Pretty When You Cry

di nuvolenere_dna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


pretty prologo Ciao amici :)
Visto che fa caldo, quale soggetto migliore del nostro amico Freezy per rinfrescarci in qualche momento di noia? A parte gli scherzi, sono felice di pubblicare finalmente questo prologo, è da maggio che ho iniziato a scrivere questa storia ma non sono mai soddisfatta (e temo che non lo sarò mai).
Vi comunico che si tratta di una mini-long praticamente già scritta, mi mancano ancora alcuni pezzetti qua e là e una generale revisione (ho preferito arrivare quasi alla conclusione prima di iniziare a pubblicare perché come alcuni di voi sapranno... non ho la costanza per le long *imbarazzo* e rimangono incompiute! *orrore*).
Si comporrà di questo prologo, due o tre capitoli centrali e un epilogo.
La storia si ispira alla canzone “Pistol Whipped” di Marylin Manson, che trovate qui.
Vi consiglio di ascoltarla per tre motivi:
1. per entrare nel mood;
2. perché da essa è tratto il titolo della storia;
3. perché tre battute di dialogo, evidenziate in corsivo, appartengono alla canzone stessa e sono canticchiate da un personaggio.
Dedico questa storia a Vegeta_Sutcliffe e alla sua fanfiction “Padre e figlio”, che adoro alla follia e ho letto talmente tante volte da iniziare a ricordare le parole a memoria! :)
A presto con il primo, succoso capitolo!
Intanto vi aspetto nelle recensioni per un parere a caldo!
Un abbraccio,
Nuvole
 
Pretty When You Cry
 
 
Prologo
[Freezer’s POV]
 
 
Schiudo le palpebre nude, incantato, come se non avessi mai visto nulla di più bello al mondo. Dovrei essermi abituato, ormai, i pavimenti che divorano le mie impronte sono tutti lastricati di sangue e di morte, ma ogni volta è come la prima, unica e speciale.
Sono deliziose le lacrime che colano da quegli occhi gonfi, venati di porpora, sul punto di scoppiare. Sono provocanti, licenziosi i lividi neri che circondano quelle iridi, talmente impaurite da non osare neppure sfiorare la mia figura.
È seducente il sangue che cola dal filo spinato che cuce insieme le loro labbra.
Questo è il mio momento di pace, non accetto che sia sporcato dai loro respiri fetidi, dal suono disarmonico dei singhiozzi e dei gemiti che cercano invadenti di risalire lungo le loro gole.
Rovinerebbero la melodia impeccabile della mia canzone preferita.
Tamburello le dita sul metallo laccato del mio trono volante, eccitato da una nuova esecuzione, mordendomi le labbra per il piacere di ascoltare il suono del tamburo della pistola che rotola, dei proiettili che si sfracellano al suolo.
Il ronzio del basso inizia a vibrarmi nello stomaco, il volume è talmente alto da far tremare i vetri della sala del trono, seguito dalla batteria, lenta e suadente, parallela ai battiti del mio cuore, così forti da farmi sussultare il petto.
La voce roca del cantante sospira ed esplode, infine, in tutta la sua intensità.
«Sei così carina quando piangi.»
 Sussurro, cantando a memoria, facendo scrocchiare il collo a destra e a sinistra.
«Non voglio colpirti, ma la sola cosa tra il nostro amore è un naso sanguinante, un labbro rotto e un occhio nero...»
Le prigioniere ballano, tremanti, i corpi avvinti in una coreografia che insegue sgraziata il ritmo della musica. Le guardo, divertito, lo sguardo ipnotizzato dal sangue che cola lungo i loro menti, giù per il collo, sui vestiti strappati e sporchi.
Mi chiedo quale cederà per prima.
Osservo divertito i loro sforzi, il modo ridicolo che hanno di continuare a muoversi, consumando quel poco che resta delle loro vene, nella sola vana, ridicola, speranza di salvarsi la vita. Si dimenano, strisciando gli arti rotti, spezzati dalla furia dei miei soldati, nella speranza che io mantenga le mie false promesse.
«Voglio il tuo dolore... e anche picchiarti»
La mia coda frusta il pavimento in un impeto di eccitazione, incidendo un solco nel marmo candido.
Cinque paia di occhi sfolgorano dall’orrore, cinque bocche si lacerano ancora di più, pressate dalle urla che cercano di liberarsi, ma i loro piedi perseverano, cauti nel toccare terra e nel rialzarsi, delicati come fiori che si girano piano verso il sole.
Mi rilasso nella poltrona, cercando di placare la tensione accumulata nelle spalle dopo l’ennesima missione diplomatica in un pianeta di luridi barbari, l’adrenalina che si dissipa nelle mie membra fredde.
Un nuovo brivido: una delle ballerine sta per crollare, noto la sua forza vitale esaurirsi, sfibrata dal fantasma subdolo della morte che la corteggia sempre più vicino, librandosi intorno alla sua figura stanca.
Lo spettacolo è durato poco.
Anche troppo poco, la delusione mi contorce il volto in una smorfia di disgusto.
 «Ho saputo che hai ucciso una delle mie puttane.»
Sibilo piano, appoggiando il mento al pugno contratto, un sospiro lieve che sfugge dalle labbra socchiuse, abbastanza forte da essere udito dalle sue orecchie fini, in grado di riconoscere la mia voce dolce in mezzo ad una tempesta. La mia coda si allunga cieca all’indietro, in cerca della sua caviglia.  
«Non immaginavo che attribuissi tanto valore alla vita delle prostitute, Lord Freezer.»
La voce di Vegeta sorge sarcastica da dietro le mie spalle, venata da una sfumatura di tensione che soltanto io posso cogliere.
Tu non hai segreti, non per me.
«Non ne ha alcuno, infatti.»
Allungo pigramente le dita, dalle cui punte sbocciano bagliori sinistri, proiettili immateriali che trafiggono all’istante il cuore delle ballerine, angeli le cui ali si sfracellano squarciate sul pavimento.
La musica continua a gridare, assordante, le mie labbra scure intrappolate in un requiem distorto, condannate a ripetere mute i versi della canzone. Sento il respiro di Vegeta accelerare per poi estinguersi nel silenzio, come se trattenesse il fiato.
 «Mi hai deluso, sai?» mormoro, atono «Speravo che, almeno tu, fra tutti, non ti abbassassi a certe porcherie.»
Appoggio il braccio alla testiera della poltrona, facendo ruotare il trono volante nella sua direzione, attirando le attenzioni dell’intera sala su di lui. Indugio nell’osservare il suo viso, una maschera elegante di ghiaccio che incatena il fuoco divampante nei suoi occhi neri.
«Non sai quanto sono grato di appartenere a una razza superiore.» sibilo, mentre con un gesto stizzito indico a un servo di spegnere l’altoparlante.
«Io sono fortunato, Vegeta. Non ho bisogno di aprire le gambe a nessuno per godere... sei già tu, la mia puttana.»
Sulle mie labbra carminie fiorisce un sorriso sadico che lascia scoperti i denti candidi, bianchissimi, su cui striscia repentina la lingua, le mie iridi come braci impazzite che ridono sguaiate, vermiglie come il sangue che pulsa impazzito sotto la sua pelle diafana.
Le risate perfide di Zarbon e Dodoria riempiono la stanza, seguite da quelle del Capitano Ginew. Si guardano, complici, gongolanti per la rivincita avuta sulla creatura inferiore che mi ripetono sempre non essere sufficientemente degna di sedere insieme a noi.
I pugni di Vegeta si stringono, rabbiosi, le unghie affondano con veemenza nel palmo fasciato di bianco, dilaniando il tessuto dei guanti, la mandibola si chiude in uno schiocco rabbioso come quella di un animale in gabbia.
La vedo, la sento, l’umiliazione che come un virus si moltiplica inesorabile dentro di lui, infettando ogni molecola del suo corpo. I suoi occhi non abbandonano i miei, lividi di un’ira talmente bruciante da assomigliare alla disperazione, la gola accoltellata da una litania di insulti e improperi che vorrebbe soltanto sbattermi in faccia. Il suo pugno serrato accenna un minimo movimento, subito intercettato dal mio palmo algido, che lo stringe gentile come una carezza materna.  
«Oh, Vegeta, ma quanto sei permaloso... Stavo solo scherzando!» sorrido, amabile, tradito dalle scintille di malizia che infuriano nei miei occhi.
Mi trattengo con tutte le mie forze per non ridere.
Lotti con tutte le tue forze per non gridare.
Lo so, mio dolce bambino... l’oscurità non ha mai fine.
 
 
 
Continua...
 

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


pretty primo capitolo
Ciao a tutti, amici! :)
Innanzitutto voglio ringraziare chi ha messo nelle preferite, nelle seguite e chi ha recensito il prologo, mi avete dato molto sostegno e incoraggiato a proseguire!
Purtroppo non sono molto soddisfatta di questo primo capitolo, non so, c’è qualcosa che non mi convince... spero comunque che sia di vostro gradimento e vi invito a lasciare il vostro parere nelle recensioni, ho sempre bisogno di un feedback!
Grazie di leggermi ancora!
Un bacio,
Nuvole
<3
 
Pretty When You Cry
 
Capitolo I
[Vegeta’s POV]

 
 
Avanzo su questa terra, rigido come un robot, rinchiuso fra le ossa e i muscoli, spasmodicamente tesi nel tentativo di trattenere la mia anima rabbiosa.
Ho il volto in fiamme, macchiato da un livore ardente che scaturisce dalla profondità delle mie viscere.
Un altro pianeta, l’ennesimo, ridotto in cenere con un gesto pigro del braccio.
Ho quattordici anni, da nove non faccio che distruggere, radere al suolo, annientare e conquistare.
Sottili eufemismi per celare l’unica cosa che racchiude il potere di darmi piacere: incutere terrore e infine uccidere, eccitato come una bestia, tossico del potere e dell’adrenalina che corrodono avidamente le mie vene.
Come un vampiro, rubo molecole di vita dalla morte degli altri, sublimandola, divorandola, estirpando da essa l’ossigeno che mi serve per respirare.
Sopporto le mie catene facendo a pezzi quelle degli altri. Mentre guardo le rovine, coperte dal fumo delle esplosioni gemmate dalle mie mani indifferenti, mi abbandono a una sensazione di piacere e frustrazione, morbosamente mescolati nella furia calda del sangue che pompa impazzito in tutto il mio corpo.
 
«Io sono fortunato, Vegeta. Non ho bisogno di aprire le gambe a nessuno per godere... sei già tu, la mia puttana.»
 
Nel ricordare quella frase la bile mi corrode l’esofago. Sento lo stomaco contrarsi in un crampo, le dita che si chiudono repentinamente nel pugno, talmente serrato da tremare.
La vergogna arde di nuovo sul mio volto, come se fossi ancora lì, immobile in quell’istante, paralizzato di fronte alla presenza ghignante di tutti.
Vorrei soltanto vedere i loro occhi spegnersi, ingozzarmi di quella luce, sfamandomi con l’ultimo delizioso barlume prima della morte. Il mio nome, il mio nome si moltiplicherebbe come un virus sulle loro bocche, fra i lamenti, incastonato fra le suppliche patetiche di guerrieri senza patria e senza onore, privi di spina dorsale, del tutto incapaci di scalfirmi.
Non sarebbero che lagne pietose di esseri miseri, inferiori, come lattanti dalla forza sovrumana, ancora imboccati dalle illusioni futili di una vita al soldo di Freezer, il cervello spappolato dalle sue false lusinghe.  
Non risparmierei nessuno, nessuno merita neppure un briciolo della mia pietà.
Il mio piede calpesta un tessuto scarlatto, probabilmente un brandello di una tenda, mischiato al pulviscolo e a un fiorire di cavi elettrici tranciati di netto, come vene riverse nella terra chiara. Stringo i denti, la mandibola che si contrae nervosa in uno schiocco.  
Anche tu... in fondo, non eri che un verme, un ectoplasma liquido la cui voce gridava inascoltata sott’acqua.
Sono stanco, sento le gambe indolenzite, ma la mia forza immensa, incommensurabile, si agita ancora indomita nelle mie membra troppo immature per contenerla senza scoppiare. Ho sterminato tutta la popolazione, infranto l’ennesima civiltà come un dio malevolo, stizzito per le imperfezioni delle creature inette, incapaci di imporre la propria volontà. Tuttavia, io non sono che un emissario spezzato, un’aberrazione, oggetto della distruzione altrui e soggetto di altra distruzione, troppo infatuato della morte per preoccuparmi di costruire qualunque cosa. I miei passi si ripetono in infinite eco, onde di suono che non incontrano nulla oltre alle macerie.
Mi domando se il mio pianeta, nell’attimo prima di frantumarsi al contatto con il meteorite, apparisse così, fragile e indifeso, intimidito di fronte all’ira di una divinità perversa, incurante delle vite strappate senza alcuna ragione. In questo mondo conta soltanto la forza e se non sei in grado di sopravvivere muori, sbranato vivo. E i Saiyan non sono stati abbastanza forti, non abbastanza intelligenti da sopravvivere in questo gioco diabolico.
Abbasso lo sguardo sui miei stivali chiari, insozzati dal sangue marcio, dalla terra ambigua, un tempo così solida, immutabile, deflagrata come polvere al vento per effetto di un mio desiderio.
«Vi ordino di rientrare immediatamente. Avete già sprecato fin troppo tempo.»
La voce tagliente di Freezer mi attraversa il timpano sinistro, provocandomi un brivido doloroso.
«Ai suoi ordini, Lord Freezer.» Nappa e Radish rispondono all’unisono, le parole metalliche, disturbate dai fruscii dei campi elettromagnetici di Hagalaz. Sono lontani, a qualche centinaia di chilometri da me. Ci siamo divisi non appena siamo atterrati su questo suolo inutile, per conquistarlo più in fretta. Rimango in silenzio, come stordito, barcollando per la stanchezza. Da quando ci siamo alzati dalle nostre brande abbiamo già conquistato tre pianeti, uno dopo l’altro, lasciandoci alle spalle nient’altro che devastazioni rosse.
Deglutisco, la bocca prosciugata in un deserto pungente. Mancano ancora due missioni per terminare la giornata e poter finalmente riposare, silenziosi in un anfratto della navicella di Freezer.
«Vegeta? Ti consiglio di rispondere se non vuoi vedertela con me!»
Un’altra coltellata nell’orecchio.
 
