Jesus for the Jugular

di Pareidolia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Jesus for the Jugular pt.I ***
Capitolo 2: *** Jesus for the Jugular pt.II ***



Capitolo 1
*** Jesus for the Jugular pt.I ***


What say you, Lord

Now that they're breeding all our animals insane

And the remedy is growing harder to obtain

There's a white horse running wild through the switch-cane

I can hear him now

And I fear him

 

The Veils - Nux Vomica

 

 

La città era sorda e cieca quando la testa di un uomo venne fracassata in onore di Mugen. Accadde di notte, in un freddo vicolo in cui s'era addensata una fitta coltre di smog rosato. L'arma era un grosso cacciavite elettrico utilizzato, poco prima, per riparare i cardini d'una vecchia finestra. Poi, d'improvviso, qualcosa era cambiato e il tecnico che lo stava usando cambiò idea per impiegarne la punta a rotazione automatica in un omicidio efferato e a prima vista senza senso.

Mugen, sogno. Mai prima d'allora si era sentito quel nome. Mai nessun orecchio aveva sentito parlare di un uomo chiamato in maniera così strana. Eppure in molti capirono, dal mattino seguente, che presto si sarebbe sentito nominare ancora.

Mentre, quella stessa notte, l'uomo veniva portato via dal vicolo da alcuni agenti della Karma Police, lo si sentì continuare a mormorare quel nome. In preda a una follia disumana, forse, oppure il suo sangue era talmente pieno di droghe che le vene stavano per esplodergli e il cervello per sciogliersi. No, nulla di tutto ciò. Né droghe né follia. Il suo cervello era normale, il sangue pure. E allora qual era il problema? Dove si nascondeva la verità?

Tutta la metropoli, poco a poco, iniziò a chiederselo. I giornali ci riempirono le prime pagine e vendettero più copie del solito con quella domanda. La polizia, come nei noir di tempi passati, brancolava nel buio. Io, invece, quella verità ero intenzionato a cercarla. Un po' per curiosità, un po' per una silenziosa sfida a questo misterioso uomo.

Mugen, sogno. Che la risposta a quel quesito fosse proprio nei sogni?

 

Un sogno. Forse ciò che quotidianamente si vive è nella sua interezza un sogno.

Davanti a me vedo nella sua vastità un deserto di neve pura e soffice pesante dietro di me una vita di errori sprechi fallimenti davanti solo la neve nulla bianco mi muovo e tutto ciò che è stato pare non esistere più non esiste solo che la neve sono un punto nel nulla inutile assoluto cosa fare non importa i pensieri svaniscono rimane la mente rimango io. Io? Chi sono io solo un indefinito essere in questo universo del mondo nulla esatto nella compagnia nella solitudine nell'amore nella vita nella morte non importa cosa sono chi sono palazzi enormi grattacieli grigi la sfida a Dio la putrescenza il sangue la violenza l'uomo torno indietro. L'anima viene immessa e tutto inizia.

 

Dall'avvenimento era passata appena una settimana e di Mugen non si era più sentito nulla. Per un paio di giorni o forse un poco di più tutti gli abitanti della metropoli avevano continuato a seguire le notizie, le scoperte sulla mente di quel tecnico capace di compiere un gesto di così grave violenza ma tutto ciò non aveva portato a nulla e la curiosità era svanita così com'era nata. Finita nel nulla.

Quella sera al Magnolia c'era parecchia gente. Suonava una band hard rock i cui membri erano particolarmente bravi. Non c'era elettronica nella loro sonorità, solo strumenti spinti al massimo e una voce che raschiava gli animi degli spettatori.

Li ascoltavo dal mio tavolino, solo in un angolo. Mi godevo lo spettacolo mentre fumavo una sigaretta ridotta ormai quasi al filtro e sorseggiavo un bicchiere d'un forte liquore esotico. Probabilmente si trattava solo di roba sintetica spacciata per un costosissimo liquore di mango ma poco importava, il sapore era buono e abbastanza forte perciò mi andava più che bene comunque. Svogliatamente il mio sguardo viaggiava dalla band agli spettatori, per poi tornare sui musicisti. Tutto pareva stranamente tranquillo, viste le tipiche serate al Magnolia. Ancora non c'era stata nessuna rissa, nessun litigio improvviso che facesse scoppiare una lite furiosa quanto violenta che si sarebbe aggravata ben presto al punto da far intervenire qualche poliziotto. Come una piccola fiamma isolata sarebbe diventata poi un incendio di dimensioni enormi prontamente spento da un gruppo di pompieri.

Non accadde nulla di tutto ciò, però. La band continuò a suonare e terminò la canzone tra un fortissimo assolo di chitarra incredibilmente fluente, accompagnato dall'euforia degli altri strumenti. Davanti al palco numerosi ragazzi si scatenavano in gesti casuali, dettati solo dall'ebbrezza del momento. Di Mugen si vociferava soltanto, qualche volta, a bassa voce fra i tavoli ma non si trattava di nulla in particolare. Niente più che voci di corridoio poco fondate.

Quella notte un'innaturale calma pareva regnare sull'intera metropoli.

Erano ormai le due di notte quando la band smise di suonare e, ringraziando, si ritirò dietro al palco, nelle ombre dei camerini. L'atmosfera nell'intero Magnolia cambiò completamente. I neon divennero più soffusi, variando confusamente tra sfumature blu e rosse mentre la musica, sparata da casse ad altissimo volume, infiammava nuovamente gli animi dei presenti. Ogni notte a quell'ora il Magnolia si trasformava da music bar a vera e propria discoteca, ingoiando tutti coloro che stavano dentro, consumandone il cervello e il corpo con le droghe biochimiche vendute da oscuri personaggi nascosti nei bagni o in determinati punti della sala da ballo, impossibili da trovare e da arrestare.

