storia di come L imparò a giocare a tennis

di ToscaSam
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** frammento numero 1 ***
Capitolo 2: *** frammento numero 2 ***
Capitolo 3: *** frammento numero 3 ***
Capitolo 4: *** frammento numero 4 ***
Capitolo 5: *** frammento numero 5 ***



Capitolo 1
*** frammento numero 1 ***


Aveva i capelli rossi.
Fu questo a catturare l'attenzione di quel passante dall'aria disinteressata.
Il tempo era piacevole: le nuvole non erano che una spruzzata di panna su quella limpida distesa turchese. Un regalo che di settembre era molto raro, per essere in Inghilterra.
Lei si trovava oltre un campo da tennis protetto da un'alta rete metallica. Doveva essere verde, quella rete, ma ogni colore impallidiva dinnanzi alla particolarità di quei capelli rossi che svolazzavano dall'altra parte.
Lui si era fermato a guardarla, rapito dal dono con cui quella ragazza era nata.
Gli avevano detto che anche sua mamma aveva avuto i capelli rossi, da giovane, che poi si erano scuriti verso i trent'anni.
Chissà se anche a quella ragazza si sarebbero scuriti.
Ci fu un piccolo rumore metallico, poi una sfera gialla si schiantò contro la rete, proprio all'altezza degli occhi dello spettatore. Lui si riscosse dal mondo dei suoi pensieri.
« Ciao!»
Disse la ragazza coi capelli rossi: era incredibilmente vicina, adesso. Sul viso poteva contarle centinaia di lentiggini scure, mentre gli occhi color nocciola erano dolci e vispi come quelli di uno scoiattolo.
Prima di ricordarsi di rispondere, lo spettatore dovette rammentarsi da che parte aveva la bocca.
« Ciao» disse poi, lentamente.
La ragazza si chinò a prendere la pallina: era vestita con una maglietta da maschio, bianca con le spalline blu, che le copriva quasi tutti i pantaloncini, dando quasi l'impressione che fosse in abbigliamento da casa, in mutande.
Le scarpe da ginnastica erano vecchie, ma ben tenute. Doveva usarle spesso per giocare a tennis.
Non poteva essere tanto più piccola di lui. Avrà avuto tredici, quattordici anni.
« Ti sei incantato?» chiese, irriverente, ma con un largo sorriso sulle guance lentigginose.
Lui si sentì avvampare:
« No … scusami. Mi piace guardare la gente che gioca a tennis»
Era una bugia, ma la più verosimile piombatagli in mente. Sperò che il suo rossore non fosse troppo visibile, ma d'altro canto, era così pallido che alla minima emozione diventava un libro aperto.
« Che accento strano! Di dove sei?» sorrise la ragazza, che ora aveva la pallina in una mano e la racchetta nell'altra.
Lui perse in un attimo il rossore e si incupì.
« Ho vissuto per un po' in Russia» rispose.
« Wow» fece lei.
Aveva un sorriso sincero.
Poi lo salutò con la mano e tornò ad allenarsi da sola contro il muro.
La pallina sfrecciava avanti e indietro, dalla racchetta al muro. Tum-tum, tum-tum, tum-tum.
« Erald» lo chiamò il signor Wammy.
Erald era di nuovo incantato dai capelli rossi della ragazza. Alla voce del signor Wammy, fece un sobbalzo.
« Ti stavo aspettando in macchina. Non mi avevi visto?»
Era gentile, ma anche un po' preoccupato.
« Certo, è solo che … » Erald si voltò verso il campo da tennis: la ragazza era sempre lì.

