Nothing Else Matters

di TheUnknownDevice
(/viewuser.php?uid=507923)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Primo. Amara consolazione ***
Capitolo 3: *** Secondo. Take me home ***
Capitolo 4: *** Terzo. Di tartarughe e grandi promesse ***
Capitolo 5: *** Quarto. Dylanterapia ***
Capitolo 6: *** Quinto. Too many dreams ***
Capitolo 7: *** Sesto. Solo freddo ***
Capitolo 8: *** Settimo. Faith ***
Capitolo 9: *** Ottavo. Sorprendente ***
Capitolo 10: *** Nono. Il silenzio ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



 


Prologo
 

25 novembre 2003
 

Tutto, lì dentro, gridava: “Scappa, scappa finché sei in tempo!”, eppure non riuscivo a muovere un solo muscolo. Ero paralizzata, immobilizzata da un’indefinita quantità di fili e tubicini d’ogni forma e colore. La stanza, intorno a me, era un’esplosione di bianco e candore: bianche le pareti, il pavimento, le sedie, il tendaggio, persino.
È proprio una stanza d’ospedale, non c’è che dire.
Nella solitudine più assoluta, cercai vanamente di stiracchiare le braccia, ricevendo in cambio un forte dolore alle ossa. Non capivo esattamente cosa stesse succedendo; sapevo solo d’essere bloccata in un letto fin troppo pulito con fin troppi aghi incastrati nella pelle.
Fortunatamente, la porta davanti a me si spalancò, mostrando una giovane donna di colore, probabilmente un’infermiera.
«Oh, ciao, cara. Come ti senti?» fu questo il saluto che ricevetti; nulla a che vedere con delle delucidazioni in merito al mio stato di invertebrato, dunque.
Iniziamo bene.
«Mi... sento bene, grazie. Ma, signorina... vorrei sapere alcune cose, se non le dispiace», risposi, in preda alla più totale confusione.
Di tutta risposta, l’infermiera mi rivolse un sorriso smagliante, asserendo, come se nulla fosse:«Dimmi pure, cara.»
«Perché mi trovo qui? Cosa ci faccio con tutti questi aghi infilati nelle vene? E perché non riesco nemmeno a muovere le gambe? E dove sono finiti i miei genitori?»
«Oh, ma quante domande! Non è bene che tu sforzi il cervello, cara; nelle tue condizioni dovresti cercare di rilassarti», rispose pragmatica la donna.
«Ma potrebbe spiegarmi, per favore...» in effetti, la testa iniziava a dolermi, per non parlare del senso di spossatezza che cominciava ad incombere.
«Va bene, se proprio lo desideri, cara...»  quell’appellativo iniziava a stancarmi. Proseguì:«Hai avuto un brutto incidente d’auto, circa due anni fa. L’autovettura si è praticamente ribaltata, a quanto ne so. Il tuo è stato un caso miracoloso: dopo quasi un anno e mezzo di coma, le speranze di un tuo risveglio sembravano scomparse. Ma poi hai iniziato a mostrare segni di miglioramento, così abbiamo continuato le cure ed oggi sei di nuovo qui con noi», terminò il suo monologo con un sospiro e un nuovo sorrisone, trafficando poi con delle siringhe.
«E... e i miei genitori? Erano con me quando è successo l’incidente?»
L’infermiera mi guardò compassionevole. «Sì, ma non ce l’hanno fatta, cara. Mi dispiace», proferì seria, tornando a sistemare quelle maledette siringhe come se mi avesse parlato del suo cane.
 «Come?! Che vuol dire che non ce l’hanno fatta? Mi vuole spiegare, cortesemente?» il mio tono di voce sfiorava quello di una cornacchia, talmente era stridulo.
Iniziai ad agitarmi nelle lenzuola candide, portandomi a fatica una mano tra i capelli sciolti e scompigliati.
«Come ti ho appena detto,» proseguì con un sorriso tirato, «i tuoi cari non ci sono più. Sono morti sul colpo, probabilmente schiacciati dal peso dell’auto. Tu sei rimbalzata fuori, invece, ma hai subito un trauma cranico così forte che sicuramente non ricordi nulla dell’accaduto, vero, cara?», concluse quella, con cipiglio altezzoso.
Non risposi; semplicemente, scoppiai in singhiozzi, coprendomi il viso con le mani doloranti.
I miei genitori non c’erano più. Da due anni. Erano morti. E quella buona a nulla dell’infermiera aveva usato parole degne di uno scaricatore di porto – quanto a delicatezza e tatto – per spiegarmi l’avvenimento oltremodo tragico che mi riguardava in prima persona.
I miei genitori erano morti ed io non avevo nemmeno avuto la possibilità di salutarli.
Ed io?
Io ero sola.
L’infermiera tentò di avvicinarsi, ma ringhiai qualcosa d’incomprensibile persino a me stessa, ché lei s’eclissò dietro la porta per non comparire più.
Piansi lacrime amare, lacrime di angoscia, di solitudine, di rassegnazione. Versai tutto ciò che avevo in corpo; non rimase nulla della mia anima lacerata.
Probabilmente, sia per il pianto che per l’assenza di nutrimento – anche la bottiglietta della flebo era ormai vuota -, sprofondai in un sonno pesante e senza sogni.
 

- - -
 

«Cara, cara... svegliati, su!» una voce profonda e ovviamente maschile mi stava chiamando, sussurrando in un mio orecchio.
Mi mossi leggermente, come a far capire di non essere caduta nuovamente in coma.
O forse si?
A quel pensiero, i ricordi ritornarono a galla prepotentemente, facendomi aggrovigliare lo stomaco.
Non che ricordassi l’incidente, quello no; ma il racconto alquanto dettagliato e fiscale dell’infermiera sorridente mi aveva fornito le informazioni necessarie per ricostruirne un modello nella mia mente.
E non era la cosa più bella del mondo, assolutamente.
«Bentornata tra noi, cara!», gridò una voce alla mia destra.
Ma che avevano in quel posto?! Dopo due anni andava di moda chiamare tutti con quel nomignolo assurdo? Mah.
Voltai di poco il capo, notando una testa e un sorriso abbastanza familiari.
Sì, decisamente, quella non era la dentiera biancheggiante della donna di colore, nient’affatto.
Era un sorriso sincero, genuino, di quelli che solamente uno come lo zio Cedric poteva offrirti!
Finalmente collegai il tutto, abbozzando un lieve sorriso in risposta a quei grandi occhi azzurri che mi guardavano commossi.
«Oh, piccola Honey, quanto sono felice!» non feci in tempo a formulare una risposta, ché lo zio Cedric mi stritolò in uno dei suoi abbracci mozzafiato.
Per la prima volta dopo quella lunga solitudine, mi sentii a casa.
«Anch’io zio, anch’io. Non immagini quanto», risposi io, con la voce attutita dalla sua camicia di cotone profumata, stringendo le mie braccia intorno alla sua vita.  
Riuscivo persino a ricordare il colore della boccetta dell’ammorbidente che tanto mi piaceva, addirittura. Era una tradizione, quella: fin da quando avevo mosso i primi passi, ad ogni bucato, il grande – e perennemente single – zio Cedric mi faceva aggiungere una quantità spropositata di ammorbidente nella lavatrice perché – dicevo – eliminava dai suoi indumenti il puzzo di fumo che lo caratterizzava – essendo, egli, un accanito fumatore – altrimenti non avrei potuto abbracciarlo a dovere, con quell’odore nauseabondo addosso.
Zio Cedric era il fratello di mio padre; nonostante ciò, pochi erano gli elementi che li accomunavano: gli inconfondibili occhi azzurri – che anch’io avevo ereditato – ed un’altezza possente e protettiva. Per il resto, i tratti somatici e comportamentali erano totalmente differenti, se non proprio opposti.
Ma allora... perché tutti quei minimi particolari riuscivo a ricordarli, mentre il momento precedente al fattaccio non ce la faceva ad arrivare nella mia mente?
Esplicai a parole questo mio pensiero, ricevendo un’occhiata dispiaciuta da quello che doveva essere il medico di base.
«Allora, Honey. Ti spiegherò tutto brevemente ed in modo che ti sia il più chiaro possibile», proferì il dottore, tornando a guardarmi con la solita aria clinica da esperto. «Hai subito uno dei traumi cranici più brutti e pericolosi che abbia mai dovuto operare, specialmente perché il cranio di una bambina non è per nulla simile a quello solido di un adulto. Fortunatamente, il piccolo intervento è andato bene, fatta eccezione per la tua... reazione al tutto. Sei entrata in coma, come ben sai, e ci sei rimasta per due anni. Ti dirò... le speranze che tu potessi risvegliarti erano minime, tant’è che abbiamo chiesto a tuo zio – l’unico ad essersi preoccupato per voi – se fosse il caso di, ecco... di...» il medico pareva in difficoltà, come se non trovasse le parole adatte per spiegarsi, poi sorrise amaro, rivolgendosi a zio Cedric: «È più difficile da esplicare, quando si tratta di una bambina di appena otto anni», affermò imbarazzato, tornando a guardarmi. «Ecco, Honey, volevamo sapere se fosse il caso di... farti rincontrare i tuoi genitori!», asserì soddisfatto, come se gli si fosse accesa la lampadina tutto d’un tratto.
Ma, nonostante la mia giovane età, avevo capito. Pensava di stare ancora nell’Ottocento? Ah, questi adulti.
Per mia fortuna, i miei genitori mi avevano sempre spiegato tutto, essendo degli appassionati di scienze naturali, entrambi laureati a pieni voti in chimica. Secondo il loro modesto parere, tenermi all’oscuro di tutto ciò che riguardasse la natura era una sorta di offesa contro la loro etica, perciò mi avevano sempre e comunque tolto ogni dubbio, su ogni curiosità mi si presentasse davanti.
Al loro pensiero mi rabbuiai di riflesso, non senza rispondere a tono al dottore.
«Vuole dire che volevate praticarmi l’eutanasia?», chiesi con nonchalance, notando lo sguardo sbigottito dei due estranei. Zio Cedric, invece, sorrideva trionfante, quasi ghignando in direzione del medico, come se si aspettasse una dichiarazione del genere da parte mia.
«Oh. Ehm, bè, sì...», borbottò ancora intontito l’uomo, grattandosi la nuca.
«Bene, dottore. Quindi per la nostra Honey è arrivato il momento di ritornare a casa?» Zio Cedric sapeva sempre come smorzare la tensione, non c’era dubbio.
«Certamente, sei stata fin troppo legata a questo letto!», esclamò il medico, scribacchiando sulla cartelletta che portava in mano.
«Dobbiamo ricontrollare solamente qualche valore leggermente alterato, nulla di che», continuò il dottore, sorridendo apertamente,
Una sedia a rotelle, confinata in un angolo della stanza, attirò la mia attenzione.
«Dottore, come mai c’è una sedia a rotelle? Non è per me, vero?», domandai, sentendo un nuovo capogiro farmi visita.
«Veramente...» E riecco che il grande medico non riusciva a parlare a dovere, «...Honey, hai perso l’uso delle gambe, dopo l’incidente. Solamente un intervento più lungo e specifico potrebbe farti ritornare in piedi. Ma, per questo, dovrai aspettare la maggiore età, ora sarebbe troppo rischioso operare su un corpo in crescita. Mi dispiace», sospirò, guardandomi bieco, quasi colpevole.
Un’altra notizia del genere e sarei serissimamente potuta schiattare sul colpo.
Non riuscivo a parlare, non per dare una risposta di senso compiuto, almeno. Era come se fossi avvolta in una bolla di sapone talmente impenetrabile che niente e nessuno poteva scalfirmi.
Dopo la notizia della scomparsa dei miei genitori, tutto il resto sembrava aver perso importanza, in primo luogo la mia infermità.
Zio Cedric, come a capire il mio sconforto, mi strinse a se  e mi carezzò lievemente la schiena.  
«Un’ultima domanda vorrei farvi, se me la concedete», disse serioso, scrutando lo zio, «La bambina con chi vivrà, ora che, bè...» Ovviamente, il dottorino non sapeva come esprimersi.
Bella professionalità.
Fu zio Cedric ad intervenire, risparmiandogli il fastidio di trovare le parole adatte: «Starà con me, ovviamente.»






UnknownVoice:
Saaalve a tutti! Ed eccomi qui con questa nuova storia, fresca fresca di scrittura dopo un'ispirazione prettamente natalizia (sì, le vacanze di Natale sono mooolto deleterie per me xD).
Diciamo che questa storia è più un esperimento, nato dalla voglia di scrivere qualcosa di diverso - e molto meno complicato, soprattutto - dall'altra mia storia, "Freckles", decisamente più impegnativa.
Il titolo, per chi non lo sapesse, è lo stesso della bellissima e fantastica e stupenda e grandiosa e chi più ne ha più ne metta canzone dei
Metallica - Nothing Else Matters, per l'appunto.^^
Quindi niente, ho pubblicato i primi due capitoli insieme cosicché possiate avere una visuale più libera e completa della storia, sperando di non annoiarvi. Spiacevolmente, i primi capitoli son sempre così; per presentare bene il tutto devo dilungarmi nelle descrizioni e soprattutto nelle digressioni temporali - anche perché qui sono molto importanti.
Che dire? Spero tanto che piaccia e che non sembri la solita storiella sdolcinata, tutto qui ;)
Attendo una vostra opinione sul mio lavoro :)
Potete trovare questa storia anche su wattpad,a questo indirizzo: http://w.tt/1TOpGxU
Intanto, vi auguro buone feste e buon anno nuovo!
A presto,
UnknownDevice

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Primo. Amara consolazione ***




Capitolo primo


Amara consolazione
 

 

9 novembre 2013
 


«Dai, Cedric, c’è compito di algebra oggi! Non farmi arrivare sempre in ritardo, per favore!», urlai dall’ingresso, giocherellando con la lampo del mio zaino blu, poggiato sulle mie gambe.
Ci avevo preso gusto, ormai, a chiamarlo solo per nome. Faceva tanto da coinquilini novelli e non mi veniva nemmeno tanto difficile, visto e considerato che aveva solamente trentatré anni – e ne dimostrava sì e no una ventina.
«Arrivo, tesoro! Scusami, ma non riuscivo a trovare gli occhiali da vista», si giustificò zio Cedric, comparendo con un pacchetto di Marlboro in mano e scendendo a due a due le scale.
«Ah sì? Erano quelli gli occhiali che cercavi? Sbaglio o mancano le lenti?», domandai con tono pungente, scoccandogli un’occhiata abbastanza eloquente.
«Okay, va bene. Ma lo sai che queste sono la seconda cosa senza la quale non potrei vivere, no?», mi sorrise, spingendo la carrozzella verso la sua monovolume grigia.
«Ma dai? E la prima quale sarebbe, scusa?», chiesi divertita. Almeno mi stava facendo passare l’ansia per l’imminente verifica.
«Bè, tu ovviamente. Che domande!», ammiccò, per poi prendermi in braccio di peso e posarmi sul sedile del passeggero.
«Oh, ne sono commossa, zio. Pensavo che mi rispondessi con qualcosa tipo: “Non vivrei senza una palla da calcio” o roba simile. Lieta d’essermi sbagliata», conclusi con una linguaccia, mentre ci avviavamo verso la Kennedy High School.
«Oh, ma per chi mi hai preso? Per uno che non fa altro che guardare partite di calcio, oltre al fatto che magari insegna anche come si corre dietro a un pallone a dei marmocchi troppo vivaci o a dei liceali troppo fatti di marijuana?» stava ghignando, segno evidente di quanto si stesse divertendo in quella conversazione mattutina.
«Ma zio! Questa è esattamente la tua vita; renditene conto», lo presi in giro.
«Ma sentila! Come se non mi adorassi nonostante questo.»
«No, Cedric. Io ti adoro soprattutto per questo», risposi, mostrandogli uno dei miei sorrisi più sinceri, «Anche se prima o poi ti farò togliere il brutto vizio di fumare!» Gli scoccai un’ultima linguaccia, prima di aprire il portello dell’auto ed essere rimessa sulla sedia a rotelle.
«Certo, certo. Sogna pure, principessa» Mi fece un occhiolino, «E in bocca al lupo per il test, eh!», mi gridò quasi, mentre mi allontanavo, sola, verso lo scivolo dell’entrata.
Sorridendo, gli risposi di rimando: «Crepi!»
 

