What Kind of Man

di LyaStark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Cacciatrice ***
Capitolo 2: *** L'arrivo a Briar ***
Capitolo 3: *** Tre giorni al plenilunio ***
Capitolo 4: *** Due giorni al plenilunio ***
Capitolo 5: *** Un giorno al plenilunio ***
Capitolo 6: *** Plenilunio ***



Capitolo 1
*** La Cacciatrice ***


WHAT KIND OF MAN
 
LA CACCIATRICE
 
“Did you ever feel
We're falling as we grow
No I would not believe
The light could ever go
But the golden age is over”
The Golden Age, Woodkid
 
La chiamavano Cenere.
Non era il nome che le avevano dato i suoi genitori, quello non lo usava più. Era il lascito di un’età dorata da tempo finita e troppo dolorosa da ricordare. No, Cenere era il nome che le avevano dato gli uomini che l’avevano trovata. Per via della cenere che le avevano trovato addosso per mesi, le dicevano, ma la storia che raccontavano quando credevano che lei dormisse era diversa. Cenere era quello che pensavano sarebbe diventata nel giro di qualche mese. Cenere e polvere, e una memoria troppo sbiadita anche solo per poterne più parlare.
Per sua fortuna non si erano mai sbagliati così tanto.
 
▪▪▪
 
Gli uomini del villaggio la trovarono sulla Strada.
Non era un bello spettacolo.
La Banshee era scappata nel profondo della brughiera, cercando di nascondersi nelle paludi e tra la torba puzzolente. Cenere l’aveva dovuta inseguire per ore e ore, affondando nell’acqua stagnante fino al polpaccio e tormentata da quelli che sembravano essere tutti gli insetti del continente messi insieme. Ci aveva messo un’eternità a trovare il mostro e a ucciderlo, ragion per cui ora cavalcava sulla Strada sporca di fango secco fino alla testa e puzzando terribilmente di erba bagnata. Il corpo della Banshee era buttato di traverso sulla groppa del suo cavallo, la bocca ancora spalancata in un grido muto. Sfortunatamente per lei, non avrebbe urlato mai più.
La sua giumenta scura camminava piano sulla strada, alzando nuvolette di polvere chiara, calma nonostante l’orrore che portava in groppa. Il pallido sole invernale accarezzava tenue il viso della Cacciatrice, che chiuse gli occhi per godersi meglio il tiepido calore, le redini molli nelle mani. Un sorrisetto le increspò gli angoli della bocca: aveva ucciso la Banshee, il sole splendeva, era ancora viva.
Era una bella giornata.
 
▪▪▪
 
Era a poche miglia da Tula quando gli uomini del villaggio la raggiunsero, camminando abbastanza vicini al suo cavallo da infastidirla. I loro sguardi oscillavano tra lei e la Banshee, fissandole come si potrebbe guardare un uomo uscito dagli inferi, con orrore e incredulità. Uno si azzardò perfino ad allungare la mano per toccare la pelle della creatura, prima che Cenere lo incenerisse con il suo sguardo asimmetrico.
Erano pochi quelli che osavano avvicinarla così tanto. La Cacciatrice si prese qualche istante per studiarli meglio: era un gruppetto sparuto, quattro persone che camminavano infagottate nei loro tristi vestiti invernali. Non sembravano pericolosi, solo disperati. Solo uno la guardava apertamente in viso, come cercando il coraggio per dire qualcosa.
Cenere si era abituata a essere guardata con timore e disprezzo e aveva imparato a procedere per la sua via, ignorando i commenti malevoli delle persone che incontrava. Alcuni sputavano per terra quando passava, pensando che potesse allontanare il malaugurio di averla vicina. Alla fine, se li ignorava, quasi tutti la lasciavano in pace e Cenere sperava che quello fosse anche il caso dei contadini. Pensava che una volta soddisfatta la loro curiosità per la Banshee se ne sarebbero andati per la loro strada.
Passarono lunghi secondi e quando Cenere capì che non avevano intenzione di allontanarsi spronò la giumenta a un passo un po’ più vivace: se volevano dirle qualcosa che parlassero, lei non aveva tempo da perdere. Ridacchiò dentro di sé quando il gruppetto accelerò il passo per starle dietro. Stava per passare al galoppo e lasciarsi dietro quegli uomini quando un grido la bloccò.
– Aspetta! –
Cenere fermò il cavallo in mezzo alla Strada, girandosi per fronteggiare il piccolo gruppo.
– Si può sapere cosa volete? –
– Sei… – l’uomo che sembrava a capo della combriccola si schiarì la voce. – Sei tu la Cacciatrice? –
Cenere sollevò un sopracciglio, dando una pacca al corpo della Banshee dietro di lei. – Tu che dici? –
L’uomo tacque, osservandola. I suoi compagni dietro di lui continuava a guardare allucinati il cadavere della creatura.
– Potresti averlo rubato – disse, titubante.
Cenere si sfilò il cappuccio scuro e lo fissò. I suoi occhi, uno azzurro e uno nero, brillarono minacciosi nella tenue luce invernale.
– Soddisfatto? –
L’uomo deglutì, visibilmente sconvolto. Non era la prima volta che Cenere vedeva una reazione del genere. Erano in molti a rimanere impressionati dai suoi occhi, retaggio di un tempo antico in cui gli Haris, la sua razza, erano dei protettori, non semplici assassini prezzolati. Quando il gruppetto continuò a tacere, Cenere decise che aveva aspettato abbastanza. Scosse la testa e spronò il cavallo, avanzando piano sulla strada.
L’uomo le corse dietro, affiancandola. – Abbiamo un lavoro per te. –
Cenere non si fermò.
– Che tipo di lavoro? –
– C’è qualcosa di malvagio, nel nostro villaggio. Crediamo sia un uomo lupo. Aiutaci! –
L’uomo si era infervorato parlando e aveva messo una mano sulla gamba della Cacciatrice, sopra allo stivale. Cenere lo fulminò con lo sguardo e lui rimosse la mano.
– Ti prego – l’uomo indietreggiò. – Possiamo pagare. –
La Cacciatrice lo squadrò dall’alto al basso. – Il prezzo per un uomo lupo è di trenta pezzi d’argento. –
Cenere poté leggere la disperazione negli occhi dell’uomo.
– Noi non abbiamo tanto denaro. Se tu… –
Cenere lo interruppe subito, guardandolo con un’espressione che non accettava obiezioni. – Niente soldi, niente lavoro. –
Tutta la paura scomparve dal volto dell’uomo, sostituita dalla rabbia crescente. Si allontanò dal cavallo di Cenere come se fosse stato scottato, con una smorfia amara sul viso.
– Non possiamo ucciderlo da soli. Tu devi aiutarci! –
Cenere sollevò le sopracciglia, fermando la giumenta in mezzo alla Strada e squadrando l’uomo con disprezzo. – Io non “devo” proprio niente. Voi non siete nessuno per me. Ve lo ripeterò, e spero che questa volta sia chiaro – scandì talmente tanto le parole che queste furono quasi visibili nell’aria fredda dell’inverno. – Niente soldi, niente lavoro. –
Cenere riuscì a vedere il momento in cui tutte le speranze si infransero sul volto dell’uomo. Scosse la testa e portò la cavalla al trotto e poi al galoppo, lasciando il piccolo gruppo a guardare la sua schiena che si allontanava sempre di più nella luce livida del pomeriggio.
 
▪▪▪
 
Quando arrivò a Tula era ormai calata la sera. Cenere aveva cavalcato rapida, non vedendo l’ora di sbarazzarsi del cadavere della Banshee che iniziava a liberare un odore che le aggrediva le narici a ogni respiro. Il villaggio era piccolo e triste, provato dalle morti causate dalla creatura prima che il podestà si decidesse ad assumere un cacciatore degno di questo nome. Erano molte le case che mostravano ancora la tintura nera del lutto dipinta sugli stipiti. Se non avessero esitato a chiamarla, molte di quelle persone sarebbero state ancora vive.
Cenere portò la giumenta al passò, asciugandosi il sudore dalla fronte. Fece una smorfia quando vide che sul guanto di pelle era rimasta una striscia di fango marroncino. Aveva bisogno di darsi una bella lavata. Prima però, aveva bisogno di riscuotere la sua taglia.
Si diresse verso la casa del podestà, riconoscibile perché l’unica con le fondamenta in pietra. Legò il cavallo all’abbeveratoio e coprì le poche centinaia di metri che la separavano dall’ingresso. Vicino alla porta sostavano due uomini, immersi in una conversazione sommessa. Ognuno di loro teneva in mano un forcone, le punte nere quasi brillavano alla luce rossa delle lampade che illuminavano la strada. Quando Cenere gli passò vicino i due si zittirono, fissando la Cacciatrice che camminava sicura, l’elsa della spada che le spuntava da dietro la spalla.
Cenere aveva vissuto più a lungo di molti della sua razza solo perché col tempo aveva imparato a essere insieme sospettosa e prudente. Fu per questo motivo che, mentre passava tra i due uomini di guardia e scorgeva il ghigno che si dipinse sui loro volti, un sentimento di allarme iniziò a strisciarle sotto la pelle. Prima di aprire la porta si assicurò di avere il pugnale appeso alla cintura, calmandosi grazie al suo peso familiare.
La casa del podestà era spartana, unico segno di ricchezza lo spesso tappeto di lana d’agnello steso davanti al camino che scoppiettava allegro. Il bianco del tessuto era ormai virato al grigio e Cenere poteva notare anche da quella distanza le macchie di unto che campeggiavano sulla lana, segno di un benessere passato da molto tempo.
La stanza era stranamente gremita e Cenere si fermò quando la porta si chiuse alle sue spalle, sentendosi come un animale in trappola. Poteva scorgere manici di falci e coltelli nel buio. Il suo istinto le urlava che quella non era una situazione sicura.
Il podestà sedeva su una sedia di legno che nel suo immaginario doveva essere l’equivalente di un trono. Tracce di vernice dorata si potevano ancora intravedere sotto i braccioli e nella parte più alta dello schienale. Il capo del villaggio doveva essere stato un uomo corpulento, lo si notava dalla pelle cascante che gli stava sotto al mento. Adesso, dopo mesi e mesi d’inverno e di privazioni, i suoi occhi erano scavati e nel fondo brillava la luce febbrile tipica di chi non riesce a mangiare tutte le volte che ha fame. Una barba scura gli incorniciava il volto, crescendo a chiazze e prematuramente bianca. I vestiti gli cascavano addosso e macchie di sporco che non sarebbero mai andate vie ornavano il davanti della casacca pesante.
– Vieni avanti Symblantë. –
Cenere odiava quel nome, un derivato storpiato dell’antica lingua dei cacciatori. Il suo popolo usava la parola originale per indicare i traditori. Suonava incredibilmente insultante sulla bocca di quell’uomo.
– Podestà Corin – salutò Cenere avanzando. – Lieta che il sole splenda sul tuo cammino. –
– E che la neve sia lontana dal tuo – rispose il podestà con un cenno del capo. A quel gesto due uomini si affiancarono a Cenere, magri come spettri alla luce tremolante del fuoco. – Vorrai scusarmi se ti chiedo di posare le armi. –
A quella richiesta la Cacciatrice si irrigidì. Il loro primo incontro non si era svolto su quei toni, era stato tutto estremamente cordiale. Ora che ci ripensava, fin troppo. C’era stato qualcosa di untuoso nel modo in cui il podestà aveva contrattato con lei.
– Non ne vedo il motivo, – disse Cenere, con un tono che nonostante tutto le uscì esitante. – Siamo tra amici qui. –
– Siamo tra amici, ma l’inverno è un periodo duro – rispose il podestà con tono secco. – Suvvia, fai un favore a un vecchio che potrebbe essere tuo padre, – continuò poi più dolcemente, aprendosi in un sorriso.
Cenere si guardò attorno per un istante, rigida. Ci saranno state almeno una ventina di persone in quella stanza e, a quanto poteva vedere, quasi tutte erano armate. Maledizione, pensò. Non ho scelta.
La Cacciatrice fece un rigido cenno d’assenso col capo, contornato da un ancor più rigido sorriso. Portò le mani a sciogliere il complicato nodo che sorreggeva la sua spada, porgendola all’uomo alla sua destra.
– Ne sei responsabile – ringhiò mentre l’altro la afferrava. La spada era la sua unica fonte di sostentamento. Se gliel’avessero persa, o rovinata, sarebbe morta prima della fine dell’inverno. Sempre se finirà.
– Anche i coltelli – aggiunse il podestà con tono mellifluo.
Quando Cenere finì di consegnare il suo discreto arsenale si sentiva vulnerabile come se stesse correndo nuda in mezzo ai rovi.
Visto che nessuno parlava prese la parola. – Ho portato a termine il mio compito. –
Il podestà sorrise. – Non ti offenderai se ti chiedo di vedere il cadavere di quella, come l’hai chiamata… Bansai. –
Cenere scosse la testa, ignorando l’errore. – È legato fuori, sul mio cavallo. Ho pensato che portarlo dentro avrebbe potuto turbare qualcuno – aggiunse poi guardando la moglie del podestà, in piedi dietro al seggio del marito e illuminata dalle fiamme del focolare.
– Ben fatto, ben fatto, – gongolò il capo villaggio, girandosi verso l’uomo alla sua sinistra. – Mani, vai a vedere. –
Mani si diresse rapido verso la porta, sparendo presto nell’oscurità della notte invernale. Nessuno parlò nell’attesa e Cenere non cercò di rompere il silenzio. Non era mai stata a suo agio con le chiacchiere vuote. Si sentiva la gola pizzicare e gli occhi lacrimare per il fumo acre che si stava espandendo per la stanza. La sensazione di pericolo non l’abbandonava, la sentiva come una presenza quasi tangibile vicino a lei.
Mani rientrò in fretta nella sala gremita. – L’ho vista, Corin! È sul cavallo, come dice lei. –
– Molto bene, molto bene, – il podestà sorrise a Cenere mettendo in mostra una fila di denti storti e giallastri. – Qual era il pagamento, secondo il contratto? –
– Quindici pezzi d’argento – rispose rapida la Cacciatrice. Aveva contrattato per più di due ore per raggiungere quel prezzo, non se lo sarebbe dimenticato molto presto.
Il podestà assunse un’aria pensierosa. – Non ne sono sicuro. –
Cenere gelò a quelle parole, mentre il capo villaggio sporgeva una mano e qualcuno dal buio gli passava una pergamena che aveva visto tempi migliori.
Il podestà gliela mostrò. – Questo è il nostro contratto, vero? –
Cenere annuì, esitante. Anche da lontano riconosceva la sua firma in calce al documento. Lei stessa ne portava una copia in una tasca della casacca.
– Cale, vieni a leggere – chiamò il podestà, porgendo la pergamena a un uomo segaligno e grigiastro che si era avvicinato al seggio del capo villaggio.
Cale prese il documento e scandì bene le parole mentre leggeva, facendo sì che queste rimbombassero nella piccola stanza. – Per l’uccisione del mostro si pagherà il prezzo di quindici pezzi d’argento – Cenere annuì. – Se la prova dell’uccisione verrà portata dopo il tramonto del quarto giorno, tuttavia, il prezzo scenderà a… – Cale fece una pausa ad effetto, squadrando Cenere con uno sguardo di disgusto. – Pezzi d’argento: quattro. –
Cenere spalancò gli occhi e fece un passo in avanti. – Io non ho mai… – iniziò a urlare, quando una decina di lame di diversa natura gli si puntò contro. La Cacciatrice si immobilizzò, mentre il suo corpo iniziava quasi a tremare per la rabbia trattenuta. Guardò il podestà con odio, ringhiando bassa. – Io non ho mai firmato una porcheria del genere. È una truffa! –
– Eppure… – iniziò il podestà, ghignando al suo indirizzo. – Eppure qua c’è la tua firma. –
Cenere fece per prendere il documento che portava sotto alla casacca quando una lama le si puntò sul collo. Poteva sentire la punta della falce pizzicare esattamente dove si trovava la sua giugulare. Fu costretta ad alzare il mento e si immobilizzò come un animale in trappola. Sentì i suoi occhi assottigliarsi mentre li puntava sul podestà.
– Oh, io non lo farei… – mormorò il capo villaggio con un’espressione di finto dolore in viso. – Non sappiamo che cosa tu possa avere lì sotto. Sarei costretto a ucciderti – aggiunse, torcendosi le mani. – Per la mia sicurezza, capisci. –
Cenere strinse i denti talmente forte che sentì la mascella scricchiolare.
– Allora – continuò il podestà, aggiustandosi meglio sulla sua parodia di trono. – Accetti questo prezzo o te ne andrai senza essere pagata? O rimarrai qui a morire? –
– Accetto il prezzo – rispose Cenere, in un ringhio che rendeva a stento riconoscibile la sua voce. Sentiva il suo cuore rombare nel petto, il sangue scaldarle il viso. Il capo villaggio era stato saggio a toglierle le armi, se le avesse avute tra le mani lo avrebbe ucciso.
– Molto bene, molto bene – il podestà annuì, iniziando a frugare nel borsello che portava in vita. Estrasse quattro pezzi d’argento tondeggiante e li rimirò alla luce del fuoco, con un sospiro. Poi li lanciò davanti a Cenere. Le monete risplendettero deboli sulla terra battuta del pavimento.
– Sam, ritira quell’arma – continuò poi il capo villaggio con tono di finto rimprovero, rivolto all’uomo che ancora minacciava Cenere con la sua falce. – Siamo tra amici, qui. –
La Cacciatrice puntò i suoi occhi asimmetrici su Sam, godendosi l’espressione di terrore che passò sul suo volto. Quando non fu più minacciata si chinò per terra e raccolse le monete, sentendo sulla nuca gli sguardi di tutte le persone che riempivano la stanza. Poteva quasi percepire il loro divertimento per la sua umiliazione. Non poteva permettersi il lusso di perdere anche quel denaro.
– Le mie armi? – domandò gelida mentre si tirava su e metteva via i pezzi d’argento.
– Ti saranno consegnate all’uscita dal villaggio. E sappi, Symblantë, che ti uccideremo se tornerai indietro. –
Cenere annuì e si diresse verso la porta, con il mento alto come quello di una regina. Prima di uscire si rivolse alla sala e fissò il podestà.
Namèi sarie farnë, arai na sulati – dichiarò nella sua lingua madre, lasciando che tutta la rabbia e l’odio che provava trasparissero dalla sua voce. – Sämè laran sotrai, faurè na simnae. –
Che voi siate maledetti, per il sale e per la terra. Che l’inverno vi uccida, per il fuoco e per la neve.
Poi sputò per terra, fissando il podestà negli occhi. Si godette il suo strepito spaventato e l’ondata di terrore che percorse la sala alle sue parole. L’ultima cosa che vide prima di chiudersi la porta alle spalle fu il capo villaggio che quasi si arrampicava sul suo trono, strepitando di chiamare il sacerdote.
Cenere camminò nella neve verso la sua cavalla, che dondolava indolente la coda mentre mangiava con la testa infilata nel sacco di biada. Cenere sogghignò mentre pensava ai brutti momenti che avrebbe fatto passare al podestà e al suo villaggi. Non erano in molti a capire la sua lingua, ma tutti ormai la associavano a sventure e disgrazie. Quella che aveva lanciato era una maledizione tanto quanto fare piani sul futuro era esercitare la preveggenza, ma Cenere sentiva un guizzo di felicità al pensiero che ad ogni avversità che si sarebbe abbattuta sul villaggio avrebbero pensato a lei e a come l’avevano trattata. E visto che l’inverno sarebbe stato ancora lungo era sicura che di avversità ce ne sarebbero state in abbondanza. Era una piccola rivincita, ma pur sempre una rivincita.
Però, mentre liberava la sua giumenta dal cadavere della Banshee, la piccola gioia che aveva provato a vedere il terrore sulla faccia del podestà sparì, lasciandola solo con la rabbia e un sentimento che assomigliava molto alla disperazione.
Il denaro di quella taglia le serviva. L’inverno era cominciato da molti mesi e nessuno sapeva quando e se sarebbe finito. Aveva bisogno di comprare cibo per sé e per la sua cavalla, le sue armi avevano bisogno di una rimessa a posto. Doveva comprare indumenti più pesanti se non voleva morire di freddo e non poteva dormire sempre all’addiaccio, almeno non se avesse voluto svegliarsi al mattino dopo. Ci voleva del tempo per trovare un altro ingaggio, visto che persino i mostri sembravano essere stati vinti dal gelo dell’inverno.
Cenere accarezzò piano il manto della sua giumenta, godendosi la sensazione di calore che il pelo caldo dell’animale le trasmetteva. Fece un sospiro che si condensò nell’aria gelida della sera.
– Siamo io e te contro il mondo – mormorò con un sorriso triste mentre scioglieva un nodo dalla criniera della cavalla. – Come sempre, vero? –
Chiuse gli occhi per un momento, cercando di contrastare la disperazione e la tristezza che stavano avendo la meglio su di lei. Quando li riaprì ogni traccia di sofferenza era scomparsa, lasciando solo una ferrea caparbietà.
Andiamocene da qui.
Prese la giumenta per le redini, conducendola verso l’ingresso del villaggio. Il cadavere della Banshee riluceva di una luce verdastra nella neve vicino all’abbeveratoio. Che se ne liberasse il podestà Corin di quell’orrore, lei per quel giorno aveva finito.
Aveva quasi raggiunto il limitare del villaggio quando poco lontano dall’ingresso di Tula comparve un gruppetto di persone. Cenere si irrigidì quando capì che erano gli uomini che l’avevano fermata quel pomeriggio sulla Strada. In pochi secondi prese una decisione e accelerò il passo, tirandosi dietro la giumenta recalcitrante per il freddo.
Quando arrivò vicino al gruppo non si curò degli sguardi in parte speranzosi e in parte disperati che le furono rivolti.
– Sei tu il capo qui? – domandò all’uomo che le aveva parlato quel pomeriggio. Ora che lo guardava meglio il suo era il volto di un giovane, ma le rughe e l’espressione preoccupata lo facevano sembrare più vecchio di quello che era.
L’uomo annuì. – Sono io. –
– Ho deciso di venirvi incontro, – Cenere parlava rapida. Non c’era più tempo per i formalismi quando scendeva l’inverno. – Quanto potete offrirmi, per il Licantropo? –
I quattro si guardarono come chi vede riaccendersi le proprie speranze quando tutto ormai sembra perduto.
– Dieci pezzi d’argento e tre di bronzo. –
Cenere fece finta di prendersi un secondo per pensare. Era un prezzo ridicolo per un Lycan, ma solo gli Dei sapevano quanto avesse bisogno di quei soldi.
– Va bene. In più, però, il vostro fabbro mi ripara l’equipaggiamento. Gratis. –
Il capo del gruppetto annuì.
– E mi darete un posto dove dormire. Dove volete, basta che sia coperto. –
L’uomo aggrottò la fronte. – Quello l’avremmo fatto comunque. Non siamo mica animali. –
Questo non si può mai sapere. – Allora, affare fatto? –
Cenere tese la mano e il capo del gruppo la strinse. – Affare fatto. –
 
▪▪▪
 
Mi sono svegliato di nuovo in piedi in cucina. Non ho più la camicia, i miei pantaloni sono strappati. Da quando loro sono morti, non riesco più a dormire. Gli attacchi di insonnia si fanno sempre più frequenti. Le mie occhiaie sono sempre più livide, il volto più scavato. Non mangio più. Bevo soltanto, sempre di più. Forse l’insonnia è dovuta a questo. So che dovrei smettere, che non avrebbero voluto che mi riducessi così, ma non ce la faccio. Meglio bere fino all’incoscienza piuttosto che ricordare.
Ora torno a letto, è malapena l’alba. Farò bene a dormire per qualche ora.
Mi sono svegliato quando ormai il sole era alto nel cielo. Pat stava bussando alla mia porta, talmente forte che per un istante ho avuto paura che potesse venire giù. Il mio primo pensiero è stato che avrebbe svegliato il bambino. Poi mi sono ricordato che non c’è più nessun bambino da svegliare.
Avrei voluto che se ne andasse, ma Pat sa essere testardo come un mulo quando vuole. Mi ha portato da mangiare, mi ha convinto a lavarmi, mi ha invitato ad andare da lui e da Anne stasera. So che non lo farò. Preferisco bere fino a perdere i sensi, di nuovo. Quanto ci metterà a capire che non voglio essere salvato?

