mentre io ci sarei finito, se non fosse stato per te.”
Alec si ammutolì, gli occhi che bruciavano e la gola secca. Non sapeva cosa dire, come reagire o cosa fare. Si limitò solamente a fissare Magnus negli occhi, che a sua volta aveva cominciato a fissare lui. “Hai raccolto i cocci di un cuore ridotto in pezzi e li hai aggiustati senza nemmeno rendertene conto, Alexander. Perciò non definirti un buco nero. Sei più luminoso del sole. E io sarò sempre il pianeta che ti graviterà attorno perché, da quando ti conosco, ho capito che sono nato per farlo.”
Alec si rese conto di aver versato le lacrime che tanto aveva cercato di trattenere solo quando una di queste, dopo aver percorso tutta la sua guancia, si staccò dal mento e finì per impregnarsi nella sua maglietta. Si maledisse per non riuscire a trovare le parole adatte da dire a Magnus dopo che lui era stato così sincero con lui, dopo che si era aperto così tanto. Si maledisse perché l’unica cosa che gli venne da fare fu inglobarlo in abbraccio, stringendolo così forte a sé che ebbe l’impressione sarebbe finito dentro alla sua gabbia toracica.
“Un giorno mi dovrai dire chi ti ha fatto così male, Magnus.” Gli sussurrò con un filo di voce, mentre i loro corpi erano intrecciati.
“Lo so. E voglio farlo. Ma fino ad allora, smettila di pensare di non essere abbastanza. Sei la cosa migliore che mi sia mai capitata nella vita.”
Alec lo strinse di più. “Anche tu, Magnus. Anche tu.”

*

Magnus adorava dicembre. Era da sempre il suo mese preferito: la neve, l’aria natalizia, i negozi che cominciavano a riempirsi di luci colorate, le pasticcerie colme di dolcetti natalizi, l’euforia dei bambini all’idea di scrivere la letterina a Babbo Natale. Sua madre gliela faceva scrivere ogni anno, quando era un bambino. E sebbene la sua morte fosse una ferita ancora sanguinante, pensare all’entusiasmo che aveva quando gli porgeva un foglietto e una matita e gli chiedeva di scrivere la letterina, mentre gli raccontava dove vivesse l’uomo barbuto più famoso del mondo e come si organizzava insieme agli elfi per costruire i giocattoli, lo faceva sempre stare meglio. Sorrideva sempre, mentre pensava al viso di sua madre, alla sua voce che usava l’intonazione giusta in base a ciò che stava raccontando. Ancora riusciva a vederla, la casetta al Polo Nord che gli descriveva, con il camino acceso, le pareti di mattoni e il rumore delle macchine che costruivano i balocchi manovrate dagli elfi, mentre Babbo Natale dirigeva i lavori.
Fondamentalmente, Magnus amava il Natale perché Mallory gli aveva trasmesso il suo amore per quella festa.
Quel giorno nevicava, le vacanze natalizie erano vicine e il pensiero che la scuola sarebbe stata chiusa per un po’ lo rendeva felice. Soprattutto se prospettava di passare i suoi giorni di vacanza insieme ad Alec, che adesso teneva le sue dita intrecciate alle proprie e guardava con aria affascinata tutto ciò che aveva intorno. Alec conosceva New York come le proprie tasche, eppure riusciva ancora a guardarla con curiosità, come se avesse sempre qualcosa di nuovo da mostrargli. Magnus sorrise, guardando il ragazzo che aveva al suo fianco, e si trovò a pensare che, con ogni probabilità, sarebbe piaciuto anche a sua madre. Deglutì e soffocò il magone che sentiva si sarebbe formato, temendo che le sue lacrime avrebbero potuto rovinare una giornata che altrimenti era stata perfetta. Si guardò intorno, alla ricerca di una distrazione e, come se l’universo avesse deciso di dargli ascolto, la sua attenzione venne catturata da una pista da pattinaggio sul ghiaccio. Era quasi pittoresco vederla in mezzo ad una New York innevata, circondata da persone infagottate nei loro giubbotti pesanti, sciarpe di lana e cappelli tutti colorati. Un arcobaleno che brillava su uno sfondo bianco.
“Tesoro?”
Alec si voltò nella sua direzione, abbandonando qualsiasi cosa i suoi occhi stessero guardando. “Che c’è?”
“Vuoi andare a pattinare?”
“I-io non sono capace.” Disse, preso alla sprovvista. Magnus sorrise, intenerito.
“Nemmeno io so tirare con l’arco, ma mi hai insegnato. Posso insegnarti io.”
“E se scivolo e ti schiaccio?”
“Come se averti sopra di me possa davvero essere una cosa negativa. Andiamo, pasticcino. Non è un’argomentazione valida per un rifiuto.”
Alec avvampò: le sue guance diventarono dello stesso colore del naso arrossato dal freddo e Magnus sentì lo stomaco contrarsi in una capriola.
“D’accordo, andiamo. Ma poi prendiamo la cioccolata calda.”
Magnus sorrise. “Tutta quella che vuoi.”

Come avesse fatto a lasciarsi convincere, Alec proprio non lo sapeva. Saranno stati gli occhioni di Magnus, o il suo labbruccio sporto all’infuori in una muta supplica; sarà stata la promessa di una cioccolata calda, o l’idea di poter stare a contatto con Magnus ancora di più, cercando un appiglio stabile mentre cercava di mantenere l’equilibrio sul ghiaccio. Fatto sta, che nulla gli era sembrata un’idea così terribile quanto quella di pattinare sul ghiaccio insieme a Magnus. Se doveva essere una scusa per stare appiccicati e dar vita a qualcosa che assomigliava tantissimo alla famosa scena di Ghost in cui era coinvolto un vaso d’argilla, Alec si sentiva lontano anni luce da quel genere di romanticheria. Gli sembrava, più che altro, di essere il protagonista di Happy Feet, quel cartone con i pinguini che piaceva tanto a Max, e lui era proprio il pinguino che non sapeva cantare, a differenza di tutti gli altri. Alec, proprio come quel pinguino, si sentiva a disagio notando che, in quella pista, a quanto pare, era l’unico che non sapeva pattinare. Aveva l’impressione di avere l’agilità di una foca fuori dall’acqua, o di una giraffa zoppa. Il suo equilibrio precario era minato dalla sua rigidità, che lo rendeva simile ad un pezzo di legno e lo faceva sentire un completo imbranato.
“Migliori a vista d’occhio, pulcino.”
“Non è vero.” Brontolò, aggrappandosi alle mani di Magnus, che indietreggiava sui pattini – facendo in modo che Alec avanzasse –  con la stessa facilità con cui l’avrebbe fatto con le scarpe.  Si concentrò sui movimenti, come Magnus gli aveva spiegato, cercando di darsi la spinta giusta per avanzare. La sua rigidità, però, lo fece scivolare in avanti. Magnus lo agguantò in tempo ed ebbe abbastanza forza per mantenere in equilibrio entrambi.
“Visto?” ansimò Alec, le mani che stringevano convulsivamente quelle di Magnus. “Sono negato.”
“Non dire così, batuffolo. È la prima volta che lo fai. Rilassati e tutto verrà da sé.”
Alec studiò il volto di Magnus, cercando di intuire se quella frase fosse limitata solo alla situazione attuale e non a ciò che si erano detti qualche settimana prima. Non avevano più ripreso il discorso, ma ogni tanto Alec tornava a pensare a quel momento. Alle parole cariche di significato di Magnus, al fatto che da quel momento in poi si sarebbe impegnato a non dubitare troppo di sé perché aveva capito quanto ciò facesse soffrire Magnus. Ma si era ritrovato anche a pensare alle sue insicurezze riguardo al sesso. Dopo quel pomeriggio, Alec aveva voluto provare di nuovo ciò che era successo ad Halloween, seguendo le istruzioni di Magnus, che con pazienza lo aveva guidato – almeno fino a quando era stato in grado di parlare. Successivamente – e Alec sarebbe un bugiardo, se lo negasse – i gemiti e i sospiri che erano usciti dalla sua bocca erano stati per Alec meglio di qualsiasi conferma. Stava imparando, ma ciò non lo rendeva un incapace.
Rilassati e tutto verrà da sé. Era quello che gli aveva detto Magnus, quando aveva ripreso facoltà di se stesso e l’aveva baciato, gustando il sapore di Alec mischiato a quello dei suoi umori. Alec era arrossito, ma era comunque rimasto abbastanza soddisfatto.
Rilassarsi. Era quello il segreto. Smettere di pensare troppo, evitare di farsi sopraffare dalle insicurezze dettate dall’inesperienza. Nessuno nasce con la conoscenza infusa, è l’esperienza che ci rende capaci di affrontare le situazioni, ma, se le situazioni non si affrontano mai, non possiamo mai acquistare esperienza. Alec ci aveva messo giusto diciassette anni ad intuire questa cosa e, piano piano, la stava capendo sempre di più.
“Ho solo un maestro paziente.” Disse Alec, riferendosi non solo alla situazione attuale. Magnus sembrò intuirlo perché gli rivolse un sorriso dolce e lo tirò a sé per lasciargli un bacio sul naso. “Te l’ho detto che mi sarei offerto volontario come tributo, passerotto.”
“Non stiamo più parlando del pattinaggio, vero?”
“Sei tu che hai cominciato a cambiare argomento.”
“Davvero, Magnus? Sono davvero stato io, o vuoi farmi credere che sia stato io quando in realtà, velatamente, hai cominciato tu?”
Magnus scrollò le spalle. “Non so di cosa stai parlando.”
“Sì che lo sai.”
“In realtà no,” continuò a sostenere la sua tesi l’orientale, sebbene il suo sorrisetto lo tradisse, dando implicitamente ragione ad Alec, “E i tuoi ragionamenti mi confondono, zuccherino, quindi chiudi la tua bella bocca e pattina con me.”
“Tu pattini, io arranco.”
“Melodrammatico.”
Alec gli lanciò un’occhiata ammonitrice, ma continuò a lasciarsi guidare, mentre le sue (inesistenti) doti da pattinatore continuavano a rimanere sepolte sotto strati chilometrici di goffaggine e rigidità. Magnus, invece, si muoveva con la sua solita eleganza, avanzando leggiadro e fluido, come se stesse danzando.
Alec, sebbene rischiasse di sfracellarsi al suolo, andando a sbattere contro del freddo e duro ghiaccio, cominciò a passare ingordamente i suoi avidi occhi sulle cosce toniche di Magnus, fasciate dentro ad un paio di jeans neri che, a seconda della luce, mostravano diversi disegni astratti di un nero lucido.
“Alexander?”
“C-cosa?” si riprese dalla sua trance Alec, tornando a guardare Magnus negli occhi. Non che il suo viso fosse meno distraente delle sue gambe, comunque.
“Mi sembravi distratto.”
Era distratto, da Magnus e dalle sue bellissime gambe. Se si concentrava – e a quanto pare il suo cervello adorava concentrarsi su determinati dettagli – Alec riusciva a sentire sotto i polpastrelli la consistenza soda delle cosce del suo ragazzo, alle quali si era arpionato proprio mentre Magnus, con le mani immerse nei capelli incasinati di Alec, si dedicava pazientemente all’insegnamento delle arti amorose; riusciva a sentire la pelle liscia e priva di imperfezioni, di quel caldo color caramello che tanto gli piaceva.
Si schiarì la gola, deglutendo a vuoto. Aveva il viso in fiamme, lo sapeva.
“I-io… lascia perdere.”
Magnus sorrise, come se avesse letto in qualche modo Alec nel pensiero, e lo attirò a sé, facendolo slittare sul ghiaccio fino ad inglobarlo tra le sue braccia. “Mi piace quando mi guardi.”
Alec deglutì, di nuovo. Il cuore gli batteva, impazzito, e la sua testa aveva cominciato a fluttuare, inebriata dal profumo di Magnus. Era come se fosse ubriaco di lui, ma senza gli effetti negativi della sbronza. Niente nausea, solo euforia e quell’inspiegabile felicità.
“A me piace guardarti.” Sussurrò, mordendosi istintivamente un labbro, senza pensare che un tale gesto equivalesse per Magnus ad un mini attacco cardiaco. Senza contare che lo spingeva a perdere razionalità e gli faceva venire voglia di mangiarselo. Si sporse per baciarlo e lo fece con meno irruenza di quanto avrebbe voluto, solo perché erano in uno spazio aperto e, poco tempo indietro, si erano promessi di mantenere la discrezione nei luoghi pubblici.
“Penso di aver appena distrutto le speranze di quella ragazza laggiù.” Disse appena si staccò – veramente mal volentieri – da Alec, che si sporse leggermente in avanti per avere un altro bacio, che Magnus gli lasciò a fior di labbra.
“Quella bionda che continua a guardarti da quando siamo entrati in un questo luogo infernale?”
“Primo: non è un luogo infernale. Secondo: non guardava me, ma te.
“A me non sembrava proprio.”
“E invece sì. Magari sperava che fossimo amici e stava pensando ad una scusa plausibile per avvicinarsi all’affascinante adone che non sa pattinare.”
“Smettila.” Disse Alec, imbarazzato.
“E invece,” continuò Magnus, come se Alec non avesse nemmeno parlato, “Sorpresa! L’affascinante adone che non sa pattinare è impegnato!”
“E gay. Ma giusto un po’, eh.”
Magnus rise, notando che Alec aveva detto quella frase con leggerezza. Non aveva pronunciato gay con tono grave, o colpevole. Non l’aveva sussurrato, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi. L’aveva detto con semplicità, la stessa che avrebbe usato se avesse detto a qualcuno che preferiva la cioccolata bianca rispetto a quella fondente. E Magnus adorava tutto questo. Amava vedere Alec acquistare sempre più sicurezza, preoccupandosi sempre meno di quello che avrebbe potuto pensare la gente di lui – allontanandosi, sempre di più, da quella concezione totalmente errata che gli aveva inculcato suo padre, quella secondo cui, lui, in qualche modo, dovesse essere sbagliato perché amava qualcuno del suo stesso sesso.
Era così orgoglioso del suo Alexander.
“Penso che l’abbia capito.” Magnus osservò la bionda che, sconsolata, tornava dalle sue amiche, muovendosi agilmente sui pattini mentre quelle la accoglievano ridacchiando, lanciando occhiate divertite a Magnus ed Alec. Quando il maggiore alzò una mano per salutarle, la biondina arrossì, mentre le altre ragazze ricambiarono il saluto, civettuole.
“Guarda che effetto fai alle ragazze.”
Alec alzò gli occhi al cielo. “Che effetto fai tu alle ragazze. Si stanno letteralmente squagliando.” E di certo Alec non poteva biasimarle: lui stesso si scioglieva lentamente quando Magnus lo guardava. Magnus era affascinante, luminoso e riusciva ad attirare le persone come una calamita con il suo vulcanico carisma.
“Puoi baciarmi di nuovo, magari non hanno capito il messaggio.”
“Questa è la scusa peggiore che tu abbia mai usato per rubarmi un bacio.”
Rubare, che termine volgare, paperotto. Io direi più che altro condividere.” Magnus si voltò verso di lui per guardarlo, il naso arricciato in una malandrina smorfia che lo rendeva adorabile in maniera irresistibile. Alec, di conseguenza, cedette e lo baciò di nuovo, sentendo Magnus sorridere sulle labbra, prima di aprire la bocca per accogliere la lingua di Alec, che diventava sempre più audace.
Quando si staccarono, Alec, spinto dalla curiosità, lanciò uno sguardo in direzione delle ragazze, notando che avevano ripreso a parlottare tra loro mentre pattinavano tenendosi per mano a coppie. Nessuna di loro sembrava turbata, disgustata o irritata dalla scena a cui avevano appena assistito. Sembrava che avessero accettato il fatto che non avrebbero concluso niente, con nessuno dei due, e quindi erano tornate a dedicarsi alla loro attività di partenza. Questa costatazione lo rincuorò un poco. Costatare che esistevano persone che non la pensavano come suo padre gli dava fiducia e, con ogni probabilità, la spinta necessaria a mostrarsi esattamente per quello che era alla luce del sole, senza nessun tipo di vergogna. “Penso che l’abbiano capito.”
Magnus rise di nuovo, cercando la mano di Alec con la propria per fare intrecciare le loro dita. “La vuoi ancora la cioccolata?”
“Certo, che domande!”
“Scusa se ho chiesto!” scherzò, facendo sorridere anche Alec. Insieme, poi, con Magnus che reggeva in equilibrio entrambi, si diressero verso l’uscita della pista per cercare il bar più vicino.

*

“Voglio portarti in un posto.”
Alec alzò lo sguardo dalla sua fumante cioccolata calda, intrecciando gli occhi a quelli di Magnus. Sollevò un sopracciglio – quello con la cicatrice – e osservò Magnus, scettico.
“Non guardarmi così, muffin. Ti piacerà, credo.”
“È quel credo che mi lascia perplesso.” Alec appoggiò le labbra alla tazza, nascondendo un sorriso dietro ad essa, ma venne tradito dalle rughe di espressione che si formarono intorno ai suoi enormi occhi cervoni.
“Non sei credibile. Nemmeno un po’. So che in realtà stai morendo di curiosità, ma in qualche modo vuoi farti desiderare.”
Alec appoggiò la tazza sul tavolo e sporse il labbro all’infuori. “Pensavo ti piacesse quando lo faccio.”   
“Pensavo di averti già conquistato.”
“Vero, ma devo comunque rendermi ancora interessante, altrimenti potresti darmi per scontato.”
Era un gioco, una conversazione leggera e senza pretese, o scopo. Magnus lo sapeva, ma in qualche modo, una parte di lui, quella seria e terrorizzata a morte all’idea di perdere Alec, gli fece pensare che mai al mondo avrebbe dato per scontato il ragazzo che gli stava di fronte. Mai avrebbe dato per scontati i suoi sentimenti, o quello che c’era tra di loro. Si sarebbe impegnato, sempre, per renderli parte integrante della sua vita e per mantenerli vivi come il primo giorno che si erano incontrati.
“Non lo farei mai, tesoro. Sei tutto, fuori che scontato.”
E Alec davvero dovette concentrarsi per respirare adeguatamente. Magnus sapeva sempre cosa dire per fargli arrivare le parole dritte al cuore e fargli mancare il respiro.
“Dove vorresti portarmi?” disse poi, riacquistando piena facoltà di sé.
“Lo vedrai.” Magnus accavallò le gambe, i suoi pantaloni mostrarono nuovi disegni lucidi sotto alla luce che illuminava il loro tavolo, e bevve un sorso della sua cioccolata.
Alec sorrise e scosse la testa, prendendo a sua volta un sorso. “Immagino dovrò fidarmi.”
“Immagini bene, pesciolino.”

“Ok, adesso puoi aprire gli occhi.”
Alec, che aveva camminato a tentoni, con gli occhi serrati, per gli ultimi due isolati, obbedì immediatamente. Strizzò leggermente gli occhi quando la luce di quella stanza ferì le sue iridi, abituatesi troppo velocemente alla protezione delle palpebre.
Si guardò intorno, non riconoscendo quel luogo. Era ampio, il pavimento era di parquet ed era silenzioso.
“Siamo in un museo?” azzardò sottovoce, per non disturbare le altre persone che si aggiravano in quella stanza. La cosa strana, comunque, era che alle pareti non c’era nulla di artistico. Anzi, i muri erano spogli e le uniche decorazioni erano una scrivania e delle piantine sparse per la stanza, dando l’impressione che esistesse solo il vuoto cosmico al suo interno.
“Si, passerotto. Ma non serve che sussurri, questo è il punto vendita biglietti.”
“Oh, capito. E cosa siamo venuti a vedere?”
“Una mostra fotografica. Per lo più sono fotografi emergenti dell’Università di New York, ma dici sempre che vuoi sapere di più sulla fotografia e… beh, ho pensato che partire con le basi sarebbe stato un buon inizio.”
“Tu sei le basi, Magnus.”
Magnus sorrise e gli accarezzò una guancia. “Sapere che mi ritieni davvero all’altezza di poterti spiegare un’arte così raffinata mi lusinga, fiorellino. Ma qui troveremo artisti che sanno molte cose più di me. Tu potrai soddisfare la tua curiosità, che tanto adoro, e io potrò imparare cose nuove.”
Alec alzò un solo angolo della bocca, accennando un sorriso. “Adori la mia curiosità?”
Magnus si avvicinò a lui, una mano finì sul fianco di Alec, scivolando con discrezione fino al suo sedere. “Io adoro tutto di te, zuccherino.” Sussurrò, suadente. E, come se non avesse appena attentato alla vita di Alec con una semplice frase e con quella mano che non accennava a cambiare posizione, Magnus gli baciò l’angolo della mascella, mentre Alec arrossiva fino all’attaccatura dei capelli.
“Vogliamo andare, tesoro?”
Alec annuì e, quando la mano di Magnus si spostò per andare ad intrecciare le dita a quelle del moro, insieme si diressero verso il punto vendita biglietti. Alec sentiva ancora il proprio cuore rimbombargli nelle orecchie e il sangue che scorreva nelle vene, bollente come olio. In quel momento, realizzò che, molto probabilmente, non si sarebbe mai abituato all’effetto che Magnus aveva su di sé e sul suo corpo.

Magnus non pensava che avrebbe mai immaginato se stesso mentre camminava in un museo, mano nella mano con il ragazzo migliore che avesse mai potuto conoscere. Non pensava nemmeno di meritarlo, un ragazzo come Alec. Eppure… eppure sembrava che la vita gli stesse dando una seconda possibilità. Era come se l’incontro con Alec fosse la testimonianza di quella svolta che aveva voluto dare alla sua vita dopo gli eventi tragici del suo passato. Una boccata d’aria sana, fresca e salutare dopo anni passati ad ingerire lo smog che aleggiava nelle situazioni tossiche in cui si cacciava, convinto che, in quel modo, avrebbe potuto assopire maggiormente il dolore dettato dalla perdita di sua madre. C’erano stati fiumi di alcol e compagnie sbagliate, una svariata quantità di amanti – storie nelle quali si era gettato per combattere quel senso di profonda solitudine e perdita che gli lacerava il cuore. Solo con il tempo aveva capito che la solitudine, lui, ce l’aveva dentro, e che tentare di annegarla con sbronze così colossali da fargli perdere la memoria era inutile, oltre che dannoso per il suo fegato. Alec sembrava un regalo. Un post-it lasciato dalla vita, un promemoria che gli ricordava che valeva la pena vivere, stando lontano da qualsiasi cosa potesse danneggiarlo perché, al mondo, esistevano anche cose buone. Persone buone. Alec era una di queste.
“Magnus,” lo chiamò proprio l’oggetto dei suoi pensieri, distraendolo dalle sue elucubrazioni mentali. Magnus si voltò di lato, notando un’espressione di corrugata concentrazione sul viso di Alec. “Cos’è quello?” indicò con il dito l’interno di una teca, dove facevano mostra degli ingranaggi di varie dimensioni.
“È il meccanismo della prima macchina fotografica. Non l’hanno ritrovata completamente, ma grazie a questi pezzi hanno capito come fosse costruita e hanno imitato lo scheletro per costruire le successive macchine.”
Alec per poco non ci spiaccicò il naso, tanto che si avvicinò al vetro. “È fantastico.”
Magnus sorrise, guardando Alec. Era fantastico, sì. E di certo lui non stava pensando al meccanismo della macchina fotografica, sebbene lo trovasse parecchio interessante. Si lasciò guidare ancora un po’ da Alec, che mai mollava la sua mano. Il moro si guardava intorno affascinato e Magnus guardava lui con lo stesso interesse che Alec riservava all’arte che li circondava. Per come la vedeva il fotografo, Alec era arte, la più bella ed ispiratrice che avrebbe mai potuto trovare in tutta la sua vita. La sua mente stava cominciando a lavorare veloce, trovando nuove idee per fotografare Alec. Tutto ciò che avevano fatto fino ad adesso non lo soddisfaceva abbastanza perché era rimasto dentro agli schemi. Ma Alec era qualcosa che andava al di là di ogni schema conosciuto, qualcuno di speciale, di estremamente raro – così particolare ed irripetibile che cercare di imprigionarlo dentro uno schema visto e rivisto, conosciuto da chiunque abbia un po’ di esperienza nel campo fotografico, sarebbe stato un insulto alla sua preziosità. Così come un diamante non può semplicemente essere definito un sasso, Alec non poteva essere rappresentato in un modo ordinario. Semplicemente perché lui era tutto ciò che di straordinario esisteva al mondo.
Era così immerso nei suoi pensieri, preso da quella nuova ispirazione, che non si rese conto di avere qualcuno davanti a sé, che andò ad urtare con una spalla.
“Mi scusi.” Si affrettò a dire, mortificato. Sentì Alec fermarsi insieme a lui a causa delle loro mani ancora intrecciate. Quando la persona che aveva urtato si voltò, Magnus fu grato che Alec gli stesse ancora tenendo la mano, altrimenti sarebbe crollato.
Non credette ai suoi occhi, all’inizio, convinto che doveva essere un brutto scherzo della sua mente, ma quando quella persona parlò non ebbe dubbi riguardo alla realtà della situazione.
“Magnus?”
“Camille.” Solo quando pronunciò il suo nome, Magnus si rese conto di star digrignando i denti. Sentì chiaramente la presa di Alec farsi più salda intorno alla sua mano, mentre la ragazza scrutava con i propri occhi verdi la sua figura.
“Non sei cambiato per nulla, sai?”
Magnus avrebbe voluto dirle che invece era cambiato moltissimo, ma non che Camille fosse il tipo di persona a cui importano i cambiamenti interiori. Era per natura avida, superficiale ed egoista. Gli unici cambiamenti che percepiva erano quelli d’abito.
“Potrei dire lo stesso di te.”
Camille continuò a scrutarlo. I suoi occhi predatori si soffermarono sulle loro mani intrecciate e con un sorriso glaciale, dipinto sul bel viso accuratamente truccato, disse: “Aw, ti sei trovato un fidanzatino?” La ragazza cominciò a guardare Alec, studiandolo con tutta l’intenzione di metterlo a disagio. Sembrava una vipera pronta a morderlo. “È carino. Peccato non durerà.”
Alec, che fino a quel momento si era limitato a stare in silenzio, fece un passo avanti, interponendosi tra Camille e Magnus, fronteggiandola con la sua vertiginosa altezza. La differenza tra loro due era palese anche fisicamente. Sebbene Camille fosse alta, Alec lo era di più. I lunghi capelli biondi di lei creavano un contrasto netto con quelli neri come il carbone di Alec. Le loro differenze fisiche, comunque, erano un niente in confronto a quelle abissali delle loro anime. Camille era un deserto secco e arido, incapace di amare chiunque non fosse se stessa, era egoista – una subdola manipolatrice, pronta a tutto pur di ottenere ciò che vuole, anche calpestare i cuori degli altri, divorandoli e sputandoli a terra come se altro non fossero che spazzatura. Alec era l’acqua che dona vita alla terra, era buono e generoso, altruista e dal cuore d’oro. Una persona piena di accortezze, capace dei gesti più dolci e genuini, dettati dall’amore profondo che arriva a provare per le persone a cui tiene di più. Un ragazzo sincero e leale, qualcuno a cui Magnus avrebbe affidato la sua stessa vita, convinto che sarebbe sempre stata al sicuro.
“Non credo di aver capito.” Ringhiò Alec, un suono gutturale che uscì come se un tuono fosse appena stato intrappolato nella sua gola.
“Il cucciolo si mette sulla difensiva.” Lo derise la ragazza, spostando i capelli setosi di lato. Il suo profumo investì Magnus. Era lo stesso che portava quando stavano insieme, lo stesso che gli piaceva da impazzire, quando si era innamorato di lei. Adesso, lo trovava fastidioso, un odore troppo pungente, invasivo – proprio come Camille.
La ragazza si avvicinò ad Alec, tanto che dovette alzare lo sguardo per riuscire ad incrociare i suoi occhi. Nei suoi lineamenti, nemmeno l’ombra di un’insicurezza, solo la sua solita stoica arroganza irriverente. “Puoi ringhiare quanto vuoi, cucciolo. Riesco a capirlo persino io, che non ti conosco, che siete diversi come il giorno e la notte. Quanto ci metterà a rimpiazzarti, quando si stuferà di te? Quanto ci metterà a capire che, per quanti giri possa fare, lui sarà sempre e solo mio? Mi appartiene e sempre mi apparterrà. Tornerà da me, lo so io come lo sa lui.”
Alec serrò la mascella, i suoi denti cozzarono gli uni con gli altri – la materializzazione fonica della sua rabbia, del suo astio. Se una cosa simile gli fosse stata detta solo poche settimane prima, sarebbe andato in crisi: non solo avrebbe dato ragione a questa ragazza, non ritenendosi all’altezza di Magnus, ma avrebbe persino dubitato dei sentimenti che lo stesso Magnus provava per lui. Ma ormai aveva passato quella fase perché aveva letto, negli occhi di Magnus, che tutto l’amore che sentiva di provare per lui era ricambiato. E se il sentimento che Magnus provava per lui era forte solo la metà di quello che Alec provava nei suoi confronti, non c’era bionda letalmente bella e sicura di sé che reggesse il confronto. Se Magnus apparteneva a qualcuno, apparteneva ad Alec. E, di certo, non nel modo malsano e possessivo in cui questa ragazza sbucata dal nulla lo stava rivendicando, quasi come se Magnus fosse un oggetto da collezione, un trofeo.
Magnus non era niente di tutto ciò: gli apparteneva, semplicemente, perché erano nati per stare insieme. Erano diversi come il giorno e la notte, e su questo Camille poteva avere ragione, ma anche lo Yin e lo Yang sono diversi, eppure per formare l’intero perfetto devono completarsi. Magnus e Alec si appartenevano perché, fondamentalmente, erano una cosa sola. Stava per rispondere, dando voce ai suoi pensieri, quando sentì la mano di Magnus scivolare fuori dalla sua, un gesto che gli azzerò la mente e lo portò a guardare solo ed esclusivamente lui, dimentico di chiunque altro e di quella oltremodo stramba situazione.
“Vedi Camille,” cominciò Magnus, più calmo adesso, “Tu potrai anche essere il mio passato, ma Alec è il mio futuro.” Camille iniziò una risata derisoria, che Magnus le bloccò sul nascere. “Non mi aspetto che tu lo capisca, comunque. Sei sempre stata cinica e cieca a qualsiasi cosa non fosse la tua persona, di conseguenza, credo che un sentimento simile sia troppo raffinato per un cuore misero come il tuo.” E detto questo, portò una mano sulla schiena di Alec, portandolo a voltarsi insieme a lui, che aveva già cominciato a dare le spalle a Camille.
“Sei sicuro che vorrà stare con te dopo aver scoperto la verità? Il tuo Alec lo sa che sei un assassino?”
A quelle parole, entrambi i ragazzi si congelarono sul posto, tornando a prestarle attenzione. Alec sbiancò, sentendo una morsa allo stomaco, un conato di vomito trattenuto dovuto dal panico. Magnus, invece, si limitò a fissare la bionda, schiumante d’ira, il suo corpo scosso da un tremito convulso. Camille, dal canto suo, sorrideva velenosa, oltremodo soddisfatta di aver gettato discordia tra quei due e aver bombardato le fondamenta della loro relazione. Si allontanò, lasciando che Alec e Magnus venissero risucchiati dalle sue parole con la stessa facilità con cui un violento uragano distrugge una casetta di legno.




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Zan zaaaan, sono tornata! Sono viva e in ritardo – cosa di cui mi scusa profondamente, ma dicembre è un mese molto particolare e trovare il tempo per scrivere era impossibile! Scusate!
Allora… cosa ne pensate? *si ripara dal lancio delle uova* Non odiatemi, pls. Camille e la sua infelice uscita sono funzionali alla storia e forse sono un po’ sadica perché potevo arrivare a ciò che succederà nel prossimo capitolo in un altro modo, ma volevo che ci fosse un po’ di movimento. Niente panico, comunque, non sono così str**za (mi censuro, sì), quel posto è occupato solo da una persona: Camille – che, tra l’altro, me la sono immaginata più simile alla rappresentazione dei libri, questo perché, devo ammetterlo, nei libri l’ho odiata di più. Nella serie era più che altro irritante e fastidiosa ed è durata troppo poco per farsi odiare, quindi… se dovessero farla tornare, vedremo come la gestiranno.
Due appunti: “È carino, peccato che non durerà.” Viene effettivamente detto da Camille nella serie, mentre “Potrai anche essere il mio passato, ma Alec è il mio futuro.” Viene detto da Magnus nei libri, proprio a Camille. Ho amato quel momento, quindi volevo inserirlo.
Risalendo il capitolo e allontanandoci dalla fine: per quanto riguarda la parte della macchina fotografica mi sono inventata tutto. So che esiste un museo della fotografia a New York, ma non so effettivamente quali fotografie siano esposte.
Penso di aver detto tutto… fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va!
Come sempre, vorrei ringraziare chiunque legga la storia, o la metta tra i preferiti/seguiti, e chiunque trovi sempre il tempo di recensirla, vi abbraccio tuttissimi! <3
Alla prossima! :D

PS: Qualcuno scleri insieme a me per l’anticipo dell’uscita della terza stagione, vi prego, non fatemi sentire sola!  

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Capitolo 13
*** 13. ***


Il tuo Alec lo sa che sei un assassino?
Magnus non riusciva a concentrarsi su altro che non fosse quella frase. Continuava a riecheggiargli nella mente, mentre avanzava verso l’uscita del museo. Intuiva la presenza di Alec alle sue spalle, ma aveva davvero troppa paura di leggere nel suo viso un’espressione che non gli sarebbe piaciuta per voltarsi a guardarlo. Non avrebbe davvero sopportato di vedere il suo viso stravolto dall’odio. Perché era sicuro che adesso lo odiasse. Aveva letto nelle sue espressioni facciali il panico ed era comprensibile: Camille, la solita subdola Camille, aveva lanciato una bomba atomica e l’aveva guardata esplodere, poi se n’era andata, soddisfatta dei danni che aveva creato. Magnus riusciva quasi a sentire il rumore della sua storia con Alec che andava in frantumi. Nel suo petto, riusciva a percepire il dolore fisico della perdita, quel dolore che sempre aveva associato all’assenza di sua madre. Non poteva perdere anche lui. Non lo sopportava. Il vuoto cominciò a divorarlo dall’interno, mangiandogli il cuore con i suoi voraci denti aguzzi, quando avvertì la presa salda di Alec che lo bloccava per il gomito.
“Magnus, fermati!” gli ordinò. Erano usciti dal museo, l’aria fredda di dicembre gli tagliava il viso, ma niente, niente, era doloroso quanto dover pensare di guardar Alec in viso e leggerci dentro la conferma di tutte le sue paure. L’avrebbe lasciato. E, probabilmente, aveva tutto il diritto di farlo. Si liberò dalla presa del ragazzo e cominciò ad incamminarsi velocemente verso la strada.
“Magnus!” lo chiamò di nuovo Alec e questa volta, anzi che bloccarlo, gli si parò davanti. Magnus, che teneva lo sguardo fisso sull’asfalto, rischiò di scontrarsi contro il suo petto.
“Guardami, ti prego.” Lo supplicò Alec, la sua voce suonò determinata, nonostante la supplica. 
Magnus deglutì. Nonostante tutto, non sapeva negargli niente. Nemmeno quando sapeva che incrociare i suoi occhi l’avrebbe ucciso dentro. Acconsentì alla richiesta, ma negli occhi di Alec non lesse odio – persino il panico se ne era andato. Alexander sembrava… preoccupato.
“A cosa si riferiva?”
Automaticamente, gli occhi di Magnus si riempirono di lacrime, che andarono ad inondare il suo campo visivo per qualche istante, rendendo Alec tremulo, come se lo stesse guardando attraverso uno specchio d’acqua. Chiuse le palpebre e, in questo modo, le lacrime cominciarono a sgorgare copiose sul suo viso. Non era pronto. Mai lo sarebbe stato. Tutto faceva troppo male. L’assenza di sua madre, il modo in cui Camille aveva fatto in modo che Alec venisse a sapere la verità, quello che lui aveva fatto sei anni prima. Si sentiva un mostro.
“Non…” cominciò, le parole che gli morirono in gola. Incrociò gli occhi di Alec: il suo viso era teso, contratto in una smorfia di attesa e apprensione. Non era giusto che gli facesse questo. Gli doveva una spiegazione. Per quanto dolorosa potesse essere, Alexander meritava la verità. “Non avrei mai voluto che tu lo venissi a sapere in un modo così brutale. Camille… lei è-”
“Non mi interessa di Camille, Magnus. Mi interessa di te.” Lo interruppe. Magnus sentì il viso scaldarsi, prima di rendersi conto che erano le mani di Alec che lo difendevano dal freddo.
“È complicato, Alexander.”
Un lampo di sofferenza attraversò il viso di Alec, come se avesse ricevuto una stilettata in pieno petto. Lo guardò disorientato, spaesato. Abbassò le mani dal viso di Magnus e le lasciò molli lungo i propri fianchi. “Quindi è così che funziona?” domandò, la voce incrinata. “Mi escludi dalla tua vita quando si tratta del tuo passato?”
“Non lo farei ma-”
“Allora parlami, Magnus.” Lo interruppe di nuovo, la sua voce grondante di supplica. Magnus chiuse gli occhi, le lacrime gli bagnarono il viso andando a raffreddargli maggiormente le guance. Sospirò, come se quel gesto potesse in qualche modo alleviare il macigno pesante che si portava sul cuore. Il suo passato non gli avrebbe mai dato tregua.
“Mallory Bane era la mia mamma. I miei nonni sono arrivati qua dall’Indonesia per darle un futuro migliore. Quando mia nonna era incinta, discuteva spessissimo con mio nonno sul nome da darle,” un sorriso malinconico si fece strada sul viso del ragazzo, “La nonna voleva chiamarla Mallory, come il personaggio di un film che aveva visto; mio nonno diceva che dovevano chiamarla come sua madre perché era da sempre una tradizione di famiglia chiamare le figlie come le madri del padre. Sembra complicato, ma non lo è. Mia nonna insisté tanto e, alla fine, mio nonno si arrese.” Magnus fece una pausa, respirando profondamente. “La verità era che mio nonno temeva che mia madre avrebbe perso ogni tipo di contatto con il suo paese d’origine e la sua cultura, ma lei non l’avrebbe mai permesso. Le piacevano le usanze indonesiane. Per questo, all’inizio era un po’ restia a prendere il cognome di mio padre, quando si sposarono. Ma era un uomo buono… lui in primis disse che diventare la signora Bane non significava abbandonare le sue origini. Lui stesso non gliel’avrebbe permesso perché, diceva, facevano parte di lei e lui… beh, lui amava qualsiasi cosa la riguardasse.” Magnus fece un’altra pausa, distolse lo sguardo da Alec e lo fece vagare per strada, posandolo sui passanti, ignari del fatto che dentro di lui stava avvenendo una guerra; lo fece vagare sugli edifici alti e colorati, colmi di quelle luci che avrebbero dovuto rallegrarlo, ma che, invece, adesso, altro non gli facevano desiderare che urlare a squarciagola fino a ferirsi le corde vocali. “Mio padre morì quando avevo quattro anni.” Le lacrime pizzicavano dietro gli occhi e non fece niente per trattenerle. “Attacco cardiaco.” Spiegò, in un sussurro.  Abbassò lo sguardo e deglutì, forte, come a voler cercare di mandare giù quel macigno che gli si era formato in gola, otturandogli le vie respiratorie. I suoi sforzi furono vani, perché non si mosse. Percepire le mani di Alec che strinsero le sue, quindi, fu l’unica cosa che impedì di soffocare. Era ancora lì, lo stava ancora ascoltando, ignaro del fatto che la parte orribile del racconto doveva ancora arrivare.
“Mia madre rimase sola per i successivi cinque anni. L’assenza di mio padre era una presenza costante e lei… lei si rifiutava di avere ulteriori rapporti, fino a quando…” deglutì, serrando la mascella, i denti premettero gli uni contro gli altri. Tutto il suo corpo si irrigidì, in preda ad uno spasmo rabbioso. “Fino a quando non ha incontrato quello che sarebbe diventato il mio patrigno. Diceva che le ricordava mio padre, avevano gli stessi modi gentili. Questo, però, all’inizio. Dopo un anno, quell’uomo si mostrò per l’animale che era. La picchiava, le faceva del male. Diceva che era lei che lo portava a metterle le mani addosso perché disubbidiva alle sue richieste.” La sua voce si incrinò maggiormente, le lacrime cominciarono nuovamente a scendere sul suo viso, salate e amare. Il dolore seppellito in tutti questi anni riaffiorò con la facilità con cui un tappo di sughero lanciato in mare riaffiora in superficie. “Era un folle. E quando lei, una volta, gli ha gridato contro che se ne sarebbe andata, lui l’ha afferrata per la gola e le ha detto che se si fosse azzardata, l’avrebbe cercata e si sarebbe vendicato su di me. Fu una minaccia sufficiente a farla restare.” Alzò lo sguardo per cercare quello di Alec. Notò un luccichio nei suoi occhi che riconobbe come lacrime trattenute. “La cosa peggiore era che io ero ignaro di tutto. Mi ha sempre protetto dal mostro che abitava con noi, ha sempre nascosto i segni della sua violenza e io… io pensavo solamente a me stesso.”
“Eri un bambino, Magnus…” azzardò Alec, la sua voce resa roca dal tempo passato in silenzio ad ascoltare.
Magnus lo guardò. Era arrivato il momento di concludere la storia, di vomitare tutta la verità e attendere il giudizio di Alec. Aveva paura di quello che avrebbe potuto pensare di lui. Ne era terrorizzato, ma sapeva che ormai non poteva più tirarsi indietro.
“Quando-” si schiarì la gola. “Quando avevo dodici anni sono tornato a casa prima, un pomeriggio e… l’ho visto. Era a cavalcioni su di lei e la teneva a terra, le sue mani erano strette intorno alla sua gola. Lo supplicava di lasciarla andare e più lo faceva, più lui stringeva. Le diceva che non sarebbe stato clemente, quella volta, perché aveva oltrepassato il limite. Aveva scoperto che mia madre raccontava ciò che le faceva a Ragnor e che, insieme, stavano trovando un modo per denunciarlo. È stato tutto un susseguirsi di azioni. Io mi sono buttato su di lui, ma mi ha spinto dall’altra parte della stanza. Mia madre aveva cominciato ad urlare, ma le grida morirono nella sua gola insieme a lei perché lui, alzandosi, le calpestò la trachea. L’ho guardato uccidere la mia mamma, impotente. Lo odiavo. Lei non esisteva più per colpa sua. Ero arrabbiato e spaventato allo stesso tempo. Sapevo che dopo aver commesso un atto così terribile, avrebbe voluto evitare testimoni, così sono scappato verso la camera della mamma. Lui mi ha seguito, ma quando ha aperto la porta, io gli ho…” prese un lungo sospiro, “…gli ho sparato.”
“Magnus…” sussurrò Alec, la sua voce arrivò flebile e tremante alle orecchie di Magnus.
“Mamma diceva sempre che se le cose si fossero messe male, dovevo scappare in camera sua e aprire il cassetto segreto. Era lì che teneva la pistola.”
Alec non disse niente per qualche istante, attimi che fecero fermare il cuore sanguinante di Magnus, convinto che l’avrebbe visto allontanarsi da un momento all’altro. Ma Alec non si allontanò, lo abbracciò stretto e forte, come solo lui sapeva fare. “Non sei un assassino.”
“Non avrei mai voluto farti vedere questa orribile versione di me.”
Alec sciolse l’abbraccio, tenendo però le mani chiuse sul viso di Magnus. I suoi occhi erano colmi di determinazione. “Non c’è niente di orribile in te. Sei stato una vittima, proprio come la tua mamma. Hai difeso la tua vita, prima che lui te la portasse via. Era lui il mostro, Magnus. Non tu.”
Magnus tirò su con il naso, sentiva le lacrime seccarglisi in viso, mentre guardava Alec che non se ne andava, che rimaneva lì con lui, dopo averlo ascoltato. Non pensava fosse un assassino, non pensava ci fosse qualcosa di malvagio o sbagliato, in lui.
“Camille lo credeva.” Confessò. “Lo ripeteva quando stavamo insieme e non le davo quello che voleva. Magnus, chi credi che vorrà stare con un assassino? Hai solo me, dolcezza. Devi impegnarti per farmi restare con te. Era una manipolatrice. Ma mi sentivo così solo, così perso, che avevo bisogno di qualcuno al mio fianco. Ero troppo cieco per rendermi conto di quanto fosse dannosa la sua presenza nella mia vita.”
Alec serrò la mascella e Magnus vide chiaramente i suoi occhi saettare per la rabbia. “Beh, adesso hai me.” gli prese di nuovo il viso tra le mani. “Niente di quello che hai detto mi farà cambiare idea su di te, Magnus. Niente mi farà pensare che sei cattivo, o che c’è qualcosa di sbagliato in te. Niente mi porterà ad amarti di meno.”
Il cuore di Magnus si fermò per un attimo che gli parve infinito. Quelle parole gli infusero talmente tanta vita in corpo che il movimento involontario del suo cuore divenne superfluo. Era Alec il suo cuore. E nulla contava, se non lui. Lo guardò, ancora, leggendo nel suo viso tutta la sincerità di quelle parole, tutta l’intensità di quel sentimento che aveva esternato con tanta naturalezza. Aveva detto di amarlo e mai nessuno l’aveva detto con così tanta intensità. Erano parole sentite, sentimenti vivi, che pulsavano di un’energia vulcanica, densi e reali come il magma. Magnus poteva quasi vederli, quasi percepirli, quei sentimenti. Poteva vedere quell’amore di cui parlava Alec perché era lo stesso che abitava in ogni centimetro del suo corpo. Era lo stesso amore che scorreva nelle vene di Magnus e altro non gli faceva desiderare che avere Alec sempre al suo fianco.
“Mi ami?”
“Ti amo, Magnus. E Camille può andare a farsi fottere.”
Magnus sorrise, tra le lacrime, prima di poggiare la sua bocca su quella di Alec. Lo baciò come se avesse dovuto tornare in vita, dopo essere rimasto sepolto sotto terra per quattro secoli. Lo baciò come se dovesse aggrapparsi a lui per ricominciare a respirare a pieni polmoni dopo un’apnea durata decenni. Alec era vita, la stessa che aveva ricominciato a pompare nel cuore a pezzi di Magnus.
“Ti amo anche io, Alexander.”
Alec appoggiò la propria fronte sulla sua, godendosi la sensazione che quelle parole gli provocarono, lasciandole entrare nel proprio essere, attraverso la pelle. Gli davano benessere e gli circondavano l’anima di una piacevole sensazione di calore. Era bello essere amati, soprattutto per lui che era sempre stato convinto che non avrebbe mai trovato qualcuno disposto a farlo. Magnus era davvero la cosa migliore che gli fosse capitata nella vita.
“Mi dispiace tu abbia dovuto parlarne in modo così brutale.”
“Avrei dovuto parlartene, prima o poi.”
“Sì, ma avrei preferito l’avessi fatto con i tuoi tempi e non perché una stronzetta vendicativa voleva avere l’ultima parola.”
Magnus, nonostante se stesso e il peso di tutto il suo passato che gravava sulle sue spalle, si trovò a sorridere. “Diventi scurrile, in sua presenza.”
Alec arrossì leggermente, un rossore diverso da quello provocato dal freddo. “Mi ha fatto arrabbiare. E ha fatto soffrire te. Concedimi un po’ di scurrilità.”
Magnus gli strofinò il proprio naso contro il suo. “Concessa.”
“Come stai?” gli domandò dopo qualche istante in silenzio.
“Meglio, ora che sai tutto. Ma… penso sia quel genere di ferita che non rimargina mai. Io la adoravo e lei mi è stata strappata via.”
Alec lo abbracciò forte e Magnus, ricambiando la stretta, affondò il viso nel suo petto. Rimasero abbracciati per un tempo indefinito – tempo che servì a Magnus per versare le ultime lacrime, mentre la presenza di Alec cominciava a sanare il suo cuore.

*

Magnus non aveva pianto tanto dal funerale di sua madre. Non ricordava quanto potesse risultare doloroso, non solo emotivamente, ma anche fisicamente. Sentiva le spalle indolenzite e la schiena irrigidita, i suoi occhi erano secchi e arrossati e il suo naso gocciolava ancora, sebbene avesse smesso di piangere da un po’. Non aveva mai parlato a nessuno di Mallory, se si esclude Camille – ma all’epoca, era un ragazzino ingenuo, ammaliato dalla sua bellezza e illuso dalle sue parole. Non avrebbe mai immaginato che Camille avrebbe usato quella storia contro di lui per raggirarlo, facendogli credere di essere un ragazzo spregevole per costringerlo ad assecondare ogni sua assurda richiesta.
Non c’è niente di orribile, in te.
Se lo credeva Alec, lo poteva credere anche Magnus. Aveva passato anni a ritenersi colpevole. Si incolpava di aver ucciso un uomo, si incolpava di non essersi accorto che quello stesso uomo, che era entrato nelle loro vite, abusava di sua madre. Se fosse stato un figlio più attento, avrebbe potuto proteggerla. Per anni Ragnor aveva tentato di fargli capire che non avrebbe potuto fare niente. Non avrebbe potuto salvare sua madre perché lei non gli avrebbe mai permesso di rischiare la sua vita per lei. Mallory aveva passato anni infernali solo per proteggerlo e, comunque, era stata abbastanza coraggiosa da tramare contro il mostro che avevano in casa insieme a Ragnor.
Ragnor.
Magnus doveva moltissimo anche a quell’uomo. L’aveva accolto come se fosse davvero suo figlio, gli era stato vicino al processo, quando il giudice doveva stabilire se fosse veramente stata legittima difesa. Magnus riusciva ancora a sentire le imprecazioni di Ragnor.
Tua madre ha subito abusi per anni, lui è arrivato ad ucciderla, tu reagisci per proteggere la tua vita e loro hanno dubbi sulla legittima difesa? Sono delle teste di cazzo!
Ragnor non era un uomo scurrile e nemmeno irascibile, ma tutta quella situazione l’aveva fatto uscire dai gangheri. La perdita di quella che per lui era come una sorella lo faceva soffrire più di quanto avesse mai dato a vedere – e Magnus, adesso, era fermamente convinto che non si fosse mostrato fragile, in quel periodo, solo per infondergli forza.
Era stato davvero un momento difficile per tutti.
Le uniche lacrime che si era concesso Ragnor erano state al funerale. E successivamente alla conclusione del processo, quando avevano appurato che fosse stata legittima difesa.
Subito dopo l’aveva portato con sé. Mallory era stata chiara, nel suo testamento: se le fosse successo qualcosa, l’unico che doveva crescere suo figlio era Ragnor. Si fidava solo di lui.
Magnus si sentiva in colpa per come l’aveva fatto preoccupare in tutti quegli anni. Dopo la morte di sua madre, il dolore era così forte che non riusciva a gestirlo. Doveva distrarsi e spesso le sue distrazioni riguardavano quantità di alcol non consentite ad un minorenne e compagnie poco raccomandabili che procuravano il suddetto alcol. Poco tempo dopo aveva conosciuto Camille, in uno di quei locali dove ci sono file infinite all’ingresso e un drink costa venti dollari. Era stato amore a prima vista, o così aveva creduto. Con il tempo, Magnus si era reso conto che aveva visto in quella bellissima ragazza una perfetta via di fuga. Lei aveva tutte le carte per aiutarlo a soffocare i suoi demoni e quella voce insistente nella sua testa che gli diceva che se fosse stato più attento, avrebbe potuto accorgersi di come stavano veramente le cose in casa sua. La loro relazione era andata avanti due anni, poi lei l’aveva tradito e lui l’aveva lasciata.
Questo, comunque, non lo fece sentire meglio. Senza Camille, la sensazione di vuoto e assenza si era fatta ancora più invasiva e prepotente e lui aveva ricominciato a bere. Quindici anni e un problema di alcolismo, chissà come doveva essere fiera sua madre. Ma all’epoca Magnus non ci pensava. Aveva perso ogni entusiasmo, aveva perso tutto. Non gli importava più di se stesso perché non era riuscito a salvare la persona che più amava al mondo, quindi nemmeno lui era degno di vivere. Di conseguenza, pensava che l’alternativa migliore fosse l’autodistruzione. Vodka accompagnata da relazioni tossiche e scappatelle occasionali.
Ragnor era davvero disperato. E Magnus si sentiva davvero un ingrato, adesso che ci ripensava.
Nonostante tutto, comunque, non l’aveva mai abbandonato. L’aveva portato con sé in ogni parte del mondo che doveva visitare per lavoro, anche quando immancabilmente lui finiva nei guai e si portava a casa il primo o la prima che conosceva in una delle sue serate allo sbaraglio. Era stato paziente all’inizio, trattandolo con i guanti, cercando di parlargli in modo gentile. Quando aveva visto che non avrebbe ricavato un bel niente, aveva deciso che era arrivato il momento di alzare la voce e farsi sentire.
Magnus ricorda bene quel giorno: si trovavano a Sofia e lui era rincasato alle quattro della mattina, dopo aver passato la serata insieme ad un gruppo di ragazzi che gli avevano offerto da bere. Pensava di essere stato furbo, di aver fatto abbastanza piano da non svegliare Ragnor. La cosa che non aveva messo in conto era che l’uomo l’aveva aspettato alzato tutta la notte.
“Sei tornato.”
Magnus sussultò. Non si aspettava certo di trovarlo seduto in poltrona nel bel mezzo della notte. Lo osservò. I contorni del suo corpo erano sfuocati e la sua faccia sembrava si stesse sciogliendo. Qualsiasi cosa avesse ingurgitato, era più forte di qualsiasi altra cosa avesse mai bevuto. E andava bene così. Meno percepiva la realtà, meno essa l’avrebbe colpito facendogli mancare il respiro. Un pugno costante allo stomaco che gli otturava le vie respiratorie.
“Ti sei divertito?”
Magnus barcollò e si appoggiò al muro. Non aveva nessuna voglia di sedersi. Era sicuro che se si fosse seduto avrebbe vomitato. “Molto.”
Ragnor si alzò dalla sua poltrona e a Magnus sembrò molto più alto del solito. Lo osservò avvicinarsi così tanto alla propria persona che poteva percepire il suo respiro sul viso.
“È così che hai intenzione di passare la tua vita, Magnus? Passare da una scuola all’altra, ubriacarti e ridurti ad uno straccio? Pensi che sia questo quello che voleva per te?”
Nessuno dei due riusciva ancora a nominarla. Era una ferita aperta, ancora troppo dolorosa, viva e pulsante. Un cratere che non avrebbe mai smesso di sanguinare e mai si sarebbe cicatrizzato.
“Non metterla in mezzo.”
“La metto in mezzo eccome!” alzò la voce. Era la prima volta che lo sentiva urlare. Ragnor non urlava mai. “Credi che a me non manchi? Credi che non sappia cosa provi? Ti senti in colpa per non averla salvata, beh notizia flash, non ci sono riuscito nemmeno io! Sapevo cosa le faceva, Cristo se lo sapevo, e non ho fatto in tempo. Mancava pochissimo, un soffio, e saremmo riusciti a denunciarlo, ma lui… lui ha agito prima. Se avessi agito io per primo lei sarebbe qui. Credi che questo non mi tenga sveglio la notte, non mi faccia venire voglia di zittire la realtà e i miei sensi di colpa??” Il viso dell’uomo era arrossato, il suo respiro era accelerato, tanto che gli faceva alzare ed abbassare il petto in maniera frenetica. Magnus, vedendolo in quello stato, acquistò un po’ di lucidità, sebbene l’alcol annacquasse ancora il suo sangue e rendesse le sue capacità ricettive più lente.
“Smettila di punirti, Magnus. Non ti ha protetto da lui per fare in modo che tu trovassi un altro modo di distruggerti. Se non vuoi farlo per te stesso, almeno fallo per lei.” La sua voce si calmò un poco, sebbene il suo respiro rimase agitato. Magnus lo guardò e fu come se riuscisse a vederlo dopo almeno cinque anni passati a concentrarsi solo sul suo dolore. Era stato egoista, così cieco da non capire quanto quella perdita gravasse anche sull’uomo che aveva davanti e che adesso lo stava supplicando con lo sguardo di tornare sulla retta via, di impegnarsi per tornare ad essere la persona che era quando sua madre era ancora viva. Quell’uomo, che adesso stava in silenzio e cercava di regolarizzare il respiro, avrebbe potuto sbatterlo in qualche collegio e lasciarlo lì fino alla maggiore età. Ma non l’aveva fatto. Aveva rispettato le volontà di sua madre, la sua migliore amica, e l’aveva preso con sé, crescendolo come se fosse figlio suo e sopportando questa sua discesa verso l’inferno, cercando di tendergli una mano che Magnus, puntualmente, rifiutava. Solo in quel momento, con le parole di Ragnor che gli affollavano la mente e gli riecheggiavano nelle orecchie, si rese conto che niente di tutto quello che stava facendo l’avrebbe aiutato a disfarsi del dolore che albergava il suo cuore. Avrebbe convissuto con esso per sempre, perché certe assenze non possono essere sanate, ma distruggersi non avrebbe portato a niente. Non l’avrebbe riportata indietro. Niente l’avrebbe fatto. Non l’alcol, non i sensi di colpa, non le nottate passate fuori per zittire la verità. Quella verità tanto dolorosa quanto radicata e reale che diceva che Mallory Bane era morta da cinque anni. Verità, comunque, che andava affrontata. Era inutile scappare da essa. Se avesse continuato a farlo, avrebbe smesso di vivere, avrebbe buttato all’aria tutti gli sforzi di sua madre. E non voleva. Se non poteva cambiare la realtà sulla sua morte, almeno poteva non renderla vana. Quella sera, così sbronzo da puzzare come una distilleria, Magnus decise che avrebbe cambiato vita e l’avrebbe fatto per la sua mamma. Avrebbe vissuto anche per lei e si sarebbe dedicato solo alle cose belle.
“Mi dispiace, Ragnor. Per tutto.” Si lanciò tra le braccia dell’uomo, barcollando per il precario equilibrio, e tuffò il viso nel suo petto. Pianse e si domandò se delle semplici scuse sarebbero bastate a rimediare al suo comportamento degli ultimi anni. La mano che Ragnor gli fece passare tra i capelli e il braccio che circondò la sua vita, stringendolo in un abbraccio che ne aveva del paterno, gli dissero che sì, bastavano.

L’arrivo di Alec nella sua vita era stato una specie di conferma alla sua volontà di cambiare. Magnus aveva passato l’ultimo anno lontano dalle compagnie poco raccomandabili, dai locali che un minorenne non dovrebbe frequentare e si era concentrato per riuscire ad ottenere buoni voti. Il trasferimento da Sofia a New York era stato accolto di buon grado, soprattutto perché l’America gli mancava – era la sua casa, dopotutto. Mai avrebbe immaginato che avrebbe incontrato, nel corridoio di un liceo statale, la persona che l’avrebbe fatto innamorare, colui che l’avrebbe aiutato a riacquistare fiducia non solo in se stesso, ma anche nelle persone. Alec si era coperto il viso, balbettando delle scuse, e l’aveva conquistato. Era stato così genuino, così tenero, che Magnus aveva sentito un calore all’altezza del suo cuore che non sentiva da anni. Alec aveva risvegliato qualcosa in lui, un sentimento sepolto da anni. Aveva contribuito a salvarlo senza nemmeno saperlo. Aveva aggiustato il suo cuore con una facilità disarmante e si era fatto amare con altrettanta semplicità.
Magnus ancora faticava a credere di avere una connessione così profonda con qualcuno. Era una relazione seria, ma soprattutto era sana. E Magnus non poteva essere più felice di così.
“Ehi, ragazzino!” lo salutò Ragnor, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Il ragazzo seduto sul divano, con Presidente acciambellato sulle ginocchia, si voltò verso la porta, incrociando lo sguardo dell’uomo. “Già a casa?”
“Sì, Alexander mi ha accompagnato e poi è andato a prendere la metro.”
Ragnor si tolse il cappotto e lo appese all’attaccapanni. “Poteva restare a cena.”
“La prossima volta glielo chiederò. Ho l’impressione che lui ti piaccia, sbaglio?”
Ragnor si incamminò verso il divano e si sedette accanto a Magnus. Fece per allungare una mano verso il gatto, ma Presidente soffiò. Ragnor gli fece una linguaccia.
“Mi piace come sei tu in sua compagnia. Ed è bello vederti così.”
Magnus accennò un sorriso. Alec tirava fuori la parte migliore di lui. “Gli ho parlato della mamma.”
L’uomo rimase momentaneamente in silenzio. I suoi occhi scuri vagarono sul viso del giovane cercando dei dettagli che lo aiutassero a capire come si sentisse a riguardo. Lo studiò a fondo, prima di parlare. “Gli hai raccontato tutto?”
“Lui non è Camille.” Disse Magnus, mettendosi sulla difensiva. Sapeva bene che Ragnor aveva sempre detestato Camille e il modo spietato che aveva di usare il suo passato contro di lui, per raggirarlo e manipolarlo.
“Lo so benissimo, ringraziando il cielo. Alec è… buono. Se gli hai raccontato tutto vuol dire che ti fidi abbastanza di lui.”
“Mi fido totalmente di lui.”
Ragnor sorrise. “Sono felice per te, Magnus. Vuoi… vuoi raccontarmi com’è andata?”
“Per oggi ho parlato un po’ troppo. Posso dirtelo un altro giorno?”
Ragnor annuì comprensivo, passandogli una mano tra i capelli. Magnus non si scostò – gesto che stupì entrambi, visto che nessuno, a parte Alec, toccava mai i suoi capelli. “Sto morendo di fame. Ceniamo?”
“Ho ordinato il sushi,” confessò Magnus, colpevole. “Non sapevo quando saresti tornato e non avevo voglia di cucinare.”
Ragnor rise. “Spero tu abbia preso abbastanza cibo. E i futomaki fritti ai gamberi.”
“Dubiti di me, Ragnor?” si unì alla risata Magnus, assottigliando gli occhi a mandorla. Erano struccati, notò l’uomo, ma brillavano di una luce naturale così intensa che nemmeno tutti gli ombretti glitterati messi insieme che Magnus possedeva potevano competere con quel risultato.
“Non ho mai dubitato di te.”
E se si riferisse ai futomaki o a come fosse riuscito a riprendere in mano la sua vita, Ragnor lo lasciò decidere a Magnus.

*

Le ordinazioni a domicilio rendono le persone pigre fin dalla loro invenzione e Magnus era profondamente consapevole di quanto questo principio potesse influenzare la sua persona. La sua pigrizia veniva vergognosamente fuori ogni volta che ordinava una pizza o, come in questo caso, una quantità di sushi così esagerata che avrebbe potuto nutrire un plotone. Non che lui e Ragnor non avessero gli stomaci abbastanza profondi da riuscire ad ingurgitare tutto quel cibo. Erano dei campioni nel divorare sushi stando spaparanzati davanti alla televisione.
Erano vergognosi? Probabile.
Ad almeno uno dei due importava di esserlo? Assolutamente no.
Entrambi adoravano i momenti in cui la pigrizia la faceva da padrona e se ne stavano comodamente sdraiati sul divano, con una confezione di cibo da asporto in mano, mentre commentavano il primo film che era capitato sotto i loro occhi. A volte guardavano anche cose orribili pur di non alzarsi a prendere il telecomando, quando capitava che fosse disgraziatamente lontano dal divano.
Era come se andassero in letargo e niente poteva distrarli dalla loro oziosa serata.
Se non fosse stato per il cellulare di Magnus, che aveva preso a vibrare sotto la pancia di Presidente. Il micio, a cui era stato vietato il sushi e di conseguenza era già indispettito per i fatti suoi, soffiò, alzando la coda con fare minaccioso. Magnus gli accarezzò la testa per calmarlo e il felino addentò un suo polpastrello, non tanto da fargli male, ma abbastanza per far capire a Magnus che era ancora arrabbiato con lui. Il ragazzo sorrise – davvero non ce la faceva ad arrabbiarsi con quella piccola palla di pelo – e abbassò lo sguardo sullo schermo del suo cellulare, dopo averlo recuperato da sotto il suo gatto. Il nome che lesse sul display contribuì ad allargare quel sorriso e Ragnor non aveva il minimo dubbio su chi fosse il mittente del messaggio.
Magnus sbloccò lo schermo del suo cellulare e rimase momentaneamente a guardare il suo sfondo: Alec che nascondeva un sorriso delizioso dietro ad una tazza di caffè, mentre i suoi occhi verdi lo fissavano, ridendo – le rughe di espressione a decorare il loro contorno e il colore scuro delle ciglia che riprendeva quello dei capelli. Magnus sospirò sognante, davanti a tanta bellezza, particolarmente fiero di quella foto.

> From: Alexander <3, 21.18
Guarda su canale 521.

Magnus si rese conto di quanto fosse distante il telecomando. Si trovava sopra al lettore DVD, il che implicava che per raggiungerlo avrebbe dovuto alzarsi dal divano e attraversare l’intero salotto.
Improvvisamente si sentì come Frodo che deve attraversare la Terra di Mezzo. Il suo Monte Fato era un lettore DVD e il suo anello era un telecomando e–– decisamente doveva smettere di ascoltare Raphael quando blaterava sul Signore degli Anelli. Dannazione, non poteva farlo con Sigourney? Non erano diventati amici per quello? Perché lo coinvolgeva?
Scosse la testa e si arrese all’inevitabile: non era capace di negare niente ad Alexander, la sua pigrizia avrebbe avuto il sopravvento su tutto, ma non su di lui; così si alzò dal divano, sotto lo sguardo stupefatto di Ragnor, e si diresse verso il telecomando. Quando lo afferrò e digitò il canale che Alexander gli aveva suggerito, si trovò a guardare un gruppo di ragazzini che ballavano e cantavano.
“Mi vuoi spiegare?” si inserì Ragnor, perplesso. Un sopracciglio alzato in modo alquanto scettico.
“Alexander mi ha chiesto di guardare questo canale, ma non so perc-” La vibrazione del suo cellulare lo interruppe e lo portò ad abbassare di nuovo lo sguardo sullo schermo.

> From: Alexander <3, 21.20
Lo vedi il tizio che balla e non canta? Non ti ricorda nessuno?

Magnus osservò meglio lo schermo, focalizzandosi solo sul ragazzo che non cantava e corrugò immediatamente la fronte.

> To: Alexander <3, 21.21
Cosa stai cercando di dirmi, fagiolino?

Anche se comunque un’idea se l’era fatta, ma voleva evitare di crederci. Il solo pensiero che Alexander l’avesse pensato lo faceva rabbrividire.

> From: Alexander <3, 21.22
Davvero non noti la somiglianza?

Ogni centimetro del corpo di Magnus fu percorso da un brivido gelido, lungo e costante. Osservò di nuovo il ragazzo sullo schermo, con quella sciatta felpa aperta su una anonima t-shirt bianca e quei pantaloni orrendi e contrasse involontariamente il viso in una smorfia di disgusto.
“Magnus?” lo chiamò Ragnor, curioso di sapere cosa lo avesse portato ad avere una reazione simile.
“Secondo te mi assomiglia??” domandò preoccupato. Ragnor passò lo sguardo da lui allo schermo per due volte prima di socchiudere un occhio e rispondergli.
“Sì?”
“Non ne sei sicuro?”
“Ne sono sicuro, ma non mi sembri molto felice di assomigliare a quel tizio, quindi non volevo che ci rimanessi male.”
Magnus accartocciò il viso in una smorfia contrariata. “Io non gli assomiglio! Come vi viene in mente?”

> To: Alexander <3, 21.23
Io non assomiglio a quel tizio. L’hai visto bene?
> From: Alexander <3, 21.23
Siete uguali, Mags.
> To: Alexander <3, 21.23
Perché siamo asiatici?
> From: Alexander <3, 21.24
Dovrei offendermi per questa insinuazione, sai?

Non poteva dargli torto, ragionò Magnus. Era solo un po’ infastidito dal fatto che la sua sfavillante persona fosse accostata a qualcuno di così… monotono. Ma sapeva che Alexander non l’aveva detto perché credeva che tutti gli asiatici fossero uguali tra di loro. Una delle tante cose che amava di lui era la sua totale assenza di razzismo, quindi non avrebbe mai avuto un pensiero simile.

> To: Alexander <3, 21.25
Scusa, zuccherino. Ma lui rimane comunque troppo… ordinario per essere paragonato a me.

Riusciva quasi ad immaginarsi Alexander sorridere, alla vista di quel messaggio, e alzare amorevolmente gli occhi al cielo – in quel modo che dovrebbe risultare infastidito, ma che invece risultava affettuoso. Magnus lo trovava adorabile quando metteva su quell’espressione. Sembrava un gattino, apparentemente scontroso, ma decisamente tenero.

> From: Alexander <3, 21.26
Devi ammettere, però, che ha delle belle mosse.
> To: Alexander <3, 21.26
Mi hai mai visto ballare, tesoro?
> From: Alexander <3, 21.26
Stai facendo a gara con un personaggio immaginario a chi è migliore?
> To: Alexander <3, 21.27
Per favore, ciliegina. Affinché si possa chiamare gara deve esserci almeno un possibilità per l’altro di vincere. Qui mi pare ovvio che non ci sia.

E questa volta, Magnus riuscì quasi a sentire la risata di Alexander. Gli piaceva la sua risata, era qualcosa che non sentiva spesso, ma quando la sentiva, il suo cuore si gonfiava a dismisura, temendo di esplodere per il troppo amore che sentiva dentro di sé.

> From: Alexander <3, 21.28
Hai ragione. Sei più bello in ogni caso. Ma vi assomigliate, comunque.
> To: Alexander <3, 21.28
Quindi lo trovi bello?
> From: Alexander <3, 21.28
È una domanda trabocchetto? Se dico sì ti offendi perché ho fatto apprezzamenti su qualcun altro, ma se dico di no allora pensi che non ti trovo bello perché fino ad ora ho detto che ti assomiglia?

Magnus si lasciò andare ad una risata che lo portò a tirare indietro la testa. Ragnor, al suo fianco sul divano, lo guardò con fare interrogativo, ma decise di non fare domande e continuare a guardare passivamente il sosia di Magnus alla tv.

> To: Alexander <3, 21.29
Sei adorabile quando vai in panico.
> From: Alexander <3, 21.29
Tu sei cattivo, invece.
> To: Alexander <3, 21.29
Vuoi che mi faccia perdonare? Conosco moltissimi modi per farlo, orsetto di zucchero.

Adesso, invece, Magnus poteva immaginarsi le guance di Alec diventare cremisi. Sorrise.

> From: Alexander <3, 21.30
Allora comincia a trovarne uno adeguato.

Magnus per poco non soffocò con la sua stessa saliva, emettendo un verso strozzato che fece scuotere la testa di Ragnor, che comunque ritenne ancora opportuno non fare domande. Magnus gli fu particolarmente grato per la sua discrezione, anche perché non avrebbe saputo cosa dirgli. Il suo cervello era andato in tilt e si stava focalizzando solo nel modo – del tutto carnale, doveva ammetterlo – per farsi perdonare da Alexander, che era diventato sfacciato nel giro di due minuti e gli aveva retto il gioco.

> To: Alexander <3, 21.32
O forse vuoi che sia il tizio alla tivù a trovarne uno?
> From: Alexander <3, 21.32
Mi stai dicendo che preferisci sia qualcun altro a stare con me?
> To: Alexander <3, 21.32
Giammai. Sei il mio pasticcino.
> From: Alexander <3, 21.32
Solo tuo?
> To: Alexander <3, 21.32
Solo mio.

Magnus aveva un sorriso esageratamente sdolcinato sul viso, ne era estremamente consapevole, ma non gliene importava nemmeno un po’. Non era così felice e in pace con se stesso da moltissimo tempo e voleva godersi quella meravigliosa sensazione fino in fondo.
Alexander rispose all’ultimo messaggio con tre cuori che andarono a far allargare il sorriso enorme di Magnus. E proprio quando credeva che niente avrebbe potuto fargli tremare il cuore più di quella sensazione di totale appagamento, Alec gli mandò una foto di lui insieme ai suoi fratelli. Si trovavano sul divano, sdraiati e in tenuta da casa. Alec indossava una maglietta blu scura, le cui maniche erano state arrotolate fino ai gomiti, mostrando – per la gioia di Magnus – uno dei suoi avambracci, e un paio di pantaloni di una tuta grigi. Reggeva il telefono e sorrideva, mentre ai suoi fianchi stavano una sorridente Isabelle – con il viso struccato e un pigiama azzurro – e Jace, che invece faceva una boccaccia e indossava una felpa nera abbinata ai pantaloni di una tuta dello stesso colore. In mezzo tra Alec e Jace, stava un ragazzino dai capelli scuri e gli occhi vispi. Magnus riconobbe in quelle iridi lo stesso sguardo acuto di Isabelle e nei lineamenti gentili, ma decisi, del viso il suo Alec. Dedusse che quel bambino, con un sorriso felice sul viso e il pigiama di Batman, doveva essere Max.
La cosa che colpì Magnus, al di là della bellezza disarmante del sorriso del suo ragazzo, fu come quell’immagine trasmettesse felicità. Solo guardandoli, Magnus riusciva a capire quanto fosse profondo il legame che li univa, trasmettendo tutto l’affetto che provavano l’uno per l’altro. Sentì letteralmente il suo cuore sciogliersi.

> To: Alexander <3, 21.40
Siete bellissimi. E il piccolo Max ti assomiglia moltissimo.
> From: Alexander <3, 21.40
Non dirlo ad Izzy. È fermamente convinta si assomiglino. Sai, per i capelli e gli occhi neri.
> To: Alexander <3, 21.40
In realtà ha molto di entrambi.
> From: Alexander <3, 21.41
Di sicuro, da lei ha preso la capacità di convincermi a fare cose che non vorrei fare. È stata sua l’idea di guardare questa cosa sui ballerini.

Magnus sorrise, ancora. Le sue guance avrebbero cominciato a fagli male, ne era sicuro. Ma, ancora, non gli importava. Era troppo felice e non aveva davvero nessunissima intenzione di nasconderlo.
Alec era qualcosa di meraviglioso ed era terribilmente altruista, con i suoi fratelli in primis. Non sapeva davvero negare nulla a nessuno di loro.

> From: Alexander <3, 21.41
Credo lo faccia per fare colpo su Carol, la ragazzina in classe sua per cui ha una cotta. A quanto pare, è fissata con questo programma.
> To: Alexander <3, 21.41
È una cosa adorabile. 

“Ti verrà una paresi facciale se continui a sorridere come un idiota.”
Magnus si voltò verso Ragnor, i suoi occhi si assottigliarono in un’espressione dura. “Parli tu? Hai idea della faccia che fai quando ricevi i messaggi di Dot? Io almeno sono giustificato, ho diciotto anni. Tu sei vecchio per certi comportamenti!”
Ragnor spalancò gli occhi, oltraggiato. “Io non sono vecchio!”
Magnus alzò un sopracciglio, furbescamente. “Continua a ripetertelo!” Si lasciò andare ad una risata che non riuscì a trattenere, soprattutto perché l’espressione risentita di Ragnor non lasciava ancora il suo viso. Era divertente e Magnus, anche se la sua giornata era stata particolarmente intensa, era di buon umore. Aveva passato gli ultimi mesi a scervellarsi per trovare il modo adeguato per raccontare ad Alexander la sua storia, invano, perché ogni volta la paura che potesse perderlo lo sopraffaceva e allora si tirava indietro. Era stato egoista da parte sua, forse, ma l’idea che l’unica cosa bella che gli era capitata nella vita, dopo anni, gli venisse portata via lo terrorizzava troppo.
Ma poi aveva incontrato Camille che, paradossalmente, gli aveva fatto un favore. Era stata brutale e malvagia, come sempre, ma a sua insaputa, gli aveva dato la spinta per affrontare un argomento che non aveva avuto il coraggio di affrontare. E Alexander, che era così profondamente diverso da lei, aveva reagito nel modo opposto a cui aveva reagito quella strega quando, anni prima, le aveva raccontato della sua mamma.
Dove lei lo vedeva un assassino, Alec lo vedeva come una vittima innocente.
Non lo riteneva colpevole, non lo riteneva orribile. E questo gli bastava per sentire un po’ di pace, per trovare un po’ di quel buon umore genuino che provava ogni volta che stavano insieme. Alexander era la sua ancora.
“Sai cosa ti dico?” sbuffò Ragnor, esasperato, distraendolo dai suoi pensieri. “Visto che sono vecchio, non sono nemmeno in grado di pulire questa stanza, quindi lo farai tu.”
Magnus smise immediatamente di ridere. “Dai Ragnor, scherzavo!”
“Troppo tardi, ragazzino. Saluta il tuo principe azzurro e comincia a pulire, Cenerentola!”
Magnus sbuffò. “D’accordo, d’accordo. Mi devi uno scintillante completo glitterato e un paio di scarpe di cristallo.”
“Sei un idiota.” Lo rimbeccò Ragnor, scuotendo la testa. Il sorriso che non riuscì a trattenere e gli tese le labbra, però, lo tradì inesorabilmente.
Magnus contrasse le labbra, facendole entrare all’interno della bocca, per cercare di non ridere e si alzò dal divano.

> To: Alexander <3, 21.52
Tesoro, devo andare. Ragnor mi ha trasformato in Cenerentola. Ci vediamo domani <3
> From: Alexander <3, 21.52
Cenerentola? Mi sono perso qualcosa?
> To: Alexander <3, 21.52
Domani mattina ti spiego tutto.
> From: Alexander <3, 21.53
D’accordo, buonanotte.
> To: Alexander <3, 21.53
Buonanotte, tesoro.
> From: Alexander <3, 21.53
Magnus?
> To: Alexander <3, 21.54
Sì, caro?
> From: Alexander <3, 21.54
Ti amo.

Il cuore di Magnus perse un battito, per poi cominciare ad accelerare, frenetico e inarrestabile. Lesse e rilesse quelle parole, lasciando che si imprimessero nelle sue retine, nel suo cervello e in ogni fibra del suo essere.

> To: Alexander <3, 21.55
Ti amo anche io. Tanto.

Era bello essere amati, ma essere di nuovo in grado di amare lo era ancora di più.





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Ciao a tutti e ben ritrovati!
Allora, cosa ne pensate?
Onestamente, sono un po’ preoccupata. È un capitolo abbastanza importante per Magnus – se notate, è il primo dopo 12 capitoli visto dal suo punto di vista e non da quello di Alec *capitan ovvio mode on* – e ho davvero paura che non sia come ve l’eravate aspettato. Insomma, parlo del suo passato dal secondo capitolo, tipo, e magari adesso che siamo arrivati alla spiegazione, vi aspettavate qualcosa di più. Quindi, niente, fatemi sapere cosa ne pensate e siate brutalmente sinceri. Fate felice un’anima in pena.
Detto questo, non penso ci sia molto altro da dire, anche perché il capitolo verte solo su questo. Volevo che avesse uno spazio a sé quindi non ho inserito altro se non l’ultimo pezzo su cui c’è da fare un piccolo appunto: lo show che stanno guardando è Glee, una serie a cui Harry ha partecipato nel ruolo di Mike Chang. L’idea che Magnus potesse confrontarsi con Mike è venuta a Blueyes_Lightwood quindi il merito va tutto a lei!
Come sempre, ringrazio chiunque legga questa storia o l’abbia messa tra i seguiti/preferiti e anche chi trova sempre il tempo per recensire, lo apprezzo moltissimo – e lo dirò ad ogni capitolo, anche a costo di risultare ripetitiva, perché mi fa un piacere immenso!
Un abbraccio, alla prossima! <3

 

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Capitolo 14
*** 14. ***


Alec stava nella sua stanza, il letto appena fatto e lo zaino per la scuola già sistemato. Osservava l’interno del suo armadio con fare titubante. Dai suoi capelli, ancora umidi per la doccia, scendevano gocce che tracciavano sentieri lungo la sua schiena nuda, portando con sé piccoli brividi di freddo. Un pensiero gli albergava la mente mentre, con addosso solo un paio di jeans neri, osservava il maglione verde scuro che stava accuratamente piegato all’interno del suo armadio. Aveva un ricordo particolare legato a quell’indumento, che aveva comprato settimane e settimane prima, ma non aveva ancora messo, convinto che dovesse usarlo per un’occasione speciale. Ma Alec non sapeva davvero scegliere quale fosse un’occasione speciale perché aveva sempre avuto la sdolcinata convinzione che ogni occasione fosse speciale con Magnus. Ed era proprio a lui che associava quel maglione che stava ancora fissando. Si ricordava il giorno in cui lui e Magnus stavano tornando dalla biblioteca pubblica e, passando davanti ad un negozio, Magnus aveva affermato che un colore del genere gli sarebbe stato benissimo perché risaltava il colore dei suoi occhi. Alec era arrossito e aveva liquidato la cosa farfugliando parole a metà e senza senso, ma se la cosa poteva essere finita lì, non era stato così per il suo cervello. Aveva sempre visto i suoi fratelli prepararsi per uscire con le persone con cui stavano: aveva visto Izzy truccarsi con più cura del solito, o mettere un vestito di un colore anzi che di un altro, perché sapeva che Simon avrebbe apprezzato di più; aveva visto Jace mettersi quella camicia blu notte perché sapeva che piaceva tanto a Clary. E, di conseguenza, si era insinuata nella sua mente la possibilità di fare lo stesso per Magnus, di comprarsi un maglione che gli piaceva per rendersi più piacevole ai suoi occhi. Così qualche giorno dopo era andato in quel negozio e l’aveva comprato. Non se l’era mai messo perché temeva che si sarebbe sentito un tantino ridicolo, ma adesso… adesso quel maglione aveva tutto un altro significato. Lo vedeva come un modo per fare una sorpresa a Magnus, per dirgli che ogni volta che parlava lo ascoltava e che teneva a quello che diceva, che gli faceva piacere farsi carino per lui perché il modo in cui lo guardava era la cosa più bella del mondo, che Magnus stesso era la cosa più bella del mondo. Non avrebbe più mancato nemmeno un’occasione per ricordarglielo, soprattutto dopo quello che gli aveva raccontato il giorno prima. Magnus non avrebbe più dovuto dubitare di quanto fosse meraviglioso, dentro e fuori. E anche se cominciare da un maglione poteva sembrare stupido, era pur sempre un inizio.
Un bussare deciso alla porta lo distrasse dai suoi pensieri e mentre afferrava il maglione e se lo infilava, Jace aprì.
Robert fece capolino nella camera dei suoi figli, già vestito e pronto per andare a lavorare. Il profumo deciso della sua colonia riempì la stanza, arrivando fino alle narici di Alec, che cominciarono a pizzicare. Nonostante tutto, comunque, era un odore familiare e Alec non lo trovava fastidioso.
“Buongiorno, ragazzi.”
“Buongiorno, papà.” Risposero in coro Jace e Alec, come se dovessero prepararsi ad un saluto militare.
“Sto uscendo e volevo salutarvi.”
Alec si focalizzò momentaneamente sulla routine di suo padre, su quanto fosse cambiata dall’incidente di Max. Prima di quell’orribile giorno, Robert cenava sempre con loro e non perdeva mai una colazione, sebbene non si prolungasse mai troppo – arrivare in ritardo al lavoro era fuori questione e lui era un uomo preciso in modo maniacale. Non era un uomo affettuoso, certo, ma almeno si sforzava di passare del tempo con la sua famiglia. Dopo l’evento funesto, invece, saltava ogni colazione e, come la sera precedente, a volte saltava la cena, rimanendo in ufficio a lavorare. Era cambiato, così come era cambiata sua madre, ma avevano avuto due modi completamente diversi di reagire all’intera situazione.
“Isabelle e Max sono già in cucina. Riuscite a crederci? Vostra sorella che scende puntuale?” Doveva essere un chiaro tentativo di fare conversazione, ma Alec – e sicuramente anche Jace – sapeva che c’era qualcosa sotto. Di norma, suo padre non si comportava in quel modo. I suoi saluti erano rapidi e sintetici, efficaci come la sua stessa persona. Per questo, dopo il saluto era strano che cercasse di fare conversazione.
“Un miracolo di Natale in anticipo?” cercò di scherzare Jace. Alec sorrise, mentre Robert serrò gli angoli della bocca.
“Nostro Signore ha miracoli più importanti da compiere, figliolo.”
Alec vide chiaramente il viso di Jace trasformarsi: il suo tentativo di alleggerire l’atmosfera piombò in un buco così come la sua allegria. La sua espressione si incupì e Alec sapeva che da lì a poco sarebbe arrivato il suo pungente sarcasmo, che ovviamente Robert non aveva mai trovato di proprio gradimento, quindi decise di intervenire.
“Devi dirci qualcosa, papà?”
L’uomo si aggiustò la cravatta – già sistemata perfettamente – per prendersi, evidentemente, il tempo necessario ad affrontare la questione. “Tua madre mi ha detto che hai parlato con Lydia, qualche giorno fa.”
Alec si trattenne dal chiudere gli occhi e sospirare. L’ossessione di suo padre per quella ragazza e il fatto che dovesse frequentarla stava diventando sfiancante.
“Sì, papà. Lydia mi ha chiesto di studiare insieme, qualche volta.”
“E tu che le hai risposto?” La sua voce tremò di impercettibile aspettativa e Alec fu quasi sopraffatto dalla volontà, un po’ sadica, di dirgli che aveva rifiutato. Ma sarebbe stato inutile, perché sarebbe venuto a sapere com’erano andate le cose. Magari proprio dal signor Branwell, con cui era tanto amico.
“Che mi andava bene.”
“Potremmo invitarla a cena, qualche volta. O tu potresti chiederle di uscire.”
Eccolo lì, il vero motivo di tutto questo teatrino. Non era un modo per passare qualche minuto con i suoi figli prima di andare a lavorare. No, assolutamente. Era un’occasione per cercare di controllare Alec, di trovare un modo per impostare la sua vita verso quella direzione che non poteva essere più distante dalla realtà. Anzi, per dirla tutta era totalmente opposta alla realtà, perché affinché il ridicolo piano di suo padre andasse in porto, Lydia avrebbe dovuto essere un maschio. E nemmeno in quel caso sarebbe andato a buon fine perché comunque non sarebbe stato Magnus.
“Questo è fuori questione, papà.” E davvero, il verso di scherno che uscì dalla sua gola dopo aver pronunciato quelle parole, fu puramente istintivo. Nessuna premeditazione. Gli uscì e basta. Alec, comunque, non se ne pentì.
Robert si accigliò. “Perché? Perché rifiuti tanto questa possibilità?”
“E perché tu insisti tanto?”
“Perché Lydia è una brava ragazza e-”
“E suo padre è tuo amico, la sua famiglia è importante nella comunità religiosa, proprio come noi, e credi che farmi uscire con lei potrebbe accrescere maggiormente la stima che hanno di te.”
Robert guardò il figlio sbigottito. Alec non si era mai rivolto a lui in un modo così schietto e sapeva di averlo scioccato. Ancora, comunque, non si pentiva di ciò aveva detto. Era stufo marcio di ingoiare rospi e obbedire ciecamente, senza opporsi mai. Era stufo di rinunciare alla sua felicità per qualcuno che lo voleva esattamente per come non sarebbe mai stato e lo faceva sentire sbagliato. Lui non era sbagliato.
“Ma non ti è mai venuto in mente che a me Lydia possa non piacere? O che io abbia già qualcun altro? Lo credi così impossibile??”
Alec stava perdendo il controllo, vomitava parole senza filtrarle e, anche se la cosa lo spaventava, era più forte la sensazione di libertà che riversare quelle parole come un fiume in piena gli dava.
Suo padre si riscosse dal momentaneo shock che la reazione del figlio gli aveva provocato. “Ce l’hai, Alec? Hai già qualcuno? È per questo che passi le giornate fuori di casa e torni appena prima di cena? E non studi più a casa?”
“Che puoi saperne, tu?” ringhiò Alec, sentendo un’improvvisa ondata rabbia accaldargli il viso. “Non ci sei mai a casa!”
“Tua madre l’ha notato.”
“Allora sa anche che passo le giornate fuori a studiare.” Non era proprio una bugia, lui e Magnus facevano anche quello, quando erano insieme. “E dal momento che i miei voti sono sempre alti, non vedo che motivo ci sia di rimproverarmi su dove studio. Non ti pare?”
Sentiva una tale forza, dentro di sé, che gli dava l’impressione che sarebbe anche riuscito a spaccare il mondo in due. Non temeva più niente, non la reazione di suo padre, non le conseguenze della verità. Niente. Era come se dopo anni passati a nascondere la testa sotto la sabbia, avesse finalmente trovato il coraggio e la forza di affrontare la luce del sole. E ciò che vedeva adesso era così intenso, così luminoso, che mai sarebbe tornato indietro, mai si sarebbe seppellito di nuovo.
“E per risponderti: sì, ho qualcuno. Qualcuno che amo e che mi ama, l-”
Jace lo interruppe prima che riuscisse a dire lui. “D’accordo, signori. Calmiamoci. La situazione si è scaldata, ma non deve necessariamente finire in una lite, giusto?” Le iridi bicromatiche di Jace andarono a scontrarsi con quelle irrequiete di Alec. Il biondo riusciva chiaramente a vederci lampi e saette e avrebbe davvero voluto lasciar finire la frase a suo fratello per vedere che faccia avrebbe fatto suo padre. Ma, sebbene Alec avesse trovato il coraggio di uscire dal suo guscio, lasciargli terminare quella frase sarebbe stato come gettarlo in pasto ad un leone. E Jace non l’avrebbe mai permesso. Avrebbero dovuto camminare sul suo cadavere, prima di riuscire a ferire Alec.
Il minore appoggiò una mano sul braccio del fratello e Alec, immediatamente, rilassò i muscoli e il respiro. Per una volta, nella loro vita, era stato Jace quello che aveva fatto appello alla parte razionale del suo cervello e aveva riportato Alec dentro ai cardini. Il maggiore annuì. Sapeva che doveva dare retta allo sguardo che abitava negli occhi di Jace, in quell’istante, e che gli stava dicendo che non era né il modo né il momento adatto per far venire fuori tutta la verità.
“Tuo fratello ha ragione.” Convenne Robert annuendo, sebbene la sua voce risuonò rauca e alterata. Alec sapeva che era ancora arrabbiato, ma stava rinchiudendo quell’emozione in un angolo remoto del suo essere. Suo padre era così: credeva che l’unico modo di gestire le emozioni fosse reprimerle. Quale essere umano sano fa un ragionamento del genere convinto che sia la soluzione giusta? Come faceva a non rendersi conto che era come una specie di bomba ad orologeria che sarebbe esplosa, un giorno?
Lo stesso Alec, che aveva passato anni a nascondere la sua omosessualità, aveva avuto l’impressione di rischiare di esplodere, se non l’avesse detto a qualcuno. Per questo aveva deciso di parlare con Izzy, all’inizio.
“Sì.” Concordò Alec, ma non aggiunse altro. Robert lo guardò per un attimo ancora, i suoi occhi neri – così simili a quelli di Isabelle, eppure così profondamente diversi – lo scrutarono come a volergli leggere l’anima. Alec sostenne quello sguardo senza timore alcuno, con quella fierezza che, fino a quel momento, era convinto appartenesse solo ad Isabelle e che l’aveva sempre fatta assomigliare ad una guerriera inarrestabile. E un po’ ci si sentiva anche lui – una specie di guerriero inarrestabile, dall’armatura ammaccata, ma non per questo facile da ferire.
“Ci vediamo stasera.” Disse solo Robert, con quella calma innaturale, come se non fosse successo niente, prima di uscire dalla stanza dei suoi figli.
Quando la porta si chiuse, Alec si lasciò andare ad un sospiro pesante e stremato.
“Ho sempre saputo fossi cazzuto, ma mi hai stupito.”
Alec rilassò le spalle e si lasciò andare ad una risata, che risuonò piuttosto liberatoria, doveva ammetterlo. “Grazie per essere intervenuto.”
“Sai, se ci fosse stato Magnus, sono sicuro gli sarebbe venuto duro.”
“JACE!” Alec arrossì violentemente e Jace scoppiò a ridere, portandosi una mano sull’addome per cercare – invano – di darsi un contegno.
“Comunque,” riprese Jace, asciugandosi una lacrima che era sfuggita da un occhio, “Non era il momento adatto. Se gliel’avessi detto mentre litigavate, l’avrebbe sicuramente presa male, pensando che esci con un ragazzo solo per fargli un dispetto.”
Alec era consapevole dell’intelligenza di suo fratello, ma si stupì comunque di quanto fosse saggio e astuto quel ragionamento.
“Ma siccome non è così, ti meriti di meglio. Meriti di parlarne in modo tranquillo e, soprattutto, a mente lucida. Non perché le stronzate che escono dalla bocca di quell’uomo mettono a dura prova la tua ferrea pazienza.”
Alec sospirò e un sorriso riconoscente andò ad aprirsi sul suo viso. “Grazie.”
Jace ricambiò quel sorriso e lo strinse in un abbraccio stritola costole. “Io le mantengo le promesse che faccio, Alec. Dovresti saperlo.”
Alec annuì e ricambiò l’abbraccio. “Lo so.”
Avevano giurato che si sarebbero coperti le spalle, sempre e comunque. Non importa in quale situazione si fossero cacciati, finché avevano l’un l’altro non avrebbero mai temuto niente perché si sarebbero sempre protetti.
«Non chiedermi di abbandonarti, o di fare ritorno senza di te, poiché ovunque tu andrai, verrò anch’io e ovunque ti fermerai il tuo popolo, sarà il mio popolo; il tuo Dio, sarà il mio Dio. Dove morirai tu, morirò io e ivi sarò sepolto. Sia questa la volontà dell’Angelo. E che ci punisca, se altra cosa che non sia la morte ci separerà.»
Avevano sentito quel giuramento in un film, da ragazzini, e avevano deciso di farlo proprio. Non avrebbero permesso a niente e nessuno di separarli. Ed entrambi sapevano che sarebbe stato così per tutta la loro vita: avevano preso tremendamente sul serio quella promessa e avevano tutta l’intenzione di rispettarla.

