The Weight of Us

di serClizia
(/viewuser.php?uid=280275)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Stop And Stare ***
Capitolo 2: *** Du Malheur ***
Capitolo 3: *** Fortunate Son ***
Capitolo 4: *** It's my life ***
Capitolo 5: *** Edge of Seventeen ***



Capitolo 1
*** Stop And Stare ***




Rexburg, Idaho 2007
 
Castiel, 18 anni compiuti da tre giorni, era alla festa di compleanno più noiosa di sempre.
Era partito da casa con il vestito buono, la cravatta blu di papà e il trench coat che la mamma aveva insistito indossasse contro il freddo di Novembre. (“Hai voluto comprare questo obbrobrio, Castiel. Adesso hai occasione di sfoggiarlo.”)
Era la sua prima festa, era eccitato.
Non c’era assolutamente nulla di divertente nel partecipare a queste cose, però. La città dove abitava era piccola; si conoscevano tutti, anche quelli che non frequentavano lezioni insieme, e si ritrovò a fare la stessa esatta fine che faceva a scuola: la fine che tocca a quelli strani.
Castiel non era esattamente un tipo riservato, né eccessivamente timido. Era proprio che quando apriva bocca, i suoi coetanei, o per meglio dire quelli della sua intera generazione, lo fissavano come se fosse un alieno. E lui li fissava di rimando.
Aveva imparato a fissare presto, Castiel. Cercava di imprimersi nella mente i comportamenti umani, cercando di carpirli, di poterli in qualche modo capire ed imitare.
Così alla festa vide formarsi gli stessi gruppetti che si riunivano nei corridoi, nella biblioteca, nel cortile. Ci fu qualche occasionale tentativo di mischiarsi, ma per lo più i ragazzi se ne stavano tra loro e Castiel non apparteneva a nessuna di queste cricche. Perché Castiel non chiacchierava durante le lezioni, non si fermava ad intralciare il passo nei corridoi, e suonata l’ultima campanella filava dritto a casa.
Sostanzialmente, Castiel guardava gli altri vivere.
Al momento stava guardando dentro il bicchiere, sperando di trovare una risposta a qualche quesito, tipo come facesse a piacere la musica che stava pompando dalle casse.
Alzò lo sguardo e rimirò le pareti bianche della casa della festeggiata, Ester, che lo aveva invitato semplicemente perché aveva invitato tutta la scuola con dei volantini appiccicati per tutti i corridoi e gli armadietti con dello scotch ingiallito.
Fece tamburellare le dita contro la plastica del bicchiere suo malgrado, la musica non sarà stata piacevole ma era accattivante. Forse questo preciso pezzo era un po’ più accattivante degli altri, almeno aveva una linea vocale nitida che Castiel poteva ascoltare, magari scoprire un testo che gli potesse piacere.


Stop and stare
I think I'm moving but I go nowhere
Yeah, I know that everyone gets scared
But I've become what I can't be, oh


Castiel strinse il bicchiere tra le mani, infastidendosi contro la canzone. Non era vero, non si dicesse mai che fosse spaventato, che fosse un codardo. Gli era capitato di fare a botte a scuola, quando qualche simpaticone credeva di trovare in lui un nerd mingherlino incapace di difendersi. Castiel aveva sputato a terra il sangue del primo pugno e si era difeso con tanta maestria che alla fine erano stati i loro genitori a lamentarsi con il Preside.
Naturalmente la cosa l’aveva reso ancora più alieno a scuola, ma almeno aveva ottenuto un certo rispetto.
Non c’era nessuna paura in lui, dunque. Si riteneva una persona equilibrata, decisa, e quindi decise di mischiarsi alla festa. Sarebbe andato a parlare con qualcuno, qualsiasi persona possibile.
In quel momento, per volontà divina, destino, o qualunque nome – meglio se inizia con la D – salti alla mente, la folla si aprì in due, come una specie di fetta di torta tagliata dall’alto, quasi fosse passato di lì un Mosè in erba.
Castiel si trovò davanti un corridoio vuoto per guardare dall’altro lato della sala e puntare la sua preda.
La preda in questione era un gruppetto di 5 o 6 persone, ognuna con il suo bicchiere in mano e intenta a chiacchierare. Castiel li studiò tutti, mentre prendeva coraggio e infilava quel corridoio provvidenziale.
C’erano una ricciola bionda, una ricciola mora, una liscia mora e un castano… Castiel si fermò sul ragazzo, ignorando gli altri.
Capelli corti, cortissimi, tranne una specie di ciuffo sul davanti. Beveva e ridacchiava, completamente a suo agio, non come Castiel-lo-stoccafisso-alieno. Aveva una giacca di pelle nera, jeans sdruciti e stivali. Quando cominciò a mordicchiare il bordo del suo bicchiere, Castiel seppe che sarebbe stato lui la sua missione. La persona con cui parlare. Castiel voleva intensamente sapere il nome di quel ragazzo dalle labbra imbronciate.


Stop and stare
You start to wonder why you're here not there
And you'd give anything to get what's fair
But fair ain't what you really need…


Castiel non stava più ascoltando il testo, ma fece esattamente quello che diceva.
Si fermò a pochi metri dal gruppo e si mise a fissarli. Li studiava, inclinando la testa di lato nel suo atteggiamento meditabondo, cercando un giusto modo per approcciare.
Per avviare la conversazione, almeno. Non gli giunse nessun altro aiuto divino purtroppo, e il suo cervello si rifiutava di collaborare. Non era la sua area di competenza d’altronde. Dategli un problema di matematica e quello se la faceva sotto dalla gioia, ma con le interazioni umane? Era parecchio arrugginito. Era nato arrugginito, pareva.
Così fece gli ultimi passi avanti, colmando la distanza tra lui ed il gruppo, arrivò alle spalle del ragazzo e gli poggiò una mano sulla spalla.
Il ragazzo si voltò immediatamente, sicuramente certo di trovare un amico, o almeno un conoscente, dall’altra parte di quel braccio. Invece si trovò Castiel. E Castiel trovò lui, e i suoi occhi verdi, e strinse i propri nel tentativo di non confondersi a contare tutte quelle lentiggini.
Il ragazzo lo fissò ancora un po’, abbassò lo sguardo sulla mano ancora appoggiata sulla spalla e tornò a guardare lui. Le ragazze da cui era accerchiato si zittirono quando si resero conto della scena.
“Amico, mi stai facendo male.”
Castiel lasciò la presa di botto. “Le mie scuse.”
La ricciolina bionda ridacchiò nel palmo della mano e sgomitò l’amica rossiccia alla sua sinistra. Probabilmente stavano per raccontarsi qualche aneddoto strano che Castiel poteva o non poteva aver fatto a scuola (molto probabilmente l’aveva fatto).
La liscia aggrottò la fronte. “Lo conosci?”, chiese al ragazzo.
“No,” rispose lui semplicemente.
“Sono Castiel,” gli venne in mente di presentarsi.
“Ti serve qualcosa?”
Il ragazzo non sembrava infastidito, solo perplesso, con una vena di preoccupazione. Forse Castiel stava davvero facendo una figura da pazzo, lì impalato in silenzio.
“Dobbiamo parlare,” affermò finalmente.
Il ragazzo contrasse la mascella, indurì lo sguardo.
Annuì, e gli fece cenno di seguirlo. Castiel lo tallonò per la sala, attraverso la portafinestra in vetro e fuori in giardino. Il piccolo cortiletto era vuoto, un’altalena giaceva arrugginita ed abbandonata in un angolo. Castiel osservava sempre i dintorni con minuzia di particolari – per esempio l’edera che saliva su tutta la staccionata di legno. Il ragazzo invece aveva poggiato la bibita a terra e fece scoccare i talloni, come un toro che si prepara alla corsa (un toro dalle gambe arcuate).
“Allora, di cosa dobbiamo parlare?”
Castiel fu preso in contropiede. Non capì la domanda, non c’era un argomento preciso, visto che si erano appena conosciuti. Ah, ecco la risposta. Non sapeva il suo nome, potevano partire da lì.
“Possiamo iniziare da come ti chiami.”
Il ragazzo fece saettare la testa da un lato, lo sguardo dall’altro per poi ripuntare entrambi su di lui. “Cosa?”
“Non conosco il tuo nome. Penso sia educato saperlo per iniziare una conversazione con qualcuno.”
“Iniziare una conversazione? Non sei qui per picchiarmi?”
Castiel assottigliò lo sguardo, confuso. “Perché dovrei picchiarti?”
Il ragazzo batté le mani, poi gli porse i palmi. “Non lo so, forse perché sei arrivato tutto dritto e rigido a dirmi ‘Dobbiamo parlare’?”
“Oh, capisco il fraintendimento,” Castiel strusciò un po’ i piedi. “Intendevo dire che io dovevo parlare con te. Con qualcuno, almeno. Ho deciso che non sarei tornato a casa senza fare conversazione.”
Il ragazzo si passò una mano sulla bocca. “Amico, sei ritardato?”
“Il mio Q.I. è impeccabile.”
Castiel non trovava la parola ‘ritardato’ adatta, né alla situazione né per riferirsi ai portatori di handicap. Fece mostra della sua opinione squadrando male il ragazzo, che lo squadrò male a sua volta, prima di scoppiare a ridere.
“Devi essere uno dei quei tipi alla Rain Man.”
“Alla cosa?”
Un’altra risata. “Amico, ed io che pensavo di averti rubato la ragazza e volessi farmi il culo!”
Castiel si infilò le mani nelle tasche del trench. “Non sono interessato alle ragazze.”
Il ragazzo smise di ridere di colpo. “Oh. Beh...”
Castiel recuperò la bibita da terra e diede un sorso. Era birra, ma lo aveva sospettato già da prima.
Mentre lui aveva preso un analcolico, era ovvio che giubbotto-di-pelle fosse uno di quelli che beveva prima del tempo legalmente consentito. Il sorso gli lasciò una scia amara in gola, e fece una smorfia.
L’altro intanto lo stava fissando. Castiel si rese conto di essergli ad una spanna, di nuovo dimentico della concezione di spazio personale. Non sapeva perché agli altri causasse disagio, ma lo aveva notato, e poteva solo supporre che anche in questa situazione fosse lo stesso.
Stava per muoversi quando l’altro inghiottì un cumulo di saliva, facendo saliscendere il suo pomo d’adamo. “Dean,” affermò all’improvviso. “Il mio nome è Dean.”