 

ANGOLO DELL'AUTRICE!
Ciao a tutti! 
Benarrivati alla fine di questo primo capitolo, spero che vi sia piaciuto. Ci tenevo a fare un po' di chiarimenti su questo mondo particolare, che nella mia testa prende il nome di Egea. I mostri sono creature all'ordine del giorno, esistono quelli più "classici", come le Banshee, e altri più strani e mai visti che arrivano direttamente dagli angolini bui della mia mente. La razza di Cenere, quella degli Haris, si è presa il mestiere di farli sparire dalla circolazione. Una volta, anni e anni prima della vicenda, gli Haris non erano banali assassini prezzolati ma erano i Guardiani degli uomini, che avevano il compito di proteggerli e salvaguardarli dai mali del mondo. Poi c'è stata una guerra, gli Haris hanno perso e hanno subito, come dire, un ridimensionamento da parte delle altre razze (classici nani ed elfi, per intenderci). 
Ok, fine dei deliri e delle spiegazioni accademiche, visto che tra un po' sono più lunghe di tutto il capitolo.
Ci tenevo ancora a dire che, essendo la storia già scritta, verrà pubblicata in poco tempo. Dovrei riuscire, esami permettendo, a caricare un capitolo ogni 3/4 giorni. 
Grazie di essere arrivati fin qui, spero che vi sia piaciuta ^^
Lunghi giorni e piacevoli notti,

Lya

 

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Capitolo 2
*** L'arrivo a Briar ***


WHAT KIND OF MAN
 
 
L’ARRIVO A BRIAR
 
“Got no way to prove it
So maybe I’m blind
But I’m only human after all
I’m only human after all”
Human, Rag‘n’Bone Man
 
Cenere e il gruppetto ci misero cinque giorni per arrivare a Briar, il villaggio del Licantropo. Marciarono sulla Strada ogni giorno dalle prime luci dell’alba fino a quando il buio diventava così fitto da impedirgli di vedere dove mettevano i piedi. Cenere poteva camminare molto più veloce di quanto facevano, ma poteva leggere la stanchezza sui volti degli uomini con lei ogni volta che si coricavano e quando si alzavano, al mattino. Nonostante ciò nessuno di loro si lamentò, nemmeno una volta.
Anche se non era molto abituata ad avere compagnia e spesso camminava in silenzio, Cenere incominciò a conoscere i suoi compagni di viaggio. Il capo del gruppetto si chiamava Arn, era il figlio del podestà di Briar. Aveva ventisei anni, una voce piacevole e si rivolgeva sempre a lei con cortesia, non con il disprezzo che aveva sentito così spesso. Se fosse solo perché aveva bisogno di lei, Cenere non sapeva dirlo.
Insieme a loro viaggiavano Sim, il figlio del fabbro, e Garrett, un tagliaboschi che osservava tutto con sguardo serio. Confabulavano spesso insieme, borbottando piano nel freddo, talmente vicini che la condensa dei loro fiati si mischiava nell’aria gelida. Fissavano Cenere quando erano convinti che lei non li notasse e la Cacciatrice si accorse che quando si addormentavano tenevano in mano dei coltelli che sarebbero stati più utili a tagliare il burro che a difendersi. Come se avessero potuto salvarsi se lei avesse deciso che li voleva morti.
L’ultimo era un uomo che tutti chiamavano Blackfriar. Quale fosse il suo vero nome non era dato saperlo. Cenere immaginò che il soprannome derivasse dalla sua veste lunga e tinta di un nero sbiadito, legata in vita da una corda sfilacciata e piena di nodi. Portava una barbetta corta e aveva uno sguardo sveglio e penetrante, circondato da rughe che facevano sembrare i suoi occhi sempre scherzosi. Era l’unico che aveva parlato con Cenere di sua volontà, facendole domande a cui non sempre lei aveva voglia di rispondere.
Fu durante una di queste conversazioni che scoprì che era il fratello del podestà, considerato un po’ stravagante da quando era tornato da Lamea dopo aver rinunciato ai voti. Secondo Cenere era molto più intelligente di quanto volesse far credere e sicuramente era il più istruito del gruppo. Nonostante il capo fosse Arn, capitava spesso che prima di prendere una decisione guardasse verso Blackfriar, come cercando una conferma a quello che stava facendo. Il più delle volte il vecchio frate stava in silenzio e lo guardava sorridendo con le mani in tasca.
Mancavano poche ore al loro arrivo a Briar e stavano arrancando nella neve quando Cenere si decise a porre la domanda che le ronzava in testa da parecchio tempo.
– Come fate a sapere che è un Lycan? –
Arn la guardò come se fosse improvvisamente impazzita. – Infatti è un uomo lupo. –
– Sono la stessa cosa – si intromise Blackfriar prima che Cenere potesse parlare. – Un Lycan, o Licantropo, è un uomo lupo. –
– Buono a sapersi – Arn si rimise a posto lo zaino. – Non ne siamo sicuri, comunque. Che sia un uomo lupo. Ma attacca sempre con la luna piena. –
Cenere scosse la testa. C’erano altre creature che si risvegliavano solo quando la luna era alta nel cielo. C’erano i Gamling, per esempio, e gli Snowman. I Lester attaccavano nelle prime fasi di luna calante e un occhio poco esperto avrebbe potuto ancora scambiarla per piena.
Arn continuò, ignaro dei ragionamenti di Cenere. – Abbiamo trovato delle orme, nella foresta. Orme strane. E i morti che abbiamo trovato, sembrano… –
La Cacciatrice aspettò che Arn proseguisse, ma quando l’uomo sembrò non riuscire a trovare le parole fu Blackfriar a venirgli in aiuto.
– Sembrano essere stati divorati. Da un animale molto grosso. –
– Potrebbe essere stato un orso, o un branco di lupi – commentò Cenere.
Blackfriar scosse la testa. – Nessun animale è in grado di fare un lavoro simile. Almeno, nessun animale normale – il frate guardò Cenere dritto negli occhi. – No, Cacciatrice, non ci sono risposte banali questa volta. C’è qualcosa di malvagio all’opera a Briar. Lo capirai anche tu quando vedrai quello che abbiamo visto noi. –
Il silenzio cadde sul piccolo gruppo che arrancava nella neve e Cenere sentì un brivido correrle per la schiena. Brivido che non c’entrava niente con il freddo e con il ghiaccio che il vento le gettava sul viso.
Fu di nuovo Blackfriar a rompere il silenzio. – Ma ora basta con questi discorsi. Siamo arrivati – disse, indicando la palizzata di legno che si intravedeva in mezzo a quella che presto sarebbe diventata una tormenta. – Benvenuta a Briar, Cacciatrice. –
 
▪▪▪
 
Cenere fu portata subito verso la casa del podestà mentre Garrett prese la sua cavalla e la condusse verso la piccola stalla. Arn camminava in testa al piccolo gruppo, tutto a un tratto impaziente di tornare a casa e di togliersi dalla tormenta. Il vento freddo spazzava il piccolo cortile davanti alla dimora di legno e pietra del capo villaggio.
Dopo l’esperienza di Tula Cenere non era molto ben disposta verso i podestà e si ritrovò a fermarsi sulla porta per qualche secondo. Fu Blackfriar ad invitarla ad entrare, cedendole il passo e accompagnandola con un gesto della mano.
Come a Tula, un fuoco scoppiettava allegro in un angolo della grande stanza. Dentro c’erano sei persone, tutte impegnate in conversazioni sommesse. Su una parete si stagliava un grosso arazzo intessuto con colori che dovevano essere stati splendenti, ma che con il tempo erano ormai sbiaditi. Nel centro della stanza si erigeva un grosso tavolo di legno scuro, liscio e usurato dagli anni. Dietro a uno dei due lati corti si vedevano due sedie con un alto schienale, molto diverse dalle panche che circondavano il resto del tavolo.
Era su uno di questi due scranni che era seduto il podestà, che stava parlando con Arn con un sorriso in volto. Assomigliava a Blackfriar abbastanza da far capire che fossero imparentati. Una lunga barba nera incorniciava il viso sottile, la cui severità era mitigata solo dal sorriso che incurvava la bocca. Aveva le spalle ampie di chi aveva lavorato tutta la sua vita e la schiena era dritta anche se appoggiata allo schienale. Cenere valuto che dovesse avere circa cinque decadi.
Quando la Cacciatrice fece il suo ingresso nella stanza sentì immediatamente il peso di sei paia di occhi su di sé. Inconsciamente, la sua mano corse più vicina all’elsa della spada.
– Padre – si rivolse Arn al podestà rivolgendo a Cenere il più ampio sorriso che lei avesse visto in molto tempo. – Lei è la Cacciatrice. –
Il podestà annuì e si alzò lento dalla sedia. Si avvicinò verso Cenere zoppicando lentamente ma comunque emanando un’aura di autorità. Quando le arrivò davanti tese la mano, guardandola negli occhi. Cenere rimase interdetta per qualche secondo. Non erano in molti che accettavano così spontaneamente un contatto con lei. Più titubante e stupita di quanto volesse far capire, strinse la mano che le veniva offerta.
– Lieto che il sole splenda sul tuo cammino, Cacciatrice. Sei più che benvenuta. Il mio nome è Bandicus, sono il podestà di questo paese. –
– Felice che la neve sia lontana dalla tua strada. Mi chiamo Cenere. –
Bandicus annuì, lasciandole la mano. – Vieni, accomodati. Dovrai essere stanca – la guidò fino a una delle panche, facendole cenno di sedersi. Poi prese per mano la donna che gli si stava avvicinando. – Lei è Galata, mia moglie. –
– Piacere di conoscerti – mormorò Cenere chinando la testa, ancora frastornata da tutta quella gentilezza.
– Il piacere è mio – rispose Galata sorridendo. La moglie del podestà non era una bella donna, ma aveva un’aria così materna che Cenere non poté fare a meno di sorridere a sua volta. Aveva gli stessi capelli castani di Arn, anche se ricci in una maniera più curata. Le guance erano rosate e gli occhi nocciola trasmettevano calore. Deve essere bello avere una madre così.
– Loro – continuò il podestà indicando le altre quattro persone sedute al tavolo. – Sono Nate, Will, Mo e Jean. – Gli uomini fecero qualche educato cenno col capo, mantenendo le loro espressioni gravi. Cenere si accorse che nonostante i sorrisi sui volti di Bandicus e Galata, tutte le persone all’interno di quella stanza avevano un’aria preoccupata. E spaventata.
Il podestà tornò a sedersi sul scranno, guardando gli uomini vicino a lui. Il sorriso sul suo viso scomparve definitivamente.
– Arn ti ha spiegato perché abbiamo bisogno di te? –
– A grandi linee – Cenere si schiarì la voce mentre si metteva più comoda sulla panca. – Ma vorrei sentire tutto dall’inizio. Da voi. Cosa sta succedendo qui? –
Fu l’uomo che si chiamava Nate a prendere la parola. A giudicare dallo spessore dei suoi avambracci, doveva essere il fabbro.
– È iniziato tutto circa quattro mesi fa, dopo una notte di luna piena. Quando ci siamo alzati, al mattino, nella piazza del mercato abbiamo trovato il cadavere di Ben. Sembrava… –
Nate si interruppe scuotendo la testa e fu Jean a finire la frase. – Sembrava divorato. –
– Divorato come? – Cenere sapeva che domande come quella non la rendevano più piacevole, ma aveva bisogno di avere altre informazioni.
– Aveva uno squarcio sulla pancia da cui fuoriuscivano metri di interiora. Una gamba era stata strappata e l’abbiamo trovata vicino alla fontana, cinque metri più in là. Sembrava che qualcosa gli avesse masticato la faccia. –
Cenere fece un lungo respiro, suo malgrado impressionata. – Chi l’ha trovato? –
– Mia figlia – rispose il fabbro con tono amaro. – Ancora non ha ripreso a parlare. –
Cenere emise un fischio basso. – Mi dispiace. –
Jean guardò il podestà. – Siamo stati stupidi – gli disse, per poi parlare direttamente a Cenere. – Ben era l’ubriacone del paese, capitava spesso che passasse la notte fuori. Quando l’abbiamo visto abbiamo tutti pensato a un branco di lupi, anche se era strano che si fossero spinti così vicino al villaggio e che soprattutto nessuno li avesse sentiti. –
– Non potevamo immaginare una cosa simile – rispose Bandicus conciliante.
– Io non la immagino nemmeno ora – si introdusse Mo, freddo. Era la prima volta che Cenere lo sentiva parlare.
– Ed ecco il nostro scettico – commentò ironico Blackfriar, accomodato sulla panca vicino alla Cacciatrice. – Non crede alle cose nemmeno quando ci sbatte il naso contro. –
Il rossore si diffuse sul collo di Mo, punto sul vivo. – Non è questione di non credere. Solo secondo me non era il caso di chiamare una Haris, una Simblantë. –
Tutta la simpatia scomparve dal volto di Blackfriar. – Non usare più quella parola! – il fratello del podestà sbatté pesantemente la mano sul tavolo di legno. – Siamo tra persone civili, qui! –
Cenere si stupì della reazione di Blackfriar. Non erano in molti a sapere l’origine di quella parola, ancora meno le persone che decidevano di non usarla o di redarguire chi la pronunciava.
– È tutto a posto – borbottò burbera, prima che Mo potesse ribattere. Tutto il tavolo stava fissando il vecchio frate con stupore. La Cacciatrice mise una mano sul braccio di Blackfriar, sperando di calmarlo. – È tutto a posto. –
Poi tornò a rivolgersi a Mo. – Se è davvero un Licantropo quello che dovete affrontare, non potete farlo da soli. Avete bisogno di aiuto. –
L’uomo sbuffò, incrociando le braccia. Il fabbro riprese la parola.
– In ogni caso abbiamo pensato che fosse stato un incidente, niente di cui preoccuparsi. Un mese dopo però, appena passata la notte di luna piena, abbiamo trovato i corpi di Lily e Harry sul limitare della foresta. Le loro condizioni erano simili a quelle di Ben. –
– Avevano diciassette anni – mormorò Galata. Aveva una voce bassa, adatta a cantare ninne nanne. – Si amavano, volevano sposarsi. –
Nate annuì torvo e continuò, titubante. – E poco più distante, nel folto della foresta, c’era il cadavere di Lucius. Il padre di Will – gli lanciò un’occhiata come di scuse.
– Mio padre era un bravo arciere – disse l’uomo con una smorfia amara. – Aveva l’abitudine di uscire nel pieno della notte per cacciare e nelle notti di luna piena la luce è talmente chiara da permettere di vedere molto lontano. Ha combattuto quando quella cosa gli si è avventata contro. C’erano segni ovunque, nella foresta. –
– Qualcuno ha letto le tracce? – domandò Cenere. Anche se non sarebbero mai stati bravi quanto lei, magari avevano notato qualcosa di strano. Un brivido di freddo le percorse la schiena. Gestire un Licantropo non sarebbe stata una cosa facile. Nemmeno per una come lei.
Blackfriar sollevò ironico un sopracciglio, indicando Mo con un cenno del capo. – Il nostro conestabile, qui. –
L’uomo non si degnò di rispondere, raddrizzando la schiena e sporgendo il petto in fuori. Cenere lo osservò inclinando la testa, per niente impressionata.
– Non è stato facile – iniziò Mo, sprezzante. – C’era sangue dappertutto e la testa di Lucius aveva tracciato un arco di sette metri per aria, lanciando schizzi ovunque. – Will distolse lo sguardo e Galata gli mise una mano sulla spalla. – Però ho trovato delle tracce. Delle orme. –
Cenere si fece più avanti sulla panca. – Descrivimele. –
– Erano orme di lupo, niente di più. –
– Dimensioni? Pressione? –
Mo fece una smorfia. – Più grandi di qualsiasi altre io abbia mai visto prima. E più calcate. Ma questo non vuol dire nulla. –
Cenere fece un sorrisetto e lo incalzò. – Segni di unghie? –
– Sì. –
– Quanti? –
Il conestabile non rispose.
Bandicus si intromise, parlando piano. – Rispondi Mo. –
– Cinque – L’uomo sputò quasi le lettere, come se ognuna fosse un insulto alla sua persona.
Cenere sorrise, tirandosi indietro. Tutti al tavolo fissavano Mo con occhi spalancati. Blackfriar scosse la testa e guardò schifato il conestabile. – Questo non ce l’avevi detto. –
– Potrebbe significare qualsiasi cosa! – schizzò Mo. – Solo perché vuoi assolutamente che quello che sostieni sia vero non vuol dire che dobbiamo tutti correrti dietro! –
Blackfriar si alzò in piedi facendo scivolare la panca, puntando il dito sul conestabile che si tirò su a sua volta. – Tu… –
– SILENZIO! – Bandicus sbattè le mani sul tavolo e il rumore rimbombò sulle pareti della stanza. – Sedetevi, tutti e due! –
Mo e Blackfriar tornarono a sedersi lentamente, continuando a squadrarsi in cagnesco. Il silenzio si diffuse come melassa nella piccola sala, rotto solamente dallo scoppiettare del fuoco. L’atmosfera era tesa.
– Qualcuno può spiegarmi? – domandò Galata gentilmente.
Cenere si alzò in piedi, portandosi verso il camino. Rimase ferma a guardare nel fuoco per qualche secondo, prima di girarsi. Quando lo fece, sette paia di occhi la fissavano. Mo teneva gli occhi puntati sul tavolo davanti a sé.
– I canidi, tutti i canidi, hanno quattro unghie. Quando lasciano un’orma, si contano solo quattro segni sul terreno, in corrispondenza delle dita. Invece… – Cenere alzò la mano aperta, in modo che tutti la potessero vedere. La rimirò per qualche secondo, muovendola nella luce rossa del fuoco. – Invece, se i segni che si contano sono cinque, vuol dire che qualcun altro si è preso la briga di lasciare un’impronta. – la Cacciatrice fece ondeggiare il pollice su e giù. – Qualcuno con un dito in più. –
– Quindi siamo sicuri – mormorò il fabbro scuotendo la testa. – È un Licantropo. –
– No – rispose Cenere. – Non siamo ancora sicuri. Dovrei vedere l’orma per poterlo dire con certezza. Avete fatto un calco? –
Fu Bandicus a risponderle con voce delusa. – No. Non ci abbiamo pensato. –
Cenere scrollò le spalle. – Non importa. Ma mancano ancora due lune piene al vostro racconto. Andate avanti. –
– Dopo ventotto giorni c’è stato un altro plenilunio – continuò il podestà. – E questa volta eravamo abbastanza preparati. Sapevamo di non dover uscire di casa. Avevo detto a tutti di chiudersi dentro e aspettare che sorgesse il sole – il podestà scosse la testa con aria sconsolata. – Anche così però al mattino erano scomparse sei persone. Fran l’abbiamo trovata vicino all’abbeveratoio. Suo figlio aveva la febbre, deve essere uscita a prendergli dell’acqua da bere. Mary e Jake, moglie e figlio di Luke, erano nella foresta, poco lontane dalle porte. Kit e Mark, i figli di Jean, erano sulla strada principale. –
Jean aveva gli occhi lucidi. – Il nostro cane guaiva disperato – spiegò. – Kit è uscito dalla finestra per andare a tranquillizzarlo. Quando non l’ha visto tornare, Mark deve averlo raggiunto – l’uomo scosse la testa e si alzò piano, allontanandosi dalla stanza.
Bandicus aspettò che Jean se ne fosse andato per continuare. – L’ultimo è Liam. Lui l’abbiamo ritrovato vivo nel bosco. Non so come abbia fatto a sopravvivere. –
– Mi dispiace – disse Cenere, e lo pensava davvero. Quelle che aveva davanti erano le prime persone decenti che incontrava da molti anni e quello era il ringraziamento. Se gli Dei esistevano, erano davvero crudeli.
– Anche a noi – rispose Will mesto.
– L’ultima notte di luna piena ho ripetuto a tutti di non uscire di casa e ho chiuso personalmente il cancello di ingresso del villaggio – ricominciò Bandicus. – Ho pensato che qualsiasi cosa ci tormentasse poteva benissimo restare fuori dalla palizzata. Non è stata una buona idea. –
– L’hai chiusa dentro – mormorò Cenere chiudendo gli occhi.
– L’ho chiusa dentro – ammise il podestà, stringendosi il pugno tra i capelli. Galata gli prese una mano, baciandone il dorso. Bandicus si rialzò e il momento di smarrimento sembrò essere passato. – Quella cosa si è avventata sulla casa dei Lancer e ha sfondato una parete. Li ha uccisi tutti e cinque. –
– E questo è tutto – concluse Blackfriar. – Almeno fino ad ora. –
– Puoi vederli, se vuoi – disse Mo. Erano le prime parole che pronunciava dall’alterco con il frate. – I Lancer, intendo – precisò, quando vide che Cenere lo fissava. – Non li abbiamo ancora seppelliti. –
 
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Stanotte ho fatto un sogno. Quando mi sono svegliato ero convinto che fossero ancora qui con me. Ho vagato per la casa, chiamando i loro nomi. Nessuno mi ha risposto anche se per un momento… per un momento mi è sembrato che fossero solo nascosti, come quando giocavamo a nascondino. Poi l’istante è passato e mi sono ricordato che sono morti. Morti e sepolti. Ho bevuto di nuovo e di nuovo mi sono addormentato, talmente ubriaco da non ricordarmi nemmeno il mio nome.
Al mio risveglio il sole era già alto nel cielo. Non avevo la forza per lavorare e avevo finito l’alcol. Sono uscito di casa, per la prima volta dopo quelli che mi sono sembrati anni. L’ultima volta che l’ho fatto è stato per il loro funerale.
La gente ha pietà di me, lo capisco dalle occhiate che mi lanciano. Tutti sono gentili e mi chiedono come sto, anche quelli che come me hanno perso qualcuno di caro. Li odio e li invidio. Non mi merito tutta questa gentilezza. Non ero con loro quando sono stati uccisi. Che tipo di uomo fa ciò? Scomparire quando la sua famiglia ha bisogno di aiuto?
Alcune occhiate che mi vengono rivolte sono di disgusto. Sono quelle che preferisco, il disgusto è tutto ciò che merito. Quando torno a casa e inizio a bere l’alcol che ho appena comprato, penso che vorrei essere morto anche io.
 