Era a quell'orario che quel luogo iniziava a non far più per me. Fu proprio per quel caos che decisi di andarmene e tornare a casa camminando. Volevo evitare quanto più possibile la fredda e buia metropolitana.

 

Sotto un cielo nero come il petrolio si dilungava lo stretto vicolo che collegava esattamente alla metà il settore A e il B della zona di Dazai. Una sottile folata di smog rosa si addensò sulla strada, districandosi piano fra i muri dei palazzi e svanendo dietro un grosso cassonetto della spazzatura di metallo arrugginito. Il suono dei miei passi risuonava nell'aria e, nell'aria, uno strano suono continuava a echeggiare.

Sentii uno strano grugnito, distorto e sempre più vicino. Prontamente sfoderai la pistola e avanzando trovai davanti a me un uomo dal viso sfigurato dalla cieca rabbia, gli stempiati capelli biondicci inzuppati di sudore come la sua pelle e spettinati. Nei suoi occhi c'era il vuoto. Un vuoto rosso e furioso. Ai suoi piedi, rannicchiato contro un muro, giaceva il freddo cadavere di un uomo ben vestito e del tutto estraneo a quell'ambiente. Il folle si gettò su di me digrignando i denti, alzando per aria un grosso martello. Il grido che scaturì dalla sua bocca sveglio entrambi i palazzi che si estendevano lungo il vicolo.

Lo scansai prontamente, colpendolo alla base del collo col calcio della pistola e mi spostai alle sue spalle, puntandogli contro l'arma e afferrando dal cappotto il distintivo con la mano sinistra.

-Fermati, sono un agente della Karma Police!- Esclamai invano. Mi sentii stupido, poiché già sapevo come sarebbe andata a finire.

Come pensavo non mi diede minimamente ascolto. Le parole parvero non avvicinarsi nemmeno a lui e si lanciò una seconda volta su di me. Sembrava non controllare affatto i propri movimenti, seguiva solo la rabbia che gli riempiva il corpo senza badare affatto a cosa stesse facendo di preciso. Il martello fece per calare sulla mia testa con forza, il tempo parve fermarsi di colpo. Le prime gocce di pioggia toccarono l'asfalto dei marciapiedi luridi, dalla sua bocca, attraverso i minuscoli spazi liberi fra i denti digrignati, schizzò un lungo rivolo di saliva grigiastra, il martello gli scivolò dalle mani e lui cadde a terra, quasi a rallentatore. Un grosso foro in gola lasciava intravedere il colore freddo del pavimento.

Ero sicuro che, prima di sparare, avesse pronunciato la frase “Lo dedico a Mugen”. In un istante fui consapevole che quel nome, già dall'indomani, avrebbe nuovamente riempito le bocche della città così come il caldo cibo delle mense per i poveri riempie le bocche dei senzatetto.

 

Il mio presentimento si rivelò corretto e già il mattino dopo sui giornali e ai notiziari in televisione si parlava ancora di Mugen.

Era risaputo ormai da anni che numerosi giornalisti avevano a che fare con i cosiddetti spioni, uomini e donne che tenevano sotto controllo attraverso telecamere e informatori l'intera metropoli e vendevano poi le informazioni a chi offriva loro la somma più alta.

-E' assolutamente vero. Questa notte, verso le due per la precisione, un uomo della zona di Abe è stato aggredito e ucciso. L'assalitore, apparentemente, ha sussurrato la frase “Lo dedico a Mugen” ma niente è ancora sicuro. Presto, ve lo assicuriamo, ci saranno degli aggiornamenti.- L'intervento di Teshigahara fu rapido e conciso. Quanto, ovviamente, vago. In quell'espressione aveva detto tutto e nulla, senza fornire alcuna conferma, alcuna certezza riguardo l'accaduto. Come sempre si preferiva tentare di incuriosire gli abitanti della metropoli con la cronaca nera piuttosto che avviare delle serie misure di protezione per i cittadini.

Quasi subito dopo il termine della sua intervista al notiziario sentii squillare l'OLOGRAM. Il viso di Suzuki si materializzò dall'apparecchio in una brillante luce rossastra. Fissava un punto davanti a sé con sguardo parecchio irritato.

-Tutto bene?- Gli domandai.

-Che cazzo di domande fai? Ti pare vada tutto bene? Non mi sembra proprio. Lo hai visto al notiziario, vero?- Serio, scontroso e tremendamente incazzato. Il solito Suzuki.

-L'ho appena visto.-

-Quella testa di cazzo. Gli avevo detto di non dire niente. Non doveva nemmeno comparirci, in quel notiziario. Maledetto lui e chi lo ha messo al mondo.-

-Da quando la gente in polizia fa quello che gli pare, Suzuki?-

-Da quando stronzi come lui esistono. Scherzi a parte, Hakkou, la faccenda come sai è seria. L'aggressione di ieri è la conferma che questo Mugen esiste veramente, qualunque cosa esso sia. Un drone, un cyborg di qualche tipo, un'A.I. o quant'altro. E sappiamo tutti benissimo che sei la persona più adatta a scoprire una cosa simile.-

-D'accordo. Ci sono elementi da cui partire o devo arrangiarmi?-

-Ci sono i cadaveri delle vittime precedenti, del tuo aggressore e si può interrogare quello degli altri casi. Ti sembrano abbastanza elementi?-

-Direi di sì, anche se le vittime mi servono a ben poco. Vengo subito a controllare il cadavere dell'aggressore di stanotte.-

 

Ai cittadini della metropoli erano stati nascosti due casi prima che le notizie sull'omicidio della settimana precedente trapelassero. Fortunatamente per la polizia e, forse, un po' meno per i cittadini, i giornalisti di quei due casi ancora non sapevano assolutamente nulla.