Stop and stare…

La festa finì, i ragazzi sciamarono nel cortiletto d’ingresso della villa verso le macchine, diretti a casa.
Castiel, che aveva passato il resto della serata appoggiato ad uno stipite in quieta osservazione di Dean, era di nuovo solo, per strada.
Fissò il marciapiede, cercando di assimilare la voglia di tornare a casa a piedi. Non ne aveva perché non sentiva sonno, né l’urgenza di tornare dentro le mura familiari per la prima volta da che avesse ricordo.
Non aveva più avuto occasione di parlare con Dean-dalle-labbra-imbronciate, ma si erano guardati.
Mentre chiacchierava con un altro e poi un altro capannello di persone, Dean non mancava mai di lanciare uno sguardo nella sua direzione. Così Castiel se n’era stato lì, ad osservare i suoi movimenti in silenzio.
Non aveva di meglio da fare d’altronde, no? Nessuno con cui parlare, nient’altro con cui passare il tempo.
Un clacson lo distolse dalla contemplazione delle crepe grigie sotto i suoi piedi.
Dean gli accostò accanto in una lunga macchina nera, tirò giù il finestrino e si appoggiò nel vano con il gomito all’infuori. “Ti sei perso, principessa?”
“So perfettamente come arrivare alla mia abitazione da qui, e non sono una principessa.”
“Okay, okay, non te la prendere  per aver chiesto. Vuoi un passaggio?”
Castiel studiò la macchina, e il suo proprietario, che si premurò di allargare il sorriso – non prima di essersi bagnato le labbra con la saliva.
Salì semplicemente, senza rispondere. Dean appiattì il sorriso con fare compiaciuto e ripartì, sfidando la legge di gravità e almeno 50 regole stradali dell’Idaho.
“Dove ti porto, principessa?”
Castiel snocciolò l’indirizzo con contorno di sguardo della morte per il soprannome. Dean ingranò la marcia con un sorriso soddisfatto, prima di prendere ad armeggiare con la radio.

This town is colder now, I think it's sick of us
It's time to make our move, I'm shaking off the rust
I've got my heart set on anywhere but here
I'm staring down myself, counting up the years


“Merda! Questo schifo è ovunque!”, Dean si allungò per cambiare stazione ma Castiel gli bloccò il polso.
Dean rimase congelato lì, dimenticandosi completamente di stare percorrendo una strada comunale ai 70 all’ora. Castiel ritrasse la mano, paventando un incidente mortale. “A me piace.”
Dean tornò a guardare davanti a sé; lasciarono che le note riempissero l’abitacolo.

Steady hands, just take the wheel
And every glance is killing me…


“La casa è questa.”
Dean parcheggiò davanti al vialetto con un ennesimo sorriso, uno più piccolo, quasi di compiacimento.
Castiel non sapeva se chiederne il motivo o godersi semplicemente l’effetto che faceva, non era da tutti avere un sorriso così. Dei denti così. Decise di non continuare la lista, o ne avrebbe avuto per un bel po’, e magari a quel punto Dean si sarebbe finalmente innervosito di tutto quel fissarlo.


Stop and stare
I think I'm moving but I go nowhere
Yeah, I know that everyone gets scared
But I've become what I can't be
Oh, do you see what I see?

 
Quella era una bella domanda. Do you see what I see?
E quello che vedeva Castiel era il figo della festa e niente di più, ma si chiedeva cosa ci fosse nello sguardo di Dean. Per una volta immaginò di vedere con gli occhi di un altro. Guardò il proprio riflesso nelle iridi verdi e vide solo la propria faccia accigliata.
Non avrebbe trovato risposta, non stasera. Sospirò.
Scese dalla macchina e fece due passi, prima di ricordarsi le buone maniere e tornare indietro. Si chinò a guardare dal finestrino.
“Grazie del passaggio.”
Dean alzò le spalle. “Non c’è problema.”
Assunse di nuovo quell’espressione compiaciuta di sé che aveva messo su qualche minuto fa. Castiel si chiese se dovesse domandargli qualcosa. Un modo per restare in contatto. Chiedergli se potessero rivedersi a scuola, magari. Invece, il rimbombo sordo del motore di sottofondo era l’unica cosa che riempiva quel silenzio. Dean prese a tamburellare il sedile del passeggero, sembrava altrettanto incerto se aggiungere qualcosa. Castiel sventolò mollemente una mano.
“Buonanotte, Dean.”
“’Notte, Cas.”
 
 
 
Spazio autrice:

Questa fanfiction è per lo più un esperimento.
Si alternerà con un capitolo nel passato ed uno nel presente, otto anni dopo.
Prevedo angst e fluff ugualmente a palate.
Il banner è come sempre della lovely everlily, E OMMIODDIO QUANTO È BELLO.
Per la canzone da cui ho tratto il titolo, cliccare
qui. Per quelle inserite nella storia, sto cercando di rispettare la data di uscita. (Esempio: Stop And Stare degli One Republic è di Novembre del 2007)
Se avete domande, critiche costruttive, suggerimenti, se trovate errori nel testo o nella caratterizzazione / svolgimento della trama, sono tutta orecchi.
Mi potete trovare anche sulla mia pagina Facebook
qui.
Also, non riesco a smettere di scrivere di questi due. Se sapete come fare, siete pregati di farmelo sapere.
Sincerely yours,
ser

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Du Malheur ***






Rexburg, Idaho, 2015



Castiel odia il turno serale.
I clienti sono pochi, si annoia a morte, e leggere le riviste del reparto edicola può sedarlo fino ad un certo punto. Sa alla perfezione quale VIP pare sia uscito con quale altro VIP - e soprattutto chi ha la sfacciataggine di scoprirsi le gambe con la cellulite - eppure mancano ancora ore (34 minuti per la precisione) alla chiusura.
Preferisce il turno pomeridiano, quello in cui arrivano i suoi vicini di casa, e di quartiere, e fanno due chiacchiere. Quello in cui la signora McLahan, scozzese trapiantata lì per chissà quale motivo, viene a prendere le stesse identiche cose ogni giorno, si ferma a commentare il tempo, paventa l’arrivo della quarta guerra mondiale e se ne va.
Castiel adora i suoi clienti. Che non sono proprio suoi, visto che al negozio ci lavora soltanto, ma per lui è come se lo fossero. Persino quel tipo losco con il cappellino da lupo di mare che compare solo a notte fonda per comprare birra e giornalini porno. Com’è che si chiamava?
Getta sul bancone l’ennesima rivista – dopo aver appreso con disinteresse del matrimonio di qualche starletta della tv. Si guarda attorno, le tre corsie di scaffali deserte, lo specchio in alto, nell’angolo della parete di fondo, che riflette quella desolazione.
La luce al neon alla porta d’entrata illumina fiocamente il tratto di marciapiede fuori, ma pare che non ci sia nessun avventore in vista – solo una signora che si affretta a tornare a casa con un ombrello stretto al petto. Castiel sospira, lisciandosi un po’ il gilet azzurrino d’ordinanza.
Sono anni che lavora al Gas ‘n’ Sip, e ancora non riesce ad abituarsi alla noia del turno serale. Si accontenterebbe anche di quello notturno, sente di avere un feeling con le ore più tarde e silenziose. Riesce a sentirsi stranamente in pace con la solitudine, alle 3 o alle 4 del mattino.
Alle dieci arriva Nora a sollevarlo dalla sua miseria, finalmente.
Gli da’ una gentile pacca sulla schiena prima di spedirlo a casa, probabilmente già pensando alla babysitter che ha lasciato a casa con la bambina. Castiel sa quanto la preoccupi non poter essere sempre a casa, doverla affidare a mani sconosciute.
Piega il gilet sottobraccio e si incammina verso il complesso di appartamenti che adesso chiama casa, a soli due isolati di distanza. Gli piace poter andare a lavoro a piedi, senza lo sbattimento di dover usare i mezzi di trasporto e rimanere bloccato nel traffico come succede a tante persone, nelle grandi città.
Rexburg non è né una grande città, né ha del traffico, con i suoi 25.000 abitanti.
I lampioni gli indicano la strada, leggermente in salita, mentre un gatto nero salta giù dai cassonetti di una villetta alla sua destra e gli taglia la strada, correndo ad infilarsi nel giardino del dirimpettaio.
Se Castiel fosse una persona scaramantica si preoccuperebbe del presagio, ma non lo è, sorride alla bestiola e svolta a sinistra, il grande edificio beige di 5 piani con i suoi 15 appartamenti – tre per piano, Castiel abita al terzo – che svetta sulla strada.
Ci sono dei sassolini sul marciapiede, Castiel si diverte a calciarli finché non sente uno sting di pietra-contro-metallo. Spera di non aver danneggiato la macchina di qualcuno, e quando alza lo sguardo, il pensiero gli si ritorce contro e gli rimane schiacciato in gola.
Davanti all’entrata del suo cancello è parcheggiata lei, Impala del ’67, nera, lucida, immacolata come sempre, bella e terribile allo stesso tempo. Si imbambola a fissarla. Sente il portone del palazzo aprirsi, e la sta ancora fissando; delle voci che si avvicinano e sta ancora lì (“Sì, devi troppo vederla, amico. È una vecchia MV Agusta, devi assolutamente metterci le mani sopra e ripararmela.”)
Quando i passi si fanno più rumorosi e distingue la voce di Dean (“Okay, passa dal garage e vedo cosa posso fare”), si decide a voltarsi e alzare lo sguardo. Ed eccolo lì, in piedi sui cinque scalini che separano il cancello dal portone.
Dean fottutissimo Winchester, espressione incredula dipinta in volto.
Accanto a lui appare il tizio losco lupo di mare del minimarket, e il cervello di Castiel ha un improvviso guizzo di memoria. “Benny.”
Benny si blocca, rincorre la voce che lo ha chiamato, trova Castiel e appare confuso. Sono tutti confusi.
“Ah… Castiel,” salta giù dai gradini e lo raggiunge. Dean lo segue.
“Benny,” forse adesso non si scorderà mai più il suo nome.
“Sì… volevi dirmi qualcosa?”
Castiel si ricorda improvvisamente un’altra cosa ancora. È conscio che Benny abiti nel suo stesso complesso, ma non hanno mai parlato prima d’ora - se si esclude il classico “13 dollari e 86, grazie” con grugnito di riposta. Si riscuote, mettendo da parte lo shock strillante in un posto molto, molto lontano che possa raggiungerlo soltanto come un’eco distante.  “No, io – uhm… no.”
Non gli è venuta in mente una scusa decente, nemmeno lontanamente.
Benny lo osserva, forse per la prima volta, e sembra sinceramente preoccupato. Forse si immagina Castiel tutto solo nel suo appartamento, pazzo e tendente al suicidio, o qualcosa del genere. Forse è per questo che tentenna, si volta verso Dean al suo fianco.
“Dean questo è Castiel, un mio vicino di casa.”
Vicino che non sa se scoppiare a ridere o cosa. Dean pare avere lo stesso pensiero, scalpiccia coi piedi e poi allunga una mano, deciso, sorridendo a metà faccia. “Piacere di conoscerti.”
Castiel adesso è sicuro di essere ad un passo dalla risata più grassa e lunga della sua vita, le urla di shock ancora ben udibili nella sua testa devono essere quelle che lo trattengono. Alza la mano al rallentatore, sentendola pesantissima.
“Piacere.”