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Blackfriar e Mo accompagnarono Cenere verso il limitare del villaggio, in una casetta abbandonata vicino all’alta palizzata di legno. Bandicus era rimasto a casa, scusandosi per la sua zoppia che gli impediva di camminare bene nella neve. I due uomini non si parlavano e Cenere si prese quel tempo di silenzio per osservare meglio il villaggio. I loro fiati si congelavano e la Cacciatrice si strinse meglio nella sua casacca pesante.
Briar era uno di quei paesi dove tutti conoscono tutti e ognuno aiuta il proprio vicino. Camminando per le sue strade però Cenere vide molti sguardi tirati e occhiate inquisitorie, rivolte verso alcuni individui che probabilmente erano considerati sospetti. Non si sarebbe stupita se presto ci fosse stato un linciaggio sulla piccola piazza. Le situazioni di quel tipo non erano mai facili da gestire e un Lupo Mannaro… un Lupo Mannaro non era un mostro facile con cui avere a che fare.  
Mentre passavano sulla via principale Cenere notò una donna fare un scongiuro per scacciare il malocchio, rivolto verso di lei. Avendo visto la scenata che Blackfriar aveva fatto poco prima a Mo, era stata fortunata che il vecchio frate non se ne fosse accorto. A lei però non pesava, era il trattamento che riceveva da tutta la vita. Aveva presto capito che le alternative erano prendersela e cercare di rimediare l’offesa con parole cattive, pugni e coltelli, oppure tirare avanti per la sua strada. Inutile dire qual era la sua scelta. Nonostante questo però, le parole gentili di Bandicus e di suo fratello avevano smosso qualcosa dentro di lei, qualcosa che pensava di aver sepolto da molto, molto tempo.
– Siamo arrivati – disse Blackfriar, distogliendola dai suoi pensieri.
La casa dove riposavano i corpi dei Lancers doveva essere un ricordo dell’estate, quando la vita nei paesi era più vivace e molte famiglie passavano da un villaggio all’altro per scambiarsi merci e notizie. Ora era solo un edificio fatiscente.
Mo aprì il pesante lucchetto che chiudeva la porta, spalancandola.
– Prego – disse ironico rivolto alla Cacciatrice, accompagnando le sue parole con un gesto della mano. Come se la stesse invitando ad un ballo piuttosto che a vedere dei cadaveri.
Cenere salì i pochi gradini passando vicino al conestabile. Odorava di ferro e sudore. I suoi occhi neri la seguirono mentre si fermava sull’uscio.
– Voi non venite? – chiese, anche se sapeva già la risposta.
Blackfriar le scoccò un’occhiata imbarazzata. – Io… no, mi dispiace. È uno spettacolo che non voglio rivedere. –
Cenere annuì.
– Ti aspetteremo qui fuori. –
La Cacciatrice non rispose. Diede le spalle al mondo innevato di Briar ed entrò nell’oscurità della casupola.
La prima cosa che la colpì fu l’odore. Cenere lo conosceva molto bene, visto che l’aveva accompagnata per gran parte della sua vita. Nonostante la temperatura fosse di parecchio sotto lo zero, i corpi dei Lancer erano lì da quasi un mese ormai. Quella che sentiva era puzza di decomposizione.
Cenere avanzò piano nella piccola stanza che le si parava davanti. Era buia, visto che qualcuno aveva messo dei panni sulle finestre. Se per tenere lontano i curiosi o isolare il più possibile la casa, la Cacciatrice non sapeva dirlo. Il pavimento di legno grezzo cigolava sotto le suole dei suoi stivali mentre camminava, il suo fiato si congelava nell’aria gelida della stanza. Se Cenere fosse stata umana avrebbe avuto bisogno di luce per vederci qualcosa, ma quella luce debole era più che sufficiente per i suoi occhi di Haris.
In fondo alla camera c’erano quattro tavolacci di legno. Da dov’era poteva intravedere i corpi che giacevano là sopra.
Prima di avvicinarsi Cenere chiuse gli occhi, respirando piano. Non pensare, si disse, come le ripeteva sempre suo padre quando aveva bisogno di concentrarsi al massimo delle sue capacità. Non pensare, osserva e basta. Si sentiva tremare e non credeva che fosse per il freddo. Non pensare non pensare non pensare.
Respirò più profondamente e si gonfiò i polmoni d’aria gelata. Quando espirò si sentiva più calma. Aprì gli occhi e si avvicino ai tavoli. Il padre giaceva sul tavolo alla sua destra, al suo fianco il figlio minore. Cenere iniziò a osservare. Non pensare.
Qualcuno doveva avere ricomposto il corpo, anche se le ferite erano talmente tante e gravi che più che un essere umano sembrava carne da macello. All’uomo era stata strappata una gamba sotto al ginocchio e si vedevano segni profondi di artigli su un braccio. Probabilmente aveva cercato di difendersi. Sull’addome c’erano cinque squarci lunghi, che facevano intravedere gli organi interni. Gli intestini dovevano essere stati sparsi per tutta la casa quando l’avevano trovato. Qualsiasi animale avesse fatto quello, non l’aveva fatto per sfamarsi. Cenere non potè trattenere una smorfia.
Lo sguardo le cadde sul braccio dell’uomo. Al polso portava uno spesso braccialetto di cuoio, identico a quello che aveva visto per tutti i giorni felici della sua infanzia. D’un tratto il volto del cadavere si trasformò. Le tracce della decomposizione scomparvero, gli crebbe una curata barba scura. Le guance si scavarono, comparve una cicatrice sullo zigomo. Gli occhi cambiarono colore e diventarono uno azzurro e uno nero. Quello era il volto di suo padre.
Cenere singhiozzò e si portò le mani alla bocca, indietreggiando. Chiuse gli occhi con violenza mentre urtava sul tavolo dietro di lei. Nella sua mente i ricordi di quando aveva trovato suo padre si affacciavano con prepotenza: la bambina, la folla, la fune, le urla… non pensare non pensare non pensare… il vento, l’odore del fuoco, il sole sulla pelle… non pensare non pensare non pensare… lo sgabello, il boia, suo padre che le sorrideva da lontano… non pensare non pensare non pensare NON PENSARE!
Con uno sforzo inimmaginabile Cenere scacciò quelle immagini, richiudendole dietro alla porta della sua mente dove erano sempre state, nascoste e al sicuro, irraggiungibili. Quando riaprì gli occhi tremava vistosamente e non per il freddo.
Fece un lungo respiro per calmarsi, il suo fiato che si condensava nell’aria gelida. L’odore di decomposizione che le assalì le narici le fece venire un conato di vomito. Detestava quella parte del suo lavoro. A dir la verità ne detestava quasi ogni cosa, ma una Haris come lei non sarebbe mai riuscita a trovarne un altro. E come tutti, anche lei doveva mangiare.
Batté gli occhi per tre volte, in un rito vecchio come il mondo per scacciare gli spiriti maligni. Quando li riaprì, era di nuovo pronta.
Si dedicò prima all’ispezione del figlio maggiore, poi della madre, e infine dei due bambini più piccoli. Avevano tutti ricevuto più di una ferita mortale e i loro corpi erano rotti come quelli di bambole di pezza. L’animale che li aveva uccisi non li aveva mangiati, li aveva ammazzati solo per il gusto di farlo. Uno dei bimbi aveva ancora la bocca spalancata in un grido muto, congelato dal freddo e dalla morte. Il suo torace era un ammasso indistinto di ossa e sangue. Il mostro gli era salito col suo peso sulla cassa toracica, rompendola. La Cacciatrice sapeva che era un comportamento tipico dei lupi quello di salire con le zampe anteriori sulle prede più piccole.
Cenere stava per uscire quando l’occhio le cadde sulle mani del bambino, la sinistra ancora chiusa a pugno, come se stringesse qualcosa. Si abbassò, accucciandosi sul pavimento gelido in modo di avere gli occhi alla stessa altezza del tavolo. Qualcosa spuntava dalla presa delle dita.
La Cacciatrice si tolse il guanto, sapendo che aveva bisogno di sensibilità. Infilò l’indice nella stretta del bambino e, dopo qualche minuto di tentativo, una manciata di peli cadde sul tavolo. Erano peli scuri, lunghi e ispidi. Cenere li prese e li annusò. Sapevano di erba bagnata e di terra e di morte, ma la nota che faceva da sfondo a tutto quello era l’odore del sorbo.
Allontanò i peli dalle narici e sbatté le mani sul tavolo, in un accesso di rabbia. Si ricordò di suo padre, quando era più piccola, che le indicava un alto albero con delle bacche rosse e le diceva di annusare l’aria.
Quello è il sorbo, bambina mia. Quando sarai in mezzo a una foresta, con la luna piena, e sentirai questo odore, scappa. Scappa veloce e scappa lontano, e se non puoi farlo, preparati: un Lycan sta arrivando a farti visita.
Cenere si allontanò dai cadaveri, il profumo del sorbo ancora impresso nelle narici. Fino a quel momento non era stata sicura che il mostro di Briar fosse un Licantropo. C’erano molte creature meno pericolose in grado di fare uno scempio del genere. Adesso però doveva arrendersi all’evidenza. I Lycan erano bestie astute e crudeli, sconfiggerli non era mai un’impresa facile. Se pensava poi alla miseria che aveva pattuito per quell’impiego… fece una risata amara, piena di risentimento, e maledisse di nuovo Tula e il suo podestà.
Avrebbe avuto bisogno di un piano, di una strategia. E di molta, molta fortuna.
Cenere si incamminò verso l’uscita della casa.
E anche così, pensò, mi servirà un miracolo per uscirne viva.
 
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Mi sento più strano del solito, oggi. Ho dei momenti in cui divento assente, faccio cose che non mi ricordo. Ieri sono rimasto alla finestra per quelli che pensavo essere pochi minuti, ma quando mi sono riscosso dalla mia apatia mi sono accorto che erano passate più di tre ore.
Dormo sempre meno, di notte. Stanotte mi sono svegliato davanti alla porta d’ingresso. Non so come ci sono arrivato, quando ci sono arrivato. Ho paura che il dolore mi stia facendo impazzire. Ma poi mi chiedo, sarebbe così brutto? Dimenticarsi tutto quello che è successo e continuare a vivere nell’ignoranza?
May è venuta a trovarmi oggi, ad aiutarmi. Nonostante tutto quello che le ho fatto, c’è sempre per me. Non mi merito tutta questa gentilezza, non io. Mi ha preparato da mangiare, mi ha svuotato le bottiglie. Mi ha ascoltato mentre piangevo. Mi ha fatto promettere che avrei cercato di tirarmi su, di sopravvivere a questo momento. Non so se posso farcela.
 
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Cenere e Blackfriar erano tornati verso la casa del podestà in silenzio, lasciando Mo alla taverna del paese. La Cacciatrice aveva continuato a guardarsi intorno, scrutando ogni viso che le si parava vicino. Uno di loro era il Lupo, ma chi? Anche adesso, seduta alla tavola del capo villaggio, continuava a pensare a ogni faccia che aveva visto in cerca di un segno. Il Licantropo era Nate? O forse Mo? O persino Bandicus?
– ...di tempo. –
Cenere si riscosse a quelle parole, sentendo degli occhi puntati contro di lei.
– Cosa, scusa? –
Bandicus guardò Cenere negli occhi. – È solo questione di tempo prima che trasformi qualcuno in uno come lui. –
Cenere suo malgrado sorrise, godendosi il calore che la cena le stava liberando nello stomaco. – Quelle sono leggende, non c’è niente di vero. Almeno su questo, potete stare tranquilli – prese un altro cucchiaio di minestra. – Questa zuppa è buonissima, Galata. I miei complimenti. –
Galata sorrise, lusingata. – Grazie cara. –
– Com’è possibile che la trasformazione non sia trasmessa dal morso? – domandò Blackfriar, studioso fino all’ultimo.
– Se lo fosse – iniziò a spiegare Cenere gesticolando con il cucchiaio. – Vista la frequenza con cui i Lupi Mannari mordono, saremmo talmente pieni di Licantropi da essere quasi estinti. No, la faccenda non è così semplice. Esistono degli incantesimi molto complessi che permettono di trasformare una persona in una Lycan. Li ho visti solo una volta e ne ho compreso a malapena le istruzioni iniziali. –
Blackfriar la guardò stupito.
– Cosa c’è? – gli domandò Cenere aggrottando le sopracciglia.
– Credo che sia il discorso più lungo che ti abbia sentito fare da quando ti abbiamo incontrata. –
Cenere sorrise. – Il buon cibo mi rammollisce – alzò in aria il bicchiere in un brindisi a Galata, che arrossì.
– Ma quindi – il podestà guardò la Cacciatrice con aria seria. – Questo vuol dire… –
– Questo vuol dire che, se il Lupo Mannaro è nel vostro villaggio, cosa che, per inciso, credo molto probabile, allora c’è qualcuno che lo odia davvero molto. –
Cenere non riusciva a concepire che qualcuno potesse orchestrare una vendetta così crudele e meschina nei confronti dei suoi nemici. Dal suo punto di vista, un pugnale nel petto era una soluzione molto migliore. Meno subdola e più corretta, per quanto dolorosa.
– Non lo avrei mai creduto possibile – Bandicus si mise la testa tra le mani. – Ci conosciamo tutti qui. Pensare che uno dei miei compaesani sia responsabile di una cosa così… Che genere di uomo fa una cosa del genere? –
– È semplicemente orribile – intervenne Galata seria.
Continuarono a mangiare in silenzio per qualche minuto, gli unici rumori quelli delle posate che battevano contro i piatti.
– Ma noi umani non abbiamo la magia. Com’è possibile che qualcuno abbia fatto un incantesimo? – chiese Bandicus, rompendo il silenzio.
– Questo è già un discorso più complesso, non vi annoierò con i dettagli. Però voglio sapere una cosa: c’è qualcuno con sangue di elfo, qui a Briar? Qualcuno che magari si è allontanato per molto tempo? –
Il podestà si tirò indietro sulla sedia, lo sguardo pensieroso mentre faceva mente locale. – Non che io sappia, no. Gli elfi ci ritengono nei paria, sono troppo nobili per mischiarsi con noi. Ma potrei sempre sbagliarmi. –
Cenere fece un sorriso amaro. – Immagino che sarebbe stato troppo facile. –
La tavolata si fece silenziosa per qualche secondo. La Cacciatrice si dimenticava fin troppo spesso che anche gli umani non se la passavano troppo bene nei rapporti con le altre razze. Venivano considerati alla stregua di parassiti, individui troppo innocui per essere degnati anche solo della loro considerazione. Almeno gli Haris come lei erano temuti, sebbene odiati.
– Ce la farai a ucciderlo? –  chiese improvvisamente Blackfriar, guardando Cenere con aria preoccupata. – Il Lupo intendo. –
– In verità ci sarebbero due opzioni, quale dovrò prendere dovrete dirmelo voi. –
La Cacciatrice smise di mangiare e si mise più comoda sulla panca, osservando i suoi commensali. Galata e Bandicus la guardavano preoccupati. Blackfriar era semplicemente incuriosito.
– Posso rompere l’incantesimo – alzò la mano, interrompendo il vecchio frate prima che potesse esultare e fare domande. – Ma per farlo ho bisogno di conoscere il nome del Licantropo e dell’incantatore, quello che viene chiamato pastore di lupi. Quindi si tratterebbe di rovistare un po’ negli affari del vostro villaggio e non so quanto la gente possa prenderla bene. Soprattutto se a farlo sarò io. –
– I nostri compaesani faranno tutto quello che sarà necessario, te lo garantisco – il tono di Bandicus era gelido. – Qual è la seconda opzione? –
– La seconda opzione è che io aspetti la luna piena e lo uccida – Cenere guardò Blackfriar. – E per rispondere alla tua domanda di prima: sì, sarei capace di farlo – disse con più sicurezza di quanto in realtà provasse.
– Non puoi ucciderlo nella sua forma umana? –
Cenere scosse la testa, facendo un sorriso spiacente. – No, questo non lo farò. Non ucciderò un uomo inerme a sangue freddo per qualcosa di cui non ha colpe. So che ha ucciso molte persone, alcune delle quali vostre amiche, ma cercate di capire che non è in lui quando si trasforma. Ha tanto controllo su ciò che fa quanto ne ho io sul tempo. E probabilmente non sa nemmeno cos’è diventato. –
– Tu credi? – Galata era veramente addolorata. Sembrava l’unica ad aver capito cosa potesse significare ritrovarsi trasformato in un mostro.
Cenere annuì. – Forse inizia a sentirsi strano, ma sono sicura che non abbia ancora compreso appieno. Molti quando lo fanno si tolgono la vita. –
– È orribile. –
– Sì – la Cacciatrice non sapeva come altro descrivere tutta quella situazione. – Sì, lo è. Ed è per questo che io preferirei la prima opzione. L’unico che ha colpe è il pastore, è lui che deve essere punito. –
Bandicus sospirò. – Penserò a quello che mi hai detto – poi sorrise e il suo viso si distese, facendogli perdere qualche anno d’età. – Ma adesso basta con questi discorsi. Siamo tra amici, ed è una serata tranquilla. Parliamo d’altro. –
Il resto della cena trascorse tra conversazioni serene e tranquille. Galata raccontò qualche vecchio episodio del villaggio, quando c’era l’estate e i campi erano dorati per il grano maturo. Era da parecchio tempo che Cenere non stava così bene. Si sentiva, per la prima volta da tanto, benvoluta. E si era dimenticata cosa volesse dire.
Quando Blackfriar tornò a casa sua e ormai il fuoco nel camino si era ridotto a braci brillanti, Cenere era pronta per andarsene a dormire. Prese la sua sacca e si incamminò verso la porta.
– Dove stai andando? –
La voce di Galata la bloccò quando già aveva la mano sopra il pomello. La moglie del podestà aveva le mani sui fianchi e la guardava con un cipiglio offeso che fece sorridere Cenere.
– A dormire – la Cacciatrice aggrottò la fronte. – Ho abusato fin troppo della vostra gentilezza. –
Galata le si avvicinò, perplessa. – Non pensavo avessi una camera da qualche parte. Arn ci ha detto che nel vostro patto è compresa una stanza. –
Cenere annuì. – È così. Infatti sto andando a dormire nella stalla. –
– Nella stalla?! – l’indignazione di Galata era scritta a chiare lettere nella sua postura e nella sua voce.
– Beh, sì – Cenere era incuriosita dalla reazione della moglie del podestà. – Di solito è lì che mi fanno dormire, quando mi permettono di farlo. –
– Per gli occhi di Manita! – esclamò Galata, orripilata. – Non ti faremo dormire con gli animali! Vieni – disse, prendendola sotto braccio e allontanandola dalla porta. – Ti accompagno nella tua stanza. –
– Io… – Cenere era interdetta, non sapeva cosa dire. Sentì un groppo che le si formava in gola e deglutì forte per farlo passare. – Grazie. –
Galata scosse le spalle, come se tutta quella gentilezza nei confronti di una come lei, di una Haris, fosse normale.
– Vieni – le disse la moglie del podestà mentre attraversavano la sala in cui avevano mangiato. – Voglio farti vedere una cosa. –
Galata, sempre al braccio di Cenere, la condusse davanti al grosso arazzo rovinato che occupava quasi un’intera parete. I colori erano talmente sbiaditi che la Cacciatrice, nonostante l’avesse osservato per un po’ da lontano, non era riuscita a capire quale fosse il soggetto. Però, da vicino, i fili stinti presero forma. E, nel mezzo dell’arazzo, a dominare la scena, c’era un Haris. Aveva gli occhi come i suoi.
– L’ha fatto intessere il mio trisnonno. La sua storia mi è stata raccontata così tante volte quando ero piccola che mi sembra quasi di averla vissuta di persona. – Galata guardava l’arazzo con dolcezza. – Si chiamava Caran Al Mizar e aveva gli occhi come i tuoi, uno nero e uno azzurro – la donna si voltò verso Cenere con un sorriso. – Per fartela breve, ha salvato il mio trisnonno da un Basilisco. Proprio qui, nella nostra foresta, sulla strada per il mercato di Tempe. Avrebbe potuto aspettare che il mostro facesse quello che doveva e poi rapinarlo, visto che era mezzo morto di fame, ma invece decise di salvarlo. Per sdebitarsi il mio trisnonno si offrì di pagarlo, ma l’Haris si rifiutò. Chiese solo un posto dove passare la notte e un pasto caldo – Galata appoggiò la mano sul tessuto consunto dell’arazzo. – Non se ne andò mai più. Rimase con noi, a Briar, e anni dopo sposò quella che sarebbe diventata la mia bisnonna. –
Cenere sentì le sopracciglia schizzare verso l’alto mentre Galata continuava a parlare, senza accorgersi del suo stupore. Mai avrebbe pensato che avrebbe potuto trovare le tracce di un Haris a Briar. I matrimoni misti erano rari anche prima della guerra, ma dopo… dopo erano un’utopia. Alcune razze li avevano vietati addirittura per legge.
– Quindi sono un po’ come te anche io. Non ho le tue capacità, certo, ma io so che è così. Ed è questo che conta. So che pensi di non meritarti questa gentilezza… –
Galata bloccò Cenere prima che potesse parlare. – Ma anche se non avessi sangue Haris dentro di me la penserei nello stesso modo: sei una persona anche tu. Non lascerò che crimini avvenuti centinaia di anni fa ricadano su chi è innocente. Non è giusto che le colpe dei padri diventino la croce dei figli. –
Il groppo in gola che Cenere aveva da poco scacciato si ripresentò. La Cacciatrice si sentiva scossa come non era mai stata, come se alcune parte di sé che aveva lasciato atrofizzare e quasi morire fossero state riportate alla vita.
– Non sono in molti a pensarla così – mormorò, odiandosi per come tremava la sua voce.
– Lo so, – rispose Galata piano. – Ma so anche che molta gente si sbaglia. –
Cenere prese un lungo respiro, fissando l’Haris intessuto nell’arazzo. Sono felice per la tua fortuna, pensò. Che la terra ti sia lieve.
– E poi – continuò la moglie del podestà guardando Cenere con gli occhi che luccicavano. – Tu mi ricordi la mia bambina. Avrebbe più o meno la tua età, se fosse sopravvissuta. –
Galata le accarezzò delicata una guancia e la Cacciatrice si immobilizzò. Era da anni che nessuno la toccava con così tanta dolcezza. Un mare di ricordi si ripresentò alla sua mente: suo padre che le pettinava i capelli davanti alla finestra, che le cantava una ninna nanna per farla addormentare, che le faceva vedere come lanciare i sassi in modo da farli rimbalzare sulla superficie dell’acqua.
– Vieni ora – mormorò Galata dandole le spalle. – Sarai stanca. –
Cenere le fu grata per quella delicatezza, mentre si asciugava tremante la lacrima che le correva sulla guancia.
 
▪▪▪
 
Di nuovo non ho dormito. Sono uscito, stanotte, nonostante il podestà abbia detto di rimare in casa. Sono andato da May, non so perché. Era tutto buio per il paese, la luce della luna crescente illuminava la strada. Se davvero c’è qualcosa di pericoloso a Briar che prenda anche me, così mi riunirò alla mia famiglia.
La casa di May era buia. Tutta, tranne una luce al piano superiore. Non so bene perché sono andato fin lì, non so cosa mi aspettassi. L’ho vista affacciarsi e me ne sono andato, continuando a vagare per il paese.
A casa ho ricominciato a bere, fino all’incoscienza, ma non sono riuscito a dormire. Sentivo come se qualcuno mi fissasse, potevo quasi percepire i suoi occhi fissati dietro al mio collo. Non c’era nessuno con me. Per un momento, pensai che loro fossero tornati da me.  
Sono giorni che sono irrequieto, non riesco a riposarmi. Quando prendo sonno, mi sveglio dopo quelli che mi sembrano pochi minuti, agitandomi. Molto spesso quando apro gli occhi sono in piedi, davanti alla porta d’ingresso. Come già mi era capitato, solo di giorno riesco ad addormentarmi. Una volta lei mi teneva sveglio, ma adesso… adesso il sonno giunge sempre gradito.
E poi, non so come sia possibile, ma mi sembra quasi che i miei sensi siano amplificati. I rumori sembrano più fragorosi, gli odori più penetranti. Continuo a ripetermi che è l’alcol, che il mio corpo si sta ribellando, ma questa storia non mi convince più. Inizio ad avere paura. Cosa mi sta succedendo? Sto impazzendo?
Dei del cielo, aiutatemi.
Manita, proteggimi.

