Notte eterna

di daemonlord89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***



Capitolo 1
*** I. ***


I.

Erano da poco passate le tre di notte quando successe. Non so come spiegarlo, ma avevo avvertito il cambiamento. Forse un lieve formicolio alla punta delle dita, forse un alito di vento sulla pelle. Molto più probabilmente fu solo istinto. Quale che fosse il motivo, avevo capito tutto. Capito che quella notte non sarebbe mai finita.

Mi ero appena messo a letto, avevo finito di lavorare all'ultimo capitolo del mio nuovo romanzo. Ero ancora euforico all'idea di aver terminato la sua stesura ed ero perfettamente conscio che non sarei mai riuscito ad addormentarmi subito. Mi capitava spesso, in realtà. Non faceva bene scrivere fino a tardi, me lo dicevano tutti, ma non ci potevo fare nulla. Sono sempre stato più produttivo al calar del sole.
Anche dopo il cambiamento, rimasi fermo nel letto a fissare il soffitto. Le frasi che avevo scritto vorticavano furiose nella mia mente, che non trovava pace. Al mio fianco, il respiro di mia moglie era regolare, stava dormendo della grossa da diverse ore. La guardai per qualche secondo, la ammirai come sempre facevo, sorrisi e mi girai dall'altra parte, chiudendo forte gli occhi nel tentativo di far sopraggiungere il tanto agognato sonno.
Ma il sonno non arrivò.

Passò un'ora, ne passò un'altra e un'altra ancora.
Ogni volta che guardavo la sveglia digitale mi si stringeva lo stomaco. Non era l'idea di passare una notte completamente insonne, quello era successo già molte volte. No, quello che mi spaventava, quello che mi terrorizzava, era che presto, al momento dell'alba, avrei saputo se la mia idea su quella notte fosse stata solo un parto della mia mente iperattiva o meno.
Passò un'altra ora. Erano le sette e mezza, l'orario in cui quella maledetta sveglia, la mia compagna di quella notte, avrebbe dovuto suonare. Nervoso, la fissai a lungo. Il sudore sulla fronte, le mani che tremavano. 

Dai, suona. Suona, forza.
Sette e trentacinque.
Suona, bastarda!
Sette e quaranta. Ormai era chiaro, ma non volevo accettarlo.
SUONA!
Sette e cinquanta. Non avrebbe mai suonato.
Mi alzai in preda al panico. Mi venne un capogiro e colpii con forza sull'anta dell'armadio di fianco al letto. Respiravo forte, il cuore batteva all'impazzata. Così non andava bene, dovevo calmarmi.
Mi sedetti sul letto e cominciai a contare lentamente, da uno a dieci e da dieci ad uno, controllando il mio respiro. Come sempre, quel metodo di rilassamento che avevo più volte sortì l'effetto sperato. Il cuore tornò a ritmi accettabili e cominciai a ragionare in maniera logica.
Mi voltai verso mia moglie, che non sembrava essersi accorta del mio attacco di panico. Continuava a dormire indisturbata. Mi avvicinai dolcemente e la baciai sulla guancia. Nessuna risposta.
Mentre combattevo il terrore che stava riaffiorando, tentai di chiamarla.
-Tesoro.-
La mia voce suonava strana, aliena in quel mondo fatto di buio. Lei non si mosse, né diede impressione di avermi sentito.
-Ehi, mi senti?- ritentai.
-Sono le sette e mezza. Quasi le otto in realtà.-
-Dovremmo alzarci, non credi?-
Niente.
Mi misi le mani tra i capelli. Persi la speranza e mi alzai per andare ad aprire la finestra in soggiorno. Ero preparato a ciò che vidi eppure non potei fare a meno di avvertire una morsa al petto. Non c'era luce. Non un filo di luce all'orizzonte. Il sole era fuggito e non sarebbe riapparso.