Sono le 3:47 del mattino.
Castiel pensa di essersi rigirato tra le coperte abbastanza. Le calcia via, nonostante non sia mai riuscito a dormire senza – tanto chi vuole prendere in giro, stanotte non chiuderà occhio.
Si passa una mano sulla fronte, frustrato. Contempla le pareti verde chiaro della sua stanza, spoglie fatta eccezione per una fotografia appesa sopra la piccola scrivania di legno accanto alla finestra.
Una foto della sua famiglia, quando vivevano ancora tutti insieme - nonostante Gabe e Anna via al college - e quando andava ancora tutto bene. Quando ‘casa’ significava una villetta in centro su di un viale alberato, con vialetto d’ingresso, pasti caldi ad attenderlo e il conforto di una famiglia alle spalle.
Si tira su per abbandonarsi contro la testiera del letto, sbuffando.
Non riesce a credere di stare perdendo di nuovo il sonno per colpa di Dean Winchester.
Dopo la strana scena della presentazione, si è dileguato con Benny sulla sua cavolo di macchina. Castiel li ha guardati andare via dalla finestra, ancora preso dall’imbambolamento. Mano a mano che l’Impala si è allontanata, a Castiel ha cominciato a rifunzionare il cervello. Lì per lì ha scaraventato tutto dietro un gigantesco macigno nella sua testa, deciso a non pensarci.
Si è fatto da cena, ha guardato un po’ di tv e poi è andato a letto.
Sarebbe andato tutto bene se non fosse che, quando si è soli al buio, i pensieri hanno la fastidiosa tendenza a scivolare fuori dai macigni e farsi strada, punzecchiando la coscienza come un ago appuntito.
E così, girando e rigirando le coperte con lui, ha rimesso insieme i pezzi del puzzle, rianalizzato tutto.
Dean ha ancora l’Impala. L’ha parcheggiata sotto casa sua, ma non sapeva che lo fosse. Era sorpreso di vederlo, non è andato lì sapendo di trovarci lui. È andato lì a trovare, o a prendere, Benny.
Come fanno a conoscersi? Magari per lavoro. Cosa faceva Benny poi…? Castiel non se lo ricorda.
Un pensiero lo pungola di nuovo: la conversazione che ha sentito.
Benny ha commentato un garage. Delle riparazioni. Magari Dean fa il meccanico, adesso?
Ha sempre detto che gli piacevano i motori, d’altronde. Castiel ferma subito il pensiero. Non andrà a parare lì. Non rivangherà ricordi del passato, di ben… quanti anni sono?
Otto anni, gli risponde il cervello, inesorabile. Sono passati otto anni.
Castiel scalcia via le coperte, stavolta completamente, per alzarsi e andare a prendere da bere.
Percorre il breve corridoio al buio - ormai sono 5 anni che abita lì e conosce l’appartamento a menadito - si infila in cucina e prende una bottiglia d’acqua dal frigo. Si appoggia contro l’anta, buttando giù a grandi sorsi direttamente dal collo.
Da lì può vedere la sala, il divanetto marroncino di fronte alla tv, la libreria ricolma di libri e ricordi (ricordi che vale la pena avere). Castiel è felice della sua casa. Si è fatto una vita, è andato avanti.
Sono anni che non pensa più a Dean Winchester, a come lo avessero colpito le sue labbra imbronciate la prima volta che l’ha visto. Sono anni che non pensa più a quella musica.
Decide di portarsi la bottiglia in camera, lasciarla sul comodino gli pare una buona idea.
Si sdraia di nuovo, strizzando gli occhi, tentando di portare la mente verso lidi più piacevoli, ma quella ritorna sempre a punzecchiare negli stessi posti.
Dean ha un lavoro, forse fa il meccanico in un garage. Dean ha ancora l’Impala, non che Castiel pensasse che se ne sarebbe mai liberato. Dean ha un amico, o un fidanzato, di nome Benny, che abita al secondo piano. Dean probabilmente si farà rivedere in giro, per lo stesso motivo.
Si incontreranno nell’atrio, prenderanno l’ascensore insieme.
Dean magari arriverà con la spesa, o il giornale sottobraccio. Con delle provviste, magari con un cane, magari un giorno gli servirà il sale e busserà alla sua porta.
Dean, con gli stessi capelli corti e lo stesso ciuffo, la stessa faccia da culo, ma più alto, più grosso, con una leggera barba incolta ma la stessa luce negli occhi, le stesse lentiggini.
Dean, la stessa camminata con le gambe arcuate, lo stesso stile nel vestirsi, camicia-maglietta-jeans-stivali, probabilmente riapparirà nei prossimi giorni, o settimane, a tormentarlo.
Perché Dean è amico di Benny – o forse qualcosa di più – ma soprattutto, Dean è tornato in città.
 
 

 
 
Rexburg, Idaho, 2015, qualche settimana prima


La macchina si spegne con uno sbuffo sul vialetto.
Lo sta già aspettando sulla soglia, con le braccia conserte e un cipiglio nascosto – male – dal cappellino. Deve aver sentito il rumore del motore dalla strada.
Dean prende la sua sacca dal sedile di dietro e schiocca i talloni per stiracchiare i muscoli dopo il lungo viaggio. I tre gradini del portico sono una specie di limbo tra ora e quello che sta per succedere.
Durante quel mini percorso, quella specie di gradini di Schroedinger, potrebbe reagire in due modi: dargli un pugno in faccia e rimandarlo direttamente da dove è venuto con la coda tra le gambe, oppure dargli un pugno in faccia per non essersi fatto più sentire per anni.
Quando gli arriva davanti, sulla soglia, il vecchio lo squadra un po’, e Dean non è pronto ad uscire dal limbo, ma quello apre la bocca lo stesso.
“Ce ne hai messo di tempo per tornare a casa, figliolo.”
Gli allunga una birra.
Bobby.

In un paio di giorni è come se avesse sempre vissuto lì.
Bobby gli fa alzare il culo tutte le mattine e lo mette a lavorare al garage. Non gli fa domande, anche se lo squadra sempre come per vedere se stia per cadere a pezzi da un momento all’altro.
La verità è che non si sentiva così bene da molto tempo.
Il garage ha abbastanza lavoro da tenerlo occupato tutta la giornata, le mani sotto il cofano di un furgone la sua personale versione di paradiso. Non pensare a niente, non pensare al passato, al futuro, a dove sta andando. A dove vorrebbe andare. Non è in grado di sapere niente di tutte queste cose, e buttarsi nel lavoro è l’unica cosa che sembri avere un senso, al momento.
I clienti si susseguono, macchine vengono riparate e rispedite al proprietari.
Una birra sul portico con Bobby la sera.
Il vecchio aveva ragione. Dean si sente a casa.
Vecchio che chiaramente resiste tre giorni e mezzo prima di cominciare a farle, le domande.
Dean non è pronto a rispondere, quindi glissa con un “Avevo bisogno di un cambiamento, tutto qui.”
Chiama Sam quasi ogni sera, tanto che quello stronzo ha la faccia tosta di chiamarlo ‘patologico’. (“Non prenderla per il verso sbagliato, Dean, mi fa piacere sentirti. È solo che non mi hai mai chiamato così spesso. È strano.”)
Dean non poteva certo dirgli che gli manca, che si sente solo, che non sa che cazzo stia facendo a mettere così sotto sopra la sua vita, quindi glissa anche con lui. E con glissare, s’intende sparargli il primo insulto che gli venga alla mente e attaccargli il telefono in faccia.
Anche se non è stato di grande aiuto, perché immagina troppo bene il ghigno di Sam dall’altra parte del telefono che scuote la testa al suo fratellone idiota, per poi tornare a copulare con quella sua ragazza nuova, sicuro - che Dean adora, perché Sam la adora, e non l’aveva mai visto adorare qualcuno a quel modo, e vederlo così felice lo trasforma segretamente in una mammina orgogliosa senza dignità.
Dean non glielo ammetterà mai, ma ringrazia Dio che qualcuno si sia preso cura di Sammy da vicino quando lui non c’è stato.