- - -
 

Tre ore e tanti, troppi numeri dopo, mi trovavo fuori, nel cortile della scuola, intenta a divorare – letteralmente parlando, sì – il mio sandwich.
Al mio fianco, nessuna migliore amica con cui spettegolare, nessun compagno di classe in pena per me, nessun amico gay a farmi compagnia nel suo essere solo ed incompreso; solamente un platano leggermente spennacchiato, a causa del corrente autunno.
Non che fossi una ragazza poco socievole, tutt’altro; ero sempre stata una bambina piena di voglia di vivere, di curiosità e gaiezza. Forse col tempo le mie migliori qualità erano andate scemando e, quasi sicuramente, la colpa era da dare a tutto il caos che mi aveva travolta peggio di un uragano.
Insomma: avevo passato un intero decennio costretta su una sedia a rotelle – e ancora non si vedevano segni di miglioramento,una amara consolazione -, perciò il mio indice di vitalità era drasticamente sceso a zero. Niente contatti col mondo esterno, solamente la solita e monotona routine che prevedeva, come risultato finale, un riscontro positivo almeno per quanto riguardasse le mie gambe. Le poche amiche che avevo a scuola erano ovviamente scomparse, per opera dei rispettivi genitori, propinandomi la tipica scusa del “sono troppo piccole per capire com’è successo”, nemmeno fossi rimasta incinta!
E poi tutto era filato liscio come l’olio: la scuola, i bei voti, la ginnastica quotidiana, tanta musica e tanti disegni – avendo ereditato la vena artistica di nonna Grace –, completati dall’immenso ed incondizionato affetto dello zio Cedric. Praticamente, lui era stato – ed era ancora, naturalmente – una specie di padre/madre/zio/cugino/fratello/sorella/amico/babysitter che non avevo mai avuto. All’occorrenza, egli aveva saputo tirar fuori il meglio di sé e rendermi contenta. Aveva tanti difetti, Cedric, forse raramente si trovava un pregio in quel ragazzone ribelle e sconquassato; ma quando era con me, tutto perdeva importanza, perché riuscivo a leggerglielo negli occhi che mi voleva bene e voleva vedermi felice. E si sforzava, Dio se lo faceva; ogni giorno, ogni momento, aveva fatto i salti mortali per assicurarmi cure e benessere.
E io, io gli volevo un bene dell’anima per questo.
Lo vedevo come si comportava – con le donne, specialmente – mentre io non ero nei paraggi: era frenetico, impacciato, a volte arrabbiato con se stesso. Era mezzo bambino ancora, lo si capiva da come si relazionava con i bambini che allenava. D’altronde, quel passatempo che avevo imparato anch’io ad amare – il calcio, sì – era divenuto per lui un hobby a tempo pieno; infatti, oltre al suo lavoro come impiegato bancario, aveva la passione sfegatata per il calcio, che aveva imparato a coltivare allenando quotidianamente la squadra del paese. Ci avevo assistito, delle volte, ai suoi allenamenti; oltre ad essere ammirato da molte mamme – single e non -, irradiava un carisma così travolgente che mi sono sempre ripromessa di imparare, un giorno, a giocarci.
E poi, era bello. Non attraente, sensuale o affascinante; ma bello.
Con quegli occhi ipnoticamente metallici – così simili ai miei, tra l’altro –, il suo sorriso accattivante e l’aria da playboy ribelle, era, per lui, assolutamente semplice ed elementare abbordare una ragazza e portarsela a letto, senza troppi complimenti. Me lo aveva confessato apertamente, di non volere nessun legame a lungo termine, spezzando quell’attimo di serietà con una delle sue battute gratuite e dicendo che ero io, il suo legame a lungo termine, la donna della sua vita. Ci avevo riso su, comprendendo la sua difficoltà a trovare le parole giuste per non farmi sentire propriamente un peso per lui.
Era quella l’unica cosa che mi faceva andare avanti, senza che l’istinto di fuggire via mi accompagnasse. Il fatto che ogni sabato sera ci fosse una donna diversa nel suo letto e che fosse perpetuamente col sorriso mi rincuoravano almeno un po’, portandomi a pensare che forse, in fondo, non ero una palla al piede, come temevo.
Amara consolazione.
Mi riscossi in fretta dai miei strani pensieri, controllando lo schermo del cellulare che ora fosse.
Ero seduta sulla mia onnipresente sedia a rotelle, adagiata su un tappeto di foglie secche e fruscianti. Un leggero venticello andava a scompigliarmi costantemente i capelli, così decisi di farne una sottospecie di treccia, così, giusto per tenerli a bada.
Ero in attesa di Matilda, la mia tanto fidata fisioterapista, che mi veniva a prendere ogni giorno – sì, ogni santo ed infinito giorno – per la mia ginnastica quotidiana, la quale prevedeva un minimo di due ore di esercizio fisico per far “sgranchire” le mie gambe mosce.
Già, mosce.
A quanto pareva, l’intervento da poco eseguito era andato a buon fine; ciononostante, le mie gambette gracili e mosce – per l’appunto, come io amavo definirle – non ne avevano voluto di muovere un passo e nemmeno di farmi stare dritta, in piedi. Nulla di nulla, proprio.
Per farmelo capire in una maniera più carina, praticamente, era come se fossi ritornata una poppante. Anzi, meglio: era come se avessi appena compiuto un anno – e non diciotto – e dovessi imparare a imporre i primi passi. Ecco perché lo zio Cedric – che prima o poi avrebbero fatto santo, me lo sentivo – aveva fatto arrivare direttamente dalla Svezia degli attrezzi specifici per il mio problema.
 Sperai ardentemente che Matilda non facesse tardi, altrimenti avrei perso anche l’ultima ora di lezione e non potevo proprio permettermelo, già che ne saltavo due ogni giorno, con il dispiacere dei miei professori.
Persa nei miei confusionari pensieri, non m’accorsi che un corpo in corsa mi era appena sfrecciato accanto, spostando la carrozzella e facendola mantenere in bilico su due ruote.
Ammazza alla delicatezza!
Fortunatamente il mio peso la fece inclinare nel verso giusto, riportandola nella posizione giusta.
Ovviamente, la fortuna non era nemmeno di strada – non tanto di casa – per me, a vedere che il cellulare era inavvertitamente caduto sulle foglie.
«Merda» Imprecazione poco fine, lo so, ma non c’era anima viva in giro che potesse aiutarmi, poiché tutti erano rientrati a lezione. Cercai, così, di provare a piegarmi per raggiungere il letto di foglie sottostante, naturalmente invano.
Quel disgraziato non poteva andare più piano, santo cielo? E se mi avesse chiamato Matilda, magari per avvisarmi di un suo contrattempo? Come avrei fatto a rispondere?
Come se lo stessi invocando, un nuovo colpo e una nuova folata di vento mi colpirono, stavolta con meno energia.
«Ma brutto imbecille!», gridai, cosicché potesse sentirmi, invece di correre da una parte all’altra del cortile, nemmeno avesse un piranha attaccato al sedere.
L’urlo sortì l’effetto desiderato, perché il maratoneta si voltò di scatto, guardandomi disorientato.
Pure stupido è, andiamo bene.
Il tale mi raggiunse – correndo, ovviamente – piazzandosi di fronte a me con cipiglio divertito.
«Ehm, ciao», asserì come se non avesse altro da fare, tipo andare a lezione, magari.
Ciao? Ma stiamo scherzando?! Mi investe, non se ne accorge, lo chiamo e lui che dice? Ciao?!
Honey, controllati.
«Sì, ciao. Dato che, come puoi notare, non ho le tue stesse doti da corridore – per ovvi motivi – potresti, per favore, recuperare il cellulare che hai fatto involontariamente cadere?», chiesi con il tono più acido che potessi usare.
«Uhm, okay», disse solo, chinandosi e porgendomi il telefono. 
«Grazie», risposi di rimando, vagando con lo sguardo altrove; anzi, diciamo ovunque, tranne che sull’individuo stante ancora davanti a me. Non che non l’avessi già pienamente osservato, ma emanava un non so che di pericoloso, di strano.
E poi, bè, se mi fossi soffermata troppo sui capelli appositamente scompigliati, sugli occhi verde prato dal taglio deciso, sul quel velo di barba che gli stava da Dio, o magari sulle spalle larghe o sul suo più che abbondante metro e ottanta di altezza, avrei avuto la bava alla bocca, senz’altro.
E, no. Non ce l’avevo la bava alla bocca.
Non ancora, almeno.
Era senza dubbio un bel ragazzo, nulla da dire in merito.
Ciò che mi dava fastidio, però, era la consapevolezza di quello, come se fosse un dato di fatto e lo andasse a sbandierare ai quattro venti. Sì, ce lo vedevo proprio uno come lui davanti ad un povero studente di primo anno a dirgli:  “Ehi tu, guardami: sono bello, vedi? E ora posso anche sputarti in faccia, perché la migliorerei sicuramente”.
I tipi così spavaldi mi avevano sempre dato fastidio, peccato solo che non potessi non pensare che quegli occhi fossero proprio la fine del mondo.
Avevano un che di sconvolto, burrascoso ma rassicurante.
Lo conoscevo bene quel tipo di occhi, perché erano le stesse emozioni che leggevo in quelli azzurri dello zio Cedric.
E poi i pensieri galoppanti fermarono la loro corsa, poiché il ragazzo parlò a pochi centimetri dal mio viso, abbassandosi alla mia altezza: «Io vado o i prof mi linciano. Ci vediamo...», spostò per un attimo lo sguardo verdeggiante sul mio zaino, sul cui bordo era inciso il mio nome, «...Honey», soffiò, per poi allontanarsi, con tanto di mani in tasca e tracolla sulla spalla – tracolla che non avevo nemmeno notato prima, tra l’altro.
Prima che potessi anche pensare di girarmi e rispondergli con un saluto poco felice, lo schermo rigorosamente touch del mio cellulare s’illuminò, mostrandomi la foto buffa dello zio Cedric.
«Pronto, zio Cedric?»
«Ciao, Honey. Ascolta, credo che tu stia aspettando Matilda, giusto?»
«Sì, ma stranamente non è ancora arrivata.»
«Appunto di questo volevo parlarti. Matilda non verrà, è dovuta partire stamattina presto per il Canada; da quel che ne so, sua madre ha avuto un infarto ed è ovviamente dovuta correre da lei, capisci, no?»
«Sì, certo, capisco. Ma ora che si fa, zio?» Iniziavo a preoccuparmi.
«Bè, dovremo trovare al più presto un sostituto. Matilda non tornerà prima dell’anno nuovo
«Oh, capisco.»
«Tranquilla, principessa. Penserò a tutto io.» Come  sempre, zio Cedric aveva preso il toro per le corna, come si suol dire, senza mostrare segni di cedimento davanti a quel piccolo problema.
Amara consolazione.
«Grazie, zio. Sei il migliore», risposi soltanto, consapevole che le parole non sarebbero servite a tanto.
«Figurati, tesoro. Ti voglio bene, ricordalo
«Ti voglio bene anch’io.»






UnknownVoice:
Ciao! Rieccomi col primo e vero capitolo! Niente di sconvolgente, lo so, ma siamo ancora agli inizi e voglio prima che la storia prenda forma, dopodiché passerò a colorarla ;)
Spero con tutto il cuore che come inizio sia piaciuto, perché vorrei prima vedere come la "prendono" i lettori e poi agire di conseguenza.
Quindi fatemi sapere cosa ne pensate, ne va del mio lavoro :)
Alla prossima (si spera presto xD),
UnknownDevice

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Secondo. Take me home ***




Capitolo secondo

 
Take me home

 
 
 
'Take me down to the Paradise City,
where the grass is green
and the girls are pretty.
Oh, won't you please take me home.'

- Paradise City, Guns N’ Roses
 


Mi strinsi nel cappotto verde militare, guardando a destra e a sinistra in attesa di un qualche aiuto divino.
Erano passate due ore dalla mia telefonata con Cedric. Non sapendo che fare, mi ero diretta verso la mia classe e, scusandomi col prof di lettere, mi ero sistemata al mio banco – quello senza la sedia – per assistere alla lezione.
Così, ora mi trovavo sul marciapiede davanti alla scuola, quello che ormai fungeva da fermata del bus.
Non lo avevo mai fatto ma, non avendo Matilda che mi accompagnasse a casa, avevo pensato di prendere il pullman, magari aiutata a salire da qualche anima pia.
Ma mai idea fu più deleteria, poiché – nemmeno fossero una massa informe di bufali – una marea di studenti si riversò sul primo bus che arrivò, spintonando a destra e a sinistra per arrivare almeno alle porte.
Afflitta, sospirai un «bene» e mi diressi verso il cartello della fermata – ormai vuota – sperando che ci fosse un altro pullman per quell’ora.
 
«Cazzo!» Non fui ad imprecare, bensì una voce sconosciuta alle mie spalle.
Mi voltai, spostando tutta la carrozzella, e notai il tizio di poche ore prima – sì, il corridore – che si grattava la nuca con fare pensieroso ed alterato.
 
«Porca miseria! Ora come faccio?» Il ragazzo parve accorgersi solo in quel momento della mia presenza, poiché increspò le labbra in un sorriso malizioso ed in poche falcate raggiunse la mia postazione.
 
«Ehi, ma chi si rivede...», mi salutò, accovacciandosi per arrivare alla mia altezza – o meglio, alla mia bassezza.
«Ehm, sì ciao...» Non sapendo il suo nome, aggrottai le sopracciglia in una muta richiesta d’aiuto.
 
«...Dylan. Mi chiamo Dylan Hamilton. Tu devi essere Honey Hendricks, giusto?», mi domandò, ghignando.
 
«E tu come fai a sapere chi sono?!» Qualcosa non tornava.
 
«Ma dai! Non ti ricordi?» Mi guardò spalancando le iridi smeraldine.
 
«Cosa dovrei ricordare esattamente?»
 
«Eravamo in seconda elementare; avevamo adottato una cavia, una di quelle piccole e puzzolenti, e l’avevamo tenuta con noi per tutto l’anno. Mi ero affezionato a quell’esserino, caspita! Aspetta, com’è che si chiamava..?»
 
«Teddy. Si chiamava Teddy, credo», risposi, illuminata.
 
«Sì, esatto!», sorrise, «Ma allora ti ricordi, eh?»
 
«Sì... aspetta: quando lo portarono via ci fu un bambino che pianse a dirotto», sorrisi, pensando a quanto fosse stato esilarante, ai tempi.
 
«Già», rispose mesto, mutando la sua espressione in un sorriso imbarazzato.
 
«No!», m’illuminai, «Non dirmi che eri tu, quel bambino!»
 
«Ehm, ecco... sì.»
 
«Wow. E così tu sei Dylan, quel Dylan? Il bambino più capriccioso e rompiscatole di tutta la classe è davvero davanti a me?»
 
«In carne ed ossa, Miss ‘sono la più brava della classe’», mi prese in giro, imitando una smorfia di disprezzo.
 
«Mmh, non lo fui per molto tempo, però», sussurrai, pensando che non mi avesse sentita.
Ed ora puoi anche immaginare il perché, pensai.
 
«Eh già» Calò il silenzio, mentre confrontavo la peste che avevo conosciuto alle elementari con il bel fusto – e che fusto, ragazzi! – che avevo sotto agli occhi in quel momento.
Non ci sono proprio paragoni.
Fu lui il primo a ridestarsi, ergendosi in piedi in tutta la sua altezza e cominciando a spingere la mia sedia.
 
«Ehm, Hamilton, dove credi di poter andare?»
 
«Ehm, Hendricks, ti riporto a casa, che domande!», se ne uscì lui, bello come il sole.
 
«Ma se non sai nemmeno dov’è!», sbottai. Iniziavo ad innervosirmi.
 
«Oh, giusto,» Parve rinvenire, il genio, «allora credo proprio che dovrai dirmi dove abiti», asserì, sul volto l’espressione più seria e convinta che avessi mai visto.
 
«Bè, mi pare ovvio. Ti conosco da appena dieci minuti – se non pure di meno -, so a malapena il tuo nome e pretendi pure che mi faccia accompagnare a casa da te?» Era proprio il colmo.
 
«Ma su! Non siamo degli estranei, ci conosciamo da quando eravamo dei bambini e poi... andiamo, è pericoloso andare in giro da sola, per una come te...» Lo interruppi, scioccata.
 
«Per una come me, eh?»
 
«N-no, non hai capito...» Sembrava in netta difficoltà; niente a che vedere con l’espressione sicura e spavalda di poco prima. «Hai capito, dai... lo sai che intendo, Hendricks...»
 
«No. Non lo so, Hamilton. Spiegamelo tu, dato che una come me non potrebbe comprendere!» Alzai di qualche ottava il tono, sentendo le lacrime già pungermi gli occhi.
Mi aveva sempre dato fastidio la pena o la falsa commiserazione della gente; solamente perché ero costretta su una sedia a rotelle del cavolo, non voleva dire che non fossi in grado di muovermi o, meglio ancora, di ragionare.
Inoltre, appunto questo pensiero mi aveva resa dura e schiva con la gente a me circostante, tant’è che avevo creato una barriera talmente spessa ché difficilmente qualcuno aveva osato avvicinarvisi.
Da ciò era scaturita la malsana abitudine – nemmeno tanto volontaria – di non piangere più. Dalla morte dei miei, dopo una lunga e violenta serie di nubifragi, decisi che i miei occhi non avrebbero più versato nemmeno una goccia. Niente di  niente.
E così era successo.
Perciò sapevo bene che, nonostante ci fosse un forte impulso, quelle lacrime sarebbero rimaste lì dov’erano, senza aver alcuna possibilità di fuga.
Sentii il ragazzo vicino a me sospirare, prima di cacciare le mani nella tasca del suo giubbotto – rigorosamente di pelle – ed estrarvi un accendino, seguito da un pacchetto di Lucky Strike.
Ci mancava giust’appunto che fumasse.
Senza degnarmi di uno sguardo, l’accese e la portò alle labbra – gesto che, in un altro momento, mi avrebbe pure fatto sospirare. E non solo, eh.
Nera di rabbia, afferrai malamente le ruote della sedia – rischiando persino di forarle – e le mossi energicamente verso quella che doveva essere la strada di casa. E speravo che lo fosse, poiché s’era fatto quasi buio ed era la prima volta, in quattro anni di liceo, che incappavo in una situazione simile. Ciononostante, presi il coraggio a due mani e mi feci guidare dalla poca memoria che possedevo e da qualche punto di riferimento conosciuto.
Ero sull’orlo di una crisi nervosa, quando sentii una spinta più vigorosa far muovere la sedia.
Mi voltai, confusa e leggermente spaventata, facendo scontrare il mio sguardo con quello tormentato del maratoneta.
Prima che potessi parlare, levò la sigaretta che ancora aveva tra le labbra e parlò: «Non facciamone un dramma, Hendricks. Il mio aiuto ti conviene, quindi niente domande, mh?» Assottigliò lo sguardo, buttando fuori il fumo inalato.
Mi rivoltai agitata sulla carrozzella, torturando le mie già malmesse unghie.
 
«Johnson Street, 28/B», mi pronunciai, sibilando il mio indirizzo nemmeno avessi dovuto rivelargli dove si trova la fonte dell’eterna giovinezza.
 
«Ora si inizia a ragionare, Hendricks.» Lo sentii distendere le labbra in un sorriso trionfante, oltre che maleodorante.

«Almeno potresti spegnere quella cosa, per favore?», lo pregai. Era più forte di me, odiavo il fumo all’inverosimile, anche più della sedia a rotelle.
 
«Ti dà fastidio?»
 
«Ehm, sì. Molto.» Meglio essere sinceri.
 
«Okay, ma ricorda che sei tu quella in debito con me, non il contrario. Il servizio taxi consente al conducente di fumare, o sbaglio?»
 
«Ehi, io non ti ho chiesto niente, ricordalo!»
 
«E ci risiamo. Hendricks, calma; stavo scherzando», così dicendo, si sporse in avanti donandomi una visuale in primo piano delle sue iridi verde prato, seppur capovolte. Mi sorrise smagliante, mostrando una schiera di denti a dir poco perfetti.
Ma un difetto questo qui non ce l’ha?
Sì, Honey. Fuma.
Ah, giusto.
Ancora persa in quel miscuglio di colori troppo perfetti, non m’accorsi che la velocità della mia sedia a rotelle era aumentata notevolmente.
 
«Hamilton, capisco che tu non riesca a tenere a bada la tua indole da corridore, ma potresti rallentare? Non credo che la sedia possa reggere.» In realtà mi stavo divertendo anche più del lecito.
 
«E dai, Hendricks, questa carrozzella deve sgranchirsi un po’, lasciala stare!» Rise di gusto. Vidi, nonostante l’accelerazione, che aveva gettato a terra la sigaretta mezza intatta, per poi impugnare i manici della sedia e correre come esattamente aveva fatto quella mattina, a scuola.
 
«Non dirmi che non senti l’adrenalina scorrere nelle tue vene, Hendricks, perché non ci credo!» La velocità era una gran fregatura ma, allo stesso tempo, una gran genialità; poter sentire la sua voce in preda alla foga della corsa era qualcosa di maledettamente fantastico.
 
«Certo, certo. Che gran cosa, l’adrenalina!»,  scherzai, anche se probabilmente doveva aver ragione. Insomma, non avevo mai potuto – per forza di cose – sperimentare cosa realmente fosse la tanto amata ‘adrenalina’, ma pensai che potesse avvicinarsi di molto a ciò che stavo provando io in quel momento.
Faceva un freddo cane, sì; il vento mi sferzava i capelli in una maniera troppo violenta e sfrontata, l’aria era impregnata di fumo e smog, del sole non rimaneva che una vaga parvenza all’orizzonte e, per finire in bellezza, il cielo minacciava un temporale epico.
Honey, non ti stupire: siamo a novembre.
Mi sfregai le mani, colta da un improvviso brivido di freddo – e forse non solo di freddo – stringendomi ancor di più nel cappotto, che era divenuto improvvisamente troppo leggero.
Come a capire il mio disagio – che poi tanto disagevole non era – Dylan rallentò, svoltando l’angolo.
 
«Miss Hendricks, si ricordi bene di pagarmi per la corsa, prima di scendere dal taxi», ghignò lui, sporgendosi ancora una volta in avanti.
 
«Quale taxi?»
 
«Bè, il taxi Hamilton, ovvio.»
 
«Oh, allora cercherò di ricordarmene, signor maratoneta dei miei stivali.»
 
«Sei diventata improvvisamente sfrontata, Hendricks? Non eravamo degli sconosciuti, noi?» Si stava proprio prendendo gioco di me. Malgrado ciò, non seppi prenderla del tutto come una battuta, la sua, e mi rabbuiai all’istante.
 
«N-no. Cioè, credevo che... ecco...» Ed ecco che la sicurezza tanto ben ostentata andava scemando dietro alla mia innata ed incorreggibile timidezza.
 
«Ehi, Miss Hendricks, ma tu devi sempre prendere tutto e tutti sul serio, eh? Era uno scherzo, caspita!» E così dicendo, si mise a ridere, facendo echeggiare la sua voce per tutta la strada, nonostante essa pullulasse di persone e veicoli d’ogni genere.
Sorrisi di rimando, imbarazzata, appuntandomi mentalmente di non dare troppa corda al mio cervello bacato, specialmente quand’è in modalità ‘allerta’.
Con uno scatto repentino – ah, zio Cedric e le sue espressioni tecniche sul calcio – accelerò nuovamente, regalandomi un vero brivido di piacere – e non di freddo.
 
«Si prepari, Miss. L’atterraggio è vicino; ripeto: l’atterraggio è vicino. Allacciare le cinture di sicurezza, grazie.»
È proprio un bambino, pensai.
 
«Okay, okay!», gridai, per farmi sentire tra il trambusto delle auto.
 
 
- - -
 
 
Quando la corsa fu davvero finita, provai un leggero – ma proprio lieve, eh – moto di tristezza, subito sostituito dal sorriso smagliante di Dylan, che si era parato tra me ed il cancelletto di casa mia.
La macchina di Cedric era già parcheggiata, segno che era rientrato presto dal lavoro.
 
«Okay, Miss. Il mio compito qui è terminato. Ci vediamo domani a scuo...» Maledetto sorriso.
Prima che potesse continuare, il portoncino di casa si spalancò e vi uscì uno zio Cedric mezzo addormentato e intontito.
 
«Hamilton?» Fu il sopracitato a nominarlo, non io.
Di tutta risposta, Dylan s’illuminò improvvisamente. «Mister?»
 
«Sì, e io sono Honey», conclusi stupefatta, «Vi conoscete?!»
 
«Ovvio! Lui è il mio coach!», rispose con tanto d’occhi, Dylan.
 Oh, ma quant’è piccolo il mondo!
 
«Già», disse solo l’altro, alzando un pollice. «Honey, ti ho preparato una specie di pranzo, nonostante sia già quasi ora di cena», proferì lo zio, sorridendomi dolcemente, «Oh, credo che il forno debba essere controllato!» Scomparve, Cedric, dietro la porta, mentre Hamilton mi rivolgeva uno dei suoi sguardi più commossi.
 
«Ma allora... non sei una Miss...», disse toccato, «...sei una mister
Oh Gesù, aiutalo, perché, davvero... non sa quel che dice.
 
«Eh, così pare.»








UnknownVoice:

Ehilà, buonasera a tutti! Stranamente, sono stata veloce con l'aggiornamento ;) Ma non abituatevici troppo, è solo la magia del Natale *ride sommessamente*
Anyway, in questo capitolo si introduce il vero e proprio personaggio di Dylan (nome che adoro, tra l'altro *-*), il bel fusto amico d'inafanzia dimenticato da Honey. E come si fa a dimenticarlo, uno così? Eh, vabbè :D
A parte gli elogi a Dylan, spero che il capitolo vi sia piaciuto e che non sia stracolmo d'errori; non ho potuto rileggerlo, perciò se avete qualcosa da farmi notare, ditelo pure. E poi, spero che, in generale, mi facciate sapere che ne pensate: le persone che seguono la storia stanno aumentando, spero di cuore anche coloro che recensiscono ;) Ve ne sono grata, grazie!
Alla prossima,
UnknownDevice

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Terzo. Di tartarughe e grandi promesse ***




Capitolo terzo

Di tartarughe e grandi promesse

"Living on my inner demons
I don't wanna suicide
I don't want this to end
I just wanna be your friend."
- Lady Cobra, Green Day


Pensa, pensa, pensa.
Cosa fa rima con killer?
Ripensa, ripensa, ripensa.

«Mister!» Un grido fin troppo vicino alle mie orecchie.
Ecco svelato l'arcano.