Si presumeva, comunque, che l'aggressore fosse lo stesso che una settimana prima era stato arrestato e chiuso in cella da allora. Il cadavere dell'altro, invece, non mostrava nulla di anomalo. Il cervello non aveva innesti di alcun tipo mentre il corpo aveva subito un intervento biochimico soltanto a un polmone, distrutto precocemente da un eccessivo vizio del fumo. Durante l'autopsia era stato registrato solo un alto livello di stress prima della morte ma niente di più. Era un uomo comunissimo che in passato aveva avuto una famiglia dalla quale si era però separato ormai da dieci anni e, a causa di decisioni legali, era finito sul lastrico. Viveva in un minuscolo appartamento più simile a uno sgabuzzino che altro nella zona di Dazai, settore C.

Decisi, almeno per il momento, di iniziare da lì le indagini.

L'appartamento era in effetti minuscolo. Una sola stanza in cui l'uomo, Tarou Mizoguchi, aveva inserito malamente un materasso alto pochi centimetri, un gabinetto e un fornello per cucinare. Non c'era nient'altro. Mi chiusi la porta alle spalle e accesi la luce, un debole neon vacillante che rendeva quell'angusto ambiente ancora più tetro. Premetti un pulsante del telecomando nascosto nel cappotto e osservai meglio ciò che avevo attorno. I muri erano tappezzati di scritte tanto fitte da sembrare incomprensibili, lasciate con un particolare pennarello elettronico il cui inchiostro consisteva in pura traccia di codice informatico, invisibile ad occhio nudo. Anche i pochi oggetti erano interamente ricoperti da quelle scritte, oltre che colmi di incrostazioni e macchie di dubbia provenienza. Provai a leggere ma fu del tutto inutile, non si riusciva a comprendere una sola parola e chiedere l'intervento di un esperto sarebbe costato troppo tempo e denaro, nessuno dei quali mi era stato messo a disposizione.

Infilai entrambe le mani nei sottili guanti bianchi di lattice e provai a spostare quei pochi oggetti presenti. Il fornello non presentava niente di strano ma, non appena sollevai il materasso, sul pavimento trovai scritte ancora più fitte. Mugen, ripetuto più volte, come fosse qualcosa di tremendamente importante.

Mentre riflettevo su ciò qualcuno bussò alla porta.

-Mi scusi...ho sentito che c'è un agente, qui. Ha bisogno di una mano con qualcosa?-

-No. Chi è lei?- Domandai, senza aprire la porta di ferro.

-Il custode.- Rispose la voce vecchia e stanca dall'altro lato. -E' sicuro di non avere bisogno di nulla? Una mano può sempre essere utile quando ci si trova in difficoltà. O se ci si trova a metà strada fra la realtà e il sogno.-

Come?

Di getto spalancai la porta, trovandomi davanti non più il buio corridoio del ventitreesimo piano, bensì una parata di forme surreali sovrastate da un cielo azzurro puntellato da strane nuvole violacee e un sole verde fin troppo vicino. La musica di quella parata quasi mi assordò di colpo e fui costretto a chiudere all'istante la porta. Il rumore finì, il silenzio calò nuovamente come tenebra assoluta. Cosa avevo appena visto? Di chi era quella voce misteriosa e vecchia, in un mondo in cui la vecchiaia era quasi del tutto estinta?

Quando riaprii la porta non vidi altro che il corridoio e le sue deboli luci al neon macchiate di muffa. Non c'era nessuno al punto che l'intero edificio pareva completamente abbandonato. Strofinai con forza le palpebre, nel tentativo di scacciare dagli occhi quell'immagine tanto terribile quanto irreale. Il collegamento fra tutto ciò e Mugen era evidente, quasi ovvio ma non riuscivo a comprendere a cosa si legasse con esattezza.

Diedi un'ultima occhiata alla stanza ma non trovai nient'altro, la pista da seguire per quanto riguardava l'assalitore della notte precedente terminava lì. Restava, però, la possibilità che l'altro aggressore sapesse qualcosa di Mugen, a patto che riuscissi a farlo parlare.

 

Ken Sasaki, un uomo sui cinquant'anni, un po' grassottello ma nell'insieme un uomo dall'aspetto comunissimo. Capelli radi sulla nuca ed esageratamente gonfi sui lati, occhiali spessi dalla montatura marroncina, rughe profonde e lucide a causa della sua pelle grassa e porosa, un grosso neo sulla base della mascella destra. Mi guardava con occhi stretti, un'espressione vuota che sembrava quella di un morto, gli angoli della bocca tesi verso il basso. Era ovvio già guardandolo che quegli occhi avevano visto molto e avevano resistito con molta difficoltà. Mi tolsi il cappotto scuro, appoggiandolo alla sedia e lo osservai. Spostai una ciocca di capelli neri che mi solleticava il naso.

-Dunque, signor Sasaki, sappiamo entrambi benissimo cosa ha fatto qualche notte fa e, forse, anche prima.-

-Io non ho fatto nulla prima di quella notte.- Disse alzando un poco la mano sinistra ammanettata al tavolo. Il suo tono di voce era vuoto come lo sguardo.

-D'accordo, allora solo quella notte. Me ne può parlare?-

-Io ho ucciso.- Disse, come se stesse appena iniziando un discorso e dovesse cercare le parole adatte, perciò attesi ma non disse più altro.

-Sì, è vero. Mi saprebbe dire perché lo ha fatto?- Non rispose, limitandosi a fissarmi col suo sguardo vacuo in cui iniziai a scorgere delle flebili onde. Qualcosa si stava avvicinando.

-Proviamo allora con un altra domanda. Gli agenti l'hanno sentita pronunciare una frase, quella notte, si ricorda per caso qual è?-

-Se lo scordi. Voi non lo avrete mai.-

-Come, scusi?-

-Non si farà prendere da voi.- Sospirai, cercando di accedere alla purtroppo scarsa riserva di pazienza nel mio animo e trattenermi dal saltargli addosso. Non ero mai stato il tipo adatto agli interrogatori e, probabilmente, mai lo sarei stato.

