Nonostante Tutto

di Micchan018
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Prologo: ***
Capitolo 3: *** Aprile 2015 (Introduzione) ***
Capitolo 4: *** Aprile 2015 (Prima Parte) ***
Capitolo 5: *** Aprile 2015 (Seconda Parte) ***
Capitolo 6: *** Aprile 2015 (Terza Parte) ***
Capitolo 7: *** Aprile 2015 (Quarta Parte) ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


 

"Finiscila.
Non fare come quelle persone che dicono "tu ti meriti di meglio" e poi non sono disposti nemmeno a provare a dartelo, il meglio.
Sai l'espressione "viaggiamo su due binari diversi?" Beh, io e te non siamo così.
Noi non viaggiamo su due binari diversi.
Sei tu il mio binario."

18 maggio 2015

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Capitolo 2
*** Prologo: ***


 

Io non sono quella dei ragionamenti e dei lunghi pensieri

Io sono quella dei sentimenti istantanei e forti,

Sono quella che brucia come fuoco vivo

Per ogni minima scintilla.

Mi infiammo in fretta ma è fuoco vero.

Amo in fretta, odio in fretta, mi arrabbio in fretta;

ed è tutto vero, e puoi toccare con mano,

se non ti bruci.

Non sono quella che riflette sulle circostanze e sulle situazioni

Sulle persone;

Sono quella che fa quello che si sente

Perché ciò che sente è vero.

E non importa in che contesto.

Sono quella che i sentimenti o sono forti

O sono niente;

Le emozioni o ti sconvolgono

O non servono.

L'amore, l'odio, l'amicizia, la gioia, l'affetto, la paura

O sono incendio o sono niente.

Sono quella che non conosce tempo, che non conosce calma

Che si lancia dal terzo piano senza riflettere troppo,

E magari si fa male ma non muore mai;

o magari riesci a prenderla e allora non ti tradirà mai.

Sono quella che si nasconde

Nell'ombra del suo stesso fuoco che divampa

E a volte si ritrova con solo cenere;

Ma che continuerà a bruciare comunque

Perché se non c'è fuoco non c'è vita.

Sono quella che se mi piaci,

mi piaci subito e molto, e da me avrai tutto,

E sarai una parte del fuoco;

ma se l'incendio non scoppia subito, non accadrà mai.

Non mi troverete mai a fare lunghi ragionamenti,

ma lunghi salti;

Non ragionerò mai sui miei sentimenti, li vivrò e basta.

"Così è, se vi pare."

Mila M., cl^ 5Ds

 

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Capitolo 3
*** Aprile 2015 (Introduzione) ***


 

 

 

"E tipo sei una scema.
E tipo sei già nascosta.
E tipo stai dietro un telefono a non so quanti chilometri di distanza.
E tipo esci fuori.
E tipo solo con te posso parla' di cose profonde quindi mi dispiace
ma mi dovrai sopportare
o odiare, non so scegli tu."

 

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Capitolo 4
*** Aprile 2015 (Prima Parte) ***


Non ho mai creduto alle storie a distanza. Il che, per la figlia di una piemontese e di un romagnolo che si sono conosciuti in vacanza, è abbastanza strano. Dovrei essere la portavoce dell'amore a distanza, la prova vivente che non importa da dove vieni o quanti chilometri ci sono di mezzo, è l'amore che conta. E invece no. Semplicemente, non ho mai pensato che facessero per me. Sono sempre stata una ragazza molto gelosa, di quelle che hanno bisogno di vedere spesso la persona amata e che vanno in paranoia per un nonnulla, e una storia a distanza avrebbe messo a dura prova i miei nervi. Così, le ho sempre evitate con estrema attenzione.

Quel giorno, non feci eccezione. Dopo essere stata rifiutata per la terza volta in sei anni dal ragazzo per il quale, poco meno di un mese prima, avevo chiuso una relazione durata tre anni, avevo un bisogno disperato di conoscere persone nuove e di risollevare la mia autostima e il mio morale, entrambi precipitati rovinosamente a terra.

Era un pomeriggio di aprile, poco prima di Pasqua. Tornai a casa seccata dopo un'altra lunghissima e noiosa giornata di scuola, fortunatamente una delle ultime.

Frequentavo il quinto e, grazie al cielo, ultimo anno di liceo scientifico a Cesena, e stavo odiando ogni secondo dei due mesi che ero costretta a sopportare prima della fine; così come avevo odiato ogni singolo secondo dei sei anni precedenti. Esatto, sei; perché in terza superiore, o quella che io chiamo "La Prima Terza", avevo deciso che odiavo talmente tanto quella scuola da farmi volontariamente bocciare. Ovviamente, la mia testolina da sedicenne decerebrata in preda agli ormoni della crescita, non aveva considerato che la mia decisione avrebbe comportato dover trascorrere nove mesi in più di quanto mi fosse richiesto dentro quella scuola. Perché i miei genitori si rifiutavano categoricamente di trasferirmi in un'altra scuola -e ricomprarmi tutti i libri.

Il mio disagio esistenziale lo sfogavo ogni giorno al mio rientro a casa. Come se non bastasse frequentare una scuola noiosa di cui non mi importerebbe nulla, se non fosse per compagni adorabili e professori stranamente competenti, al mio ritorno non c'era mai nessuno ad accogliermi. I miei genitori si erano separati a gennaio di quello stesso anno, con una scenata inutilmente melodrammatica che comprendeva sedie ribaltate, macchine da rottamare, e carabinieri che consolavano mio padre ripetendo che erano cose che capitavano e che si sarebbe risolto tutto, mentre mia madre e mio fratello facevano le valigie e se ne andavano dai miei nonni materni a Cesena.

Così, nella nostra villetta a schiera di tre piani e due appartamenti nella zona più desolata e sfigata di Gambettola, eravamo rimasti io, mio padre, mia nonna, e i nostri due Labrador Retriever. Ah, e i miei suscettibilissimi ed irritabili vicini, a cui prima o poi avrei rigato la macchina se non avessero imparato a parcheggiarla lontano dal mio cancellino d'ingresso (spoiler: non hanno imparato.)

Papà lavorava in una ditta di Cesena, e pranzava in mensa. Così, io tornavo a casa da scuola smaronata, single, scontenta e affamata, e dovevo anche prepararmi il pranzo da sola. Oltre a dover convivere con la mia opprimente solitudine e con le domande costanti su cosa avessi sbagliato di preciso nella mia vita.

Non che non sapessi cucinare, ma non ne avevo voglia e così mi ritrovai a nutrirmi di tramezzini fesa di tacchino e philadelphia per mesi.

Quel giorno però mi sentivo particolarmente creativa, così feci l'immane fatica di tirare fuori una padella, due uova e un paio di fettine di pane, e mi preparai uova all'occhio di bue con pane tostato. Ammassai tutto su un piattino con due posate, tutto rigorosamente di plastica perché lavare i piatti è da poracci, e sprofondai sul divano di pelle nera del soggiorno. Accesi la televisione e sintonizzai su Fox Animation. Trasmettevano i Griffin, che non consideravo esattamente qualcosa che dovrebbe essere visto mentre si mangia, ma sull'altro canale Erika-approved c'era Grey's Anatomy e quello avrebbe notevolmente peggiorato il mio umore.