«Oh, ciao Hamilton. Qual buon vento?», risposi con la mia solita grande nonchalance. «E non chiamarmi a quel modo, per favore!» Oramai quella era l'appendice che aggiungevo puntualmente al mio saluto, ogniqualvolta ci incontrassimo - ovverosia da circa una settimana a quella parte.
Ancora dovevo capire come mai avesse adottato quel soprannome assurdo per appellarsi a me. Gli era così difficile ricordare il mio nome?
Stendiamo un velo pietoso.

«Volevo parlarti», asserì, guardandomi intensamente.
Di tutta risposta, lo fissai incerta, mentre sulla mia faccia sorgeva spontaneo un enorme punto interrogativo.

«Ah già, immagino tu voglia sapere di cosa devo parlarti» Mi stupiva la crescente perspicacia del ragazzo. Molto notevole, direi.

«Se non ti scoccia, naturalmente» La mia acidità, quella mattina - dopo una lunga ed intensa seduta su Freud e compagnia bella - si limitava alla regolare scadenza di uno yogurt alla fragola.
Buono, lo yogurt alla fragola.
Increspò le labbra in quel tipico modo che io avrei successivamente definito come il classico sorriso bastardo.

«Mi dispiace Mister, ma quest'oggi niente e nessuno potrà guastare il mio buonumore, nemmeno la tua lingua tagliente!», esclamò infatti, adducendo un sorriso sornione alla sua aurea fastidiosamente felice già di per sé.

«Allora? Che devi dirmi di così importante?», domandai impaziente.

«Troppo lunga come storia. Andiamo a fare due passi, ti va?»

«Veramente avrei da...»

«Parco o campetto da calcio?» ...comporre una poesia in rima per domani.

«Fa differenza!?» Il ragazzo la prendeva troppo per le lunghe ed io continuavo a spazientirmi per l'attesa.

«Uho-uho, calma e sangue freddo, Mister. Non te l'ha mai detto nessuno?», sorrise spontaneamente.

«Ma t'è venuta una paralisi facciale, o cosa? Mi spieghi perché continui a sorridere come un ebete?» Troppo diretta? Nah.

«A dire il vero,» distolse lo sguardo, «quella fu la prima frase che ci disse il Mister, quando iniziai a colpire la palla da calcio per le prime volte. Era il lontano 1999, l'epoca in cui questo gran bel ragazzo era ancora un nanetto senza tartaruga...», cominciò, spiengendo la sedia verso una meta sconosciuta.
Prima che iniziasse un flusso di coscienza degno dell'Ulysse - che gran genio, il caro vecchio Joyce! - lo interruppi, sollevando una mano all'aria: «Okay okay, ho capito l'antifona! L'importante è che tu la smetta di osannare la tua tartaruga!» Come mai ero divenuta rossa come un pomodoro maturo?
Anche i pomodori sono acidi, Honey. Sarà quello, fidati.

«Aspetta: tu hai la... tartaruga? Cioè, davvero? Quella... ho capito bene..?»

«Alla perfezione, mini Mister! Sono o non sono il calciatore più bravo della città?», si sporse a dedicarmi un sorriso sfacciato, «Devi sapere, Mister... Dylan Hamilton senza tartaruga sarebbe come un uccello senza le al
Ma stiamo scherzando? Che razza di paragone è mai questo?
Una razza molto diretta, semplice e veritiera soprattutto, Honey.
Sì, certo.

«Cosa sarebbe questo? Un doppio senso malamente velato? Andiamo, Hamilton... puoi fare di meglio», proferii fintamente distratta. In realtà, quella conversazione stava prendendo una piega che raramente avevo trattato; tanto meglio, con Dylan sarebbe stato sicuramente più facile, lui che non provava imbarazzo per alcunché.

«Ah sì? Non ti facevo così poco pudica, Mister. Abbiamo passato insieme una settimana e ti ho già ridotta così; il mio metodo di persuasione funziona anche meglio con te!», esclamò soddisfatto.

«Ma io non ho detto nulla!», sbottai, pensando alla frase che aveva appena detto.
Ridacchiò. «Dicono tutte così, prima di diventare delle pervertite croniche, fidati!» E continuava pure!

«E cosa vuol dire 'anche meglio con me'? Cos'ho io di diverso rispetto agli altri?» Da quella prima volta in cui ci incontrammo, fui più che certa che non m'avesse offeso di proposito; ciononostante seguitavo a metterlo alla prova, così, giusto per capire quanto sul serio prendesse l'argomento. Anche perché non avevamo più avuto modo di tornare su quella questione apparentemente taboo, essendoci beccati all'incirca due o tre volte a scuola o per strada, in quella settimana. Avevamo discusso del più e del meno - nulla d'importante insomma - durante l'intervallo o mentre attendevo Cedric sotto il mio grande albero personale, nel cortile della scuola.
Però che tenero, ti ha fatto pure compagnia, eh?
Meglio non pensarci o mi sale il diabete, guarda.

«Funziona meglio con te che sei splendida, divertente, acuta... praticamente perfetta, oserei» Aveva imparato a dire la cosa giusta Hamilton, nonostante stesse diventando un gran ruffiano.
Non mi offendevo nemmeno, ben sapendo che il riferimento non fosse puramente casuale. Questione d'abitudine, speravo; prima o poi ci avrebbe fatto il callo ed avrebbe smesso di considerarmi una malata terminale. Avevo le gambe giusto un po' addormentate, tutto qua! Speravo che prima o poi se ne accorgesse.
Quindi speri che continui ad 'importunarti amabilmente' come sta facendo da una settimana a questa parte? Non ti facevo un tipo per storie a lungo termine.
Non lo sono, infatti!
No, ma ti ci stai affezionando, al corridore.
I discorsi con il mio subconscio erano alquanto deleteri per me, senza dubbio.

«Siamo in vena di complimenti gratuiti, eh?», sorrisi di riflesso quando portò una mano a scompigliarmi i capelli.

«Semplicemente so ormai come prenderti, Hendricks», sibilò al mio orecchio, alitando con quell'orribile odore di fumo nei miei capelli.

«Hai fumato?» Non ci pensai due volte.

«Si?»

«È una domanda?»

«No?»

«La smetti?»

«Sì ok, ho fumato. Ad ognuno i suoi vizi, nevvero Mister?» Lo sentivo sogghignare alle mie spalle.

«Io non ho vizi.»

«Non ci credo. Mi brucerei mani, piedi e tartaruga, guarda!» E scoppiò a ridere come solo un deficiente patentato potrebbe fare.

«Giuro. Non me ne viene in mente nessuno», ammisi.

«Il fatto che tu abbia la memoria di un pesce rosso non implica che tu non debba avere un vizio. E, fidati: volente o nolente, un difetto te lo trovo, prima o poi» Ed era proprio sicuro di sé.

«Più dopo che prima, magari» Mi voltai, rivolgendogli una linguaccia.

«Contaci Mister!» E così dicendo, si dedicò ad una delle sue impennate con la carrozzella che, alla fine, facevano muovere solo me.

«Ma mi spieghi perché, con il bel nome che mi ritrovo, tu debba chiamarmi proprio così!?» Il dubbio sorgeva spontaneo da una settimana ormai.

«Honey, come nome, mi piace, non è quello che conta. Il fatto è che non ti si addice per nulla. Insomma, Honey vuol dire miele, dolcezza... e tu, bè...» Si fermò, adocchiando la mia espressione accigliata.

«Continua, ti ascolto», risposi ghignando.

«Non offenderti, Mister, ma non è che tu sia la personificazione della dolcezza, ecco...», disse mesto.

«Ah no?»

«Non proprio... ecco perché preferisco chiamarti Mister, mi ricorda tanto la determinazione, la pazienza... tuo zio, anche!», concluse, con un sorriso bastardo.
Mi allungai per dargli una manata giocosa al braccio, ma a malapena riuscii a colpire il suo bicipite.
E che bicipite, signori miei.

«Da cosa l'hai dedotto? Sentiamo.»

«Non mi contraddici?» Sembrava sopreso.

«Affatto. Perché negare l'evidenza?» Già che c'ero, potevo dirgli della mia quasi patologica allergia ai sentimenti.

«Uhm, ok. Comunque ti attribuirei un nome tipo... che ne so, Hope, Faith... qualcosa che rappresenti chi sei, ecco.»

«E chi rappresento?»

«Santi numi - per non dire qualcosa di più volgare -, Mister! Sei l'emblema della forza e della speranza, tu. Io non ho mai conosciuto nessuno in grado di sopravvivere per così tanto tempo su una dannata sedia! Io al tuo posto - e te lo posso assicurare! - avrei già tentato il suicidio in tutti le maniere possibili, cazzo!»

«Non parlerai sul serio, spero!» Ero rimasta piacevolmente sorpresa? Sì, abbastanza.

«Sì, invece. E sai bene che è uno sforzo enorme per me fare la persona adulta e seria. E ti giuro... ti giuro che questa è una vita di merda già così, nonostante non mi possa assolutamente lamentare. Mi vengono i brividi solamente al pensiero che non potrei nemmeno sfiorarla una palla da calcio», sospirò pesantemente quando concluse il suo discorso.

«Vengono anche a me, e non è solo una mera fantasia; per me si chiama 'vita quotidiana' questa, Dylan» E quell'amara constatazione mi colpì come mai aveva fatto prima, poiché mai avevo espresso un pensiero del genere ad alta voce o in presenza di un - quasi - perfetto sconosciuto.

«Cazzo Mister, mi dispiace. Ti prego di fermarmi quando faccio certi discorsi idioti» Fermò inavvertitamente il lento andare della sedia, parandomisi poi davanti con il viso più stravolto del solito.

«Tranquillo, non c'è problema» E allora perché non trovavo un accidenti di più sensato da dire?
Esalando un grosso respiro, riprese a spingere la carrozzella, finché non fummo davanti al complesso di campetti che ospitavano gli allenamenti della squadra della città. Sentii distintamente Dylan rilassarsi. Era incredibile come una semplice estesa di erba verde - rigorosamente naturale e non sintetica, avrebbe puntualizzato zio Cedric - potesse regalargli così tanta calma in un solo istante.

«Benvenuta nella mia seconda casa, Mister!», esclamò, conducendomi in uno dei campetti liberi.

«Quanto tempo della tua normale giornata passi tra queste due porte?», domandai sinceramente curiosa, facendo cenno col capo alle due reti.

«Boh, credo tre o quattro al giorno. Conta le ore di allenamento con il supplemento.»

«Scusa l'ignoranza; ma cos'è il supplemento?»

«È una ulteriore partita che giochiamo dopo gli allenamenti, per mettere in pratica ciò che abbiamo imparato magari. Ma ne organizziamo una ogni settimana, circa.»

«Afferrato.»

«Ora ti afferro io, però!», disse all'improvviso, ghignando e avvicinandosi a me, che ero seduta sulla sedia in mezzo al verde.

«Ma che..?» Non feci ovviamente in tempo a rispondere, poiché una delle sue mani andò ad intrufolarsi sotto il mio fondoschiena, mentre l'altra mi prendeva da sotto l'incavo delle ginocchia. Prima di adagiarmi sull'erba, il geniaccio pensò bene di stringere maggiormente la presa sulle mie chiappe, strizzandole quasi.

«Ma sei scemo? Non ricordo di averti dato un permesso speciale per palparmi il sedere, Hamilton!»

«Si leggeva tra le righe...» Fece per trattenersi dal ridere, ma esplose in una fragorosa risata che ovviamente aveva divertito solo lui.

«E non prendermi pure in giro!»

«No infatti... ti ho presa per il culo direttamente, Mister!» Era proprio senza speranza!

«Ti sei bevuto il cervello?»

«Scusa Mister, ma me le servi su un piatto d'argento, eh...»

«Ok. Bando alle ciance. Perché mi hai portata qui? Cosa dovevi dirmi di così urgente da non poter attendere l'indomani mattina?»

«Nulla di così importante, in effetti...» Rise il cretino, con tanto di lingua tra i denti, «No, ok. Non scherzo più, dai. Volevo proporti un patto.»

«Sarebbe?»

«Parlando con il mister... cioè, non tu, Mister. L'altro mister, tuo zio, il coach...»

«Va' avanti!»

«Dicevo... ho saputo che hai bisogno di un fisioterapista, giacché la tua è assente per un po'. Ho pensato di offrirmi volontario e... so che starai pensando che sono inaffidabile, stupido e non altamente qualificato come la professionista che avevate assunto...» Si portò una mano tra i capelli, segno che era in leggero imbarazzo.

«No, Dylan... non sei inaffidabile e non altamente qualificato!», esclamai, portandomi una mano al cuore in modo melodrammatico, «Sullo stupido dovrei rifletterci...» Mi grattai il mento con fare pensieroso, scoppiando a ridere il momento dopo.

«Che simpaticona! Comunque, per quello che può valere... ho seguito un corso di fisioterapia, per aiutare mia... va bè, quella è una lunga storia. Ma puoi star certa che ti sarei d'aiuto!» Alzò i pollici, per enfatizzare le sue parole.

«E tu cosa ci guadagneresti?» Ma era reale o la puzza di bruciato la sentivo solo io?

«Godrei della tua compagnia, già quello mi colma di felicità, oh-»

«Risparmia i complimenti, Hamilton. Dimmi che vuoi da me.»

«Okay... mi dovrai aiutare con la scuola.»

«In particolare?»

«Devo superare l'anno, Mister. Devi praticamente iniziare dalle tabelline e finire con Darwin. Sono un caso abbastanza disperato in tutte le materie - tranne in educazione fisica, ovvio - e quest'anno devo necessariamente passare. Altrimenti col cavolo che esco da quelle quattro mura e divento un calciatore professionista!»

«Potresti lasciare anche ora, sei maggiorenne no?»

«Sì, ma... mi devo diplomare, questo è quanto.»

«Capisco. Mi prometti una cosa?»

«Tutto quello che volete, madame.»

«Promettimi che ritornerò a camminare, che potrò mettere ancora i piedi per terra e reggermi senza che nessuno mi aiuti.»

«È questo ciò che vuoi, Honey?» Era strano come il mio nome sembrasse quasi diverso, se pronunciato dalle sue labbra piene.
Honey, concentrati.

«Assolutamente.»

​«Okay, perfetto. E questo avrai.» Mi sorrise dolcemente, carezzandomi una guancia col dorso della mano.
Speriamo bene.



UnknownVoice:
Non avendo fatto in tempo a scrivere le note dell'autore al momento della pubblicazione - poiché non ne ho avuto il tempo - le scrivo ora. Non ha molto senso, ma vabbè. :D
Questo capitolo lo si può definire come il vero e proprio inizio dell'avventura, con la stipulazione di questo strano patto e... vabbè, con tutte le allusioni varie che si possono immaginare ;)
Come sempre spero che sia stato di vostro gradimento, se così non fosse basterebbe farmelo sapere. Grazie a tutti coloro che hanno messo la storia tra preferite, seguite e ricordate... spero continuiate ad aumentare!
Mi farebbe piacere conoscere la vostra opinione, quindi... datevi da fare! :))
Augurandovi un buon inizio settimana, vi saluto e vi aspetto al prossimo capitolo :)
Un graaaaande bacio,
UnknownDevice.
 


P.S.: vi consiglio caldamente di ascoltare la canzone sopracitata, è davvero molto carina (per chi apprezza il genere, ovviamente!).

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Quarto. Dylanterapia ***




Capitolo 4

Dylanterapia

 

"But the film is a saddening bore
'Cause she's lived it ten times or more
She could spit in the eyes of fools
As they ask her to focus on

Sailors fighting in the dance hall
Oh man! Look at those cavemen go
It's the freakiest show"
-
Life on Mars?, David Bowie


 
Cinque giorni più tardi, ci trovavamo di nuovo seduti l’uno di fronte all’altra in quel piccolo campo d’erba verde.
L’idea di Dylan era stata approvata con fin troppo entusiasmo dallo zio Cedric, nemmeno si fossero messi d’accordo. Anzi, a pensarci bene, si erano sicuramente accordati precedentemente, altrimenti lo zio non mi avrebbe mai lasciata nelle mani di quello scalmanato. In effetti, Hamilton aveva dovuto insistere parecchio per ottenere il consenso di Cedric, tenendo conto di quanto fosse protettivo nei miei confronti.
A quel pensiero, mi scappò un sorriso.
 
«Ti vedo particolarmente felice oggi, mister» Il solito libro aperto; non riuscivo mai a nascondere nulla, nemmeno a quel pesce lesso di Hamilton.
Il che è grave.
 
«Vedi male», gli dissi di rimando, facendo una boccaccia.
Mi guardò bieco, prima di alzarsi e portarsi le mani sui fianchi, in un gesto plateale.
 
«Oggi iniziamo la nostra routine fisioterapica!», esclamò con tanto di sorrisone, «Non sei contenta?»
 
«Sono più contenta che tu abbia imparato la parola ‘fisioterapica’, a dire il vero», gli sorrisi falsamente, nonostante fossi realmente elettrizzata all’idea di cominciare quella strana esperienza.
 
«Ah ah, proprio spiritosa. Dimmi una cosa: sai gattonare?»
 
«Prego?»
 
«Su, hai capito», disse tranquillo, sventolando una mano davanti, come ad enfatizzare le sue parole, «se vuoi tornare a camminare, devi partire dall’inizio. Fai finta di essere una neonata: non ti dovrebbe riuscire difficile!»
A quelle parole, mi venne spontaneo tirargli una manata sulla spalla, pur sapendo di non avergli fatto alcun male. Sorrise.
 
«Mi stai dando della poppante, Dylan Hamilton?», domandai, puntandogli un dito accusatore contro, nemmeno fosse il martelletto di un giudice.
 
«Affatto! Sono innocente, vostro onore!»
Il ragazzo si stava trattenendo la pancia con entrambe le mani, tant’erano forti le risate. C’è da dire che aveva proprio un bel sorriso: le fossette ai lati delle guance, poi, non stonavano con la sua figura di uomo, anzi, gli conferivano l’aria da bambino quale in realtà era.
 
«Avanti, Hamilton. Sono nelle tue mani», mi arresi, aspettando che mi desse qualche strano comando dei suoi. Cosa ci poteva essere di così male nel gattonare in un campetto da calcio, mentre mandrie di bellimbusti ti passavano a pochi metri di distanza?
Assolutamente nulla.
 
«Ah sì? Davvero?» Ed ecco che il solito sorriso malizioso compariva sul suo viso.
 
«Piantala!» Ogni parola era una buona scusa per intavolare una battuta a sfondo sessuale, per lui.
 
«Okay, okay. Cominciamo», alzò le mani in segno di resa.
 
«Cosa dovrei fare, quindi?», dissi distrattamente, rigirandomi il cellulare tra le mani.
Fu un attimo: alzai lo sguardo, incontrando quello verdeggiante del ragazzo. Sorrise perfido, mentre con un fluido gesto delle mani mi aveva già sfilato il cellulare dalle mani.
Non badai troppo al fatto che stavo perdendo velocemente l’immunità al suo sguardo da felino predatore, poiché il mio amato telefono era in serio pericolo, nelle mani di quello scellerato.
 
«Hamilton!», urlai a più non posso, «Ridammi ciò che mi appartiene! ORA!», continuai, mentre il bastardo lanciava in aria l’iPhone, nemmeno fosse una pallina da tennis. Probabilmente non avrebbe mai lasciato che cadesse a terra, ma la mia paura era incontrollabile.
 
«Ah, sì? Lo rivuoi, eh?»
 
«Certo!»
 
«Bene. Allora... riprenditelo.»
Detto ciò, infilò il telefono nella tasca posteriore dei jeans e prese a gattonare come un vero bambino, intorno a me.
Non avrei mai pensato di farlo davvero, ma per il mio iPhone quello ed altro, se fosse stato necessario! E poi, a detta sua, quello strambo esercizio doveva aiutarmi con le gambe, quindi tanto valeva provarci.
 
«Sei un uomo morto, sappilo! Anzi, un bambino morto!», strillai, mettendomi a gattoni e iniziando a muovermi. Non era così facile: il mio ritmo, in confronto al suo, era paragonabile a quello di una lumaca; le gambe mi dolevano come se tanti grossi martelli stessero le stessero percuotendo. Potevo quasi sentire le ossa scricchiolare, prova del fatto che con Matilda non ero solita sforzarmi così tanto.
Ma questo ovviamente non gliel’avrei mai detto.
Presi ad inseguirlo, dolore atroce e gambe troppo corte permettendo, certo.
 
«Oh, ma guarda, mister... il tuo gioiellino è in pericolo di vita!», esclamò fintamente dispiaciuto ad un tratto, facendomi sussultare. Alzai gli occhi, notando che aveva estratto il cellulare dalla tasca, esponendolo ulteriormente al vuoto. Non che fosse a chissà quale altezza – anzi, probabilmente cadendo non avrebbe subito nemmeno un graffietto – ma ero comunque in preoccupazione.
Non è che la tua si chiama ‘ansia da prestazione’?
Non devo dimostrare nulla a quel troglodita. Lo sa bene che non so muovermi!
Forse ruggii, forse ringhiai... ma sicuramente impiegai tutte le energie che avevo in corpo per raggiungerlo – con non pochi movimenti – poiché la sua faccia mutò all’improvviso dal divertito al sorpreso. E ciò mi fece molto piacere.
Sapevo bene che non stava scappando solo per facilitarmi l’impresa. Gli si vedeva da miglia che provava pietà per me. Era ciò che notavo subito sul viso di tutti quanti, a primo acchito. Ormai ero diventata brava a riconoscerla, la pietà: tutti erano solo molto dispiaciuti e impietositi dalla mia condizione d’essere, nessuno – oltre a zio Cedric – m’aveva guardata in maniera differente.
Ed Hamilton non era sicuramente l’eccezione.
 