«Io sono fortunato, Vegeta. Non ho bisogno di aprire le gambe a nessuno per godere... sei già tu, la mia puttana.»
 
Un orgasmo di boria, malcelato nel sorriso sghembo che gli tagliava la bocca, il fulgore dei suoi occhi sarcastici, sorgenti di veleno vivo e bruciante il cui solo ricordo mi provoca l’impulso di vomitare.
Un colpo di stato, una ribellione silenziosa viene combattuta all’interno del mio corpo, la mano destra scatta in alto a disattivare lo scouter, gettandolo a terra a frantumarsi sotto l’impeto di uno stivale stizzito. Il suono del vetro frantumato, dell’elettricità che muore, dilaniata dai circuiti, mi suscita un assurdo piacere che mi infiamma la faccia e contorce i miei lineamenti in un ghigno.
«Bastardo!» sibilo fra i denti, nel vuoto del vento che sferza la mia figura, sollevando la sabbia nera sul mio volto. La sensazione piacevole svanisce in fretta, travolta dall’impeto delle viscere che si contraggono, un riflesso condizionato di quando il suo volto bianco si ricompone come un mosaico nella mia testa. Immagino le sue labbra violacee contrarsi dall’indignazione, tormentate dai denti, il pugno ferreo che affonda nel bracciolo della poltrona. Il mio volto si riassesta in un’espressione inquieta, attraversato dalla tensione che pulsa furente, entrando e uscendo dai miei confini.
Non ho dubbi sul fatto che pagherò ogni secondo di questa insubordinazione.
Sono solo su questa terra, l’unico essere vivente rimasto fra i cadaveri, ma uno strano senso di fibrillazione contraddice l’ultima rilevazione effettuata con lo scouter. Nel radar si rifletteva soltanto un silenzio di morte, non interrotto neppure dal ki insignificante degli abitanti di questo pianeta, conosciuti per i poteri psichici e la chiaroveggenza. Freezer odia le creature che indulgono nella contemplazione del futuro e si affretta a sterminarle, come se avesse in qualche modo paura di sapere della propria inevitabile fine.
Che senza dubbio arriverà, un giorno, per mano mia.
Cammino ancora, cauto, gli occhi prudenti nell’ispezionare il minimo particolare che possa indicare la presenza di qualcuno.
Mi fermo di fronte alle rovine del Palazzo Reale, ridotto a un cumulo di rocce esanimi, scardinate dalle fondamenta, un bolo informe di vetri e di travi, la cui colonna vertebrale è stata spezzata. Penso alla mia casa, un fantasma tremante nella mia memoria, il posto in cui la mia ingenuità di bambino ha strillato, circondandosi del lusso, dell’oro, della schiavitù, di vane illusioni e sogni ridicoli che si sono rivelati presto un macabro inganno.
Una sfumatura verde.
Come un’ombra scivola di fronte ai miei occhi per poi disciogliersi nel grigiore della pietra frantumata.
Il cuore mi si contrae nel petto, travolto da un brivido di eccitazione e di piacere. Sento la salivazione aumentare, la mente che lavora febbrile al pensiero di essere temuto, supplicato ancora una volta, quella volta in più che è sempre meglio della prima.
Sono solo, nel buio della trasgressione. Mi aggiro fra le macerie, le onde del vento che si increspano sollevando i detriti.
«Chi sei? Vieni fuori!» grido, baldanzoso, leccandomi le labbra.
«Principe Vegeta»
Una voce limpida, femminile, recide l’aria come una coltellata. Mi giro di scatto, ritrovandomi di fronte un’aliena dallo sguardo smarrito, come rapito in un’altra dimensione. Mi guarda, trapassandomi infinite volte, come se a ogni secondo che passa potesse strapparmi un velo, una delle strutture coriacee che mi proteggono.
Incalzo lentamente, intenzionato a godermi il più possibile la caccia. Voglio sentirmi di nuovo potente, insensibile, una fiera da supplicare, verso cui inchinarsi fino a spezzarsi i denti contro il pavimento.
Ho ancora due ore prima che Freezer invii qualcuno a cercarmi qui e voglio sfruttarle fino all’ultimo secondo.
«Ciao bellezza, ti è piaciuto lo spettacolo?» sogghigno, le labbra piegate in un sorriso malevolo.
Ma lei non indietreggia, continua a fissarmi, allucinata. La osservo con attenzione, il suo volto è più grazioso di quello delle altre donne incontrate su questo pianeta, la sua veste è illuminata da pietre preziose, incastonate sulle sue spalle e lungo i fianchi snelli, il seno procace avvolto da un’ombra di organza, impudica nel mostrare i suoi capezzoli scuri.
Una sensazione simile alla fame risale lungo la mia gola, il basso ventre pulsante, sempre più rigido. Deglutisco ripetutamente, cercando di reprimerla. Non sono ancora abituato a questo cambiamento, è da poco tempo che le mie membra ambiscono anche a un tipo diverso di piacere, un piacere umido e pulsante, talmente intenso da farmi perdere la testa. Lei mi guarda, dondolandosi sui piedi, il vento che gonfia e rilascia il suo vestito mostrando la curva dei suoi fianchi. Non riesco più a trattenermi e mi scaravento su di lei, brutale, sfracellando il suo corpo a terra sotto il mio. Sbrano con le dita la consistenza liscia della sua pelle, graffiandola, strappando i suoi vestiti per poi scendere ad abbassarmi i pantaloni con impazienza, l’eccitazione talmente dura da farmi male.
Alzo lo sguardo per riflettermi nel suo volto, nel suo terrore, ma dentro le sue pupille dorate non c’è nulla. La sua espressione assente si tramuta lentamente in un ghigno, gli occhi spalancati in un’espressione folle, straripante nella delicatezza del suo volto, dissonante rispetto al sorriso dolce che si apre sulla sua bocca.
La sua nuca si solleva da terra per avvicinarsi alla mia spalla e la sua voce non è altro che un sussurro, appena percepibile dai miei timpani.
«Lo sai, vero? Che... morirai per mano sua
Non fa nessun tentativo per allontanarsi, per ricoprire le nudità del suo corpo. Rimane semplicemente immobile, sotto di me, il volto adombrato da una gioia torva, minacciosa, che inspiegabilmente risale lungo la mia schiena in un brivido gelido.
«Come osi rivolgerti a me in questo modo?» ringhio, furente, stringendo i pugni intorno alle ossa fragili delle sue clavicole.
«Freezer ti ucciderà.» le sue iridi scintillano, ebbre di piacere, scomponendosi in una risata che rimbomba fra le macerie del suo popolo, i cui cadaveri tempestano il terreno, dissezionati dai miei colpi spietati.
Sento la mia anima vibrare, come se fosse stata scardinata dalle vene e dai ventricoli, lontana dalle ossa e dai muscoli, galleggiante nell’etere. Qualcosa cerca di sfiorarmi dentro, scivolando e schivando la coltre di spilli che mi circonda. All’improvviso non riesco più a respirare, annaspo alla ricerca di aria, tutto diviene lontano, le braccia incerte, le ginocchia vacillanti nei calcinacci, cerco di urlare ma dalla mia gola non esce alcun suono, impiccata da forze invisibili.
Uno spiraglio si apre e vengo colpito, invaso da un vuoto divorante, che mi risucchia.
Nei suoi occhi vedo la mia fine, la mia morte, il mio corpo profanato, spezzato, privo di vita, ormai impotente di fronte alla sua mano tesa, il volto adombrato da un’ira talmente profonda da illividirgli anche le labbra scarlatte, contratte in una smorfia.
La donna sbatte le palpebre, socchiudendo maliziosa le ciglia lunghe.
«Hai visto? Alla fine la ruota girerà anche per te, schifoso!» mi sputa in faccia, mentre mi irrigidisco sempre di più, impossibilitato ad alzarmi.
No! Non è altro che una sporca menzogna!
Contraggo la mascella mentre tremo per lo sforzo di vedere ancora, soffocando ansante a pochi centimetri dal suo viso, incurante dell’energia tagliente che mi sferza implacabile.
 «Non ti vendicherai mai, Saiyan!»
Ghigna, soddisfatta, mentre altre immagini si affollano nel buio delle sue pupille.
Il viso algido di Freezer non compare più, sbranato da brandelli di visioni confuse, un caleidoscopio danzante di volti e di cieli, uno stormo roboante di colori, di oro e di nero, del sangue vermiglio.
La terra inizia a tremare sotto i miei gomiti, disciogliendosi in un fragore che mi frantuma i timpani. Solo la sua risata si staglia, imponente, mentre le sue mani mi circondano il volto, ustionanti, caustiche come acido. Sento infiniti pugnali trapassarmi, coltelli che mi scuoiano vivo, il sangue scarlatto mi cola lungo il mento, sporcando la sua pelle nivea.
«Sei caduto in una trappola, stupida scimmia!»
All’improvviso realizzo che spegnere lo scouter è stato un grosso errore, un errore fatale.
Ma il mio sguardo non abbandona mai le sue pupille umide, grondanti di piacere.
Una bambina corre, un sorriso estasiato dipinto sul suo piccolo volto, incorniciato da riccioli azzurri che si agitano leggiadri nell’aria. Dice qualcosa, sorridendo, le labbra che si sporgono all’infuori, come in una pernacchia. Stringe fra le mani una scatola cilindrica di colore rosa. Corrugando le sopracciglia in un’espressione concentrata, le sue piccole guance soffiano con determinazione, gli occhi blu attraversati da uno spiffero luminoso. Soffia così forte da sgretolare le bolle ancor prima che nascano.
Assurdo, cosa me ne può importare di una mocciosa?
Qualcosa mi trapassa il costato, mozzandomi il fiato. Singhiozzo, cercando di carpire l’ossigeno che abbandona inorridito i miei polmoni, le membra lontane, come arti robotici i cui collegamenti sono stati tagliati.
Il caos si ferma, di nuovo, collassando su se stesso.
Altri occhi azzurri, dello stesso blu intenso, di un blu che non ho mai visto da nessuna parte in questa galassia, ma svuotati, mortificati da un pianto inarrestabile che trabocca copioso lungo gli zigomi pronunciati, appena sfiorati dai capelli lilla, lunghi fili che gli accarezzano il petto. La sua bocca si apre in un urlo, subito zittito da un calcio di uno stivale bianco simile al mio. Mi osservo afferrare il mento del ragazzo, stritolarlo fra le dita per poi lasciarlo andare, sfracellato in un bianco accecante, mentre le sue labbra ripetono insistenti la stessa parola, sempre più flebile, come una cantilena.
Dov’è Freezer?
Dov’è la mia vendetta?
Indietreggio, incespico pieno di terrore. Il terreno si sbriciola sotto i miei piedi, il cielo avvolto in un caleidoscopio di mura e di cieli intermittenti si ricompone nel soffitto candido di una stanza, illuminata da un elegante candelabro. Mi vedo sdraiato fra le lenzuola, addormentato, la spalla nuda che si alza e si abbassa, chiara nella penombra. La mia mano è intrecciata a quella di una donna stupenda, i capelli azzurri rovesciati sul cuscino, di un azzurro ancora più intenso dei precedenti, gli occhi vividi come oceani in tempesta, di un blu indescrivibile, lucido ma non di pianto, come se intrappolasse la luce al suo interno, prigioniera in un gioco di vetri scintillanti. La donna mi guarda e si avvicina con cautela, finendo per baciare il mio volto ripetute volte, sulle guance, sulla fronte e sul naso.
Giochi con le bolle di sapone?
Piagnistei?
Patetiche smancerie?
E infine, la morte per mano di Freezer?
Sono veramente caduto in una trappola, ingenuo fino al midollo, talmente ossessionato dalla vendetta da indugiare in questo assurdo specchietto per le allodole, una messinscena nutrita dalla mia stessa, svenevole curiosità. Non ho combattuto con tutte le mie forze, tradito dall’ardente desiderio di scorgere quell’immagine, di vederlo sconfitto, fatto a pezzi, sanguinante ai miei piedi, impotente di fronte alla mia forza indistruttibile.
Sono veramente patetico.
Tremo e vomito sangue, una colata di porpora risale dalla mia gola per infrangersi sul suo volto sempre più crepitante, incerto, come se l’energia dentro di esso stesse per esplodere.
Tutto si interrompe, in un breve istante in cui il tempo sembra fermarsi, come congelato.
La donna sorride amabilmente, i denti come zanne di una fiera che sta per attaccare.
«Divertiti, feccia!»
Tutto finisce, in un nulla oscuro che mi taglia le carni, spezzandomi le ossa.
 