Trangugiando felice il mio pranzo, dal momento che nell'ultima metà mese solo il cibo era riuscito a farmi felice, venni interrotta dal suono confortante e fastidioso del cellulare. Confortante, perché qualcuno aveva voglia di parlare con me. Fastidioso, perché chi mi disturba mentre mangio.

Buongiorno

Buongiorno 'na sega.

brutta giornata?

no, è che sono le due del pomeriggio.


dettagli, dettagli. Passiamo da te ok?

già finito di pranzare?

Trangugiai l'ultimo boccone del mio pranzo con molta più soddisfazione di quanto avrei dovuto provarne e gettai piatto e posate nel bidoncino affianco al divano. Neanche la voglia di alzarmi e gettarle nella plastica.

sì. Ci facciamo una sigghi tattica poi vado a lavoro.

mi lasci Dave qui?

sei impazzita?

no ti piglio per il culo.

che simpatica. Apri 'sto cancello va.

Mi alzai sbuffando e premetti il tasto per aprire il cancello due o tre volte, per essere sicura che si aprisse, poi spalancai il portone. In casa mia comparvero due folletti.

Jasmine, la mia migliore amica da approssimativamente sei anni, ricordava un folletto perché era alta un metro e cinquantacinque centimetri, ossia tre centimetri meno di me, il che le valeva l'appellativo di follettino malvagio. Esatto malvagio, perché dentro quell'involucro di morbidezza e capelli color mogano, e dietro una vocetta acuta ed adorabile, si nascondeva un concentrato di cattiveria alto 155 centimetri.

Davide, suo ragazzo da quasi tre anni, poteva essere perfettamente definito folletto perché sebbene fosse alto circa dieci centimetri più di me, era talmente magro da fare concorrenza ad Angelina Jolie; e probabilmente aveva anche il suo stesso taglio di capelli. Contrariamente alla sua dolce metà, era pacato, silenzioso, tranquillo, con una vaga e malcelata ossessione per i videogiochi; e raramente esprimeva opinioni o giudizi se riteneva che potessero creare malcontenti e discussioni.

«Buongiorno» cinguettò Jaz. Senza permessi e preamboli, poggiò la borsa sul divano e tirò fuori un pacchetto di Chesterfield Red. Io recuperai le mie Marlboro Touch dallo zaino e automaticamente ci dirigemmo verso il piano di sopra. Il piano superiore aveva tre stanze, due delle quali davano su di un ampio e piuttosto lungo balcone. Guarda caso, una delle due era camera mia. Lì era dove io e Jaz, e quando non era troppo stanco, Dave, ci sedevamo ogni giorno dalle due alle tre e venti a fumare e chiacchierare. Quel giorno non faceva nessun tipo di eccezione.

«Hai sentito Matt?» chiese Jaz accendendosi la prima sigaretta.

«Dici dopo aver scopato? Sì.»

«Guarda che tu sei tremenda.»

Aspirai con noncuranza quanto più fumo potevo, e diressi lo sbuffo in uscita verso la sua direzione.

«Non è colpa mia» risposi con calma serafica «non l'ho sedotto o stronzate del genere. Lui si è infilato in casa mia con una scusa idiota, per poi insistere quaranta minuti filati per infilarsi nel mio letto. Io sono stata molto chiara, solo sesso. Se lui si è fatto idee strane, problemi suoi.»

Jaz mi lanciò uno sguardo di disapprovazione.

«Lo sai che ti ama ancora.»

«E tu sai che io gli voglio bene e non voglio che soffra, ma se lui è stupido, la colpa non è del tutto mia.»

«Potevi non andarci.»

«Potevo.»

«Allora perché ci sei andata?»

«Amore ma lasciala in pace no!» intervenne Dave «farà quello che le pare.»

Gli interventi di Dave erano rari, ma spesso molto intelligenti. Jaz fece una smorfia e si concentrò sulla sua sigaretta. Cambiò rapidamente discorso passando a lamentarsi di sua suocera. Argomento trito e ritrito, ma che lei riusciva a rendere interessante ogni giorno grazie a qualche magia voo-doo.

Quando uscirono di casa alle tre e venti, mi sdraiai sul divano, ad occhi chiusi, a riflettere. Io e Matt eravamo stati insieme tre anni. Lo avevo lasciato a metà del mese precedente per il semplice motivo che gli volevo un gran bene, ma non lo amavo più. E molti amici mi avevano puntato il dito contro. Io ero stata corretta, gli avevo detto le cose come stavano, avevo provato fino all'ultimo a riparare ciò che era irreparabile. Era un bravissimo ragazzo, mi aveva dato tanto, ma non era amore. E io avevo bisogno dell'amore. Quello vero, quello che ti spacca a metà e poi rimette insieme i pezzi, come per magia.

Forse non mi stavo comportando bene con lui. Lui dal canto suo, aveva reagito inizialmente bene, per poi cominciare a comportarsi in maniera sempre più immatura. E io non sono mai stata una persona paziente e comprensiva, non per periodi di tempo troppo lunghi.

Seccata da tutti quei pensieri, scattai in piedi.

Sai che c'è Kiki? Devi trovarti un nuovo ragazzo.

L'entusiasmo non fece in tempo a salire che si era già smontato. Non ero brava a trovarmi dei ragazzi con cui uscire. Ero timida, imbarazzante, poco carina e i miei capelli rossi attiravano tanti pregiudizi sbagliati.

Mi ributtai sul divano in preda allo sconforto, e afferrai il cellulare.

Fu lì che mi venne il lampo di idiozia.

Come si chiamava quell'applicazione?

Aprii l'app di YouTube in cerca di un video in particolare; una specie di product placement poco sottile di un'applicazione di incontri. Tipo Badoo, ma la versione per i gggiovani del 2015. Trovai il nome dell'app e la scaricai.

Più per noia e curiosità che per altro, iniziai a compilare il mio profilo. Se non altro, con un po' di fortuna sarei riuscita a chiacchierare con qualcuno d'interessante. Inoltre, conoscendomi prima online che di persona, la gente non sarebbe scappata immediatamente di fronte alla mia coltre di imbarazzo vagante che mi seguiva perennemente stile nuvola di Fantozzi.

Dopo aver inserito nome, data di nascita, sesso, foto e preferenze sessuali; dovevo selezionare il raggio di ricerca. Scelta facile: quindici chilometri. Era la distanza massima che ero disposta a tollerare tra me e un eventuale partner. Soddisfatta, non mi restava che aspettare che qualche persona interessante decidesse di inviarmi un messaggio. Non dovetti aspettare a lungo. Seduta sul divano di casa, mi trovai presto a chattare con numerosi individui di sesso maschile.

Con mio grande disappunto, nessuno di loro era abbastanza interessante da riuscire a far sopravvivere la conversazione per più di un'ora.

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Capitolo 5
*** Aprile 2015 (Seconda Parte) ***


Il mio compleanno stranamente coincide con quello di una figura storica che suscita poca simpatia nella gente, ovvero Adolf Hitler. Come lui, sono nata il 20 aprile, esattamente cinquant'anni dopo la fine della guerra; e molte persone mi prendono in giro insinuando che fosse quella la ragione del mio pessimo carattere. Dato che in molti concordavano sul fatto che io avessi un pessimo, pessimo carattere.

