La triade

di ejirella
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Colin F. ***
Capitolo 3: *** Lauren C. ***
Capitolo 4: *** La Seduta ***
Capitolo 5: *** La Foto ***
Capitolo 6: *** L'armatura Emotiva ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***



Si pulì le mani sporche di terra. Più che pulirle non fece altro che spostare il terriccio sui pantaloni che tanto di pulito ormai avevano ben poco.
La posizione assunta fino a quel momento non era delle più comode, malgrado ciò non si era mosso di un millimetro per una buona mezz'ora.
Solo ora che si rialzava per avvicinare il lume si sentiva tutto rigido e contratto.

Si tirò su piano. Prima distese le gambe e poi sollevò il busto. Oramai aveva una certa età doveva ammetterlo. Il suo corpo non reagiva più come quando era giovane.
Anche la vista era calata. Le lenti degli occhiali avevano uno strato spesso di polvere. Cercò di levarlo con le dita, ma non fece altro che peggiorare la situazione.
“Non è più come vent'anni fa!” Disse con una voce roca che non gli apparteneva.
Il baluginare fioco di una pietra catturò la sua attenzione. Cercò di mettere a fuoco socchiudendo gli occhi.
Protese una mano callosa per spostare la terra. Più si avvicinava, più il suo battito cardiaco aumentava.
La luminescenza proveniva da un cristallo nero incastonato al centro della pietra stessa.
Pochi centimetri lo separavano dall'oggetto del desiderio: poteva distinguere i solchi che tanto aveva bramato di poter vedere dal vivo una volta nella vita.
Soffiò dolcemente per spostare gli ultimi pulviscoli di polvere, quasi avesse paura si potesse frantumare.
I suoi occhi stavano brillando, un tenue sorriso ricoprì il suo volto.
L'espressione racchiudeva gli scherni dei colleghi che lo ritenevano un pazzo per essersi buttato con impeto in quell'impresa ritenuta impossibile, le numerose volte che aveva visto la delusione dipinta sul viso del figlio.
Sommava gli sforzi fatti per essere arrivato lì, nonostante tutti e tutto. Ma sopratutto rappresentava la realizzazione di tutta la sua vita.

Pochi uomini possono affermare di aver raggiunto i propri scopi.
Theodore ora poteva dichiarare a gran voce di essere membro di quella ristretta cerchia.

Finalmente l’aveva trovata.
L’aveva studiata a lungo e non riusciva a capacitarsi che stesse accadendo sul serio.
Rovistò nelle tasche alla ricerca di una lente d’ingrandimento. Con quella riuscì a distinguere le venature arancio che aveva imparato a conoscere dai numerosi libri letti.
Fece un profondo respiro per gustarsi il momento.
Avvicinò lentamente la mano ancora una volta. Vide le dita attorcigliarsi bramose attorno alla pietra.
Una strana luce irrompette e Theodore ne fu completamente travolto.

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Capitolo 2
*** Colin F. ***


Il frantumarsi di un piatto rimbombò nella testa di Colin, aumentando la sua atroce emicrania.

Guardò alla sua destra cercando di mettere a fuoco le cifre luminose dell'orologio. L'ora segnata era decisamente troppo tarda. Si sarebbe dovuto alzare ore prima.

Malgrado ciò, tirò su le coperte fin sopra la testa perché la luce esterna lo infastidiva.

La sera prima era uscito con gli amici del club ed aveva bevuto parecchio. Quindi di mettere la sveglia proprio non se ne parlava.

Aveva appena ripreso sonno quando il telefono sul comodino vibrò molesto. Decise di ignorarlo, ma al primo ronzio ne seguirono altri. Seccato dal rumore lo afferrò e guardò lo schermo: tre chiamate perse da Denise e un messaggio da Matt.

Sbuffò annoiato.

Denise era una ragazza conosciuta qualche tempo prima ed era fin troppo entusiasta di uscire con lui. Lei non era il suo tipo, nessuna delle ragazze con cui usciva lo era d'altronde.

Chiuse nuovamente gli occhi nel tentativo di farsi passare il mal di testa, ma il fermento in casa non lo aiutava affatto.

Dalla porta rimasta socchiusa, si poteva udire il traffico di addetti al catering che andavano avanti ed indietro per addobbare e preparare la casa per il ricevimento che si sarebbe tenuto da lì a poco.

“Pulite subito il disastro nella sala da pranzo e quante volte lo devo ripetere? I centrotavola si chiamano così perché stanno al centro della tavola! Non sotto, non di lato. Ma al centro!”

A parlare, o meglio a rimproverare, era stata la madre di Colin o per chiamarla in un'altra maniera la signora Jacklyn Futol, la moglie del sindaco appena rieletto.

“Si signora, mi scusi” rispose la cameriera ripresa.

Colin intravide la madre dalla porta a vetri mentre alzava ed abbassava le spalle rassegnata.

Non era il primo ricevimento che organizzava e non sarebbe stato neanche l'ultimo, ma era senz'altro il più importante.

La signora Futol era a capo di alcune fondazioni ed enti di beneficenza ed organizzava eventi per la raccolta di fondi.

Una volta era per le popolazioni vittime di disastri naturali, altre per sostenere la ricerca contro malattie di difficile diagnosi.

La sentì comunicare allo staff “Tutto deve essere perfetto, è un evento molto importante”. Seguì un momento di silenzio. Tutti si dovevano essere fermati per ascoltarla.

“Bisogna sistemare gli ultimi dettagli, ma direi che ci siamo... Oh tesoro sei arrivato”.

La squadra riprese a lavorare contribuendo così ad alimentare il caos nella testa di Colin.

“Giusto in tempo” rispose una profonda voce maschile.

La porta della camera si aprì all'improvviso.

“Figliolo dovresti iniziare a prepararti”. Lo ammonì il padre.

Visto che non riceveva risposta, il signor Futol spalancò le finestre ed accese le luci senza troppi convenevoli.

“Hai fatto tardi ieri eh?” Aggiunse con tono di disapprovazione “Cosa te lo chiedo a fare”.

Colin tirò le coperte ancora più in alto.

“Alzati immediatamente. So che ti importa solo di te stesso, ma tua madre ha lavorato molto a questo evento. Il minimo che puoi fare è presenziare”.

Concluse fulminando con lo sguardo il figlio.

Controvoglia si alzò.

Tempo di una doccia per rendersi presentabile ed era già in giro per la casa a fare ciò gli riusciva meglio: provarci con ogni ragazza addetta al catering.

“Lo so è divertente” disse ad una cameriera che stava disponendo dei calici su un tavolo “Ma ti posso assicurare che non lo è stato affatto in quel momento”.

La ragazza lo guardava maliziosa e continuava a ridere alle sue battute.

“Ormai è fatta” pensò compiaciuto Colin.

“Carmen, se hai finito con quel tavolo aiuta a preparare l'esterno che sono indietro”. Ordinò il capo cameriere.

Carmen lo salutò con un sorriso e si allontanò.

Colin decise allora di andare in cucina in cerca di qualcosa da mangiare, ma nel tragitto fu intercettato dalla madre.

“Sono contenta che ci onori della tua presenza”. Lo squadrò da capo a piedi, come per verificare che il suo aspetto fosse all'altezza della serata.

Doveva aver superato il test perché non aggiunse altro.

“Non sia mai che mi perda l'evento dell'anno” rispose sarcastico.

“Non fare il simpatico. È la prima volta che Brownsville elegge lo stesso sindaco per il secondo mandato di seguito, dovresti essere contento ed orgoglioso di tuo padre”.

Rifletté su quella frase. Era vero. Nessuno prima d'ora era stato nominato sindaco per due volte. Era un traguardo importante non solo per il padre, ma per tutta la famiglia.

Però lui non si sentiva partecipe dell'entusiasmo generale.

Anzi se ne sentiva completamente estraneo. Persino i camerieri che allestivano l’evento sprizzavano più gioia di lui.

C'era stato un fermento per tutta la città sin dall'inizio della campagna elettorale.

Si potevano vedere gigantografie del padre e del suo avversario sulle locandine ad ogni angolo della strada.

_Garanzie per il futuro, garanzie con Futol_ oppure _Una base solida per tutta la comunità, ai seggi vota Futol!_ recitavano alcuni cartelloni.