*

Quando insieme scesero per fare colazione, Alec sapeva cosa lo aspettava. O meglio, se lo immaginava. Non avrebbe mai immaginato, invece, di vedere sua madre ancora ai fornelli, con il grembiule da cuoca a coprirle il tailleur nero che indossava, mentre sorrideva.
Sua madre sorrideva davvero raramente. Aveva sempre quell’espressione severa, come se tendesse a rimproverare chiunque la circondasse, e dura, come se volesse far capire da principio chi è che comandava. Vederla sorridere così amorevolmente senza una ragione, quindi, lasciò perplessi sia Jace che Alec, i quali si lanciarono un’occhiata confusa e alzarono le spalle.
“Buongiorno.” Salutarono i ragazzi, sedendosi a tavola, al cui centro troneggiava una torre di pancake e una caraffa di caffè. Alec ne versò un po’ nella sua tazza vuota, mentre Jace si lanciava sulle frittelle, e rimase in attesa. Sospettava che il buonumore di sua madre sarebbe crollato non appena lo avesse visto, chiedendo spiegazioni su quello che era successo in camera loro e che, sicuramente, aveva sentito.
“Buongiorno,” li salutò la donna, il sorriso ancora non le lasciava le labbra. Il piccolo Max, seduto vicino ad Isabelle, stava raccontando come fosse riuscito ad arrampicarsi sulla corda, nell’ora di ginnastica del giorno prima, al secondo tentativo, mentre ai suoi compagni ce n’erano voluti molti di più.
“Non è bello vantarsi, Max.” lo rimbeccò bonariamente Maryse, sedendosi poi tra Isabelle e Alec. Il maggiore si mosse sulla sedia, improvvisamente a disagio. I suoi genitori erano strani, quella mattina. Insomma, sapeva gestire le assurdità di suo padre, c’era abituato ormai. Ma non era certo abituato a gestire sua madre in versione mamma super sorridente.
Mentalmente si preparò al peggio, evitando di aprire bocca per tutta la colazione, ascoltando gli aneddoti di Max e gli interventi di Isabelle e Jace, parlando solo quando direttamente interpellato. C’era qualcosa, in tutta quella situazione, che mandava al suo cervello un campanello d’allarme, che gli urlava alla ritirata. Per questo, quando ebbero finito di mangiare e Maryse mandò tutti al piano di sopra a prendere gli zaini, tranne Alec, il ragazzo si sentì in trappola.
“Dobbiamo parlare.” Disse Maryse, voltando il busto verso di lui. Alec la guardò per cercare di capire a cosa stava andando in contro, quale potesse essere il suo destino. Ma gli occhi neri di sua madre erano sempre stati imperscrutabili. Nessuno aveva il permesso di riuscire a leggere dentro l’anima di Maryse Lightwood, nemmeno i suoi figli.
“A proposito di cosa?” Ma sapeva benissimo quale sarebbe stato l’argomento di conversazione.
“Tuo padre.”
Odiava avere ragione, in determinate situazioni. Alec inspirò a fondo, prima di parlare. “So che non dovevo alzare la voce, ma la sua insistenza-”
“Tuo padre vuole solo che tu sia felice.”
Alec serrò le mascelle a quelle parole. “Allora perché anzi che cercare di controllare la mia vita, non mi lascia trovare la felicità da solo?”
Maryse fece vagare lo sguardo altrove per qualche istante, prima di chiudere gli occhi e sospirare – un sospiro pesante e distante, stanco. “È vero quello che gli hai detto? Hai già qualcuno?”
“Sì.”
Non c’era Jace, adesso, a farlo ragionare. Non c’era niente che gli impedisse di essere sincero, di dire tutta la verità. Se all’inizio, l’idea di tenere segreta la sua relazione lo tranquillizzava, adesso, tutta questa segretezza gli contorceva il cervello e gli dava l’impressione di essere saturo. Saturo di mentire, saturo di nascondersi, saturo di temere di non essere accettato dai suoi genitori.
“Ti rende felice?”
“Sì.”
Avrebbe voluto domandarle perché, improvvisamente, sia lei che suo padre fossero così ossessionati dalla sua felicità. Non era importato un granché a nessuno dei due, quando passava le sue giornate rintanato nello studio, convinto che fosse destinato a nascondersi per sempre. Quando era davvero infelice, non avevano mosso un dito per sentire come stesse. Adesso, invece, che aveva finalmente trovato una pace interiore che aveva agognato per anni, sembrava che non andasse bene, che anche la sua felicità dovesse essere decisa da loro.
“Bene. Suppongo me ne parlerai quando vorrai farlo. È una cosa che hai preso da me, questa.” Lo disse quasi come se rivedere un po’ di sé nel figlio la rendesse orgogliosa. “Siamo molto restii a parlare dei nostri sentimenti.”
Alec, nonostante tutto, si trovò a concordare con lei. Sapeva che aveva ragione, quindi sarebbe stato inutile negare. Perciò annuì soltanto.
“Vorrei dirti che è una cosa tipica dei Lightwood, ma i tuoi fratelli dimostrano il contrario.” Maryse accennò un sorriso intenerito, nominando i figli, e strinse la mano di Alec, che ci impiegò qualche istante a reagire a quel gesto. Era davvero colpito dal comportamento di sua madre. Avrebbe voluto chiederle se andava tutto bene, o se c’era qualcosa che la preoccupava, perché lo sguardo che gli riservò, sebbene indecifrabile, nascondeva qualcosa. Alec lo sapeva e avrebbe davvero voluto chiederle cosa la turbasse, ma sapeva benissimo che, proprio come aveva finito di dire Maryse, lei era parecchio restia a parlare dei suoi sentimenti. E comunque, anche se Alec avesse parlato, Max gli avrebbe interrotti. Il suo fratellino, infatti, piombò in cucina come un urgano. I capelli neri che svolazzavano per la corsa, mentre Isabelle e Jace lo rimproveravano di smetterla di barare.
“Ho fatto prima io!” esclamò trionfante il piccolo, girandosi verso i fratelli. “Siete due lumache.”
“Non sei partito al tre!” ribatté Jace.
“Ti da solo fastidio che io abbia vinto!” affermò Max, sicuro di sé, come se avesse capito profondamente la psiche del fratello.
Jace e Izzy si lanciarono un’occhiata complice e divertita, prima di posare di nuovo i loro sguardi su Max. I due sorrisero come se fossero due squali e si lanciarono sul fratellino, torturandolo a suon di solletico. Max cominciò a ridere a divincolarsi. “Basta! Basta!” esclamò, ma i suoi fratelli non avevano alcuna intenzione di lasciarlo andare, così il piccolo sgusciò abilmente via dalla loro presa e si diresse verso Alec, che era ancora seduto al tavolo con Maryse e si era concentrato a guardare i suoi fratelli.
“Prendimi Alec, prendimi!” gridò il piccolo e Alec lo agguantò, tirandoselo sulle ginocchia. Max gli circondò il collo con un braccio, mentre si voltava a guardare i fratelli.
“Alec è la mia fortezza. Non potete prendermi, se c’è Alec che mi protegge!” E fece loro una linguaccia per dare enfasi alle sue parole.
Jace e Isabelle scoppiarono a ridere, seguiti subito dopo da Alec.
“Ho vinto di nuovo!” esclamò trionfante Max, abbracciando poi Alec con tale entusiasmo che per poco non lo fece cadere dalla sedia. Il maggiore si mantenne in equilibrio e ricambiò l’abbraccio del fratellino.
“Che vuoi farci, Max. Sei imbattibile!” disse affettuoso, mentre Max annuiva concorde.
“Forza voi quattro,” si inserì Maryse, ma il suo tono non suonò esattamente severo come avrebbe voluto. Non aveva molte debolezze, ma una di queste era sicuramente guardare i suoi figli che giocavano insieme, dunque interromperli non le piaceva. “Dovete andare a scuola. O arriverete in ritardo.”
“Non si arriva in ritardo a scuola!” concordò Max e Maryse sorrise. Osservò ancora un momento i suoi figli che abbandonavano la cucina, zaino in spalla, diretti verso l’uscita di casa. Vide Jace passare lo zaino ad Alec e vide questo caricarselo sulla schiena, prima di raddrizzare quello di Max, che verteva troppo verso destra. E in quel momento, con il cuore che le si stringeva, pensò che sì, finché c’era Alec a proteggerlo, niente poteva prendere il piccolo Max.


*

“Mi vuoi dire che è successo?” domandò Isabelle, una volta scesi dall’autobus, rimasta sola con i suoi fratelli più grandi. Alec incassò la testa nelle spalle, affondando il viso nel suo giubbotto. Erano successe un mucchio di cose solo quella mattina: suo padre che lo tormentava, sua madre che cercava un contatto.
“Ho quasi fatto coming-out rabbioso davanti a papà.”
Isabelle, di norma sempre in equilibrio perfetto sui suoi vertiginosi tacchi, per un pelo non inciampò. Dovette reggersi a Jace al suo fianco per rimanere perfettamente salda sui piedi.
“Che cosa???” domandò, sgranando gli occhi accuratamente truccati di nero. Stesse iridi, emozioni totalmente diverse – ragionò Alec. Robert aveva gli occhi neri di Isabelle, sebbene aveva sempre pensato che la scintilla fiera che albergava dentro gli occhi di sua sorella fosse la stessa che caratterizzava quelli di Maryse, ma il modo che avevano di guardarlo non potevano che essere più diversi. Letteralmente opposti.
“Papà ha ritirato fuori la storia di Lydia e io sono quasi esploso.”
“Gli ha quasi detto di Magnus.” Confermò Jace, tenendo a braccetto la sorella per non rischiare di vederla cadere sul marciapiede. Isabelle parve riacquistare l’equilibrio, ma mantenne il contatto con suo fratello.
“E quindi stavi per gridarglielo in faccia?”
Alec annuì. “Jace mi ha bloccato in tempo.”
Isabelle rifletté su tutta quella situazione, in silenzio, qualche istante prima di annuire. “Ha fatto bene. Urlarglielo contro in un momento in cui voleva sistemarti con la figlia di un suo amico gli avrebbe solo dato l’impressione che lo facevi per dispetto.”
Jace annuì concorde. “Gli ho detto la stessa cosa.”
“Identica.” Confermò Alec.
“Che vuoi farci, Alec,” scrollò le spalle Izzy, “Hai due fratelli estremamente saggi.” La ragazza afferrò anche il suo braccio, tenendo entrambi a braccetto. I due la lasciarono fare, senza opporsi a quel contatto.
“Chi l’avrebbe mai detto!”
Isabelle gli lanciò un’occhiata truce e stava per rispondergli con un commento pungente, quando una voce alle loro spalle attirò la loro attenzione.
“Alec!” sentirono chiamare, voltandosi tutti e tre. Trovarono una Lydia che li guardava leggermente imbarazzata, le sue guance si colorarono di un leggero rosa quando tre paia di occhi si fissarono su di lei. La bionda fece scorrere velocemente lo sguardo su Jace e Izzy, prima di fissare i suoi occhi azzurri in quelli di Alec.
“Ciao!” la salutò lui, educato.
“Ciao.” La ragazza accennò un sorriso. “Volevo… volevo chiederti se oggi hai da fare, perché altrimenti potremmo studiare insieme.”
Alec fu enormemente tentato di rifiutare, ma si rese conto che l’unica cosa che lo spingeva ad un gesto del genere era ancora l’astio che provava nei confronti di suo padre per la discussione avuta quella mattina. Lydia direttamente non gli aveva fatto niente, di conseguenza, non avrebbe avuto senso tenerla a distanza, o essere scortese con lei, solo perché era ancora arrabbiato con suo padre.
“Credo che vada bene, ma posso darti conferma più tardi?”
Lydia annuì. “Certo. Allora… a più tardi.” Alzò la mano in segno di saluto, coinvolgendo in questo modo anche Jace e Izzy, che ricambiarono.
Isabelle osservò la chioma bionda di Lydia allontanarsi quel tanto affinché non fosse più a portata di orecchio, prima di parlare. “Ho un brutto presentimento.”
Alec alzò gli occhi al cielo. “Izzy…”
“Non usare quel tono, Alec. Tu sei talmente tonto che non ti sei reso conto di come ti guarda, ma io no.”
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, risentito. “Io non sono tonto!”
“Lo sei, fratello.” Confermò Jace. “La tua ingenuità ti porta a non notare certe cose.”
Alec sbuffò sonoramente. “Vi siete immaginati tutto.”
“Ti dico di no, invece. E non mi piace.” Isabelle era entrata in modalità protettiva. “Papà vuole costringerti ad uscire con lei e improvvisamente lei insiste tanto per vedervi e studiare.”
“Quindi pensi che nostro padre e il suo si siano messi d’accordo per convincerla ad adescarmi?”
Isabelle decise di ignorare il sarcasmo che grondava da ogni parola pronunciata dal fratello. “Più o meno, sì.”
“Questa è una follia, Iz! Solo qualche settimana fa hai detto che non è strano che Lydia mi chieda di studiare!”
Isabelle sostenne il suo sguardo, rimanendo fedele alla sua idea. Alec glielo leggeva in faccia, negli occhi che avevano cominciato ad indurirsi, chiaro segno che qualcosa la preoccupava e che si stava preparando a reagire.
“No che non è una follia. E posso aver cambiato idea!” Isabelle si voltò verso Jace. “Aiutami.”
Il biondo, seppur restio a prendere le parti di uno dei due, annuì. “Non puoi non notarlo, Alec. È una cosa sospetta. E non conosciamo Lydia così bene da escluderlo.”
“Ok, diciamo che voi due non siate impazziti e che abbiate ragione. Dove siamo, in un romanzo ottocentesco? Devo organizzarmi con suo padre per la dote di Lydia, o magari scambiarla per un po’ di bestiame?”
Isabelle sbuffò sonoramente e fece roteare gli occhi al cielo con convinzione. “Stai esagerando, adesso.”
“Senti chi parla.”
“Alec, ascolta,” cominciò Jace, “Forse esageriamo, forse no. Ma perché non andarci cauti?”
“Mi stai suggerendo di non fidarmi apertamente di lei?”
“Esatto!” concordò Jace.
“Certo, perché altrimenti le avrei raccontato ogni dettaglio della mia vita, vero? È rinomato che tra i Lightwood io sia quello più espansivo.” Alec li fissò con un’espressione sarcastica molto più eloquente delle sue parole, che già erano state assai esplicative.
“Ci dispiace.” dissero poi insieme Iz e Jace. “Solo che non vogliamo che nessuno ti forzi a fare niente.” Aggiunse il biondo.
“Vogliamo proteggerti, Alec.” concluse Izzy.
Alec, nonostante l’assurdità della situazione e della conversazione, si trovò a sorridere, abbandonando il suo cipiglio. “Siete strani.”
“Ma ci adori.” Affermò Isabelle, sbattendo teatralmente le lunghe ciglia.
Alec non rispose, ma sapevano tutti che era vero.


Quando arrivarono davanti a scuola, Clary, Simon e Magnus erano già arrivati ed erano intenti in una conversazione fitta, che a quanto pare stava annoiando Magnus a morte. Alec se ne accorse dal modo in cui annuiva assente – nella maniera tipica che aveva quando non voleva risultare offensivo e voleva impegnarsi a nascondere il suo disinteresse. La sua testa annuiva, ma la sua mente era altrove. Alec si chiese a cosa stesse pensando veramente. Sentiva i suoi fratelli parlare di qualcosa, ma anche lui si era estraniato dalla conversazione, concentrandosi su Magnus e sul modo in cui i suoi skinny jeans fossero particolarmente skinny e aderissero alle sue gambe in una maniera peccaminosa.
“Dio, Alec. E papà crede davvero di poterti sistemare con una ragazza!” borbottò Jace, facendo ridacchiare Isabelle e voltare Alec verso di lui.
“Come, scusa?”
“Sei discreto come un elefante in una cristalleria.”
“Già.” Sorrise maliziosa Isabelle. “Sembra tu ti stia chiedendo quanto sarebbe osceno strappargli quei pantaloni in pubblico.”
“Parecchio osceno.” Confermò Jace. “Ma approvo in pieno.”
“Siete due pervertiti!” sussurrò Alec, le guance che diventarono paonazze.
“Sei tu che hai cominciato a spogliare il tuo ragazzo con gli occhi.” Affermò Jace.
“Esatto. Prenditi le tue responsabilità di pervertito e taci.” Concluse Isabelle, facendo esplodere Jace in una risata che portò Clary, Simon e Magnus a voltarsi verso di loro e a raggiungerli.
“Che succede?” domandò Simon, baciando Iz sulla guancia a mo’ di saluto.
“Niente.” rispose lei, lanciando un’occhiata sorniona al maggiore dei suoi fratelli. “Perché non lo chiedi ad Alec?”
L’interessato arrossì violentemente. “Perché non ti fai gli affaracci tuoi, una buona volta?”
Jace e Isabelle si guardarono per qualche istante, prima di scoppiare a ridere insieme. Alec alzò le braccia e gli occhi al cielo, esausto. “Portateveli via, vi prego.” si rivolse a Clary e Simon, i quali furono più che felici di assecondare quella richiesta – che suonava più come una supplica esasperata.
“Non ti libererai così facilmente di noi!” esclamò Jace, ma aveva già un braccio intorno alle spalle di Clary, mentre lei gli circondava la vita, e si stava incamminando all’entrata.
“Ci vediamo a pranzo, fratellone!” Izzy gli lanciò un bacio volante e afferrò Simon per mano, seguendo la direzione presa da Jace e Clary.
“Mi vuoi spiegare?” domandò Magnus, una volta rimasti soli. Alec seguì con lo sguardo i suoi fratelli mentre si allontanavano e diventavano sempre più piccoli, fino a che non entrarono effettivamente a scuola e sparirono dal suo campo visivo.
“Si divertono a torturarmi. Sai che novità.” Ma nonostante tutto, un sorriso gli alzò un angolo della bocca, creando un netto contrasto con il suo tono burbero.
Magnus sorrise, resistendo all’impulso di accarezzarlo. “Non è il bello di avere dei fratelli? Ti sostengono tanto quanto si divertono a torturati?”
Alec rise. “Suppongo di sì.”
I due rimasero a guardarsi per un attimo più lungo del dovuto. Non potevano fare come Isabelle e Simon o come Clary e Jace, che si scambiavano segni d’affetto inequivocabili davanti a tutti. Loro dovevano evitare di toccarsi e non potevano ne baciarsi ne tenersi per mano. Alec cominciava davvero ad essere stanco di aver imposto quella regola: sapeva che Magnus continuava a rispettarla solo per lui, per rispettare i suoi tempi e per evitare che si sentisse forzato a fare coming-out, ma Alec iniziava a pensare che fosse una cosa ingiusta. Avrebbe voluto prenderlo per mano con la stessa facilità con cui Isabelle aveva preso quella di Simon, o avrebbe voluto baciarlo come faceva ogni coppia presente in quel liceo. Non poterlo sentire vicino a scuola stava diventando frustrante.
“Cosa vedono i miei occhi.” Ruppe il silenzio Magnus, distraendo Alec dai suoi pensieri. Notò che gli occhi di Magnus erano fissi sul collo alto del suo maglione. Arrossì.
“Te lo ricordi?”
Magnus annuì. “Certo che mi ricordo. Hai deciso di attentare ai miei ormoni, stamani?”
Alec rise di nuovo. Gli veniva facile farlo quando stava con Magnus. “Devo dedurre che ti piace, quindi?”
“Suppongo di sì, zuccherino. Ma lo appurerò meglio quando deciderai di toglierti il giubbotto.”
“Cercherò di accontentarti il prima possibile, allora.” Alec si incamminò verso l’entrata della scuola, una mano già sulla cerniera del giubbotto. Si voltò verso Magnus, quando si rese conto che non lo stava seguendo ed era rimasto fermo sul posto. “Devo spogliarmi qui fuori o vieni con me?”
Magnus non riuscì a trattenere un sorriso malizioso. “Oh, tesoro. Che equivocabile scelta di parole.”
“Adori quando uso parole equivocabili. Smettila di lamentarti.”
“Non mi stavo lamentando! È comunque un quesito duro da risolvere, il tuo.”
“Dici?” domandò Alec, fingendo innocenza, ma sapendo perfettamente dove sarebbe andato a finire il discorso.
Magnus annuì. “Molto, molto duro.”
“Capisco. Vorrei davvero poter fare qualcosa, in merito.” Alec lo guardò per qualche istante, senza dire altro. Non seppero esattamente cosa li fece scattare, ma lo fecero. Si diressero entrambi verso l’entrata della scuola, cercando di mantenere un’andatura tranquilla, mentre i loro cuori battevano come se fossero impazziti e i loro stomaci, improvvisamente arrotolati su loro stessi, cominciarono a sfarfallare come se una miriade di farfalle si fosse trasferita al loro interno.
Entrarono a scuola, trovando il corridoio semi deserto. Uno dei vantaggi di arrivare prima era che c’erano davvero pochi studenti. Si scambiarono solo uno sguardo, senza proferire parola alcuna, e si diressero verso il bagno dei maschi più vicino.
Una volta dentro, Alec ebbe appena il tempo di percepire un fastidioso odore di disinfettante che gli bruciava le narici, prima che Magnus lo trascinasse dentro ad uno dei bagni. Non che si stava lamentando, erano andati lì per quello. Non si lamentò nemmeno quando Magnus si appropriò voracemente delle sue labbra, infilandogli la lingua in bocca quasi con prepotenza. Lo capiva in pieno, comunque. Fremevano entrambi per avere un contatto e, si sa, l’attesa aumento il desiderio – o qualunque sia il detto. Alec non aveva tempo per pensarci, adesso. Non gli interessavano i detti, gli interessava Magnus e la sua bocca e tutto il suo corpo che premeva contro il proprio. Senza pensarci troppo, gli tolse gli strati di vestiti che gli impedivano di avere un contatto profondo. Con ancora le labbra incollate a quelle di Magnus, gli tolse malamente la borsa a tracolla e il cappotto – che sicuramente doveva costare quanto un rene, ma non gli importava – poi si liberò dei propri strati, lanciando per terra zaino e giubbotto. Magnus si staccò da lui per riprendere fiato e Alec si lamentò con un verso vergognoso per la lontananza. Il maggiore sorrise per quella reazione e osservò Alec in tutto il suo splendore: i capelli incasinati, gli occhi lucidi e le labbra rosse e gonfie. Era uno spettacolo già di per sé. Il maglione che indossava, poi, lo rendeva ancora più bello. Dio, come adorava avere ragione.
“Vuoi fissarmi e basta?” Alec annullò nuovamente la distanza tra di loro e lo baciò con intensità, giocando con le sue labbra, mordendole e passandoci sopra la lingua, prima di infilargliela in bocca. Magnus reagì con un gemito e, allacciando le braccia alla nuca di Alec, gli saltò letteralmente addosso. Alec, grazie ai suoi buoni riflessi, reagì immediatamente afferrando Magnus per le cosce e tenendo in equilibrio entrambi, prima di appoggiarlo alla parete del bagno, che tremò.
“Credi che se lo distruggiamo ci faranno pagare i danni?”
“Sta’ zitto.” Rise Alec, mentre la sua bocca scendeva sulla gola di Magnus, succhiando accuratamente un lembo di pelle. Magnus gli infilò le mani nei capelli e incurvò il collo per dare al suo ragazzo maggior spazio di azione. Alec era decisamente migliorato, si trovò a pensare, in un momento di lucidità. Era più sicuro e i suoi movimenti avevano abbandonato quasi del tutto la timidezza, affidandosi all’istinto e all’esperienza che cominciava ad acquisire senza freno alcuno. Lasciò che la bocca di Alec continuasse ad esplorare la pelle del suo collo, bersagliandola di baci e piccoli succhiotti che non avrebbero lasciato segni troppo evidenti. Erano attenzioni piacevoli. Forse anche troppo piacevoli e Alec se ne accorse perché si staccò da lui per guardarlo con un sorriso consapevole e abbastanza soddisfatto. “C’è un problema che va risolto, signor Bane.”
Magnus cercò di non concentrarsi troppo sul fatto che Alec, mentre teneva gli occhi fissi sul cavallo dei suoi pantaloni, si fosse leccato le labbra. Invano. Quel gesto gli bastò per mandare a fuoco i suoi già eccitati ormoni.
“E pensa di risolverlo in qualche modo, signor Lightwood?”
“Potrei risolverlo,” cominciò Alec, armeggiando con la cintura dei pantaloni di Magnus. Non gli piacevano le sue cinture, erano sempre in mezzo quando dovevano fare qualcosa e non riusciva mai a slacciare quella dannata fibbia al primo tentativo. Quella mattina, comunque, fu fortunato perché ci riuscì subito. E con la stessa facilità passò a sbottonargli i pantaloni. Quei jeans erano molto, molto, skinny, ma Alec riuscì ad abbassarli insieme ai boxer in un colpo solo. “Potrei davvero farlo,” continuò, mentre iniziava ad accarezzare Magnus delicatamente, prima sulla punta con il pollice e poi con la mano, percorrendo molto lentamente tutta la lunghezza di Magnus, che trattenne rumorosamente il respiro.
“Allora fallo.” Sussurrò Magnus, la sua voce uscì roca e spezzata. Alec continuò la sua dolce tortura, moderando i movimenti della mano, che rimasero di una lentezza costante.
“Non ho sentito, Mags.” Si avvicinò al suo viso, respirando il suo profumo. Alec lo adorava e voleva che gli riempisse le narici. Voleva che fosse Magnus l’unica cosa che lo riempisse. Le proprie narici piene del suo profumo e le proprie mani piene della sua virilità.
“Fallo!” ringhiò Magnus. “Smettila di giocare.”
Alec sorrise soddisfatto e lo baciò, appropriandosi di quel ringhio gutturale che era nato nella gola di Magnus.
“Come desideri.” Acconsentì e automaticamente, i suoi movimenti divennero più veloci e più decisi. Non aveva timore di sbagliare perché sentiva, dal modo in cui Magnus aveva cominciato ad ansimare, che non c’era niente di sbagliato in quello che stavano facendo. O nel modo che aveva lui di farlo.
“E se…” iniziò Magnus, dopo parecchi istanti passati in silenzio, la voce che sussultava per via del respiro accelerato. “Adesso entrasse qualcuno e ci scoprisse?”
“Non ci credo che la cosa non ti farebbe piacere.”
Magnus rise, un suono roco che fece rabbrividire ogni centimetro del corpo di Alec. “Mi conosci così bene.”
“Lo so.” Alec lo baciò di nuovo, mentre continuava a toccarlo. Era diventato bravo. Dio se lo era diventato. Non lo faceva più solo per Magnus, lo faceva anche per se stesso. Aveva cominciato a divertirsi, a giocare come se il gioco dovesse dare piacere ad entrambi, e Magnus davvero non poteva che esserne più felice.
“Alexan-” cominciò, perché per quanto fosse divertente, sentiva di star raggiungendo il limite, ma Alec gli tappò la bocca con un altro bacio, lungo e appassionato, continuando a muoversi ancora per un po’, fino a quando gli umori di Magnus finirono sulla sua mano.
Magnus aveva il fiatone e il suo cuore non voleva saperne di calmarsi. Batteva come un tamburo impazzito, come se avesse voluto correre in libertà e urlare al mondo quanto fosse innamorato.
“Ho creato un mostro.” Sussurrò, le parole che saltavano per il respiro accelerato. Alec, con la fronte appoggiata alla sua, rise di cuore.
“Devi decisamente smetterla di lamentarti.”
“Ancora: non mi stavo lamentando.” Magnus gli baciò la punta del naso e Alec sorrise.
“Ti amo.” Gli disse, come se fosse un segreto che solo loro avevano il privilegio di condividere.
Il cuore di Magnus, già agitato, galoppò ancora e il ragazzo pensò sul serio di rischiare un infarto. “Ti amo anche io, passerotto.”
Alec gli lasciò un bacio casto sulle labbra, prima di allontanarsi e prendere un pacchetto di fazzoletti dalla tasca esterna del suo zaino, malamente abbandonato sul pavimento. Li usò per pulire se stesso e poi li passò a Magnus affinché facesse lo stesso.
“E a te non ci pensiamo?” propose Magnus e Alec gli regalò un bellissimo sorriso astuto.
“Perché, vuoi farti perdonare?”
Magnus rise tirando indietro la testa, rischiando di dare una testata contro la parete alle sue spalle, alla quale era ancora appoggiato. “Non te lo sei scordato.”
“Speravi di sì?”
“Non farmi domande stupide, muffin. Se anche tu l’avessi fatto, sarei stato estremamente felice di ricordartelo!”
Alec rise di nuovo e davvero, se quella giornata non era iniziata in un bel modo, grazie a Magnus era decisamente migliorata. “A proposito, perché Cenerentola?”
L’orientale scosse la testa, divertito. “Te lo racconto a pranzo.” Si sistemò i pantaloni, riportandoseli completamente sulla vita e abbottonandoli con un movimento esperto, che Alec ritenne particolarmente ipnotico e soddisfacente da guardare.
Rimasero chiusi in quel bagno per un po’, fino a che non si ricomposero e furono pronti per affrontare la mattinata scolastica che li attendeva. Quando i loro respiri si regolarizzarono ed entrambi furono di nuovo presentabili, uscirono dal bagno uno alla volta.

*

Alec uscì dalla sua aula appena la campanella suonò, segnando la fine dell’ora. Si sentiva come se fosse ubriaco: il suo cuore aveva cominciato ad agitarsi al pensiero che avrebbe rivisto Magnus – ed era ridicolo che sentisse la sua mancanza, dal momento che si erano visti solo poche ore prima – e il suo stomaco fece una capriola. Due, quando, una volta uscito dall’aula, si rese conto che Magnus lo stava già aspettando fuori dalla sua classe. Non riuscì a trattenere un sorriso a trentadue denti, che Magnus ricambiò. Era bellissimo, si trovò a pensare Alec, mentre osservava il viso truccato del suo ragazzo. Aveva delle sfumature di rosso diverse sulle palpebre – smokey eyes, così gli aveva detto che si chiamava quella tecnica – che riprendevano il colore della cresta, la stessa in cui Alec aveva passato le mani poche ore prima, causandone una pendenza verso destra. Comunque, non rimpiangeva nulla. Nemmeno aver rovinato l’altrimenti perfetta capigliatura di Magnus.
“Non puoi guardarmi così, Lightwood. Ho un ragazzo. Sono sicuro che non approverebbe.”
Alec scosse la testa, sorridendo, mentre i suoi occhi andavano ad incatenarsi a quelli di Magnus. “Peccato, avrei sicuramente trovato una scusa per parlarti.”
“Ma davvero? Quale, ad esempio?”
Alec arricciò le labbra, facendosi pensoso. “Avrei potuto chiederti l’ora, o di consigliarmi quale corso fosse migliore: chimica o biologia? – Ma la verità è che la tua bellezza mi avrebbe distratto troppo e avrei dimenticato qualsiasi scusa avessi potuto preparare.”
Magnus gli regalò un sorriso soffice. “Oh, se solo non avessi già un ragazzo di cui sono innamorato, sappi che sarei caduto ai tuoi piedi.”
Alec scoppiò in una risata che lo portò a tirare indietro la testa, esponendo le curve del suo collo, su cui Magnus indugiò. “Inizio ad essere invidioso di questo ragazzo.”
“Fai bene, sai?”
Alec rise ancora, e allungò una mano per pizzicargli un fianco, ma si fermò a mezz’aria, realizzando che sarebbe stato un gesto troppo intimo e inequivocabile. Quella costatazione ruppe la magia di quello scherzo e fece sì che il viso di Alec venne attraversato da una smorfia di cupa tristezza.
“Tesoro?” lo chiamò Magnus, “Va tutto bene?”
“S-sì, io… Odio non poterti toccare, quando siamo tra queste mura.” Confessò a mezza voce. E sapeva che era egoista da parte sua esternare un tale pensiero, dal momento che era stato lui a chiedergli di non essere espliciti e che non aveva ripreso mai il discorso, non ponendo dei cambiamenti. Sebbene Alec fosse cambiato, quella richiesta era rimasta ancora la stessa. L’unica cosa rimasta invariata nel loro rapporto, che invece si era evoluto fino ad uscire dal bozzolo per diventare una bellissima farfalla.
Magnus mise su un’espressione riflessiva. “Beh, zuccherino, detesto doverti contraddire, ma mi sembra di ricordare che tu mi abbia toccato solo qualche ora fa, proprio dentro queste quattro mura.”
Gli angoli della bocca di Alec si alzarono automaticamente. “Non era questo che intendevo.” Ma la sua tristezza cominciava ad evaporare.
“Lo so, tesoro. Era per farti capire che a me non pesa. Vorrei sbattere in faccia a tutti che stiamo insieme? Certo che vorrei. Voglio dire, ti sei visto? Scatenerei più invidia di quanta la mia meravigliosa persona non scateni già, ma tu sei più importante di qualsiasi cosa. Di conseguenza non mi interessa che gli altri lo sappiano. Basta che lo sappiamo io e te. E quando poi vorrai coinvolgere altri, fuori da noi due, io sarò al tuo fianco.”
Alec avrebbe davvero voluto baciarlo. Non aveva parole per descrivere quanto lo amasse, perché qualsiasi parola sarebbe stata riduttiva. “Stamani ho quasi detto a mio padre di te.”
Magnus sgranò gli occhi. “Davvero?”
“Sì. Lui ha… ha cominciato a parlare di Lydia, ancora, dicendo che dovrei invitarla ad uscire e sono quasi esploso. Se non ci fosse stato Jace a fermarmi gli avrei detto che sono innamorato di te.”
Magnus metabolizzò quelle informazioni. “E… l’avresti fatto, senza pentimenti?”
Alec corrugò la fronte. “Perché avrei dovuto pentirmi? Io ti amo, Magnus. E ho intenzione di dirglielo. Forse aveva ragione Jace, farlo stamani, da arrabbiato, gli avrebbe fatto pensare che lo dicevo solo per fargli un dispetto – sai che mio padre non è particolarmente aperto mentalmente – ma ho intenzione di farlo.”
Magnus annuì, i suoi occhi si fecero lucidi. Si sentiva stupido, ma sentire Alec parlare in quel modo lo aveva emozionato. Era un’altra conferma del loro amore, di ciò che erano disposti a fare l’uno per l’altro. Ed era una cosa bellissima. “Tuo fratello ha ragione, comunque. Devi farlo con calma, prendendoti il tuo tempo.”
“Sì, credo di sì.”
Magnus gli sorrise. “Questa Lydia sa che tuo padre cerca di farvi sposare?”
“No, non credo. Stamani, fuori da scuola, mi ha chiesto se potevamo studiare insieme oggi pomeriggio e Izzy è entrata in modalità protettiva. Crede che anche lei c’entri qualcosa in tutta questa assurda storia, ma non credo.”
“E tu che lei hai detto?”
“Che le avrei fatto risapere. Volevo sentire te, prima. Cosa ne pensavi o se volevi fare qualcosa insieme, oggi.”
“Dille di sì,” cominciò, “In questo modo fai felice tuo padre, che per un po’ ti lascerà in pace con questa storia, e al tempo stesso capirai quali sono le intenzioni di Lydia. Sappiamo entrambi che Isabelle in modalità protettiva tende ad esserlo troppo e sfocia nell’ossessivo.”
Alec rise di nuovo. “Pensi che impazzirebbe?”
“Se non ha già trovato il modo per leggere nella mente di Lydia, penso che sì, potrebbe impazzire provandoci.”
“Non posso darti torto. Mia sorella è tremendamente testarda.”
Magnus alzò un sopracciglio perfettamente curato. “Chissà da chi avrà mai preso.”
Alec gli fece una linguaccia – perché era una persona matura ed era così che si reagiva – e insieme si incamminarono verso la mensa.

*

Dopo aver parlato con Magnus, Alec mandò un messaggio a Lydia informandola che quel pomeriggio avrebbero potuto studiare insieme, se a lei ancora andava bene. Isabelle si era fortemente opposta a quella decisione reputandola sciocca e avventata (Magnus intervieni! aveva detto e si era sentita particolarmente tradita quando Magnus si era mostrato complice di Alec) e aveva tenuto il broncio quando Alec non le aveva dato ascolto. La capiva. Capiva le sue preoccupazioni e tutto il resto, ma era fortemente determinato a dimostrarle che tutta quella faccenda stava sfociando nel ridicolo. Il fatto che suo padre pensasse di vivere dentro ad un romanzo di Emily Bronte, non significava che tutto il mondo fosse rimasto bloccato nel 1800. Lui e Lydia avevano sempre studiato insieme e lei non era mai stata inopportuna, di conseguenza Alec era fermamente convinto che fosse all’oscuro di tutta l’intera faccenda. Alec pensò a come dovessero sentirsi i figli dei sovrani quando venivano costretti a sposare completi sconosciuti per rafforzare alleanze politiche come se altro non fossero che merce di scambio. Lui stesso si sentiva così, quando suo padre tentava di convincerlo ad uscire con Lydia. Amaramente pensò che con ogni probabilità non era la felicità del figlio a cui Robert agognava, quanto piuttosto al fatto che se davvero il primogenito dei Lightwood e l’unica figlia femmina dei Branwell fossero usciti insieme, agli occhi di tutti quei bigotti avrebbero formato la coppia perfetta, che avrebbe portato ulteriori lodi a suo padre. Già immaginava Robert scegliere i centrotavola per il loro futuro matrimonio e parlare con padre Aldertree per decidere tutti i dettagli della cerimonia. Il solo pensiero lo fece rabbrividire visibilmente.
“Stai bene?” gli domandò Lydia, al suo fianco. Si trovavano a casa Branwell, nella camera della ragazza. I suoi genitori erano al lavoro e, nonostante Alec avesse proposto di studiare in biblioteca, Lydia aveva insistito affinché studiassero a casa sua.
“Davvero non lo trovi sospetto, Alec? I suoi genitori non sono in casa e lei insiste tanto per studiare con te da lei. Dimmi, sei davvero così stupido da non arrivare a dedurre l’ovvio?”
Uno dei difetti di Isabelle era che diventava particolarmente acida quando qualcosa che reputava incredibilmente stupido veniva fatto comunque, nonostante lei si fosse opposta.
Come quella volta in cui lui e Jace avevano avuto la brillante idea di provare a fare un giro completo sull’altalena per riuscire ad arrotolare le catene all’asta orizzontale dell’intera struttura. Isabelle l’aveva definito un suicidio, ma loro non l’avevano ascoltata e Alec aveva spinto Jace con tanta forza, convinto che in quel modo sarebbe riuscito facilmente a fargli fare un giro di trecentosessanta gradi. Jace, invece, schizzò in avanti e finì con la faccia sui sassi, graffiandosi la guancia. Isabelle aveva dato di matto ed era stata acida, colpendoli a suon di ve l’avevo detto, fino a quando non si erano scusati e non avevano ammesso che aveva ragione.
Alec scacciò quei pensieri e si concentrò su Lydia. “Sì, va tutto bene.”
“Hai freddo?”
“No, tranquilla. Sto bene.” Le sorrise e lei ricambiò. Era carina, non era certo cieco, e se suo padre non fosse stato così insistente e Alec fosse stato etero, forse un pensierino ce l’avrebbe persino fatto. Lydia era quel genere di ragazza discreta e intelligente, una presenza delicata. Non era arrogante, ma sapeva farsi valere – molte volte aveva assistito ad una delle gare di dibattito che facevano in classe e si trasformava in una specie di squalo.
Forse, avrebbero potuto anche essere amici, se avessero avuto più occasioni. Se Alec non si fosse chiuso nel suo guscio. Doveva ammettere, infatti, che se tra i due non era nata chissà quale grande amicizia, era un po’ colpa sua. Lydia aveva tentato più volte di instaurare un rapporto che andasse al di là degli incontri di studio, ma Alec aveva sempre rifiutato. Si sarebbe sentito a disagio e poi… poi non era bravo a socializzare, quindi non avrebbe proprio saputo cosa dirle.
“Ok.” sorrise lei, “Allora, vogliamo cominciare a ripetere?”
Alec annuì concorde. “Cominci tu?”
“D’accordo.”

Studiarono per ore, prima che Lydia chiedesse di fare una pausa. Alec fu ben felice di accettare, dal momento che il suo cervello stava per esplodere. Se avesse pronunciato un altro nome in latino per indicare uno specifico gruppo di batteri gli si sarebbe annodata la lingua.
“Vuoi un caffè?” gli domandò Lydia, sistemandosi una ciocca di capelli sfuggita dalla coda dietro ad un orecchio.
“Sì, grazie.”
Alec per un momento si trovò a pensare che quando studiava con Magnus, le loro pause si trasformavano in momenti dove altro non facevano che baciarsi e stare appiccicati sdraiati sul letto di Magnus, ma decise che non era opportuno riflettere su una cosa simile, dal momento che Magnus non era lì con lui. Si concentrò, quindi, nuovamente su Lydia, che si stava alzando dalla scrivania e gli aveva chiesto qualcosa che lui, immerso nei suoi pensieri, non aveva sentito. Per non fare la figura del maleducato, la seguì fuori dalla stanza e insieme si diressero al piano di sotto.
“Non serviva mi accompagnassi. Potevi rimanere di sopra, se preferivi.”
Ecco cosa gli aveva detto, probabilmente. “No, almeno ti do una mano.” Fece spallucce e Lydia gli sorrise. Una volta arrivati in cucina, Alec la trovò particolarmente confortevole. Non era grande, ma dava l’idea di familiarità e calore. C’era un piccolo tavolo rotondo al centro di essa; sulla sinistra c’era un frigorifero con la superficie di legno e al fianco di esso stava un piano cottura, sovrastato da una dispensa. Alec vide Lydia aprire uno sportello di quest’ultima e allungarsi per cercare di raggiungere, invano, qualcosa. Le si avvicinò senza che lei gli chiedesse niente e afferrò la moca che le dita di Lydia non riuscivano a raggiungere. “Ho fatto bene a scendere, suppongo.”
Lydia liberò un risolino imbarazzato. “Penso di sì.” Afferrò la moca dalle dita di Alec, sfiorando involontariamente la sua mano.
(Involontariamente. Certo, Alec, come no. Cristo, quanto sei ingenuo!)
Era davvero, davvero, davvero, inquietante che Isabelle fosse nella sua testa.
“Sarei salita su una sedia. Però grazie, comunque.”
AH! Alla faccia tua voce-di-Isabelle-nella-sua-testa! L’unica con dei pensieri contorti era solo ed esclusivamente sua sorella!
“Figurati, nessun problema.”
Alec osservò Lydia preparare il caffè in silenzio: la vide prendere il barattolo pieno di polvere di caffè, versare il contenuto necessario nella moca, dopo averla riempita della giusta quantità d’acqua e poi metterla sul fuoco in attesa che bollisse. Rimasero in silenzio fino a quando non sentirono salire il caffè e Alec ebbe l’impressione che tutto questo altro non fosse che una conferma ai suoi pensieri: non avevano un granché da dirsi, esclusi gli argomenti scolastici.
Lydia versò il caffè in due tazze e gli lasciò l’occorrente per prepararlo come più preferiva: zucchero e latte, se lo voleva macchiare. Ma Alec non aveva mai macchiato il suo caffè e ci metteva una quantità di zucchero così misera che rimaneva praticamente amaro.
Sorrise involontariamente pensando che Magnus, invece, metteva quantità industriali di zucchero nel suo caffè.
“Perché ce ne metti così tanto? Copre il sapore del caffè!”
“A me piace lo zucchero, fagiolino. Rende tutto migliore. E nella vita ci vuole dolcezza, non trovi?”

Sì, pensò Alec, mentre il suo sorriso non accennava ad andarsene, ci voleva proprio dolcezza, nella vita. La stessa che caratterizzava il cuore buono di Magnus, che aveva passato tutte le cose tremende che aveva passato e ancora riusciva ad essere dolce e gentile.
“Alec?”
Dannazione. Si era persino dimenticato di essere con Lydia. “Sì?”
La ragazza lo fissò per qualche istante e Alec si trattenne dal non arrossire per l’imbarazzo – sicuramente doveva pensare che fosse un tipo strano, dal momento che sorrideva  da solo come un matto – ma poi l’espressione perplessa di Lydia sparì dal suo viso e Alec si rilassò nuovamente. “Ti va se ci sediamo anzi qui? Ho bisogno di uscire un po’ dalla mia stanza.”
“Certo.” Alec sorrise e si sedette vicino alla ragazza. “A volte anche io ho bisogno di uscire dal posto dove studio.”
Lydia annuì. “Mi piace studiare là, non fraintendermi, ma talvolta mi sento soffocare.” Abbassò lo sguardo sulla sua tazza che abbracciava con le dita e i suoi occhi si fecero più cupi.
“Va tutto bene?” le domandò Alec di getto, prima di riflettere se fosse una cosa opportuna da fare.
Lydia fece spallucce. “Sì… sì, le solite cose.” I suoi occhi azzurri cominciarono a vagare per tutta la stanza, senza mai incrociare quelli di Alec, però. Gli diede l’impressione di star osservando un animale in trappola, un cervo che si aspetta da un momento all’altro di vedere un cacciatore comparire da dietro l’angolo per conficcargli una pallottola in mezzo agli occhi.
“Sembri tesa, Lydia.”
La ragazza esalò un sospiro lungo e pesante. “Vuoi davvero farmi da psicologo?”
Alec incassò le testa tra le spalle. Non erano affari suoi. Lui in primis avrebbe evitato ogni tipo di argomento personale con qualcuno con cui i rapporti si limitavano a fare i compiti, quindi perché doveva insistere tanto affinché Lydia si aprisse con lui?
(Perché ti ricorda te stesso quando non avevi ancora parlato con nessuno di come stavano le cose? O forse perché conosci quello sguardo? O perché sai cosa significa sentirsi in trappola?)
Seriamente, detestava la sua coscienza, a volte.
“No. Non sono affari miei.” Concluse, portando la tazza alle labbra e bevendo un lungo sorso. Lydia lo osservò attentamente per un po’, prima di sciogliersi.  
“Mi dispiace, non volevo essere scortese, ma è…”
“Difficile. Abbiamo qualcosa che ci divora dentro e vorremmo urlarlo al mondo per vedere se almeno in questo modo smette di mangiarci, ma abbiamo paura di farlo.”
I grandi occhi cobalto di Lydia si illuminarono di qualcosa simile alla comprensione, come se avesse udito la materializzazione dei suoi pensieri. “Sì.” Confermò con un filo di voce e Alec annuì semplicemente, bevendo di nuovo un po’ di caffè.
Lydia rimase in silenzio a fissarlo per qualche istante, abbracciando la propria tazza come se dovesse usarla come uno scudo. Alec cominciava a sentirsi a disagio sotto quello sguardo, ma prima che Alec spezzasse quel silenzio sconfortevole con dei convenevoli, Lydia parlò.
“I miei genitori non mi lasciano mai decidere niente. Sono un cliché vivente: una liceale che si lamenta dei genitori ossessivi.”
Alec si schiarì la gola, prendendo tempo per capire se Lydia avrebbe continuato o se stava attendendo una risposta. “Il fatto che sia un problema comune, alla nostra età, non significa che non può farti soffrire.” Le disse, appurato che Lydia stava attendendo una sua reazione.
“Lo so, ma odio lamentarmi. Non mi fanno mancare niente e a volte mi sento un’ingrata, ma… è difficile accontentarli, quando ciò che vogliono loro non è ciò che voglio io.”
Alec si riconobbe fin troppo nelle parole di Lydia e una parte di lui andò nel panico, facendosi prendere dalle paranoie che Isabelle aveva involontariamente alimentato per tutta la mattina –  e se sua sorella avesse ragione e questo fosse solo il modo che aveva Lydia di fargli confessare delle cose che poi lei avrebbe riportato a Robert? – ma un’altra parte di lui, quella più razionale, gli disse che non era l’unico adolescente che aveva problemi legati alle incomprensioni con i genitori e si rilassò un pochino.
“E cosa vogliono?”
Lydia sospirò di nuovo, come se si fosse arresa all’idea di farsi vedere vulnerabile da lui. “Vogliono che vada ad un college qui vicino e diventi una biologa, così posso prendere il posto di mia madre alla scuola privata dove lavora come insegnante di biologia. Non mi fraintendere, mi piace la materia, ma non così tanto da basarci il mio futuro.” Si morse un labbro, come se si fosse pentita di aver detto così tanto. Alec aveva l’impressione che Lydia fosse una di quelle persone che non ama parlare dei propri problemi con altri e teme sempre di esporsi troppo.
Fu tentato di far cadere l’argomento, ma arrivati a questo punto, avrebbe solo fatto la figura del menefreghista.
“E tu cosa vuoi?” le domandò con un filo di voce, come se avesse paura di sconfinare in un territorio a lui proibito, su cui non gli era in alcun modo permesso di camminare.
“Andare a Stanford e studiare legge.” Confessò come se fosse il suo più grosso peccato. “Lo so che non è corretto, ma-”
Alec bloccò le sue parole sul nascere. Gli sembravano un modo che Lydia aveva per giustificare i suoi desideri, come se in qualche modo fossero sbagliati e lei sentisse la necessità di non essere presa per una specie di mostro egoista. “Sì che è corretto, se è quello che vuoi. Non ferisci i tuoi genitori, non fai loro un torto.”
“Non conosci i miei genitori, Alec.”
“Non i tuoi, ma i miei sì. E davvero mi sembra di sentire parlare mio padre. Quando, l’anno scorso, gli ho detto che voglio fare lo scrittore, mi ha guardato come se fossi uno scarafaggio e mi ha detto parleremo del tuo futuro quando avrai intenzioni serie, figliolo. È passato un anno e ancora quando mi chiede cosa voglio fare da grande e io gli rispondo sempre nella stessa maniera, mi tratta con sufficienza.”
Lydia abbozzò un sorriso triste. “Credo che sia questo che mi trattiene dal dire loro la verità. Una parte di me desidera ancora la loro approvazione. E penso sia più forte della parte che vuole la libertà.”
Alec si rese conto che, forse, lui e Lydia erano più simili di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Anche lui, prima di Magnus, si sentiva nello stesso identico modo. Il desiderio di mostrarsi per quello che era davvero veniva sempre sopraffatto da quell’istinto di essere come i suoi genitori volevano che lui fosse: studente modello, figlio ubbidiente, fratello presente. E voleva ancora essere tutte queste cose perché erano parte di lui – gli piaceva studiare perché significava apprendere ed arricchirsi mentalmente e gli piaceva essere un fratello presente perché voleva bene ai suoi fratelli. Ma non gli andava più di essere un figlio ubbidiente, se questo significava andare contro al vero se stesso. Si era nascosto per troppo tempo, consumato dal fatto che si sentisse in colpa per non rispecchiare i canoni dei suoi genitori, ma aveva capito che non c’era niente per cui sentirsi in colpa, non era sbagliato in nessun modo, in nessun fronte. E questo, l’aveva capito grazie a Magnus.
“Forse hai bisogno di un po’ più di tempo.” Azzardò Alec e Lydia annuì concorde. Calò nuovamente il silenzio e Alec finì il suo caffè. Lydia fece lo stesso in due sorsi e quando appoggiò la tazza al tavolino, la sua mano sfiorò quella di Alec. Il ragazzo pensò che fosse una coincidenza, come era successo poco prima, ma poi Lydia cercò con delicatezza di infilare le proprie dita nelle sue, per farle intrecciare. Alec, che aveva riservato un gesto così intimo e personale solo a Magnus, allontanò la mano cercando di non farlo in modo troppo brusco. Non voleva essere scortese, dopotutto. Ma Lydia si ritirò come se avesse preso la scossa, rannicchiandosi sul bordo opposto della sedia, cercando di allontanarsi il più possibile da Alec. Le sue guance erano diventate rosse e il suo sguardo era basso.
“Scusa.” Deglutì. “È stato un gesto fuori luogo.”
Alec si sentì tremendamente in colpa. “No, Lydia, io…” Ma non sapeva davvero cosa dirle. Io lo faccio solo con il mio ragazzo? Era giusto mettere Magnus in mezzo? Sentiva questa strana sensazione di protezione nei suoi confronti. Era come se, all’improvviso, potesse anche andare bene che Lydia e Robert e chiunque altro venisse a scoprire che fosse gay, ma sentisse la necessità di tenere Magnus lontano dalla bufera, di proteggerlo da tutti i commenti negativi che gli sarebbero inevitabilmente piovuti addosso una volta scoperta la verità. Magnus non meritava che un branco di bigotti inferociti gli si scagliasse contro. Lui non l’avrebbe permesso.
“Mi dispiace. Davvero. Non so cosa mi è preso, solo che…” Lydia tornò a guardarlo e lo fissò per un lungo attimo e poi abbozzò un sorriso triste, “…ho una cotta per te dal primo anno, Alec. E visto che sei stato così gentile con me, ho sentito l’impulso di farlo. Ma è stato sciocco e inopportuno. Scusami.”
Alec elaborò quell’informazione con grande sorpresa. Ripensò alle parole di Lydia al fatto che avesse detto che i Lightwood non passano inosservati e lui aveva dato per scontato che stesse parlando di Jace. Nessuno aveva mai avuto una cotta per lui, non quando c’era Jace che era praticamente il tipo di chiunque.
“Non… non è stato sciocco, Lydia. Solo che io… ho già qualcuno ed è un gesto nostro.” Si sentiva un idiota. Non aveva mai avuto a che fare con situazioni del genere. Nella sua vita l’unico che aveva mostrato interesse per lui era anche il ragazzo di cui era innamorato, quindi non c’erano state fasi di rifiuto, ma solo di sentimenti ricambiati. Il che rendeva tutto estremamente difficile da gestire. Si sentiva così in colpa. Incapace di trovare le parole giuste per evitare di ferirla.
“Ma certo, capisco. Scusami ancora, davvero.”
“Smettila di scusarti, non potevi saperlo. E io non so gestirle certe cose. Nessuno ha mai avuto una cotta per me. È Jace il rubacuori della famiglia.” Abbozzò un sorriso impacciato, convinto che dirle la verità, forse, sarebbe stata la cosa migliore da fare.
Lydia scosse la testa, ma un piccolo sorriso stava cominciando a tendere le sue labbra. “Un sacco di ragazze parlano di te, a scuola. Solo che tu non te ne accorgi.”
Alec abbassò lo sguardo, ritrovandosi ancora una volta senza sapere cosa dire. Sentì Lydia avvicinarsi di nuovo, abbandonando quella distanza che aveva messo tra di loro dopo quel tentativo di prenderlo per mano. “Non volevo metterti a disagio, Alec. E non voglio nemmeno che pensi che ti ho fatto venire qui per provarci con te. Mi sei simpatico e sei una delle poche persone che non mi guarda come se fossi strana perché viviseziono rane senza la mascherina.”
Alec alzò lo sguardo e notò che l’espressione di Lydia era più tranquilla. “Non sei strana, anche mia sorella lo fa. Dice che riesce a vedere meglio e a notare cose che altrimenti, e cito testualmente, una stupida mascherina protettiva le impedirebbe di vedere.”
Lydia si rilassò completamente e rise. “Concordo, quel vetro distorce la realtà.”
“L’ho notato.”
“Vuoi andare a finire, di sopra?”
“Sì, certo.” Alec si alzò dal tavolo e, afferrata la sua tazza, si diresse verso il lavandino per sciacquarla. Lydia lo seguì e fece lo stesso. Fuori dalla cucina, salirono al piano di sopra in silenzio, ma tra di loro c’era meno imbarazzo rispetto a quando erano scesi.
Quando entrarono in camera di Lydia, prima di riprendere posto alla scrivania, la ragazza lo chiamò. “Alec?”
“Dimmi.”
La bionda gli sorrise. “Grazie per avermi ascoltata.”
“Figurati. Nessun problema.”

*

Quando Alec rientrò in casa, all’ora di cena, il profumo del pollo arrosto di sua madre gli invase le narici e gli fece brontolare lo stomaco. Aveva una fame mostruosa. Non appena si chiuse la porta di casa alle spalle, sua sorella fece capolino dalla cucina, dove, probabilmente, stava tentando di aiutare Maryse.
Improvvisamente, lo stomaco di Alec – dotato di un incredibile istinto di sopravvivenza – smise di fare rumore. Se aveva cucinato Izzy, il pollo era sicuramente avvelenato. O crudo. O entrambe le cose. Rabbrividì.
“Allora?” sussurrò Isabelle quando lo raggiunse in salotto, i capelli raccolti in due trecce e un grembiule rosa legato alla vita, sopra a un paio di pantaloni di una tuta nera.
“Allora cosa?”
“Ti è saltata addosso appena hai messo piede in casa sua?”
“No, affatto. Abbiamo studiato e… parlato.”
Iz alzò un sopracciglio curato con scetticismo. “Parlato?”
“Perché la cosa ti sorprende tanto?”
“Alec.” si impuntò Isabelle, socchiudendo un occhio mentre lo scrutava attentamente. “Cosa mi stai nascondendo?”
Dannazione. Non voleva dirle ciò che gli aveva confessato Lydia, perché avrebbe cominciato a dire che aveva ragione, ma sapeva anche che non poteva nasconderle niente, perciò…
“Ha parlato un po’ di sé, dei problemi che ha con i suoi. E l’ho ascoltata perché mi sono rivisto molto in lei, davvero. Alla fine… ha provato a prendermi per mano e io mi sono ritirato. Non l’ho fatto in modo brusco, ma non volevo che lo facesse perché lo faccio solo con Magnus. So che può sembrare una cosa infantile, ma-”
“Non è infantile.” Lo interruppe Isabelle, un sorriso dolce sul viso. “Ogni gesto è speciale, se lo facciamo con chi amiamo, di conseguenza ne diventiamo gelosi e non vogliamo che qualcun altro se ne appropri.”
Alec ricambiò il sorriso e l’abbracciò, lasciandole un bacio sui capelli. Isabelle riusciva a capirlo meglio di quanto riuscisse a farlo lui stesso.
“Comunque,” disse Izzy ancora aggrappata al fratello. “Avevo ragione io. Ha una cotta per te. Ormai non puoi più negarlo.”
Alec sciolse l’abbraccio e allontanò sua sorella prendendola per le spalle, guardandola di traverso. “Iz.” La rimproverò.
Isabelle si aprì in un sorriso famelico. “Te l’avevo detto.” Gongolò.
Alec alzò gli occhi al cielo. “Sei un mostro insensibile, Izzy.”
Isabelle rise e la sua risata attirò l’attenzione di Maryse, che fece capolino dalla cucina, salutando Alec. “Sei tornato. Vatti a cambiare, tra poco mangiamo!” Sua madre sparì di nuovo in cucina e Alec tornò a prestare attenzione ad Isabelle.
“Papà non c’è?”
“Tarda anche stasera. Si scusa. Come sempre.”
Alec non si stupì un granché di sentire quelle parole. Era più raro averlo a cena, che non cenare senza di lui. “Si perde il pollo di mamma, il che è davvero un peccato.” Cominciò Alec, tentando di risollevare Izzy. Sapeva che, anche se non l’avrebbe mai ammesso, un po’ soffriva per l’allontanamento di Robert. Da bambini era sempre presente e giocava con lei in continuazione. Dopo l’incidente, il distacco del padre aveva fatto più male ad Isabelle di quanto desse a vedere. “Perché l’ha cucinato mamma, vero?” le domandò Alec, cercando di distrarla.
A quanto pare ci riuscì perché Isabelle gli riservò un’occhiata tagliente. “Che vorresti dire, Alec??”
Il maggiore scoppiò a ridere, mentre si allontanava da Isabelle per non rischiare la flagellazione. “Che altrimenti rischieremmo la morte per avvelenamento!” Fuggì al piano di sopra, salendo le scale alla velocità della luce con Isabelle alle calcagna.
“ALEC!” strillò, mentre cercava di raggiungerlo. “Io cucino benissimo!”
Alec raggiunse la sua camera e si chiuse la porta alle spalle, lasciando Isabelle fuori da essa, mentre bussava con la grazia di un rinoceronte inferocito.
Benissimo!” scandì ogni lettera con una bussata, rischiando di abbattere la porta, mentre Alec cominciava a ridere. Si cambiò velocemente, sapendo che Isabelle non se ne sarebbe di certo andata – adorava avere l’ultima parola nelle loro discussioni. Infatti, quando uscì dalla sua camera con la tuta, la trovò con le braccia incrociate al petto mentre un piede picchiettava per terra. Non era minacciosa nemmeno la metà di quanto avrebbe voluto, con la sua piccola statura, il grembiule rosa e le pantofole a forma di nuvola.
“Ritira quello che hai detto, o ti ficco un mestolo in gola.”
Adesso era minacciosa tanto quanto volesse mostrarsi.
“Non puoi continuare a negare la verità per sempre, Izzy.”
“Non puoi dirlo, finché non assaggi quello che cucino. Raphael dice che sono migliorata!”
“Forse a Raphael non funzionano le papille gustative.”
Isabelle gli scoccò un’occhiata tagliente. “Sei tu il mostro insensibile, non io.”
Alec scoppiò in una fragorosa risata e circondò le spalle di Isabelle con un braccio. Lei, nonostante tutto, non si oppose e gli passò un braccio intorno alla vita, mentre sentiva le labbra di Alec premerle contro la tempia. Gli voleva un bene immenso e non l’avrebbe cambiato con nessuno al mondo. Nemmeno con qualcuno che apprezzava la sua cucina. 





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Ciao a tutti!
Allooora, dopo il capitolo riguardante la storia di Magnus, ho pensato di riprendere gradualmente anche il background di Alec - il suo rapporto un po' instabile con Robert e gli accenni a ciò che è successo a Max. A questo proposito, so che la sto tirando per le lunghe, ma lo faccio perché ho intenzione di spiegare cosa è successo verso la fine della storia, legata ad un altro momento particolare, che non voglio spoilerare. Anche perché devo decidere ancora i dettagli e non vorrei venisse fuori qualcosa di confusionario. Quindi niente, perdonatemi se mi dilungo troppo! 
Se negli altri capitoli abbiamo visto Camille, in questo troviamo Lydia, che non è certo odiosa come la prima e, sorpresa sorpresa (mica tanto, in realtà) ha una cotta per Alec. A proposito, quella parte non mi convinceva un granché ed ero fortemente tentata di cancellarla - perché nonostante la rileggessi e cercassi di modificarla, non riuscivo a trovare qualcosa che mi soddisfacesse - ma poi ho pensato che viene nominata spesso da Robert quindi volevo che almeno un incontro lei e Alec lo avessero. Fatemi sapere se vi ha fatto schifo o se è almeno passabile! 
Piccolo appunto: ho inserito il giuramento parabatai, che forse è un po' fuori luogo, visto che sono tutti umani, ma siccome amo quel pezzo - e lo ammetto, piango come una fontana ogni volta che guardo quella scena - ho pensato di inserirlo. Passatemelo, pls. 
Dopo l'infinità di queste note, vi saluto e ringrazio tantissimo chiunque legga la storia, l'abbia messa tra le seguite/preferite/ricordate e chi trova sempre il tempo per recensire. Lo apprezzo tantissimo e siete tanto gentili <3 
Un abbraccio, alla prossima! :D 

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Capitolo 15
*** 15. ***


L’arrivo delle vacanze aveva portato ad Alec solo cose belle. L’assenza della scuola era una di queste, insieme al fatto che potesse dormire un po’ di più senza avere l’incubo di doversi svegliare in tempo per riuscire a far coincidere il suo tempo dedicato alla doccia con altre cinque persone prima delle otto del mattino. Il suo compito di biologia era andato benissimo e le interrogazioni di fine semestre pure. Poteva ritenersi soddisfatto e sentiva di meritarsi un po’ di sano relax. La sua idea di vacanze comprendeva il non fare assolutamente niente, crogiolarsi nella pigrizia e leggere i romanzi che non poteva leggere durante il periodo scolastico, o rintronarsi il cervello con qualche serie tv che non trovava mai il tempo di guardare. Aveva un sacco di episodi arretrati e aveva tutta l’intenzione di recuperarli.
Di certo, non aveva messo in conto che Magnus non avrebbe assecondato nemmeno uno dei suoi piani. Infatti, quando gli aveva annunciato come avrebbe voluto passare almeno l’inizio delle sue vacanze, prima di iniziare i compiti, Magnus l’aveva guardato di traverso, socchiudendo un occhio solo, scrutandolo come se stesse cercando di capire se fosse serio o lo stesse prendendo in giro. Alec si era un tantino offeso per quell’occhiata, ma aveva cercato di non darlo a vedere. Almeno non fino a quando Magnus gli aveva detto: «Non se ne parla nemmeno. Non ti rinchiuderai in casa una settimana senza di me! Non vuoi passare del tempo insieme?»
Al che, lui gli aveva risposto che passare del tempo con lui era l’unica cosa che voleva fare, ma ciò non significava che non potesse anche dedicarsi ad attività perdi giorno, quando non erano insieme. L’avrebbe fatto la sera, dopo che avrebbero passato i pomeriggi insieme, ma Magnus aveva incrociato le braccia al petto e si era imbronciato, dicendo che lo feriva il fatto che non l’avesse inserito nei suoi piani vacanzieri.
Con il senno di poi, Alec aveva capito che era stata tutta una messinscena, un subdolo modo per farlo sentire in colpa e convincerlo a fare qualcosa che, sapevano benissimo entrambi, lui detestava fare: shopping.
Il piano di Magnus, Alec ci avrebbe scommesso la testa, era quello fin da principio: trascinare Alec per i negozi in cerca di regali per i loro amici, facendolo girare come una trottola impazzita per tutte le strade di New York. Tutte.
Erano stati in un negozio per comprare un set di fasce per capelli per Cat, in un altro per trovare una camicia per Raphael – che Magnus aveva appositamente comprato azzurra perché almeno quel degenerato smette di vestirsi come un becchino (parole di Magnus, non sue. Alec e Raphael tendevano entrambi a vestirsi di nero, quindi non aveva niente da obiettare) – e una maglietta con lo stemma degli Stark per Simon.
Alec cominciava ad essere stanco di entrare ed uscire dai negozi, carico di sacchetti perché, ovviamente, quando Magnus faceva shopping di certo non si limitava a comprare cose per gli altri. In media, rimanevano dentro ad ogni negozio per almeno quaranta minuti e finiva sempre per provarsi qualsiasi cosa trovasse di proprio gradimento, comprando almeno metà delle cose.
Era pieno pomeriggio, quando, dopo aver trovato un astuccio pieno di matite colorate da regalare a Clary, Magnus afferrò Alec per un braccio, stringendolo in una salda presa, e si bloccò in mezzo alla strada. Alcuni passanti si lamentarono, quando si scontrarono con loro, ma proseguirono. Alec, invece, con ancora la mano anellata di Magnus artigliata al suo braccio, si voltò verso il suo ragazzo, trovandolo a guardare un negozio con aria più sognante del solito. Seguì, quindi, la traiettoria del suo sguardo e…
“Magnus, no.”
Magnus si aprì in un enorme sorriso da stregatto. “Magnus, sì.”
“Non pensarci nemmeno.”
L’orientale si voltò verso il suo ragazzo. “Dai, tesoro, ti prego.”
“No. Mai. Assolutamente no.”
“Per favore, passerotto. Devo ancora comprare il regalo per la tua deliziosa sorella.”
“Allora accomodati.” Ribatté sarcastico Alec, facendogli cenno con la mano di entrare senza di lui. “Ho passato gli ultimi tre anni ad evitare posti simili, resistendo alle insistenze di Isabelle e sai meglio di me quanto può essere insistente. Non entrerò.”
Magnus sporse il labbro all’infuori, i suoi occhi si fecero grandi e luccicanti. Aveva messo su quell’espressione da cucciolo a cui Alec non sapeva dire di no. Accidenti a lui, sapeva quali erano i suoi punti deboli e detestava quando li usava a suo vantaggio!
“No!” si impose, ma il suo tono non risultava così convincente come avrebbe voluto. Magnus, siccome sapeva giocare le sue carte, si avvicinò ad Alec, spalmandosi contro il suo fianco in modo che il suo corpo aderisse completamente a quello di Alec, e cominciò a strofinargli il naso sulla guancia, continuando poi a lasciargli piccoli baci seguendo il perimetro della sua mascella, scendendo piano verso il collo.
“Smettila.” Disse Alec, il cui corpo era coperto di brividi che non avevano assolutamente nulla a che fare con il freddo della temperatura esterna.
“Entriamo?”
“No.”
Magnus gli succhiò senza pudore alcuno la pelle sensibile del collo, all’altezza della giugulare.
“Magnus.” Ringhiò gutturale Alec, il cui autocontrollo cominciava ad indebolirsi, allontanando solamente il viso di quel tanto necessario affinché riuscisse a guardarlo negli occhi. Le iridi ambrate di Magnus lo stavano fissando con malizia e Alec conosceva il significato di quello sguardo ammaliatore: Magnus aveva qualcosa in mente.
“Voglio proporti un accordo. Tu entri insieme a me e io farò una sorpresa a te.”
“Sai che non è un vero accordo, giusto? Io faccio qualcosa per te e tu farai qualcosa che piace fare a te facendola passare per una sorpresa per me.
Magnus lo guardò con tenerezza. “Quanto amo il tuo cervello contorto, cerbiattino.” Gli baciò velocemente le labbra. “Ma ti prometto che ti piacerà.”
Alec si arrese all’inevitabile: Magnus non era Isabelle e, sebbene sua sorella sapesse essere molto persuasiva, Magnus aveva mezzi a cui non sapeva resistere. I suoi bellissimi occhi, ad esempio. O la sua bocca appiccicata al collo di Alec proprio in quel momento.
“D’accordo, ma smettila di comportarti così.”
Magnus si morse l’interno delle guance per non ridere. “Perché, altrimenti dobbiamo cercare un camerino libero?”
Alec colse la tutto tranne che velata provocazione di Magnus e decise che, anche se le sue guance erano diventate cremisi, avrebbe assecondato il suo gioco. “Ovviamente no. Ma solo perché da Sephora non hanno i camerini.”
L’espressione stupefatta che si stampò sul viso di Magnus, decise Alec, poteva già essere una ricompensa al fatto che stava per entrare in un negozio di trucchi.

C’era un motivo per cui Alec evitava Sephora da quando Isabelle aveva cominciato a truccarsi, tre anni prima, sviluppando un’ossessione morbosa per qualsiasi cosa andasse applicato in faccia: odiava la ressa, le valanghe di ragazze che si agitano a destra e a manca come formiche in cerca dell’ombretto perfetto, del rossetto che non spegne il viso, del mascara rinforzante, del fondotinta che non le faccia assomigliare a delle zucche arancioni. Di quei negozi, fondamentalmente, Alec odiava l’isteria di massa che si portavano appresso.
Non capiva che dilemma potesse mai nascere dalla scelta di un rossetto. Un rossetto era un rossetto, perché non comprarlo e basta anzi che passare ore a scegliere tra due sfumature completamente identiche?
Se pensava, comunque, che sentire Isabelle parlare di trucchi – spiegandogli quali fossero le differenze nel metodo di applicazione tra un rossetto stick e un rossetto liquido –  fosse una tortura, era solo perché, prima di quel pomeriggio, non aveva mai sentito parlare Magnus di trucchi.
“Mi sembra di ricordare che Izzy abbia già questo ombretto, mentre penso che questo le manchi.”
Ombretti. Erano fermi da mezz’ora sulla scelta di due ombretti completamente identici. Ad Alec stava cominciando a venire mal di testa.
“Magnus, sono uguali. Scegline uno e basta.”
Il maggiore boccheggiò e gli scoccò un’occhiata omicida. “Eretico. Se ci fosse un dio del make-up ti avrebbe già fulminato.”
“Ma siccome non l’ha ancora fatto, salvandomi da questa tortura, evidentemente non esiste.”
“Vuoi fare il cinico proprio vicino a Natale? Cosa dirà di te Babbo Natale?” Magnus gli lanciò un’occhiata divertita, che Alec non ricambiò. “Avanti, pasticcino. Non è così male.”
“Non è male per te. Se ti trascinassi a guardare una partita dell’NBA cosa diresti?”
“Probabilmente ti ringrazierei perché sono una persona che guarda sempre il lato positivo delle situazioni. Chi è che non vorrebbe vedere ragazzi altissimi e atletici che sudano in pantaloncini corti?”
Alec roteò gli occhi al cielo e si arrese per la seconda volta, quel giorno. “Ho capito. Detesto quando hai ragione.”
Magnus gli regalò un sorriso malizioso. “Io lo adoro, invece. Allora, quale dei due?”
“Quello più chiaro.” Sbuffò Alec, arrendevole. “Si lamenta sempre che ha solo ombretti scuri.”
Magnus posò l’ombretto scartato e batté le mani felice. “Perfetto! Adesso, l’eyeliner.” Si incamminò verso un’altra sezione del negozio con fare così esperto che nemmeno le commesse sembravano così sicure, quando andavano a cercare i prodotti richiesti dai clienti. Alec lo seguì trascinando i piedi, consapevole che avrebbero passato dentro a quel negozio un’infinità di tempo. Il lato positivo di tutto questo era che avrebbe passato il pomeriggio con Magnus, quindi alla fine poco importava dove fossero, giusto?
“Alexander!” Magnus gli fece cenno di avvicinarsi e Alec lo raggiunse. Magnus teneva in mano due specie di penne nere uguali e Alec si chiese se il suo ragazzo non stesse cercando di farlo impazzire di proposito.
“Punta fine o spessa?”
Alec assottigliò lo sguardo. “Sei serio?” domandò lapidario.
“Morbida o rigida?” continuò Magnus non riuscendo a trattenere una risata. Alec non si scompose, mantenendo la sua rigida espressione.
“Vuoi torturarmi?”
“Un pochino. Si nota tanto?”
“Si nota tantissimo.
Magnus scoppiò in una fragorosa risata e si avvicinò ad Alec per lasciargli un bacio su una guancia. “Scusa, muffin.”
“Babbo Natale detesta anche te, adesso.”
Magnus rise di nuovo. “Vuoi dire che non avrò il mio pacco regalo?”
“Magnus.” Lo rimbeccò Alec. Lo conosceva abbastanza da sapere che quella scelta di parole non era per niente casuale. La nuova risata che emise Magnus fu una conferma più che sufficiente alla sua ipotesi.
“Lo prenderò a punta fine e rigida.” Concluse Magnus, riacquistando serietà.
“Vorrei davvero sapere di cosa stai parlando, Mags, dico sul serio.”
“No, non è vero.” Magnus gli lasciò un altro bacio fugace sulla guancia e, agguantato l’eyeliner prescelto, si diresse verso un’altra sezione. Alec lo seguì perché, nonostante tutto, era bello vederlo così euforico. E poi, Magnus si era sorbito un dettagliatissimo resoconto sulla gara di tiro con l’arco nazionale, che si svolgeva ogni anno in Svezia, e che Alec guardava in streaming con i sottotitoli della telecronaca, senza dire una parola, quindi poteva decisamente fare questo sforzo per lui. Quando fece per seguirlo, però, la sua attenzione fu catturata dalla moltitudine di colori che stava proprio al fianco di tutti quegli eyeliner apparentemente tutti uguali, ma sostanzialmente differenti. Smalti. Quelli non erano tanto complicati: erano tutti dissimili, i loro colori erano distinguibili senza dover soffermarsi ore a scegliere la sfumatura diversa e, in più, si mostravano esattamente per quello che erano.
Nessuno trucco, nessun inganno. Alec sorrise tra sé della sua battuta – che non avrebbe ripetuto ad anima viva: l’unico che non l’avrebbe guardato con compassione e una punta di disprezzo sarebbe stato Simon, che adorava le battute squallide.
Gli venne un’idea: prendere il buono da quella situazione, vedere il lato bello di un posto che non gli piaceva. E il lato bello era Magnus, che aveva una passione viscerale per qualsiasi prodotto presente in quel negozio. Forse Alec non era bravo a distinguere le differenze millimetriche tra due colori apparentemente identici, ma conosceva Magnus e i suoi smalti: aveva prestato attenzione ad ogni colore che aveva usato da quando lo conosceva e sapeva per certo di non averlo mai visto con lo smalto viola. Fucsia sì, viola no. E anche uno negato come lui sapeva che erano due colori che non c’entravano nulla l’uno con l’altro, quindi non rischiava di regalargli qualcosa che aveva già. Alec lanciò un’occhiata nella direzione presa da Magnus e, dal momento che non lo vide tornare indietro per cercarlo, agguantò lo smalto prescelto e si diresse alla prima cassa libera che trovò, furtivo come se temesse di essere colto con le mani nel sacco. Pagò velocemente l’importo dello smalto e chiese gentilmente alla commessa di metterglielo in un sacchettino, perché era un regalo. Lei sorrise e imbustò l’acquisto in un sacchetto natalizio, ricoperto di piccoli rametti di vischio disegnati. Alec la ringraziò e sistemò il sacchetto in una delle tasche interne del suo giubbotto e si incamminò di nuovo all’interno del negozio alla ricerca di Magnus. Lo trovò in qualche minuto, dopo essersi fatto strada tra un gruppetto di ragazze sovraeccitate per l’imminente arrivo della fine di dicembre – sul serio, non era nemmeno arrivato il Natale e già pensavano all’ultimo dell’anno? – che stava spruzzando quantità spropositate di ogni campione di profumo presente in quel negozio.
“Dov’eri finito, stellina?”
“Mi sono perso.” Mentì.
Magnus alzò un sopracciglio. “Qui dentro?”
“Non tutti hanno una mappa stampata in testa di questo posto immenso, Magnus.”
Magnus gli rivolse una linguaccia che Alec ricambiò.
“Allora, cosa stiamo guardando?” gli domandò quindi il moro e Magnus allargò un braccio come se fosse una guida esperta che mostra le rarità di un museo che Alec andava a visitare per la prima volta.
“Maschere per il viso.”
“Quei cosi appiccicosi che Izzy si spalma sulla faccia?”
“Proprio quelli.”
“E a cosa servono?”
Magnus boccheggiò. “Sei senza speranze, tesoro.”
Alec alzò gli occhi al cielo davanti a tanta melodrammaticità. “Vuoi dirmi a cosa servono o continuerai a marcare la mia ignoranza in materia ogni volta che ti chiederò spiegazioni?”
Magnus si morse l’interno delle guance per non sorridere. Alec che brontolava era tremendamente carino: sembrava uno di quei gattini scontrosi che ti permette di coccolarli, ma continua a guardarti di traverso. Adorabile.
“Servono a nutrire la pelle e la rendono più liscia.”
“Oh. Mi hanno sempre fatto impressione. Isabelle se le mette in faccia e cammina per casa assomigliando a DiCaprio ne La maschera di ferro.
Magnus rise, trovando il paragone calzante. “Ma sono il motivo per cui tua sorella ha la pelle così liscia.”
“E io che pensavo dipendesse dal fatto che ha quindici anni!”
“Sei impossibile!” si arrese Magnus, alzando le braccia al cielo con esasperazione. Alec si trovò a ridacchiare senza nemmeno rendersene conto.
“Avanti, lo so che ti diverti, invece. Ti piace istruirmi su queste cose.” Alec si chinò per lasciargli un bacio sulla fronte, ma quando fece per tirarsi indietro, una delle mani di Magnus afferrò uno dei risvolti del suo giubbotto per tirarlo a sé e appropriarsi delle sue labbra. “Mi piace istruirti su un sacco di cose, in realtà.”
Alec strinse le labbra all’interno della bocca per non sorridere, ma non ci riuscì. Sulle sue guance – leggermente colorate di un delicato rosa – fecero capolino le fossette. “Lo so.”
Magnus si perse a guardarlo: gli piaceva contemplare Alec senza nessuno motivo alcuno, solo per il gusto di farlo.
“Allora, hai intenzione di comprarla o no?” ruppe il silenzio Alec, indicando la maschera confezionata che Magnus teneva in mano.
“Pensi che ne abbia bisogno?”
“Onestamente? No. Ma so perfettamente che se la vuoi comprare, la comprerai qualsiasi cosa io dica.”
Magnus rise di gusto, accarezzando una guancia di Alec. “Hai ragione. E mi ringrazierai quando noterai la mia liscissima pelle.”
“La tua pelle è già liscissima, Magnus.”
Magnus sorrise e gli lasciò un bacio sul mento. “Andiamo alla cassa. Abbiamo finito.”
Alec fu ben felice di seguirlo e, visto che era ancora fermo all’idea che dovesse prendere il buono da quella situazione, passò tutto il tragitto fino alla cassa a fissare il sedere di Magnus. Quello sì che era il lato bello della situazione.

Uscirono da Sephora dopo aver passato una ventina di minuti alla cassa. La commessa voleva vendere a Magnus qualsiasi cosa e, alla fine, lui aveva ceduto all’insistenza della ragazza comprando delle salviette struccanti. Più di una volta Alec era stato tentato di risponderle che no, non avevano bisogno di dischetti di cotone, altrimenti li avrebbero comprati di loro spontanea volontà. Magnus era stato paziente ed educato, rifiutando qualsiasi proposta, fino a quando lei non aveva nominato quelle salviette e allora aveva ceduto. Alec aveva l’impressione che l’aveva fatto più per esasperazione e non perché gli servissero davvero.
Fatto sta che, dopo essere usciti più o meno incolumi da quel posto, Magnus aveva proposto di entrare dentro ad un negozio di sport perché l’ultimo regalo che gli mancava era quello di Drace.
Jace, Magnus.”
“Dettagli. Allora, pensi che dei polsini possano servirgli?”
“Non lo so, penso di sì.” Alec scrollò le spalle e fissò l’enorme scritta al neon che lampeggiava di rosso sopra alla struttura. “Sei sicuro di volerlo fare?”
“Perché non dovrei? Mi manca solo tuo fratello e se finiamo oggi non dovremo più fare shopping per il resto delle vacanze.”
“Sei sincero o lo dici solo per farmi stare meglio?” una smorfia di insofferenza si impossessò del viso di Alec.
Magnus fece intrecciare le loro dita e gli accarezzò il dorso della mano con il pollice. “Dico davvero, tesoro.”
“Quindi se finiamo oggi, da domani potremo guardare serie tv insieme o andare al cinema?”
“Dipende: al cinema possiamo pomiciare?” gli domandò Magnus, un sorriso giocoso ad allargare il suo viso.
Alec si liberò in una risata sincera. “Sì, possiamo.”
“Allora ci sto.”
“Perfetto! Possiamo entrare, adesso.”

Quando varcarono la soglia di quel negozio di sport, Alec fu accolto dall’odore tipico degli articoli sportivi nuovi. Era un negozio enorme, con le pareti bianche sulle quali stavano articoli di ogni genere in svariati colori – quelli più gettonati dagli sportivi erano, evidentemente, quelli fluo. Alec rabbrividì all’idea di sembrare una specie di cono segnaletico.
“Questo posto mi ferisce l’anima.” Sussurrò Magnus non appena si inoltrarono tra gli scaffali di scarpe. Arricciò il naso davanti ad un paio di Nike verdi e gialle.
“Vuoi che te le regali per Natale?” scherzò Alec, notando l’espressione scettica del suo ragazzo. Gli occhi di Magnus scattarono da quella specie di evidenziatori per piedi alla figura di Alec, colmi di panico.
“Non pensarci nemmeno!”
Alec non riuscì a trattenere una risata. “Dovresti vedere la tua faccia!”
“Sono felice che ti diverti a mie spese, davvero!” Magnus incrociò le braccia al petto, guardandolo serio. Alec sgranò gli occhi, non credendo nemmeno un momento a quel teatrino. Sapeva che Magnus non era offeso per davvero, stava solo facendo finta.
“Oh, andiamo! Tu puoi prendermi in giro e io no?”
“Esattamente.”
“Sai, Magnus,” cominciò Alec, appoggiandogli le mani sui fianchi per tirarlo a sé, “Sei credibile come la relazione assolutamente amichevole tra Eames e Arthur.”
“Ma eravamo d’accordo sul fatto che– oh, capito, mi stai dicendo che non sono credibile!”
“Bravo, sayang.”
Non appena pronunciò quelle parole, sia Alec che Magnus si zittirono: il primo perché si era reso conto di aver pronunciato quella parola senza averne davvero l’intenzione; il secondo perché non sentiva una parola nella sua lingua nativa da anni. Guardò Alec con gli occhi grandi di sorpresa, ma non aveva il coraggio di chiedergli niente. Il minore si rese conto che doveva esserci qualcosa che non andava, nell’uso di quella parola, perché il viso di Magnus era un misto di stupore e… nostalgia.
“M-Magnus, i-io…” Le guance di Alec si colorarono immediatamente di un rosso acceso, sentendo l’imbarazzo nascere in sé e diffondersi in tutto il suo viso.
“Come sai quella parola?” lo interruppe Magnus, i suoi occhi cercarono quelli dell’altro e lì rimasero: incatenati al suo Alec, che stava annaspando, temendo di aver fatto qualcosa di sbagliato; il suo Alec che era riuscito a dare alla sua lingua una sfumatura meno dolorosa, senza nemmeno saperlo.
“I-io… Non so perché l’ho detto. Mi è uscito e basta.” Cominciò a guardarsi intorno, agitato. Magnus gli afferrò il viso tra le proprie mani per impedirgli di guardare altro che non fosse lui.
“Non agitarti, tesoro. Sono solo curioso.”
Alec esalò un profondo respiro, le sue spalle si abbassarono un poco, come se fossero indecise se rimanere tese o se cominciare a rilassarsi. “Per te. L’ho imparato per te. Mi chiami sempre tesoro e volevo sapere come si dice in indonesiano. Tu lo dici nella mia lingua, io volevo impararlo nella tua.”
Magnus riuscì quasi a sentire il suo cuore esplodere. Era così innamorato di quel ragazzo che riusciva sempre a sorprenderlo per la sua genuina bontà che temeva non esistesse parola per descrivere la portata devastante del suo sentimento. Alec era prezioso. E lui era stato così fortunato da essersi innamorato di lui ed essere ricambiato.
“È la cosa più dolce che abbiano mai fatto per me.” Magnus gli rivolse un sorriso soffice, irrimediabilmente innamorato, e appoggiò delicatamente le sue labbra su quelle di Alec. Lo baciò con delicatezza, volendo in qualche modo ricambiare tutta la dolcezza che aveva percepito in quel gesto. Alec sorrise felice sulle sue labbra e appoggiò le proprie mani sui polsi di Magnus.
“Pensavo di aver detto qualcosa di sbagliato.” Gli confessò quando si separarono.
“Non hai detto niente di sbagliato. È solo che…” Magnus fece una pausa e Alec gli lasciò il tempo di continuare, o di lasciar cadere l’argomento, se avesse voluto. “La mia mamma mi parlava in indonesiano.”
Alec si rese immediatamente conto del perché gli sembrava di aver colto una sfumatura nostalgica nel viso di Magnus e si sentì in colpa per aver parlato a sproposito. “M-mi dispiace, non lo sapevo. Non volevo farti soffrire.”
Magnus gli sorrise. “Non l’hai fatto, Alexander. Hai dato alla mia lingua un nuovo significato. Adesso non l’assocerò più solo a lei, ma anche a te e ai tuoi tentativi di fare qualcosa di carino per me. Grazie a te, adesso, è meno dolorosa.”
Alec annuì, un lieve sorriso di comprensione a fare capolino sul suo viso. Magnus si sporse di nuovo verso di lui per lasciargli un bacio a stampo. “Puoi dirlo ancora?” gli sussurrò, strofinando il suo naso contro quello di Alec, nell’imitazione di un bacio all’eschimese.
Sayang.”
Magnus, le mani appoggiate al petto di Alec, chiuse gli occhi e lasciò che quella parola risuonò nelle sue orecchie, permettendo ad ogni parte di sé di assorbirla e farla propria. Costatò che sentire di nuovo la sua lingua natia faceva davvero meno male perché era Alexander a parlarla e automaticamente la riempiva di quell’amore che Magnus sapeva provava nei suoi confronti. 
“Mi piace molto come suona.”   
Alec lo guardò adorante e gli sorrise, più tranquillo. “Mi fa piacere.”
Ed era vero. Non sapeva perché quella parola gli fosse uscita dalle labbra, sapeva solo che l’aveva detta. Non si era soffermato a pensare, mentre cercava un modo di avvicinarsi alla lingua nativa di Magnus, che questa potesse ricordargli sua madre e, in qualche modo provocargli sofferenza: lui non voleva questo, voleva solo dimostrargli che teneva a fare qualcosa per lui, a fargli capire che ogni parte di Magnus era importante, per Alec. Di conseguenza, sapere che, nonostante tutto, era riuscito a fare qualcosa di buono per Magnus lo rendeva felice.
“Andiamo, zuccherino, devo trovare dei polsini!” Magnus ruppe il silenzio, facendoli tornare entrambi alla realtà e al vero motivo per cui si trovavano in quel posto. Quel piccolo momento che era avvenuto tra di loro li aveva trascinati nel loro angolo di mondo, quello in cui non percepivano nessun altro se non loro due.
“Li vuoi fluo?”
Il viso di Magnus si accartocciò in un misto di orrore e disgusto. “Non dire eresie, Alexander! Mi taglierei le mani prima di anche solo toccare qualcosa di fluo, figurati comprare.
Con Alec che ancora rideva – una mano appoggiata all’addome – si incamminarono tra gli scaffali alla ricerca del regalo per Jace. 

*

Alec non aveva mai immaginato che lo shopping potesse risultare così stancante. Dopo una giornata intera passata per negozi, comunque dovette ricredersi. Lui e Magnus stavano seduti sul treno, in metropolitana, uno vicino all’altro, circondati di tutti i sacchetti che contenevano gli acquisti di Magnus e il moro sentiva le gambe pesanti, come se avesse passato le ultime ore a saltare la corda. Nemmeno le preparazioni agli incontri di boxe lo prosciugavano così tanto.
“Sono stanco.” Si lamentò, quindi, appoggiando la testa alla spalla di Magnus. L’orientale sorrise comprensivo.
“Perché non ci sei abituato, tesoro.” Gli baciò i capelli e Alec si accoccolò ulteriormente vicino al suo ragazzo, incurante di tutti quei sacchetti che tentavano – invano – di mettersi tra di loro.
“Fare shopping mi fa venire fame.”
Magnus rise e le sue spalle vibrarono. Alec sentì la testa ciondolare al ritmo della risata.
“La prossima volta faremo pausa cibo.”
“Non penso ci sarà una prossima volta, Magnus.” Alec alzò il viso per lasciargli un bacio su una guancia e si risistemò nella sua posizione iniziale. Magnus era incredibilmente comodo e profumava di buono.
“E i saldi di primavera?”
“Ci andrai con Isabelle.”
Magnus sentì una calda sensazione al cuore. Alec avrebbe potuto dirgli qualcosa come: ‘vedremo’ o ‘chissà cosa accadrà tra tre mesi’. Avrebbe potuto dire qualsiasi altra cosa, invece gli aveva risposto come se avesse la certezza che saranno ancora insieme, in primavera. Magnus sentì il suo cuore accelerare: Alec vedeva in lui un progetto a lungo termine, una storia seria, qualcosa su cui non solo basare il loro presente, ma anche proiettare il loro futuro. Era una sensazione bellissima, che gli infondeva un profondo senso di sicurezza e appagamento.
“Non riuscirò a convincerti?”
“Dipende: se la sorpresa che mi hai promesso mi piacerà, allora potrei prendere in considerazione l’idea di tornare a fare shopping.”
“E in cambio dovrei di nuovo ripetere la sorpresa?”
Alec annuì sulla sua spalla. “Esatto.”
“Sei più manipolatore di Presidente, lo sai vero?”
Alec rise e alzò di nuovo il viso per strofinare il naso sul collo di Magnus. “Questo è impossibile: nessuno batte Presidente in fatto di manipolazioni.” Gli lasciò un bacio che durò più a lungo del previsto e, sebbene consistesse solo nel tenere le labbra appoggiate alla pelle dell’orientale, Magnus sentì un brivido percorrergli tutta la spina dorsale.
“Ti ho preso una cosa.” Esordì Alec, dopo aver abbandonato il collo di Magnus – che ne sentì un tantino la mancanza.
“Oh. Davvero?”
Alec annuì e sollevò il capo dalla spalla di Magnus. Mise una mano all’interno della sua giacca e ne estrasse il sacchetto di Sephora con il vischio disegnato. Magnus sorrise e lo afferrò con cura, passando il pollice sopra alla decorazione.
“Aprilo.” Gli suggerì Alec, mordendosi un labbro. Fare regali a Magnus gli metteva sempre una certa agitazione.
“Ma i regali di Natale si aprono a Natale.”
“Non è il tuo regalo di Natale, Magnus. Quello è ben nascosto in casa mia, lontano dalle grinfie di Isabelle, che altrimenti lo guarderebbe e, non riuscendo a tenere il segreto, ti spiffererebbe cos’è.”
Magnus rise e scosse affettuosamente la testa al pensiero di una Isabelle che curiosa tra i regali di suo fratello e di Alec che, conoscendo sua sorella meglio delle proprie tasche, prende le giuste precauzioni per evitare che la sorpresa venga rovinata. Passò la mano sopra al sacchetto e poi tornò a guardare Alec. “Vischio a Natale, tesoro.”
Alec sorrise, impacciato. “Vuoi un bacio?”
Per tutta risposta, Magnus chiuse gli occhi e arricciò le labbra, in attesa che Alec ci appoggiasse le sue. Il moro sorrise e lo baciò a stampo.
“Terrò questo sacchettino e lo porterò ad ogni nostra uscita, così avrò una scusa per baciarti.”
“Tecnicamente questa usanza vale solo a Natale. E non pensi che dovrei trovare offensivo il fatto che ti serva una scusa per baciarmi?”
“Volevo essere romantico. Hai ucciso ogni mio tentativo.”
Alec rise e gli diede una spallata giocosa, avvicinandosi per dargli un altro bacio. “In realtà ho apprezzato.”
“Ti ringrazio!”  Magnus chinò un poco il capo, come a voler enfatizzare i suoi ringraziamenti, facendo sorridere Alec, e infilò la mano dentro al sacchetto.
“Sei tu il lato bello di quel posto. In realtà sei il lato bello di ogni cosa e volevo dimostrartelo.” Sussurrò Alec, mentre Magnus teneva tra le mani la boccetta di smalto. L’orientale alzò i suoi occhi su Alec e lo guardò, rendendosi conto che quella sarà stata almeno la centesima volta, in una giornata, che lo guardava in un modo totalmente e perdutamente innamorato.
“Non finisci mai di sorprendermi, Alexander.”
Alec arrossì e abbassò gli occhi. “In positivo, spero.”
Magnus portò due dita sotto al mento dell’altro, spronandolo ad alzare lo sguardo. “Sempre in positivo.”
Alec sorrise, sentendo un’euforica felicità riempirgli il cuore, e Magnus per tutto il tragitto fino alla loro fermata continuò ad usare il vischio come pretesto per riempirlo di baci.