Nemmeno dieci minuti dopo ero vestito alla buona con le prime cose che avevo trovato nel guardaroba e camminavo lungo la via principale del paese, procedendo da casa mia in direzione nord, verso la piazza. I lampioni illuminavano il mio cammino e le mosche che ronzavano attorno a loro sembravano gli unici esseri viventi sveglia a parte me.
Mentre avanzavo cercavo tutte le possibili spiegazioni per ciò che era successo, ma non mi ci raccapezzavo. Era tutto sbagliato.
Improvvisamente il silenzio fu rotto da un suono basso e costante. Un motore.
Alzai lo sguardo dalla strada e lo feci vagare lungo la via che si snodava di fronte a me. Dopo pochi secondi apparvero due luci in lontananza, mentre il rumore diventava sempre più forte. Sì, non c'era alcun dubbio, si trattava di un furgone. E, dunque, di un essere umano con cui poter parlare.
Euforico, mi portai in mezzo alla strada e cominciai ad agitare le braccia per fare segno al guidatore di fermarsi.
Vidi i fari sempre più vicini e cominciai a distinguere alcune scritte sul cofano. Italport. Intuii che doveva trattarsi di un'azienda che si occupava di trasporto merci. Una sorta di corriere.
-Ehi!- gridai, in aggiunta alle segnalazioni.
Il furgone si avvicinò ancora, andava ad una velocità troppo elevata per i miei gusti.
-Ooh!- urlai con tutto il fiato che avevo in corpo -Fermati!-
Rendendomi conto che non l'avrebbe fatto, corsi nuovamente verso il marciapiede, appena in tempo per non essere investito. Il furgone proseguì la sua folle corsa, come se non mi avesse minimamente notato. In venti secondi scomparve nuovamente nel buio, lasciandomi solo con il mio stupore e il mio cuore che stava cominciando a rallentare pian piano.
Non capivo perché fosse successo. Sicuramente l'autista non era addormentato, altrimenti avrebbe sbandato. Ed era fuori discussione anche che non si fosse accorto della mia presenza; anche ammettendo che stesse guardando il cellulare, avrebbe certamente sentito le mie grida. No, sicuramente c'era dell'altro, ma non potevo immaginare cosa. Scossi la testa e feci un paio di respiri profondi, prima di rimettermi a camminare. 

Vagai per l'intero paese senza trovare anima viva. Ormai ero così disperato che sembrava che la notte fosse entrata in me ed io fossi diventato parte di essa. Come se non bastasse, ero più sveglio che mai, non potevo trovare conforto nel sonno, normale o eterno che fosse.
Attraversai per la seconda volta la piazza, gettando sguardi alle finestre delle case e drizzando le orecchie nella speranza di cogliere qualche segnale di attività umana, per poi dirigermi verso il più piccolo dei due ponti costruiti sul canale che tagliava in due la città. Uno di essi era di strada asfaltata, serviva per le auto, mentre l'altro, posto a qualche decina di metri, collegava le due sponde della strada pedonale/ciclabile che correva lungo il corso d'acqua.
Fissai a lungo il canale, notando le figure scure dei pesci che nuotavano sotto di me. Anche loro erano svegli, certo, ma non erano di nessuna utilità. Mi venne quasi da ridere ad immaginarmi mentre parlavo con una carpa e cercavo, assieme a lei, di trovare una spiegazione razionale per quella che dentro di me avevo già chiamato la notte eterna.
Fu in quel momento che credetti di essere impazzito. Cominciai a sentire, o forse sarebbe più giusto dire avvertire, delle voci. Mi voltai di scatto per capire da dove provenissero, ma non ce n'era modo. Erano sempre subito dietro di me. Compresi allora che si trovavano solo nel mio cervello.
Un'allucinazione? Certo, aveva senso vista la situazione in cui mi trovavo, ma avevo la sensazione che ci fosse qualcosa di più. Cominciai a camminare e notai che a seconda di dove andavo le voci si facevano più o meno chiare. Ad un certo punto, cercandone la fonte, riuscii anche a comprendere alcune parole di senso compiuto.
Ricordi...mamma...noi siamo...
Camminai verso un'abitazione che costeggiava il sentiero.
Eccoci qui...contenta...
Non c'erano dubbi, quella casa era l'origine delle voci che sentivo. Toccai il cancello di ferro che costituiva l'ingresso sul retro e notai che era chiuso con un lucchetto arrugginito.
Mi guardai intorno, mentre le voci si facevano sempre più insistenti e ipnotiche. Le parole si accavallavano e la mia mente era confusa.
Ora...noi...vuoi...
​  Eccoci...
Mamma... non...​
     
contenta...
-Basta, cazzo, basta!- gridati tappandomi le orecchie, ma senza ottenere risultati.
Dovevo farle smettere e l'unico modo era entrare in quella casa. Colpii furiosamente il cancello con due calci e notai che il lucchetto, molto vecchio, cominciava a cedere.
Un terzo colpo fece saltare la serratura e il cancelletto si spalancò con un boato ferroso che potei solo intuire al di là di quelle maledette voci che, mi stavano portando alla follia.
Attraversai di corsa un piccolo cortile che mostrava segni di un'incuria durata anni e picchiai i pugni contro la prima porta che mi trovai davanti.
-Qualcuno mi sente?- urlai -Aprite!-
Non ottenni risposta e non riuscii a parlare una seconda volta.
Ormai le voci erano diventate un ronzio costante e del tutto insopportabile. Mi accasciai a terra, vicino al muro, le mani tra i capelli. Pregai che quella tortura smettesse, in qualsiasi modo.