Dopo una settimana spunta Benny al garage con lo stesso furgone scassato che aveva alle superiori.
“Amico! Come diavolo fa a stare ancora in piedi questa cosa!”
Benny lo guarda a bocca aperta per qualche secondo, prima di scoppiare a ridere e trascinarlo a prendere una birra con lui. Per fortuna Dean è sempre stato un lavoratore modello, o Bobby gli avrebbe staccato la testa a morsi, invece di lasciarlo andare con un cenno del capo. E forse un mini-sorriso? Difficile da dire dietro tutta quella barba.
Benny lo subissa di domande, e non se la prende quando Dean risponde a una sì e a due no.
Sì al lavoro (“Sono stato un fiero operaio, grazie di averlo chiesto.”), no a cosa hai fatto finora, con chi, perché sei tornato.
Tanto, alla seconda birra, gli sta già raccontando tutto sulla sua vita da ex-marine nell’Idaho, e Dean non deve fare altro che ascoltare e ridere, annuire ed esclamare cose al punto giusto (“Sei finito a fare il lavapiatti? Dopo essere stato buttato fuori dalla Marina? È una roba assurda, amico!”), ed è insieme divertente e rilassante.
Dean si ricorda perché gli piaceva girare insieme a Benny, ai tempi della scuola. Era facile stare con lui, e in qualche modo erano simili. E non da fuori, perché non potevano essere più diversi di così, ma dentro, nel profondo, dove conta.

Poi arriva quel giorno. O meglio, quella sera.
Passate due settimane, Benny ha di nuovo il furgone a riparare – è ridotto davvero a uno schifo, lo porta dentro una settimana sì e una no. Quando si organizzano per andare a bere una birra da qualche parte, ovviamente Dean si offre di andare a prenderlo a casa.
Sono le dieci meno qualcosa e Benny lo invita su per mostrargli l’appartamento. È carino, non molto grande ma confortevole, da’ quel sapore di casa che Dean non sente da un po’ – non lo stesso di casa di Bobby, quello crede che sia il corrispettivo di ‘casa dei miei’. Intende proprio sapore di casa.
Mentre scendono le scale, pensa che forse tra un pochino potrebbe cercarsi un appartamento tutto suo, dubita che Bobby rimanga così felice di averlo con sé vita natural durante. E comunque a casa propria potrebbe girare in mutande quando gli pare, tanto per dirne una, senza un vecchio brontolone che si lamenta della cosa ad ogni piè sospinto.
Benny gli sta dicendo che ha trovato una vecchia moto su cui vuole che lavori quando lo vede.
Aveva sentito una voce, ma non pensava fosse la sua.
È cambiata da quando si conoscevano, più maschile. Dean, impalato sui gradini, lo osserva. È più maschile perché a fissarlo non è più un ragazzo, è un uomo. Castiel ha le spalle larghe, è ben piantato, anche se sempre in quel modo strano e alienato tutto suo. Quello di uno che non si rende conto molto bene di avere degli arti attaccati al corpo.
Dean registra vagamente di essersi avvicinato, seguendo Benny in modo automatico.
La divisa blu tra le mani, fa il commesso? È venuto qui a consegnare qualcosa? Sarebbe una fottuta coincidenza gigantesca.
Si è perso tutta la conversazione che i due stanno avendo finché Benny non chiama il suo nome.
“Dean… questo è Castiel, un mio vicino di casa.”
Vicino di casa!
È comunque una fottuta coincidenza gigantesca.
Dubita che Castiel voglia avere un’imbarazzante conversazione su come si conoscano, sulle coincidenze del cazzo della vita. Non lì su quei gradini, non davanti a Benny.
Non era così che sarebbe dovuto succedere, cazzo.
Fa l’unica cosa che gli sembra sensata, e allunga la mano.
“Piacere di conoscerti.”
Gli sembra che Castiel sia sul punto di prenderlo a pugni, ma l’ombra gli passa presto dagli occhi e torna alla sua stoica impassibilità – Dean vorrebbe ridere e dirgli “Non sei cambiato niente!”, si ferma appena in tempo.
Cas gli stringe la mano senza stringerla davvero. “Piacere.”
In un attimo si congeda, e a Dean sembra più che altro una ritirata tattica.
Benny riprende a parlare della moto e si avvicina all’Impala, Dean rimane voltato a fissare il portone oltre il quale è sparito. Quegli occhi ancora così blu, nel volto di un adulto. La voce roca. Castiel.
“Amico, vieni o no?”, Benny ha il braccio a penzoloni sopra la portiera.
Dean annuisce e va ad infilarsi in macchina.
Sa dove vive (Vicino di casa! Quante erano le possibilità?). Era a piedi. Probabilmente lavora nelle vicinanze.
Cas.
Non sarà difficile ritrovarlo.



 
Spazio autrice:
WIIIIIII! Avevo intenzione di pubblicare questo capitolo PRIMA della fine del 2015 e me lo sono dimenticato. Non cambio la data perché è importante per me che siano passati 8 anni e non di più. Possiamo fare che fosse la fine del 2015 e aggiornare gli anni in corso d’opera, magari.
Passando alla storia, la prima cosa che mi preme dire è che non ci sono titoli di canzoni per i capitoli, perché nel presente la vita di Castiel è priva di musica.
La seconda, è che il POV Dean è più scarno perché se approfondissi un po’ di più, si spoilererebbero (?) inevitabilmente cose che devono venire fuori più avanti.
Mi trovate
qui nella mia pagina autore di Facebook per commenti, scleri, tentativi di razionalizzazione, e lacrime.
PS: feeeeeeeeeeeeeels per Bobby e Benny ç_ç