“Sono gli elettori a decidere. Fino all'ultima scheda il risultato non è garantito”. Era solito dire il padre che aveva raccolto molti consensi sin dalla campagna precedente. Il suo avversario aveva ben poche speranze di vincere.

Qualche giorno prima, alla madre quasi non venne un infarto dalla gioia una volta fatto lo spoglio dei voti.

Colin, al contrario, se lo aspettava e venne ripreso per non condividere l'entusiasmo.

Essendo una donna scaramantica, la moglie del sindaco non aveva organizzato nulla. Subito dopo la proclamazione però riuscì a tirar su in poco tempo un ricevimento di tutto rispetto.

Il giallo ed il rosso delle primule dei centrotavola cappeggiavano su ciascun tavolo ricoperto da tovaglie della seta più fine. Un fiore di pesco era apposto accanto al nome di ciascun commensale, mentre il bianco delle calendule riempiva la sala rendendo il tutto più raffinato.

Il tripudio di colori all'interno dava continuità alla soleggiante giornata di fine estate che si stava concludendo.

Colin dovette ammettere che, nonostante non andasse d'accordo con la madre, il suo lavoro lo faceva molto bene.

I suoi pensieri furono interrotti dall'immagine fuggente di una ragazza dai capelli rosso fuoco.

Fu un attimo, ma tanto bastò.

Stava per seguirla nelle cucine quando sbatté addosso ad un cameriere facendogli rovesciare a terra tutte le posate.

“Mi scusi signor Futol, non l'ho proprio vista” disse quello mortificato.

“Stai più attento la prossima volta” replicò lui stizzito.

Non lo aiutò e proseguì per la sua strada.

Giunto in cucina, cercò lo sguardo della ragazza.

“Ha bisogno di qualcosa?” gli chiese un aiuto cuoco.

“No nulla” rispose distratto “Ho visto entrare una persona e la stavo cercando”

“Non ho visto nessuno, mi spiace”.

“Mi devo essere confuso allora” concluse Colin dando un'ultima occhiata.

Uscì da lì un po’ imbarazzato. Atteggiamento che non era proprio del suo carattere, soprattutto in casa sua.

Il banchetto durò un sacco di tempo o comunque molto di più rispetto a quello che Colin potesse sopportare.

Durante la cena si avvicendarono diversi discorsi fatti dagli amici e dai sostenitori del sindaco.

Tutte parole superficiali ed effimere.

Nessuno di loro credeva veramente in ciò che diceva, era solo il ruolo che avevano a farli parlare in quel modo o semplicemente il tornaconto che potevano trarne.

La madre per tutta la sera non aveva fatto altro che sorridere e mostrarsi impeccabile in ogni movenza. Rideva ad ogni battuta in maniera elegante perché le risate sguaiate non erano di classe. Si muoveva con grazia facendo gli onori di casa.

“Le calle simboleggiano l'inizio di una nuovo percorso, di una nuova vita” stava dicendo alla signora Dawson che si era soffermata ad ammirare le decorazioni floreali. “Un nuovo viaggio per Brownsville”.

I coniugi Dawson sembravano contenti di ascoltare di come la padrona di casa fosse riuscita ad organizzare tutto in appena ventiquattr’ore. Lei, dal canto suo, sembrava molto più felice di loro nel celebrare le sue gesta.

L'attenzione di Colin si spostò sul suo amico Matt, intervenuto per salvarlo da quel mortorio.

“Ehi amico non mi hai risposto!” disse Matt appena lo raggiunse indicando il cellulare.

“Si scusami, mi sono svegliato giusto in tempo per vestirmi” rispose Colin mostrando il suo abito da sartoria.

“Come sempre vestito di tutto punto”.

Matt al contrario portava un paio di jeans, una camicia bianca e uno giacca che dovevano aver preso all'ingresso perché stonava con tutto il resto.

“Dove l'hai rubata questa?” scherzò Colin.

“Non le decido io le regole. E' tua madre che ha stabilito il dresscode”

Jacklyn aveva stabilito ogni dettaglio non solo per la cena, ma anche per l'abbigliamento degli ospiti: le donne in abito da sera e gli uomini in giacca e cravatta.

“Amico hai scordato la cravatta!” lo rimbeccò scherzosamente Colin.

“E' già tanto che sono riuscito a, come posso dire, prendere in prestito la giacca. Il gorilla all'entrata non sembrava molto amichevole”.

“Allora meglio non fargli sapere che il signor” controllò la targhetta che pendeva dalla giacca “Camden non ha più la sua giacca”.

“Già meglio che non lo venga a sapere” rispose l'amico nascondendo il cartoncino.

“Allora come è andata la serata ieri con..” Matt cercò di ricordarsi il nome “..Deena, no Diana”

“Denise credo” lo corresse Colin. “È andata come al solito. L'ho portata a cena e ha parlato e parlato. Io voglio fare questo, voglio andare di qua e di là, mi sono comprata questo”.

Afferrò un calice da un vassoio e non mancò di fare l'occhiolino alla cameriera. Ne prese uno anche Matt.

“L'hai almeno ascoltata mentre parlava?”

“Non direi” rispose tranquillo addentando un salatino.

“E come fai a sapere ciò che ha detto?”

“Lo chiamerei intuito amico mio” rispose soddisfatto della risposta. “Di solito non parlano di questo le ragazze?”

Mentre parlava manteneva il contatto visivo con la ragazza di prima. Quella per poco non rovesciò dello champagne addosso alla signora Futol che fulminò con la sguardo prima lei, poi il figlio.

“Sai le ragazze non sono solo oggetti, sono essere umani con un cervello. E ti dirò di più. A volte lo usano molto meglio di noi”.

“Giusto dimenticavo che parlo con Matt, il giusto e coscienzioso” Colin alzò gli occhi al cielo. “Siamo proprio il diavolo e l'acqua santa”.

“Paragone bizzarro, ma in questo contesto mi sembra appropriato”. Rifletté Matt che con un'unica sorsata finì il vino.

“Ehi vacci piano” gli prese il calice e lo posò sul bancone. “Sono io il diavolo ricordi?”

“Non è stata una buona giornata” rispose Matt sconsolato.

“Problemi in paradiso?”

“Vedi non è un buon periodo per me e la mia ragazza La..”

Colin interruppe Matt.

“A proposito di ragazze! Non ti ho detto come è finita con D.. D..”

“Denise” concluse Matt al suo posto.

“Giusto proprio lei. Alla fine l'ho accompagnata a casa e poi mi son visto coi ragazzi e guarda qui” gli mostrò lo schermo del cellulare “Questa è Victoria, bella vero? L'ho conosciuta ieri sera”.

Non si smentiva mai. Matt non lo conosceva da molto, ma aveva capito che tipo di persona fosse, ma in qualche modo i loro caratteri opposti si compensavano. Matt era l'inibitore alla miccia di Colin Futol.

“E' il momento del discorso di tuo padre” disse sua madre comparendo alle loro spalle.

Il tintinnio di un bicchiere riportò l'attenzione sul tavolo d'onore.

La signora Jacklyn Futol distolse lo sguardo severo dal figlio e si rimise repentina la maschera della gentile ed impeccabile moglie del sindaco. Raggiunse il marito esibendosi in un sorriso a trentadue denti.

“E' un piacere trovarvi tutti qui riuniti”. Il sindaco sorrise indicando con un ampio gesto i commensali.

“Le parole non esprimono in maniera sufficiente la gratitudine che provo per la fedeltà dimostratami finora da tutti voi”. Un'infinità di applausi seguirono la frase. “Quale immensa gioia poter guidare questa città per la seconda volta”.

Il sindaco continuò con gli elogi: elogi scritti appositamente dal suo team, non parole sincere e sentite.

Colin smise di ascoltare il discorso distratto da una chioma rossa. Questa volta riuscì a vedere gli occhi. Lei si fermò per un istante sulla porta che dava verso l'esterno.

Si era dimenticato della ragazza, ma uno sguardo fu sufficiente a cancellare tutti gli altri pensieri.

Seguì la sua scia uscendo sul portico. Lei era appoggiata alla colonna del gazebo con le mani intrecciate dietro la schiena. Il volto verso il cielo. Tutto il corpo proteso verso l'alto, quasi come volesse spiccare il volo.