«Non mi allontanerai mai dal mio bambino!» E così dicendo, mi allungai per afferrare il cellulare. Ma, da grande bastardo qual era, Dylan si mosse di poco, cosicché invece di raggiungere l’apparecchio elettronico a me tanto caro, andai a toccare una porzione del suo fondoschiena.
E che fondoschiena, ragazzi!
Ritrassi di scatto la mano, mentre lui voltava il capo, ancora nella stessa posizione da ‘sculacciami finché vuoi’.
 
«Uh uh, mister», disse ghignando, «queste cose non si fanno. E hai osato accusare me di aver involontariamente sfiorato il tuo sedere, pochi giorni fa... non si fa, mister!», concluse il cretino con aria saccente, alzando il dito a mo’ di professore.
 
«Non l’ho fatto di proposito, e tu lo sai bene!», mi difesi.
 
«Sì, sì... predica bene e razzola male, questa qui...»
 
«Ma smettila! Non lo interpreti bene il ragazzo saputello, Hamilton!», lo canzonai, accovacciandomi con non pochi sforzi,
 
«Continua pure con la parte del bimbo che gattona, quella ti riesce bene!»
Prendi e porta a casa, bello.
 
«Oh, questa non avresti dovuto dirla, mister!» E, così dicendo, mi sollevò di peso – stava succedendo troppo spesso – e mi gettò in spalla, alla ‘sacco di patate’ maniera, per così dire.
Di tutta risposta, iniziai a strillare e ad appioppargli insulti a macchinetta, dimenandomi come un pesce fuor d’acqua. E ridevo, ridevo come una sciocca!
 
«Quanto durerà ancora questo stupido gioco? Siamo venuti qui per la fisioterapia, ricordi?» Era meglio rinfrescargli le idee, a quella gran testa calda che intanto aveva preso a correre come un ubriaco.
 
«Ma noi stiamo già facendo fisioterapia, mister», mi soffiò nei capelli, «ti facevo più perspicace, sai?»
 
«Che vuoi dire?» Ero davvero così intontita?
Mi accorsi solo in quel momento che Dylan aveva smesso di correre e di smuovermi – chissà da quanto, poi – mentre io seguitavo ad agitare come una pazza braccia e... gambe.
Ma certo! Senza nemmeno pensarci, avevo mosso le gambe in maniera frenetica, allenandole forse più di quanto avrei potuto fare con un normale esercizio. La cosa più strana era che non avevo neppure fatto caso al dolore o allo scricchiolio delle ossa in movimento.
All’improvviso fu tutto più chiaro: quel grande scemo di Hamilton – che poi tanto scemo non era, in realtà – stava usando il gioco e lo scherzo per rendere meno difficile e boriosa la fisioterapia. Era un po’ come la clown terapia che avevo imparato a conoscere durante la mia permanenza in ospedale – ma che io avevo sempre rifiutato. Solo che con Dylan era tutto così semplice e... naturale, che non me n’ero nemmeno accorta.
Sorrisi apertamente, notando che non mi aveva ancora risposto. Forse aveva intuito che c’ero arrivata da sola, perciò mi aveva lasciato del tempo per riflettere.
Forse.
O magari ha solo avuto un vuoto mentale dei suoi e non ha trovato nulla da dire.
Quest’opzione era molto più plausibile della prima, decisamente.
 
«Mi metti giù?», sussurrai, notando un lieve – ma lievissimo – tono dolce nella voce.
 
«Certo.»
 
«Grazie», sospirai, «non solo per avermi messa giù, ovvio!», precisai, già in preda al panico. Non ero un asso nei ringraziamenti e nei convenevoli, quello era assodato.
 
«T-ti ringrazio per la seduta e, bè... per avermi fatta anche divertire. A modo tuo, sì, ma è stato divertente, nell’insieme», conclusi, esalando un profondo respiro.
 
«Figurati, mister. Lo faccio con piacere.»
Dopodiché, raccogliemmo le nostre cose dal prato – c’era una partita in programma e noi eravamo di troppo – e ritornammo a casa.
Notai che, uscendo dall’impianto, Dylan era stato fermato da un uomo calvo in calzoncini. Avevano parlottato animatamente per un po’, poi Dylan gli aveva dato un pacca sulla spalla con sguardo mesto e mi aveva raggiunta.
Non che ci volesse molto a fare due più due, la faccenda era abbastanza chiara: Hamilton era stato convocato per la solita partita settimanale (il supplemento, come lui stesso l’aveva chiamato), ma aveva dovuto rifiutare per accompagnarmi a casa.
Mi pareva ovvio che non potevo starmene con le mani in mano; era una vita che lo facevo!
 
«Dylan, va’ a cambiarti.»
 
«Che? Di che parli, mister? Vuoi forse approfittarti di me?»
 
«No, idiota! Intendevo: va’ a cambiarti per giocare la partita a cui sei stato invitato da quell’uomo lì!»
 
«N-non sono stato convocato... andiamo.»
Troppo risoluto. Hamilton nascondeva qualcosa.
 
«Dylan, ferma questa cavolo di sedia e torna indietro, per favore. Io chiamo Cedric.»
 
«Non ci penso nemmeno. Io devo riportarti a casa; fa parte del contratto.»
 
«E da quando in qua abbiamo un contratto, noi?»
 
«È invisibile, ma ce l’abbiamo. Ogni accordo implica un contratto. Tu che sei una secchiona dovresti saperlo.»
 
«Sì, certo», gli concessi, «quindi ammetti che sei stato costretto dal ‘contratto fantasma’ ad accompagnarmi, altrimenti avresti preferito giocare quella partita» Gliel’avrei fatto dire, a tutti i costi. Avevo bisogno di sentirglielo dire.
 
«No, mister. Sei tu la mia priorità, ora.»
E quella era esattamente la risposta che non avrebbe mai dovuto dare, quella che non avrei mai voluto sentire.
 
«No. Non voglio condizionare la tua vita a tal punto, Dylan. Tu hai un obiettivo preciso e io sono solo un ostacolo. Lo capisci questo?»
 
«Non sei un peso per me, affatto!», alzò di poco la voce, mentre spingeva con forza la sedia a rotelle nel buio.
 
«Non so che cosa sia trapelato dal mio comportamento, ma non ti avrei mai proposto un accordo simile se ti avessi considerata un peso, non trovi, mister?» La sua voce non era mai stata così seria, non con me almeno.
 
«Mi sorprendi sempre più, Hamilton», dissi, un po’ per deviare quel discorso scottante, un po’ per allentare la tensione.
 
«Ah davvero?»
 
«Già», sorrisi al buio, «trapelare? Ma dove l’hai sentita?»
 
«Ah! Mister, non sai tante cose di me!»
 
«Così mi spaventi però.»
 
«Eh eh... e non hai ancora visto niente!»
Dopo quella stramba conversazione, deviammo sui più svariati argomenti, dal calcio – il suo preferito, ovvio – alla musica, al cibo.
 
 
 
 
 

Quando le mie chiavi nuove di zecca scattarono nella serratura di casa, un profumo di cioccolato mi penetrò le narici.
 
«Zio? Zio, ci sei?», domandai, trascinandomi dentro un Dylan riluttante. Infatti, durante il viaggio di ritorno, Hamilton aveva mostrato una più che disperata paura ad entrare in casa mia – anzi, in casa del mister, come lui l’aveva macabramente definita – a quella determinata ora. Era convinto che la cena fosse un momento sacro per la famiglia e pertanto non doveva essere interrotto da uno sconosciuto come lui. Mi ero fatta una grassa risata e gli avevo intimato di entrare dentro casa.
 
«Sì, sono qui, principessa!», gridò dalla cucina, comparendo poco dopo col suo consueto grembiule a fantasia.
Quanto lo adoravo, quando si metteva ai fornelli!
 
«Cedric, ho portato un ospite. Spero non ti dispiaccia», asserii, entrando nell’enorme cucina mentre Hamilton pareva un fantasma alle mie spalle. La carrozzella la stavo spingendo praticamente da sola!
 
«Oh, Hamilton! Accomodati», disse affabile il mio grande zio, aprendosi in un sorriso.
Mi girai di scatto verso il ragazzo rigido alle mie spalle, mimandogli un «visto?» e scoccandogli un’occhiataccia.
Non riuscivo a comprendere quel suo eccessivo rispetto verso mio zio; va bene, era il suo coach e, in quanto tale, gli doveva le dovute riverenze – ma che..? – però mi sembrava di esser tornata nel Medioevo, santo cielo!
 
«Dylan, siediti. I divani non ti mangiano mica», dissi tra le risate.
 
«Simpatica!», mi rispose, facendomi una smorfia.
 
«Ma che bel rapporto che avete, voi due!», esclamò d’un tratto zio Cedric, con un timer ticchettante in mano, «Dimmi una cosa, Dylan: come mai stai aiutando la mia bambina?», chiese, con tono cospiratorio.
 
«Zio, ti prego! So bene che vi siete accordati su questa faccenda, non credere che non sappia nulla!»
 
«Te la porti a letto, eh? Dimmi la verità: le fai fare fisioterapia e lei ti ripaga con della buona... ginnastica da letto, mmh?»
Ma quanto altro potevano avere in comune due uomini come loro, oltre al calcio?!
 
«Zio!», emisi con voce stridula, voltandomi per vedere la reazione di Dylan. Ovviamente, il grande figo era stravaccato sul divanetto, comodamente e a suo agio, e se la rideva di gusto.
E tutta la farsa della paura e del rispetto?
Honey, ha ragione Dylan quando dice che non sei perspicace.
 
«Buona questa, coach!», disse l’idiota, battendo il cinque all’altro idiota.
Il suono del timer interruppe le loro risate,  ma non il mio sguardo furente.
Zio Cedric estrasse dal forno una teglia di biscotti al cioccolato dalle più svariate forme – non tutte propriamente riconoscibili, ecco. Ma erano pur sempre... forme.
Immediatamente ne afferrai uno, ancora bollente, e diedi un morso.
Buono.
 
«Com’è che t’è tornata la vena culinaria, Cedric?»
 
«In realtà c’è un motivo. A Natale ho deciso di invitare alcuni colleghi del mio reparto, così mi alleno per stupirli anche in cucina.»
 
«Non sei un po’ troppo competitivo? Insomma, nessuno pretende che tu sappia cucinare i biscotti al cioccolato.»
 
«Veramente... c’è qualcuno a cui piacciono tanto» Il suo sguardo si era fatto troppo sfuggente.
 
«Mmh... ed ha un nome questo qualcuno?»
Ne seguì un silenzio di tomba, interrotto dal tossire fin troppo sommesso di Hamilton che si era intanto alzato.
 
«Io... devo andare. Grazie dell’ospitalità, mini mister e grande mister.»
 
«Ma come, non assaggi nemmeno uno di questi deliziosi biscotti?», chiesi, fintamente dispiaciuta. Non li mangiava lui? Ce ne sarebbero stati in abbondanza per me.
Che meschina!
 
«Uhm, okay», disse solamente. Si avvicinò a me e rubò la metà di biscotto che era ancora nella mia mano. Lo trangugiò in un sol boccone, poi disse: «Eccellente, coach. I miei complimenti!»
 
«Per una volta, un allievo che  giudica il maestro. Il ruoli s’invertono?», chiese retorico, scoccandogli un occhiolino.
 
«Non mi permetterei mai, mister!» E, così dicendo, lo salutò con una mano, augurandogli la buonanotte.
Lo accompagnai alla porta ancora stupefatta per il furto del biscotto.
Parve accorgersene, poiché disse: «Ci sei rimasta male? Povera, le hanno rubato il biscottino!», mi scimmiottò con voce da bambino.
 
«Sì. Ci sono rimasta male. Molto male!» Stetti al gioco.
 
«Ah sì? Che peccato», sussurrò, accovacciandosi di fianco a me.
 
«Presuntuoso.»
 
«Capricciosa.»
Si avvicinò ulteriormente, sfiorando il punto sensibile della pelle immediatamente sotto il lobo dell’orecchio. Vi lasciò un segno impercettibile con le labbra umide, poi mi guardò negli occhi: «E per oggi, direi che si può concludere qui la prima seduta della... mmh... Dylanterapia», sibilò sorridendo, con una nota divertita nella voce.
 
«Dylanterapia? Sul serio?»
 
«Non ti piace?»
 
«Ma sì, dai... può andare.»
 
«Bene. Allora buonanotte, piccola mister.»
 
«Buonanotte, ladro di biscotti.»





UnknownVoice:
Ciaao a tutti!
Non mi dilungherò molto, poiché so bene che il mio ritardo è imperdonabile. Purtroppo i tempi son questi, perciò spero che non me ne vogliate se ho ritardato nell'aggiornamento.
Comunque sia, spero che abbiate gradito questo capitolo, che è di grande importanza per il continuo della storia. Grazie a tutte coloro che mi seguono e recensiscono la storia; senza di voi tutto questo non avrebbe lo stesso valore! :)
Ho notato un calo di recensioni, nonostante i lettori ci siano. Ciò mi dispiace, ma capisco benissimo le vostre ragioni ;)
Spero di non tardare anche la prossima volta!
A presto,
Unknown Device.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Quinto. Too many dreams ***




 

Capitolo 5
 

Too many dreams
 
 
«...E ricordate, ragazzi, le vacanze natalizie sono alle porte: perciò date uno sprint finale e preparate Freud per la prossima settimana. Salute permettendo, ho in programma un’interrogazione a tappeto», concluse Mrs Scott, tossendo rumorosamente.

La campanella suonò un secondo dopo, facendo letteralmente saltare dai banchi tutti gli studenti del corso di filosofia. Dopo due ore di spiegazione e di una dettagliata sfilza di scoop su Freud, anche la soave voce di Mrs Scott mi pareva molto simile al verso di una cornacchia.

E prenditi una pausa!

Quanto avrei voluto! Peccato che – come ci ricordava puntualmente ed fin troppo frequentemente il corpo dei docenti – gli esami di fine trimestre erano alle porte e io non potevo permettermi per nulla al mondo una vacanza.

E poi, in fondo – molto, ma molto in fondo – Freud mi piaceva.

Dopo aver raccattato tutti i libri e gli innumerevoli fogli pieni zeppi di appunti dal banco uscii dall’aula vuota. Ormai nemmeno i professori mi aspettavano più.

Spingendo a forza la sedia, ricordai che nel pomeriggio avevo una nuova seduta fisioterapica con Dylan, avendolo stabilito la settimana precedente.

Dylan che mi stava aiutando tantissimo con la riabilitazione, Dylan che era anche troppo in gamba per aver proposto un patto così scellerato, Dylan che era scomparso nel nulla da quattro giorni.

Sì, quel Dylan.

L’ultima volta che ci eravamo incrociati era stata a scuola, quattro giorni addietro, per l’appunto.

Stavo passando davanti alla porta della segreteria, quando una spinta ben più vigorosa della mia non mi aveva quasi fatta cadere a terra.

Mi ero voltata terrorizzata, incontrando gli occhi divertiti e verdeggianti di quel Dylan.

«Ma che fai?!»

«Mi chiedevo», aveva iniziato, assottigliando lo sguardo con fare pensoso, «ma tu che hai questa cosa qui... la sedia e tutto il resto... ce l’hai un armadietto?» Era troppo serio.

«A cosa ti serve il mio armadietto?», gli avevo chiesto con voce stridula, «E per risponderti più chiaramente: sì, ne ho uno anch’io. Sto solo su una sedia a rotelle, non sono una discriminata sociale o un pericolo pubblico!»

«Era solo una domanda, mister... per fare conversazione, tutto qua.» Era di nuovo troppo serio, e quell’aria da santone indiano non gli donava per niente.

«Sì, come vuoi tu.»

«Okay, tana per me. Mi servirebbe il tuo armadietto, lo confesso», aveva detto all’improvviso, alzando le braccia.

«Se vuoi nascondere droga, armi o aggeggi che potrebbero nuocere alla salute fisica e mentale di una persona ti dico già che non puoi contare sul mi-»

«Uo uo, frena, mister. Non è niente di tutto ciò! È solo un pacchetto regalo che devo nascondere, tutto qui.»

Perché era così maledettamente calmo, mentre io rischiavo un aneurisma cardiaco al solo pensiero di collaborare con uno come lui?!

Perché uno come lui nella tua testolina è etichettato come ‘potenziale delinquente’, ecco perché.

Quella volta dovevo proprio dare ragione al mio subconscio bacato; stavo inconsciamente giudicando Dylan per la sua fama di cattivo ragazzo, nonostante fossi la prima a dire che i libri non si giudicano dalla copertina. Ero una contraddizione vivente.

Dopo quella strana richiesta, era sparito dalla mia visuale e, a quanto pareva, anche dalla scuola, dato che non mi aveva travolta in corridoio, come era solito fare.

Non che mi importasse, insomma... Dylan aveva la sua vita, i suoi impegni e tutto il resto... però il fatto che avesse accennato alla presenza di un pacchetto regalo e al mio armadietto mi faceva venire in mente un sacco di pensieri strani. Le due cose non combaciavano e io ero troppo curiosa per farmi bastare la storia del ‘pacchetto regalo’.

E poi era il MIO armadietto, eh! Volevo sapere in che mani avrei dovuto lasciarlo o cosa avrebbe contenuto!

Lo so, quella scusa non se la sarebbe bevuta nemmeno un eremita dopo un anno nel deserto senz’acqua. Ma perché mettermi la pulce nell’orecchio e andarsene? Quel ragazzo mi mandava in panne il cervello.

Soprattutto con quegli occhi così... verdi.

No, non sono gli occhi.

Allora è il suo fisico statuario e protettivo, ammettilo.

Nemmeno quello. Quell’aura di mistero che si portava dietro l’avrei distrutta, prima o poi. Ecco cos’era che mi mandava in bestia.

Strofinai le mani sulle ruote della carrozzella per farla muovere, procurandomi però un forte dolore alla pelle.

L’aria dicembrina mi punse il volto, nonostante fossi tutta imbacuccata nella sciarpa di lana lunga tre chilometri. Regalo di Matilda, direttamente dal produttore al consumatore. Ma dovevo dire che in quei giorni da era glaciale era utile.

Fortunatamente Cedric e la sua monovolume mi aspettavano di già fuori dal cancello, mentre anche gli studenti più intrepidi, muniti di giacconi e canne mezze spente, migravano nelle proprie case, dove magari le sigarette sarebbero rimaste accese più a lungo.

La premura di zio Cedric non aveva limiti: nonostante avesse addosso solo lo smoking da lavoro, scese a prendermi per farmi salire in macchina.

D’altronde, come avrebbe potuto non farlo? Non avrei mai imparato ad alzarmi da quella maledetta sedia, soprattutto non con un tutor che manca un giorno sì e l’altro pure.
 
 

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------



Andavo avanti e indietro per la stanza come un automa, tipo quegli attori dei film che camminano nervosi in lungo e in largo. Solo che, bè, con la sedia a rotelle l’effetto ‘nervosismo’ non era proprio evidente e di per giunta iniziava anche a girarmi la testa.

Meglio smettere.

Era una buona mezz’ora che mi friggevo il cervello cercando un motivo quantomeno decente per il quale Dylan non aveva suonato alla mia maledetta porta e non aveva salutato con una delle sue maledette battute sceme e non aveva iniziato la nostra maledetta seduta di fisioterapia.

Maledizione!

Avrei potuto chiamarlo, certo; ma così avrei dato l’impressione della solita ragazza insicura, pignola e rompiscatole quando molto probabilmente aveva solo avuto un contrattempo e stava per arrivare.

Forse.

Ma quando mai avevo a cuore ciò che la gente pensava di me?

Afferrai malamente l’iPhone e cercai il suo numero. All’avvio di chiamata, mi persi a pensare a quale tragico avvenimento potesse essere successo.

Immaginai Dylan che si schiantava contro un albero con la sua auto-catorcio di suo nonno; oppure lo vedevo imbottigliato in una fila di macchine per strada – tralasciando il fatto che la nostra cittadina non ha mai traffico; o, peggio ancora, me lo figuravo in compagnia di una bella donna, mentre la abbordava con i suoi occhi troppo verdi.

Tutte circostanze scomode e poco raccomandabili.

Persa nei miei film mentali, non m’accorsi che il cellulare aveva smesso di squillare da un po’ ed era scattata la segreteria. Giusto per non fare la figura dell’idiota, articolai un discorso quasi di senso compiuto.

«Dylan, ti ho, ehm... chiamato per sapere che fine tu abbia fatto, dato che sei sparito come un ladro e non ti sei più fatto sentire dopo la conversazione in corridoio su quel pacco regalo e... niente, ti volevo ricordare che oggi avevamo una seduta e che tu sei abbondantemente in ritardo ormai. Ma l’importante è che tu sia vivo, ovvio! Quindi... se ci sei, batti un colpo. Voglio dire! Se ci sei, chiamami, ecco. Ehm, ciao.»

Che monologo fantastico, signori! Degno del palcoscenico di Broadway!

Mi resi conto troppo tardi di aver sproloquiato alla grande, passando per la pazza maniaca quale davvero stavo diventando, a forza di correre dietro ad uno come lui. Ma santo cielo, però, era più introvabile lui di una banconota da tre dollari!

«Principessa, la cena è in tavola.» Cedric e le sue comparse da infarto cardiaco!