Continua...
 

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


pretty capitolo 3
Ma buonaseeeera amici :)
Io, tanto per cambiare, non sono soddisfatta, ma ormai vi sarete abituati. Ci tengo a precisare che scrivere dal punto di vista di Freezer non è per nulla semplice, nel senso che quello che vorrei realizzare, con questa storia, è dare vita ad un’introspezione di Freezer che sia un po’ personale, approfondendo un po’ il personaggio nel tentativo di rimanere comunque IC. Mi intriga molto il suo rapporto con Vegeta e spero di riuscire a fornirne un’interpretazione interessante o comunque godibile. Eventuali contraddizioni logiche fanno parte del personaggio! Mi sono impegnata, fatemi sapere se vi piace!
Questo dovrebbe essere l’ultimo POV di Freezer, perché il prossimo sarà di Nappa e la chiusura+epilogo di Vegeta, se non cambio idea! :)
Ringrazio chi ha recensito il capitolo precedente e chi ha inserito nelle preferite/seguite! Troppo buoni *arrossisce*!
Un abbraccio caloroso,
Nu :*
 
Pretty When You Cry
 
Capitolo II
[Freezer’s POV]

 
 
Io sono l’Imperatore del Male, Freezer, un maestro del controllo, burattinaio del mio stesso viso, abile stratega nel trattenere severamente le redini degli arti, invulnerabile al sangue caldo che grida e spinge violento nelle vene. Non un movimento in più del necessario, non una smorfia impercettibile devono riflettersi nell’enorme specchio della sala del trono o nelle iridi bagnate di esseri inferiori che non hanno il potere di suscitare la benché minima sensazione dentro di me.
Non può esistere nulla al di fuori della macabra fermezza dei miei occhi, braci congelate dal tempo, granelli di aurora boreale che si staglia luminosa e cangiante nel rigore della tundra.
«Ancora nessuna notizia, Signore. Come dobbiamo procedere?»
La voce cauta di Zarbon sorge alle mie spalle, distorta da un tremito che tradisce la paura di una mia reazione.
Il mio servo mi conosce bene, molto più di quanto avrei dovuto permettergli.
Sospiro profondamente, il disgusto che si espande acido lungo la mia gola nel sentire il cuore accelerare, sgradevolmente pulsante al centro del mio petto, celato dai muscoli gelidi e coriacei.
Volteggio fra le dita il calice di vino che Zarbon mi ha appena versato, smarrendomi ipnotizzato nell’osservare il liquido, lucido e perfetto, di una sfumatura fra il rosso e il viola, danzare prigioniero delle pareti vitree del bicchiere, ogni volta respinto all’indietro.
Anche se lo volesse, nemmeno lui potrebbe fuggire.
Il suo unico destino è di divenire parte di me, carburante del mio stomaco e delle mie membra algide, oppure di decomporsi, inacidendo, divenendo liquame nelle fogne.
Nessun altro lo potrà mai bere. Nessuno potrà mai rubarlo. È mio, soltanto mio, il mio piccolo vezzo personale, la cui intera esistenza acquista un senso solo in funzione della mia.
Irrigidisco il polso, interrompendo la litania di movimenti meccanici.  
«Parti immediatamente per Hagalaz.» ordino, piatto, non spostando lo sguardo di un millimetro dall’enorme vetrata affacciata sullo spazio aperto.
«Come desidera, signore.»
Zarbon si inginocchia brevemente, la treccia scura che sfiora il pavimento candido, per poi dirigersi rapidamente verso l’uscita, preceduto dall’apertura dalle porte automatiche. Il suo sguardo, screziato d’ocra, ossequioso come sempre, non osa neppure cercare il mio.
Non è trascorso neppure un minuto quando noto una delle mie astronavi da ricognizione svettare fra gli astri a tutta velocità, tracciando una linea immaginaria nel cielo stellato che si estende incommensurabile di fronte a me.
Cerco di rilassarmi, abbandonando la schiena contro il trono.
Il bicchiere si frantuma fra le mie dita, cocci di cristallo accarezzano taglienti i miei polpastrelli, arroganti e impotenti. Il vino implode, sporcandomi, sfracellandosi a terra in uno stillicidio che muore nel silenzio.
Dove cazzo sei finito, Vegeta?
 
La porta automatica si spalanca di scatto rivelando Zarbon, trafelato, il volto grazioso increspato in una smorfia turbata. Fra le sue braccia giace il corpo svenuto di Vegeta, l’armatura incrinata, sporca di sangue e di terra. La coda fulva oscilla, non più trattenuta intorno alla vita, piegata dal contatto con il pavimento.
Un brivido mi accoltella la schiena, glaciale e rovente al tempo stesso.
«Esigo delle spiegazioni.» sibilo fra i denti, minaccioso, riducendo gli occhi a capocchie di spillo. Scendo dal trono, levitando a terra, i passi leggiadri nell’ancorarsi al marmo candido.
«Era coperto dalle macerie di un edificio. Non ho rilevato la presenza di nessun altro, probabilmente chi l’ha colpito è rimasto ucciso nell’esplosione oppure è riuscito a scappare.»
Zarbon tace, un sogghigno compare sinuoso fra le sue labbra armoniose, celandosi subito in un’ipocrita smorfia di preoccupazione. Le braccia muscolose si abbassano per scaraventarlo sul pavimento senza troppa delicatezza, come se fosse un cadavere.
«E dimmi Zarbon, quali sono le ragioni per cui un simile evento potrebbe essere accaduto?» incalzo, incrociando le braccia al petto, mentre un sorriso sarcastico mi piega rigido la bocca.
«Come sospettavamo, il suo scouter è stato distrutto. L’ho ritrovato a qualche centinaia di metri dalle rovine. Le analisi che abbiamo effettuato analizzando i dati non corrotti della memoria interna fanno pensare che sia stato disattivato manualmente.»
Manualmente.
Mi avvicino lentamente, lo sguardo rapito dai movimenti impercettibili del petto che si alza e abbassa, respiri radi, faticosi, che non riescono più a riempire i polmoni perforati. L’espressione del suo viso è assente, contratta dal dolore. Sento la sua forza spirituale lottare per non spegnersi, monitorata dallo scouter sul mio occhio che trilla impazzito nel decretare la decrescita costante del suo flebile ki.
Se lo era... tolto?
«Vegeta! Ti ordino di svegliarti immediatamente!» ringhio, colpendolo rabbiosamente con la coda sui fianchi e sulle gambe nel tentativo di farlo rinvenire. Rimane immobile, le palpebre chiuse come scrigni e le labbra appena inumidite dal soffio vitale.
No.
No.
Un senso di repulsione trapassa la mia gola come un bolo di spilli, facendomi deglutire ripetutamente, incredulo nell’osservare la sua debolezza, gli arti esanimi, la miseria che tradisce il suo corpo vuoto, come una conchiglia svuotata dal mare feroce e gettata come un rifiuto sulla battigia.
Percepisco l’ira consumarmi voracemente, divorarmi arida, fondere i circuiti freddi della mia razionalità fino a farmi impazzire. Mi mordo le labbra e stringo i pugni, notando Zarbon indietreggiare leggermente, come se presagisse la tempesta che inizia a scatenarsi dentro di me.
«Fammi capire, Vegeta, ti sei tolto lo scouter e poi sei caduto in una trappola mortale? Ti ha dato di volta il cervello?»
Senza neppure accorgermene la mia coda gli frusta la faccia, un ceffone talmente forte da farlo sussultare in un gemito, il volto contratto in una smorfia di dolore. La sua pelle diafana e pallida si apre sotto la scorza inflessibile della mia appendice, facendo sbocciare nuovi fiori di sangue, quasi fosforescenti fra i lividi scuri delle sue guance.
I suoi occhi sono polvere interstellare, vuoti e traslucidi, come finestre su un’altra dimensione. Si schiudono appena, voragini nere infiammate di porpora, tradite da uno spiraglio di luce che trema fra le ciglia, fra le palpebre incrostate di terra. Mi fissa, muto, mentre il suo corpo arde e trema dal freddo, probabilmente consumato dalla febbre.
Indugio nel guardarlo, taciturno, soppesando il suo volto con un’attenzione maniacale.
Sta cambiando, i lineamenti corrucciati e schivi del bambino che ho portato via con me stanno svanendo, lentamente sostituiti da quelli di un uomo duro, dagli zigomi pronunciati e dalle labbra sottili come un filo d’erba.
Così simili ai suoi... così dannatamente simili a quelli di quell’essere scialbo, amorfo, che odiavo con tutto me stesso.
«Forse pensava di fuggire... ma è stato sfortunato.» la risata di Dodoria giunge spietata dal fondo della sala, seguita dai suoi passi pesanti. Il volto di Zarbon è eclissato da un’ombra sinistra, che scuote i suoi orecchini e fa brillare di malizia le sue pupille dorate.
Le palpebre di Vegeta si richiudono, attratte dall’oblio, seguite dal respiro sempre più affannato, una melodia dissonante sepolta nelle profondità del torace. China il mento sulla spalla, abbandonato al nulla, come se Io non ci fossi.
Come... come osi ignorarmi?
Sotto lo sguardo incredulo dei servi, paralizzati di fronte all’espressione furente che ha lacerato i miei lineamenti fini, afferro Vegeta per il bavero della battle suit e lo sollevo, scaraventandolo brutalmente contro la parete, fino a portare il suo volto all’altezza del mio. Lo strattono con veemenza, macchiandomi la mano nivea con la porpora che io stesso ho versato. Tossisce, singhiozzando, la bocca piena di sangue che risale dalle interiora, commisto a succhi gastrici. I suoi occhi si aprono di nuovo, titubanti dietro le ciglia, lucidi per lo sforzo.
«Questo si chiama tradimento, Vegeta.»
È un soffio impalpabile quello che sfugge dai miei denti e gli sfiora il viso. Sento i lineamenti del volto talmente rigidi per la tensione da vibrare, spasmodicamente contratti nella versione macabra di un sorriso. Mi guarda, svuotato, come se il tempo si fosse fermato per sempre. Mi sento bruciare, ardere fin nelle viscere nel tentativo di controllarmi e non far esplodere tutto, questa astronave, questo stupido pianeta e questi sciocchi sudditi.
La sua forza vitale è scesa vertiginosamente e una risata isterica mi piega le labbra, rimbombando nell’enorme sala vuota. Chi lo avrebbe mai detto che saresti morto nel tentativo di tradirmi e non ucciso dalle mie mani? Non è che l’ennesima dimostrazione della fallibilità della sua razza, superba senza sostanza, arrogante senza potenza sufficiente per vincere, per vivere, neppure per pestare i piedi sul suolo al mio cospetto.
«E tu lo sai... quanto mi piacciono i traditori.» mormoro, gli occhi impregnati di sarcasmo, avvicinandomi così tanto a lui da sentire i brandelli del suo respiro solleticarmi il volto.
«N-No...» biascica, sibilante, abbandonandosi alla mia presa a peso morto, le gambe come propaggini inerti, ammassi di muscoli e di ossa privi di un briciolo di energia.
«No? Valgo così poco per te da non tentare neppure di tradirmi?» lo provoco, sussurrando piano nel lobo del suo orecchio, insoddisfatto dalla sua apatia.
Non mi piaci così, voglio vedere il fuoco ardere nei tuoi occhi, il mento alto, sospinto dalla boria, voglio sentire il tuo desiderio di uccidermi, voglio specchiarmi nella potenza del tuo odio, voglio sentire quanto sono importante per te.
Dillo.
Lo sai cosa voglio che tu dica.
E tutto sarà perdonato...
Nell’ascoltare i miei stessi pensieri un moto di orrore mi rivolta le viscere: ma cosa mi importa di questa scimmia inferiore? Cosa mi può importare delle fesserie che escono dalla bocca di un animale?
Niente, assolutamente niente.
Ma le sue pupille gridano, occhi del ciclone di disgusto e paura che tormenta la sua anima da quando mi ha conosciuto, rancore antico e sempre vivido, splendido al punto da emozionarmi.
Il mio sguardo suadente, un rubino che riluce incastonato nel ghiaccio, lo trapassa, seducendo il nero delle sue iridi, massacrandolo. Muore e risorge, umiliato, vedo il dolore atroce di quel corpo morente che lotta per sopravvivere, vedo il suo odio, puro e distillato, per me, solo per me, vedo tutta la sua ostilità, e un piacere folle mi colma dentro, facendo trepidare ogni molecola del mio corpo.
«Dillo» sillabano le mie labbra, in silenzio, sbranate dai suoi occhi inorriditi.
Tu riesci sempre a farmi eccitare.
I miei lineamenti aggraziati danzano, ossessionati nell’osservare le sue labbra comprimersi e tremare, come rocce sul punto di sgretolarsi, animali che si sbranano fra loro nel tentativo malcelato di rinchiudersi nel silenzio.
Uno spiraglio si apre nella sua bocca severa, una luce sinistra balena ambigua, linfa nera e densa gli cola lungo il mento. Mi sputa addosso un bolo di sangue e di saliva, il volto contorto nell’ombra di un sorriso, disfatto e acre. I denti si scoprono piano, gravi come terremoti che frantumano la terra nelle profondità, zanne levigate e mutilate dalla frustata che gli ha spezzato la mandibola.
Il nero dei suoi occhi riluce minaccioso, simile a quello di una bestia circondata dal fuoco che ringhia fiera mentre sente il calore della morte avvicinarsi inarrestabile.
È per questo che mi piaci così tanto.
Tu sei nato per me, solo per me, per odiarmi con tutte le tue forze.
Questa certezza fornisce carburante per una risata che risale spontanea lungo la mia gola, condensandosi in un sorriso dolce, mellifluo come filo spinato, che si tramuta repentinamente in un ghigno sghembo che mi taglia la faccia.
«Come hai osato, sporco Saiyan, mancare di rispetto a Lord Freezer?» ringhia Zarbon, il volto livido dall’indignazione, scagliandosi su di lui con i pugni serrati, interrotto da un mio lieve cenno del capo.
 «Ti rifiuti di piegarti? Bene, ragazzino, fai come desideri...» dichiaro, di nuovo inespressivo, allontanandomi bruscamente in direzione della vetrata, lasciandolo cadere, il corpo che si sfracella a terra scomposto.
«Oggi mi sento magnanimo, forse hai soltanto bisogno di ricordare quanto hai bisogno di me... il tuo padrone.» dico, gelido, mentre Zarbon abbassa lo sguardo, intimorito dall’aver incrociato il mio.
Torno a godermi, spietato, lo smarrimento delle sue membra ferite, sfibrate dalla perdita di sangue e dalla mancanza di ossigeno. Il suo corpo è imperfetto, rudimentale come potrebbe essere soltanto quello di un Saiyan, ma la sua anima è potente, vigorosa, un’onda che travolge i massi frantumandoli con la sua innocenza.
Continuo a osservare il suo viso, uguale a quello di quella creatura indegna, di quel verme che si faceva chiamare Re, ucciso da una briciola irrisoria del mio enorme potere. Non ha avuto neppure la dignità di combattermi, ricordo ancora i suoi occhi bianchi, ormai rivolti verso l’abisso, la sua collana che roteava sul pavimento, avvinta in un girotondo di morte.
Gli somiglia ogni giorno di più, la barba rada sta iniziando ad adombrargli le mascelle, la voce sempre più profonda, tagliente come una lama che sfreccia sul campo di battaglia, l’espressione del viso austera, impastata nell’acciaio.
No, no, lui non sarà come lui.
Lui sarà come me.
I suoi occhi furenti cercano i miei, sperduti, schegge di stelle infrante trascinate dal vento siderale. Gli sorrido, freddo e irraggiungibile, superando il suo volto per osservare al di là del vetro lo spazio immenso, incommensurabile, dove si estende e pulsa il mio impero.
«Dal momento che rifiuti la mia autorità... immagino che tu non possa abbassarti a utilizzare le mie sporche macchine di rianimazione.» lo derido, un ghigno che squarcia i denti affilati «Mi aspetto che tu sia di nuovo in forze per la missione su Dagaz... ti ricordo che la diserzione è punibile con la morte.»
Noto la corporatura imponente di Nappa insinuarsi dalla porta principale, gli occhi sbarrati dal terrore, ipnotizzati dalla carcassa inerte del suo compagno e gli faccio un cenno sprezzante, incrociando impassibile le braccia dietro la schiena.
«Portalo in una cella di massima sicurezza.»
Il Saiyan solleva fra le braccia il corpo di Vegeta, nuovamente svenuto, e si allontana senza dire una parola.
Riuscirò a educarti nel modo corretto, ne sono certo, non ti ribellerai mai più.
Tu non sei come lui... non sarai mai un verme, un rifiuto, uno scarto che non dovrebbe neppure alzare le ginocchia da terra al mio cospetto. E non morirai, insubordinato, come lui.
Perché sei, ancora, il mio bambino.
Mio.  
E lo sarai per sempre.
 