 

ANGOLO DELL'AUTRICE
Eccoci qua con il secondo capitolo, che sono riuscita a pubblicare anche quasi rispettando i miei programmi originari. Si capisce che il mostro che affligge il villaggio è un lupo mannaro, che ha qualche tratto un po' diverso dal classico licantropo. 
Spero che anche questo capitolo possa piacere, è un po' meno dinamico ma più discorsivo. Tra l'altro, mi sono accorta che con l'html i discorsi iniziati con il trattino fanno un po' di casino, spostandosi a capo quando non dovrebbero (con mio enorme fastidio). Spero non crei troppo disagio nella lettura, quando lo scrivo ha tutto un altro effetto. Con questo direi che ho concluso.
Lunghi giorni e piacevoli notti.

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Capitolo 3
*** Tre giorni al plenilunio ***


Ciao a tutti e bentornati!
Prima di iniziare ci tenevo a ringraziare Me91, Old Fashioned e Jordan Hemingway per le bellissime recensioni lasciate ai due precedenti capitoli. Grazie di cuore e in bocca al lupo per il contest ^^

WHAT KIND OF MAN
 
TRE GIORNI AL PLENILUNIO
 
“Don't hide your mistakes
Cause they'll find you, burn you
Then he said
If you want to get out alive
Run for your life”
Get Out Alive, Three Days Grace
 
Il mattino colse Cenere già sveglia. Il tenue sole invernale faceva capolino dietro alle montagne e la pallida luce superava le tende chiare, illuminando la stanza. Nonostante non fosse grande, a Cenere sembrava quasi principesca. C’erano un letto e un piccolo tavolino e in più, coperta da un paravento, c’era una vasca d’ottone che la Cacciatrice aveva provato la sera prima, incapace di resistere alla tentazione.
Era sveglia ormai da qualche ora, che aveva passato al caldo rigirandosi sotto le coperte pesanti. Non era abituata a dormire su un materasso morbido e quella era stata una notte agitata, colma di sogni di lupi e di sangue. Adesso il sole illuminava un paesaggio ricoperto di neve candida e dietro la cima della palizzata si vedevano le cime verdi dei pini.
Doveva ancora ben capire come comportarsi e che strategia utilizzare. La sua speranza era di riuscire a capire chi fossero il Lupo e il suo pastore prima della luna piena, così da poterli neutralizzare subito. Altrimenti sarebbe dovuta andare nel bosco e cercare di ucciderlo. Facile a dirsi pensò, mentre si rigirava per l’ennesima volta. Un Licantropo in grado di ridurre un corpo nelle condizioni di quelli che aveva visto il giorno prima doveva essere gigantesco. Sicuramente più grosso di lei e infinitamente più forte. Doveva cercare di evitare un incontro diretto, per quanto possibile.
Il compito era più difficile di quanto pensasse. Quando Arn e gli altri l’avevano raggiunta sulla Strada aveva accettato con sicurezza, con la certezza che avessero scambiato un animale qualsiasi con un Licantropo e si fossero preoccupati inutilmente. Quanto avrebbe voluto che le cose stessero così.
Per quanto mi pagheranno, poi… il pensiero però non le procurò il nervoso che credeva, come se fosse una risposta fiacca più dettata dall’abitudine che dalla reale situazione. Ripensò al sorriso di Galata e alla gentilezza di Bandicus, immaginandosi i loro corpi straziati dal Lupo Mannaro. No, non si meritavano di morire così. Era giusto aiutarli.
Quando il sole colpì il letto Cenere decise che era ora di alzarsi. Si stropicciò gli occhi e appoggiò i piedi sul pavimento gelido, stiracchiandosi.
Sarebbe stata una lunga giornata.
 
▪▪▪
 
Mi sono svegliato tardi, oggi. La luce del sole batteva sul mio letto e mi ha dato così tanto fastidio che mi sono dovuto alzare, nonostante non abbia niente da fare. Il mal di testa costante mi rende lento nei movimenti e fiacco. Incredibilmente non riesco a buttare giù nemmeno un sorso di questa grappa scadente che mi sta conducendo alla follia.
Oggi il dolore che provo mi sembra quasi fisico, come se avessi ricevuto una pugnalata. Non posso bere per intontirmi e vago per casa, disperato. In uno sprazzo di iniziativa, decido di uscire per andare nel bosco. Penso che l’aria pura possa farmi bene.
In effetti, una volta uscito, mi sento meglio. Cammino per i sentieri innevati che conosco come il palmo delle mie mani. Mi ricordo quando venivo qui con loro, quando la foresta era ancora un posto sicuro dove poter andare in libertà. Mi sembra di sentire ogni cosa: l’odore della neve e della resina, quello più debole degli alci che devono essere passati di qui. Mi dico che non è possibile, che deve essere un’illusione.
Sento un tenue rumore d’acqua che scorre e non ci faccio caso fino a quando mi ricordo che il fiume è a chilometri da qui. Mi blocco per un istante, scuotendo la testa. Lo scroscio scompare e riprendo a camminare.
Sono nel bosco da ore quando trovo May, chinata sotto un alto albero che mi sembra una quercia. Cerca erbe, ne sono sicuro. È così piccola, imbacuccata nei pesanti vestiti invernali, e non mi sente fino a che non le sono alle spalle. Sembra spaventata quando mi vede avvicinarmi, ma si calma quando mi riconosce.
La accompagno nel suo percorso e mi ricordo quanto è facile parlare con lei. Per un momento persino mi dimentico di quello che è successo e rido con May. Poi la consapevolezza mi colpisce come un mattone e tutto torna come prima.
Ritorno a casa e bevo, bevo nonostante il liquore mi bruci lo stomaco e mi faccia venire da vomitare. Bevo fino a quando non mi accascio sul letto e perdo i sensi.
 
▪▪▪
 
Cenere si aggirava per il villaggio da tutta la mattina ormai, accompagnata da Arn. La gente di Briar era un po’ più disponibile a parlare con il figlio del podestà nelle vicinanze, anche se le occhiate che aveva ricevuto erano tutto fuorché ospitali.
Aveva iniziato cercando di capire chi fosse al villaggio i giorni degli attacchi del Lupo Mannaro. Per sua sfortuna durante l’inverno era difficile che la gente si spostasse per lunghi periodi, a parte qualcuno che si spingeva fino alle città dei nani nella speranza di qualche commercio. Nonostante ciò, quasi tutti gli abitanti di Briar erano lì quando c’erano stati i pleniluni. Era riuscita ad escludere a malapena una decina di persone.
– Come si chiama il sopravvissuto? L’uomo che avete trovato nel bosco – chiese Cenere mentre lei e Arn camminavano su una delle vie principali del paesino. Finalmente aveva smesso di nevicare e qualcuno si era preso la briga di ripulire le strade, creando alti cumuli bianchi vicino alle case. La neve sciolta faceva un rumore viscido sotto le suole dei loro stivali.
– Intendi Liam Denson? –
Cenere annuì. – Lui. Dove abita? –
Arn si fermò un secondo, indicando poi dietro di sé. Aveva un’espressione amareggiata. – Vicino alle porte, quasi al limitare del bosco. Perché vuoi saperlo? –
– Dobbiamo ben iniziare da qualche parte. –
Arn sospirò e si girò, senza aspettare la Cacciatrice.
Cenere aumentò il passo senza fatica e gli si affiancò, il fiato che si congelava nell’aria. Il vento le scompigliava i capelli e ciocche nere le sferzavano il viso.
– Parlami un po’ di lui. –
– Cosa vuoi sapere? – Arn guardava dritto davanti a sé, gli occhi marroni gelidi.
Cenere fece finta di non aver sentito il suo tono scocciato. – Come vive, se c’è qualcuno che lo odia, se gli è mai capitato qualcosa di strano. –
– Ha più o meno la mia età, fa il tagliaboschi ed è benvoluto da tutti. Il resto dovresti chiederlo a lui. – 
La Cacciatrice trattenne una risposta brusca e sorrise conciliante. – Ma io lo sto chiedendo a te. –
– Non dovresti – disse Arn, duro. Cenere notò che aveva la mascella contratta. – Non mi piace ficcare il naso negli affari altrui. –
Cenere si fermò in mezzo alla strada, aspettando che Arn si girasse e la guardasse negli occhi. Il fatto che lui la superasse di almeno una decina di centimetri e la squadrasse dall’alto al basso la irritava.
– Il prossimo plenilunio è tra tre giorni – iniziò secca. – Vuoi aiutarmi o lasciare che muoia qualcun altro? Magari tua madre, o tuo padre. Non si può essere sempre fortunati. –
Arn la fissava sgranando gli occhi e appena aprì bocca, prima che potesse esprimere la sua irritazione, Cenere lo bloccò. – Non mi interessano i tuoi scrupoli morali, tienili per quando nessun mostro minaccerà il tuo villaggio. Se io ti chiedo di parlarmi di qualcuno, tu lo fai. Mi sono spiegata? –
Arn sembrò sgonfiarsi. – Sì, scusami. Non è una bella situazione. –
Cenere fece una smorfia che poteva essere interpretata come un sorriso triste. – No, non lo è. Ma ho bisogno di aiuto se vogliamo uscirne. –
Il figlio del podestà annuì e i due ricominciarono camminare. Per qualche secondo ci fu un silenzio imbarazzato, poi Arn prese fiato e iniziò. – Il padre di Liam è morto quando era un bambino, lui è cresciuto solo con la madre. Appena ha iniziato reggere un’ascia è andato nei boschi per fare il taglialegna e guadagnare qualcosa. Tutte le ragazze del villaggio hanno avuto una cotta per lui, ad un certo momento della loro vita – scoccò un’occhiata alla Cacciatrice. – Ti accorgerai del perché. –
Cenere sollevò un sopracciglio, divertita.
Arn ridacchiò. – È un ragazzo normale. Non ha vizi particolari, che io sappia, a parte l’essere un po’ infantile ogni tanto. Gira sempre con Sam e John, due suoi amici d’infanzia. –
Cenere inclinò la testa di lato, come faceva sempre quando pensava. – E di queste ragazze innamorate che mi dici? Ha mai avuto una storia con qualcuna di loro? –
– Immagino di sì, ma non posso dirlo per certo. Stranamente, è sempre stato molto riservato su queste faccende. –
Nel frattempo erano arrivati al limitare del villaggio. Al di là dell’alta palizzata si intravedevano le cime degli alberi, ricoperte di neve che da lontano sembrava quasi zucchero. Le grosse porte d’ingresso erano spalancate, lasciando intravedere un sentiero e gli spessi tronchi dei pini.
La casa di Liam era piccola ma incredibilmente ben tenuta. I muri erano di pietra scura e pulita, abilmente incastrata. Il tetto era basso e spiovente e dal camino che ne faceva capolino usciva un tenue filo di fumo.
Vicino all’ingresso c’era un ciocco di legno con piantata sopra una grossa ascia. Il manico era talmente liscio e usato che quasi luccicava nell’aria limpida di fine mattina. La porta della casa era di legno grezzo e squadrato ed emanava ancora un tenue odore di resina che punse le narici di Cenere.
Cenere guardò Arn bussare alla porta e non poté fare a meno di notare una piccola gabbia di rami intrecciati dondolare davanti all’architrave. Si diceva che servisse a catturare gli spiriti maligni e Cenere si ritrovò a sorridere piano, colpita da quel rimasuglio di vecchie tradizioni.
La porta si aprì senza un cigolio e la Cacciatrice dovette sbattere le palpebre un paio di volte per far sparire l’espressione stupita dalla sua faccia. Il proprietario della casa stava salutando con allegria Arn, che era grosso più o meno la metà di lui e veniva sbatacchiato da una parte all’altra ad ogni scossa di mano.
Liam Denson era alto e muscoloso. Le spalle erano ampie e i bicipiti facevano tendere la camicia ad ogni movimento. Aveva lunghi capelli biondi che portava legati in un codino e occhi verdi come un prato d’estate. Le labbra piene nascondevano denti bianchi ed erano attraversate da una cicatrice che invece di rovinargli il viso lo rendevano solo più interessante.
La Cacciatrice si riscosse giusto in tempo per capire che le stavano rivolgendo la parola.
– Io sono Liam. Ti auguro che nevichi lontano dalla tua via, Cacciatrice. –
Il boscaiolo si picchiettò due volte con le dita sulla fronte e Cenere lo imitò, in un saluto che era cortese ma non così confidenziale come una stretta di mano.
– E io spero che il sole continui a splendere sulla tua strada. Chiamami pure Cenere. –
Liam annuì e incrociò le braccia, alternando lo sguardo tra lei e Arn, palesemente in imbarazzo. Poi scosse la testa. – Entrate pure, fa freddo qui fuori. –
Cenere seguì Arn all’interno della casa e fece un piccolo sorriso amaro vedendo la diffidenza che il boscaiolo aveva nei suoi confronti. Lieta di vedere che alla fine certe cose non cambiano mai.
Rimasero fermi in piedi nell’unica stanza della casa, scaldata da un camino al cui interno c’era un grosso paiolo nero da cui emanava un buon odore di zuppa.
Cenere iniziò a camminare guardandosi attorno, facendo un cenno ad Arn di incominciare a parlare e intrattenere l’uomo. Non sapeva nemmeno lei cosa stesse cercando di preciso, forse solo qualcosa che risvegliasse il suo istinto. In teoria un Lycan quando era nella sua forma di uomo non sapeva della maledizione che gravava su di lui, ma forse una parte del suo inconscio ne era consapevole. Cenere cercava qualsiasi cosa che stonasse all’interno di quella casa e nel suo proprietario, ma dovette presto rinunciare. Le uniche cose che vedeva erano una stanza pulita e in ordine e un uomo che aveva il pieno controllo di sé.
Arn stava parlando con Liam del più e del meno, guardando interrogativo la Cacciatrice che si avvicinava.
– Cos’è successo la sera del plenilunio, quando ti hanno ritrovato nel bosco? – Cenere non si curò di essere educata e osservò il sorriso sparire dal volto del boscaiolo.
La faccia di Liam si fece grigia e tirata. – Non ricordo. –
– Cosa vuol dire? – Cenere inclinò la testa, squadrando il taglialegna con i suoi occhi asimmetrici. – Soffri di vuoti di memoria? –
– No, solo che… ho battuto la testa. –
– Contro cosa? –
– Un ramo. –
Arn seguiva lo scambio di battute come un cane potrebbe seguire un bastoncino.
Cenere inarcò un sopracciglio. – E tu sei solito prendere botte in testa così forti da farti svenire, quando cammini nel bosco? –
– Stavo correndo. –
– E perché? –
Il boscaiolo sospirò. – Forse è meglio che io parta dall’inizio. –
Cenere annuì severa. – Forse sì. –
– Quando sono uscito nel bosco il sole non era ancora tramontato del tutto. Ho pensato che sarei potuto stare nella foresta solo un paio d’ore e poi ritornarmene a casa, in tutta tranquillità. D’altronde chi credeva a quelle stupidaggini sul Lupo Mannaro? –
Arn sospirò, chiudendo gli occhi.
Liam continuò a parlare, dopo aver guardato con aria di scuse il figlio del podestà. – È andato tutto bene fino a che non è sorta la luna. Poi ho sentito un ululato fortissimo, che mi ha fatto vibrare le ossa nel corpo e pentire di essere nella foresta. Non sembrava il verso di un lupo normale, per niente. –
Cenere si accigliò. – Probabilmente non lo era. –
– Ho aspettato ancora un po’ e avevo quasi dimenticato la paura quando c’è stato un altro ululato, questa volta molto più vicino. Ho iniziato a correre verso il villaggio, l’unica cosa che volevo era tornare a casa. Continuavo a vedere il corpo del vecchio Ben, sapete, con tutte le budella di fuori. Poi ho sbattuto contro un ramo e mi sono risvegliato il giorno dopo, con un livido sopra l’occhio. –
Il boscaiolo si indicò un sopracciglio dove ancora campeggiava un grosso segno giallastro.
– Non hai visto niente? –
Liam scosse la testa. – Niente. –
Cenere scosse la testa. – Si può sapere cosa facevi nella foresta? Il podestà aveva avvisato di non uscire di casa. –
Liam si passò una mano sulla nuca e fece un sorriso stentato. – Era per una scommessa. –
Arn lo fissò come se fosse impazzito. – Una scommessa. –
– Sì, con Sam. Mi ha detto che secondo lui non sarei stato abbastanza coraggioso da stare nella foresta durante il plenilunio. Ho vinto tre pezzi di bronzo. –
– Per tre pezzi di bronzo hai rischiato di farti ammazzare? – Arn sembrava sconvolto. I suoi occhi nocciola erano sgranati e puntati nelle iridi chiare dell’altro. Cenere si accorse che, per quanto belle, sembravano profonde come pozzette d’acqua. Sentì l’amarezza farsi strada dentro di lei al pensiero che quell’uomo fosse ancora vivo nonostante la sua stupidità, mentre molte altre, che non se l’erano andate a cercare, erano morte. L’immagine dei corpi dei Lancer le si parò davanti agli occhi e riuscì a scacciarla solo con uno sforzo di volontà.
Prima che Liam potesse rispondere e peggiorare la sua situazione la Cacciatrice parlò: – Quando ti hanno ritrovato eri nello stesso posto in cui eri caduto? –
– Beh, sì. Le persone svenute non si spostano – il boscaiolo la guardava perplesso.
– Giusta osservazione – Cenere fece un sorriso rigido. – Ma vale sempre la pena chiedere. –
A quel punto la Cacciatrice dubitava fortemente che Liam Denson potesse essere il Licantropo. Il taglialegna aveva avuto la fortuna di sopravvivere e forse, se fosse stato abbastanza intelligente, non avrebbe più tentato la sorte in quel modo. Tuttavia le conveniva sfruttare il momento e fargli tutte le domande che le venivano in mente, visto che non aveva voglia di ritornare in quella casa e affrontare di nuovo la sua stupidità.
 – C’è qualcuno che vorrebbe farti del male? –
 La perplessità di Liam gli si leggeva in viso. – No… non direi. –
– Nemmeno qualche ragazza? –
Il boscaiolo aprì e chiuse la bocca, pensieroso. – Beh, forse una c’è. –
Cenere tacque, guardando Arn in cerca di aiuto. – Chi? –
– Anne. –
– Anne la figlia del macellaio? – questa volta era il turno di Arn di essere perplesso. – Ma se n’è andata. –
Liam fece una smorfia colpevole. – Appunto. In un momento delicato deve essermi scappato che volevo sposarla e… beh... –
– Non avevi nessuna intenzione di farlo – Cenere si stupì di quanto uscì dura la sua voce.
– Ecco, no… e quando lei l’ha capito se n’è andata. Non vi dico le scenate che mi ha fatto – Liam fece una risata stentata.
– Certo – rispose Cenere sarcastica. – Quale donna reagirebbe mai al fatto di essere stata fregata arrabbiandosi? –
– Ma infatti! – il boscaiolo non diede segno di aver colto l’ironia. – Immagino che tu, al posto suo, non l’avresti fatto – disse rivolgendole un’occhiata difficile da fraintendere.
– No, infatti – Cenere sorrise calorosa. – Io ti avrei accoltellato. –
 
▪▪▪
 
Sono andato da May in piena notte, non so nemmeno bene come. Devo avere un attacco di insonnia, perché quando sono tornato cosciente mi sono ritrovato davanti alla sua porta. Mi sembra che ci sia come una forza che mi tira verso di lei e non capisco se è un residuo dell’amore che provavo per lei o se è solo bisogno di conforto. Quando ho bussato alla sua porta avevo bisogno di sentire una voce amica parlarmi, rassicurarmi. Invece ho fatto solo l’ennesimo errore. Non sarei dovuto arrivare a tanto, ma è successo. Le sue labbra erano dolci e il suo corpo mi ha dato il conforto che cercavo, almeno per un momento.
Adesso mi sento solo un verme per quello che sto facendo a lei, per quello che sto facendo alla mia famiglia. So che non ci sono più ma mi sento lo stesso un traditore, indegno della loro fiducia e di quella di May. Non dovrà succedere mai più ma sa solo il cielo quanto la mia mente sia debole in questi giorni. 
Ho visto la Simblantë mentre camminava con Arn e mi è sembrato di sentire i suoi occhi asimmetrici che mi seguivano. Forse sa qualcosa che io ignoro, che noi del villaggio ignoriamo. Non so nemmeno se credere a questa storia del Lupo Mannaro, anche se dopo aver visto com’erano ridotti quando li hanno trovati… niente di normale potrebbe fare uno scempio simile. Adesso ho paura di quello che sta succedendo a Briar. E ho paura di quello che sta succedendo a me.
Cosa posso fare? 