«Scendo tra due secondi», gli sorrisi. Non c’era motivo di prendersela con lui. L’unico colpevole lì era quel disgraziato di Dylan Hamilton, altroché.

La discesa dello scivolo fu forse la cosa più emozionante della giornata, dopo la lezione su Freud.

«Preparati, Honey: quest’oggi tuo zio ha superato se stesso e ha preparato l’anatra all’arancia!»

La faccia raggiante di Cedric era tutto un programma, mentre a me iniziavano a venire le doglie.

«Ah, interessante», dissi poco convinta, «Come mai?»

«Te l’ho detto: mi sto allenando per il pranzo di Natale.»

Ah già. «Bè, allora... che anatra all’arancia sia!», mi rianimai, cercando di sollevare il mio umore di qualche millimetro con un po’ di quel volatile.
 
 
 
 

---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------




«...nonostante i genitori avessero perso le speranze, Alice si è miracolosamente risvegliata. Una notizia che ha scaldato il cuore degli americani, amici. Ma vediamo in particolare com’è andata nel servizio...» La voce della giornalista televisiva riempiva il vuoto della mia stanza.

Fantastico. Il mondo era contro di me. Si era persino svegliata una bambina dal coma, mentre di Dylan non c’era ancora la minima traccia.

L’orologio analogico appeso sulla parete azzurra della mia stanza segnava le dieci e mezza passate e del mio caro amico non avevo ancora notizie.

Troppo stanca persino per stare seduta sulla sedia, mi sistemai alla meglio nel letto, non volendo disturbare Cedric che sicuramente era al telefono con chissà chi di importante.

Mi imposi di chiudere gli occhi e di non pensarci, ma le immagini più strane e raccapriccianti si accavallavano nella mia mente, senza volersene andare.

Ecco che vedevo Dylan che camminava sul ciglio della strada, con una mano in tasca ed una che teneva mollemente la sigaretta. Il solito!

Stava muovendo la testa a ritmo di musica. A farci caso, aveva due cuffiette che penzolavano dalle orecchie.

Sicuramente doveva essere quella musica rock che spacca i timpani, quella per tipi come lui... quella che però piaceva anche a me.

Una luce lo illuminò da dietro, circondandolo interamente. Era un’auto. I fari si avvicinavano a ritmo costante, mentre lui seguitava a camminare in bilico tra la strada e il terriccio, sbandando di tanto in tanto. Proseguiva ad occhi bassi, calciando le pietre che gli impedivano il passaggio. Aveva proprio l’aspetto di un angelo caduto.

La macchina era ormai vicina, quando Dylan si sporse eccessivamente sulla strada.

«Dylan, Dylan! Sta’ attento!», urlavo in continuazione quelle parole disperate, ma lui non mi sentiva. Aveva le cuffiette, come avrebbe potuto?

L’auto divenne talmente vicina che del ragazzo potevo distinguere a malapena la sagoma.

Poi sentii il clacson dell’auto che si infrangeva contro il buio e il mio ultimo, vano urlo di monito si andava sperdendo nell’aria.

«Dylan! NO!»

Spalancai gli occhi, le braccia tremanti e la fronte imperlata di sudore.

Ero proprio andata, non c’era che dire.

«Ehi ehi, calma. Sono qui.»

Ma che..? Stavo ancora sognando per caso?!

Mi voltai di scatto, trovando due pozze verdi scarsamente illuminate dalla luce dell’abat-jour.

«Dylan... Dylan?!» Il mio tono passò velocemente dal sollevato all’incredulo. «Che ci fai qua?!» 

«Appena ho sentito il tuo lungo e... dettagliato messaggio in segreteria ti ho raggiunto.»

«M-ma, ma... che ore sono?» Probabilmente quella era la domanda più stupida che potessi porgere.

«Le due, credo... scusa se non mi sono presentato, oggi pomeriggio», sussurrò, prendendomi le mani tremanti, «ma  ho avuto da fare, in questi giorni. E penso che te ne sia accorta da te», sorrise. Stava cercando di farmi tranquillizzare.

«Sì sì, certo, ho capito... ma perché sei qui, alle due di notte, nella mia stanza... e Cedric? Come hai fatto ad...»

«C’era la finestra aperta. Sinceramente non comprendo il tuo bisogno di tenerla spalancata quando fuori ci sono meno novanta gradi.»

«Eh?»

«Niente, lascia stare. Sei più tranquilla ora che mi hai visto, vivo e vegeto?», ghignò. Ero solo un po’ addormentata, mica ero diventata scema in una notte!

«Ma smettila!», gli tirai una gomitata senza nemmeno provare a fargli male. Era impossibile.

«Davvero, Honey. Mi dispiace non averti potuto avvisare prima. Spero tu possa capire che non sono così irresponsabile come mi sono dimostrato negli ultimi tempi.»

«Immagino che avrai modo di dimostrarmelo in futuro. Abbiamo o non abbiamo un contratto?»

«Certo che ce l’abbiamo.» Gli era tornata l’espressione spensierata di sempre e quello era l’importante, in fondo.

«Ma, io dico... perché tutta questa fretta di svegliarmi nel cuore della notte solo per dirmi che sei vivo?» Una domanda più intelligente, sì.

«Perché ho immaginato quanti film ti sarai fatta in questi giorni e, bè... il tuo tono disperato da mammina premurosa mi ha convinto a raggiungerti.» Si stava prendendo palesemente gioco di me ed io non ero nel pieno delle mie facoltà mentali per poter rispondere a dovere.

«Già, continua pure. Io ero seriamente preoccupata!», dissi in tutta sincerità. Poi, accorgendomi che aveva assunto un faccino troppo compassionevole, aggiunsi: «Non per te, ovvio!»

«Mister, va’ a raccontarla a qualcun altro, questa bugia. Ammettilo: eri in pena per me», mi sibilò sul viso. Quando si era avvicinato così tanto? Non me n’ero accorta.

«In pena! Che parolona! Ero solo poco poco preoccupata, tutto qui. Come lo sarebbe chiunque, insomma», m’affrettai a precisare, quella volta.

«Guarda che non c’è niente di male ad ammetterlo. E ti dirò,» mi un buffetto sul naso, «sapere che mi pensi e che ti preoccupi per me mi lusinga.»

«Davvero?» Probabilmente avevo un aspetto molto simile a quello di un gattino a cui stanno facendo le fusa. La notte non mi era amica e scoprirmi così facilmente con Dylan non era per niente nei miei piani.

Eppure mi riusciva così semplice...

«Sì», fece soltanto, guardandomi con i suoi occhi ipnotici. E poi fu tutto un susseguirsi di movimenti: Dylan che mi sorrideva, Dylan che mi circondava le guance con le sue mani enormemente enormi, Dylan che si avvicinava al mio viso, Dylan che depositava un caldo bacio sulla mia fronte, come  farebbe un genitore con il proprio bambino. E poi il freddo della sua mancanza, quando lo vidi allontanarsi e sporgersi sul davanzale della finestra.

«Dylan», sussurrai quanto bastava per farmi sentire.

Si voltò, ma non rispose.

«Non provare mai più ad entrare dalla mia finestra o giuro che ti denuncio per violazione di domicilio», gli dissi con il tono più minaccioso che potessi usare, nonostante fosse abbondantemente farcito con la dolcezza del suo bacio.

«Concordo con te, mister. E l’ho imparato a mie spese», asserì quasi imbarazzato. Lo ammirai uscire saltando su non so cosa, senza prima notare che aveva un taglio abbastanza profondo sul bicipite sinistro.






UnknownVoice:
Ehilà, se ci siete, battete un colpo - come direbbe Honey ;)
Mi scuso per l'immenso ritardo, ma i motivi sono sempre gli stessi e, ahimè, non posso che dolermi di questo.
Spero, comunque, che ci siate ancora e che anche questo sudato capitolo abbia soddisfatto le vostre aspettative. Fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione, se vi va, così mi potrò orientare su come proseguire la storia. Le recensioni sono sempre costruttive :)
Grazie a tutti coloro che lo faranno e alle persone che già lo fanno ;)
Au revoir,
Unknown Device.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Sesto. Solo freddo ***




Capitolo 6

 
Solo freddo
 

Quella mattina mi svegliai con una gran voglia di vivere. Poco male, di solito servivano almeno una decina di grida da parte di Cedric e, se proprio andava male, qualche minaccia di buttarmi addosso un secchio d’acqua gelida per convincermi ad affrontare un’altra giornata.

Possibile che Dylan mi facesse quell’effetto?

Eh sì, possibile.

Probabilmente non era a causa sua. Probabilmente era la fine del ciclo a farmi quell’effetto.

Mai paragonare un ragazzo alle mestruazioni, Honey.

Un sorriso inevitabile mi solcò il viso, al solo pensiero di Dylan alle prese con assorbenti e dolori al basso ventre.

«Honey, la colazione è in tavola. Vedi di alzare le tue chiapp-»

Zio Cedric, in tutto il suo splendore d’impiegato bancario con tanto di smoking e ciuffetto domato alla meglio, comparve sulla soglia della mia porta.

«Non ci credo! Come mai stamattina sei già sveglia?» Allora se n’era accorto anche lui!

«Consideriamolo un richiamo della natura, mmh? Ogni tanto fa bene anche a me non farti saltare i nervi», gli sorrisi a trentadue denti.

«Mmh, ragazzina... tu non me racconti giusta! Ma, ehi: qualunque cosa o chiunque sia a farti questo effetto, ha tutta la mia più completa stima!»

«Divertente! Piuttosto, tu: concentrati sull’anatra all’arancia; sento qualcosa svolazzare nell’intestino e ti assicuro che il ciclo mi è ufficialmente passato.» Ormai la nostra era una battaglia a chi avesse la lingua più tagliente.

«La mia anatra era da stella Michelin, cara! Non saranno forse le farfalle dell’amore quelle che svolazzano nel tuo stomaco?»

Ooh, questa è pesante!

«Era l’intestino!» E così dicendo sgusciai fuori dalla stanza, dirigendomi in bagno, prima che continuasse a proferire baggianate.

In effetti a cena si era davvero superato, ma avevo assolutamente bisogno di un diversivo per deviare l’argomento.

Cedric sapeva essere un gran pettegolo alle volte – specialmente se si trattava di me. Non lo dava a vedere, nascondendo l’apprensione con un sottile strato di ironia, ma sapevo quanto fosse geloso di me. Non geloso come potrebbe esserlo un fidanzato, ovviamente; era solo protettivo nei miei confronti, però conosceva anche l’indole libertina e spensierata dei miei genitori che avevano vissuto seguendo la filosofia del ‘vivi e lascia vivere’. Perciò tentava ti lasciarmi i miei spazi e di non intromettersi troppo – non che ci fossero poi chissà quali segreti fra di noi – pur essendo praticamente l’opposto di mio padre.

Cedric era curioso, sempre attivo e mai – dico mai – stanco. Ogni occasione era ottima per cimentarsi in qualcosa di nuovo – e in questo era molto simile a mio padre – senza mai farsi troppi problemi.

Probabilmente hai preso da tua madre, mi suggerì la mia coscienza bacata.

Sorridendo leggermente a quella certa verità, condussi la mia sedia giù per lo scivolo, pronta per uno dei nuovi esperimenti di Cedric in campo culinario. Lo avevo sentito trafficare con pentole e tegami per un tempo indefinito quella mattina, perciò avevo intuito che s’era adoperato ancora in qualche ricetta improponibile.

Giunta in cucina, una coltre di fumo m’avvolse completamente; tossii.

«Zio, ma che è capitato qui? Sembra essere esplosa una bomba, accidenti!»

«Sì, non hai tutti i torti, tesoro. Mi sono fermato a parlare troppo con te prima – grazie, a proposito – e mi sono completamente dimenticato dei muffin che erano in forno.»

L’espressione afflitta di Cedric mi fece tenerezza. «Tranquillo, zio. Scommetto che sarebbero stati sensazionali.»

Quando mai di prima mattina mi mettevo a fare complimenti alla cucina dello zio?!

«Grazie del conforto, principessa, ma non credo che farà miracolosamente tornare indietro i miei muffin.»

In quel momento, pensai seriamente di essere finita in un mondo parallelo. Perché Cedric si comportava come un bambino piagnucolone che ha perso la sua mamma?!

«Che ne dici se per oggi posi le armi e andiamo a fare colazione fuori?»

«Dico che sai sempre come tirarmi su di morale, tesoro.»
 


--------------------------------------------------------------------------------
 


Il gelo dicembrino non aveva intenzione di demordere. Il cielo grigio prometteva un’imminente burrasca di neve.

«Che ne dici di questo bar? Sembra abbastanza frequentato.» Cedric aveva accostato l’auto vicino ad un locale nei pressi della scuola.

Mi voltai per osservarne l’interno. Era spazioso, ben arredato e pullulava di gente. Sembravano tutti così presi dai loro affari che nessuno badava effettivamente a ciò che ingurgitava.

Il mio sguardo si posò sul bancone, l’unico spazio non troppo affollato. Vi scorsi una ragazza, forse un po’ più grande di me, con un bel sorriso e un caschetto rosso ad incorniciarle il volto. Stava porgendo una tazzina di caffè ad un ragazzo; un gran bel fusto, a giudicare dall’altezza, le spalle larghe ed i lineamenti da modello mancato.

Roba da leccarsi i baffi, ragazze.

Strabuzzai gli occhi, mettendo meglio a fuoco il faccino sorridente e sognante di... Dylan.

Quel Dylan che poche ore prima mi aveva posato un bacio ultra casto sulla fronte e che, proprio in quel preciso istante, ne stava ricevendo uno sulla punta del naso dalla rossa.

Avvampai all’istante, nonostante non mi avesse vista assistere a quella scenetta.

«Mmm, troppo frequentato, direi. Cambiamo?!» La foga con cui pronunciai la mia sentenza probabilmente spaventò Cedric, il quale partì verso una nuova meta senza fare domande.
 


------------------------------------------------------------------------------
 


Ovviamente non occorre specificare che non ci fu posto per alcun nuovo argomento di storia né tantomeno per gli algoritmi di algebra che faticavo a comprendere già abitualmente.

La mia mente era affollata esattamente come il bar in cui Dylan si scambiava effusioni con la cameriera; affollata di pensieri poco casti, alquanto deleteri per la mia sanità mentale eppure così prepotenti, ché non riuscivo a pensare ad altro.

Troppe domande, zero risposte, soprattutto contando che – tanto per cambiare – di Dylan non s’era vista nemmeno l’ombra durante le ore di scuola.

Era più che evidente che avesse una fidanzata. E come biasimarlo? Era bello, gentile, virile ed intelligente (se si applicava, certo); non c’era cosa più normale e palese al mondo d’avere una compagna.

Ed anche lei, poi... aveva tutte le carte in regola per meritare le sue attenzioni: sguardo magnetico, sorriso smagliante, fisico snello e slanciato, caschetto attira-uomini... non c’è che dire: agli occhi di un estraneo sarebbero sembrati una coppia perfetta.

Ormai avevo tratto le mie conclusioni.

Troppo precoci? Forse, ma era talmente palese che anche un cieco se ne sarebbe accorto!

E poi... chi ero io per giudicare? Dylan aveva la sua vita, le sue compagnie ed aveva soprattutto il pieno diritto di fare ciò che gli pareva.

La pancia mi faceva male di nuovo; che l’anatra di Cedric si stesse davvero ribellando?

O magari è il pensiero di Dylan con la rossa che ti smuove l’intestino...

Chiacchiere! Dylan non era un oggetto di mia proprietà e non eravamo nemmeno così amici... Insomma: ci eravamo visti sì e no una decina di volte in tutto, per di più in circostanze formali e non importanti.

Certo, la sculacciata che ti ha dato nel campetto di calcio era proprio una ‘circostanza formale’...

Strinsi le labbra, vagando con la mente attraverso i bei momenti che effettivamente avevamo trascorso.

Ma, attimi scherzosi a parte, la nostra non poteva considerarsi come un’amicizia vera e propria. Notavo che ce la metteva tutta per dare il meglio di sé, ma probabilmente non ero così stimolante da potersi interessare a me anche al di fuori del nostro contratto.

E a me poteva star bene anche così, si suppone.

Dalla reazione dello stomaco non si direbbe. E nemmeno la testa ‘affollata’ è d’accordo.

Mi appuntai mentalmente di contestare nuovamente circa l’anatra all’arancia una volta a casa, poiché quella volta la pancia mi faceva male sul serio.

Ricordai improvvisamente che Cedric non sarebbe venuto a prendermi, quel pomeriggio; aveva una riunione molto importante in banca, perciò mi aveva consigliato di chiedere un passaggio a qualche amica o a Dylan, se preferivo. Ormai lo considerava il mio personale assistente, soprattutto dopo la visita a cena di qualche sera prima.

Ciò di cui zio Cedric non era a conoscenza erano gli avvenimenti odierni, dal colloquio notturno alla scenetta presso il bar.

Non mi sarei mai sognata di chiamare Dylan per farmi accompagnare a casa, nemmeno se l’avessi incontrato a scuola. Ero troppo in subbuglio per poter anche pensare di parlargli.

A dirla tutta, non sapevo bene se essere felice o arrabbiata. Soprattutto, non conoscevo quale delle due alternative avrebbe prevalso se lo avessi incontrato d’improvviso.

Mi venne in mente il nostro primo incontro, avvenuto proprio sul marciapiede che stavo percorrendo per tornare a casa.

Nell’intimo – ma molto intimo, anche se non si può dire – speravo che facesse la sua comparsa da qualche cespuglio e cominciasse a sproloquiare circa gli orari troppo precisi dei pullman con la sua immancabile sigaretta fra le dita.

Era così che l’avevo conosciuto. Era così che, in un certo qual modo, aveva conquistato la mia attenzione... e non solo.

Mi guardai attorno, come se davvero potesse comparire dal nulla. Non c’erano molte auto in strada e le urla dei bimbi appena usciti da scuola andava già scemando.

La sciarpa di Matilda – inconfondibilmente lunga e calda – mi proteggeva dal vento torbido proveniente dalle montagne. Temevo seriamente di non potercela fare ad arrivare in tempo, dato che già i primi fiocchi di neve svolazzavano per aria.

Mi bruciavano le mani, troppo consunte dal freddo e dallo sfregamento delle ruote. Avevo giust’appunto aumentato la velocità, quando sentii un rumore alle mie spalle.

Tirai un sospiro di sollievo, poi mi voltai.

Alle mie spalle un gatto mezzo spelacchiato stava per intrufolarsi in una siepe; oltre a quello, non v’era anima viva.

Delusa ed amareggiata, continuai la mia corsa verso casa.

Dicembre, quanto ti odio!
 


------------------------------------------------------------------------------
 


La stufa che fortunatamente Cedric aveva lasciato accesa non voleva saperne di scaldarmi a dovere le mani.
Avevo provato ogni tipo di posizione, rischiando anche l’ustione, ma nulla di nulla: le mani si riscaldavano per circa due minuti, poi tornavano ad essere i ghiaccioli di una volta.

Accidenti, quel vento gelido mi aveva procurato la circolazione di un’ottantenne!

Sbuffando, decisi di provare un metodo sicuramente efficace: la cioccolata calda. Se nemmeno quella avesse funzionato, avrei fissato un appuntamento dal medico.

Che esagerata!

Il campanello suonò proprio nel mentre frugavo nella dispensa alla ricerca della confezione magicamente scomparsa. Se Cedric l’aveva fatta fuori senza avvisarmi me l’avrebbe pagata molto cara!

Mi diressi svogliatamente verso il portoncino d’ingresso, dal quale – nonostante fosse chiuso – si poteva sentire il vento ululare forte.

Avevo fatto appena in tempo ad arrivare a casa.

Aprii e con mia grande sorpresa mi ritrovai di fronte nientepopodimeno che l’illustre ed acclamato Dylan Hamilton in veste di spia dell’FBI/ladro provetto. O almeno, così sembrava, visto il cappello di lana calato fin sopra gli occhi e la sciarpa a coprirgli pure il naso. Poteva indossare un passamontagna, avrebbe fatto prima!
Tra tutte le cose che avrei potuto pensare, quella fu la prima, ovviamente. La mia mente degenere non sapeva fare di meglio, ahimè.

«È permesso entrare o vuoi farmi stare fuori a congelare, mister?»

Quanto mi era mancato quel soprannome!

«Oh, certo.» Che scema! Ero solo un po’ infastidita dalla sua presenza – soprattutto dopo averlo adocchiato con la tipa – ma non volevo certo che morisse.

«Ti ringrazio.» Si richiuse la porta alle spalle, liberandosi del travestimento carnevalesco.

«Che ci fai qua?» Acida come un limone appena colto dall’albero. Non se lo meritava, è vero, ma le parole erano un fiume in piena ormai. A quanto pareva, la mia mente non voleva seguire la via della felicità: sebbene non fossi impulsiva, ma pacata e riflessiva, aveva prevalso la parte arrabbiata.

Il bello era che Dylan non se lo aspettava.

«Come? Io affronto il cuore della tempesta per venire a trovarti e tu mi tratti così?» Faccia da cucciolo bastonato: mode ON.

Non aveva torto e io mi stavo comportando troppo da stronza, pur avendo detto solo poche parole. «Scusa, non volevo.»

Non hai altro da dire, Miss Irritabilità?

«Tranquilla», mi sorrise con quel suo modo da furbo, «il tuo umore schizzerà alle stelle dopo la notizia che sto per darti!»

Quanta euforia. «Quindi non sei qui per recuperare la seduta?»

«Quello può attendere, mister», disse, stringendomi le spalle con quelle mani grandi e calde, «Voglio andare a fare un piercing.»