 
Continua...

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


pretty capitolo 3
Salve salvino (?) a tutti.
Siamo qui riuniti per celebrare un capitolo che mi ha fatto un po’ dannare... l’ho riscritto diverse volte e ho deciso di averci impiegato abbastanza tempo. La verità è che l’introspezione di Nappa mi è risultata più difficile di quella di Freezer, forse perché a forza di riflettere su Freezer avevo sviluppato una vera e propria visione personale del personaggio, invece il personaggio di Nappa è molto abbozzato nello Z e non mi era mai successo di scriverci sopra (o rifletterci, o leggerci qualche storia particolarmente brillante sopra). È stato un esperimento interessante, che però non si ripeterà nel corso di questa storia. Questo POV di Nappa è uno stand-alone, ditemi se può essere interessante.
Nella speranza che vi piaccia, un abbraccio a tutti.
Nuvole
 
PS: Come nella mia storia precedente “Kintsugi” ho deciso di attribuire a Re Vegeta il nome di Veldock, per non fare troppa confusione.
 
 
Pretty When You Cry
 
Capitolo III
[Nappa’s POV]

 
 
Corro, trafelato, stringendo quel corpo magro e nervoso al petto, un corridoio dopo l’altro, tutti bianchi, tutti asettici, tutti uguali. Due dita sulla sua carotide, il respiro è lento, flebile, gli occhi chiusi, le ciglia incrostate di sangue. Il suo corpo si scompone fra le mie braccia vigorose, liquefacendosi in un impasto informe di ossa e muscoli triturati.
 
«A costo della tua vita, Nappa.»
 
Il marchio indelebile di quelle parole brucia nella mia testa, corrosivo, come uno spettro che sibila stridulo una maledizione mortale. Rivedo quegli occhi severi, corvini come lo spazio profondo in cui non ardono stelle, scrutare il mio onore di guerriero per decidere se sono degno di un compito così importante come la protezione del suo unico figlio, l’erede al trono del pianeta Vegeta.
 
«A costo della mia vita, mio Re.»
 
Avevo solo venticinque anni e le mie gambe tremavano di fronte a lui, annichilito dalla soggezione e dal timore nei confronti di un Saiyan così potente, un Saiyan così diverso da me, che trascorrevo le serate nelle taverne a ubriacarmi dopo le battaglie, riverso su tavoli scricchiolanti per il peso delle risate taglienti di chi è riuscito a beffare la morte ancora una volta. Non era una vita spiacevole: combattere, mangiare, dormire e scopare, con le prigioniere o con le puttane, talvolta con le guerriere di seconda classe, a volte con una in particolare, l’unica a cui permettevo di chiamarmi per nome mentre la piegavo.
Ricordo di aver abbassato lo sguardo, imbarazzato, affondando ancora di più il ginocchio destro nella pietra ruvida delle stanze reali.
Avrei perso tutto, la mia indipendenza, la mia donna, la libertà, per piegarmi ogni giorno di fronte a un mostro, affiancato da un altro mostro che mi incuteva altrettanto timore: il giovane Vegeta, il cui sguardo a soli cinque anni era in grado di rovesciarmi le viscere.
Eravamo soli, sovrastati dal silenzio delle stanze immerse nell’oscurità, tradita da radi, sfumati spicchi di luce che penetravano dalle tende tirate. La Regina era morta da pochi giorni, ritrovata con una daga scintillante trapassata nel cuore, infilzata al muro come una farfalla a una decina di piedi da terra, il sangue che colava denso e nero lungo la parete come un’ala strappata.
Quello era stato un avvertimento evidente persino per me, pur essendo totalmente estraneo alla politica. Troppi nemici si accalcavano intorno alla corona, accomunati da un unico mandante, dal burattinaio che aveva forse, accidentalmente, per puro caso, allentato la tensione di un filo lasciando che la bambola si frantumasse a terra.
Il sorriso sibillino di Freezer alla cerimonia funebre era stato eloquente, e i suoi occhi non si erano staccati per un istante da Vegeta, accarezzandolo, seducendolo, divorandolo con lo sguardo, mordendosi le labbra nel piacere di costatare la sua naturale fierezza, i suoi occhi asciutti, le vene rigonfie che gli innervavano il collo per lo sforzo di trattenere la rabbia.
«O Mio, o morto.» avevano sussurrato le braci demoniache del suo volto bianco.
 
«Riportamelo vivo
 
La voce di Veldock tremò per un attimo, una lievissima oscillazione, dissonante rispetto al suo volto algido, scolpito nel marmo. Era sempre stato un uomo duro, che aveva fatto della razionalità e della freddezza il suo cavallo di battaglia, surclassando velocemente tutti gli altri Saiyan nella scalata al potere, più dediti al sangue e al sesso che ai fini intrighi di governo.
Le sue pupille d’acciaio avevano indugiato sul principe, in piedi nel cortile, il mantello di porpora che si agitava sferzato dal vento, contando i singoli passi che avrebbe ancora dovuto compiere per seguire Freezer sulla sua astronave.
Fu l’ultima volta che vidi Veldock.
Persi tutto ma, paradossalmente, l’avermi affidato quel compito ingrato mi salvò la vita.
 