Colin si avvicinò piano. Non voleva spezzare quella specie di rituale privato.

Mentre la mente lavorava frenetica, non un singolo muscolo collaborava per pronunciare una frase di senso compiuto. Era bloccato.

“Ehi Lauren, vieni dentro che dobbiamo servire il dolce”.

Solo allora Colin si accorse che lei indossava la divisa dello staff del catering.

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Capitolo 3
*** Lauren C. ***


“Hai fatto colpo?” chiese più tardi Brenda, l'amica di Lauren.

“A che ti riferisci?” rispose lei tranquilla iniziando a togliere i piatti.

“A Colin Futol! A chi altri? Era lì fuori insieme a te prima”

“Ah davvero... Non me ne sono nemmeno accorta” replicò lei sovrappensiero.

“Sai che è un donnaiolo vero?” domandò Brenda seria.

“Perché me ne parli come se pensassi che ne sia lontanamente interessata?”.

“Così giusto per esserne sicura. La sua fama lo precede. Prima ci ha provato con Carmen” disse riferendosi alla ragazza poco distante.

“In cucina se ne stava vantando. Si può essere più superficiali?” alzò gli occhi al cielo “Ci è mancato poco che mi chiedesse il numero!” Le faceva il verso.

“Non ne parliamo Bren, siamo qui per lavorare. Non per entrare nelle grazie del signorino Futol” concluse la frase con un inchino regale.

“Oh mi scusi vossignoria, non era mia intenzione fare certe allusioni” rise l'amica.

“Non fare la stupida e aiutami a piegare le tovaglie” Lauren prese un'estremità e Brenda quella opposta. “Non ti ho ancora ringraziata per avermi fatta assumere stasera”.

“Figurati, non c'è problema. Sei stata brava” rispose Brenda.

“Ottimo lavoro Candence” confermò il capo cameriere passando di lì “Brenda poi sistemate insieme le tovaglie in quella sacca laggiù. Così verranno portate in lavanderia” Si girò ed aggiunse “Tieniti libera per il prossimo evento”. Detto ciò se ne andò per dare altre direttive.

“Direi che è andata molto più che bene. A me rivolge la parola solo per darmi ordini o riprendermi”. Rivelò Brenda imbronciata non appena Chris, il capo cameriere, fu lontano.

“Non te la prendere, dice così perché non mi conosce” sghignazzò.

Ci volle ancora un'ora prima che tutto lo staff fosse congedato.

“Sono proprio stanca, non vedo l'ora di farmi una doccia e buttarmi a letto”.

“Domani mattina solita corsetta Lo?”

“Sono di turno al bar Bren. Mi dispiace, ma non posso proprio”.

“Figurati capisco. Amica mia però tu lavori troppo, dovresti staccare un po’ la spina”.

“Non sai quanto mi piacerebbe farlo” rispose incupita “Ma non tutti se lo possono permettere” aggiunse guardando la residenza dei Futol alle sue spalle. “Grazie ancora per il lavoro”.

Si salutarono, Lauren prese la bici e pedalò fino a casa.

Il vento non le dava fastidio. Al contrario le faceva piacere dandole un senso di libertà che non provava da molto. La serata era piuttosto limpida. Solo qualche nuvola infastidiva la luna splendente.

A metà strada si fermò al vecchio pontile.

Aveva preso quell'abitudine da quando si erano trasferite. Ogni volta che tornava a casa faceva una piccola deviazione per andare là. Quel luogo era semi nascosto, ma di una bellezza unica a suo parere.

Da lì potevi ammirare la vegetazione selvaggia che si sposava con le acque impervie del fiume e in sottofondo, soprattutto in primavera, gli uccellini cantavano allegri.

Una sorta di contrasto tra la natura selvatica e fredda e quella mite e docile che ben rispecchiavano l'essenza di Lauren Candence.

La luna sembrava avere un'attrattiva su di lei dalla quale non si poteva sottrarre.

Chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Una volta aperti si sentiva più energica, rinvigorita da una nuova carica interiore.

Giunse a casa, molto più modesta rispetto a quella in cui aveva appena trascorso la serata.

Legò la bici al tronco di un albero e guardò il caseggiato che aveva di fronte.

Più di un caseggiato si trattava di un blocco unico di cemento del tutto uguale ai palazzi vicini. Il quartiere popolare distava un po’ dal centro cittadino ed il motivo era che creava un brutto impatto visivo: occupava la parte est della città ed insieme al fiume le faceva da cornice.

Non aveva sempre vissuto lì. Prima viveva in città, la sua casa aveva un giardino e la sua bici, una delle poche cose che le erano rimaste, veniva appoggiata alla staccionata in un punto preciso. Lì padre ogni anno le segnava l’altezza per vedere quanto fosse cresciuta.

Prima che si trasferissero era arrivata al limite dell’asse di legno. Forse era un segno, un segno del cambiamento che l'avrebbe investita come un treno da lì a poco, un monito sulla sua vita: non avrebbe più trascorso del tempo in quel giardino, in quella casa.

Fece un respiro ed affrontò le otto rampe di scale che la separavano dall'appartamento.

Entrata in casa evitò accuratamente di passare per il salotto dove il dramma di una soap opera stava catturando tutta l’attenzione della madre. Il volume era altissimo, ma lei sembrava non accorgersi di tutto quel chiasso. Sul tavolino vicino era posata una bottiglia di vino vuota e nella sua mano un calice colmo minacciava di cadere.

“Ciao Hiro” bisbigliò Lauren al gattino che le venne incontro. “Hai mangiato oggi?” Il gattino miagolò furente.

Consapevole della risposta, lo prese di peso e lo portò in cucina.

Lo spettacolo che le si presentò davanti era ben diverso rispetto a quello che aveva lasciato quando era uscita. Malgrado diverse ore prima avesse pulito tutto, il lavandino era pieno di piatti da lavare.

Con un sospiro si tirò su le maniche ed aprì il rubinetto.

Aveva appena iniziato quando il gatto le ricordò il motivo per cui erano lì facendo cadere un coperchio per terra.

Il baccano destò la madre che iniziò a gridare con voce impastata “Lauren sei tu?”

“Hai visto cosa hai combinato? Ora non mi lascerà più in pace”.

Con un altro sospiro andò in sala, non prima di aver dato da mangiare a Hiro che ora sembrava più contento di quando era arrivata.

“Dove sei stata? Prima ti ho chiamata ma non hai risposto”. Le chiese con gli occhi incollati allo schermo.

“Sono andata alla casa dei Futol per un lavoro, te l'ho detto prima di uscire, ricordi?”

Non ci fu risposta perché aveva ripreso a guardare la televisione.

Di recente le conversazioni si erano stringate sempre di più e Lauren si sentiva più sola che mai all'interno di quella casa.

Guardò ancora una volta negli occhi la donna che l'aveva cresciuta, non riconoscendola più. La morte prematura del marito l'aveva distrutta e lei non si era più ripresa. Fissava lo schermo con occhi vacui. Come se guardasse oltre, qualcosa che Lauren non poteva vedere.

Hiro intanto aveva preso a giocare con una pallina ai piedi della poltrona.

Sua madre neanche lo guardava, persa nei suoi pensieri. Pensieri preclusi a Lauren.

Il terapista le aveva consigliato di prendere un animale affinché le tenesse compagnia quando lei non era in casa.

All'inizio era stata contenta della novità, pensarono a lungo al nome da dargli.

“Potremmo chiamarlo Scheggia” propose contenta.

“Come mai Scheggia?” Le chiese Lauren.

“Mi sembra evidente! Non resta mai fermo” Rise la madre cercando di afferrarlo “Vedi, è proprio una scheggia”.

“Potremmo chiamarlo Hiro invece. In giapponese significa rosso. Me lo ha detto papà una volta che...” Subito si morse la lingua guardandola timorosa.

L'umore della madre mutò rapido.

Smise di cercare di prendere Hiro. Il suo sorriso si spense e gli occhi si incupirono.

Se la prese con sé stessa per non aver cercato di evitare l'argomento.

Adesso il gatto, che avrebbe dovuto sollevarla un po', avrebbe avuto un qualche collegamento col marito. Ogni cosa si riferisse a lui la faceva star male.

Lauren tornò al presente. Con Hiro era stata veramente convinta di poter avere indietro la madre spensierata con la quale era cresciuta.