Che?! Quella era la grande notizia?

«Mmh, contenta per te. Perché non trovo alcun collegamento con il mio umore?»

«Ah già. Che ne dici di unirti a me?»

«Cosa?!»

«Ma sì, dai! Sarà divertente!»

«Tu soffri di qualche malattia rara, Dylan. Non ho intenzione di bucarmi il corpo per farmi di eroina, figuriamoci se mi ci faccio infilare un pezzo di ferro!»

«Andiamo, non sentirai dolore! È esattamente come se stessi facendo un buco per gli orecchini. Non cambia nulla, a parte la posizione del foro, ovviamente.»

«Appunto», gli feci notare, spostando i capelli e mostrando l’orecchio privo di accessori.

«Cazzo», strabuzzò gli occhi, «non hai mai fatto i buchi nemmeno lì? È piuttosto grave la tua situazione.» Mi squadrò attentamente, con espressione clinica.

«Non è grave! È solo che... non ho mai avuto occasione di farli, tutto qua.»

«Bene. Ecco la tua occasione.»

«Non se ne parla, Dylan. Non mi convincerai a venire con te.»
 


-------------------------------------------------------------------------------
 


Come fossi finita in un studio pieno di ragazzoni tatuati e bucherellati, non chiedetemelo.
So solo che gli occhi di Dylan erano troppo belli mentre mi supplicava a mani giunte di accompagnarlo in questa folle impresa, dato che, a suo dire, non ce l’avrebbe mai fatta senza di qualcuno al suo fianco.

Naturalmente la mia testolina pazza aveva inteso quel «non ce la farei mai senza qualcuno al mio fianco» con «non ce la farei mai senza di te».

Ed ecco il motivo principale della mia presenza lì. Poi, in secondo luogo, avevo pensato che in fondo poteva rivelarsi un’esperienza piacevole.

Si vede proprio che non sai a cosa vai incontro...

E poi, dulcis in fundo, mi esaltava il fatto che l’avesse chiesto a me e non alla sua ragazza. O magari gliel’aveva anche proposto, e magari lei era stata più forte di me, desistendo.

A quel pensiero mi rabbuiai, mentre una voce profonda chiamava il nome di Dylan.

Era il nostro turno e io ero nel panico più totale.
 




Unknown Voice:
Ciao a tutti! Con un ritardo decente sta volta, ce l'ho fatta!
Spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento. E vi ringrazio per le recensioni dello scorso capitolo, non ne avevo mai raggiunte 6 :) Continuate così, le recensioni mi fanno sempre bene!
Cosa accadrà nel prossimo capitolo? Chi lo sa? Questo era solo di passaggio, ecco... le cose si faranno più interessanti dopo ;)
Alla prossima,
Unknown Device.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Settimo. Faith ***




Capitolo 7


Faith
 

 
«Have faith in me
 Cause there are things that I've seen I don't believe
 So cling to what you know and never let go
 You should know things aren't always what they seem.»

- Have faith in me, A Day to Remember

 
 


Era il nostro turno e io ero nel panico più totale.

«Andiamo, mister, tocca a noi», m’incitò Dylan, guardandomi speranzoso.

Probabilmente notò la mia espressione allarmata – con la quale avrei potuto far concorrenza ad un’attrice di film horror – poiché prese la sedia e mi condusse nella stanza adibita a laboratorio perfora-uomini.
 
La porta alle nostre spalle fu chiusa dallo stesso uomo che ci aveva chiamato. La visione delle pareti abbondantemente tappezzate di foto alquanto macabre e raccapriccianti per i miei gusti mi fece sbiancare.

Ma erano impazziti forse? Chi mai avrebbe il piacere di farsi un buco sulla guancia, santo cielo? E quello? Era un piercing sotto l’ascella?!

Iniziai a sudare. «D-Dylan... io non so davvero cosa ci faccio qui.»

«Sei venuta a fare un piercing, ricordi?» Il suo tono avrebbe potuto convincere chiunque, tranne una mezza pazza come me in preda ad un attacco di panico.

«N-no, te lo puoi scordare. Non mi faccio bucare la pelle da questi qui», puntai con l’indice l’omone già conosciuto ed un altro tizio simile al primo, solo in versione ridotta.

«Honey... ascolta: io non voglio costringerti a fare nulla, sia chiaro. Solo che... quando mi è venuta quest’idea – folle, lo ammetto – ho subito pensato che saresti stata la compagna perfetta per un’esperienza così. Ora che ci penso, nella mia mente la situazione era al contrario: io tremavo di paura e tu mi incoraggiavi», sorrise apertamente guardando prima me e poi gli altri due tizi, che ricambiarono con una risata sguaiata.

«E io ti ringrazio per questo, Dylan», gli misi una mano sulla spalla, giacché si era abbassato alla mia altezza da gnomo, «ma non credo di farcela. Tu sai che sono già stata ‘aperta’ abbastanza in passato e, detto sinceramente, l’idea di ripetere l’esperienza non mi alletta.»

A quel punto, il ragazzo di fronte a me parve riprendersi dallo stato di ebbrezza in cui si trovava. «Hai ragione. Non so che mi sia passato per la testa, ti giuro. Ma che minchiate assurde vado a pensare? Io nemmeno lo volevo un piercing...» , si passò una mano fra i capelli, scompigliandoli, «Solo che, non so... pensavo che ti avrebbe fatto piacere infrangere la tua monotona quotidianità, una volta tanto. Fare qualcosa di diverso, insomma...»

Quella frase mi colpì. E tanto.

Lo aveva fatto per me. Lo aveva pensato solo per me.

Wow, che uomo!

Prima che mi scambiassero per un manga giapponese, tanto i miei occhi erano diventati lucidi, ostentai un sorriso e parlai: «Hai fatto bene a pensarmi, lo sai?»

Potevi sforzarti di più. Ora penserà che sei una snob narcisista. Brava!

«Eh?» Non aveva capito, ovviamente.

Prima che potessi spiegare, continuò: «Jim, scusa per averti fatto perdere tempo, ma abbiamo cambiato idea. Sarà... per un’altra volta», asserì Dylan, più per convincere se stesso che il tale Jim.

«Tranquillo Dylan, quando vuoi noi siamo qui.»

«Aspetta!», gridai forse troppo animatamente.

«Cosa?»

«Hai fatto bene a pensarmi perché... credo che la tua sia un’idea tanto scema quanto fantastica. Credo di potercela fare», affermai seria, per poi sorridergli a trentadue denti.

«Oddio, davvero?» Sul volto di Dylan apparve un sorriso compiaciuto.

«Mh-mh», annuii.

Mi abbracciò di slancio, seppure la sedia fosse leggermente d’ostacolo.

«Ecco perché sei così straordinaria», mi sussurrò fra i capelli, prima di staccarsi e sorridere ancora.

Avvampai all’istante, torturandomi le mani con le mie unghie quasi inesistenti.

«Bè, allora... facciamolo!», Dylan scrollò le spalle con fare disinvolto. In fondo, di cosa avrei dovuto preoccuparmi? Avevo superato prove ben più dure di quella; un piccolo foro non avrebbe dovuto spaventarmi affatto. E poi... c’era Dylan con me, e quello bastava.

«Bene. Chi è questa bella ragazza?»

«Lei è mister», disse tranquillo Dylan, precedendomi.

«Honey», lo corressi, stringendo la mano dei due uomini.

Sorrisero entrambi, poi colui che si chiamava Jim iniziò a spiegarci: «Dunque ragazzi, volete dare un’occhiata all’album, giusto per avere un’idea? O avete già in mente dove farlo?», Jim ci guardò, in attesa.

«Io sì. Voglio un labret laterale», disse fiero Dylan.

«Un che?» Ed ecco che la grande esperta di piercing che c’è in me esce fuori dalla tana.

«Labret. È un piercing sul labbro inferiore; io lo vorrei fare a destra.»

«Oh», risposi soltanto, immaginando Dylan con un coso sulla bocca. Storsi il naso.

«Io... non saprei...» Guardai Dylan in cerca d’aiuto.

«Lo so che hai ancora una paura cane, mister», scherzò dandomi un buffetto sul braccio, «quindi ti consiglio qualcosa di semplice. Tipo un tragus, magari.»

«Un che?» Ecco che arriva l’esperta di piercing, parte seconda.

«Eccolo, guarda», Jim mi mostrò una foto sull’album. Rappresentava l’orecchio di una ragazza traforato da un solo buco, posizionato ‘all’entrata’ dell’orecchio. Non era male, anzi era proprio carino.

«Si chiama tragus perché si trova sul trago, che è una parte del padiglione auricolare», spiegò Jim.
Doveva saperne molto su quel genere di cose.

«Jim, ma scherzi? Hai davanti a te un piccolo genio della scienza. Pensi che mister non sappia già tutte queste cose?»

Quasi mi commuovevo. «È un complimento?», chiesi alzando le sopracciglia.

«Bè, è la verità.»

Jim rise mentre riponeva l’album in un cassetto metallico.

«Allora, chi inizia?» Ed ecco la grande domanda.

Immagino che cominci lui, da gran galantuomo quale è. O dovrebbe essere, insomma.

«Mister, a te l’onore.»

Ti pareva.

«Dylan!»

«Ehi, sta’ tranquilla. Non sentirai alcun dolore. Tu sei una roccia, non puoi farti indietro di fronte ad una stupidaggine del genere», Dylan parlò sottovoce, puntando le sue iridi verdi nelle mie.

«Certo che no», gli sorrisi, «ma tu rimani un bambinone piagnucolone... senza palle, per giunta.»

Sgranò gli occhi, sorridendo. Di rimando, gli feci una boccaccia.

«Quello puoi controllarlo quando vuoi. E non stupirti d’esserti sbagliata, poi.»

Fu la mia volta di spalancare gli occhi, inorridita.

Bè, non proprio inorridita...

«Va bene, Jim, procedi», dissi pur tenendo ancora lo sguardo furioso fisso sul calciatore da strapazzo.

«Che ragazza!», fu il commento del tizio, che nel frattempo si era infilato un paio di guanti in gomma.
Sentii subito il cuore accelerare la sua corsa, segno che – nonostante il mio ‘coraggio da leoni’ – la fifa incombeva minacciosa. Avevo bisogno di qualcuno che mi sostenesse, ne sentivo la necessità. E non perché non avrei saputo cavarmela da sola, piuttosto perché sapevo che quel qualcuno ci sarebbe stato. Quel qualcuno che si era avvicinato già a me – quasi a capire la mia muta richiesta – e che mi stava sorridendo incoraggiante.

«Dylan», lo chiamai, senza nemmeno saperne il motivo.

Di tutta risposta, Dylan puntò i suoi occhi nei miei. Poi, accennando un timido sorriso, abbassò lo sguardo. Feci altrettanto, notando che stava intrecciando la sua mano alla mia.

In un’altra situazione – e magari anche in altrettanto ambiente – avrei potuto facilmente pensare che quello era un misero quanto timido tentativo di approccio, un modo per provarci, insomma... Ma in quel frangente, tutto ciò a cui riuscii a pensare fu: fiducia. Sentivo che potevo fidarmi di lui, lo percepivo dal suo sguardo penetrante e dal calore che la sua mano emanava. Non era un modo come un altro per approfittare di me, era solo un tentativo d’aiuto. E io lo stavo accettando. Lo avrei accettato sempre, da lui.

In quel momento, mentre un leggero  pizzicore mi pervadeva in tutto l’orecchio, pensai che potevamo costruire per davvero una bella amicizia. Finalmente avrei potuto avere un amico, una persona fidata su cui contare. 

«Ecco fatto.» Le parole di Jim mi ridestarono.

«Tutto qui?»

«Ragazza, ci credo che non hai sentito nulla! Io sono il più bravo nel mio mestiere e poi... il bel faccino di Hamilton è sempre un ottimo diversivo!», rise di gusto Jim.

«Cosa? Sono stata a fissarti tutto il tempo?!» Che umiliazione.

«Saranno stati due minuti scarsi, mister... e comunque sì, non mi hai staccato gli occhi di dosso nemmeno per un nanosecondo.» Ma che faccia tosta!

«Merda», sibilai a denti stretti, causando comunque la risata di Dylan.

«No problem. Lo sai che le tue attenzioni mi lusingano», mi sussurrò di rimando, facendo spuntare un ghigno odioso sul suo viso. Era così bello quando sorrideva normalmente, accidenti!

È bello anche quando non sorride, fidati...

In presenza di Dylan era sempre più facile che la parte perversa di me prendesse il sopravvento, il che non andava affatto bene.

«Togliti quel ghigno dalla faccia, mister simpatico: la tua bocca sta per essere trafitta da un ago», sibilai forse un po’ troppo acidamente.

«Già», fu l’unica risposta di Dylan, che improvvisamente aveva mutato il suo colorito da un rosato umano a un bianco lenzuolo.

«Dylan? Ehi, ci sei?» Dallo sguardo perso nel vuoto si sarebbe detto di no.

Gli sventolai una mano davanti al viso, al che egli tornò in sé. Più o meno.

«Allora, sei pronto?», gli domandai ulteriormente, giusto per essere sicuri. La sua faccia ora non trasmetteva tutta la sicurezza di poco prima.

«C-credo... credo di sì.»

«Credi? Dylan, devi esserne sicuro.» Stava di certo avendo un attacco di panico.

«Io... non lo so...»

A quel punto decisi che la parte peggiore di me doveva venire fuori. Per il bene di Dylan e per il mio, in parte.

Lo tirai a me, lontano dagli sguardi dei due ‘artisti’. Non che se ne stessero fregando qualcosa, ma era meglio evitare.

«Dylan, guardami», gli ordinai, e lui obbedì. Aveva degli occhi stupendi, specialmente in quel momento; sembravano impostati in modalità ‘cucciolo di labrador’.

«Ascolta: mi hai fatto attraversare mezza città sotto la neve per questa tua folle idea. Hai fatto iniziare me per prima, mi hai fatta cagare addosso di paura ma mi hai saputo incoraggiare. Quindi ora, ti prego, tira fuori le palle che affermi di avere e fatti fare questo maledetto buco. Voglio uscire di qui con la certezza che ho qualcosa in comune con te, anche se quel qualcosa è uno stupido piercing. Soprattutto contando che mio zio deve saperlo solo se è questione di vita o di morte. E in ogni caso il responsabile sei comunque tu. Ci siamo capiti?» Parte di quelle cose le pensavo davvero, quindi mischiarle per spaventarlo e mettere in ballo anche Cedric era stata una buona idea, considerando la sua espressione.

«Cazzo, mister. Tu sì che sai come tirare fuori il meglio di un uomo! Grazie mille», disse sbalordito, pizzicandomi la guancia.

«Figurati. Ti ho reso il favore.»

«Già. E ricordami che una volta a casa dobbiamo discutere sulla questione ‘linguaggio volgare nelle signorine’. Sei così provocante quando dici le parolacce!» Il tono serio che aveva assunto scomparve dopo due secondi buoni, lasciando il posto ad una risata a dir poco fragorosa.

Lo guardai contrariata, trattenendo le risa.

«Scherzo, scherzo. Però grazie ancora.»

«Prego ancora.»

«Allora, Dylan? Ho dei clienti che aspettano», la voce di Jim ci richiamò alla realtà.

«Fammi ciò che vuoi. Sono tutto tuo, Jim.»

«Non sia mai. Io mi limito a farti un forellino, per il resto credo che la ragazza se la cavi piuttosto bene», ammiccò in direzione di Dylan, che intanto si era posizionato sulla poltrona.
Che cosa? Stava forse insinuando che facevo qualcosa con Dylan? Cioè, insomma... facevo qualcosa, ma non quella cosa!

Dylan mi precedette nel rispondergli. «Non dubitarne, Jim. La mia mister è una tosta.»

Non era esattamente quella la risposta che avrei voluto dare, quanto piuttosto controbattere sul fatto che io e Dylan non eravamo quasi niente.

Però ‘la mia mister’ era qualcosa di altamente... intimo. Era possessivo, probabilmente se fosse stato un altro gli avrei dato del meschino materialista, poiché il possesso riguarda solo gli oggetti... ma Dylan era stato così spontaneo, così sincero, che non mi sarei mai sognata di correggerlo. Anche perché mi faceva piacere da morire.

Non trovai traccia di derisione o scherzo nel suo sguardo quando pronunciò quelle parole, perciò ne dedussi che era stato davvero sincero.

Sorrisi senza aggiungere altro, poiché in quel frangente le parole sarebbero state superflue. Vidi distintamente il suo sorriso che s’allargava sempre più nonostante un affilatissimo ago stava trapassando il suo labbro inferiore. Mi guardava contento, quasi fiero. Fiero di me, di lui, non saprei dirlo. Ma era felice, e guardava me. Qualcosa doveva pur significare.

Quando Jim gl’infilò un anellino metallico nel foro mi ricordai di avere finalmente qualcosa in comune con lui, la quale ancora non avevo ammirato. Andai di fronte allo specchio e osservai il minuscolo brillantino blu che scintillava sul mio orecchio.

Dylan mi raggiunse, sorridendomi ancora attraverso lo specchio. Di riflesso lo imitai, alzando un braccio. Gli lasciai uno schiaffetto sulla guancia.

«Il piccolo Dylan è cresciuto!», esclamai sarcastica, ma ancora sorridente.

«Oggi ho scoperto che sai essere parecchio tosta, anche a parole. Ricordami di aggiornare il mio vocabolario delle volgarità, sono sicuro che ne sai più tu di me.»

«Ovvio che sì», disse con finto fare altezzoso.

«Dylan, ricordate di disinfettarli ogni giorno per almeno due settimane. Poi potrete anche cambiarli», disse Jim dal fondo della stanza.

«Certo, Jim. È perfetto.»

«Sembri proprio un vero adulto, non c’è che dire...», continuai a prenderlo in giro.
Dylan si mise a ridere. Quella era la risata che mi piaceva. Quella che ti scalda il cuore e le membra.

«Dylan, vieni un attimo?», Jim lo richiamò.

«Arrivo», disse subito. Poi continuò, rivolgendosi a me e abbassando di qualche ottava la voce: «Sei una mister bastarda, tu.»

Scoppiai a ridere. Non mi era mai capitato di ricevere ‘insulti’ così pesanti in tutta la mia vita.

Di certo quello sarebbe stato il primo di una lunga serie.
 

 
*********
 
 
«Ma è normale che mi senta pungere?»

«Sì, mister, keep calm. Jim ha detto che deve passare un po’ prima che il prurito sparisca.»

Eravamo sulla strada del ritorno e passeggiavamo sulle strade imbiancate dalla tempesta fortunatamente terminata.

«Ricevuto.»

«Comunque... a proposito del mio piccolo attacco di panico in laboratorio... ti prego di non farne parola con nessuno.»

«Oh, non senza prima aver ottenuto qualcosa.»

«Cosa? Ti darò tutto, faro ogni cosa che desideri... ma non dire ad anima viva che stavo quasi per frignare come una ragazzina lì dentro. Morirei piuttosto che diventare lo zimbello della città.»

«Sul serio t’importa così tanto di ciò che pensa la gente? A tal punto?»

«Bè, non a tal punto... però pensa che vergogna se lo venissero a sapere i miei amici, o i miei compagni di squadra!»

«Vuol dire che non sono veri amici e che non ti rispettano davvero.»

«Giusto. Ma so come vanno queste cose... te lo ricordano ogni volta che ne hanno l’opportunità.»

«Non permetterglielo, allora.»

«Che vuoi dire, mister?»

«Ricorda loro che sì, hai avuto un attacco di panico, ma che hai anche saputo affrontarlo a testa alta e superarlo. È quello ciò che ricordano, se ti rispettano. Altrimenti, per me, se ne possono andare tutti a quel caro bel paese.»

«Wow, non l’avevo mai pensato da questo punto di vista.»

«Sai com’è... sono piena zeppa di persone che ricordano solo la parte negativa di me», sorrisi amara.

«Potrei dirti che ti capisco, ma in realtà non è così. Non ci sono passato e non posso che ammirarti per quello che sei.»

Quelle parole furono un toccasana per il mio umore che andava sempre più a scendere. «Grazie. Credo che tu sia uno dei pochi.»

«Onorato di esserlo, mister.»

«Sai cosa? Dimostrami che il parere della gente non conta per te. Non a tal punto, almeno.»

«Cioè? Cosa dovrei fare?»

«Portami in mezzo alla strada.»

«Che? Mister, è pericoloso. Se passa una macchina c’è praticamente il cento per cento di possibilità che ci investano, con tutto questo ghiaccio!»

«Stai scherzando? Hamilton, non è questo il momento di far uscire il tuo lato di statistico matematico. Quindi o lo fai tu, o lo faccio sola.»

«Okay...», mi spinse sull’asfalto, parandosi di fronte a me. «Ora?»

«Al mio tre, gridiamo insieme che abbiamo avuto un attacco di panico.»

«Sei impazzita?»

«Affatto.»

Mi guardò di traverso, poi diede un’occhiata intorno. Non c’erano molte persone. Era una strada periferica quella, e la gente era impegnata negli acquisti natalizi in centro.

«Va bene, accetto la sfida.»

«Perfetto. Allora... uno.»

Si accovacciò fino alla mia altezza. «Due.»

Aggrappandosi ai manici della sedia, si spinse ad un soffio dalla mia faccia. «Tre

«HO AVUTO UN ATTACCO DI PANICO!», lo gridammo esattamente insieme, scoppiando a ridere un secondo dopo. Ci guardammo per qualche istante ancora, tutti ansimanti, prima che Dylan mi avvolgesse in un caldo abbraccio. Un abbraccio fatto di fiducia, di gioia, di promesse. Di inizio.