 

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Capitolo 2
*** frammento numero 2 ***


Erald passò davanti al campo da tennis anche il giorno seguente.
Non si trattava propriamente di un capriccio, in realtà: doveva passare di lì per raggiungere il parcheggio dove Mr Wammy l'aspettava.
Alle tre del pomeriggio in punto, le sue lezioni finivano; Erald usciva in fretta dall'edificio, ignorando qualunque contatto sociale e sfrecciava verso il grande parcheggio a pochi metri più in là.
Difficile mentire a sé stesso, pensò Erald, il giorno seguente a quella visione fugace. Non c'era nient'altro che aspettasse quanto il rintocco del campanile, per uscire di corsa e vedere se la fiamma di capelli rossi fosse ancora nel campo da tennis.
La sorpresa più grande, fu lo scoprire che, in effetti, c'era.
Tum-tum, tum-tum.
La pallina batteva contro il muro. Il cuore di Erald batteva al ritmo di essa, per la corsa appena conclusa. Si era lasciato qualunque altra persona alle spalle.
Era il momento più appagante di tutta la giornata: i capelli rossi, così rossi da scintillare al sole.
Rimase distante, sperando che lei non lo vedesse. Era l'ultima cosa che desiderasse; avrebbe fatto la figura dell'idiota. Quella mattina, oltretutto aveva notato sulla sua fronte, un brufolo rosso, decisamente indesiderato.
Sempre ascoltando i battiti della pallina gialla, Erald si accorse di aver pensato una cosa davvero insolita: non gli era mai capitato di fare caso a un dettaglio come un brufolo, nella sua persona. Per lo meno, un dettaglio del genere non era mai stata una prerogativa per decidere o meno di parlare con qualcuno.
Si sentì piuttosto stranito dall'aver associato un inestetismo alla socializzazione. Che diavolo c'entravano l'uno con l'altra?
Anche ammettendo che, finché fosse stato lì, lo sgradevole puntino rosso potesse essere causa di isolamento da parte delle altre persone, com'è che Erald ci aveva pensato solo adesso? Era stato tutta la mattina in compagnia di una classe di esseri umani. Perché non si era fatto lo stesso problema con loro?
La ragazza dette un colpo troppo forte di racchetta e la pallina rimbalzò di conseguenza: dopo una sbandata sul muro, sfrecciò di nuovo verso la rete.
Erald si affrettò a coprire la fronte con la folta capigliatura corvina. Sperò che il brufolo fosse coperto.
La ragazza si chinò, poi si rialzò con la pallina in mano e lo vide.
Erald rimase impietrito.
Questa volta si era fermato molto più distante del giorno precedente: nessuno avrebbe iniziato una conversazione da quella distanza. Meno male, pensò. Non aveva proprio idea di cosa dire alla sconosciuta, né voleva farsi vedere.
Lei non si mosse per qualche secondo, poi si voltò e tornò a giocare. Forse non l'aveva riconosciuto.
 
Nei giorni che seguirono, Erald passò metà del tempo della mattinata a pensare a ciò che l'aspettava per le tre del pomeriggio. Le lezioni erano così semplici che si sarebbe annoiato a morte, se non avesse volto l'immaginazione alla ragazza coi capelli rossi.
Che male c'è? Pensava. Non aveva mai fatto nulla di normale per la sua età. Aveva quindici anni e non aveva mai fatto festa a scuola, non aveva nemmeno mai frequentato una vera scuola, né aveva praticato uno sport o avuto una cerchia di amici.
Che c'era di male ad immaginarsi amico di quella ragazza a giocare a tennis? Buffo, però. Non ci si vedeva a fare sport.
Era un ragazzo smilzo, alto e dinoccolato, eppure … correre non era una delle sue attività preferite.
Erano passate due settimane da quando si era fermato per la prima volta ad osservare la giovane tennista.
Quel giorno, passando, non la vide.
Tum-tum, tum-tum, tum-tum.
Ecco la pallina che martellava, pensò Erald. Eppure non c'era nessuno a giocare a tennis.
Il rimbombo continuava, continuava.
Mentre si guardava intorno, frastornato, scoprì di essere lui stesso a produrre quel rumore. Era il suo cuore che batteva, a ritmo accelerato.
 