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Capitolo 4
*** Due giorni al plenilunio ***


WHAT KIND OF MAN
 
DUE GIORNI AL PLENILUNIO
 
“The air is silk
Shadows form a grin
If I lose control
I feed the beast within”
Human, Of Monsters and Men
 
Mancavano solo più due giorni alla luna piena e Cenere non aveva ancora la minima idea di chi potesse essere il Mannaro, tantomeno il pastore di lupi. Il giorno prima lei e Arn erano andati dai genitori di Lily e Harry, i due ragazzi uccisi durante il secondo plenilunio. Le due coppie si detestavano e se avessero saputo della relazione avrebbero costretto i figli a lasciar perdere. Come se avrebbero potuto riuscirci. Cenere sapeva che non c’è nessuno più testardo di un ragazzo a cui viene impedito di vedere la persona che crede di amare.
Né i genitori di Lily né quelli di Harry li avevano visti uscire, quella notte. Adesso si pentivano di non aver controllato di più i figli, di non essere stati in grado di guadagnarsi le loro confidenze. Forse, se l’avessero fatto, i due ragazzi non sarebbero stati costretti ad uscire di notte e sarebbero stati ancora vivi.
Il ragionamento che Cenere aveva fatto con il figlio del podestà era semplice: se il Lupo Mannaro non sapeva di essere tale, era probabile che le sue vittime iniziale fossero persone che vivevano vicino a lui. La Cacciatrice non aveva idea di chi abitasse vicino a chi a Briar, ma Arn sembrava essere a conoscenza di tutto, anche dei dettagli meno importanti. Quando poi le persone la vedevano in compagnia del figlio del podestà si rilassavano, parlando più liberamente e guardandola con meno sospetto.
Quel mattino si ritrovarono nella piazza dov’era stato trovato il cadavere di Ben, la prima vittima del Lycan. Arn spiegò a Cenere che spesso l’uomo passava gran parte della notte fuori casa, con una bottiglia in mano e una quantità d’alcol in corpo che avrebbe fatto perdere i sensi a chiunque altro.
La fontana al centro della spiazza era spenta, uno strato di ghiaccio luccicava debolmente nel piatto. Cenere camminava piano, guardandosi intorno e facendo attenzione ai dettagli. Arn gli indicò il posto dove avevano trovato il cadavere. Alcuni schizzi di sangue spiccavano ancora sul muro di una casa lì vicino.
La Cacciatrice si abbassò su un ginocchio, osservando la neve come se la risposta alle sue domande potesse esserci scritta sopra.
– Qualcuno avrà ben visto qualcosa – mormorò.
– Era una notte fredda – rispose Arn, guardandola dall’alto. – Non c’era nessuno in giro. –
Cenere alzò e si spazzò via la neve dalle ginocchia, osservando le case che delimitavano la piazza. Solo due di loro avevano delle finestre che davano verso la fontana. Dietro una di esse si intravedeva una sagoma scura, semicoperta da una tenda scostata.
– Non è necessario che fossero fuori – commentò, guardando l’ombra sparire.
Arn seguì il suo sguardo. – La casa della vedova Stone – sorrise. – Sì, lei potrebbe aver visto qualcosa. Vieni con me. –
Cenere lo seguì, arrancando nella neve alta dopo la nevicata di quella notte. Faceva più freddo del giorno prima e la luce del sole era gelida, quasi feroce.
– Cosa sai dirmi di lei? –
Arn si sfregò le mani per scaldarle.  – Era la moglie di Carn Stone, il proprietario dell’emporio, ed è vedova da dodici anni. Ha due figli, entrambi se ne sono andati da Briar da tempo. Non cammina molto ed è da parecchi anni che non riesce più a uscire di casa. Sono in molti a doverle un favore, visto che quando aiutava il marito all’emporio faceva spesso credito. In più, è una terribile impicciona. Non so come, ma sa sempre gli affari di tutti. –
Cenere sorrise. – Anche i tuoi? –
Arn fece una smorfia seccata. – Soprattutto i miei. Quando ero piccolo giocavo spesso con Parr, suo figlio. Sembra che questo la giustifichi a impicciarsi nella mia vita. –
– Non ti piace, eh? –
Arn scosse la testa. – Non troppo. –
Si fermarono davanti alla porta della vedova. Arn si girò verso Cenere, guardandola serio. – Non ti stupire se sembrerà sapere tutto su di te, fa sempre così. Le piace mettere le persone in difficoltà – poi bussò alla porta. Prima che questa si spalancasse aggiunse: – E evita di minacciare di accoltellarla. –
Cenere non poté rispondere perché davanti a lei comparve la vedova Stone. Era piccola e appoggiata ad un lungo bastone di legno scuro, i capelli bianchi legati in una crocchia stretta. Gli occhi chiari la fissavano attenti, senza mostrare segni di vecchiaia e debolezza.
– La Simblantë, quale onore! – proferì guardandola. Aveva una voce acuta e tremolante. – Mi chiedevo quando saresti venuta alla mia porta. Cenere, giusto? –
Prima che la Cacciatrice potesse rispondere si rivolse al figlio del podestà. – E c’è anche il piccolo Arn. Che piacere vederti! Vieni qua, dammi un bacio. –
Arn si avvicinò alla vedova e le diede un timido bacio sulla guancia, mentre la donna si aggrappava al suo braccio. – È un piacere anche per me, Elsa. Come stai? –
– Non bene quanto vorrei. Ma si sa, è l’età – la vedova si addentrò verso l’interno della casa, trascinando con sé Arn. Cenere rimase sulla porta.
– Entra pure Simblantë. Se no esce tutto il caldo. –
La Cacciatrice fece qualche passo nel corridoio stretto, chiudendosi la porta alle spalle. Nella piccola casa si soffocava per il caldo. Cenere iniziò a sudare mentre sentiva l’aria rovente farsi strada nelle sue narici. L’odore forte dell’incenso stordiva il suo naso sensibile e le faceva venir voglia di starnutire. Seguì la vedova e Arn in una piccola stanza quadrata con un grosso camino all’interno del quale scoppiettava un fuoco allegro. Piccole gocce di sudore iniziarono a colarle nel colletto.
– Accomodatevi, accomodatevi – borbottò Elsa Stone mentre si sedeva con fatica su una poltrona sfondata e consunta. – Non state in piedi. –
Arn seguì il consiglio mentre l’attenzione di Cenere si portò sull’unica finestra della stanza. Spostò la tenda e al di là del vetro spesso vide la piazza dove era stato trovato il primo cadavere. Si appoggiò al davanzale di legno, guardando il profilo di Elsa Stone. Aveva un naso lungo e aquilino. Adeguato per essere ficcato in giro.
– Immagino che vogliate sapere cosa so dell’omicidio di quell’ubriacone di Ben – esordì la vedova.
Cenere annuì compostamente, cercando di apparire il più cortese possibile. A giudicare dal luccichio che vedeva nei suoi occhi grigi, la donna conosceva più cose di quante immaginassero.
Fu Arn a parlare per lei. – È così. Magari sei venuta a conoscenza di qualcosa… –
– Meglio, meglio – ghignò la vedova. – Ho visto qualcosa. –
Arn trattenne il fiato. Cenere andò a sedersi vicino al suo compagno, di fronte alla donna. – Che cosa hai visto? –
Che quella vecchia avesse visto il Lycan? Erano davvero così fortunati?
– Ho visto… – la vedova Stone fece una pausa ad effetto. – Un uomo. –
– Passano molte persone dalla piazza principale di un paese. –
– Subito prima della luna piena? – a giudicare dal sorriso dipinto sulla sua faccia, la vedova si stava divertendo molto.
– Può darsi – Cenere si tenne sul vago. Non le piaceva come si stava comportando quella donna, le dava l’impressione che stesse di proposito aspettando prima di rivelarle le cose importanti. Come se tutta quella faccenda non fosse nient’altro che uno scandalo più succoso del solito.
– No, no Simblantë. Non così tante, ma soprattutto non seguite così presto da quegli ululati. –
– L’hai sentito? – si introdusse Arn, sporgendosi in avanti sulla poltrona. – Hai sentito il Lupo? –
– Oh sì – il sorriso sparì dal volto della vedova. – E posso giurarvi di non aver mai sentito prima un verso del genere. Mi è risuonato in tutto il corpo, nelle ossa. Non ho avuto nemmeno il coraggio di guardare dalla finestra. –
Cenere si asciugò il sudore dalla fronte, il calore e l’odore dell’incenso iniziavano a farle girare la testa. Aveva bisogno d’aria.
– Chi è l’uomo che hai visto? –
– Non così in fretta, non così in fretta – la vedova si sistemò lo scialle sulle spalle. Cenere si chiese come potesse non morire di caldo. – Sono solo un’anziana signora che non esce mai di casa. Non posso lasciare che tutto quello che so mi venga portato via così. –
Cenere corrugò le sopracciglia – Quindi? –
– Voglio qualcosa in cambio. –
 Arn impallidì. – Questo non ha senso! Quando mio padre… –
Cenere gli poggiò una mano sul braccio, bloccandolo. – Mancano due giorni al plenilunio, non abbiamo tempo per questo – poi si rivolse alla vedova. – Cosa vuoi? –
Elsa Stone sorrise come un bambino a cui hanno regalato una caramella. – Un segreto – poi guardò Cenere negli occhi. – Un tuo segreto, Simblantë. –
La Cacciatrice rimase interdetta per un istante. Poi sentì la furia dentro di sé, gelida come la neve che avvolgeva il villaggio.
– Tu… – le parole facevano fatica a uscirle di bocca per la rabbia. – Come osi… – si alzò in piedi, gli occhi stretti come quelli di un serpente.
La vecchia la guardò dal basso con tranquillità. – Non cedo i miei segreti facilmente, Cacciatrice. Se voi non mi darete nulla, io non vi darò nulla. Ogni cosa deve essere guadagnata, è una delle regole del mondo. –
A Cenere tremavano le mani mentre estraeva il pugnale dalla cintura e lo puntava verso la gola della vedova. Il manico le scivolava nel palmo sudato. Arn si alzò di scatto dalla sedia, prendendole il braccio e parlandole veloce all’orecchio.
– Non farlo, Cenere! – il suo fiato scaldava la guancia della Cacciatrice. – Non farlo! Ci servono le sue informazioni! –
La vedova li guardava sorridendo, come se non fosse la sua vita a essere in pericolo. Cenere si costrinse a mettere via l’arma, ma non si sedette. Sentiva le gambe rigide, come se avesse corso per chilometri. Arn la lasciò andare piano, pronto a riafferrarla nel caso in cui avesse fatto qualcosa di pericoloso.
– Allora Simblantë? – Elsa Stone inclinò la testa fissandoli con occhi glaciali. – La mia generosa offerta non resterà tale per molto. –
Cenere guardò Arn e si costrinse a parlare con voce calma, che risuonò quasi tombale nella piccola stanza. – Lasciaci. –
Arn scosse la testa pronto a ribattere, ma quando vide l’espressione della Cacciatrice capì che non avrebbe potuto farle cambiare idea. Prima di andarsene fissò Elsa Stone con serietà. – Quando mio padre lo saprà… –
La vedova portò lo sguardo su di lui e il figlio del podestà fece un passo indietro, spaventato. – Conosco cose su tuo padre che ti farebbero rizzare i capelli sulla testa, ragazzo. Vattene ora. –
Arn si allontanò rapido, in quella che sembrava più una ritirata che un’uscita. L’ultima cosa che vide fu Cenere che fissava la vedova Stone come se avesse voluto ucciderla.
 
▪▪▪
 
Quando Cenere uscì dalla casa si sentiva come se avesse combattuto contro un drago a tre teste. Dopo di questo, il Lycan sarà una passeggiata.
Si chiuse la porta alle spalle e si appoggiò allo stipite, emettendo un lungo sospiro. L’aria fredda la colpì come un maglio dopo il caldo soffocante che c’era all’interno, scacciando il mal di testa e gelandole il sudore sulla fronte. Voleva solo andare a dormire e dimenticare tutto quello che era successo in quella casa. Vecchi ricordi, da tempo addormentati e nascosti, le si affastellavano davanti agli occhi. Le tremavano le gambe e si sentiva come se il suo intero corpo fosse fatto di gelatina. Dietro a tutto quello però c’era una rabbia bruciante, che premeva ai limiti della sua vista. Se le avesse dato ascolto, sarebbe rientrata e avrebbe sgozzato la vedova Stone a sangue freddo.
Arn camminava avanti e indietro nella strada davanti alla casa, aveva ormai scavato un sentiero nella neve alta. Il cielo era grigio piombo e si preannunciava una tormenta. Guardò il pugnale appeso alla cintura di Cenere.
– È ancora viva, se è questo che ti stai chiedendo – disse amara la Cacciatrice. – Anche se non posso garantire che lo sarà ancora a lungo, soprattutto se ci fermiamo qui. –
Arn le si avvicinò, cercando le parole. Cenere lo fermò prima che potesse parlare. – Non dire niente. – 
– Mi dispiace – Arn decise di ignorare l’espressione omicida di Cenere. – Sei venuta qui per aiutarci e per ora tutto questo sta causando più guai a te che a tutti noi. Mi dispiace. –
La Cacciatrice fece una smorfia. – È il mio lavoro. –
Arn sorrise. – No. No, non lo è. E non potrò mai ringraziarti abbastanza per tutto quello che stai facendo. –
Cenere non seppe cosa rispondere. Le volte in cui era stata ringraziata si potevano contare sulle dita di una mano, ma mai nessuno le aveva parlato con tanta gratitudine. Per l’ennesima volta da quando era entrata a Briar rimase senza parole. Era abituata alla crudeltà e alla cattiveria, non sapeva come comportarsi davanti alla gentilezza.
Ci deve essere qualcosa nell’aria di questo paese, pensò mentre fissava gli occhi color nocciola di Arn.
– Da chi dobbiamo andare? –
Cenere fu grata al suo compagno per aver dissolto quell’attimo di imbarazzo.
– Quella vecchia maledetta ha visto un uomo alto e bruno cercare di allontanare Ben poco prima del sorgere della luna. Se è lui il Lycan, potrebbe essersi trasformato prima di arrivare a casa ed essere tornato indietro seguendo l’odore dell’uomo. –
I due iniziarono a incamminarsi verso la piazza.
– Non ti ha dato un nome? –
– Non proprio, sembrava più che si volesse godere la mia lenta agonia – Cenere sentì di nuovo la rabbia farsi incandescente. – Mi ha descritto un uomo grosso, muscoloso. Portava una giacca marrone scuro o nera, non è riuscita a vederlo bene nella luce morente. Però era sicura che alla vita portasse una spada. E un corto bastone di legno. –
Arn si bloccò sul posto, sgranando gli occhi. – Il conestabile. –
Cenere annuì. – Sì, è quello a cui ho pensato anche io – si voltò verso il figlio del podestà. – Andiamo a trovare Mo. –
 
▪▪▪
 
Sto male. Non sono riuscito ad alzarmi dal letto oggi. Mi sento debole e quando faccio dei movimenti più complessi che girarmi nel letto, tremo. Mi sembra che qualcuno stia battendo dei piatti nella mia testa, tirando dei fili e, anche se non vorrei nemmeno pensarci, ho paura. Paura che tutto questo sia sintomo non di una febbre, ma di qualcosa di più grande. Mi è già capitato, prima. Non ho mai davvero voluto farci caso, ma mi è capitato sempre prima del plenilunio.
May è venuta a trovarmi, oggi. Quando mi ha visto è impallidita, spaventata. Non devo avere un bell’aspetto. È uscita subito, dicendomi che sarebbe tornata presto. Quando è rientrata aveva in mano delle erbe. Mi ha preparato un qualche infuso strano e non so come ma, quando l’ho bevuto, mi sono sentito meglio. Non in forze, ma meglio. Il mal di testa e i tremori erano scomparsi, ho ripreso un po’ di colore.
May è una benedizione, per me. Mi ha guardato, mi ha visitato. Le ho chiesto se per lei era il caso che vedessi un makeim, un guaritore, ma mi ha risposto di no. Secondo lei a rendermi così è solo un miscuglio di ansia, stress, tristezza e alcol. Deve aver ragione. Mi sono sentito talmente sollevato dalle sue parole da tirare un respiro di sollievo.
Poi i mesi scorsi sono stato male, sì, ma sono sempre riuscito ad alzarmi e a lavorare, a fare ciò che ci si aspettava da me. Mentre loro erano vivi non mi sono mai ridotto in questo stato. Lo scorso plenilunio ero ubriaco, è vero, ma non mi ricordo di essere stato così male. Deve essere un caso, tutto qui.
Solo un caso.
 
▪▪▪
 
L’ufficio del conestabile dava sulla via principale di Briar. Era una piccola stanza quadrata con annesse tre celle, vuote per la quasi totale parte del tempo. Erano pochi quelli che avevano bisogno di finire a rischiararsi le idee in prigione e più che altro si trattava di ubriaconi molesti impegnati a farsi passare la sbornia.
Cenere li capiva. Si immaginò di vivere in un paese come Briar, soprattutto d’inverno. Non c’era molto da fare se non bere fino all’incoscienza, sia per scaldarsi che per passare il tempo. Guardò Arn che camminava di fianco a lei, quasi confuso nella neve che aveva iniziato a cadere dal cielo. Avrebbe passato il resto della sua vita in quel villaggio, senza vedere nient’altro di tutta Egea?
Il figlio del podestà si girò a guardarla e, prima che potesse chiederle qualcosa, Cenere parlò. – C’è qualcosa che devo sapere? –
– Poco di più di quello che conosci già. Mo vive qui da sempre, non si è mai allontanato per più di dieci giorni. È scettico, rancoroso e cocciuto come un mulo. Se riesci, non farlo arrabbiare – fissò Cenere come se sapesse già che erano parole sprecate.
La Cacciatrice sorrise. – Farò del mio meglio. C’è qualcuno che potrebbe voler fargli del male? –
– Non che io sappia. Non ha mai avuto a che fare con criminali, almeno non nel vero senso della parola. Nessuno di loro dovrebbe voler vendicarsi – Arn fece una pausa. – Anche se… –
– Anche se? –
– Si dice che abbia litigato con il fratello, Car, per l’eredità della madre. Lei è morta anni fa, quando Car era lontano dal villaggio. A differenza di Mo ha viaggiato molto, è stato lontano per anni interi senza dare notizie, molti pensavano fosse morto sulla Strada. Figurati che raccontava… –
– Torna al punto, Arn. –
Arn annuì con aria impacciata. – Comunque, quando la madre di Mo è morta ha lasciato tutti i soldi a lui, senza citare il fratello nel testamento. Così, quando Car è tornato a Briar, ha scoperto di essere orfano e povero, tutto insieme. Ha provato a parlare con il fratello, ma non ne è uscito nulla di buono. I due non si parlano più. Però mi sembra impossibile pensare che avrebbe potuto fare un incantesimo del genere su Mo. Sono fratelli. –
Cenere fece spallucce, seria. – Da quanto ho visto finora del mondo posso assicurarti che i soldi, insieme all’amore non ricambiato e alla vendetta, sono il motivo che spinge la maggior parte delle persone a fare le cose più terribili. E poi ti ricordo che, anche se vi conoscete tutti e vi volete tutti bene, avete un Licantropo qui a Briar. Qualcuno dovrà aver pur fatto questo incantesimo. –
– Stavo giusto pensando a questo, prima – Arn si strinse nelle pellicce invernali. – Non è possibile che l’abbia fatto qualcuno di un altro villaggio? Qualcuno incontrato durante un viaggio? –
Cenere scosse la testa. – No, lo escluderei. C’è un legame tra il pastore di lupi e il Lycan che crea. È come un filo, che si tende e brucia con la distanza. In più ci vorrebbe molto potere per fare una cosa del genere senza avere la vittima vicino. I maghi elfici sono sicuramente in grado di farlo, ma non credo che nessuno di loro sia mai venuto in visita a Briar. –
– In effetti no. –
Nel frattempo erano arrivati alla porta del conestabile. Bussarono e dopo qualche istante Mo comparve sull’uscio, appoggiandosi con indifferenza allo stipite e incrociando le braccia. Non fece nemmeno finta di essere stupito da quella visita.
– Arn, Simblantë. Qual buon vento vi porta? –
– Dobbiamo parlarti. –
Mo si scostò e gli fece cenno di entrare, senza spostarsi quando gli passarono vicino. Il suo tentativo di intimidazione finì nel nulla quando la Cacciatrice, affiancandolo sulla porta stretta, gli sorrise. Poté sentire il suo odore soffocarla mentre entrava nella casa.
– Cosa volete? –
Arn rimase immobile nel centro della piccola stanza mentre Cenere si appoggiò a un muro, tenendo d’occhio l’uscita. Una sua mano si appoggiò quasi casualmente sull’elsa della spada.
Decise che non era il momento d’indugiare. – Volevamo sapere dov’eri quando sono morti i Lancer. –
Mo fece spallucce. – A casa. Era sera tardi. –
Cenere annuì. – E le notti in cui sono stati uccisi gli altri? –
– Mi state chiedendo dov’ero quando il Licantropo ha colpito? –
– Esattamente. –
– Non troppo facile da ricordare – il conestabile andò a sedersi dietro alla scrivania, poggiando i piedi sul ripiano.
– Credo che tu possa fare uno sforzo. –
– Fammi pensare… – Mo incrociò le braccia dietro alla testa, guardando il soffitto con un’aria platealmente pensierosa. – Sono stato a casa. Sempre. –
– Anche la notte in cui è morto Ben? –
Il conestabile fissò Cenere con occhi scuri, insondabili. – Sì, ne sono sicuro. –
– Beh, questo è un problema – la Cacciatrice incrociò le braccia, facendo sparire il sorriso che si era stampata sul viso. – Qualcuno ci ha detto che eri nella piazza dove è stato trovato Ben, poco prima che sorgesse la luna. –
– Non è vero! Mentono! – la voce di Mo rimbombò nella piccola stanza mentre il conestabile sbatteva la mano sul tavolo. Tutta la baldanza di prima era sparita.
Cenere scosse la testa. – No, non mentono. Perché eri lì? –
– Voglio sapere chi è stato. –
– Volevi parlare con Ben? –
– Dimmi chi è stato. –
– Portarlo qui a smaltire la sbornia? –
– VOGLIO SAPERE CHI È STATO! –
Arn trasalì a quell’urlo, ma Cenere rimase calma, scrutando il volto del conestabile. Poteva intravedere il Lupo dietro alla sua espressione?
– No, non te lo dirò. Voglio sapere perché eri in quella piazza. –
– Io… –
Cenere si avvicinò alla scrivania. – Sappiamo che eri lì. Dicci se hai visto qualcosa, sentito qualcosa. –
Mo era congelato sul posto, lo sguardo atterrito. Sembrava che qualcosa fosse scattato nel suo cervello.
– Se sei tu il Lupo, ti posso salvare. Però devi dirmi cosa hai visto. –
Il conestabile sembrò sgonfiarsi, afflosciandosi sulla sedia. Si portò le mani nei capelli, scuotendo la testa.
– Non è possibile – disse, le parole smorzate dal tremolio. – È stato un lupo normale, magari uscito dalla foresta… –
Cenere si accucciò, guardandolo negli occhi. – Sai anche tu che non è così. È stato un Licantropo. Dimmi cosa hai visto. –
Mo fece un respiro profondo, raddrizzandosi. Il suo torace era grosso quanto due volte quello di Cenere. Se era lui il Mannaro doveva trasformarsi in un Lupo veramente enorme.
– Ero ubriaco quanto Ben quella sera. Non so perché, non avevo un motivo per farlo – fece uno sbuffo. – Non che ormai mi serva un motivo per ubriacarmi. Quella sera ho bevuto con Ben, mi capitava abbastanza spesso da quando una volta l’avevo portato qui per non farlo morire congelato per strada. Ci coprivamo le spalle, se capite che intendo. –
Cenere annuì. Arn, dietro di lei, tratteneva il fiato.
– Non ho ben presente cosa sia successo, mi sembra di ricordare che Ben fosse così ubriaco da volersi fermare vicino alla fontana. Io avevo freddo, volevo andare a dormire. Abbiamo litigato, così come solo gli ubriachi possono fare, poi me ne sono andato. Non mi ricordo di essere arrivato a casa, ma è lì che ero al mattino. –
Cenere rimase immobile, calma, cercando di trattenere la frenesia che aveva dentro. – Ti sei sentito strano ultimamente? Vuoti di memoria, insonnia, mal di testa lancinanti? –
Il conestabile sgranò gli occhi. – No, sono sempre stato bene. Non sono il Lupo, devi credermi! –
Cenere non rispose. – Le altre notti di luna piena sei stato davvero a casa? –
– Sì, non mi sono mai mosso. Non posso essermene andato in giro per il paese. –
– Eri da solo? – continuò Cenere, imperterrita.
Il conestabile annuì, in silenzio.
– Hai l’abitudine di chiudere la porta, la sera? –
Mo sgranò gli occhi. – No, nessuno di noi ce l’ha. Non succede mai niente, qui. –
Cenere si tirò su, sospirando. – C’è qualcuno che potrebbe avercela con te? –
– Io… no, non mi sembra. –
– Ho sentito che hai litigato con tuo fratello. Ti fidi di lui? –
Il conestabile sollevò le sopracciglia. – È mio fratello, non mi farebbe mai una cosa del genere. –
Cenere annuì di nuovo, pensierosa. Quella di Mo era una buona pista. Poteva essere lui il Mannaro, così catturato dalla maledizione da non rendersi nemmeno lontanamente conto di quello che gli stava succedendo. Poteva aver impedito che chiamassero prima un Haris perché il suo inconscio sapeva che sarebbe stato riconosciuto. Però… C’era un però. Più ci ripensava, meno Cenere era convinta. Il conestabile avrebbe dovuto rendersi conto che gli stava capitando qualcosa di strano, quantomeno al risveglio dopo la trasformazione. Poteva essere completamente all’oscuro di tutto? Poteva davvero aver passato quattro pleniluni trasformandosi senza averne avuto nemmeno un sentore?
Cenere fece segno ad Arn ed entrambi si diressero verso la porta. Il figlio del podestà sembrava sconvolto.
– Credete… credete che sia io? – la voce del conestabile era bassa e roca, i suoi occhi bassi. La Cacciatrice si fermò con la mano sul pomello.
– Non lo so, ma potrebbe essere. Se così è, non devi aver paura: quello che è successo non è colpa tua. È colpa di chi ti ha reso così e io lo troverò. Te lo prometto. –
Nessuna risposta giunse alle loro orecchie mentre varcavano la porta e tornavano sulla strada.
 