Unknown Voice:
Buonasera!
Eccoci con un nuovo capitolo! Vi ho fatto attendere parecchio, lo so, però spero proprio che ne valga la pena. Questo è uno dei capitoli che mi sono divertita maggiormente a scrivere. Dylan e Honey sono qualcosa di fantastico insieme, io mi ci sono affezionata davvero. Quasi quasi mi commuovo xD
Comunque sia, spero che voi lettrici ci siate ancora e che continuiate a farmi sapere cosa ne pensate. Vedo che finalmente qualcuno si fa sentire :) Sono contenta!
Bene, che dire... con le vacanze il tempo dovrebbe esserci, quindi conto di postare prima di un mese xD
Grazie ancora di tutto e... ci si legge alla prossima :)
Un abbraccio,
Martina.


PS: se qualcuna di voi volesse passare dall'altra mia storia, ecco il link:
Freckles

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Ottavo. Sorprendente ***




Capitolo 8


Sorprendente

 

 

«I can’t get no! Na na naa... I can’t get noo! Na na naa... oh no no no!» Il mio canto da usignolo – o le mie grida da cornacchia, dipende dai punti di vista – riempiva il salone, accompagnando le note di ‘Satisfaction’ che rimbombava dalle casse di zio Cedric ad un volume probabilmente illegale.

A malapena sentii il telefono squillare, quindi.

«Pronto?»

«Ehi, principessa... che stai combinando?» Possibile che il canto da cornacchia si sentisse perfino dal suo ufficio?

«Ehm, niente... ascolto un po’ di buona musica prima che arrivi Dylan.» Tralasciai la parte in cui nominavo le sue adorate casse; mi avrebbe trucidata se avesse saputo che le usavo senza il suo permesso.

Quanto sei diventata trasgressiva...

«Ah ah, capito... farò il più tardi possibile, allora

«Cedric! È solo fisioterapia», sibilai piuttosto imbarazzata. Ancora non mi ero abituata a fare certi discorsi con zio Cedric. Sarebbero stati molto più fluidi se il protagonista di tali discorsi non fosse stato Dylan. «Vedi di tornare per l’ora di cena piuttosto, il frigo grida pietà e sai bene che io non so far bollire nemmeno l’acqua.»

«Lo so, lo so. Farò come vuoi bambolina, sta’ tranquilla. Un bacio

«Ti voglio bene, a dopo.»

Dopo dieci secondi contati, giusto giusto necessari per far sussurrare un suadente ‘satisfaction’ a Mick Jagger, un nuovo suono interruppe la mia momentanea furia da rockstar.

Scivolai con la sedia verso la porta e la aprii, dimenticandomi completamente di spegnere la musica.

E che cavolo! Un momento come quello non poteva essere interrotto più di una volta!

«Mmm, Rolling Stones... molto bene mister. Vedo che hai buoni gusti musicali.» Tipica entrata in stile Hamilton.

«Ottimi, direi. E ciao, comunque.»

«Ciao a te», disse, depositandomi un leggero bacio sulla fronte.

E quant’è casto lui, invece...

«Ti prego, dimmi che non andremo in qualche posto compromettente anche oggi. Ti ricordo che siamo indietro con la fisioterapia, l’algebra non si insegna da sé e – dulcis in fundo – il tragus dopo una settimana continua ancora a pizzicare. È normale?»

Il suo anellino argenteo invece faceva bella mostra sul suo labbro inferiore e lui pareva non provare fastidio.

«Mmm... rispettivamente: sì, sì e sì.»

«La domanda era riferita solo al piercing!»

«Oh. Allora sì.» Era irrecuperabile.

«Facciamo in fretta. Vorrei andare al centro commerciale per cercare un vestito adatto al pranzo di Natale.»

«È già Natale?»

«Sì Dylan. Tra una settimana, precisamente.»

«Mi sono perso qualcosa ultimamente...»

«Ho notato», dissi in modo sarcastico, «quindi diamoci una mossa così potrò dedicarmi al tanto amato shopping!» Il sarcasmo è sempre stato il mio forte, non c’è niente da fare.

«E con cosa ci vorresti andare? Col pullman?»

«Bè, avevo intenzione di chiedere a Cedr-»

«No, macché, tuo zio ha i suoi impegni. Se proprio insisti, ti ci porto io al centro commerciale.»

«Dylan, io non ti ho chiesto nulla.»

«Lo so, lo so... ma, ehi: non è gratificante per un uomo offrirsi volontario per portare una donna a fare shopping. Ti immagini che delirio? Quindi facciamo pure finta che tu mi abbia implorato di accompagnarti, ok?»

«Ma guarda che posso andarci pure con Ce-»

«Non se ne parla. Ti ci porto io.»

Era molto strano e sorprendente. Nella maggior parte dei casi – come lui stesso aveva notato – un uomo si sarebbe detto allergico allo shopping, pur di non accompagnarci una donna. Quindi... perché lui insisteva tanto? Quella domanda bastò per farmi accettare l’offerta, poiché ero sicura che proprio nel luogo maledetto – altrimenti conosciuto come grande magazzino o Western Mall – avrei trovato la risposta. Sesto senso di donna.

Oppure vuole solo essere carino con te e darti una mano. Perché, diciamocelo: Cedric tornerà per cena e dopo una lunga giornata di lavoro non potrai ossessionarlo con la tua voglia di shopping.

Tutto molto vero, ma propendevo per la prima ipotesi.

«Okay...»

«Bene. Allora oggi facciamo qualcosa di molto semplice per la tua Dylanterapia.»

Quel nome me l’ero quasi dimenticato! «Cosa?»

«Hai mai giocato alla bicicletta da bambina?»

«Sì, certo. Ti stendi per terra e pedali con...» Mi bloccai. L’avevo fatto sì e no un centinaio di volte quel gioco, con le mie amiche del cuore e soprattutto con i miei genitori. Io e papà ci stendevamo sul loro enorme letto e pedalavamo per ore, tra scherzi e risate. Mamma preferiva l’erbetta all’inglese che c’era in giardino: passavamo i migliori pomeriggi a rotolarci in quell’erba soffice.

Sospirai. «Dylan, non mi sembra il caso. Credo che sia troppo presto, non so se ci riesco...» Era quella la mia paura più grande. Dopo l’incidente non l’avevo più fatto e avevo il terrore di non poterci più riuscire. L’idea di riprovarci mi spaventava.

«Ma sì che ce la fai! Dai, ti aiuto io.»

«Dylan...» Era incredibile come, ogni qual volta cantilenassi il suo nome senza poi dire più niente, lui capisse al volo che c’era qualcosa che non andava.

«Ehi, mister. Che ti succede?»

«Non voglio fare la bambina frignona... ma questo era un gioco che facevo sempre con i miei e ho una paura cane di non poterci più riuscire. Non so perché, ma è come se tradissi ciò che mi hanno insegnato...»

«Oh», disse scrutandomi con quegli occhi smeraldini, «ma non credi che, se almeno non ci provi, non potrai mai saperlo?»

«Ho paura, Dylan. Una fottuta paura, ad essere sinceri. Non mi chiedere il motivo, ma ho passato poco tempo con i miei, ho potuto imparare poche cose da loro e... questa è una delle poche. Non posso accettare di dimenticare come si fa.»

«Non lo accettare, allora.»

«Non dipende da me, Dylan!» Avevo alzato il tono di qualche ottava, anche se la voce andava scemando sempre più.

Negli anni successivi al mio coma avevo avuto qualche crisi; nulla di serio che avesse comportato medicinali o dottori, ma comunque avevo sentito il bisogno di sfogarmi in certi momenti. Avevo visto uno psicologo per tre anni, solo perché la riabilitazione comprendeva sia quella delle gambe che quella mentale. Non mi ero sentita meglio col suo aiuto, non era cambiato granché; mi ero sfogata, sì, ma non poter ricordare l’incidente era un ostacolo insormontabile per la buona riuscita della terapia. Quindi, con il consenso di zio Cedric, avevo deciso di interrompere le sedute, poiché non le ritenevo più così necessarie.

Quella che stavo avendo non era certamente una di quelle crisi, ma poco mancava che lo diventasse. Ed io non ero assolutamente pronta a trascinare Dylan nei miei problemi, o almeno non più di quanto già non ci fosse.

Non se lo meritava, soprattutto.

«Okay... però calmati mister, non posso vederti così.»

Il suo tono dolce e quegli occhioni verdeggianti che prima o poi avrei strappato con le mie stesse mani furono un toccasana per il mio malumore.

«Sì, scusa per la scenata.»

«No, scusami tu. Solo che... che cazzo, dico io! Ogni volta che propongo qualcosa di scemo penso di essere io quello non all’altezza della situazione. Credi che sia facile preparare gli esercizi giusti per la fisioterapia? Bè, te lo dico io: no, non lo è. Non lo è per niente. Perché devo inventarmi mille cose per rendere il tutto più semplice, più divertente e soprattutto per non fartelo pesare. Solo che quando vedo che tutti i miei sforzi sono stati vani... non lo so, mi sento ancora più fallito di quanto già non sia.»

«Tu non sei affatto un fallito, Dylan.»

Fece un sorriso amaro. «Già.»

Si vedeva lontano un chilometro che quella parola era uscita dalla sua bocca in maniera quasi meccanica, come se fosse una maniera per difendersi da qualsiasi intrusione nella sua misteriosa vita.

«Dobbiamo smetterla di fare sempre così. Tu proponi una cosa, io rifiuto perché ho paura, tu mi fai un discorso e io cambio idea. Siamo diventati davvero così monotoni?!»

Il mio tentativo di smorzare la tensione andò a buon fine. «Macché! La noia non invaderà mai le nostre menti geniali, mister.»

«Lo spero, Hamilton!»

«Quindi... ci vuoi provare?»

«Sì. Tanto cos’ho da perdere?»

«È questo lo spirito giusto!», e così dicendo mi sollevò di peso dalla carrozzella – come ormai aveva fatto tante altre volte – e mi depositò sul tappeto bordeaux che troneggiava al centro del salone.

«Bè, sai che fare!»

«Okay. Ma fa’ piano! Le tue gambe sono piuttosto lunghe e allenate, se non sbaglio.»

«Ahimè, mister. Se fossi stato ciccione ti sarebbe piaciuto di più?»

«Può darsi...»

«Allora vedrò di ingozzarmi a dovere durante queste vacanze.»

Mi guardò col suo solito ghigno divertito, unendo poi i suoi piedi scalzi ai miei, che invece erano coperti da un paio di calzini a strisce.

«Tu porti i calzini con questo caldo? Mister, qui dentro ci saranno trenta gradi sicuri!»

«Sai com’è... ho la circolazione di una vecchia!»

A quella battuta staccò i piedi dai miei e si buttò su un fianco, tenendosi la pancia. «Mister, sei terribile.»

«Che c’è? Ho detto la verità. Quando le gambe sono sempre ferme la circolazione rallenta. Tu, grande sportivo, dovresti saperlo!»

«Già, non posso darti torto. Ma dentro questa casa il riscaldamento è comunque troppo elevato.»

«Non sono un’amante del freddo.»

«Lo vedo. Dai, togli questi affari», asserì, per poi sfilarli lui stesso. Il contatto con le sue mani calde fu a dir poco sorprendente. Era una stufa ambulante!

«Così va meglio.»

Dopodiché, prendemmo a ‘pedalare’ come solo due bambini farebbero, prendendoci in giro se ad uno dei due scappava la presa sui piedi dell’altro.

Avevo immaginato di sentire la nostalgia di quando al posto di Dylan c’erano stati i miei adorati genitori, ma ciò non avvenne. O per lo meno avvenne, ma non nella maniera tragica in cui me l’ero immaginato. La spensieratezza di Dylan, le nostre risate come al solito avevano spazzato via ogni brutto pensiero.

Le gambe facevamo male, tanto male; non le avevo sottoposte mai ad uno sforzo così cospicuo dopo l’operazione. Un dolore molto più acuto si fece poi strada nella mia coscia, costringendomi a dare un grido di pura sofferenza.

«Honey, Honey! Che succede?», Dylan mi chiamò, ma la fitta diventava così intensa che facevo fatica anche a parlare.

«La... la gamba...», mormorai ad occhi chiusi, mentre mi stringevo la coscia destra.

«Okay, niente paura. È solo un crampo.»

«Come fai ad esserne sicuro?», domandai con voce isterica.

«Ne ho avuti a palate prima di diventare un atleta professionista. E li ho tuttora, ogni tanto.»

«E se mi fossi bruciata la possibilità di camminare con questo crampo?!» Pessimismo del cavolo, sempre nei momenti migliori!

«Ma no! Fa’ ciò che ti dico e vedrai che passerà subito.»

«Okay.»

Dylan mi sollevò per la seconda volta in quel pomeriggio, spostando il mio corpo dal ruvido tappeto alla morbidezza del divano. Mi poggiò con dolcezza, quasi fossi una bambolina di porcellana. Quel gesto, seppur stupido e del tutto disinteressato, mi fece sorridere.

Probabilmente se n’accorse, poiché non mancò di commentare con una delle sue. «Mister, guarda che ancora non ho fatto nulla. Perché sorridi?»

Di tutta risposta lo guardai in tralice.

«Ah già, dimenticavo: io rendo migliore la vita della gente con la mia sola presenza», si adulò, ghignando.

Scossi la testa, divertita. Ormai non c’era via di ritorno per lui.

Si sedette di fianco al mio corpo steso e immobile, scrutando le mie gambe come se da esse potesse comparire magicamente la risposta al problema. Poi sospirò, guardandomi quasi colpevole.

Con movimenti incerti, a tratti bruschi, prese tra le mani la coscia ancora dolorante, facendola dondolare in avanti e all’indietro sotto il tocco delle sue mani – ovviamente bollenti.

Poi la posò nuovamente diritta sul divano. «Sappi che tutto ciò che faccio, lo faccio per il tuo bene.»

Non seppi rispondere alla sua affermazione, che pareva piuttosto una giustificazione che altro.

Lo guardai interrogativa, al che si sporse verso la gamba stesa e iniziò a passavi sopra le mani, in quello che comunemente si definirebbe ‘massaggio’.

Avvampai all’istante, avvertendo la sensazione di calore pervadere tutto il mio corpo e non solo la gamba. Non era il massaggio in sé a provocarmi certi sbalzi di temperatura – poiché Matilda me ne aveva fatti tanti in precedenza – quanto piuttosto il fautore di tali movimenti.

Era bravo, non c’era che dire. Le sue mani erano esperte, avevano quella grandezza protettiva che mi rendeva le gambe molto simili a della gelatina. I polpastrelli stringevano la pelle in maniera delicata, come a darle tanti piccoli pizzicotti. Nonostante vi fosse il tessuto della tuta a fare da barriera fra la mia pelle e la sua, potevo sentire distintamente il suo tocco. E mi piaceva, diamine, mi piaceva tanto.

Chiusi di riflesso gli occhi, rilassando le membra e abbandonando il capo sul bracciolo del divano. Era così dannatamente rilassante!

Ti piace farti palpare dal corridore, eh? E brava la nostra Honey!

Non mi stava palpando! Lo aveva anche detto che era un modo per farmi stare meglio.

E stai meglio, si vede.

Colpita da quella breve conversazione con la mia coscienza bigotta, spalancai gli occhi. Trovai quelli di Dylan che mi fissavano come... come si ammira un bambino che dorme nella sua culla. I suoi lineamenti decisi si erano ammorbiditi, lasciando spazio ad uno dei suoi sorrisi sinceri e a quelle piccole rughe d’espressione ai lati degli occhi che stavo imparando ad adorare.

Come adori il resto di lui, d’altronde!

«Non vorrei interrompere il tuo momento d’estasi, ma ho come l’impressione che i crampi ti siano passati, mister.»

Rimasi allibita. Come faceva un minuto prima a guardarmi con quello sguardo da diabete e un minuto dopo a spararne una delle sue?

«S-sì. Sì, grazie. È passato.» Feci per sollevarmi, ma un leggero capogiro mi costrinse ad indietreggiare.

«Sta’ buona, mister. Ci penso io», disse divertito.

Una volta che mi ebbe riposta nella mia cara sedia a rotelle, si avvicinò impercettibilmente al mio corpo e mi sorrise. Ricambiai con una linguaccia, subito smorzata dalla sua mano che subito si chiuse sulle mie guance, spupazzandomi a dovere. Era un gesto che faceva raramente e solo quando mi comportavo da bambina durante una seduta, o magari quando cercavo di fare la sapientona su un argomento che lui ancora non conosceva. Era il suo modo di zittirmi quando sentiva che stava per esser messo nel sacco.

Solo che in quel momento io non avevo aperto bocca – se non per fargli una breve boccaccia.

«Dylan?»

«Sì, mister?»

«Quand’è il tuo compleanno?»

«Il sei di maggio. Perché?»

«Credo che ti regalerò un bidone pieno zeppo di peluche, bambolotti e cuscini vari per poterteli spupazzare quanto ti pare. Sai com’è, le mie guance non sono nate per essere strette da bambini poco cresciuti... tipo te.»

«Oh, ma sentitela! A forza di stare con me stai diventando brava!», e riecco che mi stringeva le guance in quel gesto fraterno che iniziavo ad odiare.

Gli afferrai di scatto il polso, mordendogli poi un dito.

«Ahi! Ma sei impazzita?»

«So fare di peggio, sappilo», sibilai con finta aria da strega, stringendo gli occhi.

«Ah si?»

«Certo. E ora vado a cambiarmi, sennò addio shopping sfrenato!», e così dicendo mi diressi in camera attraversando lo scivolo come una furia.

Nonostante fossi al piano di sopra, sentii perfettamente la sua voce cristallina che mi urlava. «Comunque grazie per il regalo mister, ma sappi che preferirò sempre te.»

Addio tranquillità post massaggio, benvenute maledette farfalle nello stomaco.

 

***

 

Il Webster Mall era il centro commerciale della città, l’unico presente nel raggio di venti chilometri. Ecco perché, soprattutto sotto le feste, trovarlo affollato era praticamente una banalità. Mi sarei sorpresa di trovarlo spopolato, anzi. In particolare, quella sera di dicembre pullulava di gente e circolare non era impresa facile. Figurarsi con una sedia a rotelle a carico!

Ma i due eroi non si diedero per vinti e, chiedendo permesso a destra e a manca, spingendo se necessario, giunsero affannati al primo negozio d’abbigliamento.

«Vestito ideale per il pranzo di Natale, sappi che se sei qui dentro, noi ti troveremo», asserii convinta, provocando una risata sommessa di Dylan.

«Diamoci dentro, allora!»

Entrammo nel grande locale addobbato con luci bianche e rosse; ovunque erano appesi enormi fiocchi argentei e un imponente albero di Natale torreggiava in fondo alla sala. Era un negozio in cui abitualmente non sarei mai entrata, uno di quelli per persone altolocate e decorose; preferivo quelli per giovani, con stili più casual e con prezzi decisamente più bassi.

Mi voltai, scorgendo Dylan che spingeva la sedia mentre si guardava intorno con espressione spaesata.

«Lo so, è un luogo surreale. Ma voglio che Cedric non debba sfigurare con me al suo fianco, quindi troviamo questo benedetto vestito e scappiamo.»

«Sono d’accordo. Spero solo di non dover aspettare seduto su una poltroncina mentre una cordiale commessa mi serve del the e tu ti provi migliaia di vestiti, come nei migliori film americani.»

«Lo spero anch’io.»

Mezz’ora più tardi eravamo ancora imbottigliati in quello stesso negozio, senza nemmeno l’ombra del vestito perfetto.

Gli occhi iniziavano a bruciarmi per via degli innumerevoli oggetti ricoperti di brillantini che erano presenti in quell’enorme spazio.

Dylan, che ormai si era calato più di me nei panni del cacciatore di vestiti, stava dando un’occhiata ad un vestito lungo, interamente rosso. Non era male.

«Ehi, mister. Guarda questo!», mi mostrò il vestito che già avevo notato. Gli feci un cenno d’assenso e lui venne subito verso di me.

«Lo vuoi provare?»

«Ma sì, dai. È impegnativo, ma è molto bello.»

«Ne sei all’altezza.»

Ci destreggiammo fra la calca per raggiungere i camerini. Ovviamente con un negozio così enorme, chiunque fosse stato il progettista aveva deciso di mettere a disposizione solo otto camerini per un totale di duecento persone presenti. Ci mettemmo in fila, ormai esausti.

Una voce che chiamava il mio compare ci distrasse.

«Dylan!»

Entrambi ci voltammo. Il ragazzo al mio fianco impallidì ed io non tardai ad imitarlo.

Un visino che solo una volta avevo visto, ma che subito riconobbi, mostrò un sorriso degno della migliore pubblicità di dentifricio. Tra tutte quelle decorazioni rosse, ci mancava solo quel caschetto a fare pendant.







Unknown Voice:
Heilà, gente! In edizione straordinaria e come avevo promesso in risposta ad alcune vostre recensioni, ho aggiornato non a fine mese, bensì anche prima! Due aggiornamenti in un mese sono praticamente un record *-*
Ma, a parte questo, sono contenta di aver trovato il tempo per scrivere questo capitolo, perchè è stato davvero uno spasso scrivere dei loro battibecchi. Li adoro anche per questo!
Come vedete il mistero s'infittisce - o si schiarisce, dipende - dato che la ragazza dai capelli rossi è tornata. Ebbene si, se Dylan è sbiancato vuol dire che c'è qualcosa sotto. A voi i commenti, le supposizioni, le anticipazioni e ovviamente le opinioni sul capitolo. Spero siate in tante come negli scorsi capitoli! :)
Un grande abbraccio a tutte!
Martina.