Quanto si sbagliava! Da quell'uscita infelice la situazione era peggiorata fino allo stato attuale.

Tornò in cucina e si preparò qualcosa da mangiare. Il gatto la seguì: saltò prima sul tavolo e poi si acciambellò sulle sue gambe.

Dalla stanza vicino proveniva il rumore della televisione e nient'altro. Aveva più familiarità con la voce della protagonista della telenovela che non con quella della madre Cynthia.

Lauren mangiava in silenzio, curva sul tavolo. Sin da piccola le era stato insegnato a tenere la schiena dritta e la testa alta perché nessuno al mondo poteva atterrire i Candence.

Ma quali Candence!? Il padre era scomparso, la madre era presente ad intermittenza e la sorella le aveva voltato le spalle.

“Sei rimasto solo tu Hiro!” Il gatto rispose facendo le fusa.

In quella casa non riusciva a sentirsi a suo agio. La considerava una sistemazione provvisoria, temporanea ormai da diversi anni.

Si alzò cercando di scacciare i pensieri negativi. Si distese e si diede una scrollata come se, così facendo, potesse alleggerire il carico emotivo che le gravava sulla schiena.

Strinse i denti e si fece forza: buttò la bottiglia di vino vuota, ripulì la cucina, si fece un doccia e si gettò finalmente a letto.

Stanca per la giornata di lavoro, ma soprattutto stanca della sua vita.

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Capitolo 4
*** La Seduta ***


La mattina seguente si svegliò prima che l'allarme suonasse. La notte l'aveva passata insonne.

Il volume della TV era rimasto alto fino a tardi ed a nulla erano valsi i suoi tentativi per cercare di addormentarsi.

E quando finalmente riuscì a chiudere occhio si gettò in un incubo. Il sogno era talmente vivido e reale che si mosse di scatto nel suo letto facendo saltare via il gatto spaventato.

Si stropicciò e si stiracchiò. Rimase distesa per qualche minuto. Si prese il suo tempo.

Sotto le coperte il mondo era lontano, distante. Talmente distante che risultava piccolo, talmente piccolo che era irrilevante, irrilevante quanto insignificante.

Quella visione era molto negativa, lo riconosceva. Da quando era morto il padre non trovava nulla per cui valesse la pena essere felice.

Neanche il suo nuovo ragazzo era riuscito nell'impresa e lo teneva a distanza. Lei non era mai stata una persona espansiva nei sentimenti, il suo volto comunicava molto più di quanto non volesse rivelare. I suoi silenzi, soprattutto nelle relazioni di coppia, portavano a domande. Domande sulla sua persona alle quali lei non voleva rispondere.

O forse non sapeva cosa rispondere perché non aveva una conoscenza di sé così approfondita. Bisogna sperimentare tante e differenti emozioni nella vita per riuscire ad affermare con totale onestà di conoscere il proprio Io. Lauren, suo malgrado, era a buon punto con le sue esperienze di vita.

Al primo approccio era una persona estroversa, ma interiormente era fatta a strati. Il primo era quello che tutti conoscevano: simpatico, gioviale, amichevole. Per quanto riguarda il secondo la questione si faceva più difficile. L'accessibilità era limitata solo a Brenda. Il secondo strato significava essere in confidenza con qualcuno e con la sua amica d'infanzia era più che naturale. Simpaticamente la chiamava Cipolla: ad ogni strato ti addentravi sempre di più nel cuore, ma ciò ti costava lacrime. Paragone buffo ma azzeccato!

Le venne in mente poi una frase che la madre le ripeteva spesso fino a qualche tempo prima “Tu sei l'ombrello della famiglia”. Lì per lì non aveva capito cosa volesse dire, le fu poi chiaro quando il padre scomparve.

La famiglia stava andando in pezzi e lei si era inconsciamente assunta l'onere di tenerla unita e di proteggerla. Ma come era possibile che il membro più piccolo della famiglia Candence avesse questa importante responsabilità? Si sentiva spesso schiacciata da questo pensiero però tirava avanti, lo doveva fare. Non poteva permettersi altrimenti.

Un raggio di sole la costrinse ad aprire gli occhi, quel suo piccolo rituale mattutino per affrontare la giornata volgeva al termine.

Lasciò la casa molto presto. Non prima di aver da lasciato abbastanza cibo nella ciotola di Hiro e di aver controllato che sua madre fosse a letto.

Prese la sua inseparabile bici e si diresse verso il centro di Brownsville.

La brezza mattutina era più pungente rispetto a quella della sera prima, in più il sole faceva fatica a farsi strada fra le nuvole segno che l'estate stava lentamente abbandonando la città.

Quella mattina il senso di apprensione non la voleva abbandonare. Si sentiva uno strano peso addosso.

Decise di non dargli importanza.

Ultimamente si sentiva spesso così, ma quella mattina c'era qualcosa di diverso. Forse era associato al fatto che non aveva dormito molto.

A lavoro si sarebbe recata più tardi. Superò la piazza centrale della città diretta in una struttura poco distante. Una volta arrivata guardò l'edificio e fece un sospiro. Non sapeva nemmeno perché si ostinasse ad andarci, ma subito una vocina allora le ricordò “Non lo fai per te, ma per una persona molto cara”.

Aprì la porta ed entrò in una sala vuota. L'arredamento era semplice ed essenziale. C'erano un tavolo tondo con una brocca d'acqua e dei bicchieri impilati. Le luci al neon rendevano il tutto più asettico ed impersonale, come la sala d'attesa in un ospedale. Lauren si avvicinò alle finestre e tirò su le tapparelle: le nuvolette di polvere che si alzarono tutt'attorno rappresentavano un chiaro segnale sull'anno in cui avevano visto uno spolverino per l'ultima volta. Soffiò per allontanarle quando intercettò uno sguardo.

“Buongiorno Lauren, oggi sei arrivata presto!” disse il terapista divertito dalla scenetta “Hai voglia di aiutarmi a distribuire questi opuscoli?”. Le passò i foglio porgendole il più radioso dei sorrisi.

Si vedeva che era una persona di cuore, a cui importava veramente degli altri. Gli ricordava un po' suo padre. Mentre le passava i depliant ci fu un secondo in cui se lo immaginò davanti a lei, ma la sensazione purtroppo durò troppo poco.

Non sapendo come rifiutare, iniziò a lasciarne uno su ciascuna delle sedie disposte a cerchio. Non appena ebbe finito la porta si aprì nuovamente ed entrarono una dozzina tra ragazzi e ragazze.

“Bene direi che ci siamo tutti” annunciò il terapista dopo qualche minuto.

C'erano tutti e Lauren fu grata che mancasse una persona.

“Eccomi, scusate il ritardo!” disse l'ultimo membro del gruppo alle spalle di Lauren del quale, suo malgrado, riconobbe subito la voce.


 

“Allora a chi tocca?”

Tutti guardarono nella direzione di Colin che era impegnato a costruire un aeroplano di carta con l'opuscolo informativo. Aveva fatto giusto lo sforzo di leggerne il titolo: "Condividere, rendere gli altri partecipi dei propri sentimenti è il primo passo all'apertura verso mondo".

“Ah tocca a me?” Domandò più a se stesso che agli altri.

Gli venne in mente la risposta data dalla ragazza difronte a lui nel cerchio e ne dedusse la domanda.

Fabbricò una risposta al volo.

“Mi sento male quando vedo una persona davanti a me che è indecisa su che cosa fare della propria vita, che non sa dove sbattere la testa. Perché in realtà è proprio così che mi sento”. Accompagnò la frase con un gesto teatrale portandosi le mani sul viso e finse di essere commosso.

La risposta funzionò perché la ragazza che aveva puntato si portò le mani alla bocca completamente rapita dalle sue parole. Peccato che neanche la metà si avvicinasse seriamente a quello che provava.

Il terapista guardò Colin con un sorriso, soddisfatto della risposta. Ma soprattutto fiero del fatto che finalmente, dopo una presenza poco costante e per nulla produttiva, avesse condiviso qualcosa.

Almeno per un po’ Colin non si sarebbe dovuto sforzare di inventare delle risposte convincenti e commoventi.

Il terapista guardò l'orologio appeso al muro e chiuse il taccuino.