Dal canto mio, l'unica cosa che avevo notato di strano riguardo al giorno della mia nascita, era che il mio compleanno cadeva sempre nei giorni più fastidiosi. Nel 2015, di lunedì. E non un lunedì qualsiasi, ma il lunedì della verifica finale di latino. Magnifico.

Mi trovai così costretta a festeggiare due giorni prima, dal momento che posticipare la data dei festeggiamenti di più di tre giorni mi irritava sensibilmente, e tra lunedì e sabato di giorni ce n'erano addirittura cinque.

Sabato 18 aprile, pranzai a casa dei miei nonni materni a Cesena. Era sempre così, il sabato. Dopo scuola andavo a casa loro, che distava dieci minuti di camminata dalla scuola, e mangiavo insieme a loro, mia madre e mio fratello. I rapporti tra i miei genitori si erano deteriorati, ma quelli che io avevo con ciascuno di loro singolarmente no. Dopo pranzo, io e mamma avevamo l'abitudine di sederci in balcone a fumare una sigaretta insieme.

«Allora, dove vai a festeggiare stasera?» chiese mamma.

«In quella pizzeria vicino alla chiesa,» risposi «ho già prenotato.»

«Chi viene? Jaz, Dave, qualcun altro che conosco?»

«Più o meno tutti direi. Anche un paio di amici di scuola.»

«Sono contenta.» Spense la sua sigaretta nel posacenere poggiato nel vaso di una grande pianta di oleandro. «Ah! Quasi dimenticavo! Vieni, ti ho preso un regalo di compleanno.»

«Mamma, non c'era bisogno.»

«Sì che c'era, sono tua madre! Dai, seguimi.»

Spensi la sigaretta e la seguii dentro casa. Lei aprì l'armadio, e tirò fuori un abito bianco a fascia sul seno con una cinturina nera subito sotto, la gonna con una colorazione graduale dal rosa corallo al bianco e più lunga dietro, e un bolerino rosa corallo abbinato. Spalancai gli occhi.

«Mamma! E' bellissimo!» Glielo strappai letteralmente dalle mani per ammirarlo più da vicino. Lei sorrise.

«Sapevo che ti sarebbe piaciuto, l'ho visto in un negozietto e ho pensato che sarebbe perfetto per la tua festa di stasera.»

«Grazie mamma!» la abbracciai, poi tornai a fissare il mio vestito nuovo con un sorriso da ebete.

A interrompere le mie riflessioni ci pensò il cellulare.

bestiaccia. Alle quattro siamo lì.

 sono a Cesena. Siamo chi?

da tua mamma? Comunque io, Dave e Matt. Abbiamo un regalo per te.

Sì da mamma. Allora nel frattempo inizio a prepararmi per stasera.

ma sono le due!

ed è già tardi.

Lasciai il vestito accuratamente adagiato sul letto, e mi chiusi in bagno. Litigai per dieci minuti buoni con la temperatura dell'acqua, e ne passai altri trenta a farmi la doccia.

Il campanello suonò alle quattro precise. Andai a rispondere prima che lo facessero i nonni.

«Sì?»

«Sono Jaz.»

«Vi apro.»

«No, vieni giù tu.»

«Perché?»

«Tu vieni.»

Sbuffando, riagganciai la cornetta, aprii la porta e scesi. Jaz non c'era, ma davanti al palazzo vidi la macchina di Matt. Dal vetro riuscii a vedere che i sedili davanti erano occupati, così mi infilai in quello posteriore.

«Ciao ragazzi» salutai, chiudendomi la portiera alle spalle. Mi guardavano tutti e tre con l'espressione di chi si sta sforzando in maniera inumana di non ridere.

«Buon compleanno!» esclamò Jaz con aria incredibilmente soddisfatta, allungandomi quella che sembrava una normalissima scatola di cartone. La guardai con aria interrogativa e poggiai la scatola sulle gambe. La scatola si mosse.

«Ma che è?»

Loro stavano per soffocare cercando di trattenere le risate. Sempre più perplessa, aprii la scatola.

Rimasi sbalordita.

Lì dentro, seduta su qualche foglio di carta assorbente, c'era una minuscola pallina di pelo grande forse quanto la mia mano, che mi fissava con due rotondissimi occhi blu.

«Oh mio dio!» strillai. La pallina di pelo rispose con un miao.

Mi voltai a fissare Jaz, che rideva come una matta; poi Dave e Matt, che mi fissavano sorridenti e compiaciuti.

«Siete matti?»

«Sapevamo che volevi un gattino da tanto tempo, così te ne abbiamo preso uno.»

«Ma mio padre odia i gatti! Me lo farà riportare indietro!»

«Ho parlato io con tuo papà» intervenne Matt «ha detto che puoi tenerla.»

«Oh mio dio!»

Tornai a fissare la pallina di pelo, e le rivolsi un "ciao" incredibilmente melenso. Allungai le mani per prenderla in braccio, e lei iniziò a miagolare come una disperata. Me la poggiai in petto, e lei si appallottolò tutta. Era adorabile.

«E' un incrocio di ragdoll» spiegò Jasmine «siamo andati a Fano a prenderla.»

«A Fano? Voi non ci siete tutti con la testa!»

«Ti piace?» chiese Dave.

«La amo!»

Era la cosa più bella che avessi mai visto. Occhioni blu, pelo beige, orecchie e coda nere. Mi guardava spaesata attaccandosi a me con le unghie. In due minuti mi aveva già riempita di graffi, ma non mi importava.

Me la tenni attaccata per tutto il viaggio fino a casa. Una volta lì, io e Jasmine ci chiudemmo in bagno a prepararci per la festa, mente Matteo e Davide presero possesso del divano e della playstation.

Quando quella notte, dopo i festeggiamenti, scivolai sotto le coperte, la pallina di pelo si arrampicò su per il letto fino ad arrivare ad appallattolarsi affianco a me. Allungai una mano nel buio e iniziai ad accarezzarla con la punta dell'indice. Avevo paura di romperla.

«Non siamo più sole» sussurrai «da oggi ci faremo compagnia a vicenda.»

Lei sembrò capire le mie parole, perché iniziò a fare le fusa come un trattore. Nel silenzio della notte, risuonavano in maniera spaventosa.

«Come ti chiamo?» chiesi, aspettandomi stupidamente una risposta. Ci pensai per qualche minuto.

In quel momento, mi venne in mente Lorenzo. Era anche colpa sua se avevo lasciato Matt. Lo avevo conosciuto a tredici anni, ed avevo sempre avuto una cotta per lui. Quando mi ero accorta che i miei sentimenti per la persona che avevo affianco stavano ormai svanendo, il mio debole per lui era tornato a farsi sentire più forte che mai. Ci avevo provato tante volte, l'ultima un mese prima; e tante volte avevo fallito.

Rotolai su un fianco, accesi la luce, e tornai a fissare la mia pallina di pelo.

«Ma sì» dissi dopo qualche minuto «penso proprio che ti chiamerò Elle.»

Lei sembrò apprezzare, perché aprì gli occhi, si alzò su quelle sue zampette minuscole, e si infilo tra i miei capelli rossi, per poi iniziare a spingere con le zampette sul mio collo. Jasmine diceva che si chiamava "fare la pasta", ed era il modo che i gatti avevano per esprimere affetto. Nonostante avesse le unghie affilatissime, la lasciai fare.