« Ti va una coca?»
disse una voce dolce alle sue spalle.
Il frenetico tum-tum fu incontrollabile.
Erald si voltò, pallido, con faccia colpevole.
Lei era lì, nella sua tenuta sportiva, appoggiata ad un alto faggio. L'ombra dell'albero la faceva sembrare castana; per questo non l'aveva riconosciuta, passando.
La racchetta e la pallina se ne stavano appoggiate al tronco, mentre fra le sue mani, c'erano due bottigliette in vetro di Coca Cola.
Erald non seppe che dire.
La ragazza rise:
« E dai! Sono due settimane che ti fermi a guardare. Presentiamoci, almeno» .
Era molto carina e anche educata. Parlava con un marcato accento londinese.
Siccome Erald pareva ancora una statua di gesso, la ragazza gli si avvicinò, offrendogli la bibita.
« Mi chiamo Ulla. Un nome da nonna, eh? Infatti è proprio il nome di mia nonna»
Si stava sforzando di essere simpatica … e ci riusciva.
Erald sentì le sue guance distendersi in un sorriso beato.
« Io mi chiamo Erald. Erald Coyle»
accettò la bibita, pur sapendo che il signor Wammy doveva essere lì al parcheggio ad aspettarlo.
« E allora Erald? Che giri da queste parti tutti i giorni?»
chiese Ulla, disinvolta, sedendosi su una radice del faggio.
Erald si accovacciò accanto a lei, appoggiandosi sui propri talloni e stringendosi le ginocchia con le braccia.
« Tono a casa dall'università. Dalla Hudson. È a due passi da qui»
« L'università? Wow! Ma quanti anni hai?»
« Quindici» ammise Erald; poi aggiunse, in risposta agli occhi interrogativi di Ulla: «sono un tipo abbastanza bravo».
« Wow!» ripeté lei.
Bevvero entrambi un sorso di Coca Cola, poi Erald si accorse di non averle fatto alcuna domanda; era scortese?
« Tu quanti anni hai?»
« Quattordici»
« E come mai giochi a tennis tutti i giorni?»
Ulla si sistemò i capelli rossi dietro un orecchio.
« C'è il campionato Under 18 degli amatori, questo giugno. Mi piace giocare a tennis e vorrei vincere» rispose semplicemente.
Una risposta molto ragionevole, convenne Erald.
« Comunque credo che tuo padre ti stia aspettando in macchina. Mi sta squadrando dal finestrino …pensi che non avrei dovuto fermarti?»
Disse Ulla, un po' preoccupata, con lo sguardo rivolto al parcheggio che si estendeva dietro il faggio.
Erald la guardò con la testa piegata di lato:
« Mio padre? … oh! Il signor Wammy. Ehm … lui non è mio padre. Comunque si, dovrei andare»
« Mi dispiace! Ti ho importunato?»
« No!» rispose Erald con voce un po' troppo alta.
« No ...» ripeté più gentilmente. Poi aggiunse: «ciao».
« A domani» disse Ulla.
Quella promessa lo accompagnò durante tutto il tragitto in macchina e non l'abbandonò per tutta la sera.

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Capitolo 3
*** frammento numero 3 ***