“Bene ragazzi, ci vediamo la settimana prossima. Stesso posto, stessa ora”.

Qualcuno rise alla sua battuta, ma non Colin. Non vedeva l'ora che tutta quell'enorme pagliacciata finisse.

A quelle sedute era costretto ad andare perché la sua famiglia non riusciva ad «inquadrarlo», come aveva sentito dire ai suoi genitori mentre non sapevano che stesse origliando.

All'uscita la ragazza rapita dalle sue parole strappa lacrime gli lasciò un biglietto e gli mimò il gesto di chiamarla. Lui le fece l'occhiolino in risposta.

“Funziona sempre?” Le parole le sfuggirono di bocca prima che il cervello imponesse il blocco.

Colin si girò in direzione della voce femminile, pensava di essere rimasto l'ultimo nella stanza.

“Intendo dire tu dici qualcosa di toccante così le ragazze ci cascano e rimedi numeri di telefono?”

Colin la squadrò per mezzo secondo, il suo viso le sembrava familiare. Aveva grossi occhi blu nei quali si perse per un momento, ma poi tutto il resto lo fece desistere dal suo intento iniziale. Portava un orrendo cappello di lana, un maglione dello stesso tiro e dei pantaloni troppo larghi per la sua corporatura.

“Con chi ho il piacere di parlare?”

“Non hai risposto alla mia domanda”. Continuò ferma lei, ignorando la strana sensazione provata alla base del collo.

“E tu non hai risposto alla mia”. La ragazza era un osso duro, si vedeva che non era come quelle con lui era solito uscire. Si arrese e decise di fare il suo gioco.

“Solitamente le adesioni sono del 100%, nessuna si lamenta”. Rispose con un sorriso beffardo infilandosi la giacca di pelle.

“Sono quasi commossa dalle tue parole, ma al tempo stesso mi dispiace che al genere femminile di cui faccio parte, basti così poco per cadere tra le braccia di qualcuno e più precisamente delle tue”. Le ultime parole le pronunciò con uno sdegno piuttosto marcato.

Colin incassò il colpo, ma non aveva intenzione di chiudere lì il discorso.

“A quanto pare non riesco a convincere tutte con le mie parole eh?”. Mentre parlava si avvicinava piano alla sua preda.

Lei non arretrò di un passo e lo guardò con aria di chi capisce qualcosa dopo tanto tempo.

“Allora non sei poi così stupido ed io che pensavo il contrario!”

Ma Colin non si diede per vinto, voleva vincere la partita. Trovava stimolante quel battibecco, molto più appagante delle conversazioni che era solito fare con le ragazze.

Lei intanto si chinò a prendere la borsa. Nel farlo, il cappello finì per terra e liberò una cascata di capelli rosso fuoco. Per la seconda volta in pochi minuti Colin rimase a bocca aperta, ma di nuovo non lo diede a vedere e continuò per la sua strada.

“Sono convinto che se mi lasciassi tentare potrei convincere anche te...”

Lei raccolse il berretto e gli si avvicinò all'orecchio. Da quella vicinanza inaspettata Colin apprezzò il profumo di fiori che emanava e le lentiggini che le costellavano il viso.

Quei pensieri lo turbarono, ma tornò presto in sé. Interpretò quello scatto verso di lui come una resa ed era convinto di averla in pugno.

“Ti consiglio una cosa mio caro, vedi di abbassare il tuo indice di vittorie conquistate con questo metodo e visto che ci sei abbassa di uno le iscritte al fan club di Colin Futol”.

Detto ciò uscì dalla stanza senza dargli la possibilità di controbattere.

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Capitolo 5
*** La Foto ***


Quello stesso pomeriggio Lauren lasciò la bici poco distante dal locale e si incamminò mostrando il suo tesserino all'ingresso della struttura.

A Lauren non piaceva molto quel posto, ma non si poteva permettere di scegliere: il lavoro era lavoro.

Andò nello spogliatoio e si mise la divisa. Passò le mani sulla maglietta stropicciata per distenderla alla meglio. Guardndosi allo specchio incrociò lo sguardo contrariato di Tania.

La provenienza da ambienti diversi giustificava la sua reticenza nello stringere amicizia con i colleghi. Loro infatti non lavoravano perché ne avevano serio bisogno, perché lo stipendio che guadagnavano serviva ad arrivare alla fine del mese. Lo facevano come passatempo, per riempire le loro giornate altrimenti vuote e prive di senso. Forse erano stati i genitori ad obbligarli a cercarsi un lavoro perché altrimenti avrebbero passato le loro giornate a bighellonare senza concludere niente di produttivo.

Si vergognò subito di ciò che aveva pensato. Riguardando la sua immagine riflessa fece una smorfia, quasi disgustata dal suo stesso pensiero.

Chi era lei per decretare che cosa fosse giusto o meno nella vita altrui? Chi le dava il diritto di sputare sentenze sugli altri? Chi si credeva di essere Lauren Candence per credere di poter fare tutto ciò senza un minimo di pudore?

Le risposte erano insite in lei: sin da piccola aveva avuto la predisposizione nel capire le persone.

Alcuni l'avrebbero potuta definire una sensazione a pelle, ma lei sapeva che era qualcosa di più, difficile da spiegare con semplici parole.

Avrebbe voluto sbagliarsi un'enormità di volte, ma purtroppo non aveva mai incontrato la persona che le facesse dubitare delle sue capacità di intuire i comportamenti della specie umana.

L'ultima era stata la madre e la prima la sorella.

Non le piaceva parlarne, nemmeno rifletterci su.

Sua sorella l'aveva tradita, aveva preferito abbandonarla quando il padre morì perché era troppo doloroso. Era andata via senza voltarsi. Lasciandola lì, sola.

“Ehi servi quel tavolo laggiù, ti sta facendo cenno da mezz'ora!” le riferì il direttore da dietro il bancone.

Lauren ritornò sul pianeta Terra e si diresse verso il tavolo. Mentre si avvicinava provò di nuovo quella strana sensazione appena sopra lo sterno.

Tirò fuori il palmare dalla tasca del grembiule.

“Scelto ragazzi?” con un sorriso che si sforzò di rendere smagliante.

“E' mezz'ora che abbiamo scelto!” rispose una ragazza spazientita “Ma probabilmente non ci hai visto perché eri nel mondo dei sogni” continuò ridendo e sventolandole una mano davanti.

Anche gli altri ragazzi cominciarono a ridere. Tutti tranne uno.

L'iniziale percezione si intensificò e coinvolse la schiena fino ad arrivare all'altezza dell'ultima vertebra.

“Sono impaziente di sapere cosa ha partorito la tua geniale mente allora”. Ribatté Lauren sul limite di spezzare il pennino che agitava nervosa sullo schermo: ne aveva abbastanza dei figli di papà che frequentavano il club.

Era una soddisfazione personale averle risposto così, ma non era della stessa idea il suo capo che passò proprio in quel momento.

Lauren si sentì mortificata, non tanto per ciò che aveva detto, ma per essere stata beccata in flagranza. Si affrettò a prendere le ordinazioni.

“Grazie mille” le disse qualcuno porgendole il menù. Lauren non guardò chi l'aveva ringraziata, non vedeva l'ora di allontanarsi da lì.

Era stata maleducata a quel tavolo, ma i ragazzi come loro le avevano sempre dato sui nervi.

Portando le ordinazioni, fece del suo meglio per non incrociare lo sguardo di nessuno. Non appena arrivò, la ragazza di prima smise di parlare, o più precisamente, di sparlare di lei e Lauren si sforzò di non crollare lì davanti per non darle soddisfazioni.

Quello non era il suo mondo, lo doveva aver capito ormai. Ma non c'era molto che potesse fare. O vinceva alla lotteria o andava a svaligiare una banca. Visto che la prima opzione era altamente improbabile e la seconda avrebbe macchiato la sua fedina penale, per il momento avrebbe continuato a lavorare nel club di tennis di Brownsville in attesa che qualcosa le cambiasse la vita.

Aveva appena cominciato il turno e già non vedeva l'ora che finisse. Cercò di continuare a lavorare senza lasciarsi sopraffare dalle emozioni che più di una volta l'avevano tradita.

“Metti tutto sul conto del signor Futol” sentì dire alla cassiera.