-Sta parlando di Mugen, vero, signor Sasaki?- Non rispose ma il suo viso diceva apertamente di sì. Era ovvio che stesse parlando di lui.

Osservandolo con attenzione notai che, nonostante a un primo sguardo sembrasse chiaramente senziente, in realtà si poteva notare in lui qualcosa di strano. Una parte della sua mente era annebbiata, forse addirittura dormiente. Che qualcuno lo stia controllando?

-Il cielo si capovolgerà. I pianeti si allineeranno. Il giorno in cui l'impiegato timbrerà per la quinta volta il tesserino la centrale sotterranea avrà un fremito e si sveglierà. La fine della realtà. L'inizio del sogno. Una cosa sola.- Mentre pronunciava queste parole il suo volto si deformò gradualmente, poco a poco. Gli occhi parvero curvarsi disumanamente, la bocca si restrinse in larghezza, allungandosi verso il mento e il naso parve moltiplicarsi innumerevoli volte, comparendo e svanendo confusamente. I capelli si mossero, danzando in un vento che nella stanza non era presente.

.Mugen. Mugen. Mugen. Mugen.- Non smise un attimo di ripetere quel nome come fosse un mantra oscuro e pericoloso. Senza farmi spaventare sfoderai dalla fondina la pistola e, tenendogliela puntata contro, mi avvicinai all'allarme e lo premetti con forza.

Furono in tutto quattro gli agenti che accorsero sul posto all'istante, spalancando la porta della cella e puntando a loro volta le armi contro l'uomo.

-Qualunque cosa stia tentando di fare si fermi, Sasaki. Si potrebbe trovare pieno di ferro senza che lo voglia, è l'ultimo avvertimento.- Gli dissi, tentando di mantenere il più possibile la calma.

-La morte non è che l'inizio, Hakkou.- Disse con una voce differente dalla sua. Le manette si staccarono dai suoi polsi con un suono secco e una raffica di colpi lo investì, tramortendolo. Nonostante fosse morto, il suo volto rimase deformato, a metà fra il suo normale e quello mostruoso di qualche attimo prima, in una variazione tra i due stati che non voleva fermarsi.

Che sta succedendo? Che sia l'influenza di quell'uomo? Che sia davvero capace di tutto ciò o c'è dietro un qualche tipo di trucco?

Per quante domande potessi pormi non riuscivo a trovare nemmeno una tesi campata un po' per aria che potesse fornire una sorta di spiegazione.

 

L'abitazione di Sasaki era assolutamente migliore di quella di Mizoguchi. Si trattava di un largo appartamento formato da quattro stanze in tutto, al decimo piano della zona di medio borgo, Abe.

Abe era una zona grande quanto le altre, formato da quattro distretti tra A e D ma la differenza per quanto riguarda le strutture era assolutamente evidente. Erano più alti e brillanti, puliti e soltanto i vicoli si portavano dietro il disgusto delle zone più povere ma soltanto perché erano poco trafficati e i piani alti della metropoli non erano interessati affatto a volerli sistemare. Del resto la vita andava comunque avanti per tutti e nessuno si lamentava molto.

C'erano molti più negozi e ristoranti, là, oltre che persone di nazionalità diverse. Vi si potevano trovare italiani, francesi o anche americani o nord-europei. Gli occhi avevano molte più cose da vedere ma il caos era maggiore. Il silenzio era del tutto soffocato dall'eccessiva presenza di automobili che si lasciavano dietro lunghe scie di fumo rosato che, trasportato dal vento, arrivava a Dazai e Akutagawa. Forse, però, quella sensazione di caos era data soltanto dalla mia abitudine di stare sempre nelle silenziose aree più povere, dove se si sentiva un rumore significava un qualche tipo di pericolo incombente.

Immerso nelle luci e nell'atmosfera spensierata del settore B di Abe, mi avvicinai all'ingresso e suonai al citofono. Mi rispose la moglie di Sasaki, Mari. Una voce squillante, che sembrava ignara dell'arresto del marito. Impossibile, pensai, starà fingendo.

-Salve signora Sasaki, sono Hakkou, un investigatore della Karma Police. Avrei delle domande da farle.- Sentendomi dire ciò, il suo tono cambiò all'istante. La felicità che lo permeava fino a qualche secondo prima scomparve del tutto, lasciando spazio a un tono freddo e spento.

-D'accordo, entri pure.- In sottofondo sentii la voce di un bambino.

Superai l'ingresso, raggiungendo la larga e ben illuminata hall del palazzo, dove un grosso computer inserito nel muro alla mia sinistra faceva da portinaio.

-Attivazione ascensore. Prego, entrare e selezionare ad alta voce il piano.-

Seguendo il prototipo di I.A. entrai nell'ascensore e indicai il decimo piano. Non ero affatto abituato ai ritmi e all'atmosfera di Abe. Per anni avevo vissuto tra Akutagawa e Dazai, passando per quella zona e l'ancora più ricca area di Taniguchi, situata esattamente al centro della metropoli. Per questo provai una sensazione strana a stare in quell'ascensore cromato e talmente pulito che potevo specchiarmi sulle pareti o a camminare per le vie dei quattro settori. Non era il mio posto e, ne ero certo, mai lo sarebbe stato.

Quando raggiunsi il decimo piano trovai alla mia destra la porta dell'appartamento di Sasaki aperta, una donna aspettava appena oltre l'ingresso.

-Salve, chiedo scusa per il disturbo.-

-Non si preoccupi, prima o poi qualcuno doveva venire. Prego, entri.-

L'appartamento era arredato con mobili a metà fra l'antico e il moderno. Probabilmente erano stati ereditati da dei parenti anziani e modificati per essere riutilizzati nella maniera più comoda possibile, poiché erano visibilmente estranei alla tecnologia dei mobili moderni.