*

Il giorno successivo, Alec si recò a casa di Magnus come avevano concordato. Il loro piano di andare al cinema era saltato dopo aver dato un’occhiata agli spettacoli: non avendone trovato nessuno di loro gradimento, avevano deciso di stare insieme a casa di Magnus. La cosa che meno gli piaceva di questa sua fuga romantica era stato aver lasciato Max da parte. Era solito, infatti, che durante le vacanze di Natale, lui e il suo fratellino passassero del tempo insieme, ma ciò non era ancora successo. Quel pomeriggio Max era piombato nella sua stanza, quando lui si stava ancora vestendo, e l’aveva guardato con gli occhi grandi colmi di aspettativa.
«Quando facciamo qualcosa?»
E Alec sapeva che gliel’aveva chiesto perché, normalmente, la sua risposta sarebbe stata «Adesso, Max. Possiamo fare quello che preferisci.»
Ma quell’anno c’era Magnus e, anche se poteva sembrare egoista, aveva pensato di passare prima un po’ di tempo con lui – dal momento che con l’arrivo del Natale non si sarebbero visti – e poi dedicarsi al suo fratellino.
Lo sguardo di delusione che Max cercò di nascondere dopo che Alec gli aveva detto «Oggi non posso», comunque fu una specie di pugnalata al cuore per il maggiore dei Lightwood.
L’ultima cosa che voleva era che Max si sentisse trascurato da lui. Doveva solo trovare il modo adatto per rimediare. Avrebbe potuto portarlo in quel negozio di fumetti che tanto gli piaceva. Ci avrebbe pensato e avrebbe agito, magari coinvolgendo anche Jace e Iz: sapeva quanto a Max piacesse fare le cose tutti insieme.
Sospirò, per cercare di allontanare almeno un po’ il senso di colpa, e si accinse a bussare, ma la porta si aprì quando ancora teneva il pugno sollevato a mezz’aria.
“Alec!” esordì Ragnor, vestito di tutto punto, mentre si sistemava una sciarpa intorno al collo. “Stavo uscendo. Magnus è in cucina. Entra pure!” Ragnor uscì e lo salutò con un cenno, che Alec ricambiò prima di entrare. Una volta chiusa la porta alle sue spalle, lasciò che il calore della casa riscaldasse le sue guance rosicchiate dal freddo e poi appese, come consuetudine, il suo giubbotto all’attaccapanni. In tutto questo, di Magnus neanche l’ombra. Forse non aveva sentito la porta chiudersi, o se l’aveva sentita, aveva dato per scontato che fosse stato Ragnor che usciva. Scrollò le spalle, prendendo per buona quell’ultima spiegazione e si inoltrò nella casa, diretto verso la cucina. Prima di incamminarsi, però, delle fusa attirarono la sua attenzione e vide Presidente sul divano che reclamava le sue attenzioni. Sorrise e si avvicinò al felino, che si lasciò sollevare e si accoccolò contro di lui, strusciandosi contro il suo petto.
“Sei proprio come il tuo padrone.” Gli grattò la testa con affetto e il gatto miagolò in approvazione. Con il micio ancora in braccio, Alec si diresse verso la cucina, incamminandosi nel corridoio, dove notò che erano state aggiunte foto nuove – scattate da Magnus – di New York. Ce n’era una della nevicata della scorsa settimana, quando la città era stata trasformata in una coltre di soffice neve fredda e loro avevano rischiato di sfracellarsi sulle strade ghiacciate almeno una decina di volte. Alec ricorda i crampi alla pancia dalle risate, mentre tentavano di tenersi in equilibrio a vicenda per non avere un incontro ravvicinato con l’asfalto ghiacciato. Magnus aveva scattato una foto anche a lui – chissà se l’aveva sviluppata o era ancora nella memoria della macchina fotografica, pensò, mentre ricordava la foto: Alec, un cappello nero di lana calato sulla testa, aveva alzato il viso al cielo perché aveva cominciato a nevicare e il primo fiocco era finito sul suo naso. Magnus aveva fotografato il momento perché «è una coincidenza rarissima e non immortalarla sarebbe un affronto al destino». Alec aveva riso, ma l’aveva lasciato fare. Aveva capito che tentare di persuadere Magnus a non fotografarlo quando gli veniva l’ispirazione era inutile.
Presidente miagolò e riportò Alec alla realtà, facendolo muovere fino a che non raggiunse la cucina. La porta era aperta, ma Magnus sembrava non essersi reso conto ancora della sua presenza, quindi Alec rimase ad osservarlo: era davanti all’isola e stava impastando qualcosa dentro ad una ciotola. Le sue mani e il suo viso erano sporchi di farina e portava un grembiule lilla su cui una moltitudine di paillettes dorate formava la scritta: dai un bacio al cuoco.
Era letalmente carino, mentre canticchiava e si muoveva leggermente come ad improvvisare un balletto tutto suo su quelle note, concentrandosi a preparare qualsiasi cosa ci fosse all’interno di quella ciotola. Alec sentì le guance tirarsi in un sorriso. L’avrebbe guardato per un’infinità di tempo, ma Presidente miagolò ancora, attirando l’attenzione di Magnus.
“Hai fame, Pres– Alexander!”
“Ciao,” gli sorrise e gli si avvicinò. Magnus fece il giro dell’isola per andargli in contro. “Ragnor mi ha fatto entrare.” Spiegò il minore, come se volesse giustificare la sua comparsa improvvisa.
“Potevi chiamarmi.”
“Eri così carino mentre canticchiavi con questo grembiule, che su chiunque altro risulterebbe ridicolo, che non me la sono sentita.”
“Il mio grembiule non è ridicolo.”
“Ho detto che su chiunque altro sarebbe risultato ridicolo. Ho detto che sei carino, non mi hai sentito?”
“Forse volevo solo sentirmelo ridire.” Magnus gli regalò un sorriso e azzerò la distanza tra di loro – o almeno, ci provò, perché Presidente miagolò in disapprovazione e si agitò in braccio ad Alec. Rimanere spiaccicato tra i due umani era l’ultima cosa che voleva e lo manifestò soffiando.
“Bestiola ingorda. Lo vuoi tutto per te?” Magnus chinò il viso all’altezza del muso di Presidente, ma il gatto, in tutta risposta, nascose la testa nella curva del gomito di Alec. “Devi smetterla di viziarlo ogni volta che vieni qui, sta sviluppando un attaccamento morboso nei tuoi confronti.”
“Non preoccuparti, Mags. Sei ancora il mio preferito.” Disse scherzoso prima di chinarsi verso di lui e dargli un bacio a stampo. Dopotutto, era ciò che diceva il grembiule, no?
“Mi stupirei del contrario, passerotto.” Magnus si incamminò di nuovo alla sua posizione iniziale. “Siediti, sto preparando un dolce!”
Alec lo seguì e si sistemò su uno degli sgabelli dell’isola, di fronte a Magnus e, dopo aver sistemato Presidente sulle sue cosce, appoggiò i gomiti sul ripiano. I suoi occhi vagarono curiosi su ciò che stava sul tavolo: farina, uova, zucchero, una spatola di legno, un colino e un panetto di burro. “Da dove viene questo estro culinario?”
Magnus, che aveva ripreso a mescolare l’impasto, alzò gli occhi su Alec – il quale dovette fare uno sforzo non indifferente per concentrarsi sul viso di Magnus e non sul suo bicipite destro che si gonfiava mentre mescolava. Magnus in maniche corte era una tentazione e Alec tendeva un po’ troppo a lasciarsi distrarre dalla pelle scoperta.
“Stamani mi sono svegliato e ho pensato che saresti venuto, questo pomeriggio, allora mi sono detto: perché non fare un dolce per il mio zuccherino? E voilà, un gâteau pour mon chéri!”
Alec sorrise e scosse affettuosamente la testa. “Vuoi cominciare a viziarmi?” Si allungò verso l’impasto per cercare di assaggiarlo, ma Magnus gli schiaffeggiò una mano.
“No, chéri, non si fa!”
Alec sporse il labbro all’infuori e lo guardò con gli occhi grandi. “Ma pensavo fosse per me!” si lamentò.
“Non lo mangerai crudo. Vuoi che ti venga la salmonella?”  
Alec alzò gli occhi al cielo. “Non esagerare, Magnus.”
“Io non esagero. Sono prudente. Ora, lasciami finire così almeno lo metto in forno e dopo potrai mangiarlo.” Magnus si allungò sul tavolo per prendere una boccetta aromatizzata alla vaniglia e ne versò metà nell’impasto. Nel frattempo Presidente, stufo di sentire l’umano muoversi per riuscire a guardare l’altro umano che cucinava – del cibo che non era destinato a lui, tra l’altro. Come osava? – si stiracchiò e saltò giù dalle cosce di Alec, incamminandosi altezzosamente fuori dalla cucina, tenendo la coda ritta. Entrambi ridacchiarono guardando il micio che, risentito, li lasciava da soli. Alec, a quel punto, si alzò dallo sgabello per raggiungere Magnus: lo abbracciò da dietro, appiccicando il proprio petto contro la sua schiena, e appoggiò il mento sulla spalla di Magnus, guardando i suoi movimenti dall’alto.
“Lo vuoi il cacao?” Magnus si voltò per dargli un bacio su una guancia.
“Sai che mi piace il cacao.”
Magnus sorrise compiaciuto e allungò un braccio verso la busta di cacao in polvere che aveva già preparato – perché conosceva Alexander e i suoi gusti – e ne versò due cucchiai nell’impasto, che cambiò lentamente colore: da bianco divenne sempre più scuro fino a diventare nero. Magnus era intento a mescolare con cura per rendere il tutto liscio e omogeneo, mentre Alec aveva cominciato a dedicarsi all’arte della distrazione. Infatti, aveva cominciato a lasciare piccoli baci sul collo di Magnus, che trovava sempre più difficile concentrarsi su quello che stava facendo.
“Se fai così non finirò mai.”
“Ma profumi di buono,” sussurrò Alec, strofinando il naso sulla pelle di Magnus, “E hai una maglietta a maniche corte.” Disse, come se bastasse come giustificazione al suo comportamento. E per come la vedeva Alec, aveva tutte le ragioni affinché suonasse come tale: se Magnus non avesse avuto quella maglietta, aderente come una seconda pelle, e un bellissimo corpo, lui non sarebbe stato così tentato. Nemmeno quell’appariscente grembiule riusciva a sviare l’attenzione dal fisico di Magnus. O a renderlo meno desiderabile. Lo strinse più a sé e le sue mani, appoggiate sull’addome di Magnus, vagarono sotto il grembiule e la maglietta, accarezzando gli addominali e scendendo, lentamente, sempre più in basso fino a che non raggiunsero la cintura dei pantaloni. Magnus, il cui respiro aveva cominciato ad accelerare insieme al suo cuore, dovette fare uno sforzo titanico per fermare Alec e le sue mani curiose.
“Alexander.”
“Mh?” Alec stava già cominciando a slacciargli la cintura e se avesse terminato, a quel punto Magnus non sarebbe più stato in grado di resistergli.
“Le tue mani. Mi distraggono.”
“Era quello lo scopo.”
“Questa cucina ti rende perverso. Te ne rendi conto, sì?”
Alec rise e, alzando la testa, posò un bacio sulla nuca di Magnus. Era divertente realizzare quanto avesse ragione: il loro primo bacio era avvenuto lì, la prima volta che si era avvicinato a qualcosa che avesse a che fare con l’ambito sessuale era avvenuta lì. Era come se quella stanza azzerasse i freni inibitori di Alec e lo lasciasse in balia dei suoi istinti che bramavano di essere soddisfatti. “Hai ragione.” Risistemò la cintura di Magnus e portò le mani in bella vista, fuori dalla maglietta del maggiore. “Però non ti sei mai lamentato.” Gli sussurrò poi, prima di afferrargli un lobo tra le labbra e succhiarlo leggermente. Fu un gesto veloce, che lasciò a Magnus un brivido elettrico. Alec si staccò da lui subito dopo e tornò al suo posto, nella parte opposta dell’isola, di fronte a Magnus. Lo guardò con malizia – e Magnus decise che quello sguardo doveva essere ritenuto illegale in almeno mezzo pianeta – e gli fece l’occhiolino. Magnus apprese, in quel preciso momento, che Alec aveva imparato quasi tutte le regole del gioco e, beh, non poteva che esserne felice. Anche se ciò significava rischiare un mezzo infarto e sentire i pantaloni troppo stretti sull’inguine.

*
Alec era stato buono fino a che Magnus non aveva smesso di occuparsi del suo dolce. L’aveva guardato completare la sua opera e, successivamente, imburrare e infarinare con cura la teglia in cui poi avrebbe versato l’impasto. Dopo che Magnus aveva infornato il dolce, si era tolto il grembiule e aveva – di nuovo – mandato Alec in tilt, facendo impazzire i suoi ormoni che quel giorno sembravano particolarmente irrequieti. La maglietta nera e aderente che l’aveva mandato fuori rotta, accompagnata ad un paio di pantaloni verde militare, facevano si che la sua circolazione sanguigna venisse concentrata solo in una zona del suo corpo. Che cosa gli prendeva, dannazione? Era come se avesse perso tutto il suo autocontrollo e adesso fosse schiavo dei suoi ormoni, che si divertivano a ballare la conga ogni volta che Alec posava gli occhi su Magnus. Bastava semplicemente che si muovesse e Alec sentiva accendersi dentro di sé la voglia di averlo vicino.
Era strano, era come se…
Volessi saltargli addosso? Diciassette anni di astinenza provocano questo e altro, Alec. Se ci aggiungi il fatto che lo trovi sexy sotto ogni punto di vista, la combo diventa letale.
Doveva smettere di confidarsi con Isabelle. Lei era troppo schietta e gli diceva verità che poi gli rimanevano in testa, si insinuavano nella sua mente e gli tornavano alla memoria nei momenti meno opportuni. Lo sapeva benissimo anche lui che lo trovava, citando Iz, «sexy sotto ogni punto di vista», questo non era certo una novità. La novità stava più nel fatto che l’idea di saltargli addosso, come l’aveva chiamata Isabelle, stava iniziando a prendere una forma diversa, trasformandosi in qualcosa di più… profondo rispetto a ciò che aveva sperimentato fino ad adesso. Era come se tutto ciò che aveva provato fino a quel momento non gli bastasse più e volesse vedere cosa ci fosse oltre l’orizzonte che aveva imparato a conoscere.
Chéri?” La voce di Magnus lo riportò alla realtà e accantonò i suoi pensieri. “C’è qualcosa che ti preoccupa?” gli domandò, probabilmente notando che si era assentato. Alec ponderò un attimo l’idea di dirgli tutto, ma poi ci ripensò, ritenendo che non fosse il momento opportuno per una conversazione simile.
“No, sto bene.”
“Sei sicuro?” Magnus alzò un sopracciglio e si incamminò verso di lui, ancora seduto sullo sgabello, e lo fece girare verso di sé. Alec appoggiò il mento sul suo petto e lo guardò dal basso verso l’alto. Notò la sottile riga di eyeliner argentato che decorava gli occhi di Magnus e pensò a quanto fosse bello, a quanto fosse in grado di fargli mancare il respiro solo guardandolo in quel modo affettuoso e premuroso. Magnus era quel tipo di persona che se faceva una domanda simile era perché era fermamente interessato alla risposta. Lui non chiedeva mai come stai? usandolo come una formalità o un convenevole, lo chiedeva perché era sinceramente interessato alla risposta e cercava di essere utile, in qualche modo, se chiunque avesse voluto parlare con lui di qualsiasi cosa lo tormentasse.
Magnus era buono e Alec si innamorava di lui giorno dopo giorno.
“Sicuro.”
Magnus fece passare le dita tra i capelli di Alec e quest’ultimo gli circondò la vita con entrambe le braccia.
“Al cento per cento?”
Alec parve pensarci su: il suo ultimo pensiero, a dire la verità, era stata la seconda cosa, quel giorno, a fare sì che si trovasse a riflettere particolarmente su qualcosa. La prima era stata Max e cosa poter fare per non farlo sentire messo da parte. Se Alec non si sentiva ancora di parlargli dei suoi ultimi pensieri, poteva parlargli di suo fratello e ascoltare nel caso Magnus avesse avuto qualche consiglio.
“Una cosa ci sarebbe…”
Magnus gli baciò la punta del naso. “Ti ascolto.”
“Di solito, io e Max durante le vacanze passiamo del tempo insieme. Quest’anno non è ancora successo e non vorrei che si sentisse messo da parte. Vorrei organizzare qualcosa da fare, ma non so esattamente cosa.”
“Potreste fare una gita.” Propose Magnus, allacciandogli le braccia dietro la nuca. “Potresti portarlo all’acquario.”
Alec ci pensò su: non era male come idea, anzi doveva dire che lo soddisfaceva abbastanza. Max era un bambino molto curioso e gli piacevano gli animali, di conseguenza avrebbe potuto trovare l’esperienza di suo gradimento. Sorrise.
“Mi piace come idea. Chiederò a Jace e Iz di aiutarmi e gli faremo una sorpresa!”
Magnus ricambiò il sorriso di Alec e si chinò per dargli un bacio. Vederlo felice lo rendeva felice.
“Vorrei che lo conoscessi.” Disse Alec, quando si staccarono. Magnus si rese conto che Max era l’unico dei suoi fratelli che non conosceva, almeno non di persona. Alexander parlava di lui e addirittura aveva accennato ad un incidente nel passato del bambino, ma ogni volta che l’argomento sembrava venire a galla, Alec sviava il discorso. Magnus non si era mai sentito di fargli domande su quell’episodio perché voleva lasciargli spazio, voleva che Alec gli parlasse di una cosa che evidentemente gli faceva ancora male ricordare, quando ne sarebbe stato pronto – come aveva fatto lui quando gli aveva dato tutto lo spazio di cui aveva necessitato per parlare del suo passato. “È l’unico dei miei fratelli che non sa di te e ogni volta che mi chiede dove vado e non posso dirgli che vengo da te, mi sento una specie di peso sul petto perché mentirgli non mi piace.” Alec sospirò e affondò il viso sul petto di Magnus.
“Potrei conoscerlo senza necessariamente dirgli che sono il tuo ragazzo.”
Alec alzò il viso e incrociò di nuovo lo sguardo di Magnus. “Spiega.”
“Puoi dire che sono un tuo amico.”
Alec fece un cenno di dissenso con il capo. “No. Una cosa simile è fuori questione. Non ti farò mai passare come un mio amico solo perché nella mia famiglia sono bigotti. Tu sei molto di più e non fingerò mai il contrario.”
“Non penso Max la penserebbe come i tuoi genitori.”
“No, hai ragione. Ma… non voglio che tenga un segreto, devo già farlo io e, credimi, sta diventando difficile farlo.”
Magnus gli afferrò il viso tra le mani e gli accarezzò le guance con i pollici. “Allora aspetteremo. Lo conoscerò quando sarai totalmente pronto a dire a tutti la verità. Nessuna fretta, Alexander. Io non vado da nessuna parte.”
Alec tuffò di nuovo il viso nel petto di Magnus e lo strinse forte, mentre Magnus cominciava ad accarezzargli i capelli. Alec era disposto ad andare contro la sua famiglia pur di non camuffare ciò che c’era di loro dietro una bugia comoda e Magnus pensava che già questo modo di pensare valesse come un coming-out: Alec accettava non solo se stesso, ma anche il loro amore, dandogli un’importanza tale da rifiutarsi di farlo passare per qualcosa di diverso. Forse Alexander non si rendeva conto di quanto era cambiato, ma Magnus sì ed era felice di essere al suo fianco per essere testimone della sua crescita.
“Ti ho promesso un film.”
“Sceglilo tu. Sorprendimi.”
“Mi stai dando carta bianca su un film?”
“A mio rischio e pericolo: sì, hai carta bianca.” Alec alzò il viso e sorrise a Magnus, che scosse la testa affettuosamente e gli pizzicò una guancia.
“Non mi perdonerai mai per Dirty Dancing, non è vero?”
“Mai, Magnus. Mai. È stato una tortura!”
Magnus rise e lasciò un bacio sulla fronte di Alec. “Abbi fiducia, chéri.” Ammiccò e, dal momento che il timer del forno aveva cominciato a suonare, si allontanò da Alec. “C’est prêt!”

*

Alec e Magnus erano sdraiati ai lati opposti del divano: le loro gambe erano intrecciate, mentre tenevano le schiene appoggiate ai braccioli. Magnus tendeva – molto spesso – a fare piedino ad Alec, che ogni volta, senza staccare gli occhi dallo schermo, sorrideva divertito. Avevano mangiato due pezzi del dolce preparato da Magnus – e Alec riteneva che fosse il migliore che avesse mai mangiato – e si erano messi sul divano per guardare un film. Magnus aveva scelto Casinò Royale e di certo Alec non poteva lamentarsi. Lui e Jace avevano visto i film di James Bond una miriade di volte, mentre Isabelle si era sempre rifiutata perché è offensivo, tratta le donne come degli oggetti. È possibile che nessuna sappia resistergli, nonostante sappiano che bassa opinione abbia di loro?
Alec venne distratto da quel pensiero da Magnus, che aveva infilato una mano nei suoi jeans e la stava facendo risalire sul suo polpaccio.
“Magnus.” Lo guardò, ammonendolo. Magnus, però, sorrise ferino e abbandonò la sua posizione, mettendosi carponi e cominciando a camminare verso Alec. Si mise a cavalcioni su di lui e, beh, Alec non aveva così tanta forza di volontà da respingerlo.
“Il bello del film ormai è passato: Daniel Craig si è già spogliato.”
Alec si sistemò per far stare più comodo Magnus e rise, mentre le sue mani andavano a posarsi sul sedere del suo ragazzo. “Sei veramente impossibile.”
“Puoi darmi torto? Questi film sono tutti uguali, si salvano solo perché lui è un figo.” Magnus sfiorò il naso di Alec con il proprio e avvicinò la propria bocca alla sua, ma senza baciarlo. Alec lo guardò carico di aspettativa e con una punta di impazienza, desideroso di essere baciato tanto quanto Magnus lo era di baciarlo. Ma non lo fece, non ancora.
“Perché l’hai scelto se non ti piace?”
“Perché piace a te.” Magnus indietreggiò un poco il viso e lo abbassò per riuscire ad arrivare alla gola di Alec, ricoprendola di baci, prima gentili e delicati, ma che poi si trasformarono in succhiotti esigenti. Alec sospirò sonoramente e reagì stringendo il sedere di Magnus tra le mani, in un silenzioso invito a continuare. Magnus sorrise e continuò a baciare e succhiare la pelle di Alec, mentre il respiro di quest’ultimo si faceva sempre più accelerato. Ci sarebbe rimasto  un succhiotto, con ogni probabilità grosso come quello che gli aveva fatto ad Halloween, ma a nessuno dei due importava. Erano immersi nel loro mondo, in quella dimensione che si creava quando erano insieme: c’erano solo i loro corpi a contatto, i loro respiri pesanti che si mescolavano e Magnus che, senza rendersene conto, aveva cominciato a strusciare il proprio bacino contro quello di Alec, che riusciva a percepire quanto fossero nella medesima situazione. Tutto ciò piaceva ad entrambi e i loro corpi lo stavano dimostrando. In altre circostanze, Alec si sarebbe chiesto e adesso? ma aveva capito – e imparato – che il controllo in queste situazioni non esiste. La razionalità non esiste e viene sopraffatta dall’istinto e dai sentimenti, che sono dei comandanti più affidabili di quanto Alec si sarebbe mai aspettato. Per questo, quando Magnus infilò le proprie mani sotto il maglione di Alec per accarezzargli la pelle nuda, Alec mise una mano sulla nuca di Magnus e, tirandolo con delicatezza per i capelli, gli fece alzare la testa dal suo collo per fare in modo che i loro visi fossero vicini abbastanza da riuscire a baciarlo con tutta la foga che sentiva necessità di sfogare. Aveva bisogno della sua bocca e aveva bisogno di prendersela, ora. Magnus non si oppose e risposte al bacio, lasciando che Alec infilasse la propria lingua nella sua bocca e che condisse il tutto con piccoli morsi sulle labbra. Era tutto bellissimo: i baci, i loro corpi che avevano cominciato a strusciare uno contro l’altro, le mani di uno che esploravano l’altro, desiderose di andare a scoprire ciò che ancora non avevano scoperto e allo stesso tempo sicure di incontrare qualcosa che avevano già conosciuto. Era un misto di desiderio e amore, qualcosa che spingeva Alec a non volere altro, nella vita, se non Magnus e tutto ciò che si davano. Si mise a sedere, con Magnus ancora addosso, e a quel punto usò entrambe le braccia per stringerlo a sé, mentre Magnus gli circondava il collo con le proprie. Si mescolavano alla perfezione, loro due, le loro anime, i loro cuori e i loro corpi formavano un puzzle che, una volta completato, mostrava una figura che Alec amava sopra ogni altra cosa.
“Alexander.” lo chiamò Magnus con il fiatone. Alec non gli rispose e si sporse per andare a cercare di nuovo le sue labbra, che erano lucide e gonfie per i baci. Ma quando Magnus indietreggiò un poco, Alec aggrottò la fronte, risentito.
“I tuoi pantaloni vibrano, tesoro.” Spiegò Magnus. “E anche se vorrei tanto esserne io la causa, sono piuttosto sicuro che sia il tuo cellulare.”
Alec tenne una mano sul fondo schiena di Magnus, mentre l’altra andava a recuperare il cellulare in tasca. “Sei sicuramente la causa di ciò che succede dentro ai miei pantaloni, Magnus.” E lo disse con una schiettezza tale che non provò nemmeno una punta di imbarazzo ad essere così brutalmente onesto. Lanciò un’occhiata allo schermo del cellulare e poi rispose.
“Izzy.”
Magnus avvicinò il viso ad Alec e lo baciò a stampo.
“Fratellone, ho una notizia.”
“Spero davvero che sia importante, Iz.”
Persino Magnus riuscì a sentire la risatina maliziosa di Isabelle dall’altro capo del telefono. “Perché, ho interrotto qualcosa?”
“Mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Allora?”
Magnus scosse la testa affettuosamente e cominciò a coprire di piccoli baci il perimetro della mascella di Alec.
“Mamma e papà vanno via l’ultimo dell’anno. Quel socio super ricco di papà vuole organizzare una mega festa per gli associati dello studio: partono il 30 e tornano il 2. Hanno deciso che porteranno Max con loro, ma noi possiamo stare a casa.”
Alec elaborò quelle informazioni con una certa difficoltà, dal momento che era difficilissimo concentrarsi quando Magnus era tornato a prestare attenzioni alla sua gola.
“D’accordo.” Rispose, cercando di mantenere la voce il più salda possibile.
D’accordo? Tutto qui? Sai cosa significa? Potremmo fare quella festa di cui ti avevo accennato: staremo tutti insieme e ci divertiremo tantissimo!”
Alec pizzicò un fianco di Magnus per attirare la sua attenzione e l’orientale alzò il viso per guardarlo. “Cosa ne dici?” gli domandò, lasciando momentaneamente Isabelle in attesa. Alec sapeva che era riuscito a sentire tutto e voleva sapere cosa ne pensasse, se gli andava bene o se preferiva fare dell’altro.
“Dico che va bene, tesoro. Mi basta che siamo insieme. E ora, se permetti…” Magnus sfilò il cellulare di Alec dalle sue mani e se lo mise all’orecchio. “Isabelle, cara, io ti adoro e sei la mia seconda Lightwood preferita, ma… io e Alexander eravamo un tantino impegnati, quindi, se non ti dispiace, discuteremo di questa festa un’altra volta.”
Alec sentì chiaramente la risata esplosiva di sua sorella dal telefono e sorrise a sua volta, mentre Magnus la salutava e attaccava, lanciando il telefono in mezzo ai cuscini del divano.
“Dove eravamo rimasti?”
Alec si passò la lingua tra le labbra. “Non lo so, dimmelo tu.”
Magnus, in risposta, gli afferrò il viso tra le mani e lo baciò.




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Ciao a tutti! Sono tornata e sono in ritardo (scusatemi!).
Allora, cosa ne pensate di questo capitolo? È tornata la dose di fluff, perché mi mancava far annegare questi due bonbon nel fluff e in più perché questo capitolo è ambientato sotto Natale e a Natale il clima deve essere necessariamente zuccheroso!
L’incipit del capitolo è stato suggerito da danim che mi ha chiesto se potevo scrivere di Magnus e Alec da Sephora e da questa sua idea, la mia testolina ha viaggiato fino ad inserire l’episodio in una giornata dedicata allo shopping, per la gioia di Magnus e un po’ meno per quella di Alec (:’D) quindi, il merito va tutto a lei!
Daniela, spero che ti sia piaciuto e che fosse almeno un po’ come te lo eri immaginato!
Piccoli appunti: la gara di tiro con l'arco di cui parla Alec me la sono completamente inventata! Mentre per quanto riguarda la sua allusione ad Eames ed Arthur sono due dei protagonisti di Inception e diciamo che almeno a me hanno dato l'impressione di poter essere più che semplici amici, quindi niente ho inserito questa cosa! Detto ciò, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, se vi va!
Ringrazio chiunque trovi il tempo per leggere e recensire questa storia e chiunque l’abbia messa tra i preferiti/ricordati/seguiti! Mi fa un piacere immenso e vi abbraccio tutti tutti!
Alla prossima! <3

PS: Ma il Malec trailer di San Valentino? Io non sono sicura di essere pronta a questa terza stagione! 

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Capitolo 16
*** 16. ***


La giornata era iniziata normalmente: Alec si era svegliato, aveva fatto una doccia ed era sceso in cucina per fare colazione. I suoi genitori erano usciti, probabilmente per andare a sistemare le ultime cose in ufficio prima dell’inizio ufficiale anche delle loro vacanze. In casa regnava un silenzio confortante, interrotto solo da alcuni sporadici rumori al piano di sopra, segno che i suoi fratelli si stavano alzando. Alec scommise con se stesso che sarebbe stato Jace il primo a svegliarsi e che Isabelle avrebbe trovato un modo per spodestarlo dal bagno con i suoi modi delicati da elefante irritato. Sua sorella era un ossimoro vivente: all’apparenza delicata e fragile, una bambola da collezione, ma all’interno una tosta e ingestibile ragazza, che a tratti lascia uscire la sua testardaggine. Scosse la testa, mentre afferrava da un ripiano della dispensa una padella per cuocere bacon e uova: colazione veloce per uscire di casa in fretta e portare un ignaro Max all’acquario. Gli piaceva quel piano. Lo rendeva felice e sperava che anche Max lo sarebbe stato. Versò dell’olio nella padella e aspettò che cominciasse a sfrigolare, prima di appoggiarci le fette di bacon che aveva recuperato dal frigo qualche attimo prima.
“Isabelle!” urlò Jace dal piano di sopra. “Avevi detto che avresti solo fatto la pipì! Sento l’acqua della doccia che scorre!”
Alec si allargò in un sorriso, mentre girava il bacon, dandosi mentalmente il cinque: quanto conosceva i suoi fratelli da uno a dieci? E soprattutto, quanto era ingenuo Jace che, dopo una vita passata insieme ad Izzy, ancora cascava nei suoi trucchetti, facendosi ingannare come un principiante?
“Dovevo pensarci prima di farti entrare??” continuò Jace, infervorandosi. “Sei matta, Iz, matta! Mi hai sentito?? Matta!”
Alec sentì i Jace incamminarsi con passo pesante verso le scale e scenderle come se avesse voluto farla pagare ad ogni scalino presente in quella casa del fatto che fosse caduto nella trappola di Isabelle. Quando Alec lo vide sbucare in cucina con il pigiama, i capelli spettinati e lo sguardo ancora assonnato super corrucciato, gli accennò un sorriso di incoraggiamento.
“Non prendertela, è una maestra dell’inganno.”
Jace si sedette pesantemente sul suo posto a tavola. “Ha dei seri problemi, lo sai, sì?”
Alec rise e girò nuovamente il bacon, che iniziava a cuocersi, diffondendo nell’aria un invitante profumino che gli fece brontolare lo stomaco. “Vedila così: è consapevole che passerà almeno quaranta minuti a vestirsi, truccarsi e pettinarsi, quindi vuole solo anticipare i tempi facendosi la doccia prima di te.”
Jace grugnì e appoggiò la fronte al tavolo con esasperazione. Alec, per consolarlo, mise le due fette di bacon già cotte in un piattino e gliele mise davanti. Il biondo, appena percepito l’odore del cibo, rialzò la testa.
“Mangia, dai. Il bello di non farsi subito la doccia, è che puoi iniziare a mangiare prima.”
Jace sorrise entusiasta come un bambino a cui è stato regalato un giocattolo inaspettato. “Amo il bacon!” Mangiò le due fette con la stessa voracità di qualcuno lasciato a digiuno per giorni. “Vado a svegliare Max.” disse poi, più di buonumore.
Ah, il cibo e i suoi miracoli.
“D’accordo.”
Jace si incamminò al piano di sopra e Alec tornò a preparare la colazione.

*

I Lightwood uscirono di casa verso metà mattina. Isabelle aveva stupito tutti preparandosi nella metà del tempo che ci metteva di solito e ottenendo lo stesso stupefacente risultato, come aveva fatto notare lei stessa. Max non aveva smesso di fare domande da quando Jace era andato a svegliarlo: perché usciamo?/dove andiamo?/cosa facciamo?
Alec gli aveva detto che era una sorpresa e che fare domande era inutile perché non gli avrebbero detto nulla. Max aveva persino provato a corrompere Isabelle con la sua espressione da cucciolo che la faceva sempre cedere, ma Alec le aveva lanciato un’occhiata ammonitrice e lei aveva resistito.
“Come fai a resistergli, Alec?”
“Ho avuto a che fare con quell’espressione per sette anni, prima che arrivasse Max. So gestirla.”
“Stai parlando di me?”
“Sei perspicace, Iz!”

Lei gli aveva fatto una linguaccia ed erano finalmente usciti di casa, dirigendosi verso la metropolitana. Isabelle aveva insistito per tenere Max per mano perché durante le vacanze la metro diventava ancora più affollata del solito e lei non voleva rischiare di perderlo di vista.
“Non sono più un bambino, Izzy!” si lamentò Max, mentre aspettavano il loro treno e Isabelle non mollava la sua mano.
“Sì che lo sei. E i bambini si tengono per mano!”
Max si imbronciò e si rivolse ad Alec. “Diglielo tu, ti prego!”
“Isabelle ha ragione. Tienile la mano.”
Sentendosi tradito da Alec, Max spostò lo sguardo supplichevole su Jace, ma il biondo scosse la testa. “Io mi associo a loro, Max.”
Il bambino aggrottò le sopracciglia, imbronciatissimo. “Siete dei traditori.” Brontolò, arrendendosi al fatto che avrebbe dovuto tenere la mano di sua sorella. Il piccolo tenne il broncio fino a che non arrivò il treno, poi lasciò che l’entusiasmo per quella giornata prendesse il sopravvento, spodestando qualsiasi altra sensazione. Non sapeva dove sarebbero andati, ma sapeva che sarebbe stato con tutti i suoi fratelli e che gli avevano preparato una sorpresa. Max amava le sorprese. Si sedette tra Isabelle e Jace, mentre Alec prendeva posto vicino al biondo.
“Allora, dove andiamo?” domandò di nuovo, spostando lo sguardo da Isabelle a Jace e da Jace ad Isabelle.
“È una sorpresa.” Rispose Jace, mentre Iz si apriva in un sorriso intenerito.
“Ma una sorpresa bella?”
“Esistono sorprese brutte?”
Il bambino parve pensarci su: “Beh, sì. Ricordi quella volta che mamma mi ha detto andiamo in un posto, ma è una sorpresa! E invece mi ha portato a fare il vaccino?”
Jace annuì. Erano loro tre e Max aveva sei anni. Erano entrati nello studio del dottore e come aveva visto il camice, aveva iniziato a piangere. Era passato solo un anno dall’incidente, pensò Jace, e realizzò che, con ogni probabilità, la reazione di suo fratello era dovuta al fatto che gli ricordasse il periodo passato in ospedale. Deglutì, sentendo un groppo in gola e scacciò quel pensiero.
“Sì, mi ricordo.”
“Non è stato una sorpresa bella. Mi hanno bucato un braccio!”
Isabelle gli circondò le spalle con un braccio e lo tirò a sé, dicendogli che questa volta era una sorpresa bella e che era sicura gli sarebbe piaciuta. Jace, invece, si voltò verso Alec, che si era incupito e aveva cominciato a mangiarsi nervosamente l’unghia del pollice.
“Alec, stai bene?”
Alec sussultò quasi, come se Jace l’avesse tirato via dai suoi pensieri con la forza. “S-sì, io stavo… è solo che…”
“Lo so,” lo interruppe Jace. “Lo so.”
Si guardarono un attimo, in silenzio e poi guardarono Isabelle, che aveva cominciato ad accarezzare i capelli di Max, che teneva ancora il viso appoggiato alla sua spalla.
Ricordare l’incidente era doloroso per tutti. Era una specie di demone che li avrebbe divorati sempre, l’unico mostro sotto al letto che non sarebbero mai riusciti a sconfiggere totalmente. Sarebbe stato sempre lì, in agguato, a ricordarli di quella volta che avevano quasi perso il loro fratellino. Era devastante.
“Facciamo un gioco?” La voce entusiasta di Max scacciò i brutti ricordi dalle menti dei suoi fratelli maggiori.
Ciò che era passato, nel passato sarebbe rimasto. Max era lì, con loro, e questo era ciò che contava.

*

Alec non ricordava l’ultima volta che era stato all’acquario, ma sapeva che da quel pomeriggio avrebbe sempre associato quel luogo all’urlo euforico che aveva lanciato Max non appena aveva riconosciuto la struttura dall’esterno e alla sua espressione affascinata che adesso veniva illuminata dalla luce azzurra emessa dall’acqua delle vasche. Si trovavano in un corridoio ombroso, illuminato solo dalla luce emessa dall’acqua, e il più piccolo dei Lightwood teneva il viso appiccicato alla vasca dello squalo.
“Alec! Jace!” chiamò i suoi fratelli, dal momento che Isabelle era già li con lui e la stava tempestando di informazioni sugli squali bianchi. “Venite a vedere quant’è grosso! È gigantesco!”
Alec e Jace si scambiarono un’occhiata divertita e si avvicinarono alla vasca, dove Max continuava a guardare i movimenti dell’animale, che nuotava con lentezza e calma, con la bocca che formava una O per lo stupore.
“Carcharodon carcharias. Non hanno la membrana nittitante.” Disse Jace, stando davanti alla vasca. I suoi fratelli si voltarono tutti verso di lui: Max con un’espressione affascinata sul viso, quasi adorante, come se il fatto che suo fratello sapesse una cosa nuova lo rendesse orgoglioso, oltre che avido di imparare qualcosa che non sapeva; mentre Alec e Isabelle lo fissarono con le sopracciglia inarcate – un’espressione sorpresa stampata sui loro volti.
“Che c’è?”
Carcharodon carcharis?” gli fece eco Isabelle, emettendo una risata dal naso.
“È greco, significa pescecane dai denti aguzzi.” Continuò risentito il biondo, mentre gli occhi di Max si facevano più brillanti di curiosità.
“Membrana nittitante?” rincarò Alec, scambiandosi un’occhiata divertita con Isabelle.
Jace alzò gli occhi al cielo, risentito. “Non ti dirò cos’è, visto che sei così odioso. Si può sapere che vi prende?”
“La domanda è che prende a te!” trattenne una risata Izzy. “Perché sai queste cose?”
“Io leggo.” Spiegò offeso Jace.
“Leggi?”
“Sì, Alec, leggo. Perché fate così fatica a crederci?”
Isabelle e Alec non risposero, troppo intenti a ridere per la faccia di Jace, che trovava alquanto inopportuno essere preso così spudoratamente in giro dai suoi fratelli solo perché gli piaceva farsi un giro su Wikipedia, quando non riusciva a prendere sonno. Gli piaceva sapere cose sugli animali, l’avevano sempre incuriosito, e Internet era un posto pieno di informazioni utili, che poteva essere usato per molto più che seguire i risultati delle partite dell’NBA o dell’NFL che non era riuscito a guardare alla televisione. Perché ridevano di lui?
“Vieni Max,” disse quindi, mentre faceva una linguaccia ai suoi fratelli ancora intenti a ridacchiare, “Laggiù c’è uno squalo appartenente alla famiglia Sphyrnidae, che per chi non lo sapesse,” e lanciò uno sguardo truce ad Alec e Izzy, “sono gli squali martello!”
“È greco anche quello?” incalzò Alec, schernendolo palesemente, mentre Isabelle, aggrappata al braccio del maggiore dei suoi fratelli, lottava con tutta se stessa per non ridere, invano.
Jace non li degnò di una risposta e, afferrato Max per mano, usò l’altra per alzare il dito medio verso i suoi fratelli senza farsi vedere dal più piccolo.

*

 Magnus continuava a fissare la foto che Alexander gli aveva mandato: ritraeva Max davanti ad una vasca, alta quanto una parete, piena di pesci tropicali che sorrideva entusiasta, mentre alzava le braccia al cielo, come se avesse voluto abbracciare l’immensa vasca che stava alle sue spalle.
Hai fatto felice un bambino.
Era questa la didascalia che accompagnava la foto e Magnus aveva sentito il cuore sciogliersi.
Non era stato direttamente lui a renderlo felice, gli fece notare, mentre rispondeva a quel messaggio, ma trovava oltremodo appagante l’idea di aver contribuito alla realizzazione di una giornata così speciale per un bambino che doveva esserlo altrettanto. Gli sarebbe piaciuto conoscerlo, ma una parte di lui, doveva ammetterlo, si preoccupava all’idea di quel possibile incontro: e se lui a Max non fosse piaciuto? O l’avesse trovato stravagante?
O peggio l’avrebbe detestato per averlo privato di suo fratello?
(Non dire idiozie, gioia. Un bambino non è in grado di provare sentimenti simili).
La sua coscienza aveva ragione. I bambini non odiano, non ne sono capaci. Al massimo possono essere gelosi e un tantino possessivi, ma pur sempre nella norma. E Magnus, per quanto amasse Alexander, non aveva alcuna intenzione di separarlo dalla sua famiglia. Non gli avrebbe mai chiesto una cosa simile, in primis perché non era una cosa che Magnus avrebbe mai fatto, dal momento che non era nel suo carattere; in secondo luogo, se anche fosse stato così egoista e arrogante da fare una richiesta simile, avrebbe significato privare Alexander di una parte della sua vita che lui reputava troppo importante. Separarlo dai suoi fratelli era come privarlo di un pezzo di cuore. E tutto ciò era fuori questione.
Rimaneva comunque il fatto che sentiva un po’ di insicurezza, al pensiero. Non voleva che uno dei fratelli del ragazzo che amava non lo sopportasse.
“Magnus?” Catarina lo estraniò dai suoi pensieri, estirpandolo da essi come si potrebbe fare con un’erbaccia.
“Sì, cara?”
“Tocca a te!”
Magnus tornò alla realtà: lui, Catarina e Raphael si trovavano a casa sua e stavano giocando a Cluedo in sala, seduti al tavolo in mogano. Magnus, che di norma era anche abbastanza bravo in quel gioco, era così distratto, quel pomeriggio, che non aveva nemmeno una vaga idea di chi potesse essere il colpevole.
“Oh, giusto! Allora dico… Scarlett, in bagno, con la pistola.”
Raphael grugnì, roteando gli occhi al cielo. “Dios, puedes saber dónde está tu cabeza? Hai chiesto la stessa cosa al giro precedente!”
Magnus parve cadere dalle nuvole. “Davvero?” Guardò entrambi i suoi amici, che annuirono con un cenno del capo: Raphael con compatimento, Catarina invece, era intenerita.
“Non l’ho fatta apposta, io…”
“Hai la testa altrove?” suggerì la ragazza, sorridendo comprensiva.
Lo juro por Dios, se dici un’altra volta che ti manca Alec ti defenestro.”
Magnus ignorò la minaccia. “Ma cosa posso farci, se mi manca?” Afferrò il telefono e guardò una delle sue foto che teneva nella galleria. Trovò quella che gli aveva fatto l’ultima volta che si erano visti, qualche giorno prima, e che lo ritraeva sul divano, di profilo, intendo a guardare il film che Magnus aveva scelto, prima che quest’ultimo non riuscisse più a resistere e gli saltasse – quasi letteralmente – addosso. Amava il suo profilo, le ciglia che si allungavano verso l’alto, la linea definita della mascella, quella del collo.
Sospirò sognante.
“Stai per mandargli una foto sconcia? Perché se hai intenzione di mandargliene una del tuo attrezzo, io me ne torno in Messico.”
Catarina rise di gusto, tirando indietro la testa, le treccine seguirono quella traiettoria, muovendosi come tanti piccoli tentacoli, mentre Magnus gli lanciò un’occhiata incredula, con tanto di sopracciglio alzato.
Attrezzo? Siamo finiti negli anni ‘60, per caso? Perché tutti questi tabù quando puoi chiamarlo con il suo nome?”
Raphael gli lanciò un’occhiata assassina, ma non disse niente.
“Pene.” Continuò allora Magnus. “Pene. Pene. Pene. Pene.”
“Smettila!” sibilò Raphael. “Mi da fastidio.”
Magnus si fece serio. “Perché?”
“Lo sai perché.” Ringhiò Raphael, la mascella che si contraeva e gli occhi scuri induriti da qualcosa che sembrava disagio.
Magnus si pentì immediatamente del suo comportamento. Non aveva pensato a quanto potesse arrivare a dare fastidio a Raphael uno scherzo del genere. Il ragazzo era stato cresciuto da una madre estremamente religiosa, cattolica fino al midollo, e aveva cresciuto i suoi figli affinché ricevessero la stessa educazione, di conseguenza, il fatto che Raphael fosse asessuale – e di conseguenza non provasse interesse nel sesso, nemmeno in quello dopo il matrimonio al fine di procreare e dare così dei nipotini alla madre – lo metteva a disagio. Lo faceva sentire nel torto, come se fosse uno strano scherzo della Natura, un tiro mancino lanciato da quel Dio che tanto venerava e che si era preso gioco di lui.
Magnus ricordava bene il giorno in cui erano entrati in argomento. Era successo proprio in quella casa, lui e Raphael si erano visti per ripassare degli argomenti che non entravano in testa a nessuno dei due, e il sudamericano, mentre leggeva con gli occhi le pagine del suo libro, aveva alzato la testa e gli aveva chiesto se credeva nell’Inferno.
“Che vuoi dire?” chiese Magnus, colto un tantino alla sprovvista.
Raphael roteò gli occhi. “Sai che voglio dire. Credi nell’Inferno,
en el diablo e nel peccato?”
“Non lo so, onestamente. Penso esista il male, nel mondo? Certo. Come esiste il bene, esiste anche l’altra faccia della moneta e suppongo che, per chi crede in qualcosa di superiore, questo principio possa tradursi nelle due figure opposte di Dio e Lucifero – se esiste uno esiste l’altro, così come il Bene e il Male. Perché me lo chiedi?”
Raphael si agitò sulla sedia e, abbracciando tutta la stanza con lo sguardo, aveva cominciato a far cozzare i denti gli uni con altri, come se stesse cercando di tenere al loro interno parole che, invece, premevano per uscire. Parole che fino a quel momento erano state solo i suoi più intimi pensieri e che avevano bisogno di una buona dose di coraggio per riuscire ad uscire. Ma non sapeva come, né perché, di Magnus riusciva a fidarsi. E pensava anche che avrebbe potuto capirlo, se non addirittura aiutarlo.
“Ho paura di finirci, all’Inferno.”
“E perché mai dovresti finirci?”
“Dio dice di amare e di procreare, e io da cattolico dovrei rispettare la sua volontà. Ma come faccio a rispettarla se non voglio procreare?”
Magnus rimase in silenzio per dare il tempo a Raphael di elaborare i suoi pensieri. Aveva imparato a conoscerlo abbastanza da sapere che era raro – rarissimo – che parlasse dei suoi sentimenti o di ciò che passasse per le profondità della sua mente, quindi era consapevole dello sforzo che stava facendo, parlandogli in quel modo. E sapeva anche che affrettando le cose, si sarebbe solo chiuso di nuovo in se stesso.
“A me non interessa. Ci ho provato, mi sono impegnato per essere come gli altri, per essere come
mi madre desidera, ma non ci riesco. Io non…”
“Non provi interesse nel sesso?”
Gli occhi di Raphael si fermarono su quelli di Magnus. Erano così scuri, pensò l’orientale, e profondi come l’anima di Raphael, che temeva di deludere sua madre solo perché non rispecchiava i canoni illustrati dalla sua religione. Lo capiva, capiva il suo timore, soprattutto perché Guadalupe Santiago era una donna estremamente cattolica, ma sapeva anche quanto amasse i suoi figli. Raphael e Rosa erano sempre stati il centro del suo mondo, soprattutto perché aveva sempre avuto solo loro e loro solo lei – il padre se n’era andato quando Rosa era ancora in fasce.
“Lei non capirebbe. Capisce a malapena te, che almeno provi interesse anche nelle ragazze.”
Magnus non faticava a credere a quelle parole. La prima volta che aveva incontrato la madre di Raphael, l’aveva guardato come se venisse da un altro pianeta, con il suo smalto, l’ombretto e i glitter sparsi ovunque. Gli aveva chiesto, senza troppi se e senza troppi ma, se fosse gay e quando lui le aveva risposto che non lo era perché gli piacevano anche le ragazze, la donna aveva storto il naso e si era fatta il segno della croce, borbottando una preghiera in spagnolo. Guadalupe non era cattiva, non odiava, semplicemente non capiva. Era intrappolata nei suoi dogmi, nelle sue credenze e pensava che l’unica cosa che lei dovesse volere era il volere stesso di Dio. E siccome i predicatori parlavano sempre e solo di uomo e donna, altre possibilità erano escluse.
“Tua madre non è cattiva, Raphael. È solo…”
“Antiquata.”
“Forse,” concesse Magnus. “Ma ti vuole bene. Ama te e tua sorella più del suo Dio. Non farebbe mai niente che la porterebbe a perderti.”
Raphael rimase in silenzio, probabilmente per assimilare quelle parole. “Sei il primo a cui lo dico. Nemmeno Cat lo sa.”
“Ma a lei dici tutto!”
“Non questo. Ho troppa… paura.”
Magnus si allungò sulla scrivania che li divideva e gli diede una pacca affettuosa sulla spalla. “Allora non lo diremo a nessuno. Ma non hai niente di cui vergognarti. E di sicuro non finirai all’Inferno per questo, amico mio.”
Raphael abbozzò un sorriso e Magnus, dentro di sé, gridò al miracolo: Raphael Santiago che sorrideva era un evento più unico che raro.

“Scusa Raph.” Disse quindi Magnus, oltremodo dispiaciuto per il suo comportamento, ricordando la conversazione che aveva avuto con l’amico.
“Ti perdono solo se cominci a concentrarti.”
Magnus sorrise e annuì. “Mi sembra giusto.”
La risata di Catarina rimbombò un’altra volta in quella stanza e i tre continuarono a giocare.

*

Magnus compose il numero di Alec intorno alle 21.30. Sapeva che era l’ora cui sicuramente si trovava da solo e che, molto probabilmente, si trovava nello studio, il posto che preferiva in assoluto in casa Lightwood. Gli aveva parlato di quel luogo durante una delle loro prime uscite, confessandogli che, per quanto gli piacesse condividere la stanza con suo fratello, adorava tantissimo starsene lassù a leggere o a raccogliere i suoi pensieri. Magnus sorrise, immaginando Alexander che se ne stava seduto dentro al rosone, le gambe raccolte al petto mentre cercava la posizione più confortevole per leggere, magari avvolto dentro ad una coperta. Di recente, stava leggendo Il caso di Harry Quebert, di Joel Dicker e ogni volta che succedeva qualcosa di interessante nel libro, gli mandava un messaggio dicendogli che devi leggerlo, Mags, sono sicuro che piacerà anche a te!
Magnus sorrideva come un ebete ogni volta che gli arrivavano quei messaggi perché riusciva quasi a sentire la nota entusiasta nella voce di Alexander.
“Ehi!” Alexander rispose al terzo squillo. “Come stai?”
Magnus sentì chiaramente il rumore di un libro che veniva chiuso. Sorrise.
“Bene, e tu?”
“Bene. Oggi è andato tutto liscio, Max non smetteva di guardarsi intorno e sorridere. Saltava entusiasta da una vasca all’altra!”
“Sono molto felice. E tu, ti sei divertito?”
“Oh sì. Era tantissimo che non entravo in un acquario ed è stato bello passare del tempo con i miei fratelli. In più ho scoperto che Jace è tipo un nerd degli animali. Tu che hai fatto?”
Magnus si sdraiò sul suo letto a pancia in su, la testa appoggiata al cuscino e gli occhi fissi sul soffitto. “Ho scoperto che Cat è imbattibile a Cluedo.”
Alexander rise. “Vuoi dirmi che esiste qualcuno in grado di batterti a quel gioco?”
“Strano, ma sì. È doloroso ammetterlo, tesoro, ma esiste qualcuno più bravo di me.”
Magnus sentì Alec ridere di nuovo e un sorriso aprì involontariamente il suo viso. “Il fatto che lei sia brava, comunque, non minimizza la tua bravura.”
“Grazie, pasticcino, sei sempre così premuroso.”
Magnus si trovò a pensare che se fossero stati nella stessa stanza – e, soprattutto, nello stesso letto – adesso si sarebbe accoccolato al suo fianco e gli avrebbe lasciato un bacio su una guancia. “Mi sei mancato.” Confessò, senza avere davvero l’intenzione di farlo. Fu più che altro un pensiero ad alta voce, una frase che uscì spinta fuori dal cuore prima ancora che il cervello potesse riflettere se fosse una buona idea o meno. Non voleva risultare appiccicoso, o dare l’impressione che gli desse fastidio che Alexander non passasse del tempo con lui, perché non era così – era assolutamente felice che uscisse con i suoi fratelli e dedicasse del tempo al piccolo Max.
“Anche tu mi sei mancato.”
Udendo quelle parole, Magnus si rilassò un poco. Avevano provato entrambi la stessa cosa, seppur entrambi stessero passando del tempo con persone alle quali volevano bene, di sicuro non doveva essere una sentimento negativo, no? Non significava che non volessero che l’altro passasse del tempo con altri, significava semplicemente che, anche in momenti in cui stavano bene anche con altre persone, una parte di loro sarebbe sempre stata legata all’assenza dell’altro.
“Siete andati a vedere le razze?” domandò Magnus, dopo qualche attimo passato in silenzio.
“Max ne ha persino toccata una! Diceva che era viscida.”
“E lo era sul serio?” Magnus si voltò verso la parte destra del letto che di solito occupava Alec quando stavano sdraiati insieme. Passò la mano che aveva libera su tutta la lunghezza del materasso, accarezzando le coperte che adesso erano vuote e fredde. Si diede dello stupido: gli mancava come se non si vedessero da mesi quando in realtà erano passati pochissimi giorni.
“Lo era, sì!”
Magnus sentì un sorriso nella voce di Alec e se lo immaginò chino sulla vasca delle razze mentre allunga una mano per sfiorare il dorso degli animali.
“Cosa stavi facendo, prima di chiamarmi?” gli chiese Alec, distraendolo dalla sua fantasia.
“Mettevo lo smalto che mi hai regalato. Lo adoro.”
“Davvero? O lo dici per farmi un piacere?”
“Andiamo, tesoro, mi conosci abbastanza da sapere che non faccio certe cose. Te lo direi se non mi piacesse.”
“Sì, lo so, è solo che…” Magnus sentì Alec sospirare dall’altro lato del telefono. Stava riflettendo se dire o meno ciò che gli passava per la testa. “…solo che mi agito sempre un po’ quando si tratta di regali.”
“Lo so, tesoro. Ma non devi.” Ancora, Magnus si trovò a pensare che se fossero stati insieme, adesso, l’avrebbe abbracciato stretto, stretto. “Tu invece che facevi?”
“Leggevo,” ripose Alec e Magnus sentì dei rumori che suggerivano un movimento. Con ogni probabilità si stava sistemando meglio alla finestra, o si stava alzando per dirigersi verso il divano che sapeva era sistemato dentro a quella stanza. Il rumore di passi che Magnus sentì lieve confermò la sua seconda ipotesi. Immaginò Alexander mentre si sdraiava, tenendo il telefono tra la spalla e l’orecchio per sistemare coperta e libro sulle gambe. “Marcus sta andando a fare una cosa importante.”
Marcus Goldman era il protagonista del libro che Alexander stava leggendo.
“E non vuoi dirmi cosa?”
“No, perché quando l’avrò finito te lo presterò e non c’è gusto a leggere un libro se sai già cosa succede.”
Magnus rise. “Hai ragione, passerotto.”
“Poi dovrai dirmi cosa pensi di lui. Voglio sentire la tua opinione.”
“E la tua opinione su di lui, invece, qual è?”
“Che è un bel personaggio, non troppo complicato, ma rimane comunque interessante. È uno scrittore e un pugile, quindi, forse, mi sembra di sentire una specie di connessione con lui.”
“Ti stai prendendo una cotta per un personaggio immaginario?”
Alec emise un verso dal naso. “Non dire stupidaggini. Non ho più dodici anni!”
Magnus rise di nuovo. “Quindi ammetti di esserti preso una cotta per un personaggio immaginario a dodici anni?”
Alec rimase in silenzio qualche secondo. “Può darsi.” Ammise poi, riluttante.
“E chi era?” domandò Magnus, sinceramente curioso e anche un po’ intenerito.
“Non voglio dirtelo.”
Magnus riuscì ad immaginarsi senza nessuna difficoltà le guance di Alec diventare rubizze. “Perché no?”
“Mi vergogno!” esclamò. “È… è imbarazzante!”
“Va bene, va bene. Non insisterò, se proprio non vuoi…”
“Magnus.” Lo rimproverò Alec. “Conosco quel tono.”
Magnus strinse la labbra all’interno della bocca. “Che tono?” domandò con finta innocenza.
“Il tono che usi quando ti nego qualcosa, ma la tua curiosità ti uccide e vuoi saperlo per forza. Parli con indifferenza, come se veramente fossi disposto a passarci sopra, ma non è così.”
Magnus non riuscì a non ridere di gusto. Quando diceva che Alexander lo conosceva meglio di chiunque altro non lo diceva tanto per dire, lo pensava davvero. Pochi erano in grado di leggerlo dentro e ad interpretare i suoi comportamenti come sapeva fare lui.
“Ridi perché sai che ho ragione!” continuò Alec, piccato.
“Certo che ce l’hai, orsetto. Allora, chi era?”
Alexander sbuffò, arrendendosi all’inevitabile e, dopo qualche istante di silenzio, che Magnus immaginò si prese per massaggiarli le tempie, o roteare gli occhi al cielo, o fare entrambe le cose, parlò di nuovo. “Quattro.”
“Quattro di Divergent?” chiese Magnus. “Mi stai dicendo che hai avuto una cotta per Theo James? Tesoro, chi non l’avrebbe?”
Alec rise serenamente. “Tecnicamente, ho letto prima i libri, quindi non lo associavo a Theo James.” Spiegò, “Ma sì, ammetto che lui ha reso giustizia al personaggio del libro.”
“Comunque è comprensibile. È protettivo e intelligente, forte e un sacco di altre cose che farebbero perdere la testa a chiunque.”
“Soprattutto ad un ragazzino solitario.”
“Quel ragazzino però adesso è cresciuto e ha me, quindi non è più solitario.” Magnus spostò il cellulare all’altro orecchio.
“Tu sei meglio di lui e di chiunque, Magnus.”
“Anche di Marcus Goldman?”
Alec rise nuovamente di gusto e Magnus lo immaginò tirare indietro la testa, esponendo le curve del collo. “Anche di lui, sì.”
“Quindi ammetti di avere una cotta?”
“Oh mio Dio, Mags, no!” esclamò tra le risate.
“Io l’avrei. È uno scrittore, un pugile, e da quello che mi hai detto, gli altri lo reputano un bel ragazzo. Chissà chi mi ricorda.”
“Smettila.”
Magnus lo immaginò arrossire nuovamente e sorrise perché era adorabile vedere il rosso cremisi che colorava il viso di Alexander.
“No, mai. Pensa a quanto sono fortunato: la persona per cui ho una cotta è reale.”
“Una cotta? È solo di questo che si tratta?” lo stuzzicò Alec, e Magnus capì immediatamente dove volesse andare a parare.
“No, zuccherino, e lo sai.”
“So, cosa?” continuò Alexander, e Magnus riuscì a sentire un sorrisetto astuto – e anche un po’ malizioso – nella sua voce.
“Sai che ti amo.” Disse quindi Magnus, sentendo il cuore che accelerava. Chissà se anche quello di Alexander subiva la stessa sorte, ogni volta che si dicevano quelle due semplici, ma oltremodo importanti, parole.
“Anche io,” sussurrò Alec, “Tanto.”
Parlarono ancora per un’ora buona, raccontandosi stupidaggini o cose più serie, dicendosi tutto e non dicendosi niente. Senza filtri. Era la cosa che più piaceva ad entrambi: la consapevolezza di poter dire qualsiasi cosa liberamente, senza dover pensare a come dirla perché sapevano che non sarebbero mai stati fraintesi dall’altro, o giudicati. Si fidavano l’uno dell’altro a tal punto, da mostrarsi per quello che esattamente erano, come un vetro trasparente che permette di vedere le cose come stanno nella loro forma più pura.
Dopo la loro telefonata, andarono entrambi a letto con un sorriso appagato e il cuore leggero.

*

Cosa vuoi che sia una vita senza amore.
Alec pensava spesso a quella frase. Non sapeva dove l’aveva sentita, o quando, ricordava solo di averlo fatto e di averla fatta propria nel momento stesso in cui aveva realizzato quale fosse la verità – verità che si era promesso di non dire a nessuno. Aveva sempre giustificato così la sua scelta i rimanere in silenzio: cosa vuoi che sia una vita senza amore? convinto che avrebbe potuto benissimo anche vivere senza. Pensava che mai avrebbe amato, quindi si era sempre convinto di non avere bisogno dell’amore. ma si sbagliava. Dio, se si sbagliava. Pensare di poter vivere senza qualcosa è facile, se non l’abbiamo mai avuto, ma vivere dopo essere stati privati di qualcosa di fondamentale nelle nostre esistenze diventa difficilissimo, se non impossibile. E Alec sapeva che non avrebbe più potuto vivere senza Magnus e il suo amore. Poteva sembrare una cosa banale, ripetitiva – dal momento che ogni film romantico sottolinea questo principio – e forse persino scontata, ma era così. Era la verità, una di quelle assolute e inconfutabili, di quelle che non possono ricevere obiezioni.
“Allora, Alec? Ce l’hai la fidanzata?”
La domanda postagli dalla prozia Eloide l’aveva portato a riflettere su Magnus e sull’amore. Aveva una fidanzata? No, ma aveva una fidanzato, di cui era innamoratissimo e del quale non avrebbe più potuto fare a meno.
“No, zia, niente fidanzata.”
Sul viso dell’anziana signora comparve un’espressione dispiaciuta, mentre tutta la famiglia Lightwood al completo – per Natale erano arrivati anche i due fratelli di Maryse, insieme alle loro mogli e figli, i quali avevano più o meno l’età di Max – si zittiva per ascoltare la conversazione tra Alec ed Eloide.
“E come mai? Sei così un bel ragazzo!”
Alec arrossì, sentendo gli sguardi della sua famiglia addosso. Odiava stare al centro dell’attenzione e questo era un lato del suo carattere che mai sarebbe cambiato.
“Non lo so, io…”
“Alec è molto esigente,” intervenne Jace, seduto al suo fianco. Il moro gli riservò uno sguardo di ringraziamento, che venne ricambiato da uno di complicità, uno di quelli che stava a significare ci penso io a coprirti le spalle. “Devi sapere, zia,” continuò Jace affabile, la voce morbida e gli occhi che brillavano scaltri – quella tipica espressione che metteva su quando doveva ammaliare una folla. Jace aveva un dono innato per far pendere chiunque dalle proprie labbra. “…che una volta è uscito con una ragazza stupenda, ma, purtroppo, era atea.”
Eloide si portò una mano sul cuore, scioccata, e intavolò una conversazione con nonna Phoebe sui giovani e le loro mancanza di fede, togliendo in questo modo Alec dal mirino.
“Grazie.” Sussurrò Alec al fratello.
Jace gli rivolse un occhiolino. “Quando vuoi.”
Quel momento tra i due, però, fu interrotto da Isabelle che gli diede un calcio in uno stinco da sotto il tavolo. La punta del suo stivale entrò in collisione con la gamba del fratello e Jace soffocò un gemito di dolore, prima di guardare in cagnesco la sorella di fronte a sé. “Sei pazza?” Ringhiò a denti stretti.
“Non ti sembra di aver esagerato?”
“No!”
Atea, Jace?” sussurrò Isabelle per non farsi sentire dal resto della tavolata, intenta comunque in differenti conversazioni – tra cui quella quasi urlata che stavano avendo Max e i suoi cugini su chi fosse l’Avenger più forte. “Non potevi limitarti a dire che è esigente?”
Jace si appoggiò allo schienale della sedia. “Ti preoccupi troppo, sorellina.”
Izzy lasciò cadere l’argomento, cominciando a giocare con il cibo che aveva nel piatto, e Alec si chiese se lo sguardo preoccupato che riempiva le iridi scure di sua sorella non avesse colto qualcosa che a lui, invece, era sfuggito.

*

Alec se ne stava nello studio, il regalo di Natale di Magnus stretto in grembo, ancora incartato. Voleva rimanere da solo, così era salito lassù per avere un momento tutto per sé, per riuscire a goderselo al meglio. Ma chissà perché, non riusciva a scartare quel regalo.
Lui era un frana, con i regali; Magnus, invece, era bravissimo. E forse era questa la cosa che gli metteva ansia: la consapevolezza che sicuramente sotto quella carta natalizia, piena di renne e pupazzi di neve, c’era qualcosa che ad Alec sarebbe piaciuto tantissimo.
La cosa che lo preoccupava era non aver indovinato il regalo di Magnus. Non aveva voluto l’aiuto di nessuno – nemmeno di Izzy, che si era gentilmente offerta di accompagnarlo per dargli una mano – ma adesso un po’ se ne pentiva. E se Magnus non avesse gradito ciò che lui gli aveva regalato, mentre lui, di sicuro, avrebbe adorato il regalo di Magnus? Si sarebbe sentito in colpa fino alla fine dei suoi giorni.
Alec sospirò, combattuto e un tantino affranto, e si decise a scartare il regalo. Lo fece con calma, senza squarciare brutalmente la carta e quando ebbe finito, un ampio sorriso si aprì sul suo viso – la conferma di ciò che già sospettava: Magnus aveva indovinato. Gli occhi di Alec si posarono su un quaderno con una copertina rigida, elegante, di pelle grigia, intagliata di ricami astratti che formavano cerchi e onde blu. Il quaderno era accompagnato da un biglietto. Alec si accinse a leggerlo.

Per le tue ispirazioni e le tue idee (so quante ne ronzano nella tua bellissima testolina),
Per quegli appunti che vorresti annotare, ma non sai mai dove farlo.
Per tutte le volte che avevi una frase bella in testa, ma niente dove scriverla – finendo così per dimenticarla, o non ricordarla esattamente per come ti soddisfaceva.
Per te, che sei tutto ciò che amo, soprattutto quando mi permetti di entrare nella tua mente, facendomi leggere ciò che scrivi.

Buon Natale, tesoro <3


Alec aveva un sorriso stampato in faccia, gli occhi umidi – perché sì, un po’ si era commosso – e il cuore che aveva cominciato a correre. Una familiare sensazione di calore lo scaldava dentro, mentre rileggeva quelle parole e accarezzava la copertina del quaderno. L’avrebbe sempre portato con sé, ne era certo. Lo strinse al petto, come se in quel modo l’abbraccio potesse arrivare a Magnus. Se fosse stato con lui, l’avrebbe fatto. L’avrebbe stretto forte a sé e l’avrebbe baciato per ringraziarlo, perché sapeva sempre come renderlo felice.
Estrasse il cellulare per mandargli un messaggio, ma il rumore di qualcuno che tirava giù le scale lo distrasse e lo fece voltare. Isabelle comparve da esse, diventando sempre più alta man mano che saliva. Una volta messi i piedi sul pavimento, tirò su le scale e chiuse la botola.
“Iz, che c’è?”
Isabelle si avvicinò a lui e si sistemò sul divano insieme al fratello. Alec era seduto e teneva in grembo il quaderno, così Isabelle optò per rannicchiare le gambe a sé anzi che appoggiarle su quelle del fratello. “È il regalo di Magnus?” chiese, indicandolo con un cenno del mento.
Alec portò gli occhi dalla sorella al quaderno. Sorrise affettuosamente mentre lo accarezzava. “Sì.”
Isabelle sorrise, ma Alec non colse la solita spensieratezza che normalmente caratterizzava i sorrisi della sorella. Si preoccupò immediatamente. “Iz, che c’è?” ripeté, quindi.
La ragazza puntò i suoi occhi neri sui suoi. “Jace ha esagerato, stasera. Credo che mamma abbia capito qualcosa.”
Alec sospirò, sconfitto. “Cos’hai notato?” ripensò allo sguardo che aveva colto negli occhi di sua sorella a cena, quella sera, e al pensiero che aveva avuto lui riguardo al fatto che gli fosse sfuggito qualcosa.
“Il suo sguardo… ascoltava la conversazione in modo particolarmente attento, come se cercasse di carpire una verità che sapeva veniva nascosta.”
“Mamma ha sempre quell’espressione, Iz.”
“Lo so, Alec… è che-”
Alec mise da parte il quaderno e si sporse verso la sorella, prendendole entrambe le mani. Erano piccole, confrontate alle sue, calde e curate. “Ti preoccupi per me. Lo so, Izzy. E lo apprezzo, ma prima o poi dovrò dirglielo.”
“Sì, ma non voglio che tu lo faccia perché lei si mette in mente di torchiarti.”
Alec la tirò a sé e Isabelle lo lasciò fare; le baciò la fronte e lei lo abbracciò. “Quando io papà abbiamo litigato, lei mi ha chiesto se c’era davvero qualcuno e quando le ho detto di sì, mi ha risposto che supponeva gliene avrei parlato quando ne sarei stato pronto.”
Isabelle sospirò e alzò gli occhi su Alec. “E lo sei, Alec? Se la verità venisse fuori, tu…”
“Io la confermerei. Non…” fece vagare lo sguardo su tutta la stanza, fino a che non si posò nuovamente sul quaderno di Magnus. Cosa vuoi che sia una vita senza amore? Una vita vuota. “Non voglio più nascondermi, Iz. Vuoi sapere se l’idea di fare apertamente coming-out ancora un po’ mi spaventa? Sì. Ma mi spaventa più l’idea di perdere ciò che ho.”
“Magnus?” Gli chiese dolcemente, sebbene sapesse già che si riferisse a lui.
“Magnus.” Confermò Alec.  “Non voglio perderlo. E se questo significa subire una specie di interrogatorio da parte di mamma, allora ben venga. Le dirò tutto quello che vuole.”
Isabelle lo strinse ancora, forte e bisognosa di infondere in quell’abbraccio tutta la sincerità delle parole che stava per dire. “Io sarò al tuo fianco, lo sai?”
Alec le lasciò un bacio sulla fronte. “Lo so.”
Isabelle si rilassò – Alec sentì chiaramente i suoi muscoli farlo, dal momento che erano ancora abbracciati. Quando lei sciolse l’abbraccio, Alec notò il solito luccichio vispo che caratterizzava gli occhi della sorella.
“Allora,” cominciò sorridendo. “Tu che gli hai regalato?”
Alec arrossì. “Un libro sulla fotografia.”
Isabelle fece una smorfia di disapprovazione. “Sul serio? Non potevi impegnarti un po’ di più?”
Alec sentì un principio di panico attraversargli le membra. “H-ho pensato che… che fosse una cosa che potesse piacergli. Mi dice sempre che vuole imparare nuove tecniche e in quel libro c’erano tutti gli stili esistenti nel mondo, occidentale e orientale.”
“La prossima volta regalagli un album pieno di tue foto nudo, almeno vai sul sicuro!”
Le guance di Alec divennero cremisi. “ISABELLE!”
“O meglio ancora: fai si che sia lui a fotografarti nudo.” Isabelle ammiccò, prima di esplodere in una risata cristallina e soddisfatta, mentre il rossore di Alec aumentava.
“Sei…sei…”
“Fantastica?”
“Inopportuna!”
La risata di Isabelle non accennò a placarsi. “Oh, piantala!” Si alzò dal divano e gli baciò una guancia, prima di dirigersi di nuovo verso la botola delle scale che poco prima aveva tirato su. “Scrivigli. So che vuoi farlo. Buonanotte, fratellone!”
Alec la guardò andare via, scuotendo la testa, rassegnato davanti alla consapevolezza dell’esuberanza della sorella. “Buonanotte, Iz.”
Quando Isabelle lasciò la stanza, Alec afferrò il telefono, ma anzi che scrivere un messaggio a Magnus, compose il suo numero. Aveva bisogno di sentire la sua voce.

*

Dopo Natale, Capodanno arrivò in un battito di ciglia. Alec si era perso il passaggio da Ragazzi, aiutatemi ad apparecchiare la tavola a Robert, perché la tua valigia non è ancora pronta?
I suoi genitori erano partiti da un giorno, ma sembrava fossero via da almeno tre: era strano come durante quel periodo dell’anno il tempo o corresse alla velocità della luce, o si dilatasse all’infinito.
Fatto sta, comunque, che casa Lightwood ospitava solo i figli più grandi da almeno ventiquattro ore e Alec era nella camera di Isabelle e sotto le sue grinfie da almeno due.
“Se non stai fermo, giuro che ti raso a zero, Alec!”
Isabelle aveva le mani immerse nei suoi capelli da venti minuti. Venti minuti. Un’eternità per uno come Alec, che con pettinarsi intendeva lasciare asciugare i capelli al vento dopo averli passati con l’asciugamano.
“Fallo, almeno non dovrei più stare qui mentre mi agghindi. Odio agghindarmi.”
“Non mi sfidare. Lamentati di nuovo e lo faccio. Posso solo immaginare la faccia che farà Magnus, se ti vedrà assomigliare ad una palla da bowling!”
Quell’ultima frase bastò a far chetare Alec, che, seduto alla toeletta di Isabelle, mise il broncio e incrociò le braccia al petto per dimostrare tutto il suo disappunto di fronte a quelle minacce: tirare fuori Magnus era stato un colpo basso.
“Sei una despota.”
“Mi ringrazierai. Se fosse per te, ti saresti infilato uno dei tuoi maglioni infeltriti.”
“Non vedo dove sia il problema!”
Isabelle alzò gli occhi al cielo. “Il problema sta nel fatto che è l’ultimo dell’anno e non puoi vestirti come fai di solito.”
“Giusto, perché è una regola base e fondamentale per la sopravvivenza della razza umana mettersi in tiro per l’ultimo dell’anno.”
Isabelle, in piedi dietro di lui, gli tirò i capelli e Alec gemette, fulminandola  dallo specchio subito dopo. “Sei sicuro di voler essere sarcastico mentre ho le mani nei tuoi capelli?”
“Almeno potresti fare in fretta?”
“No. Ho bisogno di tempo per la perfezione. Se poi tu non collabori…” lasciò volutamente la frase a metà e Alec roteò gli occhi al cielo, arrendendosi al suo inevitabile destino.
“E va bene, starò fermo. Ma tu muoviti.”
Isabelle sorrise e gongolò soddisfatta, prima di tornare ad occuparsi di Alec.


L’Isabelle-trattamento durò un’altra ora buona. Alec aveva seriamente preso in considerazione l’idea di conficcarsi una delle spugnette, che sua sorella usava per cospargersi il fondotinta sul viso, in gola per soffocarsi. Almeno in quel caso la sua tortura sarebbe terminata. Invece, aveva dato retta al suo istinto di sopravvivenza che gli aveva suggerito che una reazione simile sarebbe stata un tantino esagerata.
Alec non era sicuro di essere d’accordo con il suo istinto di sopravvivenza.
Comunque, quando Isabelle ebbe finito con Alec, sorrise soddisfatta e chiamò Jace a gran voce che, invece, si era agghindato per conto suo.
“Jace! Vieni a vedere il miracolo!”
Il biondo fece capolino in camera della sorella poco dopo: era già vestito per la serata che avevano programmato al Pandemonium e indossava una camicia nera, abbinata a dei pantaloni grigio scuro accompagnati da anfibi tenuti slacciati. Guardò suo fratello da capo a piedi e poi rivolse un sorriso ad Isabelle.
“Sei una specie di maga, lo sai, sì?”
Izzy gongolò soddisfatta. “Lo so. Sono eccezionale.”
Alec sbuffò sonoramente e alzò gli occhi al cielo, guardandosi allo specchio intero che campeggiava su una parete della camera di Isabelle. Sua sorella gli aveva sistemato i capelli in modo che non gli ricadessero sugli occhi, alzandoli in aria quel tanto da far sembrare la cosa naturale e non troppo studiata. Erano sempre scompigliati, ma in maniera più ordinata. Come questo fosse possibile, Alec doveva ancora capirlo, ma aveva imparato a non fare troppe domande ad Isabelle e ad assecondarla durante i suoi attacchi creativi senza mai contraddirla. Si guardò ancora, posando lo sguardo sulla lucida camicia bordeaux, accompagnata da un gilet nero, lo stesso colore dei pantaloni – skinny, troppo skinny per i gusti di Alec, dal momento che dubitava seriamente il sangue riuscisse a passare correttamente per l’arteria femorale. E infine, notò con non troppo entusiasmo, anfibi. Lui e Jace erano vestiti in maniera fin troppo simile e pensò che fosse dovuto al fatto che erano ragazzi e, si sa, i ragazzi non hanno un’ampia scelta come le ragazze – bastava notare la differenza di ampiezza tra i loro armadi e quello di Isabelle – ma poi pensò a Magnus, che era un ragazzo, e aveva un armadio che ricopriva un’intera parete della sua stanza ed era pieno zeppo di vestiti tutti diversi tra di loro. Alec arrivò alla conclusione, quindi, che se lui e Jace erano vestiti simili, quella sera, era perché avevano anche gusti simili, in fondo – molto in fondo, dato che Alec indossava abiti del genere solo quando era costretto mentre Jace usava ogni scusa buona per farlo.
“Sembro un cameriere.”
“Non dire idiozie, Alec. I camerieri hanno la camicia bianca. Pensi che avrei fatto un errore così da novellina?” esclamò Isabelle, risentita. “Mi stupisce che mi sottovaluti tanto.”
“Io non ti sottovaluto, è solo che…”
“Preferivi una maglietta e dei normali pantaloni?” suggerì Jace, un sorriso divertito sul viso.
“Esatto. E non provare anche tu a dirmi che è l’ultimo dell’anno e bla, bla, bla. Ci ha già pensato lei e ho afferrato il messaggio!”
Jace e Isabelle si scambiarono uno sguardo prima di ridere insieme, mentre Alec, rassegnato, cominciava a slacciarsi i polsini della camicia e tirarli su fino ai gomiti. Odiava mettersi le camicie, il minimo che poteva fare era portarle nel modo che reputava più comodo.

I ragazzi avevano programmato il tutto subito dopo Natale: si sarebbero visti tutti a casa Lightwood, avrebbero cenato lì – del cibo non cucinato da Isabelle – e avrebbero continuato la serata al Pandemonium. L’idea di Izzy di fare una festa a casa loro era saltata giorni prima quando Maryse, mentre apparecchiava la tavola natalizia prima dell’arrivo di tutti i parenti, si era fatta aiutare dai suoi figli e, senza troppi rigiri di parole, aveva iniziato il discorso, arrivando immediatamente al punto.
“Voglio sperare che la nostra assenza non vi metta in testa strane idee, riguardo all’ultimo dell’anno. Se farete qualcosa che normalmente non approverei,” e i suoi occhi scuri avevano scrutato i suoi figli più grandi uno ad uno, “verrò a saperlo. E, una volta tornata, le conseguenze non saranno piacevoli.”
Maryse Lightwood aveva più uccellini di Varys e di conseguenza, onde evitare di rimanere in punizione a vita, chiusi in casa come se si fosse trasformata in una succursale di Alcatraz, i Lightwood avevano optato per qualcosa di più tranquillo: cena e discoteca. Non che Maryse dovesse necessariamente sapere che andavano in discoteca, ovviamente. Questa parte, aveva fatto notare Isabelle, Maryse non l’avrebbe mai scoperta: Izzy, infatti, riteneva che i complici di sua madre fossero almeno la metà dei loro vicini e, anche se li avessero tenuti d’occhio, avrebbero semplicemente visto un gruppo di amici uscire di casa per trascorrere una serata fuori. Se poi questa serata comprendeva rifugiarsi in una discoteca, entrando con un documento falso – procurato da un certo Meliorn, che comunque negherebbe ogni coinvolgimento – era un altro paio di maniche. E un punto su cui non focalizzarsi. Soprattutto perché focalizzandocisi, ad Alec sarebbe venuta l’ulcera per l’ansia. Non voleva pensare a cosa sarebbe successo se il buttafuori all’ingresso del locale non si fosse fatto ingannare da un gruppo di minorenni che fingeva di non esserlo.
“Aleeeec sono arrivati!” urlò Isabelle dal piano superiore, dove si stava preparando. Com’era possibile che lei fosse riuscita a sentire il campanello e Alec – che si trovava in cucina, coperto da un grembiule che Isabelle lo aveva costretto ad indossare perché non azzardarti a sporcare il mio capolavoro – no? Doveva seriamente smetterla di perdersi nei meandri della sua mente. Smise di tagliare a pezzetti il pomodoro e, pulendosi le mani al grembiule, che si tolse alla velocità della luce perché era imbarazzante e non voleva farsi vedere da Magnus con quell’affare addosso, si diresse verso la porta. Quando la aprì fu investito da un coro di Ciao, Alec! che lui ricambiò, prima di mettersi di lato per far entrare i suoi amici: Simon entrò per primo, seguito da Clary, Catarina e Raphael. L’ultimo che varcò quella soglia fu Magnus, che si perse un attimo a scrutare Alec, il quale arrossì violentemente.
“Ciao, tesoro.” Si avvicinò per sfiorargli le labbra con le proprie.
“Ciao.” Sorrise Alec, chiudendosi la porta alle spalle.
“Sei bellissimo.”
Alec divenne ancora più rosso. “Ha fatto tutto Isabelle…”
Magnus gli appoggiò una mano a palmo aperto sul petto. “Io non credo. Sembra più un fattore genetico, o un regalo di Madre Natura. Scegli tu.”
Alec sorrise, scuotendo affettuosamente la testa, mentre i loro occhi si incatenavano. Magnus era truccato in modo che il colore delle sue iridi sembrasse ancora più intenso: portava un ombretto nero, sfumato affinché risultasse più scuro all’estremità dell’occhio, verso la tempia, accompagnato da una riga di eyeliner viola metallizzato che formava due ali perfette. Le ciglia erano allungate dal mascara, ma Alec pensò che fosse inutile usarlo, dal momento che Magnus aveva delle ciglia lunghe di natura. Fatto sta, comunque, che era bellissimo e non riusciva ad interrompere il contatto visivo con lui.
Alec si schiarì la gola. “Puoi, ehm, puoi appoggiare il cappotto là.” disse poi, indicando l’attaccapanni che il resto del gruppo, accolto da Jace, aveva già occupato. Erano rimasti soli, notò il ragazzo in quel momento.
Magnus sorrise e annuì, distogliendo di malavoglia la sua attenzione da Alec, per dirigersi verso l’oggetto indicato.
Alec non avrebbe certo immaginato che, una volta privatosi del cappotto, Magnus gli avrebbe provocato un infarto. L’orientale, infatti, indossava una maglietta particolare: assomigliava più che altro ad un maglione nero a righe, ma le righe non erano di un altro colore, bensì mostravano direttamente la pelle che stava sotto ad esso. Alec riusciva davvero a vedere tutto: i muscoli delle braccia, l’ampiezza delle spalle, la muscolatura definita del petto e dell’addome. Stava lentamente andando in tilt. I pantaloni viola che Magnus indossava, poi, stretti e aderenti come una seconda pelle, non aiutarono certo a migliorare la sua situazione. Ben poco veniva lasciato all’immaginazione e la mente di Alec aveva cominciato a focalizzarsi su ricordi riguardanti il corpo di Magnus. Iniziava a sentire il sangue confluire in un’unica parte del suo corpo e per darsi un po’ di contegno, si schiarì di nuovo la gola, attirando così anche l’attenzione di Magnus.
Alec era pronto a scommettere che il suo ragazzo sapesse esattamente cosa gli passasse per la testa e ne ebbe conferma quando gli si avvicinò con un sorrisetto malizioso.
“Va tutto bene, caro?”
Alec deglutì non appena il profumo al sandalo di Magnus lo investì piacevolmente ed entrambe le sue mani si appoggiarono al proprio petto.
“S-sì, i-io… ehm, io…” Wow, quanta loquacità Alec. Digli qualcosa, idiota! “Tu,” balbettò chiudendo gli occhi, “Non io, tu.” Specificò, riaprendoli, con il cuore che scalpitava. “Tu... stai benissimo.”
Magnus sorrise e una delle sue mani si chiuse a coppa sul suo viso, cominciando ad accarezzargli uno zigomo. Alec piegò la testa verso la mano di Magnus. “Sei bellissimo.” Gli disse quindi in un sussurro, prima di chinarsi un poco per lasciargli un bacio casto sulle labbra.
Magnus cominciò a sorridere ancora prima che le loro bocche si staccassero. “Ti piace?”
“La maglietta?”
No, il tempo fuori. Ma che ti prende, Lightwood?
Alec si diede mentalmente dell’imbecille.
“Sì, tesoro, la maglietta. L’ho messa pensando a te.”
Alec lo guardò ancora – come se non l’avesse già fatto abbondantemente: doveva esserci un motivo per cui il suo cervello sembrava essersi spento, ribellandosi persino ai funzionamenti base. E il motivo era Magnus. Magnus e tutto ciò che aveva di meraviglioso sotto quella maglietta tentatrice e aizza ormoni.
“Mi piace, sì. È molto… interessante.”
Magnus strinse le guance all’interno della bocca. “Interessante?” chiese, fingendo ingenuità.
Alec annuì con convinzione, le guance che diventavano rosse e i suoi occhi che continuavano a fissare ciò che quell’effetto vedo-non-vedo mostrava. Il colpo definitivo, ciò che mandò all’aria il controllo di Alec, fu Magnus che, con una casualità che in realtà era tutto tranne che casuale, si passò la lingua sulle labbra: Alec si chinò su di lui e senza troppe cerimonie gli ficcò la lingua in bocca, facendo sussultare Magnus che lo accolse comunque di buon grado.
Alec sentì una delle mani di Magnus stringersi intorno alla sua camicia, mentre l’altra andava a posizionarsi dietro al suo collo per tirarlo di più a sé. Le mani di Alec, invece, andarono a posarsi automaticamente sui fianchi di Magnus, stringendoli. Se avesse dato retta al suo istinto, e – soprattutto – se Jace non li avesse interrotti, le avrebbe infilate sotto quella peccaminosa maglietta.
“Ehi, ragazzi, non voglio distruggere l’atmosfera, ma-”
“Ma l’hai fatto.” disse Magnus, senza preoccuparsi di celare il suo disappunto per quell’inappropriata interruzione.
Jace lo guardò lapidario e poi si rivolse, con una serietà mortale, ad Alec. “Izzy è in cucina.” Disse, come se fosse il preludio della fine del mondo.
A quelle parole, Alec si allontanò da Magnus e sospirò. “Ho capito. Arrivo.”
Jace annuì e sparì dall’entrata. Alec lo guardò incamminarsi verso la sala, dalla quale sentiva provenire le voci dei suoi amici.  
“Vuoi aiutarmi?” chiese, dando un bacio sulla fronte di Magnus. “Facciamo gli spiedini e buttiamo giù la pasta.”
Magnus sorrise. “Ma certo, tesoro.” Fece intrecciare le loro dita e lo guardò furbescamente. “Almeno saremo un po’ da soli, senza interruzioni.” Concluse, ammiccando.
Alec rise di gusto e lo condusse all’interno della casa, diretti verso la cucina dalla quale spodestarono una Isabelle estremamente contraria a quella decisione.