«Benvenuta a casa, Elle» sussurrai prima di decidermi a chiudere gli occhi e dormire.

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Salve, lettori! Non è mia abitudine aggiungere note dopo i capitoli, ma in questo caso volevo dire che anche se il contenuto di questo capitolo può sembrare di poco conto in relazione alla trama, non lo è. Capirete, capirete. Intanto, grazie per aver letto fin qui! Ci vediamo al prossimo capitolo.

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Capitolo 6
*** Aprile 2015 (Terza Parte) ***


Il sabato successivo, mi svegliai quando il sole era già alto. Elle, come era ormai sua abitudine, stava appallottolata sotto al mio braccio. Mi allungai per prendere il cellulare dal comodino.

Guardai l'ora. Le undici e mezza.

Avevo saltato scuola. Di nuovo. Capitava spesso, avevo il sonno pesante e da quando mia madre non era più in casa a buttarmi già dal letto stile maresciallo ogni mattina, non era raro che ignorassi la sveglia e andassi ad aggiungere un'altra giornata al mio elenco delle assenze.

Ciononostante, dovevo comunque fingere di essere andata a scuola. Così, mi alzai sbuffando, con il cellulare in una mano e la gatta nell'altra (era ancora abbastanza piccola da scarrozzarla in giro con una mano sola), e scesi le scale del primo piano imprecando a ogni scalino. Scaricai il cellulare sul tavolo e il gatto di fronte alla sua ciotola, ed aprii la dispensa in cerca di una colazione adatta ad alleviare il mio malumore.

Optai per french toast con sciroppo al cioccolato, e dopo averli preparati –facendo appello a tutta la mia buona volontà per mettermi a cucinare di prima mattina- mi sedetti al tavolo della cucina e, come era mia abitudine, controllai prima le notifiche di Facebook, poi i messaggi di Whatsapp. Dopo aver risposto a tutte le persone che avevano cercato di contattarmi durante il mio letargo, aprii l'app di incontri.

Nelle ultime tre settimane, avevo ricevuto duecento messaggi e più di mille "TizioCaio pensa che tu sia carina." Non era strano, su quell'applicazione le ragazze erano cosa rara e i maschietti si tuffavano su ogni tipa che ricordasse anche vagamente una donna di bell'aspetto. Avevo risposto a circa una decina di quei messaggi, ma non ero riuscita a rimediare nulla che somigliasse ad un appuntamento. Evidentemente qualcosa nel mio modo di conversare faceva desistere i ragazzi dopo poche ore dall'inizio della conversazione. Quelli che invece erano davvero interessati, io li trovavo noiosi. Stavo perdendo ogni speranza di conoscere qualcuno.

Sconfortata, finii la mia colazione ed abbandonai i soliti piattini di plastica nella spazzatura, per poi trascinarmi verso il bagno.

Il mio riflesso allo specchio era più demoralizzante di qualsiasi cosa. Non mi ero mai vista bella, e probabilmente non sarebbe mai successo. Guardai i miei capelli lunghi e rossi, ma secchi e indomabili; gli occhi color nocciola che avevano costantemente un'espressione vuota, il naso che nonostante fosse dritto era troppo "a patata" per essere definito bello. L'unica cosa che mi piaceva di me, erano le labbra. Carnose e definite, di un piacevole color marsala. Le avevo ereditate da mia nonna, e le ero molto grata per questo.

Al di là del mio viso che reputavo banale e privo di fascino, ero bassa, il mio seno arrivava a malapena ad una terza, e nonostante fossi magra avevo comunque una silhouette tutt'altro che esile. Cercai di non demolirmi troppo, e mi concentrai sul rendermi presentabile.

A mezzogiorno uscii dalla porta di casa, con lo zaino in spalla pieno di libri il cui unico scopo era quello di convincere mia madre e i miei nonni di essere di ritorno da scuola. Suonai alla loro porta mezz'ora dopo, e condussi la mia recita alla perfezione, con tanto di finto racconto sulla mia mattinata.

Dopo pranzo, come sempre, io e mamma ci sedemmo in balcone a fumare.

Un secondo dopo, suonò il cellulare.

L'applicazione di incontri aveva appena inviato una notifica. El Ray ti trova carina.

Aprii il profilo del ragazzo in questione. Mi trovai davanti la foto di un ragazzo molto carino, con gli occhi scuri e un sorriso allegro e luminosissimo. I capelli erano nascosti da un berretto nero. La foto era un'esplosione di filtri di Instagram, ma era comunque un ragazzo molto carino. Diedi un'occhiata più approfondita al profilo. Non aveva altre foto, e le informazioni dicevano solo che aveva 19 anni ed era nato a marzo del 1996. Più piccolo di me. Nonostante questo piccolo dettaglio, era comunque uno dei pochi ragazzi carini che mi trovavano a loro volta carina, così feci una cosa che di rado facevo: cliccai su "mi piaci".

«Chi è?» chiese mamma.

«E' quel sito di incontri a cui mi sono iscritta. Un ragazzo è interessato a quanto pare.»

«Fa vedere.»

Le mostrai la foto, e lei mise su la sua solita espressione furbetta.

«E' carino!» trillò.

«Sì dai.»

«Scrivigli.»

«Non ci penso proprio.»

«Perché no?»

«Mi vergogno.»

Lei mi rivolse la sua espressione da tu-non-sei-normale, poi cambiò argomento.

Tornai a casa circa quattro o cinque ore più tardi. Appena entrata in casa, fui accolta da Elle che mi venne incontro barcollando e miagolando. Andai in cucina e tirai fuori una bustina di bocconcini, li rovesciai nella sua ciotola, poi tornai in sala decisa e rilassarmi almeno per un'oretta.

Mi sdraiai sul divano, ma non feci tempo a pensare di chiudere gli occhi che il telefono iniziò a trillare cento volte.

@Gigante for President: ragazzi dove andiamo stasera?"

@Gigante for President: a cena fuori poi a ballare?"

 @Gigante for President: io ci sto per la cena, a ballare no."

Ogni sabato la solita storia. Qualcuno aveva avuto la brutta idea di creare un gruppo Whatsapp con tutti gli amici del nostro gruppo, e ogni sabato esplodeva di messaggi che si potevano riassumere con "otto persone con gusti diversi cercano di mettersi d'accordo su come passare la serata."

Mi sentivo alternativa, così feci una proposta un po' diversa dal solito.

@Gigante for President: andiamo a Rimini?

L'idea piacque molto ai miei amici, perché tutti si espressero con messaggi entusiasti. Contenta di aver risolto in fretta la questione, chiusi gli occhi con l'intento di rimanere lì dieci minuti prima di pensare di prepararmi per uscire. Arrivò un altro messaggio sul cellullare. Convinta di trovare l'ennesimo commento sul gruppo, sbloccai con noncuranza. Non era il gruppo, però. Era l'applicazione d'incontri. El Ray.

 Ehi.

Per qualche strano motivo, quel messaggio mi provocò una sensazione di contentezza.

Ehi ciao

Rassegnata, visto che il cellulare si rifiutava di farmi riposare, mi alzai lentamente dal divano. Salii in camera e mi sedetti alla scrivania, tirando fuori trucchi, specchio e pennelli dalla cassettiera lì affianco.

che fai?