Erald abitava con il signor Wammy già da diversi anni.
La sua infanzia non era stata proprio felice, come ci si augura sempre che sia quella di un bambino.
Suo papà era inglese, ma Erald non l'aveva mai conosciuto. Era morto poco prima del matrimonio in un tragico incidente con un camion.
Sua mamma era russa. Aveva partorito in Inghilterra ed aveva vissuto lì con suo figlio per circa tre anni. Il dolore per la perdita del marito non riuscì mai a separarsi da lei. Cercò la pace in Russia, portandosi Erald con sé.
Dopo due anni, morì anche lei, stroncata delle mille pastiglie antidepressive, prese tutte insieme; implosa nella sua stessa agonia.
Erald non ricordava molto di tutto questo. La sua sofferenza non fu mai plateale; si era insidiata in lui come un'erbaccia e aveva avvolto il suo cuore come fosse un tronco d'albero.
Il suo cervello, per non farlo impazzire, aveva fatto in modo di censurare per sempre il volto di sua madre. Dall'età di cinque anni, Erald aveva solo un fantasma per mamma. Solo una sagoma bianca e buona, molto triste, dai contorni sbiaditi e nessun colore.
Fu il signor Wammy a prendersi cura di lui, sin da subito: stava fondando proprio in quegli anni una Wammy's House a Mosca; la triste circostanza volle che Erald fosse uno dei primissimi candidati per la struttura.
Fu il signor Wammy ad accompagnare il bambino al funerale di sua madre.
Di quel giorno, Erald conservava dei ricordi confusi. Immagini, soprattutto: un rosone colorato della cattedrale; il rumore del treno su cui aveva viaggiato; una tremenda nevicata, che gli gelava il naso; i suoi guantini rossi che stringevano la mano del signor Wammy; un cappotto marrone; la sciarpa bianca; il suono funebre delle campane.
Finché Wammy fu con lui, Erald si sentì pressoché tranquillo. Ma l'anziano e dolce direttore dell'orfanotrofio non rimase lì in eterno. Possedeva molte altre Wammy's House in tutto il mondo e per questo doveva viaggiare.
Erald sviluppò un carattere terribilmente introverso, inadeguato alle relazioni sociali, pauroso verso l'altro. Era incapace di socializzare e non voleva essere compreso.
Cominciò a rannicchiarsi su sé stesso, anche fisicamente, per sfuggire al mondo abitato da qualunque altro essere umano.
Le suore dell'orfanotrofio gli davano le caramelle, nella speranza di vederlo comportarsi come gli altri bambini. Divennero per lui una ragione di vita. Desiderava vivere, esistere, soltanto per sentire il sapore dolce e pastoso di quei piccoli doni.
Non aveva niente da dire, niente da fare, niente di niente. Solo le caramelle. E le suore lo accontentavano, giusto per non farlo morire di tristezza.
Fu quando descrisse per filo e per segno l'accaduto, portando in tavola prove determinanti, riguardo un giocattolo scomparso di un compagno, che le suore notarono la sua intelligenza.
Riuscì a spiegare l'accaduto, tracciando un profilo psicologico perfetto sia del bambino che aveva rubato il giocattolo che della vittima. Era stato in grado di ritrovare l'oggetto smarrito e di restituirlo al proprietario in un batter d'occhio.
Da allora, le suore lo sentirono battibeccare contro i tentativi di frode da parte di chi riscuoteva l'affitto della struttura; suggerire un'equa distribuzione dei viveri durante il pranzo; sensibilizzare i compagni all'onestà, perché i giocattoli erano pochi e andavano condivisi.
Le suore chiamarono il signor Wammy, che fu molto interessato al bambino e decise di tornare a trovarlo quanto prima.
La sua intelligenza era sorprendente: sapeva più cose di tutti i maestri che insegnavano nell'orfanotrofio; coglieva i teoremi di matematica prima che gli venissero spiegati; non esisteva domanda, quesito, indovinello, problema che non sapesse risolvere.
Le suore divennero pian piano spaventate dalla sua bravura eccessiva.
Furono chiamati dottori, maestri solo per lui, studiosi di psicologia infantile. Era inutile: Erald li sorprendeva tutti.
Quando la sua età oscillava intorno agli otto, nove anni, iniziarono ad arrivare le telefonate.
Offrivano soldi in cambio del bambino prodigioso. Andava istruito per portare profitto all'organizzazione. Era la mafia, che reclamava una piccola infallibile recluta, per addestrarla a diventare un'arma letale.
Poi chiamò la polizia segreta di stato.
Poi di nuovo la mafia, che tramutò le offerte in minacce.
Le suore, disperate, si appellarono di nuovo il signor Wammy per spiegargli la situazione.
A quel punto, egli stesso tornò in Russia e prese l'affidamento del bambino. Erald divenne l'unico figlio del signor Wammy, che dopo tanti anni di lavoro con bambini orfani, non aveva mai trovato un'occasione per creare una famiglia.
Quando Erald compì dieci anni, si trasferirono in Inghilterra, dove lui frequentò le scuole superiori, ottenendo risultati strabilianti.
A quindici anni, quello stranissimo ragazzino era il più brillante studente della facoltà di criminologia.
 