E poi venne un misericordioso oblio.

 

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Capitolo 2
*** II. ***


II.

Maria correva a perdifiato, mentre i rami caduti e le radici scoperte degli alberi le tagliavano le gambe. Il dolore era intenso, ma nulla sarebbe bastato a fermarla. Doveva correre, fuggire lontano, lasciarsi alle spalle quei demoni travestiti da bambini che le stavano addosso.
Il bosco si chiudeva su di lei, le foglie dita di mani che volevano ghermirla. I demoni-bambini la chiamavano, e ogni volta che sentiva il suo nome vedeva i loro volti senza nemmeno il bisogno di girarsi, impressi a fuoco nella sua mente.

-Lasciatemi stare!- tentò di gridare, ma dalla sua bocca uscì uno sciame di insetti, milioni di piccoli esseri che le si appiccicarono al viso. Cercò di scacciarli, ma era come se si fossero incollati. E bruciavano, oh, se bruciavano. Era come avere la faccia immersa nell'acido.
Dimenandosi furiosamente per cercare almeno di liberare gli occhi, Maria corse ancora per qualche metro lungo quel sentiero di cui non vedeva la fine. Gli insetti, però, le impedirono di accorgersi di un grosso masso, nel quale inciampò per poi ritrovarsi stesa a terra.
Ancora cieca, cercò di tirarsi su, ma le gambe non le rispondevano.
Gli insetti cominciarono quindi a staccarsi dalla sua pelle, permettendole di vedere di nuovo l'ambiente circostante. La colse una fitta al cuore, quando vide che i demoni-bambini erano sopra di lei e la guardavano con un sorriso.
-Mamma.- disse uno di loro, con una voce che la donna aveva creduto, sperato di non sentire mai più nella sua vita. Una voce che apparteneva ad un passato che credeva sepolto da sempre.
-Mamma, siamo noi.- fece l'altro, chinandosi verso di lei e guardandola con quei dolci occhi verdi -Non ci riconosci?-
Certo che li riconosceva, ma non potevano essere loro. Non c'era la minima possibilità.
-Via! Andate via!- gridò lei, riuscendo finalmente ad emettere qualche suono.
-Mamma, perché ci cacci?-
-VIA!-
-Ma no, mammina.- ora erano tutte e due vicinissimi, stavano per toccarla. Lei cercò di allontanarsi, ma nuovamente non riuscì a muovere gli arti inferiori, bloccati da un qualche incantesimo oscuro.
-Noi siamo qui perché ti vogliamo bene. Non vogliamo farti male, non lo capisci?-
-Enrico ha ragione, vogliamo solo parlare un po' con te, guardare qualcosa insieme.-
Guardare qualcosa insieme. Erano parole tremende, perché Maria sapeva cosa le avrebbero mostrato. Era quella vita di cui si era liberata, quel passato morto e sepolto.
Fece cenno di no con il capo, troppo terrorizzata per parlare.
Uno di loro rispose annuendo e sorridendo. Tutto fu buio.

Un attimo dopo, Maria si trovava in un altro luogo, un luogo che però conosceva molto bene. Non aveva più il controllo del suo corpo, viveva la sua vita come se stesse guardando un film. Non poteva che rifare le stesse azioni compiute quella volta. I suoi due figli, Enrico e Giovanni, la stavano seguendo lungo il canale in bicicletta. Era primo pomeriggio e il sole filtrava tra le fronde degli alberi, illuminando tutto di una luce calda ed accogliente. I due bambini, sei e otto anni, parlavano tra loro, scherzavano. E gridavano, gridavano sempre. Non ricordava, Maria, un momento della sua vita da madre senza il sottofondo di quelle maledettissime urla.
Passarono un ponte e finirono in una zona poco trafficata. Maria sorrise; tra non molto sarebbe stata libera. Frenò dolcemente e scese dalla sua mountain bike. I bambini fecero altrettanto.
-Siamo arrivati?- domandò Giovanni.
-E' qui che faremo la nostra Merenda Selvaggia?- rise l'altro.
-Sì, bimbi.- confermò lei con il sorriso più falso del mondo. Era in quel modo che li aveva convinti a seguirla. Aveva messo un sacchetto pieno di cianfrusaglie nello zaino per dare l'idea che avesse davvero preparato una merenda al sacco. E ora li vedeva saltellare felici in attesa di vedere quali meraviglie ne avrebbe tirato fuori. E li sentiva urlare. Urlare, urlare, urlare. Sempre.
Si guardò intorno per essere sicura che non ci fosse nessuno.
Poi indicò il canale con un'espressione stupita.
-Uh, guardate che pescione!- disse. Subito i due figli si voltarono.
-Dove?- urlarono all'unisono.
-Io dico che è una carpa!-
-No, un siluro, un siluro!-
-Lì, lì in mezzo, guardate!- continuò Maria, avvicinandosi a loro.
Eccoli al limitare della sponda. Dove li voleva. Ebbe forse un secondo di ripensamento, poi corse verso di loro e li fece cadere in acqua.
Loro urlarono, questa volta di terrore. Non sapevano nuotare, e la corrente era troppo forte perché potessero stare a galla.
Maria valutò se fare un po' di scena per far credere che fosse stato un incidente, poi scartò l'ipotesi. Che la vedessero pure mentre li guardava annegare. Le avevano reso la vita un inferno, e ora l'inferno li avrebbe accolti.
Buio.