▪▪▪
 
Il fratello di Mo viveva poco distante dalla casa del conestabile. Cenere e Arn camminarono lenti nella neve, stringendosi nelle pellicce e nei vestiti invernali. Nonostante nevicasse faceva più caldo di molte altre sere, quando il cielo era terso e il sole lontano così splendente da sembrare una pietra incandescente buttata nell’acqua. Arn non aveva detto niente da quando erano usciti, la sua faccia era così corrucciata che sembrava che non si sarebbe più potuta distendere di nuovo.
– Pensi che sia lui? –
Cenere scosse la testa. – Non lo so, potrebbe essere. –
– Non sei convinta? –
– No, non del tutto – sospirò la Cacciatrice. – Sta troppo bene, è troppo cosciente di sé per essere il Mannaro. Forse l’incantesimo è solo molto forte, ma è comunque strano. –
– Se è davvero lui e non ha detto niente dalla morte di Ben… –
Cenere guardò Arn negli occhi e sorrise. – Non è così facile. Se è lui, potrebbe non essersi nemmeno reso conto di come vi stava ostacolando. A livello cosciente può aver pensato che fosse la cosa giusta da fare mentre invece il suo inconscio, il Lupo dentro di lui, lo stava manipolando per non essere scoperto. Non dargli più colpe di quelle che già ha. –
La casa del fratello di Mo, Car, era a essere lusinghieri una catapecchia. Le assi di legno erano in gran parte semi distrutte, rovinate da anni di sole e pioggia e vento. Non c’erano pietre nelle fondamenta a proteggere dal freddo invernale. Un flebile filo di fumo usciva dal camino, facendo sospettare a Cenere che la canna fumaria fosse in parte intasata.
– Non bellissima – commentò Arn, guardandola da vicino. – È un miracolo che stia in piedi. –
Cenere fece uno sbuffo per contenere una risata.
– Che c’è di così divertente? –
– Mi è venuta in mente una storia che mi raccontavano quando ero piccola – il sorriso sul viso di Cenere si allargò. – Quella in cui il lupo soffia sulla casa di legno per tirarla giù e mangiare i bambini nascosti dentro. –
– Ma che favole ti raccontavano? – Arn era allibito.
– Favole da Cacciatori – commentò Cenere ammiccando. – E questa casa me l’ha fatta subito tornare in mente. Quasi profetico, non trovi? –
Prima che Arn potesse commentare la deriva fatalista del discorso Cenere si allontanò, andando a bussare con vigore alla porta. Smise di colpire il legno solo quando sentì un “arrivo, arrivo” borbottato. L’uscio si spalancò cigolando.
– Si può sapere cosa volete? –
La parentela tra Car e Mo si intuiva solamente dalla stessa sfumatura cioccolato dei capelli e dal taglio degli occhi neri. Il viso del fratello del conestabile era però solcato da un reticolo di rughe che gli davano un aspetto più vecchio di quanto in realtà non fosse. Era grande e imponente ma il fisico sembrava patito, come quello di un lottatore che si è lasciato andare a ozi e bagordi.
– Vogliamo parlarti. –
– Non ho niente da dire – l’uomo fece per chiudere la porta ma Cenere fu svelta ad afferrare l’anta con una mano, tenendola aperta.
– Questo lascialo giudicare a noi. –
– Siamo qui su ordine del podestà – si intromise Arn, scrutando l’uomo negli occhi.
Lo sguardo di Car corse al viso della Cacciatrice. Cenere sapeva che stava squadrando i suoi occhi di colore diverso, valutando con chi aveva a che fare.
– Se è così… datemi un attimo, mi metto qualcosa di più pesante e arrivo. –
L’uomo sbattè loro la porta in faccia, lasciandoli al freddo e alla neve. Quando tornò dopo pochi minuti, era imbacuccato in una pelliccia pesante che sembrava aver visto tempi migliori.
– Cosa volete? –
– Vorrei sapere cosa è successo tra te e tuo fratello –
L’uomo sollevò le sopracciglia. – Non hai peli sulla lingua, eh? Mi piace – sputò per terra. – È successo che mio fratello è un bastardo e un ladro, ecco cosa. Ha rubato la mia eredità, così ora lui fa la bella vita e io sono costretto a vivere in questa topaia, senza un soldo. –
– Non hai provato a parlare con il podestà? Certe cose di solito sono stabilite per legge. –
Car sputò di nuovo. – Quella strega di mia madre mi ha messo fuori dal testamento, per legge Mo non mi deve nemmeno un pezzo di rame. Se fosse un uomo corretto però non lascerebbe suo fratello nella miseria, mi darebbe quello che mi spetta. Ah, ma prima o poi verrà punito – l’uomo fece un sogghigno e sia Cenere che Arn poterono intravedere i denti marci. – Magari alla prossima luna il Lupo se lo prenderà. –
La Cacciatrice sentì lo spezzarsi del respiro di Arn al suo fianco.
– Può essere – commentò conciliante. – Hai viaggiato di recente? –
– Sono stato a Lud, la città degli elfi giù a sud. Perché? –
– Curiosità – Cenere sorrise. – Grazie per la tua gentilezza, ora dobbiamo andare. Che il sole brilli su di te. –
– E sulla tua strada – borbottò Car tornando verso casa.
La Cacciatrice e Arn gli voltarono le spalle, incamminandosi verso il centro del paese. Stava già calando la notte, da quando era iniziato l’inverno le giornate si erano fatte sempre più corte. Il sole non era che una macchia opalescente dietro alle nuvole lattiginose.
– Perché gli hai chiesto se è stato fuori da Briar? Potevi chiederlo a me, sappiamo tutti che è andato a Lud sei mesi fa – le chiese il figlio del podestà.
– Volevo vedere se mi avrebbe detto la verità. –
– Perché avrebbe dovuto mentirti? –
La Cacciatrice sospirò. – Le conoscenze e il potere che servono per fare l’incantesimo di trasformazione non sono né semplici né banali. C’è bisogno di studio e di tempo. E soprattutto di una magia che voi umani non possedete. Quindi, le opzioni sono due: o qualcuno a Briar ha sangue di elfo nelle vene e ha studiato da mago, ma tuo padre mi ha già fatto capire di no, oppure ha comprato un simpatico strumento in grado di intrappolare la magia. Qualcosa come questo. – Cenere si fermò un attimo, iniziando a frugare nella borsa che teneva a tracolla. Prese cautamente una sfera di vetro che brillava di un colore rossastro, ipnotico. Sembrava pulsare come seguendo il battito di un cuore.
Arn la guardò schifato. – Cos’è quell’orrore? –
Cenere la riavvolse nel panno da cui l’aveva estratta e la mise via. – Si chiama Sfera. Mi ha salvato la vita più volte di quante mi piacerebbe ammettere. Se potessi la userei ad ogni minima difficoltà, ma mi capita raramente di avere abbastanza denaro per pagare qualcuna che possa ricaricarmela. –
Arn continuava a guardare la borsa di Cenere come se potesse saltargli addosso e ucciderlo. – Pensavo che gli elfi non vendessero la loro magia. –
– Infatti è così. Se mi trovassero con questa addosso mi ucciderebbero senza nemmeno degnarsi di farmi un processo. Tuttavia, se si sa dove cercare e a chi chiedere, è possibile comprarla. Ha un prezzo esorbitante ma vale tutto il denaro speso. –
– Quindi tu dici che Car l’ha comprata a Lud? –
Cenere fece un respiro profondo. – No, non credo. Vedendo dove e come vive, non penso che ne avrebbe avuti i mezzi. Poi non credo che se fosse davvero il pastore e avesse maledetto il fratello manifesterebbe l’odio che prova per lui in maniera così plateale. Ma mai dire mai, giusto? –
I due camminarono in silenzio per qualche secondo, l’unico rumore presente quello soffice della neve pestata.
– Arn? – mormorò Cenere, improvvisamente impacciata. – Riguardo a questa Sfera… apprezzerei se non ne parlassi in giro. –
Il figlio del podestà sorrise. – Non una parola. –
– Grazie – la Cacciatrice sorrise e respirò a fondo la fredda aria invernale. – Direi che è ora di andare a trovare i vicini di Jean. Se siamo fortunati hanno visto qualcosa la notte in cui Kit e Mark sono morti. –
 
▪▪▪
 
Grazie a May sto un po’ meglio. Non si è mai allontanata da me, nonostante il mio mal di testa mi impedisca di parlare o interagire con chiunque. Mi prepara decotti e mi dà erbe per farmi stare un po’ meglio, ma a differenza di stamattina riescono solo ad arginare parzialmente il dolore.
Ho di nuovo avuto degli episodi di insonnia, sento odori più forti del normale. Ho delle reazioni che una persona non dovrebbe avere, come scoprire i denti quando provo dolore. I colori sono più vividi, i miei movimenti mi sembrano accelerati.
Mi sembra di stare impazzire, ma ho paura che possa essere qualcosa di molto peggiore. E se fossi io quel mostro? Dei, non riesco nemmeno a dire il suo nome. Se fossi io vuol dire che li avrei uccisi. Vuol dire che sarebbero morti per colpa mia. Non posso nemmeno pensarci, l’orrore è tale che mi sembra di svenire quando questo pensiero si affaccia alla mia testa.
Non mi ricordo niente degli scorsi pleniluni. Semplicemente, mi ricordo di essere andato a dormire e di essermi svegliato la mattina dopo, senza problemi. A questo punto ho paura che sia solo una difesa della mia testa, per negare l’orrore della mia vita. Ho paura.
Come posso essermi ridotto così?
Che tipo di uomo sono diventato?

 

ANGOLO DELL'AUTRICE!
Ciao a tutti! Ci metterò poco perchè ci tenevo solo a ringraziare tutti quelli che leggono/commentono/seguono la storia, mi fate un grande piacere ^^
Lunghi giorni e piacevoli notti,

Lya
 

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Capitolo 5
*** Un giorno al plenilunio ***


WHAT KIND OF MAN

UN GIORNO AL PLENILUNIO
 
“I wanna hide the truth
I wanna shelter you
But with the beast inside
There’s nowhere we can hide”
Demons, Imagine Dragons
 
Quando Cenere incontrò Arn, il mattino dopo, era stanca e confusa. Aveva pensato e ripensato per tutta la notte, rigirandosi nel letto. Quello che le aveva raccontato Amos, il vicino di casa di Jean, l’aveva da un lato turbata e dall’altro resa euforica.
Amos, uno dei numerosi tagliaboschi ormai troppo anziano per poter tagliare alberi, era per fortuna della Cacciatrice anche un solenne impiccione, grazie agli Dei meno crudele della vedova Stone. Intervallato da innumerevoli episodi del tutto inutili, le aveva raccontato che la notte della morte di Kit e Mark aveva visto Will, il figlio di Lucius, litigare con Jean, il padre dei due ragazzi. Erano volate parole grosse e a un certo punto Will aveva spintonato l’amico, facendolo arretrare sconvolto. Sembrava che si sarebbero potuti picchiare da tanto erano arrabbiati.
Amos non era riuscito a capire su cosa stessero litigando, ma sicuramente era qualcosa di grave. Jean continuava a scuotere la testa e a guardare l’ex-amico come se fosse impazzito tutto d’un tratto. Will urlava e sbraitava, insultando l’altro e rivolgendogli epiteti che “non potrei ripetere senza vergognarmi”.
I due erano sempre andati d’amore e d’accordo, le aveva detto Amos, ma all’improvviso i rapporti sembravano essersi deteriorati. Avevano smesso di vedersi e Will, da frequentatore assiduo della locanda di Jean, aveva smesso di farsi vedere. Amos non sapeva spiegarsi le ragioni di quel comportamento, ma sembrava che Will avesse perso il controllo. Aveva persino litigato con Lucius, il padre, e non si parlavano più da tempo quando l’uomo era stato trovato morto nella foresta, ucciso dal Lupo.
Arn era rimasto sconvolto dalle notizie. Will era sempre stato un uomo tranquillo e posato, facile al riso e affabile. Il figlio del podestà non immaginava che fosse in grado di litigare con chicchessia. Quando se ne erano andati dalla casa di Amos Arn le aveva raccontato che Will e Jean erano praticamente cresciuti insieme, come fratelli. Non sapeva che ci fossero screzi tra i due, non tanto gravi almeno da spiegare una lite come quella descritta di Amos.
Cenere aveva passato la notte a pensare e a ripensare. Per quanto ne sapeva, la morte di Lucius e dei figli di Jean dopo le liti con Will poteva essere un caso. Una coincidenza. Semplicemente, Will si era trovato nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Il Lupo si era trasformato e aveva ucciso quelle persone per pura casualità, facendo cadere i sospetti sull’uomo.
Oppure… la seconda opzione era molto più mostruosa. E se Will si fosse accorto, dopo il primo plenilunio, di essere il Lycan? Una cosa del genere non era infrequente. Se l’incantesimo era debole o effettuato in maniera non corretta, poteva succedere che il mattino il Licantropo mantenesse una memoria di quello che gli era successo. Quando capitava, spesso l’uomo sceglieva di uccidersi. Se però avesse deciso di vendicarsi, di riparare i torti subiti? Se quest’ultima, terrificante eventualità fosse stata vera, allora voleva dire che Will si era appostato vicino alle sue vittime, per essere certo di ucciderle quando si fosse trasformato. Cenere aveva i brividi solo all’idea.
Negli anni la Cacciatrice aveva imparato a pensare il peggio delle persone. Il buonismo non le era utile e, nella sua opinione, aveva ucciso più persone della spada. Però pensare che qualcuno potesse volontariamente scegliere di trasformarsi in Licantropo per ammazzare i suoi nemici… Se avesse scoperto che le cose stavano davvero così, avrebbe ucciso Will nella sua forma umana. Non avrebbe rischiato di morire per combattere un essere così spregevole dopo la trasformazione, quando la sua forza e potenza erano infinitamente maggiori.
Quando sorse il sole Cenere aveva dormito a malapena qualche ora, si sentiva la testa frastornata. Appena si addormentava vedeva il Lupo, con i suoi occhi rossi di bragia, avventarsi sul villaggio mentre lei lo fissava impotente. Decise che aveva aspettato abbastanza e scattò in piedi. Mancava un giorno al plenilunio e ancora non sapeva chi fosse il Lycan. Come prima cosa, quella mattina, avrebbe parlato con Will.
E nemmeno gli Dei lo avrebbero protetto se avesse scoperto che era lui il Lupo.  
 
▪▪▪
 
Non pensavo fosse possibile, ma oggi sto ancora peggio di ieri. Vedo lampi di luce dietro le palpebre chiuse e la testa mi fa così male che credo che mi si spezzerà in due. Per cercare di stare meglio, bevo. Non so come sia possibile, ma funziona.
Quando May arriva, ore dopo, sono ubriaco ma non ho più male. Il suo profumo mi colpisce con la forza di un maglio. Sa di rosa, di bucato e, dietro a tutto come una nota di fondo, c’è un lieve odore di sudore che ha un odore tutto suo. Non riesco a trattenermi e la annuso, a lungo, sperando che non se ne accorga.
I suoi colori sono così luminosi da farmi quasi male. Il rosso dei suoi capelli risplende di una luce particolare al calore del fuoco. Per un attimo penso che forse potrei stare con lei. Stare con lei, andarmene da Briar e dimenticare tutto quello che è successo, che sta succedendo. Poi penso ai loro corpi sepolti in una fossa al limitare del bosco e capisco che non sarà mai possibile. Non me ne andrò mai da qui.
I pensieri di ieri sono spariti. Non è pensabile che il Lupo sia io. Non potrei averli uccisi io. Sono sicuro che anche da trasformato manterrei un poco di coscienza di me. Nessun uomo uccide la propria famiglia.
May legge i miei pensieri nei miei occhi e mi dice di stare calmo. La Cacciatrice sta indagando e alcune voci dicono che abbia trovato il colpevole che, guarda caso, non sono io. Ucciderà il Lupo domani e allora questo incubo finirà.
Allora i miei malesseri torneranno a essere quello che sono: la croce di un uomo che in fondo non vuole più andare avanti.
 
▪▪▪
 
Quella mattina il sole splendeva sui tetti innevati e sulle strade bianche di Briar. Cenere e Arn camminavano verso la casa di Will. La Cacciatrice non riusciva a togliersi l’aria corrucciata dal viso e il figlio del podestà la guardava come se potesse esplodere da un momento all’altro. Continuava a pensare e a ripensare alle parole di Amos, che le rombavano in testa come i tuoni in un temporale.
– Nessuno ti parlerà se non ti togli quell’aria omicida dalla faccia – sbottò poi Arn. – Fai paura. –
– Giusto così – ringhiò Cenere, continuando a camminare. Pestava la neve come se le avesse fatto un affronto personale.
– Cosa c’è che ti turba? –
Cenere si fermò. – Cosa mi turba? – esplose, sconvolta. – Cosa mi turba?! Mi turba il fatto che un uomo potrebbe avere deliberatamente aspettato di trasformarsi in Mannaro per uccidere i suoi nemici o peggio, i loro figli. Mi turba che, nonostante sapesse di essere il Lycan, potrebbe essere restato in silenzio per continuare a fare il suo lavoro sporco. Mi turba che sia un comportamento da vigliacchi e assassini. –
Arn si ritrasse leggermente a quella sfuriata. – Va bene, ho capito il concetto. –
Cenere riprese a camminare. – Bene. –
I due stavano camminando spediti verso la casa di Will quando Arn la prese per un braccio e le indicò una donna che stava passando rapida per la strada.
Senza spiegare niente alla Cacciatrice Arn aumentò il passo. – May! May aspetta! –
La donna che si chiamava May si fermò, sorridendo mentre il figlio del podestà le si avvicinava.
– Si può sapere cosa stai facendo? – ringhiò Cenere, fermando Arn tenendolo stretto per la spalla.
Arn si divincolò e continuò a camminare. – May è un erborista. Se il Lupo sta male, può essere andato da lei – bisbigliò.
Cenere fece un lungo respiro per calmarsi e si appiccicò un sorriso falso sulla faccia. Già i suoi occhi erano abbastanza inquietanti, presentarsi anche con una faccia omicida non avrebbe giovato alle sue relazioni sociali.
May era una bella donna. Capelli rossi, viso rotondo e dolce, occhi scuri molto espressivi. Qualche lentiggine le decorava il naso. In una mano portava un cestino che, a giudicare dall’odore, era ricolmo di erbe medicinali.
– Arn, Cacciatrice. Ditemi. –
– Ultimamente è venuto da te in bottega qualcuno che stava male? – esordì Arn.
May rise. – Siamo in inverno, Arn. I raffreddori sono all’ordine del giorno. Dovrai essere un po’ più specifico se vuoi che ti aiuti. –           
– È venuto Will da te? –
L’erborista si fece sospettosa. – Sì, perché? –
Cenere si intromise. – Cosa ha preso? –
– Erbe per il mal di testa. Dice di soffrire di tremendi attacchi di emicrania, con allucinazioni visive e olfattive. E di insonnia. –
La faccia di Cenere divenne ancora più scura e May lo notò. – Perché? Ho fatto qualcosa di male? –
Arn le mise una mano sul braccio, per rassicurarla. – Tu non hai fatto niente, May. Grazie per il tuo aiuto. –
May accennò un inchino. – Sapete dove trovarmi. –
Arn e Cenere si allontanarono in fretta, lasciandosi l’erborista alle spalle. Il figlio del podestà scuoteva la testa, mentre la Cacciatrice cercava di respirare per trattenere la furia. L’erborista le aveva dato l’ultima conferma di cui aveva bisogno: Will era il Lupo. Aveva ucciso quindici persone a sangue freddo, consapevole di quello che stava facendo. Cenere sguainò un palmo di acciaio, pronta a uccidere quell’uomo spregevole.
Arn intuì le sue intenzioni e la fermò prima che potesse entrare nella casa di Will, togliendole la mano dall’elsa della spada.
– Cenere, non ucciderlo. –
Cenere lo guardò, stupita. – Credo proprio che lo farò, invece. –
– No, non è giusto. Tu non sei come lui. –
La Cacciatrice sollevò le sopracciglia, perplessa. – Uccido a pagamento, certo che sono come lui. Sono un mostro anche io. –
– Questo non è vero, e tu lo sai. –
Cenere rise. – Quello che so io non conta niente – tentò di fargli capire le sue ragioni. – Arn, ha ucciso deliberatamente quindici persone. Lo sai meglio di me che merita di morire. –
Arn annuì. – Sì, hai ragione. Ma non così. Non come un animale. Noi siamo diversi da lui. Tu sei diversa. Cenere, ti prego. Non ucciderlo. –
La Cacciatrice ricominciò a camminare, scuotendo la testa. – Ho preso la mia decisione. –
Arn non la seguì, rimanendo fermo sulla strada. – Mio padre non ti pagherà se lo farai. –
Cenere si bloccò e rise amaramente. – Oh, certo che lo farà. Mi ha chiamato per uccidere il Lupo, ricordi? Ed è quello che sto andando a fare. –
Arn la guardò serio. – Non lo farà perché io gli dirò di non farlo. E mi ascolterebbe, lo sai. –
Cenere restrinse gli occhi. – Mi stai minacciando? –
– Sì, e a quanto ho capito non puoi permettertelo. Hai bisogno di questi soldi. –
La Cacciatrice gli si avvicinò, minacciosa. Dentro aveva una tempesta e l’unica cosa che le risuonava in testa era la consapevolezza di essersi fidata per l’ennesima volta della persona sbagliata. – Non oseresti. –
Arn la fronteggiò. – Non sfidarmi. –
Cenere lo fissò negli occhi, leggendo solo una determinazione granitica. Se avesse ucciso Will a sangue freddo, non sarebbe stata pagata. E Arn l’avrebbe fatta morire di fame.
– Va bene – sibilò gelida, ferita. – Hai vinto. Ma da quando usciremo dalla casa di Will non voglio più vederti. Stammi alla larga, o nel villaggio ci sarà qualcun altro da piangere. –
Arn trattenne un brivido a quelle parole, ma sapeva che non si sarebbe potuto aspettare altro da lei. – Come preferisci – mormorò, incamminandosi per la strada innevata.
Non parlarono più fino a quando non arrivarono davanti alla porta di Will.
– Fammi un favore – ringhiò Cenere poco prima di bussare. – Vedi di tacere. Se Will si accorgerà che sappiamo di lui taglierà la corda e io non ho voglia di inseguirlo per tutta la foresta. –
Arn annuì in silenzio, sentendosi addosso gli occhi asimmetrici della Cacciatrice. Poi Cenere bussò. Colpì la porta con un po’ troppa veemenza, sentendosi infuriata e insieme tradita dal comportamento del figlio del podestà. Non credeva che fossero diventati amici ma le era sembrato che ci fosse una sorta di sintonia tra loro. Evidentemente si era sbagliata. Mai una consapevolezza le era pesata così tanto.
 