Lauren si girò di scatto per vedere i ragazzi che si stavano alzando da quel tavolo.

Oltre alla ragazza piena di sé e alla sua combriccola, c'era anche Colin Futol.

“Arrivo subito voi andate pure avanti. Vado un attimo in bagno” gli sentì dire.

Lo osservò mentre si allontanava e prendeva la direzione opposta rispetto a dove si trovava la toilette.

Presa dal panico, Lauren provò a nascondersi dietro alla panadora per non farsi scovare. Non sapeva neanche perché lo stesse facendo. Era come impazzita tutto d'un tratto.

Mentre la stessa ragazza che poche ore prima aveva tenuto testa a Colin Futol cercava di mimetizzarsi con la tappezzeria per non farsi vedere, un paio di gambe che non accennavano a muoversi si materializzarono difronte a lei.

“Ciao” disse Colin trattenendo una risata.

“Vuoi lamentarti col mio capo?” Chiese diretta ed aggressiva.

“Lamentarmi? E per cosa?” Domandò lui tranquillo.

“Per il mio comportamento irriguardoso e maleducato nei confronti della clientela del club” citò Lauren ricordando il regolamento interno.

“Hai ragione” concordò lui.

Lauren ebbe il profondo desiderio di scavarsi una buca in quel punto esatto e di buttarcisi dentro.

“Andrò a raccogliere la mia roba. Carino da parte tua avvisarmi. Costituisci il mio preavviso di licenziamento!”. Lauren appoggiò sul tavolo i menù e si incamminò sconsolata verso gli spogliatoi.

Tanto quel posto non le piaceva, i colleghi non le piacevano e i clienti ancor meno: tutti con la puzza sotto il naso. Il suo capo le era stato col fiato sul collo fin da primo giorno. Colin le stava facendo praticamente un favore.

Cercava di convincersi con scarsi risultati perché in realtà il lavoro le serviva. Come avrebbe altrimenti fatto ad evadere dal suo carcere personale?

Ormai tanto era fatta. In qualche modo sarebbe riuscita ad andare avanti.

“Ehi dove stai andando, non ho mica finito!” Colin la rincorse. “Volevo dire che hai ragione. Dovrei farlo, ma non sono d'accordo su una cosa”.

“E su cosa non concordi?” gli chiese Lauren.

“Non penso che la mente di Denise sia geniale e tanto meno che possa partorire qualcosa”. Replicò serio. Lauren non capiva se la stesse prendendo in giro quindi si limitò a guardarlo con un'espressione neutra inarcando leggermente il sopracciglio sinistro.

“Ti sto prendendo in giro, ho capito che te lo stavi domandando”.

“Hai visto i criceti che giravano nella ruota?”

“Ne ho visto solo uno piuttosto affaticato, gli altri devono essere morti”.

E quindi Colin Futol sapeva anche essere ironico.

“Non farò rapporto” aggiunse avvicinandosi malizioso.

Ah ecco ora riconosceva il donnaiolo di cui aveva sentito parlare. Si aspettava qualche tipo di favore in cambio del suo silenzio. Ma se lui pensava che Lauren fosse come Denise o come chiunque altra lui fosse solito frequentare si sbagliava di grosso.

“Non so a cosa tu sia abituato, ma con me è inutile proprio che ci provi. Perdi solo tempo”. Gli disse piano in modo che potesse sentire solo lui. Non le importava se questo poteva farle perdere il posto. Era molto orgogliosa, forse l'orgoglio era l'unica cosa dalla quale non si era mai separata. Aveva lasciato molte cose indietro, dimenticate nel tempo e nello spazio ma il suo orgoglio no, quello se lo era sempre portato dietro, spesso a discapito di altro.

“Non è mia intenzione stai tranquilla. Volevo solo raccogliere il menù che ti era caduto”. E salutandola con un sorriso se ne andò.


 

Almeno questa volta era riuscito a parlare e a rispondere a tono.

Colin pensò ai sui incontri con Lauren. La prima volta era come se avesse staccato il cervello, ma non riusciva a trovare il cavo di alimentazione per riavviare il sistema. La seconda non era stato in grado di rispondere a tono. Ora si sentiva come sempre, aveva gettato l'amo e non doveva far altro che attendere che la preda abboccasse.

Si domandò come mai seguisse le sedute al centro. Lui andava lì perché era stato costretto. Non aveva bisogno d'aiuto per affrontare i suoi problemi. Quali problemi poi? Quelli che i suoi genitori sostenevano che avesse.

L'allenamento a tennis che seguì fu estenuante, Colin non era nel pieno della sua forma. La sera prima aveva fatto nuovamente tardi. Ma questa volta le ragazze non c'entravano nulla e nemmeno gli amici.

Era rimasto sveglio fino a tardi perché era impegnato in una ricerca. Una delle sue grandi passioni, l'archeologia, non lo aveva fatto dormire.

Tirò su una mano per interrompere l'allenamento ed esibirsi in un enorme sbadiglio. Solo che il suo allenatore Matt non lo vide e il risultato fu un backspin che lo colpì diretto sul petto.

Colin rimase per alcuni istanti senza fiato. L'amico lo raggiunse.

“Avevo chiamato un break, non mi hai sentito?!” lo accusò Colin con il fiato corto.

“No desolato” rispose con un ghigno. “Ero concentrato sulla vittoria”.

“Se oggi ti è andata bene è perché te l'ho concesso. E ricorda che questa è solo una partita di allenamento, coach” disse rimarcando l'ultima parola per rimetterlo al suo posto.

Colin si sedette a terra e bevve un sorso d'acqua.

“Non ti preoccupare non dimentico la mia posizione”. Replicò un Matt contrariato.

“Ecco bravo, faresti bene a non farlo”.

Il carattere di Colin risultava controverso. Il giorno prima era il miglior amico di tutti, quello seguente ci teneva a far sapere chi era lui e che in base a ciò tutti dovevano stare attenti a come gli parlavano.

Si sdraiò sul campo e fissò il cielo azzurro attraverso la rete della racchetta. Inspirò a pieni polmoni l'aria satura di erba appena tagliata. Gli era sempre piaciuto quell'odore. Gli ricordava quando da piccolo giocava a tennis per il gusto di farlo, non perché qualcuno glielo imponeva.

Era forse quell'imposizione indiretta dei suoi genitori che avevano forgiato il suo carattere negli anni o era tutta farina del suo sacco?

In quel momento passò un aereo e immaginò che la sua scia tracciasse una parola... Stronzo.

“Colin sei proprio uno stronzo” si ritrovò a pensare.

Era consapevole del suo atteggiamento da figlio di papà, non era simpatico a nessuno, tanto meno a lui. Ma non riusciva a fare altrimenti.

“Non riesco o non voglio?” era la prima volta che se lo domandava.

In più chiederselo a voce alta rendeva il quesito più reale. Finché i pensieri rimangono nella testa possono svanire nella moltitudine vorticante del cervello. Possono svanire eclissati da altri più importanti, per poi magari ritornare in un altro momento con una carica diversa rispetto a quella che li ha generati. Passeggeri come la scia di un aereo in volo.

Esporli ad alta voce li rendeva invece più concreti.

Si comportava così perché lo voleva o si trattava di una maschera per proteggersi? E da cosa poi?

La risposta in cuor suo la conosceva e bruciava dentro. Lo logorava, ma non poteva sfogarsi con nessuno.

Si alzò di scatto. Non aveva voglia di farsi esami di coscienza, la sua vita andava bene così. Tutto era al posto giusto. Nulla doveva essere cambiato.

Questa frase non la esternò, perché forse in cuor suo voleva che si perdesse nella caos che governava la sua mente.

 

Il resto della giornata trascorse in fretta. Non ebbe modo di scusarsi con Matt perché era impegnato ad allenare i bambini. Avrebbe risolto un altro giorno il diverbio con l'amico.

Tornando a casa passò dal bar e per un attimo si fermò a guardare Lauren dal cortile esterno.

Nel momento stesso in cui realizzò ciò che stava facendo, si diede dello stupido.

“Io Colin Futol che spio una ragazza!” Si ritrovò a pensare “Ci deve essere uno strano virus nell'aria, è l'unica spiegazione plausibile” Concluse appagato.

A casa si fiondò in camera sua e vi trascorse un'ulteriore nottata insonne.