Un mormorio, un sussurro, qualcosa sfugge dalle labbra di Vegeta.
Mi fermo, cercando di capire, ma non sono che lamenti, orridi lamenti di dolore che straziano il suo volto. Il mio scouter vibra, la sua forza spirituale sta cadendo in picchiata, trascinata dai battiti del cuore sempre più radi, silenziosi. Sento il terrore montarmi in corpo, lui non può morire, non deve, il petto come un compressore impazzito, confuso al punto da perdermi nei corridoi labirintici dell’astronave.
Cerco di respirare a fondo, mentre il sangue di Vegeta cola rovente fra le mie mani fino a gocciolare sul pavimento.
Lui... è l’unica speranza che ci rimane. L’unica speranza che rimaneva a suo padre. La roccaforte vivente della razza Saiyan e del resto della galassia oppressa dal giogo di Freezer.
Ed io... non ho fatto niente per difenderlo.
«Vegeta? Vegeta?» lo chiamo più volte, scuotendo il suo corpo.
Non risponde. Mi blocco, incerto sulle caviglie, stordito nel caleidoscopio di bianco e di grigio e deglutisco ripetutamente. Una serratura scatta in uno schiocco sordo rivelando il volto di una donna, il corpo fasciato da una camicia da notte, il sonno che svanisce dalla sua espressione come se avesse ricevuto una frustata.
«Che vuoi, Nappa? Pensavo che per oggi fossi soddisfatto...» sputa, acida, stringendo gli occhi in due fessure. Sospira, una mano che stringe nervosa il fianco esile, trasalendo non appena nota ciò che stringo fra le braccia. Le sue pupille si riempiono di terrore, spalancandosi in modo innaturale, subito seguite dall’arricciarsi malizioso delle sue labbra, ancora sporche di un rossetto color ocra.  
«Allora è vero che la ruota gira per tutti.» mormora, pungente, indugiando sulle sue ferite e sul suo volto tumefatto.
«Stai zitta!» le ordino, ma la fermezza della mia voce si disperde nell’aria. Non sono sorpreso dalla sua reazione, neppure dall’acidità impressa nella sua voce acuta.
Non è passata neppure una settimana dal giorno in cui ho trovato il suo corpo tremante nascosto nell’oscurità, gli occhi rilucenti come finestre nelle tenebre della stanza, venate di rosso, gonfie di un pianto immobile che non voleva più versare di fronte a me.
Non ho fatto domande, non mi interesso dei problemi delle puttane, e l’ho scaraventata sul letto disfatto, alzandole rudemente il vestito e affondando dentro di lei.
Ma, mentre mi offriva le sue carni in un silenzio denso come la terra, notai dei lividi offuscarle il seno, dei morsi lacerare il suo collo e il segno di dieci unghie scavare nei suoi fianchi come radici perverse. Incuriosito da quei segni, li guardavo ossessivamente, spingendomi in lei con foga, ripercorrendo mentalmente l’elenco dei soldati presenti nella stazione, per individuare chi era stato l’arrogante che aveva osato marchiare la puttana di tutti. Soltanto alla fine, quando mi ero svuotato fra le sue cosce, mi aveva indicato un punto imprecisato al di là della tenda che divideva quello spazio da un altro. Un altro letto, un altro talamo perverso su cui giaceva il corpo di una donna, i cui occhi opachi fissavano l’abisso della morte, immobilizzati in un eterno presente.
Era stato Vegeta a scoparle.
Vegeta, dall’alto dei suoi quattordici anni, che aveva ucciso quella puttana travolgendola con la propria forza.
Vegeta, il cui orgoglio si era rivelato talmente forte da non poter resistere dal massacrare l’unica testimone della sua verginità.
Vegeta, che mi aveva confessato di non averlo fatto apposta, ma il dispiacere non aveva lambito il suo sguardo neppure per un istante, tradito dal ghigno soddisfatto che aveva luccicato, sibillino, nei suoi occhi.
 
«Se fossi in te non mi preoccuperei troppo. Quello è esattamente uguale a Lui.» ribadisce, incrociando le braccia al petto, il volto che trasuda veleno.
Non ribatto, il fiato che muore lentamente in gola, schiacciato da una verità che, dopo tutti questi anni, non riesco ancora ad accettare. Vegeta tossisce e geme, gli occhi stralunati che vagabondano nello spazio intorno a noi senza riconoscere nulla.
«L’opinione di una puttana non vale niente.» sibilo, mentre ricomincio a camminare furioso lasciandomi la sua figura alle spalle. Passo davanti alla porta della nostra stanza, socchiusa, da cui sfugge un riverbero di luce sul pavimento del corridoio.
Radish dorme, i lunghi capelli lisci che sfiorano il pavimento, la bocca spalancata in un russare scomposto. Le pareti della cella sono coperte, divorate dall’oscurità che come una pellicola avvolge tutto, spoglie e anonime, prive di ogni simbolo di riconoscimento che sottolinei la nostra appartenenza.
Perché noi, qui, non possediamo nulla, non siamo nulla, siamo solo macchine da combattimento da mandare al macello.
Nemmeno la nostra, di opinione, vale nulla.
Siamo soltanto Saiyan, sporchi Saiyan, le ultime propaggini di una razza sterminata, accuditi dalla magnanimità dell’Imperatore, che dovremmo ringraziare ogni singolo giorno per essere ancora vivi.
Perché, si sa, il pianeta Vegeta è esploso per la collisione con un meteorite.
Casualmente, per puro caso, accidentalmente, sette giorni dopo che Vegeta era stato consegnato fra le sue mani viscide.
E ora che si trova fra le mie, di mani, penso al fatto che non avevo mai sfiorato la filigrana ruvida della sua pelle o la consistenza setosa dei suoi capelli cupi come la notte.
Vegeta era adulto ancora prima di nascere, inflessibile e spietato, lo sguardo duro come l’acciaio. Non ho mai visto le sue palpebre tremare, la sua voce tremare, il suo corpo tremare, agitarsi incontrollato come in questo momento, in cui le sue membra roventi bruciano per la febbre.
«Vegeta? Si può sapere cosa diavolo è successo su quel pianeta?»
«L-Lasciami in quella dannata stanza e smettila di lagnarti come una femmina» esala, l’indignazione che lo attraversa come una scossa elettrica per poi scomparire in un nuovo gemito.
Se Vegeta non verrà curato entro poche ore, probabilmente morirà. Le sue ferite pulsano, prossime all’infezione, la temperatura del suo corpo rovente.
Mi mordo le labbra mentre spalanco la porta, immergendomi nella totale oscurità. Appoggio il corpo di Vegeta sul pavimento, fra la polvere, osservando il suo petto sfibrato dagli ansiti, i polmoni affaticati nel tentativo di carpire l’ossigeno sfuggente.
Sarei dovuto restare anche io su Hagalaz, controllare che la sua navicella partisse insieme alle nostre, avrei dovuto offrire a Freezer la mia testa in cambio della sua, come avevo promesso a suo padre.
Perché? Perché non l’ho fatto?
La mia negligenza lo ha quasi ucciso, facendolo incorrere in un’imboscata, il mio silenzio, ogni secondo più tossico, ha dato vita a una scena che non pensavo sarebbe mai potuta accadere. A questo potrei ancora rimediare, dopotutto potrei ancora tornare indietro, supplicare quel bastardo di avere pietà, pietà per un ragazzo che ancora non ha imparato a piegarsi a sufficienza di fronte al proprio padrone, ma le mie caviglie non si muovono di un millimetro, tronchi di alberi millenari, inflessibili nell’aggrovigliarsi alle profondità del suolo. 
«Vattene» sibila fra i denti, schiacciato fra le piastrelle incrostate di sporcizia.
Vegeta mi guarda, sollevando faticosamente la nuca, una bestia ustionata dal fuoco che si contorce negli anfratti bui di una foresta dimenticata.
Il senso di colpa mi trafigge come una coltellata.
Annuisco col capo, impenetrabile, allontanandomi mentre sento le viscere contorcersi dall’angoscia.
Se avessi rifiutato questo compito probabilmente sarei morto. Insieme alla mia gente, al fianco dei miei commilitoni dell’armata d’élite, combattendo a testa alta contro Freezer, completamente annebbiato dall’ingenuità e dalla furia dell’orgoglio, come un qualunque altro Saiyan.
Eppure, anche se sono stato risparmiato, sento di aver già sacrificato abbastanza per seguirlo, subordinando tutta la mia vita alla sua per un giuramento azzardato, accettando di farmi sottomettere da un bambino e finendo per divenire l’animale domestico dell’animale domestico accarezzato dalla mano liscia e smaltata di Freezer.

Traditore

Grida il volto elegante di Veldock, inabissato fra i suoi lineamenti squarciati.

Traditore

Gridano gli occhi severi di Veldock, annegati nelle sue iridi nere gonfie di porpora, sfregiate dai lividi.

Traditore

Gridano le labbra sottili di Veldock, sbranate dalle sue, madide del sangue e della saliva che gli cola giù lungo il mento.

Traditore

Gridano gli zigomi pronunciati di Veldock, frantumati nei suoi come rocce demolite dal caos che inghiotte la terra scura.
Il Re credeva fermamente che in suo figlio risiedesse il seme della rivoluzione, il barlume tremante della bomba nell’attimo prima di deflagrare, vedeva in lui il Super Saiyan, il guerriero leggendario dai capelli d’oro e dalla forza invincibile, talmente potente da uccidere Freezer e affrancare tutti i Saiyan dalla sua schiavitù.
Sento i miei stivali arretrare, attratti da una forza magnetica che mi allontana da lui, i brividi che mi strizzano le interiora, gelidi nel ricoprirmi le spalle, nel seccarmi la bocca e la gola.
Non riesco a impedirmi di pensare che alla fine, tutta l’intelligenza e le convinzioni del Re non l’hanno salvato dal tramutarsi in polvere interstellare, divenire melma insieme alla peggiore feccia, carne reale putrefatta in cadavere nel tempo di uno schiocco di dita.

Traditore

Grida la schiena di Veldock, fasciata di seta rossa, tramutata nel sangue della sua battle suit a brandelli, insozzata dal buio della distruzione.
La verità è che io non voglio morire per un’idea, in nome di un miraggio salvifico con cui si masturbava un uomo impotente, dall’orgoglio spezzato e dalle braccia scarnificate da catene infrangibili. Lo stesso sogno in cui ora si crogiola Vegeta, cullandosi abbagliato dall’unica luce che mantiene in vita le sue membra esauste, corroso dalle voglie di un demonio crudele.  
Mi volto, chiudendo la porta, lasciando che le tenebre divorino il suo corpo.
 
Continua...
 

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


pretty capitolo 4 Ehm, ciao.
Non ho grossi commenti da fare su questo capitolo, se non che sono insoddisfatta fino al midollo. Questo è il capitolo core della storia, come vedete dalla lunghezza praticamente raddoppiata rispetto agli altri, spero di essere in grado di trasmettervi almeno una piccola parte (la trasposizione esatta di quello che avevo in mente mi risulta essere impossibile, evidentemente...) dei miei sentimenti riguardo alla situazione che viene descritta.
Nella speranza che vi piaccia almeno un po’, un abbraccio a tutti.
Nu :*
 
PS: Il capitolo è dedicato alla canzone degli Evanescence intitolata “Sweet Sacrifice” che potete ascoltare qui.

 
| You poor, sweet, innocent thing; dry your eyes and testify
You know you love to hate me; don't you, honey? I'm your sacrifice |
 
Pretty When You Cry
 
Capitolo IV
[Vegeta’s POV]

 
 