▪▪▪
 
Parlare con Will le aveva lasciato una strana sensazione. Si era dovuta trattenere mentre gli faceva le domande di rito, cercando di sembrare il più affabile possibile. Le prudevano le mani e quando pensava a quello che le aveva detto Arn la voglia che aveva di distruggere qualcosa aumentava vertiginosamente.
L’uomo le aveva aperto la porta con la camicia sbottonata, una bottiglia in mano e ondeggiando lievemente. Aveva gli occhi annebbiati tipici di chi ha bevuto troppo, ma anche così aveva mantenuto abbastanza autocontrollo da non farla entrare. Forse non voleva una sporca Haris all’interno della sua casa da Lupo Mannaro. Se avesse potuto, Cenere gli avrebbe spaccato la bottiglia in testa.
L’uomo aveva risposto alle sue domande in maniera confusa e la Cacciatrice non era riuscito a capire se fosse dovuto all’alcol o alla sua scarsa capacità di mentire. Dai suoi discorsi sconclusionati aveva capito che non era mai uscito di casa nelle notti di plenilunio, che non era andato dall’erborista per malesseri improvvisi, che aveva litigato con Jean per una questione di denaro. L’amico gli aveva già prestato dei soldi per ripagare un debito, ma a Will ne servivano degli altri.
Dalle voci che giravano in città era lo stesso motivo per cui aveva litigato con il padre: Will aveva preso il vizio di giocare d’azzardo e continuava a perdere, indebitandosi sempre di più. Le case di gioco di Lud non erano solite andare incontro alle necessità dei loro debitori. Le opzioni erano due: i soldi o la morte. Da quanto Cenere aveva capito, Will era più vicino alla tomba che al ripagare il suo debito.
Non che la cosa la turbasse più di tanto.
Dopo essersi liberata di Arn, osservando la sua figura un po’ ingobbita allontanarsi sulla strada, aveva deciso che, più per amor di completezza che perché le servivano altre prove, avrebbe parlato con Luke Anderson. Il Lupo gli aveva portato via moglie e figlio e, a quanto si diceva, si era lasciato sprofondare nella depressione. Non lavorava più, non usciva più di casa. Aspettava solo di morire.
Cenere arrivò fino alla casa degli Anderson, trovandola buia e come spenta. Davanti alla porta di casa c’era un cavallino a dondolo intagliato nel legno. Suo malgrado la Cacciatrice sorrise, sentendo dissiparsi la rabbia e la tristezza che aveva provato fino a quel momento.
Bussò delicatamente alla porta, aspettando sotto il piccolo portico che Luke Anderson andasse ad aprirle.
– Cacciatrice? –
Luke era alto e aveva lunghi capelli biondi, sporchi e legati in un codino storto. Si stava stropicciando un occhio con un pugno come se si fosse appena svegliato. Le spalle erano ampie ma ingobbite, come se portassero tutto il peso del mondo.
– Vorrei parlarti di alcune cose. –
L’uomo si fece da parte, facendole segno di entrare. Cenere gli passò vicino, stupita da quella tranquillità nei suoi confronti. Puzzava di sudore, di alcol scadente e di disperazione.
Le fece strada e la portò in un salotto che in un altro momento doveva essere stato caldo e accogliente. Ora sembrava solo desolato, triste come se avesse perso l’anima. Sul pavimento c’era ancora qualche gioco da bambino.
– Perdona il disordine, non ho molta voglia di mettere a posto – disse Luke buttandosi su una sedia.
Cenere lo imitò. – Nessun problema. Volevo sapere dov’eri quando… – non sapeva come dirlo senza urtare la sua sensibilità.
– Quando sono morti? – Luke si appoggiò pesantemente al tavolo. – Ero qui, a casa. –
Cenere corrugò le sopracciglia. – E li hai fatti uscire? Sapendo che c’era un Lupo Mannaro? – Sapeva di essere dura ma aveva bisogno di sapere cosa fosse successo.
Il boscaiolo fece una smorfia e il suo viso sembrò tremolare. – Capitava spesso che Jake piangesse e Mary andasse a prenderlo in braccio, per farlo addormentare e calmarlo. Io lavoravo tutto il giorno, molto spesso non mi accorgevo di nulla. A volte usciva sul portico per non svegliarmi. Deve averlo fatto anche quella notte. –
Cenere annuì. – Mi dispiace. –
– Anche a me. Se mi fossi svegliato, se mi fossi accorto di qualcosa, sarebbero ancora vivi. Che razza di uomo è quello che non difende la propria famiglia? –
Cenere tacque, osservando la disperazione e il dolore di quell’uomo. Poi Luke si prese la testa tra le mani.
– Promettimi una cosa, Cacciatrice. Promettimi che lo ucciderai. Un abominio del genere non deve rimanere a lungo nel mondo. –
Cenere annuì. – Te lo prometto. Fosse l’ultima cosa che farò. –
Luke aveva gli occhi lucidi quando rialzò la testa. – Grazie. Ora, se non ti dispiace, vorrei rimanere solo. –
Cenere annuì e si alzò, dirigendosi vero la porta. Lasciò Luke dietro di sé, seduto sulla sedia con la testa sul tavolo, il busto scosso da singhiozzi.
 
▪▪▪
 
Quella sera Cenere aveva cenato con tutta la famiglia del podestà e parlare con Galata aveva allontanato la sensazione di malessere che le era rimasta da quando aveva lasciato Luke Anderson nel suo dolore. Quello e il tradimento di Arn l’avevano affranta più di quanto potesse essere considerato normale. Almeno il figlio del podestà aveva avuto la decenza di assentarsi, lasciandola cenare serenamente.
Sia Blackfriar che Bandicus avevano delle facce tirate. Si vedeva che erano preoccupati per il plenilunio imminente. E, anche se non voleva darlo troppo a vedere, anche Cenere lo era.
Dopo la cena Galata si ritirò, lasciandola parlare con il podestà e suo fratello in privato. Avevano delle cose da discutere prima della luna piena.
– Abbiamo parlato di quello che ci hai detto il primo giorno – esordì Bandicus. Tra le mani aveva un boccale pieno di un denso liquore scuro. – Abbiamo preso una decisione. –
I due fratelli guardavano Cenere seri.
– Devi ucciderlo domani. Non possiamo permetterci di aspettare altro tempo. Ha ucciso troppe persone, il villaggio vuole la sua testa. –
Cenere si avvicinò al fuoco per scaldarsi. – Non potreste trovarmi più d’accordo ma… siete sicuri? È uno del vostro villaggio. –
– Hai qualche sospetto? – chiese Blackfriar.
– Qualcuno, sì. Ma preferirei non dirvi nulla. Mi piacerebbe evitare un linciaggio se la notizia dovesse trapelare in qualche modo. –
Bandicus si mise più comodo sulla sedia. – Capisco – guardò il fratello. – Noi cosa dobbiamo fare? –
Cenere guardò le fiamme lambire i ciocchi di legno. L’odore secco e pulito del fuoco riempiva la stanza.
– Dovete chiudervi in casa e non uscire, per nessun motivo. Non voglio dovermi preoccupare anche di salvare qualche idiota che ha deciso di suicidarsi. –
– E se capitasse come con i Lancer? –
Cenere scosse la testa. – Non succederà. So che ci sono delle miniere di zolfo nelle vicinanze. Andate a prenderlo e cospargetelo lungo il perimetro delle vostre case, terrà lontano il Lupo. Fate in modo di tenere sempre il camino acceso e dormiteci vicino, con le armi pronte. I Mannari hanno paura del fuoco. –
Blackfriar guardò il fratello. – Lo zolfo posso prenderlo io. In giornata ce la dovrei fare. –
Bandicus annuì. – Io avviserò il villaggio. Non uscirà nessuno, te lo garantisco. Ma tu cosa farai? – chiese guardando la Cacciatrice.
Cenere deglutì, improvvisamente consapevole delle due paia di occhi che la guardavano. Stavano riponendo in lei tutta la loro fiducia, le loro vite. Dentro di lei sentiva agitarsi un tentacolo di paura che a ogni istante minacciava di afferrarla. Si costrinse a ignorarlo.
– Io aspetterò il sorgere della luna. Poi cercherò di trascinare il Lupo verso la foresta e lo ucciderò. –
Blackfriar spalancò gli occhi. – Farai da esca. –
Cenere annuì. – È l’unico modo che ho. Non posso rischiare che distrugga qualche casa qui nel villaggio. –
Il podestà e il fratello tacquero, nel tentativo di metabolizzare quelle notizie. In due giorni, nel bene e nel male, tutta quella questione sarebbe finita.   
– Ancora una cosa – aggiunse ancora Cenere, fissando Bandicus. –  Se non dovessi più tornare... –
– Ma tu tornerai – si intromise Blackfriar.
Cenere lo ignorò. – Se non dovessi più tornare, dì questo alla tua gente: cercate chi al mattino sarà ferito di fresco. Trovatelo e avrete trovato il vostro Lupo. Se succederà non dategli la possibilità di ritrasformarsi. Vi ucciderebbe tutti. –
I due fratelli annuirono seri e Cenere tornò a guardare le fiamme, godendosi il calore del fuoco sul viso. Non sapeva se l’avrebbe mai sentito di nuovo.
 
▪▪▪
 
È stata una giornata infernale. Provo un dolore che non mi sembra di aver mai provato prima, come se qualcosa volesse spaccarmi il cranio dall’interno. Anche il minimo tocco mi causa sofferenza. Mi sono alzato dal letto solo per brevi momenti e sono rimasto in uno stato di dormiveglia quasi costante. Non ho mai dormito, non ce l’ho fatta. Ora si è aggiunta una strana sensazione di fastidio per la luce del sole. Spero che sia collegata con il mal di testo e spero che domani svanirà.
May è di nuovo venuta da me e mi ha portato degli infusi che mi hanno fatto stare meglio, anche se per poco. Lei dice che sono erbe che si usano per alleviare i sintomi delle normali influenze e solo gli Dei sanno quanto voglio crederle. Il fatto che io mi senta meglio quando li prendo non fa altro che farmi pensare che ha ragione lei.
Ho sempre più paura. Non so perché non ho detto nulla alla Simblantë, ma tanto non cambierà nulla. Domani tutto questo finirà, in un modo o nell’altro. In un certo senso sono sollevato: questa mia ignoranza finirà e capirò cosa mi sta succedendo.
Capirò che tipo di uomo sono diventato.

 

ANGOLO DELL'AUTRICE
Siamo quasi alla fine della storia, questo è infatti il penultimo capitolo. Grazie a chi è arrivato fin qui e, soprattutto, un grazie particolare a chi ha recensito questa storia o l'ha messa tra le seguite. Fa sempre super piacere ^^
Spero di aver trattato bene i vari POV e, soprattutto, di aver reso bene il litigio tra Arn e Cenere. Non è stato molto facile, considerato che quei due insieme mi piacciono molto e vorrei che andassero sempre d'amore e d'accordo. Mi è spiaciuto infinitamente ma sono persone troppo diverse, con due vissuti talmente differenti da avere due visioni del mondo totalmente differenti. Però... non so, magari ci sarà qualche sorpresa in futuro.
Ci vediamo per il prossimo capitolo e per la conclusione della storia!
Lunghi giorni e piacevoli notti,

Lya

 

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Capitolo 6
*** Plenilunio ***


WHAT KIND OF MAN
 
PLENILUNIO
 
“I'm only a man with a chamber who's got me,
I'm taking a stand to escape what's inside me.
A monster, a monster,
I've turned into a monster”
Monster, Imagine Dragons
 
La giornata iniziò in modo frenetico. Cenere si era alzata con l’alba, sentendo già rumori e tramestii nella casa del podestà. Uscita dalla sua stanza vide Galata che correva da una parte all’altra, seguita da Arn che cercava di calmarla e convincerla a sedersi. Dalle parole che i due si sparavano addosso, Cenere capì che molti quella sera si sarebbero riuniti nella casa del podestà, per affrontare insieme la lunga notte che li aspettava.
La Cacciatrice si vestì con calma, sapendo che quel giorno lo avrebbe dedicato a preparare le sue armi e le sue tattiche. Non avrebbe più fatto ricerche. Al calare del sole si sarebbe appostata davanti alla casa di Will e avrebbe aspettato che si trasformasse. Poi lo avrebbe ucciso.
Quando uscì la prima cosa che sentì fu l’odore di neve nell’aria. Il cielo era di un poco rassicurante color piombo, il sole una macchia nascosta dalle nuvole. Cenere si strinse di più nel mantello, respirando a fondo. Le era sempre piaciuta la neve, le ricordava casa.
Prima che i ricordi si facessero troppo dolorosi si strinse nelle spalle e si diresse verso la forgia del fabbro.
 
▪▪▪
 
Il sole stava rapidamente calando oltre le montagne e la luce stava svanendo in fretta. La neve fredda cadeva dal cielo e si depositava sul viso di Cenere, immobile e nascosta nell’ombra davanti alla casa di Will. Era vestita completamente di nero e indistinguibile, nella luce morente, dal muro scuro dietro di lei.
La spada le pendeva al fianco, affilata e rimessa a nuovo giusto quella mattina. L’elsa di cuoio nero si adattava perfettamente alla sua mano, le rune degli Haris la percorrevano recitando il motto della sua famiglia, che Cenere sapeva riconoscere anche solo al tatto: “dovere, onore, gloria”.
Quella spada era destinata a lei da quando era nata. Alla nascita di ogni Haris veniva forgiata una lama per lui e i fabbri della Torre di Guardia non avevano mai sbagliato una misura. Non sapeva dove suo padre avesse trovato uno dei maestri in grado di fare quel lavoro, ma la sua spada era un piccolo capolavoro. Non se ne sarebbe mai separata, non volontariamente.
Alla cintura era attaccata la Sfera, nascosta in un sacchetto di tessuto scuro che faceva intravedere una debole luce rossastra, tiepida e pulsante. Alla coscia e al fianco portava pugnali dalla lama argentata, a tracolla un arco nero lucido d’olio.
Cenere non era mai stata molto religiosa, gli Dei degli Haris l’avevano abbandonata tempo prima, quando avevano permesso che l’ira del mondo si abbattesse sulla sua gente. Non aveva fiducia in niente se non in sé stessa e non aveva preghiere da recitare, nessun cielo da implorare affinché si prendesse la sua anima se fosse morta quel giorno. L’unica consolazione che l’idea della morte le portava era il pensiero di poter finalmente rivedere suo padre.
Si calcò meglio il cappuccio sulla testa, sentendo i fiocchi di neve depositarsi lievi sul tessuto spesso. Guardava verso la porta di Will con attenzione, pronta a scattare ad ogni minimo segno. Aveva preparato una trappola davanti alla casa, abbastanza discreta da non essere vista ma sufficiente per intrappolare il mostro. Non avrebbe dato tempo al Lupo di notarla e di acquisire la sua forma completa: l’avrebbe ucciso non appena si fosse trasformato, quando la sua forza era minima. Se fosse caduto nel suo tranello, finirlo sarebbe stato ancora più facile.
Spostò lo sguardo sul sole, coprendosi gli occhi con la mano. Ormai era interamente sparito dietro agli alberi, lasciando dietro di sé solo una tenue luce aranciata. Dall’altro lato solo il buio. Nel giro di qualche minuto sarebbe sorta la luna piena.
Cenere si spostò dal muro a cui era appoggiata, mettendosi in posizione. La mano era ferma sull’elsa della spada. Poi sentì un rumore alla sua destra.
La Cacciatrice si girò di scatto, sguainando la spada. Davanti a sé, nel buio della notte che avanzava, c’era una figura che correva per la strada. A ogni passo sollevava una nuvola di nevischio.
Cenere riconobbe subito quella sagoma e le corse incontro.
– Arn! Vattene subito da qui! –
Il figlio del podestà non la ascoltò e si fermò solo quando la raggiunse, chinandosi con le mani sulle ginocchia e riprendendo fiato. Ansimava.
– Liam… –
– Torna a casa! –
Arn deglutì, ansimando forte. – Liam è stato trovato lontano dal villaggio il mattino dopo il plenilunio! Deve aver visto il Lupo vicino alle porte! –
– E quindi? Arn non c’è tempo, non restare qui! –
Arn la scosse per le braccia. – Stava scappando Cenere! Era strano quando gli abbiamo parlato, ci deve aver nascosto qualcosa! Lui sa chi è il Lupo! –
Cenere si bloccò, mentre molti piccoli tasselli tornavano al loro posto.
– Torna subito a casa Arn – disse rapida, prendendolo per le spalle. – Scappa e non ti fermare! –
Poi si girò e corse, corse come non aveva mai fatto prima fino a casa di Liam.
Quando arrivò non si fermò a pensare, abbatté la porta con una spallata, precipitandosi dentro. Il grosso boscaiolo era seduto davanti al focolare dentro un cerchio di zolfo. Cenere lo prese per la camicia e lo sbatté contro la parete più vicina, il braccio puntato contro la gola.
– Cosa hai visto la notte di luna piena? – ringhiò a pochi centimetri dal viso di Liam.
– Te l’ho detto – boccheggiò l’uomo.
Cenere aumentò la pressione. – Non prendermi in giro! Cos’hai visto? –
Il viso del boscaiolo si fece paonazzo. – Te lo dirò, te lo dirò! – ansimò.
Cenere allentò la presa e Liam si accasciò sulla parete, annaspando.
– Muoviti! –
– Ho visto il Lupo, inseguiva Mary e Jake nel bosco! Lei correva, piangendo, e urlava – il boscaiolo stava singhiozzando.
– E tu sei scappato – Cenere avrebbe avuto picchiarlo.
– Era enorme, ho avuto paura! L’avrebbe fatto chiunque! –
Cenere capì che c’era qualcos’altro. – Cosa urlava lei? –
Liam chiuse gli occhi, le lacrime luccicavano sulle sue guance. – Urlava: “siamo noi Luke. Non ucciderci.” –
Cenere sentì il cuore sprofondarle nel petto. Luke Anderson era il Lupo Mannaro e lei aveva preparato una trappola per la persona sbagliata. Si sarebbe occupata di Liam più tardi, ora aveva altri problemi.
– Mi fai schifo – ringhiò mentre si girava e correva fuori dalla casa. La prima cosa che vide fu la luna piena, la prima cosa che sentì fu l’ululato. Quel rumore le fece gelare il sangue nelle vene. Brividi le corsero sulla pelle e una parte di lei desiderò girarsi e scappare via da lì, lontano da Briar e dai suoi orrori. Invece deglutì e sguainò la spada, mentre l’odore di sorbo le invadeva le narici. Sperò che Arn fosse riuscito a tornare a casa.
Si mise a correre verso la casa degli Anderson. Le sembrò di metterci un’eternità a spostarsi, anche se sentiva il ritmo del suo cuore rombarle nella testa e il sangue pompare nelle vene. Quando girò l’ultimo angolo, affannata, si bloccò di colpo. Davanti a lei c’era il Lupo.
Era enorme. Acquattato in mezzo alla strada, il muso rivolto verso la luna. Era ricoperto di pelo folto e ispido, marrone scuro, che faceva come una criniera attorno al collo. Gli artigli delle zampe erano lunghi quanto le mani di Cenere. L’ululato le perforò i timpani e fece vibrare i vetri delle finestre lì vicine. Cenere si sentì minuscola e, forse per la prima volta in vita sua, impotente.
Appena il Lupo la fiutò si girò verso di lei. La Cacciatrice si sentì come paralizzata mentre gli occhi di fuoco del Lycan si fissavano su di lei. Un ringhiò basso fuoriuscì dalla gola del mostro, che ritirò le labbra scoprendo denti bianchi e affilati come rasoi. Un filo di bava gocciolava lento per terra. Cenere emise un respiro tremante mentre il Lupo si acquattava e iniziava ad avanzare verso di lei. Poi chiuse gli occhi, si girò e si mise a correre.
Corse come non aveva mai fatto prima, lanciandosi come un fulmine verso le più vicine porte del villaggio. Sentiva i muscoli bruciare mentre sfruttava tutta la forza e velocità che gli Dei avevano conferito agli Haris.
Dietro di sé sentiva i ringhi e i latrati del Lupo. Avvertiva nella vibrazione del pavimento i passi del Lycan e non sapeva se era solo la sua immaginazione ma poteva quasi percepire il calore del suo fiato sul collo. Cenere corse a zigzag tra le case, vedendo la neve salire in spruzzi bianchi ai lati del suo campo visivo.
Si fidò del suo istinto quando le consigliò di buttarsi in una strada laterale. Vide a malapena l’enorme zampa fendere l’aria dove fino a poco tempo prima c’era la sua testa. Rotolò di lato e si rialzò senza interrompere il ritmo della corsa. Sentì l’ululato rabbioso del Lupo rimbombarle nelle ossa mentre l’enorme animale sbandava sulla neve bagnata.
Cenere poteva vedere le porte del villaggio davanti a sé, spalancate come aveva chiesto a Bandicus. Le oltrepassò veloce come il lampo, picchiando il tacco degli stivali sulla strada al di fuori di Briar. Sapeva che se fosse scivolata sarebbe morta ma non poteva permettersi cautela.
Corse verso gli alberi, sapendo che difficilmente avrebbe potuto ingannare il Lycan, non con il suo fiuto. L’avrebbe sentita sempre e comunque. Cenere aumentò il passo, non sapendo nemmeno lei dove trovò le forze per quello scatto. Scivolò sotto un ramo spesso e basso, lasciandosi quasi cadere. Si ritirò su in un lampo, sapendo che il Mannaro non si sarebbe fermato.
Aveva passato la mattina nel bosco con pochi uomini, scavando e preparando trappole. Le aveva disseminate per il bosco, nella speranza di riuscire a guidarci il Lupo. Era lì che si stava dirigendo di corsa.
Quando finalmente vide il drappo rosso che avevano messo quel mattino pendere da un ramo non potè trattenere un gemito di sollievo. Sentiva l’odore del sorbo talmente forte che le girava quasi la testa e poteva percepire l’ansimare pesante della bestia. Saltò scavalcando la fossa di terra smossa appena in tempo.
Sentì lo scatto delle mandibole del Lupo smuovere l’aria a pochi centimetri da lei mentre si catapultava sul terreno sicuro. Atterrò dopo un salto di quattro metri rotolando scomposta, ciuffi di capelli neri davanti agli occhi. Si girò giusto per vedere il Lycan precipitare nella fossa profonda e sui pali acuminati che spuntavano dal fondo.
Il Licantropo lanciò un ululato lancinante, sofferente. Cenere si avvicinò piano al bordo, mentre il dimenarsi del Lupo faceva quasi tremare i tronchi degli alberi lì vicini. La bestia si contorceva, facendo sì che i pali di legno scuro gli si infilassero ancora più a fondo nella carne.
Nei suoi piani originali, Cenere avrebbe dovuto tirare fuori l’arco di legno scuro, incoccare una freccia e mirare alla testa del Lycan. Ma adesso, guardandolo, osservando il pelo macchiato di sangue e gli occhi infuocati rivolti verso i rami degli alberi e contratti in una smorfia quasi umana di sofferenza, non ne aveva più il coraggio.
Luke Anderson aveva ucciso sua moglie e suo figlio in una trasformazione, non si meritava di morire come un cane in una fossa. Era vittima di qualcun altro, qualcuno che doveva odiarlo talmente tanto da renderlo l’artefice della propria sventura. Se c’era qualcuno che meritava di morire, era il pastore. Cenere giurò su sé stessa che l’avrebbe fatto, che avrebbe scoperto chi fosse e l’avrebbe ucciso.
Prese una decisione. Avrebbe finto di uccidere il Lupo, quella notte. L’avrebbe seguito, assicurandosi che non tornasse al villaggio e avrebbe aspettato che si ritrasformasse. Poi avrebbe cercato di capire chi potesse essere il pastore e quando sarebbe successo… nessuno avrebbe potuto salvarlo.
Prese la Sfera dalla cintura e se la portò vicino alle labbra. Poi mormorò le parole dell’incantesimo e una luce azzurrina si liberò attorno a lei, rischiarando per un istante la notte. Immediatamente il suo odore svanì. Era una magia che le aveva insegnato uno stregone anni prima, in uno dei suoi vagabondaggi per Orane, il regno degli elfi. Le era stato utile in innumerevoli frangenti e quella volta non faceva attenzione.
Cenere sapeva come muoversi in silenzio e veloce, ma non poteva nascondere il suo odore non più di quanto poteva farsi sparire una mano. Con quell’incantesimo però, a meno che il Lupo non l’avesse vista o sentita, non avrebbe potuto trovarla. La Cacciatrice si allontanò dalla fossa, lasciando il Lycan alla sua sofferenza. Si spostò verso un albero poco lontano, arrampicandosi su un ramo alto. Da quella posizione poteva vedere la fossa senza che il Mannaro la scorgesse.
Cenere si accoccolò meglio nella sua casacca invernale, sapendo che avrebbe dovuto combattere con il freddo in quella lunga notte. Sentiva il sudore che le si gelava addosso, generando brividi freddi e pelle d’oca. Emise un respiro tremante mentre si sfregava le mani. Sarebbe stata una lunga attesa fino al mattino.
Aspettò a lungo, per ore e ore, cambiando ogni tanto posizione ma senza allontanarsi mai dalla sua postazione. I ruggiti del Lupo si erano fatti sempre più flebili e ormai c’era solo un guaito costante a farle compagnia. Poi, improvvisamente, il silenzio tornò a stagliarsi sulla foresta.
Cenere si fece improvvisamente guardinga, sporgendo in avanti il collo per cercare di guardare meglio nella fossa. Che il Lupo fosse morto?
I suoi pensieri furono interrotti da un ringhio fragoroso e dal rumore del Mannaro che saltava sul bordo della fossa, aggrappandosi con gli enormi artigli delle zampe posteriori. Poi, in un attimo, il Lycan fu fuori.
Zoppicava vistosamente e strisce di sangue fresco gli colavano sulla pelliccia, sporcando di rosso la neve. Si allontanò dalla fossa camminando piano, la coda bassa. Cenere provò pietà per lui, per l’uomo che c’era sotto il mantello da Lupo e che era costretto a vivere tutto quello suo malgrado.
Prima che il Lycan si allontanasse troppo nella foresta la Cacciatrice scese dall’albero, atterrando elegantemente sul suolo ghiacciato. Si sentiva le ginocchia bloccate dal freddo e i piedi intirizziti, ma non poteva permettersi di fermarsi. Iniziò a camminare piano, osservando con attenzione il terreno sotto di lei. Quando prese un po’ più di fiducia si mise a correre piano, tenendo d’occhio la grossa sagoma del Lupo davanti a lei. Si nascondeva dietro i tronchi degli alberi, attenta a non fare il minimo rumore.
Alzò gli occhi per osservare la luna. Stava calando lentamente e in poco tempo la notte sarebbe finalmente finita. Cenere si lasciò scappare un sorriso ma si corrucciò quando notò una sottile differenza nell’aria. Poi si rese conto di quello che stava sentendo: il suo odore, fino a quel momento scomparso e di cui non era mai stata così consapevole, era tornato a presentarsi alle sue narici.
Merda.
La Cacciatrice si bloccò istintivamente mentre il Lycan si girava come un lampo, fissando gli occhi su di lei e iniziando a ringhiare. Poi scattò.
Cenere sguainò la spada e si preparò all’impatto. Sentì il tempo rallentare e fermarsi mentre il Lupo Mannaro le correva incontro con le fauci spalancate e gli occhi infuocati. Il suo respiro divenne calmo, la presa sulla sua arma meno tesa e più disinvolta. Divenne consapevole di ogni cosa accanto a lei: degli alberi alti, della neve friabile, della notte scura e delle stelle brillanti sopra la sua testa.
Chiuse gli occhi e si lasciò andare, diventando un essere di puro istinto. Si chinò abbassandosi a terra lasciando che il Lupo le balzasse sopra, superandola. Si girò veloce e colpì, facendo saettare la spada. Registrò l’ululato di dolore e si lanciò più avanti, schivando una zampata feroce e letale. Estrasse il pugnale dalla cintura e con un momento fluido lo piantò nel fianco del mostro, indietreggiando subito dopo ed evitando i suoi denti per un soffio.
Il Lycan si fermò per un attimo, prendendo a girarle attorno. Cenere lo seguiva con lo sguardo e con il corpo, gli occhi asimmetrici fissi in quelli di bragia della belva. Poi il Mannaro le saltò addosso e lei fu costretta a parare, ma fu di un secondo troppo lenta: il Lupo le cadde addosso, schiacciandola al suolo, le fauci chiuse attorno al braccio che aveva alzato per proteggere il viso e il collo dall’attacco. Cenere perse tutto il fiato di colpo mentre sentiva i denti dell’animale chiudersi attorno al metallo incantato del bracciale che le proteggeva il braccio.
La spada era incastrata da qualche parte tra i due corpi e Cenere la lasciò andare, proprio nell’istante in cui il Mannaro alzava il muso e si preparava ad azzannarle il viso, tenendola schiacciata al suolo con il suo peso. Prese alla cieca uno dei pugnali che portava alla cintura e, prima che il Lycan potesse ucciderla, glielo infilò nel petto.
Il Mannaro si allontanò con un guaito di dolore, dimenandosi per togliere la lama che era rimasta incastrata nella sua carne. Cenere si alzò faticosamente in piedi, recuperando la spada e ingollando grosse sorsate d’aria. L’avambraccio sinistro le bruciava follemente. I denti del Licantropo avevano superato il metallo incantato entrando nella sua carne e ora sentiva il sangue caldo colare giù lungo il braccio fino alla mano.
Alzò lo sguardo appena in tempo per vedere il suo pugnale che veniva lanciato in aria dal Lycan, un secondo prima che questo si abbattesse di nuovo su di lei. Questa volta era pronta, nonostante la testa le girasse: si abbassò schivando la zampata, tracciando una linea purpurea sull’addome della bestia. Il mostro ululò di dolore, un grido quasi umano nella sua sofferenza e piombò a terra vicino a lei. Il Lupo fece scattare le mascelle cercando di azzannarla e Cenere indietreggiò rapida, sentendo lo schiocco delle mascelle.
Il Mannaro ansimava, ricoperto di sangue. Il suo torace si alzava e si abbassava frenetico quasi quanto quello di Cenere. Le orecchie erano abbassate sul cranio, i denti scoperti in un ringhio spaventoso. Teneva una zampa sollevata, vicina al corpo.
– Luke, so che sei lì dentro – la Cacciatrice sapeva che era inutile, ma ci provò comunque. – Tu non sei così. Tu non sei questo. –
Il Lupo ringhiò, facendo scattare le mascelle.
– Luke, ascoltami – mormorò ancora Cenere. – Non sei obbligato. Resisti. –
Il Mannaro tirò su la testa, piano. Le labbra scesero a coprire i denti, le orecchie si alzarono. Si fermò, guardando Cenere.
La Cacciatrice non credeva a quello che vedeva. – Sì, così. Resisti. –
Il Lupo appoggiò piano la zampa ferita per terra, inclinando il capo. C’era una profonda intelligenza nei suoi occhi e per un istante a Cenere parve di vedere quelli scuri e affranti di Luke Anderson.
La Cacciatrice abbassò la spada.
Il Mannaro scattò ringhiando, 300 chili che coprirono in meno di un secondo la distanza che li separavano da Cenere.
La Cacciatrice però sapeva già cosa sarebbe successo. Aspettò fino all’ultimo istante, fino a quando non potè distinguere le pupille nere negli occhi della bestia. Poi, leggera come un alito di vento, si spostò verso la zampa ferita e vide lo spazio del torace dove c’era il cuore del mostro. Era una questione di secondi. Alzò la spada, pronta a lacerare carne e ossa e muscoli, e… esitò.
Rimase ferma, un secondo di troppo, bloccata dal pensiero dell’uomo sotto a quel mostro. Al Licantropo quell’attimo bastò. Le morse il braccio della spada e con uno scatto della testa fece volare Cenere per tre metri, come se fosse una bambola di pezza. La Cacciatrice si schiantò contro un albero, rovinando al suolo come un mucchio di stracci.
Capì subito di avere il braccio slogato e almeno tre costole rotte. Cercò di rialzarsi ma l’impatto le aveva tolto il respiro e annebbiato la vista, mentre sentiva come un centinaio di campane suonare nella sua testa. Tossì sentendo male ovunque, mentre cercava di rialzarsi.
Il Lupo le si avvicinò con la calma tipica del predatore. Calò il muso su di lei, annusando profondamente. L’odore di sorbo fece girare la testa di Cenere, mentre pallini neri si dileguavano dal suo campo visivo. Cercò la spada e non la trovò.
Il Lupo alzò la testa e scoprì i denti, la lingua rossa che rotolava fuori dalle fauci.
Cenere prese la Sfera dalla cintura e sperò che dentro ci fosse ancora uno sprazzo di magia. La alzò alta sopra la testa, tenendola in alto con la mano sanguinante.
Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo: – ANCALIMA! –
Fuoco.
Una fiamma divampò dalla sua mano, facendo scogliere la neve attorno a lei. Alcune ciocche di pelo nerastro del Lupo presero fuoco e la bestia indietreggiò frenetica, rotolandosi nella neve.
L’ultima cosa che Cenere vide oltre la cortina rossa delle fiamme fu il Mannaro che scappava nella foresta.
Poi svenne.
 