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Fortunate Son ***




Rexburg, Idaho, 2007
 
Castiel non amava particolarmente studiare.
Non per pigrizia, né per ribellione adolescenziale, semplicemente lo trovava noioso.
Snocciolare nozioni che nella vita non gli sarebbero servite a niente lo rendeva frustrato. La sua mente necessitava di stimoli, di interessi, di problemi da risolvere – che non fossero i soliti 25 stupidi esercizi del libro di matematica che la professoressa aveva assegnato per il giorno dopo.
A volte pensava che se fosse stato un giovane mago ad Hogwarts, sarebbe finito in Corvonero insieme a quelli che hanno pessimi voti a scuola perché nel consegnare un compito sui troll scrivono otto pergamene sull’ingiustizia della loro condizione sociale rispetto alle altre creature magiche – ecco perché Hermione non sarebbe mai potuta essere un Corvonero, andare fuori tema non era nel suo DNA.
“Castiel?”
La voce di sua madre lo ridestò dalla contemplazione del quaderno, che coprì con il braccio fingendo indifferenza. Se si fosse avvicinata, avrebbe visto ghirigori al posto delle disequazioni di secondo grado.
“Sì?”
La mamma scese i due gradini che dal corridoio portavano alla grande sala dalle pareti bianche – e per lo più spoglie – in cui si trovava Castiel, e si appoggiò con le mani alla sedia di mogano di fronte a lui. “Sto uscendo. Ti serve qualcosa?”
Castiel finse di pensarci su e guardò le altre sei sedie vuote. (Mogano, come il tavolo. Tutto era perfettamente in tinta, in quella casa.) Avrebbe voluto Gabriel, e Anna. Avrebbe voluto qualcuno con cui parlare, con cui fare i compiti insieme, con cui passare il tempo. Avrebbe voluto compagnia, più di ogni altra cosa. Invece aveva una famiglia ricca e una casa incredibilmente vuota.
“No, grazie.”
La mamma si scostò i capelli dalla fronte sistemandosi l’acconciatura, e Castiel sapeva già cosa stava per dire. “Fai una pausa di dieci minuti, tra un pochino.”
Glielo ripeteva sempre prima di uscire, era una donna che credeva molto nell’organizzazione serrata delle ore di studio – oltre che di tutte le altre cose. Forse era l’essere moglie di un reverendo e avere troppo tempo a propria disposizione.
“Certo.”
Si lisciò il tailleur prima di passare a dargli il canonico bacio sulla testa e sparire oltre la soglia del portone, a pochi passi dal tavolo dove era seduto.
Con quel tonfo, scese il silenzio. Castiel era di nuovo solo. I fratelli maggiori al college, il padre a svolgere qualunque mansione richiedesse il suo ruolo nella piccola parrocchia, la mamma fuori a fare compagnia alle altre fedeli casalinghe, per non lasciarle troppo sole.
Era molto ironico che i suoi genitori impegnassero il 95% del proprio tempo e dei propri sforzi nel lavorare per la comunità, lasciando il resto 5% scarso ai propri figli.
Gabriel lo trovava assolutamente spassoso. Ma per Gabriel era facile trovare del comico ovunque, anche nel fatto di diplomarsi prima del tempo pur di fuggire da Rexburg e andare all’Università.
Castiel sospirò e decise di anticipare la pausa, tanto non stava combinando nulla in ogni caso. Prese un po’ di succo d’arancia dalla cucina e si sistemò fuori, sugli scalini di legno del portico.
Gli era sempre piaciuto stare all’aria aperta, e doveva approfittarne, visto che a breve sarebbe stato troppo freddo perfino per pensare di mettere il naso fuori.
Sì rilassò sotto il cinguettio degli uccellini, il rumore distante di un tagliaerba, il tepore che gli avvolgeva le guance. La strada di fronte era deserta, le casette tutto intorno spiccavano perfettamente allineate e con uno spiazzo di giardino davanti, tutte uguali. I colori erano diversi, certo. La maggior parte era colorata di un marroncino opaco e giallo, mentre una in fondo a sinistra era rossiccia. Quella della famiglia di Castiel era l’unica ad essere impeccabilmente bianca.
Stava fissando intensamente le foglie autunnali che avrebbe dovuto spazzare dal giardino – il suo mamma/calendario segnava le 15:10 del pomeriggio successivo, ma perché non farlo subito visto che ogni scusa è buona per non studiare? – quando sentì una porta aprirsi, lasciando uscire delle urla da una delle case vicine che stava osservando solo qualche momento prima.
Strinse gli occhi per rintracciarne la provenienza, e vide un ragazzo gridare qualcosa all’interno dell’abitazione (quella rossa), sbattersi la porta alle spalle e correre giù per il vialetto a passo svelto.
Magari a quella distanza – tre case più in giù, dall’altra parte della strada – non lo avrebbe neanche riconosciuto, se non fosse stato per la giacca di pelle.
Dean si infilò le mani in tasca, armeggiò finché non trovò qualcosa e aprì la macchina parcheggiata di fronte.
Se Castiel fosse stato più attento, avrebbe visto un’Impala ferma nella sua stessa via da giorni. Eppure lui era uno attento. Ed era anche piuttosto sicuro che quella villetta fosse vuota, fino a poco tempo prima. Dovevano essersi trasferiti da poco.
Dean nel frattempo si era infilato dentro l’automobile, Castiel lo vide scomparire al suo interno – pareva si fosse sdraiato. Partì della musica sparata al volume massimo, attutito dai vetri chiusi, e vide spuntare delle mani che seguivano il ritmo frenetico della batteria.
Castiel sorrise, scese i tre gradini del portico e attraversò la strada.
La musica che proveniva dall’abitacolo gli era sconosciuta. La cosa non lo stupiva particolarmente. Anna aveva comprato un lettore CD di nascosto, anni fa, e ogni tanto gli faceva sentire i suoi gruppi preferiti – quando vivevano ancora insieme – oltre a quello, la sua ignoranza era pressoché totale. Oh, fatta eccezione per le canzoni di quella terribile notte da una botta e via. Ma quelle aveva cercato di rimuoverle completamente.
Bussò al finestrino, e Dean interruppe a mezz’aria un giro di batteria particolarmente difficile, a giudicare dall’espressione corrucciata.
Castiel si domandò se si ricordasse di lui, il tipo strano a cui aveva dato un passaggio due settimane prima dopo una festa. D’altronde Dean doveva essere uno di quelli che vanno ad un sacco di feste.
Dean abbassò la manopola del volume e aprì velocemente il finestrino con la manovella. “Ehi, Cas.”
Il sorriso che gli rivolse era lo stesso che aveva quella sera, quello che gli faceva sperare che Dean non fosse etero al 100% come sembrava urlare da tutti i pori. E poi Cas. Nessuno gli aveva mai dato un soprannome, prima.
“Ciao, Dean.”
“Ti stai re-idratando, principessa?”
Castiel lo fulminò esattamente come la volta prima, sperando che non diventasse un’abitudine. Era decisamente meglio l’altro soprannome. Che poi, perché gli stava parlando di idratazione?
Dean fece un cenno del capo verso la mano che a quanto pare teneva a mezz’aria e che si era portata dietro il succo d’arancia. Doveva sembrare un imbecille, fermo in mezzo alla strada con un bicchiere di plastica pieno, mentre se ne stava lì impettito a bussare alle macchine degli altri.
Il portone alle spalle di Dean si aprì di nuovo, ne uscì un ragazzino con un caschetto di capelli castani e uno zaino troppo grande sulla schiena.
“Ehi, ehi, ehi!”, Dean si infilò nel finestrino sporgendosi a mezzo busto sulla strada. “Dove vai!”
Il ragazzino girò le gambette magre per correre all’indietro, senza rallentare di un passo. “A fare i compiti da Tom! Te l’avevo detto!”
“Ah, già,” borbottò Dean. “Beh, torna alle sette!”
“Torno quando mi pare!”
“Torna alle sette!”
Il ragazzino, chiaramente un fratello - Castiel provò un moto d’invidia perché nessuno gli aveva mai urlato di tornare dopo aver fatto i compiti a casa di un amico, dato che non li aveva mai fatti da nessun’altra parte che non fosse il tavolo di mogano della sala - gli mostrò la lingua e riprese a correre guardando avanti, lo zaino che gli ballonzolava sulle spalle.
Dean si voltò a guardare Castiel con un’espressione affranta e colpevole, quasi lo avessero sorpreso a fare qualcosa di male. Forse Castiel aveva visto uno spaccato della sua vita che non avrebbe voluto far vedere ad altri? L’uscire di casa urlando, sbattendo la porta… Forse c’era un padre o una madre con cui non andava d’accordo, là dentro? E il fratellino era corso via come se ne andasse della propria vita. Magari non era per la foga di fare i compiti, Castiel cominciò a dubitare che lo fosse.
“Vuoi andare da qualche parte?”
Dean appoggiò il mento sul gomito che fuoriusciva dal finestrino. Lo guardò da sotto in su, battendo le palpebre. “Mi stai chiedendo di uscire?”
“No, ti sto chiedendo di entrare.”
Dean si irrigidì così velocemente che Castiel si affrettò a chiarificare. “Nella tua macchina. Vorrei entrare nella tua macchina. C’è un parco qua vicino, potremmo andare là. A sederci. E… parlare.”
Dean strofinò il mento sull’avambraccio. “Possiamo stare seduti e parlare anche nella mia macchina.”
“Il parco è più bello.”
L’espressione scioccata che gli rivolse era quasi comica. “Amico, niente è più bello della mia bambina.”
Castiel non rispose. Non aveva idea di cosa ci fosse di tanto interessante nelle automobili, non trovava niente di particolare in questa e non sapeva cosa pensare di uno che chiamava il proprio veicolo ‘bambina’.
“Ah, fanculo, va bene. Togliti pure il palo dal culo e sali.”
Castiel si accomodò sul sedile del passeggero, un po’ duro sotto le gambe, troppo solido; almeno lo schienale era piuttosto morbido, e vi si appoggiò, tenendo il bicchiere di plastica tra le mani piegate in grembo. Era una cosa stupida, avrebbe potuto gettarlo via, ma sentiva la necessità di avere qualcosa da farci, con le mani, senza che vagassero goffamente verso delle tasche in cui da seduto non poteva infilare.
Dean accese il motore e fece ripartire la musica, alzandone il volume. Inarcò le sopracciglia con fare compiaciuto. A Castiel ci volle qualche secondo per capire che si stava vantando delle note che fluttuavano nell’abitacolo.
“Non conosco questa canzone.”
A Dean si spense il sorriso. “Non conosci i Creedence.”
Castiel scosse la testa.
“I Creedence Clea- non è possibile.”
“Non possiedo una cultura musicale adeguata.”
Castiel provò ad ascoltare; la melodia non gli suscitava nulla, la voce del cantante troppo acuta.
“La musica sembra…”, si sforzò di sorridere. “…carina?”
“Carina.” Dall’espressione, Dean doveva averlo preso per un affronto. “Carina?!”
Castiel si strinse nelle spalle. Non aveva intenzione di scusarsi. Già che stava cercando di fare un favore ad uno sconosciuto, ci mancava solo che fingesse di farsi piacere qualcosa. Non era da lui essere qualcuno che non fosse veramente. Aveva capito, grazie ad un paio di brutte esperienze, che essere onesti a se stessi era più importante di qualunque cosa.
“Carina. Sarà meglio che il parco sia lontano, perché questa canzone te la senti tutta.”
Alzò la manopola al massimo, Castiel strinse gli occhi e cominciò a rivalutare le sue scelte di vita, tipo aiutare gli sconosciuti in difficoltà – anche se sono sconosciuti particolarmente attraenti.