Rimasi un attimo perplessa. Che cavolo di risposta era "che fai?" A questo qui mancano le basi della conversazione, pensai.

mi preparo per uscire con i miei amici, tu?

io sto aiutando mio cugino a lavorare.

Nel giro di mezzo secondo, avevo già capito che quel ragazzo era a dir poco strambo. Concentrata sul mio trucco, mi dimenticai di rispondere. Dopo un minuto, un altro messaggio.

comunque piacere di conoscerti.

piacere mio.

quanti anni hai?

venti appena compiuti. Tu?

diciannove, li ho compiuti a marzo.

Continuammo a chiacchierare mentre io mi preparavo per la mia uscita. Dopo aver completato il mio solito, pesantissimo trucco –guardavo decisamente troppi tutorial su Youtube- indossai un tubino bianco e nero e dei sandali neri con un tacco vertiginoso, poi scesi in bagno per stirarmi i capelli.

"El Ray" sembrava una persona interessante. Mi sbilanciai, dicendogli che lo trovavo molto carino.

ahah, grazie, ma io in realtà non mi vedo carino per niente.

beh, questo spiega per quale motivo hai deciso di scrivere a me.

Sei sempre la solita imbranata imbarazzante, Erika.

Mi fermai un attimo per guardarmi allo specchio, dopo aver completato la mia opera di restauro. Conciata così, non ero male. Avrai quasi potuto spacciarmi per bella. Il trucco nero sugli occhi mi dava un'aria più sveglia, e il vestito bianco sopra e nero sotto bilanciava il naturale squilibrio dei miei fianchi, con  il seno fastidiosamente piccolo e i fianchi un po' troppo larghi.

Decisi di lasciar perdere l'autocommiserazione, e salii in camera per recuperare la mia borsa.

io penso che tu sia molto carina, invece.

se vuoi ho il numero di un buon oculista.

ma smettila! Piuttosto, cosa fai nella vita?

 quinta liceo scientifico, tu?

quinta liceo scientifico.

Ero sempre stata una persona che credeva nel destino, e quella buffa coincidenza mi entusiasmò più del dovuto. Aprii di nuovo il suo profilo, per osservare meglio l'unica foto che aveva pubblicato. Improvvisamente, iniziai a sperare che non ci mettesse troppo a decidere di chiedermi di uscire.

Un secondo dopo, suonò il campanello e mi precipitai giù dalle scale, e poi fuori di casa.

Ad aspettarmi, c'erano una Giulietta rossa e una Punto blu.

A bordo della punto, c'erano Jaz, Dave, Matt e Lucy.

Lucy era mia amica da quando avevo tre anni. Prima del mio trasloco tre anni prima, eravamo state vicine di casa praticamente per tutta la vita. La conoscevo meglio di quanto conoscessi chiunque, anche meglio di quanto conoscessi Jaz; nonostante quest'ultima fosse la mia migliore amica. Lucy, abbreviazione ovvia di Lucia, era quasi la definizione di "perfetta." Era bellissima, con occhi e capelli scuri e un viso simmetrico e armonioso, magra e slanciata anche se non altissima, ed era sempre curatissima, vestita, pettinata e truccata in maniera semplice ma impeccabile. Era una ragazza che non dava a vedere quanto realmente fosse intelligente, ma lo era molto. Studiava vulcanologia all'università, ed era una delle migliori del suo corso. Amava il divertimento e le feste, tanto quanto amava la sua media dei voti. Nessuno si sarebbe aspettato che avrebbe frequentato l'università, ma lo aveva fatto ed aveva stupito tutti con il suo rendimento. Nonostante questo, non disdegnava locali con buona musica e serate alcoliche.

Nell'altra auto, c'erano Michael, Lili, e "il Gigante".

Michael era un ragazzo insicuro ma tutto sommato simpatico con il piccolo difetto dell'autocommiserazione, che a volte lo rendeva difficile da sopportare. Ciononostante, era una compagnia piacevole quando il suo umore lo permetteva, e non era raro che avesse idee innovative su come trascorrere le serate. Il suo grande cruccio era la difficoltà nel trovarsi una compagna, un po' a causa del suo carattere, un po' dal suo aspetto pacioccone e poco accattivante, sotto alcuni fondamentali punti di vista.

Lili, ovvero Lucia, l'avevo conosciuta in terza media al coro scolastico. Il soprannome derivava ovviamente dalla necessità di distinguerla dalla sua omonima, ma le differenze sostanziali stavano nel suo aspetto e carattere. Lili era bionda, più alta di tutte noi, con gli occhi color nocciola scuro e la pelle così chiara da poterla confondere con una tedesca, o una russa. Persino le sopracciglia erano a malapena visibili. Era eccentrica sotto molti aspetti, amava la buona letteratura e la buona musica, le serie TV ed era una ragazza molto intelligente. Studiava lingue aziendali all'università e non mancava occasione per fare sfoggio dei suoi ottimi voti.

Evidentemente, l'unica ragazza della compagnia con voti discutibili ero io. Perché Jaz di scuola non voleva più sentirne parlare. Lei era segretaria amministrativa in una piccola ditta di idraulici, e di libri non ne toccava, se non erano romanzi.

L'ultimo, il Gigante, lo chiamavamo così perché era alto quasi due metri. Il suo vero nome era Vincenzo, ed era il comico del gruppo. Matt e Michael provavano continuamente a rubargli il posto, con battute scadenti e atteggiamenti che volevano essere comici ma erano solo irritanti. Vincenzo era imbattibile. Un genio delle imitazioni, una fonte inesauribile di battute esilaranti, oltre che un bel ragazzo dai capelli e occhi scuri e l'aria sempre allegra e rassicurante, era la ragione per cui il gruppo di Whatsapp si chiamava "Gigante for President." Lui era l'anima della compagnia.

Ogni volta che ci riunivamo, guardavo i miei amici e ringraziavo che ci fossero. Era solo grazie a loro se non mi sentivo sola. Non erano perfetti, anzi sapevano farmi arrabbiare come poche altre persone, ma stavo bene con loro e, in fondo, se una persona non ti fa arrabbiare vuol dire che non le vuoi bene.

Sorrisi a tutti loro e dopo un breve saluto salii nel sedile anteriore della Punto blu di Matt, che mise in moto e guidò la comitiva lungo la strada per Rimini.

Non calcolai minimamente la conversazione che si stava tenendo in auto, che peraltro era piuttosto stupida, per tutto il tragitto. Ero impegnata a parlare con El Ray, che ai miei occhi risultava sempre più affascinante.

hai qualche passione?

le lingue, e la scrittura. E ovviamente, mi piace leggere.

scrivi?

sì, ma niente che valga la pena leggere.

io sarei curioso, invece.

ok, allora se te lo meriterai in futuro, ti farò leggere qualcosa.

come sei generosa. Sai che anche io scrivo?

che genere di storie?

nessuna storia. Scrivo canzoni e poesie.

sei un cantante?

non proprio, diciamo che la mia passione è la musica rap. E' l'unica che ascolto, e l'unica che scrivo.

Ebbi un tuffo al cuore. Segretamente, avevo un debole per il modello di ragazzo "rapper bello e maledetto." Se poi era anche intelligente e simpatico, io ero già fregata.

ok, devo sentire qualche tua canzone. Per forza.

ok, allora se te lo meriterai ti farò ascoltare qualcosa, in futuro.

che fai, prendi in giro?

ovvio :P

Mi sfuggii una risatina.