*

Alec non metteva piede al Pandemonium da un sacco di tempo: era il genere di posto che, di norma, tendeva ad evitare a meno che non ce lo trascinassero i suoi fratelli con la forza. Quella volta, però, Alec si trovava in quel posto con un umore diverso. Era come se fosse felice di esserci, come se capisse per la prima volta cosa ci trovassero di divertente i suoi fratelli: quel luogo era un’esplosione di colori che si mescolava all’oscurità tipica dei posti chiusi, illuminando di giallo, verde e viola i visi dei suoi coetanei.
Quella sera, persino lui si stava divertendo, sebbene non avesse il coraggio di andare a ballare, come invece stavano facendo Magnus, Catarina e Isabelle. Erano impossibili da non notare: primo, perché Isabelle indossava un vestitino ricoperto di paillettes rosse sulle quali le luci rimbalzavano, secondo perché si agitavano come dei pazzi. Erano divertenti da guardare, comunque. Alec aveva nascosto un sorriso dietro al suo boccale di birra più di una volta mentre guardava Magnus, in mezzo a Cat e Izzy, muoversi insieme a loro come se fossero il braccio di una macchina che si muove in sincronia, in avanti e indietro a ritmo di una musica incalzante. Vide chiaramente Isabelle gridare qualcosa – lo intuì perché aprì la bocca, ma nemmeno se fossero stati vicini avrebbe capito cosa stava dicendo. Sembrava che si divertisse, comunque. E con lei sia Magnus che Cat.
Alec posò gli occhi sul suo boccale, notando che era arrivato già a metà. Era la seconda birra di quella sera e non voleva esagerare troppo.
“Alec.” sussurrò Simon al suo orecchio, appoggiando il mento alla sua spalla. Erano rimasti solo lui, Simon e Raphael a quel tavolo, mentre Jace e Clary erano andati chissà dove ad esplorarsi reciprocamente le gole, così Alec si voltò verso Simon, che aveva gli occhi lucidi.
“Amo tua sorella.” Disse e quella, per Alec, fu la prova che forse il ragazzo stava cominciando a sentire gli effetti dell’alcol che aveva ingerito fino ad ora. Non che avesse bevuto molto, ma forse non lo reggeva bene.
“Mi fa piacere, Simon.”
Simon si allontanò dalla sua spalla per guardarlo con convinzione negli occhi. “Io la amo sul serio. Non le farei mai del male, capisci?”
Alec sorrise. “Se ci provassi, probabilmente sarebbe lei la prima a prenderti a calci.”
Simon si fece pensieroso e annuì freneticamente, risultando un poco scoordinato. “Oh, ma lo so, è una tosta.” I suoi occhi vagarono fino ad incontrare la figura luccicante di Isabelle, i suoi movimenti ammaliatori mentre ballava e i capelli corvini che si alzavano in aria ad ogni sua mossa. Sul viso di Simon comparve un’espressione che Alec riconobbe fin troppo bene e che sapeva si formava sul suo viso quando, invece, guardava Magnus. “Ed è una creatura meravigliosa.” Fece una pausa e poi riportò la sua attenzione su Alec. “E la cosa bella è che una ragazza così ama me. Me l’ha detto, sai? E voglio dire una cosa io a te, perché sei suo fratello e so quanto siete legati.” Fece una pausa per lasciarsi andare ad un singhiozzo. “La rispetto e l’ammiro. Lo farò sempre.” Biascicò, strisciando un po’ troppo le vocali.
Alec che era sempre stato protettivo nei confronti di sua sorella non poté che essere felice di sentire quelle parole – e di sapere che Izzy fosse riuscita a dire a qualcuno di amarlo, lei che era sempre stata restia a lasciarsi andare ai sentimenti, proteggendosi da qualsiasi rapporto non fosse fisico. “Simon, ascolta,” cominciò, quindi, “Iz è la mia sorellina, lo sarà sempre. Ho sempre pensato che nessuno sarebbe mai stato alla sua altezza, che lei fosse troppo per chiunque, ma… da quando ti conosce è più felice, quindi…”
Simon non lo lasciò finire perché lo stritolò in un abbraccio da piovra che fece versare il bicchiere che Alec teneva ancora stretto tra le mani sul tavolo.
“Simon!” Esclamò, rimettendolo dritto, cercando di evitare che si versasse tutto.
“Scusa, scusa. Basta abbracci.”
“E tu smettila con l’alcol.” Aggiunse Raphael, che aveva ascoltato ogni cosa, in silenzio. “Diventi ancora più logorroico quando bevi.”
L’espressione si sofferenza che si creò sul viso di Simon divenne quasi comica. “Mi ferisci, amigo.”  
Raphael alzò gli occhi al cielo. “Forse non dovresti prendertela per ogni cosa, amigo.”
Simon sorrise e batté con veemenza un palmo sul tavolo. “AH! Ammetti che siamo amici, quindi? Lo neghi sempre. Tu neghi sempre tutto, in effetti. Ci hai mai fatto caso, Alec?” Simon portò di nuovo la sua attenzione su Alec, che scrollò le spalle, incapace di rispondere.
“Perché neghi di volerci bene, Raph?”
“Simon, por Dios, cállate.
“No!” Simon ne fece una questione personale e scivolò ancora di più verso Raphael, gli occhi ridotti a due fessure, come se stesse cercando di risolvere un mistero. “Non ci vuoi bene? Perché?”
“Simon…” tentò Alec, dopo aver notato Raphael irrigidirsi.
“No.” si imputò Simon. “Voglio sapere perché.”
Raphael si voltò verso di lui e lo fissò impassibile, tanto che sembrava avesse persino smesso di respirare. “Sei ubriaco. E molesto, molto molesto. Stai invadendo il mio spazio personale, mettendo a dura prova la mia pazienza, e non ti ho ancora ucciso. Non ti sembra una dimostrazione di affetto abbastanza chiara, Lewis?”
Simon assimilò quelle parole, rimanendo in silenzio a fissare Raphael con l’espressione di un pesce lesso, tanto che Alec ebbe timore che si fosse addormentato con gli occhi aperti, ma poi sul viso del ragazzo comparve un sorriso ampissimo e si sporse verso il messicano a braccia aperte.
“Provaci.” Sibilò Raphael, lanciandogli un’occhiataccia. “E ti do un morso. Giuro che lo faccio, Lewis, non approfittartene.”
Simon si appoggiò allo schienale del divanetto, davanti al quale stava il tavolo e in cui erano seduti, e incrociò le braccia al petto. “Acido.”
“Chi è acido?”
Immersi com’erano in quell’assurda conversazione – Alec doveva dare ragione a Raphael quando diceva che Simon da ubriaco parlava ancora più di quanto non facesse al normale – non si erano resi conto che Magnus si era nuovamente avvicinato al tavolo che stavano occupando. Alec lanciò un’occhiata alle sue spalle per accertarsi che Izzy fosse ancora dov’era e la vide ballare insieme a Catarina e Clary, sbucata da chissà dove, mentre Jace si dirigeva a sua volta verso di loro, mostrando un succhiotto sul collo più eloquente di mille parole. Le ragazze lanciarono un urlo che questa volta Alec riuscì ad udire quando dalle casse si sentì Who run the world? Girls!  e cominciarono a dimenarsi a ritmo di musica.
“Raphael!” dichiarò imbronciato Simon, mentre Jace si sedeva vicino ad Alec, che si trovò in questo modo tra il fratello e Simon.
Magnus, dal momento che il posto vicino al suo ragazzo era stato occupato, si sedette vicino a Raphael. “Non è una novità. Vero, Rafi?” gli diede una spallata giocosa, ma il messicano gli riservò uno sguardo gelido.
“Ma io mi lamento mai di come sei fatto tu?” domandò senza premurarsi di non risultare sgarbato. “E smettila di chiamarmi in quel modo.”
Magnus gli lanciò un’occhiata laterale, ma non era arrabbiato. Non ce la faceva a prendersela con lui, nemmeno quando era così scorbutico. “Sai che ti ci vuole? Uno shottino. O magari dieci, almeno ti sciogli un po’.”
“E finire come Simon? No grazie, passo.”
“Dai, Rafi, non fare il musone.”
“Ti ho già dett-”
“Di non chiamarti così.” Lo interruppe Magnus, facendo svolazzare incurante una mano tra di loro. “Smetterò, ma solo se berrai.”
Raphael strinse la mascella, ma non era scocciato, sembrava più che altro che stesse ponderando l’idea di accettare o meno la provocazione di Magnus. “D’accordo.” concluse infine, gli occhi ridotti a due strette fessure. “Uno solo e mi lasci in pace.”
Magnus batté le mani, ma lo schiocco non si udì, sovrastato dalla musica lanciata a palla. Le loro conversazioni, infatti, erano quasi gridate. “Ci sto.” Si alzò e Raphael lo imitò. Prima di dirigersi verso il bar, Magnus rivolse uno sguardo ad Alec. “Vuoi qualcosa, tesoro?”
“No, grazie.”
Magnus si chinò verso di lui e gli sistemò due dita sotto al mento, spronandolo ad alzare il viso. “Mi aspetti qui, allora?” soffiò sfiorandogli le labbra con le proprie.
Alec annuì e avanzò per far scontrare la sua bocca con quella di Magnus e dargli un bacio a stampo.
“Faccio presto.” E, dopo avergli fatto l’occhiolino, si allontanò dal tavolo seguito da Raphael, mentre Alec li osservava sparire tra la folla.

Alec era immerso in una conversazione con Jace, quando la figura di Raphael ricomparse dalla folla con un piccolo bicchiere di vodka alla menta in mano e si sedette di nuovo al loro tavolo, vicino a Catarina, che era tornata per riprendere fiato. Di Magnus, però, non c’era traccia.
“Dico solo che se i Knicks avessero optato per una difesa più pressante, avremmo vinto ad occhi chiusi.” Disse Jace, continuando la conversazione che avevano iniziato qualche istante prima, riguardo l’ultima partita della squadra di basket in questione. Alec si estraniò momentaneamente per cercare Magnus con gli occhi, ma non lo trovò.
“Ma una difesa pressante toglie troppo tempo all’attacco. Non puoi vincere se passi tutti i quattro tempi a difendere e mai ad attaccare.” Ribatté Alec, riportando l’attenzione sul fratello e decidendo di non preoccuparsi per l’assenza di Magnus. Non ancora, almeno.
“Ragazzi…” li ammonì Clary vicino a Jace. Era tornata al tavolo insieme a Cat, mentre Izzy invece aveva trascinato Simon in pista. “Dobbiamo parlarne adesso?”
Jace si voltò verso di lei e le circondò le spalle con un braccio. “Ogni momento è buono per parlare dei Knicks.” Disse, baciandole una tempia.
Clary gli riservò un’occhiata divertita. “Lo so. Pensi non l’abbia capito? Se ti lasciassi ruota libera, non parleresti d’altro.”
“Ringrazia che ci sia Alec, allora. Almeno mi sfogo con lui e non ne parlo con te.”
Clary rise e appoggiò la testa sulla spalla di Jace. Da quella posizione guardò Alec, che aveva cominciato a guardarsi di nuovo intorno.
“Alec,” lo chiamò, quindi. Il ragazzo si voltò verso di lei, quasi sussultando. “Magnus è al bar.” Gli indicò un punto che, evidentemente, Alec dalla sua posizione non riusciva a vedere, così si sporse sul tavolo per riuscire a guardare nella direzione indicata da Clary. E proprio al bancone, stava Magnus con un drink rosa in mano, braccato da due ragazze che sembrava che al posto delle braccia avessero dei tentacoli.
“Quello sembra il viso di qualcuno che sta pregando in un salvataggio.” Suggerì Catarina.
Alec la guardò, incerto sul da farsi. Era geloso? Un po’, ma ciò non significava che dovesse fiondarsi su Magnus ogni volta che qualcuno si approcciava a lui. Non era mica un cane che doveva segnare il territorio facendoci pipì sopra ogni tre metri.
Dio, Alec, che paragone orrendo.
In effetti, aveva avuto uscite migliori.
“Tu credi?” domandò un po’ titubante rivolto a Cat. La ragazza arricciò le labbra, lucide di gloss, e annuì con convinzione.
“Ne sono certa.”
“Anche io.” Confermò Clary, annuendo a sua volta, i suoi ricci rossi si mossero seguendo il movimento della testa, facendola assomigliare ad una nuvola di cotone.  
Alec guardò prima una e poi l’altra: e se avessero avuto ragione? Insomma, avrebbe solo potuto avvicinarsi e costatare di persona se effettivamente Magnus avesse bisogno di una scusa per scrollarsi di dosso quelle ragazze, o se magari, invece, erano sue vecchie amiche che nessuno aveva riconosciuto, portandoli a fraintendere l’espressione sul suo viso.
“Porca vacca, Alec. Alza il culo e va’ da lui!” sbottò Jace, spingendolo rudemente verso il bordo del divanetto, costringendolo ad alzarsi.
“Vado, vado.” Borbottò Alec e, senza riguardare i suoi amici, si immerse nella folla diretto verso il bar.

Alec sentiva i corpi che premevano contro il suo mentre si faceva largo in quella fiumana umana che saltava e si agitava su una canzone che lui non conosceva. Le luci avevano cominciato a cambiare ritmo, diventando più veloci e frenetiche, come se cercassero di rimbalzare tra le pareti scure di quel posto. Teneva gli occhi fissi su Magnus, che diventava sempre più grande mano a mano che gli si avvicinava, riuscendo sempre di più a metterlo a fuoco, nonostante l’illuminazione scarsa. Vedeva il suo profilo, i suoi occhi che cercavano di evitare il contatto con quelli della ragazza, così come il resto del suo corpo, che si irrigidiva ogni volta che lei allungava una mano per appoggiargliela sul braccio. Alec notò che delle due, solo una continuava a stargli appiccicata; l’altra, invece, sembrava si limitasse a guardare la scena impassibile. Accelerò il passo, mentre un moto di gelosia cominciava ad attorcigliargli lo stomaco più di quanto gli piacesse ammettere. Non appena raggiunse Magnus, e gli fu vicino quel tanto che serviva al ragazzo per riconoscerlo, Alec lo abbracciò da dietro, appoggiando le mani al ventre di Magnus, percependone la pelle calda attraversi i buchi della maglietta. Mantenendo uno sfacciato contatto visivo con la ragazza che prima stava appiccicata al braccio di Magnus, Alec appoggiò le proprie labbra sul collo del ragazzo e ci lasciò un bacio più lungo del necessario: non essendo un cane, doveva trovare un modo più adeguato per marcare il suo territorio. Sembrò funzionare, comunque, perché la ragazza, una bionda succinta, osservò prima Alec con sfida, come se le avesse appena portato via il giocattolo con cui avrebbe voluto divertirsi tutta la sera, e poi Magnus, come se lui, invece, le avesse fatto un enorme affronto.
“Non stavi scherzando!” Lo accusò. “Hai davvero un ragazzo.”
Magnus appoggiò la propria mano anellata a quella di Alec e cominciò ad accarezzarla con il pollice. Alec notò che portava lo smalto che gli aveva regalato. “Perché avrei dovuto mentire?”
“Magari sei uno a cui piace farsi desiderare.” Ammiccò, nonostante tutto, come se non le importasse che Alec fosse lì. Ma Alec c’era e ne aveva abbastanza di quella civetta che faceva gli occhi dolci al suo ragazzo, guardandolo come se avesse voluto mangiarselo.
“No, non lo è. Perché non lo lasci in pace?” Alec la folgorò con severità e il suo tono uscì così autoritario che persino uno stupido avrebbe capito che non ammetteva repliche di nessun genere. La bionda, a questo punto, decise di lasciar perdere e, dopo aver fulminato Alec con gli occhi esageratamente truccati, si allontanò da loro, portandosi dietro la sua amica che aveva assistito a tutta la scena rimanendo in silenzio.
Magnus si voltò verso di lui, in una mano reggeva ancora il suo drink rosa intatto. “Mi ha braccato come se fossi un animaletto ferito e lei una tigre.”
Alec percorse tutta la figura del ragazzo con gli occhi. “Non ti descriverei esattamente come un animaletto ferito, Magnus.”
Magnus alzò un sopracciglio, in un misto di curiosità e lusinga. “Ah sì? E come mi descriveresti?”
Alec gli rivolse un sorrisetto. “Non lo saprai mai.” Afferrò il bicchiere di Magnus e ne assaggiò il contenuto. Era forte e mischiava un sapore pungente ad uno dolce e fruttato. Tutto sommato era buono, ma Alec fece comunque una smorfia, quando il liquore gli bruciò la gola. “Cos’è?”
Magnus sorrise, bevendo un sorso a sua volta. “Daiquiri alla fragola.”
“È buono.”
Magnus si avvicinò ad Alec e appoggiò le labbra alle sue, portandolo a schiuderle per baciarlo a fondo e con calma, assaporandolo lentamente. “Su di te lo è ancora di più.” Disse Magnus, con un sorrisetto. Alec lo guardò: la luce che rimbalzava sul suo viso e lo illuminava ad intermittenza, il leggero velo di sudore che copriva la sua pelle senza andare a rovinare il trucco. Non gli risultava difficile capire il motivo per cui quella ragazza si fosse avvicinata: Magnus era una specie di visione paradisiaca e peccaminosa allo stesso tempo, qualcosa che attirava immancabilmente, come attira tutto ciò che è proibito, ma, allo stesso tempo, infondendo quella serenità che solo le cose giuste e belle danno. Era un arcobaleno di emozioni contrastanti e che, nonostante ciò, vivevano in Alec in un’armonia complementare. Provò l’impulso di alzare una mano per sfiorarlo, per percepirlo reale come il corpo che era e ricordarsi che non era tutto un sogno personale di Alec.
Magnus aspettò che la mano di Alec gli raggiungesse la guancia prima di piegarsi verso di lui e sorridergli, mentre Alec lo guardava in quel modo particolare, speciale. I suoi occhi diventavano languidi ogni volta che lo guardava e Magnus sentiva la colonna vertebrale sciogliersi insieme al resto delle sue ossa.
“Il mio angelo custode vuole ballare?” gli domandò Magnus, prendendo un sorso dal drink. Alec si prese un attimo ad osservare le sue labbra che lambivano il bicchiere prima di rispondergli. “Sai già che non so farlo, quindi non sarà poi così imbarazzante.”
Magnus finì il contenuto del bicchiere. “È un modo per dirmi sì, angioletto?”
“Suppongo di sì.” Alec arricciò il naso. “E non chiamarmi in quel modo.”
Il bicchiere era sparito dalle mani di Magnus ed era finito appoggiato al bancone, dove il barista l’aveva recuperato per lavarlo. Ad Alec comunque non importava di che fine avesse fatto perché, senza l’oggetto di mezzo, Magnus poteva usare entrambe le mani per toccarlo. Cosa che aveva cominciato a fare, accarezzandolo da sopra la camicia, risalendo molto lentamente dall’addome, fino al petto, allacciando le braccia dietro la nuca di Alec, dove cominciò a giocare con i suoi capelli, attorcigliandoci le dita.
“Perché no?” soffiò, “Non sei un angelo?” lo baciò sulla bocca, piano, e scese verso il mento, che afferrò tra le proprie labbra, prima di morderlo.
Il cervello di Alec si annebbiò completamente: portò le mani sulla schiena di Magnus e se lo spalmò letteralmente addosso, tanto che ebbe l’impressione di averlo persino sollevato un tantino – o forse era stato Magnus ad alzarsi sulle punte, non avrebbe saputo dirlo con esattezza. Sapeva solo che aveva cominciato a baciarlo come se volesse mangiarlo perché lui poteva. Era l’unico a cui era permesso farlo e questa cosa gli faceva più piacere di quanto avrebbe mai ammesso ad alta voce: Alec sapeva di avere un lato possessivo, ma mai avrebbe pensato che sarebbe stato accompagnato da quella punta di gelosia che lo spingeva a non mettersi da parte, ma a combattere per chi amava, per prendersi chi amava, finché aveva il permesso di farlo.
Quando Alec gli portò le mani sul sedere, agguantandolo come se volesse dare enfasi ai suoi pensieri riguardo al prendersi ciò che amava, Magnus sussultò e lui sorrise.
“Sei l’angelo meno angelico che esista, sai?” Magnus si leccò le labbra gonfie per i baci di Alec.
“Anche Lucifero era un angelo.”
Magnus si morse il labbro con forza. “Non essere sfacciato, sai che effetto mi fa.”
Alec gli regalò un sorrisetto carico di una maliziosa consapevolezza e fece vagare i suoi occhi su tutto il viso di Magnus, fermandosi sulle sue labbra. “Forse dovresti ricordarmelo.” Si chinò per baciargli la gola, succhiando la pelle sensibile senza premurarsi di essere delicato, come se sentisse un bisogno impellente di assaggiarlo.
“Alexander.” Lo ammonì Magnus.
“Cosa?” Alec continuava nel suo intento, la sua lingua lasciava scie umide sulle curve del collo di Magnus che, nonostante le sue buone intenzioni di mantenersi su un piano razionale, aveva ceduto a quell’istinto che gli diceva di piegare la testa di lato per lasciare più spazio di azione ad Alec.  
“Luogo pubblico. Diventa un problema quando l’unica cosa che vorrei fare in questo momento è compiere un atto osceno e inginocchiarmi davanti a te.”
Alec non riuscì a non sorridere davanti a tanta schiettezza. “D’accordo. Mi calmo.”
“Solo per il momento, tesoro. Per il bene dei miei ormoni.”
Alec rise e lo baciò sul naso. “Mi sento responsabile della loro salvaguardia.”
“Fai bene, visto che sei tu a farli impazzire.”
Alec scosse la testa, divertito. Sorrise ancora quando Magnus lo prese per mano e lo condusse lontano dal bar, verso quella che era la pista da ballo. Alec non ballava, o almeno non l’aveva mai fatto prima di incontrare Magnus, ma gli piaceva guardare il suo ragazzo farlo.
Magnus era un ballerino incredibile e Alec diventava particolarmente debole quando lo guardava muoversi a ritmo di musica, soprattutto se i suoi movimenti coinvolgevano i suoi fianchi e il bacino.
Alec era umano, dopotutto, e aveva un sacco di punti deboli. Magnus ballerino era uno di questi.
“Non stai ballando.” Gli disse Magnus all’orecchio, dopo esserci avvicinato affinché fosse sicuro lo sentisse.
“Mi piace più guardare te farlo.”
“E lo apprezzo, tesoro, ma odio ballare da solo.” Magnus gli portò le mani sui fianchi e guidò i suoi movimenti, spronandolo a seguire la musica che lui stesso stava seguendo. Avevano già ballato insieme, ed erano già stati così appiccicati, ma c’era qualcosa in quella danza che faceva provare ad Alec una sensazione nuova, qualcosa che gli solleticava la pelle come se fosse stata percorsa da una miriade di formiche. Cominciò a ballare senza avere più bisogno di Magnus che lo spronasse a farlo e cominciarono a muoversi insieme, intrecciandosi come avevano sempre fatto eppure facendolo sotto una nuova prospettiva. Alec non sapeva dare un nome a quella nuova sensazione sapeva solo che gli faceva venire in mente un unico pensiero. “Non voglio stare solo, stasera.”
Magnus gli circondò il collo con le braccia. “Non sei solo, infatti.”
Alec arrossì – cosa che non passò inosservata a Magnus – e si umettò le labbra, come se si sentisse nervoso per qualcosa. “No, intendo… stanotte. Non voglio stare solo stanotte.
Magnus assimilò le sue parole. Alec non chiedeva mai niente, quindi sapeva quanto gli costasse averlo fatto, soprattutto perché lui tendeva sempre a pensare di disturbare. “Vuoi dormire con me?”
Non l’avevano mai fatto. Un conto era stare sdraiati a letto durante le pause studio o nei loro pomeriggi all’insegna dell’ozio, un conto era condividere il letto per dormirci. Era una cosa intima, speciale quasi, e Magnus sentiva lo stomaco sfarfallare al pensiero di farla con Alec. Molte volte aveva pensato a come sarebbe stato, se l’avessero fatto, ma non ne aveva mai parlato perché non voleva forzare Alec o mettergli fretta.
“Tu non-” Alec si irrigidì tra le braccia di Magnus. “Tu non vuoi? Insomma, se non vuoi capisco, non posso chiederti una cosa simile… è casa tua, non posso certo autoinvitar-”
Magnus lo zittì con un bacio. “Certo che voglio. Adoro quest’idea, ad essere onesto.” Gli chiuse le mani a coppa sul viso e gli accarezzò gli zigomi accaldati per via del rossore che ancora non accennava ad andarsene.
Alec abbassò momentaneamente gli occhi, come se stesse cercando il coraggio di dire ciò che gli passava per la mente. “È che…” li alzò di nuovo su Magnus, “Voglio finire questo anno e cominciare quello nuovo con te.” Alec seppellì il viso nell’incavo del collo di Magnus. “Dio, sono così stucchevole!” esclamò, la voce che uscì ovattata e che Magnus riuscì a sentire solo per via della loro vicinanza.
Magnus lo afferrò per le spalle e lo portò ad alzare il viso. “Alexander, amo quest’idea e amo te per averla avuta. Non sei stucchevole, sei adorabile.”   
Alec arrossì ancora e accennò un sorriso, alzando un solo angolo della bocca.
“Quando decideremo di andare via da questo posto, verrai a casa con me.” Gli disse Magnus, baciandolo di nuovo. Alec sorrise sulle sue labbra e lo abbracciò, soddisfatto di quel piano.



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Ciao a tutti e ben ritrovati! Non sono morta, sono solo stata molto impegnata e non riuscivo a scrivere niente di decente, quindi scusate per l’immenso ritardo!
Questo capitolo, in realtà, non doveva finire così, ma siccome volevo dare un po’ più spazio a ciò che succederà, ho deciso di dividerlo – anche perché senza rendermene conto questo capitolo è venuto lungo 25 pagine word e avevo paura che, continuandolo fino a dove volevo arrivare, si sentisse poi troppo la differenza di lunghezza con il prossimo.
E, a proposito del prossimo capitolo, potrebbe essere quello conclusivo, ma non ne sono ancora particolarmente sicura, quindi non so… non prendetelo totalmente per buono! A questo proposito vorrei aggiungere che non mi sono dimenticata di alcune idee che mi avete suggerito all’inizio della storia, ma le ho lasciate volutamente all’ultimo perché vorrei farle coincidere con determinati eventi!
Alcune precisazioni sul capitolo:
- L’acquario me lo sono inventato, mentre tutte le cose che dice Jace le ho prese da Wikipedia;
- L’idea di “mettere” a Magnus quella maglietta è nata dopo aver visto una foto di Chadwick Boseman su Instagram (https://www.instagram.com/p/BgIU4r4nPmk/?hl=it&taken-by=chadwickboseman). L’ho vista e ho pensato che sarebbe stata proprio una cosa alla Magnus e ho pensato di attentare alla sanità mentale di Alec.
(In più, per uno guilty pleasure personale, ci vedrei troppo bene Harry, quindi niente l’ho messa);
- I fratelli di Maryse me li sono inventati completamente. Non so se effettivamente ne abbia, onestamente. Se qualcuno sa qualcosa a riguardo, sono felicissima di ascoltarvi!
- Per chi non guarda Game of Thrones, Varys è un personaggio che usa gli “uccellini”, spie appunto, per ricevere informazioni.
- Rosa Santiago: nella serie esiste, ma è una signora anziana, ovviamente. Mi piaceva l’idea di immaginarla giovane, poco più piccola di Raphael, e onestamente vorrei anche scrivere qualcosa su di loro, ma non saprei esattamente cosa XD
Queste note sono diventate lunghissime e vi chiedo scusa! Vi ringrazio enormemente per dedicare tempo alla storia, leggerla/seguirla/metterla nei preferiti e recensirla, lo apprezzo tantissimo!
Alla prossima, un abbraccio! <3 

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Capitolo 17
*** 17. ***


Magnus infilò la chiave nella toppa al quarto tentativo e se una cosa simile, solo qualche anno prima, sarebbe stato sintomo di un’ubriacatura colossale, in questo caso, l’alcol non c’entrava niente. Il responsabile della sua momentanea inabilità ad infilare la chiave nel suo posto, era Alec, che ogni volta si chinava per lasciargli scie umide di baci sul collo che portavano Magnus a mandare al diavolo la chiave, la porta e attaccare al muro Alec per divorargli la bocca di baci. Tutto ciò era successo per tre volte di fila. Alec si chinava a baciare Magnus, che all’inizio cercava di concentrarsi su quello che stava facendo, ma poi il suo cervello altro non faceva che percepire la bocca di Alec su di sé e allora si voltava e lo sbatteva al muro vicino a loro, infilandogli una mano tra i capelli e l’altra sotto alla camicia perché sì. Non aveva un motivo specifico per farlo, in realtà. Era uno dei vantaggi di essere il ragazzo di qualcuno: quel qualcuno vuole essere toccato tanto quanto l’altro vuole toccare. E Magnus sapeva benissimo quanto questo principio potesse essere applicato a lui e Alec.
“Dovresti smetterla di distrarmi, altrimenti passeremo la notte qui.”
“Questo muro non è poi così scomodo.” Alec si sporse in avanti per baciarlo ancora, le sue mani allacciate al cappotto di Magnus, stringendolo saldamente.
“No, ma un letto lo sarebbe ancora di più.”
Alec gli baciò la fronte. “Hai ragione.” Con un braccio indicò la porta, come se lo stesse invitando ad aprirla. “Non ti distrarrò più.”
Magnus infilò la chiave nella toppa e la fece girare, aprendo così la porta. “Ora che l’abbiamo aperta, puoi distrarmi tutte le volte che vuoi.”
Alec rise e seguì Magnus all’interno della casa. Era familiare e gli dava una sensazione pacifica, come se vivesse lì da sempre. Realizzò che quella sensazione non era riferita tanto alla casa, quanto a Magnus e gli venne in mente una frase che aveva sentito – o letto, non ricordava più – che diceva che casa non è un posto, ma una persona. Magnus era la sua casa, era la personificazione di quella sensazione di pace e serenità che prima di incontrarlo non aveva mai provato totalmente. Magnus lo faceva sentire giusto, cancellava ogni sprazzo di quella sensazione di essere sbagliato che aveva sempre provato prima di conoscerlo.
Magnus era tutto ciò che c’era di bello nel mondo e nella vita. Era come il dente di leone che sopravvive all’inverno, era l’arcobaleno dopo la tempesta.
Magnus era amore allo stato puro, era luce.
“Tesoro?” Magnus lo chiamò da un’altra stanza e Alec si rese conto di essersi perso nei suoi pensieri e di essere rimasto in sala dopo aver appeso il proprio giubbotto all’attaccapanni.
“Sì?” rispose, incamminandosi verso la fonte della voce.
“Vuoi la cioccolata calda?”
La voce di Magnus veniva dalla cucina e quando Alec ci entrò, trovò Magnus intento a rovistare nella dispensa alla ricerca della bustina di cioccolata. Alec sorrise in automatico perché lo trovava tenero.
“Non si dice mai di no alla cioccolata calda.”
Magnus si voltò e gli sorrise. “Sapevo l’avresti detto.”
“Vuoi che ti aiuti?”
“Lo gradirei moltissimo, pasticcino.”
Alec rise e si avvicinò al frigo per prendere il latte, poi si diresse verso Magnus e, insieme, cominciarono a preparare la cioccolata.

*

La notte può essere un terribile nemico o una perfetta alleata. Nel primo caso, quando i pensieri negativi cominciano ad affollare le menti, la notte riesce a renderli ancora peggiori, catastrofici quasi, arrivando a toccare le oscurità più profonde, quelle di cui la notte stessa si nutre per rafforzarsi e diventare sempre più spaventosa. Ma nel secondo caso, può rendere tutto perfetto: il silenzio, la pace, l’assenza di rumori, se non i suoni emessi dagli animali, l’intimità. Alec era fermamente convinto che quella notte, l’oscurità avesse deciso di essere loro alleata. Se ne stava sdraiato sul divano insieme a Magnus, tra le sue gambe divaricate e con la schiena appoggiata al suo petto, mentre il suo ragazzo gli accarezzava i capelli, facendoli intrecciare alle proprie dita, e pensava che avrebbe potuto passare la sua intera vita in quel modo – in una casa silenziosa e solo con Magnus come compagnia. La mente rilassata di Alec vagò ad un futuro in cui loro due vivevano insieme e sentì il viso accaldarsi. Gli piaceva pensare che loro due sarebbero stati per sempre, che non era solo una cotta adolescenziale, ma qualcosa di duraturo nel tempo, l’inizio del loro e vissero per sempre felici e contenti. Era una cosa sdolcinata e forse un pensiero immaturo perché finali del genere esistono solo nelle favole, ma Alec sapeva che avrebbe affrontato draghi di ogni forma e dimensione, se significava stare tutta la vita con Magnus. Non gli importavano le possibili difficoltà, non le temeva, fin tanto che aveva la consapevolezza che sarebbero stati insieme.
“Un penny per i tuoi pensieri.” Mormorò Magnus, le dita che continuavano a giocare con le ciocche corvine di Alec.
Alec afferrò la mano libera di Magnus e cominciò a giocare con le sue dita, facendole intrecciare alle proprie. “Non voglio che questo finisca.”
“Di cosa parli?”
“Di noi. Di tutto questo. Non voglio che finisca.”
“E non finirà, Alexander.”
Alec gli baciò il dorso della mano e continuò ad accarezzarlo con il pollice mentre si preparava a dirgli ciò che gli passava per la mente. “È che… ti amo così tanto che a volte temo possa esplodermi il cuore. Non… io non… non riesco ad immaginarla una vita senza te.”
Il cuore di Magnus galoppò nel suo petto, battendo contro la cassa toracica così forte che il ragazzo temette di vederlo uscire dal proprio corpo. Nemmeno lui riusciva ad immaginarla una vita senza Alexander e sapere che per lui era la stessa cosa, lo emozionava. Ciò che Alexander provava per lui era qualcosa di forte e puro e incondizionato, qualcosa che Magnus temeva non avrebbe mai sperimentato nella sua vita, convinto che mai nessuno l’avrebbe amato in quella maniera. E invece… invece al mondo esisteva Alexander Lightwood, la creatura più bella che fosse mai stata creata. Forse Magnus cominciava a credere ci fosse un Dio, su in Cielo – un Dio che aveva voluto dimostrargli la Sua esistenza mandandogli il Suo angelo più bello, Alexander, e non solo l’aveva fatto innamorare di lui, ma aveva fatto in modo che lui ricambiasse quell’amore.
Alec si voltò prima che Magnus potesse rispondergli, alzandosi e mettendosi a sedere sui talloni. “Non la voglio una vita senza di te.” Lo guardò, scuotendo leggermente la testa, i suoi grandi occhi cervoni che facevano trasparire tutta la sincerità disarmante di quelle parole dettate da un cuore innamorato. Magnus capì cosa voleva dire Alec quando diceva che lo amava così tanto che temeva il cuore potesse esplodergli perché era la stessa sensazione che provava lui.
“Nemmeno io.” Si mise a sedere a sua volta, allungando una mano per sfiorare il viso di Alec. “Preferirei vivere solo un giorno con te che un’intera vita senza te.” Deglutì sentendo la sua stessa voce tremare dall’emozione. “Sei parte di me, sei la mia persona. Non voglio rinunciare a tutto questo per niente al mondo.”
Sul viso di Alec comparve un sorriso luminoso, uno di quelli che facevano tremare le gambe di Magnus, prima di avvicinarsi a lui e lasciargli un bacio a stampo, delicato, ma importante, come le parole che stavano pronunciando.
“Ti amo.” Gli sussurrò, appoggiando la fronte a quella di Magnus.
“Anche io, amore mio, tantissimo.”
Alec ebbe un piccolo sussulto, impercettibile per chiunque, ma non per Magnus. Quelle parole lo colpirono come un fulmine che colpisce la sabbia, e proprio come fa la sabbia, si cristallizzarono all’interno del suo cuore; gli entrarono dentro con la potenza di un uragano, una marea che si scontra violenta sugli scogli. Gli fecero tremare prepotentemente l’anima e per un attimo il respiro gli venne a mancare, mentre sentiva l’eco del suo cuore rimbombare nelle orecchie. Non aveva mai pensato che qualcuno potesse chiamarlo così perché non aveva mai pensato di poter appartenere a qualcuno in quel modo. Mai avrebbe pensato che qualcuno potesse definirlo il suo amore e sapere che era Magnus a farlo gli faceva attorcigliare lo stomaco in una piacevole morsa di calda euforia.
“Ridillo.” Gli sussurrò, sfiorandogli le labbra con le proprie, ma senza baciarlo, così che niente gli impedisse di parlare ancora.
“Amore mio.” Mormorò Magnus, baciandogli un angolo della bocca. “Amore mio.” Continuò passando all’altro angolo.
Alec, con il cuore che stava impazzendo, azzerò la minuscola distanza che c’era tra loro e lo baciò, con delicatezza e devozione, la stessa che provava nei suoi confronti. Lo baciò come se volesse dimostrargli quanto era importante per lui, come se volesse fargli arrivare tutta la potenza e veridicità delle sue parole, come se volesse fargli capire che gli apparteneva e sarebbe sempre stato così, perché Alec si sentiva di Magnus e sentiva Magnus suo.
“Amore mio, mio, mio, mio.” Finì Magnus, quando si staccarono, e Alec rise, immettendo il viso nell’incavo del suo collo.
Era felice. Dio, se era felice.
Uno sbadiglio ruppe quel momento idilliaco, tradendo la stanchezza di Alec. Erano passate le tre da un pezzo, forse si stavano già avvicinando le quattro, e Morfeo stava cominciando a prendersi lo spazio che esigeva ogni notte, facendo cadere nel sonno metà del globo terrestre.
“Vuoi andare di sopra, pulcino?”
Alec sfregò il viso sulla pelle di Magnus, come se fosse bisognoso di affetto. “No, voglio stare qui, così, per sempre.”
Magnus rise e giocò con i capelli sulla nuca di Alec. “Ma di sopra staremo più comodi, più vicini, appiccicati, direi. E potrei abbracciarti meglio, mentre stiamo al caldo sotto al piumone.” Parlò, suadente.
Alec alzò il viso e gli baciò la punta del naso. “Mi hai convinto ad appiccicati.
Magnus rise di gusto, tirando indietro la testa e Alec azzardò a baciargli il pomo d’Adamo, facendo attenzione a non fargli male. Magnus, comunque, glielo lasciò fare, tenendo indietro la testa anche dopo che la sua risata si era calmata. “Andiamo su, amore.”
E ad Alec, che capì che quel vezzeggiativo gli rendeva le gambe molli e gli scioglieva la spina dorsale, altro non rimase da fare che annuire e lasciarsi condurre al piano di sopra da Magnus.
Quello, comunque, era il suo soprannome preferito, quello che avrebbe ascoltato all’infinito.
Amore. Era bello da sentire.

*

Alec stava seduto sopra al letto di Magnus, senza andare sotto alle coperte. Aveva ancora i suoi vestiti addosso, mentre osservava Magnus immerso nell’immensità del suo enorme armadio che cercava qualcosa da prestargli per usarlo come pigiama.
“Sei sicuro che non vuoi uno dei miei?” la sua voce risultò ovattata e Alec si rese conto, solo in quel momento, quanto veramente fosse profondo quell’armadio. Era sicuro che se ci fosse stato Simon avrebbe fatto una battuta su Narnia.
“Sicurissimo. Avrei il terrore di rovinarlo, o romperlo.” Alec parlò alla schiena di Magnus, ma non appena rispose, l’altro si voltò per guardarlo con malizia.
“Sei sicuro di non voler dormire nudo, per la gioia dei miei occhi?”
Alec arrossì e scosse la testa. “Sicuro.”
“Sei un guastafeste, però.” Gli occhi di Magnus vagarono sulla figura di Alec e poi tornarono a prestare attenzione all’interno dell’armadio. “Vorrà dire che cederò all’idea di farti dormire in tuta.” Estrasse dei pantaloni rossi e una maglietta grigia. “Possono andare?”
Alec diede un’occhiata agli indumenti. “Certo.”
“Perfetto, pasticcino.” Magnus si avvicinò a lui e glieli porse. “Sai dov’è il bagno. Vai a cambiarti, io ti aspetterò qui.”
Alec annuì e, alzandosi dal letto, baciò lievemente Magnus sulle labbra, prima di uscire dalla stanza e dirigersi verso il bagno con quello che sarebbe stato il suo pigiama per quella notte.

Alec si era appena infilato i pantaloni della tuta, quando Magnus bussò alla porta del bagno. “Entra.” Disse, quindi, afferrando la maglietta grigia a maniche corte e infilandoci la testa.
“Non così in fretta.” Magnus stava appoggiato alla stipite della porta e guardava seducente Alec, che invece se ne stava con la testa mezza infilata nella maglietta, mentre il resto del suo corpo rimaneva scoperto, facendolo sembrare seducente quanto un pezzo un lattuga.
“Stavi pianificando di entrare fin da principio, non è vero?”
“La mia prima opzione era fare irruzione senza bussare, ma mi sembrava poco di classe.”
Alec scosse la testa affettuosamente. “Sei irrecuperabile.”
“Lo so.” Magnus si incamminò verso di lui, un luccichio percorse le sue iridi ambrate, mentre faceva sparire la maglietta e afferrava Alec per la catenella con la freccia che aveva al collo e lo tirava a sé per baciarlo. Lo faceva spesso, rifletté Alec. Magnus giocava con quella catenella, che fosse per tirarlo a sé in quel modo, o che se la attorcigliasse intorno alle dita quando erano insieme. A volte la cercava persino sotto la sua maglietta, infilando le mani sotto la stoffa e cominciando a giocarci. Era diventata una specie di abitudine, un rito, e ad Alec piaceva.
“Sei venuto solo per spiarmi, Mags?”
“No, sono venuto per darti uno spazzolino. E non usare spiare, mi fa sentire un pervertito!”
“E cosa dovrei usare, di grazia?”
Magnus socchiuse gli occhi di fronte al palese sarcasmo di Alec. “Non lo so, osservare amorevolmente sarebbe un termine gradito, o ammirare. Ecco, questo mi piace di più.”
“Ammirare?” Alec inarcò il sopracciglio solcato dalla cicatrice con fare interrogativo.
Magnus annuì. “Come le opere d’arte, splendore. Hai mai sentito qualcuno dire spiare il David? No, dicono tutti ammirare il David.”
“Stai andando un tantino fuori tema.” Alec calcò il concetto avvicinando il pollice e l’indice tra di loro.
“Non è vero.”
“Sei partito da uno spazzolino e sei arrivato ad una delle statue più conosciute al mondo!”
Magnus accartocciò il viso in una smorfia incurante, come se non vedesse alcun problema nel suo ragionamento. “Sono poliedrico, dovresti apprezzarlo! Comunque, lo vuoi uno spazzolino, o no?”
La bocca di Alec si chiuse in una linea sottile, ma i suoi occhi brillavano e guardavano adoranti Magnus. “Lo gradirei molto, grazie.”
Magnus aprì uno sportellino del mobile del bagno e ne estrasse uno spazzolino nuovo, ancora incartato nella confezione. “Ecco a te, tesoro.”
“Perché hai uno spazzolino nuovo?”
“Per ogni evenienza: amici sbronzi che non riescono a guidare fino a casa, colleghi di Ragnor che rimangono fino a tardi per finire le relazioni sul nuovo fossile che hanno trovato, fidanzati che mi chiedono di dormire insieme.”
Alec arrossì e con la mano che non teneva lo spazzolino, afferrò quella di Magnus, facendo intrecciare le dita. “Quante altre volte ti è capitato?” chiese con curiosa sincerità, tenendo gli occhi bassi sulle loro mani. Non era una domanda trabocchetto, era solo un modo per sapere di più su Magnus e il suo passato – più di quanto già non sapesse.
“Mai, onestamente.”
“Mai?” Alec non riuscì a trattenere il suo stupore e alzò gli occhi su Magnus. “Hai avuto tipo diciassettemila ex, nessuno ha mai dormito con te?”
“Non esagerare adesso: per raggiungere un numero simile dovrei avere circa quattrocento anni. Erano solo diciassette.”
“E di questi diciassette nemmeno uno?”
Magnus fece un cenno di dissenso con il capo. “Mai. Non volevo dormire con loro. C’è… qualcosa di estremamente intimo, in un gesto simile, e con nessuno avevo raggiunto niente del genere. Era solo sesso fine a se stesso, non volevo un dopo.”
“E Camille?” chiese Alec con un filo di voce. Lei lo infastidiva più degli altri. Nessuno degli altri sedici aveva un nome, erano stati solo il soddisfacimento della volontà carnale di un adolescente con gli ormoni a mille e il cuore ridotto in pezzi, che pensava che prendendo solo puro piacere fisico dai rapporti, avrebbe protetto ciò che rimaneva dei suoi cocci frantumati. Ma Camille… con Camille c’erano stati dei sentimenti di mezzo. Magnus l’aveva amata.
“Nemmeno con lei. Avevo l’idea che, dormendo insieme, mi avrebbe visto ancora più vulnerabile di quanto non fossi già nel periodo in cui mi ha conosciuto, quindi ogni volta, dopo l’atto, la cacciavo via. Era così perversa che la cosa le piaceva pure.”
Alec rimase in silenzio qualche istante, pensieroso, tanto che Magnus pensava di aver detto qualcosa di sbagliato, qualcosa che l’avesse fatto rimanere male e che adesso lo stava facendo soffrire, ma poi Alec parlò, fissando i suoi intensi occhi cervoni in quelli ambrati dell’altro. “Quindi sono il tuo primo in assoluto?”
Magnus si avvicinò maggiormente, alzando una mano per accarezzargli una guancia con affetto. “Sei il mio primo di tante cose, Alexander Lightwood.”
Alec sporse il viso verso il palmo di Magnus e chiuse gli occhi, assaporando quel contatto. Quando li riaprì, si chinò in avanti per lasciargli un bacio delicato sulle labbra.
“Ti lascio finire di vestirti, d’accordo? Ti aspetto qua fuori.”
Alec annuì. “Faccio presto, almeno puoi cambiarti tu.”


Alec si trovava di nuovo seduto sul letto di Magnus, a gambe incrociate. Indossava la tuta che gli aveva prestato, i cui pantaloni erano più comodi di quanto si sarebbe mai aspettato, dal momento che Magnus tendeva ad usare solo cose incredibilmente aderenti. Non che si fosse mai lamentato, ovviamente. Stava controllando il cellulare per vedere se ci fossero delle novità, ma a parte i messaggi di Izzy che lo informava che erano arrivati a casa sani e salvi, non c’era altro. Le rispose che si sarebbero sentiti la mattina dopo e bloccò lo schermo, appoggiando il cellulare sul comodino che stava vicino al letto. La camera di Magnus era immersa in una semi-oscurità, essendo illuminata solo da una abat-jour che riprendeva lo stile caldo e colorato dell’intera stanza. Magnus non arredava la sua camera da un po’, si trovò a riflettere Alec. C’erano ancora i cuscini sparsi per terra e la scrivania era ancora nello stesso punto, vicino alla finestra. Aveva sostituito il letto a baldacchino per uno a due piazze, ma anche quello era stato fatto più di un mese prima. Sembrava che, come Magnus si fosse fermato in un aspetto particolare della sua vita, anche la sua camera l’avesse fatto.
Lo sguardo di Alec vagava in quella camera familiare, soffermandosi sulle foto, che aumentavano sempre di più. Magnus aveva aggiunto quella che aveva fatto quando erano insieme qualche settimana prima e raffigurava Alec che faceva naso-naso con Presidente.
“Ti permette di avvicinarti al suo regale muso, ormai non ho più dubbi sul fatto che gli piaci. È una cosa che finora aveva permesso di fare solo a me.”
Alec scosse la testa. Era stata una bella giornata, quella. Come tutte quelle che avevano passato insieme, del resto. Se pensava a com’era tutto diverso prima di Magnus, gli sembrava di ricordare la vita di qualcun altro, di un altro Alec. Era come osservare due persone profondamente diverse e invece… era sempre lo stesso Alec, solo che era cambiato, era… migliorato. Magnus lo rendeva una persona migliore e lo spingeva a voler essere una persona migliore.
Sorrise e pensò alla situazione in cui si trovava: dormire insieme. Avrebbe dovuto essere nervoso, giusto? Ma non lo era. Aveva l’impressione che fosse una cosa che avevano sempre fatto, un’abitudine, qualcosa che li legava ulteriormente e…
I suoi pensieri vennero interrotti da una musica non troppo alta, solo il necessario affinché lui la sentisse. Non la conosceva bene, ma gli ricordava la colonna sonora di un film: era lenta e aveva un che di sensuale, ammaliante. Alec non ebbe ulteriore tempo di analizzarla perché Magnus, in tutto il suo splendore, entrò in quella stanza seguendo il ritmo della musica con movimenti che incantarono Alec. Aveva già messo in chiaro quanto vedere Magnus ballare lo indebolisse, giusto? Ecco, vederlo ballare e spogliarsi con una lentezza controllata e incredibilmente sensuale lo mandava proprio all’altro mondo. Deglutì, quando Magnus fissò le sue iridi feline nelle sue e una piccola parte di sé – quella che non era estremamente attratta e ipnotizzata da tutto ciò – sentì un brivido percorrergli la schiena, qualcosa che lo fece sentire come una piccola preda che di lì a poco sarebbe stata divorata. Improvvisamente dentro a quella stanza faceva caldo – caldo che divenne insopportabile quando Magnus afferrò il bordo della sua peccaminosa maglietta a buchi e se la sfilò con lentezza per poi lanciarla ad Alec. Cercare ossigeno era diventato più arduo di quanto si aspettasse, era come se improvvisamente fosse finito sott’acqua, rimanendo in apnea.
Alec deglutì ancora e si passò una mano prima tra i capelli e poi le mise entrambe sul viso, celandolo, e rendendosi effettivamente conto quanto fossero accaldate le sue guance.
“Devi guardarmi, Alexander.”
Alec non riuscì a reprimere un brivido. Di norma, il modo che aveva Magnus di arrotondare la r del suo nome gli provocava una piacevole scossa, ma adesso, accompagnato a tutto ciò che stava facendo, lo faceva bruciare come il sole che incendia la vegetazione secca e fa divampare un incendio. E Alec non riusciva a domarlo, quell’incendio. O forse non voleva, così obbedì: spostò le mani dal viso, sul quale l’incendio stava prendendo sempre più campo, aumentando sempre di più e raggiungendo ogni singola fibra del suo corpo, e fissò i suoi occhi in quelli di Magnus.
“Bravo.”
Alec lo osservò slacciarsi la fibbia della cintura e sfilare l’oggetto dai passanti per lanciarlo da qualche parte alle sue spalle. Solo quando sentì il rumore metallico della fibbia collidere con il pavimento si rese conto che la musica era cessata, ma non gli importava un granché. Non era la musica che catturava tutta la sua attenzione, era Magnus, che adesso aveva cominciato a sbottonarsi i pantaloni, abbassando la zip e togliendoli sempre con quella letale lentezza che mandava Alec fuori di testa e lo faceva fremere di impazienza. Si morse il labbro inferiore a sangue, convinto che in quel modo sarebbe riuscito a darsi un contegno, vedendo Magnus con solo dei boxer – indecentemente aderenti – addosso, ma non servì a niente. I suoi occhi, tutto se stesso, era attratto dalla figura semi-nuda di Magnus che adesso si stava avvicinando a lui e stava cominciando a salire sul letto. Alec non riusciva a smettere di guardarlo. Se anche Magnus adesso avesse deciso di mangiarlo, gliel’avrebbe lasciato fare. Deglutì un’altra volta ancora, quando Magnus cominciò a gattonare sul letto per fermarsi quando fu abbastanza vicino a lui da mettersi a cavalcioni sul suo bacino e avvicinare il viso a quello di Alec.
Poteva anche essere la sua ultima notte al mondo, di certo non si sarebbe lamentato di morire in quel modo. Ma poi Magnus gli passò la punta della lingua sul mento e sulle labbra e il cuore di Alec cominciò a galoppare così forte che sicuramente l’unica cosa che infiammò le sue vene altro non poteva essere che pura vita e desiderio. Provò a deglutire ancora, ma la sua gola si era seccata. Magnus lo osservava con quei suoi occhi meravigliosi, felini e ambrati, caldi, decorati da una soddisfazione maliziosa.
“Ti è piaciuta la sorpresa?”
Ad Alec ci volle un po’ per riuscire a riprendere la capacità di linguaggio –  così come gli ci volle qualche istante per rendersi conto che, sebbene Magnus fosse praticamente sdraiato su di lui, Alec non lo stava toccando. Sei impazzito, Lightwood? Che lui sapesse, no, quindi si impegnò per riprendere facoltà di sé e appoggiò le mani sulle cosce nude di Magnus, situate ai lati dei suoi fianchi. Il cuore di Alec continuava a battergli feroce nelle orecchie, come se fosse impazzito.
“Stiamo parlando di quella sorpresa?” La sua voce uscì sorprendentemente ferma.
Magnus si chinò e le sue collane andarono ad appoggiarsi al petto di Alec. “Sono uno di parola. Te l’avevo detto che ti sarebbe piaciuto.”
Alec gli rivolse un sorriso storto, mentre le sue mani cominciarono a tracciare movimenti circolari sulla pelle di Magnus. “Come sai che mi è piaciuto?”
Un lampo malizioso attraversò gli occhi di Magnus. “Vuoi dirmi di no?” Spinse il proprio bacino contro quello di Alec, evidenziando in questo modo la fisica conferma che ciò a cui Alec aveva assistito era stato parecchio di suo gradimento. “Il tuo corpo fa la spia, amore.”
Alec sollevò il capo per avvicinare il viso a Magnus e dargli un bacio, che approfondì con calma, mentre le sue mani si spostavano sul sedere di Magnus. “Verrò a fare shopping con te ogni volta che vorrai, se questo è ciò che mi spetta.” Salì ancora, fino ad arrivare ad accarezzare la schiena nuda di Magnus, i cui muscoli guizzarono leggermente sotto il tocco di Alec, mentre la pelle si increspò di brividi – ed Alec ebbe la presunzione di credere che non c’entrasse niente il freddo.
“Sapevo che ti avrei convinto.” Sussurrò Magnus, cercando le sue labbra, mentre Alec lo abbracciava, stringendolo a sé. Non si sarebbe mai abituato all’intensità delle sue emozioni quando si trovava vicino a Magnus, o quando i loro corpi entravano in contatto. Nella sua famiglia, le emozioni erano sempre state viste come qualcosa di negativo, qualcosa da intrappolare e tenere sotto controllo, da dominare per non lasciarsi sopraffare da esse. E Alec l’aveva sempre fatto, finché non aveva avuto l’impressione che tenendosi tutto dentro sarebbe esploso. Inoltre, se non si fosse fatto trascinare dall’emozioni, non avrebbe potuto nemmeno godersi Magnus a pieno, lui che gli scatenava tutte la gamma di emozioni umane positive esistenti allo stesso momento. Sfiorare Magnus, toccarlo, sentirlo su di sé era come incontrare la parte mancante del suo essere, qualcosa che andava a completarlo. Lui e Magnus erano profondamente diversi, ma Alec credeva che lo fossero per uno scopo ben preciso: andare a riempire quei vuoti che albergavano nell’altro e che solo dall’altro potevano essere riempiti.
Era una questione di sintonia, di amarsi ed amalgamarsi, di appartenersi. A quel pensiero, la pelle di Alec cominciò a formicolare di nuovo, come era successo solo poche ore prima quando erano al Pandemonium. Non aveva saputo identificare quella sensazione, ma adesso gli parve chiaro ciò che aveva provato: tutto ciò che desiderava era Magnus, amarlo, lasciarsi amare, amalgamarsi, unirsi e appartenersi.
“Fai l’amore con me.” Sussurrò sulla bocca gonfia di baci di Magnus. La sua voce uscì flebile e Alec non era sicuro di averlo chiesto nel modo giusto, o se era una cosa che andava chiesta. Aveva sempre pensato che dovesse capitare e basta, ma quella frase gli era uscita ancora prima che potesse pensare se fosse giusto o meno chiedere una cosa simile. Aveva seguito il filo dei suoi pensieri e il suo cuore aveva dato voce a ciò che abitava la sua mente, a quel desiderio di sentire Magnus suo e sentirsi di Magnus anche ad un livello fisico, più profondo, che andasse a completare quella sensazione di appartenenza che già li legava.
Magnus si sollevò sui gomiti e raddrizzò la schiena, rimanendo seduto a cavalcioni su Alec e guardandolo dall’alto, mentre l’altro stava sdraiato. Alec non seppe interpretare quel gesto e, se prima non era agitato, adesso il panico cominciava a pervadergli le membra. Aveva detto qualcosa di sbagliato, o inappropriato? Forse non era il modo giusto, o forse Magnus non voleva. Come aveva potuto essere così stupido? Come l’aveva detto sembrava quasi un’imposizione, sebbene lui l’avesse pensata più come una richiesta. Ma nel modo in cui gli era uscita quella frase sembrava che non lo stesse chiedendo, come se desse per scontato che Magnus volesse farlo. E se invece non avesse voluto? Lui di certo non voleva costringerlo!
“M-Magnus, io-”
“Ripetilo.” Lo interruppe l’altro. Sul suo viso un’espressione mista a meraviglia e adorazione, con un pizzico di ansia, forse, ma quel tipo che fa sfarfallare lo stomaco e non che fa venire voglia di vomitare. Si chinò di nuovo su Alec, baciandogli dolcemente le labbra. “Per favore. Ripetilo.”
Alec gli accarezzò il viso. “Fai l’amore con me.”
Magnus sorrise e Alec sentì il suo cuore accelerare. “Lo vuoi davvero?”
“Sì. E tu?”
Magnus lo guardò con quell’espressione che gli aveva sempre riservato fin dal primo giorno che si erano incontrati, quella che faceva sentire Alec la persona più bella del mondo. “Certo, Alexander, è solo che…”
Alec si sentì pervadere di nuovo dal panico. “Cosa?”
Magnus sospirò. “Il discorso di poco fa, in bagno…” distolse lo sguardo e Alec percepì una certa insicurezza nella sua voce, una vulnerabilità che Magnus di solito celava e che, fino ad ora, aveva mostrato solo a lui.
“Pensi lo faccia perché mi sento condizionato dai tuoi ex? O pensi che mi interessi con quanti sei stato prima di me?”
Magnus ancora non lo guardava. “Ti interessa?”
Alec lo spronò a incrociare il suo sguardo, afferrandogli il viso con delicatezza. Solo quando Magnus lo guardò dritto negli occhi proseguì. “Non mi interessa con quante persone sei stato. E non voglio farlo perché mi sento condizionato da loro. Voglio farlo perché ti amo.  Sono tuo, Magnus, e voglio esserlo in ogni modo possibile.”
Magnus sorrise, i suoi occhi erano lucidi mentre chiudeva le mani a coppa sul viso di Alec e gli accarezzava gli zigomi con entrambi i pollici. “Sei sicuro di essere reale? Voglio dire, non è che mi sveglierò da un momento all’altro scoprendo che sei frutto di un sogno?”
Alec arrossì violentemente e Magnus sentì il calore arrivargli ai polpastrelli. Si chinò di nuovo per baciarlo, le proprie mani rimasero sul suo viso, mentre sentì quelle di Alec che andavano sulla schiena per tirarlo a sé. Era questo che si provava a stare con qualcuno che si ama con anima e corpo; una sensazione bruciante, qualcosa di così intenso che ti attira e spaventa allo stesso tempo. Talvolta Magnus era terrorizzato dalla portata dei sentimenti che provava per Alec, avendo paura di non saperli gestire. Bastava che Alec lo sfiorasse e lui tremava come se fosse stato scosso dal più feroce dei cicloni. Non aveva mai fatto l’amore con qualcuno da cui era così preso, qualcuno che lo coinvolgeva a livello emotivo in un modo così profondo. Sorrise sulla bocca di Alec a quel pensiero: in un certo senso, era come se fossero entrambi vergini. “Ti amo anche io, che tu sia davvero reale o sia solo un bellissimo sogno.”
“Sono reale, Magnus. E non svanirò con le prime luci del giorno.”
“Lo spero proprio, ci rimarrei davvero male se non restassi per le coccole, dopo una notte insieme.”
Alec rise e sentì il suo corpo rilassarsi, privo del panico che prima minacciava di assalirlo. Si sporse verso Magnus e lo baciò di nuovo, le sue mani immerse nei capelli dell’altro, che lo lasciò fare senza opporre resistenza alcuna, mentre le sue mani vagavano sotto la maglietta di Alec e l’alzavano per toglierla di mezzo. Quando gliela sfilò dalla testa, i capelli di Alec si scompigliarono e Magnus ebbe pensieri decisamente poco puri, che divennero estremamente peccaminosi quando i suoi occhi vagarono avidi sul petto di Alec. “Alla fine, pare proprio che dormirai nudo.”
Alec rise di nuovo, ma la sua risata uscì alterata dal fiatone – gli mancava il respiro per via dei baci e di tutta quella situazione che gli faceva accelerare il cuore in un modo che riteneva fosse umanamente impossibile. Nonostante tutto, però, era davvero felice. Sollevò i fianchi e per un attimo si godette l’espressione stupefatta che comparì sul viso di Magnus, che lo guardò con occhi incuriositi, chiedendo con essi una silenziosa spiegazione a quel gesto.
“Per essere nudo, devi togliermi i pantaloni. Ti sto facilitando la cosa.”
Magnus gli rivolse un sorriso d’ammirazione. “Sfacciato.” Lo liberò dai pantaloni con un unico movimento – tanto che Alec si chiese se non avesse fatto una specie di magia,  visto che erano spariti davvero in fretta – e si chinò per baciarlo. C’era più foga, adesso, meno delicatezza, sebbene ci fosse ancora premura e devozione. Alec rispose al bacio e sentì la pelle incresparsi in un tappeto di brividi, quando il suo petto collise con quello di Magnus. Non c’erano magliette tra di loro e Alec riusciva chiaramente a sentire il contrasto tra la pelle calda e glabra di Magnus e il freddo metallo delle sue collane. Non sapeva cosa sarebbe successo, o meglio, in teoria lo sapeva, ma la realtà è sempre imprevedibile. Era un salto nel vuoto e Alec si rese conto, con una certa meraviglia, che non lo spaventava. L’unica cosa che voleva fare era godersi il momento, concentrarsi su ogni dettaglio, ma non per analizzarlo, bensì per imprimerlo nella sua mente e creare un ricordo che voleva portarsi dietro per sempre.
E sembrava che, inconsapevolmente, Magnus volesse aiutarlo, perché aveva cominciato a dedicargli le più minuziose attenzioni. La sua bocca aveva abbandonato quella di Alec per andargli a succhiare il lobo e scendere, piano, con delicatezza, lasciando scie di baci e morsi, alternati da piccoli succhiotti sul collo, fino ad arrivare alle clavicole. In un momento in cui il suo cervello non era annebbiato dall’intensità delle sue emozioni – e dal piacere che tutte quelle attenzioni gli provocavano – Alec si chiese se non fosse egoista, da parte sua, ricevere senza dare, ma poi Magnus gli divaricò meglio le gambe, infilandosi tra di esse e Alec sentì chiaramente quanto tutto ciò piaceva anche a Magnus. Perché, però, non renderlo ancora più piacevole? Non stava scritto da nessuna parte che, mentre Magnus usava divinamente la sua bocca sulla sua pelle, Alec non potesse fare qualcosa per lui, quindi, stupendo anche se stesso per la sua capacità di iniziativa, alzò di poco i fianchi, facendoli scontrare delicatamente con quelli di Magnus, e cominciando a strofinarsi piano contro il bacino dell’altro, andando chiaramente ad accarezzare la zona erogena di Magnus. L’orientale alzò il viso dalle clavicole di Alec, la cui pelle cominciava ad arrossarsi, e fissò l’altro negli occhi. Alec si fermò immediatamente, convinto di aver fatto qualcosa di sbagliato. “Non dovevo?”
Magnus sorrise. “Oh, sì, dovevi.” Cominciò, lasciandogli un bacio al centro dei pettorali. “E mi hai ricordato una cosa.”
Alec avrebbe voluto chiedergli cosa, ma Magnus cominciò a scendere sempre di più, di conseguenza perse tutte le sue capacità cognitive – compresa quella di fare una domanda. Sentì la lingua di Magnus seguire il perimetro del suo ombelico, prima di vederlo afferrare con i denti il bordo dei suoi boxer per abbassarli.
“Ma ciao.”
Alec si sollevò sui gomiti per riuscire a guardare bene Magnus tra sue gambe, con il viso abbassato verso il suo inguine.
“Stai parlando con-”
“Una specifica parte di te che amo particolarmente? Sì, lo sto facendo.”
Alec sbuffò una risata. “Sei ser-” Ma si interruppe perché dalla sua gola uscì un sospiro strozzato quando sentì la bocca di Magnus avvolgerlo senza preavviso.
“Serissimo.” Magnus si sollevò, lasciando ad Alec una sensazione fresca causata dalla sua saliva che ancora lo bagnava. “Devo dargli le attenzioni che merita, non pensi?”
Alec annuì e Magnus sorrise, scendendo e avvolgendolo di nuovo. Magnus aveva un modo particolare di muoversi, o forse Alec aveva questa impressione, non lo sapeva dire con certezza. Di una cosa era sicuro: Magnus era bravo, molto bravo. Gli infilò una mano tra i capelli e, senza volerlo, gli spinse la testa verso il basso – non l’aveva mai fatto e quando sentì Magnus che rischiò di strozzarsi capì il perché. “Scusa, scusa, scusa!” Si affrettò a dire, ma Magnus non rispose nulla, non abbandonò la sua posizione e andò più in profondità, come Alec aveva suggerito, arrivando a coprire tutta la sua lunghezza e facendolo ansimare nuovamente. Alec si lasciò cadere sul materasso, la testa appoggiata ai cuscini, mentre si ficcava un pugno in bocca per cercare di fare meno rumore possibile. Magnus continuò a prendersi cura di lui ancora per un po’, prima di sollevarsi. “Pensavo di essere stato chiaro sul fatto che non devi trattenerti.”
Alec si sollevò di nuovo sui gomiti. “Non voglio fare rumore.”
“Vorrei che tu lo facessi, invece. Il bello di tutto questo è lasciarsi andare.”
Alec arrossì e Magnus ammiccò mentre lo liberava definitivamente dei boxer e gli lanciava da qualche parte alle sue spalle. Alec lo osservò alzarsi per liberarsi anche dei propri e non riuscì a non guardare una specifica parte del corpo del suo ragazzo. Si schiarì la gola e si buttò sul materasso, lo sguardo fisso sul soffitto.
Sentì il letto piegarsi sotto il peso di Magnus e percepì il suo corpo – tutto il suo corpo, ogni centimetro di esso – che aderiva al proprio mentre il ragazzo si metteva sopra di lui. “Sei sicuro di volerlo fare?” Magnus gli accarezzò il viso e Alec portò i suoi occhi su di lui, spostandoli dal soffitto.
“Sì, sono sicuro.”
Magnus gli baciò una guancia. “Se hai anche il minimo ripensamento, ci fermiamo, intesi?”
“E il lasciarsi andare?”
“Lasciarsi andare non significa fare qualcosa contro la nostra volontà. Significa cercare di godersi a pieno qualcosa che vogliamo fare davvero.”
Alec gli rivolse un sorriso timido, ma rassicurante. “Lo voglio davvero, Magnus, se lo vuoi anche tu.”
“Su questo non devi avere il minimo dubbio.”
Alec rise, leggero. “Non posso darlo per scontato, ti pare?”
“Potresti farlo tranquillamente, invece. Come potrei dire di no a tutto questo?” Magnus lo baciò per dare enfasi alle sue parole e Alec si rilassò ulteriormente, gli allacciò le braccia dietro alla nuca e lo tirò a sé, facendo aderire i loro corpi nudi ancora di più. Era una sensazione piacevole che fece nascere una sorta di stupore in Alec: pensava che avrebbe provato vergogna a mostrarsi nudo, a mostrare le sue cicatrici, i suoi difetti, ma niente di ciò che provava era paragonabile alla vergogna. Era una sentimento dolce quello che sentiva scaldargli il cuore, una consapevolezza che lo rassicurava e faceva nascere in lui l’idea che avrebbe potuto mostrare a Magnus ogni parte di sé, anche quella più vulnerabile, anche la sua nudità, e lui l’avrebbe amato comunque.
Magnus gli baciò la spalla, quella su sui stava la cicatrice, come se avesse letto i suoi pensieri. “Come te la sei fatta?” gli sussurrò.
“I primi incontri di pugilato.” La voce di Alec tremò. “Sono finito contro l’angolo, l’imbottitura era messa male e ho preso uno spuntone.”
Magnus cominciò a guardarlo come se ne stesse cercando altre, come se sapesse che ce n’erano altre e volesse conoscerle tutte. Trovò quella sull’avambraccio opposto e baciò anche quella. “E questa?”
“Primo anno di tiro con l’arco. La freccia mi è scappata e mi ha graffiato tutto l’avambraccio, la punta si è conficcata qui.” Alec indicò un punto specifico dove la cicatrice era più marcata. Magnus notò che quel punto era seguito da una striscia più chiara, ma meno in rilievo.
“Ti ha fatto tanto male?”
“Meno di quanto possa sembrare.” Alec gli rivolse un sorriso storto, uno di quelli che a Magnus piacevano un sacco e glielo baciò, come se volesse appropriarsene. Alec rispose a quel bacio, accogliendo la lingua di Magnus dentro alla sua bocca e cominciando ad assaporarlo. Gli piaceva il suo sapore, era qualcosa che sapeva di amore e familiarità, di sicurezza e felicità.
“Alexander, vuoi-”
“Fallo.” Disse Alec, capendo cosa stesse per dire. “Sono pronto.”
“D’accordo. Farò piano, va bene?”
Alec annuì e quando Magnus si alzò, sentì un senso di vuoto che si tramutò in una sensazione di freddo provocata dall’assenza di Magnus su di sé. Lo osservò mentre apriva un cassetto del comodino ed estraeva un tubetto di lubrificante e una scatola di preservativi. Guardò Magnus infilarsene uno e pensò a quella volta in cui sempre in quella casa, e sempre quando si trovavano soli, Ragnor si era raccomandato che si proteggessero. Scacciò immediatamente quel pensiero perché pensare al padre del suo ragazzo era decisamente inappropriato e fuori luogo, ma apprezzò comunque la responsabilità di Magnus. Lui, preso da tutta quella situazione, non ci aveva nemmeno pensato. Lo guardò ancora mentre si toglieva gli anelli dalle dita e li appoggiava sempre sul comodino, poi tornò sul letto, mettendosi in ginocchio e guardando Alec. Gli sorrise e il minore ricambiò. Sentiva una stretta allo stomaco, uno sfarfallio piacevole, qualcosa che faceva nascere in lui una certa impazienza, una curiosità primordiale.
“Devo prepararti, prima. Devi abituarti alla mia presenza.”
Alec non sapeva esattamente cosa volesse dire, o cosa aspettarsi, ma annuì.

Non gli ci volle molto per capire, comunque. E capì anche perché Magnus si era tolto gli anelli. Magnus per abituarlo alla sua presenza aveva prima usato le dita e gli aveva suggerito di non irrigidirsi, ma piuttosto di rilassarsi e lasciare che il suo corpo lo percepisse. Fu una cosa fastidiosa, all’inizio, e il suo corpo ebbe l’istinto di chiudersi.
“Devi rilassarti, tesoro, altrimenti ti farà male, dopo.”
Alec aveva annuito e aveva cercato di non concentrarsi troppo sulla cosa, ma di lasciarsi andare e godersi il momento. Per farlo, fissò il viso di Magnus, che era concentrato e si stava impegnando per far si che tutto riuscisse bene. Alec trovò la ruga che stava tra le sopracciglia del suo ragazzo incredibilmente adorabile e come quel pensiero gli attraversò la mente, tutti i suoi muscoli si rilassarono. Non aveva motivo di essere teso. Era con Magnus e mai, da quando l’aveva conosciuto, si era sentito a disagio, quindi non vedeva perché doveva cominciare adesso.
Emise un sospiro profondo e liberò la sua mente, accantonando in un angolo remoto del suo cervello tutta la sua razionalità. Era un atto naturale, qualcosa che richiedeva la guida dell’istinto e dell’esperienza. E Alec si fidava abbastanza di Magnus per lasciargli condurre la cosa.
Sospirò sorpreso quando lo sentì dentro di sé, percependo un leggero fastidio all’inizio, mentre lo sentiva muoversi. Ma, ancora, Magnus fu talmente delicato e amorevole che presto il dolore si trasformò in qualcosa di estremamente piacevole, qualcosa che portò Alec a pensare che quell’atto poteva benissimo essere una metafora della sua vita: solo dolore, fino a quando Magnus non era entrato a farne parte, afferrando quella strana oscurità che viveva in Alec e trasformandola in qualcosa di bello, di piacevole. Gli tremarono le gambe, e con esse anche il cuore, e allacciò le braccia intorno alla nuca di Magnus per baciarlo. Non fu un gesto particolarmente comodo, soprattutto perché una delle braccia di Magnus era tra di loro, dal momento che la sua mano stava toccando la sua zona erogena,  ma ne sentì la necessità.
“Ti amo, lo sai?” ansimò Magnus, il suo respiro rotto, i muscoli delle braccia che ebbero uno spasmo per lo sforzo.
Alec deglutì, mentre si spingeva contro Magnus, piano non volendo rischiare di fare male ne a lui ne a se stesso con un movimento brusco. Era ancora insicuro su alcune cose e di certo non sapeva muoversi con la stessa fluidità di Magnus.
Magnus.
Era così bello che ad Alec mancò il respiro. Le sue labbra, da cui uscivano i respiri che andavano di pari passo con il ritmo delle sue spinte, erano gonfie; il suo viso, per la prima volta da quando si conoscevano, era arrossato e piccole gocce di sudore gli imperlavano la fronte e gli zigomi, andando ad intaccare e sbavare il suo trucco perfetto. Nonostante tutto, Alec pensò che mai prima di adesso fosse stato così bello – che i suoi occhi non fossero mai stati così belli, carichi di un’amorevole passione, come se un fuoco mistico avesse deciso di avvolgere un castello di carta non per bruciarlo, ma per proteggerlo dal mondo esterno, amandolo con tutto se stesso e dedicandogli tutto se stesso. Alec si sentiva così, si sentiva come quel castello di carta che viene protetto dal fuoco che abitava nei meravigliosi occhi di Magnus. Occhi che lo amavano. Magnus lo amava.
“Lo so.” gli sussurrò e lo baciò di nuovo. “E anche io ti amo.”
Magnus sorrise. Un sorriso meraviglioso, come lui, come il suo cuore.
Alec non era mai stato così felice in vita sua come in quel momento. Era innamorato ed era amato e stava facendo l’amore per la prima volta con qualcuno di speciale: era tutto bellissimo.

*

Alec si svegliò con un sorriso sulle labbra, come se il suo corpo ricordasse gli eventi della sera prima ancora che lo facesse il suo cervello – che, comunque, non appena prese piena funzionalità, cominciò a mandargli immagini che contribuirono a far allargare il suo sorriso. Aveva fatto l’amore con Magnus ed era stato fantastico. Fino a qualche mese prima, non avrebbe mai immaginato una cosa simile. Era sempre stato convinto che per lui, determinate esperienze, non sarebbero mai arrivate – almeno, non fino a quando avrebbe nascosto la verità. Ma poi la vita gli aveva regalato Magnus – e ancora non si spiegava cosa avesse fatto di bello per meritarselo – e con lui, tutte le esperienze positive.
Magnus era gioia, la luce nella vita di Alec che era riuscita a spazzare via tutti i suoi pensieri cupi, quel peso sul petto che lo faceva soffocare, quella convinzione di essere destinato alla solitudine eterna. Era cambiato così tanto nella sua vita, grazie a quel ragazzo. Alec era cambiato grazie a quel ragazzo. Vedeva le cose in modo diverso, si sentiva in modo diverso. Se prima di incontrarlo, provava solo rimorso nei confronti dei suoi genitori per non essere, almeno in parte, come loro volevano che fosse, adesso quella sensazione di colpevolezza era completamente sparita. Non era una delusione solo perché gli piacevano i maschi. Era la sua vita, era il suo vero essere, e chi gli voleva bene avrebbe dovuto accettarlo. Alec si sentiva stranamente forte, abbastanza da poter pensare addirittura di allontanarsi da chi non l’avrebbe accettato per chi era.
Era sempre il solito Alec, solo che adesso le cose avvenivano alla luce del sole. Niente più oscurità, o nascondigli, solo aria aperta, pura, e priva di tutte quelle negatività che lo facevano sentire in gabbia e che gli davano l’impressione di star asfissiando.
Avrebbe parlato con i suoi genitori. Si sentiva abbastanza coraggioso da riuscire ad affrontare l’argomento anche con loro.
Era deciso, ma adesso accantonò quel pensiero e rivolse la sua attenzione su Magnus, che teneva un braccio intorno al suo addome e stava ancora dormendo. Alec sentiva il suo respiro solleticargli la pelle della nuca e, cercando di muoversi il più lentamente possibile, si voltò per riuscire a guardarlo in viso. Magnus sembrò non accorgersi dei suoi movimenti, perché continuò a dormire, e Alec si prese tutto il tempo per osservarlo. Magnus aveva un’espressione rilassata e serena, sulle guance c’erano tracce del trucco della sera precedente che lo facevano assomigliare ad un quadro astratto, i suoi capelli erano scompigliati e appiccicati in parte sul cuscino. La sua pelle ambrata riportava dei piccoli segni che Alec sapeva benissimo combaciassero con la propria bocca. Sorrise ancora, così tanto che sentì le guance fargli male. Ora che ci pensava, sentiva un po’ tutti i muscoli indolenziti, ma andava bene così: era la testimonianza che quello che era successo la sera precedente era reale e non un sogno. E, a proposito di sogni…
“Ti amo anche io, che tu sia davvero reale o sia solo un bellissimo sogno.”
“Sono reale, Magnus. E non svanirò con le prime luci del giorno.”
“Lo spero proprio, ci rimarrei davvero male se non restassi per le coccole, dopo una notte insieme.”

…Alec voleva le coccole. Anche se non l’avrebbe mai ammesso davanti a nessun altro che non fosse Magnus – già sentiva le prese in giro dei suoi fratelli, davanti ad una confessione simile. Si sporse leggermente in avanti, andando ad azzerare la distanza che c’era tra il proprio viso e quello di Magnus e gli baciò delicatamente le labbra, un contatto leggero e quasi fugace, ma apparentemente sufficiente a far destare l’altro.
“Buongiorno.” Disse Magnus, aprendo piano gli occhi. Alec si ritrovò con il cuore che correva nell’attesa di incrociare le iridi del suo ragazzo. E quando i loro occhi si incrociarono, il suo cuore cominciò letteralmente a galoppare.
“Buongiorno.” Gli sorrise e Magnus ricambiò.
“Mi guardavi dormire?”
“La fai sembrare una cosa da maniaci.”
Magnus rise e si avvicinò ulteriormente a lui. “No, è una cosa dolce.”
Alec arrossì. “Sei bello quando dormi.”
“Solo quando dormo?” Magnus aggrottò la fronte, fingendosi offeso.
“No, lo sei sempre.” Ridacchiò Alec. “Ma quando dormi in modo particolare.”
Magnus gli rivolse un sorriso soffice. “Come hai dormito?” Si accoccolò contro di lui e Alec gli fece passare un braccio intorno alle spalle in modo che Magnus appoggiasse la testa al suo petto. Gli piaceva come inizio.
“Bene.” Disse. “E tu?”
“Mai dormito meglio.”
Alec rise e cominciò a tracciare cerchi invisibili sulla schiena di Magnus con l’indice. Calò un confortevole silenzio. Una delle cose che Alec più amava del loro rapporto era il fatto che nessuno dei due si sentisse forzato a parlare per non ascoltare il nulla. Ad Alec piaceva. Non avevano bisogno delle parole, non sempre, e per uno come lui che necessitava anche del silenzio, talvolta, era una cosa bellissima. Magnus gli baciò una guancia e sistemò il viso nella curva del collo di Alec, che istintivamente appoggiò il volto sulla sua testa. Magnus aveva un profumo che ad Alec piaceva da morire.
“Come stai?” chiese Magnus dopo un po’, cominciando a giocare con la catenella di Alec. Il ragazzo rimase un attimo a guardare ipnotizzato le dita dell’altro mentre si attorcigliavano con grazia intorno alla collana.
“Bene, perché?”
“Senti… dolore da qualche parte?”
“Un po’, ma penso sia normale.”
“Lo è… volevo sapere se-”
“Magnus.” Lo interruppe Alec. “Sei stato delicatissimo. Non devi preoccuparti di niente.” Gli diede un bacio sui capelli, come se volesse rassicurarlo del fatto che gli stava dicendo la verità. Magnus si appiccicò ancora di più a lui e Alec lo strinse a sé forte, forte. “Non voglio più uscire da qui.” Gli sussurrò e Magnus rise di cuore.
“Per quanto condivida questo tuo desiderio, temo che Isabelle sfonderebbe quella porta per constatare se stai bene.”
“Potrei avvisarla: ‘Izzy, io e Magnus abbiamo deciso di vivere nel suo letto, tanti saluti’, così eviterebbe di deturpare la porta di casa tua.” 
“Ma inizierebbe a fare commenti sul fatto che siamo a letto.”
Alec emise una risata dal naso. “Hai ragione. E a quel punto, sfonderebbe lo stesso la porta per venire a conoscere i dettagli.”
“E nessuno riuscirebbe a bloccarla.”
“Già, è incredibilmente testarda.”
Magnus cominciò a strofinare il naso sul collo di Alec. “Però potremmo stare qui oggi. Nessuno si preoccuperebbe, per un giorno solo, e abbiamo la casa libera fino a domani.”
“Ci sto.” Alec annuì per dare enfasi alle sue parole, mentre Magnus sorrise soddisfatto.
Era bello, pensò Alec. Stare con lui, abbracciati sotto al piumone, con le preoccupazioni che venivano accantonate, come se il loro amore avesse il potere di sanare tutte le cose brutte. Avevano entrambi i loro demoni, avevano vissuto esperienze più o meno belle, ma stando insieme era come se diventassero meno spaventose, meno dolorose. La presenza di uno nella vita dell’altro lavava via tutto ciò che di negativo stava radicato nel loro essere, come se volesse disinfettarlo e togliere il marcio che intaccava i loro cuori.
Questo, rifletté Alec, era uno dei motivi per cui non avrebbe mai rinunciato a Magnus. Dubitava fortemente che esistesse qualcun altro, al mondo, capace di comprenderlo come sapeva fare lui, di farlo sentire in pace con se stesso e con il mondo come sapeva fare lui.
Lo abbracciò ancora di più, ancora più forte, come se avesse voluto fargli arrivare indirettamente quel pensiero senza esprimerlo a voce alta. Rimasero in quella posizione, fino a quando Magnus non si mosse, spostandosi dal fianco di Alec per andargli sopra, appoggiando poi il mento al suo petto e guardandolo in viso. “A cosa pensi?”
Alec si sistemò sotto di lui per farlo stare più comodo e cominciò ad accarezzargli la schiena. “A te.”
“Pensieri belli?”
“Devi chiederlo? Dico, non è ovvio?”
Magnus rise e gli lasciò un bacio a stampo. “Ammetti finalmente di aver capito che non ho difetti?”
Alec roteò gli occhi al cielo, ma un sorriso lo tradì. “Non accantonerai mai questo discorso, vero?”
“Mai. Tu e il mondo dovete riconoscere quanto sia fantastico.”
Alec rise e Magnus sentì la risata arrivare anche al suo corpo. “Io so già che sei fantastico, anche se ti manca totalmente la modestia, o un filtro nel cervello che ti suggerisce cosa non dire e quando non dirlo.”
“Quindi vuoi dire che parlo troppo?”
“No, vuol dire che dici sempre quello che pensi, anche quando non è appropriato dirlo.”
“E pensi sia un male?”
“No, a volte lo trovo persino divertente. È il vantaggio di stare con un estroverso: dici cose che noi introversi pensiamo, ma non diciamo.”
“Tu dici sempre quello che pensi.” Affermò Magnus. “Fai quella faccia insolente che non ammette repliche e aspetti che il tuo sarcasmo pungente faccia effetto.”
“Quindi sarei insolente?”
Magnus annuì. “E scontroso, a volte, ma in un modo molto affascinante. Cosa che fa si che tu sia, appunto, alto, ombroso e affascinante.”
Alec rise e intorno ai suoi occhi si formarono quelle rughe di espressione che a Magnus piacevano tanto.
“Hai uno strano modo di farmi i complimenti, sai?”
“Quelli diretti ti mettono in imbarazzo, quindi ci giro intorno.”
“Facendoli passare prima attraverso i miei difetti. Sei contorto.”
Magnus gli fece una linguaccia e gli lasciò un morso giocoso sul mento. “Vedi? Hai appena detto quello che pensi. Non serve essere estroversi per farlo.”
“Con te, a quanto pare, non riesco ad avere filtri.”
Magnus si aprì in un sorriso scaltro. “Quindi vuoi dire che sono speciale?”
Alec roteò gli occhi al cielo, consapevole di dove sarebbe andato a parare. “Sì, lo sei.”
“E sono anche fantastico, tipo…”
“Non dirò che non hai difetti, Mags.” Alec allargò le gambe e le attorcigliò al bacino di Magnus per averlo più vicino. “Ma dirò che amo anche quelli e che non cambierei nulla di te.” Gli baciò la punta del naso e Magnus sorrise.
“Questa sì che è una risposta. Sei bravo, Lightwood.”
Alec rise e Magnus sentì di nuovo il proprio corpo essere percorso da quella risata, come se ne venisse contagiato. Appoggiò il viso al petto di Alec, dove rimase ad ascoltare il suo cuore che batteva più forte del previsto, capendo anche di essere la causa di quell’accelerazione. Conosceva quel ritmo perché era lo stesso che prendeva il proprio cuore quando stava con Alexander. Gli lasciò un bacio proprio in quel punto, dove sapeva che il suo cuore buono stava battendo, e poi tornò ad appoggiarci il viso. Alec si sporse per lasciargli un bacio sui capelli e cominciò di nuovo a tracciare segmenti invisibili sulla sua schiena con la punta dell’indice. Era un contatto delicato, ma fermo, qualcosa di deciso che faceva si che Magnus riuscisse a percepire i calli sulla dita di Alec. Amava le sue mani e tutte le imperfezioni che sapeva avevano: le cicatrici di cui sapeva Alec provava imbarazzo, ai suoi occhi lo rendevano ancora più bello. Erano il segno della sua tenacia, del fatto che, per Alec, impossibile significava solo prova di nuovo. Non si faceva scoraggiare dagli ostacoli, bensì trovava un modo per abbatterli, anche se significava farsi sanguinare le mani, o infilzarsi un avambraccio. Erano il simbolo della sua forza, della sua testardaggine. Facevano sì che si mostrasse per la colonna portante del tempio meraviglioso che era.
Alzò il viso per guardarlo. Alec corrugò la fronte in una silenziosa richiesta di spiegazioni, ma Magnus non gli diede il tempo di chiedergli cosa avesse perché lo baciò. Un bacio lento e dolce, affettuoso. Un bacio che parlava più di quanto avrebbero potuto fare le parole.
Alec lo strinse a sé e Magnus capì che quella era una delle sue cose preferite: il modo in cui Alec lo stringeva, come se volesse aggrapparsi a lui, ma allo stesso tempo volesse proteggerlo. Era un modo che mostrava la fragilità tipica di chi ha paura di perdere qualcuno che ama, ma allo stesso tempo, mostrava la forza di chi si butterebbe nel fuoco per proteggere e difendere la persona amata. Era Alexander, il suo Alexander.
“Non ti cambierei con nessuno al mondo, lo sai?”
Alec arrossì e gli sorrise dolcemente. “Sai sempre cosa dire per colpire nel segno, vero? Sei bravo, Bane.”
Magnus rise e dopo avergli baciato una guancia, rotolò al suo fianco, sistemandosi in costa. Alec lo imitò.
“Vuoi davvero stare a letto tutto il giorno?” domandò Magnus.
Alec parve pensarci su. “Potremmo uscire per mangiare.”
“E farci una doccia.”
“Sì, mi sembra giusto.”
“Che potremmo fare insieme.”
Alec rise e annuì. “Una parte di me sapeva che l’avresti detto.”
“Quale parte di te??” Magnus svirgolò le sopracciglia e alzò il piumone per guardare verso il basso ventre di Alec.
“Stavo parlando metaforicamente, Magnus!”
“Io no.” Disse deciso, azzerando la distanza tra di loro. “E sono sicuro che una non-metaforica parte di te mi da ragione.”
Il suo profumo investì le narici di Alec come una marea violenta e il suo stomaco si attorcigliò all’instante. “Pensi che…” Alec arrossì all’improvviso e deglutì con forza. “…che sia presto per…”
“Farlo di nuovo?” suggerì Magnus e Alec annuì. “Non lo so, amore, dimmelo tu. È presto?”
Alec parve ragionarci un attimo, giusto per costatare quello che già sapeva. “No, non è presto.”
Magnus sorrise e si sporse in avanti per baciarlo. Non appena gli fu sopra, Alec gli fece spazio tra le proprie gambe.  

*

“È stato meglio della prima volta.” Affermò Alec, gli occhi fissi sul soffitto mentre teneva una mano appoggiata all’addome. Riusciva a sentire il velo di sudore che gli bagnava la pelle, mentre il suo petto si alzava e abbassava nel tentativo di regolarizzare il respiro. Si voltò verso Magnus, al suo fianco, che se ne stava sdraiato supino e cercava a sua volta di respirare di nuovo correttamente. Il velo di sudore che imperlava la sua pelle lo faceva luccicare più di quanto i glitter dell’ombretto residuo della sera prima non facessero già. 
“Me ne sono accorto.” Gli rispose, passandosi una mano tra i capelli, mentre l’altra andava a cercare quella di Alec. Il minore fece intrecciare le loro dita immediatamente.
“È un modo per farti indirettamente i complimenti?”
“No, è un modo per dirti che più ti rilassi più diventa bello.”
Alec sbuffò una risata dal naso. “Lo terrò a mente.”
“Faresti bene.”
Rimasero in silenzio a guardarsi, occhi negli occhi, mentre sui loro visi comparvero spontaneamente due sorrisi. Alec pensava ancora che tutto questo fosse surreale, come se non riuscisse ancora a credere di vivere una storia simile e di aver incontrato qualcuno che gli facesse provare una tale felicità. Pensava che determinate cose non esistessero, che fossero solo favole che vengono raccontate nei film, e invece… invece Magnus lo guardava come se lui avesse tutte le risposte di questo mondo e riuscisse a trovare negli occhi di Alec una pace che non avrebbe trovato da nessun’altra parte. Per Alec era lo stesso: si accorgeva di avere gli occhi a cuoricino ogni volta che li posava su Magnus, che in pratica teneva tra le mani non solo la felicità di Alec, ma il suo intero cuore.
“Doccia?” Propose Magnus, dopo qualche istante. Alec annuì e si sporse fuori dal letto per cercare almeno qualcosa con cui coprirsi. La prima cosa che trovò furono i pantaloni della tuta che Magnus gli aveva prestato e li infilò senza niente sotto. Magnus, invece, uscì dal letto con indosso i boxer. Alec si chiese come avesse fatto a trovarli con tanta facilità dal momento che la sera prima li aveva lanciati da qualche parte alle sue spalle e non si era premurato di guardare dove fossero finiti. Magia, non c’era altra spiegazione: sicuramente Magnus era uno stregone e aveva poteri sovrannaturali.
“Andiamo.” Disse Magnus, facendo il giro del letto e avvicinandosi ad Alec – tra le loro bocche sarebbe passato solo un capello. “Non vedo l’ora di toglierti di nuovo quei pantaloni.”

*
Alec si passò un asciugamano tra i capelli, mentre guardava Magnus che, avvolto in un asciugamano legato in vita, si asciugava i propri con il phon. Aveva ancora il petto bagnato dall’acqua della doccia e sul collo spiccava un succhiotto, più recente rispetto agli altri, fatto solo qualche istante prima. Ad Alec piaceva fargli i succhiotti, era come se fossero dei marchi legittimi, qualcosa che gli ricordava che aveva il permesso di posare la propria bocca sulla pelle di Magnus. Osservò il suo ragazzo che, completamente struccato e con il viso pulito, dava accuratamente una forma alla sua cresta, asciugando i capelli all’insù con un diffusore a forma di becco attaccato al phon. Gli piaceva vederlo così concentrato per riuscire a fare al meglio la cosa che si era prefissato. Gli veniva quella ruga, in mezzo agli occhi, la stessa che la notte prima l’aveva aiutato a rilassarsi perché pensava che fosse adorabile.
(Quindi pensi che ieri si stesse impegnando per farsi te?)
Alec alzò internamente gli occhi al suggerimento della sua coscienza. Da dove gli venivano uscite simili?
Però forse un po’ era vero. Forse, gli piaceva credere che con lui era stato diverso, che Magnus ci avesse messo più sentimento. Non che gli importasse con quante persone fosse stato, o che dubitasse dell’amore che provava nei suoi confronti, solo che… l’idea di essere stato diverso, in qualche modo, gli faceva sfarfallare lo stomaco.
“Secondo te va nel verso giusto?” Magnus abbandonò lo specchio per guardare Alec al suo fianco. Il minore dava le spalle alla superficie riflettente ed era appoggiato al lavandino che stava sotto di essa, indossando i pantaloni della tuta di Magnus.
“Qual è il verso giusto?” domandò Alec. “Esistono tanti versi: una direzione, la direzione opposta, entrambe le direzioni.”
Magnus socchiuse un occhio e guardò Alec come se stesse vagamente capendo quello che stava cercando di dirgli, ma non ne fosse completamente sicuro. “Stai cercando di fare una battuta riguardo la mia bisessualità?”
“Forse?”
“Amore, evita.” Disse con sincerità brutale. “Non ti è uscita bene.”
Alec incrociò le braccia al petto nudo e mise il broncio. “Nemmeno la cresta ti è uscita bene.”
Magnus posò il phon spento su un mobiletto vicino al lavandino e si avvicinò ulteriormente ad Alec. “Non te la prendere, tesoro. Non vuol dire che tu non sia divertente.” Mise le proprie mani sulle braccia di Alec per cercare di sciogliere l’intreccio. “E non dovresti dire le bugie sulla mia bellissima cresta.”
“Pende troppo verso sinistra.”
“Perché è verso sinistra che deve stare.” Spiegò Magnus, mentre scioglieva le braccia di Alec e se le portava alla vita.
“Oh, ma davvero?” sussurrò Alec, avvicinando il suo viso a quello di Magnus. Gli lasciò un bacio all’angolo della bocca e poi scese piano verso il collo. Magnus lo lasciò fare, inclinando la testa di lato per lasciargli spazio, troppo distratto dalla bocca di Alec per rendersi conto che le sue mani avevano cominciato a salire su per la sua schiena, fino alle spalle per arrivare alla tua testa. “Sarebbe un vero peccato, quindi, se la spettinassi!” continuò, immergendole nei capelli di Magnus e cominciando a scompigliarglieli.
Superato lo shock momentaneo, dove Magnus digerì di essere stato manipolato e raggirato, afferrò i polsi di Alec e glieli portò sopra alla testa, appoggiandoli al muro dietro di lui.
“Non farlo.” Lo ammonì.
Alec fissò i suoi occhi cervoni in quelli dell’altro e lo guardò con aria di sfida. “Oppure?”
Magnus strinse la presa sui suoi polsi, facendo comunque attenzione a non fargli male. “Alexander.”
Alec si sporse in avanti per raggiungere il viso di Magnus. “Cosa farai, Magnus?”
Sfacciato.
Alec si leccò le labbra.
Impertinente.
Alec tenne quella posizione senza fare nulla. Il suo sguardo passava dagli occhi alla bocca di Magnus, mentre la sua rimaneva ad una distanza così ridicola che non poteva essere nemmeno definita tale, ma ancora, non lo baciava – ne lo guardava in quel modo che Magnus sapeva  usava quando gli chiedeva silenziosamente di essere baciato. Alexander stava… giocando. Voleva testare i suoi limiti, vedere fino a che punto Magnus sarebbe stato in grado di resistergli. Ma Magnus era umano ed era debole, soprattutto quando Alec prendeva il controllo così da un momento all’altro – il che era paradossale, considerando che era lui quello con le mani bloccate sopra alla testa – così azzerò la distanza tra loro e si appropriò della bocca di Alec con voracità, baciandolo con la stessa foga che avrebbe avuto se non si fossero visti per anni. Gli morse le labbra e Alec, che ancora non tentava di liberarsi dalla presa di Magnus, avanzò con il bacino per avere più contatto. Solo a quel punto, Magnus lo liberò e le mani di Alec andarono dietro la nuca del maggiore e si aggrapparono ai capelli sopra di essa per tirarlo ulteriormente a sé. Magnus lo abbracciò in vita, sentendo sotto le dita la pelle nuda, e ancora calda per la doccia, di Alec, che si increspava in brividi definiti.
“Dovresti mostrare più spesso questo lato di te.” Disse con il fiatone Magnus, quando si staccarono.
“Il mio lato comico?”
Magnus rise e appoggiò la fronte a quella dell’altro. “Vogliamo chiamarlo così?”
“Non so a cos’altro tu possa riferirti.” Ribatté Alec, caricando la frase di un’innocenza che, almeno in quel momento, non gli apparteneva. Stava ancora giocando.
“Sai,” cominciò Magnus, infilando un dito nell’elastico dei pantaloni di Alec. “Vorrei esplorarla meglio, questa tua comicità.”
“Ma mi hai appena detto di evitare. Sono sicuro che dovrei seguirlo, questo consiglio.”
Magnus fece una cosa tipicamente alla Alec e roteò gli occhi al cielo, esasperato. “Sta’ zitto.”
Alec gli sorrise ferino. “Costringimi. Amore.
Alec pronunciò quella parola in un modo particolare, tanto che fece perdere un battito al cuore di Magnus. Sentire Alexander che si rivolgeva a lui usando quel nome lo faceva impazzire: emise un ringhio gutturale e lo baciò con una voracità bisognosa. E mentre Alec rispondeva al suo bacio, Magnus realizzò che questo era sicuramente il modo migliore per iniziare l’anno.