Il parco era, in effetti, vicino; giusto un paio di isolati di distanza.
Grande quanto il classico parco di periferia, un rettangolo di verde in mezzo a tutta quella borghesia di cemento. Città piccola, parchi di quartiere ancora più piccoli, con due o tre attrazioni e tanta erba dove sbucciarsi le ginocchia nei pomeriggi d’estate.
A Castiel piaceva andarci a riflettere, guardare i bambini giocare sulle altalene. Forse gli ricordava un tempo in cui i suoi genitori non c’erano, ma la spensieratezza dell’infanzia e la compagnia dei fratelli facevano il resto. I ricordi erano tutto quello che aveva. E lo rilassavano.
Si accomodò sulla solita panchina, quella con una bella vista sul parco di fronte – Dean si spaparanzò su quella immediatamente accanto, doveva essere uno di quelli che hanno bisogno di molto spazio per sedersi.
“Perché questo posto?”, gli chiese, le braccia allungate sul ferro verde e arrugginito.
Castiel allungò una mano per indicare alla loro sinistra.
“Là, a quell’altalena, Anna si era intestardita a voler saltare giù mentre era ancora a mezz’aria.” Indicò un altro punto. “A quello scivolo, Gabriel l’ha buttata di sotto. Voleva scendere per primo… Anna tornava sempre a casa coperta di lividi, come potrai immaginare.”
“Sono i tuoi fratelli?”, Dean aveva un piccolo sorriso, quasi tenero.
“Sì, più grandi. A volte mi piace venire qui, quando mi mancano.”
“Non ci sono più?”
“College.”
“Oh.”
Forse Dean pensava fossero morti, quel ‘non ci sono più’ detto con una voce flebile. Forse Dean aveva davvero perso qualcuno.
Castiel indicò un ennesimo punto con un cenno della testa, stavolta verso uno spiazzo nell’erba.
“Laggiù, Gabriel mi ha difeso da dei ragazzi più grandi venuti per picchiarmi. Non l’ho mai visto sanguinare così tanto.”
“Cos’è successo?”
Dean sembrava sinceramente interessato. Castiel immaginò che lo distogliesse dal pensare ai suoi problemi. Era una cosa che funzionava anche con Gabriel e Anna: lasciare che si prendessero cura di lui era il modo di Castiel per prendersi cura di loro. Magari funzionava per tutti i fratelli maggiori.
“Non erano d’accordo con la mia scelta di frequentazioni.”
Dean fece una smorfia. “Che diavolo di motivazione sarebbe?”
“Mi sembrava di avertelo detto…”, lo sguardo di Castiel si fece più intenso. “Non sono interessato alle ragazze.”
Dean abbassò gli occhi, li spostò verso il vociare dei bambini. Castiel stava registrando ogni minima espressione, tentando di leggere cosa ci fosse scritto sopra. Era imbarazzo? Curiosità? Sdegno? Non sembrava nessuna delle tre, Castiel si infastidì con se stesso per non riuscire a capirlo.
“Mi sembra comunque un motivo schifoso per picchiare qualcuno,” bofonchiò infine a mezza voce.
Castiel non rispose. Certo che era un motivo schifoso, era uno dei più schifosi che gli venissero in mente, solo non aveva intenzione di stare a rimuginarci sopra.
Lo aveva fatto, e non voleva più buttarsi giù a quel modo. A Gabriel ci erano voluti giorni per attirarlo fuori dalla sua stanza – Anna si era semplicemente sdraiata nel letto con lui ad accarezzargli la testa – era un tipo di esperienza a cui non voleva ripensare.
E poi adesso era più forte, più sicuro di sé, non era più un bambino delle medie. Poteva farcela. E sapeva come difendersi. Si domandò se Dean fosse allo stesso modo, ma qualcosa gli diceva di no.
“E tu…?”
Dean si voltò di nuovo a guardarlo, il verde chiarissimo dei suoi occhi che risaltava al sole. “Io cosa?”
Castiel non sapeva come formulare la domanda: ‘E tu hai qualcuno a difenderti?’, ‘E tu sai proteggerti da chiunque ti gridi dietro a quel modo?’
“Non è stata mia intenzione…”, cominciò, incerto. “Ma ho sentito delle urla provenire da casa tua, prima.”
Ovviamente si irrigidì, peggio di Castiel in mezzo ad una strada follata. “Cosa sei, uno stalker?”
Castiel rimase a fissarlo, senza abboccare. Qualunque cosa avesse detto, avrebbe dato modo a Dean di sviare il discorso (era incredibile quanto assomigliasse a Gabriel).
Dean si avvicinò con fare cospiratorio. “È Sam. È schizofrenico, ogni tanto le sue numerose personalità sono fastidiose.”
“Sam?”
“Mio fratello.”
Castiel capì che la conversazione non sarebbe andata più in là di così. Decise di stare al gioco, e si fece raccontare le personalità multiple di quel ragazzino con lo zaino troppo grande.
“Una è donna,” ghignò Dean. “È grazie a lei che i suoi capelli sono così luccicanti.”
Quando vide che Castiel non lo imitava, si spense un po’.
“Beh, comunque… Io sono Batman. Sam è il mio Robin. Stiamo benone.”
Chissà se doveva mentire così spesso, e fino a che punto doveva proteggersi da quello che succedeva dietro quelle mura. Castiel pensò di aver sviluppato quella sindrome da crocerossina di cui aveva letto una volta.
“Non è tanto che abitate qui.”
“Nah, mio padre ci fa traslocare spesso per lavoro. Siamo arrivati un paio di settimane fa.”
Una palla lo colpì al ginocchio – un bambino paffuto sui 5 anni corse a riprendersela, li fissò per qualche secondo con il pallone di tela rosso tra le dita cicciotte, e corse dal padre con i riccioli scompigliati sulla testa – Dean gli sorrise dietro, con l’espressione di uno a cui è riaffiorato un ricordo piacevole.
Scese un silenzio pacifico.
Erano due estranei, avrebbero potuto chiedersi mille cose, eppure nessuno dei due aprì bocca. Castiel ne fu contento, aveva letto da qualche parte anche che è importante conoscere persone con cui si possa condividerne i silenzi. Sperò che Dean non stesse soffrendo internamente di quella mancanza di conversazione – soprattutto perché ne avevano appena conclusa una piuttosto lunga per i suoi standard, e intensa, e Castiel non avrebbe saputo dove andare da lì.
Si accorsero che il freddo si stava facendo strada tra le ombre degli alberi dal diradarsi delle famiglie nel parco. A poco a poco, i genitori riacciuffarono la prole e se la trascinarono via, alcuni più rumorosamente di altri.
Quando ne rimase solo una – il bambino paffuto dal pallone di tela rosso con il padre – Dean si stava stringendo nella giacca di pelle.
Castiel si alzò per non farlo congelare su quella panchina (non certo perché avesse fretta di tornare ad una casa vuota).
“Dovresti coprirti di più.”
Dean si indicò la maglietta nera, con uno strano simbolo sopra. “Non rinuncio ai Zeppelin, fanculo l’inverno.”
“Tecnicamente, non è inverno.”
“Da dove vengo io, l’inverno è quando c’è freddo. Fa freddo.”
“Da dove vieni?”
Dean alzò gli occhi al cielo. “È un modo di dire. Comunque dal Kansas, originariamente. E fa un sacco più freddo di così, principessa.”
Castiel cominciò ad incamminarsi verso la macchina, pensando alla neve. “Vedremo.”


La scena era già vista.
Castiel fermo sul marciapiede di fronte a casa, Dean dentro l’Impala con il motore acceso.
I convenevoli di rito erano stati scambiati (“Grazie del passaggio”, “Figurati”), ed erano di nuovo rimasti a fissarsi in silenzio.
Una cosa era diversa, certo: adesso Castiel sapeva che abitavano vicini (chissà se era per questo motivo che l’altra sera Dean sorrideva compiaciuto), e che quindi l’avrebbe rivisto.
Eppure qualcosa lo teneva lì, a sperare che ci fosse un modo per non lasciare puramente al caso il loro prossimo incontro.
Dean si rimestò le tasche e ne tirò fuori un cellulare nero come la sua macchina.
“Ehi, facciamo così. Mi dai il tuo numero e-“
“Non possiedo un telefono.”
“Come?”
“Voglio dire, ho un fisso, a casa…”
“Amico, non hai un cellulare?”
Cas si infilò le mani nelle tasche dei jeans. “No.”
Dean stava ghignando di nuovo. “Sei strano forte.”
Castiel fece quello che sapeva fare meglio, l’alieno-stoccafisso-immobile-che-ti-sonda-le-interiora.
Dean ridacchiò un pochino, ingranò la marcia. “Beh, ci vediamo a scuola, Cas.”
Guardò l’Impala filare via, non fermarsi tre case più in giù ma continuare dritto fino in fondo al viale – fermarsi allo stop, voltare a sinistra.
La scuola. L’avrebbe visto l’indomani a scuola. Quei compiti di matematica ridiventarono improvvisamente interessanti.
 
 
 
Spazio autrice:
ho fatto DI NUOVO quella cosa di fissare male il capitolo, e darvi piccoli ritocchi di tanto in tanto sperando di trovare la perfezione. Beh, la perfezione non esiste, quindi mi sono stufata e lo pubblico così.
Venendo alla storia… piccoli passetti avanti tra lo stoccafisso e il figo della festa. Che sono vicini di casa!!! Che bellezza. E quanto è solo Cas… e quanto è bello little Sam (io me lo immagino come nei flashback, tutto magrolino e faccetta triste).
Dean è il più figo di sempre, come al solito, con la sua Baby e la sua musica e le sue maschere. Che, come ben sappiamo, funzionano poco con Cas…
Alla prossima, folks!
P.s.: Mi potete trovare anche sulla mia pagina Facebook
qui.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** It's my life ***




Rexburg, Idaho, 2015
 
“Prenderanno il nostro posto, io ho segnato tutto. Anche l’astronomo me l’ha detto.”
“L’astronomo.”
“Sì, lui! Il signor Roman, lo conosci?”
“Non posso dire di sì.”
“Dovresti. Comunque lo sanno tutti, presto i robot verranno inventati, e cosa ci vorrà prima che ci mangino tutti per cena? Diventeremo cibo. Fabbriche di umani. Così finirà l’umanità. Cominciando da quei telefonini che avete tutti voi oggi.”
Castiel sorride. L’accento scozzese della signora McLahan è forte, ma pensa di avere in qualche modo capito quello che sta dicendo, nonostante il ghirigoro di follia con cui ha intessuto il messaggio.
“Assolutamente. Sono 23 dollari e 75.”
Le scocca il suo sorriso aziendale con tanto di pollice all’insù.
Questa loro routine è confortante. Spesa-apocalisse-robot-23,75-sorriso-soldi-arrivederci.
La signora grugnisce una rimprovero, gli porge le banconote con manina tremante e si ficca in borsa gli acquisti prima di dirigersi verso l’uscita.
“Arrivederci!”
Castiel si prepara al prossimo cliente raddrizzando le spalle – gli viene automatico incurvarsi per parlare con le persone più basse, colpa della statura di Gabriel, probabilmente – e sposta lo sguardo dalla signora borbottante con un piede già fuori dalla porta alla breve fila che ha fatto formare con le sue chiacchiere.
Il prossimo cliente si fa avanti con un ciuffo di capelli troppo familiare, un sorriso accecante che fa sembrare il suo una pallida smorfia di accondiscendenza, e il passo di chi è sempre stato troppo sicuro di sé.
Dean Winchester.
Castiel si ritrae leggermente; nient’altro. Ritorna impassibile, il commesso più perfetto di sempre – non per niente, a casa, ha incorniciato il quadretto “Miglior impiegato del Mese” che Norma gli ha regalato per scherzo a Natale.
“Carne di manzo essiccata e un pacchetto di caramelle al mentolo.”
Chiaro, il suo alito sapeva sempre di mentolo. Una volta.
Castiel si allunga alla sinistra del bancone per recuperare gli articoli. “4 dollari e 89.”
Lo scambio di merce e soldi avviene in completo silenzio. Castiel non alza mai lo sguardo ma può sentire che Dean sta ancora sorridendo.
“Andiamo, non hai altro da dire a un vecchio amico?”
Spera di riuscire nell’intento di congelarlo con lo sguardo. “Ci siamo conosciuti solo ieri. Il prossimo.”
Il sorriso di Dean si spenge un poco, e sembra cercare qualcosa nei suoi occhi. Non deve trovare quello che vuole, perché annuisce e si fa da parte, allontanandosi dalla fila.
Castiel saluta il cliente successivo con un sorriso più innaturale del solito.