In alcuni punti del pavimento in finto legno giacevano giocattoli colorati e un bambino sui cinque anni li prendeva uno ad uno, utilizzandoli per un po' e poi rigettandoli a terra per concentrarsi su altri. La moglie di Sasaki era più giovane di almeno dieci anni rispetto a lui. Bella, ordinata. Il viso leggermente truccato per nascondere le profonde occhiaie e le rughe di preoccupazione apparse sul suo volto da almeno un mese a quella sera, gli occhi sfuggevoli, mai fissi davanti a sé. A una prima occhiata pareva una donna intelligente.

-Dunque, da quanto tempo lei e il signor Sasaki siete sposati?-

-Da sei anni, un anno prima della nascita di Jun.- Indicò distrattamente il bambino con un dito sottile. -Vuole sapere se ho notato qualcosa di strano nel comportamento di mio marito, immagino.-

-Esatto.-

-Be', diciamo che da tre mesi a questa parte passava più tempo fuori casa. Questioni di lavoro, diceva. Lo dicono tutti, vero?- Comunque c'è, in effetti, una cosa che dovrebbe vedere.- Si alzò e mi fece segno di seguirla. Mi indicò una porta che era stata sfondata con molta difficoltà, dopo innumerevoli tentativi. Oltre ad essa si trovava una piccola stanza senza luce, solo con un piccolo altare circondato da candele sciolte la cui cera aveva creato una struttura surreale. Al centro stava un piccolo oggetto fatto a mano, di vero e proprio legno. Un legno nero e nodoso, con ancora addosso l'odore della resina dell'albero da cui era stato ricavato. Prendendolo nella mano destra pensai che quel caso aveva a che fare con fin troppe cose estinte, prima l'anzianità e ora gli alberi. Tutte cose che con l'avanzare della tecnologia nella metropoli erano svanite del tutto. Da dove veniva, allora?

-Lei ne sa qualcosa?-

-Assolutamente no. Lui chiudeva sempre questa porta con il tastierino che c'è accanto, dicendo che era per i documenti del lavoro. Cose top secret. Quando ho saputo che era stato arrestato per omicidio, però, ho deciso di aprirla. Da tempo sentivo che qualcosa in tutto questo non andava, quindi ho pensato che questa stanza avesse a che fare col suo comportamento.-

-E non si era mai accorta di tutto ciò?-

-A quanto pare non sono stata una moglie molto attenta o interessata agli affari di mio marito. Forse ho volutamente ignorato il suo comportamento.-

-Capisco. C'è altro?- Fece segno di no con la testa e il silenzio calò nella stanza.

Una donna e un marito il cui rapporto si era affievolito, le cui parole erano venute sempre meno, lasciandosi invadere da quello stesso silenzio. Non era affatto una storia nuova, non c'era alcuna sorpresa in tutto ciò. Una storia universale, che accadeva tanto a Dazai, quanto ad Akutagawa e anche lì, verso il centro della metropoli, dove tutto si faceva più spensierato e felice.

Presi il piccolo oggetto di legno dalla strana forma contorta e, dopo averlo inserito in una sottile busta di plastica, me ne andai.

Sull'uscio, prima di svanire oltre il corridoio, lanciai un'occhiata di compassione al bambino, ancora impegnato coi suoi giocattoli e ignaro di aver perso probabilmente per sempre il padre.

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Capitolo 2
*** Jesus for the Jugular pt.II ***


How do you preach the word if you don't know how to read?

They hold your soul once you sign the deed

Would the sun still rise if there's no one 'round?

Would the fox be as quick if he hadn't his hound?

 

The Veils – Jesus for the jugular

 

Il sogno continua ma in un battito di ciglia s'è già concluso.

 

Se si desidera trovare delle informazioni precise e ben nascoste nella metropoli, il luogo adatto è senza dubbio la striscia di asfalto vecchio e palazzi situata ai bordi del muro che circonda la città. Divisa esattamente a metà, quella striscia si trova in parte nella zona Dazai e in parte ad Akutagawa. I palazzi lì erano abitati abusivamente. Normalmente chi ci abitava non ne aveva il permesso ma la polizia e le organizzazioni a capo dell'intera metropoli si interessavano ben poco a ciò. Tutti in entrambe le zone sapevano che lì viveva gente che sapeva badare forse fin troppo bene a se stessa al punto da essere riuscita a sistemare per i fatti propri tutti quei palazzi. Guardandoli, però, si vedeva chiaramente che erano rimasti indietro di parecchi anni rispetto agli altri. Ad ognuno di essi mancavano come minimo dieci piani rispetto agli edifici che li circondavano ma agli abitanti pareva importare ben poco. Si poteva considerare quel luogo totalmente staccato dalla città.

Mi avviai piano verso il civico 15, facendo bene attenzione che nessuno mi stesse seguendo e, raggiunta la porta, composi una precisa serie di numeri al citofono. L'ingresso si aprì, lasciando fuoriuscire un lungo sbuffo di vapore e polvere e accogliendomi nella sala principale del palazzo. Una stanza grande due metri per due, illuminata da una vecchia e intermittente luce rossastra che faceva a malapena intravedere la sottile rampa di scale arrugginite che si estendeva verso i vari piani. I gradini scricchiolarono sotto il peso dei miei passi e mi domandai se non sarebbero crollati prima che raggiungessi l'ultimo piano.

Dalle porte chiuse giungevano voci d'ogni tipo. A volte erano decine, altre una soltanto. Si udivano litigi, mormorii confusi, amplessi rumorosi, pianti di neonati o giovani ragazze. Cosa accadesse oltre gli ingressi di quelle abitazioni misteriose era una questione lasciata in sospeso, affidata alla pura immaginazione ed erano rare le volte in cui si riusciva a immaginare qualcosa di felice e spensierato.

Tentai di ignorare tutti quei suoni, quelle voci, quei legami al mondo da cui continuamente tentavo di fuggire, pervaso dalla disperazione. Avanzai, quindi, verso l'ultimo piano. Quando lo sguardo vagava fuori dalle finestre poste su ogni pianerottolo tra un piano e l'altro non vedevano altro che una città addormentata, immersa nella nebbia e senza luna.