«Che hai da ridere?» chiese Jaz.

«Niente, niente.»

Lucy si sporse dal sedile posteriore per guardare lo schermo del mio cellulare.

«Con chi parli?» cantilenò con aria maliziosa.

«Ehi!» coprii lo schermo con una mano.

«E' un ragazzo?»

«Fatti gli affari tuoi!»

Spuntò anche la testa di Jaz «E' carino?»

«Chi vi ha detto che è un ragazzo?»

«Dai fa vedere!» Jaz cercò di strapparmi il telefono dalle mani.

«Fatti gli affari tuoi, cretina!» sbottai, nascondendo il telefono sotto le gambe.

«La volete finire?» disse Matt, evidentemente seccato. Lucy e Jaz si ammutolirono, e tornarono sedute tranquille ai loro posti.

non ti ho fatto una domanda importante.

cioè?

di dove sei?

Gambettola tu?

Il pensiero che avessimo parlato per due ore, dimenticandoci di un dettaglio così importante, mi fece sorridere.

dov'è?

in provincia di Forlì-Cesena

ah...

che c'è?

è un po' lontano

"Kiki: perché tu di dove sei?

Nepi

Feci mente locale. Ripassai nella mia testa il nome di tutti i comuni e le frazioni in provincia di Forlì-Cesena e Rimini, ma non mi venne in mente niente. Brutto segno.

dov'è?

in provincia di Viterbo.

scusa, sono un po' ignorante in geografia.

circa un'ora e mezza da Roma.

Ah. Rimasi imbambolata con il cellulare in mano, la delusione dipinta in volto. Fui felice che le mie amiche non potessero vedermi, sedute nei sedili posteriori, e che Matt fosse impegnato a guidare. La cosa mi lasciò molto più malumore di quanto avrebbe dovuto. Chiusi la chat e aprii le mappe del cellulare, inserendo il tragitto Gambettola-Nepi: 300 chilometri, circa tre ore di viaggio. Erano molti più chilometri di quanti fossi disposta a tollerare. Posai il cellulare e volsi lo sguardo verso il finestrino, guardando il paesaggio scorrere e cercando di digerire la delusione. Non riuscivo a spiegarmi per quale motivo fossi così amareggiata. Il mondo era pieno di ragazzi.

Quel ragazzo però...lo conoscevo appena, o forse non lo conoscevo proprio, ma c'era qualcosa in lui che era magnetico. Era come se fossi qualche forza misteriosa mi imponesse di avvicinarmi a lui, nonostante fosse così distante, e fosse poco più che uno sconosciuto.

A distogliermi dai miei pensieri, fu di nuovo lui.

beh, chi dice che non potremo vederci un giorno?

mi sembra difficile.

potrei venire a trovarti, quando finisce la scuola.

Sorrisi. Il mio istinto mi diceva di fuggire, di lasciar perdere, ma non ci riuscivo. Non volevo.

sembra una buona idea.

Arrivati a Rimini, parcheggiammo vicino alle mura del centro storico, e ci avviammo a piedi verso Corso d'Augusto, la via principale, in cerca di un posto dove mangiare. Gli altri stavano discutendo di quale cibo fosse più allettante, mentre io, assolutamente disinteressata alla cena, da dieci minuti cercavo di rifiutarmi di dare il mio numero di cellulare a El Ray, tentando disperatamente di assecondare quel poco che era rimasto della mia convinzione che bisogna evitare in ogni modo di infilarsi in una storia a distanza. Inevitabilmente, dopo una lunga lotta, cedetti e gli inviai un messaggio con il mio numero.

Nel momento esatto in cui premetti il tasto "invio", il tacco di uno dei miei sandali, le mie scarpe preferite, si infilò in un buco sull'asfalto, facendomi quasi ruzzolare a terra.

La scarpa si ruppe, e io non potei fare a meno di pensare che fosse qualche tipo di presagio.

Mentre piangevo la fine dei miei sandali preferiti, El Ray rispose al messaggio, questa volta su Whatsapp.

Ehi. Senti, una domanda scema.

Dimmi

Non ti chiami Kiki, vero?

No

Immaginavo. Allora, come ti chiami?

Erika.

Bel nome.

Grazie, tu invece come ti chiami?

Ryan.

 

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Capitolo 7
*** Aprile 2015 (Quarta Parte) ***


La domenica mattina era insieme il momento che più amavo della settimana, e quello che più detestavo. Amavo svegliarmi e guardare il sole filtrare dalle lamelle delle persiane, e rendermi conto che non dovevo alzarmi, correre, prendere autobus, ascoltare gente di cui mi importava poco o nulla. Amavo rigirarmi tra le lenzuola, accarezzare Elle che faceva le fusa accoccolata in mezzo ai miei capelli, guardare video sul cellulare, riaddormentarmi, poi svegliarmi e godere di nuovo del fatto che potevo stare lì quanto volevo, tanto non avevo niente da fare.

Odiavo però la solitudine. La domenica mattina casa mia era vuota, il telefono muto, il silenzio assordante. Quella domenica mattina più del solito. Mio padre era andato a trovare sua sorella, mia nonna era andata con lui, e gli unici abitanti della casa rimasti eravamo io, Elle, e i due cani in giardino. Ogni domenica mattina mi svegliavo e sentivo la mancanza di mia madre e di mio fratello, mi mancava sentirli fare rumore, mamma che preparava il pranzo, papà che faceva qualche lavoretto in giro per casa, Giacomo che faceva casino nella sua stanza per poi piombare nella mia e tentare di svegliarmi nel modo più fastidioso possibile. Mi mancavano tutte queste piccole cose. Mi mancava avere una famiglia.

Quella domenica mattina però era diversa dalle altre. C'era la luce che passava dalle finestre, il gatto che faceva le fusa, le lenzuola arrotolate e il silenzio di tomba; ma qualcosa era diverso. Quella domenica mattina non fui svegliata dalla fine del mio ciclo del sonno. Fui svegliata dal suono di un messaggio sul cellulare.

Aprii gli occhi lentamente, cercando di raccogliere le energie necessarie ad allungare il braccio, afferrare il telefono, e guardare chi mi avesse cercato.

Era Ryan.

Aveva scritto un semplice buongiorno, ma per me era molto di più. Non solo era la prima e forse unica persona a prestarmi attenzione di domenica, ma mi aveva scritto di nuovo. Questa cosa mi rese inopportunamente felice, e cercai di accelerare il mio lentissimo risveglio per poter scrivere una risposta di senso compiuto. Digitai un messaggio veloce con un sorriso cretino in viso, poi aprii la sua foto profilo e rimasi a fissarla per interi minuti come una cretina. Sì, era decisamente carino. La cosa che più mi piaceva di quella foto era il sorriso. Ero sicura di non aver mai visto un sorriso così luminoso, allegro, che dicesse così tanto della persona che lo portava. Quel sorriso faceva pensare che Ryan fosse una persona stupenda, e io mi auguravo con tutto il cuore che fosse vero.