Avrebbe dovuto saperlo, veramente.
Dean lo sta aspettando fuori dal negozio con la schiena appoggiata all’Impala.
Avrebbe dovuto capire che non era sconfitta quella che l’aveva fatto allontanare, ma solo un posticipare la battaglia. Castiel spera in una qualche infantile fantasia per cui se continua a ignorarlo, se ne andrà così come è arrivato. Esattamente come la prima volta.
Svolta a sinistra, deciso, e s‘incammina spedito verso casa.
Avrebbe dovuto prevedere anche che Dean lo avrebbe seguito.
Vede spuntare la punta dei suoi stivali nel suo campo visivo, mentre cammina con lo sguardo a terra – è ironico, perché aveva deciso di guardare in basso per non vederlo e non essere tentato di lanciare occhiate.
Dean gli cammina di fianco, in silenzio.
Castiel dibatte internamente se aumentare il passo o fermarsi a urlargli in faccia qualcosa come ‘Cosa diavolo vuoi!’, ma entrambe le opzioni lo fanno sentire un bambino.
Continua a camminare.
Dicono che l’indifferenza sia l’arma più efficace, no?
Svoltano l’angolo, e il palazzone di Cas appare in tutta la sua maestosità. Casa. Se si mettesse a correre, ci arriverebbe in qualche secondo, potrebbe infilarsi sotto le coperte, le mani sulle orecchie per non sentire niente, non pensare a niente, dormire e ricominciare il giorno dopo e Dean non sarà mai successo e non succederà mai più. Non gli piace per nulla sentirsi così impotente, di nuovo.
Continua a camminare.
Quando arriva al cancello, gli stivali non ci sono più, e non vorrebbe sentire quello spazio vuoto a forma di Dean al suo fianco. Non si volta a vedere dove si sia fermato. Sale i gradini, tira fuori le chiavi, apre il portone, e nessuna voce gli chiede di fermarsi e parlare. Sale le scale come tutti i giorni, la sua padrona di casa che abita al secondo piano lo saluta e lo ferma per due chiacchiere sul pianerottolo.
Cinque minuti dopo è in casa, senza sapere una parola di quello che ha detto alla signora Maige.
Lancia le chiavi sul tavolino.
Si avvicina alla finestra e guarda fuori, per quanto non vorrebbe, tenendo le tendine aperte con due dita.
La strada è deserta, ma sente chiaramente il rombo dell’Impala che si accende in lontananza.
Chiude gli occhi, molla le tendine.
Dormire sarà una pacchia, stanotte.

Tra le cose che Castiel non ha previsto, c’è anche quella in cui Dean si ripresenta il giorno dopo.
O meglio, l’ha pensato, solo che l’ha sotterrato sotto strati e strati di rifiuto nella speranza che non succedesse. Beh, è successo. Non si è presentato a comprare il manzo essiccato, stavolta. Lo ha aspettato direttamente fuori, sempre appuntato a braccia conserte contro la macchina.
Castiel si avvia di nuovo, ignorando la sua presenza, tranne per quella stramaledetta punta degli stivali. Lo sta di nuovo seguendo. Non pensava fosse possibile odiare così tanto il cuoio sdrucito di un paio di stivali neri, eppure eccolo lì, l’odio pulsante, totalizzante, accecante.
La strada verso casa non gli è mai sembrata così lunga, la certezza delle sue quattro mura così lontana.
E non ha paura di confrontare Dean, oh no. È proprio quello il punto. Ha una rabbia talmente devastante in corpo che ne è quasi impaurito, ma non vuole dargli la soddisfazione. Non vuole concedergli un’unghia d’importanza.
Dean Winchester se n’è andato, e se vuole dirgli qualcosa, beh… non sarà certo Castiel a rivolgergli la parola per primo. Anche se sarebbe meglio se ne andasse, senza dirgli nulla come il giorno precedente.
Finalmente arriva al cancelletto nero sotto casa. Lo apre con un senso di gratitudine e di sollievo; ce l’ha fatta, anche oggi. Può farcela anche domani, se Dean si sente così idiota da ripresentarsi una terza volta.
Gli stivali spariscono dalla sua vista, ed ha finito il quinto scalino quando sente che qualcosa non va – la sua presenza è ancora lì, vibrante, anche se non al suo fianco.
Dean l’ha seguito.
“Ehi…”
Tira fuori le chiavi, apre il portone.
“Cas.”
È quell’esitazione di un secondo che lo fotte.
Dean deve averlo preso come un invito a farsi avanti, perché adesso sta parlando, ma Castiel non lo sente.
Cas. Da quanto tempo nessuno lo chiamava così?
Si risintonizza con lui quando vede la mano di Dean in procinto di poggiarglisi sulla spalla. Alza lo sguardo per fulminarlo, e Dean apre il palmo prima di farla ricadere sul fianco.
Sembra stia aspettando una risposta a qualcosa. Castiel non sa cosa sia, e comunque non avrebbe risposto.
Si sofferma più di quanto vorrebbe sul suo viso quando gli lancia un altro sguardo fugace, continuando a cincischiare con le chiavi.
“Senti, Cas…”
Ma dov’è quella dannata chiave?
“Voglio solo… ah… posso salire?”
Castiel si volta a guardarlo, un’espressione allibita dipinta in volto. Salire? A casa sua? Dopo chissà cosa ha fatto dentro questo edificio con Benny, vuole entrare nel suo spazio, nel suo tempio sacro? Nella sua casa?
“No.”
Trovata la dannatissima chiave, apre il portone.
Con crescente disagio, si accorge che non si chiude alle sue spalle come previsto.
“Senti, non sto cercando di tampinarti o che, voglio solo parlare, ok?”
Castiel si ferma sulle scale e si volta a centottanta gradi come una macchina, un movimento netto e perfetto. “Non ti conosco. Lasciami in pace.”
“Non mi conosci?” La voce di Dean è piena di derisione. Come se non fosse stato lui ad averlo trattato come uno sconosciuto solo il giorno prima.
“Ti sei presentato a me solo ieri, no? ‘Piacere di conoscerti’.”
Si avvia di nuovo su per le scala, ma Dean non demorde, lo tallona, e Castiel spera che finisca tutto prima che raggiungano il suo piano.
“Cosa volevi che facessi, che spiegassi tutto a Benny?!”
Ma certo, Dean si vergogna ancora di lui. Non è davvero cambiato niente.
“Sai, Benny,” la sua voce è più velenosa di quel che vorrebbe. “Lo conosco. Abitavamo vicini da ragazzi. Che coincidenza, eh?”
Dean boccheggia per qualche secondo. “Beh, non ci ho pensato. Possiamo non parlarne nelle scale…”
“Non ti invito a casa mia.”
“Non mi stai neanche dicendo di andarmene.”
Castiel si ferma con la mano sulla balaustra.
“Andiamo, Cas, hai lasciato che ti seguissi per due volte. Avrai qualcosa da dirmi anche tu.”
No. Dean ha travisato le sue azioni. E non ha intenzione di farlo salire per nessun motivo al mondo.
“Ti ho conosciuto ieri. Non ho niente da dirti.”
“Oh… Castiel!”, una voce femminile li raggiunge dall’alto. La signora Maige, la padrona di casa del secondo piano, sta scendendo le scale. “Mi sembrava di aver sentito delle voci,” lo apostrofa mentre li raggiunge.
Castiel si sente intontito dalla situazione, incapace di assimilare quello che sta succedendo. È tutto… troppo, e troppo in fretta.
“Oh, tesoro, hai finalmente deciso di riparare quella cosa che chiami macchina?”
Castiel batte le palpebre. “Uh?”
“Dean è il meccanico, no? Me lo ha detto Benny. Gli sta aggiustando il furgone. Ho sperato…”, le sopracciglia dell’anziana si piegano in uno sguardo implorante. Le iridi marroni sono accese, segno della forza d’animo contenuta da quel corpo fragile. Un tempo deve essere stata una donna bellissima.
“Ho sperato che finalmente portassi quel coso a dare una sistemata.”
Portare la macchina dal meccanico. In realtà non ci aveva pensato. A lavoro ci arriva comodamente a piedi, e non è che abbia tanti altri posti dove andare. Gabe e Anna lo vanno a trovare lì, e i suoi… beh. Con i suoi non parla da ormai sei o sette anni.
“No, uh…”
“Certo. Se il signore vuole portarmi la macchina, non ci sono problemi. Ho il garage non troppo lontano da qui.”
Dean sfoggia il suo sorriso e la signora si aggiusta i capelli senza neanche accorgersene.
“Ecco. Bravo, tesoro. Prendi il numero di Dean, vuoi?”
Castiel prende meccanicamente l’agendina dalla tasca, incapace di articolare un rifiuto sensato. Sfila la penna e si prepara a scrivere.
“Amico, non hai un cellulare?”
Dean ha uno strano luccichio negli occhi, il ghigno più aperto che mai, al contrario di Castiel, che stringe la bic tra le dita, il ricordo che gli riverbera addosso come una frustata.
Pensava di essere riuscito a cancellare più roba possibile, invece è solo rimasta sotto la superficie, come un vecchio mobile abbandonato, e Dean sta soffiando via la polvere. (“Sei strano forte.”)
“Il numero,” grugnisce.
Dean comincia a dettare.
Sotto lo sguardo compiaciuto della signora Maige, si segna un numero che, anche a giudicare dal sorriso soddisfatto di Dean, sanno entrambi perfettamente che Castiel lo ha già.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Edge of Seventeen ***