Si stava occupando di una ricerca sulle delle particolari pietre aventi delle proprietà uniche. Il progetto lo stavo assorbendo totalmente.

Dopo qualche ora, la porta di camera sua cigolò.

“Colin sono le sei del mattino, vuoi andare a dormire?”. La madre entrò nella stanza con aria ancora assonnata.

“Si può sapere a che cosa lavori di così importante?” disse tentando di sbirciare lo schermo.

“Niente che ti possa riguardare” rispose lui chiudendo il portatile bruscamente.

“Ora meglio che vada a dormire, lo hai detto anche tu. E' tardi o forse troppo presto, dipende dal punto di vista”. Accompagnò la madre alla porta.

“Quanta segretezza!” sbuffò lei sospinta dal figlio.

“Non ti è mai importato nulla delle mie ricerche, vuoi iniziare proprio ora?”

La madre lo guardò interrogativa e lanciò un ultimo sguardo alla stanza, ma preferì non approfondire e si diresse in cucina.

Si chiuse la porta alle spalle e si sedette sopra il letto. Da sotto il cuscino prese la foto che aveva nascosto qualche istante prima. Vi passò una mano sopra e la guardò per l'ennesima volta dubbioso e preoccupato.

Il bambino raffigurato aveva uno stato d'animo opposto a quello provato da lui in quel momento: gli sorrideva felice e spensierato. Si concentrò su quel volto come se la risposta alla domanda che si poneva ormai da settimane potesse cambiare all'improvviso.

Non era assolutamente possibile, non poteva essere. In cuor suo la risposta bussava forte la sua verità, una verità che a Colin era stata negata, ma con cui presto avrebbe avuto un incontro diretto.

Corrugò la fronte e rimise la foto nel suo nascondiglio. Anche per lui era arrivata l'ora di dormire.


 


 

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Capitolo 6
*** L'armatura Emotiva ***


Quella mattina Lauren si svegliò di buon'ora. Erano circa le sei.

L'ora giusta per sfogarsi in una bella corsetta. Non provò nemmeno a mandare un messaggio a Brenda affinché le facesse compagnia.

La sera prima l'amica era andata alla festa di Brownsville e di sicuro aveva fatto tardi.

Le aveva chiesto se voleva unirsi, ma lei aveva rifiutato. Ultimamente usciva solo per andare a lavoro. I suoi rapporti sociali si erano piuttosto ridotti. All'infuori dell'amica Brenda che tollerava questo suo comportamento chiuso, c'era il suo ragazzo. Se ancora poteva ancora definirlo tale.

Non lo sentiva da giorni e non lo vedeva da ancora più tempo.

Lo sapeva di essere in torto, era semplicemente sparita. Lui continuava a telefonarle e a scriverle, ma lei non rispondeva.

Voleva stare sola e non voleva dare spiegazioni.

Brenda oramai aveva imparato a conoscerla. D'altronde erano sempre state amiche sin da quando lei ne aveva memoria.

Viveva a qualche blocco di distanza da casa sua. Erano cresciute insieme sempre fianco a fianco sia nei momenti belli che in quelli brutti.

La morte del padre, l'abbandono della sorella.

Pensieri troppo dolorosi per le sei del mattino. Lauren, suo malgrado, aveva affinato una tecnica che le permetteva di chiudere in un cassetto ciò che riteneva troppo difficile da affrontare.

Buttava la chiave in un oceano di fantasia. Lo stava facendo anche in quel momento.

Chiudeva il cassetto, afferrava la chiave e la gettava lontano, molto lontano. Quella roteava per aria e si tuffava in acqua. Piano piano raggiungeva il fondo baluginando fioca. Più scendeva e più l'oscurità la inghiottiva e la luce la perdeva.

Poteva quasi udirla che tintinnava. Non a causa delle pietre sul fondo, ma per le altre numerose chiavi.

Lauren Candence possedeva molte chiavi, Lauren Candence possedeva molti cassetti.

La sua corsa prevedeva sempre il medesimo tragitto al termine della quale si ritrovava nel suo piccolo angolo di paradiso: il vecchio pontile.

Non ci aveva mai portato nessuno, era un posto intimo e personale. Lì poteva urlare, sfogarsi, piangere, ridere, essere semplicemente se stessa senza dover indossare la sua inseparabile armatura emotiva.

Su una delle travi di legno oramai marcio, erano state incise parecchi anni prima delle lettere con coltellino svizzero. Suo padre Paul un giorno l'aveva portata su quel pontile. Stava per ripartire per una delle sue missioni e sarebbe stato via per diversi mesi.

Lauren non voleva separarsene e quindi il padre voleva fare qualcosa che le ricordasse che, anche se erano lontani, lei era sempre nei suoi pensieri.

“Guarda che spettacolo!” Le aveva detto “La natura e le sue due facce che si sposano alla perfezione. La vegetazione verde e fiorente dopo un freddo inverno rinasce sopra il tumulto di acque impetuose ed impervie” Il fischiettare di uccellini in sottofondo quasi coprivano la sua voce.

“Vedi laggiù, quell'albero tutto curvo piccola?” Le chiese indicando un punto poco lontano.

La piccola Lauren si mise in punta di piedi per poter vedere meglio coprendosi il volto con la mano dai raggi solari.

Sorrise non appena vide l'albero. “Si si lo vedo!”

Il padre si accucciò vicino a lei “Ecco le radici di quell'albero sono fortissime, lo ancorano al terreno e non gli permettono di cadere in acqua. Il legame che mi unisce a te è forte come quelle radici. Nulla ci potrà mai separare”.

Poi prese il suo fedele coltellino e incise sull'asse di legno le loro iniziali PP e LL: Papà Paul (come era solito chiamarlo lei) e Little Lauren (come era solito chiamarla lui).

Il presente s'impose crudele. Il caldo di quella giornata primaverile mutò nel fresco autunno di quella mattina.

Si inginocchiò per ripassare la vecchia incisione invasa dal muschio col coltellino dal quale non si separava mai.

Non le era più necessario mettersi in punta di piedi per vedere quell'albero.

L'albero non c'era più. Suo padre non c'era più.

Il cielo era nuvoloso ed un acquazzone minacciava di allinearsi con il suo stato d'animo.

Si rimise il cappuccio del k-way prima che le lacrime del cielo si mescolassero alle sue e corse via senza voltarsi.

Tornata a casa si fece una doccia e subito dopo colazione. La madre russava nella sua stanza ed Hiro doveva essere andato a caccia perché in giro non si vedeva.

Si vestì e partì alla volta del bar. Non aveva più visto Colin Futol da quella mattina in cui aveva dato quella risposta infelice che quasi le aveva fatto rischiare il licenziamento.

Quando parcheggiò la bici, diede uno sguardo allo schermo del telefono. Un altro messaggio da parte del suo ragazzo. Non lo aprì neanche e lo infilò nella borsa con aria colpevole.

La giornata trascorse tranquilla. Soliti inconvenienti del lavoro, nulla di speciale.

Sulla strada di casa decise di aprire i messaggi che nel frattempo si erano moltiplicati.

Brenda le chiedeva come stava. Si scusava per non essersi fatta sentire, ma la sera prima si era parecchio divertita e non aveva più guardato l'ora. Lei rispose che lo aveva supposto mentre se la immaginava ballare al centro della piazza.

Poi c'era il suo presunto ragazzo che le chiedeva se le andava di conoscere un suo amico.

Poverino, si ritrovò a pensare, le stava tentando tutte pur di parlarle.

Lei gli doveva delle spiegazioni. Non tutti la potevano capire come Brenda e quindi doveva dargli la possibilità di confrontarsi.

Rispose al messaggio con un secco “Ok, per me va bene”. La sera dopo avrebbe scoperto se la sua storia sarebbe potuta andare avanti o se era il caso di chiudere per non soffrire troppo entrambi.

 

 

Colin la osservò per un po' e finalmente si decise a prendere il frammento di ossidiana nera tra le mani. Costituiva la metà di una pietra. All'esterno era completamente liscia e lucida. Lungo la linea di frattura invece era ruvida e presentava delle vivide venature color bianco antico. Passò la mano su entrambe le superfici e chiuse gli occhi per memorizzare la sensazione che gli dava al tatto.