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I’m baaack e forse voi non mi sopportate più! E magari non sopportate più i miei ritardi di cui mi scuso profondamente, ma tra le lezioni e lo studio non trovo più molto tempo per scrivere e quindi vado a rilento e ci metto più del previsto ad aggiornare. Posso dire, a mia discolpa, che vorrei riuscire ad aggiornare prima!
Venendo al capitolo, non è l’ultimo e non è che a livello di trama si sviluppi granché, c’è solo questa dose immensa di fluff e spero davvero di non aver rovinato la prima volta Malec perché non sapevo come scriverla. Ho l’ansia, capitemi. Nella serie è una scena perfetta e non volevo rovinarla, ma non volevo nemmeno rovinarla visto il contesto di questa storia, quindi l’ho riletta e riletta e riletta, ma non riuscivo ad aggiustarla, quindi niente, perdonatemi. E vi prego, siate brutalmente sinceri, sia su quella parte che sul capitolo in generale.
Vorrei fare una menzione speciale a danim perché, oltre che essere super paziente e commentare questa storia dall’inizio, si è chiesta se mai i Malec avrebbero avuto una scena d’intimità in un posto diverso dalla cucina e, soprattutto, su una superficie orizzontale! Ecco a te, Daniela, spero ti sia piaciuta!
Come sempre, vi ringrazio immensamente per seguire/leggere/recensire questa storia perché per me è davvero importante! Tutto ciò era partito come un esperimento, una sorta di “ma sì, proviamo!” ed è solo grazie a voi che è andata così avanti, perché l’avete accolta in un modo che, davvero, non mi sarei mai aspettata! Quindi, un immenso grazie e un abbraccio a tutti voi!
Alla prossima!

PS: Ma secondo voi, Magnus come risponderà alla domanda “What if I moved in?” di Alec? E secondo voi, quanto soffriremo quando arriverà l’angst, perché possiamo starne certi che arriverà?
Consoliamoci in gruppo. 

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Capitolo 18
*** 18. ***


Isabelle camminava per le strade di New York al fianco di Simon. Erano coperti con dei giubbotti pesanti per via del freddo e Izzy indossava un cappello di lana rosa che era in netto contrasto con la cascata di capelli corvini che fuoriusciva da esso. Guardava Simon che stava con il naso appiccicato alla vetrina del negozio di videogames, guardandolo con quell’amore negli occhi che lei riservata ai negozi di trucchi, o di scarpe.
Sorrise.
“Vuoi entrare?” domandò e Simon si voltò immediatamente verso di lei, abbandonando la vetrina. Un fiocco della nevicata che stava iniziando era rimasto impigliato nei capelli del ragazzo, mentre il suo naso era arrossato per via del freddo.
“Oh, no, non ti sottoporrei mai a-”
“Vuoi entrare?” domandò di nuovo lei, interrompendolo. Simon lanciò un’occhiata all’interno del negozio e poi un’occhiata ad Isabelle. Ripeté l’operazione per altre tre volte, tanto che Isabelle cominciò a ridacchiare perché lo trovava buffo in un modo adorabile.
Poi Simon inchiodò i suoi occhi nocciola in quelli di Isabelle e le rivolse un sorriso dolcissimo. “Vorrei tanto. Ma non lo faremo se tu non vuoi.” Si sporse verso di lei per prenderla per mano e far intrecciare le loro dita. Isabelle portava dei guanti di lana in tinta con il cappello, mentre Simon no e la ragazza si chiese se avesse freddo, mentre percepiva il suo cuore accelerare per via di quel contatto. Con Simon faceva cose che non avrebbe mai pensato di fare con nessuno: passeggiare e prendersi per mano, aprire il proprio cuore e mostrargli ogni parte di sé, anche quella vulnerabile. La cosa che più la spaventava era che mostrarsi anche fragile, davanti a Simon, non la spaventava per niente. Era una contraddizione, ma era così. E le piaceva. Le piaceva avere qualcuno che riuscisse a vederla completamente, che guardasse ad ogni parte di sé e stesse con lei in ogni caso, indipendentemente da tutto. Era meraviglioso e liberatorio riuscire a fidarsi così tanto di qualcuno, qualcuno di speciale come Simon.
“Simon,” cominciò, sfregando il pollice coperto dal guanto sul palmo nudo del ragazzo. “Sei entrato in ogni negozio di trucchi della città solo perché te l’ho chiesto. Cosa ti fa pensare che non farei lo stesso per te?”
Gli occhi nocciola di Simon si illuminarono e le passò la mano che aveva libera intorno alla vita per tirarla a sé e lasciarle un bacio a stampo. “Ce l’hai almeno un difetto?”
Isabelle rise, mentre Simon strofinava il naso contro il suo, come un bacio all’eschimese. “Sai, se entrassi, potresti aiutarmi.”
Izzy si incuriosì. “Ma davvero? E come?”
“Potresti usare il tuo super-potere di riuscire a piegare tutti gli uomini alla tua volontà, convincendo il commesso a vendermi Call of Duty con lo sconto riservato ai soci, nonostante la mia tessera sia scaduta.”
Izzy si finse offesa. “Vuoi strumentalizzarmi, Lewis?”
Simon fece cenno di no con la testa. “Stavo scherzando, Iz.” Le accarezzò una guancia e Isabelle si rese conto che aveva le mani fredde, così gliele afferrò tra le proprie per scaldargliele.
“Lo so.”
“Però potrei entrare e vantarmi con tutti dicendo che sei la mia ragazza. Potresti baciarmi in pubblico, sennò non ci crederebbe nessuno!”
Isabelle aggrottò la fronte. “E perché non dovrebbero crederci?”
“Izzy, andiamo. Siamo su due piani completamente diversi: sei una specie di Afrodite e io sono Efesto.”
Simon non si stava compatendo, non lo stava dicendo per sentirsi dire il contrario, lo stava dicendo perché lo pensava davvero e sembrava gli stesse bene così, come se fosse una verità che aveva semplicemente notato e accettato. Ma Isabelle non la vedeva così, assolutamente.
“Non è vero!” esclamò, infervorandosi, quasi. “Non devi pensarlo perché non è vero. Tu sei il ragazzo migliore che abbia incontrato. Sei altruista, gentile, premuroso. Sei buono e simpatico, riesci a mettere di buon umore chiunque.” Izzy si fermò solo per prendergli il viso tra le mani. “E sei bellissimo, Simon.” Gli sorrise con dolcezza e si stupì di se stessa sentendo con quanta facilità, ancora, era riuscita ad essere così schietta e sincera davanti a Simon, riuscendo ad esternare i suoi più profondi pensieri. “Se mi vedi come Afrodite, allora tu sei Ares, l’uomo di cui era davvero innamorata.” Quella parola le uscì con la stessa naturalezza con cui cercava l’acqua quando aveva sete e le suonava così giusto che non provò nessuna paura a dirlo ad alta voce, ad esternare i suoi sentimenti. Lo amava, l’aveva capito da un pezzo, e trovava fosse giusto dirglielo.
“Tu s-sei…” Simon boccheggiò. “Hai appena… appena detto che m-mi ami?”
“Sì. E va bene se tu non vuoi dirlo, Simon. Non voglio che tu ti senta costr-”
Simon la interruppe con un bacio. Izzy sentì le braccia del ragazzo intorno alla vita mentre la stringeva forte a sé, quasi come se non volesse più lasciarla andare. La strinse ancora e ancora, fino a che non le mancò il respiro, ma non le importava. Era bello, era
vero. Ogni volta che Simon la baciava, il cuore di Isabelle scalpitava come se volesse urlarle che era lui ciò che stava aspettando, che l’avrebbe resa felice in un modo tutto nuovo.
“Ti amo anche io, Izzy. Dio, credo di averlo fatto dal primo giorno che siamo usciti insieme, ma non volevo spaventarti, dicendotelo.”

“Se me l’avessi detto il primo giorno, forse l’avresti fatto.”
“Lo so. E nonostante io abbia pazientemente aspettato, mi hai comunque battuto sul tempo. Sei una scheggia, Lightwood.”
Isabelle rise, tenendo gli occhi fissi in quelli di Simon. Ecco, lì, in quelle iridi calde e rassicuranti, era l’unico luogo in cui perdersi non la terrorizzava.
“Ma sei l’unico che sia riuscito a starmi dietro.”
“Sono come Bolt, ragazza!”
Isabelle scosse la testa affettuosamente, mentre lasciava un bacio sulla guancia di Simon. Era accaldata, notò, come se le loro dichiarazioni avessero sciolto il freddo. “Hai un videogame da comprare, Usain.”
Simon, in risposta, si avvicinò all’entrata e le tenne la porta aperta. “Prima le signore, milady.”

L’apertura della porta di casa distrasse Isabelle dal suo ricordo. Era pieno pomeriggio e i suoi genitori non sarebbero tornati prima di sera, quindi dedusse che doveva essere qualcun altro. Abbandonò il pacco di biscotti, che aveva appena appoggiato al tavolo della cucina, e si diresse verso l’entrata, dove trovò Alec sulla porta. Portava ancora i vestiti di Capodanno e aveva una sorriso sul viso che gli tendeva le guance. Lo osservò mentre si toglieva il giubbotto e lo appendeva all’attaccapanni e, nel mentre, Isabelle si trovò a pensare che era moltissimo tempo che quel sorriso non faceva capolino sul volto del fratello. Quando erano piccoli, Alec era un bambino solare, sorridente e spensierato. Durante l’adolescenza, però, i suoi sorrisi avevano cominciato a farsi sempre più rari, i suoi occhi avevano perso quella luce gioiosa, come se fosse stata inghiottita dall’oscurità della consapevolezza di essere come era. Alec aveva impiegato un po’ ad accettarsi, a capire che lui era fatto in un determinato modo e Isabelle si era impegnata fin da subito a fargli capire che aveva tutto il suo appoggio, che il fatto che suo padre pensasse ci fosse qualcosa di sbagliato nell’essere gay non significava che lo pensassero tutti. Tutto questo aveva riportato Alec ad essere meno oppresso. Aveva ricominciato a sorridere, seppur timidamente, come se non avesse voluto attirare troppo l’attenzione su di sé, temendo che in quel modo qualcuno sarebbe riuscito a leggergli la verità in faccia. Per questo aveva cominciato a vestirsi di scuro, con gli abiti più semplici possibili: per non attirare l’attenzione, per non rischiare di essere notato e dover ammettere ad alta voce quello che loro due già sapevano. Ma poi era arrivato Magnus e con lui lo scudo di Alec non aveva funzionato. Nessun vestito scolorito sarebbe mai riuscito ad impedire a Magnus di vedere Alec, di notare la sua bellezza, perché per quanto Alec si impegnasse per nascondere quella esterna, Magnus aveva notato la bellezza del suo cuore, come se fosse riuscito a fiutarla. Aveva visto la luce di Alec e aveva fatto in modo che risplendesse forte e vigorosa, che abbattesse ogni oscurità.
“Ehilà, straniero!” Lo salutò buttandogli le braccia al collo. Alec si chinò leggermente e le circondò la vita, ricambiando l’abbraccio. Profumava di legno di sandalo, notò Izzy, e anche se lei non andava particolarmente matta per quella fragranza, doveva ammettere che su Alec stava bene.
“Ehi.”
“Sei tornato in patria.” Izzy sciolse l’abbraccio e cercò gli occhi del fratello. “Volevo darti per disperso.”
Alec sbuffò una risata dal naso. “Ti ho mandato un messaggio, Iz.”
Dormo da Magnus. Non è esattamente il tipo di messaggio che definirei eloquente.”
“No, ma centrava il punto.”
Isabelle gli rivolse un sorrisetto carico di consapevolezza. “Suppongo che anche Magnus abbia centrato un determinato punto.”
Alec sgranò gli occhi e arrossì violentemente. “Isabelle!!”
“Cosa?” rise lei, giocosa. “Vuoi dirmi che l’enorme succhiotto che hai sul collo è indice di qualcos’altro?”
Alec si sfregò il punto incriminato con una mano. “No… è successo.”
“Avete fatto sesso?” domandò euforica Isabelle, senza preoccuparsi di moderare il tono della voce. Alec divenne ancora più rosso, se possibile.
“Potresti non gridarlo? Non penso che i nostri vicini vogliano sapere queste cose!”
“Questo lo credi tu: abbiamo dei vicini talmente repressi che adorerebbero sentire cose sconce!”
Alec le rivolse un sorrisetto, sebbene le sue guance fossero ancora cremisi. “Dettagli che li aiuterebbero a ricordare un tempo passato, in cui non temevano il giudizio del loro Dio solo perché facevano sesso protetto?”
Isabelle spalancò la bocca, piacevolmente sorpresa. “Chi sei tu e che ne hai fatto del mio rispettoso fratello?”
Alec rise, tirando indietro la testa.
“Il sesso fa questo effetto, sulle persone. Toglie l’innocenza a chiunque!” Esclamò Jace, facendo capolino dal divano e spaventando entrambi i suoi fratelli. Il suo viso sbucava dalla spalliera del divano, mentre i suoi capelli arruffati gli davano un’aria scompigliata. Non per questo spiacevole, comunque. A quanto pare, Jace sarebbe apparso bello anche vestito di stracci.
“Sei cretino, Jace?” imprecò Isabelle. “Cosa ci fai lì?”
“Dormivo, ma poi i vostri discorsi su Magnus che c’entra un determinato punto di Alec mi hanno svegliato.”
Alec divenne viola mentre passava lo sguardo da Isabelle a Jace. Il biondo si alzò dal divano e dopo essersi passato una mano tra i capelli per cercare di aggiustarli, raggiunse i suoi fratelli.
“Oh, andiamo.” Disse, quindi. “Non fare quella faccia da cane bastonato! È normale fare sesso e dirlo ai propri fratelli!”
“Esatto, fratellone! Io e Jace te l’abbiamo subito detto, ricordi?”
Alec ricordava benissimo quelle conversazioni piene di dettagli. “Ricordo anche troppo bene. Ancora non riesco a guardare Meliorn e Kaelie senza pensare a tutte le cose che mi avete raccontato!”
Isabelle e Jace risero di gusto e si diedero il cinque. Alec pensò che sotto molti punti di vista si assomigliassero più di quanto si potesse immaginare.
“Okay,” cominciò Izzy, “Inizia a parlare!”
Alec scosse la testa. “Assolutamente no!” esclamò perentorio. “Non esiste al mondo. Toglietevelo dalla testa!”
“Non è giusto!” dissero in coro.
“Sì che lo è. Si chiama vita privata per un motivo.” Alec si incamminò verso la cucina – ora che ci pensava, era affamato. Lui e Magnus non avevano mangiato un granché. Alla fine, pensò Alec con un sorriso sulle labbra, erano stati davvero tutto il tempo a letto – che fosse per poltrire o per fare altro.
“Sorride?” chiese Jace, come raggiunse il fratello in cucina, ad Isabelle, che stava al suo fianco. “Sta sorridendo?
Isabelle guardò il fratello e annuì energicamente, mentre Alec li ignorava e prestava attenzione al pacco di biscotti che Isabelle aveva abbandonato per andargli in contro.
“Oggi Alec che sorride e domani cosa, locuste? La fine del mondo è vicina!”
Solo a quel punto Alec alzò gli occhi dal pacchetto di biscotti a Jace. “Io sorrido sempre.” disse a denti stretti.
“Certo, raggio di sole, proprio come stai facendo in questo momento?” Jace gli si avvicinò e ficcò una mano nel pacchetto di biscotti che Alec aveva aperto. “Tu non sorridi mai, Mercoledì Addams.” Continuò Jace, stuzzicandolo e addentando il biscotto. “A meno che…” lanciò un’occhiata eloquente ad Isabelle, che portò le labbra all’interno della bocca per non ridere. “A meno che Magnus non sia estremamente bravo e ti abbia dato un grosso motivo per sorridere.”
Alec si strozzò con il biscotto che stava masticando, mentre le sue guance si accaldarono, diventando, con ogni probabilità, di una tonalità di rosso intenso sconosciuta all’umanità fino a quel momento. Lanciò un’occhiataccia a Jace, che lo guardava con un sorriso furbo sul viso, mentre Isabelle emise una risatina dal naso. “Sei pessimo, Jace.”
“Confessa. Racconta e ti darò tregua. In caso contrario, ti tormenterò finché non parlerai.”
“Ho passato metà della mia vita a tenere nascosto un segreto, pensi che cederò così facilmente?”
“È una sfida?”
“Vuoi che lo diventi?” 
Senza rendersene conto, si erano persino avvicinati, come se lo spirito di competitività che caratterizzava entrambi avesse funto da calamita per attirare uno all’altro. Isabelle, che si era seduta sul tavolo vicino al pacchetto di biscotti, alzò gli occhi al cielo. C’era così tanto testosterone in quella stanza, che se non fosse intervenuta subito e li avesse lasciati continuare, entro la fine di quella discussione persino lei si sarebbe trasformata in un maschio.
“D’accordo Rambo 1 e 2. Smettetela.” Scendendo dal tavolo, si mise tra i suoi fratelli e li allontanò uno dall’altro. “Alec ci parlerà delle sue cose quando vorrà.”
Se vorrò.”
Jace roteò gli occhi. “Allora saremmo vecchi e decrepiti e non ci ricorderemo più nemmeno cos’è il sesso.”
Izzy si voltò verso di lui. “Parla per te.”
Entrambi i suoi fratelli fecero una smorfia inorridita. “Iz! Risparmiacelo!” esclamarono all’unisono e Isabelle non poté fare a meno di trovare la cosa divertente.
“Non vi risparmio un bel niente. Allora, biscotti?”
Jace e Alec annuirono.
“Alec, mi prendi il vasetto di cioccolata nella dispensa? Senza tacchi non ci arrivo.”
Jace le si avvicinò, mentre Alec si dirigeva dove gli era stato chiesto, e le diede un buffetto sulla testa. “Perché sei una nanetta.”
In altre circostanze, Izzy gli avrebbe risposto per le rime, ma la sua attenzione venne catturata da un luccichio sulla mano destra di Alec, mentre la sollevava per afferrare il vasetto di cioccolata. “Alec.” cominciò. “CHE COS’È QUELLO?”
Alec ritirò in fretta la mano e si maledisse mentalmente di non essere stato più attento.

“Diciamo, per assurdo, che domani ci svegliamo in un altro posto. Dove vorresti essere?” domandò Magnus, le gambe intrecciate a quelle di Alec, mentre con l’indice tracciava disegni astratti sul suo petto.
“Non lo so… Tokyo?”
Magnus accennò una risata. “Non devi chiedermelo. Devi dirmi il posto dove ti piacerebbe essere.”
Alec si sistemò meglio al suo fianco per avvicinarsi di più a lui, un braccio circondava le spalle di Magnus. Le lenzuola frusciarono contro la sua pelle nuda. “Tokyo, per certo.” Annuì per confermare la sua risposta. “E tu?”
Magnus appoggiò una guancia sul petto di Alec e lo guardò di lato. Il minore dovette voltarsi per riuscire a guardarlo completamente in viso. “Parigi. È romantica.”
Alec lasciò un bacio sulla fronte di Magnus, sporgendosi verso di lui. Non fu un gesto particolarmente comodo, visto che aveva poca mobilità, ma non gli importava. “Ma ci sei già stato. Non vorresti andare in un posto nuovo?”
“Tipo?”
“Non lo so, dimmelo tu.”
Magnus tracciò il perimetro di uno dei pettorali di Alec e poi afferrò la catenina. Si rigirò la freccia tra le dita, pensieroso. Gli venne in mente Apollo, dio del sole, e fenomenale arciere, in grado di infliggere punizioni terribili a chiunque lo ostacolasse. Gli piacevano i miti greci, la loro magia, i loro misteri. “Grecia.”
“Mi piace la Grecia. O almeno, credo. Nemmeno io ci sono mai stato.”
Magnus ridacchiò e gli lasciò un bacio su un lato del pettorale. “Possiamo sempre fuggire insieme.”
Alec rise, facendo vibrare tutto il suo corpo. “Certo, senza soldi non possiamo nemmeno pianificarla la nostra fuga.”
“Potremmo vincere un biglietto di seconda classe ad una partita di poker e salire su una nave gigantesca diretta verso il luogo dei nostri sogni.”
“E dimmi, Jack Dawson, una volta arrivati a destinazione – sempre se uno di noi due non finisce congelato – cosa faremo?”
“Prima di tutto,” disse Magnus, salendo su Alec, le mani sovrapposte sul suo petto per fare da sostegno al mento. “Ti renderei un uomo onesto.” Gli lasciò un bacio a stampo.
“Un uomo onesto?” fece eco Alec, sulle labbra l’alba di un sorriso.
“Certo, sono uno all’antica, in fondo. E i matrimoni sono romantici.” Magnus fece una pausa, baciando la guancia di Alec. “Successivamente, dopo aver aggiunto il mio cognome al tuo, cercheremmo casa. Nulla di troppo pretenzioso, i nostri lavori non sono ancora troppo redditizi, quindi per i primi anni dovremmo evitare villette in stile Santorini.”
Il sorriso di Alec si era trasformato in una tempesta solare. Ascoltava Magnus in silenzio, mentre gli accarezzava la schiena dolcemente.
“Una casetta piccola, all’inizio solo per noi due basterà. Poi, dopo che il tuo libro sarà diventato un best-seller e io sarò finalmente uscito dalla condizione di assistente – perché per adesso lavoravo come tale presso un piccolo studio fotografico, gestito da una specie di arpia decrepita, che ha provato più e più volte ad accalappiarmi, essendo il mio fascino irresistibile per chiunque – e avrò conquistato una posizione degna di questo nome, potremmo pensare a qualcosa di più ampio. Una casa grande abbastanza per noi due, Presidente, e i nostri futuri bambini.”
“Sembra tutto perfetto. Anche la vecchia che ci prova con te.”
Magnus rise e baciò Alec sulle labbra. “Lei è una tappa fondamentale nella nostra relazione. Ogni sera, infatti, io tornerò a casa, trovandoti alla macchina da scrivere – perché ogni tanto ti piace essere vintage e non usi il computer – e ti aggiornerò sui comportamenti oltremodo espliciti di un’ultrasessantenne voluttuosa.” 
Alec rise di gusto, i suoi occhi si socchiusero andando a formare la rete di rughe di espressione che compariva ogni volta che rideva in quel modo così spontaneo. “E a quel punto, cosa ti risponderò?”
“In realtà, niente. Mi aiuterai a superare queste attenzioni stressanti con del sano sesso coniugale.”
Alec rise ancora. Non rideva mai così tanto, pensò, se non in compagnia di Magnus. “Sul tavolo, dove è appoggiata la macchina da scrivere?”
“Beh ovvio, sesso coniugale non vuole dire mica sesso noioso. Scopriremo che ci piace farlo su quel tavolo. Soprattutto a te.”
“A me?”
Magnus annuì. “È il tuo territorio e quindi quando stiamo lì ti piace comandare.” 
Alec si coprì il viso con la mano che non stava accarezzando Magnus, sentendo le guance arrossire. “Forse dovresti fare tu lo scrittore, sai?”
“Sarei bravo, dici?”
Alec annuì, scoprendosi il viso. “Molto. Mi piace tutto, anche la parte dei bambini.”
Magnus rimase in silenzio per qualche istante, come se stesse rimuginando sulle sue parole e desse mentalmente ragione ad Alec. Un sorriso aprì il suo viso, al pensiero di quella fantasia, troppo perfetta per essere reale, ma comunque piacevole da immaginare.
“Forse…” cominciò Alec e Magnus cercò i suoi occhi. “Potremmo cominciare da qualcosa di ancora più semplice.” Si mosse sotto Magnus e questi rotolò su un fianco, intuendo che Alec voleva sollevarsi. Una volta messosi a sedere, Alec lo guardò dall’alto. I capelli arruffati di Magnus erano appoggiati al cuscino, i suoi occhi struccati lo guardavano in attesa che gli spiegasse cosa era passato per la sua mente. Alec non sapeva se quello che stava per fare fosse opportuno, ma sapeva che voleva farlo, quindi in qualche modo doveva essere giusto. Afferrò con le dita di entrambe le mani la catenella che aveva al collo e se la sfilò dalla testa. Guardò ciondolare la freccia per un po’, prima di darla a Magnus. Il ragazzo si mise a sedere a sua volta, guardando l’oggetto che si muoveva tra di loro. Sapeva cosa significava per Alec, quella collana. La portava con sé da quando aveva nove anni, era il simbolo della sua prima vittoria, delle sue straordinarie capacità di arciere. Era un dono di sua madre, qualcosa che simboleggiava quanto fosse orgogliosa di lui. E adesso, Alexander se ne stava separando per darla a lui.
“Prendila, Magnus. È un promemoria della tua visione del nostro futuro. Non è un anello, ma è l’unica cosa che ho sempre portato e che mi rappresenta, in qualche modo, e voglio che la tenga tu, adesso. Ci ricorderà la Grecia.”
Magnus aveva gli occhi lucidi. Se non si fosse trattenuto, avrebbe sicuramente pianto – almeno, aveva il timore che l’avrebbe fatto. Nessuno era mai stato così spontaneo con lui, nessuno l’aveva amato mai così intensamente come faceva Alexander. Nessuno aveva mai creduto nella possibilità di un futuro con lui. Se n’erano tutti andati. Tutti, ma non Alexander.
Allungò una mano per afferrare la collana e accarezzò la freccia, prima di indossarla. Sorrise e si sporse verso Alec, afferrandogli il viso tra le mani per baciarlo con devozione. “Ne avrò cura, come avrò cura di te. Sempre.”
Alec arrossì, ma non rispose nulla perché la sua attenzione venne catturata da Magnus che si sfilava l’unico anello che non si era tolto la notte prima. Non l’aveva notato, pensò, e si chiese perché l’avesse tenuto. “Voglio che anche tu abbia qualcosa di mio.”
“Non devi, Magnus.”
“Vorrei, invece.” Gli porse l’oggetto e lo mise sul palmo della sua mano. Alec lo studiò, notando quanto fosse minimale rispetto agli anelli che di solito usava Magnus. Era un semplice cerchio d’argento che portava all’anulare destro. Non aveva pietre, o rilievi, o incisioni. Non era grosso, né appariscente. “È l’unico che non ho mai tolto da quando siamo andati in quella pasticceria. Non ci conoscevamo come ci conosciamo ora, non c’era la confidenza che ci lega adesso, eppure tu hai cominciato a giocarci con una naturalezza disarmante, come se fosse una cosa che facevi da sempre, come se fosse un gesto nostro.” Magnus fece una pausa e accarezzò il viso di Alec. “Ci siamo appartenuti subito, senza che ce ne rendessimo conto, e ho sempre pensato che quel gesto ne fosse la prova. Per questo non l’ho più tolto e per lo stesso motivo voglio che adesso l’abbia tu.”  
Alec chiuse il palmo intorno all’anello, sentendo ancora il calore di Magnus che veniva sprigionato da esso, e gettò le braccia intorno al collo del suo ragazzo, stringendolo forte a sé.
Quando sentì le braccia di Magnus intorno al suo busto, chiuse gli occhi. Questo, batteva qualsiasi possibile fantasia.


“Alec!” La voce di Isabelle lo riportò alla realtà. Alec sbatté la fronte contro la dispensa, dandosi dell’idiota. Avrebbe dovuto prevedere che Isabelle occhio-di-falco Lightwood avrebbe notato l’anello. Quella ragazza era peggio di una gazza ladra: se vedeva qualcosa di anche solo minimamente luccicante, lo notava. La colpa era stata sua che era stato così ingenuo da credere che l’anello sarebbe passato inosservato.
Prese un profondo respiro e si voltò, tenendo entrambe le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni. Pantaloni che maledisse. Era ancora vestito come l’ultimo dell’anno, sebbene fossero passati due giorni, e le tasche erano così strette che Alec rischiò di perdere la circolazione nelle dita.
“Cosa vuoi?”
Isabelle ignorò quell’inutile tentativo di distrarla e andò dritta al punto. “Che cos’è?”
“Cosa?”
“Non prendermi in giro, Alec. Non sono stupida. E nemmeno cieca.”
Alec roteò con veemenza gli occhi al cielo, percependo su di sé lo sguardo carbone di Isabelle, mentre Jace soffocava una risatina.
“Allora perché non me lo dici tu cosa hai visto?”
Izzy incrociò le braccia al petto, la chioma corvina pendeva da un lato, andando a coprire metà della scritta argentata che stava sulla sua aderentissima maglietta nera – een, Alec dedusse che dovesse esserci scritto queen. Gli occhi di Isabelle, neri e scrutatori, lo guardavano intensamente, come se fosse stata in grado di leggergli la mente e vedere il ricordo che Alec aveva legato a quell’oggetto.
“Che è successo a Alec ci parlerà delle sue cose quando vorrà?” Intervenne Jace e Alec gliene fu grato.
“Usi le mie frasi contro di me?”
Jace avvicinò il pollice e l’indice tra di loro e socchiuse un occhio, mentre un angolo della bocca si alzava, andando a formare un mezzo sorriso. “Un pochino. Suppongo sia karma, o una cavolata simile.”
Isabelle si arrese. “Va bene.” Disse comprensiva. “Se non vuoi dirmelo, non me lo dire.”
Alec si sentì un po’ il colpa: lui era quello più riservato dei tre e non parlava mai delle sue cose per una semplice questione caratteriale. Non lo faceva perché non si fidava dei suoi fratelli. Anzi, si fidava, solo che… non gli veniva troppo facile parlare di sé.
Ma sapeva che non era giusto nei loro confronti. Non era giusto escluderli, quando loro non lo escludevano mai.
Alec sospirò, arrendevole. “È un anello, Iz.”
Immediatamente, sia Jace che Isabelle rizzarono le orecchie, come se fossero due segugi da caccia. “L’hai messo al dito sbagliato, però.” Puntualizzò Isabelle, non avendo il minimo dubbio su dove fosse posizionato l’anello in questione. 
Alec tirò fuori le mani dalle tasche e con la mano sinistra cominciò a far girare l’anello all’anulare destro, senza toglierlo. Cominciò a giocarci esattamente come ci giocava quando era al dito di Magnus. “No, è al posto giusto. Ha un significato diverso da quello che potete pensare.” Era una promessa, pensò Alec. “Ma questa è una cosa mia e di Magnus.”
Isabelle aveva una sorriso enorme stampato sul viso. Si avvicinò ad Alec senza dire niente e lo stritolò in un abbraccio spezza costole. Alec pensò che quella spiegazione le bastasse e ricambiò la stretta, baciandole i capelli.
“Io non ti abbraccio!” affermò Jace. “Ma di qualsiasi cosa si tratti, sono felice per te.”

*

Gennaio è il mese più lungo dell’anno. E non perché abbia trentadue giorni o chissà quale anomalia. Semplicemente, non passa mai. I giorni sembra si moltiplichino, le ore rallentano e l’umore scende sempre di un gradino verso il buio più totale. Alec ne sapeva qualcosa. Non sapeva spiegarsi come mai, ma gennaio non gli piaceva. Gli sembrava sempre tetro e privo di quella magia che, invece, caratterizzava dicembre, o gli altri mesi invernali. Alec era persino un tipo molto invernale, ma anche per uno come lui, gennaio aveva qualcosa di cupo. Non gli piaceva e basta. Forse perché significava rientrare a scuola dopo le vacanze di natale, o forse perché significava che sarebbe stato sommerso da verifiche e interrogazioni e l’unica cosa che sarebbe riuscito a fare, tra lo studio di una materia e l’altra, sarebbe stata respirare. Lui e Magnus avevano persino evitato di vedersi, in questo periodo, perché sapevano benissimo che avrebbero finito con il distrarsi – e distrazione significa solo brutti voti e brutti voti significa un sacco di domande da parte dei suoi genitori. E Alec non voleva averli troppo intorno. Soprattutto perché in quel periodo stava anche ragionando su come fare coming-out. Di conseguenza, tra tutte queste cose, Alec poteva affermare che era un periodo abbastanza stressante. I suoi nervi erano costantemente all’erta e pronti a scattare, come se avesse dovuto difendersi da chissà quale predatore spietato. Alternava sessioni di studio e ripetizione a voce alta a scarabocchi su uno dei suoi quaderni – non quello che gli aveva regalato Magnus, perché quello lo usava per scrivere altre cose – su possibili discorsi da poter fare ai suoi genitori. Iniziavano tutti con frasi di circostanza, seguite da «devo dirvi una cosa» e poi basta, morivano lì. Alec non aveva davvero idea di come si facesse a fare coming-out. Non trovava le parole adatte e per uno che voleva fare lo scrittore – e quindi vivere di parole – la cosa era piuttosto grave.
Si trovava a sbattere la fronte sulla scrivania dello studio un giorno si e l’altro pure, avendo paura di non sapere gestire quella situazione. Lo stress, poi, gli faceva immaginare scenari apocalittici e catastrofici dove i suoi genitori davano di matto e lo sbattevano fuori casa.
La cosa che più lo terrorizzava, era che non era un’ipotesi tanto astrusa. Sapeva come la pensavano i suoi genitori, sapeva quanto quell’idea che lui fosse sbagliato fosse radicata in suo padre e temeva la sua reazione. Se lo immaginava guardarlo con disprezzo alternato ad un profondo disgusto, mentre lo fissava come se fosse il più grande disonore che la vita potesse mai riservargli – che il suo amato Dio potesse riservargli. Un tiro mancino, una beffa divina. Alec non voleva mentire a se stesso: essere guardato in quel modo da suo padre, nonostante tutto, l’avrebbe fatto soffrire. Per non parlare poi di sua madre. Alec cominciava a sentire la concretezza di tutta la situazione, a capire le conseguenze della sua decisione. Si sarebbe liberato di un peso, dicendo la verità, solo per acquistarne un altro: gli sguardi colmi di disapprovazione dei suoi genitori. Era pronto per questo?
Scarabocchiò un foglio, pieno di frustrazione, calcando così tanto con la punta della penna che strappò la carta.
Avrebbe voluto che fosse più semplice. Avrebbe voluto che non esistessero categorie in cui doversi necessariamente catalogare. Perché doveva essere così difficile dire che gli piacevano i maschi? Perché doveva esistere il pregiudizio?
Erano tante belle domande, che nascondevano un’ingiustizia di fondo, ma la realtà era che i suoi genitori avevano una determinata mentalità e domandarsi il perché di determinate cose, in questo caso, non portava a niente. L’unica cosa che doveva domandarsi era: cosa ti preoccupa di più? Lo sguardo di disapprovazione nei loro occhi, o continuare a nasconderti?
Alec sapeva che continuare a nascondersi l’avrebbe fatto morire dentro. Non riusciva più a vivere nella menzogna. Ma sapeva benissimo che la scelta che aveva fatto non avrebbe portato a niente di semplice. Paradossalmente, la cosa più facile di tutto questo percorso era che lui aveva deciso di fare coming-out.
Sospirò, con tutti quei pensieri che gli vorticavano in testa. A tutto c’era una soluzione, pensò.
“Alec.” lo chiamò sua madre, emergendo dalle scale. Il ragazzo sussultò, non avendo fatto caso alla donna, e si voltò verso di lei. Sbucava a mezzo busto dal pavimento, rimanendo in equilibrio sulle scale che aveva tirato giù. I suoi capelli erano tirati in una coda di cavallo, alta e precisa, da cui non fuoriusciva nemmeno una ciocca. Il suo viso era privo di trucco e aveva quell’espressione austera e rigida, come se si aspettasse da un momento all’altro di dover gestire un attacco e prepararsi a combattere chissà quale guerra. Non era l’unica, comunque. Lo stesso Alec stava combattendo una guerra interiore. Alec si chiese cosa tormentasse sua madre, cosa la spingesse ad essere costantemente così tesa.
“Non ti ho sentita arrivare.”
“Immagino, sei molto concentrato.” Disse Maryse, facendo vagare lo sguardo in quella stanza. “La cena è pronta. Scendi.”
Suonava molto come un ordine. Alec annuì e chiuse i suoi libri, compreso il quaderno che usava per provare a scrivere il suo discorso, nascondendolo tra un libro e l’altro. Infilò il tutto dentro allo zaino e se lo mise in spalla, sotto lo sguardo di sua madre. Alec incrociò i suoi occhi neri solo quando fu abbastanza vicino alla botola. Maryse non disse niente. Sul suo viso, nemmeno l’accenno di un’espressione che aiutasse il ragazzo a capire quale emozione potesse vivere in sua madre, o quali pensieri potesse avere. Maryse era fatta di acciaio, ricoperta di una corazza indecifrabile di forza e risolutezza. Non dissero niente, nessuno dei due. Alec si limitò a seguirla al piano di sotto, per poi chiudere la botola delle scale una volta messo piede al secondo piano.
Prima di scendere in cucina, Alec passò dalla sua camera e ci lasciò lo zaino dove erano contenute le bozze dei suoi pensieri scritti – pensieri che, un giorno, sarebbero diventate parole da pronunciare a voce alta.

*

Magnus entrò in biblioteca in un pomeriggio di fine gennaio. Il tempo fuori era in contrasto con il suo umore: la pioggia scendeva a fiotti, in un cielo grigio occupato da nuvoloni neri, mentre il ragazzo sentiva in cuor suo una sensazione di leggerezza, accompagnata da uno sfarfallio allo stomaco all’idea che dopo settimane, lui e Alexander avrebbero passato un pomeriggio insieme. A studiare, ma pur sempre insieme. C’era stata un po’ di tregua: il periodo verifiche era passato e potevano concedersi un po’ di tranquillità, tornando alla loro normale routine, fatta di libri da studiare e uscite clandestine per rifugiarsi da qualche parte e pomiciare. Il ragazzo sorrise e prima di entrare in biblioteca, estrasse dalla tasca interiore del suo cappotto grigio uno specchietto portatile, dando un’occhiata al suo trucco. La pioggia non aveva rovinato nulla: il suo eyeliner grigio metallizzato era ancora preciso e la matita che aveva sfumato sotto agli occhi, di un grigio più scuro, tendente al nero, aveva ancora il tratto che gli aveva dato prima di uscire di casa. Si sentiva emozionato come se fossero al loro primo appuntamento. Alexander gli faceva quell’effetto: ogni giorno sembrava nuovo, come se avessero scoperto qualcosa di diverso man mano che continuavano a stare insieme, a conoscersi. Annuì a se stesso, come darsi la conferma che tutto era come doveva essere ed entrò in biblioteca.
Immediatamente, decine di sguardi si posarono su di lui – la maggior parte erano di ammirazione. Alcuni durarono due secondi, altri continuarono a rimanere allacciati alla sua figura mentre si dirigeva al banco dove aveva individuato Alexander, chino su un quaderno a scrivere qualcosa che lo doveva prendere particolarmente. Nessuno di quegli sguardi erano il suo, comunque, quindi non gli interessava granché di essere l’oggetto di interesse di tutte quelle persone.
Alexander non l’aveva ancora notato, ma Magnus aveva notato lui e, davvero, si chiese come fosse possibile che nessuno trovasse un pretesto per cercare di attirare l’attenzione di qualcuno di tanto affascinante. Alec se ne stava seduto al suo banco, con quell’aura misteriosa, e l’espressione concentrata, come se fosse finito in un mondo tutto suo. I suoi capelli corvini risplendevano sotto la luce artificiale della stanza, brillando di riflessi blu, tanto che erano scuri. Il suo viso – Dio, Magnus era sicuro che sarebbe morto per il suo viso, prima o poi – era qualcosa da cui era impossibile non essere attirati. Il mondo in cui si sistemò la penna tra le labbra, poi, lo rese ancora più interessante. Era l’espressione della tenacia, quella. Sicuramente, Alexander si era imbattuto in un concetto particolarmente complicato che metteva a dura prova la sua materia grigia. Ma, anzi che disperarsi e innervosirsi, allontanando da sé il quaderno, magari, stava trovando un modo per risolvere quel grattacapo, qualcosa che la sua intelligenza caparbia sarebbe riuscita a risolvere, prima o poi. Senza pensarci due volte, estrasse la macchina fotografica dalla borsa a tracolla e, mettendolo a fuoco la figura di Alec, gli scattò una foto. E poi un’altra, per essere sicuro. Cambiò velocemente qualche impostazione e ne scattò altre ancora. Soddisfatto delle sue fotografie, si incamminò verso Alec, sedendosi poi di fronte a lui. Magnus si tolse il cappotto e lo sistemò sullo schienale della sedia. Alec non alzò lo sguardo, così Magnus attirò la sua attenzione.
“Come sta la persona più bella del pianeta?”
“Non lo so, Magnus.” Solo allora Alec alzò lo sguardo dal suo libro, andando ad incatenare i suoi occhi a quelli a mandorla dell’altro. “Dimmelo tu: come stai?”
Sul viso di Magnus si stampò un’espressione sorpresa, i suoi occhi si spalancarono, mentre le sue sopracciglia schizzarono verso l’alto. Alec rise sommessamente davanti a quella reazione per non disturbare troppo il silenzio che regnava in biblioteca.
“Perché fai quella faccia?” sussurrò. “Non sei forse la persona più bella del pianeta?”
“Ci stai provando con me, Lightwood?”
“Sta funzionando?” Alec gli rivolse un sorriso storto, alzando solo un angolo della bocca.
“Un pochino.”
Alec sorrise compiaciuto e ammiccò al ragazzo di fronte a lui – gesto che fece sussultare il cuore di Magnus – e abbassò lo sguardo di nuovo sul suo libro. Magnus notò che stava studiando fisica e nel quaderno su cui l’aveva visto scrivere mentre si avvicinava a lui, notò uno schema che avrebbe dovuto aiutarlo a capire meglio il concetto. Magnus aveva sempre pensato che la fisica fosse il male incarnato in una materia scolastica e odiava studiarla.
“Ti dispiace, allora, se mi metto a studiare con te?” Chiese, dunque, in tono giocoso. Magnus vide le fossette comparire sulle guance di Alec, insieme al suo sorriso, prima che alzasse gli occhi di nuovo su di lui.
“Affatto. Ho sempre desiderato un compagno di studi carino come te.”
Sul viso di Magnus si dipinse un’espressione compiaciuta. “Mi farai arrossire.”
Alec sbuffò una risata dal naso. “Sarebbe più plausibile vedere il sole che sorge ad ovest, piuttosto che immaginare te che arrossisci.”
“Hai ragione, di solito non lo faccio mai. Non significa, comunque, che non possano esserci le eccezioni, tartufino.”
Alec sorrise e scosse affettuosamente la testa. “Non stai arrossendo, comunque.”
Magnus appoggiò un gomito al tavolo e usò la mano per sorreggersi il mento, guardando Alec, che a sua volta guardava lui. “Arrossisco solo in una particolare situazione, e tu dovresti saperlo.”
Alec si strozzò con la propria saliva, mentre le sue guance diventavano paonazze. Lui sì che arrossiva, dannazione, e quando lo faceva diventava di un rosso intenso inequivocabile. Lanciò un’occhiata severa a Magnus. “Studia.”
Magnus ridacchiò, trovando Alec con le guance arrossate ancora più bello – e poi gli ricordava un determinato contesto, migliorando ulteriormente quella situazione. “Come vuoi, papi.” Scrollò le spalle con noncuranza, come se il suo accento spagnolo non avesse appena attentato alla sanità mentale di Alec, ed estrasse il libro di letteratura dalla tracolla, aprendolo per continuare ciò che aveva cominciato quella mattina a lezione. Alec lo osservò di sottecchi: la riga decisa del naso, la curva delle labbra; le vene in rilievo sulle mani, visibili anche sugli avambracci – perché Magnus indossava una camicia alla coreana di un lucido verde smeraldo con le maniche tirate su fino ai gomiti. Si passò la lingua sulle labbra, come se volesse inumidirle per via di una secchezza improvvisa, e smise di guardare Magnus per concentrarsi di nuovo sulla fisica. Se avesse continuato a prestare attenzione a tutti i dettagli di Magnus che attiravano la sua attenzione, non avrebbe concluso un bel niente e si sarebbe lasciato distrarre continuamente. Lo guardò di nuovo, promettendosi che sarebbe stata l’ultima volta, e trovò Magnus che stava già guardando lui. Si sorrisero, mentre le guance di Alec si coloravano di rosa, e poi si misero entrambi a studiare.

*

Alec da qualche giorno aveva accantonato la questione «fare apertamente coming-out con i suoi genitori» perché i suoi pensieri erano monopolizzati da altro. Con l’arrivo di febbraio, ogni anno, da quando era alle superiori, il coach Garroway organizzava degli incontri tra i suoi pugili per vedere a che punto fossero. Il coach prendeva molto seriamente questi incontri, vedendoli come una specie di selezione: chi dimostrava di aver fatto progressi dall’inizio dell’anno, poteva rimanere nella sua categoria o addirittura pensare di entrare in quella successiva; al contrario, chi non mostrava alcun tipo di progresso, rischiava di retrocedere alla categoria precedente.
Alec rientrava nella categoria dei pesi medi e non aveva nessuna intenzione di retrocedere a quella dei pesi piuma. Primo perché pensava che ormai avesse superato i pesi piuma da un pezzo, secondo perché retrocedere significava buttare all’aria tutti gli sforzi fatti dall’inizio dell’anno a questa parte. E ad Alec non piaceva sprecare tempo, né energie. Sarebbe rimasto nella sua categoria, o al massimo poteva pensare di entrare in quella successiva, ma retrocedere era fuori questione.
“Alexander?” la voce di Magnus lo distrasse dal filo dei suoi pensieri e Alec smise di giochicchiare con il cibo che aveva nel piatto e alzò lo sguardo su di lui.
“Mh?”
“Sei assente, tesoro. Che c’è?”
Alec alzò solo una spalla, come se volesse minimizzare ciò che gli passava per la mente. “Niente, va tutto bene.” Alzò un angolo della bocca per accennare un sorriso che, però, non era convincente nemmeno la metà di quanto avrebbe voluto. Magnus se ne accorse immediatamente e socchiuse gli occhi, studiandolo. Alec incassò la testa tra le spalle sotto quello sguardo, consapevole che Magnus aveva capito che c’era qualcosa che non andava e che non si beveva la sua risposta.
“Non gliel’hai detto, vero?”
Fu Jace a parlare. Il gruppo, infatti, si trovava in mensa per la pausa pranzo ed erano seduti ad un tavolo tutti insieme, ma nessun altro, a parte Jace, aveva fatto caso alla conversazione che stava avvenendo tra i due ragazzi. Alec era seduto tra Magnus e Jace – il primo alla sua sinistra, l’altro alla sua destra. Magnus fece passare lo sguardo dal biondo al suo ragazzo per qualche istante, prima di parlare. “Dirmi cosa?”
Alec si massaggiò la radice del naso con l’indice e il pollice e poi guardò Magnus. “Ho un incontro di boxe, sabato prossimo. Una specie di mini-torneo dalla mattina alla sera.”
“Oh,” la bocca di Magnus si aprì in una piccola O, “Perché non me l’hai detto?”
“Non lo dico mai a nessuno. Jace e Izzy ogni anno si informano da terzi perché sanno che da me non lo sapranno mai.”
“Confermo.” Disse il biondo. “Quest’anno l’ho dovuto chiedere direttamente al coach Garroway. Non ero sicuro mi avrebbe risposto, visto che mi aveva beccato nel salotto di casa sua con le mani sotto la maglietta di Clary, quando in realtà avremmo dovuto studiare.” Jace si tirò indietro un ciuffo di capelli che gli era caduto sugli occhi. “Ma, una volta appurato che non mi sarebbe saltato alla gola, mi ha detto che gli incontri, quest’anno, sarebbero stati a metà febbraio.”
Magnus assimilò l’informazione e si rivolse di nuovo ad Alec. “Sei nervoso? È per questo che è tutta la mattina che sei strano?”
Alec annuì. “Ogni pugile deve fare tre incontri. Se ne vinci uno, retrocedi; se ne vinci due, rimani nella tua categoria; se ne vinci tre, passi alla categoria successiva.”
“Andrà bene, tesoro.”
“Vorrei esserne sicuro.”
“Alexander.” Magnus fece per prendergli la mano, ma si ritirò immediatamente, ricordandosi dov’erano. Alec provò una fitta al cuore perché in quel momento avrebbe avuto bisogno di un gesto di conforto. Ma la richiesta di non esporsi a scuola non era ancora stata abolita. Magnus sapeva che Alec stava trovando il modo giusto per fare coming-out con i suoi genitori – Alec gliene aveva parlato – ma ciò non toglieva che volesse ancora dargli spazio, facendo le cose con i suoi tempi. Alec lo apprezzava moltissimo, ma iniziava a sentire la mancanza dei loro contatti, quelli che avevano in qualsiasi luogo non fosse quella dannatissima scuola. “Devi fidarti delle tue capacità. Ti alleni da mesi e un duro lavoro porta sempre a buoni risultati.”
“Magnus ha ragione, Alec.” intervenne di nuovo Jace.
“Come sempre!” gongolò Magnus, facendo sorridere Alec. I loro occhi si incatenarono e Jace si sentì un po’ il terzo in comodo, come se stesse invadendo un attiamo di intimità a cui, in realtà, non gli era permesso partecipare e che lui, comunque, non sarebbe riuscito a capire fino in fondo. Distolse lo sguardo, lasciando che nessun altro, a parte Magnus e Alec, fossero testimoni di quel momento.
Alec appoggiò la sua mano su quella di Magnus, stringendola, sentendo un bisogno quasi viscerale di avere un contatto con lui. Magnus osservò le loro mani, una sopra all’altra, e fissò i suoi occhi in quelli di Alec. Non c’era nulla, nelle sue iridi, che facesse pensare ad un ripensamento, un momento di disagio, o ad una stretta passeggera, veloce e impercettibile. Alec l’aveva afferrato con l’intento di lasciare la propria mano sopra alla sua – un gesto inequivocabile, fatto sotto gli occhi di tutti.
Ma ad Alec non importava. Aveva comunque deciso di fare coming-out, quindi non aveva più intenzione di nascondersi. Cominciare con un piccolo passo sembrava un buon inizio. “Non…” cominciò. “Non l’ho mai chiesto a nessuno, ma… puoi venire a vedermi, se ti va.”
Magnus sorrise e girò la mano in modo che il suo palmo fosse rivolto verso l’alto, per far intrecciare le sue dita con quelle di Alec. “Certo che mi va.”
Alec sorrise a sua volta, le guance divennero di un rosa intenso.
“Una chiarificazione.” Aggiunse Magnus e Alec annuì, come per fargli capire che stava ascoltando. “Sarai senza maglietta, vero?”
La risata di Alec esplose spontanea senza che lui potesse far niente per trattenerla. “Sì.”
“Allora rettifico: mi va moltissimo.
Alec gli lanciò un’occhiata divertita e sciogliendo l’intreccio delle loro mani, finì di mangiare.

*

Le palestre avevano un odore forte, un misto di detersivo sgrassante mischiato all’odore impregnato del sudore. Alec ne sapeva qualcosa: aveva cominciato a boxare quando aveva tredici anni, avendo a che fare con le palestre da allora e tutte avevano sempre avuto lo stesso odore. I primi allentamenti consistevano nel salto con la corda e con serie di addominali per rafforzare i muscoli. Gli allenamenti con il sacco e i guantoni erano arrivati l’anno successivo e gli incontri l’anno dopo ancora. Arrivato alle superiori, Alec aveva iniziato a farsi allenare dal coach Garroway, che non aveva fatto altro che spremerlo come un limone da quando l’aveva adocchiato.
Luke Garroway era un allenatore severo, che pretendeva risultati e che aveva un unico motto: se fa male, fa bene – intendendo che ogni sforzo fisico, per quanto disumano potesse sembrare, sarebbe stato ricompensato con un miglioramento. Alec non poteva dargli torto – lui stesso notava i propri cambiamenti da quando veniva allenato da lui e, sebbene a volte fosse un uomo burbero, Alec lo stimava.
Il fatidico giorno era arrivato ed Alec non riusciva a calmare i suoi nervi. Era la prima volta che si agitava così tanto, forse perché era consapevole che quest’anno qualcuno sarebbe venuto a vederlo: Magnus, in primis, ma anche Isabelle, che l’aveva supplicato.
«Ti prego, Alec, sono secoli che non ti vedo combattere!»
«Non ti perdi niente, Izzy.»
«Per favore! Terrò compagnia a Magnus!»

Alec si era arreso e aveva acconsentito alla richiesta di sua sorella. Alla fine, sapeva che Isabelle sarebbe stata calma e silenziosa al suo posto, facendo di tutto per evitare di deconcentralo. La cosa che lo preoccupava di più era la presenza di Magnus. Non voleva fare una brutta figura ai suoi occhi.
Sospirò, mentre saltellava sul posto roteando le spalle. Doveva scaldarsi. Afferrò dal pavimento una corda e cominciò a saltare, andando sempre più veloce, riuscendo a fare due giri di corda con un salto solo. Lanciò un’occhiata all’orologio attaccato al muro della palestra: segnava le nove e sette minuti. Sapeva che tutto sarebbe cominciato da lì a poco, sapeva che era già uscita la graduatoria e che sarebbe stato uno dei due pugili del secondo incontro della prima fase, insieme a Reggie Monroe – un tipo alto quanto lui e con più massa muscolare. Alec si chiese se il coach non l’avesse fatto di proposito a metterlo contro un armadio dell’Ikea vivente e si rispose che sì, sicuramente l’aveva fatto apposta, per testarlo, per verificare se avesse effettivamente fatto dei progressi dall’inizio dell’anno scolastico a questa parte.
Sospirò di nuovo e istintivamente i suoi occhi andarono alla porta, dove sperava di vedere Magnus e Isabelle, ma ancora non c’era traccia di nessuno dei due. Forse ci avevano ripensato, rifletté, mentre cominciava a sentire le gambe che iniziavano a bruciare per via dei salti sempre più veloci. Portò lo sguardo sui suoi piedi che, veloci, toccavano il pavimento giusto il tempo necessario per darsi la spinta ad un nuovo salto. Un rivolo di sudore cominciò a scendergli discreto sulla schiena, andando ad attraversare la linea della colonna vertebrale che passa tra le scapole e arriva fino all’osso sacro. Doveva ancora aggiustarsi le bende alle mani – pensò, mentre contava mentalmente tutte le cose che andavano fatte prima di un incontro. Avrebbe dovuto chiedere aiuto al coach per una delle mani perché da solo non sarebbe riuscito a fasciarle entrambe. Seguendo il filo di quei pensieri, con lo sguardo cercò il coach Garroway nella palestra, ma i suoi occhi trovarono altro: Isabelle e Magnus.
Era come guardare due stelle che assorbono tutta la luce circostante e la fanno propria – o forse, sarebbe stato più appropriato dire che con la luce che sprigionavano irradiavano tutto ciò che li circondava. Izzy camminava con il suo solito ancheggiare sicuro, qualcosa che la faceva assomigliare ad una leonessa fiera ed impenetrabile – un comportamento che aveva sempre portato i ragazzi a guardarla come se non agognassero ad altro che ad un suo sguardo. Aveva i capelli sciolti e la sua chioma corvina ondeggiava ad ogni suo passo; portava un body scuro, con le maniche a tre quarti, che le lasciava scoperta la pelle dei fianchi, infilato dentro ad un paio di pantaloni neri, abbinati a degli stivali di pelle alti fin sopra il ginocchio.
Magnus, invece… Magnus era un'altra storia, proveniente da un pianeta diverso, testimone di una bellezza ancora sconosciuta, ma sconfinata. Qualcosa di ultraterreno, una fiamma accecante e vitale. Era splendente e raro. Alec dovette smettere di saltare la corda perché tutte le sue funzioni cerebrali erano attratte dalla figura di Magnus che seguiva Isabelle per prendere posto negli spalti. Alec avrebbe voluto vedere il suo viso da vicino, andare a ritrovare quei dettagli perfetti che conosceva già a memoria, ma dei quali non si sarebbe mai stancato. Avrebbe voluto vedere di che colore aveva truccato i suoi bellissimi occhi ambrati, quel giorno. Ma non poteva avvicinarsi perché se si fosse lasciato distrarre, il coach gli avrebbe fatto una lavata di capo indimenticabile, così si limitò a guardarlo dal suo posto. Magnus indossava una camicia bordeaux, con dei ricami neri che richiamavano il colore dei pantaloni, attaccati ai quali stavano delle bretelle che ricadevano morbide ai lati delle sue cosce e seguivano ogni suo movimento, ondulando. Alec sentì il cuore accelerare, come se istintivamente, l’organo si stesse incamminando verso Magnus lasciando indietro il corpo di Alec, che invece, doveva rimanere fermo dov’era e ricominciare a saltare la corda. Lo fece perché stare immobile a fissare gli spalti non era una mossa intelligente, soprattutto se ci sono persone che ti guardano – l’unico pugile fermo era lui e, sicuramente, non doveva sembrare particolarmente astuto, ad occhi esterni, mentre stava immobile.
Riprese a scaldarsi, facendo altri venti giri di corda. Sentì i capelli che gli si appiccicavano alla nuca per via del sudore che aveva cominciato a bagnarlo un po’ ovunque, mentre si incamminava verso il coach Garroway – che questa volta trovò senza lasciarsi distrarre da Magnus – che stava parlando con il suo assistente Alaric Rodriguez.
“Coach.” Disse timidamente Alec ed entrambi gli uomini si voltarono verso di lui. “Avrei bisogno di aiuto per sistemare le fasciature alle mani.”
Luke osservò le mani di Alec, notando che erano fasciate appena – la fasciatura di base, quella che copriva i dorsi, i palmi e scendeva, in bende arrotolate, fino ai polsi. “Certo, Lightwood. Va’ vicino al ring con gli altri, Rodriguez e io arriviamo tra poco e vi sistemiamo.”
Alec annuì e fece come gli era stato detto. Prima di avvicinarsi al ring, però, lanciò un’ulteriore occhiata nel punto sugli spalti dove sapeva avrebbe trovato Magnus e Izzy. Stavano parlando: Isabelle stava spiegando qualcosa a Magnus, gesticolando con le mani per fortificare il concetto, e Magnus annuiva. Alec stava per voltarsi, quando Magnus alzò lo sguardo su di lui, come se i suoi occhi fossero riusciti a chiamarlo silenziosamente. Lo vide sorridergli e Alec ricambiò, prima di dirigersi verso il ring.

Alec guardava a braccia conserte i due combattenti sul ring, per quanto i guantoni glielo permettessero. Dopo essersi avvicinato al ring come il coach gli aveva suggerito, aveva pazientemente aspettato il suo turno, mentre Luke e Alaric fasciavano le mani dei primi due pugili, poi passare a fasciare le mani di Alec e quelle di Reggie – e successivamente a tutti gli altri pugili, a seconda della loro posizione in graduatoria.
Adesso Alec teneva gli occhi fissi sull’incontro, pensando a quando sarebbe toccato a lui, stare nel quadrato, a schivare i colpi di Reggie e cercare un modo per attraversare la sua difesa. Alec sapeva perfettamente quali erano le tecniche di combattimento del suo avversario e ne riconosceva la tecnica sopraffina, temendo che questa potesse essere la sua rovina, ciò che l’avrebbe portato a perdere l’incontro. Tra sé e sé insultò mentalmente il coach, pensando che, almeno come primo incontro, avrebbe potuto metterlo con qualcuno al suo pari e non con un pugile che chiaramente, entrava già nella categoria pesi massimi.
Sospirò, avvilito. Certe cose non si potevano cambiare e, arrivato a questo punto, altro non gli rimaneva da fare che accettare la sua sorte e impegnarsi al massimo per non finire al tappeto al primo round.
“Lightwood.”
Alec si voltò al suono di quella voce, che non apparteneva né al coach Garroway, né a Rodriguez. Reggie Monroe si era avvicinato a lui e guardava l’incontro. I suoi capelli biondo cenere erano tenuti fermi da una fascia di spugna che avrebbe assorbito il suo sudore, una volta iniziato l’incontro.
Alec e Reggie non si parlavano mai molto, anzi non si parlavano proprio – al massimo un saluto – quindi Alec si chiese per quale motivo si fosse avvicinato.
“Ho visto quella gnocca di tua sorella, prima.” Gli occhi di Monroe si spostarono dal ring agli spalti, dove Isabelle stava seguendo l’incontro.
Alec provò il fastidio tipico che provava ogni volta che qualcuno nominava Izzy in modo malizioso e irrispettoso. Nonostante Isabelle fosse in grado di badare a se stessa, Alec era sempre molto protettivo nei suoi confronti.
“Con il tipo strambo, che si trucca come una femminuccia.” Continuò Reggie, senza lasciare ad Alec il tempo di rispondergli. “E sai cosa mi è venuto in mente?” Domandò, voltandosi verso Alec, che serrò la mascella, infastidito per come aveva descritto Magnus.
“Suppongo che mi informerai delle tue riflessioni assolutamente non richieste in ogni caso, quindi fingerò di essere interessato. Cosa hai notato, Reggie?”
“Che ti sta sempre appiccicato. Anche prima, ti ha scattato una foto – come un inquietante stalker.”
Alec digrignò i denti e trattenne un ringhio. I suoi occhi saettarono e Monroe sorrise, come se fosse compiaciuto di quella reazione.
“Ma a te piace che ti stia sempre appiccicato, non è vero? Siete sempre insieme, come una coppietta di finocchi.”
Alec sentì una stretta dolorosa al petto, la consapevolezza di tutti i suoi timori materializzati in poche e semplici parole. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto confrontarsi con il pregiudizio e con l’omofobia, la stessa che sapeva essere intrinseca in quella comunità di cui i suoi genitori facevano parte. Non si illudeva certo che avrebbe sempre incontrato persone come i suoi amici, nella sua vita. Era abbastanza realista da essere consapevole che di persone come Reggie Monroe ne era pieno il mondo. La cosa che lo stupì, comunque, fu che quella presa di coscienza gli fece si male – perché comunque era un essere umano i cui sentimenti erano stati feriti – ma non riuscì ad abbatterlo. Alec in quel momento si rese conto di essere cambiato, di non temere più il mondo e di non vederlo più come un nemico giurato che l’avrebbe necessariamente inghiottito. Alec si sentiva forte, adesso, armato a sufficienza per riuscire a combattere alla pari.
C’erano persone che l’avrebbero sempre giudicato, occhi che l’avrebbero guardato con disprezzo e disgusto. Lingue che l’avrebbero sempre insultato. Non poteva farci niente. Lo sapeva. Non poteva far cambiare idea a quelle persone, ma sapeva anche che quelle persone non avevano il diritto di impedirgli di mostrarsi per quello che era, di vivere la sua vita esattamente come lui voleva viverla. Non potevano impedirgli di amare chi voleva.
“Sai, Reggie,” Disse, quindi, facendo schioccare la lingua sul palato. “Per uno che pensa sia una cosa anomala, hai passato molto tempo a studiarci. A questo punto, mi chiedo se non sia tu l’inquietante stalker. Sei sicuro che la tua non sia invidia? Magari vorresti un ragazzo anche tu.”
Monroe tremò di rabbia, le sue guance si arrossarono persino e Alec sorrise compiaciuto, un angolo della bocca alzato in un ghigno irriverente.
“Lightwood! Monroe! Tocca a voi!” sbraitò il coach Garroway, facendo un gesto ai due di entrare dentro al ring.
“Non finisce qui, Lightwood.” Sibilò.
“Non avevo dubbi. Non sia mai che qualcuno metta in dubbio la tua eterosessualità.”
Monroe lo fulminò, ma Alec non si lasciò intimorire e sostenne il suo sguardo. Aveva finito di nascondersi. D’ora in avanti avrebbe sostenuto ogni occhiata storta che gli avrebbero riservato e l’avrebbe affrontata a testa alta, senza provare vergogna alcuna per ciò che era.
“Muovetevi, o morirò nell’attesa di vedervi mettere piede sul ring!”
Con un’ultima occhiata ostile, Reggie si avviò verso il ring e salì verso l’angolo che gli era stato assegnato. Alec fece lo stesso.

Alec sapeva che non sarebbe stato facile. Non lo sarebbe stato normalmente, figuriamoci con un Reggie che covava rabbia e risentimento per quello che si erano detti prima di salire sul ring. Il coach era stato chiaro: incontro pulito, niente colpi fuori dal regolamento – pena, la squalifica immediata. Alec era sicuro che né lui né Monroe avrebbero violato le regole. Ciò non toglieva, comunque, che Monroe sarebbe stato aggressivo come un toro e altrettanto impetuoso. I suoi colpi venivano sferrati con l’intento di fargli più male del dovuto – e Alec si trovò a pensare, mentre un destro di Reggie gli spaccava uno zigomo, che quello era il suo modo di fargliela pagare. Reggie non stava boxando, stava usando quell’incontro per picchiarlo, come se avesse voluto fargli capire che aveva sbagliato ad aprire la bocca.
“Lightwood!” berciò il coach Garroway al suo angolo, “Mia nonna muove le gambe più velocemente di te! E quella donna è artritica!”
Alec sputò il misto di sangue e saliva che gli si era accumulato in bocca, dopo l’ultimo colpo di Reggie e pensò che Luke aveva ragione. La prima regola, secondo il coach, era lasciare fuori dal ring ogni tipo di pensiero. La mente deve essere libera, altrimenti, entrare nel ring equivale a trasformarsi nel sacco da boxe per l’avversario. Un pugile deve essere concentrato solo sull’incontro e sul suo avversario, riuscire a capire le sue mosse, le sue tecniche, e trovare un modo per sfondare la sua difesa e colpire. Solo con la concentrazione si vincono gli incontri e Alec era stufo di farsi prendere a pugni. Ragionò sul pensiero che aveva avuto prima che il coach lo insultasse: Reggie era distratto quanto lui, era accecato dalla sua rabbia e i suoi colpi non erano ragionati. Aveva abbandonato quella tecnica che Alec temeva tanto e adesso si stava facendo guidare dall’istinto. Alec, al contrario, avrebbe fatto affidamento sulla sua disciplina. Prima di tutto: avrebbe cominciato a muovere maggiormente le gambe. Si spostò di lato non appena Reggie sferrò un altro diretto e gli colpì il fianco sinistro, quello che non copriva mai perché faceva maggiormente affidamento sul destro. Gli sferrò una serie di colpi ai fianchi, prima che Monroe decidesse di reagire e gli colpisse di nuovo il viso. Alec barcollò all’indietro, ma non si lasciò scoraggiare. Se l’avesse fatto, avrebbe perso. E lui non si era allenato per perdere.
I due pugili erano al centro del ring, che si studiavano, mentre tenevano le mani in posizione di guardia. Alec vide Reggie aprirsi in un sorriso beffardo – il paradenti nero lo faceva assomigliare ad una contorta parodia di se stesso, come se fosse in una di quelle fotografie a cui vengono cancellati i denti con la penna – e avanzare con l’intento di colpirlo con un diretto, ma Alec fu più veloce e si abbassò, approfittando di quell’occasione per sferrare un montante dal basso verso l’alto, che colpì Reggie sul mento e lo fece indietreggiare, fino a cadere a terra.
“Rialzati!” urlò Rodriguez, dall’angolo di Monroe. Lui e il coach si erano divisi i pugili e Alec era felice che gli fosse toccato Garroway. Dopotutto, era lui che aveva passato gli ultimi mesi ad allenarlo.
Reggie si alzò, barcollando, usando le corde del ring come sostegno. Alec gli diede il tempo di voltarsi nuovamente verso di lui e lo osservò mettersi di nuovo in posizione di guardia. Questa volta non avrebbe attaccato per primo: iracondo o meno, Reggie non era così sprovveduto. Toccava a lui fare la prima mossa, Alec lo sapeva. Roteò le spalle e, mantenendo la posizione di guardia, si avvicinò. Muoveva i piedi, perché il coach gli aveva insegnato che restare fermo lo rendeva un bersaglio facilissimo, e intanto cercava un modo per superare la difesa di Monroe.
Alec avanzò e sferrò un diretto, che colpì l’altro al lato della testa, ma diede l’opportunità a Monroe di colpirgli l’addome. Fu un colpo duro, che gli fece attorcigliare le budella e, con ogni probabilità, se Alec non fosse abituato a certi tipi di urti, l’avrebbe fatto vomitare.
“Non sei così fragile, principessa.” Lo derise Monroe, le parole che venivano storpiate per via del paradenti.
“Non lo sono mai stato. I colpi alla testa ti hanno rimbecillito, Reggie?” Alec gli sferrò un colpo sul fianco sinistro – Monroe doveva davvero smetterla di lasciarlo scoperto – e successivamente al fianco destro, cominciando una serie di colpi che vennero interrotti da Monroe che gli afferrò la testa tra i guantoni.
“Ti distruggerò. Sarai talmente messo male che quella specie di fatina che chiami ragazzo non ti riconoscerà.” Gli lasciò la testa perché sapeva che se l’avesse trattenuto ancora un po’ il coach l’avrebbe dichiarata infrazione.
“Provaci.” Lo sfidò Alec, avanzando e colpendogli il naso. Reggie poteva essere più grosso di lui, ma Alec era veloce – molto veloce. La testa di Reggie si piegò all’indietro, ma questa volta non cadde. Il ragazzo rivolse ad Alec uno sguardo di fuoco e si gettò su di lui come se avesse perso ogni tipo di razionalità. Lo costrinse ad uno degli angoli e cominciò a sferrare colpi violenti: all’addome, al viso, ai fianchi. Alec aveva perso il conto di tutti i colpi che stava subendo, cominciando a sentire solo un ammasso di dolore che gli percorreva indistintamente ogni parte del corpo. Sapeva che sarebbe stato coperto di lividi. E sapeva anche che se non avesse reagito, da lì a poco l’incontro sarebbe stato dichiarato terminato, con un knock-out tecnico a favore di Reggie. E Alec non poteva perdere contro un idiota che si permetteva di insultare non solo lui, ma anche Magnus – per non parlare di come aveva appellato Isabelle.
Alec reagì, spingendo via da sé Reggie solo per avvicinarsi di nuovo a lui con l’intento di buttarlo KO. Evitò uno dei suoi pugni, spostandosi verso sinistra e gli sferrò un gancio destro in pieno viso, facendo si che barcollasse verso l’angolo opposto a quello in cui, prima, era stato costretto Alec. Non appena Reggie subì la sua stessa sorte, Alec cominciò a sferrare colpi ai suoi fianchi, una serie che gli parve infinita. Reggie lo spinse esattamente come Alec aveva fatto poco prima con lui, ma Alec, anzi che aspettare che attaccasse, lo colpì di nuovo. Sferrò un diretto che portò Reggie a voltare il viso e lasciarlo senza difesa. Alec approfittò di quel momento per sferrargli un altro montante, colpendolo ancora sul mento. La differenza, questa volta, stava nel fatto che Reggie era più debole, quindi finì nuovamente a terra, ma non si rialzò.
Alec con le orecchie che gli fischiavano per tutti i colpi che aveva subito dall’avversario, sentì la voce del coach Garroway in lontananza che cominciava a contare.
“Uno…”
“Alzati, Monroe!” sbraitò Rodriguez.
“Tre, quattro, cinque…”
Alec cominciava a sentire tutta la spossatezza pervadergli le membra, il dolore dei colpi subiti cominciava ad acuirsi, dandogli l’impressione che sarebbe caduto in mille pezzi, se solo si fosse rilassato un attimo.
“Nove, dieci!”
Alec sentì il suono di una campanella che rintoccava tre volte, un suono secco che gli si conficcò nel cervello come una serie di spilli. Poi percepì la mano del coach che afferrava il suo polso coperto dal guantone e gli sollevava il braccio, dichiarandolo vincitore.
“Sapevo ce l’avresti fatta.” Disse piano Luke e Alec si voltò verso di lui. Sicuramente, gli si stava gonfiando un occhio, perché non riusciva a vedere il coach pienamente.
“Per questo mi ha messo contro uno destinato ai pesi massimi?”
“Non potevo darti tutti incontri che avresti vinto a mani basse, ti pare?”
Alec non rispose e si limitò a scrollare le spalle, non sapendo esattamente cosa dire.
“Se vuoi passare di categoria, devi sudartela, Alec.”
“Lo so. Se può consolarla, non è stato facile per niente.”
Luke rise sommessamente. “Va’ in infermeria. Quell’occhio va fatto sgonfiare prima del secondo incontro.”
“Sì, coach.” Alec uscì dal ring, passando sotto le corde. Il movimento gli provocò un dolore acuto al costato, ma poteva sopportarlo. Era un piccolo prezzo che era disposto a pagare per aver vinto quell’incontro – che, per come la vedeva lui, aveva un doppio significato: una possibilità di avanzare di categoria e un grosso, enorme, dito medio piazzato davanti a quella faccia da schiaffi di Monroe, che poteva infilarsi i suoi pregiudizi in un posto dove non batteva il sole.
Sorrise, soddisfatto per quella vittoria e, prima di lasciare la palestra per andare in infermeria, sentì la voce di Isabelle che gridava a pieni polmoni il suo nome.
Non era propriamente un comportamento che Alec avrebbe definito discreto, ma andava bene così.

*

Era sera inoltrata, quando tutto finì. Alec era stanco, oltre che spossato. Sentiva dolore ovunque perché i suoi incontri erano stati tutto tranne che facili. Aveva perso il conto dei colpi che aveva subito, ma era felice perché era riuscito a vincere tutti e tre gli incontri. Ovviamente, era stata un’impresa non facile, ma era soddisfatto di se stesso. I suoi allenamenti avevano dato buoni risultati.
“Il primo incontro è stato una sofferenza.” Disse Magnus, mentre gli tamponava uno zigomo che ancora sanguinava, a causa dell’ultimo incontro, con un batuffolo di cotone imbevuto d’alcol.
Si trovavano in infermeria ed erano rimasti gli ultimi due presenti in palestra. Gli altri pugili avevano finito da un pezzo ed erano già stati curati. L’infermiera della scuola aveva finito le bende, quindi si era allontanata per andarle a prendere in magazzino, lasciando Alec e Magnus da soli.
Alec si trovava seduto sul lettino, mentre Magnus stava tra le sue gambe e curava quello che poteva curare.
“Dillo a me, Reggie l’energumeno mi voleva tumefare la faccia.” Si lasciò andare ad un verso soffocato, quando l’alcol gli fece pizzicare la ferita.
“Scusa.” Si affrettò a dire Magnus, mentre guardava il viso di Alec. Il taglio sullo zigomo era solo una delle cose che modificava i lineamenti di Alec: aveva un livido blu sotto all’occhio destro, mentre il sinistro si stava gonfiando; un taglio verticale segnava il suo labbro inferiore. Il suo corpo era una mappa indistinta di colori: viola e blu erano i principali perché i lividi erano freschi. Ogni suo movimento era meccanico, come se le sue ossa fossero mal lubrificate e non gli consentissero di muoversi nel modo giusto. Vederlo ridotto in quello stato, per Magnus, era una sofferenza. “Sono orgoglioso di te.” – perché nonostante tutto, il suo cuore traboccava di orgoglio: il suo Alexander aveva vinto, dando prova a se stesso e a chiunque altro delle sue capacità.
Alec accennò un sorriso, che gli tirò il labbro ferito, costringendolo a tornare serio. “Lo sei?”
“Tantissimo.” Gli afferrò il viso tra le mani con delicatezza e Alec chiuse gli occhi, come se quelle carezze fossero la migliore cura alle sue ferite.
“Passerò di categoria. Il coach ha detto che appena mi riprendo, cambieremo allenamento.”
Magnus gli sorrise, radioso. “Te lo meriti, amore. Sei stato bravissimo.”
Alec allungò una mano per afferrare Magnus alla vita e tirarlo a sé. “Averti qui è stato importante per me. Avevo paura di fare una brutta figura ai tuoi occhi, ma in realtà sapere che c’eri mi dava forza.”
Magnus gli sfiorò le labbra con le proprie, facendo attenzione a non fargli male. “Non farai mai una brutta figura ai miei occhi. Mettitelo bene in testa.”
Alec rise sommessamente, per quanto le sue ferite glielo permettessero, e baciò Magnus. “Sei la mia Adriana.”
Magnus gli rivolse una smorfia carica di disapprovazione. “Ancora con questa storia? Posso accettarlo da Sigourney, perché è evidente che abbia delle turbe, ma da te no!”
Alec liberò una risata spontanea e strinse Magnus ancora di più a sé, i loro visi erano vicinissimi, tanto che i loro nasi si sfioravano. “Hai ragione. Se fossi un’Adriana non mi piaceresti come mi piaci.”
Magnus allacciò le sue braccia alla nuca di Alec, giocando con i suoi capelli. “Ah sì, e perché?” domandò, giocoso.
“Prima di tutto: ti mancherebbe qualcosa laggiù, in basso.”
Magnus si finse offeso. “Vuoi dire che stai con me solo per il sesso?”
Alec ridacchiò ancora. “Beh, certo. Solo per quello. Per quale altro motivo dovrei stare con te, scusa?”
“Sei spietato.”
Alec gli baciò la punta del naso e poi scese a cercare le sue labbra. “Suppongo di sì.”
Magnus rise e si strinse di più ad Alec. “Sai, se non fossi dolorante, avrei già iniziato la mia vendetta a base di solletico.”
“Chi è quello spietato, adesso?” Alec assottigliò lo sguardo, facendo sorridere Magnus ancora di più.
“Rimani ancora tu. Non cercare di lavarti la coscienza.” Magnus gli baciò la fronte. Un silenzio confortevole li avvolse, lasciando che il loro gioco aleggiasse nell’aria. Alec teneva ancora le braccia allacciate alla vita di Magnus, mentre quest’ultimo le teneva ancora alla sua nuca. Dopo una giornata intera passata in una palestra piena di confusione, con voci e grida e fischi di ogni genere, a combattere una serie di incontri che avevano minato alla sua fisicità, Alec pensò che quello era ciò di cui aveva bisogno. Stare abbracciato a Magnus, percepire il suo calore, il suo profumo, era qualcosa che lo calmava, come un balsamo che lavava via tutte le ferite e sciacquava ogni tipo di pensiero.
“Ti amo.” Gli sussurrò a bassa voce, in modo che solo lui potesse sentire.
Magnus lo guardò negli occhi. “Quindi non lo fai solo per il sesso?”
“No.” Alec rise e poi si sporse in avanti per baciarlo. Un incontro di labbra che si trasformò in un bacio vero. Ad Alec non importava se il suo labbro ferito gli desse delle piccole, dolorose scosse elettriche, voleva baciare Magnus perché non lo faceva da tutto il giorno e i suoi baci gli mancavano. Aprì la bocca, lasciando che la lingua di Magnus incontrasse la sua e diedero via ad un bacio dolce, gentile e delicato. Alec ebbe l’impressione che Magnus lo facesse per non fargli male – e andava bene così, ad Alec piaceva quando si baciavano in quel modo calmo e andavano avanti per minuti interi, fino a che non sentivano la necessità di respirare di nuovo.
Alec aprì gli occhi, incontrando quelli ambrati di Magnus. Ci lesse dentro il suo stesso sguardo, carico di amore e adorazione.
“Ti amo anche io, zuccherino.”
Alec sorrise e si sporse per lasciargli un bacio a stampo, che Magnus ricambiò. Fu un contatto fugace e delicato, ma che fece accelerare ulteriormente il cuore di Alec. A volte trovava a chiedersi se tutto quello che stesse vivendo non fosse un sogno. Aveva incontrato Magnus in un periodo della sua vita in cui trovava a chiedersi – più del solito – se davvero il suo destino era la solitudine e il fato, come se avesse voluto rispondergli, gli aveva mandato Magnus, che con la sua aura glitterata aveva illuminato la vita di Alec.
Era felice come mai lo era stato, pensò Alec, mentre la sua mano stringeva quella di Magnus e ne accarezzava il dorso. I loro occhi che si incatenarono per l’ennesima volta, come se altro non avessero voluto che cercare il riflesso della loro reciproca appartenenza gli uni negli altri.

“Alec?”

La bolla nella quale era finito il ragazzo esplose non appena riconobbe quella voce. Si voltò verso la porta dell’infermeria, incredulo.
“Papà?”
 




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Ciao a tutti e ben ritrovati! Come al solito, mi scuso per il ritardo e per eventuali errori, ma ho dato una riletta veloce proprio adesso, che avevo un po’ di tempo!
Come prima cosa: vorrei scusarmi con chiunque capisca un po’ di boxe perché le cose che ho scritto le ho prese da Wikipedia, in quanto la mia conoscenza del pugilato è pari a zero. Al di là di qualche film, non ho mai guardato incontri veri, quindi scusatemi, davvero!
Siamo quasi arrivati alla fine – e questa volta, ne ho la certezza: il prossimo capitolo sarà l’ultimo e verranno spiegate le cose che ancora mancano, tipo ciò che è successo a Max, e ovviamente il coming-out di Alec.
Come sempre, vi ringrazio immensamente per leggere la storia, recensirla, metterla tra i preferiti/seguiti. Lo apprezzo davvero tanto e, contro ogni mia aspettativa, crescete sempre di più, quindi ringrazio ognuno di voi!
Se vi va di farmi sapere cosa pensate di questo capitolo, a me fa piacere!
Vi saluto e vi mando un abbraccio, alla prossima! <3

 

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Capitolo 19
*** 19. ***


Alec non credeva ai suoi occhi. Robert Lightwood, in uno dei suoi completi gessati da ufficio, stava guardando il figlio – ancora abbracciato a Magnus – rimanendo immobile sulla soglia dell’infermeria. Alec stentava a crederci per un motivo: suo padre non aveva mai assistito ad un suo incontro, troppo impegnato con il lavoro. Isabelle e Jace erano quelli che ogni anno andavano a fare il tifo per lui, prendendo posto sugli spalti. Quell’anno era stato diverso, perché al posto di Jace era andato Magnus, ma Alec non si aspettava di certo un cambiamento così radicale che avrebbe portato suo padre a materializzarsi in quella palestra. In un momento del tutto inopportuno, tra l’altro.
Robert continuava a fissare Alec, le sue braccia avvolte intorno alla vita di Magnus. Alec non le spostò, non subito, almeno. Prima rivolse uno sguardo a Magnus, che gli fece un cenno del capo, come a consigliargli, silenziosamente, che forse era più opportuno staccarsi e vedere come avrebbe reagito suo padre. Alec annuì impercettibilmente e, scendendo dal lettino, sciolse l’abbraccio. Magnus fece lo stesso e rimase in silenzio, ma non lasciò mai il suo fianco.
Alec si infilò la felpa che stava sopra al lettino, coprendo il suo corpo pieno di ematomi, e spezzò il silenzio. “Che ci fai qui?” La voce gli tremò un poco per una quantità di emozioni contrastanti che non seppe identificare subito. C’erano timore e stupore, una punta di ansia e qualcos’altro. Della vergogna, comunque, nessuna traccia e Alec lo reputò un ottimo segno.
Robert sbatté le palpebre qualche istante, prima di recuperare piena facoltà di sé. “Volevo farti una sorpresa, ma a quanto pare l’hai fatta tu a me.” I suoi occhi percorsero la figura di Magnus come se fosse uno scarafaggio fastidioso e Alec provò l’istinto di mettersi davanti a lui, facendogli da scudo, per impedire a suo padre di continuare a guardarlo in quel modo che Magnus non meritava.
“Sapevo c’era qualcosa che non andava.” Robert si passò una mano sul viso coperto di un leggero strato di barba brizzolata. “Isabelle quando mi ha visto ha iniziato ad agitarsi e ha provato a convincermi a non entrare, ad aspettarti fuori con lei.” L’uomo serrò la mascella. “Ora ne capisco il motivo, non voleva che ti vedessi fare… cosa stai facendo, esattamente, con questa specie di… clown?”
Alec sentì la rabbia bollirgli dentro, dalle profondità più recondite dello stomaco. “Non parlargli in quel modo. Non ne hai il diritto.”
Robert alzò la voce e una mano scattò a sferzare l’aria. “Ne ho tutto il diritto, invece, sei mio figlio e questo pagliaccio ti sta traviando!”
Alec sentì la presa di Magnus sul proprio polso, ma non la seppe interpretare. Era troppo accecato dalla rabbia nei confronti di suo padre per concedersi un attimo di razionalità e analizzare ciò che Magnus gli stava silenziosamente dicendo. “Non mi sta traviando, io sono così, papà. So che non puoi capirlo, perché il tuo cervello con ogni probabilità non riesce a concepire qualcosa che esca dalle tue convinzioni, ma è così. Sono gay. E amo Magnus.”
Il volto di Robert si accaldò, mentre il suo corpo venne percorso da uno spasmo nervoso. “Lo ami? È un maschio, Alec!”
“Sta alla base dell’essere gay: mi piacciono i maschi.”
Magnus gli strinse di nuovo il polso e questa volta Alec capì cosa voleva dirgli: non era il momento opportuno per fare del sarcasmo, ma ormai il latte era stato versato ed era inutile piangerci sopra.
Robert serrò la mascella, i suoi occhi neri si infuocarono di una luce scura. “Andiamo a casa. Ne parleremo senza che tu sia sotto l’influenza di un estraneo.”
Alec non riuscì a trattenere un verso di scherno. “In questa stanza, non è certo lui l’estraneo per me. E, ancora, non sono sotto la sua influenza. Io voglio stare con lui.”
“Smettila!!” gridò Robert, perdendo le staffe. Il suo ordine echeggiò tra le mura dell’infermeria e ridusse al silenzio Alec. “Andiamo a casa. Adesso.” Si avvicinò e prese il figlio per un braccio, strattonandolo. Magnus non gli lasciò il polso. L’idea che non avrebbe potuto seguirlo, lasciandolo ad un destino di cui non sarebbe stato a conoscenza non gli piaceva. Viste le premesse, non si aspettava niente di buono da quella discussione e l’ultima cosa che voleva era lasciare che Alexander affrontasse tutta questa cosa da solo.
“Va tutto bene.” Gli sussurrò Alec, prima di liberarsi dalla presa del padre. Magnus vide un lampo di sofferenza attraversargli il viso e capì che era dovuto al fatto che tutto il suo corpo era dolorante per i colpi subiti durante gli incontri. Quella prospettiva lo rese ancora più riluttante a lasciarlo andare. “Permettimi di venire con te.”
Alec gli accarezzò il viso e rivolse a Magnus un sorriso soffice. Era consapevole che si sarebbe gettato nel fuoco pur di non lasciare il suo fianco, ma questa volta non potevano gestire la cosa insieme. Era la tappa finale, il momento della verità e Alec doveva riuscire a saltare quell’ostacolo in solitaria. “So che vorresti farlo, e lo apprezzo, ma è una cosa che devo fare da solo.”
“No, non devi.”
“Ti chiamo io, va bene?”
“No.” Magnus gli afferrò le mani, aggrappandosi ad esse con tutta la sua forza. “Non voglio che mi chiami. Voglio sapere che stai bene.”
Ma Robert Lightwood aveva assistito anche a troppe smancerie per i suoi gusti e, infastidito da quelle innaturali effusioni, afferrò il figlio per i polsi e lo allontanò da Magnus. Alec seguì il padre controvoglia e, prima di sparire fuori dalla soglia dell’infermeria, gli sorrise dolcemente, con l’intento di rassicurarlo.
Ma Magnus non era tranquillo nemmeno un po’. Continuava a sentire un peso sul petto e quella sensazione di impotenza che gli pervadeva ogni centimetro del corpo. Solo quando rimase solo in quella stanza asettica, si rese conto che il peso sul petto era paura.
Aveva paura che succedesse qualcosa ad Alexander e lui non fosse lì per aiutarlo. Con quel pensiero che gli tormentava la mente, uscì da quella stanza e dalla scuola.