Non ci mise molto a rispondere, e io saltai giù dal letto come se mi avessero attaccato il cavetto per la batteria. Presi il gatto e il telefono e corsi giù dalle scale per andare a prepararmi la colazione, con il sorriso perenne in volto e gli occhi sul telefono, rischiando più di una volta di farmi seriamente male sulla scalinata di granito gelido che collegava i due piani della casa.

Quella mattina avevo voglia persino di cucinare, e mi sentivo veramente cretina, perché tutta quella contentezza derivava dal semplice fatto che un ragazzo che conoscevo appena mi aveva mandato un messaggino del buongiorno.

Mi sentii in colpa per un istante, pensando a Matteo e a tutti i "buongiorno" che mi aveva detto, a tutti i messaggi che mi aveva mandato, a quanto ci aveva provato fino alla fine, e a come io gli avessi spezzato il cuore. Erano pensieri che mi perseguitavano molto più di quanto avrei voluto, e che ero certa mi avrebbero tormentato fino alla fine dei miei giorni. Non avrei mai finito di sentirmi in colpa, come non avrei mai finito di pensare che era stato meglio così.

Cancellai malumore e sensi di colpa spaccando due uova in una ciotola e pregustandomi le crepe con la marmellata di fragole, poi decisi che quel silenzio era decisamente deprimente e accesi il televisore. Non riuscivo a fare una cosa in modo continuativo, continuavo a dare due mescolate alla pastella, poi guardavo il telefono, prendevo la padella dal cassetto, e guardavo il telefono, poggiavo la padella sul fornello, e riguardavo il telefono. Non riuscivo ad ignorare i messaggi di Ryan per più di tre secondi. Per poco non mi rovesciai addosso la pastella delle crepes quando mi mandò la seconda foto che abbia mai visto di lui. Indossava uno smoking nero con tanto di farfallino, e aveva l'espressione più stupida che avessi mai visto. Rimasi ferma a guardare quella foto a lungo, cercando di memorizzare ogni dettaglio. Quell'immagine mi accompagnò per tutto il giorno, mentre facevo colazione e mentre guardavo distrattamente la televisione continuando a parlare con lui; mentre preparavo il pranzo e mentre salivo in camera mia con aria rassegnata per prepararmi per l'allucinante interrogazione di latino che mi aspettava il giorno dopo. Non mi staccai da quel telefono nemmeno per un istante, e quello che non sapevo ancora era che non sarebbe più successo per parecchio tempo.

Solitamente amavo andare a dormire. Era il momento più bello della giornata, finalmente potevo lasciarmi alle spalle tutte le difficoltà della giornata appena trascorsa e rifugiarmi in un mondo in cui, la maggior parte delle volte, andava tutto bene. Quella sera invece non volevo addormentarmi: volevo continuare a parlare con Ryan, e non solo perché parlare con lui era semplice come respirare, ma anche perché segretamente, da qualche parte in fondo al cuore, avevo paura che se avessi chiuso la conversazione non si sarebbe più riaperta. Quella sera quando finalmente dovetti arrendermi al fatto che i miei occhi esigevano riposo, mi addormentai con il cuore leggero e un vago sorriso in volto. E non succedeva da tempo.
 

Il giorno dopo, come di consueto, alle due suonò il campanello di casa e io feci accomodare Jasmine sul balcone fuori dalla mia stanza. Accendemmo due sigarette e per qualche minuto restammo a guardare le macchine passare sulla strada sottostante.

«Hai più parlato con Matt?» domandò lei dopo qualche attimo. Io alzai gli occhi al cielo.

«Oddio Jaz, ma fai sempre la stessa domanda?»

«Non è vero!»

«Sì che è vero. Comunque no. Capisco che ti dispiace per la nostra rottura, ma rassegnati è finita. Over.»

Lei prese un tiro dalla sigaretta lanciandomi uno sguardo storto, e io pensai per un istante se fosse il caso o meno di parlarle di Ryan. Sì, parlare con lui era diventata velocemente una delle mie attività preferite, e quella mattina mi aveva scritto nuovamente; ma per il momento l'unica cosa sicura era che abitavamo a centinaia di chilometri di distanza. Continuai a fumare e a guardarla per un po', indecisa sul da farsi; poi mi dissi che in fin dei conti Jaz era la mia migliore amica, e che non avrei dovuto nasconderle nulla, neanche le cose che potevano sembrare piccole.

«Ehi Jaz» dissi.

«Sì?»

«Ho conosciuto un ragazzo.»

Lei si voltò a guardarmi con un sorriso malizioso e lo sguardo che sprizzava curiosità da tutti i pori.

«Quando?» domandò, lasciando trasparire la sua voglia di informazioni.

«Sabato pomeriggio.»

«Scusa ma non hai detto che sabato sei stata a casa tutto il giorno prima di uscire con noi?»

Eh, appunto.

«A parte che non è vero, sono stata a pranzo da mia madre, ma non l'ho conosciuto in giro. L'ho conosciuto su quell'app di incontri che ho scaricato un mesetto fa.»

«Oh, bello. Come si chiama?»

«Ryan»

«Bel nome. Hai una sua foto?»

Tirai fuori il telefono dalla tasca dei jeans e cercai la prima immagine di Ryan, la prima che io avevo visto, e la mostrai a Jasmine. Lei fece una smorfia che nel suo linguaggio corporeo significava "però, mica male."

«Ok è carino» disse spegnendo la sigaretta sul muretto che chiudeva il terrazzo «anni?»

«Diciannove.»

«E' più piccolo di te!»

Io inarcai un sopracciglio e la guardai con aria perplessa. «Jaz. Dave è un anno più piccolo di te. La differenza?»

«Ok hai ragione. Di dov'è? Ti ha già chiesto di uscire?»

Io mi morsi il labbro e distolsi lo sguardo, e fu un errore perché io e Jaz ci conoscevamo a menadito e lei capì subito che quella era la parte difficile del discorso.

«Kiki. Di dov'è?» chiese nuovamente, con un tono di voce che esprimeva il suo prematuro rimprovero. La guardai e vidi che mi osservava con sguardo indagatore, come se cercasse di leggermi nella mente. Qualche volta ci riusciva davvero.

«Di Nepi...»

Rimase in silenzio per qualche secondo, probabilmente come me la prima volta stava cercando di ricordare se avesse mai sentito nominare quel posto.

«Dove sta?» chiese dopo che con ogni probabilità la sua scansione mentale non aveva rilevato nulla.

«Vicino a Roma.»

Per un istante temetti che la mascella le si sarebbe staccata. Mi guardava fisso con la bocca spalancata, e nonostante la sua potesse sembrare un'espressione sorpresa io riuscivo a leggerle negli occhi tutto il rimprovero che voleva esprimere.

«Vicino a Roma?? Sei matta?»

«No, ci abita davvero là.»

«Non ti ho chiesto se stai scherzando, ti ho chiesto se sei matta. E' troppo lontano!»

Avevo previsto perfettamente che la sua reazione sarebbe stata quella, e mi ero anche già preparata.

«Ehi, ti ho detto che ci siamo conosciuti non che mi piace.»

«Però ti piace.»

«No, non mi piace.»

«E perché me ne hai parlato se non ti piace?»

«Che ne so, per informarti?»

Lei mi guardava con lo sguardo da "non-raccontarmi-stronzate", e io le rivolsi un sorriso furbetto che stava per "tanto-non-mi-freghi."

«Va beh» sbuffò lei «comunque dammi retta, lascia perdere.»