Maria tornò nel bosco, coi demoni che avevano assunto l'aspetto dei suoi figli che la stavano accarezzando. Lei piangeva, mentre le manine lasciavano scie di fuoco sulla sua pelle.
-Perdonatemi.- sussurrò tra i singhiozzi. Loro non smettevano.
-Ho sbagliato! Perdonatemi!-
Maria sapeva che nessuno al mondo, nemmeno Dio, se poi esisteva, avrebbe potuto perdonarla. Una madre non uccide i suoi figli.
Le mani ora artigliavano la carne, lei urlava ad ogni colpo inferto. La cosa più terribile erano però le espressioni dei bimbi, indifferenti come la sua quel giorno. Anche loro, come aveva fatto lei, la stavano semplicemente osservando. Continuarono ad osservarla fino alla fine.

Mi svegliai urlando nella notte. Il cuore batteva come un matto, non riuscivo a respirare. Mi sentivo morire come Maria.
Non so quanto tempo ci volle perché riacquistassi coscienza di dove mi trovavo. Ricordai pian piano tutto; il canale, la notte eterna, le voci.
Le voci, già. Ora erano scomparse.
Ed ero sicuro, dopo averle sentite in quella strana visione, che si trattava di quelle dei due bambini.
Misi la mano tremante sulla bocca, cercando di raccogliere i pensieri.
C'era una verità che mi ronzava in testa e, per quanto assurda, non poteva che essere l'unica verità possibile. Avevo sognato i sogni di qualcun altro. Qualcuno che si trovava in quella casa. Tentai di aprire la porta sulla quale avevo battuto i pugni poco (o chissà quanto) tempo prima. Questa si spalancò senza problemi, solo cigolando un po'. La casa era malmessa quanto il giardino. Sapevo perché, dopo aver visto i sogni della sua proprietaria. Dopo ciò che aveva fatto era sicuramente impazzita e aveva lasciato che la vita le scorresse davanti, abbandonandosi alla depressione. Tutto, in quella bettola, rispecchiava la sua tristezza.

Salii una rampa di scale e vidi una porta semi-aperta, dalla quale filtrava una fioca luce di lampada. Mi avvicinai e la aprii, entrando nella camera da letto di Maria. Lei era lì, stesa sul letto. Ma non dormiva, non più. Le tastai il polso per avere la conferma di ciò che temevo: era morta. L'espressione che aveva sul volto non l'avrei mai dimenticata. Era l'espressione di chi era stata costretta a fare i conti con un passato che non avrebbe mai voluto rivedere.
Per pietà le chiusi almeno gli occhi, poi me ne andai.
Dunque era vero. Avevo sognato ciò che stava sognando lei in quel momento. E ciò che aveva sognato l'aveva anche uccisa. Ma perché? Com'era possibile e come si collegava, perché ero sicuro che fosse collegato, alla notte eterna?
Uscii dalla casa sconsolato. Non riuscivo a darmi una risposta, eppure in me c'era anche una nuova speranza.
Forse questa cosa dei sogni condivisi era la chiave per uscire dall'incubo in cui ero sprofondato. Mi dissi che avrei dovuto indagare in ogni modo possibile, mentre tornavo verso la piazza.

Fu allora che rividi il furgone. Italport. Lo stesso che mi aveva quasi investito fuori da casa mia.
Solo che ora era fermo in mezzo alla piazza, con la portiera del guidatore aperta.
Forse girare alla larga sarebbe stata una scelta sensata, ma la curiosità ebbe il sopravvento. E poi, volevo parlare con qualcuno. Ne avevo bisogno. Mi feci coraggio e mi avvicinai.

 

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