*

“Spiegami!” ordinò Robert Lightwood, una volta messo piede nella propria dimora. Il viaggio in macchina dalla scuola a casa si era svolto in un silenzio pesante e carico di tensione. Isabelle si era seduta davanti per evitare che suo padre e suo fratello si trovassero troppo vicini e dessero il via ad una lite di proporzioni bibliche. Era spaventata e preoccupata. Aveva passato tutto il viaggio a lanciare occhiate ad Alec dallo specchietto retrovisore e ogni volta, lui le aveva fatto un cenno del capo per rassicurarla, come per dirle che andava tutto bene – anche quando, sapevano entrambi, non era esattamente vero. Sapevano benissimo che il peggio doveva ancora venire.
Alec dava le spalle alla porta di ingresso, mentre suo padre aveva fissato gli occhi antracite nei suoi. Il suo ordine secco e per nulla trattenuto aveva attirato l’attenzione del resto della famiglia, che era accorsa e si era immobilizzata nel momento in cui avevano visto padre e figlio uno di fronte all’altro, mentre Isabelle stava al fianco del fratello.
“Cosa succede?” domandò Maryse, facendo passare gli occhi dal marito al suo primogenito. Nessuno le rispose per qualche istante. Alec notò Jace al fianco della madre che lo fissava come se avesse voluto silenziosamente chiedergli quello che entrambi sapevano già e annuì impercettibilmente. Il biondo chiuse gli occhi per un secondo, come se volesse silenziosamente dirgli che aveva capito e sospirò, preparandosi mentalmente a quello che stava per accadere.
“Chiedilo a tuo figlio.” Sputò Robert a denti stretti, guardando Alec come se fosse la persona peggiore sul pianeta, una ripugnante delusione.  
Maryse, nel suo tailleur grigio scuro, come uno di quei nuvoloni che preannunciano una tempesta, portò la sua attenzione su Alec, in attesa di spiegazioni.
Il ragazzo aveva tutti gli occhi della sua famiglia su di sé. Si sentì improvvisamente piccolo, come se fosse tornato un bambino, e si sentì indifeso come quella volta in cui, a cinque anni, un procione particolarmente incattivito l’aveva inseguito.
Deglutì perché improvvisamente avvertiva la gola arida, mentre rifletteva su ciò che stava vivendo: era arrivato il momento della verità e adesso che stava affrontando la realtà, si rese conto di quanto fosse stato sciocco da parte sua pensare che preparare un discorso scritto gli sarebbe stato d’aiuto. La preparazione mentale a cui si era sottoposto ultimamente fu praticamente inutile perché, realizzò Alec, non c’erano discorsi da fare, solo un dato di fatto da annunciare.
Alec chiuse gli occhi e con un profondo respiro, annunciò: “Sono gay.”
Il silenzio seguì a quell’affermazione. Sapeva cosa ne pensassero Isabelle e Jace e doveva ammettere che averli lì in quel momento gli dava coraggio, ma non sapeva come avrebbe potuto prenderla sua madre – o Max, che stava vicino a lei. Aprì gli occhi per cercare di capire cosa ne pensassero e immediatamente il suo sguardo cercò la donna. Forse perché, nonostante tutto, non sopportava l’idea che anche lei lo guardasse nello stesso modo ostile in cui lo stava guardando suo padre da quando l’aveva visto in infermeria con Magnus.
Maryse non si mosse, sembrava quasi che avesse smesso di respirare. Il suo sguardo era fisso su Alec, ma era indecifrabile, come sempre, e il ragazzo provò una sorta di frustrazione perché in quel momento avrebbe davvero voluto sapere cosa passasse per la mente imperscrutabile di sua madre. Perché non reagiva? Era arrabbiata? Avrebbe cominciato a guardarlo con disprezzo, come stava facendo suo padre?
Non riusciva ad abbandonare gli occhi di Maryse, che continuava a guardarlo come se fosse diventata una statua di sale. Perché rimaneva immobile? Perché non gli parlava? L’aveva delusa al punto da non meritare nemmeno una reazione? Alec sentì le lacrime pungergli gli occhi, in un misto di smarrimento, rabbia e tristezza. Stava per  rivolgersi direttamente alla madre, quando Robert ruppe il silenzio catatonico in cui si era forzato fino a quel momento.
“Smettila di dirlo, basta!” gridò. “BASTA!”
Gli occhi di Alec scattarono nuovamente su di lui. Avrebbe affrontato un genitore alla volta. “Perché? Perché non vuoi sentire la verità, perché non vuoi accettarmi per quello che sono?”
“Perché dovrei accettare un abominio.”
Quelle parole colpirono Alec in pieno petto, come un pugno ficcato a forza attraverso la sua cassa toracica che volesse estirpargli il cuore senza nessuna pietà. Sentì Isabelle alle sue spalle trattenere il respiro, come se tutta l’aria nella stanza fosse stata risucchiata. O almeno per Alec era così. Respirare divenne difficile, come se la brutalità di quelle parole gli schiacciasse lo sterno e lo soffocasse lentamente. Sapeva che non sarebbe stato facile, che avrebbe dovuto avere a che fare con la mentalità ristretta di suo padre, ma di certo non si sarebbe aspettato che arrivasse a dirgli una cosa così orribile. Una lacrima scese sulla sua guancia, ma la asciugò via con decisione, determinato a non farsi vedere in quello stato da qualcuno che non si premurava di tutelare i suoi sentimenti.
“Sono tuo figlio. Come puoi dire una cosa simile?”
“Non sei più mio figlio. Sei un ragazzino confuso che si è intestardito su qualcosa che sa che detesto. Cos’è, una specie di ribellione? Cosa vuoi dimostrarmi, Alec?”
“Niente!” gridò Alec, in preda alla disperazione, il dolore al petto si acuiva sempre di più, come se stesse andando in pezzi dall’interno, una sorta di implosione che l’avrebbe distrutto. Non avrebbe mai immaginato che tutto questo gli avrebbe fatto così male, un dolore vivo, come se tanti spilli bollenti fossero stati conficcati nella sua carne sanguinante. “Non voglio dimostrarti niente! Non è una ribellione, io sono così!”
Robert batté un pugno contro il muro così forte che fece sussultare tutti i presenti. Alec vide Jace avvicinarsi a Max e circondargli le spalle. Il bambino si aggrappò alla vita del fratello. “È innaturale!” gridò l’uomo. “È sbagliato.
Alec trattenne le lacrime che continuavano a pungergli dietro agli occhi, premendo sempre di più dietro quella diga che aveva costruito per non farle fuoriuscire. Non si sarebbe mostrato fragile, non davanti ad un uomo che voleva chiaramente ferirlo. “L’unica cosa sbagliata è il tuo modo di essere padre.” Disse aspramente –  perché se Robert poteva ferire lui, lui poteva ferire Robert. Si avvicinò al padre, lasciando Isabelle dietro di sé. “Rinneghi me perché non sono come vorresti che fossi. Lo fai solo perché pensi alla tua stramaledetta  reputazione. Chissà cosa penseranno i tuoi amici quando sapranno che tuo figlio sta con un ragazzo. È questo che ti disturba, vero? Cosa penseranno. Non ti importa di avermi ferito, di avermi detto cose orribili!” Alec deglutì, i suoi occhi sostennero quelli di Robert che saettavano inquieti. Non si sarebbe tirato indietro mai più. Avrebbe affrontato ogni occhiata spietata, compresa quella di suo padre, per quanto dolorosa potesse essere.
“Chiudi la bocca.” Ordinò l’uomo, ma Alec non ne aveva alcuna intenzione. C’erano cose che non erano state dette, che erano state taciute per troppi anni, convinti che fosse la cosa migliore da fare per cercare di tutelare un uomo che, a quanto pare, non rispettava minimamente i sentimenti altrui – perché tutelare Robert, quando lui non si era fatto nessuno scrupolo a vomitargli addosso parole terribili?
“Non ti importa di aver quasi ucciso Max. Ti importa solo che non si sappia il motivo per cui hai quasi rischiato di uccidere tuo figlio.”
Un guizzo nervoso attraversò le iridi di Robert, mentre contraeva la mascella.
“È colpa tua se abbiamo rischiato di perderlo, ma non ti importava, vero? Non sei mai venuto a trovarlo in ospedale. E indovina chi ha preso il tuo posto? Io. Sei sicuro che il mostro non sia tu? Hai lasciato che fosse un quattordicenne a guardare il suo fratellino di cinque anni camminare tra la vita e la morte, mentre sua madre doveva accollarsi tutto addosso, sforzandosi di non andare in pezzi, perché tu l’hai lasciata sola! E per cosa, mi domando? Perché dovevi stare con un’altra donna! L’adulterio non è peccato? Credi che il tuo Dio ti perdonerà solo perché la tua amante era una femm-?”
Alec non riuscì a terminare la frase perché suo padre lo spinse contro la porta con forza, facendogli sbattere la nuca contro di essa. Una mano a tappargli la bocca, mentre l’altra gli stringeva un braccio.
“Sta’ zitto!” urlò. “Zitto, devi stare zitto!” Strinse maggiormente la mano intorno alla sua bocca e Alec sentì l’interno delle proprie guance collidere con i denti, facendogli percepire il sapore metallico del sangue. Il volto di suo padre era rosso e deformato dalla rabbia. Alec avrebbe potuto pensare che è così che si riducono le persone che non mostrano mai emozioni: quando cedono anche ad una sola di loro, esplodono come delle bombe atomiche – ma era troppo spaventato per pensare razionalmente. Le mani di Robert lo stringevano per fargli male e mai, in vita sua, avrebbe pensato di dover temere suo padre sotto questo punto di vista. Non avrebbe mai immaginato che potesse diventare violento. Cosa avrebbe dovuto aspettarsi adesso? Uno schiaffo? Una mano intorno alla gola?
Alec non lo sapeva. Riuscì a percepire una massa di capelli corvini in movimento e quando il suo cervello realizzò che Isabelle stava per intervenire, si voltò verso di lei per impedirle di fare qualsiasi cosa volesse fare – non voleva rischiare che suo padre, ormai perse le staffe, sfogasse la sua rabbia anche su di lei.
Ma quando Alec si voltò verso la sorella, la vide esattamente dove l’aveva lasciata. I suoi occhi neri erano spalancati per lo spavento, incapaci – forse – di credere fino in fondo che suo padre fosse capace di un gesto del genere.
Non era stata Isabelle a mettersi nel mezzo: era stata Maryse. La donna, infatti, spinse via Robert, liberando Alec dalla sua presa, e rimase davanti al figlio.
“Sei impazzito???” gridò al marito, mentre si voltava per controllare Alec. Il respiro del ragazzo era accelerato e trattenere le lacrime stava diventando sempre più difficile. Alec sentì la mani di sua madre sul viso, un contatto che all’inizio lo fece sussultare, ma che una volta percepita la sua natura gentile, lo aiutò a calmarsi. Alec sentiva ancora i dolori degli ematomi degli incontri, ma la cosa che gli faceva più male era riuscire a percepire ancora l’ombra delle mani di suo padre su di sé.
“Stai bene?” gli domandò sua madre, preoccupata. Le mani di Maryse gli accarezzavano il viso, mentre i suoi occhi lo studiavano in cerca di eventuali danni. Alec annuì perché non era sicuro che la sua voce avrebbe retto. Maryse lo fissò ancora per qualche istante. Alec notò che adesso dalla sua espressione trapelavano preoccupazione e rabbia, ma anche la tenacia che aveva sempre caratterizzato sua madre, qualcosa che l’aveva sempre resa indistruttibile. Abbassò le mani dal viso di Alec solo per voltarsi e fronteggiare il marito, che respirava pesantemente.
“Come hai potuto?”
“Non stava zitto. L’avevo avvertito di chiudere quella dannata bocca!”
“Non provare a giustificarti, Robert! Niente può giustificarti!”
Robert la fissò incredulo. “Prendi le sue parti? Dopo quello che ha detto? Mi ha mancato di rispetto!”
Maryse gli riservò una sguardo di gelido disprezzo. “Dimmi che non ha ragione. Avanti, Robert. Dillo. Di’ che Alec non ha ragione e prenderò le tue parti.”
Robert contrasse la mascella, riservando alla moglie lo stesso sguardo duro che aveva riservato ad Alec. Ma Maryse era una fiera leonessa a cui era appena stato ferito il cucciolo e niente l’avrebbe intimorita, o le avrebbe impedito proteggere la sua prole.
“Sai benissimo che ha ragione.” Disse, duramente, affilando lo sguardo. “Ho rischiato di perdere il mio bambino perché tu dovevi andare da un’altra.” Sibilò, avvicinandosi all’uomo. “Hai lasciato che mio figlio ti sostituisse perché eri troppo codardo per prenderti le tue responsabilità, per guardare in faccia le conseguenze delle tue scelte.” Maryse stava quasi ringhiando, il suo viso era sempre più vicino a quello di Robert, ridotto al silenzio. “Pensi ci sia qualcosa di sbagliato in lui perché ama un ragazzo? Cristo, Robert, sei così ottuso da non renderti conto che un diciassettenne è già un uomo migliore di quanto tu non potrai mai essere. Ha fatto più lui per questa famiglia di quanto tu non farai mai.”
“Attenta, Maryse…”
“O cosa? Attaccherai anche me ad un muro riducendomi al silenzio?” I suoi occhi si inchiodarono a quelli del marito, carichi di sfida. “Provaci.” Sibilò. “Ti farò colare a picco. Immagina i titoli sui giornali locali: famoso notaio denunciato per violenza domestica. Ha spinto la moglie perché voleva difendere il figlio, un minorenne omossessuale che aveva appena fatto coming-out, su cui aveva alzato le mani in precedenza. È questo che vuoi? Non penso proprio. L’unica cosa di cui ti è sempre importato più della tua reputazione è il tuo lavoro. E una cosa simile ti farebbe affondare.” La donna lo guardò come se altro non vedesse che un essere spregevole. “Esci di qui, Robert.”
“Non puoi-”
“Posso, invece!” esclamò Maryse, urlando quasi. “È casa mia questa, ricordi?”
Robert contrasse la mascella. “Non finisce qui.”
“E invece sì, se non vuoi che chiunque venga a sapere di questa storia. Vattene, adesso.”
L’uomo le rivolse un’occhiata carica di astio, ma altro non gli rimase da fare che avviarsi verso la porta. I suoi figli lo guardarono in silenzio, ancora troppo scioccati per pronunciare anche solo una parola. Solo quando la porta di casa sbatté dietro le spalle di Robert, Alec guardò sua madre. La donna aveva gli occhi lucidi, ma gli fece un cenno del capo, che il ragazzo ricambiò. Quella fu l’unica volta in cui Alec riuscì ad interpretare senza alcun dubbio l’espressione di sua madre: indipendentemente tutto, lei ci sarebbe stata. Sempre.

*

“Mamma?”
Alec entrò in cucina, la sua voce ridotta ad un sussurro appena impercettibile. Maryse stava lavando delle verdure per la cena, e sebbene i suoi figli avessero detto che non era necessario, Alec pensava lo volesse fare per dare una parvenza di normalità dopo la litigata. L’aveva seguita subito, evitando gli sguardi dei suoi fratelli. Non si sentiva di parlare con loro, non ancora – prima voleva sapere cosa pensasse sua madre.
Alec sentì Maryse tirare su con il naso, prima di spegnere l’acqua del rubinetto e voltarsi verso di lui.
“Alec.” Gli rivolse un sorriso forzato. Sua madre aveva gli occhi arrossati e lucidi. Aveva pianto, con ogni probabilità, e Alec sentì un peso all’altezza del petto, qualcosa che lo fece sentire colpevole.
“Mi dispiace.” Le disse, quindi, avvicinandosi con cautela. Non sapeva bene cosa aspettarsi, se una sfuriata o uno sguardo severo. Non sapeva se adesso che papà si era allontanato, lei avrebbe espresso il suo disappunto per la sua relazione con Magnus o…
“Per cosa?”
La domanda interruppe il filo dei suoi pensieri. Alec deglutì, il peso sul petto non accennava ad andarsene, mentre le lacrime diventavano sempre più difficili da trattenere. “Per tutto. Non avrei voluto che andasse così, io…”
“Non hai colpa di quello che è successo.” Lo interruppe, avvicinandosi a lui. Maryse allungò una mano verso il viso di Alec e gli accarezzò una guancia. “Tuo padre ha sbagliato. Niente gli da il diritto di metterti le mani addosso. Nemmeno le sue convinzioni più radicate.”
Alec sentì un macigno all’altezza della gola, qualcosa che gli impediva di respirare correttamente. Era quello il momento giusto, si disse – doveva chiederle direttamente cosa ne pensasse, fino a che punto era infastidita da quello che Alec aveva appena confessato. “Tu hai… hai…” Alec si interruppe e chiuse gli occhi, poi si fece coraggio e li riaprì. “Lo so come la pensi, mamma.”
“Credi che sia d’accordo con tuo padre?”
“Non lo sei? Avete sempre espresso il vostro disappunto per le persone come me.”
“Alec, posso aver dato ragione a tuo padre, qualche volta, e forse mi ci vorrà un po’ per abituarmi all’idea che hai un ragazzo, ma…” Maryse sospirò e gli prese il viso tra entrambe le mani. “Penso davvero quello che ho detto. Hai fatto tanto per noi, per me, non cambierò opinione su di te solo perché ami un ragazzo. Sei lo stesso di prima, solo che adesso è tutto più chiaro.”
Alec corrugò la fronte. “Che vuoi dire?”
“Pensi che una madre non le noti certe cose? C’era qualcosa che ti tormentava, io lo sapevo. Non avevo idea di che cosa fosse, ma adesso lo so.”
“Non sapevo come dirvelo. Pensavo, sai, che vi avrei delusi perché non sono come pensavate.”
“Oh, Alec. Nessuno è mai come ci aspettiamo che sia, ma spesso è meglio così. Non sono delusa da te.”
Alec abbassò lo sguardo, percependo ancora le mani di sua madre sul viso. Era parecchio tempo che non avevano un contatto così prolungato. “Nemmeno per quello che ho detto a papà?”
Maryse sospirò e quel suono portò Alec ad alzare gli occhi. Sua madre aveva un’espressione affranta sul viso. “Sei stato duro, molto duro Alec, ma… erano cose che andavano dette, no?” Un velo di lacrime le inondò gli occhi. “Avrei dovuto farlo io a tempo debito e invece… ho lasciato correre. Sono passata sopra al suo tradimento, non l’ho mai rimproverato a dovere per non essere stato vicino a Max. Ho lasciato persino correre sul fatto che fosse lui il colpevole, solo perché volevo che tutto tornasse alla normalità. Sapevo che se avessi dato sfogo a tutto ciò che covavo dentro, al rancore che provavo nei suoi confronti avrei chiesto il divorzio. E voi eravate ancora così piccoli, così scossi da quello che era successo a Max… non-” la voce le tremò, come se stesse trattenendo un pianto doloroso. Alec la capiva perché anche lui aveva una gran voglia di piangere. “Non ho avuto il coraggio di allontanarlo perché non volevo che rimaneste senza vostro padre.”
“Così hai vissuto tutti questi anni con un uomo che ti ricordava cose spiacevoli solo per farci stare meglio.”
Maryse annuì. “Suppongo che adesso non sia più necessario. Ciò che ti ha fatto stasera è l’ultima goccia. E se passassi sopra anche a questa, entrerei in un circolo vizioso senza fine.”
Alec guardò sua madre: l’aveva sempre vista come una donna stoica, composta, ma adesso si rendeva conto di quanto fosse pesante la maschera che indossava. Era stata forgiata dalla sua sofferenza e dai suoi rimorsi, ma guidata da un profondo amore nei confronti dei suoi figli. Adesso capiva perché era sempre così rigida. La sua espressione costantemente ruvida era ciò che la proteggeva dal fronteggiare un uomo che, con ogni probabilità, sopportava a malapena solo per assicurarsi che la sua famiglia rimanesse unita, garantendo ai suoi figli la presenza di una figura paterna. Ecco qual era la guerra che stava combattendo sua madre, unico soldato in un campo minato. Maryse era sola da quando Max aveva avuto l’incidente, e forse anche da più tempo, dal momento che la storia tra Robert e Annamaria andava avanti già da un po’ – e anche in quel caso, Maryse aveva ingoiato l’orgoglio e aveva ignorato la cosa, volendo evitare di alzare polveroni che poi sarebbero ricaduti sui suoi figli.
Alec sentì l’impulso di abbracciare sua madre, di stringerla forte a sé – una cosa inusuale per lui, ma che in quel momento sentiva il bisogno di fare. Maryse impiegò qualche istante per ricambiare l’abbraccio, probabilmente perché Alec non cercava un contatto simile con lei da anni.
Rimasero in silenzio per un po’, Alec meditava sulle parole della madre e Maryse sulla situazione che stavano vivendo. La donna sapeva che avrebbe dovuto spiegare le stesse cose che aveva spiegato ad Alec anche agli altri suoi figli – e sapeva che non sarebbe stato facile, soprattutto per Max. Era il più piccolo e forse per lui capire sarebbe stato difficile. Ma voleva credere che sarebbe riuscita a gestire la cosa.
“Chiederai il divorzio?” ruppe il silenzio Alec.
“Sì. Prima voglio spiegare ai tuoi fratelli la situazione e poi preparerò tutti i documenti.”
Alec pensò al fatto che prima di lavorare con suo padre – e limitarsi a gestire i suoi impegni, in ufficio – Maryse era un avvocato, di quelli in gamba, tra l’altro. Dopo aver scoperto di aspettare Alec, aveva accantonato la sua carriera per riuscire a dedicare più tempo a suo figlio. Con il tempo, poi, erano arrivati Izzy, Jace e Max, quindi Maryse aveva optato per un lavoro che le avrebbe permesso di stare con loro ed era stato proprio Robert a trovare quella soluzione. Chissà, adesso forse sua madre avrebbe potuto esercitare nuovamente la professione.
“Possiamo farlo insieme, se vuoi.”
Maryse gli accarezzò il viso. “Non è una tua responsabilità, Alec. Tu pensa a stare meglio.”
“Io sto meglio, mamma.”
“Sei sicuro? Lui ti ha…” Maryse deglutì, passando gli occhi sul viso del figlio e sul braccio, coperto dalla felpa, dove la presa di Robert era stata ferrea. “Ti avrà sicuramente lasciato il segno.” Digrignò i denti, mentre il suo sguardo si accendeva, pieno della scintilla della protezione materna. “Quel bastardo.”
“Non mi fa male. E, nel caso ci sia il segno, ho altri ematomi, non si noterà.”
“Non è questo il punto, Alec. Non importa se si confonde con gli altri lividi degli incontri, noi sappiamo chi è stato a farti questo. Ed è ingiusto. Inoltre, un figlio non dovrebbe temere il padre sotto questo punto di vista.”
Alec sapeva che sua madre aveva ragione, ma non poteva farle vedere quanto lo avesse scosso la reazione di suo padre, quanto profondamente l’avesse ferito perché avrebbe significato solo accollarle ulteriori preoccupazioni a quelle che aveva già. E Alec non voleva sovraccaricarla ulteriormente.
“L’importante è che non accadrà più, giusto?” Le disse, quindi.
“Mai più. Te lo prometto.”
Alec annuì e le accennò un sorriso. Il labbro ferito gli tirò un poco, ma non gli importò.
“Vai a farti una doccia, va bene? Io parlo con i tuoi fratelli.”
“Devo parlare con Max.”
Maryse gli fece un cenno del capo. “Dopo che ti sarai sistemato. Hai bisogno di una doccia e di un po’ di tranquillità.”
Alec annuì, ma la sua preoccupazione fece uscire di bocca le sue parole prima ancora che decidesse effettivamente di farlo. “Pensi che cambierà idea su di me?”
L’espressione sul viso di Maryse si ammorbidì. “No, Alec. Tuo fratello non cambierebbe idea su di te in nessun caso.”
Alec annuì e dopo aver abbracciato Maryse un’altra volta, si diresse al piano di sopra per farsi una doccia. Forse insieme al sudore degli incontri, avrebbe lavato via anche il disagio che la discussione con suo padre gli aveva provocato.

*

Alec si guardava allo specchio. La sua pelle chiara era attraversata da macchie bluastre e viola, come se fosse stato scambiato per un foglio bianco da un bambino piccolo che avesse cominciato a scarabocchiare su di lui usando pennarelli a caso. Non era la prima volta che veniva ridotto in quello stato, ma era la prima volta che un livido svettava maggiormente sugli altri. E non perché fosse particolarmente grosso. Era ciò che simboleggiava che gli faceva sanguinare il cuore. Le dita di suo padre erano impresse nella sua pelle, righe violacee che segnavano il suo bicipite – un promemoria di quello che gli aveva urlato contro e che sarebbe rimasto impresso nella sua mente per molto, molto tempo.
Dovrei accettare un abominio.
Alec chiuse gli occhi per impedire alle lacrime che si erano formate al loro interno di scendere. Non voleva piangere per qualcuno che non meritava niente da lui, nemmeno le lacrime.
Riaprì gli occhi, vedendo dallo specchio la sclera arrossata. Si voltò verso la doccia e vi entrò, facendosi circondare dal vapore e buttandosi sotto il getto di acqua calda. Si dice che quando si sta per annegare, nel punto più vicino alla morte, il cervello mandi un impulso al corpo, ordinandogli di smettere di combattere e lasciare che l’acqua riempia i polmoni. È una sorta di soppressione naturale: la mente aiuta il corpo a morire e, per farlo, gli manda immagini belle – ricordi, forse, che aiutino a lasciarsi andare verso l’oscurità eterna. E, anche se in quel momento Alec non stava rischiando di annegare, la sua mente gli mandò lo stesso un ricordo, una bella immagine – qualcosa, forse, che l’avrebbe aiutato a stare meglio, una sorta di balsamo lenitivo su tutte le sue ferite interne.
Pensò a Magnus. Alla doccia che avevano fatto insieme a casa sua, al fatto che gli aveva insaponato la schiena nuda e Alec l’avesse lasciato fare. Gli fece ricordare la sensazione delle mani premurose di Magnus su di sé, dei movimenti circolari che aveva fatto fare alla saponetta.
«Devo essere delicato, altrimenti la tua bellissima pelle si arrosserà.»
Alec aveva sorriso, sicuro del fatto che, anche se Magnus non poteva vederlo, sapesse benissimo di avergli provocato quella reazione.
Era stato un momento carico di intimità, qualcosa che Alec custodiva gelosamente nei suoi ricordi. Era stato nudo davanti a Magnus, senza provare il minimo disagio, e l’aveva lasciato fare, persino quando aveva insistito tanto per lavargli i capelli.
«Posso farlo da solo, Magnus.»
«Lo so, amore. Ma vedi, io adoro i tuoi capelli e mi piace moltissimo metterci le mani.»

Alec aveva ceduto e l’aveva lasciato fare. Magnus era stato dolcissimo anche in un gesto in cui la dolcezza non era necessariamente richiesta: avrebbe potuto essere sbrigativo e funzionale, invece aveva passato le sue dita lunghe e smaltate tra i suoi capelli, accarezzandoli, e aveva cominciato a massaggiarli con cura, mentre li insaponava, usando il suo shampoo preferito al sandalo.
Alec aveva provato una felicità enorme, qualcosa che gli era partito da dentro e lo aveva acceso, come se fosse stata la nuova energia che alimentava il suo corpo e la sua stessa vita.
Alec, con l’acqua che gli scorreva addosso, guardò l’anello che portava al dito.
Perché suo padre non voleva capire?
Cosa poteva esserci di sbagliato in quello che provava Alec? Nell’amore che lo legava a Magnus? Come poteva Robert definire innaturale o abominevole qualcosa che agli occhi di Alec era così giusto e appagante? Perché suo padre, semplicemente, non poteva essere felice per lui?
Il ragazzo aveva voglia di urlare, forte, a squarciagola. Avrebbe voluto gridare fino a sentire dolore alle corde vocali, ma sapeva che sarebbe stato tutto inutile. Non avrebbe ottenuto niente e avrebbe solo attirato l’attenzione della sua famiglia, che si sarebbe preoccupata di quella reazione. E lui non voleva farli preoccupare.
Pensò a Magnus, ancora. Pensò al fatto che avrebbe dovuto chiamarlo per assicurargli che stava bene. Lo conosceva abbastanza da sapere che si stava sicuramente tormentando per non averlo seguito. Alec non gliel’avrebbe permesso – non avrebbe mai rischiato che anche lui diventasse oggetto di sfogo di suo padre.
Si prese la testa tra le mani e si accasciò a terra, sedendosi con la schiena appoggiata alla parete piastrellata della doccia. L’acqua gli scorreva sui capelli, scendendo lungo il corpo e seguendone tutto il perimetro.
Lì, sotto l’acqua che leniva il dolore dei lividi e rilassava i suoi muscoli tesi, Alec pianse. Era l’unico modo che gli rimaneva per lasciar fuoriuscire la tristezza, l’amarezza e la rabbia che provava nei confronti di suo padre. Non sarebbe diventato come lui, non avrebbe accumulato emozioni fino ad esplodere, no, le avrebbe assecondate. E se adesso l’unica cosa che gli andava di fare per liberarsi di tutto quel peso che gli opprimeva il petto era piangere, Alec avrebbe pianto fino a farsi bruciare gli occhi.

*

Alec scese solo dopo essersi calmato un poco: i suoi occhi bruciavano ancora, ma almeno non erano più arrossati. Si era vestito, indossando un maglione grigio – di quelli infeltriti, che aveva persino un buco sulla spalla, e gli copriva le mani, tanto che era deformato – e un paio di pantaloni neri della tuta. Camminare cominciava a fare male. Muovere le braccia cominciava a fare male. Tutti i suoi muscoli avevano smesso di stare tesi e la doccia aveva contribuito a rilassarli, con il risultato che tutti gli sforzi a cui erano stati sottoposti quel giorno si fecero sentire. Alec si sentiva come se tutto il suo corpo fosse arrugginito. Sospirò e si passò le mani tra i capelli appena lavati, prima di farsi coraggio e scendere al piano di sotto. I suoi piedi nudi non fecero rumore alcuno sugli scalini, così nessuno lo sentì arrivare quando finalmente entrò in salotto, dove la sua famiglia era riunita.
Non si accorsero di lui, quindi rimase a guardarli per un po’: c’erano Izzy e Jace che stavano uno vicino all’altra, le loro spalle si sfioravano e Alec notò che anche le loro mani lo stavano facendo, come se fossero incerti se tenersi per mano o meno. Ad Alec ricordò quando si comportavano nello stesso modo, da piccoli. Se c’era qualcosa che faceva paura ad entrambi, o li turbava, si cercavano e stavano vicini, come se avessero voluto darsi sostegno a vicenda.
Alec capì che in quel caso erano turbati. Lo seppe nel momento in cui la sua attenzione variò da loro a sua madre che stava parlando con Max, che, invece, piangeva sommessamente.
Ad Alec si fermò il cuore, convinto che la colpa fosse sua. Aveva deciso di dire la verità e una delle conseguenze era stato l’allontanamento del padre. E se Max l’avesse odiato per averlo privato della figura paterna?
Gli tornò il groppo alla gola e fece per avvicinarsi al minore dei suoi fratelli, per cercare di spiegargli, di capire come avrebbe potuto rimediare per farlo smettere di piangere. L’ultima cosa che voleva era che Max soffrisse, ma ancora prima che potesse proferire anche solo una parola, il bambino parlò.
“Perché papà ha fatto quella brutta cosa ad Alec?” I suoi occhi neri, così simili a quelli di Izzy, fissavano sua madre, come se lei avesse potuto dargli le risposte a tutte le domande esistenti al mondo.
Maryse, seduta sul divano con il più piccolo dei suoi figli tra le braccia, usò una mano per accarezzargli il viso. “Perché papà non è molto d’accordo con ciò che ci ha detto Alec questa sera.”
“Ma perché? Lui non vuole più bene ad Alec, adesso?”
Maryse rimase spiazzata da quella domanda, ma cercò di non darlo a vedere. “Non c’entra il bene, in questo caso. Sono sicura che tuo padre gliene voglia, solo che gli risulta difficile capire il fatto che ad Alec piacciono i ragazzi.”
Max guardò sua madre aggrottando le sopracciglia, confuso. “Non c’è molto da capire, giusto? È così e basta. A lui piacciono i ragazzi, come ad Izzy!”
Alec non riuscì a trattenere un sorriso. Era preoccupato del fatto che Max avrebbe potuto cambiare idea su di lui, o incolparlo di qualcosa, ma, ancora, il suo fratellino si dimostrava in gamba. Aveva semplificato tutto, come solo i bambini sanno fare, ad un mero dato di fatto. Aveva assimilato quella nuova informazione e l’aveva accettata, senza farsi nessun tipo di problema.
A lui piacciono i ragazzi, come ad Izzy. Più semplice di così non poteva essere riassunto.
“E a te sta bene?” gli chiese, la sua voce uscì rauca per il tempo che aveva trascorso in silenzio – e forse anche per il pianto solitario che si era fatto al piano di sopra. Si voltarono tutti verso di lui e Max lo guardò con gli occhi grandi. Alec si avvicinò a lui e alla madre, inginocchiandosi una volta raggiunto il divano per essere alla sua altezza. “Ti sta bene, Max?”
Il piccolo gli buttò le braccia al collo. “Sì. Non mi interessa chi ti piace, Alec.”
Alec rise e strinse Max a sé. Una lacrima gli sfuggì e vagò solitaria sulla sua guancia, ma non era come quelle che aveva versato fino a qualche momento prima e che aveva lasciato che si mischiassero con l’acqua della doccia. Le prime erano state di sofferenza, di liberazione – erano state uno sfogo, la materializzazione liquida del dolore che abbandonava il suo cuore. Questa lacrima, invece, aveva tutto un altro significato. Era una lacrima di sollievo, di felicità. Non avrebbe perso il suo fratellino solo perché aveva detto la verità. Max non lo odiava per quello che era e nemmeno avrebbe cambiato idea su di lui.
“Basta che non ti sbaciucchi di continuo come fa Izzy con quel suo ragazzo strampalato. I baci hanno un rumore strano e sono pieni di saliva. Che schifo.”
Alec non riuscì a trattenere una risata, a cui Max rispose con un sorriso.
“Io l’ho sempre detto che Lewis è strano!” disse Jace, avvinandosi e guadagnandosi un pugno sul braccio da parte di Isabelle. Emise un grugnito sommesso di sofferenza.
“Simon non è strano.”
“Lo è, accettalo e basta.”
Izzy lo guardò come se si stesse preparando ad un altro pugno, ma la voce di Maryse riportò tutto all’ordine. “Ragazzi!” I suoi figli, ora tutti vicino al divano dove lei era seduta, la guardarono. “Chetatevi, cortesemente.”
Si sistemarono tutti e quattro vicino a lei, Max e Alec da un lato, Izzy e Jace dall’altro.
“Parleremo del fatto che hai portato un ragazzo a casa un’altra volta, signorina.” Disse rivolta alla figlia.
“Simon mi ha accompagnata soltanto, mamma. Mi ha salutata davanti a casa e qualcuno,” si sporse in avanti per guardare Max. “Mi ha spiata.”
“Spero sia la verità.”
“Lo è.” confermò Max, rabbrividendo. “Erano tutti avvinghiati davanti al portone di casa e si mangiavano la faccia a vicenda.”
“MAX!” gridò Isabelle, sentendosi profondamente tradita, mentre Jace esplodeva in una risata delle sue, con tanto di mano sull’addome e lacrime agli occhi. Nemmeno Alec riuscì a trattenersi, ma la sua risata non uscì sguaiata come quella del fratello.
Maryse si massaggiò la radice del naso con l’indice e il pollice, facendo appello a tutta la sua pazienza. “D’accordo. Adesso però vorrei parlarvi di una cosa.”
Le risate, immediatamente, si zittirono. Maryse era consapevole di avere quattro paia di occhi su di sé e prese un profondo respiro prima di parlare.
“Io e vostro padre abbiamo avuto dei problemi, negli ultimi anni. Problemi che ho sempre messo da parte perché non volevo che voi ne risentiste.” Si schiarì la gola, fece una lunga pausa che utilizzò per passare in rassegna i visi dei figli. “Ma penso che sia arrivato il momento di chiedere il divorzio.”
Le espressioni dei suoi figli mutarono. Nei più grandi vide una silenziosa comprensione, come se avessero già capito che c’era qualcosa che non andava tra i loro genitori, mentre Max parve confuso, ma non disse nulla.
“Non cambierà niente.” Aggiunse Maryse. “Potrete vederlo ogni volta che vorrete.”
Alec si trattene dal dire che per quanto lo riguardava, poteva fare anche a meno di vedere qualcuno che l’aveva definito un abominio.
“Non credo che vorrò farlo dopo quello che ha fatto ad Alec.” Fu Isabelle a parlare. Alec alzò lo sguardo su di lei e i loro occhi si incrociarono. “Deve capire che a certe azioni corrispondono determinate reazioni. Non può ricevere perdono così facilmente.”
“Isabelle…” tentò Maryse, ma la ragazza la interruppe, risoluta.
“No, mamma. Ho bisogno di tempo. E credo anche Alec, ma si staccherebbe le dita a morsi anziché dirlo, perché ha paura di condizionarci e toglierci l’opportunità di stare con papà.”
Alec non riuscì a dire nulla. Era vero tutto quello che usciva dalla bocca di sua sorella. Non era pronto a vedere suo padre ed era certo che suo padre non voleva più vedere lui, ma non aveva dato voce al suo pensiero proprio perché non voleva privare i suoi fratelli dell’opportunità di scegliere diversamente. Sapeva che se avesse detto che non si sentiva pronto, loro si sarebbero schierati dalla sua parte. La lealtà ferrea che c’era tra di loro gli spingeva a prendere le parti dei fratelli sempre. Alec lo sapeva. Maryse stessa lo sapeva.
“Papà non si è comportato bene con Alec.” disse Max. “Deve farsi perdonare. Izzy ha ragione.”
Maryse sospirò e guardò in direzione di Jace. “Non guardare me.” disse il biondo. “Io sto con lui,” indicò Alec. “In ogni situazione, per quanto merdosa possa essere. Se non vuole vedere papà – e ha tutte le ragioni per non volerlo vedere – nemmeno io lo vedrò.”
Alec aveva di nuovo le lacrime agli occhi. Aveva perso il conto delle volte che avrebbe voluto piangere, quella sera. “Non dovete farlo per me.”
“Sì che dobbiamo, invece.” Gli rispose risoluto Jace. “Tu prima di tutto, Alec. Se papà vuole voltarti le spalle, deve essere consapevole che le volterà a tutti noi.”
Una lacrima scappò e Alec non poté fare niente per trattenerla. Era un gesto importante, di una portata enorme, per non dire gigantesca. Stavano scegliendo lui, nonostante tutto. E Alec si promise, in quel momento, che avrebbe fatto di tutto, nella sua vita, per non deluderli, per fare in modo che non si pentissero mai di quella scelta.

*

Alec guardò l’ora sul display del suo telefono: le 21.37. Dopo aver parlato con la sua famiglia, era rimasto con loro per un po’. Max aveva iniziato a fare domande sul suo ragazzo e Maryse aveva cominciato a tendere le orecchie, come se il minore dei suoi figli stesse dando voce anche alla sua curiosità.
«Come si chiama? Quanti anni ha? Come l’hai conosciuto? È alto? Gli piacciono i fumetti? E Star Trek, gli piace Star Trek?»
Alec aveva risposto a tutte le domande, finendo dicendo che lui e Magnus avevano visto Star Trek, una volta, e che era relativamente piaciuto ad entrambi – omettendo il fatto che Magnus avesse passato metà del film ad elogiare i meravigliosi occhi di Chris Pine. Non era sicuro di essere ancora pronto per essere esplicito con la sua famiglia, non quando sua madre ascoltava con così tanto interesse. Voleva lasciarle il tempo di abituarsi lentamente all’idea che avesse un ragazzo, prima.
Dopo una quantità di tempo che non seppe definire, Alec si alzò dal divano e chiese alla madre se poteva uscire. All’inizio, aveva pensato che chiamare Magnus sarebbe stato sufficiente, ma poi la voglia di vederlo e di parlare a voce con lui aveva preso il sopravvento su tutto. La voglia di abbracciarlo aveva preso il sopravvento su tutto.
«Vuoi andare da lui?»
Alec aveva notato che sua madre non aveva pronunciato il nome di Magnus. Non seppe intrepretare il motivo di quella scelta. Forse, dopotutto, nonostante Maryse fosse davvero dalla sua parte e lo sostenesse, aveva bisogno di più tempo di quanto pensasse per abituarsi al ragazzo di suo figlio. Alec pensò che andava bene lo stesso. Sapeva che Maryse si stava sforzando per lui, per stargli vicino. E le avrebbe dato tutto il tempo di cui aveva bisogno.
«Era piuttosto preoccupato quando papà mi ha trascinato via, stasera. Vorrei… rassicurarlo che sto bene.»
Maryse aveva fatto un cenno di assenso con il capo. «Vai, solo cerca di non fare troppo tardi.»
Alec aveva annuito e, senza nemmeno cambiarsi, era uscito di casa – l’idea di mettersi qualcosa di decente, diverso dal maglione infeltrito e bucato che indossava non lo sfiorò nemmeno, neppure quando, recatosi al piano di sopra, aveva recuperato il giubbotto di pelle, un paio di calzini e le scarpe.
Adesso, si trovava davanti alla porta di Magnus, indeciso se suonare o tornarsene a casa e rimandare il tutto al giorno seguente. Non l’aveva nemmeno avvertito del suo arrivo.
Alec guardò di nuovo l’orologio sul cellulare: le 21.40. La sua vita era cambiata in un’ora e quaranta. Suo padre, solo poco più di un’ora e mezzo prima, aveva scoperto della sua omosessualità, gli aveva urlato contro e l’aveva rinnegato. Lo sguardo carico di odio che suo padre gli aveva rivolto gli bruciava ancora la pelle, come se i suoi occhi fossero improvvisamente stati in grado di mandare fiamme.
Le fiamme dell’inferno a cui Alec, secondo il padre, era destinato. Perché lo riteneva un abominio. Lo riteneva sbagliato, meritevole di una punizione divina e destinato alla dannazione eterna.
«Sono tutte una montagna di puttanate, lo sai, sì?»
La voce di Jace gli risuonò nelle orecchie, ripetendo la frase che prima di uscire si era premurato di dirgli. L’aveva preso per un polso proprio sulla porta e fissando le determinate iridi bicromatiche nelle sue gli aveva sussurrato: «Quello che ha detto papà, come ti ha definito, sono tutte una montagna di puttanate, lo sai, sì? Niente di quello che ha detto è vero, sono solo le convinzioni di un uomo bigotto.»
Alec aveva accennato un sorriso e gli aveva stretto una spalla. Non aveva aggiunto niente a voce perché non sapeva cosa dire. Era certo che Jace lo stesse confortando, e lo apprezzava in un modo che le parole non sarebbero mai state in grado di esprimere, ma sebbene suo fratello avesse ragione, non significava che ciò che Robert gli aveva sputato addosso – i nomi con cui l’aveva appellato – facesse meno male.  
Con il telefono in mano – il display segnava le 21.42 – decise che forse era meglio chiamare Magnus, prima. Compose il numero e aspettò che il telefono cominciasse a squillare. Magnus rispose al primo squillo.
“Stai bene?” gli domandò la voce preoccupata del ragazzo.
“Sì.” Era vero, più o meno. Al di là del fatto che sentisse la necessità di riprendersi emotivamente, poteva dire di stare abbastanza bene.
“Ti ha-” Magnus fece un pausa e Alec se lo immaginò mentre deglutiva, cercando le parole che non volevano uscire dalla sua bocca. “Ti ha fatto del male?”
Alec chiuse gli occhi, impalato davanti alla porta di casa del suo ragazzo. Si sentì mancare l’aria. Non voleva mentirgli, ma non voleva nemmeno che Magnus rivivesse le violenze che aveva subito sua madre. Non sapeva cosa rispondergli, ma evidentemente il suo attimo di esitazione, bastò a far capire a Magnus com’erano andate le cose.
“Sei a casa?” la sua voce era un quasi un ringhio basso. “Vengo da te, immediatamente.”
Alec si riprese e aprì gli occhi. La porta di casa di Magnus lo stava ancora fissando. “Sono fuori dalla tua porta.”
Non gli arrivò nessuna risposta dal cellulare. Alec però non fece in tempo a dire una sola parola che la porta di casa si aprì. Magnus stava davanti a lui, con il cellulare in mano e l’espressione tesa in volto. Sembrava che quell’ora e quaranta che avevano passato separati l’avesse fatto crescere tutto d’un colpo. Sembrava più grande di quanto non fosse, con i suoi bei lineamenti tirati come una corda di violino. Non appena lo vide, però, la preoccupazione si sciolse e fece spazio a qualcos’altro – che Alec non seppe subito identificare. Quando Magnus poi fece sparire il cellulare in tasca e lo strinse la tra le braccia, però, capì che era il sollievo. Alec si lasciò cullare da quell’abbraccio tanto bisognoso, quanto dolce e protettivo. Sentì le braccia di Magnus intorno al suo corpo e immediatamente, Alec gli appoggiò il viso nell’incavo del collo, ricambiando l’abbraccio, dopo essersi liberato del cellulare. Era l’unica cosa che aveva voluto fare da quando aveva detto la verità – l’unica cosa che sapeva l’avrebbe fatto stare meglio. Chiuse gli occhi, lasciando che la familiare sensazione di tranquillità gli invadesse il corpo e gli purificasse il cuore. Trasse un profondo respiro, lasciando che il profumo di Magnus gli inondasse le narici. Era in pace, era a casa. Alec aveva tutto quello di cui aveva bisogno quando lui e Magnus erano insieme.
“Ti ha fatto del male?” gli domandò Magnus, dopo un tempo che parve infinito. Erano ancora abbracciati e nessuno dei due aveva intenzione di lasciare l’altro.
Alec si trovò ancora davanti a quel dilemma che l’aveva spinto a tacere solo qualche istante prima. Non voleva infliggere una sofferenza a Magnus, obbligandolo a rivivere spiacevoli ricordi che riguardavano sua madre e ciò che aveva subito dal compagno. “Mia mamma è intervenuta prima che la situazione diventasse troppo grave.”
“Quindi ti ha fatto del male.” Magnus sciolse l’abbraccio e gli afferrò il viso tra le mani in cerca di un qualche segno evidente di violenza. Il volto di Alec presentava i segni degli incontri: il livido sotto l’occhio, il labbro spaccato. Niente, però, suggeriva ferite più recenti.
“Magnus.” Cominciò Alec, prendendogli i polsi e strofinando la pelle con i propri pollici. “Sto bene. Va tutto bene.”
“No. Sarei dovuto venire con te. Se l’avessi fatto, non ti avrebbe messo le mani addosso.”
Alec pensò al livido che spiccava sul suo braccio, coperto dal maglione e pensò a ciò che Magnus gli aveva raccontato di sua madre, del fatto che lui non si era mai accorto di niente. Si sentiva in colpa per non essere stato in grado di proteggerla, nonostante fosse stato solo un bambino all’epoca, e adesso proiettava la stessa sensazione su di lui.
“Magnus.” Alec gli abbassò le mani dal proprio viso solo per appoggiare le proprie su quello dell’altro. “L’avrebbe fatto comunque. Con ogni probabilità le avrebbe alzate anche su di te e non me lo sarei mai perdonato.” Si sporse per dargli un bacio delicato sulla fronte. “E non è stato tanto grave, d’accordo? Mamma è intervenuta in tempo.”
Magnus aveva gli occhi lucidi, ma ricacciò anche il minimo accenno di lacrime indietro. Alec suppose che lo fece per lui, per non farsi vedere fragile in un momento in cui Alec aveva bisogno di lui. La cosa che Magnus non sapeva, forse, era che Alec non l’avrebbe mai visto fragile. Magnus aveva una forza d’animo, che alimentava il suo cuore buono, più potente di quanto potesse immaginare. Aveva vissuto esperienze terribili eppure aveva ancora il coraggio di essere gentile, di amare e lasciarsi amare. Non esisteva nessuno più forte di Magnus.
“Vuoi dirmi com’è andata?” gli domandò Magnus e Alec annuì.

*

Alec e Magnus erano sdraiati sul letto di quest’ultimo, in silenzio. Erano saliti dopo che Magnus gli aveva chiesto se gli andava di parlare e si erano sistemati sul letto. Alec nel suo lato, quello destro, e Magnus nel suo. Non avevano detto una sola parola da quando avevano varcato la soglia di quella stanza. Magnus voleva dare ad Alec tutto il tempo di cui aveva bisogno per parlare. Alec, invece, si era rannicchiato, come se automaticamente il suo corpo si fosse messo in posizione fetale, e aveva cominciato a pensare. Ricordi piacevoli e meno recenti vorticavano insieme a quelli spiacevoli di quella sera: il ricordo della prima notte passata al fianco di Magnus lì, in quello stesso letto, corrotto dalla spiacevole sensazione delle taglienti parole si suo padre. Alec provò un’ondata di rabbia al pensiero che fosse riuscito a rovinargli uno dei suoi ricordi più preziosi, ma poi una seconda ondata gli provocò un singhiozzo incontenibile che fece tremare tutto il suo corpo. Suo padre lo odiava e Alec cominciava a credere di odiarlo a sua volta: per come si era comportato quella sera con lui, ma ancora di più per come si era comportato con Max e sua madre. Cominciò a piangere ancora prima di rendersene conto. Capì di aver iniziato a farlo solo quando Magnus lo tirò a sé e cominciò ad accarezzargli la schiena con movimenti circolari.
“Va tutto bene, amore.” Gli sussurrò con una dolcezza che gli fece sciogliere il cuore. Suo padre non capiva e mai avrebbe capito. Certe cose non si possono spiegare. Era impossibile riuscire a tradurre in parole tutto ciò che Magnus gli dava e che gli faceva provare. L’aveva reso una persona nuova, più serena e tranquilla. Grazie a Magnus, Alec aveva trovato la forza per lasciarsi alle spalle i suoi demoni e riuscire a sbocciare alla luce del sole. Eppure… quella parola si era fissata in un angolo del suo cervello e prendeva sempre più campo, come una metastasi maligna che distrugge tutto ciò che di sano trova. Abominio.
“Dimmi che non sono sbagliato .” Lo supplicò Alec, nascondendo il viso nel petto di Magnus, bagnandogli la maglietta con delle lacrime che non riusciva a placare, nonostante ci provasse. “Dimmi che non sono abominevole.” Si rannicchiò contro di lui, sentendosi improvvisamente piccolo e più fragile di quanto non si fosse mai sentito in vita sua. Odiava sentirsi così e ancora di più odiava farsi vedere in quelle condizioni da Magnus, accollandogli addosso una sofferenza che sapeva non meritava. Ma era come se qualcosa dentro Alec si fosse rotto, una ferita da cui tutto il suo autocontrollo e la sua compostezza stessero fuoriuscendo, prosciugandolo e rendendolo simile ad un ammasso di lacrime, dubbi e insicurezze.
Le mani di Magnus lo afferrarono saldamente, forti e incontrastabili come il vento, per allontanarlo da sé quel tanto necessario affinché i loro occhi potessero incrociarsi. “È questo che ti ha detto?” Le iridi ambrate di Magnus scintillarono di risentimento, infiammando i suoi occhi di un disprezzo puro.
“Sì.” Disse Alec, la voce roca ridotta ad un sussurro. “Ha detto che non poteva accettare il fatto che sono gay perché altrimenti avrebbe dovuto accettare un abominio.”
Magnus contrasse la mascella, stringendo i denti, combattendo con la rabbia che quelle parole gli avevano provocato – come poteva un padre essere stato tanto spietato? – e gli asciugò le lacrime dal viso. “È in torto marcio. Mi hai sentito?” Gli appoggiò le mani sulle guance. “Non sei niente del genere. Sei la persona più buona e gentile che esista, con un cuore grande e generoso. Se non riesce ad accettarti solo perché ami un ragazzo, sono problemi suoi.”
“Lo so, razionalmente lo so, ma… fa male, Magnus. Mi ha guardato in un modo così pieno di disprezzo.” Alec fu scosso da un altro singhiozzo. “Mi odia.” Rimase in silenzio qualche istante, prima di aggiungere in un sussurro rauco: “E credo di odiarlo a mia volta.” Deglutì a fatica e incrociò i suoi occhi con quelli di Magnus. “Sono orribile come lui.”
“No. Non lo sei.” Magnus lo strinse di nuovo a sé, in un abbraccio protettivo e consolatorio. “Lui ha detto delle cose terribili. Tutto quello che provi è normale.”
Alec si rannicchiò di nuovo contro il suo petto. “Ha fatto delle cose terribili.”
E se Magnus in quel momento stava pensando a quello che aveva potuto fare ad Alec, quest’ultimo stava pensando a quello che Robert aveva fatto a Max.

Maryse Lightwood aveva appena finito di controllare che i suoi figli avessero sistemato le loro camere a dovere, prima di andare a scuola. Fu piacevolmente colpita dall’ordine che trovò in quella di Alec e Jace e da quello che successivamente trovò in quella di Isabelle. In genere, sua figlia tendeva a fare una miriade di prove-vestito prima di uscire per andare a scuola, con il risultato che finiva per trovare l’abbinamento adatto solamente cinque minuti prima dell’arrivo dell’autobus e, di conseguenza, lasciava la sua camera tappezzata di vestiti: mucchi di stoffa inanimata accasciati su letto e pavimento. Maryse aveva perso il conto delle volte che era stata costretta a sistemare quel disastro, prima di recarsi al lavoro, appuntandosi mentalmente di fare una ramanzina ad Isabelle. Evidentemente, una lavata di capo dopo l’altra avevano sortito il loro effetto: la camera di Isabelle, in quel momento, era ordinata come potrebbe esserlo una casa delle bambole. Sorrise a quel pensiero: Isabelle era sempre stata una bambina particolare, poco attratta da cose come le case delle bambole. Lei preferiva giocare ai pirati con i suoi fratelli, finendo sempre per trovare un modo per essere il capo delle spedizioni alla ricerca di tesori preziosi – che finivano sempre per essere collane immaginarie dal valore inestimabile (più che smeraldi, rubini e diamanti, Isabelle immaginava perle di caramelle tenute insieme da fili di zucchero filato). Era autoritaria e Maryse non poteva che esserne orgogliosa: in una società maschilista, il fatto che sua figlia avesse una forza d’animo così ferrea poteva suggerire che mai nella sua vita, in nessun campo, avrebbe permesso ad un uomo di dirle che non era all’altezza della situazione. Se avesse mantenuto quella tempra, continuando a crescere così risoluta, Isabelle non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da nessuno. Sorrise di nuovo, passando un dito sulla toeletta di Isabelle. Era di legno bianco, sormontata da uno specchio, e i cassetti erano mezzi vuoti: Isabelle aveva solo dodici anni ed era troppo piccola per cominciare a truccarsi come avrebbe voluto. Tuttavia, avevano trovato un compromesso: una matita per gli occhi e del mascara. Si sarebbe truccata in casa, per imparare ad usare quei due oggetti, ma fuori casa il suo viso sarebbe stato pulito. A Maryse non piaceva l’idea che i loro vicini, o amici, pensassero che potesse uscire con il viso dipinto già così giovane, quando alle sue coetanee, invece, non era permesso. Di certo, non avrebbe tollerato che sua figlia diventasse oggetto di pettegolezzi e commenti pungenti. Gli occhi della donna si alzarono sullo specchio, dove il suo riflesso le ricambiò uno sguardo assorto in pensieri silenziosi. Si diede un’occhiata fugace – non le piaceva guardarsi troppo allo specchio, in quanto era sinonimo di vanità e le era sempre stato insegnato fin da bambina che la vanità non è una qualità piacevole, né tanto meno apprezzabile – e si lisciò delle inesistenti pieghe sul vestito blu scuro, prima di notare la foto che Isabelle aveva incastrato nella cornice dello specchio. La ritraeva insieme ai fratelli: Alec la teneva salda sulla schiena, le mani di lui le tenevano il retro delle ginocchia, mentre quelle di lei erano intorno al suo collo. Jace e Max stavano a terra, stringendo ognuno una gamba di Alec per impedirgli di muoversi. Sorridevano, felici e spensierati. Maryse ricordava di aver scattato quella foto. I suoi figli avevano un legame particolare, molto più stretto rispetto alla maggior parte di tutti i figli dei suoi amici. Si chiese se non fosse perché lei e Robert non fossero chissà quanto espansivi, o morbidi. Il fatto che fossero due persone estremamente razionali aveva fatto sì che l’affetto, i suoi figli, lo cercassero tra di loro. La donna si sentì opprimere il petto, mentre la sensazione di star perdendo qualcosa che non sarebbe più tornato le pervase il cuore e le membra. Il famoso treno che passa una volta sola, lei lo stava perdendo. E per cosa? Perché aveva il sospetto che suo marito avesse un’altra? Aveva deciso di non chiedere niente, per il bene dei suoi figli. Gli stessi, però, che cominciava ad avere la sensazione di perdere perché lei si stava lentamente trasformando in un rigido automa imperscrutabile, perché non doveva far trapelare nessun tipo di reazione, nessun tipo di fastidio provocato dal tarlo del dubbio, che la teneva sveglia la notte. Si chiese se non fosse meglio affrontare l’argomento una volta per tutte: chiedere direttamente a Robert se avesse effettivamente una relazione extraconiugale e porre fine al loro matrimonio. Un pensiero amaro le sfiorò la mente: il loro matrimonio era già finito da un pezzo. Ancora prima che lui iniziasse una storia con un’altra. Si erano sposati da giovani ed erano stati così ingenui da farlo solo dopo pochi mesi, come se una manciata di secondi e minuti, giorni, bastassero effettivamente a conoscere una persona. Ma Robert piaceva ai suoi genitori e a lei era sempre stata insegnata l’obbedienza prima di tutto, di conseguenza aveva accettato di sposare il figlio del migliore amico di suo padre. Che sciocca era stata. Compiacere i suoi genitori e rinunciare ad una vita di felicità, quando invece, avrebbe potuto ribellarsi e far capire loro che aveva il diritto di innamorarsi esattamente come lo avevano le altre persone del pianeta. Ma ormai era troppo tardi. E in più, se non avesse accettato di sposare Robert adesso non avrebbe i suoi figli, quindi andava bene così.
Maryse fece vagare lo sguardo sulla camera di Isabelle ancora qualche istante, prima di dirigersi verso la porta, uscire e chiudersela alle spalle. In casa regnava un silenzio irreale a cui la donna non era più abituata da quattordici anni, ormai. Sebbene Alec fosse stato un bambino tranquillo, adorava fare domande di ogni genere, quindi la sua vocina aveva cominciato a riempire le mura di casa non appena era stato in grado di parlare. Poi era arrivata Isabelle, che non perdeva occasione per dimostrare il suo disappunto scoppiando in pianti inconsolabili. Maryse sorrise al pensiero di Alec che le trotterellava dietro ogni volta che si dirigeva nella stanza dove era situata la culla di Isabelle, curioso di sapere come mai la sorellina piangesse. Con Jace era stato diverso, lui era arrivato che aveva già quattro anni, ma l’alleanza con i suoi fratelli era stata visibile fin da subito. Quel periodo, Maryse lo ricordava pieno di pennarelli, macchinine, puzzle e pezzi di Lego sparpagliati ovunque, di grida di battaglia e di spade improvvisate con i tubi di cartone e di successivi pianti – perché inevitabilmente uno dei tre si faceva male. Maryse ancora rabbrividiva se pensava a quella volta quando, a sei anni, Jace aveva fatto un salto dal divano, finendo per sbattere la testa contro una gamba del tavolo in sala. Con l’arrivo di Max, la situazione si era calmata leggermente. Dopo la sua nascita, Alec, Jace ed Isabelle erano troppo attratti dal nuovo bebè per inventarsi giochi scalmanati. Passavano ore a giocare in camera del bambino, intorno alla culla, passandosi i cubetti di legno colorati che avevano incise delle lettere sopra, facendo a gara a chi riusciva a pronunciare la parola più difficile, usando i cubi per comporla. E ogni volta che Max emetteva un suono, lasciavano da parte i giocattoli per affacciarsi al bordo della culla e osservarlo. Maryse aveva perso il conto delle volte in cui li aveva trovati tutti e tre a fare delle facce strane per fare ridere il piccolo Max.
Sorrise di nuovo a quel pensiero, mentre si prendeva ancora un attimo per gustarsi il silenzio. Chiuse addirittura gli occhi, come se così facendo fosse riuscita ad apprezzarlo meglio. Il suo attimo di tranquillità, tuttavia, durò solo un istante perché il silenzio venne spezzato dallo squillo insistente del suo cellulare.
Maryse non avrebbe mai immaginato che quel suono, oltre che il silenzio irreale in cui si era trovata, avrebbe spezzato anche il suo cuore.

Non appena Maryse mise piede nel luogo dell’incidente, un uomo corpulento le bloccò il passaggio.
“Non può passare, signora.”
La donna gli riservò un’occhiata di gelida furia. “C’è il mio bambino, laggiù.” Sibilò con tanta intensità che l’uomo si fece da parte immediatamente, senza ribattere nulla. Maryse camminò velocemente, il suono dei suoi tacchi che battevano sull’asfalto scandivano il ritmo accelerato del suo cuore angosciato. Robert e Max avevano avuto un incidente d’auto e il suo numero compariva nella lista delle chiamate per le emergenze. Non sapeva com’era andata, non le avevano dato i dettagli – o se glieli avevano dati, lei non li aveva colti in pieno. L’unica cosa che sapeva era che il suo bambino era intrappolato in una macchina accartocciata. Corse più velocemente, non appena riconobbe la sagoma deformata dell’auto. La parte anteriore del veicolo era ripiegata su se stessa, come la macabra parodia di una fisarmonica. Pezzi di vetro erano sparpagliati sull’asfalto intorno alla macchina, luccicando al sole come tanti piccoli specchi. Quando fu abbastanza vicina, i suoi occhi vennero immediatamente catturati dagli uomini in divisa: paramedici. Uno sosteneva una barella, mentre l’altro aveva il busto interamente dentro il rottame che era stata l’auto di suo marito. Robert. Cercò l’uomo con lo sguardo e lo vide, incolume, fuori dall’auto. Si avvicinò a lui e sebbene avesse solo un taglio sulla fronte, la sua angoscia non si placò: l’uomo era solo, quindi Max doveva necessariamente essere ancora dentro alla macchina.
“Cosa è successo?” gli domandò.
Robert la osservò in silenzio. I suoi occhi scuri, normalmente indecifrabili, mostrarono un sentimento simile alla colpevolezza.
“Cosa è successo, Robert??” dalla voce della donna traboccavano ansia e paura.
“Abbiamo…”
“Avuto un incidente.” Lo interruppe sbrigativa. “Questo l’ho notato. Voglio sapere
come e perché i paramedici sono chini sui resti della tua auto!”
Robert deglutì. “Andavamo veloci e ho perso il controllo dell’auto. Max era sul sedile davanti, lui ha… sbattuto la testa contro il cruscotto.”
Il mondo intorno a Maryse vorticò, tanto che credette per un attimo che avrebbe perso l’equilibrio e sarebbe finita sull’asfalto, inerme, proprio come i pezzi di vetro. Ma poi si riprese. I suoi occhi, ridotti a due fessure, fissavano l’uomo. “Hai fatto sedere un bambino di cinque anni sul sedile davanti?”
“Non è colpa mia, ha insistito tanto e…”
“Dovevi dirgli di
no, Robert. E si può sapere perché correvi tanto?” Maryse sospirò angosciata e, senza attendere una risposta, girò i tacchi e si diresse verso i rottami della macchina. Arrivò appena in tempo per vedere il paramedico estrarre dall’auto il corpo inerme del suo bambino. Le piccole braccia e la testina, su cui campeggiava un taglio, da cui fuoriusciva del sangue, ciondolavano nel vuoto, e il suo corpicino sembrava ancora più piccolo in braccio a quell’uomo dalla divisa austera. Max sembrava…
“No.” sussurrò Maryse, le lacrime che cominciarono a scendere sulle guance. “NO!!” gridò in preda alla disperazione, mentre si fiondava sul paramedico.
“Signora!” la bloccò l’altro, quello che aveva sistemato la barella. “Signora!” la chiamò di nuovo, dal momento che lei lo stava ignorando. La sua attenzione era tutta per il figlio. Gli occhi di Max erano chiusi e il suo visino era pallido.
“È morto?” singhiozzò Maryse, non riuscendo più a mantenere nemmeno un briciolo di autocontrollo. Il dolore lancinante che stava provando in quel momento le squarciava il petto a metà, dandole l’impressione che qualcuno le stessa aprendo la cassa toracica con delle enormi pinze per estirparle il cuore con dei grossi artigli.
“No. Il battito è debole, ma suo figlio è vivo. Non possiamo ancora dire con certezza cosa abbia, ma dobbiamo portarlo in ospedale. Subito.” 
Quelle parole bastarono a far tornare Maryse in sé, calmandola e infondendole tutta la forza necessaria per riprendere il controllo. “Allora muoviamoci. Io vengo con voi.” Riservò al medico uno sguardo talmente risoluto che all’uomo altro non rimase da fare che spostarsi di lato e farla salire sull’ambulanza su cui avevano appena caricato Max.

Il bip metallico e costante dei macchinari a cui Max era attaccato erano l’unica cosa che riempiva il silenzio della sua stanza. Max aveva avuto un trauma cranico e una conseguente emorragia cerebrale che aveva richiesto un intervento urgente. Il medico che l’aveva operato non poteva dire con certezza se il piccolo sarebbe sopravvissuto, ma aveva detto a Maryse che se fosse riuscito a passare la notte, forse avrebbero avuto delle speranze. La donna posò lo sguardo sul corpo immobile del figlio: si trovava in una camera asettica in terapia intensiva e il letto era troppo grande per il bambino. Provò una fitta dolorosa al petto, cercando di ricordare quali fossero le ultime parole che si erano scambiati quella mattina – l’ultima volta che l’aveva visto cosciente.
«Passa una buona giornata»? No. No era una frase diversa.
«Fai il bravo a scuola»? Sì. Sì, era quella.
A scuola. Max andava alla materna. Aveva tanto insistito per farsi accompagnare da papà, quella mattina, perché almeno avrebbero passato del tempo insieme, visto che Robert non si faceva vedere molto spesso a casa, ultimamente. Maryse sapeva il perché. Quel pensiero la folgorò, come un fulmine che all’improvviso solca un cielo sereno. Fino a quel momento non l’aveva realizzato, troppo scioccata dagli eventi per notarlo, ma la strada dove era avvenuto l’incidente non era quella per andare alla scuola di Max. Un’ondata di bile salì dallo stomaco di Maryse al pensiero che, se suo figlio rischiava la vita, era perché Robert aveva deciso di correre dall’altra. Se così fosse stato, se la sua ipotesi fosse stata corretta, avrebbe fatto i conti con l’uomo che chiamava marito non appena si fosse presentato in ospedale. L’avrebbe torchiato fino ad estorcergli fino all’ultima goccia di verità.
Il suono della porta che si apriva la costrinse ad abbandonare le sue elucubrazioni mentali e a prestare attenzione a chi stava entrando. Le si strinse il cuore quando vide i visi dei suoi figli. Da soli. Di Robert nemmeno l’ombra.
Nessuno dei tre disse niente, si limitarono a guardare la madre con gli sguardi cupi, carichi di sofferenza e preoccupazione. Poi, fecero una cosa che rischiò di mandare Maryse in pezzi: si sistemarono intorno al letto del fratellino esattamente come si mettevano intorno alla sua culla quando era solo un bebè, vegliando su di lui con la stessa premura, che questa volta era mescolata al dolore e alla paura. Rimasero immobili tutti e quattro per tutta la notte, ad ascoltare silenziosi il ritmo metallico dei macchinari che scandiva il debole battito cardiaco di Max.

Era passata una settimana dall’incidente e Max non si era ancora svegliato. Le sue condizioni erano stabili, ma il trauma cranico l’aveva fatto finire in uno stato comatoso. Maryse non aveva lasciato la sua stanza per nessun motivo. Non tornava a casa da quando avevano portato in terapia intensiva il piccolo. Non dormiva come avrebbe dovuto, al massimo due ore al giorno, seduta in quella poltrona che il personale ospedaliero aveva sistemato accanto al letto del bambino. Il suo viso si era trasformato in una maschera scavata e consumata dall’angoscia. Ogni giorno che passava senza che Max peggiorasse era una piccola vittoria, ma quella consapevolezza non le bastava di certo a tranquillizzarsi. Avrebbe cominciato a tornare tranquilla solo quando Max avrebbe di nuovo aperto gli occhi.
Il rumore della porta che si aprì la fece voltare verso l’ingresso. Forse Robert si era deciso a fare visita al figlio – il figlio che per colpa sua si trovava in un letto d’ospedale – ma non fu suo marito ad entrare da quella porta, bensì Alec.
“Cosa ci fai qui??” domandò la donna, la voce le uscì rauca per il tempo passato in silenzio. Era mattina e Alec a quell’ora doveva essere a scuola. Era il suo ultimo anno alle medie.
“Ti do il cambio.”
“Non se ne parla. Devi andare a scuola. Ti firmerò il permesso per entrare un’ora dop-”
“Mamma.” La interruppe lui, con un tono calmo che tuttavia non ammetteva repliche. “Ti do il cambio. Vai a casa, dormi un po’, fatti una doccia. Ci sto io con lui.”
“No. Sono sua madre è una mia responsabilità. La tua unica responsabilità, invece, è andare a scuola.”
Alec sospirò, come se si accingesse a parlare con qualcuno duro d’orecchio. “Non andrò a scuola, oggi. Ci ho spedito Izzy e Jace quasi a calci, stamani, quando ho detto loro dove volevo andare. Volevano venire con me, ma li ho dissuasi.”
Maryse non faticava ad immaginarsi il maggiore dei suoi figli ergersi in tutta la sua altezza – era alto per avere quattordici anni – e imporsi sui fratelli. Alec aveva un ascendente particolare su di loro, come se riuscisse a metterli in riga, a farsi rispettare. Aveva un che di autoritario che faceva sì che se si presentava un problema, Isabelle e Jace si affidavano a lui con la consapevolezza che sarebbe riuscito a risolverlo, trovando la soluzione migliore. Alec era una figura di riferimento.
“E io dissuaderò te dal rimanere qui.”
Alec abbozzò un sorriso tirato, stanco. Maryse si chiese se dormisse, o passasse le giornate ad occuparsi dei suoi fratelli e la notte a preoccuparsi per Max, mentre la casa rimaneva vuota. Con Maryse all’ospedale e Robert che metteva piede in quella casa solo per cambiarsi e uscire di nuovo – senza dire una parola – la donna era certa che il maggiore dei suoi figli si fosse accollato delle responsabilità che in realtà non avrebbero dovuto spettargli. Si sentì pervadere dal senso di colpa quando realizzò che la sua assenza era nociva per i suoi figli quanto quella del padre. 
“D’accordo. Rimarrai qui, per questa mattina. Io tornerò a casa, aspetterò i tuoi fratelli che facciano ritorno da scuola e tornerò qui. Ma poi stasera te ne torni a casa. Intesi? Non ricapiterà più una cosa simile.”
Alec annuì.
Maryse non poteva certo sapere che quell’episodio avrebbe funto da precedente e che Alec, a soli quattordici anni, si sarebbe assunto delle responsabilità più grandi di lui.


Era un venerdì pomeriggio. Alec sentiva le palpebre pesanti, mentre lottava contro la tentazione di chiudere gli occhi per il sonno. La notte prima era rimasto sveglio per studiare l’ultimo argomento che riguardava l’interrogazione di storia che aveva dovuto sostenere quella mattina. Sapeva che se i suoi voti avessero cominciato a colare a picco sua madre non gli avrebbe più permesso di rimanere con Max e questo non poteva permetterlo. Non voleva rischiare di lasciare solo il suo fratellino, o che si svegliasse e non trovasse nessuno. Con il passare delle settimane, il fatto che lui e sua madre si dessero il cambio era diventata un’abitudine, sebbene Alec sapesse quanto la donna fosse ancora contraria a tutto ciò. Ma non poteva farci niente: si era messo in mente di rendersi utile, di fare da spalla a sua madre e di fare compagnia a Max quando lei non c’era. Dal momento che non lo faceva suo padre, ad Alec era venuto naturale prendere il suo posto. Tenere unita la famiglia in un momento in cui tutti avrebbero voluto cedere alla tentazione di crollare in pezzi.
Erano passate quattro settimane e mezzo dall’incidente e Max non aveva fatto progressi. La sua condizione era stabile e il dottor Stevenson, che si occupava di lui, diceva che già questo di per sé poteva essere considerato un buon segno, qualcosa che avrebbe dovuto aiutarli a stare meglio. Alec avrebbe voluto gridargli in faccia che l’unica cosa che li avrebbe fatti stare meglio era il risveglio di Max, ma sapeva che prendersela con il dottore era tutto inutile: lui aveva fatto tutto il possibile per salvare la vita di Max e non era colpa sua se adesso la situazione si era cronicizzata, da quattro settimane a questa parte. Bisognava aspettare. Attendere che la sorte facesse il suo corso e il destino calasse la sua lama, giudice in una sentenza che solo il tempo avrebbe stabilito favorevole e sfavorevole. C’era solo da sperare e pregare che il Dio a cui sua madre era tanto devota li ascoltasse.
Alec guardò Max: la testa fasciata con delle bende che venivano cambiate ogni dodici ore, gli aghi sulle braccine magre, a cui erano attaccate le flebo per il nutrimento e l’idratazione. I suoi occhi erano chiusi e il suo viso era pallido. Alec ricacciò indietro le lacrime e si fece forza, ripetendosi che a Max non serviva sentire i suoi piagnistei, ma doveva sentire la sua tenacia. Se Alec fosse riuscito a trasmettergliela, forse avrebbero avuto più speranze che Max riaprisse gli occhi. Gli strinse la manina tra le sue, che gli sembrò più piccola di quanto non fosse mai stata e, ignorando la spiacevole sensazione che gli strisciò su per la schiena, ricordandogli le volte in cui Max si era aggrappato alle sue mani con tutta la forza che aveva in corpo, cominciò a leggergli una favola. Il dottor Stevenson aveva detto che c’era la possibilità che riuscisse a sentirlo, quindi Alec aveva cominciato a leggergli delle storie.
“Questa non l’abbiamo mai letta, Max.” gli disse, come se volesse prepararlo a sentire qualcosa di diverso dal solito. Si schiarì la voce, volendo risultare il più chiaro e udibile possibile, e aprì il libro. “C’era una volta, in una foresta rigogliosa e non troppo lontana, un benefattore, che aveva deciso di dedicare la sua vita a combattere le ingiustizie subite dalla sua gente. Tutti lo conoscevano come Robin Hood, colui che rubava ai ricchi per dare ai pov-”
La porta si aprì e Alec d’istinto alzò lo sguardo, smettendo di leggere. Si sentì uno sciocco quando realizzò che in fondo al suo cuore vibrava la speranza di vedere suo padre, quando era pienamente consapevole che se l’uomo non aveva messo piede in quella stanza per tutto quel tempo, con ogni probabilità non l’avrebbe mai fatto. Era stata Maryse ad entrare, ovviamente, e quando i loro sguardi si incrociarono, lei abbozzò un sorriso. “È una favola nuova?” si incamminò verso di lui, sedendosi al bordo del letto di Max.
“Sì. L’ho ritrovata tra i nostri vecchi libri.”
Maryse passò lo sguardo sul libro, riconoscendolo e ricordando tutte le volte che l’aveva letto ad Alec, quando era piccolo. “Vedi questo angolino rovinato qui?” indicò un punto specifico, dove le pagine sembravano rosicchiate. “Un giorno ti ho sorpreso a masticarlo. Avrai avuto tre anni.”
Alec alzò un angolo della bocca, a mo’ di sorriso. “Mi piaceva moltissimo, quindi.”
Maryse gli passò una mano tra i capelli corvini. “Sì. Tanto che hai voluto assaggiarlo.” 
Rimasero in silenzio, Maryse con le mani appoggiate in grembo e Alec con il libro ancora aperto sulle gambe. Entrambi fissavano Max.
“I tuoi fratelli stanno arrivando.” Lo informò la donna, lisciando una piega del lenzuolo di Max. “Ho fatto promettere loro che prima avrebbero fatto i compiti. Tu sei riuscito a farli?”
Alec lanciò un’occhiata allo zaino situato in un angolo della stanza. “Sì. Ho finito da poco.”
“E l’interrogazione di stamani? È andata bene?”
Alec annuì. “Ho preso A.”
Maryse spostò lo sguardo da un figlio all’altro. “Sei bravissimo. E…” cominciò, ma la voce della donna si incrinò, un velo di lacrime coprì i suoi occhi –  lo ricacciò indietro con determinazione. “Andrai via con i tuoi fratelli, dopo, intesi?” Maryse cambiò discorso e Alec non ebbe la forza di chiederle cosa volesse dirgli. Insistere quando sua madre cambiava argomento era inutile, l’aveva imparato, soprattutto di recente. “Vi ho preparato la cena, prima di venire qui. Basta scaldarla.”
Alec annuì ancora e rimase in silenzio, mentre una domanda gli rimbombava nel cervello: papà sarebbe stato a cena con loro, quella sera?
Non mangiavano più insieme dall’incidente. Suo padre partiva presto la mattina e tornava a sera inoltrata. Parlava pochissimo e nessuno osava dirgli niente. Alec non sapeva come comportarsi, quando lo incrociava casualmente a casa perché aveva paura che gli avrebbe urlato addosso tutta la sua rabbia. Ce l’aveva con lui perché aveva causato l’incidente e non era andato ancora a trovare Max. Ma sapeva benissimo che strillargli contro non avrebbe portato ad un bel niente – e onestamente, Alec non aveva tempo per preoccuparsi anche di suo padre. Aveva una priorità: Max. E questo pensiero gli bastava per calmarsi.
“Lui… ci sarà?” domandò quindi in un sussurro, dando voce ai suoi pensieri. Vide Maryse massaggiarsi la radice del naso con il pollice e l’indice, mentre si lasciava andare ad un sospiro lungo e pesante.
“No, Alec. Tuo padre… lui… Ho provato a parlargli, ma continua a dire che non riesce a sostenere questa situazione. Dice che non riesce a venire in ospedale perché è divorato dai sensi di colpa e non riesce a stare in casa con voi per lo stesso motivo.”

Stronzate, pensò Alec. Quello altro non gli sembrava che un discorso preparato e infiocchettato per evitare di ricevere altre domande. Con la scusa dei sensi di colpa e del rimorso, suo padre aveva appena fatto in modo di essere esonerato dalla tragedia che la sua famiglia stava vivendo. Che razza di uomo faceva una cosa simile?
“E tu gli credi?”
Maryse gli riservò un’occhiata indecifrabile. “Non ho altra scelta, ti pare? Ho cose più importanti a cui pensare.”  
Prima che Alec potesse rispondere, la porta si aprì. Jace ed Isabelle salutarono lui e la madre, poi Izzy si sporse per dare un bacio sulla testa a Max, facendo attenzione a non toccare il punto dove aveva la fasciatura.
“Gli ho portato una cosa.” Disse Jace, cominciando a frugare nella tasca dei jeans. “Mi ha aiutato tanto, quando ero…” Nonostante fossero passati nove anni, ricordare il periodo in cui aveva vissuto con Valentine Morgenstern gli risultava ancora difficile e nessuno in famiglia l’aveva mai forzato a dire nulla di più di quello che non si sentisse di dire. “Insomma, lo sapete.” Tagliò corto ed estrasse il soldatino, che aveva in mano la prima volta che aveva messo piede in quella che poi sarebbe diventata la sua casa, e lo sistemò sul comodino di Max. “Se ha protetto me, può proteggere anche lui.”
Alec annuì e sperò con tutto il suo cuore che Jace avesse ragione.



“Si è svegliato la settima settimana dopo l’incidente.” Disse Alec, il viso rigato di lacrime. Ripercorrere quel periodo della sua vita risultava ancora doloroso, come se la ferita sul suo cuore non si fosse mai cicatrizzata completamente. Sentì le braccia di Magnus stringerlo più forte, come se avesse voluto costruire una fortezza con il suo corpo che impedisse alla sofferenza di continuare a consumare Alec. “Ero a scuola. Mia mamma ha detto che la prima cosa che le ha chiesto era dove fossi.” Alec circondò la schiena di Magnus con un braccio, accoccolandosi contro il suo petto. “Aveva sentito le storie e pensava fossero un sogno.”
La mano di Magnus faceva su e giù per la sua schiena, in un movimento rilassante e consolatorio. “Ha sentito la tua forza e l’ha fatta sua.” gli baciò la fronte e Alec si lasciò andare ad un respiro profondo, come se quel contatto lo liberasse di tutte le sue angosce.
“Max era forte di suo. Per tutto il periodo della fisioterapia ha stretto il soldatino che gli aveva portato Jace. Ogni volta che riusciva a compiere un passo da solo, gli dicevo che era coraggioso come un soldato.” Alec fece una pausa, ripensando alle volte in cui Max, dopo il risveglio, aveva dovuto riabituare i suoi muscoli di bambino alle funzioni primarie, come appunto camminare. “In realtà lo chiamo così da allora.” Alec si zittì una seconda volta, ripercorrendo con la mente quel periodo, prima di parlare di nuovo. “Era tenace e determinato, Magnus. Aveva cinque anni e si è comportato come se fosse molto più grande. Obbediva al fisioterapista, lasciava che il dottor Stevenson gli facesse tutti gli esami necessari a tenere sotto controllo la sua condizione senza piangere nemmeno una volta. L’unica volta che… che ha pianto è stato un anno dopo l’incidente. Era andato a farsi un vaccino, c’erano mamma e Jace con lui, e Max ha pianto – forse aveva paura che dovesse cominciare tutto d’accapo, sai.” Alec si scostò per guardare Magnus in viso. “Ma ce l’ha fatta. Ce l’abbiamo fatta anche senza-” si bloccò, un moto di bile gli salì dallo stomaco, facendoglielo bruciare di collera, i suoi occhi si velarono di lacrime dettate dal nervoso. “Ce l’abbiamo fatta anche senza mio padre.” Alec abbassò lo sguardo. “È per questo che credo di odiarlo. Ha percorso una strada a cento chilometri orari per andare da un’altra donna, quando il mio fratellino era sul sedile anteriore e ha rischiato di ucciderlo. L’ha ammesso, sai? Una volta io, Jace ed Izzy abbiamo origliato una conversazione tra lui e mia madre. Erano chiusi in camera loro e cercavano di mantenere i toni bassi. Lei gli ha chiesto cosa ci facesse in quella strada e, dopo una valanga di bugie, ha confessato. Se fosse andata diversamente, cosa avrebbe chiesto a Max di fare? Rimanere in macchina e mantenere il suo segreto? Non riesco a perdonarlo sotto nessun punto di vista: la realtà è troppo dolorosa perché io ci riesca e anche se fosse andata diversamente, come potrei perdonare qualcuno che si porta il figlio ad un incontro con l’amante, con la prospettiva di lasciarlo in macchina?”
Magnus gli asciugò nuovamente le lacrime con i pollici, tenendo il viso di Alec tra le proprie mani. “Quello che hai fatto per la tua famiglia non fa altro che confermare ciò che ti ho detto: tuo padre è in torto marcio. E se non vuoi perdonarlo, se vuoi persino odiarlo, fallo. Solo… non lasciare che questo sentimento si calcifichi in te. Capisco la tua rabbia, capisco anche che lui si sia comportato in un modo deplorevole. Ma, alla fine dei conti, se ti farai dominare dall’odio, ti consumerà, e si mangerà le cose belle che vivono nel tuo cuore.” Magnus gli baciò la fronte. “Chiediti se ne vale la pena odiare qualcuno tanto da rinunciare a se stessi.” Magnus lo guardò dritto negli occhi e Alec sentì le ossa liquefarsi. “E qualsiasi cosa ti risponderai, io sarò dalla tua parte.”
Alec spostò le proprie mani sui polsi di Magnus. Sentiva gli occhi lucidi, ma per la prima volta da quando era entrato in quella casa, le sue erano lacrime di gratitudine. Era grato alla vita per avergli dato Magnus, che aveva ascoltato in silenzio il suo racconto, stringendolo tra le braccia quando sentiva la voce tremargli maggiormente, e lo stava mettendo sulla giusta strada. Perché Alec sapeva che Magnus, il suo meraviglioso Magnus, aveva ragione: l’odio aveva portato suo padre a dire delle cose spregevoli, a comportarsi in maniera spregevole. E Alec non voleva diventare come lui, non voleva nemmeno rischiare di potergli assomigliare anche solo per una frazione di secondo. Se avesse intrapreso quel sentiero, nutrendo il rancore che provava per quell’uomo, allora avrebbe perso se stesso – avrebbe perso la gioia che aveva sempre provato stando con i suoi fratelli e quell’euforia che provava ogni volta che era in compagnia di Magnus. Ed erano due emozioni che gli stavano troppo a cuore perché ci rinunciasse per qualcuno per cui, alla fine, non valeva la pena fare niente – nemmeno odiare. Alec si sporse in avanti, azzerando la distanza che c’era tra lui e Magnus, e lo baciò. “Non voglio rinunciare a me stesso per lui.” Sussurrò con la fronte appoggiata a quella di Magnus. “Non voglio nemmeno rischiare che l’odio mi faccia diventare come lui. Ma… ma non posso ancora perdonarlo, Magnus. Per Max, per quello che mi ha fatto.”
Magnus gli accarezzò una guancia. “L’odio e il perdono sono diversi, Alexander. Il primo dipende da noi: siamo noi che scegliamo se continuare ad odiare, o andare oltre. Il secondo dipende dalla persona che ci ha fatto un torto: sta a tuo padre trovare un modo per farsi perdonare.”
Alec si aprì in un sorriso – il primo da quando si erano visti quella sera e Magnus fu immensamente felice di vedere che quella tristezza che aveva macchiato i lineamenti e il cuore di Alec stesse sciamando un poco – e allacciò le braccia intorno al collo di Magnus. “Non ti ho mai amato tanto come in questo momento.” gli sussurrò all’orecchio. “Grazie. Per tutto.”
“Ci sarò sempre per te. Ed ero serio quando ti ho promesso che avrei avuto cura di te. Ti amo, Alexander. E ogni tuo problema, è un mio problema.”
Alec lo strinse ancora di più a sé, facendo aderire ogni centimetro del proprio corpo a quello di Magnus, che fece passare le braccia intorno alla schiena di Alec. Rimasero abbracciati in quel modo per un tempo che non seppero quantificare, con il ritmo dei loro cuori che battevano all’unisono come unico suono, quasi volessero confermare, ancora una volta, quanto fossero legati – quanto fosse forte e determinato l’amore che li univa e li faceva funzionare come se fossero un unico cuore.


*

Era da poco passata l’una di notte, quando Alec rientrò in casa sua. Fece attenzione a non fare il minimo rumore per non svegliare nessuno, ma non appena varcò la soglia di casa, notò che la luce della sala era accesa. Si tolse il giubbotto, lo appese all’attaccapanni e si diresse verso l’unica stanza che era illuminata, trovando Maryse seduta sul divano a guardare la tv, le gambe raccolte da un lato e una tazza fumante di qualcosa di caldo in mano. I capelli, neri e lucidi, le ricadevano sciolti sulle spalle e indossava una vestaglia bianca di un tessuto leggero, che Alec non seppe riconoscere, sopra ad una camicia da notte di seta azzurra. Si avvicinò a lei con passo titubante, sia per non spaventarla, sia per timore che l’avrebbe gridato per aver fatto tardi. Maryse si accorse della sua presenza e si voltò verso di lui con un sorriso. “Sei tornato.”
“Mi stavi aspettando?”
“Sì.” Maryse picchiettò con la mano libera il posto vuoto accanto a lei sul divano.
“M-mi dispiace aver fatto tardi.” Disse Alec, sedendosi.
“Non preoccuparti. Ti sei preso tutto il tempo di cui avevi bisogno?”
Alec annuì e Maryse portò alle labbra la tazza, bevendo un sorso di quella che al ragazzo, dall’odore, sembrò una tisana allo zenzero e limone.
“Stai meglio?”
Alec annuì di nuovo. “Magnus… mi ha aiutato ad avere una prospettiva nuova su tutta la situazione.”
Maryse abbozzò un sorriso, che però nascose prontamente nella tazza. “Magnus.” Disse, come se pronunciasse una parola nuova per la prima volta. E in effetti era così, pensò Alec. sua madre non l’aveva ancora chiamato per nome, da quando aveva detto alla sua famiglia come si chiamava il suo ragazzo, e si rilassò quando notò che la voce della donna non aveva assunto un tono astioso nel pronunciare quel nome, bensì curioso. “Parlami di lui. Mi piacerebbe conoscere il ragazzo che ha reso il mio bambino tanto felice.”
Alec arrossì lievemente. “Non sono più un bambino, mamma.”
Maryse sorrise e gli passò una mano tra i capelli. “Sarete sempre i miei bambini, che vi piaccia o no.”
Alec sbuffò una risata sommessa dal naso e guardò sua madre negli occhi. Erano neri e carichi di qualcosa che sembrava speranza. Alec non si sentiva così vicino a lei da… beh, dall’incidente. Forse, si trovò a pensare, avrebbero potuto ricominciare, riallacciare quei rapporti che erano andati perduti a causa di tutti gli spiacevoli avvenimenti che si erano accavallati uno sopra all’altro. Forse, così come Maryse era capace di andargli in contro e abituarsi abbastanza in fretta all’idea che suo figlio avesse un ragazzo, Alec poteva abituarsi all’idea di parlare con sua madre delle proprie sensazioni, senza andare troppo nel dettaglio –  dopotutto era ancora un tipo riservato.
Ma poteva provare. Poteva andare in contro a sua madre nello stesso modo in cui lei stava andando in contro a lui.
Alec sorrise alla madre e cominciò a parlare.




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Zan zaaan sono riuscita ad aggiornare prima (ye!) anche se questo non è l’ultimo capitolo perché sono una procrastinatrice seriale  alla fine, ho pensato fosse meglio che Alec avesse un capitolo tutto per sé riguardante il suo coming-out e la storia di Max vista dal suo punto di vista – e dal punto di vista di Maryse, che non avevo preventivato all’inizio, ma poi ho cominciato a scrivere il capitolo (che è venuto lunghissimo) e ho pensato che inserire anche il punto di vista della donna avrebbe reso la cosa un po’ più completa (poi magari non è così e io dico solo una marea di boiate).
Allora, ci terrei a fare una precisazione: il personaggio di Robert sfocia nell’OOC, me ne rendo conto, ma era così che avevo immaginato  l’incontro/scontro con Alec e il conseguente intervento di Maryse. Quindi, chiedo scusa al Robert originale – anche per averlo descritto come un padre assente quando la sua famiglia ne aveva più bisogno.
Arrivati a questo punto, penso che il prossimo capitolo sarà l’ultimo – so che è tipo la terza volta che lo dico, ma cercherò di essere di parola per la prossima volta!

Come sempre, vi ringrazio immensamente per seguire questa storia, leggerla, metterla tra i preferiti e recensirla. Apprezzo che dedichiate del tempo a questa storia e che l’abbiate accolta con così tanto calore! Vi abbraccio tutti dalla luna e ritorno!
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo, alla prossima! <3


 

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Capitolo 20
*** 20. ***


Magnus era consapevole che avrebbe dovuto concentrarsi. Era pienamente consapevole che avrebbe dovuto scattare delle foto per completare il suo progetto per il corso di fotografia, ma il fatto era che il soggetto da lui scelto lo distraeva troppo. Non era colpa sua se il soggetto prescelto era il suo ragazzo e, guarda caso, fosse incredibilmente sexy. Oltre che mezzo nudo.
Ecco, questa era la cosa che più distraeva Magnus.
Era un sabato mattina di marzo – presto, troppo presto per Magnus, che non aveva ancora ingurgitato una quantità pachidermica di caffè – e si trovavano da soli nella palestra della scuola per il primo allenamento di Alexander da peso massimo. Il coach Garroway era in ritardo, così Alec, profondamente ligio al dovere, aveva iniziato a scaldarsi da solo, cominciando a saltare la corda – con il risultato che la sua maglietta era sparita più velocemente di quanto Magnus si aspettasse (gaudio e giubilo) e l’aveva portato a distrarsi. Il fatto era che i pettorali di Alexander lo fissavano spavaldi, quasi come se avessero voluto pavoneggiarsi della loro magnificenza, e si contraevano ad ogni salto che il ragazzo compiva, insieme alle sue gloriose braccia – altrettanto altezzose, a parere di Magnus, dal momento che anche i suoi bicipiti guizzavano ad ogni movimento, portandolo a provare il desiderio di sbavare senza ritegno.
Era così concentrato a seguire la gocciolina di sudore che scendeva dal petto di Alec che non riusciva a percepire altro.
“Magnus.”
Era perfettamente conscio che qualcuno lo stesse chiamando, ma sembrava una voce lontana. La sua attenzione era tutta per quella sfacciata gocciolina – che non si rendeva conto di quanto fosse fortunata, accidenti a lei – che adesso stava percorrendo la riga che divideva le tre paia di addominali di Alexander. L’avrebbe volentieri leccata via e avrebbe percorso lui stesso quel sentiero peccaminoso sul corpo del suo ragazzo…
“Magnus.”
…che era così oltraggiosamente figo.
“Magnus.”
Sul serio, come faceva a non rendersi conto che essere mezzo nudo e sudato era un attentato ai suoi poveri ormoni? Cosa avrebbe dovuto fare, guardare ma non toccare? Era come chiedere ad un goloso di stare lontano da un tavolo pieno zeppo di dolci. Impossibile. Allo stesso modo, era oltremodo impossibile per Magnus staccare gli occhi dalla figura longilinea e scolpita di Alec. Dalle sue spalle ampie e definite, dai muscoli delle sue braccia, dal petto e dall’addome ricoperti di peluria, dalla V che caratterizzava il bacino e indicava come una freccia un punto ben specifico di Alec, a sud, celato da quei pantaloncini vergognosamente corti.
“Magnus.”
Come poteva non farsi trascinare in un bollore cuoci-ormoni davanti ad una visione divina del genere? Non si poteva. Magnus era umano e aveva delle debolezze. E tutte erano causate dal corpo mozzafiato del suo ragazzo.
“Gucci fa schifo.”
Terra chiama Magnus: qualcuno aveva appena insultato un tesoro mondiale. E quel qualcuno era la causa della sua distrazione. Magnus inchiodò i suoi occhi in quelli di Alec, riducendoli a due fessure.
“Rimangiati questa eresia, passerotto, da bravo.” Non voleva suonare minaccioso, ma nonostante tutto, un velo di minaccia si percepì comunque. Non che Alec ne fu impressionato, comunque, visto che alzò le spalle, come se niente fosse.
“Ti ho chiamato quattro volte. Quattro, Magnus. Ho dovuto ricorrere alle misure di emergenza. Sai come si dice: a mali estremi, estremi rimedi.”
“Ti sei denudato.” Puntualizzò Magnus, accusatorio. “Secondo te avrei dovuto rimanere impassibile? Mi hai distratto. Non vuoi che mi distragga? Copri quella meraviglia che chiami corpo e mi avrai interamente lucido.”
Alec liberò una risata vigorosa e si sporse sulla panca davanti a lui dove aveva gettato la sua maglietta, allungandosi per prenderla. Magnus, che era seduto proprio su quella panca, gli afferrò il polso.
“Cosa fai?”
Alec alzò il sopracciglio solcato dalla cicatrice. “Mi copro?”
“E per quale motivo?”
“Perché non voglio distrarti.”
“Ma non devi vestirti per me, mi piace quello che vedo. Tanto. Rimani nudo.”
Alec si liberò dalla presa di Magnus e si avvicinò ulteriormente a lui, usando un ginocchio per divaricargli le gambe e mettersi tra di esse. Abbassò il viso alla sua altezza e, facendo passare lo sguardo dagli occhi alle labbra dell’altro, soffiò: “Sei un po’ contraddittorio, amore. Non trovi?”
Magnus deglutì rumorosamente. Il suo povero cuore non poteva reggere la combinazione ‘Alexander nudo’ più ‘la sua voce incredibilmente roca che lo chiamava amore’. Non poteva. Era umanamente impossibile che esistesse qualcuno in grado di reggere tale combinazione. Era un inno alla gioia, una manifestazione della gloria celeste, un miracolo in forma umana.
“Potresti aver ragione.”
Alec annuì. I suoi occhi cervoni fissarono la bocca di Magnus, mentre avvicinò le labbra ad essa, ma senza toccarla. Il corpo del fotografo fu percorso da un brivido intenso. “Allora penso che dovresti scegliere: come mi vuoi, Magnus?” Gli occhi di Alec si alzarono di nuovo su quelli di Magnus, andandosi ad incatenare ai suoi proprio mentre si passava la lingua tra le labbra. Era un attentato ormonale bello e buono. Un gesto che bastò a far perdere a Magnus tutto il suo (precario) autocontrollo. Si alzò dalla panca e attirò Alexander a sé, facendo aderire il proprio petto al suo. Sentì una sorta di rammarico quando realizzò che tutto questo sarebbe stato di gran lunga migliore se anche lui fosse stato mezzo nudo, ma andava bene uguale. L’unica cosa che Magnus voleva fare era baciare quella bocca perfetta e usare le mani per abbandonarsi a quella tentazione pulsante di toccare il corpo di Alec. Cominciò con la sua schiena, accarezzando i suoi dorsali e le scapole, per poi scendere lentamente, seguendo tutto il perimetro della colonna vertebrale, andando sempre più in basso fino al fondo schiena, dove scese ulteriormente fino alle natiche, che agguantò senza premurarsi di essere delicato.
Alec rise sulle sue labbra, succhiandogli quello inferiore prima di parlare. “Pensavo ti interessasse la mia nudità. Non pensavo certo ti saresti interessato all’unica parte coperta.”
Magnus indietreggiò con il viso qualche centimetro per riuscire a guardare Alec bene negli occhi. “Chi sei tu e che ne hai fatto del mio innocente fidanzato?”
Alec rise ancora. “Sta’ zitto.” Disse, prima di infilargli una mano tra i capelli sulla nuca e tirarlo a sé per baciarlo, mentre l’altra andava a posizionarsi sul suo collo. Alec sapeva di buono e aveva quel modo di baciarlo che gli faceva attorcigliare le budella. Era cambiato, era migliorato. I suoi baci non erano più timidi e insicuri, erano irruenti ed esigenti, ma generosi allo stesso tempo. Come fosse possibile, Magnus doveva ancora capirlo, ma Alec riusciva a dare e prendere in egual misura anche se si trattava solo di un bacio. Lasciava che fosse Magnus a dettare il ritmo, ma poi improvvisamente, prendeva le redini e cominciava a baciarlo come più lo aggradava, alternando il tutto a piccoli morsi.
“Sono felice di costatare che almeno per voi questa giornata sia iniziata bene.”
La voce profonda del coach Garroway ruppe quella meravigliosa bolla in cui erano finiti, facendoli dimenticare che erano in una palestra e non in camera di Magnus, e li portò a separarsi. Alec sussultò così tanto che sembrava gli avessero appena fatto passare l’elettricità nelle vene, mentre le sue guance diventavano rosse per l’imbarazzo.
“Mi stavo scaldando.” Disse, cercando di portare l’attenzione del coach su qualcosa che non fosse la scena a cui aveva appena assistito.
Sul viso del coach comparve un sorriso eloquente. “Ho notato.” E se l’uomo voleva fare una battuta, Alec non riuscì a coglierla perché sbiancò, incapace di trovare qualcosa da dire.
Magnus lo vide persino trattenere il respiro. Un po’ lo capiva: non è mai bello essere beccati da uno dei tuoi insegnanti mentre hai mezzo metro di lingua nella gola del tuo ragazzo, mentre il suddetto ragazzo tiene le mani sulle tue natiche. Possono crearsi situazioni imbarazzanti.
“Rilassati, Lightwood. Siete adolescenti, Dio solo sa cosa vi fanno fare gli ormoni.” Scosse la testa, rassegnato. “Ho perso il conto delle volte che ho beccato tuo fratello e mia figlia nella stessa situazione. Ci sono abituato.”
“I-io…” tentò Alec, ma il coach lo interruppe, alzando una mano.
“Comincia a scaldarti. Sul serio.
Alec divenne paonazzo, mentre il coach cercava di trattenere una risata. Quando il ragazzo afferrò di nuovo la corda che aveva abbandonato sul pavimento poco prima e cominciò a saltare, l’uomo si voltò verso Magnus. “Vai sulle gradinate, ok? Dopo l’allenamento potrai distrarre il mio pugile quanto ti pare, ma per adesso ho bisogno che sia concentrato.”
Magnus annuì e fece come gli era stato detto. Forse, se non avesse avuto Alexander a portata di bacio, anche lui sarebbe riuscito a concentrarsi e fare qualche foto seria da aggiungere al suo progetto.