Respiro l’oscurità, totale, immensa, di un nero talmente intenso da annichilire le mie palpebre ancora anelanti di luce. I miei occhi si aprono e si chiudono, infinite volte, patetici nel tentativo di scorgere un fantasma, un barlume, nient’altro che miraggi privi della minima consistenza.
Questa è una stanza degli specchi, corrosa dalle tenebre, un caleidoscopio perverso in cui la mia figura viene annientata infinite volte, sempre più debole, sempre più insignificante.
Sono ovunque e da nessuna parte, i contorni del mio corpo sono malleabili, liquidi, mi sono fuso con le tenebre che mi hanno sbranato, inglobandomi senza neppure sputare le mie ossa.
Tutto ruota, nauseante, coinvolto in una giostra silenziosa che mi fa vibrare le viscere, mentre risate malevole mi trapassano come coltellate. Il divertimento di questo palco trafigge di brividi gelidi la mia schiena madida di sudore.
«È così che finisce il leggendario Principe dei Saiyan?»
Le voci stridule aumentano d’intensità, pulsano nelle mie orecchie distorcendosi in una macabra cantilena. In falsetto gridano, raccapriccianti, impiccando la mia gola in una morsa dolorosa.
Il principe dei Saiyan.
Vegeta.
Il mio nome.
Il nome di mio padre.
Il nome del pianeta che ero nato per governare.
Lo pronuncio a voce alta, tempestato dagli echi che ritornano a infilarsi nei miei timpani.
Un nome sbocciato nella morte e per la morte.
Ricordo che Nappa mi disse che Vegeta non era il nome di nascita di mio padre, ma fu il nome nobiliare che decise di assumere una volta completato lo stermino degli Tsufuru. Vegeta era il nome di un fiore molto raro, incantevole, dai petali morbidi come seta, seducente e malizioso, talmente sibillino che alcuni sostenevano di averlo sentito ridacchiare solitario, sferzato dal vento della notte e illuminato sinistramente dalle lune. Ovunque sbucasse questo fiore, la vegetazione intorno moriva, corrosa dal veleno che trasudava dalle sue radici, taglienti come filo spinato. Uno di questi fiori cresceva di fronte alla casa di mio padre e continuava a sorridere, sempre più enigmatico, mentre le sue mani si riempivano del sangue degli Tsufuriani, impotenti di fronte alla forza dei Saiyan, il cui fuoco distruttore non aveva avuto la minima pietà. La terra di Plant era divenuta arida, crepata dall’interno come una muta abbandonata, mentre mio padre si adagiava sul trono con un sorriso sghembo a tagliargli la faccia.
Sono passati nove anni dall’ultima volta che l’ho visto.
Il suo volto è divenuto bianco, pallido come quello di un fantasma, appassito nella mia memoria. I suoi occhi neri tentano ancora di fissarmi, accusatori e sprezzanti, nel tentativo di sottolineare come la mia forza non sia mai sufficiente, mai abbastanza per realizzare i suoi personali sogni di vendetta.
«Tutti moriranno, soltanto perché sei un moccioso pigro.» mi sussurrava, le iridi cupe che rilucevano, sinistre, nell’ombra della mia camera da letto. Di nascosto da mia madre, mi trascinava nella stanza degli allenamenti, battendomi fino a ridurmi sull’orlo della morte. E quando, alla fine cedevo al pianto, spaventato e prostrato dal dolore, mi afferrava la nuca e strisciava il mio volto a terra, sporcandolo della polvere e della sporcizia che annerivano le mie lacrime.
Il marchio delle nullità, lo chiamava, indifferente ai miei singhiozzi e all’umiliazione cocente che mi tagliava come una voragine.
È assurdo pensare che avrei potuto ucciderlo senza nessuna fatica, semplicemente rispondendo ai suoi colpi. Non nascondo di averlo desiderato, inscenato in un anfratto tetro e rinnegato della mia fantasia infantile. Volevo soltanto essere stimato da lui, non me ne importava nulla di Freezer, della popolazione, della politica, volevo soltanto combattere e dimostrare a mio padre e a me stesso di essere il migliore.
E se non potevo ottenerlo, allora che morisse, ucciso sul campo di battaglia o in un qualche colpo di stato dai molti Saiyan che disapprovavano la sua politica di governo. Il fato ha capricciosamente ascoltato i miei sogni di bambino quando il volto di mio padre non era altro che un ricordo amaro dalle tinte contraddittorie. Mi dimeno cercando disperatamente di respingere un embrione di senso di colpa che strilla, un latrato fastidioso, inutile, che vorrei fare a pezzi.
Non ricordo da quanto tempo sono qui.
Non esiste nulla al di fuori di questo spazio nero, vischioso, ritmato dal battito convulso del mio cuore, sempre più vicino al collasso.  
Sono vivo, io?
Sono vivo? O questo non è altro che l’inferno?
Grido con le poche forze che sferzano le mie membra, grido fino a farmi bruciare la gola, un suono acuto e stridente nasce dalle mie profondità, moltiplicandosi all’infinito.
Un tonfo secco si ripete ancora una volta. Un cassetto si apre, invisibile nell’oscurità tetra, ed io infilo maldestramente una mano al suo interno, incontrando il solito piatto di carta floscio, contenente una pappetta di riso in bianco. Mangio voracemente, portandomi le mani sporche alla bocca come un animale. Poco tempo dopo le mie dita sono di nuovo pulite. Non distinguo più il sonno dalla veglia, con il passare del tempo anche i miei sogni sono divenuti vuoti, neri, privi di immagini. Mi contorco sul pavimento, gemendo, dilaniato dal dolore delle ferite, la testa che grida, compressa in un dolore insopportabile.
 