« E allora Erald, che mi racconti della facoltà? Ti trovi bene?»
Wammy non aveva mai perso il suo atteggiamento dolce, anche se le rughe sulla sua fronte andavano aumentando di anno in anno.
« Molto bene. Grazie Wammy» mormorò Erald, rannicchiato sulla sua seggiola, mentre ammirava una gran bella coppa di gelato con panna.
« I professori dicono che hai superato facilmente tutti gli esami del primo semestre»
Il ragazzo, rimanendo mogio, azzardò un sorriso flebile, che si spense subito.
« Si, è vero. Erano facili»
« Non potrei che essere più orgoglioso di te, Erald».
Sentendosi fare un complimento così dal cuore, arrossì violentemente. Nascose la testa fra le ginocchia e smise di mangiare il gelato.
« Ho pensato di farti un regalo. È nella tua stanza. Se vorrai usarlo, ne sarò felice».
I grandi occhi neri di Erald si posarono su quelli semichiusi di Wammy. Cercò di capire se vi fosse un tranello o, in caso contrario, quale fosse il motivo di tanta premura. La sua ottima condotta universitaria non poteva costituire una raigione valida a fare regali: era scontato che gli esami sarebbero filati lisci.
Ignorando definitivamente la coppa di gelato – non senza mangiare le fragole intere che erano rimaste – il giovane ragazzo si alzò da tavola e si avviò verso la sua camera.
Quando vide che cosa era appoggiato sul suo letto divenne di nuovo rosso e tremante. Non avrebbe mai pensato che Wammy potesse inventarsi un regalo del genere. Significava che lo riusciva a capire davvero bene.
Questo pensiero lo fece tremare ancora di più e, vergognoso, si avviò ad ammirare la bellissima nuova arrivata nella sua vita.

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Capitolo 4
*** frammento numero 4 ***