*

Jace esplose in una risata fragorosa che rimbalzò per le pareti del salotto di casa Lightwood.
“Non ci credo!” disse, asciugandosi una lacrima a lato di un occhio. “Ti sei fatto beccare dal coach!”
Stavano guardando la partita dei Knicks e il tutto era cominciato quando, durante la pubblicità, Jace si era voltato verso Alec e gli aveva domandato come fosse andato l’allenamento di quella mattina. Alec, spinto da chissà quale ondata di espansività, aveva raccontato al fratello l’imbarazzante momento in cui il coach l’aveva beccato appiccicato a Magnus nemmeno fosse la sua seconda pelle. Inutile dire che dopo quel commento, Alec si era pentito immensamente di averglielo raccontato.
Alec, ridusse gli occhi a due fessure e afferrò il telecomando che stava sul bracciolo del divano accanto a lui. “Sei sicuro di voler fare lo spiritoso quando sono armato?” minacciò, mimando un lancio che sarebbe finito dritto in testa al biondo.
“Andiamo!” continuò Jace, afferrando una manciata di pop-corn e mettendola in bocca, cominciando a masticare con la grazia di un facocero. “Non mi feriresti mai.”
“Vogliamo scommettere?”
Jace alzò le spalle e gli diede una gomitata sul costato. Era tardo pomeriggio, lui e Alec erano rimasti a casa per guardare la partita, mentre Max, Izzy e Maryse erano andati a comprare tutto l’occorrente necessario per fare i cupcakes. Alec sapeva che Maryse voleva farne una generosa quantità per il giorno seguente, che guarda caso era la domenica dove la comunità di cui sua madre faceva parte si riuniva per fare la vendita dei dolci. Il ricavato andava ogni anno all’orfanotrofio di New York. Alec sapeva anche che era il primo anno in cui i suoi genitori partecipavano a quell’evento come coppia in fase di divorzio. E sapeva anche che era la prima volta che Maryse avrebbe rivisto quelle persone – dopo la litigata con suo padre, avvenuta ormai due settimane prima – che avevano appreso il tutto. Ogni membro conosceva la situazione in casa Lightwood: il fatto che Maryse avesse chiesto il divorzio, il fatto che Robert fosse tornato a vivere da sua madre, il fatto che Alec fosse gay.
Tentò di non pensarci.
“E comunque non farei tanto il furbo. Anche tu sei stato beccato dal coach!”
“Cristo, non sai quante volte!” esclamò Jace, ridendo, mentre si sporgeva oltre il divano per afferrare una lattina di soda appoggiata al tavolo basso di fronte a loro. “Una volta ero senza pantaloni. Avrei voluto sotterrarmi!”
“Almeno io i pantaloni li avevo.”
“Se fosse arrivato cinque minuti dopo sono sicuro che ti avrebbe trovato senza!”
Alec sgranò gli occhi. “La palestra è un luogo pubblico. Non avrei mai fatto sesso in un luogo pubblico.”
“Forse tu no. Ma sono sicuro che Magnus non avrebbe avuto problemi.”
Alec avvampò, diventando paonazzo fino all’attaccatura dei capelli. “Perché parlo ancora con te di certe cose? Avrei dovuto starmene zitto!”
Jace esplose in un’altra risata, battendo una mano sulla spalla di Alec. “Sarei venuto a conoscenza della tua imbarazzante figuraccia in un altro modo. E lo sai.”
Alec alzò un sopracciglio in modo scettico. “Il coach non direbbe mai una cosa simile a Clary. E anche se lo facesse, la tua ragazza non mi sembra il tipo che sbandiera queste cose.”
“Clary, no. Ha una moralità ferrea su queste cose. Ma Magnus…”
“Stai dicendo che il mio ragazzo è privo di moralità?” Alec non voleva suonare minaccioso, ma iniziò a far volteggiare il telecomando in aria senza che se ne rendesse conto. Gli occhi ridotti a due fessure e quel movimento che suggeriva un possibile lancio da un momento all’altro lo rendevano abbastanza intimidatorio.
“No.” Jace alzò le mani in segno di resa. “Mi è uscita male.”
“Ti escono sempre male, quando eviti di connettere il cervello alla bocca.” Alec prese un pop-corn dalla ciotola situata in mezzo a lui e Jace e lo lanciò in aria, afferrandolo al volo con la bocca aperta. “Ma sono curioso: come saresti venuto a saperlo, se non avessi scelto spontaneamente di raccontarti gli avvenimenti di questa mattina?”
Jace scrollò le spalle e bevve un altro sorso di soda. “Avrei sguinzagliato Izzy. Lei riesce ad estorcerti qualsiasi informazione e poi l’avrei convinta a condividere la notizia.”
“Mi pento sempre di più di aver scelto di raccontarti le cose. Ancora di più mi pento di averti come migliore amico.”
Jace esplose in un’altra risata e si tuffò verso Alec, abbracciandolo di lato – sovrastando le braccia del fratello con le proprie in una morsa ferrea che di affettuoso sembrava non avesse niente – e rischiando di rovesciare tutta la ciotola dei pop-corn. “Sei legato a me per la vita, fratello. Rassegnati al tuo destino e abbraccia il lato oscuro.”
“Nel lato oscuro avete i biscotti?”
Jace rise e liberò Alec dalla presa, poi afferrò la ciotola e se la sistemò in grembo. “Abbiamo anche il gelato, se dobbiamo essere pignoli.” Si ficcò una generosa manciata in bocca e le sue guance si gonfiarono come quelle degli scoiattoli.
Alec ridacchiò sommessamente e scosse la testa. “Va bene, allora. Mi hai convinto. Abbraccerò il lato oscuro, fratello.
“Bravo. E ricordati: nel lato oscuro puoi toglierti i pantaloni ogni volta che vuoi.”
Alec diede uno scappellotto sonoro al fratello e prese la ciotola per posizionarla esattamente dove doveva stare: in un punto equamente raggiungibile da entrambi. Non poteva rischiare che Jace finisse tutti i pop-corn prima della fine della pubblicità.

*

La porta di casa si aprì nello stesso momento in cui Alec e Jace si alzarono dal divano con un salto per festeggiare il tiro da tre punti fatto proprio sullo scadere del tempo che portò i Knicks alla vittoria. Le loro grida euforiche coprirono il saluto che il resto della loro famiglia li aveva rivolto. Erano ancora impegnati a saltellare come dei canguri, quando Isabelle si parò davanti a loro con un sopracciglio alzato. I due si spaventarono quasi.
“Iz, porca miseria, sei impazzita?” disse Jace, portandosi una mano tra i capelli per tirare indietro il ciuffo che gli era finito sugli occhi.
“No. Ma voi a quanto pare sì. Che vi prende?”
“I Knicks hanno vinto!” spiegò Alec, come se fosse una giustificazione più che sufficiente al loro comportamento.
Izzy alzò un sopracciglio. “Siete matti.” Decretò, alla fine. “Abbiamo preso la cena, comunque. Tra poco mangiamo.”
I due annuirono.
“Com’è andata?” domandò Alec.
Isabelle sospirò, intuendo che il fratello stesse parlando della madre. “Penso sia un po’ preoccupata per domani, ma non lo ammetterà mai. L’idea di vedere tutte quelle persone, sentire tutti i pettegolezzi su lei e papà…”
“Potrei non venire.” Suggerì Alec, mordendosi un labbro. “L’ultima cosa che le serve è sentire anche i commenti che avranno da fare su di me.” 
“Assolutamente no.” disse una voce alle loro spalle. Si voltarono tutti e tre, trovando Maryse sulla porta del salotto, le braccia, fasciate dentro ad un vestito bordeaux, erano incrociate al petto. “Se tu non venissi, vorrebbe dire che ho qualcosa da nascondere. Ma non ho niente da nascondere, né di cui vergognarmi. Verrai. E se qualcuno ha qualcosa da dire, può dirmelo in faccia.”
Alec annuì, seppur incerto. “D’accordo, ma puoi sempre-”
“Non cambierò idea, Alec.” lo interruppe. “E adesso, a mangiare. Vostro fratello ha insistito tanto per apparecchiare. Spero non abbia rotto niente in questo lasso di tempo.” Maryse sorrise e si incamminò verso la cucina, seguita dai suoi figli.


*

Lo stand dei Lightwood traboccava di cupcakes e Alec aveva il dubbio che quell’anno non sarebbero riusciti a venderli tutti. Maryse aveva impastato e infornato tutta la notte – dando conferma di quello che Isabelle aveva detto la sera prima: la donna era nervosa, ma non l’avrebbe mai ammesso. Così né Alec, né nessun altro dei suoi fratelli, avevano fatto domande. Si erano limitati ad aiutare la madre ad allestire lo stand. Izzy si era occupata delle decorazioni: un grosso cupcake con una faccia sorridente e un fumetto che diceva «per una buona causa!» era stampato sopra ad uno striscione che occupava la parte anteriore dello stand, accompagnato da festoni colorati. Max si era occupato di montare tutte le scatole che avrebbero usato come contenitori per i cupcakes che i futuri clienti avrebbero comprato. Jace e Alec si erano occupati di distribuire i dolci nei vari vassoi che avevano ordinato secondo le istruzioni di Izzy – che li aveva accusati di non avere nemmeno una briciola di estro creativo per quanto riguardava la disposizione. A quanto pareva, una piramide di cupacakes attira di più rispetto ad una composizione piatta. Alec si era limitato a non contraddire la sorella e a fare come gli veniva detto – resistendo alla tentazione di mangiare ogni dolcetto che gli capitava sotto mano. Sua madre era una cuoca fantastica e i dolci erano ciò che le riusciva meglio. Aveva fantasia. Abbinava ingredienti che Alec, ad esempio, non avrebbe mai abbinato e riusciva a creare qualcosa di buonissimo. Quell’anno, però, Maryse era un fascio di nervi. Se ne stava alla cassa e si guardava intorno, come se si aspettasse da un momento all’altro di dover sfoderare gli artigli per reagire ad un attacco a sorpresa. Era tesa come una corda di violino e i suoi occhi neri scrutavano Central Park come se si aspettasse di essere lei quella che stava per essere divorata e non i suoi dolci. Il suo sguardo vagò sugli altri stand, dove sapeva che avrebbe trovato persone che prima dell’attuale situazione famigliare l’avrebbero salutata con dei grandi sorrisi e che invece, adesso, a malapena riuscivano a sostenere il suo sguardo. Che l’abbassassero pure, pensò la donna, non era certo lei quella che aveva fatto qualcosa di sbagliato. Non era stata lei ad attaccare suo figlio ad una parete in un moto d’ira, era stato Robert. Ma ovviamente, avevano sempre avuto un tremendo rispetto per lui, di conseguenza avrebbero creduto a qualsiasi versione della storia lui avesse raccontato per salvarsi la reputazione. Quelle stesse persone che si erano definiti suoi amici, adesso non avevano nemmeno fatto lo sforzo di avvicinarsi per chiederle come stesse. Non le importava, comunque. Se era questo ciò che volevano, avrebbe assecondato il loro gioco e li avrebbe ignorati a sua volta. Non era lì per sapere cosa quella gente pensasse di lei, o di Alec, era lì per una giusta causa – la stessa che le aveva fatto scoprire che il suo Jace, se lei non l’avesse adottato, sarebbe finito in un orfanotrofio, che ogni anno ospitava più bambini di quanti si potrebbe immaginare e che aveva un costante bisogno di aiuto per riuscire a coprire tutte le spese.
“Se mi mettessi in bikini scommetto che riusciremmo a vendere il doppio dell’anno scorso.”
Maryse si voltò verso la figlia, che stava sistemando un vassoio di cupcakes in modo che la glassa colorata saltasse meglio all’occhio.
“Non dire idiozie, Isabelle. Mercificare il tuo corpo è l’ultima cosa che ci serve.”
“Ma sarebbe per una buona causa!”
“Potrei farlo io!” disse Jace. “La gente va fuori di testa quando mi spoglio!”
Maryse alzò gli occhi al cielo e si massaggiò la radice del naso. “Non vedo per quale motivo la tua nudità dovrebbe essere più appropriata di quella di tua sorella. Nessuno di voi mostrerà lembi di pelle non richiesti. Quando verrà qualcuno sorriderete, vi mostrerete gentili e venderete dolcetti. Intesi?”
“Intesi.” Dissero all’unisono Jace e Isabelle, palesemente sconfitti dall’autorità materna.
“Piuttosto, abbiamo finito?” continuò Maryse. Notò che Alec stava passando un cupacake sottobanco a Max e si chiese se fosse il primo o l’avessero già fatto, approfittando della sua distrazione.
“Quasi!” Rispose Izzy, battendo le mani. “Una volta finito, sarà lo stand più carino di tutti!”
Maryse non poté fare a meno di sorridere. Non aveva bisogno di nessuno, se non delle quattro persone che aveva al suo fianco in quel momento.

*

Era passata quasi metà della giornata. La mattina aveva dato i suoi buoni frutti e forse era stato un bene che Maryse avesse infornato dei cupcakes in più, visto che verso l’ora di pranzo avevano avuto un picco delle vendite. Alec sospettava che fosse stata la fame, piuttosto che lo spirito caritatevole ed altruista, a spingere i passanti a comprare i dolcetti, ma andava bene lo stesso. L’importante era che stessero raccogliendo una somma cospicua che avrebbe aiutato dei bambini. Alec era soddisfatto e lo sembrava anche sua madre. Sorrideva, notò Alec, mentre parlava con una donna della farina speciale che usava nell’impasto. Forse la sua tensione stava sciamando sempre di più. Forse il pensiero che Robert fosse comunque presente a quell’evento non la turbava più di tanto. Lui era un po’ turbato dall’idea di poter vedere suo padre. Non sapeva dove fosse – di solito, gli altri anni stava allo stand con loro, ma visto com’erano andate le cose poche settimane prima, chissà cosa si era inventato – e l’idea di poterlo incontrare anche solo per caso lo innervosiva. Non l’aveva più visto dalla loro litigata e sinceramente non gli andava proprio di incontrare qualcuno che l’avrebbe guardato come se fosse qualcosa di disgustoso e ripugnante.
Sospirò e raddrizzò un cupcake che si era rovesciato, allineandolo insieme agli altri. Tutto sommato, comunque, non poteva lamentarsi di come stava andando quella giornata.
“Hai intenzione di mollarlo, quel cupcake, o vuoi mangiartelo di nascosto?”
Solo quando quella voce parlò, Alec si rese conto di star ancora stringendo il dolcetto che avrebbe solo dovuto raddrizzare. Sussultò e alzò lo sguardo, incrociando quello di Aline.
Alec spalancò gli occhi per la sorpresa. “Quando sei tornata?” fece il giro dello stand per andare in contro alla ragazza, che lo abbracciò non appena fu abbastanza vicino.
“Ieri sera. Sono stata impegnata fino ad ora con lo stand. Vendiamo torta di mele, quest’anno. È terribile. Mia madre non sa cucinare e dovrebbe rendersene conto.”
Alec rise mentre ricambiava l’abbraccio. “Jace e Izzy hanno portato Max a fare un giro per gli altri stand. Se aspetti, saluti anche loro.”
Aline annuì. “Certo, mi farebbe piacere. Anche se sono venuta qui principalmente per te.”
Lo sguardo di Alec si fece interrogatorio per un attimo, ma subito dopo la consapevolezza lo attraversò. Aline sapeva. Come tutti, del resto.
“Volevo ringraziarti.” Aggiunse la ragazza e lo sguardo di Alec tornò confuso.
“Credo mi sfugga qualcosa…”
Aline accennò un sorriso. “Non ti sfugge niente. I miei mi hanno raccontato quello che hai fatto. E…” sospirò, come se cercasse le parole giuste. “Ho avuto il coraggio di dire loro che sono lesbica.”
Alec sbatté le palpebre in un’espressione che di intelligente doveva avere ben poco.
“Li sentivo parlare del fatto che Robert ti avesse beccato con un ragazzo e che tu, anzi che negare, abbia fatto apertamente coming-out. E allora ho cominciato a pensare che forse era arrivato il momento anche per me. Ero stanca di dover mentire, di dover sentire mia madre parlare di un mio futuro ragazzo, una volta finita la scuola.” Fece una pausa e accennò una risata. “Riesci a credere all’ironia della cosa? Mi hanno mandata in una scuola femminile per evitare che i ragazzi mi distraessero, quando in realtà mi hanno fatto un favore.”
“Come l’hanno presa?” Alec non voleva immaginare il padre di Aline avere la stessa reazione che Robert aveva avuto con lui.
Aline scrollò le spalle. “Mi hanno fissata come se parlassi una lingua sconosciuta, poi mia madre ha iniziato a ridere nervosamente, mentre mio padre si è ridotto al silenzio. Fanno finta di niente da ieri. Non so cosa aspettarmi, lo ammetto, ma non mi sono pentita di averglielo detto. Non penso l’avrei mai fatto, se non fosse stato per te, quindi grazie.”
Alec sentì le guance accaldarsi. “L’avresti fatto comunque, anche senza di me.”
“Hai avuto coraggio, Alec. Volevo averlo anche io. In un certo senso mi hai ispirata.”
Alec l’abbracciò perché non sapeva cosa dire. Era una cosa importante, da sentire, soprattutto da un’amica. “Spero tu sia felice.”
Aline ricambiò la stretta. “Lo sono. Te l’ho detto, mandandomi in quella scuola mi hanno fatto un favore.”
Alec sciolse l’abbraccio per guardare la ragazza in viso. “Devi dirmi qualcosa, Penhallow?”
Aline ridacchiò e annuì con la testa. Alec sorrise a sua volta. “Lei come si chiama?” le chiese, quindi.
“Helen. È bellissima, Alec.”
Alec sorrise davanti all’espressione innamorata di Aline. Era questo che suo padre non avrebbe mai capito. C’era amore negli occhi di Aline quando parlava di Helen, c’era amore negli occhi di Alec quando parlava di Magnus e c’era amore negli occhi di Jace ed Izzy quando parlavano di Clary e Simon.
Amore. Si riduceva tutto a questo. Era solo questo che contava: che si amasse la persona al proprio fianco. Che importanza aveva se era un maschio o una femmina?
“Oh mio Dio, Aline!” gridò una voce alle loro spalle, interrompendo i pensieri di Alec e la loro conversazione. Isabelle si avvicinò a loro e buttò le braccia al collo dell’amica, stringendola in un abbraccio. Isabelle era sempre così irruenta, pensò Alec, mentre guardava Aline ricambiare l’abbraccio.
“Siamo andati al tuo stand, ma non ti abbiamo vista. Tua madre ha detto che stavi venendo qui e siamo tornati indietro! Vuoi un cupcake?”
“Dio, sì! I dolci di vostra madre sono decisamente più buoni di quelli che fa la mia!”
Isabelle rise e, insieme a Max e Jace, accompagnò l’amica verso il bancone, dove Maryse la salutò con un abbraccio. Alec si aggiunse a loro, ascoltando le domande che Maryse faceva ad Aline riguardo alla scuola, mentre i suoi fratelli si inserivano nel discorso. Il ragazzo si assentò un attimo, facendo vagare lo sguardo da loro al parco. Central Park stava sbocciando: il verde del prato si mischiava al rosa dei boccioli che stavano per schiudersi sugli alberi, preannunciando l’arrivo della primavera. Alec pensò a quella volta che lui e Magnus erano stati in quel parco mentre l’autunno si stava avvicinando e i colori erano completamente diversi – non per questo meno belli. Quel parco era uno dei posti preferiti di Alec proprio perché indipendentemente dalla stagione in cui lo guardava, riusciva sempre a togliergli il fiato e a stupirlo con la sua bellezza. Aveva ancora gli occhi fissi sugli alberi, quando qualcuno si avvicinò allo stand e lo chiamò.
“Alec?”
Il ragazzo portò l’attenzione sulla fonte di quella voce, riconoscendo Ragnor. L’uomo teneva la mano ad una donna mora e con gli occhi tirati, leggermente a mandorla, e Alec suppose fosse Dot. Stavano bene insieme, pensò, mentre sorrideva nella loro direzione.
“Ciao Ragnor.” Alec non si sarebbe mai abituato al fatto che potesse dargli del tu. La sua educazione gli imponeva di dare del lei  a chiunque fosse più grande di lui, in segno di rispetto. Ma Ragnor aveva tanto insistito affinché gli desse del tu e Alec si impegnava per rispettare questa volontà.
“Lei è Dot.” Disse e Alec si voltò verso la donna con un sorriso, allungando una mano che lei afferrò, ricambiando la stretta.
“Ciao, Alec. Sento tanto parlare di te.”
Alec arrossì.
“Tutte cose positive, tranquillo.” Si affrettò a specificare Dot, facendo arrossire Alec ancora di più.
“Mi fa piacere.” Disse quindi il ragazzo, volendo evitare di stare in silenzio e sembrare idiota.
“Allora…” cominciò Ragnor, “Qual è la buona causa?” accennò allo striscione con il cupcake parlante.
Alec si umettò le labbra, pronto a spiegare di cosa si trattasse, ma sua madre – materializzatasi al suo fianco – lo precedette.
“Ogni anno raccogliamo fondi per l’orfanotrofio di New York. Doniamo tutto quello che ricaviamo da questo mercatino.”
Ragnor fece passare lo sguardo da Alec alla donna, notandone la somiglianza. “Allora è davvero una buona causa. Posso averne una scatola?”
Maryse sorrise. “Certo.” Si chinò sotto lo stand per afferrare due scatole di dimensioni diverse, una più piccola e una più grossa. Quando riemerse, fece scegliere a Ragnor quella che preferiva. Alec, dal canto suo, sentiva le mani diventare appiccicaticce per il sudore. Nemmeno passarle sui jeans lo aiutò a calmarsi. Sua madre stava incontrando il padre del suo ragazzo e anche se lei non aveva idea di chi aveva di fronte, Alec era nervoso.
Ragnor scelse la scatola più grande e Maryse cominciò a riempirla di dolcetti.
“Allora, come conosce mio figlio?” domandò la donna e Alec giurò di sentire il suo miocardio fermarsi.
Ragnor si schiarì la gola e con la mano che aveva libera si lisciò il gilet color crema, abbottonato sopra ad una camicia bianca. “È il ragazzo di mio figlio.”
Una serie di sospiri sopresi si levò alle spalle di Alec – segno che quei pettegoli dei suoi fratelli e Aline stavano ascoltando quella conversazione da principio e non si erano nemmeno sforzati di mascherare la cosa.
“Lei è il signor Bane?” domandò Maryse, chiudendo la scatola colma di dolcetti. Alec notò sua madre guardare i lineamenti di Ragnor con interesse, come se fosse alla ricerca di qualche somiglianza. Non ne trovò, ovviamente, dal momento che Alec aveva accennato al fatto che Magnus avesse origini indonesiane. Alec pregò solo che sua madre non facesse domande inopportune a Dot – visti i suoi occhi – che avrebbero creato solo una montagna di imbarazzo.
“Fell, in realtà. Possiamo dire che la situazione con Magnus è simile alla vostra con Jace.” Semplificò Ragnor. E Alec trasse un silenzioso sospiro di sollievo.
“Vedo che Alec ha raccontato molte cose su di noi.” Maryse lanciò una fugace occhiata al figlio al suo fianco e Alec desiderò farsi minuscolo. O emigrare al Polo Nord e rimanerci per il resto della sua vita. Quella situazione era oltremodo imbarazzante e stava invidiando Magnus per non essere lì a viverla.
“Solo cose belle, davvero.”  
Maryse accennò un sorriso e consegnò la scatola a Ragnor, che le diede più soldi del necessario. Alec glielo fece notare, ma Ragnor disse che andava bene così.
“È molto gentile da parte sua, grazie.” Maryse sistemò i soldi dentro alla cassa. Ragnor stava già salutando Alec, quando la donna parlò. “Mi piacerebbe conoscere Magnus.”
Alec per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. I suoi occhi schizzarono sulla madre, ma la donna lo ignorò, continuando a guardare Ragnor. “Lei conosce la persona che sta con suo figlio. Io vorrei fare lo stesso.” 
Ragnor guardò Alec e notando il suo sguardo pieno di panico fu tentato di rifiutare, ma capiva perfettamente la richiesta della donna. Lui stesso aveva voluto conoscere il ragazzo con cui Magnus passava tanto tempo per capire che tipo fosse, se potesse fidarsi di lui o se, al contrario, gli avrebbe spezzato il cuore come era già successo. Non vedeva perché anche la madre di Alec non dovesse essere tranquilla e avere la certezza che Magnus fosse un bravo ragazzo.
“Ma certo.” Disse quindi, sorridendo affabile.
“Perfetto. Potrebbe venire da noi a cena, questa sera. Potreste venire anche voi.” Accennò a Ragnor e Dot e Alec si sentì letteralmente morire. Voleva avere una pala per cominciare a scavarsi una fossa.
“Noi abbiamo già un impegno, questa sera, ma la ringrazio, comunque. Sentirò Magnus cosa vuole fare. Le farò sapere tramite Alec.”
Alec ebbe l’impressione di assistere ad un matrimonio combinato o qualcosa di simile, dove vengono garantite tre capre e due mucche come dote. Non avrebbero dovuto scegliere lui e Magnus quando e se incontrare la famiglia di Alec?
“D’accordo.” Maryse gli porse una mano che Ragnor strinse prontamente.
“Arrivederci, signora Lightwood.”
“Arrivederci, signor Fell.”
Maryse accennò un saluto anche a Dot. Alec salutò entrambi e rimase a guardarli allontanarsi, mentre si facevano sempre più piccoli e sparivano tra la folla che stava intorno agli stand. Sentiva ancora le guance calde per via di tutta quella situazione super imbarazzante e la tentazione di agguantare il telefono a chiamare Magnus per raccontargli tutto si stava facendo molto impellente, ma sua madre bloccò tutte le sue intenzioni sul nascere.
“Avevi intenzione di presentarmelo, oppure no?”
Alec guardò il suo sguardo severo e il sopracciglio alzato. Sentì Max alle sue spalle dire un oh-oh che fu accolto da mugolii di comprensione dai suoi fratelli.
“Non lo so?”
“Non rispondere alle mie domande con altre domande. Perché non volevi presentarmelo? Ti vergogni di me?”
“Dio, mamma, no! Solo che… sapevo avresti fatto tutto ciò che poi hai effettivamente fatto e volevo che invece fosse una cosa decisa da me e Magnus.”
“E tu e Magnus avete deciso insieme quando incontrare suo padre?”
“In realtà è capitato per caso.” Alec pensò alla telefonata che Magnus aveva ricevuto quel lontano pomeriggio, quando erano insieme e Ragnor l’aveva chiamato, chiedendo poi a Magnus se fosse in compagnia di Alec e invitando quest’ultimo a cena.
“Non vedo perché, allora, non possa capitare per caso anche adesso. Il signor Fell è capitato nel posto giusto al momento giusto.” Maryse prese il viso del figlio tra le mani. Profumavano di pasta di zucchero, notò il ragazzo. “Voglio conoscerlo, Alec. Permettimi di farlo.”
Alec sospirò. “Va bene.”
Maryse sorrise. “Chiamalo, ti va?”
Il ragazzo annuì ed estraendo il cellulare dalla tasca, si allontanò un tantino dallo stand. Mentre si incamminava sentì Jace dire: “Non vorrei essere nei tuoi panni, fratello!” mentre Isabelle rideva.
“La prossima settimana inviteremo la tua ragazza.” Disse Maryse. “E quella dopo il tuo ragazzo. Quello che ho detto vale anche voi: voglio conoscere le persone con cui state.”
I suoi fratelli si ammutolirono all’istante e toccò ad Alec ridere, questa volta.
Il karma sa essere proprio perfido, a volte – pensò, mentre componeva il numero di Magnus.  

*

Calma. Doveva mantenere la calma.
Mantenere.
La.
Calma.
Magnus aveva accettato l’invito – nonostante Alec l’avesse tranquillizzato sul fatto che se non se la sentiva, potevano rimandare – e adesso stava per arrivare.
Calmo un corno! – Pensò Alec, in preda al panico quando il display del suo cellulare gli mostrò l’ora: le 19.48. Magnus sarebbe arrivato tra dodici minuti e lui non aveva la più pallida idea di come avrebbe dovuto comportarsi. Era in ansia e i polsini della sua camicia erano stati le prime vittime del suo malessere. Li aveva abbottonati e sbottonati almeno dieci volte, prima di lasciarli slacciati e guardarsi allo specchio come una parodia di Cucciolo, il nano. Che poi lui era tutto tranne che un nano, ma stava vaneggiando. La sua angoscia lo faceva impazzire, come un disperso nel deserto da giorni che crede di vedere oasi d’acqua che in realtà sono solo frutto della sua immaginazione.
Perché era tanto agitato, poi? Si domandò mentre si toglieva la camicia e la ripiegava all’interno dell’armadio. Non doveva temere niente, giusto? Magnus conosceva già metà della sua famiglia e Isabelle e Jace gli volevano bene. O almeno, così credeva. Jace e Magnus avevano uno strano modo di rapportarsi, ora che ci pensava. Il suo ragazzo sbagliava il nome di suo fratello di proposito, mentre Jace rispondeva con battute sarcastiche.
E dov’è la novità? Gli suggerì una parte inspiegabilmente calma del suo cervello. Magnus fa così con tutti, idem Jace.
Era vero. Alec aveva perso il conto dei nomi con la S che erano usciti dalla bocca di Magnus, mentre cercava di chiamare Simon. Così come aveva perso il conto delle volte che, sempre il povero Simon, era stato vittima del sarcasmo pungente, e a tratti inopportuno, di Jace.
Respirare. Doveva solo respirare. Sarebbe andato tutto bene. Alec afferrò una maglietta di cotone a maniche lunghe nera e dei jeans strappati sulle ginocchia.
E se poi Magnus avesse trovato dei difetti in sua madre o in Max che non riusciva a sopportare? Come si sarebbe comportato? Non voleva dare il via ad una di quelle relazioni dove il fidanzato odia la madre e l’altro fidanzato deve fare da intermediario tra due persone a lui care. Non riusciva ad immaginare il Natale o il Ringraziamento mentre cercava di far da paciere tra Magnus e Maryse.
E se sua madre avesse trovato fastidioso il modo che aveva Magnus di masticare? O il modo in cui piegava il tovagliolo sulle gambe per non rischiare di sporcarsi i pantaloni?
Alec sentì le mani cominciare a sudare e il respiro accelerare.
Smettila di dire idiozie, avanti. Andrà bene. Quella parte placidamente razionale di sé lo tranquillizzava tremendamente. Non doveva temere niente. Alec amava Magnus perché era una persona speciale e amava la sua famiglia perché composta da persone speciali. Ognuno quella sera avrebbe visto la specialità di tutti e avrebbero capito perché Alec amava tutti incondizionatamente a quel tavolo.
E poi Magnus non aveva un modo di masticare fastidioso, quindi non aveva niente da temere. Anzi, tendeva sempre ad arricciare le labbra in un modo che Alec reputava adorabile, dopo aver portato un boccone all’interno della bocca, prima di cominciare a masticare.
Sì. Alec era fiducioso.
Il telefono segnava le 19.53. Ripiegò nell’armadio la maglietta e i jeans – perché riusciva solo ad immaginare gli insulti di proporzioni bibliche che gli avrebbe lanciato Isabelle se fosse sceso vestito in un modo così sciatto – e riafferrò la prima camicia. Era nera e l’avrebbe abbinata a dei pantaloni neri, perché Alec sapeva riconoscere i suoi limiti e uno di questi era la sua totale mancanza di estro nell’abbigliamento. Più semplice era, meglio era. Si arrotolò le maniche fino ai gomiti e si passò le mani tra i capelli, cercando di darsi un aspetto più preciso e meno da «ho appena debellato una crisi di nervi» – che poi non era tanto lontano dalla verità – e si infilò le converse. Scese le scale nel momento esatto in cui il campanello suonò. Con il cuore che gli martellava in petto e saliva prepotentemente fino alla gola, Alec andò ad aprire.

Quando aprì la porta di casa, dopo aver quasi corso dal piano di sopra dicendo senza tregua vado io-vado io-vado io, Alec si trovò di fronte un Magnus estremamente calmo. O almeno così sembrava. Il ragazzo gli sorrise e Alec ricambiò. Era bellissimo, come sempre, realizzò Alec, ma teneva sempre a puntualizzarlo ogni volta che lo vedeva. I suoi occhi erano truccati con una semplice linea di matita sotto agli occhi, facendo risaltare il colore ambrato delle iridi, rendendolo quasi vivo. Alec sentì chiaramente il suo cuore saltare un battito.
“Ciao.” Gli disse, mentre continuava a fissarlo imbambolato. Magnus indossava una maglietta a maniche corte bianca, con uno scollo a V abbastanza pronunciato che mostrava le clavicole e la catenina che Magnus teneva al collo, senza che si mettesse in mostra il ciondolo. Sopra alla maglia aveva una specie di spolverino nero fatto a rete, che mostrava la pelle delle braccia – Magnus non portava braccialetti, quella sera, notò Alec. Solo anelli – e arrivava fino alle ginocchia. Solo a quel punto, Alec notò i pantaloni di pelle neri che Magnus indossava, infilati dentro ad un paio di anfibi, facendogli fluire il sangue dal cervello ad una zona più bassa del suo corpo. Si ricompose. Doveva mantenere la calma ed evitare pensieri poco casti.
“Ho esagerato?” domandò Magnus, titubante, chiaramente fraintendendo l’occhiata di Alec.
“No, sei bellissimo.” Alec si sporse per lasciargli un bacio a stampo. “Vieni,” continuò. “Di là ti stanno aspettando.”

Magnus si riteneva un tipo abbastanza intraprendente. Le sue esperienze vitali gli avevano insegnato a gestire qualsiasi situazione nel migliore dei modi, talvolta persino mascherando le sue insicurezze, mostrando una faccia stoica e piena di sé. Quella sera fu diverso. Ovviamente. Con Alexander era tutto diverso, era tutto più vero, reale, quindi anche le sue insicurezze di diciottenne vennero a galla, quando mise piede nel salotto di casa Lightwood, dove la famiglia di Alec lo stava aspettando. Sentì le gambe instabili, non appena vide Maryse Lightwood, una donna dalla bellezza affilata e dal portamento fiero. Assomigliava moltissimo ad Isabelle, sebbene Magnus riuscì a cogliere una somiglianza anche con Alexander.
Magnus non si rese conto di star trattenendo il fiato fino a quando la donna gli sorrise e gli andò in contro per salutarlo.
“Ciao, Magnus.” Gli porse una mano, che il ragazzo strinse.
“Buonasera, signora.”
Gli occhi di Maryse erano così diversi da quelli di Alexander, pensò Magnus, sentendo lo stomaco che si attorcigliava su se stesso. Non si sentiva così insicuro da secoli. Forse perché era la prima volta che stava con qualcuno di cui gli importava così tanto, a livello emotivo. Alexander era diverso dagli altri. Era speciale sotto ogni punto di vista.
“Puoi chiamarmi Maryse.”
Magnus annuì. Cercò Alec con lo sguardo e lo trovò immediatamente al suo fianco. Percepì una mano sfiorare la propria e a quel punto si rilassò. “Ragnor ha decantato moltissimo i suoi dolci. Ha detto che sono stati i migliori che abbia mai assaggiato.”
La donna sorrise e Magnus colse una punta di imbarazzo per quel complimento, lo stesso che portava Alec ad arrossire quando veniva decantato per qualcosa in cui era bravo. “È molto gentile, ringrazialo.”
Magnus annuì e guardò di nuovo Alec, che gli sorrise. Era così bello quando sorrideva. Lo vide sporgersi verso di lui e per un attimo credette che gli volesse dare un bacio di conforto sulla guancia, ma in realtà afferrò il sacchetto che teneva stretto in una mano. Era talmente nervoso che si era persino dimenticato di averlo – e di stringerlo così forte da farsi diventare le nocche bianche.
“Hai portato il gelato?”
Magnus annuì. “L’ho preso in quella gelateria che ti piace tanto.” L’avevano scoperta per caso in uno dei loro pomeriggi in giro per New York, in una stradina sperduta, ma molto caratteristica. Alexander si era innamorato di quel gelato, reputandolo il suo preferito in assoluto.
Alec sorrise e le sue guance si colorarono di un leggero cremisi. Magnus si perse un attimo a guardare  gli occhi di Alexander, che si illuminavano in un modo particolare quando sorrideva, facendogli sempre sentire una calda tenerezza all’altezza dello stomaco.
“Basta che non hai preso solo quei gusti astrusi che piacciono tanto ad Alec, tipo la stracciatella di fichi.” Intervenne Jace.
“Jace!” Lo rimproverò Maryse in un sibilo.
“O è stracciatella, o sono fichi. Non puoi mischiare le due cose!” continuò il biondo, nonostante l’occhiataccia della madre. Isabelle, al fianco del fratello, gli diede un sonoro scappellotto.
“Se non ti piace, puoi non mangiarla!” Tagliò corto la ragazza, prima di dirigersi verso Magnus con un sorriso e abbracciarlo. “Non dovevi portare niente, oltre alla tua magnifica presenza.”
Magnus rise e ricambiò l’abbraccio.
“Potevi portare del gelato normale!” continuò Jace – facendo alzare gli occhi al cielo per la disperazione alla madre –  mentre si dirigeva verso Magnus per dargli una pacca sulla spalla.
“Ho portato del gelato normale. I tuoi gusti decisamente monotoni mi hanno spinto a non osare troppo.”   
Alec rise dal naso, guadagnandosi un’occhiata in tralice da parte del fratello, che si sentì profondamente tradito.
Maryse si schiarì la gola per riportare l’ordine e Magnus si chiese se non avesse esagerato ad essere così diretto davanti alla donna. Si tranquillizzò quando vide che non era per nulla turbata dal piccolo battibecco avuto con il figlio. “Non dovevi disturbarti a portare niente, Isabelle ha ragione.” E lanciò un’occhiata di rimprovero a Jace, come se gli stesse silenziosamente dicendo che era così che si rispondeva agli ospiti. “Ma ti ringrazio.” Poi si rivolse ad Alec. “Dai a me,” disse, allungando le braccia verso il sacchetto. “Lo vado a mettere in freezer.”
“Vuoi una mano a fare qualcosa, mamma?” domandò Alec.
“No, stai tranquillo. Vi chiamo quando è tutto pronto.”
I ragazzi annuirono e Maryse uscì dalla stanza per andare in cucina.
Quando la donna uscì, Magnus si lasciò andare ad un sospiro rilassato. Non era andata tanto male, pensò. La madre di Alexander sembrava una persona cordiale – severa, ma non per questo cattiva. Era stata gentile con lui e ospitale abbastanza da farlo sentire a suo agio.
“Grazie per il gelato.” Alec gli prese la mano e fece intrecciare le loro dita. Magnus si avvicinò a lui per dargli un bacio sulle labbra.
“Dovere, pasticcino.”
Alec arrossì e gli baciò la fronte.
“Potreste essere meno sdolcinati?”
Alec si voltò verso Jace con aria confusa, mentre Magnus gli lanciò un’occhiata risentita.
“Per colpa vostra,” cominciò Jace, con l’intenzione di spiegare il suo ultimo commento, “Clary mi dice sempre: non potresti essere un po’ più romantico? Guarda Alec e Magnus. Create qualcosa con cui non posso competere!”
“Non è colpa mia se la tua idea di romanticismo consiste nel portarla ad una corsa clandestina di motociclette con i tuoi compagni di squadra.” Ribatté Alec, piccato, facendo sorridere Magnus, piacevolmente compiaciuto di quel commento.
“L’ho vinta quella gara. E con i soldi le ho comprato un peluche così grosso che occupa metà del suo letto.”
“Vuoi mettere vincere un peluche al luna park, magari di sera, circondati dalle luci colorate e dal profumo di caramello nell’aria? Rassegnati Jace, corsa clandestina e romantico non possono stare nella stessa frase.”
Isabelle non riuscì a trattenere una risata e Jace si voltò verso di lei, supplicandola silenziosamente di cercare di capire il suo punto di vista e di non abbandonarlo ad un infelice tre contro uno. La sorella gli rispose con una silenziosa alzata di spalle, come se non riuscisse a trovare una piega al ragionamento del maggiore dei suoi fratelli.
Sconfitto, Jace curvò le spalle, ma quando colse il viso di Max che faceva capolino dalla porta della sala, lo chiamò a gran voce. Era sicuro che il suo fratellino gli avrebbe dato man forte. “Max! Vieni, devo chiederti una cosa!”
Il piccolo di casa Lightwood si avvicinò con cautela, i suoi occhi neri erano fissi sulla figura di Magnus, studiandolo con curiosità. Il ragazzo sentì l’agitazione tornare un poco. Ci teneva a fare bella figura anche con Max.
“Secondo te,” gli disse Jace, mentre il piccolo ancora guardava Magnus. “Sono meglio le motociclette o i luna park?”
“Il discorso è un po’ diverso, Jace.” Gli fece notare Alec, ma il biondo agitò una mano come se volesse liquidare una mosca fastidiosa.
“Non stare a sentire Alec. Allora, cosa preferisci, Max?”
Solo allora il piccolo portò l’attenzione sul fratello con la fronte corrugata. “Dipende. Le moto sono fantastiche, ma al luna park hanno lo zucchero filato. Se fossi abbastanza grande da poterne guidare una, la userei per andare al luna park, così potrei mangiarlo e fare entrambe le cose.”
Magnus non riuscì a trattenere una risata. Quel bambino era in gamba, sicuramente astuto. “Ti ha fregato.” Disse e Max tornò a guardarlo con curiosità. Si avvicinò con una mano tesa.
“Sono Max.”
“Magnus.” Il ragazzo ricambiò la stretta del bambino. 
“Perché dici che l’ho fregato?”
“Penso te lo spiegherà tuo fratello.” Magnus ritrasse le labbra all’interno della bocca per non ridere, non volendo infierire ulteriormente su Jace.
“Non spiegherò un bel niente. Sapete che vi dico? Il romanticismo è soggettivo.”
Max alzò un sopracciglio, confuso. “Tu non sei romantico.” Disse, rivolto al fratello. Jace si mise i palmi in faccia e ci sbuffò dentro, esasperato, mentre Alec rideva. “Ogni volta che guardiamo un film,” Spiegò Max, rivolgendosi a Magnus, “E c’è una scena romantica, lui inizia a sbuffare, mentre Izzy piange.”
“Ehi!” lo rimbeccò la ragazza, sentendosi tirata in causa.
Magnus si chinò all’altezza del bambino. “E Alexander?”
Max guardò il più grande dei suoi fratelli e sorrise. “A volte piange, ma nega di farlo, altre volte sospira.”
Alec decise di intervenire, riportando un minimo d’ordine. “Va bene, basta rivelare segreti.”
“Vuoi dire che hai dei segreti con me?” domandò Magnus, rialzandosi, con un sorriso sornione in viso.
“Si chiamano segreti per un motivo.” Rispose Alec con un’espressione astuta.
“So quando mi menti.”
“Allora dovresti saperlo anche adesso.”
Magnus avrebbe voluto pizzicargli un fianco. O baciargli via dal viso quell’espressione furba che lo faceva assomigliare ad una volpe aggraziata. O fare entrambi. Ma non poteva. Non davanti a tutti i suoi fratelli. Si limitò a fargli una linguaccia scherzosa. “Sei insopportabile.”
Alec sorrise e si sporse per baciargli la fronte. “So anche io quando menti.” Disse, con le labbra ancora appoggiate alla sua pelle.
Magnus, nonostante i suoi tentativi di mantenere il broncio, rise e lo allontanò da sé. Era bello vederlo così rilassato e a suo agio. Alexander mostrava il loro rapporto esattamente per quello che era davanti a tutti i suoi fratelli, senza trattenersi. A Magnus bastò questa consapevolezza per far sciamare tutti i residui di ansia che aveva provato.
Magnus guardò i fratelli di Alec, che li stavano fissando. Si focalizzò su Max, perché era l’unico che ancora non conosceva e lo vide accennare un sorrisetto.
“Sai, Magnus Bane.” Disse il piccolo, non appena notò lo sguardo del ragazzo su di sé. “Hai un profumo familiare.”
“Ah sì?”
Max annuì. “Legno di…” il bambino si fermò a riflettere, cercando di ricordare il nome che gli aveva detto Isabelle. “Sandalo! Sapevo c’entrava qualcosa simile alle scarpe!” ragionò ad alta voce, facendo ridacchiare Magnus. “E può significare solo una cosa.”
“Cosa?” Domandò il ragazzo, incuriosito e divertito dal comportamento di Max.
“Che anche tu e Alec vi sbaciucchiate come fa Izzy con il suo ragazzo!”
Alec si strozzò con la sua saliva, le guance si colorarono di rosso, mentre Jace esplodeva in una risata – troppo di gusto, probabilmente vedendo la cosa come una sorta di rivincita per la conversazione di poco prima. Isabelle cercò di non unirsi al fratello, ma non riuscì, sebbene mantenne la sua risata più controllata.
Magnus, invece, mantenne la sua usuale calma. “Non posso negare. In più, tuo fratello è molto più bello di Seymour, quindi sono doppiamente tentato.”
Max lo guardò un tantino disorientato. “Chi è Seymour?”
Prima che Isabelle potesse rispondergli che si trattava di Simon e specificare che era quello il nome del suo ragazzo, Maryse li chiamò a tavola, ponendo fine a quell’assurda conversazione.

*

Era andata bene, pensò Alec mentre tirava giù la scaletta della botola per arrivare allo studio. La cena era trascorsa tranquilla e non c’erano stati momenti imbarazzanti, se si esclude il racconto di sua madre riguardo quel periodo della vita di Alec in cui, a quattro anni, pensava che si dicesse ippototamo e non ippopotamo, correggendo chiunque lo chiamasse nel modo giusto e non come lo chiamava Alec. Magnus aveva detto che era una cosa estremamente adorabile e gli aveva appoggiato una mano sul ginocchio, sotto al tavolo, mentre le guance di Alec diventavano rubizze. Non gli piaceva che venissero raccontate certe cose, facendolo sembrare un piccolo despota con problemi di pronuncia, ma a quanto pare, il suo ragazzo non la pensava allo stesso modo. Anzi, aveva chiesto a Maryse ulteriori aneddoti sul piccolo e adorabile Alec e la donna, incurante dell’imbarazzo del figlio, l’aveva accontentato. Dopo che Alec aveva assunto tutte le tonalità di rosso esistenti, Maryse aveva deciso di dargli tregua e aveva chiesto a Magnus cosa volesse fare al college e lui le aveva risposto che avrebbe voluto studiare fotografia, cominciando a parlare del progetto che stava portando avanti con la scuola e che vedeva Alec come protagonista.
«Alec si lascia fotografare? Beh, questa è nuova.» Aveva detto Maryse, stupita, e Alec aveva pregato con tutto il suo cuore che non cominciasse a raccontare quel periodo della sua vita quando, da bambino, fuggiva letteralmente davanti alla macchina fotografica.
«Abbiamo lavorato in modo diverso. Lo fotografo quando non sa di essere fotografato.»
Maryse aveva alzato le sopracciglia, curiosa e interessata, ascoltando Magnus che spiegava il modo in cui aveva deciso di gestire il suo progetto – progetto che, per inciso, continuava a definire una sorpresa ogni volta che Alec gli chiedeva di cosa trattasse effettivamente. Non poteva trattarsi solo di lui, giusto?
Tutto, comunque era andato per il verso giusto. La metà della sua famiglia che non conosceva Magnus sembrava apprezzarlo e Alec non poteva che esserne felice.
Nessuno aveva chiesto da quanto stessero insieme – non sapeva perché pensava che qualcuno lo avesse chiesto – e Alec si era reso conto che la risposta sarebbe stata sei mesi. Mezzo anno, passato decisamente in fretta. Si appuntò mentalmente di chiedere ad Izzy se si dovessero fare dei regali particolari per quell’occorrenza. Magari delle rose. Magnus gli aveva portato un mazzo di rose, il mese prima per festeggiare San Valentino. E Alec aveva fatto una figura a dir poco infelice (per non dire atroce), non avendo pensato a niente da regalare al suo fidanzato. Si era giustificato dicendogli che non aveva mai festeggiato un San Valentino in vita sua e che, di conseguenza, in genere tendeva a dimenticare quella festività. Forse avrebbe potuto rimediare a quella bieca figura facendogli una sorpresa per il loro mesiversario. Si chiamava così, poi?
“Sai, zuccherino, inizio a capire cosa intendevi quando hai detto che di questa stanza ti piace la vista.”
La voce di Magnus interruppe i pensieri di Alec, che si stava arrampicando sulla scaletta che aveva tirato giù. Non ci voleva un genio per capire che Magnus, alle sue spalle, ce l’avesse con il suo sedere.
“Magnus.” Lo rimbeccò bonariamente, ma l’altro non si lasciò scoraggiare e gli diede una pacca decisa su una natica.
Alec entrò nella sua stanza preferita in casa – a volte la preferiva persino alla sua camera – e aiutò Magnus a salire. Non che ne avesse bisogno, ma voleva essere galante.
“Quindi è questo il tuo posto speciale.” Disse Magnus, guardandosi intorno. Non si stupì di constatare che la stanza preferita di Alec fosse semplice e funzionale. La mobilia consisteva in un divano, una scrivania su cui stava una lampada e una piccola libreria. Gli occhi di Magnus vagarono fino al rosone, dove sapeva Alexander andava a sedersi e automaticamente si mosse in quella direzione. Capiva cosa intendesse dire il suo ragazzo, quando diceva che quella vista gli piaceva. Da quell’altezza si vedeva la vita in strada, le luci colorate della città più in lontananza, l’eco dei suoni provocati dagli esseri umani – che fossero le loro voci, o il suono dei clacson.
“È questa la vista di cui ti parlo sempre.”
Magnus tenne gli occhi ancora incollati fuori dalla finestra. “Il tuo sedere non ha niente da invidiare a tutto ciò. Sempre di viste spettacolari si tratta, bonbon.”
Alec, al suo fianco, gli diede una spallata e Magnus gli scoccò un’occhiata laterale tra il divertito e l’irriverente. Espressione che portò Alec ad afferrargli il mento, farlo girare verso di sé e baciarlo. Non riusciva a resistere a quell’espressione malandrina. Magnus ricambiò di buon grado il bacio, visto che non si erano ancora baciati da quando aveva messo piede in quella casa. O almeno, non si erano dati un bacio come si deve, di quelli lunghi e dolci e pieni di complicità. Alec aveva ancora il sapore zuccherino del gelato sulle labbra che rese il bacio ancora più piacevole.
“Vuoi attentare alla mia virtù, ciambellina?”
Alec rise, scuotendo la testa. In mezzo anno aveva anche accettato l’idea che Magnus avrebbe continuato ad appellarlo con i nomi più ridicoli che gli sarebbero passati per la testa, nonostante le proteste di Alec, quindi aveva smesso di protestare.
“Se non vuoi che ti baci, basta che lo dici.” Alec fece per muovere un passo indietro, ma Magnus mosse il braccio più velocemente, gli circondò la vita e lo tirò a sé.  
“Il giorno che rifiuterò un tuo bacio, sarà il giorno in cui dovrai dichiararmi pazzo.”
Alec rise di nuovo e gli baciò la punta del naso. Sentì entrambe le braccia di Magnus intorno alla sua vita che lo abbracciavano stretto. Alec gli circondò il collo con le proprie e cominciò a giocare distrattamente con i capelli sulla nuca. “Come ti sembrano?”
“I tuoi baci?”
Alec lo guardò di traverso, le labbra che combattevano contro l’impulso di sorridere per mantenere un’espressione seria. “Mamma e Max. Come ti sembrano?”
“Escludendo Trace da questa domanda, dai per scontato che lui mi piaccia?”
Alec alzò gli occhi al cielo e diede uno scappellotto al suo ragazzo, che si lamentò con un sonoro ahi!.  
“Va bene, va bene.” Magnus si fece serio. “Sono brave persone, tesoro. Sono stati gentili e non ho provato nessun tipo di disagio.”
Alec tirò un sospiro di sollievo e gli baciò la fronte. “Me lo diresti, se l’avessi provato?”
“Certo, amorino.” Magnus gli diede un bacio a stampo. “All’inizio ero agitato, ma hanno fatto di tutto per mettermi a mio agio. Lo apprezzo.”
“Hanno… Hanno accettato la tua presenza nella mia vita.”
Magnus si chiese se Alexander non stesse parlando implicitamente più della madre che del fratellino. Era lei che lo preoccupava, insieme al padre, all’inizio. Ricordava benissimo i suoi timori, gliene aveva parlato durante una delle loro prime uscite, e riguardavano più che altro i suoi genitori. Doveva essere liberatorio sapere che almeno uno dei due era dalla sua parte. Magnus fu tentato di chiedergli come si stava evolvendo la situazione con suo padre, ma ebbe l’impressione che niente fosse mutato, da quando Robert Lightwood aveva lasciato quella casa, che sotto ogni aspetto apparteneva unicamente a Maryse, che l’aveva ereditata dai suoi genitori. Decise di non nominare quell’uomo per non rischiare di rovinare l’umore di Alexander.
“Una magnifica presenza, non trovi?”
Alec scosse la testa. “Sei estremamente vanitoso.”
“Posso permettermelo, zuccherino. Vuoi negare che sia fantastico?”
Alec lo baciò. “No. Sei meraviglioso, fantastico e bellissimo.” Lo guardò con un’intensità tale che Magnus temette seriamente che le gambe non avrebbero retto il suo peso, liquefacendosi come burro al sole. Alexander non si rendeva totalmente conto dell’ascendente che aveva su di lui, delle reazioni che gli suscitavano i suoi comportamenti così spontanei e sinceri in modo devastante. C’era una trasparenza in lui, un’onestà, che facevano innamorare Magnus ogni giorno di più. Lo baciò, tirandolo a sé, spalmandoselo quasi addosso, e il suo cuore per poco non esplose quando Alexander rispose al suo bacio con una foga quasi bisognosa.
Lo amava. Lo amava da morire.


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Ciao a tutti e ben ritrovati!
Allora, come avrete sicuramente capito, nemmeno questo è l’ultimo capitolo e ho deciso per esasperazione verso me stessa e la mia totale incapacità di rispettare degli schemi che smetterò di dire questa cosa.
Doveva essere l’ultimo, ma solo fino a questo punto sono 20 pagine word e siccome vorrei aggiungerci altre cosine, non volevo che diventasse infinito - o rischiare di tirare via - quindi ho deciso di dividerlo. Inoltre è già passato un mese dall’ultimo aggiornamento e già mi scoccia andare così a rilento, in più se mi metto a sforare il mese, i miei sensi di colpa si acuiscono.
Allora, cosa ne pensate? Abbiamo l’incontro tra Mama Lightwood, Max e Magnus e vorrei precisare che l’idea della cena è stata suggerita da hermione_06 qualche recensione fa! Spero che ti sia piaciuta e che sia almeno un po’ come l’avevi immaginata!
Se vi va di farmi sapere cosa ne pensate, mi fa piacere!
Vorrei dire un’ultima cosa poi smetto di cianciare perché le note vengono sempre lunghissime :’D – Ho scritto un epilogo, ambientato dopo la storia, diciamo nel futuro. Questa idea è stata suggerita da valentina19 ed è stata alimentata dal fatto che, sotto consiglio di danim e Yami no Yoake ho letto per la prima volta e riletto ultimamente “Nascono alcuni ad Infinita Notte”, racconto numero 9 presente in “Le Cronache dell’Accademia” di Cassandra Clare, e quindi, se l’avete letto potete immaginare di cosa si tratta. Nel caso, vorreste che venisse inserito, una volta conclusa la storia? È già pronto, quindi nel caso voleste leggerlo, non ci metterò un’eternità a pubblicarlo!
Fatemi sapere, intanto vi saluto e vi ringrazio come sempre immensamente per seguire questa storia, leggerla e recensirla. Un abbraccio, alla prossima! <3 

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Capitolo 21
*** 21. ***


Alec era certo che la prima volta che lui e Magnus si erano baciati fosse intorno alla fine di settembre, il 29 per essere precisi. Non sapeva se bisognasse contare quella data come quella effettiva per festeggiare (era il termine giusto?) il loro mezzo anno insieme. Soprattutto perché la mattina del 29 era la stessa in cui Alec e Magnus si erano visti in quella pasticceria e Magnus aveva esplicitamente detto che non era un appuntamento, ma solo due persone che prendono un caffè insieme. E se avesse fatto la figura dell’idiota, dando per scontato che quella data fosse la data giusta? Non avevano mai festeggiato niente durante questi mesi, perché quindi il 29 di marzo (che sarebbe arrivato solo nel giro di una settimana!) doveva essere diverso? Alec si chiese se non fosse il caso di lasciar perdere, mentre scansava il portatile, appoggiandolo ai piedi del materasso. Gettò la testa all’indietro, sul cuscino, e rimase a fissare il soffitto. Era una cosa stupida? Stava dando importanza ad una data che forse era anche quella sbagliata? Non lo sapeva. Una parte di lui gli suggeriva di lasciar perdere, un’altra – quella che ancora si sentiva in colpa per essersi dimenticato di San Valentino (quale essere umano normale dimentica la festa degli innamorati, quando è innamorato cotto del suo fidanzato?) gli suggeriva di inventarsi qualcosa di carino per rimediare. Sì, ma cosa? 
Si sollevò sui gomiti e lanciò un’occhiata al portatile: il salva schermo, con le bolle di sapone che partivano dal basso e volavano verso l’alto, sembrava volesse deriderlo e sbattergli in faccia la sua totale mancanza di inventiva. In altri casi, avrebbe chiesto consiglio ad Izzy, ma si trattava di Magnus e si era promesso di sforzarsi per trovare da solo qualcosa di carino per il suo ragazzo. Anche se, fino ad ora, andare a cercare su internet sorprese da fare al proprio fidanzato  non aveva portato a nulla di utile e gli aveva persino dato la sensazione di star barando.
Si accasciò di nuovo sul cuscino, esasperato. Il soffitto bianco ricambiava il suo sguardo e Alec ci si focalizzò, come se all’improvviso avesse potuto veder comparire delle parole nere scritte appositamente per lui, per suggerirgli la soluzione.
Parole, scritte nere su bianco.
Forse era quella la soluzione, pensò Alec, mentre si alzava dal letto e andava a recuperare il quaderno che gli aveva regalato Magnus.


Caro Magnus,
Anche se dovrei usare qualcosa che assomigli più a “Adorato,” o, visto che stiamo parlando di te, la cui modestia, lo sappiamo benissimo entrambi, è inesistente, “Magnifico,” ma sto andando fuori tema.
Ho deciso di scriverti una lettera, cosa che di questi tempi ti sembrerà antiquata, ma una volta mi hai detto che sei uno all’antica, in fondo, e credo di esserlo anche io, a modo mio.
Ti chiederai il perché di un gesto tanto insolito e, se avrai un po’ di pazienza, lo scoprirai.
È partito tutto da San Valentino, e sebbene tu sia stato comprensivo e dolce – come solo tu sai essere – riguardo la mia dimenticanza, volevo trovare un modo per rimediare.
Volevo trovare un modo per esprimerti cosa sei per me, nello stesso modo in cui tu hai fatto con me, regalandomi quelle rose, che hanno profumato camera mia per giorni interi, facendo starnutire Jace. Ancora non ho capito se sia allergico a tutto ciò che simboleggia manifestazioni di affetto o se sia semplicemente allergico ai fiori, ma questi sono dettagli irrilevanti, adesso. 
Devi sapere, caro Magnus, che sei tutto ciò che ho sempre desiderato, anche quando non sapevo cosa desideravo.
Sei un’epifania, che mi ha fatto comprendere che sei tu la parte mancante del mio cuore, quel pezzo che mi completa e che mi permette di vivere la vita in un modo diverso, migliore.
L’hai presa in mano, la mia vita, insieme al mio cuore insicuro, e hai reso la prima migliore, il secondo più forte. Perché non si sarebbe mai rafforzato, se tu non avessi incrociato il mio sguardo, quella mattina di settembre, facendolo iniziare a battere con un’intensità tale che temevo mi sarebbe esploso da un momento all’altro. Gli hai ridato vita, portandolo a muoversi ad un ritmo intenso e indomabile.
Indomabile. È di questo che si tratta… eri tu, sei sempre stato tu, l’unico, il solo. Colui che mi avrebbe fatto muovere il mondo intero, pur di raggiungerti, pur di averti al mio fianco. Non sarei riuscito a domare i miei sentimenti per te, a nasconderli, nemmeno se avessi impiegato tutte le mie forze. Questo perché ce n’era un’altra, dentro di me, molto più forte di tutte le altre: l’amore. Ti ho amato dalla prima volta che ti ho visto, senza rendermi effettivamente conto di farlo.
Ti ho amato quando mi hai compreso con una facilità disarmante.
Ti ho amato quando mi hai baciato, la prima volta, e ti amo un po’ di più ogni volta che continui a farlo.
Ti amo, sempre, quando stai al mio fianco.
Ti amo quando ti rannicchi contro di me e, assonnato, combatti contro Morfeo pur di provare a sentire la fine dei miei discorsi. Anche quelli senza senso. Per quelli ti meriteresti una medaglia, davvero.
Amo guardarti mentre fai ciò che ti piace, perché il tuo viso si illumina in un modo che ti rende ancora più bello. Il che dovrebbe essere umanamente impossibile, eppure è così. Sei tutto ciò che di spettacolare esiste al mondo. Persino la bellezza dei tramonti che ti piace tanto fotografare, impallidisce a confronto con la tua – esteriore e interiore.
Ti amo perché nonostante io sia una frana in certe cose, hai sempre avuto pazienza. E riesci a vedere oltre i miei difetti, forse amando anche quelli. Non lo so, sto diventando presuntuoso? Dici sempre che è una caratteristica che non mi appartiene, ma non ne sono molto sicuro, in questo momento, sai?
Non sono sicuro di moltissime cose, in realtà. Non so che tipo di uomo sarò, non so nemmeno se riuscirò a fare tutto ciò che mi sono prefissato di fare. La vita è imprevedibile e illuderci di poterla controllare è da sciocchi. Ma di una cosa sono sicuro: voglio te, ora e sempre. E ti amerò con tutto me stesso, adesso e per tutta la mia vita.
Tuo,
Alec.


“Cosa stai facendo?”
Alec sussultò, rischiando di scarabocchiare la lettera con la penna, la cui punta era ancora appoggiata alla carta. Chiuse velocemente il quaderno e alzò lo sguardo verso la porta. Jace lo sguardava con gli occhi socchiusi, le iridi bicromatiche vigili e indagatrici.
“Scrivo.”
“Questo lo vedo, non sono così idiota. Ma perché stai tutto rannicchiato sul tuo letto?”
Alec arrossì. “Perché sono più comodo.”
“Ingobbito e appollaiato come un avvoltoio? Non me la bevo.” Jace si avvicinò con un’agilità felina al letto di Alec, con le mani pericolosamente allungate verso il suo quaderno. Il maggiore ebbe la tentazione di morderlo, ma desistette e optò per qualcosa di meno animalesco. Tipo nascondere il quaderno sotto al cuscino e sedersi sopra di esso.
“Sono affari miei.”
Jace gli rivolse un sorrisetto da squalo. “D’accordo, Shakespeare. Come vuoi.”
Alec assottigliò lo sguardo e sostenne quello del fratello. Jace non era uno che mollava e non gli aveva mai dato un attimo di tregua in tutta la loro vita, quindi il maggiore sapeva che non era il caso di abbassare la guardia. Scese dal letto e recuperò le sue cose – quaderno compreso, ovviamente – e si diresse verso l’uscita della camera, per andare nello studio, dove avrebbe nascosto il quaderno in un posto che Jace non avrebbe mai trovato.

*

Alec aveva passato tutta la settimana fino al 29 marzo a chiedersi se la sua idea della lettera fosse una trovata carina o una schifezza assoluta. Era agitato come non mai, mentre sistemava i guantoni da boxe nel borsone. Era tardo pomeriggio e lui aveva appena finito il suo allenamento, mentre sapeva che Magnus era ancora impegnato al corso di fotografia. Se si fosse sbrigato a fare la doccia, avrebbe potuto raggiungerlo nella sua aula e fargli una sorpresa. Fissò la busta con la lettera che si trovava in una angolo del suo borsone. Era piccola, bianca, una normalissima busta. Era il contenuto che agitava Alec. Lui non era mai stato un tipo troppo espansivo e in quella lettera lo era stato assai, esponendosi più di quanto avesse mai fatto in vita sua. Questo un po’ lo preoccupava. Non sapeva se avesse esagerato, se fosse una cosa troppo sdolcinata. Non sapeva se Magnus avrebbe apprezzato, o se avesse visto quel gesto come un’azione fuori luogo.
C’è solo un modo per scoprirlo – pensò Alec, facendosi forza. Sì, poteva provare. Accantonò tutti i suoi dubbi e si diresse verso le docce dello spogliatoio, cercando di prepararsi un discorso decente che precedesse la consegna manuale della lettera.

Alec con le parole faceva schifo, aveva appena appurato. Il che era davvero una tragedia perché non si è mai visto un aspirante scrittore che fa schifo con le parole. Poteva dire a sua discolpa, però, che era una frana quando doveva parlare, mentre se doveva scrivere la cosa era un po’ diversa. O almeno, così voleva credere per non iniziare a dubitare delle scelte di vita sulle quali avrebbe voluto basare il suo futuro. Sospirò, concentrandosi su quello che stava per fare. Lavato e vestito – con dei jeans neri strappati sulle ginocchia e una maglietta grigia – si appostò davanti all’aula di Magnus. Secondo i suoi calcoli, avrebbe finito quell’ultima lezione pomeridiana tra tre minuti – un lasso di tempo che Alec avrebbe passato a cercare di preparare un discorso.
«Ehi Magnus. Prendi, questa è per te.» NO, terribile.
«Ciao Magnus. So che ti piace leggere, quindi ho scritto questa per te.» Assolutamente NO, questa era ancora più terrificante della prima. Ma che gli prendeva, santo cielo? Si era rincitrullito da un momento all’altro? Forse i colpi presi durante il nuovo allenamento stavano offendendo i suoi neuroni più di quanto si sarebbe mai aspettato. Si appuntò di chiedere al coach se ciò fosse possibile… Concentrati! Sì, sì giusto. Divagare e perdere tempo non sarebbe stato minimamente utile.
Allora, Magnus… Magnus e il discorso... Magnus e il discorso per consegnare la suddetta lettera. Quel discorso?
Oh, Gesù, Lightwood! Le botte in testa ti hanno reso un cretino.
Il rumore della porta dell’aula che si aprì distolse Alec dai suoi pensieri (e dalla voce accusatoria della sua coscienza), facendogli tornare una punta di panico. Fece un respiro profondo, ripetendosi mentalmente che sarebbe andato tutto bene, mentre guardava gli studenti uscire dall’aula. In ogni volto cercava quello di Magnus, ma senza risultati. Erano quasi usciti tutti quando Alec cominciò a chiedersi se Magnus fosse uscito prima, o se magari si fosse sbagliato e avesse confuso gli orari del suo ragazzo, ma poi una figura familiare attirò la sua attenzione.
“Magnus è ancora in aula.” Disse Imasu, che frequentava letteratura francese e fotografia con Magnus. Alec aveva l’impressione che avesse cominciato a seguire quest’ultimo corso per avere un’occasione in più di stare a contatto con il suo ragazzo, ma si era trattenuto dal farlo notare a Magnus perché non voleva fare la figura del fidanzato paranoico. Comunque, l’occhiata rassegnata che il peruviano lanciò ad Alec, gli fece pensare che forse aveva ragione. Da quando avevano smesso di fare finta di essere solo amici, cominciando a tenersi per mano anche a scuola e scambiandosi segni d’affetto di tanto in tanto, Imasu aveva cominciato a guardare Alec in modo strano. Non con astio, ma come se si fosse arreso all’idea che le sue chance erano davvero diventate nulle e in qualche modo invidiasse Alec per essere riuscito dove lui aveva fallito. Il ragazzo provò una sorta di dispiacere per l’altro, che sembrava davvero interessato a Magnus – forse era addirittura innamorato di lui – e che doveva accettare il fatto che stesse con qualcun altro.
Per un attimo, Alec si immaginò al suo posto: essere innamorato di Magnus, mentre questi era innamorato di qualcun altro – magari dello stesso Imasu – e sentì una fitta dolorosa al cuore, come l’ombra profonda di un’assenza di qualcosa di estremamente vitale per lui. Scacciò quel pensiero e rivolse ad Imasu un sorriso accennato. “Grazie.” Gli disse, prima di vederlo andare via.
Alec rimase sulla soglia qualche istante, indeciso sul da farsi, ma poi optò per entrare. L’aula di fotografia era diversa dalle altre. Era più ampia, lunga e larga rispetto alle aule normali. Alec si inoltrò in quel territorio a lui sconosciuto, facendo vagare lo sguardo sulle pareti, alcune spoglie altre piene di fotografie. C’erano dei banchi e dei treppiedi su cui erano appoggiate macchine fotografiche con degli enormi flash attaccati sopra ad esse, delle luci e un silenzio irreale, come se provenisse da un’altra dimensione. Alec si sentì quasi un estraneo, o un miscredente che invade qualcosa di sacro. Solo quando i suoi occhi colsero la figura di Magnus, china sopra ad un banco a sfogliare quello che aveva tutta l’aria di essere un album, quella sensazione di essere di troppo svanì. Un sorriso nacque spontaneo sul suo viso, nel momento esatto in cui Magnus appuntò qualcosa su un quaderno al suo fianco, in seguito ad un’esclamazione. Alec pensò che se fossero stati in un cartone animato, sopra alla testa del suo ragazzo adesso ci sarebbe stata una lampadina.
“Ehi, Steve McCurry.” Lo salutò Alec, attirando l’attenzione del ragazzo. Magnus alzò il capo dal suo quaderno e sorrise, sorpreso.
“Che ci fai qui?”
Alec si avvicinò al banco di Magnus e si sedette – gesto a cui il fotografo reagì chiudendo di scatto album e quaderno. Alec alzò un sopracciglio davanti a quel comportamento sospetto, ma decise di non dire nulla.
“Volevo farti una sorpresa. Ti ho disturbato?”
Magnus si sporse verso di lui e gli baciò una guancia. “Non disturbi mai. Soprattutto quando mi paragoni ad un’artista del calibro di Steve McCurry.”
Alec ridacchiò. “Che stavi facendo, a proposito?”
Magnus rimase sul vago, scrollando le spalle con noncuranza. “Nulla di che, sistemavo alcuni dettagli, aggiungevo idee nuove…”
“Quando devi consegnarlo?”
“Tra un po’. Ho ancora tempo…”
Alec annuì, ammutolendosi. Il suo sguardo cadde sul borsone poggiato a terra, vicino a lui. Doveva fare ciò per cui era venuto. Sì, anche se non aveva un discorso preparatorio. Non servivano, con Magnus. A volte bastava semplicemente che si guardassero per capirsi, quindi Alec non vedeva perché scervellarsi tanto per trovare qualcosa da dire, quando poteva semplicemente chinarsi, aprire il borsone, estrarre la lettera e consegnarla a Magnus.
Il ragazzo lo guardò per una frazione di secondo con le sopracciglia aggrottate, un’espressione buffa che lo fece assomigliare ad una civetta confusa. Alec sorrise davanti a quella reazione, sentendo tutta la sua apprensione scivolare via.
“Aprila.” Disse soltanto e Magnus fece come gli era stato detto.
Le sue dita affusolate ed anellate, aprirono delicatamente la busta, facendo attenzione a non strapparla brutalmente, e ne estrassero il contenuto.
Alec, nonostante tutto, trattenne il respiro, mentre gli occhi di Magnus vagavano sul foglio. Il silenzio li avvolse per istanti che ad Alec parvero infiniti. Si sforzò di non dare importanza a quella parte di lui che tornò ad agitarsi, mentre Magnus continuava a leggere.
“Alexander.” Affermò il fotografo quando ebbe finito, dopo istanti che ad Alec parvero eterni.
“C-cosa?” Balbettò, nervoso – perché quella parte di lui prese improvvisamente il sopravvento.
“Gli altri ti chiamano Alec. Per me sei Alexander.” Magnus si sporse per dargli un bacio a stampo, prima di prendergli il viso tra le mani. “Il mio Alexander.” Gli accarezzò le guance con i pollici, mentre lo guardava negli occhi come se fosse la cosa più bella del mondo. E in effetti lo era: la cosa migliore che gli fosse capitata. “Ti amo.” Gli sussurrò sulle labbra, prima di baciarlo dolcemente. Alec portò le sue mani sui polsi di Magnus, mentre rispondeva al bacio: sentì sapore di menta, mischiata alla sensazione appiccicosa e dolciastra del burro di cacao, e il suo cuore gli rubò una quantità di battiti che Alec non seppe definire, prima di riprendere la sua corsa. “Anche io.” Gli sussurrò, con gli occhi ancora chiusi, mentre appoggiava la fronte alla sua.
“Guardami.”
Alec obbedì, allontanandosi quel tanto da riuscire a vedere meglio Magnus – il quale spostò una delle mani dalla guancia alla bocca di Alec, dove tracciò il contorno delle labbra con il pollice; i suoi occhi seguivano quel movimento, notò Alec, come se Magnus riuscisse a leggere qualcosa che a lui stesso sfuggiva. Era come guardare un cieco che legge una poesia bellissima in braille, cogliendone un significato tutto suo, prezioso e particolare.
“Sapevi che era un appuntamento, quindi?” domandò dopo attimi di silenzio, riportando i suoi occhi ambrati su quelli di Alec.
“A dire la verità no.”
Magnus sorrise. “Lo era. Non volevo spaventarti chiamandolo così.”
Alec si sporse verso di lui per dargli un bacio sulla fronte. Rimase fermo, con le labbra a contatto con la pelle di Magnus, pensieroso. “Sei mesi, Magnus. Tutto ciò che è scritto in quella lettera è vero.”
“Lo so.”
“Mi hai capito anche in quel caso. Non hai affrettato niente. Potevi baciarmi, quella mattina, quando ci siamo salutati, ma non l’hai fatto.” Lo guardò negli occhi, andando a cercare la sua mano e intrecciando le loro dita.
“Avrei voluto farlo, ma volevo che lo volessi anche tu, così ho aspettato.”
“Non mi ci è voluto molto per capire che volevo farlo, comunque.”
Magnus ridacchiò. “No, è successo più in fretta di quanto mi aspettassi.”
Alec strinse la presa sulla mano di Magnus e sorrise. “Il fatto è che eri così bello. Ero curioso di sapere che sapore avessi.” Ammise, nonostante ricordasse benissimo che, se si erano baciati quella volta, era perché Magnus aveva fatto il primo passo, cogliendo dei segnali che Alec sperava gli fossero arrivati. Non era sicuro della sua capacità di flirtare. O meglio, era sicuro di non esserne capace, ma Magnus riusciva a capire anche i suoi impacciati segnali.
“Sono ancora bello, chiariamo. E puoi assaggiarmi quando vuoi.”
Alec arrossì e nascose il viso nell’incavo del collo del maggiore, il quale usò la mano libera per andare ad accarezzare i capelli dell’altro, all’altezza della nuca. “Mi dispiace essermi dimenticato di San Valentino.” Sussurrò Alec, dopo qualche istante passato sotto le carezze amorevoli di Magnus.
“Lo so, ma ti ho già detto che non importa. E nel caso, penso che siamo pari, no? Mi hai scritto una cosa dolcissima, amore.”
“Ti è piaciuto davvero? Non è… non è un po’ troppo?” domandò Alec, il viso ancora nascosto, la voce che uscì un tantino ovattata.
Magnus si lasciò andare ad una risatina affettuosa. “Troppo è il mio secondo nome.”
Alec, a quel punto, alzò il viso, così vicino a quello del suo ragazzo che i loro nasi si sfiorarono, e lo guardò con un’intensità tale che a Magnus mancò il respiro. Non dissero altro, rimasero soltanto a guardarsi per lunghi attimi, o forse per un attimo soltanto. Il tempo perdeva il suo ritmo davanti ai loro sguardi, quasi come se dovesse arrendersi al fatto che, se si trattava di loro due, non era più il sovrano indiscusso della realtà. Sembrava che perdesse ogni supremazia divina, davanti ai loro giochi di sguardi; davanti al loro amore così puro, che persino Crono doveva inchinarsi a tale bellezza, abbandonando tutte le sue leggi, antiche come la Genesi stessa.
Niente tempo, niente mondo circostante, solo Alec e Magnus, occhi negli occhi.

*

Magnus era assente. O meglio, la sua mente lo era. Fisicamente era proprio vicino a Catarina, seduto all’enorme tavolo situato al centro dell’aula usata dal comitato che organizza eventi, che quel pomeriggio era rappresentato solo da tre persone. Il tema era il ballo di fine anno, ovviamente, al quale mancavano due mesi. Non andava ad un ballo scolastico da… beh, da un bel po’ e aveva scoperto che quest’anno ci teneva particolarmente. Non tanto perché avrebbe contribuito lui stesso alla creazione di qualcosa di straordinario, quanto piuttosto perché voleva andarci con Alexander. Aveva già pensato a come chiederglielo, ma non trovava il coraggio. Cosa nuova, questa, per lui, che tendenzialmente prendeva il toro per le corna senza pensarci un attimo. Ma questa volta era diverso: si trattava di Alexander e voleva che tutto fosse perfetto. Pensò a come era stato facile per Isabelle: a lei era bastato chiedere a Simon se poteva aiutarla a togliersi l’enorme felpa che stava portando e una volta privata dell’indumento, aveva mostrato un’aderente canottiera piena di paillettes che formavano la scritta: prom? – Simon si era messo a ridere e l’aveva abbracciata di slancio, accettando la proposta tra un bacio e l’altro. Quell’anno dovevano essere i ragazzi ad invitare le ragazze, ma Isabelle Lightwood era abbastanza fuori dagli schemi per sorpassare le regole convenzionali e prendere le redini della faccenda. A Magnus piaceva anche per questo.
Una cosa che non gli piaceva, invece, era il timore che l’idea che aveva avuto lui per chiedere ad Alexander di andare al ballo insieme si trasformasse in una catastrofe.
Se ha vuelto sordo? Non bastava che fosse già estúpido!”
La voce di Raphael distolse Magnus dai suoi pensieri, facendo portare la sua attenzione sull’amico. Santiago, vestito di nero anche ad aprile, lo fissava con i suoi profondi occhi scuri, mentre Catarina gli riservava un’occhiata tra l’interrogatorio e il preoccupato. “Magnus, non rispondi alle nostre domande. Va tutto bene?”
“Certo! Perché non dovrebbe?”
Eso te callas. E tu non stai mai zitto!”
Magnus guardò l’amico con gli occhi ridotti a due fessure. “Fingerò di non cogliere una nemmeno troppo sottile accusa di essere logorroico, così come fingerò di non averti sentito darmi dello stupido.”
“Magnus…” intervenne Catarina, con tutta la pazienza di cui era capace, mentre si scostava una delle treccine che adornavano il suo capo dietro all’orecchio.
Magnus guardò la ragazza, consapevole che gli avrebbe fatto vuotare il sacco in un modo o nell’altro, e sospirò. “Tutti questi preparativi mi fanno pensare ad Alexander.”
Por el amor de Dios!” sbuffò Raphael, alzando gli occhi al cielo e portandosi i palmi in faccia con esasperazione. “Non gliel’hai ancora chiesto?”
“No, genio, altrimenti non sarei angosciato, ti pare?”
Darse prisa, allora, o qualcuno glielo chiederà al posto tuo. E fossi in lui accetterei anche l’invito di Godzilla, pur di non avere a che fare con te per qualche ora.”
“RAPHAEL!” esclamarono all’unisono Magnus e Catarina, ottenendo come unica reazione da parte dell’interessato una scrollata incurante di spalle.
“Che volete?” Commentò annoiato Raphael. “Ho solo detto la verdad.
“Come se passare del tempo insieme a te fosse piacevole.”
Catarina si massaggiò la radice del naso. A volte avere a che fare con quei due la snervava più di quanto avrebbe mai potuto immaginare. “Adesso finitela. Mancano due mesi al ballo, dobbiamo ancora organizzare un mucchio di cose, gli altri membri di questo comitato non prendono la cosa seriamente, saltando la maggior parte degli incontri, e la Herondale mi sta con il fiato sul collo.” Fissò i suoi occhi castani su Magnus. “Chiedi ad Alec di venire con te, dirà di sì in ogni caso.” Poi guardò Raphael. “E tu, mostra un po’ di empatia, a volte.”
“Sì, signora.” Dissero all’unisono i due ragazzi, mesti.
“Bene. Adesso sfornate qualche idea grandiosa!”

*

Magnus stava seduto sugli spalti della palestra della scuola. Era passata una settimana da quando aveva avuto quella conversazione con Catarina e Raphael riguardo invitare Alexander al ballo, ma, ancora, non gli aveva chiesto niente. Il fatto era che ogni volta che provava a convincersi che quello era il giorno giusto, qualcosa lo faceva ricredere.
«Sai come si chiama questa, hermano? Nella tua lingua si dice codardia.»
«Non per essere pignoli, ma è la mia
seconda lingua. E comunque, non accetto consigli da uno che pur di non avere contatti umani, quella sera, si è offerto volontario per gestire la sicurezza.»
Raphael sapeva sempre tirarlo su di morale, insomma. Era davvero stimolante avere a che fare con un raggio di sole come lui. Un arcobaleno, proprio.
Magnus appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si mise la testa fra le mani, mentre seduto in palestra ripensava a quella conversazione avuta con l’amico solo due giorni prima. Comunque, doveva ammettere che la brutale sincerità di Raphael aveva colto nel segno: Magnus si stava comportando da codardo. Perché poi? Aveva paura che Alexander gli avrebbe detto di no? Non era mica una proposta di matrimonio! Se anche avesse rifiutato, non significava mica che non lo amava più! Poteva semplicemente stare a significare che non era un amante di quel genere di eventi… e questo spiegava anche perché Alec non gli avesse ancora chiesto niente. Non perché non era interessato a lui, ma perché non era interessato al ballo.
Certo, gioia. Convinciti pure che non hai una specie di paura mortale riguardo al fatto che pensi che non gli interessi stare con te.
La voce della sua coscienza aveva centrato il punto: Magnus era terrorizzato all’idea che Alec, nonostante tutto, avesse remore ad andare a quel ballo. Sarebbe stato un evento pubblico, pieno di coppiette che ballano lenti, si tengono la mano e pomiciano vicino alle uscite di sicurezza. Si sentiva uno sciocco a pensarlo, soprattutto per il cambiamento che era avvenuto in Alexander dopo aver fatto coming-out con la famiglia, ma… ma continuava a pensare che erano due ragazzi e se quell’anno toccava ai ragazzi  fare formalmente un invito, perché il suo non gli aveva ancora proposto niente?
Nemmeno tu gliel’hai chiesto, perché sei un cabrón codardo.
Perché Raphael doveva insultarlo anche quando non era lì con lui? Ma, soprattutto, da quando Raphael era nella sua testa? Santo Cielo, doveva smettere di ascoltare i suoi pareri perché, apparentemente, erano più influenti di quanto si aspettasse. Tanto da riportarlo quasi sulla via della razionalità.
Quasi, chiariamo.
Il giorno in cui Magnus Bane userà totalmente Raphael Santiago come voce ufficiale della sua coscienza, sarà il giorno in cui dovranno internarlo in una struttura psichiatrica con un’urgenza immediata.
Comunque non aveva tutti i torti. Nemmeno lui gli aveva ancora chiesto niente e di certo non era perché non voleva andarci. Solo non riusciva ancora a trovare il momento adatto.
Forse per Alexander era la stessa cosa…
“Magnus!”
Il ragazzo sussultò sentendosi chiamare dalla voce euforica di Clary. Le partite del suo ragazzo la mettevano sempre di buon umore. Mentre a Magnus non interessava granché parteciparvi, soprattutto se Alexander non era con lui a fare il tifo per il fratello, ma quel giorno il suo ragazzo aveva un allenamento extra con il coach Garroway, quindi era impossibilitato a raggiungerli. In realtà erano meno del solito: normalmente, alle partite dei Nephilim partecipava quasi tutta la combriccola, ma quel giorno erano solamente Magnus e Biscottino. Raphael sprizzo-allegria-da-tutti-i-pori Santiago stava aiutando Simon (nessuno gli dica che l’ha chiamato con il suo vero nome, altrimenti si monta la testa, credendo di essere diventato improvvisamente importante) con lo spagnolo perché a quanto pareva, non riusciva proprio a parlarlo come si deve; Isabelle stava scrivendo una tesina per il suo corso di chimica avanzata, mentre Catarina era impegnata con la tipografia addetta alla stampa dei volantini per il ballo.
Rimanevano solo lui e Clary, la quale, con indosso un adorabile vestitino giallo con le maniche a tre quarti, abbinato a delle Converse alte e bianche, si era appena seduta vicino a lui.
“Ciao, biscottino.”
Clary gli rivolse un sorriso, sistemando dietro all’orecchio una ciocca di capelli ramati fuoriuscita dalla treccia. “È tanto che mi aspetti?”
“No, stai tranquilla. Trace ha guardato in questa direzione trecento volte. Forse era preoccupato che non venissi.”
Jace, Magnus.” Lo rimproverò bonariamente la ragazza. “Gli avevo assicurato che sarei venuta. Non capisco perché si agita tanto.”
“Eri presente alla prima partita, dove hanno vinto. Ed eri presente anche a tutte le partite in cui hanno vinto. L’unica volta che non c’eri, hanno perso. Devo ricordarti quanto sono superstiziosi gli atleti, mia cara?”
Clary si lasciò andare ad una risata. “No, non serve. Lo tengo sempre bene a mente.”
Magnus stava per dirle che, comunque, era più che sicuro che, superstizioni a parte, Jace teneva davvero a vederla, ma la palestra cadde improvvisamente nel buio. Prima che gli studenti entrassero nel più completo panico, però, un cono di luce illuminò il centro della palestra, dove uno stereo, comparso da chissà dove, stava trasmettendo una canzone che Magnus non conosceva, ma Clary si, evidentemente, perché trattenne rumorosamente il respiro.

I am caught off-guard by you
Like a wave, I'm pulled into
It's a feeling I can't fight
Like a wildfire, deep inside

You're taking my heart, by storm
I'm lost in your love, lost in your love
I can't hold back anymore
I'm lost in your love, lost in your love
You're taking my heart, by storm
You're taking my heart
You're taking my heart, by storm
You're taking my heart

E mentre la canzone proseguiva, piano piano nuovi coni di luce andavano ad illuminare ad uno ad uno i giocatori della squadra di basket, i quali indossavano una maglietta bianca con una lettera rossa ciascuno: P, il primo; R, il secondo; O, il terzo ed M il quarto.
Clary aveva le guance rosse e il cuore che le martellava nel petto. Si rese conto che in palestra erano state riaccese le luci solo perché un boato che si levò dalla folla di studenti le fece dare uno scossone. Non vedeva altro, se non Jace in fondo agli spalti con una maglietta bianca addosso, uguale a quella dei suoi compagni, su cui, però era stampato un punto interrogativo. Il ragazzo la guardava con un sorriso – sghembo e sicuro di sé allo stesso tempo – e un mazzo di girasoli (i suoi fiori preferiti) in mano, in attesa di una risposta. Come se non fosse ovvio che gli avrebbe detto di sì. Clary si alzò dagli spalti e quasi corse giù da essi, rischiando di inciampare sull’ultimo gradino. Jace la afferrò per la vita e lei gli buttò le braccia al collo, baciandolo di slancio, con tutta se stessa. Un gesto che fece impazzire la palestra. Se non fosse stata così presa da quella proposta, forse si sarebbe lasciata andare all’imbarazzo per essere al centro dell’attenzione; forse avrebbe prestato attenzione al rossore che stava colorando le sue guance e si uniformava sicuramente ai suoi capelli. Ma non riusciva a prestare attenzione ad altro che non fosse il suo ragazzo, che le stava ancora stringendo la vita e la stava baciando con un’intensità tale da farle girare la testa.
“Devo dedurre sia un sì?” Le domandò Jace con il fiatone, appoggiando la fronte alla sua.
“Hai usato la nostra canzone. Posso dirti di no di fronte ad un tale colpo basso?”
Jace rise. “Pensavo che il colpo basso sarebbe stato il mio faccino mozzafiato, a cui non sai resistere.”
Clary alzò gli occhi al cielo e gli diede uno schiaffetto giocoso sulla spalla. “Sbruffone.”
“Mi ami anche per questo. Allora, è un sì?”
La ragazza lo guardò con amore, come se avesse davanti la cosa più importante della sua vita. E in effetti era così. Amava quel ragazzo con tutta se stessa, in un modo così profondo che a volte le faceva paura. “Certo che è un sì.” Affermò, prendendo il mazzo di fiori che le veniva porto. Non ebbe il tempo di guardare i girasoli con attenzione perché Jace la abbracciò sollevandola da terra e facendole fare un giro completo, prima di rimetterla giù e urlare a tutta la palestra: “Ha detto sì!” scatenando un fiume di risate.
Era stato un gesto plateale, Clary lo sapeva, ma era stato anche romantico. Gli diede un bacio sulla guancia e gli augurò buona fortuna, prima di tornare sugli spalti vicino a Magnus, che aveva un grosso sorriso sulle labbra.
“È stato…”
“Esagerato, lo so.”
“Sì, una cosa molto alla Jace, del tipo guardatemi, ho una ragazza bellissima e voglio urlarlo al mondo, sfigati! Ma è stato anche molto dolce. Non pensavo che Biondino fosse avvezzo alle manifestazioni d’affetto.”
Clary guardò i fiori e poi cercò con gli occhi Jace, guardandolo con adorazione. “Lo è. Non immagini quanto.”
Magnus, mentre guardava l’amica che teneva ancora lo sguardo fisso sul suo ragazzo, decise che avrebbe fatto il primo passo con il proprio. Avrebbe chiesto ad Alexander di andare al ballo con lui e l’avrebbe fatto a modo suo.