«Non c'è niente da lasciar perdere.»

«Non è vero, comunque fingiamo per un secondo che tu abbia ragione: se mai ci fosse qualcosa da lasciar perdere, lascialo perdere. Non può funzionare, siete troppo lontani.»

Ignorai le sue parole. Non lo avrei mai ammesso, ma mi diede molto fastidio sentirle. Io e Ryan ci conoscevamo solo da tre giorni, ma tra di noi si era instaurata subito una connessione particolare; era una persona speciale, e una parte di me si sentì ferita dal fatto che la mia migliore amica avesse bocciato il tutto ancora prima che potessi pensare che iniziasse. 
 

In quinta liceo mi ero finalmente decisa a fare una cosa che probabilmente avrei dovuto fare diverso tempo prima: iscrivermi al corso per l'esame del FIRST Certificate in English. Ero sempre stata brava in inglese, ma mi ero decisa a farlo mettere per iscritto solo durante l'ultimo anno di scuola; così mi ritrovavo oltre a dover studiare come una pazza furiosa per l'imminente maturità, anche a dover frequentare dei corsi pomeridiani di inglese ogni martedì pomeriggio. Quel martedì pomeriggio in particolare era uno degli ultimi giorni di aprile e faceva parecchio caldo. Uscii da scuola, salutai i miei compagni e come era mia consuetudine andai a nascondermi in un piccolo parco a due passi dal liceo per potermi fumare una sigaretta in santa pace prima di andare a procacciarmi un pranzo. Mi sedetti su una panchina sotto un albero dai rami lunghi e pieni di foglie che creavano un'ombra incantevole e salvavita, perché faceva già un caldo assassino. Accesi la mia solita Marlboro e inizia a sbuffare fumo verso l'alto, guardando il cielo azzurro e limpido.

Per qualche motivo, quel cielo mi faceva pensare a Ryan. Nonostante i dubbi di Jasmine, tanto inutili quanto infondati, non smettevamo di sentirci un secondo. Lui mi faceva ridere, e allo stesso tempo era una persona profonda e sensibile, e mi piaceva parlare con lui; il che non significava necessariamente che mi piacesse lui. O almeno, questo era quello che continuavo a ripetermi, e di cui dovevo assolutamente convincermi perchè su almeno una cosa Jasmine aveva ragione: 249 chilometri erano troppi.
Come se fosse stato capace di leggermi nel pensiero, proprio nel momento in cui lo nominai nella mia testa mi arrivò un messaggio di Ryan, che come sempre aprii di gran fretta e con un sorriso idiota che contraddiceva tutto quello che mi ripetevo nella mia testa.

ehi, sei uscita da scuola?

sì sì, da poco.

ok senti, idea stupida. Ti posso chiamare?

Sentii una sensazione di vuoto improvviso allo stomaco che mi fece quasi venire le vertigini. Non avevo ancora sentito la sua voce, e per qualche strano motivo l'idea mi terrorizzava a morte. Nella mia testa iniziarono a formarsi mille paranoie: e se non mi piace la sua voce? o peggio, se a lui non piace la mia? In effetti Erika hai una voce abbastanza idiota. E se per telefono non avete niente da dirvi? 
Mentre il mio cervellino complessato formulava tutta una sequela di paranoie più o meno stupide e di utilità dubbia, la mia mano decise di fare di testa propria digitando sullo schermo dell'iPhone senza che io avessi pienamente voce in capitolo.

sì, certo!

Premetti invio e poi attesi, con gli occhi incollati sullo schermo e la sigaretta che ormai si era fumata da sola fino al filtro. Il telefono non suonava. Passarono diversi minuti e io iniziavo a sentire i morsi della fame e dell'ansia, lo schermo divenne nero, ma di telefonate nemmeno l'ombra. Dopo cinque minuti mi arresi e riposi il telefono nelle tasche, dicendomi che forse aveva trovato di meglio da fare. E fu proprio in quel momento che la marimba dell'iPhone mi distrusse le orecchie attraverso le cuffiette che avevo collegato.
Staccai il jack, premetti il tasto "rispondi" con un nodo alla gola, e mi portai il telefono all'orecchio.
«Pronto?»
«Ehi ciao, scusami stavo n'attimo a parla coll'amici.»
Ok Erika, questa è stata l'idea migliore che hai avuto oggi.
Tutte le possibili paranoie sul fatto che potesse non piacermi la sua voce scomparvero all'istante, perché aveva la voce più bella che avessi mai sentito con le mie povere orecchie da umana. Era calda, morbida, avvolgente; come quella di un attore. E l'accento romano mi faceva impazzire, era sempre stato così e avrei dovuto ricordarmelo prima di premere quel tasto, perché ora non c'era niente al mondo che poteva impedirmi di telefonargli a tutte le ore del giorno e della notte. Avevo sentito otto parole e già desideravo di sentirgli fare discorsi interi. 
«Ehi? Ci sei?»
«Sì sì, scusami. Comunque tranquillo tanto non ho niente da fare.»
«Do stai?»
«In un parco fuori da scuola, mi fumo una sigaretta poi vado a vedere di trovare del cibo.»
«Ma te stai sempre a fuma?
«No, solo una volta ogni tanto. Tu che fai?»
«Io niente, aspetto gli amici poi ci facciamo un salto al bar. Comunque mi piace la tua voce, l'accento romagnolo è fico.»
Mi sfuggì un risolino e non ebbi alcun bisogno di guardarmi allo specchio per sapere che ero diventata rosso fuoco. E non era per colpa dei venticinque gradi.
«Sicuro? Molte persone pensano che io abbia una voce nasale, acuta e fastidiosa. Comunque anche a me piace molto la tua. Hai un accento stupendo.»
«Dici? Qua da me molti me dicono che c'ho 'na voce strana, tipo fastidiosa.»
Sì, perché non capiscono un cazzo.
«A me piace molto invece.»
«So contento. Senti oggi c'hai quel corso di inglese ve?»
«Sì, perché?
«A che ora iniziava?»
«Alle due.»
«Eh, so le due meno dieci.»
Guardai l'orologio e mi resi conto con orrore che aveva ragione. Non sapevo come avessi fatto a non accorgermi di essere rimasta in quel parco per quasi un'ora, ma nel momento in cui vidi l'orologio scattai in piedi come una molla.
«Oddio hai ragione! Scusami devo andare, non ho ancora mangiato niente!»
Lui scoppiò a ridere, e per un secondo smisi completamente di provare interesse verso il corso di inglese.
«Dai corri su. Ci sentiamo per messaggio ok?»
«Ok, ciao.»
«Ciao.»
Chiusi a malincuore la telefonata e iniziai a correre più velocemente che potevo verso la piadineria che distava trecento metri da lì. Quando arrivai davanti, mi fermai per un istante. Mi sentivo felice, per qualche ragione. Sentire la voce di Ryan lo aveva reso...vero; e sapevo che la cosa avrebbe dovuto terrorizzarmi ma in realtà mi sentivo felice. Felice perché era una persona stupenda, e perché esisteva davvero.
Spinsi la porta della piadineria e entrai, con un sorriso indelebile che mi attraversava il viso.
Jasmine cara, mi dispiace ma ogni tanto sbagli anche tu. E mi sa che questa volta hai sbagliato di grosso.

 

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