Rexburg, Idaho, 2007
 
Dean si era trasferito da poche settimane, ma era già uno dei ragazzi popolari della scuola.
Probabilmente perché era una novità, ma Castiel sospettava c’entrassero qualcosa il suo sorriso ampio e la luce particolare con cui brillavano i suoi occhi.
Se avesse avuto un amico, o un’amica, avrebbe potuto parlare loro di Dean. Avrebbe potuto raccontare di come lo osservava dalla distanza, nascosto dietro gli armadietti, da fuori dalle porte delle classi, e di come si sedeva sempre dietro di lui a lezione di Inglese per poterlo guardare indisturbato per quanto avesse voluto.
Gli amici lo avrebbero deriso, lo avrebbero chiamato stalker, e Castiel si sarebbe difeso dicendo che non faceva niente di male, perché Dean era bello da guardare, e soprattutto, perché a Dean piaceva essere guardato.
A volte, quelle rare volte in cui lo sguardo di Dean incappava nella sua direzione, e vedeva Cas spuntare da un angolo, consapevole di essere osservato, una specie tutta nuova di sorriso gli tendeva le labbra, e gli strizzava l’occhiolino.
Era il massimo di interazione che avessero avuto da quel giorno al parco, ma Castiel sapeva che era un ragazzo impegnato. Sentiva sempre la sua automobile lasciare il vialetto, agli orari più disparati del pomeriggio, e tornare di notte, mentre Cas dormiva, e sapeva solo del suo ritorno perché al mattino scostava le tendine della sua stanza per scrutare la strada in cerca dell’Impala parcheggiata davanti al loro vialetto.
Se avesse avuto degli amici, avrebbe anche potuto commentare quanto fosse ingiusto che seguissero solo Inglese insieme, e quelli avrebbero risposto che era perché seguiva i corsi avanzati di tutte le altre classi, e Castiel non avrebbe saputo cosa ribattere.
Quanto gli mancavano Anna e Gabriel, in quei momenti. Certo, non avrebbe mai potuto confessare certe cose a Gabriel, ma suo fratello aveva l’innata capacità di percepire quando Castiel fosse turbato, e avrebbe inventato una delle sue bravate pur di farlo sorridere.
Anna lo avrebbe curato con la musica, come faceva sempre, col suo lettore CD clandestino e le canzoni di Avril Lavigne.
La campanella suonò in quel momento, destandolo dalla rimuginazione che stava portando avanti appoggiato a un angolo del corridoio, i libri sotto un braccio, mentre osservava Dean parlare con un gruppetto di ragazze a parecchi metri di distanza. Non poteva nemmeno sentire cosa dicessero, ma sospettava c’entrasse un’altra delle loro feste. Dove trovassero la forza di festeggiare così tanto, era un mistero per lui.
Il professore di Inglese lo superò in quel momento, fermandosi a guardarlo con un cipiglio confuso invece di entrare nella sua classe.
“Novak? Tutto bene?”
“Certo, signor Scott.”
“Mh,” rispose l’insegnante, per niente convinto. Aveva scuri capelli corti che teneva ingellati probabilmente per cercare di apparire ancora giovane nonostante avesse passato i 40, e una carnagione molto pallida che faceva risaltare in modo quasi inquietanti gli occhi scuri.
Prima che Dean si trasferisse sulla sua via, Castiel aveva passato una discreta quantità di tempo ad osservare il signor Scott.
“Allora fila dentro.”
Castiel staccò finalmente gli occhi da Dean, che stava cominciando a salutare il gruppetto per andare a lezione lui stesso in ogni caso, ed entrò.

“Cas… ehi! Cas!”
Castiel piroettò su stesso, strizzando gli occhi verso il mezzo della strada, cosa che per lui era sinonimo di sorpresa nel sentirsi chiamare dalla voce roca di Dean. Ed era proprio Dean, che procedeva a passo d’uomo nel viale per lo più deserto, anche se Castiel sospettava che Dean l’avrebbe fatto anche se ci fosse stato il traffico di una metropoli.
Dean sorrise, felice di essere stato notato, e sventolò la mano per farlo avvicinare.
Castiel oltrepassò le macchine parcheggiate al lato del marciapiede e si piazzò di fronte al finestrino di Dean, che nel frattempo aveva fermato la macchina con uno stridio degno di una vettura vecchia.
“Dean.”
“Ehi, Cas.”
Quanto tempo potevano passare i muscoli facciali di una persona sotto quello stress di sorridere così tanto? Castiel non lo sapeva, ma sperava che quelli di Dean non si stancassero presto. I suoi, probabilmente, si sarebbero disintegrati per mancanza di utilizzo.
“Che fai?”
“Sto andando a casa.”
“Sì, quello l’ho capito, dicevo in senso più ampio.”
“In senso più ampio?”
Dean ridacchiò, e Castiel ci era abituato, tutti trovavano piuttosto ridicola la sua confusione, ma quella di Dean almeno non sembrava derisione.
“Sì, nel senso adesso, oggi pomeriggio, cosa fai, quali sono i tuoi piani.”
Castiel passò il peso da una gamba all’altra, considerando se rivelare che i suoi piani per il pomeriggio erano quelli che erano sempre stati, ovvero fare i compiti sul tavolo di mogano, e arrovellarsi nella sua solitudine. Magari leggere un po’.
“Perché, hai qualche suggerimento?”, chiese invece.
Dean sventolò un indice nella sua direzione. “Sei perspicace, ragazzo. Ci credo che segui tutti i corsi per cervelloni. Sali, dai.”
Castiel annuì, aggirò la macchina e aprì la portiera del passeggero, ma prima di entrare si chinò a fissare il proprietario di quella scatola di metallo.
“Dove andiamo?”
“Perché, hai paura che ti rapisca?”
“No,” rispose, sorpreso dalla strana domanda, “voglio solo sapere se è lontano.”
“Allora hai sul serio dei piani per oggi! E io che pensavo che avresti fatto il bravo nerd a casa che fa i compiti.”
Cas non commentò, limitandosi a reggere lo sguardo, serissimo.
“Va bene, non andremo lontano. Ti riporterò ai tuoi importantissimi impegni in men che non si dica, contento?”
Con un sospiro, annuì di nuovo e si infilò in macchina. In realtà aveva domandato solo per prepararsi mentalmente alla quantità di canzoni che Dean l’avrebbe costretto ad ascoltare nel tragitto.

Dean non parlò molto, e con immensa sorpresa, non alzò mai il volume della musica, lasciandola come piacevole sottofondo, limitandosi a canticchiare a bocca chiusa di tanto in tanto, così Castiel poté solo sbirciare con la coda dell’occhio come le sue mani stringessero il volante e lo girassero con pacata nonchalance, visto che non aveva una scusa per guardargli il viso.
Si voltò a guardarlo, comunque, quando parcheggiò di fronte al parco in cui erano stati la volta prima.
“Cosa, te ne sei accorto solo ora?”, ridacchiò Dean. “Non avevi riconosciuto la strada?”
“In realtà non ho molto prestato attenzione alla strada.”
“Ah, sì? E a cosa pensavi?”
Castiel fece una lunga pausa. “Ai compiti.”
Dean rise come se non ci credesse nemmeno per un secondo, e Castiel non sapeva se esserne grato o meno.
Presero posto sulle stesse panchine arrugginite, Dean di nuovo spalmato sulla sua con le braccia stese sullo schienale.
“È proprio un bel posto,” commentò con un sorriso, contento di poter contemplare la vita apparentemente tranquilla di quelle famiglie.
“Sì, lo è,” Cas rispose, girandosi solo dopo qualche secondo verso i bambini che urlavano e ridevano in lontananza.
Il silenzio si trascinò ancora a lungo, come nel pomeriggio precedente. Sembrava che le conversazioni con Dean si dovessero portare avanti lungo fili completamente diversi da quelli tradizionali, quelli verbali. O forse era solo Dean che si adattava al suo essere silenzioso, Cas non aveva modo di saperlo, ma avrebbe voluto davvero conoscerlo meglio, domandare.
Si chiese se fosse per quello che osservava le persone dalle retrovie: incapace di conversare, assimilava dalla distanza. In effetti aveva appreso una discreta quantità di cose su Dean, sebbene avessero avuto due conversazioni totali.
Sapeva che amava la sua macchina, la musica che sparava a tutto volume là dentro, magari abbastanza forte da impedirgli di pensare. Aveva visto, da come interagiva con suo fratello sia a scuola che fuori, che fosse una persona estremamente protettiva, una specie di scudo umano, un guardiano, qualcuno su cui poter contare. Da come trangugiava il cibo a mensa, aveva lo stomaco di un orso e il palato di un camionista. Aveva sempre persone intorno, gli piaceva socializzare e avere un pubblico. A lezione faceva spesso lo sbruffone, ma a volte sorprendeva tutti con spunti di riflessioni che potevano nascere soltanto da qualcuno che avesse davvero letto i libri che erano sul programma, e che gli fossero piaciuti. Cas sapeva che gli piaceva festeggiare, bere, e… e a giudicare da come stava ghignando in direzione di un paio di ragazze sulle altalene, gli piaceva il genere sbagliato. Beh, sbagliato per Castiel per lo meno, che sospirò, osservando impotente mentre Dean salutava le due a palmo aperto.
Come se avesse sentito quel flebile sospiro, Dean abbassò la mano di colpo, girandosi verso Castiel con una strana espressione in viso.
Forse ne avrebbe chiesto la causa, ma Dean lo sorprese ancora riprendendo a sorridergli, confondendolo ulteriormente.
“Allora,” esordì. “Vuoi sapere perché ti ho portato qui?”
“Non siamo qui per godere della reciproca compagnia?”
“Beh, sì, certo, anche… Gesù, Cas, non dire cose così…”
“Così cosa?”
Dean sventolò la mano a vuoto. “Così.”
“Okay,” disse, dubbioso, mentre Dean alzava gli occhi al cielo e si preparava a riprendere il discorso.
“Dicevo…”
Cominciò a pescare dalle tasche della grossa giacca consunta e ne tirò fuori un cellulare, nuovo ma di modello economico. Castiel batté più volte le palpebre, incerto sul perché gli stesse allungando il proprio nuovo acquisto.
“Sembra… un bel telefono. Hai rotto quello vecchio?”
“Cos- no!”
“Lo hai perso?”
“No..!”
“Non capisco,” confessò, di fronte all’evidenza di aver compiuto un affronto a Dean o qualcosa del genere, a giudicare dalla sua espressione.
“È per te!”, sbottò Dean, lanciandogli l’apparecchio in grembo.
“Oh.”
Abbassò lo sguardo sul suo nuovo possedimento. Il suo unico possedimento, a dire il vero, perché ogni cosa che era a casa era della mamma o passata dai suoi fratelli.
Era grigio metallizzato, a tartaruga, e Castiel lo aprì per rivelare i tasti e uno schermo rettangolare.
“Le tariffe te le paghi da solo,” borbottò Dean. “Ma sì, ne avevamo uno di scorta, e ho pensato che… visto che non ce l’hai…”
Scrollò le spalle, e quando Cas rialzò il capo gli regalò un altro dei suoi sorrisi.
“Ti piace?”
“Sì. Mi piace molto. Grazie, Dean.”
“Beh, bene. Perché il mio numero è già salvato dentro.”

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3295281