*

Era un lunedì mattina. Magnus lanciò l’ennesimo sguardo all’orologio affisso alla parete della sua aula di biologia per la centesima volta nel giro di cinquanta secondi. Quella dannata lancetta non aveva la minima intenzione di arrivare a segnare le tre del pomeriggio, ora che segnava la fine delle lezioni e la messa in atto del suo piano. Era passata una settimana da quando Jace aveva fatto la proposta a Clary – sette giorni e ancora non si parlava d’altro che di quello, di quanto fosse stato romantico Jace, di quanto Clary fosse fortunata. Quella proposta era finita tra le Instragram Stories di almeno metà dei suoi compagni di liceo – tutte ragazze, ovviamente, che esprimevano il loro desiderio di ricevere un gesto simile, un giorno.
Sbuffò. Il tempo sembrava si fosse dilatato, rallentando all’infinito e lasciandolo con i suoi pensieri: Alec era distante, in quel periodo, e nel week-end passato non si erano visti, limitandosi semplicemente a qualche messaggio, dove il suo ragazzo gli diceva che i nuovi allenamenti lo stavano impegnando moltissimo e stancando più di quanto si sarebbe aspettato. C’era qualcosa di strano, secondo Magnus, ma non voleva saltare a conclusioni affrettate, finendo per fare la figura del fidanzato paranoico. Quindi, ignorando quella vocina nella sua testa che gli suggeriva di chiedere spiegazioni, Magnus decise che quel pomeriggio avrebbe portato a termine il suo piano “Proposta per Alexander” – che detta così suonava tanto come una proposta di matrimonio, con tanto di Magnus munito di anello e inginocchiato davanti ad Alec.
Il suono della campanella lo estraniò dai suoi pensieri e Magnus raccolse le sue cose così in fretta che ebbe l’impressione di essere una specie di aspirapolvere. Segnò velocemente sull’ultimo quaderno che non aveva ancora messo nella sua tracolla i compiti che il professore stava dettando e poi, dopo aver ficcato l’oggetto nella borsa, uscì dall’aula quasi volando. Il corridoio di quella scuola non gli era mai sembrato così lungo e affollato. Sembrava che gli studenti lo intralciassero di proposito, rallentando la sua corsa. Impiegò quasi due minuti in più a raggiungere l’aula di storia di Alexander e fece appena in tempo a vederlo uscire.
Il ragazzo gli andò in contro con un’espressione a metà tra il sorpreso e il preoccupato. “Perché hai il fiatone?”
Magnus si mise una mano sull’addome, appuntandosi mentalmente di ricominciare a correre, il sabato mattina, perché evidentemente la palestra e lo yoga non bastavano. “Ho corso. Volevo venire da te.”
Alec si sporse per lasciargli un fugace bacio a stampo. “Ma dovevamo vederci fuori, ricordi?”
Magnus annuì. “Sì, ma ho cambiato idea. Dovresti venire con me.” Ripreso totalmente fiato, infilò una mano nella sua borsa a tracolla e ne estrasse un foulard grigio.
Alec guardò quell’indumento con scetticismo. “Cosa vuoi farci con quello?”
“Legartelo intorno agli occhi.”
Le sopracciglia di Alec schizzarono in alto. “Vuoi rapirmi?”
“Non dire sciocchezze, zuccherino. Voglio solo farti una sorpresa.”
“E mi devi bendare?”
Magnus gli rivolse uno sguardo di bonario rimprovero. “Amore, sai cosa vuol dire sorpresa, o devo cominciare a dubitare che la tua intelligenza stia degenerando?”
Alec ricambiò quello sguardo con uno risentito. “La mia intelligenza sta benissimo.”
“Sono felice di sentirlo, tesoro. Adesso, lasciati bendare.” Sorrise ferino Magnus.
Alec si arrese e si voltò, dando le spalle al suo ragazzo in modo che si alzasse un tantino sulle punte dei piedi per riuscire a bendarlo. “Fatto, caramellina. Adesso, seguimi.” Lo prese per mano e lo condusse lontano dall’aula di storia.

Camminarono per un po’. Alec aveva ancora gli occhi bendati e l’unica cosa su cui riusciva a concentrarsi erano le dita di Magnus intrecciate alle sue. Sentiva il cuore che si agitava, cercando di indovinare quale potesse essere la sorpresa, ma prima che Alec lo potesse chiedere, Magnus si fermò, facendo fermare di conseguenza anche lui.
Alec rimase in silenzio, mentre percepì una mano di Magnus appoggiarsi al centro della sua schiena. “Cammina, tesoro. Ci siamo quasi.”
Alec non fece domande, nonostante ormai la sua curiosità fosse a mille. Cercò di indovinare dove si trovassero, ma non c’era nessun indizio utile che potesse aiutarlo: erano circondati dal silenzio e l’aria non aveva un odore particolare, o almeno il luogo in cui si trovavano non aveva un profumo che risvegliasse nella sua mente un particolare ricordo. Erano ancora a scuola, comunque. Di questo ne era certo.
“Sto per toglierti la benda. Non ti nascondo la mia agitazione, muffin…”
“Tu, agitato?” domandò sorpreso Alec, gli occhi ancora bendati. Sentì Magnus muoversi, spostandosi davanti a lui. Non poteva vederlo, ma riusciva a percepire la sua presenza: il suo profumo, il calore emanato dalla sua pelle, così familiare che lo portò istintivamente ad alzare una mano per andare a toccare il viso di Magnus. Non aveva bisogno di vederlo per sapere a che altezza porgere la mano: aveva accarezzato quel viso così tante volte da conoscerne ogni dettaglio, ogni sfumatura. Conosceva i lineamenti di Magnus a memoria e nemmeno se improvvisamente avesse perso la vista, avrebbe potuto dimenticarli.
Dopotutto, è impossibile dimenticare il sole. L’unica differenza che c’era tra la stella più importante della galassia e il viso di Magnus era che quest’ultimo non feriva gli occhi.
Alec sentì Magnus sporgersi verso la sua mano, appoggiando la guancia al suo palmo.
“Mi capita di esserlo, quando tengo molto a qualcosa.”
Alec abbozzò un sorriso e sentì Magnus sospirare. “D’accordo. Adesso te la tolgo.” Il maggiore lasciò la propria posizione per andare nuovamente dietro ad Alec e sciogliere il nodo che aveva fatto al foulard. Alec, nonostante non avesse passato troppi istanti al buio, si trovò comunque a battere le palpebre un paio di volte per riabituare gli occhi alla luce e quando lo fece rimase letteralmente senza parole, capace solo di guardarsi intorno.
Erano in un’aula che Alec non aveva mai visto e che forse veniva usata come riserva per il corso di fotografia. Quella stanza era piena, zeppa, di foto sue. Ce n’erano di varie dimensioni, alcune incorniciate, altre grosse quasi mezza parete, appese come se fossero dei quadri, altre ancora erano di medie dimensioni e appoggiate sui treppiedi. Alec balbettò qualcosa di incoerente non trovando parole adatte ad esprimere ciò che provava adesso: aveva sempre odiato guardarsi e le poche volte che lo faceva, il riflesso che vedeva allo specchio non gli piaceva per niente, ma adesso era diverso. Era come se riuscisse a guardarsi attraverso gli occhi di Magnus e attraverso il suo modo di vedere la vita e le persone, tutto migliorava, compreso Alec. Una foto in particolare attirò l’attenzione del ragazzo: lo ritraeva il giorno dell’incontro contro Monroe, durante una pausa tra i round. Alec dava le spalle all’avversario, mentre teneva la testa bassa, in direzione del coach fuori dal ring. Le braccia lasciate lungo i fianchi, i muscoli ancora tesi, le mani coperte dai guantoni e il viso mezzo tumefatto dai colpi presi. I colori erano vividi, in un perfetto gioco di luci; lo sfondo era sfumato, mentre il ring e in particolar modo Alec erano messi a fuoco. Avvicinatosi maggiormente alla foto, Alec notò che i dettagli del suo viso – nonostante ad una prima occhiata potesse sembrare la cosa più nascosta, dal momento che guardava verso il basso – erano ciò su cui si era concentrato Magnus. Come fosse stato possibile, Alec non lo sapeva, ma si notavano: il taglio sullo zigomo, il livido violaceo che stava comparendo sotto l’occhio e il labbro offeso. 
“Ti prego di’ qualcosa.”
Alec si voltò verso Magnus, che lo guardava con gli occhi colmi di apprensione. “È bellissima.” Sussurrò.
Magnus sospirò di sollievo e si avvicinò alla foto, mettendosi al fianco di Alec. Le loro spalle si sfioravano. “È una delle mie preferite.” Il fotografo fece passare gli occhi sulla fotografia un istante, prima di voltarsi verso Alec. “Questo è il mio progetto.”
“Io che prendo colpi?”
Magnus abbozzò un sorriso, ricambiando quello che era comparso sul viso del suo ragazzo. “Ovviamente no. Ma tu sei il mio progetto, tutto ciò che ti riguarda. Hillton, il mio professore, voleva qualcosa che ci ispirasse e… ricordi cosa ti ho detto, in una delle nostre prime uscite?”
Alec annuì. “Che vuoi fotografare la quotidianità perché pensi che sia quella che mostri davvero ciò che ci rende umani e evidenzi il modo in cui affrontiamo i problemi.”
Magnus sorrise, sentendo il cuore che si dilatava: nonostante ne avesse la certezza, era comunque bello avere conferma che Alec lo ascoltasse davvero. “Esatto. Ti ho fotografato a quell’incontro perché potevi arrenderti. All’inizio ti stava massacrando ed era una sofferenza starlo a guardare mentre infieriva su di te. Quando è suonata la campanella del primo round, potevi chiedere al coach di gettare la spugna, ma non l’hai fatto. Hai visto un problema e l’hai affrontato, hai combattuto, come fai sempre. E quei segni sul tuo viso sono ciò che testimoniano la tua tenacia.”
Alec sentì gli occhi umidi. “Mi vedi così?” chiese in un sussurro.
“Ti vedo per quello che sei, Alexander.” Magnus sorrise e alzò una mano per indicare una foto vicino a quella appena esaminata. Ritraeva Alec e il coach: Luke stava alzando il braccio di Alec vincitore, entrambi si stavano concedendo un sorriso per festeggiare quella vittoria.
“I-io… i-io non so davvero cosa dire, Magnus. È una cosa… importante. Nessuno mi ha mai visto così.”
Magnus lo prese per mano. “Tu non ti sei mai visto così. Non vuol dire che gli altri non lo facciano.”
Alec usò la mano che Magnus teneva nella sua per tirarlo a sé e abbracciarlo forte, in una stretta decisa e devota.
“Vieni, voglio farti vedere un’altra cosa.”
Alec sciolse l’abbraccio e annuì. Magnus lo prese nuovamente per mano, guidandolo attraverso quel labirinto di foto. Ce n’erano veramente moltissime: ce n’era una che ritraeva Alec in biblioteca, la fronte corrugata e una matita tra le labbra, mostrando quante energie impiegasse a cercare di capire dei concetti che all’inizio sembrano davvero complicati; c’era Alec che saltava la corda, il viso contratto in una smorfia; un’altra ancora che lo ritraeva di spalle, le braccia appoggiate alla parete, sopra alla testa, e la schiena nuda, le mani coperte dalle fasciature, ma senza guantoni. Era in bianco e nero. Alec ricordava benissimo quel giorno: primo allenamento da peso massimo, non era riuscito a svolgere a pieno l’esercizio che il coach gli aveva assegnato e in un attimo di pausa, si era lasciato prendere dallo sconforto, appoggiando la fronte alla parete fredda della palestra. Gli piaceva quella foto, che rappresentava molto il concetto che voleva esprimere Magnus. Gli ci erano voluti giorni interi per perfezionare quel movimento di gambe, ma alla fine ci era riuscito.
Il suo sguardo vagò ancora, mentre camminava al fianco di Magnus, sempre mano nella mano. Le foto variavano dal bianco e nero, ai colori più vivaci. E in tutte, c’era il viso di Alec. In alcune era serio, ma ce n’erano altre dove sorrideva, senza mai però guardare l’obiettivo. Scatti rubati, ma che sembravano tratti da un photoshoot. Magnus era davvero dotato.
“Chiudi gli occhi.” Disse Magnus e Alec lo guardò con le sopracciglia aggrottate in una silenziosa domanda.
“Andiamo, zuccherino. La vera sorpresa è proprio dietro quel lenzuolo.” Magnus indicò un treppiede coperto, la sagoma quadrata celata sotto di esso suggeriva la presenza di una foto incorniciata.
Alec era divorato dalla curiosità, ma obbedì. Sentì un fruscio d’aria, segno che il lenzuolo era stato sollevato, ma aspettò comunque che fosse Magnus a dirgli di aprire gli occhi, cosa che fece quasi subito.
Ciò che gli occhi di Alec videro, fece accelerare il suo cuore in una maniera disumana. Lo sentiva battere forte in petto, rimbombare nelle orecchie e arrivargli fino ai polpastrelli. Era una foto. No, era la foto. La prima che si erano fatti insieme, quella che Alec aveva guardato fino a conoscerla a memoria e che continuava ancora a guardare, di tanto in tanto. Sorrideva, timidamente, lo sguardo basso, mentre Magnus gli lasciava un bacio sulla guancia. Le loro mani, intrecciate a creare qualcosa che avrebbe sempre fatto agitare il cuore di Alec come se fosse stato una zattera in mezzo ad un oceano indomabile. Amava quella foto tanto quanto amava Magnus. Era davvero bella.
“Prendila. È tua.”
“Posso, davvero?”
Magnus annuì. “Ho pensato che adesso che hai fatto coming-out e che la tua famiglia ha accettato la mia presenza nella tua vita, potresti tenerla. Niente più cartelle nascoste nel cellulare.”
Alec gli sorrise pieno di gratitudine e dolcezza. Si avvicinò alla foto e allungò le mani per afferrarla. Non era gigantesca, ma nemmeno grossa come una normale fotografia. Era media, di quella grandezza apposita per venire attaccata ad una parete.
“Girala.”
Alec, concentrato nella contemplazione della foto, pensò di aver sentito male. “Come?”
“Girala.” Ripeté allora Magnus, una punta di agitazione tornò a farsi strada nel suo tono.
Alec lo guardò un attimo e notò nello sguardo del suo ragazzo un’esortazione a fare ciò che gli aveva suggerito, così girò la foto. Gli si mozzò il respiro senza che se ne rendesse effettivamente conto.
Prom?
Alec passò lo sguardo da quella domanda, scritta dietro la foto, a Magnus, che teneva il labbro inferiore stretto tra i denti, più agitato di quanto volesse mostrare.
Il cuore di Alec arrestò momentaneamente la sua corsa impazzata solo per riprendere a battere ancora più furioso. “Sì.” Disse solo, e Magnus quasi si gettò su di lui, tanta era l’urgenza che aveva di baciarlo. Alec sorrise sulle labbra del proprio ragazzo, mentre ricambiava quel bacio, dolce ed esigente allo stesso tempo, proprio come era Magnus.
“Mi hai battuto sul tempo.” Confessò Alec, quando si separarono. “Volevo chiedertelo io. O almeno, trovare un modo adeguato per chiedertelo.”
Magnus ricollegò tutto all’istante. “È per questo motivo che da qualche giorno sei strano?”
Alec annuì. “Lo scorso week-end, l’ho passato con Izzy per elaborare una strategia, ma niente di quello che proponeva mi sembrava adatto. E ovviamente lei aveva da ridire su quello che proponevo io, quindi ero ad un punto morto.”
Magnus si aprì in un sorriso tenero al pensiero di Alec che si scervella per trovare il modo giusto di chiedergli di andare al ballo insieme. “Pensavo non volessi andarci, ecco perché ero un po’ agitato.”
“Non dire assurdità, Magnus. So quanto ti piacciono queste cose, non volevo assolutamente che te lo perdessi. In più, lo stai organizzando tu, quindi…”
Magnus lo baciò di nuovo. “Sei un tesoro, lo sai?”
Alec arrossì repentinamente e gli lasciò un bacio a stampo. “Anche tu lo sei.”  
Magnus abbozzò un sorriso e ripensò ai suoi timori, al fatto che una parte di lui temeva che Alexander non volesse chiederglielo perché sarebbe stata una cosa estremamente esplicita e si sentì in colpa. Non avrebbe mai dovuto farsi sfiorare da quel dubbio.
“Mags, che hai?” gli domandò Alec, notando il cambiamento di espressione sul viso dell’altro.
“Niente, è che…” Sospirò, ma poi optò per dirgli tutto. “…avevo paura non volessi chiedermelo perché, sai, sarebbe stato… inequivocabile.”
“Anche prenderti per mano in pubblico è un gesto inequivocabile.”
“Lo so, ma…”
“Magnus.” Lo interruppe Alec, prendendogli il viso tra le mani. Lo capiva benissimo. Avevano passato la maggior parte della loro storia a fare attenzione ad occhi indiscreti e Magnus l’aveva fatto solo ed esclusivamente per lui. Aveva accettato le condizioni di segretezza di Alec, senza dire una parola. Ma per uno che vive la sua sessualità apertamente da anni, era normale che adesso avesse questo tipo di timori, riguardo a qualcuno che invece, aveva appena cominciato ad ammettere ad alta voce quale fosse la verità. “I tempi in cui ti chiedevo di essere discreti sono finiti. Non voglio nascondermi più.”
“Non voglio che ti senti forzato.”
“Non mi ci sento. Ti amo, Magnus. Per quanto mi riguarda, possono saperlo tutti.”
Magnus rise e si sporse per baciarlo. “Vuoi solo vantarti di me, ammettilo.”
Alec arricciò le labbra, picchiettandosi il mento con l’indice in una studiata espressione pensosa. “Sì. Si, penso proprio che sia così.” Si chinò per dargli un altro bacio, che Magnus ricambiò volentieri. “Mi dispiace averci messo tanto.” Sussurrò il minore, facendosi più serio.
“Ci hai messo il tempo di cui avevi bisogno. E va bene così. Dispiace a me di aver dubitato del fatto che ormai sei pronto.”
Alec abbozzò un sorriso, alzando solo un angolo della bocca e appoggiò la fronte a quella di Magnus.
Era davvero pronto.
A tutto.
Alle mani intrecciate in pubblico, ai baci scambiati senza aver timore di essere visto, o senza dover contare la loro lunghezza; agli abbracci affettuosi. 
Alec non aveva più paura, di niente – e questo lo faceva sentire forte come mai si era sentito in tutta la sua vita.
Era una sensazione a cui non avrebbe rinunciato per nulla al mondo.


*

“Possiamo tutti concordare che sono il Lightwood che ha più stile, giusto?”
“Tu sei solo il Lightwood più spocchioso.”
“Pff, come se tu non lo fossi!”
“Rimangiatelo!”
“La verità fa male, Izzy, ma è sempre meglio di una comoda bugi- AHI, perché mi picchi?”
“Perché te lo meriti!”
Alec osservò i suoi fratelli bisticciare. Era pomeriggio e si trovavano in sala da pranzo perché volevano studiare tutti e tre insieme e quella era l’unica stanza che avesse un tavolo abbastanza grande da riuscire a ospitare tutti. Il fatto era, però, che avevano finito per distrarsi, cominciando a chiacchierare del più e del meno ed Izzy, ovviamente, aveva tirato fuori l’argomento ‘ballo’ perché non aveva ancora avuto il tempo di cominciare a cercare il vestito perfetto. Alec le aveva suggerito di scegliere uno dei vestiti che aveva nell’armadio e che ancora portavano il cartellino, ma lei l’aveva guardato come se fosse un eretico da bruciare sul rogo e quindi aveva optato per non aggiungere altro. Sapeva che comunque Isabelle avrebbe comprato un vestito nuovo per l’occasione. La cosa che ad Alec interessava, a questo punto, era che evitasse di trascinarlo in ogni negozio di New York alla ricerca dell’abito perfetto. Il ragazzo, comunque, confidava nella profonda amicizia che legava Clary e sua sorella e che decidessero di fare questa cosa insieme.
“Non mi merito un pugno per aver detto la verità!”
“Sei così tragico. Ti ho appena sfiorato!”
Alec alzò gli occhi al cielo e decise di intervenire, o avrebbero rischiato di scannarsi. “Izzy, non picchiare Jace. Jace smetti di comportarti così.”
“Solo se ammetti che sono quello che ha avuto più stile. La mia proposta è finita sui social.”
“E quindi?” disse Alec, per nulla impressionato.
“Quindi gradirei che mi apprezzaste un po’ di più. Soprattutto perché la proposta di Izzy consisteva nel far vedere le tette a Simon e tu… tu hai lasciato che fosse Magnus a farla.”
Alec alzò gli occhi al cielo e si massaggiò una tempia. “Primo: Izzy aveva una maglietta, non si è visto niente. Secondo: Magnus mi ha battuto sul tempo, stavo cercando un modo carino per chiederglielo!”
“Io sento solo delle grosse scuse.”
Alec sospirò, sentendo la propria pazienza sciamare. “Perché devi essere sempre così…”
“Perfetto?”
“Competitivo.” Lo smontò Alec. “Sul serio Jace, tu hai un problema!”
“Anche tu: aspettare troppo per fare le proposte.”
Alec si lasciò andare ad uno sbuffo esasperato e lanciò un’occhiata glaciale al fratello, ma per il bene della sua sanità mentale decise di lasciar perdere. Izzy ne approfittò quindi per riprendere nuovamente parola.
“Lasciate da parte tutte queste divergenze, potremmo parlare di cosa indosseremo!” Propose, entusiasta.
Alec e Jace si voltarono simultaneamente verso di lei, nei loro occhi il puro terrore. “NO!” dissero con un po’ troppo slancio e una punta di panico.
“Queste cose le discuterai con Clary. Per l’amor del cielo Izzy, non voglio sentire una parola sui pizzi, le trine, il tulle, le stoffe, gli accessori e bla, bla, bla.” Affermò Jace, avendo tutto il pieno sostegno di Alec.
“Guastafeste. Non venite da me se poi non saprete cosa mettervi!”
“Non avremo questo tipo di problemi.” La rassicurò Alec.
Izzy alzò le spalle. “Va bene, come preferite.”
Jace e Alec si guardarono, sospettosi: non era da Isabelle arrendersi così facilmente, ma forse questo non era uno di quei casi che la spingevano ad intestardirsi. I due sperarono fosse così e si rimisero a studiare, insieme alla sorella.

*

Alec odiava quando sua sorella aveva ragione. Dal più profondo del suo cuore si sentiva uno stupido colossale, mentre guardava il suo riflesso allo specchio di un negozio in cui lui, Jace e Simon si erano recati sotto consiglio dei rispettivi partner.
Magnus non era con loro perché, a detta sua, portava male che si vedessero prima della fatidica sera. Alec gli aveva fatto notare che quell’usanza valeva solo per i matrimoni e allora Magnus aveva replicato dicendo che voleva l’effetto sorpresa – e che era così generoso da riservare lo stesso effetto anche ad Alec: «Spoiler alert, pasticcino: sarò splendido!»
Il ragazzo su questo non aveva dubbi. Ne aveva riguardo se stesso invece e cominciava a sospettare che Magnus sarebbe stato sorpreso sì, ma in negativo. Alec lanciò un’altra occhiata a se stesso: era terribile. Il completo che indossava era privo di grazia e lo faceva assomigliare ad un sacco deformato e lanciato in mezzo alla metropolitana, destinato ad essere calpestato da migliaia di pendolari in attesa. Non lo valorizzava per niente.
La cosa che lo deprimeva di più era il fatto che si era già provato cinque vestiti prima di quello e nessuno gli piaceva. Alec iniziava a pensare di essere lui il problema, di avere dei difetti corporei totalmente incompatibili con le fattezze dei completi eleganti. Sbuffò, mentre si sfilava la giacca e cominciava a sbottonarsi la camicia. Chissà se l’avrebbero fatto partecipare lo stesso se si fosse presentato con jeans e maglietta.
“In un universo parallelo, esiste sicuramente un Alec Lightwood modaiolo, che passa il proprio tempo ad organizzare grandiose feste a tema e che non ha bisogno dei consigli della sua deliziosa sorella per quanto riguarda i vestiti.”
Alec sussultò ed emise un verso strozzato di sorpresa, udendo prima la voce della sorella e poi vedendo comparire la sua testa all’interno del camerino dove si trovava il ragazzo. Izzy, scostata la tenda del camerino, guardava il fratello dallo specchio. Sul suo viso, un sorriso sornione e onnisciente.
“Che ci fai qui?”
“Ti salvo la vita e la reputazione, ovvio. Ora, togliti quell’affare di dosso e lascia fare a me!” Isabelle cominciò ad armeggiare con i bottoni della camicia del fratello, cercando di finire ciò che lui aveva iniziato, ma Alec allontanò le mani della sorella da sé.
“Izzy, che fai?”
“Ti aiuto.”
“So togliermeli da solo i vestiti, grazie. Piuttosto, rispondi alla mia domanda.”
Isabelle sospirò, ponderando se dire tutto al fratello, ma poi l’occhiata austera che le lanciò la convinse a parlare. A quanto pare, Isabelle non era l’unica in grado di replicare lo sguardo da non ammetto repliche di Maryse Lightwood: l’eredità genetica fa miracoli.
“Jace mi ha chiamata. Ha detto che non riuscivi a cavare un ragno dal buco e che necessitavi di un aiuto.”
Alec, le mani ferme sul quarto bottone della camicia, dovette ammettere a se stesso che suo fratello aveva ragione: era l’unico che non era riuscito a trovare ancora qualcosa di decente. Sia perché Alec odiava fare shopping, sia perché lo stesso Jace odiava fare shopping – e quindi rimaneva nei negozi solo il tempo necessario a trovare un abito, provarselo e decidere che quello andava benissimo perché tanto io sto bene con tutto, fratello – Isabelle rimaneva l’unica speranza del maggiore dei Lightwood.
Alec sospettava che la sorella lo sapesse fin dall’inizio e che fosse rimasta in paziente attesa fino al momento del bisogno, come una grossa anaconda che aspetta pazientemente di ingurgitare una preda che impiegherà mesi per digerire.
Il ragazzo scosse la testa, cercando di togliersi dalla mente quell’assonanza: non voleva sentirsi come un indifeso capibara, destinato a finire tra le spire di Isabelle-anaconda. Piuttosto, voleva pensare che sua sorella l’avrebbe consigliato in base a ciò che lui voleva indossare per quella fatidica sera.
Sospirò.
“Jace ha ragione. Non ci capisco niente di queste cose e per evitare di rallentare lui e Simon, ho detto che potevano andare. Non ho bene capito cosa devono comprare… qualcosa tipo un bracciale.”
“Farò finta di non aver sentito, visto che uno di quei corsage è destinato a me.”
Alec arrossì. “Scusa, non lo sapevo.”
Izzy alzò le spalle e rivolse un sorriso sereno al fratello. “Non preoccuparti.”
“Devo comprarne uno anche io?”
Isabelle dedusse che il fratello non aveva idea di cosa stessero parlando. “È un braccialetto floreale, Alec. Di solito lo indossano le ragazze, ma Magnus non è convenzionale, o un tipo che si fa tanti problemi a indossare qualcosa che gli piace, quindi se ti aggrada l’idea, puoi anche comprarlo, sì.”
Alec rifletté. Magari avrebbe potuto prenderne uno, visto che Magnus usava i bracciali. O avrebbe potuto prendere sempre qualcosa di floreale, ma più semplice, come un unico fiore da mettere nel taschino della giacca di Magnus. “Ci penserò.” Concluse, quindi.
Isabelle annuì. “Va bene. Finisci di toglierti quel vestito. Ti aspetto fuori e andiamo in un altro negozio.”
Alec la guardò confuso. “Ma pensavo che questo fosse quello più adatto.”
“Lo è, indubbiamente, ma ne esiste uno che mi piace di più e voglio portarti là.”
“D’accordo. Voglio fidarmi di te.”
Izzy gli fece l’occhiolino. “Allora sei in una botte di ferro, fratellone.”
Alec scosse affettuosamente la testa e tirò la tenda del camerino, lasciando fuori una Isabelle che ancora ridacchiava, per togliersi l’ennesimo vestito scartato.

*


Alec aveva fatto bene a fidarsi di sua sorella. Per quanto il primo negozio nel quale si era recato fosse rifornitissimo, solo in quello in cui Isabelle l’aveva trascinato era riuscito a trovare qualcosa che rispettasse i suoi gusti e che allo stesso tempo fosse abbastanza elegante per fargli fare una discreta figura. Isabelle aveva detto che vestito in quel modo avrebbe sicuramente fatto girare la testa a Magnus. Una parte di lui sperava che sua sorella avesse ragione.
E con una parte Alec intendeva ogni centimetro del suo corpo.
Era agitato.
La fatidica sera era arrivata e lui non sapeva assolutamente come comportarsi, mentre fissava la sua figura allo specchio. Alec indossava una giacca avorio, sotto alla quale stava una camicia bianca, arricchita da un papillon nero, che riprendeva il colore dei pantaloni.
Era il primo ballo a cui partecipava in tre anni – dal momento che non andava matto per quegli eventi e perché, prima di quest’anno, non aveva mai trovato nessuno per cui valesse la pena fare lo sforzo di partecipare a qualcosa che non lo faceva impazzire di gioia. Ma quell’anno c’era Magnus e lui adorava i balli, quindi Alec poteva decisamente infilarsi dentro ad un completo e partecipare ad un evento simile, se ciò significava far felice il suo ragazzo.
Si lisciò la giacca, cercando di stendere delle pieghe inesistenti. Isabelle l’aveva dettagliatamente istruito su come mantenere intatto il vestito dall’acquisto – avvenuto ormai settimane prima – fino al fatidico giorno. E Alec doveva ammettere che tutte quelle regole minuziose, che all’inizio gli erano sembrate una vera e propria spina nel fianco, erano state davvero utili. Izzy aveva un talento per certe cose.
Si diede un’ulteriore occhiata e annuendo allo specchio, come se cercasse di infondersi una sicurezza che improvvisamente sentiva venirgli meno, uscì dalla sua stanza. Mentre camminava per raggiungere il piano di sotto si toccò la tasca interna della propria giacca, dove aveva accuratamente sistemato la singola orchidea da regalare a Magnus e che avrebbe sistemato nel taschino della sua giacca, al posto di un fazzoletto. Dopo varie ricerche aveva optato per quel fiore perché simboleggiava raffinatezza, eleganza e bellezza – tutte qualità che Magnus possedeva – ma anche perché simboleggiava il ringraziamento di una concessione d’amore e la consapevolezza di essere ricambiati. L’orchidea era la rappresentazione di un amore importante e duraturo. Alec aveva letto che chi regala un’orchidea, regala anche la propria dedizione e ammirazione. Di conseguenza, aveva pensato che nessun fiore, meglio di quello, avrebbe potuto aiutarlo ad esprimere tutti i sentimenti che provava per Magnus.
Sospirò profondamente e prima di avviarsi verso le scale per scendere di sotto, decise di bussare alla camera di Izzy, per controllare a che punto fosse.
“Avanti!”
Alec aprì la porta e fece capolino all’interno della stanza della sorella, dove sembrava che un’intera linea di cosmetici fosse appena esplosa. C’erano trucchi dappertutto e Alec si chiese come fosse fisicamente possibile riuscire a maneggiarli tutti senza dimenticarsi quale fosse la loro funzione effettiva. Se fosse stato per lui, li avrebbe confusi di continuo. Ma Alec era un eretico – Magnus gliel’aveva fatto notare giusto un centinaio di volte – quindi non aveva propriamente voce in capitolo.
Izzy, seduta alla sua toeletta, lo guardò dallo specchio, rivolgendogli un sorriso. “Sei già pronto?”
Alec annuì. “Non sapevo quanto ci avrei messo, così mi sono sbrigato. In più, Jace è già uscito per andare a prendere Clary, quindi pensavo di essere in ritardo.”
Isabelle cercò il mascara nella sua trousse e cominciò ad applicarlo alle ciglia. “Jace era più agitato di te. Penso sia uscito con tipo quaranta minuti di anticipo. Clary lo ucciderà.”
“Perché?”
“Perché noi signore abbiamo bisogno del nostro tempo. Non esiste ‘tesoro, arrivo con cinque minuti in anticipo’ se non vuoi rischiare di mandarci in panico.”
Alec ridacchiò, ma il suo sorriso si spense non appena le parole di sua sorella gli risuonarono nelle orecchie. “Si vede tanto che sono agitato?”
Isabelle annuì allo specchio, mentre riponeva il mascara al suo posto. “Sì, ma è normale, suppongo. Magnus viene qui, o vai tu da lui?”
“Viene lui qui.” Alec si diresse verso il letto di Isabelle e ai piedi di esso. “Ha insistito tanto.”
Isabelle cominciò a cercare qualcosa dentro ad un’altra trousse. “È un gesto galante, no?”
Alec arrossì lievemente e non riuscì a trattenere un sorriso. “Molto. Lui è…”
Izzy fermò le sue ricerche per guardare il fratello negli occhi. Brillavano, come sempre da quando aveva conosciuto Magnus, e il suo sorriso era così largo e luminoso che avrebbe potuto far sentire in imbarazzo il sole, riducendolo ad una misera lampadina sbiadita. Chissà se Alec si rendeva conto dell’effetto che l’amore aveva avuto su di lui. Di certo, Izzy se ne rendeva conto e non poteva che esserne felice.
“Lui è…?” Lo spronò e le guance di Alec divennero di un rosso più intenso.
“Un gentiluomo.”
Isabelle sorrise. “Oh, ma si vede. Le ragazze ucciderebbero per uno come Magnus, lo sai?”
“Anche i ragazzi, se è per questo.” Le fece notare Alec ed Isabelle rise.
“Non posso darti torto.”
“Era un modo per dirmi che sono fortunato?”
Izzy si alzò dalla toeletta e percorse la breve distanza che la separava dal letto. Era bellissima, con i capelli sciolti tenuti di lato e fasciata dentro a quell’abito lungo e dorato che la faceva sembrare una dea, così magnanima da aver scelto di rendere partecipe il genere umano della sua bellezza ultraterrena. Alec era sicuro che Simon avrebbe perso i sensi, non appena l’avesse vista.
Izzy si sedette vicino a lui e gli prese le mani. “Indubbiamente lo sei. Ma lo è anche lui ad avere te. Sei speciale, fratellone, e sono felice che Magnus sia riuscito a capirlo.”
Alec le sorrise e l’abbracciò stretto, stretto. “Ti voglio bene.”
“Anche io, tanto.” Izzy sciolse l’abbraccio. “Devo finire di truccarmi. Rimani con me?”
Alec annuì. “Certo, purché non provi a truccare anche me.”
“Sono certa che Magnus impazzirebbe se ti vedesse con un po’ di matita.”
“Magnus mi ucciderebbe se mi vedesse con un po’ di matita. Gli ho promesso che se mai decidessi di truccarmi, lui dovrà essere il primo a farlo.”
“Vuole essere proprio il primo in tutto, eh?” Gli rivolse un occhiolino malizioso e Alec sgranò gli occhi.
“Isabelle!”
La ragazza ridacchiò e si diresse alla toeletta. “Prova a dire che ho torto!”
Alec era rosso fino alla punta delle orecchie. “Perché non finisci di prepararti??”
Isabelle non riuscì a trattenere un’altra risata, ma fece come le era stato detto, decidendo di risparmiare il fratello da altre torture.

Alec sentì suonare il campanello all’ora stabilita. Magnus non era un tipo che amava i ritardi, di conseguenza il suo tempismo era sempre perfetto. Quando l’eco del campanello suonò, il ragazzo era ancora con la sorella, ma avevano finito di prepararsi entrambi da un pezzo, passando il tempo che rimaneva a chiacchierare.
Entrambi, quando sentirono il campanello suonare, guardarono d’istinto l’ora sul display dei loro telefoni: le 20.45 in punto.
“Ci conviene andare ad aprire, o lo farà mamma e li tempesterà di domande.” Disse Isabelle, alzandosi dal letto con quanta più grazia possibile. Le veniva così naturale farlo, che a volte sembrava eterea come un angelo.
Alec si alzò a sua volta, tornando a lisciarsi quell’inesistente piega nella giacca, e fece un respiro profondo. Andrà bene, si disse. Andrà tutto bene.
“Andiamo?” gli domandò Izzy.
Il ragazzo annuì e le offrì un braccio per aiutarla a mantenere l’equilibrio, nonostante non ne avesse davvero bisogno. Izzy, comunque, accettò e insieme si diressero al piano di sotto.

Alec si riteneva un tipo abbastanza composto, uno di quelli in grado di mantenere un certo rigore.
Alec si sbagliava. Tremendamente. O almeno, si sbagliava quando si trattava di Magnus. In quel caso, tutto il suo rigore andava disperso. Soprattutto quando indossava completi eleganti, composti da una giacca bordeaux, che aveva dei particolari riflessi viola, e da camicia e pantaloni neri. Il fatto che fosse accuratamente truccato in modo che la matita risaltasse il colore dei suoi occhi e l’ombretto avesse una sfumatura glitterata color grigio scuro, rendeva la combinazione ancora più letale. Alec non riuscì a trattenersi dall’emettere un sospiro di sonora approvazione, quando aprì la porta di casa sua e incrociò la figura del suo fidanzato. Al suo fianco c’era anche Simon, ma non era compito di Alec notarlo. E comunque, anche se si fosse impegnato per prestare tutta la sua attenzione a Simon, Magnus lo oscurava completamente, rendendo impossibile guardare chiunque non fosse lui.
Sentì la bocca secca, mentre si accingeva a salutarlo e a farsi da parte per farlo entrare in casa.
“Ciao.” Disse soltanto, non riuscendo a trovare niente di sagace da dire. Il suo cervello era troppo impegnato a studiare i dettagli di Magnus: il modo in cui quella giacca aderiva perfettamente alle sue spalle, o il fatto che avesse colorato di viola le punte della sua cresta, o il fatto che stesse ricambiando il suo sguardo, facendogli afflosciare la colonna vertebrale.
Di certo, Alec era sicuro che Magnus non aveva mentito – ne esagerato – quando aveva detto che sarebbe stato splendido, quella sera.
“Ciao, tesoro.” Magnus entrò in casa, seguito da Simon, che non appena vide Isabelle aprì la bocca in un’espressione stupefatta, rischiando di toccare il pavimento con la mascella. Isabelle si aprì in un sorriso e le sue guance si colorarono – ma in modo impercettibile – di un delicato rosa. Quando i due si abbracciarono, Magnus riportò l’attenzione su Alec, che, invece, non aveva ancora distolto lo sguardo da lui. Era impossibile farlo: i suoi occhi erano attratti da Magnus come due dei più potenti magneti si attraggono a vicenda.
“A quanto pare, voi Lightwood avete intenzione di fare strage di cuori, stasera.” Magnus si sporse verso Alec, lasciandogli un bacio su una guancia. “Sei bellissimo.” Gli sussurrò e Alec arrossì repentinamente.
“A-anche tu.” Il ragazzo si schiarì la gola, abbassando per la prima volta lo sguardo e giocando con l’anello che portava al dito, facendolo girare. Aveva scoperto che era un gesto che lo rilassava. “A proposito di stasera, i-io… sì, ecco…” Alec alzò gli occhi su Magnus, maledicendosi per essere ancora un tale imbranato dopo tutti quei mesi passati insieme. Magnus rimase in attesa, dandogli tutto il tempo necessario per trovare le parole giuste, ma Alec si limitò, con mani tremanti, ad afferrare l’orchidea che custodiva nella tasca interna della sua giacca. “Per te.” Disse soltanto, interponendo il fiore tra lui e il proprio ragazzo. Magnus guardò l’orchidea, poi Alec e, intuendo le intenzioni del suo ragazzo, sorrise, intenerito da quel gesto tanto dolce.
“Non è un bracciale.” Si giustificò Alec. “Ma pensavo avrebbe avuto lo stesso significato.” Con le mani che ancora tremavano, il ragazzo si accinse a sistemare il fiore all’interno del taschino della giacca di Magnus.
L’orientale lo lasciò fare e poi afferrò una delle mani dell’altro, facendo intrecciare le loro dita. “L’orchidea è casuale, Alexander?”
Alec fece un cenno di diniego con la testa. “Sai cosa vuol dire?”
“Certo. Ed è una cosa dolcissima, amore.”
Alec sorrise. Le sue guance assunsero una calda tonalità di rosso intenso, mentre di chinava per lasciare un bacio sulle labbra di Magnus.

“Ragazzi?”

La voce di Maryse attirò la loro attenzione. I due si voltarono verso la donna, armata di macchina fotografica.
“Mamma no, ti prego.”
“Non fare il brontolone, Alec. Tua sorella e Simon mi hanno accontentata, fallo anche tu, per favore.” Maryse accennò un sorriso e Alec si voltò verso Magnus per sapere cosa ne pensasse. Quando il ragazzo annuì, Alec si sistemò al suo fianco, passandogli un braccio intorno alle spalle, mentre Magnus gli circondava la vita.
“Sorridete!” Non appena i ragazzi lo fecero, Maryse scattò. “Perfetto!” Esclamò, guardando la foto soddisfatta. “Avrei voluto farne una anche a Jace e Clary…”
“Non si preoccupi, Maryse. Rimedieremo noi.” La rassicurò Magnus, ancora in difficoltà a dare del tu  alla donna, nonostante lei gliel’avesse chiesto. Lui e Maryse si conoscevano da meno tempo rispetto a Ragnor e Alec, quindi Magnus era ancora nella fase in cui riusciva a chiamarla per nome, ma non ad abbandonare il lei.
“Grazie. Divertitevi stasera.” Maryse li salutò, abbracciando velocemente entrambi. I ragazzi vennero raggiunti da Simon ed Izzy, che erano si erano lasciati coinvolgere dal nuovo fumetto di Max – o meglio, Simon si era lasciato coinvolgere. I quattro salutarono Maryse e Max e si avviarono verso la porta.


Alec non sapeva cosa aspettarsi. Aveva sentito parlare dei balli scolastici solo nei film che ogni tanto piaceva guardare ad Isabelle – anche se lei tendeva sempre a negare questo particolare. Sono film smielati, Alec. Ma il ragazzo sapeva benissimo che rientravano nei così detti guilty pleasure della sorella. In ogni caso, Alec non riusciva ad avere un quadro chiaro della situazione. Di certo, non si era aspettato occhi addosso e Magnus che ogni momento doveva risolvere un qualche problema insieme a Catarina.
Avevano fatto indubbiamente un bellissimo lavoro. La palestra dove si teneva il ballo era irriconoscibile: i canestri erano stati coperti da festoni argentati, da cui scendevano pendenti colmi di stelle luccicanti, che erano attaccate anche al soffitto. Alec vedeva chiaramente il tocco di Magnus in quel particolare. Quel luogo era stato piacevolmente stravolto in un modo che Alec non avrebbe mai immaginato, con le luci e i colori, la musica e i tavolini pieni di bicchieri e cose da bere – tutta analcolica.
Ciò che il ragazzo trovava meno bello in tutto ciò che lo circondava erano le occhiate che sentiva su di sé. Gente come Reggie Monroe e amici che lo fissava come se avesse una testa in più. Non c’era da stupirsi. Lui e Magnus erano l’unica coppia dello stesso sesso e gente come Monroe non cambia idea da un giorno all’altro. Probabilmente non la cambia mai. Ma questo non era un problema di Alec. Se Reggie e i suoi amici preferivano passare la serata a fissare o lui o Magnus – o entrambi quando erano insieme – in cagnesco, rimaneva un problema loro.
Il problema di Alec, per ora, rimaneva il fatto che stava diventando tutt’uno con il muro, in attesa che Magnus venisse liberato dall’intoppo che si era dovuto precipitare a risolvere.
“Dov’è il tuo cavaliere?”
Alec per un pelo sussultò. Nonostante la musica, quella voce gli arrivò chiarissima e intensa. Si voltò verso la fonte di quella voce, trovandosi faccia a faccia con Lydia, fasciata dentro ad un vestito azzurro, simile ai suoi occhi.
“A risolvere un problema. Non ho capito di cosa si tratti esattamente.”
Lydia li rivolse un sorriso, che Alec ricambiò timidamente.
“E il tuo?” Le chiese dopo un po’, sperando di non sentirsi rispondere che era venuta con un paio di amiche e fare una bieca figura.
“A prendere da bere.” Lydia indicò un ragazzo vicino all’enorme contenitore di analcolico alla frutta al centro di uno dei tavoli. Alec lo conosceva. Era al quarto anno e frequentava un paio di corsi insieme a Magnus.
“John Monteverde?”
Lydia annuì, mentre le sue guance si coloravano di rosa.
“Beh, è molto carino.”
La ragazza arrossì e sorrise, mentre guardava il suo accompagnatore, che nel mentre era riuscito a prendere due bicchieri e a riempirli. “Sai, Alec… volevo dirti che…” I suoi occhi azzurri passarono da John ad Alec. “Che sono a conoscenza delle voci che girano su di te e sulla tua situazione famigliare. Volevo che sapessi che niente di tutto quello che potresti sentire dai miei genitori è un pensiero condiviso da me. Meriti di essere felice.”
Alec le rivolse un sorriso sincero. Lydia sembrava tenesse davvero a fare una distinzione, a separarsi da quel pensiero un poco bigotto che potevano avere i suoi genitori, condiviso dalla maggior parte delle persone che sua madre, tempo indietro, aveva chiamato amici e che suo padre, invece, continuava a chiamare tali, condividendo gli stessi pensieri. “Grazie, davvero. Anche tu lo meriti, e non mi riferisco solo a John.”
“So a cosa ti riferisci. Ci sto lavorando, sai? Non voglio che scelgano il mio futuro al mio posto. È la mia vita, dopotutto.”
“E hai tutto il diritto di dire la tua su come vorresti spenderla.”
Lydia gli sorrise ancora e lo abbracciò di slancio. Alec si trovò a ricambiare quel gesto istintivamente. Non c’era niente di malizioso, o impacciato, come poteva essere stato quel tentativo di prenderlo per mano, fatto mesi addietro. C’era solo una sincera gratitudine, una dimostrazione fisica di quella che sarebbe potuta diventare un’amicizia sincera. Ad Alec non dispiaceva l’idea. Lydia, dopotutto, gli stava simpatica.
“Aleeeeeeeec!” La voce di Isabelle squarciò quel momento. L’aveva chiamato a voce così alta che era riuscita a sovrastare non solo la musica relativamente alta, ma anche tutto il chiacchiericcio che circondava Alec e Lydia. “Vieni a ballare!” Disse la sorella, non appena raggiunse Alec.  Solo allora sembrò rendersi conto della presenza dell’altra ragazza. “Oh, ciao Lydia!”
La bionda ridacchiò. “Ciao, Isabelle.”
“Posso prenderlo in prestito? Altrimenti rischia di diventare un tutt’uno con la parete fino al ritorno di Magnus!”
Lydia emise una risata divertita. “Ma certo. Andate!”
“Grazie!” Esclamò Izzy, prendendo per mano il fratello. “Sei molto carina!” Le disse, infine. Lydia la ringraziò e nel momento stesso in cui i due fratelli si allontanarono, salutandola, lei si diresse nuovamente da John.

Alec aveva ballato pressoché con tutti.
Tutti tranne Magnus. Da quando avevano messo piede in quella palestra, infatti, il ragazzo era stato chiamato così tante volte che non erano riusciti a stare insieme per più di dieci, quindici minuti a volta. Alec non voleva lamentarsi – soprattutto perché sapeva benissimo che non avrebbe giovato a Magnus che, a sua volta, agognava un attimo di tranquillità – ma desiderava avere il suo ragazzo tutto per sé.
Izzy era stata la prima a trascinarlo in pista – per la seconda volta, dopo l’episodio con Lydia – e successivamente anche Clary gliel’aveva chiesto. O meglio, l’aveva quasi supplicato. Eddai, Alec. Sei l’unico Lightwood con cui non ho ancora ballato!
Dopo aver ballato con Clary, era stato coinvolto in una specie di ballo collettivo a cui anche Jace e Simon avevano partecipato. E da quell’episodio era nata tutta una serie di foto che li ritraeva insieme – alcune molto carine, altre veramente inguardabili, dove avevano fatto appositamente delle boccacce. Era stato divertente, doveva ammetterlo, ma gli mancava comunque qualcosa. Gli mancava Magnus, il pezzo che avrebbe reso il suo puzzle completo.
Sospirò, mentre si faceva spazio tra gli studenti e si dirigeva verso uno dei tavoli per prendersi da bere. Si stava giusto domandando se avrebbe trovato dell’acqua, quando una mano si strinse sul suo gomito. Alec si voltò repentinamente e quando incrociò gli occhi di Magnus, un sorriso comparve spontaneo sul suo viso. “Ehi.”
“Ehi, splendore.”
“Hai risolto?”
Magnus annuì. “Non dovrebbero più avere bisogno di me. Non capisco perché debbano trovare problemi inutili, quando io e Cat abbiamo appositamente stillato una lista di istruzioni ben precise da seguire per evitare inconvenienti simili!”
Alec notò una certa tensione in Magnus. Evidentemente, i preparativi lo avevano stressato un poco e l’idea che tutto il suo precedente lavoro rischiasse di venir vanificato per degli errori che potevano essere evitati, lo agitava. Il ragazzo si avvicinò all’altro e gli sistemò le braccia ai lati del collo, cominciando a giocare con i capelli sulla nuca. Un gesto che, di solito, tendeva a rilassare Magnus. “Forse è solo una scusa per averti un po’ intorno.” Gli disse, lasciandogli un bacio sulla fronte. Magnus rise, circondando la vita di Alec con le braccia.
“Li capirei se fosse così.”
“Anche io, sai? Soprattutto stasera. Sei particolarmente bello.”
“Mi aduli per farmi stare meglio?”
Alec accennò un sorrisetto. “Funziona?”
Il ragazzo parve pensarci su, arricciando le labbra in una smorfia adorabile. “Sì. Sì, funziona.”
Alec non riuscì a trattenere una risata. “Ne ero certo.”
Magnus strinse la presa sulla vita di Alec e sistemò il viso nell’incavo del suo collo. Rimase lì, in silenzio, senza dire nulla, mentre Alec continuava a giocare con i suoi capelli.
“Però pensi davvero che sia bello, giusto? Non lo dici solo per farmi un piacere?”
Alec rise di nuovo, tanto che tirò indietro la testa, esponendo le curve del collo, sulle quali gli occhi di Magnus indugiarono avidi. “Lo penso davvero, amore.” Alec si fece serio, avvicinando il suo viso a quello del proprio ragazzo. I suoi occhi si incatenarono a quelli dell’altro in quel modo adorante che faceva tremare le gambe di Magnus. La sua bocca era ad un millimetro da quella dell’altro. “Sei il più bel ragazzo su cui abbia mai posato gli occhi.”
Magnus deglutì a vuoto. Sentì un calore pervadergli le guance. Stava arrossendo, il che era davvero un evento raro. Solo Alexander gli faceva quell’effetto. “Sai essere piuttosto convincente.”
Alec annuì. “Lo so.” Si sporse verso Magnus per dargli un bacio, ma questi si scostò. Alec gli riservò uno sguardo tra il deluso e l’interrogativo.
“Aspettami qui.”
Alec aggrottò la fronte. “Sei serio?”
Magnus gli prese il viso tra le mani e gli accarezzò le guance con i pollici. “Fidati di me.”
Alec sospirò, ma annuì, osservando Magnus che si allontanava da lui e si inoltrava tra gli studenti. Lo seguì con lo sguardo, curioso di vedere cosa doveva fare. Lo vide mentre parlava con il dj, il quale annuì. Nel momento esatto in cui Magnus si allontanò da lui, la musica cessò per lasciare posto ad un’altra canzone.

Come to me
In the night hours
I will wait for you
And I can’t sleep
'Cause thoughts devour
Thoughts of you consume


Il cuore di Alec si fermò all’improvviso, come se fosse stato congelato. Riprese la sua corsa non appena Magnus fu nuovamente davanti a lui, con gli occhi carichi di amore e un sorriso insicuro sul viso. Perché doveva essere insicuro, poi? Temeva forse che Alec non avrebbe apprezzato un gesto simile? Nessuno gli aveva mai dedicato una canzone. Ma Magnus era il primo di tante cose, di conseguenza anche il primo in questo. E il cuore di Alec stava letteralmente esplodendo.

I can’t help but love you,
Even though I try not to


“Nemmeno se per qualche astruso motivo decidessi di provare a smettere di amarti, ci riuscirei.” Gli sussurrò Magnus, mentre avvicinava il viso al suo. Alec sentì la sua riserva d’aria venir improvvisamente meno. Tutto l’ossigeno in quella stanza era stato risucchiato e i suoi polmoni necessitavano di respirare.

I can't help but want you
I know that I'd die without you


“Non c’è niente, nessuno, che voglio al mondo più di te. Sei il mio miracolo.”

Alec deglutì a vuoto. Il cuore gli martellava nella orecchie, rendendolo sordo a qualsiasi suono che non fosse il proprio battito e le parole di Magnus. Era la dichiarazione più bella che qualcuno potesse mai fargli. Era qualcosa pregno di una sincerità che partiva dagli abissi di un cuore innamorato. Alec era così fortunato.
Alec era a sua volta così innamorato, che altro non riuscì a fare se non afferrare Magnus per i lembi della sua giacca e tirarlo a sé, baciandolo con tutto se stesso, dedicandogli ogni atomo del suo corpo e ogni fibra della sua anima.
Magnus rispose immediatamente a quel bacio. Le loro bocche cominciarono a muoversi all’unisono, creando quell’insieme perfetto che faceva venire le farfalle nello stomaco ad Alec.
Era Magnus.
Sarebbe sempre stato Magnus. E adesso era pronto per gridarlo al mondo che era lui la sua felicità, che era lui ciò che voleva e che avrebbe sempre voluto al suo fianco.
Alec si staccò solo per riuscire a guardare l’altro in viso, per cercare le parole giuste per dirgli ciò che aveva appena attraversato la sua mente. Ma Magnus si sporse verso di lui, come per dirgli che quel bacio non gli bastava, come per dirgli che voleva di più e voleva che lui lo assecondasse. E Alec non sapeva negare niente all’amore della sua vita. Così lo baciò di nuovo, con la stessa premura, con la stessa intensità. Lo strinse ulteriormente a sé e lo baciò ancora, e ancora. Avrebbero consumato le loro labbra a forza di baci.
E andava bene così.
Era tutto perfetto così.
Magnus, Alec, i loro baci. Le persone intorno a loro, i fischi di approvazione (Alec sospettava che Jace c’entrasse qualcosa), la sensazione che niente gli avrebbe più fatto paura.
Non si torna indietro. Non si torna nel buio dopo aver visto la luce. E Magnus era luce allo stato puro. Una supernova che Alec avrebbe voluto tenere con sé per il resto della sua vita.


*



Settembre era sempre stato un bel mese, per Alec.
Gli piaceva camminare per strada e vedere come le foglie degli alberi cominciavano a cambiare colore, ingiallendosi un poco. E trovava piacevole sentire la temperatura che si abbassava giorno dopo giorno, salutando la calura estiva per dare il benvenuto alla temperatura autunnale. La verità era che lui preferiva le stagioni fredde, a quelle calde.
Almeno, fino a quando non aveva passato l’estate con Magnus. Gli aveva davvero fatto rivalutare la stagione più calda dell’anno. E nonostante Alec continuasse a preferire le stagioni fredde, doveva ammettere che anche le spiagge cominciavano ad avere il loro fascino. Forse perché spiaggia stava a significare Magnus in costume e il suo ragazzo stava incredibilmente bene in costume. Forse perché spiaggia significava anche prendere il sole e la pelle di Magnus assumeva una tonalità bronzea che faceva impazzire Alec.
L’estate, in definitiva, era davvero una bella stagione.
Ma Alec continuava a preferire l’autunno e ancora di più l’inverno, che portavano con sé coperte pesanti e cioccolate calde.
E una miriade di scuse per stare abbracciati al proprio affascinante fidanzato.
Alec sorrise, mentre guardava le foto che teneva appese all’armadietto: c’era la prima che si era fatto con Magnus – risalente ormai a quasi un anno prima; c’era una serie di fototessere che si erano fatti in un pomeriggio estivo di pioggia; e, infine, c’era quella che si erano fatti al mare, dove si vedeva un Magnus bronzeo come una statua che sistemava amorevolmente la crema solare sul viso di Alec, che si era bruciato e assomigliava ad un’aragosta.
“Guardi quanto siamo belli?”
Alec sentì due braccia familiari abbracciarlo da dietro, circondandogli la vita. Magnus gli baciò una guancia. “Sì.” Alec si voltò per riuscire a guardare l’altro in viso. Magnus aveva ancora i segni dell’abbronzatura.
“Siamo meglio dei Brangelina.”
“Lo spero, visto che si sono lasciati.”
“Intendevo esteticamente.”
Alec accennò un sorriso, alzando solo un angolo della bocca, e gli lasciò un bacio sulla fronte. “Quindi ora ti inventerai un nome anche per noi?”
“Dovrei?”
Il ragazzo alzò le spalle. “Non lo so. Se la cosa ti aggrada, potresti anche farlo.”
“Se Brad e Angelina diventano Brangelina, Magnus e Alexander diventano… Malexander?”
“O più semplicemente Malec.”
Magnus parve pensarci su, poi annuì. “Mi piace come suona.” Stabilì, quindi, dando un bacio ad Alec. “Ora vieni con me.” Il maggiore fece intrecciare le loro dita e, dopo un’ultima occhiata alle foto sull’armadietto di Alec, chiuse lo sportello.
“Dove andiamo?”
“Al mio armadietto, tesoro. Voglio darti il tuo regalo di compleanno.”
Alec, incurante degli altri studenti che lo circondavano, si fermò in mezzo al corridoio, costringendo anche Magnus a fare lo stesso.
“Ti sei ricordato?”
“Potrei mai dimenticarlo?” Magnus si avvicinò e gli prese il viso tra le mani. “Non si dimentica il compleanno del proprio ragazzo.” Lo baciò dolcemente. “A proposito. Buon compleanno, amore mio.”
Alec arrossì e si sporse per dargli un altro bacio. Magnus era già di per sé il regalo di compleanno migliore del mondo – e quello passato era stato davvero l’anno più bello di tutta la sua vita.



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Ciao a tutti e ben ritrovati!
Innanzitutto, mi scuso per il gigantesco ritardo, ma ho avuto un po’ di cose da fare e il tempo per completare il capitolo era sempre poco.
In secondo luogo, chiedo scusa per eventuali errori, ma una parte del capitolo è già scritta da un pezzo, mentre l’ultima parte ho finito di scriverla in pratica adesso e, nonostante l’abbia riguardata, potrebbero esserci errori che mi sono sfuggiti – così come nella prima parte, perché ho riletto tutto un po’ velocemente. Quindi, vi chiedo scusa in anticipo.
Allora, siamo arrivati alla fine e la cosa mi mette una tristezza infinita, ma… abbiamo ancora l’epilogo, quindi siccome non me la sento ancora di mettere la parola fine a questa storia, i saluti e i ringraziamenti sono rimandati all’ultimissimo capitolo.
A proposito dell’epilogo, è già scritto, ma voglio ridargli una letta, quindi penso che lo pubblicherò o domani o mercoledì. Ditemi voi cosa preferite, se lo volete subito o volete aspettare qualche giorno in più.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, che sia un finale che troviate appropriato – anche se in pratica per la maggior parte è incentrato sul ballo di fine anno. Se avessi dato un titolo ai capitoli, questo l’avrei sicuramente chiamato prom. E ora capite perché non do titoli ai capitoli: non sono capace e non ho assolutamente fantasia per i titoli. Ad ogni modo, spero vi sia piaciuto e se avete voglia fatemi sapere cosa ne pensate di questa immensa dose di fluff.
Vi saluto e come sempre ringrazio chiunque legga, segua/metta tra i preferiti e chiunque spenda un po’ di tempo a recensire, lo apprezzo tantissimissimo!
Ci vediamo all’epilogo, un abbraccio, alla prossima! <3

PS: Sicuramente le avrete riconosciute, ma le canzoni citate sono "Storm" e "War of Hearts" entrambe di Ruelle. La prima era in sottofondo durante il primo bacio dei Clace e la seconda, beh, lo sappiamo praticamente tutti, ma lo specifico lo stesso, l'abbiamo sentita durante il primo, iconico, bacio Malec *v*

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Capitolo 22
*** 22. ***


                                                                                                                    I look around me and see a sweet life
                                                                                               

                                                                                            ◊


Il pianto del bambino svegliò Alec dal sonno in cui era caduto solo tre ore prima. Il suo cervello si svegliava ancora prima che il suo corpo si rendesse effettivamente conto di farlo, attivato da quell’istinto di protezione già profondamente radicato in lui e che quel frugoletto che avevano preso con loro da sette mesi a questa parte aveva terribilmente accentuato. Alec era iperprotettivo, nei confronti del figlioletto e Magnus non perdeva mai occasione di farglielo notare.
Nathan Lightwood-Bane, Nate per i suoi papà, era un bellissimo bebè di otto mesi dalla pelle scura, le guance paffute, e gli occhi di un profondo e vispo castano, che guardavano curiosi il mondo pieno di figure molto più grandi ed imponenti del loro piccolo proprietario. Per questo Alec tendeva ad essere troppo un papà chioccia. Anche in occasioni dove, a detta di Magnus, non era necessario – tipo la settimana prima, all’asilo nido, quando un bambino di un anno aveva avuto l’ardire di rubare il sonaglino a Nate. Il piccolo aveva pianto e Alec, ormai sulla soglia della porta dell’asilo, aveva fatto dietrofront con l’intento di andare a consolare il suo cucciolo. E magari insegnare a quel bulletto che i giochi non si rubano. Ma Magnus, dall’alto della sua razionalità, l’aveva afferrato per un braccio e l’aveva spintonato fuori dall’edificio.
«Sapevo che era troppo presto per l’asilo nido!» Si era lamentato con il marito, che invece gli aveva scoccato un’occhiata indulgente.
«Amore. Ne abbiamo già parlato. La pediatra ha detto che gli farà bene e lo aiuterà a socializzare.»
«Ha
otto mesi, Magnus. Non sa nemmeno come si fa a socializzare!»
«Tu hai ventisette anni e non ne sei ancora capace. Se ti avessero mandato al nido, forse, sapresti farlo. Vuoi che Nate diventi come il suo papà?»

Alec gli aveva lanciato uno sguardo offeso. «Io so socializzare.»
«Non puoi mentire a me, amore. Ti conosco meglio di te stesso.»

«È in momenti come questo che mi chiedo perché ti ho sposato, lo sai?»
Magnus aveva liquidato quella frecciatina e si era fatto più serio. «Alexander. So che è dura, va bene? Separarsi da quel fagiolino è difficile, ma è necessario per la sua crescita. Sono solo un paio d’ore e poi torniamo a prenderlo. Sgridare un bambino poco più grande del nostro non velocizzerà il tempo.»
«No, ma aiuterà a far capire a quel piccolo delinquente che non deve infastidire nostro figlio.»

Magnus aveva storto la bocca alla parola delinquente, ma aveva sorvolato sulla discutibile scelta di parole del marito. Invece, gli aveva preso una mano e gli aveva baciato le nocche. «Ti amo per tanti motivi, e questo tuo lato protettivo è uno di questi, ma adesso stai esagerando. Quel bimbo non l’ha fatto di proposito.»
«Ne sei certo?»
Alec era ancora scettico e nemmeno l’espressione sicura del marito lo convinceva totalmente. Ma non poteva negare che Magnus avesse ragione.
Incredibile come Magnus fosse quello razionale dei due, talvolta, pensò Alec mentre spostava le coperte dalla sua parte del letto e si metteva seduto. Si passò le mani sulla faccia per svegliarsi meglio, sentendo il metallo degli anelli contro gli zigomi. La fede d’oro alla mano sinistra e la fedina argentata a quella destra, che portava da dieci anni, ormai. Sorrise e si alzò, dirigendosi verso il lettino che stava vicino al suo. Nate piangeva – la bocca spalancata faceva bella mostra dei suoi incisivi inferiori (lui e Magnus avevano fatto una festa a cui tutta la famiglia aveva partecipato entusiasta, quando erano sbucati uno dietro l’altro. Maryse aveva persino fatto una torta a due piani, giustificando quella scelta dicendo che ogni dentino meritava un piano per essere festeggiato a dovere) – impegnandosi al massimo per far capire ad almeno uno dei suoi papà che aveva fame. Come percepì il tocco familiare di Alec stringergli il corpicino, avvolto in un pigiamino giallo, il suo pianto si calmò, fino a cessare.
“Non vogliamo svegliare l’altro papà, vero fagiolino?”
Era stato Magnus ad alzarsi quando il piccolo aveva pianto, tre ore prima, permettendo ad Alec di potersi riaddormentare, sebbene si fosse svegliato ugualmente.
“Andiamo di là, prepariamo la pappa. Vuoi la pappa?” domandò, avvicinando l’indice della mano libera al naso del piccino. Nate afferrò il dito del padre ed emise un versetto che Alec interpretò come di approvazione.
Mentre si incamminava verso la cucina con il figlio in braccio, accendendo le apposite luci, fece attenzione a non fare rumore e continuò a cullare il bambino, cantandogli sottovoce la sua canzoncina preferita della nanna. “Un elefante si dondolava…” Alec si interruppe, quasi come se Nate fosse stato in grado di finire la frase e, arrivato in cucina, cominciò a preparare il latte in polvere con una mano sola. Impresa non troppo facile. “Sopra al filo di una ragnatela. E ritenendo il gioco interessante…” Prese il biberon pieno di latte e lo adagiò dentro al microonde, azionandolo. “Andò a chiamare un altro elefante!” Alec continuò a cullare il bambino, mentre guardava il biberon che girava, scaldandosi, all’interno del microonde. Quell’aggeggio si dimostrava più utile di quanto si sarebbe mai immaginato. Meno male aveva dato retta a Magnus e l’avevano comprato, quando si erano trasferiti in quel loft di Brooklyn, cinque anni prima.
Vivevano insieme da cinque anni ed erano sposati da due.
Aveva sentito parecchi commenti, la maggior parte assolutamente non richiesti, da parte di persone che facevano parte di quella fazione della sua famiglia che trovava sempre da ridire su qualsiasi cosa facesse – e con le quali era costretto a relazionarsi almeno una volta l’anno, a Natale, per il quieto vivere. Suo padre e sua nonna erano i primi in trincea a giudicare sottovoce – come se Alec non li sentisse, poi – le scelte di vita del primogenito Lightwood. A ventidue anni era troppo giovane per andare a vivere insieme a qualcuno; a venticinque era troppo giovane per sposarsi. Alec si era chiesto più di una volta se tutti questi problemi non derivassero dal fatto che tutte queste attività venissero condivise con un uomo, Magnus, e dal fatto che, in fondo, sia suo padre che sua nonna continuassero a chiamare l’omosessualità di Alec «una fase» che speravano sarebbe finita presto. Un po’ provava pena per loro. Ma poi si ricordava che non erano venuti né al suo matrimonio, né al battesimo del piccolo Nate e la pietà che provava nei loro confronti svaniva.
Il timer suonò e i pensieri di Alec vennero interrotti. Sistemò meglio il bambino, in modo che fosse saldo su un unico braccio, il sinistro, e con il destro potesse aprire il microonde e afferrare il biberon. “Adesso papà assaggia la pappa. Non vogliamo che sia troppo calda, vero frugoletto? Non vogliamo farci la bua alla lingua.”
Nate si esibì in un versetto, un ghe-ghe accompagnato da un sorriso che Alec interpretò come un assenso. Avendo una mano occupata, Alec non poté testare la temperatura del latte sul polso, quindi aprì la bocca e lasciò cadere un po’ del contenuto del biberon sulla lingua. Tutto apposto, non bruciava. I primi tempi, quando Nate era con loro da poche settimane, Alec aveva il terrore che avrebbe ustionato il palato del suo bambino, ma poi aveva imparato. Aveva imparato molte cose, in realtà: a cambiare un pannolino, a preparare un bagnetto con l’acqua non troppo calda, ma nemmeno troppo fredda; a preparare le pappe per lo svezzamento a pranzo e a cena, alternando ancora il latte durante le mangiate notturne. Aveva imparato a fare le lavatrici con programmi diversi, perché altrimenti i vestitini del bambino si rovinavano. Magnus era più bravo di lui, in questo – aveva rovinato solo una tutina, Alec ne aveva rovinate almeno cinque prima di capire come impostare il programma. Aveva persino imparato un sacco di canzoncine per bambini, contagiando anche Jace, sotto lo stupore generale di tutti che, al contrario, pensavano avrebbe preso in giro Alec fino alla fine dei suoi giorni. Zio Jace, invece, si era impegnato per imparare tutte le canzoni della nanna per appropriarsi del nipote, quando andava a trovare il fratello, e farlo dormire. Izzy aveva persino messo in guardia Clary sull’apparente istinto paterno latente in Jace, ma la rossa aveva guardato l’interessato, che teneva il bambino in braccio, con gli occhi verdi colmi d’amore e qualcosa che assomigliava alla voglia di maternità. Chissà, forse di lì a poco Alec sarebbe diventato zio Alec e Nate avrebbe avuto un cuginetto. O una cuginetta.
“Hai fame, fagottino?” Chiese Alec con  la voce colma di tenerezza, mentre avvicinava il biberon alla bocca del bambino, che cominciò a mangiare non appena avvertì il sapore del latte sulla lingua. “Ma che bravo che sei.” Lasciò un bacio sulla fronte del piccolo.
Le voci sulle sue scelte di vita erano state critiche anche per quanto riguardava l’adozione. Non era il momento giusto. Erano troppo giovani. Dovevano aspettare. Ma quando Catarina aveva accennato ad un bambino abbandonato sulla porta dell’ospedale dove lavorava, avvolto in una copertina, Magnus ne aveva parlato per giorni. Continuava a chiedersi che ne sarebbe stato di lui, quale fosse il destino che lo attendeva. Così piccolo e già solo. E la soluzione per loro era apparsa chiara e semplice, quasi come se fosse l’unica: quel bambino sarebbe diventato il loro bambino. Catarina per un pelo non era esplosa dalla gioia, quando le avevano comunicato la loro intenzione di fare domanda per adottarlo. Era stato naturale farlo, così come era stato naturale per loro andare a vivere insieme e sposarsi. Certo, non era stato facile. Le loro vite erano un tantino diverse da come se le erano immaginate da ragazzini. Erano stati in Grecia, alla fine, ma solo per il viaggio di nozze. Alec lavorava in una libreria – Magnus aveva una lista rifornitissima, quasi infinita, di battute inappropriate sui librai sexy – e non aveva ancora pubblicato nessun libro, ma si ritagliava dei momenti durante la giornata per scrivere il giallo che gli ronzava in testa. Magnus faceva il fotografo in uno studio che si occupava principalmente di matrimoni, ma accumulava una parte del suo stipendio per poter aprirne uno tutto suo, un giorno. La loro vita non era perfetta. Avevano i problemi e le preoccupazioni di ogni coppia, e adesso anche quelle di ogni genitore, ma andava bene così. Erano insieme e sapevano che sarebbero riusciti a fare tutto, finché avevano l’un l’altro e il loro bambino.
“Per essere uno che odia i nomignoli sdolcinati, ne hai usati parecchi.”
Alec quasi sussultò udendo quella voce, ormai abituato al silenzio. Si voltò verso l’entrata della cucina, dove Magnus, con una vestaglia aperta sopra i pantaloni del pigiama, stava appoggiato allo stipite della porta – il viso struccato, ma illuminato da un sorriso bellissimo, che nemmeno l’ombra del sonno che ancora aveva addosso riusciva a corrompere.
“Non volevo svegliarti.”
Magnus si staccò dallo stipite e si diresse verso Alec. Gli diede un bacio su una guancia. “Non mi hai svegliato.” Lasciò un bacio anche sulla testina del bambino. Nate era ancora intento a mangiare e teneva una manina cicciotta appoggiata a quella di Alec, che reggeva il biberon, come ad intimargli di non portargli via il suo cibo. Magnus osservò il contrasto tra le pelli, tra quella chiarissima, bianca, di Alec e quella scura, nera, del loro bambino. Era un contrasto che adorava, che creava un equilibrio – il loro equilibrio – e che dava un’idea di completezza, la stessa che si trovava yin e nello yang. Bianco e nero. Gli opposti che creano la perfezione. Per Magnus era così. La sua famiglia era perfetta, ma non aveva potuto fare a meno di chiedersi se, un giorno, il fatto di venire da una famiglia interrazziale dove i genitori erano dello stesso sesso avrebbe portato dei problemi a Nate.
Stranamente, era stato Jace a tranquillizzarlo. Magnus ricordava quell’episodio come il giorno in cui aveva realizzato che sotto la testa biondo ossigenata di Trace ci stava effettivamente un cervello pensante e funzionante in un modo sbalorditivo. Era andato a trovarli con la scusa di voler salutare Alec, quando in realtà sapeva benissimo che suo fratello era a lavorare – Magnus sapeva che i fratelli e la madre di Alec stravedevano per il bambino e che ogni momento era buono per piombare in casa loro, senza preavviso alcuno, e spupazzare un po’ il piccolo, o portargli dei regali. La loro casa ormai era invasa da peluches e giocattoli di ogni genere, ma andava benissimo così – e si era piazzato nel suo salotto, spaparanzandosi sul divano facendo giocare Nate, che aveva appena cinque mesi, e che si esprimeva in risolini euforici ogni volta che Jace faceva una faccia buffa o una pernacchia. Magnus aveva sorriso, di fronte a tanta tenerezza, ma poi un pensiero colmo di preoccupazione lo aveva assalito e Jace, che a quanto pare aveva un occhio vigile per certe cose – Magnus non l’avrebbe mai detto – si era accorto di quel cambiamento. Perciò, aveva sollevato il bambino davanti alla propria faccia, rivolgendolo verso Magnus, e aveva detto, con una vocetta che doveva assomigliare a quella di un bebè: «Cosa ti preoccupa, papà Magnus?»
Magnus gli aveva lanciato un’occhiata truce e Jace si era fatto serio. «Davvero, cosa ti preoccupa, Magnus?»
«Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa che mi preoccupa?»
«Il tuo muso lungo. Sei inguardabile e deprimente. Non sono venuto qui per deprimermi, ma per giocare un po’ con mio nipote. Quindi, non fare il difficile. Sputa il rospo, almeno posso tornare a fare quello per cui sono venuto.»
«Pensavo fossi qui per salutare tuo fratello.»

Jace l’aveva liquidato con un gesto sbrigativo della mano. «Ufficialmente sì, praticamente no. Avanti. Che c’è?»
Magnus aveva sospirato e, arrendendosi,  era andato a sedersi accanto a Jace. Nate, appena aveva visto il padre, aveva agitato le gambine e allungato le braccia  cicciotte verso di lui. Magnus l’aveva preso in braccio, la schiena del piccolo appoggiata al suo petto; Nate aveva stretto un dito di Magnus nel suo pugnetto. «E se dovesse sentirsi a disagio perché è stato adottato? Magari a scuola lo prenderanno in giro. Non voglio che mio figlio soffra per dei pregiudizi.»
Jace aveva inchiodato i suoi bicromatici occhi profondi nei suoi, facendosi serio come mai l’aveva visto da quando lo conosceva. «L’ultima parte. Ripetila.»
«Mi stai prendendo in giro, per caso?»
«No, voglio farti focalizzare su una cosa. Ripeti l’ultima frase.»
«Non voglio che mio figlio soffra per dei pregiudizi.»

Jace aveva allungato una mano verso il piccolo, accarezzandogli una guanciotta. «Le parole cruciali sono mio figlio. Voglio raccontarti una cosa.» Fece una pausa per alzare gli occhi dal nipote al cognato. «Quando ero piccolo, un gruppetto di bambini del catechismo diceva che ero figlio di nessuno, che nessuno mi voleva bene perché non avevo una mamma e un papà. Non era certo un mistero che fossi stato adottato. Pensai che era vero. Maryse e Robert non erano i miei genitori biologici, quindi, quei bambini doveva necessariamente avere ragione. Non ti nascondo che una volta a casa, piansi. Ma è stata l’ultima volta e sai perché? Perché mia madre mi ha sempre detto che non importava il sangue, lei mi amava e mi sentiva figlio suo. Sei figlio mio, Jace, esattamente come lo sono i tuoi fratelli, mi ha detto. Ci credeva lei, quindi ci credevo anche io. Mi ha insegnato a non permettere mai a nessuno di farmi sentire come non volevo sentirmi. Lei era mia madre, Alec, Izzy e Max erano i miei fratelli. Lo pensavo io, lo pensavano loro, quindi era così. Non mi importava degli altri, fin tanto che l’opinione della mia famiglia era quella.» Fece un’altra pausa, che impiegò per lasciare un fugace bacio sulla manina libera di Nate. «Finché tu e Alec continuerete a sentire questo bambino figlio vostro, eventuali possibili commenti non lo scalfiranno più di tanto perché avrà il vostro amore. E quello di tutti noi. Questo non cambierà mai.»
Se Magnus avesse avuto l’abitudine di abbracciare Jace, l’avrebbe fatto, ma non si erano mai scambiati un segno così intimo di affetto in un decennio, quindi si era limitato a ringraziarlo con un sorriso colmo di gratitudine sulle labbra e gli occhi lucidi per un pianto emozionato che si sforzava di trattenere.
“…E lui è un’eccezione.”
Magnus si destò dal suo ricordo, prestando attenzione ad Alec. Nate aveva finito di mangiare, quindi adesso Alec gli stava dando dei gentili colpetti sulla schiena per aiutarlo a digerire. Non si dondolava più, notò Magnus con una punta di tenerezza: i primi tempi, Alexander aveva la tendenza a muoversi, come se, appunto, fosse su un dondolo, ma quando Nate aveva rigurgitato su metà delle sue magliette, aveva capito che era meglio stare fermo, in attesa che il piccolo digerisse in modo appropriato. Magnus aveva approfittato di quelle occasioni per provare a sbarazzarsi delle magliette scolorite e bucate del marito, ma Alec si era opposto fortemente. Una volta in particolare, Magnus, dopo aver fatto addormentare Nate e averlo adagiato in un’altra culla che tenevano in salotto, vicino al divano, si era diretto in bagno, dove sapeva che Alec stava sciacquando la sua maglietta, vittima dei rigurgiti del bambino, e aveva mostrato particolare interesse riguardo la possibilità di sbarazzarsi di metà armadio del marito.
«Non butterai i miei vestiti. Basta lavarli.» Aveva detto Alec, mentre strofinava la saponetta contro la stoffa, ormai quasi consunta, di una maglietta che un tempo era stata nera. Questo, comunque, portava a qualcosa di positivo: Alexander a torso nudo.
«Lavare le stesse cose in lavatrice per quindici anni, le consuma, Alexander. Lasciami rinnovare il tuo guardaroba.»
«No. E non provare a mettere su quell’espressione, Magnus.»
L’aveva ammonito, ma Magnus non aveva desistito e aveva mantenuto la sua espressione da cucciolo, con tanto di occhi grandi e supplichevoli. «Smettila. Sono serio, Magnus.» Aveva detto, abbandonando la maglietta nel cestello dei panni sporchi e puntandogli l’indice contro.  Alec era così irremovibile a volte. E di conseguenza, non era colpa di Magnus, se era passato a metodi non proprio onesti, per riuscire nel suo intento. Se suo marito non fosse stato così testardo, lui non sarebbe stato costretto a passare alle maniere forti. Magnus, dall’alto della sua piena consapevolezza, si era approfittato – cosa di cui, ripensandoci adesso non andava molto fiero – delle debolezze di Alec e, dopo aver fatto finta di dargli ragione, si era avvicinato per dargli un bacio, prima delicato e poi un po’ più esigente. Era sceso fino alla gola, dove aveva succhiato la pelle candida e sensibile, fino a strappare respiri sempre più ansimanti all’altro, mano a mano che la sua bocca scendeva, appropriandosi di lembi di pelle nuda. Solo quando Alec aveva portato le sue mani dentro la maglietta dell’altro, Magnus si era allontanato. Era stata una mossa così meschina da parte sua, ma non ce la faceva davvero più a vedere Alec andare in giro con quei vestiti rovinati.
Alec, con la pelle segnata dai marchi rossi che gli aveva lasciato Magnus, l’aveva guardato con gli occhi ridotti a due fessure, pienamente consapevole di essere stato raggirato. «Sei uno stronzo.»
«Linguaggio. Non vorrai farti sentire dal nostro bambino usare determinate parole.»
«Il bimbo dorme, non può sentire ciò che dico.»
«Sì che può sentirlo. Non è bello appellare papà in questo modo.»
«No, non può sentirlo. Soprattutto perché è in un’altra stanza. E non è bello nemmeno cercare di manipolare papà-»
indicò se stesso «-con il sesso.»
Magnus si era avvicinato di nuovo, ma Alec stava in guardia, questa volta. Osservò i marchi sul suo collo, le labbra gonfie di baci e desiderò baciarlo ancora. Discutere sui metodi poco ortodossi di Magnus, anzi che usare le loro bocche per togliersi il respiro a vicenda, gli sembrava una perdita di tempo. «Papà ha ragione.» Convenne, riferendosi ad Alec. «Papà non userà più metodi manipolatori per cercare di distruggere le magliette inguardabili dell’altro papà.»
«Dobbiamo decisamente trovare un modo per distinguerci, o quando imparerà a parlare non sapremo chi sta chiamando.»
Alec aveva abbassato la guardia e Magnus si era avvicinato un altro po’, allungando una mano per accarezzargli le labbra con il pollice.
«Ci penseremo, ma non adesso. Adesso vorrei fare dell’altro.»
Alec aveva riso e si era avvicinato a Magnus, azzerando completamente la distanza che c’era tra di loro e piantando i suoi occhi sulla bocca dell’altro. «Ad esempio?»
Magnus in tutta risposta l’aveva baciato, quasi divorandogli la bocca, e afferrandogli i capelli dietro la nuca con così tanta foga da tirarglieli. Alec aveva emesso un sospiro piacevolmente sorpreso e le sue mani erano finite sotto la maglietta e Magnus, questa volta, se l’era fatta sfilare. Avevano camminato fino alla loro camera da letto, senza smettere di baciarsi e disseminando i loro vestiti in giro per la casa nel tragitto. Magnus poi aveva spinto Alec sul materasso e si era messo sopra di lui. Era ancora più bello di quando l’aveva conosciuto. I suoi tratti si erano induriti, diventando ancora più decisi e mascolini. La linea della mascella, con il tempo, era diventata più marcata e Magnus istintivamente aveva seguito quel perimetro con l’indice, sentendo la sensazione ruvida della barba sotto il polpastrello. Alec l’aveva guardato con la fronte corrugata, notando il cambio di espressione nel viso del marito.
«Che c’è?» Alec gli aveva fatto passare le braccia intorno alla schiena, abbracciandolo.
«Niente. Pensavo.»
«In un momento simile ti metti a pensare?»

Magnus aveva riso, appoggiando la fronte sulla spalla di Alec. «Qualcuno è impaziente.»
«Ehi, è colpa tua. Hai imbastito tu questo giochetto seduttivo per convincermi a buttare la maglietta.»
Gli aveva baciato la fronte.
«E la butterai?» Magnus si era sistemato sui gomiti e Alec aveva allentato l’abbraccio, permettendogli di muoversi meglio.
«Solo se mi dici a cosa stavi pensando.»
«Davvero?»

Alec aveva annuito. «Ne butterò solo una, però.»
«Mi sta bene.»
Magnus aveva alzato le spalle e gli aveva dato un bacio sulla fronte. «Pensavo a te, al fatto che ti ritengo ancora la persona più bella che abbia mai visto. E che ti amo, ogni giorno di più.»
Alec gli aveva regalato un sorriso, di quelli ampi, luminosi e colmi d’amore, e aveva ribaltato le posizioni. L’aveva baciato fino a fargli mancare il respiro, prima di fare l’amore, prima di farlo suo, una volta ancora.
Prima di amarlo, di nuovo, come solo lui sapeva fare – con il corpo e con l’anima.
“Un’eccezione a cosa?” domandò Magnus, sorridendo mentre lo sprazzo di quel ricordo lasciava la sua mente.
“Alla mia repulsione per i nomignoli. È così carino che è impossibile non usarli.” Alec portò il viso del bambino alla sua altezza, sollevando leggermente il figlio con le braccia, e gli lasciò una serie di baci schioccanti sulla guancia, mentre Nate ridacchiava.
“Capisci cosa provo, allora, pasticcino. Anche tu sei così carino che è impossibile non usarli.”
“Io sono un uomo, Magnus.”
“Oh, ma lo so.” Fece Magnus, allusivo. Gli occhi felini del maggiore percorsero il corpo dell’altro, soffermandosi troppo all’altezza del bacino. Alec, nonostante fosse completamente coperto dal suo pigiama, nonostante gli anni passati insieme e gli sforzi per imparare a gestire le sue reazioni, si trovò ad arrossire, sotto quello sguardo così intenso.
“Non comportarti così davanti al bambino! Niente allusioni, niente… occhiate eloquenti.
Magnus non riuscì a trattenere una risata, mentre pensava a quanto fosse adorabile Alexander con le guance rosse. Era una caratteristica che amava, in lui, ed era felice che con il tempo non fosse venuta meno.
“E comunque, Sua Maliziosità, intendevo che sono troppo grande per certi vezzeggiativi.” Chiarì, sistemandosi il bimbo in braccio, facendolo sdraiare per farlo riaddormentare.
“Ma sei ancora dannatamente carino. E finché rimarrai carino, io continuerò ad usare nomignoli, zuccherino.
Alec alzò gli occhi al cielo e si rivolse al bambino. “Papà vuole sempre avere l’ultima parola. Non trovi sia fastidioso?”
Magnus si avvicinò, posizionandosi dietro Alec – che lo lasciò fare – e gli circondò la vita con entrambe le braccia. “Non sono fastidioso. Dico solo la verità. Sei il mio zuccherino.” Gli lasciò un bacio tra le scapole e Alec arrossì – di nuovo, contro ogni sua volontà, incapace di controllare quella reazione.
Magnus sciolse l’abbraccio (Alec sentì la mancanza di quel contatto)  per spostarsi di fronte al compagno. Alec notò che i suoi occhi ambrati erano fissi sul figlio, che cominciava a cedere al sonno: la pancina piena e il contatto con uno dei suoi papà erano sempre una combo letale, che lo faceva cadere in un sonno quasi immediato. “Vuoi farlo addormentare tu?” chiese, con una voce soffice. Alec sapeva quanto Magnus adorasse far addormentare il piccino e anche se era una cosa che lui stesso amava fare, ancora di più amava guardare l’espressione beata sul viso del marito ogni volta che Nate si rannicchiava contro di lui, prima di chiudere gli occhietti e cedere al sonno.
Magnus alzò gli occhi su Alec e questi sentì il cuore saltare un battito e riprendere la sua corsa accelerata, stupendosi del fatto che dopo dieci anni insieme, la sua reazione fosse sempre la stessa – forse, addirittura amplificata da tutte le esperienze che avevano vissuto, e che vivevano, insieme. “No, amore. Fallo addormentare tu.” Magnus sorrise e si sporse per baciare Alec sulle labbra e successivamente il piccolo sulla testa.
Alec non era mai stato così felice. In realtà, realizzò, la sua felicità aveva subito dei cambiamenti in crescendo. Era stato felice quando aveva incontrato Magnus, la prima volta. Ancora di più lo era stato quando si erano dati il loro primo bacio. E c’era stata la prima volta che avevano fatto l’amore, quello l’aveva reso così felice che aveva temuto che il cuore potesse scoppiargli. Ma era un ragazzino, ancora ignaro di cosa gli avrebbe riservato la vita, di quale grado immenso di felicità avrebbe toccato. Non sapeva che il suo cuore sarebbe stato riempito ancora, e ancora, e ancora, fino a raggiungere un livello superiore di beatitudine. Alec era appagato, era soddisfatto. Era sposato con l’uomo che amava, e che rispecchiava tutto ciò che aveva desiderato, ed era stato così fortunato da aver avuto la possibilità di crescere un figlio meraviglioso con colui che Alec reputava la sua anima gemella.
Magnus lo faceva stare bene e lo accettava per come era, lasciandolo libero di essere se stesso, sebbene allo stesso tempo, Alec desiderasse impegnarsi per essere una versione migliore di se stesso – sia per Magnus, che per il loro bambino, diventato una parte fondamentale della loro vita. Un bambino che gli aveva insegnato che esiste un altro tipo di amore, forte e intenso, che parte dalla porzione più profonda dell’anima. L’amore che si prova verso un figlio era qualcosa di veramente indistruttibile, destinato solo a crescere giorno dopo giorno.
Sì, Alec era felice.
Indipendentemente dalle voci critiche, dalle occhiate di suo padre, dal fatto che non avesse ancora mosso un passo per provare a farsi perdonare per come si era comportato e come si comportava.
Non gli importava. Aveva dato retta a Magnus e non si era fatto dominare dal rancore che aveva provato per quell’uomo. Aveva semplicemente scelto di lasciar perdere e di concentrarsi sugli aspetti positivi della sua vita – su suo marito e suo figlio, sui suoi fratelli e sua madre che avevano amato Nate da subito, nello stesso modo in cui lo amavano lui e Magnus.
Magnus.
Ancora una volta, era lui il fulcro di tutto. E Alec sapeva che il suo cuore gli sarebbe appartenuto per sempre.
Aku cinta kamu.”
Magnus lo guardò sorpreso e Alec gli rivolse un sorriso storto, di quelli che l’avevano caratterizzato fin da ragazzino, con un unico angolo della bocca alzato. “Che c’è?” domandò, “Te l’ho già detto: tu lo dici nella mia lingua, io lo dico nella tua.”
Magnus sorrise, gli occhi scintillarono in un misto di amore e commozione, e si sporse per dargli un bacio a stampo. “Allora ridillo.”
Aku cinta kamu, Magnus. Ora e per sempre.”
Magnus gli afferrò il viso tra le mani, accarezzandogli le guance coperte di barba. Alec chiuse gli occhi, godendosi quel contatto, ma li riaprì immediatamente, come se avesse il timore di perdersi qualcosa di fondamentale, non ricambiando lo sguardo del marito.
Magnus gli sorrise. “Ti amo, vi amo, anche io.” Abbassò una delle mani per accarezzare una guancia paffuta di Nate, che ormai dormiva, ignaro delle dichiarazioni d’amore che stavano avvenendo tra i suoi papà.
Erano stati due adolescenti scettici che non avevano mai creduto nel lieto fine: Magnus per le sue ragioni, legate principalmente all’esperienza traumatica connessa alla madre, e Alec per le sue, legate ai pregiudizi che aveva suo padre e che l’avevano spinto a credere che avrebbe passato la vita a nascondere la verità.
Ma esistono le sorprese, le svolte e gli imprevisti piacevoli, come un armadietto aperto piazzato al momento giusto nel corridoio di un liceo il primo giorno di scuola e un ragazzo così sbadato da non farci caso, finendoci a sbattere contro.
E quell’incontro aveva fatto capire ad entrambi che i lieto fini non si cercano, arrivano e ci colpiscono con la loro stupefacente intensità. E, a quel punto, non rimane altro che ricredersi, accettarli e ringraziare il fato di essere stati così fortunati.





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Eccomi di nuovo! Allora, l’idea è nata dopo aver letto “Nascono alcuni ad infinita notte” racconto presente ne “Le Cronache dell’Accademia” di Cassandra Clare. Il bambino non si chiama Max per questioni logistiche: seguendo la trama della serie tv, il più piccolo dei Lightwood è vivo, di conseguenza Alec non prende spunto da lui per dare un nome a suo figlio – nome che, in questa storia, non ha un significato particolare, semplicemente mi piaceva come suonava!
Specificazione a parte, siamo arrivati alla fine. La vera fine e mi dispiace più di quanto mi sarei mai immaginata. Questa storia è nata come un esperimento, un “proviamo” che doveva durare si e no sei capitoli e qualche settimana. Di certo non mi sarei mai aspettata di arrivare a scriverne ventidue e di impiegare undici mesi per concluderla. È stata un’esperienza bellissima e questo lo devo solo a voi: ai lettori silenziosi che aumentano sempre di più, arrivando a toccare numeri che non avrei nemmeno immaginato; a coloro che hanno messo la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite; ai recensori, a quelli che hanno commentato la storia dall’inizio e a quelli che “ho trovato la tua storia solo ora…” – mi avete riempito il cuore, davvero, non solo perché siete sempre stati dolcissimi, ma perché avete scelto di dedicare parte del vostro tempo a leggere questa storia e a dire la vostra, in alcuni casi suggerendo anche situazioni che ho poi inserito nella trama. Siete stati il carburante di questa fanfiction, sappiatelo. Senza di voi, senza la vostra accoglienza, non avrei continuato per così tanto tempo. Mi avete costantemente dato la spinta, ispirandomi a cercare di scrivere qualcosa che potesse piacervi, qualcosa che potesse addirittura essere considerato “bello” – anche se, ammettiamolo, devo ancora imparare un sacco di cose!
Tutto questo per dirvi che è stato un periodo piacevole, come lo è stata la vostra compagnia e di questo non potrò mai ringraziarvi abbastanza.
Sembra un discorso fatalistico, ma in realtà questo è il mio modo per dirvi “arrivederci” perché non è la nostra ultima caccia (i riferimenti a #NotOurLastHunt non sono casuali) e tornerò a scrivere e ad intasare questo sito *risata malefica in lontananza*
Vi ringrazio ancora e vi mando un enorme abbraccio! <3
Un’ultima cosa… #SaveShadowhunters perché la speranza non la dobbiamo perdere! (:


 

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