La porta che conduceva al finto appartamento di Kaoru Tezuka era chiusa da più mandate più un tastierino a riconoscimento oculare “per avere più sicurezza”, diceva lui. Una volta suonato al campanello bisognava attendere che l'uomo riconoscesse la persona davanti alla porta tramite una telecamera nascosta e, una volta all'interno, bisognava sapere dove stava il tasto esatto che apriva l'entrata per il vero appartamento. Con circospezione lo premetti, perseguitato dall'ansia e dalla paura di essere inseguito che circondava la vita di Tezuka e che trasmetteva a chiunque venisse lì come fosse una sottile forma di lebbra. Superata una lunga porta segreta bisognava scendere una breve rampa di scalini metallici fino al piano sottostante. Il vero appartamento era stato ricavato dallo spazio in eccesso di un trilocale al penultimo piano del palazzo e lo si poteva considerare un buco. C'era lo spezio solo per il letto, uno strettissimo bagno e una postazione occupata da un enorme computer d'ultima tecnologia. Tezuka stava proprio là, seduto davanti alla griglia di schermi che trasmettevano immagini da tutta la metropoli. Ignorati, i suoi occhi osservavano ogni strada, ogni abitazione, ogni ufficio. Erano ovunque.

-Sempre a spiare chi non dovresti, Tezuka?-

L'uomo si voltò appena, lanciandomi un'occhiata indifferente e, con la sigaretta ben stretta fra le labbra, mi indicò una sedia accanto alla sua scrivania.

Mosse rapidamente il mouse del computer e su uno degli schermi apparve una lunga chat anonima e criptata. A velocità disumana digitò qualcosa e inviò un messaggio. A quel punto la schermata tornò sulla stanza di prima, abitata solo da due ragazzine della stessa età, nude e impacciate. Amava farsi i fatti altrui e venderli a chiunque offrisse il prezzo più alto. Lo si poteva considerare il migliore investigatore privato della città proprio per questo, addirittura superiore a quelli della Karma Police,sotto quell'aspetto.

Sapeva sempre, grazie alle sue telecamere, dove qualunque persona si trovasse, a che ora e con chi. Come avesse fatto a riempire la metropoli coi suoi occhi era un mistero. Si vociferava in certi ambienti di alcuni collegamenti parecchio loschi con una società molto famose di apparecchi elettronici per le case ma non c'era mai stata alcuna conferma a riguardo. Fatto sta, comunque, che nonostante tutti quegli occhi sparsi ovunque, viveva da recluso. I soldi guadagnati da quel viscido lavoro non poteva in alcun modo goderseli.

Quella notte indossava un viso diverso. Aveva scelto qualcosa di stranamente esotico per i suoi gusti. Lineamenti finemente europei, capelli rossicci e lunghi, legati in due code e con dei ciuffi che gli carezzavano le guance e la fronte pallida. Gli occhi d'un azzurro innaturale erano persi nelle immagini degli schermi, cercavano qualcosa che potesse essere interessante abbastanza da poter essere venduto nel mercato nero di internet. Informazioni su persone, filmati privati, dati di conti in banca, pornografia o peggio. Nonostante la sua attività fosse illegale i suoi rapporti con la polizia erano dei più rosei. Lui aiutava noi tanto quanto noi aiutavamo lui. Uniti con un criminale nella lotta al crimine, sarebbe stato un ottimo slogan per la divisione.

-Allora, hai trovato qualcosa su di lui?-

Si bloccò per un attimo. Lo sguardo di ghiaccio si perse per qualche secondo nel vuoto fra gli schermi, percorrendo la superficie scura del muro, poi si voltò a guardarmi scuotendo la testa.

-Tu chiedi l'impossibile. Ho cercato ovunque il nome Mugen senza il minimo successo. Davvero credevi bastasse qualche occhiata in giro per la metropoli? L'uomo che cerchi è furbo, ha sicuramente delle ottime difese e soprattutto sa rendersi invisibile facilmente, forse più di me.- Socchiuse gli occhi, concentrandosi su qualche pensiero a me sconosciuto.

-Hai in mente qualche posto in cui potrebbe essere nascosto in questo momento?-

-I casi sono due, amico mio. O si nasconde oltre il muro, oppure ha amici importanti che sanno dove tenere dei segreti lontani da occhi indiscreti come i miei e quelli degli altri.- Quasi mormorò soffiando verso un ciuffo di capelli per spostarlo dagli occhi.

-Lo pensavo anche io. Di questo, invece, cosa sapresti dirmi?- Domandai estraendo dalla tasca destra del cappotto la busta di plastica contenente il piccolo oggetto di legno.

-Legno?- I suoi occhi s'allargarono, tanto fu sbalordito.

-Sì, era in casa di Sasaki, l'aggressore della scorsa settimana. Stava in mezzo a un altarino chiuso dentro una stanza.-

-Fa' vedere. Direi che è raro ma non poi così tanto, l'ho già visto in giro, ne sono sicuro. -Fece poi una breve pausa di riflessione. -Ma certo, mi ricordo. Questo è il simbolo di una setta saltata fuori dal nulla come molte altre negli ultimi mesi. Due, forse tre mesi fa ma potrebbero anche essere di più, non ricordo bene. Sai, ce ne sono così tante. Se però non ricordo male il luogo in cui si riuniscono loro si trova a Dazai, nel seminterrato di un grosso complesso di Dazai. E' uno dei pochissimi luoghi in cui non ho potuto piazzare delle telecamere. Peccato perché sarebbe potuto essere davvero divertente.-

-E allora come fai a saperlo?-

-Le telecamere non sono il mio unico mezzo, Hakkou, dovresti saperlo. Le informazioni sono preziose e se si hanno le fonti e le domande giuste si può venire a conoscenza di qualsiasi cosa. Tu, ad esempio, hai appena fatto la domanda giusta all'informatore giusto.-