PS: per chi volesse leggere anche l'altra mia operetta:
→  Freckles   




 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Nono. Il silenzio ***


Nono capitolo

Il silenzio


 
«Non ci credo…», lo sentii sibilare tra i denti. Con un punto interrogativo enorme stampato in fronte mi voltai poi verso Dylan, aspettando stupidamente una spiegazione. Come se mi dovesse spiegare qualcosa per un semplice saluto!

Con evidente imbarazzo si passò la mano sulla nuca e, improvvisando un sorriso imbarazzato, fece un passo verso la nuova arrivata.

«Ciao…»

In tutta la mia vita, non avevo mai visto Dylan così a disagio. Certo, è pur vero che avevo imparato a conoscerlo da poche settimane, ma restava comunque uno di quei momenti epico-tragici che la vita decide di donarti raramente.

Sorrisi di riflesso: qualcosa mi diceva che quell’incontro sarebbe stato più piacevole del previsto.

«Dylan, finalmente ti rivedo! Ma dove sei finito in questi giorni?», la rossa pareva sollevata. Dylan un po’ meno.

Quindi si conoscevano e si vedevano frequentemente; Dylan aveva altri interessi oltre allo sport? Stentavo a crederci.

«Ho avuto parecchio da fare, sai com’è… le feste, i regali, la scuola», fece una piccola pausa e cercò il mio sguardo in una muta richiesta d’aiuto, «non è vero, Honey?»

Stentai a formulare una risposta di senso compiuto; non c’era nulla da fare, ogni volta che il mio nome veniva pronunciato da quel ragazzo, il mio cuore faceva una capriola.

«Ehm, si ovvio… Dylan ormai non ha più un momento libero» mi limitai a balbettare. Non avrei saputo fare di meglio; ero una pessima improvvisatrice. E comunque la sua era una bugia bella e buona! Non era forse la stessa persona che aveva ammesso, poche ore prima, di non sapere d’essere nel periodo natalizio?

«Be’, bando alle ciance… Honey, lei è Samantha», e voltando lo sguardo verso di lei, «Samantha, ti presento Honey.»

Nessun appellativo, né per me né per lei. Forse un po’ mi dispiaceva non sapere che “etichetta” avesse il loro rapporto.

La rossa mi sorrise meccanicamente, mostrando una schiera di denti a dir poco luminosi. «Piacere di conoscerti!», la sua voce squillante la faceva sembrare più entusiasta di quanto in realtà fosse.

Mimai un cenno con la mano. «Piacere mio».

Quasi non mi fece concludere la frase, che subito spostò l’attenzione verso Dylan. «Comunque quasi non ti riconosco! Non dirmi che la ragazza delle ripetizioni ti tiene tutto il tempo con sé! Perché se è così… devi ammettere che ti stai rammollendo!»

Dylan ed io sgranammo gli occhi nello stesso istante, ma probabilmente per motivi diversi.

La mia espressione doveva essere poco fraintendibile, perché Samantha, sorridendo bonariamente, continuò: «Devi sapere che Dylan è un po’ indietro con lo studio e si sta facendo aiutare da questa ragazzetta per poter recuperare…»

Ragazzetta a chi?

Evidentemente c’era qualcosa che non andava. Non dissi nulla e, proprio quando Dylan stava cercando di dire qualcosa per fermare il discorso della rossa, lei proseguì: «A sentir Dylan, è la tipica studentessa secchiona sempre chiusa in casa sui libri, occhialuta e con una marea di brufoli! E puzza anche… una tale sfigata, a detta sua!»

Rimasi impietrita per un attimo. Ma cosa stava succedendo?

Mi voltai lentamente verso Dylan, che si ostinava ancora a non dire una parola. Quella conversazione stava sfiorando l’assurdo, senza contare che avevo la sensazione di esser diventata la protagonista del discorso senza nemmeno essermene accorta.

Lo sguardo attonito di Dylan era tutto un programma: dov’era finito il ragazzo spigliato ed estroverso che tutti avevano conosciuto fino a quel momento? E fu proprio quella sua titubanza, quella sua improvvisa incapacità di improvvisazione che mi fece fare due più due.

Il mio viso si aprì quasi automaticamente in un sorriso tirato, malefico; non ero quel tipo di persona – non lo sarei mai stata – ma già che eravamo in ballo, tanto valeva ballare. Sì, volevo proprio vedere fino a che punto si sarebbe spinto Dylan, quella volta.

«Ma non mi dire! Dylan, non me ne avevi mai parlato! Dai, raccontami qualcosa su di lei, sono curiosa!», dissi con tono eloquente. Il ragazzo aveva ormai assunto varie tonalità di bordeaux, mentre la sua amica sembrava sinceramente divertita da quella scenetta, tant’è che aggiunse: «Suvvia, Dylanuccio, promettiamo di non ridere troppo!», coprendosi maliziosamente la bocca con le unghie laccate.

C’era qualcosa di strano in tutta quella situazione, qualcosa che offuscava i miei pensieri e m’impediva di ragionare con lucidità, come avrei fatto in qualsiasi altra situazione. Solo di fronte al continuo silenzio di Dylan mi resi conto di esserci caduta con tutte le scarpe; ero delusa, senza ‘se’ e senza ‘ma’. Senza rendermene conto avevo fatto entrare Dylan nella mia vita, nella mia quotidianità, così facilmente e naturalmente da non riconoscere me stessa; non ero una persona così socievole e il mio definirmi ‘riservata’ mi aveva tenuto alla larga da ogni tipo di relazione. Probabilmente l’arrivo di un amico come Dylan era stato un toccasana, l’avevo sperato, inconsciamente e per così tanto tempo, che non avrei potuto che dimostrargli tutta la mia riconoscenza, per la sua compagnia e le sue cure. E per quanto mi fossi ostinata a pensare, durante quelle settimane, che il nostro era solo un patto, che tutto sarebbe finito una volta rimessami in piedi, intimamente desideravo che quel qualcosa che stavamo costruendo – qualsiasi fosse la sua etichetta – durasse di più.

Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Già, ma ci ero arrivata troppo tardi, quella volta.

«Ma no, ragazze, lasciamo stare… Non ne vale la pena, sul serio!», asserì titubante, grattandosi la nuca ancora palesemente in imbarazzo.

La mia mente produceva segnali a intermittenza, come una lampadina che sta per fulminarsi. Il caos di quel grande salone, lo sguardo fissamente divertito della rossa, l’espressione abbattuta di Dylan, il vocio indistinto domato dagli altoparlanti che richiamavano a ripetizione continua commesse alle rispettive casse, tutto quanto stava lentamente svanendo. Era un brutto segno, era il segno: stavo per mettermi a piangere come una cretina e ciò non era assolutamente ammissibile, non in quel posto, non davanti a lui. Trovai a fatica un briciolo di lucidità cui aggrapparmi e, mentre Samantha lo stuzzicava per riuscire a carpire qualcosa in più sulla ragazzetta delle ripetizioni, con un filo di voce proferii: «Dylan, scusa ma voglio tornare a casa.»

Salutai sbrigativamente Samantha, che quasi non ebbe il tempo di rispondere al mio saluto, ché già mi ero fiondata fuori da quel luogo così improvvisamente soffocante. Nonostante ci stessi mettendo tutta la forza possibile nelle braccia, sentivo già la fatica e poco mancava che iniziassero a tremarmi violentemente le mani.

E, ciliegina sulla torta, come una stupida non avevo fatto caso ad un particolare quasi irrilevante: volevo andarmene da quel posto che era lontano chissà quante miglia da casa mia, senza contare che ero costretta su una cavolo di sedia a rotelle. «Accidenti!»

Mi fermai stancamente vicino all’ingresso del grande palazzo, rischiando anche di essere d’intralcio per chi entrava nell’edificio. Guardai il grande orologio appeso alla parete: era passato parecchio tempo e fuori doveva già essere buio. Un altro vantaggio per Honey, la viaggiatrice in carrozzella.

Chiusi gli occhi per un attimo, il tempo di riprendere il controllo e fare mente locale. Ma cosa mi stava accadendo? Ero sola in mezzo ad un mare di gente scatenata e ancora furiosa con Dylan per il suo comportamento; ed era inutile che me ne sorprendessi, perché per quanto lui avesse sbagliato e avesse parlato così male di me a quella sua amica, parte della colpa era anche mia, che come una stupida disperata avevo abbassato la guardia. Sì, la verità era che a Dylan mi ci stavo affezionando; aveva quel modo di fare tutto suo che in un modo o nell’altro riusciva a coinvolgermi, qualsiasi cosa s’inventasse. E ciò che mi faceva più rabbia era il fatto che non mi sarei mai aspettato – non da me! – di rimanerci così male. E intanto mille domande, mille dubbi affollavano il mio povero cervello; non riuscivo a capacitarmene e mi chiedevo perché l’avesse fatto, quale assurdo motivo l’avesse spinto a rendermi oggetto di derisione di Samantha e di chissà quanti altri suoi conoscenti. Perché inventarsi una cosa simile? La risposta era così ovvia, così prorompente che faticavo ad accettarla.

Lui si vergogna di te.

Era così chiaro, così dannatamente palese! Mi sorprendevo solo di non essermene accorta giusto un po’ prima. Ci doveva pur essere stato un motivo se, in tutti quegli anni, nessuna persona si era avvicinata a me per fare amicizia o solamente due chiacchiere. E di nuovo, fare due più due non era mai stato così facile.

Perché, a ben pensarci, Cedric stava con me in quanto mio parente e si poteva considerare quasi un ‘amico costretto’, e lo stesso potevo dire di Matilda. Ma ciò che più mi sorprendeva era la mia arrendevolezza, la mia totale mancanza di senno nel pensare che forse lui sarebbe stato differente. Invece no, Dylan considerava il nostro come semplice patto, ed era esattamente ciò che era sempre stato dall’inizio, come d’accordo. Allora perché me la prendevo tanto?

Forse perché…

«Honey!», come non riconoscere la sua voce? Avevo imparato a riconoscerne l’inflessione anche tra milioni di altre. Che patetica. «Ma dove diavolo stai andando? È pericoloso, non puoi tornare a casa da sola; ti riaccompagno.»

A malapena annuii, tanto ero stanca. Stanca di pensare, stanca di stare male e di sentirmi in colpa per ciò che non ero.

Inutile dire che durante il tragitto verso casa regnò un mutismo pesante e imbarazzato. Dylan cambiava quasi convulsamente stazione radio ogni qual volta iniziasse la pubblicità. In realtà era una cosa che faceva spesso quando mi scarrozzava da una parte all’altra; non sopportava il ‘blaterare continuo e inutile degli speaker’ e non si dava pace finché non trovava una canzone che gli andasse a genio. Piccole cose senza importanza, almeno era ciò che seguitavo a ripetere al mio cervello annacquato.

Aprii lo sportello dell’auto, una volta giunti a destinazione. «Aspetta, ti aiuto.»

Il suo essere così gentile e al contempo così impacciato mi avrebbe dovuto spingere a dire qualcosa, a chiedergli spiegazioni; avrei dovuto sputargli in faccia il mio risentimento e il mio affetto per lui. Avrei dovuto parlare, invece tutto ciò che riuscii a balbettare fu un «grazie» a denti stretti. Per un secondo alzai gli occhi – fino a quel momento avevo evitato bene di guardare quelle profonde pozze verdi – e ciò che vidi fu l’equivalente mentale di uno schiaffo in pieno viso: mi osservava col suo sguardo da cucciolo bastonato e, se le sue iridi avessero potuto parlare, ero quasi certa che avrebbero gridato un «mi dispiace».

Ma così non fu; rimase in silenzio e io non potei far altro che imitarlo. Avevo capito che fosse rammaricato per quella stupida situazione, avrei potuto dargli la possibilità di spiegarmi, ma le parole mi morirono in gola e probabilmente altrettanto fecero in lui. Dire che fossi una frana nel relazionarmi agli altri sarebbe stato un eufemismo, ma in quel momento capii che non ero l’unica e sola. Con quel pensiero in testa mi allontanai da lui, percorrendo il vialetto di casa mentre un sorriso amaro mi sorgeva sul viso.


---------------------------------


«Buongiorno principessa!»

Se il buongiorno si vede dal mattino, quella sarebbe stata una giornata orribile.

«’Giorno», bofonchiai, addentando al volo una brioche.

«Uh-uh… ci sono guai in paradiso?»

«Cedric, scusami ma non è davvero aria. E comunque no: nessun guaio in nessun paradiso!», cercai di essere gentile almeno con lui, dato che comunque col mio malumore non aveva niente a che fare.

Le vacanze invernali erano appena cominciate, dunque niente scuola o studio per un po’, il che per me avrebbe significato un’emerita cippa da fare per due settimane, dato che studiare, studiare e studiare era la mia maggiore occupazione da circa una vita. Nell’ultimo mese si era aggiunta la fisioterapia con Dylan – la sua Dylanterapia, come egocentricamente l’aveva denominata lui – ma dopo l’accaduto non contavo più molto sulla sua presenza.

La notte più che portare consiglio mi aveva regalato un bel paio di occhiaie violacee e un umore a dir poco pessimo; già, io e le mie sacre otto ore di sonno eravamo da sempre inseparabili. Quella volta, invece, avevo passato la maggior parte del tempo a rigirarmi nervosamente nel letto – per quanto le mie gambe mi permettessero il movimento – e a pensare a quelle ultime settimane. Non avrei mai ammesso con me stessa di aver avuto una reazione esagerata in quel centro commerciale, ma era pur vero che Dylan si era comportato da idiota e rimanere impalato e muto tutto il tempo non aveva affatto migliorato le cose. Ma la verità era che ci pensavo e ripensavo non perché la reputassi una questione di importanza nazionale – d’altronde ero una persona molto permalosa e su questo non ci pioveva –, quanto piuttosto perché raggelavo all’idea di poter perdere l’unico potenziale amico che sembrasse stare con me in maniera disinteressata, dopo anni di frustrante solitudine.

In parole povere: stavo mandando alle ortiche una probabile vera amicizia per uno stupido malinteso, una incomprensione di cui tra l’altro non eravamo stati neppure capaci di discutere. E il fatto che stessi lì ferma a far nulla mi mandava ancora di più fuori dai gangheri! Ero furiosa, con me stessa perché non gli avevo urlato contro qualcosa – nemmeno un «ciao!» isterico alla teen drama americano – e con lui che probabilmente aveva avuto paura di dire la cosa sbagliata. Sì, perché ormai mi rifiutavo di pensare che non gliene importasse nulla di me, non lo ritenevo possibile; tutto nel suo comportamento in quelle settimane mi aveva dimostrato il contrario, e di certo, per quanto cretino fosse stato a dire quelle cose sulla ‘ragazza delle ripetizioni’, non meritava di essere denigrato da parte mia.

Stavo decisamente ingigantendo il tutto. Eppure, una vocina in fondo alla mia testa mandava ancora il suo eco…

Lui si vergogna di te.

Scossi la testa, perché ormai temevo seriamente che sarebbe potuta scoppiare da un momento all’altro. Rimandai con uno «scusa zio, devo… andare in bagno» la conversazione che Cedric stava invano cercando di intavolare con me circa il vestito perfetto a cui teneva probabilmente più lui di me.

Deviai all’ultimo per la mia camera da letto, consapevole che Cedric sapesse che non sarei realmente andata al bagno.

Controllai per scrupolo il cellulare, ma niente: nessuna notifica. Circa una ventina di volte pensai di scrivergli un messaggio, scrivendo e cancellando tutto all’ultimo. Ero davvero un caso perso.

Abbandonai il telefono sul letto e decisi che era il momento di pensare ad altro; automacerarmi per tutto il giorno chiusa in camera mi avrebbe portata molto vicino all’esaurimento. Sentii il tonfo della porta che si chiudeva, segno che Cedric era uscito per andare al lavoro. Normalmente mi sarei comodamente sistemata sul divano con un pacco di biscotti e una serie TV vista e rivista – sì, sono fondamentalmente una nostalgica – ma quella mattina sarebbe stato deleterio per me. Infilai giacca e cappello, scivolai giù fino alla porta e uscii fuori, dove il consueto freddo pungente di dicembre era pronto a mietere un’altra povera vittima: la sottoscritta.

Girovagare su una sedia a rotelle non sarà l’attività meno stancante del mondo, ma quella volta mi fu d’aiuto per non pensare, tanto ero impegnata a far muovere la carrozzella. Per un attimo la mia coscienza bacata registrò un pensiero positivo: forse quella giornata sarebbe potuta andare bene, il segreto stava solo nel non pensare troppo e rimuovere le idee negative.

Spirito zen che sei in me, esci subito da questo corpo!

Mai proposito fu più sbagliato; non appena giunsi al parchetto più vicino, l’immagine che si presentò ai miei occhi fece tornare il ricordo della sera prima con ancora più prepotenza.

Una classica scenetta da film: una dolce bambina che saltella allegramente da una giostrina all’altra, per poi tuffarsi in braccio alla sua mamma, che le sorride intenerita. O forse era sua sorella? La sua babysitter? Una semplice amica?

Perché non vai lì a chiederglielo, Honey?

No, non l’avrei fatto, per due semplici ragioni: la madre/sorella/babysitter in questione era impersonata dalla stessa ragazza che la sera prima mi aveva inconsapevolmente dato della ‘secchiona puzzolente’; oltre a ciò, la bambina che era con lei era spaventosamente la copia carbone di Dylan. La sua versione mini al femminile, insomma.

E sapevo bene che avevo ripetuto quell’azione più volte nelle ultime ventiquattro ore che in tutta la mia vita, ma ancora una volta tutto ciò che riuscii a fare fu voltarmi e scappare – si fa per dire, nelle mie condizioni – dritta alla volta di casa. Ero confusa, ero stranita ma soprattutto ero terrorizzata dalla possibilità che la rossa potesse vedermi e magari riconoscermi.

Che egocentrica!

No, non avrei sostenuto un’altra conversazione con lei, magari ancora convinta che volessi saperne di più sulla secchiona brufolosa che dava una mano al suo Dylanuccio, ignara del fatto che quella persona era proprio davanti ai suoi occhi. No, evitare di farmi vedere era stata sicuramente la soluzione migliore. Senza parlare poi della bambina che era con lei! Era palese che lei e Dylan condividessero più di qualche gene; e se quella fanciulla e Samantha avevano una persona in comune, quella persona era proprio lui. Dunque era chiaro che si conoscessero più che bene e questa consapevolezza non fece che aumentare la mia angoscia verso tutta quella situazione. Certo, era pur vero che una ‘persona in comune’ l’avevamo anche io e Dylan – e cioè Cedric – ma la familiarità di quella ragazza con la mini-Dylan era la prova lampante che Samantha nella vita di Dylan aveva un ruolo ben poco marginale.

Entrai in casa mentalmente più esausta di quanto lo fossi stata alla mia partenza; poco male, me l’ero cercata. In una occasione futura ci avrei pensato due volte prima di abbandonare divano e biscotti.
 
 
---------------------------------------
 
 
«Zio, non credi di aver lavorato abbastanza per oggi? Sei davanti a quel PC da quasi otto ore!», gli dissi, guardandolo in tralice, «E non per essere maleducata, ma sarebbe anche ora di cena…»

Finalmente alzò lo sguardo; io e il cibo eravamo due delle sue più grandi soddisfazioni da sempre, a suo avviso. «Sì, hai ragione. Non posso lavorare anche la vigilia di Natale. Che ne dici se ti facessi assaggiare qualcuno dei deliziosi piatti che ho preparato per la cena di domani?»

«Oh, che idea geniale! Me l’hai proposto solo una dozzina di volta in questa settimana», risi al solo pensiero di vederlo ogni giorno indaffarato a provare ricette su ricette.

Il mio umore si era leggermente risollevato; d’altronde era meglio così, piuttosto che deprimermi ed aspettare un misero messaggio per un’intera settimana, che tra l’altro non sarebbe mai arrivato.

«Non deridermi! Sai che ci tengo a questa cena.»

«Sì sì, lo so bene. Farai un figurone, te lo garantisco.»

Non appena conclusi la frase, sentimmo il campanello suonare. «Aspetti qualcuno?»

«No», risposi solamente, chiedendomi chi fosse a quell’ora, la sera della vigilia di Natale.

«Sarà Dorothy, la mia nuova segretaria; le avevo detto che avrebbe potuto consegnarmi i documenti anche a casa, ma non pensavo che mi avrebbe preso in parola!», mi disse mentre si apprestava ad aprire la porta.

Afferrai il telecomando, pronta a cambiare canale, ma Cedric continuò: «Honey, è per te!»

Mi diressi verso l’ingresso, il fiato corto e il cuore che batteva forte.

«Ciao, Honey.»

Il mio nome. La sua voce. Il mio cervello, nuovamente annacquato. 








NOTE DELL'AUTRICE
Ciao! So che non c'è più nessuno, che sono passati anni e che ho abbandonato questa storia e questo sito per tanto tempo... ma ora sono tornata, ho scritto un nuovo capitolo e ho voluto condividerlo perché questa storia merita di essere continuata. Che ci vogliano settimane, mesi o anni. Sarò lieta di sapere cosa ne pensate!
Con affetto per chiunque ci sia e ci sarà
Martina

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2355091