Due bagliori sbocciano nell’oscurità, talmente accecanti da provocarmi una fitta di dolore alle iridi.
Due lampi di porpora, scarlatti come braci di fuoco.
Conosco... quello sguardo. Il battito nel mio petto accelera all’improvviso, frenetico, come se questo non fosse un miraggio uguale agli altri.
Mi avvicino, strisciando, attratto da un magnetismo che anima le mie membra.
Sento il suo respiro.
Il mio cuore si paralizza, atri e ventricoli talmente compressi da divenire un unico punto di massa infinita, come il nucleo decadente di una stella sul punto di deflagrare nell’immensità dello spazio, disperdendosi nel vuoto. Un buco nero che si annida nella mia gola impiccata dalla paura, trattengo il fiato, indietreggiando istintivamente fino a sbattere le spalle contro una superficie solida.
Le luci metalliche si dissolvono a intermittenza, scivolando leggermente a destra e a sinistra, per poi ricomparire di fronte al mio volto, immense, accecanti. Intorno a esse si dirama una superficie bianca, chiara, in cui si riflette un volto terrorizzato che riconosco infine come mio. Non sembro neppure io, i miei lineamenti spigolosi sono disciolti nel terrore, gli occhi segnati da occhiaie violacee, profondissime.
«Ti sono mancato?»
La sua voce sospira sarcastica.
Deglutisco ripetutamente, il volto infiammato dall’angoscia che si diffonde come un virus contraendo i miei tratti. Il mio corpo si muove autonomamente, sollevato da una potenza immateriale, mentre i suoi occhi mi trapassano, letali, in attesa di una risposta che dalla mia gola non sorgerà mai.
«Non avrei mai detto che sarebbe accaduto, ma mi mancava la tua faccia da schiaffi.»
Da qualche parte nell’oscurità nasce una sfera luminosa.
È la sua mano che la trattiene fra le dita, lisce e rigide come cilindri di marmo.
Lo vedo, il suo sorriso, perverso come il sangue, stagliarsi accecante nel buio più nero.
China il capo da una parte, trattenendo fra i denti la lingua lasciva, e mi guarda, famelico, mentre contrae i muscoli delle braccia, rapidi nel guizzare sotto la pelle viscida, per serrare i pugni sulle mie spalle fragili.
La sua mano si chiude su di me, affondando le unghie in una delle mie clavicole, soffocando la luce ancora una volta.
Immobilizzato dal terrore, non riesco neppure a muovermi, teso fino allo spasimo, ossessionato dai centimetri in cui i suoi artigli mi hanno trafitto, causando l’ennesimo dolore.
Il suo respiro è vicino, sento il suo alito freddo solleticarmi il viso e la gola, pungente come la brezza invernale. Mi annusa, ingurgitando stizzito il mio odore, mentre l’altra mano si allunga sul mio volto, chiudendomi gli occhi, estendendo ovunque le sue dita possessive.
Il mio respiro caldo si condensa contro la sua cute algida, affannoso e ansimante.
Mi dimeno, spaventato, respinto dal muro alle mie spalle, ma il mio corpo è divenuto liquido, incerto, incatenato al suo, indistruttibile, solido come metallo, la cui presa affonda nelle mie carni come se non avessero consistenza.
«Volevi davvero tradirmi, Vegeta?»
I suoi occhi divampano silenti, immobili come soli al tramonto.
Annuisco appena, con un cenno del mento appena percepibile, troppo paralizzato dalla paura anche solo per considerare la possibilità di fingere.
«Non posso crederci... Preferisci ancora quell’uomo a me?»
La sua voce si tinge di gelosia, algida come una coltellata, le unghie affondano taglienti nel mio volto, stringendosi in una morsa.
«Quando ti arrenderai al fatto che quel verme non ti voleva? Ti ha gettato via, come se fossi un rifiuto. Un insetto. L’ultimo delle terze classi.»
Falso. Vero. Falso.
Cerco disperatamente di sottrarmi a quelle parole, incisive come ferite che mi strappano la pelle, scoprendo le ossa impotenti. Mi rinchiudo nella mia fortezza, stringendo i denti, arroccandomi nella consapevolezza che le sue parole non hanno la minima importanza, menzogne, castelli di deliri e camaleonti che strisciano nella sua mente, rettili che sibilano impotenti alle mie orecchie.
Eppure qualcosa mi raggiunge, affondando nelle profondità di me e moltiplicandosi in un’eco, ossidandosi, infettando le mie carni.
«Non ha mai combattuto per te.»
La luce risorge. Vuole guardarmi negli occhi, vuole godere della contrazione dei miei lineamenti, appena percettibile sotto il tocco delle sue dita di ferro.
L’espressione sul volto di Freezer si tinge di un’ipocrita tristezza, gli occhi che scintillano nel piacere di sottolineare quanto io fossi indesiderato, le labbra che vibrano nel tentativo di trattenere un ghigno, stravolte dal piacere di distruggere quel poco che fornisce significato al mio esistere.
La bile mi corrode acida la gola, inducendomi a deglutire ripetutamente, tormentato dalle pupille severe di mio padre, sedotto dalla sua voce suadente, le poche energie rimaste che si diradano nelle profondità di me. Qualcosa dentro di me si è rotto, l’oscurità si è insinuata tanto in profondità dentro di me da germogliare, rispecchiando la sua malvagità cinica.
«Tu, invece, combatteresti per me?» esalo arrogante contro il palmo della sua mano, tremando.
«L’ho già fatto, Vegeta.» ringhia, gli occhi che per un attimo divampano nel candore disciplinato del suo viso.
Vengo scaraventato a terra, la testa che sbatte in un colpo secco sul pavimento, deflagrando infinite vertigini, la schiena perforata da brividi che mi ricoprono di sudore gelido.
Sento le viscere contrarsi, sminuzzate, triturate in un milione di piccoli pezzi.
Spalanco gli occhi, dove lampi luminosi si muovono nelle periferie del mio sguardo. La nausea trema nel mio ventre, contratto al punto da farmi digrignare i denti e gemere come una bestia.
Voglio soltanto che tutto finisca, che tutto torni alla cenere dove nulla esiste, dove non esiste più questo corpo a pezzi, dove il dolore è sostituito da un sonno imperituro.
«È così che ricambi l’unica persona al mondo che attribuisce importanza alla tua sopravvivenza? Con il tradimento?»
La rabbia ora divampa incontrastata sul suo volto, mimata dalla coda che sbatte libera sul pavimento, scavando solchi di calcinacci e polvere. Cerco di sostenere il suo sguardo, ma tutto si confonde, disciolto in una nebbia oscura in cui anche il suo viso si disperde.
Ricordo solo le sue spalle esili, il profilo del suo volto che si girava appena verso di me, continuando a fissare lo spazio.
«Non preoccuparti, piccolo... Mi prenderò cura io di te.» mi disse, mentre le labbra vermiglie si piegavano in un sorriso dolce come una frustata.
No. Non voglio. Non posso permettermi di mostrarmi così debole di fronte a lui.
Cerco di aggrapparmi all’orgoglio, all’arroganza che mi mantiene in vita, e inizio a contrarre le gambe per alzarmi, i palmi delle mani che sudano strisciando nella polvere.
Mi sento mancare e tossisco, immobile, abbandonato dal mio stesso corpo. Un sussulto mi scuote come una scossa elettrica, facendomi sfracellare su un fianco. Sento le viscere impazzire, ustionate da un incendio pungente che non riesco a respingere. Vomito un bolo rovente di sangue e di succhi gastrici, le unghie talmente affondate nel palmo della mano da aggiungere le ennesime incisioni a quello che è divenuto un cimitero di croci.
Non guardarmi. Non guardarmi...
Il peso delle sue iridi scarlatte è insopportabile, i suoi occhi sono onnipresenti, assilli di porpora che mi osservano, moltiplicati per un milione, un caleidoscopio luminoso che muore e rinasce a ogni battito di ciglia.
Il mio volto avvampa, rovente per l’imbarazzo e la paura. Non guardarmi, non voglio che tu mi veda così debole, così impotente, sfracellato sotto le tue ginocchia, rigide come sculture di marmo. Sbatto le palpebre, allontanandole dal suo sguardo, notando che la sua compostezza tradita dalla tensione che traspare dalle dita contratte del suo piede serpentino. Sento la sua risata rimbombare all’infinito, rimbalzata dalle mura vuote della cella fino a ferirmi i timpani, sovrastando il suono dei miei stessi ansiti.
«F-Freezer...» biascico, il respiro fischiante, ogni lettera trascinata nello spazio e nel tempo come se volessi evocarlo. Una voce roca e consumata scaturisce dalle mie viscere, vincente fra i cori di urla e di gemiti che lottano per emergere dalle profondità.
Non so perché lo sto chiamando, quasi supplicando, stringendo la sua caviglia con la mano, tirandolo flebilmente e finendo per sporcare la sua pelle nivea e fredda del mio sangue.
Forse io...
«Cosa vuoi da me, Vegeta?»
Mi scaccia con sdegno, colpendomi disgustato la mano, mentre le sue pupille vermiglie rifulgono nella notte, funeste, accompagnate dalla sua voce calma, ammorbata da una delusione pungente, quasi rabbiosa.
«Io ti ho sempre trattato come sangue del mio sangue. Ma tu insisti per voltarmi continuamente le spalle. Me lo merito, forse?»
Parla sottovoce, impastandosi di una sinistra oscurità. Il sudore inizia imperlarmi anche il volto, sento la gola arida e pungente, non rispondo, paralizzato dal terrore, mentre la sua coda continua a frustare il pavimento, pesante come una trave, sempre più a fondo, il suono delle piastrelle che si polverizzano, schizzate dalla sua furia.
«Rispondimi Vegeta, me lo merito?»
La sua voce è pericolosa come un serpente, deformata insieme ai suoi occhi in due fessure. Vedo le sue labbra tremare, il rossetto vagamente sbavato, la forza spirituale che cresce, accumulandosi traslucida come una nebbia intorno al suo corpo.
Incontro nuovamente i suoi occhi roventi e velenosi, affondando, disperdendomi in essi, non riuscendo più a trattenere la mia angoscia.  
Ma Freezer, inaspettatamente, distoglie lo sguardo.
Qualcosa esplode, sento le sue mani circondarmi il collo e spingermi contro il muro con talmente tanta forza da farmi gridare, incrinando la parete di roccia che si frantuma al contatto col mio corpo. Le sue mani sono gelide sulla mia pelle cocente, la stringono, le mie mani si mescolano alle sue, cercando disperatamente di liberarmi.
Annego fra le sue mani, i polmoni alla disperata ricerca d’ossigeno, le gambe che scalpitano contro i suoi fianchi coriacei, nella speranza vana di allontanarlo.
Sento gli occhi bruciare, madidi di lacrime.
La speranza è stata assassinata, stuprata come un fiore sorpreso da una nevicata primaverile.
Mi aspetterei di vederlo godere, ridere divertito, ma il suo volto è serio, totalmente distorto dalla rabbia, una maschera di collera pura, le narici dilatate, le labbra morse fra i denti acuminati, gli occhi quasi fuori dalle orbite. È l’espressione di un folle, ben lontana dalla sua abituale compostezza, feroce e brutale, una mescolanza di sentimenti che raramente ho scorto sul suo volto.
È furioso, lo sento ansimare, i suoi occhi sono cupi come l’autunno, popolati dai fantasmi di sentimenti rifiutati e controllati, frustati e ridotti in schiavitù dal suo controllo inossidabile.
«Ammettilo, Vegeta!» grida, alzandomi e gettandomi nuovamente a terra con rabbia, allentando per un attimo la presa affinché io possa respirare, carpendo tutto l’ossigeno di cui sono capace. Tossisco, divorando aria, ansimando, ma le mie mani tremanti non lasciano quelle di Freezer, ancora ben salde intorno al mio collo, dure come propaggini metalliche. Il suo volto furente mi fissa, in attesa, ma dalla mia bocca non fiorisce nulla, un campo devastato dal sangue e dalla violenza.
Silenzio. Il tempo si ferma, cristallizzato in un istante corteggiato dalla morte.
«Padre»
È un sussurro quello che fiorisce sulla mia bocca, freddo sul sangue rovente che mi cola lungo il mento. Il peso di quella parola, che io stesso ho pronunciato, è come un terremoto che distrugge quel poco che resta di me. Sento il cuore rivoltarsi, corroso e vibrante, accompagnato dallo stomaco che si contorce, svuotato.
So che questo è quello che desidera sentire. Non delle scuse, non delle spiegazioni, ma una conferma, un’ammissione di quanto io sia sempre, incontrovertibilmente, suo figlio.
Padre.
Le sue mani si rilassano leggermente senza allontanarsi, sempre possessive nel circondare il mio collo. Non oso neppure guardare le braci scarlatte dei suoi occhi, adombrate da spettri brillanti come fiamme nell’oscurità, devastato dalla consapevolezza che tutto sta andando ancora una volta in frantumi, l’ennesima roccaforte travolta dalla sua potenza, calpestata come se non fosse altro che una formica.
Sorride appena, scoprendo i denti candidi, un sorriso dolce che impreziosisce i suoi lineamenti fini, dolci come una carezza che accoltella le viscere.
Mi ha piegato.
Ancora una volta.
«Padre... perdonami.»
Mormoro, rivolto contemporaneamente a due figure diverse.
Una si trova di fronte a me, il demone di ghiaccio il cui volto è turbato, eccitato, allucinato dalle mie parole.
L’altra si trova nella mia memoria, l’uomo profanato, disonorato dalla lealtà e dalla sottomissione che trasudano dalle mie parole.  
La verità è che...
Un singhiozzo si fa strada nel mio petto, riemergendo vile sul mio volto, piegato in una fitta dolorosa, bagnato dalle lacrime che iniziano a colare dai miei occhi gonfi.
Soffoco nel mio stesso pianto, tossendo, le lacrime copiose che mi bagnano le labbra, che si infilano nelle mie orecchie, sordo a qualunque altro suono che non sia il battito impazzito del mio cuore o quello del dolore inarrestabile che mi inumidisce il volto.
È il suono della vergogna, dell’umiliazione che trucida il nome che porto, che insozza la mia famiglia, la mia stirpe, il suolo su cui sono nato, il mio ridicolo orgoglio, ancora una volta inerme di fronte alla sua personale capacità di distruggermi come se fossi il suo giocattolo.
Il suono della consapevolezza agghiacciante, perversa, rinnegata, che ho tentato di seppellire con tutte le mie forze, mi scuoia vivo, annegandomi nel senso di colpa.
Assomiglio più a lui che al Re dei Saiyan.
Provo più rispetto per Freezer che per il Re dei Saiyan.
«Sei così carino quando piangi... Vegeta.»
La sua mano mi accarezza lieve il volto, insistendo sugli zigomi, i polpastrelli delicati nel tormentare le mie ciglia umide, lentissimi sugli occhi doloranti, gonfi al punto di scoppiare, suadenti nel dischiudere leggermente le mie labbra ansimanti per i singhiozzi che mi scuotono.
Gli è sempre piaciuto sentirmi piangere, ne è come ipnotizzato, affamato, di nuovo calmo mi guarda silenzioso, le pupille come porpora liquida, rubini incastonati nell’oscurità.
Lo odio, talmente profondamente da sentirmi mancare il fiato, fitte di dolore e di disperazione mi tagliano ovunque, facendomi gemere anche dalla frustrazione di non riuscire a salvarmi, di non riuscire a fare niente per ribellarmi.
Lo odio, lo odio con tutto me stesso, e ardente dalla vergogna abbasso lo sguardo sulle mie gambe tremanti.
«Perché... perché?» ringhio, furente, la voce distorta dal pianto e dai singhiozzi.
Le sue dita, lente, mi alzano il mento, facendomi sussultare. Non voglio incontrare il suo sguardo, immaginando il ghigno bastardo, straripante della soddisfazione cocente distorcergli i lineamenti demoniaci. Ma nei suoi occhi non c’è niente, le sue iridi sono vuote, inespressive, il carminio scuro e consumato di una foglia d’autunno che viene sfiorata dalla neve per la prima volta. Mi fissa a lungo, imperturbabile, come annoiato.
«Ti voglio pronto entro un’ora.»
Dichiara, freddo, smettendo di accarezzarmi e lasciando scivolare la mano lungo il mio petto. Un flash di luce, solido e violento, si espande in uno schiocco secco dentro di me, facendomi quasi deflagrare il cuore. Elettricità pura invade le mie vene, le tende e le fa vibrare, sento come i muscoli riprendere il loro vigore, i polmoni riempirsi di nuova linfa.
La sua energia vitale mi travolge, inarrestabile, e deglutisco ripetutamente, cercando di placare il battito convulso, delirante, del mio petto.
Mi alzo a sedere e successivamente in piedi, ritrovandomi di fronte a lui, alla sua stessa altezza. Il suo dito indice si appoggia sarcastico sulla mia clavicola ancora fasciata dai brandelli della battle suit sporca di terra e di sangue.
«Vai a farti una doccia, Vegeta, hai un odore tremendo.»
La sua voce è di nuovo dura, affilata come una lama, i suoi occhi gelidi come il ghiaccio.  Le sue labbra si arricciano, mimando il disgusto del suo corpo immacolato nello sfiorare il mio. Sento uno schiocco sordo e la luce bluastra dei neon invade la stanza, mentre osservo le sue spalle esili allontanarsi, accompagnate dal suono robotico dei suoi passi.
Dentro di me esiste solo l’oscurità, vischiosa intorno alla mia anima annientata.
Non potrò mai liberarmi di lui, anche se morisse, anche se lo uccidessi con le mie stesse mani. Io lo odio, lo odio così tanto che quando osservo il suo volto mi sento contorcere le viscere, così tanto da sentire fame del suo sangue di serpente, desiderio di dilaniare le sue carni con i denti e le unghie, eppure quella parola, quella parola che ho pronunciato prima continua a tormentarmi.
Scompare, disciolto nel bianco del corridoio fosforescente, senza voltarsi indietro.
Odio mio padre.
 
 
Continua...
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


pretty capitolo finale
Pretty When You Cry
 
Epilogo

[Vegeta’s POV]
 