 

Fu così, quindi, che mi ritrovai davanti al palazzo indicatomi da Tezuka. Un edificio identico agli altri lungo la via, affiancato da lunghe e sudice ramificazioni di vicoli. Cinque omicidi dei quali due senza un assassino confermato e presumibilmente collegati a quel luogo. Era raro che una setta si spingesse così tanto in là con le proprie azioni. Solitamente se ne stavano nascoste negli scantinati di grossi edifici nelle zone più povere, fingendo di non esistere per non essere disturbate. Seguivano la regola “vivi e lascia vivere”, insomma. E, a questo punto, la domanda riguardo chi o cosa fosse Mugen si fece più pressante, più fastidiosa. Un dio? Il capo di quella setta? Un semplice uomo o qualcosa di più?

Ripensai alla scena che mi era apparsa all'appartamento, alla voce del vecchio custode, all'oggetto di legno. Con queste immagini in mente entrai nel complesso.

Non trovai nulla di nuovo rispetto ad altri palazzi della zona nella hall. Scale in procinto di crollare, un vecchio modello di computer a fare da portinaio e una stretta scaletta che scendeva verso lo scantinato. L'aria era viziata, soffocante e il silenzio gelido.

Scesi piano, verso l'oscurità del piano sottostante e scoprii solo dopo almeno una ventina di gradini che quella scala stava andava ben oltre la profondità di un qualunque scantinato della zona di Dazai. Si spingeva parecchio più in là, perdendosi in una cupa tenebra fitta e impenetrabile, raggelante. Lunghi brividi percorsero la mia schiena superando il cappotto e la camicia e, per poter proseguire, fui costretto ad accendere la torcia. Girai la manopola del telecomando nella tasca al massimo, al punto che potevo sentire le voci degli inquilini dell'edificio come flebili sussurri nel vento e premetti un tasto, così da poter vedere e analizzare al meglio ciò che mi circondava.

I gradini erano grigi, leggermente sporchi di polvere e ruggine, le pareti annerite dal tempo, stranamente distorte in una prospettiva irregolare che faceva sembrare il palazzo obliquo.

Le voci degli inquilini scomparvero progressivamente, lasciando spazio ad altre voci, altri suoni indefinibili. La coltre d'oscurità s'era infittita talmente tanto che la torcia era ormai quasi inutile e non raggiungeva nemmeno più i gradini. Camminavo nelle tenebre d'un luogo ignoto, spaesato e scosso dai brividi come mai prima d'ora mi era successo.

Accadde, mentre ancora scendevo quell'infinita rampa di scale, che un barlume di luce da lontano iniziò a farsi sempre più grande.

Il pallido volto sorridente d'un vecchio era debolmente illuminato da una torcia da lavoro che stringeva nella mano sinistra. I suoi occhi mi fissavano da sotto le pesanti palpebre coperte di rughe e macchie marroncine o verdognole.

-E' un'oscura notte questa, vero?- Domandò senza smettere di sorridere. -Un'oscura notte dell'anima, già. Ma è appena iniziata, la luna non è che all'orizzonte. Sta appena sorgendo. Sarà piena, sa? Una luna grossa e bianca, glielo assicuro.- La sua luce si affievolì, illuminando sempre più debolmente il suo volto pallido fin quando, scomparso ogni centimetro di pelle, non rimase che il sorriso, il quale lentamente sfumò nel buio.

Allungai una mano davanti a me, vedendola sparire a sua volta nella tenebra ed ebbi un sussulto quando, ritraendola, riapparve. Decisi di continuare a scendere, estraendo dalla fondina la pistola più per sentirmi più sicuro che perché veramente convinto della sua utilità in una simile situazione. A mia volta svanii in quella coltre assoluta di nero che aveva ingoiato ogni cosa.

Davanti a me si estendeva una stanza larga, piena di uomini e donne senza alcun vestito addosso ma ricoperti da un liquido bianco che dai capelli scivolava fino al ventre, raggruppandosi fra le gambe incrociate. Posti in cerchio attorno a un enorme albero, fissavano tutti me, immobili e in silenzio. La stanza sembrava stretta e sconfinata, dalle pareti di un colore ultraterreno che, guardandolo, provocava un forte senso di nausea. L'albero davanti a me, al centro d'ogni cosa, era rigoglioso, colmo di foglie e strani frutti e tagli in alcuni punti che testimoniavano l'utilizzo dei suoi rami per creare quello strano oggetto. Poi, al suo posto, vidi un uomo. Seduto anche lui come gli altri, composto interamente da quel liquido bianco e denso che pareva formare un vero e proprio corpo. Un corpo che mi fissava insieme a tutti quegli uomini e donne.

Era nudo anche lui ma non possedeva alcun attributo umano, ne era solo una rappresentazione perfetta in ogni dettaglio. Lunghi capelli formati dal liquido continuavano a scivolare dalla punta della testa fino al petto, mescolandosi ad esso e un intenso sguardo di vento era fisso nel mio. Mi sentivo inchiodato lì, in piedi.

-Hakkou, emissione. Benvenuto.- Non risposi o, meglio, non riuscii a rispondere.

-E' da un po' che mi insegui. Mi scuso per essermi fatto cercare così tanto. Diciamo che nella metropoli non è così facile comunicare, non credi anche tu?- Accennò un sorriso e piegò leggermente la testa. Solo allora mi accorsi che i suoi lineamenti erano giovani e delicati. Era una creatura effimera.

-Ci troviamo nell'oscura notte dell'anima.- Disse come volesse rispondere a un interrogativo nascosto nel profondo del mio spirito. -Hai paura. Non comprendi. E' naturale, te lo assicuro. Ognuno, qui, si è sentito così, non c'è nulla da temere. C'è chi nel cervello ha un labirinto.- Al suono delle sue parole una donna afferrò le proprie guance delicatamente con la mano destra e si tolse il volto, scoprendo l'interno della testa, nella quale stava un cervello colmo di intricati sentieri grigiastri e viscosi.