 « E questa da dove diavolo l'hai tirata fuori?»
Esclamò Ulla non nascondendo l'ammirazione.
Erald l'aveva raggiunta alle quindici davanti al solito campo da tennis, ma stavolta impugnava una racchetta.
Era rossa, dal manico color legno. La teneva appoggiata alla spalla, sentendosi stranamente disinvolto.
Lei lo vide appoggiato al faggio, fiero, un po' goffo, ma più sicuro del solito. Le ombre delle foglie disegnavano ghirigori sul suo viso pallido.
« È una Wilson Pro Staff RF 97. Il bilanciamento è quasi tutto sul manico, mentre il piatto è leggero e dev’essere utilizzato lasciando andare con velocità. È fatto di un materiale tra la grafite e il Kevlar, 68.50 cm.» Aggiunse lui, convinto, mentre oscillava leggermente il prezioso oggetto sulle sue spalle.
Ulla era sconvolta.
Erald si decise a dirle la verità:
« In realtà … Non ho la minima idea di cosa voglia dire. Ho solo fatto qualche ricerca. È stato il signor Wammy, a regalarmela».
Ulla sbatté le palpebre più volte, probabilmente pensando che spendere tutti quei soldi per una racchetta da professionisti, solo per metterla in mano a un principiante, fosse un sacrilegio.
I suoi grandi occhi castani da scoiattolo rimanevano spalancati.
« Come … perché te l'hanno regalata?»
Erald rispose, pronto ma sconsolato:
« Beh, il signor Wammy ha visto che mi fermo spesso a guardarti mentre giochi. Pensa che sarebbe bello se mi facessi un amico, credo»
Ulla lo guardò, sempre stupita. Aveva i capelli rossi raccolti in una treccia che aumentavano l'effetto tenero del suo viso.
« Hai qualche strana malattia, vero?» chiese con un velo di preoccupazione. Arretrò di un passo o due.
« Io? No, non credo» Rispose Erald dall'aria confusa.
Ulla non abbandonò l'espressione preoccupata: « Senti …. è veramente folle che ti abbiano preso una racchetta in quel modo … e che, insomma … non hai davvero amici? Sei tutto pallido, cammini strano. Io … non posso essere la tua unica amica se stai morendo o cose così. Non ti conosco … non ce la faccio».
Le guance le si erano arrossate, mettendo in evidenza le costellazioni di lentiggini marroni.
Erald la fissò a lungo, prima di parlare di nuovo: trovò ammirevole una risposta così sincera da parte di una quasi sconosciuta. Era quello l'effetto che dava alla prima occhiata? Sembrava un ammalato? Non gli era mai passato per la testa che il suo aspetto esteriore potesse in qualche modo condizionare l'impressione degli altri su di lui.
« Ti ringrazio per avermi detto quello che pensi» disse, calmo. Cercò di sorridere, ma si vergognava e temeva di arrossire ancora: « quanto alle tue obiezioni verso le premesse che potrebbero ostacolare la nostra amicizia, eccone la soluzione: si, è piuttosto folle comperare una racchetta costosa ad un principiante. Il signor Wammy è molto ricco e la mia borsa di studio è sostanziosa. Inoltre sono uno che impara in fretta, quindi mi auguro di poter maneggiare propriamente questo attrezzo in breve tempo, se tu mi insegnerai. Se me lo concederai, in realtà, penso che potrei regalarla a te, questa racchetta. Io non giocherò di certo per tutta la vita».
Ulla era ammutolita. Non gli aveva mai sentito fare discorsi tanto lunghi.
« Il secondo preliminare riguardava la mia mancanza di amici. Beh, è molto difficile per me, averne. Come avrai notato, non sono un tipo espansivo. Inoltre, frequentare scuole dove tutti hanno almeno dieci anni più di me, mi rende inadatto alle relazioni sociali».
Erald passò la mano libera sui propri capelli, percependo il calore della cute e la morbidezza delle ciocche scure.
« Il fatto che io sia pallido e cammini strano è una conseguenza della mia introversione: mi piace rannicchiarmi, perché sento il sangue che fluisce bene al cervello e posso ragionare al cento per cento. Sono pallido perché … non ne sono sicuro. Un po' è per natura, certo; mia mamma era russa».
Si interruppe, stupendosi lui stesso di aver menzionato sua madre.
Concluse: « E non sto morendo. Almeno non nell'immediato. Tutti gli esseri umani stanno morendo, no? Diciamo che la mia ora non è ancora suonata».
Visto che Ulla non sbatteva ciglio e non dava segni di vita, Erald tentò un ultimo approccio:
« Che ne dici? Possiamo diventare amici?».
Fu troppo.
Ulla scoppiò in una risata forte e sincera, poi tese la mano verso il ragazzo.
« Sei un tipo maledettamente lugubre, Erald Coyle»
lui strinse quella mano candida e lentigginosa, incerto sulle implicazioni che quel gesto avrebbe comportato. Era morbida e liscia.
Le mani congiunte fecero in su e in giù per l'aria, spinti dal braccio di Ulla.
« Vieni dentro. Ti insegnerò a giocare a tennis, ma per l'amor di dio, usa la mia racchetta. Non voglio nemmeno immaginare cosa ne faresti di quell'attrezzo» disse imitandolo.
Erald sorrise, sciolto dall'imbarazzo.
Seguì la dolcissima e temeraria fanciulla dai capelli rossi dentro il campo da tennis.

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Capitolo 5
*** frammento numero 5 ***


Erald non era mai stato bravo nelle relazioni sociali. Se ne accorse drasticamente solo quel venerdì pomeriggio, quando per la prima volta in vita sua chiese a una ragazza di uscire.
Non aveva intenzioni romantiche, o almeno non ci aveva pensato.
La sua richiesta gli pareva una legittima dichiarazione d'amicizia, fatta dopo ormai un mese di lezioni di tennis pomeridiane.
 