 
L’ululato della tormenta invade i miei timpani, artigli di vetro arpionano il volto e le mani, frustati dalla neve tagliente. Il bianco è ovunque, ricopre e mangia la terra intrisa di ghiaccio, è nelle mie palpebre, nelle pupille divenute fantasmi slavati, accecati dall’oscurità sinistra di quel candore, una melodia inquietante che solletica le mie viscere, è fra le volute del mio mantello di seta, sferzate dal vento, da cui schizzano via innumerevoli gocce d’acqua, disciolte e respinte dal mio movimento.
Affondo nella neve ad ogni passo, in un caleidoscopio muto, senza colori.
La bufera urla, grida, strepita la sua potenza e annienta, scatenata dal cielo scuro, lontano e distante come una nebbia corvina, roboante di tuoni.
Se non sentissi il cuore battere, frenetico come un terremoto nella cassa toracica, assordante pur nel fragore del ghiaccio, giurerei di non essere altro che una propaggine di questa tempesta, una folata gelida e furiosa al tempo stesso, maledetto come la terra sterile, derubato di ogni linfa vitale.
Invece... sono vivo.
Sono vivo.
Ancora vivo.
Sbatto ripetutamente le palpebre irritate per il freddo, cercando di guardare la sagoma del mio petto alzarsi e abbassarsi ritmicamente, le gambe muscolose, gli stivali scuri inghiottiti dal bianco.
Il tempio del mio corpo è stato disonorato, ridotto a un impasto fluttuante, della stessa materia delle tenebre, del nulla, attraversata dal fumo dell’incenso che brucia.
Durante l’esplosione, su Hagalaz, ho sentito le costole sbriciolarsi, polvere nel sangue, spappolate sotto la pelle divenuta nera.
Dopo, nella confusione tumultuante della sala del trono di Freezer, il tempo sembrava essersi fermato, la clessidra trattenuta dalle sue dita bianche: ero ritornato a essere soltanto un giocattolo spezzato, l’ennesimo dei pianeti su cui sfogare vampate di frustrazione, la terra smossa, le strade rovesciate, la vita rimasta che grida in uno stillicidio di morte, inghiottita dalla pressione bulimica dello spazio.
Lavarmi e sfregarmi, scorticarmi con le unghie tutto il corpo non è stato sufficiente a liberarmi del sangue. Torrenti di porpora colavano lungo le mie gambe, sui piedi, disperdersi nell’acqua della doccia, mescolandosi alla terra nera intrisa fra i capelli, ma quel sangue è ancora dentro di me, porpora tiepida che mi corrompe dentro, sporcandomi le ossa. L’acqua bollente che faceva ringhiare le mie cicatrici fresche, come arse dall’interno.
“Tu non sconfiggerai mai Freezer. Mai...”
La voce stridula di quella donna risorge, distorcendosi in un’eco infinita nella mia testa, rimbombando all’altezza del mio petto dove vibra, pulsa e genera spasmi dolorosi.
Sento qualcosa risalirmi la gola, un bolo di tensione e di rabbia che riempie rovente il mio corpo, vorrei soltanto gridare di rabbia, le corde vocali si tendono, compresso nei pochi centimetri del mio corpo, troppo piccolo perché riesca a contenere l’abisso che mi trapassa ogni secondo, sempre più profondamente.
Mi mordo le labbra nel tentativo di non urlare quando, in fondo, nel bianco vorticante, scorgo le forme esili delle sue spalle.
Le sue viscide, subdole, ipocrite spalle, bagnate dal vento algido come se fosse una carezza, il viola che riluce, talmente intenso da essere violento, fosforescente nel candore.
La sua coda si muove appena nella neve, lenta, come se fosse stanca.
La forza di Freezer corrode caustica le mie vene, elettricità pura, oscena e gelida, tutto il mio corpo è teso dalla fibrillazione, formicolante per l’energia in sovraccarico che lo percorre a ripetizione, incontrollata come una bestia che cerca di liberarsi dalle catene.
Se questa è soltanto una briciola della sua potenza, io non avrò mai alcuna speranza contro di lui. Deglutisco, sfibrato dal respiro corto, ansante per la tensione, mentre ogni passo mi avvicina a lui.
La nebbia tumultuante si dirada, mostrandomi in lontananza la figura di Zarbon che indica a dei soldati dove caricare le scorte per il viaggio fino alla galassia di Dagaz.
Almeno tre mesi di viaggio, una battaglia in cui potrei morire come un insetto, dilaniato dalla potenza degli abitanti del pianeta che né l’esercito di Re Cold né quello di Cooler sono riusciti a conquistare. Freezer lo vuole, sbatte capricciosamente i piedi a terra al pensiero di superare il padre e il fratello e probabilmente potrebbe farlo con facilità se solo accettasse di scendere personalmente sul campo di battaglia.
La loro non è altro che una partita a scacchi, dove a vomitare sangue e a morire sono soltanto le pedine.
Ricordo il mio volto riflesso nello specchio, i suoi lineamenti, il suo sguardo, il suo modo di arricciare la bocca nel disgusto, il suo naso dritto. Il mio viso è cambiato, le linee rotonde del bambino sono state irrigidite, battute a sangue e incatenate una metamorfosi crudele, seguite dai miei occhi, sempre più segnati, cupi di fronte all’immensità.
Chiudo le palpebre per un istante e ripenso al silenzio degli astri, immobili, avvolti in una melodia senza tempo, alla navicella biposto in cui io e mio padre viaggiavamo quando mi portava in guerra con lui.
Gli unici momenti di vicinanza che abbiamo mai avuto. Non diceva una parola, le labbra strette in un’espressione severa, osservava il fluire dello spazio aperto, riflesso nei suoi occhi scuri, attraversati da una miriade di stelle ardenti. Non lo vidi mai vulnerabile come in quei rari istanti in cui ritardavo volontariamente l’ibernazione per osservare incuriosito come si discioglieva il suo volto addormentato.
Tutto di quell’uomo, della sua razza, vive in me, le radici incastrate talmente in profondità nel mio sterno che per ucciderlo definitivamente dovrei uccidere anche me stesso.
«Ve-ge-ta.»
Un sussurro si insinua fra la neve, scandendo lascivo il mio nome.
Le sue spalle si contraggono, la coda inizia a sferzare nervosa la neve, scavando come una frusta solchi profondi fino alla terra nera.
Un azzurro liquido, rovente come la lava, cola lungo il mio petto come una lunga lacrima di liberazione: ricordo soltanto quel colore, un blu di zaffiri fosforescente, un turchese dipinto nella pace, nella bellezza dell’universo. Un ceruleo che corteggia l’anima e dischiude le sue porte, come un fiore che si inchina di fronte alla luce.
Ricordo gli occhi maliziosi di quella donna e una sensazione di pace, vivida al punto di tagliarmi le carni, nient’altro, un vuoto che mi riempie di brividi la spina dorsale.
Quello non può essere il paradiso che mi attende alla mia morte. Io non sono altro che un assassino, una pedina del gioco che fa a pezzi le altre pedine per avanzare sul terreno, senza curarsi del rosso luminescente, sparso fra il bianco e il nero in mille cocci.  
Una timida speranza sboccia dentro di me.
Forse un diverso epilogo vedrà solcare i miei passi.
Potrebbe essere l’ultima volta che lo vedo, l’ultima volta in cui ascolto il silenzio degli astri, il frastuono dei meteoriti che si schiantano, il fragore delle stelle che deflagrano, inosservate, penetrate dall’oscurità, l’omertà dei buchi neri che risucchiano tutto ciò che si trova intorno a loro, la solitudine dei pianeti obbedienti, incamminati lungo un’orbita, pieni di fiducia nel continuare ad attraversarla nell’aspettativa che tutto andrà bene.
Continuerò sempre a combattere per la mia vendetta.
Perché... nonostante tutto, io voglio vivere.
 
[Freezer’s POV]
 
La tormenta mi culla, ipnotica e atroce, sussurrandomi veleno che solo io posso comprendere. Grida, strepita e ulula che l’ho tradita, che le mie mani si sono sporcate di un calore bastardo, lurido, che quel lerciume è ancora vomito nella mia bocca.
Le sue maledizioni si scompongono in volti sinistri, ombre di angoscia disciolte nella nebbia e nel fragore, i cui occhi mi fissano accusatori.  
Sento le vene contorcersi per la stanchezza, le palpebre bruciare, sobillato dal richiamo famelico della neve che brama, licenziosa, di ricongiungersi a me, bisbigliandomi di dimenticare Vegeta, mio padre, Cooler, di abbandonare questo Impero, la vita di razionale dominio e conquista che non si addice per nulla alla mia natura.
Io sono un demone del freddo, la cui carne sorge impastata al ghiaccio, trapassata dalle stalattiti e dal rigore dell’inverno imperituro. Io sono nato per uccidere, per dominare, per annientare, per strappare con gli artigli e con i denti il terrore altrui e cibarmi famelico dei loro cuori roventi, pulsanti, deglutendo mentre la porpora mi cola lungo il mento.
Mi lascio accarezzare dalla polvere di vetro, socchiudendo gli occhi in due fessure.
Mentre una parte della mia energia vitale fluiva dalle mie dita, penetrando come una scossa elettrica il corpo di Vegeta, ho sentito le vene del braccio squarciarsi, come carbonizzate, violentate da un pensiero proibito. Qualcosa nelle profondità delle mie viscere ha vibrato di rabbia, di un’ingiustizia simile alla violazione di un giuramento di sangue. Io non sono nato per donare la vita, soltanto la morte.
I conati di vomito mi hanno ustionato l’esofago mentre ridevo.
Perché l’ho fatto?
Parole non dette vibrano censurate nella mia mente.
Il suono decadente e malinconico della tempesta mi ricorda quello dei singhiozzi di Vegeta, piangeva talmente tanto che il suo volto era diventato violaceo, consumato della disperazione e dell’angoscia. I suoi occhi neri vagavano come spiriti maligni, senza pace, annacquati dalle lacrime che colavano sulle sue guance livide, il volto austero inghiottito dall’abisso, fatto a pezzi come una bambola a cui hanno accoltellato i lineamenti, ricomponendoli in posizioni diverse.
Sorrido nel ripensare a quell’immagine, malizioso, passandomi la lingua sui denti nel rivivere quel piacere, un brivido che mi attraversava la schiena, come un fulmine che cerca la terra, impetuoso e cieco a qualunque altra cosa.
Sento il suo odore di barbaro selvaggio mescolarsi alla neve vorticante, furente, che tenta di dissuadermi ancora riempiendomi i timpani con grida possessive, gli artigli tentano di chiudermi la bocca, trapassandola di spilli.
«Ve-ge-ta.»
La verità è che volevo continuare a guardarlo piangere per sempre.
Cosa c’è di tanto disonorevole?
Si avvicina, suadente, l’ombra gettata dal suo corpo esile che raggiunge lentamente la mia, disperdendosi in essa. La chimera di tenebra è immobile nel bianco, nera come l’abisso, un mostro immobile partorito dall’oscurità di una notte eterna.
«Non pensavo che attribuissi valore alla vita delle puttane.»
È il sibilo tagliente della sua voce, caustica come un manrovescio in pieno volto.
Come osa mancarmi di rispetto?
Contraggo adirato la mandibola, facendola schioccare, mentre il resto del mio volto si scompone in una risata divertita, contemporaneamente stuzzicato dalla sua perspicacia.
Sono io quello che si è piegato veramente.
Come osa sottolineare la mia debolezza?
Crede forse che io non me ne renda conto?
Che non senta il grido della neve, stuprata, che smania la vendetta, che brama soltanto il sangue di cui cibarsi, saziarsi, innamorata della morte, esorcista di ogni scintilla vitale?
Mi volto di scatto e incontro il suo sguardo duro, forgiato nell’adamantio delle profondità della terra corvina, mai sfiorata dalla luce.
Nulla traspare dal suo viso ostile, i lineamenti irrigiditi in una maschera serrata come una cassaforte. Indossa la battle suit delle occasioni diplomatiche, seta lucida che gli fascia il corpo magro e muscoloso, l’eleganza tradita dal suo collo, dove i segni delle mie dita scavano ancora lividi nella sua pelle diafana, profondissimi e scuri.
Mi avvicino repentinamente, respirandogli sul volto, i rubini nelle mie iridi che rifulgono di una luce sinistra, porpora liquida, vermiglia e bruciante come il rosso degli astri che muoiono soli nello spazio vuoto. 
«Di certo tu non attribuisci valore al silenzio.»
Afferro il bavero della battle suit e stringo fra le dita il suo mento, accarezzando con le unghie le ossa fragili della sua mascella, rigenerate dalla mia potenza.
Le mie labbra mordono le sue, succhiandole, tagliandole con i denti affilati, afferrano e squarciano la sua lingua.
Il suo sapore.
Carne e sangue caldo di bestia.
Il sangue dolce e ferroso del mio moccioso.
Un brivido di piacere e di adrenalina mi attraversa elettrico la schiena e mugugno, deliziato, la bocca che si apre in un sorriso nel notare la veemenza di Vegeta nel ritrarsi disgustato, allucinato, portandosi istintivamente una mano alla bocca e sfregandola lentamente con il guanto candido.
Una striscia viola, oleosa, macchia il tessuto candido dei suoi guanti, mescolata allo scarlatto diluito dalla saliva. Nel notare la sua espressione turbata non riesco a impedirmi di deriderlo, tradito da una risata sguaiata, dissonante, che sbrana i miei lineamenti fini.
Lascio andare il bavero della sua uniforme, mentre osservo la bile corrodergli l’esofago. Ancora una volta vorrebbe piangere, gridare, urlare con tutta la forza che ha in corpo, ma obbliga il suo volto a liquefarsi in un ghigno, tradito soltanto dalla mandibola contratta come l’acciaio, gonfia sotto la pelle diafana degli zigomi pronunciati.
Mi sorride, specchio del mio sorriso, materia della stessa oscurità vischiosa e cangiante.
«Torna vivo, Vegeta.» ordino, secco, disperdendo lo sguardo nella tormenta e nello spazio che si estende, incommensurabile, oltre il cielo plumbeo.
«Sono un Saiyan.»
Un barlume di irritazione mi fa vibrare il petto, nauseato al suono di quella parola.
Gode della mia stizza e il suo sorriso si allarga ancora di più, una voragine bastarda si dilata sul suo viso sferzato dalla polvere di vetro. Si volta e si allontana lentamente, mentre mi sforzo di seguire le sue spalle esili e i suoi capelli corvini nel caleidoscopio vorticante, fino a quando non rimane soltanto l’ululato della tempesta, affilato quanto la vergogna che mi taglia la faccia.
Mi lecco le labbra, nostalgico e famelico, masturbandomi con l’ultima goccia del suo sangue, ancora incastonata nell’increspatura della mia bocca.
Traditore
Gridano, assordanti, inesorabili, gli spiriti della neve.
 
 
Fine
 
 
*
 
Ciao a tutti!
Questa volta ho deciso di posticipare lo spazio autore alla fine per salutarvi tutti con affetto, volevo dire un grazie di cuore a tutti quelli che mi hanno letta, inserita nelle preferite, nelle ricordate e nelle seguite, ma soprattutto recensita! Mi avete incoraggiato a proseguire e mi avete fatto molto piacere! Questa è la mia prima “long” che vede una conclusione e sono un po’ emozionata!
Oltretutto... era una storia alquanto particolare e avevo paura di fare un gran pasticcio e di essere radiata dal fandom! *ride*
Che dire, spero che l’epilogo abbia soddisfatto le vostre aspettative... attendo ansiosamente commenti...
Un abbraccione,
Nu :*

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