 
▪▪▪
 
Quando Cenere si svegliò il sole stava sorgendo dietro la cima delle montagne. Appena si mosse sentì dolore ovunque. Sputò un grumo di sangue per terra mentre cercava di mettersi seduta, facendo un conto dei danni. Il braccio le pendeva inerte al fianco, la clavicola era rotta come probabilmente anche l’omero. Era un miracolo che il Lupo non glielo avesse strappato via. Aveva male a respirare e un rapido esame rivelò quattro coste fratturate e almeno una incrinata. Aveva innumerevoli tagli e lividi, più di quanti potesse contare.
Attorno a lei c’era una pozza di sangue ormai congelato, ancora rosso nella luce rosata dell’aurora. Cenere si alzò piano in piedi, appoggiandosi al tronco dietro di lei. Le girava la testa follemente e rischiò di cadere di nuovo. Trattenne un gemito di dolore mentre prendeva un respiro profondo, rilasciando poi tramando l’aria.
Quando riaprì gli occhi vide la sua spada che luccicava poco distante. Fece qualche passo di prova, rendendosi conto di essere fortunata ad avere ancora le gambe integre e soprattutto di essere ancora viva. Prese un sorso d’acqua dalla borraccia che aveva a tracolla, sputando poi acqua rosata per terra.
Se non fosse stata una Haris sarebbe morta. La sua razza aveva riflessi più vividi, muscoli più forti e ossa più resistenti di qualsiasi uomo. Anche così, contrastare il Lycan le era quasi costato la vita. Gli uomini che aveva ucciso non avevano avuto scampo.
La Cacciatrice si avvicinò alla sua spada e si chinò piano, prendendola nella mano ancora viscida di sangue tiepido. Poi, zoppicando lievemente, si incamminò verso il villaggio di Briar.
 
▪▪▪
 
Il villaggio era ancora addormentato e le case trasmettevano un senso di calma nella loro immobilità. I camini lasciavano uscire uno spesso fumo grigio verso il cielo terso. Le finestre erano buie, le porte sprangate.
L’unica cosa che rovinava quel quadro idilliaco era Cenere. Procedeva zoppicando piano, la spada che le penzolava al fianco. Il braccio le pendeva al fianco in una posa innaturale ma la Cacciatrice aveva un’aria determinata sul volto. Sul terreno spiccavano tracce di sangue, rosso brillante contro il bianco della neve.
Quando arrivò alla casa degli Anderson, non fu sorpresa di trovare la porta socchiusa. Il sangue conduceva fino al portico e macchiava il pomello, spiccando cremisi e visibile come un segno distintivo.
Cenere sguainò la spada, anche se pensava che non ne avrebbe avuto bisogno. Salì i tre gradini e aprì piano la porta, sentendola cigolare sui cardini.
– Luke? – chiamò titubante.
Solo il silenzio le rispose.
La Cacciatrice si sporse, guardando nella stanza. Rimase ferma per qualche istante, poi fece un lungo sospiro e mise via la spada. Chiuse gli occhi e, cercando di sopprimere quella sensazione di impotenza che le stava crescendo dentro, entrò nella casa.
Nel centro del salotto, appeso per il collo alle alte travi del soffitto, c’era Luke Anderson. Sotto di lui la sedia rovesciata che aveva usato per arrivare al cappio. Ai suoi piedi un giocattolo di bambino. La Cacciatrice non riuscì a guardarlo a lungo e spostò lo sguardo, cercando di sconfiggere l’angoscia che le cresceva dentro.
Aveva fallito. Avrebbe voluto salvare quell’uomo, sconfiggere la sua maledizione. Non era riuscito nemmeno in quello, nemmeno nell’unico obiettivo che si era prefissata. Aveva cercato di fare la cosa giusta e tutto era finito così. Un uomo buono, innocente, si era ucciso quel giorno. E un po’ era anche colpa sua, che non era stata in grado di evitare quella catastrofe.
Cenere capì che se fosse rimasta ferma a pensare non se ne sarebbe andata mai più. Perciò calò il corpo di Luke dalle travi, facendo attenzione a non farlo cadere, trattandolo con la cura che meritava. Tolse la corda e la buttò nel camino, desiderando che non fosse mai esistita. Poi mise Luke sulla poltrona, chiudendogli gli occhi. Sembrava che dormisse, sembrava finalmente sereno. Cenere gli mise il giocattolo del figlio in braccio, sicura che avrebbe voluto averlo vicino.
Stava per lasciare la casa quando notò un libro sul tavolo, con sopra un foglio scritto. Cenere si avvicinò e cominciò a leggere.
 
Finalmente ho capito, Cacciatrice. Ho capito che sono io il Lupo, che sono io che ho ucciso i miei compaesani, che ho ucciso la mia famiglia.
Non posso vivere con questa consapevolezza, non sapendo che sono stato il responsabile della morte di Mary e Jake. Avrei dovuto morire con loro e forse, in fondo, l’ho fatto.
Non ce l’ho con te. Tu hai fatto solo ciò che dovevi, ciò che era giusto fare.
Ho pensato a lungo in questi giorni su quale tipo di uomo fossi diventato e ora, finalmente, ho trovato la risposta. Sono un uomo che si prende le proprie responsabilità. È compito mio porre fine a tutto questo, non tuo. Ti ringrazio per avermi aperto gli occhi. Grazie per avermi dato la possibilità di morire da uomo perbene e non da mostro.
 
P.S. Ti lascio il mio diario, sarai in grado di capire quello che ormai ho capito anche io. Sappi che non ce l’ho con lei. Il male che le ho fatto mi è solo tornato indietro.
Addio, Cacciatrice.
 
Cenere finì la lettera e se la mise in tasca, pensando che non si meritava così tanta considerazione. Continuava a pensare che avrebbe potuto salvarlo, che non aveva fatto abbastanza. Affranta prese il diario e iniziò a leggere. Divenne presto ignara di tutto quello che le capitava attorno, incurante del vento che aveva iniziato a soffiare dalla porta e che le scompigliava i capelli.
Quando finì era furente. Uscì dalla casa degli Anderson senza guardarsi indietro, sbattendosi la porta alle spalle.
 
▪▪▪
 
Cenere camminò fino alla casa quanto più velocemente le permettevano le sue condizioni. Quando arrivò alla porta fece due respiri profondi per calmarsi e bussò lievemente. In qualche modo sapeva di essere attesa.
– Symblantë, ti aspettavo – May sembrava non aver riposato nemmeno per un secondo. Occhiaie profonde marchiavano il suo bel viso. – Entra. –
Cenere fece due passi avanti e si ritrovò nella piccola bottega dell’erborista. In ogni angolo e su ogni ripiano c’erano piccoli vasi di terracotta, etichettati e ordinati a seconda di quello che contenevano. Sul focolare rimestava un piccolo paiolo e sul tavolo da lavoro si vedevano una quantità di mortai e pestelli diversi.
– È morto vero? – domandò l’erborista sedendosi. I capelli rossi le cadevano mossi sulle spalle.
Cenere annuì. – Sembra che alla fine tu sia riuscita nel suo intento. –
May scosse la testa. – Non era quello il mio intento, no. Io volevo farlo soffrire il più a lungo possibile. –
– Perché? Perché hai fatto un orrore del genere? –
– Mi ha lasciata – le parole sembravano veleno in bocca all’erborista, il bel viso deformato dall’odio. – Mi ha lasciata per una donna, quella Mary, e mi ha abbandonata da sola. Poi ho scoperto di essere incinta. Come potrai ben vedere, non ci sono bambini qui intorno. Me ne sono liberata e non sto nemmeno a spiegarti quanto ho sofferto. Non potrò più avere altri figli – May si interruppe, scuotendo la testa. – Invece a lui è nato un figlio e ogni volta che lo vedevo camminare con la sua mogliettina felice e Jake in braccio io… io avrei voluto distruggerlo. Distruggere ogni cosa a cui tenesse e a cui volesse bene. Volevo trasformare la sua gioia in polvere – l’erborista fece un sorriso felice, solare. – E so di esserci riuscita. –
Cenere rabbrividì all’odio di quella donna. Non aveva mai visto un sentimento così totalizzate, così assoluto nel suo desiderio di distruzione. Avrebbe potuto vedere il mondo bruciare e gioire per quello.
– Come hai fatto? –
Il sorriso di May si allargò. – Oh, è ciò di cui vado più orgogliosa – si alzò e andò dietro uno scaffale, comparendo poco dopo con in mano una Sfera come quella di Cenere ma di un color viola orrido, quasi malato. – Questo aggeggio gira nella mia famiglia da anni e nessuno è mai stato in grado di capire cosa fosse. L’ho capito solo un paio di anni fa, durante un viaggio nel regno degli elfi. Mi è tornata in mente quando un giorno, scartabellando tra una marea di fogli che giacevano in una cassapanca, ho trovato l’incantesimo per la trasformazione. L’ho dovuto ripetere decine e decine di volte prima di riuscire a farlo correttamente. Ma poi, finalmente, sono riuscita a farlo funzionare. –
Cenere si alzò, aveva sentito abbastanza. Il sorriso di May scomparve mentre guardava la Cacciatrice portare la mano sull’elsa della spada.
– Mi ucciderai? –
Cenere scosse la testa. – No, non sono come te. –
– Non mi aspettavo così tanta pietà da una Haris. –
La Cacciatrice fece finta di non aver sentito. – Non ti ucciderò perché sarai tu stessa a farlo. Sei un’erborista, sai come fare. È un’opportunità che al posto tuo non rifiuterei. –
May chinò la testa in un inchino sprezzante. – Sai, sapevo che non sarei sopravvissuta a tutto questo. Ma sono contenta: ho avuto quello che volevo. In fondo, ho smesso di vivere molti anni fa. –
Cenere si bloccò sulla porta. Ci sarebbe mai stata una fine a quella catena di odio e dolore?
– Hai un’ora. Io sarò qui fuori. –
 
▪▪▪
 
La Cacciatrice rimase seduta fuori dalla posta dell’erborista, la spada sguainata di traverso sulle ginocchia. Nonostante tutte le ossa rotte e il dolore che sentiva, non era quello a turbarla di più. Le parole di May e la lettera di Luke la avevano più sconvolta di quanto non volesse ammettere. Almeno quindici vite erano state spezzate dalle decisioni dell’erborista, in una spirale di dolore e sofferenza eterne.
Cosa scattava nella mente di una persona per farle prendere una decisione del genere? Come poteva un desiderio di vendetta farsi così totalizzante da distruggere ogni altra cosa?
In quel momento Cenere prese una decisione: non si sarebbe mai ridotta così. Qualsiasi cosa le fosse successa non si sarebbe mai fatta accecare dalla voglia di vendetta. Sarebbe stata migliore di chiunque avrebbe mai voluto farle del male. Alla fine era solo una questione di decidere chi volesse e chi non volesse diventare. E la scelta per lei era semplice.
La sua linea di pensieri si interruppe quando sentì un tonfo dentro alla casa. Si alzò piano, sibilando per il dolore, ed entrò nella stanza. Per terra c’era l’erborista, in mano una fiala di vetro, il corpo abbandonato. Sul viso ancora un’aria vittoriosa.
Cenere la lasciò così ed uscì, richiudendosi la porta alle spalle.
Camminò piano nel paese che si svegliava, uomini e donne uscivano dalle case facendole spazio mentre avanzava. Alcuni bisbigliavano dietro di lei, altri indicavano le sue ferite, il suo braccio mal ridotto. Non le era mai sembrato più difficile mettere un piede davanti all’altro.
Arn era davanti alla casa del podestà, marciava avanti e indietro davanti alla porta d’ingresso. Vicino a lei c’erano Bandicus, Blackfriar e Galata. La donna fu la prima a notarla, lanciando un grido di felicità che commosse Cenere nel profondo. Sarà stata la stanchezza ma sentì una lacrima colarle sulla guancia. Se la asciugò distrattamente mentre Arn le correva incontro, abbracciandola davanti a tutti.
– Dei, sei viva! Ce l’hai fatta! –
La stritolò talmente tanto che Cenere sentì le ossa scricchiolare.
– Ouch, Arn, ti prego, fai piano – mormorò, abbandonandosi nonostante tutto al calore dell’altro, la rabbia nei suoi confronti svanita. Era solo felice di vederlo vivo, di godersi quell’abbraccio, quella sensazione di essere a casa.
Arn si staccò. – Ma tu sei ferita! Vieni dentro, devi scaldarti e riposare. È tutto finito adesso, andrà tutto bene. –
Cenere annuì, il sollievo così forte da essere quasi tangibile.
– Sì, andrà tutto bene. –

 

NOTE DELL'AUTRICE!
E siamo giunti alla fine di questa storia. Devo ammettere che sono un po' triste: mi accompagna da agosto prima sotto forma di pensiero, poi come qualcosa di più tangibile.  Mi mancherà non doverci più dedicare il mio tempo. Credo che non abbandonerò Cenere e il suo mondo, magari la si rivedrà spuntare da qualche parte. Chi lo sa. 
Grazie a tutti quelli che sono arrivati fin qui, che hanno recensito, che mi hanno fatto sapere il loro parere, che hanno messo la storia tra le seguite o anche solo che l'hanno letta, mi avete reso una personcina felice ^^ 
Ultima cosa, il titolo della storia è tratto da una canzone di Florence and the Machine che mi ha fulminata un giorno in macchina, io la trovo bellissima (come tutto quello che cantano per altro), se vi va ascoltatela. Si intitola, guarda un po', What Kind of Man.
Non mi resta nient'altro da dire e concludo a malincuore e definitivamente questa storia.
Lunghi giorni e piacevoli notti,

Lya 

 

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