Guardò l'orologio ed imprecò sottovoce. Si era fatto tardi, doveva uscire.

Chiuse il portatile frettolosamente e nascose la foto sotto il letto, nel caso la madre fosse venuta a ficcanasare in camera sua.

Era già fuori di casa quando si ricordò di aver lasciato la pietra sul tavolo, rientrò velocemente in camera e se la ficcò in tasca sentendo qualcuno che entrava in cucina.

“Colin rimani a cena?” Gli chiese il padre.

“No esco con degli amici. Non mi aspettare alzato!” Chiuse il portone ridendo della sua ultima frase. Al padre importava poco di lui tanto era concentrato sul suo lavoro e sulla sua posizione di sindaco. Colin fingeva che non gli interessasse, ma in cuor suo ne soffriva molto.

Quella sera doveva fare da terzo incomodo.

Il suo istruttore/amico lo aveva inchiodato in una specie di terapia di coppia. La sua ragazza nell'ultimo periodo era un po' distante e quindi lo aveva costretto ad uscire tutti insieme per vedere se riusciva a riavvicinarla.

“Ma perché diavolo ho accettato!” Si lamentò a voce alta mentre camminava lungo il marciapiede.

Colin non capiva come potesse essere d'aiuto considerato che in relazioni serie non aveva alcuna esperienza.

Decise comunque di aggregarsi per non abbandonare l'amico e soprattutto per farsi perdonare.

Si incontrarono al bar, il più frequentato della cittadina. Matt lo aveva scelto apposta, così per la sua ragazza sarebbe stato più difficile defilarsi.

Non appena Colin arrivò, Matt lo prese d'assalto in evidente stato d'agitazione.

“Amico le ho provate davvero tutte, tu sei la mia ultima speranza” cominciò a parlare senza freno. “Le ho scritto decine, che dico centinaia, di messaggi. Per non parlare delle chiamate! Ma lei nulla, nada, nisba”. Continuò sconsolato. “Allora ho cominciato a seguirla, non ne vado fiero”. Aggiunse vedendo la faccia contrariata di Colin “Pensavo ci fosse qualcun altro. Ma non mi è parso dai suoi spostamenti. E allora ho pensato, ma se non c'è nessun altro significa che semplicemente si è stufata di me?” Era un' amara conclusione che stava realizzando solo in quel momento.

“Sono io il problema vero? Lauren si è stufata di me è questa la cruda verità” Si accasciò sullo sgabello.

“Scusa hai detto La...”

“Lauren sei venuta!” Esclamò Matt entusiasta correndole incontro.

La abbracciò calorosamente. Lei non rispose al saluto con altrettanto trasporto tant'era impegnata a fissare Colin.

Lui mascherò la sorpresa bevendo un generoso sorso del suo drink che quasi gli andò di traverso.

“Bene passiamo alle presentazioni” riprese a dire Matt.

“Lauren questo è Colin, gli faccio da insegnante di tennis giù al club. Colin..”

“Futol” concluse lei.

“Beh amico allora è vero che sei conosciuto” sorrise Matt. “Lei invece è La..”

“Lauren” finì Colin.

Matt lo guardò stupito. “Che tu fossi famoso non mi stupisce, ma non pensavo lo fosse anche la mia ragazza” si domandò. Nel pronunciare l'ultima parola Matt guardò timoroso Lauren.

“Ci siamo conosciuti al club tesoro” tagliò corto lei.

“Ah giusto” rispose lui sollevato dall'essere stato chiamato tesoro.

“Bene direi di partire col secondo giro, o meglio il primo”. Si corresse Matt schiarendosi la voce. Si avvicinò al bancone per ordinare.

Colin lo guardava incuriosito. Il suo comportamento era piuttosto buffo: cercava di impressonarla in ogni modo possibile. Forse era vero che si riteneva l'unico responsabile per il loro distacco. Dai discorsi che gli aveva confidato non aveva mai ipotizzato la possibilità che la colpa potesse essere di lei. Era davvero così perfetta? Così irraggiungibile da giustificare il comportamento ridicolo di Matt?

Lui, al contrario, non si era mai posto il quesito. A dire il vero si sentiva un pò triste. Significava che non aveva mai provato un sentimento così grande. Ripensò alla scia dell'aereo.

“Quindi gli ho insegnato come fare un backspin decente” Matt stava raccontando uno dei suoi allenamenti ai bambini più piccoli. “Non credo che il piccolo Trevor se lo dimenticherà tanto facilmente. La palla ad effetto lo ha colpito in piena faccia”.

Lauren non era di molte parole, per le poche volte che l'aveva vista non riusciva a stabilire se fosse così di carattere o lo fosse soltanto quella sera.

“Sono un pò pieno” disse Matt toccandosi la pancia. “Farò un salto ai servizi igienici” Colin si mise a ridere consapevole che l'amico non era solito esprimersi in quella maniera.

Lauren guardava ovunque tranne che nella direzione di Colin, sembrava particolarmente interessata ad un porta-ombrelli al di là della sala.

Dopo qualche minuto, approfittando dell'assenza di Matt, fu proprio Colin a rompere il silenzio “E quindi sei tu la famosa Lauren, Matt mi ha fatto una testa così su di te”.

“Di te invece non mi ha parlato”. Tagliò corto lei riportando lo sguardo su di lui per un breve istante.

“Forse perché non vi siete parlati molto di recente”. Replicò diretto.

Lauren stava per ribattere quando sopraggiunse Matt, di ritorno dal bagno.

“Ora va decisamente meglio” guardò l'orologio. “Però ho paura che debba tornare a casa, domani la sveglia suona presto. Devo allenare i junior per il torneo. Ciascun genitore è convinto di aver un Nadal o una Willams in famiglia, quindi è meglio non contraddirli sulle reali possibilità dei figli” diede una gomitata d'intesa all'amico.

“Già è meglio che vada anche io”. Ragionò Colin.

“Ragazzi mi è proprio piaciuta questa serata. Dovremmo farlo più spesso”. Matt era decisamente più disteso.

Al contrario aleggiava una strana tensione tra Colin e Lauren che Matt non aveva colto tanto era contento di aver riallacciato i rapporti con la sua ragazza.

Colin si avvicinò impacciato per salutare Lauren, quando le guance si sfiorarono avverti un brivido che da quel punto si diramò in tutto il corpo. Fu singolare.

Lauren lo guardò intensamente portandosi le mani sul ciondolo che aveva al collo. Colin lo osservò per qualche istante, ma poi si separarono senza dirsi nulla.

Quando Lauren fu abbastanza lontana, Matt lo ringraziò “Ti sono debitore amico, chiedimi qualsiasi cosa sul serio. Qualsiasi. Non ti romperò più su di lei, almeno ci proverò”. Era davvero sincero. Lo si vedeva dagli occhi e dal sorriso che gli riempivano il viso.

“Matt stai di nuovo straparlando. Non ho fatto nulla veramente”. Replicò imbarazzato.

“Non dire stupidaggini, Stasera mi hai salvato!”.

Lui non sentiva di aver salvato nessuno. Anzi si sentiva colpevole per lo sguardo che si era scambiato con la ragazza del suo amico. Non che un semplice sguardo potesse significare qualcosa, in modo particolare per lui. Ma si sentiva ugualmente in torto, sporco.

Aveva un brutto carattere, lo riconosceva, ma la lealtà verso le poche persone che poteva considerare amiche era inattaccabile.

Si avviò verso casa, un po' di aria fresca lo avrebbe fatto ragionare.

Si mise le mani in tasca e tirò fuori la pietra. Si era dimenticato di averla portata con sé. La fece rimbalzare sulla mano perché emanava calore. Si avvicinò alla luce di un lampione per poterla vedere meglio e poté giurare che per un attimo fulmineo le venature da bianche diventarono di un arancione vivido. Sbatté gli occhi più volte per assicurarsi di aver visto bene.

Nulla era cambiato, le striature erano dello stesso colore. Forse si era trattato di uno strano gioco di luci. Scuotendo la testa la lanciò per aria e la riprese al volo.

Quello che non vide fu che il frammento di pietra, quando intercettò la luce lunare, ripropose quelle particolari iridescenze arancio.

“Devo proprio smetterla di bere!” sentenziò, mentre fischiettando, imboccava il vialetto.

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