« Stasera hai qualcosa da fare? Ti andrebbe di fare qualcosa insieme?»
Ulla rimase di stucco.
Prima arrossì, poi tornò pallida, piena di puntini scuri su tutto il viso.
L'espressione apatica di Erald non le suggeriva che quello fosse un invito galante. Se ne stava lì, con gli occhi a pesce lesso e la schiena curva, ad attendere la sua risposta. Dava già per scontato che avrebbe detto “si”.
Una gran delusione la assalì, senza sapere davvero il perché.
« Non hai fatto caso a molti particolari, vero?»
Mormorò, con voce quasi offesa. Aveva lo sguardo basso e, sebbene Erald non potesse vederla chiaramente, qualche lacrima le si affacciava sugli occhi marroni.
Sentendosi punto nell'orgoglio, lui provò a ribattere con leggerezza:
« Questa è un'offesa bella e buona! Lo sai che non ho rivali in campo di investigazione»
Ulla non prese bene la sua allegria. Alzò la faccia di scatto, mostrando i grandi occhi da scoiattolo, lucidi. L'espressione di chi contiene a stento la propria rabbia e frustrazione.
Erald si sentì immediatamente un imbecille, anche prima che lei iniziasse a parlare.
 
« Non hai fatto caso al cartello “chiuso” sul campo da tennis? Non hai fatto caso alle mie magliette da uomo, strappate e le scarpe consumate? Non hai fatto caso che nessuno mi viene mai a prendere, né un papà, una mamma, uno zio, un tutore …? Non ti sei mai chiesto perché non ti abbia mai chiesto di accompagnarmi a casa? No, vero? Perché tu hai la tua borsa di studio … tu sei ricco sfondato e ti possono regalare le racchette costose! Tu non ti rendi conto, invece, di chi sono io... No, eh? Beh allora scusa, ma prima di giocare a fare il detective, dovresti destreggiarti un po' di più con la vita vera!»
Ulla fece dietrofront e uscì dal campo da tennis, attraverso la porticina sempre aperta.
I suoi capelli rossi svolazzanti furono l'ultimo elemento reale che Erald vide quel giorno.
Lui rimase lì, immobile.
Sentiva di aver appena commesso il più grosso errore della sua vita, ma non ne coglieva il senso.
Era certo di essere un idiota. Aveva detto qualcosa di molto stupido, oppure era lui stesso ad essere stupido con tutta la sua persona.
Poi pensò alle parole dure che ancora gli echeggiavano nella testa. Si guardò intorno: solo in quel momento Erald si accorse di quanto fosse squallido quel campino: le foglie che l'autunno aveva fatto cadere, giacevano ammucchiate sul suolo, senza che nessuno si fosse preoccupato di spazzarle. La porta aveva i cardini rotti; non poteva essere chiusa.
L'omissione più grande, Erald si chiese come avesse potuto non farci caso, fu l'aver ignorato il cartello che giaceva ai piedi della porta.
Qualcuno (Ulla probabilmente) l'aveva portato dentro il campo, ma la collocazione originaria doveva essere fuori dalla rete.
Era bianco, mezzo stinto, con la scritta “CHIUSO” colorata di un vago nero sbiadito.
Si trattava di un campo abbandonato.
Ulla non lo prenotava regolarmente, come Erald si era immaginato immaginato finora.
Una nuova prospettiva gli sfrecciò davanti gli occhi, annebbiandogli la vista: Ulla non aveva una casa, o un posto gradevole degno di tale nome? I vestiti che usava erano sempre gli stessi, non perché si trattava della sua divisa da tennis, ma perché non aveva nient'altro?
Era sola? Era povera?
Cosa doveva dire? Cosa poteva fare? Che cosa aveva sbagliato?
Esisteva una remota possibilità di rimediare al litigio?
Improvvisamente Erald si rese conto che l'Inghilterra, senza quell'appuntamento alle quindici del pomeriggio, non costituiva nessun interesse. Era solo una gigantesca macchia grigia, alla cui infinita tristezza si sfuggiva solo con la presenza di quella piccola chiazza rossa e lentigginosa.

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