-C'è chi desidera avere più occhi.- Lungo il corpo di un uomo si aprirono le palpebre di decine e decine di brillanti bulbi oculari dalle iridi di diversi colori. I loro sguardi viaggiarono ovunque lungo la stanza.

-Ma anche chi non sente di appartenere alla tecnologia.- Dalla bocca di una giovane ragazza sui diciotto anni al massimo fuoriuscirono innumerevoli rami tempestati di fiori di ogni tipo.

Guardandomi attorno, poi, vidi che anche tutti gli altri cambiarono progressivamente. Ad un uomo, quando alzava il mento, si potevano vedere cinque volti identici al suo ma più piccoli che fumavano sottili rami dell'albero che fino a poco prima stava in mezzo alla stanza. Una donna usava la propria lingua come sciarpa e lentamente la tirava sopra la sua testa per coprirsi i capelli. Un ragazzino aveva un buco al posto del cuore e con l'organo, malleabile come creta, stava realizzando una scultura. Un anziano teneva in mano una torcia e sorrideva.

-Se questo è un sogno, ti chiedi. Se invece è la realtà, teorizzi poi. Ma se non fosse nessuna delle due cose? Sei sicuro che tutto ciò, che tutto il mondo debba essere per forza una sola cosa, precisa e distinta? Se invece non si trattasse d'altro che di innumerevoli sfumature? Sogno, realtà, paradiso e inferno, tutto insieme. Non ci sono contorni.- La stanza parve iniziare a muoversi sinuosamente, ad allargarsi e restringersi ancor più di prima mentre il colore delle pareti cambiava da indefinibile a un intricato miscuglio di diverse sfumature senza inizio né fine, indistinguibili fra loro. Apparve l'albero, poi scomparve. Mugen mi osservava, poi non c'era più. Tornò il buio e poi la luce.

L'uomo ora mi fissava nuovamente, c'eravamo solo noi due e, alle sue spalle, l'albero più grande rispetto a prima, i rami sconfinati si estendevano in ogni direzione coprendo ogni cosa.

-L'ultimo elemento della natura in questo luogo di metallo e plastica. Invisibile, eppure davanti agli occhi di tutti. Non ne senti la magnificenza?- Non riuscii a rispondere, tentennai. Nella mente avevo un solo pensiero che continuava a ripetersi all'infinito.

-E' per questo che hai fatto uccidere quelle persone?- L'uomo accennò un sorriso calmo, strano.

-Uccidere fa parte degli uomini. Non si può impedire che, prima o poi, in qualche modo accada. Che si tratti di un omicidio fisico, morale o sentimentale, prima o poi tutti uccidono. C'è davvero molta differenza, a tuo parere, tra l'omicidio di una persona e l'omicidio di un sentimento?-

Ogni sua parola gettava veli d'ombra sulla mia mente, rendendomi incapace di formulare pensieri e portandomi a riflettere su u come se ciò che diceva mi guidasse lungo un percorso labirintico senza inizio né fine.

-Allora perché quegli uomini hanno ucciso?-

-Deve davvero esserci un motivo? Deve davvero esserci un ulteriore colpevole? Un assassino è stato arrestato, l'altro è in prigione. Se non hai la certezza di ciò a cui stai assistendo ora, come puoi pensare che ci sia questo dietro quegli omicidi?-

-Stai dicendo che dovrei lasciare perdere?- L'uomo si alzò, facendo gocciolare il liquido di cui era composto ai propri piedi e lasciandosi dietro una lunga scia. Quando fu vicino a me alzò una mano e con l'indice e il medio tesi verso il mio volto mi sfiorò la fronte. Una goccia del liquido mi scivolò lungo il setto nasale.

Mi ritrovai nella stretta stanza di Mizoguchi. Lui stava davanti a me, rannicchiato verso il muro, gli occhi sbarrati dalla follia.

-Devo ucciderli...quei bastardi, devo ucciderli. Il mio lavoro...mi hanno tolto il lavoro...- Qualcuno bussò alla porta.

-E' questo l'appartamento di Mizoguchi? Ho sentito che ha bisogno di una mano, è vero?- Disse una voce anziana dall'altro lato. La riconobbi subito.

Dopo un battito di ciglia mi ritrovai nel quartiere di Abe, le luci erano luminose, quasi accecanti. Vicino a una discoteca stava Sasaki, fermo. Fumava una sigaretta e quando un giovane uscì dall'ingresso iniziò a seguirlo.

In un vicolo afferrò un cacciavite dalla punta rotante e chiamò l'uomo. Quello si voltò e lui usò l'oggetto per sfasciargli ripetutamente la testa.

-Così impari ad andare con mia moglie, stronzo! Lo dedico a Mugen. Questo lo dedico tutto a Mugen.-

Al successivo battito di ciglia, Mugen stava ancora davanti a me, nuovamente circondato da tutti gli adepti.

-Hai capito, ora?-

-Loro...-

-Esatto, sono loro. Tutto il resto, per ora, non ha importanza. Un giorno, forse, ci rivedremo. Quando la nuova notte dell'anima calerà su questo triste luogo e le nostre strade, Hakkou, saranno nuovamente destinate a incrociarsi. Ma fino a quel momento sarà inutile cercarmi. Saranno gli eventi a guidarti all'albero quando sarà il momento.

Chiusi le palpebre di nuovo, involontariamente, e quando le riaprii mi ritrovai davanti a una porta bianca, ammuffita. Alle mie spalle stavano le scale che conducevano alla hall del palazzo. Deglutii e provai a girare la maniglia della porta ma era chiusa a chiave.

Il sogno, la realtà o qualunque cosa fosse stato, era finito ormai.

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